Per i miei genitori, Florenze ed Elizabeth Ackmann
Martha Ackmann
MERCURY 13 La vera storia di tredici donne e del sogno di volare nello spazio
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Martha Ackmann Mount Holyoke College, USA Traduzione di Cristina Ingiardi Tradotto dall’edizione inglese: The Mercury 13 The true story of thirteen women and the dream of space flight Random House, Inc. Copyright © Martha Ackmann Collana i blu - pagine di scienza ideata e curata da Marina Forlizzi Questo libro è stampato su carta FSC amica delle foreste. Il logo FSC identifica prodotti che contengono carta proveniente da foreste gestite secondo i rigorosi standard ambientali, economici e sociali definiti dal Forest Stewardship Council ISBN 978-88-470-1991-1
e-ISBN 978-88-470-1992-8
DOI 10.1007/978-88-470-1992-8 © Springer-Verlag Italia, Milano 2011 Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore, e la sua riproduzione è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla stessa. Le fotocopie per uso personale possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni per uso non personale e/o oltre il limite del 15% potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail
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Prefazione di Lynn Sherr
Alle 7.33 in punto del 18 giugno 1983, in Florida, in una tersa e radiosa mattinata, lo Space Shuttle Challenger si staccò dalla rampa di lancio in una scarica incandescente di propellente per razzi. Il nome ufficiale di quella missione, la settima nell’ambito del pionieristico Programma Space Shuttle degli Stati Uniti nato appena due anni prima, era STS-7. Ma per la maggior parte degli spettatori la missione del Challenger di quel giorno rappresentava qualcosa di molto più rivoluzionario: si trattava, infatti, del primo viaggio nello spazio di una donna americana. Sally K. Ride portava con sé, con grazia e buonumore, i sogni delle colleghe bloccate a terra. Mentre lo Shuttle sfrecciava verso il cielo con una forza che superava di gran lunga quella di qualsiasi corsa al luna park, Sally entrò subito in sintonia con gli americani sparsi in ogni dove: “Sei mai stato a Disneyland?” chiese via radio al suo interlocutore a terra, che la ascoltava da Houston. “Questa è senza alcun dubbio una corsa da biglietto E”. In altre parole, la più eccitante in assoluto. Quella mattina, mentre conducevo il servizio dell’ABC News sul lancio, anch’io ero particolarmente orgogliosa. Non si trattava solo del fatto che una di noi fosse lassù, o che altre cinque donne astronauta fossero coinvolte nella missione. A farmi sentire così soddisfatta era l’idea che sia l’essenza sia la sostanza stessa del programma aerospaziale americano con equipaggio umano fossero irrevocabilmente cambiate. Finalmente, la NASA si era decisa a raddrizzare le cose. Più tardi mi sentii addirittura meglio. Smaniosa di condividere tutta quell’eccitazione, avevo invitato mia mamma e mia sorella a seguire il lancio dal Kennedy Space Center. Quando infine riuscimmo
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Prefazione
a riunirci, dopo che l’euforia scatenata dall’avvenimento del giorno si fu placata, erano raggianti. “Fantastico”, disse in tono emozionato mia sorella che, fino ad allora, aveva assistito a fatti di quel genere solo in televisione. Mia madre, che andava per gli ottanta, condensò tutto in una frase: “Ho visto il cavallo e il calesse. Ho visto l’automobile, il treno e l’aeroplano. E adesso questo. Perfetto”. Era davvero tutto perfetto: la missione, il balzo nella parità, quella vertiginosa sensazione di realizzazione nazionale. Per quanto concerneva la protagonista dello spettacolo, poi, Sally – quella riservatissima ma anche disinvolta astronauta che era diventata mia intima amica - prima di partire, durante un’intervista, mi aveva confidato: “Mi sento sotto pressione, temo di incasinare tutto”. Non lo fece. Di fatto, nelle settimane successive divenne la persona più famosa del mondo, mentre frotte di ragazzine decidevano che da grandi avrebbero fatto le astronaute. Oggi, trent’anni più tardi, altre trentasei donne hanno volato sugli Shuttle americani, facendo praticamente tutto quello che i loro omologhi maschi hanno fatto nel vuoto dello spazio. Hanno indossato le apposite tute per le “passeggiate spaziali”, hanno azionato il braccio robotico, e hanno lanciato satelliti. Shannon Lucid ha stabilito un record di permanenza sulla stazione spaziale Mir. Nel 1995, Eileen Collins è stata la prima donna a pilotare uno Shuttle. Cinque anni dopo, è scivolata sul famoso seggiolino di sinistra, diventando la prima donna comandante su uno Shuttle. Comandante. Stiamo parlando del lavoro che fin lì era riservato solo a uomini con “la stoffa giusta”, discendenti spirituali di Flash Gordon e del capitano Kirk, quelli che da piloti collaudatori avevano sfidato la gravità e da piloti di caccia avevano sbaragliato tutti i pronostici. Ora le donne erano membri del club. Fino a oggi (2003) ci sono state trenta donne astronauta, circa un quinto del totale. Un triste segnale del fatto che le donne stanno raggiungendo la parità fa riflettere: quattro donne hanno dato le loro vite per il programma. Judy Resnik e Christa McAuliffe nel 1986, sul Challenger, e Kalpana Chawla e Laurel Clark nel 2003, sul Columbia. I loro decessi non sono stati più strazianti di quelli dei loro colleghi maschi, eppure
Prefazione
personalmente mi sono commossa in modo particolare quando, dopo l’esplosione del Challenger, la dottoressa Anna Fisher, che si era unita al programma insieme alla Resnik e alla Ride divenendo così una tra le prime donne entrate nella NASA, mi disse: “Sentirò molto la mancanza di Judy. Mi mancherà non poterci ritrovare quando saremo tutte ottantenni”. Che potesse addirittura aver immaginato una riunione chiarisce ciò che si pensa oggi delle donne nello spazio: noi diamo per scontato che le donne volino, e che magari muoiano, nello spazio. Ma in passato non era affatto così. Prima che io iniziassi a coprire la NASA, nel 1980, c’erano poche reporter donne, ancor meno dirigenti NASA donne, e nessuna astronauta americana donna. Lo spazio, come quasi tutto il resto nella società americana, era un club per soli uomini: gestito da, per e con uomini. Le argomentazioni con cui si salvaguardava quell’esclusività erano gli stessi triti pretesti che un tempo ci impedivano di esercitare la professione medica, di dirigere grandi imprese, di giocare a tennis come professioniste, e di votare. Le donne erano troppo deboli per partecipare, troppo emotive, troppo ... femminili, ecco! E, naturalmente, dopo tutto non erano qualificate. Come Martha Ackmann fa definitivamente notare nelle pagine che seguono, quel giudizio era categoricamente errato in questo caso, come in molti altri. Le donne del Mercury 13 non erano solo appassionate e determinate, ma anche estremamente dotate. Leggere dei loro successi, e scoprire la loro passione per il volo, significa rendersi conto che il governo degli Stati Uniti si è lasciato sfuggire un’incredibile opportunità. E non si trattava di casi anomali. C’erano tantissime donne qualificate, bastava prendersi la briga di cercarle e di credere in loro. Allo stesso tempo, è divertente e insieme familiare in maniera esasperante scoprire che queste donne pilota così talentuose, che tracciavano mappe dei cieli ed erano costrette a elemosinare gli aerei su cui volavano, erano costrette a incipriarsi i nasi e a controllare che gli orli delle loro gonne cadessero bene se volevano lasciare un segno. Certe cose non cambiano mai.
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Prefazione
Altrettanto stupefacente è venire a conoscenza del comportamento degli uomini. Non solo dei tanti che deridevano perfino la semplice idea delle donne in frontiera – qualcuno potrebbe insinuare che si sentissero minacciati – ma anche di tutti quelli che perorarono la causa delle donne con un’energia dirompente. Dando un’identità a quei sostenitori e fornendoci un resoconto delle loro attività, Martha Ackmann ci ha regalato un nuovo pantheon di eroi. Ogni volta che si gira una pagina di storia sociale, qualcuno commenta che delle barriere sono state abbattute per sempre, che non si tornerà più indietro e che le donne (o chiunque altro) hanno vinto e la battaglia è finita. Forse. Qualunque cosa accadrà al programma spaziale statunitense – e io sospetto che siano in agguato grandi svolte – penso che la presenza delle donne sia garantita. Ma le donne continuano a essere una minoranza. E, in ogni caso, ci sono sempre nuove quote da raggiungere. Per esempio, sulla parete del mio ufficio c’è un attestato incorniciato, ormai sbiadito dal riverbero di troppi tramonti. È il mio riconoscimento ufficiale come semifinalista nel programma della NASA “Un giornalista nello spazio”, un encomiabile tentativo – che ha avuto vita breve – di mettere uno di noi sullo Shuttle. Ero una delle quaranta persone giunte a quello stadio appena prima che l’esplosione del Challenger mettesse bruscamente fine alla competizione. Continuo tuttora a pensare che un cronista dovrebbe andare nello spazio – e continuo a offrirmi volontaria. Se non io, un’altra donna. O anche un uomo. Possiamo permetterci di essere generose, ora che le porte si sono finalmente spalancate.
Nota dell’autrice
Le tredici donne pilota americane che superarono gli esami medici per astronauti presso la mitica Lovelace Foundation non si sono mai identificate come gruppo assegnandosi un nome mentre si stavano sottoponendo ai test, tra il 1960 e il 1961. Il dottor W. Randolph Lovelace II, che in precedenza aveva somministrato quegli stessi esami agli astronauti maschi del Mercury 7, non diede un nome progettuale al programma segreto di test per le donne. La prima donna che affrontò la prova, Jerrie Cobb, in seguito fece riferimento alle donne come alle F.L.A.T. (Fellow Lady Astronaut Trainees, le “apprendiste astronaute”), ma alle altre il nome non piacque e così non prese piede. Il fatto che il gruppo non abbia mai assunto un nome collettivo contribuì alla sua invisibilità storica. A più di trent’anni di distanza dalle loro prove, l’attenzione dei media – scatenata in gran parte dal secondo lancio di John Glenn nello spazio – riaccese l’interesse nei confronti delle tredici donne e del loro ruolo nella storia del volo aerospaziale statunitense. Negli editoriali, in un documentario televisivo, nella documentazione della NASA, nel materiale di consultazione degli archivi delle biblioteche, e nelle citazioni tratte dai documenti di associazioni di donne pilota professioniste quali la Women in Aviation, International, il gruppo iniziò a essere identificato come il Mercury 13. Questo è il nome più diffuso per far riferimento a quelle donne, nonché quello che la maggior parte di loro preferisce.
Indice
Prefazione
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Nota dell’autrice
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1. La febbre dello spazio
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2. Fare il salto
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3. Programma “Ragazze nello spazio”
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4. La prospettiva da Albuquerque
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5. La lista
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6. Il Bird of Paradise
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7. Programma Venus
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8. Aspettando Pensacola
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9. Cambio di rotta
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10. Udienze congressuali: ragionevoli e opportune
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11. Postcombustione
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Epilogo. Seggiolino di sinistra
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Ringraziamenti
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Abbreviazioni
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Note bibliografiche
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Bibliografia
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1. La febbre dello spazio
Jerrie Cobb afferrò i pesanti strati di abbigliamento artico e li indossò sopra all’abito di lino color blu navy. In quell’umido pomeriggio di giugno del 1957, la temperatura sulla pista del campo di volo sfiorava già i trentatré gradi centigradi. La timida e giovane pilota dalla voce sommessa, però, non era tanto infastidita dal caldo, quanto piuttosto dai reporter che le si accalcavano attorno. Non le piaceva tutta quell’attenzione, così come non le piaceva dover rispondere a domande sul genere: “Perché ha bisogno di abiti caldi mentre cerca di stabilire un nuovo record di quota?” Faceva fatica a tradurre in parole quello che pensava, e si rendeva conto che i giornalisti avrebbero voluto trovarla più degna d’essere citata. Le domande erano prevedibili. “Miss Cobb, non ha paura? Cercare di abbattere il primato mondiale...” “Quanto freddo può arrivare a fare lassù?” “Perché una ragazza giovane e carina come lei prova il desiderio di trascorrere il proprio tempo in mezzo alla sporcizia, al sudiciume e al rumore degli aeroplani?” “E che ci dice dei ragazzi? Ha più paura di un appuntamento che di volare a sei miglia d’altezza?” Dopo aver indugiato un istante, cercò pazientemente di spiegare perché nella sua vita il volo fosse più importante di qualunque altra cosa. Era sempre difficile per lei far capire fino a che punto si sentisse appagata quando si ritrovava sola su un aereo. Si rendeva conto che le sue parole risultavano spente, e che non sarebbe mai riuscita a comunicare l’autentica passione che provava per il volo. Era più semplice tenere celati i suoi sentimenti intimi, e pensare a concentrarsi sull’impresa che voleva compiere quel giorno. Il suo obiettivo, spiegò ai giornalisti, era infrangere quello che al momento era il record mondiale di quota per gli aerei leggeri. Dal M. Ackmann, Mercury 13 © Springer-Verlag Italia, Milano 2011
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momento che l’Oklahoma stava celebrando il cinquantenario, lei era intenzionata a usare il suo talento di pilota per ottenere dei primati mondiali per il Sooner State. L’Aero Design and Engineering, una compagnia d’aviazione con sede a Oklahoma City, era stata ben lieta di patrocinare Miss Cobb prestandole il suo nuovo aereo bimotore per il volo del primato. Era un’ottima pubblicità, soprattutto dopo che Miss Cobb si era servita di un altro dei loro aeroplani per stabilire il record mondiale di distanza di volo non stop, da Guatemala City a Oklahoma City, appena cinque settimane prima. Quel giorno Miss Cobb avrebbe spinto l’Aero Commander oltre la massima altitudine mai raggiunta da quel velivolo. Era un’impresa rischiosa. I piloti collaudatori l’avevano portato fino a 27.000 piedi. Miss Cobb sperava nei 30.000. I suoi genitori speravano semplicemente che riuscisse a evitare uno stallo fatale. L’aviatrice si sottrasse alle grinfie dei cronisti per concentrarsi sugli ultimi controlli. La giovane donna era in piedi fin dalle prime luci del giorno per sottoporre i tamburi del barografo alla fumigazione. Tenendo un bastoncino di canfora vicino allo strumento, aveva ricoperto la superficie di quest’ultimo di fumo scuro. La punta acuminata di un pennino avrebbe tracciato dei graffi nella fuliggine, registrando così la quota esatta da lei raggiunta. Aveva anche respirato ossigeno puro al cento per cento per due ore, prima del volo, per preparare i polmoni all’aria rarefatta dell’alta atmosfera ripulendo il proprio organismo dall’azoto. Fece un giro attorno all’aeroplano, esaminando le cerniere del velivolo, il piano di deriva e il timone, e si mise ginocchioni per controllare la pressione degli pneumatici. Abbassò il contenitore di plastica per la raccolta e l’analisi dei campioni di carburante e studiò il colore della miscela, in cerca di depositi. Poi ne annusò l’odore acre, pungente. Restando nelle vicinanze, osservò i funzionari della National Aeronautic Association autenticare le bilance ufficiali e convalidare la classe di peso del Commander. La ragazza tenne per sé tutte le preoccupazioni legate ai pericoli del volo ad alta quota. Sapeva che a molte miglia di altezza e a grandi accelerazioni la respirazione diventa difficoltosa, la vista è indebolita, e un pi-
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lota rischia di svenire. Le era stata descritta la caduta terrificante nell’incoscienza: dapprima non si vedono più i colori, e tutto diventa grigio; poi la visione è ridotta a uno stretto tunnel; infine, tutto diventa nero. Sapeva che, al di sopra dei 12.500 piedi, avrebbe avuto bisogno delle bottiglie di ossigeno per restare cosciente all’interno dell’abitacolo non pressurizzato. Sapeva anche che, per assurdo che potesse sembrare, doveva preoccuparsi pure del proprio aspetto esteriore. Tacite consuetudini le imponevano di indossare un abito femminile e scarpe con il tacco alto sotto gli indumenti da lavoro. Le donne pilota erano tenute ad avere un aspetto da modelle quando uscivano dall’abitacolo, anche se erano state alzate tutta la notte per lavorare sui motori, immerse nel grasso fino ai gomiti. Quando si rese conto di aver scordato di portare uno specchio, necessario per dare una ritoccata al trucco appena prima di atterrare, accettò un portacipria da borsetta da un’astante. A quel punto si arrampicò nella cabina di pilotaggio dove, finalmente sola, si liberò dei tacchi alti calciandoli lontano. Volando alla normale altitudine di crociera, guardò la piatta prateria dell’Oklahoma che si estendeva sotto di lei. Poi osservò il cielo che le si dispiegava tutt’intorno. Quando vi si trovava immersa le sembrava sempre più blu di quanto le apparisse osservandolo da terra. Provava pena per le persone che trascorrevano l’intera esistenza legate al suolo. Secondo lei si perdevano un gran bello spettacolo. Mentre l’Aero Commander saliva a quota 27.000 piedi, riusciva a sentire la sollecitazione a cui erano sottoposti sia il velivolo che il suo stesso organismo. Ogni centinaio di piedi in più, infatti, comportava un maggiore affaticamento non solo per il motore dell’aereo ma anche per la sua respirazione. Inalando dell’ossigeno da una bottiglia, sollevò ancora più in alto il muso del Commander. Gli occhi incollati all’ago dell’altimetro, sembrava quasi che stesse parlando all’aereo: “Ancora un altro piede, altri due...” Più in alto volava, più la temperatura all’interno della cabina si abbassava. A trentacinque gradi centigradi sotto lo zero, il parabrezza si chiazzò di ghiaccio e gli strumenti all’interno dell’abitacolo si coprirono di brina. Volando tanto grazie al-
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l’abilità e all’istinto quanto alla strumentazione continuò a salire, determinata, centimetro dopo centimetro. Fu allora che iniziò il bip. Era scattato l’allarme dell’indicatore di stallo. Più i segnali erano ravvicinati, più il rischio di stallo si faceva significativo. Jerrie poteva abbassare l’aereo per evitare l’arresto del motore, oppure poteva continuare a prestare attenzione all’intervallo tra i suoni d’allarme, pregando di avere abbastanza tempo da riuscire ad avvicinarsi di qualche altro piede al nuovo record mondiale. L’aviatrice tornò a spingere in su con cautela il muso del velivolo, mentre immagini di disastri le si affollavano nella mente. Se il motore fosse andato in stallo, il Commander sarebbe precipitato in un avvitamento senza via di scampo, in un tuffo fatale verso il terreno, sempre più veloce, mentre le ali e la coda si spezzavano. Tornò ad ascoltare i bip. L’intervallo era abbastanza lungo da consentirle di sollevare ancora un pochino il muso? Ce l’avrebbe fatta a conquistare i piedi che la separavano dal primato? Regolando i flussi di carburante, spinse di nuovo in su il velivolo. Guardò l’altimetro che continuava a salire, sempre più in alto: 28.000 piedi, 29.000, 30.000. A 30.330 piedi il Commander iniziò a vibrare, ma Miss Cobb stava quasi sorridendo. Il record mondiale era suo. A mano a mano che riportava giù l’aereo, l’aria, più tiepida, iniziò a sciogliere il ghiaccio dai finestrini, e lei prese a respirare più facilmente, sia per il sollievo che per la quota. Fluttuando giù dalle nuvole, vide la folla che la attendeva nell’aeroporto sottostante. Adesso arriva la parte difficile, pensò. Il record mondiale già alle spalle, era ora di ravviarsi la coda di cavallo bionda, mettersi il rossetto, strizzare i piedi nelle scarpe con il tacco alto, e iniziare a parlare1 [1]. È vero che l’eloquenza non era una delle sue doti, ma Jerrie Cobb ormai avrebbe dovuto essere abituata all’attenzione della stampa che la accoglieva all’aeroporto. A ventisei anni, era già finita in prima pa1
Più tardi venne scoperto un problema meccanico nel dispositivo di misurazione del barografo che era stato fornito a Miss Cobb dai funzionari dell’autorità aeronautica, e l’aviatrice fu costretta a ripetere il volo. Ciò avvenne nel 1960, e il barografo registrò con assoluta precisione un’altitudine addirittura superiore a quella che aveva raggiunto nel 1957: 37.010 piedi.
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gina diverse volte. Era l’unica donna degli Stati Uniti ad avere portato in regioni del Sud America, Europa e Asia dei velivoli dismessi dall’Aeronautica militare. Poteva raccontare storie drammatiche di voli in solitaria sulle Ande frastagliate, di passaggi di fortuna ottenuti saltando sulle bananiere in seguito ad atterraggi d’emergenza, e di nottate trascorse in territori a dir poco inospitali, con una pistola al fianco. Miss Cobb, che concorreva nelle gare di volo femminile in tutto il Paese e nei derby internazionali, e che ora deteneva anche dei record mondiali, stava raggiungendo gli obiettivi ai quali ogni pilota di prima qualità, uomo o donna, aspira. Più di qualsiasi altra cosa, un pilota desidera andare “più in alto, più veloce e più lontano”. Queste parole costituiscono il credo dei campioni. Alcune persone celiavano sul fatto che Miss Cobb, con i suoi due recenti primati mondiali, stesse diventando la migliore arma degli Stati Uniti nella guerra fredda. Quando il mese precedente era entrata nel guinness dei primati abbattendo il record della distanza non stop, la gente di Oklahoma City aveva fatto notare che una ragazza del posto, su un aereo del posto, aveva strappato questo record a un pilota russo, maschio, che volava su un aereo russo, il Soviet Yak II. Era come se Jerrie Cobb stesse vincendo da sola tutte le gare di volo contro i russi – gare che un cronista definì “competizioni aeree Sooner-Soviet” [2]. Miss Cobb era andata sia più in alto che più lontano, e i primati mondiali ne erano la prova. Per completare la tripletta, le mancava ancora un record: quello della velocità. Nel 1959, al Las Vegas World Congress of Flight, davanti a una folla acclamante composta da settemilacinquecento persone, Miss Cobb volò da Las Vegas a San Diego e ritorno, via Reno e San Francisco, in una lotta contro il tempo, su un altro Aero Commander bimotore. Rappresentanti della National Aeronautic Association e della Fédération Aéronautique Internationale di Parigi, le autorità ufficiali preposte ai record mondiali di volo, registrarono i suoi tempi e, dopo che fu atterrata, prelevarono dal suo aereo due scatole sigillate per spedirle all’U.S. Bureau of Standards per la verifica della velocità. Quando arrivarono i risultati, si scoprì che Miss Cobb si era assicurata il terzo record mondiale, quello della
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velocità su aerei leggeri, battendo un altro pilota russo (maschio) [3]. Nel 1959, Miss Cobb era già stata eletta “Donna dell’anno per l’aviazione” dalla Women’s National Aeronautical Association, e “Pilota dell’anno” dalla National Pilots Association. Quando tornò a casa dopo aver stabilito anche il terzo primato mondiale, il dirigente delle operazioni di volo presso la Oklahoma’s Tinker Air Force Base disse che quei primati andavano considerati alla stregua di vittorie militari. Il presidente della Camera di commercio di Oklahoma City si dichiarò d’accordo. “Sembra che Miss Cobb stia strappando ai russi tutti i primati”, disse. “Forse potrebbe dare una mano al presidente Eisenhower” [4]. L’escalation delle ostilità nella guerra fredda e l’apparente indifferenza di Dwight Eisenhower nei confronti dei successi sovietici nello spazio impensierivano molto la popolazione statunitense. Appena qualche mese dopo che Miss Cobb ebbe stabilito il record di quota, il bip soprannaturale del primo satellite russo, lo Sputnik, scioccò un Paese addormentato, lo scosse fino a svegliarlo, e associò per sempre gli obiettivi militari della guerra fredda all’esplorazione dello spazio. A poche ore dal lancio, il segnale del satellite fu captato dagli operatori delle radio a onde corte e ritrasmesso dalle televisioni e dalle stazioni radio di tutti gli Stati Uniti. Gli ascoltatori trovarono quel suono, che giungeva da così lontano, avvincente e allarmante allo stesso tempo. Se i comunisti stavano conquistando lo spazio interstellare, voleva dire che erano in grado di dominare anche tutto il resto del mondo. Fu come se il presidente Eisenhower fosse l’unico americano a non aver capito fin dall’inizio l’importanza militare, scientifica e culturale del cinguettio dello Sputnik2. “I russi hanno solo lanciato in aria una piccola pallina”, commentò [5]. Altri la pensavano diversamente. Il governatore democratico del Michigan, G. Mennan Wil2
Paul Dickson, nel suo recente libro Sputnik: The Shock of the Century, afferma che in realtà Dwight Eisenhower fosse più consapevole delle conseguenze del lancio dello Sputnik di quanto non si fosse creduto inizialmente. Dickson sostiene che secondo il presidente Eisenhower lo Sputnik giustificava il concetto di “libertà dello spazio”, cosa che aprì la strada alla sorveglianza statunitense dell’azione missilistica sovietica tramite satelliti.
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liams, arrivò addirittura a comporre una poesia sull’imperturbabilità da giocatore di golf tipica di Eisenhower: Oh piccolo Sputnik che voli lassù Con il tuo bip made in Mosca, Tu annunci al mondo che il cielo è dei comunisti E intanto lo zio Sam dorme. Tu annunci sul fairway e sul rough Che il Cremlino sa tutto. Noi speriamo che il nostro giocatore di golf ne sappia abbastanza Da tenere la situazione sotto controllo. [6]
Il lancio dello Sputnik indusse l’America a riconsiderare la propria presunta superiorità in fatto di istruzione, industria e difesa. Gli insegnanti riesaminarono i piani di studio, e furono sbalorditi nello scoprire quanto gli studenti americani fossero indietro nelle materie scientifiche e in matematica. Gli scienziati studiarono lo scarto tra le conquiste tecnologiche sovietiche e quelle americane, e furono altrettanto frustrati nello scoprire il ritardo in cui versavano i risultati nazionali. Piloti avvezzi ai record, come Jerrie Cobb, capirono che “più in alto, più veloce e più lontano” acquistava un significato completamente diverso, ora che un satellite era stato lanciato in orbita. Volare nello spazio cosmico divenne la nuova frontiera per gli aviatori più in gamba. Ma battere i russi a bordo di navicelle spaziali non era affatto come batterli su degli aeroplani. Miss Cobb si rese conto che la determinazione e la competenza individuali di un pilota non sarebbero bastate per superare i sovietici nello spazio. Quella gara avrebbe richiesto uno sforzo nazionale, milioni di dollari, il lavoro di moltissime persone, e un veicolo spaziale sofisticato. Perfino il presidente Eisenhower dovette ammettere che gli Stati Uniti si erano piazzati al secondo posto nella conquista dello spazio. Nel 1958, nel tentativo di placare l’ansia generale, promulgò il National Aeronautics and Space Act, creando la NASA (National Aeronautics and Space Administration). Nonostante sia l’Aeronautica che l’Eser-
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cito che la Marina statunitensi avessero manovrato per assumere il controllo dell’ente spaziale, Eisenhower decise che la NASA doveva essere controllata da dei civili e affidò alla neonata agenzia federale l’esplicito mandato di sfidare i sovietici nella superiorità aerospaziale. Con un incarico di così alto profilo, la giovane organizzazione spaziale federale dovette affrontare miriadi di sfide, prima fra tutte quella di stabilire quale dovesse essere la sua massima priorità. Gli scienziati all’interno della NASA sostenevano che l’agenzia avrebbe dovuto porre l’accento sull’acquisizione di conoscenze scientifiche e tecniche. Il volo spaziale, dissero, non dovrebbe essere incentrato su stupide gare il cui unico obiettivo è arrivare primi. A loro non interessava se erano gli Stati Uniti a lanciare in orbita il primo satellite o addirittura la prima creatura vivente – fosse essa uomo, donna, cane o scimpanzé. Quel genere di competizioni era più adatto ai campi sportivi, e metteva in ombra gli obiettivi scientifici del volo nello spazio, ben più importanti. Altri invece, sia all’interno che all’esterno della NASA, vedevano l’esplorazione dello spazio come parte di un progetto di portata più ampia, non solo nazionale ma addirittura internazionale. Il lancio (riuscito) di un veicolo spaziale era una prova lampante del successo di un Paese e gli conferiva prestigio a livello mondiale. I lanci spaziali erano sensazionali, catturavano l’attenzione del pubblico con la loro suspense e la loro spettacolarità. Rumore assordante, lingue di fuoco incandescenti, razzi slanciati che salivano sempre più in alto nel cielo: erano effetti che sembravano nati apposta per quel nuovo mezzo di comunicazione che era la televisione. Quando i razzi partivano, quasi decollando dal salotto delle loro case, i telespettatori si sentivano coinvolti personalmente, e venivano travolti da un impeto di orgoglio patriottico. Tuttavia, l’idea di battere i russi spedendo nello spazio un uomo esercitava sul grande pubblico un’attrazione che in qualche modo mancava nell’idea di lanciare un missile privo di equipaggio, fosse anche per scopi scientifici. Ma chi sarebbe stato quel primo uomo nello spazio? Dapprincipio Eisenhower aveva pensato che gli astronauti sarebbero dovuti giungere da una varietà di professioni disparate: esploratori artici, alpinisti, meteorologi, ufficiali specializzati in
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medicina aerospaziale, palombari. La sua idea era che persone dotate di capacità e prospettive così diversificate avrebbero recato valore aggiunto all’esplorazione spaziale. Ma poi il presidente cambiò idea. Alla fine del 1958, il leader americano decise che la NASA doveva restringere il campo e scegliere gli astronauti tra i ranghi dei piloti collaudatori di jet militari, campo che escludeva le donne e includeva solo una piccola minoranza di uomini. Il mutamento nel pensiero di Eisenhower era un segnale dell’urgenza, avvertita dal presidente, di lanciare un programma spaziale con equipaggio prima che i sovietici avessero a loro volta l’opportunità di farlo. La sua decisione era basata anche sulla sua esperienza personale, sul rispetto che nutriva per il protocollo militare, e sui consigli dei funzionari della NASA. Il dottor T. Keith Glennan, primo direttore dell’agenzia spaziale, rivelò che i suoi stessi anni di servizio l’avevano convinto che i piloti collaudatori di jet militari sarebbero stati i candidati più idonei al ruolo di astronauti. Gli uomini che volavano per le forze armate erano già ammirati per la loro competenza, la loro esperienza e il loro coraggio, disse. Perché aprire il processo di selezione a qualcun altro quando invece testare un gruppo più piccolo e più facile da esaminare sarebbe stata una scelta più efficiente? Glennan espose la sua idea al presidente e, come ricorderà lui stesso in seguito, “ottenni l’autorizzazione in cinque minuti” [7]. La decisione tempestiva presa quel giorno alla Casa Bianca innescò una serie di avvenimenti straordinari che presto avrebbero fatto la storia. La disposizione di Eisenhower, però, tramandò anche un altro tipo di storia: un retaggio di esclusione. Optando per quello che era più rapido, perché conosciuto, il presidente antepose l’opportunismo all’imparzialità e non si fermò a valutare se la sua scelta stesse minacciando i principi basilari della democrazia. Non venne mai in mente, né a Eisenhower né a Glennan, che qualcuno di diverso da un uomo bianco potesse nutrire il desiderio di volare nello spazio, ed esserne capace. Quando la richiesta di candidati astronauti fu trasmessa alle forze armate, comunque, non tutti i piloti collaudatori di jet mostrarono
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interesse. Alcuni piloti della Edwards Air Force Base, per esempio, giudicarono il lavoro che già stavano svolgendo più importante di quello che sarebbe stato richiesto a degli astronauti. Sedersi in una capsula spaziale non era volare, dissero. Era farsi trasportare. Come piloti collaudatori, quegli uomini prendevano ogni giorno decisioni cruciali, volando grazie all’istinto e all’esperienza. Di certo non volevano che degli ingegneri dicessero loro cosa fare. Alcuni piloti definirono i futuri astronauti “cavie”, “carne in scatola”, niente più che “soggetti da esperimento” che venivano piazzati in una capsula e ai quali degli uomini con in mano un regolo calcolatore ordinavano di non toccare niente. In fondo, alla NASA stavano addirittura valutando la possibilità di usare degli scimpanzé, come primo carico vivente! Molti piloti collaudatori, nella loro arroganza, non accettavano di venir messi sullo stesso piano di una scimmia, per quanto eccitante potesse essere il lancio. Chuck Yeager, il più celebre pilota americano, il primo uomo ad aver infranto la barriera del suono, prese in giro gli astronauti dicendo che prima di poter volare avrebbero dovuto ripulire i sedili della capsula spaziale dalla cacca delle scimmie. Naturalmente questo non aiutò a migliorare la situazione [8]. Nell’aprile del 1959 gli americani poterono vedere per la prima volta i sette giovani uomini che avrebbero proiettato il Paese nella corsa allo spazio con equipaggio. “Ecco a voi gli astronauti americani del Mercury” annunciò Keith Glennan con grande enfasi, mentre i giornalisti presenti alla conferenza stampa della NASA esplodevano in un applauso e i fotografi prendevano d’assalto la prima fila per scattare dei primi piani [9]. Malcolm Scott Carpenter; Leroy G. Cooper Jr; John H. Glenn Jr; Virgil I. “Gus” Grissom; Walter M. Schirra Jr; Alan B. Shepard Jr; e Donald K. “Deke” Slayton: tutti americani purosangue come una marcia di John Philip Sousa, sorridenti, con i capelli a spazzola, soldati fieri ed eretti nel saluto militare, provenienti da piccole cittadine sparse per il Paese. Tra i trentadue e i trentasette anni, erano la fulgida incarnazione dell’ambiente borghese, bianco e protestante da cui arrivavano. I cronisti vollero sapere subito tutto di loro: perché volevano andare nello spazio; cosa pensavano le mogli
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del loro pericoloso lavoro; come riuscivano a conciliare le loro convinzioni religiose con l’idea dei viaggi spaziali; chi sarebbe stato il primo a venire lanciato. Seduti sul palco, quel giorno, c’erano anche altri due uomini, altrettanto impazienti di parlare del Programma Mercury quanto lo erano i sette astronauti. Il dottor W. Randolph Lovelace II, presidente del Comitato per le scienze naturali della NASA, e Donald Flickinger, generale di brigata dell’Air Force, avevano contribuito a ideare la procedura dei test medici per i candidati astronauti, test che si erano svolti presso la Lovelace Foundation ad Albuquerque e presso il Wright Air Development Center’s (WADC) Aeromedical Laboratory alla Wright-Patterson Air Force Base di Dayton. Questi due uomini ebbero un ruolo chiave nella selezione del Mercury 7. Il cinquantunenne Lovelace, personaggio affascinante e molto rispettato, era consapevole che i suoi esami erano stati spaventosi. “Spero solo che non sottopongano mai me a una visita medica” scherzò, facendo l’occhiolino agli astronauti. “Quella che hanno superato è stata una prova davvero lunga e difficile. Posso garantirvi che sono stati scelti degli uomini molto intelligenti, fortemente motivati e molto intelligenti, e che sono tutti persone speciali... Sono assolutamente entusiasta di aver avuto un ruolo nel programma” [10]. Ciò che il dottor Lovelace non disse in quel momento era che lui e Flickinger erano interessati a esaminare delle donne come potenziali membri dell’equipaggio spaziale, avendo intuito che queste avrebbero potuto presentare alcuni vantaggi che gli uomini non avevano. I due ricercatori si chiedevano per esempio se il peso corporeo femminile, inferiore a quello maschile, non le rendesse un carico migliore per i razzi americani. Alla NASA, infatti, si stavano incontrando delle difficoltà nel far alzare capsule con carichi troppo pesanti. Ogni singola libbra nel veicolo spaziale richiedeva una certa quantità di energia propellente. Inoltre, un maggiore peso umano necessitava anche di una maggiore fornitura di ossigeno e di cibo. Se si fosse riusciti a ridurre il peso all’interno della capsula spaziale, anche di poco, usando un astronauta più leggero, la capacità di propellere la capsula sarebbe diventata un problema minore. Lovelace e Flickinger erano
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anche curiosi di scoprire se le donne sarebbero riuscite a dimostrarsi all’altezza degli altissimi standard fisici stabiliti dagli astronauti del Mercury. Davvero le donne erano fisicamente più deboli, meno resistenti, meno in grado di affrontare l’isolamento, la tensione e il pericolo? Lovelace e Flickinger erano restii ad accettare l’ipotesi diffusa che voleva che le donne fossero inferiori, e desideravano valutarle scientificamente per poter confrontare i loro risultati con quelli degli uomini. Grazie al loro stretto legame con la comunità scientifica internazionale, inoltre, i due studiosi sapevano che i sovietici stavano già vagliando la possibilità di inviare delle donne nello spazio. Voci provenienti da Mosca sussurravano che l’Unione Sovietica avrebbe perfino potuto lanciare una donna nel suo primo volo orbitale, e ormai erano tutti convinti che la prima missione umana fosse imminente. Lovelace e Flickinger volevano mettere alla prova almeno una donna sugli stessi test medici che i sette astronauti del Mercury avevano appena portato a termine sotto la loro supervisione al centro Wright-Patterson e presso la Lovelace Foundation. Se anche un solo soggetto-donna fosse riuscito a superare le prove, allora forse anche altre avrebbero potuto farlo. Dovevano solamente trovare la volontaria adatta. Secondo loro, la candidata ideale era un’aviatrice particolarmente dotata. Nei mesi che seguirono la conferenza stampa, i sette astronauti del Programma Mercury divennero delle celebrità nazionali. La rivista Life raccontò le loro storie personali, accompagnandole con servizi fotografici patinati che ritraevano le loro famiglie e il rigoroso addestramento a cui venivano sottoposti alla NASA. Erano giovani, vigorosi, dotati e affascinanti. Incarnavano il mito dell’eroe in ogni suo aspetto, inclusa la brama di eccessi. La gente, pur giudicando presuntuosi, se non addirittura un po’ incoscienti, alcuni dei sette, con le loro Corvette, le Austin Healey e le dicerie su presunte relazioni extraconiugali, sembrava scusare questi loro capricci come pecche inevitabili per dei focosi ragazzi americani. Anche le mogli degli astronauti divennero famose, e le loro immagini dovettero adattarsi a un altro cliché, altrettanto familiare. Life le immortalò mentre ascol-
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tavano i racconti dei consorti sull’addestramento nella capsula spaziale, mentre tenevano loro compagnia durante lo svolgimento dei compiti a casa, o mentre prendevano lezioni di golf così da poter giocare con i coniugi. Queste fotografie, costruite ad arte, trasmettevano un messaggio ben preciso: le donne non facevano altro che osservare, aspettare, aiutare e imparare dagli uomini. Una didascalia di Life colse alla perfezione il ruolo passivo assegnato alle donne dalla società quando recitò che tre mogli di astronauti stavano provando delle maschere per il viso “per far passare il tempo” [11]. Quando gli elettori scelsero John F. Kennedy, nel 1960, molti guardarono al nuovo presidente come a un altro di quei vigorosi uomini d’azione che sarebbero riusciti a catapultare il Paese davanti ai russi, conferendo agli Stati Uniti una posizione di preminenza nel mondo e nello spazio. Kennedy sapeva di dover fare piazza pulita alla NASA, installandovi il proprio amministratore e stabilendo nuove priorità. Il direttore della NASA dell’amministrazione Eisenhower, T. Keith Glennan, aveva già rassegnato le proprie dimissioni, stanco di dover rassicurare in continuazione la gente che gli Stati Uniti stavano facendo del loro meglio per battere l’Unione Sovietica. Le critiche riguardanti l’inettitudine della NASA quando si arrivava al dunque nel lancio dei razzi ormai avevano virato verso il ridicolo. Talmente tanti razzi erano esplosi sulla rampa di lancio da essersi guadagnati dei soprannomi sarcastici. Il Navajo divenne il “Non va”. I missili Snark, che finivano di frequente nelle acque dell’Atlantico, fecero nascere le “acque infestate dagli Snark” in un gioco di parole tra Snark, il nome del razzo, e shark, squalo. Una vecchia barzelletta di Cape Canaveral sembrava insopportabilmente appropriata: “Sapete come imparano a contare i bambini di Cape Canaveral? Cinque, quattro, tre, due, uno, maledizione!” Perfino gli stessi astronauti avevano delle buone ragioni per dubitare della competenza della NASA. John Glenn non dimenticherà mai quella sera di primavera del 1959 in cui la NASA portò al promontorio gli astronauti appena scelti per farli assistere per la prima volta al lancio di un razzo Atlas. I sette uomini fissarono la torre di lancio su cui era installato il missile mentre il conto alla
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rovescia arrivava allo zero, i motori venivano accesi, il razzo si sollevava e poi esplodeva. Rimasero immobili a guardare i rottami che piovevano nell’oceano, seriamente consapevoli dei rischi personali che avrebbero corso di lì a poco. Nessuno aprì bocca, fino a quando Alan Shepard non tentò una macabra battuta: “Bene, sono contento che quello ce l’abbiano tolto dai piedi” [12]. Kennedy sapeva che l’ironia sull’incompetenza della NASA doveva cessare. Perché ciò avvenisse, doveva trovare un direttore energico per l’agenzia spaziale, qualcuno in grado di risanare la situazione e di fornire all’intera nazione un motivo per credere che gli Stati Uniti sarebbero riusciti a superare i russi nella corsa allo spazio cosmico. Quell’uomo doveva anche essere capace di risolvere le divergenze amministrative che stavano distruggendo la NASA: i dissapori tra gli scienziati, i politici e i militari su chi dovesse assumere il controllo dell’agenzia spaziale e su quale tipo di obiettivi dovesse prevalere erano infatti sempre più aspri. Ma lo staff di Kennedy non riusciva a trovare un uomo adatto allo scopo, né uno che desiderasse farlo. Era già stata depennata una dozzina di nomi dalla lista dei papabili quando il capo del comitato per lo spazio del Senato suggerì James Webb, dell’Oklahoma [13]. Noto come un efficiente amministratore, Webb era stato direttore del bilancio durante la presidenza di Harry Truman, diventando poi sottosegretario di Stato. Quando aveva lasciato Washington per trasferirsi a ovest a lavorare nell’industria petrolifera, Webb si era lanciato in una serie di iniziative di portata locale volte a promuovere l’educazione scientifica e a portare l’industria aerospaziale in Oklahoma. Aveva esortato i capi dello Stato a pensare allo sviluppo dell’Oklahoma guardando al futuro, ovvero all’aviazione e allo spazio, piuttosto che al passato, restando ancorati al mito dei cowboy [14]. A Kennedy tutto ciò piacque molto. In un nevoso pomeriggio di gennaio, pochi giorni dopo il giuramento presidenziale di Kennedy, Jerrie Cobb sedeva accanto a James Webb a un pranzo offerto dalla Camera di commercio in onore dei leader dell’industria aerospaziale del Sooner State, a Oklahoma City [15]. La donna stava covando dei segreti, ma dal suo comportamento
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tranquillo non trapelava nulla. A pochi mesi di distanza dalla conferenza stampa durante la quale erano stati presentati gli astronauti del Mercury 7, Miss Cobb aveva avuto un incontro fortuito con il dottor Lovelace e il generale Flickinger, a seguito del quale era diventata il soggetto di un test presso la Lovelace Foundation. Lovelace e Flickinger avevano trovato la loro aviatrice eccezionale. Più avanti, durante una conferenza scientifica a Stoccolma, Lovelace rivelerà i punteggi sorprendenti ottenuti da Miss Cobb durante quell’esperimento. In quel momento, in piena notte, i giornalisti si metteranno a tempestare di telefonate i genitori di Jerrie, ansiosi di rintracciare quella giovane donna taciturna che fin da subito soprannominarono “la prima donna astronauta americana”. Jerrie aveva vissuto un anno travolgente, che l’aveva resa molto più sicura di sé. Il dottor Lovelace aveva appena iniziato a sottoporre ai test altre dodici donne pilota, e lei stessa l’aveva aiutato a sceglierle. La prima candidata era già arrivata ad Albuquerque, alla Lovelace Foundation, e altre l’avrebbero seguita presto, durante la primavera e l’estate. Tutte le donne erano state vincolate al segreto, ma Miss Cobb conosceva le loro identità e le considerava aviatrici straordinarie e soggetti ideali per dei test. C’erano Jan e Marion Dietrich, due gemelle monozigote, dalla California; la giovanissima Mary Wallace “Wally” Funk, appena ventiduenne, da Taos, New Mexico; Bernice “B” Steadman, responsabile di una società d’aviazione del Michigan; Jean Hixson, ufficiale dell’Air Force Reserves, da Akron; Myrtle Cagle, istruttrice di volo, dalla Georgia; Sarah Gorelick, motorista di bordo, da Kansas City; Rhea Hurrle, pilota d’aerei privati, da Houston; Irene Leverton, pilota del servizio forestale, da Chicago; Gene Nora Stumbough, istruttrice di aviazione presso l’università dell’Oklahoma; Geraldine “Jerri” Sloan, impertinente concorrente di competizioni aeree, da Dallas; e Jane “Janey” Hart, moglie di un senatore dal Michigan [16]. Mentre portava avanti una pigra conversazione con James Webb al tavolo principale della sala, Jerrie Cobb si augurava che l’uomo non le ponesse domande riguardo alle prove che si stavano svolgendo nel New Mexico. Il giorno prima, il New York Times aveva pubblicato un
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breve trafiletto in cui riferiva che dodici donne, il cui nome non era stato reso noto, stavano per sottoporsi ai test da astronauta. Miss Cobb temeva di essere interrogata sui nomi delle donne, o su particolari che poi sarebbero finiti su un altro giornale [17]. Ma Webb non poté parlare con Miss Cobb a lungo quanto avrebbe voluto. Mentre i tavoli del banchetto venivano sparecchiati, l’uomo ricevette una telefonata dal consigliere scientifico del presidente Kennedy. Webb lasciò la pedana, uscì dalla stanza e prese la chiamata. Quello che udì lo colse di sorpresa. Kennedy voleva che si recasse immediatamente a Washington per parlare con il vicepresidente Lyndon Johnson della possibilità di assumere il comando della NASA. Pur essendo lusingato, Webb tergiversò, ritenendo che uno scienziato sarebbe stato più adatto a quel lavoro. La Casa Bianca però insistette, e alla fine Webb acconsentì a volare a Washington quella sera stessa. Dopo aver riagganciato, Webb tornò alla sua sedia a fianco di Jerrie Cobb. Gli sguardi fissi sui dessert di fronte a loro, sia Webb sia Miss Cobb si sforzarono di non far trapelare i propri segreti spaziali [18]. Dopo un incontro con Johnson e Kennedy, Webb stupì perfino se stesso quando ribaltò quello che era stato il suo primo impulso nei confronti di quel lavoro. “Non ho mai detto di no a un presidente”, affermerà [19]. Dopo pochi istanti dalla sua accettazione, Kennedy scortò Webb dalla propria addetta stampa e poi si dileguò per preparare il suo primo discorso agli Stati Uniti, che avrebbe pronunciato quella sera stessa. In piedi davanti ai giornalisti della Casa Bianca, forse un po’ stordito dall’incredibile velocità della decisione, Webb fu presentato come l’amministratore della NASA designato dal presidente Kennedy. Non appena riuscì a raggiungere un telefono, Webb chiamò la moglie per darle la notizia. Lei gli rispose che aveva appena sentito l’annuncio alla radio [20]. Quella sera, dopo soli dieci giorni di presidenza, Kennedy tenne il suo discorso alla nazione. Quella, per il giovane presidente, era l’occasione di prendere le distanze dall’amministrazione precedente, di prendere decisioni audaci e stabilire nuovi margini d’azione. Il presidente riconobbe che quello che aveva appreso negli ultimi dieci giorni
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era “sconcertante”, motivo, per la nazione, di ottimismo e di preoccupazione allo stesso tempo. Annunciò che l’economia, la difesa e anche l’esplorazione dello spazio cosmico necessitavano di un intervento aggressivo. Kennedy spiegò che, mentre gli Stati Uniti erano in vantaggio sui sovietici per quanto riguardava la ricerca scientifica sul sistema solare, i russi erano in testa nella costruzione di razzi potenti in grado di sollevare in orbita un uomo. Le rivelazioni di Kennedy sul programma spaziale non entusiasmarono gli ascoltatori più attenti. Essere i primi al mondo nel campo della ricerca scientifica non era eccitante neanche la metà di quanto lo sarebbe stato essere sul punto di lanciare in orbita un uomo. Era come dire che gli Stati Uniti erano i più bravi a risolvere le equazioni alla lavagna, mentre i sovietici stavano già materialmente facendo il conto alla rovescia per il lancio [21]. L’Unione Sovietica avrebbe lanciato una capsula spaziale con equipaggio prima ancora di quanto immaginava Kennedy. Il 12 aprile 1961, a Capitol Hill i telefoni iniziarono a squillare alle tre del mattino, non appena l’URSS comunicò che il maggiore Yuri Gagarin aveva orbitato attorno alla Terra. I cronisti chiamarono John “Shorty” Powers, la “voce del Mercury Control”, per conoscere la reazione della NASA, e scoprirono che era ancora a letto [22]. “Qui stanno dormendo tutti”, confessò Powers. Il generale di brigata Flickinger era nel bel mezzo di un briefing con la stampa a Cape Canaveral quando gli venne consegnato un biglietto. “Hanno un uomo in orbita”, comunicò in tono sommesso ai presenti [23]. La luna di miele del presidente Kennedy con il Congresso era finita di colpo, nel giro di poche ore. La gente voleva delle risposte. Il deputato della Pennsylvania, James G. Fulton, sostenne che, molto semplicemente, gli Stati Uniti non ci stavano mettendo abbastanza impegno. “Sono arcistufo di questo atteggiamento che ricorda la Mamma Hubbard della filastrocca, sempre ad affannarsi per rincorrere i russi, e sempre un passo indietro. Tutto quello che dovete fare sono un po’ di straordinari: mettetevi a lavorare ventiquattro ore su ventiquattro a qualcuno di questi programmi, invece di smontare alle cinque in punto. Ritengo che gli Stati Uniti possano permettersi questa spesa e possano affrontare del la-
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voro extra per sostenere l’onere di questa causa” [24]. L’esasperazione di Fulton era quella di molti americani: era ora di darci dentro e rimboccarsi le maniche. Qualche ora dopo, il presidente Kennedy tenne una conferenza stampa. I giornalisti non persero tempo a chiedergli se gli Stati Uniti sarebbero stati in grado di superare i russi nella corsa allo spazio, ma domandarono direttamente se ce l’avrebbero fatta almeno a raggiungerli. Kennedy strinse il pugno e colpì due volte il podio, assicurandosi che tutti, e forse lui per primo, cogliessero la realtà del momento. “A volte la situazione deve peggiorare, prima di migliorare, e ci vorrà del tempo prima che riusciamo a metterci al passo... Stiamo lavorando, mi auguro, per trovare altri territori nei quali potremo essere i primi, e che potrebbero portare vantaggi a lungo termine all’intero genere umano. Ma in questo siamo indietro.” Il presidente giocherellò nervosamente con le carte che aveva davanti, farfugliò un po’ e concluse: “Non considero il primo uomo nello spazio come un segnale che il mondo libero si è indebolito” [25]. Quella sera la CBS interruppe la programmazione ordinaria di Malibu Run per mettere in onda uno speciale di un’ora sugli avvenimenti della giornata. In apertura, l’annunciatore dichiarò che l’impresa dei sovietici sarebbe passata alla storia come una delle più grandi conquiste dell’uomo. Aggiunse che quel giorno i bambini che nascevano in Unione Sovietica venivano chiamati Yuri. A Mosca, se il tuo cognome era Gagarin la gente faceva a gara per offrirti da bere, perché tutti i sovietici stavano festeggiando. Il leader russo Nikita Kruscev si prese gioco dell’Occidente dicendo: “Ora lasciamo che i Paesi capitalisti cerchino di raggiungerci”. Intervista dopo intervista, il tono degli scienziati, dei politici e dei funzionari della NASA era di difesa, e l’ottimismo non riusciva a risultare convincente. James Webb aveva l’aspetto di un uomo con le spalle al muro. Stretto in un soprabito per difendersi dai rigori di inizio primavera, il capo della NASA tentò di minimizzare i danni subiti dall’orgoglio americano. “Quello che è successo la notte scorsa è il risultato di molti anni di lavoro. Noi ci aspettiamo di poter compiere un volo orbitale entro la
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fine dell’anno.” Un senatore che si trovava insieme a Webb durante l’intervista non riuscì a sollevare lo sguardo, e si limitò a dichiarare in tono piatto che la nazione era “indietro di nove, dodici mesi”. Un giornalista domandò se il Programma Mercury non andasse sospeso, ora che i russi avevano lanciato per primi un uomo nello spazio. L’astronauta John Glenn replicò che sarebbe stato come dire “che Chevrolet non avrebbe mai dovuto iniziare a costruire automobili, visto che Ford ci era arrivato per primo”. Eppure, per quanto tutti cercassero di razionalizzare l’orbita di Gagarin, la verità era che gli Stati Uniti non erano riusciti a lanciare il primo uomo nello spazio. I sovietici stavano sconfiggendo gli americani [26]. Meno di una settimana dopo, grandi eventi internazionali giunsero a distogliere l’attenzione di John Kennedy dalla NASA. A distanza di cinque giorni dal lancio di Gagarin, un corpo armato di esuli cubani sbarcò sulla costa meridionale di Cuba, alla Baia dei Porci. Addestrato dalla CIA, e con addosso armi fornite dal governo statunitense, più di un migliaio di ribelli prese d’assalto la riva con l’intenzione di rovesciare il regime comunista e deporre Fidel Castro. L’esercito cubano sconfisse in fretta gli insorti, uccidendo all’incirca un centinaio di ribelli e portando via gli altri dal terreno acquitrinoso con le mani alzate in segno di resa. Ci furono manifestazioni antiamericane in Europa e in Sud America. Kennedy fu aspramente criticato per quella che venne considerata un’invasione pianificata male e insufficientemente supportata dai mezzi aerei. Secondo altri, il presidente aveva commesso un errore fin dall’inizio, approvando la missione. Per Kennedy e il suo staff, quella sconfitta così umiliante proprio agli inizi del mandato presidenziale costituì un duro colpo. Era necessario risollevare gli umori del Paese, in modo che il popolo potesse avere fiducia sia nel suo leader che negli Stati Uniti. Sconfitto, frustrato, arrabbiato e pieno di vergogna, il giorno successivo Kennedy mandò al vicepresidente Johnson un memorandum in cui gli chiedeva se la NASA fosse in condizione di ottenere una conquista significativa nello spazio. Il presidente chiedeva: “Stiamo lavorando ventiquattro ore al giorno sui programmi esistenti? E, se non lo
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stiamo facendo, perché? C’è qualche altro programma spaziale che promette risultati sensazionali e nel quale potremmo vincere?” [27]. Ma prima di poter vincere nella corsa allo spazio, gli Stati Uniti dovevano mettersi in pari. Il 5 maggio 1961, alle 9.34 del mattino, Alan Shepard decollò dalla piattaforma di lancio 5, diventando così il primo uomo americano nello spazio. Il bagliore rosso proveniente dai razzi vettori del Freedom 7 illuminò la fila di vetrate del bunker di lancio in calcestruzzo dove gli ingegneri del Programma Mercury erano seduti in trepida attesa. Mentre il terreno rimbombava sotto i loro piedi, si udì un sospiro di sollievo collettivo. Quanto meno, il razzo era abbastanza potente da sollevare Shepard in aria3. Il volo di Shepard, pur essendo suborbitale e di breve durata (quindici minuti), sancì l’arrivo degli Stati Uniti nello spazio interstellare. Quel giorno, un James Webb decisamente sollevato pronunciò il discorso che desiderava, quello in cui encomiava la NASA per un lancio riuscito. Non fu costretto a servirsi di uno degli altri due discorsi che si era preparato: quello in cui comunicava al mondo che Shepard si era dovuto eiettare a causa di un guasto o l’altro, ancor peggiore, in cui annunciava la morte di Shepard [29]. Jerrie Cobb sperava di poter essere presente al lancio di Shepard, ma si trovava a New York per tenere un discorso alla Aviation/Space
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Un’ingegnere che aveva sperato di essere presente nel bunker quella mattina era Joan Fencl Bowski della McDonnell Aircraft di St Louis, la compagnia d’aviazione che aveva progettato la capsula spaziale Mercury. La Bowski aveva già ottenuto l’autorizzazione della NASA, e il permesso del suo diretto superiore per la trasferta, quando il vicepresidente della McDonnell, Walter Burke, le fece sapere che non poteva andare. Anche se né Miss Bowski né i suoi colleghi – maschi – contestarono mai quella decisione (i compagni di lavoro le dissero che parlare con Burke sarebbe stato imprudente), Miss Bowski venne poi a sapere che Burke non l’aveva lasciata andare perché alla NASA non c’erano toilette per le donne. “Era tutto così stupido”, dirà Miss Bowski. “Ero furiosa, e scoraggiata, e decisamente contrariata.” “Si trattava della prima capsula spaziale con equipaggio, e io volevo essere partecipe di tutte le fasi. Amavo quel lavoro.” Quando avvenne il lancio di Shepard, la Bowski si trovava a St Louis, a lavorare su un altro incarico per la McDonnell. Pur essendo delusa per non aver potuto condividere l’eccitante esperienza di Cape Canaveral, Miss Bowski sapeva che il suo contributo in quello sforzo di portata storica non poteva essere negato, anche se probabilmente sarebbe caduto nell’oblio. “Quel lavoro sul sistema di emergenza era mio”, commenterà con orgoglio [28].
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Writers Association. Sulla scia dell’articolo apparso sul New York Times, stavano spuntando altri articoli sulle prove in corso ad Albuquerque sulle donne pilota, e Miss Cobb aveva iniziato a raccontare del suo esame da astronauta, avvenuto poco più di un anno prima. In quel momento, Jerrie sfruttò il tempo a propria disposizione per delineare i vantaggi offerti, in campo astronautico, dal peso inferiore delle donne, e descrisse il programma sperimentale che era in corso nel New Mexico. “Queste donne si sono offerte volontarie”, disse, “e sono state addestrate ed esaminate per il ruolo di astronauta senza nessuna spesa per il governo”. Miss Cobb fece attenzione a non denigrare il coraggio e le capacità del neonato corpo degli astronauti, composto da soli uomini, ma era convinta che fosse importante far notare che alle donne non era permesso diventare astronaute perché era loro proibito diventare piloti collaudatori di jet militari. “Non vedo nessun motivo per cui non si debbano usare piloti civili”, argomentò, “permettendo così ai piloti collaudatori militari di tornare a svolgere le loro mansioni, tanto importanti per la nostra difesa”. Miss Cobb stava diventando più esplicita nell’esternare il proprio desiderio di diventare astronauta, e concluse il discorso dicendo a chiare lettere che sognava di unirsi a Shepard nella corsa allo spazio. “L’Unione Sovietica potrà anche aver messo in orbita il primo uomo, ma adesso gli Stati Uniti possono mettere nello spazio la prima donna. E qui ce n’è una pronta a salire a bordo di quel Redstone anche domani” [30]. Quello stesso giorno, più tardi, a una conferenza stampa, un esultante presidente Kennedy proclamò che la missione di Shepard era la prova che il Paese “dovrebbe raddoppiare gli sforzi” nello spazio [31]. Nell’ufficio del vicepresidente, Lyndon Johnson si affrettava a portare a termine il lavoro prima di partire per un viaggio informativo di due settimane nel Sudest asiatico, che aveva lo scopo di valutare la necessità di futuri aiuti americani a Saigon. Partendo per il Vietnam, Johnson lasciò sulla scrivania diverse pratiche ancora inevase, tra cui quella contenente la domanda del presidente riguardo agli sforzi della nazione nello spazio. Johnson inviò una direttiva alla NASA e al Dipartimento della difesa, richiedendo che gli sottomettessero entro tre giorni i loro
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rapporti sulle priorità della nazione riguardo allo spazio [32]. Anche se avere un uomo nello spazio era gratificante, nonché un vero sollievo, Johnson aveva bisogno di sapere se la NASA sarebbe stata in grado di battere i russi a breve. La reazione generale al lancio di Shepard fu travolgente. Pochi giorni dopo, la gente si dispose lungo Pennsylvania Avenue per catturare uno scorcio di Shepard e degli altri sei astronauti mentre si recavano al Campidoglio a bordo delle loro decappottabili. Kennedy prese nota con scaltrezza del sentimento della nazione. Con gli scontri razziali che erano scoppiati in Alabama tra i Freedom Riders e i segregazionisti, e la crisi politica che stava ribollendo nel Laos, il presidente degli Stati Uniti si rendeva conto che sia la sua amministrazione che l’intero Paese avevano bisogno di un nuovo slancio, che li riunisse sotto l’egida di un traguardo eccezionale. Quel fine settimana, James Webb e il personale della NASA lavorarono fino alle tre di notte alla proposta sulle priorità del programma spaziale, dopo di che trasmisero il memorandum confidenziale al segretario alla difesa, Robert McNamara, perché lo firmasse e lo consegnasse al vicepresidente Johnson. “Ciò che cattura davvero l’immaginazione del mondo è l’idea dell’uomo nello spazio, non quella delle macchine”, recitava la proposta. “Obiettivi sensazionali nello spazio sono considerati simboli della potenza tecnologica e della capacità organizzativa di un Paese... I nostri successi costituiscono un elemento di primaria importanza nella competizione internazionale tra il sistema sovietico e il nostro” [33]. Il promemoria continuava descrivendo nei dettagli gli obiettivi del Programma Apollo e dell’invio di un uomo sulla Luna. Il pomeriggio della parata di Shepard attraverso Washington, Kennedy prese una decisione [34]. Aveva trovato una competizione spaziale che valeva la pena di vincere. Il 25 maggio, davanti a un’affollata sessione congiunta del Congresso, John Kennedy descrisse a grandi linee quelle che considerava “urgenti necessità nazionali”. Il presidente sfoggiò un grande sorriso fiducioso, ed esordì: “Questi sono tempi straordinari e ci troviamo di fronte a sfide straordinarie”. McNamara sedeva in prima fila, a fianco
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del procuratore generale Robert Kennedy, e ascoltò il presidente che richiedeva un incremento della difesa in vista di un possibile attacco nucleare sovietico. I rifugi antiatomici, secondo il presidente, avrebbero protetto la popolazione dalle radiazioni. Quindi, guardando la moltitudine di senatori e membri del Congresso che aveva di fronte – cinquecentodiciotto uomini e diciannove donne – Kennedy espose in modo dettagliato i propri progetti per lo spazio. Era “tempo di una nuova, grande impresa americana”, disse. La nazione non aveva mai stabilito degli obiettivi specifici e a lungo termine per lo spazio cosmico in precedenza, e adesso doveva fare il salto sotto gli occhi del mondo intero. Facendo appello al sostegno di tutto il Paese, il presidente chiese a “ogni scienziato, ogni ingegnere, ogni militare, ogni tecnico, imprenditore e funzionario pubblico di impegnarsi personalmente affinché questa nazione possa avanzare al veloce ritmo della libertà nell’emozionante avventura dello spazio”. Concludendo, Kennedy lanciò la sua audace e storica sfida, dichiarando davanti al mondo intero che “questa nazione si impegna a raggiungere l’obiettivo di mandare un uomo sulla Luna e riportarlo a terra sano e salvo entro la fine del decennio. Nessun programma spaziale avrà mai un effetto più grande sull’umanità, o sarà più importante per l’esplorazione a lungo termine dello spazio; e nessuno sarà altrettanto difficile e costoso da realizzare” [35]. Il presidente aveva impartito i suoi ordini a James Webb: la NASA andava sulla Luna. Jerrie Cobb e le altre donne del Mercury 13 si chiedevano se sarebbero mai andate da qualche parte.
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2. Fare il salto
Non c’è da meravigliarsi che Jerrie Cobb sia diventata un’aviatrice. Trascorrete anche una sola ora in Oklahoma, e vedrete che qualunque cosa prende il volo. Pensate alla Highway 35, per esempio, che corre in direzione nord-sud tra Ponca City, dove vivevano i genitori di Jerrie, e Oklahoma City. Cartelli stradali oscillano avanti e indietro sui propri pali metallici; incarti di barrette al cioccolato, lasciati cadere dai pick-up, si incalzano lungo la corsia d’emergenza; falchi così immobili da sembrare dipinti galleggiano nel cielo su oceani d’aria. È come se in Oklahoma tutto ciò che non è fissato con dei chiodi venisse sollevato e scagliato nell’immenso cielo dell’Ovest. Jerrie Cobb fu in movimento per quasi tutta la sua infanzia. A poche settimane dalla nascita, avvenuta a Norman, Oklahoma, si trasferì a Washington insieme ai genitori, William Harvey ed Helena Stone Cobb, e alla sorella maggiore. Qui nonno Stone, un repubblicano, stava prestando servizio presso il Congresso. Ulysses Stevens Stone guadagnò e perse intere fortune in Oklahoma. Vera e propria personificazione delle alterne fasi economiche di quello Stato, Stone lavorò nell’industria petrolifera, nel settore immobiliare, in quello bancario e perfino in quello del popcorn caramellato. Fallito il tentativo di farsi rieleggere, Ulysses tornò con il resto della famiglia in Oklahoma, dove Harvey Cobb lavorò come venditore d’automobili. Qualche anno più tardi l’invasione nazista dilagò in tutta Europa, e l’unità della Guardia Nazionale a cui Harvey Cobb apparteneva venne richiamata in servizio attivo. La famiglia pertanto si spostò di nuovo, raggiungendo la base dell’Army Air Corps a Wichita Falls, in Texas, e poi a Denver, prima di rientrare finalmente in Oklahoma al termine M. Ackmann, Mercury 13 © Springer-Verlag Italia, Milano 2011
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della Seconda guerra mondiale. Helena Stone Cobb fu lieta di tornare alle proprie radici. Come il marito, si era laureata alla University of Oklahoma, e amava particolarmente mantenere i contatti con le affiliate alla Gamma Phi Beta. Un ospite delle cene a casa Cobb ricorda il modo in cui la padrona di casa era solita identificare le donne: “Vi ricordate di Sally? È una Kappa Kappa Gamma”; oppure: “Quella è Jane, è una Kappa Alpha Theta”. Sembrava quasi che, a prescindere da qualunque obiettivo una donna potesse aver raggiunto nella propria vita, niente fosse più importante per Helena Cobb della sua appartenenza a un’associazione universitaria femminile [1]. Di sicuro, la figlia più giovane avvertiva su di sé il giudizio materno. “La mamma mi voleva bene, ma non mi ha mai capita davvero”, riconoscerà in seguito Miss Cobb [2]. Helena Cobb era particolarmente sconcertata da tutto il tempo che padre e figlia dedicavano alla riparazione di un vecchio velivolo Waco a due posti che Harvey aveva acquistato a Wichita Falls [3]. D’altra parte, Jerrie Cobb sembrava seguire il padre passo passo ovunque si trovassero. Carolyn, la sorella maggiore di Jerrie, pensava che al padre sarebbe piaciuto avere un figlio. Secondo lei, “Jerrie prese il posto di quel maschio” [4]. Bazzicare i campi di volo durante l’infanzia fu un’esperienza formativa per Jerrie. Altrettanto formativo fu crescere in ambienti nuovi, spesso in mezzo a degli estranei. Jerrie affrontò la propria posizione di outsider adottando due strategie: tenere la bocca chiusa e stare da sola. Quando le prime avvisaglie di un difetto di pronuncia la portarono a farfugliare, si sentì stramba e ridicola. Più tardi, scrivendo la propria autobiografia, definirà le difficoltà di pronuncia incontrate da giovanissima una vera e propria “angoscia” [5]. Studentessa mediocre, che preferiva le attività fisiche e quelle all’aria aperta, Miss Cobb iniziò a saltare la scuola per settimane intere. Quando Harvey Cobb scoprì che la figlia marinava la scuola mentre la famiglia si trovava a Denver, la caricò in auto e la portò al Rocky Mountain National Park per un discorsetto serio. Mr Cobb sapeva di poter comunicare più efficacemente con la figlia in mezzo agli alberi e al silenzio della natura. Inoltre, lui era più bravo della moglie a ragionare con Jerrie. Harvey Cobb con-
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vinse la figlia che non avrebbe mai avuto un futuro se prima non terminava la scuola. Riluttante, lei tornò in classe, fermamente convinta di tre cose: la scuola era orribile, parlare era peggio, e il massimo del divertimento consisteva nello starsene da sola [6]. Fare appello ai progetti di Jerrie per l’avvenire fu una mossa scaltra da parte di Harvey Cobb. Lei sapeva perfettamente cosa le piaceva, e cosa desiderava fare. Voleva pilotare aeroplani. Dopo esser riuscito a far funzionare di nuovo il Waco, Harvey aveva portato la figlia a fare un giro. Per la dodicenne Jerrie, volare era equivalso a trovare il proprio posto nel mondo. Il padre, seduto davanti con addosso degli occhialoni da aviatore, e Jerrie, appollaiata dietro su dei cuscini, portarono il biplano fino a mille piedi d’altezza. A quel punto, Harvey Cobb sollevò entrambe le mani per segnalare che l’aereo era tutto di Jerrie. Lei allora afferrò la cloche che aveva di fronte e la spostò in avanti, indietro, a destra e a sinistra. Sbalordita nello scoprire fino a che punto il Waco rispondesse a ogni sua mossa, la ragazzina si innamorò di quanto volare la facesse sentire sicura di sé [7]. Quando la famiglia si trasferì da Denver a Oklahoma City, Jerrie Cobb entrò nel penultimo anno alla Classen High School. Come per molte altre cose a Oklahoma City, tutto alla Classen ruotava attorno all’era spaziale. Le squadre sportive si chiamavano le Comets; l’annuario era l’Orbit. L’architetto futurista Buckminster Fuller avrebbe progettato una cupola geodetica per la Bank of Tomorrow, sulla vicina Route 66. Alla Classen, Jerrie incontrò un’anima gemella, che casualmente era anche un istruttore di volo certificato. L’insegnante di matematica, nonché allenatore della squadra di football della Classen, J.H. Conger, aveva appreso l’arte aviatoria dal famoso pilota Wiley Post. Molto prima di compiere il primo volo intorno al mondo in solitaria, Post era un giovane bracciante agricolo dell’Oklahoma che dava lezioni di volo su aerei che Conger più tardi ricorderà come “vecchi aerei su cui adesso avrei il terrore di salire” [8]. Sotto la tutela di Conger, Miss Cobb imparò a pilotare l’Aeronca della scuola, e il giorno del suo sedicesimo compleanno volò per la prima volta senza istruttore. Lavorando di notte e durante i fine settimana, mise da
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parte il denaro necessario a pagarsi altre lezioni e riuscì a prendere il brevetto di pilota privato il giorno del suo diciassettesimo compleanno. Il brevetto di pilota commerciale arrivò a diciotto anni. Quando si diplomò alla Classen, tutto quello a cui riusciva a pensare era acquistare un aeroplano e guadagnarsi da vivere come pilota. Aveva addirittura ideato un piano [9]. Oltre al Coach Conger, Jerrie aveva trovato anche un altro motivo per andare a scuola: le piaceva giocare nella squadra di softball. Così, una volta terminato il liceo, la ragazza fece un patto con i genitori: se fosse riuscita a entrare nel giro del softball femminile professionistico, avrebbe differito di un anno l’ingresso al college. Dopo aver iniziato la stagione con la Perfecut Manufacturing di Oklahoma City, ottenne un contratto con la Oklahoma City Downtown Chevrolet Sooner Queens. Le giocatrici, in gonna e blusa di seta, attiravano molti fan fedeli: a volte c’erano anche milleseicento spettatori a partita [10]. I cronisti seguivano regolarmente le squadre, dedicando loro articoli che spaziavano da quelli seri, incentrati sulle giocate decisive, a quelli frivoli dai titoli allusivi come “Il softball è tornato... e con le curve” [11]. Nella migliore delle ipotesi, la copertura sportiva trasmetteva alle donne dei messaggi contrastanti: siate aggressive, ma agite con modestia. Jerrie Cobb si occupava dei lavori sporchi per la squadra, quali rastrellare le corsie tra le basi e ripulire i tacchetti dai grumi di fango [12]; eppure, sapeva anche che la gente si aspettava che lei fosse compiacente, che usasse un tono di voce suadente, e che fosse sessualmente attraente. Si trattava della stessa regola alla quale si sarebbe attenuta mentre stabiliva i suoi tre primati mondiali sugli Aero Commander: fai il pieno dell’olio al tuo aereo, tira fuori la tua cassetta degli attrezzi e aggiusta tutto quello che si rompe in volo, ma quando atterri assicurati di indossare i tacchi alti, e che il tuo rossetto sia a posto. Il softball ricompensò Miss Cobb quando le permise di pagarsi un Fairchild PT-23 della Seconda guerra mondiale, dismesso, mentre si trovava in trasferta a Denver per il campionato. Jerrie convinse la Sooner Queens ad anticiparle il denaro necessario per l’acquisto dell’aereo bordeaux scuro e giallo, che chiamò “Par-a-dice Lost” [13]. Il softball per lei era
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solo un mezzo per raggiungere uno scopo e così, dopo innumerevoli viaggi verso partite lontane schiacciata nel retro di una station wagon, e dopo un indimenticabile strike out alla fine del nono inning con basi occupate e conto pieno, Miss Cobb mise fine alla propria carriera da giocatrice professionista di softball [14]. Quando tornò a rivolgere la propria attenzione alla scuola, scelse l’Oklahoma College for Women a Chickasha, e non l’Oklahoma University che era stata frequentata da tre generazioni della sua famiglia. Quello che la attraeva alla OCW non erano tanto le lezioni di psicologia, o di sociologia, o quelle di fondamenti di giornalismo che frequentò durante il suo anno da matricola, ma piuttosto i corsi di aviazione che il college offriva tramite la Orville George Flying School. Oltretutto, il college si trovava vicino al Chickasha Municipal Airport. Qui, dopo le ore di scuola, Jerrie svolgeva alcuni lavoretti: qualche manutenzione generica, e qualche volo per irrigare le colture con i pesticidi [15]. Pilota più in gamba rispetto agli altri studenti del corso, la Cobb richiese espressamente una stanza singola, senza compagna, dove rimase ad attendere la propria occasione. Nonostante la decisione di recarsi all’OCW fosse maturata sulla scorta di ragionamenti ben ponderati, al college Jerrie visse spesso esperienze penose. Come in molte scuole femminili della fine degli anni Quaranta, anche all’OCW la missione primaria era preparare le giovani donne a diventare delle perfette padrone di casa. “Dal momento che la casa è l’istituzione fondante della società”, recitava l’elenco dei corsi, “lo studio delle regole sociali ruota attorno all’idea della cura della casa come vocazione”. C’erano lezioni sull’aspetto personale, sui cosmetici e sull’abbigliamento; lezioni di impostazione della voce, di dizione, di conversazione e di bon ton. In particolare, si dava una grande importanza ai corsi di dizione. Ogni studentessa doveva consegnare agli insegnanti una registrazione della propria voce affinché fosse analizzata; e ogni matricola doveva frequentare il corso di oratoria [16]. Il corso di oratoria di Miss Cobb si concluse con un disastro. Quando un giorno si recò a lezione impreparata, l’insegnante le assegnò un discorso estemporaneo di cinque minuti sui cappelli. Miss
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Cobb esordì parlando dell’unico cappello che avesse mai posseduto, un cappello nero, che indossava per recarsi in chiesa. Poi passò a descrivere i copricapo che gli aviatori erano soliti calzare negli abitacoli aperti, e i berretti usati dai ricevitori, dagli arbitri e dagli esterni, ovvero tutto ciò che le era familiare. Era passato un minuto. Ne restavano quattro. Quando il professore la invitò a continuare, Miss Cobb si rifiutò e abbandonò l’aula. I suoi genitori dovettero riconoscere che l’Oklahoma College for Women non faceva per lei. Onorata la sua promessa di provarci, e chiuso il capitolo del college, Jerrie si concentrò su come guadagnarsi da vivere [17]. Dopo aver dato le sue prime lezioni di volo a Oklahoma City, fece ritorno a Ponca City, dove il padre gestiva una concessionaria di automobili dal 1950. “Il momento in cui mi trovavo più vicina a un aereo era quando me ne passava uno sopra la testa”, ricorderà poi [18]. Per diversi mesi Jerrie diede una mano alla Cobb Pontiac and Chevrolet, pilotando solo occasionalmente un aereo, allorché le capitava di portare qualche dirigente dell’industria petrolifera a una riunione fuori città. Morendo dalla voglia di passare più tempo nell’abitacolo, e desiderando un po’ di sana competizione, passò al vaglio le gare femminili di volo e decise di iscriversi a diversi derby. Queste gare, e in particolare la All Women’s Transcontinental Air Race (AWTAR), erano sfide molto impegnative che mettevano duramente alla prova le capacità delle aviatrici, a dispetto del fatto che il nomignolo coniato dall’umorista Will Rogers in occasione di una delle prime gare, “Derby del piumino da cipria”, avesse attecchito. Le competizioni erano anche degli eventi mondani lungamente attesi. Gli impegni di lavoro venivano fissati in base al calendario delle corse, e la routine delle famiglie veniva stravolta in modo da permettere alle madri di allontanarsi temporaneamente dai propri figli per ritrovarsi con le altre aviatrici. La maggior parte delle donne volava in squadre composte da pilota e copilota, che indossavano tenute coordinate. Tutte le aviatrici erano membri della Ninety-Nines, l’associazione internazionale di donne pilota fondata da Amelia Earhart. Le NinetyNines, ovvero le “Novantanove”, dovevano il proprio nome al fatto
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che quando la Earhart nel 1929 aveva inviato la lettera nella quale esprimeva l’intenzione di costituire un gruppo di donne pilota aveva ottenuto novantanove adesioni (nel 1960 il gruppo vantava più di milletrecento iscritte, e settanta sezioni sparse per il Paese [19]). Al termine di ogni gara le donne, che avevano in comune la passione per il volo, si ritrovavano per banchetti gioiosi e festicciole improvvisate che spesso duravano fino a notte fonda. I banchetti erano memorabili e l’abbigliamento era considerato estremamente importante, esattamente come lo era durante le gare. Le donne indossavano di tutto, dalle giacche Pendleton con scarpe con la banda in contrasto e calzini corti a formali abiti da sera lunghi [20]. Fu proprio durante una di queste gare, quella del 1958, che avvenne l’incontro tra Miss Cobb e Jerri Sloan, pilota di Dallas e futuro membro del Mercury 13. Le due donne non avrebbero potuto essere più diverse. Miss Sloan era una grande conversatrice, il tipo di persona che racconta aneddoti divertenti intercalandoli qua e là con delle frasi imbarazzanti. Aveva lo straordinario talento di esprimere le proprie opinioni perentorie su tutto, in particolare sulla politica, e di riuscire allo stesso tempo a mettere a proprio agio praticamente chiunque. Anche se eri in disaccordo con Jerri Sloan, non potevi fare a meno di amarla. Seppur silenziosa e modesta, Jerrie fece colpo su Miss Sloan. “Jerrie era tranquilla... e io no”, dirà quest’ultima. “Forse si è trattato dell’attrazione degli opposti.” Miss Sloan aveva ragione. A Jerrie Cobb piacevano le persone socievoli e alla mano. La sollevavano in parte dall’onere della conversazione, parlando anche per lei. “Jerri mi piaceva: mi piacevano la sua cordialità semplice, il suo dire pane al pane, il suo umorismo degno del miglior stile texano, e la sua dedizione al volo”, spiegherà in seguito Miss Cobb. Tre anni dopo il loro primo incontro al “Derby del piumino da cipria”, Miss Cobb si assicurerà che il dottor Lovelace inviti l’energica Jerri Sloan a partecipare ai test per astronaute di Albuquerque [21]. Nella sua prima competizione aerea, Jerrie Cobb volò in solitaria nel Dallas-to-Topeka Skylady Derby, piazzandosi al terzo posto. Successivamente prese parte a una gara su territorio nazionale, sempre
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volando in solitaria, da Santa Ana al New Jersey, e arrivò quarta. In una sfida internazionale dall’Ontario a New Smyrna Beach in Florida, la nostra conquistò di nuovo il quarto posto, ma questa gara le portò in dono qualcosa che valeva ben più di un trofeo: le fece scoprire la Florida. L’aviatrice dell’Oklahoma si innamorò del sole, delle spiagge infinite, dello scintillio di quello Stato che nei decenni successivi sarebbe diventato teatro di molti avvenimenti chiave della sua vita. Jerrie aveva l’impressione di imbattersi in nuove opportunità ogni volta che metteva piede in Florida. Durante quella prima visita, i colleghi le garantirono che Miami era “la” porta d’accesso per l’aviazione, in America [22]. Miss Cobb iniziò immediatamente a cercare lavoro. Mentre si avvicinava al banco del servizio clienti dell’Aerodex, al Miami International Airport, Jack Ford sicuramente non si aspettava di trovare una nuova dipendente nella donna riservata che gli diede una mano con il suo ordine di riparazione [23]. La compagnia di Ford, la Fleetway Inc., un servizio di trasporti aerei internazionali trasferitasi dalla California, scovava vecchi aeroplani militari dismessi, li rimetteva a nuovo, e poi li rivendeva a clienti di tutto il mondo, come la Peruvian Air Force. Ford aveva bisogno di piloti capaci di trasportare gli aerei in luoghi lontani, di lavorare da soli, di mangiare del cibo che non sempre riconoscevano, di dormire ovunque ci fosse un posto asciutto e sicuro e di saltare sul primo volo commerciale di ritorno negli Stati Uniti. I suoi uomini dovevano possedere una casella postale più che un appartamento o una casa, e dovevano essere liberi da legami familiari (che avrebbero richiesto una presenza affidabile), così da essere disposti a ripetere daccapo l’intero ciclo del volo ogni dieci giorni. Jerrie Cobb, che stava dietro al bancone, era perfetta per quell’incarico. Come prova, Ford le chiese di seguirlo in Perù su un T6. A un certo punto, in Colombia, il velivolo di Ford ebbe bisogno di pezzi di ricambio e fu trattenuto a terra. Jerrie proseguì da sola fino a quando l’esercito ecuadoregno non la arrestò per presunta attività spionistica, confiscandole l’aereo. Solo dopo diversi giorni Jerrie finalmente ricevette dal governo l’autorizzazione al decollo, e poté ripartire [24]. Date
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le tensioni politiche latenti tra l’Ecuador e il Perù, e dato che pilotava un aereo che era considerato un velivolo militare peruviano, il suo rilascio fu un vero colpo di fortuna. L’incidente da cardiopalmo, perlomeno, servì a comprovare la sua competenza, dimostrando che era in grado di destreggiarsi in un territorio fisicamente e politicamente sconosciuto mantenendo la calma e senza lasciarsi spingere ad azioni avventate o inutili. Nei successivi voli in Sud America, Miss Cobb si dimostrò sempre coraggiosa e non si lamentò mai, pur dormendo spesso a bordo del suo stesso aereo, coperta da una tela cerata per ripararsi dalla pioggia [25]. La sua fiducia in se stessa e la sua indole salda, quasi granitica, erano una grande risorsa nelle situazioni difficili, così come la pazienza straordinaria di cui diede sempre prova. Nel giro di poco tempo, Miss Cobb stava già volando in solitaria per la Fleetway in tutto il mondo, a bordo di una sempre crescente varietà di velivoli, ivi inclusi il B-17, il C-46, il DC-3, e l’anfibio PBY-5A. “Mi abituai presto a essere considerata una tipa stramba: la donna nordamericana che pilota gli aerei. E vivere alla buona non era una novità”, osserverà lei. “Ero avvezza a trascorrere lunghe ore senza riposo né compagnia, a muovermi rapidamente, a cavarmela in luoghi sconosciuti” [26]. Per Jerrie Cobb, il lavoro alla Fleetway era un sogno. Per qualcuno il cui primo viaggio attraverso gli Stati Uniti continentali era consistito nella competizione aerea Santa Ana-New Jersey, visitare città internazionali dall’Europa all’India era un’avventura strabiliante. Acquistò tappeti di lana di lama e collezionò monete di ogni nazione nuova in cui si recava. Era altrettanto soddisfatta che la sua famiglia fosse orgogliosa della giovane figlia giramondo. Jerrie scoprì un genere di vita che le si addiceva, caratterizzato dalla solitudine e dal movimento. Trascorreva le sue giornate da sola, fluttuando in una condizione che una volta descrisse come “un meraviglioso stato di silenziosa solitudine” [27]. Fermandosi a terra giusto il tempo necessario a fare rifornimento di cibo e benzina o a sbrigare gli affari della Fleetway, ripartiva ad ali spiegate per il mondo. Era pienamente appagata. Innalzarsi in volo sulle foreste pluviali tropicali del Sud America le diede la stessa sensazione di pace che aveva provato per la
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prima volta quando aveva volato da sola in Oklahoma. Guardandosi indietro, più tardi, Miss Cobb ricorderà che “per una bambina che diffidava dei discorsi comuni, di tutti i giorni; per un’adolescente che anelava alla libertà dei campi e del vento; per una ragazza che aveva imparato a stare da sola... il cielo era la risposta” [28]. Lavorare con la Fleetway rappresentava un’occasione rara per una donna pilota. Miss Cobb riuscì ad accumulare centinaia di ore sul suo giornale di bordo, e acquisì un’esperienza eccezionale pilotando un’enorme varietà di velivoli in condizioni climatiche incerte, sorvolando aree che mettevano duramente alla prova e che talvolta erano decisamente pericolose. Eppure, nell’autunno del 1955 Jerrie lasciò il lavoro. Lei e Jack Ford avevano intrecciato una relazione sentimentale che Miss Cobb descrisse come “piena di incontri improvvisati in luoghi esotici” [29]. Ma l’idillio ebbe vita breve: la ragazza amava di più il volo e la solitudine. Considerava il matrimonio tra piloti “privo di fascino; denso solo di frustrazioni, ansia, e assenze” [30]. Quattro anni dopo aver lasciato la Fleetway, Jerrie venne a sapere che Jack Ford era rimasto ucciso sulla Wake Island. Il suo aereo era esploso subito dopo il decollo. La rivista Flight scriverà che Jack Ford era talmente intento a diventare un pilota perfetto che divenne “fuori posto e privo di senso pratico in qualunque luogo che non fosse l’aria” [31]. Questo brano avrebbe potuto benissimo essere la descrizione di Miss Cobb. Dopo aver lasciato la Fleetway, Jerrie si ritirò un’altra volta a Ponca City per valutare la mossa successiva. Un’agenzia telegrafica nazionale decise di commissionare un profilo della giovane donna che stava catturando l’attenzione come ferry pilot internazionale. La stesura del servizio venne affidata a Ivy Coffey, una giornalista dell’Oklahoma. Miss Coffey fissò un appuntamento e si recò in Cleary Avenue, alla curata abitazione in arenaria dei genitori di Jerrie. Quell’intervista fu “la più difficile che io abbia mai fatto”, scriverà Miss Coffey. Miss Cobb rispose a monosillabi; le sue risposte “consistevano per lo più in un secco rifiuto”. Il suo modo di fare sconcertò Miss Coffey, che provò a deporre matita e bloc-notes per allentare l’ansia dell’interlocutrice. Dopo la quinta domanda, Ivy si rese conto che Miss Cobb non era ma-
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leducata, ma “modesta e riservata a tal punto da essere impacciata”. Alla fine fu la madre di Jerrie a dare una mano, facendo il possibile per far uscire la figlia dal suo guscio. L’intervista “arrivò zoppicando al termine” [32]. Tuttavia, quell’incontro non fu per niente un insuccesso. In parte per le stesse ragioni per le quali Jerrie aveva apprezzato la socievole Jerri Sloan, le piacque anche Ivy Coffey. In seguito, con una sfacciataggine per lei insolita, Miss Cobb invitò Miss Coffey a pranzo e la ringraziò per l’articolo, scusandosi per non essere stata molto loquace. Le due donne diventarono amiche, e diversi anni dopo Jerrie stupirà Ivy dicendole: “Tu mi conosci meglio di chiunque altro”. Ivy Coffey, in realtà, considerava Jerrie Cobb un vero enigma [33]. Miss Cobb stava diventando un’aviatrice di fama mondiale. In Francia, la Fédération Aéronautique Internationale omaggiò Jerrie delle ali d’oro. Solo altri tre americani prima di lei erano stati insigniti di quell’onorificenza. L’Aero Design and Engineering Company di Oklahoma City si rese conto che grazie a Miss Cobb il suo affusolato Aero Commander aveva ottenuto pubblicità e attenzione su scala mondiale. Tom Harris, un ex dirigente della American Airlines, ora vicepresidente e direttore generale della Aero Design, offrì a Miss Cobb una posizione fissa nella compagnia come pilota di voli privati e direttrice pubblicitaria e commerciale [34]. Come il resto del mondo dell’aviazione, anche Harris stava iniziando a pensare che Jerrie Cobb stava diventando talmente conosciuta da poter essere la futura Jacqueline Cochran. E tutti sapevano che Jackie Cochran era l’aviatrice più famosa del Paese. A cinquantatré anni – o, perlomeno, quella era l’età che le attribuiva la maggior parte della gente, mentre lei spesso si professava più giovane – Jacqueline Cochran aveva raggiunto tutti gli obiettivi ai quali una donna pilota potesse aspirare: era una gloria della Seconda guerra mondiale, era stata presidentessa della Ninety-Nines di Amelia Earhart, aveva ottenuto primati mondiali ed encomi presidenziali, ricchezza, celebrità e accesso al potere. Nessun altro riceveva lo stesso trattamento che veniva riservato a Jackie quando faceva il suo ingresso in una stanza piena di donne pilota: si alzavano tutte in piedi. Molte donne scattavano sull’attenti in segno di rispetto, ma la mag-
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gior parte lo faceva per paura [35]. Jackie Cochran era stata implacabile nella propria corsa alla notorietà aviatoria, e questo spesso aveva significato travolgere chiunque si trovasse sulla sua strada. Pur essendo la portabandiera delle donne aviatrici, non era per niente una sostenitrice delle donne in quanto singoli individui. Aveva spalancato le porte dell’aviazione alle donne solo per poter essere la prima a entrarci. Finché lei poteva essere la numero uno, non le interessava chi la stesse seguendo, purché le stesse ben lontano e, soprattutto, dietro. Pur avendo raggiunto l’apice della sua fama pilotando aerei a elica, Jackie Cochran non diede alcun segno di volersi fermare quando l’aviazione entrò nell’era degli aerei a reazione. Dopo lo storico lancio di Alan Shepard, un cronista domandò a Jackie Cochran se avesse qualche progetto per il volo spaziale. “Non riesco proprio a immaginare come l’era spaziale potrebbe ignorarmi”, fu la sua risposta [36]. Nessuno conosceva per intero la storia della vita di Jacqueline Cochran, neppure il marito, e forse addirittura nemmeno lei stessa. La sua data di nascita, che si ritiene essere il 1906, non è mai stata confermata. Cresciuta da una famiglia adottiva, a un certo punto Jackie assunse un investigatore privato per scoprire l’identità dei propri genitori biologici. Il detective stese un rapporto e glielo consegnò in una busta sigillata. Lei passò la busta al marito, Floyd Odlum, che non la aprì mai. Chuck Yeager, un amico di Jackie, riferì che la busta venne bruciata, ancora sigillata, dopo il decesso della donna [37]. Quello che si sa per certo è che il suo nome era Bessie Mae Pittman, e che crebbe nel nordovest della Florida, in una povera cittadina la cui economia era basata sul legname. Nella sua autobiografia, The Stars at Noon, del 1954, la Cochran chiamerà il suo borgo natio “Via della segatura”; ma la maggior parte dei critici ritiene che quel libro avesse l’intento di creare una leggenda, più che di riportare dei fatti reali. Fin dall’inizio, la ragazzina mostrò una determinazione eccezionale nel voler migliorare la propria condizione, dando addirittura vita a un “personaggio”, il che incluse il cambio del suo vero nome in quello di Jacqueline Cochran. Il cognome l’aveva trovato leggendo la guida telefonica di Pensacola. Quando lasciò la Florida la sua educazione formale era scarsa, se non
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nulla. Dopo un breve periodo trascorso a studiare da infermiera dovette ammettere che non riusciva a sopportare la vista del sangue, e così si trovò un impiego nei saloni di bellezza del sud [38]. Continuando a fare la parrucchiera, si trasferì a New York e trovò lavoro da Saks Fifth Avenue, dove coltivò l’elegante clientela. Qui incontrò Odlum, il facoltoso magnate a capo di innumerevoli società, tra cui la RCA, la General Dynamics e la Atlas Corporation, e di diverse fabbriche di aeroplani. Nel 1935 Jackie creò una sua personale linea di cosmetici e fondò una sua impresa, diventando la direttrice generale della Jacqueline Cochran Inc. Un volo a bordo dell’aereo di un amico la elettrizzò a tal punto che nel giro di breve tempo (la sua autobiografia parla di tre settimane) prese il brevetto da pilota e iniziò a condurre la sua azienda cosmetica volando in lungo e in largo per il Paese. Jackie e Mr Odlum si sposarono nel 1936, e Floyd divenne un appassionato sostenitore della di lei partecipazione alle gare aeree. “Gareggiare per i record di velocità costa una fortuna, ma [Floyd] era più che felice di pagare i conti”, scriverà Chuck Yeager [39]. Nel 1938, Jackie vinse la prestigiosa competizione California-Cleveland Bendix, sfrecciando oltre la linea del traguardo quando nel serbatoio le era rimasto a malapena carburante per pochi altri minuti, lasciandosi dietro uno sciame di piloti uomini. Più tardi la sua ricchezza, i record stabiliti durante la Seconda guerra mondiale e gli influenti legami nell’ambiente militare, unitamente all’esercizio di una feroce pressione, le permisero di prendere in prestito aerei dell’Air Force per stabilire nuovi primati, ivi incluso il volo in cui abbatté il muro del suono nel 1953, su di un jet, in formazione con Yeager. Proprio Yeager, più di chiunque altro, conosceva la forza della determinazione di Jackie. Il pilota dirà che Mrs Cochran “non avrebbe mai permesso a nessuno di tarparle le ali” [40]. Le origini dell’accesso di Mrs Cochran all’ambiente militare affondavano nel lavoro infaticabile da lei svolto durante la Seconda guerra mondiale per organizzare le WASP (Women’s Airforce Service Pilots). Temendo che il conflitto imminente avrebbe decimato le schiere di piloti uomini, e intravedendo la possibilità di costruire una posizione per se stessa, Jackie si rivolse all’Army Air Corps con l’idea
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di usare donne pilota civili per trasferire gli aerei militari alle varie basi aeree statunitensi. L’aviatrice propose di mettersi alla guida di un gruppo di donne pilota in grado di svolgere anche altri compiti, sempre in ambito aeronautico, che includevano trainare bersagli mobili per le esercitazioni di tiro aereo, pilotare gli aerei durante le serie di collaudi tecnici, e sovrintendere ai voli di prova dei piloti militari alle prese con gli ultimi modelli degli aerei. Il comandante degli Air Corps, Henry “Hap” Arnold, rifiutò il suo aiuto, ritenendo più che sufficienti gli effettivi di uomini disponibili. Se mai si fosse presentata la necessità di donne pilota civili, promise Arnold, lui stesso avrebbe fatto in modo che il ruolo di comandante del gruppo venisse affidato a lei. Snobbata, Miss Cochran partì per l’Inghilterra. Qui, dopo aver studiato come le donne pilota britanniche aiutavano i militari, fondò il suo piccolo contingente personale di aviatrici americane, chiamate le “ATA girls” perché trasportavano mezzi aerei per il British Air Transport Auxiliary. Di ritorno negli Stati Uniti, scoprì che un’altra aviatrice, Nancy Harkness Love, stava già organizzando una divisione di donne pilota addette alla dislocazione degli aerei per l’Aeronautica, chiamata WAFS (Women’s Auxiliary Ferrying Squadron). Jackie si infuriò. Era convinta che il generale Arnold l’avesse tradita, e che Nancy Love avesse tramato alle sue spalle. Arnold si difese sostenendo che c’era stata un’interruzione nelle comunicazioni militari, e cercò di placare le contendenti riconoscendo la leadership di Jackie su tutte le donne pilota civili che stavano aiutando l’Aeronautica militare (che ora si chiamava Army Air Force). Nel 1943 l’intero drappello di donne pilota fu chiamato WASP e posto sotto il comando di Jackie Cochran, che si assunse la responsabilità di insegnare alle aviatrici a volare “alla maniera militare”. Miss Love venne messa alla guida della sottodivisione che si occupava di trasferire gli aerei, il che di fatto la fece diventare una subalterna della Cochran. Le due donne però operavano in maniera autonoma, facendo il possibile per non incrociarsi. Più di venticinquemila donne chiesero di far parte delle WASP, e Jackie ne accettò circa duemila. Treni carichi di donne pilota iniziarono a giungere all’Avenger Field, a Sweetwater, Texas. Qui le avia-
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trici imparavano a condurre settantasette tipi diversi di aerei, inclusi velivoli notoriamente pericolosi quali il B-26 (il famigerato “fabbricante di vedove”) e il pesante quadrimotore B-24. Nel corso dell’anno successivo, le WASP percorsero più di sessanta milioni di miglia trasportando personale militare, forniture mediche e cargo in tutti gli Stati Uniti. Nel 1944, quando molti piloti (maschi) fecero rientro negli Stati Uniti per prestare servizio in loco, l’Army Air Force smobilitò le WASP, rispedendole di colpo tutte a casa. Le donne, già dispiaciute per aver perso l’opportunità di partecipare attivamente allo sforzo bellico, divennero furibonde quando Washington rifiutò di riconoscere loro lo stato di veterane. Il governo affermò che le donne erano dipendenti statali civili, non personale militare. Senza status militare, le WASP non potevano usufruire dei benefit a cui avevano diritto i soldati, come l’accesso agli ospedali dei veterani o ai fondi stanziati per l’istruzione dei militari, o anche semplicemente il rimborso del biglietto dell’autobus per tornare a casa dopo la smobilitazione. La discriminazione nei loro confronti era stata a dir poco altrettanto madornale durante la guerra, allorché le aviatrici erano state costrette a fare la colletta per rimandare in patria i corpi di trentotto compagne uccise durante l’adempimento del proprio dovere. Il governo degli Stati Uniti non solo si era rifiutato di pagare le spese per spedire a casa i cadaveri delle donne, ma aveva addirittura negato l’autorizzazione ad avvolgere i feretri nella bandiera americana1.
