MARCO BUTICCHI MENORAH (1998) PROLOGO Iraq meridionale. Bassora. 1991 Il generale al-Gudhaf, comandante la 7a brigata meccanizzata dell'esercito iracheno, scuoteva la testa con espressione rassegnata. Sembrava quasi che i Marines agissero con circospezione, nonostante la loro straripante superiorità. Come se indugiassero prima di avanzare, e volessero accertarsi di aver ridotto all'impotenza il nemico con il lancio di razzi guidati e gli attacchi aerei. Mentre all'inizio, in quel torrido mattino d'agosto, tutto era sembrato così facile. In poche ore avevano preso Kuwait City e le sue enormi ricchezze. Al-Gudhaf chiuse il suo tesoro in un sacco militare. Razziati cinque milioni di sterline in Buoni del Tesoro britannici e una quantità ancora imprecisata di azioni al portatore della Kuwait Petroleum Corporation, mentre, nei sotterranei della Bank of Emirates, l'acciaio della cassetta di sicurezza scottava ancora per lo scasso con la lancia termica. Dopo un attimo di esitazione ripose nel sacco anche il libro antico. Sapeva che le azioni al portatore e i loan britannici assommavano a dieci milioni di dollari. Non gli era invece per nulla chiaro quale uso avrebbe potuto fare di quel libriccino rilegato in pelle e scritto a mano. Ma tra la copertina e la prima pagina aveva visto il certificato di autenticità della famosa casa d'aste Christie's. E il fatto di averlo trovato chiuso in una cassetta di sicurezza doveva pur significare qualcosa. Tutto attorno regnava il caos: centinaia di automezzi civili, requisiti dall'esercito in fuga, rombavano tra le nuvole di polvere bruna muovendosi disordinatamente, urtandosi, facendo ululare sirene e clacson. Il generale era quasi al centro della carovana, seduto sul sedile posteriore di una Dodge 1986 dotata di doppio impianto di condizionamento. Il viaggio verso Baghdad era lungo, e avevano il nemico alle costole. L'alba esplose senza preavviso. La colonna irachena fuggiasca sembrava avviata a ritrovare un certo ordine, quando il primo grappolo di bombe paracadutate decapitò la testa del serpente variopinto. La paura, il fuoco e la morte recitarono il loro macabro copione.
Washington. Casa Bianca. 1991 Il centralinista si schiarì la voce: «Può ripetere il suo nome, signore?» Quindi, ottenuta la risposta, chiese ancora in tono cortese: «Può lasciarmi un suo recapito, signor... Saddam Hussein? La richiamo subito». Arrivati a quel punto, di solito i mitomani rinunciavano alla bravata. L'uomo all'altro capo della linea, invece, tenne duro: «Sto chiamando dal telefono satellitare di Peter Arnett della CNN. Conoscete di sicuro il modo per raggiungerlo». Sette minuti più tardi il capoturno del servizio di sicurezza del presidente si accinse a contattare l'apparecchio, dotato di una grande antenna paraboloide, l'unica base di comunicazione occidentale ancora in funzione nella Baghdad devastata dai bombardamenti. Fu lo stesso Rais a ricevere la chiamata. «Sono Pat Killeen, collaboratore del presidente degli Stati Uniti», si sentì dire. «Qui parla il presidente dell'Iraq», rispose, «e per la salvezza del genere umano chiedo di parlare con George Bush.» «Rimanga in attesa, per favore.» Killeen cercò di mantenere un tono impassibile, ma la sua voce continuò a tremare anche quando gli rispose il presidente degli Stati Uniti. «Chiedo scusa, signore, ma c'è una persona che sostiene di essere Saddam Hussein e chiede di conferire con lei al telefono. Stiamo verificando la provenienza del segnale. Per adesso sappiamo soltanto con certezza che sta parlando dal centro di Baghdad.» Pochi istanti dopo i due nemici si stavano fronteggiando, seppure a diecimila chilometri di distanza. «Non credo che questo suo estremo tentativo riuscirà a salvare Baghdad, generale Saddam.» «Non intendo presentarle un'indecorosa e impensabile offerta di resa, signor presidente, ma un ultimo avvertimento: se avanzerete ancora di un solo metro, i vostri amici israeliani non avranno più una terra su cui camminare.» «Non è il momento più opportuno per i bluff.» «Per il bene dell'umanità le chiedo di fermare le sue truppe, altrimenti innescherò una reazione a catena che potrebbe avere ripercussioni catastrofiche, e anzitutto la cancellazione di Israele dal nostro pianeta.» Il presidente americano capì che il suo interlocutore non stava scherzan-
do ed ebbe un attimo di esitazione, mentre l'altro continuava: «Si consulti pure con il suo lacchè Shimon Peres. Ho promesso all'inviato della vostra emittente televisiva che gli restituirò l'apparecchio telefonico entro sei ore. Sa dove trovarmi». La comunicazione si interruppe. Incredibile, pensò il presidente, stupefatto. Le risorse di quell'uomo erano infinite. Pur con le truppe di Desert Storm a un passo da Baghdad, aveva ancora il coraggio di dettare ultimatum. Ma se fosse vero? si chiese. Se disponesse di un'arma batteriologica per seminare la morte a Gerusalemme e dare inizio alla più volte minacciata «Madre di tutte le battaglie»? Bush alzò il telefono: «Mi chiami il primo ministro israeliano», chiese al centralinista. «Signor primo ministro», disse dopo una brevissima attesa, «prima di prendere una qualsiasi decisione mi sono sentito in dovere di consultarmi con lei. Ho appena ricevuto una telefonata; quasi sicuramente dal Rais di Baghdad in persona.» Il premier israeliano rimase in silenzio: prima di agire preferiva ascoltare, riflettere e valutare. «Saddam minaccia di attaccare lo Stato di Israele se le truppe alleate avanzeranno di un solo passo», continuò Bush. «Signor presidente», replicò Peres in tono fermo, «fino a oggi il mio popolo si è inchinato a interessi superiori, ha visto le notti illuminate dalle scie degli Scud iracheni che portavano la morte nelle sue case, e non ha mai reagito. Ma se quel pazzo sanguinario si renderà responsabile di un nuovo attacco alla nostra terra, questa volta reagiremo. Le armi di cui disponiamo possono radere al suolo l'Iraq in poche ore. La prego, non prenda queste mie parole con lo stesso spirito con cui ha accolto l'ultima minaccia di Saddam. Il mio popolo è stanco di far da bersaglio a un folle. E la storia ci ha insegnato a quali limiti si può arrivare se non si riducono all'impotenza per tempo certi personaggi.» Il presidente americano capì che il mondo stava rischiando una catastrofe. Per evitarla, poteva fare una cosa sola: rinunciare alla vittoria totale, fermare le truppe dirette a Baghdad. Washington. Casa Bianca. Novembre 1992 George Bush stava studiando con preoccupazione i sondaggi che indica-
vano in calo la sua popolarità. Fece scorrere con amarezza la destra sul tavolo in noce della Sala Ovale: quasi certamente, per il prossimo mandato, la Casa Bianca avrebbe ospitato il suo avversario. Quando sollevò il telefono per parlare con Shimon Peres era in preda alla febbre elettorale: doveva conquistare i milioni di voti degli ebrei degli Stati Uniti. I due uomini politici parlarono per qualche minuto delle elezioni, con assicurazioni di reciproca disponibilità, ma Peres partì quasi subito all'attacco, sapendo che l'interlocutore non era in condizione di negargli il favore che intendeva chiedergli. «Ho saputo», disse, «che le truppe della coalizione hanno trovato tra le varie cose razziate il diario di un pittore veneziano del XVIII secolo.» «Non ne sono a conoscenza.» «La pregherei di informarsi, signor presidente, perché quel diario è stato venduto a un'asta di Londra, in un momento di debolezza, da un lontano parente di mia moglie. E vorremmo rientrarne in possesso.» Dieci giorni dopo la telefonata Shimon Peres aveva il diario sulla sua scrivania, sebbene i servizi americani avessero accertato che nessun parente di sua moglie aveva mai venduto e nemmeno posseduto quel libriccino scritto a mano e rilegato in pelle. Il libriccino era stato venduto tramite Christie's, famosa casa d'aste londinese, da un avvocato di Francoforte, il cui padre, nel corso della seconda guerra mondiale, era stato capitano della Wehrmacht durante l'occupazione tedesca di Parigi. La casa d'aste lo aveva poi venduto a un ricchissimo uomo d'affari kuwaitiano, solido cliente della ditta e grande appassionato del Settecento europeo. Contrariamente alle previsioni degli esperti, l'asta era stata molto combattuta, e il diario era stato venduto a un prezzo venti volte superiore a quello base, nonché dopo una strenua battaglia tra il kuwaitiano e un altro contendente non identificato. Il contenuto del libriccino rimandava a vicende ed epoche molto, molto lontane. Tangula Shan. Altopiano del Tibet. XIX secolo Il lama Namling era tornato da tempo dal suo lunghissimo viaggio in terre lontane. Era uno dei sacerdoti più anziani del tempio e uno tra i maestri più saggi. Le rocce scendevano a perpendicolo per centinaia di metri. Il manto
compatto delle nubi basse si insinuava tra i precipizi himalayani, riempiendoli di una schiuma di lattice bianco. Dalla coltre sembrava emergere soltanto la vetta dov'era arroccato il monastero. «Credi dunque che esistano altre divinità, lama Namling?» chiese il ragazzo con occhi trasognati, pieni d'innocenza. Namling lo scrutò qualche istante prima di rispondere. Tang Shen era il migliore dei suoi allievi. Aveva soltanto sedici anni, e ogni insegnamento sarebbe stato prezioso per la sua formazione, in una delle sette modalità del conoscere. «Ogni uomo che crede è degno di rispetto. Ogni religione contiene elementi di santità. Ogni oggetto votato a Dio è sacro, indipendentemente dal nome della divinità.» Il lama fece volteggiare sopra la spalla il lembo della veste color porpora, incrociò le gambe e sedette lentamente. Il giovane lo imitò. Nel tempio ardevano centinaia di candele. «Voglio raccontarti una storia, Tang Shen», continuò Namling, «una storia molto lunga. E molto vecchia. Ma anche molto istruttiva.» Il discepolo lasciò che il corpo si rilassasse completamente, poi congiunse le mani e si accinse ad ascoltare rapito le parole del maestro. I suoi occhi a mandorla penetravano le coltri di fumo delle candele, fissandosi sui dipinti affrescati dalle mani di Namling. Il saggio lama cominciò a raccontare. La sua voce calma e suadente sapeva evocare immagini. Le sue parole rendevano vivo ogni avvenimento. «Vi sono terre lontane, Tang Shen, dove la gente è molto diversa da noi, dal nostro modo di vivere, pensare e credere. Tuttavia, nonostante le diversità, vi sono persone capaci di colmare ogni incompatibilità di usanze solamente con la rettitudine dell'animo...» PARTE PRIMA IL RITORNO 1 Israele. Luglio 199... Laura Joanson ripose nella borsa il romanzo proprio nel momento in cui i quattro reattori del Boeing della El Al riducevano la potenza. Il pensiero corse istintivamente a Kevin, alla passione indomabile del suo compagno per il volo e lo spazio, al suo coraggio di fronte a tutto. Anche alla morte.
Allacciò le cinture e si preparò con la solita inquietudine all'atterraggio. No: volare non le sarebbe mai piaciuto. A casa, la piccolissima Chiara cresceva forte come il padre, con gli stessi occhi verde intenso dell'unico uomo che lei avesse amato davvero. Al pensiero della figlia lontana, sul viso della scrittrice affiorò un sorriso velato di nostalgia. Pochi minuti più tardi Laura superava i banchi doganali dell'aeroporto Ben Gurion, con il passaporto nella destra e la borsa a tracolla che la sbilanciava un po' a sinistra. La sua bellezza non poteva passare inosservata. La gravidanza non aveva lasciato segni. Occhi neri, sopracciglia folte, carnagione bruna: la testa del giovane con la divisa dello Sheraton svettava sopra le altre appena fuori del cancello degli arrivi. Laura Joanson non ebbe bisogno di leggere il nome scritto sul cartello tenuto ben in vista: l'autista l'aveva già riconosciuta a distanza. Erano passate soltanto poche ore, ma Chiara le mancava già. Affidò il borsone al giovane e gli chiese dove poteva trovare un telefono per avvertire che era arrivata. In realtà voleva soltanto accertarsi delle condizioni della piccola. Invece l'autista la guidò con modi stranamente decisi verso l'auto. «Potrà chiamare con maggior comodità dalla vettura, signora Joanson», disse con un sorriso cordiale ma fermo. I cinquantacinque chilometri della superstrada numero 1 per Gerusalemme non erano molto affollati. La Mercedes diesel blu con il simbolo della catena alberghiera correva veloce. Finita la rapida telefonata a casa, Laura prese la documentazione del campo petrolifero e si mise a sfogliarla. Era romanziera ma anche oceanografa ed esperta di prospezioni petrolifere. Troppe cose insieme, forse, e la sua vita privata ne stava soffrendo. La Città Santa era intasata dal solito traffico cosmopolita. Le strade erano ingorgate dai più disparati mezzi di locomozione, ed era forse per questo che l'autista procedeva per stradine secondarie di fianco a Ben-Zvi Boulevard. Improvvisamente la Mercedes svoltò a destra in una rampa che portava a un parcheggio sotterraneo. Laura scrutò gli occhi dell'autista riflessi nello specchietto. Il buio del garage era rotto da luci al neon che illuminavano l'interno della vettura con lampi fugaci, rendendo le espressioni dell'uomo simili alla sequenza di immagini di una luce psichedelica. Laura provò un certo disagio, ma non fino ad allarmarsi.
La Mercedes si fermò davanti alla saracinesca di un box, che cominciò ad aprirsi. E finalmente l'uomo parlò, appoggiandosi con il gomito sulla spalliera e girandosi: «Mi scusi per questo cambiamento di programma, signora Joanson. Questioni di sicurezza. Abbia fiducia, non corre nessun pericolo». Laura fece un cenno di assenso. Sospettando chi fosse stato a farla invitare lì, sapeva che qualche stranezza era inevitabile. L'auto entrò nel box, abbastanza ampio da contenere due vetture. La saracinesca si richiuse dietro di loro. Nel buio le apparve dapprima una sottile striscia di luce verticale, poi l'intera parete dinanzi a loro scivolò di lato, mostrando una galleria illuminata. La Mercedes riprese a muoversi lentamente, arrestandosi in una piazzola sotterranea. Il motore diesel emise un sussulto, spegnendosi quasi con un colpo di tosse soffocato. L'autista si voltò di nuovo e le tese la mano senza togliersi il cappello. «Mi avevano detto che era coraggiosa, signora Joanson, ma temevo di doverla costringere a seguirmi. Sono il capitano Chaim Luria del servizio personale di sicurezza del primo ministro. Sua Eccellenza la sta aspettando.» Laura lo osservò comporre una combinazione elettronica su una tastiera simile a quella di un telefono, incassata nel muro. La porta dell'ascensore si aprì dolcemente. L'uomo mise mano a un congegno simile al precedente, e salirono. «Sappia», disse di punto in bianco, «che considero Oswald Breil il migliore dei maestri. Gli devo quasi tutto ciò che so riguardo al nostro mestiere. E non soltanto.» Laura si illuminò in viso. Certo, pensò, com'era possibile non volergli bene? Doveva lei stessa la vita al maggiore Breil, dei servizi segreti israeliani. Al suo pensiero si sentì gonfiare di affetto. L'ascensore si fermò senza scosse. Il vestibolo su cui uscirono era spoglio. Laura entrò nello studio privato del premier israeliano attraverso un'ulteriore porta a scomparsa, perfettamente dissimulata in una libreria a parete. Il primo ministro si alzò dalla scrivania, mentre il capitano si congedava. Le tese la mano: «Ho finalmente il piacere di incontrarla di persona, signora Joanson. Ma avevo già avuto modo di conoscerla e apprezzarla dai racconti del maggiore Breil». Laura non sembrava per niente intimidita dal fatto di trovarsi al cospetto
di un capo di governo. Restituì la stretta di mano in maniera energica, seppure femminile, e rispose: «Eccellenza, se sono viva lo devo proprio a Oswald Breil». «Lo so, ma so anche che l'umanità è salva grazie a suo...» - il premier ebbe un istante di esitazione: Laura e il suo compagno non erano sposati «grazie a suo marito, il generale Kevin Dimarzio.» Laura si lasciò guidare verso il salotto interno. E soltanto entrandovi si accorse di due gambette che spuntavano da sotto una poltrona in cuoio. Lo sguardo vivace di Oswald Breil fece capolino da oltre lo schienale. Forse, al cospetto di un capo di governo, l'etichetta non prevedeva un simile comportamento, ma Laura si gettò letteralmente verso l'omino, chinandosi sulla poltrona, abbracciandolo con calore e baciandolo sulle guance. Il multiforme ingegno di Oswald Breil era racchiuso in un corpo di minuscole dimensioni, sotto una grande testa. «Avevo immaginato che dietro a tutto questo doveva esserci la tua regia», esclamò la scrittrice. «Ed è stato proprio questo sospetto a farmi accettare un incarico di ricerca petrolifera nel mar Morto. Un'impresa molto, molto improbabile, lasciatelo dire.» Il premier si era tenuto educatamente in disparte, ma a questo punto si raschiò un paio di volte la gola e, ottenuta l'attenzione dei due, disse: «Credo sia inutile sottolineare la riservatezza di questo incontro, signora Joanson». Laura annuì con vigore. Ormai, suo malgrado, era abituata a trattare questioni segrete. Romanziera, oceanografa, esperta di prospezioni petrolifere e qualcos'altro ancora. Laura Joanson si lasciò trasportare dalle parole del primo ministro israeliano con la stessa intensità con cui amava abbandonarsi alle vicende che creava lei stessa nei suoi romanzi. La mitica Menorah del popolo ebraico... «Come può ben capire», stava dicendo l'uomo politico, «rientrare in possesso della Menorah sarebbe come riconquistare una parte della nostra identità. Sembrava un evento impossibile, una semplice leggenda, finché non abbiamo recuperato questo documento.» E il premier israeliano posò sul tavolo un libriccino rilegato in pelle, aprendolo a caso. Le sue dita scorsero con delicatezza sulla grafia antica. «Lei conosce il veneziano, signora Joanson?» si informò. «Non molto più del tamil e del ceceno», rispose Laura con un sorriso.
«E comunque non abbastanza da poter capire che cosa abbia scritto a mano qualcuno...» continuò, alzandosi per scrutare il volume, «alcuni secoli fa, direi.» «Precisamente tra il 1788 e il 1789, signora Joanson. Agli albori della Rivoluzione Francese. Ma non tema: abbiamo provveduto a farle tradurre questo documento, che tra l'altro contiene varie espressioni in francese, da un nostro esperto.» E il premier israeliano le porse un libro moderno. La copertina era identica a quella del romanzo di Jostein Gaarder che lei stava leggendo in aereo. E identici erano anche i primi due capitoli e gli ultimi due. Ma la parte centrale non corrispondeva affatto al testo dello scrittore norvegese, sebbene la stampa e la carta fossero uguali. «Una piccola precauzione contro eventuali malintenzionati», le spiegò l'uomo di Stato con un sorriso d'intesa. «Se qualcuno dovesse impossessarsi dei suoi effetti personali, difficilmente si metterebbe a leggere un romanzo.» Laura intanto stava sfogliando il volume. Quasi con un moto di angoscia capì che anche questa volta non sarebbe riuscita a reprimere l'impulso che la spingeva verso l'ignoto e, spesso, il rischio. Ma si sentiva in debito con Oswald Breil e quindi con lo Stato di Israele. «Lo esamini con calma, signora Joanson. Siamo convinti che l'occhio di una romanziera esperta sia il più indicato per cogliere tutte le astrusità o finezze del testo che potrebbero rappresentare un indizio. Quindi desideriamo un suo parere. Ha un mese di tempo per farmelo avere.» «Posso avere qualche informazione in più circa questo documento?» chiese Laura. «L'originale, intendo dire. Come ne siete entrati in possesso? Credo che saperlo potrebbe essermi utile per...» Il premier si accigliò e la interruppe alzando una mano, quindi scoccò un'occhiata a Breil, che rispose con un cenno affermativo della testa. «Vuole essere così gentile da provvedere lei, maggiore?» «Certo, signore», disse Oswald. Quindi, rivolto all'amica, continuò: «Quest'oggetto ha una storia piuttosto complessa. Il nostro popolo sa della sua esistenza praticamente fin da quando esso è stato compilato. David Serero, macellaio rituale a Parigi, lo aveva rinvenuto e consegnato al rabbino capo di quella città nel primo, convulso periodo della Rivoluzione Francese. Il diario è rimasto in possesso del rabbinato parigino fino alla sventurata occupazione della città da parte delle truppe naziste. Come sai, in quegli anni la popolazione ebraica di Parigi è stata deportata e i suoi beni sono
stati saccheggiati e dispersi. Dell'esistenza del diario abbiamo avuto di nuovo notizia in via confidenziale poco prima che venisse messo in vendita a un'asta di Christie's. Abbiamo cercato di comperarlo, ma non ci siamo riusciti. Il diario è finito a Kuwait City. E da lì, finalmente, dopo la guerra del Golfo, è arrivato dove deve stare, ovvero tra le nostre mani. Non chiedermi come ciò sia successo: non sono autorizzato a dirtelo e non ha nemmeno importanza». «Questo è tutto, signora Joanson», intervenne il primo ministro. «Mi auguro che questo supplemento di informazioni possa esserle utile per la sua indagine. Ripeto: aspetto una sua risposta.» Così dicendo strinse la mano alla scrittrice e l'accompagnò verso la parete a scomparsa della biblioteca, che stava già scorrendo. Oswald arrivò con lei fin sulla soglia e la affidò al giovane subalterno rimasto in attesa nel vestibolo. Prima che rientrasse nell'ufficio del premier, Laura si chinò per baciarlo affettuosamente e Breil dovette alzarsi in punta dei piedi. Dieci minuti più tardi Laura entrava nell'atrio del Plaza Sheraton, in preda a un'ansiosa fretta di trovarsi sola per cominciare a scoprire i segreti celati nel diario trascritto e camuffato da best seller. La stanza era identica a qualsiasi altra degli Sheraton di tutto il mondo. Si sarebbe potuta benissimo trovare a Roma o a Boston, invece che al 47 di King George Street, a Gerusalemme. Il valletto appoggiò la borsa da viaggio sulla panca, la ringraziò per la mancia e salutò chiudendosi con cura la porta dietro le spalle. Laura si stese sul letto e allungò le gambe: era molto stanca, e il viaggio aereo le aveva gonfiato le caviglie. Se le massaggiò con una mano mentre frugava con l'altra nella borsa. Ne estrasse il volume e lo aprì nel punto in cui cominciava la traduzione inglese di quanto scritto in veneziano alla fine del Settecento. L'epigrafe che sormontava il testo emanava l'arcano senso di mistero di tutta la Bibbia: «Farai un candelabro d'oro puro: farai d'oro massiccio il candelabro, con il suo tronco e i suoi rami; avrà i suoi calici, le sue corolle e i suoi fiori» (Esodo 25, 31). La curiosità si era fatta bruciante, ma Laura si accorse di essere davvero molto stanca. Si girò su un fianco. Il letto vuoto accanto al suo la fece ine-
vitabilmente pensare a Kevin Dimarzio. Il suo solo amore. L'uomo che aveva rischiato di perdere in un atto di eroismo. Che era sembrato perso per sempre. Meglio evitare di rivivere nel ricordo quei terribili giorni. Laura preferì abbandonarsi al buio e cercò di addormentarsi. Ma, con simili pensieri, sapeva che sarebbe stato difficile. 2 Houston. Texas. 4 maggio 1996 Nella sala comando della base tutti i tecnici erano in piedi e si scambiavano calorosi abbracci. Era stato scongiurato il più grave pericolo mai corso dal nostro pianeta: un asteroide di centosessanta chilometri di diametro, che stava precipitando sulla Terra, aveva modificato la rotta, allontanandosi nello spazio infinito in seguito all'esplosione nelle sue viscere di cinquecentotrenta chilogrammi di plutonio. La Terra era salva per il sacrificio di sei eroi comandati dal colonnello Dimarzio. Ma in quel momento di profonda emozione nessuno sembrava pensare a loro. Cape Canaveral. Florida. 4 maggio 1996 Quando a Cape Canaveral la bandiera venne issata a mezz'asta, era mattino. Toccò al generale Ferdinand Steps pronunciare poche parole. Il massiccio ufficiale di colore era intensamente commosso. «Questa notte il comandante Dimarzio, il maggiore Duncan, il tecnico di volo, due artificieri e il professor Bender sono periti nel corso di una missione militare. Posso soltanto dire che dobbiamo al loro sacrificio se il sole ci illumina ancora. Il mondo sia grato a questi eroi.» Steps abbandonò il leggio passandosi rapidamente il fazzoletto sotto gli occhiali. Quasi nello stesso istante i comandi risuonarono secchi e le armi esplosero una salva di commiato. Le note dell'inno nazionale riempirono l'aria. Kevin Dimarzio era un pioniere dello spazio, gli uomini del suo equipaggio erano i migliori di tutto il Kennedy Space Center. Greg Bender era stato insignito del premio Nobel per la Scienza. L'ultimo loro viaggio sull'Atlantis STS 74 aveva lasciato un vuoto incolmabile.
Steps non riusciva a convincersi che non avrebbe mai più visto Kevin Dimarzio. Compose un numero interno: «Capitano Reed? Per favore, chieda a Houston di fornirci tutte le registrazioni del volo e i tracciati radar». «Mi sono permesso di anticiparla, signore. Mi hanno risposto che in questo momento sono in corso quattro inchieste governative. Pensano di non poterci far avere il materiale prima di due settimane.» «Troppo tardi, dannazione! Vediamo che cosa si può fare con quanto abbiamo captato qui in Florida, anche se non è molto.» «Signore, pensa che il colonnello Dimarzio possa essere ancora vivo?» chiese Reed, perplesso. «Se esiste anche soltanto una possibilità remota, non posso essere io ad abbandonarla.» Steps non poteva immaginare come si erano svolti gli ultimi convulsi momenti prima che lo Shuttle di Kevin Dimarzio avesse un impatto contro l'asteroide. Orbita lunare. Maggio 1996 Kevin e il professor Bender scesero rapidamente nel locale sottostante la cabina di pilotaggio, dove si trovavano gli alloggi dell'equipaggio. Mancavano pochi minuti all'impatto con l'asteroide e alla conseguente esplosione nucleare. «Legati alla branda, Greg», ordinò Kevin, togliendo le ultime sicure al sistema di eiezione della capsula di sopravvivenza, già attivato nella cabina di pilotaggio. Quindi si infilò a sua volta nello stretto contenitore destinato al loro riposo e cominciò a scandire i secondi. L'assenza di gravità moltiplicò gli effetti dell'esplosione guidata sugli organi interni dei due uomini. La capsula di sopravvivenza si staccò dalla navicella e in pochi istanti fu proiettata alla distanza di centocinquanta chilometri. Quando l'Atlantis STS74 scaricò il suo potenziale nucleare nel cratere dell'asteroide, Kevin e Bender erano ormai a distanza di sicurezza nella cellula di salvataggio dello Shuttle, un parallelepipedo di quattro metri per quattro e profondo sei alla deriva nel cosmo. «Quanto tempo abbiamo?» chiese Bender. «Non più di quaranta, cinquanta giorni al massimo. Le riserve sono pro-
porzionate a un equipaggio di sette persone per un periodo di una quindicina di giorni: ora siamo rimasti in due. Comunque il trasmettitore ad altissima frequenza, che in questi casi si inserisce automaticamente, sta trasmettendo segnali sulla Terra e continuerà a farlo per settantadue ore.» Kevin prese fiato e scrutò fuori del piccolo oblò sul lato sinistro. «Dovrebbero aver già captato la richiesta di aiuto e individuato la nostra posizione. Tra una decina di giorni al massimo dovrebbero venirci a recuperare.» Greg Bender scosse malinconicamente la testa. «No, Kevin, le esperienze di esplosioni nucleari sulla Terra ci dicono che ogni attività elettromagnetica subisce un blackout di alcune decine di ore, compresa ogni trasmissione di onde radio via etere. Che cosa può essere successo nello spazio con un'onda termonucleare pari ad almeno settecento volte quella di Hiroshima?» Washington. 24 maggio 1996 Paul Craigh era una vecchia volpe del giornalismo, e come tale sapeva riconoscere i giovani su cui puntare. Quindi, tra la folla di cronisti che si aggiravano nelle grandi sale, tra le scrivanie e i terminali, aveva scelto Vincent Duffy. Entrò con disinvoltura nella stanza del direttore e si sedette con calma, stringendo l'immancabile Lucky Strike tra il medio e l'indice sinistri. Nell'altra mano aveva un rapporto appena ricevuto dal suo cronista prediletto. «Che cosa ho in mano, Alfie?» chiese. «Una puzzolente sigaretta senza filtro», rispose l'altro, senza smettere di controllare il layout della prima pagina del giorno dopo. «No, Alfie, nell'altra mano. Guarda: questa è una bomba.» L'impaginato dell'edizione era quasi completo. La notte stava per scendere sulla capitale e sull'attività frenetica della redazione. Il direttore alzò gli occhi con un'aria molto più interessata. Gli fu sufficiente uno sguardo perché Paul Craigh cominciasse a parlare. «I miei ragazzi stanno per entrare in possesso di prove concrete sul vero scopo della missione guidata dal colonnello Dimarzio.» Craigh si fermò lì: il direttore aveva posato l'impaginato sulla scrivania. «Continua, Paul», si sentì dire. Orbita lunare. 24 maggio 1996
Greg Bender non avrebbe mai potuto abbandonare la sua disinvolta tendenza a sdrammatizzare ogni situazione. «Capitano, mio capitano. Sai che giorno è oggi sulla Terra?» chiese. «È il giorno del mio compleanno.» «Auguri, vecchio mio. Lo avessi saputo prima, ti avrei organizzato un party a sorpresa tra le stelle», rispose Kevin. «Se hanno captato il segnale di soccorso potrebbero arrivare da un momento all'altro. Ma mi domando come mai i tuoi colleghi, con tutto quello che spendono, non abbiano pensato a munire questa scatola di un apparecchio radio.» «L'Atlantis su cui viaggiavamo era la prima navicella con una cellula di sicurezza. Un prototipo non ancora sperimentato e usato soltanto per l'urgenza della nostra missione, quindi privo di molti elementi essenziali. I nostri tecnici hanno pensato che fossero più importanti le batterie solari che un apparecchio radio, tanto più che il trasmettitore automatico...» Kevin si bloccò. Come aveva fatto a non pensarci prima? Bastava estrarre la scatoletta dalla paratia esterna e provare a farla funzionare. Volteggiò fino allo scomparto a parete dove si trovavano le tute e indossò rapidamente la sua. «Che cosa stai pensando di fare?» gli chiese Bender quando era già seduto nella camera grigia chiusa dal portellone stagno. «Se riesco a recuperare la trasmittente, possiamo provare a rimetterla in funzione e prolungare la trasmissione oltre le settantadue ore.» Dopo pochi istanti Kevin Dimarzio aleggiava nel vuoto. Washington. 24 maggio 1996 «C'era di mezzo un asteroide», stava raccontando Craigh. «Pensa, Alfie, un asteroide immenso, che stava precipitando contro la Terra a una velocità incredibile, e sei uomini a bordo di una navicella carica di testate nucleari. Altro che fatalità imprevista. Quegli uomini sono stati mandati a morire per salvare l'umanità. E il governo che cosa fa? Si cuce la bocca. Silenzio per l'America e per tutto il mondo. Sai che cosa significa, Alfie?» Il direttore annuì. La sua mano corse al telefono: «Chiamo la tipografia e faccio fermare le macchine. Si cambia la prima pagina». «Un momento», incalzò Craigh. «Hai in mente il Watergate? Cominciamo la pesca d'altura.» Un'espressione del loro gergo giornalistico. Una notizia probabilmente grossa ma dubbia veniva riportata con toni interro-
gativi in un articolo privo di risalto, firmato da un giornalista inesperto e facilmente smentibile. Se qualcuno la smentiva con vigore eccessivo, in pratica si aveva la conferma. Certo, si correva il rischio di farsi soffiare lo scoop, ma si evitavano anche le brutte figure. Al massimo ci rimetteva le penne il giovane incauto. Altrimenti partiva la vera inchiesta giornalistica. Vincent Duffy era un giovanotto di ventisei anni, uscito da poco dall'università e con una gran voglia di fare strada. Stava aspettando ansiosamente il suo caposervizio dopo l'incontro con il direttore. «Il pezzo esce in quinta pagina domani», gli annunciò trionfalmente Craigh. «Quindi, caro Duffy, esci, spaccati il culo, spremi la tua fonte. Domani sera dobbiamo sapere tutto sulla missione dell'Atlantis in modo da poter informare il mondo del pericolo che ha corso. Che botta!» Vincent Duffy annuì entusiasticamente. Come programmato, la notizia comparve in sordina, limitandosi a ipotizzare che dietro la tragedia dell'Atlantis STS74 potesse nascondersi un mistero. I toni enfatici ed encomiastici usati dalle prime pagine di tutto il mondo furono abbandonati per insinuare nel lettore il dubbio sul vero scopo della missione. UNA MINACCIA SPAZIALE DIETRO LA TRAGEDIA DELL'ATLANTIS STS74? titolava il quotidiano. L'articolo, firmato da Vincent Duffy, era corredato da una piccola foto del giornalista. Orbita lunare. 27 maggio 1996 Bender sentì con sollievo il sibilo che segnalava l'immissione d'aria nella stanza pressurizzata. Ma Kevin rientrò con la delusione chiaramente leggibile sul viso, ancora leggermente deformato dalle fortissime pressioni subite. Scosse la testa: «La trasmittente è in un angusto alloggiamento in mezzo a decine di altre apparecchiature. Spero di riuscire a recuperarla durante la prossima passeggiata, ma non ne sono affatto sicuro». Quando decise di indossare nuovamente la tuta erano trascorse circa undici ore. Pochi minuti più tardi era già in movimento nel vuoto, spinto dai booster verso la parte della capsula ove aveva allentato il pannello in lega. Impacciato dagli indumenti, si mise a lavorare con immensa cautela tra i fili. E finalmente la scatola metallica del trasmettitore gli apparve, seminascosta da un pannello dell'impianto elettrico. Inserì il braccio fino a dove poteva e cominciò ad allentare i quattro dadi in acciaio, quindi estrasse l'apparecchiatura dal suo alloggiamento come se fosse una reliquia e tagliò
il primo dei due fili. Tagliato anche il secondo, lasciò un solo istante il trasmettitore a fluttuare nello spazio, il tempo di assicurare la cesoia nella tasca porta attrezzi. L'enorme quantità di energia statica accumulatasi nella struttura metallica si scaricò attraverso i due fili di rame elettroconduttori. Migliaia di volt percorsero in una frazione di secondo la breve distanza del cavo tranciato. L'intero trasmettitore parve illuminarsi, poi il metallo si contorse e ogni parte elettrica fu carbonizzata. Kevin non ebbe quasi il tempo di rendersi conto di quello che stava succedendo. Ma il provvidenziale gesto di staccare le mani dallo strumento che rappresentava l'unica loro possibilità di salvezza lo aveva salvato dalla folgorazione. La distruzione del trasmettitore, però, significava la loro definitiva condanna a morire nello spazio. Washington. 30 maggio 1996 La fonte di Vincent Duffy era un sergente maggiore del Kennedy Space Center, addetto ai servizi antincendio. Aveva due passioni pericolose: le donne e l'alcol. Duffy lo aveva conosciuto per caso durante uno dei frequenti weekend che trascorreva in Florida. Aveva notato quanto la lingua gli si sciogliesse di fronte a una buona bottiglia e a un paio di donnine. Era da tempo che con questi sistemi gli carpiva i pettegolezzi interni all'inaccessibile base. Roba di scarso rilievo. Fino ad allora. Fu soltanto dietro la promessa del più assoluto riserbo e di diecimila dollari in contanti che il militare accettò di parlare, mostrando un'imprevedibile conoscenza della missione STS 74. Vincent Duffy sapeva di avere tutto il tempo per scrivere il pezzo nelle quasi tre ore di viaggio per Washington. Lo fece con un sorriso beato. Il mattino dopo la sua firma sarebbe comparsa per la prima volta in prima pagina. Florida. Kennedy Space Center. 31 maggio 1996 Il generale Steps si svegliò prima del solito. Gli avevano promesso per quel mattino la consegna delle bobine registrate alla base di Houston. Ogni istante poteva essere prezioso, doveva mettersi al lavoro molto presto. Sapeva che il corriere militare consegnava posta e pacchi alle sei del mattino. Quando entrò in ufficio erano le 6.10. La sentinella era sprofondata nella lettura del giornale aperto sulla scri-
vania. Imbarazzato, il militare scattò nella posizione di attenti, aggiustandosi meglio sul braccio la fascia nera con le lettere MP in bianco. «C'è posta?» chiese subito Steps rispondendo al saluto. Le registrazioni dovevano essere lì. Infatti c'erano. Afferrò lo scatolone quasi con un fremito di ansia che gli impedì di notare l'aria impacciata del militare. «Scusi se mi permetto, signore», lo trattenne il militare. «Credo sia bene che dia un'occhiata alla prima pagina del giornale. Parla del colonnello Dimarzio, della base... e anche di lei.» Steps si rese subito conto della rapidità con cui avrebbe dovuto agire. Doveva duplicare le sessanta bobine prima che le commissioni del senato disponessero un nuovo sequestro ed esame, e ascoltare nei minimi dettagli i dialoghi tra la navicella e la base. Orbita lunare. 9 giugno 1996 «Sai che cosa mi consola?» chiese Greg Bender con la sua solita aria serafica. Kevin Dimarzio aveva i lineamenti tesi e provati. «Che cosa, Greg?» «Che ce l'abbiamo fatta. Abbiamo salvato la Terra da una minaccia cosmica. Che importanza vuoi che abbia, di fronte alla sopravvivenza del genere umano, se tu e io vagheremo all'infinito in questa bara di leghe metalliche? «Comunque», continuò, «questa non è una capsula di sopravvivenza, ma una cella di tortura. Passi per la radio, ma nemmeno un motorino fuoribordo di emergenza... Potremmo calare due lenze e provare a catturare alla traina un marlin spaziale.» Kevin sulle prime rispose con un gesto infastidito. Certe volte lo humour di Bender riusciva a irritarlo. Ma di punto in bianco si fece serio. «Motorino fuoribordo? Uhm... Motorino fuoribordo...» E dopo una lunga pausa riprese: «Qui non ci troveranno mai. La cellula di sopravvivenza si è staccata quando mancava un minuto all'impatto, cioè a cinquecento chilometri dal bersaglio. E, secondo le mie stime, in questi giorni dovremmo avere percorso più di millecinquecento chilometri allontanandoci dalla Luna, e ci stiamo ancora allontanando. Se riuscissimo a riavvicinarci e a entrare nella sua orbita, forse qualche osservatorio astronomico riuscirebbe a individuarci.» «Mi hai convinto, Kevin. Che cosa facciamo? Andiamo a comperare il fuoribordo?»
«Smettila di scherzare, Greg. Non è il momento. Stavo pensando allo zaino, ai booster dello zaino. Se riesco a fissarlo da qualche parte all'esterno, potremo far muovere la capsula con i razzi direzionali e, con un po' di fortuna, riusciremo a entrare in orbita attorno alla Luna.» Bender mise finalmente da parte i toni scherzosi. Il suo cervello acuto stava già valutando il progetto e le difficoltà tecniche. «Come farai a comandare i razzi dall'interno e a guidare la capsula a vista, disponendo di un solo oblò molto piccolo?» «La presa di alimentazione a terra, quella che viene scollegata pochi istanti prima del lancio, è sulla destra del portello di uscita. I cavi attraversano i compartimenti stagni fino alla cellula di sopravvivenza. Basta collegarli ai comandi degli otto booster e, fuori, creare un collegamento tra la presa di alimentazione e lo zaino, fissato dalla parte opposta dell'oblò. Certo», esclamò Kevin animato da un nuovo entusiasmo, «ecco come faremo a navigare a vista.» Kevin Dimarzio aveva il viso imperlato di sudore, l'aria rarefatta stava facendosi sentire sul suo fisico provato. Ma continuava a stringere in mano i pulsanti direzionali dei booster. «Stiamo per entrare nell'orbita lunare», esclamò. «Credo che la nostra inclinazione sia ideale per la penetrazione.» «The Dark Side of the Moon», canticchiò Bender, guardando fuori dell'unico oblò. «Il lato nascosto della Luna... Guarda lì, che cos'è quel luccichio?» Kevin guardò nella direzione indicata dall'anziano premio Nobel, e parve anche a lui di veder balenare qualcosa. Il lampo si ripeté. «Viene definito 'effetto iridium'», spiegò, «dal nome di alcuni satelliti geostazionari che riflettevano la luce del Sole illuminando con forti lampi le notti terrestri. Laggiù c'è qualcosa. Ci conviene dare un'occhiata.» Fece faticosamente compiere una virata alla cellula di salvataggio, manovrando i comandi telescopici dei booster, e puntò verso quella direzione. Non ci volle molto perché, con un tuffo al cuore da lasciarlo un attimo senza respiro, riconoscesse una stazione orbitante Mir. I pannelli solari e le antenne erano protesi come braccia nel vuoto. Ma non si vedeva traccia di moduli da trasporto agganciati alle rampe. La Mir doveva essere disabitata. La stazione orbitante sovietica era perfettamente allineata con la faccia nascosta della Luna, in modo da non risultare mai visibile dalla Terra. Ke-
vin ne dedusse che doveva trattarsi di un esperimento militare abbandonato dopo la fine dell'URSS. Ma lo stato di efficienza sembrava ottimo. I due naufraghi dello spazio indossarono per l'ultima volta le tute. La riserva d'aria interna si era ormai esaurita, e quello sarebbe stato comunque il loro ultimo viaggio. Abbandonarono la cellula di sicurezza al suo destino e diressero verso la Mir. Disponevano di una riserva d'aria inferiore a venti minuti ciascuno. Individuato nel metallo grigio l'accesso alla stanza pressurizzata, fu Bender a ruotare il maniglione del portello, che si aprì su un vano illuminato molto più grande di quello dello Shuttle. Kevin sapeva che a bordo avrebbero trovato viveri liofilizzati, acqua e una riserva d'aria praticamente illimitata a riciclo autossigenante. «No, non proprio adesso», imprecò Bender. Su una parete interna era fissato un congegno elettronico a combinazione d'apertura. L'unica via di salvezza sembrava preclusa proprio da quella tecnologia che fino a quel momento li aveva aiutati a vivere. Ma Greg non si perse d'animo: in meno di cinque minuti, con gli attrezzi che si trovavano nelle tasche delle tute, rimosse la plafoniera dalla parete. Poi si mise a studiare il groviglio di fili. «Questo dovrebbe essere l'impulso e questo il comando di apertura», disse. Li mise in contatto, ma non accadde niente. «Abbiamo soltanto una probabilità su centomila di trovare la combinazione giusta», commentò per la prima volta in tono preoccupato. «E ci restano soltanto sette minuti di aria», gli fece eco Kevin nello stesso tono. Bender lo esortò alla calma con un solo sguardo e provò di nuovo, poi un'altra volta e un'altra ancora. La stanza pressurizzata rimaneva aperta verso l'esterno, con quell'unico varco sullo spazio infinito. Sembrava essere arrivato il momento di morire. Il casco iniziava ad appannarsi dall'interno, l'aria si stava facendo sempre più impura. Un'ultima volta, si disse Bender, sapendo che pochi respiri lo separavano dall'incoscienza. Collegò una combinazione di fili che non aveva ancora provato. Il portello esterno si chiuse. Il sibilo dell'aria annunciò ai due naufraghi che il miracolo della salvezza era avvenuto. Roma. 16 giugno 1996 Sara Terracini sedeva nel suo laboratorio di restauro di reperti antichi.
Era stranamente svogliata. Il suo sguardo vagava per la stanza, tra le avveniristiche apparecchiature che le avevano appena consentito di decifrare quattro tomi antichi. Le mancavano le gesta epiche del legionario romano Giunio di Marzio, l'amore che lo legava alla sua donna, in una storia palpitante e viva, sebbene risalisse a duemila anni prima. L'amore, pensò. Chissà quando il lavoro con la storia le avrebbe lasciato il tempo di dedicarvisi un po'. Le venne in mente il diabolico amico che l'aveva inchiodata lì come in prigione per decifrare i quattro tomi. Lo immaginò su spiagge assolate, vestito con una buffa camicia hawaiana, intento a sorseggiare cocktail tropicali. Una vita da grande spia, sorrise tra sé. Accese quasi con gesti automatici il computer e verificò le caselle di posta elettronica. Quando vide il nome di Oswald Breil tra quelli dei mittenti dei messaggi in giacenza, il senso di gioia si mescolò a una curiosità quasi morbosa. Ancora una volta il satanico omino le aveva letto nel pensiero a distanza? Aprì subito il testo. Era breve, ma da Oswald non poteva aspettarsi altro:
. Stazione orbitante sovietica Mir. 16 giugno 1996 Kevin entrò per primo nella stanza della stazione orbitante sovietica, ancora con il torace oppresso dall'affanno. «Tra tutte queste scritte in cirillico», borbottò, «chissà dove sono il contatore e l'interruttore generali.» Bender lo guardò con espressione interrogativa. «Dovremo pure avviare questa residenza spaziale, altrimenti potremmo incorrere negli stessi pericoli appena superati.» «Esiste nelle vostre stazioni orbitanti? Un interruttore generale, voglio dire?» chiese Greg. «Naturale. Quando non sono abitate vengono parzialmente disattivate. Comunque abbiamo almeno sette giorni di riserva d'aria per mettere in moto tutto.» «Dove sarebbe questo interruttore, se si trattasse di una stazione americana?» Kevin si illuminò, ricordando i seminari d'aggiornamento della NASA. Si librò nell'aria e salì al modulo superiore, dove si trovava probabilmente il pannello di comando. Un armadietto in plastica attirò la sua attenzione. Sollevò la leva e la stazione orbitante sembrò tornare in vita. Le luci di emergenza si spensero, sostituite da grandi plafoniere al neon. Le spie cominciarono a baluginare, avviando i check elettronici. I rumori degli im-
pianti di areazione invasero gli ambienti. «Nello stesso identico posto», commentò flemmaticamente. «Adesso però dobbiamo trovare una radio.» La sala comunicazioni era in un altro modulo ancora, sofisticatissima. Kevin sapeva che nello spazio doveva esserci un «mirror», un piccolo satellite sempre allineato tra la stazione e la Terra, onde superare l'ostacolo rappresentato dalla massa lunare. Ma si rese subito conto che sarebbe stato arduo localizzarlo. Azionò diversi interruttori a casaccio, su qualsiasi apparecchio che potesse sembrare una radio ad alta frequenza. Poi prese il microfono e, con un leggero tremito della mano che tradiva la sua emozione, annunciò: «Parla il colonnello Kevin Dimarzio della NASA. Il professor Bender e io siamo a bordo di una stazione orbitante sovietica. Vi forniremo le coordinate della nostra posizione non appena saremo in grado di rilevarle. Per adesso sappiamo che stiamo mantenendoci in asse con il cratere di Korolev, nella faccia nascosta della Luna. Siamo vivi e in buone condizioni di salute». A quel punto si scostò dal microfono. «Credi che qualcuno mi abbia sentito?» chiese. Greg Bender si strinse nelle spalle. Pochi istanti più tardi si libravano nell'aria nella parte comune dell'equipaggio, gustando come se fossero leccornie i cibi disidratati presi dalla cambusa. Avrebbero continuato fino a chissà quando, se non li avesse richiamati il gracchiare di uno degli apparecchi. Erano trascorse circa tre ore dal tentativo di lanciare un messaggio di soccorso. «Colonnello Dimarzio? Colonnello Dimarzio? Confermate prego che il messaggio proviene dal colonnello Dimarzio della NASA e dal professor Greg Bender. Passo.» L'accento russo dell'ignoto interlocutore suonò alle loro orecchie come la più dolce delle melodie. Kevin si precipitò al microfono. «Affermativo. Passo.» «Sono il generale Vukov dell'ente spaziale russo. È un grande sollievo sentirla, colonnello. Sto firmando in questo momento l'ordine di anticipare al più presto possibile la nostra prossima missione. Tra quindici giorni al più tardi lei e il professor Bender sarete di nuovo sulla Terra. Passo.» Kevin non riuscì a rispondere subito, la sua mano si strinse forte attorno al microfono, mentre i singhiozzi gli scuotevano il petto. Miami. Jackson Memorial Hospital. 16 giugno 1996
Oswald Breil accarezzò amorevolmente Laura Joanson che si era accasciata al suo fianco sul letto d'ospedale. L'omino ripensò alle ultime parole del messaggio che il generale Steps aveva loro letto prima di lasciare quella stanza: «Uniche parole inequivocabili: 'Kevin' e 'vivi'». Dove potevano essere in quel momento, come avevano fatto a chiamare la Terra e, soprattutto, dato che l'autonomia della capsula di sopravvivenza era prossima a esaurirsi, esistevano possibilità che venissero salvati? Lo stesso dubbio divorava Laura. Ma qualcosa di arcano le diceva che Kevin sarebbe tornato. Una fiammella di speranza, alimentata anche dalle parole dell'ultima lettera del suo uomo: «Amore, tornerò». Spiegò rapidamente a Oswald che preferiva rimanere nei pressi dell'ufficio del generale Steps per essere subito a conoscenza di qualsiasi sviluppo. Si congedò con un bacio sulla fronte e una carezza, lasciando l'omino solo con i suoi pensieri. Oswald allungò le mani sul tavolino da notte e prese il computer portatile. Quindi sbirciò dietro il mobiletto, dove uno dei suoi uomini aveva inserito nella normale presa telefonica la spina rivelatrice delle intercettazioni. Il led rosso stava lampeggiando, e non poteva essere altrimenti. Almeno una decina di servizi segreti erano interessati alle sue attività: non c'era da stupirsi se la linea era sotto controllo. Accese comunque la macchina. Non doveva divulgare segreti, aveva soltanto voglia di distendersi un po'. Apri qualche programma a caso e riprese una vecchia partita a scacchi contro il computer, abbandonata qualche mese prima. Ma in quel momento la bandierina in alto sullo schermo prese a sventolare, accompagnata dalla scritta intermittente <MESSAGE! MESSAGE! MESSAGE!> La finestra del messaggio si aprì nella parte bassa del monitor, le frasi presero a scorrere veloci: <ECCOMI, DOVE TI ERI CACCIATO?> Oswald sorrise. Sara Terracini, una delle pedine importanti del puzzle, era in linea con lui attraverso la sconfinata rete telematica. <MI TROVO IN UN LETTO DI OSPEDALE A MIAMI. SONO SCIVOLATO SU UNA BUCCIA DI BANANA E MI SONO ROTTO UN GINOCCHIO>, mentì. Non poteva spiegare che era stato ferito da un agente corrotto della CIA, intenzionato a ucciderlo con Laura Joanson. E nemmeno che, subito dopo, questo agente aveva preso l'ascensore più rapido per l'inferno, stecchito da
un colpo della sua pistola. Sara non sapeva ancora niente delle sue vere attività, e le cose dovevano rimanere così ancora per un po'. scorse sullo schermo. <MI MANCHI.> Oswald andò a pescare un programma nei meandri della macchina. Scrisse la sua risposta a Sara e, prima di inviarla, il computer chiese: <ENCRYPT?> «Naturale», borbottò Oswald battendo su un tasto e inviando il messaggio in codice. La frase arrivò in tempo reale sul terminale di Sara, a migliaia di chilometri di distanza, come un insieme di segni incomprensibili. La giovane sorrise: la solita mania del suo sfuggente amico di essere sempre controllato da qualche orecchio od occhio indiscreto. Comunque, pensò, se invia un messaggio criptato vuole dire che devo rispondergli nello stesso modo. Attivò il medesimo programma di Oswald e si preparò a una lunga discussione via computer con lui, ricoverato in un ospedale della Florida. Chissà se era vero? Kennedy Space Center. Florida. 5 luglio 1996 Il Boeing 747 contraddistinto con la sigla Air Force One si pose in allineamento con la pista di atterraggio destinata a ricevere le navicelle che provenivano dallo spazio. Il presidente degli Stati Uniti aveva deciso che era meglio uscire dal momento di imbarazzo scatenato dalle rivelazioni di Vincent Duffy organizzando una straordinaria festa per accogliere gli eroi dello spazio. Era infatti l'aereo presidenziale che stava riportando in patria da una base russa Kevin Dimarzio e Greg Bender. Laura era a poca distanza dalla pista, tra le autorità e gli inviati di tutte le emittenti televisive del mondo. La grossa sagoma del jumbo si pose parallela alla sua postazione, poi si arrestò e il sibilo dei motori divenne meno fastidioso. Le gambe di Laura presero a tremare, anche se volle attribuire la sensazione di malessere alla creatura che stava crescendo dentro di lei. Il portello si aprì, e i due eroi apparvero sulla scaletta del velivolo. Incurante dei giornalisti che reclamavano la sua attenzione, Kevin cercò subito con lo sguardo la compagna e, dopo averla individuata, puntò risoluto verso di lei.
Laura pianse, lo abbracciò con forza, gli sussurrò parole d'amore all'orecchio, mentre le telecamere riprendevano la scena e la diffondevano in mondovisione. «Ti amo, Kevin», esclamò Laura tra i singhiozzi. «Dio sia lodato per aver regalato a me e a nostra figlia il miracolo del tuo ritorno.» Kevin le accarezzò il ventre con amore, e soltanto a questo punto si girò verso la folla assiepata oltre le recinzioni dell'aeroporto. Lo sventolio di centinaia di bandiere americane rispose al suo saluto. Il mattino seguente, nel corso di una cerimonia solenne, Kevin Dimarzio fu nominato generale. Gerusalemme. Luglio 199... Sola nella sua camera allo Sheraton, Laura sapeva di non aver semplicemente sognato per l'ennesima volta il ritorno del suo uomo dallo spazio. Lo aveva semplicemente rivissuto momento per momento. Quando si risvegliavano quei ricordi, non era possibile dormire. Ma adesso doveva farlo. 3 Gerusalemme. Palazzo del governo. Luglio 199... Quando Laura Joanson fu uscita dal suo ufficio, il premier israeliano fissò a lungo Oswald Breil negli occhi, quasi volesse entrare nei suoi segreti. «È davvero una bella donna, ed è anche in gamba; sembra sapere quello che vuole», commentò infine. «E questo è niente, dovrebbe vederla in azione, Eccellenza», rispose l'omino. Oswald sapeva quanto fosse parco di parole il capo del governo e, ritenendo concluso l'incontro, si accinse a congedarsi. Ma fu trattenuto da un'occhiata perentoria. «C'è un ulteriore motivo per cui lei si trova qui, maggiore», disse il premier, infilando una mano in tasca ed estraendo un foglio meticolosamente piegato. «La Nomina», mormorò Breil in tono incredulo. Sapeva bene che cosa significava la consegna di quel documento: il conferimento ufficiale del massimo grado del Mossad. Nonostante l'handicap fisico, i soli quarantatré anni e il grado militare di
maggiore, da quel momento Oswald Breil era il capo del più temuto ed efficiente servizio di sicurezza del mondo. Si schiarì la voce. «Signor primo ministro... Intende dire...» Non finì la frase. «Sì, intendo dire che lei è stato nominato responsabile del Mossad.» Oswald sapeva di essere un agente molto abile ed esperto, ma non si sarebbe mai aspettato un simile riconoscimento per i suoi ventidue anni di totale dedizione. «Capisco dalla sua espressione», continuò il premier, «che questa mia decisione richiede qualche spiegazione. Sebbene siano passati soltanto pochi mesi dal mio insediamento, ho potuto apprezzare il suo modo di operare come responsabile dello Shin Bet, il nostro servizio interno. Vede, sono convinto che da noi ci siano molte cose da cambiare. Per questo ho assoluta necessità di uomini fedeli, e badi bene a quello che intendo quando dico fedeli: non ho bisogno di giullari e ruffiani ma di persone che credono in Israele.» Breil sapeva che anche quella scelta, come ogni decisione politica, era il risultato di una mediazione. Tutte le componenti dell'arco parlamentare riconoscevano in lui doti non comuni per un agente segreto: un profondo equilibrio unito a un incrollabile amore per la patria ritrovata. «Accetto, signor primo ministro», disse d'un fiato, anche se sapeva che rifiutare un simile onore non era possibile. «Conosco», riprese il premier, «l'amicizia personale che la legava al compianto Rabin. Ho avuto modo di studiare a fondo il suo curriculum. Sono convinto che saprà farsi onore, maggiore Breil.» Oswald chinò semplicemente la testa in atto di sottomissione. Dopo qualche istante usciva dal lato opposto dello studio del premier rispetto alla libreria segreta da cui si era allontanata Laura Joanson. Attraversò quasi di corsa i corridoi semideserti, e mentre lo faceva prese dalla tasca la Nomina. Sul comune foglio di carta, tracciato con una qualsiasi stampante a getto d'inchiostro, ecco il nome del nemico a cui lo Stato di Israele gli ordinava di provvedere prima di tutti gli altri. Lo lesse con aria accigliata. Italia. Il giorno dopo L'aeroporto di Roma era parzialmente bloccato da uno sciopero, ma l'aereo di Laura riuscì ad atterrare in una pausa. Appena uscita dal cancello
degli arrivi la scrittrice si sentì chiamare da un coro di voci in un inglese pasticciato, tra uno scattare accecante di flash. «Signora Joanson, Laura, guardi qui per favore.» Il suo braccio destro fu attanagliato da una presa energica. Si voltò. Marpessa Bourgin era la responsabile della sua casa editrice per l'Europa, si conoscevano da otto anni. «Ho fatto le cose in grande, Laura. Sono riuscita a mobilitare la stampa europea, creando una grande curiosità. Abbi fiducia: il lancio del tuo libro in Italia sarà un trionfo che aprirà la strada a un grande successo in tutta Europa. Facciamo presto. Dobbiamo essere a Portofino prima di stasera: ho indetto una conferenza stampa alle nove.» Uscita dall'aeroporto con l'abile guida della virago, che riuscì a schivare destramente la moltitudine di passeggeri in attesa delle partenze rinviate di ora in ora, Laura si sentì investire da una folata di caldo torrido. Ma per fortuna la Lancia climatizzata in cui la condusse Marpessa era perfetta. «Che caldo», esclamò, abbandonandosi sul sedile in pelle. «Fa proprio caldo», brontolò Sara Terracini uscendo dal moderno palazzo romano del suo istituto. Nel corso di quegli anni aveva dato un prezioso contributo a straordinarie scoperte storiche. E negli ultimi venti mesi aveva decifrato i testi di due delle più avvincenti vicende antiche che le fosse mai capitato di leggere, in entrambi i casi su sollecitazione di Oswald Breil. Le memorie di un legionario romano, trascritte da un frate vissuto nel XVII secolo, e il diario di un pittore veneziano che aveva assistito alla rivoluzione francese. Ancora una volta la sua mente corse a Oswald. «Che personaggio diabolico», borbottò, abbozzando un sorriso che si accompagnava inevitabilmente alla comparsa del misterioso amico nei suoi pensieri. Assorta in queste riflessioni, si avviò verso il solito caffè. Indossava ancora il camice da laboratorio: la sera prima aveva fatto un po' tardi e adesso sentiva l'urgente bisogno di un buon espresso. Prese dalla tasca il telefonino che si era messo a trillare. «Sì?» «Oswald!» gridò poi nella cornetta. «Sei sicuro di non aver inventato la macchina per leggere la mente a distanza? Stavo proprio pensando a te.» «Ho fatto di più, cara mia», le rispose l'amico. «Riesco a esaudire i desideri, e in particolare quelli delle belle donne come te. Stai benissimo anche di prima mattina e in camice bianco.» «Dove sei, vecchio brigante?»
«Al caffè all'angolo e ti sto aspettando. Che cosa ti ordino?» «Un caffè, molto ristretto. Shalom, signor Breil. Conti fino a diciotto e sono da lei.» Poco dopo, terminati gli affettuosi convenevoli, sedevano insieme a un tavolino all'aperto. «Oswald, ho rifiutato il matrimonio fino a oggi per godere della mia libertà. Una condizione che negli ultimi due anni mi hai scippato. Stando così le cose, tanto vale che ci sposiamo», scherzò la giovane, alludendo alle fatiche a cui l'avevano sottoposta i testi inviati da Oswald perché li decifrasse. «E mi auguro», continuò, «che tu sia venuto a Roma per sdebitarti con la prima delle cento cene a Trastevere che mi hai promesso.» «Non soltanto una cena, Sara», rispose Oswald. «Ti offro un weekend cultural-mondano, ma non a Roma.» «Oh bella, e dove, signor padrone?» chiese Sara, fingendosi contrariata per il modo in cui Oswald decideva per lei. «Che cosa ne diresti di Portofino?» «Ehilà, Breil, non avrai per caso qualche velleità?» «Purtroppo no. Andiamo soltanto alla presentazione dell'ultimo romanzo di Laura Joanson, con festa a bordo del panfilo di un creso libanese. Camere rigorosamente separate.» «Vuoi dire la vera Laura Joanson? La mia scrittrice preferita?» chiese Sara sgranando gli occhi. «Proprio lei, la Signora Best Seller del momento. È una mia cara amica e ha scelto Portofino per la presentazione. Pare che in America abbia già superato tutti i record di vendite.» «Ho ancora tutto Each Battle Heroes qui», esclamò Sara, citando l'ultimo romanzo di Laura e premendosi la destra sul cuore. La mano si riempì della forma generosa del seno, e la scollatura del camice lasciò intravedere una striscia di pelle abbronzata. Oswald ostentò due colpetti di tosse e un tono di imbarazzo. «Ma potrei sapere», continuò Sara, «come mai due ebrei come noi vengono invitati a un ricevimento di un creso arabo?» «Gli affari non conoscono confini etnici o religiosi, cara mia.» «Già, a proposito: di che cosa ti occupi adesso?» Sara nutriva pesanti sospetti sulla vera attività di Breil, ma preferiva stare al suo gioco e fingere di non aver intuito niente.
«Sempre il solito, ricerche petrolifere. Ma dopo tanti anni trascorsi sul mare ho deciso di ritirarmi a terra.» «Ah, sempre la stessa cosa», replicò Sara, non facendo niente per dissimulare la sua incredulità. «Va bene, accetto l'invito.» Marpessa Bourgin, sebbene parlasse allo stesso ritmo di una mitragliatrice surriscaldata, era una compagnia piacevole, e la sua conversazione scoppiettante. «Meno male che sei tornata com'eri prima della gravidanza, altrimenti non avresti potuto indossare i due Valentino che ti ho preso per l'occasione», disse a un certo punto, mentre l'auto procedeva verso il nord dell'Italia. «Gravidanza? Perché, ti sembravo ingrassata?» ribatté Laura, e scoppiarono a ridere entrambe. Ma il sorriso si spense presto sul viso di Laura, cedendo a un'espressione mista di nostalgia e ansia materna. Marpessa sapeva che da quando era nata Chiara non si allontanava volentieri da casa. «Sono sicura che tua figlia e Kevin aspettano notizie con ansia», disse, porgendole un telefono portatile. Laura rimase in linea un paio di minuti, poi, proprio mentre l'autista imboccava la stretta strada panoramica che da Santa Margherita Ligure conduce a Portofino, riprese: «Sai, Marpessa, credo che tu sia veramente fortunata a vivere in questo paese. Dovresti essere tu a pagare l'editore, invece di esigere un faraonico stipendio». Ma tacque subito, incantata dagli scorci di panorama, dal mare azzurro che poco sotto di loro si frangeva su spiagge e scogli. Stranamente, taceva anche Marpessa. Ecco perché ha un incarico così importante, pensò Laura. Sa sempre stare al suo posto. Offrire un'ottima compagnia ma anche capire quando è opportuno farsi in disparte. L'Hôtel Splendido è arroccato sulle pendici del promontorio di Portofino e sovrasta la parte a levante della baia. Laura osservò ammaliata i tralci di vite americana che si serravano al pergolato, inerpicandosi lungo le facciate per serpeggiare tra i ferri battuti dei balconi ottocenteschi. «Buonasera, signora Joanson. Signora Bourgin», disse un gentile addetto alla conciergerie. L'inglese perfetto fu il suo solo errore.
«Bourgìn!» lo corresse la virago, calcando sulla pronuncia francese del cognome. «Non riesci proprio a mandarli giù, eh, Marpessa», scherzò Laura non appena si furono avviate verso gli ascensori. «Chi?» «Gli uomini, mia cara, gli uomini.» «Questioni di incompatibilità cromosomica», replicò Marpessa ammiccando. «Be', abbiamo un'oretta per una doccia e poi ci aspetta la conferenza stampa.» Quando Laura chiuse la porta della bella camera, le sue mani corsero quasi istintivamente al volume contraffatto dai servizi israeliani, quasi volesse accertarsi che fosse sempre nella tasca del borsone da viaggio. Oswald Breil gettò un'occhiata inquieta all'orologio. La frase con cui Sara Terracini lo aveva lasciato solo nell'auto dell'ambasciata d'Israele era tale da incutere oscuri timori: «Metto due cose in borsa e scendo», aveva detto avviandosi verso il portone del palazzo dove abitava. Pregò in cuor suo che non si trattasse del tipo di donna capace di farlo aspettare un'ora. No, Sara non può essere così, si disse. Infatti la giovane risali in auto dopo nove minuti e pochi secondi. Oswald azionò lo stop del cronometro da polso e tirò un sospiro di sollievo. Fin da quando era arrivato a prenderla al termine dell'orario di lavoro, Sara aveva una voglia irrefrenabile di chiedergli da dove avesse fatto materializzare quella lussuosa berlina con autista. «Devo parlare in codice anche con lo chauffeur, oltre che con il computer?» chiese. «Penso che l'autista dell'ambasciatore sia capace di tenere per sé conversazioni molto più riservate delle nostre.» «E come mai sei riuscito a ottenere questo trattamento da supervip?» «Sono qui in veste ufficiale per il mio paese, no?» I termini in cui aveva spiegato a Sara il motivo della sua visita erano traballanti. Un ricevimento su uno yacht tra magnati del petrolio: poteva reggere soltanto fino al momento in cui la sua giovane amica non avesse preteso di saperne di più. La verità era un'altra. O, meglio, altre. Due. Laura Joanson uscì dalla stanza da bagno avvolta in uno dei soffici accappatoi forniti dall'albergo. Il valletto bussò con delicatezza alla porta e, quando lei gli andò ad aprire così abbigliata, con un asciugamano avvolto sulla testa, non fece niente per nascondere la sua ammirazione.
«La signora Bourgin mi ha pregato di consegnarle questi», disse, porgendole due sacchi per abiti. «Grazie, ma... si ricordi, per la sua sicurezza personale: si pronuncia Bourgìn, alla francese.» «Non me ne dimenticherò, signora Joanson. Ma... posso chiederle un favore? Ho qui Eroi di tutte le battaglie, e...» rispose con qualche imbarazzo il giovane, facendo comparire una copia del romanzo. Laura lo firmò, aggiungendo una frase affettuosa, e il valletto si girò quasi militarmente sui tacchi con un'aria beata. Eroi di tutte le battaglie... pensò Laura non appena fu uscito. Ha un bellissimo suono. In italiano tutto sembra meglio. Tolse i due abiti dai sacchi, li stese sul letto e rimase e contemplarli. Erano perfetti, avrebbero messo in magnifico risalto le linee del suo corpo. Benedisse Marpessa e i sarti italiani. Si truccò e gettò un'occhiata all'orologio. Mancava circa mezz'ora alla conferenza stampa. Aveva il tempo di stendersi sul letto e riposare un po'. Aprì il falso volume di Jostein Gaarder e cominciò a leggere. Con un trasalimento, dallo stile le sembrò di capire che chi aveva reso in prosa moderna quelle antiche righe doveva essere la stessa persona che aveva decifrato i misteri delle Pietre della Luna, il diario del legionario romano da cui era nata la sua vicenda d'amore con Kevin Dimarzio. Possibile? No, doveva essere soltanto un'impressione. Eppure... Socchiuse gli occhi, quasi volesse penetrare tra le righe per vedere fisicamente i personaggi di questa nuova storia. Dal diario di Antonio Fedeli. Venezia. 15 ottobre 1788 La testa mi duole ancora, osservo il ritratto della marchesa di Asolo a cui sto lavorando e lo confronto con il modello originale, che giace nudo nel mio letto. No, non ho rispettato né la realtà né il mio nome, non sono stato per nulla fedele nel riportare sulla tela quelle curve cadenti, né ho infierito addentrandomi tra le rughe che segnano il volto della signora. Sono stato fedele soltanto nel dipingere la brocca di vino rosso. Per fortuna sono riuscito a terminarla quando era ancora piena, perché adesso il suo corroborante contenuto è nel mio stomaco. Nell'aria aleggiano forti gli odori dei solventi, quasi volessero aggravare il mio senso di nausea. Come mi sono ridotto. Io, Antonio Fedeli detto il
Parigino; io, che ho lavorato in una delle migliori botteghe parigine per il restauro di opere e oggetti d'arte; io, che ho studiato con passione le tecniche dei grandi pittori; io, che sono stato considerato uno dei più abili artisti della decorazione a stucco, adesso sono costretto a vivere facendo da cicisbeo a vecchie nobildonne in cerca di piacere, per le quali le mie attività artistiche non sono che un accessorio - un alibi - per qualche notte di lussuria. Mi fanno commissionare dal marito il restauro o il rinnovo degli stucchi della magione avita, poi mi invitano a fare loro un ritratto. Non sono un grande pittore, ma me la cavo bene anche in questo ambito. Il ritratto lo vogliono «spiritoso», se non proprio licenzioso: perché io possa realizzarlo, ritengono indispensabile esibirmi vaste distese della loro pelle, spesso assai più di cartapecora che di pesca. Vengono prese da terribili emicranie, cadono sul letto con un sospiro. E, cadendo, mi trascinano con sé. Voilà: per mangiare devo fare così... Per mangiare e per bere. Già, per bere. Un piacere che sta diventando un veleno e che mi sgomenta, ma a cui non so sottrarmi. Fuori, una densa coltre di foschia mi impedisce di capire che ora sia. Non di sicuro prima mattina. Sul ponte di Rialto scorre la folla: è giorno di mercato. I mille colori estenuati di Venezia, le acque dei canali, i dedali delle calli, le facciate dei palazzi, corrose dall'umidità. Un'umidità che mi penetra fino alle ossa e che il camino, già acceso, non riesce ad asciugare. Una barca si è appena ormeggiata davanti alla casa. Ne sono scesi due uomini con il fioretto al fianco, che fanno da scorta a un giovane gentiluomo di grande eleganza. Si dirigono verso il mio portone. Mi appresto a riceverli, riprenderò a scrivere non appena se ne saranno andati... Per fortuna, a distogliere Laura dall'avvincente lettura arrivò la voce tonante di Marpessa, altrimenti una sessantina di giornalisti dei più importanti organi d'informazione europei sarebbero rimasti ad aspettarla invano nella sala conferenze del grande albergo. «Laura, a che punto sei? Non c'è più tempo.» «Vieni dentro, Marpessa. Mi vesto e sono pronta.» Laura prese il tailleur grigio, avviandosi verso il grande bagno in marmo bianco. Quindi chiuse le labbra stringendole: sana precauzione per evitare di macchiare di rossetto l'abito che stava indossando. La stoffa le scivolò addosso alla perfezione, facendo risaltare il corpo snello ma generoso.
Vedendola rientrare nella stanza, Marpessa si lasciò sfuggire un fischio di ammirazione molto poco femminile. «Complimenti, signora. Sai, sono capi di campionario, quelli che usano le mannequin in sfilata. Li ho avuti per pochissimo da un'amica che lavora per Valentino. E ti stanno d'incanto.» Laura prese alcuni fogli dattiloscritti con qualche schema di risposta già pronto: «Andiamo». «Senti, Laura... Caso mai decidessi di cambiare idea... Pensa a me...» «Cambiare idea a proposito di che cosa?» «Delle orrende compagnie che frequenti.» «Quali compagnie?» «Gli uomini, cara mia, gli uo-mi-ni.» «È un'eventualità molto remota. Comunque ti voglio bene, Marpessa.» «Anch'io, Top writer.» Ridendo maliziosamente, la mascolina amica la prese sottobraccio e si avviarono insieme nel corridoio. Se indispensabile per il bene supremo dello Stato, il Mossad sapeva uccidere, ma questo non avveniva mai senza un avvertimento, al tempo stesso una notifica della condanna e un'ultima esortazione a recedere dalle attività contro Israele. Quanto più pericoloso era il nemico da «avvertire», tanto più elevata era la carica dell'uomo incaricato di avvertirlo. Ecco uno dei due motivi per cui Oswald stava viaggiando a bordo di una vettura diretta verso la Liguria. Sara interruppe le sue riflessioni. «Come ti è sembrato il nuovo lavoro che ti ho appena consegnato, Oswald? Voglio dire, il diario del Parigino.» «Magnifico come sempre, Sara. Hai una capacità unica di attualizzare e rendere avvincenti le situazioni di molti secoli fa.» «Mah, basta un po' di fantasia e una buona padronanza di linguaggio.» «Sì, certo, ma una quantità giudiziosa di fantasia. Ai nostri fini è essenziale il rispetto letterale del testo, pur nella qualità della riscrittura. Un errore o una forzatura di interpretazione potrebbero indirizzare le ricerche in una direzione sbagliata. E il tuo pregio più straordinario è proprio quello che sai unire alla fantasia questo rispetto del testo.» «Ricerche?» chiese Sara, sgranando gli occhi bruni. Ma l'omino sapeva di non poter accontentare la sua curiosità. Non ancora. «Ogni cosa a suo tempo», si limitò a rispondere.
La conferenza stampa era al termine. Come sempre, Laura aveva risposto con disinvoltura alle domande poste dai giornalisti in quei cinquanta minuti. E in quel momento arrivò l'ultima. «Ancora una domanda, signora Joanson. Sono Paul Craigh del Capitol Tribune.» «Prego», rispose Laura in tono gentile, ma sul chi vive. Sapeva bene chi fosse Craigh: il giornalista che aveva svelato il mistero della missione spaziale che per miracolo non era costata la vita di Kevin. Non poté fare a meno di chiedersi che cosa ci facesse un inviato speciale del Capitol Tribune alla presentazione di un romanzo in Italia. «Non la prenda come una critica, signora Joanson, ma non le sembra di voler fare troppe cose? Oceanografa, scrittrice, da qualche tempo anche madre di famiglia... più forse qualche risvolto che non conosciamo ancora... i tanti segreti che circondano le sue molteplici professioni...» «Sono qui per presentare un libro, signor Craigh», lo interruppe Laura, «non per parlare della mia vita. Comunque finora credo di aver lavorato discretamente bene in tutti i campi, almeno a giudicare dai risultati.» «Molte grazie, signori», intervenne Marpessa, «ma l'ora della conferenza stampa è finita. E la signora Joanson è molto stanca per il viaggio. Grazie ancora, di cuore.» L'auto dell'ambasciata israeliana arrivò all'albergo in tarda serata. Appena giunto in camera, Oswald si affacciò dal balconcino. In corrispondenza del centro della rada, ma ancora in mare aperto a causa delle sue dimensioni, era all'ancora la Rosa del Deserto, illuminata in tutti i suoi ottantuno metri di lunghezza. Oswald sapeva tutto di quel panfilo: era stato costruito due anni prima, utilizzando la stessa tecnologia delle moderne navi passeggeri ad alta velocità. Le quattro turbine a idrogetto erano in grado di scaricare una potenza di ventiduemila cavalli e di spingerla alla velocità di cinquantasei nodi. Hytham Fasatne, un celebre uomo d'affari libanese, aveva eletto quella meraviglia della tecnologia navale a sua principale residenza e a suo ufficio galleggiante. Ogni giorno, oltre venti tra dirigenti, assistenti e segretari contribuivano ad allargare i confini del suo impero economico. E Hytham Fasatne era il nome indicato nella Nomina. Laura Joanson finse di crollare per la stanchezza, mentre, dopo la cena
protrattasi fino a tardi, percorreva con Marpessa il corridoio verso le rispettive stanze. L'amica le sorrise. «Bada che siamo soltanto all'inizio: domani sera ci sarà la presentazione vera e propria a bordo della Rosa del Deserto, il panfilo del signor Fasatne, con quasi duecento invitati. Non farmi fare brutta figura, perché il mio stipendio dipende anche dal tuo successo.» «Credevo che il mio modo di scrivere e la mia capacità di inventare plot coinvolgenti fossero molto più importanti di qualche sorriso a un petroliere.» «Invece servono anche quelli, lasciatelo dire da una che lavora a suon di sorrisi. Anche se non di rado a denti stretti. Tanto più che quello che definisci riduttivamente 'un petroliere' è, tra l'altro, proprietario di tre emittenti satellitari e di una major cinematografica americana. Avrai forse sentito dire che qualche anno fa è stato inventato il cinema e che, quasi contemporaneamente, hanno inventato le riduzioni cinematografiche dei romanzi. Lascia fare a me, Laura: Hollywood ti aspetta. A che ora, domattina?» «Sul tardi, nove e mezzo-dieci. Prendiamo il sole un paio d'ore?» «D'accordo. 'Notte, Laura.» «Buonanotte.» La scrittrice entrò nella sua suite e gettò via subito le scarpe con i tacchi, avviandosi verso il salottino. Arrivata sulla soglia si sentì prendere da un brivido di panico. Ma l'urlo che stava per lanciare le si smorzò in gola. In una delle due poltrone in pelle era sprofondato Oswald Breil, che, come al solito, non arrivava a toccare terra con i piedi. «Scusa l'intrusione, Laura, ma preferisco che nessuno ci veda insieme prima del ricevimento di domani. Vedo comunque che hai ancora molte cose da imparare prima di diventare uno dei nostri. Un po' più di security...» «Maledizione, Oswald, mi hai fatto prendere uno spavento tremendo. E poi, chi ti ha detto che voglio diventare una spia?» ribatté Laura ancora quasi senza fiato. «Spia. Che brutta parola. Io direi piuttosto 'persona che cerca di dare il suo contributo per vivere in un mondo migliore'.» «Mettila come vuoi, Oswald, ma non ho nessuna intenzione di diventare una 'contribuente' anche in quel senso. Non a tempo pieno, comunque.» «Hai letto?» tagliò corto Breil. «E quando? Ho passato tutto questo tempo tra aerei, auto e conferenze stampa, e lo sai bene. Volevi che trascorressi con il tuo gigolò veneziano le poche ore che sono riuscita a dedicare al sonno?»
