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ROBERT A. HEINLEIN MISSIONE NELL'ETERNITÀ (Assignment In Eternity, 1953) INDICE Introduzione - La «rivoluzione» della hard science fiction L'eredità perduta Altroquando Jerry era un uomo Abisso INTRODUZIONE La «rivoluzione» della hard science fiction Il termine hard science fiction venne coniato da James Blish, che lo usò per la prima volta per definire lo stile narrativo di Poul Anderson (1). Con una espressione del genere (hard sta per «duro», «concreto») il critico e narratore inglese di recente scomparso intendeva opere così profondamente sentite, e raccontate con tale perfezione, da apparire solide e compiute, da qualsiasi angolo di visuale le si guardasse. Gli appassionati, tuttavia, considerarono subito il termine come indicativo della fantascienza più solida e tradizionale: quella basata sull'estrapolazione scientifica coerente, e nella quale la necessaria evocazione del sense of wonder della produzione degli Anni Trenta non avviene a scapito dei diritti della logica. È un traguardo questo assai difficile da raggiungere: tanto che la science fiction americana non vi pervenne in pieno che negli Anni Quaranta, dopo una lunga gestazione. E per ottenere i primi risultati degni di nota, occorse l'opera combinata di due personalità eccezionali: John W. Campbell e Robert A. Heinlein. In un articolo apparso di recente, Isaac Asimov (che è uno dei più acuti osservatori - dall'interno - dell'evoluzione subita dalla narrativa fantastica contemporanea) ha descritto le tre fasi iniziali rilevabili nella storia della science fiction in termini di apparizione di scrittori la cui opera ha rivoluzionato le strutture allora esistenti. Il primo fu Edward Elmer Smith, il cui celebre romanzo «interstellare» The Skylark of Space iniziò ad apparire a puntate sul numero di agosto 1928 di Amazing Stories (pur essendo stato terminato già da tredici anni, nel 1915). «Per la prima volta in una rivista
di fantascienza», scrive Asimov, «l'uomo superava i confini del Sistema Solare per proiettarsi negli abissi dello spazio tra le stelle, con tutto un Universo spalancato di fronte a sé. I lettori furono presi d'incanto. The Skylark of Space divenne immediatamente un classico, ed altri scrittori fecero del loro meglio per imitarlo. Il genere si trasformò radicalmente, ed E. E. Smith divenne un semidio della science fiction per il resto della sua vita». Il secondo autore che produsse sulla fantascienza un effetto analogo (paragonato da Asimov all'esplosione di una nova) fu Stanley G. Weinbaum, il cui primo racconto, il noto A Martian Odissey, uscì nel numero del luglio 1934 su Wonder Stories, rivista diretta dall'allora giovanissimo Charles D. Hornig. Con quel racconto, ed i successivi, Weinbaum portò il genere ad una svolta fondamentale: la completa revisione del concetto di creatura extraterrestre. «Non che non esistessero gli alieni nella science fiction prima dell'avvento di Weinbaum», spiega ancora Asimov. «Soltanto, essi erano copie in carta carbone, ombre, scimmiottature della vita reale. L'extraterrestre pre-Weinbaum, sia umano che mostruoso, serviva soltanto ad ingigantire la figura dell'eroe, aveva funzioni di minaccia o - talvolta - di deus ex machina, era cioè cattivo o buono in termini strettamente umani: non era mai qualcosa di compiuto in se stesso, una creatura indipendente dall'umanità. Weinbaum fu il primo a creare extraterrestri che avessero loro ragioni di esistenza. Ma fece ancor di più: creò intere ecologie fondate sul raziocinio ed il senso comune... In ciascuno dei pianeti sui quali ambientò le sue storie, tenne conto delle differenze astronomiche con la Terra, e immaginò una vita vegetale ed animale adatta alla situazione locale del pianeta. La super-giungla del lato diurno di Venere, descritta in Parasite Planet è, secondo me, l'esempio più perfetto mai costruito di una ecologia aliena». L'effetto-nova provocato da Weinbaum, malgrado la precoce scomparsa e la rapidissima carriera di scrittore (morì nel 1935, ad appena 33 anni, lasciando una ventina di racconti fra editi e inediti, e tre romanzi) fu profondo e durevole, tanto che, ancora nel 1970, gli autori di fantascienza americani, selezionando per votazione le migliori ventitré storie del genere mai scritte, posero al secondo posto A Martian Odissey. La terza nova, secondo Asimov, comparve sulle pagine di Astounding Science Fiction dell'agosto 1939. Ancora una volta si trattava dell'opera prima di un autore nuovo: il racconto Life-Line di Robert Heinlein. «Quando apparve», scrive il Good Doctor, «attirò immediatamente l'attenzione per il suo stile naturale poco enfatico, e per la totale assenza di i-
strionismi, frasi fatte, atteggiamenti stereotipati comuni alla maggior parte della fantascienza. La storia, diversamente dalle prime due, non catturò subito i lettori, rimodellando il genere in una nuova forma, perché venne un po' oscurata dall'apparizione quasi simultanea dell'exploit di un altro nuovo autore, A. E. van Vogt, il cui più lungo e spettacolare Black Destroyer era stato ospitato da Astounding il mese prima (2). Ma Heinlein continuò a scrivere storie a getto continuo, e Astounding continuò a pubblicarle. Nel giro di un anno fu evidente a tutti che Heinlein era il miglior scrittore di science fiction vivente. Ancora, i lettori reclamarono altre sue opere e, ancora, quasi tutti gli autori del genere (me compreso) cominciarono, più o meno consciamente, più o meno efficacemente, ad imitare Heinlein». Un giudizio tanto onesto e spassionato da un nome affermato e popolare come quello di Asimov, la cui mentalità e la cui «ideologia» stanno spesso agli antipodi di quelle di Heinlein, fa certamente onore al Good Doctor, e rivela quale sia il clima dell'ambiente specializzato statunitense. Una più ampia testimonianza dell'impatto durevole avuto dallo stile heinleiniano sul panorama generale della narrativa fantascientifica pubblicata sulle riviste, si deve però trarre dall'opera di uno scrittore «nuovo», nel senso che ha iniziato la propria carriera negli Anni Sessanta: Alexei Panshin. Panshin ha pubblicato l'opera critica più lunga sinora scritta su Heinlein: un volume di duecento pagine, Heinlein in Dimension, apparso nel 1968. «È opinione radicata e comune, oggi», egli scrive, «che Robert A. Heinlein abbia esercitato un influsso fondamentale nel campo della science fiction. Jack Williamson, ad esempio, lo giudica 'il nome in prima linea nella fantascienza contemporanea'; per Willy Ley è «lo standard sul quale devono misurarsi gli altri autori»; secondo Judith Merril 'ben pochi, fra quanti di noi oggi scrivono, non devono a lui gran parte del loro stimolo iniziale'. Non bisogna confondere questo sentimento con la popolarità. La popolarità di un autore non ha nulla a che vedere con l'influenza da lui esercitata, anche se in certi casi può esserne il riflesso. Quello di cui parlo è l'impatto avuto da Heinlein sugli altri autori. Esso è disceso direttamente dalle sue opere scritte fra il 1939 e il 1942. Dopo di allora, Heinlein ha affinato la propria tecnica narrativa, ed altrettanto hanno fatto, per loro conto, quanti da lui furono influenzati: ma, secondo me, questo influsso non sarebbe stato minore, se Heinlein non avesse scritto più una sola riga dal 1942 ad oggi. «Io stesso penso di essere un esempio tipico di autore che ha subito l'influsso di Heinlein. Ho deliberatamente tentato di imitarne il passo narrati-
vo, l'ampia gamma di soggetti e strutture messi in gioco, la particolare cura degli sfondi, e soprattutto la sua abilità d'inserire sempre nuovi dettagli nella storia, senza appesantire lo stile facendolo risultare noioso (3). Queste caratteristiche, nelle quali io sono stato influenzato da Heinlein, sono le stesse anche per gran parte degli scrittori attuali. È un tributo all'abilità di Heinlein, tuttavia, il riconoscimento che nessuno sinora sia riuscito a superarlo nel suo stesso gioco. «Quando parlo di sforzo consapevole di riproduzione, non intendo un tentativo di copiare il tono, le frasi, le situazioni, le trame o gli atteggiamenti di Heinlein. Né si tratta di cercare un 'suono' simile a quello della narrativa heinleiniana (che può essere facilmente riprodotto - credo - copiando i suoi dialoghi in stile colloquiale e ricco di metafore). Si tratta, in realtà, di adattare una tecnica superiore per scrivere una fantascienza leggibile e solidamente costruita: un po' come - per usare un'analogia - certi sport (il nuoto, il salto, lo sci) sono stati rivoluzionati da nuove tecniche applicate di recente. Quando si trova il sistema migliore, è naturale che lo si applichi subito. Heinlein ha introdotto nella science fiction un gran numero di idee nuove; ma l'importanza di questo suo contributo è relativamente minore, dato che intorno al nucleo di una idea si possono apportare soltanto limitati cambiamenti, mentre lo spettro di applicazione di una nuova tecnica narrativa è praticamente infinito... Non si può che essere d'accordo con Alva Rogers (4) quando afferma che Heinlein, con i primi due anni della sua produzione, ha mutato il volto della science fiction. La sua tecnica narrativa eliminò dal genere lo stile arido e meccanico, e il nuovo stile di Heinlein, più rapido e levigato, unito ad una vastissima gamma d'interessi, diede vita ad una nuova struttura letteraria che si diffuse rapidamente nella narrativa fantascientifica ospitata dalle riviste». Non bisogna credere, però, che l'importanza di Heinlein si sia esaurita in una specie di lezione di stile. In realtà, a questo va aggiunto il fatto che Heinlein fu uno dei primi - e comunque il più dotato - fra gli autori che all'inizio degli Anni Quaranta compresero e misero a frutto l'insegnamento dispensato proprio in quel periodo, prima come autore e poi come direttore di riviste, da John W. Campbell. Se E. E. Smith, se Weinbaum, se Heinlein sono - secondo la terminologia di Asimov - altrettante novae, allora Campbell è l'intera galassia... È lo sfondo sul quale l'esplosione improvvisa di energia della moderna fantascienza ha potuto risaltare, la trama che l'ha aiutata a diffondersi, l'ispirazione che le ha dato un senso. Campbell iniziò a scrivere nel 1930, a
vent'anni, imitando le storie di Doc Smith: avventure di super science fiction dal tono epico, ma dallo stile inesperto e dalla struttura ingenua e ripetitiva, conosciute come le serie di Arcot, Wade e Morley. Era a quell'epoca studente del MIT, il famoso Massachusetts Institute of Technology, già allora «tempio» della ricerca scientifica avanzata. Dopo qualche anno tuttavia, per ragioni familiari, dovette lasciarlo, e trasferì i suoi studi nella Duke University, celebre per la sua scuola di psicologia, e dove già insegnava il professor J.B. Rhine, il primo studioso che abbia osato analizzare dal punto di vista scientifico i fenomeni parapsicologici. Forse per caso, forse per un motivo più profondo, questa trasferimento segnò una netta evoluzione nello stile e nella tematica di Campbell. Le sue storie scivolarono - come ha scritto sempre Asimov nell'introduzione ad una antologia compilata in suo onore e dedicata alla sua memoria - dalla super science fiction, destinata ad esplodere nella mente dei lettori, a racconti nei quali le emozioni umane catturavano la loro capacità di sentimento. La prima storia in questa nuova vena (che secondo Asimov valeva da sola più di tutto quanto aveva scritto prima), intitolata Twilight, apparve nel novembre 1934 su Astounding, firmata con uno pseudonimo («Don A. Stuart») per non confondere il pubblico, che dalla firma Campbell si attendeva un ben diverso tipo di narrazione avventurosa e disimpegnata. Con quel racconto e gli altri che seguirono, divenne il pioniere di quella che si può a buon diritto definire come la New Wave degli Anni Trenta. Scrisse storie in cui la scienza e gli scienziati erano visti nel loro aspetto reale e dove si agitavano emozioni umane, erano messi in mostra difetti e debolezze umani. Nel dicembre del 1938, con la pubblicazione del romanzo breve Who Goes There?, decise di aver già scritto in tale vena tutto quanto aveva da scrivere (5), e lasciò la penna per dedicarsi a quella che, nel frattempo era divenuta la sua occupazione stabile: il «mestiere» di direttore della rivista Astounding (poi Analog), che resse dal settembre 1937 per trentatré anni e due mesi, sino al giorno della sua morte, l'11 giugno 1971. Asimov racconta che una volta gli chiese come avesse potuto smettere di scrivere per diventare semplicemente un editor, un direttore di rivista. «Isaac,» fu la risposta, «quando scrivo io, scrivo soltanto le mie storie. Come direttore di Astounding, scrivo le storie di cento altre persone». Nulla di più vero. L'esempio, l'applicazione, il suggerimento costante, l'assistenza disinteressata, la guida vigile di Campbell finirono per dare, prima alla sua rivista, poi a tutto il genere letterario, quella forma che lui per primo aveva individuato: la forma della science fiction della cosiddetta
Età d'Oro. Campbell mutò del tutto il primitivo orientamento del genere. Demolì i personaggi stereotipi che la popolavano, cancellò trame scontate, bandì le assurdità scientifiche e le offese al buon senso (caratteristiche negative di cui, peraltro, era stato co-responsabile, con i suoi tentativi giovanili di cui si è detto). Dagli scrittori che aspiravano a figurare sulle pagine di Astounding (già allora la rivista che pagava i più alti compensi per le collaborazioni) pretese che dessero prova di conoscere bene sia la scienza, sia l'uomo. Una richiesta difficile per la maggior parte degli scrittori già famosi negli Anni Trenta, e che ebbe come risultato quella che Asimov definì «una carneficina». Campbell, tuttavia, non venne per questo meno alle sue idee. Visto che i vecchi autori non erano in grado di soddisfare le richieste che lui riteneva opportune, decise che il suo compito principale doveva essere la creazione di un'intera generazione di scrittori nuovi. Fu questo il perno di tutta la sua attività successiva, che non ritenne conclusa nemmeno negli Anni Sessanta, e la ragione per cui qualsiasi appassionato di science fiction gli deve riconoscenza. Fra le sue «scoperte», o fra gli autori da lui valorizzati e portati al successo, si devono citare, in un elenco parziale, i nomi di Anderson, Asimov, Bester, Clarke, Clement, del Rey, de Camp, Dickson, Harrison, Herbert, Leiber, McCaffrey, Reynolds, Sturgeon, van Vogt e, naturalmente, Heinlein. Per tutti, fu più che un «direttore»: fu, per loro stessa riconoscente ammissione, una vera e propria fucina d'idee, di suggerimenti, di trame, di ispirazioni. Fu lui che diede ad Asimov le famosissime Tre Leggi della Robotica, e che gli consigliò di dilatare, sino a farne il centro di una vera e propria saga, una trama che Asimov aveva confinata in un racconto breve: nacque così il ciclo di Foundation. Fu Campbell che descrisse a Clement le ecologie dei suoi «pianeti incredibili», ad Anderson l'atmosfera delle storie di Nick van Rijn, a Dickson la «filosofia» di Dorsai: e si potrebbe continuare per un pezzo. Il ragionamento vale anche a contrario: quando alcuni autori hanno cominciato a dimenticare la lezione di Campbell sono immediatamente scivolati nell'ovvio, nello scontato, nel commerciale e addirittura nel volgare. È il caso, purtroppo, di alcuni recenti romanzi di Reynolds e Harrison. La somma del suo lavoro fu, in definitiva, la formazione di un gruppo di scrittori preparati, fiduciosi nei propri mezzi, dotati di tematiche originali,
solide, variate. Soprattutto, però, scrittori disposti a sudare sulla carta, a provare e riprovare prima di raggiungere il risultato ottimale: che era sempre quello che, alla fine, otteneva l'approvazione di Campbell (una prova dell'utilità della sua «scuola» sta nel fatto che nessuno degli autori cresciuti sotto la sua tutela ha mai avuto difficoltà ad affermarsi anche in settori diversi dalla science fiction, quando ha voluto concedersi «evasioni» più o meno lunghe dal genere...). Attraverso le loro opere, la fantascienza prese coscienza di sé. Si accorse di essere una narrativa dalle nobili tradizioni, legata all'immenso filone del fantastico (non per nulla Campbell - cosa che si dimentica spesso - fu anche direttore di Unknown Worlds, la rivista che, pur nella sua breve vita, rinnovò profondamente il genere della fantasy fiction), e dotata di grandissime possibilità in massima parte ancora da esplorare. Il «salto di livello» definitivo si ebbe quando, alla schiera di questi nuovi scrittori, che avevano rinnovato i temi e lo spirito della science fiction, si aggiunse Robert Heinlein, ed iniziò con la sua opera a consolidarne lo stile, dando per la prima volta una discernibile patina letteraria a quelli che, malgrado tutto, erano ancora soltanto singolari esercitazioni fantastiche su temi fuori dall'ordinario di autori in genere dilettanti. La piena sovrapposizione dei due «influssi», quello di Campbell e quello di Heinlein, si ebbe sin dall'inizio degli Anni Quaranta. Nascevano allora sia l'Età d'Oro della fantascienza, sia la hard science fiction, ormai da tutti così chiamata secondo i nomi dati, volutamente o casualmente, da James Blish: narrativa solida, ben costruita e ricca di significato; e narrativa basata su una coerente e non illogica o avventata estrapolazione scientifica. Da allora, questa è stata la veste principale che ha assunto il genere nelle sue manifestazioni più riuscite ed apprezzate. Ancora oggi, ruota intorno a questo nucleo, al quale i tentativi di rinnovamento hanno sempre aggiunto qualcosa, certo molto di più di quanto abbiano tolto (o creduto di togliervi). Del resto, come abbiamo fatto notare anche in altre occasioni (6), il risultato letterariamente più valido della New Wave fantascientifica, cioè Jack Barron e l'eternità (Bug Jack Barron, 1969) di Spinrad, è un romanzo di hard science fiction tradizionale: ne possiede la solidità d'impianto, la trama avventurosa, la coerenza scientifica; con, in più, maggiore penetrazione umana, un linguaggio più aggiornato, una sensibilità a tematiche forse più vaste e profonde. È, comunque, nella sostanza, un miglioramento, un passo avanti lungo una via già segnata, non un esempio di contestazione totale o di completo scavalcamento. I tentativi in quest'ultima direzione, infatti, le vere e proprie opere «sperimentali», sia racconti, sia soprattutto
romanzi, sono rimasti allo stato di tentativi, più o meno interessanti, più o meno riusciti, più o meno artificiosi. Cioè, non hanno fatto «scuola»: sono rimasti là, confinati nelle riviste o nelle antologie, e non hanno prodotto nessun vero rinnovamento, stilistico o contenutistico, all'interno del genere. Lo sradicamento totale di certi canoni non ha dato, insomma, nessun risultato a lunga scadenza, e si è limitato allo shock del momento, più o meno valido. In una recentissima intervista fatta al solito Isaac Asimov, è stato chiesto al Good Doctor in che cosa la science fiction può aver aiutato o aiuterà la scienza, e la risposta è stata: «Molti scienziati si sono avvicinati alla scienza attraverso la lettura della fantascienza. Questa è stata la mia esperienza, per esempio. In questo senso direi che essa contribuisce al progresso della scienza» (7). Questa è un'opinione certamente vera (anche se non originalissima, dato che proprio su questi presupposti Gernsback fondò Amazing nel 1926); tuttavia, è limitativa. In verità, la hard science fiction - se vogliamo continuare ad usare questo termine - può avere un compito di fondamentale importanza in un mondo che, fatalmente, si avvia ad essere sempre più tecnologizzato, disumanizzato. Il suo compito reale, secondo noi, dovrebbe essere quello di contribuire a rendere l'uomo pienamente consapevole dei mezzi che ha, o che potrebbe avere, a sua disposizione. È difficile, già oggi, per molti rendersi conto di tutte le possibilità legate a strumenti con i quali la moderna tecnologia ci pone in continuo contatto: strumenti per comunicare, per raccogliere informazioni, per apprendere, anche per divagarsi, o al limite per estraniarci dalla realtà. Col tempo, questo distacco fra l'uomo ed i mezzi che ha a disposizione per conoscere la realtà che lo circonda e/o per modificarla, è destinato a crescere in proporzione: il giorno - non lontanissimo - in cui entreranno in casa nostra i terminali di collegamento con elaboratori elettronici centralizzati, quanti sapranno cogliere appieno la portata sociale di un evento del genere? Ben pochi: solo quanti, in un modo o nell'altro, saranno in grado di ragionare in base ad una prospettiva più profonda, di vedere con occhio più lungimirante; chi, cioè, sarà stato educato a non esitare di fronte al meraviglioso. Questa educazione deriva soltanto dall'agilità mentale che nasce dalla dimestichezza con le estrapolazioni più ardite, ma legate sempre col filo della coerenza. Ed è proprio l'attuazione di un'educazione del genere la benemerenza più importante che, nel rapporto fra scienza ed uomo, potrebbe meritare la science fiction come genere letterario.
Lo stile, le trame e la struttura di questi quattro romanzi brevi con cui Robert Heinlein si presenta per la prima volta ai lettori di Futuro sono tipici sia dell'Età d'Oro sia della hard science fiction. Da questi tre punti di vista, dunque, non c'è altro da aggiungere a quanto già detto, in generale, in precedenza. È il caso, piuttosto, di mettere in evidenza alcuni temi particolari, alcuni argomenti ricorrenti che rivelano l'intima coerenza ideologica di Heinlein, uno scrittore che per singolari e misteriosi motivi è stato sempre considerato un incostante, sino ad essere definito nel nostro Paese «il grande versipelle della fantascienza». La concretezza e la disapprovazione per le astrazioni filosofiche («In realtà nella filosofia non c'è nulla. Avete mai provato a mangiare lo zucchero filato che vendono nelle fiere? Ebbene, la filosofia è qualcosa del genere. Sembra che sia effettivamente qualcosa, ha un bellissimo aspetto e un sapore dolce: ma quando cerchi di morderla non riesci a stringerla fra i denti, e quando provi ad inghiottirla, in realtà non c'è niente. La filosofia è una caccia alle parole, ed è significativa quanto l'azione di un cagnolino che cerca di acchiapparsi la coda»), ma non per questo il rifiuto a credere a ragioni più alte, non materiali («Voi ingegneri non siete migliori dei metafisici... ignorate tutti i fatti che non possono venir pesati su una bilancia. Se non potete mordere una cosa, la giudicate irreale. Credete in un universo meccanicistico, deterministico, e ignorate la realtà della coscienza umana, della volontà umana e dell'umana libertà di scelta... fatti che pure avete sperimentato direttamente») sono i motivi di fondo, ad esempio, che si celano dietro la sua approfondita trattazione dei problemi paraspicologici, sempre attuale, e la sua critica alle teorie darwiniane, che oggi sta trovando riscontro nei fatti. Ancora. Un altro tema caro ad Heinlein è quello del contemporaneo sviluppo del corpo e della mente, il loro coordinamento e il completo assoggettamento del primo alla seconda: ciò permette da un lato il sorgere dei superuomini («L'homo novas batterà l'homo sapiens nella specialità di quest'ultimo, il pensiero razionale, la capacità di riconoscere i dati, di accumularli, l'integrarli, di valutare esattamente il risultato e di pervenire ad una decisione esatta. È in questo modo che l'uomo è diventato campione: l'essere che saprà fare meglio sarà il campione del futuro»), e quindi di élites che all'insaputa di tutti si battono per respingere le forze del Male («Noi vediamo la storia del mondo come una serie di crisi, in un conflitto fra due filosofie contrapposte. La nostra è fondata sull'idea che la vita, la coscienza, l'intelligenza, l'ego, sia la cosa più importante del mondo. Questo ci pone in conflitto con ogni forza che tende a distruggere, avvilire, de-
gradare lo spirito umano, od a farlo agire contrariamente alla sua natura»). Quest'ultima teoria Heinlein la svilupperà compiutamente in molti suoi romanzi che gli attireranno i fulmini dei conformisti e dei moderni sacerdoti degli idola tribus: ma una sua formulazione abbastanza concisa la si può trovare già in Abisso (Gulf, 1949), dove, con questa parola, lo scrittore intende il vuoto incolmabile che separa l'uomo dal superuomo. In un colloquio chiarificatore tra Baldwin e Gilead, infatti, leggiamo: «Confesso di provare il suo stesso affetto per la democrazia, Joe. Ma è un po' come sognare il Babbo Natale al quale credevamo da piccoli. Per centocinquant'anni una democrazia, o qualcosa del genere, ha potuto prosperare tranquillamente. I problemi erano tali che potevano venir risolti senza catastrofi mediante i voti degli uomini comuni, per quanto fossero ignoranti e confusi. Ma adesso, se la razza umana deve continuare a vivere, le decisioni politiche dipendono da cose come la fisica nucleare, l'ecologia planetaria, la teoria genetica, persino la meccanica dei sistemi. E gli uomini comuni non ne sono all'altezza, Joe. Anche se avessero più volontà di quanto ne abbiano, neppure uno su mille, tra loro, riuscirebbe a star sveglio su di una sola pagina di fisica nucleare: non sono in grado di imparare ciò che dovrebbero sapere». E un po' più avanti: «No, Joe. L'abisso tra noi e loro non è ampio, ma è molto profondo. Non possiamo colmarlo». Tutto ciò, forse, potrà scandalizzare qualcuno, ma non per questo autorizza a condannare Heinlein come scrittore ed a sminuirne l'importanza intrinseca e «storica»: è comunque un dato di fatto che su queste teorie Heinlein ha impostato, in seguito, molte sue opere famose, vincitrici di premi e no: il sorgere di élites politiche, morali, religiose, che combattono per l'uomo comune e che, al loro interno, godono della massima libertà. Simili affermazioni, che hanno diritto di cittadinanza come qualunque altra in una democrazia che non sia tale solo di nome, non hanno impedito, come si è fatto notare, che un Asimov, il quale la pensa in modo totalmente diverso riconoscesse i meriti di Heinlein: segno che negli Stati Uniti fortunatamente non si è usi confondere le qualità di uno scrittore con le sue idee, le quali, anche se possono non piacere, hanno la possibilità di essere espresse senza paura di un linciaggio morale, e che comunque non inficiano un possibile giudizio letterario. Una lezione che, in Italia, dovrebbe far meditare. Robert Anson Heinlein è nato a Butler, nel Missouri, il 7 luglio 1907. Butler e un piccolo centro agricolo, a circa cento chilometri a sud di Kansas City; i parenti stretti dello scrittore vi risiedono tuttora. La famiglia
Heinlein, che vive negli Stati Uniti dal 1750, è di ascendenze tedesche, irlandesi e francesi. All'inizio degli Anni Venti, i genitori di Heinlein, insieme con i loro sette figli, si trasferirono a Kansas City, dove il futuro scrittore compì gli studi inferiori, diplomandosi infine presso la Central High School. Dopo aver frequentato per un anno l'Università del Missouri, Heinlein s'iscrisse all'Accademia Navale di Annapolis. Lì si laureò in scienze navali nel giugno del 1929, classificandosi ventesimo del suo corso, che comprendeva 243 persone. A quanto dicono i suoi biografi (in particolare Panshin) sarebbe facilmente riuscito fra i primissimi, se non avesse trovato difficile sottomettersi alla disciplina militare. Dal 1929 all'agosto del 1934, seguì la carriera in Marina. Fu ufficiale a bordo di incrociatori e di portaerei (queste ultime erano appena entrate in servizio). Riflessi della sua attività di uomo di mare si ritrovano agevolmente in quei suoi libri, soprattutto Starship Troopers (1959), nei quali descrive la vita a bordo di immensi vascelli spaziali. Mentre era in Marina, sposò la prima moglie, Leslyn MacDonald, il cui cognome, unito al suo secondo nome, avrebbe poi formato il suo principale pseudonimo, Anson MacDonald, impiegato per la prima volta per la pubblicazione a puntate su Astounding (gennaio, febbraio e marzo 1941) del romanzo Sixth Column. Nel 1934 Heinlein contrasse una malattia polmonare e dovette dimettersi dalla Marina, con il grado di tenente di vascello ed una modesta pensione (a 27 anni). Pensò immediatamente di riprendere gli studi, e s'iscrisse all'Università di California, ove frequentò i corsi di matematica e fisica. Ma la salute lo tradì di nuovo, e dovette interrompere l'anno accademico, trasferendosi nel Colorado con la speranza che il clima locale lo aiutasse a rimettersi in forze. Nel periodo dal 1934 al 1939, esercitò diverse attività nel suo nuovo stato: lavorò per compagnie minerarie, si interessò di compravendita di terreni, cercò d'impiantare società edilizie. Rimase tuttavia legato alla California per ragioni politiche: si candidò anche ad una carica pubblica, ma non venne eletto. Anche questo periodo fu ricco di esperienze interessanti. Un aneddoto che lui stesso racconta di frequente riguarda la sua attività commerciale: una volta non riuscì a vendere una miniera di cui era proprietario perché l'acquirente venne ucciso a colpi di mitra dai suoi rivali, prima di poter concludere l'affare. Heinlein da tempo era appassionato lettore di science fiction. Nel 1939,
in un periodo in cui si trovava assai a corto di denaro, vide pubblicizzato su una rivista del genere un concorso narrativo, con un premio di 50 dollari in palio per il racconto vincente. Heinlein, pur essendo privo di esperienza letteraria, era tuttavia dotato di una solida preparazione scientifica, e l'idea di scrivere fantascienza gli parve attraente. Terminò il racconto in quattro giorni e, quando lo rilesse, decise che valeva la pena di puntare al bersaglio più difficile. Ragion per cui non lo inviò al concorso, ma lo spedì ad Astounding, rivista nota sia per gli alti compensi, sia per l'eccellente abitudine di pagare al momento dell'accettazione, e non a quello della pubblicazione. Campbell accettò la storia (Life-Line, che apparve nel numero dell'agosto 1939), e spedì ad Heinlein un assegno di 10 dollari, insieme con una lettera nella quale sollecitava altro materiale. Di quest'ultimo incoraggiamento, tutto sommato, non c'era bisogno. Heinlein era ormai contagiato dall'entusiasmo del neofita, e prima ancora di ricevere il suo assegno, aveva già messo in cantiere altre opere. In meno di tre anni, cioè al momento dell'ingresso in guerra degli Stati Uniti, nel 1942, era già diventato il primo scrittore del genere, sia in termini di popolarità che di produzione. Quando il suo Paese entrò nel secondo conflitto mondiale, Heinlein smise di scrivere, anche se ancora per tutto il 1942 continuarono ad apparire su Astounding ed Unknown (la rivista gemella, dedicata al fantastico e diretta anch'essa da Campbell) storie da lui inviate in precedenza. Dal 1942 al 1945 lavorò come ingegnere civile nel Laboratorio Materiali del Naval Air Material Center, a Philadelphia. Suoi colleghi nel lavoro erano altri due scrittori di fantascienza, Isaac Asimov e L. Sprague de Camp: era stato lui stesso a procurare loro quei posti. Anche quella esperienza si trasformò, più tardi, in materia narrativa. Heinlein, infatti, ebbe come primo incarico quello di sorvegliare il lavoro di un laboratorio nel quale venivano studiate e sperimentate tute a pressione per le massime altitudini: da tale lavoro trasse in seguito preziosi spunti e dettagli per descrivere le procedure scientifiche e tecnologiche più avanzate. Il suo compito principale durante la guerra fu, comunque, quello di progettare e collaudare materiali destinati all'impiego sugli aerei della Marina. Terminata la guerra, Heinlein si trasferì in California, dove riprese a scrivere. In quel periodo, divorziò dalla prima moglie. Prima del conflitto, le sue opere erano apparse soltanto sulle riviste popolari (i cosiddetti pulp magazines). Iniziata nuovamente la sua carriera
di autore, decise di aprirsi la strada anche in altri «mercati»: i periodici a grande tiratura, il settore dei libri per ragazzi, il cinema e la televisione. Ebbe successo in tutti i tentativi. Divenne sin dal 1947 collaboratore fisso del prestigioso Saturday Evening Post (i suoi racconti rappresentarono l'ingresso ufficiale della science fiction nel campo delle riviste più sofisticate, che sino ad allora erano rimaste refrattarie al genere). Stipulò con la casa editrice Scribner un contratto per un romanzo per ragazzi l'anno: dal 1947 (Rocket Ship Galileo) al 1958 (Have Space Suit... Will Travel) scrisse dodici libri che sono costantemente ristampati e tradotti in un numero incredibile di lingue, rappresentando forse la fonte di maggiore introito dello scrittore (in seguito, il suo contratto passò alla Putnam, per la quale scrisse altri juveniles, oltre che libri per adulti: ma nella sua narrativa, questa distinzione vale soltanto sino ad un certo punto). Quanto alla TV, fu responsabile dell'invenzione del personaggio di Tom Corbett: Space Cadet, protagonista della miglior serie di telefilm dedicati alla fantascienza all'inizio degli Anni Cinquanta. L'idea centrale della serie (le vicissitudini degli allievi di una Accademia Spaziale del futuro) erano tratte dal suo secondo juvenile, Space Cadet, pubblicato nel 1948. Per il cinema, Heinlein fornì al regista George Pal il soggetto per Destination Moon (in Italia, Uomini sulla Luna), che fu il prima grande film di fantascienza dell'era moderna (apparve nel 1951), ebbe un notevolissimo successo di cassetta e ottenne un Oscar per gli effetti speciali. Heinlein si trasferì per alcuni mesi ad Hollywood per seguire da vicino la lavorazione del film, fornendo consigli tecnici e rivedendo la sceneggiatura. Fece lo stesso, in seguito, per un'altra pellicola, Project Moonbase, che tuttavia ebbe un successo assai minore. Nell'ottobre del 1948, Heinlein si era risposato con Virginia Gerstenfeld, diplomata in ingegneria e chimica, che aveva conosciuto nei Laboratori Navali di Philadelphia dove anch'essa lavorava. Nel 1950, lo scrittore e la moglie si trasferirono a Colorado Springs, in una abitazione progettata dallo stesso Heinlein, piena di ritrovati tecnologici all'avanguardia e fornita anche di rifugio anti-atomico (erano gli anni della Guerra Fredda). Nel 1966 tuttavia, per ragioni familiari gli Heinlein dovettero ritornare in California. Negli ultimi anni, lo scrittore si è limitato a pubblicare un libro (solitamente di considerevole mole) all'incirca ogni dodici mesi, e di recente con un lasso di tempo ancora maggiore. Gran parte del suo tempo è occupato da lunghi viaggi all'estero. Si trovava in Russia, nel Kazakistan, proprio
nei giorni in cui i sovietici abbatterono sul loro territorio un aereo-spia americano U-2, episodio che rischiò di compromettere definitivamente i difficili rapporti fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Oltre alla sua produzione fantascientifica, Heinlein ha scritto, coperto da pseudonimi segretissimi e mai rivelati, anche libri polizieschi e racconti destinati a riviste femminili. Questa, tuttavia, è soltanto una parte minore della sua produzione. Lui stesso ammette che nella narrativa realistica non prova il piacere che gli procura lo scrivere nel campo del fantastico. Heinlein è assai riservato nella vita privata: non ha molti amici, e non si conosce praticamente alcun «pettegolezzo» che lo riguardi. Chi lo ha frequentato, lo descrive come persona dal notevole fascino personale, un individuo che ha scelto il mestiere di scrivere, e quindi di esporre pubblicamente le proprie idee, ma che nel contempo cerca di sfuggire al contatto della folla e non apprezza le analisi e le discussioni condotte sulla sua narrativa. Gli amici lo giudicano sincero, cortese e comprensivo, ma tanto fortemente radicato nelle proprie opinioni da non ammettere di poter essere contraddetto. Dal punto di vista fisico, è un uomo imponente. De Camp, descrivendolo oltre vent'anni fa, lo definì «bello come un attore di teatro»: alto un metro e ottanta, il volto volitivo ornato da sottili baffetti, incarnava certamente l'ideale estetico virile degli americani dell'epoca, sul genere di Clark Gable. Oggi, alle soglie dei settant'anni, pur incanutito e appesantito, conserva ancora un'apparenza forte ed autorevole. I suoi libri, nonostante gli attacchi dei quali sono stati periodicamente fatti oggetto da chi ha voluto evidenziare una loro vena «conservatrice», sono sempre immensamente popolari (anche per i nostri lettori, Heinlein fa parte del gruppo di autori che ci sono stati richiesti con maggiore insistenza, insieme con Asimov e Farmer). Il suo romanzo forse più famoso, Stranger in a Strange Land (1961) è divenuto la Bibbia di un vero e proprio culto moderno, diffuso soprattutto tra i «figli dei fiori», cioè fra quelli che meno avrebbero dovuto essere toccati dal suo presunto conservatorismo. Unico tra gli autori di fantascienza, ha vinto quattro volte il Premio Hugo per il miglior romanzo: nel 1958 con Double Star, nel 1960 con Starship Troopers, nel 1962 con Stranger in a Strange Land, nel 1967 con The Moon Is a Harsh Mistress. La «chiave» per spiegare l'attrattiva che esercitano le sue opere, è forse quella fornita da de Camp nel suo Science Fiction Handbook. «Heinlein», scrive il suo celebre collega, «è riuscito con successo a elaborare una ma-
teria narrativa fantastica in modo realistico, fornendo quasi degli 'spaccati' di vita. Le sue storie danno l'impressione di essere articoli di cronaca scritti da un abile giornalista del futuro, che racconta una serie di eventi reali ed interessanti. I suoi personaggi non sono né superuomini, né geni folli, né patetici simboli di sconfitta: sono normali esseri umani, qualcuno migliore degli altri, qualche altro peggiore. Anche se sono dotati di particolare acume finanziario, o di incredibile longevità, o persino di due teste, non sono mai, tutte sommato, persone troppo fuori dell'ordinario». Questa capacità di combinare il realismo con l'immaginazione fantastica è il merito essenziale della narrativa di Heinlein, lo strumento della sua penetrazione in larghissimi strati di lettori, anche non specificatamente interessati alla fantascienza, e la caratteristica che ne fa in assoluto uno degli autori più significativi di questo secolo. (1) Si veda quanto scrive a questo proposito lo stesso Blish nella sua introduzione a POUL ANDERSON, Regina dell'Aria e della Notte, Fanucci, Roma 1974. (2) La storia, prima della serie imperniata sulla Space Beagle, Grosvenor e il «connettivismo», è diventata in seguito il primo episodio di The Voyage of the «Space Beagle», da noi tradotto sul n. 1 di Futuro con il titolo Crociera nell'infinito. (3) Il miglior risultato raggiunto da Panshin da questo punto di vista è il romanzo Rite of Passage (1968), che ottenne il Premio Nebula, da noi pubblicato come Rito di passaggio sul n. 6 di Orizzonti. (4) Autore del volume A Requiem for Astounding, Advent, Chicago 1964 (la stessa Casa Editrice che ha pubblicato il libro di Panshin da cui è tratta la citazione). (5) Tutte le storie a firma «Don A. Stuart» furono riunite in due volumi che verranno da noi integralmente tradotti nella collana Orizzonti, come omaggio a questo nome che da sempre consideriamo il centro propulsore del rinnovamento della fantascienza moderna. (6) Ad esempio, nell'introduzione al citato Rito di passaggio di Panshin. (7) Cfr. Scienza e fantascienza, in Paese Sera, Roma, 15 gennaio 1976, pag. 11. L'EREDITÀ PERDUTA I
AVETE OCCHI PER VEDERE «Ehi, salve, macellaio!» Mentre pronunciava queste parole, il dottor Philip Huxley pesò il bussolotto dei dadi con cui stava giocherellando, e spinse in avanti una sedia con il piede. «Siediti.» L'uomo al quale aveva rivolto la parola ignorò ostentatamente il saluto, mentre consegnava all'inserviente del Club della Facoltà un lucido impermeabile giallo e un cappello di feltro fradicio di pioggia: ma accettò la sedia. Le prime parole che pronunciò furono rivolte all'inserviente negro. «Lo hai sentito, Pete? Uno stregone che si spaccia per psicologo, ha la sfacciataggine di dare del macellaio a me... a me, che sono medico chirurgo!» La sua voce era carica di una blanda sfumatura di rimprovero. «Non lasciarti imbrogliare da lui, Pete. Se il dottor Coburn riesce a trascinarti in sala operatoria, ti aprirà la testa per vedere come ti funzionano le rotelle. E userà il tuo cranio per farne un portacenere.» Il negro ebbe un ampio sorriso, mentre passava lo straccio sul tavolino, ma non disse nulla. Coburn ridacchiò e scosse il capo. «Ha parlato lo stregone! Stai ancora cercando l'Omino che non c'era, Phil?» «Se vuoi alludere alla parapsicologia, sì.» «E come vanno le cose?» «Piuttosto bene. Questo semestre ho avuto una lezione di meno... ed è meglio, perché sono stufo marcio di spiegare ad un branco di innocenti che in realtà ne sappiamo pochissimo di quello che succede dentro la loro testa. Preferisco occuparmi della ricerca.» «E chi non lo preferisce? Hai pescato qualcosa di interessante, di questi tempi?» «Beh, sì. Mi sto divertendo un mondo con uno studente di legge, un tale che si chiama Valdez.» Coburn inarcò le sopracciglia. «Davvero? ESP? (1)» «Qualcosa del genere. È una specie di chiaroveggente: se può vedere un lato di un oggetto, può vedere anche l'altro.» «Sciocchezze!» «'Se sei così in gamba, perché non sei ricco?' L'ho messo alla prova in condizioni scrupolosamente controllate, e ci riesce sul serio... può vedere oltre gli angoli.»
«Uhm... Ecco, come diceva mio nonno Stonebender, 'Dio ha più assi nella manica di quanti ne vengano distribuiti durante la partita'. Sarebbe un avversario pericoloso, a poker.» «Per la verità, si è pagato gli studi in legge facendo il giocatore d'azzardo.» «E hai scoperto come fa?» «No, accidenti.» Huxley tamburellò con le dita sul piano del tavolino, mentre sul suo volto appariva un'espressione preoccupata. «Se avessi a disposizione un po' di fondi per la ricerca, forse potrei scoprire dati sufficienti per dare importanza a questa faccenda. Pensa a quel che è riuscito a fare Rhine (2) alla Duke University.» «E allora perché non ti dai da fare? Presentati al Consiglio d'Amministrazione e fatti sentire. Spiega che renderai famosa la Western University.» Huxley non abbandonò la sua aria imbronciata. «C'è poco da sperare. Ho parlato con il mio preside, e quello non mi ha neppure autorizzato a parlarne con il Rettore. Ha una paura matta che quel vecchio imbecille se la prenda con il Dipartimento più ancora di quanto se la prende adesso. Vedi, ufficialmente noi saremmo specializzati nello studio del comportamento. E l'idea che nella coscienza possa esserci qualcosa non spiegabile secondo la fisiologia e la meccanica è accettabile più o meno quanto un San Bernardo in una cabina telefonica.» Sul banco dell'inserviente, la spia del telefono si accese. Il negro spense il televisore e rispose alla chiamata. «Pronto... sissignora, è qui. Lo chiamo subito. Dottor Coburn, al telefono.» «Passami la linea.» Coburn girò il pannello del telefono in modo da piazzarlo di fronte a sé: e il pannello, illuminandosi, mostrò il volto di una giovane donna. Coburn sollevò il ricevitore. «Cosa? Come? Quando è successo?... Chi ha fatto la diagnosi?... Mi rilegga tutto... Mi faccia vedere l'encefalogramma.» Osservò l'immagine riflessa nel pannello, poi aggiunse. «Bene, arrivo subito. Preparate il paziente per l'operazione.» Spense l'apparecchio e si girò verso Huxley. «Devo andare, Phil... Un caso urgente.» «Di che genere?» «Ti interesserà. Una trapanazione. Forse asportazione di parte del cervello. Un incidente d'auto. Vieni a vedere, se hai tempo.» Mentre parlava, s'infilò l'impermeabile. Poi si voltò e si lanciò verso la porta con passi lun-
ghi e agili. Huxley afferrò il proprio impermeabile e si affrettò a raggiungerlo. «E come mai hanno dovuto cercarti?» domandò, quando gli fu accanto. «Ho lasciato il telefono tascabile nell'altro abito,» rispose Coburn. «E l'ho fatto di proposito... volevo starmene un po' tranquillo... ma non ho avuto fortuna.» Si diressero verso Nord e poi verso Ovest, percorrendo le gallerie e i corridoi che collegavano il gruppo dell'Unione con quello della Scienza: non presero i marciapiedi mobili, perché per loro erano troppo lenti. Ma quando arrivarono alla sottovia della Terza Strada, di fronte all'Istituto di Medicina «Pottinger», dovettero constatare che era allagata e che tutti i suoi macchinari s'erano guastati: quindi furono costretti a compiere una deviazione verso Ovest, fino al trasportatore di Fairfax Avenue. Coburn maledisse, imparzialmente, gli ingegneri e la commissione del piano regolatore, perché la primavera porta piogge torrenziali nella California meridionale infischiandosene della Camera di Commercio. Quando furono arrivati nella Sala. Medici si sbarazzarono degli abiti bagnati e passarono nello spogliatoio del settore chirurgia. Un inserviente aiutò Huxley a indossare un paio di calzoni bianchi e soprascarpe di cotone. Poi i due passarono nel locale adiacente, per lavarsi e disinfettarsi. Coburn invitò Huxley a disinfettarsi a sua volta, se voleva assistere da vicino all'intervento chirurgico. Per tre minuti buoni, si lavarono con un sapone verde dall'odore penetrante, poi varcarono la soglia d'una stanza dove infermiere efficienti e taciturne li aiutarono a indossare camici e guanti. Huxley si sentiva molto sciocco: lo imbarazzava farsi vestire da un'infermiera che era costretta a sollevarsi in punta di piedi per assestargli le maniche. Poi, attraverso la porta a vetri, i due furono introdotti in Chirurgia III: tenevano protese in avanti le mani inguantate di gomma, come se reggessero qualcosa di fragile. Il paziente era già sul tavolo operatorio, con la testa rasata e immobilizzata. Qualcuno fece scattare un interruttore e un cerchio di spietate luci biancazzurre batté sull'unica parte di lui che rimaneva scoperta: il lato destro del cranio. Coburn si guardò in giro, rapidamente, e Huxley seguì quell'occhiata: pareti verdechiaro, due infermiere di sala operatoria in camice, maschera e calotta, una terza infermiera addetta all'asepsi che si stava dando da fare in un angolo, l'anestesista, gli strumenti che indicavano a Coburn le condizioni dell'attività cardiaca e del ritmo respiratorio del paziente.
Un'infermiera presentò la striscia dell'encefalogramma al chirurgo, perché lo leggesse. Coburn impartì un ordine, e l'anestesista scoprì, per un momento, il viso del paziente: era una faccia magra e bruna, dal naso aquilino, dagli occhi chiusi e infossati. Huxley represse un'esclamazione. Coburn lo guardò, inarcando le sopracciglia. «Che c'è?» «È Juan Valdez!» «E chi è?» «È il tale di cui ti ho parlato... quello studente in legge dagli occhi speciali.» «Uhm... Però quei suoi occhi speciali, stavolta, non hanno saputo vedere oltre l'angolo. È già un miracolo che sia ancora vivo. Se ti metti là, Phil, potrai vedere meglio.» Coburn assunse un atteggiamento d'impersonale efficienza, ignorò la presenza di Huxley e concentrò tutte le facoltà della sua mente acutissima sul corpo martoriato che gli stava davanti. Il cranio era fratturato, apparentemente a causa del violento contatto con un corpo contundente dagli spigoli piuttosto aguzzi. La ferita, sopra l'orecchio sinistro, superficialmente era ampia cinque centimetri o qualcosa di più. Prima dell'intervento, era impossibile dire quali lesioni avessero subito la struttura ossea e la materia grigia sottostante. Senza dubbio, il cervello doveva avere subito qualche lesione. La ferita era stata ripulita, in superficie, e l'area circostante era stata rasata e spennellata di disinfettante. Il trauma si presentava come un netto sfondamento del cranio. Sanguinava leggermente, ed era parzialmente invaso da un agglomerato piuttosto nauseabondo di sangue scuro raggrumato, tessuti bianchi, tessuti grigi, tessuti giallochiari. Le dita sottili e agili del chirurgo, disumane nei guanti arancio pallido, si mossero dolcemente e destramente sulla ferita, come se fossero permeate di una vita e di un'intelligenza proprie. I tessuti annientati, morti da troppo poco tempo perché le cellule che li componevano avessero già registrato l'evento, vennero rimossi: frammenti scheggiati di osso, di duramadre (3) lacerata, di tessuto grigio corticale del cervello vero e proprio. Affascinato da quella vista drammatica, Huxley perse la cognizione del tempo e della sequenza degli eventi. Udì gli ordini laconici del chirurgo: «Pinze!» «Retrattore!» «Spugna!». Il suono della minuscola sega, un ronzio sommesso, poi lo stridere della lama che penetrava nell'osso vivo e compatto, uno stridere da far digrignare i denti. Uno strumento a spatola,
maneggiato con estrema delicatezza, assestò le circonvoluzioni torturate. Huxley vide uno spettacolo incredibile e irreale: un bisturi che sfiorava la soglia della mente, il muro sottile della ragione. Per tre volte un'infermiera asciugò il sudore sul viso del chirurgo. La cera svolse la sua funzione. La lega di vitalium sostituì l'osso, la medicazione bloccò ogni possibilità di infezione. Huxley aveva assistito a innumerevoli operazioni, ma ancora una volta provò quella sensazione quasi insopportabile di sollievo e di trionfo che s'impone quando il chirurgo volge le spalle al tavolo operatorio, incomincia a sfilarsi i guanti e si incammina verso lo spogliatoio. Quando Huxley raggiunse Coburn, quest'ultimo si era tolto la maschera e la calotta, e stava frugando sotto al camice per cercare le sigarette. Aveva recuperato completamente l'aria umana. Sorrise ad Huxley e gli rivolse la parola. «Allora, ti è piaciuto?» «Moltissimo. È la prima volta che ho potuto assistere da vicino a un intervento del genere. Dietro al vetro non si vede altrettanto bene, sai. E il paziente se la caverà?» L'espressione di Coburn cambiò. «È un tuo amico, vero? Sul momento non ci ho pensato. Scusami. Se la caverà, ne sono sicuro. È giovane e robusto, e ha sopportato molto bene l'operazione. Potrai constatarlo tu stesso fra un paio di giorni.» «Hai asportato una buona parte dei centri della parola, no? Sarà ancora in grado di parlare, quando si riprenderà? Non c'è rischio che sia colpito da afasia, o da qualche altro disturbo della favella?» «Centri della parola? Oh, no, non mi sono neppure avvicinato ai centri della parola!» «Eh?» «Legati un nastrino al polso destro, Phil, così la prossima volta potrai distinguere la destra dalla sinistra. Ti sei sbagliato di centottanta gradi. Io ho lavorato sul lobo cerebrale destro, non su quello sinistro.» Huxley assunse un'espressione perplessa, protese le mani davanti a sé, le guardò attento una dopo l'altra, poi il suo viso si schiarì. Rise. «Hai ragione. Sai, faccio sempre confusione. Non riesco neppure a ricordare come si distribuiscono le carte a bridge. Ma... un momento! Ero così convinto che tu stessi lavorando a sinistra, sui centri della parola, che mi sono confuso. Secondo te, che conseguenze avrà l'intervento sulla neurofisiologia del paziente?»
«Nessuna... se ci si può richiamare alle esperienze precedenti. Non sentirà mai la mancanza di quello che ho asportato. Ho operato nella terra incognita, caro mio... nella Terra di Nessuno. Neppure i migliori fisiologi sono riusciti finora a scoprire quale sia la funzione di quella parte del cervello... se ne ha una.» II TRE TOPOLINI CIECHI Rrrrrinnng! Joan Freeman protese una mano, alla cieca, e premette il pulsante per azzittire la suoneria della sveglia, gli occhi chiusi nella vana convinzione che avrebbe potuto continuare a dormire. La sua mente incominciò a formulare domande. Era domenica. La domenica non doveva alzarsi presto. E allora perché mai aveva regolato la sveglia? All'improvviso lo ricordò e scese giù dal letto, posò i piedi ben caldi sul pavimento freddo, nell'aria del mattino. Il pigiama cadde per terra, e Joan si lanciò nella doccia, gridò, regolò il getto d'acqua sul tiepido, poi di nuovo sul freddo. L'ultimo contenitore estratto dal frigorifero era già finito nel cestino e il thermos era già pieno quando Joan sentì il rombo di un'automobile che saliva su per la collina, lo stridore delle gomme sul granito del vialetto. Si affrettò a calzare un paio di stivaletti, si sistemò gli orli dei calzoni e si guardò nello specchio. Niente male, pensò. Non era Miss America, ma non avrebbe fatto certo paura ai bambini. Si udì bussare alla porta, e poi il campanello che squillava: e una voce di baritono: «Joan! Sei presentabile?» «Praticamente sì. Avanti, Phil.» Huxley, in calzoni e camicia da polo, era seguito da un altro: e fu a lui che si rivolse. «Joan, questo è Ben Coburn, il dottor Ben Coburn. Dottor Coburn, questa è Joan Freeman.» «È stata molto gentile a permettermi di venire, signorina Freeman.» «Ma no, dottore. Phil mi ha parlato tanto di lei che ci tenevo molto a conoscerla.» Le solite frasi convenzionali fluivano lisce, come si conveniva in un tabù tribale istituzionalizzato ormai da moltissimo tempo. «Chiamalo pure Ben e dagli del tu, Joan. Fa bene al suo ego.» Mentre Joan e Phil caricavano tutto sulla macchina, Coburn diede un'occhiata all'abitazione-studio della giovane donna. Era un'unica grande stan-
za, dalle pareti rivestite di pannelli di pino nodoso, dominata da un caminetto in pietra dall'aria simpatica, circondato da scaffali di libri in disordine: e quella stanza esprimeva la personalità di chi l'occupava. Coburn varcò una porta-finestra e uscì in un minuscolo patio, pavimentato di mattoni coperti di muschio e abbellito da una griglia per il barbecue e da una piccola vasca che scintillava nel sole del mattino: poi sentì che lo stavano chiamando. «Ehi, dottore! Muovi un po' le zampe! Stiamo perdendo tempo!» Coburn girò di nuovo lo sguardo attorno al patio e raggiunse gli altri accanto all'automobile. «Mi piace moltissimo la sua casa, signorina Freeman. Perché prenderci il disturbo di lasciare Beechwood Drive quando il Griffith Park non può essere certamente più piacevole?» «È molto semplice. Se si resta a casa, non è più un picnic... è solo una colazione. E io mi chiamo Joan.» «Posso richiedere un invito a fare 'solo una colazione' qui, una di queste mattine... Joan?» «Stai attenta, Joan,» ammonì Phil, con un sussurro drammatico. «Ha cattive intenzioni.» Joan raccolse gli avanzi di quello che era stato un pasto abbondante. Mise nel fuoco tre ossi ben ripuliti, ai quali non erano più attaccate le bistecche, vi aggiunse i pezzi di carta oleata che non servivano più e un panino solitario. Poi scosse il thermos, che fece udire un gorgogliare sommesso. «Volete ancora un po' di succo di pompelmo?» chiese. «C'è ancora caffè?» chiese Coburn, poi continuò a parlare a Huxley. «E le sue facoltà sono completamente scomparse?» «Ce n'è ancora in abbondanza,» rispose Joan. «Servitevi.» Il dottore riempì la propria tazza e quella di Huxley, mentre questi rispondeva. «Completamente scomparse, ne sono ormai sicuro. Pensavo che fosse lo shock isterico causato dall'operazione, ma l'ho messo alla prova in stato di ipnosi, ed i risultati sono stati egualmente negativi... in modo totale. Joan, sei una cuoca straordinaria. Saresti disposta ad adottarmi?» «I venturi anni li hai superati.» «Non farei nessuna fatica a rilasciare un certificato per comprovare che è subnormale,» si offrì Coburn. «Le donne sole non sono molto bene accette, per le adozioni.»
«Sposami, e tutto è sistemato... Possiamo adottarlo, e tu potrai cucinare per tutti.» «Beh, non dirò di no e non dirò di sì: ma ammetto che è la proposta migliore che abbia ricevuto oggi. Ma di cosa state parlando, voi due?» «Digli che lo metta per iscritto, Joan. Stiamo parlando di Valdez.» «Oh! Ieri avevi intenzione di effettuare quelle ultime prove, no? E come è andata?» «In modo assolutamente negativo, per quanto riguarda le sue facoltà di chiaroveggenza. Sono scomparse.» «Uhm... e i test di controllo?» «Il Test Temperamentale Humm-Wadsworth ha mostrato esattamente lo stesso tracciato riscontrato prima dell'incidente, entro i limiti degli errori sperimentali. Anche il suo quoziente di intelligenza è rimasto inalterato. E i test di associazione non hanno mostrato niente di nuovo. Secondo tutti i criteri riconosciuti della neurofisiologia è nelle stesse condizioni di prima, eccettuati due particolari: ha un pezzo di corteccia cerebrale di meno, e non è più capace di vedere dietro gli angoli. Oh, sì... e l'aver perduto quella facoltà lo irrita moltissimo.» Vi fu una breve pausa, poi Joan disse: «I risultati sono conclusivi, non è così?» Huxley si volse a Coburn. «Tu che ne pensi, Ben?» «Ecco, non saprei. Tu stai cercando di indurmi ad ammettere che quel pezzetto di materia grigia che gli ho asportato dalla testa gli conferiva la facoltà di vedere in un modo impossibile per i normali organi dei sensi, e inspiegabile secondo la teoria medica ortodossa. Non è vero?» «Non sto cercando di indurti ad ammettere un bel niente. Sto solo cercando di scoprire qualcosa.» «Beh, se la metti così, direi che se conveniamo che tutti i tuoi dati primari Sono stati ottenuti in condizioni opportunamente rigorose e con controlli adeguati...» «E infatti è così.» «... e che sei stato ancora più scrupoloso nell'ottenere i dati secondari negativi...» «Sicuro. Accidenti, ho provato e riprovato per tre settimane, in tutte le condizioni possibili e immaginabili.» «Allora le conclusioni sono inevitabili. Primo...» E incominciò a contare sulle dita. «Questo soggetto era in grado di vedere senza l'intervento dei
normali organi sensoriali. Secondo: la sua facoltà, che definiremo insolita, era legata in qualche modo ad una porzione del lobo destro del suo cervello.» «Bravo!» commentò Joan. «Grazie, Ben,» fece Phil. «Anch'io ero arrivato alle stesse conclusioni, naturalmente; ma mi fa piacere constatare che c'è qualcuno che concorda con me.» «Beh, e adesso che sei arrivato a questo punto, dove ti ritrovi?» «Non lo so con esattezza. Potrei metterla così: mi sono dedicato alla psicologia per la stessa ragione per cui una persona entra a fare parte di una chiesa: perché sente la necessità soverchiante di comprendere se stessa e il mondo che la circonda. Quand'ero studente, pensavo che la psicologia moderna potesse darmi le risposte che cercavo, ma poi ho scoperto molto in fretta che anche i migliori psicologi non sanno nulla del vero nocciolo del problema. Oh, non intendo affatto sottovalutare tutto quello che è stato fatto in questo campo: era necessario, e a suo modo è stato utilissimo. Ma nessun psicologo sa che cos'è la vita, che cos'è il pensiero, se il libero arbitrio è una realtà o un'illusione, addirittura se questo problema ha senso. I migliori ammettono la propria ignoranza; i peggiori sparano affermazioni dogmatiche che sono assurdità evidenti... per esempio, alcuni studiosi del comportamento che seguono la scuola meccanicista ritengono che, siccome Pavlov è riuscito a fare in modo che a un cane venisse l'acquolina in bocca al suono di un campanello, loro adesso sanno in che modo Paderewski faceva della musica!» Joan, che se ne stava sdraiata tranquillamente nell'ombra delle querce ed ascoltava, a questo punto intervenne. «Ben, tu sei specialista nella chirurgia del cervello, no?» «È uno dei migliori,» dichiarò Phil. «Hai visto parecchi cervelli, e per giunta li hai visti vivi... E in maggioranza, gli psicologi non possono dire altrettanto. Cosa credi che sia il pensiero? Cosa credi che ci faccia funzionare?» Ben le sorrise. «Mi hai messo in trappola, ragazza mia. Non pretendo affatto di saperlo. Non è affar mio. Io sono soltanto una specie di stagnino.» Joan si sollevò a sedere. «Dammi una sigaretta, Phil. Anch'io sono arrivata al punto in cui sei arrivato tu, ma per una strada diversa. Mio padre voleva farmi studiare giurisprudenza: ma poi mi accorsi che mi interessavano i princìpi fondamentali
e sono passata alla facoltà di filosofia. Ma la filosofia non offriva la soluzione. In realtà, nella filosofia non c'è nulla. Avete mai provato a mangiare lo zucchero filato che vendono nelle fiere? Ebbene, la filosofia è qualcosa del genere. Sembra che sia effettivamente qualcosa, ha un bellissimo aspetto e un sapore dolce: ma quando cerchi di morderla non riesci a stringerla fra i denti, e quando provi ad inghiottirla, in realtà non c'è niente. La filosofia è una caccia alle parole, ed è significativa quanto l'azione di un cagnolino che cerca di acchiapparsi la coda. «Stavo per prendere la libera docenza in filosofia, quando ho piantato tutto e sono passata a scienze e ho incominciato a seguire i corsi di psicologia. Pensavo che se fossi stata diligente e paziente, la verità mi sarebbe stata rivelata. Beh, Phil ci ha appena detto a che cosa porta la psicologia. Avevo incominciato a pensare di studiare medicina, o biologia. Ma tu mi hai appena dimostrato che è inutile. Forse è stato un errore insegnare a leggere e a scrivere alle donne.» Ben rise. «Mi sembra una di quelle riunioni in una chiesa di paese, dove tutti confidano le proprie esperienze. E allora, tanto vale che mi confessi anch'io. Penso che quasi tutti i medici incomincino gli studi spinti dal desiderio di scoprire ogni cosa sul conto dell'uomo e del mistero della vita: ma si tratta di un campo sterminato, e le risposte definitive sfuggono, e ci sono sempre tante cose da fare sul momento... Così, rinunciamo a interessarci dei problemi maggiori. Sono ansioso, non meno che in passato, di conoscere che cosa sono in realtà la vita e il pensiero: ma bisogna che mi capiti un attacco di insonnia perché io trovi il tempo di preoccuparmene veramente. Phil, davvero hai intenzione di affrontare queste cose?» «In un certo senso, sì. Sto raccogliendo dati su ogni genere di fenomeno in contrasto con la teoria psicologica ortodossa... su ciò che va sotto la designazione generale di metapsichica: telepatia, chiaroveggenza, chiariudienza, levitazione, yoga, stigmate, le cosiddette manifestazioni psichiche e tutto il resto.» «E non ti risulta che quasi tutti questi fenomeni possono venire spiegati in modo normale?» «Moltissimi sì, certamente. E si può distorcere e modificare la teoria ortodossa e ignorare le leggi statistiche della probabilità per spiegare quasi tutti gli altri fenomeni. Poi, se attribuisci quello che rimane alla ciarlataneria, alla credulità e all'autosuggestione, e ti rifiuti di effettuare indagini, puoi anche andartene a dormire tranquillo.»