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Nel 1977, il Congresso concesse alle WASP lo stato di veterane. Due anni dopo, il segretario della difesa dichiarò che ciò che avevano fatto durante la Seconda guerra mondiale rientrava nel servizio militare attivo. Ciononostante, il contributo apportato dalle WASP non venne mai davvero riconosciuto fino in fondo. Ancora nel recentissimo 2002, la figlia di una WASP appena deceduta scoprì che la madre non aveva diritto alle esequie solenni onnicomprensive presso l’Arlington National Cemetery. In un eloquente articolo a fronte dell'editoriale, sul Washington Post, Julie I. Englund riferì che secondo Arlington le WASP non avevano i requisiti necessari per ricevere gli stessi onori riservati agli uomini. Sua madre, Irene Englund, aveva diritto al trattamento destinato alle mogli dei veterani ma, sempre a detta di Arlington, non aveva i titoli per ambire alla compagnia d’onore, alla salva di colpi di fucile, all’accompagnamento musicale del “Silenzio” e alla presentazione della bandiera americana. A seguito della pubblicazione del pezzo giornalistico, e della reazione pubblica favorevole a un riconoscimento delle WASP a tutti gli effetti, Arlington revocò la decisione presa.
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Alcune WASP accusarono Jackie Cochran di non aver fatto abbastanza per favorire il loro riconoscimento militare. Ci fu anche chi fece notare che se le WASP fossero assurte al rango di forza armata, Mrs Cochran avrebbe dovuto rispondere alla comandante in capo delle WAC (Women’s Army Corps). Ora, mentre non aveva mai avuto problemi a rapportarsi in modo paritario con un uomo, o addirittura a prestare servizio come sua subordinata, Jackie non era mai riuscita a considerarsi pari a un’altra donna, e di certo non si vedeva come sua subalterna. Altre WASP, come Margaret Boylan, criticarono Mrs Cochran per non aver sostenuto le sue aviatrici una volta che la sua posizione di guida era venuta meno. Ripensando al passato, Miss Boylan ritiene che Mrs Cochran “avrebbe potuto farci continuare. Solo che non era disposta a pagarne il prezzo. Ed era quel genere di persona che prende decisioni drastiche. Se non poteva farlo a modo suo, preferiva non farlo più del tutto” [41]. La fama di Jacqueline Cochran di donna determinata, dominatrice e autopromotrice metteva in soggezione molte persone, inclusi politici, generali, uomini d’affari, e perfino diversi piloti arroganti. Il dottor W. Randolph Lovelace II, invece, non era affatto intimidito. Lui rispettava la determinazione incrollabile di Mrs Cochran, il suo coraggio e la sua abilità come pilota. Di fatto, Randy Lovelace considerava Jackie Cochran una delle sue più care amiche. Lui e la moglie, Mary, chiamarono la figlia più piccola Jacqueline, e chiesero a Mrs Cochran di farle da madrina [42]. Jackie Cochran, a sua volta, vedeva in Randy Lovelace un uomo la cui passione per il volo era pari alla sua, un uomo famoso per la sua lungimiranza e per la sua energia febbrile. Un collega di Lovelace lo ricorda esortare: “Non dirmi quanto è difficile, dimmi solo per quando riuscirai a farlo” [43]. Mrs Cochran ammirava l’impegno che Lovelace profondeva nell’avvenire dell’aviazione e contava su di lui per riuscire a essere lei stessa parte di quel futuro, volo spaziale compreso. Jackie Cochran aveva incontrato per la prima volta Randy Lovelace alle National Air Races di Cleveland, nel 1937. Le ricerche del giovane medico sul volo ad alta quota l’avevano incuriosita immediatamente
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[44]. A quel tempo Mrs Cochran, che aveva già stabilito alcuni primati di quota, stava cercando un modo per spingere ancora più in alto il suo aereo senza perdere i sensi. Alla fine degli anni Trenta, in collaborazione con il dottor Walter Boothby e il dottor Arthur H. Bulbulian del Wright Aeromedical Laboratory, Lovelace aveva messo a punto una maschera a ossigeno per il volo ad alta quota. La maschera BLB, come fu chiamata dalle iniziali dei suoi inventori, avrebbe salvato le vite di molti avieri costretti a lanciarsi da altezze estreme durante la Seconda guerra mondiale [45]. Nel 1940 il presidente Franklin Roosevelt, sottoposto a una forte pressione da Mrs Cochran, conferì a Lovelace e ai suoi colleghi il Collier Trophy, riconoscimento assegnato ogni anno al successo più significativo nel campo dell’aviazione. Ma a far salire Lovelace alla ribalta fu il suo leggendario lancio col paracadute – episodio di cui, stando a quel che si dice, lui non sopportava più di sentir parlare. Volendo verificare se una maschera d’emergenza a ossigeno fosse in grado di far sopravvivere un pilota a un lancio da alta quota, così come a un volo ad alta quota, Randy Lovelace decise che l’unico modo per scoprirlo fosse compiere quel salto di persona. Il 25 giugno 1943, attorno a mezzogiorno, durante un viaggio di consulenza per il reparto medico della Boeing Aircraft, Lovelace si buttò dal vano bombe di un B-17, otto miglia sopra Ephrata, Washington. Si trattava della quota più elevata da cui qualcuno avesse mai tentato di lanciarsi con un paracadute in tutti gli Stati Uniti e, molto probabilmente, nel mondo intero [46]. Quel salto fu il primo e l’ultimo lancio di Lovelace con il paracadute, e per poco non lo uccise. In quel periodo circolava una nuova teoria secondo la quale un paracadute aperto ad alta quota avrebbe sballottato di meno un paracadutista rispetto a uno aperto più in basso, nell’aria più pesante. Ma il patologo Tom Chiffelle, che in seguito avrebbe lavorato con Lovelace ad Albuquerque, aveva visto lesioni raccapriccianti su piloti che avevano tentato di buttarsi da quote elevate. Con l’avvento dei motori a reazione e di aerei più veloci, a Chiffelle capitò di esaminare piloti aggrediti da raffiche di vento velocissime che lussavano i corpi, fratturavano arti, slogavano giunture, e deformavano la testa, il tronco e il collo.
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Lovelace non riusciva a rammentare nulla di quanto era successo dopo lo schiocco con cui il paracadute si era aperto. “Ricordo che vedevo il Fortress appena sopra di me”, raccontò. “Il rumore dei motori era molto debole. A quel punto la fune di vincolo ha tirato violentemente il mio paracadute. Ho sentito uno strattone spaventoso, e ho visto il mio guanto di cuoio e quello di seta che c’era sotto volare entrambi via dalla mia mano sinistra. Mi sembra un sogno, adesso, aver visto quei guanti sfrecciare nell’etere. Tutta l’aria era stata espulsa dai miei polmoni, e in quell’istante sono svenuto.” Aprendo il paracadute ad alta quota, Lovelace era stato colpito da una decelerazione gravitazionale pari almeno a otto G, che l’aveva scaraventato nell’incoscienza. Quando gli erano stati strappati di dosso i due guanti sinistri, la sua mano da chirurgo si era ritrovata esposta a una temperatura di quaranta gradi sotto lo zero. Tutto ciò che l’equipaggio del Fortress riuscì a vedere mentre girava attorno al paracadute fu un fantoccio che oscillava selvaggiamente di qua e di là. “Forse cadendo ha colpito l’aereo”, fu la congettura di uno degli aviatori. “Secondo me è morto”, disse un altro. Fortunatamente l’attrezzatura d’emergenza funzionò, e pian piano l’ossigeno che affluiva attraverso la maschera rianimò Lovelace mentre stava precipitando. Il dottore riuscì a rivolgere un debole cenno di saluto a quelli che lo aspettavano di sotto prima di sobbalzare pesantemente sul terreno, finendo poi per accasciarsi nella sua tuta imbottita. Era vivo, ma a malapena in grado di muoversi. Tutto quello che ricorderà dell’atterraggio era che cercava di spostare la propria mano congelata verso il tepore del sole [47]. La segretezza riguardo al salto era importante per Lovelace. Tenne nascosta la notizia sia alla moglie che a Jackie Cochran e al marito di lei, Floyd Odlum, nella cui casa trascorse la notte precedente al salto. “Ci descrisse il nuovo equipaggiamento, e il modo in cui funzionava in caso di emergenza”, dirà Odlum. “Ma non fece parola del fatto che aveva intenzione di provarlo lui stesso il giorno dopo” [48]. Mentre stava così attento a non rivelare nulla agli intimi riguardo al salto, Lovelace avvisò invece la stampa, ben consapevole dell’importanza dell’attenzione dei giornali. Fu così che cronisti della Boeing e della rivista
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Life poterono assistere all’avvenimento, immortalando Lovelace in fotografie multiangolari nella sua voluminosa tenuta da volo, seduto nel vano bombe, e che veleggiava a mezz’aria durante il salto – un puntino nero privo di vita contro il vasto cielo di Washington. Poco dopo il generale Hap Arnold premiò il lancio di Lovelace insignendo il dottore della Distinguished Flying Cross [49]. Quella non sarebbe stata l’ultima volta in cui Lovelace si serviva dei media affidando loro l’esclusiva di una storia prima di notificare un progetto ai propri superiori. Avanzare delle critiche a posteriori su degli esperimenti già avvenuti era molto più difficile per le autorità se la stampa l’aveva già proclamato un eroe e gli aveva dato visibilità. Lovelace seguiva la massima del cane sciolto: è più facile chiedere perdono che ottenere un’autorizzazione. Il suo amico, nonché pilota dell’X-15, Scott Crossfield, capiva e ammirava la sua audacia. In seguito dirà: “Infrangevamo la legge ogni volta che raggiungevamo un successo”2 [51]. Per molti dei medici assunti alla sua fondazione medica di Albuquerque negli anni Cinquanta, Randy Lovelace rappresentava il motivo principale per cui trasferirsi lì. Non si trattava tanto del fatto che Lovelace fosse un medico eccezionale, o un amministratore energico, nonché un leader ben ammanicato. Quello che colpiva maggiormente il suo staff era la sua capacità di essere un catalizzatore: radunava persone competenti, le motivava, e alimentava la loro curiosità con un lavoro di portata unica – a volte addirittura storica. Il dottor Donald Kilgore ricorda di essersi recato ad Albuquerque per un colloquio di
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A. Scott Crossfield aveva fatto parte, insieme a Donald Flickinger e Randy Lovelace, del primo gruppo governativo incaricato di studiare il fattore umano (ripercussioni biologiche, psicologiche e sociologiche del volo dell'uomo nello spazio) e di formare i futuri astronauti. Era anche membro del NACA (National Advisory Committee for Aeronautics), precursore della NASA. Come pilota, Crossfield aveva fatto storia nel 1953, allorché aveva superato Mach 2. Nel 1959, Crossfield pilotò l’X-15, l’aereo razzo sperimentale statunitense per l'alta quota e l’alta velocità, fino al confine tra atmosfera e spazio interstellare. Nonostante fosse un pilota d'alto rango, Crossfield non provò mai il desiderio di diventare lui stesso un astronauta. “Io spegnevo la radio [sull’aereo] se non mi piaceva il tipo di aiuto che mi stavano dando da terra, e gli sciamani che gestivano il programma pensavano che questa cosa fosse un po’ troppo indipendente. Loro cercavano soggetti da esperimento, non piloti” [50].
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lavoro e di essere rimasto sbalordito dall’entusiasmo ad alto numero di ottano di Lovelace. Il giorno del colloquio, Lovelace aveva portato Kilgore a pranzo al Kachina Room, all’Albuquerque Airport. Lì gli aveva indicato un elegante aeroplano fermo sulla pista. “Vedi quell’Aero Commander?”, aveva domandato. “Appartiene a J.D. Hertz, del nostro consiglio d’amministrazione, e lo lascia qui otto mesi all’anno. E vedi il Navion? Quello è l’aereo della clinica.” Lovelace disse tutte le cose giuste al giovane medico che si era innamorato del volo mentre si trovava in Marina. Pur non arrivando esattamente a manipolare i suoi futuri dipendenti, Lovelace faceva leva sul fatto che il loro interesse nei confronti della sua clinica era dovuto essenzialmente alla possibilità di dedicarsi a progetti fuori dal comune. Kilgore aveva osservato gli aerei disponibili in attesa sulla pista e aveva preso una rapida decisione su dove voleva trascorrere il resto della sua vita. “Ero completamente conquistato”, dirà [52]. Una delle ragioni per cui la NASA scelse Randy Lovelace per il compito di valutare da un punto di vista medico i sette astronauti del Programma Mercury era che la sua Lovelace Foundation aveva fama di saper mantenere i segreti. Nei primi anni Cinquanta, con la tensione tra gli USA e l’URSS alle stelle, Eisenhower aveva dato la massima priorità alla progettazione di un aeroplano in grado di sorvolare l’Unione Sovietica praticamente senza essere tracciato. Quando il mezzo fu pronto per il suo primo volo, Lovelace venne consultato per il supporto medico al pilota collaudatore. A quel punto, lui convocò Kilgore. “Ti piacerebbe dedicarti a un progetto interessante?”, gli domandò, senza fornire alcun dettaglio. Lovelace ordinò a Kilgore di recarsi a Los Angeles a bordo di un volo TWA, tenendo in grembo una cartella nera grazie alla quale sarebbe stato identificato. A Los Angeles, Kilgore venne contattato da uno sconosciuto, che gli disse di presentarsi al gate della Lockheed alle 5.30 del mattino successivo. All’alba, Kilgore e la sua cartella medica nera salirono su un DC-3. Il dottore si guardò attorno, osservando i volti dei propri compagni di viaggio: piloti collaudatori, pensò. L’aereo volò a lungo, mentre Kilgore prendeva nota della posizione del sole fuori dal finestrino del-
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l’aereo per calcolarne la direzione. Est. Alla fine, l’aereo atterrò in pieno deserto del Nevada, su una base di collaudo brulla e isolata, distante miglia e miglia da tutto: un sito segreto del governo, noto come Area 51. Kilgore scese a terra e fu accompagnato a un hangar situato sulla riva del letto di un lago asciutto. “Diamo un’occhiata all’uccellino?”, domandò qualcuno. Dentro all’aviorimessa c’era il velivolo più strano che Kilgore avesse mai visto: un U-2. Kilgore volò come supporto medico sul primo giro di prova dell’aereo da ricognizione, nel caso che il mezzo “avesse fatto fiasco”, dirà più tardi [53]. Come il suo superiore, anche Kilgore non accennò mai all’esperienza fino a quando, anni dopo, i dettagli top secret della costruzione dell’aereo non vennero finalmente alla luce. La tendenza di Randy Lovelace a compiere imprese ardite e la sua capacità di tenere la bocca chiusa lo portarono dritto dritto a Donald Flickinger con l’idea di testare la fattibilità di far volare nello spazio delle donne. I due uomini erano curiosi, da un punto di vista scientifico, di scoprire il potenziale fisico e psicologico delle donne per il volo spaziale. Nell’estate del 1959 un viaggio in URSS li convinse ancora di più che i sovietici fossero davvero intenzionati a ricorrere ad astronaute donne. I due notarono che in Unione Sovietica non c’erano tutti i preconcetti che invece esistevano in America contro le donne. Anzi, Lovelace scoprì che in URSS le donne costituivano il settanta per cento della categoria medica [54]. Quando quell’autunno i due uomini si imbatterono nella ventottenne Jerrie Cobb a Miami, in occasione di un ritrovo della Air Force Association, capirono subito che quella giovane donna era proprio il soggetto ideale che speravano di trovare per i loro test. Miss Cobb era giovane, abile e motivata e, come loro, pronta a cogliere al volo le opportunità. Le bastò ascoltare una descrizione sommaria dei loro progetti per acconsentire entusiasticamente a presentarsi alla Wright-Patterson e alla Lovelace Foundation per gli esami. Flickinger e Lovelace dissero a Miss Cobb che avrebbero esaminato immediatamente le sue credenziali come aviatrice, dopo di che l’avrebbero contattata per comunicarle le date esatte dei test [55].
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Erano passati poco più di cinquant’anni da quando l’aereo dei fratelli Wright era prima entrato in stallo, per poi picchiare, e infine riuscire a risollevarsi e volare per dodici intensi secondi sopra a Kill Devil Hills, nel North Carolina. Persone come Randy Lovelace e Don Flickinger non avevano mai smesso di meravigliarsi come dei bambini davanti alla rapidità con cui il volo aveva fatto progressi in America. Né, peraltro, avevano mai rinunciato al sogno di essere parte di quel processo. Lo stesso valeva per Jerrie Cobb e Jackie Cochran. Anche se ancora non lo sapevano, Miss Cobb e Mrs Cochran erano un po’ come Orville e Wilbur che lanciavano in aria una monetina per stabilire chi dei due dovesse spingere l’altro giù dalla collina. Solo che, questa volta, lo spintone non sarebbe stato altrettanto edificante.
3. Programma “Ragazze nello spazio”
Il generale di brigata dell’Air Force Donald Flickinger sperava di procedere in fretta a testare Jerrie Cobb. Essendo già stato responsabile della progettazione dei test di valutazione di simulazione di volo spaziale di tutti e sette gli astronauti del Programma Mercury presso la Wright-Patterson Air Force Base di Dayton, Flickinger desiderava mettere alla prova Miss Cobb sulle stesse esercitazioni per poter confrontare i suoi punteggi con quelli raggiunti dagli uomini la primavera precedente. Mentre il primo stadio dei test per gli astronauti, gestito presso la Lovelace Foundation, era incentrato sull’idoneità fisica del soggetto al volo spaziale, il secondo, che veniva condotto poco dopo alla Wright-Patterson, stimava le potenziali reazioni dell’aspirante astronauta alle peculiari sollecitazioni dello spazio cosmico. Sotto la guida di Flickinger, il personale del Wright-Patterson Air Development Center’s Aeromedical Laboratory somministrava una batteria completa di esami psicologici, incluso un test d’isolamento sensoriale che aveva lo scopo di valutare la risposta di un astronauta al silenzio e all’immobilità simulati dello spazio. I test presso la Wright-Patterson misuravano anche la capacità degli astronauti di operare in assenza di peso e in balia delle intense forze gravitazionali della centrifuga1. 1
Tra il 1957 e il 1958, l’allora colonnello Don Flickinger aveva designato il Wright-Patterson Aeromedical Laboratory come sede delle iniziative della Air Force volte a sviluppare il programma MIS (Man in Space). A quel tempo, prima che Eisenhower decidesse di fare della NASA un’agenzia civile, l’Aeronautica e la Marina si stavano ancora contendendo il controllo del programma spaziale del Paese. La speranza di Flickinger era che il laboratorio, sotto la sua guida, riuscisse a stabilire gli standard medici da adottare nella progettazione di una navicella spaziale con equipaggio in grado di descrivere un’orbita ter-
M. Ackmann, Mercury 13 © Springer-Verlag Italia, Milano 2011
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La prima volta che Don Flickinger si era accostato alla NASA con l’idea di sottoporre delle donne a test atti ad accertarne l’idoneità come candidate astronaute era la fine degli anni Cinquanta. La NASA però non era interessata. L’agenzia spaziale riteneva le donne fisicamente incapaci di reggere le pressioni esercitate dallo spazio. Il dottor Stanley Mohler2, amico di Flickinger, ha spiegato: “Non bisogna scordare che i periodici di aviazione della fine degli anni Cinquanta erano pieni di articoli che sostenevano che, durante il periodo mestruale, il cervello delle donne cambiava, rendendole ‘assenti’ e impedendo loro di pensare in modo lucido, il che aumentava le loro probabilità di schiantarsi”3. Flickinger non badò neanche minimamente a quelle leggende. Invece di abbandonare il progetto, o di continuare a far pressione sulla NASA, Flickinger e Lovelace decisero di condurre i test su una candidata donna all’interno di un loro esperimento indipendente, rinunciando per il momento al patrocinio ufficiale della NASA. Se i loro risultati avessero provato che una donna era in grado di raggiungere dei buoni punteggi negli stessi test ai quali erano stati sottoposti gli astronauti del Programma Mercury, e servendosi della stessa attrezzatura, allora Flickinger, dati alla mano, si sarebbe rivolto di nuovo alla
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restre bassa. Quando il presidente Dwight Eisenhower stabilì che la NASA sarebbe stata un ente civile, il progetto MIS dell’Air Force venne abbandonato. Alla fine degli anni Cinquanta, il dottor Stanley Mohler aveva prestato servizio come ufficiale medico presso il Center for Aging Research al National Institute of Health, e in seguito era stato direttore del FAA’s Civil Aeromedical Research Institute di Oklahoma City. Conobbe Flickinger alla Air Force’s School of Aviation Medicine del Texas. All’epoca in cui viene scritto il libro, Mohler è direttore di medicina aerospaziale presso la Wright State University di Dayton, Ohio. Le donne che prestavano servizio nelle WASP erano talmente abituate alle preoccupazioni espresse dai medici riguardo al farle volare durante il loro ciclo mestruale da aver messo a punto una risposta tutta loro per evitare di essere bloccate a terra una volta al mese. Quando i dottori domandavano loro: “Ogni quanto hai il tuo periodo?”, la maggior parte delle WASP rispondeva dicendo di essere “estremamente irregolare”. Fingendo di avere dei cicli mestruali imprevedibili, le donne battevano in astuzia i medici, pieni di pregiudizi, ed evitavano tutte le restrizioni di volo incoraggiate dalla mitologia medica. All’inizio della sua carriera nell’aviazione, Sarah Gorelick Ratley, membro del Mercury 13, fu consigliata da alcune ex WASP su come rispondere all’inevitabile “domanda mestruale” dei medici, e seguì le loro indicazioni. Adesso la Ratley ride quando ripensa a un’intera generazione di donne pilota considerate “estremamente irregolari” dalla comunità medica.
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NASA [1]. Conducendo prima i test, e presentandone i risultati solo in un secondo momento, Flickinger sperava che il confronto con la NASA fosse conclusivo. Se dei dati scientifici fossero arrivati a confutare le tesi più diffuse, Flickinger e Lovelace ritenevano che sarebbero stati resi noti. Di certo, se i dati raccolti da due membri del suo Comitato straordinario per le scienze naturali avessero provato che le donne erano fisicamente capaci di andare nello spazio, la NASA non avrebbe ignorato quella possibilità. Come Randy Lovelace, anche Don Flickinger era un iconoclasta. Mohler li chiamava “medici di frontiera”: dottori che lavoravano sul filo del progresso scientifico, e di tanto in tanto si muovevano senza ordini diretti da parte dei superiori. Con una formazione da chirurgo, Flickinger diede prova della propria audacia durante la Seconda guerra mondiale, paracadutandosi sui luoghi degli incidenti aerei sulle colline birmano-cinesi. Mohler ricorderà che anche se i suoi comandanti probabilmente avrebbero giudicato quei lanci troppo pericolosi, Flickinger non era certo il genere di persona che aspettava che “un tizio con i pantaloni dalla piega perfetta e la camicia inamidata”, seduto in un tranquillo ufficetto, autorizzasse ogni sua mossa [2]. Dopo la guerra, Flickinger si concentrò sui problemi dell’eiezione da alta quota e nel 1959 lavorò come assistente di bioastronautica al quartier generale dell’ARDC (Air Research and Development Command) della Air Force, presso la Andrews Air Force Base, appena fuori Washington D.C. Durante la conferenza stampa sugli astronauti che si era tenuta all’inizio di quella primavera, Flickinger aveva lodato la qualità degli astronauti del Programma Mercury. I russi potranno anche averci battuto in quanto a propulsione, aveva dichiarato, ma “la qualità della nostra componente umana sarà di gran lunga migliore della loro” [3]. Don Flickinger temeva che l’andatura forsennata di quella corsa allo spazio impedisse ai dirigenti della NASA e del governo federale di valutare le implicazioni più ampie delle loro azioni. Venivano prese in tutta fretta decisioni la cui portata spesso non era compresa fino in fondo. “Penso che si stia correndo decisamente troppo”, aveva osser-
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vato Flickinger. “Nel complesso, come nazione, non ci stiamo prendendo il tempo necessario per fermarci a riflettere. Ci sono troppe pretese, troppe crisi che si susseguono in continuazione, e non li ritengo segnali positivi” [4]. Perfino la scelta dei potenziali astronauti da sottoporre ai test era stata basata su una questione di convenienza, aveva ammesso uno dei portavoce della NASA. Alla conferenza stampa che si era tenuta a primavera, quella durante la quale erano stati presentati gli astronauti del Programma Mercury, un portavoce aveva riconosciuto che restringere il processo di selezione degli astronauti ai soli piloti militari collaudatori era stata una deliberazione rapida, presa in nome dell’efficienza. “È stata una decisione puramente arbitraria, basata sul fatto che sapevamo che i dossier su questi individui erano disponibili. Potevamo analizzarli direttamente al computer e operare così una prima veloce scrematura”, disse ai giornalisti [5]. Approntando il suo esperimento presso la Wright-Patterson, Flickinger chiese a Jerrie Cobb se fosse in grado di indicargli i nomi di altre donne pilota in possesso dei necessari requisiti medici, di età, di altezza, di peso e di esperienza di volo. Flickinger sperava di riuscire a sottoporre ai test all’incirca una decina di donne, così che i punteggi di Miss Cobb non venissero considerati come un’eccezione, cosa che li avrebbe etichettati come non rappresentativi dell’intero genere femminile. Jerrie suggerì subito sette nominativi [6]. Flickinger verificò la loro posizione tramite la Civil Aeronautics Authority (l’antenata della Federal Aviation Administration) e aggiunse i nomi di altre otto donne, che dovevano fungere da riserve qualora per qualche ragione Miss Cobb e la sua coorte non avessero soddisfatto i parametri medici o i requisiti di esperienza di volo da lui richiesti4. In particolare, Flickinger era interessato a candidate che avessero meno di trentacinque anni. Se avesse applicato la medesima restrizione agli astronauti
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Le sette donne proposte a Flickinger dalla Cobb erano: Frances Bera, Barbara Erickson, Marilyn Link, Marian Petty, Betty Skelton, Jerri Sloan e Jane White. L’elenco di Flickinger incluse Marian Burke, Margo Callaway, Sandra Callaway, Jerelyn Cassell, Evelyn Kelly, Juanita Newell, Aileen Saunders e Jimmye Lou Shelton.
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del Programma Mercury, tre di loro sarebbero stati scartati: Alan Shepard e Deke Slayton avevano già trentacinque anni, e John Glenn ne aveva addirittura trentasette. Jerri Sloan, una delle candidate proposte da Miss Cobb, dirà che la collega aveva l’abitudine di arruolarla volontaria prima, e avvisarla dopo [7]. In ogni caso, Miss Sloan non doveva preoccuparsi di ricevere una chiamata inattesa. Né lei né nessuna delle altre donne pilota suggerite sarebbero infatti mai state invitate a sottoporsi ai test presso la Wright-Patterson. In realtà, una donna si stava già sottoponendo ai test per astronauti presso il Wright-Patterson Aeromedical Laboratory, ma nessuno ne era a conoscenza all’infuori di Randy Lovelace e Don Flickinger. Diverse settimane più tardi la divulgazione dei test privati di Ruth Nichols suscitò l’interesse generale ma gettò nello sconforto l’Air Force. Tutta quell’attenzione scatenò anche una reazione violenta e risoluta della Wright-Patterson contro Don Flickinger. All’età di cinquantotto anni, Ruth Nichols apparteneva alla generazione precedente a quella degli astronauti del Programma Mercury, ed era decisamente molto più anziana di tutte le altre donne pilota candidate ai test di Flickinger. Anche se praticamente nessuno l’avrebbe mai presa in considerazione come potenziale astronauta, pochissimi ignoravano la sua determinazione. L’aviatrice era la principale antagonista di Amelia Earhart e avrebbe compiuto la trasvolata dell’Atlantico un anno prima di lei se non fosse precipitata a Terranova. Il capitombolo di Terranova fu solo uno tra i tanti occorsi a Ruth Nichols, ma incidenti e contrattempi vari riuscirono di rado a bloccare la sua avanzata decisa. Né la nostra avrebbe mai ammesso che l’età avrebbe potuto costituire un freno. Come Jackie Cochran e Jerrie Cobb, anche Ruth Nichols si era resa conto che, per i piloti di razza, lo spazio rappresentava la nuova frontiera. Desiderosa di sottoporsi in prima persona ad alcuni dei test ideati per gli astronauti del Programma Mercury presso la Wright-Patterson Air Force Base, lavorò insieme a Flickinger per far sì che questo avvenisse [8]. La prassi di permettere a dei civili quali Ruth Nichols di provare l’esperienza della vita militare – per esempio viaggiando su un jet,
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oppure utilizzando l’attrezzatura per la simulazione spaziale – non era per niente insolita, soprattutto in tempi di pace quali furono gli anni tra il 1959 e il 1962, durante i quali gli Stati Uniti si trovavano a cavallo tra la guerra di Corea e quella del Vietnam. Strutture come il Wright Air Development Center si ritrovarono infatti in quei momenti a poter disporre di un surplus di scienziati e di equipaggiamento. Stanley Mohler, che lavorava sia con la NASA che con le forze armate, era consapevole che le donne di tanto in tanto avrebbero potuto fare qualche esperienza di volo in più, o sottoporsi a qualche test, se solo i responsabili avessero avuto “il tempo, le attrezzature, l’energia e la voglia” di offrire loro quell’opportunità davvero unica [9]. In effetti, almeno un’altra persona aveva già sperimentato qualcuno dei test ai quali erano stati sottoposti gli astronauti del Programma Mercury. Un redattore scientifico della rivista Life aveva preso parte ad alcuni di quegli esperimenti per un reportage che era stato pubblicato appena pochi mesi prima che toccasse a Ruth [10]. L’Air Force probabilmente considerò i test della Nichols come aveva considerato quelli del redattore: una proficua campagna di relazioni pubbliche. Inoltre il fratello della Nichols, un colonnello dell’Air Force, potrebbe aver unto alcuni ingranaggi per lei. La fama stessa della Nichols di pilota temeraria con un passato leggendario di certo le era valso il rispetto dell’Air Force. Ruth Nichols aveva iniziato a volare fin da adolescente semplicemente perché si rendeva conto che se non avesse affrontato la sua paura di trovarsi a bordo di un aeroplano si sarebbe sentita “una perdente per il resto della [sua] vita” [11]. Nel giro di pochissimo tempo divenne la prima donna con brevetto di pilota per idrovolanti. Stando a quanto dice suo fratello, Ruth era solita arrivare al college di Wellesley su un idrovolante a scafo centrale. Qui “si posava sul lago del campus e rullava fino al molo”, si univa alla squadra di canottaggio del college per l’allenamento, e infine saltava di nuovo sul suo velivolo e tornava a casa, a New York [12]. Miss Nichols arrivò a pilotare oltre centoquaranta tipi diversi di aerei, sopravvivendo a sei incidenti gravi, e alla fine riuscì a stabilire i record femminili di velocità, quota e distanza di volo
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non stop su aerei pesanti. Come la ricchezza aveva offerto opportunità rare a Jackie Cochran, allo stesso modo la vita privilegiata e i contatti personali a New York e a Palm Beach spalancarono a Ruth delle porte che erano ermeticamente chiuse per la maggior parte delle altre donne pilota che ambivano ai jet o, addirittura, alla capsula spaziale. Tra i suoi amici si annoveravano persone come i Firestone, i Goodrich, e Charles e Anne Morrow Lindbergh. Charles Lindbergh, pur facendole presente che non gli sembrava “poi così una buona idea” che una donna tentasse di sorvolare l’Atlantico in solitaria, la aiutò a pianificare il suo volo da Terranova all’Irlanda mentre sedevano davanti al caminetto in casa Lindbergh [13]. Anche Amelia Earhart era amica di Ruth. Le due donne rivaleggiavano sportivamente per aggiudicarsi i primati e si suggerivano l’un l’altra i rimedi per affrontare gli stomaci messi temporaneamente in disordine da turbolenze aeree particolarmente forti e nauseanti. Secondo Mrs Earhart la cura migliore era il succo di pomodoro, mentre Ruth Nichols preferiva i sandwich al caviale. “Hanno un valore nutritivo enorme”, sosteneva [14]. La sera in cui partì dal Floyd Bennett Field per la prima tratta di quello che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere un volo in solitaria sull’Atlantico, il suo Vega stracarico – chiamato Akita, vocabolo sioux che significa “esplorare” - riuscì a malapena a staccarsi dal suolo [15]. A Terranova, abbagliata dal sole che stava tramontando, Ruth Nichols sbandò, finendo fuori dalla breve pista d’atterraggio, in mezzo ad alcuni alberi. Strisciò fuori dai rottami con cinque vertebre rotte. Appena tre mesi dopo, con addosso un busto ortopedico d’acciaio, inseguiva il primato femminile di distanza a bordo dell’aereo ricostruito. Aveva convinto il suo ortopedico a ideare un congegno che desse sollievo alla sua schiena ferita, e i meccanici fissarono due cinghie in cima alla cabina per aiutarla a salire. Facendo scivolare le braccia all’interno di queste cinghie, Ruth poté ridurre il peso sostenuto dalla sua spina dorsale, rendendo così più sopportabile il lungo volo da Oakland a Louisville e riuscendo ad abbattere il record [16]. Il giorno dopo il Vega prese fuoco mentre la nostra eseguiva il rullaggio. L’aviatrice ne uscì illesa, ma per l’aereo furono necessarie riparazioni meccaniche di
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vasta portata. Pur con il supporto finanziario della Life Saver Company, i lavori di ripristino richiesero molto tempo e, mentre lei aspettava, Mrs Earhart azzardò il secondo tentativo di trasvolata femminile dell’Atlantico [17]. Fu così che, nel maggio del 1932, Amelia Earhart compì il volo che l’avrebbe fatta passare alla storia [18]. La lunga e gloriosa carriera da aviatrice di Ruth fu contrassegnata anche dalla rabbia per tutte le opportunità negate alle donne pilota, che venivano invece concesse ai loro colleghi di sesso maschile. Per esempio, protestò quando a Helen Ritchie, pioniera dell’aviazione, venne impedito di continuare a lavorare come prima donna pilota per una compagnia aerea che si occupava del trasporto passeggeri. “Fu bandita da quel settore dagli uomini”, disse Ruth. “Il sindacato dei piloti fece sapere che tutti i piloti avrebbero scioperato se la linea aerea avesse continuato a servirsi di un pilota donna. Io lo giudicai oltraggioso... e inviai due telegrammi, uno alla Ritchie e uno ai signori dell’aviolinea, sperando che trovassero il modo di farla restare, poiché la ritenevo una grave discriminazione” [19]. Discendente di quel ramo dei quaccheri che si era battuto a favore dell’abolizionismo e del suffragio, a Miss Nichols saltavano i nervi quando gli uomini sostenevano di voler proteggere le donne dalle situazioni pericolose. La discriminazione, diceva lei, non ha niente a che fare con la cavalleria [20]. Ruth trasse il massimo vantaggio sia dalle proprie capacità che dalle conoscenze. Dopo la guerra si attivò per organizzare l’associazione civile Relief Wings, antesignana del Civil Air Patrol, destinata ad affiancare l’Air Force in caso di calamità naturali o altre emergenze. Quindi rivolse la propria attenzione ai jet, ambizione che solo donne pilota ben introdotte come Mrs Cochran potevano sperare di riuscire a soddisfare. Con il fratello – Erickson “Nick” Nichols, colonnello dell’Air Force – che la sorvegliava, Ruth pilotò un jet insieme a del personale militare presso la Hamilton Air Force Base, in California [21]. In seguito, con il consenso del Pentagono, la cinquantaseienne Nichols volò ad oltre mille miglia orarie, a 51.000 piedi di quota, su un caccia intercettore supersonico Delta Dagger, insieme al comandante in capo della Suffolk County Air Force Base, Fred Hook Jr. Hook disse
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di essere stato ai comandi “solo quando siamo stati costretti a passare al volo strumentale a causa di una spessa nube che ha ridotto la visibilità, e durante i decolli e gli atterraggi. Poi ha preso lei i comandi per un po’, riuscendo a manovrare l’aereo come una veterana”. “È stato come viaggiare su una limousine”, dirà Miss Nichols, e i giornali proclamarono che aveva stabilito un nuovo record, battendo i primati di velocità e quota stabiliti in precedenza da Mrs Cochran [22]. Ma il volo, per Ruth, trascendeva la mera rincorsa al perseguimento di primati: era un modo per ampliare la sua prospettiva. “È un’esperienza unica”, spiegherà. “Quando ti trovi lassù, e vedi quanto siano piccoli tutti quelli di sotto, non hai dubbi sul fatto che a chiunque al mondo debbano essere riconosciuti gli stessi diritti” [23]. Ruth Nichols iniziò quello che lei definiva “assaggiare alcuni dei test per astronauti” a metà agosto del 1959, poche settimane prima dell’incontro fortuito di Jerrie Cobb con Randy Lovelace e Don Flickinger a Miami. Le prove di Miss Nichols presso la Wright-Patterson durarono tre giorni e compresero il test dell’assenza di gravità, quello della camera d’isolamento e quello della centrifuga [24]. Quando scoprì che il K-135 normalmente utilizzato per i test legati all’assenza di gravità non era in quel momento disponibile, Ruth salì su un simulatore rudimentale, un aggeggio che lei descrisse come “una piattaforma tenuta sollevata dal pavimento tramite getti di vapore sottostanti”. La superficie era estremamente scivolosa, il che dava l’impressione di camminare sdrucciolando su dei cuscinetti a sfere. “Ogni minimo movimento rischiava di farti finire lunga distesa a misurare il pavimento di quell’orribile stanzone”. I tecnici le misero in mano un giroscopio da cinquanta libbre che ci si aspettava che lei utilizzasse come una sorta di enorme, pesante e primitiva cloche con la quale controllare le oscillazioni della piattaforma. Ruth notò che i tecnici sembravano più preoccupati dell’incolumità del giroscopio che non della sua. “Li sentivo che si dicevano l’un l’altro: ‘Assicurati di afferrare il giroscopio quando lei cadrà, perché finiranno lei da una parte e quello dall’altra’”. Miss Nichols non incontrò alcuna difficoltà nel manovrare il giroscopio, e avendo sperimentato per anni la temporanea assenza di gravità sugli
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idrovolanti – o “barche volanti”, come li chiamava lei – non trovò il simulatore particolarmente impegnativo, il che la portò a giudicare l’intera esperienza “un fiasco completo” [25]. Ruth Nichols riferì che la prova più tosta alla Wright-Patterson era costituita dalla camera di isolamento. “Non credo che l’uomo medio si renda davvero conto di che cosa sia l’oscurità finché non si ritrova in un posto del genere” [26]. La camera era un locale buio e silenzioso, di circa tre metri per tre e mezzo. L’aviatrice riferì che molti piloti – maschi – avevano avuto delle reazioni violente dopo aver trascorso appena poche ore in quella stanza. I medici spiegarono alla nostra che “coloro che hanno una propensione latente alle reazioni psicotiche tendono ad andare completamente in pezzi quando vengono calati in una situazione di questo genere perché è totalmente disorientante. Non si è collegati a nulla” [27]. Quantunque nessun atto ufficiale riveli la durata della sua permanenza nella stanza, Ruth ne parlò come di “un breve arco di tempo”. Quell’esperienza le riportò alla mente un disastro aereo al quale era sopravvissuta una decina d’anni addietro in occasione di un volo commerciale, allorché l’adattamento all’ambiente che la circondava aveva rappresentato una questione di vita o di morte. Durante un volo proveniente da Roma, il pilota aveva finito il carburante dopo aver oltrepassato Shannon, in Irlanda, vedendosi così costretto a compiere un ammaraggio di fortuna nell’Atlantico [28]. Miss Nichols rivide la scena sconvolgente che le si era presentata davanti agli occhi quando l’aereo aveva colpito l’acqua: “un improvviso caos primordiale – onde gigantesche – oscurità” [29]. Aveva galleggiato nel mare d’Irlanda su un gommone capovolto fino a quando, la mattina successiva, un peschereccio aveva avvistato i rottami ed era riuscito a portare in salvo quasi tutti i passeggeri e l’equipaggio [30]. Mentre aspettava di essere tratta in salvo, Ruth aveva cercato di mantenere la calma, ed era diventata acutamente consapevole di tutto ciò che la circondava: acqua, rottami, pulsazioni cardiache, temperatura, vento. Si era tenuta stretti gli effetti personali che era riuscita a infilarsi nella camicia mentre l’aereo precipitava: quattro pillole di codeina, un traveller’s cheque, un tubetto di Life Savers, e la sua licenza di pilota [31].
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“Probabilmente l’esperienza che avevo vissuto mi aiutò ad adattarmi alla camera di isolamento”, dirà. Nella stanza della Wright-Patterson si immerse in ciò che la circondava proprio come aveva fatto nel lontano mare d’Irlanda. Picchiettò le unghie contro le pareti della stanza e ne scoprì l’eco; localizzò diversi tavoli e sedie [32]. Ammise che concentrarsi era stato difficile, proprio come lo era stato per gli astronauti del Programma Mercury che, come John Glenn, avevano trascorso tre ore in quello stesso locale. Miss Nichols portò a termine anche molti altri test, incluso un giro nella centrifuga. Quest’ultimo le fece venire in mente delle montagne russe che si facevano più tollerabili via via che ci si abituava. Fece anche delle simulazioni di passeggiata spaziale che servivano a testare i punti di appiglio presenti sulla superficie esterna di un modello di capsula spaziale [33]. Al termine delle sue tre giornate, la cinquantottenne pilota esortò l’organico dell’Air Force in forza presso la Wright-Patterson a servirsi delle donne per il volo spaziale. La sua proposta suscitò una reazione di ribrezzo e la dichiarazione che “in nessun caso” alle donne sarebbe stato permesso di diventare astronaute [34]. Evidentemente l’aviatrice aveva passato il segno quando aveva osato esprimere la propria opinione anziché limitarsi a prendere commiato e imboccare l’uscita ringraziando educatamente il personale dell’Air Force per la sua cortesia. L’accoglienza riservata alla sua idea la mandò su tutte le furie. Gli scienziati della Wright-Patterson le spiegarono che il vero motivo per cui le donne erano state escluse dal corpo astronauta era che i medici sapevano ben poco del funzionamento del corpo femminile. Per la nostra, il fatto che eminenti dottori confessassero simili lacune in merito a metà del genere umano “era un’affermazione assolutamente incredibile”. Loro si giustificarono dicendo che, dal momento che negli ultimi vent’anni il soggetto della medicina aeronautica e spaziale erano stati gli uomini, ci sarebbero voluti come minimo altri due decenni per raggiungere la stessa conoscenza in campo femminile, e trascorrere così tanto tempo a studiare le donne li avrebbe distolti dal loro compito primario, che era appunto quello di studiare gli uomini [35]. Miss Nichols consigliò
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un programma immediato e intensivo che sottoponesse le donne agli stessi esperimenti cui erano stati sottoposti gli astronauti di sesso maschile, aggiungendo che una donna “sarebbe stata perfettamente in grado di cavarsela nello spazio e si sarebbe rivelata immensamente utile, sotto ogni punto di vista” [36]. Il colonnello John Stapp, direttore del Wright-Patterson Aeromedical Laboratory, aveva preso da tempo una decisione sulle donne astronauta. Secondo lui, le donne erano molto meno capaci di affrontare gli stress emozionali che accompagnano il volo spaziale. “Economicamente, il costo di mettere una donna nello spazio è proibitivo: un bene strettamente di lusso, che non possiamo permetterci di sostenere”, disse. Nonostante i medici con i quali la Nichols aveva parlato avessero ammesso la loro ignoranza del funzionamento del corpo femminile, Stapp fornì una stima quantificabile delle capacità fisiche femminili, pur senza citare nessun risultato specifico di test. Disse che, a parità di peso, taglia ed età, l’efficienza fisiologica di una donna era solo l’ottantacinque per cento di quella di un uomo. Lui non era certo che una donna fosse in grado di sostenere lo sforzo e la determinazione in situazioni estremamente stressanti, e dubitava che sarebbe stata in grado di essere obiettiva e di offrire giudizi validi quando era stanca o nervosa. Le donne, disse, devono essere protette dai rischi legati ai lavori pericolosi. “Esporre inutilmente le donne ai pericoli noti così come a quelli ignoti portati dai viaggi spaziali, ancora pionieristici, sarebbe come servirsi di donne come rivettatori, autisti di camion, operai metallurgici o minatori” [37]. Ruth Nichols non si diede per vinta. Nel novembre del 1959 l’American Rocket Society si radunò a Dayton. All’ordine del giorno c’era la questione delle donne in campo astronautico. Miss Nichols rese pubblici i suoi recenti test e ribadì di ritenere le donne più portate degli uomini a sopportare i rigori del volo spaziale. Come la maggior parte degli uomini e delle donne del suo tempo, Miss Nichols pensava che le donne fossero per loro stessa natura tranquille, rispettose, dei veri e propri modelli di sopportazione. Sostenne che queste caratteristiche avrebbero fatto di loro delle eccellenti astro-
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naute. Non si sarebbero abbandonate ad azioni avventate, avrebbero reagito bene alle direttive che giungevano dalla Terra, e avrebbero sopportato pazientemente i disagi, l’isolamento e l’inattività. “La maggior parte delle donne è passiva, sottomessa e tollerante per natura”, sostenne. Un temperamento non incline all’attività avrebbe sopportato bene i lunghi viaggi nello spazio, suggerì, aggiungendo sarcasticamente: “Trovo molto significativo che ogni animale vivente spedito nello spazio finora sia stato di genere femminile” [38]. Forse per il suo tono aspro, o forse per la sua assoluta schiettezza, fatto sta che i pezzi grossi dell’Air Force andarono su tutte le furie. Di sicuro pensavano che ci fosse un’attenzione eccessiva incentrata su di lei e sui test ad personam condotti alla Wright-Patterson dal generale di brigata Flickinger. Incuranti di quello che si era innescato, gli alti papaveri militari ritennero di aver già sentito tutto quello che li interessava riguardo alle donne astronauta. Ora di dicembre, il programma “Ragazze nello spazio” di Flickinger era stato smantellato, prima che qualche altra donna potesse seguire Ruth Nichols a Dayton per i test. Secondo Flickinger la resistenza opposta dai militari della Wright-Patterson era eccessiva, così come lo era la loro paura che la pubblicità ricevuta dalle donne astronauta potesse danneggiare in qualche modo l’Air Force [39]. Scrivendo a Jerrie Cobb, Flickinger osservò che l’infelice attenzione prestata dai media a Ruth Nichols aveva avuto un peso notevole nella scelta di ritirare l’appoggio medico al loro programma da parte dell’Air Force [40]. L’uomo era scoraggiato, e disse a Miss Cobb di essere perfino più amareggiato di lei all’idea che il programma non potesse continuare. Gli ostacoli da superare per poter proseguire erano semplicemente troppo imponenti, e lo scienziato notificò ai responsabili dell’appena ribattezzata Wright Aerospace Medical Division e dell’Air Force School of Aviation Medicine che il programma era concluso [41]. Più tardi, in una lettera a Randy Lovelace, Flickinger fu ancora più schietto. I militari e i medici civili della Wright-Patterson e dell’Air Force School of Aviation Medicine gli avevano detto che, dal punto di vista degli interessi dell’Air Force Medical, quello che si poteva im-
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parare non valeva abbastanza da giustificare l’esperimento. In particolare, Flickinger citò cinque uomini secondo i quali il programma “Ragazze nello spazio” non doveva continuare [42]. Erano tutti colonnelli o generali dell’Air Force che occupavano posizioni preminenti nella ricerca aeromedica o che avevano lavorato con la NASA5. Il dottor Stanley Mohler ricorda gli uomini che obiettarono come persone molto determinate e di stampo reazionario. Dirà: “Quei tipi erano dei veri mastini” [43]. Pur ammettendo di ignorare se l’organismo femminile fosse in grado di affrontare il volo spaziale, l’Air Force non era interessata ad approfondire le sue conoscenze. Respingere qualunque esperimento in grado di fornire dei dati sulla fisiologia femminile non era solo una questione di disinteresse. Scoprire che le donne erano più forti e fisicamente più abili di quanto si fosse pensato fino a quel momento, infatti, avrebbe anche potuto mettere in dubbio la rivendicazione della forza, del coraggio e della superiorità maschili tipica dell’esercito. Fintanto che si attribuivano ai militari uomini qualità fisiche uniche, tali da permettere loro di compiere missioni pericolose, questi avevano il monopolio dei settori del collaudo militare come piloti e del volo spaziale come astronauti. Gli ufficiali della Wright-Patterson preferivano, molto semplicemente, non sapere cosa fossero in grado di fare le donne pilota piuttosto che affrontare la possibilità della “pubblicità negativa” che avrebbe potuto accompagnare le nuove scoperte scientifiche sul genere femminile [44]. Di certo non desideravano che nessuno scoprisse che una donna di cinquantotto anni poteva farcela a superare dei test che erano stati messi a punto per dei giovani soldati vigorosi.
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Secondo Flickinger, tra gli uomini che bocciarono il progetto c’erano due ex dirigenti del Wright Aeromedical Laboratory: il colonnello Jack Bollerud e il colonnello Otis Benson, che in seguito diverrà comandante della School of Aviation Medicine. Gli altri erano il generale di brigata Charles H. Roadman, che aveva iniziato a lavorare alla Wright-Patterson prima di diventare direttore di medicina aerospaziale per il NASA’s Office of Manned Space Flight, il luogotenente colonnello William Turner, che era stato presidente della commissione di valutazione dei candidati presso il Wright Aeromedical Laboratory, e Larry Lamb, che era un cardiologo civile presso la School of Aviation Medicine e aveva lavorato come consulente per la Space Task Force della NASA.
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C’era anche un problema con le tute a pressione parziale che venivano indossate da piloti e astronauti per sopravvivere al volo ad alta quota. Come sa chiunque abbia volato su un aereo, o scalato una montagna, l’organismo umano reagisce in modo diverso alle alte quote. Le orecchie si tappano; parecchi faticano a respirare; qualcuno soffre di vertigini a mano a mano che l’altezza aumenta. Per piloti come Miss Cobb, che stabilivano dei primati di quota in apparecchi non pressurizzati, l’ossigeno supplementare era essenziale. A quote superiori ai 50.000 piedi, l’uomo ha bisogno di una tuta pressurizzata per evitare che il sangue inizi letteralmente a bollire. I gas che normalmente sono disciolti nel nostro organismo escono in fretta dalla loro soluzione e ne scaturiscono ribollendo, proprio come succede quando si apre una lattina contenente una bibita gassata. A quote estremamente elevate la pressione atmosferica è così bassa che, secondo la NASA, “il vapore acqueo che si trova nell’organismo sembra bollire, e il corpo si gonfia come un palloncino” [45]. Ma l’Air Force aveva progettato tute a pressione parziale (PPS) solo per il corpo maschile. Chi sapeva quanti cambiamenti sarebbero serviti per adattare la tuta standard al corpo femminile? Anche se i sovietici erano stati capaci di riconfigurare la tuta spaziale per adattarla ai cani, gli americani ritennero che riconfigurarla per le donne fosse un compito complesso e oneroso [46]. Il pilota di X-15 Scott Crossfield sostenne che approntare una tuta spaziale non era sempre questione di burocrazia: si poteva far ricorso anche alla mera inventiva. Parti della prima tuta pressurizzata erano state preparate proprio nel suo stesso garage con la macchina per cucire della moglie, ricordò [47]. David Clark, che si distinse nella fabbricazione delle tute spaziali, aveva iniziato la sua carriera come fabbricante di lingerie a Worcester, nel Massachusetts. Iniziò a creare tute spaziali negli anni Trenta, usando come modelli i reggiseni. “I reggiseni erano progettati molto bene”, dirà Crossfield [48]. Quando si trattò di compiere dei test sulle donne alla Wright-Patterson, però, nessuna dose di inventiva fu sufficiente. Come disse Flickinger, la Wright-Patterson proprio “non riusciva a giustificare la spesa necessaria ad adattare le tute
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alle donne” [49]. In un certo senso, la risposta dell’Air Force suonava come una “barzelletta sulle donne” raccontata da un comico piuttosto banale al The Ed Sullivan Show: “Perché le donne non possono fare le astronaute? Perché non hanno niente da mettersi”. Frustrato e deluso, Flickinger capì che era inutile sperare di riuscire a convincere l’Air Force a portare avanti la parte di programma che lui e Lovelace avevano ideato per la Wright-Patterson. L’Air Force gli aveva dato uno schiaffo deciso e, giunto a quel punto, lui non poteva ribaltare quello che aveva tutta l’aria di un ordine. Flickinger passò l’intero programma “Ragazze nello spazio” a Lovelace, e si offrì volontario per parlare di nuovo con gli ufficiali della Wright-Patterson se Lovelace avesse desiderato provare a sua volta a persuaderli a supervisionare le prove delle donne presso i laboratori di Dayton. “Personalmente, io continuo a nutrire un enorme interesse [nel sottoporre le donne pilota ai test] e credo che questo vada fatto su basi più scientifiche possibile. Sento (forse solo per istinto) che se fosse fatto in maniera accurata, su una scala sufficientemente ampia, si scoprirebbero delle differenze molto interessanti tra le reazioni degli uomini e quelle delle donne” [50]. Flickinger inoltrò a Lovelace l’elenco dei nominativi che lui e Miss Cobb avevano messo assieme. Nel concludere la sua missiva, Flickinger scriveva che avrebbe lasciato volentieri la Andrews Air Force Base e l’Air Research and Development Command per recarsi alla Lovelace Foundation a eseguire personalmente le valutazioni psicologiche specialistiche delle donne [51]. Ciò non sarebbe mai accaduto, purtroppo. L’Air Force aveva sbattuto la porta che Ruth Nichols aveva aperto. Ma quell’inverno ad Albuquerque si spalancò un’altra porta. La Lovelace Foundation for Medical Education and Research si rivelò un’eccellente alternativa. Si trattava di una struttura civile, che non era soggetta agli ordini di una gerarchia militare, né era tenuta a rispondere a domande sugli stanziamenti dei fondi pubblici. E, cosa altrettanto importante, l’energia, la lungimiranza, le relazioni influenti e la dedizione della fondazione emanavano tutte da Randy Lovelace e, fintanto che lui ne fu al timone, le sue passioni si riflettevano nel lavoro
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che veniva fatto. Una delle ragioni fondamentali per cui la NASA dipendeva da Randy Lovelace come presidente del suo Comitato straordinario per le scienze naturali era che l’agenzia spaziale alla fine degli anni Cinquanta era appena nata e non disponeva di un’unità medica completa all’interno della sua struttura. Nel 1958, allorché Eisenhower trasformò la NACA nella NASA, T. Keith Glennan venne incaricato di instillare nella neonata agenzia una certa organizzazione e coordinazione. Nel suo This New Ocean, storia onnicomprensiva dell’era spaziale, William E. Burrows scrisse che Glennan era come un direttore d’orchestra impegnato ad armonizzare i singoli musicisti in un ensemble. Burrows osservò che Glennan “era sottoposto a una pressione molto forte per riuscire ad accordare i musicisti e farli suonare sotto la sua direzione mentre il pubblico – ovvero il presidente degli Stati Uniti, il Congresso, i mezzi di comunicazione e l’intera nazione – lo teneva d’occhio con ansia, convinto che i russi fossero in testa” [52]. Durante quei primi anni, la NASA operava ancora presso la Dolley Madison House di H Street, a Washington D.C., con solo centosettantasette persone impiegate presso il quartier generale [53]. Il Manned Spacecraft Center di Houston, futura sede dei test e degli addestramenti degli astronauti, sarebbe stato costruito solo due anni dopo. In quei primi anni dunque, quando la NASA “non era molto più che un organigramma”, stando a quanto dice il dottor Donald Kilgore (collega di Lovelace), la Lovelace Foundation era “di fatto il dipartimento medico” dell’agenzia spaziale [54]. La NASA ingaggiava fornitori esterni quali la Lovelace Foundation per portare a termine il lavoro che lei non aveva i mezzi di affrontare, o per i quali addirittura non era stata neanche programmata, all’inizio. Burrows riferì che ora del 1961 la NASA dava lavoro a cinquantottomila persone tramite gli appaltatori. L’anno successivo il loro numero salì a centosedicimila. Entro il 1965, era arrivato a trecentosettantasettemila [55]. Quando la NASA aveva bisogno di un lavoro che comportava competenza medica, segretezza e rapidità, si rivolgeva a Randy Lovelace. Accettando da Flickinger la piena responsabilità per l’esperimento dei test alle donne astronauta, Randy contattò Jerrie Cobb per sco-
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prire se fosse ancora interessata a essere il soggetto pilota del test. Lei era ancora entusiasta. Non le interessava se ciò sarebbe avvenuto nel New Mexico o in Ohio. Era disposta a viaggiare ovunque. Lovelace le spiegò che allora gli esami si sarebbero tenuti presso la Lovelace Foundation, ad Albuquerque, e che lei avrebbe dovuto trascorrere una settimana presso la fondazione, alloggiando in un motel al di là della strada e sottoponendosi alla stessa batteria di esami fisici ai quali l’anno precedente erano stati sottoposti gli astronauti del Programma Mercury. Ora che la Wright-Patterson era off limits, Lovelace non aveva idea di dove Miss Cobb avrebbe potuto sottoporsi allo stadio successivo dei test, ovvero quello comprendente i test psicologici e quelli di simulazione del volo spaziale. Ma ostacoli di quel genere non turbavano Randy Lovelace. Lui era sempre stato convinto che i dettagli si sarebbero risolti da soli. Controllando l’intensa programmazione dei progetti di ricerca della fondazione nei mesi a venire, Lovelace individuò nella settimana di San Valentino un periodo nel quale il suo staff avrebbe potuto dedicare la propria attenzione a Jerrie Cobb. La data andava bene anche per Jerrie, e Randy le chiese di tenere segreti i suoi imminenti programmi di viaggio. Ora tutto quello che Lovelace e Miss Cobb dovevano fare era aspettare e sperare che nient’altro si ritorcesse contro i loro progetti.
4. La prospettiva da Albuquerque
Non era difficile per Jerrie Cobb mantenersi occupata mentre aspettava l’arrivo del giorno di San Valentino del 1960. Dopo tutto, aveva sempre il lavoro alla Aero Design and Engineering di Oklahoma City, che riempiva fin troppo le sue giornate tra voli dimostrativi, viaggi promozionali e raduni aeronautici. Durante una settimana tipo, per esempio, Jerrie portava in volo degli acquirenti in giro per il Southwest, per mostrare loro il funzionamento dell’Aero Commander. Poi, dopo un rapido salto in Oklahoma, giusto il tempo di svuotare le valige e riempirle di nuovo di abiti puliti, decollava alla volta di New York. Qui si intratteneva amichevolmente con i pezzi grossi dell’aviazione al banchetto annuale dello Wings Club, presso il WaldorfAstoria [1]. Il fascino pacato che sapeva sfoggiare in quelle occasioni mondane stupiva alcuni dei suoi amici. La giornalista Ivy Coffey pensava che Miss Cobb intuisse istintivamente molto più di quanto ammettesse riguardo all’importanza delle pubbliche relazioni [2]. In qualche modo era riuscita a trovare la maniera di adattare i discorsi da hangar dei piloti al chiacchiericcio da cocktail party di Manhattan. Di tanto in tanto, le relazioni pubbliche e i viaggi promozionali che faceva per l’Aero Design le portavano anche qualche vantaggio personale. Dopo l’evento di New York, Jerrie volò a Panama City, in Florida, per la settima World-Wide Weapons Meet presso la Tyndall Air Force Base. Il soprannome di questa gara, “William Tell Project”, le derivava dal fatto che durante il suo svolgimento venivano sparati dei missili dimostrativi contro dei jet bersaglio chiamati “mele”. Miss Cobb osservò le squadre di militari che gareggiavano nel lancio di missili aria-aria e studiò anche i sistemi di controllo radar che assiM. Ackmann, Mercury 13 © Springer-Verlag Italia, Milano 2011
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stevano il volo aereo in cattive condizioni meteorologiche. L’Air Force le rese onore presso la Tyndall, eleggendola “Aviatrice dell’anno”, e le fece omaggio di qualcosa di molto più importante per lei di una targa o un’onorificenza. Le permise di pilotare un jet [3]. Il titolo dell’articolo di Ivy Coffey che apparve sul The Daily Oklahoman recitava: “Jerrie Cobb pilota un cacciareattore”. L’amica di Jerrie raccontava come Miss Cobb fosse stata ai comandi di un Delta Dagger TF-102A per circa quaranta minuti di un volo durato in tutto un’ora. Insieme a un pilota dell’Air Force, Jerrie volò a 46.000 piedi e infranse la barriera del suono, sorvolando veloce come un lampo il golfo del Messico, di notte, a Mach 1.3. Miss Cobb riferì di non aver incontrato difficoltà nel controllare l’aereo. “Non si provano sensazioni particolari, se si esclude il fatto che a tratti si ha la sensazione dell’assenza di gravità, ma quello, ovviamente, può capitare anche su altri tipi di aereo” [4]. L’unica esperienza davvero nuova era quella di avvertire la spinta dei postbruciatori dietro di sé: una sorta di “calcio fortissimo”, dirà Miss Cobb. In una missiva personale alla sua compagna di gare aeree, Jerri Sloan, Jerrie fu più esplicita e accennò a quanto fosse frustrante non avere abitualmente accesso ai jet. “Penso che siamo a bordo del tipo di aerei sbagliato, e sarò felice quando gli aviogetti entreranno nel settore aereo privato e commerciale”, si lamentò [5]. Miss Cobb non voleva essere costretta a dipendere dai favori, dai legami personali o dalle relazioni pubbliche per poter accedere all’era dei jet. I reportage fotografici che ritraevano Jerrie vicino alla cabina di pilotaggio del jet furono quasi altrettanto importanti che il volo in sé e per sé. Le fotografie, specialmente quelle in simili ambientazioni, erano molto preziose per lei. Miss Cobb, con il suo casco e la tuta da volo, è l’incarnazione della pilota perfetta, sicura di sé, con un piede sulla scaletta che conduce all’abitacolo. Quelle immagini verranno riutilizzate più volte negli articoli su di lei, e finiranno sulla copertina dei due libri che in seguito Jerrie scriverà sulla propria carriera. Solo una cosa stona nel ritratto che Miss Cobb voleva trasmettere al pubblico: il badge identificativo che porta appeso al collo recita: “Visitatore ufficiale”. Per quanto Jerrie volesse fissare in modo duraturo
La prospettiva da Albuquerque
l’idea di se stessa come pilota di jet, i militari la vedevano in un altro modo. Jerrie Cobb sarebbe sempre stata un’ospite, un’intrusa. Diversamente da Miss Cobb, Jackie Cochran godette di una cooperazione senza precedenti da parte dei militari quando si trattò di pilotare gli aerei più veloci e più innovativi dell’intera America. Ciononostante alcuni piloti, tra cui lo stesso Chuck Yeager, non riuscivano a rendersi conto che l’accesso di Mrs Cochran ai jet era dovuto tanto alla sua influenza quanto alla sua capacità. Yeager era convinto che nessuna barriera impedisse a una brava donna pilota di condurre un jet nel 1959, e portava a esempio Mrs Cochran come prova a sostegno della propria tesi. Secondo Yeager, Jackie pilotava jet perché era intraprendente e afferrava al volo le opportunità; molto semplicemente, le altre donne pilota non avevano il suo talento. Quando spiega come sia giunta ad avere accesso ai jet, però, la logica di Yeager rivela delle contraddizioni. “Jackie acquistò un P-51, e lo fece correre perché ne aveva le capacità. Poi, quando arrivarono gli F-86, nel periodo in cui suo marito possedeva parte della Canadair, Jackie persuase la stessa Canadair a ingaggiarla come collaudatrice civile” [6]. Lo stesso Yeager le fornì delle opportunità di cui non godette nessun’altra donna, aiutandola ad addestrarsi per il volo in cui l’aviatrice infranse il muro del suono, nel maggio del 1953, occasione in cui addirittura volò in formazione con lei a bordo di un F-86 dell’Air Force. L’Air Force non solo le diede il permesso di servirsi della sua base di Edwards, ma le fornì anche l’attrezzatura e le mise a disposizione i quindici membri del personale che servivano per preparare l’aereo [7]. Il generale Jimmy Doolittle, tuttavia, nutriva delle perplessità riguardo al fatto che Mrs Cochran si servisse delle strutture dell’Air Force. In particolare, era preoccupato all’idea che si schiantasse: che razza di immagine avrebbe trasmesso una donna civile che si feriva o moriva in una base dell’Air Force? [8]. Il pubblico non era abituato a vedere una donna in condizioni pericolose, e tanto meno a vedercela finire con l’aiuto del governo. Doolittle pretese da parte di Yeager la garanzia che Mrs Cochran fosse pronta per quel volo. Per Chuck, il volo del record di Jackie era la prova che alle donne non era proibito pilotare jet. “C’erano almeno altre milleduecento donne che
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avrebbero potuto essere delle aviatrici altrettanto brave, con altrettanta esperienza. Ma quando la Seconda guerra mondiale terminò, quelle donne rinunciarono a volare. Tornarono a dirigere le loro imprese, o a fare le casalinghe e le mamme. Jackie non avrebbe mai rinunciato. Lei ha insistito fino ad arrivare agli aerei più veloci” [9]. Avvicinandosi la data dei test alla Lovelace, Jerrie Cobb decise di eliminare tutte le distrazioni per potersi preparare fisicamente e mentalmente alla sfida che le si profilava davanti. Fare la pendolare per il lungo tratto che andava dalla casa dei genitori a Ponca City al suo ufficio dell’Aero Design a Oklahoma City, per esempio, era una seccatura. Ivy Coffey aveva affittato una vecchia casa di mattoni e stucco, molto spaziosa, in Classen Drive, a Oklahoma City. Oltretutto lei passava lontana molto tempo, per coprire storie qua e là nello Stato, e così offrì alloggio a Jerrie [10]. Quest’ultima accettò e traslocò, e ben presto le dieci stanze della casa si trasformarono in un campo d’addestramento per il test imminente. Proprio come aveva fatto con gli uomini del Programma Mercury, Lovelace chiese a Miss Cobb di non parlare a nessuno del suo viaggio ad Albuquerque. Randy preferiva diffondere la notizia dei test una volta che tutti i dati fossero stati analizzati. Jerrie mantenne il segreto, nonostante i suoi colleghi alla Aero Design fossero disorientati vedendola arrivare al lavoro ogni mattina per sei settimane con i capelli umidi e l’aria esausta. Jerrie aveva ideato un suo regime di allenamento personale, che comprendeva venti giri di corsa a piedi nudi attorno a un vasto appezzamento vuoto che si trovava di fronte alla casa di Ivy (ogniqualvolta era possibile preferiva correre scalza), alle cinque del mattino. Dopo una doccia veloce, senza nemmeno il tempo di asciugarsi i capelli, andava al lavoro. La sera ripeteva i giri di corsa (aumentando via via il numero dei giri fino a raggiungere le cinque miglia, ovvero otto chilometri circa), facendo seguire loro venti miglia di pedalata su una cyclette installata nella sala hobby – oltre trentadue chilometri. Quando il tempo lo consentiva, a volte aggiungeva alla sua routine quotidiana anche una partita a golf o a tennis, o una nuotata. Prese in considerazione anche la propria dieta, aumentando il carico di alimenti che, a suo avviso, sa-
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rebbero serviti a darle più forza durante i difficili esami che le si prospettavano. Oltre a continuare a mangiare hamburger a colazione come era sua abitudine, ingurgitò braciole di maiale e bistecche, formaggio e latte [11]. La sera barcollava stanca morta fino alla sua camera, piena di souvenir dei suoi giorni come ferry pilot, come i cartelli con la scritta “Non disturbare” e “Occupato” provenienti dagli aerei di linea sudamericani e dagli alberghi europei o il crocifisso d’ebano del Sudafrica [12]. Infine, crollando sul letto, dormiva per nove ore filate, e talvolta anche di più, per poi ricominciare ad allenarsi la mattina successiva. Miss Cobb aveva un’idea di quello a cui stava andando incontro. Randy Lovelace aveva collaborato con i redattori della rivista Life alla stesura di un articolo di due pagine nel quale descriveva i test medici che aveva ideato per gli astronauti del Programma Mercury. Il pezzo era apparso dopo che i sette astronauti erano stati presentati pubblicamente e aveva dato alla Cobb un’idea di quello che le sarebbe stato richiesto ad Albuquerque. E, fatto quasi altrettanto significativo, la prosa di Lovelace e i dettagli degli esami sui quali si era focalizzato permettevano di farsi un’idea anche della personalità del dottore stesso. Si percepiva chiaramente che Lovelace era entusiasta di essere parte della grande impresa spaziale, ed era orgoglioso che la Lovelace Foundation fosse stata scelta per esaminare gli aspiranti astronauti, anche se, come scrisse lui stesso, “in parte è stata scelta perché la sua posizione geografica isolata semplifica i problemi di sicurezza della NASA” [13]. Lovelace non fece alcun tentativo di minimizzare la natura onnicomprensiva degli esami, che definì “una delle visite mediche più ardue della storia”. Illustrò diciassette procedure diverse per esaminare la vista, descrisse la disagevole valutazione della chinetosi, e un test “impopolare” in cui si conficcava un elettrodo molto piccolo nella muscolatura della mano del pilota per misurare la sua reazione elettrica alla stimolazione dei nervi [14]. Il dottor Lovelace dimostrò di avere anche senso dell’umorismo quando non riuscì a trattenersi dal sottolineare l’assurdità di virili collaudatori ridotti a un ammasso di funzioni corporali di base. “Il nostro staff si abituò a
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vedere uomini che avanzavano lungo i corridoi portando una valigetta piena di documenti in una mano, e una caraffa graduata da quattro litri piena di urina nell’altra” [15]. Evidentemente Randy Lovelace apprezzava un carattere tollerante, ottimista e non portato alle lamentele, sia in se stesso che negli altri. A dispetto della sua solida preparazione, uno dei test di Lovelace riempiva di terrore Miss Cobb. Life aveva scritto che “Ciò che l’uomo a bordo della prima capsula spaziale deve dire sarà altrettanto importante di tutti i dati che verranno registrati dai suoi dispositivi elettronici” [16], e aveva pubblicato parola per parola un brano ideato da un professore della Western Michigan University, il dottor Charles Van Riper, che sosteneva contenesse tutti i suoni della lingua inglese. Quasi tutti coloro che videro questo brano su Life lo lessero ad alta voce per misurare l’efficacia della propria pronuncia. Il passaggio era il seguente: You wished to know all about my grandfather. Well, he is nearly 93 years old; he dresses himself in an ancient black frock coat, usually minus several buttons, yet he still thinks as swiftly as ever. A long, flowing beard clings to his chin, giving those who observe him a pronounced feeling of the utmost respect. When he speaks, his voice is just a bit cracked and quivers a trifle. Twice each day he plays skilfully and with zest upon our small organ. Except in the winter when the ooze or snow or ice prevents, he slowly takes a short walk in the open air each day. We have often urged him to walk more and smoke less, but he always answers, “Banana Oil!” Grandfather likes to be modern in his language. 1 [17]
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“Vorresti sapere tutto su mio nonno. Allora, ha quasi novantatré anni e indossa un’antiquata redingote nera, alla quale normalmente mancano parecchi bottoni. Ciò non toglie che la sua mente sia tuttora pronta come lo era in passato. La lunga barba fluente che gli pende dal mento ispira il massimo rispetto in chi lo guarda. Quando parla, la sua voce è appena incrinata e ha un leggero tremito. Due volte al giorno, il nonno suona il nostro piccolo organo con talento ed entusiasmo. A parte che in inverno, allorché la fanghiglia, la neve o il ghiaccio glielo impediscono, il nonno fa quotidianamente una lenta passeggiata all’aperto. Noi spesso lo esortiamo a camminare di più e fumare di meno, ma lui ci risponde sempre: ‘Acetato di amile!’. Al nonno piace usare un linguaggio moderno.” (N.d.T.)