«Sono qui con una persona che voglio farti conoscere», replicò Breil, come se non l'avesse sentita. «Domani sera te la presento. Sono convinto che andrete d'accordo. A proposito di domani sera: che rapporti hai con Hytham Fasatne?» «Nessuno, non lo conosco nemmeno. È stata Marpessa a organizzare tutto: dice che è un ras del mercato cinematografico e televisivo. Potrebbe essere una buona idea.» «Briciole», rispose Oswald. «Fasatne ha soprattutto grossi interessi in edilizia, terreni, navigazione, petrolio. Inoltre possiede una scuderia di Formula Uno, una compagnia aerea e... Se vuoi posso continuare ancora un pezzo. Pare che la sua vera fortuna sia cominciata quando ha ancorato una vecchia petroliera da settantamila tonnellate, carica di benzina, appena fuori della portata dei cannoni di Beirut nei momenti più caldi della guerra civile. «Nel corso dei successivi quindici giorni, correndo avanti e indietro sul ponte e riscuotendo di persona i dollari di ogni fornitura, è riuscito a vendere a prezzi di mercato nero tutto il carico, con un profitto di oltre dieci milioni di dollari. Pare che qualsiasi cosa fosse in grado di galleggiare venisse stipata di taniche vuote per correre verso quell'unico distributore di carburanti ancora in grado di fornire il prodotto. «Questo però è il lato ufficiale dei suoi affari. Su quello non ufficiale preferisco sorvolare: ti dirò soltanto che il suo nome compare praticamente in ogni grosso traffico illecito. Sta' in guardia da lui, Laura.» «Obbedisco, generale. Anche se, al di là della cena che offrirà domani sera a bordo del suo panfilo, non vedo quali altri contatti potrei avere con Fasatne.» «Quando riuscirai a farmi sapere qualcosa a proposito del nuovo incarico?» chiese Oswald, venendo al sodo. «Quando tu mi farai capire che cosa c'è sotto. Non accetto più bombe in scatola chiusa.» «Non ti sto nascondendo niente, Laura. A Gerusalemme siamo semplicemente convinti che la leggenda della Menorah abbia radici fondate, e che dal diario del veneziano si possano trarre indizi preziosi per il ritrovamento.» «Lo so, me lo ha già detto il vostro capo di governo, e davanti a te», tagliò corto Laura. «Adesso però perdonami, Oswald, ma domani mi aspetta una giornata pesante. Ah, per favore, uscendo a notte fonda dalla camera d'albergo di una signora, usa tutte le tue precauzioni da James Bond».
Dopo qualche minuto, rimasta finalmente sola, Laura si avviò con passo deciso verso il bagno. Aveva fretta: prima di addormentarsi voleva saperne un po' di più su Antonio Fedeli. Dal diario di Antonio Fedeli. Venezia. Ottobre 1788 Il gentiluomo e i suoi accompagnatori hanno appena lasciato il mio atelier. Nell'altra stanza, quella che funge da abitazione, sento la marchesa di Asolo che armeggia con i suoi complicati indumenti. Non ho nessuna voglia di aiutarla ad allacciare corpetti o armature metalliche delle sottogonne. Anche perché confido che non avrò più bisogno di fare questo tipo di vita. «Suis-je devant Monsieur Antonio Fedeli, dit le Parisien?» Così mi ha interpellato il gentiluomo sconosciuto. Nessuno mi chiamava più così da chissà quanto tempo. Avendo io assentito, il gentiluomo si è presentato: «Sono Gustave de La Croix, barone d'Armance, incaricato di curare gli affari della nobiltà parigina nella Serenissima». Presentati rapidamente anche i suoi due accompagnatori, ha ripreso: «Ho il compito di comunicarvi una commissione da parte del marchese di Mont Brouillard». Davanti al nome altisonante sono rimasto senza parole. Che cosa poteva volere da me uno dei più grandi signori di Francia? «Siete sicuro di non aver sbagliato persona, barone?» «No, e sono anzi sicuro di esservi latore di una buona notizia. Très bonne», ha risposto il gentiluomo dando una rapida scorsa al disordine della stanza. «Almeno a giudicare dallo stato della vostra abitazione e della vostra persona.» Non potevo di sicuro dire che il damerino in brache al ginocchio e parrucca bionda avesse torto. «Dunque, signor Fedeli», ha proseguito senza consentire che dicessi una sola parola, «anzitutto devo comunicarvi un evento che temo vi addolorerà: la morte del vostro amico e maestro di bottega Pierre-Denis Lanvin.» La notizia ha davvero avuto il potere di sconvolgermi: non vedevo Pierre-Denis da almeno tre anni, ma a lui erano legati mille ricordi del mio periodo parigino. «Come è morto?» ho chiesto con un filo di voce: la notizia non riusciva ad apparirmi vera. «Ed era tornato a vivere a Parigi?»
«Vi è tornato non appena ha concluso il restauro della chiesa di Rennesle-Château», ha risposto il giovane, aitante barone. «Ha riaperto il suo atelier, ma da allora ha lavorato quasi esclusivamente al servizio del marchese di Mont Brouillard. La sua morte è stata una disgrazia terribile: è caduto da una finestra dell'hôtel particulier che stava decorando proprio per conto del marchese. Un lavoro che non potrà mai essere terminato, a meno che colui che lo stesso Lanvin ha indicato come il suo migliore allievo non accetti la proposta che sono venuto a portargli.» «Il migliore allievo...» ho mormorato. «Così è scritto in questa lettera, indirizzata a voi, che è stata trovata tra le cose del vostro sfortunato amico.» E così dicendo il giovane gentiluomo mi ha porto una lettera, chiusa ma non sigillata con la ceralacca. Sul davanti c'era chiaramente scritto: À Monsieur Antonio Fedeli mon meilleur ami et élève. «Sì, signor Fedeli», ha ripreso il barone d'Armance, «nessuno ovviamente conosce il testo di quella missiva privata, ma il tono dell'indirizzo è bastato a convincere il marchese di Mont Brouillard a inviarmi qui per presentarvi la sua offerta di incarico.» Al dispiacere per la morte di Pierre-Denis si è mescolata l'orgogliosa consapevolezza dei miei mezzi artistici, una convinzione che, nonostante il rapido declino, non mi era mai venuta meno. Ho teso la mano a prendere la lettera, ripromettendomi di leggerla non appena i tre visitatori se ne fossero andati. Devo ammettere che era certamente difficile riconoscere nella mia mano tremante quella del promettente artista di soltanto pochi anni prima. Così come, del resto, sotto i capelli incolti non era facile distinguere il volto di un uomo di appena ventisette anni. «A che punto è lo stato dei lavori?» ho chiesto, fingendo un'aria scarsamente interessata e aridamente professionale, quasi volessi replicare: «Non mi abbasso a ritoccare le opere di altri». In realtà, qualsiasi cosa sarebbe stata meglio delle prestazioni che dovevo unire alla mia arte con ben più di una nobil baldracca veneziana. «A buon punto. Anche se, secondo il marchese di Mont Brouillard, per completarli dovrete passare in rassegna a uno a uno con estrema cura tutti i progetti, disegni e bozzetti del vostro sfortunato amico e maestro. Pare che, più che sull'ordine, Lanvin fidasse sulla sua memoria, e che di conseguenza tutto sia in un caos spaventoso. Proprio per questo il marchese desidera che il lavoro venga ripreso e completato da un artista che, conoscendo be-
ne Lanvin e le sue tecniche, possa destreggiarsi con sicurezza in quella congerie di carte. Vi viene offerta una paga di centocinquanta livres la settimana e un premio di duemila a fine opera.» «Dove risiederò? E quanto mi costerà l'alloggio?» «Risiederete nello stesso atelier dove viveva e lavorava il vostro sfortunato predecessore. Il marchese l'ha già acquistato per metterlo a disposizione di chi completerà i lavori. Quindi avrete alloggio gratuito in una bella zona di Parigi.» Mi sarei accontentato anche di molto meno. Avrei accettato anche senza paga. Quell'occasione piovuta dal cielo mi stava togliendo da un grave imbarazzo. «Mi avete convinto, signore, accetto», ho risposto in tono di falsa supponenza, quasi che incarichi del genere mi capitassero ogni giorno. «Ditemi le procedure per formalizzare il nostro accordo.» «Dopodomani mattina vi aspetterò all'ambasciata di Francia. Immagino che abbiate bisogno di un cavallo, dei denari per il viaggio e...» - mi ha squadrato con un'aria più divertita che altezzosa - «e di abiti decenti. Quindi vi prego di accettare questa.» E il barone ha posato sul tavolo una borsa in pelle verde su cui spiccavano in oro zecchino i fregi della sua casata: uno scudo diviso in quattro riquadri con il blu e il giallo della famiglia e le scimitarre moresche, simbolo di meriti acquisiti alle crociate. Dio ti benedica, ho pensato tra me, mentre il nobiluomo e i suoi accompagnatori se ne andavano. «Antonio!» Non appena i tre gentiluomini sono usciti, la voce della marchesa di Asolo mi ha colpito come quella di un'oca a cui stessero tirando il collo. «Se n'è finalmente andata, quella gente? Orsù, venite, presto. Voglio godere ancora della vostra gagliardia.» Sentito il mio fermo diniego, è stata lei a entrare nell'atelier. Ha gettato con disprezzo alcune monete sul tavolo e ha sibilato: «Questo per comprarvi qualche boccale di vino, sudicio ubriacone». Aveva un'espressione cattiva e minacciosa. Ma l'euforia da cui ero pervaso ha innescato una reazione che reprimevo da diverso tempo. «Potete mettervi questa miseria nelle pudende, madama, e usarla come surrogato della mia gagliardia. Da questo momento non sono più al vostro soldo, né a quello delle vostre amiche.» E ho preso la porta, incurante delle stridule minacce della megera. «Vive
la France!» ho gridato, dileguandomi nella fresca mattinata ottobrina. L'esaltazione mi ha fatto commettere un grave errore. Ho dimenticato sul tavolo dell'atelier la lettera di Pierre-Denis Lanvin. E al rientro ne ho visto i resti nel camino. La marchesa di Asolo ha evidentemente pensato che fosse un buon modo per vendicarsi. Non saprò mai che cosa mi abbia scritto il mio povero amico morto e mi sento in grave colpa nei suoi confronti, ma cercherò di fare ammenda completando il suo lavoro con una dedizione senza pari. Hôtel Splendido. Portofino. Luglio 199... Le palpebre si erano fatte pesanti. Laura gettò un'occhiata all'orologio da polso posato sul tavolino: erano quasi le due, e la stanchezza imponeva la sua legge. «Sembra un romanzo», fece appena in tempo a pensare, prima di piombare nel sonno. 4 Tangula Shan. Racconto di Namling Namling parlava in tono pacato, la sua voce sapeva accendere la fantasia, farla viaggiare. Il giovanissimo discepolo lo ascoltava sempre più rapito. Sentiva un'urgenza insopprimibile di apprendere, di capire. «Avevo avuto il permesso di vivere lontano dalla nostra terra, Tang Shen, ma dovevo guadagnarmi il pane quotidiano. E lo facevo utilizzando l'arte che avevo appreso qui dal mio maestro. Facevo dipinti nel nostro stile, creavo oggetti piccoli e grandi. 'Cineserie', le chiamavano a Parigi, ed erano molto apprezzate. Poco importava che a crearle non fosse affatto un cinese. Ma, ai loro occhi, che differenza poteva esserci tra un cinese e me? Anche se in questi anni di cui ti sto parlando, anni di grandi rivolgimenti, stavamo assistendo a una radicale trasformazione del gusto. Le cose che facevo io piacevano sempre meno, a vantaggio di altre in uno stile che mi era ignoto ma che mi veniva spiegato nei termini di 'classico' o 'greco'. «Insomma, se un giorno non avessi conosciuto Pierre-Denis Lanvin e lui non mi avesse dato lavoro nella sua bottega, avrei attraversato momenti molto duri e forse anche dovuto decidere per un rientro prematuro nella nostra terra, prima che avessi potuto completare il mio itinerario verso la conoscenza. Lanvin e io abbiamo fatto molte belle cose, insieme. Abbiamo
servito tanti grandi signori, che evidentemente erano contenti del nostro lavoro, visto che tornavano a chiedere i nostri servigi. «Comunque, Tang Shen, una sera me ne andai presto dalla dimora del mio amico parigino. Pierre-Denis Lanvin era in preda a un'eccitazione febbrile. Il suo unico desiderio sembrava quello di rimanere solo. Ma il mattino dopo, di buon'ora, quando tornai all'atelier per riprendere il mio lavoro, lo trovai morto nel giardinetto interno. Era caduto da una finestra. Aveva gli occhi sbarrati in un'espressione di terrore. «In quel momento capii che cosa può essere la paura dell'ignoto. Ma gli insegnamenti dei nostri maestri, le lunghe meditazioni per il perseguimento della conoscenza mi furono di grande aiuto. Avvertivo però che tra quelle mura aleggiava un grave pericolo, una sorta di maledizione pronta a colpire. Ma perché?» Namling si accorse che la mente del discepolo stava divagando tra le immagini evocate dal racconto. Sapeva bene come richiamare la sua attenzione. «Conosci il vento che soffia nel tempio a primavera?» gli chiese a bruciapelo. Il giovane si riscosse e lo fissò, annuendo con calore. Il monaco riprese: «Lo conosci, certo. Porta con sé il suono delle campanelle che scuote, la luce tremula delle candele, ma anche il sentore rinfrescante della novità. Un senso di lieta pulsione verso il futuro, che si spera sempre sia migliore del passato. E così fu per me: potei gustare il vento della novità, cogliere il senso del cambiamento e prepararmi al futuro. «Una sera, qualche mese dopo la morte di Pierre-Denis Lanvin, passando davanti a quella che era stata la sua dimora e bottega, vidi che le luci erano accese. L'atelier era stato riaperto da un giovane ricco d'ingegno, ma, ahimè, di spirito fragile. «Fu lui a smuovere in me la brezza primaverile, la sua mente fervida unita alla sua fragilità». Aeroporto militare di Bengasi. Maggio 199... Il piccolo aeroporto, battuto da una tesa brezza mediterranea, era stranamente animato. Ai militari libici di guardia era stato impartito l'ordine rigoroso di non avvicinarsi alla fusoliera luccicante del Lear Jet appena atterrato. Il rombo dei rotori dell'elicottero ruppe di nuovo il silenzio proprio quando quello dei due reattori dell'aereo cominciò ad affievolirsi. L'uomo dall'elegante djellaba scese con passo veloce la scaletta del jet,
mentre a poca distanza l'elicottero posava i pattini sull'asfalto. Lo seguivano tre guardie personali con le armi spianate. Nessuno dei militari libici che osservavano la scena poté riconoscerlo. Tutto si svolse con estrema rapidità: in un attimo l'uomo e il suo seguito scomparvero nell'elicottero, che decollò subito verso il mare aperto. Fasatne era sul ponte superiore della Rosa del Deserto. Trattenne con la mano destra la keffiah, mentre le pale dell'Agusta facevano vorticare l'aria sulla piattaforma d'atterraggio del panfilo. La porta laterale cominciò a scorrere e il misterioso ospite smontò mentre le eliche erano ancora in movimento. Il libanese spalancò le braccia e lo strinse in un abbraccio fraterno, baciandolo su entrambe le guance. «Allah sia con te!» esclamò. Saddam Hussein rispose con un abbraccio e il doppio bacio di rito. Quindi i due scesero nello studio di Fasatne. Appena entrati, il libanese prese dalla scrivania uno strumento simile a un metal detector portatile, di quelli che usa la polizia negli aeroporti: un rivelatore di microspie dell'ultima generazione. Percorse l'ambiente in lungo e in largo, controllando a uno a uno mobili e suppellettili. «Non ci sono orecchie indiscrete, possiamo parlare», disse finalmente. «Che cos'ha portato qui il mio fratello Hussein con tanta urgenza?» «Chi vuoi che possa ascoltarci su un panfilo in navigazione? Il motivo dell'urgenza è forse un capriccio, ma in ogni caso si deve considerare estraneo ai rapporti di interesse e di amicizia che ci legano.» Per Fasatne, il Rais di Baghdad rappresentava il più cospicuo cespite di guadagni. Era soprattutto rifornendo di armi l'Iraq in guerra da ormai vent'anni che aveva accumulato le sue immense ricchezze. E poi con il petrolio iracheno sottoposto a embargo. In cambio, Saddam Hussein gli chiedeva di essere pronto a tutto, disponibile a districare qualsiasi problema potesse coinvolgerlo fuori dell'Iraq. Così, in cambio di un costante e colossale flusso di denaro pilotato verso oscuri istituti di credito di Nassau o delle isole Cayman, Fasatne gestiva le «relazioni estere» del Rais nei loro risvolti più torbidi: terrorismo, spionaggio, vendette. Più il controllo di certi forzieri segreti in banche compiacenti. «La vicenda che sto per esporti», riprese Saddam Hussein, «inizia nello sventurato 1991, quando i nostri militari, sulla via di raggiungere Baghdad per riorganizzarsi, riuscirono a fermare le truppe imperialiste degli ameri-
cani e dei loro alleati.» Quest'uomo, pensò tra sé Fasatne, riuscirebbe a mentire persino a se stesso anche in una cella d'isolamento. Riorganizzarsi? I suoi soldati stavano scappando come lepri. Ma ovviamente non lasciò trapelare nemmeno l'ombra dei suoi pensieri. «Al comando della 7a brigata c'era il generale al-Gudhaf, l'uomo che, come sai, ha ordito una congiura contro di me con mio genero. E sai anche che i traditori sono stati giustiziati. Ma dalle indagini seguite alle confessioni spontanee del mascalzone abbiamo scoperto molte cose interessanti.» Saddam Hussein si concesse una pausa a effetto, passandosi le dita della sinistra sui folti baffi neri, quindi riprese: «Al-Gudhaf aveva razziato circa dieci milioni di dollari, tra azioni al portatore della KPC e Buoni del Tesoro britannici, ma aveva anche messo le mani su un antico diario a cui la sua abissale ignoranza non avrebbe probabilmente mai saputo attribuire il giusto valore». Il libanese si teneva chino in avanti sulla poltrona, quasi volesse assimilare fino in fondo ciò che gli veniva detto. Sapeva che Saddam stava venendo al dunque, e il suo unico problema era trasformare questo dunque in un'ennesima cascata d'oro. «I nostri nemici sionisti, invece, erano al corrente del valore di quelle pagine, scritte a mano da un pittore del Settecento, o perlomeno avevano qualche sospetto. E uno dei pegni pagati da Bush a Peres per aver desistito dall'innescare la catastrofe finale è stata proprio la consegna dell'antico quaderno. «A quei tempi, però, tutto è sembrato fermarsi lì. Oggi, invece, l'estremismo del nuovo governo ha un'urgenza vitale di ammantarsi di valori tradizionali e religiosi di fronte al suo popolo di invasori. E, vedi caso, i miei servizi hanno accertato che il Mossad si è messo al lavoro sugli scarabocchi di quell'antico pittore. Sai perché, fratello?» Fasatne scosse la testa, ostentando un'attenzione spasmodica, e il Rais continuò: «Gli ebrei sono convinti che vi siano celate le indicazioni per scoprire il nascondiglio della loro mitica Menorah. Capisci, Hytham? Uno dei massimi simboli della loro religione potrebbe tornare alla luce dopo quasi duemila anni. Ma questo non deve accadere. E tu devi aiutarmi, nel Nome di Dio, misericordioso e compassionevole». «Intralciare le trame del Mossad può soltanto riempirmi di piacere, fratello», rispose Fasatne con gli occhi ridotti a due fessure. «Ma non è cosa facile né priva di rischi. Né, soprattutto... di costi.»
«Non preoccuparti per i costi. Ognuno dei tuoi collaboratori avrà la giusta ricompensa. Quanto a te, conosci i modi con cui posso premiarti. Allora?» Fasatne annuì e, in segno di accettazione, tese la mano a stringere quella del Rais. Il capriccio di Saddam si sarebbe presto tradotto in un fiume di denaro. Portofino. Luglio 199... Villa Bonomi sembrava montare la guardia alla baia di Paraggi. Gli ombrelloni sulla spiaggia erano perfettamente allineati, molti bagnanti si godevano la bella giornata estiva. Laura, comodamente sdraiata su un lettino da spiaggia, stava chiacchierando amabilmente con Marpessa, che invece non si era mai allontanata dal sicuro rifugio del parasole. Avevano declinato con cortesia e fermezza una mezza dozzina di inviti, tra gite in barca e pranzi privati, preferendo la tranquillità di poche ore in spiaggia, libere da impegni e obblighi. Ma così non era stato: un frequentatore della spiaggia aveva riconosciuto Laura Joanson nella bella donna in bikini. L'aveva indicata ad altri e altri ancora. La piccola libreria poco distante aveva subito un vero e proprio assalto e in un lampo le copie di Eroi di tutte le battaglie erano andate esaurite. Laura aveva dovuto firmare con dedica almeno un centinaio di frontespizi, mentre la soddisfattissima Marpessa dirigeva con energia la fila degli ammiratori. Terminata l'indesiderata bagarre, di cui l'abile Marpessa non era affatto innocente, le due donne si fecero chiamare un taxi e portare in albergo. Un paio d'ore di riposo erano il modo migliore per prepararsi ad affrontare la serata. Oswald Breil era seduto sul letto con le gambe incrociate come un piccolo Buddha. Le sue dita correvano sulla tastiera a una velocità tale da rendere il ticchettio più simile a un fruscio continuo. La linea a cui aveva collegato il modem del suo computer portatile non era certamente sicura. Quelle di un albergo non lo sono mai. Ma la sua apparecchiatura era in grado di comunicare con sistemi di crittici tali da rendere impossibile ogni intercettazione. Comunque, collegandosi con la centrale telematica del Mossad, Oswald utilizzò ugualmente l'accesso di massima sicurezza, eseguendo con scrupolo tutte le procedure per rendere sicuri i suoi messaggi.
Quando aprì la sua casella di posta elettronica, sullo schermo lampeggiò la scritta: . <SERGENTE BERNSTEIN>, digitò non appena fu in linea con quello che definiva l'Ufficio Ficcanasi, un servizio in linea per gli agenti del Mossad in difficoltà, Accidenti alle parole d'ordine, pensò Oswald. Aveva sempre odiato quelle assurde formule di riconoscimento: erano l'unica cosa capace di mettere a dura prova la sua memoria. Si strinse le mani alle tempie, ma infine digitò la risposta, premette il tasto di invio e rimase a scrutare lo schermo con un'espressione angosciata. Era quasi sicuro che la risposta giusta fosse: «Mosè portò seco le tavole». , fu la confortante risposta. Oswald stava per digitare la solita litania di critiche alle ridicole parole d'ordine, quando improvvisamente si ricordò chi fosse, da alcuni giorni, il responsabile del Mossad: lui stesso. Quindi si limitò a digitare: <MI HA CERCATO?> , fu la risposta immediata. <APPENA CI VEDIAMO MI RICORDI CHE DEBBO DIRLE UNA COSA A PROPOSITO DI QUELLE PAROLE D'ORDINE. ADESSO MI GODO LE FOTOGRAFIE, AUGURANDOMI CHE LEI ABBIA AGGIUNTO QUALCHE COMMENTO PICCANTE. SHALOM.> Chiuso il collegamento, Oswald rese leggibili i file decrittandoli e decomprimendoli e collegò il computer alla precisissima stampante portatile a getto d'inchiostro, del peso di soli sei etti. Infine si mise a sbirciare ansiosamente la fessura da cui uscivano i fogli stampati. Laura si alzò dal letto, sistemato al centro della stanza; con l'avvicinarsi della sera, una brezza di maestrale spazzava l'aria, rinfrescandola. Non ricordava nemmeno più a quante presentazioni dei suoi romanzi avesse partecipato, o quante volte si fosse trovata davanti a telecamere e platee di giornalisti, ma non aveva mai provato quella sensazione. Un leg-
gero morso allo stomaco e uno stato di tensione le procuravano un lievissimo affanno. Volle attribuire la cosa alla sindrome di panico da palcoscenico, che conosce anche l'attore più navigato. In realtà sapeva che il suo subconscio stava reagendo a una situazione ambigua. Bastava la presenza di Oswald Breil. Nonostante l'affetto che provava per lui, trovarselo tra i piedi senza preavviso significava quasi invariabilmente una cosa: guai in arrivo. Con altrettanto sgomento si rese però conto che nei guai, specialmente quelli in cui era Oswald a cacciarla, si trovava a meraviglia. Inutile mentirsi: davano sapore alla sua vita. Non poteva farne a meno, anche se l'arrivo di Chiara aveva mitigato il suo gusto per il rischio e l'avventura. Si preparò con cura, poi attese il ciclonico arrivo dell'implacabile Marpessa. I due motoscafi Riva Acquarama erano accostati al porticciolo. I marinai della Rosa del Deserto vestivano una divisa impeccabile. Alle due veloci imbarcazioni e ad altre due noleggiate per l'occasione era affidato il trasporto al panfilo degli oltre duecento ospiti. Il calare delle ombre del tramonto estivo illuminava di tonalità intense i colori delle case lungo la calata. Laura non manifestò alcuna titubanza prima di superare il varco che separava il molo dalla fiancata del motoscafo: sfilò con eleganza i sandali e li prese in mano. Le norme della buona creanza imponevano che l'ospite d'onore fosse tra i primi a giungere al ricevimento. Visto da vicino, lo yacht di Hytham Fasatne era ancor più imponente. Sulla piattaforma di ormeggio, che un meccanismo idraulico faceva scomparire una volta in navigazione, si trovavano alcuni uomini del servizio privato di sicurezza. La moquette che rivestiva gran parte dei pavimenti dei corridoi era alta e soffice. L'ascensore interno percorse i quattro ponti, raggiungendo il penultimo piano del palazzo galleggiante. Le labbra di Marpessa si schiusero in un sorriso radioso già mentre le porte dell'ascensore si stavano aprendo. Si trovarono davanti Nara Fasatne, pilota dell'elicottero personale e poi terza moglie di uno tra gli uomini più ricchi del mondo. Laura provò un senso di disagio soltanto guardandola. La padrona di casa aveva la grazia di un felino, ma era appesantita da curve troppo perfette e sode per l'età. La sensazione non scomparve nemmeno quando un sorriso illuminò l'espres-
sione di Nara. Le due donne parvero fronteggiarsi con spirito diplomaticamente bellicoso, e Marpessa si accorse subito dell'elettricità che vibrava nell'aria. Si infilò tra loro e le prese entrambe a braccetto, cominciando a parlare fittamente dello svolgimento della serata. Laura la osservò stupita: non l'aveva mai vista così nervosa. Il rombo dell'elicottero che atterrava sul ponte sopra di loro le distolse dall'animata conversazione: era arrivato Hytham Fasatne. Quando le raggiunse, Laura lo trovò un uomo molto cortese e di signorile galanteria: insomma, un gradevole padrone di casa. Oswald Breil arrivò a bordo della Rosa del Deserto in perfetto orario. Lo smoking estivo, pur di ottima fattura, lo faceva sembrare un bambino con il vestito della domenica. Un paggetto di nozze. Al suo fianco non poteva passare inosservata la bellezza mediterranea di Sara Terracini; le sue tonalità brune erano messe in risalto dall'abito lungo color panna. Nel corso della presentazione del romanzo Laura limitò volutamente le sue parole al minimo indispensabile. Non voleva risultare pesante, né catalizzare su di sé l'attenzione per tutta la serata. Quelle persone avevano di sicuro anche altri affari da trattare. Cercò quindi di dividersi amabilmente tra gli invitati sparsi per i cinque ponti della nave. Perfettamente all'altezza della situazione, sapeva sempre trovare le parole appropriate. «Posso rubare un istante del suo prezioso tempo alla festeggiata?» si sentì chiedere a un certo punto da una voce alle sue spalle. Non avrebbe mai potuto non riconoscerla. Si girò con un sorriso radioso e incrociò quello di Oswald Breil. Lo aveva già intravisto aggirarsi tra gli ospiti, ma non aveva ancora avuto l'occasione di rivolgergli la parola. Con una punta di bizzarra gelosia aveva anche notato la bella giovane che lo accompagnava. Prima che potesse rispondere, fu l'omino a parlare di nuovo: «Posso presentarti la dottoressa Sara Terracini?» La giovane italiana strinse con espressione raggiante la mano che le veniva tesa, esclamando: «Signora Joanson, non può immaginare il mio piacere. I suoi romanzi mi hanno fatto passare molte più notti insonni di qualsiasi testo accademico». «Testo accademico?» chiese cortesemente Laura. «Lei lavora per un'università?»
«Per un istituto di ricerca», intervenne Breil. «Sara è una straordinaria restauratrice ed esegeta di documenti antichi.» «Una specializzazione affascinante», convenne Laura. «Spero che abbiamo modo di parlarne diffusamente, e di approfondire la conoscenza.» Guardandole, Oswald si sentì riempire di un moto di orgoglio. Non si era sbagliato nel pensare che le due donne si sarebbero piaciute. E ai suoi fini era un fatto di vitale importanza. «A proposito di documenti antichi, Laura», chiese, «sei riuscita a proseguire nella lettura?» La scrittrice ebbe un attimo di esitazione, poi capì che di fronte alla giovane italiana poteva parlare liberamente. «Un po', ma non molto. La vicenda mi sembra comunque molto interessante. Ed è scritta benissimo.» «Sono contento di questo tuo giudizio, perché altrimenti Sara se la sarebbe presa a male.» «A male?» chiese Laura. «Intendi dire...» «Intendo dire che è stata lei a decifrare e tradurre il diario di Antonio Fedeli. E anche un'altra vicenda storica che conosci fin troppo bene.» «Le Pietre della Luna?» esclamò Laura. «Proprio. Sara è un vero genio in questo tipo di lavoro, e mi servo spesso della sua collaborazione.» «Non ha idea, Laura», intervenne Sara, «con quali metodi e tempi si debba lavorare per adeguarsi alle esigenze di questo signore.» «Oh, li conosco», rispose Laura, ricambiando il franco sorriso. «Li conoscono fin troppo bene.» Una voce alle loro spalle li interruppe. «Signor Breil, vedo che sta monopolizzando le due signore più belle della serata», disse Hytham Fasatne. «E non è corretto nei confronti degli altri invitati», continuò con un'espressione mista di cortesia e scaltrezza. «Quindi, se sarà così buono da seguirmi nel mio studio, potremo al tempo stesso fare un favore agli ospiti della serata e parlare con tranquillità degli argomenti di reciproco interesse.» Oswald accennò un inchino alle due amiche e seguì il padrone di casa per il salone gremito. Rimaste sole, Laura e Sara stavano conversando cordialmente e approfondendo la conoscenza, quando un uomo si avvicinò con un bicchiere in mano. Non era molto alto; braccia forti; lo sguardo freddo di chi ama il rischio. «Permetta che mi presenti, signora Joanson», disse tendendole la
destra e chinandosi in un formale baciamano. «Alfredo Trasi. Volevo conoscerla e complimentarmi con la scrittrice che sa emozionarmi quasi come un bolide di Formula Uno.» Anche senza il voluto accenno al mondo dei motori, quello di Trasi era un viso molto noto. La precedente stagione il pilota della Bradwood aveva mancato di un soffio il titolo iridato. In quella in corso sembrava che nessuno potesse contrastarlo. Laura lo presentò a Sara, e il pilota della scuderia di Fasatne tenne loro compagnia per alcuni minuti. «Niente male, il tuo fosco connazionale», scherzò Laura quando se ne fu andato, strizzando l'occhio e passando finalmente all'informale «tu». «La prima a non passare inosservata, però, sei stata tu», rispose Sara stando al gioco. «Trasi è arrivato in derapata a trecento all'ora.» Risero entrambe. L'intesa tra loro era perfetta. Lo studio di Fasatne era in consonanza con lo stile moderno e sobrio di tutta l'imbarcazione. L'uomo d'affari prese posto dietro la scrivania, e Oswald sedette in una poltrona di fronte. «Devo purtroppo dirle che la documentazione che mi ha fatto avere circa le trivellazioni in quelle zone desertiche del suo paese non ha suscitato alcun interesse nei miei esperti. L'unica possibilità di accedere a giacimenti petroliferi dai punti da lei indicati sarebbe trivellare in orizzontale fino all'Arabia Saudita. Osservando le loro analisi mi sono chiesto se lei non stesse prendendoci in giro. O c'è sotto qualcosa, signor Breil?» Oswald rispose con un sorriso quasi beffardo, per niente intimorito. Sapeva bene quanto risoluto e pericoloso fosse il suo interlocutore. E con altrettanta risolutezza sapeva di dover agire. «Giochiamo a carte scoperte, signor Fasatne», replicò, togliendosi dalla tasca interna dello smoking alcuni fogli piegati con cura. «Lei ha ragione, l'unico motivo per cui le ho inviato quella documentazione era chiarire a tu per tu con lei un discreto numero di perplessità che nutro su certe società e persone a lei collegate.» E così dicendo spiegò sulla scrivania in noce le foto scattate dal satellite e inviategli dal sergente Bernstein. Il libanese le guardò impassibile, mentre Oswald continuava: «Come lei sa, i satelliti sono ormai in grado di leggere dati minuscoli come la targa di un'auto o i titoli di un giornale. Queste foto sono state scattate dai nostri nello scorso maggio. Si riferiscono all'atterraggio e al decollo di un aviogetto all'aeroporto di Baghdad. Lo stesso
aereo atterra poche ore dopo a Bengasi, in Libia. Al suo fianco si posa per pochi istanti un elicottero, che poi si dirige verso il mare aperto. I due velivoli hanno un elemento in comune: appartengono alla Baalbek Air, di cui lei è proprietario. E noi abbiamo fondati sospetti che su di essi abbia viaggiato Saddam Hussein, diretto a un incontro con lei proprio a bordo di questo panfilo». «E allora?» ribatté Fasatne con aria divertita. «La mia amicizia con il presidente dell'Iraq è di pubblico dominio. Niente mi vieta di incontrarlo dove e come voglio.» «Certo, ma a preoccuparci sono i motivi dell'incontro. Devono essere molto importanti, per aver indotto Saddam ad avventurarsi fuori dei suoi bunker sotterranei.» «Signor Breil», tagliò corto Fasatne in tono sarcastico, «questo continuo uso del 'noi' mi costringe a chiederle se mi trovo davvero davanti a un esperto di ricerche petrolifere.» Oswald non ebbe un solo istante di esitazione. «Credo sia del tutto superfluo presentarle le mie credenziali», replicò. «Il suo efficiente servizio di informazioni le ha già di sicuro comunicato chi sono. Comunque, visto che giochiamo a carte... scoperte, le confermerò che il plurale si riferisce al Mossad.» «Bene, adesso che gli orizzonti sono più chiari, le ripeto: e allora? Anche se avessi ospitato sulla Rosa del Deserto un fraterno amico, crede che debba renderne conto a lei? Le ricordo che quando per il mondo occidentale l'Iraq rappresentava l'unico baluardo contro quello che definite 'l'integralismo iraniano', tutti, Israele compresa, si sono dati da fare per armare, finanziare e appoggiare Saddam Hussein nella crociata contro gli ayatollah di Teheran. E adesso...» Non finì la frase. «Avrei molto da obiettare su nostri presunti appoggi all'Iraq durante la guerra con l'Iran, ma mi limiterò a risponderle che da allora molte cose sono cambiate.» «Non per me», esplose il libanese. «Saddam Hussein era mio amico allora, e lo è anche adesso.» «Un'amicizia che definirei interessata», replicò freddamente Oswald, prendendo un foglietto e scorrendolo con lo sguardo. «Signor Fasatne, noi sospettiamo che navi di sua proprietà abbiano caricato enormi quantitativi di greggio iracheno nel periodo dell'embargo. Greggio che poi, con la complicità di funzionari doganali nigeriani corrotti, è stato 'ripulito' e rimesso in circolo come proveniente da quel paese.»
«Occorrono prove, non sospetti. Prove che lei possa esibire davanti a un tribunale, signor Breil.» «Molte delle sue società hanno sede in paesi dove la giustizia è un concetto volatile, influenzabile in mille modi. Modi che lei conosce meglio di me. E noi non abbiamo bisogno di tribunali per condannare», ribatté Oswald, arrivando al vero motivo della sua visita: l'avvertimento. «Inoltre, signor Fasatne, abbiamo il sospetto che lei sia il mandante e finanziatore di almeno tre attentati compiuti nell'ultimo anno, due dei quali in Israele.» «Ho detto 'prove', Breil, e non chiacchiere da donnicciola al mercato», ripeté il libanese, con tono di nuovo sarcastico. «La avverto che, perdurando queste sue attività ostili o addirittura omicide, che ho motivo di ritenere collegate ai favori che riceve dal suo protettore iracheno, saremo costretti a prendere un provvedimento finale.» «Ovvero la mia morte, signor Breil?», replicò il libanese in tono canzonatorio. «Se la sua minaccia è questa, la invito a mettersi disciplinatamente in fila. Credo che almeno una ventina di persone od organizzazioni vogliano vedermi morto. Sono i rischi del mio modo di intendere la vita, e so come fronteggiarli. Mi creda, non ho alcuna paura se il mio nome compare sulla vostra ridicola lista di gente da 'avvertire'. Mi fate il solletico. Adesso però credo che la nostra conversazione sia durata fin troppo, e più di duecento invitati mi aspettano. Si goda quanto rimane della festa in onore della sua compagna di avventure. Comunque sappia che questa tregua finirà domattina.» Il libanese si alzò. «Quella è la porta, signor Breil. Credo che non avremo più occasione di parlarci.» «Io invece ho la sensazione che l'avremo, signor Fasatne. E piuttosto presto», ribatté Oswald guardandolo fisso negli occhi. Quando i due uomini rientrarono nel salone, la festa volgeva al termine. Con espressione tesa, Oswald raggiunse Sara e Laura, che non avevano mai smesso di conversare animatamente, chiedendo: «Che cosa ne direste di cominciare con i saluti? La giornata è stata lunga». Quasi venti minuti più tardi il terzetto, con l'aggiunta di Marpessa, era all'imbarcadero del panfilo per salire sul primo motoscafo in partenza. L'acqua della baia era scura. La scia del Riva, così come quella dell'altra imbarcazione che lo seguiva, brillava delle fluorescenze del plancton. L'urlo di Sara si levò più alto del rombo dei due motori, mentre Oswald
cadeva dall'imbarcazione lanciata a oltre trenta nodi. Lo salvò l'esperienza. Reprimendo l'impulso più immediato e naturale, non tentò di risalire. Mulinando mani e gambe cercò invece di vincere le leggi del galleggiamento, scendendo il più possibile nelle profondità dell'acqua tenebrosa. Avvertì distintamente lo spostamento provocato dalle eliche dei due motori da quattrocento cavalli: il secondo motoscafo stava passando sopra di lui. Soltanto allora puntò verso la superficie, con i polmoni che bruciavano per la mancanza d'aria. Per individuarlo con i fari direzionali e poi recuperarlo ci vollero dieci minuti buoni. «Ho perso l'equilibrio», annunciò allegramente, mentre un marinaio gli metteva addosso una coperta. «Sì, l'equilibrio», ripeté. «È stato come con i giapponesi a Pearl Harbor.» Paul Craigh era sul secondo motoscafo e aveva seguito attentamente le operazioni di recupero: l'omino che veniva issato a bordo, il caloroso abbraccio delle due donne. Non era ancora riuscito a capire chi fosse la bella giovane italiana, ma conosceva fin troppo bene i rapporti esistenti tra Laura Joanson e l'enigmatico Breil. Inoltre quest'ultimo l'aveva visto entrare nello studio di Fasatne e poi uscirne. Con un'espressione a dir poco inquietante. Il fiuto di giornalista gli diceva che quel terzetto poteva riservare più di una sorpresa. Roba da riempire le prime pagine e le sue tasche. Decise che non avrebbe perso di vista Laura Joanson per almeno un mese: l'avrebbe fatta seguire dai suoi cronisti in ogni angolo della terra. E, nei limiti del possibile, lo avrebbe fatto anche di persona. Laura uscì dal bagno in vestaglia. Oswald le comparve davanti seduto sulla solita poltrona. «Scusa la nuova intrusione», le disse semplicemente, «ma devo parlarti subito.» E così detto aprì la destra. «Questa 'cimice'», continuò, mostrandole un microfono miniaturizzato, «era sotto il tuo tavolo da toilette, mentre ieri sera i miei strumenti di rilevazione non avevano individuato niente di sospetto. Da questo momento in poi dobbiamo agire con la massima attenzione. Hai qualche sospetto su chi possa averla piazzata?» «Non saprei», rispose Laura, scossa. «Qualsiasi inserviente dell'albergo.» «Uhm», borbottò Oswald. «Un lavoro troppo da professionisti. Comun-
que, certo, potrebbe aver fatto entrare qualcuno.» «Senti, Oswald», scattò Laura, «mi spieghi in che razza di guaio vuoi cacciarmi questa volta?» «Nessunissimo guaio, Laura, credimi. Questa microspia è stata evidentemente messa qui per me, non per te. L'incarico che vorrei accettassi non comporta alcun rischio. E lavoreresti di concerto con Sara Terracini.» «Con Sara?» «Be', lei non lo sa ancora, ma sono sicuro che non ci saranno problemi», mentì spudoratamente Oswald, che sapeva invece benissimo quanto la giovane italiana fosse restia a lasciare il suo laboratorio romano. «E che cosa dovremmo fare?» «Te l'ho detto: individuare i messaggi che siamo sicuri siano nascosti nel diario del veneziano.» «Tutto qui?» «Ehm, no», dovette ammettere Oswald. «Una volta capito il senso di questi indizi, dovreste cercare la Menorah. Una specie di caccia al tesoro. Soltanto che la posta in gioco è un pezzo della nostra storia, un simbolo della nostra religione. 'Le sette lucerne rappresentano gli occhi del Signore che scrutano tutta la terra', come si legge in Zaccaria. Bene: in nome del popolo di Israele ti chiediamo di riportarci l'oggetto sacro che, con l'Arca dell'Alleanza, veniva venerato nel Tempio di Gerusalemme.» «Arca? Tempio? Mi hai scambiato per Indiana Jones? Ti sei dimenticato che sono un'oceanografa, una madre di famiglia e, a tempo perso, anche una scrittrice di discreto successo? Comunque, lasciami almeno il tempo di leggere questo benedetto diario e di sistemare alcune cose. Ricordati che ho una figlia e un marito, e che non li vedo da più di una settimana.» «Okay, ti concedo dieci giorni, ma se la sera dell'undicesimo non sarai a Parigi per cominciare la ricerca, ti farò venire a prendere con la forza.» «Santo cielo... Non ho ancora detto di aver accettato!» «Sono sicuro che lo farai. Finisci di leggere quel diario.» Quasi con sconforto, Laura capì ancora una volta che contro Oswald Breil era priva di difese. L'omino stava per andarsene dalla sua camera, ma lo fermò con un gesto della mano. «Chi ti ha tradito attaccando in maniera vile?» gli chiese. «Cioè?» «'I giapponesi a Pearl Harbor'... Non credere che mi sia sfuggito. Perché lo avresti detto, altrimenti?» «Sono poche le cose che ti sfuggono, mia cara. Parlavo di una tregua che
qualcuno ha violato. Non ho mai perso l'equilibrio. Ma non preoccuparti, è una cosa che non riguarda né te né l'incarico che ti voglio affidare. È una pista che sto seguendo e che soltanto per caso si è intrecciata con il nostro incontro.» «Oswald, ti conosco troppo bene. Di norma l'espressione 'per caso' non rientra nel tuo vocabolario. 'Le coincidenze non esistono.' Quante volte me l'hai detto? Che cosa c'è sotto?» «Te lo giuro, tu non c'entri. La tua missione è completamente estranea alle mie indagini, e il suo esito dipende esclusivamente da te e Sara.» «Mah...» Dopo qualche istante Laura era sola. Calcolò rapidamente la differenza di orario tra Miami e l'Italia. Quindi sollevò la cornetta del telefono e compose il numero di casa. Constance, la ragazza che aveva cura di Chiara fin dai primi giorni di vita, rispose al terzo squillo, letteralmente sommergendola sotto una sequela di domande sull'esito della presentazione. Appena riuscì a interromperla, chiese notizie della piccola. «Chiara sta benissimo, signora, anche se soffre di nostalgia.» «Ne soffro anch'io. Dalle un grosso bacio da parte mia. Mio marito è a casa? Puoi passarmelo, per favore?» La voce di Kevin le giunse con i toni profondi che bastavano a eccitarla. La nostalgia per la piccola non aveva fatto passare in secondo piano l'amore che provava per lui. «Ehi, giramondo, quando pensi di tornare a casa?» le chiese. «Ti stiamo aspettando tutti... Accidenti, in Italia sono quasi le tre di notte... Che cosa fai ancora sveglia a quest'ora?» «Non preoccuparti, geloso maschio latino, qui pare che i famosi stalloni italiani siano tutti in pensione. Anzi, dato che uno lo conosco abbastanza bene, vorrei proprio trovarlo in gran forma quando torno a casa.» «Lo troverai, lo troverai. Ma com'è andata la presentazione?» «Una festa sontuosa, a bordo di un panfilo da favola. Pensa, C'era persino Oswald Breil.» Era probabilmente il primo passo per mettere le mani avanti e prepararlo alla decisione di partire ancora una volta alla ventura. Kevin sembrò capire qualcosa. Anche per lui la presenza di Oswald, nonostante tutta la simpatia e la stima, significava il profilarsi di possibili guai. «Sento odore di pasticci, Laura. Che cosa stai combinando?» E poi dicono che sono le donne ad avere un sesto senso, pensò lei. Ma
per la quiete di tutti preferì mentire: «Non succede un bel niente, se non che ti amo ancora di più di quando sono partita. Mi manchi, mi mancate tutti e due: tu e la piccola». «Ti amo anch'io, Laura, lo sai.» Non fu facile per nessuno dei due chiudere la conversazione. Posarono il ricevitore quasi contemporaneamente. Laura rimase per un po' sopra pensiero, in preda all'eccitazione fisica quasi adolescenziale che sapeva sempre suscitare in lei la voce lontana del suo compagno. Per soffocarla prese il romanzo contraffatto e si immerse nella lettura, sperando che fosse noiosa e la facesse addormentare. Ma sapeva già che non sarebbe stato così. Dal diario di Antonio Fedeli. Venezia. 16 ottobre 1788 È sera, cercherò di riassumere gli avvenimenti di questa giornata così ricca di sorprese. Nel dormiveglia del primo mattino, i colpi all'uscio mi sono sembrati martellate sulla testa. Le guardie del Doge hanno fatto irruzione nella mia casa prim'ancora che mi alzassi dal letto. Dietro di loro è entrata la marchesa di Asolo, scortata da un ufficiale. «Ecco l'uomo che ha cercato di abusare di me!» ha esclamato teatralmente, puntandomi l'indice contro. Mi è quasi venuto da ridere nel ricordo di quando, come una scrofa infoiata, mi incitava a possederla mugolando frasi irripetibili. Certo, le ultime parole che le avevo rivolto non erano degne di un gentiluomo, ma tanta era la contentezza per il nuovo incarico e, per converso, tante le umiliazioni impostemi dalla signora, che mi sentivo perfettamente giustificato. Tuttavia l'accusa avrebbe potuto costarmi la vita. Dopo avermi consentito di vestirmi sommariamente - per questo ho con me il diario, che tengo sempre in una tasca -, le tre guardie mi hanno preso in consegna, stringendomi i cavallotti attorno ai polsi. Ho tentato un abbozzo di resistenza, ma senza esito. Mi hanno trascinato verso il Canal Grande, dove ci aspettava una gondola. La nostra destinazione erano sicuramente le carceri dei Piombi. Due guardie si sono sedute davanti a me, la terza al mio fianco. L'ufficiale invece si è allontanato con la marchesa per la denuncia al magistrato. La gondola ha cominciato a muoversi, ma avevamo fatto soltanto poche centinaia di metri in direzione delle carceri quando una veloce scialuppa a sei remi ci ha affiancato.
L'azione è stata fulminea. Cinque uomini mascherati e armati di bastoni sono balzati all'arrembaggio. Prima che i miei guardiani potessero mettere mano alle armi, gli assalitori li avevano già sopraffatti con violente randellate alla testa. «Venez, vite!» mi hanno ingiunto, liberandomi le mani e conducendomi al sicuro sulla loro scialuppa. Nessuno, dalle rive o dalle altre imbarcazioni, abbastanza distanti, si era accorto di niente, e ci sarebbe voluto ancora tempo prima che qualcuno potesse dare l'allarme. Sono stato nascosto in un doppio fondo sotto finte ceste di ortaggi. Ho capito che correvamo per i canali, finché la luce esterna non ha smesso di filtrare fino al mio nascondiglio. Sempre rivolgendosi a me, il capo dei miei salvatori mi ha annunciato: «Maintenant vous êtes à l'abri de tout, Monsieur Fedeli». Uscito dal doppio fondo, mi sono visto indicare un solido portale, che chiudeva il rimessaggio interno di un palazzo. «Juste aujourd'hui», ha continuato il mio salvatore, «ho inviato una staffetta a Parigi per riferire al marchese di Mont Brouillard che tra pochi giorni arriverete. Ho dovuto fare una scelta», e così dicendo l'uomo si è tolto la maschera che gli nascondeva parte del viso. «Piuttosto che deludere il marchese, ho rischiato la possibilità di un incidente tra Venezia e Parigi. Rimedierà la nostra diplomazia. In ogni caso sono sicuro di avervi risparmiato una brutta avventura.» «La mia gratitudine sarà eterna, barone. Senza il vostro intervento non sarei probabilmente uscito vivo dai Piombi.» «Non mi dovete niente, signor Fedeli. Non dubito della vostra innocenza e non sopporto l'idea che un innocente venga condannato. Ho visto Sua Grazia la marchesa in una posizione canina che aveva ben poco di aggraziato. Certo, avrei potuto testimoniare davanti al giudice ciò che ho avuto modo di sbirciare attraverso la porta socchiusa, ma non possiamo permetterci i tempi della giustizia. Il lavoro presso l'hôtel particulier del marchese è a buon punto: vi basterà poco per terminarlo. «Questa notte vi fermerete nel mio palazzo», concluse il nobiluomo. «Nessuno vi verrà mai a cercare qui. Intanto penseremo al modo più sicuro per portarvi a Parigi.» Milano. Luglio 199... Marpessa aveva insistito per accompagnarla fino al controllo passaporti.
Il volo da Milano per Miami partiva verso mezzanotte e, per trascorrere il pomeriggio, Laura aveva pensato di fare una visita alle vie eleganti del centro, via Montenapoleone, via della Spiga e dintorni. La passeggiata tra le boutique di Armani, Versace, Krizia e colleghi si era convertita in un autentico safari di acquisti, con l'aggiunta di una nuova valigia di Fendi al bagaglio. Le due donne ebbero tempo di scambiarsi soltanto poche parole sugli avvenimenti della serata precedente e sulla festa a bordo della Rosa del Deserto. Diverse questioni rimasero in sospeso. In particolare, ciò che era capitato a Oswald Breil. L'auto dell'ambasciata d'Israele aveva raggiunto la periferia settentrionale di Roma. Sara Terracini stava sonnecchiando da mezz'ora. Aprì gli occhi bruni e si stirò pigramente le braccia. Oswald le sorrise: «Buongiorno, signorina Terracini!» «Dove siamo?» chiese lei, guardando fuori del finestrino. «Tra mezz'ora arriveremo sotto casa tua.» Presa da un moto d'affetto, Sara si girò e lo baciò su una guancia: «Grazie, Oswald. Con questo weekend ti sei fatto perdonare tutte le cene promesse e mai mantenute. Peccato per il tuo bagno fuori programma. Ma un po' di brivido non fa male». «Condisce la vita», commentò filosoficamente Breil. Ma insistette: «Allora, accetti?» «Oswald, ho il lavoro, il laboratorio, il coordinamento dei collaboratori...» «A due personaggi come te e Laura basteranno pochi giorni per confermare o smentire le nostre ipotesi.» «Certo, ci presentiamo a Parigi con la Nikon al collo e un paio di badili, e ci mettiamo a rovistare in cerca di un multimillenario candelabro d'oro che dovrebbe pesare tra i cinquanta e i settanta chili.» «È già tutto organizzato. Individuare la zona di nostro interesse non è stato difficile. La chiesa di Saint-Cyprien non esiste più, ma la tua ipotesi circa quale potesse essere si è rivelata esatta. Sei stata il solito genio. Adesso sappiamo esattamente dov'era e, di conseguenza, dove dobbiamo cercare. Rimaneva un problema: si era salvata la sottostante cripta? Be', posso darti una splendida notizia. Sotto la zona dove si levava la chiesa c'è una parte delle catacombe di Parigi.» «Catacombe?»
«Proprio. Oh, niente a che vedere con quelle di Roma. Sono praticamente soltanto un ossario, creato nelle cave di pietra che ci sono sotto la città e utilizzato a partire dal Settecento, poco prima della rivoluzione francese. Da diverso tempo, almeno parzialmente, sono state restaurate e aperte alle visite del pubblico. Ma si valuta che l'area di questa zona aperta sia pari a un settecentesimo dell'estensione totale. Perché non rendere accessibili altre zone? «In base a questo assunto, attraverso una società amica abbiamo provveduto alla donazione di una bella somma da destinare al restauro della zona delle catacombe sotto la non più esistente chiesa di nostro interesse. E se i lavori saranno coordinati, almeno all'inizio, da una stimata esperta di restauro di oggetti antichi, come te, e dalla proprietaria del Museo di Reperti Antichi di Key Biscayne, acquisiremo da un lato un maggiore credito presso le autorità parigine e, dall'altro, la quasi certezza che, se in quelle catacombe è nascosto qualcosa, voi due lo scoverete.» «Abbiamo provveduto alla donazione... L'ente nazionale israeliano per gli idrocarburi, vero?» chiese Sara in tono canzonatorio. «Vabbè, sorvoliamo anche questa volta. Comunque, brrr, catacombe. Che impressione. Di' un po', Laura ha accettato?» A questo punto, che cosa poteva importare un'altra piccola bugia? «Con entusiasmo.» «D'accordo. Se non altro, per una volta non mi rovinerò la vista con lo schermo di un computer ma con il buio di un ossario puzzolente.» «Vuoi dire che accetti?» «Quanto tempo mi lasci per prepararmi a partire?» «Dieci giorni.» «Maledizione, mi hai incastrato un'altra volta.» Paul Craigh stava percorrendo frettolosamente il molo del porticciolo di Portofino. Se non voleva perdere il volo per Miami doveva correre. Era più che soddisfatto. L'incontro con Fasatne aveva superato ogni sua aspettativa. Aveva ricevuto proposte che potevano trasformare radicalmente la sua vita: la rete televisiva satellitare del libanese avrebbe fatto di lui uno degli anchorman più pagati degli Stati Uniti, con licenza di valersi di un suo staff e di un alter ego di sua fiducia. E per questo ruolo aveva già in mente Vincent Duffy, il cronista che con le sue indagini aveva fatto luce sul caso della missione spaziale STS 74. Per il momento, comunque, preferiva tenere in sott'ordine la condizione
posta dal finanziere libanese. Del resto, le idee di Fasatne su certe persone corrispondevano alle sue, e comunque aveva già deciso da tempo di tenerle nel mirino delle sue indagini. Sapeva già quale sarebbe stata la sua fonte di notizie: Laura Joanson. Laura salì la scaletta a chiocciola che conduceva al ponte superiore del Boeing 747, verso la cabina di pilotaggio e la Top class. Dovette riconoscere che le comodità offertele dall'editore per questo viaggio non erano nemmeno paragonabili al trattamento in classe turistica, o al massimo business, cui era abituata. Non che le mancassero i mezzi per permettersi quegli agi, ma un senso di austerità morale le vietava di spendere fino al doppio di un normale biglietto aereo per poche ore di maggior comodità. Era stato l'ufficio di Marpessa a riservarle quel posto. La hostess era una giovane di tonalità brune - afroamericane o più probabilmente caraibiche, valutò Laura -, molto bella e dal fisico slanciato. Riconobbe subito la scrittrice e, manifestandole calorosamente la sua ammirazione, la fece accomodare in una poltrona singola verso il fondo e non in una delle doppie, come prevedeva la prenotazione. Paul Craigh raggiunse la Top class pochi minuti più tardi. Il suo sguardo scorse per la saletta e finalmente si posò su Laura, già assorta nella lettura di un romanzo. Con un moto di disappunto si accorse che l'assegnazione alla scrittrice di una poltrona singola gli impediva di viaggiare a fianco a fianco con lei. Chi aveva prenotato il viaggio gli aveva assicurato una situazione del tutto diversa. Si scambiarono un cenno di saluto, ma la scrittrice tornò subito a immergersi nella lettura, facendogli capire che non era disponibile alla conversazione. Parigi. 2 novembre 1788 In città sono cambiate poche cose, ma non sarebbe possibile non avvertire l'aleggiare di una cappa di tristezza e apprensione. Mio padre, veneziano, si era stabilito a Parigi nel 1774, quando avevo soltanto tredici anni, intraprendendovi un proficuo commercio di opere d'arte non propriamente impeccabili sotto il profilo della provenienza. Lavorava soprattutto con un pittore subentrato nella bottega del famoso JeanRobert Ango, quando questi aveva deciso di andare a cercare fortuna in Italia.
Era stato proprio Ango, di passaggio per Venezia, a indirizzare mio padre alla sua bottega parigina di un tempo. Ma eravamo arrivati troppo tardi. Il pittore amico di Ango era morto, e al suo posto nell'atelier lavorava un altro pittore, molto giovane e molto bravo: Pierre-Denis Lanvin. Un maestro impareggiabile nel guardare una tela e riprodurla a memoria, chiunque l'avesse fatta. Così a soli quattordici anni ho cominciato un lungo apprendistato presso la sua bottega d'arte, diventando un suo inseparabile amico e compagno di lavoro, nonostante la differenza d'età. A volte sono addirittura arrivato a dubitare della natura del suo affetto per me, ma non è mai accaduto niente che potesse confermare questi sospetti. A maggior ragione mi spiace di non aver potuto leggere la lettera che mi ha indirizzato. In ogni caso gli ero molto affezionato anch'io. Con lui ho affinato il mio talento, imparato a restaurare e copiare oggetti e tele, trascorso lunghe notti insonni a discutere in compagnia di una bottiglia di liquore all'anice. Insieme abbiamo decorato e arredato molti hôtels particuliers sul tipo di quello che, al momento della sua sfortunata morte, Pierre-Denis stava allestendo per il marchese di Mont Brouillard, e che adesso sono stato chiamato a completare. Ma un giorno Lanvin decise inopinatamente di chiudere il suo atelier parigino per trasferirsi in un remoto paesino della Linguadoca, Rennes-leChâteau. Mi spiegò che gli era stato affidato il restauro completo di una chiesa, un lavoro a suo dire importante e ben remunerato. Ma non avrei mai potuto capire come si potesse lasciare Parigi per la campagna. Non volli seguirlo nell'impresa. E del resto non me lo chiese nemmeno. I nostri rapporti si erano un po' raffreddati. Visto che nel frattempo mio padre era morto e nulla mi tratteneva più in Francia, decisi anch'io di tentare la fortuna nella mia terra d'origine. Con il risultato che sono finito tra le lenzuola della marchesa di Asolo e di altre sue incartapecorite sodali. Che terribili errori si possono commettere nel fiore della gioventù. Ma per fortuna eccomi di nuovo a Parigi. Durante il viaggio ho avuto modo di conoscere meglio il barone d'Armance. Ha trentasei anni, soltanto nove più di me, e si trova evidentemente nelle grazie di personaggi eminenti di corte. È un uomo gradevole e affabile, con uno straordinario gusto per le azioni arrischiate. Quando siamo arrivati in città era ormai sera. Nelle strade c'era poca gente. Ho notato sguardi a dir poco astiosi, quando qualcuno era costretto a lasciare il passo alla nostra carrozza con gli stemmi nobiliari.
Questa notte alloggeremo nella residenza parigina del barone e domani andremo insieme nell'hôtel particulier del marchese di Mont Brouillard, dove conoscerò il grande signore e mi metterò immediatamente a sua disposizione. Laura alzò lo sguardo dal volume. Paul Craigh era in piedi davanti a lei, l'immancabile sigaretta nella destra. «Perdoni il disturbo, signora Joanson, ma le sarei davvero grato se mi consentisse di rivolgerle alcune domande.» La scrittrice non aveva intenzione di concedere interviste, soprattutto a uno dei giornalisti più smaliziati degli Stati Uniti. «Vorrei provare a dormire un po', signor Craigh, mi scusi. Magari quando saremo più vicini a Miami, se mi sarò svegliata, potremo parlare un po'.» Craigh stava per replicare qualcosa, ma fu ancora una volta la hostess a liberare Laura dalla situazione imbarazzante. «Chiedo scusa, signore, ma in questo settore è vietato fumare. Inoltre stiamo per incontrare turbolenze. Le devo chiedere di tornare al suo posto e di allacciare la cintura di sicurezza.» Probabilmente la giovane bruna aveva sentito la risposta di Laura. Infatti, non appena Craigh le ebbe girato la schiena, scoccò un sorriso alla scrittrice e le strizzò l'occhio. Laura tornò a immergersi nei fasti dell'Ancien Régime. Parigi. 3 novembre 1788 Una moltitudine di persone si aggirava nei giardini esterni della sontuosa dimora del marchese di Mont Brouillard, oltre le cui cancellate si vedevano molti mendicanti. Le carrozze andavano e venivano. Gustave de La Croix e io abbiamo però preferito entrare a piedi, sebbene il nome consentisse l'accesso in carrozza al mio nobile accompagnatore. Il barone d'Armance ha presentato le sue credenziali ai militari svizzeri che presidiavano gli accessi. Uno di essi ci ha accompagnato di persona al cospetto del padrone di casa. Non mi aspettavo un'accoglienza affabile, ma i modi del marchese sono stati perlomeno poco cordiali. Ha un'aria scopertamente effeminata e atteggiamenti altezzosi. «Alloggerete nell'atelier del vostro sfortunato predecessore», mi ha informato in toni freddamente burocratici. «Completerete le decorazioni del mio nuovo hôtel particulier, che Lanvin aveva cominciato con criteri di mio completo gradimento. Vi invito pertanto a seguirli scrupolosamente.
Lanvin ha lasciato una gran massa di abbozzi, appunti e carte, che vi raccomando di studiare con la massima attenzione, riferendomi punto per punto. Dipenderà dalle vostre capacità, oltre che dai tempi e dai risultati, se riuscirete a guadagnarvi altri incarichi. Riceverete il soldo settimanalmente, dietro verifica dello stato dei lavori.» Quando siamo usciti dalla sontuosa dimora, Gustave mi ha scoccato un'occhiata d'intesa: «La marchesa di Mont Brouillard non è mai stata un esempio di cordialità». Correva infatti voce, mi disse, che il nobiluomo fosse interessato a certi giovani gagliardi e compiacenti che riceveva nottetempo in diversi hôtels particuliers sparsi per tutta la città, pagandoli profumatamente. Quando ho raggiunto il mio nuovo alloggio, dove sto scrivendo queste righe, era sera. Ma mi rendo conto che la stanchezza non mi consente di abbandonarmi alle descrizioni. La casa è grande e luminosa, soprattutto nello stanzone superiore che serve da atelier, ma è in un disordine stupefacente. Sembrerebbe quasi che qualcuno vi abbia rovistato alla ricerca di qualcosa. Forse le guardie, dopo la tragica morte del mio sfortunato amico. Ci vorrà un bel po' perché io possa farvi ordine, ma è comunque molto meglio dei due luridi ambienti in cui vivevo a Venezia. Devo poi dire un'altra cosa: da quando mi è stato assegnato questo incarico non ho più toccato vino. Quello che consideravo il mio nettare, l'essenza stessa del mio sangue, sembra non essermi più necessario. Di sicuro sono l'unico artista che possa continuare con mano identica il lavoro di Pierre-Denis Lanvin, anche se con il passare degli anni i nostri stili si sono andati affinando per strade diverse. Ma siamo cresciuti alla stessa scuola di trompe-l'oeil, per così dire. Parigi. 4 novembre 1788 Questa mattina ho cominciato molto presto a cercare di mettere un po' d'ordine in quello che è diventato il mio atelier con abitazione. Alla luce del giorno, devo dire che l'impressione fatta dall'ambiente è del tutto diversa. Anche in questa stagione, il sole che entra dai finestroni è letteralmente glorioso. Sono sicuro che qui dentro lavorerò e abiterò benissimo. Anche se, a dire il vero, il lavoro lo svolgerò soprattutto in un altro posto, ovvero nell'hôtel particulier dell'accidioso marchese, che andrò a visitare oggi pomeriggio. Mentre ero indaffarato a cercar di venire a capo dello spaventoso disor-
dine, ho sentito il suono sordo del batacchio della porta. Qualcuno stava bussando educatamente. Sono andato ad aprire e mi sono trovato davanti un personaggio del tutto inusuale. Un orientale. Un uomo di corporatura piuttosto esile, ma che non dava un'impressione di debolezza. I tratti asiatici erano ancor più marcati dal colore scuro della carnagione. A prima vista non si sarebbe potuto dargli un'età. Indossava una tunica rosso porpora che stringeva al petto con la destra, una mano scarna e nervosa. «Qui êtes-vous?» gli ho chiesto. «J'espère que vous me comprenez», ho aggiunto. «Bien sûr, Monsieur, je vous comprends», ha risposto con un curioso inchino, da cui sembrava emanare il senso di una cultura millenaria e di una grande saldezza morale. «Mi chiamo Namling», si è presentato con un accento arcanamente melodioso. «Ho avuto l'onore di lavorare con Pierre-Denis Lanvin, prima della sciagura. E, avendo visto che l'atelier è stato riaperto, mi sono permesso di venire a fare una visita. Non si sa mai, forse potrei essere utile anche a voi, signor...» «Il mio nome è Antonio Fedeli. Mi è stato affidato il compito di portare a termine l'opera dello sfortunato amico Lanvin, con cui ho lavorato anch'io parecchio tempo fa. In che cosa pensate di potermi essere utile, Namling? E, anzitutto, da dove venite?» «Da una terra lontana, a Oriente, circondata da montagne invalicabili e abitata da uomini che cercano la pace e Dio. Si chiama Tibet, maestro Fedeli, e viene detta 'La Terra delle Nevi'.» I suoi occhi neri e sottili erano colmi di saggezza. Parlava in un tono pacato, in consonanza con il senso di sicurezza che emanava da tutta la sua persona. «In che cosa posso esservi utile?» ha continuato. «In molte cose. Tanto per cominciare, so dove sono i disegni preparatori del maestro Lanvin per le decorazioni dell'hôtel particulier del marchese di Mont Brouillard, se è questo il lavoro che vi è stato chiesto di completare.» «Esattamente quello, Namling. E, certo, se potete indicarmi dove sono questi disegni, mi farete risparmiare un bel po' di tempo.» Mentre parlavo, mi sono accorto delle occhiate inquiete, per non dire angosciate, che l'orientale faceva scorrere sul bailamme che ci circondava. «Siete stato voi?» mi ha chiesto finalmente, guardandomi con espressione meravigliata e addolorata. «Oh, no di sicuro, Namling. Anzi, stavo giusto cercando di mettere un po' di ordine. Avete idea di che cosa possa essere successo qui dentro?»
«No», ha risposto scuotendo la testa. «Forse il marchese di Mont Brouillard ha mandato qualcuno a cercare i disegni del maestro Lanvin, per far continuare i lavori. Ma dubito che li abbiano trovati. Venite.» Ci siamo fatti largo tra l'incredibile disordine, e Namling mi ha guidato in un angolo dov'era stato ricavato un piccolo studio delimitato da tre eleganti scaffaletti che racchiudevano un grande scrittoio, dietro a cui la parete era campita dallo sporgere di due finte colonne doriche a stucco. Accostatosi a quella sulla destra, ha premuto con il piede su una piastrella del pavimento, e la metà inferiore della colonna è girata su se stessa, rivelando una nicchia poco profonda ma alta come un uomo e divisa in quattro ripiani, pieni di carte, disegni e bozzetti. «Eccoli», ha detto. A parte le altre carte, che per il momento ho lasciato dov'erano, i disegni preparatori erano almeno un centinaio. Rivedere il tratto fermo e preciso di Lanvin mi ha fatto lo stesso effetto che incontrare il suo spettro. Ancora oggi i suoi disegni mi danno l'impressione di volermi parlare. Ne ho scelto una ventina e, imparato come funziona il meccanismo, ho fatto girare di nuovo su se stessa la colonna. Una volta chiusa, nessuno avrebbe mai potuto capire che celava una nicchia segreta. Ho sorriso con malinconia, pensando che la creazione di queste nicchie segrete era una delle passioni predominanti del mio scomparso amico, quasi una mania. Quindi, seguito da Namling, mi sono avviato per la ripida scala che porta al piano superiore, ovvero all'atelier vero e proprio, che è molto più luminoso. Stavo cominciando a esaminare i progetti, mettendo da parte quelli appena abbozzati, quando dal basso ho sentito entrare qualcuno che non si era dato la pena di bussare. «Siete al lavoro, signor Fedeli?» mi ha chiesto una voce stentorea. «Certo», mi sono precipitato a rispondere, avendo riconosciuto il marchese di Mont Brouillard. «Stavo appunto cominciando a riordinare ed esaminare i bozzetti del maestro Lanvin, come mi avete raccomandato di fare.» Così dicendo ho disceso in tutta fretta la scaletta interna e, giunto al cospetto del marchese, mi sono esibito in un goffo inchino. «Ah, li avete trovati», ha replicato altezzosamente il nobile. «Bene, vi saranno molto utili. Posso vederli? Vorrei indicarvi quelli che mi sono sembrati i più interessanti, in modo che possiate basare il vostro lavoro essenzialmente su quelli. In ogni caso, signor Fedeli, mi auguro che il vostro lavoro sia rapido e puntuale. Da persin troppo tempo aspetto di poter godere la pace del mio buon rifugio, lontano da cure affaticanti e da sguardi e
orecchi indiscreti.» Il messaggio era fin troppo chiaro: mi si chiedeva di porre rimedio ai ritardi e di addossarmi responsabilità non mie. Dovevo mettermi al lavoro, e subito. «Namling», ho gridato rivolto verso l'atelier, «potete per favore portare qui i disegni del maestro Lanvin? Il signor marchese desidera vederli.» Lo sguardo con cui il nobiluomo ha accolto l'orientale mi ha stupito profondamente. Uno strano, incomprensibile misto di scherno e inquietudine. «Siete qui anche voi?» ha chiesto. «Dove eravate scomparso? Comunque, dalla vostra presenza deduco che continuerete a lavorare qui. Tutto sommato ritengo sia un bene. Conoscevate bene il maestro Lanvin e tutti i suoi segreti.» Il modo in cui il marchese di Mont Brouillard ha sottolineato l'ultima parola mi ha quasi fatto accapponare la pelle. Quali segreti? Mi sono ripromesso di chiedere spiegazioni all'orientale non appena il mio altezzoso committente se ne fosse andato. Ma ancora di più mi ha stupito la sguardo di delusione che ho visto formarsi negli occhi del marchese a mano a mano che faceva scorrere i fogli con i bozzetti di Lanvin. «Tutto qui?» mi ha chiesto alla fine, con un'espressione di vero e proprio furore. «Non sono quelli che interessano a me», ha concluso seccamente. «Da questa robaccia potrete trarre ben poca ispirazione. Cercate meglio, e venite a mostrarmi tutto ciò che troverete. Vi spiegherò io personalmente quali sono i progetti di Lanvin che mi piacevano di più e sui quali dovrete basarvi. Cercate meglio, ho detto. Questo disordine è semplicemente vergognoso.» Ho ritenuto opportuno non replicare che lo stato della mia nuova dimora non dipendeva certamente da me. Non so inoltre quale istinto - di fastidio o di autodifesa - mi abbia suggerito di non rivelare al marchese che quella che gli avevo mostrato era soltanto una piccolissima parte dei documenti lasciati da Pierre-Denis Lanvin. Ho deciso di botto che prima di mostrargli gli altri era opportuno che li esaminassi a uno a uno con la massima attenzione. «Ci sono altri disegni o carte che non ho visto?» ho chiesto all'orientale, non appena siamo rimasti soli. Senza che nessuno di noi due lo avesse esplicitamente detto, era ormai chiaro che era diventato il mio assistente, come lo era stato di Lanvin. Ho capito che mi sarebbe stato prezioso.
Namling ha trovato un altro fascio di carte, in una seconda nicchia che si è aperta non più nella stanza inferiore ma nell'atelier. Non appena avrò terminato di stendere queste rapide e disorganiche note mi metterò a esaminare e catalogare il tutto con la massima meticolosità. Oceano Atlantico. Luglio 199... Malgrado l'interesse del testo, le palpebre di Laura Joanson stavano cominciando a farsi pesanti. La notte prima aveva dormito pochissimo. Si allungò sulla comodissima poltrona e si abbandonò al sonno. Craigh, che continuava a tenerla d'occhio con sguardi ansiosi, non appena se ne accorse si alzò dalla sua poltrona. Fingendo di sgranchirsi le gambe lanciò ancora alcune occhiate verso di lei e poi si mise a passeggiare tra i sedili. Le luci erano attenuate. Alcuni faretti direzionali illuminavano le lettura dei passeggeri che non riuscivano a dormire. Convinto che nessuno lo stesse osservando, Craigh agì di scatto, chinandosi verso la borsa da viaggio di Laura. La prima cosa che gli capitò tra le mani fu il romanzo. Ma avvertì una presenza alle sue spalle. Si alzò stringendo il volume tra le dita e affrontò con un'espressione innocente lo sguardo inquisitore della hostess. «Ho visto che alla signora Joanson era caduto questo libro», spiegò sottovoce, mostrando il volume. La giovane di colore glielo tolse di mano senza una parola e lo posò tra le braccia conserte della scrittrice. I movimenti bastarono a svegliare Laura. Girò lentamente la testa e aprì entrambi gli occhi. Craigh preferì dileguarsi come se niente fosse, benedicendo il libercolo che lo aveva tolto da una situazione più che imbarazzante. Tangula Shan. Racconto di Namling Namling si muoveva con una leggerezza accentuata dal fluttuare della veste nel vento primaverile. Il discepolo era onorato che il lama gli raccontasse quei frammenti della sua vita, avventure tanto lontane nel tempo e nello spazio, personaggi che alla sua giovane mente apparivano straordinari. Scoscese rupi incombevano sul monastero da ogni lato. Il verde intenso del prato e il primo caldo primaverile riempivano il ragazzo del languore
che dà libera stura al divagare di fantasie e pensieri. «Il maestro Fedeli aveva capacità quasi uniche di decoratore di ambienti», continuò Namling. «I suoi stucchi sembravano vivi. Se non fosse stato per la vita dissipata che aveva condotto e per le disavventure che lo colpirono in seguito, avrebbe vissuto un'esistenza di grande agio. Ma notai presto che in lui c'era qualcosa di strano.» Miami International Airport. Luglio 199... Kevin Dimarzio camminava nervosamente avanti e indietro nella zona arrivi dell'aeroporto. Una muraglia di teste gli precludeva la vista. Ma finalmente la vide. Intravide le sue gambe tra una selva di altre gambe, scorse i suoi capelli biondi svettare al di sopra delle teste, e finalmente Laura gli fu davanti, sbucando dalla calca. Era bella. Come sempre, forse persino di più. Le andò incontro, sentì il suo profumo, capì di amarla. Disperatamente. Avrebbe voluto stringerla appassionatamente, baciarla ovunque, ma si trattenne, limitandosi a una carezza e a un rapido bacio. Lei invece lo strinse a sé con ardore. Kevin avvertì un fremito. Tenuta per mano dalla giovane governante, Chiara camminava con grande incertezza, ma i suoi passi si fecero più rapidi. Le manine si aggrapparono alle gambe della madre come se fossero un'ancora di salvezza. Laura si chinò e la prese in braccio. Chiara balbettò poche sillabe, ma alla madre sembrarono il più bel discorso di benvenuto. 5 Londra. Sede locale del Mossad. Luglio 199... Quando gli mostrarono il suo nuovo ufficio presso l'ambasciata, con due telefoni riservati più un terzo su una linea normale, una segretaria e l'accesso diretto alla banca dati dell'Istituto, Oswald sorrise, ma non soltanto per la battuta del funzionario che lo aveva accompagnato lì. «Con quello, maggiore», aveva detto indicando il telefono su linea non criptata, «le consiglio di ordinare soltanto il tè al bar dell'angolo. Ma stia attento ai pasticcini: potrebbero avere orecchie.» No, Oswald pensò soprattutto ai tanti momenti difficili e rischiosi della sua carriera. Alle disperate richieste rimaste senza risposta. A tutte le volte che si era trovato a dover fronteggiare da solo un pericolo mortale.