«Il Rasoio di Occam,» mormorò Joan. «Eh?» «Il Rasoio di Guglielmo di Occam. Si chiama così un principio della logica: quando vi sono due ipotesi che spiegano i fatti, bisogna adottare quella più semplice. Quando uno scienziato tradizionalista deve distorcere e alterare le teorie ortodosse fino a quando sembrano inventate da Rube Goldberg (4), per spiegare i fenomeni non ortodossi, allora egli ignora il principio del Rasoio di Occam. Escogitare un'ipotesi nuova per spiegare tutti i fatti è più semplice che stiracchiarne una già esistente, nel tentativo di spiegare i fatti che non vi si adeguano. Ma gli scienziati amano le loro teorie più di quanto amino le mogli e i figli.» «Perbacco!» esclamò Phil, in tono di ammirazione. «E pensare che questi pensieri profondissimi escono da una testolina acconciata con la permanente!» «Ben, tienilo fermo, per piacere: così potrò picchiarlo con il thermos.» «Chiedo scusa. Hai perfettamente ragione tu, tesoro. Ho deciso di lasciar perdere le teorie, di trattare questi fenomeni anomali come dati normali, e vedere sin dove potevo arrivare.» «E che cosa hai trovato, Phil?» si intromise Ben. «Parecchia roba. In qualche caso si trattava semplicemente di dicerie; talvolta ho effettuato controlli in rigorose condizioni di laboratorio, come nel caso di Valdez. Naturalmente, avrete sentito parlare di tutti i risultati straordinari che vengono attribuiti allo yoga. Nell'emisfero occidentale questi tipi di fenomeni si presentano di rado, ed è un elemento a sfavore. Ma osservatori competenti e lucidi hanno segnalato molte stranezze riscontrate in India: telepatia, precognizione, chiaroveggenza, e via discorrendo... inclusi i casi di coloro che camminano sui carboni ardenti.» «E perché tu includi nella metapsichica i casi di quelli che camminano sul fuoco?» «Esiste la possibilità che la mente possa controllare, in qualche modo incomprensibile, il corpo ed altri oggetti materiali.» «Uhm...» «Pensi che sia un'idea più straordinaria del fatto che tu puoi fare in modo che la tua mano ti gratti la testa? Si tratta di due casi in cui non hai la minima idea di come funzioni la volontà sulla materia. Prendi gli indigeni della Terra del Fuoco. Dormivano nudi per terra, anche se il termometro scendeva sotto lo zero. Ora, il corpo umano non può adattarsi spontaneamente in questo modo. Non ha i meccanismi necessari: qualunque fisiolo-
go te lo confermerà. Un essere umano nudo, sorpreso all'aperto da una temperatura inferiore allo zero, deve continuare a muoversi, altrimenti muore. Ma gli indigeni della Terra del Fuoco non sapevano niente dei processi metabolici: e dormivano saporitamente, belli tranquilli.» «Fino ad ora, però, non ti sei ancora avvicinato alle nostre zone. Se prendiamo in esame delle latitudini così ampie, allora mio nonno Stonebender ha avuto esperienze anche più meravigliose.» «Ci sto arrivando adesso. Non dimenticare Valdez.» «Cos'è questa storia del nonno di Ben?» intervenne Joan. «Joan, non vantarti mai di niente in presenza di Ben, altrimenti scoprirai che suo nonno Stonebender ha sempre fatto di meglio, più in fretta e più facilmente.» Negli occhi celesti di Coburn balenò un'occhiata che era più di dolore che di indignazione. «Phil, mi meraviglio di te. Se non fossi uno Stonebender io stesso, e molto tollerante, mi offenderei per le tue parole. Ma sono disposto ad accettare le tue scuse.» «Insomma, per arrivare più vicini a noi, a parte Valdez, c'era un uomo nella mia città natale, Springfield nel Missouri, che aveva un orologio nella testa.» «E cioè?» «E cioè sapeva sempre l'ora esatta senza guardare l'orologio. Se il tuo orologio non era d'accordo con lui, era l'orologio a sbagliare. E poi, era un calcolatore fulmineo... sapeva immediatamente la soluzione dei problemi d'aritmetica più complicati che potessi proporgli. Eppure, da altri punti di vista, era tutt'altro che intelligente.» Ben annuì. «È un fenomeno comune... gli idiots savants.» «Sì, ma un'etichetta non spiega nulla. Per giunta, anche se molti individui dotati di facoltà anomale sono poco intelligenti, vi sono parecchie eccezioni. Credo che la percentuale maggiore sia anzi quella delle persone normali: ma è raro che sentiamo parlare di loro, perché gli individui intelligenti si rendono conto che, se gli altri sospettassero la loro eccezionalità, diventerebbero fenomeni da baraccone o, peggio, verrebbero perseguitati.» Ben annuì di nuovo. «In questo hai ragione, Phil. Va' avanti.» «Vi sono stati moltissimi individui di questo genere, dotati di facoltà impossibili, che non erano subnormali da altri punti di vista e che non vi-
vevano molto lontani. Boris Sidis, per esempio...» «Era quel bambino prodigio, no? Mi pare che poi la cosa sia finita in niente.» «Può darsi. Personalmente, ritengo che sia diventato più prudente e abbia deciso di nascondere alle altre scimmie la sua diversità. Comunque, possedeva facoltà straordinarie per intensità, se non per qualità. Era capace di leggere una pagina intera a stampa con una sola occhiata, e senza dubbio era dotato di memoria totale. E a proposito di memoria totale, che cosa ne pensi di Tom il Cieco, quel pianista negro che era in grado di suonare qualunque brano di musica dopo averlo udito una sola volta? Per avvicinarci ancora di più, c'era quel ragazzo, proprio qui, nella contea di Los Angeles, non molti anni fa, che sapeva giocare con gli occhi bendati a ping-pong e a qualsiasi altro gioco che la gente normale non può giocare senza servirsi degli occhi. E poi c'era Eco Istantanea.» «Non mi hai mai parlato di lui, Phil,» osservò Joan. «Che cosa era in grado di fare?» «Poteva parlare con te, con le tue parole e le tue intonazioni, in qualunque lingua, sia che la conoscesse o no. E poteva tenere il tuo ritmo in modo così esatto che chiunque ascoltasse non sarebbe riuscito a distinguervi. Era in grado di imitare le parole e il tono immediatamente, esattamente e senza sforzo, proprio come l'ombra segue i movimenti di un corpo.» «Molto strano, no? E piuttosto difficile da spiegare in base alla teoria del comportamento. Ti è mai capitato qualche caso di levitazione, Phil?» «Con gli esseri umani, no. Però ho visto un medium locale, un bravo ragazzo, non un professionista, che abitava vicino a me... faceva sollevare e galleggiare nell'aria i mobili di casa mia. E io non ero affatto ubriaco! O succedeva veramente così, oppure io ero ipnotizzato: scegli un po' tu. E a proposito di levitazione, sai che cosa raccontano di Nijinsky?» «Quale storia?» «Stava sollevato in aria. Ci sono migliaia di persone, qui e in Europa, a meno che siano morte nel Crollo, che possono testimoniarlo: quando ballava nello Spettro della Rosa spiccava un balzo in aria, rimaneva sospeso per qualche istante, e poi ridiscendeva. Puoi dire che si trattava di casi di allucinazione collettiva... io non l'ho visto.» «Di nuovo il Rasoio di Occam,» disse Joan. «Cioè?» «L'allucinazione collettiva è più difficile da spiegare di un uomo che rimane librato in aria per qualche secondo. L'allucinazione collettiva non è
mai stata provata... è inutile servirsene per spiegare un fatto inquietante. Equivale all'affermazione: 'Un animale così non esiste', pronunciata da quel tale che vide un rinoceronte per la prima volta.» «Può darsi. C'è qualche altra stranezza che ti interessa, Ben? Conosco milioni di esempi.» «E i precursori? E la telepatia?» «Beh, la telepatia è stata provata senza ombra di dubbio, anche se non è ancora stata spiegata, dagli esperimenti del dottor Rhine. Naturalmente, molti l'avevano già osservata in precedenza, e con una frequenza tale da rendere irragionevole metterla in dubbio. Mark Twain, ad esempio. Ne parlò oltre cinquant'anni prima degli studi di Rhine, e con abbondante documentazione e numerosi particolari. Certo, non era uno scienziato: ma possedeva un solido buon senso, ed è stato uno sbaglio ignorare le sue conclusioni. Anche Upton Sinclair ne ha parlato. Il discorso si fa un po' più difficile per quanto riguarda la precognizione. Chiunque ha udito o sperimentato casi di 'intuizioni' o 'presentimenti' poi puntualmente verificatisi: ma è difficile tirarne le fila di un serio discorso scientifico. Puoi provare a leggere An Experiment with Time di J.W. Dunne (5), per avere un'idea di cosa significhi condurre un'indagine rigorosa della precognizione attraverso i sogni.» «Ma dove ci conduce tutto questo, Phil? Non ti sembra di star facendo una semplice collezione di fatti curiosi?» «No, non è soltanto questo. Certo, ho dovuto mettere insieme una quantità enorme di dati - dovresti vedere i miei quaderni di appunti - prima di arrivare a formulare delle ipotesi di lavoro. Ne ho una proprio adesso.» «Davvero? Quale?» «Me l'hai data tu, operando Valdez. Già da tempo avevo cominciato a sospettare che questi individui in possesso di capacità mentali e fisiche strane, apparentemente incomprensibili, non fossero in realtà differenti da tutti quanti noi. Voglio dire, secondo me non sono degli anormali: soltanto, sono riusciti in qualche modo ad attivare delle potenzialità inerenti in ciascun individuo. Dimmi, quando hai aperto il cranio di Valdez, hai notato niente di anomalo nel suo aspetto?» «No. A parte la ferita, non presentava alcuna particolarità singolare.» «Benissimo. Però, dopo che tu sei intervenuto sulla parte danneggiata, Valdez ha perso la facoltà della chiaroveggenza. Mi hai detto di aver affrontato il bisturi in una specie di terra incognita, una zona del cervello le cui funzioni sono sconosciute. Questa è una circostanza ben nota alla psi-
cologia e alla fisiologia: vastissime aree della sostanza cerebrale non hanno alcuna funzione nota. Tuttavia, non mi sembra logico o razionale presumere che l'organo più importante e specializzato del corpo sia in larga parte del tutto inutile; è più sensato ritenere che anche tale parte abbia delle funzioni a noi tuttora ignote. D'altro canto, si conoscono casi di persone che hanno perduto vaste porzioni della corteccia cerebrale, senza per questo veder menomate, almeno in apparenza, le loro facoltà mentali, finché non venivano toccate quelle porzioni del cervello che controllano le normali attività umane. «Ora, nel caso di Valdez, siamo riusciti a stabilire una connessione diretta fra una delle aree 'sconosciute' ed un talento insolito, cioè la chiaroveggenza. La mia nuova ipotesi di lavoro discende direttamente da questo. La formulo così: 'Tutte le persone normali sono potenzialmente in grado di esercitare tutti (o quasi tutti) i talenti insoliti che stiamo studiando: la telepatia, la chiaroveggenza, la capacità di compiere complicati calcoli mentali, il controllo completo sul corpo e le sue funzioni, e così via. La capacità potenziale di compiere queste cose risiede nelle zone del cervello le cui funzioni ci sono ancora ignote'.» Coburn strinse le labbra. «Mmm... Non so che rispondere. Se tutti noi possediamo queste capacità meravigliose, cosa che ancora non è provata, come mai non siamo in grado di utilizzarle?» «Non ho detto di aver provato nulla, almeno per ora. La mia è soltanto un'ipotesi di lavoro. Ma posso tracciare un'analogia. Queste capacità non sono come la vista, l'udito, il tatto, che non possiamo fare a meno di usare sin dalla nascita; sono simili, piuttosto, alla capacità di parlare, che risiede anch'essa in alcuni centri specializzati del cervello, ma che viene alla luce soltanto in seguito ad uno speciale 'allenamento'. Pensi che un bambino nato e cresciuto soltanto fra sordomuti possa mai imparare a parlare? Assolutamente no: a tutti gli effetti, sarebbe muto anche lui.» «D'accordo,» fece Coburn. «Riconosco che hai definito una ipotesi e l'hai resa plausibile. Ma come intendi provarla? Non vedo in che modo tradurla in pratica. È una speculazione molto interessante: ma finché non la porterai sul piano sperimentale, resterà nulla più che una tua fantasia.» Huxley si voltò e si mise a fissare gli alberi con aria infelice. «Purtroppo,» disse, «è proprio qui l'ostacolo. Ho perduto il mio miglior soggetto da esaminare, e non so proprio come ricominciare da capo.» «Ma, Phil,» protestò Joan, «in realtà tu hai bisogno di soggetti normali. Dovrai lavorare su di loro, per far sviluppare le facoltà sconosciute. Mi
sembra una cosa magnifica. Quando cominciamo?» «Cominciamo cosa?» «A lavorare su di me, naturalmente. Quella faccenda del calcolo istantaneo, per esempio. Se tu riuscissi ad insegnarmelo veramente, saresti un mago. Sono sempre stata rimandata in algebra. Anche adesso, non so neppure la tavola pitagorica!» III A CIASCUNO IL PROPRIO GENIO «Vuoi che ti aiutiamo?» chiese Phil. «Oh, lascia stare,» rispose Joan. «Beviamo prima il caffè in pace e digeriamo il pranzo. Erano due settimane che Ben non si faceva vedere: adesso deve raccontarci come vanno le cose giù a San Francisco.» «Grazie cara,» fece il dottore, «ma sono io in realtà che voglio sapere cosa ha combinato lo Scienziato Pazzo con la sua allieva.» «Allieva, davvero,» protestò Huxley. «È più indipendente di una foca sulla banchisa. Però stavolta abbiamo davvero qualcosa da farti vedere, caro Doc.» «Sul serio? E che cosa?» «Dunque, come sai, per i primi due mesi non abbiamo fatto molti progressi. Era come camminare su una strada molto in salita. Joan aveva sviluppato una certa capacità telepatica, ma assai incostante e incontrollabile. Quanto al calcolo mentale, aveva imparato a memoria la tavola pitagorica: ma come calcolatore prodigio, era un fiasco completo.» Joan si alzò in piedi, passò fra i due uomini e il caminetto, e si diresse verso la cucina. «Mi spiace lasciarvi,» fece, «ma devo proprio raschiare un po' questi piatti e metterli a bagno prima che si riempiano di formiche. Parlate a voce alta, così potrò sentirvi.» «E adesso, invece, che cosa può fare Joan, Phil?» «Non te lo dico. Aspetta e vedrai. Joan! Dov'è il tavolino da gioco?» «Dietro al divano. E non c'è bisogno di gridare. Ci sento benissimo, da quando ho il Cornetto Acustico Aerodinamico di Nonna Volpe.» «Bene, ragazza mia, l'ho trovato. Le carte sono al solito posto?» «Sì. Fra un attimo sono da voi.» Joan ricomparve, togliendosi uno sgargiante grembiulino; sedette sul divano, si strinse le ginocchia con le braccia. «La Grande Zaga, la Vampira di Hollywood è pronta. Vede tutto, sa tutto e dice anche di più. Predice il futuro, estrae i denti e offre splendido
divertimento a tutta la famiglia.» «Non fare la pagliaccia. Cominceremo con un po' di telepatia diretta. E lascia perdere il resto. Mischia le carte, Ben.» Coburn obbedì. «E adesso?» «Estraile dal mazzo, una alla volta, in modo che tu ed io possiamo vederle, ma Joan no. E tu chiamale, ragazza mia.» Ben estrasse lentamente le carte. Joan incominciò a recitare con vole cantilenante. «Sette di quadri; fante di cuori; asso di cuori; tre di picche; dieci di quadri; sei di fiori; nove di picche; otto di fiori...» «Ben, è la prima volta da quando ti conosco che ti vedo così sbalordito.» «Ha chiamato tutte le carte del mazzo, senza neppure un errore. Neanche mio nonno Stonebender avrebbe potuto fare di meglio.» «È uno splendido complimento, amico. Proviamo a cambiare. Questa volta io non c'entrerò. Non so se funzionerà, dato che non abbiamo mai lavorato con nessun altro. Prova.» Dopo qualche minuto, Coburn depose l'ultima carta. «Perfetto! Neanche un errore.» Joan si alzò e si accostò al tavolo. «Come mai in questo mazzo ci sono due dieci di cuori?» Esaminò il mazzo, e tirò fuori una carta. «Oh! Hai scambiato la settima carta per un dieci di cuori, e invece era il dieci di quadri. Vedi?» «Penso proprio di essermi sbagliato,» ammise Ben. «Mi dispiace di averti confusa, ma l'illuminazione non è molto buona.» «Joan preferisce un'illuminazione di tipo artistico, per via dei suoi occhi,» spiegò Phil. «Ma sono contento che sia andata così: dimostra che lei si serviva della telepatia, non della chiaroveggenza. E adesso un po' di matematica. Lasceremo perdere le solite cose, radici cubiche, addizioni istantanee, logaritmi delle funzioni iperboliche e roba simile. Credimi sulla parola, Ben: lei ci riesce benissimo. Puoi metterla alla prova più tardi, se ci tieni. Ma ti presenterò un esperimento che è tutto farina del mio sacco, e include lettura rapida, memoria totale, un numero incredibile di permutazioni e di combinazioni, e indagine matematica delle alternative. Sei capace di fare i solitari, Ben?» «Sicuro.» «Allora, voglio che tu mescoli con cura le carte e poi incominci un solitario Canfield, disponendo le carte da sinistra a destra, e poi giochi: tre car-
te alla volta, finché non hai esaurito il mazzo, e poi ricominci, fino a quando resti bloccato e non puoi più andare avanti.» «Benissimo. E che cosa succede?» «Quando hai mischiato e tagliato, voglio che tu sfogli in fretta le carte, tenendole in modo che Joan possa scorgerle. Poi aspetta un attimo.» In silenzio, Ben fece ciò che gli era stato chiesto. Joan lo interruppe. «Devi rifarlo, Ben. Ho visto solo cinquantun carte.» «Due devono essere rimaste appiccicate. Lo rifaccio.» E ripeté l'operazione. «Questa volta sono cinquantadue. Benissimo.» «Sei pronta, Joan?» «Sì, Phil. Prendi nota: cuori, fino al sei; quadri fino al quattro; picche fino a due, e nessuna fiori.» Coburn assunse un'espressione incredula. «Vuoi dire che il solitario andrà a finire in questo modo?» «Prova e vedrai.» Coburn incominciò a sistemare le carte da destra a sinistra, poi prese a giocare, lentamente. A un certo punto, Joan lo fermò. «No. Sistema il re di cuori nello spazio libero, invece del re di picche. Il re di picche scoprirebbe l'asso di fiori, ma uscirebbero tre cuori, meno che se sposti il re di cuori.» Coburn non fece commenti, ma seguì le indicazioni. Joan l'interruppe altre due volte e gli indicò un'alternativa diversa. Il solitario finì esattamente come la ragazza aveva predetto. Coburn si passò la mano tra i capelli e fissò le carte. «Joan,» chiese sottovoce, «non ti fa mai male la testa?» «Non quando faccio queste cose. Non mi sembra per niente faticoso.» «Vedi,» s'intromise Phil, con aria seria, «non c'è motivo perché risenta della tensione. A quanto se ne sa, pensare non richiede il minimo dispendio di energia. Un individuo dovrebbe essere in grado di pensare chiaramente ed esattamente senza fatica. Sono convinto che il mal di testa venga a chi pensa in modo sbagliato.» «Ma come diavolo ci riesce, Phil? Viene mal di testa a me, solo a cercare d'immaginare la portata del problema, se dovesse venire risolto con i metodi della matematica convenzionale.» «Non so come ci riesce. E non lo sa neppure lei.» «E come ha imparato?» «Ne parleremo dopo. Prima voglio mostrarti il nostro pezzo forte.» «Sarebbe troppo, per me. Sono già rintronato.»
«Vedrai che ti piacerà.» «Aspetta un momento, Phil. Voglio provare io. A che velocità è in grado di leggere, Joan?» «Con la velocità con cui vede.» «Uhm...» Il dottore prese dalla tasca interna della giacca un fascio di fogli dattiloscritti. «Ho qui la seconda stesura di un articolo su cui sto lavorando. Mostriamo una pagina a Joan... Joan, sei d'accordo?» Coburn estrasse una pagina e la porse alla ragazza. Lei la guardò e gliela rese immediatamente: lui domandò, con aria sorpresa: «Che succede?» «Niente. Controlla mentre ripeto.» Joan incominciò una rapida cantilena: «'Pagina quattro. Ora, secondo Cunningham, quinta edizione, pagina 547: un altro fascio di fibre, cioè il fasciculus spinocerebellaris (posteriore), prolungato verso l'alto nel furmiculus laterale del midollo spinale, lascia gradualmente questa porzione del midollo allungato. Questo tratto si trova alla superficie e...'» «Basta così, Joan, fermati. Dio solo sa come hai fatto, ma hai letto e imparato a memoria quella pagina di gergo tecnico in un secondo secco.» E sorrise, maliziosamente. «Però la tua pronuncia era discutibile. Quella di mio nonno Stonebender sarebbe stata perfetta.» «E cosa ti aspettavi? Non capisco la metà di quello che ho detto.» «Joan, come hai imparato a fare tutto questo?» «Per essere sincera, dottore, non lo so proprio. È un po' come imparare ad andare in bicicletta... si continua a fare capitomboli, fino a quando, un bel giorno, ci si mette in sella e si va tranquilli. E dopo una settimana si pedala senza manubrio e si provano le acrobazie. È andata così... io sapevo quel che volevo fare, e un bel giorno ci sono riuscita. Adesso basta, Phil comincia a spazientirsi.» Ben rimase in silenzio, perplesso, si lasciò condurre da Phil a una piccola scrivania che stava in un angolo. «Joan, possiamo adoperare qualunque cassetto? Benissimo. Ben, estrai un cassetto della scrivania, prendi gli oggetti che vuoi e aggiungi quello che ti pare. Poi, senza guardare nel cassetto, scuoti un po' il contenuto, tira fuori qualche oggetto e buttalo in un altro cassetto. Voglio eliminare la possibilità della telepatia.» «Phil, non preoccuparti del disordine che farai. Le mie numerose segretarie saranno felicissime di rimettere tutto a posto dopo che avrai finito di giocare.»
«Non ostacolare il progresso della scienza, piccola. E poi,» aggiunse, sbirciando in un cassetto, «è chiaro che questa scrivania non è stata messa in ordine almeno da sei mesi. Un po' di confusione in più non sarà un gran danno.» «Ah sì? E che cosa ti aspetti, dato che perdo tutto il mio tempo a imparare giochetti di prestigio per te? E poi, so benissimo dov'è la mia roba.» «È proprio quel che temo. Ed è per questo che voglio che Ben introduca qualche elemento a caso... se è possibile. Procedi, Ben.» Quando il dottore ebbe finito e richiuse il cassetto, Phil proseguì: «È meglio che ti serva di carta e matita, questa volta, Joan. Per prima cosa elenca tutto ciò che vedi nel cassetto, poi fai uno schizzo per indicare la posizione approssimativa di ogni oggetto.» «D'accordo.» Joan sedette alla scrivania e incominciò a scrivere, rapidamente: Una grossa borsa di pelle nera Un righello da un decimetro Ben l'interruppe. «Aspetta un momento. È tutto sbagliato. Se ci fosse stato un oggetto grosso come una borsa, l'avrei notato.» Joan aggrottò la fronte. «Che cassetto hai detto?» «Il secondo a destra.» «Credevo che avessi detto il primo cassetto.» «Forse sì.» Joan ricominciò. Tagliacarte d'ottone Sei matite assortite e una matita rossa Tredici elastici Un temperino dal manico di madreperla «Deve essere il tuo temperino, Ben. È molto bello: perché non l'ho mai visto, prima?» «L'ho comprato a San Francisco. Santo Dio, ragazza mia... tu non l'hai ancora visto!» Una bustina di fiammiferi con la pubblicità del Sir Francis Drake Hotel Otto lettere e due fatture Due biglietti del Follies Burlesque Theatre... «Dottore, mi meraviglio di te!» «Continua a fare la calza!»
«Purché tu prometta di portare anche me, la prossima volta che ci vai.» Un termometro tascabile con clip Gomma da matita e gomma per macchina da scrivere Tre chiavi assortite Un rossetto, Max Factor numero 3 Un blocco per note e alcune schede, scritte da un lato Un sacchettino di carta scura contenente un paio di calze, misura nove, color Creola «Avevo dimenticato di averle comprate: questa mattina ho messo sottosopra tutta la casa per trovarne un paio decente.» «E perché non hai adoperato la tua vista ai raggi X, signora Houdini (6)?» Joan sembrò stupita. «Sai, non mi è venuto in mente. Non ho ancora incominciato a cercare di sfruttare questa facoltà.» «C'è altro, nel cassetto?» «No, niente, a parte una scatola di foglietti per appunti. Un momento: adesso faccio lo schizzo.» Disegnò rapidamente per un paio di minuti, stringendo la lingua tra i denti: il suo sguardo sfrecciava dal foglio al cassetto chiuso. Ben s'incuriosì. «Devi guardare nella direzione del cassetto per vedere l'interno?» «No, ma questo mi aiuta. Mi vengono le vertigini, se vedo una cosa guardando in un'altra direzione.» Il contenuto del cassetto e la disposizione degli oggetti vennero controllati: corrispondevano esattamente alle indicazioni di Joan. Il dottor Coburn restò seduto, in silenzio, senza fare commenti, quando ebbero finito. Phil, un po' irritato da quella impassibilità, lo apostrofò. «E allora. Ben, che cosa ne pensi? Ti è piaciuto?» «Tu sai che cosa ne pensavo. Hai dimostrato l'esattezza della tua teoria... ma io sto pensando alle implicazioni, ad alcune possibilità. Ritengo che ci troviamo di fronte alla benedizione più grande che sia mai toccata a un chirurgo. Joan, tu puoi vedere dentro a un corpo umano?» «Non so. Non ho mai...» «Guardami.» Lei lo fissò per un attimo, in silenzio. «Ma... ma... posso vedere il tuo cuore che batte! Posso vedere...» «Phil, puoi insegnarmi a vedere come vede lei?» Huxley si grattò il naso.
«Non so. Forse...» Joan si piegò sulla grande poltrona in cui stava seduto il dottore. «Non si addormenta, Phil?» «No, accidenti. Ho provato di tutto, salvo dargli una botta in testa. Credo che non abbia cervello, e perciò è impossibile ipnotizzarlo.» «Non dire malignità. Proviamo ancora. Come ti senti, Ben?» «Io? Benone. Ma sono sveglissimo.» «Questa volta uscirò dalla stanza. Forse la mia presenza ti distrae. Adesso fai il bravo bambino e fa' la nanna.» Joan uscì dalla stanza. Cinque minuti dopo, Huxley la richiamò. «Torna pure, piccola. È andato.» Joan rientrò e guardò Coburn, che giaceva semidisteso nella grande poltrona, con gli occhi semichiusi. «È pronto?» domandò, rivolgendosi a Huxley. «Sì. Preparati.» Joan si sdraiò sul divano. «Tu sai che cosa voglio: mettiti in contatto con Ben non appena sei ipnotizzata. Hai bisogno di qualche aiuto per addormentarti?» «No.» «Benissimo, allora... Dormi!» Joan si abbandonò, in silenzio. «Sei addormentata, Joan?» «Sì, Phil.» «Puoi raggiungere la mente di Ben?» Una breve pausa. «Sì.» «Che cosa trovi?» «Niente. È come una stanza vuota, ma accogliente. Aspetta un momento... mi ha salutata.» «Che cosa ti ha detto?» «È stato solo un saluto, senza parole.» «Mi senti, Ben?» «Sicuro, Phil.» «Siete insieme, voi due?» «Sì. Sì.» «Ascoltatemi, tutti e due. Voglio che vi svegliate lentamente, rimanendo in rapporto. Poi Joan deve insegnare a Ben come percepire l'invisibile. Potete farlo?» «Sì, Phil, possiamo farlo.» Fu come se avesse parlato un'unica voce.
IV VACANZA «Per essere sincero con lei, signor Huxley, non riesco a capire questo suo atteggiamento.» Il Rettore della Western University teneva lo sguardo degli occhi leggermente sporgenti fisso sul secondo bottone del panciotto di Phil. «Lei ha avuto ogni possibilità di svolgere ricerche serie in campi di comprovata importanza. Il suo programma d'insegnamento è stato mantenuto volutamente in limiti non troppo pesanti perché potesse utilizzare al meglio le sue indiscusse capacità. In questo semestre lei è stato preside della sua facoltà. Eppure, invece di approfittare di queste circostanze eccezionalmente favorevoli, ha sprecato il suo tempo, come riconosce lei stesso, occupandosi puerilmente di fole di vecchie comari e di sciocche superstizioni. Santo cielo, io non la capisco!» Phil rispose in tono di esasperazione rattenuta. «Ma, dottor Brinckley, se mi permettesse di mostrarle...» Il Rettore alzò la mano. «La prego, signor Huxley. Non è necessario ritornare sull'argomento. E c'è dell'altro. Sono stato informato che lei si è intromesso nell'attività della facoltà di medicina.» «La facoltà di medicina! Ma se non ci vado da settimane intere!» «Sono stato informato, da fonti autorevoli, che lei ha influenzato il dottor Coburn, inducendolo a ignorare il parere dei diagnostici nell'esecuzione degli interventi chirurgici... e posso aggiungere che si tratta dei migliori diagnostici dell'intera Costa occidentale.» Huxley continuò a mantenere il tono di voce a un livello di cortesia impersonale. «Ammettiamo per un momento che io abbia influenzato il dottor Coburn... dato e non concesso, assolutamente. Vi è stato forse qualche caso in cui il rifiuto di seguire la diagnosi, da parte di Coburn, non è stato giustificato dalla successiva evoluzione del caso?» «Questo non c'entra. Il fatto è... non posso ammettere che il personale di una facoltà interferisca in ciò che riguarda un'altra facoltà. Sono certo che riconoscerà che questo è giusto.» «Non ammetto di essermi intromesso, ecco tutto. Anzi, lo nego.» «Purtroppo, spetta a me giudicare in proposito.» Brinckley si alzò dalla scrivania, le girò attorno, e si portò di fronte a Huxley. «Ora, signor Hu-
xley... posso chiamarla Philip? Ci tengo che i giovani dipendenti della nostra istituzione mi considerino un amico. Voglio darle un consiglio, lo stesso che darei a mio figlio in un caso analogo. Fra un giorno o due finirà il semestre. Penso che lei abbia bisogno di una vacanza. Il Consiglio di Amministrazione ha fatto qualche piccola difficoltà per il rinnovo del suo contratto, dato che lei non ha ancora conseguito la libera docenza. Mi sono preso la libertà di assicurare che nel prossimo anno accademico lei presenterà una tesi... e sono certo che può farlo, purché dedichi la sua attività ad un lavoro concreto e costruttivo. Vada in vacanza e al suo rientro mi sottoponga a grandi linee la tesi che si propone di preparare. Sono assolutamente sicuro che il Consiglio non farà più difficoltà per il rinnovo del suo contratto, in questo caso.» «Avevo intenzione di mettere per iscritto i risultati delle mie ricerche attuali, per la mia tesi.» Brinckley inarcò le sopracciglia, in un'espressione di educato stupore. «Davvero? Ma è fuori questione, ragazzo mio, lo sa bene. Lei ha bisogno di una vacanza. Arrivederci. Se non la rivedo ancora prima dell'inizio, mi permetta di augurarle fin d'ora buone vacanze.» Quando ebbe messo una porta robusta tra sé ed il Rettore, Huxley abbandonò le buone maniere e attraversò in fretta e furia il campus, ignorando professori e studenti. Trovò Ben e Joan che lo aspettavano sulla loro panchina preferita, guardando al di là delle fosse di catrame di La Brea, in direzione del Wiltshire Boulevard. Huxley si lasciò cadere sulla panchina, accanto a loro. Nessuno dei due uomini parlò, ma Joan non riuscì a frenare la propria impazienza. «E così, Phil? Cos'aveva da dire quel vecchio fossile?» «Dammi una sigaretta.» Ben gli porse il pacchetto e restò in attesa. «Non ha detto molto: ha solo minacciato di farmi perdere il posto e di rovinarmi la reputazione professionale se non mi arrendo e non faccio tutto quello che vuole lui... Naturalmente, me lo ha detto nei termini più educati.» «Ma, Phil, non ti sei offerto di condurmi da lui e di mostrargli i progressi che hai già fatto?» «Non ho neppure fatto il tuo nome: era inutile. Sapeva benissimo chi sei... ha fatto una delicata allusione all'inopportunità che i giovani insegnanti frequentino le studentesse se non in circostanze ufficiali... Ha parlato degli elevati princìpi morali dell'università, e dei nostri doveri nei confronti dell'opinione pubblica.»
«Brutto vecchio sporcaccione! Ho voglia di farlo a pezzi!» «Calmati, Joan.» La voce di Ben Coburn era sommessa e pensosa. «In che modo ti ha minacciato, Phil?» «Si è rifiutato di rinnovare adesso il mio contratto. Ha intenzione di tenermi sulle spine per tutta l'estate: poi, se in autunno torno da lui buono e sottomesso come un coniglio, me lo rinnoverà... se ne avrà voglia. Accidenti a lui! Quello che più mi ha mandato in bestia è stata l'insinuazione che sono stanco e ho bisogno di riposo.» «E che cosa hai intenzione di fare?» «Cercarmi un impiego, credo. Devo pur mangiare.» «Nell'insegnamento?» «Credo di sì, Ben.» «Non hai molte possibilità, vero, senza un benservito ufficiale della Western University? Questa gente può metterti sulla lista nera, e allora sono guai. Tutto sommato, non sei più libero di un calciatore professionista.» Phil non disse nulla: aveva l'aria tetra. Joan sospirò e guardò al di là della depressione paludosa che circondava le fosse piene di catrame. Poi sorrise. «Potremmo attirare laggiù quel vecchio rompiscatole e poi dargli uno spintone,» disse. I due uomini sorrisero a loro volta, ma non risposero. Joan mormorò qualcosa a proposito di certe donnicciole. Ben si rivolse a Phil. «Sai, Phil, in fondo l'idea di una vacanza non è tanto stupida. Piacerebbe anche a me.» «Hai in mente qualcosa di particolare?» «Beh, sì, più o meno. Sono qui da sette anni, e non conosco ancora bene questo Stato. Mi piacerebbe partire senza una meta particolare. Potremmo andare verso Nord, oltre Sacramento, nella California settentrionale. Dicono che lassù ci sono posti magnifici. Potremmo andare nelle Sierre Alte, e ritornare attraverso la regione dei Grandi Alberi.» «Il programma mi sembra interessante.» «Tu potresti portare i tuoi appunti, e durante il viaggio potremmo parlare delle tue idee. E se decidessi di mettere qualcosa per iscritto, potremmo accamparci finché non hai finito.» Phil tese la mano. «Ci sto, Ben. Quando si va?» «Non appena scade il semestre.» «Vediamo... dovremmo poter partire venerdì, sul tardo pomeriggio. Che
macchina prendiamo, la tua o la mia?» «Il mio coupé dovrebbe andare abbastanza bene. C'è molto spazio per i bagagli.» Joan, che aveva seguito con interesse la conversazione, li interruppe. «Perché prendere la tua macchina, Ben? Non ci si sta comodi in tre, in un coupé.» «In tre? Come, in tre? Tu non vieni con noi, tesoro bello.» «Davvero? Questo lo dici tu. Non potete sbarazzarvi di me, ormai. La cavia da laboratorio sono io. Oh, no, non potete lasciarmi qui.» «Ma Joan...» «Ah, dunque volete liberarvi di me?» «No, Joan, non abbiamo detto questo. Non sarebbe piacevole, per te, andare alla ventura insieme a due uomini...» «Donnicciole! Mammolette! Puritani! Vi preoccupate della vostra reputazione?» «No. Ci preoccupiamo della tua.» «Non attacca. Una ragazza che vive sola non ha reputazioni da difendere. Può essere più pura di una saponetta Avorio, e tutti quanti, all'Università, maschi e femmine, la faranno egualmente a pezzi. Perché vi spaventate tanto? Non passeremo il confine dello Stato.» Coburn e Huxley si scambiarono una di quelle occhiate significative che gli uomini si lanciano sempre quando si trovano di fronte all'ostinazione di una donna irragionevole. «Attenta, Joan!» Un grosso autobus di Santa Fe superò la spalletta, sull'altro lato dell'autostrada, e li incrociò, sfiorandoli. Joan girò fulmineamente la coda della berlina grigia attorno ad un'autobotte con rimorchio che viaggiava sulla loro carreggiata, prima di rispondere. E, quando rispose, girò la testa per parlare a Phil, che stava sul sedile posteriore. «Che c'è, Phil?» «C'è mancato poco che provocassi uno scontro frontale con le venti tonnellate di uno dei migliori autobus di Santa Fe!» «Non essere così nervoso. Guido la macchina da quando avevo sedici anni, e non ho mai avuto un incidente.» «Non mi sorprende. Quando avrai un incidente, sarà il primo e l'ultimo, perché ci lascerai la pelle. Comunque,» proseguì Phil, «perché non guardi la strada? Non mi sembra di pretendere troppo!» «Non ho bisogno di guardare la strada. Vedi?» Girò ancor più la testa, e
Phil vide che teneva gli occhi chiusi. L'indicatore del tachimetro era oltre i centoquaranta chilometri. «Joan! Ti prego!» Lei riaprì gli occhi, e tornò a guardare davanti a sé. «Ma non è necessario che guardi, per vedere. Sei stato tu stesso a insegnarmelo, grand'uomo. Non te lo ricordi?» «Sì, sì... Ma non ho mai pensato che lo facessi anche al volante di un'automobile.» «E perché no? Sono la guidatrice più in gamba che tu abbia mai conosciuto. Posso vedere tutto quello che c'è sulla strada, anche al di là di una curva cieca. E se è necessario, leggo nella mente degli altri automobilisti, per scoprire che cosa hanno intenzione di fare.» «Ha ragione lei, Phil. Le poche volte che ho fatto attenzione a come guida, ho notato che ha fatto esattamente quello che avrei fatto io, nelle stesse circostanze. Per questo non mi sono innervosito.» «E va bene, va bene,» rispose Phil. «Ma sarebbe meglio se voi due superuomini ricordaste di avere a bordo, sul sedile posteriore, un comune mortale piuttosto nervoso che non è capace di veder oltre gli angoli.» «Farò la brava, allora,» disse Joan, calmandosi. «Non avevo intenzione di spaventarti, Phil.» «Mi interessa quello che hai detto,» riprese Ben. «Non guardare in direzione di qualcosa che vuoi vedere. Io non ci riesco troppo bene. Ricordo che una volta hai detto che se guardi altrove mentre ti servi della percezione diretta, ti vengono le vertigini.» «Una volta era così, Ben, ma ormai è passato, e passerà anche a te. Basta solo rompere con le vecchie abitudini. Per me, qualunque direzione è 'davanti': tutto intorno, e su e giù. Posso concentrare la mia attenzione in ogni direzione, o anche in due o tre direzioni contemporaneamente. Posso anche scegliere un punto lontano dalla mia ubicazione fisica, e guardare l'altro lato delle cose... ma questo è più difficile.» «Mi fate sentire un po' come la madre del Brutto Anatroccolo,» osservò Phil, amaramente. «Mi vorrete ancora bene, quando sarete arrivati al di là della comunicazione umana?» «Povero Phil!» esclamò Joan, con un tono di sincera comprensione. «Tu hai insegnato a noi, ma nessuno si è preso il disturbo di insegnare a te. Sai cosa faremo, Ben? Questa sera ci fermeremo a un camping... ne sceglieremo uno tranquillo, nei dintorni di Sacramento. E per un paio di giorni, faremo per Phil quello che lui ha fatto per noi.»
«Io sono d'accordo. È una buona idea.» «Molto gentile da parte tua, amico,» disse Phil. Ma si capiva che era soddisfatto e raddolcito. «E quando avrete finito di istruirmi, anch'io sarò capace di fare correre un'automobile su due ruote?» «Perché non imparare la levitazione?» propose Ben. «È più semplice, costa meno, e non c'è il problema della manutenzione.» «Forse ci proveremo, un giorno o l'altro,» rispose Phil, serissimo. «È impossibile dire dove può condurre questa linea di ricerca.» «Già, hai ragione.» Ben gli rispose con altrettanta serietà. «Sono arrivato al punto di credere anche a sette cose impossibili in una volta sola. Cosa stavi dicendo, prima che superassimo quell'autobotte?» «Stavo cercando di esporti un'idea che ho rimuginato nella testa da parecchie settimane. È un'idea molto grossa... così grossa che quasi non riesco a crederci io stesso.» «Bene, sputa l'osso.» Phil incominciò a enumerare gli argomenti sulla punta delle dita. «Abbiamo provato, o cercato di provare, che la mente umana normale possiede poteri in precedenza insospettati, non è vero?» «Beh... sì. Si direbbe proprio di sì.» «E si tratta di poteri molto superiori a quelli di cui la nostra razza si serve regolarmente.» «Sicuro. Continua.» «E abbiamo ragione di credere che questi poteri esistano in virtù di certe aree del cervello, al quale la fisiologia fino ad ora non ha assegnato alcuna funzione. Vale a dire, hanno una base organica, come l'occhio e i centri della vista situati nel cervello sono la base organica della vista normale?» «Sì, naturalmente.» «Si può seguire l'evoluzione di ogni organo dall'inizio fino a una forma complessa, altamente evoluta. L'organo si sviluppa con l'uso. Dal punto di vista evolutivo, la funzione crea l'organo.» «Sì. Questo è elementare.» «E non capisci che cosa implica?» Coburn lo fissò, perplesso, poi il suo volto s'illuminò di un'improvvisa comprensione. Phil continuò, con un tono di voce soddisfatto. «Lo capisci anche tu? La conclusione è inevitabile: deve esserci stata un'epoca in cui l'intera razza umana si serviva di questi strani poteri, con la stessa facilità con cui udiva, vedeva e percepiva gli odori. E deve esserci stato un periodo lungo, molto lungo, di centinaia di migliaia d'anni, forse
di milioni d'anni, durante il quale tali poteri si svilupparono nella nostra razza. Gli individui non possono farlo, come io non potrei farmi crescere le ali. È un'operazione che deve essere compiuta da un'intera specie, in un lungo periodo di tempo. Neanche la teoria delle mutazioni può spiegarlo... la mutazione procede a piccoli balzi, e l'uso conferma il cambiamento. No, no... questi strani poteri sono reliquie... reliquie di un tempo in cui l'intera razza umana li possedeva e li usava.» Phil smise di parlare, e Ben non gli rispose. Continuarono a riflettere, mentre la macchina percorreva altri quindici chilometri. Una volta Joan fece per dire qualcosa, ma poi vi rinunciò. Alla fine, Ben prese a parlare, lentamente. «Non riesco a trovare pecche nel tuo ragionamento. È assurdo pensare che intere aree del cervello, dotate di funzioni complesse siano cresciute così, senza motivo. Ma, caspita, tu hai sovvertito tutta l'antropologia moderna.» «È questo che mi ha assillato fin da quando mi è venuta l'idea; e perciò avevo tenuto la bocca chiusa. Te ne intendi di antropologia?» «No, a parte quel poco che imparano tutti gli studenti di medicina.» «Lo stesso vale per me: comunque, la rispettavo moltissimo. Il professor Taldeitali ricostruiva uno dei nostri progenitori partendo da una vertebra e dai denti e teneva una lunga dissertazione sulle sue abitudini più intime, e io inghiottivo tutto, amo, lenza e galleggiante, e rimanevo molto impressionato. Ma poi ho cominciato a leggere qualche opera sull'argomento. E sai cos'ho scoperto?» «Vai avanti.» «Innanzi tutto, non esiste al mondo un antropologo illustre che non venga definito come un bugiardo di prim'ordine da almeno un altro antropologo non meno illustre di lui. Non riescono a mettersi d'accordo neppure sugli elementi più semplici della loro cosiddetta scienza. In secondo, luogo, non esistono prove sufficienti a sostegno delle loro affermazioni circa gli antenati dell'umanità.. Non ho mai visto nessuno ricavare costruzioni così colossali partendo da elementi così minuscoli. Scrivono libri su libri, e su che cosa si basano? L'Uomo di Dawson, l'Uomo di Pechino, l'Uomo di Heidelberg e un paio di altri. E non sono neppure scheletri interi, ma un cranio malconcio, un paio di denti, magari un paio d'ossa.» «Andiamo, Phil, hanno trovato parecchi esemplari di uomini CroMagnon!» «Sì, ma quelli erano veri uomini. Io sto parlando dei subuomini, dei pre-
decessori. Vedi, stavo cercando di dimostrare a me stesso che avevo torto. Se la carriera dell'uomo fosse stata una lunga, continua ascesa, da subuomini a selvaggi, da selvaggi a barbari, da barbari a uomini civili... e tutto questo solo con brevi regressi durati pochi secoli o al massimo pochi millenni... e con la nostra civiltà attuale al livello più alto mai raggiunto dalla nostra razza... Se tutto questo era vero, la mia idea era sbagliata. «Riesci a seguirmi, non è vero? L'esame del cervello dimostra che l'umanità, in qualche momento della sua storia dimenticata, era salita a vette oggi inimmaginabili. Poi, per qualche ragione, la nostra specie è ripiombata in basso. E questo è accaduto tanto tempo fa che non ne abbiamo trovato la documentazione. Quei brutti subumani che interessano tanto agli antropologi, non possono essere i nostri antenati: sono troppo nuovi, troppo primitivi, troppo giovani. Sono troppo recenti: non lasciano alla nostra razza il tempo di sviluppare le facoltà di cui abbiamo dimostrato l'esistenza. O l'antropologia sbaglia completamente, oppure Joan non può fare tutto quello che l'abbiamo vista fare» (7). L'oggetto della controversia non disse nulla. Stava al volante, mentre la grossa macchina correva; teneva gli occhi chiusi sotto i raggi obliqui del sole, e vedeva la strada con un'impossibile vista interiore. Vennero impiegati cinque giorni per addestrare Huxley, e un sesto giorno fu dedicato al viaggio. Sacramento era alle loro spalle, ormai molto lontana. Da un'ora, il Monte Shasta si scorgeva ormai, di tanto in tanto, attraverso i varchi tra gli alberi. Phil fermò la macchina in una piazzola panoramica ricavata da un ampliamento dell'autostrada 99, e si rivolse ai suoi compagni. «Si scende,» disse. «Date un'occhiata al panorama.» I tre si fermarono ad ammirare, al di là del canyon del fiume Sacramento, il Monte Shasta che sorgeva a quasi cinquanta chilometri di distanza. Faceva piuttosto fresco, e l'aria era limpida come lo sguardo di un bambino. La vetta appariva incorniciata da due grandi abeti che segnavano l'estremità del canyon. Sui pendii c'era ancora la neve, che si estendeva fino al punto in cui incominciava la vegetazione di conifere. Joan mormorò qualcosa. Ben girò la testa. «Che hai detto, Joan?» «Io? Niente. Stavo solo mormorando un brano di una poesia.» «Quale?» «Most Sacred Mountain; la Montagna Sacra, di Tietjens.
«Qui sono lo spazio e dodici vènti puliti; E con loro dimora l'eternità... una rapida pace bianca, una presenza manifesta. Qui ogni ritmo cessa. Il tempo non vi ha posto. Questa è una fine che non ha fine.» Phil si schiarì la gola e ruppe il silenzio, un po' intimidito. «Credo di capire quel che intendi dire.» Joan si girò verso i due uomini. «Ragazzi,» annunciò, «ho intenzione di scalare il Monte. Shasta.» Ben la scrutò, spassionatamente. «Joan,» dichiarò, «tu sei matta.» «Sul serio. Non ho detto che lo avresti scalato tu... Ho detto che lo scalerò io.» «Ma noi siamo responsabili della tua sicurezza... e in quanto a me, non mi va affatto l'idea di arrampicarmi fino a quattromiladuecento metri.» «Voi non siete affatto responsabili della mia sicurezza: sono una libera cittadina, io. Comunque, una scalata non vi farebbe male. Anzi, vi aiuterebbe a smaltire un po' del grasso che avete accumulato durante l'inverno.» «E perché mai,» domandò Phil, «ti sei decisa così all'improvviso a fare questa scalata?» «Non è una decisione improvvisa, Phil. Da quando abbiamo lasciato Los Angeles, ho sognato spesso che mi arrampicavo, mi arrampicavo, verso un luogo altissimo... ed ero molto felice. E oggi so che stavo scalando il Monte Shasta.» «E come lo sai?» «Lo so.» «Ben, cosa ne pensi?» Il dottore raccolse un ciottolo di granito e lo lanciò nella direzione in cui scorreva il fiume, attese che andasse a fermarsi parecchie decine di metri più sotto, sul pendio. «Penso,» disse allora, «che faremo bene a comprarci degli scarponi chiodati.» Phil si fermò, e i due che lo seguivano sullo stretto sentiero furono costretti a fermarsi a loro volta. «Joan,» chiese, in tono preoccupato, «siamo venuti da questa parte?»
Si tennero vicini, mentre il vento gelido aggrediva i loro volti con mille rasoiate e sprazzi di neve vorticavano attorno a loro, finivano nei loro occhi. Joan meditò prima di rispondere. «Credo di sì,» azzardò, finalmente, «ma anche se tengo gli occhi chiusi, la neve fa apparire tutto diverso.» «Anche per me è lo stesso. Penso che abbiamo sbagliato, quando abbiamo deciso di fare a meno di una guida... Ma chi avrebbe pensato che una splendida giornata d'estate finisse con una tempesta di neve?» Ben pestò i piedi e batté le mani. «Muoviamoci,» esortò. «Anche se è la strada giusta, dobbiamo ancora percorrere la parte peggiore, prima di arrivare al rifugio. Non dimenticate il tratto di ghiaccio che abbiamo attraversato.» «Vorrei poterlo dimenticare,» gli rispose calmo Phil. «Non mi va affatto l'idea di doverlo attraversare di nuovo con questo tempo spaventoso.» «Non va neanche a me... ma se rimaniamo qui, moriremo congelati.» Guidati da Ben, ripresero a procedere cautamente, tenendo le teste voltate per evitare il vento, gli occhi semichiusi. Dopo circa duecento metri, Ben tornò a fermarli. «Attenti, ragazzi,» lì avvertì, «qui il sentiero è quasi sparito, e si sdrucciola.» Avanzò di qualche passo. «È abbastanza...» Lo sentirono compiere uno sforzo violento per recuperare l'equilibrio, poi cadere pesantemente. «Ben! Ben!» gridò Phil. «Ti sei fatto male?» «Credo di no,» ansimò quello. «Ma ho battuto malamente la gamba destra. Siate prudenti.» Videro che giaceva al suolo, e parte del suo corpo penzolava oltre l'orlo del sentiero. Si avvicinarono, cautamente, fino a quando lo raggiunsero. «Dammi una mano, Phil. Adesso... piano.» Phil lo aiutò a risalire penosamente sul sentiero. «Sei in grado di reggerti in piedi?» «Temo di no. La gamba sinistra mi ha fatto un male del diavolo, quando ho dovuto muoverla, un attimo fa. Dalle un'occhiata, Phil. No, non stare a togliere lo stivale: guarda attraverso.» «Certo: l'avevo dimenticato.» Phil studiò l'arto per un momento. «È conciata male, amico... una frattura del perone, una decina di centimetri sotto al ginocchio.» Coburn fischiettò alcune battute di Suwannee River, poi riprese a parlare. «Non è un po' troppo poco? È una frattura semplice o multipla, Phil?»
«Mi sembra una frattura semplice, Ben.» «Non che abbia molta importanza, in questo momento. E adesso, che cosa facciamo?» Fu Joan a rispondergli. «Dobbiamo preparare una barella e portarti giù per la montagna.» «Parli proprio come una giovane esploratrice, ragazza mia. E hai pensato in che modo tu e Phil potete reggere una barella, con me sopra, su quel tratto di ghiaccio?» «Dovremo riuscirci, in un modo o nell'altro.» Ma la voce di lei era priva di sicurezza. «Non va, piccola. Voi due dovrete sistemarmi qui in qualche modo, poi scendere la montagna e andare a cercare una squadra di soccorso con l'equipaggiamento adatto. Durante la vostra assenza io dormirò. E vi sarò grato se vorrete lasciarmi qualche sigaretta.» «No!» protestò Joan. «Non ti lasceremo qui solo!» Phil aggiunse le sue obiezioni. «La tua idea è anche peggiore di quella di Joan, Ben. Va benissimo parlare di dormire fino al nostro ritorno, ma tu sai benissimo, come lo so io, che moriresti assiderato se passassi una notte qui, per terra, senza protezioni.» «È un rischio che dovrò correre. Tu hai un'idea migliore?» «Aspetta un momento. Lasciami pensare.» Sedette sulla roccia, accanto all'amico, e si pizzicò l'orecchio sinistro. «L'idea migliore che mi venga in mente è questa: dovremo portarti in un punto un po' più riparato, e accenderemo un fuoco per tenerti al caldo. Joan può restare con te, e alimentare il fuoco mentre io scendo a cercare aiuto.» «Va benissimo,» intervenne Joan. «Però a cercare aiuto andrò io. Tu non riusciresti a trovare la strada in mezzo al buio e alla neve, Phil. Sai benissimo che la tua percezione diretta, almeno per ora, non è perfetta... Ti perderesti.» I due uomini protestarono. «Joan, non puoi andare da sola...» «Non possiamo permetterlo, Joan.» «Siete molto cavallereschi, ma è una stupidaggine. Vado io.» «No.» Lo dissero contemporaneamente. «E allora questa notte resteremo tutti qui, rannicchiati attorno a un fuoco. Scenderò a valle domattina.» «Così potrebbe andare,» ammise Ben. «Però...»
«Buonasera, amici.» Sul costone, accanto a loro, stava un uomo alto, piuttosto anziano. I fermi occhi azzurri li fissavano sotto le ispide sopracciglia candide. Aveva il volto rasato, ma una criniera di capelli bianchi che si intonavano con le sopracciglia. A Joan sembrò che assomigliasse a Mark Twain. Coburn fu il primo a riprendersi. «Buonasera,» rispose. «Se questa è una buona sera... del che dubito molto.» Lo sconosciuto sorrise con gli occhi. «Mi chiamo Ambrose, signore. Ma il suo amico ha bisogno di aiuto. Se permette, signore...» Si inginocchiò ed esaminò la gamba di Ben, senza togliere lo stivale. Poi rialzò il capo. «Sarà piuttosto doloroso. Figlio mio, le consiglio di addormentarsi.» Ben gli sorrise, chiuse gli occhi: il suo respiro lento e regolare dimostrava che si era assopito. L'uomo che aveva detto di chiamarsi Ambrose sgusciò via, tra le ombre. Joan cercò di seguirlo per mezzo della percezione diretta, ma si accorse che, stranamente, era molto difficile riuscirvi. Pochi minuti dopo, l'uomo ritornò con parecchi stecchi diritti, e li spezzò secondo lunghezze uniformi di una cinquantina di centimetri. Poi cominciò a legare strettamente la caviglia sinistra di Ben con un rotolo di tessuto che aveva estratto dalla tasca dei calzoni. Quando si fu assicurato che quell'ingessatura primitiva era ben salda, sollevò tra le braccia Coburn come se fosse un bambino, sebbene il dottore avesse una mole considerevole. «Andiamo,» disse. Lo seguirono senza dire una parola, percorrendo la strada dalla quale erano venuti, in fila indiana tra i fiocchi di neve che scendevano in fretta. Cinquecento metri. Seicento metri. Poi fecero una svolta che non c'era nel sentiero percorso da Joan e dai due uomini, e Ambrose si inoltrò fiducioso, a grandi passi, nell'oscurità. Joan notò in quel momento che indossava una camicia leggera, di cotone, senza giacca e senza maglione, e si chiese come mai era riuscito ad arrivare tanto lontano con quel tempaccio, senza una protezione adeguata. L'uomo girò il capo per risponderle. «Il freddo mi piace, signora.» L'uomo passò tra due enormi macigni, e parve scomparire nel fianco della montagna. Lo seguirono e si trovarono in una galleria che si addentrava diagonalmente nella roccia viva. Svoltarono, e furono in un soggiorno ottagonale, dal soffitto molto alto, rivestito da pannelli di legno chiaro, color
miele. Il locale era dolcemente illuminato da luci indirette, ma non aveva finestre. Un lato dell'ottagono era occupato da un caminetto dove ardeva generosamente un fuoco di legna. Il pavimento di pietre non aveva coperture di sorta, ma era tiepido, sotto ai piedi. Il vecchio si soffermò, reggendo il suo fardello, e indicò con un cenno del capo il comodo arredamento della stanza: tre divani, pesanti poltrone all'antica, una chaise-longue. «Accomodatevi, amici. Fate come se foste a casa vostra. Devo portare il vostro compagno a farsi curare, poi troveremo qualcosa da offrirvi.» Uscì da una porta di fronte a quella da cui erano entrati, sempre reggendo Coburn tra le braccia. Phil guardò Joan, e Joan guardò Phil. «Beh,» fece lui «Che cosa te ne pare?» «Mi pare che abbiamo trovato una seconda casa. E questa va benissimo.» «E adesso che cosa facciamo?» «Io porterò quella chaise-longue vicino al fuoco, mi toglierò gli stivali, mi scalderò i piedi e mi asciugherò i vestiti.» Quando Ambrose tornò, dieci minuti dopo, li trovò che stavano beatamente riscaldandosi i piedi stanchi al fuoco del camino. Ambrose portava un vassoio e servì loro grandi scodelle fumanti di soupe à l'oignon, panini, torta di mele e tè nero molto forte. Mentre li serviva, annunciò: «Il vostro amico sta riposando. Non c'è bisogno di vederlo prima di domani. Quando avrete mangiato, troverete le camere da letto nella galleria. C'è tutto quello che vi può servire.» Indicò la porta dalla quale era entrato. «Non c'è pericolo di sbagliare: sono le stanze illuminate che troverete appena usciti di qui. Vi auguro la buonanotte.» Riprese il vassoio e si volse per andarsene. «Oh, dico,» incominciò Phil, un po' esitante. «È veramente molto gentile da parte sua, signor...» «Prego, signore. Mi chiamo Bierce. Ambrose Bierce. Buonanotte.» E se ne andò. V IN UN CALICE, OSCURAMENTE Il mattino seguente, quando Phil entrò nel soggiorno, trovò una piccola tavola apparecchiata, con un'abbondante colazione per tre. Mentre alzava i
copripiatti e si chiedeva se l'educazione gli imponeva di aspettare che arrivassero gli altri prima di incominciare a mangiare, Joan entrò. Phil alzò gli occhi. «Oh, sei tu! Buongiorno, e tutto il resto. Hanno preparato a puntino. Guarda.» E sollevò un copripiatto. «Dormito bene?» «Come un ghiro.» Joan partecipò all'indagine sui piatti. «Se ne intendono di cucina, non ti pare? Quando incominciamo?» «Quando arriva il terzo commensale, credo. Ehi, ma ieri sera non avevi addosso quel vestito.» «Ti piace?» Joan si girò lentamente, con le mosse ondulanti di una indossatrice. Portava un abito grigio-perla che le arrivava fino ai piedi e che aveva la vita molto alta: due cordoncini argentei si incrociavano tra i seni e le cingevano la vita. I sandali che calzava erano anch'essi argentei. Nel complesso, quell'abbigliamento aveva un'aria d'antico. «È splendido. Come mai una donna sta sempre meglio con un abito semplice addosso?» «Semplice? Uhmf! Se riesci a comprare un vestito come questo per trecento dollari a Wilshire Boulevard, ti prego di farmi avere l'indirizzo del negozio.» «Salve, gente!» Ben era ritto sulla soglia. I due lo guardarono con occhi sbarrati. «Che succede?» Phil scrutò intento Ben. «Come va la tua gamba, Ben?» «Volevo chiederlo a te. Per quanto tempo sono rimasto privo di conoscenza? La gamba sta benissimo. Forse non era rotta?» «Cosa ne dici, Phil?» lo assecondò Joan. «Sei stato tu a visitarla... non io.» Phil si tirò l'orecchio. «Era rotta... o io sono completamente impazzito. Fammi dare un'occhiata.» Ben indossava pigiama e accappatoio. Sollevò la gamba del pigiama, e mostrò la caviglia: era rosea, perfettamente sana. Vi batté sopra il pugno. «Vedi? Neppure un livido.» «Uhmmm... Non sei rimasto privo di conoscenza per molto tempo, Ben. È successo ieri sera... Forse dieci, undici ore.» «Eh?» «Proprio così.» «Impossibile.»
«Può darsi. Facciamo colazione.» Mangiarono, in silenzio e pensierosi: avevano tutti bisogno di valutare la situazione e di orientarsi. Verso la conclusione del pasto, alzarono lo sguardo contemporaneamente. Poi Phil ruppe il silenzio. «Beh... cosa ne dite?» «Io ho trovato la spiegazione,» rispose Joan. «Siamo tutti morti nella tempesta di neve e siamo andati in paradiso. Passatemi la marmellata d'arance, se non vi dispiace.» «Non è possibile,» disse Phil, mentre le passava la marmellata. «Altrimenti Ben non sarebbe qui: ha condotto un'esistenza peccaminosa. Ma parliamo seriamente: sono successe cose che esigono una spiegazione. Proviamo a elencarle. Uno: Ben ieri sera si è rotto una gamba, e questa mattina è perfettamente guarito.» «Un momento... siamo sicuri che si è rotto la gamba?» «Ne sono sicuro. E poi, il nostro ospite si è comportato come se anche lui lo pensasse.. altrimenti, perché avrebbe fatto la fatica di trasportarlo? Due: il nostro ospite è dotato di percezione diretta, o almeno ha una conoscenza straordinaria della montagna.» «A proposito di percezione diretta,» disse Joan. «Voi due avete provato a guardarvi attorno e a valutare questo posto?» «No, perché?» «Neanch'io...» «Non disturbatevi a farlo,» replicò Joan. «Io ho provato, ed è impossibile. Non riesco a percepire niente al di là delle pareti di questa stanza.» «Uhm... Lo considereremo come punto tre. Quattro: il nostro ospite afferma di chiamarsi Ambrose Bierce. Vuol dire che è il famoso Ambrose Bierce? Sai chi era Ambrose Bierce, Joan? (8)» «Certo che lo so. Ho studiato, io. Scomparve prima ancora che io nascessi.» «Esattamente... all'epoca in cui scoppiò la prima guerra mondiale. Se è lo stesso individuo, dovrebbe avere più di cento anni.» «Ma dimostra quarant'anni di meno.» «Beh, teniamolo presente, per quello che può valere. Cinque: e sarà un punto molto generico. Perché il nostro ospite vive qui? Perché questo strano miscuglio di albergo di lusso e di grotta da cavernicoli? Come può, quel vecchio, mandare avanti un posto simile? Qualcuno di voi ha visto altra gente, in giro?» «Io no,» disse Ben. «Qualcuno mi ha svegliato, ma credo che fosse
Ambrose.» «Io ho visto qualcuno,» disse Joan. «È stata una donna a svegliarmi. Mi ha offerto questo vestito.» «Forse era la signora Bierce?» «Non credo... Non aveva più di trentacinque anni. Ma non ho avuto il tempo di fare conoscenza con lei... se ne è andata prima che mi svegliassi del tutto.» Phil passò lo sguardo da Joan a Ben. «Bene, e questo dove ci porta? Somma tutti i dati in nostro possesso e trova una spiegazione.» «Buongiorno, miei giovani amici!» Era Bierce, ritto sulla soglia. La sua voce profonda, virile, risuonò nella stanza poligonale. I tre sussultarono, come se fossero stati sorpresi a fare qualcosa di scorretto. Coburn fu il primo a riprendersi. Si alzò e s'inchinò. «Buongiorno, signore. Credo che lei mi abbia salvato la vita. Spero di poterle dimostrare la mia gratitudine.» Bierce s'inchinò a sua volta. «Sono stato felice di rendermi utile, signore. Spero che abbiate tutti riposato bene.» «Sì, grazie. E la colazione è stata deliziosa.» «Molto bene. Ora, se posso unirmi a voi, parleremo di ciò che intendete fare. Desiderate andarvene, o possiamo sperare di godere ancora un po' della vostra compagnia?» «Credo,» disse Joan, alquanto nervosa, «che dovremo andarcene al più presto possibile. Com'è il tempo?» «Il tempo è bello, ma voi potete rimanere qui finché vorrete. Forse vi farà piacere vedere il resto della nostra casa e conoscere gli altri componenti della famiglia.» «Oh, sarebbe meraviglioso!» «Per me è una gioia, signora.» «In verità, signor Bierce...» Phil si tese un poco in avanti, serio nel volto e nel tono di voce, «siamo molto ansiosi di vedere questo posto e di saperne di più sul vostro conto. È di questo che stavamo parlando quando lei è entrato.» «La curiosità è una cosa sana, naturale. La prego, faccia pure tutte le domande che ritiene opportune.» «Ecco...» Phil si lanciò. «Ieri sera, Ben aveva una gamba rotta. O non era rotta? Questa mattina sta benissimo.»
«Aveva veramente una gamba rotta. È guarito durante la notte.» Coburn si schiarì la gola. «Signor Bierce, mi chiamo Coburn. Sono medico chirurgo, ma non mi risulta che guarigioni del genere siano possibili. Le spiacerebbe dirmi qualcosa di più in proposito?» «Certamente. Lei conoscerà senza dubbio la rigenerazione dei tessuti, che è caratteristica degli esseri inferiori. Il principio che è stato usato è lo stesso, ma è controllato consciamente dalla volontà, e il ritmo della guarigione è accelerato. Ieri sera l'ho posto in stato d'ipnosi, poi l'ho affidato ad uno dei nostri chirurghi, che ha orientato la sua mente, affinché esercitasse i propri poteri per guarire il corpo.» Coburn assunse un'espressione stupefatta. Bierce proseguì. «In sostanza, non vi è nulla di sbalorditivo. La mente e la volontà hanno sempre la possibilità di un dominio completo sul corpo. La nostra tecnica è semplice: l'operatore si limita ad insegnare alla sua volontà come guarire il corpo. Può impararlo anche lei, se lo desidera. Le assicuro che è più facile che spiegarla nel nostro linguaggio, così rozzo e imperfetto. Io parlo della mente e della volontà come se fossero entità separate. Il linguaggio mi ha obbligato a commettere questa imprecisione ridicola. La mente e la volontà non esistono come entità: c'è soltanto...» S'interruppe. Ben avvertì un urto, nella mente, come il contraccolpo di un fucile: ma era indolore e delicato. Qualunque cosa fosse, era viva come un usignolo, o come un gattino che si dibatteva, eppure era tranquilla e serena. Ben vide che Joan annuiva, con lo sguardo fisso su Bierce. Bierce continuò con quella sua voce gentile e risanante. «C'è qualche altro problema che vi assilla?» «Sì, signor Bierce,» rispose Joan. «Parecchie cose. Che cos'è questo posto?» «È casa mia, ed è la casa di parecchi amici miei. Comprenderà meglio quando imparerà a conoscerci.» «Là ringrazio. Per me è difficile capire come mai una comunità del genere possa esistere sulla vetta di questa montagna, senza che nessuno ne sappia nulla.» «Abbiamo preso certe precauzioni, signora, per evitare la notorietà. Capirà presto le ragioni per cui lo abbiamo fatto.» «Un'altra domanda, piuttosto personale: può ignorarla, se preferisce. Lei è l'Ambrose Bierce che scomparve parecchi anni or sono?» «Sì. Venni qui per la prima volta nel 1880, per cercare di guarire dall'a-
sma. Mi ritirai quassù nel 1914 perché valevo evitare ogni contatto con i tragici eventi mondiali che stavano per accadere e che non ero in grado di evitare.» Parlava con una certa riluttanza, come se l'argomento gli fosse sgradito, e subito lo cambiò. «Vi piacerebbe conoscere qualcuno dei miei amici, adesso?» Gli appartamenti si estendevano per un centinaio di metri lungo il fianco della montagna, e si addentravano per una distanza incalcolabile nelle viscere della terra. Le trenta e più persane che vi abitavano avevano molto spazio a disposizione: parecchie stanze non erano occupate. Durante la mattinata, Bierce presentò gli ospiti a quasi tutti gli abitanti di quel luogo. A quanto pareva, erano individui di ogni genere, di ogni età, e di parecchie nazionalità diverse. Quasi tutti erano indaffarati, di solito in qualche ricerca, oppure intenti a realizzare qualche opera d'arte. O almeno, in molti casi Bierce informò gli ospiti che erano in corso delle ricerche: anche se non vi erano apparecchi di sorta a dimostrare che ne stavano effettuando una. Vennero presentati ad un gruppo di tre persone, due donne e un uomo, circondati dalle prove fisiche del loro lavoro... ricerca biologica. Ma la situazione era bizzarra: due dei tre stavano seduti tranquilli, senza far nulla, mentre il terzo lavorava ad un banco. Bierce spiegò che stavano effettuando alcuni delicati esperimenti sulla possibilità di attivare colloidi artificiali. «E gli altri due osservano il lavoro?» s'informò Ben. Bierce scosse il capo. «Oh, no. Tutti e tre sono impegnati attivamente; ma in questa fase particolare considerano più conveniente che tre cervelli siano in rapporto diretto con un unico paio di mani.» Il rapporto diretto, a quanto risultò, era il metodo abituale di collaborazione. Bierce li aveva condotti in una stanza in cui si trovavano sei persone. Un paio alzarono la testa e fecero un cenno di saluto, ma senza parlare. Bierce invitò i tre ospiti, con un cenno, ad uscire. «Erano impegnati in una ricostruzione particolarmente difficile: non sarebbe corretto disturbarli.» «Ma, signor Bierce,» commentò Phil. «Due di loro stavano giocando a scacchi.» «Sì. Non avevano bisogno di quella parte del loro cervello, perciò l'hanno lasciata fuori dal rapporto. Tuttavia erano molto indaffarati.» Era più facile capire ciò che facevano gli artisti. Ma in due casi i loro
metodi apparivano sorprendenti. Bierce aveva condotto gli ospiti nello studio di un ometto che sembrava uno gnomo, un pittore che venne presentato semplicemente come Charles. Sembrò lieto di vederli e chiacchierò in tono vivace, senza interrompere il suo lavoro. Stava eseguendo, con realismo meticoloso ma con effetti estremamente romantici, lo studio di una ragazza che danzava, una ninfa dei boschi sullo sfondo d'una foresta di pini. I tre giovani fecero adeguati commenti elogiativi. Coburn osservò che era veramente straordinario vedere come riuscisse ad eseguire i particolari anatomici così minuziosamente, senza l'aiuto di una modella. «Ma ho la modella,» rispose Charles. «Era qui la settimana scorsa. Vedete?» E lanciò uno sguardo verso la pedana vuota. Coburn e i suoi compagni seguirono quello sguardo, e videro sulla pedana una giovane donna, la modella del quadro, immobile nell'atteggiamento in cui veniva ritratta. Era reale e concreta. Charles distolse lo sguardo. La pedana era di nuovo vuota. Il secondo caso fu meno sensazionale, ma ancora meno comprensibile. Avevano conosciuto una certa signora Draper e s'erano fermati a chiacchierare con lei. Era una matrona tranquilla, che lavorava a maglia e si dondolava mentre discorreva. Quando l'ebbero lasciata, Phil s'informò sul suo conto. «Probabilmente è la più dotata dei nostri artisti,» gli rispose Bierce. «In che campo?» Le sopracciglia irsute di Bierce si contrassero, mentre egli sceglieva le parole. «Non credo di potervelo spiegare in modo adeguato, per ora. Compone umori... dispone schemi emotivi in sequenze armoniche. È la nostra forma d'arte più avanzata e più completamente umana; eppure, fino a quando non l'avrete sperimentata, per me sarà molto difficile parlarvene.» «E come è possibile armonizzare le emozioni?» «I vostri bisnonni, senza dubbio, ritenevano impossibile registrare la musica. Abbiamo una tecnica che permette di farlo. In seguito lo capirete.» «E la signora Draper è l'unica a farlo?» «Oh, no. Ci proviamo quasi tutti. È la nostra forma d'arte preferita. Ci lavoro anch'io, ma i miei tentativi non hanno molto successo... sono troppo tetri.» Quella notte, i tre discussero a lungo nel soggiorno. L'appartamento era stato riservato a loro, e Bierce li aveva lasciati informandoli semplicemente che avrebbe fatto loro visita la mattina dopo.
I tre provavano la necessità incalzante di scambiarsi i loro punti di vista: eppure ognuno di loro era riluttante ad esprimere la propria opinione. Fu Phil che ruppe il silenzio. «Che razza di gente è questa? Mi fanno sentire come un bambino capitato per caso dove ci sono al lavoro degli adulti troppo gentili per mettermi alla porta.» «A proposito di lavoro... c'è qualcosa di strano nel loro modo di operare. Non intendo quello che fanno... anche quello è strano, sicuro; ma c'è qualcosa d'altro, qualcosa nel loro atteggiamento, o nel ritmo con cui lavorano.» «Capisco quel che vuoi dire, Ben,» convenne Joan. «Sono sempre indaffarati, eppure agiscono come se avessero a disposizione l'eternità. Anche Bierce faceva così quando ti sistemava le stecche intorno alla gamba. Non si affrettano mai.» E si rivolse a Phil. «Perché hai aggrottato la fronte?» «Non so. C'è anche qualcosa d'altro di cui non abbiamo ancora parlato. Hanno una quantità di doti particolari, sicuro, ma noi tre ne sappiamo abbastanza, a proposito delle facoltà particolari... e questo non dovrebbe confonderci. Ma in loro c'è qualcosa di diverso.» Gli altri due si dichiararono d'accordo con lui, ma non furono in grado di aiutarlo. Un po' più tardi, Joan annunciò che andava a letto e lasciò il soggiorno. I due uomini rimasero a fumare un'ultima sigaretta. Joan tornò ad affacciarsi nella sala. «Io so che cos'ha di diverso questa gente,» annunciò. «Sono così vivi!» VI RIMPIANTO PER LA GLORIA SVANITA Philip Huxley andò a letto e dormì come al solito. Ma a partire da quel momento, non vi fu più nulla che non fosse insolito. Si accorse che dimorava nel corpo di un altro, e pensava con la mente di un altro. L'Altro era conscio della realtà di Huxley, ma non aveva pensieri in comune con lui. L'Altro era a casa sua: in una casa e in una patria che Huxley non conosceva, e che pure era familiare. Era sulla Terra, ed era incredibilmente bella. Ogni albero, ogni arbusto si armonizzava nel paesaggio come se vi fosse stato collocato dal progetto armonioso di un artista. Persino la casa sembrava crescere dal suolo. L'Altro lasciò la casa insieme alla moglie e si preparò a partire per la ca-
pitale del pianeta. Huxley pensò che la destinazione era la «capitale», eppure sapeva che l'idea di un governo imposto con la forza era estranea alla natura di quella gente. La «capitale» era soltanto l'abituale luogo di raduno del gruppo il cui consiglio veniva seguito nei problemi che riguardavano la razza intera. L'Altro e sua moglie, accompagnati dalla coscienza di Huxley, uscirono in giardino e si sollevarono verticalmente nell'aria, sorvolarono la campagna circostante, tenendosi per mano. Il paesaggio era verde, fertile, simile a un parco, qua e là costellato di edifici: ma Huxley non vide mai la massa affollata di una città. Sorvolarono rapidamente una grande distesa d'acqua, forse ampia quanto l'attuale Mediterraneo, e atterrarono in una radura, in mezzo ad un uliveto. I Giovani - era così che Huxley pensava a loro - chiedevano un cambiamento rivoluzionario nelle consuetudini: innanzi tutto volevano che d'ora innanzi l'antica conoscenza diventasse la ricompensa del merito invece di essere un comune diritto di nascita; e inoltre chiedevano che i più potenti governassero coloro che contavano meno. Era Loki (9) a sostenere quelle ragioni, tenendo levato il viso prepotente, coronato da capelli di un rosso vivo. Parlava a voce, un metodo che irritava l'ospite di Huxley, perché il rapporto telepatico era il metodo naturale per una discussione di quel livello. Ma Loki aveva chiuso la propria mente al linguaggio telepatico. Fu Giove a rispondergli, a nome di tutti: «Figlio mio, le tue parole risuonano vane e prive di un significato serio. Non possiamo comprendere ciò che intendi dire veramente, perché tu ed i tuoi fratelli avete deciso di chiuderci le vostre menti. Voi chiedete che l'antica conoscenza diventi il premio del merito. Ma non è sempre stato così? Forse che i nostri cugini, le scimmie antropomorfe, volano attraverso l'aria? L'anima infantile non è forse vincolata dalla fame, dal sonno e dai mali della carne? Il rigogolo può spianare forse le montagne con lo sguardo? I poteri della nostra specie, che ci fanno diversi dagli spiriti più giovani di questo pianeta, vengono esercitati da coloro che ne possiedono la capacità e da nessun altro. Come possiamo fare in modo che sia ciò che già è? «Tu chiedi che il più grande governi il più piccolo. Ma non è già così? Non è sempre stato così? Tu ricevi forse ordini dai poppanti? È forse l'ondeggiare dell'erba a causare il vento? Quale dominio desideri, al di fuori di quello su te stesso? Vuoi forse essere tu a dire a tuo fratello quando deve dormire e quando deve mangiare? E se è questo che vuoi, a che scopo?»
Vulcano si intromise mentre il vecchio stava ancora parlando. Huxley sentì un fremito di scandalizzata ripugnanza scuotere l'assemblea, di fronte a quell'ostentato disprezzo nei confronti delle buone maniere. «Smettiamola di baloccarci con le parole. Noi sappiamo bene ciò che vogliamo: e lo sapete anche voi. Siamo decisi a ottenerlo, anche a dispetto del Consiglio. Siamo stanchi di questa esistenza da pecore. Siamo stanchi di questa stupida eguaglianza. Vogliamo porvi fine per sempre. Noi siamo forti e capaci, siamo i capi naturali dell'umanità. Gli altri ci seguiranno e ci serviranno, come è nell'ordine naturale delle cose.» Gli occhi di Giove si posarono pensierosi sulla gamba storta di Vulcano. «Dovresti permettermi di guarirti quell'arto leso, figlio mio.» «Nessuno può guarire quest'arto!» «No. Nessuno, tranne tu stesso. E fino a quando non avrai guarito l'alterazione che è nella tua mente, non potrai guarire neppure la lesione del tuo arto.» «Non vi sono alterazioni nella mia mente!» «E allora guarisci il tuo arto.» Il giovane si agitò, impacciato. Era chiaro che Vulcano stava facendo la figura dello sciocco. Mercurio si staccò dal gruppo e si fece avanti. «Ascoltami, Padre. Non abbiamo intenzione di farti guerra. È nostro desiderio, invece, ingigantire la tua gloria. Proclamati re sotto il sole. Proclamaci tuoi legati, per estendere il tuo dominio su tutte le creature che camminano, che strisciano e che nuotano. Permettici di creare per te il trionfo del dominio, la gloria della conquista. Permettici di conservare l'antica conoscenza per coloro che la comprendono, e di riservare agli esseri inferiori il dramma di cui hanno bisogno. Non vi è ragione che ogni via sia aperta a tutti. Se i molti serviranno i pochi eletti, allora i nostri sforzi coordinati renderanno più rapido il nostro cammino, a vantaggio tanto del padrone quanto del servitore. Guidaci, Padre! Sii il nostro Re!» Il vecchio scosse il capo, lentamente. «No. Non vi è conoscenza al di fuori della conoscenza di se stessi, e deve essere accessibile ad ogni uomo che sia capace di apprenderla. Non vi è potere al di fuori del potere di dominare se stessi, e non può essere né concesso né tolto. In quanto alla poesia dell'impero... tutto questo è già stato fatto. Non c'è bisogno alcuno di farlo di nuovo. Se questo ti piace, goditelo attraverso le documentazioni... non è necessario insanguinare di nuovo il pianeta.» «È questa l'ultima parola del Consiglio, Padre?»
«Questa è la nostra ultima parola.» Si alzò e si drappeggiò nella veste, per indicare che la seduta era conclusa. Mercurio alzò le spalle e raggiunse i suoi compagni. Vi fu ancora una seduta del Consiglio, l'ultima, per decidere come reagire all'ultimatum dei Giovani. Non tutti i membri del Consiglio la pensavano allo stesso modo: le loro opinioni erano diverse come quelle dei diversi gruppi di esseri umani. E infatti erano esseri umani, non superuomini. Alcuni affermavano che ci si doveva opporre ai Giovani con tutte le forze a disposizione... trasferirli in un'altra dimensione, ripulire le loro menti, o addirittura schiacciarli con la forza. Ma ricorrere alla forza contro i Giovani era contrario a tutti i loro principi filosofici. «Il libero arbitrio è il bene supremo del Cosmo. Dovremmo degradare e distruggere tutto ciò per cui abbiamo lavorato, sovvertendo la volontà anche di un solo uomo?» Huxley comprese che quegli Anziani non avevano necessità di rimanere sulla Terra. Erano ansiosi di trasferirsi in un altro luogo, di cui riusciva a capire soltanto che non apparteneva allo spazio e al tempo da lui conosciuti. Il problema era questo: avevano fatto ciò che potevano per aiutare l'equilibrio della razza, non ancora completamente sviluppato? La loro abdicazione sarebbe stata giustificata? Decisero per il sì: ma una donna che faceva parte del Consiglio e il cui nome, così parve a Huxley, era Demetra, sostenne che si dovevano lasciare le documentazioni, per aiutare coloro che sarebbero sopravvissuti al disastro inevitabile. «È vero che ogni membro della nostra razza deve rendersi forte e saggio. Noi non possiamo renderli saggi. Tuttavia, dopo che la carestia e la guerra e l'odio avranno devastato la Terra, perché non dovrà rimanere un messaggio per rivelare la loro eredità?» Il concilio si dichiarò d'accordo; e l'ospite di Huxley, che era segretario del consiglio, fu incaricato di preparare la documentazione e di lasciarla a disposizione di coloro che sarebbero venuti in futuro. Giove aggiunse un'ingiunzione: «Frenate le forze, affinché non si dissipino mentre questo pianeta continua a vivere. Collocatele dove potranno resistere a tutti gli sconvolgimenti locali della crosta terrestre, in modo che almeno alcune possano varcare il tempo.»