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Con ancora freschi nella memoria il suo difetto infantile di pronuncia e lo sfortunato corso di oratoria all’Oklahoma College for Women, Miss Cobb deve aver pensato che nessuna competenza nell’abitacolo avrebbe potuto esserle d’aiuto in quel frangente. Jerrie non poteva sapere che Randy Lovelace, oltre a essere stato eletto il “meno destinato al successo” della sua classe del liceo, era anche un pessimo oratore, da giovane. Durante il suo ultimo anno, la sua capacità di parlare in pubblico fu giudicata “mediocre” dal suo insegnante di oratoria [18]. A meno di due settimane dalla partenza segreta di Miss Cobb per Albuquerque, un’altra aviatrice fece parlare tutti delle donne astronauta. Betty Skelton, che Miss Cobb aveva proposto al generale di brigata Flickinger come possibile candidata per il suo programma “Ragazze nello spazio”, apparve sulla rivista Look in un servizio speciale intitolato: “Il volo nello spazio dal punto di vista di una donna” [19]. L’invito a partecipare al reportage le era giunto dal redattore aeronautico della rivista e non era stato promosso dalla NASA o da fornitori dell’agenzia. Il servizio speciale, però, godette della cooperazione della NASA, dell’Aeronautica militare statunitense e della Marina militare, oltre che di quella della McDonnell Aircraft Company e degli stessi astronauti del Programma Mercury. Alcuni detrattori definirono l’articolo una trovata pubblicitaria. Di sicuro, le agenzie che collaborarono considerarono la propria partecipazione un mero esercizio di pubbliche relazioni. La NASA non pensò mai che le esercitazioni di Betty Skelton per Look potessero preludere a un programma ufficiale di astronautica per le donne. La stessa Skelton era molto realistica riguardo allo scopo dell’articolo. La donna si era esibita come pilota in spettacoli di volo acrobatico con le Navy’s Blue Angels ed era profondamente consapevole che, mentre lei stava conducendo degli aerei a elica, gli uomini della Marina portavano dei jet. Sapeva che c’erano moltissimi uomini, che lei definiva “scettici”, secondo i quali le donne erano assolutamente prive dei requisiti necessari per sfide aeronautiche quali pilotare dei jet o volare nello spazio [20]. Pur rendendosi conto che non la stavano prendendo in considerazione come poten-
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ziale astronauta, la Skelton ci teneva a dimostrare che le donne erano all’altezza del compito. “Ho fatto tutto quello che ho potuto”, dirà. “Sentivo che era un’occasione per cercare di convincerli che una donna poteva fare quel genere di cose, e poteva farlo bene” [21]. Betty Skelton era una scelta carismatica per il servizio. Esuberante e intrepida, la trentatreenne aviatrice alta un metro e sessanta era anche una brillante pilota, conosciuta soprattutto grazie a una manovra acrobatica chiamata “il taglio del nastro in rovesciata”. Mentre degli assistenti tenevano un nastro sospeso a tre metri da terra, Miss Skelton lo tagliava in due con l’elica del suo aereo, volando capovolta. Detentrice di due record mondiali di quota, amava anche fare paracadutismo in caduta libera, guidare motociclette, fare boat jumping, e competere nelle gare automobilistiche, nelle quali per quattro volte stabilì il record femminile di velocità su terra. Miss Skelton è stata la prima donna a guidare a oltre trecento miglia orarie (quasi cinquecento chilometri!) ed era l’epitome di quello che i redattori di Look intendevano quando sostenevano che, paragonate agli uomini, “le donne hanno una marcia in più” [22]. Era anche una persona che sapeva stare allo scherzo, che interagiva allegramente con gli astronauti uomini e che prendeva bene sia le canzonature che le occasionali critiche degli ufficiali aerospaziali. Parlando della possibilità di mandare delle donne nello spazio, un uomo le disse: “Se potessi fare a modo mio, ce le manderei tutte quante”. Betty commenterà: “Quella frase mi diede una mezza idea di come stavano le cose” [23]. Il reportage di Look, in concorrenza con quello di Life, che aveva l’accesso esclusivo agli astronauti del Programma Mercury, fornì informazioni di prima mano su quello che gli astronauti avrebbero indossato, su dove avrebbero vissuto e su cosa avrebbero affrontato nello spazio interstellare. Per quattro mesi, a cavallo tra la fine del 1959 e l’inizio del 1960, Betty Skelton attraversò la nazione, prendendo parte a diverse esercitazioni con Scott Carpenter, Wally Schirra, Alan Shepard, John Glenn e Gus Grissom. A San Antonio si sottopose al tilt-table test, l’esame in cui ci si sdraia su una panca a inversione gravitazionale, presso la School of Aviation Medicine; a St Louis
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provò una tuta spaziale presso la McDonnell Aircraft; a Johnsville, Pennsylvania, ispezionò la più grande centrifuga esistente al mondo presso il Naval Air Development Center; e in Virginia esaminò la capsula Mercury al Langley Field. Si sottopose alle esercitazioni in assenza di gravità in piscina usando un autorespiratore, impresa che mise alla prova la sua forza di volontà, dato che non sapeva nuotare [24]. Miss Skelton trovò che il medico degli astronauti, il dottor William Douglas, fosse “un po’ meno negativo della maggior parte” degli uomini coinvolti nel programma spaziale, perché secondo lui le donne in effetti potevano essere meglio attrezzate rispetto agli uomini a gestire i periodi di inattività propri del volo spaziale. Betty suppose che il dottor Douglas trovasse le donne eccezionalmente portate a sopportare la noia perché per lo più erano casalinghe che rifacevano “continuamente la stessa cosa”, che di solito implicava una sollecitazione intellettuale decisamente minima [25]. Anche se è vero che l’articolo su Look dichiarava che non esistevano “dati definitivi” su come avrebbero reagito le donne rispetto agli uomini una volta che si fossero trovate ad affrontare le tensioni fisiche e psicologiche proprie del volo spaziale, i risultati dei test di Miss Skelton brillavano per la loro totale assenza dalla storia. Per la precisione, Betty fu ritratta mentre ascoltava gli astronauti e ne riceveva consigli; venne fotografata con addosso i pigiami degli uomini, le mani infilate scherzosamente nelle tasche ad allargare la parte di stoffa eccedente come avrebbe fatto un bambino che gioca a indossare gli abiti dei “grandi”. I tecnici della Brooks Air Force Base le avevano dato il pigiama confessando di non avere a disposizione abiti adatti a una donna che dovesse essere sottoposta ai test. “Penso che ciò dimostri chiaramente come non stavano assolutamente prendendo in seria considerazione le donne, al punto da non avere nemmeno l’attrezzatura necessaria per sottoporle ai test, a quell’epoca”, osserverà lei [26]. Mentre le sue capacità non vennero mai messe apertamente in discussione dagli astronauti stessi né da nessuno dei funzionari spaziali che incontrò, era chiaro che la sua esperienza non era altro che una trovata pubblicitaria ben orchestrata.
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Dopo aver parlato con i medici, i militari, gli ingegneri aerospaziali e gli psicologi, Look riassunse le caratteristiche della prima astronauta ideale, e ne fornì una descrizione sommaria. Doveva avere meno di trentacinque anni, doveva essere sposata, essere una pilota, un’atleta di prim’ordine che eccelleva nel nuoto e nello sci più che in sport maschili quali il wrestling. La sua conoscenza scientifica doveva spaziare “dall’astronomia alla zoologia”, e forse avrebbe potuto essere ammessa a bordo come “angelo del focolare-scienziata o pilota-macchinista”. Prevedendo inevitabili complicazioni con l’adattamento delle tute spaziali, disegnate per il maschio medio, la donna astronauta ideale avrebbe dovuto avere “poco seno” e non essere “giunonica”. La sua capacità di provvedere al benessere del gruppo e di essere un pungolo per gli altri membri dell’equipaggio sarebbe stata altrettanto importante della sua attitudine a far fronte all’isolamento [27]. Uno degli scienziati intervistati da Look per il servizio fu Don Flickinger, che offrì dei chiarimenti per il pezzo, fu fotografato con Miss Skelton, e predisse che, anche se non sarebbero entrate nel corpo astronautico a breve, le donne avevano una buona possibilità di esservi incluse allorché fossero stati introdotti i veicoli spaziali orbitali semimanovrabili per tre persone [28]. All’epoca in cui accettò di partecipare al servizio speciale su Betty Skelton, molto probabilmente Flickinger sapeva già che il programma “Ragazze nello spazio” della Wright-Patterson era stato cancellato. Nell’articolo non venne fatto alcun accenno al suo programma sperimentale, né alla sua fulminea caduta. Di fatto, per quanto fosse un reportage che sosteneva che avrebbe offerto uno scorcio su come gli astronauti del Programma Mercury erano stati esaminati, sia la Lovelace Foundation che l’Aerospace Medical Division si facevano notare per la loro assenza dal pezzo. Senza dubbio, la Wright-Patterson e il colonnello John Stapp non avrebbero dato l’autorizzazione per alcun test astronautico a nessun’altra donna, che si trattasse di una prova vera o di una messinscena. Randy Lovelace, ovviamente, stava preparando il test di Jerrie Cobb ad Albuquerque, e nel frattempo si era addirittura già mosso per un paginone su un’altra rivista. Infatti, mentre il personale della Lo-
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velace Foundation si preparava a sottoporre alle prove del Programma Mercury una donna, Ralph Crane, un fotografo di Life, si apprestava a fotografare ogni passo di Jerrie per un’esclusiva ormai imminente. Scendendo lungo la Gibson Avenue dall’Albuquerque Airport, gli edifici della Lovelace Foundation and Clinic erano facili da individuare. Progettato da John Gaw Meem, il cui La Fonda Hotel era una delle strutture più fotografate di tutta Santa Fe, il complesso medico era uno stupefacente esempio di architettura in stile pueblo. Visivamente d’effetto come il progetto di Meem, rappresentava brillantemente anche i fondatori dell’istituzione e il loro duplice scopo: la forte dedizione della clinica alla cura del paziente e la ricerca visionaria della fondazione. Con le Sandia Crest Mountains alle spalle, ogni sera al tramonto l’intera scena si tingeva di rosa per un fugace lasso di tempo, assumendo un’appetitosa sfumatura anguria. Esattamente a quell’ora della sera, il complesso Lovelace ricordava quattro gigantesche scalinate di mattoni essiccati al sole che si arrampicavano verso le lontane montagne per salire fino in cielo. Quando i pazienti e i medici della Lovelace si erano accorti che era complicato cercare di distinguere William Randolph Lovelace dal nipote William Randolph Lovelace II, avevano finito per chiamarli semplicemente Uncle Doc, lo zio dottore, e Randy. I due uomini divennero un tutt’uno con l’istituzione che portava il loro nome, proprio come il telefono del fuori orario al centralino dell’ospedale divenne un tutt’uno con quello di casa dello zio dottore, dove squillava simultaneamente. Come molti altri “malati polmonari” che si erano stabiliti nel sudovest in cerca di aria pulita e di sollievo ai propri disturbi respiratori, anche Uncle Doc si era trasferito, andando a Sunnyside (la futura Fort Sumner), New Mexico, nel 1906. Oltre a ottenere dei benefici per la propria salute, l’uomo avrebbe avuto l’opportunità di lavorare come medico per la Santa Fe Railroad, sfruttando così la laurea medica appena conseguita presso la St Louis University. Quando Uncle Doc ebbe una ricaduta, quasi tutti i suoi familiari, compreso il giovane nipote, lasciarono il nativo Missouri per trasferirsi nel New Mexico. I Lovelace si fermarono lì, e Uncle Doc si ristabilì al punto da recarsi a fare le sue
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visite mediche a cavallo, con un revolver Iver Johnson da due dollari e mezzo nella propria borsa [29]. Dopo il divorzio dei genitori, Randy Lovelace iniziò a trascorrere sempre più tempo con lo zio, che nel frattempo si era trasferito ad Albuquerque, dove stava mettendo in piedi un prospero poliambulatorio. Randy tornò nel Missouri per compiere gli studi universitari presso la Washington University, dopo di che studiò brevemente alla Cornell prima di laurearsi in medicina ad Harvard, nel 1934. Alla laurea fece seguito l’internato al Bellevue di New York, dove aveva sperato di rimanere fino a quando lo zio non lo convinse che valeva la pena di considerare la Mayo Clinic, a suo parere l’ideale di struttura medica dinamica. Concordando, il nipote accettò un posto come ricercatore in chirurgia. Il lavoro con il suo mentore, il dottor Walter Boothby, accrebbe ulteriormente il fascino che la medicina aeronautica esercitava su Randy e portò alla collaborazione di entrambi con il dottor Arthur Bulbulian, insieme al quale inventarono la maschera BLB per l’alta quota. Entro la fine degli anni Trenta, Randy si era stabilito a Rochester, Minnesota, con la moglie Mary Moulton, di Albuquerque, sposata nel 1933. Qui i due ebbero il loro da fare a crescere i primi tre figli: Mary Christine, nata nel 1938; William Randolph Lovelace III, nato nel 1940; e Charles Moulton, che era arrivato nel 1942. Sempre nel 1942, Randy prese un permesso dalla Mayo Clinic e, grazie alle sue credenziali come chirurgo aeronautico, prestò servizio nell’Aeronautica militare. Questi anni sono caratterizzati dal suo famoso salto con il paracadute e da una breve parentesi come direttore dell’Aeromedical Laboratory presso il Wright Field. Dopo la guerra, Lovelace tornò alla sua carriera presso la Mayo Clinic, mentre la Lovelace, sotto la direzione dello zio, cresceva fino a diventare la struttura di punta di Albuquerque per l’assistenza al malato. Randy e Mary Lovelace avrebbero benissimo potuto continuare a incentrare le loro esistenze sulla famiglia che stava crescendo, sul lavoro di lui alla Mayo Clinic e sui concerti di lei come violinista con la Rochester Symphony. Nel 1946, invece, vennero colpiti da una tragedia familiare. Un’epidemia di polio travolse il Minnesota durante
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l’estate e il piccolo Ranny morì all’improvviso, il 7 luglio. Mentre i suoi genitori organizzavano il funerale, ad Albuquerque, anche Charles manifestò gli stessi, devastanti sintomi del fratello. Jackie Cochran, grande amica di Randy, partì immediatamente alla volta del New Mexico per prestare aiuto. Prese Mary Lovelace e il piccolissimo Charles, di soli tre anni, e li portò al celebre ospedale intitolato al presidente Roosevelt, specializzato nella cura della polio, a Warm Springs, Georgia, a bordo del suo aereo privato. Alcune settimane più tardi anche Charles morì, e Mary e Randy seppellirono il loro secondo figlio. A quel punto, la coppia molto semplicemente non se la sentì di tornare nel Minnesota. I due si stabilirono in New Mexico, in seno alla famiglia, e cercarono ristoro in quei territori selvaggi e aperti che entrambi amavano. In seguito nacquero due figlie: Sharon, nel 1947, e Jacqueline, due anni più tardi, che prese il nome dalla madrina, Jackie Cochran. Presto Uncle Doc sottopose a Randy un’idea su come ampliare la clinica. Gli sarebbe interessato fermarsi ad Albuquerque per metter su una nuova fondazione di ricerca, una struttura che in parte si sarebbe focalizzata sulla medicina aeronautica? Randy accettò la proposta dello zio, e i due si misero al lavoro. Entro il 1947, servendosi della Lovelace Clinic come base, era nata la Lovelace Foundation for Medical Education and Research. Floyd Odlum, il ricco finanziere che aveva sposato Jackie Cochran, divenne presidente del consiglio di amministrazione. Con uno spiccato interesse personale per l’aviazione, Odlum usò il proprio denaro e la propria notevole influenza per finanziare gli arditi esperimenti di Randy. La fondazione si sviluppò rapidamente prendendo parte a progetti di ricerca per i National Institutes of Health, l’Atomic Energy Commission, l’Air Force e la NASA. Con Uncle Doc a occuparsi della clinica, e Randy a dirigere la fondazione, le istituzioni Lovelace prosperarono. Molti medici dell’Air Force andarono a lavorare per la Lovelace Foundation dopo essersi congedati dall’esercito. Tra Lovelace, l’Air Force School of Aviation Medicine e lo U.S. Air Force Air Research and Development Command si svilupparono collaborazioni proficue. Quando Jerrie Cobb entrò nell’atrio del grande edificio medico in stile pueblo
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disegnato da John Gaw Meem per iniziare i suoi test da astronauta, nel febbraio del 1960, non poteva certo immaginare che un decennio prima quello spazio era occupato da una grande mesa desolata e vuota. In quel momento, con gli imponenti edifici medici della Lovelace ben saldi al loro posto, il paesaggio sulla Gibson Avenue senza dubbio ribolliva di ambizioni [30]. Miss Cobb giunse al Bird of Paradise Motel di Albuquerque domenica sera, il giorno di San Valentino. Il destino volle che Randy fosse fuori città. Lo sarebbe stato per l’intera settimana. La sua assenza non era insolita. I medici della Lovelace Foundation erano abituati ai suoi ritmi febbrili. “Capitava spesso che Randy operasse un paio di cistifellee in mattinata avendo un aereo da prendere alle 12.30... e ce la faceva sempre!”, dirà Don Kilgore [31]. Gli altri medici si limitavano ad assumere il controllo della situazione, o lo stesso Randy incaricava qualcuno di prendere il suo posto. E così un internista, il dottor Robert Secrest, telefonò a Jerrie, quella sera, al motel, per salutarla e chiederle se avesse domande prima di dare il via ai test l’indomani mattina. Conoscendo l’osservanza militare degli uomini del Programma Mercury alla politica del “need to know”, ovvero del divulgare le informazioni solo tra i diretti interessati, Miss Cobb non chiese nulla. Fece due chiacchiere con Secrest e poi andò a dormire, rispettando scrupolosamente la direttiva del medico di non mangiare né bere nulla dopo la mezzanotte. La mattina successiva, la ventottenne Jerrie Cobb attraversò la Gibson Avenue ed entrò nel Lassetter Laboratory Building per iniziare i suoi test da astronauta. Attraversare quella porta aveva per lei un significato molto diverso rispetto a quello che aveva avuto appena un anno prima per i candidati al Programma Mercury che avevano compiuto quello stesso percorso. Carpenter, Cooper, Glenn, Grissom, Slayton, Shepard, Schirra e altri ventiquattro aspiranti astronauti maschi si apprestavano a entrare in competizione l’uno con l’altro per ottenere la chance di essere scelti come i primi astronauti della nazione. Il loro ingresso era parte di un viaggio epico che avrebbe fatto atterrare sette di loro nella capsula spaziale, posando una pietra miliare
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elettrizzante per il genere umano. Il governo federale aveva già dato per scontato che molti di quegli uomini avrebbero avuto la loro occasione di andare nello spazio. Se Shepard o Glenn non avessero superato i test, qualcun altro sarebbe stato scelto al loro posto. Se Jerrie Cobb non avesse superato le prove, invece, era improbabile che a lei o a qualche altra donna venisse offerta una seconda occasione. Il governo, come Ruth Nichols aveva fatto notare, controllava chi attraversava la porta che conduceva allo spazio. Se Miss Cobb avesse fallito, l’esperimento di Flickinger e di Lovelace sarebbe rimasto solo quello, appunto: un esperimento, con tanto di risultato negativo a confermare le molte supposizioni sulla limitata capacità fisica delle donne. Per i sei giorni successivi, Jerrie avrebbe combattuto contro panche a inversione gravitazionale, stimolazione elettrica dei nervi, tre piedi di tubo di gomma – oltre novanta centimetri – fatti scivolare giù per la sua gola, sfiancanti prove di resistenza, orecchie gelate, mani gelate, piedi gelati, misurazioni delle onde cerebrali, conteggio delle radiazioni, e la dose notturna di umiltà, i clisteri al bario. In tutto, i medici programmarono settantacinque test per misurare la portata del suo potenziale fisico. Eppure, nessuna battaglia fu più ardua di quella che dovette affrontare fuori dalle porte della Lovelace: la battaglia contro il sessismo. Come Ruth Nichols e Betty Skelton prima di lei, anche Miss Cobb comprese che, se lei si fosse dimostrata all’altezza, tutte quelle persone che opponevano resistenza all’idea di una donna nello spazio sarebbero state costrette a rivedere la propria posizione. Uomini come il colonnello John Stapp, che aveva espresso la propria contrarietà a esaminare le donne presso la Wright-Patterson, sarebbero stati meno attendibili quando asserivano che alle donne mancavano la forza, la resistenza, la volontà, e perfino la stabilità emotiva. Quel lunedì mattina, alle otto in punto, per Jerrie Cobb era a repentaglio ben più del suo successo personale. Era in gioco l’opportunità di aprire le porte in maniera definitiva per qualunque donna avesse desiderato pilotare un jet o una capsula spaziale. La possibilità di dimostrare il proprio valore ebbe inizio quel giorno con una tappa nel laboratorio e un campione di feci. Conteggi
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dei globuli nel sangue, esame sierologico, esame della funzionalità epatica, iodio sierico legato alle proteine, glucosio, colesterolo, fattore Rh, velocità di sedimentazione, analisi delle urine, anamnesi e un elettrocardiogramma arrivarono tutti prima di pranzo. Dopo mangiato, Jerrie trascorse il pomeriggio sottoponendosi a una proctoscopia, e concluse la giornata con dei vettocardiogrammi e delle radiografie sinusali e dentali. I test erano identici a quelli che il Comitato straordinario per le scienze naturali aveva richiesto per gli astronauti del Programma Mercury. Lovelace ordinò ai suoi medici di essere altrettanto meticolosi con Miss Cobb quanto lo erano stati con i candidati maschi, e di non limitare le proprie aspettative a causa di personali teorie sul potenziale femminile o di un qualche senso di cavalleria. Miss Cobb doveva essere spinta fin dove poteva arrivare. Lo scopo degli esami clinici presso la Lovelace era quello di mettere assieme dei dati comparativi. Nel testare gli astronauti maschi, la NASA voleva calcolare come fosse ogni uomo rispetto a un altro, per cui i medici avevano stabilito quelli che l’agenzia chiamò “livelli di buone condizioni fisiche... e la valutazione era basata sul confronto di ciascun uomo con gli altri” [32]. A ogni stadio dell’esame, i candidati venivano giudicati non in base al mero fatto che passassero o meno una specifica prova, ma piuttosto in base a quanto il loro punteggio fosse alto o basso nella classifica. Alla fine della settimana, i punteggi di Miss Cobb sarebbero stati paragonati sia a quelli dei trentun piloti collaudatori di jet che erano stati esaminati alla Lovelace l’anno prima, sia a quelli dei sette uomini i cui punteggi erano in cima a quella classifica e che alla fine erano stati scelti come astronauti. Per quanto i medici della Lovelace si sforzassero di confrontare in maniera obiettiva i dati di Miss Cobb con quelli dei candidati maschi, sottili tracce di discriminazione sessuale facevano capolino di tanto in tanto in quello che dicevano e, inevitabilmente, in quello che pensavano. Il dottor Secrest, per esempio, che Jerrie giudicò “serio e sensibile”, aveva comunque rivelato di considerare gli uomini come lo standard fisiologico, e le donne come delle varianti. “C’era il problema che le donne attraversano delle variazioni fisiologiche, non sono fi-
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siologicamente sempre uguali a se stesse come gli uomini”, dirà. “Così ci siamo rivolti ad alcune belle menti del reparto di ginecologia perché ci dessero una mano [a individuare i criteri di valutazione per i test alle donne]... Se somministravi una batteria di test a una donna, poi durante il suo ciclo mestruale dovevi riproporgliela daccapo per vedere se reagiva allo stesso modo. Perciò la faccenda si complicava un po’. Le donne sono fisiologicamente diverse dagli uomini, su questo non c’è alcun dubbio” [33]. Anche se i dati statistici raccolti su Jerrie avessero rivelato assoluta parità di risultati tra lei e gli uomini, la mentalità culturale vigente nei confronti delle donne che le considerava una “variante”, vedendo la sua fisiologia come un “problema” e la creazione di un test per lei come una faccenda “più complicata”, implica che Secrest la vedesse come una specie di “mutazione”: un’alterazione della norma, cioè dell’uomo. Tale discriminazione sessuale, per quanto appena percepibile, aveva nondimeno effetti profondi. Come la ricerca medica che esaminava solo pazienti cardiopatici maschi di razza bianca e poi applicava i risultati a uomini e donne di tutte le razze, la consuetudine di vedere i maschi bianchi come la norma medica era ampiamente accettata e quasi mai contestata. Essa considerava le donne come sconcertanti versioni dell’uomo. O, molto più semplicemente, non le considerava affatto. Jerrie Cobb continuò con i suoi esami per tutta la settimana. Il martedì toccò all’“ordalia puritana”, che si serviva del dislocamento dell’acqua per la misurazione del grasso corporeo totale. Lovelace scrisse che “la densità dell’organismo viene determinata pesando dapprima il corpo svestito nell’aria, e ripesandolo poi una seconda volta completamente immerso in acqua con i polmoni vuoti” [34]. I soggetti venivano fatti sedere su una sedia appesa a una trave del soffitto, e poi venivano calati nell’acqua. Nel pomeriggio, Jerrie si presentò nell’ala clinica per il tilt-table test e per una valutazione del proprio sistema cardiovascolare. Dopo che si fu issata su una lunga tavola rigida, i tecnici collegarono il suo corpo con gli elettrodi per gli elettrocardiogrammi e le letture della pressione sanguigna. Stendendosi, l’aviatrice si allungò e infilò le mani dietro la vita, guardando oltre i
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suoi calzoncini scozzesi e i mocassini, verso la parete verde in fondo alla stanza. Ed ecco che il muro iniziò a muoversi, o almeno così le parve. Dalla sua posizione orizzontale, venne inclinata fino a un ripido angolo di sessantacinque gradi, e poi riportata orizzontale. Per trenta minuti, Jerrie tenne lo sguardo fisso di fronte a sé mentre i medici registravano i dati relativi alla sua pressione sanguigna e alla sua frequenza cardiaca ogni sessanta secondi. Non le vennero le vertigini, anche se temeva di scivolare giù dal tavolo perché non c’erano cinghie a trattenerla [35]. Seguirono altri esami: analisi gastriche, esami del colon, radiografia lombare, esami oftalmologici per controllare il campo visivo, tonometria, esame al biomicroscopio, percezione della profondità, visione notturna. Lovelace riferì che le analisi degli esami oculistici furono fatte seguendo i rigidi standard che la U.S. Air Force adottava per valutare i piloti [36]. Ulteriori test includevano esami clinici di funzionalità respiratoria, pedalare su un cicloergometro per calcolare la sua prestanza fisica, e determinazioni del volume ematico effettuate tramite inalazione di una piccola quantità di monossido di carbonio per tracciare la quantità assorbita dal sangue. Per il test denominato “manovra di Valsalva”, Miss Cobb espirò con tutte le proprie forze esercitando una sollecitazione su una colonnina di mercurio di cinquanta millimetri per quindici secondi, con il naso e la bocca chiusi, mentre i medici le misuravano la pressione sanguigna e auscultavano il suo battito in cerca di eventuali malformazioni cardiache. E, con una certa riluttanza, Jerrie si sottomise anche alla recita della storiella dell’acetato di amile del nonno. Quando ascoltò la registrazione, trovò la propria voce leggermente incerta ma, tutto sommato, soddisfacente [37]. Un “esame” che non si trovava sul programma ufficiale ma era considerato importante per motivi sociali era una cena mondana. Dato che Randy Lovelace si trovava fuori città la settimana dei suoi test, il dottor A.H. Schwichtenberg intervenne invitandola una sera a casa sua. A Jerrie sarebbe mancato non aver potuto incontrare la moglie di Lovelace, Mary, una donna la cui gentilezza rendeva difficile credere che fosse nata in una tenda nel New Mexico e avesse ucciso diversi ser-
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penti mentre seminava graminacee sul suolo arido del terreno di famiglia ad Albuquerque [38]. Inoltre Miss Cobb non avrebbe potuto ascoltare Randy mentre raccontava la storia della pannellatura del suo salotto, che faceva sempre colpo perché il dottore aveva recuperato quel legno dalla Casa Bianca, durante i lavori di restauro avvenuti sotto l’amministrazione Truman [39]. In ogni caso, sicuramente la serata con il dottor Schwichtenberg risultò gradevole per Miss Cobb. Schwichtenberg, un generale di brigata dell’Air Force in congedo, aveva sviluppato i protocolli di test della NASA per la selezione degli astronauti. L’uomo era entrato alla Lovelace al termine della carriera nell’Air Force per dirigere il Department of Aerospace Medicine and Bioastronautics. Quando scoprì che a cena, oltre al generale e alla moglie, ci sarebbero stati anche la leggenda dell’aviazione Jimmy Doolittle e la moglie Jo, Jerrie fremette di eccitazione [40]. In seguito dirà che i Doolittle erano “tra le persone più ‘alla mano’ che io abbia mai incontrato” [41]. Senza dubbio, l’entusiasmo del generale per lo spazio e per le donne astronauta contribuì alla riuscita della serata. Come Randy Lovelace, anche Schwichtenberg aveva iniziato a pensare all’esplorazione spaziale molti anni prima che l’idea balenasse nei pensieri delle altre persone. “Mia moglie mi ricorda sempre che le avevo detto che contavo di vederci mandare un uomo sulla Luna quando ancora eravamo fidanzati”, osserverà. “E noi ci siamo sposati nel 1929!” [42]. Il generale era anche molto interessato a testare le donne come potenziali astronaute. “Io e Randy ne abbiamo parlato un’infinità di volte: che ne pensi delle donne nello spazio?” Secondo lui le donne e gli uomini erano uguali sotto tutti i punti di vista. I risultati degli esami di Miss Cobb di quella settimana lo stavano già dimostrando. “Questo prova la prima legge di Schwichtenberg: che ci sono esattamente tante donne sveglie quanti uomini. E la seconda è che ci sono esattamente tante donne stupide quanti uomini!” [43]. Il giovedì mattina, il ruolino di marcia di Miss Cobb subì una leggera variazione grazie a un volo top secret alla vicina Los Alamos per quello che i medici chiamavano “un conteggio corporeo totale”. Si trattava di una valutazione del corpo della Cobb per misurare il li-
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vello delle radiazioni e della sua massa magra tramite il metodo del conteggio del potassio. Nell’ambiente ultrasicuro del Los Alamos Scientific Laboratory, Jerrie incontrò il dottor Wright Haskell Langham, che aveva prestato servizio nel Comitato straordinario per le scienze naturali insieme a Randy Lovelace e, ancor prima che la NASA fosse creata, aveva lavorato con Flickinger, Scott Crossfield e Lovelace nel sottogruppo del Comitato speciale sulla tecnologia spaziale incaricato di studiare il cosiddetto “fattore umano”. Il pomeriggio di Jerrie a Los Alamos fu più memorabile per l’aura di mistero e di stranezza che lo circondava che per la difficoltà dei test. Miss Cobb ricorda di essere scesa per due rampe di scale dall’ufficio di Langham fino a una stanza nel seminterrato dominata da un enorme cilindro argenteo, un misterioso congegno che aveva l’aspetto di una primitiva macchina per l’imaging a risonanza magnetica (MRI). I tecnici le spiegarono che doveva scivolare dentro un piccolo tubo, che poi sarebbe entrato in uno più grande. Una volta all’interno, doveva giacere immobile mentre la macchina leggeva il conteggio delle radiazioni e il livello di potassio. Jerrie si arrampicò nella macchina e afferrò il “tasto per fifoni” che le stavano tendendo gli assistenti, per l’evenienza in cui la ristrettezza del cilindro le causasse un attacco di claustrofobia. Mentre scivolava all’interno del tubo scuro, freddo, con le mani conserte sul petto, Miss Cobb ebbe la sensazione di venire inserita in un polmone d’acciaio. Si allungò con circospezione verso l’alto, cercando di capire quanto spazio avesse a disposizione per muoversi. Otto pollici, poco più di venti centimetri. Il panico non sopraggiunse. Jerrie aspettò pazientemente, stringendo il “tasto per fifoni” senza premerlo, fino a quando il lettino non tornò a ronzare, ripartendo e sputandola fuori nella luce cruda dello scantinato [44]. Il test più pesante di tutta la settimana fu l’esame dell’orecchio del dottor Donald Kilgore, che serviva a misurare l’equilibrio di Jerrie e la sua reazione alle vertigini. Quasi tutti i candidati astronauti del Mercury 7 avevano trovato quella prova spiacevole, se non addirittura decisamente dolorosa [45]. L’esame ebbe inizio con il dottor Kilgore che girava il capo di Miss Cobb in modo tale che un orecchio fosse ri-
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volto verso il soffitto. A quel punto, il medico prese una siringa enorme, che Jerrie ricorderà come “talmente grossa da farmi pensare a un modello per l’insegnamento”, e gliela infilò nell’orecchio destro [46]. Lentamente, dell’acqua a una temperatura di soli dieci gradi centigradi iniziò a gocciolare contro la sua membrana timpanica in un esperimento inventato appositamente per mandare in tilt il suo equilibrio. Jerrie si ritrasse, mentre le luci attorno a lei si mettevano a fluttuare. Cercò di raggiungere il bracciolo della sedia, ma le sue mani non si muovevano. Mentre un’infermiera le stava al fianco e prendeva i tempi delle sue reazioni con un cronometro, gli occhi di Miss Cobb iniziarono a mostrare gli attesi sintomi del nistagmo: i globi oculari presero a muoversi rapidamente in un movimento involontario. “La misurazione precisa di quanto presto interviene il nistagmo, di quanto è violento e di quanto dura ci dà un’idea di come se la passerebbe il pilota orbitando in uno stato di assenza di gravità”, scrisse Lovelace [47]. Per Miss Cobb, come più o meno per tutti gli altri, la parte peggiore del test non fu tanto lo sconcertante insorgere iniziale del disorientamento, quanto l’atroce sensazione di osservare la siringa mentre tornava ad avvicinarlesi una seconda volta e di sapere cosa la aspettava. L’ultimo appuntamento di Jerrie alla Lovelace Foundation ebbe luogo il sabato mattina, allorché la nostra incontrò il dottor Secrest per una prima ispezione dei suoi punteggi. L’analisi completa dei dati sarebbe avvenuta più tardi, dopo che Randy e gli altri medici avessero avuto modo di confrontare i suoi risultati con quelli degli astronauti del Programma Mercury, ma già quei primi valori indicavano che si era comportata molto bene. Le uniche mancanze di Miss Cobb degne di nota erano una leggera ipoacusia all’orecchio sinistro – caratteristica non insolita per un pilota di aerei plurimotori che siede vicino a motori molto rumorosi – e la pelle d’oca. L’esperienza alla Lovelace Foundation galvanizzò l’ambizione della Cobb, a dispetto della pelle d’oca. Si mise in cerca di opportunità, quali pilotare un jet appena possibile, che dessero maggiore credibilità alla sua potenziale candidatura come astronauta. Pur sapendo
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che Randy la stava testando per curiosità personale, e senza l’autorizzazione della NASA, Jerrie iniziò a prendersi sul serio come candidata. Scrisse lettere alla Wright-Patterson Air Force Base chiedendo il permesso di sottoporsi ai test psicologici e alle prove di resistenza allo stress. Venne respinta e, quel che era ancora più demoralizzante, la risposta le giunse dall’ufficio informazioni, non dall’Aerospace Medical Division. Evidentemente, l’Air Force considerava Jerrie una questione di pubbliche relazioni, non una candidata astronauta. “Dal momento che l’attrezzatura è attualmente in uso, e che non ci sono richieste di dati relativi alla resistenza femminile, siamo spiacenti di informarla che non possiamo soddisfare la sua richiesta”, recitava la missiva [48]. Il famoso spirito di cooperazione della Wright-Patterson che aveva condotto i test su civili quali Ruth Nichols non era più così manifesto per donne come Jerrie Cobb. Non tutte le risposte che ricevette furono scoraggianti, comunque. Per esempio, il Lewis Research Center di Cleveland, sempre della NASA, approvò la sua richiesta di sottoporsi alle prove di simulazione di volo spaziale sulla sua apposita attrezzatura. Pur non essendo una candidata astronauta ufficiale, le venne offerto il trattamento speciale solitamente riservato agli ospiti con legami influenti o a quelli in possesso di incontestate abilità aeronautiche. Durante i suoi primi anni, simili decisioni estemporanee non erano insolite da parte della NASA, e spesso rispecchiavano il giudizio di un singolo individuo più che la posizione ufficiale dell’agenzia. Queste scelte mirate erano possibili prima che l’ente spaziale crescesse ramificandosi in una vasta gerarchia con complesse catene di comando. La porta attraverso la quale Miss Cobb poté entrare nel Lewis Research Center, così come era successo nel caso della Lovelace Foundation, era aperta perché una o più persone erano persuase che esaminarla fosse una buona idea. E Miss Cobb seppe sfruttare al massimo tali opportunità. Al Lewis, Jerrie chiese di salire sul MASTIF, il Multi-Axis Space Test Inertia Facility. Questa attrezzatura le fece vivere una corsa tumultuosa. Chiamato anche sistema a sospensione cardanica, il MASTIF era un enorme giroscopio, largo circa diciannove piedi (quasi sei
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metri), che faceva ruotare il suo “fantino” in tre direzioni contemporaneamente, nel tentativo di simulare ciò che gli scienziati ritenevano fosse la sensazione su una capsula spaziale fuori controllo. John Glenn scrisse che per testare il limite del controllo di una persona, il MASTIF era “la macchina diabolicamente perfetta” [49]. In una direzione, il MASTIF “beccheggiava”, muovendosi selvaggiamente su e giù. In un’altra “rollava”, inclinandosi sui fianchi. Quando “imbardava” ruotava su se stesso in tondo. Anche se una persona era dotata di uno stomaco abbastanza forte da reggere i giri sulla giostra più sfrenata del luna park, il MASTIF era in una categoria di induttori di nausea a sé stante. Gli astronauti del Programma Mercury ottenevano il “diploma” del MASTIF quando riuscivano a tenere sotto controllo l’apparecchiatura mentre compivano trenta rivoluzioni al minuto su tutti e tre gli assi [50]. Jerrie Cobb trascorse quarantacinque minuti sul MASTIF, manovrando i due controlli manuali fino a far fermare i tre meccanismi rotanti. Non era un compito molto semplice. “Dapprima quella cosa iniziò a beccheggiare”, scriverà nella propria autobiografia, “e, se non fossi stata legata, sarei stata sbalzata giù dalla tavola. Poi, mentre il beccheggio raggiungeva la sua massima velocità, sentii che stava iniziando il rollio. Giravo, giravo come una trottola, e allo stesso tempo mi capovolgevo con i piedi per aria. Quando subentrò anche l’imbardata, mi resi conto che la gabbia e tutto quello che si trovava entro la mia visuale erano una macchia che vorticava” [51]. I fotografi della NASA, forse dietro insistenza della stessa Miss Cobb, fotografarono la sua corsa, ritraendola al centro del giroscopio mentre afferrava i controlli con entrambe le mani ed era circondata da traverse e cavi che si incrociavano. Sembrava una preda dentro a una trappola d’acciaio, tranne che nei suoi occhi non c’era traccia di paura, ma solo un’intensa concentrazione mentre teneva lo sguardo fisso davanti a sé. Ivy Coffey non aveva nemmeno notato la scomparsa della sua coinquilina per i test da astronauta fino a quando Jerrie, tornando, gliene parlò. Per le due donne era normale non vedersi per lunghi periodi, dato che entrambe erano così spesso in viaggio. Miss Cobb raccontò
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a Miss Coffey alcuni dettagli del suo test, comunque, e Ivy si abituò alle occasionali telefonate di Randy che cercava Jerrie, spesso a notte fonda. Con l’avvicinarsi del momento in cui avrebbero divulgato il risultato dei suoi test, stava diventando sempre più difficile per Lovelace e Miss Cobb riuscire a conferire. Una volta che Lovelace avesse fatto la propria dichiarazione all’imminente simposio internazionale di medicina spaziale di Stoccolma, era necessario che si verificasse una catena di eventi accuratamente orchestrata. Jerrie doveva nascondersi dai cronisti fino a quando la rivista Life non avesse pubblicato l’esclusivo reportage fotografico scattato ad Albuquerque: solo in quell’istante si sarebbe fatta avanti, mostrandosi a un pubblico ammaliato. Ad agosto era giunto il momento dell’annuncio, e Lovelace era elettrizzato dai risultati di Jerrie. “Non c’è dubbio che alla fine le donne prenderanno parte al volo spaziale, quindi ci servono dei dati su di loro da poter confrontare con quelli che abbiamo ottenuto dagli uomini”, scrisse negli appunti che accompagnavano il grafico tracciato a mano da lui stesso per esporre nei dettagli i risultati di Miss Cobb in tredici analisi di laboratorio. “Per esempio, noterete che Jerrie ha bisogno di meno ossigeno al minuto di quanto ne serva all’astronauta maschio medio. Questo significa dover portare meno ossigeno in peso per i membri femminili dell’equipaggio che per quelli maschili. Alla fine esamineremo almeno una dozzina di donne pilota” [52]. Una volta che avesse avuto in mano ulteriori risultati, supponendo che fossero di prima qualità come quelli di Miss Cobb, Lovelace avrebbe potuto organizzare uno studio sulle donne astronauta, ampliando il suo esperimento individuale. Dopo molte stesure, la relazione scientifica di Lovelace fu pronta. Era stata scritta insieme al dottor Schwichtenberg, al dottor Secrest, e allo pneumologo della Lovelace Foundation, il dottor Ulrich Luft. Jerrie si trovava a New York a presentare i nuovi modelli di velivoli della Aero Design, con l’intesa che, una volta che la notizia dei test fosse esplosa a Stoccolma, lei si sarebbe volatilizzata fino a quando Life non fosse giunta nelle edicole. Lovelace si imbarcò sull’aereo diretto in Svezia [53]. Venerdì 19 agosto, alle 3.34 di notte, il telefono si mise a squillare
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nell’appartamento segreto in cui si trovava Jerrie a New York. Il telefono suonò anche a casa dei genitori di Jerrie, a Ponca City. Cronisti dell’Inghilterra, del Giappone, dell’Australia e di tutti gli Stati Uniti avevano dato il via a una ricerca frenetica della ragazza che, come avevano appena sentito dire, aveva superato i test da astronauta. Gli amici di Miss Cobb che vennero contattati dalla stampa fecero i finti tonti. L’Aero Design non svelò dove si trovasse. La rivista Time voleva un’intervista con lei e usò le maniere forti per convincere Life, che apparteneva allo stesso gruppo editoriale, a cederle una fetta della sua esclusiva [54]. Al mattino, la fotografia di Jerrie era sui giornali di tutta la nazione. La ragazza aveva un aspetto radioso negli scatti pubblicitari, mentre sorrideva dalla cabina di pilotaggio di un aereo, perfettamente acconciata e con indosso un filo di perle. Il New York Times riferì che a Stoccolma il dottor Randolph Lovelace aveva svelato che Jerrie Cobb, una ventinovenne di Oklahoma City, aveva “portato a termine con successo i test a cui erano stati sottoposti i sette uomini impegnati nel programma spaziale statunitense”. Lovelace, che il giornale identificava come “il massimo esperto di medicina aerospaziale degli Stati Uniti legato al Programma Mercury”, riconobbe che il primo volo di una donna astronauta era ancora parecchio lontano e che “non c’è un preciso programma spaziale per le donne” [55]. A Oklahoma City, i direttori del The Daily Oklahoman, dove lavorava Ivy Coffey, si chiesero perché il loro giornale non avesse pubblicato in anteprima assoluta lo scoop della notizia sul test di Jerrie dato che, dopo tutto, una delle loro scrittrici condivideva la casa con la celebrità mondiale del momento. Miss Coffey, che aveva trovato spesso i suoi redattori maschi non interessati quanto avrebbe desiderato ad articoli sui successi della donna pilota autoctona, ingoiò il suo “Ve l’avevo detto” e si mise al lavoro per produrre un servizio con un tocco di colore locale per l’edizione del venerdì. Pur essendo di fatto alle prese con un silenzio stampa, Ivy fu capace di strappare a Miss Cobb almeno una dichiarazione che non aveva nessun altro. “Questo non è pensiero negativo”, le disse Jerrie, “ma ti assicuro che vorrei farlo [volare nello spazio] anche se non dovessi tornare mai più” [56].
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Entro il martedì mattina, un’azione aggressiva di pressing a tutto campo era in corso su tutti i mezzi di comunicazione della nazione. L’articolo su Life sarebbe stato pubblicato di lì a meno di una settimana, e a quello sarebbe seguito un articolo della giornalista Jane Rieker, che Miss Cobb aveva incontrato a Cuba negli anni Cinquanta, su Sports Illustrated, nel quale si sottolineava l’atteggiamento “fattivo” di Jerrie [57]. I direttori di Life decisero che era ora di far uscire allo scoperto Miss Cobb, e la ragazza affrontò una folla di giornalisti entusiasti al Time-Life Auditorium, nel centro di Manhattan. Tutta l’ansia che aveva provato in passato nel rispondere alle domande dei cronisti non era nulla paragonata a quella che stava sperimentando in quel momento. Le domande erano incalzanti, e a volte ridicole. “Sa cucinare?”, le chiese un reporter. Ricordandosi di una delle specialità di Ivy, Jerrie disse che i suoi piatti preferiti erano quelli degli indiani Chickasaw, in particolare la “bistecca affogata”. Per sopravvivere alla schiacciante pressione surreale dell’attenzione pubblica, l’aviatrice dovette lasciare che un altro lato della sua personalità assumesse il comando. Il personaggio pubblico si fece avanti, lasciando dietro le quinte la Cobb timida. Per dirla con le sue stesse parole, “Jerrie e il suo alter ego, Geraldyn, avevano avuto una discussione” [58]. Qualche isolato più in là, a poca distanza da dove Miss Cobb stava tenendo la sua prima conferenza stampa come “lady astronauta”, Ruth Nichols sedeva nel proprio appartamento di Manhattan, scoraggiata e preoccupata per il futuro. La fortuna di famiglia si era esaurita molto tempo prima. Il crollo del mercato azionario nel 1929 e l’ultima, fatale malattia del padre avevano costretto i non più abbienti Nichols a trasferirsi in case via via più piccole. Ora, all’età di cinquantanove anni, Ruth avvertiva la pressione di doversi guadagnare da vivere e di provvedere ai membri più anziani della famiglia. Poche compagnie aeree di linea avrebbero anche solo preso in considerazione l’idea di ingaggiare una donna, e pure il lavoro sui charter era difficile da trovare, soprattutto per un’aviatrice che aveva già superato la cinquantina. La nostra fece quello che poté, impiegandosi dapprima come direttrice di zona per la National Nephrosis Foundation
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e poi per la National Association for Retarded Children. Quindi firmò con la Friendly Homes, un’associazione medica. Pur riuscendo a fare di tanto in tanto qualche volo promozionale per questi gruppi, il lavoro non era quello che aveva sperato. Istruendosi il più possibile sulla medicina aerospaziale, Miss Nichols continuava a sognare i viaggi nello spazio. “Volerò fino al mio ultimo respiro”, disse. “Che succeda nella mia attuale forma corporea o in un’altra, quando le navicelle spaziali partiranno io le piloterò” [59]. Domenica 25 settembre una zia di Ruth, Polly, le telefonò ripetutamente senza ottenere risposta. Infine, alle due del pomeriggio, la donna chiese al custode del palazzo di aprire la porta della nipote per controllare se stesse bene. Il custode trovò il cadavere dell’aviatrice sul pavimento del bagno. Più tardi, il medico legale municipale riferì la presenza di barbiturici nell’organismo di Miss Nichols, e archiviò la sua morte come un suicidio2 [60].
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Due amiche di Ruth Nichols ritengono che la sua delusione per non essere diventata un’astronauta possa aver concorso al suo suicidio. Jane Hyde Fawcett scrisse: “Se qualcuno le avesse parlato, avrebbe capito che il futuro per Ruth era ancora nello spazio. Vi riponeva le sue speranze, aveva costruito tutta la sua esistenza terrena attorno a un futuro lancio sulla Luna.” Anche un’amica della Fawcett, Alice Benson, additò le ambizioni spaziali della Nichols. “Penso che non sapremo mai cosa sia successo – se fosse saltato un altro impiego – o se fosse delusa per essere stata respinta per il volo spaziale” [61].
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Randy Lovelace sapeva che la NASA avrebbe considerato i risultati straordinari di Miss Cobb come un puro colpo di fortuna, non rappresentativo delle donne pilota in genere. L’uomo passò in rassegna l’elenco di nomi che Flickinger e Jerrie avevano stilato un anno prima, allorché i test alla Wright-Patterson sembravano ancora possibili. Nessuna di quelle donne era mai stata contattata. Il chirurgo studiò la lista e, con l’aiuto di Jerrie, fece un controllo approfondito sui nomi presenti e ne indicò degli altri: Randy sperava di riuscire a trovare almeno un paio di dozzine di donne che fossero sia in possesso delle necessarie credenziali di volo che interessate a recarsi ad Albuquerque per sottoporsi ai test segreti. Jerrie si tuffò anima e corpo nel compito di mettere assieme quell’elenco. Rispetto a Randy, lei si trovava in una posizione di gran lunga migliore per individuare quali donne pilota potessero essere considerate delle potenziali candidate. A parte la sua amicizia con Jackie Cochran, Lovelace non entrava in contatto con regolarità con molte altre aviatrici. E chiedere a Mrs Cochran di aiutarlo con la selezione iniziale non sembrava una bella idea. Jackie aveva appena intrapreso un secondo mandato come presidentessa della Fédération Aéronautique Internationale, cosa senza precedenti. Era spesso in viaggio, all’estero, e anche il lavoro la impegnava moltissimo [1]. Fortunatamente, Miss Cobb conosceva la maggior parte delle donne che si muovevano nei migliori circuiti aeronautici americani dell’epoca. Alcune, come Jerri Sloan, erano amiche intime con cui aveva parecchia familiarità. Molte altre le incontrava ai “Derby del piumino da cipria”, e seguiva da vicino tutte le notizie riguardanti le aviatrici che cercavano di stabilire dei reM. Ackmann, Mercury 13 © Springer-Verlag Italia, Milano 2011
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cord mondiali. Anche il suo lavoro all’Aero Design le aveva permesso di entrare in confidenza con un gran numero di donne pilota. Sommerso dalle proprie gravose incombenze presso la fondazione, Lovelace accettò l’offerta di Jerrie di compilare un elenco da sottomettere alla sua attenzione. Tra il settembre del 1960 e l’agosto del 1961, la lista segreta cominciò a prendere forma. Jerrie individuava un’aviatrice e inoltrava il nome a Randy, che a sua volta spediva alla potenziale volontaria un questionario e una lettera di presentazione. Mentre assemblava l’elenco, la nostra continuava anche a lavorare all’Aero Design and Engineering di Oklahoma City. Fu molto fortunata nell’avere un capo che la appoggiava e le lasciava ampia libertà di collaborazione con la Lovelace Foundation. Tom Harris era orgoglioso di Jerrie, nonché personalmente interessato ai suoi test da astronauta. Non solo l’uomo si trovava insieme a lei quando era avvenuto il fatidico incontro di Miami durante il quale Miss Cobb aveva parlato per la prima volta con Don Flickinger e Randy Lovelace, ma aveva anche capito che tutta l’attenzione pubblica che Jerrie attirava per via del programma con la Lovelace si sarebbe probabilmente riversata pure sulla sua ditta. Lasciandole la flessibilità necessaria per dedicarsi al compito di redigere la lista e continuando a farle arrivare lo stipendio, Tom Harris e l’Aero Design, di fatto, fornirono l’equivalente di una sottoscrizione finanziaria per lo stadio preliminare dell’esperimento di Randy “Ragazze nello spazio” [2]. Ma, di preciso, che cosa stavano cercando Miss Cobb e il dottor Lovelace? Innanzitutto, Randy voleva donne che avessero racimolato più di un migliaio di ore in aria [3], traguardo non così facilmente raggiungibile negli anni Sessanta. Dal momento che alle donne non era concesso volare per le forze militari e che non venivano ingaggiate dalle compagnie aeree di linea, dovevano mettere assieme l’esperienza in altri modi. Molte lavoravano come istruttrici di volo, perché volare con un allievo pilota permetteva loro di accumulare ore di volo che non dovevano pagare personalmente. Per le donne che avevano un lavoro al di fuori dell’ambito aeronautico, ci potevano volere anche cinque anni per arrivare a raggranellare un migliaio di ore di volo nei fine
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settimana. In secondo luogo, Lovelace cercava candidate che avessero da poco passato la trentina, anche se era disposto a valutare di fare delle eccezioni per aviatrici particolarmente determinate. Lovelace non specificò alcuna preferenza riguardo allo stato civile delle volontarie, anche se sapeva che spesso le WASP erano state aspramente criticate per aver perso troppe donne a causa del matrimonio. Stabilendo solo che le donne dovessero godere di ottima salute, essere esperte e dinamiche, l’uomo non indicò nemmeno specifiche restrizioni né preferenze razziali, pur chiedendo alle candidate di indicare la propria “genealogia”. Trovare donne che fossero in possesso di esperienza come collaudatrici o della laurea in ingegneria, come era stato richiesto per gli uomini del Programma Mercury, era difficile, se non impossibile. Solo Jackie Cochran poteva dirgli se l’esperienza di collaudatrice di jet fosse un requisito indispensabile per le candidate1. Studiando i nomi e le qualifiche di ogni potenziale candidata, Jerrie cercava anche alcune qualità che riteneva cruciali. Sapeva per esperienza personale che una buona forma fisica e un temperamento audace erano importanti. Forse anche le coraggiose partecipanti alle gare di volo, o le donne che pilotavano elicotteri, manovravano idrovolanti o spegnevano in volo incendi boschivi potevano essere candidate ideali. Cercava caratteri indipendenti, o donne che manifestassero grinta e sicurezza di sé. Cercava donne che avessero affrontato l’ignoto, che fossero entusiaste, motivate e pronte a rischiare praticamente tutto pur di ottenere una chance. Quest’ultima era la qualità che sapeva essere davvero indispensabile. Tutto quello che doveva fare era trovare un po’ più di venti donne disposte a tanto. Per mesi, Miss Cobb compulsò i registri del quartier generale di Oklahoma City delle Ninety-Nines, l’organizzazione internazionale di donne pilota fondata da Amelia Earhart. Passò lunghe ore rannicchiata 1
La prima donna che pilotò un jet fu la WASP Ann Baumgartner Carl, che condusse una versione sperimentale del caccia Bell YP-59A nel 1944. L’aereo era talmente all’avanguardia che quando era parcheggiato gli veniva agganciata una finta elica per nascondere il fatto che si trattasse di un jet. Nel 1953, la pilota francese Jacqueline Auriol fu la seconda donna a pilotare un jet, seguita da Jacqueline Cochran.
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sulle schede dell’archivio, facendo controlli incrociati su indirizzi e date di nascita, verificando ore di volo e qualifiche. Il lavoro era noioso, divorante, e spesso gli occhi le dolevano per lo sforzo. Jerrie controllò anche i registri della FAA, fortunatamente conservati in una nuova struttura ubicata proprio a Oklahoma City. Nel 1960, le statistiche ufficiali della FAA indicavano che circa diecimila donne erano impegnate nell’aviazione, anche se molte erano ancora ferme al grado più basso, quello di allieve pilota. Settecentottantadue donne erano in possesso di licenze di pilota commerciale [4] e Miss Cobb esaminò i loro incartamenti, in cerca di quelle con le mansioni più prestigiose e il maggior numero di ore di volo. A un certo punto, Jerrie iniziò a preoccuparsi perché l’elenco che stava sottoponendo a Randy, pieno di nomi di sua diretta conoscenza, non includeva alcuna donna appartenente alle minoranze. Le donne pilota afroamericane erano maggiormente discriminate nel mondo dell’aeronautica rispetto alle donne bianche, e spesso non riuscivano a racimolare un elevato numero di ore di volo né a ottenere qualifiche avanzate. Miss Cobb allargò quindi le proprie ricerche al di fuori degli Stati Uniti, trovando una pilota sudcoreana in grado di soddisfare i requisiti necessari. La sua candidatura non andò mai oltre questo livello, però, perché Lovelace disse a Jerrie che tutte le donne da sottoporre agli esami dovevano avere la cittadinanza americana [5]. Ritirando la posta in un pomeriggio autunnale del 1960, Jerri Sloan, l’amica di Miss Cobb, notò a malapena la busta commerciale che riportava come mittente “Lovelace Foundation for Medical Education and Research”. La trentunenne Sloan aveva avuto una giornata frenetica alla guida della sua azienda aeronautica, la Air Services di Dallas. Jerri aveva piloti da organizzare, aerei che necessitavano di manutenzione, contratti da inseguire per allargare il suo giro di clienti, perfino dei voli di collaudo a tarda sera che doveva pilotare lei stessa. Dopo esser passata a prendere i bambini a scuola, Mrs Sloan si era limitata a gettare la posta sul tavolo della cucina mentre iniziava a spulciare le bollette e l’assortimento di lettere che aveva davanti. Quando si fermò a guardare l’indirizzo del mittente sulla busta di Randy, si mise a fissarlo, perplessa e incuriosita. Sapeva perfettamente chi fosse il dottor Ran-
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dolph Lovelace. Qualsiasi pilota lo sapeva. Lacerò la busta, per aprirla, e faticò a credere ai propri occhi. “Le procedure per questi esami richiedono all’incirca una settimana e si svolgono a titolo rigorosamente volontario”, recitava la lettera. Quello doveva essere l’esperimento a cui Jerrie aveva alluso tempo addietro, pensò. Mesi prima, mentre stavano parlando, l’amica le aveva indirettamente domandato se le sarebbe stato possibile allontanarsi per qualche settimana per una faccenda governativa top secret. Non sapendo di cosa stesse parlando, all’epoca lei si era limitata ad annoverare quel discorso tra le stranezze tipiche di Jerrie. Sempre più eccitata, continuò a leggere la missiva di Randy. Questi test “non la impegnano in nessun ulteriore sviluppo del programma ‘Ragazze nello spazio’, a meno che lei non lo desideri”. A quel punto, Jerri aveva già preso la sua decisione. Non riusciva a immaginarsi nessuna donna che rifiutasse l’occasione di prender parte a un esperimento volto a lanciare le donne nello spazio, e tanto meno una con le sue credenziali: milleduecento ore di volo, licenza di pilota commerciale, qualifica di pilota di multimotore, onorificenze per le gare di volo, ed esperienza come pilota di B-25 su voli allucinanti per l’Air Services per testare l’attrezzatura per la sorveglianza a infrarossi. Quando ebbe finito di leggere, rimise la missiva sul tavolo. Suo figlio David, di nove anni, osservando la sua espressione attonita la implorò di leggergliela ad alta voce. Lei partì dall’inizio. “Siamo stati informati che potrebbe essere interessata a offrirsi come volontaria per gli esami preliminari per candidate astronaute.” Era tutto quello che David aveva bisogno di sentire. Saltò fuori dalla porta facendo un gran fracasso, gridando, agitando le braccia e urlando ai suoi amici: “Mammina andrà sulla Luna!” [6]. I vicini, ricorda Mrs Sloan, non fecero particolarmente caso all’annuncio di David: pensavano già che fosse pazza. Dopo tutto, negli anni Sessanta, quante donne della periferia americana uscivano alle ore più strane del giorno e della notte per pilotare degli aerei verso località segrete per motivi segreti? Quando non era riuscita a convincere la banca a concederle un prestito per far decollare la Air Services, Jerri aveva chiesto a un collega, Joe Truhill, di diventare suo socio nella ditta, così da avere la firma di un uomo da apporre sui documenti del prestito. La ir-
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ritava doversi piegare alle pratiche discriminanti della banca, ma il suo trucchetto aveva prodotto i soldi di cui aveva bisogno. Alle prese con un contratto con la Texas Instruments, in quel periodo Jerri stava sorvolando tutto lo Stato e il Golfo del Messico per testare il segretissimo radar TFR (terrain-following radar, “inseguimento del profilo del terreno”), lavoro che richiedeva che volasse di notte a ridosso dell’acqua, con le eliche che agitavano le onde e nessun orizzonte visibile come riferimento. Dal momento che la nuova attrezzatura doveva essere testata nello stesso istante in cui i tecnici finivano di montarla e la rendevano operativa, Mrs Sloan era reperibile ventiquattro ore su ventiquattro. I vicini, sbirciando dalle finestre, storcevano il naso quando la vedevano uscire in retromarcia a mezzanotte dal suo passo carraio. Per Jerri Sloan, andare alla Lovelace Clinic non costituiva solo un’eccezionale opportunità dal punto di vista aeronautico, ma era anche l’occasione di prendere parte a una causa nazionale: la corsa allo spazio. Aveva sempre rimpianto di essere troppo giovane per entrare nelle WASP. Essendo cresciuta ad Amarillo, si ricordava di quando, da bambina, guardava le WASP, così eleganti nelle loro divise, mentre scendevano dal treno per recarsi all’Avenger Field di Sweetwater per l’addestramento di base. La loro sicurezza e il loro patriottismo l’avevano profondamente colpita, e da allora aveva intensamente anelato alla possibilità di servire il Paese. “Mia nonna ha combattuto per il diritto di voto. Mia mamma ha aiutato a combattere una guerra. La mia sorellastra maggiore è stata un’infermiera militare in un ospedale durante l’evacuazione. Sono cresciuta vedendo le donne fare di tutto”, dirà più tardi2. Scrisse immediatamente a Randy Lovelace, comunicandogli di essere effettivamente molto interessata a offrirsi volontaria [7]. 2
La sorellastra della Sloan servì nella 56° Army Evacuation Unit ad Anzio, in Italia. Sua madre, come molte donne civili durante la Seconda guerra mondiale, si era offerta volontaria per prestare servizio nella Croce Rossa ed era stata addestrata come aiuto infermiera. Dato che molte donne prestavano servizio negli ospedali militari, in quelli per i veterani o nei corpi infermieristici dell’Esercito, le donne civili aiutarono a riempire alcuni vuoti che si erano creati negli ospedali statunitensi. La carenza di infermiere durante la Seconda guerra mondiale fu causata anche dalla segregazione, che impediva alle infermiere afroamericane di occuparsi dei soldati bianchi.
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Durante quell’inverno e la successiva primavera, in tutto il Paese un gruppo scelto di giovani donne pilota iniziò a ricevere lettere dal dottor Lovelace. A San Francisco, Nashville, Akron, Kansas City, Washington D.C., Houston, Hollywood e Oklahoma City, le donne aprivano con cura la busta dall’aspetto promettente in arrivo dalla Lovelace Foundation e scoprivano che qualcuno stava offrendo loro un’opportunità che non si erano mai neppure immaginate. Alcune di loro, come Jan Dietrich, pensarono che fosse troppo bello per essere vero. E fu qui che intervenne sua sorella, Marion Dietrich. Le due gemelle monozigote avevano imparato insieme a volare, da adolescenti, e Jan al momento si stava guadagnando da vivere facendo l’istruttrice di volo e la pilota per un’impresa edile. Marion volava solo nei fine settimana, o quando lo permetteva il suo lavoro di cronista per l’Oakland Tribune. Pertanto, fu perfino più sorpresa allorché scoprì di aver ricevuto anche lei un invito a partecipare ai test da astronauta. Quando sentì che Jan era restia ad accettare la proposta, Marion le scrisse prontamente una lettera piena di enfasi. “La tua esitazione a recarti alla Lovelace Clinic mi sbalordisce nella maniera più assoluta”, proclamava. “Jan, siamo sospese sul limite della più eccitante e importante avventura che l’uomo abbia mai affrontato. I più possono solo stare a guardare. Pochi privilegiati potranno testimoniarlo. Solo un piccolo manipolo può parteciparvi, e sentirsi più di chiunque altro in sintonia con il proprio tempo. Penso che prendere parte a questa avventura, non importa quanto marginalmente, sia la cosa più importante che abbiamo mai fatto. Che ci venga CHIESTO di partecipare, è il massimo degli onori. Accettare, un dovere assoluto. Dunque vai, Jan, vai! E fa’ la tua parte, fosse anche solo quella di diventare un dato statistico nella grande avventura umana” [8]. Dopo aver letto la missiva di Marion, Jan Dietrich compilò il proprio questionario, come aveva fatto la sorella, noleggiò una cyclette in un grande magazzino di articoli sportivi e iniziò ad allenarsi tutte le sere, dopo il lavoro [9]. Alcune donne, come la ventunenne Wally Funk, non si trovavano sull’elenco della Cobb, e inizialmente non ricevettero la lettera di Randy. La Funk aveva letto su Life l’articolo a proposito dei test di Jer-
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rie, e non riusciva a smettere di pensare alle donne nello spazio. Wally, una nativa di Taos, nel New Mexico, era istruttrice di volo a Fort Sill, Oklahoma. Conosceva un po’ la Cobb dagli eventi delle Ninety-Nines che si tenevano nella zona di Oklahoma City, e quando lesse che il dottor Lovelace avrebbe esaminato altre donne andò dritta alla sua macchina per scrivere. “Sono molto interessata ai test per diventare Astronauta”, scrisse. Quindi elencò le proprie credenziali: diploma universitario dell’Oklahoma State, premi con la squadra aeronautica del college, mansione di istruttrice di volo, mansione di pilota di idrovolante monomotore, e tremila ore di volo, ovvero tre volte il numero richiesto da Randy, nonché una quantità straordinaria per qualcuno così giovane. La sfacciata richiesta della giovane Wally catturò l’attenzione del dottor Lovelace, il quale la invitò alla fondazione. La Funk intraprese subito il suo programma personale di allenamento, recandosi tutti i giorni al lavoro a Fort Sill in bicicletta mentre la sua Vauxhall rossa del ’59 rimaneva parcheggiata a casa [10]. Con il passare del tempo, altre donne giunsero sotto gli occhi di Lovelace nelle maniere più strane, e spesso senza che Miss Cobb lo sapesse o le avesse passate al vaglio3. Wally Funk incrociò la ventiquattrenne Gene Nora Stumbough a un raduno aeronautico dei college dell’Oklahoma. Wally sapeva che la Stumbough era istruttrice di volo presso la University of Oklahoma, e le raccontò dei test di Albuquerque. Esattamente come aveva fatto Miss Funk, anche la Stumbough scrisse subito a Lovelace, fornendo le proprie credenziali e informandolo che proprio non riusciva a immaginare che un programma di valutazione di candidate astronaute potesse svolgersi senza la sua partecipazione [11]. Randy si dichiarò d’accordo. Un’altra candidata,
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Perfino a quarant’anni di distanza, alcune delle Mercury 13 ancora non sanno esattamente come abbiano fatto i loro nomi ad apparire sull’elenco. Sarah Gorelick Ratley non ha mai scoperto di preciso come sia stata scelta. Rhea Hurrle Allison Woltman pensava che fosse stata Jackie Cochran, che aveva incontrato brevemente in Texas, a segnalare il suo nominativo, ma sottolinea che non ci sono prove a sostegno della sua ipotesi. Più avanti Mrs Cochran iniziò a sottoporre dei nomi a Lovelace, ma Myrtle Cagle fu l’unica candidata da lei suggerita a essere invitata ad Albuquerque e a superare il test (cfr. cap. 6).
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B Steadman, la pacata e autonoma titolare del centro servizi aeroportuali del Michigan, contattò il dottor Lovelace dopo aver ricevuto l’invito, spronandolo a prendere in considerazione la sua amica Janey Hart. L’amicizia tra Bernice Steadman e Mrs Hart era di vecchia data, e affondava le proprie radici nella sezione del Michigan delle NinetyNines. La Steadman apprezzava l’amalgama di audacia e buon senso che caratterizzava la Hart, qualità che a Janey tornarono utili allorché si trasferì con il marito e gli otto figli a Washington D.C., alla fine degli anni Cinquanta. Philip Hart era stato eletto senatore degli Stati Uniti per il Michigan, ma Janey chiarì fin dall’inizio che per lei fare la moglie del senatore non sarebbe mai stato un impiego a tempo pieno. Lei era anche una pilota. Conduceva elicotteri, e governava personalmente la sua barca a vela. Pur avendo già quarant’anni, la più matura tra le donne invitate a partecipare al test, aveva i requisiti giusti [12]. Non tutte le donne che ricevettero l’invito accettarono l’offerta, o riuscirono a prendersi un permesso dal lavoro. Alcune temevano che prender parte a “questa assurdità alla Buck Rogers” le avrebbe penalizzate, e che i loro impieghi non sarebbero stati lì ad aspettarle una volta che fossero tornate da Albuquerque4. Altre, come l’insegnante Jean Hixson di Akron, godettero di un appoggio incondizionato da parte dei superiori. La Hixson si rassicurò quando il preside le promise di non parlare a nessuno del suo test e si offrì di aiutarla personalmente in tutti
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Il capo di Dorothy Anderson non le diede il permesso di allontanarsi dalla grande scuola di volo di Bluffton, Ohio, dove la donna era l’unica istruttrice di volo a tempo pieno. “Mi sarebbe piaciuto andare”, disse lei. Anche Sylvia Roth, pilota aziendale della Encyclopaedia Britannica, non poté lasciare il lavoro, e un collega di lavoro che sosteneva di avere degli agganci a Washington D.C. le disse che le probabilità che un programma per le donne astronauta venisse portato avanti non erano buone. La Roth passò la voce alla sua amica Frances Miller, operatrice del centro servizi dell’aeroporto di Columbia, South Carolina, che a sua volta era stata invitata alla Lovelace Foundation. La Miller seguì il consiglio della Roth e rimase a casa. Pur essendo interessata all’idea dei test per astronaute, la Miller pensava che non sarebbe mai stata abbastanza fortunata da essere scelta. Anche Marilyn Link, il cui nome si trovava sulla lista che il generale di brigata Flickinger aveva trasmesso a Randy, declinò l’invito. La Link riteneva di essere troppo vecchia per un qualsiasi futuro programma astronautico, essendo vicina ai quaranta. Vennero invitate anche Marjorie Dufton ed Elaine Harrison, ma i registri non indicano se abbiano rifiutato l’invito o se siano andate alla fondazione ma non abbiano superato le prove.
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i modi possibili. “Non ci sarà nessuna fuga di notizie da parte mia, punto e basta”, le giurò l’uomo, continuando poi: “E adesso, lavoriamo sulla tua forma fisica” [13]. La Hixson non aveva nulla di cui preoccuparsi riguardo alle proprie condizioni fisiche, né alle proprie credenziali come aviatrice. Erano impeccabili, e tra le migliori del gruppo. Era l’unica tra le candidate a essere stata una WASP. Aveva prestato servizio sotto Jackie Cochran dal dicembre 1943 fino alla smobilitazione, un anno dopo. Mentre era nelle WASP, era di stanza al Douglas Army Air Field e volò sui B-25 come pilota collaudatore degli impianti. Si occupò anche del trasporto di velivoli al luogo di consegna, aiutò a sviluppare i parametri di controllo del pilota automatico sui T-31, ed eseguì misurazioni delle condizioni atmosferiche in volo. Quando le WASP vennero smobilitate, alle donne pilota venne offerta la possibilità di unirsi alle Air Force Reserves come sottotenenti a terra. La Hixson accettò e ne nacque una stretta relazione con la Wright-Patterson Air Force Base, dove in seguito la donna avrebbe condotto delle ricerche sperimentali sugli effetti della gravità zero. Nel 1957, si trovò nel posto giusto al momento giusto per strappare una possibilità di infrangere la barriera del suono. Allorché un cronista, il cui volo per rompere il muro del suono era già stato programmato, contrasse un problema all’orecchio interno, la Hixson si fece avanti sostenendo che le sue esperienze come riservista e come insegnante di scuola elementare la mettevano in una buona posizione per spiegare gli effetti dell’alta quota agli studenti e, in generale, alla gente. L’Air Force si dichiarò d’accordo, e Miss Hixson salì a bordo di un jet Starfire F-94 C, come passeggera, mentre il suo preside rimaneva sulla pista di volo a scattarle fotografie, tutto orgoglioso. Jean attraversò la barriera del suono a ottocentoquaranta miglia orarie sopra al Lake Erie. Quando il giorno successivo tornò nella sua classe, una terza delle elementari di Akron, Ohio, i suoi studenti erano in preda a un timore reverenziale. Divenne nota come “la maestra supersonica”, e creò un corso scolastico di studi aeronautici e un planetario scolastico, oltre a organizzare uscite didattiche al Lewis Research Center della NASA [14]. Nonostante il suo background da aviatrice fosse superbo, era profondamente preoccupata per un unico dettaglio significativo su cui
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aveva mentito nel questionario di Lovelace. Janey aveva guardato il modulo pieno di domande riguardanti la sua altezza, il suo peso, la sua appartenenza religiosa, il lignaggio, lo stato civile, il numero di figli e gli interventi chirurgici. Aveva elencato accuratamente tutte le sue qualifiche, inclusa l’esperienza come WASP, le oltre quattromila ore di volo, i voli ad alta quota, la dimestichezza con la decompressione esplosiva, l’addestramento per la camera ipobarica, la laurea in pedagogia, la specializzazione in scienze e matematica presso l’università di Akron, e i suoi studi di russo. Aveva sottolineato l’importanza di avere un’insegnante nello spazio per conquistare l’immaginazione degli studenti del Paese. Poi era giunta al rigo che recitava “Età”. Temendo di venire esclusa perché troppo vecchia, aveva sottratto due anni dalla sua data di nascita, scrivendo che ne aveva trentacinque. In realtà, ne avrebbe compiuti trentotto proprio pochi giorni dopo aver inviato il modulo. Non sapendo che Randy aveva già invitato la quarantenne Janey Hart, la Hixson era ricorsa a una misura disperata e per lei insolita. Anni dopo, in seguito alla sua morte, la sorella minore Pauline Vincent scoprì la falsa informazione tra le copie carbone meticolosamente organizzate della corrispondenza della Hixson. La data di nascita contraffatta la fece sorridere. Era l’unica volta, a sua memoria, in cui la sorella avesse mentito [15]. Poiché i cronisti iniziavano a fare domande sullo status astronautico di Miss Cobb, e la voce che il dottor Randy Lovelace stava invitando altre donne a sottoporsi ai test era trapelata, la NASA si sentì costretta a chiarire la questione. In una conferenza stampa organizzata in fretta e furia, un portavoce della NASA dichiarò che l’agenzia spaziale “non ha mai avuto un programma per mandare una donna nello spazio, non ne ha uno adesso e non prevede di averne uno nel prossimo futuro”. E aggiunse che qualunque servizio giornalistico che insinuasse che una donna sarebbe presto stata lanciata come astronauta dalla NASA era assolutamente falso [16]. Nonostante la dissociazione della NASA dalla scelta di Miss Cobb, i mezzi di comunicazione continuarono a considerare Jerrie la prima “lady astronauta” della nazione [17]. Ai media e al pubblico importava ben poco che non fosse stata la NASA, bensì due membri del suo Comitato straordinario per le scienze naturali, il dot-
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tor Randy Lovelace e il generale di brigata Don Flickinger, ad aver designato una donna pilota come soggetto dei test per astronauti. Né sembrava importare che non fosse la NASA a pagare per sottomettere ai test le donne presso la Lovelace Foundation. Simili distinzioni, per quanto accurate, erano o ignote o confuse nella mente della maggior parte degli americani. Una scaltra pierre, Jerrie Cobb sapeva di dover trarre vantaggio dall’incapacità del pubblico di discernere con esattezza chi avesse scelto lei e le altre candidate. Si dispose dunque a presentarsi come una candidata astronauta plausibile, rendendosi conto che un pubblico entusiasta avrebbe potuto persuadere una riluttante NASA a prendere in considerazione l’idea di istituire un programma per le donne. Proprio quei mezzi di comunicazione che aveva a lungo visto come un tormento sgradito ora diventavano un alleato da corteggiare. Si abbonò a un servizio di rassegna stampa, seguì i servizi giornalistici che la riguardavano, e portò il proprio caso direttamente all’attenzione degli americani, parlando con enunciati sempre più dogmatici del bisogno di presenze femminili nel programma spaziale americano. Mentre il suo lavoro di stilare un elenco per Lovelace stava giungendo a compimento, si assunse più volte anche un ruolo di guida tra le donne che acconsentirono a sottoporsi al test, rispondendo alle loro domande, dando loro consigli su come prepararsi agli esami, e tenendole aggiornate. Pur pienamente consapevole che la NASA non aveva fatto suo l’esperimento di Lovelace, Jerrie era sicura che il test sarebbe andato avanti. Delle due dozzine di donne che erano state invitate alla Lovelace Foundation, diciotto avevano accettato5. Ora tutto quello che
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A parte Jerrie Cobb, le diciotto donne che vennero sottoposte agli esami presso la Lovelace Foundation erano Rhea Hurrle Allison [Woltman], Frances Bera, Myrtle Cagle, Jan Dietrich, Marion Dietrich, Wally Funk, Sarah Gorelick [Ratley], Jane Hart, Jean Hixson, Virginia Holmes, Patricia Jetton, Irene Leverton, Georgiana McConnell, Joan Merriam [Smith], Betty Miller, Bernice “B” Steadman, Gene Nora Stumbough [Jessen] e Jerri Sloan [Truhill]. La Bera, la Holmes, la Jetton, la McConnell, la Merriam [Smith] e la Miller non superarono i test. Altre sei donne erano state invitate a sostenere le prove ma declinarono l’invito. Si tratta di Dorothy Anderson, Marjorie Dufton, Elaine Harrison, Marilyn Link, Frances Miller e Sylvia Roth [18].