«Ah, i privilegi del potere», esclamò, abbandonandosi su una poltrona. Adesso ogni suo messaggio o richiesta arrivava a Gerusalemme e veniva smistato al destinatario finale con codici usati da non più di sei o sette persone in tutto il mondo. Il capitano Luria entrò dopo aver bussato. Oswald si illuminò in viso. «Quella giacca di tweed ti dona meno della divisa di autista del Plaza Sheraton. Ben arrivato, Chaim, accomodati. Come sta Timna?» chiese tendendogli la destra. «Se ti riferisci a mia moglie, zio Oswald, non so se sono ancora legalmente sposato, dato che non la vedo da più di tre settimane. Ma... stai invecchiando? Non mi hai ancora rimproverato per gli otto minuti di ritardo.» La luce che brillava nello sguardo del giovane ufficiale era di ammirazione incondizionata. Breil andò subito al sodo. «Sai qualcosa di arte e arredamento, Chaim?» «So distinguere il rosso dal verde perché esistono i semafori. Perché me lo chiedi, maggiore?» «Che ne diresti di passare una decina di giorni in biblioteca a dare una spolveratina alle tue nozioni? La prossima sceneggiata ti vuole nei panni di un professore americano di storia dell'arte, specializzato in arredamento e oggettistica della fine del XVIII secolo.» «Che parte avrò? Sarò uno dei protagonisti o soltanto una comparsa?» Parlavano la stessa lingua, si capivano al volo. «Purtroppo i ruoli dei protagonisti li ho già assegnati, Chaim. Il tuo compito sarà tenerli d'occhio e assisterli con la massima discrezione. Le scene sono vecchiotte, e non vorrei che si rompesse qualche tavola o cadesse qualche contrappeso.» Luria non fece niente per mascherare la delusione. Oswald se ne accorse e gli spiegò la situazione con la massima sincerità. «Ho bisogno di te, Chaim. Forse è soltanto una sensazione, ma temo che una minaccia incomba su due donne che, oltre a essere molto belle, sono le persone a cui voglio più bene in questo mondo. Non vorrei per nessuna ragione che dovessero trovarsi in pericolo per causa mia.» «Così sia, maggiore. In realtà ti devo confessare che mi ero un po' stufato del mio attuale incarico. Preferisco di gran lunga guardare le spalle a due belle donne che continuare a fare il capo degli autisti del premier, con un giubbetto antiproiettile che farebbe sudare anche al polo Nord.» «Laura Joanson e Sara Terracini, Chaim», riprese Breil. «Ecco i due te-
sori da custodire. Ma abbiamo poco tempo. Già domattina vorrei vedere qui da me un professore americano. Mi raccomando, però, non marcare troppo il personaggio. Tra dieci giorni, a Parigi, dovrai saperne abbastanza da essere in grado di non sfigurare in qualsiasi conversazione con esperti del settore.» «Sarà fatto. A domani per la prova dei costumi.» Key Biscayne. Miami. Luglio 199... Le lenzuola fresche e il piacere di essere nel suo letto le diedero soltanto una sensazione epidermica. Niente di più. I sensi di Laura era tesi per riceverlo. Si schiuse davanti a Kevin come un fiore dinanzi al sole. Lo sentì premere, giocare, esitare, fingere, poi se lo sentì dentro. Si sciolse nel piacere. «Ti ho pensato... ti ho sognato...» mormorò. Lui la afferrò ai fianchi. A ogni ansito di lei corrispondeva un affondo potente. L'orgasmo giunse travolgente. «Ti amo, Kevin», gridò. «Ti amo.» Kevin aveva un impegno morale, legato a un'antichissima tradizione di famiglia che risaliva ai suoi antenati italiani Di Marzio e attraverso loro fino alla Roma imperiale, nella persona di quello che era ritenuto il fondatore della dinastia, il legionario Giunio. Di tutto ciò, Kevin e la stessa Laura avevano avuto conferma dalla trascrizione in spagnolo secentesco del diario dell'antico romano, rintracciata da Oswald Breil e decifrata da Sara Terracini nel suo istituto di ricerca e restauro. Il generale Dimarzio voleva sposarsi in Italia, nella terra ligure dei suoi avi. Per questo non aveva ancora regolarizzato la sua unione con Laura: i pressanti e avventurosi impegni professionali di entrambi non avevano mai concesso loro di recarsi in Italia insieme. E adesso Laura gli stava rivelando che avrebbero dovuto rimandare ancora. Farfugliò qualche frase confusa, in cui le uniche parole chiaramente distinguibili erano «Parigi» e «pochi giorni». L'espressione di Kevin mutò di colpo. «Mi stai dicendo che sei tornata a casa soltanto per un cambio di biancheria? Che cos'hai in mente di fare?» Seguirono alcune mezze frasi incerte, ma finalmente Laura si decise a vuotare il sacco, non spiegando però che dietro al suo nuovo impegno c'era ancora una volta l'abile regia dell'inafferrabile omino. Kevin andò su tutte le furie.
«Che cosa c'entra un'oceanografa con un restauro di catacombe? Che cosa puoi fare? Asciugare le macchie di umidità?» «Sarebbe un'esperienza nuova», cercò di ribattere Laura. «Inoltre lo sponsor del progetto mi pagherebbe duemila dollari al giorno. E si tratterebbe di un impegno di soli quindici, venti giorni...» Ma la stessa scarsa convinzione con cui lo disse spinse Kevin a incalzarla in tono ancora più infastidito. «Oh, certo, è una cifra che accrescerebbe in maniera sostanziale il tuo conto in banca. Puoi fare benissimo a meno di quei trentamila dollari. I rendiconti semestrali dei tuoi diritti d'autore...» «Quando sono uscita dall'università ero orfana di entrambi i genitori. Per inciso, lo sai, sono cattolica come te. Una specie di mosca bianca, viste le mie origini scandinave. Ma la religione dei miei avi era quella, ed è anche la mia. Comunque, disponevo soltanto di una laurea, di una grande passione - anzi, due - e di una piccolissima eredità. Ed è grazie alle mie due passioni - scrivere romanzi e fare ricerche -, se oggi posso concedermi una vita agiata. Non voglio rinunciare a nessuna delle due.» Si accorse di essere andata troppo in là. Senza volere aveva sottolineato il fatto che guadagnava molto di più di lui. Cercò subito di correggersi, addolcendo il tono. «Si tratta soltanto di pochi giorni.» «Quando è nata nostra figlia, credevo fosse chiaro che ad accudirla avrebbe dovuto provvedere la madre.» «Kevin, ti prego, non servirti di Chiara ai tuoi fini.» «E quali sarebbero questi fini? Voler vivere con la mia famiglia invece che con una sequela di prefissi internazionali? Sai come crescerà nostra figlia?» «Non le manca niente, perché nessuno di noi glielo fa mancare. E ti prego di non adottare questi toni maschilisti.» «In che senso?» «Nel senso che sei un militare, e per giunta di origini italiane. Ti vengono persino troppo naturali, tanto che non te ne accorgi.» «Non cominciare con il femminismo da rotocalco. Se invece di vivere in duecentotrenta metri quadrati alle Biscayne Towers ti accontentassi dell'alloggio familiare che mi mette a disposizione la NASA...» «No, Kevin, continui a fingere di non capire che queste cose sono secondarie. Per me è importante il lavoro, sentirmi viva e attiva, non... non diventare una specie di elettrodomestico in cui infilare il gettone quando torni a casa. E sta' sicuro che, se mi rendessi conto che il mio lavoro ri-
schia di compromettere l'educazione di Chiara, lascerei perdere tutto. Smetterei persino di scrivere.» Capì che il silenzio accigliato di Kevin equivaleva a un sì: per un massimo di venti giorni, non di più. Ma sapeva che adesso le avrebbe tenuto il broncio per un po'. «È tardi e sarai stanca. Avremo tempo per discutere domani. Buonanotte», tagliò corto lui, girandosi dall'altra parte e scostandosi da lei. Londra. Luglio 199... A volte il sole riusciva a far capolino tra le nuvole. L'acqua scura del Tamigi scorreva lenta, senza curarsi del cielo plumbeo né dei mali degli uomini. Nei millenni aveva visto di tutto. Oswald Breil smontò da un'auto all'altezza della scaletta che conduceva all'argine, ancora animato da una flebile speranza. Il cadavere era infagottato in una giacca sportiva di velluto a coste. Dal taschino spuntava un paio di occhiali in tartaruga. Il viso era leggermente deformato e il torace gonfio. Si sarebbe potuto pensare a un intellettuale, a uno studioso. Lo osservò soltanto un attimo, quindi scosse amaramente la testa e si rivolse al funzionario d'ambasciata che lo accompagnava. «Sì, è Chaim Luria. Avvertirò io stesso la famiglia.» Quando rientrò nel proprio ufficio presso l'ambasciata israeliana era oppresso da un dolore quasi intollerabile. Come dire a Timna che suo marito non sarebbe rientrato dalla missione? Aveva sempre voluto comunicare lui stesso alle famiglie la perdita di uno dei suoi uomini. Ma il caso di Chaim e Timna era diverso: lo consideravano uno zio, si erano conosciuti lavorando alle sue dipendenze. Si erano amati quasi subito e lui aveva assistito alla loro unione nella sinagoga, benedicendola. Sentì trillare il telefono di una delle due linee riservate. Sollevò distrattamente la cornetta. L'inglese del suo interlocutore era perfetto ma un po' rigido e aspirato: un arabo. «Ho appena saputo che uno dei suoi uomini ha avuto una disgrazia. Le porgo le mie condoglianze, maggiore Breil.» «Vedo che ama il gioco forte, Fasatne. Che cosa spera di fare? Di intimorirmi?» «La guerra non l'ho dichiarata io. Lei vuole la mia morte e io mi difendo. Lo farò con ogni mezzo, mi creda, e lei vedrà quali e quanti siano questi
mezzi. Anzi, mi ha fatto piacere scoprire che sa nuotare, perché questo mi costringe a mettere in atto provvedimenti molto più drastici.» «Lei è pazzo.» «Perché? Perché non ho paura di voi e oso sfidarvi? Dispongo di uomini capaci di uccidere chiunque e ovunque. Credo che le converrebbe cercare un'intesa con me.» «No, Fasatne, posso soltanto suggerirle di consegnarsi al più presto a noi per essere sottoposto a un regolare processo.» Il tono di scherno di Fasatne fu sottolineato da una risata rauca. «Lei non ha capito il problema di fondo, Breil: non è nella posizione di dettare condizioni. Guida semplicemente un'organizzazione che mi vuole morto, come tante altre. Mi basta stare un po' più attento. Ed essere più duro. Molto più duro. Mi dia retta. Per adesso le ho soltanto fatto recapitare un biglietto da visita.» «Lei non ha ancora visto il mio, Fasatne.» «Cancellate il mio nome, lasciatemi perdere, e vivremo tutti più tranquilli.» «Le ho già dato il mio suggerimento, e lo considero valido ancora per qualche minuto. Dopo di che agirò.» «Peccato, la ritenevo una persona intelligente. Non cerchi di rintracciare l'origine della telefonata: è inutile. Arrivederci, Breil.» Oswald posò la cornetta senza tradire la rabbia da cui era pervaso. Si impose di ragionare con freddezza. Sapeva quanto Fasatne fosse pericoloso, e adesso aveva addirittura dimostrato una letale capacità di scoprire spostamenti, indirizzi e nominativi di totale riservatezza. Si sentì nuovamente opprimere dall'ombra della morte di Chaim Luria. Il sapore amaro della rabbia misto al desiderio di vendetta. Faticò a ritrovare la calma. Doveva pensare a Timna. Fu riscosso da un nuovo trillo del telefono. Ascoltando, fece quasi un salto sulla sedia. Non avrebbe mai sperato di sentirselo dire. «Abbiamo localizzato il segnale di provenienza», gli comunicò in tono procedurale l'addetto alle comunicazioni dell'ambasciata. «È una zona di mare tra il Libano e Cipro: 34° 13' di latitudine nord e 33° 51' di longitudine est.» «Ti ho beccato!» disse esultando. «La Rosa del Deserto è lì.» Quindi chiese al centralino dell'ambasciata: «La base aerea di Etzion, per favore». Base aerea di Etzion. Israele. Luglio 199...
I due F 15 dell'aviazione israeliana erano affiancati poco fuori dell'hangar sotterraneo, sempre pronti al decollo. Il segnale d'allarme risuonò improvviso nella saletta degli equipaggi di turno. I due piloti e i rispettivi operatori dei sistemi di armamento corsero verso i velivoli. Si infilarono agilmente negli abitacoli, indossando il casco. Pochi istanti dopo i due caccia da combattimento erano sulla pista di decollo. Le turbine Pratt & Whitney scaricarono quasi completamente le ventinovemila libbre di spinta, il sibilo si fece assordante e i due aerei si alzarono nel cielo terso, puntando verso il Mediterraneo. «Quindici minuti al contatto, velocità Mach 1,2. Al momento nessun segnale radar proveniente dal punto indicato», comunicò il maggiore Birkat alla base. I due F 15 volavano a pelo d'acqua, a pochi metri di distanza l'uno dall'altro. «Buongiorno, maggiore Birkat», disse Oswald dalla sala radio dell'ambasciata israeliana a Londra. «Sono Breil e sto comunicando su una linea codificata. Sono stato io a chiedere questa missione. Tra pochi minuti dovreste entrare in contatto visivo con il bersaglio. Dovrebbe trattarsi di un grosso yacht di design modernissimo. Non aprite il fuoco. Ripeto: non aprite il fuoco se non sarete costretti. Tenete sotto controllo i movimenti dell'imbarcazione e costringetela a dirigere verso le coste israeliane.» «Ricevuto, maggiore Breil. Il comandante della base mi ha detto di attenermi ai suoi ordini. Comunque continuiamo a non ricevere alcun ritorno radar dalla zona indicata, né dallo specchio d'acqua circostante.» Oswald fece rapidamente i conti: nei poco più di trenta minuti trascorsi dalla chiamata telefonica, la Rosa del Deserto poteva aver coperto al massimo tra le venti e le trenta miglia. Era davvero strano che i potenti Huges APG 70, i radar ad apertura sintetica in dotazione agli F 15, non riuscissero a individuare un bersaglio lungo ottanta metri. «Siamo sull'obiettivo», comunicò poco dopo il maggiore Birkat. «Nessuna imbarcazione nel raggio di cinquanta miglia. Tra Lamesòs, Cipro, e Sayda, Libano, non c'è altro che mare.» Oswald scosse amaramente la testa. Gli era sembrato troppo facile fin dall'inizio. Erano cascati in un'ennesima trappola di Fasatne. «Rientrate. Molte grazie.» «Dovere, maggiore Breil. Sempre a disposizione». E il pilota tirò a sé la barra, facendo compiere all'aereo un'ampia virata, subito imitato dal se-
condo F 15. Key Biscayne. Miami. Luglio 199... A Miami erano le 3.56 del mattino. La lampada da lettura di Laura era ancora accesa. Kevin non si era mai girato verso di lei, rispondendo con seccati monosillabi di diniego alle sue timide avance di rappacificazione. Finché, per fortuna, non si era addormentato. Meglio così, aveva pensato lei, nonostante tutto. Non le piaceva l'idea che potesse gettare anche soltanto un'occhiata furtiva al falso romanzo. E finalmente si era potuta reimmergere nella vita parigina poco prima della Rivoluzione. Parigi. 11 novembre 1788 Il colpo d'occhio delle specchiere, simmetriche rispetto alle vetrate, era indescrivibile. Vi si riflettevano le decine di invitati, le luci e gli arredi, con uno straordinario effetto scenografico. Gli abiti delle dame emettevano bagliori d'oro dai fili zecchini intrecciati tra pizzi e sete sulle gabbiette delle sottogonne. Il pallore era reso ancora più intenso dai pomelli vermigli e sfumati sulle gote. Le parrucche sembravano sculture protese verso l'alto. In un angolo della sala un complesso di musici diretti dal compositore stava eseguendo alcuni brani di François-Joseph Gossec. Molti dei signori presenti, tuttavia, non mostravano alcun interesse per la musica e, riuniti in un salotto, discutevano di arte, musica, poesia, stili, controversie artistiche o nuove ammissioni al Salon, oppure di filosofia e dell'argomento che ormai infiamma tutti gli spiriti: la temuta o auspicata inevitabilità di un tumulto rivoluzionario. Mi sono molto stupito. Degli stili e delle controversie di cui parlano questi eminenti signori, io non so quasi niente. Durante la mia pur breve assenza sono cambiate troppe cose. E mi stupisce anche il favore che ho sentito manifestare apertamente, in casa di un eminente nobile come il barone d'Armance, nei confronti di un cambiamento radicale della situazione politica. Sembra che lo stesso Gustave non sia alieno da un simile fervore. Contro il suo stesso mondo? No, non capisco davvero più niente. Ma sarà opportuno che io spieghi come mai fossi intimidito ospite di una serata in onore del grande pittore Jacques-Louis David. Quel mattino ero nell'hôtel particulier, intento da diversi minuti a studiare un bozzetto molto particolare di Pierre-Denis Lanvin, che riproduceva la
cripta di una chiesa a me ignota. Non capivo che senso avesse, né come si inserisse nei progetti dei dipinti con cui adornare le pareti di una dimora destinata a convegni ben lontani da qualsiasi spirito religioso. Il mio sguardo si è fissato ancora una volta sul fonte battesimale, che, al centro della cripta, sembrava godere di una luce propria, evidenziata in tutti i suoi particolari, senza veli di chiaroscuro che li alterassero. Davvero strano, non ho potuto fare a meno di pensare. «Posso disturbare l'ispirata laboriosità del maestro Fedeli?» ho sentito chiedere dal basso. Era Gustave de La Croix. Gli avevo detto io stesso di venirmi a trovare ogni volta che voleva, senza alcun preavviso. «Signor barone, entrate, entrate», l'ho accolto con calore, affacciandomi dalla scaletta interna. Poi, mentre saliva, ho abbozzato un inchino, nascondendo istintivamente dietro la schiena le dita macchiate di stucco e colore. «Sono stato convocato da Sua Maestà», mi ha spiegato Gustave, «ma dopo tre ore che aspettavo di essere ricevuto, l'udienza è stata annullata. Comunque avevo progettato da tempo di passare la serata e la notte nella mia dimora di Parigi. Permettetemi una domanda: avete un abito da cerimonia?» Certo, avevo speso la prima paga e quanto rimasto della borsa ricevuta a Venezia per farmi confezionare una giacca ricamata, una camicia di qualità e brache al ginocchio, com'era uso. «Allora questa sera siete invitato a un ricevimento in casa mia in onore del maestro Jacques-Louis David, che sono molto speranzoso possa mostrarci qualche primo bozzetto del suo Bruto. Se non avete altri impegni, naturalmente.» No, naturalmente non ne avevo. Gerusalemme. Luglio 199... Oswald Breil suonò il campanello con delicatezza. Timna Luria andò ad aprire con ancora addosso la divisa di hostess della Delta Airlines. Agli occhi di un cittadino di Israele, i suoi colori bruni, che Laura Joanson aveva ritenuto caraibici o afroamericani, denunciavano subito la discendenza da una nobile famiglia sefardita del Nordafrica. La giovane intuì immediatamente che l'arrivo del capo del Mossad alla sua porta era foriero di una brutta notizia, ma cercò ugualmente di scherzare, quasi volesse ritardarla. Conosceva Breil fin da bambina. Tra i suoi genitori e l'omino esisteva da molto tempo una salda amicizia.
«Zio Oswald, per favore, la prossima volta che mi mandi in missione evita di farmi fare la hostess. Tutti quegli sbalzi di pressione rovinano la pelle.» Oswald parve non averla sentita. «Chaim», disse semplicemente. Il bel viso di Timna si torse in una smorfia di dolore. Cercò tuttavia di non piangere, di mantenere il controllo. «Com'è successo?» chiese con voce strozzata. Un nodo di angoscia le aveva serrato la gola. «È stato ucciso in missione», rispose Breil con gli occhi bassi. «Una missione che purtroppo non ha potuto portare a compimento.» Timna non riuscì più a controllarsi. Scoppiò in lacrime e cercò conforto tra le sue braccia. Oswald si sentì spezzare il cuore e le accarezzò con dolce goffaggine i capelli. Ma la bella giovane smise subito di piangere, alzando due occhi arrossati ma già carichi di determinazione. «Chi è stato?» «Ho soltanto qualche sospetto. Niente di certo.» Dicendolo, Oswald maledisse il proprio mestiere: non poteva assolutamente dirle ciò che sapeva. Non ancora. D'altra parte, era lo stesso mestiere della bellissima giovane. Timna aveva già riconquistato la compostezza. «Maggiore Breil, voglio sostituire il capitano Luria nella missione che stava svolgendo», disse con occhi sfavillanti. Roma. Luglio 199... Sara Terracini era ancora una volta seduta di fronte a una tastiera di computer. Sullo schermo a ventun pollici stava via via aprendosi una serie di documenti. Le due stampanti laser collegate alla macchina erano in piena attività. Attraverso le reti telematiche di istituti di ricerca, università e centri sperimentali, un'infinità di informazioni si stava riversando nei cinque giga di memoria del suo disco fisso. Le bastavano poche righe per capire se il documento le interessava o no. In caso positivo digitava alcune rapide istruzioni sulla tastiera, e le informazioni venivano registrate e poi trasmesse al tempo stesso alla stampante e a un computer portatile collegato. Aveva raccolto decine e decine di immagini e notizie sulle catacombe di Parigi. Spesso informazioni che era difficile trovare su normali libri di documentazione, studi realizzati da esperti e poi resi pubblicamente disponibili nella fonte di sapere universale detta Internet. Roba piuttosto macabra,
a essere sinceri. Sara sorrise, chiedendosi: «Chissà come sarà lavorare fianco a fianco con Laura Joanson?» Ordinò per argomenti e in ordine alfabetico i fogli stampati e, dopo averli forati, li inserì in un voluminoso classificatore rosso, che infilò con il portatile in un capiente scomparto laterale della borsa da viaggio. Gerusalemme. 27 luglio 199... Al funerale di Chaim Luria non c'era molta gente. Alcuni colleghi, i parenti stretti e la giovane moglie. Oswald si tenne in disparte. Soltanto quando Chaim fu austeramente sepolto come prescritto dalla Sacra Legge, si fece più vicino alla fossa. La rabbia non si sarebbe mai placata: il mandante di quell'omicidio doveva pagare. Adesso però c'erano i composti singhiozzi di Timna. Osservò il velo della giovane, lacerato nel rito del qerìah, che dà inizio ai sette giorni di lutto strettissimo, la shivah. Ma non poteva concederglieli: il tenente Timna Luria era un soldato preposto alla sicurezza dello Stato di Israele. Doveva chiederle di non osservare il comandamento. Al termine della cerimonia gli intervenuti si allontanarono. Mentre Timna pronunciava il suo ultimo saluto al cumulo di terra smossa, Breil continuò a rimanere educatamente in disparte. Il giuramento che la giovane stava pronunciando era probabilmente lo stesso a cui si stava vincolando lui sul suo onore. Usciti insieme dal cimitero, le aprì lo sportello dell'auto. Pochi istanti dopo erano in viaggio verso il quartiere residenziale dove abitava Timna. «Te la senti di interrompere la shivah dopo soli tre giorni, per cominciare l'addestramento a cui si stava sottoponendo Chaim?» le chiese. Sapeva di parlare a un bravissimo agente del Mossad. L'aveva avviata lui stesso alla dura professione. «Se serve a scoprire la verità sono pronta da domani», rispose Timna con occhi gonfi di pianto ma sfavillanti di determinazione. «Chaim avrebbe dovuto provvedere alla sicurezza di due persone sul cui lavoro Israele conta molto e... e che mi sono molto care. Come lo era lui e come lo sei tu. «Una di queste persone l'hai già assistita», continuò mentre l'auto, districatasi dal traffico caotico, arrivava sotto l'abitazione della giovane. «È Laura Joanson. Non avevo potuto spiegartelo, ma tu e Chaim stavate lavo-
rando nella stessa operazione.» Fuori del portone erano ferme due limousine e una Chevrolet a quattro ruote motrici. Il premier li aspettava in casa di Timna. La giovane rinunciò con fierezza a rispettare la tradizione, che le avrebbe imposto di sedersi sullo sgabello di legno della vedova. Preferì restare in piedi mentre il primo ministro pronunciava alcune ispirate parole di elogio per l'ex capo dei suoi servizi di sicurezza personale. Poi il premier si rivolse a Breil: «Ci sono sospetti?» «Certezze quasi assolute, Eccellenza», rispose subito il capo del Mossad. Ma prima di proseguire lanciò una rapida occhiata circolare all'ambiente. «Può parlare liberamente, Breil. I miei uomini hanno bonificato tutto l'edificio», lo esortò il premier, avendo colto al volo il significato del suo gesto. Alcuni minuti più tardi Oswald concluse la sua meticolosa relazione dicendo: «L'ultimo contatto che ho avuto con Fasatne è stata quella telefonata. Le farò avere la registrazione. Si è autoaccusato dell'omicidio di Chaim Luria. Abbiamo immediatamente individuato il segnale di provenienza della chiamata, ma le tempestive operazioni di ricerca effettuate da due F 15 non hanno avuto esito. È imperativo scoprire di quali strumenti si serve quell'assassino per mettersi in contatto con me rimanendo introvabile.» «Ha carta bianca, Breil. Fasatne è un nemico mortale di Israele e lo sta confermando.» Da quel momento Fasatne diventava la persona più ricercata dagli agenti e confidenti del Mossad sparsi in tutto il mondo. Non soltanto: ogni sua proprietà, società e partecipazione sarebbero state sottoposte a un ferreo controllo. «Tenente Luria», disse Oswald non appena il premier se ne fu andato, «alcuni amici esperti d'arte ti aspettano a Parigi per un rapido corso di aggiornamento sulla storia non convenzionale di quella città. Dal 30 luglio assumerai l'identità di responsabile del progetto di restauro di una zona delle catacombe di Parigi.» Tangula Shan. Racconto di Namling «Esiste davvero?» chiese Tang Shen con occhi ardenti di curiosità. Come molti fanciulli tibetani, era entrato in convento a soli sei anni. Infinite volte, nelle litanie e preghiere mormorate dai monaci e accompagnate dal suono dei rulli, aveva sentito nominare il luogo leggendario e sacro. Era un elemento intrinseco della vita del monastero, dei pensieri di
ogni discepolo. Shambala rappresentava la meta, il premio t no di una vita di santità. «I maestri torneranno quando sentiranno avvicinarsi il momento di non vivere più. Chiameranno a sé chi ha saputo comprendere e recepire. Così dicono le antiche preghiere», rispose vagamente Namling, quasi volesse evitare l'argomento, ma Tang Shen lo incalzò: «Lama Namling, esiste davvero il Luogo della Pace?» «Perché», replicò con impeto il maestro, «non riesci a trovare la pace qui nel tempio?» «La pace, lama Namling, la pace...» Gli occhi del giovane discepolo si ridussero a due fessure perdute verso l'orizzonte. Il viso non aveva ancora perso i lineamenti infantili, ma la mente sembrava capace di pensieri profondi. «Mi hai insegnato tu stesso che conoscere il proprio spirito non è impresa facile.» «Certo, Tang Shen, non è facile, ma anche prefiggersi mete irraggiungibili può generare tarli capaci di rodere qualsiasi mente fino a vanificare lo scopo stesso della vita.» «Vanificare lo scopo della vita, maestro Namling?» «Sì, l'ossessione assorbe, logora, annienta.» «Non capisco, maestro.» «Ascolta quanto ho ancora da raccontarti, e forse capirai.» E Namling sedette. Il sole procedeva verso il tramonto nell'aria rarefatta dell'altopiano tibetano. La luce rossa sembrava avvolgere l'universo nelle sue sfumature. La destra del lama si aprì nel segno del dono. Quindi, immobile nella solenne gestualità del varada-mudra, Namling recitò le parole del Buddha: «'Inferiori, mediocri e superiori: occorre conoscere le persone secondo questa tripartizione, chiarirne le caratteristiche, stabilirne le differenze'». «Antonio Fedeli», riprese poi a narrare, «me ne parlò una prima volta quando il lavoro nell'hôtel particulier del marchese di Mont Brouillard era già a buon punto. «'Namling', mi disse, 'hai idea di come mai Lanvin abbia lasciato tutti questi bozzetti relativi a una chiesa, e in particolare a una cripta?' «'So che prima dell'incidente aveva lavorato appunto in una chiesa', risposi. «'Certo, i restauri della chiesa di Rennes-le-Château', mi replicò con strana impazienza. 'Ma è roba di ormai qualche anno fa, e questi bozzetti...' «'Oh, no', mi toccò correggerlo. 'Non alludevo ai restauri di Rennes-leChâteau. A quei tempi non conoscevo ancora il maestro. No, alludo a un
altro lavoro, che Pierre-Denis Lanvin aveva accettato in una chiesa di Parigi. Ma non sono stato coinvolto, e non so di quale chiesa si trattasse.' «'Strano', borbottò Fedeli. 'In questi bozzetti sembra quasi che Lanvin avesse disimparato tutto sulla rappresentazione delle luci.' «'È vero', dovetti riconoscere, 'c'è qualche problema di prospettiva.' «Trascorremmo quasi due giorni a controllare minuziosamente tutti gli schizzi lasciati da Pierre-Denis relativamente alla misteriosa chiesa. La seconda sera il maestro sembrava in preda allo sconforto, quando improvvisamente il suo volto si illuminò. «'Ecco!' esclamò. 'Forse ho capito.' E sistemò di fianco alle candele accese un bozzetto della cripta, quello in cui il fonte battesimale dominava la scena, del tutto fuori prospettiva. Ascolta bene ciò che ti dico, Tang Shen: fu la prima volta che negli occhi di Antonio Fedeli vidi la luce dell'ossessione.» Gerusalemme. Primo agosto 199... Nella sede dello ha-Mossad le-Modiin ule-Tafkidim Meyuhadim, più comunemente detto «Mossad» o «Istituto», le direttive del nuovo responsabile avevano scatenato indagini in ogni direzione. Decine di uomini stavano cercando in tutto il mondo di raccogliere notizie su Hytham Fasatne. Breil aveva convocato in videoconferenza i responsabili dei sei dipartimenti del servizio, concludendo con questa frase: «Dobbiamo scovarlo ovunque si trovi. È scaltro e pericoloso, e per individuare il suo nascondiglio bisogna sapere tutto di lui, dalla più insignificante abitudine personale ai mille tentacoli in cui si dirama il suo impero. E con la massima urgenza. Voglio le vostre relazioni entro due giorni, alle quindici, ora di Tel Aviv. Se non ci sono domande considero chiusa la riunione». Ma bastava la sua espressione sullo schermo per capire che non era il caso di fare domande. L'immagine scomparve con un lampo azzurrognolo. I suoi sei subordinati non sapevano in quale angolo di mondo potesse essere Oswald Breil. 6 Key Biscayne. Primo agosto 199... Nel Museo dei Reperti Sommersi, da lei stessa creato e diretto, Laura
Joanson era seduta alla sua scrivania, una volta appartenuta all'ufficiale di rotta dell'Andrea Doria e recentemente recuperata e restaurata integralmente. Era di nuovo immersa nella lettura del finto romanzo. Parigi. 12 novembre 1788 Mi sono trattenuto timidamente ai margini del gruppetto di artisti, poeti e filosofi, tutto occhi e orecchi. Il grande Jacques-Louis David dominava la scena con la sua presenza. È un uomo che parla in toni pacati ma sicuri, seppure un po' reboanti. Un qualche malanno o difetto naturale gli deforma in maniera vistosa la mascella sinistra. «Le Accademie non hanno mai prodotto che mezzi talenti», l'ho sentito dichiarare con vigore, rivolto a un gentiluomo in cui, successivamente, mi è stato indicato il famoso e coraggioso mercante Le Brun, che si dice sia intenzionato ad aprire un nuovo Salon per i giovani artisti, in rue de Cléry. E poco dopo, rivolto al poeta Théodore Désorgues: «Lo dichiaro con assoluta fermezza: la pittura non è un mestiere». Su quest'ultimo punto avrei avuto più di una cosa da obiettare, ma non potevo far altro che ascoltare senza intervenire: il mio tipo di attività artistica non mi aprirà mai le porte di alcuna Accademia o Salon. Nessuno, tra gli artisti ed eminenti personaggi invitati da Gustave de La Croix, aveva nemmeno la più vaga idea di chi io fossi. Ma forse non hanno nemmeno idea che alcune rinomate opere attribuite al vecchio JeanHonoré Fragonard sono forse state create dal buon amico di mio padre, Jean-Robert Ango. Non sarò di sicuro io a rivelarlo, né parlerò di certe opere attribuite a grandi artisti del passato, ma contrassegnate da un puntolino rosso in un angolo. Io so bene chi le ha fatte, ma loro no. In questi casi il silenzio è più che mai d'oro. Stavo cominciando a perdere interesse per la conversazione, quando mi sono sentito prendere per un braccio. «Il buon David non si è nemmeno sognato di portarci i bozzetti del Bruto, come aveva lasciato intendere», mi ha detto il barone d'Armance. «Bah, sarà per un'altra volta, chissà quando. Venite con me, Monsieur Fedeli, dedichiamoci ad altri piaceri.» Insieme, ci siamo beati della visione di tante belle dame imbellettate, con vesti ampie e scollature profonde. La musica si diffondeva nella lussuosa dimora, alleviando l'atmosfera acre, carica del fumo dei caminetti accesi. Tutti gli invitati sembravano divertirsi moltissimo. Qua e là si erano formati piccoli crocchi di persone. Le dame sedevano sui divani in vel-
luto a sorseggiare tazze di cioccolata, mentre i gentiluomini rimanevano in piedi davanti a loro. All'improvviso la musica è cessata e una voce ha annunciato: «Signore e signori: i fuochi». Tutti si sono accalcati alle finestre tra i gridolini eccitati delle dame. Lo spettacolo pirotecnico è iniziato e proseguito con esplosioni di colori sempre più luminosi e intensi. È stato mentre il rosso della scia di un fuoco particolarmente alto si perdeva nel nero della notte, per ricadere in un'infinità di corpuscoli colorati, che ho percepito il primo contatto con un corpo femminile. Un seno tornito e sodo premeva sul mio bicipite. Il profumo era di una fragranza da stordire. Il calore della pelle attraverso il tessuto era tale da farmi dimenticare l'aria gelida che ci investiva dalla finestra spalancata. Quando l'ho guardata, l'incantevole signora mi ha sorriso e non ha fatto niente per ritrarsi, neanche quando il mio braccio ha cominciato a premere con decisione sul suo seno. «Siete l'artista chiamato a completare il lavoro del maestro Lanvin?» mi ha chiesto durante una pausa. «Antonio Fedeli, per servirvi, signora», ho risposto con un profondo inchino. «Sono Sofia Duplay, damigella di compagnia di Madame Le Brun e figlia di Maurizio Duplay, il mastro falegname di rue Saint-Honoré.» Non poteva avere ancora diciott'anni, i denti risaltavano candidi tra le labbra di carminio. Ho pensato che in quel contatto non ci fosse stata nessuna sua malizia. Finché ho sentito di nuovo il suo seno premere contro il mio braccio. Laura voltava le pagine con voracità, divorando le parole e cercando di visualizzare ambienti e situazioni. La comparsa di un personaggio femminile aveva rinnovato il suo interesse e ravvivato la sua curiosità. Continuò a leggere. Sofia sembra avere accesso a qualsiasi ambiente. Conosce tutti. Con il suo sorriso ammaliante penso addirittura che un giorno riuscirà a farsi aprire le porte del paradiso. Così come è riuscita a farsi spalancare la cancellata della reggia di Versailles, quando ci siamo recati in visita al castello più maestoso del mondo. Le sono stati sufficienti un saluto e poche parole bisbigliate a un suo lontano parente, capo del picchetto delle guardie del re.
«Muovetevi soltanto nel parco», ci ha ammonito però il militare. «Se vi trovano all'interno del parco, passerò guai seri!» Così, invece di dirigerci verso l'imponente Corte dei Marmi, ci siamo messi a passeggiare tra le siepi ordinate che circondano la reggia. Abbiamo corso come bambini sotto il sole freddo di novembre che filtrava tra i rami spogli degli alberi. La mia amata rideva di cuore, e la sua allegria mi penetrava nello spirito. Osservavo ammaliato i suoi occhi neri e i contorni sensuali delle labbra. Siamo scesi lungo le scalinate tenendoci per mano, superato fontane dove l'acqua si stava solidificando in sottili lastre di ghiaccio. Poi, mentre costeggiavamo un lago artificiale, ho sentito giungere ai miei orecchi un linguaggio familiare. «Sono veneziani», mi ha spiegato subito Sofia, «marinai della flotta che staziona in questo piccolo specchio d'acqua. Ottanta imbarcazioni e un vero esercito di marinai offerti al re di Francia dal governo della Serenissima.» Il pensiero di Venezia e della sordida vita che vi conducevo mi ha fatto incupire. Sofia se n'è accorta e mi ha abbracciato in una stretta consolatrice. Mirabile consolazione: la sua lingua morbida mi ha umettato le labbra. L'ho rincorsa tra gli alberi del parco finché non abbiamo raggiunto una costruzione a un solo piano. Il Trianon, mi ha spiegato Sofia. Era stato concepito come padiglione di caccia, ma la gelosia di regine che non volevano essere offese dalla vista delle amanti del re aveva spinto i sovrani a destinarlo a sede dei loro incontri galanti. «Non sentite aleggiare ancora un'atmosfera di complicità e lussuria? Mi batte il cuore, sentite.» E Sofia ha inspirato forte, prendendomi la mano e portandosela sul seno. Ho sentito il capezzolo indurirsi sotto le mie dita. L'ho baciata a lungo. Le nostre lingue si sono incontrate e intrecciate, mentre le mie mani cercavano invano un varco tra i suoi elaborati indumenti. «Potrebbero vederci», mi ha mormorato con uno sguardo malizioso. «Ma questo mi eccita ancora di più», ha aggiunto, mentre le sue dita riuscivano facilmente a farsi strada nelle mie brache. Ho sentito il suo tocco delicato, il ritmo farsi regolare e poi incalzante, e ben presto il mio piacere le è esploso nella mano. Le mie gambe hanno tremato, ho faticato a reggermi in piedi. Sofia si è limitata a sorridermi. Sembrava che non fosse successo niente. Ha ripreso a ridere e correre per i viali alberati. Potrebbe farmi impazzire.
Rio de Janeiro. Primo agosto 199... Il Pão de Azucar sfilò sulla dritta, mentre a sinistra il Cristo del Corcovado li accoglieva benevolo. Sotto le ruote del carrello del Grumman del governo israeliano si stendeva, tra grattacieli e catapecchie, la città più enigmatica del mondo. Oswald Breil era a Rio de Janeiro. Appena uscito in strada, l'odore dell'alcol usato per i motori lo colpì come un pugno. Salì sulla Mercedes nera che lo aspettava. Fatti appena cento metri, però, approfittando di uno dei tanti ingorghi, sgusciò fuori dopo aver ordinato all'autista di proseguire. Montò su un taxi, ma lasciò anche questo a pochi isolati da Ipanema. Percorse parte della Barra da Tijuca e, arrivato in Avenida Visconte de Pirajá, fermò al volo un secondo taxi. Nemmeno gli uomini della scorta, che seguivano con discrezione l'auto di rappresentanza, sarebbero riusciti a individuare le sue tracce. Fingendo di non ricordare la strada fece compiere all'autista alcune deviazioni, poi parve illuminarsi. «Ah, adesso ricordo: il mio amico dovrebbe abitare sopra un gigantesco venditore di sucos... mi sembra si chiami Vitaminas mistas, o qualcosa del genere. All'angolo di una via che si chiama come un cantante...» «Vinicius de Moraes?» chiese l'autista, che stava ormai perdendo la pazienza. Oberto Lasado lo accolse con un abbraccio. I giorni dell'addestramento fatto insieme erano ormai lontani, ma per l'agente a copertura profonda del Mossad a Rio sembrava che gli anni non fossero passati. «Mi dicono che non te la passi male nel mondo delle pietre preziose», disse Oswald, lasciandosi guidare verso l'ampia vetrata dell'attico. Il suo sguardo si perse sulla spiaggia di Ipanema ormai quasi deserta. Una ventina di inservienti procedevano allineati, ripulendo la sabbia dai residui della folla dei frequentatori e preparando i sette chilometri di spiaggia per l'assalto del giorno dopo. «Non posso lamentarmi», rispose Lasado con falsa modestia. «Essere direttore generale di uno dei gruppi minerari più importanti del Brasile, se non del mondo, mi dà qualche soddisfazione.» Poi puntò il dito in modo scherzosamente minaccioso verso Breil: «Quanti minuti ti degni di concedermi?»
«Una bellissima signora saprà tra poco che mi aspetta a cena a Miami.» «Davanti a una simile prospettiva anche le mie ragioni diventano futili. Be', dammi almeno il tempo di una Caipiriña e poi ti lascio volare tra le sue braccia.» «Braccia?» Oswald scosse malinconicamente la testa. «Sei molto lontano dalla verità. Niente incontri galanti. Lavoro e soltanto lavoro.» «Non cambierai mai, Breil: lavoro, abnegazione, sacrificio, orari impossibili, vita da cenobita. Comunque, visto che mi onori con alcuni minuti del tuo tempo, verrò subito al dunque. L'età non mi permette più certe emozioni, ma mi piace ancora seguire da spettatore le gare della Formula Uno.» Lasado era stato un discreto pilota di formule minori, vincendo anche diverse gare. «E non sai», continuò, «quanto sia contento che tu abbia deciso di mettere il naso nelle faccende della scuderia Bradwood Café de Iguaçú. Si sta avviando alla conquista del titolo mondiale, ma... Insomma, quando mi hai telefonato non credevo alle mie orecchie. Sono quasi otto mesi che indago di mia iniziativa su diversi aspetti molto poco chiari della sua attività.» Oberto si alzò, si piazzò davanti al mobile bar e si mise a pigiare con un mortaio di legno alcuni lime verdi in un bicchiere. «Quanta cachaça?» «Non molto alcolico, per favore. Mi aspetta ancora un lungo volo.» «Come penso tu sappia, la Bradwood appartiene allo sponsor, la Café de Iguaçú, una multinazionale del caffè controllata da una società lussemburghese. E sai anche di sicuro che il capolavoro di ingegneria finanziaria che tiene in piedi la struttura di scatole cinesi fa capo a Hytham Fasatne.» Oswald annuì. «Bene», continuò l'altro. «Puoi immaginarti il delirio che sta scatenando in questo paese la possibilità che una scuderia brasiliana vinca un campionato del mondo. Ma io avevo altre idee, per cui ho deciso di tenere attentamente d'occhio la Iguaçú, avendo notato alcuni fatti singolari. «La multinazionale del caffè ha rilevato una nota squadra corse in Inghilterra e, nonostante le grosse difficoltà operative, ha deciso di trasferire la fabbricazione delle auto in Brasile. Sarebbe stato molto più semplice lasciare la baracca dov'era, invece di impiantarla ex novo qui, con tutti i problemi di management, know-how eccetera. «Quindi ho disposto che un nostro ottimo agente seguisse e documentasse ogni operazione della Bradwood. E lui è addirittura riuscito a filmare le
fasi di assemblaggio del telaio in fibra di carbonio. «La Bradwood ha tutti i crismi della scuderia efficiente, moderna, con ogni uomo giusto al posto giusto, dal progettista all'addetto ai pit-stop. Sembrava quindi che il successo delle sue auto in Formula Uno derivasse da questo. Insomma, ero quasi arrivato a convincermi che la Bradwood fosse una delle molte attività non illegali che fanno capo a Fasatne. «Ma non ero del tutto convinto, per cui ho cominciato a indagare con discrezione anche sullo sponsor. E ho scoperto che la scuderia riceve da quella fonte una somma che copre a malapena il venti per cento dei costi. Al resto si provvede con bonifici provenienti da una banca di Cayman Island. Sto parlando di una cifra tra i cinquanta e gli ottanta milioni di dollari all'anno. Gli importi arrivano da un conto cifrato di cui sembra impossibile scoprire l'intestatario. Sono riuscito soltanto ad appurare che le disponibilità sono pressoché illimitate e che un flusso di denaro si riversa in quel conto con cadenza quindicinale. «Confrontando le date dei versamenti con quelle delle gare di campionato del mondo, ho trovato corrispondenze molto sospette. Prelevate da un altro conto della stessa banca, ogni lunedì successivo a un Grand Prix, sul conto cifrato vengono accreditate somme attorno ai cinquanta milioni di dollari, parte dei quali vengono poi inviati al Banco Civil di Medellin, in Colombia. «Con quest'altro conto ho avuto più fortuna, dato che su di esso sta indagando anche la magistratura italiana. Non c'è ancora nessuna certezza, ma pare proprio che sia uno dei forzieri della mafia. Quindi la mafia finanzierebbe una scuderia di auto convogliando denaro su un conto cifrato a Gran Cayman. Per amore dello sport? Mi permetto di dubitarne. «Seguimi ancora. Adesso ti faccio vedere le Bradwood e qualche auto di altre scuderie in assetto da spedizione via container.» E Lasado si alzò, aspirando una lunga boccata dal Davidoff medium che teneva nella destra. Con la sinistra spinse invece un meccanismo della ribaltina ottocentesca, facendo aprire una segreta celata alla perfezione e abbastanza ampia da contenere una quarantina di foto a colori. Oswald le studiò a una a una con grande attenzione. Mezz'ora più tardi sollevò il telefono. «Consolato israeliano a Rio de Janeiro», gli fu risposto in tono gentile ma fermo. «Sono il maggiore Breil. Sua Eccellenza l'ambasciatore a São Paulo ha avuto la cortesia di mettermi a disposizione la sua auto, ma per un disguido ho mancato un appuntamento con l'autista», mentì. «Potrebbe essere così
gentile da rintracciarlo e farmi passare a prendere tra venti minuti davanti al Caesar Park Hôtel di Ipanema?» «Sarà fatto, maggiore Breil. Ha avuto qualche problema? Qui eravamo tutti molto preoccupati.» «Nessun problema, grazie. Solo un appuntamento mancato con l'autista.» Breil fu sicuro di aver creato quello che nei pedinamenti viene definito un «buco», ovvero una totale mancanza di informazioni sulla persona pedinata per un certo lasso di tempo. A quel punto salutò con calore Oberto Lasado, che lo accompagnò all'ascensore dicendo: «Rimango a tua disposizione, ma voglio una promessa. Devi invitarmi alla festa in onore della Bradwood». Oswald sorrise, poi le porte in acciaio specchiato si chiusero e l'ascensore si avviò. Key Biscayne. Miami. Primo agosto 199... Quando il telefono squillò, Laura Joanson stava pensando alla preparazione dei bagagli, ripassando mentalmente le apparecchiature che potevano esserle d'aiuto per la nuova ricerca. «Sei così gentile da invitarmi a cena questa sera? O preferisci che ceniamo fuori?» le chiese senza preamboli Breil. Laura sentì distintamente il suono dei due reattori dell'executive: «Oswald? Le tue solite sorprese. Dove sei?» Breil si spostò verso il finestrino. Sotto di lui scorreva pigramente il Rio delle Amazzoni come un gigantesco serpente verdastro in lento moto verso il mare. «Se te lo dico non ci credi. Tra sette od otto ore sono dalle tue parti. Allora, cena fuori o a casa?» «Preferirei qui: questa sera vorrei restare con Chiara. Tanto più che non c'è neanche Kevin.» Laura si sentì sollevata all'idea che i due non si sarebbero incontrati. Tra loro non correva cattivo sangue, c'erano anzi stima e rispetto. Ma, non appena compariva l'omino, Kevin cominciava a sentire odore di guai. Questa specie di sottili partite a scacchi la divertivano, ma era meglio evitarle. Voleva bene a tutti e due, ma viveva con Kevin e per Kevin. A legarla a Oswald erano un affetto di natura veramente filiale e un'immensa ammirazione. Posando la cornetta sorrise. Scommetto un'unghia, pensò, che hai già
messo in moto le tue pedine per scoprire dove sarebbe stato Kevin oggi. A circa cinquemila chilometri di distanza, Oswald sorrise a sua volta. Sapeva benissimo dove fosse il generale Dimarzio: a una convention di specialisti dello spazio a Ginevra. E il sorriso si trasformò in una risata maliziosa. Ma riprese subito a studiare i documenti e le fotografie ricevuti da Lasado. Il laboratorio della Joanson Maritime Research era nell'ala secondaria di un edificio occupato per la maggior parte dal Museo dei Reperti Sommersi. Laura stava esaminando una specie di metal detector: un disco in metallo con un'impugnatura corta. Uno strumento che pensava avrebbe potuto esserle molto utile. Accanto all'impugnatura c'era un display a cristalli liquidi in grado di visualizzare, interpretando i ritorni degli ultrasuoni, oggetti nascosti sotto una coltre di sabbia spessa fino a sei metri o nella cavità di un muro. Guardò l'orologio: aveva ancora un po' di tempo prima di tornare a casa per preparare un'ottima cena per Oswald. Ma il diabolico omino voleva di sicuro anche notizie sui progressi fatti nella lettura del diario. Quindi avrebbe occupato in quel modo la mezz'ora che le rimaneva. Prese il libro dalla borsa, si mise comoda e lo aprì. Parigi. 20 gennaio 1789 Il tempo sembra essere volato. L'incalzare degli eventi non mi ha lasciato il tempo di aggiornare il diario. E c'è Sofia, il suo profumo, la sua pelle... Le ho dedicato ogni istante e, in sua assenza, ho pensato a lei. L'amo, non mi stancherò mai di dirlo, scriverlo, pensarlo. L'amo. Domenica scorsa sono stato invitato dalla sua famiglia. Abitano in rue Saint-Honoré, in una casa dall'aspetto quasi rustico sul cui ingresso troneggia l'insegna MAURICE DUPLAY, MASTRO FALEGNAME. Dentro il fabbricato esterno, un'ampia corte separa due capannoni adibiti a officina e segheria. La famiglia Duplay - padre, madre, Sofia, un fratello e tre sorelle - occupa la palazzina in fondo alla corte. È una bella casa, ampia e confortevole. Madame Duplay è una madre premurosa e gentile, ma succube del marito, un uomo duro e ambizioso che guarda in alto e non riesce ad accontentarsi dei successi ottenibili con il suo mestiere. «Che cosa si dice nel mon-
do dell'arte, signor Fedeli?» mi ha chiesto. «Non ne so molto, maestro: la qualità del mio lavoro non mi concede di frequentarlo più di tanto.» Inoltre, in quei mesi mi ero dato anima e corpo all'incarico assegnatomi dal marchese di Mont Brouillard... anche se, a dire il vero, il corpo l'avevo dedicato molto di più alla figlia del bravo falegname. «Ma gli artisti si accorgono che sta cambiando qualcosa? Che a Parigi la gente è stanca?» «Marito», è intervenuta la moglie, «non cominciare con le tue solite discussioni di politica.» Anche Sofia ha cercato di venirmi in soccorso: «Maestro Fedeli, mia sorella maggiore Eleonora si diletta di pittura: è tra le migliori allieve di Regnault. Mi piacerebbe mostrarvi qualche suo lavoro». Ma l'ostinato Duplay ha riportato subito la conversazione agli argomenti di suo interesse. E in toni di cupa minaccia. «Finirà, signor Fedeli, finirà presto. Trionferanno lavoro, onestà, uguaglianza e libertà. Non si possono più tollerare comportamenti dissoluti e privilegi scandalosi, mentre il popolo muore di fame.» «Scusate, mastro Duplay, ma le vostre donne mi reclamano», sono soltanto riuscito a replicare, mentre sua moglie mi prendeva bonariamente sotto braccio per condurmi nella saletta di musica. Abbiamo trascorso l'intero pomeriggio in allegria, con i quattro giovani di casa che si alternavano agli strumenti con discreta maestria. Ma quando Sofia mi sedeva vicino, le sue mani correvano furtive alle mie cosce. Mani abili nel diteggiare le corde dell'arpa, mi strisciavano sui panni come serpentelli tentatori. I lavori procedono a ritmo serrato. Namling è un ottimo assistente, e la sua calma imperturbabile mi aiuta a superare i momenti più difficili. Sembra che niente riesca a scalfirla. Ha un rimedio per tutto e non si innervosisce mai. Invidio profondamente la sua saggezza. Appartiene alla mia cultura, mi ha spiegato sorridendo, e si è rimesso subito a lavorare di gran lena con frasi di esortazione per i garzoni che preparano i materiali. Li ha trovati e assunti lui stesso. Mi sembra che il lavoro stia venendo molto bene. Le visite del marchese di Mont Brouillard si stanno facendo sempre più frequenti, ma i suoi modi non mi piacciono affatto: mi tratta come un servo. Inoltre continua a voler vedere i bozzetti di Lanvin, anche se è chiaro che non ne capisce niente, e
a chiedermi se ne ho trovati altri. Dove dovrei trovarli? Comincio a nutrire qualche sospetto. Pochi chilometri dividevano l'abitazione di Laura dal suo museo. La jeep Cherokee li percorse in brevissimo tempo sotto le luci al neon del ponte sospeso di Key Biscayne. Da quella prospettiva Miami sembrava volersi tuffare in mare. I colori tenui della prima sera, i grattacieli illuminati, le luci, le prospettive, pensò Laura. Già: luci e prospettive. Come possono essere determinanti, non soltanto ai fini dello scenario rappresentato, ma anche per attirare lo sguardo verso qualcosa in particolare. Riflessioni suscitate nella sua mente dagli accenni di Antonio Fedeli a qualche possibile errore nel lavoro del suo predecessore francese. Ma che cosa potevano avere in comune quegli artisti... meglio, quei falsari del XVIII secolo con un sacro simbolo come la Menorah? Chiara le corse incontro sulle sue gambine incerte e ardite, muovendole in maniera scoordinata ma decisa e con un grido di gioia. Laura la prese in braccio, godendo del contatto. «Tutto bene, Constance?» «Sì, signora. A pranzo la bambina ha mangiato con grande appetito. Poi ha telefonato il signore da Ginevra. Richiamerà verso mezzanotte.» Laura fece rapidamente i conti: mezzanotte a Miami equivaleva alle sei del mattino in Europa. Il risveglio del viaggiatore dello spazio? Uhm. Il suo eroe latino, con quegli occhi verdi, alle sei del mattino... Sorrise. Che cosa poteva temere? Kevin stava sicuramente dormendo e sognandola. «Viene a cena il signor Breil», disse alla governante. «Vuoi occuparti tu di Chiara, per favore, mentre preparo qualcosa?» Apparecchiare la tavola sul terrazzo non le richiese che pochi minuti. Non era il caso di perdersi in fronzoli e argenterie. Poi mise la pentola d'acqua sul fuoco e sistemò la sella di vitella nella pirofila con gli odori, aggiungendo un bicchiere di aceto bianco di vino. Infine regolò il timer del forno a quaranta minuti. Sperando che niente di tutto ciò fosse in contraddizione con le norme alimentari ebraiche. Soddisfatta, si sedette sul divano del salotto con l'antico diario. Parigi. 10 febbraio 1789 Namling non cessa di stupirmi. Martedì scorso mi ha atteso sotto casa
Duplay per tornare all'atelier con me. A Parigi la sera scende presto, e i vicoli si popolano di personaggi torvi, capaci di uccidere per un nonnulla. Avevamo percorso soltanto pochi passi quando dal buio sono emersi all'improvviso due figuri. La lama che uno di essi impugnava rifletteva la luce fioca delle finestre. Non ha detto una parola, ma è scattato agilmente verso di me, mentre il suo compare rimaneva in disparte quasi volesse tener sotto controllo la nostra reazione, pronto a intervenire. Ho avuto paura di morire, un brivido di gelo mi ha percorso il corpo. La lama puntava alla mia gola. Che cosa potevo fare contro un uomo pronto a uccidermi? Le mie mani non sono mai state addestrate alla lotta e alla spada. La veste di Namling ha emesso un fruscio, e la sua mano ha afferrato il braccio proteso dell'assalitore. Le membra si muovevano con la grazia di una danza rituale. Il mio minuto assistente ha assunto una posizione di lotta che non avevo mai visto, acquattandosi come un gatto. L'aggressore, sbilanciato dal suo stesso impeto, è parso diventare un fuscello nelle sue mani. Ho sentito distintamente il rumore delle ossa che si spezzavano, mentre il coltello volava lontano, seguito dal corpo del rapinatore che è rovinato a terra a peso morto. L'altro malvivente mi si è fatto addosso. L'istinto di sopravvivenza mi ha suggerito di chinarmi, e la lama ha tagliato l'aria a poca distanza dalla mia testa. Il nuovo avversario era più giovane del primo. Più agile ma meno esperto. Le mie gambe si sono mosse con la furia di chi non vuole morire. Senza quasi saperlo ho sentito il collo del mio stivale colpirlo con forza al basso ventre. Con la coda dell'occhio ho visto Namling prendere una breve rincorsa e spiccare un salto. Le sue gambe si sono rannicchiate in volo, poi una è scattata come una molla e il taglio del piede ha colpito l'uomo in pieno petto. I due aggressori erano entrambi a terra ai nostri piedi. Il braccio destro del primo penzolava in una posizione innaturale, dalla bocca del secondo usciva un rivolo di sangue. «Credo che questi gentiluomini ne abbiano avuto abbastanza», dissi quasi senza fiato. Namling era già tornato il mio mite e imperturbabile assistente di sempre. Parigi. 5 marzo 1789
Namling ha trovato un'altra cartella di schizzi di Pierre-Denis. Sono una decina di fogli di carta gialla, tutti interni della misteriosa cripta. E in ciascuno di essi la posizione d'onore, sbagliatissima, è occupata dal fonte battesimale. Perché tanta importanza? Ormai sono sicuro che si tratta di un gioco di messaggi. Tra non molto dovrò consegnare il lavoro all'odioso marchese di Mont Brouillard. Il suo viso arcigno spunta nell'hôtel particulier nei momenti più impensati. Le sue visite stanno diventando un'ossessione pluriquotidiana. Certe volte mi fissa con quei suoi occhi grifagni e indagatori senza dire niente. Che cosa vuole? Il suono metallico del timer riportò bruscamente Laura alla realtà, facendo svanire l'atmosfera di mistero in cui si sentiva sempre più coinvolgere a mano a mano che leggeva il diario. Pochi tocchi sapienti all'arrosto, il pomodoro maturo tagliato a quadrelli sul fuoco, il sale nell'acqua della pasta. Il citofono suonò, il portiere delle Biscayne Towers la informò che il suo ospite stava salendo. Laura si sistemò con civetteria davanti allo specchio. Be', sì: quando arrivava Breil ci teneva a essere in ordine. Oswald le comparve davanti, quasi completamente nascosto dietro una pianta di rose rosse. «Scusami, ma non amo i fiori recisi», disse con un largo sorriso. Quindi appoggiò la pianta a terra e fece scorrere lo sguardo su di lei con espressione ammirata. «A proposito di fiori, mamma Laura, ti trovo in magnifica forma.» E si alzò in punta di piedi per scambiare con lei un bacio. «Ma dov'è la mia piccola Chiara?» Contrariamente a suo padre, Chiara aveva mostrato una straripante simpatia per lui fin da quando lo aveva visto per la prima volta. E anche adesso si abbandonò con espressione beata sulle ginocchia di «Oad», che nel suo linguaggio significava «Oswald». «Zietto: dato che ti vedo in buona compagnia», disse Laura alzandosi, «ti lascio qui a fare il baby sitter per un po' e vado a controllare la qualità della cena a cui ti ho invitato.» Poco dopo, con Chiara di nuovo affidata alle cure di Constance, sedevano davanti a una zuppiera di rigatoni fumanti. Oswald li assaporò con gusto. «Sei veramente una cuoca imbattibile, Laura», esclamò con entusiasmo. «Lasciami indovinare gli ingredienti... pasta di grano duro, pomodoro fresco a crudo e mozzarella di bufala.»
«Esatto, con l'aggiunta di olio d'oliva e foglie di basilico.» Una brezza calda batteva la terrazza dell'appartamento. Al di là del Biscayne Bay Channel i grattacieli di downtown sembravano sfidare il cielo. «Hai deciso, Laura?» chiese finalmente Breil. Tangula Shan. Racconto di Namling Namling continuava a raccontare con la sua voce pacata e profonda. Il discepolo lo ascoltava con attenzione immutata, e di quando in quando non riusciva a trattenere una domanda. «Maestro Namling, come mai hai potuto visitare luoghi cosi lontani e leggendari?» «Oh, è una storia molto lunga. Ai tempi di mio padre vennero a Lhasa alcuni missionari cristiani. Erano guidati da Orazio degli Olivieri, un italiano che si adattò rapidamente ai nostri usi, regalandoci tutta la sua saggezza. «Insieme al nostro popolo, essi hanno vissuto il terrore dell'invasione dzungara, e dieci anni più tardi l'orrore della guerra civile. La popolazione di Lhasa li teneva in grande rispetto, e P'o-lha-nas, il reggente della città, era molto ammirato del loro lavoro: c'era tra essi chi si occupava di medicina, chi di arte e chi, come padre Orazio, passava notti insonni a tradurre nella sua lingua i libri della nostra religione. «Nelle cronache di padre Orazio è registrata una data molto importante, scritta secondo il loro calendario. Il 22 maggio 1742 - corrispondente all'anno bisestile di No, nel decimo mese lunare del calendario cinese -, cinque tibetani convertiti al cristianesimo furono fustigati pubblicamente perché si erano rifiutati di ricevere la benedizione del Dalai Lama.» Namling prese fiato, prima di continuare: «Coloro che fino ad allora si erano avvalsi dei servigi dei cristiani si allontanarono da loro, ostentando una diffidenza che si convertì presto in ostilità. La folla cacciò i missionari, e con essi padre Orazio. Gli ultimi lasciarono la città santa nell'aprile del 1745. La missione fu rasa al suolo e tutti i loro oggetti di culto distrutti o arsi, a eccezione della campana, che fu trasportata nello Jo-bo-k'an dov'è conservata tuttora.» «E tu hai seguito quei monaci?» chiese Tang Shen in un tono misto di curiosità e ammirazione. «Oh, no, figliolo. Io non ero ancora nato. Ho visto la luce soltanto dieci anni più tardi.
«Li seguì Lati, un saggio e allora giovane lama che un giorno sarebbe divenuto mio maestro. Fu incaricato, con altri, di accompagnarli fino al confine con il Nepal per controllare che se ne andassero davvero dal paese, ma soprattutto per proteggerli. Arrivati al confine, Lati chiese agli anziani il permesso di partire con i cristiani per le loro terre, promettendo che sarebbe tornato di lì a tre anni per completare i suoi studi. Fu affidato a padre Orazio, che purtroppo, gravemente ammalato, morì pochi mesi più tardi. «Comunque Lati raggiunse l'Italia, dove rimase quasi tre anni in uno dei loro conventi. Quindi, fedele alla promessa fatta, tornò qui per completare gli studi. L'esperienza lo aveva profondamente arricchito. Tuttavia non tornò a Lhasa dopo tre anni, come aveva promesso, ma dopo cinque. Il ritardo, però, aveva un motivo valido. «Lati era un valente pittore, e in Italia era entrato in contatto con la loro pittura, un genere molto strano di raffigurazione, che a mio giudizio bada eccessivamente alla verosimiglianza, con grave nocumento per i valori antichi. Comunque è un insieme di tecniche che meritano di essere studiate e fuse con le nostre. «Orbene, sulla via del ritorno, arrivato in Cina, Lati ebbe notizia che alla corte di quel paese viveva un monaco pittore italiano, che si diceva realizzasse meraviglie proprio nell'ambito della fusione di queste diverse tecniche. Mandato un messaggio a Lhasa, Lati ottenne il permesso di rimanere un anno anche in Cina, per studiare le opere di questo monaco pittore, che in cinese era detto Lang Shih-ning, ma il cui nome italiano, come ebbi modo di apprendere successivamente, era Giuseppe Castiglione. Da lui Lati imparò moltissimo, e di questo moltissimo qualcosa è disceso fino a me. «In anni più tardi, infatti, divenuto a mia volta bachogwa, fui allievo di Lati: quasi tutto ciò che so lo devo ai suoi insegnamenti. E devo ai suoi appassionati racconti se un giorno, divenuto lama, decisi che volevo visitare anch'io le terre che lo avevano incantato. Per il completamento della mia formazione, volevo vedere le terre dove tramonta il sole. Tante volte avevo pregato: 'Supplico tutti i buddha di esaudire la mia preghiera, che io possa ricevere la sapienza somma, la più sottile, la sapienza trascendentale'. Recitai ancora una volta: 'Io, che mi chiamo Namling, farò ricorso in ogni tempo ai miei maestri, al Buddha, al Dharma e al Samgha'. «Ottenni il permesso, e Lati mi munì di lettere di presentazione, che prima mi fecero bene accogliere nel convento italiano dov'era stato lui stesso e poi mi aiutarono a proseguire per la Francia.» «Ti prego, lama Namling, raccontami ancora della Francia, del pittore
Pierre-Denis Lanvin e del suo amico italiano.» «Sì, lavorare con Antonio Fedeli mi è piaciuto. Ho imparato anche da lui, come avevo imparato da Lanvin. Ma mi capitava spesso di osservarlo con inquietudine, chiedendomi che cosa fosse a dargli quel tono di assorta sofferenza. La sua passione carnale per la giovanissima Sofia, certo, ma capivo che un altro tarlo gli rodeva la mente. «Non scordarlo mai, figliolo: chi cura in sé il sommo è attratto dal sommo; chi è legato all'infimo sarà attratto dall'infimo. Ma chi sono io per giudicare un altro uomo? Ripeti con me, Tang Shen: 'Nella comunione con gli altri apprenderò a ritenermi il più piccolo di tutti e a rivolgere agli altri la massima attenzione del mio cuore'. Così deve essere. «Ma una sera, dopo una giornata particolarmente agitata, Antonio Fedeli mi confidò: 'Nei bozzetti di Pierre-Denis Lanvin relativi a quella cripta ignota ci sono messaggi, Namling. Ne sono ormai certo. Ha usato le luci in quel modo errato per mettere in risalto certi particolari. Finora ho individuato soltanto il fonte battesimale, ma probabilmente ce ne sono altri. Quasi avesse voluto indicare un segreto, ma mantenendolo tale per gli occhi incapaci di vedere'.» Key Biscayne. Miami. Primo agosto 199... «D'accordo, Oswald, accetto. Ma non un solo giorno più di quanto hai detto, se non voglio che Kevin chieda il divorzio. E non lo voglio di sicuro.» Ancora una volta Laura si era lasciata attirare nella rete tesa con sapiente abilità dall'implacabile amico. «Bene», esclamò Oswald, felice. «Allora credo che sapere qualcosa di più sull'oggetto che devi cercare possa esserti d'aiuto.» «Il candelabro a sette bracci è stato custodito nel Tempio di Gerusalemme finché Tito non ha conquistato la città dopo un lungo assedio. E i romani lo trattarono come il simbolo di un popolo eroico, assoggettato con fatica: nel corteo trionfale che accompagnò Tito al suo ritorno a Roma, la Menorah, portata a spalla da otto uomini, sfilò davanti al corteo.» Così dicendo Breil infilò la destra in una borsa di pelle che aveva posato vicino alla sedia e, presa una foto, continuò: «Ecco il particolare di un fregio a bassorilievo sull'arco di Tito a Roma». Era certo che nel frattempo Laura si era documentata, ma riteneva utile rinfrescarle la memoria e renderle ancora più vivo l'interesse per la ricerca. Quindi prese dalla borsa un involucro di plastica nera e ne estrasse un
computer portatile: «Con questo potrai comunicare con me in qualsiasi momento; basta che ti colleghi a una presa telefonica». Le mostrò il cavo. «Vi ho già caricato un programma di trasmissione in codice che... ehm... fino a qualche tempo fa era della massima sicurezza.» «Fino a qualche tempo fa?» «Sembra che qualcuno riesca a scoprire le mie mosse in anticipo, quindi non posso fidarmi di questo mezzo di comunicazione, che sembrava inattaccabile. Insomma, prima di comunicarmi una notizia importante dovrai sempre chiedere la mia autorizzazione.» «D'accordo.» «Ma torniamo all'oggetto della tua ricerca. La Menorah rimase quasi certamente a Roma fino al 534 e fu spesso esposta assieme ai tesori conquistati dagli eserciti imperiali. Quello di Giustiniano fu un periodo turbolento per l'impero, ormai diviso in due parti: Roma e Costantinopoli. Le invasioni dei Goti dilagavano in Italia, e la capitale sul Bosforo era scossa da rivolte interne. Persiani e Vandali premevano sul fronte asiatico e su quello africano. «Belisario, comandante delle armate imperiali, prelevò la Menorah, il tesoro del Tempio di Gerusalemme e parte di quello di Roma. La città non era più sicura, e riteneva più opportuno trasferirli a Costantinopoli, presso l'imperatore. «Da quel momento si sono perse le tracce del candelabro sacro. Si sa soltanto che per quasi un ventennio Belisario fu protagonista di cruenti scontri con i Goti. C'è chi sostiene che alcuni suoi fidi avrebbero celato la Menorah nell'isola Tiberina, chi invece dice che sarebbe nascosta nei sotterranei del Vaticano. Altri ancora sono convinti che sarebbe stata fusa, o presa dai Goti. E adesso a queste voci si è aggiunta la pista indicata nel diario che stai leggendo.» Laura stava studiando la Menorah nella foto del bassorilievo. «Quanto pesa?» «Brava. In Esodo 25, 39 sta scritto: 'Si farà con un talento d'oro puro, con tutti i suoi accessori'. Il kikkar, ovvero talento, è un'unità di misura piuttosto vaga, come se oggi si dicesse 'pesa un sacco'. Comunque, in base ai pesi e alle misure indicati nella Bibbia possiamo dire che un kikkar equivale a sessanta mine, che a loro volta corrispondono a tremila scicli. E ogni sciclo è pari a 24,4 grammi. Quindi, se esiste ancora, il candelabro dovrebbe pesare attorno ai settanta, settantacinque chili. Alcuni antichi testi, però, parlano di trenta chili, e anche questa è un'affermazione attendibi-
le, se si considera il solo candelabro e non il basamento.» La baby sitter di Chiara li interruppe, uscendo sul terrazzo: «Signora, Chiara si è addormentata. Se non ha niente in contrario mi ritirerei anch'io». Laura benedisse tra sé l'affetto con cui la giovane trattava la piccola, e le premure e le attenzioni di cui la circondava. Senza Constance non avrebbe potuto lasciare Chiara nemmeno per un'ora. «Comunque», riprese Oswald quando furono di nuovo soli, «Sara Terracini è in grado di fornirti ogni ulteriore spiegazione. Parigi ti aspetta, Laura.» «Chi altro farà parte del gruppo?» «Una... una esperta americana, ma con un ruolo più defilato.» Laura parve avergli letto nella mente. «La conosco?» «Be', diciamo che l'hai incontrata in un'altra veste, in una situazione... volatile. A proposito», e Breil guardò l'orologio, «se voglio essere a Gerusalemme per tempo devo sbrigarmi.» Prima di partire l'omino entrò nella cameretta di Chiara, la osservò a lungo dormire e le accarezzò la testolina con un gesto pieno di affetto. «Salutami Kevin, quando lo vedi.» «Non mancherò», rispose Laura, chiudendo la porta dell'ascensore privato. La aspettavano Antonio Fedeli, il monaco tibetano e la loro vita a Parigi. Parigi. 2 aprile 1789 Sono testimone di grandi avvenimenti e di situazioni tumultuose. La convocazione degli Stati Generali porterà cambiamenti radicali, forse drammatici. È stato mastro Duplay a farmi aprire gli occhi su molte realtà che mi erano sconosciute. Il mio lavoro prosegue comunque senza intoppi. Fra un mese circa dovrei consegnare l'hôtel particulier al marchese di Mont Brouillard. Tuttavia ne sto volutamente ritardando il completamento per non dover lasciare il vecchio atelier di Lanvin. Prima di andarmene voglio aver scoperto tutti gli indizi possibili per arrivare ad appagare questa mia vera e propria ossessione. Ormai sono assolutamente convinto che dietro quelle prospettive volutamente errate e quelle luci falsate si nasconda un mistero, e intendo venirne a capo. Che Pierre-Denis abbia nascosto qualcosa sotto quel fonte battesimale, o nei pressi? Ma, anzitutto, dov'è?
L'antipatia tra me e il mio astioso datore di lavoro ha raggiunto il suo culmine ieri, giornata di paga. Il marchese di Mont Brouillard mi ha accolto con tono altezzoso. «Signor Fedeli», ha esclamato, «avete anche il coraggio di pretendere il soldo? Sono mesi che vi pago, ma non mi sembra di poter dire che i risultati da voi ottenuti siano pari alle mie aspettative.» Ho tentato invano di ribattere, ma lui ha continuato: «Ho disposto il blocco delle vostre competenze fino a quando non mi consegnerete l'hôtel particulier finito e perfettamente attrezzato, con tutti, ripeto tutti, i bozzetti, progetti e disegni del maestro Lanvin, nessuno escluso. Dopo di che vi suggerisco di trasferirvi altrove: a Parigi non c'è posto per persone come voi». E io che con quel soldo volevo comperare l'anello di fidanzamento per Sofia. Ma il problema più grave è: che cosa farò? Dove potrò trovare lavoro in una Francia sconvolta dai tumulti? Come potrò rimanere vicino alla mia amata? Parigi. 5 aprile 1789 Come ogni domenica, ho passeggiato per la città in compagnia dell'amata. La nostra attenzione è stata attratta da un capannello di persone davanti alla bottega di un noto mercante d'arte, un toscano di nome Bartoli. Appena fuori della porta, lo stesso Bartoli stava indicando a un gentiluomo un dipinto montato su un cavalletto e coperto da un drappo di raso azzurro. «Signor conte», stava dicendo nel suo francese incerto, «questa che vi sto mostrando è un'opera giovanile di Guido Reni. Un oggetto di grandissimo valore, che potrebbe aggiungersi alla vostra collezione con una modesta spesa.» «'Modesta spesa' centomila livres, signor Bartoli?» ha replicato il conte di Beauregard, uomo ricchissimo e famoso per le sue raccolte d'arte. «Perdonate, signor conte, ma conosco bene la vostra passione per le cose belle. Nonché la vostra competenza. Ed ecco qui una cosa bellissima», ha insistito l'altro, rimuovendo il drappo con un gesto plateale. «Questo splendido dipinto del maestro Reni.» Il dipinto è apparso in tutta la sua bellezza. Troppo bello. Quanti giorni e notti avevo trascorso a studiare le opere dei grandi maestri? E come me lo aveva fatto Pierre-Denis. Con una differenza, rispetto a me: che ne era diventato un perfetto imitatore. Le sue magnifiche copie ci avevano consentito di pagare ben più di un conto, di toglierci da ben più di una situazione
difficile. Mio padre sapeva bene a chi venderle. Il rozzo Bartoli non aveva niente della sua abile arguzia. Ho deciso di avvicinarmi. Mi è bastato un rapido sguardo al presunto Guido Reni. «In guardia, signor conte», ho esclamato. «Quel quadro è un falso. Molto ben realizzato, ma falso.» «Chi osa ingiuriare un onesto mercante che fornisce da anni le più nobili famiglie di Francia?» ha chiesto Bartoli con un'espressione furibonda. «Antonio Fedeli, artista e...» «Signor Fedeli, sarebbe meglio che la vostra presunta competenza la dedicaste all'opera a cui state lavorando in maniera così poco proficua», mi sono sentito gelare da una voce fin troppo nota. Quella del marchese di Mont BrouiUard, di cui non avevo notato la presenza perché fino a quel momento era rimasto all'interno della bottega. «Un momento, signori», ha esclamato a quel punto il nobiluomo che aveva rischiato di subire il raggiro. «Ditemi, signor Fedeli, che cosa vi fa ritenere che quell'opera sia un falso?» Perché l'ho vista fare, avrei potuto rispondere. Ma non sarebbe stato un gesto molto astuto. «Sono nato in Italia», ho pertanto risposto, «e mi sono formato lì. Ho studiato a fondo gli artisti italiani.» «Ma che cosa vi fa affermare con tanta sicurezza che si sarebbe cercato di ordire una truffa ai miei danni?» ha insistito il nobiluomo, reprimendo con un gesto perentorio una nuova protesta del mercante italiano. «I colori, signor conte», ho improvvisato, «i colori. In troppi punti non sono quelli del Reni.» E, tornato davanti al capolavoro contraffatto, gli ho indicato i presunti particolari incriminati. «Siete sicuro di ciò che dite, signor Fedeli?» ha chiesto ancora il nobiluomo. «Senza il minimo dubbio, signor conte.» Bartoli non ha nemmeno cercato di dissimulare il suo furore, riuscendo soltanto a farfugliare qualcosa sulla sua buona fede. Poi, mostrando un'eccezionale agilità, ha cercato di dileguarsi. Ma pochi attimi dopo era di nuovo al cospetto del nobiluomo, con le mani legate dietro la schiena e due guardie ai fianchi. «Chiederò a Sua Maestà Luigi XVI di disporre che veniate rinchiuso alla Bastiglia», ha decretato il nobiluomo in tono di profondo disprezzo. Quindi, con un secco cenno della sinistra, ha ordinato alle guardie di portarlo via.
