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RICHARD LA PLANTE MANTIDE (Mantis, 1992) Ringraziamenti all'ufficiale Michael Cullin, dell'Unità di prevenzione del crimine di Lower Merion; a Terry O'Neill, che ha supervisionato il manoscritto, e alla sua rivista Fighting Arts International; a Graham Noble per la gentile concessione a usare il suo nome; a Dennis Martin, della «CQB Services», per importanti informazioni riguardanti armi da fuoco e altri strumenti di offesa. Quando la velocità dell'acqua che scorre raggiunge il punto in cui riesce a spostare i macigni, questa è la forza dell'impeto. Quando la velocità del falco è tale che può colpire e uccidere, questa è la precisione. E così è per il guerriero allenato: la sua forza è rapida, la sua precisione esatta. Sun Tzu, L'arte della guerra Campionati giapponesi di karaté Nippon Budokan Hall Tokyo, Giappone Agosto 1976 «Come si chiama?» L'uomo che parlava era il dottor Kenwa Itosu. Benché minuto, di statura non superiore al metro e mezzo e di peso inferiore ai cinquanta chili, aveva un volto feroce dallo sguardo penetrante e labbra sottili serrate in un'espressione costantemente corrucciata. «Come si chiama?» ripeté il dottore, accovacciandosi direttamente davanti al concorrente caduto. Josef Tanaka sentì l'odore di hamachi alla griglia nel fiato del piccoletto, notò il sudore che gli copriva la fronte e per un istante si chiese come fosse possibile che il minuscolo dottore lo guardasse direttamente negli occhi.
«Tanaka... Josef Tanaka,» rispose. «Riesce ad alzarsi?» insisté Itosu, i cui piedi sudati lasciavano impronte umide sul pavimento di dura canapa. «Sì,» rispose Tanaka. Qualsiasi cosa pur di sfuggire al puzzo di pesce che esce dalla tua bocca. Spinse con le mani, poi fece forza con i quadricipiti per completare il compito di alzare in posizione verticale il suo metro e ottantotto centimetri. Ora la testa del dottore si trovava all'altezza dello sterno di Tanaka. «Sa dove si trova?» Tanaka inspirò, tentando di mettere a fuoco una serie di facce minuscole che lo fissavano dalla fila più bassa dei sedili dello stadio. Quello è mio padre? Si, è lui, seduto vicino a Toshiro Mifune, l'attore del cinema. «Alla Budokan Hall,» rispose. «Può continuare?» incalzò il dottore, interpretando l'innaturale silenzio dei diecimila spettatori. C'era ancora un ronzio nella testa di Josef, simile al sibilo metallico del trapano di un dentista. Sudore misto a sangue gocciolava giù dal suo naso e scorreva in rivoletti sul cotone bianco della giacca aperta del suo gi. Avrebbe dovuto rispondere no. «Sì, posso continuare.» Kenwa Itosu sorrise sollevato, poi fece un cenno all'arbitro il quale, a sua volta, fece un cenno ai quattro giudici d'angolo. Un fischio acuto tagliò l'aria. A quel segnale, una bandiera bianca e tre rosse si alzarono contemporaneamente. Ippon. Ike-waki. La dichiarazione dell'arbitro di un full point e di un tied match si incrociò con l'applauso di ottomila spettatori. Josef Tanaka si girò di fianco verso il quadrato di otto metri poi alzò la mano destra e si afferrò il naso tra il pollice e l'indice. Ruotò leggermente la mano stringendo e sentì la cartilagine rotta assumere una posizione apparentemente dritta. Ha il pugno più duro di tutto il Giappone. Ecco cosa dicevano di Hiro, suo fratello. Ora Josef ne era convinto. Si diresse rapidamente verso la sua linea bianca. Un solo full point e dodici secondi avrebbero deciso le sorti di quel match finale. L'applauso svanì e ad esso si sostituì una concentrazione elettrizzata. Hiro Tanaka si tenne a una distanza di tre metri, dirimpetto al fratello: una fresca scarica di adrenalina distrasse Josef dal dolore fisico. Concentrò tutta la sua attenzione sugli occhi scuri a mandorla di Hiro. Una paura irra-
zionale minacciava di privare i suoi arti della capacità di muoversi. Era una paura infantile, la paura di un fratello maggiore. Come se, a causa dell'età, a Josef non fosse concesso vincere. Un dilemma morale cominciò a torturare il suo animo. E se lo battessi? Davanti a nostro padre... «Hajime!» Il richiamo iniziale dell'arbitro interruppe i suoi pensieri. Josef attese, mantenendo la sua posizione, e guardando il piccolo corpo vigoroso di Hiro che avanzava verso di lui. È stato tre volte campione nazionale. Ha vinto tre volte di seguito. Altri pensieri lo attraversarono, diffondendo insicurezza. Lo sguardo di Hiro si puntò su quello del fratello: non poteva fare a meno di vedere la macchia bluastra che si diffondeva attorno al naso di Josef e il gonfiore che gli socchiudeva l'occhio destro. Gli spiaceva aver danneggiato quel viso aggraziato, quasi bello. Si sarebbe scusato più tardi. Ma ora, non c'era tempo per il sentimento e la compassione. Era urgente segnare un punto, era indispensabile. Più che una questione sportiva, quella era una faccenda di onore familiare. Lui era il sempai di Josef, il fratello maggiore di età e superiore per rango. C'era un'altra differenza tra i due fratelli: Hironori era un samurai puro, il figlio di Mikio Tanaka e Kamisaka Enoeda. Josef era nato dal secondo matrimonio di Mikio con una donna americana dell'alta società. Josef non era un samurai e neanche un giapponese purosangue. Dieci... nove... Josef riusciva quasi a contare i secondi che passavano con il battito del proprio cuore. Osservò l'uomo più piccolo e più robusto di lui muoversi lentamente in avanti. L'indecisione rendeva Josef nervoso, ma nello spazio che li separava non c'era posto per essa. Hiro vide il respiro irregolare del fratello, intuì dal suo comportamento che era agitato. Otto... sette... l'avrebbe colpito subito, appena l'arbitro finiva di contare. Sei... cinque... quattro... «Hei!» Hiro colpì una volta, con gesto breve e rapido, sferrando un diretto sinistro a livello della gola. Josef reagì, alzando entrambe le mani e arretrando di mezzo passo. È scoperto, completamente scoperto. Quella consapevolezza lo colse contemporaneamente al balzo in avanti di Hiro Tanaka. Lasciatosi cadere sul ginocchio piegato, Hiro sferrò un rovescio verso il cuore del fratello. In quella frazione di secondo, Josef vide il suo obiettivo. Il suo corpo reagì prima della sua mente, quasi suo malgrado: la sua gamba sinistra si sol-
levò per assestare un calcio circolare alla testa non protetta di Hiro. Josef era vicino, troppo vicino e fu la sua cresta tibiale ad entrare in contatto con il cranio di Hiro. Ci fu un rumoroso scricchiolio, simile a quello della rottura di tre ossa. Josef sentì un'esplosione di dolore. Pensò, per un istante, di essersi rotto la gamba. «Yame!» L'urlo dell'arbitro coincise con l'acuto segnale acustico che concludeva il match. Hironori Tanaka rimase sul tappeto, inginocchiato come se pregasse. Il suo corpo tremava. Poi cadde lentamente di lato, con le gambe ripiegate in posizione fetale. «Non spostatelo!» urlò Kenwa Itosu. Un istante dopo il piccolo dottore era inginocchiato a fianco dell'uomo ferito, ed esaminava con le dita le vertebre della nuca di Hiro. Nello stadio cadde un silenzio pesante come un sudario. Josef fissò la scena, vide gli occhi a mandorla di suo fratello e notò, come per la prima volta, quanto fossero diversi dai suoi. Occhi da samurai, occhi puri e belli. Dietro di loro, Mikio Tanaka si alzò tra la folla e si spinse avanti, agitando le braccia robuste per farsi strada. Josef percepì suo padre che si avvicinava e tuttavia non riuscì a voltarsi indietro: gli occhi di Hironori glielo impedivano. Erano sinceri, privi di inganno; sembravano parlare, rassicurare. «Sto bene, davvero. Nessun problema, fratello, nessun problema...» Mikio Tanaka salì i gradini che conducevano alla piattaforma rialzata. «Hiro, figlio mio, Hiro.» Josef udì quella voce tonante che ripeteva il nome di suo fratello, più e più volte. Le labbra di Hironori si piegarono in un debole sorriso. Per un momento ci fu speranza. Poi quel sorriso svanì e il suo corpo divenne immobile, assumendo la rigidità di un corpo inanimato. Kenwa Itosu scosse la testa, e un'espressione di sconfitta gli corrugò la fronte. Da un angolo dello stadio, due uomini portarono una barella. Mikio Tanaka si inginocchiò a fianco del figlio maggiore, sussurrando, implorando. E per tutto il tempo gli occhi di Hironori rimasero aperti, spalancati come quelli di un animale ferito e penetrarono sempre più a fondo nel cuore di Josef. In silenzio, Josef cominciò la sua preghiera cristiana, implorando Dio di far rialzare il fratello. Fu allora che Mikio Tanaka si voltò e alzò lo sguardo: piangeva. Fissò Josef dritto negli occhi, le sue labbra si serrarono e il suo volto si indurì in
una maschera d'odio. Nella mente di Josef, la preghiera al Signore morì. In seguito avrebbe cancellato il ricordo di quei momenti, ma non avrebbe mai dimenticato le parole che suo padre gli disse mentre camminavano, spalla a spalla, attraverso la folla silenziosa. «Tu sei un budoka: vivi in base al codice del guerriero. Non esistono disgrazie.» I Lou-Prego-Dieu L'ANIMALE CHE PREGA DIO L'uomo discese lentamente il corridoio lastricato, con grandi vasi di vetro messi in fila lungo le pareti metalliche: era buio e deserto. L'odore della carne, quello dolciastro del sangue e quello penetrante dell'urina secca si mescolavano, creando una fragranza familiare. Restò in ascolto, con le orecchie attente al minimo rumore insolito. Finalmente la udì, che lo chiamava facendo tremolare le ali velate. Si fermò un istante e inalò per sentirne l'odore, secco e dolce. Poi proseguì. Si diresse verso una porta metallica grigia in fondo al corridoio. Tolse il lucchetto ed entrò in una piccola stanza ottagonale, illuminata da una calda luce violetta. Vasi di vetro erano allineati sugli scaffali. Alcuni servivano per le provviste, altri erano «vasi per l'uccisione». Prima si tolse i pesanti stivali, poi gli abiti e la biancheria intima. Piegò i vestiti e li mise ordinatamente impilati accanto alla porta chiusa a chiave. Poi, nudo, si diresse verso gli scaffali e tolse in silenzio il coperchio perforato a un vaso delle provviste. Vi infilò dentro la mano e afferrò tra il pollice e l'indice un grande scarafaggio. L'animale si agitò, contorcendosi all'insù per opporsi all'intrusione dell'uomo, chiudendo le forti mandibole appuntite sulla carne del suo assalitore. Quel lieve pizzico fu inutile al suo scopo. L'uomo andò rapidamente al tavolo da lavoro al centro della stanza. La Mantide era lì che lo aspettava. L'uomo spinse la preda attraverso l'apertura della gabbia creata appositamente per far passare il nutrimento e agitò l'indice per staccare lo scarafaggio, che cadde sul pavimento della gabbia. Inizialmente l'insetto color marrone scuro rimase immobile, poi, acquisita maggior sicurezza, cominciò ad avanzare, sperimentando il nuovo ambiente.
L'uomo si sedette sulla panca di legno adibita all'osservazione, concentrandosi sull'oggetto della sua adorazione: ne osservò il petto elegante, il colore verde pallido, le ali velate. Grandi occhi di diamante lo trovarono e lo penetrarono nel profondo, accettando il suo dono. Comprendendo il suo desiderio. Una vibrazione piacevole li congiunse, un transfer di coscienze che si era sviluppato oltre la ragione e la colpa. Lei fu scossa da un tremito convulso. Lo scarafaggio sentì il suo movimento e lo interpretò come un segno di vulnerabilità. Il suo corpo sembrava molto più ampio e anche molto più robusto di quello della Mantide. L'insetto iniziò un lento avvicinamento, con la mente condizionata da una fame perpetua, i muscoli tozzi e malfatti. L'uomo osservò, eccitato in un modo che oltrepassava i limiti dell'eccitazione sessuale, benché provasse qualcosa ai genitali. Si accarezzò una volta, trattenendo la sua ansia di adoperare la siringa, di iniettare la sostanza nel suo pene flaccido per arrivare alla piena potenza. Ma quello non era il momento di allenarsi, quello era il momento di imparare. Concentrati! La voce della Mantide annientò il suo desiderio. La mossa seguente dell'insetto lo fece ansimare e l'uomo si sentì più la sua vittima che il suo studente. Alzatasi sulle quattro zampe, la Mantide distese le ali come vele spiegate; la punta del suo addome si arricciò verso l'alto, alzandosi e abbassandosi rapidamente, ansimando, e rivelando al centro di esso una stupenda stella, bianca e pura. L'uomo fu attratto dalla stella e la sua mente si tese fin quasi a raggiungere la sofferenza. Lo scarafaggio reagì allo stesso modo, risucchiato nel vuoto che precede la morte. La Mantide fu ingrandita nella loro percezione e due file di punte affilate comparvero a ogni lato delle sue cosce esposte. Le sue zampe anteriori si ripiegarono incastrandosi insieme e anche le sue delicate caviglie si ricoprirono di piccoli denti acuminati. Due uncini aperti, a punta doppia come un paio di cesoie, si sostituirono alla punta delle zampe. L'uomo e lo scarafaggio la fissarono, paralizzati dall'orrore che si celava sotto la sua bellezza. Poi gli uncini calarono, e gli arpioni della Mantide si chiusero e si aggrapparono al corpo duro dello scarafaggio stringendolo al suo. Il suo abbraccio era intimo e definitivo. Per alcuni momenti le mandibole della sua vittima si aprirono e si chiusero, ma soltanto a vuoto, mentre le rigide zampe dello scarafaggio scalciavano in segno di protesta. Finalmente le lunghe ali si chiusero, avvilup-
pando e seppellendo. Dentro il morbido corpo verde dell'insetto, il pranzo era iniziato. L'uomo attese rispettosamente, cosciente dell'inadeguatezza della sua tecnica e del suo stile, paragonando la bravura della sua adorata con i suoi rozzi sforzi. Tuttavia era ben deciso a migliorare, a lottare per la perfezione, perché soltanto raggiungendo la perfezione avrebbe trovato sollievo. Passò un'ora prima che la Mantide fosse sazia. Sul pavimento della gabbia rimase un involucro marrone. Poi i suoi occhi di diamante si rialzarono, cercando l'uomo. Birdcage Lounge and Nitespot, Filadelfia, USA 26 ottobre 1990 She is like a cat in the dark and then she is the darkness... La canzone era stantia come l'aria, la voce di Stevie Nicks gracchiava attraverso le paratie consumate. Come Orson Welles sulla mongolfiera. Gina non riusciva a ricordare quale giornalista avesse scritto quella frase, ma era certamente vera. Si sporse in avanti guardando il suo viso allo specchio, fissando le sue narici, scrutando i minuscoli cristalli bianchi che sporcavano una di esse. Alzò la cannuccia e aspirò dall'altra narice l'ultima striscia di polverina. Quella sensazione di fresco era piacevole: avrebbe potuto farsi felicemente estrarre i denti davanti senza paura di soffrire. Il ritornello di Rhiannon, taken by, taken by the sky... si diffuse direttamente sotto il suo camerino, in realtà un cubicolo chiuso da tende che i sei «artisti» dividevano. Ottantotto secondi all'inizio dello spettacolo. Gina gettò la cannuccia pieghevole che aveva usato in un cestino pieno di Kleenex sporchi di mascara. La University of the Arts: domani mattina sarebbe stata al suo cavalletto da pittore, con i jeans strappati e i capelli legati indietro. Disegno dal vero, professore Stan Kramer. Lui sarebbe stato dietro di lei, con la gamba che si insinuava contro la sua coscia. «Forse un po' d'ombra attorno agli occhi.» Probabilmente sarebbe andata a letto con lui prima della fine del corso: le ricordava suo padre, aveva qualcosa in quel sorriso sotto la barba, quasi da donnola, da animale predatore. Dove sarà papà adesso? Si starà scopando una nuova paziente? Sarà in volo verso Las Vegas? O è laggiù tra il pubblico? Quell'ultimo pensiero fece ridere Gina.
Un'energia artificiosa la pervase. Si alzò in piedi, ancheggiando con atteggiamento auto-ironico. Le ultime frasi della canzone, ormai vecchia di quindici anni, salirono di tono. Crackle, crackle. La pausa di venti secondi prima che Z Z Top la lanciasse sotto i riflettori. Incrociò Jeanette sulle scale. «Attenta, c'è un Impermeabile nella fila davanti», la avvertì la ragazza nera, lasciando dietro di sé una scia di «Giorgio» mentre passava. «Impermeabile», era così che le ragazze del club chiamavano i maniaci che venivano a fare i loro comodi nella sala. Un Impermeabile... Gina ripeté quella parola mentre saliva i primi tre gradini che conducevano alla gabbia. Chiuse il cancelletto cromato appena in tempo, mentre iniziava il pezzo di chitarra. Il pubblico divenne attento. Fece una giravolta d'effetto, facendo balenare una coscia attraverso lo spacco esagerato della gonna. Mio Dio, quanto posso essere kitsch? pensò dietro una facciata di studiata indifferenza. Poi il suo corpo cominciò a muoversi a tempo con il ritmo del basso e della batteria. Ecco uno dei vantaggi dell'essere su di giri: quando i suoi occhi mettevano a fuoco, il sedere stava già ballando. Allargò le gambe, accucciandosi leggermente e mettendo un po' in tensione i muscoli sotto le ginocchia. Danzatrice esotica. Cinquanta dollari all'ora. Deve averne più di diciotto. All'inizio non era stata certa di volerlo fare. Non le servivano i soldi, a quello provvedeva papà. La psichiatria rendeva bene, soprattutto a Beverly Hills. Aggiungendo una cifra extra che il padre le dava per farsi perdonare il fatto di vivere con una ragazza di appena due anni più vecchia della figlia, Gina poteva godere di un costante afflusso di denaro. Come se suo padre avesse potuto comprare la sua approvazione! Lei aveva bisogno, pensava, di affermare se stessa. Quel lavoro le dava quel pizzico di esperienza che mancava agli altri «artistoidi» del secondo anno. Lo faceva soltanto per poter dire: «Lavoro come ballerina». Every girl's crazy for a sharp-dressed man... La frase della canzone coincise con il suo sorriso. L'Impermeabile. Ha un aspetto migliore degli altri, il viso giovanile e sciupato soltanto da un piccolo naso leggermente gobbo. Come il naso di un pugile, pensò Gina, cercando inconsciamente gli occhi nascosti dietro le ombre scure degli zigomi alti. L'uomo indossava un giubbotto di pelle lucida e dondolava la testa a tempo con la musica. Aveva una mano in vista,
che stringeva un bicchiere alto: una mano grande, brutta; l'altra era nascosta sotto il tavolino. Si notava un lieve movimento della spalla in corrispondenza della mano nascosta. Un Impermeabile. Sorrideva da un orecchio all'altro. Non guardarlo, penserà che tu ci stia. Non ricambiare le sue occhiate. Gina si voltò, concentrando lo sguardo su un tavolino affollato di orientali in giacca e cravatta. Cominciò a far scivolare la giacca di seta dalle spalle, tenendo il ritmo. Quando la lasciò cadere rimase coperta soltanto da un reggiseno di pizzo nero. Le luci rosse sulla sua testa accentuavano i seni prosperosi. Gli uomini d'affari giapponesi si appoggiarono allo schienale delle sedie, dandosi l'un l'altro dei colpetti sulle spalle, gesticolando in direzione della gabbia, spostandosi per vedere al di là delle sbarre verticali. Sharp-dressed Man sfumò nel lento e più trascinante Rough Boy. Gina si concentrò sui giapponesi e infilò i pollici sotto l'elastico della gonna, muovendosi con disinvoltura mentre la sua sicurezza si trasformava in pulsazioni regolari del cuore. Osservò la faccia di luna piena più vicina annuire vigorosamente quando la gonna cadde a terra. La ragazza si sfregò in modo suggestivo i palmi sulla pelle liscia e abbronzata al di sopra delle calze. Si sentiva sicura adesso, sotto controllo, e così cambiò direzione e lanciò un'occhiata alla sua sinistra. Sul tavolo rimanevano soltanto una bottiglia dal collo lungo e un bicchiere pieno a metà di un liquido scuro, probabilmente Coca-Cola. L'Impermeabile era scomparso. Mentre si toglieva il reggiseno, Gina si rilassò. Un metro e sessantasei o sessantasette, probabilmente cinquantotto chili, tette grandi e sode, molta protezione sopra il cuore. Gambe forti, ritmo impeccabile, un'atleta naturale. Ha preso il sole. Forse ad Atlantic City, un sacco di show girl vanno ad Atlantic City. Questa non avrà più di vent'anni, il suo viso ha una rotondità adolescenziale. Collo lungo, sì ecco, collo lungo. La giugulare pulsa durante la respirazione, scompare durante l'inspirazione; s'indurisce durante l'espirazione. S'indurisce... L'uomo si passò la punta quadrata e callosa di un dito sulla cerniera dei pantaloni, e la premette contro la sua erezione completa e turgida. Quattro ore, sono a posto per altre quattro ore... Si appoggiò al muro. «Le porto qualcosa? Una birra?» Era davanti a lui, a impedirgli la visuale. «È seduto a un tavolo?» Nessuna risposta.
«Non può stare qui, è davanti all'uscita di sicurezza.» L'uomo si raddrizzò, fissando la ragazza nera con occhio attento. Ricordava il numero che le aveva visto fare: adesso portava un vassoio. Aveva un profumo intenso, dolce e speziato. Ricambiò lo sguardo, dimenticando per un momento i suoi scopi. Ebbe il desiderio di accettare la proposta della ragazza. «Senta, se non si sposta...» L'uomo non aspettò che giungesse la minaccia. Ruotò su se stesso, afferrò con la mano destra la maniglia ricurva e oltrepassò la pesante porta, che si richiuse alle sue spalle. Udì la ragazza che trafficava con la sbarra della serratura, la immaginò che posava il vassoio delle bibite sul pavimento e faceva leva con il proprio corpo, sforzandosi di far tornare a posto la grossa maniglia. Quella ragazza si era resa conto, seduta stante, della sua forza e della sua maestria. Silenzioso, i passi attutiti dalle suole di gomma, dal vicolo si diresse verso il lampione. Nel punto in cui il vicolo arrivava al marciapiede, passarono due persone. Nemici. La voce che lo avvisava era dolce ma decisa, più nitida delle altre nella sua testa. Era la voce della sua maestra, della sua guida. Si fermò e si voltò, scrutando tra le ombre in cerca del profilo esilissimo della Mantide, in attesa di udire i lievi passi dell'ortottero. Il caffè aperto ventiquattr'ore si trovava a cento metri di distanza e da quel punto l'entrata e l'uscita del club erano ben visibili. Il cameriere trasalì quando vide la mano spatolata che indicava con il dito il cartello «Acqua minerale, $ 1.25». L'uomo teneva la testa china, dondolava il bicchiere e ne ordinava un altro quando il primo non era ancora terminato. Era intento alla pratica di pulizia del fiato, e inghiottiva il liquido ghiacciato soltanto dopo aver fatto cinque espirazioni. Era una macchina, una macchina respiratoria, era tutto concentrato sui sensi, sintonizzato sul corpo. «Qualcos'altro, signore?» Non erano necessarie le parole: non alzò lo sguardo e porse al cameriere un biglietto da cinque dollari, evitando il contatto con le dita sudice di quell'uomo poiché aveva notato lo sporco che aveva sotto le unghie. Le mani dell'umanità, non lavate, non addestrate. Di nuovo la voce. «Tornerò con il resto.» Allontanò il cameriere con un cenno. «Grazie.»
Trenta secondi più tardi, Gina uscì dal club. Lui la guardò fermarsi un momento a parlare con la ragazza nera; poi, voltarsi e dirigersi ad est, verso il fiume. L'uomo rimase nella sua posizione, eccitato ma sotto controllo. Scolò il resto dell'acqua, trattenendo il fiato, sentendo il suo cuore e misurandone il battito con la lancetta dei secondi dell'orologio. Cinquantadue al minuto, eccellente. Nessun nervosismo... Stavolta la voce della Mantide si sincronizzò perfettamente con i suoi pensieri. Si alzò in piedi e guardò con la coda dell'occhio il suo riflesso che oltrepassava la portavetri: il suo corpo sembrava più magro, i lineamenti del viso confusi. La metamorfosi stava per avvenire. Gina prese nella mano sinistra la banconota piegata da cinquanta dollari, spingendola in fondo al portafogli mentre passava. Con la destra portava una sacca di Gucci. Era in pelle morbida e conteneva i suoi «abiti da lavoro» e i cosmetici. Indossava delle Reebok bianche, un paio di larghi pantaloni color cachi, la divisa da esercitazione usata dai militari della Marina americana, e un maglione beige. Dall'abbigliamento, era difficile identificarla come una spogliarellista, salvo la mini-mutandina di seta rossa. L'aveva tenuta addosso, la faceva sentire sexy, le ricordava che era qualcosa di più di una semplice studentessa. La sua mente si concentrò su Stan Kramer. Fantasticò su una festicciola in casa sua, soltanto per loro due. Lei avrebbe fatto alcune battute, poi avrebbe mostrato al signor K. che cosa imparava all'università. Quanti anni ha? Quaranta, quarantacinque? È abbastanza vecchio da essere mio padre. Quei pensieri le rievocarono una rabbia che aveva sepolto. Come ha potuto abbandonarci? Andarsene così, lasciando sole me e mamma? Il grande strizzacervelli, il dottor Compassionevole, il famoso psichiatra. Improvvisamente, Gina si sentì piccola, senza valore e totalmente sola. L'effetto della cocaina stava terminando e il borsone di Gucci cominciava a pesarle in mano. Una spogliarellista... Meditò penosamente sulla difficile parte che aveva deciso di recitare. Prima di andare a dormire scriverò a mamma. E da stasera in poi, niente più coca. Ecco tutto. Aveva già preso altre volte quella decisione: stavolta, però, l'avrebbe mantenuta. Era l'una e quarantadue quando Gina voltò a destra sulla Second Street, affrettando il passo fino all'ultimo angolo prima di Queen Village. Il suo
appartamento era uno dei più nuovi del complesso residenziale moderno. Adesso poteva vedere la sua casa. Era al secondo piano di uno stabilimento industriale recentemente ristrutturato. Aveva lasciato accese le luci della cucina. Odiava i posti bui. Fu allora che al suo fianco si mosse un'ombra, rapida e silenziosa. La oltrepassò, si fermò e si voltò. L'Impermeabile... Il cuore di Gina raggelò. Continua a camminare. Non correre. Non farti prendere dal panico. Era a cinque passi di distanza. Questa volta non sorrideva. Il suo volto era duro come la pietra. I suoi occhi si fissarono in quelli di lei, concentrati, con le pupille simili a buchi neri. Mantieni la calma, si disse, voltandosi a guardare di fianco a sé. Nessuno. Nessuno che potesse aiutarla. Si tende quando il fiato esce. Si concentrò sulla gola di Gina, esaminando la morbida zona alla sua sinistra, sopra il collo rotondo del maglione. Turgida e dura. Immaginò la giugulare della ragazza, che riportava il sangue dal suo cervello al cuore, protetta dal lungo muscolo sternocleidomastoideo. Si era allenato a quel colpo diecimila volte, nella sabbia, nella ghiaia. Sentiva gli occhi della Mantide, osservatori, esaminatori, giudicanti. Alzò le braccia, come per aprire due ali nascoste. «Che cosa vuole?» riuscì a chiedere Gina con sforzo e con voce tremante. Lui parve scivolare verso di lei, come se il marciapiede fosse diventato un liscio lastrone di ghiaccio. La ragazza fece un passo di lato, tentando di oltrepassarlo: le luci del suo appartamento le indicavano la strada della salvezza. L'uomo le impedì di passare parandosi davanti a lei, anche se Gina non l'aveva visto muoversi. Era molto alto e, per la strana posizione a braccia aperte, sembrava sul punto di avvolgerla. Gina attinse rabbia dalla paura. «Mi lasci passare!» Mossa perfetta. Non può scappare in avanti. Forse aprirà il borsellino. La prossima volta che parla. Mentre espira. Turgida e dura. L'uomo alzò le sue «mani uncinate», irrigidì lievemente le braccia, senza tensione ai tricipiti, stringendo le dita e sforzandosi di unirle. Il rumore soffocato di un soffio sembrò scaturire dal suo addome, come se stesse respirando attraverso gli abiti.
Gina fissò le brutte dita callose. «Che scherzo è questo?» Aveva un tono disperato. Hai perso un'occasione. Concentrati, lo criticò la vocina. La borsa nera di Gucci si alzò verso l'alto e ricadde con movimento lento. L'uomo entrò nel campo d'assalto, colpendo verso il basso. La borsa fu deviata dalla sua spalla, mentre le sue dita tremanti per la tensione penetravano nella morbida gola di Gina. Lei gorgogliò, si inarcò in avanti con le mani protese e annaspò. Afferrò la pesante stoffa dei pantaloni dell'uomo, proprio sotto le ginocchia, al di sopra della dura pelle dei suoi stivali con la punta metallica. Lui fece un passo indietro e lei cadde a faccia ingiù. È viva. La giugulare non è scoppiata. Non sono arrivato alle vertebre cervicali. La Mantide era arrabbiata, minacciava di separarsi dal suo ospite. Il senso di frustrazione superò il buon senso: l'uomo scalciò verso l'alto, il cavallo dei suoi pantaloni era abbastanza largo da permettergli quel colpo basso. Il tacco dello stivale della gamba di sostegno scivolò e, quando il collo dello stivale colpì la fronte di Gina, inciampò. La Mantide era al suo fianco, corrucciata. «Ti prego, ti prego,» sussurrò Gina. «Ti prego papà, aiutami...» L'uomo si accovacciò, le afferrò i capelli con la mano sinistra, trascinandola. Velati occhi castani implorarono pietà. Un filo di sangue colò dalla bocca aperta della ragazza. Una ferita purpurea del diametro di due centimetri e mezzo deturpava la carne del suo collo tumefatto. Papà, aiutami, è questo che ha detto? Papà aiutami... Il furore si impadronì di lui, minacciando il suo autocontrollo. Lottò contro il desiderio di usare i denti, di mordere, di divorare, di stritolare il corpo di lei contro il suo. Tremava quando alzò la mano ad arpione, a livello del suo orecchio destro. Il furore divenne la sua potenza incontaminata e aggressiva. La ragazza chiuse gli occhi e la mano assassina la colpì. Una volta. Due volte. Imbranato, troppo imbranato, sussurrò la Mantide. La banchina di carico era deserta: c'erano alcune casse vuote e un montacarichi fermo. Il Delaware scorreva al di sotto, diffondendo un lieve odore di benzina e petrolio. La spogliò, impilando ordinatamente gli abiti. Quando arrivò alla striscia
di seta rossa si bloccò, la esaminò e poi tolse con attenzione il delicato ornamento. Ci fu un momento in cui udì delle voci sopra la sua testa, voci maschili, una rude e aggressiva, l'altra fievole e balbuziente. Svanirono, echeggiando cupamente tra i vicoli deserti. Si mosse rapidamente, con perizia, nascosto sotto il bordo sporgente di una passerella che dal marciapiede conduceva al punto di ormeggio. Si era già occupato prima di cadaveri, di persone morte da poco, ma mai di uno giovane e flessibile. Tuttavia, sapeva che il tempo giocava contro di lui. La ragazza avrebbe perso rapidamente calore, soprattutto con il freddo autunnale. Cominciò piegandole la gamba all'altezza del ginocchio e spingendole il piede in alto in modo che il tallone le toccasse il bacino. Poi manovrò la gamba sinistra, piegandola allo stesso modo e mettendole il piede sinistro sopra l'anca opposta per formare una posizione del loto completa. Si mise dietro di lei, le sollevò il dorso, spingendole la testa verso i piedi, e ascoltò lo scricchiolio delle vertebre quando la sua schiena raggiunse una posizione perfettamente lineare. Il tempo si dissolse in pura coscienza, la concentrazione soppiantò il pensiero, finché finalmente la ragazza fu pronta, completamente pronta. L'uomo sorrise, un sorriso di adorazione, offrendo in ginocchio il suo dono, chiudendo gli occhi e rivolgendo la sua mente nel suo intimo. La Mantide era là, lo aspettava, non più arrabbiata né impaziente. La sua mano a uncino raggiunse la fibbia della cintura, la aprì e la sciolse. Spinse con il pollice i bottoni dei pantaloni, rilasciandoli e liberando la sua erezione artificiale. Aggrappandosi alla ragazza con entrambe le mani, stringendo, esplorando, cominciò il suo lavoro. II Tenente William T. Fogarty L'INCUBO INIZIA È una stanza di medie dimensioni, con le persiane chiuse e le tende tirate. Sei piani al di sotto, la City Line Avenue si incrocia con l'autostrada Schuylkill. La Schuylkill è la principale arteria che collega il centro di Filadelfia con i lussuosi sobborghi. Alle quattro e cinquantasette, il traffico è limitato. Il rumore arriva appena al sesto piano, sfiora la figura solitaria
che dorme nel letto sormontato da quattro manifesti. Il volto dell'uomo è girato verso la luce fioca del bagno adiacente. La sua pelle nuda sembra di cera in quel bagliore artificiale. È come se la carne fosse stata congelata, diventando dura e porosa. Respira profondamente, con il corpo aggrappato inconsciamente a un secondo cuscino. Tiene il cuscino tra le braccia, come fosse una moglie o un'amante. Si volta leggermente. I lineamenti dell'altro lato della sua faccia sono notevolmente diversi, quasi belli. I suoi occhi tremolano, le pupille si dilatano dietro le palpebre chiuse: l'incubo inizia. One, two, three o'clock, four o'clock rock... Il ricciolo di Bill Haley rimane immobile, incollato alla pelle sudata della fronte. «Come fa a tenerlo a posto? Che cosa userà mai?» si chiede perplesso l'uomo, osservando l'immagine in bianco e nero del cantante che mima gli accordi stridenti del quarantacinque giri. Five, six, seven o'clock, eight o'clock rock... Una bionda piccolina con una pettinatura altissima balla sullo schermo TV, nascondendo il completo bianco con cravatta nera di Haley. Gli occhi di lei luccicano sotto le lunghe ciglia. Sorride al cantante. Nine, ten, eleven o'clock, twelve o'clock rock... Conosce la ballerina. We're gonna rock around the clock tonight... È Sarah. Averla riconosciuta gli mette paura. Il volto di lei cambia, diventa più tondo, i capelli più scuri e più lunghi. «Alza, papi, è un vecchio successo.» La voce di Ann. Lui non sta più guardando la TV, sta guidando un'automobile senza capote. Sua moglie, Sarah, è accanto a lui; sua figlia, Ann, è sul sedile posteriore. When the clock strikes one we're gonna have some fun... La musica è insignificante, lontana: il rombo della Pontiac V8 invade la sua coscienza. «Alza, papi!» Davanti a loro c'è una rotonda, una di quelle obsolete convergenze a quattro uscite che collegano la Route 70 con le altre strade che collegano al lido del Jersey. Una lunga autocisterna della Esso si introduce nell'incrocio balenando nel sole del pomeriggio, e il suo corpo cilindrico serpeggia sull'autostrada priva di transenne.