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Randy doveva fare era trovare il tempo nell’agenda della fondazione per iniziare gli esami. Miss Cobb era talmente assorta nella compilazione della lista che fu presa completamente alla sprovvista quando il suo ruolo di leader venne inaspettatamente messo in discussione. Alla fine dell’autunno del 1960, essendo venuta a sapere del progetto di esaminare un gruppo di donne pilota come candidate astronaute, Jackie Cochran andò direttamente dal suo amico Randy Lovelace chiedendo di essere messa al corrente di tutto. Per quanto fosse completamente presa dal suo lavoro come prima donna presidente della Fédération Aéronautique Internationale, la Cochran non voleva perdersi una nuova sfida. Una volta ammise perfino di avere “da sempre l’abitudine di pretendere di poter fare cose di cui non sapevo nulla” [19]. Mrs Cochran parlò con Randy e, verso la fine del novembre 1960, o accettò l’incarico di diventare sua consulente straordinaria per le donne nello spazio o, semplicemente, si autonominò tale. Gli sottomise anche alcune delle sue idee. Lovelace non si trovava nella posizione di respingere alcun aiuto proveniente da Jackie. Era sua amica da quasi venticinque anni e suo marito, Floyd Odlum, era in carica come presidente del consiglio d’amministrazione della Lovelace Foundation. Odlum era un sostenitore entusiasta del lavoro di Lovelace con la NASA, e versava generose elargizioni per molti dei progetti innovativi della fondazione. Per Randy, i contributi di Jackie non si limitavano alla loro stretta amicizia e al coinvolgimento del suo ricco e influente consorte. Per lui, Mrs Cochran era molto semplicemente una delle più straordinarie donne americane del ventesimo secolo. Eppure, nonostante questo, dev’essere rimasto di sale davanti alla lettera di quattro pagine che atterrò sulla sua scrivania, nella quale Jackie elencava in numeri romani i propri consigli per il suo programma spaziale per le donne. “Come tua Consulente straordinaria in relazione a questo programma, ho alcuni timidi suggerimenti da sottoporti”, scriveva. Alla fine della quarta pagina, c’era ben poco che apparisse timido nei consigli di Mrs Cochran. Jackie esortava Lovelace a prendere in considerazione l’idea di testare un gruppo di donne più vasto di quello di diciotto di cui sta-
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vano programmando gli esami a breve. La sua esperienza a capo delle WASP le faceva credere che molte donne non sarebbero state all’altezza degli standard richiesti o non ce l’avrebbero fatta a superare le prove. Altre si sarebbero ritirate per motivi personali, tra cui il matrimonio. Jackie temeva che un numero di soggetti inferiore a venti non avrebbe offerto un confronto adeguato con i candidati maschi. Invitò Randy anche a pensare bene alla sua idea di volere donne che avessero accumulato almeno un migliaio di ore di volo, richiesta talmente difficile da soddisfare per le donne pilota che solo poche di loro, quelle più avanti negli anni, avrebbero potuto arrivarci. “Quando si tratterà di atteggiamenti mentali e stabilità emotiva, potresti non trovare ragionevole da un punto di vista medico avere per le mani un mucchio di vecchie zitelle”, lo mise in guardia. Argomentò che nelle WASP le migliori erano le donne tra i venti e i ventitré anni. “Non credo che la differenza tra qualche centinaio o qualche migliaio di ore di volo equivalga a una differenza anche minima nelle capacità delle tue candidate”, scrisse. La cinquantaquattrenne Cochran faceva pressione affinché Lovelace prendesse in considerazione donne ben al di sotto dell’età di riferimento di trentacinque anni, ma anche donne più mature. Infine, concluse rivolgendo una critica velata a Jerrie Cobb. La rendeva furiosa, e invidiosa, che tutta l’attenzione fosse incentrata su una sola donna, e si assicurò che Randy comprendesse che “bisognerebbe prestare attenzione affinché nessuno si arroghi quelli che potrebbero essere considerati dei trattamenti preferenziali né si prenda delle occasioni di farsi pubblicità” [20]. Evidentemente, Jackie pensava che i riflettori stessero illuminando un po’ troppo Jerrie Cobb. Randy Lovelace incorporò alcuni dei consigli di Mrs Cochran nel proprio programma spaziale per le donne, e ne respinse altri. Era già disponibile ad accettare donne giovanissime come l’allora ventiduenne Wally Funk, e “mature” come la quarantenne Janey Hart. Un altro suggerimento di Mrs Cochran che fu pronto ad accettare fu l’offerta da parte sua e del marito di finanziare i test, e in seguito le inoltrò un elenco delle spese sostenute per i viaggi, l’albergo e i pasti delle donne mentre si trovavano ad Albuquerque. La Cochran-Odlum
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Foundation versò alla Lovelace Foundation certificati azionari per un ammontare di diciottomilasettecento dollari per coprire i costi dei test delle donne [21]. Ciò che invece non fece fu abbassare il requisito di un migliaio di ore di volo. Voleva aviatrici di successo ed esperte ed era già fin troppo acutamente consapevole che la NASA considerava un problema la mancanza di esperienza delle donne sui jet. Non allargò nemmeno il numero delle donne da testare, pur chiedendo a Mrs Cochran di sottoporgli qualsiasi altro nominativo le fosse venuto in mente. Randy non voleva perdere tempo a mettere assieme centinaia di candidate. Il programma “Ragazze nello spazio” aveva già subito una battuta d’arresto quando l’Air Force aveva cancellato l’esperimento del generale Flickinger. Lovelace voleva procedere immediatamente ai test. Mentre l’anno volgeva al termine, ci furono ulteriori conversazioni e abboccamenti con Mrs Cochran. Jackie avrebbe addirittura voluto sottoporsi di persona ad alcune delle prove, e durante una delle sue numerose visite ad Albuquerque si offrì di affrontare il test di resistenza in bicicletta [22]. L’aviatrice desiderava un maggiore coinvolgimento nell’esperimento a ogni livello e chiese a Lovelace di fornirle copia della corrispondenza tra lui e le candidate. Iniziò anche a tenere dei fascicoli su ciascuna delle donne, prestando particolare attenzione a ogni commento che Jerrie Cobb faceva in pubblico. Si assicurò che Lovelace vedesse ogni servizio che citava Miss Cobb come se fosse la leader del gruppo di candidate. Sottolineando i brani che considerava riprovevoli, disse a Randy: “Come sai, ritengo importante fare un’operazione di gruppo, nella quale ciascuna delle partecipanti sia individualmente anonima fino a quando non si potrà parlare dell’intero gruppo senza favoritismi o prelazioni” [23]. Quell’inverno, uno dei suoi numerosi ingaggi per pronunciare dei discorsi la portò a Dallas. La donna giunse all’aeroporto rombando sul suo Lockheed Lodestar. In piedi sulla pista di volo, come parte del comitato d’accoglienza ufficiale, c’erano Jerrie Cobb e due candidate astronaute, Pat Jetton, presidentessa della Women’s National Aeronautical Association, e Jerri Sloan, in rappresentanza delle Ninety-
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Nines locali. Mrs Cochran eseguì il rullaggio e fermò il velivolo mentre i fan la acclamavano e un fotoreporter cercava di scattarle una foto. Quando l’uomo le chiese di salutare dall’altro finestrino per poter fissare un’immagine migliore, lei non volle saperne. “Quello è il seggiolino del copilota”, urlò. “Io sono il pilota.” Jerrie Cobb dovette rendersi conto che la copertura della stampa che era andata coltivando così assiduamente fin dall’annuncio di Randy a Stoccolma stava venendo messa in ombra dai metodi impetuosi con cui Jackie pretendeva attenzione. In un’altra fotografia, che apparve in seguito sui giornali di Dallas, Mrs Cochran si trova davanti, in posizione centrale, mentre Jerrie Cobb sembra un arredo di scena. E l’essere citata nella didascalia semplicemente come una “fan” di Jackie non aiutò certo i suoi sforzi per venire presa sul serio come candidata astronauta [24]. Mrs Cochran doveva tenere due discorsi a Dallas, il primo dei quali davanti al Women’s Group of the Dallas Council on World Affairs, il gruppo femminile del consiglio comunale di Dallas sugli eventi mondiali. Parlare con gruppi di donne non era la sua attività preferita. La moglie di Chuck Yeager, Glennis, ricordò che “Jackie si irritava se un qualunque gruppo femminile la invitava a pronunciare un discorso. ‘Cosa ho in comune con un branco di dannate casalinghe?’, chiedeva” [25]. Quella sera, Jerri Sloan sedeva sul palco con Mrs Cochran in occasione del suo secondo discorso, rivolto ai piloti commerciali. Miss Cobb non c’era. Iniziando a parlare, Jackie dipinse il ritratto del proprio eroico lavoro a capo delle WASP. Allo scopo di lodare i voli rischiosi delle WASP, la Cochran proclamò: “Gli uomini avevano paura di volare sui B-17, e io dissi: ‘Li piloteranno le mie ragazze.’”. Pur non avendo mai messo in dubbio il coraggio delle WASP, Jerri si arrabbiò per il modo in cui Mrs Cochran si era presa tutti i meriti, e si sentì in imbarazzo per come aveva offeso i veterani maschi che si trovavano tra il pubblico. “Quelli erano uomini per bene”, disse Jerri, “e furono sconvolti dalle sue parole”. Mrs Sloan non aveva mai incontrato Mrs Cochran prima, e non si inchinava davanti a lei come tanto spesso facevano gli altri. Non le piacevano il suo narcisismo, né i suoi insulti, e pensava che il suo egotismo gettasse una cattiva luce su tutte le donne
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pilota. “Abbiamo litigato davvero alla grande”, rammenta. “Sai, Jackie”, ricorda di aver detto, “ti dirò una cosa. Non ho intenzione di sedermi mai più su un palco con te. Mai. Mi hai messa terribilmente in imbarazzo, e mi vergogno di essere una donna pilota!” Mrs Cochran reagì urlandole contro: “Accidenti a te! E tu vorresti entrare nel Programma Mercury?”. Quando Jerri replicò che Miss Cobb le aveva già detto che era stata accettata, Jackie esplose: “Jerrie Cobb non dirige questo programma”, gridò. “Lo dirigo io!” [26].
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Jackie Cochran, sempre favorevole al confronto diretto, decise di parlare con Miss Cobb della leadership del programma delle donne astronauta. Lasciati passare alcuni giorni dopo il suo rovente alterco con Mrs Sloan, avvicinò Miss Cobb con la mente più fredda e un approccio adeguatamente educato. Le scrisse, dicendole che le dispiaceva che loro due non avessero “avuto l’occasione di conoscerci meglio” mentre entrambe si trovavano a Dallas. Quindi invitò la collega al Cochran-Odlum Ranch di Indio, California, il primo di numerosi inviti per delle conversazioni sul proprio territorio. Un invito a Indio era più di una semplice proposta per un fine settimana tra amici. Era un’immersione integrale nel potere e nell’influsso di Jackie. I novecento acri di ranch erano opulenti: rigogliosi pompelmi, mandarini e palme da dattero, un campo da golf, una scuderia, una piscina riscaldata, e svariati cottage per gli ospiti. All’interno della residenza principale c’era una magnifica sala da pranzo ampia come un salone da ballo dove generali, presidenti, stelle del cinema e ricchi magnati si attardavano in cocktail e lunghe cene. Durante le sue visite al ranch, l’omonima figlioccia di Mrs Cochran, Jackie Lovelace, era solita sgattaiolare via con le sorelle per recarsi nel bagno privato della padrona di casa così da poter ammirare l’imponente scultura in cristallo di Lalique che aveva trasformato una stanza di servizio in una galleria d’arte [1]. E, sopra a tutto questo, Mrs Cochran esercitava il proprio dominio: dirigeva la conversazione con ampi gesti, rimproverava i cuochi e il personale con fragorose rimostranze, e non permetteva mai a nessuno di nutrire dei dubbi riguardo a chi fosse al comando. Nei sei mesi che seguirono, Miss Cobb declinò cinque inviti, adducendo di volta in volta la scusa M. Ackmann, Mercury 13 © Springer-Verlag Italia, Milano 2011
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di un viaggio urgente o di un lavoro improvviso [2]. Pur rendendosi conto entrambe di quanto cruciali fossero il supporto e le capacità dell’altra, le due donne ingaggiarono un braccio di ferro psicologico. I muscoli di Mrs Cochran erano tesi al massimo nel tentativo di trascinare Miss Cobb nel proprio mondo influente; le forze della Cobb erano impegnate in un’incessante resistenza. I biglietti cortesi che si scambiavano celavano la reciproca, crescente diffidenza. Ignare della frizione tra Miss Cobb e Mrs Cochran, diciotto donne iniziarono ad arrivare ad Albuquerque tra il gennaio e l’agosto del 1961 per sottoporsi agli esami da astronaute. Una telefonata dalla segretaria del dottor Lovelace o un telegramma spedito precipitosamente un giorno o due prima dell’inizio del test fu tutto il preavviso che la maggior parte di loro ricevette prima di prenotare i biglietti aerei. Sarah Gorelick, motorista di bordo e pilota da corsa di Kansas City, venne rintracciata dai familiari mentre si trovava al salone di bellezza. Quando il padre le disse che avevano chiamato dalla Lovelace Foundation e che la volevano immediatamente per il test da astronauta [3], Sarah si precipitò a cercare di ottenere un permesso dal lavoro. Aveva già esaurito le ferie annuali che le spettavano per il “Derby del piumino da cipria”, e stava mettendo a dura prova la buona volontà del proprio capo chiedendogli di averne altre. Ma Randy Lovelace doveva incastrare i test delle donne tra gli appalti ufficiali per il governo, per le compagnie aeree e per l’esercito, e non poteva avvisare le donne con largo anticipo. La maggior parte di loro arrivò da sola per gli esami, e trascorse da sola l’intera settimana1. In rare occasioni, presentandosi alla fondazione ca-
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Secondo i registri dell’archivio del dottor Ulrich Luft della Lovelace, l’ordine dei test delle diciotto donne pilota che seguirono la Cobb fu questo: Jan Dietrich la settimana del 17 gennaio 1961; Wally Funk la settimana del 28 febbraio 1961; Virginia Holmes la settimana del 3 marzo 1961; Joan Merriam, Patricia Jetton e Marion Dietrich la settimana del 7 marzo 1961; Betty Miller e Rhea Hurrle la settimana del 14 marzo 1961; Frances Bera la settimana del 22 marzo 1961; Georgiana McConnell la settimana del 29 marzo 1961; Jerri Sloan e B Steadman la settimana del 4 aprile 1961; Irene Leverton la settimana del 18 aprile 1961; Sarah Gorelick la settimana del 19 giugno 1961; Myrtle Cagle la settimana del 30 giugno 1961; Janey Hart e Gene Nora Stumbough la settimana del 24 luglio 1961; e Jean Hixson la settimana del 15 agosto 1961.
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pitò che una donna scoprisse di avere una compagna di test. Quelle che affrontarono le prove insieme trassero il massimo vantaggio dal cameratismo, condividendo le reazioni agli esami, sviluppando una sana competitività, e spesso restando in contatto dopo essere tornate a casa [4]. Di tanto in tanto, le candidate che erano sole venivano accompagnate a fare un giro della città da una delle infermiere della Lovelace, la sera2. Per il resto, le candidate non sapevano chi le avesse precedute né chi le avrebbe seguite. Alcune avevano captato vaghe descrizioni del test bisbigliate tra amiche nei circuiti aeronautici, ma per lo più le candidate che affluirono alla Lovelace Foundation si sentirono curiosamente isolate e slegate durante le prove. Diversamente da quanto era accaduto durante gli esami degli astronauti del Programma Mercury, o durante quello di Jerrie Cobb, non furono pianificate serate mondane con il personale della fondazione. Gli unici incontri di quelle donne con i medici della Lovelace avvenivano durante gli esami veri e propri e alla fine della settimana, allorché Randy o un membro del suo staff esaminavano i punteggi delle candidate e comunicavano loro se avevano superato il test o meno. Arrivando allo squallido Bird of Paradise Motel, alcune delle donne devono aver pensato di aver preso la decisione sbagliata. Non c’era niente che si accordasse con le loro enormi ambizioni, in quell’edificio. Non c’era niente di nobile o distinto in un motel sulla strada statale, in tipico stile strada statale, con i pavimenti rivestiti di linoleum e una mobilia non ben definita. L’unico vantaggio offerto dall’alloggio era la sua vicinanza alla fondazione, proprio di là dalla strada in questione. Con i suoi rubinetti gocciolanti, gli sciacquoni che spesso non funzionavano, e gli innumerevoli clisteri che dovevano auto2
Sarah Gorelick [Ratley], che fu esaminata da sola, ricorda che le infermiere della Lovelace avevano notato che le candidate astronaute trascorrevano tutte le loro ore libere al Bird of Paradise Motel, da sole. Un’infermiera si offrì di mostrare alla Gorelick le bellezze del centro storico di Albuquerque durante il suo soggiorno. Durante quell’escursione, la Gorelick si fermò in una gioielleria e acquistò una spilla di turchese e corallo ispirata allo stile dei nativi americani come ricordo del test. Il gioiello ricorda un uccello sul punto di spiccare il volo. A quarant’anni di distanza, quel monile è ancora uno dei suoi beni più preziosi. Le ricorda grandi sogni, dice. Lo definisce “un’ispirazione”.
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somministrarsi durante la settimana a venire, era dura trovare l’ispirazione. Fortunata quella donna che fosse arrivata di mercoledì per il suo test, perché quello era l’unico giorno della settimana nel quale le cameriere del Bird of Paradise cambiavano le lenzuola [5]. Oltre all’ostilità che alcune delle donne incontrarono da parte dei propri datori di lavoro quando chiedevano all’improvviso dei permessi per viaggi imprevisti, che oltretutto non potevano spiegare, anche alcuni mariti furono altrettanto poco cooperativi. Sembrava una chimera abbandonare i compiti di badare ai bambini e le responsabilità familiari per qualcosa di così audace e poco realistico come dei test per astronaute. All’oscuro della tensione che ribolliva tra Jerrie Cobb e Jackie Cochran, alcune donne si ritrovarono a essere usate come delle pedine in un gioco per la leadership del programma. Negli otto mesi che seguirono, più di una donna mise a repentaglio il lavoro o il matrimonio infilando precipitosamente in una borsa qualche paio di pantaloni ampi, delle camicette, un giallo di Agatha Christie e uno spazzolino da denti e correndo a prendere il primo volo per il New Mexico. Superare il test per astronaute era solo l’inizio. Il Bird of Paradise dev’essere stato un colpo particolarmente forte per la trentaquattrenne Jan Dietrich, che vi giunse per i suoi test alla fine del gennaio 1961, di ritorno da una settimana al ranch di Indio di Jackie Cochran, dove aveva trascorso lunghe giornate allenandosi e rilassandosi accanto alla piscina. Jan e la sorella gemella, Marion, conoscevano Jackie dalla frequentazione dei circuiti aeronautici locali, e vivevano entrambe a non troppa distanza dal ranch CochranOdlum [6]. Mrs Cochran aveva preso particolarmente a cuore i loro test, e Jan sarebbe stata la prima tra tutte le candidate a venire esaminata. Incredibilmente attraenti, le gemelle dai capelli bruni assomigliavano moltissimo a Natalie Wood, l’attrice di Hollywood. Altri sostenevano che le si sarebbe potute scambiare per la nuova first lady, Jacqueline Kennedy. Mrs Cochran, sempre preoccupata che le sue WASP si conformassero all’ideale femminino, si rese conto che le Dietrich erano particolarmente irresistibili come rappresentanti delle aviatrici: piloti qualificati e, allo stesso tempo, donne affascinanti.
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Sapendo che la sorella sarebbe stata in uno dei successivi gruppetti di candidate, Jan le spediva missive tutte le sere. “Dovrai alzarti alle 5.30 o alle 6. Correrai per tutto il giorno. Se puoi, vedi di arrivare con addosso qualche chilo in più: salterai uno o due pasti al giorno... A causa del programma accelerato, alcuni dei test risulteranno piuttosto incompatibili tra di loro. Purtroppo non si può evitare. Ma cerca di non farti scattare la foto a colori lo stesso giorno in cui ti impiastricciano la testa di pasta per l’elettroencefalogramma, o di non sostenere la prova di ginnastica la stessa mattina in cui devi sottoporti a tre clisteri in due ore. Penso di aver reso l’idea” [7]. Alla fine della settimana, Jan incontrò il dottor Secrest, che la informò che si era posizionata nel “primo dieci per cento dei sessantacinque candidati astronauti e piloti collaudatori che hanno affrontato la batteria di test” [8]. Con le sue ottomila ore di volo, la qualifica di pilota di linea, la laurea della University of California conseguita a Berkeley, come la sorella, Jan Dietrich andò a raggiungere Jerrie Cobb come seconda donna ad aver superato con successo i test medici della Lovelace per aspiranti astronauti3. Sei settimane più tardi fu la volta di Marion, che ricevette la comunicazione della data delle prove con due soli giorni d’anticipo. Durante l’autunno precedente, la donna aveva quasi rinunciato all’idea dei test da astronauta visto che né lei né Jan avevano ricevuto notizie dirette dalla Lovelace Foundation dopo la lettera iniziale d’invito di settembre. Arrivate al giorno del Ringraziamento, avevano supposto che l’esperimento fosse stato annullato. Mrs Cochran era intervenuta e, nel suo neoacquisito ruolo di consulente del programma, aveva chie-
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Nei primi anni Sessanta, solo poche donne avevano ottenuto un ATR (qualifica di pilota di linea). Considerato la “laurea di secondo grado” delle credenziali aeronautiche, un ATR richiedeva esperienza con velivoli multimotore ad alte prestazioni e dotati di strumentazione sofisticata. Le linee aeree commerciali normalmente richiedono un ATR ai piloti che governano i loro aerei. Negli anni Sessanta, dal momento che in pratica nessuna donna veniva ingaggiata come pilota per i voli commerciali delle compagnie aeree, poche di loro si davano la pena anche solo di affrontare il costoso addestramento necessario a prepararsi per un ATR. Quattro altre Mercury 13 erano in possesso di tale qualifica: Jan Dietrich, Irene Leverton, B Steadman e Myrtle Cagle.
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sto a Randy notizie della situazione delle gemelle4. La segretaria di Randy aveva informato Jackie che a Marion e Jan era riservata la “massima” considerazione, e che il dottor Lovelace era particolarmente interessato, da un punto di vista scientifico, a esaminare delle gemelle monozigote [9]. Quando finalmente le giunse la richiesta di presentarsi ad Albuquerque, Marion si prese un permesso dal proprio impiego di redattrice e articolista all’Oakland Tribune. Da quell’astuta scrittrice che era, la donna prestò attenzione ai dettagli mentre si registrava al Bird of Paradise, archiviandoli per un futuro pezzo giornalistico. “È davvero nei pasticci”, la mise in guardia l’esausto gestore del motel, che aveva già visto Miss Cobb e Jan Dietrich alle prese con i test. “È dura” [10]. Avendo conseguito da adolescente la sua licenza da pilota, insieme a Jan, e avendo aggiunto altro tempo in volo con il Civil Air Patrol, Marion aveva già accumulato oltre millecinquecento ore di volo e aveva ottenuto l’abilitazione per l’idrovolante e la qualifica di istruttore di volo. Consacrava i fine settimana e le vacanze al volo, e consegnava aerei insieme alla sorella, talvolta anche in località oltreoceano. Come altre donne pilota seriamente intenzionate a volare, dopo la Seconda guerra mondiale lei e Jan presero parte anche alle gare aeree locali, riuscendo addirittura a strappare un secondo posto nella All Women’s Transcontinental Air Race la prima volta che vi parteciparono. Alta all’incirca un metro e sessanta, con un peso di quarantasette chilogrammi scarsi, Marion sperava che la taglia giocasse a favore suo e della sorella. “Il peso è un fattore cruciale”, scrisse alla gemella. “Ci vogliono, mi pare, mille libbre di propulsione per ogni libbra di carico utile”, e aggiunse che la taglia minuta dava loro un vantaggio rispetto alla più alta e più massiccia Jerrie Cobb [11]. Alla fine della settimana trascorsa ad Albuquerque, Marion Dietrich scoprì che anche 4
Pat Dietrich Daly, la sorella delle gemelle Dietrich, pensa che la Cochran possa aver inizialmente suggerito Jan e Marion a Randy. Appartenendo sia Jackie che le Dietrich alla sezione californiana delle Ninety-Nines, la Daly ritiene che si conoscessero abbastanza bene. Non ci sono altre prove tangibili che indichino con precisione come Jan e Marion Dietrich siano apparse sull’elenco delle esaminande. Di sicuro, una volta che furono proposte per i test, divennero le preferite di Jackie. Alcune altre donne del gruppo delle Mercury 13 pensano che le gemelle fossero le candidate “scelte” della Cochran.
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lei aveva superato gli esami fisici. Quello che la Dietrich non comprese fino in fondo, invece, fu che lei e Jan erano sul punto di venire usate per far valere l’importanza di Jackie Cochran nel programma. Pur avendo messo in guardia Randy sulla necessità di evitare di focalizzare l’attenzione dei media su una singola candidata, Mrs Cochran fece esattamente quello allorché quella primavera scrisse un articolo di copertina per la rivista Parade, un supplemento domenicale che accompagnava i principali quotidiani di tutto il Paese. Nell’articolo, apparso il 30 aprile 1961, meno di tre settimane dopo che la nazione si era concentrata sulla sorprendente notizia dell’orbita attorno alla Terra compiuta dal russo Yuri Gagarin, Mrs Cochran scrisse un pezzo intitolato: “Jan e Marion Dietrich: le prime gemelle astronaute”, nel quale parlava del suo personale coinvolgimento nel programma di Lovelace. La fotografia in copertina ritraeva le gemelle Dietrich, tutte sicurezza di sé e sorrisi smaglianti, in piedi nella posa stereotipata delle donne pilota, con indosso delle tute da volo e in mano dei caschi da jet presi in prestito dall’Air Force. Oltre a descrivere a grandi linee i test che venivano condotti ad Albuquerque, Mrs Cochran corredò l’articolo con delle fotografie artefatte che la immortalavano sullo sfondo con in mano un portablocco a molla mentre osservava Jan sullo speciale tapis roulant (TVIS). Pur pronosticando che nessuna donna sarebbe andata nello spazio per altri sei o sette anni, Mrs Cochran affermò che l’esperimento indipendente di Lovelace “potrebbe sfociare in un programma finanziato dal governo” [12]. In quel momento, sostenne, senza emergenze nazionali in atto e con così tante donne che permettevano che il matrimonio e i figli ostacolassero la loro carriera aeronautica, era troppo dispendioso addestrare le donne a pilotare i jet. Jackie suggerì che le donne pilota qualificate scrivessero direttamente a lei qualora fossero interessate a essere prese in considerazione per gli esami. In questo modo, dribblando Randy Lovelace e Jerrie Cobb, si pose come la guardiana della porta che conduceva ai test. Dopo che era apparso l’articolo, Marion Dietrich, che non pareva aver capito che lei e la sorella erano state intrappolate in una battaglia per il controllo tra le due aspiranti leader del gruppo,
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inviò a Jackie un biglietto di congratulazioni [13]. Allorché, due mesi più tardi, ricevette da parte di Mrs Cochran una risposta gelida, Marion ne fu sconcertata e se ne sentì ferita. Gli appunti che aveva preso al Bird of Paradise erano confluiti in un pezzo sui test che sarebbe apparso di lì a poco su McCall’s; e Jackie, che era venuta a sapere dell’imminente pubblicazione e non apprezzava di essere messa in ombra sulla carta stampata, insinuò che quella violazione alla regola del non fare pubblicità ai test potesse costituire una minaccia per il suo futuro coinvolgimento nel programma. “Mi è giunta voce che al momento c’è qualche complicazione riguardo alla tua posizione a causa dell’articolo che ti pubblicheranno”, scrive Mrs Cochran. “Spero sinceramente che questi problemi si risolvano” [14]. Il servizio di Jackie su Parade generò una valanga di risposte da parte delle donne pilota e perfino delle ragazzine che si sentivano ispirate dall’idea delle donne astronauta. La sposina Myrtle Thompson Cagle di Macon, Georgia, fu l’unica pilota la cui lettera alla Cochran portò a un invito ad Albuquerque per i test. Anche altre donne inviarono a Jackie le proprie credenziali, ma Randy Lovelace non pensava che soddisfacessero i requisiti fondamentali. Pur desiderando indubbiamente di essere presa in considerazione per gli esami, la trentacinquenne Myrtle Cagle temeva la disapprovazione del neomarito, e attese che l’uomo fosse uscito per il lavoro, un mattino, prima di scrivere a Mrs Cochran una lettera piena di smancerie come una delle “tue più ardenti ammiratrici”. Mrs Cagle presentò un curriculum impressionante: qualifiche di pilota di linea e di pilota di aerei multimotore, quattromilatrecento ore di volo, e un lavoro come istruttrice di volo presso il club aeronautico locale. Randy le telefonò immediatamente, chiedendole di recarsi alla fondazione il giorno successivo. Myrtle non poté ottemperare alla richiesta perché, come spiegò a Mrs Cochran, dal momento che suo marito non era in casa non poteva farsi dare il suo consenso. Alcune settimane più tardi si recò ad Albuquerque, apparentemente con il benestare del marito, e da Los Alamos spedì a Mrs Cochran un macinapepe Woodpecker per ringraziarla dell’aiuto che le aveva dato proponendo il suo nominativo e finanziandole le spese.
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Anche Mrs Cagle superò i test, e si mantenne in corrispondenza con Mrs Cochran, che considerava la leader del programma. “Voglio che tu sia a capo del nostro gruppo”, dichiarò con enfasi. “Penso già a te come alla mia ‘sorella maggiore’, e ti chiamo così. Non ho sorelle, e tu sei la mia sorella di aviazione. Spero di non sembrare sdolcinata, è solo che ti ammiro davvero tanto” [15]. È possibile che Jackie Cochran abbia desiderato ricoprire un ruolo più attivo di quello di consulente nel programma “Ragazze nello spazio” di Lovelace. Mentre si trovava ad Albuquerque, la candidata Sarah Gorelick si trovò a portata d’orecchio di un’accesa discussione tra Randy e Jackie, proprio appena dopo esser stata informata di aver superato gli esami. La ventisettenne Gorelick era in possesso di una laurea in matematica conseguita presso la Denver University, con fisica e chimica come materie complementari, e lavorava come assistente motorista presso l’AT&T di Kansas City5. Essendo l’unica pilota con una formazione tecnica, Miss Gorelick sperava di essere messa in lista per un lavoro nell’ambito del sistema delle comunicazioni, se il suo addestramento da astronauta fosse proseguito. Eppure, nonostante i risultati positivi dei suoi test, Lovelace sembrava angosciato. Alla fine l’uomo rivelò a Sarah che aveva brutte notizie da dare alla persona con cui aveva appuntamento dopo di lei. Saltò fuori che il mese precedente Jackie Cochran si era recata alla Lovelace Foundation per fare il suo check-up annuale. Gli esiti dei suoi esami indicavano qualche problema, e Randy borbottò un distratto: “Non ne sarà affatto contenta”. Quando Jackie si presentò nell’ufficio di Lovelace per il suo appuntamento, Sarah la salutò rispettosamente e si affrettò ad andarsene. Mentre si allontanava lungo il corridoio, udì delle urla provenire dall’ufficio di Randy. Anche se Lovelace e Mrs Cochran saranno per sempre gli
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La voce “assistente” nel titolo della Gorelick la irritava, dal momento che uomini in possesso del solo diploma delle superiori, uomini che la direzione le imponeva di chiamare sir, lavoravano come motoristi, mentre tutte le donne con lauree universitarie scientifiche erano bloccate nel ruolo di assistenti. Miss Gorelick si rendeva conto che era un cimelio di un passato oscuro, proprio come la limonata che la ditta offriva ai dipendenti quando la temperatura nell’ufficio privo di aria condizionata superava i quaranta gradi centigradi.
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unici a sapere con esattezza quali fossero i fatti che vennero comunicati, il colloquio che aveva avuto con Randy indusse Sarah a pensare che Jackie fosse furiosa perché i suoi referti medici rendevano impossibile una sua candidatura come astronauta. All’epoca della lite, Miss Gorelick non era pienamente consapevole delle complesse forze che si stavano battendo per assumere il controllo del programma delle donne astronauta. Come la maggior parte delle donne che arrivavano alla fondazione, anche lei era all’oscuro delle guerre di potere sotterranee ed era concentrata solamente sul superare gli esami. Intuitivamente, però, la Gorelick sentì che preferiva non essere in alcun modo in debito con Mrs Cochran. Allorché le giunse l’assegno per il rimborso delle spese che aveva sostenuto mentre si trovava ad Albuquerque, Sarah aprì la lettera, ma non lo incassò mai [16]. Come Myrtle Cagle, anche Jerri Sloan stava avendo problemi ad allontanarsi da casa. Suo marito, Lou, non era affatto sicuro di volere che la moglie si recasse ad Albuquerque. Mentre l’aveva sempre appoggiata riguardo al volo (i due erano andati insieme all’università dell’Arkansas proprio per il suo programma aeronautico), i test per astronauti gli sembravano esagerati. E Mrs Sloan era stata avvisata che surclassare un marito significava guai. “Piccola, lascia che ti dica una cosa”, le aveva sussurrato il suo patrigno mentre danzavano insieme al country club di Amarillo. “La cosa peggiore che puoi fare è metterti in competizione con tuo marito.” Mentre la disapprovazione di Lou sembrava pura invidia, Mrs Sloan iniziò a rendersi conto che il vero problema dell’uomo era l’alcool. Come a molti suoi compagni che avevano prestato servizio come piloti durante la Seconda guerra mondiale, anche a Lou Sloan piaceva farsi un drink di tanto in tanto. Con il passare degli anni, però, le sue bevute in compagnia erano diventate smodate, e il giovane uomo che un tempo Jerri aveva trovato tenero e “troppo bello per essere vero” era diventato distante e arrabbiato. Con o senza l’approvazione del marito, Jerri sapeva che sarebbe andata alla Lovelace, e chiamò la madre affinché le facesse da babysitter ai bambini per una settimana [17]. Quando incontrò l’alta e sottile Bernice “B” Trimble Steadman al
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Bird of Paradise, Jerri Sloan fu grata di avere una compagna di test. Fu addirittura felice degli esami veri e propri, un gradito diversivo ai problemi che aveva a casa. Non aveva mai incontrato Bernice, nonostante entrambe fossero attive nelle Ninety-Nines e nei circuiti delle gare d’aviazione femminile. Mrs Steadman viveva con il marito avvocato a Flint, Michigan. Trentacinquenne, si era fatta strada passando dal controllare le candele d’accensione a corrente alternata a diventare una pilota professionista con ottomila ore di volo responsabile del Trimble Aviation, un centro di servizi aeroportuali che forniva istruzioni, riparazioni e vendita di servizi aeronautici in genere. Calma, paziente, flessibile, premurosa, sembrava guardare sempre al futuro. Quando aveva un anno e mezzo, un incendio si era propagato nella casa dei Trimble, nella Upper Peninsula del Michigan. Anche se lei e i suoi genitori ne erano usciti illesi, suo padre era rientrato nella casa in fiamme per salvare altri due bambini. Non era riuscito a tornare, ed era morto insieme ai due fratelli maggiori di Bernice. Lei era troppo piccola per ricordare i dettagli della tragedia, ma quell’esperienza aveva segnato profondamente la sua famiglia, e anche la sua stessa vita. Forse era perché aveva vissuto un inizio così drammatico che ogni altro ostacolo nella vita le sembrava piccolo in confronto [18]. L’influsso stabilizzante di Bernice aiutò Jerri Sloan a concentrarsi sul test da superare, soprattutto quando un irato Lou Sloan iniziò a tempestare il motel di telefonate. Spesso quando chiamava era ubriaco, e inveiva in maniera incoerente finché Jerri non riattaccava. Bernice si rendeva conto che le telefonate di Lou stavano complicando le prove per sua moglie. Il fatto che suo marito, Bob, fosse orgoglioso di lei al punto di essersi addirittura addossato il compito di traslocare la famiglia tutto da solo da Flint a Montrose, Michigan, durante la settimana dei test, contrastava in maniera eclatante con il comportamento non cooperativo di Lou. Mrs Steadman si chiedeva come Jerri riuscisse a concentrarsi sulle prove con le chiamate del marito che ormai erano assurte al rango di una vera e propria molestia notturna. Anche Randy era a conoscenza della tensione nel matrimonio di Mrs Sloan e della pressione che stava subendo dal marito
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allo scopo di farla ritirare. Lou aveva chiamato anche l’ufficio del dottor Lovelace, cercando di far deragliare i test della moglie o, quanto meno, di dare motivo a Randy di interrogarsi riguardo a un futuro coinvolgimento della donna [19]. Durante la loro ultima giornata alla fondazione, sia Mrs Steadman che Mrs Sloan vennero informate di aver superato gli esami. Convocando Jerri nel proprio ufficio per un colloquio privato supplementare, Lovelace le chiese se i suoi problemi matrimoniali le avrebbero impedito di prendere parte allo stadio successivo dei test. Decisa, la donna rispose che qualunque difficoltà stesse incontrando stava sobbollendo già da molto prima che giungesse la convocazione da Albuquerque. Per quanto amasse il marito, e per quanto fosse convinta che anche lui la amasse ancora, il suo attaccamento alla bottiglia aveva reso insopportabile la loro vita, e lei sapeva cosa doveva fare. Quindi comunicò al dottor Lovelace di voler essere inclusa nella fase successiva del test, e che si sarebbe occupata delle sue questioni familiari. Quando scese dall’aereo che l’aveva riportata a Dallas, Jerri non era preparata a quello che la aspettava. All’uscita la attendeva il corriere di un avvocato, che le presentò i documenti per il divorzio. A casa trovò il marito a letto, ubriaco. I suoi sogni di voli spaziali sembravano decisamente distanti mentre prendeva i figli e la madre e si allontanava con loro in auto in cerca di un motel per la notte [20]. Anche se Wally Funk non si trovava sulla lista iniziale delle candidate, e nonostante si fosse autoproposta, Randy la ritenne degna di considerazione. Come le sorelle Dietrich, che intrigavano i dottori in quanto gemelle monozigote, Miss Funk suscitò la curiosità medica di Randy per la sua giovane età (aveva solo ventidue anni, il che la rendeva la più giovane del gruppo) e per la sua smagliante forma fisica (ottenuta grazie allo sci agonistico). Inoltre, Wally era cresciuta a quasi duemilacinquecento metri d’altezza, a Taos, e questo poteva costituire un vantaggio dal punto di vista fisico per affrontare l’alta quota propria del volo spaziale. I medici di Albuquerque provavano anche una certa dose d’orgoglio locale nei confronti della candidatura di Miss Funk. La ragazza era infatti l’unica nativa del New Mexico tra
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le partecipanti ai test da astronauta. Fermamente decisa a battere i punteggi di tutte le altre donne, ma consapevole che la sua giovane età e la sua ingenuità avrebbero potuto remarle contro, Wally restò sulle sue durante i test, e fece poche domande. Lasciò trapelare la propria inesperienza solo quando era davvero sconcertata, cosa che avvenne quando un dottore le chiese un “campione di feci”: non aveva mai sentito quel termine, e non aveva la più pallida idea di cosa fare con quel piccolo bicchierino di plastica [21]. Il suo candore, unitamente alla sua feroce determinazione a strappare il punteggio migliore in tutti i test, spianò la strada a un grosso malinteso, a una falsa convinzione che per anni non venne verificata. La confusione si impernia sulla prestazione di Wally nel test della bicicletta, e sulle sue successive affermazioni pubbliche di aver battuto John Glenn, rivelando una forma fisica migliore di quella del celebre astronauta. L’obiettivo della prova consisteva nel pedalare su una cyclette che simulava la salita su dei pendii sempre più ripidi. La pressione sanguigna, il volume respiratorio e lo scambio di gas polmonare della Funk venivano misurati ogni minuto, mentre la sua frequenza cardiaca si avvicinava a un massimo di centottanta battiti al minuto, il punto del completo sfinimento fisico. Decisa a superare il tempo massimo mai trascorso sulla cyclette, Wally domandò ai tecnici della Lovelace quale fosse stato fin lì il tempo migliore. Le venne risposto che erano dieci minuti. Spingendo per arrivare ai dieci minuti, Miss Funk sentì che le sue gambe si indebolivano sempre di più mentre le sue pulsazioni si facevano sempre più veloci. Tenne duro, riprese fiato, e toccò quota undici minuti prima di accasciarsi al suolo rifiutando di farsi aiutare a scendere dalla bicicletta. Ciò che Miss Funk non comprese, però, era che il tempo complessivo trascorso sulla bicicletta era solo uno dei termini dell’equazione che misurava la prestanza fisica. Il suo tempo sarebbe stato calibrato alla sua età, al suo peso e ad altri fattori del metabolismo così da arrivare a calcolare la sua capacità aerobica complessiva. La resistenza sulla bicicletta, per quanto importante, non era l’unico indice di successo. Anche se sia Miss Funk che John Glenn fornirono un’ottima presta-
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zione al test della cyclette, la Funk non batté Glenn né, di fatto, si posizionò in testa alla classifica dei risultati femminili, piazzandosi solo al terzo posto tra le aviatrici6. Il primo posto fu di Jan Dietrich, seguita al secondo da Rhea Hurrle7. Pur se quegli undici minuti sulla cyclette dimostrarono sicuramente la sua determinazione, l’equivoco della Funk indica anche una sua tendenza a passare sotto silenzio i dettagli, soprattutto quando questi contraddicevano l’immagine che evidentemente voleva dare di sé come miglior concorrente. Per Wally Funk, Jerri Sloan, B Steadman, Sarah Gorelick e tutte le altre donne pilota che si stavano sottoponendo ai test presso la Lovelace Foundation non c’era alcun dubbio che quegli esami avrebbero potuto portarle a diventare astronaute. Queste aviatrici studiarono la lettera d’invito del dottor Lovelace e il suo riferimento alle “donne nel programma spaziale”, e ne dedussero che una persona che la NASA aveva chiamato a dare una mano per la selezione degli uomini del Programma Mercury sarebbe sicuramente stata presa sul serio. Inoltre, nel suo articolo su Parade, Jackie Cochran aveva scritto che le donne
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Il dottor Jack Loeppky ereditò gli archivi medici del suo mentore, il dottor Ulrich Luft, il pneumologo della Lovelace Foundation che sottopose i candidati astronauti, uomini e donne, al test della cyclette. Gli appunti di Luft indicano che Glenn trascorse 17 minuti sulla bicicletta, e il suo massimo consumo di ossigeno fu di 2,801 litri al minuto. Il suo peso era di 83,5 chilogrammi. In confronto a lui, la Funk trascorse 11 minuti sulla bicicletta, e il suo massimo consumo di ossigeno fu di 1,812 litri al minuto. Il suo peso era di 57,4 chilogrammi. Quando i risultati vennero computati per determinare quale fosse il consumo massimo di ossigeno in relazione al peso corporeo, il risultato di Glenn fu di 33,5 ml per chilogrammo, mentre quello della Funk fu di 31,6. Loeppky interpretò quei valori come segnali precisi che “lui [Glenn] era leggermente più in forma”. Gli archivi di Loeppky, provenienti dal dottor Luft, sono gli unici documenti rimasti che confrontano i punteggi di tutte le diciannove donne sottoposte ai test presso la Lovelace Foundation, inclusa Jerrie Cobb. Jake Spidle Jr, lo storico della Lovelace Foundation and Clinic, pensa che molte delle cartelle cliniche relative alle diciannove donne che vennero sottoposte ai test da astronaute tra il 1960 e il 1961 siano andate perse o distrutte, o che si trovino “in una discarica pubblica da qualche parte”. La classifica dei risultati del test della bicicletta per le diciannove donne che vi si sottoposero presso la Lovelace Foundation fu la seguente, partendo dal migliore: Jan Dietrich, Rhea Hurrle, Wally Funk, Jerrie Cobb, Marion Dietrich, Jerri Sloan, Janey Hart, Myrtle Cagle, Gene Nora Stumbough, Jean Hixson, Virginia Holmes, Joan Merriam, Betty Miller, Bernice Steadman, Frances Bera, Patricia Jetton, Georgiana McConnell, Irene Leverton e Sarah Gorelick.
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che avessero superato i test alla Lovelace “avrebbero potuto ricevere in seguito l’addestramento specializzato per prender parte ai viaggi spaziali come astronaute” [22]. Solo una delle Mercury 13 mise in dubbio che i test alla Lovelace potessero sfociare nel volo spaziale. Gene Nora Stumbough pensava che nessuna di quelle donne sarebbe mai diventata un’astronauta, e riteneva che i test facessero semplicemente parte di un programma di ricerca scientifica. La sua prospettiva contrastava con quella dei medici della Lovelace, come per esempio il dottor Donald Kilgore, che era sicuro che le migliori candidate tra le donne avrebbero proseguito il cammino per diventare astronaute. Quarant’anni dopo i test, Mrs Stumbough argomenta che lei non aveva le qualifiche necessarie a entrare in un programma spaziale. “Avevo alle spalle giusto un minimo di ore di volo”, ha detto. “Noi non eravamo qualificate a diventare astronaute. Non avevamo lauree scientifiche. Non eravamo piloti collaudatori, né eravamo state sottoposte a un addestramento avanzato”. Eppure la donna ricorda che quando si registrò al Bird of Paradise Motel per la sua settimana di prove avvertì la pressione a dare il massimo. “Sentivi di portare sulle spalle il peso di tutte le altre”, disse. “Ti sembrava di dover fornire una buona prestazione per quelle che sarebbero arrivate dopo di te” [23]. Jane Briggs Hart giunse alla Lovelace la stessa settimana di Mrs Stumbough, e non ricorda lo scetticismo della sua compagna di test nei confronti del programma. Perché mai una qualunque persona avrebbe dovuto affrontare quella difficile settimana di prove, si chiede Mrs Hart, se non perché pensava che questo un giorno l’avrebbe portata a volare nello spazio? A quarant’anni, con una vita attiva a Washington D.C. dove sosteneva le cause progressiste che il marito sottoponeva al Senato degli Stati Uniti e dove gestiva otto figli che andavano dai quattro ai quattordici anni, Janey Hart non sarebbe certo stata interessata a unirsi al programma di Lovelace se avesse pensato che l’unico scopo era quello di fare la cavia da laboratorio. A lei interessava il programma spaziale, e pensava che i suoi diciannove anni di volo, la licenza di pilota di elicotteri e il servizio come comandante nel Civil Air Patrol facessero di lei una candidata attendibile. Con il so-
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stegno del marito e degli otto figli, Mrs Hart si preparò per la settimana ad Albuquerque orchestrando perfettamente la propria assenza. Stipò il congelatore di arrosti e verdura, organizzò la consegna del latte per tre volte nella settimana a venire, e spinse tre carrelli della spesa alla cassa della drogheria, avvertendo la gente di non mettersi in fila dietro di lei perché sarebbe stata lì per un bel po’ [24]. Il dottor Donald Kilgore, che la sottopose al test dell’orecchio presso la Lovelace Foundation, fu immediatamente colpito dalla padronanza di sé e dall’atteggiamento pratico di Janey Hart. Il medico, riconoscendo che ogni donna che desiderasse volare doveva vincere forze e pregiudizi spaventosi, rimase impressionato anche dalla sua motivazione. Più di una delle aviatrici che pilotavano voli charter, per esempio, riferiva che i passeggeri abbandonavano l’aereo quando si rendevano conto che c’era una donna ai comandi. La madre di Mrs Stumbough era stata definita “snaturata” perché permetteva alla figlia di volare. L’attaccamento di Janey Hart ai figli venne messo in dubbio allorché si sparse la voce che voleva diventare un’astronauta. Per le donne single, il pregiudizio spesso assumeva la forma di insinuazioni su un presunto lesbismo poiché lavoravano in un “settore maschile”. Il tacito precetto secondo il quale una donna pilota nei voli degli anni Cinquanta doveva indossare i tacchi alti, avere una messa in piega perfetta ed essere elegante nell’istante in cui atterrava affondava le proprie radici nel presupposto che le donne che si truccavano e indossavano le calze fossero “signore”, e dunque “normali”. Dopo aver inviato una fotografia insieme alla domanda d’assunzione per un posto da pilota incaricata di effettuare dimostrazioni per la Beech Aircraft, Mrs Stumbough venne contattata dal suo potenziale datore di lavoro con le parole: “Se sei femminile come sembra dalla foto, sei assunta”8. Le donne che erano davvero omosessuali erano costrette a tenere accuratamente 8
Gene Nora Stumbough Jessen ricorda che il lavoro che aveva accettato alla Beech Aircraft nel 1962 si rivelò il “lavoro dei miei sogni”. Poche donne venivano assunte come pilota per le dimostrazioni nei primi anni Sessanta, e lei si considerava molto fortunata a prestare servizio come membro della squadra di dimostrazione dei “Three Musketeers” (I tre moschettieri) della Beech che si esibiva in tutto il Paese.
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nascoste le proprie tendenze, spesso per tutta la vita, terrorizzate all’idea di poter perdere il lavoro, gli amici e il cameratismo degli hangar aeroportuali, che spesso sostituivano la famiglia [25]. Non tutte le donne superarono i test di Lovelace. Una candidata pensò che la claustrofobia della quale fu vittima nel contatore di radioattività di Los Alamos, così come i commenti che fece riguardo agli impegni familiari e lavorativi, fossero stati causa della sua eliminazione [26]. Una nota inoltrata da Floyd Odlum a Jackie Cochran, però, racconta una storia diversa. “La donna che non ha superato gli esami (forte fumatrice – il cuore non ha retto al test della bicicletta, eccetera) potrà avere un’altra chance se riduce il consumo di sigarette e si allena” [27]. La candidata più tardi ricevette una lettera di ringraziamento da parte della Lovelace Foundation, ma nessun invito per ulteriori prove [28]. Altre due candidate, alle quali in passato non erano mai state diagnosticate delle onde cerebrali anomale, scoprirono tale anomalia alla Lovelace, anche se nessuna delle due contrasse mai problemi neurologici [29]. Un’altra aspirante astronauta contrasse una sinusite durante i test, e non venne invitata a continuare [30]. Altre due donne non seppero mai con esattezza per quali motivi non superarono gli esami, scoprendo solo da una lettera di Randy, ricevuta dopo che erano tornate a casa, di non soddisfare i requisiti richiesti per il programma delle donne nello spazio9. Anche la segretezza che il dottor Lovelace esigeva a proposito dei 9
Virginia Holmes è la candidata che pensava di essere stata esclusa a causa della propria claustrofobia. A Fran Bera, una pilota con più vittorie del “Derby del piumino da cipria” di qualunque altra donna, i medici della Lovelace che la esaminarono comunicarono di aver scoperto delle “onde cerebrali anomale”. Temendo di avere un serio problema di salute, la Bera si sottopose ad altri due controlli una volta tornata in California, ma non ebbe mai problemi neurologici. Pat Jetton e Joan Merriam vennero esaminate nella stessa settimana e anche alla Jetton, come alla Bera, venne detto che il test rivelava un’anomalia cerebrale, anche se i medici le assicurarono che non era niente di cui dovesse preoccuparsi, e che avrebbe potuto non manifestarsi mai durante le sue normali attività quotidiane. Cionondimeno, quando tornò a Dallas la Jetton consultò un neurologo i cui test, pur non essendo esaustivi come quelli che le erano stati somministrati presso la Lovelace, come lei stessa ammette, non rivelarono nulla. La ventiquattrenne Merriam era una pilota per un’impresa di costruzioni, nonché la più giovane donna della nazione in possesso della qualifica di pilota di linea. Aveva al suo attivo più di seimila ore di volo. La Merriam venne
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test richiese dei sacrifici. Una candidata, la trentenne Rhea Hurrle, non rivelò mai a nessun membro della propria famiglia di essere coinvolta nelle prove per le candidate astronaute. Non aveva mai accennato nemmeno di essere un’esperta pilota che partecipava alle gare aeree e che nutriva un interesse in erba per il volo sugli idrovolanti. Segretaria e pilota di voli privati per una piccola azienda che vendeva e costruiva velivoli a Houston, Miss Hurrle tenne per sé le proprie aspirazioni. Due anni dopo, i suoi genitori scoprirono inaspettatamente che era stata convocata per i test da astronauta allorché la rivista Life pubblicò la foto della figlia insieme a quella delle altre donne in un articolo a più pagine. “Aspettavo di andare nello spazio per dirglielo”, spiegherà lei [31]. Quando ricevette la convocazione per i test, Irene Leverton stava lavorando al centro servizi aeroportuali di Santa Monica, pilotando charter e dando lezioni di volo. Il suo capo si rifiutò di concederle un permesso, e la Leverton chiese a Lovelace una data alternativa. Lovelace rielaborò la scaletta della fondazione e le propose di andarci diverse settimane più tardi. Decidendo che l’opportunità di diventare un’astronauta valeva il rischio di perdere un impiego, Miss Leverton comunicò alla moglie del proprio principale che si sarebbe assentata per una settimana, e si recò ad Albuquerque. Quando tornò, avendo superato gli esami con l’intimazione da parte di Randy di perdere del peso, scoprì che il suo lavoro era cambiato. Il lavoro sui charter, che
informata dai dottori della Lovelace che non aveva superato i test. Più avanti, la donna troverà la morte in un incidente con il suo aereo. Betty J. Miller ebbe problemi di sinusite mentre si stava sottoponendo ai test. I medici della Lovelace le proposero di sottoporla immediatamente a un intervento chirurgico, ma la Miller preferì pensarci su. Georgiana McConnell pensava di essere andata bene in tutti i test eccettuato quello di inghiottire oltre novanta centimetri di tubo di gomma per le analisi gastriche. La ragazza sapeva di avere un forte riflesso faringeo ed ebbe difficoltà a far scendere il tubo lungo la gola. Quando fece ritorno a casa, a Nashville, Miss McConnell registrò per iscritto i propri pensieri sulla settimana delle prove. “Non me lo sarei mai perdonata se avessi rifiutato un’opportunità di vedere se ero in grado di essere una di quelle poche elette”. La McDonnell ricevette una lettera da parte di Randy Lovelace nella quale l’uomo, ringraziandola per aver preso parte ai test, le comunicava che non aveva raggiunto gli standard richiesti per diventare un’astronauta, ma non seppe mai di preciso perché non fosse stata invitata a continuare.
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amava tanto, si era improvvisamente prosciugato, e Rhea si ritrovò bloccata a dare lezioni di volo a studenti principianti su aerei lenti. Per la pilota trentaquattrenne con novemila ore di volo alle spalle, sul punto di ottenere la qualifica di pilota di linea, e con esperienza come coraggiosa pilota nel corpo forestale addetta a spegnere gli incendi nella Sierra Nevada, fu una grave retrocessione. Arrabbiata e abbattuta, si trasferì a Los Angeles, dove Jan Dietrich, sua collega nelle Ninety-Nines, cercò di aiutarla a trovare lavoro e la ospitò addirittura in casa sua per alcune settimane, allorché si trovò praticamente sulla strada. Spiegare che aveva superato le stesse prove fisiche sostenute dagli astronauti del Programma Mercury forse le avrebbe spalancato le porte del competitivo mondo aeronautico di Los Angeles, ma lei mantenne il test confidenziale come aveva promesso a Lovelace. Alla fine trovò un lavoro, ma non menzionò mai Albuquerque, neppure quando la sua ditta assunse una giovane donna dal nome insolito: Wally Funk10 [32]. Via via che l’estate del 1961 avanzava, il direttore della NASA di recente nomina, James Webb, fece il giro dei talk show televisivi della domenica e gli venne chiesto se fosse al corrente del “reclutamento” di donne che proprio in quel momento si stavano sottoponendo ai test ad Albuquerque. Webb ammise di essere stato ragguagliato in proposito, e fece espressamente il nome di Jerrie Cobb, ricordando che l’anno precedente aveva stabilito il record di quota su un aereo leggero, e che era interessata a diventare un’astronauta. C’erano almeno altre dodici donne coinvolte negli esami presso la clinica privata del dottor Randy Lovelace; la stessa clinica, fece notare Webb, che aveva sottoposto Alan Shepard e gli altri astronauti del Programma
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Le due donne hanno ricordi diversi riguardo a quanto ammisero delle rispettive esperienze presso la Lovelace Foundation. La Leverton ricorda di non avere mai discusso del test con la Funk mentre erano entrambe impiegate presso la Hawthorne Aviation di Los Angeles. La Funk ricorda che mentre erano alla Hawthorne alla fine aveva scoperto che anche la Leverton era stata esaminata, anche se avevano a malapena accennato alla faccenda, entrambe preoccupate che gli altri potessero scoprirlo e che quella pubblicità potesse danneggiare il programma.
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Mercury a delle rigorose visite mediche. Quando i cronisti gli domandarono se gli Stati Uniti avrebbero lanciato presto una donna nello spazio, Webb confessò: “Non siamo andati così in avanti con i nostri progetti” [33]. Randy Lovelace, comunque, si stava già preparando al passo successivo. Fermamente deciso a raccogliere più informazioni scientifiche sui piloti, con i suoi test aveva stabilito che le donne erano in grado di fornire prestazioni altrettanto buone di quelle degli uomini per quanto riguardava la resistenza, la capacità di ripresa, e la potenzialità fisica11. Come molti medici della Lovelace osservarono in seguito, i test a cui vennero sottoposte le donne pilota tra il 1960 e il 1961 furono tra i primi esami medici esaurienti mai compiuti su donne sane [34]. La maggior parte degli esami medici precedenti si era concentrata sia su uomini che su donne colpiti da una particolare malattia che andava studiata. I test di Lovelace, invece, partirono dall’insolito presupposto di valutare donne in forma. I primi risultati provavano che quelle donne non erano più fragili, o più deboli, o maggiormente soggette alla vulnerabilità fisica di quanto lo fossero gli uomini. Lovelace stabilì che le donne non avevano alcuna limitazione intrinseca, biologica o fisica, che potesse impedire loro di operare bene quanto gli uomini nelle condizioni estreme del volo spaziale. Quella conclusione era in palese contraddizione con le convinzioni sociali imperanti secondo le quali
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Il processo di selezione per gli uomini e le donne che si sottoposero ai test presso la Lovelace Foundation mette in luce un’interessante differenza. Jerrie Cobb passò in rassegna le credenziali di ottocento donne con licenza di pilota commerciale. Randy ne invitò venticinque. Diciannove si sottoposero effettivamente al test, e tredici lo superarono. Come potenziali astronauti maschi, vennero inizialmente vagliati cinquecentootto membri dell’Aeronautica militare, della Marina militare e dei corpi dei Marine statunitensi e, tra questi, centodieci furono trovati in possesso dei requisiti minimi richiesti, ovvero l’addestramento come piloti collaudatori, le ore di volo, l’età, l’altezza, il peso, e una formazione tecnica. Sessantanove tra loro si presentarono al briefing informativo a Washington e, dopo una seconda selezione, trentadue di loro vennero mandati alla Lovelace Foundation e al Wright Aeromedical Laboratory per gli esami medici e i test di simulazione del volo spaziale. Dopo gli esami, diciotto uomini vennero segnalati alla NASA senza riserve mediche. Alla fine, sette uomini furono scelti come astronauti del Programma Mercury perché i componenti del comitato di selezione della NASA non riuscirono ad accordarsi sui sei candidati definitivi.
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le donne erano il sesso più debole. Anche se i punteggi dei test nell’immediato non scalzarono il luogo comune profondamente radicato secondo il quale le donne erano fisicamente inferiori, servirono come una prima sfida critica all’opinione prevalente nella comunità scientifica che riteneva la donna una forma inferiore di uomo. I test di Lovelace dimostrarono anche che le donne desideravano esplorare l’ignoto, scoperta altrettanto importante quanto le conclusioni sulla loro capacità fisica. Affrontare il rischio, prevedere il pericolo, e perfino andare in cerca di situazioni avverse che mettessero alla prova la sicurezza e l’abilità personali non erano caratteristiche prettamente maschili. Irene Leverton era abituata ad avere a che fare con uomini che volevano tenerla lontana dagli incarichi di volo più impegnativi. “Alcuni uomini pensano che non permettendo a me di cimentarmici saranno loro gli unici a essere considerati coraggiosi”, disse [35]. Così come demolì il mito dei limiti fisici delle donne, il test minò anche l’idea che tutte le donne fossero soddisfatte di condurre un’esistenza placida e confinata. Le tredici donne che superarono i test della Lovelace volevano dare prova delle proprie capacità mentali e fisiche. Volevano venire sfidate come donne pilota. Volevano contribuire con il proprio talento, e magari addirittura con le proprie vite, allo sforzo del Paese. Per la fine di agosto, Randy Lovelace poté ratificare che tredici donne americane avevano superato le stesse prove fisiche alle quali erano stati sottoposti gli astronauti del Programma Mercury. Pur non promettendo nulla alle Mercury 13, Lovelace era impaziente quanto loro di passare alla fase successiva del test.
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Dopo che tutte le Mercury 13 furono tornate a casa, Randy Lovelace inviò a ciascuna di loro una lettera formale di congratulazioni, chiedendo se fossero disposte a passare allo stadio successivo dei test. Tutte risposero positivamente. Il medico non era ancora certo di dove esattamente si sarebbero svolte quelle nuove prove, ma sapeva di voler testare le donne in gruppo in un laboratorio militare, dove le aviatrici avrebbero potuto sottoporsi ai test di simulazione di volo spaziale in una centrifuga e provare l’esperienza della camera ipobarica, e magari addirittura pilotare un jet. La collaborazione con la Wright-Patterson Air Force Base era fuori questione malgrado l’ampia rete di contatti di Lovelace all’interno della struttura, risalenti al periodo in cui era stato direttore dell’Aeromedical Laboratory. L’opposizione che Don Flickinger aveva incontrato due anni prima, allorché desiderava che Jerrie Cobb iniziasse i propri test presso la Wright, aveva chiarito la posizione dell’Air Force riguardo alle candidate astronaute. Quello che Flickinger definì “l’infelice annuncio della Nichols” aveva stroncato ogni possibilità di cooperazione. Lovelace raccomandò alle donne di lavorare sul proprio condizionamento muscolare mentre lui si dava da fare per procurare un sito, poiché prevedeva che i test successivi avrebbero richiesto loro una notevole resistenza fisica [1]. Nel frattempo, Jerrie lavorava a una sua idea. Miss Cobb sapeva che gli astronauti del Programma Mercury, una volta portati a termine gli esami medici ad Albuquerque, si erano recati alla WrightPatterson per altre due fasi dei test: le esercitazioni di simulazione di volo spaziale e un esame psichiatrico completo volto ad accertare la loro idoneità mentale per i viaggi nello spazio. Mentre Lovelace si inM. Ackmann, Mercury 13 © Springer-Verlag Italia, Milano 2011
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gegnava per reperire un posto dove svolgere i test di simulazione, Jerrie trovò un laboratorio per le valutazioni psichiatriche. A pochi isolati di distanza dalla sua casa di Oklahoma City c’era un’eccellente alternativa ai laboratori della Wright-Patterson. All’Oklahoma City Veterans Hospital, l’insigne psichiatra dottor Jay Talmadge Shurley aveva fondato, e dirigeva, il Behavioral Science Laboratory. Lo scienziato era anche professore di psichiatria e scienza comportamentale presso il College of Medicine della University of Oklahoma. Gli innovativi esperimenti di Shurley erano famosi tra gli interni, e il suo prestigio tra gli scienziati era riconosciuto su scala nazionale. Shurley, un texano alto e affabile, conosceva bene le imprese aeronautiche di Miss Cobb, e trovava allettante l’idea di prendere parte al programma “Ragazze nello spazio”. Dopo essere stato sondato dalla Cobb, Shurley si consultò con Randy Lovelace e accettò di dare il via allo “stadio due dei test”, secondo l’espressione usata dalla NASA per descrivere le valutazioni psichiatriche degli astronauti. Per sua stessa ammissione, Shurley era l’enfant terrible della sua categoria [2]. In un’epoca in cui in alcuni ambienti medici la psichiatria era ancora considerata una scienza illegittima, Shurley spingeva il pensiero originale ancora più all’estremo. La University of Oklahoma fu la prima negli Stati Uniti ad avviare un corso in scienze comportamentali, che fondeva lo studio della medicina, la scienza della mente e un’analisi delle forze comportamentali che influiscono sulla salute mentale. Parlando del fulcro dei propri studi, disse che “si trattava sempre della relazione tra la mente e il corpo”. All’inizio della carriera, fu il primo a ricoprire il ruolo di primario nel reparto di psichiatria adulta al National Institute of Mental Health (NIMH) di Bethesda, Maryland. Lì incontrò lo scienziato John C. Lilly, che stava conducendo degli innovativi esperimenti d’isolamento sensoriale nella sua veste di direttore del Cortical Integration Department del Neurophysiological Laboratory. In una stanza silenziosa, priva di odori e buia, il dottor Lilly aveva assemblato una grossa vasca piena d’acqua – Shurley la chiamava “Lilly pond”, “lo stagno di Lilly”, in un gioco di parole con il “lily pond”, “lo stagno delle ninfee” – nella quale i soggetti gal-
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leggiavano da soli fino a raggiungere il limite della propria resistenza. Questi esperimenti gettarono luce sul modo in cui l’assenza di stimoli influenzasse la mente umana, e su come si manifestassero spontaneamente delle allucinazioni allorché il cervello non veniva stimolato. Shurley sviluppò ulteriormente quegli esperimenti applicandoli al pionieristico studio della schizofrenia, giungendo a scoprire che i pazienti schizofrenici smettevano di avere allucinazioni allorché venivano immersi nella vasca. Lo scienziato ipotizzò che il paziente schizofrenico non avesse più bisogno di produrre allucinazioni una volta che il suo mondo esterno era stato allontanato e qualunque sollecitazione rimossa. Produrre allucinazioni era un meccanismo di difesa che lo schizofrenico usava per tenere a distanza il mondo esterno [3]. Dopo che alcuni membri del Congresso erano venuti a sapere che Lilly e Shurley stavano conducendo esperimenti che causavano allucinazioni nelle persone mentalmente sane, il NIMH ordinò ai due medici di interrompere la loro ricerca. Pur riconoscendo che i due luminari stavano conducendo studi scientifici importanti, i loro superiori si rendevano anche conto che non potevano alienarsi i politici e le fonti dei propri finanziamenti. Quella ricerca era troppo innovativa per l’epoca. Alla fine, Lilly si trasferì nelle Isole Vergini americane, dove intraprese un lavoro originale incentrato sullo studio della comunicazione tra gli esseri umani e i delfini, mentre Shurley accettò il lavoro in Oklahoma e una posizione prestigiosa come ricercatore medico senior per i Veterani. La posizione, una su cinque complessive in tutto il Paese, era la prima mai assegnata dall’amministrazione dei Veterani a uno psichiatra, e concesse a Shurley piena libertà d’azione quando si trattò di decidere cosa studiare. “Era come Natale trecentosessantacinque giorni all’anno”, commentò lui [4]. Quando Miss Cobb lo avvicinò con l’idea di somministrare test psicologici e psichiatrici alle aspiranti astronaute, la curiosità di Shurley fu pungolata. In un discorso su psicologia e fisiologia del volo spaziale, tenuto due anni prima, lo scienziato aveva espresso il desiderio di testare come l’isolamento sensoriale potesse essere applicato a quello che si supponeva essere il vuoto silenzioso dello spazio. L’uomo aveva
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anche detto di avere il presentimento che la vasca di isolamento potesse essere usata per simulare l’assenza di gravità. Shurley aveva operato come consulente durante gli esperimenti di isolamento condotti sugli uomini del Programma Mercury presso la Wright-Patterson e aveva trovato che quegli studi non fossero paragonabili all’isolamento molto più grande indotto dall’innovativa vasca introdotta da lui e Lilly. Lo scienziato aveva calcolato che quindici minuti all’interno della sua vasca equivalessero a due o tre giorni nella camera del silenzio della Wright. Gli studi all’acqua di rose della Wright – quelli che Shurley definiva studi di isolamento “all’aria secca” – non erano assolutamente avanzati quanto quelli condotti a Oklahoma City. Quando la NASA gli spedì un opuscolo informativo sulle procedure per i test psichiatrici a cui sarebbero stati sottoposti gli astronauti del Programma Mercury, Shurley trovò le descrizioni vaghe e completamente carenti dal punto di vista della valutazione della simulazione dell’assenza di gravità. Facendo un cerchio attorno alla sintesi del test d’isolamento, vi scrisse sopra: “NON è un test significativo!” [5]. La richiesta di Miss Cobb di venire sottoposta a dei test psichiatrici lo stimolava a diversi livelli. Lo scienziato conosceva Randy Lovelace e Don Flickinger dalla frequentazione degli ambienti medici, ed era a conoscenza della loro reputazione di innovatori e di studiosi affascinati dall’emergente branca medica degli studi comportamentali. “Randy mi ricordava me stesso”, dirà in seguito. Per di più, Lovelace era uno dei pochi responsabili del programma spaziale ad aver preso in considerazione i possibili effetti della troppa o troppo poca stimolazione della mente umana [6]. Anche l’interesse di Lovelace per le donne come soggetti medici catturò l’attenzione dello psichiatra. Era da molto tempo che Shurley si era prefisso di servirsi di donne mentalmente sane nei propri esperimenti, una procedura originale nell’ambiente psichiatrico così come in altri campi della medicina. Inizialmente i suoi studi comparativi sui comportamenti maschili e femminili durante l’isolamento sensoriale avevano fatto inarcare diverse sopracciglia, ma poi, a detta dello stesso Shurley, la Veterans Administration aveva “superato lo shock” della sua particolare ricerca, e i superiori non gli avevano proi-
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bito di avventurarsi su sentieri inusitati [7]. Per quanto i suoi precedenti esperimenti fossero stati innovativi, pochi sarebbero stati più pionieristici di quello nel quale era sul punto di imbarcarsi insieme alle donne del Mercury 13. Valutando la disponibilità di Miss Cobb a recarsi nell’ambiente potenzialmente pericoloso dello spazio interstellare e misurandone la motivazione, la risposta al rischio, la capacità di adattarsi a circostanze mutevoli, di dominare l’ansia e di affrontare la paura, Jay Shurley stava sollevando una questione mai considerata in precedenza. Randy Lovelace aveva accertato che le donne avevano le capacità fisiche necessarie per recarsi nello spazio; Jay Shurley avrebbe scoperto se ne avevano il coraggio. I test di Jerrie durarono tre giorni, e furono somministrati dal dottor Shurley e dalla sua assistente Cathryn Walters, dottoranda in psicologia presso la Oklahoma University, che stava analizzando le differenze nel modo in cui gli uomini e le donne reagivano allo stress degli esperimenti di deprivazione sensoriale sott’acqua1. L’interesse per le diversità tra i sessi che Shurley e la sua assistente condividevano derivava dalla loro consapevolezza che la medicina si era occupata raramente della salute delle donne e non aveva raccolto praticamente alcun dato relativo a studi comparativi tra uomini e donne. “Non si pensava che certo, le donne e gli uomini erano diversi, ovviamente”, disse Shurley, “ma che il fatto che fossero diversi non significava che le donne fossero inferiori” [8]. I test che Miss Cobb sostenne durante i primi due giorni rappresentavano il repertorio standard dell’indagine psicologica degli anni Sessanta: test di intelligenza generale, analisi delle preferenze occupa-
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In un documento presentato nel 1961 a Cincinnati, a una conferenza dei Veterani sulla ricerca medica, Miss Walters rilevò che gli uomini “tendevano a essere meno introspettivi e più sensibili agli stimoli rispetto alle donne... e così sembravano più dipendenti dal campo rispetto alle stesse”. Miss Walters definì “l’elevata dipendenza dal campo” come una tendenza “alla mancanza di introspezione, a reprimere gli impulsi, a essere passivi, a cedere a una sensazione di inferiorità, a essere nervosi e a mostrare una scarsa stima corporea, laddove le persone con una bassa dipendenza dal campo tendono a mostrare consapevolezza di sé, a essere attive, a gestire i sensi di inferiorità avvalendosi del metodo compensativo e ad avere un’elevata stima corporea”.
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zionali e inventario multifasico della personalità Minnesota (MMPI), ovvero l’insieme di cinquecentosessantuno domande personali volte a determinare se un individuo aveva problemi significativi a livello caratteriale o psicologico. A quell’epoca, l’inventario multifasico era il test psicologico maggiormente utilizzato, ma secondo Shurley aveva dei limiti. Era “come usare una rete da pesca a maglie molto grosse piuttosto che un fine setaccio”, dirà [9]. Miss Cobb venne sottoposta anche al classico test di Rorschach, a un elettroencefalogramma e a un esame neurologico, e rispose a un esplicito esame psichiatrico e a un colloquio informale con il dottor Shurley inerente la sua infanzia, la sua adolescenza e le sue attitudini professionali2. La valutazione psicologica degli astronauti del Programma Mercury aveva interessato più o meno le stesse aree, e aveva richiesto in tutto una trentina di ore tra colloqui, test psicologici e prove di reazione alle sollecitazioni3. I tre giorni di Miss Cobb con il dottor Shurley ammontarono a un tempo complessivo di poco superiore. L’ultimo giorno Jerrie prese parte a un esperimento che, dal punto di vista psicologico, costituiva una sfida maggiore di tutte quelle a cui vennero sottoposti gli astronauti del Programma Mercury. Per il test di isolamento alla Wright-Patterson, quello che Shurley trovava così
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L’elenco completo della fase due dei test di Miss Cobb includeva nello specifico i seguenti esami psicologici e psichiatrici: test di Wechsler, questionario degli interessi di Kuder, test di identità, test della scala d’ansia IPAT, inventario multifasico della personalità Minnesota (MMPI), disegno della figura, completa la frase, test di Rorschach, test di appercezione tematica (TAT) e valutazione dell’autopercezione. I test psicologici somministrati agli uomini del Programma Mercury includevano: test di Rorschach, test di appercezione tematica (TAT), disegno della figura umana, completa la frase, inventario multifasico della personalità Minnesota (MMPI), test di identità, test del profilo personale di Gordon, inventario delle preferenze personali di Edwards, inventario personale di Shipley, valutazione delle preferenze esterne/interne, scala Z Pensacola (un test di valutazione degli atteggiamenti autoritari), inventario dell’efficienza degli ufficiali (caratteristiche della personalità opportune negli ufficiali dell’Air Force), e valutazione dei colleghi. Gli uomini del Programma Mercury vennero sottoposti anche a test attitudinali specifici, quali le matrici progressive di Raven, il test sul ragionamento matematico di Doppelt, le analogie di ingegneria, la comprensione meccanica, il test di abilitazione per gli ufficiali dell’Air Force, il test di idoneità aeronautica, la valutazione della memoria spaziale, il test di orientamento spaziale, le figure di Gottschaldt, e il test di visualizzazione spaziale di Guilford-Zimmerman.
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inadeguato, gli uomini venivano confinati in una stanza silenziosa e buia per due o tre ore. I medici della Wright ammettevano i limiti scientifici del test, ma asserivano anche che la durata e le condizioni ambientali dell’esperienza erano sufficienti per “individuare i soggetti che non sono in grado di sopportare la forzata inattività, la segregazione in spazi piccoli, o l’assenza di stimoli esterni” [10]. Quindici dei potenziali astronauti maschi che sperimentarono l’isolamento nella stanza diranno in seguito di aver “programmato” il proprio pensiero, in modo da concentrarsi su occupazioni mentali ben precise quali il contare o fare dei giochi di memoria. Alcuni di loro divennero irrequieti, impazienti, e dimostrarono il bisogno di un uso strutturato del tempo. Sedici uomini permisero a pensieri casuali di attraversare le loro menti. La maggior parte degli uomini dormì, almeno per un po’, e pensò che mostrare attenzione e calma fosse la maniera migliore per superare l’esame [11]. L’esperienza di John Glenn nella camera d’isolamento della Wright-Patterson fu rappresentativa. Muovendosi a tentoni per la stanza buia, l’astronauta localizzò una scrivania, nel cui cassetto trovò un blocco di carta. Seduto su una sedia, con una matita che si era infilato nel taschino della camicia, scarabocchiò diciotto pagine, stilando elenchi casuali di esercizi e di indumenti, facendo scorrere il dito sulla carta per passare da una linea all’altra. L’attività che trovò più coinvolgente per la sua mente fu la poesia, e così compose un’ode di sette stanze, il cui verso finale recita: E dunque usate tutti i vostri talenti innati, usateli tutti, e tutti i giorni. Apportate il vostro contributo allo scibile della conoscenza umana, rendeteli felici del vostro essere vissuti. [12]
Quando, tre ore dopo, le luci si riaccesero e Glenn uscì dalla stanza, i medici della Wright-Patterson ritennero di aver misurato in modo adeguato la sua capacità di adattarsi al vuoto e al silenzio dello spazio. Per contro, Miss Cobb stava per affrontare la vasca di deprivazione sensoriale. Altri soggetti che si erano sottoposti al test prima di lei ave-
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vano riferito che galleggiare nella vasca di Shurley era noioso e trascendentale allo stesso tempo. Un uomo descrisse l’esperienza come rilassante, confortevole, monotona “eppure allo stesso tempo pervasa da un’aura di ammaliante mistero”. I soggetti immaginarono monete sul fondo della vasca, fulgidi funghi dorati, sculture color terracotta rassomiglianti alle teste in pietra scolpite dei Maya o degli Aztechi. Uno ebbe la sensazione di essere un cucchiaio che veniva fatto vorticare in cerchi spiraliformi in un enorme bicchiere di tè freddo. Un altro sentì l’odore dell’aglio. Un altro ancora quello dell’asfalto bollente. Un altro udì stridere degli uccelli di ripa. Per altri le immagini evocate furono sorprendenti, talvolta perfino commoventi. Molti meditarono su esperienze passate, richiamando alla mente memorie di cui era difficilissimo sbarazzarsi una volta concluso l’esperimento. Un soggetto ricordò un albicocco su cui era solito arrampicarsi quando aveva otto anni. Un altro udì il padre che lo chiamava [13]. Lo stesso dottor Shurley aveva trascorso molte ore nella vasca per familiarizzare appieno con le evenienze che i suoi soggetti avrebbero potuto incontrare, provare, udire o assaporare. Shurley scoprì che riusciva a sopportare una permanenza di diverse ore nella vasca. “Scoprii che se vi trascorrevo più di quattro ore, e l’ho fatto, ero così assorto in quello che la mia mente riportava in superficie da non riuscire a concludere nulla per il resto della giornata” [14]. Quando una stazione televisiva locale di Oklahoma City trasmise un documentario sugli esperimenti di Shurley con la vasca venne subissata di telefonate. Molti telespettatori trovarono l’esperimento profondamente inquietante, addirittura terrificante. Erano turbati all’idea che gli scienziati scavassero così a fondo nella mente umana. Un soggetto che pensava di aver visto delle monete sul fondo della vasca era una cosa, ma che sarebbe successo se qualcuno fosse impazzito davvero? [15]. Nel valutare il potenziale di Miss Cobb come astronauta, Shurley aveva in mente diversi obiettivi specifici per il tempo che la ragazza avrebbe trascorso nella vasca. Lo scienziato voleva stimare la sua reazione di fronte all’estrema monotonia e alla solitudine e verificare la sua sopportazione delle stesse, misurare i suoi livelli di ansia o di con-
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flitto in stato di isolamento, e i suoi schemi di difesa psicologica. Voleva anche verificare se riusciva ad astenersi dall’azione evitando di ricorrere all’attività motoria come a una via di fuga per minimizzare l’ansia. Inoltre, Shurley voleva osservare la sua predisposizione alla somatizzazione dell’ansia, ovvero alla manifestazione di sintomi fisici come risposta allo stress. Le reazioni di Jerrie a tutti questi potenziali problemi avrebbero indicato la sua probabile reazione alla solitudine dello spazio, all’assenza di gravità e ai minori effetti gravitazionali. Servirsi dell’immersione nell’acqua per simulare lo spazio cosmico non era un’idea nuova. Già al volgere del secolo l’aveva suggerita uno scienziato russo. Sorprendentemente, però, nessuno aveva messo in pratica l’idea fino a Shurley e Lilly [16]. La vasca stessa nella quale l’aviatrice si sarebbe calata era solo la seconda mai costruita al mondo, ed era stata fabbricata alla fine degli anni Cinquanta da un saldatore che lavorava in un campo petrolifero dell’Oklahoma. Era modellata sulla vasca originale che John Lilly aveva creato al National Institute of Mental Health, e che non venne più usata dopo che sia Lilly sia Shurley se ne erano andati. La nuova vasca venne ubicata in un laboratorio di due stanze situato nel seminterrato dell’Oklahoma City Veterans Hospital, un piano sotto al laboratorio dove erano ospitate le gabbie dei cani. La stanza esterna conteneva registratori a bobine, altoparlanti audio che trasmettevano i suoni provenienti dalla vasca, lampade portatili, manopole per regolare la temperatura dell’acqua nella vasca, e una sedia da picnic con struttura in alluminio sulla quale Jay Shurley o Cathy Walters sedevano prendendo appunti. Non c’era nessuna finestra tra la stanza dell’osservatore e la vasca. L’unico modo nel quale un soggetto poteva comunicare con l’osservatore era parlando: sopra la vasca era appeso un microfono molto sensibile, che coglieva anche suoni appena udibili quali un respiro controllato, dei sospiri o un fischiettio nel buio. L’assistente di Shurley descrisse la stanza della vasca come un “rifugio antiatomico”, con spesse pareti insonorizzate e un’unica porta pesante che si apriva sulla stanza dell’osservatore [17]. Al centro del locale c’era l’ampia vasca circolare, tre metri di diametro per due e ot-
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tanta di profondità. L’acqua al suo interno, che ondeggiava appena, veniva mantenuta a una temperatura costante di circa trentaquattro gradi, scrupolosamente calcolata affinché il soggetto non fosse in grado di distinguere tra la propria temperatura corporea e quella dell’acqua stessa. Era come se il corpo e l’ambiente fluido circostante diventassero un elemento unico, senza soluzione di continuità. Shurley pensava che la temperatura, unitamente alla spinta di galleggiamento fornita dai sali di Epsom, creassero una sorta di Great Salt Lake – ciò che lui definiva un “bacino tattile uniforme” – che simulava l’assenza di gravità [18]. Il fluire dell’acqua consentiva anche la continua rimozione dei rifiuti organici. I soggetti venivano istruiti a urinare liberamente, così che ogni disagio fisico legato alle necessità corporali fosse eliminato. La stanza della vasca era insonorizzata, al fine di sopprimere qualunque rumore proveniente dall’esterno. I latrati dei cani, le attività lungo il corridoio, le tubature rumorose, perfino il lontano frastuono dei camion al di fuori dell’ospedale venivano soffocati. La camera era così silenziosa che i soggetti riferivano di riuscire a sentire il battito del proprio cuore e la peristalsi del proprio intestino. Talvolta si udiva il sinistro crepitio prodotto dallo scorrere dei tendini tesi. Un medico disse di sentire il suono schioccante delle proprie valvole cardiache che si chiudevano alla fine di ogni battito [19]. Il corpo umano, osservò Shurley, “è una macchina davvero rumorosa” [20]. Altre cautele vennero adottate per eliminare la luce, l’odore, la pressione, la vibrazione, il caldo, il freddo, e qualunque fonte di gravità all’interno della vasca. Una carenza della stanza d’isolamento della Wright-Patterson era che gli uomini del Programma Mercury non ebbero mai l’impressione di essere sospesi galleggiando liberamente: potevano stare in piedi, camminare, perfino sedersi su una sedia, proprio come potevano fare da qualunque altra parte sulla Terra [21]. Durante gli stadi iniziali degli esperimenti nella vasca a Oklahoma City, i soggetti indossavano anche una maschera che copriva loro l’intera testa, così da poter galleggiare a faccia in giù sull’acqua. La maschera consentiva di inspirare ed espirare, ma spesso lasciava passare un po’ di acqua, che
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penetrava nelle orecchie dei soggetti disturbando il loro isolamento. Per la prova di Jerrie Cobb, Shurley le mise dei cuscini galleggianti dietro la testa e i fianchi, il che le permise di lasciarsi andare alla deriva a testa in su. È possibile che fare a meno della maschera abbia accresciuto la tranquillità mentale di Miss Cobb. Si trattava infatti di un grottesco cappuccio di gomma, che ricordava quelli indossati dai prigionieri condotti al patibolo. Prima di sottoporsi all’esperimento, Miss Cobb e gli altri soggetti ispezionarono la stanza della vasca con tutte le luci accese. Jerrie poté scrutare l’interno della vasca e, se l’avesse desiderato, avrebbe potuto perfino controllare se sul fondo c’erano delle monete. Venne istruita a parlare durante le ore che avrebbe trascorso nella vasca, se avesse desiderato farlo, a esprimere ad alta voce qualunque pensiero o riflessione le fossero passati per la mente e ad avvertire in qualunque istante se avesse voluto uscire dall’acqua. Sarebbe stata Cathy Walters a sedersi sulla seggiolina pieghevole durante l’esperimento di Jerrie, perché il dottor Shurley aveva scoperto che l’aviatrice sembrava maggiormente a suo agio con una donna in una situazione terapeutica. Miss Walters avrebbe scelto se rispondere o meno ai commenti di Jerrie mentre quest’ultima si trovava nella vasca. La ricercatrice preferiva evitare la conversazione durante la seduta, ma in caso di necessità impellenti o lei o il dottor Shurley avrebbero reagito all’istante. Dopo essere entrata nella stanza della vasca con addosso il costume da bagno, Miss Cobb avrebbe dovuto toglierselo al fine di rendere la propria esperienza di galleggiamento il più naturale e spontanea possibile. Poteva rimanere nella vasca tanto quanto voleva; poi, una volta che avesse chiamato per interrompere il test, sarebbe uscita, le sarebbero stati presi i segni vitali e le sarebbe stata somministrata una serie completa di esami aggiuntivi per determinare il livello di disorientamento spaziale, la reazione all’assenza di gravità, e qualunque cambiamento nella sua percezione dei colori, della forma o della consistenza. Le sarebbe anche stato chiesto di stimare quanto tempo era rimasta nella vasca. Molti soggetti che avevano galleggiato per circa sei ore pensavano di esserci rimasti solo per tre [22].