Quando il terzetto mi è passato vicino, Bartoli ha sibilato con uno sguardo da far paura: «Maledico ogni goccia del tuo sangue, Fedeli. Prega che io muoia, perché altrimenti sarai tu a morire». Ero ancora in preda a un brivido di inquietudine, quando il conte di Beauregard ha ripreso: «Signor Fedeli, vi ringrazio e vi chiedo, una volta terminato il vostro incarico presso l'esimio marchese di Mont Brouillard, di volervi mettere al mio servizio come mio personale esperto d'arte». Ero al settimo cielo. L'ho ringraziato diffusamente, trattenendomi a stento dal baciargli le mani. Il conte di Beauregard mi ha congedato con un gesto magnanimo. Ma invece di allontanarmi mi sono avvicinato di nuovo al dipinto. Volevo vedere la firma del mio amico e maestro. Pierre-Denis firmava sempre le sue copie con un tocco di colore rosso in un angolo, quasi invisibile. Infatti eccolo lì, nell'angolo in alto a sinistra. Un puntolino rosso. Parigi. 13 aprile 1789 La certezza di poter rimanere a Parigi ha dato nuove ali al mio lavoro, e ogni momento libero lo dedico a Sofia. Mancano soltanto ventidue giorni alla convocazione degli Stati Generali. Ho sentito dire che qualcuno - i massoni, sembra, o il duca d'Orléans - avrebbe diffuso a tutti i dipartimenti di elettori un modello di esposto sulle grandi riforme che il popolo reclama e soprattutto sulla definizione dei poteri regi e di quelli della Costituzione. Un esposto da riportare nei cahiers de doléance. Ma per me tutto ciò non è che un vago rumore di fondo: la mia ossessione continuano a essere i messaggi di Pierre-Denis. Sono sempre più convinto che abbia portato con sé nella tomba un segreto, lasciando una scia di indizi da decifrare. Parigi. 27 aprile 1789 Pare che ieri un signore elegantemente vestito - Luigi Filippo Giuseppe d'Orléans, detto «Égalité» - abbia tenuto un'arringa agli operai dell'officina di carte da parati Réveillon, asserendo che il padrone voleva ridurre la paga a quindici soldi al giorno. Si pensi che una libbra di pane ne costa sette. Gli operai, esasperati dalla miseria in cui versano, hanno distrutto la fabbrica e poi si sono scontrati con le guardie regie. Ieri sera c'erano cento-
trenta morti allineati davanti al Palais Royal, e i feriti sono oltre trecento. Mentre, al lavoro nell'hôtel particulier, riflettevo su queste sciagurate notizie, mi si è avvicinato Guglielmo, uno dei giovani inservienti assoldati da Namling tra quelli che già lavoravano con Pierre-Denis Lanvin. «Devo confessarvi una cosa», mi ha detto a occhi bassi. «Ho saputo che avete smascherato un mercante d'arte davanti al conte di Beauregard. Desidero dirvi che lo conosco, e che lo conosceva molto bene anche il maestro Lanvin.» Quindi mi ha rivelato che Bartoli e Pierre-Denis si frequentavano regolarmente. Negli ultimi tempi Lanvin sembrava aver perso ogni ritegno. Aveva bisogno di denaro, sempre di più, ed era pronto a tutto. Quello che un tempo consideravamo poco più di un gioco, per divertirci alle spalle degli allocchi a cui riuscivamo ad affibbiare un dipinto contraffatto, negli ultimi tempi per lui era diventato una professione a tempo pieno. Ma doveva esserci anche qualcos'altro, mi ha detto il giovane: infatti Bartoli gli aveva promesso un compenso perché lo tenesse informato nei minimi particolari di tutto ciò che Lanvin faceva. Ma adesso Guglielmo sembrava davvero pentito di quanto aveva fatto. «Un giorno», ha continuato a raccontare, «il maestro Lanvin ha cominciato a trascurare i lavori nell'hôtel particulier, uscendo da solo o tutt'al più in compagnia di Namling. Un pomeriggio, vedendo che se ne andava da solo, gli ho chiesto se voleva che lo accompagnassi. Mi ha risposto di no, di continuare con il lavoro che mi aveva assegnato lì. E se n'è andato. «Ma io», ha continuato il ragazzo, «un po' nella speranza che questo potesse procurarmi una buona cifra da parte di Bartoli e molto più per curiosità, l'ho seguito di nascosto per vedere che cosa faceva. E, dopo una lunga camminata, l'ho visto entrare di nascosto nella chiesa di Saint-Cyprien.» «Nella chiesa di Saint-Cyprien?» ho buttato là in tono falsamente distratto. Ma avevo il cuore in gola. Doveva essere la chiesa dei bozzetti di Lanvin. «E che cosa ha fatto?» «Se devo essere sincero, non lo so. È sceso nella cripta e si è chiuso la porta a chiave dietro le spalle.» «Nella... cripta?» ho chiesto, faticando a ostentare lo stesso tono di scarso interesse. «Sì, proprio», ha risposto il ragazzo in tono affranto. «E io l'ho riferito a Bartoli. Non credevo di far niente di male.» Ma a quel punto i suoi occhi si sono fatti lucidi di lacrime. «Il mattino
dopo Namling ha trovato il corpo del maestro senza vita nel giardinetto. Una morte orribile... e temo che possa essere stata causata dalle mie rivelazioni. Ho venduto la vita di un uomo per pochi soldi.» «Non potevi sapere, Guglielmo», ho cercato di consolarlo mentre scoppiava in singhiozzi. «Sempre ammesso che la morte del maestro Lanvin sia dovuta a un fatto delittuoso e non a un incidente.» «Un incidente, certo, si è detto così. Ma, stranamente, il giorno dopo il marchese di Mont Brouillard mi ha dato una cospicua cifra. Perché? Per il servigio che avevo reso a Bartoli?» Il marchese di Mont Brouillard... Che cosa ha da spartire con l'attività di falsario svolta da Pierre-Denis per conto del mercante toscano? Eppure è intervenuto a difesa di Bartoli anche quel giorno, quando l'ho smascherato davanti al conte di Beauregard. E perché l'ho sempre tra i piedi in quel modo? È interessato ai bozzetti della cripta? Per fortuna un benedetto istinto mi ha suggerito di non mostrarglieli. È anche lui in caccia del segreto che sto cercando di svelare? Tangula Shan. Racconto di Namling «Un segreto, lama Namling?» esclamò Tang Shen con occhi lustri di curiosità. «I bozzetti di quel pittore morto nascondevano davvero un segreto?» «Frena la tua impazienza, giovanotto. Avevamo ancora molto da fare per portare a termine il nostro lavoro. Antonio Fedeli non aveva tempo di dedicarsi ad altro: aveva fissato la consegna dell'hôtel particulier al 5 maggio, giorno degli Stati Generali.» Parigi. 2 maggio 1789 È sera. Sto ultimando i ritocchi, quindi non ho tempo per prestare più di tanto attenzione alle voci sugli Stati Generali, che si fanno sempre più preoccupanti. Il barone d'Armance è venuto a farmi visita, per informarmi che siederà tra i nobili dell'assemblea. Ho appreso con disappunto che, per poter adempiere con la dovuta serietà a questo nuovo e gravoso impegno, ha rinunciato ai suoi incarichi a Venezia. Se non fosse per lui non avrei Sofia, questa vita agiata e un perfetto stato di salute, senza una goccia di vino. E, senza di lui, è improbabile che io torni a Venezia.
Ma ho una grossa novità. Questa mattina, seguendo le istruzioni di Guglielmo, ho trovato Saint-Cyprien. È una chiesa molto comune, in estrema periferia, nella zona della Plaine Montsouris. Non capisco quali restauri possa avervi fatto Lanvin. Tutto è molto vecchio e in stato di quasi abbandono. Ciò, mi ha spiegato uno scaccino dell'apparente età di Matusalemme, in conseguenza della morte, avvenuta ormai da alcuni mesi, dell'ultimo parroco, che non è mai stato sostituito. È morto prima ancora di Lanvin. Oltre a tutto, da qualche anno la zona viene usata come ossario per trasferirvi i malsani resti del Cimitero degli Innocenti, ed è stata rinominata les catacombes. Il fonte battesimale che sembra aver ossessionato il mio povero amico non è affatto importante come appare dai suoi bozzetti, ma piccolo. E non è nemmeno al centro della cripta sotterranea, bensì sulla sinistra della scaletta attraverso cui vi si accede. Posso soltanto ipotizzare che Pierre-Denis avesse progettato di sostituirlo con uno nuovo, più importante e accentrato rispetto alla struttura. O addirittura di spostarlo al piano terra, davanti all'ingresso principale. Non so. L'unico elemento di un qualche interesse sul fonte è la scultura in stucco di uno strano angelo in stato di rapimento estatico, che però non si capisce bene dove rivolga l'anelito del suo sguardo e verso che cosa punti il dito. Verso il pavimento? Verso una parete? Dio sarà nascosto lì dentro in una nicchia? È forse un interrogativo blasfemo, però non ho potuto fare a meno di pormelo. Mah, vedremo. Sta di fatto che lo stucco è stato realizzato da pochissimo tempo. Lo ha di sicuro fatto lo stesso Lanvin. Parigi. 4 maggio 1789 Oggi, finalmente, ho consegnato all'altezzoso marchese di Mont Brouillard il suo hôtel particulier. Mi spiace quasi aver realizzato una così bella dimora per una persona tanto odiosa, ma quando lavoro voglio sempre ottenere il meglio. E come me sembra pensarla anche l'ottimo Namling, la cui collaborazione è stata semplicemente preziosa. So già che qualcuno dei primi ospiti della dimora si affretterà a far notare che le decorazioni sono ormai antiquate, che nessuno, alla fine del XVIII secolo e mentre tutti vogliono anticaglie, si circonderebbe più di cineserie e consimile paccottiglia, ma la cosa mi lascia del tutto indifferente. Quali visitatori, poi? Se ho ben capito, il marchese, con tutte le sue arie da
Grande di Francia, riceve soprattutto gagliardi apprendisti carrettieri, molto giovani e altrettanto ben forniti nella zona dell'inguine. E li riceve con il favore delle tenebre, naturalmente. Vada all'inferno. Ho finito di penare per lui. Da domani comincerò a occuparmi della collezione del conte di Beauregard, in cerca di eventuali falsi. Mi auguro di essere all'altezza del compito. Non è facile. Soprattutto non mi sarà facile spiegare come mai capisco che sono falsi. Oceano Atlantico. Agosto 199... Breil era molto inquieto: molto probabilmente le informazioni da lui scambiate via computer erano state intercettate da nemici, e da chissà quanto tempo. Comunque non rinunciò all'abitudine di aprire la sua casella di posta elettronica: chi vi aveva accesso sapeva di non dover inviare lì notizie riservate. C'erano soltanto tre brevi messaggi. Il primo era di Sara: . Era già a Parigi, pronta a cominciare il lavoro. Nel secondo il sergente Bernstein gli chiedeva di conferire urgentemente con lui. Lo avrebbe fatto l'indomani. Ma già leggendo mittente e origine del terzo si sentì arrivare il cuore in gola. Il nome era reale, ma l'indirizzo no. Uno studiatissimo gioco di rimbalzi in rete rendeva impossibile risalire fino al nodo di posta elettronica da dove era partito il messaggio. Ed era anche impossibile rispondere. Diceva: . Aveva a che fare con un pazzo, un serial killer che amava sfidare i nemici e godere del proprio esibizionismo. La casella di posta elettronica non era una delle quattro di massima sicurezza di cui Oswald disponeva. Ma come aveva fatto Fasatne a procurarsi l'indirizzo e-mail del capo del Mossad? Adesso però aveva veramente bisogno di dormire. Gerusalemme distava soltanto poche ore di volo, ed era indispensabile che riposasse un po' prima della riunione con il suo staff. Parigi. 5 maggio 1789
Ho una grande notizia. Il conte di Beauregard ha acquistato dal marchese di Mont Brouilkrd l'atelier che è stato di Pierre-Denis Lanvin, e mi ha autorizzato a continuare a risiedere lì. Altre notizie, invece, sono gravi e sempre più tempestose. La grande Sala dei Menu era gremita. Il re si è alzato e ha aperto la seduta degli Stati Generali con un breve discorso, poi è stata la volta del guardasigilli Barentin, che ha esortato i rappresentanti a guardarsi dalle pericolose innovazioni volute dai nemici del re. Ma la folla aspettava soprattutto che si pronunciasse Necker, il cui discorso è invece stato puramente tecnico: ha parlato di conti e disavanzi. Durante tutta la riunione ho avuto di fianco il padre di Sofia, che non ha mai cessato di scuotere la testa. Al termine mi ha detto in un orecchio: «Ci aspettano tempi duri, signor Fedeli. L'aria è molto pericolosa». L'ho capito da tempo, ma che cosa posso fare? Oltre a tutto, so di essere vicino alla soluzione del segreto di Lanvin: mi manca forse un ultimo tassello. Mastro Duplay mi ha invitato a pranzo a casa sua. L'atmosfera particolarmente inquieta ha indotto la buona signora Duplay a cercare a tutti i costi di far scivolare la conversazione su argomenti meno impegnati, il più lontano possibile dalle problematiche della Rivoluzione. Ha voluto, per esempio, sapere tutto sulla mia abitazione. Come ci vivo, come ci lavoro, com'è fatta, com'è arredata. «Sarà meglio che ve ne andiate da lì», è intervenuto a un certo punto mastro Duplay. «È una casa che appartiene a un Grande di Francia, che immagino in queste ore stia pensando seriamente a emigrare in terre più sicure. E non appena scoccherà la scintilla della rivoluzione, il popolo la invaderà e si prenderà tutto. Quindi, mettete al sicuro al più presto tutto ciò che è vostro. «A proposito», ha continuato. «Non dimenticatevi di portare via il tavolo da lavoro del povero Lanvin.» «Il tavolo da lavoro?» ho chiesto. «Certo. Quello della zona delimitata a studio. Il tavolo e i tre scaffaletti. Tutta roba che ho costruito io su indicazione del maestro. Devo dire che era uno strano tipo, il vostro Lanvin. Aveva la mania dei ripostigli segreti. Una specie di fissazione. Me ne ha fatto realizzare uno anche in quel tavolo, spiegandomi lui stesso come farlo. Un'idea ingegnosa, devo dire. Chissà che cosa voleva nasconderci.»
«Non ne ho veramente idea», ho replicato con il cuore in gola. «E non sapevo nemmeno dell'esistenza di questo ripostiglio segreto.» «Quand'è così, sarà bene che vi diate un'occhiata. È un doppio fondo tra il penultimo e l'ultimo cassettino di destra, in basso. Lo si apre facendo girare di due scatti sulla sinistra il pomolo del cassetto inferiore, quando è completamente estratto, e poi premendolo a fondo. Comunque, non pensate di trovarvi chissà che cosa. È un vano molto ridotto. Può contenere tutt'al più qualche foglio. Sarà quasi sicuramente vuoto.» Parigi. 12 luglio 1789 Il 12 giugno, su richiesta del Terzo Stato, sono cominciati gli appelli per la verifica dei poteri dei rappresentanti. La ribellione è dilagata, con l'adesione di molti rappresentanti del clero. Il 17 l'Assemblea Rivoluzionaria, presieduta da Bailly, si è data il nome di Assemblea Nazionale, e il 20, trovata chiusa la Sala dei Menu, i deputati hanno occupato la Sala della Pallacorda. Lunedì 22 giugno, mentre ero nella chiesa di Saint-Cyprien in cerca di quello che spero sia l'ultimo degli indizi che mi stanno togliendo il sonno, ho visto arrivare un gruppo di musicisti favorevoli all'Assemblea Nazionale. Con tutti gli edifici che ci sono a Parigi, hanno deciso di installare proprio lì la sede delle loro riunioni. Credo che il concetto stesso di monarchia stia per crollare: il re è in minoranza quale che sia il criterio di votazione. Corre voce che un'ottantina di nobili liberali, tra cui Gustave de La Croix, abbiano aderito al nuovo corso. Io spero soltanto che i musicisti trovino presto un'altra sede, lasciandomi libero di continuare la mia ricerca in Saint-Cyprien. Intanto Parigi è sconvolta ovunque da focolai di rivolta. Parigi. 14 luglio 1789 È la Rivoluzione. Le notizie si susseguono incessanti, confuse, terribili. All'alba i rivoltosi hanno saccheggiato l'Hôtel des Invalides, impadronendosi di tutte le armi da fuoco e da taglio. Il corteo ha poi puntato sulla Bastiglia. Quando il governatore del carcere, Launay, ha offerto la capitolazione della fortezza in cambio della vita degli occupanti, e sono stati abbassati i ponti levatoi, una folla bramosa di vendetta si è riversata oltre le mura.
Launay è stato trascinato all'Hôtel de Ville e poi impiccato in place de Grève. Nella prigione si trovavano soltanto cinque carcerati, tutti liberati dalla folla. È molto probabile che tra di essi ci sia anche Bartoli, il truffatore che mi ha giurato vendetta. Parigi. 10 ottobre 1789 È finita. I popolani stanno invadendo e saccheggiando tutte le proprietà dei nobili. Prima o poi arriveranno anche qui, in quella che ai loro occhi è una proprietà del conte di Beauregard. Dobbiamo andarcene, anche se proprio questa notte Namling e io siamo arrivati al bandolo della matassa e abbiamo scoperto il segreto. Abbiamo visto il tesoro. Seguendo le istruzioni di mastro Duplay, ho aperto il vano segreto nel tavolo da lavoro di Lanvin. Non vi ho effettivamente trovato molto: un semplice foglio. Una lettera indirizzata a me. Meglio: una copia di quella che avrei dovuto leggere a Venezia e che la sciagurata marchesa di Asolo ha gettato nel camino. Leggendola, mi sono sentito riempire gli occhi di lacrime. Lanvin mi dichiarava tutto il suo affetto e l'amarezza per la nostra forzata separazione dopo la sua decisione di andare a Rennes-le-Château. Mi diceva inoltre di essersi impegnato con mio padre, sul suo letto di morte, ad aiutarmi sempre ad affrontare la vita. Un impegno, diceva, a cui non sarebbe mai venuto meno, visti gli obblighi di gratitudine nei confronti di mio padre, l'abile mercante che tante volte lo aveva aiutato a togliersi d'impaccio. Ma non è tutto. «Da Rennes-le-Château», continuava la lettera, «ho portato un tesoro. Un tesoro che, lo so già, mi costerà la vita. Su di esso si stanno scatenando troppe cupidigie. Mentre io, in caso di mia morte prematura, desidero che esso diventi tuo, per l'affetto che ti porto e in ossequio a quanto ho promesso a tuo padre. Sta' molto in guardia, Antonio. Non so se la mia lettera ti raggiungerà mai, senza prima essere letta e forse distrutta dai miei nemici. Per questo ne celo qui una copia. Dio ci assista. Leggi le mie istruzioni, studiale e seguile con cura. Il timore che questa mia cada nelle mani del nemico mi vieta di essere chiaro nell'esporle. Ma so che tu capirai. Addio.» Seguiva una serie di indicazioni. Una sorta di mappa del tesoro, invero molto confusa. Ma Namling e io l'abbiamo decifrata. Siamo andati alla
chiesa di Saint-Cyprien e abbiamo seguito punto per punto le istruzioni. Sono letteralmente sconvolto, non riesco ancora a capacitarmi di ciò che abbiamo scoperto, ma per adesso Namling e io abbiamo ritenuto opportuno lasciare ogni cosa al suo posto. Sento urla e schianti al portone. La mia dimora viene invasa. Debbo scappare. Riporto qui le istruzioni del foglio lasciatomi da Lanvin: - Il particolare più volutamente errato. (È stato facile individuarlo, aggiungo io: non poteva che essere il fonte battesimale, con le sue misure e luci tutte sbagliate.) - Ciò cui anela l'angelo caduto - Aldilà - Fermati... - La rosa piegata - Esodo 25 Miami. Agosto 199... Esodo 25... Il diario terminava con queste due parole, senza un punto né una virgola, niente. Antonio Fedeli aveva dovuto interrompersi lì e mettersi in salvo. Laura Joanson sentì un senso di amaro in bocca. Probabilmente il veneziano aveva perso il diario nella concitazione della fuga dall'atelier. Ed esso era stato ritrovato da uno dei popolani che avevano fatto irruzione nella casa. Forse quello stesso David Serero di cui le aveva parlato Oswald Breil. Ma che cosa poteva significare l'annotazione biblica? La rilesse diverse volte di seguito, come per trarne un'ispirazione. Esodo 25... Ma finalmente si picchiò una manata sulla fronte e rilesse l'epigrafe del testo tradotto per conto del Mossad: «Farai un candelabro d'oro puro: farai d'oro massiccio il candelabro, con il suo tronco e i suoi rami; avrà i suoi calici, le sue corolle e i suoi fiori» (Esodo 25,31). Seguendo gli indizi lasciati dal suo amico e protettore, Antonio Fedeli aveva davvero scoperto quanto indicato in Esodo 25? Aveva trovato la sacra Menorah? Possibile? E se si fosse inventato tutto? Nel diario ammetteva lui stesso di essere un falsario.
Gerusalemme. Sede del Mossad. 31 agosto 199... «Effetto Mary Poppins?» chiese Breil tra il curioso e il divertito, anche se sapeva che Derrick Erma, responsabile del Dipartimento Planning e Coordinazione dell'Istituto, non aveva la minima propensione per gli scherzi. «È una particolare turbativa dei mercati finanziari, che prende il nome dal famoso libro», rispose puntigliosamente Erma. «Si tratta della corsa al disinvestimento in seguito a voci di insolvenza di una banca. Se non riusciamo a stanare Hytham Fasatne, diamo fuoco alle sterpaglie vicino alla sua tana. Prima o poi verrà allo scoperto. Il suo impero si regge sulla Luxbank, con sede in Lussemburgo. Sa che succede quando i risparmiatori corrono in massa agli sportelli di una banca chiedendo indietro i loro soldi?» «Nessuna banca ha riserve liquide sufficienti per far fronte a una simile richiesta. Credo sarebbe il fallimento.» «Esatto, maggiore. Quindi, seguendo le sue istruzioni ho dato disposizione per l'acquisto sulla borsa di Francoforte di una robusta quantità di azioni Luxbank. Poi diffonderemo voci di insolvenza, aspetteremo il prevedibile ribasso e butteremo queste azioni sul mercato a livelli stracciati, nella speranza di riuscire a creare panico. Costo dell'operazione, calcolato il delta tra prezzo d'acquisto e quello di vendita delle azioni, dai trecento ai cinquecentomila dollari.» Oswald annuì, meditabondo. Una notevole perdita per i contribuenti israeliani. Ma avrebbe inferto un colpo durissimo al nemico. I suoi uomini avevano lavorato magnificamente. Sapeva ormai tutto di Fasatne. Ma, nonostante gli sforzi profusi, il particolare più importante continuava a sfuggire: dov'era? Tutte le sue residenze erano sotto stretta sorveglianza, così come ogni sede delle sue società e linea telefonica. Ma il libanese sembrava essersi volatilizzato, e con lui la Rosa del Deserto. Conclusa la riunione dei collaboratori di massimo livello, nell'ufficio di Breil entrò il sergente Bernstein. Discendeva da una famiglia di ashkenaziti, ebrei dell'Europa orientale. Aveva un carattere all'apparenza timido, ma capace di scatenarsi nei campi di suo interesse. Il suo pane quotidiano - e anche notturno, a giudicare dagli orari - erano i computer e le comunicazioni. Presiedeva a tutte quelle dell'Istituto, riservate o no. «Ho riflettuto molto sul suo sospetto, maggiore», disse. «Mi lasci procedere passo per passo. Ogni volta che si desidera inviare un messaggio crip-
tato, si scrive prima il testo normale. È poi la macchina a codificarlo e renderlo comprensibile soltanto per il computer ricevente, purché sia dotato dello stesso programma di codificazione. Per la connessione ci serviamo delle normali linee telefoniche e sempre più spesso della rete Internet. La convinzione che non sia importante il mezzo quanto la qualità della codifica ci ha sempre dato ragione. Almeno finora. Nessuno conosce i nostri codici, tranne chi li crea, e li cambiamo ogni tre mesi.» «Allora?» Bernstein si accigliò. «Sa qual è l'origine remota del problema? L'obsolescenza dei computer. Nel giro di sei mesi, quella che può sembrare la più avveniristica delle macchine diventa un pezzo d'antiquariato.» Lo sguardo di Oswald corse istintivamente alla busta di pelle nera che conteneva il suo portatile: un vero mostro della tecnologia, con altoparlanti, telecamera, modem, lettore di CD e tutto ciò che è possibile infilare in un paio di chili di peso. Bernstein sorrise amaro: «Sì, maggiore, ha capito. Il problema sta proprio nell'ultima fornitura di queste macchine. Come sempre, ho provveduto io stesso a vaccinare i nuovi acquisti con il nostro debugger, una procedura in grado di segnalare qualsiasi possibile falla del sistema operativo. Ma non mi sono accorto che c'era stata un'infiltrazione. Qualcuno, prima della consegna dei portatili, è riuscito a caricarvi un sofisticatissimo programmino, invisibile per i nostri occhi e per il debugger. «Spiegare tecnicamente come funziona è molto complicato, ma penso le basti sapere che è un programma in grado di carpire il testo prima che venga criptato e poi, quando si apre un collegamento con l'esterno, di inviarlo in chiaro a un certo indirizzo elettronico, con un procedimento molto simile alla connessione telefonica parallela.» «Chi ha effettuato questa fornitura 'bacata'?» «Una ditta inglese. Insospettabile. Ma abbiamo scoperto che lo stoccaggio delle macchine viene effettuato da un'altra ditta, che cede in affitto magazzini in diverse zone del mondo. E una quota di questa seconda ditta appartiene a una certa banca lussemburghese.» «La Luxbank?» «Esatto.» «Fasatne... Che cosa facciamo?» «Potrebbe forse bastare riformattare a basso livello i dischi fissi dei computer, con riscrittura della superficie, cancellando tutto ciò che contengono dopo aver duplicato su un altro supporto i file che non si possono
perdere. Ma il programmino è furbo. Probabilmente si tratta di un 'Cavallo di Troia'. Potrebbe, cioè, aver fatto attaccare i file da un virus che lo autoriproduce, per cui tornerebbe a caricarsi sui nostri computer ogni volta che apriamo uno di questi file dal supporto esterno. Quindi la soluzione migliore è cambiare i dischi fissi e non aprirvi più quei file, che possiamo benissimo consultare su macchine non collegate in rete e intanto bonificarli con calma, cercando il 'Cavallo di Troia' e distruggendolo.» «Quanto tempo occorre?» «Per scoprire il virus nei file ci può volere un po'. Ma per sostituire i dischi fissi nei computer che abbiamo qui ci mettiamo poco. Qualche giorno, comunque. Più tempo ci vorrà per le macchine che non sono in sede. Dovremo farle tornare qui, o mandare tecnici sul posto.» «Però abbiamo un vantaggio», disse pensosamente Breil. «Chi ci ha regalato il 'Cavallo di Troia' non sa che sappiamo. Quindi possiamo depistarlo. Teniamo qualche macchina così com'è, 'bacata', e continuiamo a usarla per spedire notizie di poco conto. Non false, mi raccomando, abbiamo a che fare con gente sveglia. Notizie vere ma prive di importanza. Lo farò anch'io. Quindi mi lasci la macchina bacata e me ne procuri una seconda pulita.» Parigi. 2 settembre 199... Laura entrò nella hall dell'albergo mentre il personale si preoccupava di scaricare i bagagli dal taxi. Sara posò il giornale che stava sfogliando distrattamente, si alzò e le andò incontro. «Che gioia rivederti», esclamò, tendendole la destra con un largo sorriso. Invece di stringerle la mano, Laura la abbracciò. Il senso di amicizia e stima creatosi tra loro fin dal primo incontro si era radicato. «Salgo ad aiutarti a disfare i bagagli», disse Sara, «così parliamo un po'.» La stanza di Laura era confortevole. Sistemati i pochi bagagli, le due amiche sedettero una di fronte all'altra sui due letti gemelli. «Fino a che punto conosci i presunti spostamenti della Menorah?» chiese Sara. «Breil è arrivato a parlarmene fino a Belisario.» «Eh, no, c'è molto di più. Hai bisogno di un supplemento di informazione. Se non sei stanca, provvedo io.»
«Volentieri», rispose Laura, sfilandosi i mocassini comperati a Milano e allungandosi sul letto. «Sono tutta orecchi.» «Sono quasi duemila anni che il popolo ebraico rincorre il sacro candelabro. E nel corso di queste ricerche sono state raccolte infinite indicazioni. Alcune con riscontri, altre pure e semplici voci. C'è chi dice che la Menorah sia ancora a Roma, chi afferma sia su una nave romana affondata nei pressi delle coste africane, chi sostiene che sia andata perduta per sempre e che l'oro della sua fusione sia servito per ornare le armature dei Goti.» Sara si alzò e si mise a camminare per la stanza, quasi che parlare della Menorah le impedisse di stare ferma. Era vestita in maniera informale: un paio di jeans e una maglietta sportiva, che però facevano risaltare ancora di più le sue forme scultoree. «Ma una di queste voci», continuò, «appare particolarmente importante ai nostri fini, perché si collega direttamente con il diario di Antonio Fedeli. Poco più di cento anni fa, nel 1885, in un paesino sperduto della Linguadoca, nel sud della Francia, padre Bérenger Saunière fu nominato parroco di Rennes-le-Château. Nel 1891, nel corso di alcuni lavori di restauro alla chiesa, vennero alla luce alcune pergamene antiche, nascoste in un pilastro cavo dell'altare. La canonica aveva sempre vissuto di magre elemosine, ma cinque anni dopo il ritrovamento padre Saunière cominciò a spendere come re Mida. Interrogato dal vescovo sull'improvvisa ricchezza, dichiarò che si trattava di donazioni di ricchi benefattori, di cui non gli era consentito rivelare l'identità, dato che aveva appreso i loro nomi nel segreto del confessionale. «Ma io - e a dire il vero molte altre persone - sono convinta che alla base di questa improvvisa ricchezza ci siano quelle antiche pergamene. Secondo alcuni si sarebbe trattato di brani del Vangelo. Io invece credo che fossero la chiave per arrivare al tesoro di re Salomone. Facciamo un salto indietro di millecinquecento anni. I Visigoti, guerrieri di stirpe gallica, mettono a sacco Roma nel 410 dopo Cristo. E sempre Visigoti sono quelli contro cui combatte per vent'anni Belisario, il generale di Giustiniano che la leggenda vuole abbia prelevato il tesoro di Roma per portarlo all'imperatore a Costantinopoli. Destinazione, peraltro, mai raggiunta.» Sara fece una pausa per riprendere fiato e poi continuò: «La chiesa di Rennes-le-Château, che risale al 1056, sorge sull'ultimo baluardo dei Visigoti: una rocca tanto ben protetta da costituire il rifugio per la vecchiaia di valorosi re che andavano lì a morire, spesso portandosi dietro segreti e tesori.
«Ma altre strane circostanze mi inducono a pensare che padre Saunière abbia trovato il tesoro di re Salomone. In quelle pergamene apparirebbero spesso le parole 'Sion' e 'Tesoro'. E a guardia dell'ingresso della chiesa, l'ormai ricchissimo prete ha fatto mettere un'immagine molto particolare: quella del demonio Asmodeo, che secondo lo Zollar sarebbe un demone 'positivo' o 'giudaico', accetterebbe la Torah e avrebbe anche aiutato Salomone a costruire il Tempio di Gerusalemme». «Ma la vicenda di Fedeli e Lanvin», obiettò Laura, «si svolge un secolo prima. Che cosa c'entra questo Saunière?» «Lui niente», replicò Sara. «Ma c'è dell'altro.» E dopo averle porto alcune fotocopie scure continuò: «Sono copie delle pagine del diario della canonica, e parlano di un restauro precedente. Avvenuto nel 1785. Guarda come si chiama il pittore che avevano ingaggiato, e che dopo due anni di lavoro li ha misteriosamente piantati in asso.» «Pierre-Denis Lanvin!» esclamò Laura. «Vorresti dire che Lanvin sarebbe arrivato al tesoro cento anni prima di Saunière?» «Proprio, e forse gli indizi che hanno portato il prete fino al tesoro di re Salomone erano stati anch'essi 'confezionati' dal pittore. A quanto pare ci riusciva molto bene. Chissà. Comunque, secondo me, Lanvin ha prelevato quello che poteva e poi si è messo a cercare i mezzi per asportare tutto il tesoro. Che cosa pensi potesse sollecitare qualche finanziamento, se non il pezzo forte della collezione?» «La Menorah!» esclamò ancora Laura. «Ma certo! Lanvin non poteva caricarsi in spalla l'intero tesoro di re Salomone, quindi se n'è andato da Rennes-le-Château portando via soltanto il candelabro. Doveva trovare qualcuno con cui organizzare il recupero: persone abbastanza disoneste da mettere le mani su un tesoro sacro, ma abbastanza oneste da non accopparlo per prendersi il bottino.» «A quanto pare, però, non ce l'ha fatta. Antonio Fedeli arriva a Parigi proprio per sostituirlo dopo la sua oscura morte. Comunque, cento anni più tardi, su Saunière piove una ricchezza enorme e inspiegabile.» «Già, Saunière», le fece eco Laura, in tono quasi abbattuto. «Il tesoro lo ha recuperato lui.» «Quella è un'altra storia, Laura, e la stessa azienda che sponsorizza il nostro lavoro 'di restauro' nelle catacombe sta cercando di fare la stessa cosa anche per la chiesa di Rennes-le-Château. Per adesso, però, con scarsi risultati: gli abitanti del paesino sono talmente angosciati dai cercatori di tesori che i campi sono pieni di cartelli con scritto VIETATO SCAVARE.
Ma secondo me la Menorah è ancora nel nascondiglio dove l'hanno lasciata prima Lanvin e poi Fedeli. Cioè, spero proprio che...» Fu interrotta da un colpetto alla porta. «Credo sia la dottoressa Shamah», disse. «Timna Shamah, un'esperta americana che Oswald ha voluto partecipasse alla missione.» Malgrado si fosse tagliata i capelli cortissimi e non fosse in divisa da hostess, Laura riconobbe Timna non appena si affacciò sulla soglia. La giovane sefardita tuttavia le si presentò come se non l'avesse mai vista. Chiese con educazione se poteva entrare, e poi si sedette in una poltroncina. Era onorata, disse, di poter lavorare con due persone così autorevoli in materia di recupero di oggetti e documenti antichi. Gerusalemme. 2 settembre 199... «È possibile», chiese il primo ministro in tono non precisamente amichevole, «che un personaggio come Hytham Fasatne sparisca, e che l'intero Istituto non riesca a scovarlo?» «Fasatne sa nascondersi come un ragno», replicò Breil, «tendere ragnatele, pianificare agguati. E dispone di flussi di denaro che si aggirano sui sei miliardi di dollari annui. Soltanto per le attività lecite. Mi lasci lavorare, Eccellenza, e riuscirò a neutralizzarlo.» «Certo che la lascio lavorare, maggiore. Ma per agevolarla ho chiesto ai corpi speciali della difesa di affiancarla.» «Un'indagine parallela? Non pensa che rischiamo di compromettere l'esito delle indagini?» «Penso che due teste ragionino meglio di una.» «Sì, ma fanno anche più rumore quando si scuotono.» Per Oswald era una sconfitta, ma non si sentiva di dare torto al premier. Hytham Fasatne era introvabile e dal suo rifugio dettava condizioni e lanciava minacce. Ma non condivideva la scelta del premier: non gli piaceva avere tra i piedi il servizio informazioni militari. Tanto più che le indagini sembravano a una svolta. PARTE SECONDA IL NEMICO 7
Washington. 2 settembre 199... In redazione c'era il solito caos. Come sempre, sembrava che il mattino dopo sarebbe stato impossibile far arrivare in edicola il Capitol Tribune. Del tutto immune da simili preoccupazioni e al riparo dei vetri del suo ufficio, Paul Craigh gesticolava in toni entusiastici. Di fronte a lui, Vincent Duffy scuoteva leoninamente la chioma rossa. «Sei in gamba, Vincent. Sono contento di averti voluto al mio fianco.» Espressioni riduttive, sulla scala dei valori di Craigh. Duffy sembrava la personificazione del motto: «la notizia a ogni costo». Lo stesso che aveva sempre ispirato il suo caposervizio. Ma con l'età i bollori giovanili di Craigh si erano stemperati, e le necessità economiche erano cresciute con progressione geometrica. Craigh accettava ormai da tempo «favori» di uomini politici e colossi industriali in cambio di articoli abilmente addomesticati. E l'ultimo di questi favori era rappresentato dall'offerta di Hytham Fasatne con la sua emittente satellitare SatWorld, un colosso mondiale dell'informazione: capo dei servizi giornalistici, un magnifico coronamento di un'abile carriera professionale. L'incarico sarebbe però stato suo soltanto se avesse risolto il mistero che sembrava rimandare a Laura Joanson. Voleva a tutti i costi riuscirci. E a questo fine intendeva utilizzare le strutture del grosso quotidiano dove lavorava. «Però dobbiamo agire nei limiti della legalità, Duffy.» «Sono fluidi», rispose flemmaticamente l'altro. «E capita spesso di superarli.» «È vero, ma potremmo esporci a qualche pericolo», obiettò Craigh, motivato non tanto da paterna preoccupazione nei confronti del suo protetto, quanto dall'urgenza di valutarne il grado di affidabilità. «Basta fare bene il calcolo di costi e benefici: quanto più grosso può essere lo scoop, tanto più si deve essere disposti a correre rischi.» Tra i due c'era una sola differenza, pur nell'identità di intenzioni: le azioni di Craigh erano ormai finalizzate soltanto all'accumulo di denaro; quelle di Duffy erano ancora dettate dalla bruciante volontà di fare carriera. Due ore più tardi il giovane giornalista si imbarcava su un volo per Miami. Arrivò appena in tempo per trasbordare su un Air France diretto a Parigi. I passeggeri della business e della prima classe erano già stati im-
barcati. Bene, benissimo, pensò. È meglio che Laura Joanson mi veda il meno possibile. Potrò tenerla d'occhio più a lungo. Milano. 4 settembre 199... I due magistrati ascoltarono attentamente Oswald Breil per circa tre quarti d'ora. Poi Alberto Vite, capo della DIA, la Direzione Investigativa Antimafia, si rivolse al collega più giovane: «Ricapitoliamo, dottor Danzi. Il maggiore Breil ci ha detto che ogni volta che la scuderia Bradwood partecipa a un Gran Premio di Formula Uno, in quel paese arriva un grosso quantitativo di cocaina. Secondo i rapporti dei servizi israeliani, la droga viaggerebbe nascosta negli pneumatici che le due vetture della scuderia montano durante gli spostamenti internazionali. Contrariamente a tutte le altre scuderie, la Bradwood non usa pneumatici a battistrada ristretto nel corso del trasporto. Insomma, sembra che se ne freghi dei benefici in termini di peso e maneggevolezza, e continua a montare gomme larghe come quelle da competizione. «Gli agenti del maggiore Breil, inoltre, sono riusciti a calcolare il peso delle auto in assetto da trasporto: appena scaricate, senza lubrificanti, carburante e pilota, pesano più che in assetto da gara.» Oswald aveva però taciuto di proposito il punto per lui fondamentale: il coinvolgimento di Fasatne. Alle autorità italiane bastava sventare un traffico internazionale di droga, non c'era bisogno di coinvolgerle in questioni riservate dello Stato israeliano. Ma stroncare quel traffico avrebbe significato infliggere un altro durissimo colpo alle finanze del suo introvabile nemico. Silvio Danzi era un sostituto procuratore giovane ma molto preparato. Aveva seguito e concluso un filone importante dei processi per corruzione che non avevano ancora finito di sconvolgere l'Italia. «Secondo le nostre informazioni», disse, posando gli occhiali sul tavolo, «il famoso pilota ha qualche problema, come dire... di famiglia. Alfredo Trasi è figlio unico di Nino Salvatore Trasi, sospettato di essere stato capo mandamento di Santa Rosalia a Palermo e scomparso per lupara bianca quando il bambino aveva soltanto cinque anni. Del piccolo e degli affari di famiglia si è preso cura uno zio materno. «Comunque il giovane Trasi non sembrerebbe coinvolto nelle attività mafiose della famiglia. Ha studiato nei migliori collegi europei e poi in
America, dove si è trasferito a sedici anni presso un altro zio, Salvatore Rascini, sospettato da anni di essere il capo di Cosa Nostra negli Stati Uniti. Lì nasce la sua passione per i motori, e a soli diciotto anni è già campione continentale di una formula minore. Tornato in Italia è arrivato alla Formula Uno, e da tre anni corre per la Bradwood Café de Iguaçú. Da noi è diventato un idolo: tutto il paese fa il tifo per lui.» «Questo può ostacolare in qualche modo le vostre indagini?» chiese Oswald. «Assolutamente no, maggiore. Volevo soltanto farle notare che questi personaggi sono sotto osservazione da parecchio tempo, anche se non siamo mai riusciti a scoprire niente sul conto di Alfredo Trasi. Ma da ora in avanti sottoporremo la Bradwood a un controllo serrato: se le sue supposizioni troveranno conferma, interverremo immediatamente.» Breil annuì soddisfatto e si congedò, dopo aver scambiato i recapiti con il giovane giudice italiano. Il clima afoso del centro città lo avvolse non appena uscì in strada. Scrutò a lungo, dietro gli spessi vetri di una banca, il videoterminale delle informazioni di borsa. A giudicare dal clamoroso crollo delle azioni della Luxbank su tutte le piazze internazionali, i suoi uomini stavano lavorando molto bene. Chi aveva fatto uccidere Chaim Luria e continuava a sfidarlo cominciava a perdere terreno. Chissà come se la stava cavando Timna nei panni di una studiosa americana a Parigi. E le due amiche su cui doveva vegliare? Appena arrivato in albergo avrebbe provato a contattarle. Parigi. 4 settembre 199... Anzitutto Vincent Duffy si era tinto i capelli di nero: il suo color carota era individuabile a chilometri di distanza, e rimaneva sicuramente impresso. Poi si era messo sulle tracce della scrittrice e delle sue compagne. Non le avrebbe perse di vista un solo istante, pur cercando di non dare nell'occhio. E ogni sera si sarebbe messo in contatto con Craigh, negli Stati Uniti, dalla camera che aveva affittato in una pensioncina di rue de l'Université. Non doveva lasciarsi sfuggire niente: il più piccolo particolare poteva far luce sul mistero di cui lui e il suo caposervizio erano in caccia. Tangula Shan. Racconto di Namling «La confusione e il panico che regnarono a Parigi dopo l'ottobre 1789
furono indescrivibili», continuò a raccontare Namling. «Luigi XVI e Maria Antonietta furono condotti alle Tuileries con alcuni cortigiani. Il più grande vascello reale del mondo stava naufragando tra i flutti della rivoluzione. «Noi avevamo trovato un precario alloggio di fortuna in una locanda, dove stavamo praticamente sempre chiusi. Antonio Fedeli soffriva molto quella sorta di prigionia. Ciò che avevamo scoperto ma non potevamo prendere lo faceva fremere di impazienza. Ma non potevamo far niente. «Il conte di Beauregard, informato da Fedeli del suo nuovo alloggio, lo mandò a chiamare per dirgli che aveva deciso di emigrare in un paese meno pericoloso. Con questa decisione, il veneziano rimase senza lavoro e quasi senza mezzi. «Con due assistenti autorizzati, Fedeli aveva comunque ricevuto l'incarico di imballare le collezioni d'arte del conte di Beauregard per affidarle a gente fidata, che avrebbe provveduto a fargliele arrivare nella sua nuova dimora. Il compenso per quest'ultimo lavoro, molto rischioso, era cospicuo, e Fedeli, stretto dal bisogno, aveva accettato di buon grado. Uno dei due assistenti ero io, e di comune accordo scegliemmo come secondo Guglielmo, che ci sembrava il più intelligente dei garzoni. Persino troppo, avevo pensato in più di un'occasione.» Autodromo di Monza. 6 settembre 199... Due addetti alle pulizie lavoravano davanti al box della Bradwood. Nessuno avrebbe potuto individuare le due microcamere mobili nascoste nei loro carrelli di secchi per l'immondizia. Poco distante, nascosti in un lussuoso motor home con il marchio di una grossa emittente televisiva, Breil, Lasado, il giovane magistrato e un tecnico dei carabinieri tenevano sotto controllo le immagini che scorrevano su tre file di cinque monitor ciascuna. Quindici telecamere nascoste, alcune fisse e altre mobili, seguivano ogni mossa degli addetti della scuderia, fuori e dentro il box. Non un solo movimento poteva sfuggire alla finta stazione televisiva mobile. «Gli pneumatici usati per il viaggio sono stati smontati e depositati in questo angolo», spiegò Silvio Danzi. «Sono contraddistinti dalla scritta in gesso TRAVEL. Da quando le auto sono arrivate giovedì notte, nessuno li ha ancora toccati.» E il magistrato indicò un monitor in alto a sinistra. L'immagine era nitida, sebbene leggermente deformata dal grandangolo della microcamera. Le due pile degli otto pneumatici erano ben visibili, come la scritta in gesso
bianco sul battistrada. Oswald non aveva grande dimestichezza con il mondo della Formula Uno, in cui sembrava invece muoversi a suo totale agio Oberto Lasado. Il responsabile dei servizi israeliani in Sudamerica indossava una sgargiante maglietta rosso fuoco cor un marchio di sigarette sul taschino. Molti curiosi si sporgevano al di là delle corde che impedivano l'ingresso al paddock della Bradwood. Dentro, le due auto da Gran Premio erano affiancate e tenute sollevate da terra con cavalietti in acciaio. Attorno ai pneumatici montati per la corsa erano state disposte coperture elettriche con la funzione di portare la mescola alla temperatura ideale. I colori dominanti delle carrozzerie erano il giallo, il verde e il blu della bandiera brasiliana. In diversi punti spiccava la scritta rossa CAFÉ DE IGUAÇÚ. «Quella», disse Lasado indicando la vettura sulla destra, «è l'auto di Alfredo Trasi. L'altra verrà pilotata da Gurder, un pilota austriaco di secondo piano e del tutto estraneo alle attività collaterali della scuderia.» Sapeva che Oswald considerava della massima importanza tutti i dettagli tecnici, per cui proseguì: «La Bradwood è una meraviglia della tecnica. Il motore, un tremila centimetri cubici dieci cilindri a quattro valvole per cilindro, può erogare più di settecento cavalli». L'espressione interessata di Oswald lo indusse a continuare: «Ha un cambio sequenziale automatico, un congegno elettronico che consente di cambiare e scalare marcia semplicemente tirando una levetta di fianco al volante. I freni sono al carbonio, derivati da quelli degli aerei. La struttura è praticamente una freccia, lunga poco più di quattro metri e larga meno di uno e ottanta, progettata con la massima attenzione per l'aerodinamica. Una freccia in grado di raggiungere i trecentoventi all'ora pur rimanendo incollata all'asfalto. A pieno carico, escluso il carburante ma compresi pilota, acqua e lubrificanti, dovrebbe pesare seicento chili. Invece, nel corso dei trasferimenti le Bradwood ne pesano circa settecento senza pilota». I tre uomini si scambiarono una rapida occhiata. «Ecco Trasi», esclamò Silvio Danzi, indicando un monitor che inquadrava in campo totale il box. Il pilota stava entrando da una porta posteriore. Era già in tuta e calzari ignifughi. Procedette lentamente alla vestizione, quasi fosse un rito. Prima il passamontagna e i guanti, anch'essi in materiale ultraleggero e resistente al fuoco. Poi il casco, nero come la notte e senza alcuna scritta se non quella dello sponsor della scuderia. Infine Trasi entrò con mosse studiate nell'abitacolo del bolide, immediatamente accerchiato dai meccanici che ser-
ravano le cinture e collegavano il cavetto per il contatto radio e il tubo dell'ossigeno d'emergenza. Il rombo arrivò attraverso i microfoni fin dentro il motor home. La gara stava per cominciare. Breil, Lasado e Danzi non avrebbero però abbandonato la loro postazione. Qualcosa sarebbe potuto accadere durante lo svolgimento del Gran Premio, e secondo Oswald sarebbe successo proprio allora, mentre tutta l'attenzione era concentrata sulla pista. Parigi. 6 settembre 199... Le catacombe di Parigi sono aperte ai visitatori soltanto a giorni fissi. Quello era un giorno di chiusura, e le tre donne avevano l'agio di visitarle senza impacci dovuti alla presenza di estranei. Avevano scelto apposta quel giorno. Non avrebbero comunque dovuto incontrarne, visto che alla zona di loro interesse non era possibile accedere dalla porzione aperta al pubblico, ma non si poteva mai sapere. Il cortese addetto messo a loro disposizione dalla municipalità per la loro prima «ispezione» era stato scelto con cura e meticolosamente informato dell'opportunità che, una volta accompagnate le tre «studiose» nella zona di loro interesse, le lasciasse sole. Dal canto suo era più che contento di trascorrere la giornata in famiglia piuttosto che tra quelle rozze e macabre pareti. Le fece entrare per un cancello secondario e chiuso al pubblico, contiguo al Parc de Montsouris, e, scesi circa venti metri di scaletta tortuosa, le fece arrivare direttamente al punto di loro interesse. Per sicurezza, comunque, aveva con sé una mappa dettagliata delle catacombe, con tutti gli itinerari possibili per entrare e uscire, e prima di andarsene la lasciò alle tre signore insieme alla chiave del cancello. Non era possibile che si perdessero. Quindi le «studiose» rimasero in totale solitudine e libertà nei corridoi umidicci e bui. «Eccolo lì», gridò Timna, che precedeva le altre, puntando la torcia davanti a sé. Le altre due la raggiunsero subito e guardarono il punto indicato dalla bella giovane bruna. Ecco davanti a loro il fonte battesimale. Non era una grande scoperta. Sapevano già che lo avrebbero trovato in quella posizione. Si trovavano esattamente in quella che ai tempi della rivoluzione francese, prima della distruzione di Saint-Cyprien, era la cripta della chiesa. Gli «amici» di Breil l'avevano localizzata da tempo. Il problema, però, era
capire se il fonte battesimale fosse ancora rivolto nella stessa direzione, e cercare di decifrare le oscure indicazioni lasciate da Antonio Fedeli. L'angelo di stucco, chiaramente posticcio, era sul fianco del fonte, come indicato nel diario, e aveva effettivamente uno sguardo allucinato, più che estatico. A che cosa poteva «anelare»? Sara gli si piazzò davanti e lo scrutò attentamente a lungo, puntandogli addosso il fascio della torcia. «L'avrà davvero aggiunto Lanvin?» chiese, senza rivolgersi in particolare a nessuno. «Direi proprio di sì», rispose Laura, al suo fianco. «Comunque non può essere coevo della struttura del fonte. Guarda. E stato chiaramente appiccicato dopo. Si sta persino staccando.» «Già», annuì Sara. «Ma perché Lanvin avrà sentito il bisogno di piazzare qui un angelo così sconvolto e stravolto?» «Un angelo 'caduto'», precisò Timna. Sara si voltò di scatto e la fissò un attimo nell'alone di luce delle loro tre torce. Quindi, senza dire niente, infilò la destra nel borsone che portava a tracolla e ne estrasse una fotov «È un demonio, non un angelo!» esclamò. «Guardate: è identico all'Asmodeo che Saunière ha messo di guardia alla chiesa di Rennes-leChâteau.» «Vuoi dire...» «Voglio dire che Saunière deve in qualche modo aver ripreso l'idea da Lanvin. Chissà, forse da un suo diario o promemoria, corredato da un bozzetto. Non ci sono dubbi: questa figura è identica all'Asmodeo di Rennesle-Château.» «E credi che...» «Sì, credo proprio che Lanvin lo abbia messo qui di guardia alla sua parte di tesoro di re Salomone.» «Ma come avrà fatto a nascondere qui quella roba?» chiese Laura. «Sempre che l'abbia effettivamente nascosta qui», obiettò Timna. «Ormai è impossibile saperlo», rispose Sara. «Posso soltanto ipotizzare che abbia chiesto aiuto al parroco della chiesa, che era probabilmente un tipo disinvolto, alla Saunière. D'altra parte, come mai quei musicisti favorevoli alla rivoluzione hanno eletto a loro sede proprio la chiesa di SaintCyprien? Doveva essere un centro già noto per qualche motivo esoterico. Non lo scopriremo mai, ma non ci interessa nemmeno. «Il problema è: a che cosa 'anela' l'angelo caduto?» continuò Sara. «Tu e Timna salite lassù, su quel gomito della scala, e illuminate bene il fonte da
quella posizione. Bisogna capire meglio dove potrebbe guardare l'angelo. Sembra che guardi quella parete, ma dobbiamo avere le idee più precise. Io rimango qui.» Le due donne salirono circa quattro metri sopra il pavimento e, sporgendosi dalla balaustra in pietra, illuminarono la figura. «Forse è meglio se sali tu, Sara», gridò Laura. «Hai le idee più chiare di noi e probabilmente riesci a orientare meglio la luce.» «No», rispose Sara, aggirando lentamente il fonte battesimale, con lo sguardo fisso sull'angelo. «Guarda senz'altro la parete. Ma perché diavolo dovrebbe 'anelare' a un muro?» A quel punto tutto accadde in un baleno, mentre le altre due, impotenti, osservavano la scena dall'alto. Un uomo sbucò all'improvviso dal buio, gettandosi su Sara e colpendola alla testa con qualcosa, poi fuggì lasciandola riversa a terra. Timna e Laura si precipitarono giù per la scala e in pochi istanti furono accanto a Sara, che stava già riprendendo i sensi. «Che cos'è successo?» chiese l'italiana, massaggiandosi la testa. «Niente di grave, almeno per adesso», rispose Timna, che si sentiva in colpa per non averla saputa proteggere. «Ma a questo punto il tuo assalitore chissà dov'è. E, soprattutto, chissà chi è.» Nella sua fretta di tornarsene a casa, il cortese ma poco solerte funzionario della municipalità parigina si era comportato con leggerezza. D'altra parte, chi avrebbe mai potuto pensare che qualcuno avesse voglia di intrufolarsi furtivamente in quei cunicoli bui e maleodoranti, con il rischio di rimanerci chiuso e perdersi? Insomma, uscendo, il funzionario non aveva chiuso il cancello ma si era limitato ad accostarlo. Vedendo la scena, Vincent Duffy non aveva quasi creduto ai suoi occhi, ma non si era posto troppe domande: gli veniva concessa un'occasione d'oro e ne aveva approfittato subito, sgattaiolando oltre il cancello e raggiungendo di soppiatto le tre donne. Quando si erano fermate accanto al fonte battesimale, aveva cercato di avvicinarsi il più possibile per sentire ciò che dicevano. Era riuscito a nascondersi in un angusto vano tra una parete e la base di quella che un tempo doveva essere stata una colonna di sostegno di un edificio. Da lì aveva spiato le mosse delle tre donne e ascoltato ciò che dicevano, finché Sara Terracini, girando attorno al fonte battesimale per esaminarlo, non era arrivata a poca distanza da lui. Non poteva farsi vedere in faccia.
Aveva dovuto colpirla. Scappato come una lepre e recuperato il piano stradale attraverso il cancello socchiuso, si precipitò senza fiato nella sua pensione e salì in camera. Quando Craigh gli rispose al telefono, a Washington erano le dieci del mattino. «Ho una notizia bella e una brutta, capo.» «Prima la bella», rispose seccamente Craigh. «Le tre fate hanno scoperto qualcosa. Le ho sentite parlare di un angelo o di un demonio, non ho capito bene.» «Magnifico. E la brutta notizia?» «Sono stato scoperto. Ma non mi hanno visto in faccia. Ho dovuto dare una botta in testa a una delle tre.» «Uhm. Adesso potrebbero riconoscerti dal colore dei capelli.» «No, capo, mi sono tinto di nero appena arrivato qui.» «Ah, bravo. Ottima idea. Ma quale delle tre hai colpito? L'hai ferita?» chiese ancora Craigh. «L'italiana. Le ho fatto soltanto un bernoccolo in testa.» «Dobbiamo stare attenti a non far loro del male. Breil sa essere terribile se si toccano i suoi amici. Agisci con più cautela. Sono quasi sicuro che quelle tre ti porteranno alla pentola del tesoro.» 8 Autodromo di Monza. 6 settembre 199... «Ecco la classifica dopo ventisei giri del Gran Premio d'Italia. In prima posizione c'è sempre Alfredo Trasi su Bradwood, seguito dalle due Williams e dalla Ferrari», annunciò il telecronista. «Ed ecco i 'gommisti'», gli fece eco il tecnico incollato ai monitor nella motor home. Due uomini in tuta da meccanico erano entrati nel paddock deserto spingendo due carrelli. Sistemarono con notevole fatica una coppia di pneumatici su ciascuno di essi e li spinsero verso un furgone. Dopo pochi minuti ripeterono l'operazione con le altre due coppie. «Pronti a entrare in azione», ordinò il giudice Danzi, parlando sottovoce al microfono attraverso cui era collegato con ciascuno dei venti uomini del ROS dei carabinieri, piazzati in diversi punti dell'autodromo. «Sarebbe meglio seguirli e scoprire a chi consegnano gli pneumatici da svuotare», obiettò Oswald.
«L'ho pensato anch'io, maggiore, ma è un rischio», rispose il magistrato. «Un rischio controllato, direi, visto che abbiamo l'appoggio di due elicotteri e di una squadra di agenti specializzati. Comunque mi rimetto a lei.» Quaranta minuti più tardi il furgone con gli otto pneumatici svoltò in una stradina e scomparve in un'autofficina alla periferia di Milano. Gli incursori erano in tuta scura, con il volto coperto da passamontagna. Quando la carica di esplosivo al piastico divelse la saracinesca, ognuno di essi impugnava già l'arma. «Carabinieri», gridò il comandante. «Uscite con le mani in alto.» Dalla cortina di fumo dell'esplosione non arrivò risposta. «Uscite o apriamo il fuoco», ordinò ancora l'ufficiale. Questa volta la risposta furono alcune rabbiose raffiche di arma automatica indirizzate verso i militari, che replicarono al fuoco. Dieci minuti più tardi Breil e il giudice Danzi entravano nell'autofficina. I malviventi, tre oltre ai due arrivati dall'autodromo, avevano avuto la peggio: uno di essi giaceva a terra morto, gli altri quattro erano feriti. Danzi sollevò il telo che copriva il cadavere. «Antonio Jovine», esclamò. «Una vecchia conoscenza. Un gregario della mafia siciliana, che cura le attività secondarie delle famiglie qui a Milano.» Oswald era ormai sicuro che Danzi sarebbe riuscito a trovare le prove della complicità di Alfredo Trasi nel traffico di cocaina. E sapeva di aver chiuso uno dei maggiori flussi di finanziamento per Fasatne. Un rubinetto da cui sgorgavano otto milioni di dollari di profitto per trasporto. E per tutto il campionato, i Gran Premi si succedevano con cadenza quindicinale. Tangula Shan. Racconto di Namling «Rimanemmo in balia di una Parigi sconvolta da fame, freddo e miseria e afflitta da una violenza senza pari», continuò il racconto di Namling. «Ma per fortuna mastro Duplay, che aveva abbracciato la causa giacobina facendo un po' di carriera nelle gerarchie rivoluzionarie, venne in nostro soccorso. Ormai considerava Fedeli un suo futuro genero. «'I miei nipoti occupano soltanto due stanze di una mia casa nella corte della segheria', gli disse. 'Potete prenderne un'altra per tutto il tempo necessario. Ma, se non volete separarvi da loro, dovrete condividerla con i vostri due assistenti. Resta inteso che, non appena potrete, mi pagherete
una pigione. Anzi, a proposito di lavoro, avrei un consiglio, se non vi offendete.' «'Siete un uomo di cuore, Duplay. Come potrei offendermi?' rispose Fedeli. «'Temo che nella Parigi di questi tempi farete una discreta fatica a guadagnarvi da vivere decorando abitazioni di lusso. Che cosa ne direste, invece, di adibire a officina per carta da parati il vecchio laboratorio in disuso? Da quando gli operai hanno raso al suolo la fabbrica Réveillon, c'è poca offerta e una discreta domanda di quella roba.'» «Così cambiammo abitazione e lavoro. Antonio Fedeli e io dipingevamo motivi floreali e fantasie. Guglielmo e ancora io ci occupavamo poi di trasferire i disegni sulle macchine da stampa e di farle funzionare. Intanto Antonio aveva incontrato di nuovo il barone d'Armance e gli aveva confidato il segreto di Lanvin. «Una guardia del re aveva invece confidato a me che la Rivoluzione aveva rimesso in libertà Bartoli, il mercante che aveva tentato di truffare il conte di Beauregard. «Durante la celebrazione della presa della Bastiglia accaddero molte cose, e tra di esse il nostro incontro con un uomo che stava riscrivendo la storia della Francia.» «Che cosa significa, lama Namling? Chi era quest'uomo?» In volo. 7 settembre 199... Mentre l'aereo privato si alzava nel cielo di Milano, Breil tolse dalla custodia il computer bonificato dal sergente Bernstein e lo collegò alla presa telefonica. Nella sua casella di massima sicurezza c'era già un messaggio. Diceva: . L'e-mail era partito appena quattro minuti prima. E un particolare codice automatico nascosto nel testo lo aveva informato che anche «Le Tre Grazie» disponevano di una macchina bonificata. Breil aprì il programma di comunicazione diretta codificata e rispose semplicemente: <ECCOMI>. , vide scorrere sullo schermo dopo pochi istanti. , ri-
spose. <SARA È STATA COLPITA DA UNO SCONOSCIUTO.> digitò Breil, preoccupato. , mentì Breil. Sapeva benissimo da dove veniva la minaccia, e quanto fosse pericolosa. Dopo un po' chiuse la connessione. Doveva ordinare un rafforzamento della protezione alle tre donne. Quindi, rimanendo collegato, digitò i codici per avere accesso all'ufficio «ficcanaso». Puntuale come sempre, Bernstein rispose: Di nuovo un'assurda password biblica. Non aveva ancora avuto il tempo di modificarle. Oswald si premette le mani sulle tempie e dopo qualche istante digitò: . E si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Aveva ottenuto l'accesso. , digitò subito,
RE.> <SARÀ FATTO.> <SHALOM.> Oswald rimase qualche istante con lo sguardo fisso oltre l'oblò. Sotto di lui stavano sfilando le colline della Toscana, accese dai colori di un tramonto spazzato dal vento del nord. Poi tornò al computer. Gli sembrava che il nuovo sistema fosse più veloce del precedente. Forse dipendeva dall'eliminazione del «baco». Invece di digitare il comando di spegnimento generale, decise di chiudere uno dopo l'altro i due programmi di comunicazione aperti, per vedere quanto ci mettevano. Quando arrivò a quello di posta elettronica normale vide scattare l'avviso di un messaggio appena arrivato. Riconobbe la firma del mittente e si sentì prendere da un leggero tremore in tutto il corpo. Aprì il messaggio e lo lesse. <MI CONGRATULO PER LA SUA PERSPICACIA, BREIL. BEL COLPO. MI CONGRATULO ANCHE PER LA SCELTA DEI COLLABORATORI. DANZI È UN OTTIMO MAGISTRATO. DIO ABBIA CURA DELLA SUA ANIMA. HYTHAM FASATNE.> Oswald non riuscì a trattenere un moto di angoscia. Non appena ebbe chiuso il collegamento sentì squillare il cellulare. Oberto Lasado lo stava chiamando da Milano. Pochi minuti prima, Silvio Danzi era saltato in aria nella sua auto con l'autista e due uomini di scorta. «Quando, precisamente?» chiese. «Esattamente alle 20.02, ora italiana. Danzi stava uscendo dal palazzo di giustizia dopo aver formalizzato l'arresto dei quattro feriti e aver messo in stato di accusa una ventina di persone.» Breil osservò l'orario di ricezione del messaggio di Fasatne: le 20.01.35. Il messaggio gli era stato recapitato volutamente pochi attimi prima che il magistrato venisse ucciso, in modo che non avesse dubbi sulla paternità dell'attentato. Si sentì gonfiare di rabbia mista a impotenza. Rabbia perché sapeva quanto fosse difficile incontrare un giovane servitore della giustizia così
attento e preparato. Impotenza perché sapeva che, senza Danzi a proseguire le indagini, per un team di esperti avvocati non sarebbe stato difficile dimostrare l'estraneità di Alfredo Trasi al traffico di droga. C'era un altro uomo onesto da vendicare, e il suo nemico aveva un nuovo alleato potente e letale. Tangula Shan. Racconto di Namling «Il 14 luglio 1790, dopo la celebrazione al Campo di Marte, Massimiliano Robespierre stava percorrendo rue Saint-Honoré circondato dalla folla. La manifestazione si era conclusa con un trionfo. «Quando Robespierre passò davanti alla sua abitazione, Mastro Duplay si precipitò fuori e non perse l'occasione di invitarlo a entrare. Nella casa era in corso una festa, a cui presenziavamo anche Antonio Fedeli e io. I Duplay erano gente ospitale, abituata a ricevere gli amici. Tanto che Robespierre, invitato a riposare lì per quella notte, finì con lo stabilirsi nella camera a fianco alla nostra. «Una decisione che per Antonio Fedeli ebbe due conseguenze. Essere vicino di casa e amico del giovane avvocato rivoluzionario di Arras gli salvò probabilmente la vita, ma per converso finì con il minare il suo rapporto con Sofia Duplay. «Qualche mese dopo essersi stabilito lì, Robespierre entrò nel laboratorio in cui confezionavamo le carte da parati. Ci salutò tutti, poi disse a Fedeli: 'Da oggi tu devi qualcosa alla Rivoluzione'. «'Che cosa, cittadino Robespierre?' «'Probabilmente la vita. Durante il tuo ultimo incarico ti sei fatto un nemico potente. Il marchese di Mont Brouillard dev'essere stato davvero scontento del tuo lavoro. Sebbene sia emigrato in luoghi più sicuri, ha lasciato qui una sua longa manus nella persona di un uomo che finge di operare per la Rivoluzione, mentre in realtà agisce soltanto a suo esclusivo beneficio. Ebbene, questo patriota ha chiesto che tu gli venga consegnato per essere messo a disposizione delle autorità veneziane. Dice che vieni reclamato con insistenza da messi della Serenissima. Avresti un debito con la giustizia, da quelle parti.' «'Accuse false, cittadino. Gustave de La Croix può testimoniare...' «Robespierre gli fece cenno di tacere e riprese: 'Ho replicato a quel signore che nessuno deve osare torcere un capello a un valente artigiano amico della Rivoluzione'.
«'Te ne sono grato.' «Ma l'informazione di Robespierre gettò un velo di angoscia sulla nostra vita. Da molti segni avevamo tratto la convinzione che la morte di Lanvin non doveva essere stata accidentale. Qualcuno lo aveva aggredito, probabilmente per strappagli il suo segreto e, nella colluttazione, Pierre-Denis era caduto nel vuoto, facendo quella brutta fine. Adesso, inoltre, avevamo la certezza che il marchese di Mont Brouillard era della partita. Sperando che Antonio Fedeli avesse scoperto il segreto di Lanvin, voleva carpirglielo. Proprio per questo, probabilmente, lo aveva fatto venire da Venezia e seguiva con tanta attenzione il suo lavoro. «Da quel giorno Fedeli cominciò a parlarmi sempre più di frequente del segreto. L'ossessione lo consumava inesorabilmente. «Dieci mesi più tardi chiese a Sofia Duplay di sposarlo. E io assistei alla richiesta.» Gerusalemme. 8 settembre 199... Il primo a parlare, nella saletta riunioni, fu Derrick Erma. «Individuare l'ultimo grosso investimento della Luxbank non è stato difficile», disse. «È una miniera di uranio a cielo aperto in Namibia. Quindi la comunità degli operatori di Borsa nostri amici ha cominciato subito a far circolare la notizia che questa miniera non sarebbe che un immenso scavo che si può tutt'al più colmare d'acqua e destinare alla pesca sportiva. È successo il finimondo. Le quotazioni della Luxbank, già in crisi, hanno iniziato una vera e propria caduta libera: bloccata sei volte la vendita a New York per eccesso di ribasso, quattro a Londra, due a Tokyo, Milano e Francoforte. «Le grandi compagnie petrolifere arabe hanno cominciato a chiedere i trasferimenti dei loro conti, subito imitate da gran parte degli investitori importanti. Credo che domani ci sarà l'intervento della Banca Centrale di Lussemburgo, e molto probabilmente il polmone finanziario di Fasatne avrà bisogno di un bel periodo di gestione controllata prima di riassestarsi.» «Benissimo. Ma rimane il problema di fondo: dov'è Fasatne?» chiese Breil agli altri cinque uomini seduti attorno al tavolo. La domanda fu accolta con imbarazzo. Gli interpellati scossero la testa. Ma Breil sapeva che stavano facendo tutto il possibile, senza trascurare la benché minima traccia. «Non cediamo alla rassegnazione. Ce la faremo. Per adesso abbiamo soltanto chiuso i rubinetti di Fasatne, ma non sappiamo quante riserve ab-
bia nelle cisterne. Le nostre iniziative potrebbero avergli tolto soltanto gli spiccioli.» «Non credo, maggiore», interloquì Erma. «Con quelle iniziative avremmo inferto un duro colpo a qualsiasi colosso della finanza. Gli abbiamo procurato una bella serie di grattacapi. Possiamo sperare che questo lo innervosisca e gli faccia abbassare la guardia.» In quello stesso momento, invece, Fasatne non mostrava il minimo segno di nervosismo. Seduto nella sua comoda poltrona di pelle stava parlando al telefono su una linea schermata. «Tre carichi da trecentocinquantamila, per un totale di un milione e cinquantamila tonnellate di greggio iracheno. Prezzo ufficiale OPEC meno 0,70 dollari per barile. Caricazione il prossimo mese e pagamento a centottanta giorni. Grazie per questo gesto di amicizia, Hussein. Allah sia con te.» Posato il ricevitore, il libanese aprì il viso in un sorriso da squalo. L'amico Saddam rispondeva a ogni suo appello. Il contratto che aveva appena concluso significava almeno tre milioni di dollari di guadagno netto e, ciò che più contava, quasi duecento milioni di dollari di finanziamento per sei mesi. Un lasso di tempo ragionevole perché le cose si rimettessero a posto. Oswald chiese udienza al primo ministro. Era prassi che riferisse a lui dopo ogni riunione con i collaboratori di massimo livello. Il premier lo accolse con toni gentili, ma Oswald avvertì subito che c'era qualcosa che non andava. Anzitutto affrontarono una serie di problemi connessi con una miriade di delicate questioni, tuttavia verso la fine dell'incontro il premier chiese: «E Mary Poppins come sta?» «Non siamo ancora riusciti a localizzare Fasatne, ma abbiamo messo in atto alcune operazioni finanziarie che mi auguro possano metterlo in stato di assedio.» «Certo, ho saputo», replicò il premier in tono dubbioso. «Abbiamo comperato e venduto azioni della Luxbank per un milione di dollari e...» «Certo», lo interruppe il premier, «bruciando quattrocentocinquantamila dollari dei contribuenti. Senza peraltro riuscire a stanare Fasatne.» «L'azione, tesa a creargli seri problemi finanziari, era un passaggio obbligato per costringerlo a qualche passo falso.» «Si tratta comunque di una grossa cifra, forse gettata al vento.» «La prego di perdonarmi, ma quattro o cinquecentomila dollari corri-
spondono al costo di un'azione contro una base di hezbollah», replicò gelidamente Breil. «Certo, però con quelle azioni salvaguardiamo il diritto alla nostra sopravvivenza.» «Anche con le azioni che abbiamo messo in atto noi.» «Senza nessun risultato, per adesso. Non vorrei dovermi ricredere sulle sue capacità. Buon anno, maggiore, con l'augurio che quello che sta arrivando sia foriero di migliori successi.» Di lì a un paio di settimane, per gli ebrei sarebbe stato il primo Tishrei, vale a dire Rosh Hashanah, il capodanno ebraico. Tangula Shan. Racconto di Namling «Quel pomeriggio Antonio Fedeli era particolarmente animato, come non succedeva ormai da tempo. «'Namling', mi disse entrando nel laboratorio con un mazzo di fiori, 'vorrei che mi facessi da testimone quando chiederò a Sofia di sposarmi.'» «La giovane arrivò circa un'ora più tardi. Sentii Antonio recitare con impaccio la formula: 'Sofia, ti chiedo di diventare mia moglie, per condividere con me le gioie e i dolori che riserva la vita'. «Sapevo che Sofia era una giovane volitiva, ma la sua reazione fu talmente violenta da lasciarmi senza fiato. 'Gioie, Antonio? Con te dividerei soltanto i dolori. Ho vissuto quanto basta per capire che cosa significano la vera vita, il lusso, i piaceri. Possono darli soltanto il potere e il denaro. Con te, invece, a che cosa andrei incontro? No, Antonio, non me la sento di sposarti.' «Fedeli strinse con forza il mazzo di fiori. Fu forse l'ultima occasione in cui lo vidi ribellarsi con orgoglio. 'Che cosa ti aspetti dalla vita, Sofia? Ricevimenti e danze? Inchini di valletti? Carrozze con fregi d'oro? La vita è cambiata, Robespierre e i suoi...' «'Appunto', lo interruppe lei in tono glaciale. 'Proprio Robespierre. Lui e i suoi compagni rappresentano il nuovo potere, la nuova ricchezza. Non vedi com'è felice mia sorella Elisabeth da quando si è fidanzata con Philippe Lebas, il suo luogotenente? E che dire dello stesso Robespierre con Eleonora, l'altra mia sorella? Tu, invece, che cosa potresti darmi, maestro Fedeli?' «Antonio le voltò la schiena e vidi che aveva gli occhi pieni di lacrime. 'Vattene', fu tutto ciò che riuscì a replicare con voce strozzata.