When the clock strikes four we're gonna rock some more... La sua paura cresce. «Alza, papi!» L'autocisterna esce dall'ultima curva, svolta a sinistra e gli si para davanti: la sua nera griglia da predone avanza veloce... «È contromano, quel figlio di puttana è contromano...» sente la sua voce, che urla. La paura si tramuta in panico, gli stridenti accordi di chitarra si mescolano allo stridio delle ruote sull'asfalto. Un ruggito simile a un'esplosione, seguito dal rumore di un coprimozzo che rotola sull'asfalto. Poi, il silenzio. Lui cerca di trascinarsi avanti. Non riesce a muoversi: un dolore bruciante percorre le sue gambe, salendo fino al fondo della schiena. «Dov'è l'ambulanza? Dio Onnipotente, dov'è l'ambulanza?» Da qualche posto lontano arriva un suono acuto, che si avvicina. Una sirena? Comincia a sperare. Riesce a vedere sua moglie e sua figlia attraverso il parabrezza, che tengono lo sguardo fisso su di lui, alla distanza di un braccio. Allunga la mano verso di loro. In tempo per bruciarsi con la prima vampata di fiamme. L'esplosione lo solleva, gettandolo indietro tra la ghiaia e la sporcizia dell'autostrada costeggiata da alberi. La carne del suo viso è immersa in un liquido infuocato. Rimane cosciente, sente, pensa. L'ambulanza, deve arrivare presto. L'ambulanza... Il suono è continuo, echeggia nelle sue orecchie, mille volte, fissandosi nella sua mente, facendogli spalancare gli occhi. Non è il suono di una sirena: è lo squillo di un telefono. Alza lo sguardo sul soffitto bianco, mette a fuoco la fitta rete di minuscole righe che si riflettono sul muro tinteggiato di fresco. L'Ocean County Hospital, è lì che mi trovo? Il telefono squillò ancora un'altra volta e il tenente William T. Fogarty rotolò sul fianco destro, piuttosto sorpreso di non essere più ingessato. Sarah e Ann lo guardavano da una fotografia racchiusa in una cornice d'argento. Di colpo, quattro anni e cinquecento ore di psicoterapia lo distaccarono dal suo incubo. Dietro la foto, un orologio digitale segnava le cinque e tre minuti. Il telefono squillò di nuovo. La situazione sta peggiorando. Il pensiero lo attraversò un istante prima di sollevare il ricevitore. «Bill?» Era la voce preoccupata di Dan McMullon.
Fogarty attese un istante, prima di rispondere. «Continua, Dan, ti ascolto.» «Ne abbiamo trovata un'altra, Bill.» «Oh, Cristo,» rispose Fogarty, mentre una scarica di adrenalina gli provocava nausea. Concentrò di nuovo l'attenzione sul telefono. «Dove?» «Ai docks, al fondo di Washington Avenue, al vecchio molo dell'Amoco.» Il sole sorse sull'acqua sudicia, illuminando di una luce giallastra il corpo della ragazza. Da lontano, era quasi esteticamente bella, sembrava una scultura, un corpo sistemato con cura meticolosa. Le gracchianti radio della polizia e il flash di una macchina fotografica sembrarono lontani, mentre Fogarty si avvicinava. Per un istante illusorio soltanto il cadavere sembrò reale, inglobandolo all'interno di un vortice di suono e ombra. Il tenente era sul quarto gradino di legno che conduceva giù alla banchina, a circa sei metri dal quadrato chiuso dai cordoni. Come se stesse pregando. La sua illusione fu rapidamente eliminata dalla vista della carne strappata e del sangue scuro coagulato. Un uomo esile con dei corti capelli color carota e un pizzo ben curato si chinò a fianco del cadavere e strinse la cordicella di un sacco di plastica trasparente che racchiudeva la mano destra della vittima. Si rialzò, notò Fogarty e annuì, poi tolse abilmente un termometro dal retto della morta. Fogarty attese che il medico legale esaminasse lo strumento. Finalmente, la voce aspra di Bob Moyer tagliò l'aria del mattino, emettendo davanti al suo viso una nuvoletta di vapore acqueo. «Ora approssimativa della morte: due del mattino.» Un uomo alto in pantaloni di velluto a coste e giubbotto di pelle nera scrisse i dati su un cartellino medico giallo. L'uomo era a fianco di Fogarty, e il suo profilo era oscurato dal collo del giubbotto rialzato. Fogarty si concentrò un istante, cercando di identificarlo. Dev'essere nuovo, concluse, in qualche modo infastidito dall'intrusione di un volto sconosciuto. Continuò a osservare Moyer che faceva segno al suo assistente sconosciuto di unirsi a lui. Adesso il medico legale era inginocchiato e teneva lo sguardo fisso sul collo della vittima. L'uomo alto si spostò a fianco di Moyer e si accovacciò completamente. Quel movimento era di un'agilità sorprendente e, di nuovo, Fogarty si chiese chi fosse quell'uomo. «Come le ragazze Nickles. Ferite allo sternocleidomastoideo, direttamente al di sopra della giugulare interna,» Fogarty udì dire alla voce di
Moyer. «È più netta, Bob, molto più netta,» rispose l'uomo alto, muovendo la mano con un gesto circolare al di sopra della carne danneggiata. Fogarty osservò Moyer fare un cenno in segno di assenso. Il tenente si allontanò dal corpo e le loro voci si affievolirono. Lavorava da più di dieci anni con Bob Moyer e quindi sapeva quando doveva tenersi a distanza. Quello era il momento in cui bisognava lasciare che il patologo procedesse al suo esame. Avrebbe comunicato i risultati più tardi. Per il momento, Bill Fogarty avrebbe usato l'intuizione per cercare di capire quel delitto. Si spostò verso l'estremità esterna del dock, in un punto idoneo a permettergli una visione complessiva della banchina di legno, dei suoi luoghi di accesso e degli elementi che potevano essergli sfuggiti. Certe volte faceva uno schizzo sommario a matita su un pezzo di carta. Quel giorno lavorò con la mente. Gina Genero, questo era il nome fornito dal proprietario del club «Birdcage Lounge». L'identificazione formale sarebbe avvenuta più tardi, all'arrivo della madre della ragazza. Un profondo senso di sconforto rischiò di compromettere la concentrazione di Fogarty. Non andrò a prenderla all'aereoporto, manderò un paio di detective. Quella decisione lo sollevò: Bill Fogarty odiava fare il party di benvenuto ai parenti delle vittime. «Gina Genero,» sussurrò, cercando di non farsi distrarre dal sacco di plastica che veniva aperto all'altra estremità della banchina. «Gina Genero.» Finalmente il suo cervello si schiarì e cominciò a lavorare. Il più grande edificio della polizia distrettuale della città di Filadelfia è la Roundhouse, una struttura di pietra grigia a tre piani che occupa l'isolato all'angolo tra la Settima strada e Vine Street. Da un punto di vista architettonico, la Roundhouse è unica, poiché è formata da due edifici circolari collegati da un corridoio chiuso. Una visione aerea mostrerebbe che la sua forma è nettamente somigliante a un paio di manette della polizia. Il fatto che questa somiglianza sia incidentale o studiata non aveva mai avuto alcuna importanza per il tenente William T. Fogarty. Il suo ufficio era al secondo piano del palazzo e dava sulla Settima strada. Un sabato mattina, il 30 ottobre, era seduto dietro una scrivania che era
stata nuova nel 1945. Stava succhiando due Rolaids, mentre rilassava la schiena contro lo schienale ortopedico di una sedia in legno. Il tampone assorbente macchiato di inchiostro teneva ferme tre cose: due giornali, il The Inquirer e il Daily News, e un bustone di carta manila. Prese il Daily News ed esaminò la scritta esattamente sotto il titolo di testa: «Terza ballerina trovata morta. Connessioni con il mondo della droga. A quanto pare, tracce di cocaina sono state ritrovate in un campione del sangue della signorina Genero. Nel suo appartamento sono stati rinvenuti due grammi di stupefacente.» «Stronzo.» Quando vide il nome del giornalista, Fogarty imprecò. Poi pensò a Diane Genero, la madre di Gina, che doveva arrivare col volo delle sette. A quell'ora anche l'edizione serale del Daily News sarebbe stata nelle edicole. Difficile che non la vedesse. Probabilmente gliene avrebbero persino data una sull'aereo. In qualche modo, l'idea che Diane Genero leggesse che sua figlia, morta da poco, era non solo una spogliarellista ma anche una consumatrice di droghe, offendeva la moralità di cattolico irlandese di Fogarty. «La signorina Genero studiava alla University of the Arts.» L'informazione era inserita tra la descrizione del sordido lavoro che faceva e il fatto che suo padre fosse uno psichiatra di Beverly Hills. È sempre una questione di cosa si fa risaltare, si disse Fogarty, lasciando cadere il giornale in un cestino metallico. Poi, prese in mano il bustone, sapendo che non gli sarebbe piaciuto ciò che conteneva. Sgranocchiando con i molari posteriori le Rolaids non disciolte, strappò la busta lungo il bordo superiore perforato ed estrasse le sei foto fatte a Gina Marie Genero sul luogo del delitto. Le labbra si strinsero inconsciamente in una smorfia. Prese un telefono ingiallito, spinse il tasto per la linea esterna e parlò appena udì il ricevente sollevare la cornetta. «Hai trovato qualcosa?» «Tutto come prima.» Moyer aveva un tono di scusa. «Impronte?» «Nada» rispose Moyer. «Saliva? Sperma?» «Niente. Non c'erano né pelle né capelli sotto le unghie. Probabilmente, non è riuscita a difendersi molto.» La domanda seguente di Fogarty fu, per lui, la più sgradevole. «Era morta quando lui ne ha abusato?»
Il medico legale esitò, poi si schiarì la gola. «È difficile dirlo.» Poi, in tono condiscendente, aggiunse: «Sappiamo come è stata uccisa.» «Continua.» «Una serie di colpi alla regione anteriore del collo. È stata soffocata dal suo stesso sangue,» dichiarò Moyer. Cadde di nuovo il silenzio e Moyer lo interpretò come un invito a continuare. «Internamente il tizio l'ha distrutta con molta precisione.» «Può bastare, Bob,» disse Fogarty. «Bill?» La voce di Moyer assunse un tono più delicato. Fogarty rimase silenzioso. In ascolto. «Voi ragazzi siete vicini a trovare quell'animale?» «Abbiamo ricevuto una dozzina di confessioni. Visti i titoli di oggi dei giornali, ne arriverà un'altra dozzina,» rispose Fogarty, sapendo bene quanto la sua risposta fosse insoddisfacente.» «Capisco,» concluse Moyer. «Non siamo vicini, Bob,» ammise Fogarty, fissando le fotografie in bianco e nero disposte sulla sua scrivania. «Avrei piacere di farti conoscere una persona. È appena uscito dalla Penn Medical School. Fa il training da noi. Diventerà bravo. Veramente bravo.» «Magnifico, Bob, ma che cos'ha da raccontarmi?» «Una teoria.» «Oh, oh,» fece Fogarty, il quale era tutt'altro che interessato. Sospettava di trovarsi davanti a un altro sfacciato futuro genio della medicina legale. «Come si chiama?» «Joey Tanaka.» A Fogarty venne in mente l'immagine di un moderno Charlie Chan. Stava per concludere la comunicazione con Moyer, dicendogli che non aveva tempo, ma attese troppo a lungo. «Domani mattina, alle otto e trenta,» disse Moyer, terminando la conversazione. L'hotel Atop the Bellevue si trova in Broad Street, a due isolati dalla City Hall al di sotto della statua del padre fondatore di Filadelfia, William Penn. Entrando dalla Chancellor Court, attraverso una strada privata in «stile europeo», il salone di entrata esibisce pavimenti di marmo e soffitti a stucco.
Le scarpe di Fogarty risuonarono sul marmo mentre si dirigeva all'ascensore. Fuori pioveva e sulla pietra bianca restavano delle impronte umide. Il tenente premette il pulsante luminoso con la freccia verso l'alto. L'ascensore arrivò un istante dopo e gli sportelli si aprirono rivelando il riflesso della sua persona in uno specchio fumé. Lui osservò il lato non sfigurato del suo volto sormontato da una rada capigliatura color grano. Aveva la pelle chiara: non aveva preso molto sole dopo quella vacanza di due settimane a Point Pleasant Beach, New Jersey, nel 1986. Il completo marrone Brooks Brothers sembrava stanco come si sentiva lui. Quando le porte si chiusero, stava ancora fissando quell'estraneo che gli era familiare. «Merda,» mormorò; alzò lo sguardo e vide la luce chiara lampeggiare tre volte e salire sul display. Fogarty si voltò, superò altre due porte di lamiera e decise di fare i dodici piani passando dalla scala antincendio. Dieci minuti dopo arrivò in un portico tenuto su da colonne. Improvvisamente, gli sembrò di trovarsi in uno sfarzoso hotel di Miami Beach. Lo spazio tra le colonne era arredato con mobili in vimini e una lunga piscina dalle acque azzurre. Conteneva anche due donne nere con le gambe più lunghe che avesse mai visto. Una di esse era adagiata su una avvolgente sedia a sdraio, mentre l'altra era seduta di fronte a lui. I loro costumi da bagno erano ancora umidi e il tenente identificò i capezzoli al di sotto della stoffa di lycra bianca. Entrambe sorseggiavano bibite da bicchieri decorati con l'ombrellino. La donna seduta davanti a lui sorrise. Fogarty allontanò lo sguardo. Prostitute, probabilmente sono prostitute, suppose, mentre notava che il suo modo di reagire davanti alle donne attraenti non era cambiato. La sua terapista l'aveva definito «negazione dello svago», un modo di rafforzare negativamente il suo ben radicato senso di colpa. «Le impedisce totalmente di instaurare qualunque significativa relazione uomo-donna,» gli aveva detto la psicologa. «Sono comunque puttane,» aveva risposto a voce alta Fogarty. «Scusi, signore?» Fogarty si guardò alle spalle e vide un piccolo cameriere pustoloso in divisa grigia. Sfoggiava un distintivo a caratteri dorati che diceva: «Henry Kline» e sembrava intento a scrutare Fogarty. «Camera 1215,» disse il tenente. «È la vostra camera, signore?» Il giovanotto si sforzò di dare un tono incredulo alla sua domanda. Come se, forse, quell'uomo sciupato nel com-
pleto sciupato si fosse introdotto lì dalla strada e adesso stesse tentando di recitare la parte del cliente pagante. Fogarty si avvicinò di più a Henry Kline e lo guardò dritto in faccia. Henry Kline fece un passo indietro. Fogarty cercò di ricordare la battuta che aveva sentito dire a James Caan in un vecchio film. Non riusciva a ricordare che film fosse. E poi, era James Caan l'attore? Non ne era sicuro. L'espressione sorpresa di Henry Kline stava attenuandosi. «Henry,» iniziò Fogarty usando il suo tono più amichevole. «Che misura di bocca porta la tua scarpa?» Sapeva che l'avrebbe fregato non appena su quella faccia pustolosa fosse comparso lo stupore. Che misura di scarpa porta la tua bocca? È così, è così, coglione. Fogarty si insultò da solo. Henry Kline aveva ancora un'espressione confusa quando il tenente si voltò e si diresse in un corridoio dalla spessa moquette con l'indicazione «Suites 1201-1219». Le ultime parole di Diane Genero cominciarono ad accompagnarlo a ogni passo. Perché? Perché la mia Gina? Non c'era mai una risposta: c'era sempre la domanda e mai la risposta. Arrivò alla suite 1215 ed esitò un momento per aggiustarsi le maniche della giacca. Poi si strinse la cravatta a strisce marroni e provò il desiderio di essersi messo addosso qualcosa di più scuro. Finalmente, suonò il campanello e si mise a una certa distanza. La donna che aprì la porta gli ricordò l'attrice di una vecchia serie televisiva, Hill Street Blues, l'avvocato difensore sposata con il capitano di polizia, sexy ma raffinata. Aveva guardato il serial due o tre volte e il viso di quell'attrice gli si era stampato nella memoria. Il tipo di donna che sarebbe sempre rimasta un'immagine televisiva lontana dalla sua realtà. «Signora Genero?» Non c'era bisogno di chiederlo. Avrebbe potuto immaginarlo subito, guardando quegli occhi azzurri. Era ancora lì: disperazione tinta di rabbia e mista a speranza; quest'ultima emozione tendeva ad affievolirsi mentre le altre la imprigionavano nella loro stretta soffocante. «Sono Bill Fogarty.» «Entri, prego.» Aveva la voce bassa, arrochita dal pianto. Fogarty varcò la soglia e immediatamente notò una copia del Daily News, aperta sull'articolo che parlava della «terza ballerina», appoggiata su un tavolino da caffè. Diane Genero seguì il suo sguardo. «Non conoscevano Gina. Non la conoscevano davvero,» la sua voce roca tremava. «Ha voluto crescere troppo in fretta, per dimostrare che era indipendente. Dietro la facciata, era una bambina. Prima di venire qui, ha
avuto un solo ragazzo. Un solo ragazzo...» «È meglio non leggerli,» rispose Fogarty, distogliendo lo sguardo dal giornale. Gli occhi di Diane Genero incrociarono lo sguardo del tenente. I suoi occhi rivelarono qualcosa: simpatia, sofferenza? Fogarty rimase in silenzio, lottando contro l'abituale desiderio di spiegare il motivo del suo volto sfigurato. Tra di loro si creò un senso di vaga comprensione. La solitudine, qualcosa che entrambi capivano. «Mi scusi, signor...» «Fogarty.» Il tenente ripeté il suo nome. «Vuole sedersi? Farò portare il caffè.» Il senso di imbarazzo di Fogarty cominciò a passare. «Sto bene così, grazie. È una settimana che mi nutro esclusivamente di caffè.» Scelse il duro sedile in pelle di una poltrona a braccioli in stile coloniale. Lei gli si sedette di fronte e si tirò giù la gonna per coprire le lunghe gambe. «Volo piacevole?» La sua domanda restò sospesa nell'aria. «Da Los Angeles,» aggiunse il tenente. Lei scosse la testa. «Sono arrivata da Santa Fe. È il padre di Gina che abita a Los Angeles. Io vivo nel New Mexico.» Fogarty stava per chiedere: «Da sola?» ma modificò subito la frase prima di dirla. «Oh... non sapevo che fosse separata.» «Divorziata.» Lo disse in tono definitivo, ma senza amarezza. «Il mio nome da sposata era Levenson. Gina è stata con me da quando aveva quattordici anni. Ha preferito il cognome Genero.» Fogarty annuì. «Questi ultimi due anni sono stati duri,» proseguì la signora Genero. «Sapevo che si drogava. Ho pregato perché ne uscisse. Voglio dire, anch'io ho fumato erba al college e ho avuto un'attività sessuale molto libera.» Fogarty cercò di non reagire, e al tempo stesso fu impressionato dalla crudezza delle parole di Diane Genero. «Parlammo del lavoro come ballerina. Era una cosa che mi preoccupava, ma non quanto il genere di persone che frequentava.» «Al club?» Adesso, lentamente, Fogarty cominciò a fare domande. «Al club, a scuola. Sembrava attirata verso...» esitò, cercando le parole, «...gli elementi più bassi. Come se queste persone avessero potuto in qualche modo avvalorare le sue ambizioni.»
«Ambizioni?» «Sì, di diventare una pittrice. Mia figlia voleva diventare una pittrice. Aveva molto talento. E adesso...» Fogarty guardò le lacrime sgorgare da quei grandi occhi. Si bloccò: quella era la parte del suo lavoro che odiava. Il dover penetrare nell'intimità della gente, cercare di manipolare. «Aveva un ragazzo fisso?» Diane Genero scosse la testa, trattenendo un singhiozzo. Fogarty si fermò, cercò di dominare la propria tensione e di ottenere il più possibile prima che, inevitabilmente, la donna scoppiasse a piangere. «Dove prendeva la cocaina?» Ci fu un lampo di indignazione, poi arrivarono le lacrime. «Mi ascolti, Diane,» iniziò Fogarty, pronto a giocare la sua briscola, e sentendosi già stupido solo all'idea di dire quello che stava per dire. Come se quella storia non fosse già stata raccontata una dozzina di volte, usata come credenziale. «Quattro anni fa ho perso mia moglie e mia figlia. Il nome di mia figlia era Ann e adesso avrebbe diciotto anni.» Diane Genero alzò lo sguardo: questa volta i suoi occhi si fermarono su di lui. Vide il suo dolore e inconsciamente guardò la mescolanza di sottili cicatrici dentellate che gli attraversavano la guancia destra fino al labbro superiore, solcando la carne rosa inspessita. «Come?» Aveva un tono sensibile, dolce. «Incidente automobilistico.» Fu una risposta rapida. «Mi spiace.» Era sincera ma in qualche modo distante. «Guidavo io.» Precisò il tenente. I loro occhi si incontrarono di nuovo e il senso di solitudine riapparve inghiottendoli entrambi. In quel momento, Fogarty avrebbe potuto piangere, strillando come un neonato, perché quel desiderio era in lui, da qualche parte, seppellito sotto pile di relazioni di casi di omicidio e di fotografie in bianco e nero di un centinaio di donne come Gina Genero, come un chiodo arrugginito sotto una tonnellata di terra. Poteva concedersi il senso di colpa, l'odio verso se stesso, ma non avrebbe tollerato di indulgere all'autocommiserazione. «A scuola aveva alcuni amici. Credo che tutti facessero uso di droghe.» «Vorrei parlare con loro.» «So come si chiamano.» «Quanto tempo rimarrà?» «Il tempo necessario per organizzare le cose. E abbastanza a lungo per
aiutarla in ogni modo possibile.» Parlava in tono più deciso, sincero. Fogarty scelse quel momento per parlare, e si alzò dalla sedia. «Dobbiamo andare all'ospedale, adesso.» Il tenente drizzò la schiena. Lei fece appello a tutte le sue forze. Con un solo passo, lui superò la distanza che li separava e le sfiorò dolcemente il braccio, aiutandola ad alzarsi. «Si è portata una giacca?» «È nell'armadio, la prenderò.» La sua voce non aveva perso forza, ma in essa vi era un vuoto, una vulnerabilità. Fogarty la guardò mentre si dirigeva verso la camera da letto, ammirandone la grazia. Ricordò il corpo di Gina Genero, nudo sotto la fredda luce mattutina, chino in avanti, con le gambe ripiegate in sotto. La pelle sulla fronte della ragazza si era lacerata, mostrando l'osso, perché lo strato di carne era stato portato via dalla pressione del peso dell'assassino che l'aveva presa da dietro. Moyer aveva concluso che dovevano esserci voluti almeno venti minuti per provocare un'abrasione così profonda. Venti minuti. Fogarty immaginò la scena. La collera gli salì dalla base della spina dorsale, centimetro dopo centimetro, fino agli arti superiori. Strinse il pugno della mano destra, premendo forte le dita contro il palmo. «Sono pronta.» La voce di Diane Genero ruppe il guscio della sua rabbia. La donna uscì dalla camera da letto con indosso una giacca di lana blu, morbida sulle spalle e stretta in vita. Fogarty si sforzò di sorridere mentre teneva la porta aperta e lei, circondata da un lieve alone di profumo, usciva nel corridoio. Classe. Quella sola parola si impresse nella sua mente. L'ultimo posto al mondo dove desiderava accompagnare Diane Genero era l'obitorio cittadino. Erano le otto e venti del mattino seguente quando Fogarty ritornò nel suo ufficio. Il ricordo dell'espressione di Diane Genero, che era rimasta paralizzata nel momento in cui era stato tolto il lenzuolo che copriva il viso di sua figlia, non smetteva di ossessionarlo. Nessuna lacrima, non esternamente, almeno. La signora Genero era rimasta chiusa in un silenzio di pietra, seduta in macchina al suo fianco, per tutto il percorso di ritorno al Bellevue. «Grazie, è stato molto gentile,» le sue parole di saluto. «Molto gentile.» Il rombo del motore di una motocicletta lo catapultò nel presente. Fogarty si voltò, guardò dalla finestra e vide una Harley Davidson nera che
luccicava leggiadra nello spazio tra la sua Buick Le Mans e una Firebird arrugginita. «Chi cazzo...?» borbottò, guardando il tizio vestito di pelle che scendeva e spegneva la moto. Il motociclista portava un paio di occhiali scuri sotto un casco a mezza faccia. Tenne il casco in testa e si allontanò dalla moto. Fogarty alzò la cornetta al terzo squillo. «Sì?» «Tenente Fogarty?» Riconobbe la voce e allora si addolcì. «Salve, signora Genero.» «Possiamo vederci oggi sul tardi?» «Certamente. È urgente?» «Ci sono alcune cose che credo lei debba sapere.» «A che ora le andrebbe bene?» «Alle sei, le sette.» La sua voce era quasi totalmente inespressiva. «Facciamo le otto e la porterò a cena.» Silenzio. «A meno che lei abbia degli altri programmi,» aggiunse Fogarty, mostrando soltanto un interessamento a livello lavorativo. «Non ho alcun programma. Alle otto va benissimo.» La comunicazione si interruppe e Fogarty notò la luce rossa che lampeggiava sull'apparecchio. Premette il pulsante dell'interfono. «Sì, Millie?» «C'è un tal signor Tanaka che vuole vederla, tenente.» Charlie Chan. Mi ero completamente dimenticato di luì. La sua mente entrò in funzione, a caccia di una scusa. «Posso mandarglielo, signore?» «Sì, okay,» rispose finalmente Fogarty. Riconobbe Joey Tanaka nel momento in cui questi oltrepassò la soglia. L'assistente di Moyer indossava una camicia bianca e una cravatta a strisce grigie e blu sotto il giubbotto di pelle nera. Teneva il casco da motociclista con la mano sinistra. Per un momento l'uomo parve a disagio, atteggiato in modo troppo rigido, con la schiena diritta e le spalle indietro. Fogarty pensò che stesse per fargli un inchino formale ed ebbe un momento di incertezza. Dovrei ricambiare l'inchino? Ma Joey Tanaka tese la mano. Il tenente la accettò con sollievo, sorpreso che fosse grande come la sua. In effetti, Tanaka superava notevolmente il metro e ottanta di Fogarty. E non era neanche un ragazzino. Sui trentacinque, suppose Fogarty. Notò che la camicia sotto il giubbotto di pelle era inamidata, bianca e perfetta-
mente stirata. Tanaka aveva una caratteristica ben precisa: un portamento quasi militare. «Grazie per avermi ricevuto, tenente.» La sua voce aveva soltanto una lieve traccia di accento. «Nessun problema. Si sieda.» Fogarty guardò il suo visitatore che si sistemava in una sedia da ufficio verde. «Vuole un caffè?» «No grazie, tenente,» rispose Tanaka. Fogarty si sentiva attratto da quei grandi occhi castani. C'è qualcosa nei suoi occhi... Sì, ecco... non sono a mandorla. Ha degli occhi da occidentale. Tanaka lo fissò, apparentemente non turbato dal viso sfigurato del tenente. Di nuovo, Fogarty si sentì a disagio. «Bob Moyer ha detto che lei aveva qualcosa per me.» Tanaka si raddrizzò, aprendo le spalle ampie. «Una teoria,» aggiunse Fogarty. «Riguarda il metodo di aggressione,» rispose Tanaka. «Prosegua, l'ascolto.» Fogarty sembrava burbero, ma non aveva intenzione di esserlo. Era solo che non riusciva a mettere a fuoco Joey Tanaka. Il comportamento di quell'uomo lo metteva in imbarazzo, e a Fogarty non piaceva sentirsi imbarazzato, soprattutto quando si trovava nel suo ufficio. «Prima di tutto,» cominciò Tanaka, «l'assalitore non usa i pugni. Non nel modo convenzionale. La ferita è troppo concentrata e profonda. Va esattamente dal muscolo sternocleidomastoideo fino alla giugulare.» Illustrò la sua affermazione premendo l'indice e il medio sul lato del proprio collo. Fogarty registrò l'allargamento della prima e della seconda nocca sulle mani del dottore. «Le ferite sono identiche su tutti e tre i cadaveri. Con un'eccezione.» Tanaka esitò. Fogarty drizzò la testa, scoraggiando ogni intento drammatico. «C'erano le prove di nove colpi al collo e alla testa sul corpo della ragazza Lasky, sette su quello di Janine Nickles, e quattro ferite su Gina Genero,» dichiarò Tanaka. «Quindi adopera una mazza e diventa sempre più preciso. Probabilmente diventa più sicuro,» disse Fogarty. Tanaka ignorò l'interruzione e proseguì: «Il movimento è verso il basso,
con un angolo di quarantacinque gradi, poi va verso l'interno.» Stavolta illustrò le sue parole con un movimento rapido e lineare della mano destra. Tenne rigide le dita con il pollice nascosto sotto. «Nukite, mano ad arpione,» spiegò. Fogarty attese. «Un colpo mortale, per ucciderla all'istante,» aggiunse Tanaka. «Dove vuole arrivare?» chiese Fogarty. «Ho già visto prima questo metodo di esecuzione.» Esecuzione? Il dottore si è improvvisamente messo a parlare di esecuzione, pensò Fogarty, restando in silenzio. «A Tokyo. È praticato dagli spietati killer al soldo della Yakuza, altamente esperti nelle arti marziali.» Fogarty fissò il viso piacevole, quasi bello di Joey Tanaka, cercando di mettere pian piano insieme i pezzi della personalità dell'uomo che aveva davanti. Molti di questi pezzi non combaciavano. «È venuto qui per dirmi che la mafia giapponese uccide giovani donne per poi violentarle?» Il tenente aveva un tono decisamente sarcastico. Tanaka scosse la testa. «Sto dicendo che il metodo di aggressione del nostro killer lo caratterizza assai di più dell'aggressione sessuale che segue all'omicidio.» «Così il nostro 'carnefice',» Fogarty introdusse casualmente quella parola, «pratica da qualche parte il karaté?» «Lo pratica o lo ha praticato: le ferite corrispondono a quelle che vengono inflitte con quel tipo di tecnica.» Fogarty pensò per qualche istante. Tre mesi, tre omicidi, nessuna vera pista. Che cazzo... «Quante persone di questa città praticano un'arte marziale?» chiese. «Non lo so, ma posso scoprirlo,» rispose Tanaka. «Suppongo che lei sia uno di loro, vero?» azzardò Fogarty, accennando alle mani di Tanaka. «Un paio di volte alla settimana, dò qualche lezione,» rispose Tanaka. Fogarty giudicò quella risposta un po' troppo laconica. Stava per farlo notare, quando Tanaka, quasi intuendo la domanda di Fogarty, aggiunse: «Non come in Giappone.» «Lo trovi per me, gliene sarò grato,» disse il tenente, alzandosi dalla sedia. Tanaka si alzò anche lui, comprendendo correttamente che la riunione era terminata. Fogarty gli piacque, vide al di là dei suoi modi rudi e ap-
prezzò l'onestà che celavano. Sapeva che durante gli ultimi venti minuti era stato continuamente tenuto d'occhio. Il tenente non aveva mai abbassato la guardia e Tanaka, per questo, lo rispettò. Era un ottimo esempio di zanshin: posizione perfetta, vigilanza mentale. «Così lei svolgerà per me le indagini preliminari in questa faccenda del karaté?» chiese Fogarty, tendendo la mano. «Con mio piacere, tenente,» rispose Tanaka. Questa volta Fogarty prestò attenzione alla forza decisa nella calma stretta di mano dell'assistente di Moyer. Ebbe il desiderio di dire qualcosa di amichevole, poiché sapeva di essere stato poco cordiale. «È una bella moto, quella con cui è arrivato,» disse. Il viso di Tanaka si illuminò. «Grazie, è una Panhead del '53.» Fogarty parve sconcertato, in un certo senso deluso. «Accidenti, pensavo fosse una Harley.» Joey Tanaka rise, rivelando una fila di denti bianchi privi di otturazioni. «È una Harley, tenente. È chiamata Panhead a causa delle coperture a forma di casseruola sui rocker covers.» I rocker covers? Fogarty pensò di chiedere che cosa fosse un rocker cover, ma non lo fece e così Joey Tanaka se ne andò lasciandolo con un'espressione interrogativa sul volto. Bob Moyer alzò il telefono un istante dopo che l'eco dello scappamento della Harley svanì nella strada sottostante. «Chi cazzo è questo Joey Tanaka?» esordì Fogarty. Moyer rise. Si aspettava quella telefonata. «Pensi che stia seguendo una pista?» lo contrastò Moyer. «Forse. Ma qual è il suo passato?» Il tenente rimase impassibile. «Sua madre era di Boston, suo padre è Mikio Tanaka, industriale giapponese. Mikio Tanaka è un pezzo grosso: computer, motori per automobile, un sacco di cose.» «E allora come mai suo figlio è allievo medico legale a Filadelfia?» «Non è arrivato molto facilmente qui. Credo che il fatto di avere una madre americana l'abbia aiutato.» Questo spiega gli occhi, pensò Fogarty, mettendo a posto un pezzo del gioco a incastri. «Joey non ne poteva più di fare il Yojimbo...» «Di fare che cosa?» «La guardia del corpo a suo padre. Di stare in piedi a fianco delle limousine mentre lui trattava contratti non sindacali con la Yakuza.»
Un altro pezzo del puzzle andò al suo posto. «Diventare medico è stata un'idea di Joey, quella di fare il Yojimbo era un'idea di suo padre.» «Perché? Perché la guardia del corpo?» domandò Fogarty. «Questa è una storia lunga.» «Fammi il suo profilo. Mi piace sapere con chi lavoro.» «Mikio Tanaka è stato il primo campione nazionale di karaté nel millenovecentocinquantasei o cinquantasette. Joey, a quei tempi, avrà avuto tre anni. Quando ebbe dieci anni suo padre lo fece allenare e all'età di ventitré stava tenendo alta la tradizione... famigliare...» «Cioè?» «Stava partecipando alle finali del campionato nazionale. Poi è successo qualcosa, un incidente.» «Di che genere?» «Mi spiace, Bill, lui è molto sensibile su questo punto. Forse te ne parlerà lui stesso.» Moyer esitò. «E poi, è un medico estremamente bravo. Ed è intuitivo come un serpente a sonagli,» aggiunse. «Come un serpente a sonagli?» Fogarty diede a quella parola uno strano accento. Moyer rise. «Conoscevo sua madre prima che diventasse Grace Tanaka. Joey è a posto, credimi.» «Grazie, Bob, ti credo.» Ogni sera della settimana, alle sei, la West River Drive è una strada d'uscita dalla città assai congestionata. Quella sera, in particolare, c'era un ingorgo all'altezza dell'Art Museum. Fogarty fece del suo meglio per non innervosirsi, sintonizzò la radio su Kiss, la stazione di Filadelfia che trasmette musica easy-listening, e si mise a scrutare le acque calme, color grigiomarrone dello Schuylkill. Due canoe a otto posti entrarono nel suo campo visivo, con i vogatori che remavano a lunghi colpi sincronizzati. Le osservò passare scivolando silenziosamente per poi scomparire dietro una curva del fiume. Alle sue spalle una moto si distaccò dal traffico paraurti-contro-paraurti, e accelerò infilandosi in un vicolo, libera dall'ingorgo e dalla conseguente frustrazione. Una Panhead del '53? No, assomiglia di più a una falciatrice da giardino, pensò Fogarty, ricordando Joey Tanaka, il giapponese con gli occhi da occidentale e la camicia bianca inamidata.