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A parte la sua utilità nel simulare l’ambiente del volo spaziale, la vasca permetteva anche di fare luce su questioni più ampie, più filosofiche, concernenti il modo in cui gli uomini e le donne si relazionavano all’ambiente, inteso sia come quello che potevano toccare e vedere sia come quello interiore delle loro menti. Nel 1961, in un documento di importanza fondamentale presentato al Terzo convegno mondiale della psichiatria, Shurley rilevò che gli esperimenti nella vasca chiarivano le immense capacità della mente umana e sottolineavano l’asserzione di Sigmund Freud secondo cui “... l’attività cosciente abusa moltissimo del privilegio di nasconderci tutte le altre attività ogni volta che essa entra in azione”4 [23]. Lo scienziato sostenne che, per molti versi, quando si tratta di allucinazioni e realtà noi le percepiamo invertite. “In effetti, i nostri cervelli sono progettati per produrre continuamente materiale allucinatorio”, argomentò. Nella profondità delle nostre menti, soffriamo costantemente di allucinazioni. Le impressioni prodotte dalla vista, dall’udito e dagli altri fattori esterni ricalibrano le allucinazioni naturali create dal nostro cervello. Gli occhi e le orecchie generano concretezza in un mondo decisamente astratto. Shurley credeva che la gamma dei fenomeni accessibili alla mente umana fosse di gran lunga più ampia di quanto la società ammettesse e accettasse. Lo scienziato era convinto che gli uomini e le donne, una volta liberati – sollevati, addirittura – dal subire i miliardi di stimoli quotidiani che bombardano la mente umana, scoprano “sorgenti di nuove informazioni dall’interno” [24]. Mentre galleggiavano nella vasca, alcune persone trovavano queste nuove informazioni piacevoli, perfino elettrizzanti. Altri erano spaventati dalle immagini inattese, e le negavano. Appena prima che Miss Cobb fosse sottoposta alla sua sessione nella vasca, un cronista si mise in contatto con il dottor Shurley domandandogli se poteva sperimentare il test, allo scopo di fornire al pubblico un resoconto di prima mano. Proprio come gli ufficiali mi4
Da Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, edizione BUR 1986, traduzione di Filippo Pogliani, pag. 735 (N.d.T.).
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litari che in tempo di pace consideravano un bene per le pubbliche relazioni permettere ai civili di provare l’ebbrezza di guidare un jet o di sottoporsi ai test di simulazione spaziale, Shurley acconsentì, concedendo al pilota di fare una seduta. La registrazione del giornalista fornì un resoconto insolitamente dettagliato degli effetti della vasca d’isolamento su una persona mentalmente sana, oltre a offrire un contrasto stridente con quello che Jerrie avrebbe sperimentato di lì a poco e con quello che avrebbe detto o non detto nel microfono appeso a una sottile cordicella sopra le acque scure della vasca. Dopo aver ascoltato le informazioni iniziali su quello che lo aspettava nella camera interna, il ventinovenne reporter trascorse la sua prima mezz’ora immobile, impegnato in un monologo perfettamente udibile sulle scadenze lavorative che lo attendevano, sul benessere del figlio e sul recente episodio di sonnambulismo della moglie. Quindi rivolse il pensiero a una lettera inaspettata da parte di un’ex fidanzata, alle critiche rivolte alla generazione più giovane di giornalisti e ai ricordi d’infanzia. Entro la seconda ora parlò del bisogno di sgranchirsi e di fare un po’ di moto, e si sorprese di non desiderare una sigaretta. Parlò del totale isolamento in cui si trovava, eccezion fatta per “i miei veri compagni: i miei pensieri e i miei ricordi”. Espresse anche la propria empatia nei confronti di Sam, la scimmia che la NASA aveva di recente lanciato nello spazio, e che aveva sopportato quella che il cronista ritenne una situazione simile alla sua. Quindi trascorse del tempo fischiettando e fece un breve sonnellino durante il quale gli tornò alla mente l’immagine di un “cono gelato ricoperto di granelle”. Entro la terza ora gli parve di udire il latrato di alcuni cani e un crepitio, e si lanciò in un’interpretazione licenziosa di un pezzo country. Per un istante fu d’umore euforico, e poi piombò rapidamente nella tristezza e si mise a piangere. “Quanti pensano seriamente al significato delle cose? Quanti pensano mai, almeno una volta, all’amore?” Rapidamente come era caduto in preda al dolore, tornò a farsi catturare dalle risate. Raccontò una barzelletta. “Joe, cosa fai quando il motore ti molla a duecento piedi d’altezza?” Rispondendo, venne colto da una risata convulsa: “Atterri!”. Cantò ancora
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un po’, soppesò l’idea di uscire, e rispose irato a una voce che, secondo lui, gli stava parlando: “Ehi, voce! Zitta lassù! Silenzio!”. Quindi fece un sospiro profondo, sentendosi profondamente annoiato, e tornò a pensare alla scimmia spaziale, commentando irritato: “Potrei anche essere Sam, per quello che posso essere o fare o pensare o udire o essere o odorare o gustare!”. Per dieci minuti cercò di convincere se stesso che il tempo che stava trascorrendo nella vasca fosse inutile, dal momento che non portava alla luce alcuna informazione e lui si sentiva bene. Si domandò di nuovo se non stesse sentendo dei rumori, e poi tutt’a un tratto uscì dalla vasca. Durante le quattro ore e mezza che aveva trascorso galleggiando in isolamento, il suo periodo di silenzio più lungo durò meno di sei minuti. In un’intervista post esperimento sembrava calmo, perfino felice, ma confessò: “Credo onestamente che se metteste una persona lì dentro e ce la lasciaste, alimentandola per endovena, ci lascerebbe le penne!” [25]. Le immagini mentali che vide, e le voci che udì, erano abbastanza normali. Metà delle persone mentalmente sane che scivolarono nella vasca riferì di aver avuto delle allucinazioni [26]. Queste allucinazioni non erano i prodotti di esseri umani squilibrati che stavano impazzendo, ma semplicemente i normali prodotti di una mente privata delle sollecitazioni provenienti dal mondo esterno: il suono della conversazione umana, la sensazione prodotta dai calzini di cotone, il gusto amaro del caffè. Shurley la mise in un altro modo: le visioni sregolate che la gente spesso aveva nella vasca erano la parte normale di una situazione anomala [27]. Naturalmente, alcune persone furono allarmate dalle immagini che apparvero nelle loro menti all’improvviso. Le cacciarono energicamente, cercando di contrastare la libera associazione e l’introspezione. Alcuni si protesero verso il bordo della vasca, sperando di sentire qualcosa di concreto. Altri provarono a contare fino a mille, o si costrinsero a spuntare mentalmente i secondi che passavano, come orologi che quasi riuscivano a trasformare in realtà con la forza del pensiero. Alcuni opposero una così forte resistenza alle allucinazioni da trasformare la propria ansia in un disagio fisico: schiene strappate, gambe rigide, spalle contratte [28]. I
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soggetti che rifuggirono dalle immagini inquietanti iniziarono a rendersi conto che c’era qualcosa di ancor più spaventoso delle allucinazioni. Scoprirono che ciò che li terrorizzava non era al di fuori di loro, ma dentro di loro. Non potevano spegnere le proprie menti. Non potevano controllare le immagini che le attraversavano a tutta velocità. Il pensare in sé e per sé era diventato la cosa più pericolosa al mondo5. Dopo circa due ore trascorse a galleggiare nella vasca buia e silenziosa, i soggetti raggiungevano un diverso stato di coscienza. “Essere da soli tende a far diventare tutti filosofi”, disse Shurley [29]. Solo una manciata di studenti del college che si erano offerti volontari per galleggiare nella vasca d’isolamento riferì effetti collaterali negativi. La maggior parte dei soggetti trovò “piacevole” l’esperienza di galleggiamento6. Tutti uscirono da quell’esperienza cambiati. Scoprirono dentro se stessi qualcosa, osservò Shurley, che li trasformò, alterando il modo in cui guardavano se stessi e il mondo. Perfino giorni o mesi dopo l’esperimento, si ritrovavano a pensare di galleggiare di nuovo, cercando di ricordare che cosa si provava e che cosa avevano visto. Alcune persone trovarono che l’esperienza nella vasca le avesse particolarmente stimolate o incoraggiate. Iniziarono a pensare di correre dei rischi che prima non avevano mai nemmeno preso in considerazione. Diversi individui che prima avevano avuto paura dell’acqua impararono a nuotare dopo essere stati nella vasca [30]. L’esperienza di Jerrie Cobb nella vasca infranse ogni record precedente. Diverse centinaia di soggetti avevano già preso parte all’esperimento, e si riteneva che la soglia massima di tolleranza fosse di sei ore. Miss Cobb rimase in isolamento sensoriale per nove ore e
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Shurley ammise che era possibile “alterare fino a un certo punto” la reazione genuina alla vasca d’isolamento. Alcuni soggetti non rivelarono mai di aver sperimentato una paura improvvisa, né raccontarono all’osservatore delle allucinazioni che ebbero. Shurley era preoccupato dal fatto che nel condurre i propri esperimenti non poté mai liberarsi del tutto dell’universalmente diffuso pregiudizio culturale secondo il quale le allucinazioni sono legate alla pazzia, e non il risultato di una situazione anomala. I risultati dei test di Shurley mostrano che il cinque per cento degli studenti del college nello studio riferì effetti collaterali negativi (depressione, paranoia, fissazioni), mentre il sessanta per cento riferì che il tempo trascorso nella vasca era stato piacevole.
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quaranta minuti, dopo le quali fu Miss Walters a porre fine alla sua permanenza. Shurley fu sbalordito dalla capacità dell’aviatrice di reggere l’isolamento. Altrettanto incredibile risultò la trascrizione della registrazione di quello che la nostra disse mentre si trovava nella vasca. Il monologo del reporter durante le sue quattro ore e mezza di permanenza aveva riempito pagine su pagine; i commenti di Miss Cobb durante un periodo lungo più del doppio occuparono a malapena due facciate [31]. Dal momento in cui mise piede nella vasca fino a quello in cui si avvolse un accappatoio attorno alle spalle bagnate e tornò nella stanza d’osservazione, Miss Cobb fu un campione di tranquillità e autocontrollo. Quasi tutti i suoi commenti nella vasca consistettero in osservazioni oggettive di stimoli esterni o, più precisamente, dell’assenza di tali sensazioni. Come una sagace studiosa del mondo naturale, la ragazza indicò la posizione dei propri piedi e la mancanza di distinzione tra il proprio corpo e l’acqua. Solo una volta accennò a un disagio fisico, allorché fu costretta a muoversi un po’ per alleviare uno spasmo alla schiena. I suoi unici commenti di natura soggettiva e personale furono dei laconici accenni al fatto di sentirsi calma e tranquilla. “Solo per tenervi aggiornati, qui va tutto bene... tranquillo, quieto e rilassante”, disse. Per quanto il dottor Shurley e Miss Walters fossero stati attenti a non fornirle alcuna indicazione su come avrebbe dovuto reagire, Jerrie era giunta alla conclusione che il successo consistesse nel rimanere più calma e tranquilla possibile. Scrivendo la propria autobiografia, diversi anni dopo, Miss Cobb rese noto che prima della sua prova aveva sentito di altri soggetti che avevano risposto alla deprivazione sensoriale con reazioni inattese, sorprendenti e spesso imbarazzanti. Lei sperava di evitarlo. Quando, nel corso della sua permanenza in vasca, fece un breve sogno durante il quale le apparvero immagini del suo bassotto nero, di sua sorella e di una calda giornata estiva, scelse di non parlarne nel microfono. Apparentemente mortificata dall’illogica casualità del sogno, Miss Cobb ricorderà quelle immagini come “ridicole”, e più tardi si congratulerà con se stessa per non essersi lasciata andare a nessuna fantasticheria immaginaria [32].
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I suoi frequenti commenti sul sentirsi in pace e rilassata erano, ovviamente, compatibili con la realtà della vasca: la maggior parte delle persone lo trovò un ambiente rilassante. Nelle sue disamine successive, però, Shurley riconobbe che “La dama fa troppi giuramenti”7. Quell’involontaria rivelazione avvenne verso la fine dell’esperimento, allorché Jerrie disse che “qui va tutto bene... e penso che uscirò dalla vasca, a meno che desideriate che ci rimanga più a lungo... io... non penso che le mie sensazioni cambieranno se rimarrò qui più a lungo, dunque non vedo nessun bisogno di farlo, ma sono perfettamente felice e pronta a farlo e mi sento davvero calma e rilassata”. Shurley giudicò le sue asserzioni perentorie, un chiaro indizio che la donna in realtà temeva che le proprie sensazioni sarebbero cambiate molto presto, e desiderava smettere mentre era in vantaggio. Poco dopo quel commento, Jerrie riferì di aver visto una tenue luce nella stanza della vasca, che sembrava “diffondersi ovunque insinuandosi da sotto la porta”. Shurley pensa che abbia iniziato a soffrire di allucinazioni proprio in quel preciso istante. Quando finalmente le luci si riaccesero, l’aviatrice ammise che la luce che pensava di aver visto non era reale. Shurley ritenne che l’allusione al fatto che le sue sensazioni non sarebbero cambiate fosse sintomatica di un soggetto che temeva di abbandonarsi alle allucinazioni. Di fatto, ricordava un po’ il reporter che, al termine del proprio test, aveva affermato di ritenere che il tempo da lui trascorso nella vasca non stesse producendo dati scientifici utili [33]. Ma ciò che il dottor Shurley trovò ancor più interessante dell’insistenza di Miss Cobb sulla serenità dell’ambiente furono le continue allusioni della donna alle delizie dell’immobilità. Per ben tre volte nel corso del suo scarno monologo la ragazza alluse al fatto che lei preferiva l’inerzia: “Trovo che meno mi muovo e più mi piace”; “Ma non mi piace muovermi, preferisco rimanere completamente immobile”; e “Non mi piace muovermi”. Nell’analisi a posteriori di Shurley, 7
Dall’Amleto di Shakespeare, qui nell’edizione Garzanti con testo a fronte del 1984, traduzione di Nemi D’Agostino, atto III, scena II, verso 225, pagina 134 (N.d.T.).
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l’istintiva concentrazione dell’aviatrice sull’immobilità rivelava più di una semplice preferenza per la staticità. Secondo lui, i commenti di Jerrie trasmettevano un desiderio più profondo, quello di contrastare qualunque tipo di movimento, compreso quello mentale. Per lo scienziato, Jerrie Cobb era un enigma. Era una pilota attenta, la cui incolumità dipendeva dalla capacità di valutare in maniera accurata i dati che la circondavano. Mentre si trovava in un abitacolo, dimostrava una profonda consapevolezza delle condizioni atmosferiche, del vento, del proprio aereo e di mille altri dettagli esterni. A terra, era una donna che vedeva il mondo attraverso delle lenti rosa, e che profondeva un’ingente quantità di energia mentale nel cercare di vedere le interazioni umane sotto una luce positiva. Shurley trovava che Miss Cobb fosse “straordinariamente incapace di concedere a se stessa la libertà mentale di pensare qualunque cosa desiderasse pensare”. Il desiderio di rimanere irremovibile includeva anche l’evitare forme di realtà alternativa, che non avrebbe potuto verificare, e che non desiderava: allucinazioni, immagini mentali, ricordi, sogni. Jerrie vedeva quello che voleva vedere. Molte settimane più tardi, il dottor Shurley rimase sbigottito scoprendo che l’aviatrice aveva invitato la sua amica Jane Rieker, della rivista Life, per farsi scattare una serie di fotografie a raggi infrarossi mentre ricostruiva la propria permanenza nella vasca. Life intitolò il suo doppio paginone, che fu pubblicato diversi mesi dopo, “Preludio umido allo spazio”. Miss Cobb desiderava fare pubblicità alla propria prodezza in un modo che lui non si sarebbe mai aspettato, confessò Shurley [34]. Consapevole di aver offuscato qualsiasi record stabilito in precedenza nella vasca, Jerrie sperava che la notorietà ottenuta tramite la rivista Life provasse al mondo intero la sua forza mentale. In una relazione medica inviata a Randy Lovelace, il dottor Shurley riassunse le conclusioni a cui era giunto in base alla batteria completa di test psicologici ai quali Miss Cobb si era sottoposta a Oklahoma City, e azzardò delle previsioni cliniche su quello che pensava fosse il suo potenziale come astronauta. L’uomo era chiaramente impressionato dalle capacità mentali di Jerrie, e sottolineò in parti-
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colare la sua elevata spinta motivazionale a diventare un’astronauta. Di fatto, Jerrie Cobb sembrava sublimare la maggior parte delle proprie pulsioni primarie nel suo lavoro aeronautico, riferì lo scienziato. Volare per lei era tutto, e lui riteneva che avesse una “personalità sana, con un funzionamento orientato all’azione”. Il dottor Shurley attirò l’attenzione anche sul laconico stile di comunicazione di Miss Cobb osservando che, pur essendo cooperativa e concentrata sull’obiettivo, l’aviatrice offriva volontariamente solo informazioni scarne, e rifuggiva dall’elaborazione. “Si rimane colpiti”, scrisse, “dalla sua economia sia di parole che di gesti”. Quindi, Shurley riepilogò i risultati dei primi due giorni di test psicologici, che rivelavano che l’intelligenza di Jerrie era nella fascia medio-alta, che dava prova di grande coordinazione psicomotoria, che era portata a un’introspezione minima, e che era una “donna d’azione” più che una pensatrice creativa. Miss Cobb risultava “una persona altamente conformista, moralista e convenzionale”, scrisse. Al test della deprivazione sensoriale fu riservato un commento dettagliato. “Supera di gran lunga qualunque altra donna testata finora”, e dava prova di un funzionamento e un adattamento psicofisiologici eccezionalmente efficienti. Shurley prese nota del suo atteggiamento pacato e della sua penuria di stimoli percepiti, aggiungendo che era “piuttosto inibita” in quello che riferiva. Nelle sue conclusioni, lo scienziato affermò di ritenere che Miss Cobb possedesse qualità eccezionali, se non addirittura uniche, adatte a farne un’astronauta, e ne citò la pronta accettazione delle direttive e della responsabilità, evidenziandone “l’insolitamente perfetta integrazione” tra corpo e mente [35]. Lo psichiatra offrì le sue analisi più significative a Ivy Coffey, l’amica di Jerrie che più avanti lo intervistò per un articolo sulla permanenza della Cobb nella vasca di isolamento sensoriale. Mettendo da parte il gergo medico professionale, Shurley andò dritto al punto. Jerrie Cobb, disse, è “una ragazza che eccelle nell’isolamento” [36]. I test psichiatrici di Oklahoma City si rivelarono così utili nell’aggiungere valore alle sue credenziali come candidata astronauta che Jerrie contattò le altre Mercury 13 proponendo loro di speri-
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mentare lo “stadio due” del test. “Il dottor Lovelace e io abbiamo parlato dell’importanza di esaminare tutte le donne del programma, e ci auguriamo che possiate partecipare”, scrisse. Non era però disponibile il rimborso per le spese di viaggio necessarie per raggiungere l’Oklahoma. Jerrie non voleva coinvolgere Mrs Cochran in questa nuova fase dei test, ma si rendeva conto che molte delle donne non avrebbero potuto permettersi di affrontare un viaggio improvviso a Oklahoma City. Pertanto, Jerrie si offrì di ospitare le donne nella casa che condivideva con Ivy Coffey. Dal momento che il suo invito era giunto proprio mentre i progetti di Randy Lovelace per i test di simulazione del volo spaziale stavano prendendo forma, la maggior parte delle donne decise di aspettare finché quei progetti non fossero stati annunciati prima di prendere accordi per il test d’isolamento a Oklahoma City. L’intestazione sulle lettere spedite da Miss Cobb, lettere che lei indirizzò alle “F.L.A.T.”, le apprendiste astronaute, implicava inoltre che sottoporsi al test della vasca, per quanto potesse essere una buona idea, non fosse obbligatorio [37]. Solo Rhea Hurrle e Wally Funk riuscirono a recarsi immediatamente all’Oklahoma City Veterans Hospital. Miss Hurrle arrivò per prima e si stabilì nella stanza degli ospiti di Jerrie e Ivy. D’umore giocoso, Jerrie acquistò un copriletto con una stampa di navicelle spaziali, tappezzò il soffitto con stelle e immagini di pianeti, e mise dei cartelloni che recitavano: “Lanciati, orbiterai!” in quello che chiamò il “dormitorio spaziale”. Quando finalmente Miss Cobb incontrò la collega rimase molto impressionata nello scoprire che il datore di lavoro di quest’ultima le aveva prestato un Piper Comanche per volare fin lì da Houston. Jerrie pensò che quel gesto la dicesse lunga sulle capacità aeronautiche della giovane donna [38]. Wally Funk, sempre impaziente di dare prova delle proprie doti, arrivò l’ultimo giorno dei test di Miss Hurrle. Durante un barbecue nel giardino dietro casa le tre donne confrontarono le rispettive esperienze alla Lovelace; quindi Wally e Rhea prestarono ascolto a Jerrie mentre quest’ultima descriveva quello che sapeva dei passi successivi del programma ed esponeva le proprie speranze per il futuro. Le tre si scambiarono
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anche le informazioni che avevano sulle altre donne che avevano superato i test della Lovelace. Dopo un lunghissimo periodo di riserbo e isolamento, la possibilità di conoscersi e familiarizzare era la benvenuta. Erano entusiaste e piene di energia. Non solo iniziavano a sentirsi parte di un gruppo, ma colsero anche l’occasione per prendere le misure alla concorrenza, cosa che accadde per esempio allorché Miss Cobb chiese alle altre due di unirsi a lei per i suoi allenamenti in cortile. Se alla Hurrle e alla Funk ancora non era chiaro chi fosse la leader tra le candidate astronaute, di certo lo capirono in fretta una volta che la Cobb diede il segnale per gli addominali [39]. Il tempo che Rhea e Wally trascorsero nella vasca e le loro reazioni all’isolamento sensoriale eclissarono l’eccezionale prestazione di Jerrie. Miss Hurrle passò dieci ore nella vasca prima che il suo test venisse interrotto dall’osservatore. Non si mosse quasi per niente, parlò poco, fornì solo osservazioni oggettive, diede scarsa importanza al disagio fisico e non palesò alcuna alterazione percettiva o allucinazione. Non comparvero ansia manifesta, disorientamento spaziale, né difficoltà ad adattarsi alla simulata assenza di gravità. In altri test diede prova di quelle che Shurley definì una forte spinta motivazionale al volo spaziale e un’elevata tolleranza dello stress. Anche Wally Funk primeggiò nella vasca. Dando prova della stessa tenace perseveranza che aveva esibito durante il test della cyclette alla Lovelace, Wally rimase nella vasca fino a quando gli osservatori non le chiesero di uscire. Nella relazione per Lovelace, il dottor Shurley scrisse che Miss Funk “non dava alcun segno di star raggiungendo i limiti della propria sopportazione. Al contrario, dava l’impressione che avrebbe potuto continuare a oltranza, e che l’avrebbe fatto, se non ci fosse stato un intervento ‘dall’esterno’”. Il tempo complessivo che la donna trascorse in isolamento sensoriale fu di dieci ore e mezza. Durante quel lasso di tempo, non proferì parola [40]. In attesa che le altre donne del Mercury 13 si recassero nel suo laboratorio durante l’estate, il dottor Shurley formulò un preventivo di ricerca standard, che dovette sottomettere alla Veterans Administration per l’approvazione. Il preventivo esponeva per sommi capi le
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spese da affrontare per testare ogni donna. Quasi tutte le spese coincidevano con quelle necessarie a retribuire le ore di lavoro del personale: tempo passato a fare gli esami dello stato mentale e a scrivere le relazioni, a somministrare i test psicologici e le visite mediche, tempo impiegato da un assistente alla ricerca a prendersi cura dell’apparecchiatura nel laboratorio di isolamento sensoriale, a preparare e sbobinare i nastri, a occuparsi del lavoro di laboratorio di routine per gli esami delle urine e del sangue. Shurley stimò che i test sarebbero costati all’ospedale cinquecentocinquantasei dollari e trentanove centesimi per ciascuna donna, e che l’ammontare finale per l’intero gruppo avrebbe potuto toccare all’incirca anche i settemila dollari. Pur sperando di riuscire, alla fine, a sottoporre al test tutte le donne, lo scienziato si aspettava di esaminarne almeno otto durante l’estate del 1961. Le conversazioni che si svolsero ad Albuquerque tra Miss Cobb, Shurley e il dottor Lovelace presero in esame anche la possibilità di coinvolgere pure gli uomini del Programma Mercury nelle prove nella vasca, allo scopo di determinare le differenze tra le reazioni maschili e quelle femminili. Preparandosi ai futuri test, Shurley tirò fuori una cartellina non etichettata e iniziò ad archiviare relazioni, appunti e commenti sul programma spaziale femminile. Rendendosi conto che Lovelace non gli aveva fornito un nome per quel programma, Shurley ci pensò un istante e poi ne scrisse uno di sua invenzione. Vergando le parole “Programma Venus”, infilò la cartelletta in uno schedario [41].
8. Aspettando Pensacola
Randy Lovelace trovò un’ubicazione per lo “stadio tre” dei test di simulazione del volo spaziale. La U.S. Naval School of Aviation Medicine concesse a Jerrie Cobb di sottoporsi a dieci giorni di test presso la propria struttura di Pensacola, in Florida. Se le prove dell’aviatrice fossero andate bene, il resto delle Mercury 13 l’avrebbe seguita di lì a poche settimane. Il dottor Lovelace scrisse a ciascuna delle donne, chiedendo a ognuna di loro di predisporre le cose in modo tale da avere del tempo libero in giugno. Jerri Sloan domandò alla madre di recarsi a Dallas per darle una mano con i bambini. L’idea di chiedere altri giorni di assenza dal proprio lavoro di motorista di volo presso la AT&T impensieriva Sarah Gorelick. Janey Hart era grata che i lavori del Senato fossero sospesi, perché il marito avrebbe potuto aiutarla di più con i figli. Mentre le donne facevano posto sulle proprie agende, Lovelace scrisse una seconda volta per avvisare che la data era stata posticipata a un non meglio precisato momento di luglio. Come per i test di Albuquerque, anche per quelli di Pensacola si era trovato spazio a fatica tra altri lavori precedentemente prefissati. Mentre Randy era grato dell’appoggio della Marina militare ai test delle donne, la programmazione altalenante rendeva sempre più difficile per le nostre trovare delle baby-sitter e parlare con datori di lavoro poco comprensivi. Jerrie Cobb era stata fortunata ad aver potuto godere di una data prestabilita per lo “stadio tre” del test, ed era stata altrettanto fortunata che il suo capo alla Aero Design fosse sempre pronto a concederle del tempo libero per le questioni relative all’astronautica. Di fatto non solo era stato proprio Tom Harris a presentare Jerrie a Don Flickinger e Randy Lovelace due anni prima, sulla famosa spiaggia di M. Ackmann, Mercury 13 © Springer-Verlag Italia, Milano 2011
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Miami, ma si stava anche impegnando sempre di più per aiutare la causa di Jerrie. In diverse occasioni, allorché i suoi affari in campo aeronautico l’avevano condotto a Washington, aveva cercato, senza successo, di ottenere un abboccamento con il capo della NASA, James Webb, suo amico sin dai tempi in cui Webb era in Oklahoma. Aveva anche cercato di influenzare i senatori dell’Oklahoma. Tom Harris desiderava che a Miss Cobb venisse offerta una chance di diventare astronauta, e gli premeva che gli americani battessero i russi in almeno una delle corse allo spazio. Da uomo d’affari con una prospettiva internazionale e un profondo interesse per la politica, Harris voleva anche giocare un ruolo in un processo decisionale a livello nazionale. Stava già avendo dei colloqui con i dirigenti del partito repubblicano, e aveva reso noto il proprio interesse a correre per il Senato degli USA. Tra i contatti politici di Harris, l’influenza esercitata da Janey Hart tramite il marito, il senatore Philip Hart, e la madre di Jerri Sloan, che conosceva Lyndon Johnson per aver lavorato alle sue campagne elettorali in Texas, Jerrie avrebbe potuto contare su alleati convincenti per portare avanti la causa delle donne astronauta1. Prima di partire per Pensacola, Miss Cobb trascorse diversi giorni allenandosi per i test a casa della giornalista di Life Jane Rieker, a Delray Beach. Non sapendo esattamente quali sfide di resistenza fisica avrebbe dovuto affrontare, Jerrie si allenò correndo, nuotando, e familiarizzando con gli effetti dell’assenza di gravità simulata. Un vicino di Miss Rieker aveva una piscina che fu ben felice di lasciarle usare, e l’aviatrice trascorse ore e ore sotto la superficie con l’attrezzatura da sub. Ogni giorno le venivano recapitate le bombole di ossigeno per le immersioni. I recipienti metallici, allineati lungo il bordo della piscina, ricordavano delle sentinelle. Spesso Miss Cobb rimaneva così immobile sul fondo della piscina che l’unica traccia della sua presenza 1
Thomas Harris si candidò alle primarie straordinarie indette in Oklahoma nel 1963 per portare a termine il mandato del senatore Robert S. Kerr, deceduto mentre era in carica. Thomas Harris perse le primarie repubblicane a vantaggio dell’allenatore di football della University of Oklahoma, Bud Wilkinson. In seguito, il democratico Fred Harris sconfisse Wilkinson nella corsa al Senato dell’Oklahoma.
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erano delle piccole bollicine che salivano gorgogliando in superficie. In diverse occasioni il vicino della Rieker si preoccupò per quelle maratone immobili, e si precipitò fuori dalla casa per sbirciare nell’acqua e accertarsi che la ragazza stesse ancora respirando [1]. Miss Cobb si presentò alla base di Pensacola in una serata calda e afosa di maggio, e stivò il proprio equipaggiamento negli alloggi degli ufficiali. Dopo una nottata inquieta nella rumorosa caserma, la ragazza fece rapporto alle otto del mattino successivo per il suo primo test. Diversamente dagli esami precedenti, che erano serviti a valutare le sue condizioni fisiche e mentali, i dieci giorni che aveva davanti l’avrebbero scaraventata nel regno dell’ipotetico, tramite prove tese a determinare se sarebbe riuscita a far fronte alle tensioni, al disorientamento e all’impatto fisico dello spazio cosmico. Quegli esami avrebbero valutato la sua reazione alle alte quote, ai forti carichi gravitazionali, alla chinetosi, alle violente eiezioni del seggiolino, e perfino al caos turbolento legato al tentativo di fuga da una cabina di pilotaggio sommersa – un test subacqueo che le fece provare la terribile sensazione di come sarebbe stato sentirsi intrappolata all’interno di una capsula Mercury che vorticava sul fondo dell’Atlantico. Se avesse superato i test, avrebbe dimostrato una volta di più di avere le stesse capacità fisiche e la stessa determinazione mentale di cui avevano dato prova gli astronauti del Programma Mercury. I test di Pensacola, unitamente all’esito positivo dei suoi esami medici presso la Lovelace Foundation e alle valutazioni psicologiche e psichiatriche di Oklahoma City, le avrebbero permesso di affermare che aveva superato tutti i test affrontati dagli uomini del Programma Mercury. Se qualcuno degli esami a cui si era sottoposta non coincideva perfettamente con quelli sostenuti dagli uomini nel Wright Aeromedical Laboratory, di certo era loro paragonabile e, nel caso del test di isolamento sensoriale, anche più rigoroso2. 2
Dopo che erano state esaminate le qualifiche militari e aeronautiche degli astronauti del Programma Mercury, questi vennero sottoposti a tre fasi di test. La prima consisteva negli esami medici presso la Lovelace Clinic. La seconda e la terza si erano svolte presso l’Aeromedical Laboratory della Wright-Patterson Air Force Base, e includevano i test psico-
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Dopo alcuni esami preliminari volti ad aggiornare il suo profilo medico, Jerrie si lanciò in una giornata densa di esercitazioni fisiche che venivano usate per valutare la forza e le capacità degli aviatori della Marina in buona salute. Arrampicarsi su un’alta parete in calcestruzzo divenne una metafora nient’affatto sottile di quello che sarebbe stato il resto della settimana. Il muro era alto più di due metri, ed era stato costruito per rappresentare una sfida per gli uomini, ai quali veniva chiesto di fare un salto, afferrarne la sommità e scavalcarlo, gettandosi giù dall’altro lato. Al suo primo tentativo Miss Cobb saltò, mancò la presa e ricadde a terra. Al secondo tentativo corse più in fretta, saltò più in alto e si fece faticosamente strada fino in cima artigliando la parete [2]. Dal suo metro e settantatré di altezza, Jerrie superò un muro che per lei era più alto di quanto lo fosse per degli uomini che erano, in media, parecchi centimetri più alti di lei. Non sembrava che contasse, comunque. Addominali, trazioni alla sbarra, maratone nella canicola della Florida: Miss Cobb affrontò ogni test, e ogni volta ebbe successo. Per il resto della settimana, Miss Cobb prese parte a test di simulazione di volo spaziale. Nella camera ipobarica, ebbe per la prima volta l’opportunità di indossare una tuta a pressione totale. Proprio come aveva scoperto un anno prima Betty Skelton, allorché aveva illustrato i test da astronauta per il servizio sulla rivista Look, i militari non avevano progettato quel capo con in testa un corpo femminile. Quando Jerrie indossò la tuta più piccola che la Marina poté scovare, questa era ancora troppo larga. Il personale della Marina passò un’ora e mezza a chiuderla e assicurarla con delle cinghie dentro quel voluminoso affare, e poi la scortò nella camera di simulazione dell’alta logici e psichiatrici precedentemente descritti. Le prove alla Wright-Patterson comprendevano anche prove da sforzo tra cui dei test con la tuta pressurizzata, i test da sforzo sul tapis-roulant, l’Harvard Step Test (i soggetti salivano su una piattaforma alta circa cinquanta centimetri ogni due secondi per cinque minuti, per dimostrare la propria forma fisica), test di accelerazione, di vibrazione, di calore, di equilibrio acustico, tilt-table test, test del freddo, e una complessa simulazione comportamentale durante la quale i candidati davano prova della propria capacità di reazione in situazioni confuse davanti a un pannello di dodici segnali, ciascuno dei quali richiedeva una risposta diversa.
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quota, dove i tecnici la portarono fino a oltre diciottomila metri e controllarono attentamente se riusciva a conservare il proprio acume e a muovere le gambe e le braccia contro la pressione pesante. Con le mani inguainate in guanti che calzavano male e si gonfiavano come dei palloni, Jerrie lottò per fare il pugno e per toccare ogni dito col pollice, dimostrando così che era in grado di gestire leve, manopole, quadranti e chiavistelli. Per valutare la sua capacità di affrontare una discesa in picchiata, i tecnici alterarono la pressione della stanza e la portarono al livello del mare in caduta libera [3]. Un altro test richiedeva che si sedesse sul seggiolino del copilota su un Douglas Skyraider mentre il pilota portava su l’aereo e si lanciava in una serie di acrobazie aeree da voltastomaco. Le vennero fissati al capo diciotto aghi allo scopo di fare un elettroencefalogramma che registrasse la sua attività cerebrale mentre era in volo, un’esperienza che costituiva un’assoluta novità per lei. Una videocamera posta direttamente di fronte al suo viso catturò ogni suo minimo trasalimento mentre l’aereo scendeva in picchiata, eseguiva il giro della morte e fendeva il cielo. A ogni movimento improvviso dell’aereo, la forza la sbatteva contro il seggiolino, facendola precipitare di fianco e scaraventandola in avanti. Guardando dritta davanti a sé, Miss Cobb sbatté due volte le palpebre. Gli occhi le si spinsero in avanti nelle loro cavità, e poi tornarono ad affondarvi, in un movimento che i piloti chiamavano “Palle degli occhi fuori, palle degli occhi dentro” [4]. Quello che gli aviatori della Marina soprannominavano il “Dilbert Dunker”, ovvero il simulatore di ammaraggio forzato (Multi-Place Ditching Trainer), servì a mettere alla prova le sue capacità di tenere testa al senso di disorientamento causato da un atterraggio sull’acqua. Per un pilota l’ammaraggio in pieno oceano era un evento insolito, ma uno di quelli per cui era necessario allenarsi. Far pratica sul “Dunker”, un’esperienza sconvolgente e caotica, poteva salvare la vita di un pilota militare che venisse abbattuto sull’acqua. Per gli astronauti statunitensi, invece, un ammaraggio era l’unico modo per far atterrare una capsula spaziale. A un occhio inesperto, il “Dilbert Dunker” appariva come un marchingegno da cortile messo assieme da degli adolescenti
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dotati di menti fantasiose e di troppo tempo libero. Un affare che sembrava essere un grosso barile cilindrico di petrolio era appoggiato in cima a una rotaia ricurva che finiva dentro una piscina profonda quasi cinque metri. Quello strano attrezzo assumeva un aspetto un po’ più serio quando veniva messo in movimento. Dapprima Miss Cobb ci si strizzò dentro – era appena appena su misura, considerato che lei indossava un giubbotto salvagente (scherzosamente ribattezzato “Mae West”, in un omaggio alle curve dell’attrice) e uno zaino-paracadute, non la classica tenuta da astronauta ma qualcosa di sufficientemente ingombrante da ricordare una tuta spaziale. Si allacciò la cintura di sicurezza, strinse i denti, e aspettò. Con un sobbalzo, il barile scattò in avanti, muovendosi a forte velocità giù per la rotaia finché non piombò nella piscina. Istintivamente, Miss Cobb trattenne il fiato mentre il velivolo si girava sottosopra e l’acqua fluiva all’interno. Cercò di rammentare quello che le era stato detto: non perdere la testa, slaccia la cintura di sicurezza, evita di impigliarti in qualche gancio con gli abiti, cerca un oggetto di riferimento: un chiavistello, un bracciolo, il fondo di un seggiolino. Fatti strada verso il portello, scivola fuori, e muoviti su e giù fino a raggiungere la superficie dell’acqua. Jerrie uscì dal congegno senza bisogno dell’aiuto dei sommozzatori di soccorso, e nel tempo prestabilito. Pompando adrenalina, si issò sul bordo della piscina e cercò di riprendere fiato [5]. Un pomeriggio, appena dopo pranzo, affrontò un altro giro su un’attrazione aerodinamica da luna park. Si trattava di una stanza che ruotava lentamente, un recinto privo di finestre costruito in modo da assomigliare a un appartamento, con tanto di mobili, zona notte, portacatino, perfino uno scaldavivande. Ma, a differenza di una camera normale, la struttura era appollaiata in cima a un giroscopio d’acciaio di quarantadue tonnellate, che ruotava su se stesso a un ritmo di dieci rivoluzioni al minuto. Dato che la stanza non aveva finestre, il soggetto dell’esperimento non percepiva la sensazione della velocità, ma solo un disorientamento agitato. “Limitati a seguire le istruzioni”, le ordinò una voce all’interfono mentre sedeva in mezzo a un labirinto di quadranti, manopole e interruttori. Mentre la camera ruotava, la
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voce le chiese di azionare gli interruttori e posizionare i quadranti in base agli ordini allo scopo di valutare quanto accuratamente riuscisse a eseguire manovre rapide in un ambiente confuso e vorticante. A Miss Cobb girava la testa mentre si alzava, si abbassava, andava avanti, indietro, a sinistra, a destra, a seconda degli ordini. Per un istante le venne il voltastomaco. Cercò allora di restringere il proprio campo visivo, concentrandosi su ciascun compito. Gradualmente, la nauseante turbolenza nella sua testa si placò, e l’indisposizione si attenuò. Proprio quando si stava abituando ai gesti necessari per sistemare i quadranti, la voce le ordinò di alzarsi e di camminare attraverso la stanza, dirigendosi verso un bersaglio per le freccette. Con la stanza che continuava a ruotare lentamente, i suoi sensi erano così sconvolti che la ragazza non si accorse che la parete si era inclinata moltissimo. Quando la voce le chiese di scagliare una freccetta contro il bersaglio, mancò completamente l’obiettivo. A quel punto, capì che doveva compensare la pendenza del pavimento mirando quarantacinque gradi a sinistra. Quando le venne chiesto di lanciare delle palline da tennis in un cestino della cartastraccia, si servì della stessa tecnica e tirò lontano, sulla sinistra, centrando il bersaglio ma agendo in contrasto con quello che i suoi occhi le dicevano di fare [6]. Al termine dei suoi dieci giorni presso la School of Aviation Medicine, Jerrie fu lieta di sentirsi confermare quello che già aveva presentito: aveva superato lo “stadio tre” dei test di simulazione spaziale, ottenendo un punteggio altrettanto alto di quello degli esperti piloti della Marina. Il personale militare organizzò per lei un party alla base per festeggiare la notizia [7]. Randy Lovelace spedì alle altre Mercury 13 una lettera in cui le informava che la data del loro test era stata fissata per il 18 luglio [8]. Di nuovo, le donne si diedero da fare per organizzarsi in vista dei dieci giorni a Pensacola. Imbaldanzita dalla propria prestazione, Miss Cobb fece un passo insolito, e scrisse direttamente al direttore della NASA, James Webb, raccontandogli della propria esperienza a Pensacola. Insieme alla lettera, inviò un articolo che lei definì “allarmante”: si trattava di un pezzo che illustrava come i russi fossero interessati a inviare una donna nello spazio. Se a una
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donna americana fosse stato concesso di lanciarsi, quella prodezza avrebbe avuto “un valore e un prestigio immensi e proverebbe anche che i nostri sistemi sono affidabili e sicuri”, argomentò lei. Chiudendo la missiva, Jerrie trasmise a Webb la propria disponibilità a metterci tutto il tempo necessario per prepararsi al volo spaziale. Dopo aver passato un anno e mezzo a essere esaminata, e a mettersi alla prova più e più volte, la ragazza disse a Webb che sarebbe stata ben felice di aspettare anche altri dieci anni se la cosa avesse significato che alla fine sarebbe potuta andare nello spazio [9]. Miss Cobb si augurava di avere presto l’opportunità di parlare personalmente con Webb, dal momento che entrambi erano diretti a Tulsa, Oklahoma, per un convegno sull’uso pacifico dello spazio. La conferenza di Tulsa fu un raduno grandioso, pieno di dirigenti della NASA, appaltatori aerospaziali, politici e addetti dei media. Randy Lovelace, in uno dei principali discorsi diretti al gruppo, analizzò le sfide che il programma spaziale doveva affrontare, e per la prima volta parlò pubblicamente del gruppo di dodici donne pilota che aveva superato lo “stadio uno” dei test da astronaute. Proprio come il primo annuncio dei test di Miss Cobb aveva provocato un’ondata di eccitazione, la rivelazione di Lovelace elettrizzò la folla. Una volta di più l’attenzione si focalizzò su Jerrie, mentre i reporter sparavano a raffica domande sulla possibilità di inviare nello spazio una donna americana. Miss Cobb, sempre la perfetta professionista in guanti bianchi, si prestò a farsi fotografare accanto a una finta capsula Mercury. Mentre si metteva in posa, assomigliando più a un’attraente modella che pubblicizzava l’ultima Chevrolet che a un’aspirante astronauta, il suo sorriso era tirato. Quella sera, al banchetto della conferenza, si ritrovò seduta accanto a Webb sul palco che sovrastava duemila persone [10]. Ebbero appena il tempo di parlare, e meno ancora di approfondire la recente missiva di Jerrie, poiché Webb dovette trangugiare di corsa il proprio pasto prima di pronunciare il discorso principale della serata. Verso la fine della propria arringa, incentrata sul successo del lancio di Alan Shepard e sulle sfide a venire, Webb presentò Miss Cobb al pubblico e lodò il suo successo nel superare
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tre fasi del test, e la sua dedizione al programma spaziale. L’uomo era consapevole dell’interesse nazionale nel mandare una donna nello spazio. Così tante donne avevano scritto alla NASA chiedendo come potevano fare per diventare astronaute che l’agenzia aveva messo a punto una lettera di risposta standard. La missiva consisteva in un rifiuto educato ma inflessibile, in cui si ribadiva che la grande fonte di manodopera astronautica risiedeva nei piloti collaudatori. Quando allargheremo la prospettiva, “forse qualche proposta brillante come la sua potrà essere accettata” [11]. Mentre giungeva al termine del proprio discorso, a Tulsa, Webb sembrò virare sull’improvvisazione. Senza aver dato il minimo preavviso a Miss Cobb o a Lovelace, il direttore della NASA fece un annuncio sorprendente. Era lieto, disse, di nominare Jerrie Cobb consulente straordinaria per la NASA. Per quanto sbalordita, Jerrie era entusiasta. Non ebbe però tempo di approfondire le intenzioni di Webb riguardo a quell’incarico poiché era attesa a Parigi per il raduno annuale della Fédération Aéronautique Internationale, e dovette partire immediatamente per l’Europa. Pur non sapendo con certezza cosa volesse farle fare Webb, presuppose che il suo lavoro sarebbe stato incentrato sulle donne nello spazio. La vaghezza della mansione non la preoccupava, né si domandò se quella nomina non celasse un tentativo di manipolazione da parte della NASA che, cooptandola, provava a metterla sotto la propria ala in modo da poter controllare i suoi commenti sulle astronaute [12]. La donna vide quello che voleva vedere e, in seguito, scriverà che la situazione non le era mai parsa più rosea. In una lettera da Parigi, scrisse a Webb: “Sono sinceramente riconoscente per la fiducia che ripone in me e farò del mio meglio per portare a compimento ogni incarico che vorrà affidarmi” [13]. Jackie Cochran non era così felice. Come presidentessa della FAI, Mrs Cochran si trovava a Parigi a dirigere il raduno aeronautico allorché aveva appreso dei risultati eccezionali di Jerrie nei test di Pensacola. Sapere che ora Miss Cobb lavorava per la NASA la riempiva di risentimento. La buona fortuna di Jerrie e quel suo neoacquisito accesso al potere le davano fastidio, e pensava che la sua nomina fosse
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una pessima idea. Era furiosa anche per essere venuta a sapere del test di Pensacola da una delle altre aspiranti astronaute, e non dallo stesso Lovelace. Stava iniziando a domandarsi se Randy non la stesse tenendo disinformata di proposito. Jackie si era sempre vantata di frequentare gli ambienti più elitari dell’aeronautica. Sapeva che i reporter si rivolgevano a lei per avere notizie dall’interno e informazioni riservate. Adesso, quando i giornalisti la chiamavano domandandole del programma di astronautica per le donne si ritrovava a inciampare nelle risposte, incapace di offrire qualcosa più di vaghe banalità. Non sapeva bene che cosa la irritasse di più, se il venire a conoscenza dei dettagli riguardanti il programma spaziale di seconda mano o l’apparire disinformata agli occhi della stampa. Decidendo di rivolgersi direttamente a Jerrie, Mrs Cochran chiese alla propria segretaria di contattare l’aviatrice che, scoprirono, alloggiava nel loro stesso hotel, in Place de la Concorde. La loro conversazione non ebbe mai luogo, seguendo lo schema che le due donne avevano consolidato la primavera precedente. Una volta di più, Jackie propose un incontro; e, una volta di più, Jerrie glissò con cortesia. Sostenendo di aver ricevuto l’invito troppo tardi per poter accettare, addusse la scusa di essere uscita a cena e di essere rientrata nell’albergo a un’ora decisamente troppo avanzata per poter richiamare. Ricorrendo a un escamotage, evitò di parlare con Mrs Cochran lasciandole un messaggio alla reception [14]. Jackie telefonò al marito, Floyd Odlum, in California, e diede in escandescenze. Quello stesso pomeriggio, Odlum compose una lunga lettera per Lovelace, contrassegnandola come “personale e confidenziale”. “Jackie non vuole immischiarsi, se tu non la vuoi”, scriveva, enumerando le ragioni per le quali Mrs Cochran riteneva che Randy stesse deliberatamente circoscrivendo il suo coinvolgimento e dando la stura alla sfilza di accuse a lungo covate. Tanto per cominciare, perché hai dato il via al programma spaziale per le donne senza consultarti con Jackie? Perché l’hai tenuta in una posizione “defilata” quando è venuta ad Albuquerque per i test delle Dietrich? Perché la prima lista di candidate è stata approntata senza il suo intervento? Perché hai dato prova di
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scarsa iniziativa nel tenerla allineata con la NASA? Perché ti sei lasciato coinvolgere così a fondo con la rivista Life nel pubblicizzare il programma? Perché “un certo brigadier generale dell’Air Force, personaggio di spicco nella medicina aerospaziale”, sta cercando di spingere Jackie fuori dal programma? L’ultima frecciata di Odlum venne scagliata contro il personale della Lovelace Foundation e quello che l’uomo definì il suo “atteggiamento chiuso e presuntuoso”. Concludendo, Odlum dichiarò: “Se hai problemi, personali o d’altro genere, ad affrontare il succo di questa missiva personale, dovresti metterli sul tavolo perché, come ho detto prima, Jackie è parecchio infelice” [15]. La risposta di Lovelace fu immediata. Pur rendendosi conto che l’influenza e gli aiuti economici di Odlum erano inestimabili per la Lovelace Foundation, Randy non si tirò indietro. Non replicò a tutti i punti elencati da Odlum, ma si concentrò invece sullo stato del programma in quel momento, senza stare a dilungarsi sugli antecedenti dei test condotti alla Lovelace o su quello che sarebbe potuto accadere in futuro. Randy spiegò che quando era partito il programma astronautico per le donne Jackie si trovava in Europa e non era stato possibile ricorrere a lei per farsi aiutare. Per quanto riguardava la pubblicità non c’era alcun accordo particolare con Life, anche se la Marina avrebbe preferito avere a che fare con quella rivista, in caso fossero apparsi ulteriori articoli, in quanto aveva un’ampia tiratura. Nessun generale dell’Air Force aveva avuto alcun ruolo nei test in corso, dichiarò, eludendo qualsiasi allusione al nucleo del programma “Ragazze nello spazio”, che aveva ereditato dal brigadier generale Flickinger due anni prima. Sottintendendo che, a fronte di circostanze in continuo divenire, doveva muoversi in fretta, Lovelace fece notare che lo “stadio tre” dei test, quello di Pensacola, era stato approvato solo di recente dalla Marina, e si offrì di rinviarlo un’altra volta qualora Mrs Cochran avesse desiderato presenziare di persona per familiarizzare con le donne e osservarle all’opera. Riservando le precisazioni più esplicite alla descrizione del legame del programma con la NASA, Randy espose quello che sapeva essere il punto di vista ufficiale dell’agenzia spaziale riguardo al sottoporre ai test delle donne. “Io non
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ho assolutamente niente da spartire con i contatti di Miss Cobb con loro [la NASA]. Mr James Webb, il direttore, è di Oklahoma City, e l’ha conosciuta tramite il senatore Kerr. Sono rimasto sorpreso quanto chiunque altro quando Webb ha annunciato che Miss Cobb sarebbe stata la sua consulente. Come sai, la precedente posizione della NASA era al cento per cento contraria a qualunque procedura di test per le donne” [16]. Lovelace sottolineò di aver tentato di mettersi in contatto con Mrs Cochran a Parigi, per parlarle direttamente, ma di non essere riuscito a raggiungerla. Pur desiderando che il programma “Ragazze nello spazio” continuasse a procedere senza rallentamenti, e con lui al comando, Lovelace desiderava altrettanto evitare di compromettere la propria relazione personale con Odlum e la moglie. L’uomo apprezzava moltissimo la loro amicizia, e non voleva che quel legame venisse meno. Quasi in una sorta di ripensamento, Lovelace concluse l’ultima pagina della propria missiva con una frase espressa maldestramente, dalla quale trapelava la sua genuina emozione. “Anche io [sic] considero te e Jackie la coppia alla quale sono più vicino tra tutte quelle che conosco” [17]. Una settimana più tardi, Mrs Cochran fece seguito allo scambio epistolare scrivendo personalmente a Randy. Il suo tono indicava che la crisi era passata. Anziché volere che Lovelace rendesse conto di quelli che lei percepiva come degli affronti, Jackie desiderava venire coinvolta maggiormente nel programma spaziale femminile. Abituata com’era a essere al centro di abboccamenti importanti con persone potenti, trovarsi “così al margine”, per dirla con le parole di Odlum, la torturava [18]. Nella sua lettera Mrs Cochran si concentrò sull’imminente “stadio tre” dei test e informò Lovelace che non sarebbe rientrata dall’Europa prima della metà di settembre. Si augurava pertanto che i test di Pensacola potessero venire rimandati all’autunno, e raccomandò a Randy di dare alle candidate un notevole preavviso, in modo tale che potessero prendere accordi con i rispettivi datori di lavoro. Rammentandogli che avrebbe pagato lei le spese di viaggio delle aviatrici, nonché quelle che avrebbero sostenuto mentre si trovavano alla base della Marina, si informò su come si sarebbero evolute le posizioni lavorative
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e le paghe delle donne nei successivi stadi del programma. Come sempre, chiuse con un riferimento a Jerrie Cobb. “È evidente che una delle ragazze ha un ‘appoggio’ e si aspetta di dirigere il gruppo. L’ha detto ad altre che mi hanno riportato le conversazioni. Il favoritismo farebbe puzzare il programma lontano un chilometro!”, scrisse. Per di più, la recente affiliazione di Miss Cobb alla NASA era uno sbaglio. Se qualcuno doveva coordinare il gruppo di donne, dichiarò, quel qualcuno non doveva essere una delle candidate. Lovelace non aveva bisogno di chiederle chi avrebbe proposto lei come coordinatrice. Randy rinviò la data del test, scrivendo un’altra volta a ciascuna delle Mercury 13 e informandole che l’appuntamento era stato posticipato al 18 settembre. Nel giro di poche settimane, ogni donna si vide recapitare da Randy Lovelace, da Jerrie Cobb e da Jackie Cochran tre lettere che si accavallarono tra di loro, il cui soggetto era sempre Pensacola. Assillate com’erano dal dover programmare e riprogrammare il viaggio, nessuna di loro si fermò a domandarsi se quella molteplicità di missive fosse spia di una lotta per la leadership all’interno del programma spaziale femminile. La prima a scrivere fu Miss Cobb. Assumendo un tono autorevole, Jerrie si congratulò con le colleghe per aver superato lo “stadio uno” dei test, ad Albuquerque, e le informò che lei aveva già sostenuto i test di Pensacola, suggerendo loro di prepararsi ad affrontare una sfida dal punto di vista fisico. Oltre a offrire informazioni relative a dove avrebbero alloggiato, a come avrebbero dovuto vestirsi e a dove avrebbero dovuto consumare i pasti, Jerrie allegò anche un atto di rinuncia che sollevava gli Stati Uniti da qualunque reclamo legale potesse nascere a seguito del test e chiese che i moduli le venissero rispediti a casa3 [19]. Lovelace scrisse per secondo, annunciando che Jackie Cochran sarebbe stata a Pensacola per i test e che si era offerta di coprire tutte le spese di viaggio delle candidate. “Potrete ringraziarla personalmente”, suggerì. Fece
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Il modulo inviato da Miss Cobb non reca tracce che ne attestino la provenienza dalla U.S. Naval School of Aviation Medicine. Di fatto, la scuola viene erroneamente citata come U.S. Naval Aviation Medical Center. La cosa più probabile è che l’abbia realizzato la stessa Jerrie.
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anche sapere che si aspettava che lo “stadio tre” dei test fosse seguito da una grossa ondata di pubblicità, e consigliò loro di indire una riunione di gruppo per decidere insieme come affrontarla. Aggiunse che gli astronauti uomini avevano agito come gruppo quando si trattava di pubblicità e, deducendo che ben presto loro si sarebbero ritrovate sotto il medesimo assalto da parte dei media, raccomandò di seguirne l’esempio [20]. Mrs Cochran seguì a ruota, con una lunga lettera la cui funzione era presentarla formalmente e personalmente alle donne. “Come probabilmente saprete, io non prendo parte come candidata a questi test ed esami medici... Alcune di voi, pertanto, potrebbero chiedersi il perché del mio profondo interessamento e della mia collaborazione”. A quel punto, si dilungò in una prolissa spiegazione nella quale ricordava loro il proprio ruolo come consulente straordinaria del dottor Lovelace, nonché gli anni trascorsi a capo delle WASP. Quando ripensava alla Seconda guerra mondiale, scrisse, vedeva una differenza significativa tra le donne che si erano fatte avanti allora e quelle che lo stavano facendo adesso. “Bisogna tener conto che in quei giorni di guerra c’era una carenza di uomini, cosa che non si può certo dire riguardo al campo astronautico.” Il suo punto di vista riguardo al programma potrebbe aver fatto nascere una certa confusione nella mente delle donne, dal momento che altalenava tra il metterle in guardia, ricordando loro che i test erano “puramente sperimentali e a scopo di ricerca”, e il chiamarle “candidate” come faceva sempre Lovelace. “Un programma spaziale per le donne adeguatamente organizzato sarebbe una buona cosa”, scrisse. “Mi piacerebbe contribuire alla sua genesi.” Proprio come aveva fatto Miss Cobb, anche Mrs Cochran invitò le donne a scriverle direttamente qualora avessero avuto delle domande [21]. Sarah Gorelick sapeva che ottenere un permesso dal suo lavoro di assistente motorista presso la AT&T per trascorrere dieci giorni a Pensacola sarebbe stato un problema. Avendo già usufruito di tutte le sue ferie, e con il suo intero reparto che stava facendo gli straordinari, e uno “stadio tre” dei test che era già stato spostato tre volte, Miss Gorelick non vedeva come avrebbe potuto chiedere al proprio capo un’al-
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tra settimana di permesso. Non era riuscita ad allontanarsi in luglio, per partecipare al test di isolamento sensoriale a Oklahoma City, e temeva di perdersi anche Pensacola. Scrivendo a Jerrie, le trasmise la propria preoccupazione. Miss Cobb le rispose immediatamente inviandole una lettera che sperava potesse convincere il suo datore di lavoro alla AT&T. La missiva aveva un tono pratico ma era ridondante dal momento che Jerrie si servì di tutti gli aspetti che, a suo parere, avrebbero potuto rivelarsi persuasivi. “Questo serio programma viene condotto a un livello altamente scientifico, ed è della massima importanza. Il Pentagono ha recentemente approvato un ulteriore stadio del test presso una struttura medica aerospaziale militare, durante le ultime due settimane di settembre, per le donne che hanno superato gli esami di Albuquerque. Per quanto sia stato necessario mantenere il più possibile ‘sotto copertura’ questo programma, dopo gli esami di settembre i risultati, i nomi e i dettagli verranno resi pubblici. La rivista Life, tra gli altri, racconterà la storia” [22]. Oltre a corrispondere con le Mercury 13 riguardo a Pensacola, Miss Cobb stava lavorando anche a un rapporto preliminare sulle donne nello spazio per James Webb e la NASA. Mentre si trovava a Parigi, era stata avvicinata da due scienziati russi interessati ai progetti degli Stati Uniti in merito alle astronaute donne. Jerrie inoltre sapeva che di recente un osservatorio tedesco aveva captato il suono di una voce femminile su una frequenza audio utilizzata per addestrare i cosmonauti russi. I russi potevano essere già più avanti degli americani. Era giunto il momento in cui gli Stati Uniti si dovevano impegnare a lanciare la prima donna nello spazio, scrisse, passando quindi a esporre per sommi capi tre obiettivi per la NASA: far sì che la prima donna nello spazio fosse americana, raccogliere dati scientifici che servissero di riferimento riguardo al potenziale apporto delle donne nello spazio, e istruire le donne e i giovani in merito alla necessità della formazione scientifica e dell’esplorazione spaziale. Nelle sue argomentazioni, Jerrie fu attenta a evitare di insinuare che le donne sarebbero state astronaute migliori degli uomini. Il suo compito non era quello di “distrarre da quei veri pionieri che sono gli astronauti maschi”, scrisse, ma era
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fermamente convinta che fosse necessario fare un’eccezione nella programmazione in corso per il volo spaziale statunitense: l’America aveva bisogno di vincere la corsa al lancio della prima donna nello spazio. “Se lo può fare una donna”, scrisse, servendosi di una vena di umorismo sessista, “deve essere sicuro e facile!”. L’aviatrice giurò solennemente di setacciare l’intero Paese fino a che non avesse trovato una donna che soddisfacesse i requisiti per astronauti richiesti dalla NASA, anche se il suo curriculum personale e le sue credenziali furono gli unici presentati insieme al rapporto [23]. All’inizio di agosto, sei settimane prima che le Mercury 13 iniziassero ad arrivare a Pensacola, Jackie Cochran parlò dei propri timori con Robert Pirie, l’ammiraglio di squadra della Marina a capo delle operazioni aeree. Mrs Cochran e l’ammiraglio avevano discusso del test qualche giorno prima durante un viaggio in auto, ma Jackie temeva che, zigzagando in mezzo al traffico, quello che per lei era il punto nodale non fosse stato chiarito a sufficienza. Volendo essere certa che Pirie capisse il suo punto di vista riguardo a un programma aerospaziale per le donne in rapporto al Programma Mercury, Mrs Cochran ribadì le proprie idee, inviandogli una lettera direttamente a casa. Gli uomini vengono al primo posto, scrisse. Lei era favorevole a un programma spaziale per le donne solo se non avesse intralciato o ostacolato l’avanzamento del programma per gli uomini. Un programma per le donne doveva essere istituito solo “al momento giusto, e in maniera adeguata”, secondo lei, ma non specificò quando sarebbe stato il momento giusto [24]. Prima del colloquio tra Mrs Cochran e Mr Pirie, gli alti papaveri della NASA erano stati informati dei test di simulazione spaziale di Miss Cobb a Pensacola e, all’epoca, li avevano presi alla leggera. A detta di Jerrie, quando gli ufficiali di Pensacola avevano telegrafato a Washington per chiedere il permesso di somministrare i test per stabilire le differenze tra uomini astronauta e donne astronauta, il Pentagono avrebbe replicato in tono fatuo: “Se non conoscete già la differenza, ci rifiutiamo di buttare soldi nel programma” [25]. A settembre, tuttavia, con più donne sul punto di venire sottoposte ai test e con Miss Cochran che esprimeva la propria preoccupazione in merito al momento giusto e alla
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maniera adeguata, Pirie prese la questione sul serio e scrisse a James Webb, alla NASA, per accertarsi che l’agenzia spaziale fosse interessata alle donne astronauta [26]. Entro l’inizio dell’autunno, l’interesse di Jackie per i test di Pensacola subì una svolta sorprendente. Mrs Cochran informò Lovelace che non sarebbe andata ad assistere alle prove. Il tono della sua missiva sembrava sottintendere che fosse impegnata in faccende più importanti e che lo “stadio tre” dei test delle Mercury 13 non fosse rilevante. Tra la fine di agosto e l’inizio di ottobre, l’aviatrice si trovava alla Edwards Air Force Base, in California, intenta a pilotare un Northrop T-38 Talon per ottenere nove nuovi record di volo femminili. “Miss Cochran ha volato su un T-38 aziendale”, precisò un comunicato stampa della Northrop sottolineando che i T-38 erano in uso all’Air Force [27]. Grazie al permesso dell’Air Force di servirsi delle strutture della base militare di Edwards, e grazie al jet di una delle principali compagnie aeronautiche, la cinquantacinquenne Cochran si trovava esattamente dove voleva essere: in un abitacolo, a infrangere record. Scrivendo a Randy, Jackie manifestò la propria irritazione all’idea di viaggiare fino in Florida per restarsene in disparte a osservare altre donne che si sottoponevano ai test. “Non posso chiedere alla compagnia di mettere in stand-by il personale di terra e di lasciare l’aereo a far nulla mentre io faccio gitarelle che non rivestono alcuna importanza per la Northrop”, gli scrisse. “Se anche fossi lì”, aggiunse, “non penso che ci sarebbe molto che potrei fare per dare una mano, come semplice spettatrice” [28]. La lettera di Mrs Cochran esprimeva nuove preoccupazioni inerenti il programma proprio mentre rivelava anche quanto poco sapesse in realtà delle donne che sarebbero state sottoposte ai test. La procedura di selezione non è stata perfezionata, affermò. Le donne non hanno una formazione scientifica o esperienza militare. Mrs Cochran sembrava non rendersi conto che Flickinger, Lovelace e Miss Cobb avevano esaminato le credenziali di volo di oltre settecentottantadue donne pilota prima di restringere il campo alle sole venticinque che erano state invitate ad Albuquerque. Né sapeva, per esempio, che Sarah Gorelick
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aveva una laurea in matematica, fisica e chimica, o che Jean Hixson era già stata addestrata per la decompressione esplosiva presso la WrightPatterson Air Force Base. Si era perfino scordata che la Hixson aveva prestato servizio proprio sotto il suo comando, nelle WASP, e aveva lavorato come pilota collaudatore degli impianti sui B-25. Mentre il 18 settembre, data prevista per i test di Pensacola, si avvicinava, Mrs Cochran si gettò sull’addestramento a bordo dei jet con il pieno sostegno della Edwards, dell’Air Force, della Northrop Aviation e dell’amico Chuck Yeager. Al termine di uno di quei voli, Yeager rimase colpito dallo stretto vincolo che la legava agli uomini degli ambienti militare e aziendale. Compilando il proprio diario, l’uomo annotò: “A quota 12.000 Jackie ha rimosso la visiera della tuta pressurizzata e ha fatto un atterraggio perfetto sul letto del lago. La Norair l’ha omaggiata con una dozzina di rose gialle, una conclusione davvero dolce per un meraviglioso programma” [29]. Mentre il test di Pensacola si avvicinava, Sarah Gorelick rassegnò le dimissioni da motorista di volo della AT&T, non volendo mettere alla prova i limiti del proprio capo, né chiedere ai suoi colleghi, già straoberati di lavoro, di sostituirla un’altra volta. Si rendeva conto che per lei non sarebbe stato facile trovare un altro lavoro in campo tecnico, ma sapeva anche che doveva andare più avanti che poteva con il programma aerospaziale per le donne. Il 7 settembre, i colleghi di Sarah si riunirono per una festa d’addio negli scialbi uffici della AT&T di Kansas City. A causa delle continue richieste di permessi, la ragazza non era riuscita a tenere segreto il proprio coinvolgimento nei test astronautici. I suoi compagni di lavoro erano felici della notizia, e l’ufficio centrale della AT&T aveva perfino fatto uscire un breve articolo su una delle pubblicazioni aziendali per plaudire alla propria dipendente. Alla festa, le vennero regalati un razzo giocattolo e un casco spaziale. L’intenzione dei suoi amici era quella di farle un omaggio scherzoso, ma erano anche sinceramente fieri di lei e dei suoi successi. Sul davanti del casco, uno dei colleghi aveva scritto: “S. Gorelick” [30]. Anche altre donne si stavano affrettando a portare a compimento i preparativi dell’ultimo minuto. Jerri Sloan, nel bel mezzo della pro-
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cedura di divorzio, aveva anche altri problemi familiari. Suo figlio aveva contratto una polmonite, e suo padre aveva avuto un infarto. La donna non aveva tempo di allenarsi per i test di Pensacola. Pensò che portare in braccio bambini, sollevare buste della spesa, litigare con un marito arrabbiato e guidare da una parte all’altra dello Stato per prendersi cura di un genitore malato costituissero una congrua esposizione allo stress. In Georgia, Myrtle Cagle aveva deciso di iscriversi alla Mercer University, ma era attesa a Pensacola proprio lo stesso giorno in cui il preside della Mercer le aveva chiesto di presentarsi per immatricolarsi di persona. Dopo che gli furono mostrate le lettere di Jackie Cochran per cercare di convincerlo che le era davvero stato chiesto di sottoporsi ai test per astronaute presso una base della Marina aeronautica statunitense, finalmente il preside accettò che l’iscrizione venisse fatta da suo marito. Anche Gene Nora Stumbough stava incontrando delle difficoltà a ottenere un permesso dal proprio lavoro come istruttrice di volo alla University of Oklahoma. Il suo superiore non aveva posto problemi quando si era trattato di programmare la sua assenza per permetterle di recarsi ad Albuquerque, in estate. Gli studenti del college non facevano lezioni di volo durante le vacanze. Ma il 18 settembre era proprio all’inizio del trimestre, e l’uomo non poteva permettersi di avere un istruttore in meno. Miss Stumbough, fiduciosa che avrebbe trovato il modo di guadagnarsi da vivere, comunicò al capo che sarebbe andata a Pensacola e si dimise. Per Wally Funk, Rhea Hurrle, Janey Hart, Jean Hixson, B Steadman, Irene Leverton e Marion e Jan Dietrich, prepararsi per il 18 settembre significò inforcare le biciclette, fare flessioni, studiare manuali di aeronautica e libri sulla meteorologia. Rilessero le lettere di Jerrie Cobb nelle quali la collega spiegava loro che i pasti alla mensa degli ufficiali costavano tra i cinquanta e i settantacinque centesimi, e che risiedere negli alloggi degli ufficiali sarebbe costato due dollari a notte. Riposero in valigia eleganti abiti senza maniche, shorts, costumi da bagno e scarpe da tennis, e misero i biglietti aerei per Pensacola sulle proprie toelette. Il 12 settembre, nelle loro case giunsero dei telegrammi. Si aspettavano un’altra serie di istruzioni o, tutt’al più, l’ennesimo, irritante rin-
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vio. Le notizie che giungevano da Randy, invece, erano di gran lunga peggiori; e la prosa laconica della Western Union, la compagnia telegrafica dell’epoca, rendeva il trauma ancor più scioccante. “Spiacente di informare che i piani di Pensacola sono stati cancellati. Probabilmente non sarà possibile portare avanti questa parte del programma” [31]. Le notizie che filtrarono nei giorni successivi dalle telefonate, dalle lettere e dai telegrammi furono ancora più scoraggianti. La Marina aveva fatto sapere a Randy che la NASA non era interessata a far proseguire il test. Dopo il colloquio di Mrs Cochran con Pirie e la lettera di quest’ultimo a James Webb, la NASA decise che inviare una donna americana nello spazio non era una priorità. Nel burocratese tipico dei militari e del governo, il vice di Webb rispose che “al momento, la NASA non avverte la necessità di un simile programma” [32]. Senza una necessità e senza l’approvazione ufficiale del governo federale per l’uso del tempo e dell’attrezzatura militari, il programma “Ragazze nello spazio” non poteva passare al livello superiore. Era tutto annullato. Il 18 settembre, giorno in cui le donne avrebbero dovuto iniziare i test di simulazione spaziale a Pensacola, Jackie Cochran salì a bordo di un jet alla Edwards e stabilì un nuovo record di distanza su volo rettilineo. Nessuna donna era mai arrivata più lontana [33].
9. Cambio di rotta
Nel corso della notte, la questione era cambiata. Dopo che la Marina aveva cancellato lo “stadio tre” dei test di Pensacola, Jerrie Cobb e il resto delle Mercury 13 non stavano più lottando per provare che le donne erano in grado di volare nello spazio. Ora dovevano convincere la NASA che le donne avevano il diritto di essere astronaute. Da medica e scientifica, la questione era improvvisamente diventata politica. Con questo cambio di prospettiva intervenne un cambiamento nella strategia e venne introdotto un nuovo campo di battaglia. Miss Cobb e Randy Lovelace, che avevano lavorato così in simbiosi nell’esaminare le donne candidate e nel sovrintendere ai test di Albuquerque, iniziarono a operare sempre più indipendentemente l’una dall’altro. Mentre Lovelace optava per un tono più diplomatico e un passo più misurato per cercare di far cambiare idea alla NASA, Miss Cobb, spinta dall’indignazione e dalla delusione, praticamente salì i gradini di Capitol Hill. La domanda che tutti si ponevano era che cosa avrebbe fatto Jackie Cochran. Appena ebbe sentito le ultime da Pensacola, Miss Cobb si mosse in fretta. Volando a Washington, trovò un hotel economico e iniziò a incontrare chiunque fosse disposto a vederla. Parlò con i militari e i politici a Capitol Hill, ed ebbe un abboccamento con il direttore della NASA, James Webb, che descrisse come simpatizzante con la causa delle donne ma riluttante a impegnarsi in prima persona [1]. Nessuno aveva una risposta soddisfacente. Jerrie non riuscì a scoprire perché la Marina avesse approvato il suo test ma si tirasse indietro di fronte alla volontà di altre dodici donne di sottoporsi ai medesimi esami. Allo stesso modo, non riuscì ad appurare perché Washington M. Ackmann, Mercury 13 © Springer-Verlag Italia, Milano 2011
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fosse così fredda davanti alla possibilità di mandare una donna americana nello spazio quando la Russia si stava già vantando dell’imminente invio di una donna cosmonauta. Tutto ciò che riuscì a stabilire fu che la NASA non aveva “necessità” di donne nello spazio. Il termine stesso sembrava implicare che, a meno che non fosse sopravvenuta una “necessità”, le donne erano congedate. Rendendosi conto che era stato un errore tenere Webb e la NASA all’oscuro del suo programma “Ragazze nello spazio”, Lovelace inviò al direttore una lettera circostanziata in cui descrisse l’evoluzione del progetto durante l’anno precedente e suggerì educatamente che venisse dato l’okay a portare avanti i rimanenti test di Pensacola. La missiva era un abile balletto, e dava prova delle notevoli capacità di persuasione del mittente. Randy non chiese mai se le donne dovessero fare le astronaute: domandò solo quando sarebbe accaduto. Pur sperando che il suo programma potesse procedere, Lovelace era profondamente consapevole che la sua fondazione dipendeva dai contratti della NASA e desiderava con tutto se stesso che i progetti spaziali federali continuassero ad arrivare ad Albuquerque. La lettera era un tentativo di placare l’irritazione della NASA nei propri confronti – irritazione nata dal fatto che aveva stuzzicato la curiosità intorno alle donne astronauta – e contemporaneamente mirava a trasformare l’irritazione di Webb in interesse. Quasi chiunque avesse lavorato con Lovelace sapeva che quando si trattava di far nascere l’entusiasmo negli altri quell’uomo era dotato di un vero e proprio talento. In passato era stato un potente catalizzatore di idee innovative. La sua speranza era quindi quella di riuscire ad accendere allo stesso modo l’immaginazione di Webb. Nel definire l’obiettivo del proprio esperimento, Randy mise bene in chiaro che lo scopo del programma non era tanto quello di mettere “in fretta” una donna nello spazio quanto piuttosto quello di raccogliere dati scientifici sulle donne al fine di determinare come potessero meglio essere impiegate in futuro. “Tutte le candidate sono state informate prima dell’adesione che al momento non esisteva nessun programma astronautico per loro e che probabilmente non ce ne sarebbe
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stato nessuno per diversi anni”, spiegò, per poi continuare sottolineando la serietà e la minuziosità del progetto, e lodando le tredici aviatrici, definendole sveglie e molto capaci. In quella che ha tutta l’aria di una mossa difensiva, Lovelace affermò di non volere alcuna propaganda attorno al programma, poiché temeva che la pubblicità potesse essere dannosa. Prendendo le distanze dal clamore suscitato da Miss Cobb, Randy comunicò a Webb di aver chiesto a tutte le candidate di evitare i media, scordando di accennare alla propria partecipazione a entrambi gli articoli di Life e di Parade a cui Jerrie e Mrs Cochran avevano dato l’avvio. Su una questione decisiva, l’atteggiamento di Lovelace rifletteva quello di Jackie: anche lui era convinto che un programma spaziale per le donne non dovesse intralciare né ostacolare l’avanzamento del programma per gli uomini [2]. Scritta da un uomo noto per la sua frenesia – nei progetti scientifici, nel far progredire la medicina, nello sfidare le convinzioni della vecchia scuola riguardo a che cosa le donne fossero in grado di fare – quell’affermazione suonava piuttosto strana. Impaziente com’era, Lovelace era disposto a lasciare che gli uomini procedessero mentre le donne venivano trattenute. La verità è che Randy era sufficientemente scaltro da rendersi conto che la moderazione poteva rivelarsi strategica. E, naturalmente, dava per scontato di avere a disposizione moltissimo tempo. La lettera di Lovelace non era l’unica sulla scrivania di Webb a fare pressione affinché considerasse anche altri, oltre agli uomini bianchi, come potenziali astronauti. Lo stimato giornalista Edward R. Murrow, allora direttore dell’Usia, l’Agenzia informativa statunitense, contattò Webb poco dopo la cancellazione dei test di Pensacola chiedendo perché la NASA non addestrasse a diventare astronauti uomini di colore in possesso dei requisiti necessari. “Perché non mandiamo nello spazio il primo uomo non bianco? Se i vostri ragazzi arruolassero e addestrassero un nero qualificato per poi farlo volare sul primo mezzo disponibile, potremmo riscrivere la nostra intera campagna spaziale per il mondo dei non bianchi, che sono la maggioranza”, osservò [3]. Webb gli rispose che la NASA disponeva già di tutti gli astronauti di cui aveva bisogno e che era sotto pressione per
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ammetterne altri ai corpi astronautici, donne incluse. In seguito, un funzionario della NASA affermò che l’agenzia spaziale si era opposta alle pressioni che le erano state fatte allo scopo di spingerla a usare il programma spaziale per quelli che lui definì scopi politici, e che non venne data importanza a “minoranze o gruppi politici particolari” nel selezionare quelli che la NASA considerò i candidati astronauti più qualificati [4]. L’agenzia vedeva il patrocinio di chiunque non fosse un maschio bianco come una questione di cui si dovevano occupare l’ufficio delle pubbliche relazioni o i politici di Capitol Hill. A Jerrie ancora non era chiaro quali incarichi avesse in mente per lei Webb nominandola consulente straordinaria per la NASA. Il suo rapporto sulle donne nello spazio non aveva ricevuto risposta, e non le era stato richiesto alcun servizio [5]. Non era nemmeno chiaro chi fosse il suo superiore, né quanto – né se – sarebbe stata pagata1. Respingendo il consiglio di Lovelace di rimanere in silenzio, Miss Cobb continuò a parlare del programma “Ragazze nello spazio” davanti ad associazioni di aviatori, università e Camere di commercio in giro per il Paese. Tuttavia, non ebbe mai alcun incarico ufficiale da parte della NASA [6]. Anzi, di fatto i suoi commenti pubblici sulle donne astronauta iniziavano a esasperare l’agenzia spaziale, al punto che Webb si domandò se non fosse meglio sollevarla dall’incarico. Se il piano della NASA era stato quello di cooptare Miss Cobb facendo di lei un membro dell’agenzia spaziale, l’obiettivo non era stato raggiunto. Jerrie colse ogni occasione possibile non solo per parlare dei propri test ma anche delle altre donne del Mercury 13 in attesa, come lei, di diventare astronaute. Nel dicembre 1961, quando una giornalista aeronautica di Los Angeles organizzò un simposio sulle donne nello
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Un rapporto scritto a mano, rilasciato dalla NASA Records Section (l’archivio) il 15 marzo 1963, indica che Miss Cobb non venne mai pagata per i suoi servizi di consulenza. William V. Vitale, direttore del Management Services Branch, il dipartimento dei servizi amministrativi della NASA, ha scritto su un foglio che ha infilato nella cartelletta d’assunzione di Miss Cobb: “Mai pagato nulla!”. Più tardi, in riferimento ai moduli standard di impiego presenti – o non presenti – nel dossier della Cobb presso la NASA, un altro impiegato dell’archivio scrisse: “Davvero esigui!”.