«Da quel momento si incupì, preda di un umor nero più pernicioso di qualsiasi malattia del corpo. Ne risentì anche il nostro lavoro. L'unica prospettiva in grado di sollevarlo per pochi istanti dalla prostrazione era il recupero del tesoro di Lanvin. Sperava, vendendolo, di ricavarne una ricchezza tale da consentirgli di regalare a Sofia gli agi che pretendeva. Ma venderlo a chi, con il precipitare di eventi a cui stavamo assistendo? Non volli amareggiarlo ulteriormente chiedendoglielo. «Oltre a tutto, come asportare cose di quelle dimensioni e quel peso da una zona ormai costantemente battuta da carrette cariche di ossa e cadaveri? «Ma gli eventi precipitavano sempre più. Qualche giorno più tardi, era il 21 giugno 1791, sentimmo lo strillone di uno dei quasi trecento giornali pubblicati a Parigi gridare: 'Il re è fuggito! La Fayette lo insegue'. «I reali furono raggiunti quello stesso giorno in un albergo di Varennes, dove si erano rifugiati sotto il falso nome di Korff. Ricondotto a Parigi, Luigi XVI fu esautorato dei pochi poteri di cui disponeva ancora e affidato alla Guardia Nazionale. «L'assedio alle Tuileries avvenne il 10 agosto 1792. Le guardie svizzere del re resistettero fino a esaurire le polveri, ma alla fine capitolarono e furono trucidate. Antonio Fedeli e io accorremmo e assistemmo a uno spettacolo terribile. Il palazzo era stato saccheggiato dalle soffitte alle cantine. «La folla ne sciamava brandendo picche su cui erano infilate le teste sanguinanti degli svizzeri massacrati. Alcune donne levavano al cielo come magnifici trofei i genitali sanguinolenti dei poveri infelici, tagliati via o strappati. «Alcuni gruppi di uomini avevano con sé botticelle o cesti colmi di bottiglie, razziati nelle cantine. Le scene di ubriachezza collettiva che seguirono ci riempirono di disgusto e orrore. Lo champagne del re e dei nobili sembrava molto indigesto per il popolo. «Mai in vita mia, Tang Shen, avrei immaginato che gli uomini potessero ridursi a un simile livello di ferocia e bestialità. Quando, a sera tardi, rientrammo nella casa di Mastro Duplay, Antonio Fedeli tremava come una foglia. Giurò che mai più in vita sua avrebbe toccato una sola goccia di vino. Ma dubitavo che fosse possibile.» Parigi. 15 settembre 199... Laura Joanson si strinse nelle spalle, posando le sue modernissime appa-
recchiature sul pavimento delle catacombe. «Qui è tutto un colabrodo», disse a Sara, al suo fianco. «Ci sono miriadi di nicchie e cavità nascoste. Lì sembra addirittura che ci sia una porticina murata. Bisognerebbe ridurre quella parete a una groviera. Ma nelle cavità questi apparecchi non hanno rilevato niente.» Convennero che il metodo di ricerca più facile - scandagliare con il radar la zona apparentemente indicata dallo sguardo dell'angelo «caduto», ciò a cui sembrava «anelare» - sembrava fallito. Sara si sedette in atteggiamento poco reverente sul bordo del fonte battesimale e si immerse nei suoi pensieri, mentre Laura cominciava a riporre le sue apparecchiature. «Aldilà», esplose improvvisamente la giovane italiana. «Se non si capisce perché Asmodeo dovrebbe anelare a un muro, perché mai dovrebbe aspirare all'Aldilà? Che senso ha?» «Già.» «Fedeli scriveva per lo più nell'italiano di Venezia», riprese dopo un po' Sara, in tono pensoso. «Mentre Lanvin usava soltanto il francese. E forse ha scritto semplicemente au-delà, au-delà de: 'al di là' di qualcosa, cioè della parete.» «Avrebbe una sua logica», mormorò Laura, anche lei meditabonda. Quindi prese dalla borsa la mappa delle catacombe e la spiegò sul bordo del fonte, di fianco a Sara. Effettivamente, «al di là» della parete indicata dall'angelo c'era un'altra cavità. «Sfondiamo la porticina murata che hanno rilevato i tuoi apparecchi», esclamò d'impulso Sara. «Fedeli potrebbe essere passato di lì.» «No», la frenò Laura. «Guarda. Ci si può arrivare senza buttare giù niente, facendo questo giro.» E indicò all'amica il tortuoso ma breve itinerario attraverso cui avrebbero potuto raggiungere la cavità. Aeroporto di Heathrow. Londra. 15 settembre 199... L'avvicinarsi di Rosh Hashanah, il capodanno ebraico, induceva molte famiglie a tornare in Israele. Davanti al check in del volo della El Al per Tel Aviv c'era una fila lunghissima. La carriera di Daniel Grein aveva vissuto momenti migliori. Faceva parte della scorta del primo ministro Rabin quando un presunto pazzo gli aveva sparato. Adesso si occupava della sicurezza sui voli della compagnia di
bandiera. Saliva a bordo dell'aereo assieme all'equipaggio e ne smontava in questa o quella parte del mondo, per reimbarcarsi sul viaggio di ritorno. E così stava facendo anche questa volta. La donna entrò velocemente da una delle porte automatiche del terminal. Teneva le braccia sul ventre, che mostrava evidenti i segni della gravidanza. Indossava uno scamiciato di un azzurro spento, lungo fino ai piedi. Aveva la testa coperta da un velo bianco. Grein non avrebbe mai saputo dire come mai avesse attirato la sua attenzione in mezzo alla folla cosmopolita che affollava il settore partenze dell'aeroporto. Comunque la seguì per un po' con lo sguardo, finché non la perse. Quando la rivide era troppo tardi per evitare la tragedia. Si era sdraiata per terra a pochi passi dal check in e stava armeggiando sotto il vestito. Alcuni passeggeri, pensando al malore di una donna incinta, stavano per soccorrerla. Il grido stridulo che uscì dalla bocca della terrorista li bloccò: «Allah è grande!» Daniel Grein le fu addosso in un ormai inutile tentativo di immobilizzarla. La mina antiuomo di fabbricazione brasiliana, nascosta nei cuscini che la facevano sembrare incinta, era dotata di una prima carica che avrebbe dovuto proiettarla a due metri di altezza, dove la seconda sarebbe esplosa in una miriade di schegge. Il sacrificio di Grein servì se non altro ad attenuare il potere dirompente dei quadrelli d'acciaio. L'impatto con il suo corpo non consentì all'ordigno di librarsi in aria, evitando una strage. Oswald Breil era a poco più di tremila chilometri di distanza. Sentì trillare il cicalino della linea riservata e rispose. Si sentì dire: «Attacco kamikaze all'aeroporto di Londra. Quattro morti, tra cui un nostro agente e la terrorista, e sedici feriti gravi». Si impose spasmodicamente di resistere a un orrore che gli dava la nausea. Accese immediatamente il computer e si collegò con la sua casella di posta elettronica. C'erano due messaggi di Fasatne: nel primo, giunto pochi secondi prima dell'attentato, come quello relativo a Danzi, il libanese rivendicava la paternità del massacro all'aeroporto di Heathrow. Il secondo, inviato pochi minuti più tardi, diceva: . Breil si sentì attanagliare il petto da una morsa di dolore. Si alzò dalla
poltrona della scrivania e andò alla finestra. Dove poteva essere, il maledetto? Come poteva credersi così potente da provocare massacri di innocenti restando impunito? Dio ti maledica, Fasatne, ovunque ti trovi, imprecò tra sé. In quell'istante bussarono alla porta. Sembrava che Bernstein lo avesse ascoltato: «Abbiamo localizzato la chiamata, maggiore. Il messaggio è partito da un sistema satellitare a 50° di latitudine nord e 0° di longitudine ovest». «All'altezza del meridiano di Greenwich?» chiese Oswald. «Poco più a sud. Nella Manica.» «Ancora una volta in mezzo al mare? Trovatemi quella maledetta Rosa del Deserto. A ogni costo!» 9 Parigi. 15 settembre 199... «Fermati!» gridarono Laura e Sara all'unisono, superando l'ultimo gomito della strettissima galleria in cui si erano infilate. Timna si bloccò, come paralizzata. Ma quello delle sue amiche non era un grido di avvertimento. A provocarlo era stato lo choc per ciò che avevano visto. Su un arco davanti a loro, le torce che stringevano in mano avevano illuminato la scritta: ARRÊTE, C'EST ICI L'EMPIRE DE LA MORT. «Fermati», ripeterono con un filo di voce. Quindi si guardarono con occhi in cui bruciava un nuovo entusiasmo. «Pensi davvero che l'indizio numero quattro si riferisca a questa scritta?» chiese Laura, quasi rivolta a se stessa. Sara non rispose, alzando però un dito tremante a indicare qualcosa. Laura seguì la direzione. Sotto la scritta, nella pietra, era incisa una rosa. «La rosa piegata», mormorò. Si guardarono di nuovo e poi tornarono a scrutare il fiore. Effettivamente, invece di essere diritto, si piegava sullo stelo. Era l'indizio numero cinque. «Perché la rosa è 'piegata'?» chiese Sara alle altre due. Scossero tutte e tre la testa. Perché? Erano esauste, avevano gli occhi rossi e i polmoni che bruciavano per la polvere, si sentivano scoppiare la testa: un po' di riposo avrebbe di sicuro giovato a tutte e tre. Uscirono dall'ingresso secondario, chiudendo con cura
il cancello, e tornarono in albergo. Ma erano troppo stanche anche per procedere a un immediato confronto di idee. Lo avrebbero fatto dopo cena. Si ritirarono nelle rispettive camere per concedersi un po' di relax e una doccia. Laura si accorse subito che qualcuno aveva rovistato tra le sue cose. Sara e Timna uscirono nel corridoio quasi in quello stesso istante e si diressero entrambe verso la sua camera: anche a loro era successa la stessa cosa. Timna scomparve un attimo, rientrando in compagnia di un uomo: uno degli agenti mandati da Oswald per proteggerle. Il nuovo venuto aveva con sé una macchina fotografica digitale, che Laura collegò al suo computer portatile. Le immagini cominciarono a scorrere sullo schermo. «Abbiamo fotografato tutte le persone entrate nell'albergo durante la vostra assenza.» Videro istantanee di famiglie, turisti, uomini d'affari, coppie, un garzone che portava un cesto di fragranti baguette. «Un attimo», esclamò Laura. «Questo qui mi sembra di conoscerlo.» E fece una breve pausa, meditabonda. «Ma certo», esclamò poi. «E Vincent Duffy con i capelli tinti di nero.» «Vincent Duffy?» chiese Sara. «E chi è?» «Il giornalista che ha svelato la vera missione di Kevin nello spazio. Ho visto chissà quante volte la sua foto accanto agli articoli del Capitol Tribune. Di solito ha i capelli rossi, ma evidentemente se li è tinti.» «Perché mai un giornalista dovrebbe frugare nella nostra biancheria intima?» chiese Timna. «Devo informare subito Oswald. Scusatemi.» E uscì dalla stanza seguita dall'agente. Sara rimase lì ancora qualche minuto, poi se ne andò anche lei. Rimasta sola, Laura si rese conto di essersi ancora una volta fatta travolgere dagli eventi. La ricerca della Menorah le aveva fatto trascurare gli affetti personali. Alzò il ricevitore e compose il numero di casa. Rassicurata sulla salute di Chiara, chiese di parlare con Kevin. Lo sentì scostante, esattamente il contrario di ciò che si aspettava. «Come vanno i restauri delle catacombe?» le chiese in tono irritato. «Bene», rispose in tono falsamente disinvolto. «Ma mi manchi molto.» «Credo che al tuo ritorno bisognerà parlarne.» Laura non ebbe il coraggio di chiedergli di che cosa dovessero parlare. Lo sapeva già. «Come vuoi, Kevin», disse prima di chiudere la comunica-
zione. «Ma ricordati che ti amo.» Mondello. Palermo. 18 settembre 199... L'antica villa patrizia era arroccata a mezza costa, tra i ripidi pendii sul versante settentrionale di monte Gallo. «Santa, vieni a vedere chi è arrivato», gridò l'uomo. Una roccia sulla settantina. Le spalle erano larghe e ancora robuste. I capelli nerissimi. Parlava con marcato accento siciliano, inframmezzando le frasi con espressioni americane. La moglie, vestita di nero, accorse già con le mani tese e abbracciò il giovane ospite con affetto materno. Salvatore Rascini lo condusse su una terrazza che sembrava dominare tutto il Mediterraneo. «Look», disse indicando il panorama, il variegato blu del mare, il bianco delle spiagge. «Questo posto non ha niente da invidiare alle insenature più belle del mondo. Benedetta la mia decisione di tornare a Palermo. Non ne potevo più dell'America e dei grattacieli.» Turi Rascini non disse però che la polizia federale degli Stati Uniti aveva brindato a questa sua decisione. Erano quasi vent'anni che davano senza esito la caccia al capo della mafia siciliana in America. «A che cosa debbo il piacere e l'onore della visita del prossimo campione del mondo? Tua zia e io siamo molto fieri di te.» Alfredo Trasi sorrise e gli cinse le spalle con un braccio. «Hai letto, zio Turi?» chiese. «Appena sceso dal podio mi sono trovato davanti i carabinieri.» «Danzi ha avuto quello che si meritava», commentò freddamente Salvatore Rascini. «Stava cominciando a rompere davvero i coglioni.» «Già, però adesso dobbiamo trovare un nuovo sistema.» «Ci sono mille modi. Don't worry. Adesso rimani fuori dal gioco per un po' e sta' tranquillo.» «Ho bisogno del tuo aiuto, zio.» Erano scesi nell'aranceto della villa. Due uomini li seguivano con discrezione, altri erano appostati lungo il muro di cinta. «Non è facile, Alfredo», rispose Rascini scuotendo la testa, dopo averlo ascoltato attentamente. «Far tacere un giudice troppo curioso è una cosa, ma dichiarare guerra a un servizio segreto potentissimo per far piacere a Fasatne...» «Le sue banche ci sono indispensabili.»
«Ci sono servite fino a oggi e magari ci serviranno ancora tomorrow», lo corresse don Turi. «Le banche di Fasatne non stanno attraversando un buon momento. Il suo impero finanziario sta franando come sabbia. Corre voce che si tratti di una manovra degli israeliani per metterlo in ginocchio.» «Fasatne è un amico.» «Nel mondo degli affari non ci sono amici. Certo, ha sempre rispettato gli impegni. Comunque, se fossero vere altre voci, e cioè che l'impero di Fasatne rimane solido nonostante tutte le manovre, aiutandolo oggi potremmo trarne vantaggio in futuro. All right, digli che dargli una mano può interessarci. In cambio, però, voglio il cinquanta per cento della Luxbank. Se è d'accordo, sottometterò la questione alla Cupola. Non è una decisione che può prendere la nostra famiglia da sola.» Tangula Shan. Racconto di Namling «Il Café Procope era stato fondato cent'anni prima da Procopio de' Coltelli, un giovane italiano intraprendente. Era in rue de Fosse-SaintGermain e lo frequentavano le figure più eminenti della Rivoluzione e dell'arte. «Aveva cominciato da tempo a frequentarlo anche Fedeli, affermando che voleva conoscere meglio lo spirito rivoluzionario per riconquistare Sofia. In realtà sapevo che aveva ricominciato a bere, nonostante la solenne promessa fatta la sera dell'orribile spettacolo davanti alle Tuileries. Ma con la giovane oggetto della sua passione aveva in effetti avuto un riawicinamento. «L'inverno tra il 1792 e il 1793 fu molto rigido fin dall'inizio. Ovunque si discuteva animatamente del processo a Luigi XVI. La maggioranza a favore della sentenza di morte era stata ottenuta per un solo voto: quello del cugino Luigi Filippo, duca d'Orléans. «Dal 25 aprile 1792 era entrata in uso una macchina capace di mozzare la testa di un uomo con un colpo solo. Sai quanto la nostra gente rifugga dall'uso delle armi e persegua la convivenza pacifica. Te ne parlo, Tang Shen, soltanto perché quello strumento divenne il vero protagonista della Rivoluzione Francese. Con esso, il 21 gennaio 1793, fu giustiziato il re di Francia. «'Bevo alla memoria di Luigi XVI', farfugliò Fedeli, quando lo sorpresi ubriaco. 'Sic transit gloria mundi.' E si alzò levando alto il bicchiere vuoto,
ma ricadde subito pesantemente sul sedile. Corsi ad afferrarlo, prima che franasse per terra. «'Dobbiamo prelevare a tutti i costi il tesoro', biascicò ancora, con la bocca impastata, mentre lo adagiavo sul letto.» Parigi. 20 settembre 199... Laura passeggiava da sola nel Parc de Montsouris. Aveva bisogno di una pausa per riordinare i pensieri, ed era uscita dalle catacombe lasciandovi le due amiche. Erano alcune ore che si rompevano la testa in congetture circa l'ultimo indizio: una rosa piegata su un lungo gambo. Le siepi erano ben curate, gli irrigatori facevano zampillare freschi getti d'acqua, che ogni tanto la colpivano, portati dal vento che spazzava la zona. Arrivata davanti a un cespuglio di rose, Laura si fermò di colpo. La rosa sulla parete è piegata dal vento, pensò. E fece immediatamente dietrofront. Rientrata nelle catacombe, si piazzò esattamente di fronte all'arco con la macabra scritta, alzando gli occhi verso l'ultimo possibile indizio. «Questa rosa è mossa dal vento», esplose. «Perché? Quale vento, qui dentro, sottoterra?» «Hai detto 'rosa' e 'vento'?» chiese improvvisamente Sara, al di là dell'arco, illuminandosi in viso. «Forse ci siamo!» esclamò, indicando il disegno inciso nella pietra sotto i suoi piedi. Raffigurava precisamente la rosa dei venti. Secondo una delle prime regole che Craigh aveva insegnato a Duffy, un bravo giornalista non deve contare troppo sulla fortuna. E l'immediato corollario diceva che era poco probabile che gli capitasse di trovare ancora una volta il cancello delle catacombe imprudentemente aperto. Ma, si era detto subito l'astuto reporter, le tre fate avevano di sicuro la chiave. Una sola? Difficile. Se l'avessero persa? Più probabilmente ne avevano una a testa. Se le portavano dietro tutt'e tre? Difficile anche questo. Quindi aveva corso il grosso rischio di travestirsi da panettiere e di intrufolarsi nelle loro camere. Nelle prime due non aveva trovato niente, ma in quella della bella ebrea bruna, tra mutandine e reggipetti, ecco lì la chiave, nuova, grossa quasi come un ostensorio. Farne un calco con lo stucco era stato un gioco. E non aveva faticato nemmeno a ottenerne una copia: i ficcanaso di professione come lui e Craigh sapevano a chi rivolgersi, ovun-
que. Dopo di che aveva avuto libero accesso alle catacombe. E ancora una volta aveva visto tutto. «Continuano con le loro indagini», disse concitatamente al telefono. «Hanno individuato qualcosa sotto un pietrone, sul pavimento delle catacombe. Oggi sono state raggiunte da un tale, probabilmente un tecnico, e sono andate lì con lui. Mi è sembrato di capire che domani cercheranno di rimuovere il pietrone per vedere che cosa c'è sotto.» Craigh non perse tempo. Disponeva del numero di massima riservatezza di Fasatne. Inserì lo scrambler per impedire intercettazioni della telefonata, si abbandonò con un sospiro beato sulla poltroncina ergonomica e si preparò al suo momento di gloria. «Ci siamo riusciti», disse, non appena ebbe Fasatne in linea. «Abbiamo seguito mossa per mossa le amichette di Breil. Spero proprio che domani sarò in grado di darle una buona notizia.» «I suoi uomini sono riusciti a rimanere nell'ombra?» chiese il libanese. Craigh sorrise. Non gli premeva sottolineare che Duffy era l'unico uomo di cui disponeva. A ogni buon conto, si disse, era un uomo che si stava confermando molto, molto in gamba. L'avrebbe pensata diversamente se in quel momento fosse stato in una certa pensione di rue de l'Université, nella stanza attigua a quella occupata appunto da Vincent Duffy. Due agenti israeliani vi avevano preso alloggio non appena erano riusciti a scoprire che risiedeva lì. Le loro apparecchiature avevano registrato parola per parola il colloquio di Duffy con Craigh. E in quel preciso istante stavano trasmettendo via modem la registrazione a Gerusalemme. Al sergente Bernstein. Israele. 21 settembre 199... Il primo giorno dell'anno nuovo, la Legge prescrive che ciascuno si rechi in riva al mare o a un corso d'acqua per pronunciare la preghiera del Tashìkh e chiedere a Dio di gettare ogni colpa nel più profondo dei mari. La figura minuta ma eretta di Oswald Breil era persa tra le dune che facevano da contorno alla riva. «Dio, Dio di tutti gli uomini, Dio di tutti i giusti», stava pregando. «Quanti innocenti sono morti? Quanti ne devono ancora morire prima che la mano assassina di Fasatne venga fermata? Ti chiedo perdono per le mie colpe, Dio, quelle di cui sono già responsabile e tutte quelle in cui incorrerò per liberare il mio popolo e l'umanità dalla sua presenza.»
Quindi si incamminò verso l'auto in attesa. Il quadro si stava finalmente precisando. Vincent Duffy spiava Sara e Laura. E lavorava nello stesso giornale di Craigh. Tornò con la mente al ricevimento sulla Rosa del Deserto. In un lampo rivide Craigh seduto nell'anticamera dello studio di Fasatne, appena terminato il suo incontro con il libanese. Allontanandosi, lo aveva scorto con la coda dell'occhio entrare nello studio. Il puzzle cominciava a comporsi. Appena arrivato in ufficio, convocò il responsabile delle comunicazioni. «Voglio sapere tutto, Bernstein», gli disse. «Ogni telefonata di Craigh dev'essere controllata, e l'interlocutore identificato. Un paio dei nostri, a Washington, non devono mai perderlo di vista, facendo rapporto ogni tre ore. Domande?» Bernstein scosse la testa. Non era possibile metterlo in difficoltà con una richiesta del genere. Gli uomini stanziati dall'Istituto a Washington erano i migliori. Quando il sergente fu uscito, Oswald guardò l'orologio: era l'ora del meeting con i collaboratori. Si spostò nella saletta delle riunioni. Gli altri lo stavano già aspettando. Il primo a parlare fu il solito Derrick Erma. «Le Ultra Large Crude Carrier sono superpetroliere in grado di caricare da duecentocinquanta a quattrocentomila tonnellate di petrolio. Il loro impiego e la loro costruzione risalgono agli anni in cui il canale di Suez era chiuso ai traffici commerciali, ma molte di esse sono ancora in esercizio, perché permettono notevoli risparmi nei noli. Questa mattina alle 6.05 la ULCC Nara Prima, trecentocinquantamila tonnellate, di proprietà di Fasatne, ha dato fondo poco fuori del fiordo naturale di Az-Zubair, a sud di Bassora. Alle sette in punto il comandante ha formalizzato la notice of readiness, dichiarandosi pronto a caricare trecentocinquantamila tonnellate di greggio iracheno.» Breil fece rapidamente i conti. «Trecentocinquantamila tonnellate equivalgono a circa sessanta milioni di dollari, somma che qualsiasi compagnia petrolifera è pronta a versare per greggio pregiato come quello iracheno. Ecco la nuova via di finanziamento escogitata dal nostro nemico.» «Siamo riusciti a scoprire che Fasatne ha ottenuto notevoli dilazioni di pagamento da Saddam», intervenne il responsabile del dipartimento finanze, «e che a questo primo viaggio ne seguiranno altri due.» Erma spiegò sul tavolo i piani della nave a cui Fasatne aveva dato il nome della moglie. «Due cariche qui e qui», disse, indicando un punto poco
sotto la prora e un altro a poppa, «bastano per mandarla in fondo al mare con tutto il petrolio.» Oswald scosse la testa. «Ha idea di che cosa può significare un carico del genere disperso in mare? Sarebbe un disastro ecologico senza precedenti.» «In questo caso», intervenne il responsabile dell'addestramento, «quaranta nostri uomini sono pronti a intervenire in qualsiasi momento. Potrebbero impadronirsi della nave senza sparare un colpo.» «Per farci accusare di pirateria internazionale?» obiettò Breil. «Quella nave batte bandiera americana. Immagina che pandemonio scateneremmo? Dobbiamo trovare un'altra via», dichiarò, e si mise a riflettere, cercando di mettere a frutto l'esperienza maturata in tanti anni nel campo petrolifero. «Una nave così grossa non può entrare ad Az-Zubair», mormorò infine. «No, certo. Il pescaggio massimo nel porto e nel fiordo è di poco più di trenta piedi. Per riempirla saranno necessari diversi allibo con navi più piccole, diciamo da venti o trentamila tonnellate.» «E la Nara Prima le aspetterà al largo.» «Certo.» «Possiamo fare in modo che una di queste navi sia nostra amica?» «La società di armamento di Fasatne diramerà quanto prima la richiesta. E noi faremo in modo che siano accettate anche due navi che operano nel Golfo e hanno le caratteristiche di pescaggio richieste per Az-Zubair. Sono 'nostre' dal comandante fino all'ultimo mozzo. Come faremmo, altrimenti, a tenere sotto controllo quello che succede nel Golfo?» Oswald sorrise. Avevano trovato la soluzione. «Non è l'unica soluzione», stava dicendo in quel momento Fasatne. «L'impasse è soltanto temporanea e causata da manovre sporche. Non appena avrò tranquillizzato i miei creditori con una buona iniezione di denaro fresco, riuscirò a tirarmene fuori.» Mostrava come sempre una calma imperturbabile. Seduto alla scrivania nello studio del suo yacht, sembrava stesse trattando una normalissima questione di affari. Alfredo Trasi lo fissò negli occhi un attimo. «E a quanto ammonterebbe questa iniezione 'tranquillante', Hytham?» «Il mio gruppo è sanissimo. Ha soltanto una passeggera crisi di liquidità. Diciamo cento milioni di dollari.» «Le persone che rappresento sono disposte a darti una mano, ma...»
«Lo so, lo so, ragazzo. La mafia non è un ente di beneficenza. Che cosa chiede in cambio?» «La metà della Luxbank», rispose il pilota. «Ho amici disposti ad aiutarmi per molto meno», ribatté freddamente Fasatne. La Nara Prima era pronta a caricare, ma non poteva ugualmente trascurare nessun possibile aiuto. Tuttavia la metà della Luxbank valeva dieci volte quanto offertogli da Trasi. «Non abbiamo fretta», tagliò corto il pilota. «Hai tutto il tempo di pensarci. Le persone che rappresento sono sempre a disposizione di un amico.» Gli strozzini che rappresenti, pensò Fasatne. Ma si guardò bene dal dirlo. «Okay. Ma quale inghippo possiamo inventare perché quella nave non riesca a scaricare? Bisogna che nessuna compagnia petrolifera sia interessata al suo carico», disse Oswald. «Epidemia tra l'equipaggio e nave in quarantena?» provò a suggerire Erma. «No. Con la fame di quattrini di Fasatne, il greggio verrebbe comunque scaricato. Le superpetroliere non entrano quasi mai in porto, ma scaricano in apposite isole fuori costa. Quindi il timore di contagio non sussiste.» Così detto, Oswald fece una pausa, meditabondo. Ma si illuminò subito. «Trovato. La soluzione è un'altra. Sapete che cosa temono più di tutto i raffinatori?» I sei collaboratori scossero la testa come tante bamboline. «Il piombo. Una contaminazione da piombo nel prodotto da processare manda in tilt qualsiasi catalizzatore di torre di raffinazione, con un danno di decine di milioni di dollari e un fermo della raffineria per diversi mesi. Infatti i trasporti di benzina, l'unico prodotto raffinato che viene addittivato con piombo per aumentarne il potere detonante, vengono effettuati con navi particolari. Quindi una delle nostre navi dovrebbe caricare un migliaio di tonnellate di piombo tetraetile in soluzione e poi scaricarlo sulla Nara Prima con il greggio durante le operazioni di allibo. Gli ispettori nominati di comune accordo da Fasatne e da chi ha acquistato il greggio saliranno a bordo a caricazione ultimata, ed è gente che lavora per colossi multinazionali e quindi incorruttibile. Erma, si informi su quante tonnellate di prodotto possono prendere nei serbatoi i nostri tre elicotteri cisterna. Prometta all'aviazione che li restituiremo puliti e lustrati. Si informi anche se possono atterrare sulle piattaforme di quelle navi. Se tutto fila liscio, combineremo
un bello scherzo a Fasatne.» Tangula Shan. Racconto di Namling «Il senso del sacro, caro Tang Shen», continuò a raccontare Namling, «prevale su ogni altro da cui l'uomo possa essere fuorviato. Nonostante gli orrori a cui stavamo assistendo e il sangue che stava scorrendo, il 18 Floreale dell'anno II, in base al nuovo calendario della Rivoluzione Francese, il nostro amico Robespierre emanò un decreto in cui veniva istituito il culto dell'Essere Supremo. «Me ne stupii? Sicuramente meno degli allibiti rappresentanti del popolo a cui l'Incorruttibile rivolse la sua ispirata allocuzione, dichiarando solennemente: 'Il popolo francese riconosce l'esistenza dell'Essere Supremo e l'immortalità dell'anima'. Certo, non avrei mai pensato che per arrivare a concetti così elementari fosse necessario passare per tanta ferocia. «Un mese più tardi, il 20 Pratile, ovvero l'8 giugno 1794, giornata per i cristiani sacra alla Pentecoste, il popolo di Parigi accorse nei giardini delle Tuileries sotto un cielo terso e un sole sfolgorante per assistere a una festa senza pari. Vi andai anch'io con Antonio Fedeli, che mi indicò il regista dell'immensa scenografia nel famoso pittore David, da lui conosciuto in non so quale occasione. «Tra aiuole di rose piantate di fresco avanzavano quasi danzando schiere di fanciulle in abito bianco, che reggevano cesti di frutta. Un coro di duemilaquattrocento persone, divise in gruppi di vecchi, madri, ragazzi e bambini, levò alta al cielo una stentorea serie di inni, tra cui la Marsigliese e, appunto, l'Inno all'Essere Supremo. «'E poi danno del falsario a un artista come Lanvin', sentii borbottare Antonio Fedeli, in tono disgustato. Lo guardai, stupito. Che cosa intendeva dire? «Quando le ultime note dell'Inno svanirono, fece finalmente la sua comparsa il nostro amico Robespierre. Devo dire che faticai non poco a riconoscerlo in quell'abbigliamento splendido ma, ai miei occhi, non usuale. Indossava una giacca azzurra con le code, era avvolto in una sgargiante fascia tricolore e aveva la testa quasi completamente nascosta da un fastoso cappello piumato. «Non potei fare a meno di chiedermi come mai non avesse con sé il grande mazzo di fiori che quel mattino avevo visto preparare per lui da una delle figlie di Duplay. Probabilmente, nell'agitazione del momento, se l'era
dimenticato. Guardandolo bene, capii che era molto inquieto. Nei suoi occhi non mi parve di vedere una luce di trionfo ma un presagio di catastrofe. Purtroppo non mi sbagliavo. «Soltanto due mesi più tardi, Antonio Fedeli entrò trafelato nel laboratorio. 'Hanno arrestato Robespierre e molti altri', ci informò, quasi in preda al panico. 'Dobbiamo andarcene prima che i ribelli arrivino anche qui.' «Poi, come colpito da un pensiero, uscì precipitosamente, gridando: 'Sofia! Dobbiamo convincerla a venire con noi'. Lo seguii nella corte e sulle scale che portavano al piano superiore. La casa sembrava deserta. Aprì la porta della stanza che, da quando Elisabeth si era sposata, Sofia occupava da sola. «La pelle della giovane era di un lucore quasi abbagliante. Le cosce, divaricate, si dimenavano oscenamente. Il gagliardo stallone che la stava penetrando con foga le affondava il viso nel seno. Sentì il rumore dell'uscio e si girò verso di noi. Era Guglielmo, il nostro garzone. «'Vieni via, Antonio', dissi. Fedeli mi seguì come istupidito. Sapevo che il dolore gli stava spezzando il cuore. «Lo lasciai in compagnia di una bottiglia, per andare a caricare le nostre cose su un calesse. Come avrei potuto impedirglielo? Potevo soltanto sperare che il vino riuscisse ad appannare il dolore. Non appena fui pronto lo aiutai a montare e, spronando il cavallo, mi gettai tra la folla che aveva invaso le strade alla notizia dell'arresto di Robespierre. All'altezza dei giardini delle Tuileries ci si affiancò un cavaliere. Il puledro di Gustave de La Croix si mise al passo del nostro ronzino. «'Venite con me, presto. Stavo cercandovi. Siete in pericolo di vita.' «Lo seguii fino alla sua residenza parigina. Era notoriamente un amico della Rivoluzione, e fino a quel momento nessuno lo aveva infastidito. Ma adesso era soprattutto un amico di Robespierre. Come noi due.» Parigi. 21 settembre 199... «Adesso faccia piano», disse Sara al tecnico che manovrava il braccio meccanico. Il pietrone con incisa la rosa dei venti era stato imbracato in diversi punti. Le apparecchiature avevano rivelato che sotto di esso c'era una cavità cilindrica profonda un paio di metri. Il braccio della piccola gru elettrica entrò in trazione. Un rumore metallico accompagnò la rimozione della botola. Fu Sara ad affacciarsi per pri-
ma, illuminando il nascondiglio con una torcia elettrica. Poi vi si calò con cautela. Il basamento era appoggiato al suolo. I decori d'oro sul marmo mandavano lampi nonostante la scarsa luce delle torce. Accanto c'era un sacco di iuta. Sara slegò febbrilmente il cordone e vi si insinuò. Ne riemerse stringendo nelle mani due calici. Laura, come impazzita, si mise a recitare i versetti della Bibbia: «Tre calici in forma di mandorlo con corolla e fiore, e tre calici in forma di mandorlo sull'altro ramo, con corolla e fiore». Quindi si voltò verso Timna e l'abbracciò. Dal suo nascondiglio, Vincent Duffy aveva sentito abbastanza. Le tre donne avevano scoperto ciò che interessava al suo capo. Doveva rientrare in albergo, comunicarglielo e chiedere istruzioni. Lo fece nel giro di pochi minuti. Ma proprio mentre posava il ricevitore, dopo aver chiuso la comunicazione, nella stanza della pensione fece irruzione la polizia francese, che lo arrestò. Qualcuno lo aveva denunciato, scambiandolo per un pericoloso rapinatore. «Tutto come previsto», disse Bernstein a Breil. «Duffy è rientrato in albergo e ha telefonato a Craigh, a Washington, che si è subito messo in contatto con Fasatne su una linea protetta. Ha composto il numero di un apparato satellitare, che risulta installato sulla Rosa del Deserto.» Poi scosse la testa, come per smorzare ogni possibile entusiasmo di Breil, e continuò: «Il segnale rimandava di nuovo alla Manica, a sud di Portsmouth. E in quella zona di mare incrociavano ben sedici navi. Ma nessuna di esse assomiglia nemmeno lontanamente alla Rosa del Deserto». Tangula Shan. Racconto di Namling «Gustave de La Croix ci riferì nei dettagli gli avvenimenti di quelle ore drammatiche. «I primi tumulti erano scoppiati durante l'arringa con cui Robespierre, alla Convenzione, aveva chiesto con forza che, per la salvezza della Rivoluzione, l'assemblea allontanasse e punisse i corrotti. Parlando non aveva mai distolto gli occhi da Barras e Frénon. Due nomi che ricordavo bene: erano i nuovi protettori del mercante Bartoli. E probabilmente erano stati loro anche a sollecitare l'arresto di Fedeli e il suo invio a Venezia.
«'I nomi', avevano gridato gli oppositori. 'Devi fare i nomi dei corrotti.' Ma la seduta era stata sospesa senza che Robespierre soddisfacesse la richiesta. Il giorno dopo, un oscuro deputato di nome Louchet aveva chiesto che fosse messo sotto accusa. L'arresto era stato votato poco dopo, e Robespierre era stato trascinato all'Hôtel de Ville. E lì, mentre stava vergando un appello ai suoi fedeli, un gendarme aveva fatto fuoco, spezzandogli la mascella. «'Domani ci sarà il processo, ma soltanto un miracolo potrà salvarlo dalla ghigliottina', concluse Gustave de La Croix. 'Se vogliamo salvarci dobbiamo lasciare non soltanto Parigi ma anche la Francia.' «Antonio Fedeli sembrava non averlo nemmeno ascoltato. 'Voglio recuperare il tesoro', dichiarò con espressione allucinata. 'Non mi importa se in questo sfacelo non c'è più nessuno che possa comperarlo: è mio, Lanvin lo ha lasciato a me, lo voglio.' «Capimmo che sarebbe stato impossibile trattenerlo. Non aiutandolo, lo avremmo solamente fatto andare incontro a una sicura morte. Non appena calò la notte prendemmo le nostre cose e gli arnesi necessari e ci camuffammo con indumenti della servitù di Gustave. Li indossai anch'io, abbandonando con profondo dolore la mia troppo riconoscibile veste. Ma non potevo far altro. Scendemmo nelle stalle. Aggiogammo di nuovo il vecchio ronzino al carro. Gustave tolse al suo puledro la lussuosa sella, sostituendola con una logora, e lo legò al carro. Era notte fonda, per strada non c'era anima viva. Ci avviammo verso la chiesa di Saint-Cyprien. «'Questa volta o mai più', esclamò Antonio Fedeli, con occhi che sembravano di fuoco. Quanto di quel fuoco fosse dovuto all'alcol che gli bruciava in corpo non avrei saputo dire. Ma certamente una grossa parte.» Canale della Manica. 22 settembre 199... «Piombo?» ruggì Fasatne. «È impossibile. Richiami a bordo quegli incompetenti della Società Generale di Sorveglianza e faccia ripetere le analisi.» «Già fatto, signor Fasatne, ma i risultati sono inequivocabili. Tutto il carico della Nara Prima è contaminato da piombo tetraetile. Ho già contattato la nostra assicurazione a Londra», replicò timorosamente il responsabile del settore petrolifero. «Ho bisogno di quel carico e di quelli che seguiranno. E ne ho bisogno subito», urlò Fasatne nella cornetta, «non tra sei mesi, dopo le indagini e il
risarcimento. Ha capito? Ne ho bisogno adesso.» «Ho già contattato diverse raffinerie del Mediterraneo. Le tre che possono ricevere greggio contaminato, essendo in grado di effettuare il blending con prodotto sano, hanno dato il via libera per diecimila tonnellate ciascuna. E sulla Nara Prima ce ne sono trecentocinquantamila.» «Come può essere successo?» chiese Fasatne, stringendo spasmodicamente la cornetta. «La nave era pulita?» domandò poi al tecnico. «Certo, e le analisi nei serbatoi iracheni non mostravano nessuna anomalia. Probabilmente la contaminazione è avvenuta durante il travaso del greggio dalle cinque navi usate per l'allibo.» «Quel figlio di puttana di Breil!» urlò Fasatne, sbattendo giù la cornetta. Aveva ancora una possibilità, ma soltanto quella. Mentre componeva un numero telefonico, si impose la calma. «Ti aspetto, Trasi», disse al termine di una rapidissima conversazione. Quindi, posata la cornetta, non riuscì a trattenere un nuovo urlo: «Ti ammazzerò con queste mani, Breil!» Gerusalemme. 22 settembre 199... Oswald bussò educatamente alla porta del primo ministro ed entrò. Su una delle due poltroncine davanti alla scrivania era seduto un uomo con la divisa dell'esercito. «Credo che lei conosca il generale Dharel, capo del Modiin», disse il premier, indicandogli la seconda delle poltroncine. Certo che lo conosceva. Il padre, Isser Dharel, era stato uno dei suoi predecessori al Mossad, dal 1952 al 1963. Ma il figlio non era della stessa tempra. Lo salutò con un semplice cenno della testa. «Abbiamo chiuso la più importante linea di finanziamenti di Fasatne», disse subito, «e abbiamo identificato la provenienza dei segnali telefonici.» Ma si fermò lì. Niente gli imponeva di rivelare a Dharel i progressi delle sue amiche nella ricerca della Menorah. «Tutto qui?» replicò il premier in tono severo. «La prego, generale Dharel, metta al corrente il maggiore Breil di quanto si legge sui giornali. Evidentemente non lo sa.» Dharel spiegò un giornale e si mise a leggere il trafiletto in inglese: «Domani il benefattore Hytham Fasatne farà visita al suo paese natale, la città di Insariyeh, sulla costa meridionale del Libano». Oswald scosse la testa. «Magari ci raccontano anche come arriverà,
quanto si fermerà e quanti uomini avrà di scorta. I miei hanno già verificato la notizia, giudicandola del tutto inattendibile.» «Lo hanno fatto anche i miei, Breil», ribatté seccamente il generale dei servizi militari, «ma con conclusioni opposte.» «Senza contare», continuò Breil quasi non lo avesse sentito, «che l'unico organo d'informazione a dare la notizia della visita di Fasatne in Libano è una testata sussidiaria del Capitol Tribune, dove sono ormai certo che Fasatne ha amici influenti.» «Quella zona del Libano è un covo di hezbollah. E sono convinto che anche la kamikaze della strage all'aeroporto di Londra venisse da un campo di addestramento di laggiù. Stiamo preparando un'azione armata con i corpi scelti della marina», tagliò corto il primo ministro. «La prego di riconsiderare la decisione, Eccellenza», ribatté Breil in tono fermo. «Sono molto vicino a individuare il nascondiglio di Fasatne.» «È dal giorno della nomina che mi chiede tempo, Breil. Ma arrivati a questo punto penso sia arrivato il momento di dare una lezione a quell'individuo.» «Mi permetto ancora di obiettare, signore. Non possiamo permetterci di commettere un errore. Quella notizia è una trappola.» Parigi. 22 settembre 199... L'aereo per Miami partiva quella sera. Laura poté dunque aspettare in albergo l'arrivo del rabbino francese. «Un mio vecchio maestro», le aveva spiegato Sara. «Un magnifico conoscitore di arte ebraica, espertissimo. Preferisco che sia lui a esprimersi su questi oggetti.» A Laura non era sfuggita una certa aria di delusione dell'amica italiana. Sara aveva esaminato a lungo i reperti, trasportati in camera sua, ma con un atteggiamento sempre più perplesso. Intanto la vigilanza degli agenti del Mossad sull'albergo era stata ulteriormente rafforzata. Le tre amiche e il tesoro ritrovato erano al sicuro. Il rabbino arrivò all'albergo in tarda mattinata. Esaminò con commossa partecipazione e meticoloso scrupolo il candelabro, che nel frattempo Sara aveva rimontato con meticolosa cura. Poi concentrò la propria attenzione sul basamento in marmo e oro. Prima di emettere il suo responso consultò scrupolosamente una serie di volumi che aveva portato con sé. Le sue dita correvano veloci tra le pagine, che apriva nel senso della scrittura e quindi al contrario rispetto a un li-
bro in caratteri latini. Ma la sua espressione rimaneva imperscrutabile. «Per quanto riguarda la base», dichiarò finalmente, cupo in viso, «si tratta quasi certamente di quella originale del sacro candelabro.» E mostrò alle tre donne le corrispondenze tra il reperto e il bassorilievo dell'arco di Tito, recitando solennemente i versi biblici: «Farai un candelabro d'oro puro: farai d'oro massiccio il candelabro, con il suo tronco e i suoi rami; avrà i suoi calici, le sue corolle e i suoi fiori». Quindi, ripetute le ultime parole con forte enfasi, affermò in tono di assoluta sicurezza: «Il candelabro, invece, non è purtroppo l'originale. Si tratta di una copia. Molto antica certo, e in quanto tale anch'essa degna della massima venerazione. È un oggetto che non può non riempirmi di trepidante commozione, ma non è la sacra Menorah. «Infatti, guardate: la base del candelabro non coincide con i fori dei perni sul piedistallo». «Inoltre», intervenne Sara, che fino a quel momento non si era fatta sentire, «il candelabro pesa meno di ventisei chili.» «Brava», mormorò il rabbino, riprendendo a consultare uno dei suoi libri. «Ascoltate che cosa dice Giuseppe Flavio, lo storico delle guerre giudaiche di Tito», continuò dopo qualche istante. «'Il sacerdote uscì dalla città assediata e offrì preziosi oggetti sacri e un candelabro d'oro a sette bracci in cambio della sua salvezza.' Probabilmente si tratta proprio di questo candelabro. Un oggetto di valore inestimabile, ripeto, sotto il profilo storico come sotto quello religioso. Ma la vera Menorah fu presa dai soldati romani durante il saccheggio del Tempio e portata a Roma, dove aprì il trionfo di Tito.» «Qualcuna di voi conosce per caso il tibetano antico?» chiese Sara, quando il rabbino se ne fu andato con dipinta in viso tutta la sua delusione. «Non guardatemi in quel modo, non sono impazzita. Voglio dire, io un po' l'ho studiato, ma non so se basta. Guardate qui.» E così dicendo mostrò alle due stupefatte amiche il foglietto di carta grinzosa e ingiallita che aveva trovato in uno dei calici e che aveva tenuto nascosto a tutti. «Ho cercato di tradurlo, ma non sono sicurissima di aver capito bene.» E così dicendo fece comparire un taccuino, da cui si mise a leggere: A chi leggerà queste parole, io, che mi chiamo Namling, dico che è mio solenne impegno riconsegnare agli uomini del Tempio ciò che appartiene al loro culto. La luce del loro Dio adesso è nelle nostre mani. Egli abbia misericordia di noi se abbiamo preso ciò che Gli appartiene. Chi
legge questo scritto sappia che lo abbiamo fatto con la più pura delle intenzioni. Ciò che è di Dio tornerà al popolo di Dio. «Ripeto», concluse Sara, esultante, «non sono sicurissima di aver capito alla perfezione, ma il messaggio è semplice e mi sembra chiaro. Credo che l'assistente tibetano di Antonio Fedeli lo abbia lasciato lì nella speranza che qualcuno, trovandolo, si mettesse sulle tracce del vero candelabro, quello prelevato da lui e da Antonio Fedeli.» 10 Tangula Shan. Racconto di Namling «Il favore delle tenebre ci consentì di avvicinarci alla chiesa di SaintCyprien ed entrare senza essere visti, dopo aver lasciato carro e cavalli in un avvallamento nascosto della Plaine Montsouris. «Fin dai primi giorni della Rivoluzione, la zona, un tempo semideserta, era continuamente percorsa da carrette che portavano mucchi di ossa e cadaveri alle catacombe. Anche questo continuo andirivieni aveva ritardato il tentativo di recupero del tesoro, ma ormai non si poteva più rimandarlo. Su questo punto Antonio Fedeli aveva ragione. O rinunciare o agire. Sia Gustave de La Croix sia io sapevamo che non avrebbe mai rinunciato. Inoltre, come sempre, il coraggioso barone sembrava trasfigurato dalla prospettiva di un'azione rischiosa. «Fedeli e io sapevamo che la porta della sacrestia, sul retro, aveva un sistema di chiusura piuttosto rudimentale. Non ci volle molto per forzarlo. Alla luce delle nostre candele la chiesa ci apparve ancora più squallida del solito: erano state portate via persino le panche di legno. «Ormai conoscevamo a perfezione l'itinerario da seguire, nei sotterranei. In pochi minuti raggiungemmo l'arco con la scritta: FERMATI, QUI È L'IMPERO DELLA MORTE e, al di là di esso, la cavità sul cui pavimento Lanvin aveva inciso la rosa dei venti. «Alla fine della nostra precedente visita, Fedeli l'aveva sepolta sotto un alto strato di polvere. Rimossolo con il palmo della mano, aprì il sacco degli utensili e scelse quelli adatti. Sollevare il pesante pietrone non fu facile, ma questa volta eravamo ammaestrati dall'esperienza. Finalmente Fedeli illuminò il nascondiglio con una candela. «Ci apparve di nuovo lo straordinario spettacolo da cui eravamo già stati abbagliati quasi cinque anni prima. Lo sfavillare dorato di un vero tesoro.
«'Due Menorah', mormorò Gustave quando fu riuscito a ritrovare la voce. 'Ne ho vista una simile, anche se molto più piccola, in casa di un ebreo che faceva da banchiere alla mia famiglia, e mi è stato spiegato che cosa sono. Se ho ben capito, una di esse, antichissima e scomparsa, per il popolo del Tempio costituirebbe addirittura un simbolo sacro a Dio. A chissà quando risalgono, queste due. Sembrano molto antiche. Ma sono gigantesche, non riusciremo mai a portarle via.' «'Possiamo fare più di un viaggio', replicò Fedeli. «'Soltanto per portare via quella più grossa e la base ci vogliono cinque o sei uomini', ribadì il barone d'Armance. 'E non credo proprio che potremo sfidare un'altra volta la sorte come questa notte. Sempre che tutto vada bene.' «Fedeli osservò la grande base di marmo e dovette convenire che Gustave aveva ragione. 'Possiamo togliere dalla base il più pesante dei due candelabri e portare via soltanto quello. E poi, chissà, dopo aver rimesso a posto il pavimento in modo che nessuno si accorga di niente, un giorno potremo magari tornare qui a prendere il resto.' «Mezz'ora più tardi, a prezzo di estenuanti fatiche, avevamo recuperato il più grosso dei due candelabri, appoggiandolo con cautela sul pavimento del sotterraneo. Era sicuramente più antico dell'altro. Mi riempiva di un profondo senso reverenziale. Non sapevo niente del popolo del Tempio di cui aveva parlato Gustave, né del suo Dio, ma giurai subito a me stesso che avrei fatto di tutto perché quell'oggetto sacro tornasse in suo possesso. «Scesi un'ultima volta nel nascondiglio e, senza che i miei amici se ne accorgessero, lasciai un messaggio vergato frettolosamente, con la mia promessa. Ero sicuro che non saremmo mai più tornati lì, ma ancora oggi sono altrettanto sicuro che quel Dio farà in modo che qualcuno trovi il mio messaggio. Quindi chiusi il candelabro che lasciavamo lì in un sacco che avevo portato con me, per proteggerlo dal tempo. «Infine rimettemmo al suo posto il pietrone e tornammo a coprirlo di polvere. Fedeli e io sollevammo il candelabro dai due lati e ci avviammo verso l'uscita, ma Gustave ci fermò. 'Credete di essere invisibili?' «Aveva ragione: nel cuore della notte era poco probabile che incontrassimo una carretta di cadaveri, ma se ci fossimo imbattuti in una pattuglia di guardie, come avremmo giustificato il possesso di quel peso in oro massiccio? E come potevamo sperare che non ci sarebbe stato sottratto? Per converso, come nasconderlo? «Fedeli ebbe un'illuminazione: molti dei musicisti che avevano occupato
la chiesa di Saint-Cyprien, facendone la loro sede rivoluzionaria, avevano con sé gli strumenti e li avevano depositati in un locale della sacrestia. Vi si diresse e tornò con una grossa custodia in cuoio nero per arpa. Sembrava fatta apposta per il candelabro sacro.» Insariyeh. 23 settembre 199... Il sottomarino israeliano emerse e rimase immobile a circa sei miglia dalla costa sabbiosa. Le luci di Insariyeh, coperte da una collina, dipingevano un alone giallastro nel cielo buio della notte. Il villaggio distava poco più di quindici chilometri, e il confine della zona di sicurezza controllata da Israele era circa cinquanta chilometri più a sud. I quattro gommoni furono calati in mare: potevano contenere quattro uomini ciascuno, con le dotazioni personali e il borsone dell'attrezzatura comune. Accanto al propulsore a scoppio da centoventi cavalli c'era un silenzioso motore elettrico a batteria. Sebbene lento, era l'unico modo per raggiungere la riva senza essere sentiti dalle pattuglie degli hezbollah. I sedici uomini della Flottiglia 13 - il corpo scelto della marina israeliana erano comandati da un giovanissimo tenente. L'ufficiale verificò la ricetrasmittente con cui era collegato ai suoi, quindi impartì l'ordine di muovere. Il ronzio dei motori elettrici era coperto dallo sciacquio delle onde. La sagoma nera del sommergibile scomparve subito in un ribollire d'acqua. Arrivati a pochi metri dalla battigia, da ciascun gommone saltarono in acqua due uomini, che lo trascinarono fino alla terra ferma. Quindi i sedici incursori si disposero a semicerchio, puntando le armi automatiche nel buio. Il binocolo a raggi infrarossi che ognuno di essi aveva in dotazione consentiva di individuare i contorni tra le dune e il cielo. Non avvistarono nessun movimento sospetto. Il giovanissimo tenente accese la torcia tascabile e fece scorrere ancora una volta il fascio di luce schermato sulla carta topografica. Aveva già partecipato ad azioni in territorio libanese, ma questa volta il compito era molto più arduo: rapire Hytham Fasatne in pieno giorno e portarlo in Israele. «Male che vada, uccidetelo», aveva ordinato il generale Dharel, ed era convinto che sarebbe stata la soluzione più logica per tornare a casa vivo con i suoi uomini. Sapeva che, se la strategia d'attacco era importante, quella di fuga era essenziale. Fissò nella mente i pochi riferimenti geo-
grafici. Il finimondo scoppiò quando stava per ordinare di nascondere i gommoni. L'aria fu lacerata dal fischio sordo del primo missile TOW. Poi la notte fu illuminata dalle vampe e dalle traiettorie dei traccianti. Alcuni degli incursori risposero al fuoco, cercando disperatamente riparo nella distesa di sabbia. «È una trappola! Torniamo indietro!» ebbe appena il tempo di urlare il giovanissimo ufficiale israeliano, prima che una scheggia di granata di mortaio gli maciullasse la gamba sinistra, facendogli perdere i sensi. Il fuoco di sbarramento durò diversi minuti, ma finalmente, accortosi che gli israeliani non opponevano più resistenza, il capo degli hezbollah ordinò il cessate il fuoco. In quel momento il giovane comandante della Flottiglia 13 riprese conoscenza. I colori dell'infrarosso gli presentarono la scena come una sequenza irreale. Vide la gamba ritorta in una posizione innaturale e coperta da brandelli di stoffa insanguinata. Poi gli integralisti islamici che avanzavano con le armi in pugno. Sapeva che cosa lo aspettava se lo avessero catturato. Scaricò quasi completamente su di loro il caricatore e poi rivolse la mitraglietta contro se stesso. Qualche istante più tardi, il comandante degli hezbollah si aggirava tra la carneficina. «Cercatene uno vivo. Hanno sicuramente parecchie cose da raccontarci», ordinò in un arabo impreciso, scoprendosi la faccia dal velo della keffiah. Il sole che stava sorgendo oltre le dune illuminò la mascella squadrata e lo sguardo da lupo di una vecchia conoscenza di tutti i servizi segreti. Il russo Tagil Sarov, ex uomo di punta del KGB. Key Biscayne. Miami. 23 settembre 199... Laura non si aspettava di sicuro un'accoglienza festosa da parte di Kevin, però il suo gelo le sembrava veramente eccessivo. Per fortuna Chiara non si staccava mai da lei. Si era commossa nel vedere le sue manine tese verso il suo volto nell'atto di una carezza incerta. Quei venti giorni erano stati un'eternità, ma se n'era resa conto davvero soltanto quando si era trovata la piccola tra le braccia. Doveva rinunciare non soltanto alle avventure in cui l'attirava Breil ma forse anche al suo lavoro di ricercatrice, nonostante le grandi soddisfazioni che ne traeva. La costringeva a stare troppo tempo lontana da casa. E Chia-
ra era sicuramente la cosa più cara che la vita le avesse regalato. Molto più importante di qualsiasi successo professionale. Quando lo aveva abbracciato, Kevin aveva mantenuto un atteggiamento rigido e freddo, e lei aveva capito che aspettava soltanto di rimanere solo con lei per parlarle. «Che mestiere faccio, Laura?» le chiese infatti non appena furono soli, dopo aver affidato la piccola a Constance perché la mettesse a letto. «Lavori alla NASA.» «Esatto, sono un generale dell'Air Force stanziato presso l'ente spaziale americano. La cosa non ti dice niente?» Laura scosse la testa. «Sono un alto ufficiale, e come tale ho accesso a informazioni riservate, oppure ho amici che me le trasmettono, soprattutto se riguardano i miei cari. Perché non mi hai detto che in questa tua ultima ricerca c'era ancora una volta lo zampino di Oswald Breil?» «Perché non volevo farti preoccupare.» «Ti rendi conto che la moglie di un generale degli Stati Uniti sta lavorando per il Mossad?» «Tanto per cominciare non sono la moglie di nessuno. In secondo luogo sono una libera professionista e offro le mie prestazioni a chi mi paga, purché abbia fini leciti. E nella ricerca che ho appena svolto non c'era niente di illecito. Né tantomeno di spionistico.» «Si dà però il caso che la ditta che ha finanziato il restauro sia molto vicina al Mossad. Di cui si mormora che Oswald Breil sia diventato il capo.» «Con il petrolio trovato dopo una mia ricerca hanno fatto marciare l'auto di Bokassa. Lo sapevi? Questo mi avrebbe reso complice di un dittatore?» «Non mi sembra il momento di fare dello spirito. Me ne vado, Laura. Ho bisogno di stare solo e riflettere. Passerò a prendere mia figlia venerdì sera: ho prenotato a Disneyworld per il weekend e non voglio perdere la prenotazione.» «E io non voglio perdere te», avrebbe voluto gridare Laura, ma l'orgoglio glielo impedì. Si morse le labbra. «Forse è meglio che porti con te Constance: potrebbe esserti d'aiuto con la piccola», disse semplicemente. Quando Kevin se ne fu andato, cercò di esaminare con obiettività il problema. Concluse che non poteva dargli torto. Gli aveva taciuto la regia di Oswald per non preoccuparlo, ma non aveva mai pensato neanche per un attimo a quanto fosse «inopportuna» che la compagna di un alto ufficiale
della NASA lavorasse per il Mossad. Entrò in camera sua con le lacrime agli occhi. Rimase qualche istante seduta immobile sul letto, poi si rese conto di aver bisogno di qualche parola amica di conforto. Collegò il computer portatile alla linea telefonica e lo accese. Sedici uomini erano morti nella trappola tesa da Fasatne. Ma Breil continuava a ripetersi che non ne aveva nessuna colpa. Ciascuno si prendesse le sue responsabilità. Ubi maior minor cessat, mormorò tra sé, rileggendo la lettera che intendeva consegnare al premier di lì a una settimana. Le sue dimissioni irrevocabili. Stava per digitare il comando di stampa, quando la bandierina sul monitor prese a lampeggiare, accompagnata da uno scampanellio insistente. Qualcuno voleva mettersi in contatto con lui. Quando capì chi era, si illuminò di gioia. , si precipitò a digitare. <MALEDIZIONE, OSWALD, NON RIESCO MAI A DIRTI DI NO. E POI FINISCO NEI GUAI. D'ACCORDO, SABATO ALLE NOVE DA CRAB JOE.> Canale della Manica. 23 settembre 199... Alfredo Trasi entrò nello studio sulla Rosa del Deserto, salutò con grande cordialità Hytham Fasatne e si versò subito un drink al banco del bar, in un angolo della stanza. E finalmente si sedette su un divanetto in pelle: toccava a lui dare le carte, ed era capace di servirsi una scala reale. «Le persone che rappresento hanno disposto l'accredito di cento milioni di dollari puliti sulla Luxbank. Un contributo, diciamo, a fondo perduto», esordì, andando subito al sodo.
«Questo 'fondo perduto' sarebbe la metà della mia banca?» «Sai bene che quando ci si trova in difficoltà niente vale quanto si pensa. Visto che ti sei rivolto di nuovo a noi, mi sembra di capire che i tuoi potenti amici ti hanno abbandonato. Giochiamo a carte scoperte, Hytham.» «Nessuno mi ha abbandonato. C'è soltanto quel maledetto nano che mi complica la vita.» «Sta di fatto che sei in grosse difficoltà. Sull'orlo del baratro, secondo noi. Ma abbiamo ugualmente il coraggio di aiutarti.» «Il coraggio del calcolo. Sai perfettamente che il sole tornerà a splendere sul mio impero.» «Sul nostro impero, Fasatne. Da questo momento siamo soci. Ricordatelo bene, perché tra la mia gente non si usa perdonare chi sbaglia.» «Il nostro impero, come vuoi», tagliò corto il libanese. Quei cento milioni di dollari gli servivano come l'ossigeno. Ma era sicuro che avrebbe trovato il modo per liberarsi di un socio così scomodo. Tese la destra a Trasi. «Affare fatto, ma ricordati che nell'accordo rientra anche l'altro impegno che avete nei miei confronti.» Doveva assolutamente ripresentarsi al suo protettore iracheno con un dono eccezionale, e niente poteva esserlo più del sacro candelabro trovato dalle amiche di Breil. Tangula Shan. Racconto di Namling «Raggiungemmo con circospezione l'avvallamento della Plaine Montsouris dove avevamo lasciato i cavalli e il calesse. Era ancora buio pesto, il silenzio dominava assoluto. Caricammo il pesante fardello e ci accingemmo a salire. «Di punto in bianco mi trovai davanti alla bocca la punta di una spada. Avrei potuto disarmare l'aggressore, ma la voce che sentii emergere dal buio mi bloccò. Riconobbi il tono gracchiante del mercante Bartoli ancor prima che venisse accesa una torcia. «'Grazie. Ci avete risparmiato un bel po' di fatica. Il tesoro sarebbe tutto lì? No, non credo proprio. Ma credo anche che ce lo direte voi. Eh?' «Guglielmo, il nostro garzone fedifrago, reggeva la torcia. E Bartoli, che nella sinistra stringeva una pistola, mi teneva sotto la costante minaccia della spada. «'Basta uno solo di voi per svelarci dov'è il tesoro', ghignò. 'Gli altri due sono del tutto inutili.' Quindi puntò la canna della pistola su Fedeli, sollevando il cane con il pollice. Mi sembrò di avvertire fisicamente la tensione
del dito appoggiato sul grilletto. Mi scagliai contro di lui, scostando con un gesto fulmineo la lama che mi minacciava. Ma il colpo partì ugualmente, prima che potessi disarmarlo. Mi accorsi che Fedeli era stato ferito. «Gustave non perse tempo, mettendosi a sua volta a menare pugni e calci. Misi a profitto gli insegnamenti dei nostri shaolin. La mia gamba si levò all'altezza del volto di Bartoli e lo stordii. Intanto Gustave aveva ridotto all'impotenza Guglielmo. «A quel punto ci occupammo di Fedeli, sulla cui camicia si vedeva una larga chiazza rossa. Valutai la ferita, che nella scarsa luce non mi sembrò grave. La palla gli era entrata di striscio nel fianco sinistro, uscendo. Non sembrava aver leso organi vitali. «Dopo aver immobilizzati i due aggressori con una fune, riuscimmo a caricare il nostro sfortunato amico sul calesse accanto al candelabro. Il cielo si stava appena arrossando della prima luce dell'alba. Dovevamo allontanarci al più presto.» Roma. 24 settembre 199... Oltre gli spessi vetri atermici la vita di Roma scorreva caotica come sempre, ma nella quiete assoluta del suo laboratorio Sara Terracini stava cercando di ordinare le idee sulla scoperta fatta. Nel suo lessico personale la parola «riposo» non esisteva, in particolare se una ricerca o una decifrazione non era ancora stata portata a termine con sua soddisfazione completa. Seppure a fatica, i tasselli del mosaico erano sembrati sistemarsi. Ma poi tutto si era rimescolato. Adesso erano in possesso di una presunta copia del candelabro originale, della base quasi certamente appartenuta alla Menorah, e di un messaggio scritto duecento anni prima. «Mai abbandonare un indizio», si disse in tono determinato. Compose un numero interno. «Toni, puoi fare un salto su da me?» chiese, cercando di adottare il tono dolce che sapeva irresistibile per il suo collaboratore Marradesi. L'uomo entrò nella stanza pochi attimi dopo, con la sua aria perennemente affannata. «Che cosa c'è, ancora?» chiese, come sempre sulla difensiva. «Sai qualcosa su Tibet e monaci tibetani?» gli chiese lei con voce melliflua, sgranando gli occhi neri. «Niente. O comunque molto meno di quanto so del Raffaello che ho sul telaio dello spettrografo. Mi tocca semplicemente scoprire se sotto il dipin-
to ci sono altre opere.» «Dai, Toni, i rifacimenti del grande Sanzio sono lì che aspettano da secoli di essere svelati, e possono aspettare ancora un po'.» «Qui comandi tu», borbottò il non più giovane Marradesi, scattando sull'attenti. «E andrà a finire che un giorno o l'altro mi toccherà morire per te.» «Non ti chiederei mai tanto, Toni. Per adesso mi serve soltanto una ricerchina. Piccola piccola.» «Tanto per cambiare», sbuffò il collaboratore. «Forza, mira al cuore.» «Ho bisogno di sapere tutto sui monaci buddisti arrivati in Europa tra la metà del Settecento e la metà dell'Ottocento. Me ne interessa soprattutto uno che si chiamava Namling. Un pittore.» «Quisquilie», commentò Marradesi in tono sarcastico. «E immagino che tutto ciò tu lo voglia per domani mattina.» «Non proprio. Ma se tu riuscissi a dirmi qualcosa tra un paio di giorni...» «Ci mancavano soltanto i tibetani», borbottò Toni Marradesi, girando sui tacchi e scomparendo. Tangula Shan. Racconto di Namling «Per fortuna trovai anche nelle campagne di Francia molte delle erbe di cui i miei maestri mi avevano svelato i segreti, e con esse medicai la ferita di Antonio Fedeli come meglio potevo, cercando di tamponare il sangue che continuava a uscire. Era debole, ma non aveva mai perso conoscenza. Avevamo volutamente evitato di entrare in città e, seguendo itinerari secondari, stavamo costeggiando un fiume lungo un viottolo sconnesso. «Quando vedemmo il posto di blocco, al di là di una curva cieca, era ormai troppo tardi per evitarlo. Anzi, io non lo avevo affatto visto. Di punto in bianco mi accorsi che Gustave, balzato a terra dal carro, aveva preso uno zoccolo del suo cavallo e vi stava armeggiando. Stavo per chiedergli spiegazioni, quando vidi che Antonio mi faceva disperatamente cenno di tacere e di guardarmi dietro le spalle. Mi voltai e finalmente vidi il sottufficiale che ci veniva incontro con cautela. «'Altolà', ci intimò in tono arrogante, alzando il braccio destro. 'Chi siete e dove andate?' Quindi rimosse il telo che copriva il pianale del carro. Accanto al sacco con gli attrezzi c'era, visibilissima, la grande custodia di cuoio nero lucido. «Antonio Fedeli si asciugò il sudore e chiamò a raccolta le forze, ri-
spondendo: 'Siamo due muratori, cittadino. E il nostro compagno di viaggio è un musicista. Lo abbiamo raccolto perché va nella nostra stessa direzione, e il suo cavallo si è azzoppato'. «'E quale sarebbe questa direzione?' chiese sospettosamente il militare. «'Una villa di Melun-Sénart', improvvisò Fedeli. 'Noi due dobbiamo fare alcune riparazioni, e lui vi terrà un concerto suonando l'arpa.' «Il militare salì sul carro, si avvicinò al sacco degli attrezzi da muratore e vi frugò dentro. Poi spostò la sua attenzione sulla custodia dell'arpa. Vidi Gustave impugnare sotto le vesti la pistola sottratta a Bartoli. «'E tu saresti l'arpista?' chiese il militare in tono di scherno. 'Come mai suoni uno strumento così femminile?' «'Oh, se avessi tempo suonerei un concerto sul vostro strumento, bell'ufficiale', rispose d'istinto Gustave, affettando modi femminei e una voce in falsetto. Il militare scoppiò a ridere, smontando dal calesse senza aprire la custodia. «'Bel cavallo', commentò, accarezzando la criniera dello splendido stallone di Gustave. 'Non è un po' troppo, per un mezzo uomo come te? Dove l'hai rubato?' «'Non l'ho rubato', protestò Gustave, agitandosi come un cagnolino isterico. 'Mi è stato dato... mi è stato dato in pagamento per...' «'Oh, posso ben immaginarmi in pagamento di che cosa', ribatté il sottufficiale in tono di scherno. 'Cavallo zoppo in cambio di culo rotto, uno scambio perfettamente alla pari', e scoppiò in una risata rauca. «'Ma signore!...' finse ancora di protestare Gustave, nascondendosi la bocca dietro una mano. «'Vabbè', concluse quello. 'Comunque è vero, è zoppo. Peccato: una cavalcatura così mi avrebbe fatto comodo. Forza, forza, toglietevi dai piedi, aria.' «'Possiamo chiedervi chi state cercando?' gli chiese Antonio Fedeli. «'Alcuni seguaci di Robespierre. E in particolare il barone Gustave de La Croix, un giovanotto molto pericoloso.' «'Magari fossi io quel giovane di nobili lombi', disse Gustave, sbattendo le palpebre. 'Quante soddisfazioni potrei togliermi, una volta catturato!' «Il sottufficiale scoppiò di nuovo a ridere, picchiando una pacca sul dorso del ronzino da tiro. 'Vai, vai, cittadino suonatore di arpe e pifferi. Cambia aria. Va' a cercare altri uomini bolsi come i cavalli con cui ti pagano.' «Il posto di blocco era appena scomparso dietro una nuova curva, quando Antonio svenne. La tensione del pericoloso incontro lo aveva definiti-
vamente prostrato. «'Dobbiamo arrivare al castello d'Armance in fretta, se non vogliamo che muoia dissanguato', disse Gustave, balzando nuovamente giù dal carro e liberando il suo povero cavallo dalla pietra aguzza che gli aveva infilato tra ferro e unghia.» Roma. 24 settembre 199... Sara era collegata da qualche minuto via computer con Oswald Breil e gli stava raccontando alcune delle cose che aveva scoperto in attesa dell'esito della più approfondita ricerca di Toni Marradesi. Ma il sesto senso l'avvertì che il suo vecchio amico era di pessimo umore. <EHILÀ>, digitò sulla tastiera, <MI PESA SULLA COSCIENZA LA VITA DI ALCUNI RAGAZZI. MA PARLIAMO D'ALTRO, PER FAVORE. HAI DECISO COME CONTINUARE LA RICERCA?> <SONO IN ATTESA DI QUEL MATERIALE INFORMATIVO, INTANTO PERÒ HO GIÀ COMINCIATO A PREPARARE LA VALIGIA PER ANDARE IN TIBET.> Tangula Shan. Racconto di Namling «Il castello d'Armance distava appena pochi chilometri. E dopo un'ultima collina ci apparve finalmente la sua maestosa rocca. 'Ci vuole ancora un'ora', mi disse Gustave. «Antonio Fedeli alternava momenti sempre più rari di lucidità a lunghi
periodi di incoscienza. La ferita non sembrava infetta, ma bastava il movimento della respirazione a farla riaprire. Dovevo fare qualcosa. «Qui nel nostro paese avevo visto più volte un medico cauterizzare una ferita, e credevo di aver capito come si faceva. Arroventai un punteruolo da muratore sulla fiamma della lanterna del carro. Quando il ferro fu bianco chiesi a Gustave di fermare il cavallo e di aiutami a tenere fermo Fedeli. «Sentimmo lo sfrigolio della carne arsa, accompagnato da un odore acre. Potevo soltanto augurarmi che quel rozzo tentativo bastasse a tenere in vita Antonio Fedeli fino al castello d'Armance. Severo e fiero, arroccato sul suo sperone di roccia, si alzava di quasi cinquecento metri sulla pianura circostante. A mano a mano che avanzavamo nella valle, si faceva sempre più vicino. «Eravamo quasi giunti alle rampe che vi si inerpicavano, quando vidi che Gustave si voltava per guardarsi dietro le spalle. 'Arrivano', disse indicando un punto lontano. 'Dev'essere almeno uno squadrone di cavalleria in armi.' «Mi passò le redini e concluse: 'Conduci tu il carro fino al castello, più in fretta che puoi. Io vado avanti a preparare il benvenuto ai nostri nemici'. «E balzò sul suo cavallo, partendo al galoppo verso il castello.» Roma. 26 settembre 199... «Quanto tempo sarà che non posso godermi un sabato in pace?» borbottò Marradesi, posando rumorosamente un fascio di carte sulla scrivania di Sara. Poi guardò l'orologio. «Comunque ti concedo soltanto due ore, quindi cerca di seguirmi con la massima attenzione. Se ti serve ancora qualcosa, te lo vai a cercare da te.» «Che cosa succede, Toni? Come mai tutta questa fretta? Io ero convinta che passassi qui anche la notte.» «Oh, è successo ben più di una volta. E lo sai benissimo», brontolò Toni. «Ma stasera arriva da Firenze mia sorella con i due nipoti. Quindi, esattamente tra due ore, anzi, tra un'ora e cinquantanove minuti, me la batto. Vediamo di fare in fretta.» «Forza, attacca.» «In nessunissima biblioteca ci sono notizie di tibetani in Europa in quel periodo. Ho drenato tutti i motori di ricerca Internet. Niente. Allora ho provato a ribaltare l'ordine dei fattori. Poteva essere che qualche europeo fosse andato in Tibet in quel periodo? Ecco la risposta: padre Francesco
Orazio degli Olivieri, classe 1680, dell'ordine dei cappuccini della marca di Ancona, destinato missionario in Tibet. Vi arrivò il primo ottobre del 1716, rimase a Lhasa fino al 1736 e, rientrato a Roma in cerca di aiuti per la sua missione, vi tornò nel 1741. Ma nel 1745 gli toccò tagliare la corda con alcuni confratelli. Morì il 20 luglio di quell'anno in Nepal, mentre cercava di raggiungere la costa per tornare in Italia. Pace all'anima sua.» «Molto interessante, ma che cosa c'entra tutto questo con il nostro Namling?» «Be', ho trasferito la mia ricerca nel convento di quei cappuccini, a Fano, ed ecco che cosa ho trovato», rispose Marradesi in tono esultante. «Sai come si chiamava un giovane discepolo tibetano, che i monaci hanno portato con sé in Italia e che poi è rimasto in quel convento circa tre anni?» «Namling?» esclamò Sara. «No, si chiamava Lati.» «E allora?» «Allora, pare che una trentina di anni più tardi, con tanto di lettere di raccomandazione di questo Lati, nel convento di Fano sia arrivato un secondo giovane tibetano, che vi rimase a sua volta più o meno tre anni. Come si chiamava?» «Namling, finalmente?» «Proprio. Furono i primi contatti tra le due culture religiose, ma il rapporto ha resistito al tempo. Pensa che la prima delegazione religiosa arrivata ad Assisi per portare la propria solidarietà dopo il recente terremoto è stata proprio un gruppo di monaci tibetani», rispose Toni. «Ma c'è dell'altro. In alcune leggende tibetane si parla di un monaco educato in Occidente, che sapeva dipingere in maniera impareggiabile. E un Namling compare anche in altre cronache, ma non credo che ti serva a granché. È un evidente caso di omonimia. Sarebbe il ventiseiesimo re di Shambala, che pare si chiamasse anche lui Namling, o qualcosa di simile.» «Shambala?» chiese Sara sgranando gli occhi. «Il luogo dove, secondo la leggenda, il tempo non ha fine?» «Proprio: Shambala o Shangri-la. Ma non agitarti troppo. Fatti i debiti calcoli, il regno del ventiseiesimo re dovrebbe essere recente. Diciamo dopo il 1850. E a quel punto il tuo Namling doveva già essere morto e sepolto da un bel po'. Inoltre tieni presente che il nome assomiglia soltanto a Namling. Non c'è nessuna sicurezza.» Sara si alzò di scatto dalla poltroncina della scrivania, precipitandosi a baciarlo sulla profonda stempiatura.
«Toni, senza di te questo istituto potrebbe chiudere anche domani.» Lasciato finalmente libero l'insostituibile collaboratore, Sara tornò al computer. Oswald le aveva detto che avrebbe trascorso il weekend negli Stati Uniti. Fece rapidamente i conti. Nella East Coast doveva essere ora di pranzo. Be', pensò, gli lascio un messaggio e aspetto che mi richiami. Aveva ancora moltissime cose da fare in laboratorio. Tangula Shan. Racconto di Namling «Quando finalmente raggiunsi il castello d'Armance, avevo i soldati alle calcagna. I servi di Gustave mi facevano gesti di richiamo dai torrioni. Varcai a spron battuto il ponte levatoio, che fu subito sollevato. Rimasi a bocca aperta. Nella corte troneggiava la macchina più fantastica che mi fosse mai capitato di vedere. «In piedi davanti a essa, Gustave mi guardava raggiante. 'È un aerostato', mi spiegò. 'Una macchina volante. Capisci, Tang Shen? Una macchina volante, capace di levarsi in cielo per effetto di un grande pallone pieno di aria calda.' Quasi completamente gonfio, questo pallone aleggiava diversi metri sopra le nostre teste. «'L'ho acquistata da Joseph e Jacques Montgolfier una decina di anni fa', mi spiegò Gustave. 'E sarà con essa che riusciremo forse a metterci in salvo.' «Antonio Fedeli aveva ripreso i sensi, la ferita non sanguinava più. Aprì gli occhi un solo istante, apparentemente senza nemmeno vedere il pallone gonfio di aria calda, ma li richiuse subito. «Intanto i nostri nemici avevano raggiunto il castello. Dall'esterno delle mura sentivamo arrivare gli ordini degli ufficiali, che facevano piazzare i pezzi pesanti. «'Presto', disse Gustave. 'Carichiamo sulla cesta Antonio e la custodia dell'arpa ed entriamoci anche noi. I cannoni ci metteranno poco ad aprire una breccia. Forza, sganciate le cime di ancoraggio', ordinò ai servi ancora indaffarati a caricare viveri e acqua sulla navicella. «'In alto, tirate in alto', sentimmo urlare gli ufficiali addetti al puntamento, mentre, più leggeri dell'aria, ci libravamo oltre i torrioni del castello. «Ma per fortuna le palle dei moschetti ci mancarono, perdendosi nel cielo con un rumore sempre più flebile a mano a mano che ci alzavamo. La vista del castello da lassù mi lasciò senza fiato. Era uno spettacolo che non avrei mai immaginato di vedere. Gustave intanto si preoccupava di alimen-
tare la stufa al centro della cesta, mentre la temperatura si abbassava sempre più. «'Tra pochi piedi dovremmo incontrare le correnti che ci porteranno verso sud', mi disse, armeggiando con la maniglia che regolava l'accesso dell'aria calda nel pallone.» Miami. 28 settembre 199... «Come sta l'eroe dello spazio?» chiese Oswald a Laura, letteralmente aggredendo un pezzo di crostaceo che si rifiutava di farsi conquistare. «Bene», rispose lei. «È a Orlando da ieri sera, a Disneyworld. Ci ha portato Chiara.» «E come mai non sei andata con loro?» «Problemi di comunicazione con Kevin. Proprio di questo volevo parlarti, Oswald.» «Lo immaginavo», mormorò Breil. «Mi dispiace. Ma vedrai che si aggiusterà tutto.» «Lo spero anch'io», disse Laura. «Ma questa volta Kevin è veramente arrabbiato. E io stessa mi sto chiedendo se ha senso questo mio correre qua e là all'impazzata, trascurandoli.» «Ti capisco. Ma, ripeto, vedrai che tutto si aggiusterà. Fra un po' potrai passare tranquillamente tutto il tuo tempo con loro.» «In che senso 'fra un po''?» chiese bellicosamente Laura. «Comincerò a farlo nel momento stesso in cui torneranno a casa.» «Temo di doverti chiedere di rimandare di qualche giorno. Sara Terracini ha tutte le intenzioni di partire per il Tibet, e vorrebbe averti con lei. Vuole che ti chieda...» «Di andare con lei?» scattò Laura. «No, non ti permetto di chiedermelo.» Poi, notando le teste che si voltavano a guardarla, abbassò la voce. «Non puoi chiedermelo», ripeté. «Considero indecente il semplice fatto che tu abbia potuto pensarlo. Ho una famiglia a cui badare. Quindi la risposta è brevissima: no!» Non l'aveva mai vista così decisa. Ogni volta che le aveva chiesto di aiutarlo, si era sempre ribellata animosamente, ma poi a poco a poco aveva ceduto, vinta dal fascino dell'avventura. Ma questa volta non era così. Breil preferì non insistere. Sarebbe tornato sull'argomento tra qualche giorno, con molta cautela. «D'accordo», disse. «Come vuoi. Sara rimarrà molto delusa, ma non
posso non tenere conto della tua situazione.» Proprio in quel momento si sentì il trillo di un cellulare. «È il mio», disse Laura dopo un attimo di incertezza. E cominciò a rovistare nella borsa di Hermes. Oswald la vide illuminarsi in viso, mentre esclamava: «Kevin!» Ma si fece subito cerea. Dopo aver borbottato qualche frase quasi incoerente, chiuse la comunicazione. Le si leggeva il panico nello sguardo. «Portami a casa, Oswald», disse, alzandosi di scatto. «Kevin sta tornando da Orlando. Hanno rapito Chiara e assassinato Constance.» PARTE TERZA LA PAURA DEL SILENZIO 11 Tangula Shan. Racconto di Namling «Sebbene fossimo ai primi d'agosto, il freddo si era fatto pungente. I venti d'alta quota spingevano il pallone volante, e Gustave si stava dimostrando molto abile nel governarlo. Mi spiegò che si dedicava da molto tempo a questa sua passione e che aveva apportato grosse modifiche al progetto originale dei fratelli Montgolfier. Aveva ampliato la cesta, che, oltre alla caldaia a carbone, poteva contenere fino a sei persone. Ma mi confidò anche che i suoi viaggi non si erano mai spinti al di là delle Alpi, la meta verso cui stava dirigendo per lasciare la Francia. «Aveva issato un drappo tra le cime che assicuravano la navicella alla sfera piena di aria calda e la definiva 'vela': secondo lui ci faceva marciare a una velocità doppia di quella di un cavallo al galoppo. «Avevamo coperto Antonio con alcuni sacchi vuoti della zavorra, adagiandolo accanto alla caldaia. Le sue condizioni cominciavano lentamente a migliorare. Sotto di noi lo spettacolo delle cime innevate scorreva veloce: un panorama da mozzare il fiato. «Pensa, Tang Shen, era come osservare le nostre montagne dall'alto, sfiorare le rocce, sorvolare i crepacci. Stavamo realizzando uno dei sogni dell'uomo: volare. Ma in un modo del tutto diverso da come lo spirito si libera dal corpo nelle tecniche di meditazione. Corpo e spirito uniti, sollevati da terra, spinti dai gelidi venti di quota che soffiano a centinaia di nodi.»