I Presidential Apartments, costruiti sulla fine degli anni Cinquanta, sono un complesso di edifici di mattoni color crema. Si ergono per dieci piani al di sopra della City Line Avenue e, in una giornata limpida, offrono una bella panoramica della zona sud-orientale dello Schuylkill River, fino alla City Hall. Erano le sette e venti quando Fogarty entrò nel suo appartamento di due stanze, al sesto piano. Abitava lì da quando aveva venduto la sua casa in Adison Street, nove mesi dopo aver seppellito la sua famiglia. Adesso ogni cosa si trovava al 611A della City Line Avenue. I resti del suo passato erano tutti lì, ma non completamente in ordine. Un bel tavolino da caffè di mogano, con sei sedie intagliate dallo schienale alto, era sistemato non nel centro della stanza rettangolare ma al fondo; una scacchiera di alabastro decorata era deposta sul tavolino con i pezzi disposti a caso, e sotto i raggi della luce della luna che filtravano dalla finestra chiusa da tende appariva polverosa. Un tappeto beige chiaro correva sotto il tavolo e le sedie, ravvivato solo dalla presenza di due kilim e da un tappetino cinese azzurro e oro. Belle cose, alcune costose, che tuttavia mancavano di sistemazione e cure adeguate. Era stata sua moglie l'arredatrice, tra loro due era quella che aveva gusto. Ora, quel semi-disordine sembrava suggerire che sarebbe ritornata, a risistemare le cose. Fogarty non abitava realmente in quell'appartamento. Lo adoperava più che altro per tenervi delle cose: i vestiti, i ricordi. Continuava a dormire nel vecchio letto matrimoniale, beveva una tazza di caffè al tavolo in pino della colazione e, molto saltuariamente, si sedeva nella poltrona a braccioli imbottita a guardare la televisione. Fondamentalmente, però, la vita di Bill Fogarty si svolgeva lontano da quelle comodità, nelle fredde strade del centro e nei bar, in compagnia di poliziotti, burocrati ed estranei. Quella era la sua penitenza. Fogarty entrò e uscì dal Presidential nel giro di trenta minuti: barba, doccia e cambio d'abito. Si trovò con Diane Genero nell'atrio dell'Hotel Atop de Bellevue alle otto precise. III Katana LA LUNGA SPADA GIAPPONESE
Rachel Saunders era in piedi nell'ombra della porta semiaperta. Non era esattamente una bellezza, non nel senso classico. Aveva un viso un po' troppo tondo e il naso un po' troppo largo, tra due grandi occhi verde azzurro. «Naso a patata» si era soprannominata da sola. Un soprannome che aveva usato di più al college che ora. Attualmente portava i capelli sciolti, che le ricadevano come una luccicante tenda color miele sul completo Miyake di cashmere blu scuro. Un paio di gambe tornite e ben fatte apparivano al di sotto dell'orlo della gonna, terminando con caviglie sottili e piedi ben proporzionati. Rachel amava il sesso, e lo faceva senza vergogna e non sempre in modo discreto. Non era un semplice hobby, ma piuttosto un passatempo serio. Negli ultimi cinque o sei anni si era un po' calmata, aveva avuto soltanto tre ragazzi fissi. Durante l'ultimo anno, soltanto uno. Esaminò Joey Tanaka che usciva, nudo, dalla camera da letto. «Credevo che gli orientali fossero bassi,» ironizzò, mentre calcolava che nello spazio di novanta secondi anche lei sarebbe stata nuda. Joey alzò lo sguardo, per nulla stupito dalla sua presenza. «Sono orientale soltanto per metà,» disse. Lei non riusciva ancora a distinguere quando scherzava e quando era serio. «Questa non è una giustificazione,» proseguì, dirigendosi verso di lui. La sensazione degli occhi di lei sul suo corpo lo eccitò. Quando Rachel gli toccò il pene, era già quasi in erezione. «Ho del sangue samurai,» aggiunse. «E con questo?» ribatté lei, circondando il suo organo che si inturgidiva con la mano morbida e calda. «La spada dei samurai è lunga un metro.» Lei tirò e strinse simultaneamente. «Tenuta con la punta tagliente alzata,» aggiunse lui. Lei non gli badò e gli si inginocchiò davanti. Le sue dita sfiorarono leggermente la parte inferiore del suo scroto, mentre fingeva di esaminare la sua erezione. «Un metro? Direi che, in questo caso, è impossibile che questo sia un katana.» Il fatto che lei usasse dei termini giapponesi contribuì ad aumentare l'eccitazione di Joey. «Forse potrebbe essere un tanto,» sussurrò Rachel, riferendosi al tradizionale pugnale di venti centimetri.
Lui appoggiò le mani sulla testa della donna, sentendo la morbidezza dei capelli color miele. Quei capelli erano la prima cosa che aveva notato in lei, perché quando l'aveva vista per la prima volta era voltata e stava parlando con una delle infermiere del Jefferson Hospital. Aveva i capelli tirati indietro, raccolti in una treccia che le scendeva sul camice. Erano i capelli più lunghi che avesse mai visto, le arrivavano al di sotto dei fianchi. Quella volta, lei si era voltata e aveva fissato lo sguardo su di lui. Dieci mesi più tardi, dividevano un appartamento di una camera e cucina in Rittenhouse Square. Adesso Rachel stava delicatamente sfiorando con la bocca la punta del suo pene e lui cominciava a pensare seriamente di trovare una compagna al suo amichetto. Il suono soffocato di un cercapersone mise fine alla sua indecisione. «Oh, no,» mormorò Rachel, ritraendo la lingua e usando il tanto di Tanaka come adeguato sostegno per rialzarsi in piedi. Lo sconcertante segnale giungeva da una valigetta di pelle scamosciata a fianco del letto in legno. Tanaka si infilò le mutande e la canottiera, poi un paio di spesse calze di cotone, e osservò Rachel che spegneva il bip-bip e chiamava il suo ufficio dal telefono a fianco del letto. «Sono la dottoressa Saunders.» Aveva un tono professionale ma caldo. «Ah, ah...» proseguì, mentre una leggera smorfia increspava le labbra carnose. «Capisco.» Si arricciò tra le dita parecchie ciocche della sua gloriosa capigliatura, poi guardò il piccolo orologio da polso di Cartier. «Dica alla signora Stoll che arriverò tra venti minuti.» Stoll, Stoll... Patricia Stoll. Tanaka collegò quel nome al volto di mezza età che aveva visto sovente sulle pagine di cronaca mondana dell'Inquirer. Rachel riagganciò la cornetta, chiaramente esasperata. «Cristo, le ho appena fatto gli occhi stamattina e sta già dicendo che il destro è più basso del sinistro.» Tanaka rise e si infilò la maglia di cotone pesante dentro i jeans. «Mi pareva che tu avessi detto che l'aspetto più interessante della chirurgia plastica fosse che ci sono orari regolari e mai emergenze.» «L'aspetto più interessante della chirurgia plastica è che si guadagnano seicentomila dollari l'anno,» ribatté lei. Attraversarono insieme lo stretto corridoio dal pavimento di marmo che conduceva alla porta. I pantaloni di pelle lucida nera della dottoressa
Saunders erano ripiegati a fianco di un paio di stivaletti neri da motociclista. «Tornerò per le nove, preparerò qualcosa per cena,» disse Rachel. «Forse farò un po' tardi. Ho una faccenda da sbrigare,» disse Tanaka, mentre si infilava anche lui gli stivali. Lei ebbe il desiderio di chiedere quale fosse la faccenda di cui doveva occuparsi, ma si trattenne, sapendo che Joey non avrebbe risposto. Sarà qualcosa che riguarda il suo lavoro, probabilmente quell'indagine di omicidio, suppose. Tra i due si creò una certa tensione. È per metà giapponese, ricordò a se stessa, giustificando la sua tendenza a essere certe volte oscuro e meditabondo e il suo comportamento talvolta sciovinista. Di tanto in tanto la spaventava. Era una sensazione passeggera, che non riusciva a spiegare. Tanaka fece scorrere la porta dell'armadio, esponendo un vasto schieramento di giacche firmate e un unico giubbotto di pelle lucida. Sorrise e afferrò il giubbotto. È pelle così robusta che puoi cadere a duecento all'ora senza che si strappi, aveva annunciato il giorno che l'aveva acquistato insieme a un paio di pantaloni neri uguali. Sfortunatamente, la moto non supera i centotrentacinque senza cadere in pezzi, aveva ironizzato. Metteva i pantaloni quando faceva freddo, da dicembre in avanti. Raramente Tanaka usciva senza il giubbotto. Quando prese la borsa contenente la cintura nera, l'asciugamano e il gi, la tensione era scomparsa. Seguì Rachel Saunders dentro l'ascensore. Si scambiarono un bacio veloce e sensuale prima di separarsi nel parcheggio sotterraneo. Il chirurgo si diresse verso una Mercedes 450 SL mentre il praticante medico legale verso la sua Panhead. Quando Joey entrò nello spogliatoio, alcuni visi si voltarono. Si diresse verso un armadietto metallico grigio con la scritta «Tanaka» al di sotto della serratura a combinazione. «Oss. Oss.» Un coro del classico saluto dojo seguì lo sguardo che Tanaka rivolse alla dozzina di uomini intenti a cambiarsi che riempivano lo spogliatoio. Tanaka sorrise e fece del suo meglio per alleviare le loro ansietà. Per i suoi compagni sarebbe sempre rimasto il gigante giapponese. L'uomo che avevano visto su Fighting Arts Magazine, colui che era stato squalificato per aver rovinato il proprio fratello durante i campionati nazionali. L'uomo che tutti rispettavano e persino temevano, ma che nessuno realmente conosceva.
«Come va?» chiese Ben Chagan. Joey si voltò e vide l'uomo con la barba che usava la mano destra per tirare tutti e due i cordoni di chiusura del suo gi. La manica bianca della divisa di Chagan gli arrivava appena al di sotto del gomito e copriva solo a metà la scritta «USMC/Saigon '71» che formava un arco al di sopra del crocifisso rosso e blu tatuato sull'avambraccio muscoloso. L'altra manica dell'uniforme da allenamento era cucita al fondo, per nascondere il moncherino del suo braccio sinistro. «Bene, Ben. E tu?» rispose Tanaka. «Tutto a posto,» rispose Chagan, senza che dai suoi occhi scomparisse la continua espressione di sfida. «Ci vediamo sul tappeto,» augurò mentre si dirigeva verso il dojo principale. «Ciao, Joey!» gridò il sensei Tetsuhiko Azato attraverso la porta spalancata di una stanzetta con la scritta «Ufficio». «Ben tornato, sensei» rispose Tanaka, inchinandosi quando il cinquantottenne robusto allenatore-capo comparve. «Hai un bell'aspetto, sensei, molto abbronzato,» proseguì, tendendo la mano. «Le Barbados sono stupende in ottobre,» rispose il signor Azato. «E tuo padre, hai avuto notizie da tuo padre ultimamente?» Tanaka si irrigidì, cercando di nascondere l'impatto che aveva su di lui quell'unica parola: «padre». Il sensei Azato sorrise, consapevole della sensibilità del suo studente. «Gli ho parlato tre settimane fa, sensei. Mi ha chiesto di te, ha detto che hanno sentito la tua mancanza quest'anno al Budokan,» si sforzò di rispondere Tanaka. «Bene, bene,» disse Azato, con un tono più dolce. «Non perdere i contatti con tuo padre, Joey. Non perdere i contatti.» Ho perso i contatti tredici anni fa, pensò Tanaka, mentre annuiva lentamente. Oltre la porta in legno, udiva la classe che si sistemava. Si inchinò al suo maestro, si voltò e si diresse rapidamente verso la palestra. Dopo un'ora e dieci minuti di allenamento, il gruppo si separò a seconda del grado. Le cinture bianche e gialle si affrontarono nella zona anteriore della palestra, quelle verdi, viola e marroni al centro e quelle nere al fondo. Il sensei Azato diede qualche breve istruzione a ciascun gruppo. In ultimo, andò dalle cinture nere. «Jiyu-ippon kumite. Un solo attacco, lotta d'allenamento semi-libera,» ordinò il sensei.
Tanaka tenne a bada i suoi primi tre avversari con facilità, più come un insegnante che come un antagonista, creando aperture e controazioni con controllo da esperto. Con la coda dell'occhio riusciva a vedere Chagan. L'ex marine lottava con mani particolarmente pesanti, bloccandosi appena un istante prima di rompere l'arto dell'attaccante per poi mantenere la sua posizione con colpi d'incontro. Un filo di sangue scorreva dal naso del suo avversario. «Yame.» Era l'ordine di smettere e di cambiare partner impartito dal sensei. «Ricordate, un solo attacco, un solo colpo mortale,» urlò il signor Azato. E ci sono voluti quattro colpi per uccidere Gina Genero, pensò Tanaka, studiando i piedi callosi di Ben Chagan mentre l'ex marine si dirigeva verso di lui. Allora Joey si voltò, si risistemò il gi, guardò un istante la dozzina di sedie pieghevoli di metallo allineate dall'altra parte della sbarra che separava il pubblico. C'erano sempre degli spettatori, ubriaconi che di tanto in tanto entravano per ripararsi dal freddo o amici dei partecipanti, ma la maggior parte erano persone che aspiravano a iscriversi all'associazione e che volevano vedere prima di decidere. Quella sera erano otto o nove, otto o nove sono troppi, pensò, scrutando i loro volti e percependo il proprio nervosismo. Joey Tanaka odiava le platee: ne aveva perfino paura. Rilassati, respira. Va tutto bene. È finita, lui non è qui. Allontanò la propria ansia con la forza del pensiero, scacciando gli ombrosi presentimenti che l'avevano inseguito per tredici anni. Si voltò per affrontare il suo avversario. Gli occhi grigi e insensibili di Chagan aspettavano, e le sue labbra sottili erano serrate in mezzo alla barba rossastra. Erano occhi che avevano visto la guerra. Tanaka sentì il proprio animo indurirsi, i suoi nervi entrare in tensione. Era come se i due uomini non si fossero mai incontrati prima, né si fossero scambiati gentilezze o saluti nello spogliatoio. Adesso erano nemici mortali, stavano per impegnarsi in una lotta simulata, in cui si sarebbero usati l'un l'altro per perfezionare il colpo omicida, il colpo decisivo. «Hajime.» Il sensei ordinò loro di iniziare. Quando presero il caffè, le lacrime avevano solcato il leggero strato di cipria sotto gli occhi di Diane Genero. «Mark Pearl.» Fogarty ripeté quel nome. «Pensa che fosse da lui che arrivava la droga?» Diane Genero annuì.
«Ed è certa che andassero a letto insieme?» insistette Fogarty, subito infastidito con se stesso per non aver scelto un'espressione più delicata. Lei si irrigidì e una traccia di rabbia le attraversò il volto, ammorbidito soltanto dai capelli neri che le ricadevano sulla camicetta di seta color crema. Il profilo del suo reggiseno di pizzo si abbassava e si alzava sotto la stoffa delicata. «Ne sono certa,» rispose, tenendo lo sguardo fisso. Uno stridio di freni diede a Fogarty la scusa per spostare lo sguardo verso la finestra. Guardò attraverso la A capovolta di un'insegna che diceva «Angelo's». Al di là del vetro un autista rabbioso agitava il pugno verso un taxi giallo che si era fermato per far scendere il passeggero. Fogarty rimase un attimo a guardare, non tanto le auto o i passanti quanto piuttosto il bagliore biancastro dell'insegna al neon. Angelo's... Dodici tavoli a lume di candela e una lista di vini costosissimi. Sto sperando in una storia romantica? Quando rivolse di nuovo l'attenzione alla sua commensale, Fogarty era lievemente imbarazzato. «Mi spiace,» disse. «Anche a me.» Il tono di Diane Genero era indecifrabile. «Jodan.» Chagan parlò a voce bassa per annunciare l'attacco più violento. Si spostò lateralmente e alzò il pugno destro per indicare che avrebbe usato un rovescio gyaku-zuki, invece dell'abituale colpo di sinistro. Tra i due c'era poco più di un metro e mezzo di distanza, e Tanaka si spostava in lento contrattempo al movimento strisciante del suo avversario. Con la coda dell'occhio poteva vedere il sensey. Sentiva il suo sguardo severo, che valutava, criticava, come per preparare una relazione sui suoi progressi per Tanaka senior. Era cosciente del gusto del sangue, misto a quello salato del sudore. L'ultimo jodan di Chagan gli aveva colpito il labbro superiore e gli aveva fatto stridere i denti. L'uomo da un solo braccio aveva trasformato il suo handicap in un vantaggio, con la tecnica di inscenare un finto attacco con la manica sinistra vuota del suo kimono mentre colpiva ritmicamente. Tanaka capiva bene l'espressione negli occhi di Chagan: voleva bloccarlo e distruggere la spontaneità del suo movimento. Ma lui provava ugualmente il desiderio di essere rilassato, di aumentare il suo livello di vigilanza, di liberarsi di ogni tecnica di difesa preconcetta. Chagan scivolò indietro con la gamba piegata al ginocchio, pronto a usare i muscoli del piede e del polpaccio della gamba su cui si appoggiava per
compiere il balzo. Dopo una frazione di secondo attaccò, e il suo pugno destro si protese in avanti, potenziato dal movimento in senso antiorario delle gambe. «Yaaah!» Il ki-ai di Chagan fendette l'aria. Tanaka si spostò in avanti, all'attacco, attratto dall'energia dell'urlo. Il pugno di Chagan era a un palmo di distanza dalla sua gola. Mosse con vigore il piede destro e colpì la caviglia di Chagan un secondo prima che questa si appoggiasse per terra. L'uomo con un solo braccio cadde parallelamente al duro pavimento di legno, scagliato dalla forza combinata del suo movimento con il gesto perfettamente tempista di Tanaka. Era caduto dalla parte del braccio mancante e quindi non era riuscito a sostenersi. Si voltò sulla schiena e ripiegò le gambe. Troppo tardi: Tanaka era già alle sue spalle, si era rannicchiato e aveva afferrato i capelli di Chagan con la mano sinistra mentre teneva la destra pronta a colpire di taglio. Il sensei Azato adesso era vicino. Tanaka riusciva a distinguerne il profilo; dietro di lui uno spettatore si sporse oltre la sbarra di protezione, un raggio di luce lo colpì negli occhi. Una sedia a rotelle con la lucida struttura metallica. Il viso stravolto di suo fratello e il suo corpo deperito, con la bocca spalancata in un muto sorriso, gli occhi fuori dalle orbite... Tanaka si bloccò a metà del movimento. «Yaaah!» Il grido di guerra di Chagan fece scomparire quell'immagine mentre il piede dell'uomo da un solo braccio colpiva Tanaka all'inguine. Il guscio di lana di vetro riuscì appena ad attutire il calcio proibito. Quando Chagan si fu ripreso dalla caduta all'indietro, Tanaka era furibondo. Attese che l'avversario si alzasse poi lo colpì con un calcio direttamente al plesso solare. Chagan crollò a terra, rotolando sul fianco. Tanaka si avvicinò al corpo del compagno e alzò il piede per colpirlo. «Yame! Yame!» Il comando di Azato lo fermò appena in tempo. «Controllati!» Tanaka udì quella parola detta in tono sibilante dal sensei che si avvicinò intenzionalmente alle sue spalle. Più tardi, dopo che si era fatto la doccia e si era cambiato, Joey trovò il signor Azato che lo aspettava accanto all'ingresso. «Tanaka-san,» iniziò il sensei, appoggiandogli paternamente una mano sulla spalla, «quello che è successo a Tokyo fa parte del passato. Ora tu sei qui, hai una nuova vita. Non devi restare prigioniero di una vecchia ferita... Capisci, Tanaka-san?»
Joey cercò di immaginare Mikio Tanaka, che si protendeva verso di lui dietro lo sguardo del sensei, ma gli risultò impossibile perché da quel giorno di tanti anni prima il rapporto con suo padre era diventato giri, puramente formale. Josef era stato mantenuto e le sue attività erano state tenute sotto controllo ma non era più stato il prezioso piccolo ninjo, né aveva più ricevuto affetto. Sostenne lo sguardo di Azato, tenendo a freno la profonda tristezza che provava. «Mi spiace, sensei.» «Non c'è tempo per dire 'mi spiace'. Devi conquistare la tua mente, forgiare il tuo spirito, affrontare gli esami della vita.» Adesso il tono del sensei era più duro. «Oss» rispose Tanaka, inchinandosi davanti al suo maestro. Ben Chagan uscì dallo spogliatoio e si tenne a distanza. «Maledetto pazzo,» lo udì dire Tanaka mentre passava, poi si voltò, aprì la porta d'uscita e seguì l'ex marine fuori nella notte. IV UN INDIZIATO «Lasciate che di questo mi occupi io,» disse Fogarty, passando vicino al finestrino della Ford grigia. «State calmi,» aggiunse prima di dirigersi verso il sentiero di ghiaia che conduceva alla pensione. A giudizio di Fogarty, l'uomo che venne ad aprire la porta doveva essere sulla cinquantina; uno di quei personaggi dell'era pre-psichedelica che conservava ancora un'aria bohémien. Un po' stempiato, portava la capigliatura scura striata di grigio legata indietro in una coda di cavallo, e il suo volto di colorito scuro era nascosto da una barba incolta. L'avversione, mista a un'espressione di fastidio, annuvolava lo sguardo vacuo di Mark Pearl. «Che cosa posso fare per lei?» Il suo tono era untuoso e arrogante e aveva un pizzico di accento del Bronx. Era ovvio che «lo sfregiato» non era venuto per cercare una stanza e anche se fosse venuto per quello, Pearl non avrebbe voluto saperne: selezionava i suoi pensionanti, scegliendo esclusivamente studenti universitari, preferibilmente femmine. Fogarty mostrò da lontano il tesserino. «Ha un mandato?» tagliò corto Pearl, socchiudendo la porta ancor prima che Fogarty mettesse il piede davanti alla buca delle lettere. «Sta' attento a quello che fai, poliziotto. Non hai il diritto di venire a
sporcare il mio pianerottolo.» Pearl aveva assunto un tono da martire e indicava con la mano l'impronta sporca delle scarpe del tenente. «Ti offrirò la possibilità di scegliere,» iniziò Fogarty, entrando nell'ingresso squallido. Da un corridoio senza finestre alla sua sinistra arrivava un nauseabondo odore di uova fritte. «Se ora parli con me, collaborando veramente, io non ti romperò il culo per quello che so che fai per farti i soldi.» Una ragazza a piedi nudi che indossava un'ampia maglietta lunga fino al ginocchio comparve nel corridoio puzzolente. Si fermò, fissando Fogarty come se fosse un'apparizione. «Tutto bene, Tina, nessun problema.» Pearl trasudava affetto paterno. Fogarty ispezionò le sottili braccia di Tina, sorpreso che non vi fossero segni di punture. «Forse dovremmo parlare nell'altra stanza,» suggerì Pearl. L'altra stanza era completamente diversa dalle parti della casa che Fogarty aveva visto. Era pulita e un odore di incenso bruciato ne impregnava delicatamente l'aria. Pearl offrì a Fogarty una delle due sedie di legno dallo schienale alto e squadrato, del tipo che il tenente ricordava di aver visto nelle camere private del parroco quando era in collegio. Si sedette mentre l'altro sistemava il suo corpo massiccio sopra un grande cuscino damascato al centro della stanza e ripiegava una gamba al di sopra dell'altra in una posizione molto simile a quella di Gina Genero da morta. Guardò Fogarty e sorrise senza mostrare i denti, come un Buddha ebreo pronto a dispensare saggezza. «Gina Genero.» Mentre pronunciava quel nome, Fogarty studiò gli occhi di Pearl. Niente si mosse, nemmeno il sorriso. Fogarty sentì nascere la rabbia. Poi, lentamente, Pearl prese il piede della gamba più in basso e lo sollevò mettendolo al di sopra del ginocchio destro, tirando il calcagno verso l'addome. Sostenne lo sguardo di Fogarty, rilassandosi nella posizione del loto completa. Il poliziotto stava per alzarsi dalla sedia, ma si trattenne sentendosi ribollire dentro. Questo figlio di puttana sa qualcosa. Mi sta prendendo per i fondelli. «Gina era una delle mie bambine,» sussurrò Pearl, con sguardo improvvisamente triste. «Una delle mie bambine?» ripeté Fogarty. «Che cosa significa?»
«Abitava qui. Era al primo anno di università. Tutti questi ragazzi per me sono come dei figli.» Aprì espansivamente le braccia. «Perché non la pianti con queste cazzate, Pearl?» disse Fogarty in tono di lieve minaccia. Il santone in sovrappeso cominciò a piangere. «Gina era una donna speciale, aveva talento, un vero talento. Era un dono degli dei,» frignò. Fogarty non voleva perdere molto tempo. Attese un po', quindi interruppe il lamento funebre di Pearl. «Eri tu che le procuravi la droga.» Pearl alzò lo sguardo. «Cocaina,» affermò Fogarty. «Niente cocaina, amico, non procuro cocaina. Non ho niente a che fare con la cocaina.» Il suo tono era fermo. «Quand'è stata l'ultima volta che hai visto Gina Genero?» chiese Fogarty cambiando tattica. «La coca dà un cattivo karma, amico. Un cattivo karma,» Pearl proseguì come se Fogarty non avesse parlato. «Vuoi parlare qui o preferisci che ti arresti?» La minaccia ottenne un effetto immediato. Pearl lo guardò negli occhi. «Forse due settimane fa. È passata da queste parti, non l'aspettavo.» «Che cosa è successo?» «Abbiamo parlato.» «Sarà meglio che tu dica qualcosa di più,» lo incalzò Fogarty e si alzò dalla sedia: aveva il ginocchio destro all'altezza della testa di Pearl. «Forse dovrei chiamare il mio avvocato,» disse Pearl. Fogarty spinse avanti il ginocchio e lo passò contro la barba folta dell'altro, in una pericolosa carezza. Pearl sembrò alzarsi dal cuscino in un solo movimento, mostrando di avere un corpo imprevedibilmente agile. Si mise proprio davanti a Fogarty, abbastanza vicino da sfiorarlo. Era la prima volta che il poliziotto percepiva un accenno di minaccia: arretrò, allontanandosi dal raggio d'azione del santone. Pearl sorrise. «Non mi piacciono i ficcanaso, tenente.» La sua voce era sibilante. Fogarty pensò a Joey Tanaka, e alla sua teoria. Osservò le mani pesanti di Pearl, notando l'indice più corto della destra a cui mancavano l'unghia e l'ultima falange. Fu un momento difficile, di tormento psicologico, in cui la situazione poteva facilmente capovolgersi. Quel tizio poteva essere l'assassino di Gina Genero? Fogarty doveva scoprirlo.
La sua mossa successiva fu più d'istinto che premeditata. Un diretto all'addome di Pearl, dieci centimetri sotto il plesso solare. Il tenente sentì la sua mano entrare in un rotolo di carne flaccida coperta dalla camicia di jeans. Si aspettò quasi una reazione, un calcio o una botta. Pearl si piegò in due, ansimando come se stesse per vomitare. Fogarty rimase a guardarlo, tenendosi a distanza per prevenire un contrattacco. «Brutto bastardo!» urlò Pearl. Fissò Fogarty: non c'era aggressività nel suo sguardo, c'era indignazione ma nessuna traccia di aggressività. Fogarty arretrò verso la porta con adesso due pensieri cristallini nella mente: Pearl non è l'assassino di Gina Genero. Chi ha ucciso la ragazza non ha niente a che fare con i due grammi di cocaina ritrovati. «Il mio avvocato ti farà a pezzi!» Fu la frase che Fogarty udì proclamare mentre usciva dalla casa lasciando la porta aperta. I due agenti della narcotici aspettavano a bordo della Ford grigia. Fogarty fece un cenno e gli uomini scivolarono fuori dall'auto e si diressero rapidamente verso la porta aperta. La visita successiva del tenente fu a un loft ristrutturato in Banks Street. Il biglietto da visita, attaccato a un campanello sporco, diceva: «Jeanette Key, ballerina.» Fogarty suonò. Una voce femminile gracchiò attraverso l'altoparlante perforato del citofono. «Chi è?» «Tenente Fogarty, del Dipartimento di polizia di Filadelfia.» «Non la sento.» «Tenente William Fogarty,» ripeté. «Chi?» «Dipartimento di polizia.» Adesso stava urlando nell'altoparlante rotto. Si udì nuovamente un rumore e Fogarty esaminò la porta di acciaio, valutando i pro e i contro di un'entrata con la forza. «Continuo a non sentirla! La manda Arthur?» Fogarty non rispose. «Lei è quello delle undici?» «Sì!» gridò il tenente. Un ronzio acuto e la porta si aprì. Fogarty entrò e vide che l'atrio era illuminato da tubi al neon e privo di decorazioni. Un ascensore a gabbia di tipo industriale era fermo dall'altra parte. «Premi il numero uno per Jeanette Key.» Quelle parole erano scaraboc-
chiate su un foglio di carta a righe attaccato alla porta dell'ascensore con il nastro adesivo. Fogarty salì insieme al rumore cigolante delle pulegge che avevano bisogno di essere oliate. La sua ascesa terminò con un sobbalzo. Arrivò in un grande spazio aperto. Un tavolo di formica antiquato e quattro sedie rosse di plastica erano sistemati accanto a una cucina a gas e a un lavello di metallo bianco. Una ciotola con il nome «Rudy» era a terra a fianco del lavello. A sinistra un divano di velluto rosa circondava armoniosamente un tavolino da caffè con il ripiano di vetro. Appoggiati su di esso c'erano due spinelli sottili e al loro fianco un umidificatore pieno di marijuana color verde scuro. «Fatti uno spinello se vuoi. Arrivo subito.» La voce proveniva da dietro una parete di cartongesso sistemata più in basso del soffitto a travi. Fogarty si sedette su una delle sedie di plastica. Passarono alcuni secondi e poi giunse il rumore di una cassetta che veniva infilata in un registratore e il click dell'apparecchio che entrava in funzione. Il Canone in re maggiore di Pachelbel fluttuò tra la cima della tenda separatrice e l'alto soffitto. «Arthur ha detto che lei è nel giro della danza classica,» cinguettò la voce. Fogarty provò a immaginarsi Arthur, poi cominciò ad arrabbiarsi con la voce dietro il separé. Non per la presenza della droga né per il lavoro che ovviamente si esercitava là dentro, ma per la mancanza di sicurezza, per il fatto che era penetrato nell'appartamento di quella persona senza essere stato né esaminato né controllato. Quando la porta al centro della parete di cartongesso si aprì, il tenente si alzò e si voltò. Prima comparve un grande gatto nero che lanciò un'occhiata a Fogarty e andò a nascondersi dietro il divano e dopo di lui apparve una donna dalla pelle scurissima. Jeanette Key era bassa ed estremamente muscolosa. Una donna che fa body building, suppose Fogarty. Indossava scarpe rosse con il tacco a spillo, calze bianche, un reggiseno nero con dei buchi sui capezzoli e un paio di mutandine uguali. Sembrava ondeggiare a tempo con la musica di Pachelbel. «Mi spiace. Rudy a volte è molto sgarbato,» disse, indicando il nascondiglio del gatto. Poi aggiunse: «Ecco, spero sia della sua misura.» Porse al tenente un costume a strisce in stile Tarzan. Fogarty rimase senza parole. «Non preoccuparti, tesoro, Arthur mi ha detto che ti piace travestirti.» Fogarty si voltò verso di lei, silenzioso. La vide trasalire e la confusione comparire nei suoi grandi occhi marroni. La donna lanciò un'occhiata al tavolino da caffè e poi ritornò a fissare il poliziotto.
«Ti manda Arthur, vero?» Cominciò a vestirsi lei stessa con il costume da Tarzan. «Non so proprio come dirglielo, signorina Key, ma sono il tenente William Fogarty del Dipartimento di polizia di Filadelfia.» Il poliziotto mostrò il suo distintivo. «Oh, mio Dio.» Sembrò trafitta dallo scudetto di bronzo e il suo corpo parve dissolversi insieme al pezzo in re maggiore che finiva. «Non è come crede lei,» disse in tono lagnoso mentre si sforzava di infilare in fretta i pantaloni di spandex a strisce e di tirarsi su le bretelle per coprire il seno. «Faccio wrestling, contatto corporeo leggero,» proseguì. Fogarty annuì lentamente con la testa. «Nessun rapporto sessuale, assolutamente nessuno,» asserì la signorina Key, con un filo di speranza nella voce. «Sono una donna seria, niente sesso,» ripeté. «Senta,» iniziò Fogarty, «non sono venuto qui per indagare sulla sua vita privata. Non me ne frega niente né di Arthur né dell'erba.» Si spostò verso il tavolo. «Sono venuto qui perché lei lavorava al Birdcage Lounge la notte che Gina Marie Genero è stata uccisa.» Un'espressione improvvisamente seria irrigidì il volto al di sotto della parrucca riccia bianca. Malgrado la sua notevole complessione muscolare, Jeanette Key sembrava piccola e in qualche modo innocente. «Posso cambiarmi gli abiti, signore?» chiese. «Faccia pure.» Tre minuti dopo, il concerto di Pachelbel era terminato. Una donna nera dai bei lineamenti con i capelli cortissimi, avvolta in un accappatoio azzurro e a piedi nudi, comparve davanti a Fogarty. «Sediamoci,» suggerì lui. Un'ora dopo Rudy era comodamente accoccolato in grembo a Fogarty. Il tenente e la ballerina avevano parlato molto dettagliatamente della serata del ventisei. Fogarty aveva una lista delle danzatrici e dei clienti regolari e aveva anche una vaga descrizione dell' «Impermeabile». «Descrivimelo ancora una volta, Jeanette,» disse, ben consapevole del fatto che le dita che si contraevano, i piedi che battevano e le frasi che si ripetevano dimostravano che il suo soggetto era giunto al limite della sopportazione. «Non sono riuscita a guardarlo bene. Era buio. E c'è sempre tanto fumo,» disse Jeanette per la decima volta.