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spazio, Miss Cobb venne invitata a parlare quale rappresentante della NASA. Quando i funzionari dell’agenzia spaziale vennero a conoscenza dell’invito, avvisarono l’organizzatrice della conferenza che Jerrie avrebbe potuto non essere la scelta migliore, insinuando che l’aviatrice fosse sul punto di accettare una mansione civile che “potrebbe causarci alcuni problemi” [7]. Una settimana più tardi, James Webb esercitò una pressione più diretta, dicendo a Miss Cobb che “dal momento che non abbiamo trovato un rapporto proficuo che calzi al nostro programma, mi chiedo se ci sia qualche vantaggio nel portare avanti gli accordi di consulenza”. La NASA avrebbe continuato a prendere in considerazione come astronauti solo i piloti militari collaudatori di jet, aggiunse, e a nessuno veniva in mente un incarico adatto a lei [8]. Una settimana prima di Natale, la NASA scrisse nuovamente all’organizzatrice del convegno sullo spazio per annunciarle che la posizione che Miss Cobb aveva ricoperto presso l’agenzia stava per essere smantellata [9]. In seguito Jerrie sosterrà che, nonostante l’avesse avvisata che il suo ruolo di consulente non stava funzionando, Webb non la sospese mai ufficialmente [10]. Prima di recarsi a Los Angeles per il simposio, Jerrie aggiornò le Mercury 13. Scrisse loro dei suoi recenti incontri con i membri della NASA a Washington e delle ricerche che aveva compiuto per capire il perché della cancellazione di Pensacola. “Quando ho insistito per avere delle risposte mi sono state date delle ragioni”, scrisse, “ma nessuna era valida”. Raccomandò loro di continuare ad evitare la pubblicità ma le avvertì che “potrebbe arrivare presto il momento in cui chiederò a ciascuna di voi di farsi sentire” [11]. Lei stessa aveva intenzione di farsi sentire, e il convegno sulle donne nello spazio costituiva l’occasione perfetta. “Intendo continuare a martellare e confido nel vostro sostegno”, proseguì [12]. Al simposio venne presentata come la prima donna astronauta della nazione e come una consulente della NASA. Jerrie annunciò alla folla che anche altre dodici donne avevano di recente superato i test presso la Lovelace Foundation e illustrò il proprio intervento mostrando le fotografie della rivista Life che la ritraevano durante i test di Albuquerque, Los Alamos, Oklahoma City
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e addirittura anche Pensacola. “Questo è solo l’inizio della corsa allo spazio”, dichiarò, “un’epoca in cui tutti noi dovremmo essere orgogliosi di vivere”. Con la voce che si alzava a raggiungere gli stessi livelli della sua retorica, Jerrie liberò una nota finale che era in parte una benedizione e in parte un grido di guerra. “La corsa allo spazio non sarà rapida, né facile, ma è qualcosa a cui tutti dobbiamo prendere parte. Andiamo avanti, dunque: C’È spazio per le donne!” [13]. Per l’organizzatrice della conferenza, la reazione all’intervento di Miss Cobb fu più di quanto avesse sperato. Inizialmente era stato chiesto a Mrs Cochran di tenere il discorso principale, ma Jackie aveva declinato l’invito adducendo impegni precedenti. Quando però era venuta a sapere che Jerrie invece aveva aderito, Mrs Cochran aveva richiamato dichiarando di essersi liberata all’improvviso. Decidendo di non poter ritirare una proposta che era già stata accolta, l’organizzatrice le spiegò che non avrebbe sostituito Jerrie. Rifiutandosi di accettare quella decisione, Mrs Cochran invitò la giornalista nel proprio ranch dove, ricorderà in seguito l’organizzatrice, “esercitò un po’ di pressione”, ma inutilmente. Le perorazioni di Jackie nel corso della cena furono così incessanti che a un certo punto lo stesso Floyd Odlum intervenne per rimproverare la moglie, invitandola a “piantarla” [14]. In attesa che John Glenn decollasse dalla rampa di lancio, divenendo così il primo americano a orbitare intorno alla Terra, Jackie Cochran e Jerrie Cobb finalmente si accordarono per incontrarsi. Entrambe si erano recate a Cape Canaveral per assistere di persona allo storico evento e godere di un po’ di gloria riflessa. Grazie ai propri contatti, Mrs Cochran era riuscita a ottenere un posto in prima fila nel Mercury Control, la sala di controllo [15]. Il lancio di Glenn arrivava dopo una lunga serie di false partenze e di interminabili ritardi. Nel corso di diversi mesi, la NASA l’aveva programmato dieci volte, e ogni volta la data era stata posticipata, o il volo cancellato. Finalmente, il 20 febbraio 1962, alle 9.47 del mattino, Glenn decollò rombando dalla piattaforma di lancio. Il suo volo sulla Friendship 7 durò poco meno di cinque ore e lo proiettò nella storia. Il presidente Kennedy, rivolgendosi alla nazione, dichiarò che il volo spaziale co-
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stituiva la più entusiasmante avventura mai vissuta dal genere umano. “ [Lo spazio] è il nuovo oceano”, affermò, “e io credo che gli Stati Uniti debbano navigarvi senza essere secondi a nessuno” [16]. Durante la stretta finale e la lunga attesa del lancio di Glenn, Mrs Cochran e Miss Cobb cenarono insieme in un ristorante di Cocoa Beach, non lontano da Cape Canaveral. Jackie si stupì quando Miss Cobb propose di portare con sé Jane Rieker, che Floyd Odlum in seguito definirà bruscamente “una tizia che scrive per Life” [17]. Per quanto indispettita, Mrs Cochran dissimulò la propria irritazione sotto la cortesia. Portare Miss Rieker a quella cena fu una mossa molto scaltra da parte di Jerrie: Jane era un’alleata affidabile, ed era anche un’abile conversatrice a proprio agio nelle occasioni mondane. Una volta Ivy Coffey aveva notato che Jerrie Cobb sembrava attrarre a sé persone desiderose di aiutarla. Allo stesso modo, il dottor Shurley aveva osservato che Miss Cobb pareva dipendere dalla Rieker, una donna aggressiva, intrepida, quasi logorroica [18]. Per quanto nel corso di quegli ultimi due anni avesse imparato a comportarsi in modo confacente a un personaggio pubblico, Miss Cobb aveva ancora bisogno di sostenitori. Una cosa era ben chiara: Miss Rieker non si era recata a quella cena per fare la conoscenza di Mrs Cochran. Era lì per montare la guardia. Il pasto fu un’esperienza frustrante, almeno per Mrs Cochran. Quella sera, chiamando il marito, gli confidò di essere esasperata. Jerrie aveva continuato a chiederle che cosa ne pensasse di un programma astronautico per le donne, gli riferì. Ogni volta che glielo domandava, lei le dava la stessa risposta, eppure quella risposta pareva non fare presa, probabilmente perché non era ciò che Miss Cobb voleva sentirsi dire. E così Jerrie tornava a domandare, e Jackie a rispondere. Non erano approdate a nulla. Un mese più tardi, seguitando a sentirsi frustrata per non essere riuscita a trasmettere il proprio punto di vista, Mrs Cochran scrisse a Miss Cobb per illustrarle dettagliatamente la propria posizione: “A Cocoa Beach, ogni volta che mi hai domandato che cosa ne pensassi di un programma del genere per le donne, io vincolavo le mie espressioni di approvazione a un ‘posto che sia organiz-
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zato come si deve’. Ora, forse ciò che ti lascia perplessa è che cosa intendessi esattamente con quelle parole” [19]. Mrs Cochran si spiegò senza mezzi termini. Dal punto di vista della difesa nazionale, c’erano moltissimi uomini qualificati a divenire astronauti, e sarebbero dovuti partire per primi. Se si volevano raggiungere conclusioni a più ampio spettro sull’idoneità femminile, era necessario condurre dei test su un maggior numero di donne. Qualunque programma concepito frettolosamente allo scopo di mettere nello spazio una donna americana sarebbe stato visto come un dramma inutile. “Per una ragione o per l’altra, le donne da sempre sono entrate in ogni era dell’aviazione leggermente più tardi dei loro colleghi maschi. A mio avviso, dovrebbero farsi una ragione di tale ritardo anziché mettersi a infastidire le autorità pubbliche a tal proposito. Arriverà il loro momento, ed esercitare una pressione eccessiva adesso rischia di posticipare ulteriormente quella data invece di avvicinarla. Meglio essere ragionevoli che veloci” [20]. Mrs Cochran raccomandò pazienza, deferenza, e accettazione della posizione di secondo piano delle donne. Jerrie non avrebbe potuto vederla più diversamente. “Non mi accontento di starmene lì seduta ad ascoltare le loro sciocche scuse”, le scrisse, accantonando ogni riserbo [21]. Se qualcuno dubitava seriamente che le donne dovessero diventare astronaute, allora avrebbe dovuto provarlo, allenando e testando delle donne per vedere come se la cavavano! “Per quanto la NASA sostenga di non avere niente contro le donne, di fatto succede che i requisiti che sono stati fissati per poter diventare astronauti le escludano a priori!”. A Miss Cobb, quei requisiti sembravano intrinsecamente e addirittura volutamente ingiusti: tutti gli astronauti dovevano essere piloti collaudatori di jet, ma nessuna donna aveva il permesso di pilotare un jet. Per lei, quella restrizione era un circolo vertiginoso di irrazionalità. Nel tentativo di aprirsi un varco in mezzo a tutti quei ragionamenti insensati, Miss Cobb si appellò all’eccezione fatta dalla NASA per Glenn, che non aveva il diploma di laurea richiesto eppure aveva ricevuto il permesso di accedere ai test per astronauta sulla base di “equipollente esperienza”. Se la NASA e l’esercito statunitense non concedevano alle
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donne di avvicinarsi ai jet, allora, secondo lei, avrebbero dovuto ammetterle sulla base di un’equivalente esperienza di volo. Erano quelle ore in sé e per sé che avrebbero dovuto essere valutate, argomentò, dal momento che mentre si pilota si incontrano di continuo emergenze e problemi imprevisti che mettono alla prova la capacità dell’aviatore di reagire alle sfide in modo efficace. Jan Dietrich, Irene Leverton, B Steadman e Jerrie Cobb avevano più ore di volo di qualunque astronauta del Mercury 72. Scott Carpenter, per esempio, aveva trascorso solo duemilanovecento ore in aria, e quattrocento su un jet. Sorvolare milioni di miglia per migliaia di ore su una miriade di aerei diversi aveva reso quelle donne altrettanto veloci, prudenti e abili dei piloti di aviogetti. Rendendosi conto che il tono del proprio appello si stava alzando, Miss Cobb cercò di trovare un terreno comune con Mrs Cochran. Alla fine riconobbe che ciò che entrambe desideravano era vedere le donne nello spazio, solo che dissentivano completamente sulla maniera di ottenerlo. Mentre lei sognava un programma d’addestramento immediato per le donne, uno sforzo intenso per preparare la prima futura astronauta americana, Mrs Cochran voleva che le donne si mettessero in coda. Avendo messo in tavola le rispettive posizioni, ognuna delle due si apprestò a chiamare a raccolta le Mercury 13 e a portare il proprio caso a Capitol Hill. La prima a mettersi in moto fu Mrs Cochran. Dopo aver fatto delle copie della lettera che aveva inviato a Miss Cobb da Cocoa Beach le distribuì su larga scala, partendo prima di tutto dalle donne del Mercury 13. Jackie desiderava che le candidate sapessero che lei non era favorevole a un programma d’urto per le astronaute, e temeva che Miss Cobb avesse falsato il suo punto di vista. La sua missiva ebbe un impatto piuttosto blando sulla maggior parte delle Mercury. Molte, addirittura, ricordano a malapena di averla letta, anche perché alcune,
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Jan Dietrich aveva 8.000 ore; la Leverton 9.000; la Steadman 8.000; e la Cobb 10.000. Scott Carpenter ne aveva 2.900; Gordon Cooper 2.600; John Glenn 5.100; Virgil Grissom 3.400; Walter Schirra 3.200; Alan Shepard 3.700; e Deke Slayton 3.600. Tutti gli uomini avevano delle ore di jet il cui ammontare andava dalle 400 di Carpenter alle 2.500 di Grissom.
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come Sarah Gorelick, si erano precipitosamente messe a cercare un nuovo impiego dopo che i test di Pensacola erano stati soppressi. Miss Gorelick decise di mantenere flessibile la propria agenda, in caso i test fossero rimessi in programma, e così andò a lavorare come contabile nel negozio del padre [22]. Nonostante molte non le avessero prestato attenzione, la lettera di Mrs Cochran riuscì a guadagnarle qualche alleata tra le dodici donne. Gene Nora Stumbough le rispose affermando di concordare con lei “al 100%”3. Pur desiderando vedere le donne nello spazio, alla fine, Gene Nora spiegò: “Ho solo paura che, assillando quelli che devono prendere le decisioni, stiamo nuocendo a noi stesse”. Non c’è alcun bisogno di addestrare le donne proprio adesso, aggiunse [23]. Oltre a inviarla alle Mercury 13, Mrs Cochran mandò la missiva di Cocoa Beach anche a Randy Lovelace, James Webb, altri funzionari della NASA, politici, e al generale Curtis LeMay, capo di stato maggiore dell’aviazione. Com’era sua consuetudine, si assicurò che le proprie opinioni fossero enunciate in maniera esplicita e che la propria posizione fosse ben chiara, specialmente agli uomini che detenevano il potere. E, sempre com’era sua abitudine, tenne un dossier meticolosamente aggiornato con tutti i ritagli della stampa nazionale che riguardavano le apparizioni pubbliche di Miss Cobb e i suoi briefing per la stampa. Le bastava chiedere alla segretaria di passarle l’incartamento per sapere sempre che cosa stesse dicendo Jerrie. Nel frattempo, Miss Cobb si mise in contatto con Janey Hart, i cui agganci a Washington, tentacolari, potevano essere preziosi. Ciò che ancora Jerrie non sapeva era che la stessa Janey era una combattente formidabile. Più esplicita del marito, ma stratega altrettanto abile di qualunque politico di Washington, Mrs Hart era figlia del milionario di Detroit Walter Briggs, fondatore della Briggs Manufacturing, la più grande fabbrica del mondo di carrozzerie per automobili. Janey
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Riflettendo sulla lettera a quarant’anni di distanza, la Stumbough Jessen disse di essere un po’ pentita del modo in cui aveva espresso le proprie opinioni all’epoca. Si rese conto, infatti, che poteva aver dato l’impressione di non sostenere Miss Cobb e Mrs Hart e la causa in cui credevano.
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crebbe in un mondo fatto di governanti, transatlantici per l’Europa e convitti privati. La sua visione del mondo cambiò allorché, quando era un’adolescente, una delle sue insegnanti, una monaca cattolica di nome Alma Miller, iniziò a discutere con lei della politica del New Deal, incoraggiandola a tenere un diario in cui annotare tutte le domande che le venivano in mente sul governo e sull’assistenza sociale. L’attivismo politico di Miss Hart venne risvegliato. Si schierò con i sindacati, lottò contro la discriminazione, e si pronunciò contro le limitazioni imposte alle donne dalla chiesa cattolica. Entro la fine degli anni Quaranta prese a occuparsi direttamente di politica, organizzando campagne elettorali popolari a favore dei Democratici e alzando il ricevitore per chiamare qualunque importante funzionario governativo quando aveva un’opinione da esprimere4. Le sole volte in cui evitava un confronto erano quelle in cui era talmente furiosa che, secondo le sue stesse parole, sapeva che non sarebbe riuscita a comportarsi in maniera civile. Comunque Mrs Hart ammise che, dopo che i test di Pensacola furono cancellati, “andai fuori dai gangheri”, chiaramente interpretando quella cancellazione come un atto di discriminazione nei confronti delle donne. Janey si rese anche conto, e con lei solo poche altre Mercury 13, che il rifiuto della NASA era parte di un sistema di pregiudizi sociali molto più diffuso, che di fatto limitava le opportunità femminili in quasi tutti i settori della vita americana. Era convinta che la discriminazione operata dalla NASA fosse parte di quello stesso sistema che, per esempio, limitava il numero di donne che avevano accesso a giurisprudenza, che non prevedeva squadre di atletica per le ragazze nelle scuole pubbliche superiori, che richiedeva la firma di un marito o di un padre per per-
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Janey Hart partecipò sempre alle campagne politiche del marito. Quando, durante la sua prima corsa al Senato nel 1957, Philip Hart ebbe bisogno di un mezzo rapido per muoversi di cittadina in cittadina e di fiera statale in fiera statale, Mrs Hart prese il brevetto come pilota di elicotteri. “Il numero 25 di tutto il mondo libero”, ricordò in seguito. Il marito non fu l’unico personaggio politico che trasportò come passeggero. Nel 1960, quando John Kennedy mandò la madre a gestirgli la campagna elettorale nelle città del Michigan, Rose Kennedy volò da Mackinac a Battle Creek con Janey Hart in cabina di pilotaggio.
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mettere a una donna di noleggiare un’automobile. Secondo Mrs Hart, la cancellazione dei test di Pensacola da parte della NASA era solo l’ennesimo esempio di quello scabroso sessismo che in America esisteva nelle scuole, nel mondo degli affari, in politica e perfino nelle chiese. Janey decise di non poter onorare oltre la richiesta di tacere fatta da Randy Lovelace [24]. Dapprima telefonò a Liz Carpenter, nell’ufficio del vicepresidente. Anche se le due donne non si erano mai incontrate avevano operato per anni nei medesimi circoli democratici ed erano accomunate da un profondo rispetto e una grande devozione nei confronti di Lady Bird Johnson5. Mrs Hart sapeva, istintivamente, di potersi fidare di Liz. L’aveva incrociata molte volte alle riunioni, e l’aveva sentita alla radio come addetta stampa di Lady Bird e, in seguito, anche del vicepresidente Lyndon Johnson. Era consapevole di avere un’ideologia politica molto simile alla sua, e sapeva che Miss Carpenter credeva fermamente nella necessità di fornire pari opportunità alle donne. Mrs Hart aveva particolarmente a cuore due ideali, essere fedeli ai propri principi e divertirsi sempre, e Liz pareva realizzarli entrambi. Una volta, mentre la passavano al setaccio in vista di un impiego nell’amministrazione subentrante, avevano chiesto a Miss Carpenter se avesse qualche familiare o qualche amico con un passato potenzialmente in grado di mettere in imbarazzo il presidente. La sua risposta fu: “Sì, migliaia”. Janey adorava quell’aneddoto, ampiamente conosciuto tra i democratici [25]. Liz ascoltò Janey che le riassumeva l’intera vicenda: “stadio uno”, i test ad Albuquerque presso la Lovelace Foundation; “stadio due”, il
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Janey Hart era convinta che Lady Bird Johnson comprendesse la sua irritazione riguardo al ruolo che ci si aspettava fosse ricoperto dalle mogli dei senatori a Washington D.C. Come moglie del vicepresidente, Lady Bird Johnson doveva, in base alla tradizione politica, presiedere un comitato di mogli dei senatori dedito ad attività di volontariato quali arrotolare le bende indossando l’uniforme da crocerossine. Mrs Hart si rifiutò di prendervi parte, trovando quel rituale umiliante e decisamente obsoleto, “roba da fine secolo”, come lo definì in seguito. Così disse a Lady Bird Johnson: “Voi preparate le bende, e io ve le recapiterò dove volete pilotando il mio aereo”. E soggiunse: “Preferirei far rotolare una benda su per Connecticut Avenue con la punta del mio naso, piuttosto che fare una cosa del genere”. A quanto pare, Lady Bird Johnson ne fu divertita e le permise di farla franca.
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test di isolamento a Oklahoma City; e “stadio tre”, i test di simulazione spaziale, bruscamente cancellati a causa della mancanza di “necessità” da parte della NASA. Quando Mrs Hart fece presente che le donne sembravano essere dotate quanto meno dello stesso buonsenso di Enos, una delle scimmie spaziali lanciate dalla NASA, Miss Carpenter rise. Perché lo spazio cosmico doveva essere monopolio degli uomini?, insistette Janey. Liz accettò di esaminare la documentazione messa assieme dal personale del senatore Hart in cui si esponevano per sommi capi le argomentazioni a favore di un programma astronautico per le donne. Accettò anche di parlare direttamente al vicepresidente, per sentire se fosse disposto a incontrare Mrs Hart e Miss Cobb e ad ascoltare le loro ragioni [26]. Mentre attendeva un appuntamento con Lyndon Johnson, e mentre Miss Carpenter chiamava la NASA per ascoltare l’altra versione dei fatti, Mrs Hart scrisse a tutti i membri dei comitati per lo spazio della Camera dei rappresentanti e del Senato allegando il recente discorso tenuto da Miss Cobb al simposio sullo spazio. Mrs Hart definì pretestuosa, nonché un palese espediente, la tesi della NASA secondo la quale alle donne mancava l’esperienza come piloti collaudatori di jet. Il motivo per cui non avevano tale esperienza, scrisse, era che il volo sui mezzi militari era loro precluso, e nessuna compagnia aerea civile era disposta ad assumerle. Senza perder tempo a menare il can per l’aia, Janey andò dritta al punto, parlando di ciò che considerava la causa della discriminazione: la NASA rifiutava di autorizzare i test delle candidate astronaute perché le donne astronauta costituivano una minaccia per il fragile senso di virilità degli uomini. Un programma spaziale per le donne avrebbe potuto essere varato già anni prima, sostenne, se si fosse riusciti a convincere certi uomini che mettere una donna ai comandi di una capsula spaziale “non avrebbe annientato la loro virilità” [27]. Mrs Hart distribuì la propria lettera anche alla stampa, e fu allora che il telefono di casa sua prese a squillare. “Che cosa ne pensa suo marito, il senatore, della sua petizione al Congresso?”, le domandò un cronista. “Non gliel’ho mai chiesto”, fu la replica [28].
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Le sue pressioni funzionarono. Nel giro di pochi giorni dalla richiesta di colloquio, il vicepresidente acconsentì a un abboccamento e Janey telegrafò a Miss Cobb, in Oklahoma, chiedendole di recarsi immediatamente a Washington. Riuscire ad aggiudicarsi il sostegno di Lyndon Johnson sarebbe stato un gran bel colpo. Non solo il vicepresidente aveva guidato l’assemblea legislativa che aveva dato vita alla NASA nel 1958, ma in quel momento era a capo del President’s Space Council ed era il collegamento di Kennedy con la NASA. Cosa ancor più importante, era pure cosciente che i viaggi spaziali promettevano di apportare maggiori benefici alla nazione di quanto sarebbe stata in grado di fare la sola ricerca scientifica. Come Kennedy, anche Johnson era acutamente consapevole che i viaggi nello spazio potevano ispirare un popolo. Si era talmente entusiasmato per l’orbita di Glenn da volare a Grand Turk Island per riaccompagnarlo personalmente a Cape Canaveral [29]. E Johnson desiderava che il suo ruolo di referente per lo spazio per l’attuale amministrazione venisse pubblicamente riconosciuto. Quando, poco dopo, Glenn e famiglia fecero la loro parata trionfale verso il Campidoglio, Johnson era strizzato sul sedile anteriore della decappottabile dell’astronauta. Le persone schierate lungo le strade in quella piovosa giornata di Washington notarono Johnson almeno quanto Glenn. La corporatura massiccia del vicepresidente e i suoi ampi gesti quasi nascondevano l’automobile. Sembrava un grosso bracco eccitato, tutto orecchie e bocca aperta e testa petulante. Prima dell’incontro con Jerrie Cobb e Janey Hart, Lyndon Johnson diede una rapida scorsa al materiale informativo che Miss Carpenter gli aveva preparato. Liz l’aveva invitato a dare un po’ di incoraggiamento alle donne, e aveva steso una bozza di lettera da inviare a James Webb, sulla quale mancava solo la firma del vicepresidente. La missiva, pur senza avallare in modo stentoreo l’idea delle donne astronauta, chiedeva a Webb se ci fosse qualche donna che rispondeva ai requisiti richiesti dalla NASA per gli astronauti o se le donne fossero state scartate per il semplice fatto di essere donne. “Sono certo che concorderai che il sesso non dovrebbe costituire un motivo per escludere un candidato al volo spaziale”, scriveva Miss
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Carpenter in quella che sperava diventasse la lettera di Johnson a Webb. Insieme alla missiva, Liz gli fornì anche una sintesi di entrambi i punti di vista. Scrisse che Miss Cobb e Mrs Hart erano convinte che si sarebbero dovute accettare le donne nel corpo astronautico affinché gli americani potessero battere i russi inviando per primi una donna nello spazio cosmico, nonché per dimostrare che lo spazio non era riservato ai maschi. Da parte sua, la NASA credeva che il volo spaziale fosse ancora troppo rischioso e sosteneva che le donne sarebbero state prese in considerazione una volta che orbitare fosse diventata una procedura abituale. Miss Carpenter parlò anche dell’insistenza della NASA a proposito dell’esperienza come piloti collaudatori di jet. Le sue indicazioni per Johnson erano chiare: ascolta la loro istanza, mostra la lettera per Webb e offri il tuo sostegno. “Penso che se riuscisse a dare a Miss Cobb e a Mrs Hart qualche speranza potrebbe ricavarne un’ottima pubblicità”, scrisse nelle sue note al vicepresidente. “La questione delle donne astronauta sta diventando un affare grosso, e odio l’idea che vengano fin qui per poi andarsene senza aver ottenuto alcun incoraggiamento” [30]. In effetti la faccenda delle donne nello spazio era finita sotto i riflettori della stampa, grazie alle interviste concesse ai reporter da Miss Cobb e da Mrs Hart. La mattina in cui incontrarono Lyndon Johnson, il membro del Congresso Ken Hechler, del West Virginia, perorò a gran voce la causa delle donne astronauta, pubblicando sul Congressional Record una copia del recente discorso pronunciato da Miss Cobb al simposio sulle donne nello spazio. Hechler fece precedere il messaggio di Jerrie dai propri commenti in veste di membro del Comitato per la scienza e l’astronautica della Camera dei rappresentanti. “Personalmente, sono convinto che dovremmo prendere in seria considerazione l’idea di includere le donne tra i nostri futuri astronauti”, disse [31]. Anche diversi rubricisti avevano iniziato a intervenire da varie parti del Paese. Un corrispondente scientifico del Dallas Times Herald espresse il proprio biasimo senza andare tanto per il sottile: “Lasciamo che votino. Lasciamo che indossino i pantaloni. Lasciamo che giochino a biliardo. Ma, per favore, signor vice-
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presidente, non lasciamole andare nello spazio!”. La rubrica comprendeva una finta conversazione tra delle astronaute ai comandi di una capsula spaziale orbitante – conversazione fitta di stereotipi sulla mancanza di conoscenze tecniche da parte delle donne, sulla loro passione per la decorazione d’interni e sulla loro sbadataggine. “Quel piccolo arnese ha scrollato via l’aggeggio”, afferma una delle donne. La rubrica era affiancata da una vignetta in cui era disegnata la Geranium 7, abbellita da tendine legate con un nastrino e ghirlande intrecciate di fiori. Una caricatura di Lyndon Johnson fissava orripilata la capsula ornata di gale e volant [32]. Jerrie Cobb giunse a Washington con un giorno d’anticipo, allo scopo di incontrare una vecchia conoscenza dell’Oklahoma, il senatore Robert Kerr, che all’epoca era presidente del Comitato per le scienze spaziali e aeronautiche. Kerr ordinò il silenzio stampa sul loro abboccamento, nel tentativo di evitare che la questione delle donne astronauta ricevesse ulteriore pubblicità proprio dal suo ufficio. Per quanto gli altri vedessero nel suo gesto una presa di distanza dalla questione delle donne nello spazio, a Miss Cobb parve che il senatore fosse pronto a offrire tutto l’aiuto possibile [33]. In realtà, Jerrie fraintese le sue intenzioni. Nei mesi che seguirono, Kerr non si servì mai del proprio notevole potere per convincere i colleghi di Capitol Hill, o la NASA, che Miss Cobb e le altre meritassero una chance di diventare astronaute. Come avveniva spesso, la nostra aveva commesso l’errore di scambiare la semplice cortesia per una volontà di impegnarsi. Il giorno successivo, l’aviatrice incontrò Janey Hart nutrendo altrettanta fiducia nel fatto che Lyndon Johnson volesse aiutarle. Le due donne ebbero poco tempo per conoscersi e ricapitolare rapidamente i punti di cui volevano parlare e quella che speravano fosse la migliore strategia da usare. Volevano riuscire a far capire al vicepresidente l’importanza di avere delle astronaute donne per i dati scientifici che il volo di una donna avrebbe prodotto e per la possibilità di sconfiggere i russi. Secondo Mrs Hart, la Russia avrebbe lanciato una donna già nell’autunno. Miss Cobb desiderava fare pressione per ottenere un programma intensivo di addestramento
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per le donne, da iniziarsi immediatamente. Ciò di cui non discussero era che cosa volessero le altre donne pilota. Era trascorso quasi un anno da quando le donne del Mercury 13 avevano superato i test medici per astronauti di Albuquerque, eppure le rispettive identità non erano ancora state rese note. Jerrie conosceva tutti i nomi, così come li conosceva Jackie Cochran, che chiedeva costantemente a Lovelace di tenerla al corrente dei cambi di indirizzo delle donne. Tuttavia le varie candidate non sapevano chi fossero le altre che avevano brillantemente superato i test. Miss Cobb indirizzava i propri aggiornamenti alle “F.L.A.T.”, senza mai elencare i nomi delle colleghe. Dopo il telegramma in cui annunciava che i test di Pensacola erano stati soppressi, non c’erano più state comunicazioni da parte di Randy riguardo alle Mercury; e, cosa ancor più importante, le tredici donne non si erano mai incontrate come gruppo per discutere i propri obiettivi o la propria strategia. L’incontro collettivo proposto da Lovelace non era mai avvenuto perché la Marina aveva cancellato i test di Pensacola prima che le donne avessero avuto la possibilità di riunirsi in Florida. Il risultato fu che Miss Cobb e Mrs Hart si prepararono ad affrontare l’incontro con Johnson senza avere alle spalle il parere, il dibattito e l’appoggio del gruppo [34]. Per esempio, le due ignoravano che Gene Nora Stumbough non fosse favorevole a un programma immediato per le donne astronauta. Allo stesso modo, erano all’oscuro di alcuni agganci che sarebbero potuti risultare utili per raggiungere i loro scopi, quali il fatto che Jerri Sloan conoscesse Lyndon Johnson. Mentre salivano la scalinata principale che portava all’anticamera del Senato, al Campidoglio, Mrs Hart e Miss Cobb speravano che le loro parole fossero sufficienti. Il vicepresidente aveva accettato di incontrarle alle 11 del mattino nel proprio ufficio, di fronte alle aule del Senato. Un vero maestro di “collocazione politica”, Johnson aveva tenuto il proprio ufficio, in posizione strategica rispetto al Senato, anche dopo la nomina a vicepresidente. I giornalisti che bazzicavano Capitol Hill si riferivano al ricercato locale che alloggiava l’ufficio P-38 chiamandolo il “Taj Mahal”: era una stanza grandiosa, con vista sulla Corte suprema, un
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enorme lampadario a bracci in cristallo, e un soffitto dagli affreschi elaborati [35]. Johnson si affrettò a raggiungere il luogo dell’incontro dopo aver presenziato a una cerimonia della firma con Kennedy, alla Casa Bianca. Il vicepresidente aveva solo un’ora per parlare con le donne, afferrare al volo qualcosa da mangiare e prepararsi ad aprire la sessione di mezzogiorno del Senato. Mentre usciva ad accoglierle nell’anticamera del proprio ufficio, le donne raccolsero i taccuini e tesero le mani per salutarlo. Miss Cobb si concentrò immediatamente sui vantaggi scientifici che potevano derivare dall’invio di una donna nello spazio. Gli illustrò gli stessi punti che andava ripetendo da quasi due anni: le donne pesavano meno, mangiavano meno, consumavano meno ossigeno rispetto agli uomini. Quindi, per lanciare una donna nello spazio ci sarebbe stato bisogno di meno propellente. Studi recenti, spiegò, dimostravano che le donne davano prova di una sorprendente capacità di tollerare l’isolamento e l’inattività. Riassunse poi il test a cui si era sottoposta con successo nella vasca d’isolamento del dottor Shurley, a Oklahoma City, e raccontò come anche Wally Funk e Rhea Hurrle fossero andate altrettanto bene. Le ultime ricerche, continuò, rivelavano che le donne potevano sopportare più calore, più rumore e più vibrazioni rispetto agli uomini [36]. Davanti a simili risultati, concluse, com’era possibile che il governo degli Stati Uniti decidesse di smettere di esaminare le donne quali potenziali candidate astronaute? [37]. A quel punto, Mrs Hart aggiunse la sua. Lo spazio non avrebbe dovuto venire circoscritto come un ambiente per soli uomini, affermò. Sostenere che le donne desideravano solamente starsene a casa, strette alle loro cucine, era un’idea antiquata. Le donne volevano esplorare l’universo, e aspiravano a spingersi fino ai limiti consentiti dalle loro capacità, esattamente come gli uomini. Inoltre, aprire quella porta alle donne era parte di un più ampio impegno nazionale a raggiungere l’equità e la giustizia per tutti gli americani. Come Johnson ben sapeva, lo stesso presidente Kennedy aveva annunciato, proprio il giorno in cui Glenn aveva orbitato intorno alla Terra, di star costituendo una Commissione sulla situazione delle donne. In un ordine esecutivo tra-
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smesso a tutte le agenzie governative, il presidente aveva chiarito che “le donne hanno diritto a pari opportunità di impiego nel governo e nell’industria. Ma una mera dichiarazione a sostegno delle pari opportunità deve essere attuata tramite azioni assertive che dimostrino che le porte che conducono all’addestramento, alla selezione, al progresso e a pari retribuzioni sono davvero aperte” [38]. Alla fine le donne sarebbero comunque giunte a esplorare lo spazio cosmico, concluse Mrs Hart. Perché non iniziare il prima possibile? [39]. Johnson si abbandonò all’indietro. Sopra di lui, sul soffitto, quattro affreschi allegorici immortalavano l’ambizione umana. Tutte e quattro le figure ritraevano delle donne, con indosso abiti solenni, che lo fissavano [40]. Congiungendo le mani, il vicepresidente appoggiò le ampie spalle contro lo schienale della sedia in cuoio. Jackie Cochran l’aveva guadagnato alla causa delle aviatrici molti anni prima, esordì [41]. Di fatto, una volta gli aveva salvato la pelle, politicamente parlando. Aiuto che non si era scordato. Nel 1948, durante gli ultimi giorni della sua corsa al Senato in occasione delle primarie, una colica dovuta a dei calcoli renali l’aveva piegato per il dolore, causandogli febbre alta e una pericolosa infezione. Non poteva permettersi di staccare per affrontare un intervento chirurgico: perdere dei giorni durante la campagna si sarebbe rivelato politicamente letale. Quando era venuta a sapere del ginepraio in cui si trovava, Mrs Cochran si era ricordata che un noto urologo britannico era in visita alla Mayo Clinic. Chiamando uno degli organizzatori della sua campagna, Jackie l’aveva avvisato che si sarebbe presentata all’1.30 all’ingresso del pronto soccorso dell’ospedale in cui Johnson era ricoverato e l’avrebbe portato in Minnesota a bordo del suo Lockheed Electra, e così fece. Johnson venne liberato dal dolore senza bisogno di ricorrere alla chirurgia, e poté tornare alla campagna elettorale nel giro di due settimane. Il vicepresidente non dimenticava favori personali come quello [42]. Molte minoranze stavano reclamando l’attenzione della NASA, proseguì. Anche loro volevano andare nello spazio. Se gli Stati Uniti avessero permesso alle donne di diventare astronaute, allora anche i neri, i messicani, i cinesi e altri gruppi avrebbero voluto volare. Miss
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Cobb sedeva, ascoltando educatamente, con un’aria compassata nel suo abito confezionato su misura e una collana di perle a tre fili. Che cosa c’era di male se le minoranze entravano in astronautica, se erano qualificate? Johnson non rispose, e allora lei proseguì: se il vicepresidente stava suggerendo che solo i cittadini appartenenti alla maggioranza dovessero venire lanciati nello spazio, allora le donne avrebbero dovuto essere prese in considerazione. Di sicuro non erano una minoranza, rifletté, né in termini numerici né di ricchezza, di voti o di imposte versate. Protendendosi verso di loro con fare afflitto, Lyndon Johnson le fissò dritte in viso e disse la sua ultima parola. Per quanto gli sarebbe piaciuto aiutare la causa delle donne astronauta, in realtà si trattava di una questione da sottoporre a James Webb e a quelli della NASA. Gli dispiaceva doverlo dire perché desiderava veramente tanto dare una mano, ma proprio non era a lui che dovevano rivolgersi. Ponendo fine all’abboccamento, il vicepresidente si mise al telefono [43]. Janey Hart era furibonda. Sapeva che il vicepresidente stava solo “mettendo su una scenetta per dare l’impressione di essere dispiaciuto di doverci dire di no” [44]. Era chiaro che, nonostante una sua parola a Webb avrebbe potuto fare un’enorme differenza, non avrebbe dato manforte alla loro causa. Ciò che Mrs Hart non capiva era perché non volesse farlo. Lasciando l’ufficio di Johnson, Mrs Hart e Miss Cobb trovarono una folla di giornalisti ad attenderle nell’atrio del Campidoglio. Janey rimase ritta in piedi, le braccia rigidamente conserte e il taccuino calcato nella piega del gomito. In quell’istante, le sue massime ambizioni parevano essere comportarsi educatamente e tenere a bada la rabbia. Jerrie indugiò presso la parete, il viso irrigidito in un sorriso stereotipato. “Mi auguro che da questi incontri possa uscire qualcosa”, commentò compita mentre i reporter prendevano freneticamente appunti sui propri bloc-notes. Più tardi, i servizi giornalistici riferirono che due aspiranti “astronautine” avevano perorato la propria causa a Washington. Il vicepresidente, servendosi del gergo in uso a Cape Canaveral, aveva dichiarato che le donne erano “A-OK”, ovvero in perfetta forma, ma che non spettava a lui prendere quella decisione [45].
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Miss Cobb e Mrs Hart non videro mai la lettera che Miss Carpenter aveva abbozzato perché il vicepresidente la firmasse e la inviasse a Webb. [46] Johnson decise di non mostrarla alle due donne in quanto non aveva la minima intenzione di sottoscriverla. Non voleva chiedere a Webb di approfondire la questione delle donne astronauta. Forse, dirà in seguito Liz Carpenter, Johnson temeva che dare il via a un programma per le donne avrebbe messo a repentaglio tutto [47]. Estraendo la penna, il vicepresidente gettò la bozza di Miss Carpenter sull’ampia scrivania e prese a scribacchiare energicamente in fondo al foglio. Nella sua caratteristica calligrafia, Lyndon Johnson emise la sentenza che né Mrs Hart, né Miss Cobb, né la stampa avrebbero mai conosciuto: “Fermiamo questa cosa! Adesso!” [48].
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Dopo che si sparse la voce dell’abboccamento di Miss Cobb e Mrs Hart con Lyndon Johnson, nell’ufficio del vicepresidente iniziarono a fioccare moltissime lettere, che vennero smistate tra i giovani tirocinanti per essere evase. La maggior parte era di donne che facevano pressione affinché Johnson appoggiasse la causa di Jerrie e Janey. “Credo che l’intelligenza, il patriottismo, l’intraprendenza e la capacità creativa delle donne siano le risorse più sprecate in questo Paese”, scrisse una donna [1]. Altre, ispirate dall’idea delle donne nello spazio, si offrirono volontarie per il lavoro in campo astronautico. “Sono una donna americana nera. Ho passato la quarantina. Sono in buona salute. Penso che ci sia un lavoro per me, nel programma. Per favore, datemi la possibilità di essere d’aiuto” [2]. Ovviamente, non tutte le lettere erano favorevoli. Una, firmata semplicemente “Uno scapolo”, lamentava il fatto che ormai si stava arrivando al punto che un uomo non poteva più andare da nessuna parte senza ritrovarsi una donna tra i piedi [3]. Anche Jerrie Cobb ricevette diverse missive, nessuna delle quali probabilmente la appoggiava tanto quanto quella del direttore della ricerca della U.S. Naval School of Aviation Medicine di Pensacola. Come molti medici, sia della Lovelace Foundation che di Pensacola, anche lui desiderava che il programma per le donne astronauta proseguisse e rimase deluso dall’improvvisa cancellazione dei test. Scrivendo a Miss Cobb, l’uomo si congratulò con lei per aver esercitato delle pressioni su Lyndon Johnson, e aggiunse che il suo impegno rappresentava “la crociata più grande da quando voi ragazze avete fatto approvare il suffragio femminile” [4]. M. Ackmann, Mercury 13 © Springer-Verlag Italia, Milano 2011
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Pur senza essere a conoscenza dell’ordine di Johnson di bloccare l’evoluzione di qualunque programma astronautico per le donne, Miss Cobb e Mrs Hart riconobbero che la loro istanza al vicepresidente non era stata accolta in maniera molto entusiasta. Era rimasta ancora una strada da percorrere, forse l’unica, che avrebbe potuto costringere la NASA a procedere con i test di Pensacola. A marzo, Mrs Hart scrisse ai membri dei Comitati per lo spazio di Camera e Senato, sollecitandoli a prendere in considerazione l’idea di fissare un’udienza con una sottocommissione per accertare se fosse in atto una discriminazione contro le donne in seno al programma aerospaziale statunitense [5]. Dal momento che era il Congresso a stanziare i fondi per la NASA, James Webb avrebbe preso sul serio qualunque scoperta fatta da Capitol Hill. Il ricorso di Mrs Hart al Senato cadde nel vuoto. Il senatore dell’Oklahoma, Robert Kerr, l’influente presidente del Comitato per le scienze aerospaziali del Senato, non si offrì di convocare alcun dibattimento. Mentre era sempre pronto a crogiolarsi nella luce riflessa dei successi aviatori di Jerrie, e pur essendosi dimostrato eccezionalmente abile nel portare con successo in Oklahoma progetti elettorali incentrati sullo spazio, non le avrebbe aiutate. Era anche contrario a esercitare pressioni personali su Lyndon Johnson, di cui era buon amico, perché riconsiderasse la propria posizione. Il Senato non si sarebbe battuto per le astronaute. La Camera dei rappresentanti, invece, mostrò maggiore interesse nei confronti dell’istanza di Mrs Hart. Un incontro fortuito tra Miss Cobb e il presidente del Comitato per lo spazio della Camera guadagnò ulteriori possibilità di arrivare al dibattimento [6]. Entro la metà di giugno era ufficiale: il Comitato per le scienze e l’astronautica della Camera avrebbe indagato la presunta discriminazione del governo nei confronti delle donne all’interno del programma spaziale nazionale. Le indagini preliminari sarebbero state avviate fin da subito, e le udienze vennero fissate per luglio [7]. Victor Anfuso, democratico membro del Congresso per lo Stato di New York, accettò di presiedere la sottocommissione straordinaria, composta da undici membri tra i quali erano annoverate le uniche
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due donne appartenenti al Comitato plenario1. Pur promettendo di mantenere la mente aperta, Anfuso era convinto che Miss Cobb e Mrs Hart potessero aver ragione. Le leggi vigenti potrebbero aver bisogno di qualche revisione, ammise. Anfuso sapeva che solo agli uomini era permesso diventare piloti militari collaudatori di jet, e che quindi nessuna donna avrebbe potuto soddisfare quel particolare requisito voluto dalla NASA [8]. I progetti iniziali per le udienze erano ambiziosi. Anfuso voleva sentire numerosi testimoni, incluse le Mercury 13, diversi funzionari della NASA, il dottor Randy Lovelace, Jacqueline Cochran, alcune scienziate, forse addirittura le ex first lady Eleanor Roosevelt e Bess Truman. Il dibattimento di Washington sarebbe durato tre giorni, ed erano state fissate udienze successive a New York, nel Midwest e in California [9]. Jackie Cochran, restia a parlare con Miss Cobb dopo quella che considerava la loro “conversazione fiasco” a Cocoa Beach, chiamò Janey Hart per invitarla a pranzo nel suo grande appartamento di Manhattan. Mrs Hart sapeva che era altamente probabile che le sue idee politiche progressiste finissero per scontrarsi con il punto di vista conservatore di Miss Cochran. Sei anni prima, Jackie era scesa in lizza per il Congresso per i repubblicani nel suo distretto californiano, senza successo. Conosceva molto bene Capitol Hill, e sicuramente considerava Phil Hart una delle voci più progressiste del Senato. Ma Mrs Hart era abituata a sottoporre le proprie idee a un pubblico poco ricettivo, e sapeva anche che era molto più importante riuscire a convincere Mrs Cochran che tenerle un sermone. Avrebbe ascoltato quello che la sua ospite aveva da dire, e poi le avrebbe espo-
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Le due donne facenti parte della sottocommissione straordinaria erano Jessica McCullough Weis, repubblicana di New York, e Corinne Boyd Riley, democratica del South Carolina. La Riley, un membro del Congresso per “vedovanza”, era stata eletta per portare a termine il mandato del defunto marito. Era entrata nel Congresso solo tre mesi prima delle udienze per le astronaute, totalmente inesperta e con scarse conoscenze riguardo alle questioni dello spazio. Contribuì poco al dibattito, parlando solo quando veniva espressamente invitata a farlo dal presidente della sottocommissione, Anfuso. La Weis rimase in carica al Congresso dal 1959 al 1963. Nel 1962 non si candidò alle rielezioni per motivi di salute. Morì l’anno successivo.
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sto la propria opinione. Aveva fatto spesso campagna elettorale per il marito nelle zone a maggioranza tradizionalista che circondavano Detroit. Era abituata ad avere l’addetta stampa del senatore Hart sul fondo della stanza, a braccia conserte, che si irrigidiva quando sterzava un po’ troppo a sinistra. Al primo segnale di imbarazzo, Mrs Hart si ritirava e moderava le proprie osservazioni [10]. Non ci sarebbe stata nessuna addetta stampa a lanciarle segnali durante il pranzo con la Cochran, ma Janey pensava di essere in grado di captare da sola la temperatura nella sala. Il foyer di New York di Mrs Cochran, come quello del suo ranch di Indio, proiettava un’istantanea impressione di potere e di successo. I numerosi trofei di Jackie erano esposti nel salone principale: record mondiali, gare aeree, encomi presidenziali. Sul pavimento era raffigurata un’enorme bussola aeronautica. Mrs Hart si diresse a sud, verso la sala da pranzo, passando sulla scritta apposta proprio sul centro della bussola. “Punto di partenza.” Per quanto ci abbia provato, durante le numerose ore che seguirono Mrs Hart non riuscì a convincere Mrs Cochran che si sarebbe dovuto permettere alle Mercury 13 di continuare con i test così da farle prendere in considerazione come serie candidate astronaute. Jackie era convinta che fosse meglio ricominciare da capo, organizzando un programma di test per le donne su più ampia scala. Con solo tredici donne sottoposte ai test di Lovelace, l’aviatrice temeva che troppe tra loro si sarebbero sposate, o avrebbero avuto figli, lasciando il programma sguarnito dei numeri necessari. Era anche convinta che gli uomini venissero prima, e che le donne non dovessero intralciare gli importanti obiettivi del programma spaziale. Pur sforzandosi di rimanere rispettosamente ad ascoltare, Mrs Hart non riusciva a credere alle proprie orecchie. Ciò che la scioccava maggiormente era che Jackie si stesse servendo delle stesse argomentazioni contro le quali si era battuta così duramente mentre organizzava le WASP. Vent’anni prima, Mrs Cochran aveva affrontato generali ostili, un governo renitente e degli avieri che si sentivano minacciati, ed era riuscita a convincere tutti quanti che addestrare delle donne per farle volare sugli aeroplani dell’Aeronautica
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militare non fosse una perdita di tempo. Le donne avevano talento, aveva sostenuto, e desideravano servire il proprio Paese. Ora stava usando i ragionamenti opposti per mettere in stallo il programma astronautico per le donne. Mrs Hart era sconcertata. Non capiva perché Mrs Cochran avesse investito del denaro nei test delle donne, un anno prima, e ora volesse impedirne la continuazione. “C’era qualcosa che la infastidiva terribilmente”, dirà Janey in seguito. Forse desiderava semplicemente più trofei da esporre nel proprio foyer, più titoli di testa e più riconoscimenti. Se Jackie Cochran non poteva essere la prima donna nello spazio, allora forse non voleva che nessun’altra donna avesse quell’opportunità2 [11]. Per quanto non le fosse piaciuto ciò che aveva ascoltato durante quel pranzo, Mrs Hart dovette ammettere che Jackie era stata schietta con lei. Poco dopo il loro colloquio, Mrs Cochran le inviò una bozza della deposizione che avrebbe reso alle imminenti udienze della sottocommissione, alle quali ormai mancava solo un mese [12]. Jackie spedì la bozza anche a James Webb e ad altri funzionari della NASA, al capo di stato maggiore dell’Aeronautica, agli ammiragli della Marina al Pentagono, e a Randy Lovelace. La mandò anche a Gene Nora Stumbough, sentendo di avere un’alleata nella giovane donna pilota, e suggerendole, qualora non potesse presenziare al dibattimento, di inoltrare direttamente a lei qualunque commento. Jackie desiderava tenere Miss Cobb il più a lungo possibile fuori dai discorsi, e voleva approfittare delle divergenze di opinioni che si erano create in seno alle Mercury 13 [13]. Jerrie Cobb non si era nemmeno resa conto che ci fossero opinioni diverse tra le Mercury. Era diventata la loro portavoce sempli-
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Altri concordarono con Mrs Hart. La rubricista Phyllis Battelle, articolista di un’agenzia di stampa, si servì di un pezzo per chiedere come mai Mrs Cochran non appoggiasse un programma immediato per le donne astronauta. La Battelle si domandò: “Può essere che stia salvaguardando il suo eccezionale numero di record di velocità, distanza e quota?” Esternando la propria opinione in merito al fatto che Mrs Cochran temesse di vedere bloccate le donne astronauta da una gravidanza, la Battelle proclamò: “Sono pronta a scommettere il mio ultimo adorato cimelio delle Bobbsey Twins che le donne coinvolte in un impegno spaziale ben organizzato prenderebbero tutte le precauzioni possibili per evitare che problemi di salute o di cuore intralcino il loro ruolo nella storia della scienza”.
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cemente perché era arrivata al microfono per prima. Dirà spesso di aver iniziato a parlare per le Mercury per mancato intervento altrui. Di fatto, Jerrie Cobb, Janey Hart, le gemelle Dietrich e Sarah Gorelick erano le uniche il cui legame con il programma astronautico per le donne fosse pubblicamente noto3. La maggior parte delle altre osservava ancora il voto di segretezza e seguitava a tenere celata la propria identità, temendo di fare qualcosa che potesse mettere a repentaglio le chance del gruppo. Oltre a parlare per il gruppo, Miss Cobb evidentemente pensava a se stessa come alla leader delle Mercury. Inviava loro aggiornamenti informandole sulle persone a cui si era appellata, inoltrava ritagli di giornale, e raccontava dei test nei numerosi discorsi che pronunciava in giro per il Paese. Grata per il lavoro di collegamento che stava svolgendo e riconoscente per la poderosa spinta che stava tentando di imprimere ai test di Pensacola, la maggior parte delle donne la accettò quale rappresentante del gruppo. Tuttavia, a mano a mano che le udienze si avvicinavano, alcune di loro, tra cui la sua cara amica Jerri Sloan, si augurarono che Miss Cobb coinvolgesse maggiormente le altre. Nei casi in cui doveva parlare nel suo ruolo di personaggio pubblico, Jerrie continuava a tenersi accanto un’alleata fidata come la spigliata Jane Rieker. Ma quando si trattò di prendere delle decisioni riguardo al programma “Ragazze nello spazio”, lo fece da sola. In seguito Miss Sloan dirà che Jerrie era talmente abituata al volo in solitaria, e ad agire in maniera indipendente, che spesso nemmeno le passava per la mente di coinvolgere anche altri riguardo al da farsi [14]. In realtà, ci fu un altro motivo per cui Miss Cobb non radunò le donne per chiedere la loro
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Jackie Cochran ebbe un ruolo chiave nello svelare le identità sia delle Dietrich che della Gorelick. Per quanto la facesse arrabbiare che Miss Cobb creasse pubblicità attorno alla vicenda, fu proprio lei a scrivere l’articolo di Parade in cui le Dietrich vennero identificate come candidate di Lovelace. Fu sempre lei, inoltre, a svelare l’identità della Gorelick. Di passaggio nella città natale di quest’ultima, Kansas City, per un discorso che doveva pronunciare, raccontò ai reporter dei test e della parte che Miss Gorelick aveva in essi. In seguito la Gorelick ammetterà di essere rimasta “di sasso” davanti alla rivelazione di Mrs Cochran. “Avevamo giurato di non parlare a nessuno dei test”, rammenterà, “ed ecco lì Jackie che violava la consegna”.
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opinione: era convinta di saperne più di loro. Dal momento che le altre non erano a conoscenza di tutti i dettagli e i retroscena del programma, dirà più tardi lei stessa, non si trovavano nella posizione di sapere quali azioni fosse meglio intraprendere. Quando si trattava di pianificare la strategia e di decidere chi pungolare e quanto a fondo spingere, era lei a deliberare. Mentre volava a Washington da Oklahoma City a bordo del suo Aero Commander, per deporre davanti alla sottocommissione, Miss Cobb era ottimista. Pur avendo un sacco di spazio per ospitare altri passeggeri non prese con sé nessuna delle Mercury, nemmeno Jerri Sloan, che viveva nella vicina Dallas, o Sarah Gorelick, da Kansas City. Invitò invece ad unirsi a lei Jane Rieker, la giornalista di Life, e Cathryn Walters, l’assistente alla ricerca del dottor Shurley nell’esperimento della vasca d’isolamento. Miss Walters era diventata una sostenitrice di Miss Cobb ed era pronta a testimoniare, in caso le fosse stato richiesto, riguardo alla sua permanenza da record nella vasca. La sottocommissione, che era responsabile della selezione dei testimoni, non l’aveva invitata [15]. Il numero di testi era stato drasticamente ridotto nel corso del mese di preparazione. Anfuso aveva accorciato anche l’elenco delle udienze stesse, eliminando quelle di New York, del Midwest e della California, e mantenendo solo le tre giornate di Washington. Per il gruppo delle Mercury 13 sarebbero state sentite solo Miss Cobb e Mrs Hart. Per la NASA, i testimoni erano George Low, direttore delle missioni spaziali presso il dipartimento che si occupava del volo spaziale con equipaggio umano, e l’astronauta John Glenn, che di recente aveva portato a termine la propria orbita attorno alla Terra. Stando a quanto ebbe modo di sapere Miss Cobb, il motivo per cui le udienze erano state tagliate era che il presidente del Comitato per le scienze e l’astronautica della Camera, George Miller, aveva esercitato delle pressioni su Anfuso, imponendogli di sentire solo due rappresentanti per parte. A quel punto, Mrs Cochran si servì della propria influenza politica per convincere Miller, californiano come lei, a includerla come testimone. Avendo accettato di affiancarla a Miss Cobb e a Mrs Hart, la sottocommis-
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sione permise alla NASA di schierare un terzo rappresentante per la propria parte, nella persona dell’astronauta Scott Carpenter [16]. Nessun altro venne ufficialmente invitato a deporre, neppure Randy Lovelace né altri dal Pentagono o dalla School of Aviation Medicine di Pensacola. Essendo l’artefice dei test per le donne, nonché il presidente del Comitato straordinario per le scienze naturali della NASA, l’assenza di Lovelace saltava particolarmente all’occhio. Nessuno sapeva se fosse semplicemente stato ignorato, o se invece lui stesso avesse deciso che il patrocinio pubblico di un programma per le donne avrebbe rischiato di danneggiare le sue opportunità di continuare a essere coinvolto nei progetti della NASA [17]. Di sicuro, lui era l’unico che avrebbe potuto descrivere gli scopi originari dei test, parlare della loro genesi con Don Flickinger, e dei contributi scientifici che le donne astronauta avrebbero potuto apportare al programma spaziale. Jackie Cochran lo contattò per sondare la sua opinione prima dell’udienza, e lui le rispose in un memorandum esauriente, dicendole che l’unico modo in cui gli scienziati avrebbero potuto scoprire come si sarebbero comportate le donne nello spazio era quello di continuare a fare esperimenti a terra. Esperimenti come quelli annullati a Pensacola. Secondo le sue previsioni, ci sarebbero voluti almeno cinque anni prima di ottenere risultati scientifici significativi sulle donne, due in più rispetto a quanto richiesto dai test e dall’addestramento degli uomini. Randy scrisse che lui e Flickinger avevano dato il via al programma perché erano convinti che sarebbe andato a colmare una necessità futura. Non si aspettavano che una donna sedesse nella capsula spaziale nell’immediato [18]. La sera precedente l’udienza, Mrs Cochran lo interpellò di nuovo via telefono. L’opinione dell’uomo era immutata: non si doveva mandare una donna ad addestrarsi a Cape Canaveral all’istante, ma i test alle Mercury 13 dovevano andare avanti. La mattina di martedì 17 luglio, Jerrie Cobb entrò nella sala delle udienze della commissione del Congresso rendendosi conto che i tre giorni a seguire avrebbero determinato il suo futuro. Se era rimasta qualche speranza di far volare una donna americana nello spazio, quella speranza si trovava lì, ne era certa [19]. Erano trascorsi quasi
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tre anni da quando aveva incontrato Don Flickinger e Randy Lovelace sulla spiaggia di Miami e aveva scoperto del loro interesse a testare una donna pilota per verificare se fosse possibile fare di lei un’astronauta, e quasi due da quando aveva sorpreso i medici con la propria fibra fisica e psicologica. Pur avendo incontrato resistenza da parte della NASA, del senatore Kerr e del vicepresidente Lyndon Johnson, Jerrie era convinta che durante i tre giorni successivi sarebbe riuscita a esporre con successo le proprie ragioni. Mentre gli spettatori entravano ordinatamente nella sala delle udienze, Miss Cobb salutò Janey Hart, presentandola alla Rieker e alla Walters. Mrs Hart era preoccupata che, non avendo confrontato le rispettive bozze, la sua versione e quella di Jerrie potessero sovrapporsi. In ogni caso, ormai non c’era più tempo per le revisioni. Anfuso invitò i membri della sottocommissione a sedersi, e la fitta folla e i rappresentanti della stampa presero posto nelle file dietro al banco dei testimoni. La prima a parlare sarebbe stata Miss Cobb. Jerrie aveva accuratamente riempito la minuta del proprio discorso di barre che segnalavano i punti in cui doveva fare delle pause tra una frase e l’altra e le parole da enfatizzare, e si era segnata sui margini quando doveva sorridere. Tutte le frasi che avevano provocato delle risate in occasione delle sue precedenti conferenze erano state inserite nel testo. Aveva provato molte volte il proprio discorsetto, e aveva preso appunti sull’impressione che avrebbe dovuto trasmettere. “Mai scusarsi, nessuna soggezione, padronanza di sé”, le rammentava il suo stesso stampatello, minuto e accurato [20]. Per la donna taciturna che dodici anni prima era uscita dall’aula di retorica del college in preda alla frustrazione, testimoniare davanti a una sottocommissione del Congresso degli Stati Uniti appariva altrettanto inverosimile che recarsi sulla Luna. Alle dieci in punto, Anfuso dichiarò aperta la seduta. Quando aveva appreso che era stato nominato Anfuso a presiedere le udienze, Mrs Hart aveva espresso a Mrs Cochran la propria preoccupazione. A Capitol Hill, infatti, Janey aveva sentito dire che l’uomo non aveva intenzione di ripresentarsi alle elezioni, e temeva che potesse affrontare il dibattimento senza alcun interesse, limitandosi ad attendere
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passivamente lo scadere di quegli ultimi mesi di mandato4. “Signore e signori”, esordì lui. “Ci troviamo qui oggi per prendere in esame l’importantissima questione di stabilire, a completa soddisfazione della commissione, quali siano i requisiti fondamentali necessari per la selezione e l’addestramento degli astronauti” [21]. Ciò che Anfuso disse in seguito rincuorò Mrs Hart. L’uomo pareva comprendere che ciò cui le donne aspiravano era il diritto di poter contribuire con le proprie capacità a una causa nazionale. “In particolare, ci preme che le doti richieste non siano giudicate o definite a priori per il fatto che a esserne dotati siano degli uomini o delle donne. Al contrario, è nostro profondo desiderio che vengano utilizzate tutte le risorse umane”, soggiunse [22]. Quindi proseguì illustrando l’ordine del giorno. Alla deposizione di Miss Cobb sarebbe seguita quella di Mrs Hart; poi ci sarebbero state le domande e, in tarda mattinata, sarebbe toccato a Mrs Cochran, che ancora non era arrivata. Protendendosi in avanti sulla sedia in cuoio, posta di fronte alla sottocommissione, Jerrie Cobb diede il via alla propria perorazione nella lenta e guardinga cadenza dell’Oklahoma: “Apprezziamo la lungimiranza e l’interesse di cui date prova nel riconoscere la necessità di investigare l’impiego delle donne nel programma spaziale americano su basi serie e ragionevoli”. Le ultime quattro parole di Miss Cobb furono scelte in maniera particolarmente ponderata. In ogni lettera, in ogni colloquio, in ogni obiezione, Mrs Cochran era sempre ricorsa a quei medesimi vocaboli per criticare il suo desiderio di un programma immediato: non era “ragionevole” e non era “opportuno”. Se Jerrie fosse riuscita a cooptare i lemmi di Mrs Cochran, usando per prima certe frasi e imprimendo una certa direzione alle preoccupazioni che sottintendevano, forse avrebbe vinto il dibattito. Descrivendo come lei e le altre Mercury erano state coinvolte, Miss Cobb proseguì spiegando che il programma di test di Albuquerque non usava il denaro dei contribuenti. Qualcuno le chiese perché le altre aviatrici fossero assenti. La risposta di Jerrie sbalordì il pubblico: le donne che avevano superato con 4
Anfuso venne eletto giudice alla Corte Suprema di New York nel 1962.
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successo i test nemmeno si conoscevano l’un l’altra. “Non si sono mai riunite come gruppo, e nessuna delle dodici donne sa chi siano le altre undici.” Dal momento che non c’erano fondi a disposizione per farle andare a Washington, le altre non vi si erano potute recare, concluse [23]. Era quasi vero. Lei conosceva il nome di tutte le donne, e così anche Mrs Hart dopo che Jackie le aveva fornito l’elenco [24]. La maggior parte delle Mercury conosceva qualcuna delle altre, ma non tutte. E anche se i fondi del Congresso avrebbero potuto rendere possibile il viaggio a Washington per molte di loro, coprendo almeno le spese di viaggio, alcune sarebbero state perfino felici di pagare di tasca propria pur di testimoniare [25]. Il problema era che non erano state invitate. In luogo delle rispettive deposizioni, Miss Cobb fornì una sintetica nota biografica di ciascuna donna: Jan e Marion Dietrich dalla California; Rhea Hurrle Allison, ora sposata e pilota d’aerei privati a Houston; Irene Leverton, seconda in numero di ore di volo fatte solo alla Cobb; B Steadman, titolare e dirigente di un centro di servizi aeroportuali; Jean Hixson, ex WASP e comandante dell’Air Force Reserve che insegnava in una scuola dell’Ohio; Gene Nora Stumbough, ex istruttrice di volo all’università; Jerri Sloan, dirigente di una sua impresa di servizi aerei a Dallas; Myrtle Cagle, istruttrice di volo civile alla Georgia Air Force Base; Sarah Gorelick, ex motorista di bordo di Kansas City; e Wally Funk, appena ventitreenne ma già con più di tremila ore di volo alle spalle. Sentendo per la prima volta i nomi delle donne, i giornalisti cercarono freneticamente di segnarsi ogni nome. Anfuso permise a Jerrie di sillabare nomi e città d’origine [26]. Alcuni reporter corsero ai telefoni più vicini per chiamare i cronisti delle redazioni locali. Un giornalista di Los Angeles telefonò in redazione chiedendo aiuto per localizzare Jan Dietrich, Irene Leverton e Wally Funk, tutte e tre residenti nella zona di LA5 [27]. Adesso che i nomi delle donne erano stati svelati, tutti volevano saperne di più su di loro. 5
Anche Gene Nora Stumbough venne contattata dai cronisti di Boise, Idaho. “Non ne ho più sentito parlare [da Pensacola]”, replicò. “Credo che sia una faccenda chiusa. Credo anche che non ci sarà nessuna donna nel programma spaziale per, diciamo, l’immediato futuro. In fondo, ci ho rimesso solo il mio lavoro e nove chili”.
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Uno dei membri del Congresso, proveniente dalla California, si domandò addirittura ad alta voce perché Irene Leverton non fosse presente alle udienze. Dal momento che viveva nella sua circoscrizione, gli sarebbe piaciuto incontrarla [28]. Miss Cobb continuò con quella che considerava la sua prova più convincente: la ricerca scientifica che dimostrava che le donne erano particolarmente adatte al volo spaziale. Snocciolò le argomentazioni che andava raccogliendo da tre anni sull’inferiore peso corporeo delle donne, sulla loro resistenza all’irraggiamento, e sulla loro capacità di sopportare l’isolamento, il calore, il freddo, il rumore e il dolore. Era convinta che nessuno avrebbe potuto ignorare i risultati di quelle ricerche. Guardando gli undici membri della commissione, ricordò loro che nel corso della storia le donne erano sempre state pronte a prendere parte alle avventure più audaci dell’umanità. C’erano donne sul Mayflower e sulle prime carovane, rammentò. Ora le donne volevano mettere le proprie capacità e il proprio coraggio al servizio della prossima grande spedizione. Nel redarre la propria deposizione qualche settimana prima, Miss Cobb aveva volutamente evitato un linguaggio altisonante, che avrebbe potuto accentuare la drammaticità del momento o infiammare di indignazione le sue osservazioni. Proprio come i vistosi abiti firmati che la sorella la incoraggiava a indossare durante i voli in cui concorreva per stabilire dei record, la prosa enfatica sembrava fasulla e inadatta a lei, e Jerrie si rifiutava di cingersene. Le ultime parole che rivolse alla sottocommissione furono di una sobrietà straordinaria eppure, alle orecchie del pubblico che la stava ascoltando con grande attenzione, riecheggiarono di quieta dignità: “Chiediamo solo un posto nel futuro spaziale della nostra nazione, senza discriminazioni. Chiediamo che ci venga concesso, come cittadine di questo Paese, di prender parte con serietà e sincerità alla costruzione della storia, adesso... Vi offriamo tredici aviatrici volontarie” [29]. L’eloquenza dell’appello di Miss Cobb venne indebolita all’istante dal presidente Anfuso, che fece una battuta sulla capacità riproduttiva femminile: “Penso che a questo punto possiamo tranquillamente dire
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che tutto lo scopo dell’esplorazione spaziale è quello di arrivare un giorno a colonizzare gli altri pianeti, e non vedo proprio come potremmo farlo senza donne”. Mentre il pubblico scoppiava a ridere, l’uomo fece un sorrisetto. Quindi, voltandosi rapidamente verso Janey Hart, la presentò come moglie di un insigne senatore e madre di otto bambini. Raccogliendo la risata, Mrs Hart la volse a proprio vantaggio. “Non posso fare a meno di notare che si è rivolto a me subito dopo aver parlato di colonizzare lo spazio”, replicò, consapevole che praticamente tutti stavano facendo commenti sulla sua numerosa famiglia [30]. Janey sentiva di potersi permettere quella battuta autodenigratoria. Sapeva che ciò che era sul punto di dire avrebbe dimostrato da che parte stava. Più di chiunque altro in quell’aula, Mrs Hart si rendeva conto che quelle udienze non riguardavano soltanto tredici donne candidate come astronaute. Riguardavano i diritti di parità di ciascuna donna. Quella era la sua prima e ultima occasione di testimoniare pubblicamente davanti al governo degli Stati Uniti e Janey non perse tempo. “Per me è inconcepibile”, esordì, “che il mondo dello spazio cosmico debba essere limitato ai soli uomini, come se fosse una specie di club per scapoli. Non sto sostenendo che alle donne dovrebbe essere concesso di prendere parte al volo spaziale solo perché così non si sentirebbero discriminate. Quello che sto dicendo è che dovrebbero esservi ammesse perché possono apportare un contributo davvero essenziale” [31]. Appoggiando le braccia sul tavolo, mentre i membri del Congresso osservavano con curiosità l’enorme orologione da pilota che indossava sempre al polso sinistro [32], Mrs Hart aggiunse che sostenere che alle donne non dovesse essere consentito di diventare astronaute era un’idea antiquata come la convinzione in base alla quale cent’anni prima alle donne non veniva permesso di diventare infermiere, ed era un’idea che generava altrettanto spreco. Un secolo prima, durante la Guerra civile, i soldati feriti giacevano ovunque sui campi di battaglia in giro per la nazione. Le cure infermieristiche erano state limitate. Gli infermieri maschi non erano sufficienti per prendersi cura dei moribondi; ma le donne che desideravano aiutare negli ospedali e
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nelle postazioni infermieristiche venivano spesso respinte dagli uomini che assumevano il personale. Si riteneva che le donne sarebbero svenute alla vista del sangue; che non ci si potesse fidare di loro per le medicazioni. Era sconveniente che le giovani donne si prendessero cura di uomini che per loro erano dei perfetti estranei. Solo alle donne brutte e di mezza età era permesso prestare servizio... presumibilmente perché le donne brutte hanno più forza di carattere, proseguì Janey, incapace di astenersi da un affondo sarcastico. Respingendo l’aiuto femminile, la nazione aveva pagato un prezzo terribile. “Mi domando se qualcuno abbia mai riflettuto sul grande spreco di talento che derivò dal riconoscimento tardivo della capacità delle donne di curare”. Sapendo che Jackie Cochran di lì a poco avrebbe affermato che non era necessario che le donne diventassero astronaute poiché c’erano già abbastanza uomini pronti a farlo, Mrs Hart proseguì energicamente: “Mi sembra un errore basilare del pensiero americano quello di concedere alle donne di contribuire appieno al miglioramento della nazione solo quando c’è penuria di uomini”. Il risultato di tale errore era che le donne finivano per essere dissuase dallo sviluppare i propri talenti poiché l’impressione era che non sarebbero mai state chiamate a servirsene. “Se le ragazze scelgono di occuparsi della casa e della famiglia, benissimo. Purché tale scelta non sia dettata dal fatto di venire discriminate in tutte le altre professioni. Parliamoci chiaro”, continuò, “per molte donne l’associazione genitori e insegnanti proprio non è abbastanza” [33]. Avvicinandosi alla fine della propria deposizione, Mrs Hart offrì un suggerimento concreto: i test di Pensacola dovevano proseguire. Anche se le donne non fossero state lanciate nello spazio nel giro di breve tempo, i dati scientifici che potevano essere raccolti tramite dei test condotti su donne sane sarebbero stati preziosi, disse, e concluse sottolineando: “Non voglio sminuire i ruoli femminili di moglie, madre e angelo del focolare, ma non credo nemmeno che l’intelligenza, il coraggio, il dinamismo e la determinazione nel voler contribuire ad accrescere lo scibile umano non siano femminili” [34]. La sobrietà di Miss Cobb e il fervore di Mrs Hart si fusero rendendo particolarmente persuasiva la tesi a favore delle donne astro-
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nauta. Anfuso aprì la sessione dedicata ai botta e risposta ringraziando Mrs Hart per la sua “avvincente” dichiarazione [35]. Le domande arrivarono presto a incentrarsi sullo scoglio dell’esperienza come piloti di jet militari. Il presidente domandò a Miss Cobb se, a suo parere, tale esperienza fosse essenziale per essere astronauti. No, fu la risposta. Il lavoro nello spazio consisteva nel pilotare un veicolo spaziale, non nel collaudare un jet. Un numero di ore di volo equivalente dovrebbe essere considerato valido, sostenne l’aviatrice. Se la NASA insisteva sull’esperienza a bordo dei jet, allora si doveva permettere alle donne di avere accesso ai jet per l’addestramento, o quantomeno ai simulatori di volo su jet. Jerrie aveva continuato a pensare a tutti i milioni che le donne americane pagavano sotto forma di tasse, tasse che finivano anche per essere utilizzate per i jet militari e il relativo addestramento dei piloti. Perché tredici donne non avrebbero dovuto avere accesso a quell’attrezzatura? Jessica Weis, repubblicana, membro del Congresso per lo Stato di New York, prese la parola. Chi aveva stabilito la cancellazione dei test di Pensacola, e quali motivazioni erano state addotte? A suo parere non c’era alcun motivo per cui i test non dovessero proseguire, se non altro per i dati scientifici che potevano fornire. Jerrie ripeté ciò che le era stato detto dal Pentagono e dalla NASA: la Marina aveva bisogno del permesso della NASA per mettere alla prova le donne sull’attrezzatura governativa, e la NASA aveva detto alla Marina di non essere interessata al progetto. Senza “una necessità”, come la definiva la Marina, non potevano continuare. Era stato difficile ottenere una risposta più precisa, si lamentò Miss Cobb. Ciascuno incolpava qualcun altro della decisione e le ci erano voluti due giorni anche solo per ottenere quella misera replica. Un altro membro del Congresso domandò se non fosse possibile trovare un compromesso. “Non potete accontentarvi di metà torta?”, chiese, proponendo di andare avanti con i test anche nel caso in cui non avessero condotto al volo spaziale. Mrs Hart convenne che sarebbe stato già un buon inizio [36]. Favorevolmente impressionato dal caso delle donne e desideroso di dare una mano, James Fulton, repubblicano della Pennsylvania, ri-
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chiamò l’attenzione su un punto cruciale: alle Mercury non era mai passato per la mente che la ragione per cui i test erano stati cancellati fosse che gli uomini temevano che sarebbero riuscite troppo bene? [37]. Il pubblico e gli altri membri del Congresso si sbellicarono dalle risate. Sembrava assurdo insinuare che delle aviatrici potessero surclassare gli astronauti del Programma Mercury, e addirittura grottesco che gli austeri dirigenti della NASA potessero sentirsi minacciati da tredici donne, alcune delle quali erano casalinghe e madri. Mentre l’insinuazione di Fulton si spegneva tra le ultime risatine, l’impatto subconscio che aveva avuto sulla sottocommissione divenne evidente. Molti membri del Congresso lo ritenevano un buffone, e quelli del suo stesso comitato ormai l’avevano ascoltato troppe volte mentre esponeva le sue strambe idee sullo spazio cosmico. Alla maggior parte di quelle persone bastava sentire che lui era a favore di un progetto per decidere di cassarlo. Senza prenderlo sul serio, rigettavano prontamente le sue idee – anche quelle, come la presente, che contenevano un fondo di verità. Prima che Miss Cobb e Mrs Hart potessero rispondere alla sua domanda, un altro membro del Congresso intervenne, quasi a zittire il collega schernito. “Miss Cobb, lei ha mostrato un certo risentimento nei confronti...”... delle scimmie femmine che stiamo addestrando per il volo spaziale [38]. Mentre le due aviatrici continuavano a rispondere alle domande della sottocommissione, fece la sua comparsa Jackie Cochran. Era in ritardo a causa di un’altra riunione, e non aveva sentito le dichiarazioni d’apertura di Miss Cobb e Mrs Hart. Non appena la vide entrare, Anfuso fermò il procedimento. “Senza dubbio l’aviatrice più importante del mondo...”, esordì a mo’ di saluto, “... colei che detiene più record nazionali e internazionali di velocità, distanza e quota di qualunque altro essere vivente” [39]. Dopo qualche ulteriore scambio di convenevoli, il presidente ordinò una sospensione e chiuse la prima serie di testimonianze del mattino. Pur diffidando di ciò che Mrs Cochran avrebbe detto, Miss Cobb e Mrs Hart erano contente che, quantomeno, la sottocommissione apparisse favorevole alla continuazione dei test delle tredici donne.
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Dopo una breve pausa, Anfuso dichiarò di nuovo aperta la seduta. Jackie iniziò la propria testimonianza con una dichiarazione che era insieme una manovra strategica e una menzogna: “Signor presidente, ho saputo solo giovedì, mentre mi trovavo all’Ovest, che avrei dovuto comparire davanti alla sua commissione, e non mi è stato possibile preparare molto più di quelli che sono i miei pensieri spontanei” [40]. Mrs Cochran si stava servendo del vecchio trucchetto politico di abbassare le aspettative allo scopo di impressionare il pubblico. In realtà aveva stilato la propria deposizione quasi un mese prima, l’aveva inviata a diverse persone della NASA, del governo federale e dell’Esercito, e vi aveva incorporato le correzioni proposte da Randy Lovelace e da James Webb [41]. Raccontò della propria esperienza durante la Seconda guerra mondiale, e di come avesse organizzato le WASP selezionando e addestrando oltre mille donne pilota in modo tale che potessero coadiuvare l’Army Air Force. Quindi andò diretta al punto in esame presso la sottocommissione. “Non credo che, fino a oggi, ci sia stata alcuna discriminazione nei confronti delle donne nell’ambito del programma aerospaziale, intenzionale o effettiva”, affermò. Portando ad esempio se stessa, dichiarò: “Come donna che ha maturato molta esperienza nel volo di precisione ad alta velocità e che nel corso degli anni ha superato parecchi dei test utilizzati per selezionare i primi sette astronauti, nonché come persona che amerebbe estremamente andare nello spazio, non sento di essere stata oggetto di alcuna discriminazione” [42]. Come faceva spesso quando voleva essere persuasiva, Mrs Cochran enumerò i propri argomenti, sparandoli uno dopo l’altro come proiettili. La sottocommissione stava ponendo la domanda sbagliata, lasciò intendere. Le udienze non avrebbero dovuto cercare di stabilire se le donne erano state discriminate dalla NASA, ma piuttosto se includere le donne nel programma avrebbe “velocizzato, rallentato, reso più costoso o complicato il ruolino di marcia dei voli di esplorazione dello spazio intrapreso dalla nostra nazione”. Lasciamo che la NASA accerti che effetto avrebbe sull’attuale tabella di lancio un programma
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astronautico per le donne, argomentò, aggiungendo: “Non c’è penuria di piloti, uomini, ben addestrati e di lunga esperienza, in grado di ricoprire il ruolo di astronauti”. Janey Hart si contorse sulla propria sedia. Sapeva che Mrs Cochran avrebbe contestato l’ammissione delle donne al programma dal momento che c’erano moltissimi uomini disponibili. Le risultanze scientifiche esistenti proprio non bastavano a dimostrare come le donne si sarebbero comportate nello spazio rispetto agli uomini, proseguì Jackie. Una manciata di donne “potrebbe non essere rappresentativa delle donne come categoria”, mise in guardia. “In base alla mia esperienza con le donne nelle WASP”, continuò, le donne “dimostreranno di essere idonee quanto gli uomini, sia fisicamente che psicologicamente, per il volo spaziale. Ma tale prova, al momento, non c’è”. A quel punto Jackie consigliò quello che definì un “modo più semplice e più ragionevole” di impiegare le aviatrici. Prima di tutto, si doveva riunire un gran numero di donne – e non necessariamente solo donne pilota – per sottoporle a esami medici e scientifici. “Sarà necessario organizzarle e gestirle come si deve”, sottolineò, dando l’impressione di volersi aggiudicare la mansione di supervisore. Con una piattaforma adeguatamente strutturata, ragionò, “un gruppetto ben selezionato di una dozzina o più donne” sarebbe potuto giungere a intraprendere “un programma d’addestramento astronautico per le donne”. Miss Cobb e Mrs Hart sedevano in fondo all’aula, sconcertate e arrabbiate. Perché Mrs Cochran stava invocando un lungo programma di ricerca che avrebbe portato a selezionare una dozzina di donne quando ce n’erano già tredici più che pronte ad affrontare l’addestramento fin dall’indomani? Prima di rispondere alle domande, Jackie intervenne con un ulteriore, efficace commento: “Ritengo sia importante sottoporre ai test un numero elevato di donne anche perché bisogna tener presente il tempo che la ricerca richiederà e il naturale tasso di logoramento tra le volontarie a causa del matrimonio, dei parti e di altre questioni” [43]. La discussione si concentrò immediatamente sui costi elevati implicati dall’addestrare delle donne che presto sarebbero potute tornare a fare le casalinghe. “Non vogliamo rallentare il programma... e
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sprecare una grande quantità di denaro includendo un corposo gruppo di donne per poi perderle quando si sposano”, affermò [44]. Il matrimonio, e non la discriminazione sessuale, era il motivo per cui le donne non diventavano piloti di linea. Per addestrare un pilota per una linea aerea ci vogliono oltre 50.000 dollari, asserì. “È caro, se poi le perdi perché si sposano”6 [45]. Un membro del Congresso concordò. Diversi uomini d’affari gli avevano spiegato che quella faccenda rendeva molto più costoso addestrare una donna rispetto a un uomo. Ecco perché spesso le donne erano pagate di meno, ragionò lui [46]. La maternità e il programma spaziale sembravano non andare d’accordo, concluse Mrs Cochran, eppure anche le donne che non erano madri o non erano sposate destavano i suoi sospetti. Aggiungendo un velato insulto alle donne single o lesbiche, Jackie affermò: “Ritengo che nessuno possa essere una persona di successo se prima di tutto non è una donna o un uomo con tutti gli istinti e i desideri propri dei due sessi” [47]. A quel punto la sottocommissione volle conoscere l’opinione di Jackie relativamente all’esperienza come piloti collaudatori di jet. Richiedere quella qualifica per un futuro astronauta è importante, rispose lei, spiegando che le aveva insegnato parecchio su come sono assemblati gli aerei [48]. Ma Jackie sapeva benissimo che solo una donna era in grado di soddisfare quel punto. Spesso faceva una battuta: “Quale donna, a parte me, può vantarlo sul proprio curriculum?” [49]. Fulton fece notare che l’attuale corpo astronautico maschile si era guadagnato l’esperienza a bordo dei jet nell’Esercito. E se si fossero aperte le accademie militari anche alle donne? In quel caso le donne avrebbero potuto iniziare a sottoporsi a un addestramento che, alla fine, sarebbe sfociato in un ruolo di pilota collaudatore? Lo domandò apertamente a Mrs Cochran: lei aprirebbe l’Accademia militare aeronautica alle donne? Istin6
L’illazione di Mrs Cochran secondo cui gli astronauti uomini avrebbero fatto del loro lavoro alla NASA una carriera non fu confermata. Di fatto, John Glenn rimase nel programma astronautico solo altri due anni, e Scott Carpenter restò nella NASA solo fino al 1967. La stessa cosa accadde con molti piloti militari, che si ritirarono alla fine del servizio di leva volontario per impiegarsi come piloti sulle linee commerciali.