Miami. 28 settembre 199... Videro subito la berlina nera della polizia federale parcheggiata nel parco delle Biscayne Towers. Smontarono dal taxi e corsero verso il portone a vetri della casa di Laura. I pochi minuti da Coconut Grove, dov'era il ristorante, a Key Biscayne erano parsi un'eternità. Laura era sul limite di una crisi isterica. L'ascensore privato si arrestò al decimo piano. Kevin li stava aspettando sulla porta di casa. Strinse la compagna in un abbraccio disperato. «Non potrò mai perdonarmelo», mormorò. «Com'è successo?» chiese Laura, singhiozzando. «Avevo lasciato Chiara con Constance su una panchina per andare a prendere qualche bibita. Quando sono tornato dopo una decina di minuti, Constance era seduta dove l'avevo lasciata. Sembrava dormisse, invece era morta. L'hanno assassinata con un'iniezione. Della bambina, nessuna traccia.» Uno dei federali si fece avanti e tese la mano a Laura con aria di circostanza. «Sono il detective Huggins. Diversi testimoni hanno riferito di aver visto due persone con la divisa degli inservienti del parco che sembravano accompagnare una bambina al punto di raccolta. Hanno pensato che avesse smarrito i genitori, come succede spesso. Però di questi due falsi inservienti non c'è traccia. Signora Joanson, so quant'è difficile per lei questo momento, ma mi è indispensabile farle alcune domande.» «La mia Chiara», continuava a singhiozzare Laura. «Che cosa le staranno facendo?» «La ritroveremo. Vedrai, la ritroveremo», disse Oswald, rimasto in silenzio fino a quel momento. «Se non le avessi lasciate sole...» mormorò Kevin con voce rotta dal rimorso. «Recriminare non serve, Kevin. Dobbiamo agire», replicò Oswald. Poi si rivolse ai federali in tono imperativo: «Immagino che le linee telefoniche di questa casa siano già sotto controllo». Il detective Huggins si adombrò scopertamente del tono di quell'omino mai visto. «Con chi ho il piacere di parlare?» chiese in tono di sufficienza, aprendo il taccuino. «Sono Breil, Oswald Breil, e non ho tempo per spiegarle i rapporti che mi legano al generale Dimarzio e alla signora Joanson. Anzi, la pregherei di scusarmi, ma credo sia più che tempo di cominciare le ricerche della
mia nipotina.» «La ringrazio del suggerimento, signor Brill», ribatté il detective in tono di profondo fastidio. «Da solo non sarei mai arrivato a pensarlo. Potrei comunque sapere chi è lei e dove alloggerà a Miami? Caso mai avessi bisogno di farle qualche domanda.» «Non credo che rimarrò qui a lungo. Se ha bisogno di informazioni su di me e sui miei recapiti, può chiederle ai suoi dirigenti: sono tutti buoni amici e sanno come trovarmi.» Così detto, Oswald baciò con affetto sulla fronte Laura, accasciata sul divano, e uscì di slancio dall'appartamento senza aggiungere una sola parola. Roma. 28 settembre 199... Era molto tardi, ma Sara stava ancora scorrendo le informazioni raccolte da Toni, evidenziando qua e là qualche frase o nome. Il computer fece sentire il classico scampanellio. digitò subito in risposta al messaggio di Breil. <SONO A MIAMI, SARA. HO UNA BRUTTA NOTIZIA: HANNO RAPITO LA FIGLIA DI LAURA E ASSASSINATO LA BABY SITTER.> Sara sbarrò gli occhi, sentendosi invadere da un moto di furore misto a compassione per l'amica. Chiusa la connessione, Oswald rimase qualche istante come paralizzato davanti al computer, in preda a un fortissimo rimorso. Il rapimento della piccola era stato senza alcun dubbio provocato dalla ricerca che aveva imposto a Laura. Ancora una volta Fasatne aveva fatto il suo sporco gioco. Spronato dal furore, si mise subito in azione. Anzitutto recuperò la lettera di dimissioni dalla memoria del computer. L'avrebbe comunque consegnata al premier israeliano giovedì primo ottobre, ma riteneva opportuno modificarla. L'espressione «decorrenza immediata» divenne «a far data dal
16 novembre». Se voleva trovare la bambina doveva agire in veste di capo del Mossad, non di privato cittadino. Tangula Shan. Racconto di Namling «'Assicura il carico e Antonio con quelle funi, Namling. Tra poco balleremo come una nave in tempesta', mi disse Gustave, indicando i nuvoloni neri che si erano addensati minacciosamente davanti a noi. Poco dopo le correnti cominciarono a squassare l'aerostato come se fosse un fuscello. «'Che cosa succede?' chiese flebilmente Antonio Fedeli, che comunque mostrava qualche segno di ripresa. «'Niente di grave, non preoccuparti. Un piccolo temporale estivo, che passerà presto', gli rispose Gustave in tono sicuro. «La furia della tempesta si scatenò su di noi. I lampi ci saettavano attorno, riempiendo l'aria di un odore acre. La navicella era senza controllo, ma Gustave manteneva una calma straordinaria. «'Dobbiamo abbassarci, se non vogliamo che il vento laceri la tela', gridò nel terribile trambusto, afferrando la maniglia che faceva defluire l'aria dal pallone. «L'aerostato si abbassò di diversi piedi, inclinandosi e mettendosi a oscillare furiosamente. Gran parte del carico precipitò nel vuoto. Io stesso faticai a non cadere. Per fortuna avevo assicurato saldamente Antonio Fedeli e la custodia per arpa. «Ma, improvvisa come era venuta, la tempesta finalmente si placò e le nuvole si diradarono, svelando il nuovo pericolo che ci minacciava. «'Presto, Namling, alimenta la caldaia o ci sfracelleremo contro quelle rocce', gridò Gustave. «Il poco carbone non caduto nel vuoto bastò appena a ravvivare il fuoco. Inesorabile come la morte la mongolfiera procedeva velocissima contro un picco isolato. «Mi giunse distinta la preghiera di Antonio Fedeli. E il suo Dio lo ascoltò, concedendoci il miracolo: la corrente ascensionale arrivò improvvisa, spingendo il pallone più in alto delle rocce. La navicella cozzò violentemente contro uno spunzone, ma senza riportare danni. Ben altra sorte ci sarebbe toccata se a venire a contatto con le pietre taglienti fosse stata la stoffa dell'aerostato. Dopo un attimo di silenzio terrorizzato ci rendemmo conto di essere salvi, e Gustave esplose in un urlo di gioia. All'orizzonte, oltre le cime coperte da nevi perenni, si scorgevano le valli verdeggianti
del Piemonte.» Miami. 28 settembre 199... Il recapito del Mossad a Miami era dissimulato negli uffici di una società di spedizioni navali. Oswald si appropriò subito di una stanza. Stava calando la sera. Anzitutto chiamò a una a una le autorità investigative che conosceva negli Stati Uniti, compreso il capo della CIA. Poi buttò giù dal letto Bernstein, costringendolo ad andare in ufficio per mettersi in contatto con lui via computer. <SCUSI L'ORA>, digitò rapidamente non appena furono collegati, <MA QUESTA MATTINA LA FIGLIA DI LAURA JOANSON È STATA RAPITA.> Breil riassunse rapidamente i fatti, non trascurando nemmeno il minimo particolare. <SONO CONVINTO CHE LA PICCOLA SIA NELLE MANI DI FASATNE, E CHE IL PREZZO PER LA SUA LIBERTÀ SIA QUELLA CHE LUI PENSA ESSERE LA VERA MENORAH.> <SECONDO ME ORMAI È MOLTO LONTANA DA LÌ.> <SARÀ FATTO, MAGGIORE.> Appena conclusa la comunicazione, Oswald consultò febbrilmente la sua casella di posta elettronica. Lo aveva già fatto più volte, ma senza trovare messaggi. Questa volta, invece, la follia di Fasatne aveva lasciato la sua firma.
«Morirai», sibilò semplicemente Oswald, con voce fremente. Ma gli rimaneva una fiammella di speranza. Per Fasatne la piccola era una pedina insostituibile: l'avrebbe tenuta in vita almeno fino al momento dello scambio. Guardò l'orologio. Era quasi notte. Negli uffici non c'era più nessuno. Il mattino dopo era ancora lì, seduto al computer. Si alzò: aveva bisogno di sgranchirsi le gambe. Uscì sui moli del porto commerciale. Comperò un fascio di giornali. La notizia del rapimento dominava tutte le prime pagine. Quando vide il titolo a nove colonne del Capitol Tribune serrò i pugni in una stretta di rabbia: LA VITA SEGRETA DI LAURA JOANSON DIETRO IL RAPIMENTO DELLA FIGLIA? Il servizio era firmato da Vincent Duffy e Paul Craigh. Il volo da Milano atterrò a Miami nel tardo pomeriggio. Sara si infilò in un taxi e si fece portare al Sonesta Lodge di Key Biscayne. Non si curò di disfare il sommario bagaglio; doveva correre dall'amica per confortarla. Arrivata nell'appartamento delle Biscayne Towers, si vide aprire da un uomo che capì subito essere Kevin. Aveva gli occhi rossi e segnati dall'angoscia. Forse aveva pianto. Certamente non aveva dormito. Si presentò e, mentre chiedeva di lei, comparve anche Laura. Era l'ombra di se stessa. Scoppiarono a piangere insieme. Washington. 29 settembre 199... Vincent Duffy se ne infischiava delle norme della circolazione. La sua Mustang correva sulla tangenziale a oltre duecento chilometri all'ora. Era in forte ritardo e non poteva far aspettare Paul Craigh. Raggiunse la sua villetta e lo trovò ad aspettarlo sul vialetto. «Ho trovato traffico, scusami», disse mentre Craigh montava. La potente auto schizzò subito via facendo fischiare gli pneumatici. «Non si potrebbe andare più piano?» chiese Craigh in tono preoccupato. «Il nuovo pezzo è pronto, capo. Vita della scrittrice e sue amicizie pericolose. Per esempio con il Mossad. Deve andare in macchina subito.»
Craigh annuì in un tono soddisfatto, ma senza staccare lo sguardo dal tachimetro: si teneva fisso sui centoventi chilometri all'ora. Proprio in quel momento un'auto della polizia si affiancò alla Mustang. I due poliziotti fecero cenno a Duffy di fermarsi. «Agente, siamo due giornalisti del Capitol Tribune. Il vostro comandante è un nostro buon amico. Siamo impegnati in un'indagine di vitale importanza e dobbiamo correre al giornale con la massima urgenza», disse Craigh, quando si furono fermati. «Spiegherete tutto al comando», replicò imperturbabile l'agente che si era avvicinato cautamente alla Mustang, facendoli smontare e indicando loro con fermezza lo sportello posteriore della berlina di servizio. Dopo alcuni chilometri Craigh cominciò a innervosirsi. «Non stiamo andando al comando. Dove ci state portando?» Non ebbe risposta. «O mi rispondete subito o vi avverto che passerete un brutto quarto d'ora», gridò in tono alterato. «Voglio sapere dove ci state portando.» La canna di pistola che si trovò sotto il naso calmò i suoi bollenti spiriti. La voce all'altro capo della linea era chiaramente artefatta. Sara capì con un soprassalto di ansia che era arrivato il momento. «Laura», disse, coprendo il microfono con il palmo, «credo che ci siamo. Vogliono parlare con te.» «Abbiamo qui qualcuno che le vuole parlare», riprese la voce distorta. Per fortuna, invece, quella della piccola era tranquilla, anche se velata di malinconia: «Mammina, quando vieni a prendermi?» chiese incerta. «Vengo presto, amore», rispose Laura, sforzandosi di vincere l'angoscia che la soffocava. La voce della piccola fu di nuovo sostituita da quella artefatta: «Ha sentito? Sua figlia sta bene e l'aspetta». «Non fatele del male, vi supplico. Vi darò tutto quello che volete.» «Ci faremo vivi noi. Ci presenteremo come i 'Fratellini di Chiara'.» E la comunicazione fu bruscamente interrotta. La tortura psicologica era appena cominciata. Craigh e Duffy entrarono nel capannone seguiti dai due finti poliziotti. La luce del sole filtrava attraverso i lucernari, illuminando due sedie. Furono fatti sedere sotto la minaccia delle armi e ammanettati con le mani dietro la spalliera.
Oswald Breil arrivò poco dopo. Aveva dipinto in volto tutto il suo furore. «Dov'è Fasatne?» chiese subito. «Lo chiede a me?» rispose Craigh. «Chi sarebbe questo Fasatne?» chiese Duffy. Nella destra di Breil apparve come per magia una pistola, che Craigh si trovò ficcata in bocca. «Ho chiesto dov'è Fasatne.» «Non lo so», farfugliò il giornalista con voce distorta dall'impedimento che gli bloccava la lingua. «Glielo giuro, Breil. Ho soltanto un numero di telefono.» «Quello lo abbiamo anche noi», incalzò Oswald, sollevando il cane della pistola. «Dov'è quel verme?» «Non lo so, giuro che non lo so», urlò Craigh, terrorizzato. Sembrava sincero. Breil ritirò la canna. «Stia in guardia, Craigh. Se cercherà ancora di infastidire Laura Joanson in qualsiasi modo, direttamente o per interposta persona, spappolo la testa a lei e a qualsiasi suo leccaculo, come questo. Chiaro?» Le fronti imperlate di sudore dei due si mossero meccanicamente in un cenno di assenso. «È chiaro anche per lei, stronzetto?» La mano di Oswald roteò rapida e il calcio della pistola colpì Duffy allo zigomo, aprendovi una ferita che cominciò subito a sanguinare. «Questo per compensarla di ciò che ha fatto a una mia amica. Provi a prendersela con gli uomini, bambolina.» Quindi Oswald ripose l'arma e si rivolse ai suoi: «Lasciate liberi questi due sacchi di merda; corrano pure a leccare la mano insanguinata che li paga. E voi due dite a Fasatne che lo troveremo. Ma state bene attenti a quello che fate». Quando fu uscito dal capannone, l'autista lo informò che aveva appena chiamato Sara Terracini. Compose a memoria il numero della casa di Laura: sapeva che l'avrebbe trovata lì. «Sono a Washington. Fra tre ore arrivo», le disse. Tangula Shan. Racconto di Namling «A poco a poco le montagne si fecero colline, finché non apparve all'orizzonte la distesa della pianura. La temperatura adesso era gradevole. Il vento continuava a spingerci a sud. Fino ad allora avevamo toccato terra
una volta sola per trascorrere la notte, poco prima di sorvolare le Alpi. «'Scendiamo lì, Namling', mi disse Gustave, indicando una radura pianeggiante e priva di alberi. 'Dobbiamo rifornirci di carbone, o al peggio di legna, e abbiamo anche bisogno di viveri.' «I contadini intenti al lavoro nei campi guardarono con costernazione lo strano oggetto che calava dal cielo. Alcuni si fecero il segno della croce, spaventati. La navicella si posò dolcemente. Gustave scavalcò con agilità il parapetto e piantò il primo dei quattro picchetti per assicurare la cima d'ormeggio. Non appena posai i piedi a terra, mi resi conto della precarietà del mio equilibrio: mi sembrava di essere sbarcato da una nave. «'Dove ci troviamo, buon uomo?' chiesi al più audace dei contadini, che stava avanzando verso di noi brandendo un forcone. «'Nelle campagne tra Novara e Vercelli, sotto il dominio dei Savoia, Dio preservi il nostro signore Vittorio Amedeo', rispose il contadino, rassicurato. Erano uomini, non demoni. «'Non credevo che tu parlassi un così buon italiano, Namling', disse Gustave. «'È proprio grazie a frati italiani se sono qui', risposi. «'Be', devo ringraziarli anch'io. Senza il tuo intervento, Bartoli e Guglielmo ci avrebbero ucciso. Ma dove hai imparato simili tecniche di combattimento? Non sei un monaco?' «'Il mio popolo ha subito molte dominazioni. Ma siamo votati a non fare mai ricorso alle armi. Quindi nei nostri monasteri ci viene insegnata l'arte di combattere a mani nude.'» Miami. 29 settembre 199... Oswald aveva già notato la berlina dell'FBI, per cui, entrato in casa di Laura, non si stupì di trovarvi anche il detective Huggins. Nel frattempo, però, i modi del federale erano del tutto cambiati. Aveva avuto informazioni su di lui. «Buonasera, maggiore Breil», lo salutò con deferenza. «Immagino voglia conoscere il tenore della prima telefonata dei rapitori.» Si tolse di tasca una cassetta e la inserì nel riproduttore stereo del salone. «Avete localizzato la chiamata?» chiese Breil, quando l'ebbe ascoltata. «Certamente.» E Huggins gli porse un foglietto. Oswald studiò le coordinate con attenzione: 34° 13' di latitudine nord e 33° 51' di longitudine est. «È un punto nel Mediterraneo a sud di Cipro», spiegò il detective. «Al-
cune nostre navi militari in navigazione nella zona l'hanno subito esaminata con i radar, ma senza individuare nessuna imbarcazione.» Breil ebbe un'illuminazione: se Fasatne si serviva della stessa tecnica usata con lui, era probabile che la piccola si trovasse nel suo nascondiglio. E aveva un solo indizio: il canale della Manica. Guardò l'orologio. Bernstein era di sicuro in ufficio, davanti al suo computer. «Posso collegarmi con una presa telefonica, Kevin?» Quindi prese il portatile dalla borsa, lo aprì, inserì la spina nella presa e iniziò le procedure di collegamento. digitò, non appena ebbe superato le solite, estenuanti procedure di ammissione.
<SENZ'ALTRO, MAGGIORE. INTANTO STO VERIFICANDO QUALI IMBARCAZIONI SI TROVAVANO NELLA ZONA DURANTE ENTRAMBE LE INTERCETTAZIONI, MA È MOLTO DIFFICILE RICOSTRUIRE CON ESATTEZZA IL TRAFFICO. LA MANICA NON È COME IL CANALE DI SUEZ. O QUELLO DI PANAMA, DOVE OGNI PASSAGGIO VIENE REGISTRATO. DEVO RISALIRE ALLE PARTENZE DAI PORTI, VERIFICARE ROTTE E TEMPI DI NAVIGAZIONE, E LA RICERCA SI COMPLICA. NON CREDO CHE ARRIVERÒ A RISULTATI CONCRETI.> «Ha novità, maggiore Breil?» chiese Huggins. «Piccole tracce. Speriamo in bene.» «Sono onorato di lavorare con lei. Scusi i miei modi di ieri sera. Non sapevo chi fosse. Mi consideri a sua disposizione.» «La ringrazio, Huggins. Adesso però ho bisogno di parlare con voi due», disse Oswald, rivolgendosi a Laura e Kevin. I momenti di grave difficoltà possono avere effetti opposti per una famiglia: rinsaldare i rapporti o minarli definitivamente. E, per fortuna, tra i due stava avvenendo la prima cosa. «Ritengo opportuno», riprese Breil, «informarvi su quanto succede di solito in situazioni come questa. In genere, al primo contatto segue un periodo di silenzio... diciamo così psicologico. Poi c'è un secondo contatto, in cui viene presentata la richiesta di riscatto.» «Darò loro tutto quello che chiedono. Anche a costo di dover ricominciare da capo», sbottò Laura. L'espressione di Oswald si incupì. Rivelare loro che il burattinaio di quell'azione efferata poteva essere Fasatne avrebbe significato gettarli nell'angoscia più nera. Aveva già deciso che era ancora presto per farlo. «La mia presenza a Miami è inutile», concluse. «Ma abbiate fiducia. Il meglio dei servizi di indagine sta lavorando per noi. Resteremo in contatto, ma comunicando il meno possibile per telefono.» Poco dopo l'autista gli aprì lo sportello per farlo montare sull'auto di servizio. Durante il viaggio di ritorno in Israele doveva fare una tappa. Tangula Shan. Racconto di Namling
«'Abbiamo bisogno di un alloggio, soprattutto per questo nostro amico ferito. E dobbiamo anche rifornirci di carbone e viveri', disse Gustave al contadino. 'Possiamo pagarvi.' «Nel frattempo si era radunata una piccola folla per guardare da vicino gli uomini scesi dal cielo. Gente semplice e cordiale, che ci mise a disposizione tutto quanto poteva. Dormimmo in una stalla, su paglia fresca e pulita. Il caldo di agosto era mitigato dalle brezze notturne delle Alpi. Il mattino dopo medicai di nuovo Fedeli con bende pulite e lavai la ferita con acqua fresca. Non c'era traccia di infezione. Ci saremmo comunque fermati lì alcuni giorni, per consentirgli di ristabilirsi. Dove andare, in ogni caso? Fedeli non poteva entrare nei territori di Venezia. E Gustave de La Croix era ricercato. In quella zona non eravamo al sicuro. Il re di Sardegna si era schierato contro la Rivoluzione e a favore dei reali, a cui era legato da vincoli di parentela. Quindi il suo territorio era stato tra i primi a essere invasa dall'esercito rivoluzionario. Di fatto non era assoggettato alla Francia, ma poteva esserci ovunque una spia dei rivoluzionari. «Trascorsero appena cinque giorni. Il sole non si era ancora levato quando il contadino che ci aveva dato ospitalità arrivò di corsa a svegliarci. 'A Vercelli ci sono uomini che fanno domande su di voi', disse trafelato. «'Due sono arrivati l'altro ieri dalla Francia, il terzo ieri sera, da un'altra direzione e con una carrozza nobiliare, e ha portato con sé una scorta di sei uomini a cavallo. Mio nipote ha sentito le domande che stanno facendo ed è corso ad avvertirmi.' «'L'ultimo arrivato non è più giovane, l'altro parla in toscano e il terzo è un ragazzo?' chiese Gustave al nipote accorso con il contadino. Intanto aveva già cominciato a fare ordine per la partenza. Il giovane confermò: il marchese di Mont Brouillard e i suoi scherani erano sulle nostre tracce. «Il pallone era stato mantenuto gonfio nella corte della cascina. Gustave e io caricammo la custodia dell'arpa con il suo prezioso contenuto, quindi aiutammo Antonio Fedeli a montare. Gustave alimentò la caldaia e recuperò le cime d'ancoraggio, disormeggiate dagli amici contadini. 'Sarà il vento a decidere la nostra destinazione', disse Gustave. Già una brezza sostenuta ci spingeva verso sudest.» Aeroporto di Punta Raisi. Palermo. 30 settembre 199... Il portello del Grumman israeliano si aprì, lasciando calare la scaletta. Alberto Vite salì velocemente i sei scalini. Il capo della DIA aveva un fisi-
co agile e asciutto, nonostante la sessantina appena passata. Oswald Breil lo invitò ad accomodarsi nel salottino dell'aereo, nella parte anteriore della fusoliera: un vero e proprio ufficio. «Mi ha anticipato, maggiore», disse Vite, sedendosi. «Mi sto occupando personalmente delle indagini. La morte di Danzi non deve restare impunita.» Oswald annuì. «Ci sono indizi che portino a Trasi?» «Per adesso niente di concreto. Perlomeno, non abbiamo raccolto prove che lo coinvolgano direttamente nel traffico di cocaina. A fare da capro espiatorio sono stati due meccanici della squadra. Se la caveranno con tre o quattro anni di galera, dopo di che se ne andranno, liberi e ricchi. A patto che non parlino. Giocherò a carte scoperte, Breil», continuò l'alto magistrato italiano fissandolo negli occhi, «e le chiedo di fare altrettanto. Alfredo Trasi si è 'dimenticato' di dichiarare al fisco italiano tre miliardi e mezzo di lire. Quanto basta per far scattare l'arresto.» «Però dovrete prenderlo in Italia. E i prossimi Gran Premi si svolgeranno...» «A Jerez e in Giappone», continuò per lui Vite. «Ma tra alcuni giorni ci sarà una sessione di prove per gli pneumatici della Bradwood all'autodromo del Mugello, vicino a Firenze. Potremmo arrestarlo lì. Ma adesso a lei, Breil. Mi spieghi come mai la sua strada e quella di Salvatore Rascini si sono incrociate.» Proprio in quel momento, nella torre di controllo, un uomo abbassò un binocolo e compose un numero telefonico. «Penso che a don Turi possa interessare che Alberto Vite è salito su un aereo governativo israeliano, atterrato per uno scalo tecnico e fermo qui. Sempre a disposizione.» «Immagino che anche i giornali italiani si siano occupati del rapimento della piccola Chiara Dimarzio», disse Oswald. «Certo», annuì Vite. «La figlia dell'astronauta e della scrittrice Laura Joanson.» «Sono convinto che il rapimento sia stato eseguito dalla mafia su richiesta di Hytham Fasatne. Immagino lo conosciate anche voi.» «Già. Un pessimo cliente. Si tratterebbe quindi di scoprire che cos'ha chiesto la mafia in cambio. Non fa mai niente per niente. Secondo le nostre informazioni, l'impero di Fasatne starebbe attraversando un brutto momento. E la mafia ha fondi neri illimitati da ripulire. Dobbiamo venirne a capo. Teniamoci in contatto.»
Breil scrisse su un biglietto uno dei suoi indirizzi di posta elettronica di massima sicurezza e lo consegnò a Vite. «Rimane soltanto da valutare se valga la pena di arrestare Trasi per frode fiscale: temo che non resterebbe dentro più di una settimana. Ricordiamoci che hanno tra le mani una bambina di meno di due anni.» «Abbiamo qualche giorno di tempo per pensarci», concluse Vite, infilandosi in tasca il biglietto. I due uomini si separarono e l'aereo si avviò verso la pista di decollo. Tangula Shan. Racconto di Namling «La stoffa del pallone si lacerò all'improvviso. Non era un grosso strappo, ma sufficiente a farci perdere quota a velocità sostenuta. «'Tenetevi pronti al colpo', gridò Gustave, continuando a gettare carbone nella caldaia per tentare di frenare la caduta. La navicella precipitò in un bosco fitto, i cui rami per fortuna frenarono la caduta. Restammo sospesi a una ventina di piedi da terra, ma riuscimmo a scendere con le funi. «'Il nostro vantaggio sugli inseguitori ormai sarà al massimo di una giornata', disse Gustave quando ci fummo ripresi dalla confusione. 'Dobbiamo trovare un mezzo di trasporto e proseguire cambiando direzione. Troppa gente ci ha visto sorvolare il territorio é può fornire indicazioni al marchese di Mont Brouillard.' E così detto si allontanò, tornando prima dell'imbrunire con un cavallo macilento. 'L'ho pagato come un purosangue da corsa', commentò sarcasticamente. «Sistemammo la custodia dell'arpa su una barella senza ruote, già assicurata all'animale con le funi dell'aerostato. Antonio Fedeli salì in groppa, non essendo ancora in grado di fare grandi distanze a piedi. Partimmo verso est, nella speranza di incontrare presto la costa adriatica. «I nostri inseguitori sapevano che Antonio Fedeli era riuscito a decifrare gli indizi lasciati da Lanvin e che aveva con sé almeno parte del tesoro. Non avrebbero rinunciato all'inseguimento. «Avevamo percorso diverse miglia, quando ebbi un'idea. 'Il convento dove sono stato ospitato in gioventù non dev'essere molto lontano da qui', dissi. Convenimmo che poteva costituire un buon rifugio. Arrivammo la sera dopo. Fu Gustave a bussare al portale del convento. Il volto di un frate si inquadrò nello spioncino, e il nobile francese gli spiegò: ' Il Signore sia con te, fratello. Abbiamo un ferito, chiediamo ospitalità'.
«La porta si aprì, e la luce della torcia illuminò il volto del frate: 'Chi siete?' «'Padre Domenico', intervenni. 'Sono Namling, il bachogwa venuto da tanto lontano per imparare.' «Il frate mosse la torcia in modo che la fiamma mi illuminasse. 'Namling? Figliolo! Quante volte ho pregato per te. Ben tornato.' «'Grazie, padre Domenico. Con questi amici e compagni di viaggio vi chiedo ospitalità per qualche giorno.' «'La nostra casa è aperta a chiunque sia in angustie.' «Il buon frate indicò a Gustave una stalla dove condurre il cavallo e poi ci fece strada nel chiostro fino al refettorio. «'Credo di essere rimasto l'unico dei frati che hai conosciuto quando eri qui', disse. 'Anzi, no, forse ce n'è un altro...' e si lasciò andare a quello che probabilmente considerava un pettegolezzo: 'Sai, il fisico non gli consentiva la dura vita delle missioni'. «Capii subito chi potesse essere: Nicodemo. Nei quasi tre anni trascorsi lì non avevo mai legato con lui, sebbene fossimo quasi coetanei. Mi trattava con supponenza, diversamente dagli altri. Riteneva che la nostra religione fosse primitiva e pagana. «Me lo trovai davanti quando Domenico varcò la porta della cucina. Era chino su una grossa pentola, in cui preparava la cena per i confratelli. «'Guarda chi è tornato, padre Nicodemo', esclamò con calore Domenico, indicandomi con la destra. «Nicodemo alzò appena lo sguardo, ma mi riconobbe subito. 'Namling?' chiese, incredulo. «'Sì', risposi, alzando la mano in segno di saluto. 'Sono molto contento di vederti.' «'Anch'io', rispose seccamente, senza abbandonare la sua attività. 'Ma avremo modo di parlare più tardi. Scusami, Namling, ma, se mi distraggo, i fratelli dovranno osservare un digiuno non previsto. Immagino che ti fermerai un po'.' «'Soltanto pochi giorni. Il tempo di riposarmi, con i miei compagni. Poi ci rimetteremo in cammino.' «Nicodemo non era molto cambiato: aveva sempre un viso tondo come un melone e un fisico sgraziato. Gli anni gli si erano accumulati addosso come i cerchi di una corteccia, ma di adipe.» Gerusalemme. Primo ottobre 199...
Oswald posò il quotidiano, soddisfatto. Il Capitol Tribune apriva con un articolo moraleggiante in cui la redazione dichiarava con solennità che avrebbe osservato il silenzio stampa sul rapimento della piccola Chiara Dimarzio. Le buone maniere fanno sempre effetto, pensò. Ma finalmente il segretario del primo ministro lo informò che aveva udienza. «I servizi militari non credono che si sia trattato di una trappola», esordì subito il premier. «Secondo loro è invece probabile che i nostri siano incappati in una pattuglia di hezbollah di ritorno da un addestramento.» «Certo, con missili teleguidati, mitragliatrici e mortai in postazione», avrebbe voluto ribattere Oswald, ma preferì porgere la busta. «Sono le mie dimissioni, Eccellenza. Diverranno operative tra quarantacinque giorni. Devo ancora risolvere una questione che mi preme moltissimo.» «So qual è, maggiore, e capisco anche che cosa la induce a dimettersi. Sappia che non credo a una parola della giustificazione del Modiin. Aveva ragione lei, e ho fatto male a non ascoltarla. Ci ripensi. Abbiamo bisogno di lei.» Le espressioni inattese del premier gli avevano risollevato un po' lo spirito, ma rimaneva tutta l'angoscia per la sorte di Chiara. Oswald si teneva costantemente in contatto con Laura, però dopo la prima telefonata non si era più fatto vivo nessuno. E lui doveva giocare sul tempo, approfittare di questo silenzio per indagare, raccogliere informazioni, indizi. Era comunque convinto che nessun riscatto avrebbe potuto restituire la bambina ai genitori: una volta ottenuto ciò che voleva, Fasatne non avrebbe avuto nessun motivo per liberarla. Tuttavia gli indizi raccolti cominciavano a delineare meglio la pista da seguire. Mancavano soltanto pochi tasselli per scoprire dove fossero Fasatne e, con buone probabilità, anche la piccola. Bastava un colpo di fortuna, un indizio raccolto per caso, un'imprudenza del nemico nell'uso dei sistemi di comunicazione. Mar Mediterraneo. 5 ottobre 199... Cinquantasei miglia a sud est di Lamesòs, Cipro, e precisamente a 34°
13' di latitudine nord e 33° 51' di longitudine est, la superficie del mare era leggermente increspata. Il meccanismo che assicurava l'apparecchiatura galleggiante al fondo cominciò a rilasciare il cavo di ancoraggio, e il gavitello si avviò verso la superficie. Il cubo metallico stagno - di centoventi centimetri di lato - emerse, in tutto simile a una boa di segnalazione per rilevamenti oceanografici. Ma era destinato a un uso del tutto diverso. Si trattava di un sofisticato congegno capace di emergere dalle profondità marine al comando di un impulso radio. Quasi guidati da una mano arcana, i quattro lati esterni si aprirono come i petali di un fiore, scoprendo le apparecchiature di comunicazione nascoste all'interno. Hytham Fasatne, nel suo panfilo, era molto, molto lontano dalla boa. Ma quando il led rosso che ne segnalava il perfetto funzionamento si accese, sorrise e posò il telecomando sulla scrivania. Il meccanismo del gioiello galleggiante era del tutto simile a quello dei satelliti per telecomunicazioni Data Relay, sistemi idonei a ricevere dati da altri satelliti e piattaforme orbitanti per ritrasmetterli ai terminali terrestri. La sola differenza tra un Data Relay and Technology Mission e la boa collocata nel Mediterraneo consisteva appunto nel luogo di operazione: orbite geostazionarie per i primi, un punto qualunque del globo terrestre per la seconda. Ogni telefonata che Fasatne non voleva venisse intercettata era trasmessa lì attraverso impulsi SHF con banda di frequenza tra i sette e gli otto GHZ, e da lì ripartiva convertita in normale segnale telefonico verso la più vicina stazione ricevente per telecomunicazioni satellitari. Così facendo, ovunque si trovasse, il libanese metteva di fronte a un indirizzo inesistente chiunque volesse individuare il segnale di provenienza della sua chiamata. Un cavo assicurato al fondo e un verricello telecomandato facevano scomparire sott'acqua la boa. Chiunque avesse raggiunto il punto individuato si sarebbe trovato davanti soltanto la distesa deserta del Mediterraneo. Miami. 5 ottobre 199... Il silenzio può logorare i nervi più di ogni altra cosa. E quei cinque giorni erano trascorsi nel silenzio più assoluto dei rapitori. «Quel granatiere con le tette non lo sopporto», esclamò Kevin non appena Marpessa Bourgin fu uscita. «È stata carina a venirci a trovare non appena ha potuto», replicò mite-
mente Laura. «Io invece la penso come Kevin», intervenne Sara. Tra lei e Marpessa l'ostilità era stata immediata e reciproca. «Trattala come un collega con le stellette, Kevin», suggerì Laura, tentando di sorridere. Seguì un attimo di silenzio, carico dell'angoscia che pesava su ogni loro attività e pensiero. La casa sembrava deserta. «Li maledico, ovunque si trovino», esclamò Laura, dando voce al silenzio. Le lacrime le velavano gli occhi. «Dobbiamo reagire», esplose Kevin. «È tutta colpa mia: dal litigio con te alla decisione di condurre Chiara a Disneyworld e poi alla sciagurata idea di lasciar sole lei e Constance. Potrei trovare sollievo soltanto nell'azione. Invece, questa maledetta impossibilità di fare alcunché...» «Che cosa possiamo fare, se quei delinquenti non chiamano?» In quello stesso istante squillò il telefono. Kevin alzò immediatamente la cornetta. «Voglio parlare con Chiara», disse in tono fermo, senza aspettare che fossero gli altri a parlare. Poi impallidì, continuando con dolcezza: «Papà viene presto, piccola. Non piangere. Devi restare con quei signori...» Ma si interruppe di colpo. Le due donne capirono che i rapitori dovevano aver allontanato Chiara dal microfono. Laura e Sara lo guardarono con attenzione spasmodica mentre prendeva appunti sull'agenda presa dal tavolino. Quindi riappese. «Dobbiamo riservare una linea telefonica a loro e pubblicare il numero su USA Today dell'11 ottobre, in calce all'annuncio: SMARRITO CUCCIOLO DALMATA DI DICIOTTO MESI A PEZZATURA LARGA. Si faranno vivi poco dopo la pubblicazione.» Tangula Shan. Racconto di Namling «Gustave rientrò nella sala del refettorio poco dopo che Domenico si era ritirato. Aveva un'aria preoccupata. 'La custodia è stata aperta', ci informò. 'Dopo aver portato il cavallo nella stalla ho controllato le funi che la assicuravano alla barella. Adesso invece le ho trovate sciolte. E poi ho incontrato il cuoco nel cortile. Veniva dalla stalla. E credo che sia stato proprio lui a ficcare il naso nelle nostre cose.' «'Nicodemo era un ragazzo molto curioso, ed evidentemente il vizio non
gli è ancora passato', dissi, cercando di tranquillizzarlo. «'Curioso? Uhm. Quella palla di lardo non mi piace. Stiamo in guardia.' Gustave non sapeva quanto avesse ragione. «Nicodemo lasciò il convento all'alba con uno dei muli. Aveva spiegato a padre Domenico che doveva andare in città a fare provviste.» Miami. 12 ottobre 199... Alle dieci del mattino suonò il telefono della linea riservata. Laura si gettò letteralmente sull'apparecchio, cercando d'imporsi la calma. «Siamo i Fratellini di Chiara», disse la voce distorta all'altro capo della linea. «Fatemi parlare con Chiara. Prima voglio parlare con mia figlia.» «Stia buona. Il da farsi lo decidiamo noi. I contatti con noi li deve tenere l'italiana. Alla prossima chiamata deve rispondere lei. Chiara sta bene, ma ha molta nostalgia.» Laura posò la cornetta con un'espressione disperata. Oswald Breil voleva di più, gli uomini riuniti al tavolo ne erano perfettamente consapevoli. Eppure stavano per gettare la spugna: nonostante tutti i mezzi impiegati, la ricerca di Fasatne non aveva dato alcun esito. Il libanese sembrava avere più teste della mitica Idra, e il suo impero più vite di un gatto. Le operazioni finanziarie tese a creargli difficoltà erano state vanificate: nelle casse della Luxbank si era riversato un flusso di denaro fresco. Quanto bastava per far dileguare i timori di insolvenza. «Quindi l'operazione Mary Poppins non ha dato i risultati che ci aspettavamo», disse Oswald a Erma. «Sapevamo già che l'effetto sarebbe durato poco, e anche che Fasatne avrebbe trovato il modo di uscirne.» «Come aveva fatto con il carico di greggio.» «Esattamente come con la Nara Prima, che peraltro vaga ancora con il suo carico contaminato.» «E se ci fosse il Rais di Baghdad anche dietro la rinascita della Luxbank?» chiese uno degli altri. «Non credo», rispose Erma con espressione dubbiosa. «Saddam ha ben altro da fare. Un aiuto sulle scadenze di pagamento o nei prezzi del petrolio credo sia il massimo che possa fare per Fasatne. No, lui non c'entra. Dietro le quinte c'è un altro personaggio.»
«La mafia!» esclamò Breil. Poi si rivolse a Erma: «Voglio sapere tutto su eventuali modifiche nella composizione del capitale della Luxbank avvenute negli ultimi tempi». «Li stiamo verificando, ma non è facile. Attraverso le solite scatole cinesi, il pacchetto di maggioranza finisce in una Ansaalt, una società al portatore, la cui proprietà si trasferisce con il solo possesso dei titoli.» «Cerchiamo di scoprire se qualche notaio o avvocato lussemburghese li custodisce in una cassaforte in cui non sia troppo difficile ficcare il naso», tagliò corto Breil. «Dobbiamo assolutamente trovare qualcuno che possa farlo. Adesso sentiamo Bernstein. Lo faccia entrare, per favore, Erma.» Oswald ricordava gli albori del sistema telematico del Mossad. Doveva essere la metà degli anni '80. Ma Bernstein c'era già. A volte gli piaceva pensare che fosse un essere bionico, mezzo uomo e mezzo macchina. Invece era un comune signore di mezza età: con quel vestito scuro e gli occhialetti calati sul naso poteva sembrare un impiegato di banca. Ma era capace di addentrarsi in ogni segreto dei funzionamenti telematici. «Signori», disse semplicemente Bernstein, chinando la testa in cenno di saluto. «Ci sono novità?» gli chiese subito Breil. «Sì. Proprio per questo mi sono permesso di disturbare la riunione. I rapitori si sono fatti vivi pochi minuti fa. Cioè, si è fatto vivo un telefonista. Abbiamo appurato che chiamava da una cabina telefonica di Miami.» «Miami?» chiese Oswald. «Sì, be', nella prassi dei rapimenti si usa la compartimentazione. Mi spiego meglio: le diverse mansioni vengono svolte da persone che non possono risalire ai vertici dell'organizzazione. Il telefonista, cioè la pedina più esposta a essere rintracciata, non ha mai contatti con il prigioniero e non sa dove si trovi. Riceve l'ordine di effettuare la telefonata e di riferire un determinato testo. Quindi, se anche dovessimo prenderlo, non potrebbe mai dirci dov'è l'ostaggio, distante magari qualche centinaio di chilometri. O qualche migliaio, come ritengo sia nel nostro caso.» «Ha il testo della telefonata?» Come tutta risposta Bernstein inserì un'audiocassetta nell'impianto di fianco al maxischermo per videoconferenza. Tangula Shan. Racconto di Namling «Era sera. Padre Domenico sorrise: 'Il Signore mi perdonerà se per una
volta diserto le preghiere. «'Voglio sapere di te, Namling', continuò, sedendosi su una sedia di legno massiccio, mentre i frati uscivano dal refettorio. «Gli raccontai tutto, fino al tesoro che avevamo scoperto, senza però dire che si trattava del candelabro sacro agli ebrei. «'Lo splendore dell'oro ti ha dunque abbagliato?' chiese il buon frate con espressione addolorata. «'Oh, no, non è stato l'oro ad abbagliarmi, bensì le mani che hanno saputo raggiungere simili livelli di arte. Credimi, Domenico, gli uomini che ci stanno inseguendo sono pronti a tutto pur di entrare in possesso di quell'oggetto.' «Continuammo ancora un po' a parlare, finché non fummo raggiunti anche da Gustave e Antonio. «'Partiremo domani stesso, padre Domenico', disse il giovane gentiluomo francese. 'Ci dirigeremo verso la Calabria, dove un mio cugino ha un contado.' «'Potete rimanere finché volete. Questa è la vostra casa.' Ma Domenico si interruppe. Nella grande sala del refettorio era entrato Nicodemo. «'Hai tardato a tornare, fratello', gli disse in tono di blando rimprovero. «Il cuoco si fece paonazzo e rispose con gli occhi bassi: 'Sono dovuto andare fino ad Ancona per trovare certe provviste'. E scomparve subito oltre la porta della cucina. «Quella notte alcuni pellegrini bussarono al portone, destandomi di soprassalto. Fui preso da un senso di angosciosa premonizione. Ma quando mi affacciai sul chiostro gridando di non aprire, era ormai tardi. L'anziano priore era in un angolo, minacciato dalla spada di uno degli uomini del marchese di Mont Brouillard. Gli altri cinque avevano fatto irruzione nel dormitorio e stavano spingendo con le armi in pugno i frati nel cortile. «Quando gli sgherri si furono impadroniti del convento, vedemmo arrivare anche il marchese, Bartoli e Guglielmo. Gustave e Antonio erano accorsi a loro volta al colonnato. Il giovane francese brandiva la spada. «Il marchese di Mont Brouillard levò su di noi uno sguardo malvagio. Il suo viso pareva ancor più stravolto dalla luce della torcia. 'Vi consiglio di non tentare scherzi e di arrendervi, se volete salvare la vita a questi innocenti fraticelli.'» 12
Miami. 15 ottobre 199... Sara aveva provato e riprovato mentalmente chissà quante volte come si sarebbe comportata in quel momento, dicendosi che sarebbe soprattutto stato determinante mantenere la calma. E invece adesso, arrivata al dunque, sentì che le tremava la voce. «Sara Terracini», rispose sollevando il ricevitore. «Parlo a nome dei Fratellini di Chiara», disse l'emissario dei rapitori. «Nel caveau del suo laboratorio, a Roma, dovrebbe esserci l'unico oggetto in grado di farvi rivedere viva la bambina. Se lo faccia recapitare a Miami, perché dovrà consegnarcelo. Aspetti una nostra nuova chiamata per le modalità della consegna. Altrimenti ci comunichi dove dobbiamo recapitare la piccola. Pezzo per pezzo.» Nel grande sotterraneo blindato e climatizzato del laboratorio romano di Sara erano passati autentici tesori d'arte e di antichità, per essere restaurati o decifrati. E alcuni erano ancora lì. Ma non potevano esserci dubbi: l'oggetto a cui miravano i rapitori era la Menorah. Soltanto Sara e pochissime persone, però, sapevano che si trattava di una copia, per quanto antichissima. Le Havre. 15 ottobre 199... Quando si era arruolato nella polizia francese, l'agente di frontiera Frèdomme aveva immaginato una vita molto più avventurosa. Invece eccolo lì di fronte a un dannato videoregistratore. Il suo compito consisteva nel visionare un'ultima volta le videocassette registrate alle partenze dei traghetti un mese addietro, prima che venissero riutilizzate. Inserì quella del 14 settembre, che a quel punto la legge consentiva di cancellare. Davanti ai suoi occhi annoiati scorsero i volti di centinaia di passeggeri che varcavano il cancello doganale per imbarcarsi su un traghetto. Finché, caso più unico che raro, un'immagine attirò la sua attenzione. Manovrò il comando di rewind per far scorrere all'indietro il nastro, quindi tornò a svolgerlo. Dopo pochi istanti, con un trasalimento, azionò il fermo immagine. Non poteva avere dubbi. La faccia in primo piano era quella della terrorista responsabile dell'azione suicida messa in atto all'aeroporto di Londra il 15 settembre. Estrasse la cassetta e si mise a rapporto con l'ufficiale di guardia. Gerusalemme. 17 ottobre 199...
Oswald stava esaminando la documentazione fotografica raccolta dai suoi uomini dopo avere forzato la cassaforte di un famoso avvocato lussemburghese. Non c'erano più dubbi: il finanziere di origine siciliana proprietario di metà delle azioni della Luxbank era un uomo della mafia. Sentì suonare il telefono interno. «Sono Bernstein, maggiore. Posso salire?» chiese il sergente in un tono inusualmente eccitato. «Questa mi è arrivata poco fa dai servizi francesi», gli disse qualche istante più tardi Bernstein, mostrandogli una videocassetta. «Possiamo prenderne visione nella sala riunioni.» Le immagini presero a scorrere sullo schermo gigante a velocità accelerata. Ma dopo qualche istante Bernstein tornò allo scorrimento normale, dicendo: «Adesso faccia attenzione, maggiore». Quindi passò allo scorrimento rallentato, ma non ce n'era bisogno. Breil aveva già riconosciuto la faccia della terrorista dell'aeroporto di Londra. «Aspetti un attimo, Bernstein... torni indietro di alcuni fotogrammi. Ecco, adesso ingrandisca quell'uomo in secondo piano, il quarto della fila.» Il volto apparve con contorni sfocati, ma non abbastanza perché Breil non riconoscesse in lui l'ex agente del KGB Tagil Sarov. Un uomo superaddestrato, sanguinario, spietato, che sembrava scomparso da tempo dalle scene internazionali. Invece era lì, su quel traghetto, proprio quel giorno. Tangula Shan. Racconto di Namling «'In un'ala dei sotterranei ci sono diverse celle e una collezione di macchine da tortura da fare la gioia del nostro Riglé', annunciò in tono eccitato uno degli scherani. «'Magnifico', commentò il marchese di Mont Brouillard con un ghigno. 'Gli strumenti dell'Inquisizione. Adesso sappiamo dove mettere sotto chiave questi santi uomini e anche come far sciogliere la lingua ai nostri amici.' «I frati furono chiusi in una cella soffocante. Antonio Fedeli, Gustave e io, incatenati, in un'altra. «'Domani mattina il buon Riglé avrà modo di farci divertire con voi', disse ancora il marchese, prima che uno dei suoi chiudesse la porta con diverse mandate. 'Badate bene: prima di lavorare per me è stato boia nella prigione del Luxembourg. La vostra unica speranza è che la notte vi porti consiglio.'
«Non chiudemmo occhio. Studiammo e ristudiammo tutte le ipotesi di fuga, ma ogni via sembrava preclusa. Intanto Gustave mi spiegò quali orrori si fossero celati dietro il termine 'Inquisizione'. «'Abbiamo ancora un vantaggio', disse Antonio Fedeli. 'Quei maledetti sono convinti che sappiamo dove si trovi tutto il tesoro del Tempio. Non possono ucciderci prima che qualcuno di noi abbia parlato.' «Il mattino presto, gli uomini del marchese di Mont Brouillard vennero a prelevarci. La segreta in cui fummo spinti era sinistra: sembrava che dalle pietre trasudassero ancora il dolore e il sangue di chi vi era stato torturato. «'Tu sei ancora debole per la ferita, signor artista dei miei stivali', disse Bartoli ad Antonio in tono di spregio. 'Moriresti subito. Quanto al tuo servo giallo, abbiamo visto che è un duro: ce lo riserviamo per dopo. Quindi, signor d'Armance, spetterà a lei l'onore di gustare per primo queste mirabili macchine.' «Il seggio in legno scuro dove un tempo prendeva posto il giudice dell'Inquisizione era sollevato rispetto al pavimento. Uno degli scherani si affrettò a ripulirlo dallo strato di polvere, e il marchese di Mont Brouillard vi si accomodò con atteggiamento pomposamente cerimoniale. 'Adesso lasciateci soli', ordinò ai brutti ceffi. «Antonio Fedeli e io fummo incatenati agli anelli nel muro, rivolti all'infuori in modo che potessimo vedere tutto. «'Chissà come mai quei santi uomini hanno tenuto queste macchine in perfetta efficienza', osservò Bartoli, indicando con un sogghigno gli apparecchi da tortura. 'Si vede che, per ammazzare la noia, amano intrattenersi con qualche giochetto spinto.' «'Le hanno conservate così per non dimenticare mai il male di cui sono capaci gli uomini', cercai di protestare. Il pugno di Bartoli mi colpì in piena faccia. Sentii il sangue scorrere sullo zigomo, dove l'anello del mercante aveva aperto una ferita. «Gustave fu spogliato, con i polsi e le caviglie assicurati a una macchina simile a un letto. Il boia Riglé cominciò a mettere in tensione i due argani. Il corpo del giovane nobiluomo si tese. «'Sapete che cosa vogliamo, vero?' gli chiese il marchese di Mont Brouillard, mentre Guglielmo si metteva di fianco a lui. «Gustave non rispose. Ma bastò un solo scatto della ruota dell'argano perché la sua espressione di disprezzo si trasformasse in una smorfia di dolore. Le ossa cominciarono a scricchiolare, il corpo era teso come una corda.
«'Dov'è il resto del tesoro?' chiese Bartoli. 'Il candelabro che abbiamo trovato nella stalla è lo stesso che mi aveva mostrato Lanvin, dicendomi che faceva parte di uno straordinario tesoro da lui scoperto. Dov'è?' «'Se non lo aveste ucciso, avreste potuto farvelo dire da lui', riuscì a replicare Gustave con voce spezzata. Non potei non ammirare il suo indomito coraggio. «'Oh', replicò con spregio il mercante. 'Non lo abbiamo ucciso noi. È stato un incidente. Stupido come lui. Non voleva parlare e, per sottrarsi alle nostre pressanti domande, è caduto da solo. Doppiamente stupido. Molto meno stupido si è dimostrato con la lettera per questo verme veneziano. Che evidentemente è riuscito a decifrarla. Del resto, ci contavamo. Proprio per questo lo abbiamo fatto tornare a Parigi. Tra falsari di mezza tacca, ci si intende...' «'Allora?' tagliò corto il marchese. «Non avrei mai pensato che un uomo potesse resistere a un simile trattamento. Manovrando gli argani, il muto Riglé, coperto di sudore, emetteva mugolii e grugniti: sapeva bene come si porta un uomo sulla soglia della morte mantenendolo però cosciente. Le articolazioni del nostro povero amico cominciarono a slogarsi. «'Allora?' ripeté il marchese. 'Volete parlare o morire?' «'Morirei comunque. Tanto vale che lo faccia maledi...' riuscì a ribattere Gustave con le ultime forze. Una nuova tensione gli spezzò le parole in gola, mentre il marchese di Mont Brouillard si alzava dal suo seggio. «Impotenti, vedemmo il suo sguardo malvagio percorrere il corpo di Gustave. Le mani si mossero in una carezza oscena lungo i fianchi. 'È un gran peccato che un bel giovane come voi debba morire così stupidamente.' La destra ossuta scese sul ventre, sfiorò i peli del pube, accarezzò il pene. 'Davvero un peccato.' Le dita adunche afferrarono i testicoli. «Vi maledico», furono le ultime parole del povero Gustave. Le dita si strinsero sui testicoli, le unghie penetrarono nella carne. Un lamento straziante uscì dalla bocca di Gustave mentre la mano del marchese si alzava brandendo il suo sanguinante e macabro cimelio umano. «'Uccidilo, Riglé!' «Il boia esplose un suono gutturale e il rumore delle ossa che si spezzavano coprì l'ultimo urlo di Gustave che moriva.» Gerusalemme. 18 ottobre 199...
, comunicò Oswald via computer a Sara Terracini. , rispose Sara. <MA È ANTICHISSIMA ANCH'ESSA, E PROVIENE DAL TEMPIO. SEI SICURO...> , la interruppe la risposta immediata di Oswald. <SO QUELLO CHE FACCIO, IL MIO TIMORE, PERÒ, È CHE NON BASTI.> Ricevute le assicurazioni che voleva, Oswald chiuse la comunicazione, prese alcuni fogli dalla scrivania e si spostò nella sala riunioni, dove trovò Erma raggiante. «Per fortuna, le dogane inglesi provvedono alla cancellazione dei nastri con cadenza annuale e non mensile, come i francesi. Mi sono fatto inviare dall'MI5 le cassette relative agli sbarchi del 13, 14 e 15 settembre, il giorno dell'attentato. Volevo verificare se Sarov e la terrorista si erano incontrati su quel traghetto soltanto per caso.» Nella metà sinistra del maxischermo cominciarono a scorrere le immagini ricevute dai francesi. A destra, invece, quelle riprese dai doganieri britannici. Sarov apparve perfettamente riconoscibile nella coda del controllo passaporti, mentre la terrorista non girò mai la faccia verso la camera nascosta. Nella parte bassa del nastro erano impresse data e ora delle riprese. Nessuno poté non notare una palese incongruenza. Lo sbarco era avvenuto alle 10.20 del 15 settembre, tre ore prima dell'attentato. Ma l'imbarco recava la data del 14.
«Quanto impiega quel ferry ad attraversare la Manica?» chiese subito Oswald. «Sono traghetti dell'ultima generazione», rispose Erma, digitando alcuni comandi sulla tastiera. Sullo schermo gigante apparve la sagoma di un trimarano. «Tre barche gemelle», continuò Erma, «fatte costruire soltanto un anno fa dalla Mammouth Lines in un cantiere australiano. La loro lunghezza è sui duecento metri, per una larghezza di cinquanta. I quattro propulsori principali, costituiti da quattro turbine a gas Kvaerner/GE 2500, sono in grado di erogare ottantamila KW e di spingere le duemila tonnellate di stazza fino alla velocità di quaranta nodi. In conclusione, questi traghetti impiegano poco meno di quattro ore per superare le centotrenta miglia del tratto Le Havre-Dover.» «Quindi Sarov e la terrorista si sarebbero divertiti ad andare avanti e indietro per la Manica, sbarcando in Inghilterra un giorno dopo l'imbarco. Ci sono collegamenti tra la Mammouth Lines e Fasatne?» chiese Oswald. «Apparentemente no. Ma i cantieri australiani Catbuilders, oltre ad aver costruito i tre traghetti, si occupano della manutenzione periodica della Nara Prima. E, attraverso i soliti miracoli di ingegneria finanziaria, la loro proprietà è riconducibile alla società di armamento di Fasatne. «Inoltre, ognuno dei tre ferry può imbarcare millecinquecento passeggeri, centosettantacinque auto e settanta camion. Però, dall'agosto scorso, quello contrassegnato con il numero due ne imbarca meno della metà. Proprio dal momento in cui abbiamo perso le tracce di Fasatne. Si aggiunga che una delle navi sicuramente in transito nella Manica durante entrambe le intercettazioni era proprio il Mammouth Two. Ma a chi sarebbe potuto venire in mente di controllare uno degli oltre trenta traghetti in navigazione in quel momento?» si precipitò ad aggiungere Erma, quasi a giustificare una sua negligenza. «Ogni giorno, almeno centodieci traghetti effettuano oltre duecentocinquanta corse nella Manica.» «Nel frattempo però», riprese, «ho fatto un'altra cosa. Ho chiesto alla banca dati degli Shipyards dei Lloyds i piani di costruzione sia del traghetto sia della Rosa del Deserto.» Erma azionò i comandi del proiettore, e le sagome delle due navi apparvero a fianco a fianco sullo schermo. Mar Mediterraneo. 20 ottobre 199... Il peschereccio battente bandiera libanese calò le reti come se volesse
soltanto lavarle. Intanto, non visti, dall'altra fiancata scivolarono in mare due uomini attrezzati da subacquei, eseguendo una perfetta capriola all'indietro. Il peschereccio continuò a muoversi lentamente, mentre i due subacquei rimanevano in immersione. Mezz'ora più tardi, ad alcune migliaia di chilometri di distanza, Oswald Breil sentì suonare il telefono nell'abitacolo del Grumman e sollevò il ricevitore. «Sono Haan, maggiore. Siamo nei pressi del punto a sud-est di Cipro da lei indicato e abbiamo appena concluso l'immersione.» «Trovato qualcosa?» «Qualcosa è dire molto poco. A ventisei metri di profondità abbiamo scoperto un vero e proprio satellite per telecomunicazioni, chiuso in un involucro stagno e assicurato al fondo da un cavo d'acciaio avvolgibile. Lo abbiamo recuperato, senza manomettere i contatti d'allarme che ne segnalano l'integrità al proprietario, e lo stiamo esaminando.» «Un satellite?» esclamò Oswald. «Sì, maggiore, una specie di boa in grado di emergere e affondare a comando e di inviare segnali telefonici a una normale stazione ricevente. Che cosa dobbiamo fare?» «Se possibile, individuate le frequenze radio in entrata e poi rimettete tutto dov'era.» «Già individuate, maggiore: opera su frequenze SHF, quelle usate dai satelliti militari. Ha detto di rimettere tutto a posto, ho capito bene?» «Ha capito benissimo, Haan. Non abbiamo alcun interesse a rendere pubblica questa scoperta. Ottimo lavoro. Shalom e grazie.» «Tanto più che ormai so dove trovarti, Fasatne», borbottò il capo del Mossad, mentre le luci di Miami coloravano il cielo all'orizzonte. Miami. 20 ottobre 199... Vedendo le luci di posizione che scendevano verso l'aeroporto, Sara pensò che forse quello era l'aereo di Oswald. Come le aveva chiesto lui, non aveva fatto parola con Laura e Kevin dei suoi timori, né delle azioni che stava programmando. Nel pomeriggio una squadra di agenti del Mossad aveva provveduto a bonificare l'appartamento da ogni possibile apparecchiatura ricetrasmittente. Disturbatori di onde sonore erano stati piazzati nei pressi di ogni fine-
stra, così da vanificare qualsiasi forma di intercettazione ambientale con microfoni laser. «Il candelabro è sul mio aereo», li informò Breil non appena fu arrivato. «Mi raccomando, Oswald», disse Kevin in tono angosciato. «Tutto deve andare alla perfezione, senza interferenze. Altrimenti i rapitori hanno detto che uccideranno la bambina.» «Non temere, Kevin, non vi sarà la minima interferenza. Però ci sono alcune cose che devo dirvi. Anzitutto sono convinto che Fasatne non libererà mai Chiara. Dovremo andarcela a prendere.» Kevin annuì. «Mi sgomenta anche soltanto ammetterlo, ma la penso come te. Che cosa hai in mente?» «Con molte probabilità abbiamo individuato il luogo dov'è tenuta prigioniera Chiara. Alcuni nostri agenti scelti lo stanno raggiungendo però entreranno in azione soltanto se i patti non saranno rispettati.» «Voglio partecipare all'azione per liberare mia figlia», disse impetuosamente Kevin. «Mi dispiace, ma devo dirti di no: la tua presenza costituirebbe un problema. Fidati dei miei agenti. Sono perfettamente addestrati per azioni del genere. Anzi, una di loro è buona amica di Laura.» «Timna?» chiese la scrittrice. Oswald annuì. In quell'istante suonò l'apparecchio della linea riservata. Sara rispose subito. «Siamo i Fratellini di Chiara», le annunciò una voce diversa dal solito. «Avete fatto arrivare il candelabro?» «Sì, è qui», rispose Sara. «Bene. Domani sera lo chiuderete nella cassa di legno che vi abbiamo già descritto. Caricate la cassa su un pick up e raggiungete la cabina telefonica accanto all'Hotel Intercontinental. Alle sette in punto riceverete una nostra chiamata con ulteriori istruzioni. Non tollereremo scherzi di nessun genere e vi chiediamo tassativamente di escludere Breil dall'operazione. Sul furgone dovete salire soltanto voi e il generale Dimarzio. E badate bene che nessuno vi segua. Adesso la mamma può ascoltare la bambina, per assicurarsi che sta bene.» Sara porse il microfono a Laura, ma dall'altro capo della linea si sentì soltanto un pianto disperato. Le due donne riconobbero la voce di Chiara e scoppiarono a piangere a loro volta. «Faremo tutto quello che volete, ma ridatemi mia figlia», gridò Laura al
vuoto. La comunicazione era già stata interrotta. Tangula Shan. Racconto di Namling «Gli uomini del marchese di Mont Brouillard presero le torce e ci abbandonarono nel buio, impotenti e disperati. Ma dopo un po' sentimmo una chiave girare nella toppa. 'Adesso toccherà a uno di noi', mormorò Antonio. 'Addio, Namling. Hai tutto il mio affetto.' «Due mani sudaticce mi raggiunsero a tentoni nel buio. 'Sei tu, Namling?' Riconobbi la voce di padre Nicodemo. 'Perdonami... non avrei mai potuto immaginare che arrivassero a tanto. Ho incontrato quegli uomini in città, ho accettato di bere con loro e ho raccontato della vostra presenza. Per questo mi hanno lasciato libero. Mi considerano un complice. Ma io... io...' «Così dicendo, il cuoco del convento mi liberò polsi e caviglie. 'Dovete fuggire', continuò, liberando anche Antonio Fedeli. «'Che cosa ne sarà di voi frati?' chiesi. «'Ho portato le chiavi della cella ai miei fratelli e li ho armati con tutto ciò che ho trovato in cucina. Aspettano un mio segnale per liberarsi. Non sono di sicuro bravi a maneggiare coltellacci e spiedi, tuttavia siamo quasi tre contro uno. Ti chiedo di nuovo perdono, Namling. Non so che cosa mi sia successo. Ma dov'è l'altro tuo amico?' «'L'unica cosa che possiamo fare per lui è dargli un'onorata sepoltura', risposi. «Nicodemo si lasciò sfuggire un ansito di orrore. Il rimorso lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Ma per fortuna ritrovò subito la determinazione che lo aveva portato a noi. «'Presto, seguitemi. Dobbiamo fare in fretta, prima che quegli uomini mi chiamino di nuovo per farsi preparare ancora qualcosa da mangiare. Sono ingordi come maiali.' «Quando sbucammo in un corridoio malamente illuminato, Antonio trovò un ferro appuntito, di cui si armò, chiedendo: 'Dov'è il marchese di Mont Brouillard?' «'Sta riposando nella cella del priore... l'ultima porta del chiostro.' «Antonio partì risoluto, senza che potessi fermarlo. Lo seguii con il cuore in gola. «La porta della cella si spalancò su una scena disgustosa. Il marchese di Mont Brouillard era inginocchiato in mezzo al pavimento, su un cuscino, e
stava succhiando con passione l'enorme membro del giovane Guglielmo, in piedi nudo davanti a lui. «'Muori, cane!' urlò Antonio, brandendo il ferro appuntito come se fosse una lancia e mirando la testa del marchese. «L'altro agì rapido come un falco, spostando il corpo del ragazzo e frapponendolo tra sé e la punta acuminata. Intanto urlava a perdifiato: 'All'armi! All'armi! I prigionieri si sono liberati. Aiuto!' «Guglielmo si torse con una smorfia di dolore. Guardò con espressione incredula il ferro che lo aveva trapassato all'altezza delle reni e crollò a terra, esanime. «Nella penombra balenò una spada apparsa come per incanto nel pugno del marchese. Mi scagliai su di lui e lo colpii alla testa con un calcio. L'arma volò lontana. «Quindi cercai di trascinare via Antonio, che oppose resistenza scongiurandomi di lasciarlo finire il malvagio con la sua stessa spada. Già si sentivano passi precipitosi. Sulla porta si pararono quattro dei sei scherani con Bartoli. «Mi preparai a vender cara la pelle.» Miami. 21 ottobre 199... Alle sei in punto Kevin e Sara caricarono sul furgone la cassa con il candelabro e partirono per il primo di una lunga serie di appuntamenti. Il telefono della cabina convenuta suonò alle 7.03. Nuove indicazioni li indirizzarono a una seconda cabina a Miami Beach, a circa quindici chilometri da lì. L'operazione si ripeté altre cinque volte. Poi arrivò l'istruzione finale. Alle 11.26 Sara e Kevin depositarono finalmente la cassa con il candelabro nel punto loro indicato sul molo sette del porto di Miami, accanto ad altri colli. A Dover erano le 4.26 del mattino. Diversi viaggiatori, chiusi in auto per ripararsi dalle gelide raffiche di vento dell'Atlantico, aspettavano che un traghetto terminasse le operazioni d'ormeggio. Timna avviò il motore della Mini Morris. Lei e il compagno di viaggio si erano registrati come signori Ferguson. Il gigantesco ventre del Mammouth Two si aprì per accogliere le auto e i mezzi pesanti. Nessuno avrebbe potuto cogliere il cenno d'intesa che si scambiarono i due agenti del Mossad con gli altri quattro, chiusi in tre auto.
Salita sul terzo ponte, Timna finse di dirigersi alla toilette. In realtà stava verificando la corrispondenza degli interni della nave con la mappa che aveva imparato a memoria. Disponeva di un impianto ricetrasmittente miniaturizzato per comunicare con i compagni. Il microfono era inserito nella capsula di un molare, e l'apparato ricevente era nascosto nella cavità auricolare destra. L'apparecchio, alimentato da micropile al litio, aveva un'autonomia di dodici ore. La porta stagna che si trovò davanti era chiusa da una serratura di sicurezza. Le scritte in cinque lingue che vietavano di superarla risaltavano arancioni sul bianco. «Shlomo, raggiungimi, presto», disse a bassa voce. Pochi istanti più tardi il suo falso marito era accanto a lei e armeggiava con un grimaldello. La serratura cedette. Timna ruotò lentamente la maniglia a volantino e si infilò veloce nel corridoio insieme con Shlomo, ma si trovarono presto il passo sbarrato da una seconda porta. Shlomo rimise mano al grimaldello e, seppure con maggiore difficoltà, riuscì a far scattare anche questa serratura. Rimasero a bocca aperta. La Rosa del Deserto era lì davanti a loro, sospesa nel vano di carico prodiero del traghetto. Tre fasce collegate a un sistema idraulico di sollevamento la sorreggevano per la chiglia. Sei grandi gomene d'ormeggio ne assicuravano la struttura a quella interna del Mammouth Two. Timna indicò al compagno il meccanismo che consentiva di aprire la chiglia centrale del trimarano come la valva di un mollusco. Confermando i sospetti di Breil, avevano scoperto lo stratagemma di Fasatne per sfuggire alle ricerche del Mossad: il traghetto superveloce era in grado di piazzarsi sopra lo yacht e di sollevarlo, risucchiandoselo nel ventre. Avevano visto abbastanza. Timna fece cenno a Shlomo di seguirla. Tornati negli ambienti riservati ai passeggeri, presero posto nelle poltrone loro assegnate e si misero a chiacchierare. Nessuno si sarebbe potuto immaginare che in realtà, attraverso il sistema di comunicazione, stavano istruendo gli altri componenti del commando. Dovevano soltanto aspettare l'ordine di Breil. A Gerusalemme erano passate da poco le sette del mattino. La tensione nella sala era evidente. L'orologio segnava le 7.45, quando tutti si zittirono. Qualcuno stava chiamando la linea riservata di Laura a Miami. I toni di Kevin risaltarono
chiari e forti nella cuffia di Oswald. E Breil non ci mise molto nemmeno a riconoscere la voce di chi chiamava. «Sono Dimarzio», disse Kevin. «E io sono il Fratellino maggiore di Chiara. Complimenti, generale. L'affetto paterno l'ha consigliata ad agire per il meglio. E la capisco. Sua figlia è una bambina deliziosa. Peccato che sia un po' triste: sente la mancanza dei genitori. E per farle superare questa brutta situazione abbiamo deciso di non farglieli più vedere. Non vedrà più niente. Mi dispiace, generale.» «Noi abbiamo rispettato i patti...» urlò Kevin. Ma la comunicazione era già stata interrotta. «Operazione Mary Poppins, via», ordinò Oswald Breil, scandendo le sillabe nel microfono. Hytham Fasatne posò la cornetta e spinse all'indietro lo schienale della poltrona del suo studio, abbandonandovisi. La gioia di sapere che l'amica di Breil e il suo degno compagno erano in preda alla più terribile angoscia gli torceva la faccia in un'espressione di malvagio piacere. Ma tornò subito a sollevare il telefono, componendo un numero interno della Rosa del Deserto. «Uccidetela», ordinò. Timna e Shlomo superarono la prima delle due porte stagne che portavano al vano prodiero del traghetto, ma all'improvviso videro comparire un marinaio all'angolo del corridoio. L'uomo non riuscì nemmeno ad aprire la bocca. Il colpo della calibro 6.35 ad aria compressa impugnata da Timna lo fece crollare in ginocchio e poi a terra, mentre sulla sua blusa si allargava una macchia rosso scuro. Shlomo si occupò di nascondere il cadavere in un cassonetto per salvagente mentre Timna avvertiva via radio i compagni del piccolo intralcio. Tagil Sarov avvitò il silenziatore alla pistola. Quante volte aveva già ucciso? E quanti attentati contro civili inermi aveva organizzato o diretto? Ammazzare a sangue freddo una bambina di meno di due anni non gli creava nessun problema. Uscì nel corridoio e si avviò verso la cabina dov'era tenuta prigioniera Chiara. Timna e Shlomo salirono sulla Rosa del Deserto per una passerella so-
spesa all'altezza del terzo ponte del traghetto. Erano le 6.02. L'ordine era stato impartito esattamente da dieci minuti. Il tenente Timna Luria, comandante della missione, sapeva di avere poco tempo: l'ordine significava che la bambina era in pericolo di vita. Pensando al povero Chaim e all'amica Laura, si infilò nello yacht, confidando che, dato l'orario, la sorveglianza fosse meno stretta. Esaminando mentalmente la planimetria memorizzata, identificò il punto in cui si trovava e, seguita da Shlomo e da altri tre agenti, avanzò verso le cabine. La Rosa del Deserto ne aveva quattordici, divise su tre ponti, oltre all'appartamento dell'armatore. Ma adesso doveva senz'altro giocare d'intuito. E contare molto sulla fortuna. In quale di esse poteva essere tenuta prigioniera Chiara? Sarov entrò nella cabina e ordinò alla donna che si occupava della piccola di andarsene. Chiara dormiva pacificamente. I boccoli biondi la rendevano simile a un putto rinascimentale. Il russo inserì il colpo in canna e le puntò l'arma alla nuca. Ma ebbe un istante di esitazione. La perfetta macchina per uccidere in cui lo avevano trasformato gli addestramenti sembrò incepparsi. Durò soltanto un battito di ciglia. Timna aprì una delle porte del corridoio e guardò all'interno. Nara Fasatne dormiva avvinghiata a una donna, che la copriva parzialmente con il proprio corpo. La sua pelle bruna contrastava con quella lattea dell'altra. Aveva gli occhi coperti da una mascherina nera per proteggerli dalla luce. Il tenente del Mossad richiuse silenziosamente la porta. La sua attenzione fu allora richiamata dal rumore di una maniglia. Si appiattì contro la paratia e vide una donna uscire da un'altra cabina. Le fu addosso prima che si accorgesse di lei e le spezzò l'osso del collo con un solo movimento. Sarov alzò di nuovo la pistola e strinse il calcio, preparando i muscoli della mano e del braccio al rinculo, che sarebbe stato reso più forte dal silenziatore. Sentì la porta aprirsi. Si girò di scatto e fece fuoco. Il colpo andò a vuoto, ma quello della pistola ad aria compressa di Timna lo colpì di striscio alla tempia, facendogli perdere i sensi. La piccola non si era accorta di niente, ma aprì spaventata gli occhi
quando si sentì sollevare. L'espressione di Timna la tranquillizzò. Richiuse gli occhi e si riaddormentò, mentre la donna la infilava in un marsupio ricavato all'interno del giubbotto antiproiettile. I colpi delle pistole ad aria compressa arrivarono dal corridoio come sbuffi di vapore. I suoi compagni stavano sparando. Poi arrivò una prima raffica di mitra, esplosa dalle guardie di Fasatne. Tangula Shan. Racconto di Namling «Lo scherano più vicino menò un fendente con la spada, in un gesto fin troppo prevedibile. Schivai l'affondo, mi accucciai e gli fui addosso. Sentii le sue ossa spezzarsi nelle mie mani. Mi voltai per fronteggiare gli altri in una battaglia impari. Antonio avrebbe potuto fare poco per aiutarmi. «Nelle mani di Bartoli comparve una pistola, puntata contro di me. Ma in quell'istante i frati fecero irruzione nella cella, gettandosi sui nostri assalitori. Erano abituati al duro lavoro dei campi, e alcuni di essi avevano rintuzzato assalti di popolazioni ostili in missioni sperdute. Erano armati alla bell'e meglio, eppure forti della superiorità numerica. «'Presto', mi gridò padre Domenico. 'Scappate mentre li teniamo impegnati. Venite.' «Poi, conducendoci verso il cortile, ci disse: 'Ad Ancona c'è una bombarda inglese in partenza per l'India. Il comandante è un nostro buon amico e, nel corso di precedenti viaggi con altre navi, ha accolto i fratelli diretti alle missioni o di ritorno. Parlategli a mio nome. Vi porterà con sé'. Nella corte, due frati stavano finendo di aggiogare a un carro il nostro cavallo. La custodia per arpa era nel cassone. «'Il Signore sia con voi', ci augurò l'anziano priore.» Canale della Manica. 21 ottobre 199... Timna sgusciò nel corridoio, mentre Shlomo la copriva. Individuò un posto riparato dietro una delle porte e vi si acquattò. Due uomini li stavano tenendo sotto tiro, preeludendo loro la via di fuga. Prese una delle bombe accecanti agganciate all'interno del giaccone, tolse la sicura e la scagliò. Lampo e deflagrazione furono devastanti. Lo spostamento d'aria catapultò gli uomini di Fasatne fino a metà corridoio. Dalle loro orecchie scendeva un rivolo di sangue. Timna scavalcò i loro corpi, preceduta da due compagni. Dovevano ancora risalire due ponti, e Chiara era scoppiata a piange-
re, avvinghiandosi a lei. L'allarme della Rosa del Deserto cominciò a suonare rauco. I cinque agenti si misero a correre. Shlomo, che chiudeva la retroguardia, fu falciato da una raffica. Nell'ultimo barlume di lucidità riuscì comunque ad abbattere l'uomo che stava per aprire il fuoco sui suoi compagni. Non si accorse nemmeno di due mani amiche che lo afferravano e che qualcuno se lo caricava sulle spalle Riguadagnarono la passerella, recuperando il compagno incaricato di montare la guardia, e puntarono verso gli ambienti aperti ai passeggeri. Tutto appariva tranquillo. Ma non potevano ancora ritenersi salvi. Tornarono ai loro posti, confondendosi con i passeggeri. Soltanto l'agente che si era preso cura di Shlomo si diresse subito verso il luogo dell'appuntamento. «Operazione Mary Poppins. Fase due, via», ordinò Oswald nel microfono. Nella sala comunicazioni del Mossad regnava il silenzio assoluto. La nave oceanografica era dodici miglia a dritta del traghetto. L'elicottero aveva il rotore acceso da diversi minuti ed era pronto al decollo. Il pilota lo fece sollevare non appena la paletta fosforescente che gli dava il via fu abbassata dall'addetto sulla piattaforma. Lo scoppio della bomba squassò la struttura di alluminio della Rosa del Deserto. Fasatne fu bruscamente riscosso dal suo delirio di onnipotenza e si alzò di scatto. Era stato scoperto. Non sapeva di che dimensioni fosse l'assalto, ma la prudenza gli consigliò di prepararsi la strada per la fuga. «Pronti allo sganciamento», gridò nell'interfono che comunicava con la sala macchine del traghetto. L'elicottero emerse all'improvviso nell'ultima oscurità che precede l'aurora. Avanzava verso il traghetto a grande velocità, tenendosi a pelo d'acqua. Poi d'un tratto si alzò, librandosi sul ponte a poca distanza dai fumaioli, poi cominciò a scendere. La chiglia del traghetto si aprì sotto lo scafo della Rosa del Deserto. Meglio andarsene. Gli assalitori dovevano essere in parecchi e disponevano di mezzi potenti, come dimostrava l'elicottero che stava volteggiando sopra il traghetto. «Ammainate», ordinò Fasatne, e la Rosa del Deserto fu adagiata nell'acqua scura. Le strutture del ponte superiore, dai comandi esterni alle imbar-
cazioni di sicurezza, dall'elicottero alla ridda di antenne satellitari, furono risucchiate nella struttura dello yacht, consentendogli di passare di misura sotto la pancia e tra i due scafi esterni del traghetto, e di guadagnare l'Atlantico. L'elicottero israeliano era sospeso con precisione millimetrica sopra la terrazza. Timna tolse la piccola dal marsupio e la porse al copilota sporto dal portello. Il colpo la raggiunse alla spalla destra quando già l'uomo aveva afferrato saldamente la bambina. Non aveva tempo di valutare la gravità della ferita: doveva mettersi in salvo sul velivolo. Due componenti del commando la aiutarono a issarsi e poi caricarono Shlomo, mentre gli altri rispondevano al fuoco. L'elicottero si alzò perpendicolarmente, puntando alla massima velocità verso la nave appoggio distante poche miglia. La Rosa del Deserto sgusciò da sotto il traghetto, e immediatamente gli impianti idraulici riportarono al loro posto le attrezzature del ponte superiore. Tagil Sarov si premeva un fazzoletto alla tempia per tamponare il sangue. «L'elicottero è pronto al decollo, signor Fasatne», disse. Il libanese lo scostò con un gesto carico di disprezzo, senza dire niente, e si avviò verso il ponte superiore. Quando vi sbucò si vide passare sopra la testa l'elicottero che portava in salvo la bambina e gli agenti del commando israeliano. Oswald Breil aveva vinto anche questa battaglia. «Pronti al decollo», disse Nara Fasatne, impugnando con sicurezza i comandi del velivolo. Il marito e Sarov allacciarono le cinture; la donna seduta a fianco della pilota lo aveva già fatto. Breil si tolse gli auricolari e si lasciò andare a un gesto di vittoria, subito imitato dagli altri. L'elicottero israeliano si stava posando sulla nave oceanografica. Le prime diagnosi li informarono che lo stato di Timna non destava eccessive preoccupazioni. Shlomo era più grave, ma non in pericolo di vita. Quanto alla bambina, stava benissimo. Fasatne e i suoi erano riusciti a farla franca abbandonando la Rosa del Deserto e il traghetto nelle mani dei mezzi costieri inglesi immediatamente accorsi. Oswald allungò la mano sul telefono e compose il numero della linea riservata in casa di Laura e Kevin.