«Era grande...» la incalzò Fogarty. «E aveva i capelli scuri, un giubbotto di pelle nera e uno strano volto. Forse era un ispanico o poteva anche essere un indiano. Sembrava un indiano d'America. Aveva carnagione bruna e doveva essere forte, molto forte.» «Perché?» «Perché ha sollevato la sbarra di chiusura e ha spalancato la porta di sicurezza come fosse stata di compensato. Crede che sia lui l'assassino di Gina?» «Dove conduce quella porta di sicurezza?» proseguì Fogarty. «Nel vicolo che porta alla strada principale al numero 10.» «Perché diavolo mi ha lasciato entrare senza sapere chi fossi?» La voce di Fogarty era improvvisamente dura, dieci decibel sopra il suo tono di voce normale. Rudy soffiò, saltò sul pavimento e scappò a nascondersi sotto il divano. Jeanette Key rimase rigidamente seduta. Sembrava sul punto di piangere. «Ho visto la cima della sua testa dalla finestra,» piagnucolò la donna, indicando la finestra con le sbarre al fondo del suo loft che dava sulla strada. «E con ciò?» chiese il tenente. «Lei non sembrava né un pervertito né altro. Ho semplicemente pensato che fosse in anticipo.» Fogarty si alzò in piedi e la fissò con uno sguardo che era sia da poliziotto sia paterno. «Non faccia la stupida, Jeanette, non faccia la stupida.» Così dicendo il tenente W.T. Fogarty se ne andò, entrò nell'ascensore e discese in strada. Incrociò un tizio piccolino e occhialuto che portava un toupé brizzolato e un completo a righine. L'uomo si voltò, guardò rapidamente Fogarty poi si affrettò verso la porta con la targhetta con scritto «ballerina» sopra il campanello. Fogarty continuò a camminare e poi si voltò un istante per vedere il nervoso capufficio entrare nel loft di Jeanette Key. Il barista del Ringwolds, «aperto 24 ore», non riuscì ad aggiungere molto alla descrizione già fatta da Jeanette Key, se non il particolare che l'uomo aveva delle mani dalla forma molto insolita. «Erano come deformate, sa, come se le nocche fossero gonfie e le prime due dita rotte alla giuntura. A dirle la verità, tenente, quel tizio mi ha messo a disagio, non mi piaceva il suo sguardo.»
«A disagio? Perché?» «È difficile spiegarlo. Era come se ci fosse qualcosa di pericoloso in lui. Era così calmo... No, era qualcosa di diverso dalla calma...» Il cameriere esitò sforzando le sue capacità descrittive per trovare le parole per spiegarsi. «Era...» Gli occhi azzurri piccoli e luccicanti si socchiusero e le rughe sulla fronte alta aumentarono, sotto le ciocche di sporchi capelli castani. Finalmente, le labbra sottili si incresparono: «Come ghiaccio che sta per sciogliersi, già come ghiaccio che sta per sciogliersi.» «Come?» Il cameriere alzò lo sguardo, infastidito dal fatto che Fogarty non avesse apprezzato la sua metafora. «Come se fosse stato nervosissimo, ma si controllasse. Voglio dire, pericolosamente nervoso. Sa, come quando uno è troppo distante persino per parlare. Non ha mai detto una parola...» «Già, ma riuscirebbe a identificarlo?» insistette Fogarty, chiaramente irritato. L'uomo scosse la testa. «Non l'ho mai visto in faccia.» V L'AUTOPSIA L'odore dell'obitorio dava sempre la nausea a Fogarty. Era un miscuglio di odori diversi: gorgonzola, plastica bruciata, urina stantia e uova marce. Odori sgradevoli che stagnavano nei condotti che pompavano l'aria riciclata nelle stanze senza finestre. La lunga amicizia con Bob Moyer gli concedeva, di tanto in tanto, il privilegio di poter osservare il patologo al lavoro. In quel caso Moyer aveva rimandato l'autopsia di un giorno per permettere al tenente di svolgere alcune indagini. Il patologo capiva che l'istinto del poliziotto certe volte otteneva informazioni utili assistendo al sezionamento di un cadavere. Uno sfregio, una ferita apparentemente casuale, qualsiasi cosa poteva permettergli di capire la psiche del killer. «Hanno appena cominciato, signore,» dichiarò l'assistente mentre aiutava Fogarty a infilarsi gli stivali, il camice da ospedale e il grembiule di plastica verde. «Quelli non mi serviranno,» disse Fogarty, lasciando i guanti di gomma nelle mani dell'assistente. «Grazie,» aggiunse, mentre si dirigeva dagli armadietti con gli abiti verso le doppie porte della sala operatoria. Il corpo di Gina Marie Genero era nudo e la sua testa pendeva all'indie-
tro oltre il margine del tavolo metallico verde. Moyer e Joey Tanaka erano vicino al cadavere mentre un terzo uomo, probabilmente uno studente, si teneva un po' distante con la matita e il block-notes pronti. Moyer salutò Fogarty con un breve cenno del capo. Poi fece cenno a Tanaka di iniziare. Il giovane medico avanzò di un passo, afferrò il corpo sotto la zona lombare e lo spinse con la destra facendo rotolare Gina Genero sul fianco destro. «Rigor mortis evidente alle estremità,» iniziò. «Nessuna traccia superficiale di decomposizione. La palpazione dei seni e dell'addome non rivela nessun rigonfiamento anomalo. Presenza di contusioni e lividi ai fianchi e ai tessuti esterni del retto. Area vaginale esterna normale...» La voce di Tanaka assunse un tono monotono, perdendo ogni sembianza di calore umano, simile a un computer che trasmette dati. Lo studente con il block-notes scriveva con furia. Moyer si mise al fianco di Fogarty e disse sottovoce: «Abbiamo le radiografie e abbiamo fatto gli esami preliminari al retto. Non c'è niente, molti tessuti strappati ma nessun oggetto. Sappiamo come è stata uccisa, quindi questa sarà un'autopsia parziale. Lascerò che sia il dottor Tanaka a farla.» Mentre Moyer parlava, lo studente che assisteva andò al tavolo degli attrezzi e prese una brocca smaltata piena di acqua bollente. Tanaka sistemò il corpo in posizione supina mentre l'assistente versava l'acqua in una bacinella a destra della testa del cadavere. Quindi Tanaka prese un coltello dalla lama lunga e fece tre tagli per aprire il corpo; i primi due ai lati del collo che si univano al di sopra dello sterno e il terzo, più lungo, che apriva in due l'addome. Evitò attentamente il tendine ombelicale al di sotto dell'ombelico. Poi mise il coltello sul tavolo degli attrezzi e si pulì rapidamente le mani guantate nell'acqua calda. Fogarty osservava, decisamente impressionato dall'abilità e dalla sicurezza del giovane medico. Trovava in un certo senso difficile associare la persona distinta in camice verde con il tizio in giubbotto di pelle a bordo della rombante motocicletta. Tanaka sollevò e tirò indietro i lembi di pelle, scoprendo le costole e lo sterno, poi prese un paio di lunghe forbici per tagliare il tendine cartilagineo. Tolse le costole frontali e lo sterno: gli organi interni del petto di Gina Genero apparvero sotto le luci al neon. Fogarty notò che i pettorali destri erano leggermente più grandi dei sinistri. Non era mancina, pensò, e improvvisamente ricordò le parole di Dia-
ne Genero. La pittrice, mia figlia voleva fare la pittrice. Respirò a fondo, mettendo a tacere la parte più emotiva di sé. Abbassò di nuovo lo sguardo e vide Tanaka che alzava i lembi del collo ripiegandoli al di sopra del mento. Il viso di Gina Genero mantenne un vago sorriso a labbra chiuse. Poi il giovane medico prese un bisturi ricurvo e fece un'incisione lungo il bordo interno dell'osso mascellare. La lingua della ragazza apparve, Tanaka l'afferrò e la infilò nell'apertura del collo; continuò e liberò la faringe, l'epiglottide, la laringe e la trachea e tagliò i legamenti che le tenevano. Fogarty arretrò di un passo per mantenere la prospettiva, respirando profondamente. Aveva sempre considerato con una certa venerazione Bob Moyer e ora quel rispetto si era esteso anche all'alto orientale in camice verde. Era come se dentro quel piccolo teatro putrido, invisibili a qualunque pubblico, quegli uomini avessero dei poteri quasi magici. Moyer si spostò in avanti per vedere gli organi danneggiati. Finalmente Tanaka parlò, con tono freddamente realistico. «Lacerazione superficiale alla giugulare interna, causata dal contatto con le vertebre cervicali. Profonda contusione all'arteria carotidea. Contusione alla vena vertebrale. Contusione al nervo ipoglosso. Contusione al nervo vago...» Lo studente scrisse con una velocità che seguiva il ritmo della voce di Tanaka. «Contusione del nervo frenico e del nervo laringeo. Ematoma alla guaina carotidea. Cartilagini ialine gravemente danneggiate, condotto verso la laringe pulito, trachea a brandelli.» Soffocata dal suo stesso sangue. Fogarty ripeté nella sua mente la causa della morte, chiudendo gli occhi un istante per immaginare la scena dietro lo scuro schermo delle palpebre. Un uomo, un uomo robusto. Che colpisce come un animale, con forza, che lacera ripetutamente in preda alla frenesia. No. Non c'è stata alcuna frenesia: lui si è controllato. Ha attaccato con preciso e studiato controllo di sé. Come un animale con una mente umana, disciplinato. La sua vittima era troppo spaventata per fare resistenza. Fogarty aprì gli occhi. Tanaka si era allontanato dal corpo e teneva nella mano tesa gli organi mutilati. «Tutto questo richiede una forza dannata,» disse con un tono finalmente umano, che sembrò anche stranamente rispettoso.
VI UN GIORNO SOTTO PRESSIONE Il tenente tirò giù il finestrino della Le Mans argentata e una ventata di aria fredda giunse dal fiume. Alla luce abbagliante del sole l'acqua scura sembrava quasi pulita, per pulito che potesse sembrare lo Schuylkill. Fogarty diede un'occhiata all'orologio: le sette precise. Entro un'ora la sopraelevata sarebbe stata affollata. Ma in quel momento, in quel preciso momento, il percorso per Vine era un dritto nastro d'asfalto. Tenne la macchina a novanta all'ora fissando la strada per evitare i buchi per i quali era famosa. La chiamavano la «Schuyl-killer»: i buchi sembravano comparire misteriosamente di notte. Quel giorno sarebbe stato un giorno «sotto pressione». Mark Pearl si era rivelato una pista sbagliata, niente di più che un piccolo spacciatore che seduce le ragazzine e recita la parte del guru davanti a una mezza dozzina di studenti. Gli agenti avevano scoperto trenta grammi di cocaina e una buona provvista di FX, l'ultimo ritrovato nel campo degli stimolanti erotici. Abbastanza per fargli chiudere la pensione e, in teoria, abbastanza per mettere l'attempato figlio dei fiori in prigione per qualche annetto. Tuttavia, Fogarty dubitava che ciò sarebbe avvenuto perché l'avvocato di Pearl stava già proclamando che il suo cliente non era affatto al corrente della presenza delle droghe ritrovate nella sua proprietà. Quella motivazione, sommata alla «brutalità poliziesca» e alla reputazione impeccabile di Pearl all'interno della comunità, per il fatto che lavorava in un centro sociale insieme ad alcuni ex tossicodipendenti, faceva prevedere che il caso non sarebbe mai finito in tribunale. Una ramanzina del giudice, qualche buona parcella all'avvocato, un periodo di libertà vigilata, ma nessuna carcerazione per il corpulento signor Pearl. In qualunque altro momento, ciò avrebbe fatto infuriare Fogarty al limite dell'ossessione. Sarebbe stato incollato a Pearl come una camicia sintetica. Adesso però non poteva permettersi di dare al grassone neanche un po' di fastidio. Be', magari un po'... Un paio di uomini in borghese e una Ford grigia davanti a casa per qualche giorno. Soltanto per ricordare a quello stronzo che non mi sono dimenticato di lui, concluse Fogarty mentre seguiva la corsia di sinistra verso la rampa di uscita per Vine Street. Un giorno sotto pressione. Per prima cosa, avrebbe telefonato a Moyer per sapere se l'autopsia aveva rivelato qualcos'altro. Intuiva già che non c'erano novità perché altrimenti Moyer l'avrebbe subito cercato, ma avreb-
be telefonato ugualmente. Certe volte sentirsi raccontare dettagli che già conosceva gli faceva venire in mente idee nuove. Quando Fogarty entrò nel palazzo degli uffici con l'aria condizionata al profumo di pino, l'ispettore capo Dan McMullon lo stava aspettando. «Come stai, Bill?» Fogarty sorrise e salutò con un cenno del capo. «Credo proprio che siamo di fronte a un grosso problema,» proseguì McMullon. Fogarty intuì l'imbarazzo nel tono dell'ispettore capo. Erano passati tre anni da quando McMullon, più giovane di lui, aveva ricevuto la promozione che sarebbe spettata a Fogarty. Forse era stato McMullon a fregarlo perché si diceva che avesse fatto delle illazioni sui «problemi psicologici» del tenente in seguito all'incidente automobilistico. Soltanto l'ufficio affari interni sapeva la verità, ma Fogarty sospettava che fosse così. Il sorriso gli scomparve dal volto. Quando arrivò l'ascensore, Bill Fogarty era stato messo al corrente di quanto era grosso il problema. Diane Genero era andata via portandosi dietro il corpo della figlia. Prima di andarsene era stata messa alle strette da Bev Richards, cronista del Voice of Philadelphia. Ne era risultata un'intervista di due minuti, sapientemente elaborata, a una madre afflitta, all'oscuro dell'identità dell'assassino di sua figlia come quando era arrivata in città. La signora Genero aveva gentilmente citato anche Bill Fogarty, probabilmente nel tentativo di mostrare gratitudine ma, grazie ad alcuni giudiziosi tagli, aveva soltanto fatto sospettare che il tenente fosse un incompetente. «Non possiamo fare niente per impedire che esca l'articolo. Ho già tentato senza ottenere alcun effetto, i giornalisti sanno che c'è sotto qualcosa di grosso. Se ne occuperanno tutti i mezzi d'informazione. Mentre McMullon parlava, Fogarty ricordò gli occhi azzurri e i modi raffinati di Diane Genero. Poi pensò a Bev Richards, un metro e cinquantacinque di ambizione dai capelli rosso fuoco. «Dove sono riusciti a trovare la madre della Genero?» chiese. «Sul viale d'accesso del Bellevue, mentre andava all'aereoporto. Oh, è proprio un bel casino!» Fogarty e McMullon uscirono dall'ascensore e camminarono fianco a fianco lungo il corridoio con i muri color grigio-verde. «La stampa scandalistica saprà tutto entro stasera, e domattina Filadelfia avrà il più colorito serial killer dai tempi di Raymond Hydenik.»
Fogarty guardò McMullon mentre ricordava le sei donne nude impiccate e torturate nella cantina di Hydenik. Quando erano state trovate il loro aspetto non aveva quasi più nulla di umano, sembravano più simili a carcasse di animali. «Questa faccenda diventerà pazzesca, Dan,» disse gravemente Fogarty. «E noi faremo la stessa figura dei poliziotti di Keystone,» aggiunse McMullon. Fogarty si sedette sul suo cuscino ortopedico e lanciò un'occhiata al nome scarabocchiato sul suo blocco. «Dobbiamo fare qualcosa, e in fretta,» disse l'alto e robusto ispettore capo mentre si sedeva sulla sedia davanti alla scrivania di Fogarty. «Senti, Dan, questa è un'ipotesi azzardata, ma io forse ho qualcosa.» Fogarty guardò di nuovo il nome sul blocco: Joey Tanaka. VII IL VOLTO Walter Dromgoole aveva una goccia di saliva che gli pendeva dai baffi impomatati. Mentre lavorava muoveva la lingua all'insù, toccandosi i baffi con la punta e aumentando così la quantità di saliva. Cinque anni prima, quando conduceva Disegnare può essere facile, un programma di mezz'ora presso una TV locale, i baffi impomatati alla Salvador Dalì erano stati la sua caratteristica. Fino all'infausto sketch dell'asino, realizzato mentre era ancora sballato dopo la festicciola della notte precedente, tenuta per celebrare il suo quarantacinquesimo compleanno. «Ecco, signore, qualcosa che tutte potete fare...» L'abituale annuncio aveva preceduto il disegno di una donna graziosa che faceva del sesso orale con un asino ben dotato. Dopo quell'episodio aveva dovuto accontentarsi di gestire un negozietto di materiale per le belle arti a Havertown e, di tanto in tanto, svolgere qualche lavoro per il dipartimento di polizia di Filadelfia. Quel giorno stava lavorando per il tenente W.T. Fogarty. Chino su un cavalletto da scrivania, seguiva le istruzioni della giovane donna di colore che si chiamava Jeanette Key. Il ritratto a colori della testa di un uomo stava prendendo forma sulla spessa carta bianca fissata sul cavalletto. Una testa allungata sormontata da capelli scuri piuttosto lunghi pettinati
molto all'indietro. Grandi occhi castani molto distanti al di sopra di zigomi alti e pronunciati. Le labbra erano grandi ma avevano un'espressione crudele ed erano come contratte per impedire che esprimessero un'emotività indesiderata. «Fagli il naso più piccolo,» indicò Jeanette Key. Walter Dromgoole ubbidì, e in pochi secondi una versione più piccola del medesimo naso, ora leggermente aquilino, sostituì quello già esistente sulla carta. «Adesso gli faccia una piccola gobba, come se fosse stato rotto e risistemato male,» proseguì. La lingua appuntita di Dromgoole leccò due volte i baffi mentre sul volto appariva una terza versione del naso. «Bene. È quasi somigliante. Può scurirgli la pelle? Soltanto un pochino.» Un'altra leccata, un gessetto più scuro e il volto divenne leggermente abbronzato. Fogarty non voleva credere a ciò che vedeva. L'uomo al quale aveva appena chiesto di lavorare a tempo pieno insieme a lui per quell'indagine era rappresentato chiaramente dal disegno di Dromgoole. «Mi pareva che tu avessi detto che non eri riuscita a vedergli gli occhi,» intervenne il tenente, il quale già cominciava a difendersi mentalmente dal profondo senso di sconforto. «Se aveva i capelli scuri, probabilmente gli occhi erano castani,» rispose Jeanette Key, evidentemente soddisfatta del suo lavoro. «È davvero sbalorditivo,» aggiunse, guardando prima Dromgoole sorridente e poi il disegno. «Fanne una copia con il computer,» ordinò Fogarty. Il tenente si sedette nel suo ufficio e fissò il disegno con tanta intensità che alla fine non vide altro che le minuscole linee che lo componevano. «Potrebbe essere chiunque,» mormorò Fogarty, posando il foglio di carta sulla scrivania e alzandosi dalla sedia per guardarlo di nuovo da una certa distanza. Poi pensò per la millesima volta alla descrizione del giubbotto di pelle nera e delle mani deformate. «È pazzesco!» disse a voce alta, sapendo che era tutto abbastanza pazzesco da essere vero. Tanaka non era forse venuto da lui a parlargli di una sua teoria? E non è risaputo che quel tipo di pervertiti godono a confessare? «Andiamo, stupido, facendo così arriverai alla disperazione!» si disse,
poi parlò di nuovo a voce alta: «Joey Tanaka. Joey Tanaka.» Ascoltò la propria voce che ripeteva il nome del medico. Rimase in piedi e appoggiò le mani sulla scrivania fissando l'opera d'arte di Dromgoole. Questa volta la somiglianza non era tanto evidente. Fogarty si sentì enormemente sollevato. «Joey Tanaka.» Pronunciò nuovamente quel nome e l'immagine sembrò di nuovo corrispondere. Fece un passo indietro, si voltò e guardò fuori dalla finestra, su nel cielo grigio scuro. Un senso di tremenda ansietà minacciava il suo equilibrio. Chiuse gli occhi e l'immagine del dottor Tanaka, fulgido nel suo camice da ospedale, gli apparve nella mente. La mano del medico era protesa e la trachea di Gina Genero giaceva sul suo palmo aperto come un pezzo di tubo di plastica strappato. «Tutto questo richiede una forza dannata.» Fogarty ricordò le parole di Tanaka. Anche allora aveva percepito un senso di orgoglio. Orgoglio? Di orgoglio o rispetto, non lo sapeva con precisione, ma c'era qualcosa che lo aveva colpito. Qualcosa che era solo leggermente in contrasto con l'atmosfera monotona dell'obitorio. Ma era proprio in quella stanza che Fogarty, osservando il giovane dottore al lavoro, aveva cominciato a fidarsi di Tanaka e a percepire l'abilità di quelle mani grandi, la loro precisione e il loro controllo. Aprì gli occhi e guardò giù nel parcheggio, ricordando la Harley Davidson, l'uomo con il casco, gli occhiali da sole e il giubbotto. Anche quello era Joey Tanaka. Ricordò quanto si fosse sentito insicuro in presenza del medico, ma era un'insicurezza che proveniva da lui, dalla sua reazione di fronte alla sicurezza dell'uomo più giovane. Devo liberarmene, pensò Fogarty, respirando profondamente. Ma la sua mente non si fermava e continuava a rievocare dettagli e particolari a sostegno dei suoi sospetti. Qual era l'incidente a proposito del quale Tanaka era tanto sensibile? Prese la stampa computerizzata del disegno, la piegò e la mise dentro il taschino accanto alla sua calibro 38 special di ordinanza. L'ufficio di Moyer si trovava al numero 321 della University Avenue. Un percorso di dieci minuti tra il traffico dell'ora di pranzo attorno alla City Hall, poi ad ovest nella cittadella universitaria. Fogarty lasciò la sua auto in divieto di sosta e si diresse rapidamente verso le porte con i vetri fumé. Trovò il patologo seduto alla sua scrivania, chino su un fascio di relazioni mediche.
«Bill,» disse Moyer guardandolo, poi si alzò e si tolse gli occhiali. «Tieni pure gli occhiali, Bob. Voglio farti vedere una cosa.» Quando Moyer si fu rimesso sul naso gli occhiali da presbite, il disegno era già stato aperto in cima alle pratiche mediche. Moyer abbassò lo sguardo e fece un cenno con il capo, come fosse profondamente immerso in meditazione. «Cosa ne pensi?» lo incalzò Fogarty. «È il nostro uomo?» chiese Moyer. No, è quello stronzo del tuo assistente, avrebbe voluto rispondere Fogarty. «Chi ha aiutato a fare l'identikit?» proseguì il medico. «Una delle ragazze del Birdcage,» rispose il tenente. Perché Moyer non reagiva? Non vedeva anche lui la somiglianza? «È un volto molto caratteristico. A che gruppo etnico pensi che appartenga, asiatico, ispanico?» Fogarty stava per scoppiare. Che razza di occhi aveva Moyer? Doveva dire lui il nome di Tanaka? Non poteva farlo. «Dov'è il tuo assistente?» chiese, cercando di avere un tono allusivo. «Josef è in laboratorio. A quanto ho capito, lo perderò per qualche giorno,» rispose Moyer continuando a esaminare l'immagine. Fogarty annuì. «Se non fosse per gli occhi, questo tizio potrebbe essere orientale,» concluse Moyer. Andiamo. Dillo. Dillo! Pensò con ardore Fogarty. «Ti spiace se lo tengo?» chiese Moyer, prendendo dalla sua scrivania il foglio di carta stampato dal computer. «Te ne manderò uno,» rispose Fogarty, prendendo il ritratto dalla mano di Moyer. Il laboratorio si trovava nel seminterrato del palazzo. Joey Tanaka era seduto con le spalle curve a studiare un capello umano attraverso le lenti bi-ottiche di un microscopio. «Salve, tenente,» disse cortesemente senza alzare lo sguardo, dato che si era accorto che Fogarty si stava avvicinando. «Salve, dottore,» rispose Fogarty. «Per favore, non c'è bisogno che mi chiami 'dottore'. Mi chiami Josef, o Joey, o anche Tanaka.» Normalmente la risposta di Fogarty sarebbe stata: «Okay, Joey. E dal
momento che lavoreremo insieme, chiamami Bill.» Ma il tenente evitò di proposito quella frase, si diresse verso il tavolo del laboratorio e dispiegò l'identikit. Il disegno giacque come un atto d'accusa a fianco dell'uomo al quale Fogarty pensava somigliasse moltissimo. Tanaka si allontanò dal microscopio, si sfregò gli occhi e osservò l'immagine. «Chi è?» domandò. Fogarty pensò un istante e poi rispose: «Il sospettato numero uno.» Tanaka annuì, lentamente. «Un volto molto caratteristico. Sembra abbia del sangue cinese.» Era qui che volevo andare a parare, pensò Fogarty, avvicinandosi di un passo all'uomo seduto. «Perché dici questo?» «A parte il colore della pelle, per gli zigomi che sono alti, sporgono proprio sotto gli occhi. E poi, c'è una certa...» Tanaka esitò, cercando la parola. «...fragilità della struttura ossea in generale. Chi l'ha fatto?» chiese, incontrando lo sguardo di Fogarty per la prima volta. «Probabilmente la penultima persona che ha visto Gina Genero viva,» rispose il tenente. «Una delle ragazze del club.» Non suonava come una risposta ma sembrava di più un'affermazione. Fogarty annuì. «Questo ci dà un punto di partenza,» constatò Tanaka. «Cosa vuoi dire?» chiese il tenente. C'era una certa noncuranza nei modi di Tanaka e questo atteggiamento sconcertava Fogarty. «I primi luoghi che dobbiamo visitare sono gli kwoon.» «Gli kwoon?» Adesso era il tenente che faceva le domande. Tuttavia l'unica domanda che gli premeva fare, cioè: «Cos'è questa storia dell''incidente' in Giappone?» si rifugiò nei recessi della sua mente. «Non è il momento adatto,» disse a se stesso. «Kwoon è la parola cinese che in giapponese è dojo: significa 'sala di allenamento', cioè il posto dove vengono praticate le arti marziali.» «Ah, sì?» mormorò Fogarty. «A Filadelfia ce ne sono cinque e forse ce n'è qualcuna in più che non risulta.» «Come lo sai?» Tanaka si alzò dalla sedia. Fece un largo sorriso e poi strizzò l'occhio al tenente. «Pagine Gialle,» tenente, «l'ho saputo dalle Pagine Gialle.» Fogarty ricambiò il sorriso e bofonchiò.
Poi, come spinto da un'intuizione, Tanaka guardò di nuovo il ritratto. «Non ti è venuto in mente che quel disegno assomiglia un po' a me?» Il tono della sua voce era ritornato noncurante. Fogarty rise di nuovo, e stavolta fu una risata davvero strana, nervosa e al tempo stesso divertita. VIII COME UNA DONNA CHE DANZA La Chinatown di Filadelfia inizia alla Eleventh and Race, a tre isolati dalla Roundhouse. È un piccolo quartiere, illuminato da draghi al neon lampeggianti, pieno di negozi che vendono rimedi alle erbe e, apparentemente, più ristoranti che abitanti. È la culla della cultura cinese a Filadelfia. Quattro dei cinque kwoon registrati di Filadelfia si trovano a Chinatown. «Come una donna che danza, come una tigre che combatte»: la targhetta bianca con la scritta a lettere d'oro era messa ben in evidenza sopra una porta con il nome «Pakua» a caratteri neri al centro della cornice. All'interno, una scala stretta conduceva in un umido seminterrato con i muri di pietra. Fogarty e Tanaka entrarono nella sala degli allenamenti, con il pavimento coperto da una stuoia, passando attraverso delle tende di bambù rosse. La stanza principale era illuminata da due tubi al neon appesi al soffitto. Fogarty contò sette uomini nella stanza. Uno di essi, un cinese minuto con una barba brizzolata e cespugliosa e con la testa rotonda e calva, era evidentemente l'istruttore. Gli altri sei non erano orientali e potevano benissimo essere dei professori dell'adiacente università. Occhiali e barbette sembravano fare parte del loro abbigliamento tanto quanto le tuniche bianche abbottonate, i larghi pantaloni di canapa neri e le ciabatte con la suola di gomma. «Moyer si sentirebbe perfettamente a suo agio in questo posto,» sussurrò Fogarty. L'istruttore guardò i visitatori, fece un rapido cenno del capo e continuò la sua spiegazione di una pratica che definì «camminare nel cerchio». Mentre parlava dava una dimostrazione, a braccia tese, con le mani aperte e i palmi girati verso l'interno e poi verso l'esterno, mentre le braccia si muovevano secondo diverse figurazioni in corrispondenza dei diversi movimenti del piede e degli spostamenti rotatori del corpo. In effetti, sembrava che seguisse l'immaginaria circonferenza di un cerchio.
«Come una donna che danza.» Fogarty ricordò le parole a caratteri d'oro scritte sulla porta d'entrata. Squadrò gli uomini con la barbetta. «Scommetto mille dollari che non ce n'è uno solo che sia capace di combattere come una tigre,» concluse, diventando visibilmente impaziente. «Adesso, per favore, esercitatevi a coppie.» La voce dell'istruttore era poco più che un sussurro. Il tenente osservò i professori universitari mettersi a coppie e vide che un uomo stava immobile mentre l'altro camminava nel cerchio attorno a lui. Poi, quelli che stavano fermi cominciarono ad attaccare colpendo verso l'esterno con il taglio della mano. I difensori schivavano i colpi, girandosi, arretrando, usando le mani per proteggere la testa e il corpo ma mantenendosi costantemente all'interno del cerchio immaginario. «Interessante,» riconobbe Fogarty, ma né quel kwoon né i sei che aveva visitato precedentemente sembravano il luogo adatto per trovarvi uno psicopatico. In effetti, Fogarty non aveva visto ancora nessuno che ritenesse in grado di dominare bene un diretto destro. Era stato, ricordò a se stesso, il campione di pesi massimi dell'associazione atletica della polizia dal '64 al '66. Non che «Pancione» McMullon fosse stato un gran concorrente, ma Fogarty sapeva riconoscere un buon pugile quando ne vedeva uno. «Sifu, grazie per averci permesso di visitare il vostro kwoon.» La voce di Tanaka distolse il tenente dai ricordi delle glorie del passato. Sifu? Fogarty ripeté quella parola nella sua testa. Cosa gli aveva detto Tanaka... Già, che l'istruttore che in giapponese si chiama sensei in cinese viene chiamato sifu. «Le presento il tenente William Fogarty.» Fogarty tese la mano. «Io sono Paul Ke-shan,» disse il sifu, stringendo la grossa mano del tenente e facendo l'inchino. Paul Ke-shan, Joey Tanaka, Charlie Chan. Tutto ciò era troppo per lui, pensò Fogarty sorridendo mentre faceva un cenno di saluto e apriva la giacca quel tanto che bastava per estrarre dalla tasca interna l'identikit, rivelando soltanto in parte la sua fondina di cuoio a estrazione rapida contenente la calibro 38 a canne azzurre. Fogarty aprì il disegno mentre Tanaka, come concordato, faceva conversazione. «Dovrebbe essere così gentile, sifu, da guardare l'identikit del sospettato e cercare di ricordare chiunque, forse uno studente o un insegnante di un
altro kwoon, o persino uno dei suoi ex studenti, che in qualche modo gli assomigli.» Fogarty mostrò il disegno. Nella stanza, gli studenti avevano cambiato posizione. Adesso toccava alle donne che danzano rimanere ferme e combattere come tigri. Fogarty stava diventando impaziente. Il sifu scosse pensieroso la testa. «Che cosa ha fatto quest'uomo?» chiese. «Assolutamente nulla, sifu,» rispose diplomaticamente Tanaka. «Stiamo indagando su un omicidio,» tagliò corto Fogarty. «Un omicidio?» ripeté Ke-shan. «Assassinio.» Fogarty aggiunse maggior enfasi alla parola. Tanaka si voltò verso Fogarty con un'espressione chiaramente allarmata in volto. Il sifu si irrigidì. «Pensate che forse io abbia un simile individuo nel mio kwoon? Che insegni a un simile individuo?» «Assolutamente no, sifu,» rispose Tanaka, sperando che il tenente tenesse a freno la lingua. Il gajiin non riusciva a capire le conseguenze della sua durezza? Era la prima volta che Tanaka pensava a Fogarty come a un estraneo o uno straniero. «Siamo venuti a chiedere la sua collaborazione,» proseguì, facendo del suo meglio per mitigare l'offesa. «Un uomo della sua posizione si accorge istantaneamente di una debolezza nel carattere, sia in uno studente che in un insegnante.» Nel vedere le labbra sottili del cinese che si rilassavano, Tanaka si sentì sollevato e si accorse che Fogarty si schiariva la gola. «Non ho mai visto quest'uomo,» rispose Ke-shan. Fortunatamente, Fogarty rimase in silenzio. «Molti insegnanti della comunità cinese prendono soltanto gli studenti che provengono da famiglie che conoscono. Il mio kwoon è vicino all'università,» spiegò il sifu, lanciandosi un'occhiata alle spalle, «così insegno a gente dell'università.» Lo sapevo, pensò Fogarty. Maledetti accademici con i sandali e i calzini. Contemplò nuovamente il proprio diretto destro. Tanaka annuì pensierosamente. Poi chiese, dapprima esitante: «C'è qualcuno con cui è stato in contatto, o di cui abbia sentito parlare, che insegni o faccia pratica in un qualunque modo che possa disonorare la vostra comunità?» Fogarty fissò di nuovo lo sguardo sul sifu, studiandone gli occhi scuri:
sembrò che un pensiero li avesse induriti. «Un uomo. Non è cinese e insegna un sistema basato sul Wah Lam.» «La mantide religiosa?» chiese Tanaka. Il cinese annuì. «È chiamato Wah Lam ma non lo è. Usa la mano a uncino e la mano a zampa, ma è una tecnica priva di arte.» «Come si chiama questo tizio?» chiese Fogarty. «È un americano,» rispose Ke-shan, arricciando il naso e continuando a rivolgersi a Tanaka. «Insegna ai suoi studenti in un vecchio negozio in Bainbridge Avenue, a Filadelfia sud.» «Come si chiama?» insistette Fogarty. «Questo è tutto quello che so,» concluse Paul Ke-shan, tenendo lo sguardo fisso su Tanaka. Tanaka si inchinò e Fogarty borbottò un «Grazie» prima che uscissero attraverso la tenda di bambù. «Perché non ha voluto dire il nome di quel tizio?» chiese il tenente mentre si dirigeva a sud sulla Le Mans. «Non voleva abbassarsi a farlo,» rispose Tanaka. C'era qualcosa di aspro nella sua voce. «Datemi tregua!» esclamò Fogarty mentre si spostava bruscamente a sinistra per evitare un buco nell'asfalto. Fogarty ne aveva abbastanza. «Ascolta, dottore. Finora abbiamo sprecato cinque ore e quaranta minuti a guardare un gruppo di tizi in pigiama e pantofole che stanno in equilibrio su una gamba imitando le gru, o 'danzando come signore'. Con il dovuto rispetto verso queste persone e verso la tua teoria, fino a questo momento non ho ancora visto qualcuno che riuscirebbe a uscire con la forza dei suoi pugni da un sacchetto di carta.» Tanaka rimase silenzioso. Iniziò a cadere una pioggia sabbiosa e i tergicristalli della Buick stridevano contro il parabrezza prima di sbattere rumorosamente contro il bordo in plastica. Tanaka guardò fuori dal finestrino e osservò due uomini neri che concludevano una travagliata transazione con uno scambio di banconote piegate e una stretta di mano. «Forse mi manca qualche elemento,» azzardò Fogarty. Tanaka si voltò verso il lato non sfigurato della faccia del tenente. Un mezzo sorriso fu illuminato dai fari delle auto che venivano in senso opposto. «Sai, sono stato una volta il campione di boxe del distretto,» proseguì Fogarty sorridendo più apertamente.