Così finì quel sogno. Ma Huxley non si svegliò. Incominciò subito a fare un altro sogno, non attraverso gli occhi di un altro, ma piuttosto come se assistesse a un film stereoscopico: e ogni scena gli appariva familiare. Il primo sogno, nonostante il suo contenuto tragico, non lo aveva sconvolto. Ma per tutta la durata del secondo sogno, si sentì oppresso da un senso d'angoscia e di stanchezza sconvolgente. Dopo l'abdicazione degli Anziani, i Giovani avevano realizzato il loro scopo, avevano stabilito il loro dominio. Con il ferro e la spada, con i raggi ustionanti e le forze esoteriche, con l'astuzia e l'inganno. Convinti che il loro destino fosse dominare, si convinsero anche che il fine giustificava i mezzi. Il fine era l'impero: Mu, il più potente degli imperi, e la madre di tutti gli imperi. Huxley vide Mu nel suo splendore ed ebbe quasi la sensazione che i Giovani avessero avuto ragione, perché era veramente grandiosa. Quella magnificenza abbagliante gli riempì gli occhi di lacrime: soffrì per quella gloria meravigliosa e avvincente che era di Mu, e che oggi non è più. Navi silenziose e colossali nei suoi cieli, vascelli possenti nei suoi porti, carichi di grano e di pelli e di spezie, processioni di sacerdoti e di accoliti e di umili credenti, pompa e splendore del potere... Huxley vide le strutture complesse della sua bellezza e pianse la sua fine. Ma nel potere crescente di Mu vi era già il germe della decadenza. Inevitabilmente Atlantide, la sua colonia più ricca, raggiunse la maturità politica e divenne insofferente della propria posizione subordinata. Scismi e apostasia, disaffezione e tradimento causarono rappresaglie durissime... e nuove ribellioni. Le ribellioni si scatenarono e vennero represse. E alla fine se ne scatenò una che non fu domata. In meno di un mese due terzi della popolazione del globo morì: i sopravvissuti vennero straziati dalle epidemie e dalla fame, e il loro plasma germinale rimase danneggiato dalle forze che essi stessi avevano scatenato. Ma i sacerdoti possedevano ancora l'antica conoscenza. Non erano sacerdoti dalla mente serena, fieri della loro conoscenza: ma sacerdoti perseguitati e spaventati, che avevano visto vacillare la loro gerarchia. Da entrambe le parti vi erano sacerdoti così... e scatenarono forze in confronto alle quali i combattimenti precedenti erano stati cosa da poco. Quelle forze sconvolsero l'equilibrio isostatico della crosta terrestre. Mu tremò e sprofondò per circa seicento metri. Onde gigantesche si
scontrarono là dove era stato il centro del suo territorio, si infransero e arretrarono, si precipitarono per due volte attorno al globo, investirono le pianure cinesi, lambirono il piede dei monti più alti dell'Himalaya. L'Atlantide tremò e rombò e si schiantò per tre giorni, prima che le acque la coprissero. Alcuni fuggirono in volo, e atterrarono sul suolo ancora umido del limo, sull'antico fondo del mare posto allo scoperto, o su vette abbastanza alte da fendere le onde colossali. Là furono costretti ad adattarsi, a lottare per strappare al suolo nudo il necessario per vivere, con le loro menti non più avvezze alle arti di un tempo... Ma alcuni sopravvissero.! Di Mu non rimaneva traccia. Dell'Atlantide, soltanto poche isole, che fino a pochi giorni prima erano state vette di montagne, segnavano il luogo in cui era stata. Le acque ondeggiavano sulle torri gemelle del Sole, e i pesci nuotavano nei giardini del viceré. L'angoscia che aveva assillato Huxley lo sopraffece. Gli parve! di udire una voce nella propria mente: «Sventura! Sia maledetto Loki! Sia maledetta Venere! Sia maledetto Vulcano! E tre volte maledetto sono io, il loro servitore apostata, Orab, Gran Sacerdote delle Isole dei Beati! Sventura su di me! E mentre maledico, ancora sogno Mu possente e peccatrice. Ventun anni or sono, cercando su questa montagna un luogo per morirvi, ho scoperto per caso la documentazione dei potenti che furono prima di noi. Per ventun anni ho lavorato indefessamente per completare la documentazione, frugando nei recessi inutilizzati della mia mente per cercare una conoscenza non più usata da molto tempo, vagando su altri piani alla ricerca di una conoscenza che non ho mai posseduta. Ora, nell'ottocentonovantaduesimo anno della mia vita, e nel trecentocinquantesimo anno della distruzione di Mu, io, Orab, ritorno ai miei padri.» Per Huxley, il risveglio fu un sollievo. VII I PADRI E I FIGLI Ben era nel soggiorno quando Phil entrò per fare colazione. Joan arrivò subito dopo Phil. Aveva gli occhi cerchiati e un'aria triste. Ben parlò in un tono quasi imbronciato. «Che cos'hai, Joan? Sembri una profetessa di sventura.» «Ti prego, Ben,» rispose lei, con voce stanca. «Non tormentarmi. Ho fatto dei sogni terribili, per tutta la notte.»
«Davvero? Scusami... ma se pensi di aver fatto dei brutti sogni, avresti dovuto vedere i bellissimi incubi che ho avuto io.» Phil li guardò entrambi. «Sentite... tutti e due avete fatto dei sogni stranissimi, per tutta la notte?» «E non è proprio quello che abbiamo detto?» La risposta di Ben aveva un tono esasperato. «Che cosa avete sognato?» Nessuno dei due gli rispose. «Aspettate un momento. Anch'io ho fatto sogni molto strani.» Si tolse dalla tasca un taccuino e ne strappò tre foglietti. «Vorrei scoprire una cosa. Se non vi dispiace, scrivete che cosa avete sognato, prima che continuiamo a discutere su questo argomento. Eccoti la matita, Joan.» I due esitarono un po', ma obbedirono. «Leggili a voce alta, Joan.» Joan prese il foglietto di Ben e lesse. «'Ho sognato che la tua teoria sulla degenerazione della razza umana era assolutamente esatta.'» Posò il foglietto e prese quello di Phil. «'Ho sognato di essere presente al Crepuscolo degli Dei e di aver assistito alla distruzione di Mu e di Atlantide.'» C'era un silenzio di morte quando Joan prese l'ultimo dei foglietti, il suo. «'Ho sognato un popolo che si distrusse, ribellandosi ad Odino',» disse. Ben fu il primo a confidarsi. «Ognuno di quei foglietti corrisponde ai miei sogni.» Joan annuì. Phil tornò ad alzarsi, uscì, e ritornò subito dopo, portando il suo diario. Lo aprì e lo consegnò a Joan. «Ragazza mia, ti dispiace leggere a voce alta... partendo da 'Sedici giugno'?» Joan lesse fino in fondo, lentamente, senza alzare mai lo sguardo dalle pagine. Phil attese che la giovane donna finisse e chiudesse il diario, prima di parlare. «Ebbene?» fece. «Ebbene?» Ben schiacciò una sigaretta che s'era consumata fino a scottargli le dita. «È un resoconto straordinariamente esatto dei miei sogni... Salvo che l'anziano che tu chiami Giove, a me è parso che fosse Ahuramazda.» «Ed io ho pensato che Loki fosse Lucifero.» «Avete ragione tutti e due,» ammise Phil. «Non ricordo che nessuno abbia mai pronunciato un nome. Mi sembrava soltanto di sapere come si
chiamavano.» «Lo stesso vale per me.» «Ehi,» intervenne Ben, «stiamo parlando come se quei sogni fossero reali... come se avessimo assistito tutti allo stesso film.» Phil si girò verso di lui. «Ebbene, tu cosa ne pensi?» «Quello che pensi tu, immagino. Sono sconvolto. Vi dispiace se faccio colazione... o se bevo almeno un po' di caffè?» Bierce arrivò prima che avessero la possibilità di continuate la discussione, dopo colazione: per un tacito accordo, non avevano parlato durante il pasto. «Buongiorno, signora. Buongiorno, signori.» «Buongiorno, signor Bierce.» «Mi accorgo,» disse Bierce, scrutandoli in volto, «che non avete l'aria contenta, questa mattina. Non è sorprendente: nessuno ce l'ha subito dopo avere fatto l'esperienza delle documentazioni.» Ben scostò indietro la sedia e si sporse attraverso la tavola, verso Bierce. «Quei sogni sono stati predisposti appositamente per noi?» «In verità sì... ma eravamo sicuri che voi foste pronti per trarne profitto. Sono venuto a pregarvi di volervi presentare all'Anziano. Se rivolgerete a lui le domande che vi stanno a cuore, sarà tutto molto più semplice.» «L'Anziano?» «Non l'avete ancora conosciuto. È così che noi chiamiamo la persona da noi ritenuta più adatta a coordinare le nostre attività.» Ephraim Howe aveva un volto tormentato come le colline della Nuova Inghilterra, e mani magre e nocchiute da carpentiere. Non era giovane. La sua figura allampanata aveva un'eleganza regale. Tutto, in lui, lo scintillare degli occhi celesti, la stretta di mano, l'accento, annunciava una assoluta integrità. «Sedetevi,» disse. «Vengo subito al dunque. Avete avuto molte esperienze curiose e avete il diritto di saperne il perché. Avete visto ormai parte dell'Antica Documentazione... Vi dirò come è nata questa istituzione, a che serve, e perché vi chiederemo di unirvi a noi. «Aspettate un momento. Aspettate un momento,» aggiunse, alzando una mano. «Non dite niente, per ora...» Quando fra' Junipero Serra posò per la prima volta gli occhi sul Monte
Shasta, nel 1781, gli indiani gli dissero che era un luogo sacro, dove potevano salire soltanto gli «uomini della medicina». Il frate dichiarò loro che anche lui era un uomo della medicina, e serviva un grande Padrone; e per dimostrarlo trascinò il suo vecchio corpo fragile su, fino al limite delle nevi, dove dormì prima di ritornare. Il sogno che aveva fatto lassù - il giardino dell'Eden, il Peccato Originale, la Caduta e il Diluvio - l'aveva convinto che sì trattasse veramente di un luogo sacro. Ritornò a San Francisco, deciso a fondare una missione a Shasta. Ma era un'impresa troppo grande per un vecchio... tante anime da salvare, tante bocche da sfamare. Dopo due anni rese l'anima al cielo, ma ingiunse a un altro monaco di realizzare la sua aspirazione. Dai documenti risulta che questo frate lasciò nel 1785 la missione che si trovava più a Nord: e non ritornò. Gli indiani fornirono il cibo al sant'uomo che viveva sulla montagna, fino al 1843. A quell'epoca, egli aveva raccolto attorno a sé un gruppetto di neofiti: tre indiani, un russo, un montanaro americano. Il russo assunse la guida del gruppo dopo la morte del frate, fino a quando arrivò un cinese, un profugo. Il cinese, in poche settimane, fece progressi maggiori di quanti ne avesse fatti il russo durante metà della sua vita; e il russo fu lieto di cedergli il primato. Il cinese era ancora lassù più di un secolo dopo, anche se da molto tempo, ormai, aveva rinunciato agli incarichi amministrativi. Insegnava estetica e umorismo. «E questa istituzione ha un unico scopo,» continuò Ephraim Howe. «Vogliamo far sì che non si ripeta mai più ciò che accadde a Mu e all'Atlantide. Noi siamo contrari a tutto ciò che i Giovani rappresentano. «Noi vediamo la storia del mondo come una serie di crisi, in un conflitto tra due filosofie contrapposte. La nostra è fondata sull'idea che la vita, la coscienza, l'intelligenza, l'ego, siano la cosa più importante del mondo.» Per un attimo soltanto li sfiorò, telepaticamente, ed essi sentirono di nuovo quella cosa vibrante di vita che Ambrose Bierce aveva mostrato loro e che non era stato capace di definire a parole. «Questo ci pone in conflitto con ogni forza che tenda a distruggere, avvilire, degradare lo spirito umano, od a farlo agire contrariamente alla sua natura. Sappiamo che si sta avvicinando un'altra crisi: abbiamo bisogno di reclute. E voi siete stati prescelti. «È una crisi che ha continuato a svilupparsi fin dai tempi di Napoleone. L'Europa è finita, e l'Asia è abbandonata all'autoritarismo, ad assurdità come il principio della leadership, al totalitarismo, che tratta gli uomini
come altrettante unità economiche e politiche prive di importanza individuale. Non c'è dignità: fate ciò che vi viene ordinato, credete ciò che vi viene detto, e tenete la bocca chiusa! Operai, soldati, unità da riproduzione... «Se fosse questo il fine della vita, sarebbe stato completamente inutile che gli esseri umani fossero dotati di coscienza! «Questo continente,» proseguì Howe, «è sempre stato un rifugio della libertà, un luogo in cui l'anima poteva evolversi. Ma le forze che hanno ucciso l'illuminismo nel resto del mondo si diffondono anche qui. Poco a poco hanno eroso alla base la libertà umana e la dignità umana. Una legge repressiva, una direzione scolastica troppo autoritaria, un dogma cieco da accettare per paura della persecuzione... dottrine che incatenano gli uomini e oscurano i loro occhi, affinché essi non recuperino mai l'eredità perduta. «Noi abbiamo bisogno di aiuto per lottare contro tutto questo.» Huxley si alzò «Potete contare su di noi.» Prima che Joan e Coburn potessero parlare, l'Anziano intervenne. «Non rispondete, per ora. Ritornate nelle vostre stanze e riflettete. Dormiteci sopra. Ne riparleremo.» VIII UN PRECETTO DOPO L'ALTRO Se l'istituzione di Monte Shasta fosse stata un'Università e avesse avuto un programma (ma non l'aveva), i corsi avrebbero potuto venire indicati nel modo seguente: TELEPATIA. Corso fondamentale, obbligatorio per tutti gli studenti non qualificati mediante esame. Istruzione pratica, incluso il rapporto. Materia fondamentale per tutte le facoltà. Laboratorio. RAZIOCINIO. I, II, III, IV. Primo anno: Memoria. Secondo anno: percezione, chiaroveggenza, chiariudienza, selezione di massa, tempo, spazio, relazioni, ordini e strutture non matematiche, forma e intervalli armonici. Terzo anno: Processi di pensiero duali e paralleli; distacco. Quarto anno: Meditazione (seminario). AUTOCINESI. Cinestesia. Controllo endocrino con applicazioni ESP a:
sensi effettivi e soppressione della stanchezza, rigenerazione, trasformazione (aspetti clinici della licantropia), determinazione del sesso, inversione, autoanestesia, ringiovanimento. TELECINESI. Continua vita-massa-spazio-tempo. Requisito fondamentale: autocinesi. Teletrasporto e azione generale a distanza. Proiezione. Dinamica. Statica. Orientamento. STORIA. Corsi da concordare. Discussioni speciali di psicometria, con riferimento alle registrazioni telepatiche, e di metempsicosi. Requisito fondamentale per tutti i corsi di questa facoltà è la valutazione. ESTETICA UMANA. Seminario. Autocinesi e tecnica di registrazione telepatica (psicometria) sono requisiti fondamentali. ETICA UMANA. Seminario. Tenuto in concomitanza con tutti gli altri corsi. Consultarsi con l'istruttore. Forse in parte il valore dell'insegnamento sarebbe andato perduto, se fosse stato suddiviso in corsi separati simili a quelli elencati. In ogni caso, gli adepti di Monte Shasta potevano insegnare tutte queste materie, e infatti le insegnavano. Huxley, Coburn e Joan Freeman imparavano da insegnanti che li portavano ad insegnare essi stessi: e accettavano l'insegnamento come un'anguilla cerca il mare, con la sensazione di ritornare a casa dopo una lunga assenza. Fecero tutti e tre progressi molto rapidi; poiché possedevano una percezione rudimentale e qualche nozione di telepatia, i loro istruttori potevano insegnare loro direttamente. Per prima cosa impararono a controllare il proprio corpo. Riacquistarono su ogni funzione, su ogni muscolo, su ogni tessuto, su ogni ghiandola quel dominio che ogni uomo dovrebbe possedere, ma che ha dimenticato abbondantemente... a parte pochi oscuri studiosi nell'Estremo Oriente. Era una felicità profonda e sempre crescente imporre al corpo l'obbedienza e vederlo obbedire. Divennero intimamente consapevoli dei loro corpi, ma questi non li tiranneggiavano più. La stanchezza, la fame, il freddo, il dolore non li governavano più: erano semplicemente utili segnali di una macchina efficiente che richiedeva attenzione. E la macchina non richiedeva più attenzione come un tempo: il corpo era diretto da una mente che ne conosceva esattamente la capacità ed i limiti.
Inoltre, comprendendo i loro corpi, erano in grado di accrescere le capacità fino al massimo del potenziale. Una settimana di attività intensa, senza riposo, senza cibo e senz'acqua, era facile come un tempo lo era stata una mattinata di lavoro. In quanto all'attività mentale, non cessava mai, se non quando erano loro a volerlo... nonostante il sonno, il languore della digestione, la noia, gli stimoli esterni o l'attività muscolare. E la gioia più grande era la levitazione. Volare nell'aria, librarsi sospesi nel cuore tranquillo di una nuvola, dormire, come Maometto, galleggiando tra soffitto e pavimento... erano delizie sensuali inaspettate, e mai sperimentate prima se non nei sogni, in modo molto vago. Joan, in particolare, si abbeverava a questa gioia con avido abbandono. Una volta rimase assente per due giorni, senza posare mai piede sul suolo, condividendo il cielo con il vento e le rondini, il corpo fulgido avvolto nell'aria gelide delle vette. Si tuffava e risaliva, descriveva cerchi e spirali, e si lasciava cadere, come un peso morto, con le ginocchia sollevate contro la fronte, dalla stratosfera all'altezza delle cime degli alberi. Durante la notte seguì un aereo transcontinentale, sorvolandolo non vista per più di mille chilometri. Quando si stancò di quel gioco, premette il volto, per un attimo, contro l'unico finestrino illuminato dell'aereo, e guardò nell'interno. Il commerciante che la guardò sbalordito negli occhi credette di avere scorto un angelo. Arrivato a destinazione si precipitò nell'ufficio del suo legale, e dettò un testamento in cui assegnava borse di studio a studenti di teologia. Per Huxley fu più difficile imparare a levitarsi. La sua mente indagatrice esigeva una spiegazione delle cause per cui la volontà appariva in grado di annullare la «legge» inesorabile della gravità, e questo dubbio indeboliva la sua volizione. Il suo insegnante ragionò pazientemente con lui. «Lei sa che la volontà intangibile può influire sul corso della massa nel continuum; ne ha la prova ogni volta che muove una mano. Forse non riesce a muovere la mano perché non è in grado di fornire una completa spiegazione razionale di questo mistero? La vita ha il potere di influire sulla materia: e lei lo sa... ne ha fatto l'esperienza diretta. È una realtà. Non vi è nessun 'perché', nel senso illimitato in cui lei si pone il problema. La realtà è là, serena, e dimostra se stessa. Si possono osservare le relazioni tra i fatti, e le relazioni sono fatti esse stesse: ma seguire a ritroso tali reazioni fino al significato definitivo non è possibile per una mente che sia essa stessa relativa. Prima mi dica perché lei esiste... e poi io le dirò perché la levita-
zione è possibile. «E adesso,» continuò, «si ponga in rapporto con me, e cerchi di sentire ciò che sento io quando realizzo la levitazione.» Phil ritentò. «Non ci riesco,» concluse, avvilito. «Guardi giù.» Phil guardò verso il basso, spalancò la bocca, e piombò sul pavimento dall'altezza di un metro. Quella notte accompagnò Ben e Joan in un volo sulle High Sierras. Il loro istruttore apprezzava con serena gioia lo slancio con cui si dedicavano al divertimento reso possibile dalla nuova padronanza acquisita sui loro corpi. Sapeva che il loro piacere era naturale e sano, adatto a quella fase della loro evoluzione, e sapeva che presto avrebbero imparato, da soli, il suo valore relativo; e allora sarebbero stati pronti a rivolgere la mente a compiti più importanti. «Oh, no. Frate Junipero non fu l'unico uomo che scoprì casualmente la documentazione.» dichiarò Charles, continuando a dipingere. «Dovete aver notato che le località elevate sono molto importanti nelle religioni di ogni razza. E alcune di esse devono essere archivi di antiche documentazioni.» «Non ne siete sicuri?» domandò Phil. «In effetti sì, per quanto riguarda parecchi casi: l'Alto Himalaya, per esempio. Stavo parlando di ciò che un uomo intelligente potrebbe dedurre da notizie di dominio pubblico. Pensate a quante montagne hanno un'importanza suprema, in tante religioni diverse. L'Olimpo, il Popocatepetl, il Mauna Loa, l'Everest, il Sinai, il Tai Shan, l'Ararat, il Fujiyama, parecchie vette delle Ande. E in ogni religione si parla di un maestro che discende da questi luoghi elevati portando messaggi divinamente ispirati: Buddha, Gesù, Joseph Smith (10), Confucio, Mosè... Tutti discesero da luoghi elevati e narrarono storie della creazione, della caduta e della redenzione. «Tra tutti gli antichi resoconti, il migliore è quello che si trova nella Genesi. Tenendo conto del fatto che venne scritto per la prima volta nella lingua di popoli nomadi e incivili, è un resoconto esatto e scrupoloso.» Huxley diede una gomitata nelle costole di Coburn. «Cosa ne pensi, mio scettico amico?» Poi, rivolgendosi a Charles: «Ben è sempre stato un ateo convinto, fin da quando scoprì che Babbo Natale aveva i baffi posticci; e soffre nel veder sovvertiti i suoi dubbi più cari.»
Coburn sorrise, imperturbabile. «Calmati, figliolo. So esprimere i miei dubbi anche da solo. Ma lei mi ha fatto pensare a un'altra cosa, Charles. Certe montagne non mi sembrano abbastanza antiche per essere state prescelte come archivi in quei tempi remotissimi... Il Monte Shasta, per esempio, è di origine vulcanica, e mi sembra un po' troppo recente, per questo scopo.» Charles continuò a dipingere rapidamente, mentre rispondeva. «Ha ragione. Sembra probabile che Orab abbia fatto copie della documentazione originale da lui scoperta, e abbia collocato tali copie, insieme alle sue aggiunte, in parecchie località elevate di tutto il globo. Ed è possibile che altri, dopo Orab ma molto prima del nostro tempo, abbiano letto la documentazione e l'abbiano asportata per metterla al sicuro. La copia che fra' Junipero Serra ritrovò potrebbe essere stata qui soltanto da ventimila anni, o giù di lì.» IX PRIMO VOLO «Potremmo rimanere qui per altri cinquant'anni, a imparare molte cose nuove, ma non approderemmo a nulla. Per quanto mi riguarda, sono pronto a ritornare.» Phil schiacciò una sigaretta e si voltò a guardare i suoi due amici. Coburn sporse le labbra e annuì con il capo, lentamente. «Anch'io la penso allo stesso modo, Phil. Non c'è limite a quello che potremmo imparare quassù, naturalmente, ma viene il momento in cui bisogna servirsi di ciò che si è imparato, altrimenti ci si sente ribollire. Credo che dovremmo parlarne con l'Anziano, e metterci all'opera.» Joan approvò, energicamente. «Sicuro. Anch'io la penso così. C'è parecchio da fare, alla Western University... non qui, in questo mondo di utopia. Caspita, muoio della voglia di vedere la faccia del vecchio Brinckley, quando avremo finito con lui!» Huxley cercò la mente di Ephraim Howe. Gli altri due attesero che conferisse con lui, astenendosi per cortesia dall'intromettersi in quella conversazione telepatica. «Dice che se lo aspettava, e che intende organizzare una regolare conferenza. Verrà qui.» «Una conferenza regolare? Alla presenza di tutti quelli che vivono sulla
montagna?» «Alla presenza di tutti quelli che vivono sulla montagna... o no. Mi pare di aver capito che è questa, la consuetudine, quando dei nuovi membri decidono la propria attività futura.» «Caspita!» esclamò Joan. «Mi viene il panico dell'attore principiante al solo pensarci. Chi sarà il nostro portavoce ufficiale? Spero che non tocchi alla povera piccola Joan.» «E tu, Ben?» «D'accordo... se proprio ci tenete.» «Pensaci tu.» Si misero in rapporto. Finché rimanevano in quello stato, la voce di Ben continuava a esprimere il pensiero collettivo di tutti e tre. Entrò Ephraim Howe, da solo: ma subito i tre si accorsero che era in rapporto non soltanto con gli adepti che vivevano sulla montagna, ma anche con i duecento e più geni sparsi in tutto il paese: e fungeva da loro portavoce. La conferenza incominciò con un dialogo diretto, da mente a mente: «Riteniamo che sia venuto il momento di metterci all'opera. Non abbiamo imparato tutto quello che c'è da imparare, è vero: ma dobbiamo servirci delle nostre conoscenze attuali.» «È giusto, Benjamin. È come deve essere. Voi avete imparato tutto ciò che possiamo insegnarvi, per il momento. Ora dovete portare nel mondo ciò che avete appreso, e servirvene, perché la conoscenza possa maturare e divenire saggezza.» «Non è soltanto per questa ragione che desideriamo andarcene: c'è un'altra ragione, più urgente. Come ci ha insegnato lei stesso, si sta avvicinando la crisi. E noi vogliamo contrastarla.» «E come vi proponete di contrastare le forze che determinano la crisi?» «Ecco...» Ben non usò la parola, ma l'indugio del suo pensiero produsse un'impressione chiara. «Secondo noi, per rendere liberi gli uomini, affinché possano evolversi come uomini e non come animali, è necessario vanificare ciò che fecero i Giovani. I Giovani rifiutarono di consentire che l'eredità razziale dell'antica conoscenza divenisse patrimonio di tutti, e non solo di pochi eletti. Perché gli uomini diventino liberi, forti e indipendenti, è necessario rendere a ciascuno di loro l'antica conoscenza e gli antichi poteri.» «È vero: ma cosa vi proponete di fare?» «Andremo a dirlo a tutti. Noi tre facciamo parte del sistema dell'istruzione; possiamo farci ascoltare... Io, nella Facoltà di Medicina della We-
stern University; Phil e Joan nella Facoltà di Psicologia. Con la preparazione che ci avete dato, possiamo sovvertire rapidamente le concezioni tradizionali. Possiamo dare l'avvio ad una rinascita nel campo dell'insegnamento, possiamo preparare la strada che consentirà a tutti di ricevere la saggezza che voi potete offrire.» «E credete che sarà tanto facile?» «Perché no? Oh, non ci aspettiamo che sia molto semplice. Sappiamo che andremo a cozzare contro i pregiudizi più radicati di ciascuno, ma potremo sfruttare proprio questo fattore. Sarà spettacoloso: la cosa farà tanto chiasso che attirerà l'attenzione generale sul nostro lavoro. Voi ci avete insegnato quanto basta perché possiamo dimostrare di avere ragione. Per esempio... supponiamo che organizziamo una dimostrazione pubblica di levitazione, e che dimostriamo, davanti a migliaia di persone, che la mente umana può fare ciò che noi sappiamo possibile. Supponiamo che annunciamo che chiunque può apprendere queste cose, se prima impara la tecnica della telepatia. In un anno o due si potrebbe insegnare la telepatia all'intera nazione, che così sarebbe pronta alla lettura della documentazione, e a tutto quello che ciò comporta!» La mente di Howe rimase in silenzio per parecchi minuti lunghissimi: nessun messaggio li raggiunse. I tre si agitarono, irrequieti, sotto lo sguardo calmo e pensieroso dell'uomo. Finalmente... «Se fosse tanto semplice, credete che noi non lo avremmo già fatto?» Ora furono i tre a rimanere in silenzio. Howe continuò, gentilmente. «Parlate, figli miei. Non abbiate timore. Diteci liberamente i vostri pensieri. Non ci offenderemo.» Il pensiero che Coburn inviò in risposta era esitante. «È difficile... Parecchi di voi sono assai vecchi, e noi sappiamo che siete tutti molto saggi. Tuttavia ci sembra, dal nostro punto di vista giovanile, che abbiate aspettato troppo ad agire. Abbiamo l'impressione... abbiamo l'impressione che abbiate permesso alla ricerca della comprensione di avere la meglio sulla vostra volontà d'azione. Dal nostro punto di vista, avete atteso di anno in anno, perfezionando un'organizzazione che non sarà mai assolutamente perfetta, mentre la tempesta che sconvolgerà il mondo sta crescendo d'intensità.» Gli Anziani rifletterono, prima che Ephraim Howe rispondesse. «Può darsi che abbiate ragione voi, carissimi figlioli: eppure non ne siamo convinti. Noi non abbiamo tentato di mettere la conoscenza antica nelle mani di tutti gli uomini perché solo pochi di loro sono pronti a rice-
verla. In menti puerili, non sarebbe più sicura di quanto lo sia un fiammifero in mani infantili. «Eppure... può darsi che abbiate ragione voi. Mark Twain la pensava così, e fu autorizzato a dire tutto ciò che aveva imparato. Lo disse, scrivendo in modo che chiunque fosse pronto per ricevere la conoscenza potesse comprendere. Ma nessuno comprese. Preso dalla disperazione, spiegò specificamente come divenire telepatici. E anche allora, nessuno lo prese sul serio. Quanto più egli parlava sul serio, tanto più i suoi lettori ridevano. Morì amareggiato. «Non vorremmo indurvi a credere che noi non abbiamo fatto nulla. Questa repubblica, che accorda un'importanza tanto insolita alla libertà personale e alla dignità umana, non sarebbe durata tanto a lungo se non l'avessimo aiutata. Siamo stati noi a scegliere Lincoln. Oliver Wendell Holmes (11) era uno di noi. Walt Whitman (12) era un nostro carissimo fratello. In mille modi noi abbiamo dato il nostro contributo, quando era necessario, per scongiurare un ritorno alla schiavitù e alle tenebre.» Il pensiero s'interruppe per un istante, poi continuò. «Tuttavia, ciascuno deve agire come ritiene più opportuno. Siete ancora decisi a fare ciò che vi proponete?» Ben parlò a voce alta e ferma. «Sì.» «E così sia. Ricordate la storia di Salem?» «Salem? Dove vi furono i processi per stregoneria?... Volete avvertirci che potremmo venire perseguitati allo stesso modo?» «No. Oggi non vi sono più leggi contro la stregoneria, naturalmente. Sarebbe meglio se vi fossero. Noi non abbiamo il monopolio sul potere della conoscenza; non ci aspettiamo una vittoria agevole. Guardatevi da coloro che detengono una parte dell'antica conoscenza e se ne servono per uno scopo vile... le streghe... gli stregoni dediti alla magia nera!» La conferenza si concluse, il rapporto si disciolse. Ephraim Howe strinse solennemente la mano ai tre e li salutò. «Vi invidio, figlioli,» disse. «Vi avviate come l'Ammazzasette, per affrontare l'intero sistema dell'istruzione. È un lavoro tagliato su misura per voi. Ma ricordate ciò che diceva Mark Twain? 'Dio fece un idiota a titolo di prova, e poi fece un consiglio d'amministrazione d'una scuola'. Eppure, mi piacerebbe moltissimo poter venire con voi.» «E perché non viene, signore?» «Eh? No, non andrebbe bene. Io non credo veramente nel vostro proget-
to. Per esempio... durante gli anni in cui andavo in giro a vendere ferramenta nello Stato del Maine, provavo spesso la tentazione di mostrare alla gente i modi migliori per fare le cose. Ma non lo feci: la gente si è abituata alle pialle e alle gelatiere, e non vi ringrazierebbe di certo se le mostraste come si può farne a meno, ricorrendo ai poteri della mente. Non subito, per lo meno. Vi butterebbe fuori... e magari probabilmente finirebbe per linciarvi. «Comunque, vi terrò d'occhio.» Joan si sollevò in punta di piedi e gli diede un bacio. E se ne andarono. X LA BOCCA DEL LEONE Phil scelse la classe più numerosa per fare la dimostrazione che avrebbe dovuto indurre i giornali a interessarsi di loro. Avevano deciso di non agire prima di essere ritornati. Non avevano avuto difficoltà nel tornare a Los Angeles e ad incominciare il semestre autunnale senza lasciar sospettare a nessuno che possedevano poteri fuori dell'ordinario. A Joan era stato ingiunto di non levitare e di non combinare scherzi imperniati sul controllo di oggetti inanimati, di non sbalordire gli estranei esibendo qualche facoltà insolita. Lei aveva accettato docilmente quelle ingiunzioni: così docilmente che Coburn si dichiarava preoccupato. «Non è normale,» obiettò. «Non può essere diventata adulta tutto d'un colpo. Fammi vedere la lingua, mia cara.» «Puah!» rispose lei, mostrandogli la lingua in modo molto poco diagnostico. «Il Maestro Ling ha detto che sono più avanti, sulla Via, di quanto lo siate voi due.» «Quel cinese ragionava a modo suo. Probabilmente diceva così per incoraggiarti a diventare adulta. Parlando sul serio, Phil, non avremmo fatto meglio a metterla in stato d'ipnosi profonda e riportarla alla montagna per una bella diagnosi e una terapia di riadattamento?» «Ben Coburn, provati soltanto a girare un occhio dalla mia parte e io te lo strappo!» Phil preparò con grande cura quella che era destinata a diventare la sua dimostrazione decisiva. Teneva lezioni sufficientemente innocue, in modo che anche se il preside della sua facoltà fosse entrato all'improvviso, non avrebbe avuto motivo di intromettersi o di disapprovare. Ma le lezioni era-
no studiate apposta, in modo da preparare emotivamente gli studenti a ciò che sarebbe venuto poi. E la manovra era completata da una scelta accurata di letture collaterali. «L'ipnosi è un argomento che viene compreso finora in modo molto vago.» Così incominciò la sua lezione nel giorno prescelto. «Un tempo veniva classificata come stregoneria, magia, eccetera, come una sciocca superstizione. Ma al giorno d'oggi è divenuta una procedura comune, e facile da dimostrarsi. Di conseguenza, anche gli psicologi più conservatori devono riconoscere la sua esistenza e cercare di osservare le sue caratteristiche.» E continuò allegramente, dispensando tutta una serie di luoghi comuni, mentre valutava l'atteggiamento emotivo dell'intera classe. Quando sentì che gli studenti erano ormai pronti ad accettare senza sorprese i comuni fenomeni di ipnosi, chiamò Joan, che aveva assistito apposta alla lezione. Joan entrò facilmente in uno stato di leggera ipnosi. Esaurirono rapidamente gli aspetti più semplici dei fenomeni ipnotici - catalessi, compulsione, suggestione postipnotica - mentre Phil continuava a discorrere della relazione tra la mente dell'operatore e quella del soggetto, della possibilità di un controllo telepatico diretto, degli esperimenti di Rhine e di cose del genere: erano di per se stessi argomenti ortodossi, ma molto vicini al confine del pensiero eterodosso. Poi si offrì di tentare di raggiungere telepaticamente la mente del soggetto. Ogni studente venne invitato a scrivere qualcosa su di un pezzetto di carta. Un gruppetto di volontari ritirò i foglietti e li consegnò a Huxley, uno alla volta. Con aria solenne, Phil li guardava rapidamente, mentre Joan li leggeva via via che gli occhi di lui si posavano sullo scritto. Un paio di volte, Joan finse di esitare in modo molto convincente. «Bel lavoro, piccola.» «Grazie, compare. Posso fare qualcosa di più sensazionale, adesso?» «Niente idee geniali. Continua così, va benissimo. Stanno pendendo dalle nostre labbra, adesso.» Poco a poco, Phil portò gli studenti più vicino all'idea che la mente e la volontà possono esercitare sul corpo un controllo molto più completo di quanto avvenga normalmente. Accennò con disinvoltura ai santoni indiani che erano in grado di sollevarsi in aria e addirittura di spostarsi da un luogo all'altro. «Abbiamo un'occasione eccezionale per effettuare una prova pratica a proposito di queste dicerie,» annunciò Phil agli studenti. «Il soggetto crede
totalmente a qualsiasi affermazione fatta dall'operatore. Ora dirò alla signorina Freeman di servirsi della sua forza di volontà e di sollevarsi dal pavimento. È certo che lei crederà di poterlo fare. La sua volontà sarà nelle condizioni ottimali per eseguire l'ordine, se può essere eseguito. Signorina Freeman!» «Sì, signor Huxley.» «Usi la sua volontà. Si sollevi in aria!» Joan si sollevò verticalmente nell'aria per circa due metri... fino a quando sfiorò il soffitto con la testa. «Vado bene, compare?» «Benissimo, piccola, li hai sbalorditi. Guarda come spalancano gli occhi!» In quel momento Brinckley fece irruzione nell'aula, con lo sguardo acceso di furore. «Signor Huxley, lei non ha mantenuto la sua parola, e ha gettato il ridicolo su questa università!» Era trascorsa una decina di minuti dalla conclusione catastrofica della dimostrazione. Huxley fronteggiava il Rettore, nell'ufficio privato di quest'ultimo. «Non le avevo promesso niente. E non ho gettato il ridicolo sulla facoltà,» rispose Phil, in tono altrettanto bellicoso. «Lei si è dedicato a trucchi volgarissimi di falsa magia, per rovinare la reputazione della facoltà.» «Quindi sono un impostore, non è così? Vecchio fossile rimbambito... spieghi un po' questo!» E Huxley si sollevò, fino a restare librato un metro al di sopra del tappeto. «Che cosa devo spiegare?» Con grande sbalordimento di Huxley, Brinckley non sembrava neppure accorgersi che stava succedendo qualcosa d'insolito. Continuò a fissare il punto in cui, poco prima, si trovava la testa di Phil. Il suo atteggiamento rivelava soltanto una certa perplessità e l'irritazione per l'affermazione apparentemente assurda di Huxley. Possibile che quel vecchio sciocco fosse illuso al punto di non vedere tutto ciò che contrastava con i suoi pregiudizi, anche se accadeva sotto ai suoi occhi? Phil protese la propria mente e cercò di scoprire che cosa stava succedendo dentro la testa di Brinckley. Ed ebbe una delle sorprese più grosse di tutta la sua vita. Si era aspettato di trovare gli incerti processi mentali d'una quasi-senilità: e trovò invece... un freddo calcolo, un'abilità acutissima, inseriti in una matrice di malvagità pura che lo nauseò.
Fu una visione rapidissima: poi venne buttato fuori con un urto che gli ottenebrò il cervello. Brinckley si era accorto di essere spiato e aveva attivato le sue difese... le difese di una mente ben disciplinata. Phil ricadde sul pavimento ed uscì dall'ufficio senza pronunciare una parola e senza voltarsi indietro. Da The Western Student del 3 ottobre: PROFESSORE DI PSICOLOGIA LICENZIATO PER TRUFFA ... le versioni degli studenti sono diverse, ma tutti sono stati d'accordo nel dichiarare che si è trattato di un bellissimo spettacolo. Il terzino «Buzz» Arnold ha dichiarato all'intervistatore: «Mi è dispiaciuto moltissimo; il professor Huxley è molto simpatico, e ha messo in scena un numero fantastico. Naturalmente, ho capito come ha fatto... era lo stesso trucco usato dal Grande Arturo nello spettacolo dato all'Orpheum la scorsa primavera. Però capisco il punto di vista del dottor Brinckley: non si possono ammettere giochi di illusionismo in un'istituzione culturale seria.» Il Rettore Brinckley ha rilasciato allo Student la seguente dichiarazione ufficiale: «È con profondo rincrescimento che annuncio l'interruzione di ogni rapporto tra il signor Huxley e la nostra istituzione... per il bene dell'Università. Il signor Huxley era stato ripetutamente avvertito che le sue iniziative non gli avrebbero giovato. È un giovane di notevoli doti. Ci auguriamo sinceramente che questa esperienza gli serva di lezione per le future attività...» Coburn rese il giornale a Huxley. «Sai cos'è capitato a me?» domandò. «Qualcosa di nuovo?» «Sono stato invitato a presentare le dimissioni... Niente pubblicità... un'allusione educata. I miei pazienti guariscono troppo in fretta: avevo smesso di ricorrere agli interventi chirurgici, lo sai.» «Che schifo!» Questa era Joan. «Beh,» osservò Ben. «Non posso biasimare il primario: Brinckley gli ha forzato la mano. Penso che abbiamo sottovalutato quella vecchia carogna.» «Eccome! Ben, quello è in gamba quanto noi, e in quanto ai motivi che
lo spingono ad agire come agisce... mi viene da vomitare ogni volta che ci penso.» «E io pensavo che fosse soltanto uno stupido,» lamentò Joan. «Avremmo dovuto buttarlo nelle fosse di catrame la primavera scorsa. Vi avevo pur detto di farlo. E adesso?» «E adesso continuiamo.» La risposta di Phil fu cupa e decisa. «Volgeremo la situazione a nostro vantaggio. Ci hanno fatto un po' di pubblicità: approfittiamone.» «E cosa tenteremo?» «Ancora la levitazione. È la cosa più spettacolosa, per fare impressione sulla massa. Invita i giornali, e di che daremo una pubblica dimostrazione di levitazione domani a mezzogiorno, in Pershing Square.» «Ma i giornali probabilmente non vorranno immischiarsi in una faccenda che puzza di fasullo.» «Probabilmente non vorranno saperne... ma noi faremo così. Fai pure apparire un po' assurda tutta la faccenda, e fai in modo che abbiano dei motivi divertenti su cui ricamare. Ne parleranno come curiosità, se non come notizia seria. Ormai il coperchio è saltato, Joan... puoi fare tutto quello che vuoi: e tanto meglio se fai qualcosa di assurdo. Muoviamoci, ragazzi... io chiamerò il News Service. Ben, tu e Joan vi occupate dei quotidiani.» I giornalisti si mostrarono interessati, senza dubbio. S'interessavano alla bellezza di Joan, si divertivano cinicamente per la cravatta svolazzante di Phil e per le sue affermazioni altisonanti, ed erano seriamente colpiti dal suo gusto in fatto di whisky. Cominciarono a stare molto attenti quando Coburn versò loro cerimoniosamente da bere senza prendersi il disturbo di toccare la bottiglia. Ma quando Joan si librò nell'aria aggirandosi per la stanza, mentre Phil pedalava su di una bicicletta inesistente attraverso al soffitto, i giornalisti cambiarono registro. «Davvero, dottore,» disse uno di loro, «noi dobbiamo mangiare... Non pretenderà che andiamo a raccontare al capocronista una cosa del genere. Su ci dica la verità: è il whisky, oppure è semplice ipnotismo?» «Mettetela come volete, signori. Mi basta che diciate che rifaremo tutto questo a Pershing Square, domani a mezzogiorno.» La diatriba di Phil contro Brinckley venne a costituire una specie di contrappeso alla dimostrazione: ma i giornalisti gentilmente, diedero la notizia.
Joan si stava preparando ad andare a letto, quella sera, in preda ad un vago senso di depressione. L'esaltazione che aveva provato nel dare spettacolo ai giornalisti era svanita. Ben aveva proposto di uscire per andare a cenare e a ballare, allo scopo di festeggiare la loro ultima notte di privati cittadini: ma l'idea non si era rivelata un successo. Tanto per cominciare, avevano bucato una gomma mentre scendevano una curva ripida di Beachwood Drive, e la berlina grigia di Phil aveva capottato più volte. Avrebbero riportato tutti e tre gravi ferite, se non avessero posseduto un controllo automatico dei propri corpi. Quando Phil esaminò la macchina sfasciata, dichiarò di essere molto perplesso circa le cause dell'incidente. «Le gomme erano in perfetto ordine,» osservò. «Le aveva controllate io stesso questa mattina.» Comunque, insistette perché si andasse a trascorrere una serata distensiva. Lo spettacolo sembrò loro noioso, le barzellette rozze e stupide, dopo l'umorismo lieve e sensibile che avevano imparato ad apprezzare attraverso la frequentazione di Maestro Ling. Le ragazze del balletto erano giovani e belle: a Joan aveva fatto piacere guardarle, ma aveva commesso l'errore di sfiorare le loro menti con la sua. L'incongruità degli spiriti insensibili e vacui che aveva incontrato, quasi in tutti i casi, aveva aggravato il suo senso di malessere. Si sentì sollevata quando lo spettacolo si concluse e Ben l'invitò a ballare. I due uomini erano buoni ballerini, specialmente Coburn, e lei si sistemò soddisfatta tra le sue braccia. Ma quel piacere durò poco: una coppia ubriaca li urtò parecchie volte. L'uomo era litigioso, la donna strillava invelenita. Joan pregò i suoi cavalieri di accompagnarla a casa. Tutti quei ricordi la turbavano, mentre si preparava ad andare a letto. Non aveva mai conosciuto, in tutta la sua vita, l'acuta paura fisica, e temeva una cosa soltanto: le emozioni sudice e corrosive delle mentì meschine e contorte. La malignità, l'invidia, il dispetto, gli insulti dei poveri di spirito: erano queste le cose che potevano ferirla, soltanto con la loro presenza, anche se non era lei il bersaglio dell'attacco. Non era ancora sufficientemente matura per avere acquisito una corazza d'indifferenza, per proteggersi dalle opinioni degli indegni. Dopo un'estate trascorsa in compagnia di uomini di buona volontà, l'incidente con la coppia ubriaca l'aveva sconvolta. Si sentiva insozzata da quel contatto. E, cosa anche peggiore, si sentiva un'estranea, una straniera
in terra straniera. Si svegliò, nel cuore della notte, ed il senso di solitudine era enormemente accresciuto. Era acutamente conscia della presenza dei tre milioni e più d'esseri umani che la circondavano, ma l'intera città le sembrava animata soltanto da entità maligne, gelose di lei, ansiose di trascinarla in basso, al loro ignobile livello. Quell'aggressione contro il suo spirito, quel tentativo di contaminare la santità del suo essere interiore, assumeva quasi un carattere coordinato. Le sembrava che mordicchiasse il limitare della sua mente, intaccando le sue difese. Terrorizzata, chiamò Ben e Phil. Non ricevette risposta: la sua mente non riusciva a trovarli. La cosa immonda che la minacciava si accorse del suo insuccesso: la sentì sogghignare. In preda al panico, chiamò l'Anziano. Nessuna risposta. E questa volta la cosa parlò. «Anche quella strada è chiusa.» Mentre l'isterismo l'aggrediva, mentre le sue ultime difese si sgretolavano, si sentì prendere tra le braccia da uno spirito più forte, la cui bontà serena e imperturbata la protesse dalla cosa malvagia che l'assediava. «Ling!» gridò Joan. «Maestro Ling!» Poi i singhiozzi incominciarono a squassarla. Sentì l'ilarità tranquilla e rassicurante del suo sorriso, mentre le dita della mente di lui si protendevano e acquietavano le tensioni della sua paura. Si addormentò. La mente di Ling rimase con lei per tutta la notte, a parlarle, fino a quando lei si svegliò. Phil e Ben ascoltarono, con aria preoccupata, il racconto di quanto le era accaduto la notte precedente. «Questo è decisivo,» sentenziò Phil. «Siamo stati troppo imprudenti. D'ora in poi, fino a quando questa faccenda sarà finita, resteremo in rapporto giorno e notte, da svegli e da addormentati. Per la verità, anch'io me la sono passata male, questa notte, benché non mi sia capitato niente di simile a quello che è capitato a Joan.» «È successo lo stesso anche a me, Phil. A te come è andata?» «Non è successo niente d'importante... solo una lunga serie di incubi in cui perdevo fiducia nella mia capacità di fare ciò che abbiamo imparato a Monte Shasta. E tu?» «A me è accaduta la stessa cosa, con qualche variante. Ho operato per
tutta la notte, e tutti i miei pazienti morivano sotto i ferri. Non era molto piacevole... ma poi è successo qualcosa che non era soltanto un sogno. Tu sai che io adopero ancora un rasoio a lama libera, di quelli che usavano una volta. Mi stavo radendo, senza farci molto caso, quando all'improvviso ha sussultato nella mia mano e mi ha fatto un grosso taglio alla gola. Vedi? Non è ancora completamente guarito.» E indicò una sottile linea rossa che gli scendeva diagonalmente dal lato destro del collo. «Oh, Ben!» gridò Joan. «Avresti potuto morire!» «È quello che ho pensato anch'io,» ammise lui, asciutto. «Sapete, ragazzi,» disse Phil, lentamente. «Non si tratta di casi accidentali...» «Ehi, voi, aprite!» L'ordine fu abbaiato dall'altra parte dell'uscio. All'unisono, i loro sensi della percezione diretta balzarono al di là della quercia massiccia ed esaminarono colui che aveva parlato. L'abito borghese non nascondeva la professione dell'individuo colossale, anche se loro non fossero stati in grado di vedere il distintivo dorato fissato al panciotto. Accanto a lui c'era un uomo un po' più piccolo, ma dall'aria altrettanto ufficiale. Ben aprì la porta e chiese, gentilmente: «Cosa vuole?» L'uomo più alto tentò di entrare. Coburn non si mosse. «Le ho chiesto che cosa vuole.» «Facciamo i furbi, eh? Sono della Polizia. Lei è Huxley?» «No.» «Coburn?» Ben annuì. «Va bene anche lei. Quello lì dietro è Huxley? Voi due non state mai a casa? Siete stati qui tutta la notte?» «No,» fece Coburn, gelido. «Ma non è affar suo.» «Questo spetta a me deciderlo. Voglio parlare con voi due. Sono della Squadra Antitruffe. Che razza di scherzo avete fatto ai giornalisti, ieri?» «Nessuno scherzo, gliel'assicuro. Venga oggi a mezzogiorno a Pershing Square, e vedrà con i suoi occhi.» «Oggi non farete un bel niente a Pershing Square.» «E perché no?» «Ordini della Commissione del Parco.» «Con che autorità?» «Eh?» «In base a quale legge, disposizione od ordinanza negano ai privati cittadini il diritto di servirsi pacificamente di un luogo pubblico? Chi è il tipo insieme con lei?»
L'uomo più piccolo si presentò. «Mi chiamo Ferguson, dell'ufficio del Procuratore Distrettuale. Devo fermare il suo amico Huxley: c'è una querela a suo carico per diffamazione. E fermo anche voi due come testimoni.» Lo sguardo di Ben divenne, se possibile, ancora più freddo. «Avete un mandato?» domandò in tono cortesemente ironico. I due si guardarono e non risposero. Ben proseguì. «Allora è inutile continuare la conversazione, no?» E chiuse loro la porta in faccia. Si voltò verso i suoi compagni e sorrise. «Bene, ci stanno accerchiando. Vediamo che cosa raccontano i giornali.» Trovarono soltanto un pezzo che li riguardava. Non diceva nulla della dimostrazione che si proponevano di dare, ma riferiva che il dottor Brinckley aveva querelato Phil per diffamazione. «È la prima volta che quattro giornali cittadini rifiutano una notizia divertente,» commentò Ben. «Cosa intendi fare per la querela di Brinckley?» «Niente,» rispose Phil. «Se non, forse, diffamarlo ancora. Se lui insiste, avremo una splendida occasione per dimostrare in tribunale la verità delle nostre affermazioni. E questo mi ricorda una cosa: non vogliamo che nessuno interferisca nei nostri piani, oggi. Quei due scocciatori sono capacissimi di tornare qui con i mandati da un momento all'altro. Dove andremo a nasconderci?» Su proposta di Ben, trascorsero il resto della mattinata rintanati nella biblioteca pubblica, in centro. A mezzogiorno meno cinque presero un tassì e si fecero portare a Pershing Square. Scesero dal tassì e si trovarono fra le braccia di sei robusti poliziotti. «Ben, Phil, per quanto tempo dovrò ancora sopportare questa storia?» «Calma, piccola. Non impressionarti.» «Non mi impressiono, ma perché dobbiamo restare qui, quando potremmo svignarcela quando vogliamo?» «Proprio questo è il punto: possiamo andarcene quando vogliamo. Non ci avevano mai arrestati, prima: vediamo un po' come va.» A sera inoltrata erano raccolti attorno al caminetto, in casa di Joan. L'evasione non aveva presentato la minima difficoltà, ma avevano aspettato un'ora in cui la prigione era tranquilla per dimostrare che le mura di pietra
non possono trattenere una persona esperta dei poteri della mente. Ben stava parlando. «Direi che ormai abbiamo dati sufficienti per tracciare una curva.» «E quali dati?» «Dillo un po' tu.» «Benissimo. Siamo discesi dal Monte Shasta pensando di dovere vincere soltanto la stupidità, l'ignoranza e una dose normale di cattiveria e di ostinazione umane. Adesso sappiamo che c'è dell'altro. Ogni tentativo di porre gli elementi essenziali dell'antica conoscenza nelle mani della gente comune incontra una resistenza decisa e organizzata che tende a distruggere o a rovinare chiunque faccia il tentativo.» «C'è qualcosa di peggio,» lo corresse Ben. «Mentre riposavamo, in prigione, ho scrutato la città. Mi sono chiesto perché il Procuratore Distrettuale si interessava tanto a noi, perciò ho guardato nella sua mente. Ho scoperto da chi prende ordini, e ho guardato nella mente di costui. Ciò che ho scoperto mi ha interessato tanto che mi sono precipitato alla capitale dello Stato per vedere come vanno le cose laggiù. E questo mi ha riportato a Spring Street e al quartiere degli affari. Credetelo o no, a partire da quel punto ho dovuto studiare alcune delle 'vacche sacre' della nostra comunità: ecclesiastici, donne importanti, grandi affaristi e così via.» S'interruppe. «Beh, e allora? Non dirmi che ci sono dentro tutti quanti... altrimenti mi metto a piangere.» «No, e questa è la cosa più strana. Quasi tutti quei pezzi grossi sono brave persone, che ti farebbe piacere conoscere. Ma di solito... non dico sempre, ma di solito, le brave persone sono dominate da qualcuno di cui si fidano, qualcuno che le ha aiutate ad arrivare dove sono arrivate, e questi veri dominatori non sono brave persone, per dirla con un eufemismo. Non ho potuto entrare nelle menti di tutti, ma dove sono riuscito ad entrare, ho trovato le stesse cose che Phil ha trovato nella mente di Brinckley: la consapevolezza fredda e calcolata che il loro potere consiste nel tenere gli altri sprofondati nell'ignoranza.» Joan rabbrividì. «Che quadro simpatico, Ben... proprio la favoletta ideale da leggere prima di addormentarsi. E adesso cosa facciamo?» «Tu che cosa proponi?» «Io? Non sono arrivata a nessuna conclusione. Forse dovremmo affrontare quei tizi uno alla volta, e sistemarli.» «E tu cosa ne dici, Phil?»
«Non ho soluzioni migliori da proporre. Dovremo fare i piani per una bella campagna, comunque.» «Beh, io ho una proposta da fare.» «Sentiamo.» «Ammettiamo di esserci addossati, alla cieca, un compito superiore alle nostre forze. Ritorniamo al Monte Shasta e chiediamo aiuto.» «Ma, Ben!» Lo sbigottimento di Joan era un riflesso nell'espressione infelice di Phil. Ben continuò, ostinatamente. «Sicuro, lo so che è spiacevole, ma l'orgoglio costa troppo caro e l'impresa è troppo...» S'interruppe quando notò l'espressione di Joan. «Che c'è, piccola?» «Dovremo prendere una decisione in fretta... Una macchina della Polizia si è appena fermata qui davanti.» Ben si rivolse a Phil. «Che facciamo? Rimaniamo qui a combattere, o torniamo alla base a chiedere rinforzi?» «Oh, hai ragione tu. L'ho capito fin da quando ho dato un'occhiata alla mente di Brinckley... ma non volevo ammetterlo.» I tre uscirono nel patio, si presero per mano, e si innalzarono verticalmente nell'aria. XI LI GUIDERÀ UN FANCIULLO «Bentornati!» Ephraim Howe li accolse all'atterraggio. «Siamo felici di riavervi qui.» Li condusse nel suo appartamento privato. «Riposatevi, mentre riattizzo un po' il fuoco.» Collocò un ceppo di legno di pino sull'ampia griglia, girò la vecchia poltrona a dondolo in modo da trovarsi di fronte sia al fuoco che agli ospiti, e sedette. «E adesso raccontatemi tutto. No, non sono collegato con gli altri... potrete fare una relazione completa al Consiglio quando vi sentirete pronti.» «Ma in realtà, lei sa già tutto quello che ci è capitato, vero, signor Howe?» Phil guardò in faccia l'Anziano. «No, per la verità non lo so. Vi abbiamo lasciato fare a modo vostro, e Ling vi teneva d'occhio perché non vi capitasse nulla di male. Ma non mi ha riferito nulla.» «Molto bene, signore.» A turno, gli raccontarono tutto ciò che era acca-
duto; di tanto in tanto, lasciarono che vedesse direttamente, attraverso le loro menti, gli avvenimenti cui avevano preso parte. Quando ebbero terminato, Howe rivolse loro un sorriso ironico e chiese: «Quindi avete finito per riconoscere l'esattezza del punto di vista del Consiglio?» «No, signore!» Fu Phil a rispondere. «Siamo convinti della necessità di un'azione immediata e positiva più di quanto ne fossimo convinti quando ce ne siamo andati... ma siamo anche convinti che non siamo né abbastanza forti né abbastanza saggi per riuscire da soli. Siamo tornati per chiedere aiuto, e per pregare il Consiglio di abbandonare l'attuale politica d'insegnare soltanto a coloro che dimostrano di essere pronti. Bisogna invece darsi da fare e insegnare a tutte le menti che possano accettare l'insegnamento. «Vede, signore, i nostri antagonisti non aspettano. Sono sempre attivi. Hanno vinto in Asia, sono in progresso in Europa, possono vincere anche qui in America, mentre noi continuiamo ad aspettare l'occasione buona.» «Avete qualche metodo da proporci per affrontare il problema?» «No, ed è per questo che siamo ritornati. Quando abbiamo cercato di insegnare ad altri ciò che sapevamo, siamo stati fermati.» «Questo è il guaio,» convenne Howe. «Anch'io sono stato della vostra opinione per parecchi anni, ma si tratta di una cosa difficile. Ciò che noi possiamo dare non può venire scritto in un libro, o trasmesso per radio. Deve passare direttamente da una mente all'altra... quando troviamo una mente pronta per ricevere l'insegnamento.» Terminarono la discussione senza avere trovato una soluzione. Howe raccomandò loro di non preoccuparsi. «Andate,» disse, «e trascorrete qualche settimana in meditazione e in rapporto tra voi. Quando avrete un'idea che vi sembra buona, esponetecela, e convocheremo il Consiglio per esaminarla.» «Ma, Anziano,» protestò Joan, per tutti e tre. «Vede... Ecco, noi speravamo di poter avere il parere del Consiglio, per preparare un piano. Non sappiamo da dove incominciare, altrimenti non saremmo ritornati.» Howe scosse il capo. «Voi siete gli ultimi arrivati, i più giovani, i meno esperti di tutti i confratelli. E queste sono virtù, non difetti. Il fatto stesso che non abbiate trascorso anni ed anni a pensare in termini di ère geologiche e di razze vi dà un certo vantaggio. Un punto di vista troppo ampio, una visione troppo filosofica paralizzano la volontà. Voglio che voi tre consideriate il problema da soli.»
Fecero ciò che Howe aveva chiesto. Per settimane intere discussero il problema in rapporto, come una mente unica, lo esaminarono nelle conversazioni in cui usavano il linguaggio parlato, meditarono sulle sue ramificazioni. Scrutarono la nazione con la mente, esaminando gli spiriti umani che decidevano le azioni politiche e sociali. Con l'aiuto degli archivi impararono le tecniche con le quali la confraternita degli adepti si era intromessa, in passato, quando in America la libertà di pensiero e d'azione era stata minacciata. Proposero e respinsero dozzine di piani. «Dovremmo metterci in politica,» disse Phil agli altri due, «come hanno fatto in passato alcuni dei nostri fratelli. Se avessimo un Segretario all'Istruzione, scelto tra gli Anziani, potrebbe fondare un'Accademia Nazionale in cui prevalesse veramente la libertà di pensiero: e quella potrebbe essere la fonte per diffondere l'antica conoscenza.» Joan avanzò un'obiezione. «E se perdesse le elezioni?» «Eh?» «Anche con tutti i poteri straordinari degli adepti, sarebbe molto faticoso indurre i delegati di una convenzione nazionale e far nominare il nostro candidato, e poi farlo eleggere contro tutte le macchinazioni politiche, i gruppi di pressione, i giornali, i privilegiati, eccetera eccetera eccetera. «E ricorda anche questo: l'opposizione può giocare pesante quanto vuole, ma noi dobbiamo giocare correttamente, altrimenti vanificheremmo i nostri scopi.» Ben annuì. «Temo che abbia ragione Joan, Phil. Ma tu hai ragione in una cosa: è un problema di istruzione.» Si interruppe per riprendere a meditare, rivolgendo la mente in se stessa. Dopo un po' riprese a parlare. «Mi domando se abbiamo affrontato la questione dalla parte giusta. Abbiamo pensato di rieducare gli adulti, che sono già incanalati nei loro solchi. E i bambini? Loro non si sono ancora cristallizzati: non sarebbe più facile insegnare a loro?» Joan si sollevò a sedere, con gli occhi splendenti. «Ben, questa è la soluzione!» Phil scosse il capo, ostinato. «No. Mi dispiace farvi subire una doccia fredda, ma quel che proponete è impossibile. I bambini sono affidati continuamente alla cura degli adulti:
non ce la faremmo a superare questa muraglia. Non sperate di poter arrivare al di là dei consigli di amministrazione delle scuole locali: sono le piccole oligarchie più chiuse di tutto il sistema politico.» Erano seduti in mezzo ad un gruppetto di pini sulla base più bassa del Monte Shasta. Sotto di loro apparvero alcune figure umane, che salirono verso il punto in cui i tre si trovavano. La discussione fu interrotta quando gli escursionisti si avvicinarono. I tre li seguirono con lo sguardo, con interesse affettuoso e distratto. Erano tutti ragazzi dai dieci ai quindici anni, eccettuato il capo, che portava i suoi sedici anni con la seria dignità che si addice a chi è responsabile della sicurezza dei suoi protetti. Vestivano calzoncini corti e camicie color cachi, berretti da fatica, fazzoletti da collo ricamati con una conifera e la scritta: PATTUGLIA ALPINA - I SQUADRA. Ognuno di loro portava uh bastone ed uno zaino. Quando il drappello arrivò all'altezza dei tre adulti, il capo agitò un braccio in segno di saluto: le medaglie al merito che portava lampeggiarono nel sole. I tre ricambiarono il saluto, poi li guardarono allontanarsi su per il pendio. Phil li seguì con uno sguardo distaccato. «Quelli erano bei tempi,» disse. «Quasi li invidio.» «Anche tu eri dei loro?» fece Ben, che continuava a seguire i ragazzi con lo sguardo. «Ricordo come ero orgoglioso il giorno in cui mi hanno dato una medaglia per il pronto soccorso.» «Eri proprio nato per fare il dottore, eh, Ben?» commentò Joan, con un'occhiata materna di approvazione. «Io non... ehi!» «Che c'è?» «Phil! Ecco la soluzione! Ecco il modo di raggiungere i ragazzi nonostante i genitori e le direzioni didattiche!» Attivò il contatto telepatico: le sue idee fluirono prorompenti nelle menti degli altri. Entrarono in rapporto e perfezionarono i dettagli. Dopo qualche tempo Ben annuì e parlò a voce alta. «Potrebbe andare,» dichiarò. «Torniamo indietro e parliamone con Ephraim.» «Senatore Moulton, questi sono i giovani di cui le ho parlato.» Quasi intimidita, Joan guardò il volto dell'ometto dai capelli bianchi, il cui nome era diventato sinonimo di onestà. Provava lo stesso impulso di incrociare le mani e di inchinarsi che provava di fronte al Maestro Ling. Notò che
Ben e Phil faticavano a celare l'impaccio. Ephraim Howe proseguì: «Ho aiutato il loro progetto e ritengo che sia pratico. Se lei è d'accordo, il Consiglio lo adotterà. Ma dipende soprattutto da lei.» Il senatore li chiamò a sé con un sorriso, il sorriso che aveva addolcito i cuori di tanti duri politicanti di due generazioni. «Parlatemi del progetto,» invitò. Gliene parlarono: gli dissero che avevano tentato e fallito alla Western University, che si erano lambiccati il cervello per trovare la strada buona, che la vista di un gruppo di ragazzi impegnati in un'escursione aveva dato loro l'ispirazione. «Vede, senatore, se potessimo portare quassù, contemporaneamente, un numero sufficiente di ragazzi, troppo giovani per essere stati corrotti dall'ambiente, e già istruiti, come questi ragazzi, negli ideali dei tempi andati... la dignità umana, la solidarietà, l'autonomia, la bontà, tutte quelle cose che fanno parte del loro codice... se potessimo radunare cinquemila di questi ragazzi quassù, tutti insieme, potremmo insegnare loro la telepatia, e il metodo per insegnarla agli altri. «Una volta istruiti e ritornati a casa, potrebbero diventare, ciascuno, un centro per irradiare la conoscenza. Gli antagonisti non potrebbero mai arrestare questo processo: sarebbe troppo diffuso, ormai epidemico. In pochi anni, tutti i ragazzi di questo Paese sarebbero telepatici, e potrebbero insegnare anche agli adulti... a quelli che non sono diventati troppo fossilizzati e che possono ancora imparare. «E quando un essere umano è telepatico, possiamo guidarlo lungo il sentiero dell'antica saggezza!» Moulton annuì, mormorò fra sé e sé. «Sì. Sì. Si può fare. Per fortuna, il Monte Shasta è parco nazionale. Vediamo, chi c'è nella commissione? Ci vorrebbe una risoluzione congiunta e una disposizione apposita. Ephraim, amico mio, temo che sarò costretto a mercanteggiare un po' per riuscirci: mi perdonerete?» Howe ebbe un ampio sorriso. «Oh, dico sul serio,» continuò Moulton. «La gente è così cinica, così dura, quando si tratta di transazioni politiche... persino alcuni dei nostri fratelli. Vediamo: ci vorranno circa tre anni, credo, prima che si possa organizzare il primo campeggio...» «Tanto tempo?» Joan era delusa. «Oh, sì, mia cara. Ci sono due progetti di legge da presentare al Con-
gresso, e ci vorranno parecchie trattative per farli passare, dato che il calendario della legislatura è già molto pieno. Poi vi sono accordi da prendere con le società ferroviarie e di autotrasporti, perché concedano ai ragazzi sconti speciali sui prezzi dei biglietti. Dobbiamo dare l'avvio a una campagna pubblicitaria, per rendere popolare l'idea. I nostri fratelli hanno bisogno del tempo necessario per inserirsi nell'amministrazione del movimento, in modo che tra i dirigenti del campeggio vi sia un buon numero di adepti. Per fortuna, io sono uno dei fiduciari nazionali dell'organizzazione. Sì, in due anni posso farcela.» «Santo cielo!» protestò Phil. «Non sarebbe più semplice teletrasportare qui i ragazzi, istruirli, e teletrasportarli indietro?» «Lei non si rende conto di quello che sta dicendo, figliolo. Possiamo abolire la violenza servendoci della violenza? Ogni passo deve essere volontario, compiuto grazie alla ragione e alla persuasione. Ogni essere umano deve liberare se stesso: non gli si può imporre la libertà. Inoltre, due anni sono troppi per realizzare un'opera che attende d'essere realizzata fin dai giorni del Diluvio?» «Sono mortificato, signore.» «Non deve esserlo. È la sua impazienza giovanile che ha reso possibile tutto questo.» XII CONOSCERETE LA VERITÀ Sulle pendici inferiori di Monte Shasta, nei pressi di McCloud, l'accampamento s'ingrandiva. Quando l'ultima neve di primavera si nascondeva ancora nei canaloni più profondi e sui fianchi settentrionali dei costoni, i camion dell'Esercito arrivarono rombando per una strada che era stata costruita l'autunno prima dai genieri. Le tende a piramide vennero scaricate, montate in lunghe file nel cuore di una valletta dolcemente ondulata. Presero forma le cucine da campo, un'infermeria, il quartier generale. Campo Mark Twain stava passando dalla fase di progetto alla realtà. Il senatore Moulton aveva abbandonato la sua toga e indossava calzoncini, calzettoni, camicia cachi, e un cappello con la dicitura Direttore del Campo. Si aggirava dovunque, impartendo incoraggiamenti, prendendo decisioni, e intanto frugava, frugava le menti di tutti coloro che, per qualsiasi motivo, si avvicinavano al campo. Qualcuno aveva dei sospetti? Si era infiltrato qualcuno che poteva avere rapporti con gli adepti parziali av-
versi al vero scopo di quel campeggio? Era troppo tardi per permettere che qualcosa trapelasse, ormai... era troppo tardi, e la posta in gioco era troppo grande. Nel Middle West, nel Profondo Sud, a New York e nella Nuova Inghilterra, tra le montagne e sulla costa, i ragazzi preparavano le valige, acquistavano gli speciali biglietti a riduzione per Monte Shasta, parlavano del campeggio ai loro compagni invidiosi. E in tutto il paese gli antagonisti della libertà, della dignità umana, gli intrallazzatori, i politicanti corrotti, i mestatori, i profeti di false religioni, i trafficanti, gli individui con ambizioni autoritarie, tutti i personaggi-chiave del commercio che prospera sull'infelicità umana e sull'umana oppressione, parzialmente adepti a loro volta nelle arti della mente e perfettamente consci del pericolo costituito dalla libera conoscenza... tutta questa genìa immonda si agitava irrequieta e si domandava che cosa stava succedendo. Moulton non aveva mai preso iniziative che non fossero infauste per loro; il Monte Shasta era un luogo che non erano mai riusciti a toccare... ne odiavano persino il nome. Ricordarono certe vecchie storie, e tremarono (13). Tremarono, ma agirono. Speciali autobus intercontinentali si caricavano dei ragazzi prescelti... Si potevano corrompere gli autisti? Ci si poteva impadronire delle loro menti? Si potevano manomettere le gomme o il motore? I treni venivano presi d'assalto dai ragazzi. Era possibile girare un interruttore? Si poteva inquinare l'acqua potabile? Ma altri occhi osservavano. Un treno carico di ragazzi si avviò verso Ovest: a bordo, o in volo sopra di esso, con la percezione diretta che scrutava il territorio circostante e controllava i moventi di ogni mente in un raggio di parecchi chilometri, vi era almeno un adepto, con il compito specifico di far sì che quei ragazzi raggiungessero Monte Shasta sani e salvi. Probabilmente alcuni ragazzi non vi sarebbero mai arrivati, se i nemici della libertà umana non fossero stati colti alla sprovvista, non fossero stati così dubbiosi e disorganizzati. Infatti il male ha un difetto: non riesce ad essere veramente intelligente. Il suo stesso movente costituisce la sua debolezza. I tentativi compiuti per impedire che i ragazzi raggiungessero Monte Shasta furono sporadici e abortirono. Gli adepti, una volta tanto, erano passati all'offensiva, e agivano più in fretta e più razionalmente dei loro antagonisti. Quando i ragazzi furono arrivati al campeggio, uno schermo impenetra-
bile circondò tutto il Parco Nazionale di Monte Shasta. L'Anziano incaricò gli adepti di montare di guardia giorno e notte, con tutti i sensi di cui disponevano, per scoprire ogni spirito malvagio o meschino. Anche l'accampamento fu epurato. Due consiglieri e una ventina di ragazzi vennero rimandati a casa, quando un esame dimostrò che si trattava di anime già contaminate. I ragazzi non furono informati della loro deformità, e vennero trovate scuse plausibili per rimandarli. Il campo, in apparenza, era simile a migliaia di altri campi del genere. C'erano gli stessi corsi. Le corti d'onore si riunivano, come di consueto, per esaminare i candidati. La sera, attorno al fuoco, si cantavano i soliti cori, la mattina si eseguiva la stessa ginnastica prima di colazione. Non si notava neppure la particolare insistenza sul significato del giuramento e della legge dell'organizzazione. Ognuno dei ragazzi trascorse almeno una notte nei boschi, durante il periodo del campeggio. Partivano la mattina, in gruppi di quindici o venti, in compagnia di un consigliere. Il consigliere che guidava l'escursione era un adepto, anche se questo non era evidente. Ogni ragazzo portava con sé il sacco a pelo, lo zaino pieno di viveri, la borraccia, il coltello, la bussola e l'ascia. Quella notte si accampavano sulla riva di un ruscello montano, alimentato dai ghiacciai, che accompagnava il pasto serale con il suo mormorio. Phil partì con uno di quei gruppi una mattina, durante la prima settimana del campeggio. Girò attorno alla montagna, verso oriente, in modo da tenersi lontano dai luoghi frequentati abitualmente dai turisti. Dopo cena, sedettero tutti attorno al fuoco. Phil raccontò ai ragazzi storie dei santoni orientali e dei poteri loro attribuiti, parlò di San Francesco e degli uccelli. Era giunto a metà d'uno di questi racconti quando nel cerchio di luce lanciato dal fuoco apparve una figura. O meglio, tre figure. I ragazzi videro un vecchio, vestito alla Davy Crockett, fiancheggiato da due animali: a sinistra un puma, che fece le fusa quando vide il fuoco, a destra un cervo con le corna a tre palchi, che osservò serenamente i ragazzi con i suoi occhi scuri. In un primo momento, alcuni dei ragazzi si spaventarono, ma Phil disse loro, tranquillamente, di allargare il cerchio per far posto ai nuovi venuti. Restarono seduti in un silenzio discreto per qualche tempo, mentre i ragazzi si abituavano alla presenza degli animali. Poi un ragazzo accarezzò timidamente il gattone, che reagì rotolandosi sulla schiena e presentandogli il ventre morbido. Il ragazzo alzò lo sguardo verso il vecchio e gli parlò.