«Chiara è salva», disse semplicemente. Tangula Shan. Racconto di Namling «La tozza bombarda era accostata al molo. Antonio scese dal carro appena in tempo: i marinai inglesi stavano per mollare gli ormeggi. «'Nostromo, devo parlare con il comandante', gridò all'uomo che stava impartendo i comandi per la partenza. «'Il comandante è impegnato nella manovra.' «'È questione di vita o di morte. Ditegli che Antonio Fedeli, artista, è stato indirizzato a lui da padre Domenico di Fano.' «Pochi attimi più tardi il comandante inglese si affacciò alla battagliola. 'Dite, signor Fedeli.' «'Padre Domenico mi ha suggerito che potremmo forse unirci a voi per questo viaggio.' «'Non è possibile', rispose subito l'inglese. 'Non stiamo partendo per un viaggio commerciale. Le altre volte ho trasportato volentieri i frati, ma questa è una nave militare che devo consegnare al governatore della Compagnia delle Indie Orientali. Non posso portare passeggeri.' «'Vi imploro, comandante. Verremo uccisi. Siamo braccati da una banda di assassini.' «'Una questione di vita o di morte? Hmm... Avete detto di essere artista? Be', la nave ha bisogno di qualche ritocco. Salite a bordo.'» PARTE QUARTA IL VIAGGIO 13 Tangula Shan. Racconto di Namling «Sulla nostra dritta sfilava la rocca di Gibilterra. Terminata la cena, il comandante Neil Brooke invitò Antonio e me a fare una passeggiata sul ponte per mostrarci le caratteristiche della sua nave. «'Grazie al suo armamento e alla potenza dei cannoni a mortaio', ci spiegò, 'la galeotta a bombarda viene utilizzata per il cannoneggiamento di postazioni terrestri. Il tiro curvo riesce a superare agevolmente le protezioni di postazioni elevate e mura fortificate. Quindi questo tipo di nave è ormai
indispensabile per gli attacchi dal mare. Ma gli equipaggi non vi si imbarcano volentieri: lo spostamento d'aria dei cannoneggiamenti può provocare la sordità. Pensate che coperta e scafo sono rinforzati con braccioli di ferro per evitare che la nave vada a pezzi. La batteria girevole che ha soppiantato l'albero di prora è a sua volta montata su robusti fondi in mano d'opera idraulica.' «Brooke si dilungò poi a descrivere l'armamento dei due alberi e le caratteristiche degli otto cannoni tradizionali, continuando: 'È proprio per esibire la potenza del nostro armamento alle navi del Gran Turco che siamo stati inviati a fare questo giro preliminare nel Mediterraneo orientale, così fuori rotta. Selim III e il suo ammiraglio, Piccolo Hüseyn, stanno riorganizzando e potenziando in maniera pericolosa la flotta di Costantinopli. Ben ventidue navi nuove, hanno messo in cantiere. Ma la nostra esibizione sembra aver avuto successo. Adesso però siamo molto in ritardo sul nostro programma di viaggio'. «Quindi concluse: 'Lorsignori vogliano pertanto perdonarmi, ma le manovre per affrontare l'Atlantico richiedono tutta la mia attenzione'. «Antonio e io rimanemmo a prua. Il vento teso spingeva la nave contro le onde, oltre lo stretto si apriva l'oceano con le sue insidie.» Gerusalemme. 15 novembre 199... Oswald Breil presiedeva l'ultima riunione in veste di capo del Mossad. «Credo che, per sottolineare quanto mi siate stati d'aiuto, non ci sia modo migliore che premiare un uomo il cui lavoro è il baluardo di ogni nostra indagine e azione. Mentre tra tutti voi ha il grado più basso. Fate entrare il sergente Bernstein, per favore», disse nell'interfono dopo una breve pausa a effetto. Bernstein si presentò in divisa da parata. Eseguì goffamente alcuni passi marziali e si mise sull'attenti davanti a Breil. Ma, per consentirgli di sostituire le mostrine di sottufficiale con quelle di capitano, dovette chinarsi. «Per i meriti da lei conseguiti sul campo», annunciò il suo capo in tono solenne, «ho l'onore di conferirle il grado di capitano.» Fu poi Erma a pronunciare le parole di commiato. «Conosco Oswald Breil da quindici anni», disse, «e ho sempre seguito il suo esempio con profonda ammirazione. Quindi ho sperato fino all'ultimo che cambiasse idea. La prego di credermi, maggiore, se dico che lascerà un vuoto incolmabile. Il nostro paese ha bisogno della sua esperienza, e mi
auguro che il tempo ci venga in soccorso, facendola tornare sulla sua decisione.» Quindi prese un pacchetto che aveva posato sulla poltroncina e lo consegnò a Breil. Oswald lo aprì, rivelando un computer portatile. «Lo accenda, per favore», disse Erma. Come sfondo del monitor, durante le operazioni di accensione, apparve l'immagine della Menorah. «Questo nostro pensiero per ricordarle due cose, maggiore. Anzitutto che, attraverso quella macchina, ciascuno di noi sarà sempre a sua disposizione. E poi che lei ha ancora un impegno nei confronti del nostro popolo. Le chiediamo di onorarlo riportandoci la Menorah.» Dopo qualche minuto il premier ricevette Breil con insolita cordialità. Nel suo ufficio c'era un'altra persona. «Il generale Dharel prenderà il suo posto al vertice del Mossad, maggiore Breil», disse, mentre Oswald stringeva la mano al suo successore. «Mi complimento di nuovo con lei per la brillante azione con cui è stata liberata la piccola Dimarzio. I nostri servizi possono vantarsene di fronte al mondo intero. Ma purtroppo Hytham Fasatne ci è sfuggito ancora una volta.» «Lo ripagheremo con la sua stessa moneta», esclamò il generale Dharel. Breil lo guardò di sottecchi, senza dire niente. Roma. 16 novembre 199... «Tra qualche giorno dovrai partire di nuovo?» Toni Marradesi sgranò gli occhi. «Che cosa significa, Sara? Devo ricordarti che in questo istituto lavorano quindici persone? E che tu, tra Parigi, Miami e altri motivi personali, trascuri i tuoi impegni ormai da quest'estate? Non posso continuare a mandare avanti tutto da solo, e per di più tenere dietro alle tue esigenze di ricerche sempre più strampalate.» «Non te la prendere, Toni», replicò dolcemente Sara. «Devo farlo, capisci?» «A questo punto, allora, devi anche spiegarmi qualcosa di più su questa faccenda», insisté Toni, già sulla difensiva di fronte a quello sguardo. Lo metteva sempre alle corde, riusciva a fargli accettare qualsiasi cosa. «Non posso ancora, ma, ripeto, non prendertela. Sappi soltanto che Dio mi chiede di recuperare ciò che gli appartiene.» «Dio?» sbottò Toni. «Che cosa sei diventata? Una profetessa televisiva?»
Sara sorrise. «No, per carità. Ma so quello che faccio. A proposito, hai qualche novità sul nostro Namling?» Miami. 16 novembre 199... Kevin, appena rientrato, baciò la piccola Chiara e la prese in braccio, poi raggiunse Laura. «Come va l'ispirazione?» le chiese. Dopo la liberazione della bambina, Laura le aveva dedicato tutto il suo tempo, non allontanandosi quasi mai da lei. Si era però concessa di cominciare a lavorare a un nuovo romanzo. Guardò Kevin di sottecchi. Lo conosceva quanto bastava per capire che aveva qualcosa da dirle. Infatti, non appena furono seduti a tavola, il suo compagno si schiari la voce e attaccò in tono imbarazzato: «Oggi mi ha chiamato Oswald. Dice che senza il tuo aiuto non riuscirà a portare a termine una missione molto importante per tutto il suo popolo. Una missione che non dovrebbe presentare nessun rischio per te». Quindi le posò delicatamente l'indice sulle labbra, impedendole di replicare. «Aspetta. Prima ascoltami. Ti ho promesso che non avrei più ostacolato le tue attività. D'altra parte il debito di riconoscenza che abbiamo nei confronti di Oswald è immenso. Fa' come ti impone la tua coscienza. Se sei in pensiero per Chiara, la porterò con me alla base. Non credo esista un posto più sicuro di Cape Kennedy. E la moglie di Steps mi ha assicurato che può occuparsi di lei in tua assenza: ha tirato su cinque figli. D'altra parte, la nuova baby sitter mi sembra molto brava. Credo che tu possa partire tranquilla. Cioè, sempre che tu lo voglia.» E così dicendo posò sul tavolo il passaporto di Laura, aperto alla pagina su cui era stampigliato un visto turistico per il Tibet, rilasciato dalle autorità cinesi. «Oswald mi ha detto che vi ha già prenotato il volo da Hong Kong a Lhasa per il 22 novembre. Inoltre mi ha giurato solennemente che tu e Sara sarete a casa nel giro di una ventina di giorni. E questa volta sul serio.» Miami. 18 novembre 199... Laura aveva trascorso tutta la giornata al museo ed era rientrata da poco. Indossava ancora l'abito che si era messa quel mattino. Kevin era su uno dei divani in vimini della terrazza. Lo raggiunse, lo baciò su una guancia e gli si sedette di fronte.
«Non vorrei che saltasse fuori di nuovo il caratteraccio del maschio latino», disse scherzosamente. «Se alludi alla nuova operazione in cui ti ha coinvolto Oswald, ti ho detto come la penso. Però mi mancherai. Molto.» Laura si accorse di come la stava guardando. Decise di assecondarlo, e con un movimento malizioso concesse ancora più ai suoi occhi. Fecero l'amore lì dov'erano e poi rimasero sul divano con gli occhi chiusi, lasciandosi accarezzare dalla brezza dei Caraibi. «Ti amo più della vita, Laura», mormorò Kevin, accostando la bocca alla sua per un ennesimo bacio. «Anch'io, Kevin», rispose lei. «Credi che il prossimo marzo possa essere una data propizia per sposarci?» chiese lui a bruciapelo. «Lo sai, dovremo farlo in Italia.» Laura lo scostò da sé e lo fissò, quasi incredula. «Qualsiasi data è propizia, e ovunque, se sono con te», esclamò. Si abbracciarono di nuovo e rimasero ancora a lungo sulla terrazza, godendo di se stessi e della meravigliosa brezza. Prima di coricarsi, Laura accese il computer e si collegò a una delle caselle postali di Oswald. <SARÒ DELLA PARTITA. TI VOGLIO BENE. LAURA>, fu il suo messaggio. Parigi. 19 novembre 199... Le luci intermittenti delle prime decorazioni natalizie impreziosivano gli Champs-Elysées. La Mercedes coupé color argento cercava di approfittare di ogni varco nel fiume di auto dell'ora di punta, anche soltanto per guadagnare pochi centimetri. Alla guida c'era un giovane dai lineamenti mediorientali. Sefre aveva un solo legame con il padre: il patrimonio da cui attingeva per mantenere un altissimo tenore di vita. Era nato dalla prima moglie di Fasatne, una splendida francese che aveva fatto parte del corpo di ballo del Crazy Horse. I giornali rosa di tutto il mondo avevano spesso motivo di occuparsi di lui e delle splendide giovani con cui si accompagnava nelle località più esclusive. Sefre gettò uno sguardo preoccupato all'orologio del cruscotto e pigiò sul clacson. Era in terribile ritardo, e non era corretto far aspettare una baronessa.
Margaretha von Richt stava terminando in quel momento di spazzolarsi i capelli. Abitava nella villa di famiglia da quando era nata, a poca distanza dal Bois de Boulogne. Era la più giovane discendente di una famiglia dell'alta nobiltà prussiana, e come tale era stata educata. Poi era apparso quel giovane spericolato, metà libanese e metà francese, bello e ricco come un creso. «Esci ancora con quel playboy da rotocalco?» chiese sua madre. «Lo so che Sefre non ti piace, mamma... ma piace a me», rispose la giovane con un sorriso malizioso. La madre sorrise a sua volta... La capiva benissimo. Anche il barone von Richt era un donnaiolo inguaribile quando lo aveva conosciuto. Ma un anno dopo erano sposati. «Torna presto, mi raccomando.» La Mercedes argentea era già davanti allo scalone della villa. Sefre Fasatne smontò e aprì galantemente lo sportello. Per la prima volta in vita sua era convinto di essere innamorato. E di una ragazza straordinaria, che si sentiva pronto a difendere con la vita. «Ho prenotato una cena a lume di candela a Champigny. Tenerci alla larga dal mondo per qualche ora vale un po' di chilometri in più. Voglio restare solo con te, lontano da tutti», annunciò alla bellissima giovane, mentre l'auto partiva quasi con un ruggito di gioia. La cena fu davvero deliziosa, e per di più accompagnata da un sontuoso rubino montato su una fede di diamanti. Un piccolo capolavoro di Van Cleef, che Sefre posò con noncuranza sul tavolo. «Vostra Grazia vuole sposarmi?» chiese alla giovane, che sollevò su di lui uno sguardo incantato dalla bellezza del gioiello. «Certo che lo voglio, Sefre», rispose Margaretha, alzandosi e baciandolo di slancio. Il gesto fu immortalato dal flash di un paparazzo, avvertito da un dipendente poco scrupoloso. Scapparono dal ristorante sotto una pioggia di altri lampi. Champigny non era lontana dal mondo quanto Sefre Fasatne aveva sperato. La Mercedes argentea fuggì come il vento. «Dovete usare due auto che non diano nell'occhio», aveva ordinato il generale Dharel nella sua veste di nuovo capo del Mossad. «Lo seguirete e, in un luogo al riparo da sguardi indiscreti, entrerete in azione. Con suo figlio nelle nostre mani, Fasatne dovrà pur uscire allo scoperto.» «Lo ripa-
gheremo con la sua stessa moneta», aveva poi ripetuto a mezza voce, mentre i suoi uomini uscivano dalla porta dell'ufficio che era stato di Breil. E gli agenti seguirono puntigliosamente le istruzioni ricevute. Sei di essi si divisero tra un'utilitaria, destinata a sbarrare la strada alla Mercedes, e un'auto di media cilindrata, ma con il motore truccato, che doveva stringere la vettura di Sefre fino a costringerlo a fermarsi. Dopo di che lo avrebbero narcotizzato e portato in un nascondiglio sicuro. Un settimo uomo, che teneva d'occhio il tragitto due chilometri prima di dove erano appostati gli altri, annunciò nel microfono: «Il nostro obiettivo sta arrivando. Preparatevi a riceverlo. Sembra che abbia una gran fretta». L'utilitaria si avviò, seguita dalla berlina. Sefre guidava sicuro, stringendo il volante del bolide lanciato a quasi centocinquanta all'ora. Di quando in quando staccava lo sguardo dalla superstrada per gettare un'occhiata piena d'amore a Margaretha. La berlina gli si affiancò sulla sinistra, mentre un centinaio di metri più avanti si profilava improvvisamente un'utilitaria che viaggiava a velocità molto ridotta. D'istinto, il giovane pigiò sull'acceleratore per scansare i due ostacoli. L'uomo al volante della berlina imprecò contro l'ordine di usare due vetture che non dessero nell'occhio. «Non ce la faccio... è troppo veloce.» «Speronalo», gli ordinò il capo del commando. «Dobbiamo costringerlo a fermarsi.» La Mercedes, colpita al fianco, prima sbandò sulla destra e poi sulla sinistra, schiantandosi contro il guardrail centrale in cemento e ribaltandosi più volte. Sefre Fasatne non ebbe nemmeno il tempo di accorgersi che stava morendo. Gli agenti israeliani smontarono dalle due autovetture. Si accostarono alle lamiere contorte della Mercedes il tempo sufficiente per constatare che era morto sul colpo. La sua bella compagna, invece, era straziata di ferite ma ancora viva. «Via, via, subito», ordinò il capo del commando. Le sgommate delle due auto ruppero il silenzio nella notte deserta della banlieue di Parigi. Taormina. 20 novembre 199... L'albergo San Domenico domina uno scenario che ha pochi eguali al mondo. E, tra i suoi facoltosi ospiti, ben pochi non avrebbero riconosciuto
Alberto Vite nell'elegante signore che si era fatto indicare la stanza occupata dal «dottor Santillana». Nessuno però sapeva chi si nascondesse dietro questo cognome. Un omino insignificante, quasi un nano. «Sono vere le voci che ho sentito?» chiese subito Vite, accomodandosi nel salottino della suite. «Non vede?» rispose Oswald Breil sorridendo. «Sono qui in vacanza già da tre giorni.» «Mi spiace moltissimo di non avere più nei vostri servizi un interlocutore come lei.» «Chi mi ha sostituito...» «Ho detto che mi spiace», tagliò corto Vite. «Vedo che le notizie viaggiano veloci, e tanto più quanto più dovrebbero essere riservate», commentò Oswald. «È il nostro mestiere, non soltanto il suo. O devo dire il suo ex mestiere? Ne dubito. Ma veniamo al dunque. Immagino che il motivo di questo incontro sia lo stato delle indagini su Trasi.» Vite fece una pausa, scuotendo la testa con amarezza. «Le confesso che siamo a un punto morto. Non abbiamo niente, al di là del reato fiscale a cui le ho accennato. Ho seguito il suo consiglio e non ho arrestato il pilota, ma posso farlo non appena rimetterà piede in Italia.» «Secondo me Trasi vi sarà più utile libero e ignaro di tutto.» «Lo penso anch'io. Mi permette una domanda?» Oswald annuì e il magistrato italiano continuò: «Posso sempre utilizzare quel suo indirizzo elettronico, per contattarla? E posso valermi della consulenza di un 'privato cittadino' in vacanza?» «Sono a sua disposizione.» Non appena Vite fu uscito, Oswald riprese a scorrere con sguardo accigliato i giornali. Sulle prime pagine di tutto il mondo campeggiavano fotografie di Margaretha von Richt e Sefre Fasatne. Da più parti si avanzavano dubbi sulla dinamica dell'incidente. Breil credeva di sapere com'erano andate le cose. Aveva ancora in mente le parole di Dharel: «Ripagheremo Fasatne con la sua stessa moneta». Adesso che lo avevano ripagato, il libanese avrebbe presentato un altro conto. E sarebbe stato salato. Si spostò alla scrivania, dov'era posato il computer portatile. Facendo scorrere i messaggi in giacenza, ne vide uno che lo riempì di una furia che non provava da tempo. Lo aprì.
RAGAZZO INNOCENTE SARÀ VENDICATO. COSTI QUEL CHE COSTI. FASATNE.> , digitò. Ma poi si ricordò che non poteva rispondere a un messaggio elettronico senza un vero mittente. Gerusalemme. 21 novembre 199... Come ogni mattina, alle 7.30 il convoglio di tre fuoristrada con i vetri oscurati partì dall'abitazione del capo del Mossad per portarlo in ufficio. Quello nel quale aveva preso posto il generale era in mezzo. Sulla sua sicurezza vegliavano dieci dei suoi uomini più addestrati. All'angolo della strada, come sempre, c'era la bancarella, che esponeva in bella mostra i lumi che ogni famiglia ebraica avrebbe dovuto accendere con cadenza quotidiana durante la festa di Hannukkah, di lì a circa tre settimane. Ma gli agenti non notarono che l'uomo accanto al banco non era il solito ambulante. Il missile di fabbricazione sovietica era in grado di perforare corazze di venti centimetri d'acciaio, prima di esplodere in una struttura blindata. L'auto di Dharel parve colpita da un razzo di segnalazione. Una frazione di secondo più tardi la deflagrazione mandò in frantumi i vetri degli edifici nel raggio di un centinaio di metri. Breil era comodamente sprofondato in una poltrona della Top class dell'MD11. Non rimpiangeva l'aereo personale che aveva avuto a disposizione fino a pochi giorni prima, ma il suo spirito vulcanico mal sopportava la limitazione di dover rispettare gli orari dei voli di linea. «Mi ero abituato troppo bene», borbottò tra sé. Però era molto soddisfatto. Laura e Sara erano di nuovo in azione: due tra le persone più in gamba che Breil conoscesse stavano seguendo una pista che poteva condurle fino alla Menorah. L'avrebbero trovata? Di certo non avrebbero lasciato nulla d'intentato. «Signor Breil», gli disse gentilmente la hostess, chinandosi verso di lui, «il comandante la prega di seguirmi in cabina di pilotaggio. È appena arrivata una comunicazione urgente per lei.» La cabina era ampia e confortevole. Il comandante era seduto alla cloche di sinistra, tra le strumentazioni elettroniche. Molte delle novecentoventi-
cinque spie luminose del cruscotto baluginavano, trasmettendo messaggi che soltanto un equipaggio perfettamente addestrato poteva capire. «Posso chiederle i documenti, maggiore Breil?» Una rapida occhiata al passaporto, poi il comandante riprese: «Il capitano Bernstein chiede se si può mettere in contatto con lui via computer. Può utilizzare le linee telefoniche di bordo». E gli indicò il posto dell'ufficiale navigatore, appena dietro la plancia comando. Oswald prelevò il computer portatile dalla borsa e, tornato nella cabina di pilotaggio, lo posò sul tavolo dell'ufficiale di rotta. <ECCOMI, BERNSTEIN>, digitò non appena ebbe accesso dopo la trafila delle password. E Breil chiuse la comunicazione con dita stranamente incerte, aprendo la casella di posta elettronica con un amaro presentimento. Il messaggio di Fasatne era già lì. Arrivato alle 7.28, ora di Gerusalemme. A noi, Fasatne, replicò mentalmente. Tangula Shan. Racconto di Namling «Naturalmente, quanto più scendevamo lungo l'Africa, avvicinandoci ai tropici, la temperatura aumentava. Per fortuna il mare era clemente, e i venti costanti favorevoli. «Avevamo ormai percorso quasi quattromila miglia da quando avevamo doppiato Gibilterra, e in quei quaranta giorni di mare le pareti del locale ufficiali si erano arricchite di diverse tele dipinte da me e da Antonio, oltre che dei lavori di ritocco dei quali aveva parlato il comandante. Era il modo migliore per sdebitarci nei suoi confronti. «Antonio si chiudeva spesso in cupe riflessioni; un leggero tremito delle mani mi faceva temere che avesse ripreso a bere. Fu il nostromo a darmene involontariamente conferma, riferendomi che spesso faceva il ritratto a un marinaio in cambio di qualche razione di rum.
«L'isola di São Tomé si stagliò nel golfo di Guinea come una nota musicale nel silenzio. Stavo osservando le rocce vulcaniche che si elevavano oltre i duemila metri, quando mi sentii interpellare da Brooke: 'Non vorrei che i forti colori di quel continente offuscassero quelli che sapete dipingere con tanta maestria'. «Sorrisi amaro: erano ben altri i colori che si andavano offuscando. Giorno dopo giorno mi accorgevo sempre più che Antonio stava ricadendo nell'abisso dell'angoscia.» Hong Kong. 22 novembre 199... I grattacieli sfilavano veloci poco lontano dalle ali dell'aereo. Laura li guardava con un'espressione poco tranquilla. Sotto di loro non si vedeva ancora traccia della pista di atterraggio. Ma finalmente le ruote del Boeing si posarono con un sobbalzo, e dovette convenire che l'atterraggio a Hong Kong era un'esperienza unica... per quanto inquietante. Il volo della Dragonair per Lhasa, con scalo a Chengdu, sarebbe partito alle 10.45. Quando l'altoparlante annunciò l'arrivo del volo da Roma, Laura si avviò verso il cancello degli arrivi, alzandosi in punta di piedi per avvistare tra la folla l'amica italiana. Sara Terracini arrivò di buon passo spingendo il carrello portabagagli e, quando la riconobbe, accelerò. Si strinsero in un caloroso abbraccio. «Ti vedo molto bene», disse Sara. «Sì, mi sono ripresa», riconobbe Laura. «Anche se la nuova richiesta di Oswald ha rischiato di rimettermi in crisi.» «Io credo di non essermi mai sposata proprio perché le sue pretese sono ben più pesanti di un legame coniugale.» «Be', possiamo sempre rimediare sposandoci», disse alle loro spalle un voce fin troppo nota. «E tu che cosa ci fai qui?» chiese Laura, stupefatta. «Hai intenzione di venire con noi?» le fece eco Sara. «No, non parto con voi. La mia presenza non sarebbe... salutare. I servizi cinesi sono molto rigorosi a proposito di presenze indiscrete nel Tibet, e temo che conoscano bene la mia faccia. Sono qui soltanto per augurarvi buon viaggio e scambiare qualche parola con voi. In questo periodo ho molto tempo a disposizione.» Oswald si accomodò su una poltroncina e si posò sulle ginocchia il giornale che stava leggendo mentre le aspettava. Laura provò un forte senso di
fastidio nel vedere le foto di Duffy e Craigh di fianco a un titolo, ancora una volta, inquietante: SERVIZI ISRAELIANI DIETRO LA MORTE DI SEFRE FASATNE? Tangula Shan. Racconto di Namling «Doppiammo il capo di Buona Speranza mentre il mare cominciava a montare, agitato dalle correnti provocate dalla confluenza dell'Atlantico con l'oceano Indiano. La bombarda rollava pericolosamente. Antonio non stava bene e correva spesso a sporgersi oltre il parapetto. «'Per fortuna riusciremo a passare prima che si scateni la tempesta', ci disse il comandante Brooke. 'Ho visto navi ben più solide di questa affondare sotto onde alte come due case. Quando si supera il capo di Buona Speranza, il tempo può cambiare nel giro di pochi minuti.' «'Quando finirà?' chiese Antonio in tono abbattuto, non appena Brooke si fu allontanato. 'Quando smetteremo di scappare? Non pensi che ormai siamo abbastanza lontani dai nostri inseguitori?' «'Il marchese di Mont Brouillard ha amici e orecchie ovunque. Domenico e i suoi fratelli non lo hanno di sicuro ucciso, e non ci avrà messo molto a scoprire dove siamo diretti. Dobbiamo tenere duro e allontanarci il più possibile.' «La nave si raddrizzò prima di virare, le vele flottarono un po' ma poi furono di nuovo gonfiate dal vento che proveniva dal fianco opposto. Cominciammo a risalire l'Africa in direzione del canale di Mozambico. I primi venti dell'Oriente mi portarono i profumi della nostra terra, ancora tanto lontana.» Lhasa. Tibet. 22 novembre 199... Lo scalo a Chengdu durò circa un'ora. Laura e Sara rimasero sedute a bordo dell'Airbus 330 della Dragonair, osservando i passeggeri che si imbarcavano per le tre ore di viaggio fino a Lhasa. «I cinesi mi sembrano tutti uguali», commentò Laura ridacchiando. Dopo un po' le due amiche osservavano con ammirazione reverenziale il paesaggio montuoso che scorreva sotto di loro. Lhasa apparve all'improvviso, protetta in un bacino di massicci. La montagna rossa, sede da secoli del maestoso palazzo del Dalai Lama, era nella parte occidentale della città. L'aereo scese bruscamente ed effettuò un non
facile atterraggio sulla pista battuta dal vento. L'aria rarefatta rendeva difficile qualsiasi movimento, persino trascinare i carrelli del bagaglio. Le due amiche raggiunsero l'albergo dove avrebbero alloggiato e cominciarono a disfare le valigie. Avevano limitato l'abbigliamento all'essenziale, con abiti comodi e pesanti. A tremilaseicento metri sul livello del mare faceva un freddo terribile, ma avrebbero cercato di abituarsi. Gerusalemme. 23 novembre 199... «Lei aveva ragione, Breil», disse il premier. «E io...» «Credo sia meglio venire al dunque», ribatté seccamente Breil. «Sì, ha ragione, veniamo al dunque. Hytham Fasatne è ancora libero e costituisce una seria minaccia. Quindi, a nome di Israele, le chiedo di riassumere la guida del Mossad.» «Non ho l'abitudine di tornare sulle mie decisioni, anche se ho un conto aperto con quell'individuo.» «La prego, lo faccia per il nostro popolo, Breil. Tra noi non corre certo buon sangue, ma ho una grande stima di lei.» Era arrivato il momento di dettare le condizioni. «Accetto di portare a termine la missione, ma niente di più. Non voglio essere reintegrato come capo del Mossad, ma chiedo carta bianca. Una volta assicurato Fasatne alla giustizia, tornerò un privato cittadino.» «Sia come desidera», concluse il premier, tendendogli la mano. Quindi prese un dossier da un cassetto e ne tolse alcune foto scattate dai satelliti spia israeliani, riprendendo: «Prima di congedarla, però, voglio parlarle di una scoperta fatta dal suo predecessore. Qualche tempo fa un nostro satellite ha individuato una lunga colonna di camion militari che partiva da una fabbrica di conserve alimentari in Iraq. Strano, no?» «Abbiamo idea della destinazione?» chiese Oswald esaminando la foto. «No. Ma in una recente comunicazione telefonica da noi intercettata tra Saddam e un suo stretto collaboratore, il Rais ha parlato esplicitamente di 'consegna dei camion a Fasatne' e di 'custodia del materiale'.» Mezz'ora più tardi, Oswald chiamò in riunione i suoi collaboratori. «Lo sapevo», si limitò a dire Erma stringendogli calorosamente la mano. Aveva ragione: non era mai capitato che Oswald Breil abbandonasse una missione prima di averla portata a termine.
Tangula Shan. Racconto di Namling «La baia di Algoa era molto ampia. Le vele avevano riportato qualche lieve danno, che bisognava riparare. Restammo alla fonda cinque giorni, e quando eravamo pronti a ripartire l'uomo di vedetta sull'albero di maestra gridò: 'Otto vele all'orizzonte, dirigono verso di noi'. «Trascorsero alcuni istanti carichi di tensione, poi la vedetta si fece sentire di nuovo, tranquillizzandoci: 'Battono la bandiera di Sua Maestà Giorgio III, re d'Inghilterra'. «Brooke indossò l'alta uniforme e, a bordo di una scialuppa, si diresse verso la nave che inalberava il vessillo di ammiraglia. «'Vi comunico', lo informò il contrammiraglio Howens, 'che vi unirete a noi con la vostra nave per le azioni militari della nostra missione.' «'Ma io ho l'ordine di consegnarla al governatore di Sua Maestà a Bombay', cercò di obiettare Brooke. «'In base ai poteri conferitimi dal re d'Inghilterra, la confisco per superiori esigenze militari. Quindi vi ordino di unirvi al convoglio e di tenervi nelle retrovie finché non raggiungeremo le coste delle isole sotto dominio francese.' «'Signore, il mio equipaggio non è preparato a uno scontro', cercò ancora di obiettare Brooke, ma fu subito interrotto dal superiore. «'Voi siete un ufficiale della marina da guerra, signore, e mi dovete obbedienza. La vostra nave mi serve per attaccare le difese terrestri. Non ho altro da dirvi.' «Tornato a bordo della bombarda, Brooke riunì gli ufficiali e li mise al corrente del cambiamento di programma. Poi fece la stessa cosa con l'equipaggio riunito sul ponte, parlando dalla tuga. «Quindi riprendemmo il mare al seguito della flotta inviata a conquistare alcuni punti strategici sulla rotta dell'Oriente.» Lhasa. 23 novembre 199... «Il palazzo del Potala è composto di oltre mille stanze su una superficie di centotrentamila metri quadrati», stava spiegando Sara all'amica, mentre osservavano dal basso l'imponente costruzione, quando qualcuno alle loro spalle le fece eco in un ottimo inglese: «Ed è interamente costruito in legno e pietra. Vi si trovano numerosi mausolei, templi e oggetti preziosi,
sacri alla religione tibetana». Si voltarono. «Permettete che mi presenti», continuò il nuovo venuto. «Sono il professor Xeng Dao Lu, ordinario di psichiatria all'università di Pechino e studioso di frenologia. Il mio buon amico Oswald Breil mi ha chiesto se potevo accompagnarvi nella vostra... visita turistica. Quindi eccomi qui. Shalom, Sara. Signora Joanson, lieto di conoscerla.» E il cinese fece un profondo inchino. Durante l'incontro all'aeroporto di Hong Kong, Oswald aveva detto loro che a Lhasa avrebbero trovato un aiuto, ma non aveva aggiunto altro. Adesso lo conoscevano. «Shalom», rispose d'impulso Sara. «È anche lei...» «Frenologia?» chiese contemporaneamente Laura. «Una domanda per volta, prego», sorrise bonariamente il cinese, voltandosi verso Laura. «La frenologia è la scienza che studia le conformazioni dei crani umani nell'ambito della psichiatria.» Magro e minuto com'era, e curvo per proteggersi dal vento gelido, il compito docente sembrava vecchissimo. In realtà, guardandolo bene, si capiva che doveva essere tra i sessanta e i settanta. «Sì, sono ebreo, signorina Terracini», continuò. «Siamo anche in Cina, e da tempo immemorabile. Io ho antiche origini nella provincia di Kaifen. La storia che ci tramandiamo di generazione in generazione dice che un mio lontanissimo avo fu tra i promotori della costruzione della sinagoga in quella città, nel remoto 1163. Da dove siamo arrivati? La memoria storica della mia famiglia non risale così indietro, ma è logico ipotizzare Babilonia, ovvero Baghdad, seguendo l'espansione degli abbasidi fino al Turkestan.» «Da Babilonia», mormorò Sara, come trasognata. La cultura del Talmud babilonese era dunque arrivata così lontana? Si riservò di farne argomento di una lunga conversazione con il professor Xeng, non appena ne avesse avuto l'occasione. «Se avrete la cortesia di seguirmi nel palazzo», concluse il professore con un nuovo inchino, «potrò mostrarvi alcuni oggetti che ritengo di estremo interesse per le vostre indagini.» Presi com'erano a fare conoscenza, i tre non si accorsero che le loro mosse erano seguite attimo per attimo. Tangula Shan. Racconto di Namling
«Il primo contatto a vista con la flotta francese avvenne esattamente venti giorni dopo che la nave del comandante Brooke si era accodata al convoglio. «Mentre i due schieramenti si fronteggiavano ancora a distanza, Brooke ci si avvicinò sul ponte. Era tranquillo, sebbene lo scontro apparisse inevitabile. Il sole stava calando rosso nell'oceano Indiano. Poi l'oscurità della notte tropicale sarebbe giunta repentina come sempre. Quella che ci aspettava sarebbe stata una notte di mosse strategiche e tattiche per conquistare una posizione di vantaggio. «'Non credo che la nostra bombarda verrà impegnata nello scontro', disse Brooke. 'È lenta e male armata per un duello in mare. Le istruzioni del contrammiraglio sono di tenerci distanti e non ostacolare le altre nostre navi, nella speranza che riescano a sopraffare il nemico. In caso contrario, prepariamoci a una fuga che sarà inutile e ad affondare la nave quando verremo raggiunti.'» Lhasa. 23 novembre 199... Il professor Xeng era una guida straordinaria: sembrava conoscere il palazzo del Potala in ogni suo anfratto. Vi si muoveva come in estasi, indicando, spiegando, chiarendo. «Il destino del popolo tibetano è molto simile a quello del nostro», disse rivolto a Sara. «Le persecuzioni che ha subito e continua a subire questa gente pacifica assomigliano tanto alle traversie degli ebrei. «Questo dipinto murale rappresenta l'incontro del tredicesimo Dalai Lama con una regina», continuò, «e questo è il mandala di Miji Vajra. Come potete vedere, si tratta di opere di pregevolissima fattura. I monaci tibetani sono sempre stati valenti pittori e scultori, ma pare che un grande impulso all'arte tibetana si sia avuto verso l'inizio del XVIII secolo, quando alcuni monaci di ritorno da lunghi viaggi portarono fin qui le tecniche occidentali, magari con la mediazione della presenza del Castiglione in Cina.» Laura e Sara raddoppiarono l'attenzione. Xeng parve accorgersene e, mentre entravano in un'altra sala del museo, continuò: «Ecco gli oggetti che ritengo possano essere utili alla vostra ricerca». Un gruppo guidato di turisti era a poca distanza da loro. Un uomo dai tratti orientali si girò a guardare Laura, che si affrettò a indicarlo sottovoce a Sara: «Non ti sembra uno salito in aereo a Chengdu?» «Non hai detto che i cinesi sono tutti uguali?», rispose Sara scrollando le
spalle. Lo sguardo di Laura e quello del cinese si incrociarono. Gerusalemme. 24 novembre 199... Bernstein aveva dipinta in viso un'aria soddisfatta che non sarebbe potuta sfuggire a nessuno, e tantomeno a Breil, nel suo nuovo ufficio. «Novità, sergente?» gli chiese Oswald. «Mi permetta di ricordarle, maggiore, che pochi giorni fa lei mi ha promosso capitano», rispose Bernstein in tono compunto, poi continuò: «Guardi queste immagini. Sono arrivate poco fa». E gli porse alcune nitidissime foto riprese da un satellite. «Che cos'è?» chiese Oswald. «Una grossa fattoria nel sud del Libano, dove da tempo sospettiamo che, dietro l'attività agricola di facciata, vengano condotti addestramenti di hezbollah. Stiamo effettuando verifiche sulla proprietà, ma qualche indizio mi fa ritenere che alla fine arriveremo al solito Fasatne. Però la cosa più interessante è questa.» E Bernstein indicò l'ingrandimento di due mezzi pesanti, due camion di colore verde militare parcheggiati in un piazzale davanti a un enorme capannone. «Sono camion di costruzione russa in dotazione a molti eserciti, tra cui quello iracheno. Adesso, però, confronti queste due foto con quelle che ci hanno fornito i cugini dell'Intelligence militare.» Oswald procedette a un attento confronto ed esultò: non c'erano dubbi. Almeno uno dei due camion faceva parte del lungo convoglio fotografato mentre si allontanava dalla presunta fabbrica alimentare. Aveva evidentemente lasciato l'Iraq, forse per nascondere qualcosa agli ispettori dell'ONU. In entrambe le foto il cofano di uno dei mezzi presentava una vistosa ammaccatura, che non era sfuggita né agli obiettivi dei satelliti né agli occhi addestrati di Bernstein. Tangula Shan. Racconto di Namling «Le mosse sembravano gli schemi di una danza. Le due flotte stavano per scontrarsi a circa due miglia dallo specchio di mare dove il comandante Brooke aveva ordinato di disporre al vento le vele della bombarda. Le dodici navi francesi erano in fila, sottovento rispetto alle otto inglesi. Gli
scafi correvano veloci, una brezza calda e tesa increspava le onde. «La manovra degli inglesi fu tanto fulminea da sorprendere anche noi: le otto navi virarono all'unisono e puntarono sul nemico, approfittando del vento in poppa e del minore bersaglio offerto dalla sagoma frontale. Il primo colpo di cannone ruppe il silenzio, poi dalle murate dei francesi si scatenò l'inferno: ogni vascello disponeva di una potenzialità di fuoco dai trenta ai sessanta cannoni per bordata. «Per alcuni interminabili istanti le navi repubblicane scomparvero dietro una fitta cortina di fumo grigio, mentre gli attaccanti continuavano ad avanzare senza sparare un solo colpo. Le palle francesi si perdevano nell'oceano, sollevando alte colonne d'acqua. Nei tempi morti della ricarica avvenne l'ingaggio: tutte le navi di Howens attraversarono con precisione millimetrica il convoglio nemico ancora disposto in formazione lineare. «Guadagnato il bordo sottovento, gli inglesi eseguirono una nuova virata, disponendosi paralleli al nemico e facendo immediatamente fuoco. I nostri occhi videro lo sterminio prima ancora che agli orecchi arrivasse il fragore delle bocche da fuoco inglesi che seminavano la morte sui ponti nemici. I francesi parvero disorientati, nonostante la superiorità numerica, e alcune navi cercarono di sottrarsi al fuoco. La battaglia durò fino a sera, ma ogni resistenza fu vinta e i vascelli in fuga catturati. «Il mattino dopo Brooke chiamò tutti i suoi uomini sul ponte e annunciò: 'Abbiamo schiacciato i nemici e catturato tre vascelli francesi. Ma tra poco toccherà a noi. Stiamo dirigendo verso le isole francesi governate da Mahé de La Bourdonnais, dove il nostro apporto sarà determinante contro le postazioni di terra. Prego Dio di proteggerci. Viva l'Inghilterra. Viva re Giorgio'. «Le isole apparvero dopo due giorni di navigazione. Sentii Brooke dire che la flotta inglese aveva volutamente evitato di addentrarsi nell'arcipelago. Una volta arrivate all'altezza dell'isola principale avrebbero virato, piombando sulla capitale da est. «Lo fecero usando come schermo le navi francesi catturate, con i vessilli al vento. Ingannati dalla vista di vascelli amici, nell'isola nessuno si prese la briga di organizzare la difesa. Le prime bordate dei cannoni inglesi seminarono morte e distruzione sulla cittadina. «Ventisei ore dopo l'inizio dell'attacco, la bandiera inglese sventolava sulla casa del governatore di quelle che, in onore di un ministro del re di Francia, erano state denominate isole Seychelles. «Il giorno dopo ci fu concesso di scendere a terra: la bombarda del capi-
tano Brooke aveva riportato danni che l'avrebbero costretta alla fonda per qualche mese. Ci aggirammo con emozioni contrastanti tra i segni della battaglia. «La popolazione locale era impaurita, ma ugualmente cordiale. Una giovane dalla pelle bruna si rivolse a noi in un buon francese, offrendoci ospitalità.» 14 Lhasa. 23 novembre 199... «Questo», continuò a spiegare il professor Xeng, indicando un dipinto su seta, «viene chiamato I venticinque re di Shambala.» «Peccato che manchi il ventiseiesimo», disse Sara. «Manca», le fece eco Xeng, «perché pare che a dipingerlo sia stato proprio lui, il ventiseiesimo re della leggendaria terra degli immortali, come pare abbia creato anche questo.» E indicò un oggetto a poca distanza da loro. Era un teschio umano impreziosito da decorazioni in argento, oro e pietre preziose. La mascella inferiore era stata ricostruita in argento e dotata di un meccanismo che le permetteva di ruotare, rientrando nella cavità cranica. Quella superiore era invece ben conservata, a eccezione degli incisivi, quasi tutti spezzati presso la radice. I molari nella parte superiore sinistra, sebbene mostrassero segni evidenti del tempo e dei malanni dentali sofferti, erano ancora nelle loro sedi. Il teschio poggiava rovesciato su una base in oro, con alcune piccole sculture come piedi. «Capisco che per la vostra cultura questo oggetto può emanare un forte senso macabro. Ma per i lama tibetani si tratta di una reliquia sacra: è l'ampolla nella quale il discepolo beve il vino mentre il maestro gli cosparge la testa di acqua per purificarlo. Inoltre è un tributo all'uomo a cui apparteneva il cranio: un modo per tenere accanto a sé la presenza di un amico scomparso.» Sara girò attorno alla reliquia, illuminata da lampade alogene. «Deve aver subito un brutto trauma», disse, indicando gli incisivi spezzati. «Sì», convenne Xeng. «Un colpo molto forte che gli ha spezzato i denti anteriori, e in conseguenza del quale forse è morto.» Laura fotografò l'oggetto da ogni angolazione, poi il terzetto proseguì nella visita al palazzo del Dalai Lama.
Tangula Shan. Racconto di Namling «Furono necessari sei mesi di lavori perché la bombarda potesse riprendere il mare. Un periodo di pace assoluta, accuditi com'eravamo da Opale, la nostra giovane ospite, che con la sua bellezza aveva fatto colpo su Antonio Fedeli. «Quel paradiso terrestre ci forniva tutto ciò di cui avevamo bisogno, dai frutti che crescevano spontanei all'acqua delle fonti nella foresta. I pastori ci davano formaggi e carne in cambio di dipinti, e un giorno, purtroppo, Antonio scoprì anche un distillato di cocco dall'alto potere alcolico. «Intanto aveva nascosto il tesoro in un luogo sicuro, da dove lo avrebbe recuperato al momento di riprendere il viaggio per Bombay. «'Ripartiremo tra una settimana, Namling', mi disse una sera Brooke. 'Informate anche il maestro Fedeli.' «In casa di Opale, Antonio stava sonnecchiando con accanto una bottiglia vuota di liquore. Al suo fianco giaceva la bella giovane bruna. «'Antonio, svegliati', lo chiamai sottovoce. «Aprì gli occhi, li sbatté diverse volte e finalmente mi riconobbe. 'Che cosa c'è, Namling?' «'Tra una settimana si riparte; me lo ha detto il comandante Brooke poco fa. Dobbiamo cominciare a prepararci.' «'Sono stanco di fuggire, Namling. E da che cosa, ormai? Non credo che il marchese di Mont Brouillard e Bartoli riusciranno a trovarmi in questo angolo sperduto del mondo. No, io non parto. Resterò in quest'isola. Credo sia arrivato il momento di separarci.' «Non mi opposi alla sua decisione: ero convinto io stesso che fosse nel giusto. Ma la sera prima della partenza, Antonio mi rivelò un segreto. 'Non l'ho mai detto a nessuno, Namling, nemmeno a Gustave. Quando mi sono calato nella botola, accanto al candelabro ho trovato un altro disegno di Lanvin. Sono convinto che contenga l'indicazione per arrivare a tutto il tesoro di re Salomone.'» «Erano trascorsi tre giorni dalla partenza, quando sentimmo la vedetta gridare: 'Nave a dritta in avvicinamento'. «Alla bombarda si affiancò un mercantile olandese, sventando le vele. Ne fu ammainata una scialuppa, che ci portò una delegazione guidata dal comandante.
«'Disponete di acqua potabile, comandante? La nostra provoca gravi dissenterie, e su questa rotta non vi sono porti dove rifornirsi.' «'Forse non sapete ancora che sulle isole del governatore Mahé sventola da pochi mesi la bandiera inglese. Posso fornirvi l'acqua necessaria per i tre giorni di viaggio, poi laggiù ne troverete a volontà. Quanti uomini avete d'equipaggio?' «'Centottanta', rispose l'olandese, 'oltre ai passeggeri: due nobiluomini con il seguito.' «L'olandese si tolse dal cinturone una pistola e la porse a Brooke, dicendo: 'Non si dovrebbe regalare ciò che si è ricevuto in dono, ma vi consegno quest'arma a titolo di ringraziamento. La vostra acqua e le vostre indicazioni salveranno la vita anche al passeggero che me l'ha regalata'. «Terminato il trasferimento dei dieci barili, la nave olandese esplose una salva di commiato e si allontanò verso il porto che avevamo appena lasciato. «Quella sera, nel locale ufficiali, Brooke estrasse la pistola offertagli in dono e commentò: 'Arma notevole. È italiana'. Quindi fece scattare il congegno che permetteva alla culatta di sollevarsi per caricare dal retro, in prossimità dell'acciarino a selce. «Osservando la pistola da vicino mi sentii gelare, e non soltanto per effetto della mia atavica diffidenza di fronte a uno strumento di morte. 'Posso esaminare le iniziali incise sul calcio?' chiesi a Brooke, che gentilmente mi porse l'arma. «Purtroppo avevo visto bene. Le due iniziali erano una P e una B. 'Pietro Bartoli', mormorai. Era la stessa arma impugnata dal mercante quando i frati erano accorsi in nostro aiuto. Nel mio animo si fece strada una certezza angosciante: i passeggeri del comandante olandese erano gli uomini che stavano dando la caccia a Fedeli e al suo tesoro. «Brooke e gli ufficiali ascoltarono il mio racconto in un silenzio attonito. Quando ebbi finito, il comandante picchiò un pugno sul tavolo ed esclamò: 'Il governatore della Compagnia delle Indie Orientali ha già aspettato sei mesi e può aspettare ancora un po'. Se ciò che dite corrisponde a verità, Fedeli corre un grave pericolo. Gli uomini vengano comandati alle manovre. Torniamo indietro'.» Libano meridionale. 25 novembre 199... Tagil Sarov alzò lo sguardo al primo buio seguito al tramonto. Sapeva
che i voli commerciali che sorvolavano quotidianamente la fattoria erano quattro. Ma negli ultimi due giorni aveva sentito almeno dieci aerei passare sopra di loro ad alta quota nel giro di ventiquattr'ore. La zona riservata agli hezbollah era in un edificio sulla sinistra, poco distante dal capannone dov'era stato nascosto l'arsenale chimico di Saddam Hussein. Erano sessanta uomini perfettamente addestrati e pronti a morire per la causa. «Stiamo con gli occhi aperti», disse Sarov, pur non lasciando trapelare la sua inquietudine. «Faccio rinforzare le guardie, colonnello?» chiese lo hezbollah. «No, però stiamo molto all'erta.» Era inquieto. Mezzo mondo stava cercando la roba nascosta in quel capannone, e l'esperienza gli faceva temere che gli aerei che li stavano sorvolando fossero dotati di apparecchiature Advanced Synthetic Aperture Radar, in grado di riprendere con assoluta precisione il territorio sottostante. Quando Oswald entrò nell'aula briefing della portaelicotteri, i componenti del gruppo d'assalto israeliano erano già in tuta da combattimento. Nei sostegni alle sue spalle vennero sistemati gli ingrandimenti delle foto scattate nelle ultime ore dalle sofisticate apparecchiature montate a bordo di normali aerei commerciali. «Signori», disse, indicando con il cerchio rosso di una penna laser i particolari che stava illustrando. «Ecco il vostro obiettivo. Credo vi siano chiari i motivi di sicurezza per cui ve ne informiamo soltanto adesso. Abbiamo ragione di ritenere che in questo capannone sia nascosto un grosso arsenale batteriologico o chimico. Tale da cancellare buona parte della vita in Israele. Quindi dev'essere distrutto. «Questi due fabbricati a nord», continuò, «sono occupati da circa venti contadini che mandano avanti l'attività agricola di facciata con altri duecento che arrivano lì giornalmente. Non dovrebbero crearvi problemi. Quest'altro edificio, invece, è la caserma. I nostri avvistatori terrestri hanno contato tra i sessanta e gli ottanta hezbollah impegnati negli addestramenti quotidiani. «Le difese notturne sono disposte lungo tutto il perimetro della struttura, dentro una robusta rete di protezione elettrificata: sono sei postazioni di mitragliatrici, con un costante pattugliamento di sentinelle. «Questi sono gli impianti di comunicazione, protetti da una mitragliatrice antiaerea mimetizzata. Se non neutralizzerete in tempo le postazioni difensive fisse, incontrerete una forte resistenza.»
Quindi Breil lasciò la parola al comandante delle operazioni, che spiegò i dettagli tecnici della missione: «Quattro elicotteri d'attacco AH 64 Apache precederanno i vostri sei Lynx, con il compito di mettere fuori uso le postazioni prima che veniate sbarcati a terra. Oltre la zona di sicurezza del Libano meridionale è pronta una colonna di camion, che vi raggiungerà quando ogni resistenza sarà vinta. Caricherà il materiale e tornerà in territorio israeliano sotto la protezione degli elicotteri. Pochi minuti prima dell'attacco, i nostri sistemi provocheranno un'interruzione in tutte le comunicazioni nel raggio di venti chilometri dall'obiettivo, e l'energia elettrica verrà a mancare non appena sarete sbarcati a terra. Domande?» Nessuno dei quasi cinquanta uomini - tra piloti, secondi, navigatori e incursori - ne aveva. Erano stati addestrati per operazioni del genere e dovevano soltanto trovare l'indispensabile concentrazione. Tagil Sarov si era addormentato nella sua stanza davanti al televisore. Fu svegliato dal forte fruscio provocato dall'apparecchio. Il segnale televisivo satellitare era scomparso. Balzò in piedi, imbracciò l'arma automatica e si precipitò fuori. Stava ancora correndo verso le camerate per dare l'allarme, quando il primo razzo aria-terra distrusse la postazione antiaerea sopra la sua testa. Poi un diluvio di fuoco si rovesciò sulla caserma e sulle altre postazioni difensive. I sei elicotteri Lynx trasportavano ciascuno sei uomini, oltre all'equipaggio. Si disposero sulla linea di fuoco separandosi in due gruppi. Poi scesero velocemente, posandosi a terra. Gli incursori sbarcarono e si schierarono a punta di freccia, mentre gli elicotteri tornavano ad alzarsi. La scena era illuminata dalle vampe dei missili degli Apache. Gli hezbollah, colti dall'attacco nel sonno, si riversarono disordinatamente nel piazzale davanti alla caserma e finirono sotto il tiro dei Chain-Gun da trenta millimetri degli elicotteri. Soltanto alcuni di essi riuscirono a rispondere al fuoco. Sarov capì di essere perduto quando due missili TOW si infilarono nelle camerate, seminando la morte tra una trentina dei suoi uomini che vagavano ancora come istupiditi tra i letti a castello. Si precipitò verso il capannone. La sua torcia elettrica illuminò una catasta di casse, ciascuna contenente due ordigni. Ne prelevò soltanto una, che nascose in una cavità segreta del pavimento, poi tornò indietro. Inciampò nel cadavere del suo braccio destro, dilaniato da un'esplosione. Si cosparse con il suo sangue, buttandosi a
terra e fingendosi morto. L'attacco durò soltanto sette minuti, che però parvero interminabili. Il convoglio di camion ripartì con il suo carico esattamente diciannove minuti più tardi. Gli ultimi a montare sugli elicotteri furono i quattro incursori che durante tutta l'operazione avevano tenuto sotto la minaccia delle armi i contadini. Tagil Sarov alzò la testa soltanto quando fu sicuro che gli assalitori fossero lontani. Fece scorrere gelidamente lo sguardo sulla carneficina che lo circondava, si ripulì dal sangue e corse a recuperare la cassa che era riuscito a sottrarre all'attacco israeliano. Tangula Shan. Racconto di Namling «Trovammo il mercantile olandese alla fonda. Era probabilmente arrivato molto prima della bombarda, frenata da bonacce e vuoti di vento. Prima di gettare l'ancora, Brooke comandò ai suoi di calare una scialuppa, con cui raggiungemmo la spiaggia a ovest della cittadina. «Il pennacchio di fumo ci apparve quando eravamo ancora lontani. A mano a mano che ci avvicinavamo, il presagio della disgrazia divenne certezza. Fui preso da un forte rimorso: avevo abbandonato Antonio Fedeli al suo destino. «Lo trovai fuori della casa di Opale. Aveva gli incisivi fracassati e il corpo quasi completamente ustionato. Aprì gli occhi. «'Restituisci a Dio ciò che gli appartiene', mormorò con l'ultimo filo di voce. 'Promettimelo, Namling.' «Mi spirò tra le braccia.» «L'unica taverna del porto era affollata dagli uomini sbarcati dal mercantile. Visti il marchese di Mont Brouillard, Bartoli e i loro sei scherani seduti in un tavolo d'angolo, li indicai al comandante Brooke. «La sua voce si levò potente e severa sopra gli schiamazzi. 'In nome di Sua Maestà Giorgio III d'Inghilterra, vi dichiaro in arresto per omicidio. Sarete tradotti sulla mia nave fino a Bombay, dove verrete processati dalle autorità britanniche.' «La reazione degli otto fu immediata: lo scherano più vicino a Brooke sguainò la spada, tirandogli un colpo di punta alla spalla. Gli altri fecero fronte comune con le armi in pugno, pronti a fronteggiare l'equipaggio della bombarda.
«L'odio mi accecò. Balzai verso il marchese di Mont Brouillard, incurante della spada che brandiva. La sua gola mi si presentò scoperta, lo colpii sulla carotide con il taglio della mano. Sentii le cartilagini cedere. «Quindi affrontai Bartoli. Schivai il suo primo fendente, poi lo colpii alla bocca dello stomaco con le mani unite. Sentii le dita affondare nel plesso solare. Avevo perduto la ragione: avrei voluto strappargli il cuore. Gli vidi uscire dalla bocca un fiotto di sangue, crollò a terra e morì con un rantolo. «Gli uomini di Brooke nel frattempo avevano ridotto all'impotenza gli scherani del marchese di Mont Brouillard. Brooke era seduto su una sedia della taverna, e un medico gli prestava le prime cure. 'Giustizia è fatta, Namling', mi disse. 'Possiamo ripartire.' Ma dovevo ancora rispettare le volontà di Antonio e dare il riposo eterno al suo corpo. «Tornai sulla spiaggia, eressi una pira di legna e ve lo adagiai. Il fuoco si alzò, sollevando lo spirito di Antonio Fedeli alle porte del suo paradiso. Il mantra d'invocazione al Dio Fuoco mi uscì di bocca con l'impeto della rabbia, della disperazione e del rimorso: 'Om Agni. Grande splendore che accompagni tutti i rituali, grande elemento, potente tra gli Dei, i saggi e i nati due volte. Accetta il nostro sacrificio, prendilo. Rimani qui vicino'. «Dispersi le ceneri in mare, come più volte mi aveva chiesto Antonio, ma volli conservare il suo cranio come ricordo di una persona che avevo amato e abbandonato proprio quando ne aveva più bisogno. «Non sapevo dove avesse nascosto il candelabro, ma avevo la certezza che il tempo mi avrebbe consentito di mantenere la promessa fattagli in punto di morte. Prima o poi gli uomini del Tempio sarebbero arrivati sino a me.» «La bombarda lasciò il porto il mattino seguente. Quando la terra scomparve all'orizzonte, il comandante Brooke mi si avvicinò: 'Credo', disse, consegnandomi una tela arrotolata e un disegno a carboncino con le iniziali di Pierre-Denis, 'che questi oggetti appartenessero al vostro sfortunato amico. Li abbiamo trovati tra la roba di quegli assassini. Ritengo sia giusto che li teniate voi, Namling. Forse sapete a chi consegnarli.' «Non lo sapevo, ma speravo di scoprirlo, un giorno.» Lhasa. Tibet. 25 novembre 199... Sara Terracini non riusciva a smettere di studiare le fotografie fatte da Laura al teschio. C'era qualcosa che la inquietava. Non capiva che cosa
fosse, ma sentiva che quell'oggetto di culto poteva rappresentare un messaggio. «Voglio tornare al museo», disse improvvisamente all'amica. Raggiunta la sala dov'era esposto il cimelio che la leggenda voleva creato dal ventiseiesimo re di Shambala, riprese a esaminarlo da ogni angolazione. «Peccato che non possa portarlo nel mio laboratorio a Roma», disse a Laura. «Sono convinta che le mie apparecchiature riuscirebbero a individuare il segreto che nasconde.» «I denti!» esclamò l'amica. «I denti?» «I molari. Guarda. Non sono logorati dal tempo o dalle carie... Sembrerebbero piuttosto limati. Vedi come sono bianchi in diversi punti?» D'impulso, Sara si infilò in bocca alcune lastrine di chewing gum e le masticò laboriosamente. Poi, stando ben attenta a non farsi vedere dai guardiani, compresse l'impasto sulla dentatura, ricavandone un calco preciso dell'arcata mandibolare superiore. Uscite, comperarono un sacchetto di gesso in una botteguccia. Due ore più tardi stavano esaminando quella che ormai erano sicure fosse una nuova indicazione per la loro ricerca. «Guarda», disse Laura, seguendo il gesso con un dito. «Sembra il rilievo di una catena montuosa.» «Be', cercare un po' di montagne nel Tibet himalayano può essere un bel problemino.» «Già. Però non credo che ci siano molti crateri o vulcani spenti», ribatté Laura. «Guarda qui, dove sembra che il dente sia stato scavato da una carie profonda.» Lo sguardo di Sara si illuminò: accanto alle quattro «vette» più alte si apriva una depressione a forma di imbuto. Tangula Shan. XIX secolo Namling stava lavorando alla sua opera, quando vide entrare il discepolo. «Sono stato chiamato, Tang Shen», gli disse. «Domattina partirò per Shambala. Così è scritto. Ho pregato a lungo», continuò. «Ho recitato: 'In questa esistenza e da sempre nel ciclo delle nascite, nella vita anteriore a questa e in tutti gli ambiti delle rinascite, ho prodotto molto karma negativo...' e ho chiesto perdono. Adesso devo andare.»
«Tu sei un sant'uomo, lama Namling. I tuoi insegnamenti mi mancheranno,» «Onore al Buddha, colui che illumina il mondo», mormorò Namling, facendogli cenno di tacere. «Giunto all'altra sponda, egli ispira altri a raggiungere la perfezione.» Quindi alzò alla luce delle candele l'oggetto a cui stava lavorando. Le orbite vuote suscitarono un profondo senso di disagio nel giovane bachogwa. «È ciò che rimane di un amico fedele, a cui non ho saputo mostrare la stessa fedeltà. Ti indicherà la strada per raggiungermi, quando verrai chiamato. Ma tu lo lascerai qui, poiché, attraverso il messaggio perenne che vi ho impresso, gli uomini del Tempio riusciranno a recuperare ciò che appartiene al loro Dio.» «Dimmi, lama Namling, come posso interpretare questo tuo messaggio?» «Te lo insegneranno gli anni, diletto giovane, con l'affinamento dei cinque fattori mentali determinanti. A condurti là dove il tempo non ha fine saranno la meditazione e l'esperienza. Ti aspetterò.» Gerusalemme. 26 novembre 199... «Iprite?» chiese Oswald, sbalordito. «Pensavo fosse un aggressivo chimico ormai superato.» «Sì, maggiore», rispose Erma. «Si tratta proprio di diclorodietilsolfuro. Ovvero 'iprite', dal nome di Ypres, la città belga dove i tedeschi utilizzarono il gas per la prima volta durante la Grande Guerra. È una sostanza letale quanto facile da realizzare: etilene, cloro e zolfo sono estremamente economici e facili da reperire. Nel capannone dell'arsenale ne abbiamo trovato 9608 contenitori in acciaio ad alta pressione. Quanto basta per sterminare l'intera popolazione di Israele o quella di una grande metropoli. Ognuno di quegli ordigni, munito di un semplice detonatore, può uccidere fino a dieci, dodicimila persone.» «Notizie di Sarov?» chiese Oswald. «Ormai le prove che fosse lui a comandare quella base di addestramento sono evidenti. I nostri hanno prelevato diverso materiale da quello che riteniamo fosse il suo alloggio. C'era anche un inventario, nel quale però figura un carico di 4805 casse contenenti due ogive ciascuna.» «Quindi mancano due contenitori», esclamò Breil. «Sì», rispose Erma, «insieme a Sarov sono scomparsi due contenitori
capaci di sterminare ventimila persone e di provocare alterazioni nel patrimonio genetico di almeno il doppio. Abbiamo disseminato di foto segnaletiche di Tagil Sarov tutte le polizie e i servizi segreti del mondo. Ma possiamo soltanto sperare che il mascalzone faccia una mossa falsa.» «Sarov è troppo furbo e ben addestrato. Una vera e propria macchina programmata per uccidere», mormorò Breil. Lhasa. 28 novembre 199... Le due amiche e il professor Xeng avevano esaminato ogni atlante e archivio elettronico senza il minimo risultato. Sara si era appena collegata alla rete telematica, quando risuonò lo scampanellio che indicava una chiamata. digitò. <SONO LE 4.26 DEL MATTINO>, tagliò corto Marradesi. <SEI UN TESORO, TONI. E SAI BENISSIMO CHE SENZA DI TE SAREI MORTA. HAI SCOPERTO QUALCOSA?>
DELL'EVEREST. MI SEMBRA PROPRIO CHE ASSOMIGLI AL VOSTRO RILIEVO, ED È AL CONFINE CON IL NEPAL, A CIRCA TRECENTO CHILOMETRI DA VOI. NELL'E-MAIL CI SONO ANCHE ALCUNI MIEI APPUNTI E INDICAZIONI. MA CERCA DI TORNARE INTERA, BENEDETTA RAGAZZA.> esclamò Sara, salutando calorosamente il suo insostituibile collaboratore e passando al programma di posta elettronica. Di lì a qualche istante il computer emise il sordo rumore che indicava la ricezione di un messaggio. Il file con la foto in formato elettronico si andò creando lentamente. Decompressa, l'immagine si aprì sullo schermo. Era nitidissima. Vi si vedeva una catena montuosa formata da quattro picchi, ai cui piedi si apriva un cratere vulcanico a forma di occhio. Lhasa. 30 novembre 199... Per trovare un elicottero a noleggio che le portasse il più vicino possibile al lago indicato da Marradesi occorsero due giorni. Ma finalmente le due amiche trovarono un grosso MI 17 di fabbricazione russa, alla tariffa di tremila dollari per ogni ora di volo. Il professor Xeng le accompagnò fino al portello. «Mi spiace davvero di non poter venire con voi, ma a quell'altitudine i miei vecchi polmoni cederebbero in pochi secondi. Tenga, signora Joanson. Questo attrezzo potrebbe esservi d'aiuto.» Laura scrutò l'apparecchiatura, mentre Xeng continuava: «È un GPS ricetrasmittente tascabile. Ho già provveduto a inserire la scheda elettronica che riproduce la zona dove andrete. Utilizzandolo sarete sempre in grado di sapere dove siete e, in caso di necessità, vi basterà digitare un codice per emettere un segnale ed essere localizzate.» Gerusalemme. 30 novembre 199... Il messaggio che Oswald Breil stava osservando sul monitor del suo computer era fin troppo chiaro e lo riempiva di nuova angoscia. «Be', se non altro restringe il campo delle nostre indagini», commentò amaramente Erma. «Già, ma di gente che non crede nell'Islam ce n'è dappertutto. Che cosa
intenderà? Noi, i cristiani, i buddisti, gli scintoisti, gli animisti? Abbiamo soltanto quarantamila chilometri di circonferenza terrestre da tenere sotto controllo, tenendo conto dei cambi di ora e ammesso che Fasatne voglia colpire proprio alla mezzanotte del 31 dicembre.» Oswald scosse la testa, poi chiese: «Come vanno le nostre ricerche?» «Nessuna segnalazione di rilievo. Ma continuiamo a lavorare.» Non appena rimase solo nella stanza, Breil sollevò la cornetta del telefono. Non aveva dimenticato le due coraggiose amiche e le temeva separate da ogni contatto con il mondo civile, perdute alle pendici dell'Everest e bisognose di aiuto. Una notizia di stampa gli aveva però dato un'idea per fornire loro un appoggio nella sconfinata Repubblica Popolare Cinese. Inserì lo scrambler per evitare che orecchie indiscrete ascoltassero la sua conversazione e compose un numero di Rio de Janeiro. «Che cosa ne sai di rubini cinesi, Oberto?» chiese a bruciapelo, non appena ricevette risposta. «Be'», protestò Lasado, «almeno un 'buongiorno' potevi mettercelo. Comunque, non molto. Perché?» «Un'idea. Ho letto che, nel corso dei lavori di sbancamento della diga di Ertan su un affluente del Fiume Azzurro sarebbero venuti alla luce vasti giacimenti di rubini.» «Si, l'ho letto anch'io. E mi riprometto di contattare le autorità cinesi per organizzare un viaggio di lavoro da quelle parti. Conosco alcuni dirigenti delle società che hanno vinto l'appalto di costruzione. Sono italiane, nostre buone amiche.» «Ti riprometti? No, no: devi andarci subito. In questo momento ci sono due persone, a me molto care, che stanno svolgendo un'importante missione in Tibet. Mi serve che tu ti muova subito.» «Chi è il contatto?» chiese Lasado senza battere ciglio. «Be', il vecchio Xeng. Non è che abbiamo un organico molto vasto, da quelle parti.» «Il 'craniologo', certo. Una mosca bianca circoncisa in mezzo a un miliardo di cinesi. Lasciami il tempo di organizzarmi e ci vado. Shalom, capo.» «Ex capo», lo corresse Oswald. «Shalom. E grazie.» «Dovere, maggiore Breil.» Qomolangma Feng. Tibet. 30 novembre 199...
I vuoti d'aria si erano susseguiti ininterrotti fin dal decollo. Il grosso elicottero con il logo della Asian Airlines era squassato dalle raffiche. «Paura?» chiese Sara a Laura, che teneva le dita strette come artigli sul bracciolo. «Niente riesce a terrorizzarmi come una macchina volante.» «Sta' tranquilla. Tra poco atterriamo. Ma, se devo essere sincera, non vedo nemmeno io l'ora di scendere da questa carcassa. D'altronde l'alternativa era il dorso di uno yak e una cinquantina di giorni di viaggio massacrante.» A quattromila metri d'altezza ogni movimento risultava difficile ed estremamente faticoso. Uno dei membri dell'equipaggio le aiutò a scaricare le attrezzature dalla carlinga, poi l'elicottero tornò ad alzarsi da terra. Sarebbe rimasto a loro disposizione per i prossimi due giorni. Una chiamata via radio era sufficiente per farlo decollare dalla base più a valle e prelevarle nel giro di una trentina di minuti. Laura scrutò il volto del copilota, seminascosto dal casco. «Questi cinesi sono proprio tutti uguali», borbottò. Lo spiazzo, poco distante dal lago, era fortunatamente sgombro da neve. Il massiccio dell'Everest dominava la scena. Il cielo era tersissimo e il forte vento faceva turbinare impressionanti nubi di nevischio attorno alla vetta più alta del mondo, a oltre ottomilaottocento metri. «Intanto direi di montare la tenda», disse Laura, che si stava abituando alla respirazione affannosa dovuta alla rarefazione dell'aria. L'operazione, tra uno sbaglio e l'altro, durò circa un paio d'ore. Quando finalmente il rifugio atermico per due persone fu in piedi, Laura vi si allungò esausta, dicendo: «Due esperte alpiniste... Ci siamo presentate così alla compagnia degli elicotteri, e non sappiamo nemmeno montare una tenda. Figurarsi che cosa possiamo combinare con chiodi e piccozze.» «Be'», replicò Sara, «il nostro raggio d'azione si limiterà a zone pianeggianti o quasi. Credo che i chiodi da scalata resteranno qui nel campo base, come gran parte dell'attrezzatura.» Riposarono alcuni minuti, poi decisero di fare una prima ricognizione lungo le rive del lago, approfittando delle ultime ore di luce. Quando tornarono, il freddo si era fatto quasi intollerabile. La distesa candida aveva assunto un colore rosato, illuminata dai bagliori del sole al tramonto. Consumarono un pasto ipercalorico e ricco di proteine vicino al fuoco acceso accanto alla tenda. Ingollarono anche alcune generose dosi di
liquore tibetano, con l'apparente impressione che a quell'altitudine l'alcol non facesse alcun effetto. Che cosa fare ancora, se non andare a letto? Le due batterie solari sul tetto della tenda avevano riscaldato l'ambiente. L'isolamento termico avrebbe mantenuto la temperatura pressoché costante tutta la notte. Fu Sara la prima a spogliarsi nello spazio angusto. «Bisogna imparare dagli eschimesi», esclamò, infilandosi nuda nel sacco a pelo a due posti. Laura si raggomitolò al suo fianco. Dopo pochi minuti erano già sprofondate in un sonno ristoratore. Qomolangma Feng. Tibet. Primo dicembre 199... Le prime luci dell'alba, che filtravano attraverso le fibre della struttura, le trovarono abbracciate nel tentativo inconscio di non sprecare una sola stilla di calore. L'attimo di imbarazzo fu abilmente superato da Sara, che schizzò fuori del giaciglio nuda com'era, chiedendo: «Croissant caldi e caffè?» Mezz'ora più tardi, dopo essersi prudentemente assicurate l'una all'altra con una fune da scalata, iniziarono la loro ricerca. I primi fiocchi di neve cominciarono a cadere volteggiando quando arrivarono in vista del cratere spento che confinava con la sponda settentrionale del lago. La tormenta le sorprese a poca distanza dalla bocca vulcanica, meta della loro escursione. Non sarebbero riuscite a riguadagnare la tenda prima che facesse notte. Decisero pertanto di continuare in cerca di un riparo. Laura precedeva l'amica nella cordata. Sebbene fossero protette da tute appositamente create per affrontare qualsiasi condizione climatica, i fiocchi gelidi sembravano penetrare ovunque. Le gambe sprofondavano fino alle cosce nella neve fresca. Ma andavano avanti, consapevoli che fermarsi avrebbe significato la morte per assideramento. Impossibile anche chiedere l'aiuto dell'elicottero: dovevano cavarsela da sole. Erano accecate dal turbinio bianco. I cristalli di neve si infilavano sotto gli occhiali, colpendo con violenza gli occhi e i pochi lembi di pelle scoperti. La gamba destra di Laura sprofondò: la neve cominciò a franare, e sotto di lei si aprì il baratro. Sara la seguiva ad alcuni metri di distanza. Avvertì subito la tensione
della corda che le univa e si irrigidì istintivamente. Il corpo dell'amica la trascinò per un paio di metri. Per fortuna incontrò alcune rocce affioranti e riuscì a puntellarvi i piedi, interrompendo la breve ma paurosa corsa verso il precipizio. Si vide di fianco un pinnacolo aguzzo di roccia e si sentì squassare da un brivido al pensiero di che cosa le sarebbe successo se nella caduta avesse incontrato quello invece di un complesso di rocce arrotondate. Rimase immobile alcuni interminabili istanti, con il cuore in gola e il fiato spezzato, ma si impose di ragionare, e la mente le corrispose, riprendendo a governare i suoi movimenti. Muovendosi con la massima cautela fece girare la corda attorno al pinnacolo e alle altre rocce e cominciò a tirare, sentendosi scoppiare il cuore per la fatica. Le forze stavano per abbandonarla, quando finalmente sul ciglio del precipizio apparvero le mani dell'amica. Con spasmodica lentezza e con uno sforzo sovrumano, Laura riuscì a issarsi. Sara vide comparire la sua testa, poi le spalle, poi il resto del corpo. Ma in realtà Laura non si stava issando. Sembrava piuttosto che stesse strisciando. Guardando meglio e socchiudendo gli occhi per proteggerli dal biancore accecante, Sara finalmente capì che quello su cui si erano fermate non era un precipizio, bensì un semplice declivio, per quanto ripido e reso terribilmente scivoloso dagli strati sovrapposti di neve. Restarono vicine, immobili e del tutto senza fiato per alcuni minuti, stremate e terrorizzate. Finché Laura non si lasciò sfuggire un aspro ansito, quasi un leggero latrato. «Ci sono delle luci laggiù», esclamò con voce spezzata. La neve, sprofondata sul declivio sotto il suo peso formando una piccola slavina, aveva aperto un camino obliquo, attraverso cui si intravedeva la parete del cratere. «Sei sicura?» ansimò Sara. «Sicurissima. Guarda. C'è una scala che scende a spirale, illuminata da torce. E guarda sul fondo», gridò quasi Laura. «Ci sono alcune costruzioni. Mio Dio, mio Dio, forse è proprio ciò che stavamo cercando.» Dopo diversi minuti di lentissima discesa, lasciandosi scivolare con mille cautele sulla neve e tenendosi alla fune che avevano legato alle rocce in alto, raggiunsero l'imboccatura del cono vulcanico. Da lì, dopo alcuni minuti di riposo per riprendere il controllo del respiro, continuarono a scendere gli angusti scalini tagliati a picco sul vuoto. Non avrebbero mai saputo dire quanto tempo fosse loro occorso per arrivare alla base della camera
magmatica, in tempi remoti colma di lava rovente ma adesso simile a un piccolo paradiso terrestre. O, per lo meno, tale apparve ai loro occhi sofferenti. Rimasero incantate dalla perfezione del villaggio, dall'equilibrio del microcosmo segreto che avevano scoperto. «Shambala!» esclamò Laura, affascinata dallo spettacolo di una cascata d'acqua che precipitava in un laghetto al di là del villaggio. Gli angoli delle viuzze tra le case erano illuminati da torce. Tutto era in un ordine assoluto. «Come siete arrivate qui?» si sentirono chiedere in un francese austero, dalle cadenze antiche. Si voltarono di scatto, stupefatte. Videro l'icastica figura di un monaco. Fu Laura la prima a ritrovare l'uso della parola: «Abbiamo seguito le indicazioni lasciate da un uomo. Talmente indelebili da sopravvivere nei secoli fino a noi». «Che cosa cercate?» chiese ancora il monaco, avanzando di qualche passo. E in quel momento il suo volto fu illuminato dalla luce di una torcia: vi videro incisi i segni del tempo. «Cerco un oggetto che appartiene al mio Dio», rispose Sara Terracini. «Proprio per questo ho sempre tenuto viva la luce di queste torce, sebbene i miei occhi non siano più in grado di vedere. Sono rimasto qui nella speranza che arrivasse qualcuno. «Siate le benvenute in questo regno, che conta ormai un solo abitante nella mia persona. Siete sicuramente molto provate. Dalla voce mi sembrate giovani. Adesso dovete rifocillarvi e riposare. Poi parleremo.» Con grande sicurezza di movimenti, nonostante la cecità, il monaco le condusse in una delle casupole del villaggio e le lasciò sole. Dopo essersi nutrite con le poche provviste che si erano portate dietro, Laura e Sara si lasciarono cadere su due giacigli e si addormentarono di schianto. Quando si svegliarono e uscirono nel villaggio per andare in cerca dell'unico abitante, l'orologio di Laura indicava le sei del mattino. Erano penetrate in una leggenda antica forse quanto gli uomini: un mondo dove il tempo sembrava essersi fermato. Il monaco le aspettava nel tempio e stava seduto con le gambe incrociate. «Prima di consegnarvi quanto mi è stato affidato perché lo custodissi», esordì, «devo raccontarvi una storia. Una storia molto lunga, di uomini giusti.» Incantate, Laura e Sara sentirono fluire parola per parola dalla sua bocca la vicenda raccontata un giorno dal lama Namling al discepolo Tang Shen.
Appresero quanto ancora non sapevano sulle vicissitudini di Antonio Fedeli e sulla sua tragica fine. Quando il monaco concluse il suo racconto erano le due di notte. Accanto a lui era posato uno dei rulli con cui i tibetani accompagnano le loro preghiere. Il manico era lungo una sessantina di centimetri. Una leggera pressione delle dita grinzose lo fece aprire con un rumore secco. Il lama prese un dipinto arrotolato e un disegno a carboncino e li consegnò a Sara. «Abbiamo custodito questi due oggetti per quasi due secoli in base a una certezza», concluse. «Verranno gli uomini del Tempio. Verranno a prendere ciò che appartiene al loro Dio, e il custode di ciò che è sacro aprirà loro le porte del segreto.» Qomolangma Feng. Tibet. 2 dicembre 199... «Così era scritto e così è stato. Sì: gli uomini del Tempio sono venuti. Altri avrebbero forse dovuto precedervi, per alleviare e abbreviare il nostro compito, ma così non è stato. O non hanno trovato la strada o sono stati impediti. Ma ciò che doveva avvenire era ineluttabile. Quindi ora siete qui.» Alle ultime parole del monaco seguì il silenzio. I legni dorati che rivestivano il tempio smorzavano la voce del vecchio; eppure, sebbene ridotte a poco più di un mormorio, le sue parole erano arrivate alle due donne perfettamente comprensibili, in tutte le loro sfumature di francese antico. Sara Terracini gettò un'occhiata incerta all'amica: il sole delle vette le aveva bruciato il volto sporco di polvere. Pensò allo stato in cui doveva essere lei stessa. Erano sole con il vecchio nel tempio. Un refolo di vento fece oscillare le fiamme delle candele, e le ombre gettate sugli affreschi delle volte sembrarono far prendere vita alle figure. Sara alzò gli occhi a guardarle: era inquietante, in un luogo tanto remoto, vedere dipinti di un gusto così occidentale. Il vecchio allungò le gambe dalla posizione ripiegata in cui le teneva. Sembrava ripetere un rituale. Cominciò ad alzarsi con fatica. Laura gli si avvicinò istintivamente per aiutarlo, ma il sorriso mite del monaco la fece desistere. Le due donne capirono che quel sorriso equivaleva a un saluto. L'uomo le precedette verso il portale con passi molto lenti. «Adesso posso non vivere più», concluse, rompendo per l'ultima volta il silenzio.