«Ah, sì?» ribatté Tanaka. Aveva un tono sorprendentemente americano con il giusto tocco di sarcasmo. «Sì,» rispose Fogarty, lasciandosi volontariamente prendere all'amo. «Categoria pesi massimi?» proseguì Tanaka, lanciando uno sguardo alla parte bassa del torace di Fogarty. «Ho battuto quel figlio di puttana entro trenta secondi dall'inizio del primo round,» confermò il tenente. «È ancora in servizio?» chiese Tanaka. Fogarty ridacchiò. «Eh, sì, è ancora in servizio...» Tanaka sogghignò, incuriosito. «Chi era?» Fogarty gli lanciò un'occhiata e anche nella semioscurità Tanaka vide che gli occhi del tenente si illuminavano. «Non l'ho neanche colpito alla testa. Gli ho sferrato un diretto allo stomaco ed è finito col culo per terra. E, lo giuro davanti a Dio, quando ha colpito la stuoia ha lasciato andare la scoreggia più rumorosa che io abbia mai udito. Tanaka cominciò a ridere. «I ragazzi del Secondo Distretto l'hanno sentito fin dalla quarta fila.» «Chi era?» chiese di nuovo Tanaka. Adesso era rilassato, aveva fatto la prima risata di gusto che potesse ricordare. Fogarty si voltò di nuovo verso di lui. «Dan McMullon.» Il nome dell'ispettore capo provocò una serie di risate e il fiato dei due uomini appannò il vetro del parabrezza. «Allora sai che cosa ha fatto quel figlio di puttana?» riuscì a dire Fogarty mentre cercava di respirare. Tanaka scosse la testa. «Ha rifiutato di continuare a battersi dicendo che tutta la faccenda era infantile. È andato via... così i ragazzi l'hanno fischiato e l'arbitro l'ha dichiarato perdente! Credo che non si sia mai ripreso da quella sconfitta,» aggiunse il tenente, pulendo con la mano il vetro appannato del parabrezza. Sono maledettamente certo che non si è più ripreso dalla sconfitta, pensò Fogarty. Probabilmente è per questo che ha parlato male di me all'ufficio affari interni. Quella testa di cazzo ha avuto il posto che mi spettava. La Buick passò sopra una serie di rotaie particolarmente sconnesse. L'auto si scosse e vibrò mentre Fogarty lottava con il volante. «Maledizione, non c'è mai niente che stia al suo posto!» imprecò.
Tanaka rise di nuovo. «I poliziotti della Pennsylvania,» così McMullon aveva definito la polizia del dipartimento di Filadelfia. Quel pensiero apparve a proposito nella mente di Fogarty. Venti minuti più tardi, dopo un lento percorso tra gli squallidi palazzi allineati a ogni lato della Bainbridge Avenue, la Le Mans argentata si fermò davanti a una lavanderia a gettoni in disuso. A sinistra dell'edificio abbandonato c'era un negozio con una vetrina verniciata di nero. «Il tempio della Mantide» diceva la scritta impressa a caratteri rossi sulla vernice nera e un'altra scritta sotto di essa, a piccoli caratteri stampatelli bianchi, aggiungeva «SOPRAVVIVENZA A QUALUNQUE COSTO». «'Come una donna che danza' è un'espressione molto più poetica,» commentò Fogarty mentre lui e Tanaka arrivavano all'entrata. La porta chiusa non aveva maniglia, Fogarty premette lo sporco pulsante bianco del campanello. Un trillo forte e gracchiante risuonò oltre la porta rinforzata in acciaio. «Forse non c'è nessuno,» rispose il tenente, premendo di nuovo il campanello. Stavolta lo tenne premuto. Dopo qualche secondo, la porta si aprì. «Questa è una riunione chiusa.» La voce aveva un tono basso e scortese. Il tenente e il dottore udirono quelle parole prima ancora di mettere a fuoco il volto dell'uomo robusto, poi la porta venne chiusa di scatto. «Questo è più simile a quello che mi ero aspettato,» disse il tenente, insistendo di nuovo sul campanello. La porta si spalancò e la soglia fu quasi totalmente riempita da un uomo in kimono nero, con i grandi piedi nudi. «Maledizione, ho detto che è chiuso.» Le parole uscirono sibilando da una bocca a cui mancavano i denti davanti. Degli unti capelli neri lunghi fino alle spalle incorniciavano un viso largo dai tratti poco marcati. Un paio di occhi porcini li fissavano al di sotto di una fronte tatuata proprio al centro, con l'immagine crudele di un insetto ad ali spiegate. L'insetto era, suppose Fogarty, una mantide, ma poteva altrettanto essere la testa di un serpente o un crocifisso con gli occhi. Tanaka si mantenne a prudente distanza mentre il tenente affrontava frontalmente la barriera umana. «Siamo venuti a chiedere lezioni private,» disse Fogarty con espressione impassibile.
Tanaka si avvicinò di un passo e fissò gli occhi porcini, osservandoli mentre decidevano se ripetere un ultimo avvertimento o cominciare la «lezione privata» proprio lì in strada. Le lunghe e spesse dita dell'uomo si contrassero al fondo delle maniche di canapa nera del kimono da allenamento che puzzava di muffa e sudore. Lo stomaco di Tanaka si strinse: divenne cosciente del suo respiro, riuscì ad abbassarlo e a spostarlo verso il centro. Sentì che il sangue freddo che una volta riusciva a mantenere durante i tornei cominciava a pervaderlo. Quella non sarebbe stata una gara a punti. «Le sarebbe di aiuto sapere che sono un ufficiale di polizia?» Parlando, Fogarty si rilassò e sorrise. «Lasciali entrare, Elmo, è tutto a posto,» disse una voce calma e misurata alle spalle dell'omaccione. Elmo emise un ruggito basso e gutturale mentre Fogarty entrava. Tanaka si fermò un istante e uno strano sorrisino gli guizzò sulle labbra per poi sparire mentre fissava di nuovo lo sguardo sull'uomo con il kimono nero. Un familiare senso di paura mista a rabbia cominciò a salirgli dal fondo delle viscere. Sentì che il suo autocontrollo si allentava: odiava le minacce, le aveva odiate quando lavorava per suo padre e le odiava ora. Per lui, era una questione personale. «Dovresti lavare quel gi, puzza veramente,» disse Tanaka a voce bassa in modo che soltanto Elmo potesse udirlo, poi si voltò e seguì Fogarty nella sala degli allenamenti. Sulle pareti divisorie nere all'entrata erano appese numerose armi medioevali: lance, lunghe spade ricurve, asce da combattimento, palle di ferro chiodate e catene. E tutto questo si trovava a portata di mano dell'uomo alto che parlava con voce garbata e misurata. «E qual è la ragione che conduce voi signori al Tempio della Mantide?» chiese educatamente il nuovo venuto. Anche alla luce fioca era evidente che quell'uomo era truccato. Una cipria chiarissima faceva sembrare cadaverico il suo volto, accentuando gli occhi grigio scuro che avevano un aspetto quasi liquido dietro le ciglia truccate di nero. I capelli erano tinti e cortissimi, intenzionalmente tagliati in modo da formare una punta sulla fronte. I baffi sottili, divisi nel mezzo, si arcuavano sopra una bocca crudele, anch'essa truccata. Un filo di barba partiva sotto il labbro inferiore per aprirsi sul mento, accentuando in questo modo il profilo rigido della mascella quadrata. Indossava una mantellina di cachemire nero sopra una maglia a collo al-
to scura, stretti pantaloni a tubo e un paio di stivali neri dal tacco largo e basso. Nella mano destra teneva un bastone da passeggio laccato con il manico d'argento. «Sono il conte Dante, gran maestro del circolo di lotta della Mantide Nera.» In altre circostanze quel ridicolo uomo con il suo ridicolo titolo si sarebbe guadagnato una bella risata e un lungo elenco di imprecazioni da parte del tenente. Ma poiché si trovava lì, in uno spazio rettangolare di forse sei metri di lunghezza e di uno e mezzo di larghezza, con un arsenale di armi appese alla parete e un gorilla umano che bloccava l'unica uscita, Fogarty decise di prendere sul serio quel pretenzioso personaggio. Fu felice di vedere che Tanaka era al suo fianco, e che teneva d'occhio sia Occhi porcini che il conte e fu anche lieto di ricordare fugacemente che in passato il suo compagno era stato un Yojimbo. «Le interessa vedere le mie credenziali?» chiese Fogarty, allungando la mano verso il portafogli. Aveva abbassato il tono di voce e parlava con sicurezza. «Non è necessario,» rispose il conte. «Chiarite soltanto i vostri scopi e proseguite per la vostra strada.» A parte il movimento minimo delle labbra, il viso di Dante rimase immobile come una maschera. «Non abbiamo nulla da nascondere, ma questo è un club privato,» aggiunse mentre si udiva un rumore sordo che arrivava dalla sottile porta in compensato che separava l'entrata dalla zona dove si svolgevano gli allenamenti. Ci fu un altro tonfo a cui seguì un urlo di dolore soffocato. «Siete arrivati in un momento assai inopportuno,» precisò Dante, mentre la iotta misteriosa che si svolgeva dietro la porta sembrò allontanarsi finché i rumori furono meno percepibili. «Allora perché non discutiamo del motivo per cui siamo venuti, e così...» Fogarty fece una pausa e indicò la porta della palestra, «vi lasceremo in pace.» «Faccia il piacere di guardare questo ritratto.» Dante osservò il disegno. Fogarty non capì se fu frutto della sua immaginazione oppure un'illusione, ma gli parve di scorgere qualcosa che baluginava dietro i freddi occhi grigi. «Non so chi è,» dichiarò laconicamente, incespicando leggermente nella sua impeccabile sintassi.
«Non dovremmo portarlo più alla luce?» propose Fogarty, spostandosi in avanti, verso il conte e la porta alle sue spalle. Tanaka osservò Occhi porcini che si spostava nervosamente, guardando il gran maestro in attesa di un segno, di un ordine. «Devo proprio insistere,» continuò Fogarty. «Questo non posso permetterlo,» rispose il conte, alzando la testa per mettersi in contatto visivo con il gorilla. «Posso tornare qui tra sei ore con un mandato, confiscare le sue armi e probabilmente farla chiudere.» «Interromperebbe un'iniziazione di sangue e onore!» disse pomposamente il conte. «Apra quella porta.» Il tono di Fogarty era distaccato. Dante annuì brevemente in direzione di Occhi porcini e Tanaka si aspettò una mossa. Elmo, invece, sembrava essersi rilassato. Poi il conte si voltò e aprì la porta. Tanaka si rese conto che erano entrati nel Tempio da meno di dieci minuti. Aveva avuto talmente tante scariche di adrenalina che gli sembrava fossero passate dieci ore, e in bocca aveva un gusto come di acido per accumulatori. Concentrò la sua attenzione sul battito del cuore accelerato; sapeva che quando si viene ripetutamente stimolati ad avere una reazione violenta ma senza giungere allo sfogo, si fa una tale fatica mentale che il livello di vigilanza viene notevolmente abbassato. Si chiese se il conte e Occhi porcini stessero giocando con lui e Fogarty. Ammirò l'autocontrollo del tenente: era molto professionale. Tuttavia Tanaka era infinitamente più preparato di Fogarty ad assistere alla scena che apparve al di là della porta. Joey aveva frequentato per tre anni il corso speciale per istruttori della Japanese Karaté Association: aveva visto uomini che si sottoponevano a prove al limite delle loro possibilità fisiche e mentali. «Al di là della mente e del corpo c'è lo spirito,» quella era stata la promessa che Keino gli aveva fatto il pomeriggio della sua iniziazione. Quarantacinque minuti più tardi era rimasto soltanto lo spirito a tenere in piedi Tanaka e a dargli il coraggio di affrontare di nuovo il mostro di centoventi chili con la testa da toro e gli occhi socchiusi. Sicuramente era stato quel giorno che aveva scoperto il suo spirito. Ma, anche quella volta, la lotta di Keino era stata esperta e metodica. Era un esercizio di logoramento nel quale, data la forza fisica e l'esperienza che richiedeva, lo studente nuovo era sicuramente perdente. Ma
si trattava più di una perdita di presunzione e di superbia che di occhi e denti. Ma l'iniziato che in quel momento era stato afferrato per la gola e tenuto saldamente immobilizzato contro la parete al fondo della stanza, con la testa schiacciata contro il cemento grigio, aveva già perso parecchi denti, che giacevano in una piccola pozza di saliva e sangue al centro del freddo pavimento di cemento. Un uomo piccolo e magro che indossava un kimono identico a quello di Occhi porcini somministrava quel rito del «Sangue e onore», mentre altri tre assistevano. Tanaka osservò l'uomo inchiodato alla parete che cercava di muovere il pugno sinistro con gesto circolare. Il colpo fu bloccato a metà perché il magro aggressore affondò il taglio della mano proprio nella spalla del braccio che tentava di colpirlo. Si udì uno schiocco sordo, seguito da un urlo. Poi cinque dita deformi si chiusero saldamente attorno alla laringe della vittima e l'urlo morì. «Cosa accidenti è questo?» disse Fogarty al conte Dante in tono minaccioso. Lui si irrigidì. «È un'iniziazione di Sangue e onore,» ripeté. «È anche un crimine, per cui ordini di smettere!» Fogarty allungò la mano verso la sua calibro 38. Il conte batté due volte contro il muro in cemento con il suo bastone laccato. Occhi porcini reagì con un balzo in avanti e afferrò Fogarty per la spalla destra e lo spinse violentemente contro il muro più vicino. Quando Tanaka riuscì ad afferrare gli untuosi capelli di Elmo la testa del tenente aveva già sbattuto una volta contro il cemento. Tanaka tirò bruscamente e lunghe ciocche scivolose di capelli gli rimasero in mano. Occhi porcini ruotò su se stesso. Sputò, e quando si slanciò verso gli occhi di Tanaka sembrava un animale rabbioso. Joey sentì le unghie aguzze che gli strappavano la pelle della fronte. Fu l'ultima cosa che sentì prima che la sua rabbia esplodesse. Afferrò il braccio del suo aggressore mentre questi lo protendeva nuovamente in avanti. Ruotando in alto e in basso il proprio braccio lo bloccò e fece leva contro la giuntura del gomito. Una seconda mano gli schiacciò la guancia e un pollice robusto si infilò nella sua bocca. E Tanaka lo morse, sentendo il gusto del sangue. La mano cercò di ritrarsi e lui aprì la bocca, lasciandola andare. Poi, con la mano libera, Tanaka sferrò un diretto. Un pugno veloce, un colpo simile a quello di un martello pneumatico che quasi rimbalzò dopo essere penetrato nel collo di Elmo. Tanaka sentì che il braccio intrap-
polato perdeva forza e allora lo lasciò andare, arretrò la mano sinistra e colpì di nuovo. Stavolta fu un colpo di rovescio fatto con il taglio della mano aperta. Elmo grugnì, i suoi occhi si appannarono e le sue ginocchia cedettero: fu soltanto il muro che lo tenne in piedi. Fogarty si era ripreso a sufficienza da poter usare la sua arma, ma tuttavia con la pistola in mano si sentiva stranamente impotente. Si trovava soltanto a due metri di distanza da Tanaka, ed era abbastanza vicino per vedere la ferocia nei suoi occhi castani, abbastanza vicino per sentire le minacciose grida di lotta del suo compagno, abbastanza vicino per sapere che stava per assistere a un omicidio. Lo tirerò fuori per legittima difesa, fu quello il pensiero che attraversò la mente del tenente mentre Tanaka sollevava la sua mano «ad arpione», con le dita chiuse per dare il colpo finale. «Fermo!» La voce di Fogarty risuonò nella stanza dal soffitto basso. Ed era la pistola di Fogarty quella puntata direttamente contro Joey Tanaka. «Maledizione, fermati!» urlò il tenente. Vi fu un momento, un momento oscuro e rischioso, in cui Fogarty pensò che Tanaka intendesse ribellarsi a lui. Chiese a se stesso se avrebbe sparato e si rispose che l'avrebbe fatto; ma proprio allora gli occhi di Tanaka divennero meno freddi e la loro tremenda concentrazione si dileguò come per scacciare l'istinto omicida che guidavano. Sembra che si sia svegliato da un sogno. Fogarty memorizzò la sua osservazione, allontanando un timore spaventoso. «Dai, allontanati!» ordinò Fogarty lanciando un'occhiata verso Dante e il gruppo di uomini che li attorniavano. Occhi porcini rimase esanime contro la parete, con la zona anteriore del collo già blu e tumefatta. La calma aleggiava nel Tempio della Mantide. I suoi membri, compreso il nuovo iniziato, sembravano in un certo senso colpiti dall'intensità della violenza di Tanaka. Occhi porcini cominciò a mormorare qualcosa, e si raddrizzò sfregandosi il collo. «Un'al-tra vol-ta, pezzo di merda...» Le sue parole erano confuse. Poi cadde di fianco sul cemento. Il conte sorrise mentre i suoi occhi analizzavano Tanaka come se avesse appena scoperto la Monna Lisa in un magazzino pieno di quadri falsi. «Questo,» disse voltandosi verso i suoi studenti, «è istinto omicida. Soltanto questo sconfiggerà la fondamentale debolezza che proviene dal vo-
stro istinto di autoconservazione!» «Taci!» ordinò Fogarty. «Questo uomo non ha paura di morire,» continuò Dante, indicando Tanaka. «Quanto è cattivo?» chiese Fogarty. La domanda del tenente e il suo tono freddamente logico sembrarono sollevare Tanaka a un livello di coscienza superiore, come se il medico cambiasse d'un tratto personaggio all'interno di una commedia. Tanaka si accovacciò a fianco del ferito ed esaminò delicatamente il livido sul collo di Elmo. Quando alzò lo sguardo aveva un'espressione tranquilla. «È un ematoma alla guaina giugulare. Uno strappo. Si è chiuso da solo.» «Come lo sai?» chiese il tenente. «Se non fosse così... sarebbe morto.» E tu saresti imputato di omicìdio, pensò Fogarty, scrutando gli occhi del medico. Vi vide una profonda vergogna, o almeno sperò che fosse così. «Probabilmente passerà la notte in ospedale... sotto osservazione,» aggiunse Tanaka. «Dannatamente stupendo. Questo è dannatamente stupendo,» concluse Fogarty. La sua mente stava già pensando a come stendere la relazione sull'incidente. «E tu verrai in centro con me,» affermò Fogarty, agitando la pistola verso Dante. Il conte rimase impassibile. «Non credo che lei abbia una motivazione valida.» «Ho raccolto circa venti 'motivazioni valide', dunque prepara la valigia.» Poi Fogarty si voltò verso l'iniziato. Da quello che poteva vedere, a parte i denti mancanti, l'uomo aveva il naso rotto e una spalla slogata. «Puoi fare qualcosa per lui?» domandò il tenente a Tanaka. L'uomo ferito s'impaurì davanti al medico e sobbalzò quando le dita di Tanaka esplorarono la giuntura con il pollice infilato sotto l'ascella. «Si rilassi,» sussurrò Tanaka. Poi, con troppa destrezza e troppa velocità per incontrare resistenza, diede uno strattone verso il basso al braccio teso dell'uomo. L'articolazione schioccò mentre si riassestava. Tanaka annuì, poi guardò con attenzione il viso macchiato di sangue. «È una frattura multipla. Questo naso deve essere risistemato e fermato.» «Bene. Viaggerà sull'ambulanza insieme a Quasimodo,» stabilì Fogarty
lanciando un'occhiata a Elmo prima di guardare nuovamente Tanaka. È come un animale con la mente umana: l'intuizione del giorno precedente riaffiorò alla sua coscienza. Immaginò l'identikit, confrontandolo mentalmente con il volto davanti a lui. Per la millesima volta. Un'acuta ansietà minacciava il suo autocontrollo. Strinse più saldamente la calibro 38; era pesante nella mano, ma era un peso piacevole, come quello di un'ancora in mezzo a una tempesta. Non è assolutamente possibile, disse a se stesso. Stai proiettando il tuo senso di colpa lasciando fluttuare liberamente la tua ansia. Aveva ascoltato abbastanza a lungo i discorsi degli psichiatri per riuscire a fare una rapida autoanalisi. Qualsiasi cosa andava bene per distrarlo da quello che sapeva rischiare di diventare una fissazione. L'indomani avrebbe presentato Josef Tanaka a Jeanette Key. Rachel Saunders era ancora sveglia quando Tanaka entrò in casa. Per quanto fosse abituata ai suoi orari irregolari, non riusciva mai ad addormentarsi profondamente finché Joey non era al suo fianco. Soltanto quando c'era lui l'appartamento sembrava completamente sicuro. Lo udì togliersi gli abiti, si accorse che cercava di non fare rumore. «Fa' pure. Accendi pure la luce,» disse Rachel, alzandosi e facendo così cadere il lenzuolo dai seni. Tanaka accese la lampada e abbassò l'intensità della luce. Quando la vide, sorrise, e fu un mezzo sorriso, triste e intriso di sconfitta. «Cosa è successo?» Lui non rispose ma invece lasciò cadere la camicia sul pavimento e si diresse verso il letto. Lei vide la macchia di sangue sul cotone bianco della camicia ed esaminò il corpo e il volto di lui per vedere se era ferito. «Dai, raccontami tutto,» lo invitò mentre lui si sedeva al suo fianco. Il tono della donna era mutato, si era trasformato in un tono professionale, duro e al tempo stesso compassionevole, da dottoressa. Tanaka sorrise di nuovo ma la sconfitta era nei suoi occhi. Lei voleva toccarlo, ma sapeva che non era il momento e voleva evitare che lui la allontanasse. Rimase calma, aspettando che tra loro si formasse un legame psicologico più sottile. «Non hai molto seno, ma che capezzoli,» sussurrò Tanaka allungando una mano per accarezzarla. Lei permise che la mano le facesse una lieve carezza, sentì il suo corpo
reagire ma sapeva che era il momento sbagliato. Fermò dolcemente il movimento delle dita di lui, bloccandole con il palmo. Rachel sapeva che a Tanaka era stato assegnato il compito di lavorare nell'indagine di omicidio. Sapeva anche il nome del tenente della polizia, Fogarty. Oltre a ciò non si era spinta, ma adesso qualcosa non andava. «Cosa diamine è successo?» Tentò una tattica più aggressiva. Lui allontanò la mano. Il suo sguardo si indurì e lei, istintivamente, si coprì il petto con il lenzuolo. «Niente.» «Niente?» ripeté lei. «Quando vorrò parlarne, lo farò,» ribatté Tanaka, alzandosi in piedi. A quel punto lei avrebbe potuto addolcirsi, lasciare cadere l'argomento ma chissà come, sentiva che sarebbe andata contro la sua natura. «Oh, grazie,» rispose con sarcasmo. La barriera tra loro cominciò a calare, rendendoli spiacevolmente estranei. «Dormirò sul divano,» disse Tanaka, voltandosi. «Per quello che me ne importa potresti dormire in strada!» replicò lei, pentendosi immediatamente delle sue parole senza però esprimerlo. Tanaka si voltò e la fissò rabbiosamente, e allora Rachel Saunders disse tutto quello che aveva da dire. «Vieni a casa nel cuore della notte, sei così maledettamente chiuso in te stesso che riesci appena a parlare, con i vestiti tutti macchiati di sangue...» Cominciava a sentirsi simile a sua madre, con quel tono tipicamente inquisitorio. «Parlerò quando me la sentirò,» sibilò Tanaka. «E nel frattempo io dovrei sopportare i tuoi andirivieni. Dovrei rispettare il tuo silenzio.» «Sì, esatto,» rispose bruscamente Tanaka, dirigendosi verso la porta. Rachel voleva farla finita, smetterla di discutere, ma non riuscì. Adesso era furibonda e gli ultimi mesi di sofferenze trovarono finalmente uno sfogo. «E che cosa intendi fare per me?» proseguì, voltandosi a guardare la sveglia a fianco del letto. «Fare tu la plastica al naso a Jane Rosenthal di qui a sole sei ore?» Per tutta risposta, la porta della camera da letto sbatté. «Se vuoi una schiava sottomessa, allora cerca di guadagnare abbastanza soldi così io andrò in pensione!» urlò verso la porta chiusa. Era un colpo
basso e lo sapeva. Mezz'ora dopo, Rachel Saunders era ancora completamente sveglia e si sentiva quel tipo di donna che aborriva diventare. Aveva aspettato molto tempo prima di trovare qualcuno che avesse una forza e un'energia pari alla sua, ed ecco che faceva del suo meglio per rovinare tutto. Scivolò nuda fuori dal letto e si fermò davanti all'armadio per darsi una veloce spruzzata di Paloma prima di aprire la porta e dirigersi silenziosamente verso il divano. Anche alla scarsa luce della luna offuscata dalle nuvole, poté vedere che il sofà era vuoto e l'appartamento deserto. IX DISPERAZIONE SILENZIOSA Era accovacciato contro la porta, con le natiche che gli dolevano, i capelli bagnati e spettinati mentre l'impermeabile consumato faceva ben poco per difendere dalla pioggia la sua giacca. Sollevò verso le labbra la bottiglia di whisky semivuota e bevve a lungo e avidamente, tenendo in bocca l'acqua che la bottiglia conteneva mentre, lentamente, voltava la testa prima a destra e poi a sinistra. La strada per il momento era deserta. L'insegna al neon del Ringwolds sembrava un faro solitario tra la fila di negozi chiusi. Riusciva a distinguere i sedili vuoti accanto al lungo bancone di formica. Alla sua sinistra, a fianco del posto dove lui era seduto, il Birdcage Lounge and Nitespot cominciava a riempirsi. Lo sportello di un'auto sbatté, un motore si accese e i pneumatici stridettero sull'asfalto scivoloso. Due uomini con l'uniforme blu e bianca della marina si sostenevano l'un l'altro mentre barcollavano verso di lui. Inghiottì l'acqua, chinò la testa e guardò i loro piedi mentre passavano. Prima di alzare di nuovo lo sguardo contò i battiti del suo cuore. Restavano poche persone. La fiamma di un accendino balenò nella notte senza luna, una risata sguaiata attraversò l'aria, poi cominciò una pioggia finissima. I nottambuli si dispersero rapidamente. Verso... dove? si chiese. In quali deprimenti alloggetti abitavano? Che monotono surrogato di vita umana conducevano? La disperazione silenziosa. Sapeva tutto della disperazione silenziosa. Aveva vissuto insieme a essa, ne era stato sommerso e l'aveva combattuta, finché aveva imparato il segreto per liberarsi della propria mediocrità: la disciplina, l'insensibilità.
I suoi pensieri si calmarono con il ritorno della tranquillità nella strada. Lei sarebbe apparsa da un momento all'altro. Mise a tacere la sua mente e attese. Jeanette Key uscì dall'uscita di sicurezza, eufemisticamente chiamata «ingresso artisti». Si fermò a fianco dell'arcata lampeggiante di un neon. Si era sentita nervosa dopo la visita del tenente, nervosa e guardinga. Guardò in alto e poi in basso, sulla strada, notando l'ubriaco che sedeva accovacciato e addormentato a fianco dell'entrata della lavanderia Simms. Nessun altro, niente di anormale, soltanto un ubriaco. Si chiuse bene il giubbotto «bomber» nero, sarebbe stata una notte fredda. Lanciò di nuovo un'occhiata all'uomo addormentato, chiedendosi come facesse a sopravvivere, chiedendosi come facessero a sopravvivere tutti quegli uomini e quelle donne che vivono nelle strade. Adesso sembravano essere aumentati rispetto a quanti ce n'erano sei anni prima quando lei era arrivata... Sei anni prima, mentre era diretta a New York per diventare un'attrice, da Atlanta, Georgia. Be', New York si trovava ancora a centocinquanta chilometri a nord e lei aveva ancora intenzione di diventare un'attrice. Non era mai andata a New York perché era stata temporaneamente trattenuta da un'instabile relazione amorosa con un uomo sposato. Lei pensava fosse una relazione amorosa, ma Winston Bright, rampante uomo d'affari, l'aveva considerata solo qualcosa di più che un diversivo. Un politico nero, il primo politico nero che lei avesse incontrato, il suo personale Jesse Jackson, l'aveva abbordata mentre serviva ai tavoli al Palace e l'aveva lasciata quando si era accorto che aveva bisogno di «mantenere un'immagine pulita», e ora doveva averla abbastanza pulita, perché era lassù mentre lei «recitava», mettendo da parte i soldi per il grande salto verso la Grande Mela sculettando in giro con tacchi a spillo e biancheria intima erotica per una clientela selezionata di banchieri calvi, avvocati attempati e uomini d'affari giapponesi. «Andiamo, sta piovendo, ti darò un passaggio.» La voce di Arthur si intromise nei suoi pensieri, Jeanette non si era nemmeno accorta che le luci del club erano state spente. «Come? Fino al prossimo isolato?» rispose, sapendo che tipo di passaggio il suo «impresario» aveva in mente. «Berremo qualcosa, ci faremo una pista,» cercò di convincerla l'uomo nero alto e smilzo, mettendole falsamente il forte braccio intorno alle spal-
le. Era difficile rispondere di no ad Arthur, perché lui l'aveva aiutata in alcuni momenti difficili e aveva sempre un posto privilegiato nella sua lista di clienti. Era anche generoso con la sua quota, metà ciascuno e niente cose pericolose. Mai. Arthur non era un protettore, aveva contatti in tutta la città. Gestire il club dando lavoro alle ragazze era un'ottima facciata. Delle sei ragazze, quattro si prostituivano come attività extra. Arthur non le aveva mai spinte, ma dopo che si erano rese conto di quello che poteva offrire la danza esotica di solito erano loro a proporglielo. Gina Genero era stata un'eccezione. O non l'aveva mai capito o non aveva voluto capirlo. Gina Genero... Jeanette si irrigidì e guardò di nuovo la strada deserta. Non c'era stato alcun cambiamento particolare. L'ubriaco era rotolato un po' più avanti, con la testa ciondoloni quasi sepolta tra le ginocchia e la bottiglia che giaceva vuota gettata davanti a lui. «Ti arrabbieresti se ti rispondessi che sono stanca?» Arthur sorrise con i magnifici denti bianchi che contrastavano sul volto color caffè. «Un po' della mia peruviana ti farà danzare!» Jeanette rise. «Non è la danza che mi preoccupa.» Fece scivolare rapidamente una mano sul suo membro. «È la lotta che devo fare dopo con l'alligatore.» Arthur esplose in una risata. «Sei ineguagliabile!» Poi aggiunse, più seriamente: «Sei sicura che non vuoi un passaggio?» Lei fece un passo indietro e si sottrasse al suo braccio. Le avrebbe fatto piacere il passaggio ma sapeva che non sarebbe finita lì. E non se la sentiva proprio di svegliarsi con il naso gocciolante per la cocaina e le mutande di Arthur che languivano ai piedi del suo letto. «Credo di farcela a fare i cento metri fino a casa mia,» rispose. «Benissimo.» Arthur rimase calmo, non aveva senso insistere. Jeanette era un buon investimento. «Comunque, domani mattina potrei avere qualcosa per te. C'è una convention della Mitsubishi al Four Seasons.» «Allora sarà meglio che mi riposi,» scherzò, andandosene. Arthur la seguì con lo sguardo, poi si voltò e attraversò rapidamente la strada infilandosi nello stretto vicolo in cui era nascosta la Mercedes E color blu notte. Sospensioni alzabili e abbassabili, cerchi in lega, spoiler anteriori, posteriori e laterali, dite un optional e la Mercedes 300E ce l'aveva. Una macchina tedesca da centomila dollari chiavi in mano. Salì sul sedile di pelle, si chiuse dentro e si rilassò. Una rapida sniffata di coca peruviana e girò la chiave di accensione. Il
Blaupunkt cominciò a diffondere Superstitious di Stevie Wonder e un tergicristallo si mise a funzionare sul parabrezza, quasi a tempo con la musica. La Mercedes scivolò nella notte come uno squalo nelle acque marine, e svoltò a ovest verso Market. Arthur notò l'ubriaco mentre passava, si stava alzando e c'era qualcosa in quell'uomo che attirò la sua attenzione. Lo guardò dallo specchietto retrovisore: l'uomo sembrava luccicare sul marciapiede con quell'impermeabile di tela cerata messo sulle spalle come una mantellina. I suoi movimenti, garbati e ben controllati, contrastavano in modo stridente con la bottiglia di whisky abbandonata e la strada deserta. Nella mente di Arthur cominciò a formarsi una premonizione, che fu cancellata da un bagliore di fari nello specchietto. «Stronzo.» Insultò l'automobilista sconosciuto, il quale si avvicinò di più, abbagliandolo maggiormente. «Perfetto, bastardo!» Dapprima Arthur non si mosse, poi avanzò lentamente e quindi premette a fondo l'acceleratore. Il tubo di scappamento della Mercedes fece uscire una nuvola di gas e i grossi pneumatici stridettero... e si lasciò dietro i fari invadenti. Sapeva che la ragazza nera sarebbe stata più forte, più scaltra della sua amica bianca. L'aveva capito quando i loro sguardi si erano incontrati nella luce fioca del club. Lei aveva mordente, era una sfida. Quella sera avrebbe quasi voluto scegliere lei e abbandonare l'uccisione più facile. Invece, aveva obbedito alla vocina acuta nella sua testa. Ma ora era più forte, più vicino alla fermezza. L'allenamento e la ripetizione l'avevano affinato e reso più preciso. La settimana precedente aveva sperimentato raramente la separatezza, c'era stato molto meno conflitto nel dialogo interiore della sua mente. La voce acuta era diventata la sua, il battito delle ali velate era diventato il battito del suo cuore. E, come la sua guida, bramava una preda più ardua. La carne facile e indisciplinata non era più soddisfacente. Il bisogno del confronto, del preciso momento dell'uccisione e del nutrimento che l'unione gli procurava: questi bisogni erano costanti. Presto avrebbe selezionato un uomo, un degno avversario, ma per il momento la ragazza nera sarebbe bastata. Lei gli avrebbe offerto un sostegno decisivo per camminare sul ponte tra il mondo della ragione, legato all'intelletto e alla sua conseguente sofferenza, e il mondo dei sensi, la libertà
verso la quale la sua guida lo stava conducendo. Soltanto in quel mondo la perfezione era uno stato permanente. Erano anni che sapeva queste cose e le capiva con la sua mente umana. Tuttavia la verità si era manifestata soltanto da quando era cominciata la pratica uccisoria, che lo aveva portato oltre la meschinità del pensiero, verso la luce. L'uccisione rompeva il guscio del suo intelletto e l'unione gli forniva il nettare necessario in quel periodo di ammaestramento. Era a non più di venti passi dalla sua preda. La donna non si era voltata: il perfezionamento del suo essere, la sua vibrazione andavano oltre le sue capacità percettive. Lui continuò il «respiro furtivo», respirando lentamente dalle narici, trattenendo il fiato per cinque passi e poi espirando, contraendo a metà i muscoli addominali. Passarono tre persone. Una donna e due uomini che parlavano a voce alta e ridevano senza mai guardare nella sua direzione. Jeanette Key svoltò a sinistra, percorse i dieci metri verso il suo portone e si fermò. Frugò nella borsa per cercare il portachiavi di pelle. Lui si fermò nell'ombra all'angolo e si serrò l'impermeabile attorno al corpo. Ci fu un familiare fruscio al centro della sua fronte, come un battito di ali, una canzone di morte. Sperimentò una tensione sublime, una forte smania. Si concentrò sulla nuvoletta del fiato di lei nella fredda aria notturna. Sapeva che ben presto la donna avrebbe avuto coscienza del suo potere e bramava quel momento. Jeanette estrasse la chiave d'ottone e si alzò sulla punta dei piedi per raggiungere la serratura. Il meccanismo elettrico fece salire il fermaporta doppio con uno scatto rapido. Lei mise la mano sulla maniglia con l'intenzione di entrare e chiudersi alle spalle la notte. Un raggio di luce illuminò il marciapiede mentre la pesante porta si apriva. La Mantide uscì dal suo nascondiglio e rimase immobile con ogni fibra del suo essere puntata verso la donna nera con la giacca rossa. Lei si voltò, percependo d'istinto improvvisamente la presenza di lui. Una sagoma alta e robusta in controluce davanti al lampione. Indistinguibile... tuttavia lei lo riconobbe. Era come se intuisse che era venuto per lei. Sembrò aprirsi, diventare più largo mentre si slanciava in avanti. Bloc-
candole ogni speranza di fuggire. Ora poteva vedere i suoi occhi, scuri e luminosi, fissi sui suoi. «Per favore, no. Mio Dio, no.» Raggelò nel momento in cui lui la avvolse nelle sue braccia per poi stringerle la faccia contro il suo giubbotto di pelle e spingerla nel portone. A quel punto lei lottò: annaspò cercando di respirare, si contorse, tentò di urlare concentrando tutta la sua energia nel tentativo di sopravvivere. Si abbassò, riuscì a muoversi e allungò la mano nella borsetta afferrando un freddo cilindro metallico. Lasciò cadere la borsa e alzò lo spray. Il contenuto uscì con un sibilo sinistro colpendo soltanto il giubbotto e un tratto di pelle del collo. Lui inghiottì, preso dal vomito, e arretrò giusto in tempo per evitare una seconda spruzzata. «Vattene. Ti accecherò, lo giuro davanti a Dio. Ti accecherò!» urlò lei. Lui alzò un braccio per proteggersi gli occhi. Il liquido a base di ammoniaca andò a finire sull'impermeabile. Lui si slanciò verso di lei. «Vattene!» La voce di Jeanette si ruppe quando lui le prese il braccio teso stringendole il bicipite con il pollice e spingendolo in dentro. La bomboletta cadde e andò a sbattere contro un muro, rotolando ormai inutile sul pavimento di cemento. La scarica di adrenalina nelle vene della ragazza nera mascherò il dolore provocato dalla separazione del muscolo dall'osso. Quando lui lo lasciò andare, il suo braccio era insensibile e pendeva inutilmente dalla spalla. Lui arretrò di mezzo passo in tempo per evitare il calcio che lei sferrò verso i suoi genitali, bloccandole il ginocchio con la mano destra. Simultaneamente le diede un colpo sulla fronte con le nocche. «Controllo. Perfetto.» Disse quando lei cadde carponi, stordita ma non incosciente. Quando alzò lo sguardo verso di lui, i suoi occhi erano leggermente appannati. Lui non batté ciglio. Era come se le sue palpebre fossero state tolte o fissate all'insù. I suoi occhi erano tondi, enormi e sembravano bruciare di un oscuro potere magnetico. Sorrideva, o almeno lei pensò che stesse sorridendo. La sua bocca grande e sottile si tendeva attraverso il volto lungo. Brutte mani bianchissime spuntavano quasi abbaglianti sotto i polsini del suo giubbotto di pelle. Cerca di dire qualcosa. Di prendere tempo. Fu un pensiero stranamente lucido a cui seguì una disperata paura. Lui rimase immobile, respirando in modo impercettibile. In attesa. «Mi spiace di averla colpita con lo spray,» iniziò, balbettando. «Capisce,
non l'avevo riconosciuta.» La voce le tremava. Silenzio. «Voglio dire, l'ho vista al club. Sa, l'altra notte.» Mentre parlava si girò e guardò furtivamente verso la porta chiusa. «Per favore, posso alzarmi?» Completamente sottomessa. Lui chinò la testa e la guardò, e lei vide il profilo del piccolo naso a becco. «Posso farlo?» continuò Jeanette alzandosi in ginocchio. Lui mosse di scatto la testa, rapido e veloce, e le ricordò non un uomo ma un animale. Poi l'uomo vide la sua preda da un punto di vista leggermente diverso, percependo le sottili sfumature nelle diverse intonazioni della sua voce. Udì la paura, pura e semplice, ma percepì anche l'astuzia. Tutto era nella vibrazione delle vocali e delle sillabe. Era l'oscillazione delle onde sonore che dava il vero significato alle parole, come avveniva per il linguaggio delle ali o il contrarsi delle mandibole. Fece un passo misurato all'indietro e la invitò ad alzarsi. «Grazie.» La donna cominciò ad alzarsi, ma il tremito nei muscoli al di sopra delle ginocchia le impedì di mantenersi in equilibrio. «Mi spiace... sono troppo nervosa,» si scusò, rimettendosi nella posizione inginocchiata. Gli occhi di lui si spostarono, esaminarono l'atrio e videro l'ascensore. Si mosse facendo un cenno con il capo. Lei cominciò a strisciare verso la gabbia di metallo. Jeanette Key aveva una precisa cognizione della paura. Negli ultimi quattro anni era stata minacciata con ogni sorta di cose: da una striscia di cuoio a un coltellaccio. Clienti che esageravano e che prendevano troppo sul serio la messa in scena. Non era successo sovente, ma quelle poche volte erano state sufficienti a farle capire che, quando si arrivava al dunque, poteva contare soltanto su se stessa. Il panico era il vero killer. E ora trovava davvero difficile non farsi prendere dal panico. Sentiva il respiro regolare e caldo di lui sulla nuca, mentre entravano nel loft fiocamente illuminato. Rudy lanciò un'occhiata dalla sua cesta, arcuò la schiena, soffiò e fece un balzo scomparendo dietro il divano rosa. Lui le toccò la spalla. Lei si fermò guardando avanti, lontano da lui.