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tivamente, Jackie percepì la tacita derisione della sottocommissione nei confronti di Fulton, e fece una lunga digressione illustrando la propria esperienza durante la Seconda guerra mondiale. Quando Fulton le ripeté la domanda, Mrs Cochran si impermalì. “Posso finire, signore?”, replicò. “Non posso rispondere alla sua domanda se lei non ascolta il mio punto di vista” [50]. E raccontò nuovamente di come aveva organizzato le WASP prima di decidersi infine a dargli una risposta. “Ci troviamo in una nuova era”, proclamò. “Non credo che dovreste aprire l’Accademia [aeronautica] alle donne ora. Forse mai... Non mettiamo sottosopra l’Accademia introducendovi le donne a meno che non siamo certi di volerle” [51]. Il primo giorno di udienza terminò a mezzogiorno mentre Fulton si lanciava in un discorso contorto e iperbolico sulla superiorità delle donne e sulle gesta eroiche da loro compiute nel corso della storia. La pulzella d’Orléans aveva condotto diecimila uomini, impresa che non era riuscita a nessun altro, argomentò. Mentre i membri della sottocommissione facevano frusciare le proprie carte, impazienti di affrettarsi fuori dall’aula per recarsi a pranzo, Fulton li scongiurò di prestargli attenzione. “Non sto scherzando”, insistette. Imbarazzato dall’esibizione retorica del collega, Anfuso intervenne: “Mr Fulton è uno scapolo”, spiegò al pubblico, cercando di fare una battuta, “e pensa che le donne siano fuori dal mondo. Gli piacerebbe inviarle fuori dalla Terra” [52]. Le udienze ripresero il mercoledì mattina. Questa volta, l’atmosfera nell’aula delle udienze era carica di eccitazione e di aspettativa. Le lampade dei flash crepitavano mentre gli astronauti John Glenn e Scott Carpenter e il funzionario della NASA George Low facevano il loro ingresso. Gli astronauti erano appena rientrati dalle prime orbite con equipaggio umano attorno alla Terra e furono accolti dalla sottocommissione come eroi. “Oggi abbiamo con noi due americani che hanno raggiunto la levatura di eroi. Non è necessario aggiungere altro”, dichiarò orgoglioso Anfuso. George Miller, presidente del Comitato plenario per le scienze e l’astronautica, che non aveva presenziato al primo giorno di udienze, aveva liberato la propria agenda per
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esserci per Glenn e Carpenter. Nessuno dei due astronauti capiva bene il motivo della propria presenza in aula. Non conoscevano personalmente Jerrie Cobb, avevano sentito dire solo qualcosina sui test delle altre donne ad Albuquerque, e addirittura non sapevano nulla del test di isolamento o di Pensacola. La NASA non li aveva istruiti riguardo a ciò che dovevano dire, e loro non si erano preparati un discorso d’apertura. Il personale della sottocommissione aveva detto loro di rispondere alle domande in base alla propria esperienza. In seguito, Glenn ritenne di aver compreso le motivazioni che avevano spinto le donne a chiedere un’udienza. “Stavano mordendo il freno e pensavano che la faccenda dovesse procedere”, dirà. Ma in quel preciso momento, l’unica ragione a cui riuscivano a pensare per il fatto di trovarsi seduti al banco dei testimoni quel mattino era di essere i soli due uomini della nazione ad aver orbitato, il che li poneva in una posizione unica per discutere quali requisiti dovesse possedere un astronauta in vista di futuri voli orbitali. Glenn pensava che anche il fatto di essere sotto i riflettori potesse aver qualcosa a che fare con la convocazione [53]. Dato il suo recente status di eroe, ultimamente era stato chiamato a esprimere la propria opinione praticamente su tutto. Aveva addirittura tenuto un discorso sul patriottismo e sul futuro della nazione davanti a una sessione congiunta del Congresso. George Low sapeva benissimo perché si trovava lì. Spesso le domande sulle donne astronauta finivano sulla sua scrivania. Appena il mese prima, un membro dello staff in servizio alla NASA gli aveva chiesto come avrebbe risposto lui alle missive delle donne che chiedevano di diventare astronaute. “Spero che tu abbia qualche idea su come rispondere a queste lettere”, gli aveva scritto. “Come sai, le donne rientrano tra le persone fisicamente qualificate. Ci devono essere altre ragioni valide” per cui non sono nel programma [54]. Low aprì il secondo giorno di udienze passando in rassegna le qualifiche richieste dalla NASA per diventare astronauti. Quei requisiti avevano funzionato bene per l’iniziale programma Mercury, disse, e li si stava prendendo nuovamente in considerazione per gli imminenti Programmi Gemini e Apollo, nei quali gli obiettivi della NASA
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erano rispettivamente le missioni con un equipaggio di due uomini e l’allunaggio. Nessuna donna era mai stata volutamente esclusa dalle selezioni. Anzi, in realtà la NASA aveva preso in esame la richiesta di sei donne di accedere alla successiva selezione per astronauti. Nessuna era stata accettata, dovette ammettere. Anfuso chiese quante donne negli Stati Uniti fossero piloti collaudatori di jet. “Miss Cochran, signor presidente, è l’unica pilota collaudatrice di cui io sia a conoscenza.” Anfuso non sembrava persuaso, e pretese una riconferma da parte di Low che l’agenzia spaziale non stesse discriminando le donne. “Noi non vogliamo escludere le donne”, ammonì il presidente. “No, signore. Io di sicuro non lo voglio”, concordò Low. D’altronde, il motivo per cui così tante donne rifuggivano dalle carriere scientifiche era legato a un’effettiva mancanza di interesse più che alla discriminazione, discettò Low. Per esempio, spiegò: “Signor presidente, io non credo che si operi alcuna discriminazione contro le donne nell’ingegneria aerospaziale”. Quella risposta tranquillizzò Anfuso, che accettò prontamente la logica di Low. “Sono felice che lei abbia risposto così, perché questa domanda mi è stata posta da una donna che era convinta che tale discriminazione fosse in atto.” Mrs Weis, che sedeva con gli altri membri della sottocommissione ad ascoltare lo scambio tra Low e Anfuso, non era convinta. Anche se non pareva che ci fosse stata una discriminazione intenzionale nei confronti delle donne nelle qualifiche richieste per accedere al corpo degli astronauti, osservò, indubbiamente era subentrato un ostacolo – una discriminazione non voluta ma, nondimeno, presente. Low dissentì. “Non vedo ragioni per cui le donne non dovrebbero entrare nel campo del collaudo. Non credo che nel collaudo di aerei civili ci sia qualche blocco al momento. È solo che, a quanto pare, nessuna ha ritenuto opportuno accedervi”, sostenne [55]. E c’era anche un altro problema, proseguì Low. Le donne avrebbero interferito con il programma in corso se volevano servirsi di attrezzature quali le centrifughe o le camere a vuoto. “Al momento l’intero equipaggiamento è sovraccarico”, osservò. “Questo è il punto più importante”, annuì Anfuso con entusiasmo. Il presidente cercò di rispie-
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gare l’argomentazione di Low con le proprie parole, a beneficio della sottocommissione. “In altre parole, voi non siete contrari alle donne, ma, ora come ora, permettere loro di servirsi dell’attrezzatura che state usando per gli astronauti creerebbe un’interferenza.” Esatto, proprio così, confermò Low [56]. Perfino Jackie Cochran, che non prendeva parte alla seconda giornata di udienze dal momento che non doveva testimoniare, sapeva che l’Air Force trovava sempre il tempo di aiutarla a stabilire i suoi record di volo alla base di Edwards. Tre mesi prima, gli alti papaveri della Marina le avevano detto che la struttura era a disposizione delle donne: serviva solo il via libera della NASA [57]. Cathryn Walters, che sedeva accanto a Jerrie Cobb dietro al banco dei testimoni, dissentì con l’affermazione di Low. In qualità di assistente del dottor Shurley agli esperimenti nella vasca d’isolamento era stata invitata a esaminare le strutture psichiatriche della Marina a Pensacola. Sapeva che i medici della base erano interessati a procedere con la ricerca e speravano di instaurare uno scambio di informazioni scientifiche con Shurley. Di fatto, i medici di Pensacola sembravano impazienti di venire coinvolti nei test alle donne: quello studio portava un po’ di dinamismo intellettuale nel loro lavoro che, spesso, pendeva pesantemente verso la prassi clinica. Quando Miss Cobb aveva superato i test cui era stata sottoposta lì alla base, avevano festeggiato [58]. Anche Jerrie trovò paradossale il commento di Low. La NASA sembrava avere abbastanza tempo e attrezzature da addestrare degli scimpanzé, si disse [59]. Inoltre il fatto che le donne potessero accedere alle attrezzature solo dopo che se ne erano serviti gli uomini le rammentava i pretesti usati dieci anni prima alla Classen High School. Quante volte si era sentita dire che le squadre di atletica femminili non potevano allenarsi in palestra finché i maschi non avessero terminato? Fulton era preoccupato dalla direzione presa dal dibattito. Sembrava che non si fosse capito che le regole potevano essere piegate, erano già state piegate, e si sarebbero dovute piegare di nuovo allo scopo di trovare le persone più adatte a diventare astronauti, pensò. Fissando direttamente Glenn, osservò: “In base ai requisiti elencati da Mr Low, è evidente che il colonnello Glenn avrebbe dovuto essere escluso. Lei
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non avrebbe superato le qualificazioni perché non ha una laurea in ingegneria, giusto colonnello?”. Glenn, suscettibile a proposito della propria mancanza di istruzione universitaria mentre sosteneva i test per astronauti, rispose prontamente. “Ora ce l’ho”, replicò, sollevato dalla recente decisione del Muskingum College di accettare i crediti che aveva ottenuto come studente fuoricorso e per corrispondenza, permettendogli di conseguire una laurea di primo livello [60]. Fulton aveva ragione: la NASA aveva derogato alla condizione della laurea per Glenn e Carpenter quando aveva selezionato gli astronauti, accettando ciò che aveva definito “equipollente esperienza”. “Non possiamo considerare questi metodi di selezione e questi requisiti come qualcosa di inflessibile”, argomentò Fulton. Non trovava pecche né in Glenn né in Carpenter; li considerava astronauti eccezionali. “Siete i migliori”, dirà loro in seguito [61]. A suo parere quegli uomini, che non possedevano esattamente tutti i requisiti stabiliti dalla NASA, erano la dimostrazione del suo ragionamento: per trovare i migliori, sarebbe stato necessario fare delle eccezioni. Rivolgendosi a Scott Carpenter, ribadì il concetto: riuscire a mandare la prima donna nello spazio non avrebbe rappresentato un nobile obiettivo per la nazione? Durante quegli stadi iniziali, controbatté Carpenter, il volo spaziale era irto di incognite, ed era importante eliminare gran parte dell’incertezza e del pericolo prima che qualcun altro vi prendesse parte. Fulton continuava a non essere convinto. “È sempre il solito vecchio ritornello”, dichiarò. “Gli uomini vogliono proteggere le donne tenendole fuori da un settore che, così, rimane monopolio maschile.” Turbato da quello che aveva tutta l’aria di essere il preludio a un altro monologo drammatico, Anfuso tentò di intervenire mentre Fulton iniziava a infervorarsi parlando di Molly Pitcher, della regina Elisabetta I, di Sacajawea, e di La Malinche che guidava Cortés. Il pubblico ricominciò a ridere una volta di più degli atteggiamenti teatrali di Fulton, e Anfuso temette che l’aula stesse andando fuori controllo [62]. John Glenn cercò di dirottare il discorso. “Se riusciremo a trovare delle donne che ci dimostreranno di avere attributi migliori per en-
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trare in un programma di quelli che abbiamo noi per entrare in quel programma, le accoglieremo a braccia aperte.” A quel punto il pubblico si sbellicò. La gaffe involontaria di Glenn fece venir giù l’aula dalle risate [63]. Anche Scott Carpenter rise, divertito dall’immagine degli aitanti astronauti che spalancavano le braccia per ricevere le donne inviate dalla Terra [64]. Avvampando, Glenn tentò di rimediare al volo. “Chiedo che venga cancellato dal verbale, per permettermi di rientrare a casa questo pomeriggio”, buttò lì [65]. Quindi tornò alla domanda iniziale, ovvero perché alcune professioni fossero prevalentemente predominio maschile e altre femminile. Glenn conosceva diverse persone che avevano sfidato quei postulati in passato. Quando era un ragazzino, racconterà poi, sua madre era diventata la prima anziana (donna) nel consiglio della chiesa presbiteriana dell’Ohio. Quando un soldato afroamericano aveva espresso il desiderio di addestrarsi per diventare pilota per la Marina degli Stati Uniti, l’astronauta aveva assistito alle interminabili discussioni riguardanti che cosa avrebbe significato l’integrazione per gli uomini bianchi. Alcuni militari pensavano che la cosa avrebbe abbassato gli standard e diminuito le competenze. Un giorno Glenn aveva sostituito l’istruttore di volo del ragazzo di colore, e non aveva trovato alcun motivo per cui quell’uomo non dovesse andare avanti [66]. A suo parere, la gente si sentiva minacciata dai cambiamenti. Preferiva affidarsi a ciò che le era familiare. Glenn filosofeggiava, chiaramente più a suo agio nel commentare il pregiudizio che nel combatterlo. Ciò che disse in seguito determinò il corso delle udienze e sarebbe stato ricordato ancora molto tempo dopo che la sottocommissione ebbe raggiunto il verdetto definitivo. “Penso che tutto ciò sia riconducibile al modo in cui è strutturato il nostro ordine sociale, in realtà”, disse ai membri del Congresso. “È un semplice dato di fatto. Gli uomini vanno a combattere le guerre e pilotano gli aeroplani, e poi tornano indietro e aiutano a progettarli e a costruirli e li collaudano. Il fatto che le donne non siano in questo settore fa parte del nostro ordine sociale. Potrebbe non essere desiderabile” [67].
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Janey Hart faticava a stare seduta. “Dato di fatto”. “Potrebbe non essere desiderabile”. La sua mente ribolliva di obiezioni e contestazioni veementi, che avrebbe voluto esprimere. Non si dovrebbe essere paghi dello stato delle cose. Bisognerebbe cercare di migliorarle. Che cosa sarebbe accaduto se ci si fosse accontentati della schiavitù? [68]. L’ingiustizia deve essere contestata. In quel momento, si disse Mrs Hart, nessun eroe americano era più grande di Glenn. Perché non si serviva della propria posizione per tirare fuori un po’ di attitudine al comando? La riluttanza di Glenn ad attaccare l’ordine costituito la faceva arrabbiare. Percepiva quel suo commento come un segno di remissività e la sua resistenza a combattere la discriminazione come una mancanza di capacità intellettive e di coraggio [69]. “Credo che il colonnello Glenn abbia centrato... in pieno le differenze di opinioni che abbiamo qui”, intervenne con sicurezza un membro del Congresso. È il nostro ordine sociale a dettare queste differenze e il programma spaziale si limita a seguire le diversità tra i generi imposte dal tempo e dalla storia. “Non penso che le donne americane vogliano fare tutto ciò che le donne russe sono costrette a fare”, proseguì, aggiungendo che a suo parere non c’era alcun progetto deliberato di tenere fuori le donne dal programma spaziale. “Neanche con un grande sforzo di immaginazione vi si vede un disegno intenzionale” [70]. Fulton rivolse a Glenn un’ultima domanda: lei sarebbe favorevole a un programma d’addestramento per le donne astronauta? “Non mi ci opporrei”, rispose lui, aggiungendo però: “Non ne vedo la necessità”. Sostenendo che la NASA disponeva già di molti uomini qualificati e aveva speso molto denaro per addestrarli, soggiunse: “Ora, spendere diversi milioni di dollari per qualificare altra gente in più – persone di cui non c’è stretta necessità – indipendentemente dal sesso, dal credo, o dal colore, non sembra giusto, dal momento che abbiamo già tutta questa gente qualificata” [71]. Il secondo giorno di udienze era stato un incubo per Janey Hart e Jerrie Cobb. Era un sollievo sapere di avere a disposizione ancora un giorno per occuparsi della pregiudizievole deposizione dei testimoni
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della NASA. Anfuso, vedendo che era quasi mezzogiorno, dichiarò chiuse le udienze della giornata. Rivolgendosi a Glenn e Carpenter, si congratulò con loro per i grandi successi raggiunti e per l’esempio che davano, notando che tra il pubblico erano sedute diverse mamme che avevano portato alle udienze i figlioletti al solo scopo di far loro vedere gli astronauti. La loro guida era di quel genere che tutti desiderano e rispettano, affermò. Battendo il maglietto sul tavolo, dichiarò che le udienze sui requisiti necessari per diventare astronauti erano chiuse. “Questa potrebbe essere l’ultima volta che presiedo una commissione”, aggiunse, facendo riferimento al proprio imminente congedo dalla Camera. Mentre i colleghi del Congresso gli tributavano elogi e gli facevano gli auguri per la sua nuova carriera, Anfuso ringraziò la commissione per la sua “perfetta armonia” [72]. Miss Cobb era stordita. Intorno a lei, tutti avevano preso ad alzarsi e a dirigersi verso l’entrata, apparentemente ignari di quel che era appena accaduto. Era finita? Non ci sarebbe stata la terza giornata di udienze promessa da Anfuso? Che ne era del tempo per le repliche che lei aveva educatamente richiesto durante il discorso d’apertura? Si voltò verso Jane Rieker e Cathryn Walters, sedute accanto a lei, ma le sue due amiche riuscirono solo a scuotere il capo. Sapevano che l’udienza si era volta a sfavore di Jerrie da quando Mrs Cochran aveva iniziato la propria deposizione. Glenn, Carpenter e Low avevano solo ribadito ciò che la sottocommissione pareva aver già deciso. Ma Miss Cobb non voleva, o non poteva, arrendersi. Com’era sua abitudine, perfino di fronte a una schiacciante sconfitta pensava che ci dovesse essere un’altra possibilità. Quella sera, dopo che lei, Miss Rieker e Miss Walters ebbero fatto ritorno al loro albergo di Washington, Jerrie ricevette la comunicazione ufficiale che Anfuso riteneva di avere dati sufficienti per il proprio rapporto e che non reputava necessaria un’altra giornata di udienze. Dandole una piccola speranza, l’uomo accettò di acquisire dei commenti scritti da parte di chiunque avesse testimoniato, per metterli a verbale. Miss Cobb e Mrs Cochran furono le sole a redigere le proprie relazioni. Jerrie compilò febbrilmente una dichiarazione che sollevava obiezioni relativamente
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all’assenza di periti durante le udienze. Quindi radunò i propri dati medici: una tabella vergata da Randy Lovelace in cui il medico confrontava i suoi risultati con quelli degli uomini, la relazione del dottor Shurley sul suo test nella vasca di isolamento sensoriale, l’elenco dei test di Pensacola che aveva sostenuto. “Tutto ciò che ci serve è la possibilità di dimostrare che siamo ‘competenti’, ‘qualificate’ e ‘necessarie’”, scrisse, facendo eco alle parole di Mrs Cochran. Nel frattempo, la dichiarazione di Jackie puntava il dito sul fatto che non c’era, né c’era mai stato, un programma per le donne nello spazio ufficialmente sancito dalla NASA, per poi passare a contestare il ruolo di Miss Cobb quale portavoce del gruppo. La lettera di Gene Nora Stumbough venne allegata come prova che alcune delle Mercury 13 erano in disaccordo con le opinioni espresse da Jerrie [73]. Il giorno successivo alle udienze, i resoconti dei giornali annunciarono apertamente l’esito. “Oggi una coppia di eroi spaziali americani ha gentilmente ma fermamente lasciato a secco di combustibile la proposta di addestrare delle donne astronauta”, riferiva il Chicago Tribune. Pur avendo ormai poche ragioni di essere ottimiste riguardo alla possibilità di diventare astronaute, il resto delle Mercury 13 si aggrappò a un’ultima speranza: che le raccomandazioni ufficiali della sottocommissione al Comitato per le scienze e l’astronautica della Camera portassero almeno a far proseguire i test [74]. Quel fine settimana il procuratore generale Robert Kennedy, sentendo la necessità di prendersi una pausa dalla canicola estiva di Washington, si recò nella proprietà dei Kennedy, il famoso “compound” di Hyannis, a Cape Cod. Prima di partire chiamò Glenn, invitandolo a unirsi a lui per un po’ di sci nautico insieme alla propria famiglia. L’astronauta accettò prontamente e fu elettrizzato nello scoprire, una volta giunto a Cape Cod, che erano presenti anche il presidente e la first lady. Jackie Kennedy e John Glenn divennero le star di quel fine settimana di peripezie acquatiche, e zigzagarono per la baia facendo acrobazie quali mettersi in equilibrio su un solo sci mentre Ethel Kennedy manovrava il motoscafo al largo dello yacht del presidente. A detta di coloro che vi assistettero, fu un weekend incantevole. Il pre-
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sidente pensava che Glenn avesse la stoffa del politico [75]. Quello stesso fine settimana Miss Cobb si recò nel Vermont, dove parlò a un raduno di girl scout. Le ragazze sciamarono attorno a lei, facendole fotografie e bersagliandola di domande sui test di Lovelace. Alcune di loro, ispirate dal suo discorso, costruirono un razzo meccanico e provarono a lanciarlo. Il gruppo decise anche di cambiare il proprio nome in Space Dancers. Tra le duecento fanciulle che pendevano dalle sue labbra non sembrava proprio che ci fosse alcuna mancanza di interesse per il volo spaziale [76]. Quando si trattò di avere accesso al presidente, Miss Cobb non poté certo competere con Glenn. Nel corso dei tre mesi che seguirono, le sue ripetute richieste di un abboccamento con Kennedy vennero rimbalzate su Webb. Arrivavano tutte con la solita fascetta di spedizione interna usata per le comunicazioni tra i vari uffici che indicava la risposta ufficiale della Casa Bianca: “Un incontro con il presidente non è possibile” [77]. In ottobre, il Comitato per le scienze e l’astronautica della Camera diramò il proprio rapporto annuale, accludendo anche la raccomandazione della sottocommissione per le abilitazioni per gli astronauti: “Dopo aver ascoltato i testimoni, sia governativi che non governativi, inclusi gli astronauti Glenn e Carpenter, la sottocommissione ha concluso che il programma di selezione della NASA è stato condotto in maniera sostanzialmente ragionevole e opportuna, che sarebbe bene continuare a mantenere gli standard più elevati possibili, e che a un certo punto, in futuro, si dovrebbe prendere in considerazione l’idea di avviare un programma di ricerca teso a determinare i vantaggi raggiungibili impiegando le donne come astronaute” [78]. Quell’unica frase colpì Miss Cobb con la stessa forza della gravità.
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Anche se il Congresso aveva annunciato la propria decisione, i diverbi continuarono a divampare mentre Jerrie Cobb, Jackie Cochran e la NASA lanciavano accuse e contestazioni beffarde. Miss Cobb invitò le Mercury 13 a “uscire allo scoperto adesso”, prendendo posizione pubblicamente e sollecitando la nazione a inviare una donna americana nello spazio [1]. O “il nostro gruppo si mette a lavorare di comune accordo per sostenere il programma, o Mrs Cochran lo farà affondare”, le mise in guardia. “Mi sento davvero triste per Mrs Cochran: dev’essere una persona parecchio infelice”. In seguito, Jerrie aggiungerà alla propria descrizione i termini “prepotente” e “pericolosa” [2]. Sull’altro versante, uno psicologo della NASA asserì che un programma spaziale per le donne era di scarsa importanza e mise in ridicolo le argomentazioni scientifiche di Miss Cobb. Certo, era possibile che le donne pesassero di meno, ragionò sarcastico, ma solo se si riusciva a convincerle a lasciare a casa le borsette. “E a proposito della presunta capacità femminile di sopportare meglio la noia e l’isolamento rispetto a quanto potrebbe fare un uomo”, aggiunse, “penso che si potrebbe trovare un notevole numero di mariti tormentati che sono rimasti seduti durante serate eterne ad ascoltare le mogli recitare la litania delle proprie attività quotidiane dando così prova di possedere analoghe credenziali nei settori della sopportazione e della noia” [3]. Altre appartenenti al Mercury 13 esaminarono minuziosamente le trascrizioni delle udienze congressuali e si unirono al dibattito. L’insegnante Jean Hixson scovò una collega delle WASP per avere una sua opinione sulle osservazioni di Mrs Cochran. “Le argomentazioni di Mrs Cochran sono state all’incirca quelle che mi aspettavo, e hanno fatto più male che bene”, le M. Ackmann, Mercury 13 © Springer-Verlag Italia, Milano 2011
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scrisse l’amica. “Di sicuro tutto quel girare attorno allo sposarsi e fare figli non ha aiutato!” [4]. Da parte sua, Jackie Cochran iniziò a biasimare pubblicamente le pretese di Miss Cobb di essere la prima astronauta donna della nazione. Citando la dichiarazione che Jerrie aveva fatto in Current Biography, Mrs Cochran chiese alla NASA: un “astronauta” non è qualcuno che ha effettivamente volato nello spazio o è almeno stato selezionato dall’agenzia per volare? [5]. Anche il marito di Mrs Cochran si gettò nella mischia, stilando un elenco pungente di “domande interessanti che qualcuno dovrebbe porre a Miss Cobb” [6]. Di tutte le accuse che vennero sparate avanti e indietro, nessuna fu più detestabile di quella ripresa da Wernher von Braun e attribuita a Robert Gilruth, direttore del Manned Spacecraft Center. Von Braun trovò spassosa l’idea di Gilruth che le donne nello spazio potessero tornare utili ai colleghi uomini da un punto di vista sessuale. “Un’altra domanda che mi viene posta di frequente è questa”, disse Von Braun a un pubblico di universitari: “‘Pensate mai di impiegare donne astronauta nel vostro programma spaziale?’ Ebbene, tutto ciò che posso rispondere è che gli astronauti maschi sono assolutamente favorevoli. E, come dice il mio amico Bob Gilruth, stiamo riservando cinquanta chilogrammi di carico utile per l’’equipaggiamento ricreativo’” [7]. In mezzo alle risse verbali, il test di isolamento sensoriale nella vasca che già era stato programmato per il resto delle Mercury 13 non ebbe mai luogo. Il pionieristico studio condotto dal dottor Jay Shurley su Miss Cobb, Rhea Hurrle e Wally Funk venne depositato negli archivi e lì rimase per i successivi quarant’anni [8]. I medici di Pensacola erano altrettanto delusi. Come le altre donne, anche Jean Hixson restituì il biglietto aereo che aveva acquistato per la Florida, riconoscendo che era altamente improbabile che venissero effettuati ulteriori test [9]. Miss Hixson non venne mai più contattata da Randy. Uno degli ultimi scritti in cui il dottor Lovelace accenna al programma per le donne astronauta è una lettera in cui si congratula con Jackie Cochran per la sua testimonianza davanti al Congresso. “A Washington sono circolati molti commenti favorevoli sulla tua deposizione in antitesi con certe altre”, le scriveva. O le udienze avevano
Postcombustione
persuaso Lovelace che la NASA non avrebbe mai autorizzato il suo programma, oppure Mrs Cochran l’aveva convinto che un piano a lungo termine piuttosto che uno immediato fosse il modo migliore di procedere1 [10]. A quanto pare, la Lovelace Foundation mantenne un silenzio assoluto con Jerrie Cobb e Janey Hart. Una sola relazione scientifica riguardante i test di Lovelace venne pubblicata. Apparve nel 1964 sull’American Journal of Obstetrics and Gynecology. Due medici della Lovelace Foundation ipotizzarono che i cicli mestruali delle donne potessero complicare la loro capacità di lavorare nello spazio poiché “studi oggettivi” hanno rivelato che le donne mestruate sono sbadate e più inclini agli incidenti. Citando ricerche precedenti, sottolinearono che “nel periodo appena precedente le mestruazioni e nei giorni del ciclo aumentano i disordini mentali, cresce il tasso di reati e ci sono più tentativi di suicidio e suicidi riusciti”2 [11]. Miss Cobb continuò a insistere con James Webb, alla NASA, nella speranza che cambiasse idea nonostante la decisione della sottocommissione camerale di porre fine ai test. Il direttore non si smosse, e disse a Jerrie che non poteva assumersi il genere di impegno che lei voleva [12]. Con il passare del tempo, il tono delle lettere dell’aviatrice virò sempre più dal persuasivo al supplice. “Tu sai che niente è più importante per me”, scriveva. “Ti imploro, anche solo per la possibilità di mettermi alla prova” [13]. Miss Cobb iniziò anche a parlare in pubblico senza più autoimporsi alcun freno, convinta, ormai, di avere ben poco da perdere. Partendo dal presupposto di stare sempre lavorando come consulente della NASA per la questione delle donne nello spazio – perché, sostiene, nessuno dell’agenzia spaziale l’ha mai ufficialmente informata che così non fosse – prese a definirsi “la meno consultata delle consulenti” del governo statunitense. Discorso dopo
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Randy Lovelace disse a Jackie Cochran che la Lovelace Foundation non aveva stilato una graduatoria generale delle tredici donne. Pungolato da Mrs Cochran, Randy le disse anche che, per quanto ne sapeva lui, Jerrie Cobb non era mai stata eletta a portavoce del gruppo. Gli autori riferirono anche che la Civil Aeronautics Administration una volta aveva avvisato che per le donne era pericoloso pilotare un aereo tre giorni prima, durante o dopo i loro cicli mestruali.
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discorso, Jerrie si serviva di quella frase e proclamava sarcastica che gli scienziati uomini pensavano che l’astronauta donna ideale fosse una specie rara – una piccola, dolce femmina natia delle alte quote – o, come diceva lei, “una donna in miniatura che scende dalle Ande con un PhD”, il titolo più alto conferito dalle università statunitensi [14]. Entro la fine dell’anno Webb perse la pazienza, e accettò di incontrarla a Washington per chiarire la questione. Avendo la sensazione che Jerrie spesso fraintendesse le sue parole, o vi leggesse più incoraggiamento di quanto lui intendesse darne, l’uomo chiese a un’assistente della NASA di prendere appunti su ciò che veniva detto. Webb comunicò a Miss Cobb che il suo incarico alla NASA era arrivato al termine, e che non sarebbe stato rinnovato. Le chiese di smettere di usare la formula della “meno consultata delle consulenti” per riferirsi alla sua posizione attuale poiché dava l’impressione di essere ancora legata alla NASA. In quella che suonò quasi come una minaccia, la informò che se avessero continuato a chiedergli commenti sulle sue esternazioni critiche o, come le chiamava lui, il suo “modo irrazionale” di fare campagna, sarebbe stato costretto a rispondere che non consultava Jerrie Cobb perché non trovava funzionale il suo giudizio [15]. Per quanto riguardava la NASA, il caso delle donne nello spazio era chiuso. Di sicuro, Miss Cobb lo capì perfettamente allorché Webb nominò nuova consulente straordinaria per la NASA Jackie Cochran3 [16]. Per molte delle Mercury 13, l’impressione era che nulla di tangibile fosse derivato dai loro test, dalla successiva perorazione politica o dalle udienze congressuali. Alcune si rassegnarono ad aver semplicemente fatto da ratti di laboratorio; altre aggiunsero ulteriori qualifiche aeronautiche ai propri curricula, nel tentativo di dimostrare che la NASA e gli Stati Uniti si sbagliavano [17]. Jerri Sloan decise di denunciare pubblicamente ogni occasione in cui vedeva la NASA favorire gli uo3
Anche le proposte di Mrs Cochran riguardo a un programma spaziale per le donne si arenarono contro il disinteresse della NASA. La donna comprese che la carica che le era stata affidata era probabilmente più un’operazione di facciata che di sostanza e, diversi anni dopo, si lamentò con la NASA, accusando l’agenzia di aver dato poco seguito ai suoi suggerimenti e di averla consultata solo molto raramente.
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mini bianchi, o la sentiva fare commenti sprezzanti sulle donne. Scrisse molte lettere all’agenzia spaziale, parlò della propria esperienza in diversi programmi radiofonici, concesse interviste alla stampa americana, messicana e britannica. Non scordò mai il commento sui “cinquanta chilogrammi di carico utile per l’equipaggiamento ricreativo”, commento che per lei rappresentava tutto ciò che c’era di riprovevole nello scabroso sessismo della NASA. Miss Sloan tornò a lavorare nella propria impresa di servizi aerei, sposò – diversi anni dopo – il proprio socio d’affari, e divenne, come lei stessa si proclamò, un “cane da guardia” – non un ruolo dinamico come l’essere una WASP, il suo ideale di donna attiva e patriottica, ma uno che potesse infine far sì che la NASA si decidesse a scegliere un’astronauta donna4 [18]. Wally Funk tentò un approccio diverso. Restia ad abbandonare il sogno di diventare un’astronauta, cercò delle vie ufficiose per proseguire i test, sperando che potesse tornarle utile nell’improbabile eventualità di ricevere una chiamata dalla NASA. Trovò alcuni Marine alla El Toro Marine Corps Base della California che le permisero di sottoporsi al test della camera di simulazione dell’alta quota e a quello sul seggiolino eiettabile Martin-Baker. Alla University of Southern California convinse gli scienziati a lasciarla entrare in una centrifuga per misurare la sua capacità di affrontare forze gravitazionali crescenti. Wally sapeva che i militari che si sottoponevano a quel test indossavano tute spaziali antigravità che stringevano loro i muscoli aiutandoli a evitare di svenire. Come civile, Miss Funk non era autorizzata a indossare la tuta, di proprietà del governo. “Chiesi a mia madre se poteva darmi il suo peggior ‘vedova allegra’”, spiegò, descrivendo un corsetto che stringeva la vita delle donne conferendo loro la forma di
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Una conseguenza alquanto strana dei test alle donne fu un’offerta di lavoro che venne fatta a Jerri Sloan. Dopo che sulla stampa era apparsa una sua fotografia in cui era indicata come una delle donne che avevano affrontato i test per astronaute, la DuPont pensò che possedesse il potenziale di una modella, e le chiese se fosse disposta a viaggiare in giro per il Paese apparendo in annunci che pubblicizzavano un nuovo tessuto della ditta: la lycra. “Con i bambini da sfamare”, dirà in seguito Mrs Sloan Truhill, accettò l’offerta, e viaggiò attraverso gli Stati Uniti e il Messico per diversi mesi.
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una clessidra. Strizzata nella “Wally tuta” sormontata dall’ingombrante bardatura da pilota, la donna si arrampicò nella centrifuga e iniziò a vorticare, sentendo presto piombare su di sé la “grigia cortina” dell’incoscienza. Contraendo i muscoli, si augurò che il “vedova allegra” tenesse “tutto in avanti e in alto”. Miss Funk riferì che il personale della base si stupì di aver scovato qualcuno in grado di sopportare un’accelerazione di 5 g senza l’apposita tuta. Gli scienziati sarebbero stati ancora più scioccati se avessero saputo che aveva affrontato il test indossando un corsetto. Wally non aveva compreso bene il fatto che la tuta antigravità funziona perché comprime le estremità inferiori, non il centro della persona. Il “vedova allegra” avrebbe potuto nuocerle gravemente, dal momento che le impediva di respirare a fondo e diminuiva l’afflusso di sangue al torace. Di fatto, se la sua permanenza nella centrifuga ebbe successo, ciò avvenne nonostante il suo malaccorto uso del corsetto, e non grazie a quello [19]. Mentre gli effetti immediati degli sforzi delle Mercury 13 furono trascurabili, le conseguenze a lungo termine sono state molto significative. La prima avvenne sotto forma di una telefonata a casa di Janey Hart, a Washington. Al ricevitore: Betty Friedan. Betty aveva letto la testimonianza resa da Mrs Hart davanti alla sottocommissione del Congresso e l’aveva trovata splendida: incisiva, fondata su solidi principi morali, audace perfino. La scrittrice femminista aveva appena pubblicato un libro sulle soffocanti vite delle casalinghe di provincia americane bianche, intitolato The Feminine Mystique. Se ne parlava ovunque, e Mrs Hart lo sapeva. L’aveva letto anche lei, e ne era rimasta molto colpita. Miss Friedan sosteneva ciò che lei già aveva intuito: che le donne erano considerate cittadine di serie B dai media, dalle strutture educative, dal governo, dall’industria, dalle istituzioni religiose e praticamente da qualunque altro ramo della società americana. Betty Friedan chiese a Mrs Hart se le fosse possibile allontanarsi da casa per recarsi a New York per un giorno, così da incontrarla. Magari c’è qualcosa che possiamo fare, insieme, le disse; magari le donne hanno bisogno di un’organizzazione, qualcosa che riparta da dove si sono fermate le suffragiste, magari c’è bisogno proprio di ri-
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lanciare quel movimento. Mrs Hart convogliò tutta la propria delusione riguardo alla NASA in quell’incontro, e nei molti altri che seguirono. Nel 1966 venne fondata la National Organization for Women (NOW), con Miss Friedan come primo presidente dell’associazione e Janey Hart come membro del suo primo consiglio d’amministrazione. Tra le prime azioni della NOW ci furono la pressione ai giornali affinché abolissero gli annunci in cui si offriva lavoro in maniera discriminatoria dal punto di vista del sesso e l’estensione di un reclamo formale contro la NASA che accusava l’agenzia spaziale di sessismo non solo nel reclutamento degli astronauti ma anche nelle assunzioni di personale per le cariche dirigenziali. L’attenzione che Miss Cobb e Mrs Hart attirarono sui metodi di reclutamento degli astronauti da parte della NASA non sortirono effetti immediati, ma sollevarono questioni affini [20]. Edward Dwight Jr, un comandante dell’Air Force, è stato uno dei primi afroamericani ad avere accesso all’addestramento per piloti collaudatori di jet alla Edwards. Dwight ebbe successo, e nel 1963 fu uno dei ventisei piloti che l’Air Force segnalò alla NASA per il servizio astronautico. La NASA lo respinse, decisione che molti dei suoi sostenitori ritennero fosse da imputare più al razzismo che non a una qualche lacuna nelle sue credenziali di volo. Durante tutto il tempo che trascorse alla Edwards, alcuni ufficiali continuarono a considerarlo un “Kennedy boy”: un pilota che era stato ammesso alla scuola per collaudatori di jet solo perché il presidente Kennedy aveva invocato l’integrazione razziale. Nonostante Dwight avesse tutti i requisiti necessari per diventare un astronauta, comprese l’esperienza come pilota collaudatore di jet e una laurea in ingegneria aeronautica, l’Air Force in seguito lo assegnò a un lavoro d’ufficio in Ohio. Le sue proteste alla fine risvegliarono l’attenzione dei media e portarono a un’inchiesta congressuale, e perfino a una reazione da parte dell’Unione Sovietica. L’agenzia di stampa TASS riferì che Dwight “è stato respinto come astronauta perché nero”. La NASA affermò di avere un passato irreprensibile in merito alle pari opportunità ma la gente, che ora era a conoscenza dei fatti riguardanti il comandante Dwight come lo era di quelli riguar-
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danti le Mercury 13, stava iniziando a porsi delle domande [21]. E la NASA dovette rispondere ad altre domande quando, il 16 giugno 1963, la cosmonauta sovietica Valentina Tereshkova divenne la prima donna nello spazio. Per Miss Cobb la notizia che una donna che lavorava in una fabbrica tessile ed era una paracadutista dilettante fosse riuscita a raggiungere lo spazio cosmico prima di lei fu avvilente. La Tereshkova non era nemmeno una pilota, e di certo non possedeva una laurea in ingegneria o esperienza quale collaudatrice di jet. “Ho combattuto così a lungo, non posso fare a meno di provare un certo rimpianto”, disse Jerrie. “Io lo so... so che avremmo potuto farlo noi. Ora abbiamo perso la nostra unica possibilità di stabilire un primato nello spazio... Sono sincera quando dico che le auguro il meglio. Sono felice che una donna ce l’abbia fatta. Ma mi dispiace che non sia un’americana” [22]. Anche John Glenn commentò pubblicamente l’avvenimento, continuando a confermare di essere convinto che gli astronauti americani maschi avevano fatto meglio di quanto avrebbero potuto fare le donne. I requisiti che vogliamo sono soddisfatti meglio dagli uomini che dalle donne, disse [23]. La famosa scrittrice Clare Boothe Luce compose un articolo caustico per Life, in cui ricordava ai lettori che, un anno prima, tredici donne americane avevano chiesto al Congresso di inviare nello spazio una donna americana. Dov’erano adesso quelle tredici donne?, chiedeva Mrs Luce. “La squadra americana sta ancora scaldando la panchina”, rispondeva il titolo di testa dell’articolo. Mrs Luce definì quell’opportunità mancata un errore marchiano costoso da commettere nel corso della guerra fredda e criticò aspramente gli uomini americani per la loro visione sessista delle donne. La NASA dissentì, definendo il lancio della Tereshkova niente più che una trovata pubblicitaria [24]. Sperando che James Webb si fosse almeno sentito mortificato vedendo finire in mano ai russi un altro record spaziale, qualche settimana più tardi Miss Cobb presentò formalmente domanda di ammissione al programma di addestramento astronautico alla NASA. L’agenzia respinse categoricamente la sua candidatura, dichiarando che era pervenuta dopo la scadenza fissata e, quindi, non sarebbe stata
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presa in considerazione. Un portavoce della NASA aggiunse che altre due donne erano riuscite a far pervenire in tempo le proprie domande. Naturalmente, in seguito, anche quelle vennero respinte5 [25]. A novembre Miss Cobb volò in Giamaica, un luogo che rammentava con tenerezza dai suoi esordi come ferry pilot, per pensare alle proprie alternative per il futuro. Sapeva che avrebbe dovuto lasciare il proprio lavoro nel marketing per la Aero Design, a Oklahoma City. Per quanto avesse goduto del sostegno illimitato del suo capo, Tom Harris, non sarebbe mai più riuscita a stamparsi un sorriso in volto per accogliere la gente come se niente fosse [26]. Sebbene desiderasse recarsi nello spazio con tutte le proprie forze, si rendeva anche conto che la sua campagna pubblica le era costata un prezzo personale altissimo. Aveva bisogno di tornare a essere la Jerrie “privata”, e di decidere come voleva usare la sua abilità aeronautica, il suo tempo, e la sua vita. Nel novembre 1963, l’assassinio del presidente John Kennedy sconvolse il Paese, e all’improvviso Lyndon Johnson si ritrovò nello Studio Ovale a decidere se avrebbe portato avanti le priorità spaziali cui puntava Kennedy o se le avrebbe cambiate. Pochi giorni dopo le esequie, uno spossato Johnson chiamò Webb al telefono. Dopo aver parlato brevemente della proposta di affidare al controllo delle forze armate il Programma Gemini – prova generale per il Programma lunare Apollo – Johnson chiese quali fossero le prospettive del budget per lo spazio. Non c’era tanto denaro quanto aveva sperato, rispose Webb, domandandosi se Johnson fosse preparato a “far slittare al prossimo decennio l’allunaggio dell’uomo” [27]. Ma l’uomo sulla Luna era una promessa di Kennedy che nessuno voleva vedere cadere nel vuoto. L’obiettivo spaziale di Kennedy aveva definito la lungimiranza e il vigore del suo mandato presidenziale. Johnson desiderava che il lancio lunare procedesse.
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Miss Cobb si candidò anche per il programma di addestramento come pilota collaudatore d’alta quota sugli X-15, e venne respinta pure in quel caso. “Essenzialmente questa decisione è stata presa sulla scorta degli stessi fattori che le hanno impedito di accedere al programma per astronauti”, la informò la NASA.
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Mentre portava avanti con determinazione il Programma Gemini, la NASA aumentò anche il numero di specialisti ingaggiati per quel lavoro6. Durante una cerimonia alla Casa Bianca, in aprile, Lyndon Johnson nominò il dottor Randy Lovelace nuovo direttore di medicina spaziale per il volo con equipaggio umano della NASA. Lovelace si gettò nel lavoro anima e corpo, con un ritmo ancora più frenetico di quello che già gli era abituale. Lavorava nel proprio ufficio di Washington per diversi giorni alla settimana, quindi tornava ad Albuquerque per eseguire alcuni interventi e sovrintendere le operazioni alla fondazione. Dopo aver pronunciato cinquantasette discorsi ufficiali in un anno, oltre ad aver svolto il suo solito lavoro, Lovelace si rese conto di sentire il bisogno di trascorrere più tempo con la propria famiglia. Fece un giro del mondo con la moglie e le due figlie più piccole e investì del denaro in una nuova casa per le vacanze ad Aspen, in Colorado7 [29]. Nel dicembre 1965, Randy assunse un pilota aziendale per il breve viaggio ad Aspen, come era sua abitudine. Alla partenza per il volo di ritorno ad Albuquerque il cielo era terso e il bimotore Beechcraft sorvolò lentamente Maroon Creek, così che Lovelace e moglie potessero guardare in basso per ammirare la loro nuova proprietà. Virando a est oltre l’Independence Pass, l’aereo si diresse verso la cima di Sawatch Range. Realizzando troppo tardi di essersi infilato in un angusto canyon chiuso nel quale non c’era spazio per girare l’aereo, il pilota tentò un’impossibile, estrema virata prima che il bimotore colpisse la ripida parete rocciosa, precipitasse, ruotasse su se stesso e si schiantasse sulla neve sottostante. Ci vollero giorni prima che ottanta aerei, che stavano battendo quasi ottantamila chilometri quadrati, riuscis-
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L’obiettivo del Programma Mercury era quello di far orbitare un uomo intorno alla Terra. Il Programma Gemini puntava a far orbitare due uomini, e per un periodo di alcuni giorni. In quel lasso di tempo, i due avrebbero dovuto eseguire manovre di avvicinamento (rendezvous) e di agganciamento (docking). Il Programma Apollo era incentrato sull’allunaggio. Randy Lovelace stava anche progettando di scrivere la propria autobiografia e si portò a casa molti dei suoi dossier sullo spazio così da poterli consultare. La figlia minore, Jacqueline Lovelace Johnson, pensa che quegli incartamenti siano andati perduti [28].
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sero a localizzare il mezzo e i tre corpi. Quando i soccorritori finalmente individuarono il luogo dell’incidente, trovarono il pilota morto addossato alla fusoliera. La radio dell’aereo era ancora stretta nella sua mano, il filo staccato che svolazzava nel vento di montagna [30]. La funzione commemorativa per Randy e Mary Lovelace attrasse centinaia di persone, inclusi generali, politici, eminenti scienziati e dipendenti della NASA. Scott Carpenter era presente in rappresentanza degli astronauti le cui carriere erano iniziate proprio nelle stanze della Lovelace Foundation. Jackie Cochran fu devastata dalla perdita di due dei suoi più cari amici8. Nei numerosissimi elogi funebri che giunsero da Washington e da Cape Canaveral, molti fecero riferimento al commovente tempismo del trapasso del dottor Lovelace. Quasi nel preciso istante in cui venivano ritrovati i corpi, gli equipaggi della Gemini VI e della Gemini VII, che stavano orbitando su nel cielo, portavano felicemente a compimento il primo vero rendezvous spaziale, avvicinando le capsule fino a farle volare a pochi centimetri di distanza l’una dall’altra in un’esercitazione in vista dell’allunaggio. Dalla loro posizione nello spazio cosmico, gli astronauti riuscivano quasi a vedere lo scosceso fianco della montagna sulla quale l’aereo di Lovelace si era schiantato. Il presidente Johnson, commentando il lascito di Lovelace, disse che “la sua vita è stata troppo breve, ma l’eredità che lascia alla medicina spaziale vivrà e sarà fonte di sicurezza per i futuri astronauti, i cui nomi e le cui gesta sono ancora ignoti” [31]. Jerrie Cobb dev’essersi domandata che cosa avrebbe potuto esserne del programma spaziale per le donne se Randy fosse sopravvissuto. Dato il suo nuovo ruolo alla NASA, forse Lovelace in un secondo momento avrebbe potuto riproporre i test delle donne, agendo da in-
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Appena dopo la morte di Randy e Mary Lovelace, la famiglia e gli amici si domandarono se Jackie Cochran si sarebbe assunta le responsabilità genitoriali nei confronti della propria figlioccia, la sedicenne Jackie Lovelace, ma alla fine la ragazza andò a vivere con degli zii. Mrs Cochran si tenne in stretto contatto con lei e con le sorelle maggiori. Ripensando al passato, Jackie Lovelace dice che Mrs Cochran era una donna dura in tempi duri, e non era molto compassionevole. In confronto alla sua risolutezza alimentata dall’amor proprio, chiunque altro era un “posapiano”, disse.
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terno. Nell’ambiente della medicina aeronautica, alcuni colleghi di Randy, come il dottor Stanley Mohler, pensavano che il loro amico sembrasse riuscire sempre a trovare un modo per aggirare la burocrazia e gli ostacoli politici così da ottenere, alla fine, ciò che voleva. La mera forza della sua curiosità scientifica era stata tale da spingerlo a continuare a investigare questioni che altri scienziati ritenevano non valesse la pena di approfondire. Agli occhi di molti, l’impressione era che Randy stesse solo aspettando ancora un po’ prima di tornare a fare pressing sulla faccenda delle donne astronauta. [32] Dopo aver lasciato il proprio lavoro alla Aero Design di Oklahoma City, Jerrie si stabilì in Florida, dove condivise una casa con Jane Rieker e cercò di scendere a patti con ciò che era accaduto al programma “Ragazze nello spazio”. Insieme, le due donne iniziarono a lavorare a un’autobiografia di Jerrie incentrata sulla sua campagna a favore delle donne astronauta e sui suoi primi anni da pilota, quelli trascorsi a infrangere record. Entrambe speravano che Woman into Space: The Jerrie Cobb Story riuscisse a risvegliare l’interesse del pubblico nei confronti del suo sogno di diventare astronauta, ma non ci fu alcuna ondata di solidarietà. In seguito Jerrie divenne una “consulente aeronautica”, definizione che lei considerava pomposa in maniera imbarazzante. “In realtà sono soltanto un normalissimo fattorino, solo che lavoro in proprio. Volerò ovunque per chiunque abbia bisogno che venga consegnato qualcosa o qualcuno”, disse [33]. Il massimo della vicinanza al programma spaziale lo ottenne quando recapitò, con il proprio aereo, fotografie e altro materiale su un recente lancio della capsula Gemini agli uffici di Chicago della rivista Life. Con il passare del tempo si ritrovò a volare sempre più di frequente in America Centrale e nel Sud America. Aveva dimestichezza con quelle rotte dai suoi tempi alla Fleetway con Jack Ford, e continuava a sentirsi personalmente attratta dalle giungle verdi, dalle foreste impenetrabili e dalle popolazioni indigene dell’Amazzonia. Forse, più di tutto, Jerrie era attratta dalla solitudine. La nostra si immerse pure nella religione. Durante un viaggio in Sud America nacque in lei un interesse per il lavoro della Wycliffe Bible Translators – un’organizzazione di tradut-
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tori missionari che avevano vissuto con le tribù native, creando un alfabeto per le loro lingue orali e redigendo apposite versioni della Bibbia. Anche se Miss Cobb era molto riservata per quanto concerneva la propria fede, i suoi amici sapevano che per lei era una grande fonte di forza, soprattutto mentre cercava di convivere con la delusione di non avere un futuro da astronauta. Jerrie sperava di riuscire a trovare qualche piccolo ingaggio come pilota freelance che la portasse in Sud America, così da poter dedicare la maggior parte del proprio tempo alle popolazioni indigene della giungla. “Amo moltissimo l’America Latina e la gente che ci vive”, disse [34]. Dopo aver visto respingere le proprie candidature per lavorare come pilota per alcune organizzazioni di sacerdoti latinoamericani (bocciature a suo parere dovute al fatto che i gruppi erano in cerca di piloti maschi), decise di mettersi in proprio fornendo servizi aerei a una società missionaria composta solo da se stessa [35]. Accettando dei modesti contributi economici là dove riusciva a trovarne, Jerrie prese a trascorrere le proprie giornate sorvolando da sola vaste zone dell’Amazzonia, trasportando cibo, medicinali e sementi alle popolazioni della foresta tropicale. La sera consultava le proprie cartine vergate a mano in cerca di una pista d’atterraggio, spesso una piccola radura piena di solchi strappata alla foresta a colpi di machete. La donna sapeva che la sua famiglia si chiedeva se non stesse fuggendo dalle proprie disillusioni [36]. Si rendeva anche conto che gli amici erano preoccupati per lei, e si domandavano quanto a lungo sarebbe riuscita a vivere in un ambiente tanto inclemente, dove poteva volerci anche mezza giornata solo per riuscire a fare il pieno al proprio aereo – lavoro massacrante che consisteva nell’autotrasportare bidoni da cinque galloni, quasi venti litri, di benzina, da filtrare poi attraverso una camicia logora. Ma lei era soddisfatta. Aveva trovato il modo di guadagnarsi giusto quel poco che le serviva per tenere il motore dell’aereo rifornito e se stessa sopra le nuvole – a volte svolgendo lavoretti umili quali trasportare una cassa di Coca Cola e un paio di sacchi di cemento da un posto all’altro [37]. Le battaglie con Jackie Cochran, James Webb e i politici di Capitol Hill erano molto lontane, alle sue
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spalle. Mrs Cochran stava avendo dei problemi di salute che l’avevano costretta a ridurre gli impegni aeronautici e lavorativi. Perfino Webb se n’era andato, rassegnando le proprie dimissioni nel 1968, poche settimane prima che Richard Nixon venisse eletto alla Casa Bianca9. Miss Cobb non aveva più voglia di affrontare sfide create dall’uomo. Preferiva di gran lunga confrontarsi con quelle naturali, quali la pioggia, la nebbia, e perfino il peggior incubo di un pilota nella giungla: il passaggio al buio della notte. Non essendoci il crepuscolo, in Amazzonia, il giorno volge alla notte in un istante. Vivendo letteralmente in un mondo fatto di giorno e notte, bianco e nero, vita e morte, Miss Cobb si sentì ristorata da un ambiente apparentemente privo di ambiguità. “La prima volta che sono arrivata in Amazzonia”, ha scritto nella propria autobiografia, “non ero certa di essere abbastanza coraggiosa da volare su una giungla tanto immensa”. Ora non sapeva se avrebbe avuto il coraggio di andarsene [38]. Il 20 luglio 1969, Miss Cobb stava volando alta sopra l’Amazzonia quando apprese dalla radio la notizia che Neil Armstrong aveva messo piede sulla Luna. “Un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo per l’umanità”, disse l’astronauta scendendo dal modulo sulla polverosa superficie lunare. La missione di Kennedy era stata compiuta. Jerrie fu elettrizzata dalla notizia: qualunque cosa avesse a che fare con il volo spaziale riusciva ancora a entusiasmarla. Ma si rese anche conto che la determinazione nazionale, tutta tesa a battere i russi nella corsa alla Luna, aveva spinto da parte tutte le altre imprese spaziali. Per molti versi, John Glenn aveva avuto ragione. Era un dato di fatto dell’ordine sociale statunitense: molto semplicemente, le donne non erano al centro delle priorità nazionali, e un manipolo di donne non sarebbe riuscito a convincere il governo del contrario. Sentendo la voce
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Webb era convinto di essere visto come un filodemocratico, e che un direttore più neutrale dal punto di vista politico sarebbe riuscito a fare in modo che il programma lunare si svolgesse secondo i tempi previsti. Inoltre, dopo l’incendio che nel 1967 aveva ucciso gli astronauti dell’Apollo Gus Grissom, Roger Chaffee ed Edward White, Webb era anche diventato il bersaglio di coloro che criticavano la NASA. In seguito l’uomo divenne un membro del consiglio dello Smithsonian Institution. Morì nel 1992.
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gracchiante dell’operatore radiofonico peruviano annunciarle la storica notizia dell’allunaggio, Miss Cobb si rese conto di quanto radicalmente fosse cambiata la sua vita. Otto anni prima, quando Alan Shepard aveva compiuto il suo primo lancio, si era trovata al centro dell’eccitazione, rispondendo alle domande dei reporter, appellandosi a Webb, invocando l’aiuto del vicepresidente, testimoniando davanti al Congresso, presenziando a un’infinita girandola di cene e pronunciando discorsi con filo di perle, tacchi alti e sorrisi. Ora era sola, a molte miglia di quota sopra la giungla, senza praticamente nessuno con cui condividere la propria esaltazione o il proprio rimpianto [39]. Con il rientro della missione dell’Apollo 17, nel dicembre 1972, la NASA portò a termine il programma di undici anni e venticinque miliardi e quattrocento milioni di dollari il cui unico obiettivo era stata l’esplorazione umana della Luna. In tutto, dodici astronauti avevano camminato sul nostro satellite nel corso di sei missioni. A partire dal 1970, addirittura prima del completamento del Programma Apollo, la NASA iniziò a essere sottoposta a notevoli tagli del budget. Dato il clima politico al culmine della guerra del Vietnam, il Congresso avvertiva che la popolazione americana era molto più preoccupata dei problemi interni e internazionali che dell’esplorazione spaziale. Dopo le missioni Apollo, la NASA concentrò i propri sforzi sui viaggi spaziali a lunga durata. Il suo primo esperimento in tal senso fu il Programma Skylab del 1973, che lanciò le missioni a tre uomini. Negli ultimi giorni della corsa allo spazio contro l’Unione Sovietica, gli obiettivi della NASA virarono verso una maggiore cooperazione nello spazio. Nel 1975, la NASA e l’Unione Sovietica collaborarono nel Programma Apollo-Soyuz. In seguito l’agenzia spaziale americana si dedicò a sviluppare veicoli spaziali destinati all’esplorazione planetaria, tra cui il Programma Viking, che cercava segni di vita su Marte [40]. I cambiamenti sociali innescati dal movimento delle donne e da quello per i diritti civili ebbero delle ripercussioni anche sulla NASA. Alcuni emendamenti al Civil Rights Act del 1964 attirarono l’attenzione sulle politiche federali di reclutamento. Una per volta, le forze
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armate aprirono l’addestramento al volo militare – incluse le scuole per piloti collaudatori di jet – alle donne10 [41]. La NAACP, l’Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore, e l’Urban League, un’organizzazione per la difesa dei diritti delle persone di colore, chiesero che la NASA spiegasse perché aveva selezionato come astronauti solo maschi bianchi. La Commissione statunitense per i diritti civili chiese di vedere i dati della NASA riguardanti genere e razza dei candidati coinvolti nel processo di selezione degli astronauti. La NOW manifestò davanti al quartier generale della NASA a Washington e inscenò delle rappresentazioni di protesta in strada per ottenere l’attenzione della stampa11. Il Comitato per le scienze spaziali e i veterani del Senato tenne delle udienze per indagare sul dipartimento per le pari opportunità della NASA [42]. Perfino George Low, che aveva difeso la politica di reclutamento della NASA durante le udienze congressuali di undici anni prima, ora era disposto ad ammettere che i precedenti dell’agenzia riguardo all’assunzione di donne per le cariche più alte erano “davvero scarsi” [43]. Il membro del Congresso Barbara Jordan andò oltre, affermando che la sottile e palese discriminazione contro le donne e le minoranze aveva privato la NASA “di una fonte vitale di talenti e di idee”12 [44]. Tra la crescente pressione pubblica e governativa, il nuovo direttore della NASA, James Fletcher, invocò un approccio diverso per la
Alle donne non venne permesso di entrare nei ranghi dei piloti militari collaudatori di jet fino a dopo che il movimento femminista degli ultimi anni Sessanta e dei primi anni Settanta non costrinse la civiltà americana a ripensare alle proprie tesi sui due sessi. L’Esercito aprì il proprio addestramento per piloti collaudatori alle donne nel 1974. La Marina seguì l’esempio nel 1983. L’Aeronautica non aprì le porte all’addestramento di donne collaudatrici fino al 1988. 11 Una delle proteste della NOW venne inscenata in seguito alla passeggiata lunare di Armstrong e vide cinque donne portare grosse sagome di cartone di piedi, le unghie dipinte di smalto rosso. Quando le cinque protestanti si mettevano in fila, le parole vergate sulle rispettive sagome richiamavano, rettificandole, le celebri parole di Armstrong. Mentre l’astronauta aveva usato il termine “mankind” per umanità, il cui prefisso, “man”, significa “uomo maschio”, i cinque piedi delle protestanti della NOW si servivano del vocabolo “humankind”, usando il prefisso “human”, umano. La scritta, dunque, anziché “One Giant Leap for Mankind” recitava “One Giant Leap for Humankind”: un grande balzo per il genere umano. (N.d.T.) 10
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selezione del successivo gruppo di astronauti, annunciando che sarebbe stata data “piena considerazione” alle minoranze e alle donne nella scelta del grosso gruppo di astronauti necessario per governare gli imminenti voli dello Space Shuttle. Nel 1978, la NASA selezionò trentacinque nuovi astronauti a partire da una rosa di ottomilasettantanove aspiranti e li presentò al pubblico al Johnson Space Center [45]. Tra di loro c’erano il primo astronauta afroamericano, il primo asiatico americano e le prime donne. Le sei donne, tutte specialiste di missione, vennero scelte per la loro competenza scientifica, e non erano piloti o comandanti destinate a “guidare” la navetta spaziale in senso stretto. Le prime donne astronauta selezionate dalla NASA furono Anna Fisher, Shannon Lucid, Judith Resnik, Sally Ride, Margaret Seddon e Kathryn Sullivan. Di loro, Sally Ride fu quella che avrebbe fatto la storia dello spazio. Quando, il 18 giugno 1983, decollò dalla piattaforma di lancio divenendo la prima donna americana nello spazio, una moltitudine di mezzo milione di donne e uomini era assiepata lungo le superstrade e le spiagge di Cape Canaveral per incitarla e festeggiare la posa di una nuova pietra miliare nazionale. Le Mercury 13, Randy Lovelace, e perfino Jackie Cochran, morta a causa di un’affezione cardiaca tre anni prima, all’età di settantaquattro anni, erano stati dimenticati da tempo dalla folla in attesa del conto alla rovescia. Solo Janey Hart si trovava sul posto ad assistere al lancio della navetta. Mentre lo Shuttle saliva lentamente nel cielo, la donna faticava a credere all’esuberante boato che si levò dalla folla. “Vai Sally, vai!”, urlavano, in un gioco di parole che per-
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La NASA cercò anche di migliorare la propria immagine presso le donne e le minoranze, e ingaggiò l’attrice afroamericana Nichelle Nichols per promuovere pubblicamente le professioni relative allo spazio e redigere una relazione sulle politiche di assunzione dell’agenzia. Miss Nichols, che produceva film motivazionali per i giovani delle minoranze, era meglio conosciuta per il ruolo di tenente Uhura, ufficiale addetta alle comunicazioni sulla nave stellare Enterprise nella famosa serie televisiva Star Trek. La valutazione della Nichols dell’approccio della NASA nell’ingaggiare membri appartenenti alle minoranze e donne fu particolarmente sagace. Scegliendo la “strada della minore resistenza”, asserì, la NASA aveva deciso che, semplicemente, era più facile mandare un uomo sulla Luna che occuparsi di questioni di uguaglianza umana.
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metteva loro di servirsi del cognome dell’astronauta, “Ride”, che in inglese significa anche “andare, viaggiare” [46]. Mentre quasi tutti, guardando su nel cielo estivo, vedevano la prima donna astronauta della nazione sospinta nello spazio cosmico da due potentissimi razzi vettori, Janey Hart vedeva qualcosa di diverso. Janey sapeva che Sally Ride era stata lanciata due decenni prima da tredici donne americane che sognavano il volo spaziale.
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Per quanto fosse elettrizzata dal lancio di Sally Ride, Jerri Sloan Truhill sapeva che rimaneva da varcare ancora una soglia della NASA: il seggiolino di sinistra. Mrs Truhill voleva vedere un comandante donna sullo Space Shuttle, un’esponente del sesso femminile a capo di una missione nello spazio cosmico. Perfino dopo centoventicinque missioni, spalmate sull’arco di quattro decenni, la NASA ancora non aveva mai scelto un comandante donna. Sally Ride era stata una specialista di missione, una scienziata che conduceva esperimenti e ricerche a bordo della navetta. Non aveva alcuna responsabilità nel pilotare il veicolo spaziale né, come disse Sarah Gorelick Ratley, le spettava “alcuna parte del divertimento”. “Vogliamo vedere una donna alla guida dell’autobus, non seduta dietro”, fu il commento di Mrs Truhill. Jerri Truhill era rimasta in contatto con la propria compagna di test alla Lovelace, “B” Steadman, così come con Janey Hart e con alcune delle altre donne del Mercury 13, e tutte quante si erano solennemente ripromesse di perorare la faccenda in pubblico fino a che la NASA non si fosse decisa a nominare un comandante donna. Le aviatrici vedevano in una donna seduta sul seggiolino di sinistra la realizzazione personale dei loro sogni, nonché il proprio lascito perpetuo [1]. Nel 1998, il presidente Bill Clinton annunciò che la NASA aveva designato Eileen Collins a diventare la prima donna a comandare uno Shuttle. Quarantaduenne, tenente colonnello dell’Air Force, Mrs Collins aveva alle spalle sette anni di anzianità nel corpo aeronautico, ed era la seconda donna ad aver affrontato l’addestramento da pilota militare collaudatore di jet presso la Edwards Air Force Base. Era diventata pilota collaudatrice nel 1990, un anno dopo che l’Air Force aveva M. Ackmann, Mercury 13 © Springer-Verlag Italia, Milano 2011
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aperto le porte all’addestramento delle donne alla Edwards. Durante la cerimonia in cui le conferì la carica, alla Casa Bianca, Clinton fece notare il contrasto tra la selezione di Mrs Collins e la presentazione al pubblico degli astronauti del Programma Mercury. “Quarant’anni fa”, disse, “la rivista Life presentava al mondo i primi astronauti americani rilevando che i sette del Mercury erano stati presi tutti ‘dallo stesso stampo’. Erano tutti piloti militari, tutti sulla trentina, tutti con lo stesso taglio militare di capelli”. Con la nomina di Eileen Collins, dichiarò il presidente, gli Stati Uniti avevano posato una pietra miliare nella storia dello spazio e della parità sociale [2]. Mrs Collins era consapevole di non aver raggiunto il traguardo da sola. Accanita lettrice fin da bambina, era stata ispirata dai libri su Amelia Earhart, sulle prime donne che giravano a fare comizi e propaganda elettorale nelle zone rurali, e sul ruolo delle WASP durante la Seconda guerra mondiale. Per anni era stata una “pilota del cofano”, seduta sull’automobile di famiglia a Elmira, New York, a guardare gli aerei decollare e atterrare dal e sul campo di volo locale. Con scarsa disponibilità economica, e costretta spesso a fare affidamento sui buoni alimentari per riuscire a cavarsela, la famiglia Collins sapeva che le lezioni di volo erano uno sperpero che non poteva permettersi. Eileen iniziò a lavorare come cameriera in una pizzeria del posto, mettendo da parte le mance per pagarsi il college. Quando il suo conto in banca raggiunse i mille dollari, portò tutto il denaro a una vicina scuola di volo e si guadagnò il proprio brevetto da pilota. Quindi vennero la Syracuse University, il servizio nell’Air Force, e l’addestramento alla Edwards come pilota collaudatore di jet. Le letture, il sostegno della famiglia, la possibilità di accedere all’istruzione e le porte aperte delle forze armate avevano cambiato le cose, disse. Eileen Collins aveva a malapena cinque anni quando Jerrie Cobb e le Mercury 13 avevano superato i test alla Lovelace e avevano portato la propria causa al Congresso per ottenere una chance di venire lanciate nello spazio. Mrs Collins non aveva mai letto gli articoli che parlavano del galleggiamento di Jerrie nella vasca d’isolamento sensoriale, né sapeva dell’atto d’accusa di Mrs Hart contro la NASA, né
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del giro in centrifuga di Wally Funk con un “vedova allegra”. Quando entrò nella NASA, Eileen sentì dalle altre astronaute qualche vago accenno a un coraggioso manipolo di donne pilota che si era sottoposto a quei test una generazione prima. I test fisici e psicologici che quelle donne avevano affrontato erano più duri di quelli a cui vanno incontro gli astronauti di oggi, le dissero le colleghe. Nessuna riusciva a ricordare ulteriori dettagli, ed Eileen non sapeva chi fossero quelle donne né che mestiere facessero e nemmeno se fossero ancora vive. E poi ricevette un invito: le Mercury desideravano incontrarla. A più di trent’anni di distanza dal loro primo test, le donne del Mercury 13 si riunirono a Oklahoma City per festeggiare il proprio successo e rendere omaggio a Eileen Collins. L’organizzatrice del raduno era Gene Nora Stumbough Jessen. Una donna americana finalmente piloterà un veicolo spaziale, aveva pensato Mrs Jessen: era tempo che le pioniere dello spazio vedessero quello che le loro battaglie avevano aiutato a compiersi. Non era la prima volta che alcune delle Mercury 13 si riunivano. Nel 1986 “B” Steadman, cofondatrice dell’International Women’s Air and Space Museum, notò che quell’anno cadeva il venticinquesimo anniversario dei test alla Lovelace. Rintracciando tutte le Mercury attraverso le loro tessere delle Ninety-Nines, riuscì a far sì che una manciata di donne si recasse in Ohio per incontrarsi di persona per la prima volta. Altre restarono a casa, forse ancora deluse dall’esperienza vissuta. Irene Leverton non era sicura di voler andare. Nel corso degli anni era andata incontro a così tanti “pessimi affari”, come li chiamava lei, nell’industria aeronautica, che non sapeva se aveva voglia di riviverne uno. Ricordò di essere sempre stata pagata meno dei colleghi maschi che svolgevano il suo stesso lavoro, di essere stata incolpata di errori commessi da piloti uomini privi di esperienza, di aver scoperto di essere stata assunta come pilota solo perché il suo capo poteva conteggiarla due volte sui documenti ufficiali, una come capitano e una come hostess. Una volta, dopo che un esaminatore sadico aveva cercato di spaventarla facendo rollare l’aereo fino a che non si era ritrovata a penzolare a mezz’aria appesa al velivolo capovolto per mezzo di una
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cintura di sicurezza lasca, la donna l’aveva rincorso brandendo una chiave presa dal banco da lavoro dell’hangar. Perché avrebbe dovuto aver voglia di ripensare alla delusione di quei test da astronauta? Alla fine, però, decise di recarsi comunque alla riunione di Mrs Steadman. Quando le venne chiesto di alzarsi in piedi di fronte al piccolo gruppetto e di raccontare che cosa aveva fatto dopo i test di Lovelace, Irene sembrò trasformarsi via via che parlava. Trovarsi con le altre donne le aveva rammentato che c’era motivo di essere fiera di essere stata un membro del Mercury 13. Dopo aver finito di ricapitolare la propria carriera, Irene ringraziò il gruppo e confessò che trovarsi con le “sue sorelle pilota” aveva significato moltissimo. “Mi ha rincuorata un po’”, ammise pacatamente [3]. Otto anni dopo, quando Gene Nora Stumbough Jessen invitò tutte le donne a incontrare Eileen Collins, l’adesione fu entusiasta. A più di trent’anni di distanza dai test alla Lovelace, finalmente il gruppo sentiva di avere qualcosa da celebrare. Wally Funk, energica come lo era stata a ventidue anni, presentò le donne del Mercury alla folla di donne pilota, familiari e amici che si era recata al quartier generale delle Ninety-Nines, vicino all’Oklahoma City Airport, per quella lieta occasione. Con un tailleur rosso brillante e un sorriso smagliante, Miss Funk invitò ogni aviatrice ad alzarsi in piedi quando veniva chiamato il suo nome: Myrtle Cagle, in pensione dopo molti anni come meccanico di una linea aerea in Georgia; Irene Leverton, ex campionessa delle pericolosissime pylon air races, le gare aeronautiche con passaggio tra i piloni, nonché esaminatrice di piloti per la FAA, ora residente in Arizona; Sarah Gorelick Ratley, commercialista abilitata presso il governo federale a Kansas City; Jerri Sloan Truhill, ora ritiratasi dalla propria azienda di servizi aeronautici, la Air Services di Dallas, e nonna, che trascorre il proprio tempo facendo volontariato con i bambini con ritardi mentali; “B” Steadman, vincitrice del “Derby del piumino da cipria”, ex presidentessa delle Ninety-Nines e operatrice di un servizio di taxi di Traverse City, Michigan; Rhea Hurrle Allison Woltman, di Colorado Springs, ex pilota di idrovolanti e una delle poche parlamentari accreditate presso l’Associazione nazionale parlamentari statunitense; Gene Nora Stumbough Jessen,
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anche lei ex presidentessa delle Ninety-Nines e proprietaria di un servizio aeroportuale di Boise, Idaho; e Wally Funk, ex ispettrice della FAA e investigatrice per la National Transportation and Safety Board, l’agenzia federale che si occupa di indagare su ogni incidente dell’aviazione civile negli USA, che aveva insegnato a volare a più di ottocento tra uomini e donne. Miss Funk ricordò anche Janey Hart, che era stata impossibilitata a partecipare all’incontro ma aveva mandato in propria rappresentanza uno dei figli. Nel corso degli anni, Mrs Hart aveva sviluppato un’altra passione oltre a quelle del volo e dell’attivismo politico, e ormai si riusciva raramente a trascinarla via dalla sua barca a vela, ai Caraibi. Due donne non erano sopravvissute abbastanza da riuscire a incontrare le altre: la giornalista e pilota Marion Dietrich, morta di cancro nel 1974, e l’insegnante di Akron, Jean Hixson, ex colonnello dell’Air Force Reserves, anche lei scomparsa a causa di un tumore nel 1984. La gemella di Marion, Jan, diventata una pilota aziendale molto rispettata in California, era gravemente malata e non poteva più affrontare dei viaggi. Mentre le donne si guardavano l’un l’altra, non poterono fare a meno di sentire che i test, le frustrazioni, le udienze congressuali, e perfino il rifiuto finale erano valsi la pena. I loro sforzi avevano aperto le porte a donne come Eileen Collins. Con un’aria competente e sicura di sé, dritta come un fuso nella sua divisa d’ordinanza dell’Air Force, Mrs Collins descrisse con grande entusiasmo gli obiettivi dell’imminente missione dello Space Shuttle, e disse: “So quello che vorrei dire, ma come potrò mai ringraziarvi abbastanza per ciò che avete fatto per noi?” Jerrie Cobb non era presente al banchetto. Arrivò un po’ più tardi, volando dall’Amazzonia, con un’aria stravolta e stanca, e profonde rughe intorno agli occhi. Mentre scendeva dal suo piccolo aereo sulla pista d’atterraggio, a Oklahoma City, alzò lo sguardo su Eileen, corsa ad accoglierla per prima. Il rombo degli aerei coprì il loro scambio di saluti. Wally Funk era lì vicina, sopraffatta dall’emozione. Erano trascorsi così tanti anni da quando Jerrie aveva scandito gli addominali per lei e Rhea Hurrle nel cortile dietro casa sua, prima del test nella
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vasca d’isolamento sensoriale. La vista di quella Cobb sessantatreenne che salutava la donna che avrebbe portato nello spazio tutti i loro sogni la costrinse a lottare per trattenere le lacrime. “È un momento di grande emozione per tutte noi”, disse [4]. Nel luglio 1999, Eileen Collins finalmente scivolò sul seggiolino di sinistra per quel suo volo che avrebbe fatto la storia. Lo Space Shuttle Columbia, che quattro anni più tardi si disintegrerà rientrando nell’atmosfera terrestre, portò in orbita sani e salvi lei e il suo equipaggio. La loro missione consisteva nel posizionare nello spazio il più potente telescopio a raggi X mai lanciato. A terra, a Cape Canaveral, Jerrie Cobb, Janey Hart, Wally Funk, Jerri Sloan Truhill, Sarah Gorelick Ratley, Irene Leverton, “B” Steadman e Rhea Hurrle Woltman assistevano all’evento. Jan Dietrich, malata, Myrtle Cagle e Gene Nora Stumbough Jessen non poterono esserci. Eileen aveva invitato le Mercury sopravvissute a essere sue ospiti personali al lancio1. Voleva che fossero lì a condividere i festeggiamenti perché credeva sinceramente che quel giorno appartenesse anche a loro. “Che cosa sarebbe accaduto se non avessero superato quei test?”, chiese. Avrebbero avvalorato gli stereotipi, allontanando ancora di più il programma spaziale per le donne. Tutte le aviatrici che avevano passato i test nel 1961 avevano dimostrato di avere la volontà, la capacità e il coraggio di andare avanti, chiosò, e a tutte loro si sarebbe dovuta dare una chance. Ora Eileen pensava che fosse giunto il momento di dire almeno grazie. Senza il gruppo delle Mercury 13, dichiarò, la nazione non starebbe festeggiando le donne astronauta e la prima comandante donna di uno Shuttle. “Ci hanno dato una storia”, concluse [5]. Il lancio della missione di Eileen Collins, la STS-93, venne posticipato parecchie volte. Mentre tenevano d’occhio le condizioni atmosferiche, e tra un rinvio e l’altro, le otto donne che si erano riunite
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Mrs Collins invitò anche le donne che avevano affrontato il test alla Lovelace senza superarlo. Erano dunque presenti pure Georgiana McConnell e Fran Bera. Il suo invito venne accolto anche da oltre una dozzina di donne che avevano prestato servizio nelle WASP durante la Seconda guerra mondiale.
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per i festeggiamenti trascorsero il proprio tempo nei caffè di Cocoa Beach, aggiornandosi a vicenda sulle rispettive vite e rammentando le vicende condivise in passato. Un mattino, durante la colazione, il loro gruppo era l’unico segnale di vita tra i clienti assonnati del ristorante, silenziosamente chini sulle proprie fette di pane tostato e i propri caffè. Dal tavolo delle aviatrici si levavano scoppi di risa mentre Jerri Sloan Truhill intratteneva le compagne con i suoi vivaci racconti – storielle di quando si era liberata dei tacchi alti per volare scalza sul Texas, compiendo un atterraggio di fortuna con il proprio aereo danneggiato sul campo di un agricoltore e scioccando l’anziano signore, sbalordito al vedere una donna strisciare fuori dalla cabina di pilotaggio. Nonostante avessero solo una settimana di vita in comune, le donne erano diventate incredibilmente intime dopo essersi conosciute. Alcune viaggiarono insieme, altre presero a telefonarsi una volta alla settimana. Paragonavano ciò che accadeva ai rispettivi figli e nipoti, e parlavano di chi tra loro stesse ancora volando, e su quali tipi di aerei. Tutte sulla sessantina o settantina, alcune già vicine agli ottanta, si consideravano fortunate di essere ancora attive e in piena salute, e in grado di presenziare allo storico lancio. Wally Funk annunciò di essersi iscritta a un programma di lanci spaziali per civili, e le colleghe compresero la sua ambizione, anche se qualcuna sollevò il problema del costo. La Interorbital Systems, un’azienda che costruiva razzi e navicelle spaziali nel proprio Mojave Civilian Flight Test Center, in California, stava aprendo la strada al volo spaziale commerciale, e Miss Funk sperava di essere a bordo della sua prima missione, che avrebbe dovuto decollare da Tonga, nel Sud Pacifico, in un imprecisato momento nel corso dei cinque anni successivi. Non potendo pagarsi un viaggio da venti milioni di dollari per la stazione spaziale internazionale ISS, come avrebbe fatto il miliardario Dennis Tito nel 2001, e come spera di fare la pop star dei ‘N Sync, Lance Bass, Miss Funk contava sulle imprese private low cost. La Interorbital offriva il vantaggio di evitarsi le lungaggini burocratiche governative della NASA o dell’agenzia spaziale russa e di avere dei costi più contenuti. Un deposito di centoventimila dollari era suf-
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ficiente per riservarsi un posto per una “vacanza in orbita”, che si stimava sarebbe costata, alla fine, almeno due milioni di dollari. I voli della Interorbital, comunque, non erano ancora stati messi alla prova, e nessuno poteva dire con certezza quanto sicuri fossero, né quando esattamente sarebbero stati pronti per il lancio. Il sogno di Wally di partire era già stato posticipato diverse volte, ma lei continuava a credere nella sua futura fattibilità e in seguito passerà una notte a dormire sul pavimento di calcestruzzo del centro sperimentale, nel deserto, solo per poter osservare da vicino l’evoluzione del “suo razzo”. Aveva versato un anticipo anche per la preparazione astronautica preliminare a Star City, in Russia, sito delle leggendarie strutture in cui erano stati addestrati i cosmonauti durante la guerra fredda. A corto di denaro, di recente Star City aveva aperto le porte a clienti paganti che desideravano assaggiare le esercitazioni astronautiche. Ormai sessantenne, Wally pianificava di indossare ancora qualche tipo di “vedova allegra” per la propria corsa nella centrifuga russa [6]. Jerrie Cobb si unì agli altri solo per brevi istanti: una tazza di caffè, due chiacchiere nel tardo pomeriggio, una conferenza sugli obiettivi scientifici dello Shuttle. Per la maggior parte del tempo, se ne stava da sola. Nessuno sapeva con certezza se alloggiasse nei dintorni di Cape Canaveral o se, semplicemente, si limitasse a trascorrere le notti da sola in un’auto parcheggiata lungo la spiaggia. Negli anni in cui erano diventate intime, le altre donne si erano abituate ai misteri di Jerrie e alle sue sparizioni, e non fecero mai pressione per ricevere delle risposte. Una volta, nel corso di un imponente ricevimento, Sarah Gorelick Ratley chiese a Miss Cobb di posare per una fotografia. “È passato così tanto tempo dall’ultima volta che ci siamo viste”, disse all’amica, allontanandosi in cerca della macchina fotografica. Quando tornò, pochi istanti più tardi, Jerrie era scomparsa. Alcune delle Mercury dicevano che aveva trascorso così tanto tempo nella giungla che non seguiva le usanze e i costumi sociali normalmente adottati dagli altri. Eppure, per quanto fosse misteriosa e distante, le altre continuavano a rispettarla. Quando, nel 1980, il membro del Congresso Marvin “Mickey” Edwards l’aveva proposta per il premio Nobel per
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la pace per il suo impegno come pilota missionaria nel Sud America erano rimaste impressionate. Potrà anche essere una donna sola con il suo aeroplano, ma laggiù ha salvato innumerevoli vite, sottolineò Jerri Truhill [7]. Jerrie Cobb a Cape Canaveral era anche in missione. Per quanto sembrasse ironico, John Glenn – senza volerlo – le aveva fornito una nuova opportunità di volare nello spazio. Un anno prima, il settantasettenne astronauta era tornato nello spazio per la seconda volta, operando come specialista di missione a bordo di uno Shuttle. La NASA disse che Glenn aveva condotto degli esperimenti sugli effetti dell’invecchiamento. Altri, non persuasi dalle motivazioni della NASA, dissero che il nuovo volo di Glenn aveva solo lo scopo di dar vita a un battage pubblicitario quanto mai necessario a un’agenzia spaziale decisamente in ribasso. Mentre le notizie sul secondo volo di Glenn iniziavano a invadere i titoli dei giornali, J. Donald Dorough, insegnante alla Fresno Pacific University, si ricordò della battaglia di Miss Cobb. Diversi anni prima, mettendo insieme il materiale per un corso sulle “Donne dell’Ovest”, l’uomo si era imbattuto nella storia dell’aviatrice dell’Oklahoma Jerrie Cobb. A quel punto, Dorough scrisse una lettera alla NASA chiedendo perché non fosse stata scelta lei come cittadina anziana da inviare nello spazio. I simpatizzanti, che erano venuti a sapere della missiva di Dorough dai giornali, rintracciarono Miss Cobb in Amazzonia e le chiesero se sarebbe stata interessata a un’altra chance, sempre che si fosse riusciti a convincere la NASA. Jerrie era sbalordita. Difficile come era stato rinunciare al proprio sogno, sapeva che avrebbe dato la propria vita pur di poter volare nello spazio. “Mandate Jerrie nello spazio” divenne presto una campagna popolare, sostenuta da migliaia di scolari, dalla NOW (National Organization for Women), da gruppi di donne sparsi per tutto il Paese, da senatori degli Stati Uniti, e dalla first lady Hillary Clinton. La NASA, però, non aveva cambiato idea [8]. Jerrie Cobb è una straordinaria aviatrice, disse, ma non abbiamo in piano di inviarla nello spazio. Questo non impedì a Miss Cobb di continuare a parlare con i reporter che si erano interessati alla rinascita della sua campa-
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gna. Né le impedì di chiedere alle altre donne se avrebbero sostenuto il suo tentativo. Mentre Eileen Collins era impegnata nei preparativi dell’ultimo minuto per il suo storico volo, Jerrie Cobb radunò le Mercury 13 in una stanza di motel a Cocoa Beach chiedendo loro di scrivere una lettera collettiva al direttore della NASA Daniel Goldin, sollecitandolo a darle un’occasione. Alcune di loro dubitavano che la NASA avrebbe riportato l’attenzione sulle discriminazioni sessuali perpetrate nel 1962, e meno ancora che le avrebbe risanate. Ma valeva comunque la pena di provarci, pensarono. Mentre si avvicinava il momento del lancio notturno di Eileen Collins, le donne salirono a bordo degli autobus per il Kennedy Space Center e si diressero alle postazioni per gli spettatori approntate lungo il Banana River, di fronte alla rampa di lancio. Nessuno riconobbe le Mercury 13. Il loro sembrava semplicemente l’ennesimo gruppetto di signore di una certa età attrezzate con borsette, bottigliette d’acqua e binocoli, recatesi a Cape Canaveral per assistere al lancio di uno Shuttle. Ma a differenza dei turisti, che si rinfrescavano mangiando un gelato Space Dot o chiacchieravano al cellulare, Janey Hart era immobile sulla gradinata di metallo e scrutava il cielo notturno in cerca di segni di annuvolamento o lampi. Riusciva a riconoscere un cielo minaccioso, e sapeva distinguere una tempesta in arrivo da sud, perfino di notte. Mentre il conto alla rovescia entrava nella fase finale, la folla iniziò a esultare e a scandire urlando ogni secondo: “Dieci, nove, otto, sette...”. Wally Funk sentì i muscoli tendersi per l’eccitazione mentre bisbigliava tra sé e sé: “Vai, Eileen, vai. Va’ per tutte noi.” A meno sei secondi, il cronometro venne bruscamente bloccato e la sala di controllo sospese il volo: era stata registrata un’anomalia tecnica all’interno dello Shuttle, e il lancio venne rinviato. “A meno sei secondi!”, proruppe un ragazzino sugli spalti, sferrando un pugno contro la gradinata di metallo in un gesto di frustrazione. “Prova ‘a meno trentotto anni’”, biascicò sottovoce Jerri Truhill facendo l’occhiolino alla propria compagna di test alla Lovelace, “B” Steadman. La sera successiva le donne tornarono ad assieparsi sulle gradinate, un po’ spossate dall’attesa infinita, dall’afa, e dalle noiosissime zan-
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zare. Jerrie Cobb andava su e giù, tutta sola, davanti al grande e illuminato orologio del conto alla rovescia, sollevando lo sguardo solo per controllare l’ora o sbirciare le luci intense che brillavano di là dal fiume. Mrs Collins aveva detto che niente al mondo era paragonabile al volo su uno Shuttle: decollava come un razzo, volava come un’astronave e atterrava come un aeroplano. Jerrie guardò l’enorme serbatoio esterno che abbracciava il Columbia, alto come la Statua della Libertà. Rimanendo immobile, fissò la piccola fiammata arancione che sembrava danzare alla base della rampa di lancio. Vista da dietro era molto simile alla Jerrie ventottenne che arrivava da Ponca City, Oklahoma: una giovane donna solitaria, di corporatura snella, dalla coda di cavallo bionda e dalla postura rilassata di un’atleta. Non si voltò mai. Fissando silenziosamente davanti a sé, guardò lo Shuttle mentre il vapore iniziava a farsi nuvola intorno al razzo e l’orologio scandiva i secondi. Quella notte il cielo era limpido. Non c’erano stati stalli, e il conto alla rovescia procedette senza intoppi. Jerrie continuò a guardare, quasi impietrita nella propria concentrazione assoluta, fino a quando il conto non giunse a meno cinque. Allora si sedette nell’erba bassa, umida. Tutto attorno a lei la gente era in piedi, esultando, gridando, allungandosi il più possibile sulle gradinate per riuscire a vedere meglio lo Shuttle che partiva a razzo dalla rampa di lancio. Mentre iniziava il rombo dei motori e il Columbia decollava verso il cielo, l’aviatrice spiegò le dita sull’erba. Jerrie Cobb voleva sentire rimbombare la terra.
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Ringraziamenti
Questo libro non sarebbe stato possibile senza l’aiuto delle Mercury 13. Trascorrere del tempo con queste donne e le loro famiglie è stato un grande piacere, e desidero ringraziarle per aver condiviso con me una parte così grande delle loro vite. La loro perseveranza, la loro determinazione e il loro buon umore sono stati un’ispirazione. Naturalmente la storia delle Mercury 13 è anche una storia di medici, scienziati, mariti, figlie, tecnici, piloti, amici, politici e di qualunque altra persona sia stata coinvolta nella genesi del programma spaziale statunitense. Nell’investigare su questo complesso passato sono stata enormemente avvantaggiata dal poter usufruire di molte biblioteche e archivi, e desidero ricordare in particolare il NASA History Office, la Dwight D. Eisenhower Presidential Library, l’archivio del The Daily Oklahoman, l’International Women’s Air and Space Museum, la Mount Holyoke College Library, e il quartier generale delle Ninety-Nines, l’organizzazione internazionale delle donne pilota. Jane Odom della NASA e il fantastico personale addetto alla consultazione nella biblioteca di Mount Holyoke mi sono stati particolarmente d’aiuto rispondendo alle mie numerose domande. Aime DeGrenier, di Mount Holyoke, mi ha pazientemente guidata attraverso molteplici sfide tecnologiche. Sono grata anche alle centinaia di persone che mi hanno concesso delle interviste per questo libro. Molti meritano un riconoscimento particolare per la loro generosità: Ivy Coffey, Pat Daly, Nancy Greep, Jacqueline Lovelace Johnson, il dottor Donald Kilgore, la dottoressa Kathryn Liberson, il dottor Jack Loeppke, Ruth Lummis, Lawrence Merritt, il dottor Jay T. Shurley e la compianta Pauline Vincent.