Il sole filtrava nella bocca vulcanica attraverso una striscia di conifere che correva lungo tutta la parete interna del cratere, duecento metri sopra di loro. Una vegetazione del tutto impensabile, in quell'ambiente arido e di altissima montagna, ma evidentemente resa possibile dalla depressione in cui affondava il cratere e dalla sua stessa configurazione. Chissà a quale altitudine erano, adesso? Laura affrontò la scala, pronta a combattere con le unghie e con i denti. La pietra vulcanica della camera magmatica - dura, rossastra, regolare sembrava una ferita, larga appena abbastanza perché un uomo potesse salire gli scalini. La scala a spirale seguiva l'intera circonferenza - un chilometro e mezzo circa - del bacino. I pantaloni color cachi della scrittrice erano laceri e sporchi. Lo zaino in kevlar era completamente ammaccato, e al giubbotto termico mancava quasi del tutto la manica destra. Eppure Laura era bella, incredibilmente bella. Osservandola per un istante, dopo l'ultimo sguardo a quel luogo appartenente più alla favola che alla realtà e prima di concentrarsi sull'impervia risalita, Sara Terracini non poté fare a meno di pensarlo. Ogni alzata degli oltre tremila scalini misurava più di trenta centimetri, le battute erano profonde quindici centimetri e larghe tre volte tanto. Il baratro si apriva senza protezioni sulla loro sinistra, allargandosi a mano a mano che salivano. La scala a spirale tagliata nella roccia percorreva cinque volte la circonferenza del gigantesco tronco di cono. La lava doveva aver subito un brusco raffreddamento mentre il vulcano si trovava ancora in attività: la crosta superiore si era solidificata senza creare fenditure o piccoli crateri. I millenni avevano poi depositato polvere e terra sul pianoro interno così formatosi, che godeva di una temperatura costante quasi impensabile a quell'altitudine. La bocca esterna era circondata dal cerchio più ampio di una caldera, un collasso dell'edificio vulcanico sotto il suo stesso peso. Le due donne salirono tenendosi il più lontano possibile dal baratro, strusciando contro il muro esterno levigato dal lavoro degli antichi abitanti del villaggio. Ogni cento scalini circa era stata creata una piazzola poco più ampia di un metro quadrato, probabilmente per consentire a due persone di incrociarsi. In una di esse Laura e Sara si fermarono, decidendo di accamparsi lì per qualche ora di riposo. A mano a mano che si avvicinavano all'apertura, l'aria si faceva più fresca e difficile da respirare. Si misero a sedere una di fianco all'altra, dopo aver posato gli zaini in un angolo. Sara fermò a lungo
lo sguardo sulla tela arrotolata che si vedeva spuntare dal suo. L'ultimo messaggio di Antonio Fedeli, pittore di fine Settecento. Legatesi con le funi ad alcuni fori nella pietra, evidentemente scavati proprio a quel fine, si consentirono qualche ora di sonno agitato. Qomolangma Feng. Tibet. 3 dicembre 199... Quando emersero all'aperto dagli ultimi gradini della scala a spirale, furono accolte dal sole accecante del primo mattino. Si sedettero, esauste e in silenzio, cercando di normalizzare la respirazione e di raccogliere le forze per affrontare la discesa fino al campo. Ma nella mente di entrambe bruciava un interrogativo. Fu Laura a esprimerlo con voce ancora rotta: «Chi pensi potesse essere quel monaco?» «Mio Dio, so che è pazzesco: che fosse lo stesso Namling?» mormorò Sara. «Sarebbe vissuto quasi duecentocinquant'anni... A meno che...» disse Laura, assorta. «A meno che non sia una reincarnazione di Namling.» «Sai», riprese Laura con voce incerta, «mi è capitato di leggere la storia di un lama ventenne e di un altro, più anziano, che sarebbero le reincarnazioni di due maestri: da tredici vite, di rinascita in rinascita, diventerebbero di volta in volta l'uno il discepolo dell'altro... No, non è possibile», concluse, scuotendo la testa. «Già. Secondo me ci stiamo lasciando suggestionare da Shambala e dai suoi misteri. No, doveva essere un allievo di Namling, a cui l'antico monaco ha trasmesso il suo impegno. Anzi, pensandoci meglio, forse l'allievo di un allievo. Ma che cosa importa, ormai?» Furono zittite da un fragore proveniente dal cono vulcanico. Vi si affacciarono, stupefatte. Il diaframma di roccia che separava la camera magmatica dal bacino del lago aveva ceduto. Un montagna d'acqua e fango travolse ogni cosa. Poi l'acqua cominciò a salire verso l'apertura della bocca vulcanica. In pochi istanti il segreto di Shambala fu sommerso e scomparve per sempre. Impietrite dallo stupore, Laura e Sara capirono che era inutile porsi altre domande: ciò che era stato non era più. Il mistero sarebbe rimasto tale in eterno. Dopo qualche ora raggiunsero la tenda e vi si rifugiarono, intirizzite e
stremate. Ma la curiosità era più forte. Stesero sul fondo l'ultima tela di Fedeli, consegnata loro dal monaco senza nome, e la esaminarono attentamente: poco più di uno scoglio circondato da acque turchesi. Poi fecero lo stesso con il disegno a carboncino di Pierre-Denis Lanvin. E capirono che la ricerca sarebbe stata ancora lunga. Adesso, però, pensò Laura, doveva provvedere Oswald Breil. Il suo impegno si concludeva lì. Kevin e Chiara la stavano aspettando. Era ora di avviarsi sulla lunga strada del ritorno. «Laura Joanson chiama base Asian Air. Laura Joanson chiama base», scandì nel microfono. «Rispondete.» «Qui base Asian Air. Vi riceviamo forte e chiaro. Avanti, signora Joanson.» «Potete venire a prenderci.» «Ricevuto. Scaldiamo il motore e decolliamo. Fra trentacinque minuti siamo lì.» Quando videro posarsi a poca distanza il pesante velivolo, stavano finendo di chiudere le attrezzature negli zaini. Il pilota le accolse con un largo sorriso: «Avete trascorso un piacevole soggiorno?» «Un'esperienza indimenticabile», rispose Laura. Dopo qualche minuto l'elicottero tornò ad alzarsi. Le avrebbe riportate a Chengdu, effettuando due soste tecniche ogni quattrocento miglia. Una scelta costosa ma obbligata, visto che nei due giorni successivi non c'erano collegamenti di linea tra Lhasa e la città cinese. Da Chengdu avrebbero poi facilmente proseguito per Hong Kong. E per casa loro. Cina. 3 dicembre 199... L'uomo varcò la porta che separava la cabina di pilotaggio dal locale passeggeri. Indossava la divisa del secondo pilota. Laura lo riconobbe prima ancora di notare che impugnava una pistola. No, i cinesi non sono tutti uguali: quell'individuo le stava pedinando da quando erano arrivate in Cina. «Mi spiace comunicarvi che il vostro viaggio finisce qui», disse. «Perché?» chiese lei, imponendosi di rimanere calma. Era una domanda senza senso, ma doveva guadagnare tempo. E cercare di riscuotere Sara, profondamente addormentata al suo fianco. «Posso anche dirglielo, signora Joanson, tanto non avrà modo di riferirlo
a nessuno. La nostra Triade ha grossi interessi in comune con il signor Turi Rascini. È uno dei nostri più importanti clienti per le forniture di oppio, e ogni suo desiderio per noi è un ordine. Ho ricevuto l'ordine di...» Sara aveva socchiuso gli occhi. Il chiodo da roccia che aveva in mano sibilò nell'aria, conficcandosi nell'orbita sinistra del mafioso cinese. L'uomo cadde a terra fulminato, senza un solo lamento. Laura si impadronì con un balzo della sua pistola con il silenziatore e, spianatala, puntò sulla cabina di pilotaggio, seguita dall'amica. Ma arrivata sulla soglia si bloccò, terrorizzata. Lo steward di bordo era seduto al suo posto, di fianco al comandante. I due corpi erano accasciati sui sedili in una posizione scomposta. Avevano entrambi sulla fronte un marchio inconfondibile: un forellino dai contorni bruciacchiati. L'elicottero era governato dal pilota automatico. Gerusalemme. 3 dicembre 199... «Ho in linea Oberto Lasado per lei, maggiore», disse la centralinista. La voce di Oberto Lasado era disturbata dalle interferenze della connessione satellitare. «Qui non ci sono telefoni, non si vedono donne e non esiste nemmeno la più rudimentale comodità del mondo occidentale», disse in tono afflitto. «Soltanto milioni di tonnellate di terra ammassata per deviare il letto di uno dei fiumi più grandi del mondo.» «Consolati, Oberto», rispose Breil. «Fra qualche ora dovrebbero passarti sopra la testa due tra le più belle donne del mondo. Almeno stando alle ultime notizie che ho ricevuto da loro.» «Qui tutto è complicatissimo, Oswald. Sto cercando di procurarmi il piano di volo dell'elicottero. Poco fa ho saputo che ha fatto uno scalo tecnico a Lhasa. Xeng sta venendo qui. Lo aspetto da un momento all'altro.» Un fruscio avvertì Breil che la comunicazione con l'apparecchio satellitare di Lasado si era interrotta. Massiccio del Daxue Shan. 3 dicembre 199... Nella cabina di pilotaggio esplose il suono dell'allarme altimetrico, mentre al centro della strumentazione lampeggiava una vistosa spia rossa con la scritta NOSE UP. Era indispensabile che l'elicottero «alzasse il naso». Sara prese il coraggio a due mani e spostò il corpo del pilota, sedendosi
al suo posto. Poi fece scorrere le mani sugli strumenti, in cerca dei comandi del pilota automatico. «Sai pilotare un elicottero?» le chiese Laura in un tono misto di stupore e terrore, liberando l'altro sedile e lasciandovisi cadere. «Magari. Però dobbiamo cercare di capire come si fa a disinserire il pilota automatico, altrimenti facciamo una bella frittata contro quelle montagne.» «Eccolo», esclamò Laura dopo qualche istante. «Prendi la cloche, mentre io lo disinserisco.» Una lieve pressione sul pulsante rosso riportò al controllo manuale del velivolo. Ma chi poteva effettuarlo? Il MI 17 si impennò, virando bruscamente a dritta, poi riprese la sua corsa verso un canalone invaso dalla vegetazione. «May Day, May Day. Ci sentite?» gridò Laura nel microfono. «Stiamo precipitando. May Day, May Day!» Intanto Sara sembrava aver preso una maggiore dimestichezza con la sensibilità della barra di comando dei rotori, ma fu un'illusione brevissima. L'elicottero cominciò a roteare su se stesso, precipitando in caduta libera verso la foresta. «May Day, May Day!» riprese a gridare Laura con voce disperata, finché il velivolo fu squassato da un colpo violentissimo che la mandò a sbattere contro il soffitto, facendole perdere i sensi. Cantiere di Ertan. Cina meridionale. 3 dicembre 199... Oberto Lasado corse verso il bimotore appena atterrato, seguito dal giovane ingegnere italiano responsabile della costruzione della diga. Xeng apparve sulla scaletta. «Shalom, professor Xeng», lo salutò il brasiliano in tono angosciato. «Dobbiamo fare subito qualcosa.» «Che cosa è successo?» «La stazione radio del cantiere ha appena captato un segnale di May Day lanciato da una voce femminile. Dovrebbe provenire dal Daxue Shan, un massiccio impraticabile e lungo circa ottocento chilometri, a un'ora di volo da qui verso nord. Ah, mi perdoni, le presento il responsabile dei lavori.» «Avete un ricevitore GPS?» chiese subito Xeng all'italiano. «Certo. In sala trasmissioni.» I tre balzarono su un fuoristrada e si avviarono velocemente per gli im-
ponenti argini artificiali. Entrati nel container delle comunicazioni, Xeng compose un numero sulla tastiera dell'impianto di rilevazione satellitare. Soltanto lui conosceva la lunghezza d'onda del trasmettitore consegnato alle due donne. Attesero diversi minuti, ma lo schermo rimase vuoto. Massiccio del Daxue Shan. 4 dicembre 199... Laura rimase svenuta alcune ore, ma, non appena riprese i sensi nella carlinga accartocciata, il suo sguardo corse subito a cercare Sara. Vide che respirava ancora, ma aveva le gambe incastrate tra le lamiere. Vincendo un terribile dolore alla testa, si liberò dal sedile contorto che la bloccava e cercò di rianimarla. Si accorse con sgomento che dai pantaloni spuntava l'osso del femore fratturato, macchiato da un alone di sangue rappreso. Doveva riuscire a estrarla da lì e a prestarle le prime cure. Anche se era meglio che non riprendesse conoscenza finché non le avesse ricomposto la frattura, steccandola. Si impose la calma e riuscì a spostare la parte del cruscotto che era rovinato loro addosso. Straziata dai lamenti che Sara si lasciava sfuggire ancora in stato di incoscienza, la sollevò con grande fatica. Quindi la adagiò sul pavimento della carlinga e, vincendo il senso di nausea, fece trazione sulla gamba finché l'osso non rientrò. Adesso doveva trovare una stecca è le bende per fasciare l'arto fratturato. Trovò la cassetta medica in un armadietto della carlinga. Doveva soltanto pregare che lo spezzone del femore non avesse leso una vena o l'arteria femorale. Si fece forza pensando che in quel caso i segni dell'emorragia sarebbero stati molto più evidenti. Quando Sara aprì gli occhi era ormai sera. Laura le passò con affetto la mano tra i capelli. «Sto male, Laura, molto male», si sentì dire con un filo di voce. «Nella cassetta medica ci sono alcune dosi di morfina», cercò di rincuorarla. Quindi prese una siringa sterile e la riempì, iniettandole il contenuto nel fianco destro. Adesso però doveva comunicare con qualcuno, e subito. Se Sara non fosse stata curata al più presto, le sue condizioni si sarebbero aggravate in maniera irreversibile. Ma si accorse subito che la violenza dell'urto aveva reso inservibili gli strumenti di comunicazione. Erano in una zona deserta, e l'elicottero era sprofondato in una macchia
di vegetazione che, se da un lato aveva attutito l'urto, dall'altro impediva di vederne la carcassa dall'alto. Nemmeno il più sofisticato satellite di Oswald Breil sarebbe stato capace di individuare... Satellite? Come aveva fatto a non pensarci prima? L'apparecchio consegnatole dal professor Xeng al momento dell'imbarco. Infilò febbrilmente le mani nello zaino. Cercò il GPS tascabile a tentoni, mentre l'oscurità stava calando. Lo trovò e riuscì a inserire il comando di localizzazione automatica. Gerusalemme. 4 dicembre 199... Al telefono dall'altro capo dell'oceano, Kevin era molto agitato: «Oswald, non ho più notizie di Laura. Tu sai qualcosa?» Oswald chiese mentalmente perdono per la bugia con cui avrebbe risposto: non poteva dirgli che l'elicottero era precipitato e che, dopo un drammatico messaggio di soccorso, si era interrotta ogni comunicazione. «Stai tranquillo. So che l'elicottero ha avuto qualche problema, ma vedrai che fra un po' si faranno vive.» «Che genere di problema, Oswald? Che cosa mi stai nascondendo?» In quello stesso momento, nel cuore della Cina, il professor Xeng, senza parole per l'emozione, stava indicando con un dito tremante il punto rosso che si era messo a lampeggiare sullo schermo. Oberto Lasado diede immediatamente di piglio al telefono satellitare, ma dovette comporre diverse volte il numero prima di riuscire a prendere la linea con Israele. A Gerusalemme, Oswald non sapeva che cosa rispondere a Kevin. A toglierlo d'impaccio arrivò lo squillo del secondo telefono sulla sua scrivania. «Scusami soltanto un attimo, Kevin», disse con il cuore in gola, sollevando il ricevitore. «Le hanno trovate, Kevin», gridò dopo alcuni istanti nella prima cornetta. «Due elicotteri di soccorso stanno andando a prelevarle. Al massimo tra un'ora saranno in salvo.» Massiccio del Daxue Shan. 4 dicembre 199... Laura prima sentì il rombo di un elicottero in avvicinamento, poi vide il potente faro che squarciava le tenebre, penetrando nella vegetazione. Uscì dalla carlinga agitando freneticamente le braccia. Il velivolo rimase sospe-
so alcuni interminabili istanti sopra di lei, poi un uomo si calò con il cavo d'acciaio. «Sono un medico», gridò non appena ebbe toccato terra, «siete ferite?» Laura gli spiegò rapidamente le condizioni dell'amica. Il giovane medico la seguì nella carlinga, mentre ordinava via radio che venissero calati una barella e gli strumenti per le prime cure. «Non si preoccupi, signora», disse dopo un primo esame delle condizioni di Sara. «Al cantiere lavorano circa ottomila persone, per cui siamo dotati di medici di prim'ordine e di una struttura ospedaliera modernissima. Grazie al suo primo soccorso, la sua amica non è in pericolo. Stia tranquilla, tutto si risolverà per il meglio.» Furono issate sull'elicottero con un sistema di cavi. Non appena fu a bordo, Laura sedette accanto alla barella di Sara, assopita per effetto della nuova medicazione, e le strinse entrambe le mani tra le sue. «Siamo salve», mormorò. «Salve.» Si accorse che stava piangendo, ma di sollievo. «Lieto di conoscerla, signora», disse l'uomo uscito dalla cabina di pilotaggio. «Sono Oberto Lasado, un vecchio amico di Oswald Breil. Credo che la prima cosa da fare, adesso, sia proprio tranquillizzarlo sul vostro stato di salute. Poi penso che lei vorrà parlare con i suoi a Miami.» Già stava componendo un numero telefonico sulla tastiera del suo apparecchio satellitare. «Come stanno, Oberto?» chiese Breil. «Bene, se si esclude una frattura alla gamba per Sara Terracini, qualche ferita superficiale alla testa per Laura e uno stato complessivo di choc per entrambe, ma secondo il medico non c'è niente di veramente grave. Tra pochi minuti arriveremo nell'ospedale della base, che è attrezzato alla perfezione. La signora Joanson ti vuole parlare.» «Laura, siamo stati molto in pena per voi. Che sollievo sentire la tua voce. Come stai? E Sara?» «Adesso sta abbastanza bene, Oswald. E sto bene anch'io. È stata una brutta avventura. Ma per fortuna siamo qui per raccontarla... A proposito di raccontare, abbiamo un mucchio di novità. Cose poco meno che incredibili.» «Verrò a prendervi io stesso. Potrete raccontarmi tutto di persona. Adesso però pensate a curarvi come si deve.» E dopo un ultimo rapido scambio di frasi, la comunicazione fu chiusa.
«Posso approfittare ancora della sua cortesia, signor Lasado?» chiese Laura indicando l'apparecchio satellitare. Pochi istanti più tardi era in linea con Kevin. «Laura, amore», esclamò il suo compagno in tono di profondo sollievo, non appena ebbe riconosciuto la voce. «Sto bene, Kevin. Va tutto bene.» «Che cosa vi è successo?» «L'elicottero sul quale viaggiavamo. È... precipitato. Sara ha una gamba fratturata.» «Fratturata?» «Sì, ma non agitarti. Qui sono attrezzati per curarla come si deve, e guarirà. E io ho soltanto qualche graffio.» «Ma quando torni?» «Partiremo non appena Sara sarà in grado di viaggiare. Non me la sento di lasciarla qui sola.» «Certo, capisco. Dove vi stanno portando?» «Nel cantiere della diga di Ertan, nel sud della Cina.» «Se hai difficoltà a metterti in contatto con me, fa' avere notizie a Oswald, che me le trasmetterà. I miei migliori auguri a Sara. Ti amo.» «Anch'io.» L'intervento a cui Sara Terracini venne immediatamente sottoposta durò poco meno di tre ore. I quattro medici uscirono dalla sala operatoria con un'aria tranquilla e tranquillizzante. «Guarda i casi della vita», disse sorridendo il capo dell'équipe a Laura, in un inglese dal marcato accento italiano. «Venire fino in Cina per operare una mia conterranea. Comunque posso rassicurarla su ogni fronte. La signora Terracini sta bene. L'intervento è perfettamente riuscito. Se vuole vederla, la troverà sveglia: abbiamo effettuato l'operazione in anestesia epidurale.» Laura entrò nella camera. Sara era sveglia e cosciente. «Come pilota di elicottero non valgo un granché», disse con un abbozzo di sorriso. Senza dire niente, Laura si chinò sul letto e la strinse in un abbraccio gonfio di sollievo e commozione. Si accorsero di piangere insieme. Ertan. 10 dicembre 199... Oberto Lasado era un perfetto gentiluomo, sempre carico di attenzioni
per le due signore. Guidando il fuoristrada verso la pista di atterraggio del cantiere, descrisse a Laura l'imponente sbarramento ormai prossimo a essere completato. «I lavori della diga di Ertan sono stati appaltati nel 1991 a una multinazionale italiana e termineranno tra pochi mesi. È la terza diga ad arco più grande del mondo. Pensi, Laura, duecentocinquanta metri di altezza e quattro milioni di metri cubi di calcestruzzo. L'energia elettrica prodotta dal fiume Yalong, un affluente del Fiume Azzurro, darà un impulso straordinario allo sviluppo della Cina.» Raggiunsero la pista proprio mentre il jet del governo israeliano cominciava le procedure di avvicinamento. L'aereo si fermò sulla pista e la figura di Breil si stagliò sul portello. Alle sue spalle Laura riconobbe Kevin. Gli corse incontro con la gola stretta in un nodo di felicità. Lo baciò appassionatamente e poi si chinò ad abbracciare Oswald. «Non ho saputo resistere all'invito di Oswald», le spiegò Kevin. «Chiara sta benissimo con la moglie di Steps, per cui ho deciso di venire qui a prenderti di persona. E adesso ti porto a casa.» «Sono venuto non appena i sanitari del cantiere mi hanno dato il via libera per prelevare Sara», intervenne Oswald. «A scopo precauzionale ho fatto venire con noi un medico che la tenga d'occhio durante il viaggio di ritorno.» L'ambulanza con a bordo Sara giunse sulla pista pochi istanti più tardi. Mentre l'aereo si staccava da terra, Laura si abbandonò sulla forte spalla di Kevin e gli prese entrambe le mani. Non appena ricevettero il permesso di slacciare le cinture di sicurezza, però, si alzò e raggiunse il salottino dell'aereo dov'era stato allestito un letto per Sara Terracini, con accanto tutte le attrezzature sanitarie del caso. «Speriamo che adesso non ti venga voglia di guidare anche questo aereo», disse, strizzandole l'occhio. «Adesso a noi, Oswald», continuò, essendosi accorta che erano state raggiunte da Breil. «Da dove vuoi che cominciamo?» «Prima di atterrare a Tel Aviv, da dove proseguirete per le vostre destinazioni, abbiamo davanti a noi quattromila miglia. Scali tecnici inclusi, vogliono dire almeno undici ore. Credete che vi basteranno per raccontarmi tutto?» «Basteranno sì e no, Oswald», esclamò Sara Terracini, tirandosi a sedere sul letto. Il suo aspetto denotava un ottimo stato di salute. Il riposo e le cure l'avevano fatta rifiorire. «Apri bene le orecchie, perché faticherai a cre-
derci.» Quando smontò dal Grumman all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, Breil aveva con sé la tela di Antonio Fedeli e il disegno di Pierre-Denis Lanvin. Ma aveva ancora la mente piena del racconto delle due intrepide amiche. Avevano ragione: le undici ore di volo erano bastate appena per informarlo di tutte le novità e degli ultimi due messaggi che potevano portare al tesoro del suo popolo. Prima di dedicarsi di nuovo alla ricerca della Menorah, però, aveva un impegno imprescindibile: l'appuntamento con l'orribile minaccia di Fasatne. Era ormai vicinissimo. 15 New York. 19 dicembre 199... Il detective Huggins imprecò contro i suoi superiori. Aveva lavorato a fianco a fianco con il capo del Mossad, e adesso lo avevano buttato a dare la caccia a una rete di spacciatori. Travestito da barbone, si aggirava per gli atri arrivi e partenze della Pennsylvania Station. Mentre si guardava cautamente attorno, appoggiato a un muro, fingendo di smaltire gli effetti di una bottiglia di vinaccio nascosta in un sacchetto, la sua attenzione cadde su un uomo con una valigia. Non era uno degli spacciatori che gli avevano fatto vedere nelle foto segnaletiche, ma aveva ugualmente una faccia familiare. Dove l'aveva già vista? Finse di riscuotersi dal suo stato catatonico e gli si trascinò vicino con la mano tesa: «Un quarto di dollaro, signore. Rispetta la santità del Natale. Dio ti ricompenserà». «Vaffanculo, stronzo», lo gelò l'altro con un forte accento del Sud. Troppo forte. Huggins si strinse negli abiti laceri e si rifugiò in un vecchio alloggio abbandonato di cartoni, in un angolo. La sua mente lavorava rapida come un calcolatore: dove aveva già visto quell'individuo? New York. 20 dicembre 199... L'1.45 del mattino. Huggins era piazzato al solito posto. Stava scrutando
con aria fintamente nostalgica la bottiglia asciutta, quando fu colpito da un'illuminazione. Si avviò a passo rapido, uscendo dalla stazione e mettendosi a zigzagare per gli incroci. Dopo alcuni minuti di quel tortuoso girovagare, finalmente sicuro di non essere seguito da nessuno, saltò a bordo di un'ammaccata automobile, che un paio di decenni prima doveva essere stata bianca, e partì con una sgommata che l'aspetto della vecchia carretta con avrebbe mai fatto sospettare. Quando il telefono di Breil squillò, a Gerusalemme erano le 9.37 del mattino. «Huggins. Certo che mi ricordo di lei. Come va? Che cosa succede?» «Credo di averlo trovato... Voglio dire, l'uomo che sta cercando», rispose eccitatissimo il detective. «L'ho riconosciuto qui a New York ieri notte. È senz'altro Tagil Sarov. L'ho visto alla Pennsylvania Station con due valigie.» «Si calmi, Huggins, e mi ripeta tutto con ordine.» Breil convocò immediatamente una riunione. I suoi collaboratori ascoltarono le parole del detective Huggins ripetute dal nastro dov'erano state registrate. Poi rimasero in attesa di istruzioni. «Il nostro campo di azione si restringe di parecchio», disse Oswald. «L'attentato avverrà molto probabilmente a New York la notte di capodanno. Ci rimane soltanto da scoprire dove. Un giochetto, eh? Dobbiamo soltanto passare al setaccio una delle metropoli più grandi del mondo e verificare una ventina di milioni di persone. Il tutto in undici giorni. Non male, signorina», concluse, parlando nell'interfono, «mi chiami il sindaco di New York sulla linea riservata.» Gerusalemme. 30 dicembre 199... Mancavano poche ore, poi la rotazione del globo terrestre avrebbe fatto scadere l'ultimo minuto dell'anno in progressione, fuso dopo fuso. Oswald e i suoi uomini avevano davanti a sé la terribile prospettiva che ad accogliere il nuovo anno fosse una mostruosa carneficina. Ma la rassegnazione non apparteneva al loro modo di pensare e agire. Fino all'ultimo istante non avrebbero mai ceduto all'idea che Fasatne potesse vincere la battaglia. «A New York la caccia all'uomo è in pieno svolgimento», disse Erma.
«Tutti i corpi di polizia stanno cercando Sarov senza un attimo di tregua. Ma sembra che si sia volatilizzato.» «Temo che abbia innescato gli ordigni con un meccanismo a tempo e poi se la sia svignata», replicò cupamente Oswald. Non appena Erma fu uscito, sentì arrivare dal computer il segnale di posta elettronica in arrivo. Aprì immediatamente la casella riservata. C'era un messaggio. Lo aprì e lo lesse. <MI CONTATTI CON LA MASSIMA URGENZA SULLA LINEA RISERVATA AL MIO UFFICIO DI ROMA. ALBERTO VITE.> Pochi istanti più tardi Breil era in linea con il magistrato italiano. «Ho notizie che interessano anche a lei, maggiore», gli disse subito Vite. «Non mi tenga sulle spine», lo esortò Oswald. «Ieri notte si è consegnato alla nostra sede di Palermo un uomo di Rascini, chiedendo di godere dei benefici per i collaboratori di giustizia. Un 'pentito', insomma. Ha cominciato a vuotare il sacco, fornendoci elementi sufficienti a mettere in gabbia Rascini per una trentina d'anni. Anche Alfredo Trasi dovrà rispondere di reati ben più gravi che l'evasione fiscale. Dalla pentola scoperchiata sono emerse connessioni con la mafia cinese e quella russa, traffici illeciti internazionali, riciclaggio di denaro sporco. E i contatti erano tenuti dal pilota. «Ma ho voluto lasciare per ultima la notizia che sicuramente le interessa di più. Fasatne si è rifugiato da qualche giorno nella villa di Rascini a Mondello, poco distante da Palermo. La villa è sotto controllo, e questa sera effettueremo un blitz per catturarli.» Oswald balzò in piedi, replicando in tono concitato: «Devo assolutamente partecipare all'azione, dottor Vite. La follia omicida di Fasatne sta per mettere a rischio la vita di migliaia di innocenti. Ma non è prudente parlarne per telefono. Tra cinque ore sarò lì e le spiegherò tutto». «L'aspetto, maggiore. Ma faccia più presto che può. C'è il rischio che nel frattempo Rascini venga a sapere del pentito e delle sue rivelazioni, nel qual caso possiamo dire addio a tutta l'operazione.» «Mi creda, è un rischio che bisogna correre, se vogliamo cercare di scongiurare una tragedia spaventosa.» Chiusa la comunicazione, Oswald convocò tutto lo staff. «Sappiamo dov'è Fasatne», annunciò. Quindi chiese che venissero impartiti gli ordini necessari per una sua partenza immediata. Infine si rivolse a Bernstein: «Capitano, prenda con sé tutti i suoi strumenti. Lei viene con me».
Mondello. Palermo. 30 dicembre 199... «Che cosa staranno cercando ancora, quelle due puttane?» si chiese Fasatne. «Maledette. Sono più toste persino del loro amico nano. Sembrano invulnerabili.» Quindi spostò lo sguardo sulla Menorah, posata sul comò antico che ornava la sua stanza. Non appena le acque si fossero calmate avrebbe ringraziato Rascini per il rifugio offertogli e sarebbe corso a consegnarla al suo potente protettore iracheno. Da quel momento non avrebbe più avuto bisogno della mafia. E l'ultima vendetta che stava preparando avrebbe lasciato un segno indelebile. Il mondo avrebbe definitivamente imparato a rispettarlo e temerlo. Vide entrare nella stanza Alfredo Trasi, che gli annunciò: «Per domani sera, zio Salvatore ha fatto preparare la solita festa per accogliere l'anno nuovo. Un cenone degno della sua fama, seguito da un adeguato spettacolo di fuochi d'artificio. Ma zio Turi ha limitato gli inviti ai fedelissimi della famiglia, per non correre il rischio che trapeli la notizia della tua presenza qui. Non si sa mai». Fasatne represse a stento un moto di fastidio. Era stufo di quei pranzi interminabili e dello spirito dolciastro del Natale dei cristiani. Quel rifugio cominciava a stargli molto stretto, ma soprattutto si sentiva soffocare dai modi da padroni ostentati dai nuovi soci nei confronti del suo impero finanziario. Roma. Direzione Investigativa Antimafia. 30 dicembre 199... Le pareti dell'ufficio di Alberto Vite erano rivestite di pannelli insonorizzanti in legno chiaro. «Abbiamo motivo di sospettare che Fasatne stia organizzando un attentato senza precedenti, molto probabilmente a New York», spiegò Breil. «Due bombe chimiche ad alto potenziale sono sparite da un arsenale segreto arabo, e temiamo siano già state fatte innescare da Fasatne in un punto ancora ignoto della metropoli, per esplodere a cavallo della mezzanotte locale e diffondere il loro gas letale. L'unica possibilità che abbiamo di individuare il luogo del massacro è catturare Fasatne vivo e cercare di farlo parlare, o negoziare una sua confessione. Ripeto, dobbiamo prenderlo vivo. Dio ce la mandi buona.» Dopo meno di un'ora era in volo con Vite verso la Sicilia.
Mondello. Palermo. Notte del 30 dicembre 199... Gli uomini erano disposti in diversi punti strategici, in attesa del segnale di attacco. Alberto Vite, Oswald Breil e il capitano Bernstein erano appostati in un casolare abbandonato, da dove gli agenti della DIA tenevano sotto controllo ogni movimento nell'abitazione del capo di Cosa Nostra. Poco dopo le undici, nella villa, Fasatne salutò gli ospiti e si ritirò nella sua stanza, pur sapendo che gli sarebbe stato impossibile dormire. Desiderava soltanto riacquistare la libertà di azione e rientrare in possesso del suo impero. Aveva già predisposto tutto per la partenza, il primo giorno dell'anno, ma doveva ancora portare a termine la vendetta. Guardò con occhi adoranti il computer posato su una meravigliosa scrivania settecentesca e collegato alla presa telefonica. Aveva già programmato il messaggio in modo che partisse alle ventitré del 31 dicembre, ora di New York, quando a Palermo sarebbero state le cinque del mattino di Capodanno. «Via!» ordinò in quel momento Vite per radio, impartendo ai suoi l'ordine di attaccare. I primi spari risuonarono secchi nella notte. Si sarebbero potuti scambiare per i petardi di qualcuno che festeggiava in anticipo l'arrivo dell'anno nuovo. Poi, molto più distinte e comprensibili, arrivarono le raffiche di mitra, e le pallottole traccianti illuminarono il buio. Alfredo Trasi entrò precipitosamente nella stanza di Fasatne. Era in preda a un'agitazione stranamente visibile per la sua fama di uomo dai nervi di acciaio. «Dobbiamo scappare, Hytham, siamo attaccati. Ma abbiamo il modo di metterci in salvo. Presto!» Fasatne fissò lo sguardo sul candelabro d'oro. Era la sua ultima ancora di salvezza, il solo strumento per tornare quello che era prima di incappare in Oswald Breil. «Aiutami a portarlo via.» «Non c'è tempo, dobbiamo scappare, non possiamo portarci dietro il peso di quel...» Ma le parole gli si spensero in bocca quando vide lo sguardo allucinato di Fasatne. Capì che era pronto a qualsiasi follia. Sollevarono insieme il prezioso oggetto.
Dopo qualche istante la camera era deserta, occupata soltanto dalle cose di Fasatne, abbandonate ovunque nel massimo disordine. Sulla scrivania antica, il coperchio in magnesio del costosissimo computer portatile rifletteva la luce della lampada da tavolo rimasta accesa. In quell'istante, sopra la villa comparvero due elicotteri. Sei carabinieri si lanciarono nel vuoto, frenando la caduta sulla fune a cui erano assicurati. Ondeggiarono per alcuni istanti nell'aria, poi fecero irruzione sfondando una vetrata. I lampi delle bombe accecanti illuminarono l'interno della villa. Ma le persone che cercavano non erano più lì. La galleria era dissimulata dietro il camino della cucina, che girava su se stesso all'impulso di un telecomando. Fasatne e Alfredo Trasi erano balzati su una delle tre vetture elettriche sempre pronte nel cunicolo in vista di un'eventuale situazione d'emergenza. Costruita in tempi remoti, forse per sfuggire agli assalti dei pirati saraceni, la galleria attraversava tutto il monte Gallo, sbucando nei pressi di punta Barcarello, dalla parte opposta alla baia di Mondello. Lì Rascini aveva già fatto approdare il suo velocissimo motoscafo d'altura, anch'esso sempre pronto. I tre veicoli si erano fermati quasi simultaneamente, appena oltre l'apertura del cunicolo. Le narici dei fuggiaschi erano state accarezzate dal sentore della libertà, misto a quello del mare. Il Maltese Magnum di diciotto metri era ormeggiato al moletto, fuori dello sbocco del cunicolo, che una volta chiuso si mimetizzava perfettamente nel pendio della montagna. Nel giro di pochi minuti, gli oltre diciotto metri dell'imbarcazione erano in mare aperto, spinti dai tre motori MTU turbocompressi da millecinquecento cavalli l'uno. Le eliche di superficie Arneson scagliavano verso il cielo altissime colonne d'acqua, che ricadevano nella scia dello scafo bianco lanciato a oltre settanta nodi. Era appena passata la mezzanotte. «Dottor Vite, nella villa non c'è anima viva all'infuori dei domestici e di Santa Rascini che si è chiusa nel più assoluto mutismo», disse dalla radio la voce concitata del comandante delle operazioni. «Non è possibile, capitano. Non ne è uscito nessuno. Cercateli, devono essere nascosti da qualche parte.» «Può venire a verificare lei stesso, dottore», fu la sconsolata replica dell'ufficiale dei carabinieri. «Qui non c'è proprio nessuno.»
Dopo non più di dieci minuti, Vite entrò nella villa con Breil, seguito da Bernstein con a tracolla il borsone dei suoi strumenti. «Allora?» chiese il magistrato italiano. Come risposta gli bastò lo sguardo costernato dell'ufficiale, che però disse: «Abbiamo individuato le camere occupate da chi era nella villa, e ne stiamo esaminando il contenuto». «Anche quella di Fasatne?» chiese subito Breil, con un ultimo filo di speranza. «Certo. C'è tutta la sua roba.» «Presto, portatemi subito lì. Venga, Bernstein.» La stanza era in un disordine incredibile. Indumenti buttati qua e là, giornali sfogliati e abbandonati sul pavimento, scarpe, ciabatte. Il piccolo frigorifero era aperto, con posata davanti sul tappeto una bottiglia di acqua minerale aperta; il letto era sfatto. Ma non era di sicuro questo disordine a interessare a Breil, che fece scorrere meticolosamente lo sguardo su tutto l'ambiente. La Menorah non si vedeva: ai suoi fini, poteva soltanto sperare che Fasatne se la fosse portata dietro. Ne era quasi sicuro: per il libanese rappresentava l'ultima ancora di salvezza, non era possibile che l'avesse abbandonata lì. Ma in quel momento gli interessava molto di più un'altra cosa. Con uno sbocco di emozione che quasi gli tolse il fiato, la vide. Posato su una bellissima scrivania e connesso a una presa telefonica, il computer portatile di Hytham Fasatne sembrava guardarlo. Si precipitò lì e tese verso l'apparecchio una mano scossa da un incontenibile tremito di ansia. «Fermo», gridò Bernstein. «Non lo tocchi.» Breil si voltò a guardarlo, con un'espressione interrogativa. «Potrebbe essere una trappola», spiegò imperturbabile il capitano, che stava già estraendo alcuni strumenti dal suo borsone. «Fasatne potrebbe averlo imbottito di caramelle. Me lo lasci esaminare. «Tutto a posto», disse, dopo una verifica che durò soltanto pochi attimi ma che sembrò interminabile. «Possiamo accenderlo», continuò, facendo scattare il fermo del coperchio, sollevandolo e premendo il tasto di accensione. Lo schermo si illuminò e rimase qualche istante come in posizione di stallo, quasi il computer non sapesse bene che cosa fare. Poi, davanti allo sguardo costernato di Breil e Bernstein, al centro del riquadro si aprì una
finestra che diceva, in inglese: . In una seconda finestra interna, più piccola, chi desiderava usare il computer doveva inserire con la tastiera la parola d'ordine. «E adesso?» chiese Breil, con la voce ancora più sconfortata dello sguardo. «Uhm», borbottò Bernstein. «È un sistema diverso da quello che usiamo noi, e non lo conosco benissimo. Comunque ci provo. Un programma di decrypt adatto per questa configurazione ce l'ho. Il problema è trovare la combinazione di tasti per far aprire la finestra di debug.» «Deve farcela, Bernstein. Dall'apertura di questo computer può dipendere la vita di migliaia di persone», disse Breil, senza chiedere ulteriori spiegazioni circa le procedure necessarie per tentare di sbloccare il computer. Capiva perfettamente che Bernstein non stava enunciandogliele - gli sarebbero comunque rimaste incomprensibili -, ma ripercorrendo disciplinatamente le operazioni da fare, passo per passo. Intanto il capitano, tolto dal borsone un contenitore di dischetti magnetici per computer, ne aveva preso uno, inserendolo nell'apposita fessura sul fianco del portatile. «Vediamo un po'», mormorò con aria intenta, mettendosi a digitare su diverse combinazioni di tasti. Ne provò una, una seconda, una terza. Sullo schermo del computer la finestra di CerBer-US rimase immutata. «Boh», commentò Bernstein. «Questo giochetto, Fasatne non se l'è fatto da sé. Ha un bravo programmatore. Secondo me, c'è lo zampino di uno dei tanti matematici russi sbandati per il mondo.» «Deve fregarlo, capitano», gli ingiunse Breil in un tono che non ammetteva repliche. Ma si pentì subito dell'esplosione. «Mi scusi», borbottò. «Devo fregarlo», si limitò a replicare il capitano. Per lui, al di là dell'esigenza umanitaria di sbloccare quel computer, era diventata una questione di prestigio. Preso dalla borsa un taccuino, vi scrisse una complicata serie di combinazioni di tasti, collegandole con un intrico di frecce. «Ah!» esclamò a un certo punto. «Se non funziona questa, siamo nella merda. Scusi la licenza poetica, maggiore, e incroci le dita.» Breil non si accorse nemmeno di averlo fatto con entrambe le mani, mentre Bernstein digitava sulla tastiera la nuova combinazione. Quasi non aspettasse altro, la finestra di CerBer-US si chiuse di colpo, sostituita da un'altra più ampia, nel cui angolo in alto a sinistra si vedeva soltanto il segno >. Dal ventre del computer, una serie di sordi scatti segnalò che la macchina aveva cominciato a leggere il programma di decrypt
caricato sul floppy. Dopo qualche attimo, sotto lo sguardo spasmodicamente fisso del capitano del Mossad e di Breil, nella finestra cominciarono a scorrere lunghissime stringhe di caratteri. «Adesso», commentò Bernstein, «tutto dipende da quanto è complicata la parola d'ordine.» «Ce la stiamo facendo?» chiese ansiosamente Breil. «Credo proprio di sì», rispose l'altro. «Lei, comunque, per favore, tenga le dita incrociate.» In quel preciso momento lo schermo del computer divenne completamente nero. «Siamo fre...» esclamò Breil con voce angosciata. Non fece in tempo a finire la frase. Con uno scampanio festoso, seguito da un laborioso ronzio, il computer si rimise in moto. «No», rispose Bernstein, impassibile, «ce l'ho fatta. La parola d'ordine era semplicissima. Avrei dovuto pensarci.» «Cioè?» chiese Breil, mentre sullo schermo del computer cominciavano a comparire le icone del contenuto. «Jihad», rispose Bernstein. «Guerra Santa.» Dopo pochi minuti, Oswald Breil, chiuso in una meditazione carica di elettricità, stava leggendo e rileggendo il messaggio trovato nel programma di posta elettronica caricato sul computer. Fasatne lo aveva programmato in modo che fosse spedito la notte seguente, con la solita tecnica dei rimbalzi di mirror in mirror per renderne irrintracciabile la fonte. Il messaggio diceva: Che cosa voleva dire? «Ciò che scorre inesorabile si fermerà...» Che cosa «scorre inesorabile»? «Scorre inesorabile», ripeté diverse volte a mezza voce, scandendo le sillabe. «L'acqua?» provò a suggerire Bernstein. «E quando c'è la siccità?» ribatté Oswald, scrollando le spalle. «Il sangue? La vita? No, perché dovrebbero essere inesorabili?» In quel preciso istante, dalla grossa pendola dell'atrio si sentirono arrivare due sordi rintocchi.
«Il tempo!» esclamarono all'unisono Breil e Bernstein. «Il tempo», ripeté Oswald, imponendosi la calma. «Potrebbe essere. Ma perché? Che cosa c'entra?» «Times Square a New York, maggiore. Non crede che potrebbe...» Oswald si illuminò in viso. Poco mancò che abbracciasse il suo collaboratore. «Lei è un genio, Bernstein», esclamò. «Precisamente: Times Square, 'la Piazza dei Tempi'. In quella zona, domani sera, si riuniranno ventimila persone per festeggiare l'anno nuovo. L'attentato avverrà lì.» La linea telefonica con gli Stati Uniti era aperta dall'inizio dell'operazione. Oswald informò immediatamente le autorità statunitensi delle conclusioni a cui erano arrivati. «Abbiamo scoperto come hanno fatto a sparire, dottor Vite», disse il comandante degli agenti speciali, irrompendo trafelato nel salone dove il magistrato aveva stabilito il suo quartier generale. «I rivelatori ci hanno fatto scoprire una galleria che parte dal camino della cucina e probabilmente attraversa la montagna. Li inseguiamo lì dentro?» «Ordinate ai vostri uomini di allontanarsi dal cunicolo», gridò Breil. Il magistrato e l'ufficiale lo guardarono stupefatti, ma bastò il suo tono a convincerli a confermare l'ordine, che fu immediatamente trasmesso via radio. «Potrebbe essere minato», spiegò Breil. L'inafferrabile libanese gli era sfuggito ancora una volta. E, a questo punto, chissà dov'era. «Ce l'hanno fatta sotto il naso», mormorò Breil in tono esausto. «Li troveremo», lo rinfrancò Alberto Vite, attaccandosi immediatamente alla radio e scatenando la caccia all'uomo. Le due motovedette della Guardia di Finanza, in normale servizio di perlustrazione notturna contro i continui approdi sulle coste siciliane di imbarcazioni clandestine, cariche di sventurati extracomunitari in cerca di una vita migliore, si videro scorrere di fianco, a poche centinaia di metri, una freccia bianca lanciata nel buio. Una barca troppo lussuosa per essere adibita allo squallido traffico di carne umana. Inoltre, correva velocissima nella direzione opposta. Ma le immediate e pressanti richieste via radio di identificarsi furono ignorate. Il velocissimo Magnum rimase visibile per pochi istanti, illuminato dai po-
tenti riflettori delle motovedette: nessuna nave militare, per quanto veloce, sarebbe stata in grado di inseguirlo. Le unità della Guardia di Finanza non poterono fare altro che segnalare il fatto al loro comando. Dopo pochi minuti, l'informazione, in forma di fax, era sul tavolo del capo della DIA, nel salone di villa Rascini. «Certo, potrebbero essere loro», disse Breil, con un ultimo residuo di speranza. «Non potrebbero», ribatté Alberto Vite in tono deciso. «Sono loro. I nostri informatori ci hanno avvisato da tempo che Rascini dispone di un motoscafo con quelle caratteristiche. Forza, dobbiamo beccarli.» «Si potrebbe chiedere agli americani di Sigonella di utilizzare tutti i loro radar per individuare la barca?» suggerì Breil in tono incerto. «Preferirei di no», rispose il magistrato. «Sarebbe meglio cercare di cavarcela da soli. È una questione di orgoglio, e anche di prestigio. Ma sta di fatto che rischiamo di farceli scappare. D'accordo, Breil: chiediamo aiuto agli americani.» E Vite si fece mettere in comunicazione radio con la base americana. Era trascorso meno di un quarto d'ora, quando la stessa radio si mise a gracchiare. «Qui centro radar di Sigonella», disse una voce dal forte accento americano. «Sono il sergente Hill. I nostri strumenti hanno localizzato un bersaglio che viaggia a settanta nodi al traverso di Mazara del Vallo. Sembrerebbe in rotta verso il territorio libico.» I due elicotteri A109 Power, usati per l'operazione contro la villa di Rascini e attrezzati per le esigenze dei corpi speciali italiani, diressero verso il fianco della montagna. Mentre uno volteggiava sopra la villa occupata dagli uomini della DIA, l'altro si adagiò sul prato. In un lampo, Breil e Vite furono a bordo. Le due turbine Pratt & Withney 206c scaricarono immediatamente i loro milletrecento cavalli, e l'elicottero si alzò in verticale, inclinandosi e puntando verso le coste africane, subito seguito dal secondo mezzo. In breve i due velivoli raggiunsero la velocità massima, pari a 160 nodi. Accomodatosi al suo posto con il capo della DIA e alcuni uomini ancora in tuta d'assalto, e allacciata la cintura di sicurezza, Breil si tolse di tasca taccuino e penna e tracciò su un foglio bianco un grafico. Dopo avere riflettuto qualche istante, si rivolse ad Alberto Vite, dicendogli: «Può chie-
dere al comandante pilota se, come risulterebbe dai miei calcoli, dovremmo raggiungere il Magnum tra circa due ore e un quarto?» Dato di piglio all'interfono, il magistrato trasmise la richiesta al comandante dell'elicottero. «Sì», fu la risposta. «Minuto più, minuto meno.» «Proprio sul limite delle acque territoriali rivendicate dai libici», commentò Oswald in tono preoccupato. «Non appena gli saremo sopra, dovrete agire con la velocità del fulmine. Crede di farcela?» chiese poi, rivolto all'ufficiale dei corpi speciali che aveva comandato tutta l'operazione. L'uomo gli rispose con un sorriso spavaldo. «Siamo addestrati proprio per le operazioni complicate, maggiore. Sono quelle che ci piacciono di più.» «Pronti all'arrembaggio», ordinò alle 4.56 l'ufficiale dei corpi speciali. Nel massimo ordine, su entrambi gli elicotteri, i carabinieri svolsero con metodo le operazioni che l'addestramento avevano reso di routine. Incastrarono i moschettoni nelle funi da discesa e si prepararono a calarsi sul motoscafo lanciato a grande velocità. «Li vediamo», comunicò il comandante pilota. «Pronti al lancio», ordinò il comandante dell'operazione. In quello stesso istante, dalla radio, una voce dalle pesanti inflessioni arabe ruppe il silenzio: «Qui forza aerea d'intercettazione libica. Ci rivolgiamo ai due mezzi aerei che stanno per violare il nostro spazio. Fatevi riconoscere e manifestate le vostre intenzioni o sarete abbattuti». La comunicazione fu seguita da una seconda, concitatissima: «Aquila Uno da nido. Aquila Uno da nido», gracchiò la voce del sergente americano di Sigonella. «Due Mig si sono alzati dall'aeroporto di Bengasi, nove minuti al rendez-vous.» Alberto Vite scosse amaramente la testa. «Non ci riusciremo mai. I libici ci saranno addosso mentre tentiamo l'assalto al motoscafo. Ci abbatteranno. Dobbiamo abbandonare la missione, Breil.» Non gli era facile ammettere la sconfitta, proprio quando stava per decapitare la piovra. Ma Breil rimase impassibile. «Ha ragione, Vite. Rientriamo.» Il magistrato impartì immediatamente l'ordine di invertire la rotta e rientrare. Sul motoscafo, vedendo che i due elicotteri invertivano la rotta, Fasatne esplose in un urlo di trionfo. Aveva capito che cosa fosse a costringere la task force italiana ad abbandonare la missione: i libici non scherzavano con chi cercava di introdursi di forza nel loro territorio. E tra i libici
vantava conoscenze importanti. Aveva vinto ancora una volta. E a dargli la vittoria definitiva, non soltanto contro il maledetto nano ma anche contro i suoi nuovi ingombranti soci mafiosi, sarebbe stato il protettore iracheno, non appena gli avesse consegnato il simbolo sacro del popolo di Israele. Il faro di uno dei due elicotteri in virata percorse velocemente tutto lo scafo, e il fascio di luce illuminò per un attimo l'oro del candelabro, evocandone un barbaglio sinistro. Non appena l'elicottero ebbe concluso la brusca virata a 180 gradi, Breil si fece comparire in mano un piccolo telecomando. «È anche troppo che aspetto questo momento, Fasatne», esclamò, premendo il pulsante. Le sette microcariche che aveva fatto nascondere nei calici della Menorah consegnata al ricattatore libanese esplosero contemporaneamente. Un lampo illuminò il cielo del primissimo mattino, poi una scia di fuoco segnò la superficie del mare. Il Magnum si trasformò in una freccia ardente ed esplose. Il boato, seguito alla fiammata, arrivò distinto fino all'elicottero. «Adesso per te è davvero finita», mormorò Breil, afflosciandosi sul sedile come svuotato. «Voi italiani non siete responsabili di niente. Faccia pure ricadere tutta la colpa sul Mossad», concluse, rivolto a Vite. Quindi gettò un'occhiata all'orologio. In Italia erano da poco passate le cinque del mattino. Mancavano meno di venticinque ore alla mezzanotte di New York. New York. 31 dicembre 199... Times Square pullulava di agenti dell'FBI in borghese. Ma le ricerche che duravano ormai da più di un giorno non avevano dato alcun esito. Inoltre, a quel punto, la folla festante le complicava a dismisura. Il detective Huggins arrivò sulla piazza verso le 11.45, come faceva ogni anno quando non era di servizio. Dopo il successo dell'operazione contro gli spacciatori di droga e l'identificazione di Sarov, aveva ottenuto una vacanza premio, che sarebbe terminata il 3 gennaio. Strinse con affetto la mano alla moglie, mentre le cifre digitali del gigantesco orologio a forma di mela scandivano il tempo sul tetto a terrazza di un altissimo edificio davanti a loro. Ma dopo pochi minuti l'esperienza lo avvertì che qualcosa non andava. Nonostante i travestimenti, non avrebbe potuto non riconoscere i colleghi
che si muovevano furtivi tra la folla secondo schemi geometrici che conosceva alla perfezione. Prese il telefono cellulare e chiamò immediatamente la centrale per chiedere spiegazioni ed eventuali istruzioni. Erano le 11.51. Si sentì rispondere: «È un casino, Huggins. Gli uomini sono imbottigliati tra la folla e non riescono più a fare niente. Siamo quasi sicuri che la bomba è in Times Square. Il messaggio degli attentatori, inviatoci ieri da Breil, parla di 'tempo' e della Grande Mela. L'allusione a New York è fin troppo evidente, e quella al 'tempo' restringerebbe il cerchio a Times Square. Ma dove?» «Grande Mela?» esclamò Huggins, alzando lo sguardo al trentesimo piano dell'edificio: l'orologio luminoso che indicava le 11.53 era precisamente a forma di grande mela. «Torna subito a casa», ordinò alla moglie, senza darle alcuna spiegazione. «Via, via, presto, qui sta per scoppiare un casino tremendo.» Quindi le gettò il telefonino e cominciò a farsi energicamente largo tra la calca verso l'edificio dell'orologio. «Gli ascensori sono fuori uso, signore», lo informò il portiere, allargando le braccia. «Un corto circuito alla cabina elettrica. Stiamo aspettando la squadra di pronto intervento, ma ci vorrà almeno un'ora, se non due...» Huggins si lanciò verso la scala antincendio, non lasciandogli finire la frase e senza curarsi delle richieste di identificarsi che quello gli urlava dietro. Si sentiva scoppiare i polmoni. Il cuore sembrava impazzito. A dargli l'ultimo sprone fu l'urlo della folla festante che sentì salire fino a lì. «Meno trenta», gridarono ventimila voci in coro, quando era al ventisettesimo piano. Quindici secondi più tardi uscì sulla terrazza. Il vento gli batté gelido sulle guance roventi. Aveva il respiro talmente affannoso da temere di svenire. L'orologio a forma di mela, rivolto verso la piazza, era lì davanti a lui. Chiamò a raccolta gli ultimi residui di energia e si mise a cercare gli ordigni. «Meno dieci», urlò ancora la folla, schierata con lo sguardo fisso sul grande orologio. «Eccoli lì», ansimò Huggins, vedendo alcuni fili fissati a terra, che uscivano da una cassetta e raggiungevano il meccanismo elettronico che scandiva il tempo. «Meno cinque», sentì urlare dal basso. «Meno quattro.»
Si sdraiò per terra e afferrò con i denti uno dei due fili, resistentissimo. «Meno tre, meno due...» «Dio me la mandi buona», esclamò, stringendo i denti con tutta la forza rimasta. «Meno uno. Buon anno!» urlò la folla esultante «Buon anno, New York», mormorò Huggins, abbandonandosi esausto sul pavimento del terrazzo. 16 Seychelles. 20 gennaio 199... L'isolotto di Chauve Souris è poco più di uno scoglio, su cui alla fine del secolo scorso un nobile inglese si costruì una villa, successivamente passata di mano in mano fino a diventare proprietà di un intraprendente tour operator, che l'ha ristrutturata e trasformata in piccolo resort raffinato ed esclusivo. Laura stava ammirando la lunga spiaggia bianca di Anse Volbert, nell'isola di Praslin, riparandosi dal sole caldo con un cappello di paglia. La casa era composta di cinque sole stanze, arredate con finezza e dotate di ogni comfort, comprese alcune grandi vasche da idromassaggio. Ogni stanza era differente dall'altra e aveva un suo nome: Camera dell'Ammiraglio, della Principessa, del Pirata eccetera. La vasca Jacuzzi della loro stanza era all'esterno, incastrata tra rocce granitiche di un colore rossastro. Laura vi stava languidamente allungata, lasciandosi accarezzare dai getti d'aria dei bocchettoni posti sott'acqua e godendo della piacevole sensazione sulla pelle. Il soggiorno in quel luogo bellissimo aveva avuto origine da una telefonata di Oswald, una decina di giorni prima. «Voglio invitarti - con Kevin, naturalmente - a una breve vacanza per festeggiare il mio definitivo ritorno alla vita privata. E le Seychelles non c'entrano niente con le asprezze dell'Everest e dintorni. Pura vacanza, senza altre implicazioni. Te lo giuro. Non puoi deludermi. Ho invitato tutti i miei amici più cari.» Ancora una volta, lei non era stata capace di dirgli di no: aveva sistemato di nuovo Chiara da Gloria Steps e convinto Kevin che una vera vacanza poteva soltanto essere di giovamento per entrambi e anche per il loro rap-
porto. Ma non avrebbe mai immaginato niente del genere: Oswald aveva prenotato tutta la villa, sebbene i suoi ospiti occupassero soltanto quattro delle cinque stanze. «Kevin», disse, girandosi verso la veranda, «mi passeresti l'accappatoio, per favore?» Protetta dalle rocce, si alzò in piedi. Il suo corpo brillò di mille goccioline illuminate dal sole. «Questa è vita», esclamò ad alta voce, avvolgendosi nel soffice indumento di spugna. «L'ultima volta che hai adoperato un luogo comune siamo precipitate con un elicottero», si sentì richiamare dalla sottostante spiaggetta. «Cioè?» chiese, stupita, sporgendosi. «'I cinesi sono tutti uguali.' Per forza. Era sempre lo stesso. E ci è venuto dietro per mezza Cina senza che te ne accorgessi. Sarà meglio che lasci perdere le frasi fatte», le rispose l'amica, scoppiando a ridere. La gamba destra di Sara era sepolta nella sabbia corallina riscaldata dal sole. «Questi bagni di sabbia mi fanno davvero bene», riprese la giovane italiana, indicandola. Il rintocco di una campana segnalò loro che la colazione era servita. Raggiunsero il grande tavolo ovale. Oswald si sedette a capotavola, mentre due camerieri cominciavano subito a servire piatti degni del più esigente dei gourmet. «Care amiche», disse, alzando il calice verso Laura, Sara e Timna, «brindo alla vostra intelligenza, alla vostra astuzia e soprattutto alla vostra tenacia. I miei raggiri non sono riusciti a mettervi in difficoltà e ormai non ci riusciranno mai più, visto che sono felicemente tornato un privato cittadino.» I cinque amici brindarono con calorosa allegria, ma Kevin non riuscì a trattenersi dal replicare: «Ti conosco troppo bene, vecchio mio, per credere che riuscirai a disinteressarti del tuo paese». «È un'altra cosa, Kevin. Un'altra cosa. Ma niente più Mossad: l'ho giurato a me stesso, e sai bene che so mantenere le promesse.» «No, stavo pensando a un modo diverso di renderti utile al tuo paese. La politica, per esempio.» «Politica. Uhm. È un lavoro un po' sporco persino per me. Ma avrò tutto il tempo di pensarci. Adesso voglio soltanto godermi il piacere di avervi tutti accanto a me. Vi voglio bene.» Trascorsero i primi tre meravigliosi giorni in escursioni su spiagge de-
serte, lambite da specchi d'acqua turchese. Kevin partiva ogni mattina con l'attrezzatura per la pesca subacquea, ma tornava sempre a mani vuote. Confessò che al momento di premere il grilletto gli mancava il coraggio di colpire quei bellissimi pesci multicolori che si avvicinavano all'uomo senza alcuna diffidenza. La sera del terzo giorno, a cena, Sara chiese: «Oswald, com'è poi andata con il tesoro di re Salomone? Avete continuato le ricerche?» «Credo che purtroppo sia andato disperso. Ma aspettate un attimo», rispose l'omino, allontanandosi dal tavolo. Quando tornò, aveva con sé il dipinto di Antonio Fedeli e il disegno a carboncino di Pierre-Denis Lanvin. «Raffigura la facciata di una chiesina. Ma una chiesina resa un po' particolare da questa scritta sopra il portale, che l'artista ha fedelmente riprodotto: Terribilis est locus iste. 'Questo è un luogo terribile'. In genere frasi come questa indicano siti dove si sono verificate apparizioni sinistre o manifestazioni demoniache. È singolare che sia stata scolpita sulla facciata di una chiesa. Da essa, comunque, abbiamo capito che la chiesa raffigurata nel disegno di Pierre-Denis è quella di Rennes-le-Château. E purtroppo il cerchio si è chiuso.» «La chiesa dove il parroco Saunière passò improvvisamente da uno stato di povertà a uno di incomprensibile ricchezza?» chiese Sara. «Precisamente», rispose Breil. «Siamo arrivati alla conclusione che il parroco deve aver davvero trovato il tesoro di re Salomone, dilapidandolo.» «E la Menorah?» sbottò Laura. «Dove sarà finita, dopo aver accompagnato Namling e Antonio Fedeli fino a queste isole? Che combinazione: proprio qui.» E nei suoi profondi occhi azzurri si accese una luce mista di curiosità e ironia. Oswald srotolò sulla tavola il secondo dipinto. Proprio per questo li aveva voluti tutti lì, ed era arrivato il momento di rivelare il vero scopo di quella vacanza. «Sono convinto», spiegò, «che la Menorah sia esattamente sotto i nostri piedi. «È vero, Laura», continuò. «Siete vittime di un mio ennesimo raggiro. L'ultimo, vi giuro. E ad assoluti fini di bene. Il dipinto di Fedeli riproduce questa isola vista dal mare. Devo ammettere che non è stato facile riconoscerla in un quadro che raffigura semplicemente uno scoglio, ma alla fine ci siamo arrivati. C'è un particolare che se da un lato, sulle prime, ci ha tratto in inganno, dall'altro potrebbe significare la garanzia che in questi
due secoli il nascondiglio non è stato violato. «Osservate attentamente il quadro: il mare lambisce le rocce, e non esistono spiagge, che sono il segno di un progressivo insabbiamento naturale. Questa grotta poi, evidenziata con la stessa tecnica pittorica delle luci falsate usata da Pierre-Denis per tramandare i suoi criptomessaggi, è scomparsa. «Ebbene, Laura, sono convinto che al suo posto adesso ci sia la spiaggia che scorre sotto la vostra stanza. Sì, cara Sara, precisamente quella delle tue sabbiature. Teniamo presente che, stando al racconto che vi ha fatto il monaco tibetano, Fedeli avrebbe nascosto il candelabro da solo, e a quei tempi non esistevano autorespiratori per andare sott'acqua.» «Dobbiamo metterci subito a scavare», esclamò Sara, in preda a una visibile emozione. «No, non subito», replicò Breil. «Domani mattina arriverà una piccola imbarcazione con una Sorbona, ovvero un'attrezzatura per rimuovere la sabbia bagnata. In un paio di giorni di lavoro, e agendo con cautela, riusciremo a liberare il passaggio prelevando la sabbia dal fondo e non dalla superficie. Così le nostre mosse non potranno essere viste da eventuali sguardi indiscreti.» La barca arrivò nelle prime ore del mattino. I due uomini che la consegnarono, senza dubbio «amici» di Breil, lasciarono subito l'isola. Laura Joanson e Oswald si occuparono del primo turno di immersione. Era un'operazione abbastanza facile. Si trattava semplicemente di rivolgere il grosso tubo aspirante verso la sabbia e di rimuoverla progressivamente. Il tutto alla profondità di meno di due metri. Il terzo giorno di lavoro, praticamente senza sosta dalle prime ore del mattino all'imbrunire, vennero alla luce quelle che potevano essere le pareti della grotta dipinta da Fedeli. Oltre il primo metro del cunicolo, la sabbia arrivava soltanto sino a mezza altezza. Il lavoro ne fu facilitato, e i tempi si ridussero di molto. Fu comunque soltanto il quinto giorno che Laura scorse uno dei calici d'oro spuntare dalla sabbia. Deterse con reverente cura e con mani tremanti lo strato di sabbia che lo copriva. Ogni tentativo di rimuoverlo risultò però vano: i settanta chili d'oro facevano sentire il loro peso anche sott'acqua. Tornò quindi in superficie: doveva informare gli amici della scoperta e farsi aiutare. Vide Sara seduta su una delle poltrone nella zona comune, aperta sui lati. Era cerea.
«Che cosa ti succede? Ti senti male?» le chiese, stupita, non facendo caso al fatto che la vegetazione restringeva il suo campo visivo alla figura dell'amica. Tra le fronde fece improvvisamente capolino un viso familiare. «Marpessa!» esclamò. «Che cosa ci fai...» Le parole le si strozzarono in gola quando si accorse che la donna impugnava una pistola. Allibita, vide arrivare anche Timna, che precedeva mestamente Oswald. Camminavano entrambi con le mani alzate. Alle loro spalle un'altra donna li teneva sotto il tiro di una pistola. «Tutto fatto, amore?» chiese Marpessa, fissando le due donne su cui teneva spianata l'arma. «Tutto in ordine perfetto», ripose Nara Fasatne, facendo cenno a Timna e Breil di sedersi su uno dei divani. «Dobbiamo soltanto aspettare che torni l'affascinante generale Dimarzio, e poi tutta la casetta farà un bel botto. Il gas sta saturando la cucina. Che terribile sciagura: un banale incidente domestico distruggerà un gruppo di amici che si stavano godendo una splendida vacanza esotica. I giornali di tutto il mondo andranno a nozze.» «Perché lo fai?» chiese Laura alla donna che aveva sempre creduto un'amica più che una collaboratrice. Ma fu la vedova di Fasatne a rispondere: «Mi meraviglio che una persona intelligente come lei non abbia ancora capito, signora Joanson. La posta in gioco è l'impero creato da mio marito. Sono molti miliardi di dollari, e non posso consentire che le vostre testimonianze in uno stupido processo mi privino di ciò che è mio e che invece potrebbe essere confiscato». «Ci sono altre persone in grado di testimoniare», cercò di temporeggiare Oswald. «Pedine secondarie, lurido nanerottolo. Le loro deposizioni sono facilmente smontabili da qualsiasi buon avvocato. E posso permettermi i migliori. È stata davvero una grande fortuna trovarvi riuniti. Mi toglierò il pensiero in un colpo solo.» Kevin scese nella grotta in apnea: sapeva che era il turno di Laura, dopo di che sarebbe toccato a lui indossare le bombole e manovrare la Sorbona. Il suo fucile subacqueo non aveva ancora sparato nemmeno un colpo. Capì che qualcosa non andava non appena vide il tubo della sorbona abbandonato accanto al grande candelabro d'oro. Vide anche che Laura non era lì. Si sentì soffocare dal presagio di una disgrazia. Riemerse e si precipitò verso la villa da una scala laterale.
«Adesso, da bravi, entrate in cucina. Il personale di servizio è già lì, in vostra trepida attesa, legato e imbavagliato. Scusateci per il forte odore di gas. Ma non preoccupatevi, se inalato non è letale. Bisogna innescarlo con una piccola scintilla. Marpessa e io aspetteremo l'arrivo di Kevin. Se opporrete resistenza, vi troveranno tra qualche giorno mangiati dai pesci e con un bel buco in testa. Forza, muovetevi.» Il sibilo dell'asta lacerò l'aria. Marpessa strabuzzò gli occhi, cercando disperatamente di strapparsi dal collo l'arpione del fucile subacqueo di Kevin, che lo aveva trapassato. Nara si girò di scatto ed esplose un colpo a casaccio nella direzione da cui era partito l'attacco. La mossa fu sufficiente perché Timna potesse buttarsi sulla pistola lasciata cadere da Marpessa. L'agilissima giovane bruna compì un piroetta, rotolando fino al centro della stanza e vuotando il caricatore. Nara Fasatne si accasciò sul pavimento. Gerusalemme. 25 gennaio 199... La consegna della Menorah ebbe un carattere riservato, ma vi presenziarono il capo del governo e tutte le alte autorità politiche e religiose di Israele. Il rabbino capo di Gerusalemme si avvicinò in atteggiamento reverenziale al sacro simbolo della sua religione e del suo popolo. Accarezzò l'oro reso scuro dai millenni. Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Ricevo questo oggetto sacro al nostro Dio», intonò la sua voce profonda, riverberata dalle volte della sinagoga, «con l'impegno di custodirlo in un luogo segreto fino a quando non verrà realizzata la costruzione del Terzo Tempio. Così prescrive la Legge.» Conclusa la cerimonia, si rivolse a Oswald Breil, al centro degli intervenuti. «Il nostro popolo le è grato, maggiore, per aver restituito ciò che mani sacrileghe ci avevano trafugato quasi duemila anni or sono. La luce di Dio splenderà nuovamente su di noi grazie a lei e alle persone che hanno permesso questa impresa.» Quindi si rivolse a Laura, Sara, Kevin e Timna. «Alcuni di voi non appartengono al nostro popolo, eppure hanno rischiato la vita per riconsegnare la Menorah a Israele, in nome della rettitudine che accomuna tutti gli uomini, al di là delle divisioni politiche e religiose. Ve ne siamo grati.»
Alle parole del rabbino fece seguito una brevissima allocuzione del capo del governo, che la concluse dicendo: «Non ce n'è di sicuro bisogno, ma ritengo comunque doveroso ricordarvi che tutto ciò deve rimanere coperto dal più assoluto riserbo fino all'ultimazione del Terzo Tempio, come comanda la Legge di Israele». «Avrei bisogno della vostra attenzione ancora per un attimo, amici», disse Oswald Breil, quando le autorità religiose e politiche si furono allontanate. Gli altri si scambiarono uno sguardo stupito e poi lo guardarono. Erano rimasti soltanto loro, gli amici più intimi: Sara, Timna, Laura e Kevin. L'omino si spostò rapidamente sulla destra della sinagoga e trascinò verso di loro un voluminoso oggetto, posato su un carrello e coperto da un telo di lino. «La Legge impone che la Menorah venga esposta soltanto quando la costruzione del Terzo Tempio sarà ultimata, ma niente ci vieta di mostrare questa al nostro popolo.» Così dicendo, davanti ai quattro amici stupefatti, Breil rimosse il drappo, scoprendo un altro esemplare del sacro candelabro. Sara e Laura si avvicinarono in silenzio, scrutandolo sbalordite. «Ma questa...» sbottò Sara con voce resa incerta dalla sacralità del luogo e del momento: «Questa... è la riproduzione che abbiamo trovato a Parigi. Non era saltata in aria con Hytham Fasatne?» «Una riproduzione. Certo, Sara, hai ragione, è soltanto una riproduzione, per quanto antichissima. E noi l'abbiamo fatta riprodurre di nuovo. In soli cinque giorni i nostri artisti sono riusciti a realizzarne una copia identica, prima in base alle foto che avevi scattato tu e poi avendo a disposizione l'originale. Non aveva magari lo stesso peso in oro di quella da cui è stata copiata - anzi, molto, molto meno -, e non era precisamente... ehm... identica, però... «Mi dovete perdonare - soprattutto tu, Laura, e tu, Kevin -, ma vi ho sottoposto a un altro dei miei raggiri. Rischiosissimo, ma obbligato. Non potevo agire altrimenti, e per fortuna il risultato mi ha dato ragione. Agli emissari di Fasatne avete consegnato la nuova replica della seconda Menorah. Soltanto occhi espertissimi e strumenti molto sofisticati avrebbero potuto svelare la sostituzione. E ho contato sul fatto che, fra un trasporto e l'altro, Fasatne non avesse tempo di farla controllare troppo attentamente. Tutto è andato bene.
«Dovete capirmi, amici: non avrei mai potuto distruggere una Menorah antichissima e con ogni probabilità appartenuta a un sacerdote del Tempio. «Ho già chiesto solennemente al nostro rabbino», concluse Oswald, «che venga esposta nella sinagoga con una cerimonia pubblica.» EPILOGO Portovenere. Italia. 2 marzo 199... La chiesetta di San Pietro era troppo piccola per accogliere gli invitati e i molti curiosi assiepati sulle rampe che risalgono il promontorio a picco sul mare. Un sole caldo mitigava la tramontana. Kevin Dimarzio, in alta uniforme di generale della us Air Force, aspettava la propria sposa sulla soglia. E finalmente Laura Joanson comparve, seminascosta tra gli accompagnatori. Era bellissima, fasciata in un abito bianco molto semplice e di grande eleganza. Kevin andò a sistemarsi davanti all'altare, e lei lo raggiunse. Il suo promesso stava per adempiere all'antica tradizione di famiglia: doveva sposarsi lì. Gli sposi avrebbero voluto una cerimonia più intima, ma l'elenco degli inviti si era allungato a dismisura. Molte personalità eminenti avevano voluto manifestare la loro amicizia ai due sposi, dal primo ministro israeliano ad alcuni membri della famiglia reale inglese, a rappresentanti del governo italiano e statunitense. I regali erano principeschi: argenti preziosi, arazzi antichi e persino un aereo per il trasporto degli ospiti, messo a disposizione dal governo di Israele. Ma il dono più gradito da Laura era quello di Oswald Breil: l'ultimo dipinto di Antonio Fedeli, chiuso in una cornice dorata «Vuoi tu, Laura Joanson...» Mentre il sacerdote pronunciava la formula di rito, Laura si scoprì a ripensare in un lampo a tutte le avventure vissute da quando aveva conosciuto Kevin. Alle sue spalle, Oswald si stava tergendo gli occhi, del tutto incurante degli sguardi puntati su di lui. «Sì, lo voglio», rispose. Le forti braccia di suo marito la cinsero nell'abbraccio di rito. All'uscita dalla chiesa la folla degli invitati e dei curiosi coprì i due sposi con un lancio augurale di riso. Kevin e Laura scesero a piedi fino al porticciolo, costeggiando le case variopinte del borgo ligure. Rimaneva ancora
una promessa da mantenere: visitare i resti della città di Luna, leggendario luogo d'origine della famiglia Dimarzio. Si imbarcarono sul motoscafo con il sole ormai prossimo al tramonto. L'imbarcazione si mosse, raggiungendo in breve il centro del golfo. Laura si voltò a guardarsi alle spalle: la sfera infuocata del sole si stava infilando con precisione nello stretto tra la terra ferma e l'isola Palmaria. La chiesa di San Pietro, in controluce, sembrava immersa nel mare. Si sentì inumidire gli occhi: stava assistendo a uno spettacolo straordinario. «È uno scenario senza eguali», mormorò. Kevin la strinse a sé e le accarezzò i capelli. «Adesso capisci perché tanti poeti, scrittori e artisti di ogni parte del mondo hanno cercato ispirazione in questo golfo.» Poco dopo scesero a terra e, tenendo per mano la piccola Chiara tra loro, si avviarono verso gli scavi della città di Luna. Kevin, raggiante, respirava a pieni polmoni l'aria fresca della prima sera. Sentiva aleggiare intorno a sé il sentore delle sue origini. «Sai, Chiara», disse alla bambina, «da questa città è partito tutto il marmo che ha reso splendida la Roma degli imperatori.» «Che cosa è Roma?» chiese la piccola con la sua vocetta acuta. Kevin sorrise e la prese in braccio. «Una grande città, Chiara, forse la più grande di tutti i tempi.» La piazza del foro era quasi deserta. Un turista solitario era perduto in ammirazione di alcune colonne, a pochi passi da loro. Chiara si liberò dalla presa del padre e si mise a sgambettare tra le rovine, tallonata da vicino da Laura, timorosa che potesse cadere. Kevin le seguì con lo sguardo: erano la sua famiglia, il suo mondo, il suo avvenire. Un gesto del turista solitario lo riempì di terrore. Si era girato verso di loro e brandiva una pistola. «Non è mai successo che non portassi a termine una missione», esclamò con voce alterata dal furore. «E questa volta non avrò titubanze.» Nei suoi occhi si vedeva la luce del delirio omicida. Puntò l'arma su Chiara. «Morirete con il ricordo di aver visto vostra figlia morire», urlò. Sebbene fosse tornato alla vita civile, Oswald Breil non aveva rinunciato a un'abitudine: era troppo tempo che portava con sé l'arma di ordinanza. Era appena arrivato in un'auto con Ferdinand e Gloria Steps alla città di
Luna per prendere Chiara e lasciare liberi i due sposi di abbandonarsi alla loro felicità in solitudine. Visto ciò che stava succedendo, non ebbe la minima esitazione. Estrasse l'arma, la puntò verso l'uomo che gli girava la schiena e premette il grilletto. Laura e Kevin videro la faccia del finto turista torcersi in un'espressione stupefatta. L'uomo si accasciò a terra e morì senza sapere chi lo avesse colpito alle spalle. «Tagil Sarov», esclamò Breil, chinandosi sul cadavere e girandogli la testa in maniera da poterlo vedere in viso. «Ha finito anche lui di affliggere il mondo.» In un grandioso tramonto esploso in tutte le sue vibrazioni cromatiche, dal rosso infuocato ai viola e blu della notte che avanzava inesorabilmente, Laura e Kevin si gettarono sulla piccola e la strinsero in un abbraccio appassionato. Capirono che, finalmente, niente e nessuno avrebbe più potuto turbare il loro futuro. RINGRAZIAMENTI Come sempre alle mie tre «donne di casa», Consuelo, Andrea e Beatrice. Credo sia più facile trovare le Muse tra le pareti domestiche che tra le grotte, le fonti e i boschetti di Parnaso ed Elicona. E inoltre all'ammiraglio Luigi Romani, al comandante Giancarlo Cavallero e al professor Giulio De Gregorio. FINE