«Cosa vuole che faccia?» sussurrò. Di nuovo lui le toccò la spalla, molto gentilmente, e lei lo guardò. Era la prima volta che notava il motivo per cui aveva le mani così bianche: portava i guanti, sottili guanti di lattice. Quel tipo di guanti che indossa il chirurgo per fare un'operazione. La paura cominciò ad attanagliarle lo stomaco. Non ho intenzione di morire. Non voglio morire. Quell'affermazione la rafforzò e cominciò a ripetersi come una cantilena nella sua testa. Lui fissò il corpo coperto dalla giacca rossa: pantaloni di lycra e stivali neri con i tacchi alti. Si concentrò intensamente scrutandola con lentezza su e giù. Lei abbassò la testa. Si formò l'immagine di una corta calibro 22 con le canne azzurrate appoggiata a fianco del cuscino del suo letto. Lontana... troppo lontana. Non ce la farei mai. Un'altra immagine: il cassetto della cucina, direttamente alla sue spalle e il lungo coltello seghettato. Forse. Fu allora che lui la colpì, rapido e inatteso come se le avesse letto nel pensiero. Più che un colpo fu un robusto calcio, preciso, che sollevò Jeanette completamente dal terreno facendola ricadere in posizione seduta con le gambe in avanti. La caviglia sinistra le bruciò sotto il tallone nel punto in cui il piede di lui l'aveva colpita. Lui fissò lo sguardo negli occhi di lei. Cominciò a fare uno strano rumore, il rumore di un ansimare tremendo, alzando l'addome e abbassandolo mentre apriva in fuori le braccia come un crocifisso. Lei sentì che le pulsazioni diventavano regolari e che il suo livello di terrore si abbassava leggermente: ma era troppo sconvolta per muoversi. Lui osservò le pupille degli occhi contratti della donna, scrutò l'involontario tremito del muscolo sotto le guance, vide le sue labbra carnose serrarsi. Infine arrivarono le lacrime che cadevano a tempo con i suoi respiri corti e incontrollati. Lui la dominava sia nella mente che nel corpo. Come non aveva mai dominato le altre. Erano morte tutte così rapidamente, così in fretta. Lui era stato afflitto dalla separazione, si era concentrato ansiosamente sulla voce critica della sua guida. Adesso quella voce si era interiorizzata. La sua disciplina era quasi giunta a compimento: il suo spirito di ortottero stava per trovare la libertà all'interno dei confini del suo guscio umano. Lui non aveva mai rivelato il cambiamento a nessuna delle altre perché erano tutte morte prima della trasformazione finale. Quella offerta nera sarebbe stata un'eccezione. Era diversa, più forte; il suo istinto di sopravvi-
venza era allenato, rifiutava di arrendersi. Un coltello. Lungo e seghettato. Lui aveva estratto quell'immagine dalla mente di lei e l'aveva esposta e neutralizzata: una dimostrazione del suo potere. Lasciò cadere l'impermeabile, tirò giù la cerniera del giubbotto e lo gettò sul pavimento. Voleva che lei lo osservasse, lo vedesse da vicino, che riconoscesse la sua abilità. Tendini e vene lunghe e tortuose serpeggiavano e si intersecavano sotto la pelle liscia e glabra del suo petto, e scendevano giù dalle spalle formando percorsi tubolari; gonfi e appesantiti dal sangue all'interno del gomito per poi assottigliarsi sugli avambracci e infilarsi sotto i guanti di latex. Un complicato circuito di vene e capillari striava i muscoli pettorali squadrati del suo petto, mentre una nodosa rigida parete di muscoli discendeva verso la cintola dei pantaloni neri. C'era una precisa simmetria nel suo sviluppo muscolare, come se i tessuti striati e i tendini fossero stati costruiti per distrarre lo sguardo dell'osservatore dalla cicatrice a forma di stella che gli copriva lo sterno, al centro del petto, leggermente al di sotto del punto in cui i suoi capezzoli erano stati amputati. Jeanette Key voleva correre, urlare, scappare. Negare la presenza di quell'uomo. Tuttavia non riusciva a muoversi e non riusciva neanche a distogliere lo sguardo. Quando l'urina calda cominciò a scorrerle tra le gambe, se ne accorse appena. La Mercedes 300E aveva appena raggiunto il raccordo per City Line quando la tensione sessuale cominciò a torturarlo. Spingendo inesorabilmente contro la parte interna dei suoi pantaloni di tweed Armani, pulsava a tempo con l'insistente ritmo del basso di Another Woman di Robert Cray. Arthur Stubbs pensò ancora una volta a Jeanette Key. Raramente, se non addirittura mai, pretendeva le attenzioni delle sue amichette. Quella sera, però, avrebbe fatto un'eccezione. Lanciò uno sguardo al cruscotto: l'orologio segnava le 2.40 del mattino. È passata più di mezz'ora da quando ci siamo lasciati. Abbastanza tempo per andare a casa, togliersi i vestiti... Rallentò, prese la rampa d'uscita per City Line, svoltò a destra e poi a sinistra al semaforo, infilando la strada che fiancheggia i Presidential Apartments. Si diresse sulla Kelly Drive verso il centro. Supponiamo che con lei ci sia qualcuno... Era una possibilità remota ma un'eventualità a cui si doveva pensare. Arthur premette il terzo pulsante dei
numeri memorizzati sul telefono cellulare della macchina. Qualche secondo dopo il telefono di Jeanette Key squillò. Quando l'apparecchio cominciò a suonare, la Mantide era nuda. Aveva appena cominciato le potenti respirazioni profonde e basse e lo squillo elettronico interruppe la sua concentrazione. Abbassò le braccia e lanciò uno sguardo duro alla ragazza di colore, anch'essa nuda, che era seduta ai suoi piedi nella posizione completa del loto. Nello sguardo di lei c'erano paura e un'espressione implorante. Un terzo squillo. Né la preda né il predatore si mossero. Si inserisce al quinto, pensò Jeanette Key, aspettando la voce del chiamante come se fosse la squadra dei soccorsi. Quarto squillo. Fissò la Mantide negli occhi: sembrarono spalancarsi con un bagliore incandescente. Come se fossero raddoppiati di dimensione da quando lui si era tolto la spettinata parrucca nera. Sul suo corpo non vi erano peli visibili. Le ascelle, le gambe e i genitali erano lisci e glabri. Non aveva sopracciglia e quello era il particolare che Jeanette aveva dimenticato descrivendo i suoi tratti per l'identikit. C'era anche qualcosa di strano nei suoi organi sessuali, qualcosa di innaturale nell'angolatura del suo pene e nel modo in cui il suo scroto si stringeva e diventava asimmetrico alla base. Era come se portasse una protesi di gomma, l'organo sembrava attaccato al corpo ma non parte di esso. Cinque squilli e cominciò la musica, l'introduzione registrata di Private Dancer di Tina Turner. Nel punto in cui doveva iniziare la canzone, cominciava a parlare la voce di Jeanette Key. «Ciao! Non sono esattamente sicura di dove mi trovo adesso, ma se tu sai dove ti trovi, ti richiamerò. Lascia il tuo nome, l'ora e il tuo numero di telefono. Ciao ciao!» Sorprendentemente, la sua voce registrata sembrava sicura e in qualche modo rassicurante. «Ciao bambola. Dopo ulteriori considerazioni devo proprio insistere per farti fare una bella sniffata. Se hai qualche altro affare in corso, mi trovi al mio numero di cellulare. Se non ti sento entro dieci minuti, sarà troppo tardi.» Lei cercò di non reagire, e di non far trapelare minimamente la gioia che le dava la speranza di una tregua. Dieci minuti. Dieci minuti e tutto quello sarebbe finito. In un modo o nell'altro. Il volto della Mantide non rivelava nulla, ma la mente umana che era profondamente nascosta sotto la sua coscienza di ortottero sapeva l'esatto
significato del cambiamento di quella situazione: la sua guida gli stava mandando un avversario. Interruppe la respirazione potente e attese. Arthur vide la fioca luce nel loft di Jeanette mentre saliva con le ruote della Mercedes sul bordo del marciapiede davanti al numero tre della Bank Avenue. La porta dell'auto si chiuse come una cassaforte, e con la pressione di un bottone fu inserito l'allarme. Arthur aveva la chiave del loft. Teneva una chiave di tutti gli appartamenti delle ragazze, solo per le emergenze, come quella. Fu felice di vedere che Jeanette non aveva messo il chiavistello dall'interno. Si fermò nell'entrata soltanto il tempo sufficiente per due belle sniffate di coca, fatte direttamente dalla sua scatoletta stile liberty. Lo esaltava pensare che sessant'anni prima, qualcuno, da qualche parte, tirava usando quella stessa scatoletta. Provava una sensazione di benessere, di benessere nervoso, mentre era sull'ascensore che lo portava al primo piano. L'abitacolo si fermò con un clangore metallico. Arthur scrutò tra la griglia e capì all'istante che aveva fatto un grosso errore. Vide un uomo di profilo, un uomo grande e grosso, insolitamente muscoloso. Nudo. Con il membro eretto. «Gesù Cristo!» mormorò Arthur. Stava per premere il pulsante con la freccia ingiù quando notò Jeanette Key seduta ai piedi dell'uomo. Tutta la scena improvvisamente gli fu chiara. E il senso di imbarazzo di Arthur lasciò posto alla collera. Quella puttana fa marchette di nascosto. Mi ha rifiutato per fare affari da sola. Spiacevole rivelazione a cui si sommava inoltre l'indignazione di un impresario che aveva trattato onestamente, persino generosamente, la sua protetta. Arthur aprì la porta. La Mantide si girò di fianco con le ginocchia leggermente piegate e con le mani a uncino già pronte ma appoggiate ai fianchi. Jeanette Key pregò in silenzio. L'istinto disse ad Arthur che c'era qualcosa di sbagliato, di molto sbagliato. Glielo disse l'istinto e poi il fatto che più si avvicinava all'uomo immobile, più riusciva a distinguere i particolari di quel corpo e di quel volto ripugnanti. Era a una decina di metri da loro quando udì lo strano soffio. Vide l'impermeabile sul pavimento, la parrucca arruffata, gli stivali. La sua mente lo collegò al vagabondo sul marciapiede. Probabilmente avrebbe potuto voltarsi, correre verso l'ascensore e andarsene, ma la cocaina gli
dava un effimero coraggio. E scappare non era mai stato nel suo stile. «Tutto bene, bambola?» Le sue parole rimbombarono nell'ampio spazio. Jeanette Key annuì rapidamente, con le gambe irrigidite per la mancanza di circolazione e l'urina che ora le pizzicava l'interno delle cosce. «Okay, amico, qualunque cosa tu stia facendo, ora basta. Quindi prendi su i tuoi stracci e vattene fuori di qui,» disse Arthur puntando gli occhi sulla Mantide. Arthur fece due passi avanti e si fermò, chinandosi leggermente per estrarre il coltello di quindici centimetri agganciato allo stivaletto. La Mantide osservò la lama di acciaio che appariva, come l'estensione di una lunga mano color caffè. «Intendi andartene o vuoi partecipare alla festa?» chiese Arthur avanzando lentamente. Jeanette Key lo sentì avvicinarsi, sapendo che Arthur non si sarebbe fermato. Sapeva anche che quel pervertito voleva ucciderlo. Si chiese se poteva muoversi, correre a prendere il coltello, o la pistola. Arthur teneva bassa la lama, leggermente indietro e con la sinistra si proteggeva. Proprio come aveva imparato quando era in fanteria, diciotto anni prima nel North Carolina. Aveva funzionato allora e un paio di volte quando aveva terminato il corso di addestramento, una volta nel Vietnam e una volta in prigione. Va' direttamente al sodo, nessuna smanceria. Punta al terzo bottone della camicia del tuo bersaglio. In questo caso il terzo bottone era una schifosa massa di tessuto cicatrizzato al centro del petto liscio. Il vagabondo aveva cominciato a spostarsi. Non come un pugile o un lottatore, ma come... Arthur non ne era sicuro, ma gli venne in mente il karaté o il kung-fu. Ma non furono tanto le braccia tese e aperte o le mani a uncino, né le gambe arcuate che scivolavano a innervosirlo. Fu la fredda concentrazione negli occhi dell'uomo e il respiro ritmico prodotto dall'accentuato sollevamento e abbassamento del suo addome. La cosa folle e sconvolgente era che l'uomo era ancora in erezione e, davvero, fronteggiava il coltello di Arthur con il membro maledettamente duro. «L'idea che te lo tagli non ti spaventa?» esclamò Arthur. Le sue parole esprimevano una falsa sicurezza. La Mantide smise le respirazioni e rimase in ascolto. Colse l'incertezza nella vibrazione della voce del suo antagonista. Con la sua visione perife-
rica controllò la ragazza di colore: era difficile sintonizzarsi su due cervelli contemporaneamente. Comunque entrambi avevano paura e quindi le onde cerebrali avevano una variazione minima. Adesso li percepiva entrambi, era al centro del loro triangolo di coscienza, era il loro controllore. Piegò la testa ottenendo una migliore panoramica della stanza. Rimase in equilibrio, dominando il respiro e in grado di colpire in qualunque direzione. Maledizione, sembra un animale, un orribile insetto, pensò Arthur, sperando contro ogni possibile previsione che sarebbe riuscito a intimorire quel tizio abbastanza da metterlo in fuga. Sapeva, dentro di sé, che più a lungo durava quella strana erezione, più le sue possibilità di vittoria diminuivano. «Ti taglierò via quel coso e te lo infilerò in gola.» Fece guizzare in avanti la lama in direzione del membro del vagabondo. La sua voce sembrò meno convincente di prima e quindi decise di tacere. Ma se stava zitto avrebbe dovuto fare qualcosa. Attaccare? Si spostò in avanti. In quel momento iniziò il respiro soffiante: forte e ansioso, accompagnato dalle lunghe braccia che si aprivano e dal petto che si espandeva. Una stella. Una stella perfetta! Lo sguardo di Arthur si fissò sulla formazione di tessuto cicatrizzato a sei punte perfette. L'intelletto bloccò il suo istinto, gelandolo in una pericolosa immobilità. In quell'istante, la Mantide colpì, una volta, con rapidità e precisione con un gesto imprevedibile della mano a uncino. La sensazione seguente di Arthur fu quella di un profondo bruciore al centro della cavità sopra la guancia, sulla quale la sua pupilla pendeva sotto la palpebra appesa al nervo ottico ridotto a un filo. In un secondo realizzò che cosa era successo, mentre Jeanette Key stava urlando e lui, Arthur Stubbs, stava sferrando un selvaggio allungo con il coltello luccicante. La Mantide lo prese prima che il braccio attaccante calasse. Lo avvolse in una stretta d'acciaio togliendogli il respiro. Le mani gli divennero inerti e Arthur sentì che mollava la presa sul coltello. Udì il rumore della lama d'acciaio che sbatteva sul pavimento di legno. Poi sentì il dolore, più intenso di quello sul viso. Terribile, soffocante, mentre la sua gabbia toracica cominciava a ripiegarsi all'interno, comprimendo i polmoni. «Oh, Gesù Cristo, Gesù Cristo...» Sentì la propria voce, persa nello spazio vuoto tra la coscienza e l'oblio.
Si accorse di un odore, un pungente odore animale. Fiato? Sudore? La Mantide adesso era vicina a lui. Vicina come un'amante, con il caldo fiato che pulsava contro la sua carne. Poi la larga muscolosa mascella si aprì e Arthur guardò in una caverna di denti. Un istante dopo, appuntiti incisivi affondarono nella cartilagine del suo naso. «Gesù Cristo, aiutami!» La Mantide grugnì, chinò la testa di lato e strappò la carne e la cartilagine. Più e più volte. Nella testa di Arthur ci fu un rumore. Come quello di un motore, forte e stridente. Il dolore era ovunque. «Ti prego, Dio. Ti prego...» Poi l'oscurità. La Mantide lasciò la presa e fece cadere il corpo di Arthur sul pavimento. Poi inghiottì, gustando la carne salata e qualcos'altro. Un gusto sconosciuto, acido, chimico. Impuro. Registrò quel pensiero mentre il naso di Arthur entrava nel suo stomaco e i residui della cocaina rendevano la lingua e le sue gengive leggermente insensibili. La Mantide si voltò in tempo per vedere Jeanette Key che si trascinava verso la porta della parete divisoria. Sembrava uno scarafaggio, un piagnucolante scarafaggio nero. Con tre passi fu su di lei, la sollevò senza sforzo e la gettò a fianco dell'uomo semicosciente riverso sul pavimento. Questa volta la trattò duramente, sistemando il suo corpo nella posizione dell'offerta sottomessa. Poi si occupò dell'uomo. Ascoltando i suoi gemiti e i suoi lamenti, lo denudò, gli piegò le gambe e lo chinò in avanti. Pronto. Avrebbe permesso alla ragazza di vedere. Voleva che lo vedesse trasmettere l'evanescente essenza del suo spirito umano nel vuoto involucro di Arthur Stubbs. Desiderava che fosse testimone della sua anima di ortottero che si solidificava e si cristallizzava mentre il suo orgasmo eliminava la sua umanità con vuote convulsioni. Dopo si sarebbe occupato di lei. X SI È MANGIATO IL GATTO «Si è mangiato il gatto...» «Come!?» «Si è mangiato quel dannato gatto.» La voce del giovane detective era
un misto di repulsione e stupore. Fogarty spinse da parte l'uomo sconvolto ed entrò nel loft di Jeanette Key. Le due sacche porta-cadaveri erano distese al fondo della stanza, vicino al divano di velluto rosa. L'orologio sopra la cucina a gas segnava le 21.05. Bob Moyer aveva concluso i preliminari e due uomini della scientifica stavano cospargendo di polvere una larga zona attorno ai corpi nudi per il rilevamento delle impronte. Immediatamente alla sinistra di Jeanette Key c'era la carcassa vuota di un gatto bianco e nero. Rudy. Fogarty ricordò il nome del grosso gatto, e anche di averlo tenuto sulle ginocchia meno di una settimana prima. Adesso la maggior parte dei suoi organi interni mancavano e una pozza di sangue viscoso e scuro circondava il suo corpo. Fogarty avanzò, girando attorno alla polvere color argento per le impronte, con lo sguardo incollato sul gatto. Come se il concentrarsi sull'ultimo dei tre orrori che aveva davanti potesse agire da deterrente contro lo sconvolgimento, il senso di colpa e frustrazione che lo attanagliavano. «Stavolta abbiamo delle impronte di piedi, segni di morsi e lividi lasciati dalla pressione delle dita,» disse Moyer. Quella frase fu di scarsa consolazione. Fogarty fissò Jeanette Key. Sembrava piccola, suscitava compassione, e le piante rosa dei suoi piedi contrastavano con il suo sedere scuro. Arthur Stubbs era deposto al suo fianco, a forse un metro di distanza. I piedi dell'uomo apparivano assurdamente larghi in confronto alle caviglie ossute e alle gambe magre e slanciate. Un coltello di acciaio inossidabile giaceva al suo fianco. Sul manico aveva un gancio per attaccarlo agli stivali e il marchio di fabbrica «Body Guard» stampato in nitidi caratteri scuri sulla lama. Moyer seguì la direzione dello sguardo del tenente. «Niente sul coltello, né carne né sangue. Soltanto le impronte della prima vittima.» «E chi è la prima vittima?» «Si chiama Stubbs. Arthur Stubbs.» Fogarty ricordò quel nome. Arthur: il protettore di Jeanette Key. «Approssimativamente, l'ora della morte dell'uomo precede di due ore quella della morte della donna,» aggiunse Moyer. «Due ore. Non mi vorrai dire che...» Fogarty esitò, stava per dire «Jeanette» ma in qualche modo non vi riuscì, non riuscì a concedere a se stesso
quella vicinanza, «...che la seconda vittima è rimasta viva per due ore mentre...» Si fermò di nuovo. Moyer scosse la testa. «Mi spiace, Bill. Questa è in uno stato più tremendo delle altre. Per la natura delle ferite e dei lividi. Avrei quasi detto che si trattava di un'imitazione degli altri delitti, ma so che questa è la ragazza che ha descritto il maniaco per l'identikit. Ciò fornisce un movente...» Lo sguardo di Fogarty fece ammutolire Moyer. «Dov'è Josef Tanaka?» «È ancora all'ospedale.» Nella risposta di Moyer ci fu un accento di sorpresa. «A fare cosa?» chiese subito Fogarty. «A riprendersi dopo l'incidente,» rispose Moyer. «Di cosa cazzo stai parlando?» Fogarty fu colto di sorpresa. «Josef è stato coinvolto in un incidente questa mattina, alle prime ore dell'alba. L'hanno investito e poi sono fuggiti. È stato un brutto incidente, la moto è totalmente distrutta e, maledizione, anche lui è stato quasi distrutto.» «In quale ospedale si trova?» «Mi spiace, Bill, credevo che lo sapessi. È nel Penn University Hospital.» «No, non lo sapevo.» Fogarty si sentì improvvisamente svuotato, come se le sue emozioni fossero state risucchiate via dal suo corpo. Era responsabile di tutto, e tuttavia non aveva la possibilità di intervenire, di tenere sotto controllo la situazione. Provava un profondo senso di impotenza che lo indeboliva psicologicamente. «Stai bene?» La domanda di Moyer sembrò fuoriluogo tra i flash dei fotografi e i poliziotti all'opera. «Questa la conoscevo, Bob,» rispose Fogarty, guardando il corpo di Jeanette Key. Cristo, sto per piangere. Dannazione, sto per piangere. Riuscì a bloccare i tremiti prima che gli arrivassero in gola. «Le avevo detto di non fare la stupida.» Le sue parole suonarono vuote. Moyer ebbe il desiderio di mettere un braccio attorno alle spalle dell'amico, ma si trattenne. «Dammi qualche ora e avrò qualcosa per te,» promise il patologo. «Bene,» rispose Fogarty, poi si voltò e si diresse verso l'ascensore.
Dall'altra parte della città, in cima alle alte Society Hill Towers, davanti al Delaware, il sindaco Winston Bright si stava preparando a cenare. I suoi due figli, Andrew di cinque anni e Stella di sette, sarebbero rimasti lì per quella notte, a due porte di distanza dalla sua stanza, in una delle cinque camere da letto dell'appartamento ufficiale del sindaco. La carriera politica di Winston Bright era stata tempestosa, caratterizzata dall'infausto incidente del «cavallo imbizzarrito» della metà degli anni Ottanta. Inviati per mantenere l'ordine, una dozzina di poliziotti a cavallo si erano slanciati al galoppo contro un corteo di tremila attivisti gay. Due dimostranti erano stati uccisi e cinque erano finiti all'ospedale. Ufficialmente, si era sostenuto che la causa fosse un «cavallo imbizzarrito». Tutto il biasimo dell'opinione pubblica si scaricò su Winston Bright perché era stato lui il primo a proporre di usare la polizia a cavallo. Malgrado l'incidente, era riuscito a farsi rieleggere per due volte ed era rimasto il sindaco di colore affascinante e sagace di una città in rapido cambiamento. «Accessibile sia agli uomini d'affari sia ai normali cittadini.» O almeno così diceva il sindaco Bright. Stava stappando una bottiglia di Saint-Emilion Chàteau Ausone, quando squillò il telefono; sua moglie sollevò il ricevitore dell'apparecchio in cucina. «Pronto. Qui è Shandy Bright.» Dan McMullon non poté non immaginare la donna dall'altra parte del filo. Il suo volto era limpido come il tono della sua voce. Lineamenti minuti e perfetti, «è come una donna bianca con la pelle nera,» diceva sempre McMullon quando descriveva la moglie del sindaco. Ed era anche intelligentissima: si era laureata cum laude alla Bryn Mawr nel '76. «Ciao, Shandy, sono Dan McMullon. Scusa se ti disturbo di sera.» «Non preoccuparti, Dan. Si tratta di una questione importante?» «È importante,» rispose McMullon. «Te lo passo,» rispose la moglie del sindaco mentre teneva d'occhio l'arrosto di maiale guardando dallo sportello di vetro del forno. Avrebbero cenato venti minuti dopo. Premette il pulsante dell'interfono con l'etichetta «sala da pranzo». «Sì, tesoro.» La voce di Bright era pastosa come il vino che stava per bere, premier grand cru. «È il galoppino del deputato,» annunciò Shandy Bright.
Per tutto il percorso fino alla Roundhouse, Winston Bright sudò pensando a ciò che McMullon avrebbe fatto se avesse scoperto la sua relazione con Jeanette Key. Non c'è alcun motivo per temere che lo scopra, si disse Bright mentre s'infilava in un posto macchina riservato nel retro del palazzo. «Sarà la maledetta stampa che andrà a scavare,» borbottò, mentre usciva dalla Chrysler e si dirigeva verso l'entrata posteriore. McMullon aspettava nell'ufficio al pianterreno. «Ora basta, Dan. Ora basta. Questa è l'ultima che mi combini. Capito? Questa è l'ultima!» La voce di Bright dalla perfetta dizione che gli era costata fior di quattrini aggredì McMullon da sei metri di distanza. L'obeso ispettore capo alzò entrambe le mani al cielo. Quando le riabbassò era rosso in viso. «Gli siamo addosso, Winston. Credimi, stiamo per prenderlo. Stavolta avremo dei buoni risultati dalle analisi medicolegali. Segni di morsi, impronte.» Il sindaco si calmò e prese a fissare McMullon con aria sospettosa. «Abbiamo scoperto che una delle vittime era una prostituta e che l'altra era il suo protettore. L'uomo aveva un fascicolo lungo un chilometro. Era stato anche dentro. Tre anni per traffico di droga,» dichiarò McMullon, e poi tacque. Bright approfittò del silenzio per sostenere lo sguardo dell'ispettore capo, annuendo lentamente con la testa. McMullon si sentì incalzato a offrire maggiori ragioni di apprezzamento. «Stubbs. Il nome dell'uomo ucciso era Arthur Stubbs. Spacciava ancora. Cocaina. In grandi quantità.» «E con questo?» chiese Bright. Conosceva la risposta ma voleva far ugualmente sudare McMullon, tanto per precauzione. Per tenerlo sotto controllo. «Con questo... non è che le vittime fossero...» McMullon cercò la parola, «innocenti.» Winston Bright alzò lentamente una mano, si inumidì le labbra e fece scorrere il pollice e l'indice sulla ruvida superficie dei baffi cresciuti da poco. Da qualche parte, nascosto sotto parecchi strati di istinto di autoconservazione, aveva ancora un briciolo di sentimento per Jeanette Key. Quando tutto sarebbe finito e lui si sarebbe sentito sicuro, completamente sicuro, si sarebbe concesso un po' di rimorso. Jeanette era stata, a suo modo, una buona amica. Era stata discreta nel periodo in cui lui era più vulne-
rabile. Le era in qualche modo debitore. «C'è altro? Diari, numeri di telefono?» chiese. McMullon giudicò strana quella domanda. Si era aspettato che gli chiedesse qualcosa a proposito della stampa e della televisione. «Non ancora,» rispose l'ispettore capo. Bright considerò la situazione. In fondo lei non aveva mai avuto il suo numero di casa, e nemmeno il suo numero privato alla City Hall. «Avevano dei parenti stretti?» «Nessuno da parte dello spacciatore. La ragazza aveva una nonna ad Atlanta. In un ricovero... con demenza senile.» Bright adesso si sentiva molto più onesto. La tragedia lo stava quasi raggiungendo. «Che mi dici della stampa?» «Bev Richards sta insistendo per un'intervista,» rispose McMullon, preparandosi alla strigliata del sindaco. Bright abbassò la testa e si leccò il labbro inferiore con la punta della lingua, intento a pensare. Finalmente alzò lo sguardo. «E tu mi stai dicendo che stavolta avete una pista? Delle impronte?» «Impronte di scarpe,» confermò McMullon. Winston Bright annuì. I suoi timori erano tutt'altro che scomparsi. Quante volte aveva effettivamente visto Jeanette Key? Una dozzina, due dozzine di volte nel corso di un anno? Fondamentalmente, quella donna era vissuta di speranza. Doveva aver condotto una triste vita. Una triste breve vita. «Lascia che mi occupi io di Bev Richards.» Fogarty arrivò alla reception dello University Penn Hospital e fu prontamente informato che l'orario di visita era terminato. La rossa ricciuta la cui targhetta del nome diceva: «Smart, Hazel RNG» lo osservò alzando gli occhi dietro le lenti bifocali. «Sono le undici di sera.» «So bene che ore sono. E so anche che sono un agente di polizia impegnato in un'indagine.» Hazel Smart stava già pensando di chiamare due guardiani quando Fogarty mostrò il suo distintivo. «Mi scusi, agente. Avrebbe dovuto mostrarmelo subito.» Fogarty attese. «Telefonerò soltanto in reparto per controllare che il signor Tanaka sia sveglio.»
«Non importa. Voglio vederlo in ogni caso.» «Molto bene,» rispose Hazel Smart, mentre sfogliava i fogli della sua cartella ed esaminava la lista dei pazienti. «Piano settimo, stanza 7A... È una singola...» La sua voce si affievolì mentre Fogarty si dirigeva all'ascensore. In questo non ci sono specchi, notò il tenente, sollevato di non dover guardare la sua immagine riflessa. Era sicuro che la sua faccia esprimeva tutti i suoi sospetti. Era certo che Tanaka se ne sarebbe accorto appena avrebbe varcato la soglia della sua camera. Tanaka sapeva che Jeanette Key aveva aiutato il disegnatore a fare l'identikit. Sapeva che avrebbe potuto identificare l'uomo che aveva visto nel club la sera dell'omicidio Genero. Fogarty aveva visto Tanaka sul punto di uccidere un uomo, e aveva avuto modo di osservare lo strano fascino che Tanaka aveva provato per gli organi mutilati durante l'autopsia. Aveva sospettato, quando nessun altro non osava neanche sospettarlo, la sorprendente rassomiglianza tra Josef Tanaka e il ritratto del pittore. Sì, Josef Tanaka avrebbe letto l'accusa nello sguardo di Fogarty nell'istante in cui lui lo avrebbe guardato. Il tenente percorse con passo deciso il corridoio con i muri color verdeazzurro. Si fermò un istante davanti alla porta chiusa della stanza 7A. Udiva smorzati frammenti di un discorso. Bussò, girò la maniglia ed entrò. Mentre vedeva il tenente che si avvicinava, la dottoressa Saunders sorrise. Poi si alzò dal fianco del letto e tese la mano. «Lei dev'essere il tenente Fogarty.» Il tenente accettò la mano di Rachel, ma si trattenne dallo scusarsi per l'intrusione. Salutò con un breve cenno del capo. «Sono Rachel Saunders.» «Piacere,» disse Fogarty con difficoltà, spostando lo sguardo dalla bionda affascinante all'uomo con i capelli scuri che giaceva nel letto. Tanaka sostenne lo sguardo di Fogarty e scosse la testa. «Il dottor Moyer mi ha telefonato un'ora fa... Ho saputo di Jeanette Key.» Seguì un silenzio imbarazzato, interrotto da una voce dolce e femminile. «Vado a casa.» Rachel diede a Tanaka un bacio sulle labbra e poi si voltò verso il tenente. «Una sera che ha tempo, Josef e io saremo lieti di averla a cena.» Mentre andava verso la porta per uscire dalla stanza, Rachel sfiorò il braccio di Fogarty.