«Come si chiama, signor...» «Ephraim. Si chiama Libertà.» «Ma è buono! Come è riuscito ad addomesticarlo così?» «Lui legge i miei pensieri e ha fiducia in me. Molte cose sono buone, quando impari a conoscerle... e anche molta gente.» Il ragazzo rifletté, perplesso, per qualche istante. «Ma come fa a leggere i suoi pensieri?» «È facile. Anche tu puoi leggerli. Ti piacerebbe imparare come si fa?» «Caspita!» «Guardami negli occhi, per un momento. Ecco! E adesso guarda nei suoi.» «Ma... ma... credo di riuscirci davvero!» «Certo che ci riesci. Anche a leggere nei miei pensieri. Non sto parlando. Te ne sei accorto?» «Sì, è vero, non sta parlando. Le leggo nel pensiero!» «E io leggo nel tuo. È facile, non è vero?» Con la collaborazione di Phil, Howe riuscì, nel giro di un ora, a farli conversare tutti per mezzo del trasferimento del pensiero. Poi, per calmarli, raccontò loro altre storie per circa un'ora: erano storie che costituivano una parte importante del loro apprendistato. Aiutò Phil a farli addormentare, poi se ne andò, seguito dagli animali. La mattina seguente, Phil venne subito affrontato da un giovane scettico. «Senta, mi sono sognato tutto? Il vecchio, il puma e il cervo?» «Lo hai sognato?» «Ma adesso lei mi parla allo stesso modo!» «Certo. E anche tu. Adesso vai a dirlo agli altri.» Prima di ritornare all'accampamento, li esortò a non parlarne con nessuno dei ragazzi che non avevano ancora fatto l'escursione, e a provare invece i loro nuovi poteri con tutti i ragazzi che l'avevano già effettuata. Tutto andò bene fino a quando uno dei ragazzi fu costretto a rientrare a casa, perché era giunta la notizia della malattia di suo padre. Gli Anziani non vollero cancellargli dalla mente la nuova conoscenza: preferirono seguirlo attentamente. Dopo un po' di tempo il ragazzo parlò, e la voce arrivò quasi subito all'orecchio degli antagonisti. Howe ordinò di raddoppiare le precauzioni della sorveglianza telepatica. La pattuglia riuscì a tenere alla larga tutti i malintenzionati, ma non era abbastanza numerosa per tenere d'occhio ogni cosa. Scoppiò un incendio
nella foresta, sottovento rispetto al campo; e scoppiò di notte. Nessun essere umano si era avvicinato: evidentemente si erano serviti della telecinesi. Ma ciò che il telecontrollo sulla materia può fare, può anche disfarlo. Moulton spense le fiamme con la volontà, rifiutò loro il permesso di ardere, ordinò alle vibrazioni di fermarsi. Per il momento sembrava che il nemico avesse smesso di tentare di fare del male ai ragazzi, fisicamente. Ma non si era arreso. Phil ricevette una chiamata frenetica di uno dei ragazzi più giovani: doveva accorrere nella tenda dove viveva questo ragazzo. Il suo capopattuglia stava molto male. Phil trovò il giovane in uno stato isterico: gli altri ragazzi che dividevano con lui la tenda dovevano trattenerlo perché non si facesse del male. Aveva cercato di tagliarsi la gola con il coltello a serramanico, ed era diventato furioso quando uno degli altri ragazzi gli aveva bloccato la mano. Phil valutò rapidamente la situazione e chiamò Ben. «Ben! Vieni immediatamente. Ho bisogno di te.» Ben arrivò, sfrecciando nell'aria e varcando a volo l'ingresso della tenda, prima ancora che Phil avesse avuto il tempo di distendere il giovane sulla branda e di cercare di immergerlo nella trance. Gli altri ragazzi, sbalorditi, non ebbero quasi la possibilità di accorgersi che il dottor Ben era arrivato volando, che già lui era ritto normalmente accanto al capopattuglia. Ben comunicò con lui direttamente, escludendo dal circuito i ragazzi. «Che cosa succede?» «Lo hanno raggiunto... e lo hanno conciato male.» «In che modo?» «Hanno attaccato la sua mente. Hanno cercato di spingerlo al suicidio. Ma io ho scoperto chi è stato. Non indovineresti mai chi... Brinckley! «No!» «Senza il minimo dubbio. Sbrigati tu, qui: io vado da Brinckley. Dì all'Anziano di sorvegliare attentamente tutti i ragazzi che sono stati sensibilizzati alla telepatia. Ho paura che qualcuno di loro venga attaccato prima che possiamo insegnargli a difendersi.» E se ne andò, lasciando i ragazzi quasi convinti della realtà della levitazione. Non era giunto molto lontano, e stava ancora acquistando velocità, quando udì risuonare nella propria mente una voce gradita. «Phil! Phil! Aspettami!» Lui rallentò per qualche secondo. Una figura più piccola sfrecciò accanto a lui e gli afferrò la mano.
«Per fortuna sono rimasta collegata con voi due. Altrimenti saresti andato ad affrontare quel vecchio mascalzone senza di me.» Phil cercò di salvare la propria dignità. «Se avessi pensato che era necessaria la tua presenza, ti avrei chiamata, Joan.» «Sciocchezze! Potresti avere la peggio, affrontandolo da solo. E poi, voglio buttarlo in una fossa di catrame.» Phil sospirò e cedette. «Joan, mia cara, sei troppo assetata di sangue: dovrai passare almeno diecimila incarnazioni prima di raggiungere la beatitudine.» «Non voglio raggiungere la beatitudine. Voglio sistemare il vecchio Brinckley.» «Andiamo, allora. Acceleriamo.» Erano ormai a Sud del Tehachapi e si avvicinavano rapidamente a Los Angeles. Sorvolarono la Sierra Madre, sfrecciarono sopra la Valle di San Fernando, sfiorarono la cima di Monte Hollywood, e atterrarono sul prato della residenza del presidente, alla Western University. Brinckley li vide o li sentì arrivare, e cercò di fuggire, ma Phil lo bloccò. Subito lanciò un pensiero a Joan. «Non intrometterti, piccola, a meno che io ti chieda aiuto.» Brinckley non si arrese facilmente. La sua mente si avventò e cercò di sommergere quella di Phil. Huxley si sentì scivolare, indietreggiare sotto quell'aggressione malvagia. Gli sembrò di venire trascinato in basso, affogato nelle sabbie mobili. Ma si riprese e continuò a lottare. Quando Phil ebbe terminato di fare ciò che era necessario per il momento, si alzò e si asciugò le mani, come per ripulirsi della sozzura spirituale che aveva affrontato. «Andiamo,» disse a Joan. «Abbiamo poco tempo.» «Che cosa gli hai fatto, Phil?» La ragazza fissava, affascinata e insieme disgustata, la cosa che giaceva al suolo. «Roba da poco. L'ho messo in stasi. Devo risparmiarlo per servirmene... per un certo tempo. Su, ragazza mia, andiamocene di qui, prima che si accorgano della nostra presenza.» Schizzarono verso l'alto: il corpo di Brinckley veniva trascinato dietro di loro da uno stretto legame telecinetico. Si fermarono al di sopra delle nuvole. Brinckley galleggiava accanto a loro, con gli occhi sbarrati, la bocca
pendula, il volto roseo e liscio privo d'espressione. «Ben!» Era Huxley che trasmetteva. «Ephraim Howe! Ambrose! A me! A me! Presto!» «Arrivo, Phil!» rispose Coburn. «Ho sentito.» Quel pensiero calmo e forte rispecchiava le qualità dell'Anziano. «Che succede, figliolo? Mi dica.» «Non c'è tempo!» scattò Phil. «Venite qui tutti. Lei, Anziano, e tutti quelli che possono! Presto!» «Arriviamo.» Il pensiero era ancora calmo, imperturbato. Ma sul tetto della tenda di Moulton c'erano due buchi dagli orli sfrangiati. Moulton e Howe erano già lontani da Campo Mark Twain. Attraverso l'aria venne sfrecciando il manipolo di adepti che sorvegliavano il fuoco. Vennero da ottocento chilometri più a Nord, come piccioni viaggiatori che volano verso casa. Anche i consiglieri del campo, due terzi del gruppetto di vigilatrici, più alcuni altri da punti lontani del continente: vennero tutti rispondendo alla richiesta di aiuto di Huxley e al segnale d'allarme dell'Anziano, che non aveva mai avuto precedenti. Una casalinga spense il fuoco del forno e sparì nell'aria. Un tassista fermò la macchina e abbandonò i suoi clienti senza dire una parola. I gruppi di ricerca di Monte Shasta spezzarono il loro stretto rapporto, abbandonarono il loro amatissimo lavoro, e vennero... rapidissimi. «Allora, Philip?» Howe parlò oralmente, arrestando la sua traiettoria e rimanendo librato accanto a Huxley. Huxley indicò Brinckley con un gesto della mano. «Lui sa ciò che dobbiamo sapere per colpire! Dov'è il Maestro Ling?» «È rimasto a vegliare sul Campo, insieme alla signora Draper.» «Ho bisogno di lui. Signora Draper può farcela, da sola?» Chiara e dolce, la voce della donna gli risuonò nella mente, benché li dividesse uno spazio enorme. «Certo che posso!» «La tartaruga vola!» Quel secondo pensiero aveva l'immortale gaiezza che era la caratteristica inconfondibile del vecchio cinese. Joan sentì un lieve tocco nella propria mente: poi il Maestro Ling fu in mezzo a loro e sedette all'orientale nel vuoto, «Io sono presente; il mio corpo mi segue,» annunciò. «Possiamo procedere?» Allora Joan comprese che Ling aveva preso a prestito la facoltà della mente di lei per proiettarsi alla loro presenza più rapidamente di quanto a-
vrebbe potuto fare levitandosi attraverso quella enorme distanza. E si sentì inspiegabilmente lusingata per quella preferenza. Huxley incominciò subito. «Attraverso la sua mente,» e indicò Brinckley, «ho scoperto molti altri, con i quali è impossibile giungere a una tregua. Dobbiamo scovarli e sistemarli subito, prima che possano prendere qualche misura per evitare a se stessi ciò che è successo a lui. Ma ho bisogno d'aiuto. Maestro, vuole estendere il presente ed esaminarlo?» Ling aveva insegnato loro a discriminare il tempo ed a percepire il presente, a tenersi in disparte e a percepire la durata dell'eternità. Ma era incredibilmente più abile dei suoi allievi. Era in grado di scindere il batter d'ali d'una mosca in mille istanti separati, o di afferrare un millennio in un singolo lampo d'esperienza. La sua discriminazione del tempo e dello spazio non era vincolata né dal suo ritmo metabolico né dalle sue dimensioni. Ling pungolò imbarazzato il cervello di Brinckley, come se cercasse un gioiello smarrito nella spazzatura. Sondò gli schermi della memoria di quell'uomo e vide la sua vita in un'unica immagine. Joan, sbalordita, scorse il suo sorriso onnipresente cedere il posto a una smorfia di disgusto. Aveva tenuto aperta la propria mente a chiunque volesse osservare. Joan sbirciò, attraverso la mente del Maestro, poi si ritrasse. Se al mondo vi erano molti spiriti altrettanto malvagi, preferiva incontrarli uno alla volta, quando fosse stato necessario, e non sperimentarli tutti contemporaneamente. Il corpo del Maestro Ling raggiunse il gruppo e si fuse con la sua proiezione. Huxley, Howe, Moulton e Bierce seguirono con estrema attenzione il delicato lavoro del cinese. Il volto di Howe era impenetrabile e impassibile; quello di Moulton, al quale la vecchiaia aveva dato una sensibilità androgina, dondolava un poco, mentre egli mormorava la sua disapprovazione per tanta perversità. Bierce somigliava più che mai a Mark Twain, un Mark Twain in preda a un furore implacabile. Maestro Ling alzò lo sguardo. «Sì, sì,» disse Moulton. «Immagino che dobbiamo agire subito, Ephraim.» «Non abbiamo scelta,» dichiarò Huxley, ignorando inconsciamente ogni precedenza. «Vuole assegnare i compiti, Anziano?» Howe gli lanciò un'occhiata acuta. «No, Philip. No. Fai tu. Continua.» Huxley ebbe un moto di sorpresa subito trattenuto, poi riprese a parlare.
«Lei mi aiuterà, Maestro Ling. Ben!» «Presente!» Phil unì mente a mente, fece sì che Ling mostrasse l'avversario ed i dati indispensabili. «Tutto chiaro? Hai bisogno di aiuto?» «Mi basta nonno Stonebender.» «Benissimo. Vai e sistema tutto.» «Puoi contarci.» Ben si allontanò, in un fruscio di aria smossa. «Questo è suo, senatore Moulton.» «Lo so.» E Moulton sparì. Phil assegnò gli incarichi, singolarmente o in coppia, e tutti si allontanarono per fare ciò che doveva essere fatto. Non vi furono discussioni. Molti di loro sapevano da parecchio tempo, prima che Huxley se ne fosse reso conto, che sarebbe inevitabilmente venuto il momento dell'azione, ma avevano atteso con tranquilla serenità, impegnati nell'attività che li interessava, fino a quando il tempo aveva fatto schiudere il seme. Nello studio privo di finestre d'una casa di Long Island, isolato acusticamente, sbarrato e sorvegliato con ogni cura, elegantemente ammobiliato, erano radunate cinque persone: tre uomini, una donna, ed una cosa su una sedia a rotelle. La cosa stava folgorando gli altri con nero furore: li folgorava senza occhi, perché la sua fronte scendeva ininterrotta fino agli zigomi, in un'estensione liscia e giallastra. Una veste da camera, drappeggiata attorno alla sedia, mascherava, senza nasconderlo, il fatto che quell'essere era privo delle gambe. L'essere si afferrò ai braccioli della sedia. «Possibile che debba essere io solo a pensare per tutti voi, stupidi?» chiese con voce dolce e gentile. «Lei, Arthurson... ha permesso a Moulton di far passare al Senato il progetto di legge su Monte Shasta. Imbecille.» L'insulto venne proferito quasi con indifferenza. Arthurson si agitò sulla sedia. «Avevo esaminato la mente di Moulton. Si trattava di un progetto di legge innocuo. Era una specie di scambio con quella faccenda della Valle del Missouri. Glielo avevo detto.» «Ha esaminato la mente di Moulton, eh? Ehm... quello l'ha presa in giro, idiota. Un progetto di legge sul Monte Shasta? Ma quando voi idioti scriteriati capirete che dal Shasta non è mai venuto niente di buono?» E l'essere sorrise con aria di approvazione.
«Ma come potevo saperlo? Ho pensato che, anzi, un campeggio nei pressi della montagna avrebbe potuto confondere... loro.» «Idiota senza cervello. Verrà il momento in cui riterrò di poter fare a meno di lei.» L'essere non aspettò che la minaccia facesse effetto, ma proseguì. «Inutile insistere sull'argomento. Dobbiamo agire per riparare al danno. Adesso sono loro all'offensiva. Agnes...» «Sì,» rispose la donna. «Deve intensificare la sua predicazione...» «Io ho fatto del mio meglio.» «Non basta. Ho bisogno di un'ondata di isterismo religioso che spazzi via la Carta dei Diritti... prima che il campeggio di Shasta si concluda. Dovremo agire in fretta prima di quel momento, e non possiamo lasciarci intralciare da una quantità di ostacoli legali.» «Non è possibile.» «Stia zitta. È possibile. Questa settimana il suo tempio riceverà stanziamenti che lei userà per assicurarsi collegamenti televisivi su scala nazionale. A tempo debito, lei scoprirà un nuovo messia.» «Chi?» «Fratello Artemis.» «Quello? Quell'impostore da quattro soldi? E io che c'entro?» «Lei avrà la parte che le spetta. Ma non potrà guidare il movimento: la nazione non accetterebbe mai una donna al vertice della gerarchia. Voi due guiderete una marcia su Washington e prenderete il potere. I "Figli del '76" (14) rimpolperanno i vostri ranghi e si batteranno per le strade. Weems, questo è compito suo.» L'uomo che era stato interpellato fece obiezioni. «Ci vorranno tre, forse quattro mesi per indottrinarli.» «Le dò tre settimane. E stia attento a non commettere errori.» L'ultimo dei tre uomini intervenne. «Perché tanta fretta, Capo? Mi sembra che lei si faccia prendere dal panico a causa di quattro ragazzini.» «Sta a me giudicare. Lei deve organizzare un'epidemia di scioperi, per bloccare il paese al momento della marcia su Washington.» «Mi serviranno degli incidenti.» «Ci saranno. Lei pensi ai sindacati: io m'incaricherò personalmente della Lega dei Commercianti. Mi organizzi un piccolo sciopero per domani. Faccia mettere i suoi picchetti, e io farò in modo che quattro o cinque vengano uccisi. Questo farà scalpore. Agnes, lei terrà un sermone sull'argo-
mento.» «Con che intonazione?» L'essere levò al soffitto gli occhi inesistenti. «Devo proprio pensare io a tutto? È elementare. Usate il cervello.» L'uomo che aveva parlato per ultimo pesò con cura il sigaro e disse: «Qual è la vera ragione di tutta questa fretta, Capo?» «Ve l'ho detto.» «No, non l'ha detto. Ha tenuto la mente ben chiusa e non ci ha lasciato leggere i suoi pensieri neppure una volta. Sono mesi che lei sa del campeggio di Monte Shasta. Perché questa agitazione improvvisa? Non è che ha perso la testa, per caso? Avanti, fuori la verità. Non può pretendere che la seguiamo, se lei ha perso la testa.» L'essere privo di occhi lo scrutò attentamente. «Hanson,» disse, in tono ancora più soave, «sono mesi che lei sta provando le sue forze. Le piacerebbe arrivare a un confronto con le mie?» L'altro guardò il suo sigaro. «Non mi dispiacerebbe.» «Benissimo. Ma non questa notte. Non ho tempo di scegliere e di prepararmi nuovi luogotenenti. Perciò vi dirò la vera causa di questa urgenza. Non riesco a mettermi in contatto con Brinckley: le comunicazioni con lui si sono interrotte. Non abbiamo tempo...» «È vero,» disse una nuova voce. «Non avete tempo.» I cinque sussultarono come marionette, per girarsi nella direzione da cui veniva quella voce. Ritti fianco a fianco nello studio c'erano Ephraim Howe e Joan Freeman. Howe guardò l'essere. «Ho atteso per molto tempo questo incontro,» disse allegramente. «E ti ho riservato per me.» L'essere abbandonò la sedia a rotelle e si mosse nell'aria dirigendosi verso Howe. La sua posizione e l'altezza a cui si trovava davano la spiacevole sensazione che camminasse su gambe invisibili. Howe lanciò un segnale a Joan. «Ha incominciato. Può tenere a bada gli altri, mia cara?» «Credo di sì.» «Via!» Howe fece ricorso a tutto ciò che aveva imparato in cento e trent'anni di ininterrotta attività e si concentrò esclusivamente sul problema del control-
lo telecinetico. Evitò e rifiutò il contatto con la mente dell'essere malvagio che gli stava davanti e dedicò tutta la sua attenzione al compito di distruggerne l'involucro fisico. L'essere si fermò. Lentamente, lentamente come un palombaro preso in un'implosione, come un'arancia in uno spremiagrumi, i limiti spaziali in cui l'essere si trovava vennero ridotti. Un locus sferico nello spazio lo racchiuse, diminuì. L'essere si rattrappì, schiacciato. I moncherini atrofici delle gambe si ripiegarono contro il torso massiccio. La testa si chinò sul petto, per cercare di sfuggire alla pressione incessante. Per un istante raccolse la sua enorme potenza pervertita e lottò. Joan fu sconcertata, nauseata da quel rigurgito di malvagità. Ma Howe la sopportò senza mutare espressione; e la sfera continuò a contrarsi. Il cranio privo di occhi si spezzò. Subito, la sfera si contrasse fino alle minime dimensioni possibili. Una sfera del diametro di cinquanta centimetri restò librata nell'aria, una sfera i cui dettagli superficiali erano così ripugnanti che inducevano a distogliere lo sguardo. Howe mantenne immobile quel groviglio innocuo e disgustoso con una frazione della sua mente, e chiese: «Va tutto bene, mia cara?» «Sì, Anziano. Il Maestro Ling mi ha aiutata, quando ne ho avuto bisogno.» «L'avevo previsto. E adesso pensiamo agli altri.» Poi proseguì, parlando a voce alta. «Cosa preferite? Seguire la sorte del vostro capo, o dimenticare quello che sapete?» Afferrò l'aria con le dita e fece un gesto, come per schiacciare qualcosa. L'uomo dal sigaro urlò. «La ritengo una risposta,» disse Howe. «Benissimo, Joan, me li passi uno alla volta.» Agì sottilmente sulle loro menti, appiattendo gli schemi dei gradienti colloidali determinati dalla loro esperienza corporea. Pochi minuto dopo nella stanza c'erano quattro adulti sani di mente ma ridotti allo stato infantile... e un groviglio sanguinante sul tappeto. Coburn entrò in una stanza in cui non era stato invitato. «La scuola è finita, ragazzi,» annunciò allegramente. E puntò un dito verso uno dei presenti. «Questo per te.» La fiamma schizzò crepitando dal-
la punta del dito, lambì il suo avversario. «Sì, e per te.» Le fiamme scaturirono una seconda volta. «E per te». E un terzo ricevette la purificazione finale. Fratello Artemis, l'Uomo di Dio, fissò l'obiettivo della telecamera. «E se ciò che ho detto non è vero,» tuonò, «che il Signore mi fulmini!» Il verdetto del medico legale parlava di collasso cardiaco, ma questo non bastava a spiegare perché il cadavere era carbonizzato. Un raduno politico venne rapidamente rinviato perché l'oratore principale non si presentò. Un mendicante anonimo fu trovato riverso sulle sue matite e sul suo chewing-gum. Il direttore di diciannove aziende importantissime fece venire una crisi isterica alla sua segretaria, interrompendosi a metà di una dettatura per conversare con l'aria, prima di piombare in una allegra idiozia. Un celebre divo del cinema e della televisione scomparve. Vennero ripescati nei cassetti e completati in fretta e furia i necrologi di sette membri del Congresso, di parecchi giudici e di due governatori. Quella notte, il solito coro serale a Campo Mark Twain incominciò senza la presenza del direttore del campo, Moulton. Moulton assisteva alla conferenza plenaria degli adepti, che per la prima volta dopo molti anni si erano riuniti tutti, in carne e ossa. Joan si guardò intorno, quando entrò nella sala. «Dov'è il Maestro Ling?» domandò a Howe. Howe studiò per un attimo il viso di lei. Per la prima volta da quando l'aveva conosciuto, le parve che fosse momentaneamente impacciato. «Mia cara,» disse dolcemente, «deve comprendere che il maestro Ling rimaneva con noi non per il suo bene, ma per il nostro. La crisi che attendeva è stata superata: ciò che rimane ancora da fare dovremo farlo da soli.» Joan si portò una mano alla gola. «Vuol dire... vuol dire che...» «Era molto vecchio e molto stanco. Aveva continuato a far battere il proprio cuore, a far funzionare il proprio corpo solo grazie a un controllo continuo, durante gli ultimi quarant'anni.» «Ma perché non si è rigenerato?» «Non lo desiderava. Non potevamo pretendere che rimanesse qui per un tempo indeterminato, dopo che era divenuto adulto.»
«No.» Joan si morse le labbra tremanti. «No. Questo è vero. Noi siamo bambini, e lui ha altre cose da fare, ma... Oh, Ling! Ling! Maestro Ling!» E nascose il viso contro la spalla di Howe. «Perché piangi, Piccolo Fiore?» Joan rialzò la testa di scatto. «Maestro Ling!» «Può forse non essere ciò che è stato? Vi è passato o futuro? Hai imparato così male i miei insegnamenti? Non sono forse qui con te, come sempre?» Joan sentì nel pensiero l'immortale gaiezza vibrante, il gusto per la vita che erano la caratteristica del mite cinese. Con una parte della sua mente strinse la mano di Howe. «Mi scusi,» disse. «Avevo torto.» Si rilassò come le aveva insegnato Ling, lasciò fluire la propria coscienza nella fantasticheria che incorporava il tempo in un unico presente eterno. Howe, vedendola rasserenata, dedicò la sua attenzione alla riunione. Protese la propria mente e li collegò tutti nella rete telepatica della conferenza plenaria. «Credo che ognuno di voi sappia perché ci siamo riuniti.» pensò. «Io ho fatto il mio dovere per il tempo assegnatomi: ora entriamo in un altro periodo, più attivo, in cui sono necessarie qualità diverse dalle mie. Vi ho convocati per considerare e approvare la scelta del mio successore.» Huxley giudicò stranamente difficili da seguire quei messaggi trasmessi a mezzo del pensiero. Deve essere sfinito per la fatica, si disse. Ma Howe stava di nuovo pensando chiaramente. «Così sia: siamo tutti d'accordo.» Guardò Huxley. «Philip, accetta l'incarico?» «Cosa?!?» «Adesso l'Anziano è lei... per consenso unanime.» «Ma... ma... io non sono pronto.» «Noi riteniamo di sì,» rispose con calma Howe. «Ora sono necessarie le sue qualità. La responsabilità l'aiuterà a maturare.» «Su la testa, amico!» Era Coburn, con un messaggio personale. «È giusto, Phil.» Questa era Joan. Per un attimo, Huxley ebbe l'impressione di udire la risatina secca di Ling, la sua serena accettazione. «Tenterò,» rispose. L'ultimo giorno del campeggio Joan sedeva in compagnia della signora
Draper su una terrazza della Casa sul Shasta, affacciata sulla valle. Sospirò. La signora Draper alzò lo sguardo dal suo lavoro a maglia e sorrise. «Ti dispiace tanto che il campeggio sia finito?» «Oh, no. Anzi, sono contenta.» «Che c'è, allora?» «Stavo solo pensando... Abbiamo affrontato tante difficoltà per organizzare questo campeggio. Poi abbiamo dovuto lottare per proteggerlo. Domani quei ragazzi torneranno a casa... poi dovremo vegliare su ciascuno di loro, fino a quando cresceranno quanto basta per proteggersi da soli contro tutte le cose malvagie che ci sono ancora nel mondo. L'anno prossimo verrà un'altra schiera di ragazzi, e poi un'altra, e un'altra ancora. Non finirà mai?» «Certo che finirà. Non ricordi, negli antichi documenti, cosa ne fu degli Anziani? Quando avremo fatto ciò che dobbiamo fare qui, andremo dove vi sono altre cose da fare. La razza umana non è destinata a rimanere qui per sempre.» «Mi sembra che tutto questo non abbia mai fine.» «Infatti è così, se si parte da questo punto di vista, mia cara. Il modo per farlo apparire breve e interessante consiste nel pensare a quello che si farà dopo. Per esempio, tu, adesso, che cosa intendi fare?» «Io?» Joan assunse un'aria perplessa, poi il suo viso si schiarì. «Oh... oh... mi sposerò.» «L'immaginavo.» La signora Draper riprese a lavorare a maglia. XIII ... E LA VERITÀ VI FARÀ LIBERI Il globo girava ancora attorno al Sole. Le stagioni venivano e andavano. Il Sole splendeva ancora sulle montagne, sulle colline verdi, sulle vallate lussureggianti. Il fiume cercava il seno del mare, poi saliva alle nuvole, e ritrovava le montagne sotto forma di pioggia. Il bestiame pascolava nelle pianure brune, la volpe insidiava la lepre tra i cespugli. Le maree rispondevano all'attrazione della Luna, ed i gabbiani beccuzzavano la sabbia umida nell'onda della marea. La Terra era bella, la Terra era ricca: ribolliva di vita, brulicava di vita, traboccava di vita... in un flusso immenso. Ma l'uomo non c'era. Cercate sulle alte colline: cercatelo nelle pianure. Cercate le sue tracce nelle giungle verdi; chiamatelo; gridate per chiamarlo. Scendete nelle vi-
scere della terra, dove è stato; sondate le profondità buie del mare. L'uomo se ne è andato; la sua casa è vuota, e la porta è aperta. Una grossa scimmia, con il cervello troppo grande per le sue necessità e con uno spirito che la turbava, lasciò la sua tribù e cercò la quiete delle alture che si levavano al di sopra della giungla. Scalò la montagna, per ore ed ore, spinta da una necessità che comprendeva solo a mezzo. Raggiunse un luogo per riposare, lassù, al di sopra dei verdi alberi della sua patria, più in alto di quanto fosse mai giunto un membro della sua tribù. Trovò un'ampia pietra piatta, calda nel sole. Vi si sdraiò e dormì. Ma il suo sonno fu turbato. Sognò strani sogni, diversi da tutto ciò che conosceva. Quei sogni la svegliarono, le lasciarono la testa dolorante. Sarebbero trascorse molte generazioni prima che uno dei suoi discendenti potesse comprendere ciò che era stato lasciato lì da coloro che se ne erano andati. (1) Extra Sensorial Perception = percezione extrasensoriale (N.d.C). (2) J.B. Rhine (n. 1898) è uno dei più famosi parapsicologi americani, caposcuola del cosiddetto «metodo quantitativo». Ottenuta la cattedra di Filosofia e Psicologia alla Duke University di Durham (Carolina del Nord), nel 1927 iniziò esperimenti sistematici sulla telepatia, finché, nel 1930, cominciò le sue ricerche col «metodo quantitativo», che ha proseguito poi per oltre un quarantennio, fondando e dirigendo il locale Laboratorio di Parapsicologia. Nel 1937 diede vita a The Journal of Parapsychology e pubblicò il suo primo libro New Frontiers of the Mind (tr. it.: Nuove frontiere della mente, Mondadori, Milano 1950) seguito da diversi altri saggi, tra cui The Reach of Mind del 1947 (tr. it.: I poteri dello spirito, Astrolabio, Roma 1975) (N.d.C.) (3) La più esterna delle tre membrane (meningi) che avvolgono il cervello (N.d.C). (4) Disegnatore di fumetti americani. È noto perché nelle sue storie inseriva una serie di «invenzioni» surrealiste e paradossali (N.d.C). (5) Saggio pubblicato nel 1927 (tr. it.: Esperimento col tempo, Longanesi, Milano 1946), nel quale si delinea un metodo sperimentale per verificare l'esistenza di una funzione precognitiva nell'attività onirica (N.d.C). (6) Harry Houdini era un «mago» da palcoscenico, famosissimo nella prima metà di questo secolo (N.d.C). (7) Le critiche di Heinlein sono riconosciute valide, oggi, dalla maggio-
ranza delle scuole antropologiche. La ricerca dell'«anello di congiunzione» tra l'uomo e la scimmia è in pratica cessata, e si ammettono evoluzioni separate per le due specie. Recentissime scoperte confermano questo nuovo indirizzo di ricerca: nel corso di quaranta anni d'indagini in territorio africano sono venuti man mano alla luce reperti fossili che sono stati classificati di due specie. Da un lato vi sono i crani e altri resti portati a Raymond Dart, un anatomista dell'Università di Witwatersrand (Sud Africa), dal padrone di una cava di pietra di Taung, o trovati dallo stesso studioso a Makapansgat in Transvaal; rinvenimenti dello stesso genere vennero effettuati da Robert Broom e John Robinson a Sterkfontein, Swarktrans e Kromdrai sempre in Transvaal; dalla famiglia Leakey in Tanzania all'Olduvai Gorge, al Lago Natron e al Lago Rodolfo. Tutti questi reperti, pur presentando caratteristiche più evolute delle scimmie, erano diversi tra loro. Quelli della cava di Tuang appartenevano ad un individuo alto poco più di un metro, ad andatura eretta (e non protesa in avanti come una scimmia) e con la dentatura tipica dell'onnivoro: gli fu dato il nome di australopiteco africano. I resti trovati da Broom e Robinson a Swarktrans appartenevano invece a individui più grandi, con andatura quasi eretta ma con mandibola e dentatura possenti tipiche di una dieta sostanzialmente erbivora: fu chiamato australopiteco robusto. All'inizio degli Anni Sessanta una nuova scoperta sconvolse i dati acquisiti: Louis Leakey, direttore del Museo di Nairobi, trovò fossili diversi da tutti i precedenti: due frammenti di cranio, una mandibola, due mani incomplete, un piede sinistro. La capacità cranica sembrava nettamente superiore a quella degli australopitechi, le mani più adatte al lavoro, il piede all'andatura eretta. Insieme ai resti si rinvennero frammenti di pietra e d'osso che facevano pensare ad attrezzi, seppure molto primitivi. L'età venne stabilita intorno al milione e 750.000 anni. Ormai non si poteva più parlare di scimmia, ma di uomo, Homo abilis. Le opinioni degli antropologi a questo punto si divisero: l'Homo abilis era solo un australopiteco un po' più evoluto, oppure qualcosa di diverso? Insomma, l'uomo discendeva dalla scimmia secondo la teoria darwiniana, o da qualcosa di diverso come l'Homo abilis? Si dovevano stabilire concretamente due cose: i caratteri dell'Homo abilis potevano essere considerati semplici varianti individuali dell'australopiteco africano, o erano un che di distinto? L'Homo abilis era vissuto dopo gli australopitechi, o contemporaneamente ad essi? Yves Coppens, vicedirettore del Musée de l'Homme a Parigi, ha scoperto
nella regione etiopica di Wollo, a 200 chilometri dalle coste del Golfo di Aden, frammenti fossili di ben sette ominidi vissuti tre milioni e mezzo di anni fa. «Quelli che noi abbiamo trovato sono Homo abilis e dimostrano, insieme ai resti trovati da Mary Leakey a Laeotolil in Tanzania, che questo ominide viveva già tre milioni e mezzo di anni fa, cioè contemporaneamente agli australopitechi Resta da rispondere alla prima domanda: ecco perché è importante avere trovato i resti di sette individui che vivevano insieme; potremo finalmente vedere se le variazioni da individuo a individuo sono modeste, oppure se vanno dai caratteri dell'Homo abilis a quelle dell'australopiteco africano. È mia opinione, comunque, che, tra quattro e un milione di anni fa siano vissuti in Africa contemporaneamente tre ominidi diversi: il più primitivo, l'australopiteco, un vero uomo scimmia; l'australopiteco africano più piccolo ed evoluto; l'Homo abilis, il vero e più antico antenato dell'uomo sin qui vissuto. Gli ultimi due sono probabilmente cugini, nati da uno stesso antenato: un antenato che è ancora avvolto nel mistero» (cfr. Tempo n. 6, Milano, 9 febbraio 1976, pag. 99-100). (Per una esposizione chiara e dettagliata dell'intera questione, cfr. BJORV KIRTKS, Non dalle scimmie, Einaudi, Torino 1972) (N.d.C). (8) Ambrose Gwinett Bierce, nato in una fattoria dell'Ohio il 24 luglio 1842, fu una delle figure più interessanti della letteratura americana. Giornalista di grande valore scrisse su argomenti di costume e collaborò a creare la fama dell'editore Hearst. È celebre per i racconti ispirati alla Guerra di Secessione americana, e per la serie di storie d'argomento gotico e «orrido». Scomparve alla fine del 1913, in Messico, mentre seguiva la rivoluzione di Pancho Villa (N.d.C). (9) Nome della divinità del male nel pantheon nordico (N.d.C). (10) Fondatore della sètta dei Mormoni. Smith disse di aver ricevuto il 22 settembre 1827 da un angelo il Libro di Mormon, scritto su lastre di metallo. La comunità si organizzò nel 1830 nel Missouri e si trasferì poi nella regione dell'Utah (1850), intorno alla città del Lago Salato che divenne il centro dello Stato Teocratico dei Mormoni (N.d.C). (11) Saggista, poeta e narratore americano (1809-1894), ma di professione medico e docente di anatomia. Amico di Longfellow, è noto per la raccolta di articoli L'autocrate della prima colazione (1857) e per il romanzo Elsie Venner (N.d.C). (12) Poeta americano (1819-1892), la cui fama è affidata a Foglie d'erba, libro che apparve nel 1855 e poi venne man mano ampliato fino alla morte del suo autore (N.d.C).
(13) Secondo leggende di origine pellerossa, il Monte Shasta è popolato da creature malvagie, simili agli «abominevoli uomini delle nevi» detti Big Feel (Grandi Piedi) o Sasquatch. È una credenza tuttora viva: di recente, uno di tali esseri è stato anche filmato. Vedi: JACQUES BERGIER e GRUPPO INFO, Il libro dell'inesplicabile, Edizioni Mediterranee, Roma 1976 (N.d.C). (14) Associazione americana di stampo conservatore, che si richiama ai principi del movimento indipendentistico del 1776 (N.d.C). Titolo originale: LOST LEGACY (Super Science Stories, novembre 1941, con il titolo Lost Legion e a firma Lyle Monroe) ALTROQUANDO Dall'Evening Standard: UNO SCIENZIATO SFUGGE ALLA POLIZIA Scandalo in Municipio Il professor Arthur Frost, fermato per accertamenti a proposito della misteriosa scomparsa dalla sua abitazione di cinque suoi studenti, è fuggito oggi sotto il naso di una squadra di agenti di Polizia inviati a fermarlo. Il sergente Izowski ha affermato che Frost è scomparso dall'interno del furgone della Polizia in circostanze che lasciano perplessi. Il procuratore distrettuale Karnes ha dichiarato che la versione di Izowski è assurda ed ha promesso di fare svolgere le indagini più approfondite. «Ma, capo, non l'ho lasciato solo neanche per un secondo!» «Sciocchezze!» rispose il Capo della Polizia. «Lei sostiene di aver caricato Frost sul furgone, di aver messo un piede sul predellino per scrivere sul suo taccuino, e quando ha alzato gli occhi, quello era scomparso. E pensa che il Gran Giurì le crederà? Pensa che io le creda?» «È la verità, Capo,» insistette Izowski. «Mi sono solo fermato un attimo per scrivere...» «Per scrivere che cosa?»
«Qualcosa che lui aveva detto. Io gli avevo chiesto: 'Senta, dottore, perché non ci dice dove li tiene nascosti? Lei sa che li troveremo, con l'andar del tempo.' E lui per tutta risposta mi dà un'occhiata con aria distante, e dice: 'Il tempo, ah, il tempo... sì, potreste proprio trovarli, nel Tempo.' Io ho pensato che fosse un'ammissione importante e così mi sono messo a scrivere. Ma ero proprio davanti all'unico sportello dal quale lui poteva uscire dal furgone. E io non sono poi mica tanto piccolo: blocco lo spazio delle portiere.» «Ma non sa fare bene neanche quello,» commentò amaramente il Capo della Polizia. «Izowski, o lei era ubriaco, o era impazzito... oppure qualcuno l'ha aggredito. La spiegazione che mi dà lei è impossibile.» Izowski era sincero, non era ubriaco e non era pazzo. Quattro giorni prima, gli studenti del corso di Metafisica Speculativa, allievi del dottor Frost, si erano riuniti come al solito in casa del professore, per il seminario del venerdì sera. «E perché no?» stava dicendo Frost. «Perché il tempo non dovrebbe essere la quinta dimensione, oltre che la quarta?» Howard Jenkins, un ostinato studente d'ingegneria, rispose: «Non c'è niente di male nel formulare ipotesi, immagino: però si tratta di un problema privo di significato.» «Perché?» il tono di Frost era ingannevolmente soave. «Nessun problema è privo di significato,» interruppe Helen Fisher. «Ah sì? Quanto è alto lassù, allora?» «Lo lasci rispondere,» intervenne Frost. «Rispondo subito,» ribatté Jenkins. «Gli esseri umani sono strutturati per percepire tre dimensioni dello spazio e una dimensione del tempo. Che poi ve ne siano altre, per noi non ha alcun significato, perché non abbiamo alcun modo di saperlo... e non l'avremo mai. Ipotesi del genere sono soltanto un modo innocuo di perdere tempo.» «Davvero?» fece Frost. «Hai mai sentito parlare della teoria di J.W. Dunne, la teoria dell'universo seriale con tempo seriale? E Dunne è un ingegnere, come lei. E non dimentichi Ouspensky, che considerava il tempo multidimensionale» (1). «Un secondo, professore,» s'intromise Robert Monroe. «Ho letto le loro opere... però ritengo che Jenkins abbia sollevato una obiezione giustificata. Come è possibile che questo problema significhi qualcosa per noi, se non siamo strutturati per percepire altre dimensioni? È come la matematica...
lei può inventare tutte le matematiche che vuole, su qualunque serie di assiomi: ma se non può venire usata per descrivere qualche specie di fenomeno, è proprio aria fritta.» «Ben detto,» concesse Frost. «E le darò una risposta equa. La convinzione scientifica è basata sull'osservazione, effettuata direttamente, oppure sull'osservazione di un competente. Io credo in un tempo bidimensionale perché l'ho effettivamente osservato.» L'orologio fece udire il suo ticchettio per parecchi secondi. Finalmente Jenkins parlò. «Ma è impossibile, professore. Lei non è strutturato per osservare due dimensioni temporali.» «Piano, piano...» rispose Frost. «Io sono strutturato per concepirne una alla volta... e lo stesso vale per lei. Ve ne parlerò; ma prima devo spiegare la teoria del tempo che sono stato costretto a elaborare per poter spiegare la mia esperienza. In genere, la gente considera il tempo come un solco che si percorre dalla nascita alla morte, con l'inesorabilità di un treno che segue i binari... La gente ha la sensazione istintiva che il tempo segua una linea retta, che il passato sia indietro, e il futuro davanti. Ora, io ho motivo di credere... anzi so, che il tempo è analogo a una superficie piuttosto che a una linea: anzi, è analogo a una superficie collinosa, ondulata. Pensate alla pista che noi seguiamo sulla superficie del tempo come ad una strada tortuosa che si snoda attraverso le colline. Ogni tanto la strada si biforca, e le biforcazioni si addentrano in canaloni laterali. È a quelle biforcazioni che si prendono le decisioni importanti della vita. Potete svoltare a destra o a sinistra, in futuri completamente diversi. E qualche volta c'è una scorciatoia, grazie alla quale ci si può arrampicare su o giù per una proda e scavalcare qualche migliaio o qualche milione di anni... se non si tengono gli occhi così fissi sulla strada da non vedere quella scorciatoia. «Di tanto in tanto, un'altra strada incrocia la vostra. Né il suo passato né il suo futuro hanno un qualsiasi rapporto con il mondo che conosciamo. Se svoltaste in quella strada, potreste trovarvi su un altro pianeta in un altro spazio-tempo: e di voi e del vostro mondo resterà soltanto la continuità del vostro ego. «Oppure, se avete il coraggio e la forza intellettuale necessari, potete abbandonare le strade, i sentieri dell'alta probabilità, e incamminarvi attraverso le colline del tempo possibile, tagliando le strade che incontrate, seguendole per un breve tratto, addirittura percorrendole in senso contrario, con il passato davanti a voi e il futuro alle vostre spalle. Oppure potete va-
gare attorno alle vette, senza fare null'altro che l'estremamente improbabile. Non riesco a immaginare come può essere... forse un po' come l'avventura di Alice nello specchio. «Ora, per quanto riguarda le prove... A diciotto anni, dovetti prendere una decisione. Mio padre aveva subito un tracollo finanziario e io decisi di lasciare il college. Poi mi misi in affari, e per farla breve nel millenovecentocinquantotto fui condannato per truffa e finii in carcere.» Martha Ross l'interruppe. «Millenovecentocinquantotto, dottore? Vuol dire millenovecentoquarantotto? (2)» «No, signorina Ross. Sto parlando di avvenimenti che non sono accaduti su questa pista temporale.» «Oh!» Lei assunse un'espressione vacua e mormorò: «Se il Signore lo vuole, tutto è possibile.» «In carcere, ebbi tempo di pentirmi dei miei errori. Mi resi conto che non ero mai stato tagliato per gli affari, e desiderai ardentemente di avere continuato a studiare, molti anni prima. Il carcere ha un effetto strano sulla mente di un uomo. Mi allontanai sempre più dalla realtà, e presi a vivere sempre di più in un mondo introspettivo tutto mio. Una notte, in un modo che allora non mi era molto chiaro, il mio ego lasciò la cella, risalì il corso del tempo, e io mi svegliai nella mia stanza, nel dormitorio del mio college. «Questa volta mi comportai più saggiamente... Invece di abbandonare gli studi, mi trovai un lavoro per pagarmi l'università, mi laureai, continuai a studiare per conseguire la libera docenza, e finii per arrivare dove mi vedete adesso.» Fece una pausa e si guardò intorno. «Dottore,» chiese il giovane Monroe, «può darci un'idea di come sia accaduto?» «Sì,» assentì Frost. «Ho lavorato per molti anni su quel problema, cercando di ricatturare le condizioni di quel momento. Recentemente ci sono riuscito, e ho effettuato parecchie escursioni nel possibile.» Fino a quel momento la terza donna, Estelle Martin, non aveva fatto commenti, benché avesse ascoltato con la massima attenzione. Ora si tese in avanti e parlò con un bisbiglio intenso. «Ci dica come ha fatto, professor Frost!» «I mezzi sono molto semplici. La chiave di tutto sta nel convincere la mente subconscia che si può farlo.» «Allora l'idealismo di Berkeley è dimostrato!»
«In un certo senso, signorina Martin. Per ohi crede nella filosofia di Berkeley, le infinite possibilità del tempo bidimensionale offrono la prova che la mente crea il proprio mondo: ma un determinista spenseriano, come il nostro buon amico Howard Jenkins, non abbandonerebbe mai la strada della massima probabilità. Per lui il mondo deve essere meccanicistico e reale. Un cristiano ortodosso che crede nel libero arbitrio, come la signorina Ross, potrebbe scegliere tra molte strade laterali, ma probabilmente rimarrebbe in un ambiente fisico simile a quello di Howard. «Io ho perfezionato una tecnica che permette ad altri di viaggiare nella trama del tempo, così come ho fatto io. Ho l'apparecchio pronto, e chi vuole può provarlo. Questa è la vera ragione per cui ho sempre tenuto a casa mia queste riunioni del venerdì sera... perché al momento giusto tutti voi poteste tentare, se lo desiderate.» Si alzò e si accostò ad una specie di armadietto in un angolo della stanza. «Vuol dire che potremmo provare stanotte, dottore?» «Sì. È un processo di ipnotismo e di suggestione. In realtà, questi mezzi non sono strettamente indispensabili, ma è il modo più rapido per insegnare al subconscio come uscire dal suo solco e andare dove preferisce. Io adopero una sfera girevole per stancare la mente conscia e portarla all'ipnosi. Durante questo periodo, il soggetto ascolta una registrazione che suggerisce la strada temporale da seguire: e il soggetto la segue. È semplicissimo. Qualcuno di voi vuole provare?» «Può essere pericoloso, dottore?» Frost alzò le spalle. «Il processo non lo è... c'è solo un sonno profondo ed una registrazione. Ma il mondo del sentiero temporale che visitate è reale quanto il mondo di questa pista del tempo. Tutti voi avete compiuto i ventun anni. Non voglio spingervi a tentarlo: ve ne sto semplicemente offrendo la possibilità.» Monroe si alzò. «Io vado, dottore.» «Bene. Si sieda lì e si metta quella cuffia. C'è qualcun altro?» «Conti anche me.» Era Helen Fisher. Estelle Martin accettò a sua volta. Howard Jenkins le fu immediatamente al fianco. «Hai intenzione di tentare?» «Sicuro.» Jenkins si rivolse a Frost. «Ci sto anch'io, dottore.»
Finalmente, anche Martha Ross si unì agli altri. Frost li fece sedere dove potevano infilare le cuffie. «Ricordate le cose diverse che potete fare,» disse loro. «Deviare in un mondo diverso, dirigervi nel passato o nel futuro, o prendere una scorciatoia attraverso il labirinto delle piste possibili su di un sentiero di estrema improbabilità. Ho registrazioni per tutte queste eventualità.» Ancora una volta, Monroe fu il primo. «Io svolterò a destra, ad angolo retto, in un mondo nuovo di zecca.» Estelle non esitò. «Io voglio... come ha detto? Scalare una proda e portarmi su di una strada più alta, nel futuro.» «Anch'io,» disse Jenkins. «Io prenderò la pista delle possibilità remote,» dichiarò Helen Fisher. «Tutti hanno scelto, tranne la signorina Ross,» commentò il professore. «Temo che dovrà prendere un sentiero laterale nella probabilità. Le va bene?» Lei annuì: «Era proprio quello che intendevo chiedere.» «Benissimo. Tutte queste registrazioni contengono il comando postipnotico di ritornare in questa stanza tra due ore, calcolate su questa pista temporale. Mettete le cuffie. Le registrazioni durano trenta minuti. Le metterò in moto contemporaneamente alla sfera.» Diede un colpetto a una sfera scintillante e sfaccettata appesa ad un gancio del soffitto, prese a farla girare, e diresse su di essa il fascio di luce d'un piccolo riflettore. Poi fece scattare un interruttore. La sfera scintillante girava e girava, rallentava e invertiva la rotazione, continuamente. Il dottor Frost distolse lo sguardo per non rimanerne affascinato. Poco dopo, uscì nel corridoio per fumare una sigaretta. Passò mezz'ora: e risuonò un colpo di gong. Si affrettò a rientrare e accese la luce. Quattro dei cinque erano scomparsi. Era rimasto solo Howard Jenkins, che aprì gli occhi e sbatté le palpebre, sotto la luce. «Beh, dottore, mi pare che non abbia funzionato.» Il dottor Frost inarcò le sopracciglia. «No? Si guardi attorno.» Il giovane si guardò intorno. «Dove sono gli altri?» «Dove sono? In qualunque luogo possibile,» rispose Frost, scrollando le spalle. «E in qualunque tempo.»
Jenkins si strappò la cuffia e balzò in piedi. «Dottore, che cosa ha fatto a Estelle?» Frost staccò dolcemente la mano di Jenkins dal proprio braccio. «Non le ho fatto niente, Howard. È su un'altra pista del tempo.» «Ma io volevo andare con lei!» «E io ho tentato di mandarla insieme a Estelle.» «Ma perché non sono andato anch'io?» «Non saprei dirlo... probabilmente la suggestione non era abbastanza forte per vincere il suo scetticismo. Ma non si allarmi, figliolo. Dovrà ritornare qui fra un paio d'ore, lo sa.» «Non si allarmi! È facile dirlo. Non volevo che Estelle ci provasse, tanto per cominciare, ma sapevo che non sarei riuscito a farle cambiare idea, perciò ho voluto seguirla per vegliare su di lei... ha così poco senso pratico! Ma senta, dottore... dove sono i loro corpi? Pensavo che saremmo rimasti qui, in questa stanza, in stato di trance.» «A quanto pare, non mi ha compreso. Le altre piste del tempo sono reali quanto quella in cui ci troviamo. Tutti i loro esseri si sono avviati su altre vie: come se avessero svoltato per strade laterali.» «Ma è impossibile... contraddice la legge della conservazione dell'energia!» «Deve imparare a riconoscere una realtà, quando la vede... Sono andati tutti. Inoltre, questo non contraddice la legge della conservazione dell'energia... si limita ad ampliarla fino a includere tutto l'universo.» Jenkins si passò una mano sul volto. «Sì, penso di sì. Ma in questo caso... tutto ciò che può capitare a Estelle... potrebbe addirittura venire uccisa, laggiù. E io non ne so niente! Oh, vorrei non aver mai frequentato questo maledetto seminario!» Il professore gli posò una mano sulla spalla. «Dato che non può aiutarla, perché non si calma? E poi, non ha ragione di ritenere che Estelle si trovi in pericolo. Perché cercarsi delle preoccupazioni? Andiamo in cucina e apriamo una bottiglia di birra, mentre aspettiamo che ritornino.» E lo spinse dolcemente verso la porta. Dopo un paio di birre e qualche sigaretta, Jenkins si era un po' calmato. Il professore guidava la conversazione. «Come mai si è iscritto a questo corso, Howard?» «Era l'unico corso che potevo frequentare insieme a Estelle.» «L'immaginavo. E io gliel'ho lasciato frequentare per ragioni mie. Sapevo che la filosofia speculativa non le interessava molto, ma pensavo che il
suo ostinato materialismo sarebbe servito a frenare un po' i pensieri assurdi che si scatenano sempre in un corso del genere. Lei mi è stato di aiuto. Prenda Helen Fisher, per esempio. Tende a costruire ragionamenti brillanti sulla base di dati insufficienti. Lei ha contribuito a tenerla con i piedi sulla terra.» «Per essere sincero, dottor Frost, non ho mai capito la necessità di questo tipo di discussione. A me piacciono i fatti.» «Ma voi ingegneri non siete migliori dei metafisici... ignorate tutti i fatti che non possono venir pesati su una bilancia. Se non potete mordere una cosa, la giudicate irreale. Credete in un universo meccanicistico, deterministico, e ignorate la realtà della coscienza umana, della volontà umana e dell'umana libertà di scelta... fatti che pure avete sperimentato direttamente.» «Ma tutte queste cose possono venir spiegate in termini di riflessi.» Il professore allargò le braccia. «Lei parla proprio come Martha Ross... quella crede di spiegare tutto per mezzo dell'ortodossia biblica. Ma perché voi due non ammettete che vi sono alcune cose che non riuscite a capire?» S'interruppe e inclinò la testa. «Non sente niente?» «Mi sembra di sì.» «Andiamo a controllare. È presto, ma forse qualcuno è già tornato indietro.» Si precipitarono nello studio, e si trovarono di fronte a uno spettacolo incredibile, sconvolgente. Nell'aria, accanto al camino, stava librata una figura avvolta in una tunica bianca, raggiante di una luce madreperlacea. Mentre i due uomini si arrestavano esitanti sulla soglia, la figura volse la faccia verso di loro, e videro che aveva i lineamenti di Martha Ross. «La pace sia con voi, fratelli miei.» Un'ondata di pace e affettuosa bontà fluì su di loro, come una benedizione materna. La figura si avvicinò, e i due uomini videro che dalle sue spalle spuntavano le lunghe, ampie ali bianche degli angeli. Frost imprecò sottovoce, spassionatamente. «Non temete. Sono ritornata, come mi avevate chiesto: sono ritornata per spiegarvi e per aiutarvi.» Il dottore ritrovò la voce. «È Martha Ross?» «Rispondo a questo nome.» «Che le è accaduto, dopo che si è messa la cuffia?»
«Nulla. Ho dormito un poco. Quando mi sono svegliata, sono andata a casa.» «Nient'altro? E come spiega il suo aspetto?» «Il mio aspetto è quello che voi figli della Terra attribuite ai Redenti dal Signore. Nel corso del tempo sono stata missionaria nel Sud America. Là mi fu chiesto di abbandonare la vita mortale al servizio del Signore. E così sono entrata nella Città Eterna.» «È andata in paradiso?» «Da molti eoni io siedo ai piedi del Trono Aureo e canto osanna al Suo nome.» Jenkins li interruppe. «Dimmi, Martha... o Santa Martha... dov'è Estelle? L'hai vista?» La figura si girò lentamente verso di lui. «Non temere.» «Ma dimmi dov'è!» «Non è necessario.» «Questo non è un aiuto,» ritorse lui, amareggiato. «Ti aiuterò: ascoltami. Ama il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, e ama il tuo prossimo come te stesso. Questo è tutto ciò che bisogna sapere.» Howard rimase in silenzio, incapace di trovare una risposta, ma insoddisfatto. Poi la figura riprese a parlare. «Devo andare. Il Signore vi benedica.» Lampeggiò e scomparve. Il professore prese il braccio del giovane. «Andiamo a prendere un po' d'aria.» Trascinò via Jenkins che, muto, non opponeva resistenza, lo portò fuori in giardino. Camminarono in silenzio per qualche minuto. Finalmente Howard formulò una domanda. «Abbiamo visto davvero un angelo, là dentro?» «Credo di sì, Howard.» «Ma è pazzesco!» «Ci sono milioni di persone che non la penserebbero così... È certamente insolito, ma non pazzesco.» «Ma è contrario a tutte le convinzioni moderne... il paradiso... l'inferno... un Dio... la resurrezione. Tutto ciò in cui ho creduto deve essere sbagliato, altrimenti vuol dire che sono diventato pazzo.» «Non è necessario... e neppure probabile. Sono convinto che lei non vedrà mai né il paradiso né l'inferno. Seguirà una pista nel tempo in armonia con la sua natura.» «Ma sembrava così reale!»
«Era veramente reale. Sospetto che l'aldilà convenzionale sia reale per chi vi crede con tutto il cuore, come vi credeva evidentemente Martha. Ma prevedo che lei, invece, seguirà una pista in armonia con le convinzioni di un agnostico... eccetto in una cosa: quando morirà, non morirà completamente, per quanto possa affermare di aspettarselo. È un'impossibilità emotiva, per ogni uomo, credere nella propria morte. Un autoannientamento del genere è impossibile. Lei avrà un aldilà, ma sarà adatto a un materialista.» Howard, però, non lo ascoltava: si tormentava il labbro inferiore, con la fronte aggrottata. «Senta, dottore, perché Martha non ha voluto dirmi che cosa è successo a Estelle? È stata una grossa cattiveria.» «Non credo che lo sapesse, ragazzo mio. Martha ha seguito una pista temporale solo lievemente diversa da quella in cui ci troviamo noi stessi. Estelle ha scelto di esplorarne una molto lontana nel passato o nel futuro. A tutti i fini pratici, ogni sentiero non esiste per tutti gli altri.» In quel momento, udirono una voce che chiamava dalla casa: una chiara voce di contralto. «Dottore! Dottor Frost!» Jenkins ruotò fulmineo su se stesso. «È Estelle!» Rientrarono correndo in casa: il dottore cercava coraggiosamente di non farsi distanziare da Jenkins. Ma non era Estelle. Nel corridoio c'era Helen Fisher, con il maglioncino lacero e strappato, senza calze, e una cicatrice a malapena chiusa su di una guancia. Frost si fermò di colpo e la scrutò. «Sta bene, figliola?» domandò. Lei sogghignò, puerilmente. «Io sto benissimo. Guardi invece la faccia di Howard!» «Ci racconti tutto.» «Fra un attimo. Che ne direbbe di offrire un po' di caffè alla figliola prodiga? E non storcerei il naso neppure davanti ad un piatto di uova strapazzate con qualche... con molte fette di pane tostato. Dove sono stata io, i pasti avevano l'abitudine di essere irregolari.» «Sì, certo, subito,» rispose Frost. «Ma dove è stata?» «Mi lasci mangiare, la prego,» implorò la ragazza. «Non ce l'ho con lei. Perché Howard ha l'aria così acida?» Il professore bisbigliò una spiegazione. Helen lanciò a Jenkins un'occhiata compassionevole.
«Oh, non è tornata? Credevo di esser io l'ultima. Sono stata via così a lungo. Che giorno è?» Frost consultò l'orologio che portava al polso. «È ritornata puntuale: sono le undici proprio adesso.» «Per tutti i diavoli! Oh, mi scusi, dottore. 'Curioso, curioso', come diceva Alice. Tutto in un paio d'ore. Tanto per la cronaca, sono stata via almeno parecchie settimane.» Quando la terza tazza di caffè ebbe fatto seguito all'ultima fetta di pane tostato, Helen incominciò a raccontare. «Quando mi sono svegliata, stavo cadendo verso l'alto... attraverso un incubo... molti inalbi. Non mi chieda di descriverle questo... Nessuno sarebbe in grado di farlo. È durato per una settimana, forse, poi le cose hanno incominciato a mettersi più a fuoco. Non so in che ordine siano successi gli eventi, ma quando ho incominciato a capirci qualcosa, ero in piedi in una valletta brulla. Faceva freddo, e l'aria era rarefatta e acre. Mi bruciava la gola. In cielo c'erano due soli, uno grande e rossastro, l'altro più piccolo, e così luminoso che era impossibile guardarlo.» «Due soli!» esclamò Howard. «Questo non è possibile. Le stelle binarie non hanno pianeti.» Helen lo guardò. «Pensala come vuoi... io c'ero, e li ho visti. E mentre osservavo tutto questo, qualche cosa è passato fulmineamente sopra di me, e io mi sono piegata per schivarlo. Ed è stata l'ultima volta che ho visto quel posto. «Poi, sono discesa sulla Terra... o almeno sembrava la Terra. In una città. Era una città grande e complicata. Ero in una strada piena di traffico. Mi sono fatta avanti e ho cercato di fermare uno di quei veicoli, una cosa che sembrava un bruco, lunghissima, con una cinquantina di ruote. Ma in quel momento ho visto che cosa la stava guidando, e mi sono affrettata a tirarmi indietro. Non era un uomo; e non era neanche un animale... almeno, non un animale che io avessi mai visto o sentito nominare. Non era un uccello, né un pesce, né un insetto. Il dio che aveva inventato gli abitanti di quella città non merita di essere adorato. Non so che cosa fossero, ma strisciavano e puzzavano. Puah! «In quel posto cercavo di stare sempre rintanata,» continuò. «È andata così per un paio di settimane, prima che recuperassi la capacità di balzare su un'altra pista del tempo. Ero disperati, perché pensavo che la suggestione di ritornare qui non avesse funzionato. Non riuscivo a trovare molto da mangiare, ed ero quasi sempre stordita. Bevevo attingendo in quello che
sospetto fosse il sistema di fognatura, ma non c'era nessuno cui chiederlo e preferivo non saperlo. Avevo sete, e basta.» «Hai visto qualche essere umano?» «Non ne sono sicura. Ho visto alcune figure che potevano essere uomini, acquattati in cerchio, nelle gallerie sotto la città: ma qualcosa li ha spaventati, e sono corsi via prima che potessi avvicinarmi abbastanza per vederli bene.» «E che altro è accaduto, in quel posto?» «Niente. Quella stessa notte ho recuperato la capacità di muovermi nel tempo e me ne sono andata più in fretta che ho potuto. Temo di avere perduto lo spirito scientifico, professore... e non m'importava sapere come viveva quella gente. «Questa volta ho avuto più fortuna. Ero di nuovo sulla Terra, ma in mezzo a colline piacevolmente ondulate, come i monti del Blue Ridge. Era estate, e tutto era bellissimo. Ho trovato un ruscello, mi sono tolta i vestiti e ho fatto il bagno. Era meraviglioso. Poi ho trovato delle bacche mature, le ho mangiate, e mi sono sdraiata al sole. Mi sono addormentata. «Mi sono svegliata di soprassalto. Qualcuno era piegato su di me. Era un uomo, ma tutt'altro che bello. Era un uomo di Neanderthal. Avrei dovuto scappare, ma prima ho cercato di afferrare i miei vestiti, così lui è riuscito ad afferrarmi. Mi ha portata al suo accampamento. Sembrava un po' il ratto delle Sabine... io con il mio vestito sportivo nuovo raggomitolato sotto il braccio. «Non ero capitata troppo male. Era stato il capo a trovarmi, e sembrava che mi considerasse come una strana bestiola domestica, un po' come i cani che ringhiavano attorno al mucchio delle ossa, e non come una del suo harem. Mangiavo abbastanza bene, posso dirvi, se non siete schizzinosi... io non ero più schizzinosa, dopo aver vissuto nel ventre di quella città spaventosa. «L'uomo di Neanderthal, in fondo, non è cattivo: anzi, ha piuttosto un buon carattere, anche se gli piace giocare duro. È così che mi sono procurata questo.» Si toccò la cicatrice sulla guancia. «Avevo quasi deciso di restare lì un po' e di studiarli, quando un giorno ho commesso un errore. Era una mattina fredda e così ho messo i miei vestiti, per la prima volta da quando ero arrivata lì. Uno dei giovani maschi mi ha vista, e credo che vedermi vestita abbia risvegliato la sua natura romantica. Il capo era via, in quel momento, e non c'era nessuno che potesse fermarlo. «Mi ha abbrancata prima che io capissi quello che stava succedendo e ha
cercato di dimostrarmi il suo affetto. Sei mai stato abbracciato da un uomo delle caverne, Howard? Hanno l'alito cattivo, per non parlare poi del puzzo. Ero troppo sconvolta per concentrarmi e passare in un altro tempo, altrimenti me la sarei squagliata immediatamente e lo avrei lasciato ad abbracciare l'aria.» Il dottor Frost era sbigottito. «Santo cielo, bambina! Che cosa ha fatto?» «Ho finito per mostrargli una mossa di jiu-jitsu che avevo imparato ai corsi di educazione fisica, poi sono scappata come il vento e mi sono arrampicata su un albero. Ho contato fino a cento e ho cercato di calmarmi. Poco dopo stavo sfrecciando verso l'alto, in un altro incubo... e ne ero felice.» «E poi è ritornata qui?» «Neanche per idea... sono finita peggio. Sono atterrata in questo presente, sicuro, e apparentemente in questa dimensione del tempo, ma c'erano parecchie cose che non andavano. Ero ferma sul lato sud della Quarantaduesima Strada a New York. Sapevo dov'ero perché la prima cosa che ho visto è stata la scritta luminosa che gira attorno al palazzo del Times, e che riporta le ultime notizie. La scritta correva a rovescio. Stavo cercando di decifrare DETROIT BATTE YANKEES NOVE A ZERO, quando ho visto due poliziotti, vicino a me, che correvano con tutte le loro forze... all'indietro.» Il dottor Frost represse un'imprecazione. «Che cosa ha detto?» chiese la ragazza. «Entropia invertita... è entrata nella pista a ritroso... la sua lancetta del tempo girava a rovescio.» «L'ho immaginato, appena ho avuto il tempo di pensarci. Ma in quel momento ero troppo occupata. Ero in uno spazio libero, in mezzo alla folla, ma il cerchio di persone mi si stringeva attorno, e tutti correvano all'indietro. I poliziotti sono spariti in mezzo alla ressa, e la gente è corsa proprio verso di me, sì è fermata e ha incominciato a urlare. Proprio in quel momento è scattato il semaforo, e le macchine sono arrivate da entrambe le direzioni, correndo all'indietro. È stato troppo per la piccola Helen. Sono svenuta. «Poi mi è sembrato di scivolare attraverso una quantità di posti...» «Un momento,» l'interruppe Howard. «Prima che cos'era successo? Credevo di conoscere un po' l'entropia, ma questa storia mi lascia di sasso.» «Beh,» spiegò Frost, «il modo più semplice per spiegarlo è dire che Helen viaggiava a ritroso nel tempo. Il suo futuro era il passato degli altri,
e viceversa. Sono contento che se ne sia andata in fretta e furia. Non sono sicuro che il metabolismo umano possa rimanere inalterato in condizioni del genere.» «Uhm... continua, Helen.» «Scivolare così attraverso gli assi sarebbe stato sconvolgente, se io non fossi stata emotivamente esausta. Mi sono messa tranquilla a guardare, come se fosse un film. Credo che la sceneggiatura l'avesse scritta Salvador Dalì. Ho visto panorami sollevarsi e ondeggiare come un mare in tempesta. La gente si fondeva nelle piante... credo che qualche volta anche il mio corpo sia cambiato, ma non posso esserne sicura. Una volta mi sono trovata in un posto che era tutto interni, invece che esterni. È meglio saltare un po' di quelle cose... non le credo neppure io. «Poi ho rallentato in un posto che doveva avere una dimensione spaziale in più. A me sembrava tutto tridimensionale, ma le cose cambiavano forma quando pensavo a loro. Quando mi sono stancata di spiare i segreti intimi delle rocce e delle piante, ho guardato me stessa, e le cose sono andate allo stesso modo. Adesso conosco l'anatomia e la fisiologia meglio di un medico. È strano guardare battere il proprio cuore... è buffo. «Ma avevo l'appendice gonfia e infiammata. Ho scoperto che potevo toccarla con le mani... doleva. Mi avrebbe dato dei fastidi, e così ho deciso di eseguire un'operazione d'emergenza. L'ho staccata con le unghie. Non mi ha fatto male; sono uscite due o tre gocce di sangue, e subito si è chiusa.» «Santo cielo, figliola! Avrebbe potuto farsi venire la peritonite e morire!» «Non credo. Credo che i raggi ultravioletti mi attraversassero e così uccidessero i germi. Ho avuto la febbre per un po', ma credo che fosse provocata da una brutta insolazione interna. «Ho dimenticato di dire che in quel posto non potevo camminare, perché non riuscivo a toccare altro che me stessa. Passavo attraverso tutte le cose che cercavo di afferrare. Presto ho rinunciato a ogni tentativo e mi sono rilassata. Era piacevole, e sono piombata in un torpore caldo e felice, come un orso in ibernazione. «Dopo molto tempo... molto, molto tempo, mi sono addormentata profondamente e mi sono svegliata qui sulla sua poltrona. È tutto.» Helen rispose alle domande ansiose di Howard spiegandogli che non aveva visto Estelle.
«Ma perché non ti calmi e l'aspetti? Non è ancora in ritardo.» Furono interrotti dal suono della porta del corridoio, che si stava aprendo. Una figura bassa e robusta, che indossava una tunica marrone con il cappuccio ed una calzamaglia dello stesso colore entrò a grandi passi nella stanza. «Dov'è il dottor Frost? Oh... dottore, ho bisogno d'aiuto!» Era Monroe, ma era cambiato al punto di essere diventato quasi irriconoscibile. Prima era basso e snello, ma adesso non arrivava a un metro e cinquantacinque, e aveva muscoli poderosi. Il costume marrone dal cappuccio a punta lo faceva assomigliare stranamente alle immagini popolari degli gnomi. Frost gli corse incontro. «Che c'è, Robert? Che aiuto posso darle?» «Prima guardi qui.» Monroe si piegò per scrutarsi il braccio sinistro. Il tessuto della manica era lacerato e bruciato, e mostrava una brutta ustione. «Mi ha appena sfiorato, ma sarà meglio fare qualcosa, se voglio salvarmi il braccio.» Frost esaminò l'ustione senza toccarla. «Dovremmo portarla subito in ospedale, ragazzo mio.» «Non c'è tempo. Devo tornare indietro. Hanno bisogno di me... e dell'aiuto che potrò portare.» Il dottore scosse il capo. «Ha bisogno di cure, Bob. Anche se è necessario che torni nel posto da cui è venuto, adesso, qui, è in una pista temporale diversa. Il tempo perduto qui non è obbligatoriamente perduto anche là.» Monroe l'interruppe bruscamente. «Credo che questo mondo e il mio mondo abbiano ritmi temporali collegati. Devo affrettarmi.» Helen Fisher si piazzò in mezzo a loro. «Fammi vedere quel braccio, Bob. Uhm... brutto affare, ma credo di poterlo sistemare. Professore, metta un bricco sul fuoco, e gli versi dentro circa una tazza d'acqua. E appena bolle, butti nell'acqua una manciata di foglie di tè.» Helen frugò nel cassetto dei coltelli da cucina, trovò un paio di forbici, tagliò con cura la manica e pulì la carne ustionata per prepararla alla medicazione. Mentre lei lavorava, Monroe continuava a parlare. «Howard, devi farmi un favore. Prendi carta e matita e stendi questo elenco. Voglio una quantità di cose da riportarmi via... puoi trovarle tutte
nella sede della nostra confraternita studentesca. Dovrai andarci tu... mi butterebbero fuori, se mi vedessero così... Che ti prende? Non vuoi andare?» Helen si affrettò a spiegare la ragione della preoccupazione di Howard. Monroe ascoltò, con aria comprensiva. «Oh! Brutta faccenda, vecchio mio.» E aggrottò la fronte. «Ma, senti... non puoi aiutare Estelle standotene qui ad aspettare, e io ho veramente bisogno del tuo aiuto per la prossima mezz'ora. Ci stai?» Jenkins accettò, riluttante. Monroe proseguì. «Magnifico! Ti ringrazio. Per prima cosa vai in camera mia e prendi i miei testi di matematica... e il mio regolo calcolatore. Troverai anche un manuale di radiotecnica, in carta d'India. Poi... puoi tenerti, in cambio, il mio Rabelais e i Contes Drolatiques, ma voglio il tuo Manuale d'ingegneria meccanica e tutti i libri tecnici che tu hai e che io non ho. In cambio, prendi pure tutto quello che vuoi. «Poi va' nella camera di Stinky Beanfield, e prendi il suo Manuale del genio militare, la Guerra chimica, e i suoi testi sulla balistica e sulle armi. Sì... e la Chimica degli esplosivi di Miller, se ne ha una copia. Altrimenti fattela dare da qualche altro nostro compagno. È molto importante.» Helen stava applicandogli una poltiglia sul braccio, con mosse esperte. Monroe rabbrividì quando le foglie di tè, ancora calde, toccarono la sua carne ustionata, ma continuò a parlare. «Stinky tiene la sua automatica d'ordinanza nel primo cassetto dello scrittoio. Fregagliela, oppure convincilo a cedertela. Portami tutte le munizioni che puoi procurarti... ti farò un'autorizzazione di vendita per la mia macchina, potrai dargli quella. E adesso vai. Racconterò tutto al dottore, e lui potrà riferirtelo dopo. Ecco qui: prendi la mia auto.» Si portò la mano al fianco, e assunse un'espressione irritata. «Accidenti! Non ho le chiavi.» Helen venne in suo aiuto. «Howard, prendi la mia macchina. Le chiavi sono nella mia borsetta, sul tavolo del corridoio.» Howard si alzò. «Va bene, farò del mio meglio. Se mi mettono al fresco, portatemi le sigarette.» E uscì. Helen stava dando gli ultimi tocchi alla fasciatura. «Ecco! Credo che così possa andare. Come va?» Monroe piegò cautamente il braccio. «Bene. Bel lavoro, piccola. Mi ha tolto il bruciore.»