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Ringraziamenti
L’organizzazione delle Ninety-Nines mi ha aiutata anche in modi che hanno trasceso la mera consultazione degli archivi. Desidero ringraziare i dottori Jacque Boyd e Petra Illig per avere aiutato questo progetto a decollare e per gli utili consigli redazionali. I fondi della Ninety-Nines 2001 Amelia Earhart Research Scholars Grant mi hanno permesso di viaggiare per il Paese per raccogliere le testimonianze orali che sono al centro di questo volume. I miei colleghi al Mount Holyoke College mi hanno offerto sia consigli utili che il tempo di concentrarmi sul lavoro. Vorrei inoltre porgere un ringraziamento personale a Christopher Benfey e Karen Remmler per avermi concesso lo spazio mentale necessario per pensare allo spazio cosmico, e a Jane Crosthwaite, Linda Laderach e Sally Montgomery per le piacevoli conversazioni, come sempre. Il suggerimento di Kevin McCaffrey di scrivere per un pubblico più vasto di quello accademico è arrivato proprio al momento giusto e gli sono profondamente riconoscente per l’incoraggiamento. L’ex allieva di Mount Holyoke, Mary McClintock, che ha appoggiato questo libro fin dall’inizio, mi ha concesso di giovarmi della sua scaltra competenza di ricercatrice e del suo entusiasmo. La mia gratitudine va anche al preside di facoltà Donal O’Shea, che ha sovvenzionato il mio lavoro al libro con diverse borse di studio assegnate dalla facoltà, la borsa Ellen P. Reese Research e un quanto mai necessario anno sabbatico. Crescere a St Louis durante gli anni in cui la McDonnell Aircraft ha progettato la prima capsula spaziale per il Programma Mercury ha alimentato il mio precoce interesse per il programma spaziale statunitense. Tuttavia, niente mi ha spronata a sollevare lo sguardo verso il cielo quanto lo starmene seduta sul cofano della Chevrolet di famiglia a guardare gli aeroplani che decollavano dal Lambert Field. I miei genitori, Florenze ed Elizabeth Ackmann, e i miei fratelli David e Rodney e le rispettive famiglie hanno continuato ad aiutarmi a comprendere lo spazio e l’aviazione. Sono molto grata alle loro domande, ai loro suggerimenti, al loro lavoro di gambe e alla loro ospitalità durante i miei viaggi a St Louis e in Oklahoma per svolgere ricerche.
Ringraziamenti
Lee Boudreaux, la mia editor alla Random House, ha affinato la messa a fuoco di questo libro nel corso di numerosi, proficui colloqui. La sua vista acuta e il suo pronto intelletto hanno valorizzato queste pagine. Vorrei ringraziare la mia agente letteraria, Ellen Geiger, i cui sforzi per vedere narrata questa storia hanno agito da tonico. La mia gratitudine va anche a Patricia MacLachlan, che è stata rapida nel condurmi dall’instancabile Ed Wintle della Curtis Brown Ltd. Mary Graham Davis merita un riconoscimento speciale. La sua certezza che The Mercury 13 sia ben più di un racconto sugli astronauti mi ha mantenuta concentrata sulle questioni di parità sociale che questa storia solleva. Ringrazio Mary per il suo sostegno, per il suo interesse nel progetto e per la sua amicizia. La mia più profonda riconoscenza va ad Ann Romberger che, nel corso della stesura da parte mia di questo volume, è diventata più intima dei carichi gravitazionali e dei test nelle camere di simulazione dell’alta quota di quanto avrebbe mai potuto immaginare. È stata una critica sincera e paziente. In questa e in tutte le cose è, per usare le meravigliose parole di Emily Dickinson, “un orecchio raro”.
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Abbreviazioni
CL Archivi privati di Cathryn Liberson DDE Documenti di Jacqueline Cochran, Dwight D. Eisenhower Presidential Library, Abilene, Kansas GM Archivi privati di Georgiana McConnell HST Documenti di James Webb, Harry S. Truman Presidential Library, Independence, Missouri IWASM International Women’s Air and Space Museum, Cleveland, Ohio JC Documenti di Jerrie Cobb, quartier generale della Ninety-Nines, Organizzazione internazionale delle donne pilota, Will Rogers Airport, Oklahoma City, Oklahoma JS Archivi privati del dottor Jay T. Shurley JST Archivi privati di Jerri Sloan Truhill LBJ Documenti del vicepresidente e del presidente, Lyndon Baines Johnson Presidential Library, Austin, Texas NASA Raccolta di opere di consultazione della NASA, National Aeronautics and Space Administration, History Office, quartier generale della NASA, Washington D.C. NG Archivi privati di Nancy Greep PV Archivi privati di Pauline Vincent SGR Archivi privati di Sarah Gorelick Ratley UNM Biblioteca e centro informatico del Dipartimento di Scienze della salute della University of New Mexico, University of New Mexico, Albuquerque, New Mexico WF Archivi privati di Wally Funk WP Archivi della Wright-Patterson Air Force Base, Dayton, Ohio
Note bibliografiche
Capitolo 1: La febbre dello spazio [1] Ivi Coffey (13 gennaio 2002) intervista con l’autrice; Jerrie Cobb (1997) Jerrie Cobb: Solo Pilot, Jerrie Cobb Foundation Inc., Sun City Center, Fla., pp. 131-139; “Jerrie Cobb Soars to New Record in Aero Commander June 13”, 99 News, luglio 1957, p. 4 (JC); Ivy Coffey (21 marzo 1959) “Red Carpet Greets Girl Pilot”, The Daily Oklahoman; Ivy Coffey, Jerrie’s Story, manoscritto inedito (JC); Ruth Lummis (26 settembre 2002) e-mail all’autrice [2] Coffey, “Red Carpet” [3] Ibid. [4] Ibid. [5] Joseph D. Atkinson Jr e Jay M. Shafritz (1985) The Real Stuff: A History of NASA’s Astronaut Recruitment Program, Praeger, New York, p. 21 [6] Roger D. Launius (1993), Introduzione, in: The Birth of NASA: The Diary of T. Keith Glennan, National Aeronautics and Space Administration, Washington D.C., xix. Launius cita William E. Burrows (1986) Deep Black: Space Espionage and National Security, Random House, New York, p. 94 [7] Atkinson e Shafritz, The Real Stuff, pp. 33-37 [8] Chuck Yeager (23 marzo 2001) intervista con l’autrice; John Glenn con Nick Taylor (2000) John Glenn: A Memoir, Bantam Books, New York, p. 282 [9] Press Conference Mercury Astronaut Team, trascrizione 3, 9 aprile 1959 (NASA) [10] Ibid., p. 4 [11] “Seven Brave Women Behind the Astronauts”, Life, 21 settembre 1959, pp. 142-163; “The Spaceman’s Wife: ‘Alan Was in His Right Place”, Life, 12 maggio 1961, pp. 28-29 [12] Jerry Roberts (1 febbraio 2002) intervista telefonica con l’autrice; Glenn con Taylor, John Glenn, pp. 274-275 [13] W. Henry Lambright (1995) Powering Apollo: James E. Webb of NASA, Johns Hopkins University Press, Baltimore, p. 82 [14] “James Webb Chosen to Head Space Agency, Experienced as Administrator”, The Daily Oklahoman, 31 gennaio 1961; Lambright, Powering Apollo, p. 77
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Note bibliografiche
[15] James Webb (15 febbraio 1961) lettera a Thomas Harris (JC); Ivy Coffey (14 febbraio 2002) e-mail all’autrice; “It Takes Snow to Keep Publishers Away”, The Daily Oklahoman, 31 gennaio 1961; Lambright, Powering Apollo, p. 77; “Kerr Receiving Tribute Friday from Chamber”, The Daily Oklahoman, 21 gennaio 1961 [16] “From Aviatrix to Astronatrix”, Time, 29 agosto 1960, p. 41; Jerrie Cobb e Jane Rieker (1963) Woman into Space: The Jerrie Cobb Story, Prentice Hall, Englewood Cliffs, N.J., p. 155 [17] “12 Women to Take Astronaut Test”, The New York Times, 26 gennaio 1961 [18] James Webb (29 aprile 1969), trascrizione dell’intervista con T.H. Baker, copia Internet (LBJ), p. 6; Lambright, Powering Apollo, p. 84 [19] Webb, trascrizione dell’intervista , p. 5 [20] Lambright, Powering Apollo, pp. 84-85 [21] “Democrats Praise Kennedy Talk, Call for Bold Challenge”, The Daily Oklahoman, 31 gennaio 1961; Webb, trascrizione dell’intervista , p. 9 [22] Toward the Endless Frontier, Udienze del Comitato per le scienze e la tecnologia 1959-79, Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, U.S. Government Printing Office, Washington D.C., 1980, p. 80 [23] Mae Mills Link (1965) “Toward Countdown”, in: Space Medicine in Project Mercury, National Aeronautics and Space Administration, Scientific and Technical Information Division, Washington D.C. (copia Internet), p. 4 [24] Toward the Endless Frontier, pp. 80-81 [25] CBS Special Reports, trasmissione televisiva, Museum of Television and Radio, New York, 12 aprile 1961 [26] Ibid.; Glenn con Taylor, John Glenn, p. 21 [27] Charles Murray e Catherine Bly Cox (1989) Apollo: The Race to the Moon, Simon and Schuster, New York, p. 80 [28] Joan Fencl Bowski (18 febbraio 2002) intervista telefonica con l’autrice; Jerry Roberts (1 febbraio 2002) intervista telefonica con l’autrice; partecipanti al banchetto per i pensionati dei tecnici della McDonnell Aircraft che avevano lavorato per il Programma Mercury (9 gennaio 2002) interviste con l’autrice [29] Toward the Endless Frontier, p. 90 [30] Jerrie Cobb (1 maggio 1961) Woman’s Participation in Space Flight, discorso pronunciato al raduno dell’Aviation/Space Writers Association, New York City (JC) [31] CBS Special Reports, trasmissione televisiva, Museum of Television and Radio, New York, 5 maggio 1961 [32] Toward the Endless Frontier, p. 89 [33] William E. Burrows (1998) This New Ocean: The Story of the First Space Age, Modern Library, New York, pp. 328-329
Note bibliografiche
[34] Ibid., p. 329 [35] John F. Kennedy (25 maggio 1961), Urgent National Needs, trasmissione televisiva del discorso davanti alla sessione congiunta del Congresso, Museum of Television and Radio, New York Capitolo 2: Fare il salto [1] Ivy Coffey (13 gennaio 2002) intervista con l’autrice [2] Jerrie Cobb (4 marzo 2002) e-mail all’autrice [3] Jerrie Cobb e Jane Rieker (1963) Woman into Space: The Jerrie Cobb Story, Prentice Hall, Englewood Cliffs, N.J., p. 18 [4] Carolyn Cobb Lawrence (19 febbraio 2002) intervista telefonica con l’autrice [5] Cobb e Rieker, Woman into Space, p. 8 [6] Ibid., pp. 20-21, 9 [7] Ibid., pp. 18-19 [8] Ray Soldan (29 giugno 1965) “Retirement Can’t Stop Jim Conger”, Oklahoma City Times; Jerrie Cobb (4 marzo 2002) e-mail all’autrice [9] Cobb e Rieker, Woman into Space, pp. 22-25 [10] “1,596 Watch Queens Edge Phoenix, 3-1”, The Daily Oklahoman, 10 maggio 1947; Timothy Fisher (18 giugno 2001) lettera all’autrice, Oklahoma City Library System [11] “Softball Back, ‘N with Curves”, The Daily Oklahoman, 10 maggio 1947 [12] Cobb e Rieker, Woman into Space, p. 28 [13] Ibid., pp. 32, 34 [14] Ibid., p. 28; Ivy Coffey (agosto 1961) “The Story of Jerrie Cobb: First American Woman to Qualify as an Astronaut “, Guideposts, pp. 1-5 [15] Joe Evans, conservatore del registro presso la University of Science and Arts of Oklahoma, ex Oklahoma College for Women (14 giugno 2002) intervista telefonica con l’autrice; elenco dei corsi dell’Oklahoma College for Women, 1949, pp. 18-19; Cobb e Rieker, Woman into Space, p. 29 [16] Elenco dei corsi dell’Oklahoma College for Women, p. 19 [17] Cobb e Rieker, Woman into Space, pp. 30-31; Jerrie Cobb (4 marzo 2002) email all’autrice [18] Cobb e Rieker, Woman into Space, p. 47 [19] Susie Sewell (15 ottobre 2002) intervista telefonica con l’autrice [20] Sarah Gorelick Ratley (12 gennaio 2002) intervista con l’autrice [21] Jerri Sloan Truhill (20 luglio 2001) intervista con l’autrice; Jerrie Cobb (4 marzo 2002) e-mail all’autrice [22] Cobb e Rieker, Woman into Space, pp. 47-57 [23] Ibid., pp. 61-62 [24] Ibid., pp. 61-83
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Note bibliografiche
[25] Ibid., p. 75 [26] Ibid., p. 74 [27] Ibid., p. 24 [28] Ibid., p. 14 [29] Ibid., p. 109 [30] Ibid. [31] Ibid., p. 111, citazione dalla rivista Flight [32] Ivy Coffey, Jerrie’s Story, manoscritto inedito (JC) [33] Ivy Coffey (13 gennaio 2002) intervista con l’autrice [34] Ivy Coffey (21 marzo 1959) “Red Carpet Greets Girl Pilot”, The Daily Oklahoman; Cobb e Rieker, Woman into Space, pp. 128-130 [35] Bernice Steadman (26 settembre 2001) intervista con l’autrice [36] Frank Sis (18 luglio 1961) “Say Astronauts to Get Company”, The Cleveland Press [37] Chuck Yeager e Leo Janos (1985) Yeager, Bantam, New York, p. 272 [38] Jacqueline Cochran (1954) The Stars at Noon, Little, Brown, Boston, p. 429 [39] Yeager e Janos, Yeager, p. 275 [40] Chuck Yeager (23 marzo 2001) intervista con l’autrice [41] Jacqueline Cochran e Maryann Bucknum Brinley (1987) Jacqueline Cochran: An Autobiography, Bantam Books, New York, p. 211; Harold Newcomb (20 maggio 1977) “Cochran’s Convent”, Airman, editore ignoto (NASA); Leslie Haynsworth e David Toomey (1998) Amelia Earhart’s Daughters: The Wild and Glorious Story of American Women Aviators from World War II to the Dawn of the Space Age, Morrow, New York, pp. 97, 124-125, 129-132, 141-144; Julie I. Englund (13 maggio 2002) “First-Rate, SecondClass”, The Washington Post; dottor Jacque Boyd (25 marzo 2001) intervista con l’autrice, Reno, Nevada [42] Jacqueline Lovelace Johnson (11 gennaio 2002) intervista con l’autrice [43] Robert Secrest, trascrizione dell’intervista con Jake Spidle, Oral History of Medicine Project, 8 luglio 1996 (UNM), p. 10 [44] Margaret Weitekamp (maggio 2001) The Right Stuff, The Wrong Sex: The Science, Culture, and Politics of the Lovelace Woman in Space Program, 19591963, dissertazione per il PhD, Cornell University, p. 50 [45] Richard G. Elliott (1966-1967) “‘On a Comet, Always’: A Biography of W. Randolph Lovelace II”, New Mexico Quarterly 36 (UNM), pp. 361-362 [46] “Army Doctor’s Record Parachute Jump”, Life, 9 agosto 1943, p. 69 [47] Elliott, “‘On a Comet, Always’”, p. 364; Edward T. Martin (febbraio 1983) “The Hero at High Altitude Flight”, Airline Pilot, pp. 22-24, 38; “Leap from the Stratosphere”, Boeing News, agosto 1943, pp. 3-4, 6 [48] Shirley Thomas (1962) “William Randolph Lovelace II”, in: Uomini dello
Note bibliografiche
spazio: profili di pionieri e scienziati che hanno aperto le vie dello spazio, traduzione di Dino Gobbato, SIEA, Milano [49] Elliott, “‘On a Comet, Always’”, p. 363; Martin, “The Hero at High Altitude Flight”, p. 38 [50] Joe Godfrey, Biografie, pagina informativa della NASA e profilo Web audiovideo [51] Scott Crossfield (1 aprile 2002) intervista telefonica con l’autrice [52] Donald E. Kilgore, trascrizione dell’intervista con Jake Spidle, Oral History of Medicine Project, 18 e 25 novembre e 9 dicembre 1985 (UNM), p. 3 [53] Donald Kilgore (10 agosto 2000) intervista con l’autrice [54] W. Randolph Lovelace II, Human Factors in Space Exploration, manoscritto inedito (UNM) [55] Cobb e Rieker, Woman into Space, pp. 130-133 Capitolo 3: Programma “Ragazze nello spazio” [1] Stanley Mohler (17 aprile 2002) intervista telefonica con l’autrice; Stanley Mohler (22 aprile 2002) lettera all’autrice [2] Stanley Mohler (17 aprile 2002) intervista telefonica con l’autrice [3] Dr. Donald D. Flickinger, 89, A Pioneer in Space Medicine”, The New York Times, 3 marzo 1997; trascrizione della conferenza stampa della NASA (9 aprile 1959), p. 23 [4] Shirley Thomas (1962) “Don D. Flickinger: With Zest and Dedication, This Energetic Doctor Has Long Concentrated on the Problem’s of Man’s Survival in the Hostile Environment of Space”, in: Uomini dello spazio: profili di pionieri e scienziati che hanno aperto le vie dello spazio, traduzione di Dino Gobbato, SIEA, Milano [5] Walter Bonney, portavoce della NASA (9 aprile 1959) conferenza stampa della NASA, trascrizione n° 15 [6] Don Flickinger (20 dicembre 1959) “Action Memorandum” a W. Randolph Lovelace II (JC) [7] Jerri Sloan Truhill (19 marzo 2002) e-mail all’autrice [8] Daphne Flickinger Bradford (19 ottobre 2002) intervista telefonica con l’autrice [9] Stanley Mohler (17 aprile 2002) intervista telefonica con l’autrice [10] Warren Young (13 aprile 1959) “What It’s Like to Fly in Space”, Life, pp. 133-148 [11] Reminiscences of Ruth Nichols, intervista di Kenneth Leish, giugno 1960. In Oral History Collection, Parte IV, 1-219, Columbia University, New York, N.Y., p. 1 [12] “Ruth Nichols Rivals Amelia Earhart in Aviation Accomplishments”, Foundation for the Carolinas Newsletter, inverno 1999
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Note bibliografiche
[13] Ruth Nichols, “Reminiscences”, p. 12 [14] Ibid., p. 26 [15] Ruth Nichols (1957) Wings for Life, Lippincott, Philadelphia, p. 144 [16] Nichols, “Reminiscences”, p. 27 [17] Nichols, Wings for Life, p. 204 [18] Henry Holden e Lori Griffith (1993) Ladybirds II: The Continuing Story of American Women in Aviation, Blackhawk Publishing Co., Mt. Freedom, N.J., p. 29 [19] Nichols, “Reminiscences”, pp. 32-33 [20] Ruth Nichols (24 novembre 1959) “Why Not Lady Astronauts?”, Washington Daily News [21] “First Jet Ride”, Boston Traveler, 7 luglio 1955 [22] Tom Renner (22 gennaio 1958) “Aviatrix Flies 1,000 MPH over LI, Sets New Mark”, Newsday [23] Carol Gelber (28 maggio 1959) “Ruth Nichols Flies Through the Years”, Philadelphia Evening Bulletin; “Jet Record Claimed”, The New York Times, 22 gennaio 1958 [24] “Women Best Suited for Space, Pioneer Aviatrix Says”, The Washington Post, 16 aprile 1960; “Reminiscences”, p. 39 [25] Nichols, “Reminiscences”, pp. 39-40 [26] Ibid., p. 42 [27] Ibid. [28] Nichols, “Why Not Lady Astronauts?” [29] Dorothy Roe (14 febbraio 1958) “Space Is Goal of Gal Flyer”, The Baltimore Evening Sun [30] Nichols, “Reminiscences”, pp. 33-34 [31] Nichols, Wings for Life, p. 293 [32] Nichols, “Why Not Lady Astronauts?” [33] Nichols, “Reminiscences”, pp. 40-42 [34] Ibid., pp. 42-43 [35] Ibid. [36] Ibid., p. 43 [37] The Star, 14 aprile 1959 (NASA) [38] Nichols, “Why Not Lady Astronauts?” [39] Don Flickinger (20 dicembre 1959) “Action Memorandum” a W. Randolph Lovelace II (JC) [40] Don Flickinger (7 dicembre 1959) lettera a Jerrie Cobb (JC) [41] Ibid. [42] Don Flickinger (20 dicembre 1959) “Action Memorandum” a W. Randolph Lovelace II (JC) [43] Stanley Mohler (17 aprile 2002) intervista telefonica con l’autrice
Note bibliografiche
[44] Don Flickinger (20 dicembre 1959) “Action Memorandum” a W. Randolph Lovelace II (JC) [45] Dryden Flight Research Center, “A Brief History of the Pressure Suit” (www.dfrc.nasa.gov/airsci/er-2/pshis.html); Petra Illig (5 novembre 2002) e-mail all’autrice [46] www.sothebys.com/live/auctions/sneak/archives/minispace/lot19.html [47] Scott Crossfield (1 aprile 2002) intervista telefonica con l’autrice [48] Ibid. [49] Don Flickinger (20 dicembre 1959) “Action Memorandum” a W. Randolph Lovelace II (JC) [50] Ibid. [51] Ibid. [52] William E. Burrows (1998) This New Ocean: The Story of the First Space Age, Modern Library, New York, pp. 262-263 [53] Ibid., p. 259 [54] Donald Kilgore (10 agosto 2000) intervista con l’autrice [55] Burrows, This New Ocean, p. 266 Capitolo 4: La prospettiva da Albuquerque [1] Ivy Coffey (29 ottobre 1959) “Jerrie Cobb Flies Jet Fighter: Pilot Adds Another ‘First’ to Career”, The Daily Oklahoman [2] Ivy Coffey (13 gennaio 2002) intervista con l’autrice [3] Coffey, “Jerrie Cobb Flies Jet Fighter” [4] Ibid. [5] Ann Gennett (1975) “Space for Women Too”, in Contributions of Women: Aviation, Dillon Press, Minneapolis; Coffey, “Jerrie Cobb Flies Jet Fighter” [6] Chuck Yeager (23 marzo 2001) intervista con l’autrice [7] Chuck Yeager e Leo Janos (1985) Yeager, Bantam, New York, pp. 282-283 [8] Ibid., p. 285; Jacqueline Cochran e Maryann Bucknum Brinley (1987) Jacqueline Cochran: An Autobiography, Bantam Books, New York, p. 277 [9] Cochran e Brinley, Jacqueline Cochran, p. 276 [10] Ivy Coffey (13 gennaio 2002) intervista con l’autrice; Ivy Coffey (n.d.) “Meet Jerrie Cobb, First Woman-in-Space Candidate”, The Daily Oklahoman (JC) [11] Ivy Coffey (23 ottobre 1960) “First Spacelady”, The Daily Oklahoman; Jerrie Cobb e Jane Rieker (1963) Woman into Space: The Jerrie Cobb Story, Prentice Hall, Englewood Cliffs, N.J., pp. 135-136 [12] Coffey,”Meet Jerrie Cobb” [13] Randy Lovelace (20 aprile 1959) “Duckings, Probings, Checks That Proved Fliers’ Fitness”, Life, p. 26 [14] Ibid., pp. 26-27
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Note bibliografiche
[15] Ibid., p. 26 [16] Ibid. [17] Ibid. [18] Richard G. Elliott (1966-1967) “‘On a Comet, Always’: A Biography of W. Randolph Lovelace II”, New Mexico Quarterly 36 (UNM), pp. 357-358 [19] Ben Kocivar, curatore (2 febbraio 1960) “The Lady Wants to Orbit”, Look, p. 113 [20] Betty Skelton Frankman (19 luglio 1999) intervista di Carol L. Butler, Cocoa Beach, Florida, NASA Oral History Project, p. 9 [21] Ibid., p. 11 [22] Kocivar, “The Lady Wants to Orbit”, p. 114 [23] Frankman, trascrizione dell’intervista, p. 18 [24] Ibid., p. 33; Kocivar “The Lady Wants to Orbit”, p. 112 [25] Frankman, trascrizione dell’intervista, p. 17 [26] Ibid., p. 40 [27] Kocivar, “The Lady Wants to Orbit”, p. 117 [28] Ibid., p. 116 [29] Jake W. Spidle Jr. (1992) The Lovelace Medical Center: Toward the 21st Century, University of New Mexico Press, Albuquerque, p. 2 [30] Jake W. Spidle Jr. (1987) The Lovelace Medical Center: Pioneer in American Health Care, University of New Mexico Press, Albuquerque , pp. 1-90; “Lovelace Foundation for Medical Education and Research”, Albuquerque Journal, n.d. (UNM); Jake W. Spidle Jr (9 agosto 2000) intervista con l’autrice [31] Donald E. Kilgore (18 e 25 novembre e 9 dicembre 1985) trascrizione dell’intervista di Jake Spidle Jr, Oral History of Medicine Project (UNM), p. 18 [32] Mercury Astronaut Selection Fact Sheet, 9 aprile 1959 (NASA) [33] Robert Secrest (8 luglio 1996) trascrizione dell’intervista di Jake Spidle Jr, Oral History of Medicine Project (UNM), p. 12 [34] W. Randolph Lovelace II, A.H. Schwichtenberg, Ulrich C. Luft e Robert R. Secrest (giugno 1962) “Selection and Maintenance Program for Astronauts for the National Aeronautics and Space Administration”, Aerospace Medicine, pp. 667-684 [35] Cobb e Rieker, Woman into Space, pp. 139-140; “A Lady Proves She’s Fit for Space Flight”, Life, 29 agosto 1960, p. 72 [36] NASA (9 aprile 1959) comunicato stampa [37] Cobb e Rieker, Woman into Space, p. 141 [38] Jacqueline Lovelace Johnson (11 gennaio 2002) intervista con l’autrice [39] “Under Sheltering Wings: Secluded Siesta Hills Area Enjoys Sounds of Air Traffic”, Albuquerque Journal, 28 dicembre 1991 [40] Cobb e Rieker, Woman into Space, p. 144
Note bibliografiche
[41] Ibid. [42] A.H. Schwichtenberg (20 febbraio 1985) trascrizione dell’intervista di Jake Spidle Jr, Oral History of Medicine Project (UNM), p. 12 [43] Ibid., p. 11 [44] Cobb e Rieker, Woman into Space, p. 147 [45] Lovelace II, “Duckings, Probings, Checks That Proved Fliers’ Fitness”, p. 26 [46] Cobb e Rieker, Woman into Space, p. 143 [47] Lovelace II, “Duckings, Probings, Checks That Proved Fliers’ Fitness”, p. 26 [48] Ray Ward Taylor (20 febbraio 1961) lettera a Jerrie Cobb (JC) [49] John Glenn con Nick Taylor (2000) John Glenn: A Memoir, Bantam Books, New York, p. 288 [50] Ibid., p. 289 [51] Cobb e Rieker, Woman into Space, p. 152 [52] W. Randolph Lovelace II, lettera a Jane Rieker, n.d. (JC) [53] Cobb e Rieker, Woman into Space, p. 155 [54] Ibid., p. 156 [55] “A Woman Passes Tests Given to 7 Astronauts”, The New York Times, 19 agosto 1960 [56] Ivy Coffey (19 agosto 1960) “City Woman’s Eager to Make Pioneering Flight into Space”, The Daily Oklahoman [57] Jane Rieker (29 agosto 1960) “Up and Up Goes Jerrie Cobb”, Sports Illustrated, pp. 28-29 [58] Cobb e Rieker, Woman into Space, p. 158 [59] Sidney Fields (12 gennaio 1958) “The Indestructible First Lady of World Aviation”, The New York Mirror [60] “Death Ruled a Suicide”, The New York Times, 20 ottobre 1960; “Police Suspect Suicide: Ruth R. Nichols, Famed Flier Dies in Apartment”, The Boston Globe, 26 settembre 1960; “Ruth Nichols Death Here Listed by Police as Possible Suicide”, The New York Times, 26 settembre 1960; “Ruth Nichols Found Dead, May Have Been a Suicide”, Boston Herald Tribune, 27 settembre 1960 [61] Jane Hyde Fawcett (11 ottobre 1960) lettera a Alice Benson; Alice Benson (20 ottobre 1960) lettera a Jane Hyde Fawcett (NG) Capitolo 5: La lista [1] Dottor Jacque Boyd (16 ottobre 2002) e-mail all’autrice [2] Jerrie Cobb (10 giugno 2002) e-mail all’autrice; Jerrie Cobb e Jane Rieker (1963) Woman into Space: The Jerrie Cobb Story, Prentice Hall, Englewood Cliffs, N.J., pp. 203-204 [3] Sarah Gorelick Ratley (12 gennaio 2002) intervista con l’autrice; Wally Funk (14 giugno 2002) intervista telefonica con l’autrice; Qualifications for Astro-
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Note bibliografiche
nauts. Hearings before the Special Subcommittee on the Selection of Astronauts, Comitato per le scienze e l’astronautica della Camera, Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, 17 e 18 luglio 1962, U.S. Government Printing Office, Washington D.C., 1962, pp. 4-5; Jacqueline Cochran (28 novembre 1960 e 31 gennaio 1961) lettere a W. Randolph Lovelace II (DDE) [4] Jacqueline Cochran (6 dicembre 1960) memorandum interno (DDE) [5] Jerrie Cobb (10 giugno 2002) e-mail all’autrice; Rufus Hunt (2 dicembre 2002) intervista telefonica con l’autrice [6] Jerri Sloan Truhill (20 luglio 2001) intervista con l’autrice; archivi privati di Jerri Sloan Truhill [7] Jerri Sloan Truhill (20 luglio 2001) intervista con l’autrice; archivi privati di Jerri Sloan Truhill; Jerri Sloan Truhill (14 maggio 2002) intervista telefonica con l’autrice [8] Marion Dietrich (13 gennaio 1961) lettera a Jane Dietrich (IWASM) [9] Marion Dietrich (settembre 1961) “First Woman into Space”, McCall’s, p. 180 [10] Wally Funk (4 dicembre 1998) intervista con l’autrice; archivi privati di Wally Funk [11] Gene Nora Stumbough Jessen (10 giugno 2002) intervista telefonica con l’autrice [12] Bernice Steadman (26 settembre 2001) intervista con l’autrice; Jane Hart (26 settembre 2001) intervista con l’autrice [13] Betty Marsh, lettera a Jean Hixson, n.d. (PV) [14] Helen Waterhouse (21 marzo 1957) “Ohio Teacher Crashes Sound Barrier in Jet”, The Christian Science Monitor; Pauline Vincent (17 giugno 2002) intervista con l’autrice; Jeanne Randles (14 giugno 2001) intervista telefonica con l’autrice [15] Archivi privati di Pauline Vincent; Pauline Vincent (17 giugno 2002) intervista con l’autrice [16] “Girls Ride into Space Still Long Way Off ”, The Dayton Daily News, 29 settembre 1960 [17] Donald Cox (settembre 1961) “Woman Astronauts”, Space World, p. 59 [18] “Updates to Jackie Cochran”, n.d. (DDE); “List of Women Who Completed Medical Tests at Lovelace Foundation, Albuquerque, N.M.”, n.d. (DDE); Dorothy Anderson (1 giugno 2002) intervista telefonica con l’autrice; Frances Bera (14 maggio 2002) intervista telefonica con l’autrice; Patricia Jetton (23 maggio 2002) intervista telefonica con l’autrice; Georgiana McConnell (13 maggio 2002) intervista telefonica con l’autrice; Sylvia Roth e Frances Miller (24 maggio 2002) intervista telefonica con l’autrice; W. R. Lovelace II (22 maggio 1961) lettera a Georgiana McConnell (GM); Georgiana McConnell, Written after returning from Albuquerque in 1961, n.d. (GM)
Note bibliografiche
[19] Jacqueline Cochran e Maryann Bucknum Brinley (1987) Jacqueline Cochran: An Autobiography, Bantam Books, New York, p. 29 [20] Jacqueline Cochran (28 novembre 1960) lettera a W. R. Lovelace II (DDE) [21] Floyd Odlum (6 febbraio 1961 e 17 novembre 1961) a W. R. Lovelace II (DDE) [22] Jacqueline Cochran (27 dicembre 1960) lettera a W. R. Lovelace II (DDE) [23] Ibid. [24] Ruby Clayton McKee (18 gennaio 1961) “Jacqueline Cochran Stresses Top Role for Women in Space”, The Dallas Morning News; Jerri Sloan Truhill (20 luglio 2001) intervista con l’autrice; Patricia Jetton (23 maggio 2002) intervista telefonica con l’autrice [25] Chuck Yeager e Leo Janos (1985) Yeager, Bantam, New York, p. 276 [26] Jerri Sloan Truhill (20 luglio 2001) intervista con l’autrice; Jerri Sloan Truhill (14 maggio 2002) intervista telefonica con l’autrice Capitolo 6: Il Bird of Paradise [1] Jacqueline Lovelace Johnson (11 gennaio 2002) intervista con l’autrice [2] Jerrie Cobb (20 febbraio 1961) lettera a Jacqueline Cochran; Jacqueline Cochran (18 giugno 1961) telegramma a Jerrie Cobb; Jerrie Cobb (20 giugno 1961) telegramma a Jacqueline Cochran; Jerrie Cobb (14 giugno 1961) lettera a Jacqueline Cochran; Jacqueline Cochran (31 maggio 1961) nota della segretaria; Jerrie Cobb (14 febbraio 1961) cartolina a Jacqueline Cochran; Jacqueline Cochran (30 gennaio 1961) lettera a Jerrie Cobb; Jerrie Cobb (18 gennaio 1961) telegramma a Jacqueline Cochran (tutti in DDE) [3] Sarah Gorelick Ratley (12 gennaio 2002) intervista con l’autrice [4] Patricia Jetton (23 maggio 2002) intervista telefonica con l’autrice [5] Donald Kilgore (10 agosto 2000) intervista con l’autrice; Sarah Gorelick Ratley (12 gennaio 2002) intervista con l’autrice; Jerri Sloan Truhill (20 luglio 2001) intervista con l’autrice [6] Jan Dietrich (21 febbraio 1961) lettera a Jackie Cochran (DDE); Jan Dietrich (23 gennaio 1961) lettera a Floyd Odlum (DDE) [7] Marion Dietrich (settembre 1961) “First Woman into Space”, McCall’s, p. 180 [8] Jan Dietrich (23 gennaio 1961) lettera a Floyd Odlum (DDE) [9] Jeanne Williams (28 novembre 1960) lettera a Jacqueline Cochran (DDE) [10] Dietrich, “First Woman into Space”, pp. 180, 182 [11] Marion Dietrich (13 gennaio 1961) lettera a Jan Dietrich (IWASM) [12] Jacqueline Cochran (30 aprile 1961) “Women in Space: Famed Aviatrix Predicts Women Astronauts Within Six Years”, Parade, p. 8 [13] Marion Dietrich (16 maggio 1961) lettera a Jacqueline Cochran (DDE) [14] Jacqueline Cochran (12 luglio 1961) lettera a Marion Dietrich (DDE)
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Note bibliografiche
[15] Edith Hills Coogler (14 luglio 1963) “Possible Woman Astronaut: Tar Heel Set Sights on Moon”, Charlotte Observer; Myrtle Cagle (1 maggio 1961, 20 giugno 1961 e 5 settembre 1961) lettere a Jacqueline Cochran (DDE); Qualifications for Astronauts. Hearings before the Special Subcommittee on the Selection of Astronauts, Comitato per le scienze e l’astronautica, Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, 17 e 18 luglio 1962, U.S. Government Printing Office, Washington D.C., 1962 [16] Sarah Gorelick Ratley (12 gennaio 2002) intervista con l’autrice [17] Jerri Sloan Truhill (20 luglio 2001) intervista con l’autrice [18] Ibid.; Bernice Steadman (26 settembre 2001) intervista con l’autrice [19] Ibid. [20] Jerri Sloan Truhill (20 luglio 2001) intervista con l’autrice [21] Wally Funk (4 dicembre 1998) intervista con l’autrice; Donald E. Kilgore (10 agosto 2000) intervista con l’autrice [22] Cochran “Women in Space”, p. 8 [23] Gene Nora Stumbough Jessen (10 giugno 2002) intervista con l’autrice; Donald E. Kilgore (10 agosto 2000) intervista con l’autrice [24] Jane Hart (26 settembre e 26 novembre 2001) interviste con l’autrice [25] Donald E. Kilgore (10 agosto 2000) intervista con l’autrice; Gene Nora Stumbough Jessen (10 giugno 2002) intervista telefonica con l’autrice; Jane Hart (26 novembre 2001) intervista con l’autrice [26] Margaret Weitekamp (maggio 2001) The Right Stuff, The Wrong Sex: The Science, Culture, and Politics of the Lovelace Woman in Space Program, 19591963, dissertazione per il PhD, Cornell University, pp. 235-236 [27] Floyd Odlum (6 marzo 1961) lettera a Jacqueline Cochran (DDE) [28] Weitekamp, The Right Stuff, p. 236 [29] Frances Bera (14 maggio 2002) intervista telefonica con l’autrice; Patricia Jetton (23 maggio 2002) intervista telefonica con l’autrice [30] Betty J. Miller (23 maggio 2002) intervista telefonica con l’autrice [31] Rhea Hurrle Allison Woltman (16 luglio 2002) intervista con l’autrice [32] Irene Leverton (18 luglio 2001) intervista con l’autrice [33] “Like Man: Women Can Be ‘Way Out’ Too”, The Washington Post, 21 maggio 1961 [34] Donald E. Kilgore (10 agosto 2000) intervista con l’autrice; Bernice Steadman (26 settembre 2001) intervista con l’autrice [35] Irene Leverton (18 luglio 2001) intervista con l’autrice Capitolo 7: Programma Venus [1] W. Randolph Lovelace II (17 maggio 1961) lettera a Wally Funk (WF); W. Randolph Lovelace II (17 maggio 1961) lettera a Jerrie Cobb (JC)
Note bibliografiche
[2] Jay T. Shurley (15 gennaio 2002) intervista con l’autrice; Jay T. Shurley (17 maggio 2002) intervista telefonica con l’autrice [3] Richard Green (settembre 2000) “The Early Years: Jolly West and the University of Oklahoma Department of Psychiatry”, Journal of the Oklahoma State Medical Association 93, n° 9, pp. 446-454; Jay T. Shurley (15 gennaio 2002) intervista con l’autrice [4] Green, “The Early Years”, p. 449 [5] Jay T. Shurley, Mercury Astronaut Selection Fact Sheet, copia pubblicata del comunicato stampa n° 59-113 della NASA (JS) [6] Jay T. Shurley (15 gennaio 2002) intervista con l’autrice [7] Ibid. [8] Jay T. Shurley (12 novembre 2001) intervista telefonica con l’autrice [9] Jay T. Shurley (17 maggio 2002) intervista telefonica con l’autrice [10] George E. Ruff e Edwin Z. Levy (novembre 1959) “Psychiatric Evaluation of Candidates for Space Flight”, The Journal of Psychiatry 116, n° 5, p. 388 [11] Ibid., p. 390 [12] John Glenn con Nick Taylor (2000) John Glenn: A Memoir, Bantam Books, New York, pp. 249-251 [13] Jay T. Shurley (1962) “Mental Images in Profound Experimental Sensory Isolation”, in: Louis Jolyon West (ed.) Hallucinations, Grune & Stratton, New York, pp. 154-156 [14] Covey Bean (15 ottobre 1979) “OU Professor Misses Out on Profits of Latest Fad”, The Daily Oklahoman [15] “The Tank” (1960) videocassetta, WKY-TV, Oklahoma City (JC) [16] Jay T. Shurley (1961) “The Hydro-Hypodynamic Environment”, in: Proceedings of the Third World Congress of Psychiatry, vol. 3, McGill University Press, Montreal, p. 235 [17] Cathryn (Walters) Liberson (29 giugno 2002) intervista telefonica con l’autrice [18] Shurley, “Mental Images in Profound Experimental Sensory Isolation”, p. 539 [19] Ibid., p. 543 [20] Jay T. Shurley (15 gennaio 2002) intervista con l’autrice [21] Ibid. [22] Ibid. [23] Shurley, “The Hydro-Hypodynamic Environment”, p. 236, cita Freud, L’interpretazione dei sogni [24] John C. Lilly e Jay T. Shurley (1961) “Experiments in Solitude, in Maximum Achievable Physical Isolation with Water Suspension, of Intact Healthy Persons”, in: Bernard E. Flaherty (ed.) Psychophysiological Aspects of Space Flight, Columbia University Press, New York, pp. 245-246
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Note bibliografiche
[25] Shurley, “Mental Images in Profound Experimental Sensory Isolation”, pp. 541-542 [26] Jay T. Shurley (15 gennaio 2002) intervista con l’autrice [27] Ibid. [28] Shurley, “The Hydro-Hypodynamic Environment”, p. 235 [29] “The Tank” (1960) videocassetta, WKY-TV, Oklahoma City (JS) [30] Jay T. Shurley (15 gennaio 2002) intervista con l’autrice [31] Ibid.; “Damp Prelude to Space: A Potential Lady Orbiter Excels in Lonesome Test”, Life, 24 ottobre 1960, p. 81; Jay T. Shurley e Cathryn Walters (8 agosto 1961) “Woman Astronaut Assessment in Hydrohypodynamic Environment” (JS, JC) [32] Jerrie Cobb e Jane Rieker (1963) Woman into Space: The Jerrie Cobb Story, Prentice Hall, Englewood Cliffs, N.J., pp. 167, 172-173; Shurley e Walters, “Woman Astronaut Assessment” [33] Jay T. Shurley (15 gennaio 2002) intervista con l’autrice; Shurley e Walters, “Woman Astronaut Assessment” [34] Jay T. Shurley (15 gennaio 2002) intervista con l’autrice [35] Shurley e Walters, “Woman Astronaut Assessment”; Qualifications for Astronauts. Hearings before the Special Subcommittee on the Selection of Astronauts, Congresso degli Stati Uniti, Comitato per le scienze e l’astronautica della Camera, 17 e 18 luglio 1962, U.S. Government Printing Office, Washington D.C., 1962, p. 83 [36] Ivy Coffey (agosto 1961) “The Story of Jerrie Cobb: First American Woman to Qualify as an Astronaut”, Guideposts, p. 2 [37] Jerri Sloan Truhill (20 luglio 2001) intervista con l’autrice; Jerrie Cobb (24 luglio 1961) lettera alle F.L.A.T. (IWASM) [38] Cobb e Rieker, Woman into Space, p. 204 [39] Ibid., p. 205; Wally Funk (4 dicembre 1998) intervista con l’autrice; Rhea Hurrle Allison Woltman (16 luglio 2002) intervista con l’autrice [40] Shurley e Walters, “Woman Astronaut Assessment”; Jay T. Shurley, dossier del Programma Venus (JS) [41] Jay T. Shurley, Cost Ceiling Estimate (JS); Jay T. Shurley, dossier del Programma Venus (JS) Capitolo 8: Aspettando Pensacola [1] Burt Boldt (14 febbraio 2002) intervista telefonica con l’autrice; Jane Hoffstetter (19 maggio 1961) “She’d Be First Woman in Space”, Fort Lauderdale News [2] Jerrie Cobb e Jane Rieker (1963) Woman into Space: The Jerrie Cobb Story, Prentice Hall, Englewood Cliffs, N.J., p. 196 [3] Ibid., pp. 94-95
Note bibliografiche
[4] Ibid., pp. 196-197 [5] Ibid., p. 198 [6] Ibid., pp. 199-201 [7] Jerrie Cobb (10 agosto 2002) e-mail all’autrice [8] W. Randolph Lovelace II (8 luglio 1961) lettera a Wally Funk (WF) [9] Jerrie Cobb (16 maggio 1961) lettera a James Webb (JC) [10] Chuck Wheat (26 maggio 1961) “Governor Late, Kerr Tired – But Space Meet Launched”, Tulsa World; “DWD Jr., Other Top Douglas Officials Will Be Here to Take Part in World Space Conference”, Tulsa World, rubrica per l’uso pacifico dello spazio, 27 maggio 1961; “Experts on Space Research to Appear Here”, Tulsa World, rubrica per l’uso pacifico dello spazio, 27 maggio 1961; “Space Future for Women: Test Foundation to Be Expanded”, Tulsa World, 27 maggio 1961; “Four States Bid for ‘62 National Space Parlay”, Tulsa World, 28 maggio 1961 [11] NASA (31 maggio 1961) Proposed Answers to Female Astronaut Volunteers, memorandum (NASA) [12] Jerrie Cobb, Woman as Astronauts, manoscritto inedito (JC) [13] Jerrie Cobb (30 maggio 1960) lettera a James Webb (JC) [14] Jerrie Cobb (31 maggio 1961) lettera a Jacqueline Cochran (DDE) [15] Floyd Odlum (31 maggio 1961) lettera a W. Randolph Lovelace II (DDE) [16] W. Randolph Lovelace II (8 giugno 1961) lettera a Floyd Odlum (DDE) [17] Ibid. [18] Floyd Odlum (31 maggio 1961) lettera a W. Randolph Lovelace II (DDE) [19] Jerrie Cobb (29 maggio 1961) lettera alle F.L.A.T. (JST); Jerri Sloan, modulo di rinuncia (IWASM) [20] W. Randolph Lovelace II (12 luglio 1961) lettera a Jerri Sloan (JST) [21] Jacqueline Cochran (12 luglio 1961) lettera a Marion Dietrich (DDE) [22] Sarah Gorelick Ratley (12 gennaio 2002) intervista con l’autrice; Margaret Weitekamp (maggio 2001) The Right Stuff, The Wrong Sex: The Science, Culture, and Politics of the Lovelace Woman in Space Program, 1959-1963, dissertazione per il PhD, Cornell University, p. 248 [23] Jerrie Cobb (15 giugno 1961) relazione alla NASA (NASA) [24] Jacqueline Cochran (1 agosto 1961) memorandum riservato all’ammiraglio Robert Pirie (DDE) [25] Qualifications for Astronauts. Hearings before the Special Subcommittee on the Selection of Astronauts, Comitato per le scienze e l’astronautica della Camera, Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, 17 e 18 luglio 1962, U.S. Government Printing Office, Washington D.C., 1962, p. 11 [26] Joseph D. Atkinson Jr e Jay M. Shafritz (1985) The Real Stuff: A History of NASA’s Astronaut Recruitment Program, Praeger, New York, p. 90
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Note bibliografiche
[27] Comunicato stampa della Northrop, 17 ottobre 1961 (DDE) [28] Jacqueline Cochran (1 settembre 1961) lettera a W. Randolph Lovelace II (DDE) [29] Diario di Chuck Yeager, 12 ottobre 1961 (DDE); Jacqueline Cochran e Maryann Bucknum Brinley (1987) Jacqueline Cochran: An Autobiography, Bantam Books, New York, p. 308 [30] Sarah Gorelick Ratley (12 gennaio 2002) intervista con l’autrice [31] Lovelace Foundation (12 settembre 1961) telegramma a Wally Funk (WF) [32] Hugh Dryden (2 ottobre 1961) lettera all’ammiraglio di divisione R.B. Pirie (NASA) [33] Jacqueline Cochran (17 ottobre 1961) memorandum alla segretaria (DDE) Capitolo 9: Cambio di rotta [1] Liz Carpenter (14 marzo 1962) Background for Your Conference at 11 a.m. Thursday on Women in Space, Memorandum per il vicepresidente (LBJ) [2] W. Randolph Lovelace II (29 settembre 1961) lettera a James Webb (DDE) [3] Edward R. Murrow (21 settembre 1961) lettera a James Webb (NASA) [4] Joseph D. Atkinson Jr e Jay M. Shafritz (1985) The Real Stuff: A History of NASA’s Astronaut Recruitment Program, Praeger, New York, pp. 98-100, cita il dottor Robert B. Voas, assistente al direttore del gruppo di studio del fattore umano del Manned Space Center [5] Jerrie Cobb (20 luglio 2002) e-mail all’autrice [6] Bonnie [?] e Jerrie Cobb (7 dicembre 1961) discorso di Miss Cobb a Jane [?] (JC) [7] Hugh Dryden (8 dicembre 1961) lettera a Shirley Thomas (NASA) [8] James Webb (15 dicembre 1961) lettera a Jerrie Cobb (JC) [9] Hugh Dryden (20 dicembre 1961) lettera a Shirley Thomas (NASA) [10] Jerrie Cobb (20 luglio 2002) e-mail all’autrice [11] Jerrie Cobb (12 febbraio 1962) lettera alle F.L.A.T. (IWASM) [12] Ibid. [13] Jerrie Cobb (17 aprile 1962) “Space for Women”, memorandum per Lyndon Johnson (LBJ); “First Woman Astronaut Trainee Tells of Program for Space”, Los Angeles Times, 23 febbraio 1962; Jerrie Cobb (17 aprile 1962) lettera a Lyndon Johnson (LBJ) [14] Shirley Thomas (2 aprile 2002) intervista telefonica con l’autrice [15] Jacqueline Cochran (27 febbraio 1962) lettera a W. Randolph Lovelace II (DDE) [16] John Glenn con Nick Taylor (2000) John Glenn: A Memoir, Bantam Books, New York, p. 366 [17] Floyd Odlum (29 marzo 1962) lettera a W. Randolph Lovelace II (DDE)
Note bibliografiche
[18] Ivy Coffey (13 gennaio 2002) intervista con l’autrice; Jay T. Shurley (15 gennaio 2002) intervista con l’autrice [19] Jacqueline Cochran (23 marzo 1962) lettera a Jerrie Cobb (DDE) [20] Ibid. [21] Jerrie Cobb (26 aprile 1962) lettera a Jacqueline Cochran (DDE) [22] Sarah Gorelick Ratley (12 gennaio 2002) intervista con l’autrice [23] Gene Nora Stumbough (11 giugno 1962) lettera a Jacqueline Cochran (DDE) [24] Jane Hart (26 settembre e 26 novembre 2001) interviste con l’autrice [25] Jane Hart (26 settembre 2001) intervista con l’autrice [26] Carpenter, memorandum per il vicepresidente [27] “Woman-in-Space Program Urged”, The Washington Post, n.d. (DDE) [28] Ibid. [29] Glenn con Taylor, John Glenn, pp. 369, 376 [30] Carpenter, memorandum per il vicepresidente [31] Ken Hechler (15 marzo 1962) “Extension of Remarks ‘Women Can Be Astronauts’”, Congressional Record [32] Bob Fenley (15 marzo 1962) “‘Astro-Nettes’ Next? Let Cosmos Beware!”, Dallas Times Herald [33] Kerr Skirts ‘Astronette’ Squabble, allegato di Jerrie Cobb a James Webb,18 maggio 1962, n.d., editore ignoto (HST). Jerrie Cobb, lettera alle F.L.A.T., n. d. (IWASM) [34] Jerrie Cobb (10 agosto 2002) e-mail all’autrice [35] Donald Ritchie, storico del Senato (1 agosto 2002) intervista telefonica con l’autrice [36] Allan Cromley (15 marzo 1962) “Women ‘Race’ for Space”, The Daily Oklahoman [37] Jane Hart (26 settembre 2001) intervista con l’autrice [38] Administrator’s Memorandum on Equal Opportunity for Women, 20 febbraio 1962 (NASA) [39] Jane Hart (26 settembre 2001) intervista con l’autrice; Cromley, “Women ‘Race’ for Space”; Appeal to Johnson: 2 Would-Be ‘Astronettes’ Plead: Let Us Beat Reds, UPI, n.d. (DDE) [40] Dorothy Anderson (1 giugno 2002) intervista telefonica con l’autrice; Donald Ritchie, storico del Senato (1 agosto 2002) intervista telefonica con l’autrice [41] Lyndon Johnson (13 aprile 1962) lettera a Jacqueline Cochran (DDE) [42] Warren G. Woodward (3 giugno 1968) trascrizione AC 69-82 dell’intervista con Paul Bolton, pp. 30-31 (LBJ) [43] Jerrie Cobb (17 aprile 1962) lettera a Lyndon Johnson (LBJ); Jane Hart (26 settembre e 26 novembre 2001) interviste con l’autrice; Jerrie Cobb (10 agosto 2002) e-mail all’autrice
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Note bibliografiche
[44] Jane Hart (26 settembre 2001) intervista con l’autrice [45] Cromley, “Women ‘Race’ for Space” [46] Jane Hart (26 settembre 2001) intervista con l’autrice; Jerrie Cobb (10 agosto 2002) e-mail all’autrice [47] Liz Carpenter (19 novembre 2001) intervista telefonica con l’autrice [48] Lyndon Johnson (15 marzo 1962) lettera a James Webb, bozza stilata da Liz Carpenter (LBJ) Capitolo 10: Udienze congressuali [1] Mrs George B. Ward Jr (24 marzo 1962) lettera a Lyndon Johnson (LBJ) [2] Catherine Smith (16 marzo 1962) lettera a Lyndon Johnson (LBJ) [3] “A Bachelor” (15 marzo 1962) lettera a Lyndon Johnson (LBJ) [4] Ashton Graybiel (22 marzo 1962) lettera a Jerrie Cobb (JC) [5] Marie Smith, “Senator’s Wife Wants Distaff Elbow Room: Asks Space for Women in Space”, Washington Star, n.d. (DDE) [6] Jerrie Cobb, lettera alle F.L.A.T., n.d. (IWASM) [7] “House Group: 9 Out of 11 Men: A Probe on Discrimination Against Women in Space”, The New York Times, 15 giugno 1962; “House to Probe Bias Against ‘Spacewomen’”, Daily Press Newport News, 15 giugno 1962; Jacqueline Cochran (15 giugno 1962) lettera a Jane Hart (DDE) [8] Helen Colson (22 giugno 1962) “House Hearings on Women in Space Are Scheduled to Begin July 17”, Washington Daily News [9] “House to Probe Bias Against ‘Spacewomen’”; “House Group: 9 Out of 11 Men: A Probe on Discrimination Against Women in Space”; Colson, “House Hearings on Women in Space Are Scheduled to Begin July 17”; “Spacewomanship: Lady Astronauts Aspirants Serious”, Detroit Free Press, 18 luglio 1962 [10] Jane Hart (26 novembre 2001) intervista con l’autrice [11] Jane Hart (26 settembre 2001) intervista con l’autrice [12] Jacqueline Cochran (15 giugno 1962) lettera a Jane Hart (DDE) [13] James Webb (12 luglio 1962) lettera a Jacqueline Cochran; Robert Gilruth (26 giugno 1962) lettera a Jacqueline Cochran; Hugh Dryden (26 giugno 1962) lettera a Jacqueline Cochran; Jacqueline Cochran (16 giugno 1962) lettera a Curtis LeMay; Jacqueline Cochran (15 giugno 1962) lettera a W. Randolph Lovelace II; Jacqueline Cochran (2 luglio 1962) lettera a Gene Nora Stumbough (tutti in DDE) [14] Jerri Sloan Truhill (11 agosto 2002) e-mail all’autrice [15] Cathryn (Walters) Liberson (17 agosto 2002) intervista telefonica con l’autrice [16] Jerrie Cobb (9 giugno 2002) e-mail all’autrice
Note bibliografiche
[17] Scott Carpenter (14 giugno 2001) intervista telefonica con l’autrice; John Glenn (30 luglio 2001) intervista con l’autrice; Cathryn (Walters) Liberson (17 agosto 2002) intervista telefonica con l’autrice; Donald Kilgore (10 agosto 2002) intervista con l’autrice; Jay T. Shurley (15 gennaio 2002) intervista con l’autrice; Jane Hart (26 settembre 2001) intervista con l’autrice; Jacqueline Lovelace Johnson (11 gennaio 2002) intervista con l’autrice; Joseph Karth (6 agosto 2002) intervista telefonica con l’autrice [18] W. Randolph Lovelace II (29 giugno 1962) lettera a Jacqueline Cochran (DDE) [19] Jerrie Cobb e Jane Rieker (1963) Woman into Space: The Jerrie Cobb Story, Prentice Hall, Englewood Cliffs, N.J., p. 216 [20] Opening Statement of Jerrie Cobb Before the Special House Subcommittee Looking into the Practicability of the Training and Use of Women as Astronauts, 17 luglio 1962 (JC) [21] Qualifications for Astronauts. Hearings before the Special Subcommittee on the Selection of Astronauts, Comitato per le scienze e l’astronautica, Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, 17 e 18 luglio 1962, U.S. Government Printing Office, Washington D.C., 1962, p. 1 [22] Ibid. [23] Ibid., p. 3 [24] Jacqueline Cochran (15 giugno 1962) lettera a Jane Hart (DDE); Jane Hart (22 giugno 1962) lettera a Jacqueline Cochran (DDE) [25] Irene Leverton (18 luglio 2001) intervista con l’autrice; Bernice Steadman (26 settembre 2001) intervista con l’autrice [26] Cobb e Rieker, Woman into Space, p. 214 [27] “Woman Flier Claims She Won’t Give Up”, Los Angeles Times, 19 luglio 1962 [28] Qualifications for Astronauts, p. 20 [29] Ibid., p. 5 [30] Ibid., p. 6 [31] Ibid., p. 7 [32] Robert C. Toth (18 luglio 1962) “Women Pilots Make Bid for a Chunk of Space”, New York Herald Tribune [33] Qualifications for Astronauts, pp. 7-8 [34] Ibid., p. 9 [35] Ibid. [36] Ibid. [37] Ibid., p. 20 [38] Ibid.; Joseph Karth (6 agosto 2002) intervista con l’autrice [39] Qualifications for Astronauts, p. 22 [40] Ibid.
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Note bibliografiche
[41] James Webb (12 luglio 1962) lettera a Jacqueline Cochran (DDE); Jacqueline Cochran, verbali della dichiarazione N° 1 (DDE); Jacqueline Cochran, verbali della dichiarazione N° 2 (DDE) [42] Qualifications for Astronauts, p. 23 [43] Ibid., pp. 24-25 [44] Ibid., p. 28 [45] Ibid. [46] Ibid., p. 71 [47] Ibid., p. 28 [48] Ibid., p. 29 [49] Jacqueline Cochran e Maryann Bucknum Brinley (1987) Jacqueline Cochran: An Autobiography, Bantam Books, New York, p. 318 [50] Qualifications for Astronauts, pp. 35, 38 [51] Ibid., p. 38 [52] Ibid., p. 39 [53] John Glenn (30 luglio 2001) intervista con l’autrice; Scott Carpenter (14 giugno 2001) intervista telefonica con l’autrice [54] G. Dale Smith (19 giugno 1962) lettera a George Low (NASA) [55] Qualifications for Astronauts, pp. 52, 53, 61, 66 [56] Ibid., p. 53 [57] R. B. Pirie (30 aprile 1962) lettera a Jacqueline Cochran (DDE) [58] Philip Phillips (18 settembre 1961) lettera a Jay Shurley (CL); Jerrie Cobb (10 agosto 2002) e-mail all’autrice [59] Cobb e Rieker, Woman into Space, p. 217 [60] Qualifications for Astronauts, p. 55; John Glenn con Nick Taylor (2000) John Glenn: A Memoir, Bantam Books, New York, p. 247 [61] Qualifications for Astronauts, p. 75 [62] Ibid., pp. 57-58; Isabelle Shelton (18 luglio 1962) “Bachelor Fulton Waxes Poetic on Behalf of Women in Space”, Washington Star [63] Qualifications for Astronauts, p. 58 [64] Scott Carpenter (14 giugno 2001) intervista telefonica con l’autrice [65] Qualifications for Astronauts, p. 58 [66] Ibid., p. 64; John Glenn (30 luglio 2001) intervista con l’autrice [67] Qualifications for Astronauts, p. 67 [68] Earl Lane (27 ottobre 1998) “No Liftoff: Women in Original Astronaut Training Program Are Still Disappointed and Angry”, Newsday [69] Jane Hart (26 settembre 2001) intervista con l’autrice [70] Qualifications for Astronauts, pp. 67, 68, 69 [71] Ibid., p. 74 [72] Ibid., pp. 74, 75
Note bibliografiche
[73] Ibid., pp. 77-83, 84 [74] Cathryn (Walters) Liberson (31 ottobre 2002) intervista telefonica con l’autrice; “2 Astronauts ‘Scrub’ Bid of Women Pilots”, Chicago Tribune Press Service, 19 luglio 1962 [75] Gwen Gibson (23 luglio 1962) “Kennedy-Glenn Team: In Hyannis Port Regatta Space Was in the Drink”, The Washington Post [76] Mary Walsh (26 luglio 1962) “Hopes for Early Flight: Girl Scouts Hear ‘Space Woman’”, The Boston Herald; “Girl Scouts Told Space Program Needs Women”, New York Herald Tribune, 26 luglio 1962 [77] Jerrie Cobb (20 luglio e 13 agosto 1962) telegrammi a John Kennedy (NASA); fascetta di spedizione interna della Casa Bianca, 26 luglio 1962 (NASA) [78] Report on the Activities of the Committee on Science and Astronautics, Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, 87° Congresso, U.S. Government Printing Office, Washington D.C., 1962; Report of the Special Subcommittee on the Selection of Astronauts: Qualifications for Astronauts, Comitato per le scienze e l’astronautica, Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, 87° Congresso, 2° Sessione, Fascicolo S, U.S. Government Printing Office, Washington D.C., 1962 Capitolo 11: Postcombustione [1] Jerrie Cobb (18 luglio 1962) telegramma a Bernice Steadman (IWASM) [2] Jerrie Cobb (11 settembre 1962) lettera a Bernice Steadman (IWASM); Jerrie Cobb (7 maggio 2002) e-mail all’autrice [3] Robert B. Voas (1 febbraio 1963) discorso presso la Downtown YMCA (NASA) [4] Betty Gillis (19 settembre 1962) lettera a Jean Hixson (PV) [5] Hugh Dryden (18 giugno 1962) lettera a Jacqueline Cochran (DDE) [6] Floyd Odlum, memorandum, n.d. (DDE) [7] Wernher von Braun (19 novembre 1962) trascrizione del discorso pronunciato al Mississippi State College (NASA) [8] Jay T. Shurley (17 maggio 2002) intervista telefonica con l’autrice [9] Jean Hixson, ricevuta di restituzione del biglietto della compagnia aerea (PV) [10] W. Randolph Lovelace II (16 luglio 1962) lettera a Jacqueline Cochran (DDE) [11] Johnnie R. Betson Jr e Robert R. Secrest (1 febbraio 1964) “Prospective Women Astronauts Selection Program: Rationale and Comments”, American Journal of Obstetrics and Gynecology 88, pp. 421-423 [12] James Webb (5 settembre 1962) lettera a Jerrie Cobb (JC) [13] Jerrie Cobb (7 agosto 1962) lettera a James Webb (NASA) [14] Sue Cronk (16 novembre 1962) “NASA Program Winged by Aviatrix”, The Washington Post; Leonard Raphael, (ed.) Martin Levin, Ballad of the Lonely Space Scientist (JC)
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Note bibliografiche
[15] R.P. Young (27 dicembre 1962) Memorandum for Record: Subject: Meeting Between the Administrator and Miss Jerrie Cobb (NASA) [16] NASA (11 giugno 1962) Webb Announced Today the Appointment of Miss Jacqueline Cochran as a Special Consultant at NASA; For Release Draft (DDE) [17] Bernice Steadman (26 settembre 2001) intervista con l’autrice; Myrtle Cagle (2 gennaio 2002) intervista telefonica con l’autrice [18] Jerri Sloan Truhill (20 luglio 2001) intervista con l’autrice [19] Wally Funk ((4 dicembre 1998) intervista con l’autrice; Petra Illig (5 novembre 2002) e-mail all’autrice [20] “Women Demand Astronaut Roles, Court Posts, Storm Name Changes”, The New Haven Register, 8 dicembre 1969; Jane Hart (26 settembre 2001) intervista con l’autrice [21] Charles L. Sanders (2 giugno 1965) “The Troubles of ‘Astronaut’ Edward Dwight”, Ebony, pp. 29-36; Joseph D. Atkinson Jr e Jay M. Shafritz (1985) The Real Stuff: A History of NASA’s Astronaut Recruitment Program, Praeger, New York, pp. 100-104, 108, citano Soviets (8 giugno 1965) rapporto n° 19 trasmesso tramite telescrivente [22] Joy Miller (17 giugno 1963) “Space-Bitten U.S. Gal Chagrined”, Hackensack (N.J) Record [23] Clare Boothe Luce (28 giugno 1963) “But Some People Simply Never Get the Message”, Life, p. 31 [24] Ibid. [25] “Aviatrix Applies for Space Training But Is Too Late”, Newport News Daily Press, 12 luglio 1963 [26] “Miss Cobb Quits Firm”, The Daily Oklahoman, 22 novembre 1963 [27] Lyndon Johnson e James Webb (26 novembre 1963) Recordings and Conversations and Meetings, conversazione telefonica, nastro K6311.03 (LBJ) [28] Ibid., pp. 379-380; Jacqueline Lovelace Johnson (11 gennaio 2002) intervista con l’autrice [29] Richard G. Elliott (1966-1967) “‘On a Comet, Always’: A Biography of W. Randolph Lovelace II”, New Mexico Quarterly 36 (UNM), pp. 376-380 [30] Ibid., pp. 351-352; Thomas Chiffelle (20 agosto 2000) intervista con l’autrice [31] John Loosbrock (gennaio 1966) “Randy Lovelace 1907-1965”, Air Force Magazine, p. 75; Elliott, “‘On a Comet, Always’”, p. 350 [32] Stanley Mohler (17 aprile 2002) intervista telefonica con l’autrice [33] Jo Werne (18 aprile 1962) “For and About Women: Jerrie Cobb”, Miami Herald [34] Ibid. [35] Jerrie Cobb (1997) Jerrie Cobb: Solo Pilot, Jerrie Cobb Foundation Inc., Sun City Center, Fla., p. 166
Note bibliografiche
[36] Francis X. Donnelly (21 giugno 1998) “Pioneer Flier Shoots for Stars, Bids for Spaceflight”, Florida Today [37] Meg Laughlin (12 giugno 1983) “The Discarded Astronaut”, Tropic (supplemento domenicale del Miami Herald), pp. 10-13, 15-17, 19-20, 22 [38] Cobb, Jerrie Cobb: Solo Pilot, p. 213 [39] Ibid., p. 194 [40] Stephen J. Garber e Roger D. Launius, A Brief History of the National Aeronautics and Space Administration (copia Internet, NASA History Office); Roger E. Bilstein (1989) Orders of Magnitude: A History of the NACA and NASA, 1915-1990, U.S. Government Printing Office, Washington D.C. (copia Internet), capitoli 6 e 7 [41] Yvonne C. Pateman (1997) Women Who Dared: American Female Test Pilots, Flight-Test Engineers, and Astronauts, 1912-1996, Norstahr Publishing, Laguna Hills, Calif., pp. 76, 89, 103 [42] Atkinson e Shafritz, The Real Stuff, pp. 134-137 [43] George Low (14 agosto 1973) memorandum (NASA) [44] Barbara Jordan (14 marzo 1977) lettera a Nichelle Nichols (NASA) [45] Atkinson e Shafritz, The Real Stuff, p. 133 [46] “Well-Wishers Watch Sally Ride Take New Step for Womankind”, The Washington Post, 19 giugno 1983 Epilogo. Seggiolino di sinistra [1] Jerri Sloan Truhill (20 luglio 2002) intervista con l’autrice; Sarah Gorelick Ratley (12 gennaio 2002) intervista con l’autrice [2] Eileen Collins (6 marzo 1998) Shuttle Commander Ceremony, trascrizione, copia Internet (www.flatoday.com/space/explore/stories/1998/030698e.htm) [3] Videoregistrazione del raduno delle F.L.A.T. del 1986 presso l’International Women’s Air and Space Museum (IWASM) [4] Wally Funk (1994) Videoregistrazione personale del banchetto delle Mercury 13, Oklahoma City, Okla. (WF) [5] Eileen Collins (2 febbraio 2000) intervista telefonica con l’autrice [6] Wally Funk (12 settembre 2002) intervista telefonica con l’autrice [7] Jerri Sloan Truhill (20 luglio 2001) intervista con l’autrice; Sarah Gorelick Ratley (12 gennaio 2002) intervista con l’autrice [8] Marcia Dunn (13 luglio 1998) “38 Years Later, Jerrie Cobb Wants Her Shot at Space”, The Seattle Times
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i blu – pagine di scienza Volumi pubblicati R. Lucchetti Passione per Trilli. Alcune idee dalla matematica M.R. Menzio Tigri e Teoremi. Scrivere teatro e scienza C. Bartocci, R. Betti, A. Guerraggio, R. Lucchetti (a cura di) Vite matematiche. Protagonisti del ’900 da Hilbert a Wiles S. Sandrelli, D. Gouthier, R. Ghattas (a cura di) Tutti i numeri sono uguali a cinque R. Buonanno Il cielo sopra Roma. I luoghi dell’astronomia C.V. Vishveshwara Buchi neri nel mio bagno di schiuma ovvero L’enigma di Einstein G.O. Longo Il senso e la narrazione S. Arroyo Il bizzarro mondo dei quanti D. Gouthier, F. Manzoli Il solito Albert e la piccola Dolly. La scienza dei bambini e dei ragazzi V. Marchis Storie di cose semplici D. Munari Novepernove. Segreti e strategie di gioco J. Tautz Il ronzio delle api M. Abate (a cura di) Perché Nobel? P. Gritzmann, R. Brandenberg Alla ricerca della via più breve P. Magionami Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio E. Cristiani Chiamalo x! Ovvero Cosa fanno i matematici? P. Greco L’astro narrante. La Luna nella scienza e nella letteratura italiana P. Fré Il fascino oscuro dell’inflazione. Alla scoperta della storia dell’Universo R.W. Hartel, A.K. Hartel Sai cosa mangi? La scienza nel cibo L. Monaco Water trips. Itinerari acquatici ai tempi della crisi idrica A. Adamo Pianeti tra le note. Appunti di un astronomo divulgatore C. Tuniz, R. Gillespie, C. Jones I lettori di ossa P.M. Biava Il cancro e la ricerca del senso perduto G.O. Longo Il gesuita che disegnò la Cina. La vita e le opere di Martino Martini R. Buonanno La fine dei cieli di cristallo. L’Astronomia al bivio del ’600 R. Piazza La materia dei sogni. Sbirciatina su un mondo di cose soffici (lettore compreso) N. Bonifati Et voilà i robot! Etica ed estetica nell’era dellemacchine A. Bonasera Quale energia per il futuro? Tutela ambientale e risorse F. Foresta Martin, G. Calcara Per una storia della geofisica italiana. La nascita dell’Istituto Nazionale di Geofisica e la figura di Antonino Lo Surdo, fondatore e primo direttore (1931-1949)
P. Magionami Quei temerari sulle macchine volanti. Piccola storia del volo e dei suoi avventurosi interpreti G.F. Giudice Odissea nello zeptospazio. Viaggio nella fisica dell’LHC P. Greco L’universo a dondolo. La scienza nell’opera di Gianni Rodari C. Ciliberto, R. Lucchetti (a cura di) Un mondo di idee. La matematica ovunque A. Teti PsychoTech - Il punto di non ritorno. La tecnologia che controlla lamente R. Guzzi La strana storia della luce e del colore D. Schiffer Attraverso il microscopio. Neuroscienze e basi del ragionamento clinico L. Castellani, G.A. Fornaro Teletrasporto. Dalla fantascienza alla realtà F. Alinovi GAME START! Strumenti per comprendere i videogiochi M. Ackmann MERCURY 13. La vera storia di tredici donne e del sogno di volare nello spazio
Di prossima pubblicazione R. Di Lorenzo Cassandra non era un’idiota. Il destino è prevedibile L. Boi Pensare l’impossibile. Dialogo infinito tra arte e scienza W. Gatti Sanità e Web. Come Internet ha cambiato il modo di essere medico e malato in Italia A. De Angelis L’enigma dei raggi cosmici
Jacqueline Cochran impartisce istruzioni alle WASP a Camp Davis, North Carolina, 1943 ca. Per gentile concessione di The Woman’s Collection, Texas Woman’s University
Il dottor W. Randolph Lovelace II collassato a terra a Ephrata, Washington, dopo il famoso salto con il paracadute del 1943; all’epoca, gli esperti ritenevano che la sua discesa da otto miglia d’altezza, quasi tredicimila metri, fosse la più alta mai tentata negli Stati Uniti e, molto probabilmente, nel mondo intero. Fu il primo e ultimo lancio con il paracadute del dottor Lovelace. Copyright © The Boeing Company
La Lovelace Foundation and Clinic ad Albuquerque, New Mexico, permise di condurre in segretezza i test sugli astronauti del Programma Mercury contribuendo a selezionare i sette uomini che divennero i primi americani ad andare nello spazio (Lovelace Health Systems)
Il brigadier generale dell’Air Force Donald Flickinger sperava di riuscire a far partire un programma “Ragazze nello spazio” presso la Wright-Patterson Air Force Base di Dayton, Ohio. Quando, nel 1959, gli alti papaveri militari protestarono, l’esperimento venne bloccato e Flickinger lo passò al dottor Lovelace (National Archives)
Jerrie Cobb si consulta con il dottor Lovelace presso la Lovelace Foundation, 1960. La presentazione pubblica dei risultati dei test per astronauti brillantemente superati da Miss Cobb, avvenuta a opera di Lovelace a Stoccolma durante un simposio medico, scatenò la frenesia dei media. Nel giro di poche ore, la fotografia di Jerrie, presentata come la prima “astronautina” degli Stati Uniti, venne pubblicata da giornali di tutto il Paese (Ralph Crane/TimePix)
Il direttore della NASA James Webb fa prestare giuramento a Jacqueline Cochran come consulente dell’agenzia spaziale, 1963 (NASA)
Ruth Nichols, pioniera dell’aviazione femminile e detentrice di record di velocità, quota e distanza di volo non stop. A cinquantotto anni, Miss Nichols riferì di aver “assaggiato” alcuni dei test per astronauti presso la Wright-Patterson Air Force Base. Per gentile concessione di Nancy H. Greep
Jerrie Cobb durante il suo volo su un jet nel 1959. Era molto insolito che a Miss Cobb, come pure alle altre provette aviatrici, venisse offerta l’opportunità di pilotare dei jet militari. Quando le venne concesso di farlo, la donna poté volare solo come “visitatore ufficiale”, e a patto che fosse accompagnata da un pilota maschio (NASA)
La ventiduenne Wally Funk nel 1961, a Fort Sill, Oklahoma, dove insegnava a volare al personale militare. Dopo aver letto di Jerrie Cobb sulla rivista Life, Miss Funk scrisse immediatamente al dottor Lovelace offrendosi volontaria per i test per astronauti. Per gentile concessione di Wally Funk
1951. Jean Hixson e i suoi studenti della Crouse Elementary School di Akron, Ohio. Quando l’insegnante infranse la barriera del suono nel 1957 su un jet dell’Air Force, i suoi studenti, in preda a un timore reverenziale, iniziarono a chiamarla la “maestra supersonica”. Per gentile concessione di Pauline Vincent
Irene Leverton si prepara per le International Pendleton Air Races nel 1965. Miss Leverton organizzò personalmente delle pylon air races per donne, le gare aeronautiche con passaggio tra i piloni, e si piazzò al primo e al secondo posto per due anni di fila. Per gentile concessione di Irene Leverton
Gene Nora Stumbough fu costretta a lasciare il proprio lavoro come insegnante di volo per tenersi pronta per lo stadio successivo dei test astronautici che avrebbero dovuto svolgersi presso la U.S. School of Aviation Medicine di Pensacola. Quando i test vennero bruscamente cancellati, Miss Stumbough si ritrovò senza lavoro ma, alla fine, riuscì a ottenere quello che lei stessa definì “il lavoro dei suoi sogni”, volando come pilota incaricata di effettuare dimostrazioni per la Beech Aircraft nel 1964 (Raytheon Aircraft)
Bernice “B” Steadman ha vinto tutte le principali gare di volo femminili almeno una volta, incluso il “Derby del piumino da cipria” del 1966. In seguito si unì a una lunga schiera di aviatrici straordinarie, quali Amelia Earhart e Jacqueline Cochran, prestando servizio come presidentessa delle Ninety-Nines, l’organizzazione internazionale delle donne pilota (Joe Clark/TimePix)
Dopo che alle Mercury 13 venne negata la possibilità di sottoporsi a ulteriori test per astronauti, Rhea Hurrle Allison si trasferì a Colorado Springs, dove di tanto in tanto trainava qualche aliante per l’Air Force Academy. I cadetti, maschi, non hanno mai saputo che la donna che rimorchiava i loro alianti all’inizio degli anni Sessanta aveva sperato di essere tra le prime donne astronauta. Per gentile concessione di Rhea Woltman
Jerri Sloan saluta il figlio David dopo aver gareggiato con Martha Ann Reading nel Dallas Doll Derby del 1961. La settimana di test di Mrs Sloan presso la Lovelace Foundation fu complicata dall’invidia del marito pilota e dalle sue telefonate furibonde al dottor Lovelace. Per gentile concessione di Jerry Truhill
Jan (a sinistra) e Marion Dietrich nel 1956. Note negli ambienti delle gare come le “twins in a twin”, le “gemelle in twin-set”, le sorelle Dietrich godettero del trattamento preferenziale di Jacqueline Cochran durante i test presso la Lovelace Foundation. Per gentile concessione di Patricia Daly
L’ufficiale riservista Jean Hixson presso la Wright-Patterson Air Force Base, 1960 ca. Miss Hixson aveva un’esperienza eccezionale come pilota, che includeva il volo ad alta quota, ma mentì riguardo alla propria età quando compilò il modulo per i test da astronauta. Trentasettenne, dichiarò due anni di meno, ignara che il dottor Lovelace avesse già deciso di sottoporre ai test anche donne più mature. Per gentile concessione di Pauline Vincent
Jerrie Cobb mentre porta a termine una prova di resistenza presso la Lovelace Foundation nel 1960. Ex ferry pilot internazionale e detentrice di record di volo mondiali, Miss Cobb si spazientiva alle domande dei reporter che si concentravano maggiormente sui suoi potenziali fidanzati e sulle sue ricette preferite che sulla sua determinazione ad avere successo come astronauta (Ralph Crane/TimePix)
Jerrie Cobb durante il tilt-table test presso la Lovelace Foundation nel 1960. Gli scienziati dichiararono Miss Cobb un esemplare umano eccezionale, pari agli astronauti del Programma Mercury come forma fisica e capacità di sopportare gli stress del volo spaziale (Ralph Crane/TimePix)
Jerrie Cobb mentre si sottopone al test del conteggio corporeo totale presso il Los Alamos Scientific Laboratory, New Mexico, nel 1960. Miss Cobb paragonò l’esperienza al venire infilata in un polmone d’acciaio (Lovelace Health Systems)
Myrtle Cagle spinta allo sfinimento durante il test di resistenza sul cicloergometro presso la Lovelace nel 1961. Miss Cagle si rivolse a Jacqueline Cochran per poter partecipare al programma e considerò lei, e non Miss Cobb, la leader del Mercury 13 (Lovelace Health Systems)
Jerrie Cobb mentre esegue varie manovre sul MASTIF, presso il Lewis Research Center di Cleveland. La struttura della NASA aprì le porte a Miss Cobb nel 1961, sottoponendola a un test vertiginoso su un enorme giroscopio progettato allo scopo di simulare ciò che gli scienziati ritenevano fossero i movimenti di una capsula spaziale fuori controllo (NASA)
Rhea Hurrle mentre viene dotata della maschera per il test della vasca d’isolamento sensoriale dal dottor Jay Shurley, nel 1961. Shurley, un pioniere negli studi dell’isolamento sensoriale, scoprì che la capacità delle tre Mercury 13 da lui sottoposte al test di sopportare una solitudine intensa batteva ogni risultato precedente. In particolare, Jerrie Cobb lo colpì come “una ragazza che eccelle nella solitudine” (Carl Iwasaki/TimePix) Jean Hixson mentre viene sottoposta al test per valutare la sua funzionalità polmonare presso la Lovelace Foundation nel 1961 (Lovelace Health Systems)
Cinque giorni dopo la sua festa d’addio alla AT&T, Sarah Gorelick ricevette un telegramma dal dottor Lovelace che la informava che i test di Pensacola erano stati cancellati. Per gentile concessione di Sarah Ratley
1965. Durante una parata avvenuta in occasione della riunione annuale delle ex allieve, la classe 1940 del Mount Holyoke College manifesta contro il veto della NASA alle donne astronauta. Fotografia di Vincent D’Addario, The Mount Holyoke College Archives and Special Collections
John Glenn, Annie Glenn e il vicepresidente Lyndon Johnson durante la parata trionfale verso il Campidoglio in seguito all’orbita di Glenn, 1962. Più avanti, nel corso di quello stesso anno, la testimonianza di Glenn davanti al Congresso contribuì a liquidare le chance delle Mercury 13 di diventare astronaute. Copyright © Bettmann/CORBIS
Vignette giornalistiche come questa, del 1962, ritraevano il vicepresidente Johnson braccato da donne frivole che volevano fare le astronaute (The Dallas Morning News)
Le vignette giornalistiche del 1983, ovvero l’anno del lancio nello spazio di Sally Ride, coglievano per lo più la stessa opinione pubblica circolante oltre vent’anni prima riguardo alle donne astronauta. Ristampato con il permesso speciale della King Features Syndicate
Sally, come prima donna astronauta pensi che piangerai al decollo? – Chi preparerà il caffè, a bordo? – Rassetterai la cabina? – I membri dell’equipaggio ti hanno fatto delle avance? – Che cosa farai nel tempo libero? Sferruzzerai? Caspita, che accidenti ha? – Ve l’avevo detto che le donne sono troppo emotive per questo genere di lavoro!
Jerrie Cobb e Jane Hart depongono davanti alla sottocommissione del Congresso nel 1962. “Parliamoci chiaro”, affermò Mrs Hart davanti alla sottocommissione, “per molte donne l’associazione genitori e insegnanti proprio non è abbastanza”. Copyright © Bettmann/CORBIS
Jerrie Cobb e Jane Hart al termine dell’incontro con il vicepresidente Lyndon Johnson nel 1962, ignare che l’uomo avesse apposto la scritta: “Fermiamo questa cosa! Adesso!” sulla proposta di prendere in considerazione l’idea delle donne astronauta. Copyright © Bettmann/CORBIS
Il primo gruppo di donne astronauta, 1978: da sinistra a destra, Sally Ride, Judith Resnik, Anna Fisher, Kathryn Sullivan, Margaret Seddon. Non fotografata: Shannon Lucid (NASA)
Sally Ride ripara l’impianto di filtraggio dell’aria a bordo dello Space Shuttle Challenger, nel 1983. Miss Ride è stata la prima donna americana ad andare nello spazio, oltre vent’anni dopo il lancio di Valentina Tereshkova da parte dei sovietici (NASA)
Wally Funk (a testa in giù) esegue esercitazioni in assenza di gravità durante la sua partecipazione a un “programma di avventure spaziali” a Star City, Russia, nel 2000. Per gentile concessione di Wally Funk
Le donne del Mercury 13 assistono al lancio dello Space Shuttle nel 1995: (da sinistra a destra) Gene Nora Stumbough Jessen, Wally Funk, Jerrie Cobb, Jerri Sloan Truhill, Sarah Gorelick Ratley, Myrtle Cagle, Bernice “B” Steadman (NASA)
1998. Eileen Collins sul “seggiolino di sinistra” si addestra al volo sullo Space Shuttle. Mrs Collins è stata la prima donna americana a comandare uno Shuttle e afferma che i suoi successi non sarebbero stati conseguibili senza le precedenti lotte delle Mercury 13 (NASA)