«È la tua ragazza?» Fu la frase più cortese che Fogarty riuscì a dire. «Ormai da un anno,» confermò Tanaka. «È uno dei più rinomati chirurghi plastici della East Coast,» aggiunse. «Cristo. Non sembra abbastanza vecchia da essere una laureata in medicina,» rispose Fogarty, aprendosi, ma non tanto da essere amichevole. Un'altra pausa. Quindi Tanaka cambiò argomento. «Stavolta Bob ha trovato qualcosa. Forse persino della saliva.» «Saliva?» «Nei morsi sul naso. Potrebbe essere ingannevole, c'erano molti liquidi, persino della cocaina,» proseguì il medico. Fogarty si avvicinò di un passo al letto, tenendo lo sguardo fisso sull'occhio tumefatto di Tanaka e sui sette punti di sutura proprio sotto l'attaccatura dei capelli. «Altri danni?» chiese il tenente. «Sì, l'uomo era in uno stato pietoso. Gli ha tolto un occhio, gli ha spappolato i testicoli.» Tanaka esitò. «Andiamo, Bill, sei stato sul luogo del delitto.» «Sto parlando di te, Joey.» «Oh, scusa.» Tanaka parve calmarsi. «Non molto. Una mezza commozione cerebrale. È per questo che sono qui stanotte. Niente di rotto.» «A parte la moto...» aggiunse Tanaka in tono sconsolato. «Come accidenti è successo?» cominciò a indagare Fogarty. «Uno stronzo è passato col rosso sulla Market, ha colpito la mia ruota posteriore e io l'ho perso.» «L'hai perso?» «Ho perso il controllo della moto. Credo di aver sbattuto contro il bordo del marciapiede e poi contro un parchimetro. Quel bastardo non si è fermato un istante. Credo che non mi abbia neanche visto. Non sono riuscito a rialzare la moto. È davvero troppo pesante.» «A che ora è successo?» Tanaka scrutò il volto di Fogarty. Vide la preoccupazione nei suoi occhi grigio-azzurri e qualcos'altro. «Intorno alle... due... non sono sicuro. A che ora abbiamo finito di lavorare?» «Alle dodici e ventitré.» La risposta di Fogarty fu sintetica e precisa. Tanaka abboccò all'amo. «Ho impiegato quindici minuti per arrivare a casa. Altri quindici per entrare nell'appartamento e forse mezz'ora l'ho passata in giro.»
«Joey, c'è qualcosa che non capisco bene.» «Che cosa, tenente?» rispose Tanaka evitando deliberatamente di chiamarlo «Bill». «Perché dopo aver passato cinque ore a vagare da un piccolo kwang...» «Kwoon, tenente. Credo che tu voglia dire kwoon.» «...da un kwoon all'altro, poi dopo tutto quel casino che è successo nell'ultimo posto, perché te ne andavi in giro in moto alle due del mattino?» Adesso Fogarty ricordava davvero suo padre a Tanaka. Si sentì offeso dal suo sguardo indagatore. «Posso farti una domanda, tenente?» Fogarty assentì. «Perché, dato che hai appena scoperto altre due vittime in una caccia all'assassino che finora non ha rivelato nulla dal punto di vista degli indizi, perché sei tanto interessato alla mia vita privata?» Sotto il tono calmo di Tanaka c'era una rabbia appena controllata. Fogarty sorrise e si sedette sulla sedia a fianco del letto. Si accomodò sistemando la calibro 38 distaccata dal bracciolo. «Ti hanno portato qui con l'ambulanza?» La sua voce era leggermente più rilassata. «Cos'è questa storia, Bill?» Tanaka decise di non dargliela vinta. «Ecco qual è la storia,» iniziò Fogarty. «Abbiamo un caso di omicidio che va avanti da cinque mesi. Abbiamo ventisei agenti impegnati in esso di cui una dozzina a tempo pieno e, fino al momento del nostro incontro, nessun indizio. Nessuna ipotesi. Poi sei arrivato tu con questa faccenda del 'colpo mortale' convincendo Bob Moyer che tu sei un novello Charlie Chan e...» Fogarty esitò. «E cosa?» «E poi mi avevi quasi convinto a uccidere un uomo.» Tanaka si alzò a sedere sul letto. Era esausto, la testa gli pulsava e non riusciva a immaginare le intenzioni del tenente. «Poi c'è Jeanette Key. L'unica persona che avrebbe potuto identificare il tizio del club. Ed è morta... attorcigliata a forma di ciambella, accanto al suo protettore...» Fogarty esitò, studiando il volto di Tanaka. «Ma noi abbiamo il disegno. Quel viso orientale, o semiorientale...» Ora Tanaka capiva. Faceva fatica a crederlo, ma capiva. Guardò in silenzio il poliziotto che si alzava dalla sedia e lo osservò allontanarsi dal letto. Cominciò ad arrab-
biarsi per l'esagerata circospezione del tenente. «Avevo intenzione di presentarti Jeanette Key.» «Perché?» chiese Tanaka, conosceva la risposta ma voleva costringere Fogarty a dirla. In quel momento fu come se Josef Tanaka fosse diviso in due persone ben distinte. La sua personalità occidentale e razionale chiedeva spiegazioni e ragioni mentre la sua identità asiatica samurai implorava vendetta. Un filo sottile teneva insieme le due metà impedendo loro di agire. «Perché?» chiese nuovamente con un tono freddo che mandava segnali di avvertimento in direzione del poliziotto. Fogarty si chiese se sarebbe riuscito a estrarre la pistola prima che Tanaka lo raggiungesse. Ebbe la tentazione di arretrare verso la porta. In Giappone oltre ogni cosa, al di là di ogni cosa c'era l'onore. Mikio Tanaka aveva allevato suo figlio, anzi entrambi i suoi figli, nella convinzione che un uomo senza l'onore non è nulla. Il gajiin che era adesso davanti a Tanaka stava per rinnegare il suo onore, un insulto imperdonabile. Ma nella mente di Tanaka c'era un'altra verità, altrettanto certa e altrettanto fondamentale quanto l'altra. La convinzione che, in quanto poliziotto, il tenente William Fogarty aveva motivo di sospettare di lui. Persino il loro comune amico, Bob Moyer, aveva parlato della somiglianza tra l'identikit e il viso di Tanaka. Scherzosamente ma non in modo infondato. E poi c'era il karaté, a cui bisognava aggiungere l'incidente alla palestra di Dante. Questo ragionamento, e soltanto questo ragionamento, represse la furia di Josef Tanaka. Scosse la testa lentamente e si alzò dal letto, avvolto in un camice da ospedale legato sulla nuca e aperto dietro. Tanaka concentrò lo sguardo sul detective mentre le sue due identità lottavano in un amaro stato di indecisione. Fogarty rimase rilassato, il più rilassato possibile, cercando di non farsi cogliere dal terrore all'idea di quello che le mani di Tanaka potevano fargli. Pensò alla sua pistola: non voleva estrarla, a meno che fosse indispensabile. «Jeanette Key era l'unica che poteva identificare il killer.» Le parole di Fogarty caddero come pietre. Tanaka fece lo sguardo torvo e la sua indignazione e la collera giunsero al limite. Esplose. Si protese in avanti e contrasse il diaframma e lanciò un violento sputo, che colpì in pieno il volto di Fogarty. La saliva si sparse sul suo naso e poi sia sul lato deturpato che su quello ancora intatto del suo vi-
so. Subito dopo il tenente e il suo indiziato si fissarono l'un l'altro in silenzio, entrambi improvvisamente perplessi. Tanaka parlò per primo. «Portalo a Bob Moyer. Digli di confrontarlo con i reperti legali... O hai bisogno di un'impronta dei miei piedi per convincerti?» aggiunse minacciosamente. Fogarty aggrottò la fronte, tenendo lo sguardo fisso sul suo oppositore mentre prendeva un fazzoletto spiegazzato dalla tasca per pulirsi il viso. «Baka-yaro,» sibilò Tanaka. «Cosa significa?»chiese il tenente. «Idiota,» tradusse Tanaka. Di nuovo silenzio. Poi la porta si aprì, la maniglia colpì Fogarty sulle reni e lui si slanciò in avanti fermandosi alla distanza di un braccio da Tanaka. «Cosa diavolo succede qua dentro?» domandò l'infermiera del reparto, scrutando i due uomini come se fossero due bambini maleducati. «Affari della polizia,» rispose il tenente. «Affari della polizia, sicuro!» ribatté l'infermiera, lanciando una frecciata con i profondi occhi scuri al detective. Improvvisamente Fogarty si sentì un idiota. L'infermiera avanzò rivolgendosi a Tanaka. «E lei, signore, dovrebbe stare qui per riprendersi da un incidente stradale, vada a letto.» Tanaka obbedì, rivelando delle robuste natiche coperte di peli neri mentre si infilava sotto le lenzuola. «Ancora cinque minuti, poi dovrò insistere perché se ne vada,» aggiunse la donna, guardando di nuovo Fogarty prima di chiudere la porta e lasciare la stanza. Il tenente guardò Tanaka poi il proprio fazzoletto. Infine, Fogarty alzò lo sguardo con espressione di scusa. «Be', che cosa cazzo ti aspettavi che pensassi?» Tanaka scosse la testa, non sembrava né incollerito né particolarmente pericoloso. «Ne hai dimenticata un po',» disse, osservando il volto di Fogarty. «Ne hai un po' proprio al centro della fronte.» Fogarty si ripulì. «E Charlie Chan era un cinese... Io sono giapponese,» aggiunse Tanaka. Poi sorrise.
A mezzanotte e diciassette la Le Mans di Fogarty si fermò in un luogo illuminato sul retro dell'istituto di medicina legale. Fogarty si sentiva leggero, quasi instabile sulle sue gambe: una strana vertigine provocata dalla combinazione della profonda stanchezza con il senso di sollievo provato nel sapere che Joey Tanaka non era il suo uomo. Aveva desiderato sentire che Tanaka poteva essere un amico, qualcuno di cui potesse fidarsi, su cui contare, e ora la porta verso quel sentimento era aperta. Gli sembrava anche di essere quasi giunto a un varco, forse glielo suggeriva la sicurezza di Moyer, forse la sua intuizione. Ancora un paio di giorni e lo prenderemo, promise a se stesso mentre camminava con incertezza sull'asfalto, dirigendosi verso il retro del palazzo. La voce di Moyer dall'altra parte del citofono era triste. Il medico legale alzò lo sguardo mentre Fogarty oltrepassava le sei celle refrigerate bianche allineate all'entrata del laboratorio. Fogarty notò i due segni semicircolari sotto gli occhi affaticati di Moyer. Erano esattamente uguali alle doppie lenti ottiche del suo microscopio. «Le unghie. Sono di Jeanette Key,» spiegò Moyer, attorcigliandosi nervosamente la barbetta rossa mentre guardava il vetrino apparentemente chiaro dietro il microscopio. «Quindi?» chiese Fogarty. L'espressione del medico era di scusa. «Non va bene come credevo, Bill. Non siamo affatto vicini. Non c'è pelle sotto le unghie, né peli corporei del killer.» «Hai parlato di segni di morsi, saliva...» intervenne Fogarty. Moyer scosse la testa. «Potrebbe esserci qualcosa nella saliva, ma i segni di morsi sono indistinti. Il tipo deve aver agitato la testa da una parte all'altra per strappare via il naso alla vittima. C'è una massiva lacerazione, ma nessuna traccia chiara dei denti.» Fogarty annuì, serrando le labbra. «E cosa mi dici delle impronte di piedi, dei lividi...» proseguì. «Le impronte dei piedi sono strane, Bill, non come quelle digitali. Ne ho un paio che sono relativamente chiare, ma il tizio dev'essersi mosso parecchio, con una specie di movimento circolare, simile a una danza... Suda, ma non abbastanza per lasciare dei tratti definiti.» Moyer spinse un pulsante a lato della sua scrivania metallica e il microscopio si spense. Si alzò in piedi. «Certe volte riusciamo a ottenere un'impronta digitale decente addirittu-
ra attraverso un guanto. Si potrebbe pensare che in questo caso sia così. Voglio dire, se c'è uno che esercita una pressione di più di duecento chili per centimetro quadrato...» Fogarty annuì, ma nei suoi occhi c'era un'espressione di incertezza. «È sufficiente a schiacciarti la testa. E lui lo fa soltanto con le mani, con la sua presa. C'è qualcosa di strano in quelle dita, sembra che le sue mani terminino con dei calli.» «Il che ci riporta dritti alla teoria di Joey Tanaka,» interloquì Fogarty. Moyer alzò lo sguardo. I suoi occhi sembrarono risvegliarsi e un'espressione colpevole rese i suoi lineamenti ancora più tirati. «Cristo. Come sta? Non ho neanche chiesto...» «Joey sta bene, Bob. Uscirà domani mattina.» Fogarty sfiorò la spalla magra di Moyer e poi aggiunse: «Il nostro ragazzo sta bene.» Moyer si rilassò, come se un sospetto non espresso fosse stato allontanato. «Posso fare le autopsie per prima cosa domattina. Hai bisogno di assistere?» «Questa volta no. Ho due gorilla in stato di fermo stanotte e se non vado a interrogarli sarò costretto a lasciarli andare...» «Uno di loro è il tizio che ha picchiato Joey, vero Bill?» «Come lo sai?» chiese Fogarty. «Joey è venuto qui la notte scorsa. Si era scontrato con la sua ragazza, o viceversa, ed era molto arrabbiato. Inoltre,» Moyer esitò, «pensa che tu non ti fidi di lui.» «Be'... adesso mi fido, Bob. Adesso mi fido,» dichiarò Fogarty. «Bene,» rispose Moyer e aggiunse: «Ci sono ancora delle impronte di scarpe nell'atrio e nell'ascensore. Misura 44. Andrò a dargli un'occhiata prima di andare a casa.» «Ti chiamerò domani mattina, prima di mezzogiorno,» disse Fogarty, uscendo dalla stanza. «Mi spiace per gli scarsi risultati,» disse sottovoce il medico legale. Fogarty si fermò e si voltò: Moyer gli apparve piccolo e improvvisamente più vecchio dei suoi quarantotto anni. Tutta la sua persona sembrava confusa, come offuscata dal tetro bagliore giallastro delle luci al neon. «Non prendere sulle tue spalle tutto il peso, Bob,» rispose il tenente. «Come cazzo credi che mi senta io?» aggiunse Fogarty con un debole sorriso e se ne andò.
Fogarty si svegliò sul divano. Aveva preso del valium e aveva dormito tanto pesantemente che la scorsa notte gli sembrava l'anno prima. Non gli piaceva prendere il valium, glielo avevano prescritto anni prima per rilassare gli spasmi alla schiena, conseguenza dell'incidente. Adesso ne teneva una confezione a portata di mano per le situazioni come quella, aveva sentito il corpo talmente stanco che per fare il tragitto dall'ufficio di Moyer al Presidential aveva dovuto sforzarsi di percorrere la carreggiata mentre la sua testa era in preda alla confusione mentale. Non staccava mai il telefono ma certe volte, quando sapeva che era importante essere in forma per il giorno seguente, chiudeva quel maledetto aggeggio in bagno, chiudeva la porta della camera da letto e dormiva sul divano. Le sette del mattino: cinque ore di sonno, pesante, una dormita tutta d'un fiato. Che cosa gli avevano detto a Fort Bragg? Che un combattente può funzionare efficientemente dormendo tre ore per notte per un periodo dalle quattro alle sei settimane. Una tazza di caffè nero e una doccia fredda avrebbero eliminato i residui del tranquillante rimasti nel suo sistema nervoso e così sarebbe stato di nuovo pronto ad affrontare la giornata. Avrebbe preso quel mostro. Presto. Ne aveva il presentimento, come gli era accaduto quando aveva acciuffato Hydenik e, prima di lui, Rita McCall, la strangolatrice di bambini. Il problema era sempre lo stesso, cioè che i mostri non agivano mai con un motivo razionale. I loro modelli comportamentali erano confusi o addirittura non esistevano del tutto e non importava quanti ritratti psicologici creassero gli strizzacervelli della polizia, non importava quanti convegni si tenessero per discutere il profilo sociologico del killer: nove volte su dieci era un particolare casuale o un indizio imprevisto che li tradiva. Hydenik era stato smascherato da un commento casuale che aveva fatto con uno dei cassieri della banca che dirigeva, la McCall da un profumo particolare su un foulard trovato vicino al luogo del delitto. Questa volta sarebbe stato lo stesso, Fogarty lo intuiva. Mentre chiudeva di scatto la porta del 611A, il telefono squillò: probabilmente era McMullon. Non importava, presto l'avrebbe incontrato. Joey Tanaka uscì dalle alte porte a vetri del complesso dello University Hospital nella mattinata fredda e grigia. Si era svegliato alle quattro per aspettare che il suo medico desse l'autorizzazione a dimetterlo. Per aspettare e pensare. La sua vita gli sembrava inconcludente. Il Giappone, suo padre, suo fratello Hiro, Rachel Saunders, Bill Fogarty: tutti rapporti indefi-
niti, ostacolati dalla sua ritrosia o dalla sua incapacità di farsi coinvolgere. Fogarty, forse, era un'eccezione, o almeno così sembrava adesso. Ma solo perché il tenente aveva scelto di parlare chiaro. Nelle ore prima dell'alba, Josef Tanaka aveva analizzato la sua vita e aveva concluso che era un fallito. Un fallito e un codardo dilaniato tra la concezione morale orientale e la razionalità occidentale, capace di passare facilmente dall'una all'altra, a seconda di ciò che era più adatto alle sue necessità e ai suoi scopi. Era scappato coscientemente dal Giappone, ansioso di sposare una società che aveva creduto potesse offrirgli maggiori possibilità di espressione e di libertà personale. Soltanto per scoprire poi che la rigidità era dentro di lui, coltivata da lui e usata da lui. E ora, sfruttava la sua origine orientale come scusa per il proprio isolamento. Non lasciava che nessuno gli si avvicinasse troppo, nemmeno Rachel. Sapeva che lei lo avrebbe lasciato: tra un mese, tra un anno? Alla fine avrebbero smesso di comunicare e lui sarebbe stato il perdente. E tuttavia, per quanto quella prospettiva lo spaventasse, la incoraggiava e non vi si opponeva. Aveva creato lui quella situazione, ma perché? Perché non meritava nulla dalla vita. Hiro non aveva avuto nulla, be', non completamente: Hiro aveva una sedia a rotelle Kawazaki totalmente automatica e un gruppo di infermiere private che gli facevano il bagno, gli massaggiavano gli arti atrofizzati e gli cambiavano la biancheria come se fossero i pannolini di un bambino. E Hiro aveva l'amore di suo padre. Per quel motivo, da qualche parte, nel profondo del cuore di Josef Tanaka, c'era dell'odio verso il fratello più vecchio. E poi odiava se stesso per la sua debolezza. Alle quattro del mattino tutte le cose gli erano sembrate negative. Ma ora mentre Tanaka entrava nel tranquillo appartamento in Rittenhouse Square e vedeva che l'armadio dell'entrata era ancora pieno degli abiti firmati di Rachel Saunders e ammirava un luminoso raggio del sole autunnale attraversare il cielo, entrando dalla finestra verso sud, trasformando il grigio delle nubi in argento e illuminando il tavolo da pranzo in onice, provò una sensazione di sollievo. Dopotutto, non è la coscienza il cancello che introduce alla consapevolezza. E la consapevolezza è il seme del cambiamento. Si sedette sul divano e pensò a Bill Fogarty. Il tenente era sembrato quasi fragile durante la sua visita all'ospedale, imbarazzato dal proprio senso di colpa e oppresso dall'incertezza. L'indagine stava uccidendo Bill Fogarty, non con la rapidità di un proiettile, ma certamente con lo stesso risultato. Tuttavia il tenente continuava a combattere una lotta, nella direzione sbagliata, ma pur sempre una lotta. Tanaka sorrise, ricordando l'e-
spressione di Fogarty in seguito al suo sputo. Poi rapidamente il sorriso di Tanaka scomparve e il suo volto divenne immobile. Un'ombra passò sul pavimento davanti al suo sguardo mentre il sole si nascondeva dietro una nuvola: la stanza sembrò fredda e in quel momento Tanaka comprese, con l'istinto e con l'intuito, che era vicino all'assassino, che le loro menti erano in qualche modo in rapporto, collegate. Per un certo tempo rimase fermo, quasi paralizzato. I suoi pensieri lottarono con l'irrazionalità della sua intuizione, tuttavia sapeva... semplicemente sapeva. Avrebbero dovuto scontrarsi loro due, uomo contro uomo. Poi Josef Tanaka meditò sulla morte, sulla sua morte: con quella meditazione le elucubrazioni e le giustificazioni sulla sua vita scomparvero. Guardò l'orologio: erano esattamente le nove del mattino, il che significava le dieci della sera a Tokyo. Prese il ricevitore e compose il numero di telefono della sua famiglia. «Vedo che hai una stanza tutta per te,» commentò Fogarty camminando nel cubicolo di due metri per tre, con le pareti crepate color verde stinto occupato da un'unica branda. Dante alzò lo sguardo con un sorriso furbo. «Probabilmente è il titolo che li ha impressionati, conte,» proseguì sarcasticamente Fogarty. Dante si alzò in piedi e il tenente fu sorpreso dell'altezza dell'uomo... o meglio della sua bassezza. «Con quei tacchi alti e larghi ti aumenti di quindici centimetri.» «Fottiti, tenente,» rispose freddamente Dante. «Quando te ne andrai di qui?» «Dipende se archivierò o no le accuse,» rispose Fogarty, ricambiando la freddezza del conte. «Mi difenderò. Ho degli ottimi avvocati,» ribatté Dante, senza più nascondere la sua parlata tipica della zona sud di Filadelfia. «Se parli con me non avrai bisogno di difenderti,» promise Fogarty. «Elmo è già tornato alla palestra.» «Ah, sì? Che cosa ti ha detto?» «Niente di preoccupante... è molto leale,» disse in tono falsamente rassicurante Fogarty, mentre prendeva l'unica sedia in legno dall'angolo della cella. Poi, voltando lo schienale al contrario, si mise davanti all'uomo. Dante comprese e si sedette sul bordo della branda. Fogarty notò l'eleganza quasi effeminata delle mani curate del conte e dei piedi bianchi e nudi. «Che cosa vuoi sapere?» esordì il conte. «Prima di tutto, Walter, avrei piacere che tu dessi un'altra occhiata a
questo ritratto,» iniziò Fogarty, estraendo sia l'identikit che una copia di «Fighting Arts International» piuttosto consumata dalla tasca interna. «Walter?» ripeté il conte, con un tono di protesta appena mascherato. «Sì. Walter Purdkok. È questo il tuo nome, no?» rispose Fogarty, mantenendosi calmo mentre porgeva al conte una nuova copia del disegno del pittore. Walter Purdkok, alias conte Dante, esaminò l'immagine e scosse la testa. Infine, alzò lo sguardo verso Fogarty. «Il mio nome, tenente, è conte Dante. Credo che lo troverà nel registro ufficiale dell'aristocrazia.» Poi Fogarty porse a Purdkok la rivista, aperta a pagina dodici. Lì, c'era un articolo scritto da Graham Noble, e Fogarty si chiese se tutti nel campo delle arti marziali si inventassero pseudonimi altisonanti, intitolato: «Il più letale lottatore del mondo». «Secondo questo articolo, il conte Dante è morto nel 1975, nel sonno, per un'ulcera perforata...» «Però la foto assomiglia moltissimo a te,» aggiunse Fogarty, sorridendo. «Anche se c'è scritto che Dante era alto un metro e ottanta...» «Bene, bene, tenente. Hai segnato un punto... sono stato uno studente di John Keehan... questo era il vero nome di Dante. Io...» Purdkok esitò in cerca della parola adatta, «ho studiato con lui a Chicago dal '68 al 73.» «Poi sei tornato a casa e hai preso a prestito il suo titolo.» «Non ho cambiato ufficialmente il mio nome fino all'81. Che cazzo d'importanza ha, amico: John non lo usa più.» «Già, Walter, questo è vero. E inoltre, il tuo vecchio nome era un po' sporchino. Sette accuse per aggressione, di cui tre per gravi danni fisici. Perfino due tentativi di stupro...» «Che cavolo vuoi da me?» ribatté Purdkok, puntando gli insensibili occhi grigi su Fogarty. «Guarda di nuovo il ritratto,» ordinò Fogarty. «Il modo in cui opera questo animale si adatta perfettamente ai tuoi insegnamenti. 'Menomare, mutilare, sfigurare, paralizzare e storpiare'... non è questo il tuo slogan?» Il conte Purdkok esaminò l'identikit. «Ho avuto un tizio che è venuto una volta e assomigliava a questo,» dichiarò. «Era il tipo di persona sbagliata per la Mantide Nera.» «Cosa intendi?» lo incalzò Fogarty. «Intendo dire che quel tizio era un fottuto mostro, amico.» «Il tizio che cerco è un fottuto mostro,» rispose il tenente. Poi, per la
prima volta, diede sfogo a una parte della collera che aveva dentro: «Ha ucciso due persone meno di ventiquattr'ore fa. Le ha uccise e sodomizzate. Una donna e un uomo. La donna aveva un gatto... e questo fottuto mostro ha mangiato il gatto!» Ora Fogarty era in piedi e torreggiava minacciosamente sopra il conte. Purdkok scrutò il volto sfigurato e furioso del tenente fissando intensamente i suoi occhi verdi. La rabbia di Fogarty sembrò non turbarlo. «L'unico motivo per cui lo ricordo è il naso.» Purdkok guardò di nuovo la somiglianza. «È troppo piccolo per il suo volto, vero?» Fogarty rimase in silenzio. «È stato colpito una volta, prima di venire da noi. Questo naso gli dà uno strano sguardo, come quello di un uccello o di un qualche animale. Gli rende gli occhi grandi e gli fa sembrare la bocca troppo larga. Senti, tenente, non sto dicendo che questa è la stessa persona, ma il naso sembra lo stesso.» «Il suo nome. Dimmi il suo nome,» insisté Fogarty, chinandosi in avanti. «Non ho mai saputo il nome di questo figlio di puttana, è venuto solo una volta.» «Oh, andiamo. Sforzati...» Fogarty lo mise sotto pressione, resistendo all'impulso di prendere il conte per il collo. «Se mi sforzo, uscirò di qui?» chiese Purdkok. «Certo,» rispose Fogarty. «Bene... Il tizio a cui penso è entrato una volta, forse un anno o anche diciotto mesi fa. Ha detto che era interessato a iscriversi ma che voleva vedere se facevamo sul serio,» iniziò il conte. «Qualcosa nel suo comportamento mi ha colpito. Come se lui fosse al di sopra di quello che facevamo. Comunque, una cosa tira l'altra, e così uno dei miei ragazzi l'ha invitato a lottare...» Purdkok esitò, e chinò di nuovo lo sguardo sul ritratto. Scosse la testa e quando guardò di nuovo Fogarty c'era un bagliore intenso, come demoniaco, nei suoi occhi. «Era bravo. Devo ammetterlo. Non bravo come il tuo compagno dell'altra sera. Diverso, più pericoloso.» «Più pericoloso?» ripeté Fogarty, chiedendosi com'era possibile che un essere umano fosse più pericoloso di Tanaka. «Esatto,» disse Purdkok. «Non era pericoloso tanto per i suoi gesti o la sua forza, ma per quello che gli accadeva quando si esibiva.» Fogarty notò l'espressione «si esibiva».
Il conte si bloccò ed esaminò il disegno per quella che a Fogarty parve la centesima volta. «Arriva al dunque!» ordinò il tenente. «Praticò la 'Mantide' più pura che io abbia mai visto.» Il conte atteggiò le proprie mani a forma di artigli aperti, illustrando la sua descrizione con alcuni colpi rapidi. «Non so dove l'abbia imparata, ma era perfetta. E quel figlio di puttana sembrava effettivamente un insetto mentre combatteva.» Ormai Purdkok era entrato nella parte, spalancava gli occhi e annuiva con la testa. «Ci sono voluti quattro dei miei ragazzi migliori per tenerlo a bada: quel tizio si era totalmente astratto dal proprio dolore.» «Cosa vuoi dire?» intervenne Fogarty. «Quel folle era davvero fuori di sé. Sibilava, apriva le braccia come ali. Un cazzuto mostro spettacolare... Finché Elmo è riuscito a dargli un colpo nelle palle. Un colpo molto duro che avrebbe dovuto stenderlo. Deve avergli schiacciato un testicolo, ma lui non ha battuto ciglio, il suo volto non ha cambiato espressione. Se avesse voluto, avrebbe potuto uccidere i miei ragazzi.» «E allora, com'è finita?» incalzò Fogarty. «Dopo il colpo nelle palle, la Mantide, è così che abbiamo finito per chiamarlo, è arretrato verso la porta ed è scomparso.» «Scomparso?» «Sì. È scomparso, dev'essersi infilato in strada e corso via. Da quel giorno uno dei miei ragazzi ha tenuto una spada staccata dalla parete e credo che avrebbe tagliato a metà quel bastardo, se lo avesse incontrato di nuovo. Il calcio nei testicoli gli ha certamente procurato dei danni, dev'essergliene rientrato uno.» Il conte sorrise. «Controlla negli archivi della polizia se trovi uno psicopatico con una palla sola.» «Lo farò,» rispose Fogarty. «Dunque, quando uscirò di qui?» chiese il conte. «Appena mi dirai il giorno preciso in cui la Mantide è venuta alla tua palestra.» Il conte s'irrigidì. «E come accidenti posso fare a dirtelo?» «Non tieni dei registri?» «No.» «Forse uno dei tuoi adepti può aiutarci?» «Lasciami telefonare a Elmo. Forse lui ricorda qualcosa,» disse il conte in tono incerto.
«Va bene,» acconsentì Fogarty. Quarantacinque minuti e sei telefonate più tardi, Elmo aveva ricordato alcune decorazioni natalizie sopra l'entrata del negozio a fianco della palestra. Era il Natale del 1989. Allora Fogarty fece affiggere una copia dell'identikit in tutti i reparti di degenza in tutti gli ospedali di Filadelfia. «La Mantide, uno psicopatico con una palla sola»... Il tenente stava per avere un colpo di fortuna. Erano le 8.21 del mattino quando Fogarty scortò Walter Purdkok fuori dal posto di polizia. Il tenente fece un mezzo sorriso mentre osservava l'elegante capo di una società segreta di lottatori sistemarsi sul sedile posteriore di un macchinone funereo con Elmo al volante. Poi Fogarty tornò alla Roundhouse e prese l'ascensore fino al terzo piano. Immaginò McMullon muoversi con borioso passo di marcia attorno alla sua scrivania, preparandosi a metterlo sotto torchio. Ma non aveva previsto il trattamento aggiuntivo dell'infame Winston Bright. Il completo blu a tre pezzi perfettamente stirato e la cravatta di seta rossa a pallini del sindaco nero risolsero il problema. «Va in TV, signore?» chiese gentilmente Fogarty mentre entrava nell'ufficio di McMullon. Bright lanciò una rapida occhiata al suo Patek Philippe da diciotto carati e rivolse uno sguardo severo al tenente. «Tra un'ora e trentadue minuti. In diretta.» McMullon annuì, in modo militaresco. «E ho in mente di fare le cose molto meglio di lei, tenente,» aggiunse il sindaco con malcelato risentimento nella voce. Fogarty rimase un istante silenzioso e guardò prima McMullon e poi Winston Bright. «Mi spiace, Winston, non sono riuscito a impedire quell'intervista ma...» Stava per aggiungere la battuta conclusiva quando McMullon intervenne. «E questo mi ricorda, Bill...» La voce dell'ispettore capo era falsamente amichevole e Fogarty ricordò una delle ragioni per cui McMullon era stato promosso ispettore capo: «Adora leccare il culo.» Fogarty si chiese se quella credenziale fosse sepolta in qualche punto del curriculum vitae del ciccione. McMullon si schiarì la gola e Fogarty eliminò l'ostilità dal suo volto.
McMullon proseguì: «Quella donna ha cercato di mettersi in contatto con te. Ha telefonato al dipartimento due o tre volte. Ha detto che aveva perso...» «Quale donna?» «La signora Genero.» «La signorina Genero...» La precisazione di Fogarty gli uscì dalla bocca prima che potesse impedirlo. «Il caso, signori! Torniamo al caso!» Winston Bright andò in collera. «Diane Genero fa parte del caso,» ribatté Fogarty. «So bene chi è Diane Genero. Ho visto l'intervista,» rispose Bright. La sua pelle nera sembrò arrossire leggermente. «E ora, che cosa dirò al pubblico?» Parla dei mezzi di informazione o dei normali cittadini? Si chiese Fogarty. Fissò lo sguardo sugli occhi castano chiaro del sindaco. «Siamo vicini alla soluzione del caso,» dichiarò il tenente. Improvvisamente l'atmosfera nella stanza cambiò, come se quella frase avesse il potere di annullare un tornado. «Siamo molto vicini,» aggiunse Fogarty e poi si chiese perché inizialmente avesse detto soltanto «vicini». Bright annuì e McMullon strizzò gli occhi. «Quando?» chiese l'ispettore capo. «Quando avremo un indiziato?» precisò il sindaco. «Non lo so,» rispose il tenente. Bright alzò le mani. «Andiamo, Bill! Non puoi dire che siamo vicini e un istante dopo dirci che non c'è un indiziato...» «Non c'è,» confermò Fogarty. «Quello che c'è è una descrizione sempre più dettagliata del sospettato.» «Magnifico. Dannatamente magnifico!» sbraitò Bright. «Andrò da quella stronza giornalista con i capelli rossi per annunciarle che la polizia di Filadelfia ha ottenuto una descrizione del killer... Be', questo sarebbe ottimo se Jeanette fosse la prima vittima e fossero passate soltanto ventiquattr'ore dal primo delitto, ma lei è la sesta vittima e questa storia si trascina da cinque mesi!» Sia Fogarty che McMullon notarono che il sindaco si riferiva a Jeanette Key chiamandola «Jeanette». Come se stesse parlando di un amico o di un membro della sua famiglia. «Winston,» disse Fogarty, «la nostra descrizione sta diventando molto precisa.