«Penso che guarirà, se continui ad applicarci una soluzione di tannino. Puoi procurarti delle foglie di tè, dove vai?» «Sì, e anche dell'acido tannico. Guarirà benissimo. Adesso meriti una spiegazione. Professore, ha una sigaretta? E berrei volentieri anche un po' di quel caffè.» «Sicuro, Robert.» Frost si affrettò a servirlo. Quando ebbe acceso la sigaretta, Monroe incominciò a raccontare. «È tutto molto strano. Quando mi sono svegliato, mi sono trovato, vestito come adesso e con l'aspetto che ho adesso, a marciare in un fossato lungo e profondo. Facevo parte d'una colonna di tre uomini in un distaccamento militare. La cosa più strana è che mi sembrava assolutamente naturale. Sapevo dov'ero e perché ero lì... e sapevo chi ero. Non Robert Monroe, no... il mio nome, laggiù, è Igor.» Monroe pronunciò la gutturale in fondo alla gola e trillò la 'r'. «Non avevo dimenticato Monroe: ma era come se mi fossi ricordato all'improvviso di lui. Avevo una sola identità e due passati. Era un po' come svegliarsi da un sogno che si ricorda benissimo: ma il sogno era perfettamente reale. Io sapevo che Monroe era reale, proprio come sapevo che era reale Igor. «Il mio mondo è molto simile alla Terra: un poco più piccolo, ma con una gravità di superficie quasi identica. Gli uomini come me costituiscono la razza dominante, e siamo più o meno civili quanto voi, ma la nostra cultura ha seguito una strada difficile. Viviamo sottoterra per gran parte del tempo. Le nostre case sono là sotto, e anche le nostre industrie. Vedete, nel nostro mondo, sottoterra fa caldo, e non è completamente buio. C'è una leggera radioattività, che non ci disturba. «Però siamo una razza evolutasi alla superficie, e per noi non è né sano né soddisfacente stare sempre là sotto. Attualmente c'è in corso una guerra e da otto o nove mesi siamo costretti a stare sempre sottoterra. La guerra volge male per noi. Abbiamo perduto il controllo della superficie, e i membri della mia razza sono ridotti allo stato di animali braccati. «Vedete, non combattiamo contro esseri umani. Non so bene contro che cosa stiamo combattendo... forse esseri venuti dallo spazio. Non lo sappiamo. Ci hanno attaccato in molti punti contemporaneamente, da grandi cerchi volanti, diversi da tutto ciò che conosciamo. Ci sono venuti addosso senza preavviso. Molti di noi si sono rifugiati sottoterra, dove quelli non ci hanno seguiti. Non operano neppure di notte... sembra che abbiano bisogno della luce del sole, per agire. Così la situazione è bloccata... o meglio, lo era prima che cominciassero a lanciare il gas nelle nostre gallerie.
«Non abbiamo mai catturato uno di quegli esseri, e quindi non sappiamo nulla del loro organismo. Abbiamo esaminato un cerchio che è precipitato, ma non abbiamo scoperto molto. Dentro non c'era niente che somigliasse anche vagamente a una forma di vita animale, e non c'era neppure nulla che potesse sostentare esseri viventi. Voglio dire che non c'erano scorte di viveri, né impianti igienici. Le opinioni sono divise: c'è chi pensa che il cerchio da noi esaminato fosse telecomandato, altri credono che i nostri nemici siano intelligenze non-protoplasmiche, forse schemi d'energia, o qualcosa di altrettanto strano. «La nostra arma principale è un raggio che crea una stasi nell'etere, e li congela. O meglio, dovrebbe farlo, perché distrugge ogni forma di vita e impedisce ogni attività molecolare... ma i cerchi, in effetti, si limitano a perdere temporaneamente il controllo. Se non riusciamo a mantenere un raggio su un cerchio fino al momento in cui quello precipita, si riprende e se ne va. E allora arrivano i suoi colleghi e bruciano le nostre postazioni. «Abbiamo avuto più fortuna quando abbiamo minato i loro campi sulla superficie, e li abbiamo fatti saltare in aria durante la notte. Naturalmente, siamo scavatori abilissimi. Ma abbiamo bisogno di armi migliori. È per questo che ho dato quell'incarico a Howard. Ho due idee. Se i nemici sono semplicemente una specie di schemi d'energia intelligente, o qualcosa del genere, la soluzione potrebbe essere la radio. Potremmo riuscire a saturare l'etere di scariche e cancellarli completamente. Se sono troppo resistenti per questo sistema, forse un po' di fuoco antiaereo all'antica potrebbe ridurli a mal partito. In ogni caso, qui ci sono parecchi mezzi tecnologici che noi invece non abbiamo, e che possono offrirci la soluzione buona. Vorrei avere avuto il tempo di passarvi un po' della nostra roba, in cambio di quello che porterò via con me.» «È proprio deciso a ritornare, Robert?» «Certamente. Quello è il mio mondo. Qui sono solo, non ho famiglia. Non so come farglielo comprendere, dottore, ma quella è la mia gente... quello è il mio mondo. Immagino che se le condizioni fossero diverse, anch'io la penserei diversamente.» «Capisco,» disse Helen. «Tu ti batti per tua moglie e per i tuoi figli.» Lui la guardò con aria stanca. «Non esattamente. Laggiù sono scapolo, ma ho una famiglia cui pensare. Mia sorella comanda l'unità d'assalto di cui faccio parte. Sì, combattono anche le donne: sono piccole e solide come te, Helen.» Lei gli sfiorò lievemente il braccio.
«E come hai fatto a ridurti così?» «L'ustione? Ricorda che eravamo in marcia. Ci stavamo ritirando lungo quel fossato, dopo un'incursione in superficie. Ero convinto che ormai ce l'avevamo fatta, quando all'improvviso un cerchio è sceso in picchiata verso di noi. Quasi tutti gli appartenenti al distaccamento sono fuggiti, ma io sono un tecnico armato del raggio di stasi. Ho cercato di imbracciare il mio equipaggiamento per combattere, ma sono stato ustionato prima che potessi finire. Per fortuna, mi ha appena sfiorato. Molti altri sono rimasti carbonizzati. Non so ancora se mia sorella si è salvata o no. E questa è una delle ragioni della mia fretta. «Uno degli altri tecnici, che è rimasto illeso, ha montato il suo apparecchio e ha coperto la nostra ritirata. Mi hanno trascinato sottoterra e mi hanno portato a un centro di medicazione. Stavano per incominciare a medicarmi quando sono svenuto e mi sono trovato nello studio del professore.» Il campanello trillò e il professore si alzò per andare ad aprire. Helen e Robert lo seguirono. Era Howard, che portava il suo bottino. «Hai trovato tutto?» chiese ansioso Robert. «Credo di sì. Stinky era in camera sua, ma sono riuscito a farmi prestare i suoi libri. La pistola è stata un'altra faccenda, però. Ho telefonato a un mio amico e gli ho detto di richiamare e di chiedere di Stinky. Intanto che lui era fuori stanza, l'ho rubata. Adesso sono un criminale... e si tratta di un'arma di proprietà del governo.» «Sei un vero amico, Howard. Quando avrai sentito la spiegazione, capirai che ne valeva la pena. Non ti pare, Helen?» «Assolutamente!» «Bene, spero che abbiate ragione voi,» rispose dubbioso Howard. «Ho portato anche qualcosa d'altro, nel caso ti servisse. Ecco qui.» E porse un libro a Robert. «Aerodinamica e principi d'ingegneria aeronautica,» lesse Robert a voce alta. «Mio Dio, sì. Grazie Howard.» In pochi minuti, Monroe aveva assicurato sulla sua persona tutti gli oggetti che intendeva portare con sé. Aveva annunciato che era pronto ad andarsene, quando il professore lo fermò. «Un momento, Robert. È sicuro che questi libri verranno con lei?» «E perché no? È per questo che me li sono fissati addosso.» «Gli abiti che indossava sulla terra sono venuti, la prima volta?» «Nooo...» Robert aggrottò la fronte. «Santo cielo, dottore, che cosa pos-
so fare? Non posso imparare a memoria tutto quello che ho bisogno di sapere.» «Non saprei, figliolo. Pensiamoci sopra un momento.» S'interruppe e fissò il soffitto. Helen gli sfiorò una mano. «Forse posso aiutarlo io, professore.» «In che modo, Helen?» «A quanto pare, io non subisco metamorfosi quando cambio pista temporale. Ho sempre avuto gli stessi vestiti, dovunque andassi. Perché non potrei portare questa roba per Bob?» «Uhm... forse è possibile.» «No, non posso permettere una cosa simile,» si intromise Monroe. «Potresti rimanere uccisa o gravemente ferita.» «Correrò il rischio.» «Io ho un'idea,» intervenne Jenkins. «Il dottore Frost non potrebbe variare le istruzioni, in modo che Helen possa andare e ritornare subito? Cosa ne dice, dottore?» «Uhm... sì, forse sì.» Ma Helen alzò una mano. «Niente da fare. Il carico potrebbe tornare indietro insieme a me. Andrò senza istruzioni per il ritorno. Comunque, mi piace quel mondo, da come Bob me lo ha descritto. Forse ci resterò. Lascia perdere la cavalleria, Bob. Una delle cose che mi è piaciuta di più, nel tuo mondo, è l'eguaglianza tra uomini e donne. Togliti quella roba di dosso, e comincia a fissarla a me. Ci vengo.» Helen sembrava un albero di Natale, dopo che le ebbero legato addosso, sul corpo minuscolo e solido, una dozzina e più di libri: la pistola automatica era nella fondina, e i due regoli calcolatori, uno lungo e uno corto, erano infilati nel cinturone della pistola. Howard accarezzò il regolo più grande, prima di fissarlo. «Abbine cura, Bob,» disse. «Ho rinunciato a fumare per sei mesi, per comprarmelo.» Frost fece sedere i due giovani sul divano dello studio. Helen infilò una mano nella mano di Bob. Quando la sfera lucente incominciò a girare, Frost fece cenno a Jenkins di uscire, si chiuse la porta alle spalle e spense la luce. Poi incominciò a ripetere, con voce monotona, le suggestioni ipnotiche. Dieci minuti dopo udì un lieve fruscio e smise. Premette l'interruttore della luce. Il divano era vuoto: anche i libri erano spariti. Frost e Jenkins vegliarono, inquieti, in attesa del ritorno di Estelle. Jen-
kins si aggirava nervosamente nello studio, esaminando oggetti che non lo interessavano e fumando innumerevoli sigarette. Il professore stava seduto in silenzio nella poltrona, fingendo una serenità che non provava. Conversarono, tanto per far passare il tempo. «C'è una cosa che non capisco,» osservò Jenkins. «Perche mai Helen ha potuto andare in una dozzina di posti senza cambiare, e Bob è andato in un posto solo ed è tornato quasi irriconoscibile... più basso, più robusto, vestito in modo strano. Che fine hanno fatto i suoi vestiti normali, per esempio? Come spiega tutto questo, professore?» «Eh? Non lo spiego affatto... mi limito a osservare. Credo che forse Bob è cambiato, mentre Helen non è cambiata, perché Helen era soltanto una visitatrice nei luoghi in cui si è recata, mentre Monroe apparteneva a quel mondo... come prova il fatto che vi si è inserito subito. Forse il Grande Architetto voleva che vi andasse.» «Ehi! Santo cielo, dottore, non crederà mica nella predestinazione divina!» «Forse non in questi termini. Ma, Howard, il suo scetticismo materialista mi ha stancato. La sua capacità innata di credere che le cose siano venute 'così' tanto per venire, è abbastanza puerile. Secondo lei, è stato un incidente fortuito dell'entropia che ha prodotto la Nona Sinfonia di Beethoven.» «Mi sembra ingiusto, dottore. Non può pretendere che un uomo creda a cose contrarie al suo buon senso, senza offrirgli una spiegazione ragionevole.» Frost sbuffò. «Certo... se ha osservato con i suoi occhi e con le sue orecchie, o se lo apprende da una fonte conosciuta come attendibile. Non è necessario che un fatto sia compreso, perché sia vero. Sicuro, ogni mente ragionevole vuole una spiegazione: ma è sciocco rifiutare i fatti che non collimano con la propria filosofia. «Ora, gli eventi di questa notte, che lei è così ansioso di razionalizzare in termini ortodossi, aprono la strada a molte cose che gli scienziati continuano a rifiutare perché non sanno spiegarle. Ha mai sentito parlare di quel tale che girò attorno ai cavalli? No? Verso il 1810, Benjamin Bathurst, ambasciatore inglese in Austria, arrivò con la sua carrozza a una locanda di Perleberg, in Germania. Aveva con sé il valletto e il segretario. Entrarono nel cortile illuminato della locanda. Bathurst scese e, in presenza di parecchi testimoni e dei suoi due dipendenti, girò attorno ai cavalli. E nessuno
lo ha mai più visto. (3)» «Cosa accadde?» «Nessuno lo sa. Io credo che fosse preoccupato e inavvertitamente sia passato in un'altra pista temporale. Ma vi sono, alla lettera, centinaia di casi simili: troppi per riderci sopra. La teoria del tempo bidimensionale li può spiegare quasi tutti. Ma io sospetto che vi siano altri principi finora impensati che hanno agito in alcuni dei casi rifiutati come non veri.» Howard smise di camminare avanti e indietro e si tormentò il labbro inferiore. «Forse ha ragione lei, dottore. Sono troppo sconvolto per pensare. Guardi... è la una. Estelle non avrebbe già dovuto tornare?» «Temo di sì, figliolo.» «Intende dire che non tornerà?» «Si direbbe di sì.» Il giovane lanciò un grido spezzato e si lasciò cadere sul divano. Le spalle gli si piegarono. Poi si calmò un poco. Frost gli vide muovere le labbra e sospettò che stesse pregando. Poi Howard sollevò il volto tirato. «Non possiamo fare qualcosa?» «È difficile rispondere, Howard. Non sappiamo dove sia andata: sappiamo solo che se ne è andata di qui sotto la suggestione ipnotica di trasferirsi in qualche altro settore del passato o del futuro.» «Non possiamo seguirla nello stesso modo e ritrovarla?» «Non lo so. Non ho mai avuto esperienze di questo genere.» «Bisogna che io faccia qualcosa, altrimenti finirò per impazzire.» «Si calmi, figliolo. Mi lasci riflettere.» Frost fumò in silenzio mentre Howard frenava a stento l'impulso di urlare, di spaccare i mobili. Frost scrollò via la cenere del sigaro e la fece cadere scrupolosamente nel portacenere. «Riesco a pensare a una possibilità. Ma è molto remota.» «Qualunque cosa!» «Ascolterò la registrazione che ha ascoltato Estelle, e andrò. Lo farò da sveglio, concentrando il mio pensiero su di lei. Forse potrò stabilire qualche rapporto, qualche nesso extrasensoriale, che mi servirà per condurmi da lei.» Frost incominciò immediatamente i preparativi, mentre parlava. «Voglio che lei rimanga in questa stanza, durante la mia assenza Howard; così crederà che è veramente possibile.» Howard lo guardò, in silenzio, mentre Frost calzava la cuffia. Il professore rimase immobile, ad occhi chiusi. Rimase così per una quindicina di
minuti. Poi mosse un breve passo in avanti. La cuffia cadde sul pavimento, con un tintinnio metallico. Frost era scomparso. Frost si sentì andare alla deriva nel limbo eterno che precede la transizione. Ancora una volta notò che era esattamente identica alla sensazione fluttuante che precede il sonno normale, e si chiese oziosamente, per la centesima volta, se i sogni erano o no esperienze reali. Era propenso a credere che lo fossero. Poi, con un trasalimento di rimorso, si ricordò della sua missione, e si concentrò con forza sul pensiero di Estelle. Stava camminando lungo una strada bianca, nel sole. Davanti a lui c'erano le porte di una città. La sentinella fissò sorpreso il suo strano abbigliamento, ma lo lasciò passare. Frost si affrettò ad avviarsi lungo l'ampio viale, fiancheggiato dagli alberi, che come lui già sapeva, conduceva dallo spazioporto al Campidoglio. Svoltò lateralmente per la Via degli Dei e proseguì fino a quando giunse al Bosco delle Sacerdotesse. Trovò la casa che cercava: i muri di marmo erano rosei in quella luce, le fontane cantavano nella brezza del mattino. Entrò. Il vecchio portinaio, ciondolando la testa nel sole, lo introdusse nell'edificio. L'agile ancella appena adolescente lo fece entrare nella sala interna, dove la sua padrona si sollevò su di un gomito e osservò il visitatore con occhi languidi. Frost le parlò. «È ora di ritornare, Estelle.» La giovane donna inarcò le sopracciglia, sorpresa. «Tu parli una lingua strana e barbara, vecchio, eppure vi è un mistero, perché io la conosco. Che vuoi da me?» Frost si spazientì un poco. «Estelle, ho detto che è ora di ritornare!» «Ritornare? Che strano discorso è questo? Ritornare dove? E io mi chiamo Luce delle Stelle, non Ess Tell. Chi sei tu, e da dove vieni?» Lo scrutò in viso, poi puntò verso di lui un dito sottile. «Ora ti riconosco! Tu vieni dai miei sogni. Tu eri il Maestro e mi hai istruita nell'antica saggezza.» «Estelle, ricordi che c'era un giovane, in quei sogni?» «Ancora quello strano nome! Sì, c'era un giovane. Era caro... caro e diritto e alto come un pino sulla montagna. Ho spesso sognato di lui.» Si girò con uno scatto delle braccia e delle gambe candide. «Che hai da dirmi di quel giovane?» «Ti aspetta. È tempo di ritornare.» «Ritornare!... Non si può ritornare nel luogo dei sogni!»
«Io posso condurti laggiù.» «Che bestemmia è mai questa? Sei un sacerdote, capace di praticare la magia? Perché una cortigiana sacra dovrebbe recarsi nel luogo dei sogni?» «Non c'è nessuna magia, in tutto questo. Quel giovane soffre perché ti ha perduta. Io ti ricondurrò da lui.» Lei esitò, con il dubbio negli occhi, prima di rispondere. «E anche se tu lo potessi, perché dovrei lasciare la mia posizione sacra e onorevole per il freddo nulla di quel sogno?» Frost le rispose con dolcezza. «Che cosa ti dice il tuo cuore, Estelle?» Lei lo fissò, con gli occhi spalancati, e sembrò sul punto di prorompere in lacrime. Poi si gettò sul divano, volgendogli le spalle, gli rispose con voce soffocata. «Vattene di qui! Quel giovane non esiste se non nei miei sogni! È là che lo cercherò!» Non rispose più alle insistenze di Frost. Alla fine, egli rinunciò e se ne andò con il cuore pesante. Howard l'afferrò per il braccio, non appena ritornò. «Allora, professore? Allora? L'ha trovata?» Frost si lasciò cadere stancamente sulla poltrona. «Sì, l'ho trovata.» «Stava bene? Non le è successo niente? Perché non è ritornata insieme a lei?» «Stava benissimo, ma non sono riuscito a convincerla a ritornare.» Howard aveva l'aria di aver ricevuto uno schiaffo in pieno viso. «E non le ha spiegato che io desideravo il suo ritorno?» «Gliel'ho spiegato, ma non mi ha creduto.» «Non le ha creduto?» «Vede, ha dimenticato quasi tutto di questa vita. Crede che lei, Howard, sia soltanto un sogno.» «Ma non è possibile!» Frost appariva ancora più stanco. «Non pensa che sia ora di smettere di adoperare quella parola, figliolo?» Invece di rispondere, Howard scattò. «Dottore, deve condurmi da lei!» Frost lo fissò, dubbioso. «Non può?»
«Forse potrei, se ha superato la sua incredulità, tuttavia...» «Incredulità! Sono stato costretto a credere. Avanti, diamoci da fare.» Frost non si mosse. «Non sono sicuro di essere d'accordo. Howard, vi sono condizioni molto diverse, là dove è andata Estelle. Per lei va benissimo, ma non sono sicuro che sarebbe una buona azioni farvi incontrare di nuovo laggiù.» «E perché no? Estelle non vuole più vedermi?» «Non è questo. Anzi, sono sicuro che l'accoglierebbe con gioia... ma la situazione è molto diversa.» «Non me ne importa un accidente della situazione. Andiamo.» Frost si alzò. «Benissimo. Come vuole.» Fece sedere Jenkins nella poltrona e lo fissò negli occhi, poi prese a parlare in tono calmo, senza modulazioni. Frost aiutò Howard a rimettersi in piedi e gli tolse la polvere di dosso. Howard rise, mentre si ripuliva le mani. «Un bel capitombolo, Maestro. Mi sento come se qualche spiritoso mi avesse tolto di sotto lo sgabello.» «Non avrei dovuto farla sedere.» «Lo credo anch'io.» Howard si tolse dalla cintura una grossa pistola multiflangia e l'esaminò. «Per fortuna avevo messo la sicura al mio disintegratore, altrimenti a quest'ora potremmo anche trovarci nella stratosfera. Vogliamo andare?» Frost squadrò il suo compagno: portava un elmo, un succinto kilt militare, una corta spada che gli batteva contro la coscia. Batté le palpebre e rispose. «Sì... sì, naturalmente.» Mentre varcavano le porte della città, Frost chiese: «Sa dove siamo diretti?» «Ma certo. Alla villa di Luce delle Stelle, nel Bosco.» «E sa che cosa l'aspetta, là?» «Oh, già, la nostra discussione. Conosco le consuetudini di qui, Maestro, e ti assicuro che non sono affatto sbigottito. Luce delle Stelle ed io ci comprendiamo benissimo. Lei è una di quelle donne per le quali è valido il proverbio 'Lontan dagli occhi, lontan dal cuore'. Adesso che sono tornato da Ultima Thule, rinuncerà al sacerdozio e ci sistemeremo e tireremo su una nidiata di bei marmocchi.» «Ultima. Thule? Ricordi il mio studio?»
«Certo che lo ricordo. E anche Robert e Helen e tutto il resto.» «È questo che intendi, quando parli di Ultima Thule?» «Non esattamente. Non saprei spiegarlo, Maestro. Io sono un militare, un uomo pratico. Lascio questi problemi a voi sacerdoti e insegnanti.» Si fermarono davanti alla casa di Estelle. «Non entri, Maestro?» «No, penso di no. Devo tornare indietro.» «Neanche per idea.» Howard gli batté una mano sulla spalla. «Sei stato un vero amico, Maestro. Il nostro primo figlio porterà il tuo nome.» «Grazie, Howard. Addio, e buona fortuna a tutti e due.» «Anche a te.» Howard entrò in casa con passo sicuro. Frost si avviò lentamente verso le porte della città; la sua mente era invasa da una miriade di pensieri. Sembrava che non vi fosse mai fine alle permutazioni e alle combinazioni, sia della materia, sia della mente. Martha, Robert, Helen... e adesso Howard ed Estelle. Doveva esser possibile costruire una teoria che spiegasse tutto. Mentre rifletteva, urtò con il calcagno contro una pietra smossa della pavimentazione, inciampò, e si ritrovò sulla sua poltrona. L'assenza dei cinque studenti sarebbe stata difficile da spiegare, e Frost lo sapeva. Perciò non disse nulla a nessuno. Trascorse il week-end, prima che qualcuno prendesse sul serio la loro sparizione. Lunedì un poliziotto si presentò a casa sua e fece una quantità di domande. Le risposte di Frost non furono illuminanti, perché aveva avuto il buon senso di non raccontargli la verità. Il Procuratore Distrettuale fiutò un grosso delitto: un sequestro o addirittura un massacro. O forse si trattava di una di quelle sètte che praticavano culti erotici... con quei professori non si poteva mai dire! Martedì mattina il Procuratore Distrettuale fece spiccare un mandato. Il sergente Izowski fu inviato a fermare Frost. Il professore lo seguì docilmente e salì a bordo del furgone nero senza protestare. «Senta, dottore,» disse il sergente, incoraggiato dalla sua docilità. «Perché non ci dice dove li tiene nascosti? Lei sa che li troveremo, con l'andar del tempo.» Frost si voltò, lo guardò negli occhi e sorrise. «Il tempo,» disse sottovoce. «Ah, il tempo... sì, potreste proprio trovarli, nel Tempo.» Poi salì sul furgone e sedette in silenzio, chiuse gli occhi e
pose la propria mente nella necessaria condizione di calma e di ricettività. Il sergente appoggiò un piede sul predellino, bloccò con la sua mole l'unica via d'accesso, e tirò fuori il taccuino. Quando finì di scrivere alzò gli occhi. Il professor Frost era scomparso. Frost aveva avuto intenzione di andare a trovare Howard ed Estelle. Inavvertitamente lasciò invece che, nel momento cruciale, la sua mente pensasse a Helen e a Robert. Quando «atterrò», non era nel mondo del futuro che aveva visitato già due volte. Non sapeva dov'era... Sulla Terra, in apparenza... chissà dove e chissà quando. Era un territorio ondulato e boscoso, simile alle colline del Missouri meridionale o del New Jersey. Frost non se ne intendeva abbastanza di botanica per capire se le specie di alberi che vedeva attorno a sé gli erano familiari o no. Ma non ebbe comunque il tempo di studiare quel problema. Udì un grido, e un altro grido in risposta. Parecchie figure umane uscirono precipitosamente dagli alberi, in fila disordinata. Pensò che attaccassero lui, si guardò disperatamente intorno per cercare un riparo, e non ne trovò. Ma quelle figure lo superarono, ignorandolo: solo quello che gli passò più vicino gli lanciò un'occhiata, in fretta, e gridò qualcosa. Poi scomparve a sua volta. Frost rimase solo, sbalordito, nella piccola radura naturale in cui era atterrato. Prima che avesse il tempo di raccapezzarsi, una delle figure riapparve e gli urlò qualcosa, accompagnando le parole con un gesto inconfondibile: doveva seguirla. Frost esitò. La figura corse verso di lui e lo colpì, un colpo preciso. I secondi che seguirono furono molto confusi, ma Frost si riprese quanto bastava per rendersi conto che stava guardando il mondo di sotto in su. Lo sconosciuto se lo era caricato sulla spalla, e lo stava trasportando, in un trotto allungato. I rami degli arbusti gli sferzarono il viso, poi vi fu una discesa di parecchi metri, e infine Frost venne scaricato distrattamente al suolo. Si sollevò a sedere e si massaggiò. Si trovò in una galleria che da un lato saliva verso la luce del giorno e dall'altro scendeva chissà dove. Parecchie figure mulinavano attorno a lui, ma lo ignoravano. Due di esse stavano montando un apparecchio, tra il gruppo e l'imboccatura della galleria. Lavoravano in gran fretta; in pochi
secondi completarono la loro opera e indietreggiarono. Frost udì un ronzio dolce, sommesso. L'imboccatura della galleria divenne leggermente rannuvolata. Presto comprese il perché... l'apparecchio stava tessendo una ragnatela da parete a parete, bloccando l'uscita. La ragnatela divenne meno tenue, poi traslucida, poi opaca. Il ronzio persistette per parecchi minuti, e la strana macchina continuò a tessere e a ispessire la ragnatela. Una delle figure si guardò la cintura, pronunciò una parola in tono di comando, e il ronzio cessò. Frost poté sentire il sollievo diffondersi in quel gruppo, come una radiazione calda: lo provò egli stesso e si rilassò, intuendo che era stato sventato qualche grave pericolo. La figura che aveva impartito l'ordine di spegnere la macchina si voltò, vide per caso Frost e gli si avvicinò, rivolgendogli alcune domande con una voce dolce ma perentoria di soprano. Frost notò improvvisamente tre cose: il comandante era una donna; era stata lei a portarlo in salvo; e il costume e l'aspetto di quella gente, in generale, corrispondevano a quelli di Robert Monroe dopo la trasformazione. Il suo volto si illuminò di un sorriso. Sarebbe andato tutto bene! La domanda venne ripetuta con chiara impazienza. Frost sentì che era necessario rispondere, sebbene non capisse quella lingua e fosse sicuro che la donna non poteva conoscere l'inglese. Tuttavia... «Signora,» disse in inglese, alzandosi in piedi e inchinandosi cortesemente, «non conosco la vostra lingua e non capisco la sua domanda, ma ritengo che lei mi abbia salvato la vita. Le sono profondamente grato.» La donna sembrò perplessa e un po' irritata, e chiese qualche altra cosa... almeno, Frost pensò che si trattasse di una domanda diversa, ma non poteva esserne certo. In quel modo, non avrebbe approdato a nulla. La difficoltà della lingua diversa era quasi insuperabile: di questo si rendeva conto. Forse sarebbero occorsi giorni, settimane, mesi per superarla. E nel frattempo quella gente era impegnata in una guerra, e non era certo dell'umore più adatto per occuparsi di uno straniero inutile che si esprimeva in modo incomprensibile. Frost non voleva che lo rispedissero in superficie. Era irritante, pensò, stupidamente irritante. Probabilmente Monroe ed Helen erano lì vicino, ma lui avrebbe potuto morire di vecchiaia senza riuscire a trovarli. E potevano essere chissà dove, su quel pianeta. Come poteva un americano, scaricato nel Tibet, riuscire a farsi comprendere, se l'u-
nico possibile interprete si trovava in Sud America? O in un luogo ignoto? Come poteva far capire ai tibetani che esisteva un interprete? Era terribile! Comunque, doveva tentare. Come aveva detto di chiamarsi lì, Monroe? Egan... no, Igor. Ecco... Igor. «Igor,» disse. La comandante piegò il capo. «Igor?» fece. «Igor!» replicò Frost, annuendo vigorosamente. La donna si voltò e gridò: «Igor!» Pronunciò quel nome accentuando la gutturale e con la 'r' molto liquida, come aveva fatto Monroe. Si fece avanti un uomo. Il professore lo guardò ansioso: ma era uno sconosciuto, come tutti gli altri. La comandante indicò l'uomo e dichiarò: «Igor.» La situazione si complica, pensò Frost. A quanto pareva, Igor era un nome molto comune, lì... troppo comune. Poi, all'improvviso, ebbe un'idea. Se Monroe ed Helen erano arrivati lì, il loro prezioso bottino doveva averli resi famosi. «Igor,» disse «Helen Fisher.» Immediatamente, la comandante si mostrò più attenta; il suo viso si ravvivò. «Elen Fiisher?» ripeté. «Sì, sì... Helen Fisher.» La donna rimase in silenzio, riflettendo. Era chiaro che quelle parole significavano qualcosa per lei. Batté le mani e parlò in tono di comando. Due uomini si fecero avanti, e la donna continuò a parlare con loro per parecchi istanti. I due uomini si accostarono a Frost, lo presero per le braccia. Poi fecero per condurlo via. Frost resistette per un attimo e si volse a chiedere: «Helen Fisher?» «Elen Fiisher!» gli assicurò la comandante. Frost dovette accontentarsi di quello. Passarono più o meno due ore. Non lo avevano maltrattato e la stanza in cui l'avevano portato era comoda: ma era una cella... almeno, la porta era sprangata. Forse aveva sbagliato a parlare, forse quelle sillabe significavano qualcosa di molto diverso, lì, da un semplice nome. La stanza in cui si trovava era spoglia, illuminata soltanto dal fioco chiarore che emanava dalle pareti, come tutta quella parte del mondo sotterraneo che aveva visto fino a quel momento. Incominciava a stancarsi di quel posto e si stava chiedendo se sarebbe servito a qualcosa mettersi a far bac-
cano, quando sentì che qualcuno si avvicinava alla porta. La porta si aprì; Frost vide la comandante che esibiva un sorriso sul volto un po' cupo. Gli parlò nella propria lingua, poi aggiunse: «Igor... Ellenfiisher.» Frost la seguì. Percorsero gallerie illuminate fiocamente, piazze piene di gente che guardò incuriosita Frost; poi entrarono in un ascensore che li sbalordì incominciando una brusca discesa, mentre lui non s'era neppure accorto che fosse un ascensore; e finalmente salirono in un veicolo simile ad una capsula, che si chiuse ermeticamente e che sfrecciò via, velocissimo, a giudicare dalla sensazione crescente di peso che si produsse alla partenza e poi di nuovo all'arrivo. Frost aveva sempre seguito la sua guida, senza capire, senza uno strumento di comunicazione linguistica che gli permettesse di chiedere spiegazioni. Cercò di rilassarsi e di godersi quegli attimi, poiché la sua compagna gli sembrava tutt'altro che ostile, anche se i suoi modi erano bruschi: i modi d'una persona abituata a dare ordini e non abituata a incoraggiare atteggiamenti di familiarità. Arrivarono davanti ad una porta che la donna aprì; Frost la seguì, e venne quasi travolto da una figura che gli si precipitò addosso e lo afferrò con entrambe le braccia. «Dottore! Dottor Frost!» Era Helen Fisher, vestita del costume che lì era indossato dai due sessi. Dietro di lei c'era Robert... o Igor, con il volto da gnomo spianato in un ampio sorriso. Frost si liberò gentilmente dalle braccia di Helen. «Mia cara,» disse, assurdamente, «pensare... di trovarla qui!» «Pensare di trovare qui lei!» ribatté Helen. «Ma professore... lei piange!» «Oh, no, no, non piango,» rispose in fretta Frost, e si rivolse a Monroe. «Sono contento di rivedere anche lei, Robert.» «E io sono due volte contento, dottore,» rispose Monroe. La comandante disse qualcosa a Monroe. Lui rispose rapidamente nella stessa lingua e poi si rivolse a Frost. «Dottore, questa è la mia sorella maggiore, Margri. Actoon Margri... si potrebbe tradurre approssimativamente Maggiore Margri.» «È stata molto gentile con me,» disse Frost, e le si inchinò. Margri si batté le mani sulla cintura e piegò la testa, impassibile in volto. «L'ha salutata come si conviene tra eguali,» spiegò Robert-Igor. «Ho
tradotto il titolo di dottore meglio che ho potuto, e mia sorella ne ha dedotto che avete un rango eguale.» «E cosa devo fare?» «Ricambi il saluto.» Frost ricambiò il saluto, un po' goffamente. Il dottor Frost mise al corrente i suoi ex-studenti di quello che era accaduto. Il racconto dei guai che aveva passato con la Polizia strappò a Helen un grido di sbigottimento. «Oh, poverino! È stata una cattiveria, da parte loro!» «Non direi,» protestò Frost. «Avevano ragione, anzi, poiché non sapevano la verità. Purtroppo, non potrò ritornare.» «Non è necessario che ritorni,» lo rassicurò Igor. «Qui lei è più che il benvenuto.» «Forse potrò aiutarvi in questa vostra guerra.» «Forse... ma lei ha già fatto più di chiunque altro, mettendomi in condizioni di fare quello che sto facendo. Ci stiamo lavorando.» E indicò, con un ampio gesto del braccio, il locale in cui si trovavano. Igor era stato tolto dalle unità di combattimento e assegnato allo Stato Maggiore, per rendere accessibili le tecniche terrestri. Helen lo aiutava. «Nessuno crede alla mia avventura, tranne mia sorella,» ammise Monroe. «Ma ho potuto mostrare loro quanto basta per comprendere che è molto importante, perciò mi hanno data carta bianca, e mi stanno letteralmente alle spalle, aspettando di vedere che cosa riesco a realizzare. Ho già fatto incominciare la preparazione di un caccia e dei missili per armarlo.» Frost espresse la sua sorpresa. Com'era possibile fare tante cose così in fretta? Il ritmo del tempo era diverso? Helen e Igor erano giunti lì molte settimane prima, calcolando lungo l'asse? No, gli fu risposto: ma i compatrioti di Igor, anche se ignoravano molte tecniche terrestri, erano più avanti della Terra dal punto di vista della specializzazione meccanica. Si servivano di un unico tipo generale di macchina per fabbricare quasi tutto. Vi inserivano un piano che Igor, in mancanza di un termine più preciso, chiamava 'progetto', e che in realtà era un minuzioso modello in scala dell'oggetto da produrre: la macchina si riattrezzava e lo produceva. Una di quelle macchine, in quel momento, stava modellando le carlinghe degli aerei da caccia: le realizzava in plastica, tutte d'un pezzo e in un'unica operazione. «Li armeremo sia con il raggio di stasi sia con i missili,» disse Igor. «Così potremo bloccare i cerchi e abbatterli mentre sono ancora privi di
controllo.» Parlarono per qualche minuto, ma Frost si accorse che Igor cominciava a innervosirsi. Ne comprese la ragione, e si congedò. Igor lo lasciò andare. «Ci vedremo più tardi,» disse, con un certo sollievo. «Le farò trovare un alloggio. Siamo sotto pressione... c'è una guerra in corso. So che lei mi capisce.» Quella notte Frost si addormentò pensando al modo in cui poteva aiutare i suoi giovani amici, e gli amici dei suoi amici, a vincere la guerra. Ma le cose andarono diversamente. Aveva ricevuto un'istruzione accademica, non pratica. Scoprì che i testi portati lì da Igor e da Helen per lui erano greco... anzi peggio, perché il greco lo capiva. Veniva trattato con tutti gli onori perché Igor aveva dichiarato che era stato merito suo se il pianeta aveva ricevuto le nuove, preziosissime armi; ma ben presto si accorse che era del tutto inutile per i lavori in corso, e non serviva neppure come interprete. Era una seccatura innocua, un pensionato illustre... e lo sapeva. E la vita nel sottosuolo gli dava sui nervi. La luce onnipresente lo disturbava. Aveva una paura irragionevole della radioattività, derivata dall'ignoranza, e le assicurazioni di Igor non attenuavano quella paura. La guerra lo deprimeva. Non aveva il temperamento adatto a resistere alle tensioni nervose della guerra. La sua incapacità di collaborare allo sforzo bellico, la mancanza di compagnia e l'ozio forzato contribuivano in egual misura ad accrescere il suo malessere. Un giorno entrò nel laboratorio di Igor e di Helen, sperando di poter scambiare quattro chiacchiere, se quei due non erano troppo indaffarati. Infatti non lo erano. Igor camminava avanti e indietro, e Helen lo seguiva con uno sguardo preoccupato. Frost si schiarì la gola. «Uh... c'è qualcosa che non va?» Igor annuì. «Parecchie cose,» replicò, e tornò a sprofondare nelle sue preoccupazioni. «Ecco di che si tratta,» disse Helen. «Nonostante le nuove armi, la guerra continua ad andar male, per noi. Igor sta cercando di scoprire cosa dovremo fare adesso.» «Oh, capisco. Scusatemi.» Frost fece per andarsene. «Non se ne vada. Si sieda.» Lui obbedì, e incominciò a rimuginare men-
talmente il problema. Era esasperante, veramente esasperante! «Temo di non potervi essere di grande aiuto,» disse infine a Helen. «Peccato che Howard non sia qui.» «Non credo che avrebbe importanza,» rispose lei. «In quei libri abbiamo tutto il meglio dell'ingegneria terrestre.» «Non è questo che intendevo. Volevo dire Howard in carne e ossa, così come è dove si è trasferito. Nel futuro c'è un aggeggio che si chiama disintegratore. Ho capito che si tratta di un'arma molto potente.» Igor percepì quelle parole e si girò di scatto. «Che cos'era? Come funzionava?» «In verità non saprei,» disse Frost. «Non sono esperto di queste cose, lo sapete. Mi è parso di capire che fosse una specie di raggio disintegratore, ecco tutto.» «È capace di disegnarlo? Ci pensi, professore, ci pensi!» Frost tentò. Poi si interruppe e disse: «Temo che sia inutile. Non mi ricordo chiaramente, e non so niente di quel che c'era dentro.» Igor sospirò, sedette, si passò la mano tra i capelli. Dopo qualche minuto di silenzio cupo, Helen disse: «Non porremmo andare a prenderlo?» «Eh? Cosa? Come potremmo trovare Howard?» «Potrebbe trovarlo, professore?» Frost si raddrizzò sulla sedia. «Non so,» disse, lentamente. «Ma tenterò!» Quella era la città. Sì, e quella era la stessa porta da cui era già passato. Affrettò il passo. Luce delle Stelle fu felice di vederlo, ma non particolarmente sorpresa. Frost si chiese se c'era al mondo qualcosa che avesse il potere di sorprendere quella giovane donna così sognante. Ma Howard rimediò alla sua mancanza di entusiasmo. Batté sulla schiena di Frost manate così forti da procurargli una mezza pleurite. «Benvenuto a casa, Maestro! Benvenuto! Non sapevo se saresti venuto o no, ma siamo pronti ad accoglierti. Ho fatto costruire una stanza per te, tutta per te, nel caso che comparissi. Che ne pensi? Devi vivere qui con noi, sai? È assurda l'idea di ritornare in quella squallida scuola.» Frost lo ringraziò, ma aggiunse: «Sono venuto per una faccenda molto grave. Ho assoluto bisogno del tuo aiuto.» «Davvero? Dimmi, Maestro, dimmi!»
Frost spiegò. «Perciò, capisci, devo portare a quella gente il segreto del tuo disintegratore. Ne hanno bisogno... devono averlo.» «E lo avranno,» promise Howard. Qualche tempo dopo, il problema apparve più complicato. Per quanto si sforzasse, Frost non riusciva a imparare le nozioni tecniche necessarie per comunicare il segreto. Era un problema pedagogico tremendo: come se un selvaggio ignorante fosse tenuto a comprendere la radiotecnica quanto bastava per poter spiegare a ingegneri che non conoscevano la radio il modo per costruire una grande stazione ricetrasmittente. E Frost non era affatto sicuro di poter portare con sé un disintegratore attraverso le contrade del Tempo. «Allora,» disse alla fine Howard, «dovrò venire con te.» Luce delle Stelle, che aveva ascoltato in silenzio, mostrò per la prima volta un vivo interesse. «Tesoro! Non devi...» «Ti prego!» ribatté Howard, sporgendo il mento con aria decisa. «È un obbligo e un dovere. Non immischiartene.» Frost provò l'acuto senso di imbarazzo che si prova sempre quando si è costretti ad assistere ad una divergenza di opinione tra marito e moglie. Quando furono pronti, Frost prese Howard per il polso. «Guardami negli occhi,» disse. «Ricordi come abbiamo fatto, l'altra volta?» Howard tremava. «Lo ricordo. Maestro, credi di poterci riuscire... senza perdermi?» «Lo spero,» disse Frost. «Ora rilassati.» Ritornarono nel locale da cui Frost era partito, e questo fatto gli diede un grande sollievo. Sarebbe stato un guaio dover attraversare mezzo pianeta per trovare i suoi amici. Non sapeva ancora esattamente in qual modo le dimensioni spaziali quadravano con le dimensioni temporali. Un giorno o l'altro avrebbe dovuto studiare quel problema, elaborare un'ipotesi e cercare di controllarla. Igor e Howard sprecarono poco tempo in convenevoli. Stavano già discutendo di problemi tecnici prima ancora che Helen avesse finito di festeggiare il ritorno del professore. Finalmente... «Ecco,» disse Howard. «Credo che questo sia tutto. Vi lascerò il mio di-
sintegratore come modello. Altre domande?» «No,» disse Igor. «Ho capito, ed ho registrato tutto quello che hai detto. Chissà se ti rendi conto di ciò che significa per noi, vecchio mio. Servirà a farci vincere la guerra, senza il minimo dubbio.» «Lo immagino,» rispose Howard. «Quell'aggeggio è lo strumento principale della nostra pace planetaria. Pronto, dottore? Sto diventando un po' ansioso.» «Ma non andrà via, dottore!» gridò Helen. Era insieme una domanda e una protesta. «Devo riaccompagnarlo indietro,» disse Frost. «Sì,» confermò Howard. «E poi si fermerà a vivere con noi. Vero, Maestro?» «Oh, no!» Era ancora Helen. Igor la cinse con un braccio. «Non insistere,» le disse. «Sai bene che qui non è stato felice. Mi rendo conto che la patria di Howard gli va più a genio. E se è così, se l'è meritato.» Helen rifletté un istante, poi si accostò a Frost, gli posò le mani sulle spalle, e si alzò in punta di piedi per baciarlo. «Addio, dottore,» disse, con voce soffocata. «O almeno, au revoir!» Frost le accarezzò una mano. Frost stava sdraiato al sole, e lasciava che i raggi gli riscaldassero le vecchie ossa. Era certamente molto piacevole vivere lì. Sentiva un po' la mancanza di Igor e di Helen, ma sospettava che loro non sentissero troppo la sua. E la vita con Howard e Luce delle Stelle gli piaceva di più. Ufficialmente era pedagogo dei loro figli, se e quando ne avessero avuti. In realtà era pigro e inutile come aveva sempre desiderato essere, con il tempo a sua disposizione. Il tempo... il tempo. C'era solo una cosa che gli sarebbe piaciuto conoscere. Cosa aveva detto il sergente Izowski quando aveva alzato gli occhi e aveva scoperto che il furgone della Polizia era vuoto? Probabilmente aveva pensato che era impossibile. Non aveva importanza. Era troppo impigrito e assonnato per interessarsene. Aveva tutto il tempo di fare un sonnellino prima di pranzo. Aveva tutto il tempo... Il tempo. (1) John William Dunne (1875-1949) era un ingegnere aeronautico ir-
landese, costruttore, nel 1906-7, del primo aereo militare inglese. Dedicatosi allo studio dei sogni precognitivi, creò una complessa teoria (il «serialismo») in cui si afferma non solo che il tempo è una quarta dimensione, ma che in esso coesistono infinite serie di dimensioni. Ipotesi questa che ha affascinato generazioni di autori di fantascienza, nonché un noto scrittore e commediografo inglese, J. B. Priestley. Tra le opere principali di Dunne ricordiamo: An Experiment with Time (1927), The Serial Universe (1934), The New Immortality (1938) e Nothing Dies (1940). Peter Demianovich Ouspensky (1878-1947), saggista e scrittore russo di una certa fama, conobbe nel 1915 G. I. Gurdjieff e ne divenne un allievo seguendolo nelle sue peregrinazioni in Russia, poi in Francia; a sua volta cercò di divulgarne le dottrine con libri e conferenze negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Le sue opere più significative hanno trattato all'inizio del problema tempo, proponendo una reazione allo scientismo positivista dell'epoca attraverso quello che è stato definito un «misticismo matematizzante», e sono apparse tutte anche in lingua inglese: The Fourth Dimension (1909), Tertium Organum (1912), A New Model of Universe (1914) e, postumi, In Search of Miraculous (1949), The Fourth Way (1949) e The Psychology of Man's Possible Evolution (1950). L'unico libro di Ouspensky tradotto in italiano è quest'ultimo: L'evoluzione interiore dell'uomo, Edizioni Mediterranee, Roma 1972. Invece su Gurdjieff, la sua personalità misteriosa e le sue teorie, vedi: Louis PAUWELS, Monsieur Gurdjieff, Edizioni Mediterranee, Roma 1972; JULIUS EVOLA, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Edizioni Mediterranee, Roma 1971 (N.d.C). (2) Il romanzo breve è apparso in origine nel 1941, ma è stato ristampato in volume nel 1953 (N.d.C.) (3) L'episodio, assolutamente vero, ha ispirato anche un'ottima storia di fantascienza: Passò intorno ai cavalli (He Walked Around the Horses) di H. Beam Piper (N. d. C). Titolo originale: ELSEWHEN (Astounding Science Fiction, settembre 1941, con il titolo Elsewhere a firma Caleb Saunders) JERRY ERA UN UOMO
La colpa non è dei marziani. La razza umana avrebbe messo a punto in ogni caso la plastobiologia. Basta pensare alle vecchie razze conosciute dei cani: giganti ghiandolari come i sanbernardo e i danesi, e piccole, assurde atrocità come i chihuahua e i pechinesi. E basta pensare a tutte le varietà dei pesci rossi. Il guaio fu fatto quando il dottor Morgan produsse nuove varietà di moscerini della frutta pasticciando con i raggi X sui loro cromosomi. Dopo quell'episodio, la terza generazione dei superstiti di Hiroshima non ci ha insegnato niente di nuovo: quei mostri infelici non facevano altro che rendere nota al grosso pubblico una normale nozione genetica. Bronson e Martha van Vogel non avevano affatto in mente qualche riforma sociale quando si recarono all'Allevamento di Phoenix: van Vogel voleva semplicemente comprare un Pegaso. Ne aveva parlato a colazione. «Hai qualche impegno per questa mattina, mia cara?» «Niente di speciale. Perché?» «Mi piacerebbe fare una corsa in Arizona e ordinare che mi progettino un Pegaso.» «Un Pegaso? Un cavallo volante? E perché, tesoro?» Lui sogghignò. «Così, per sfizio. Pudgy Dodge ieri circolava per il Club con un bassotto tedesco a sei zampe... doveva essere lungo più di un metro. Era un'idea carina, ma Pudgy si dava tante arie che ci terrei proprio a farlo restare a bocca aperta. Immagina, Martha... io che atterro sulla piattaforma per elicotteri del Club in sella a un cavallo alato. A Pudgy schizzerebbero gli occhi fuori dalla testa!» Martha van Vogel distolse lo sguardo dalla spiaggia del New Jersey per fissare il marito con aria indulgente. Non si faceva illusioni: sarebbe costato parecchio. Ma Brownie era tanto caro! «Quando partiamo?» Atterrarono due ore prima della partenza, secondo l'ora locale. L'insegna aerea annunciava, in lettere alte quindici metri: ALLEVAMENTO PHOENIX Genetica controllata - Appalto autorizzato di manodopera «Appalto di manodopera?» fece Martha. «Credevo che qui si limitassero a produrre animali nuovi.» «Li progettano e li producono,» spiegò il marito, con aria d'importanza.
«E li distribuiscono attraverso la società madre 'Workers'. Eppure dovresti saperlo: sei proprietaria di un grosso pacchetto azionario della Workers.» «Vuoi dire che sono proprietaria di un mucchio di scimmioni? Davvero?» «Forse non te l'avevo detto. Haskell e io...» Si protese e informò il campo che sarebbe atterrato servendosi dei comandi a mano: era molto fiero della sua abilità di pilota. Spense il pilota automatico e aggiunse rapidamente, mentre concentrava l'attenzione per l'atterraggio: «Haskell ed io abbiamo reinvestito i tuoi dividendi della General Atomics in azioni della Workers Inc. È un buon investimento... c'è ancora parecchio lavoro manuale da fare, per gli antropoidi.» Premette i pulsanti, e lo stridore dei reattori di prua impedirono il proseguimento della conversazione. Bronson si era messo in contatto con il direttore già durante il volo. Vennero accolti trionfalmente: è vero che non c'erano tappeti rossi, baldacchino e valletti, ma il direttore sembrava fare di tutto per confermare quell'impressione. «Signor van Vogel? E la signora van Vogel! Per noi è un grande onore!» Li fece accomodare a bordo di un minuscolo unicar di lusso: attraversarono il campo, salirono una rampa ed entrarono nell'atrio del palazzo dell'amministrazione. Il direttore, il signor Blakesly, non si rilassò prima di averli fatti accomodare accanto ad una fontana nel salone, di aver acceso loro le sigarette e aver servito bibite freschissime. Bronson van Vogel era un po' irritato per quelle attenzioni, perché erano evidentemente ispirate dalla classificazione accordata a sua moglie dall'Almanacco Dun & Bradstreet (dieci stelle, un sole e musica celestiale). Lui preferiva la gente che riusciva a convincerlo che era stato lui a creare il patrimonio dei Briggs, invece di averlo semplicemente sposato. «Siamo venuti per affari, Blakesly. Ho un'ordinazione da fare.» «Sì? Bene, siamo a sua completa disposizione. Che cosa desidera, signore?» «Voglio che mi facciate un Pegaso.» «Un Pegaso? Un cavallo volante?» «Esattamente.» Blakesly sporse le labbra. «Vuole davvero un cavallo in grado di volare? Un animale come il Pegaso del mito?» «Sì, sì... è proprio quello che ho detto.»
«Lei ci mette in imbarazzo, signor van Vogel. Immagino che desideri un regalo eccezionale, unico, per la signora. Che ne direbbe di un elefantino nano, alto cinquanta centimetri, perfettamente domestico, capace di leggere e scrivere? Tiene la matita con la proboscide... è molto carino.» «E parla?» domandò la signora van Vogel. «Ecco, mia cara signora, le sue corde vocali, come lei sa, e la sua lingua... Non è stato progettato per parlare, insomma. Se però lei insiste, vedremo cosa potranno fare i nostri specialisti di chirurgia plastica.» «Suvvia, Martha...» «Tu potrai avere il tuo Pegaso, Brownie, ma credo che a me piacerebbe questo elefante giocattolo. Posso vederlo?» «Ma sicuro. Hartstone!» L'aria rispose a Blakesly. «Sì, capo?» «Porti Napoleone in sala.» «Subito, signore.» «In quanto al suo Pegaso, signor van Vogel... prevedo parecchie difficoltà, ma ho bisogno del parere di un esperto. Il dottor Cargrew è il vero cervello della nostra organizzazione, il bioprogettista più eminente... di origine terrestre, naturalmente, che vi sia oggi al mondo.» E alzò la voce per attivare i relais. «Dottor Cargrew!» «Che c'è, signor Blakesly?» «Dottore, vuol farmi il favore di venire nel mio ufficio?» «Ho da fare. Più tardi.» Blakesly si scusò, entrò nel suo ufficio, poi tornò per annunciare che il dottor Cargrew sarebbe arrivato subito. Nel frattempo fece la sua comparsa Napoleone. Le proporzioni dei suoi nobili antenati erano state conservate su scala di miniatura: sembrava la statuetta di un elefante che avesse sorprendentemente preso vita. Avanzò nel salone con tre passi misurati, poi salutò ognuno dei presenti con la proboscide. Quando salutò la signora van Vogel, si piegò sulle ginocchia. «Oh, è delizioso!» trillò lei. «Vieni qui, Napoleone.» L'elefantino guardò Blakesly, il quale annuì. Napoleone si avvicinò e posò la proboscide sulle ginocchia di Martha van Vogel. Lei gli grattò le orecchie e la bestiola uggiolò contenta. «Fai vedere alla signora come sei bravo a scrivere,» ordinò Blakesly. «Va' a prendere le tue cose nel mio ufficio.»
Napoleone attese che Martha van Vogel avesse finito di grattarlo, poi se ne andò e ritornò poco dopo portando parecchi fogli di pesante carta bianca e una matita. Spiegò un foglio davanti alla signora van Vogel, lo tenne graziosamente fermo con una zampa anteriore, afferrò la matita con l'estremità prensile della proboscide, e scrisse, a grosse lettere tremanti: «SEI SIMPATICA». «Che tesoro!» La signora van Vogel si mise in ginocchio e cinse con le braccia il collo dell'elefantino. «Lo voglio. Quanto costa?» «Napoleone fa parte di un'edizione limitata di sei esemplari,» disse cautamente Blakesly. «Vuole un modello esclusivo, o possiamo vendere gli altri?» «Oh, non me ne importa. Io voglio Nappie, ecco tutto. Posso scrivergli un biglietto?» «Certo, signora van Vogel. Scriva a lettere grandi e si serva dell'inglese basico. Napoleone lo conosce quasi tutto. Il suo prezzo, se non lo vuole in esclusiva, è di trecentocinquantamila dollari. La cifra comprende anche cinque anni di stipendio per il veterinario curante.» «Fai un assegno e dallo al signore, Brownie,» disse la signora van Vogel, volgendo appena il capo. «Ma, Martha...» «Non fare il noioso, Brownie.» Si volse di nuovo verso la bestiola e incominciò a scrivere a stampatello. Alzò appena la testa quando entrò il dottor Cargrew. Cargrew era una figura gelida, in tuta bianca e con una calotta bianca in testa. Strinse bruscamente la mano agli ospiti, accese una sigaretta e sedette. Blakesly gli spiegò tutto. Cargrew scosse il capo. «È un'impossibilità fisica.» Van Vogel si alzò. «Capisco,» disse, in tono distante. «Avrei dovuto fare l'ordinazione ai Laboratori Nu-Life. Sono venuto qui perché siamo interessati finanziariamente a questa società e perché sono stato così ingenuo da credere alle vostre promesse pubblicitarie.» «Si sieda, giovanotto!» ordinò Cargrew. «Faccia pure l'ordinazione a quegli idioti pasticcioni, se ci tiene... ma l'avverto che non sono capaci neppure di fare spuntare le ali a una cavalletta. E prima mi ascolti. «Noi siamo in grado di produrre qualsiasi cosa e di farla vivere. Posso farle una cosa vivente... non dirò un animale, della forma e delle dimen-
sioni di quel tavolo. Non servirebbe a niente, ma sarebbe viva. Ingerirebbe cibo, userebbe energia chimica, emetterebbe escrezioni, e mostrerebbe irritabilità. Ma sarebbe una manipolazione molto stupida. Dal punto di vista meccanico, una tavola e un animale sono due cose ben diverse. Hanno funzioni diverse, e hanno forme diverse. Ora, io posso farle un cavallo alato...» «Ha appena detto che non può farlo.» «Non m'interrompa. Posso farle un cavallo alato identico alle illustrazioni delle favole. Se è disposto a pagarlo, lo faremo... gli affari sono affari. Ma non sarà in grado di volare.» «E perché?» «Perché non è costruito per volare. Gli antichi che inventarono quel mito non capivano niente di aerodinamica e meno ancora di biologia. Applicarono le ali ad un cavallo... gliele appiccicarono, per così dire, con le puntine da disegno e la colla. Ma questo non basta per fare una macchina volante. Si ricordi, figliolo, che un animale è una macchina: è soprattutto un motore tecnico con un sistema di comandi per azionare le leve e i sistemi idraulici, secondo precise leggi dell'ingegneria. Lei s'intende di aerodinamica?» «Beh... sono pilota.» «Umfff! Beh, cerchi di capire quello che sto per dirle. Un cavallo non ha un motore termico adatto al volo. Brucia fieno e non è efficiente. Potremmo manipolare gli organi interni di un cavallo, in modo che potesse vivere di una dieta composta esclusivamente di zucchero, e allora avrebbe l'energia sufficiente per percorrere in volo brevi distanze. Ma non avrebbe egualmente l'aspetto del Pegaso mitico. Per ancorare i muscoli motori necessari al volo avrebbe bisogno di uno sterno lungo magari tre metri. E magari dovrebbe avere un'apertura d'ali di ventiquattro metri. Ripiegate, le ali lo coprirebbero come una tenda. Siamo di fronte alla legge del cuboquadrato.» «Eh?» Cargrew ebbe un gesto d'impazienza. «La spinta corrisponde al quadrato d'una data dimensione; il peso morto al cubo della stessa dimensione, se tutto il resto è uguale. Potrei farle un Pegaso grosso come un gatto, senza alterare troppo le proporzioni.» «No, ne voglio uno che io possa montare. L'apertura d'ali non mi dispiace, e sono disposto ad accettare anche lo sterno enorme. Quando posso averlo?»
Cargrew assunse un'aria disgustata, alzò le spalle e rispose. «Dovrò consultare B'na Kreeth.» Fischiettò e trillò: una parte della parete di fronte a loro si dissolse e si trovarono a guardare in un laboratorio. Un marziano, a grandezza naturale, stava in primo piano in quell'immagine tridimensionale. Quando l'essere trillò per rispondere a Cargrew, la signora van Vogel alzò lo sguardo, poi lo riabbassò in fretta. Sapeva che era sciocco, ma non sopportava la vista dei marziani... e quelli che si erano modificati per assumere una forma semiumana la disgustavano anche di più. Dopo che i due scienziati ebbero cinguettato e gesticolato tra loro per un paio di minuti, Cargrew si rivolse nuovamente a van Vogel. «B'na dice che farebbe meglio a lasciar perdere: ci vorrebbe troppo tempo. E vuol sapere se non le piacerebbe uno splendido unicorno, o magari una coppia, garantita capace di riprodursi.» «Gli unicorni sono roba vecchia. Quanto tempo ci vorrebbe, per un Pegaso?» Dopo un'altra conversazione cigolante, Cargrew rispose: «Dieci anni al minimo, sedici anni al massimo.» «Dieci anni? È ridicolo!» Cargrew s'irritò. «Io pensavo che ce ne volessero cinquanta, ma se B'na dice che può farcela da tre a cinque generazioni, allora vuol dire che ce la farà. B'na è il miglior biomicrochirurgo dei due pianeti. La sua abilità di chirurgo cromosomico è ineguagliabile. In fin dei conti, giovanotto, i processi naturali richiederebbero anche un milione di anni per raggiungere lo stesso risultato... ammesso che fosse possibile raggiungerlo naturalmente. Crede di poter comprare i miracoli?» Van Vogel ebbe il buon gusto di assumere un atteggiamento remissivo. «Mi scusi, dottore. Lasciamo perdere. Dieci anni sono veramente troppi. Non ci sono altre possibilità? Lei ha detto che potrebbe farmi un Pegaso identico alle illustrazioni, purché io non pretenda che possa volare. Potrei cavalcarlo? Sul terreno?» «Oh, certamente. Non andrebbe bene per giocare a polo, ma potrebbe cavalcarlo.» «Mi accontenterò. Chieda a Benny-creth, o come si chiama, quanto tempo ci vorrà.» L'immagine del marziano era nel frattempo sparita dallo schermo. «Non è necessario che lo chieda a lui,» asserì Cargrew. «Questo è com-
pito mio... pura e semplice manipolazione. La collaborazione di B'na è necessaria solo per la ridisposizione e il trapianto dei geni... un vero lavoro di genetica. Posso farle avere l'animale in diciotto mesi.» «Non si potrebbe fare prima?» «Ma che cosa pretende, giovanotto? Ci vogliono undici mesi per ottenere un puledrino. Ho bisogno di un mese per fare i progetti. L'embrione verrà rimosso il quarto giorno e si svilupperà in una capsula extrauterina. L'opererò da dieci a dodici volte durante la gestazione, innestando e migliorando e così via. Fra un anno da oggi avremo un puledrino con le ali. E quando il suo Pegaso avrà sei mesi, glielo consegnerò.» «Lo prendo.» Cargrew annotò qualche appunto, poi lo lesse. «Un cavallo alato, non capace di volare e di riprodursi. La razza base a sua scelta... le consiglio un palomino, o un arabo. Ali progettate a imitazione di quelle di un condor, bianche. Penne simulate con frangia innestata di piume d'oca, o di un facsimile ragionevole.» E passò il foglio a van Vogel. «Lo sigli, e incominceremo a lavorare anche prima che sia pronto il contratto ufficiale.» «D'accordo,» fece van Vogel. «Quanto costa?» E appose la propria sigla sotto a quella di Cargrew. Cargrew prese altri appunti e li consegnò a Blakesly: un preventivo delle ore lavorative dei professionisti e dei tecnici, delle spese e degli imprevisti. Aveva gonfiato un po' le cifre per poter finanziare le sue ricerche collaterali: ma fu il primo a inarcare le sopracciglia quando vide la traduzione dei suoi dati in dollari e centesimi eseguita da Blakesly. «Verrà due milioni di dollari.» Van Vogel esitò: sua moglie aveva alzato la testa, quando aveva sentito parlare di denaro. Ma poi aveva dedicato nuovamente la sua attenzione all'elefantino. Blakesly si affrettò ad aggiungere: «Questo per una creazione esclusiva, naturalmente.» «Naturalmente,» convenne pronto van Vogel, e aggiunse la cifra al promemoria. Van Vogel era pronto a ritornare a casa, ma sua moglie insistette per vedere le «scimmie»; chiamava così gli operai antropoidi. Era rimasta molto sorpresa nello scoprire che possedeva una parte di quegli esseri subumani. Blakesly, un po' imbarazzato, propose una visita ai laboratori in cui, partendo dalle vere scimmie, venivano prodotti gli operai.
I laboratori erano sistemati in sette edifici, chiamati «I Sette Giorni della Creazione». Il «Primo Giorno» era una grande struttura occupata da Cargrew e dai suoi collaboratori: c'erano sale operatorie, incubatrici e laboratori. Martha van Vogel guardò, inorridita e affascinata, gli organi e gli embrioni completi che vivevano una vita artificiale grazie a un complesso sistema di ricircolazione, fatto di vetro e di metallo, e a perfetti meccanismi automatici. Non era in grado di apprezzare quelle tecniche: le sembravano troppo deprimenti. Aveva quasi deciso di schierarsi contro la plastobiologia quando Napoleone le tirò la gonna: e questo le ricordò che produceva anche cose bellissime, non soltanto orrori. Non entrarono nell'edificio detto «Secondo Giorno»: era occupato da B'na Kreeth e dai suoi colleghi, appartenenti alla stessa razza. «Non riusciremmo a sopravvivere, lì dentro, lei capisce,» spiegò Blakesly. Van Vogel annuì: sua moglie si affrettò a passare oltre... non voleva saperne dei marziani, neanche dietro ad una lastra di plastiglass. Le altre costruzioni erano adibite allo sviluppo e alla produzione degli operai. Al «Terzo Giorno» ci si dedicava allo sviluppo delle varianti degli antropoidi, al fine di soddisfare le esigenze sempre mutevoli del mercato del lavoro. Il «Quarto Giorno» era un edificio grandissimo riservato esclusivamente alle incubatrici della linea di produzione, che sfornava i tipi commerciali di antropoidi. Blakesly spiegò che non li facevano nascere in modo normale. «Con questo sistema possiamo avere un controllo esatto sulle variazioni forzate, per esempio delle dimensioni, e risparmiamo migliaia di ore di lavoro da parte degli antropoidi femmina.» A Martha van Vogel piacque molto il «Quinto Giorno»: l'asilo infantile degli antropoidi, dove i piccoli imparavano a parlare e venivano condizionati ad adeguarsi alla loro posizione sociale. Effettuavano lavoretti semplici, come dividere bottoni e scavare buche in mucchi di sabbia: quando eseguivano questi lavori esattamente e rapidamente ricevevano in premio delle caramelle. Il «Sesto Giorno» completava l'istruzione degli antropoidi. Ciascuno apprendeva il mestiere che avrebbe dovuto fare: imparavano a pulire, a scavare, e soprattutto a svolgere lavori agricoli semispecializzati, come estirpare le erbacce, diradare le piante e raccogliere la frutta. «Un agricoltore che disponga di tre neoscimpanzè può produrre una quantità di verdure identica a quella che avrebbe prodotto con una dozzina
di braccianti,» assicurò Blakesly. «A loro piace veramente lavorare, quando abbiamo finito di condizionarli.» Gli ospiti ammirarono il lavoro incredibilmente pesante svolto dai gorilla modificati e si soffermarono a guardare i piccoli neocebicappuccini che raccoglievano la frutta in cima a finti alberi altissimi; poi passarono al «Settimo Giorno». L'edificio veniva adibito alla mutazione radioattiva dei geni, e quindi era ubicato a una certa distanza dagli altri. Dovettero andare a piedi, perché il marciapiede mobile era in riparazione. La deviazione li portò davanti ai recinti e alle baracche degli operai. Alcuni antropoidi si radunarono contro la rete e cominciarono a gridare: «Sigretta! Sigretta! Prego, Siniora! Prego, Patrone! Sigretta!» «Cosa stanno dicendo?» chiese Martha van Vogel. «Chiedono sigarette,» rispose Blakesly, in tono annoiato. «Sanno che non devono farlo, ma sono come bambini. Ora li faccio smettere.» Si accostò alla rete e gridò a un vecchio maschio: «Ehi, intendente!» L'operaio chiamato da Blakesly portava, oltre al solito gonnellino di tela da sacco, una lacera fascia al braccio. Si voltò e avanzò, strascicando i piedi, verso la rete. «Intendente,» ordinò Blakesly, «porta via quei Joe.» «Sì, Patrone.» Il vecchio antropoide cominciò a percuotere quelli che gli stavano intorno. «Via, voi Joe! Via!» «Ma io ho qualche sigaretta,» protestò la signora van Vogel. «Gliele avrei date volentieri.» «Non bisogna viziarli,» le rispose il direttore. «Hanno imparato che i lussi si ottengono solo con il lavoro. Devo scusarmi per quei poverini: questi nei recinti sono vecchi e hanno dimenticato le buone maniere.» Martha van Vogel non rispose ma avanzò lungo la recinzione, verso il punto in cui un vecchio neoscimpanzè stava immobile, schiacciato contro la rete, e li guardava con occhi dolci e tragici, come un bambino davanti alla vetrina d'una pasticceria. Non aveva partecipato alla frenetica richiesta di tabacco e l'intendente l'aveva lasciato in pace. «Vuoi una sigaretta?» gli chiese Martha van Vogel. «Peppiacere, Siniora.» Lei ne accese una che l'antropoide accettò con grazia impacciata: e subito ne trasse una boccata profonda, fino a riempirsi i polmoni, poi esalò il fumo dalle narici e disse, timidamente: «Crazzie, Siniora. Me Jerry.» «Piacere, Jerry.»
«Piacere, Siniora.» L'antropoide si inchinò, piegando le ginocchia, abbassando la testa e stringendosi le mani sul petto, in un unico movimento. «Vieni via, Martha.» Il marito e Blakesly l'avevano raggiunta. «Un momento,» rispose lei. «Brownie, ti presento il mio amico Jerry. Non sembra tutto zio Albert? Solo, ha un'espressione troppo triste. Perché sei infelice, Jerry?» «Gli antropoidi non capiscono le idee astratte,» s'intromise Blakesly. Ma Jerry lo sbalordì. «Jerry triste,» annunciò in un tono così doloroso che Martha van Vogel non seppe se ridere o piangere. «Perché, Jerry?» gli chiese, dolcemente. «Perché sei così triste?» «No lavoro,» disse lui. «No sigrette. No cannelle. No lavoro.» «Sono tutti vecchi operai che non servono più a niente,» ripeté Blakesly. «L'ozio li avvilisce, ma non abbiamo niente da fargli fare.» «E allora,» disse Martha, «perché non li incaricate di dividere i bottoni, o qualcosa del genere, come fanno i piccoli?» «Non saprebbero farlo a dovere,» spiegò Blakesly. «Questi operai sono rimbambiti.» «Jerry non è rimbambito! L'ha pur sentito parlare.» «Ecco, forse non lo è. Un momento.» Si rivolse all'uomo-scimmia, che si stava acquattando per grattare la testa di Napoleone con un lungo dito che sporgeva attraverso la rete. «Tu, Joe, vieni qui.» Blakesly tastò il collo velloso dell'operaio: trovò la catenella d'acciaio da cui pendeva una targhetta metallica, e la studiò. «Ha ragione, signora,» ammise. «Non è sopra età, ma non ha la vista buona. Ricordo bene questa serie... Cataratte, in conseguenza ad una mutazione sfortunata.» e alzò le spalle. «Ma non c'è ragione di lasciarlo intristire nell'ozio.» «Davvero, signora van Vogel, lei non deve intenerirsi così. Non restano nei recinti per molto tempo... solo per qualche giorno al massimo.» «Oh,» rispose lei, un po' raddolcita. «Allora avete qualche altro posto dove li mettete in pensione. E là, gli date qualcosa da fare? Dovreste proprio provvedere... Jerry vuole lavorare. Non è vero, Jerry?» Il neoscimpanzè s'era sforzato di seguire la conversazione. Afferrò quell'ultima idea e sogghignò. «Jerry lavora! Sicuro! Buon operaio.» Fletté le dita, poi strinse i pugni, mostrando i pollici perfettamente opponibili. Blakesly sembrava sconcertato.
«In verità, signora van Vogel, non ce n'è bisogno. Vede...» e s'interruppe. Van Vogel aveva ascoltato il dialogo con aria irritata. Gli entusiasmi di sua moglie lo esasperavano, quando non li condivideva. Inoltre, cominciava a ritenere Blakesly responsabile della sua ordinazione stravagante e prevedeva che sua moglie avrebbe trovato il modo di fargli pagare, sia pure dolcemente, quel capriccio. Poiché era irritato con tutti e due, s'intromise ridacchiando con l'osservazione più inopportuna. «Non fare la sciocca, Martha. Non li mettono in pensione. Li liquidano.» Ci volle un po' di tempo perché Martha comprendesse a fondo quelle parole: ma quando le comprese, s'infuriò. «Come... come... non ho mai sentito una cosa simile! Dovreste vergognarvi. Lei... lei sarebbe capace di sparare a sua nonna!» «Signora van Vogel... la prego!» «E la pianti! Questa storia deve finire... mi ha sentito?» Volse lo sguardo sui recinti della morte, sulle centinaia di vecchi operai che vi si aggiravano. «È orribile. Li fate lavorare fino a quando non sono più in grado di far nulla, togliete loro anche le più piccole soddisfazioni, e vi sbarazzate di loro. Mi meraviglio che non li mangiate!» «Più o meno,» disse brutalmente suo marito. «Ne fanno cibo per cani.» «Cosa? Bene, penseremo noi a farla finita!» «Signora van Vogel,» la supplicò Blakesly. «Mi permetta di spiegarle.» «Umffff! Avanti, si spieghi. E cerchi di essere convincente.» «Ecco, le cose stanno così...» Lo sguardo di Blakesly cadde su Jerry, che stava ritto, con aria preoccupata, accanto alla recinzione. «Via, Joe!» Jerry si allontanò, strascicando i piedi. «Aspetta, Jerry!» lo richiamò Martha van Vogel. Jerry si fermò, incerto. «Gli dica di ritornare qui,» ordinò la giovane donna a Blakesly. Il direttore si morse le labbra, poi gridò: «Torna qui.» Blakesly incominciava a detestare la signora van Vogel con tutte le sue forze, nonostante la sua tendenza automatica a genuflettersi davanti ad un cospicuo patrimonio. Sentirsi dire come doveva dirigere la sua azienda... era veramente troppo! «Signora van Vogel, ammiro il suo spirito umanitario, ma lei non si rende conto della situazione. Noi comprendiamo i nostri operai e facciamo del nostro meglio per loro. Muoiono senza soffrire prima che la loro incapacità di lavorare li sconvolga troppo. Vivono felici, più felici di lei e di me. Eli-
miniamo la parte peggiore delle loro vite, nient'altro. E non dimentichi che queste povere bestie non sarebbero mai nate, se non le avessimo fatte nascere noi.» Martha van Vogel scrollò il capo. «Sciocchezze! Fra poco, lei si metterà a citarmi la Bibbia. Questa storia deve finire, signor Blakesly. La riterrò personalmente responsabile.» Blakesly la guardò, stordito. «Io sono responsabile nei confronti del consiglio d'amministrazione.» «Lo crede davvero?» Lei aprì la borsetta e tirò fuori il telefono. Era così agitata che non chiamò direttamente, ma si mise in contatto con il centralino locale. «Phoenix? Mi passi Great New York, Murray Hill 9Q-4004. Signor Haskell. Urgentissimo... abbonato 777. Si sbrighi.» Restò ritta, battendo il piede e lanciando occhiate furiose, fino a quando il suo amministratore le rispose. «Haskell? Sono Martha van Vogel. Quante azioni della Workers Incorporated possiedo?... No, no, lasci perdere... che percentuale?... Davvero? Bene, non bastano. Voglio il cinquantuno per cento entro domani mattina... Benissimo, trovi dei prestanome per le altre, ma se le procuri. Non le chiedo cosa verrà a costare: le ho detto di comprarle. Si dia da fare.» Tolse bruscamente la comunicazione e si rivolse al marito. «Ce ne andiamo, Brownie, e portiamo Jerry con noi. Signor Blakesly, vuole avere la cortesia di farlo togliere dal recinto? Fagli un assegno per la cifra che chiede, Brownie.» «Su Martha...» «Ho deciso, Brownie.» Blakesly si schiarì la gola. Non sarebbe stato piacevole tener testa a quella donna. «Gli operai non vengono mai venduti. Mi dispiace. È la regola.» «Benissimo, allora. Mi faccia un ingaggio permanente.» «Quest'operaio è stato tolto dal mercato del lavoro. Non può venire ingaggiato.» «Devo avere altri fastidi, con lei?» «La prego, signora! Quest'operaio non è più disponibile, a nessuna condizione... ma, per farle una cortesia, sono disposto a trasferirlo a lei, gratis. Voglio che lei comprenda che le norme di questa azienda sono state stabilite tenendo conto del bene dei nostri prodotti, oltre che della corrente pratica commerciale. Perciò ci riserviamo il diritto di effettuare ispezioni in qualunque momento per assicurarci che lei si prenda adeguatamente cura
di questo operaio.» Poi disse a se stesso, furiosamente: così almeno la smetterà! «Naturalmente. Grazie, signor Blakesly. È stato molto gentile.» Il viaggio di ritorno a Great New York non fu molto allegro. Napoleone non l'apprezzò e lo fece sapere. Jerry era paziente, ma soffriva il mal d'aria. Quando atterrarono, i van Vogel non si parlavano più. «Mi dispiace, signora van Vogel, ma le azioni non si trovano. Avremmo dovuto acquistarle attraverso il blocco O'Toole come prestanome, ma qualcuno le ha bloccate un'ora prima che cercassi di trattarle.» «Blakesly.» «Senza dubbio. Non avrebbe dovuto metterlo sull'avviso: così gli ha dato il tempo di avvertire i suoi superiori.» «Non sprechi il fiato a dirmi quali errori ho commesso ieri. Che cosa ha intenzione di fare oggi?» «Mia cara signora, che cosa posso fare? Eseguirò le istruzioni che lei vorrà darmi.» «Non dica sciocchezze. Lei dovrebbe essere più esperto di me: la pago proprio perché pensi in mia vece.» Haskell la guardò, smarrito. Martha van Vogel sfregò una sigaretta per accenderla, con tanta forza da spezzarla. «Perché Weinberg non è qui?» «In verità, signora van Vogel, non ci sono aspetti legali particolari. Lei vuole quelle azioni: ma non possiamo comprarle. Perciò...» «Io pago Weinberg perché si occupi delle questioni legali. Lo trovi.» Weinberg stava uscendo dall'ufficio. Haskell lo rintracciò attraverso il circuito speciale. «Sidney,» gli disse, «vieni nel mio ufficio, ti spiace? Sono Oscar Haskell.» «Mi rincresce... Non potrei venire alle quattro?» «Sidney, deve venire qui subito!» si intromise la voce della sua cliente. «Sono Martha van Vogel.» L'ometto scrollò le spalle, arrendendosi. «Vengo subito,» promise. Quella donna... ma perché lui non era andato in pensione quando aveva compiuto i centotrent'anni, come gli aveva consigliato sua moglie? Dieci minuti dopo, Weinberg stava ascoltando le spiegazioni di Haskell e le interruzioni della sua cliente. Quando i due ebbero finito, allargò le
braccia. «Cosa si aspetta, signora van Vogel? Gli operai sono beni mobili. Lei non ha potuto acquistarne i diritti di proprietà: è bloccata. Ma non capisco perché se la prende tanto. Le hanno pur dato l'operaio cui voleva salvare la vita.» Martha imprecò energicamente sottovoce, poi gli rispose. «Non è questo l'importante. Che cos'è un operaio solo, in confronto a parecchi milioni? Voglio che smettano di ucciderli.» Weinberg scosse il capo. «Se lei potesse dimostrare che i loro metodi per eliminare quelle bestie sono inumani, o che li trattano male prima di eliminarli, o che l'eliminazione stessa è assurda...» «Assurda? Certo che lo è!» «Probabilmente non dal punto di vista legale, mia cara signora. Vi fu una causa, Julius Hartman e altri contro gli esecutori testamentari del patrimonio Hartman, nel 1972, mi pare, in cui venne accordata un'ingiunzione permanente contro una clausola del testamento che esigeva l'eliminazione di una preziosa collezione di gatti persiani. Ma per poter usare questa teoria, dovrebbe dimostrare che quegli esseri, anche vecchi, sono tuttavia più preziosi da vivi che da morti. Non si può costringere una persona a mantenere dei beni mobili in pura perdita.» «Stia a sentire, Sidney. Non l'ho chiamata qui perché mi dicesse che è impossibile. Se quello che voglio non è legale, allora faccia in modo che approvino una legge apposta.» Weinberg guardò Haskell, che rispose in tono imbarazzato. «Ecco, il fatto è, signora van Vogel, che ci siamo accordati con altri membri dell'Associazione del Commonwealth di non sovvenzionare alcuna legislatura per tutta la durata dell'amministrazione attuale.» «È ridicolo! E perché?» «La Lega Legislativa ha emesso un nuovo codice che consideriamo del tutto ingiusto, perché penalizza i benestanti... in apparenza suona molto bene, con provvedimenti speciali per i veterani e cose del genere... ma in pratica si tratta di un codice troppo esoso. Persino la Fondazione Briggs può a malapena permettersi di interessarsi agli affari pubblici, grazie a questo codice.» «Umf! Che bella festa, quando i legislatori si mettono d'accordo con i sindacati... loro sono dei professionisti. Le bustarelle dovrebbero essere competitive. Ottenga un'ingiunzione.»
«Signora van Vogel,» protestò Weinberg, «come può pretendere che io ottenga un'ingiunzione contro un'organizzazione che non ha esistenza legale? Dal punto di vista legale, non esiste alcuna Lega Legislativa, così come la consuetudine di aiutare la legislatura per mezzo di sovvenzioni non ha, in se stessa, un'esistenza legale.» «E i bambini nascono sotto i cavoli. Finitela di mettermi i bastoni tra le ruote, signori miei. Che cosa avete intenzione di fare?» Weinberg si decise a parlare quando vide che Haskell non intendeva aprir bocca. «Signora van Vogel, credo che dovremo ingaggiare un intrallazzatore speciale.» «Io non mi servo di intrallazzatori... Non riesco a capire il loro modo di pensare. Sono solo una semplice casalinga, Sidney.» Weinberg rabbrividì a quell'autodefinizione, e nello stesso tempo prese nota mentalmente: non doveva mai farle sapere che lo stipendio del suo intrallazzatore era a carico dell'amministrazione di lei. Come imponevano le convenzioni: ufficialmente lui era soltanto un avvocato; ma aveva scoperto da parecchio tempo che i problemi di Martha van Vogel richiedevano di tanto in tanto l'intervento di uno specialista d'un genere un po' particolare. «L'uomo cui sto pensando è un artista creativo,» insistette. «Non è necessario capirlo, come non è necessario capire il compositore per apprezzare una sinfonia. Le consiglio però di parlare con lui, per lo meno.» «Oh, benissimo! Lo faccia venire qui.» «Qui? Mia cara signora!» Haskell era profondamente scandalizzato, Weinberg sbalordito. «Non solo qualunque causa che lei portasse in tribunale verrebbe respinta se si risapesse che ha consultato quell'uomo... ma pregiudicherebbe per anni interi ogni iniziativa delle aziende Briggs.» Martha van Vogel alzò le spalle. «Gli uomini! Non capirò mai il vostro modo di pensare. Perché non si dovrebbe consultare apertamente un intrallazzatore, come si consulta un astrologo?» James Roderick McCoy non era un uomo imponente, ma lo sembrava. Riusciva a dominare persino un ambiente vasto come il salone della signora van Vogel. Sul suo biglietto da visita professionale c'era scritto: J. R. McCOY «Il Vero McCoy»
Intrallazzatore autorizzato - Sistemazioni, Contatti Speciali, Risultati Garantiti TELEFONO SKYLINE 9-8M4554 Chiedere di MAC Il numero telefonico indicato era quello della sala biliardo del famigerato «Three Planets Club». McCoy non amava perdere tempo negli uffici, e l'archivio lo aveva in testa... del resto, quello era l'unico posto sicuro per tenercelo. Stava seduto sul pavimento e cercava di insegnare a Jerry a giocare ai dadi, mentre Martha van Vogel gli spiegava il suo problema. «Che ne pensa, signor McCoy? Potremmo provare attraverso l'SPCA? I miei addetti alle pubbliche relazioni potrebbero metterli in movimento.» McCoy si alzò in piedi. «La vista di Jerry non è poi tanto malridotta: mi ha scoperto mentre cercavo di barare. No.» continuò. «L'SPCA non servirebbe a nulla. È proprio quello che si aspettano alla Workers. Si terrebbero pronti a dimostrare che gli antropoidi sono felicissimi di venire eliminati.» Jerry fece tintinnare i dadi, speranzoso. «Basta così, Jerry. Vai.» «Bene, Patrone.» L'uomo-scimmia si alzò in piedi e si diresse verso il grande stereo che occupava un angolo del salone. Napoleone lo seguì e accese l'apparecchio. Jerry premette uno dei pulsanti della selezione, finché trovò un cantante di blues. Napoleone premette immediatamente un altro pulsante, poi un altro ancora, fino a quando trovò un rumoroso complesso di musica rock, e incominciò a segnare il tempo con la proboscide. Jerry sembrò rattristato e fece ritornare il suo cantante di blues. Napoleone protese ostinato la proboscide e spense l'apparecchio. Jerry imprecò. «Buoni!» gridò Martha van Vogel. «Smettetela di litigare. Jerry lascia che Nappie ascolti quello che preferisce. Tu potrai scegliere quello che vuoi quando Nappie farà il suo sonnellino.» «Bene, Siniora Patrona.» McCoy si mostrò interessato. «Jerry ama la musica?» «Moltissimo. Sta imparando a cantare.» «Eh? Voglio proprio sentirlo.» «Certamente. Nappie... spegni lo stereo.» L'elefantino obbedì, ma riuscì
a dimostrare il suo disappunto. «Su, Jerry... canta Jingle Bells.» E intonò: «Jingle bells, jingle bells, jingle all the way...» Jerry continuò. «Jinger bez, jinger bez, jinger awrah day: Oh, wot fun tiz to ride in one-hoss open sray.» Aveva una voce piatta, terribile. Ed era ridicolo, mentre batteva il tempo con uno dei suoi piedi piatti. Ma cantava. «Caspita!» commentò McCoy. «Peccato che Nappie non sappia parlare... avremmo un bel duo.» Jerry lo guardò, perplesso. «Nappie parla bene,» dichiarò. Si chinò sull'elefantino e gli parlò. Napoleone rispose grugnendo e mugolando. «Vedi, Patrone?» fece trionfante Jerry. «Che cosa ha detto?» «Detto: Nappie adesso può suonare stereo?» «Benissimo, Jerry,» intercedette Martha van Vogel. L'uomo-scimmia bisbigliò qualcosa al suo compagno. Napoleone squittì e non accese lo stereo. «Jerry!» ammonì la donna. «Non ho detto niente del genere: non è obbligato ad ascoltare il tuo cantante di blues. Vieni via di lì, Jerry. Nappie... ascolta pure quello che vuoi.» «Intende dire che ha cercato di imbrogliare?» chiese McCoy, interessato. «Sicuro.» «Uhm... Jerry ha la stoffa di un bravo cittadino. Basta rasarlo, mettergli un paio di scarpe... e andrebbe benissimo nel quartiere dove sono cresciuto io.» Fissò l'antropoide. Jerry ricambiò lo sguardo, perplesso ma paziente. La signora van Vogel aveva gettato via il sudicio gonnellino di tela da sacco che era un marchio di schiavitù e una concessione alla decenza e gli aveva fatto indossare un kilt con i vivaci colori di guerra del clan Cameron, completo di borsa e berretto alla scozzese. «Crede che potrebbe imparare a suonare la cornamusa?» chiese McCoy. «Comincio ad avere un'idea.» «Oh, non saprei. Qual è la sua idea?» McCoy sedette a gambe incrociate e incominciò a lanciare i dadi. «Non ci pensi,» rispose, quando ne ebbe voglia. «Non è una gran buona idea. Ma ci stiamo arrivando.» Lanciò quattro volte dodici, uno dopo l'altro. «Lei mi ha detto che Jerry appartiene ancora alla Workers Inc?» «Ufficialmente sì. Ma dubito molto che cercheranno di riprenderselo.»
«Vorrei che ci provassero, invece.» McCoy raccolse i dadi e si alzò. «È fatta, mia cara. Non ci pensi più. Avrò bisogno di parlare con il suo addetto alla pubblicità, ma lei può smettere fin d'ora di preoccuparsi.» Naturalmente la signora van Vogel avrebbe dovuto bussare prima di entrare nella stanza del marito... ma in questo caso non avrebbe potuto ascoltare quello che stava dicendo e non avrebbe saputo con chi parlava. «Giustissimo,» lo sentì dire. «Non abbiamo più bisogno di lui. Prima lo portate via, tanto meglio sarà. Per sicurezza, però, l'uomo che manderete qui dovrà avere un ordine firmato che ci imponga di consegnarlo.» Martha van Vogel non si allarmò, perché non comprendeva quella conversazione: era semplicemente incuriosita. Guardò al di sopra della spalla del marito, verso lo schermo. E vide la faccia di Blakesly, sentì la sua voce dire: «Benissimo, signor van Vogel, domani manderemo a prendere l'antropoide.» Martha avanzò verso lo schermo. «Un momento, signor Blakesly...» Poi, rivolta al marito: «Brownie, cosa diavolo credi di fare?» L'espressione che colse sul viso di lui era completamente diversa da quelle che gli conosceva. «Perché non hai bussato?» «Forse è stato un bene che non l'abbia fatto. Brownie, ho capito bene? Stavi dicendo a Blakesly di mandare a prendere Jerry?» Si girò verso lo schermo. «È così, signor Blakesly?» «È esatto, signora van Vogel. E devo dire che trovo questa conclusione molto...» «La pianti.» E tornò a voltarsi. «Brownie, che cosa hai da dire?» «Martha, ti stai comportando in un modo assurdo. Fra quell'elefante e quello scimmione, questa casa è diventata uno zoo. Ho addirittura scoperto il tuo caro Jerry, oggi, mentre fumava uno dei miei sigari speciali... per non parlare poi del fatto che quei due fanno andare lo stereo tutto il giorno, e che non posso più avere un momento di pace. E non sopporto una situazione del genere in casa mia.» «In casa di chi, Brownie?» «Questo non c'entra. Non sopporto...» «Lascia stare.» Martha van Vogel si rivolse allo schermo. «Sembra che mio marito abbia perduto la passione per gli animali esotici, signor Blakesly. Annulli l'ordine del Pegaso.»
«Martha!» «Mi sembra giusto, Brownie. Io sono disposta a pagare i tuoi capricci: ma mi venga un accidente se pagherò le tue pazzie. Il contratto è annullato, signor Blakesly. Haskell si occuperà dei particolari.» Blakesly alzò le spalle. «Questo modo di agire le costerà caro, naturalmente. La penale...» «Ho detto che Haskell si occuperà dei particolari. Un'altra cosa, signor Blakesly... ha fatto quel che le ho detto?» «Che cosa intende dire?» «Sa benissimo che cosa intendo dire... Quelle povere creature sono ancora vive e in buone condizioni?» «Questo non è affar suo.» In effetti, aveva sospeso le uccisioni; il consiglio d'amministrazione non voleva correre rischi, fino a quando non avesse visto che cosa era capace di fare la Fondazione Briggs. Ma Blakesly non voleva dare a Martha van Vogel la soddisfazione di saperlo. Lei lo guardò come se fosse un dividendo infruttifero. «No, vero? Bene, si ricordi questo: la ritengo personalmente responsabile. Se anche uno solo di quegli antropoidi muore per una ragione qualsiasi, avrò la sua testa su un piatto d'argento.» Tolse la comunicazione e si girò verso il marito. «Brownie...» «È inutile parlarne,» l'interruppe lui, con la voce gelida che usava di solito per piegarla alla sua volontà. «Mi troverai al Club. Arrivederci.» «È appunto quello che stavo per consigliarti.» «Cosa?» «Ti farò mandare i tuoi vestiti. C'è altro, di tuo, in questa casa?» Lui la fissò. «Non dire sciocchezze, Martha.» «Non sto dicendo sciocchezze.» E lo squadrò dalla testa ai piedi. «Sei veramente bello, Brownie. Credo di essere stata molto stupida, a pensare di poter comprare un pezzo d'uomo con un libretto di assegni. Penso che una ragazza si possa trovare un uomo gratis, o che altrimenti possa farne a meno. Grazie della lezione.» Girò sui tacchi, uscì sbattendo la porta e ritornò nel suo appartamento. Cinque minuti dopo, con il trucco restaurato e i nervi rinsaldati da un paio di spruzzi di Fly-Right, chiamò la sala biliardo del «Three Planets Club». McCoy si presentò sullo schermo con la stecca in mano. «Oh, è lei, miciona. Bene, sentiamo. Devo finire la partita.» «Devo parlarle di affari.»
«D'accordo, d'accordo... fuori l'osso.» Lei gli spiegò i fatti essenziali. «Mi dispiace di avere annullato l'ordine del cavallo alato, signor McCoy. Spero di non aver complicato il suo lavoro. Ma ho proprio perduto la calma.» «Magnifico, la perda di nuovo.» «Eh?» «Insista, figliola. Richiami Blakesly. E strilli. Gli dica di tenere lontano gli scagnozzi da casa sua, altrimenti li farà impagliare e li userà come attaccapanni. Lo sfidi a portarle via Jerry.» «Non la capisco.» «Non è necessario che mi capisca, ragazza mia. Si ricordi di questo: non si può fare una corrida finché non si è fatto infuriare il toro. Dica a Weinberg di procurarsi un'ingiunzione temporanea che impedisca alla Workers Incorporated di reclamare Jerry. Dica al capo del suo ufficio stampa di chiamarmi. Poi convochi i giornalisti e dica loro quello che pensa di Blakesly. E sia cattiva. Dica che intende mettere fine a questo massacro, anche se dovrà costarle tutto il suo patrimonio, fino all'ultimo centesimo.» «Ma... benissimo. Lei verrà da me, prima che io parli con i giornalisti?» «No. Devo finire la partita. Forse domani. E non si preoccupi per aver annullato l'ordine del cavallo con le ali. Ho sempre pensato che suo marito fosse un po' tocco... e disdicendo l'ordine lei ha risparmiato un bel po' di quattrini. Ne avrà bisogno quando le manderò la parcella. Caspita, ho intenzione di spennarla a dovere. Arrivederci.» La scritta luminosa lampeggiava attorno ai lati del Palazzo del Times. «LA DONNA PIÙ RICCA DEL MONO SI BATTE PER DIFENDERE UN UOMO-SCIMMIA.» Sul gigantesco schermo video, sopra la scritta, appariva un'immagine di Jerry, abbigliato nel suo ridicolo costume da capo clan-scozzese. Un piccolo esercito di poliziotti circondava la casa di città dei Briggs. La signora van Vogel informò chiunque fosse disposto ad ascoltare, compresi parecchi servizi stampa, che avrebbe difeso Jerry personalmente, fino alla morte. L'ufficio pubbliche relazioni della Workers Incorporated smentì che ci fosse mai stata l'intenzione di reclamare Jerry: ma la smentita non fece presa su nessuno. Nel frattempo, i tecnici installavano altri circuiti audio e video nella più
grande aula del tribunale della città, perché un certo Jerry (niente cognome), presentato come residente legale e permanente negli Stati Uniti, aveva richiesto un'ingiunzione permanente contro la persona giuridica «Workers», i suoi dirigenti, funzionari, successori e concessionari, che vietasse di fargli del male e che vietasse in particolare di ucciderlo. Per mezzo del suo legale, l'onorevole illustre e rispettabile Augustus Pomfrey, Jerry presentò la richiesta a nome proprio. Martha van Vogel sedeva in tribunale come semplice spettatrice, ma era circondata da segretari, guardie, cameriere, addetti alla pubblicità e dipendenti vari, e aveva una telecamera puntata esclusivamente su di lei. Era un po' nervosa. McCoy aveva insistito per imbeccare Pomfrey attraverso Weinberg, per impedire che Pomfrey venisse a sapere di essere aiutato da un intrallazzatore. Martha aveva un'opinione tutta sua sul conto di Pomfrey... McCoy aveva insistito perché Jerry non indossasse il suo bel kilt nuovo, e lo aveva fatto vestire con un paio di calzoni da fatica e una giacchetta sbiadita. A Martha van Vogel sembrava che fosse una trovata drammatica di cattivo gusto. E McCoy aveva rifiutato di recarsi in tribunale insieme a lei. Le aveva detto che era impossibile, che sarebbe bastata la sua presenza per indisporre il giudice, e Weinberg gli aveva dato ragione. Gli uomini! Avevano una mentalità così contorta... sembrava che amassero i modi più tortuosi di fare ogni cosa. E questo rafforzava la sua convinzione: sarebbe stato molto meglio se gli uomini non avessero avuto il diritto di voto. Tuttavia, si sentiva perduta senza la vicinanza immediata della tranquilla sicurezza di McCoy. Quando era lontana da lui, si chiedeva perché aveva affidato una faccenda tanto importante ad un pagliaccio irresponsabile come McCoy. E intanto si rosicchiava le unghie e si augurava che lui fosse presente. Il collegio di avvocati della Workers Incorporated esordì chiedendo che la causa venisse chiusa senza dibattimento, perché Jerry era un bene mobile di proprietà dell'azienda, una sua parte integrante: non aveva diritto di farle causa più di quanto un pollice avesse il diritto da fare causa al cervello. L'onorevole Augustus Pomfrey aveva veramente l'aria dell'uomo di stato, mentre si inchinava al giudice e ai suoi avversari. «È realmente molto strano,» esordì, «sentire la voce di seconda mano
d'una finzione legale, un'entità immaginaria e priva di anima chiamata 'persona' giuridica, sostenere che uria creatura in carne ed ossa, un essere dotato di desideri e di speranze e di passioni, non ha esistenza legale. Vedo qui, accanto a me, il mio povero cugino Jerry.» Batté una mano sulla spalla di Jerry, e l'uomo-scimmia, che sentiva il bisogno di venire rassicurato, gliela strinse. Il gesto cadde a proposito. «Ma quando cerco questa fantasia astratta, la Workers... che cosa trovo? Nulla... alcune parole sulla carta, qualche documento firmato...» «Una domanda, se non dispiace al signor giudice,» interruppe l'avvocato principale dell'opposizione. «Il mio dotto avversario sostiene che una società per azioni non può possedere niente?» «Avvocato, vuole rispondere?» fece il giudice. «Grazie. Il mio stimato collega mi ha proposto un falso bersaglio. Io affermo soltanto che la questione dell'appartenenza di Jerry alla Workers Incorporated come bene mobile è inesistente, irrilevante e non essenziale. Io faccio parte della città di Great New York. Questo mi toglie forse i diritti civili che mi spettano quale persona in carne e ossa? Anzi, non mi toglie neppure il diritto di citare in giudizio la corporazione civica di cui faccio parte, se ritengo che mi abbia fatto un torto. Noi siamo oggi qui riuniti, sotto la luce solare della giustizia, più che entro i freddi e ristretti confini della legge. È il momento più opportuno per discutere le strane assurdità che regolano la nostra vita, e grazie alle quali una finzione legale, esistente solo sulla carta, può negare il diritto alla vita di questo nostro povero cugino. Chiedo che i dotti avvocati di parte avversa riconoscano che Jerry esista: e poi continuiamo a discutere la causa.» Gli avvocati di parte avversa fecero capannello. E la risposta fu «No». «Benissimo. Il mio cliente ha chiesto di essere interrogato, affinché il signor giudice possa determinare la sua posizione e il suo essere.» «Obiezione! Questo antropoide non può venire interrogato: è soltanto parte e bene mobile del convenuto.» «È appunto questo che dobbiamo stabilire,» rispose asciutto il giudice. «Obiezione respinta.» «Vai a sederti su quella sedia, Jerry.» «Obiezione! Questa bestia non può giurare... non è in grado di capire il significato del giuramento.» «Che cosa ha da rispondere, avvocato?» «Se il signor giudice permette,» rispose Pomfrey, «la cosa più semplice da fare è metterlo sul banco dei testimoni e accertarlo.»
«Bene, gli sia permesso di salire sul banco dei testimoni. Il cancelliere proceda con la formula del giuramento.» Martha van Vogel strinse le dita sui braccioli della sedia. McCoy aveva impiegato una settimana intera ad ammaestrare Jerry in vista di quel momento. Ma quel povero essere ce l'avrebbe fatta, senza McCoy che lo guidasse? Il cancelliere recitò la formula del giuramento. Jerry aveva l'aria perplessa, ma paziente. «Vostro onore,» disse Pomfrey, «quando devono testimoniare i bambini, è consuetudine permettere qualche modifica alle parole, per adattarle alla loro capacità di comprensione. Mi è consentito?» E si avvicinò a Jerry. «Jerry, ragazzo mio, tu sei un buon operaio.» «Sicuro! Jerry buon operaio!» «Magari un cattivo operaio, eh? Pigro. Si nasconde per non farsi vedere dal caporeparto.» «No, no, no! Jerry buon operaio. Scava. Leva erbacce. Non strappa verdure. Strappa erbacce. Lavora tanto.» «Come vede,» disse Pomfrey, rivolgendosi al giudice, «il mio cliente ha le idee chiare, su ciò che è vero e su ciò che è falso. Adesso cerchiamo di scoprire se possiede o no valori morali che gli impongano di dire la verità. Jerry...» «Sì, Patrone.» Pomfrey spalancò la mano davanti alla faccia dell'antropoide. «Quante dita vedi?» Jerry tese la mano e le contò. «Una... due... tre... quattro... uh... cinche.» «Sei dita, Jerry.» «Cinche, Patrone.» «Sei dita, Jerry. Ti dò una sigaretta. Sei.» «Cinche, Patrone. Jerry no bucie.» Pomfrey allargò le braccia. «Il signor giudice lo accetta?» Il signor giudice l'accettò. Martha van Vogel sospirò. Jerry non era molto bravo a contare, e lei aveva temuto che dimenticasse l'imbeccata e accettasse di lasciarsi corrompere. Ma gli aveva promesso tutte le sigarette che voleva e anche tanta, tanta cioccolata, se avesse ricordato di insistere che cinque era cinque. «Ritengo,» proseguì Pomfrey, «che la questione sia risolta. Jerry è
un'entità; se può essere accettato come testimone, allora sicuramente può essere accettato anche come ricorrente in tribunale. I miei stimati colleghi sono d'accordo?» La Workers Incorporated, attraverso la sua schiera d'avvocati, si dichiarò d'accordo... appena in tempo, perché il giudice cominciava a rannuvolarsi. Era rimasto molto impressionato da quella scena. Il vento era favorevole, e Pomfrey ne approfittò. «Se piace al signor giudice e se gli avvocati del convenuto lo permettono, abbrevieremo la procedura. Esporrò la questione e poi, con poche domande, la risolveremo in un modo o nell'altro. Chiedo si riconosca che era intenzione della Workers Incorporated, attraverso i suoi dipendenti, togliere la vita al mio cliente.» Gli avvocati di parte avversa rifiutarono di ammetterlo. «Davvero? Allora chiedo al signor giudice di prendere nota del fatto a tutti ben conosciuto che questi operai antropoidi vengono eliminati quando non rendono più; poi chiamerò i testimoni, cominciando da Horace Blakesly, per dimostrare che Jerry era e presumibilmente è tuttora soggetto a questa condanna a morte.» Un'altra rapida consultazione portò all'ammissione che Jerry era stato veramente messo in lista per l'eutanasia. «Allora,» disse Pomfrey, «esporrò la mia teoria. Jerry non è un animale, ma un uomo. Non è legale ucciderlo... è omicidio.» Vi fu prima un silenzio, poi la folla sbalordì. La gente si era abituata agli animali che parlavano e lavoravano, ma non era preparata a considerarli come persone, esseri umani, uomini, più di quanto gli altezzosi cittadini romani fossero disposti a riconoscere sentimenti umani ai loro schiavi barbari. Pomfrey sferrò il secondo colpo mentre il pubblico era ancora stordito. «Che cos'è un uomo? Un'organizzazione di cellule e di tessuti viventi? Una finzione legale, come la 'persona' giuridica che vorrebbe togliere la vita al povero Jerry? No, un uomo non è niente di tutto questo. Un uomo è un insieme di speranze e di timori, di desideri umani, di aspirazioni più grandi di lui... è più dell'argilla con cui è stato creato, e meno del Creatore che l'ha tratto dall'argilla. Jerry è stato tolto dalla sua giungla ed è stato reso superiore a quei poveri esseri che furono i suoi antenati, come voi ed io. Noi chiediamo che il signor giudice riconosca la sua umanità.» Gli avvocati di parte avversa si accorsero che il giudice era commosso, e
si affrettarono ad intervenire. Un antropoide, sostennero, non poteva essere un uomo, perché era privo di aspetto umano e di intelligenza umana. Pomfrey chiamò il suo primo testimone... il signor B'na Kreeth. L'abituale malumore del marziano non si era certo addolcito per il fatto di essere stato costretto a viaggiare per tre giorni in un'apposita vasca, per non parlare poi del fatto che era stato costretto ad interrompere le sue ricerche per partecipare a quella puerile diatriba fra terrestri. Vi fu un ulteriore ritardo che l'esasperò maggiormente, mentre Pomfrey obbligava gli avvocati della Workers ad accettare B'na come testimone ed esperto. Avrebbero voluto rifiutare, ma non potevano... era il loro direttore delle ricerche. Inoltre, controllava la maggioranza delle azioni della Workers di proprietà marziana, un fatto di cui nessuno amava parlare, ma che era molto importante. Vi fu un altro indugio, mentre veniva chiamato un interprete per la formula del giuramento: B'na Kreeth, egocentrico come tutti i marziani, non si era mai dato la pena d'imparare l'inglese. Cinguettò e trillò in risposta all'invito di dire la verità, tutta la verità eccetera. L'interprete assunse un'aria addolorata. «Dice che non può,» riferì al giudice. Pomfrey chiese una traduzione esatta. L'interprete guardò impacciato il giudice. «Afferma che se dicesse tutta la verità, voi stupidi... non proprio 'stupidi'... ha usato una parola marziana che indica una specie di verme senza testa... non lo capireste.» Il giudice discusse brevemente la possibilità d'incriminarlo per disprezzo verso la corte. Quando il marziano si rese conto che stava per essere costretto a restare nella vasca da viaggio per trenta giorni, scese dal piedistallo e s'impegnò a dire la verità nel modo più adeguato possibile: e fu accettato come testimone. «Lei è un uomo?» domandò Pomfrey. «Secondo le vostre leggi ed i vostri criteri, sono un uomo.» «In base a quale teoria? Il suo corpo è diverso dal nostro; lei non può neppure vivere nella nostra atmosfera. Non parla la nostra lingua: le sue idee ci sono estranee. Come può essere un uomo?» Il marziano rispose cautamente. «Cito il Trattato Terra-Marte, che voi dovete accettare come legge suprema: 'Tutti i membri della Grande Razza, quando soggiornano sul Terzo Pianeta, godranno di tutti i diritti e di tutte le prerogative dei membri della
razza indigena dominante del Terzo Pianeta stesso.' Secondo l'interpretazione del Tribunale Biplanetario, questa clausola significa che i membri della Grande Razza sono uomini.» «Perché chiama 'Grande Razza' la sua specie?» «Perché possediamo un'intelligenza superiore.» «Superiore a quella degli uomini?» «Noi siamo uomini.» «Superiore all'intelligenza degli uomini terrestri?» «È evidente.» «Proprio come noi siamo superiori, in fatto di intelligenza, a questo povero Jerry?» «Questo non è evidente.» «Ho finito di interrogare il testimone,» annunciò Pomfrey. Il consiglio della difesa avrebbe fatto bene a non insistere: invece cercò di indurre B'na Kreeth a definire la differenza intellettuale tra gli umani e gli operai antropoidi. B'na spiegò meticolosamente che le differenze culturali mascheravano le differenze intrinseche, se c'erano, e che, in ogni caso, sia gli antropoidi che gli uomini facevano così poco uso delle loro rispettive intelligenze potenziali che effettivamente era troppo presto per poter dire quale delle due razze si sarebbe affermata come superiore sul Terzo Pianeta. Aveva appena incominciato a discutere il modo in cui una razza veramente superiore poteva venire realizzata combinando le caratteristiche migliori degli antropoidi e degli uomini, quando fu frettolosamente invitato ad accomodarsi. «Se così piace al signor giudice,» disse Pomfrey, «non abbiamo avanzato la teoria: abbiamo semplicemente liquidato l'affermazione del convenuto, secondo la quale una forma particolare e un grado particolare d'intelligenza sono necessari per riconoscere l'umanità di un essere. Chiedo ora che il postulante venga richiamato al banco dei testimoni, affinché il giudice possa determinare se è veramente umano.» «Se il signor giudice vuole ascoltare...» La schiera di avvocati aveva fatto capannello fin dal momento in cui la vasca da viaggio di B'na Kreeth era stata portata fuori dall'aula: ora aveva preso la parola l'avvocato principale. «L'oggetto della petizione sembra essere quello di proteggere la vita di questo bene mobile. Non è necessario protrarre questo dibattimento. Il convenuto consente che questo bene mobile sia autorizzato a morire di morte naturale, nelle mani dell'attuale custode, e richiede che la causa venga chiusa.»
«Qual è la sua risposta?» chiese il giudice a Pomfrey. Pomfrey si drappeggiò ostentatamente nella toga. «Noi non vogliamo la fredda carità di questa azienda, ma la giustizia del tribunale. Noi chiediamo che l'umanità di Jerry sia riconosciuta legalmente. Non per votare, non per possedere beni, né per essere inquadrato in speciali regolamenti di Polizia appropriati al suo gruppo... ma chiediamo che sia giudicato umano, almeno quanto quella mostruosità da acquario che è appena stata portata fuori da quest'aula!» Il giudice si rivolse a Jerry. «È questo che vuoi, Jerry?» Jerry guardò imbarazzato Pomfrey, poi disse: «Sì, Patrone.» «Prendi posto al banco dei testimoni.» «Un momento...» intervenne precipitosamente l'avvocato principale del collegio di difesa. «Chiedo che il signor giudice consideri che una decisione in materia potrà avere conseguenze per la consuetudine commerciale necessaria alla vita economica di...» «Obiezione!» Pomfrey era già in piedi, prontissimo. «Non ho mai sentito un tentativo più oltraggioso di pregiudicare una decisione. Il mio stimato collega potrebbe chiedere con egual diritto a questa corte di decidere un caso di omicidio in base a considerazioni politiche. Io protesto...» «Lasci stare,» disse il giudice. «Il suggerimento verrà ignorato. Proceda con il suo testimone.» Pomfrey s'inchinò. «Stiamo indagando sul significato della parola 'umanità'. Abbiamo visto che non è questione di forma o di razza, o di pianeta natale, né di acume mentale. In effetti, non può essere definita, eppure può essere sperimentata. Può giungere da cuore a cuore, da spirito a spirito.» Si rivolse a Jerry. «Jerry... vuoi cantare al signor giudice la tua nuova canzone?» «Sicuro.» Jerry alzò impacciato lo sguardo verso le telecamere ronzanti, i microfoni, poi si schiarì la gola: «Way down upon de Suwannee Ribber Far, far away, Dere's where my heart is turning ebber...» (1). L'applauso lo spaventò terribilmente: i colpi battuti dalla mazzuola del giudice lo spaventarono anche di più. Ma non aveva importanza: la sentenza non era più in dubbio. Jerry era un uomo.
(1) «Giù lungo il fiume Savannah / Lontano, lontano, / È lì che il mio cuore s'inebria...» (N.d.T.). Titolo originale: JERRY WAS A MAN (Thrilling Wonder Stories, ottobre 1947) ABISSO Il razzo partito da Base Luna lo depose a Pied-à-Terre. Lui viaggiava sotto un nome che incominciava apposta per «A», così si sbrigò in fretta all'ispezione portuale e arrivò alla sotterranea che portava in città prima che vi arrivasse la grande ressa. Quando fu a bordo della carrozza della ferrovia sotterranea, andò nella toelette per uomini e si chiuse dentro. Si allacciò prontamente la cintura di sicurezza che vi trovò, l'agganciò agli anelli della parete, poi si piegò, impacciato, per togliere un rasoio dalla valigia. L'accelerazione lo colse in quella posizione: nonostante la cintura di sicurezza batté la testa... e imprecò. Si raddrizzò e innestò il rasoio. I baffi sparirono. Si accorciò le basette, rase gli angoli delle sopracciglia e se le spazzolò all'insù. Si massaggiò energicamente i capelli con una salvietta per togliere la brillantina che li manteneva lisci, e li pettinò più liberamente, in una criniera ondulata. Adesso il convoglio viaggiava a velocità costante, quattrocentocinquanta chilometri orari, privo di accelerazioni. Si liberò della cintura di sicurezza senza sganciarla dalla parete e, muovendosi con grande rapidità, si tolse la tuta lunare, prese dalla valigia e indossò un abito di tweed che andava benissimo all'aria aperta, sulla Terra, e che non sarebbe andato affatto bene nei corridoi ad aria condizionata di Colonia Lunare. Sostituì le pantofole con un paio di scarpe da passeggio, tolte dalla valigia; e si alzò. Joel Abner, rappresentante di commercio, era scomparso. Al suo posto c'era il capitano Joseph Gilead, esploratore, conferenziere e scrittore. Era l'unico a portare sia il primo nome che il secondo: e nessuno dei due era quello vero. Fece a pezzetti la tuta lunare e la gettò nel gabinetto, insieme alla carta d'identità di «Joel Abner»; poi tolse dalla valigia la finta pelle che la ricopriva, e buttò via anche quella. Adesso, la valigia era grigio-perla e ruvida, anziché marrone scuro e liscia. Le pantofole costituivano un problema: lui
temeva che finissero per bloccare lo scarico del vagone. Si accontentò di seppellirle nel vasto ricettacolo. La sirena che annunciava l'accelerazione suonò mentre le stava appunto nascondendo: ebbe a malapena il tempo di tornare a infilarsi nella cintura di sicurezza. Ma, quando il vagone si lanciò nel campo solenoide (1) e si fermò, di Joel Abner non rimanevano altro che alcuni capi di biancheria non cifrata, articoli da toeletta molto comuni, e quasi due dozzine di microfilm egualmente appropriati - fino a quando non venissero esaminati - a un viaggiatore di commercio e ad uno scrittore-conferenziere. E lui era deciso a non lasciare che nessuno li esaminasse, finché era vivo. Attese nella toelette fino a quando fu sicuro di essere l'ultimo rimasto a bordo del vagone: allora passò nel vagone precedente, uscì da quella parte, e si diresse verso l'ascensore che portava alla superficie. «"New Age Hotel", signore,» supplicò una voce, vicino al suo orecchio. E sentì una mano che cercava di afferrare la maniglia della sua valigia. Represse l'impulso istintivo di difendere la valigia e squadrò l'individuo che aveva pronunciato quelle parole. A prima vista sembrava un adolescente piccolino, con quell'uniforme impeccabile e con il berretto rotondo in testa. Ma un esame più attento rivelò le grinze premature e i lineamenti di un uomo almeno quarantenne. Gli occhi erano vitrei. Un caso di disfunzione della ghiandola pituitaria (2), si disse lui, e già abbastanza avanzato. «"New Age Hotel",» ripeté il fattorino. «I migliori meccani della città, capo. E c'è uno sconto, se è appena arrivato dalla Luna.» Il capitano Gilead, quando era in città sotto il nome di capitano Gilead, scendeva sempre al vecchio «Savoy». Ma l'idea di andare al «New Age» non gli dispiaceva: in quell'albergo incredibilmente enorme, frequentatissimo e ultramoderno, avrebbe potuto passare inosservato fino a quando non avesse avuto il tempo di fare quello che doveva fare. Ma non gli piaceva per niente l'idea di mollare la valigia. Ma sarebbe stata una stranezza non farla portare al fattorino: la cosa avrebbe attirato l'attenzione su di lui... e sulla valigia. Decise che quel nano dall'aria malaticcia non avrebbe potuto sfuggirgli, mettendosi a correre, neanche se lui l'avesse inseguito con le grucce: quindi, sarebbe bastato tener d'occhio la valigia. «Andiamo pure, camerata,» rispose cordialmente, lasciandogli la valigia. Non c'era stata la minima esitazione: aveva lasciato la valigia nello stesso istante in cui il fattorino aveva allungato la mano per prenderla. «Bene, capo.» Il fattorino entrò per primo in un ascensore vuoto: si portò
sul fondo e posò la valigia accanto a sé. Gilead si sistemò in modo da piazzare saldamente un piede contro la valigia, e si girò verso gli altri viaggiatori che affollarono l'ascensore. Si misero in moto. L'ascensore era pieno zeppo, adesso; Gilead si sentiva schiacciare da ogni parte... ma notò anche un'altra pressione insolita, dietro di lui. La sua destra si mosse all'improvviso e scattò, chiudendosi su di un polso magro, su di una mano che stringeva qualcosa. Gilead non fece altri movimenti, e il proprietario della mano non cercò di ritrarsi né di fare obiezioni. Rimasero così fino a quando l'ascensore arrivò alla superficie. Quando i passeggeri furono usciti, Gilead tese la sinistra dietro di sé, riprese la valigia, e trascinò fuori il polso imprigionato e il suo proprietario. Era il fattorino, naturalmente: e l'oggetto che aveva in pugno era il portafoglio di Gilead. «Stava proprio per perderlo, capo,» annunciò il fattorino, senza dimostrare il minimo imbarazzo. «Le stava cadendo dalla tasca.» Gilead liberò il portafoglio e lo infilò in una tasca interna. «Stava cadendo attraverso una lampo chiusa,» rispose allegramente. «Bene, andiamo a cercare un poliziotto.» Il nano cercò di liberarsi. «Lei non può dimostrare niente!» Gilead considerò quell'affermazione. In effetti, non poteva dimostrare niente. Il suo portafoglio era già fuori di vista. In quanto ai testimoni... gli altri passeggeri dell'ascensore se ne erano già andati, e non avevano visto niente. L'ascensore era automatico. Lui era semplicemente un tale che si faceva vedere in una posa un po' strana: infatti, tratteneva per il polso un altro cittadino. E Gilead non voleva rivolgersi alla Polizia. Lasciò il fattorino. «Squagliati, camerata. Lasciamo perdere.» Il fattorino non si mosse. «E la mancia?» Gilead incominciava a trovare simpatico quel briccone. Si frugò in tasca, trovò un mezzo credito e lo lanciò al fattorino, che l'afferrò al volo, ma non se ne andò. «Le porto la valigia. Me la dia.» «No, grazie, amico. Posso trovare il tuo albergo senza bisogno di aiuto. Fatti in là, per piacere,» «Ah, sì? E la mia percentuale? Devo portare la sua valigia, altrimenti, come faranno a sapere che l'ho condotto io? Dia qua.»
Gilead era divertito della sfacciata insistenza di quell'ometto. Trovò una moneta da due crediti e gliela diede. «Ecco la tua percentuale. E adesso squagliati, prima che ti prenda a calci nel deretano.» «Davvero?» Gilead ridacchiò e s'incamminò lungo il corso, verso l'ingresso del «New Age Hotel». Le sentinelle del suo subcosciente l'informarono immediatamente che il fattorino non era ritornato verso l'ascensore, come sarebbe stato logico, ma continuava a seguirlo, in mezzo alla folla. Considerò quel fatto. L'ometto poteva essere benissimo quello che sembrava, il tipico traffichino delle grandi città, che arrotondava le entrate del suo lavoro con qualche furterello occasionale. D'altra parte... Decise di liberarsi della merce che scottava. Deviò improvvisamente dal marciapiedi, entrò in un drugstore, e si fermò vicino all'ingresso per acquistare un giornale. Mentre la sua copia veniva stampata, con aria disinvolta prese tre tubi per posta pneumatica, formato normale. E mentre li pagava, nascose nella mano un blocchetto di talloncini gommati per indirizzi. Diede un'occhiata al grande specchio che ricopriva la parete e vide che la sua ombra aveva esitato ed era rimasta fuori, ma lo stava ancora osservando. Gilead proseguì verso il bar del locale e si infilò in un separé libero. Sebbene fosse in corso lo spettacolo - una spogliarellista straordinariamente ben fatta stava ormai per togliersi anche l'ultimo filo di perle - tirò le tende del separé. Poco dopo, la lampada sopra l'ingresso lampeggiò discreta. Gilead disse: «Avanti!». Entrò una cameriera graziosa, giovanissima. Il suo costume di plastica la copriva senza nascondere niente. Si guardò intorno. «Occorre compagnia?» «No, grazie. Sono stanco.» «Allora andrebbe bene una rossa. Proprio carina...» «Sono proprio stanco. Mi porti due bottiglie di birra chiuse, e qualche pretzel.» «Come vuole, testone.» La ragazza se ne andò. Rapidissimo, Gilead aprì la valigia, scelse nove bobine di microfilm e le inserì nei tre tubi per posta pneumatica, che avevano la normale capienza di tre bobine ciascuno. Poi Gilead prese il pacchetto di talloncini per indirizzi, scrisse sul primo «Raymond Calhoun, P. O. Box 1060, Chicago» (3) e incominciò a disegnare con gran cura, nel rettangolino riservato al sele-
zionatore fotoelettrico; l'indirizzo che tracciò in simboli arbitrari non era destinato a venir letto, ma a venire visionato automaticamente. L'indirizzo manoscritto era semplicemente una precauzione, nel caso che un selezionatore automatico respingesse i simboli tracciati perché imperfetti e quindi consegnasse il tubo ad un impiegato postale umano che doveva provvedere a correggere l'indirizzo. Gilead lavorava in fretta, ma con l'attenzione di un incisore. La cameriera ritornò prima che avesse finito. La spia luminosa lo avvertì: coprì il talloncino con il gomito e lo tenne nascosto. La ragazza diede un'occhiata ai tubi della posta pneumatica mentre posava sul tavolo le birre e un piatto di pretzel. «Vuole che glieli spedisca io?» Gilead ebbe un altro istante d'indecisione, subito superato. Quando era uscito dal vagone della sotterranea era stato discretamente sicuro che, primo, la mascheratura di Joel Abner, rappresentante di commercio, non era stata scoperta e, secondo, che la transizione da Abner a Gilead era stata effettuata senza destare sospetti. L'episodio del tentato borseggio non lo aveva allarmato, ma lo aveva indotto a riclassificare quei due fatti: se prima li considerava certezze calcolate, adesso li riteneva variabili non provate. Si era subito affrettato a controllarli: adesso erano di nuovo certezze calcolate... di segno opposto. Fin da quando aveva scorto il suo ex portabagagli, il fattorino del «New Age», fermo davanti al drugstore, il suo subcosciente aveva incominciato a far risuonare un campanello d'allarme. Era chiaro non soltanto che era stato individuato, ma che «quelli» erano organizzati in modo completo e abilissimo, come lui non avrebbe mai creduto possibile. Ma era matematicamente probabile, fin quasi alla certezza assoluta, che «quelli» non si servivano della ragazza. Non potevano sapere che lui avrebbe deciso di entrare proprio in quel particolare drugstore. Era sicuro che «quelli» potessero servirsi di lei... e lei era rimasta fuori di vista dopo il primo contatto. Ma era chiaro che quella ragazza non era abbastanza intelligente, nonostante la sua aria sofisticata da gatta randagia, perché l'avessero accostata, convinta, istruita e indottrinata fino al punto di renderla capace di approfittare di un'occasione inaspettata, il tutto in un periodo di tempo appena sufficiente per prendere due bottiglie di birra. No, quella ragazza era semplicemente in caccia di una mancia. Quindi non era pericolosa. Ma il suo costume non offriva la possibilità di nascondere tre tubi per la
posta pneumatica: e non sarebbe certo stata al sicuro, se avesse attraversato il corso per recarsi all'ufficio postale. Gilead non voleva che la ritrovassero la mattina dopo, morta, in un fosso. «No,» rispose immediatamente. «Devo passare comunque dall'ufficio postale. Ma è stata molto gentile. Tenga.» E le diede mezzo credito. «Grazie.» La ragazza indugiò, fissando con aria significativa la birra. Gilead si frugò di nuovo nella tasca dove teneva gli spiccioli, trovò solo qualche moneta; prese il portafoglio e ne tirò fuori una banconota da cinque plutoni. «Tenga,» ripeté. La ragazza gli diede di resto tre biglietti da uno e un po' di moneta. Gilead spinse verso di lei le monete, poi attese, impietrito, mentre la cameriera raccoglieva il denaro e usciva. Solo allora si accostò agli occhi il portafoglio. Non era il suo. Avrebbe dovuto accorgersene prima, si disse. Benché fosse passato soltanto un secondo dal momento in cui l'aveva tolto dalle dita contratte del fattorino all'istante in cui l'aveva nascosto in una tasca, avrebbe dovuto capirlo... Avrebbe dovuto capirlo, e costringere il fattorino a cantare, a costo di spellarlo vivo. Ma perché era sicuro che non fosse il suo portafoglio? La forma e le dimensioni erano quelle, il peso e la consistenza erano esatti... vera pelle di struzzo, in quell'epoca di materiali sintetici. C'era una vecchia macchiolina d'inchiostro, causata dalla sua abitudine di portare, nella stessa tasca, anche la stilografica che perdeva. C'era un graffio a forma di «V», così vecchio che lui non ricordava neppure in quali circostanze lo avesse fatto. Però non era il suo portafoglio. Lo aprì di nuovo. Il denaro c'era tutto, c'erano la sua tessera dell'«Esplorers' Club» e gli altri documenti d'identità, c'era una fotografia, con gli angoli sciupati, di una cavalla che aveva avuto un tempo. Eppure, più l'evidenza dimostrava che era il suo, e più lui si sentiva sicuro che non lo era. Tutti quegli oggetti erano falsificati: li sentiva diversi. C'era un modo per accertarsene. Fece scattare un interruttore messo lì dalla previdente direzione del locale; il separé piombò nell'oscurità. Gilead prese il suo temperino e, con grande cura, tagliò una cucitura nella tasca del portafoglio. Infilò un dito nella tasca segreta e tastò. Lo spazio era vuoto. L'imitazione del suo portafoglio non era perfetta. Avrebbe dovuto esserci qualcosa, lì dentro, ma le sue dita incontravano soltanto la pelle.
Riaccese la luce, ripose il portafoglio, e riprese a disegnare. La scomparsa del documento che avrebbe dovuto essere nella tasca nascosta era irritante, certamente imbarazzante e probabilmente disastrosa, ma Gilead non pensava che l'informazione in esso contenuta venisse messa in pericolo dalla perdita del portafoglio. Era del tutto privo di scritte, se non veniva esaminato alla luce nera: e se veniva esposto alla luce visibile, ad opera di qualcuno che avesse fatto a pezzi il portafoglio autentico... bene, aveva la sconcertante caratteristica di incendiarsi e di esplodere. Continuò a lavorare, mentre la sua mente era concentrata su di un problema più ampio: perché si erano dati tanta pena per impedirgli di scoprire che il suo portafoglio era stato rubato? E c'era un problema ancora più ampio e più sconcertante: perché si erano presi il disturbo di rubargli il portafoglio? Quando ebbe finito, infilò i talloncini per gli indirizzi che gli erano avanzati in una fenditura tra i cuscini del separé, nascose in mano il talloncino che aveva preparato, prese la valigia e i tre tubi. E tenne uno di questi separato dagli altri due, con un dito. Nel drugstore, calcolò, non lo avrebbero aggredito. Il corso affollato tra il drugstore e l'ufficio postale gli sarebbe apparso, in condizioni normali, altrettanto sicuro. Ma oggi era diverso. Una folla numerosa, lo sapeva, vale quanto una foresta, in casi del genere... se si crea una diversione adatta. Tagliò il marciapiede mobile e puntò direttamente, attraverso il corso, verso l'ufficio postale, tenendosi il più lontano possibile dall'altra gente. Si era accorto che due uomini stavano convergendo verso di lui quando ebbe luogo là diversione prevista. Vi furono una luce accecante e un forte scoppio, seguiti da strilli e urla di spavento. Poteva immaginare facilmente l'origine di quell'esplosione: gli strilli e le urla erano stati forniti gratis dal pubblico. Poiché»era pronto non solo a questo, ma a tutto, si astenne persino dal voltare la testa. I due uomini si avvicinarono rapidamente a lui, come ad un segnale. Molti animali e quasi tutti gli esseri umani lottano soltanto quando sono provocati. E questo può far perdere loro il vantaggio decisivo. I due uomini non fecero alcuna mossa aggressiva, solo si avvicinarono a Gilead... non lo attaccarono. Gilead sferrò al primo un calcio alla rotula con il lato del piede: un colpo molto più sicuro di quelli sferrati di punta. Nello stesso momento, sferrò contro l'altro un altro colpo con la valigia, senza fargli male: ma bastò a confonderlo, a fargli perdere il tempismo precalcolato. Poi gli sparò un calcio fortissimo nello stomaco.
L'uomo che aveva preso il calcio nella rotula era finito per terra, ma era ancora attivo... stava cercando di prendere qualcosa, una pistola o un coltello. Gilead gli sferrò un calcio nella testa, lo scavalcò, e continuò in direzione dell'ufficio postale. Adagio... sempre adagio! Non doveva dare l'impressione di fuggire: doveva essere un cittadino assolutamente rispettabile che se ne andava per gli affari suoi. L'ufficio postale era sempre più vicino, e Gilead non si sentì prendere per la spalla, non udì grida che lo denunciassero, né passi affrettati. Arrivò all'ufficio postale, entrò. La diversione dei suoi avversari aveva funzionato perfettamente... ma in favore di Gilead, non in loro favore. Davanti alla macchina degli indirizzi c'era una breve coda. Gilead si mise in fila, prese la stilografica e scrisse gli indirizzi sui tubi, stando in piedi. Un uomo si accodò quasi subito; Gilead non cercò di impedirgli di vedere l'indirizzo che stava scrivendo: «Capitano Joseph Gilead, Explorers' Club, New York.» Quando fu il suo turno di usare la macchina, non cercò egualmente di nascondere i tasti che stava premendo... e l'indirizzo in simboli corrispondeva all'indirizzo che aveva scritto su ogni tubo. Lavorava un po' a fatica, perché il talloncino gommato preparato in precedenza era ancora nascosto nella sua palma sinistra. Lasciò la macchina degli indirizzi e si diresse verso i ricevitori della posta; l'uomo che s'era messo in fila dietro di lui lo seguì, senza neppure fingere di scrivere un indirizzo. Thwonk! E il primo tubo fu risucchiato via con una sommessa implosione d'aria compressa. Thwonk! E anche il secondo sparì... e nello stesso tempo Gilead strinse il terzo nella mano sinistra, fissando saldamente il talloncino gommato sopra l'indirizzo che aveva appena scritto. Senza bisogno di guardarlo, si accertò toccandolo che fosse a posto, con tutti gli angoli ben fissati, poi... Thwonk! Anche il terzo tubo raggiunse i suoi compagni. Gilead si girò di scatto e pestò con forza i piedi dell'uomo che gli stava alle spalle. «Ooop! Mi scusi!» disse allegramente, e si scostò. Si sentiva soddisfatto: non solo aveva affidato il suo pericoloso messaggio alla cura di una macchina automatica cieca e assolutamente fidata, che non poteva venire forzata, corrotta, drogata o comunque manomessa, e nelle cui viscere il tubo sarebbe stato perfettamente al sicuro fino a quando fosse giunto alla destinazione nota soltanto a Gilead: ma aveva pestato i piedi ad uno dei suoi
avversari. Sulla gradinata dell'ufficio postale si soffermò accanto ad un poliziotto che si stava stuzzicando i denti e guardava un capannello di gente e un'ambulanza in mezzo al corso. «Che cos'è successo?» domandò Gilead. Il poliziotto si rigirò con in bocca lo stuzzicadenti. «C'è stato qualche imbecille che ha incominciato con i fuochi d'artificio,» rispose. «Poi due tizi si sono azzuffati, e si sono conciati male.» «Bontà divina!» commentò Gilead, e tagliò diagonalmente per dirigersi verso il «New Age Hotel». Quando fu nell'atrio si guardò intorno per vedere se c'era in giro il suo amico borsaiolo, ma non lo vide. Gilead dubitava parecchio che quel nanetto facesse veramente parte del personale dell'albergo. Firmò il registro come «capitano Gilead», ordinò un appartamento appropriato al suo personaggio, e si fece condurre all'ascensore. Incontrò il fattorino che scendeva, proprio nel preciso momento in cui lui stava per salire insieme al ragazzo d'albergo. «Salve, Tappo!» esclamò, mentre prendeva la decisione di non mangiare niente in quell'hotel. «Come vanno gli affari?» Il nano trasalì, poi passò oltre senza rispondergli, con uno sguardo vacuo. Non era probabile, pensò Gilead, che quel nanetto venisse utilizzato ancora, dopo che lui l'aveva scoperto: di conseguenza, nell'albergo doveva esserci una specie di recapito, di base o di quartier generale dei suoi avversari. Benissimo: in questo modo si sarebbero risparmiati un bel po' di andirivieni inutili... e ci sarebbe stato divertimento per tutti! Per il momento voleva fare un bagno. Quando fu arrivato nel suo appartamento, diede la mancia al ragazzo, che non se ne andò subito. «Vuole compagnia?» «No, grazie. Sono un eremita.» «Allora provi questo.» Il ragazzo inserì la chiave della stanza di Gilead in un pannello stereo, regolò i comandi, e l'intera parete si illuminò, scomparve. Una creatura agile e bionda, sullo sfondo di una fila di ballerine, sembrò sul punto di saltare sulle ginocchia di Gilead. «Non è una registrazione,» spiegò il ragazzo. «È una trasmissione in diretta dal Tivoli. Abbiamo i migliori impianti di tutta la città.» «Davvero,» riconobbe Gilead, e tolse la chiave. L'immagine svanì, la
musica cessò. «Ma io voglio fare il bagno, perciò vattene... adesso che hai speso quattro crediti del mio denaro.» Il ragazzo alzò le spalle e uscì. Gilead gettò via i vestiti ed entrò nel «rinfrescatore». Venti minuti dopo, raso dalle orecchie alla punta dei piedi, lavato, irradiato di spray, massaggiato, profumato e incipriato di talco, ne uscì: si sentiva ringiovanito di dieci anni. E i suoi vestiti erano scomparsi. La valigia era ancora lì. La controllò. Sembrava tutto a posto, compresi i documenti. Le bobine dei microfilm c'erano tutte... non che la cosa avesse importanza. Solo tre bobine avevano importanza, e lui le aveva già spedite per posta. Le altre erano soltanto copie delle sue conferenze pubbliche. Comunque ne esaminò una, srotolando alcuni fotogrammi. Era una delle sue conferenze, effettivamente... ma non una di quelle che aveva portato con sé. Era una delle trascrizioni pubblicate, che si poteva acquistare in qualunque libreria. Ci sono i folletti dappertutto, pensò, e rimise la bobina al suo posto. Quell'attenzione per i particolari era ammirevole. «Servizio ai piani!» Il pannello del servizio si illuminò. «Sì, signore?» «Mancano i miei vestiti. Trovatemeli.» «Li ha il valletto, signore.» «Non ho chiesto il valletto. Fatemeli riportare.» La voce e il volto della ragazza vennero sostituiti, dopo un breve attimo, da quelli di un uomo. «Qui non è necessario ordinare il servizio del valletto, signore. Gli ospiti del "New Age" hanno diritto al meglio.» «Bene, fatemi riavere i miei vestiti... e alla svelta! Ho un appuntamento con la regina di Saba.» «Benissimo, signore.» L'immagine svanì. Gilead riconsiderò la situazione, piuttosto di malumore. Aveva già commesso l'errore, forse fatale, di sottovalutare l'avversario: aveva immaginato quell'avversario nelle spoglie poco sensazionali del nanetto. Si era lasciato fuorviare: avrebbe dovuto andare in qualunque altro posto, ma non al «New Age Hotel»: magari al vecchio «Savoy», anche se quell'albergo, dove si sapeva che il capitano Gilead scendeva abitualmente, adesso era probabilmente pieno di trappole quanto il «New Age». Non doveva illudersi di avere più di qualche minuto da vivere. Quindi doveva usare quei pochi minuti per dire al suo capo la destinazione delle
tre bobine di microfilm, quelle che contavano veramente. Poi, se era ancora vivo, doveva rifornirsi di denaro per facilitare la sua azione... quello che c'era nel «suo» portafoglio, anche se glielo avessero restituito, non bastava per qualche azione in grande stile. In terzo luogo, doveva presentarsi al quartier generale, chiudere la missione in corso, e farsi assegnare l'incarico di occuparsi dei suoi attuali avversari, indipendentemente dalla faccenda dei microfilm. Non aveva intenzione di lasciar perdere il nanetto ed i suoi soci anche se quel caso non fosse stato assegnato ufficialmente a lui. I veri artisti erano rari... e quelli erano riusciti ad inchiodarlo con il sistema semplicissimo di rubargli i calzoni! Li ammirava moltissimo e ci teneva a vederli ancora per esternare la sua ammirazione... nel modo più violento possibile. L'immagine sul pannello del servizio ai piani era appena sparita e Gilead stava già premendo i pulsanti dello scrambling (4) sul quadro del comunicatore. Era possibile, anzi certo, che il codice da lui usato venisse ripetuto in qualche altro angolo dell'albergo, e che la presunta intimità assicurata dallo scrambling venisse immediatamente infranta. Ma non aveva importanza; avrebbe detto al suo capo di togliere la comunicazione e di richiamarlo, con uno scrambling diverso. Senza il minimo dubbio, la chiamata in codice dell'ufficio cui avrebbe fatto il suo rapporto sarebbe stata egualmente decifrata: ma valeva la pena di sacrificare un ufficio di collegamento pur di far giungere a destinazione il suo messaggio. Regolato il codice dello scrambling, Gilead chiamò... non New Washington, ma l'ufficio di collegamento che aveva scelto. Sullo schermo apparve un volto di donna. «Servizio del "New Age", signore. Aveva innestato lo scrambling}» «Sì.» «Sono molto spiacente, signore. I circuiti dello scrambling sono in riparazione. Posso provvedere io, dal centralino.» «No, grazie. Chiamerò in chiaro.» «Sono mooolto spiacente, signore.» C'era un solo codice in chiaro che lui poteva usare... e che poteva venire usato solo in caso di emergenza. E quello era un caso di emergenza. Benissimo... Premette i pulsanti senza innestare lo scrambling e attese. Poi ricomparve la stessa ragazza. «Sono mooolto spiacente, signore: quel numero non risponde. Posso aiutarla?»
«Potrebbe mandare un piccione viaggiatore.» E tolse la comunicazione. Adesso, la sensazione che un alito freddo gli soffiasse sulla nuca era ancora più forte: e decise di fare tutto il possibile per rendere difficile a quella gente ucciderlo sul momento. Frugò nella propria memoria, e fece in chiaro il numero dello Star Times. Nessuna risposta. Provò il Clarion... nessuna risposta. Era inutile batterci contro la testa: non avevano intenzione di lasciarlo parlare con nessuno. Suonò per chiamare un fattorino, sedette in una poltrona, la regolò su «massaggio leggero» e si godette il tenero abbraccio della poltrona. Non c'era dubbio: il «New Age» aveva veramente i migliori meccani della città: il suo bagno era stato meraviglioso, e il massaggio era superbo. Le recenti austerità di Colonia Lunare e la probabilità che quello fosse il suo ultimo massaggio gli fecero apprezzare particolarmente quel piacere. La porta si dilatò ed entrò un fattorino... Aveva all'incirca la sua taglia, notò Gilead. L'uomo inarcò le sopracciglia d'una frazione di millimetro quando vide che Gilead era nudo come un'ostrica. «Vuole compagnia?» Gilead si alzò e si avviò verso di lui. «No, caro,» rispose sogghignando. «Voglio te.» E avventò tre dita rigide contro il plesso solare dell'uomo. Mentre quello lanciava un grugnito e si afflosciava, Gilead gli sferrò un colpo sul collo con il taglio della mano. Le spalle della giacca erano troppo strette e le scarpe erano troppo grandi. Ma due minuti dopo il «capitano Gilead» aveva seguito «Joel Abner» nell'oblio e Joe, trasformato in un temporaneo fattorino, uscì dalla stanza. Gli dispiacque di non aver potuto lasciare una mancia al suo predecessore. Passò davanti agli ascensori riservati agli ospiti dell'albergo, diede un'indicazione sbagliata a un cliente che lo aveva fermato, e trovò un ascensore di servizio. Lì accanto c'era una porta: la «discesa rapida». L'apri, tese le mani e si afferrò alla cinghia, e senza perdere tempo ad allacciarsi la cintura di sicurezza, accontentandosi di restare aggrappato, si lanciò. In meno tempo di quanto avrebbe impiegato con un paracadute, si trovò sui cuscini nella cantina dell'albergo. Si alzò, riflettendo che la gravità lunare danneggiava un po' i muscoli delle gambe. Uscì dalla cabina e si avviò in una direzione qualsiasi: ma camminava come se stesse andando a sbrigare una commissione e avesse tutti i diritti
di essere lì... Qualunque uscita gli sarebbe andata bene, e avrebbe pur finito per trovarne una. Vagabondò per l'enorme dispensa, poi trovò la porta carraia, dalla quale entravano le provviste. Era a tre metri da quella porta, quando la vide chiudersi e sentì suonare un allarme. Tornò indietro. Incontrò due poliziotti in uno dei tanti corridoi dei sotterranei del gigantesco albergo, e cercò di passare oltre. Uno dei due lo fissò, poi lo afferrò per un braccio. «Capitano Gilead...» Gilead cercò di svincolarsi, ma senza dimostrare eccessiva abilità. «Che succede?» «Lei è il capitano Gilead?» «E lei è mia zia Sadie. Mi lasci il braccio, agente.» Il poliziotto si frugò in tasca con la mano libera e tirò fuori un taccuino. Gilead notò che l'altro agente si era portato a distanza di sicurezza e gli teneva puntata contro una pistola Markheim. «Capitano Gilead,» intonò il primo agente, «è stata presentata una denuncia contro di lei. È accusato di avere spacciato una banconota falsa da cinque plutoni, intorno alle ore tredici data odierna, al drugstore del grande corso di questa città. L'invito a seguirci senza far storie e l'avverto che è inutile dire qualcosa. Andiamo.» L'accusa poteva essere vera e poteva non esserlo, pensò Gilead: non aveva esaminato attentamente il denaro contenuto nel portafoglio sostituito. Non gli importava finire alla Polizia, adesso che il microfilm non era più in suo possesso: trovarsi in una normale stazione di Polizia, alle prese con qualche poliziotto corrotto e qualche sergente stupido, sarebbe stato uno scherzo da ragazzi, per lui, in confronto ai guai che potevano causargli il nanetto e soci. D'altra parte la situazione era troppo bella per essere vera, a meno che i poliziotti non fossero arrivati lì alle sue calcagna e avessero trovato il fattorino nudo, avessero ascoltato il suo racconto e avessero incominciato a cercare dappertutto. Il secondo poliziotto si tenne a distanza e non abbassò la pistola Markheim. Questo rendeva accademiche tutte le altre considerazioni. «Sta bene, vengo,» protestò Gilead. «Non è necessario torcermi il braccio in questo modo.» Salirono al piano terreno e uscirono sulla strada: e il secondo poliziotto
non abbassò la mira neppure per un istante. Gilead si rilassò e attese. Accanto al marciapiede era in attesa una macchina della Polizia. Gilead si fermò. «Preferisco andare a piedi,» disse. «La stazione di Polizia più vicina è proprio girato l'angolo. Voglio finire in guardina nel mio quartiere.» Sentì una folata gelida quando l'esplosione della Markheim lo investì, e cadde in avanti. Cominciò a riprendere i sensi, ancora confusamente, quando lo scaricarono dalla macchina. Si accorse che lo stavano trasportando per un lungo corridoio: ormai si era quasi ripreso, ma c'era una lacuna nella sua memoria. Lo spinsero oltre una porta che si chiuse, con un tonfo metallico, alle sue spalle. Riprese l'equilibrio e si guardò intorno. «Salve, amico,» fece una voce risonante. «Avvicini pure una sedia al fuoco.» Gilead batté le palpebre, si sforzò di calmarsi e respirò profondamente. Il suo organismo sanissimo si stava liberando degli effetti della scarica della Markheim: si era ripreso quasi completamente. Era in una cella antiquata, quasi primitiva. Un intero lato e la porta, erano di sbarre d'acciaio. Le altre tre pareti erano di cemento. L'unico mobile, una lunga panca di legno, era occupato dall'uomo che aveva parlato. Era sulla cinquantina, massiccio, con i lineamenti pesanti atteggiati in un'espressione astuta e gioviale. Stava sdraiato sulla panca, con la testa appoggiata sulle mani intrecciate, in un atteggiamento di tranquillità animalesca. Gilead lo aveva già visto. «Salve, dottor Baldwin.» L'uomo si levò a sedere con gesti sobri che scossero la sua mole il meno possibile. «Non sono il dottor Baldwin... Non sono dottore, anche se mi chiamo Baldwin.» E fissò Gilead. «Ma io la conosco... ho assistito a qualche sua conferenza.» Gilead inarcò un sopracciglio. «Un uomo sembrerebbe nudo all'Associazione dei Fisici Teorici, senza una laurea... e lei era presente all'ultima riunione.» Baldwin fece udire una risata tonante. «Questo spiega tutto... Doveva essere mio cugino per parte di padre. Hartley M. Quel saccente, rispettabile Hartley. Dovrò cercare di togliere la macchia dal blasone di famiglia, adesso che l'ho incontrata, capitano.» E
tese una mano enorme. «Gregory Baldwin, 'Kettle Belly' per gli amici. Gli elicotteri nuovi e usati sono la cosa più vicina alla fisica di cui io mi occupo. 'Kettle Belly Baldwin, Re degli Elicotteri'... avrà pur visto la mia pubblicità.» «Ora che me lo ricorda, l'ho vista.» Baldwin tirò fuori un biglietto da visita. «Ecco. Se ha bisogno di un elicottero, le farò uno sconto del dieci per cento perché conosce il vecchio Hartley. Anzi, posso procurarle un bellissimo Curtiss, un anno di vita, un elicottero per famiglia, senza neanche un'ammaccatura.» Gilead prese il biglietto da visita e sedette. «Per il momento no, grazie. Mi sembra che lei abbia un ufficio molto strano, signor Baldwin.» Baldwin ridacchiò di nuovo. «Sono cose che capitano nel corso di una lunga vita, capitano. Non le chiederò che cosa ci fa lei, qui, né perché è conciato come una scimmia. Mi chiami pure Kettle Belly.» «D'accordo.» Gilead si alzò e si avvicinò alla porta. Di fronte alla cella c'era una parete spoglia, e non c'era nessuno in vista. Fischiò e gridò... senza ottenere risposta. «Che le prende, capitano?» chiese gentilmente Baldwin. Gilead si girò. Il suo compagno di cella aveva disposto sulla panca le carte per un solitario e stava giocando, con calma. «Voglio chiamare qualcuno, per far venire un avvocato.» «Non abbia fretta. Giochiamo un po'.» E si frugò in tasca. «Ne ho un altro mazzo. Giochiamo a ramino?» «No, grazie. Devo andarmene di qui.» Gridò di nuovo... e di nuovo nessuna risposta. «Non sprechi il fiato che ha nei polmoni, capitano,» le consigliò Baldwin. «Verranno quando ne avranno voglia e non un secondo prima. Io lo so. Venga a giocare con me: serve a far passare il tempo.» Baldwin stava mischiando le carte, ma Gilead si accorse che in realtà le stava ordinando. Quell'imbroglio lo divertì: decise di giocare... visto che il consiglio di quell'uomo era evidentemente esatto. «Se non le piace il ramino,» continuò Kettle Belly, «c'è un gioco che ho imparato da ragazzo.» Fece una pausa e guardò Gilead negli occhi. «È istruttivo, oltre che divertente, eppure è molto semplice, una volta che lo si è capito.» E cominciò a disporre le carte. «Si gioca meglio con due mazzi,
perché le carte nere non significano niente. Contano solo le ventisei carte rosse di ogni mazzo... e le cuori vengono prima. Ogni carta ha il valore della sua posizione in quella sequenza. L'asso di cuori è uno e il re di cuori è tredici; l'asso di quadri è quattordici e così via. Chiaro?» «Sì.» «E le carte nere non contano. Sono spazi vuoti. È pronto per giocare?» «Quali sono le regole?» «Facciamo una mano per prova: imparerà prima, se vede come si fa. Poi, quando avrà capito, io punterò metà azioni del trust atomico... o dieci soldi in contanti.» Riprese a distribuire le carte, disponendole rapidamente in colonne, a fila di cinque. Si soffermò e sorrise. «La mano è mia, perciò lei conti. Veda un po' che cosa ne ricava.» Era chiaro che Baldwin aveva mischiato e distribuito in modo che le carte rosse uscissero a gruppi; ma non pareva che ne ricavasse qualche vantaggio, e il totale non era particolarmente alto... né basso. L'imbroglio sembrava troppo sfacciato per essere probabile. All'improvviso la disposizione delle carte lo colpì: aveva un significato. Gilead lesse: XCIXX VEDON XXXXE XXXCI SETON Il fatto che nei due mazzi c'erano soltanto due assi di cuori aveva modificato la grafia, ma il significato era chiaro. Gilead prese le carte. «Adesso proverò io. Non è difficile battere questo punteggio.» Posò sulla panca un po' della moneta che trovò nelle tasche. «Dieci soldi di puntata.» Baldwin mise sulla panca una somma eguale. Gilead mescolò le carte, sforzandosi ancor meno di Baldwin di nascondere che le disponeva a modo suo. Le dispose sulla panca. XXXAX XCHEX GIOCX GXOCA
LEIXX Baldwin spinse il denaro verso Gilead e puntò di nuovo. «Bene, adesso voglio rifarmi.» E dispose le carte: XSONO DALLX XSUAX XXXXX PXRTE «Ho vinto ancora,» annunciò allegramente Gilead. «Punti.» Riprese le carte e le manipolò. XBENE XXXXX XXXLO XDIMO STRIX Baldwin contò e disse: «Lei è troppo in gamba per me. Mi dia le carte.» Tirò fuori altra moneta e distribuì le carte: XLAIU TEROX XXXXA USCIR EXXXX «Avrei dovuto tagliare il mazzo,» si lagnò Gilead, spingendo il denaro verso Baldwin. «Raddoppiamo le puntate.» Baldwin grugnì e Gilead dispose di nuovo le carte. NOXXX XSXNO PIUXX SICUR CELLA
«Sono riuscito a batterla,» fece Baldwin, raggiante. «Raddoppiamo ancora le puntate?» XXEXX MATTO QUIXX XXNON CELLA Gilead diede le carte: CONTI NUAXX XXXXX XXAMI COXXX Baldwin rispose: QUSTO XXXXX NEWXX XXAGE XHOTL Mentre il suo compagno mescolava le carte, Gilead considerò quei nuovi fattori. Era disposto a credere di trovarsi in qualche angolo del «New Age Hotel»: anzi, l'idea che i suoi avversari avessero permesso a due poliziotti veri di portarlo via, in una vera guardina, appariva molto improbabile... a meno che controllassero completamente la stazione di Polizia come controllavano completamente l'albergo. In quanto a Baldwin, poteva essere davvero dalla sua parte; ma più probabilmente era stato messo lì come agente provocatore... o forse lavorava per se stesso. Tutte le varianti corrispondevano a sei situazioni, una sola delle quali rendeva consigliabile di accettare l'offerta di Baldwin... E quella situazione era la meno probabile delle sei. Tuttavia, benché considerasse Baldwin un bugiardo, decise in via prov-
visoria di accettare. Una situazione statica non gli offriva vantaggi: una situazione dinamica, qualunque fosse, avrebbe potuto essere volta a suo vantaggio. Ma aveva bisogno di altri dati. «Queste carte sono appiccicose come caramelle,» si lamentò. «Continua a puntare?» «Sicuro.» Gilead diede di nuovo le carte: PERCH XXXXX SONOX XXXXX XXQUI «Ha una fortuna sfacciata,» commentò Baldwin. XFILM XXSCA PAREX FINCH XXPUO Gilead prese le carte e stava per «mescolarle», quando Baldwin disse: «Oh, oh, la scuola è finita.» Nel corridoio si udivano dei passi. «Buona fortuna, ragazzo,» aggiunse Baldwin. Baldwin sapeva del film, ma non si era servito dei numerosi mezzi possibili per identificarsi come appartenente alla stessa organizzazione di Gilead. Perciò era stato messo lì dagli avversari, oppure era un terzo incomodo. La cosa più importante era questa: Baldwin sapeva dei microfilm, e questo dimostrava che non si trovavano in guardina. Ne conseguiva, evidentemente, che Gilead non aveva molte probabilità di uscirne vivo. I passi che si avvicinavano alla cella potevano segnare il ritmo degli ultimi secondi della sua vita. Ora si rendeva conto che avrebbe fatto meglio a segnalare la destinazione dei microfilm prima di andare al «New Age». Ma ormai era fatta: l'universo viaggia in un solo senso, e non c'è modo di tornare indietro... Però i microfilm dovevano venire recapitati. I passi erano vicinissimi.
Baldwin poteva uscirne vivo. Ma chi era Baldwin? Intanto, Gilead continuava a mescolare le carte. Non era un'azione decisiva: bastava che le mescolasse veramente una sola volta per distruggere il messaggio che vi avevo inserito. Un ragno si calò dal soffitto e si posò sulla mano dell'altro uomo. Invece di gettarlo via e di schiacciarlo, Baldwin tese il braccio verso la parete perché la bestiola potesse calarsi sul pavimento. «Meglio star fuori dai piedi, piccolo,» disse gentilmente, «o qualcuno ti schiaccerà.» Quell'episodio, per quanto trascurabile, influenzò la decisione di Gilead... e il destino di un pianeta. Si alzò e porse il mazzo a Baldwin. «Le devo esattamente dieci e sessanta,» disse gaiamente. «Se lo ricordi bene... Vado a vedere chi sono i nostri visitatori.» I passi s'erano arrestati davanti alla porta della cella. Erano in due, e non erano vestiti da poliziotti: la mascherata era finita. Uno stava più indietro, e copriva la manovra con una Markheim, mentre l'altro apriva la porta. «Indietro contro il muro, grassone,» ordinò. «Gilead, vieni fuori. E con calma, altrimenti ti geliamo, e poi ti faccio saltare tutti i denti per il gusto di farlo.» Baldwin si trascinò contro la parete; Gilead uscì lentamente, studiò se vi era qualche possibilità, ma quello che aveva aperto indietreggiò senza mettersi neppure una volta tra lui e l'uomo con la Markheim. «Cammina davanti a noi, lentamente,» venne l'ordine. Gilead obbedì, impotente ad agire in quella situazione: non poteva né fuggire né battersi. Baldwin ritornò alla panca, quando gli altri se ne furono andati. Dispose le carte come per fare un solitario, le raccolse, e continuò a disporle per altri solitari. Alla fine le rimise nell'ordine esatto in cui le aveva lasciate Gilead e le mise in tasca. Il messaggio diceva: XAVVERTXXFBSXXPOBOXXXCHI. Le due guardie condussero Gilead in una stanza e chiusero la porta a chiave lasciandolo solo. Si trovò davanti a una grande finestra dalla quale si scorgeva la città e un tratto del fiume. A sinistra c'era un'immagine tridimensionale che raffigurava un paesaggio a colori. Davanti a lui una scrivania ricca, ma non troppo. Una parte della sua mente registrò qui particolari: ma la sua attenzione era concentrata sulla persona che sedeva alla scrivania. Era vecchia ma
non senile, fragile ma non indifesa. I suoi occhi erano vivissimi, la sua espressione serena. Le mani ben curate e quasi trasparenti erano intente a ricamare su un telaio. Sulla scrivania, davanti a lei, c'erano due tubi per posta pneumatica, un paio di pantofole, e alcuni brandelli di stoffa e di plastica. La donna alzò lo sguardo. «Come va, capitano Gilead?» disse con una dolce voce di soprano, adattissima per cantare inni religiosi. Gilead si inchinò. «Bene, grazie... e lei, signora Keithley?» «Vedo che mi conosce.» «Signora, lei è famosa, se non altro per la sua carità.» «È molto gentile. Non voglio farle perdere tempo. Avevo sperato di poterla lasciare andare senza fastidi, ma...» E indicò i due tubi sulla scrivania. «Può vedere con i suoi occhi che dobbiamo ancora occuparci di lei.» «E allora?» «Andiamo, capitano. Lei ha spedito tre tubi. Questi due sono solo specchietti per le allodole, e il terzo non ha raggiunto la sua destinazione apparente. È possibile che l'indirizzo fosse sbagliato, e che sia stato respinto dalle macchine selezionatrici. In questo caso, a tempo debito lo avremo. Ma sembra molto più probabile che lei abbia trovato il modo di cambiare l'indirizzo... è probabile al punto di essere assolutamente certo.» «O forse io ho corrotto il suo servitore.» Lei scosse lievemente il capo. «Lo abbiamo interrogato esaurientemente, prima...» «Prima che morisse?» «La prego, capitano, non cambiamo argomento. Io devo sapere dove ha mandato il terzo tubo. Lei non può essere ipnotizzato con i mezzi normali: ha un'immunità acquisita alle droghe ipnotiche. La sua tolleranza al dolore si estende oltre la soglia della coscienza. Tutte queste cose sono già state provate, altrimenti lei non farebbe il lavoro che fa: e non intendo provare ancora. Però devo avere quel tubo. Qual è il suo prezzo?» «Lei ritiene che io abbia un prezzo?» La donna sorrise. «Se anche il vecchio detto ha qualche eccezione, la storia non le ricorda. Sia ragionevole, capitano. Nonostante la sua riconosciuta immunità alle forme normali di interrogatorio, esistono i mezzi per spezzare... o per cambiare, il carattere di un uomo, in modo che diventi molto docile... Sono
mezzi che abbiamo imparato dai commissari politici. Ma sono anche mezzi che richiedono tempo, e una donna della mia età non ha tempo da perdere.» Gilead mentì in tono convincente. «Non si tratta della sua età, signora: ma del fatto che lei sa che deve procurarsi quel tubo subito, altrimenti non lo avrà mai più.» Sperava con tutte le sue forze che Baldwin avesse avuto il buon senso di esaminare le carte per cercarvi un ultimo messaggio... e che agisse di conseguenza. Se Baldwin non fosse riuscito e se lui, Gilead, fosse morto, il tubo sarebbe finito in un ufficio di corrispondenza in giacenza, e a suo tempo sarebbe stato distrutto. «Probabilmente ha ragione. Tuttavia, capitano, se lei insiste procederò con la tecnica Mindszenty (5). Cosa ne dice di dieci milioni di crediti?» Gilead credette alla prima affermazione della donna. Riconsiderò mentalmente i modi in cui un uomo legato mani e piedi, o peggio, avrebbe potuto uccidersi. «Dieci milioni di plutoni e un coltello piantato nella schiena?» obiettò. «Suvvia, siamo pratici.» «Le verrebbe fornita un'assicurazione convincente, prima che lei incominciasse a parlare.» «Anche così, non è il mio prezzo. In fondo, lei vale almeno cinque milioni di plutoni.» La donna si sporse verso di lui. «Lei mi piace, capitano. È un uomo forte. Io sono una vecchia senza eredi. E se lei diventasse il mio socio... e il mio successore?» «Davvero?» «No, no! Parlo sul serio. La mia età e il mio sesso non mi permettono di agire come vorrei. Devo affidarmi ad altri. Capitano, io sono stanca di strumenti inefficienti, di uomini che se la lasciano fare sotto al naso. Pensi!» Fece un piccolo gesto di esasperazione, stringendo le dita ad artiglio. «Lei ed io potremmo andare lontano, capitano. Ho bisogno di lei.» «Ma io non ho bisogno di lei, signora. E non voglio saperne.» La donna non rispose, ma premette un pulsante sulla sua scrivania. Una porta, sulla sinistra, si dilatò; entrarono due uomini e una ragazza. Gilead riconobbe la ragazza: era la cameriera del drugstore. L'avevano spogliata completamente, il che gli sembrava un'indegnità non necessaria, poiché l'uniforme da lavoro non poteva certo nascondere un'arma. Appena entrata, la ragazza esplose, protestando, strillando, usando un
linguaggio insolito per la sua età e per il suo sesso, in una deflagrazione isterica di proporzioni vulcaniche. «Zitta, piccola!» La ragazza s'interruppe di colpo, guardò sorpresa la signora Keithley e tacque. Non ricominciò a gridare e rimase lì, immobile: sembrava ancora più giovane, vergognosa e sconcertata della propria nudità. Aveva la pelle d'oca; una lacrima tracciò una linea bianca sul volto macchiato di polvere, si fermò a un angolo della bocca. La ragazza leccò la lacrima e tirò su con il naso. «Lei è sfuggito alla nostra osservazione una volta sola, capitano,» continuò la signora Keithley. «E in quel periodo questa persona l'ha visto due volte. Perciò l'interrogheremo.» Gilead scosse il capo. «Questa ragazza non ne sa più di un pesce rosso. Ma faccia pure.. in cinque minuti di ipnosi la convincerà.» «Oh, no, capitano! L'ipnosi fallisce, qualche volta: e se questa ragazza fa parte della sua organizzazione, è certo che fallirà.» Fece un cenno a uno degli uomini che fiancheggiavano la ragazza, che andò a un armadio e lo aprì. «Io sono all'antica,» proseguì la vecchia. «Mi fido dei semplici mezzi meccanici molto più che delle procedure cliniche più perfezionate.» Gilead vide gli oggetti che l'uomo stava togliendo dall'armadio e avanzò. «Fermi!» comandò. «Non potete fare una cosa simile...» E batté forte il naso. L'uomo non gli badò. La signora Keithley disse: «Mi perdoni, capitano. Avrei dovuto dirle che questa stanza in realtà non è un solo locale, ma due. La parete divisoria è semplicemente di vetro, ma di un vetro molto speciale... Mi servo di questa stanza per i colloqui difficili. Non è necessario che lei si faccia del male cercando di raggiungerci.» «Un momento!» «Sì, capitano?» «Il suo tempo sta per scadere. Lasci subito liberi me e la ragazza. Saprà certamente che già in questo momento parecchie centinaia di uomini stanno frugando la città per trovarmi... e che non si fermeranno fino a quando l'avranno smontata tutta!» «Non credo. Un uomo che corrisponde alla sua descrizione fino all'ultimo particolare ha preso il razzo per il Sud Africa venti minuti dopo che lei ha firmato il registro del «New Age». Aveva le sue carte d'identità. Non raggiungerà il Sud Africa, ma le circostanze della sua scomparsa faranno
pensare più alla diserzione che a un incidente o ad un suicidio.» Gilead non insistette su quell'argomento. «Che cosa pensa di guadagnare tormentando questa ragazza? Sa già tutto quello che sa lei: non crederà certo che potessimo prenderci il lusso di fidarci di una ragazzina così?» La signora Keithley sporse le labbra. «Sinceramente, non mi aspetto di imparare qualcosa dalla ragazza. Ma posso imparare qualcosa da lei, capitano.» «Capisco.» Il capo dei due uomini guardò la sua padrona con aria interrogativa: lei gli fece cenno di procedere. La ragazza lo guardò senza capire, del tutto ignara dell'uso dell'attrezzatura che l'uomo aveva preso. I due uomini si misero all'opera. Poco dopo la ragazza urlò, e continuò a urlare per alcuni istanti. Poi le grida cessarono, quando svenne. La fecero rinvenire e la rimisero in piedi. Lei barcollava e si guardava stupidamente le povere mani, lesionate per sempre anche per gli scopi futili cui era stata capace. Il sangue le scorreva dai polsi e sgocciolava su di un tappeto di plastica, che era stato sistemato lì da uno dei due uomini. Gilead non fece nulla e non disse nulla. Poiché sapeva che il tubo conteneva informazioni che valevano milioni di vite, il problema della ragazza non si poneva neppure. Turbava una parte profonda e antica del suo cervello... Ma quasi automaticamente escluse quella parte e visse, per il momento, con la parte anteriore del cervello. Consciamente, imparò a memoria le facce e le figure dei due uomini e registrò quei dati come «personali». Poi, senza farsi notare, dedicò la sua attenzione alla scena fuori dalla finestra. Durante il colloquio l'aveva osservata, ma voleva pensarvi esplicitamente. Tradusse ciò che vedeva nei termini che avrebbe potuto raccogliere se fosse stato in grado di guardare frontalmente dalla vetrata, e decise che era al novantunesimo piano dell'Hotel «New Age», approssimativamente a centotrenta metri dall'estremità Nord. E registrò questi dati come «professionali». Quando la ragazza morì, la signora Keithley lasciò la stanza senza rivolgergli la parola. I due uomini raccolsero nel tappeto ciò che era rimasto e la seguirono. Poi ritornarono e, servendosi degli stessi metodi precauzionali con cui l'avevano condotto lì, riportarono Gilead nella sua cella. Non appena le guardie se ne furono andate e Kettle Belly poté scostarsi dalla parete, si avvicinò e diede una manata sulla spalla di Gilead.
«Salve, ragazzo! Sono felice di vederla... Avevo paura che non le avrei mai più messo gli occhi addosso. Com'è andata? Un po' dura?» «No. Non mi hanno fatto niente. Mi hanno solo rivolto qualche domanda.» «È stato fortunato. Certuni di quei mascalzoni di poliziotti fanno le carogne, quando si trovano per le mani un disgraziato, senza testimoni. Le hanno permesso di chiamare il suo avvocato?» «No.» «Allora non hanno ancora finito. Stia attento, ragazzo mio.» Gilead sedette sulla panca. «Che vadano al diavolo. Ha ancora voglia di giocare a carte?» «Non mi dispiace. Sento che avrò fortuna.» Baldwin tirò fuori il doppio mazzo, lo sfogliò. Gilead lo prese e fece lo stesso. Bene! Le carte erano nello stesso ordine in cui le aveva lasciate. Passò i pollici sul taglio... sì, persino le carte nere erano in posizione immutata. A quanto pareva Kettle Belly si era limitato a cacciarsele in tasca senza esaminarle, senza sospettare che vi era scritto un ultimo messaggio. Era sicuro che Baldwin non avrebbe lasciato il messaggio, se lo avesse letto. Poiché era ancora vivo, fu molto sollevato nel constatarlo. Mescolò le carte, poi incominciò a disporle. La prima stesura diceva: SCAPP IAMOX XXXXX XXXSU BITOX «Caspita!» gracchiò Baldwin. «Puntiamo.» XXXHA XXXXX XXPAR LXTOX XXXXX «Andiamo avanti,» annunciò Gilead e dispose le carte: XXNOX
MAXXX XXXXX XANDI XMOXX «Lei è troppo fortunato per stare al mondo,» si lagnò Baldwin. «Senta, raddoppiamo le puntate e raddoppiamo il numero delle carte scoperte. Voglio avere la possibilità di rifarmi.» Dispose di nuovo le carte e Gilead lesse: XXXXX XXXTU XXGLI XSERV XVIVO XXXXX XORAX XFAXX XCXME XXXMX «Non le è servito a molto, eh?» commentò Gilead. Prese le carte e incominciò a ridisporle. «C'è qualcosa che non va in un uomo che vince sempre,» brontolò Baldwin. Scrutò Gilead, attentamente. All'improvviso la sua mano scattò e serrò il polso dell'altro. «L'immaginavo!» urlò. «Sta barando!» Gilead si svincolò. «Brutto lumacone osceno!» «L'ho scoperto! L'ho scoperto!» Kettle Belly non lo lasciò, anzi gli afferrò anche l'altro polso. Lottarono e si rotolarono sul pavimento. Gilead scoprì due cose: quell'uomo goffo e massiccio era un artista che conosceva alla perfezione ogni specie di colpi bassi e riusciva a simularli in modo convincente senza fargli del male. Le sue prese sui nervi erano a una frazione di millimetro dai nervi; le sue ginocchiate colpivano i muscoli delle cosce, non l'inguine. Baldwin fece una presa come se cercasse di strangolarlo; Gilead lo lasciò fare. Il grassone poggiò l'avambraccio, di piatto, contro la punta del mento dell'avversario, anziché contro il pomo d'Adamo e finse di «strango-
larlo». Dal corridoio provenne un suono di passi affrettati. Gilead intravvide le guardie mentre arrivavano alla porta. Si fermarono, per un attimo. La bocca della Markheim era troppo grossa per servirsene attraverso le sbarre d'acciaio: la carica si sarebbe dispersa lungo il metallo. A quanto pareva, non avevano con sé bombe tranquillanti, perché esitarono. Poi il capo aprì in fretta la porta mentre l'altro, che impugnava la Markheim, indietreggiava per coprirlo. Baldwin finse di non vederli e continuò a rovesciare su Gilead un torrente di insulti e di bestemmie. Lasciò che il primo uomo arrivasse vicinissimo prima di mormorare all'improvviso nell'orecchio di Gilead: «Chiuda gli occhi!» Poi si liberò non meno all'improvviso. Gilead, anche attraverso le palpebre chiuse, scorse un lampo di luce incredibilmente abbagliante. Subito dopo avvertì un suono secco e smorzato; aprì gli occhi e vide che il primo uomo era a terra, con la testa piegata grottescamente ad angolo. Quello con la Markheim stava scuotendo la testa, e la bocca della sua arma oscillava qua e là. Baldwin stava per caricarlo, con la schiena e le ginocchia piegate. La guardia, accecata, lo sentì, e sparò una scarica in direzione del rumore: ma passò sopra la testa dell'uomo. Baldwin gli fu addosso: finirono a terra entrambi. Si udì un altro suono secco di ossa spezzate. La guardia restò a terra, morta. Baldwin si alzò, afferrò la Markheim, la puntò verso il corridoio. «Come vanno gli occhi, ragazzo?» chiese, ansiosamente. «Bene.» «Allora venga a prendere il congelatore.» Gilead impugnò la Markheim. Baldwin corse in fondo al corridoio, dove c'era una finestra che dava sulla città. La finestra non si apriva: non c'erano attracchi per elicotteri, lì fuori. Baldwin ritornò indietro, correndo. Gilead stava esaminando rapidamente le varie possibilità. Gli eventi si erano svolti seguendo un piano di Baldwin, non suo. In seguito alla visita alla «sala colloqui» della signora Keithley, era in grado di orientarsi. Il corridoio davanti a lui e una svolta a sinistra lo avrebbero portato al pozzo della discesa rapida. Arrivato nel sotterraneo, armato di Markheim, era sicuro di potersi aprire la strada... con Baldwin a rimorchio, se quello l'avrebbe seguito. Altrimenti... bene, la posta in gioco era troppo grande. Baldwin corse nella cella e ne uscì quasi immediatamente. «Mi segua!» intimò Gilead. Alla svolta del corridoio si affacciò una te-
sta: sparò e il proprietario della testa si afflosciò sul pavimento. «Si tolga di mezzo, ragazzo!» rispose Baldwin. Stava trasportando la pesante panca su cui avevano «giocato» a carte. Si avviò per il corridoio in direzione della finestra chiusa, acquistando straordinariamente velocità. L'ariete improvvisato colpì con forza la finestra. La plastica si gonfiò, si lacerò e si spaccò come una bolla di sapone. La panca passò in quel varco e sparì, mentre Baldwin si sporgeva, sulle mani e sulle ginocchia, e sotto al suo mento c'erano trecento metri di vuoto. «Figliolo!» gridò «Presto! Con me!» Gilead indietreggiò verso di lui, e nel frattempo sparò due volte. Non capiva ancora in che modo Baldwin contasse di uscire di lì, ma quell'uomo aveva già dimostrato di possedere abilità... e mezzi. Baldwin stava fischiando tra le dita e agitava l'altro braccio. Violando tutti i regolamenti del traffico cittadino un elicottero si staccò dalla lunga fila, tipica del pomeriggio inoltrato, e si avvicinò alla finestra. Rimase librato alla distanza appena sufficiente per non urtare con le pale. Il pilota aprì lo sportello, lanciò un cavo e Kettle Belly l'afferrò al volo. Con rapidità fulminea lo fissò alla maniglia del polarizzatore della finestra, poi afferrò la Markheim. «Prima lei,» intimò. «Presto!» Gilead si inginocchiò e afferrò il cavo: subito il pilota aumentò la velocità e inclinò il rotore: il cavo si tese. Gilead si arrampicò. Il pilota lo aiutò a salire a bordo, con una mano, mentre con l'altra controllava l'elicottero, come un cavallo d'alta scuola. L'elicottero s'inclinò. Gilead si volse e vide Baldwin che arrivava, come un grasso ragno su di una ragnatela. Lo aiutò a salire a bordo, e subito il pilota recise il cavo. L'elicottero si inclinò di nuovo e scivolò via. Nel vano della finestra c'erano già degli uomini. «Perdiamoci, Steve,» ordinò Baldwin. Il pilota aumentò ancora la velocità del rotore e lo inclinò ancora di più. L'elicottero schizzò via. Poi il pilota lo inserì nella corrente del traffico e chiese: «Dove andiamo?» «A casa... e di agli altri ragazzi di andare a casa anche loro. No... hai abbastanza da fare. Li avverto io.» Baldwin prese posto sull'altro sediolo da pilota, infilò una cuffia e si sistemò sulla bocca un microfono a silenziatore. Il pilota regolò la velocità su quella del traffico, poi manipolò i comandi, quindi si sistemò tranquillo e aprì una rivista illustrata. Poco dopo Baldwin si tolse la cuffia e ritornò nello scompartimento passeggeri.
«Ci vogliono parecchi elicotteri per essere sicuri che ce ne sia uno vicino quando ce n'è bisogno,» disse, in tono discorsivo. «Per fortuna ne ho tanti. Oh, a proposito, questo è Steve Halliday. Steve, ti presento Joe... Joe, come ti chiami di cognome?» «Greene,» rispose Gilead. «Piacere,» disse il pilota, e riprese a leggere la rivista. Gilead esaminò la situazione. Non era sicuro che fosse molto migliorata. Kettle Belly, chiunque fosse, era qualcosa di più di un commerciante di elicotteri usati... e sapeva dei microfilm. Steve aveva l'aria innocua, ma in quanto a questo ce l'aveva anche Kettle Belly. Gilead considerò la possibilità di metterli tutti e due fuori combattimento, ma poi ricordò l'abilità di Kettle Belly nella lotta e decise di non farne nulla. Forse Baldwin era davvero dalla sua parte. Aveva sentito dire che il Dipartimento si serviva di più gruppi operativi, e lui non aveva modo di accertare se era veramente informato di tutto. «Kettle Belly,» disse, «potrebbe lasciarmi subito all'aeroporto? Ho una fretta tremenda.» Baldwin lo squadrò. «Sicuro, se ci tiene. Ma pensavo che preferisse cambiarsi d'abito. Così conciato è troppo vistoso. E come sta a quattrini?» Gilead contò con le dita le monete che aveva trovato nel vestito. Un uomo senza denaro era nei guai. «Quanto tempo ci vorrebbe?» «Una decina di minuti in più.» Gilead pensò di nuovo all'abilità di lottatore di Kettle Belly e considerò che un pesce nell'acqua non poteva bagnarsi più che tanto. «Sta bene.» Si appoggiò alla spalliera del sedile e si rilassò. Poco dopo, però, si rivolse di nuovo a Baldwin. «A proposito, come era riuscito a nascondere quella bomba abbagliante?» Kettle Belly ridacchiò. «Sono molto grasso, Joe: è un problema frugarmi tutto.» E rise di nuovo. «Resterebbe sbalordito, se le dicessi dove l'avevo nascosta.» Gilead cambiò argomento. «Ma come aveva fatto a finire là dentro?» Baldwin ritornò serio. «È una storia lunga e complicata. Torni da me, un giorno, quando non avrà tanta fretta, e le racconterò tutto.»
«Ci verrò... presto.» «Bene. Forse riuscirò a venderle quel Curtiss usato.» Suonò l'allarme della guida automatica. Il pilota depose la rivista e fece posare l'elicottero sul tetto dell'azienda di Baldwin. Baldwin mantenne la parola. Condusse Gilead nel suo ufficio, mandò a prendere dei vestiti, che vennero portati immediatamente, e consegnò al giovane un fascio di banconote che sarebbe bastato per imbottire un cuscino. «Può rendermeli per posta,» disse. «Glieli riporterò di persona,» promise Gilead. «Bene. Stia in guardia, per la strada. Ci sarà in giro qualcuno dei nostri amici.» «Starò in guardia.» E se ne andò, disinvolto, come se fosse venuto lì per affari. Baldwin restava un mistero: e data la sua professione, Gilead non poteva ammettere misteri. Nell'atrio del palazzo c'era una cabina telefonica. Gilead entrò, attivò lo scrambling, poi chiamò una stazione di collegamento, non quella di cui aveva cercato di servirsi al «New Age». Diede il numero della cabina e disse all'operatore di richiamare in scrambling. Pochi minuti dopo stava parlando con il suo capo a New Washington. «Joe! Dove diavolo è stato?» «Più tardi, capo... senta questo.» Nel codice orale del Dipartimento, per ulteriore precauzione, disse al suo capo che i microfilm erano nella Casella Postale 1060, a Chicago, e insistette perché una squadra numerosa andasse subito a prelevarli. Il suo capo si allontanò per un attimo dallo schermo, poi ritornò. «Bene, è fatto. E adesso mi dica cosa le è capitato.» «Più tardi, capo, più tardi. Credo che qui fuori ci siano certi amici ansiosi di vedersela con me. Mi trattenga ancora e io mi buscherò un bel buco in testa.» «D'accordo... ma venga qui immediatamente. Voglio un rapporto completo. L'aspetterò.» «Bene.» Gilead tolse la comunicazione. Uscì allegramente dalla cabina, con quel senso di soddisfazione che si prova quando si è eseguito un lavoro particolarmente difficile. Sperava che qualcuno dei suoi «amici» comparisse: aveva voglia di prendere a calci qualcuno che se lo meritava. Ma rimase deluso. Salì sul razzo transcontinentale senza avere motivo di
allarmarsi e dormì per tutto il tragitto fino a New Washington. Raggiunse il Federal Bureau of Security per una delle tante strade segrete e andò nell'ufficio del suo capo. Dopo i controlli di rito, la porta lo fece entrare. Bonn alzò la testa e fece una smorfia. Gilead ignorò quell'espressione. Bonn faceva spesso di quelle smorfie. «Agente Joseph Briggs, tre-quattro-zero-nove-sette-due, a rapporto dopo la missione, signore,» disse tranquillamente. Bonn girò un interruttore su «registrazione» e un altro su «coperto». «Davvero, eh? Razza di idiota pasticcione! Come può avere la faccia tosta di presentarsi qui?» «Calma, calma, capo... Che c'è che non va?» Bonn imprecò per qualche istante poi disse: «Briggs, dodici uomini dei migliori hanno sorvegliato il collegamento... e la casella era vuota! Casella postale dieci-sessanta, Chicago, eh? Proprio! Dove sono quei microfilm? Era un trucco per confondere gli avversari? Li ha portati con sé?» Gilead-Briggs frenò il proprio stupore. «No. Li ho spediti all'indirizzo che lei ha appena nominato.» E aggiunse: «Può darsi che la macchina li abbia rifiutati. Sono stato costretto a scrivere a mano i simboli della macchina.» All'improvviso, Bonn assunse un'aria speranzosa. Premette un altro pulsante e disse: «Carruthers! Per la faccenda Briggs: controllate le stazioni di giacenza per quel tragitto.» Rifletté un istante poi aggiunse: «Poi provate una sequenza partendo dall'assunto che il primo simbolo fosse accettabile per la macchina, ma sbagliato. Lo stesso per ognuno degli altri simboli. Controllate simultaneamente... emergenza per tutti gli agenti e per tutto il personale. Poi provate combinazioni di simboli prendendoli due per volta, poi tre per volta, e così via.» E troncò la comunicazione. «Il totale della serie che lei ha indicato corrisponde a tutti gli indirizzi postali del continente,» suggerì Briggs, tranquillo. «Non è possibile.» «Dovremo farlo comunque! Senta, ha un'idea dell'importanza dei microfilm che le erano stati affidati?» «Sì. Il direttore, a Base Luna mi ha detto che cosa stavo trasportando.» «Non si direbbe proprio che lei lo sapesse. Ha perduto la cosa più preziosa che possieda questo governo, o qualunque altro... L'arma assoluta. E adesso se ne sta lì a guardarmi come se avesse perduto un pacchetto di sigarette.»
«Un'arma?» obiettò Briggs. «Io non chiamerei così l'Effetto Nova, a meno di classificare come arma il suicidio. E non ammetto di avena perduta. Poiché agivo da solo e avevo l'incarico di tenerla soprattutto lontana dalle mani altrui, mi sono servito dei mezzi migliori disponibili in un caso d'emergenza, per proteggerla. Il che rientra nei limiti della mia autorità. Ero stato individuato, non so come...» «Non doveva farsi individuare!» «Lo ammetto. Ma mi hanno individuato. Non avevo appoggi e la mia valutazione della situazione non comprendeva una sola probabilità di restar vivo. Perciò dovevo proteggere ciò che mi era stato affidato con mezzi che non dipendessero dal fatto che io rimanessi vivo.» «Ma è vivo... ed è qui.» «Non è stato merito mio né suo, glielo assicuro. Avrei dovuto venir protetto. È stato lei a ordinare, se lo ricordi, che io agissi da solo.» Bonn s'incupì. «Era necessario.» «Davvero? In ogni caso, non capisco il perché di tutto questo chiasso. O i microfilm si trovano, oppure sono andati perduti e verranno distrutti, come posta non reclamata. Perciò io ritornerò sulla Luna e mi farò consegnare un'altra copia.» Bonn si morse le labbra. «Impossibile.» «Perché?» Bonn esitò a lungo. «Ce n'erano soltanto due copie. Lei aveva gli originali, che dovevano venire chiusi in un sotterraneo blindato negli Archivi... e l'altra copia doveva venir distrutta immediatamente, non appena si fosse saputo che l'originale era al sicuro.» «Sì? E dov'è il guaio?» «Non si rende conto dell'importanza della procedura. Ogni appunto, ogni scheda, ogni registrazione sono stati distrutti, dopo che vennero fatti i microfilm. Ogni tecnico, ogni assistente, è stato sottoposto a un trattamento ipnotico. Lo scopo non era soltanto di proteggere i risultati delle ricerche, ma cancellare il fatto stesso che le ricerche erano state effettuate. In tutto il sistema, ora non c'è neppure una dozzina di persone che sappia dell'esistenza dell'Effetto Nova.» Briggs aveva le sue idee a questo proposito, idee basate su un'esperienza recente, ma non disse nulla. Bonn proseguì.
«Il Segretario ha continuato ad assillarmi perché l'informassi non appena gli originali fossero stati messi al sicuro. Ha insistito parecchio, e ha fatto parecchie critiche. Così, non appena lei mi ha telefonato, gli ho detto che i microfilm erano al sicuro e che li avrebbe avuti dopo pochi minuti.» «E allora?» «Non capisce, stupido? Il Segretario ha dato ordine immediatamente di distruggere le altre copie.» Briggs zufolò. «È stato un po' precipitoso, no?» «Lui non la penserà così... tenga conto del fatto che il Presidente stava assillando lui. Quindi dirà che io sono stato troppo precipitoso.» «Infatti lo è stato.» «No, lo è stato lei. Mi ha assicurato che i microfilm erano in quella cassetta.» «No. Ho detto che li avevo mandati lì.» «Non è vero.» «Allora tiri fuori il nastro e sentiamo.» «Non c'è nessun nastro... per ordine personale del Presidente non si conservano documenti relativi a questa operazione.» «Davvero? E allora perché sta registrando anche adesso?» «Perché,» rispose seccamente Bonn, «qualcuno dovrà pagarla, e non sarò certo io.» «Il che significa,» fece Briggs, lentamente, «che toccherà a me.» «Non ho detto questo. Potrebbe toccare anche al Segretario.» «Se cade la testa del Segretario, cadrà anche la sua. No, tutti e due state pensando di servirvi di me come capro espiatorio. Ma prima di preparare i piani, non sarebbe meglio se ascoltasse il mio rapporto? Potrebbe modificare il suo progetto. Ho delle novità per lei, capo.» Bonn tamburellò con le dita sulla scrivania. «Avanti. E speriamo che sia convincente.» Con voce monotona, spassionata, Briggs riferì tutto ciò che era successo, così come era registrato nella sua memoria acutissima: dal momento in cui aveva ricevuto in consegna i microfilm, sulla Luna, fino a quell'istante. Bonn ascoltò, impaziente. Quando ebbe terminato, Briggs attese. Bonn si alzò e fece il giro dell'ufficio. Finalmente si fermò e disse: «Briggs, non ho mai sentito in vita mia una simile quantità di bugie. Un uomo grasso che gioca a carte! Un portafoglio che non era il suo portafo-
glio... il furto degli abiti! E la signora Keithley... la signora Keithley! Non sa che è una delle più forti sostenitrici dell'attuale governo?» Briggs non disse nulla. Bonn continuò: «Adesso le dirò io quello che è successo veramente. Fino al momento in cui è sceso a Pied-à-Terre il rapporto è esatto, ma...» «Come lo sa?» «Perché era controllato, naturalmente. Non penserà che ci fidassimo di un uomo solo, vero?» «Perché non me lo aveva detto? Avrei chiesto aiuto e ci saremmo risparmiati tutto questo.» Bonn non fece caso a quell'obiezione. «Lei ha chiamato un fattorino, poi lo ha congedato, è entrato in quel drugstore, è uscito ed è andato all'ufficio postale. Non c'è stata nessuna zuffa, sul corso, per la semplice ragione che nessuno la seguiva. All'ufficio postale lei ha spedito tre tubi, uno dei quali poteva contenere i microfilm, come poteva non contenerli. Poi è andato al 'New Age Hotel', ed è uscito venti minuti dopo per prendere il transrazzo per Città del Capo. Lei...» «Un momento,» obiettò Briggs. «Come avrei potuto far questo ed essere qui adesso?» «Eh?» Per un momento, Bonn sembrò sconcertato. «È solo un particolare: è stato identificato con certezza. Anzi, sarebbe stato molto, molto meglio se lei fosse rimasto su quel razzo. Anzi...» Bonn aveva negli occhi un'espressione remota. «Anzi, per il momento sarà meglio far finta di credere, ufficialmente, che è rimasto su quel razzo. Lei è nei guai, Briggs. In un grosso guaio. Lei non ha fallito la sua missione... si è venduto!» Briggs lo guardò con calma. «Sta formulando un'accusa?» «No, per il momento. È per questo che è meglio far credere che lei sia rimasto sul razzo... Fino a quando la faccenda non sarà stata chiarita.» Briggs non aveva bisogno di spiegazioni per sapere quale soluzione sarebbe saltata fuori quando la faccenda fosse stata «chiarita». Si tolse dalla tasca un taccuino, vi scarabocchiò alcune parole e lo consegnò a Bonn. C'era scritto: «Mi dimetto dal mio incarico con decorrenza immediata.» E aggiunse la firma, l'impronta del pollice e l'ora. «Arrivederci, capo,» aggiunse. E si volse leggermente, come per andarsene. «Fermo!» urlò Bonn. «Briggs, lei è in arresto.» E tese la mano verso la scrivania.
Briggs gli sparò un pugno alla trachea, poi un altro alla bocca dello stomaco. Poi si calmò e si assicurò scrupolosamente che Bonn sarebbe rimasto privo di conoscenza per un tempo sufficiente. Frugò la scrivania e trovò una cassetta d'emergenza. Prese un'ipodermica carica di sonnifero per una durata di due ore, e l'iniettò sulla schiena di Bonn, accanto a un neo, perché non si notasse il forellino. Ripulì l'ago, rimise tutto a posto, poi tolse il nastro dalla scrivania e cancellò ogni accenno a lui stesso, compreso il controllo effettuato dalla porta. Poi regolò i comandi della scrivania su «coperto» e «non disturbare» e se ne andò per un'altra delle strade segrete. Si recò al razzoporto, fece un biglietto senza prenotazione per il primo volo diretto a Chicago. C'era da aspettare venti minuti; fece un paio di piccoli acquisti rivolgendosi ai commessi anziché alle macchine, e facendo in modo che lo vedessero bene in faccia. Quando fu annunciato il razzo per Chicago, si diresse verso i cancelli insieme a tutti gli altri passeggeri. Al cancello interno, poco prima della piattaforma del peso, passò invece tra la folla che era venuta per salutare i passeggeri. Agitò il braccio fingendo di salutare qualcuno che stava in coda alla piattaforma del peso, sorrise, gridò un «arrivederci», e si lasciò trascinare indietro dalla folla quando il cancello si chiuse. Poi si diresse verso la toelette per uomini. Quando uscì, aveva apportato parecchi cambiamenti affrettati ma efficienti al suo aspetto. Cosa ancora più importante, i suoi modi erano diversi. Una rapida transazione illecita in un saloon nei pressi di un ufficio di collocamento gli procurò il libretto di lavoro che gli occorreva. Cinquantacinque minuti più tardi stava già avviandosi attraverso la campagna sotto il nome di Jack Gillespie, scaricatore e secondo autista di un camion diesel. Era possibile che avesse scritto così male l'indirizzo sul tubo per la posta pneumatica che le macchine postali automatiche l'avessero rifiutato? Rievocò nella propria mente l'immagine del talloncino, com'era quando lo aveva completato, finché lo vide chiaramente quanto il paesaggio che scorreva attorno a lui. No, aveva tracciato i simboli in modo perfetto, esattissimo: le macchine dovevano averli accettati, senza dubbio. Era possibile che le macchine avessero rifiutato il tubo per un'altra causa? Per esempio, perché un angolo del talloncino gommato era sollevato? Sì: però il talloncino era sufficiente perché gli impiegati postali inoltrassero il tubo a destinazione. Un ritardo del genere non avrebbe superato i dieci minuti, anche durante le ore di punta. Pur calcolando, in linea d'ipotesi, cinque ritardi di quel genere, il tubo avrebbe dovuto arrivare a Chicago più
di un'ora prima che lui si mettesse in contatto telefonico con Bonn. E se il talloncino gommato si fosse staccato del tutto? In questo caso il tubo sarebbe andato alla stessa destinazione degli altri due, che fungevano da specchietti per le allodole. E quindi la signora Keithley se ne sarebbe impadronita, dato che era riuscita a intercettare o a ricevere gli altri due. Di conseguenza, il tubo era arrivato alla casella postale di Chicago. Di conseguenza, Kettle Belly aveva veramente letto il messaggio «scritto» nel mazzo di carte, aveva dato istruzioni a qualcuno che si trovava a Chicago, e lo aveva fatto servendosi della radio di bordo dell'elicottero. Dopo un evento, «possibile» e «vero» diventano idee equivalenti, mentre «probabile» diviene una misura dell'ignoranza di chi formula le ipotesi. Definire «improbabile» una conclusione dopo l'evento era un sistema per confondere se stesso. Di conseguenza, Kettle Belly aveva i microfilm... Una conclusione cui lui era già giunto nell'ufficio di Bonn. A trecento chilometri da New Washington intavolò una discussione feroce con l'autista e riuscì a farsi licenziare. Da una cabina telefonica della città dove scese chiamò, in scrambling, l'ufficio di Baldwin. «Gli dica che gli devo del denaro.» Poco dopo, la faccia di Kettle Belly apparve sullo schermo. «Salve, figliolo. Come va?» «Sono stato silurato.» «Me lo immaginavo.» «Peggio ancora... sono ricercato.» «Naturalmente.» «Vorrei parlare con lei.» «Benissimo. Dov'è?» Gilead glielo disse. «È pulito?» «Almeno per qualche ora.» «Vada all'aeroporto locale. Steve verrà a prenderla.» Steve arrivò, lo salutò con un cenno del capo, fece sollevare in aria l'elicottero, regolò il pilota automatico e come al solito si mise a leggere. Quando l'apparecchio si avviò lungo la rotta predisposta, Gilead domandò: «Dove stiamo andando?» «Al ranch del capo. Non glielo ha detto?» «No.» Gilead sapeva che, forse, si trattava di un viaggio senza ritorno.
Sicuro, Baldwin lo aveva aiutato a sfuggire ad una morte certa... era indubbio che la signora Keithley non avesse avuto intenzione di lasciarlo in vita più a lungo di quanto le servisse, altrimenti non avrebbe fatto uccidere la ragazza in sua presenza. Fino a quando era arrivato nell'ufficio di Bonn, aveva pensato che Baldwin lo avesse salvato perché sapeva qualcosa che lo stesso Baldwin desiderava ardentemente di sapere... Ma adesso sembrava proprio che Baldwin lo avesse salvato per ragioni esclusivamente altruistiche. Gilead ammetteva che al mondo esistessero anche ragioni altruistiche, ma era incline a considerarle come ipotesi improbabili, fino a quando tutte le altre ipotesi non fossero state eliminate. Baldwin poteva avere i suoi motivi per desiderare che lui vivesse abbastanza a lungo per fare rapporto a New Washington, e ciononostante poteva aver deciso di eliminarlo, adesso che lui era un ricercato e che la sua morte non avrebbe suscitato alcun commento. Baldwin poteva addirittura essere un complice della signora Keithley. In un certo senso, quella era la spiegazione più semplice, benché lasciasse inspiegati altri fattori. Comunque, Baldwin era un primo attore in quel dramma... e aveva i microfilm. Il rischio era necessario. Gilead non se ne preoccupava. I fattori a lui noti erano scritti sulla lavagna della sua mente, per restarvi fino a quando un numero sufficiente di variabili si fosse trasformato in altrettante costanti, quanto bastava per permettere una soluzione secondo logica. Il viaggio in elicottero fu molto piacevole. Steve lo fece scendere sul prato di una grande casa di campagna, lo presentò ad una donna dall'aria materna di nome Garver, e ripartì. «Si accomodi, Joe,» disse la signora Garver. «La sua stanza è l'ultima, nell'ala sinistra della casa... La doccia è di fronte. Si cena fra dieci minuti.» La ringraziò e accettò il suggerimento. Ritornò nel soggiorno con un paio di minuti d'anticipo. C'erano altre persone, una dozzina o giù di lì, d'ambo i sessi. Quel posto sembrava più una villa di campagna che un vero ranch... Però Gilead aveva visto dei cavalli al pascolo, mentre stava atterrando. Gli altri ospiti sembrarono accettare la sua presenza come la cosa più naturale del mondo. Nessuno gli chiese perché era lì. Una donna disse di chiamarsi Thalia Wagner e poi gli presentò gli altri. Mamma Garver arrivò suonando un campanello, e tutti si recarono in una sala da pranzo lunga e bassa. Gilead non riuscì a ricordare da quanto tempo non aveva cenato così
bene e in una compagnia così divertente. Dopo undici ore di sonno, il suo primo riposo autentico dopo parecchi giorni, si svegliò di colpo, completamente, udendo gruppi di suoni che il suo subconscio non riuscì subito a classificare. Aprì gli occhi, si guardò intorno, e balzò dal letto, acquattandosi sul lato più lontano dalla porta. Dal corridoio si udivano passi affrettati, davanti alla sua camera. Di fronte alla porta si sentivano parlare due persone: una era una voce maschile, l'altra femminile. La donna era Thalia Wagner: ma non gli riuscì di identificare l'uomo. Voce maschile: «tsumaeq?» Voce femminile: «no!» Voce maschile: «zUlntsi.» Voce femminile: «ipbit' New Jersey.» Questi non sono esattamente i suoni che Gilead udì; innanzi tutto per la limitatezza dei simboli fonetici, e in secondo luogo perché le sue orecchie non erano abituate a quei suoni. L'udito è una funzione del cervello, non dell'orecchio; e il suo cervello, per quanto fosse sofisticato, insisteva a costringere i suoni pervenuti alle orecchie nelle caselle ormai familiari, anziché prendersi la briga di crearne di nuove. Quando ebbe identificato Thalia Wagner, si rilassò e si alzò. Thalia faceva parte della situazione ignota che aveva accettato recandosi lì: e quindi lui doveva accettare anche un estraneo che le fosse noto. Classificò «in sospeso» le altre incognite, incluso quello strano linguaggio, e non ci pensò più. Gli abiti che indossava al suo arrivo erano spariti: ma il suo denaro - o meglio, il denaro di Baldwin - era là dove aveva messo gli abiti la sera prima, insieme al libretto di lavoro intestato a Jack Gillespie ed ai suoi pochi oggetti personali. Lì accanto, qualcuno aveva disposto un paio di calzoni corti, puliti e un paio di scarpe della sua misura. Gilead notò, con una sorpresa che quasi lo sconvolse, che qualcuno aveva provveduto a tutto questo senza svegliarlo. Indossò calzoni e scarpe e uscì. Thalia e il suo compagno se ne erano andati mentre lui si vestiva. In giro non c'era nessuno; la sala da pranzo era vuota, ma c'erano tre coperti in tavola, e sulla credenza vi erano piatti fumanti e vasellame vario. Scelse prosciutto al forno e panini caldi, si fece friggere quattro uova e si versò il caffè. Venti minuti dopo, sazio e ancora solo, uscì sulla veranda. Era una bellissima giornata. La stava ammirando, e seguiva con amiche-
vole interesse il volo di un'allodola quando una giovane donna apparve, svoltando all'angolo della casa. Era vestita più o meno come lui, ed era molto graziosa. «Buongiorno,» le disse. La ragazza si fermò, si piantò le mani sui fianchi e lo squadrò. «Bene!» esclamò. «Perché nessuno mi dice queste cose?» Poi aggiunse: «È sposato?» «No.» «Sto cercando di fare acquisti. Scopo: matrimonio. Facciamo conoscenza.» «Non sono un tipo che si sposa. Sono anni che evito il matrimonio.» «Sono tutti tipi che non si sposano,» disse la ragazza, amaramente. «Giù al corral, c'è un puledro nuovo. Venga.» Andarono. Il puledro si chiamava War Conqueror of Baldwin; la ragazza si chiamava Gail. Dopo le cerimonie di rito con la giumenta e il puledrino, se ne andarono. «Se non ha impegni urgenti,» disse Gail, «è il momento più salubre per fare una nuotata.» «Se salubre significa quello che penso, è vero.» Il laghetto era circondato da alberi, e aveva il fondo sabbioso: per un po', Gilead si sentì di nuovo un ragazzo: le menzogne e gli Effetti Nova e la morte e la violenza erano lontani, in qualche dimensione remota e improbabile. Finalmente si issò sulla riva e disse: «Gail, che cosa significa 'tsumaeq'?» «Cosa?» rispose lei. «Ripeta. Avevo l'acqua nelle orecchie.» Gilead ripeté tutta la conversazione che aveva udito. Lei lo guardò incredula, poi rise. «Non ha sentito così, Joe, non l'ha proprio sentito. Ha capito giusto solo 'New Jersey'.» «Ma...» «Ripeta.» Gilead ripeté, più accuratamente, facendo una discreta imitazione dell'accento dei due interlocutori. Gail rise. «Questa volta ho capito qualcosa. Quella Thalia: un giorno o l'altro un uomo le torcerà il collo.» «Ma che cosa significa?» Gail gli diede una lunga occhiata di sbieco.
«Se mai lo scoprirà, allora la sposerò davvero, nonostante le sue proteste.» Qualcuno stava fischiando, sulla cima della collina. «Joe! Joe Greene... il capo la vuole!» «Devo andare,» disse lui a Gail. «Addio.» «Ci vediamo dopo,» lo corresse lei. Baldwin lo stava aspettando in uno studio tranquillo quanto lui. «Salve, Joe,» lo salutò. «Prenda un po' una sedia. L'hanno trattato bene?» «Sì, certo. La cucina è sempre buona come quella che ho potuto apprezzare finora?» Baldwin si batté una mano sul ventre. «Come crede che mi sia guadagnato il mio soprannome?» «Kettle Belly (6), vorrei una quantità di spiegazioni.» «Joe, mi dispiace che abbia perduto il posto. Se avessi potuto farci qualcosa, non sarebbe finita così.» «Lei lavora per la signora Keithley?» «No. Sono un suo avversario.» «Vorrei poterlo credere, ma non ho ragioni per farlo... per ora. Che cosa ci faceva, dove l'ho trovato io?» «Mi avevano catturato... la signora Keithley e i suoi scagnozzi.» «Avevano catturato per caso lei, e per caso l'hanno messo nella mia stessa cella, e per caso lei sapeva dei microfilm affidati alla mia custodia, e per caso aveva in tasca due mazzi di carte? Suvvia, andiamo!» «Se non avessi avuto le carte, avremmo trovato qualche altro sistema per comunicare,» disse pacifico Kettle Belly. «Non l'avremmo trovato?» «Sì, lo ammetto.» «Non intendo dire, con questo, che si sia trattato di un puro caso. Noi la facevamo sorvegliare fin da Base Luna; quando l'hanno catturato, o meglio, quando si è lasciato indurre a fermarsi al «New Age», ho fatto in modo che catturassero anche me; ho pensato che avrei potuto avere la possibilità di darle una mano, se fossi stato anch'io là dentro.» E aggiunse: «Ho fatto in modo che mi credessero un agente dell'FBS.» «Capisco. Allora è stata una vera fortuna che ci abbiano chiusi nella stessa cella.» «Niente fortuna,» obiettò Kettle Belly. «La fortuna è un risultato che richiede una pianificazione scrupolosa... non la si ottiene mai gratis. C'era
una probabilità calcolabile che ci mettessero insieme, nella speranza di scoprire ciò che volevano sapere. Noi l'abbiamo spuntata perché abbiamo corso il rischio. Altrimenti, avrei dovuto evadere da quella cella, e cercare lei... Ma dovevo essere dentro al 'New Age' per poterlo fare.» «Chi è la signora Keithley?» «È qualcosa di ben diverso dalla sua immagine ufficiale, credo. È l'ape regina, o la vedova nera, di una gang. 'Gang' è un termine inadatto... forse è meglio dire un gruppo di potere. Uno dei tanti gruppi simili, più o meno collegati quando i loro interessi non si intersecano. Si dividono il Paese in modo da ottenere tutto quello che vogliono... come due gatti che si spartiscono un topo.» Gilead annuì: capiva cosa intendeva dire Baldwin, anche se non aveva mai saputo che la rispettatissima signora Keithley era immischiata in una faccenda del genere... L'aveva scoperto solo quando ci aveva sbattuto violentemente il naso. «E lei chi è, Kettle Belly?» «Andiamo, Joe... Mi è simpatico e mi dispiace sinceramente che sia nei pasticci. Un paio di volte ha giocato la carta sbagliata, e io sono stato costretto a metterci un jolly, ma le poste in gioco erano alte. Stia a sentire: penso di doverle qualcosa. Cosa gliene pare della mia proposta? Le forniremo una personalità nuova di zecca, assolutamente impenetrabile... persino nuove impronte digitali, se le vuole. Scelga qualsiasi posto al mondo che le piaccia, e qualsiasi occupazione: le forniremo il denaro necessario per ricominciare da capo... o per darsi alla bella vita per tutto il resto dei suoi giorni. Che ne dice?» «No.» Lo disse senza esitazioni. «Lei non ha parenti stretti, né amici intimi. Ci pensi sopra. Non posso restituirle il suo impiego: e questo è il meglio che posso fare.» «Ci ho già pensato sopra. Al diavolo il mio impiego. Voglio concludere il mio caso! E lei ne è la chiave.» «Ci pensi bene, Joe. Le offro la possibilità di ritirarsi dagli affari di Stato e di vivere una vita normale e felice.» «Felice, ha detto!» «Beh, se non altro sicura. Se insiste a continuare le indagini, la durata della sua vita diventerà estremamente problematica.» «Non ricordo di aver mai aspirato a giocare sul sicuro.» «Sta a lei decidere, Joe. In questo caso...» Sulla scrivania di Baldwin un altoparlante annunciò: «cenle r ñog rylp.»
Baldwin rispose: «nU», e si lanciò con un balzo verso il camino, dove si consumava ancora qualche brace. Afferrò la mensola e la tirò a sé. Tutto quanto, caminetto, cappa, mensola e griglia, si spostò verso di lui, lasciando scoperta un'arcata nel muro. «Scenda le scale, Joe,» disse. «C'è una retata.» «Un bel nascondiglio!» «Davvero, eh? Questo posto ha più buche del nido di un coniglio... e piene di trappole, per giunta. Troppi congegni, se vuol sapere la mia opinione.» Ritornò alla scrivania, aprì un cassetto, ne tolse tre bobine di microfilm e se le infilò in tasca. Gilead stava per scendere le scale: vide le bobine e si fermò. «Vada, Joe,» disse Baldwin, concitato. «Lei è in soprannumero, qui. Con questa retata in arrivo non avremmo tempo di scherzare: saremmo costretti ad ucciderla.» Si fermarono in una stanza sotterranea, uno studio molto simile a quello del pianterreno, ma privo del sole e del panorama. Baldwin disse qualcosa in quella strana lingua, nel microfono sulla scrivania, e ricevette una risposta. Gilead si chiese se quel gergo Poteva essere inglese rovesciato, ma poi lo escluse. «Come stavo dicendo,» continuò Baldwin, «se è proprio deciso a volere tutte le spiegazioni...» «Un momento. Cos'è questa retata?» «Solo i ragazzi del governo. Non saranno scortesi né troppo minuziosi. Ci penserà Mamma Garver. Non saremo costretti a far male a nessuno, purché non usino il radar a penetrazione.» Gilead sorrise ironicamente, nel sentir parlare a quel modo del suo ex servizio. «E se lo usano?» «Quell'aggeggio laggiù strilla come un maiale, se viene toccato da frequenze a penetrazione. Anche in quel caso, siamo al sicuro da tutto, a parte le bombe atomiche. Ma non le useranno: vogliono i microfilm, non una buca nel terreno. Il che mi ricorda una cosa... ecco, prenda.» Gilead si trovò improvvisamente in possesso dei microfilm che erano stati la causa di tutto. Srotolò alcune inquadrature e constatò che erano davvero quelli giusti. Rimase seduto, immobile, chiedendosi in che modo poteva scendere da quel ramo e ritornare al suolo senza lasciar cadere le uova. Il microfono disse di nuovo qualcosa. Baldwin non rispose, ma annunciò: «Non dovremo restar qui ancora per molto.»
«Sembra che Bonn abbia deciso di controllare la veridicità del mio rapporto,» disse Gilead. Alcuni dei suoi ex colleghi erano di sopra. Se avesse tradito Baldwin e l'avesse messo fuori combattimento, sarebbe riuscito a localizzare i comandi interni della porta? «Bonn non è troppo in gamba. Controllerà ma... ma non troppo scrupolosamente; io sono ricco. E non controllerà affatto la signora Keithley; lei è troppo ricca. Quell'uomo pensa con le sue ambizioni politiche, anziché con il cervello. Il suo defunto predecessore era assai migliore... era dei nostri.» Il vago progetto di Gilead subì un brusco rovesciamento. Aveva giurato fedeltà ad un governo; la sua lealtà personale era stata tributata al suo precedente superiore. «Mi provi che quel che ha appena detto è vero, e la cosa mi interesserà moltissimo.» «No. Scoprirà che è vero... se insiste ancora per avere spiegazioni. Ha finito di controllare quei microfilm, Joe? Me li ributti.» Gilead non obbedì. «Immagino che comunque ne abbiate delle copie.» «Non era necessario; li ho guardati. Non si faccia venire delle idee, Joe. Lei è finito, per l'FBS, anche se riportasse i microfilm e la mia testa su un piatto d'argento. Ha aggredito il suo capo... se lo ricorda?» Gilead ricordava di non aver riferito a Baldwin quel particolare. Incominciò a pensare che Baldwin avesse degli agenti nell'FBS, indipendentemente dal fatto che il suo defunto superiore fosse stato o meno uno di loro. «Almeno potrei dimettermi in modo più pulito. Conosco Bonn... ufficialmente sarebbe felicissimo di dimenticare tutto.» Stava semplicemente cercando di guadagnare tempo, in attesa che Baldwin gli aprisse uno spiraglio. «Mi ridia i microfilm, Joe. Non voglio che ci azzuffiamo. Uno di noi ci lascerebbe la pelle... o tutti e due, se lei vince il primo round. Non può provare le sue affermazioni, perché io posso provare che ero a casa ad accarezzare il gatto. Ho venduto elicotteri a due rispettabili cittadini nel momento preciso in cui, secondo lei, sarei stato altrove.» Ascoltò di nuovo la voce che usciva dall'altoparlante, e rispose nello stesso gergo incomprensibile. Gilead valutò mentalmente la situazione tattica e giunse alla stessa conclusione espressa da Baldwin. Poiché non credeva troppo alla realizzazione dei pii desideri, lanciò subito i microfilm a Kettle Belly.
«Grazie, Joe.» L'uomo si alzò, andò ad un piccolo sportello nella parete, regolò la potenza del bruciatore al massimo, vi gettò dentro i microfilm, attese qualche secondo, poi spense l'apparecchio. «E così ci siamo sbarazzati di quella robaccia.» Gilead inarcò le sopracciglia. «Kettle Belly, lei è riuscito a sbalordirmi.» «E come?» «Credevo che volesse conservare l'Effetto Nova come un mezzo per conquistare il potere.» «Che assurdità! Scotennare un uomo è un pessimo sistema per liberarlo dalla forfora. Joe, che cosa ne sa dell'Effetto Nova?» «Non molto. So che è una specie di bomba atomica potente quanto basta da far paura a chiunque cominci a pensarci sopra.» «Non è una bomba. Non è un'arma. È un mezzo per distruggere completamente un pianeta e tutto quello che c'è sopra... trasformando quel pianeta in una nova. Se quella è un'arma, militare o politica, allora io sono Sansone e lei è Dalila. «Ma io non sono Sansone,» proseguì. «E non ho intenzione di abbattere il Tempio... né di lasciare che lo faccia qualcun altro. Ci sono in circolazione dei vermi che sarebbero prontissimi a farlo, se qualcuno cercasse di contrastarli. La signora Keithley è una di loro. Il suo amico Bonn è un altro che lo farebbe, se ne avesse il fegato e se ne sapesse abbastanza. Io ho intenzione di deludere tutta questa gente. Ne sa qualcosa di balistica, Joe?» «Roba da scuola elementare.» «Che ignoranza imperdonabile.» L'altoparlante parlò di nuovo, e Kettle Belly rispose, senza rompere il ritmo. «Il problema dei tre corpi (7) manca tuttora di una chiara soluzione generale, ma ci sono parecchie soluzioni speciali: gli asteroidi che seguono Giove nella sua orbita in una posizione di sessanta gradi, per esempio. E c'è la soluzione di linea retta... ha mai sentito parlare dell'asteroide Anti-Terra?» «È quel pezzo di roccia che si trova sempre al di là del Sole, e perciò non lo vediamo mai.» «Giusto... però adesso non c'è più. È stato trasformato in nova.» Gilead, che normalmente era immune alle sorprese, stavolta ne aveva avuta una di troppo. «Come ha detto? Ma io pensavo che l'Effetto Nova fosse soltanto teoria.» «No. Se avesse avuto il tempo di esaminare i microfilm, ne avrebbe vi-
sto le immagini. Si tratta di plutonio, litio e acqua pesante, più altri particolari di cui preferisco non parlare. Equivale al fiammifero che può dare fuoco a un mondo. Ed è già successo... un piccolo mondo ha preso fuoco ed è scomparso. «Nessuno ha visto accadere tutto questo. Nessuno, sulla Terra, poteva vederlo, perché è accaduto dietro al Sole. Non si poteva vederlo neppure da Colonia Lunare: anche in questo caso, c'era il Sole che copriva l'esplosione... tenga presente le rispettive posizioni geometriche. Lo ha visto soltanto una batteria di macchine da presa a bordo di una nave-robot. E lo sapevano soltanto gli scienziati che avevano creato l'Effetto Nova... e tutti erano dei nostri, eccetto il direttore. Se anche lui fosse stato dei nostri, lei non sarebbe mai finito in questo pasticcio.» «Il dottor Finnley?» «Sicuro. Un tipo simpatico, ma con una mente molto contorta. Uno scienziato 'politico', dotato di capacità di second'ordine. Ma non ha importanza: i nostri lo terranno a bada finché non andrà in pensione. Ma non potevano impedirgli di riferire e di mandare i microfilm sulla Terra. Perciò dovevo impadronirmene e distruggerli.» «E perché non si è limitato a salvarli? A parte tutte le altre considerazioni, costituiscono un patrimonio unico per la scienza.» «La razza umana non ha bisogno di questa particolare conoscenza scientifica: non in questo millennio. Ho salvato tutto quello che ne valeva la pena... dentro la mia testa.» «Lei e suo cugino Hartley sono la stessa persona, vero?» «Naturalmente. Ma sono anche Kettle Belly Baldwin, e parecchi altri individui.» «Per quanto mi riguarda, lei può essere anche Lady Godiva.» «Come Hartley, avevo diritto a quei microfilm, Joe. Era un mio progetto. Sono stato io a lanciarlo, per mezzo dei miei ragazzi.» «Non ne ho mai attribuito il merito a Finnley. Non sono un fisico, ma è chiaro che quello non era all'altezza.» «Sicuro, sicuro. Io stavo cercando di dimostrare che non era possibile creare un nova artificiale: l'importanza politica... l'importanza per tutto il genere umano di una dimostrazione come questa è evidente. Non mi è andata bene... perciò abbiamo dovuto intraprendere un'azione d'emergenza.» «Forse avrebbe fatto meglio a lasciar perdere.» «No. Conoscere il peggio è utile: adesso possiamo stare in guardia, e scoraggiare le eventuali ricerche in quella direzione.» L'altoparlante grugnì
di nuovo; Baldwin proseguì: «Può esserci un destino divino, Joe, anche se la cosa appare improbabile, che rende i segreti veramente pericolosi troppo difficili da scoprire fino a quando l'intelligenza arriva al punto di affrontarli... se questa intelligenza ha buone intenzioni. Mamma Garver dice che possiamo risalire.» Si avviarono verso le scale. «Mi sorprende che abbia lasciato a una vecchietta come Mamma Garver il compito di affrontare una situazione d'emergenza.» «È perfettamente in grado di cavarsela, gliel'assicuro. Ma ero io che davo disposizioni... mi ha sentito, no?» «Oh...» Si accomodarono nuovamente nello studio al piano terreno. «Desidero dirle un'altra cosa, Joe. Non importa che lei sappia tutto di quei microfilm, poiché sono stati distrutti e lei non può provare niente di niente. Ma a parte questo... si rende conto che se si unisce a noi e viene informato della situazione, verrà ucciso alla prima mossa sospetta?» Gilead se ne rendeva conto: anzi sapeva benissimo che aveva già superato il punto da cui non si può ritornare indietro. Con la distruzione dei microfilm, era sparita la sua ultima possibilità di riabilitare la sua incarnazione principale. Questo non lo preoccupava: ormai era fatta. Si era accorto che dal momento in cui aveva ammesso d'aver compreso il messaggio trasmessogli da quell'uomo per mezzo di due mazzi di carte, non era stato più libero delle proprie azioni: ogni sua mossa era stata imposta dalle mosse di Baldwin. Eppure non c'era niente da fare: il suo futuro era lì... oppure lui non aveva un futuro. «Lo so. Continui.» «So quali sono le sue riserve mentali, Joe: lei sta semplicemente accettando i rischi: non sta promettendo fedeltà.» «Sì... ma perché è disposto a correre il rischio con me?» Baldwin, adesso, era più serio di quanto si mostrasse abitualmente. «Lei è un uomo capace, Joe. Ha la conoscenza ed il coraggio morale per agire, in una situazione insolita, non in un modo convenzionale ma in un modo ragionevole.» «Ed è per questo che mi volete?» «In parte sì. In parte perché mi è piaciuto il modo in cui impara subito un nuovo gioco a carte.» E sogghignò. «E in parte anche perché a Gail piace il modo in cui si comporta con un puledrino.» «Gail? E che c'entra Gail?»
«Mi ha fatto un rapporto sul suo conto circa cinque minuti fa, durante la retata.» «Uhm... vada avanti.» «Io l'ho avvertito.» Per un momento, Baldwin sembrò quasi intimidito. «Voglio che accetti quello che sto per dirle, completamente. Joe, non rida.» «D'accordo.» «Mi ha chiesto che cosa sono. Sono una specie di segretario generale di questa branca di un'organizzazione di superuomini.» «L'avevo immaginato.» «Eh? E da quanto tempo lo sa?» «Continuavo a pensarci. Quel giochetto con le carte, i suoi tempi di reazione. Ne ho avuto la certezza quando ha distrutto i microfilm.» «Joe, che cos'è un superuomo?» Gilead non rispose. «Benissimo, lasciamo perdere questo termine,» proseguì Baldwin «È stato usato troppo spesso e troppo a sproposito, fino ad assumere sfumature grottesche. L'ho adoperato per far colpo, ma non le ha fatto colpo per niente. Il termine 'superuomo' ha finito per avere un significato di favole: evoca l'immagine di occhi a raggi X, di strani organi sensoriali, cuori doppi, pelle invulnerabile, muscoli d'acciaio... la versione dell'eroe uccisore di draghi a uso e consumo degli adolescenti (8). Sono sciocchezze, naturalmente. Joe, che cos'è un uomo? Che cosa c'è, nell'uomo, che lo rende superiore a un animale? Mi risponda e poi incominceremo a definire un superuomo... o un Uomo Nuovo, homo novus, che deve prendere il posto dell'homo sapiens, anzi, sta già prendendo il suo posto... perché è in grado di sopravvivere meglio dell'homo sapiens. Non sto cercando di definire me stesso: làscio decidere ai miei simili e ai processi inesorabili del tempo se sono o non sono un superuomo, un membro della nuova specie umana... E lo stesso vale per lei.» «Per me?» «Sì, proprio lei. Infatti presenta sintomi inquietanti, che l'indicano come un homo novus, Joe: non preparato, ignorante e confuso. Non è verosimile, però potrebbe essere della nuova razza. Dunque... che cos'è l'uomo? Qual è l'unica cosa che sa fare meglio di tutti gli animali, e che è un fattore di sopravvivenza tanto forte da controbilanciare tutte le altre cose, che gli animali dell'una o dell'altra specie sanno fare molto meglio di lui?» «L'uomo sa pensare.»
«Questa risposta gliel'ho messa in bocca io... quindi, niente premio. D'accordo, lei passa per un uomo: vediamo che cosa fa. Qual è l'unico possibile fattore concepibile - o più fattori, se preferisce - che un superuomo ipotetico potrebbe avere, in seguito ad una mutazione, o alla magia, o a qualche altro mezzo, e che accrescerebbe il vantaggio già posseduto dall'uomo, il vantaggio che lo ha messo in condizioni di dominare questo pianeta, nonostante l'opposizione incessante di un milione e più di altre specie viventi? Qualche fattore che comporterebbe la dominazione sull'uomo da parte del suo successore, inevitabile quanto la dominazione dell'uomo su di un cane legato? Ci pensi, Joe. Qual è la direzione necessaria dell'evoluzione, per creare la prossima specie dominante?» Gilead si immerse nella riflessione per un tempo che gli sembrò molto lungo. C'erano tanti attributi meravigliosi che un uomo avrebbe potuto avere: possedere una vista paragonabile ad un telescopio e ad un microscopio, vedere l'interno delle cose, vedere l'intero spettro, possedere un udito altrettanto perfetto, essere immune alle malattie, essere in grado di farsi ricrescere un braccio o una gamba, volare nell'aria senza doversi servire di macchine come gli elicotteri o i reattori, camminare indenne sui fondo dell'oceano, lavorare senza stancarsi... Però l'aquila poteva volare ed era pressoché estinta, benché la sua vista fosse molto più acuta di quella umana. Un cane aveva udito e odorato molto più fini; la foca nuotava meglio, aveva un maggiore senso dell'equilibrio e soprattutto era in grado di immagazzinare ossigeno. I ratti potevano sopravvivere dove l'uomo sarebbe morto di fame o di sfinimento: erano astuti e difficili da uccidere. I ratti potevano... Un momento! I ratti, più resistenti e più astuti, potevano soppiantare l'uomo? No di certo: non era possibile. Avevano un cervello troppo piccolo. «Essere in grado di pensare meglio,» rispose quasi immediatamente Gilead. «Si merita un bel sigaro! I superuomini sono superpensatori: tutto il resto epuro contorno. Ammetterò la possibilità dell'esistenza di qualche superqualcosa che potrebbe sterminare o dominare l'umanità in modi diversi, senza bisogno di batterlo nella sua specialità... il pensiero. Ma nego sia possibile per un uomo concepire in termini distinti ciò che potrebbe essere questo superqualcosa, o come potrebbe vincere. L'homo novus batterà l'homo sapiens nella specialità di quest'ultimo, il pensiero razionale, la capacità di riconoscere i dati, di accumularli, d'integrarli, di valutare esatta-
mente il risultato e di pervenire ad una decisione esatta. È in questo modo che l'uomo è diventato campione: l'essere che saprà far meglio sarà il campione del futuro. Certo, vi sono altri fattori di sopravvivenza: buona salute, buoni organi sensoriali, riflessi rapidi... ma non sono neppure paragonabili al pensiero, come dimostra fino alla nausea la lunga, tormentata storia dell'umanità: Marat nel suo bagno medicamentoso, Roosevelt sulla sua poltrona a rotelle, Cesare con la sua epilessia e il suo mal di stomaco, Nelson con un occhio solo e un braccio solo, Milton con la sua cecità: in sostanza è il cervello che vince, non gli strumenti del corpo.» «Si fermi un momento,» disse Gilead. «E l'ESP?» Baldwin alzò le spalle. «Non disprezzo la percezione extrasensoriale più di quanto disprezzerei una vista eccezionalmente acuta... Ma l'ESP non appartiene alla stessa categoria della capacità di pensare esattamente. ESP è un termine generico per indicare i mezzi, diversi dai normali organi sensoriali, grazie ai quali il cervello può raccogliere dati: ma ciò che conta in misura decisiva è la capacità di servirsi di quei dati, ragionarci sopra. Se volesse un collegamento telepatico con Shangai, posso accontentarla: abbiamo operatori qui e laggiù... Ma lei può procurarsi i dati che le occorrono da Shangai per mezzo del telefono, con minor fatica, minor rischio di una cattiva comunicazione e minor pericolo di intercettazione. I telepati non possono percepire un messaggio radio: non è sulla stessa lunghezza d'onda.» «E su quale lunghezza d'onda agiscono?» «Più tardi, più tardi. Ha molte cose da imparare.» «Non stavo pensando in particolare alla telepatia. Pensavo a tutti i fenomeni parapsicologici.» «Vale lo stesso ragionamento. Il teletrasporto andrebbe benissimo, se la telecinesi fosse arrivata fino a questo punto. Ma non c'è arrivata affatto. E un'autogru serve magnificamente, per spostare la roba pesante. La televisione, nelle mani di un uomo intelligente, è molto più efficace che la chiaroveggenza nelle mani di uno stupido. Non mi faccia perdere tempo, Joe.» «Chiedo scusa.» «Dunque, abbiamo definito il pensiero come integrazione di dati e raggiungimento di risposte esatte. Si guardi intorno. Molta gente ci riesce quanto basta per arrivare fino al negozio d'angolo e per tornare indietro senza rompersi una gamba. Se l'uomo medio pensa, fa cose sciocche, come generalizzare sulla base di un unico dato. Si serve di una logica con un valore unico. Se è eccezionalmente acuto, può usare una logica a due valori,
'o-oppure', per arrivare alle risposte sbagliate. Se è affamato, addolorato, o interessato personalmente alla risposta, non è in grado di usare nessun genere di logica e scarta un fatto osservato con la stessa facilità con cui gioca la propria vita puntando su di un pio desiderio. Si serve delle meraviglie tecniche create da uomini superiori senza stupore né sorpresa, esattamente come un gattino accetta una scodella di latte. Anziché aspirare ad un ragionamento superiore, non si rende neppure conto che questo esista. Classifica i propri processi mentali nella stessa categoria di quelli di un genio come Einstein. L'uomo non è un animale che ragiona: è un animale che razionalizza. «Per spiegare un universo che lo confonde si aggrappa alla numerologia, all'astrologia, alle religioni isteriche e ad altri fantastici sistemi per impazzire. Ha accettato queste preziose illusioni, e la realtà non lo colpisce più... anche se questo può costargli la vita. Joe, una delle cose più difficili da credere è la profondità abissale della stupidità umana. «Ecco perché c'è sempre posto libero in vetta, perché un uomo solo un po' più brillante degli altri può diventare tanto facilmente governatore, milionario, o rettore di un'università... e perché l'homo sapiens verrà sicuramente spodestato dall'Uomo Nuovo: c'è spazio vastissimo per i miglioramenti, e l'evoluzione non si ferma mai. «Qua e là, in mezzo agli uomini comuni, c'è qualche raro individuo che pensa veramente, che sa usare la logica almeno in un campo, anche se spesso è stupido quanto gli altri al di fuori della sua specializzazione. Ma sa pensare, se non è turbato, ammalato o spaventato. Questi individui rarissimi sono i veri autori di tutto il progresso conseguito dalla razza umana; e gli adottano, controvoglia, i suoi risultati. Per quanto l'uomo comune detesti, sospetti e perseguiti questo processo di pensiero, talvolta è costretto ad accettarne i risultati, perché quel pensiero è efficiente, in confronto ai suoi tentativi maldestri. Magari seminerà ancora il granturco quando c'è la luna nuova (9): ma seminerà del granturco migliore, realizzato da uomini migliori di lui. «Ancora più raro è l'uomo che abitualmente pensa, che applica la ragione, anziché l'abitudine, a tutte le sue attività. Se non si mimetizza a dovere, vive una vita pericolosa: è considerato infido, eccentrico, sovvertitore della morale pubblica; è una scimmia rosa in mezzo alle scimmie brune... un errore fatale. A meno che la scimmia rosa non si tinga di bruno prima che la facciano fuori. «L'istinto di uccidere della scimmia bruna non è errato: uomini del gene-
re sono pericolosi per tutte le tradizioni delle scimmie. «Il più raro di tutti è l'uomo che sa ragionare, e ragiona, in ogni momento: rapidamente, esattamente, tenendo conto di tutti i fattori, nonostante la speranza, la paura o la costrizione fisica, senza egocentrismi e senza isterismi, con una memoria esatta e una chiara distinzione tra realtà, assunto e irrealtà. Uomini di questo tipo esistono, Joe: sono Uomini Nuovi... umani sotto tutti gli aspetti, in apparenza indistinguibili dall'homo sapiens, ed egualmente indistinguibili sotto al bisturi: eppure diversi dall'homo sapiens, nell'azione, come il sole è diverso da una candela.» «E lei appartiene a questa categoria?» chiese Gilead. «Questo dovrà deciderlo da solo.» I«E pensa che possa appartenervi anch'io?» «È possibile. Avrò altri dati entro pochi giorni.» Gilead rise fino a farsi venire le lacrime agli occhi. «Kettle Belly, se io sono la futura speranza della razza umana, farebbero meglio a mandare in campo la seconda squadra, e alla svelta. Certo, sono più sveglio della maggioranza dei cretini con cui ho a che fare di solito: ma, come ha detto lei, non c'è molta concorrenza. Non ho aspirazioni sublimi. Mi piacciono le belle ragazze come a chiunque altro. Mi piace perder tempo davanti a un bicchiere di birra. Non mi sento affatto un superuomo.» «A proposito di birra, prendiamone una.» Baldwin si alzò e prese due barattoli. «Si ricordi che Mowgli si sentiva un lupo. Il fatto di essere un Uomo Nuovo non la distoglie dalle simpatie e dai piaceri umani. Ci sono stati Uomini Nuovi in tutta la storia: e credo che in maggioranza non sospettassero neppure che la loro diversità dava loro il diritto di considerarsi appartenenti a una razza diversa. Si accoppiarono con le figlie degli uomini, diffondendo le loro doti in tutto l'organismo razziale: e queste doti non riaffiorarono se non quando il caso riaccostava i necessari fattori genetici.» «Devo dedurre che un Uomo Nuovo non rappresenta una mutazione speciale?» «Eh? E chi non è una mutazione, Joe? Tutti siamo una raccolta di milioni di mutazioni. In tutto il mondo, dal momento in cui ci siamo seduti qui, hanno avuto luogo centinaia di mutazioni nel plasma germinale umano. No, l'homo novus non è venuto al mondo perché suo nonno si è avvicinato troppo a un ciclotrone; l'homo novus non era neppure una razza separata fino a quando si è reso conto della propria diversità, si è organizzato, e ha deciso di tenersi quello che i suoi geni gli avevano donato. Oggi, si può mescolare di nuovo l'homo novus nella razza e perderlo: è soltanto una va-
riazione che sta diventando una specie. Fra un milione di anni, le cose staranno diversamente. Posso prevedere che l'Uomo Nuovo di quel tempo non potrà incrociarsi con l'homo sapiens... Non produrrebbe una prole vitale.» «E prevede che l'uomo attuale, l'homo sapiens... scomparirà?» «Non necessariamente. Il cane si è adattato all'uomo. Probabilmente ci sono più cani adesso che nell'anno X avanti Cristo... e sono anche meglio nutriti.» «E l'uomo diventerebbe il cane dell'homo novus?» «Anche in questo caso devo rispondere: non necessariamente. Pensi al gatto.» «Quindi, l'idea è di scremare il fior fiore del plasma germinale della razza e mantenerlo biologicamente separato fino a quando le due specie saranno distinte per sempre. Direi che queste vostre concezioni puzzano, Kettle Belly.» «Così parlerebbero le scimmie brune.» «Forse. La nuova razza, naturalmente, avrebbe il predominio...» «Pensa che l'Uomo Nuovo deciderebbe su problemi importanti contando i nasi sgocciolanti dell'uomo comune?» «No, è questo che intendevo dire: postulando una nuova razza, il risultato è inevitabile, Kettle Belly. Confesso di avere un pregiudizio da scimmia bruna in favore della democrazia, della dignità umana e della libertà. È qualcosa che vince la logica: è il mondo che io preferisco. Nello svolgimento del mio lavoro, mi sono imbrancato con i reietti della società. Può darsi che siano stupidi... ma non sono malvagi. Non mi va affatto l'idea di vederli ridotti al rango di animali domestici.» Per la prima volta, Baldwin tradì la preoccupazione. La sua maschera di «Re degli Elicotteri» scomparve: era tutto maestà meditabonda, una figura infelice e solitaria. «Lo so, Joe. Sono dei nostri: la loro piccola dignità, la loro nobiltà, non sono sminuite dalla condizione infelice. Eppure deve essere così.» «Perché? Ci sarà l'avvento dell'Uomo Nuovo... ammettiamolo. Ma perché affrettare il processo?» «Lo domandi a se stesso.» Baldwin tese la mano verso lo sportello in cui aveva gettato i microfilm. «Dieci minuti fa io e lei abbiamo salvato questo pianeta, tutta la nostra razza. È l'ora dei coltelli. Qualcuno deve stare in guardia, se la razza umana dovrà continuare a vivere: e ci siamo soltanto noi. Per vigilare in modo efficiente, noi Uomini Nuovi dobbiamo essere
organizzati, non dobbiamo mai sbagliare in una crisi come l'attuale, e dobbiamo diventare più numerosi. Per ora siamo pochi, Joe: via via che le crisi aumentano, anche il nostro numero deve aumentare, per fronteggiarle vittoriosamente. Alla fine... ed è una corsa mortale contro il tempo... Alla fine dovremo prendere il sopravvento e assicurarci che i bambini non giochino mai con i fiammiferi.» S'interruppe e rifletté. «Confesso di provare il suo stesso affetto per la democrazia, Joe. Ma è un po' come sognare il Babbo Natale al quale credevamo da piccoli. Per centocinquant'anni, una democrazia, o qualcosa del genere, ha potuto prosperare tranquillamente. I problemi erano tali che potevano venir risolti senza catastrofi mediante i voti degli uomini comuni, per quanto fossero ignoranti e confusi. Ma adesso, se la razza umana deve continuare a vivere, le decisioni politiche dipendono da cose come la fisica nucleare, l'ecologia planetaria, la teoria genetica, persino la meccanica dei sistemi. E gli uomini comuni non ne sono all'altezza, Joe. Anche se avessero più volontà di quanta ne abbiano, neppure uno su mille, tra loro, riuscirebbe a stare sveglio su di una sola pagina di fisica nucleare: non sono in grado di imparare ciò che dovrebbero sapere.» Gilead obiettò: «Tocca a noi istruirli. Hanno il cuore a posto: diciamo loro come stanno le cose, e ci daranno le risposte giuste.» «No, Joe. Abbiamo tentato, e non funziona. Come ha detto lei, in maggioranza sono buoni... come è buono un cane. Però ci sono anche i malvagi: la signora Keithley e i suoi complici e molti altri come lei. La ragione non costituisce una propaganda efficace, se le si oppongono le incessanti menzogne degli uomini malvagi, astuti ed egoisti. L'uomo comune non ha modo di giudicare, e le bugie, di solito, vengono spacciate in confezioni più attraenti. Non si può offrire del colore ad un daltonico, e non possiamo dare ad un uomo dal cervello imperfetto la capacità di distinguere una menzogna dalla verità. «No, Joe. L'abisso tra noi e loro non è ampio, ma è molto profondo. Non possiamo colmarlo.» «Preferirei,» disse Gilead, «che non mi classificasse tra i suoi Uomini Nuovi: mi sento più a mio agio dall'altra parte.» «Deciderà da solo da che parte stare, come ha fatto ciascuno di noi.» Gilead cambiò argomento. Di solito era immune ai turbamenti emotivi, ma quel problema lo sconvolgeva. Il suo cervello seguiva il ragionamento di Baldwin e gli assicurava che era esatto; ma le sue inclinazioni vi si op-
ponevano. Si trovava di fronte alla tragedia più terribile: due diritti egualmente nobili e validi, contrapposti in modo inconciliabile. «E voi che cosa fate, oltre a rubare microfilm?» «Uhmm... Molte cose.» Baldwin si rilassò, ritornò il gioviale, acuto uomo d'affari. «Quando, con una spinta qui e una là si può impedire che le cose vadano a rotoli, esercitiamo la pressione necessaria, in molti modi diversi. Cerchiamo il materiale umano adatto e quando possiamo lo reclutiamo... Per esempio, la tenevamo d'occhio da dieci anni.» «Veramente?» «Sicuro. È la fase iniziale. Servendoci dei dati di dominio pubblico, escludiamo tutti, tranne lo zero virgola uno per cento. E teniamo d'occhio quell'individuo: uno su mille. Poi ci sono le nostre 'società agricole'.» E sogghignò. «Finisca la sua battuta di spirito.» «Estirpiamo la gente; liberiamo i campi dalle erbacce.» «Mi scusi, ma oggi sono un po' lento di comprendonio.» «Joe, non ha mai provato il desiderio di spazzar via qualche mascalzone malvagio, corrotto, osceno che infettava tutto ciò che toccava, eppure era legalmente inattaccabile? Noi li trattiamo come cancri: li estirpiamo dal corpo della società. Abbiamo un elenco dei 'Meglio Morti': quando un uomo è chiaramente un fallimento morale gli chiudiamo il conto alla prima occasione.» Gilead sorrise. «Se foste sicuri di quello che fate, potrebbe essere divertente.» «Siamo sempre sicuri, anche se i nostri metodi non sarebbero accettabili in un tribunale delle scimmie brune. Prenda per esempio la signora Keithley... ha qualche dubbio in proposito?» «Nessuno.» «Perché non l'ha denunciata? Non si dia la pena di rispondermi. Per esempio, fra due settimane ci sarà un raduno oceanico del nuovo Ku-KluxKlan, ringiovanito e più potente che mai, su una collina della Carolina. Quando il divertimento sarà al massimo, quando tutti grideranno oscenità, impregnandosi di uno spirito di pogrom, un atto di Dio li spazzerà via tutti. Molto triste.» «Potrei prendervi parte?» «Per il momento, lei non è neanche un cadetto.» Baldwin proseguì: «C'è il progetto per accrescere le nostre file, ma si tratta di un programma a scadenza millenaria: ci vuole un calendario perpetuo per seguirlo. La cosa più
importante è tenere i fiammiferi fuori dalla portata dei bambini. Joe, sono passati ottantacinque anni da quando abbiamo decapitato l'ultimo commissario del popolo: si è mai chiesto perché in questo periodo si sono fatti così pochi progressi fondamentali in campo scientifico?» «Eh? Ma si sono avuti parecchi cambiamenti.» «Adattamenti di scarsa importanza... alcuni spettacolari, ma quasi nessuno decisivo. Naturalmente, sotto il comunismo si fecero ben pochi progressi: una religione politica totalitaria è incompatibile con la libera ricerca. Mi consenta una digressione: l'interregno comunista indusse gli Uomini Nuovi a coalizzarsi ed a riorganizzarsi. Quasi tutti gli Uomini Nuovi sono scienziati... per ovvie ragioni. Quando i commissari politici incominciarono a sentenziare sulle leggi naturali secondo criteri politici, come il lisenkismo (10) e altre assurdità, la cosa non piacque. Molti di noi si diedero alla clandestinità. «Ometterò i particolari. Ci unimmo, ci specializzammo in attività clandestine, incominciammo nuovi programmi di ricerca, svolti in segreto. In parte era ovviamente pericoloso; decidemmo di stare tranquilli per un po'. Da quel tempo, la conoscenza segreta si è sviluppata, perché non rendiamo mai pubblico nulla che non sia stato analizzato accuratamente, per accertare che non costituisca un rischio sociale. Poiché in grande parte ciò che sappiamo è effettivamente pericoloso, e poiché pochissimi, al di fuori della nostra organizzazione, sono capaci di un autentico pensiero originale, la scienza di base è rimasta, ufficialmente, quasi ferma. «Non avevamo previsto di dovere agire così. Abbiamo contribuito a far sì che la nuova costituzione fosse liberale e che - almeno così pensavamo fosse operante. Ma la nuova repubblica si rivelò anche peggiore della vecchia. L'etica malvagia del comunismo aveva corrotto ogni cosa. Ci tenemmo in disparte. Adesso sappiamo che dovremo tenerci in disparte fino a quando potremo riformare l'intera società.» «Kettle Belly,» disse lentamente Joe, «lei parla come se avesse preso parte a tutto questo. Quanti anni ha?» «Glielo dirò quando anche lei sarà arrivato all'età che ho attualmente. Un uomo ha vissuto abbastanza quando non desidera più vivere. Io non sono ancora arrivato a questo punto. Joe, io devo avere la sua risposta... oppure continuiamo a parlarne un'altra volta?» «La mia risposta la sapeva fin dall'inizio... Ma stia a sentire, Kettle Belly, c'è un lavoro che voglio sia riservato a me.» «Quale?»
«Voglio uccidere la signora Keithley.» «Non abbia fretta. Quando sarà preparato, e se quella donna sarà ancora viva, ci serviremo di lei...» «Grazie!» «... purché lei sia lo strumento adatto.» Baldwin si girò verso il microfono, chiamò «Gail!» e aggiunse una parola in quello strano linguaggio. Gail arrivò subito. «Joe,» disse Baldwin, «quando questa ragazza avrà finito di istruirla, lei sarà in grado di cantare, fischiare, masticare il chewing-gum, giocare a scacchi, trattenere il respiro e lanciare un aquilone contemporaneamente... e tutto questo andando in bicicletta sott'acqua. Se lo porti via, figliola: è tutto suo.» Gail si fregò le mani. «Benone!» «Per prima cosa dobbiamo insegnarti a vedere e a udire, poi a ricordare, quindi a parlare e infine a pensare.» Joe la guardò. «Che cosa sto facendo con la bocca, in questo momento?» «Non stai parlando. Stai grugnendo. Inoltre l'inglese non è strutturalmente adatto per pensare. Stai zitto e ascolta.» Nell'aula sotterranea, Gail aveva a disposizione parecchi tipi di strumenti per registrare, per manipolare la luce e il suono. Incominciò a proiettare gruppi di numeri su di uno schermo, a lampi. «Questo cos'era, Joe?» «Nove-sei-zero-sette-due... Non sono andato più in là.» «L'immagine è rimasta sullo schermo per un intero millesimo di secondo. Perché hai ricordato solo la parte sinistra del gruppo di cifre?» «Perché è tutto quello che ho letto.» «Guarda il gruppo tutto insieme. Non compiere sforzi di volontà: limitati a guardarlo.» Gail proiettò un altro numero. La memoria di Joe era buona, la sua intelligenza era elevata... anche se non sapeva ancora fino a qual punto. Poco convinto che quel metodo servisse a qualcosa, si rilassò e stette al gioco. Ben presto incominciò ad afferrare un numero di nove cifre come un'unica gestalt: Gail ridusse il tempo di proiezione. «Cos'è quella specie di lanterna magica?» domandò Joe. «È un tachistoscopio di Renshaw. Al lavoro!»
Ai tempi della seconda guerra mondiale il dottor Samuel Renshaw, all'Ohio State University, aveva dimostrato che quasi tutti sfruttano soltanto un quinto delle rispettive facoltà della vista, dell'udito, del gusto, del tatto e della memoria. La sua ricerca si era insabbiata nella pseudoscienza comunista che aveva predominato dopo la terza guerra mondiale; ma, dopo la sua morte, le sue scoperte erano state conservate clandestinamente. Gail non fece affrontare a Gilead quella strana lingua, fino a quando lui non ebbe compiuto un'accurata preparazione con il tachistoscopio. Tuttavia, dal giorno del suo colloquio con Baldwin, gli altri ospiti del ranch usavano quella lingua in sua presenza. Talvolta qualcuno - di solito Mamma Garver - traduceva ciò che veniva detto in sua presenza; talvolta no. Joe era contento di sentirsi accettato, ma gli dispiaceva sapere di essere un neofita. Era come un bambino in mezzo agli adulti. Gail incominciò a insegnargli ad udire pronunciando qualche parola di quella strana lingua e invitandolo a ripeterla. «No, Joe. Guarda.» Questa volta, quando lei pronunciò la parola, questa apparve sullo schermo, analizzata foneticamente da un apparecchio sostanzialmente affine a quello in uso per indicare ai sordomuti gli errori di pronuncia. «Adesso riprova.» Lui riprovò. «Come va adesso, signora maestra?» disse trionfante. «Terribile! Hai tenuto troppo lunga la gutturale finale...» E l'indicò. «La vocale di mezzo era formata con la lingua troppo alta, il tono troppo basso. E sei altri difetti. Non ti avrebbe capito nessuno. Io ho sentito quel che hai detto, ma non aveva senso. Riprova. E non chiamarmi 'signora maestra'.» «Sissignora,» rispose lui, solennemente. Gail regolò i comandi e Joe riprovò. Questa volta il grafico della sua pronuncia venne sovrapposto a quello della pronuncia di lei: dove corrispondevano, si annullavano. Dove non corrispondevano, gli errori spiccavano a colori vivaci. Lo schermo sembrava un sole. «Riprova ancora, Joe.» Gail ripeté la parola senza che alterasse l'immagine. «Dannazione, se mi dicessi cosa significano quelle parole invece di trattarmi nel modo in cui Milton trattava le sue figlie per insegnargli il latino, potrei ricordarle più facilmente.» Gail alzò le spalle. «Non posso, Joe. Prima devi imparare a udire e a parlare. Lo Speedtalk (11) è un linguaggio flessibile: non è probabile che la stessa parola ricorra
più volte. La parola che stai cercando di ripetere significa: 'Gli orizzonti lontani non si avvicinano'. Non è di grande aiuto, vero?» La definizione sembrava improbabile, ma Joe stava imparando a non dubitare di lei. Non era abituato alle donne che ne sapevano sempre molto più di lui: di solito provava compassione per quelle povere, piccole, graziose creature indifese. Ma questa, provava spesso la voglia di strozzarla. Si chiese se quella reazione corrispondeva a ciò che i romanzieri chiamavano «amore», e decise che era impossibile. «Riprovaci, Joe.» Lo Speedtalk era un linguaggio strutturalmente diverso da qualunque altro mai usato dalla razza umana. Molto tempo addietro, Ogden e Richards avevano dimostrato che ottocentocinquanta parole costituivano un vocabolario sufficiente per esprimere qualunque cosa che potesse venire espressa dai vocabolari umani «normali», con l'aiuto di un centinaio di parole speciali per ogni campo specializzato, come ad esempio l'ippica e la balistica. Nello stesso periodo, gli studiosi di fonetica avevano analizzato tutte le lingue umane in un centinaio di suoni, rappresentate dalle lettere di un alfabeto fonetico generale. Lo Speedtalk era basato su quei due princìpi. L'alfabetico fonetico, certo, era meno numeroso delle parole dell'inglese basico. Ma le lettere che rappresentavano suoni nell'alfabeto fonetico potevano venir variate in molti modi diversi: durata, accento, tono più o meno forte. Più l'orecchio era esercitato e più grande era il numero delle variazioni possibili: non c'era limite alle variazioni ma, senza affinare troppo la fonetica tradizionale, era possibile stabilire un'equivalenza con l'inglese basico, in modo che un solo simbolo fonetico corrispondesse a un'intera parola del linguaggio «normale». Una parola di Speedtalk corrispondeva a una intera frase. Di conseguenza, quella lingua veniva imparata lettera per lettera, anziché parola per parola... Ma ogni parola veniva pronunciata e ascoltata come una singola gestalt strutturata. Ma lo Speedtalk non era l'inglese base «stenografico». Le lingue «normali», che hanno avuto origine nei giorni della superstizione e dell'ignoranza, hanno in sé strutture inevitabilmente errate di idee sbagliate sull'universo. Si può pensare logicamente in inglese solo con uno sforzo enorme, poiché lo strumento mentale di cui si dispone è inadeguato. Per esempio, il verbo «to be», «essere», in inglese ha ventun significati distinti, ognuno dei quali è falso. Una struttura simbolica, inventata anziché accettata senza discussione, può invece essere resa simile nella struttura al mondo reale cui si riferisce.
La struttura dello Speedtalk non conteneva gli errori dell'inglese: era simile al mondo reale, nella misura in cui potevano renderla tale gli Uomini Nuovi. Ad esempio, non conteneva la distinzione irreale tra nomi e verbi che si trova in quasi tutte le altre lingue. Il mondo, il continuum noto alla scienza, che include tutte le attività umane, non contiene «cose-nomi» e «coseverbi»: contiene gli eventi spazio-temporali e le relazioni tra loro. Il vantaggio di raggiungere la verità, o qualcosa di più vicino alla verità, era simile al vantaggio di tenere libri contabili in numeri arabi anziché in numeri romani. Tutte le altre lingue rendevano quasi impossibile raggiungere una logica scientifica a molti valori; con lo Speedtalk era difficile non essere logici. Basta confrontare la trasparente logica di Boole con le oscurità della logica aristotelica che aveva soppiantato (12). I paradossi sono puramente verbali, e non esistono nel mondo reale: e nello Speedtalk non c'erano. Chi rade il barbiere spagnolo? Risposta: seguilo e vedrai (13). Nella sintassi dello Speedtalk il «paradosso del barbiere spagnolo» non poteva neppure venire espresso, se non come un errore evidente. Ma Joe Greene-Gilead-Briggs non poteva imparare quella lingua fino a quando non avesse imparato a udirla imparando a pronunciarla. S'impegnò a fondo: e lo schermo continuò a brillare dei suoi errori. Venne finalmente il momento in cui la pronuncia di una parola-frase, da parte di Joe, cancellò l'esempio di Gail: lo schermo si oscurò. Provò un senso di trionfo quale non ricordava di aver mai provato in vita sua. La sua gioia fu di breve durata. Per mezzo di un circuito che Gail aveva aggiunto qualche giorno prima, la macchina rispose con uno squillo di trombe, un sonoro applauso, e poi, con voce complimentosa: «Bravo cocco di mamma!» Joe si girò verso Gail. «Donna, tu hai parlato di matrimonio. Se mai riuscirai a sposarmi, ti picchierò.» «Non mi sono ancora decisa,» rispose tranquilla Gail. «E adesso prova questa parola, Joe.» Quella sera arrivò Baldwin, che prese Joe in disparte. «Joe! Venga qui. Mi ascolti, dongiovanni: tenga la sua natura animalesca fuori dal suo lavoro, o sarò costretto a trovarle un'altra insegnante.» «Ma...» «Mi ha sentito. La porti a fare il bagno, la porti a cavalcare, nelle ore li-
bere, se vuole. Ma nelle ore di lavoro... si lavora e basta. Ho dei progetti su di lei: voglio che si prepari a dovere.» «Gail si è lagnata di me?» «Non dica sciocchezze. È compito mio sapere quel che succede.» «Uhmm. Kettle Belly, cos'è quella storia cui continua ad accennare Gail? Quando dice che va a caccia di un marito? Fa sul serio, oppure fa apposta per disorientarmi?» «Lo chieda all'interessata. Non che abbia importanza: non avrà possibilità di scelta, se Gail fa sul serio. Quella ragazza ha l'inesorabile persistenza della legge di gravitazione.» «Caspita! Avevo avuto l'impressione che gli Uomini Nuovi non perdessero tempo nel matrimonio e in altre 'consuetudini delle scimmie brune', come le chiama lei.» «Alcuni sì, alcuni no. Io sono sposato da un pezzo, ma c'è una piccola donna, nella nostra organizzazione che ha avuto nove figli da nove padri diversi... tutti ragazzi meravigliosi, autentici geni. D'altra parte, posso indicarle una donna che ha undici figli, Thalia Wagner... e che non ha mai neanche guardato un altro uomo. I geni stabiliscono le loro regole personali in queste faccende, Joe: è sempre stato così. Sul conto del genio sono stati accertati certi fatti statistici, come è dimostrato dall'opera di Armatoe...» Li elencò. «I geni di solito sono longevi. Non sono modesti, non potrebbero esserlo, sinceramente. Hanno una infinita capacità di sopportare il dolore. Sono emotivamente indifferenti al codice morale accettato... stabiliscono da soli le proprie regole. Fra parentesi, lei sembra proprio averne le stigmate.» «Grazie mille. Forse dovrei avere un altro insegnante, se c'è disponibile qualcuno in grado di svolgere questo compito.» «Chiunque di noi può farlo, esattamente come chiunque sia a portata di mano insegna a parlare ad un bambino. Gail è biochimica, quando ha il tempo per farlo.» «E quando ha tempo?» «Stia attento a quella ragazza, Joe. La sua vera professione è la stessa che fa lei: onorevole sicario. Ha ucciso la bellezza di trecento persone.» Kettle Belly sogghignò. «Se vuole cambiare insegnante, mi faccia un cenno.» Gilead-Greene si affrettò a cambiare argomento. «Ha detto che aveva in vista un lavoro per me. Si tratta della signora Keithley? È ancora viva?»
«Sì, purtroppo.» «Si ricordi che io ho il diritto di opzione.» «Può darsi che debba andare sulla Luna, per raggiungerla. A quanto si sa, sta facendo costruire una villa per le vacanze, lassù. Sembra che la Vecchiaia incominci a farsi sentire: e lei farà meglio a studiare, se vuole avere una possibilità di liquidarla.» Colonia Lunare era un centro geriatrico per milionari. La bassa gravità era adatta ai loro cuori, li faceva sentire giovani... e probabilmente prolungava loro la vita. «D'accordo.» Invece di chiedere un nuovo insegnante, Joe portò una grossa mela lucida alla prima lezione. Gail la mangiò, lasciandogli poco più del torsolo, e lo fece sgobbare più del solito. Mentre perfezionava l'udito e la pronuncia di Joe, incominciò a fargli imparare il vocabolario fondamentale di mille lettere costringendolo a pronunciare semplici frasi di tre e di quattro lettere e rispondendogli in diverse parole-frasi con le stesse lettere fonetiche. Alcune delle sequenze consonanti-vocali erano molto difficili da pronunciare. Joe imparò. Era sempre stato abituato a fare le cose più facilmente della media di coloro che conosceva; e adesso era in compagnia di gente in gamba. Si sforzò e incominciò a realizzare una parte delle sue vaste capacità latenti. Quando incominciò a capire parte della conversazione che si svolgeva a tavola e a rispondere con semplici espressioni di Speedtalk, poiché Gail gli aveva proibito di rispondere in inglese, lei incominciò a insegnargli i vocabolari sussidiari. Una lingua non può limitarsi a mille parole: anche se quasi tutte le idee possono venire espresse approssimativamente in un vocabolario ristretto, sono utili degli ordini superiori di astrazioni. Per le parole tecniche lo Speedtalk usava un'espansione aperta di sessanta delle mille e più lettere fonetiche. Erano le lettere usate comunemente come numerali: facendo precedere un numero da una lettera non usata per altri scopi, il simbolo veniva indicato come avente un valore di parola. Gli Uomini Nuovi avevano una numerazione basata sul sessanta: tre per quattro per cinque. Era un sistema comodo, facilmente divisibile, più economico; per esempio, il simbolo «100» identificava il numero normalmente indicato come tremilaseicento. Tuttavia quel sistema richiedeva rapide traduzioni mentali dalla notazione comune e viceversa. Servendosi di quei numeri, ognuno preceduto dall'indicatore, una «l» muta gallese o birmana, si aveva a disposizione una massa di 215.999 parole (una di meno del cubo di sessanta) per significati specializzati, senza
bisogno di usare più di quattro lettere, compreso l'indicatore. Quasi tutte potevano venir pronunciate come monosillabi. Non avevano la spoglia semplicità dello Speedtalk basico: ma in questo modo anche parole come «ittiofago» e «costituzionalità» potevano venir comprese in monosillabi. Queste abbreviazioni possono essere apprezzate da chiunque abbia sentito un lungo discorso in cantonese tradotto in un brevissimo discorso in inglese. Tuttavia l'inglese non è la più concisa delle lingue «normali...» e lo Speedtalk ampliato è mille volte più conciso della più concisa delle lingue «normali». Aggiungendo un'altra lettera (sessanta alla quarta potenza), si potevano aggiungere all'incirca tredici milioni di parole, se necessario... e quasi tutte potevano venir comunque pronunciate come monosillabi. Quando Joe scoprì che Gail pretendeva di fargli imparare qualche centinaio di migliaia di parole in pochi giorni, protestò. «Accidenti, bella mia, non sono un superuomo. Sono qui per sbaglio.» «La tua opinione non conta niente. Credo che tu possa farcela. Adesso ascolta.» «E se venissi bocciato? Questo mi eliminerebbe dall'elenco delle tue possibili vittime?» «Se tu venissi bocciato, non ti vorrei neanche su di un piatto d'argento. Ti staccherei la testa e te la caccerei giù per la gola, invece. Ma non verrai bocciato: io lo so. Comunque,» aggiunse, «non sono sicura che diventeresti un buon marito, per me: hai il vizio di discutere troppo.» Joe fece una breve, mordente osservazione in Speedtalk; Gail rispose con un'unica parola che descriveva particolareggiatamente i suoi presunti difetti. Poi si misero al lavoro. Joe si era sbagliato. Imparò il vocabolario ampliato con la stessa rapidità con cui lo ascoltava. Aveva sempre posseduto una memoria eidetica latente: il sistema Renshaw lo aveva messo in grado di servirsene in modo completo. E i suoi processi mentali, che erano già rapidi, divennero più rapidi ancora. La capacità di parlare lo Speedtalk è già di per sé una dimostrazione d'intelligenza supernormale: e servirsene rende efficientissima quell'intelligenza. Già prima della seconda guerra mondiale Alfred Korzybski (14) aveva dimostrato che il pensiero umano, quando è efficiente, viene realizzato soltanto mediante simboli; la nozione del pensiero «puro», libero dai simboli astratti del discorso, era soltanto una fantasia. Il cervello era costruito in modo da funzionare senza simboli esclusivamente sul livello a-
nimale; parlare di «ragionamento» senza simboli è dire un'assurdità. Lo Speedtalk non serviva soltanto per abbreviare e accelerare la comunicazione: mediante le sue strutture rendeva il pensiero più logico; grazie alla sua economia accelerava enormemente i processi del pensiero, poiché pensare una parola richiede quasi lo stesso tempo che si impiega a pronunciarla. L'opera monumentale di Korzybski era caduta nell'oblio durante l'interregno comunista: Das Kapital è un testo puerile, se viene analizzato per mezzo della semantica, e perciò il Politburo aveva abolito la semantica... e l'aveva sostituita con un surrogato dallo stesso nome, così come aveva sostituito il lisenkismo alla scienza genetica. Poiché aveva a disposizione lo Speedtalk per imparare il resto dello Speedtalk, Joe lo apprese molto rapidamente. La tecnica Renshaw era proseguita; adesso era in grado di afferrare una gestalt, o configurazione, di ricordarla e di ragionarvi sopra a velocità elevatissima. Il tempo del vivere non è il tempo del calendario; la vita di un uomo è il pensiero che fluisce attraverso il suo cervello. Chiunque fosse capace di imparare lo Speedtalk aveva un tempo di associazione almeno tre volte inferiore a quello di un uomo normale. Lo Speedtalk, poi, gli permetteva di manipolare i simboli ad una velocità all'incirca tre volte superiore a quella con cui potevano venir manipolati i simboli inglesi. Sette per tre fa ventuno: un Uomo Nuovo aveva un tempo di vita effettivo di almeno milleseicento anni, calcolandolo sulla base del flusso delle sue idee. E gli Uomini Nuovi avevano tempo di diventare sintetisti enciclopedici, mentre questo era negato all'uomo normale, bloccato dalla camicia di forza del suo tempo soggettivo. Quando Joe ebbe imparato a parlare, a leggere, a scrivere e a cifrare in Speedtalk, Gail lo affidò ad altri per completare la sua preparazione. Ma prima di lasciarlo andare, gli giocò parecchi brutti scherzi. Per tre giorni gli proibì di mangiare. Quando apparve evidente che Joe riusciva a pensare e a mantenere la calma nonostante il tasso ridotto di zucchero nel sangue, nonostante il riflesso della fame, aggiunse l'insonnia e il dolore... un dolore intenso, lungo, continuato e variato. Cercò sottilmente di pungolarlo, di spingerlo ad una azione irrazionale; Joe rimaneva saldo come una roccia, e la sua mente continuava ad occuparsi dei compiti assegnati, con la stessa esattezza di un calcolatore elettronico. «Chi è che non era un superuomo?» chiese Gail, al termine dell'ultima seduta.
«Va bene, signora maestra.» «Vieni qua, stupidone.» Lei lo afferrò per le orecchie e gli diede un grosso bacio. «Arrivederci.» Joe non la rivide più per molte settimane. L'insegnante di ESP era un ometto dall'aria inefficiente, che aveva assunto il nome di Weems, a titolo di copertura. Joe non era molto abile nel produrre fenomeni di percezione extrasensoriale. Non sembrava fosse dotato di chiaroveggenza. Riusciva meglio nella precognizione, ma con la pratica non migliorò. Andava piuttosto bene in telecinesi: avrebbe potuto guadagnarsi comodamente da vivere con i dadi. Ma, come gli fece osservare Kettle Belly, dall'influenzare il movimento dei dadi allo spostare tonnellate di peso c'era una bella differenza... e forse non valeva neppure la pena di tentare. «Tuttavia può servire per altri scopi,» aveva detto sommessamente Weems, passando all'inglese. «Consideri che cosa si potrebbe fare, se si riuscisse a influenzare la probabilità che un neutrone raggiunga un particolare nucleo... oppure a cambiare la probabilità statistica in una massa.» Gilead non rispose: era un pensiero sconvolgente. Per quanto riguardava la telepatia, era discontinuo in modo esasperante. Una volta indovinò tutte le carte di un mazzo Zener (15) senza un solo errore, poi per tre settimane ottenne punteggi bassissimi. La comunicazione altamente strutturata pareva al di fuori della sua portata, fino a quando un giorno, senza cause apparenti, mentre cercava di chiamare le carte per mezzo della telepatia, si trovò collegato con Weems per dieci secondi interi... il tempo necessario per scambiarsi un migliaio di parole in Speedtalk. ma sembra un linguaggio! perché no? il pensiero è un linguaggio. in che modo ci riusciamo? se lo sapessimo non sarebbe tanto aleatorio. in effetti, alcuni ci riescono per volizione, altri per caso, e altri ancora sembra che non ne siano mai capaci, sappiamo questo: mentre il pensiero può non appartenere al mondo fisico nei modi che attualmente siamo in grado di definire e di manipolare, nella sua natura quantistica è simile agli eventi nel continuum. lei, adesso, sta studiando l'estensione del concetto di quantum a tutte le strutture del continuum, conosce il chronon, il mensum e il viton come quanta, e le unità d'azione dei quanta, come i fotoni. il continuum non ha soltanto una struttura, ma anche una consistenza in tutte le sue caratteristiche. noi chiamiamo psychon l'unità minima di pensiero. la definisca meglio.
un'altra volta, un'altra volta. posso dirle questo: la massima velocità possibile di pensiero è di uno psychon per chronon; si tratta di una costante basilare, universale. e quanto ci siamo arrivati vicini? siamo arrivati a meno di sessanta elevato a meno tre rispetto alla possibilità. !!!!!! dopo di noi verranno altri e migliori. noi gettiamo ciottoli in un oceano sconfinato. e cosa possiamo fare per migliorare? raccogliere i nostri ciottoli con mente serena. Gilead fece una pausa, per un intero secondo. gli psychon possono venire distrutti? i viton possono venire trasferiti, gli psychon... All'improvviso, il collegamento si spezzò. «Come stavo dicendo,» proseguì tranquillamente Weems, «gli psychon sono tuttora al di là della nostra capacità di comprensione, sotto molti aspetti. La teoria indica che potrebbero essere indistruttibili: che il pensiero, come l'azione, sia persistente. Rimane aperta la questione se questa teoria, nel caso che sia vera, significhi o no che anche l'identità personale rimanga persistente. Legga i giornali fra qualche centinaio d'anni... o fra qualche centinaio di migliaia.» E Weems si alzò. «Non vedo l'ora di riprovare domani, dottore.» Gilead-Greene traboccava di entusiasmo. «Forse...» «Io ho finito con lei.» «Ma, dottor Weems, quel collegamento era chiaro come una comunicazione telefonica. Forse domani...» «Abbiamo stabilito che la sua facoltà è erratica. Non abbiamo la possibilità di esercitarla in modo da renderla costante. Il tempo è troppo breve per sprecarlo... il mio tempo e il suo.» Poi, parlando improvvisamente in inglese, aggiunse: «No.» Gilead se ne andò. Durante il suo addestramento in altri campi, Joe imparò a conoscere molte cose che si possono definire come macchine impressionanti. C'era un pantografo integrante, una intera fabbrica che stava in una scatola, e che gli Uomini Nuovi intendevano trasmettere agli uomini normali non appena il sistema sociale non fosse stato più dominato da criteri economici degni dei lupi. Era in grado di riprodurre quasi tutti i prototipi collocati sul suo piano di lavoro; e per riuscirci aveva bisogno soltanto delle materie prime
e dell'energia motrice. L'energia proveniva da un piccolo motore nucleonico grande quanto il pollice di Joe; e la sua teoria sovvertiva tutte le nozioni convenzionali dell'entropia. Si mettevano dentro le «salsicce» e ne usciva il «maiale». In quella macchina era latente la configurazione di un sistema economico diverso dall'attuale quanto l'economia della catena di montaggio era diversa dal sistema della piccola officina a conduzione familiare... E in quel sistema c'erano possibilità di libertà e di dignità umana che erano scomparse da secoli, se pure erano mai esistite. Nel frattempo, gli Uomini Nuovi difficilmente acquistavano più di un oggetto per tipo... come modello. E spesso facevano loro stessi i modelli necessari. Un'altra macchina utilissima, anche se non meravigliosa, era una combinazione di dittafono, macchina per scrivere e macchina tipografica. Gli analizzatori dell'apparecchio riconoscevano ciascuno dei mille e più simboli fonetici; e c'era una sbarretta per ogni suono. Produceva una o più copie. In gran parte, la cultura acquisita da Gilead proveniva da pagine stampate con quell'apparecchio, che faceva risparmiare agli altri parecchio tempo prezioso. L'ordinamento, la classificazione e l'accessibilità della conoscenza costituisce, in ogni epoca, il problema più pressante. Per quanto riguardava gli Uomini Nuovi, la memoria completa e organizzata risolveva quasi interamente questo problema e rendeva superflua ogni documentazione scritta, la lettura e la scrittura, e soprattutto la necessità di una rilettura, che fa sempre perdere tempo prezioso. La macchina autoscrivente, combinata con una macchina «bibliotecaria» che poteva «udire» ciò che veniva scritto in Speedtalk e lo schedava, risolveva il resto del problema. Gli Uomini Nuovi non erano assillati dai pezzi di carta. Non scrivevano mai un memorandum. I sotterranei del ranch erano pieni di meraviglie tecnologiche, tutte recentissime. Manipolatori incredibilmente minuscoli per ogni genere di microchirurgia adatti per l'uso in chirurgia, chimica, biologia, stranezze cibernetiche poco meno complesse del cervello umano... l'elenco sarebbe troppo lungo. Joe non le studiò tutte: un sintetista enciclopedico si occupa delle forme strutturate della conoscenza; non può, neppure con l'aiuto dello Speedtalk, studiare i dettagli di ogni ramo dello scibile. Nei primi tempi del suo corso d'istruzione, quando era risultato chiaramente che possedeva le qualità per finire il corso, erano iniziati gli inter-
venti di chirurgia plastica per dare a Joe un'identità ed un aspetto nuovi. La sua statura fu ridotta di otto centimetri; la forma del suo cranio fu modificata; la sua carnagione fu permanentemente scurita. Fu Gail a scegliere il volto che lui avrebbe avuto; e Joe non protestò. Gli piaceva: gli sembrava che si addicesse alla sua nuova personalità interiore. Con una faccia nuova, un cervello nuovo e un nuovo aspetto, in pratica era davvero un «uomo nuovo». Prima era stato un genio naturale: adesso era un genio perfettamente addestrato. «Joe, andiamo a fare una cavalcata?» «Benissimo.» «Voglio esercitare un po' War Conqueror. Comincia a rispondere alla sella: non voglio che se lo dimentichi.» «D'accordo.» Kettle Belly e Gilead-Greene uscirono a cavallo dalle stalle. Baldwin lasciò che il giovane cavallo prendesse un tranquillo ritmo al passo e incominciò a parlare. «Immagino che sia ormai pronto per lavorare, figliolo.» Anche nello Speedtalk, il modo di parlare di Kettle Belly conservava il suo particolare sapore. «Penso di sì. Ma ho ancora quelle riserve mentali.» «Non è sicuro che siamo dalla parte degli angeli?» «Sono sicuro che siete convinti di esserlo. È evidente che l'organizzazione sceglie i suoi aderenti in base alla buona volontà e alle intenzioni umanitarie, oltre che in base alle qualità. Una volta non ero molto sicuro...» «Sì?» «Quel candidato che venne qui circa sei mesi fa, quello che si ruppe l'osso del collo in un incidente, mentre andava a cavallo.» «Oh, sì. Molto triste.» «Vuol dire molto opportuno, Kettle Belly.» «Accidenti, Joe, se una mela marcia riesce ad arrivare fin qui, non possiamo lasciarla uscire.» Baldwin parlava sempre in inglese, quando doveva imprecare: sosteneva che c'era «più sugo». «Lo so. È per questo che sono sicuro delle qualità della nostra gente.» «Oh! Adesso è la 'nostra gente'?» «Sì. Ma non sono sicuro che siamo sulla strada giusta.» «E secondo lei, qual è la strada giusta?»
«Dovremmo uscire dal nascondiglio e insegnare all'uomo comune quel che può imparare di quanto noi sappiamo. Potrebbe imparare molte cose, e potrebbe servirsene. Adeguatamente istruito e addestrato, potrebbe mandare avanti molto bene i propri affari. Sarebbe felicissimo di sbatter fuori a calci le carogne che lo tengono a guinzaglio, se sapesse come fare. Noi potremmo insegnarglielo. Sarebbe più sensato del sistema degli assassini compiuti qua e là, di tanto in tanto... Badi bene, io non mi oppongo all'uccisione di un uomo che merita di venire ucciso; dico semplicemente che è un sistema inefficace. Senza dubbio dovremmo continuare a stare in guardia in vista di crisi come quella che ha provocato il nostro incontro; ma nel complesso, la gente potrebbe mandare avanti i propri affari, se noi smettessimo di fingere di aver paura al punto di non poterci mescolare con gli altri... se uscissimo dalla nostra tana e gli dessimo una mano.» Baldwin tirò le redini. «Non mi dica che non faccio comunella con la gente normale, Joe. Vendo elicotteri usati per guadagnarmi da vivere. E non insinui che il mio cuore non è con loro. Non siamo come loro, ma gli siamo legati dal vincolo più forte di tutti, perché tutti siamo malati della stessa malattia fatale... siamo vivi. «In quanto alle uccisioni, lei non comprende i princìpi dell'assassinio come arma politica. Legga...» Kettle Belly citò un'opera. «Se io venissi liquidato, l'organizzazione non ne risentirebbe. Ma le organizzazioni create per scopi malvagi sono diverse. Sono imperi personali; se si scelgono il momento e il metodo, si può distruggere un'organizzazione di questo genere uccidendo un uomo solo... La parte che rimane sarà quasi innocua, fino a quando verrà assimilata da un altro capo... e allora uccidiamo lui. Non è un sistema inefficace; al contrario, è efficacissimo, se viene pianificato con il cervello e non con le emozioni. «In quanto alle ragioni che ci spingono a rimanere isolati: noi siamo come l'Uranio 235 e l'Uranio 238, che non sono efficaci se non separati. In ogni generazione vi sono sempre stati Uomini Nuovi potenziali: ma erano troppo rari. «Dobbiamo mantenere segreta la nostra esistenza: è assolutamente necessario, se vogliamo sopravvivere e aumentare di numero. Non vi è nulla di più pericoloso che essere il Popolo Eletto... e in minoranza. Un gruppo è stato perseguitato per duemila anni, solo perché affermava di esserlo.» Tornò di nuovo all'inglese, per imprecare. «Accidenti, Joe, affronti la situazione. Questo mondo è governato nello
stesso modo in cui mia prozia Susie guida un elicottero. Speedtalk e non Speedtalk, l'uomo comune non può imparare ad affrontare i problemi moderni. È inutile parlare del potenziale non sfruttato del suo cervello: non ha la volontà di imparare quello che dovrebbe conoscere. Non possiamo dargli dei nuovi geni; perciò dobbiamo condurlo per mano, per impedirgli di uccidere se stesso... e noi. Possiamo dargli la libertà personale, una buona misura di dignità... e lo faremo, perché crediamo che la libertà individuale, a tutti i livelli, sia la direzione giusta dell'evoluzione e abbia un valore massimo per la sopravvivenza. Ma non possiamo permettergli di giocare con problemi decisivi per la vita e per la morte. Non è in grado di farlo. «E non c'è rimedio. Ogni forma di società sviluppa una propria etica. Noi modelliamo questa società nel modo in cui siamo costretti inesorabilmente a farlo, costretti dalla logica degli eventi. Noi pensiamo di orientarla verso la sopravvivenza.» «Ma lo facciamo davvero?» chiese Gilead-Greene. «Questo resta da vedere. I sopravvissuti sopravvivono. Lo sapremo... Uh! C'è riunione!» La radio sul pomo della sella di Baldwin stava lanciando la sua chiamata personale d'emergenza. Baldwin ascoltò, poi pronunciò una sola parola in Speedtalk. «Torniamo a casa, Joe!» Girò il cavallo e si allontanò. La cavalcatura di Joe apparteneva ad una razza meno selezionata: e quindi lui fu costretto a seguirlo ad una certa distanza. Baldwin mandò a chiamare Joe poco dopo il suo rientro. Joe entrò: Gail era già presente. Il volto di Baldwin era inespressivo. Disse in inglese: «Ho del lavoro per lei, Joe. Un lavoro sul quale non avrà il minimo dubbio. La signora Keithley.» «Bene.» «Non va bene affatto.» Baldwin passò a parlare in Speedtalk. «Siamo stati colti di sorpresa. O la seconda copia di microfilm non è mai stata distrutta, oppure ce n'era una terza. Non lo sappiamo; l'uomo che poteva dircelo è morto. Ma la signora Keithley se ne è procurata una copia e se ne sta servendo. «La situazione è questa. La 'spoletta' dell'Effetto Nova è stata installata nel 'New Age Hotel'. È stata chiusa in un ricettacolo sigillato e può essere attivata solo per mezzo di un segnale radio dalla Luna... il segnale della signora Keithley. La 'spoletta' è stata regolata in modo che ogni tentativo di
impadronirsene, finché il circuito attivante è ancora armato, la farà entrare in azione. Basterebbe persino un tentativo di esaminarla per mezzo di lunghezze d'onda a penetrazione, per farla esplodere. Parlando da fisico, sono convinto che nessun piano per impadronirci della Bomba Nova potrà riuscire se prima il circuito che la arma non viene interrotto sulla Luna, e che non si debba fare alcun tentativo di impadronircene prima, perché si metterebbe in pericolo l'esistenza dell'intero pianeta, «Il circuito che arma la spola e il collegamento radio dell'attivatore si trovano sulla Luna, in un edificio all'interno della cupola privata della signora Keithley. Lei tiene sempre con sé il telecomando. Per mezzo dello stesso comando può disarmare temporaneamente il circuito: è una combinazione tra un interruttore e un meccanismo a orologeria. Può venir regolato sul 'disarmo' per un massimo di dodici ore, per permetterle di dormire, o forse per consentirle di ordinare qualche cambiamento di disposizione. Se non viene disattivato, ogni tentativo di entrare nell'edificio in cui si trova il circuito che arma la spoletta attiverà egualmente alla Bomba Nova. Quando è disarmato, nell'edificio sulla Luna si può entrare con la forza, ma questo farà suonare l'allarme che la metterà in guardia e le consentirà di riarmare e poi di attivare subito la bomba. La situazione è congegnata in modo che gli eventi devono svolgersi in questa sequenza: «Primo: la signora Keithley deve venire uccisa, e il circuito deve venir disarmato. «Secondo: bisogna penetrare nell'edificio che contiene il circuito d'armamento e il collegamento radio con l'attivatore e bisogna distruggere i circuiti prima che il meccanismo a orologeria possa riarmare e attivare la bomba. Bisogna farlo rapidamente, non solo per via delle guardie, ma perché i luogotenenti della signora Keithley cercheranno di impadronirsi del potere mettendo le mani sui comandi. «Terzo: non appena sulla Terra verremo a sapere che il circuito d'armamento è stato distrutto, il 'New Age Hotel' sarà attaccato in forze e la Bomba Nova verrà distrutta. «Quarto: non appena verrà distrutta la bomba, dovrà essere compiuta una retata generale di tutte le persone tecnicamente in grado di ricavare un Effetto Nova partendo dai soli piani. L'allarme dovrà essere mantenuto fino a quando vi sarà la certezza che non esiste più una sola copia del progetto, compresa la terza copia del microfilm; e fino a quando non si potrà stabilire, per mezzo di trattamenti ipnotici, che nessun esperto ne sa abbastanza da realizzarla anche senza il progetto. Questo allarme potrebbe
compromettere il nostro segreto. Ma è necessario correre il rischio. «Qualche domanda?» «Kettle Belly,» disse Joe, «ma quella donna non sa che, se la Terra si trasforma in nova, anche la Luna verrà inghiottita nella catastrofe?» «Le pareti del cratere riparano la sua cupola da una visione in linea retta della Terra: evidentemente, crede di essere al sicuro, in questo modo. Il male è essenzialmente stupido, Joe: nonostante la sua intelligenza, quella donna crede ciò che desidera credere. Oppure, può essere disposta a correre il rischio di morire, contro la possibilità di acquisire il potere assoluto. Ha deciso di impadronirsi del potere presentandosi come Grande Sacerdotessa della Pace... un eufemismo per Imperatrice della Terra. È una tipica deviazione paranoica: e la prova della sua pazzia sta nel fatto che ha preso tutte le precauzioni affinché, se non interveniamo, la Terra venga distrutta automaticamente qualche ora dopo la sua morte: e lei potrebbe morire da un momento all'altro. Un motivo di più per agire in fretta. Nessuno è mai riuscito a conquistare tutta la Terra, neppure i commissari politici. A quanto pare, la signora Keithley non soltanto vuole conquistarla, ma vuole distruggerla dopo la sua morte, perché nessun altro possa fare altrettanto. Altre domande?» Poi Baldwin proseguì: «Il piano è il seguente: «Voi due andrete sulla Luna e prenderete servizio come domestici presso i Copley, due vecchi coniugi molto ricchi che vivono nelle Ville di Riposo, a Colonia Lunare. Sono dei nostri. Poco tempo dopo, i Copley decideranno di ritornare sulla Terra; voi due deciderete di restare. Farete un'inserzione, offrendo i vostri servizi a chiunque sia disposto a pagarvi il viaggio di ritorno. A quell'epoca la signora Keithley avrà perduto, in circostanze cui provvederemo noi, due o più dei suoi servitori: probabilmente vi assumerà, poiché i domestici sono molto rari da trovare, sulla Luna. Altrimenti, organizzeremo una variante. «Quando sarete in casa sua, agirete in modo da mettervi in condizione di svolgere il vostro incarico. Quando tutti e due sarete pronti, vi affretterete a portare a termine le procedure uno e due. «Un certo McGinty, che vive già in quella cupola, vi aiuterà a comunicare. Non è dei nostri ma è un nostro agente, un telepata. Non sa fare altro. Il vostro collegamento sarà probabilmente questo: Gail a McGinty per telepatia, McGinty a Joe per radio miniaturizzata.» Joe guardò Gail: era la prima persona di cui avesse saputo che era telepata. Baldwin proseguì: «Gail ucciderà la signora Keithley; Joe entrerà
nell'edificio e distruggerà i circuiti. Siete pronti a partire?» Joe stava per proporre uno scambio di incarichi quando Gail rispose: «Pronta». Lui le fece eco. «Bene. Joe, lei avrà un presunto quoziente d'intelligenza pari a 85, Gail di 95; sarà Gail a sembrare l'elemento dominante della coppia...» Gail sorrise a Joe. «Ma sarà Joe a dirigere l'azione. Le vostre personalità e i vostri precedenti vengono preparati in questo momento, e saranno pronti insieme ai vostri documenti d'identità. Lasciatemi ripetere che è necessaria la massima rapidità d'azione; le forze del servizio di sicurezza del governo potrebbero tentare un attacco prematuro contro il 'New Age'. Preverremo o dilazioneremo il tentativo, ma voi agite con la massima rapidità. Buona fortuna.» La prima fase dell'Operazione Vedova Nera si svolse secondo le previsioni. Undici giorni dopo Joe e Gail erano sulla Luna, nella cupola della signora Keithley e dividevano una stanza nell'alloggio della servitù. Quando vi entrarono per la prima volta, Gail si guardò intorno e disse in Speedtalk: «Adesso dovrai sposarmi... Mi hai compromessa.» «Stai zitta, idiota! Qualcuno potrebbe sentirti!» «Puah! Crederebbero che ho avuto un attacco d'asma. Non credi che sia molto bello da parte mia, Joe, sacrificare la mia reputazione alla patria?» «Che reputazione?» «Vieni più vicino, così potrò strozzarti.» Persino gli alloggi della servitù erano lussuosi. La cupola sembrava il sogno di un sibarita. Il suolo era stato trasformato in giardino, eccettuata l'area occupata dal palazzo della signora Keithley. Di fronte al palazzo, al di là di un laghetto - l'unico laghetto della Luna - c'era l'edificio che racchiudeva i circuiti: era camuffato da tempietto dorico. La cupola era illuminata per quindici ore su ventiquattro, e quella luce escludeva il cielo nero e le stelle nude. Di «notte», l'illuminazione veniva attenuata e spenta gradatamente. McGinty faceva il giardiniere, e amava molto il suo lavoro. Gail prese contatto con lui e si fece dire quel po' che l'uomo sapeva. Joe lo lasciò in pace, a parte i contatti inevitabili per ragioni di lavoro. Il personale comprendeva più di duecento persone, e aveva una sua gerarchia sociale, partendo dagli ingegneri che si occupavano del funzionamento della cupola e delle varie apparecchiature, il pilota personale della signora Keithley, e così via fino ad arrivare agli aiutanti del giardiniere.
Joe e Gail erano a metà strada, poiché prestavano servizio nel palazzo. Gail si rese popolare per i suoi flirt innocui, pur restando la moglie sempre soccorrevole e comprensiva di un bonario marito più anziano di lei. Aveva lavorato come estetista in un istituto di bellezza, prima di «sposarsi», ed era abilissima nel massaggiare le schiene doloranti e i colli irrigiditi, nell'alleviare le emicranie e nel conciliare il sonno. Ed era sempre pronta a dare dimostrazione della sua abilità. Le sue mansioni di cameriera non l'avevano ancora portata in stretto contatto con la sua datrice di lavoro. Joe, però, aveva ricevuto l'incarico di portare «all'aperto» tutte le piante in vaso, durante la «notte»: la signora Keithley, secondo quel che diceva James, il maggiordomo, pensava che le piante dovessero venire messe «all'aperto», la notte. Joe era quindi in grado di uscire dalla casa quando la cupola era buia: ed era già arrivato al punto che la sentinella in servizio notturno al tempietto dorico lasciava qualche volta a lui l'incarico di montare di guardia, mentre si fumava una sigaretta di nascosto. McGinty era stato in grado di fornire un'informazione più importante. Oltre alla sentinella in servizio al tempietto, alle serrature e alle lastre corazzate del piccolo edificio, il circuito d'armamento veniva protetto anche da speciali meccanismi. Anche quando era inoperante come circuito d'armamento per la Bomba Nova situata sulla Terra, sarebbe esploso se fosse stato manomesso. Gail e Joe ne discussero nella loro stanza: Gail stava seduta sulle ginocchia di Joe, da moglie affettuosa, e teneva le labbra accostate all'orecchio sinistro di lui. «Forse potresti distruggerlo dalla porta, senza esporti.» «Devo essere sicuro. Senza dubbio deve esserci un comando per spegnere quel congegno. È necessario, per poter effettuare le eventuali riparazioni e le sostituzioni.» «E dove può essere?» «C'è un unico posto che corrisponda alla mentalità di quella donna. Proprio sotto la sua mano, insieme all'interruttore di disarmo e all'interruttore dell'attivazione.» Joe si massaggiò l'altro orecchio: lì c'era la radio miniaturizzata che lo collegava a McGinty, e che gli causava un continuo prurito. «Uhm... allora c'è una sola cosa da fare: dovrò costringerla a dirmi dov'è, prima di ucciderla.» «Vedremo.» Poco prima di pranzo, la «sera» dopo, Gail lo trovò nella loro stanza. «Ha funzionato, Joe, ha funzionato!»
«Che cosa ha funzionato?» «Ha abboccato all'amo. Ha sentito parlare la sua segretaria della mia bravura di massaggiatrice; ho ricevuto l'ordine di salire da lei questo pomeriggio per una dimostrazione. E adesso ho avuto l'ordine di tornare da lei stanotte; devo massaggiarla per conciliarle il sonno.» «Allora è per stanotte.» McGinty attendeva nella sua camera, dietro la porta chiusa a chiave. Joe indugiava nel corridoio, raccontando a James una sciocca storia interminabile. Una voce disse, nel suo orecchio: «Adesso è nella sua stanza.» «... e così mio fratello si è trovato sposato contemporaneamente con due donne,» concluse Joe. «Una vera disgrazia. Beh, farò meglio a metter fuori queste piante, prima che la signora chieda se l'ho fatto.» «Credo di sì. Buonanotte.» «Buonanotte, signor James.» Joe prese due vasi e uscì. Li depose «all'aperto» e in quel momento si sentì annunciare: «Dice che ha cominciato i massaggi. Ha individuato l'apparecchio radio. È nella cintura che la vecchia tiene sul tavolino vicino al letto, quando non l'ha addosso.» «Le dica di ucciderla e di prendere la cintura.» «Dice che vuol costringerla a rivelare come si disinnesca il congegno esplosivo del tempietto, prima.» «Le dica di sbrigarsi.» Improvvisamente, nella mente di Joe, chiara e dolce come il tintinnio d'una campana, quasi fosse la sua vera voce, si fece udire il pensiero di Gail. Joe, posso sentirti: e tu mi senti? si, sì! Poi aggiunse, a voce: «Resti comunque in ascolto, Mac.» non ci vorrà molto tempo. La sto facendo soffrire terribilmente: presto sarà costretta a parlare. falle tutto il male che puoi! E incominciò a correre verso il tempietto. Gail, sei ancora in caccia d'un marito? l'ho già trovato. se mi sposi, ti picchierò tutti i sabato sera. l'uomo che può picchiarmi deve ancora nascere. mi piacerebbe provare. Joe rallentò, nell'avvicinarsi alla garitta della sentinella. «Salve, Jim.»
d'accordo. «Oh, sei tu, Joey! Hai un fiammifero?» «Ecco.» Tese una mano... poi, mentre la sentinella cadeva, la distese al suolo e si assicurò che rimanesse a lungo priva di conoscenza. Gail! fai presto! La voce nella sua mente risuonò, costernata. Joe! era troppo dura, non ha voluto parlare, è morta! bene! prendi la cintura, spezza il circuito d'innesco, poi vedi se riesci a trovare dell'altro. sto per fare irruzione nel tempietto. Si avviò verso la porta dell'edificio. è disinnescata, Joe. ho individuato il circuito: ha un congegno a tempo. non posso dir niente degli altri: non sono contrassegnati e sembrano tutti eguali. Joe si tolse dalla tasca un minuscolo oggetto fornitogli dalla meticolosa organizzazione di Baldwin. girali tutti quanti in senso contrario. probabilmente azzeccherai quello giusto. oh, Joe, lo spero! Joe aveva piazzato l'aggeggio contro la serratura: il metallo, tutto intorno, si arroventò e incominciò a fondere. Da qualche parte risuonò un allarme. La voce di Gail si fece udire di nuovo nella sua mente: era concitata, ma non intimorita. Joe! stanno bussando alla porta. sono in trappola! McGinty! sia il nostro testimone! E proseguì: io, Joseph, prendo te, Gail, per mia legittima sposa... La risposta gli pervenne in un ritmo tranquillo. io, Gail, prendo te, Joseph, per mio legittimo sposo... per amarti e tenerti, proseguì lui. per amarti e tenerti, mio carissimo! nella buona e nella cattiva sorte... nella buona e nella cattiva sorte... La voce di Gail era un canto, nella sua mente. finché morte non ci divida. ho aperto, tesoro: sto entrando. finché morte non ci divida! stanno abbattendo la porta della stanza, Joseph, mio carissimo. resisti! qui ho quasi finito. l'hanno abbattuta, Joe. stanno venendo verso di me. addio, tesoro! sono
molto felice. Bruscamente, la sua «voce» s'interruppe. Joe era di fronte alla cassetta che conteneva il circuito di disinnesco, e l'allarme gli rintronava nelle orecchie. Si tolse dalla tasca un altro apparecchio e provò con quello. L'esplosione che frantumò la cassetta lo colse in pieno petto. Sulla targa metallica c'era scritto: ALLA MEMORIA DI GAIL E JOSEPH GREENE CHE, NEI PRESSI DI QUESTO LUOGO MORIRONO PER TUTTA L'UMANITÀ (1) Campo elettrico il cui uso come «guida» per veicoli da trasporto è stato più volte ipotizzato dagli autori di science fiction (N.d.C). (2) O ipofisi (N.d.C). (3) P. O. Box sta per Postal Office Box, cioè Casella Postale (N.d.C). (4) Apparecchio che codifica automaticamente i segnali in uscita: in tal modo, chi intercetta un messaggio, ottiene una comunicazione incomprensibile, a meno che non conosca il codice (N.d.C). (5) Cioè, la distruzione metodica della personalità. È la tecnica cui fu sottoposto il primate d'Ungheria Josef Mindszenty (1892-1975) che nel corso di un processo (febbraio 1949) intentatogli dal governo comunista del suo paese si autoaccusò di tradimento, sabotaggio, collusione con i capitalisti, contrabbando di valuta, ecc. Fu condannato all'ergastolo per alto tradimento (cfr. JOSEF MINDSZENTY, Memorie, Rusconi, Milano 1975) (N.d.C). (6) Significa letteralmente «pancia a calderone» (N.d.C). (7) Problema classico della meccanica celeste. Consiste nella individuazione del moto di tre (o più) corpi isolati nello spazio e soggetti esclusivamente alle mutue attrazioni gravitazionali (N.d.C). (8) In parole povere Superman, l'eroe dei fumetti, ideato dagli americani Jerry Siegel e Joe Schuster nel 1938, e noto in tutto il mondo (N.d.C). (9) Si ritiene che seminando con il novilunio le piante crescano più rigogliose (N.d.C). (10) Trofim Denisovic Lysenko (n. 1898), biologo sovietico, sostenne la trasmissibilità ereditaria dei caratteri acquisiti, in contrasto con la genetica
occidentale. La sua teoria divenne dottrina «ufficiale» dello Stato sovietico e diede luogo a persecuzioni politiche nei confronti dei biologi che non si uniformavano. Solo negli Anni Sessanta in Russia sì è rinunciato al «lisenkismo» (cfr. ZGRES A. MEDVEDEV, L'ascesa e la caduta di Lysenko, Mondadori, Milano 1971) (N.d.C). (11) Da: speed = velocità; talk = discorso (N.d.C). (12) Si tratta di una logica matematica che non postula le dieci classiche categorie aristoteliche (N.d.C). (13) Il paradosso detto del «barbiere spagnolo» è il seguente: «In un villaggio della Spagna, l'unico barbiere rade tutti gli uomini eccetto se stesso. Chi rade il barbiere?» Non un'altra persona, perché allora il barbiere non sarebbe l'unico del villaggio. Non il barbiere stesso, perché è vietato dall'impostazione della domanda. Al quesito non c'è risposta. L'unica cosa da fare - suggerisce il pratico Heinlein - è seguire il barbiere e vedere come fa... (N.d.C.) (14) Ingegnere americano di origine polacca secondo il quale l'incapacità di comprendere le parole altrui, di comunicare veramente i significati desiderati, costituiva una delle principali cause del male nel mondo: nel suo libro Science and Sanity (1933) insegnava a valutare le parole e i fatti in modo mentalmente «sano». Korzybski chiamava la sua teoria «Semantica Generale» e parlava del proprio sistema come del Non-A (non aristotelico): il sottotitolo del volume era infatti «Introduzione ai sistemi filosofici non aristotelici e alla semantica generale». Le idee di Korzybski influenzarono moltissimo uno dei «padri» della fantascienza moderna, A. E. van Vogt, che sotto il loro influsso scrisse due capolavori; Il mondo del Non-A (The World of Null-A, 1945) e il suo seguito Le pedine del Non-A (The Pawns of Null-A, 1956) (N.d.C). (15) Carte speciali raffiguranti un gruppo di cinque simboli diversi, usate per dimostrare sperimentalmente l'esistenza della telepatia e della precognizione (N. d. C). Titolo originale: GULF (Astounding Science Fiction, novembre e dicembre 1949) FINE