«Precisa quanto?» insistette McMullon, facendo un evidente tentativo di gareggiare con il suo superiore: fino a quel momento non aveva segnato neanche un punto. «Preferirei non parlarne,» rispose il tenente. «Dannazione, sarà meglio che tu ne parli, tenente. Dopo il tuo ultimo numero in televisione abbiamo ricevuto più di duecento telefonate dal pubblico...» «Uomini d'affari o comuni cittadini?» curiosò Fogarty. McMullon trasalì. «Chiedevano che tu fossi sostituito in questa indagine,» proseguì Bright, «inoltre, c'è la prima pagina del 'National Examiner'.» «Cristo, Winston! Non sapevo che tu leggessi quel genere di giornali!» reagì Fogarty. «Bill,» tentò di nuovo Bright, abbassando il tono di voce, «prima che la nostra conversazione si concluda con un litigio, cerchiamo di ricordarci tutti e due...» McMullon assunse un'espressione depressa. Sembrava ferito, rifiutato. «...cerchiamo di ricordarci tutti e tre,» si corresse Bright, sempre diplomatico, «che stiamo dalla stessa parte.» «Esatto,» disse Fogarty, calmandosi. «Ma quello che sto per dirti, Winston, non va ripetuto in TV.» «Certe volte, tenente, ho la netta impressione che tu sia il sindaco di questa città e io sia il...» Bright voleva dire «poliziotto» ma preferì «l'agente investigativo». «Bill non voleva dire questo, Winston,» sbottò McMullon. Seguì un silenzio, interrotto dalla promessa di Winston Bright: «D'accordo.» «Quello che abbiamo è questo,» iniziò Fogarty omettendo qualcosa prima di vuotare il sacco. «Uno psicopatico che porta degli stivali misura quarantaquattro, è alto più di un metro e ottanta e ha un peso tra i cento e i centoventi chili. È anche altamente specializzato in un'arte marziale e molto probabilmente utilizza un tipo di 'colpo mortale' sulle sue vittime.» «Gesù Cristo!» esclamò McMullon. «Niente impronte, niente sangue?» chiese Bright. «No.» Rispose Fogarty. «Bene,» mormorò Bright mentre faceva un cenno col capo. «È nero o caucasico?» chiese il sindaco come in seguito a un ripensamento. «A questo punto è difficile dirlo. Non abbiamo frammenti di pelle né pe-
li del corpo. Le sue vittime non hanno avuto grandi possibilità di difendersi,» rispose Fogarty. «Accidenti. Non c'è voluto molto per...» disse Bright, più a se stesso che ai due poliziotti. «Per lei o per noi, Winston?» chiese Fogarty. Bright alzò lo sguardo con un'espressione più dura, più professionale. «Nel caso che voi signori non l'abbiate capito, il mio compito non sarà soltanto quello di tenere le pubbliche relazioni della polizia, ma anche un adempimento del mio dovere di tenere la popolazione informata e in stato di allarme.» «Credo che questo l'abbiamo capito tutti, Winston,» rispose McMullon. Bright annuì, porgendo prima la mano a McMullon e poi a Fogarty. «Ma George Bush non portava una cravatta identica alla tua durante l'ultima intervista in televisione?» chiese Fogarty, fissando la cravatta a pallini bianchi. McMullon fece una risatina nervosa e Winston Bright sogghignò. «Trova quel figlio di puttana; trovalo, tenente... Trovalo.» Poi Bright si voltò e andò via, lasciandosi alle spalle soltanto il profumo muschioso di Armani. McMullon seguì Fogarty attraverso il corridoio fino alle scale. «Sei molto ottimista, considerata la montagna di merda in cui stiamo sguazzando,» disse McMullon, quando raggiunse il tenente. «Non ci vorrà molto, adesso. Non ci vorrà molto...» promise Fogarty, osservando la cravatta di McMullon marrone a pallini beige e chiedendosi perché cazzo tutti portassero lo stesso tipo di cravatta. «Che cosa non ci hai detto, Bill?» chiese l'ispettore capo. «Niente,» rispose Fogarty. «E allora come puoi dirmi che non ci vorrà molto?» Fogarty pensò di dare una risposta evasiva, poi ci ripensò. Non aveva niente contro McMullon, a parte il fatto che lo considerava uno stronzo. «Perché il killer sta diventando distratto e quando diventano distratti vuol dire che vogliono farsi prendere.» Fogarty non attese una risposta e invece si voltò e salì le scale di volata, a due gradini per volta. Delle teste si voltarono mentre passava con passo deciso accanto alle scrivanie en route verso la porta a vetri con il suo nome. «Bob Moyer ha telefonato tre volte nell'ultima mezz'ora...» disse Millie mentre Fogarty passava.
Il tenente guardò la donna dai capelli argentati e fissò i suoi occhi color nocciola dietro gli occhiali da presbite. «Ha detto qualcosa?» «Soltanto che aveva bisogno di parlare con te,» spiegò la segretaria e poi aggiunse: «Sembrava teso.» «Chiamamelo, per favore, Millie,» disse Fogarty e si diresse nel suo ufficio chiudendo la porta. «Abbiamo qualcosa.» Le prime due parole del medico legale convalidarono le previsioni di Fogarty. «Continua, Bob.» «L'assassino ha lasciato delle impronte di piedi nell'atrio. Stava piovendo così inizialmente ho supposto che si trattasse di fango, caduto dal tacco degli stivali.» «Davvero?» «Non è fango, sono feci animali...» «Merda di cane?» chiese Fogarty, cominciando a deprimersi. «Impossibile, Bill. In base alle analisi non sembrano feci di animali domestici. In primo luogo, hanno una forma singolare, le feci sembrano essere state racchiuse in una pelle fibrosa. Ciò indica che erano piccole, come quelle di cervo. Secondariamente, sono arricchite di proteine e hanno un contenuto di grassi particolarmente alto. Oltre a questo, le feci arrivano da entrambi i tacchi, il che rende meno probabile che le abbia pestate casualmente.» «Sei sicuro che non si tratti di un particolare cibo per animali? Sai, per gatti o qualcosa del genere?» Fogarty cercò di tenere il pessimismo lontano dalla sua voce. «Bill, non credo che questa roba possa avere la minima parentela con qualcosa che un animale domestico mangerebbe. Richiederebbe una digestione troppo difficile.» Fogarty era in silenzio, e pensava. Merda di cervo. Forse il loro uomo era un cacciatore. La stagione della caccia ai cervi? Non era forse in quel periodo la stagione della caccia al cervo? «Ed è certamente un preparato di laboratorio.» La dichiarazione di Moyer bloccò le meditazioni del tenente. «Quanto ci vorrà ancora prima che tu abbia altre informazioni?» chiese Fogarty. «Mentre parliamo Josef lavora. Prima voglio eliminare ogni possibilità
che si tratti di cibo per animali domestici e poi c'è l'eventualità che sia per gli esotici...» «Esotici?» ripeté Fogarty. «Gatti della giungla, scimmie... qualunque tipo di animale venduto su ordinazione.» «Probabilmente è ora di impiegare una squadra che si occupi dei negozi di animali. Che controlli l'elenco dei proprietari di qualunque animale che non sia un canarino,» disse Fogarty pensando ad alta voce. «Concedici un'altra ora di ricerche, Bill. Un'altra ora dovrebbe bastare.» «Molto bene. Ci vedremo tra un'ora.» «Verrai al laboratorio?» «Sì. Voglio vedere Joey,» rispose Fogarty e poi interruppe la comunicazione. XI Willard Ng A meno di otto chilometri a est della Roundhouse, dall'altra parte del fiume Delaware, a Camden nel New Jersey, Willard Ng è seduto nella posizione completa del loto sul pavimento della sua villetta. È nudo e la sua testa liscia come porcellana è piegata in avanti leggermente ad angolo. Respira, inspirando con il naso e poi emettendo il fiato dalla bocca con soffi brevi e intermittenti. Sono trentasei ore che non mangia cibo solido. Non ha mangiato nulla dopo le interiora del gatto. Willard Ng è stato molto male, ha vomitato, ha avuto la diarrea. Ora sta cercando di purificarsi, nel corpo e nella mente. La malattia ha fatto qualcosa di più che debilitarlo, l'ha esposto. L'ha trasportato dal dominio della perfezione, nel quale aveva finalmente raggiunto l'unificazione con il suo maestro, verso gli abissi del fragile e meschino genere umano. Il suo corpo nudo è appiattito contro le fredde piastrelle umide del pavimento del bagno, con le braccia distese e le dita che toccano la liscia base del water, coperta di vomito ed escrementi. Con quale fretta la sua illusione è stata distrutta, quanto tragicamente Willard Ng si è trasformato di nuovo nel bambino solitario e abbandonato che era una volta. Come si erano dissolti velocemente gli anni e la lontananza tra i suoi inizi e il suo compimento. Il vomito era continuato per tutto il giorno e la notte
e prima ancora che finisse, lui aveva desiderato di morire. Aveva desiderato la morte come l'aveva desiderata una volta quindici anni prima, nell'orfanotrofio di San Francisco, quando le sue orecchie si erano talmente infiammate che avevano dovuto mettere un bastoncino di cotone in ciascuna di esse per permettere alla medicazione di penetrare. Quando i polmoni e il naso gli bruciavano a ogni respiro ansimante, come se l'ossigeno alimentasse un fuoco incandescente. E tutto quello che poteva fare era starsene solo nella sua camera buia, rannicchiato nudo in posizione fetale sotto il lenzuolo inamidato e un'unica coperta di lana, implorando silenziosamente che la morte lo prendesse. «Meningite allo stadio iniziale,» avevano sussurrato i medici alle sorelle che si occupavano di lui, quelle suore esperte che camminavano per i corridoi controllando i dormitori e davano la loro vita per occuparsi degli orfani. Una meningite iniziale portata da una frattura alla base cranica di Willard Ng. «Guardatelo... Non è bianco, non è nero, non è neanche giapponese. È un mostro, un dannato mostro meticcio!» Era questo che il ragazzo più grande aveva dichiarato alla sua cerchia di complici prima di piantare nella nuca di Willard Ng la punta d'acciaio dello stivale regolamentare dell'esercito. Una, due, tre volte aveva preso a calci il tredicenne caduto a terra. «Andiamo, piangi... vogliamo sentire che rumore fa un meticcio quando piange!» aveva ordinato il capobanda mentre si metteva in posizione per sferrargli un altro calcio. Ma Willard Ng non aveva pianto. In effetti, non sapeva piangere. Non sapeva come si faceva perché non aveva mai pianto. Non aveva mai pianto nei tredici anni della sua vita e nei tre orfanotrofi in cui era stato. Così era rimasto sull'asfalto con le ginocchia ripiegate contro la pancia, coprendosi il volto con le mani. E aveva ascoltato la voce del suo tormentatore diventare più intensa, ansiosa, e infine implorante. «Andiamo, di' qualcosa. Qualunque cosa e noi smetteremo. Andiamo, meticcio.» E poi era arrivato l'acuto e penetrante impatto che aveva aperto i cancelli dell'oscurità facendovi penetrare Willard Ng. «Che cosa hai detto a Patrick per fargli fare una cosa simile? Che cosa gli hai detto?» Willard ascoltò la voce attraverso la sua coscienza sconvolta. «Ora Patrick sarà punito. Sarà bastonato. E sono certa che sei stato tu a cominciare, Willard, sono certa,» concluse sorella Maria. Perché? Perché sei certa? avrebbe voluto dire, per difendersi. Ma conosceva già la risposta. Era stato lui a cominciare perché era Willard Ng, l'e-
straneo, il ragazzo nuovo al St. Thomas, il ragazzo senza amici, il ragazzo che nessuno voleva. Tre giorni dopo cominciò il mal d'orecchie, prima all'orecchio sinistro. Poi il dolore pulsante, che certe volte sembrava andare a ritmo con il battito del cuore, e che si era diffuso per tutta la sua testa distribuendosi uniformemente a ogni lato. Non ne aveva parlato con nessuno, e l'aveva accettato come la punizione per la sua trasgressione, che era quella di essere Willard Ng. Il dolore si accentuò, rendendogli impossibile dormire. Così rimase sveglio, con la stretta branda allineata con le altre alla sua sinistra e alla sua destra, in cui dormivano gli altri ragazzi, separate da un corridoio dalla dozzina di brande identiche davanti a lui. Tutto intorno risuonavano i rumori degli esseri umani: i mormorii e i pianti, i borbottii e le scoregge, lo scricchiolio delle reti metalliche nella notte. E dentro di lui c'era il rumore del suo cuore, che pompava, e del sangue che scorreva nelle sue vene. Fu allora che Willard cominciò a separare i rumori interni da quelli esterni, a sentirsi più sicuro guardando dentro di sé e concentrandosi sui battiti del suo cuore. Era facile perché quel battito coincideva con il dolore pulsante alle sue tempie. Finché il dolore divenne familiare, qualcosa di stupendo e personale; e fu il dolore che lo fece avvicinare alla sua eccezionalità. Bangkok, 1966. Cioè quando sono nato. A Bangkok. E nella sua mente, in qualche posto tra il ricordo e la fantasia, in coincidenza con l'affluire rapido del sangue alle sue tempie, delle immagini rosse esplosero. Immagini al neon di strade bagnate dalla pioggia e di gente in movimento, di una donna in particolare, una ragazza. Non più vecchia di lui; la sua pelle è liscia e scura, i denti di un bianco abbagliante e il suo corpo si dirige verso di lui con un movimento sinuoso da serpente, lungo il marciapiede luccicante. E c'è un marine, un americano in servizio di leva, in partenza dal Vietnam. Alto, bianco e robusto. Il suo pene è come una sbarra d'acciaio dentro i pantaloni. Il marine fissa la donna serpente, le sue lunghe gambe scarne, la sua vita sottile e il petto piatto, i suoi capelli lucenti e gli occhi neri come l'ebano. La pelle è molto tesa sulle ossa del suo viso, tanto tesa che, a guardarla bene, assomiglia al volto della morte, a un teschio sorridente con denti d'avorio e occhi di marmo. E il marine odia il pensiero della morte, perché vi è stato vicino troppe volte. Tuttavia ne è attratto, ossessionato, così prende la donna serpente dalle strade bagnate di pioggia, la conduce tra le lenzuola logore del suo albergo e la scopa con il suo cazzo
d'acciaio. La scopa con tutto l'odio e la paura che ha dentro. La scopa in segno di sfida alla morte, fino a quando sanguina. Neon rosso sangue. E da quel fiume di sangue nasce un bambino. Il figlio della morte: il figlio del sergente Raymond Willard e di Taew Ng. Un bambino a cui non è stato concesso di avere alcuna emozione, né la gioia né il dolore. Punito se ride, punito se piange. Picchiato con una cintura di cuoio con un pesante fermaglio di ottone fin quando ha la pelle coperta di lividi, perché non rida né pianga mai più. Pestato in nome della disciplina, della pace e della tranquillità. E la sofferenza per le emozioni inespresse cresce gradualmente, senza trovare sfogo. Si espande e lo invade, diventa l'unica cosa che ha. Qualcosa che non può essergli strappata via. Si era portato dietro la sua sofferenza, da Bangkok alla base navale di San Diego. E poi nello squallido appartamento di Oakland dove si era trasferita sua madre, un anno prima di morire, per scappare alla tirannia sadica di Raymond Willard. Qualcosa è esploso dentro la testa di tua madre. Era così che gli assistenti sociali avevano descritto l'emorragia cerebrale di Taew Ng al suo figlioletto di cinque anni. Lui era certo che fosse colpa sua: doveva esserlo. Altrimenti perché era stato portato via, trascinato da un orfanotrofio all'altro, messo in stanze chiuse a chiave? Picchiato dagli altri ragazzi e preso a calci alla base cranica? Dolore. Era arrivato ad affezionarsi al dolore, al mal d'orecchi, all'isolamento. Fino al giorno in cui era cominciata la tosse. La tosse era un tipo di dolore diverso da quello del mal d'orecchi. Era diverso perché lo privava dei suoi pensieri, delle sue immagini, dei ricordi distorti. Li cancellava dalla sua mente, rendendoli superflui per la sua sopravvivenza. Era come se ogni volta che tossiva i suoi polmoni si spaccassero, avvolgendo il suo cuore come tessuto in fiamme. Strangolandolo dall'interno. E quando inspirava il fiato alimentava il fuoco nei suoi polmoni. La sua temperatura si alzò, trentotto gradi, trentanove e il dolore nella testa si diffuse attraverso il collo, irraggiandosi giù per la spina dorsale fino a raggiungere le gambe. La tosse provocò il vomito e il vomito continuò fino a che Willard Ng non ebbe più altra consapevolezza che quella del suo corpo bruciante che vomitava. E di un pianto sommesso e acuto, come il lamento di un animale morente. Debole e impaurito, ascoltò... senza capire da dove giungesse quel gemito. Finché comprese che per la prima volta nella sua vita stava ascoltando il proprio pianto. Una supplica sommessa e solitaria, fragile e penosa. E da
chissà dove, scaturita dai recessi di una mente condizionata dalle percosse e dalle privazioni, giunse l'ombra della morte. Per due giorni e due notti Willard Ng pianse. Pianse finché l'ombra della morte aleggiò come uno spettro gelido sopra il suo letto. Ascoltando e pensando, osservando e aspettando. Poi, la febbre diminuì e i suoi lamenti divennero deboli, lontani, meno imploranti. Finalmente la morte se ne andò, chiudendo l'abisso tra il dolore e il sollievo. E così Willard Ng cominciò a riprendersi. Fu durante la convalescenza che Willard incontrò per la prima volta il suo maestro. Il ragazzo era pallido e debole, non era in grado di camminare, e le suore avevano sistemato la sua sedia a rotelle a fianco di un albero di arance al fondo del giardino verso est dell'istituto St. Thomas. L'aria aveva un profumo dolce e piacevole e una lieve brezza trasportava il profumo dell'estate appena iniziata. Willard stava fissando il cielo, con la mente alla deriva, cullato dalla mancanza di energia fisica e, in un certo senso, contento del fatto che se non altro ci si aspettava poco da lui: non doveva seguire le lezioni né fare dei lavoretti. Gli era stato concesso di rimanere in camera anche se le tende erano state aperte permettendo che la luce del sole portasse via i resti della sua malattia dai muri con l'intonaco crepato e dal nudo pavimento di legno. I giorni passarono confusamente, scanditi soltanto dai pasti che gli venivano portati in camera; di notte sprofondava in un sonno pesante e senza sogni. Ma quel giorno particolare sarebbe stato diverso: lui sarebbe cambiato. L'incontro iniziò con un rumore stridulo che arrivava da un ramo sopra la testa di Willard Ng. Come il canto di un grillo, ma più disperato e intenso. Alzò lo sguardo e inizialmente non vide nulla. Soltanto quando guardò bene vide la Mantide, con le verdi ali velate che si confondevano perfettamente con le foglie dell'albero. Era raddrizzata, come un minuscolo cavallo in piedi sulle zampe posteriori. Davanti a lei c'era un insetto leggermente più piccolo, con lunghe ali trasparenti e un corpo rigido, a forma di ramoscello. Cicala, era quello il nome che le sorelle avevano dato all'insetto a forma di ramoscello durante una delle passeggiate naturalistiche del St. Thomas. Era la cicala che strideva, emettendo un grido a un volume sproporzionato al suo corpo minuto. I due insetti erano impegnati in una lotta feroce, la cicala strideva e mordeva ferocemente, mentre la Mantide si muoveva in circolo, mantenendosi a cortissima distanza dalle mascelle taglienti dell'altra. Più a lungo quella lotta durava e maggiormente Willard
Ng era attratto dalla Mantide, come se venisse risucchiato in un vuoto nel quale l'essenza della vita e della morte era simboleggiata dalla lotta che si svolgeva davanti a lui. Osservò il preciso modello di combattimento che la Mantide seguiva. A lievi colpi con i due arti anteriori seguiva una rapida ritirata. Poi l'insetto ruotò verso sinistra, tenendo tesa la zampa corrispondente, accovacciandosi e slanciandosi in avanti, afferrando e strappando con l'arpione con cui terminava la zampa tesa. A differenza della cicala, non c'era confusione nel movimento della Mantide, soltanto un proposito chiaro e preciso. Un altro scambio di colpi, la cicala si ritrasse e la Mantide aprì le ali inseguendola. Poi, dopo aver circondato con le ali la preda, la Mantide morse a lungo e con ferocia il collo della cicala. Willard Ng osservò tutto ciò, in preda a una crescente emozione, tanto che non si accorse di essersi alzato dalla sedia a rotelle e di avere il volto a non più di venticinque centimetri dalla Mantide. Fu estremamente affascinato dalla piccola creatura ed essa fu altrettanto cosciente della presenza del giovane perché smise di mangiare per osservare il suo spettatore con gli occhi acuti e penetranti, concentrata e consapevole. Per un istante, Willard si sentì in pericolo mortale. Non ebbe dubbio che la Mantide potesse saltare giù dal rametto e strappargli la carne dal viso. Quella creatura era onnipotente. La paura lo fece smettere di respirare, come se anche il suo fiato potesse disturbare e rendere collerica la Mantide. Nuovamente, sembrò formarsi un vuoto e l'insetto parve ingrandirsi assumendo proporzioni umane. Poi iniziò il ronzio, come il rumore dell'elettricità che corre su un filo dell'alta tensione; proveniva dal centro della fronte di Willard Ng, a cinque centimetri dalla punta del suo naso e si protendeva all'esterno verso la Mantide, collegandoli. Un senso di gioia penetrò e riscaldò l'animo del ragazzo portandolo a un segreto soddisfacimento... finché, infine, la Mantide si voltò, chinò la testa e ricominciò a cibarsi. Willard Ng quella notte sognò la Mantide. E al mattino si sentì rinvigorito, vivificato. Sognò l'insetto molte volte dopo quell'episodio... Fu quattro anni più tardi, dopo che era andato via dal St Thomas e mentre era impiegato come custode notturno alla biblioteca pubblica di Oakland, che Willard Ng trovò casualmente un libretto intitolato Il Kung Fu della mantide religiosa. Il nome dell'autore era H.B. Un, e a fianco della scritta in cinese sulla copertina c'era una rappresentazione artistica della mantide religiosa. Ng divorò le ottantacinque pagine del libro, studiando le immagini e
scoprendo che trecento anni prima della sua esperienza personale nei giardini del St Thomas, il maestro di lotta cinese Wong Long aveva assistito a un incontro simile, tra una mantide e una cavalletta. Wong Long era stato talmente impressionato dallo stile e dalla ferocia della mantide che aveva inglobato i movimenti dell'insetto nel proprio sistema di combattimento. Quella scoperta fu una vera e propria rivelazione, che risvegliò in Willard l'istinto addormentato della speranza e della finalità. E qualcos'altro, qualcosa che non riuscì a identificare completamente, qualcosa di diverso, una sensazione che poteva sentire soltanto lui, come era accaduto durante il primo incontro in un giorno di giugno nei giardini del St Thomas. Era come se una parte di lui, il suo animo, il suo spirito, fosse stato chiamato a un compito più elevato: il suo destino. Cercò sulla guida del telefono e tra gli annunci dei giornali. Quarantotto ore più tardi Willard Ng era un membro del kwoon Fan Yook Tung di Berkeley, California. Ne aveva fatto parte per tre anni, abbastanza a lungo per imparare i rudimenti del kung fu stile-Mantide e abbastanza a lungo per dare al suo istruttore il presentimento di un disastro. Willard Ng avrebbe finito per ferire qualcuno, ferirlo molto gravemente. Sembrava insensibile al proprio dolore e intenzionato a procurare dolore agli altri. Aveva bisogno di applicare le tecniche apprese. E sebbene Willard fosse uno studente attento e potenzialmente dotato per quell'arte marziale, metteva in difficoltà il normale lavoro della palestra perché nessuno voleva allenarsi con quel robusto meticcio. Quattro anni e altrettanti kwoon dopo, Willard Ng confermò i timori del suo primo insegnante. Tutto iniziò durante un allenamento della classe avanzata nella palestra situata in un garage di Oakland. «Il controllo. Tu non hai controllo.» Quella critica fu accompagnata da uno spruzzo di sudore e saliva proveniente dalle labbra sottili e pallide. Ng arretrò, fremente, senza mai entrare in contatto con lo sguardo scuro e di riprovazione di Miranda Morgan. La robusta assistente sociale di trentatré anni si massaggiò vigorosamente il gomito destro, scuotendo la testa come per dare maggior enfasi alla sua critica. «Cinque volte, per conto vostro,» ordinò il sifu dal lato opposto del garage. Le cinque coppie di studenti ubbidirono proseguendo il loro allenamento predisposto. Quando la signorina Morgan attaccò, colpendo con il destro, Willard Ng avrebbe dovuto schivare il colpo con il pugno corrispondente e controbattere con un fendente sinistro diretto alla cintola di lei. In effetti, Ng era sempre più stufo della monotona e prevedibile lotta a
due. Quando era certo che l'attenzione del sifu era rivolta altrove, improvvisava. In questo caso, usò «l'arpione», un tipo di pugno nel quale l'indice e il medio sono tesi in avanti, sostenuti dal pollice, mentre le altre due dita sono piegate verso il polso, imitando lo spunzone tagliente della zampa anteriore della mantide religiosa. La usò per prendere, afferrare e storcere il gomito teso della signorina Morgan. Si assicurò che la punta del suo dito medio penetrasse bene in profondità nell'articolazione, al di sopra del tendine estensore, tirandolo come la corda di una chitarra e dando alla povera assistente sociale la sensazione ripetuta di essere colpita nell'osso cubitale. Quando il piccolo sifu cinese comparve, la donna stava per piangere. «Qual è il problema, signorina Morgan?» chiese il sifu fissando con sospetto il robusto ventiquattrenne Ng. Ng ricambiò lo sguardo del sifu, guardandolo profondamente negli occhi. Sentì un'avversione provocatoria che gli saliva come un serpente alla base della spina dorsale. Poi Ng diresse lo sguardo su Miranda Morgan sfidandola a rispondere, a umiliarlo di fronte agli altri. «Non fa l'esercizio correttamente, sifu,» dichiarò. Nella sua voce c'era arroganza, come se sotto la protezione del maestro potesse rimproverare Ng senza timore di rappresaglie. «Capisco,» rispose il sifu, esaminando i segni rossi delle dita e le ferite recenti sopra il suo gomito. «Forse, signor Ng, avrebbe piacere di dimostrare la sua tecnica con me.» Ora gli altri otto studenti si erano riuniti solennemente in circolo. Ng si sentì intimorito, imbarazzato: la sua infanzia l'aveva condizionato a temere l'attenzione degli altri. «Signor Ng.» La voce del sifu era insieme autoritaria e accusatoria. «Lei non è adatto.» La voce del cinese divenne più possente e le sue parole furono una ripetizione di quelle dette dai persecutori che l'avevano preceduto. Willard Ng ascoltò. Finché, infine, riconobbe la verità. Non era adatto. Non era adatto a quel garage sporco e scuro. Lui non era uno di loro, lui faceva le cose sul serio. Aveva visto la sua strada molti anni prima: aveva fatto esperienza dell'essenza di qualcosa che quel piccolo uomo presuntuoso non avrebbe mai saputo né capito. Ng sorrise. Un sorriso pericoloso, a labbra strette. Si raddrizzò, aprendo le spalle, e torreggiò al di sopra del cinese. Vide la paura negli occhi obliqui castani del sifu. Lanciò una rapida occhiata agli altri. La stessa paura era presente nei loro occhi, contagiosa e ostile. Tuttavia lui, Willard Ng, non aveva paura. Perché aveva capito.
Guardò di nuovo il cinese, immaginando il suo corpo muscoloso e flessibile sotto il kimono nero da allenamento. Dalle maniche rivoltate gli uscivano delle lunghe dita gialle; i suoi capelli, scuri e rasati, accentuavano gli zigomi alti e il viso stretto e scheletrico. Il sifu sembrava respirare appena. «Vattene di qui... subito!!» intimò il cinese, a voce alta e stridula. Ng non prestò attenzione al comando, e si concentrò invece sul familiare tono stridulo. Inspirò, lentamente, guardingo; mentre l'ossigeno gli riempiva i polmoni, un ricordo affiorò alla superficie della sua mente. La cicala, robusta e sinuosa, era in piedi davanti a lui. Senza pensare, inconsapevolmente, Willard Ng alzò le braccia aprendole come ali. Le mani gli formicolavano e le sue dita si unirono: era invincibile. «Adesso stiamo andando troppo in là...» La voce di Miranda Morgan si affievolì, dissolvendosi a mezz'aria. Poi l'immobilità, un'immobilità elettrica, interrotta soltanto dal movimento del cinese che si slanciava in avanti, sostenendo con la gamba il peso del corpo mentre puntava la scarpa di quella in avanti come una mano guantata di nero sulla stuoia. Il suo sguardo adesso era duro e la paura era tenuta sotto controllo dalla determinazione. Il suo onore e la santità del suo kwoon erano la posta in gioco. Ng osservò il piccolo uomo attaccare come si muovesse al rallentatore: il pugno sinistro del sifu si slanciò in avanti verso il centro del suo viso. Lui rispose muovendo rapidamente la sua ala sinistra verso l'interno, e intercettando il colpo con la mano aperta mentre ruotava il palmo destro verso l'avversario. La sua mano colpì con forza e violenza il muscolo sternocleidomastoideo del collo del cinese. Il sifu apparve stupito e vacillò all'indietro. Ng avrebbe potuto far finire lì il combattimento, certamente la Mantide avrebbe fatto così. Ma per qualche motivo, sul quale avrebbe meditato e rimeditato migliaia di volte, la sua concentrazione svanì e cominciò un violento assalto agitando le braccia. Il sifu entrò nel raggio d'azione delle grandi braccia di Willard e sferrò un rapido calcio rotatorio contro la coscia del suo avversario, facendogli venire i crampi alla gamba. Continuò con un colpo di tallone che ruppe il naso di Willard Ng facendolo cadere a terra. Willard ricordava che dopo si era sentito afferrare mentre era inginocchiato. La gente urlava. Mani lo trascinavano tentando di allontanarlo. Miranda Morgan strillava.
L'immagine della Mantide, che aveva tenuto nella sua mente come un cristallo, si ruppe nella baraonda. E quando Ng sentì le piccole dita d'acciaio che si avvinghiavano alla sua trachea, fu contemporaneamente consapevole di un'umida sostanza simile a gelatina nella sua mano destra. Poi le dita sulla sua gola mollarono la presa e lui si rialzò e guardò il volto del sifu. Il sangue sgorgava a fiotti dall'orbita vuota dell'occhio sinistro del cinese. Un silenzio inorridito cadde sugli astanti, mentre Ng arretrava verso la porta d'uscita. Era ancora a piedi nudi e il suo borsone contenente le scarpe e gli abiti era nello stanzino a fianco del kwoon. Esaminò l'ipotesi di fermarsi ma poi si chiese se qualcuno avesse già telefonato alla polizia. Quindi si voltò e corse a piedi nudi sui marciapiedi senza mai rallentare per tutti gli otto chilometri che lo dividevano dalla sua stanza ammobiliata. Quando entrò nella stanza, i suoi piedi erano pieni di vesciche e sanguinavano. Chiuse rapidamente a chiave la porta e poi, continuando a fare delle lunghe inspirazioni, si spogliò completamente. C'era un lungo specchio rettangolare sulla parete a fianco del suo unico armadio. Si diresse verso lo specchio e si voltò mettendosi di fronte. La luce della luna entrava dalla finestra aperta, illuminandogli da dietro il volto e le spalle. Guardò nello specchio, trattenendo l'impulso di strizzare gli occhi, finché la luce della luna delineò un profilo scintillante attorno alla massa scura del suo corpo e della sua testa: Ng si concentrò sulla massa scura. Lentamente, in modo da non disturbare le molecole vibranti dell'aria, alzò le braccia come ali. Invincibili arpioni si formarono nel punto in cui vi erano state le sue mani e una stella bellissima riluceva al centro del suo petto glabro. Occhi acuti e penetranti guardavano da una testa larga a forma di diamante. Era come se la sua immagine allo specchio fosse la larva della transizione, e quella visione fosse l'archetipo del suo stato adulto. Finalmente, iniziò il ronzio, un'oscillazione al centro della sua fronte, riempiendolo con lo stesso calore e con la stessa soddisfazione che aveva provato da ragazzo nei giardini del St. Thomas. Stavolta, però, il ronzio era più chiaro, più definito. E Willard Ng udì una voce all'interno di quel rumore; fievole, come dell'aria soffiata attraverso l'ancia di uno strumento musicale a fiato. La sua concentrazione si intensificò e Ng rivolse tutto il suo essere alla voce. Perfezione. La voce stava dicendo perfezione. La parola era un catalizzatore che divideva la sua mente in due metà esatte. Una metà conservava la coscienza della Mantide mentre l'altra rivedeva la sua vita da umano in rapidi flash in successione: la solitudine, l'isolamento e il dolore represso.
La luna salì più in alto e Willard riuscì a vedersi con maggior chiarezza nello specchio: il naso gli sanguinava ed era curvo, il corpo era tozzo e deforme. Privo di simmetria. Come la sua vita. Però, sovrapposto al suo involucro di carne, c'era il corpo della Mantide, come se la grazia invulnerabile dell'insetto fosse il disegno programmatico per la sua perfezione. Ricordò il combattimento di quella sera al kwoon. Era stato onnipotente come la Mantide, con le ali spiegate e il respiro al centro. Aveva funzionato in perfetta armonia con una forza che era rimasta sopita dentro di lui. Era stato esitante, aveva interrotto il collegamento, aveva combattuto senza lucidità. Aveva agitato le braccia, soccombendo alla propria violenza umana. Aveva ferito il suo avversario ma la sua vittoria era stata vuota e priva di significato. Willard Ng era sull'orlo del precipizio dell'illuminazione. Esaminò le fattezze del corpo della Mantide, imprimendosele per sempre nella mente divisa. Finché finalmente arrivò la decisione, il risveglio: Willard Ng sarebbe diventato la Mantide. Quando lo studente è pronto, apparirà il maestro. Non era stato facile perché il raggiungimento del suo scopo richiedeva studio, allenamento e dedizione completa. Finché, dopo tre anni, sei città e innumerevoli visite a una serie di dojo e kwoon, Willard Ng era ritornato all'origine della sua ispirazione, riconoscendo come suo maestro quell'origine. Pura e semplice. E il maestro gli aveva ispirato l'esercizio mortale. Trangugiò un altro sorso dalla tazza cinese. Adesso l'acqua era più fresca e non gli bruciava più la gola scendendo nello stomaco. Inspirò e il malessere si affievolì. Guardò a sinistra, fissando la porta che conduceva alla stanza della potenza. Considerò l'idea di un allenamento con le pietre per il rafforzamento, ma non era di allenamento fisico che aveva bisogno. Obbligò la sua mente a ricordare l'ultimo esercizio mortale, a visualizzare i suoi gesti. Ogni passo. Dal pedinamento all'uccisione, fino a quando era uscito senza fretta mentre il sole sorgeva. Era stato sicuro di sé ma al tempo stesso disattento. E lei non avrebbe tollerato la sua distrazione. In Delaware Avenue c'era una discarica comunale, un posto con enormi inceneritori e fumanti cataste di rifiuti. Avrebbe bruciato i vestiti che aveva indossato quella notte, anche gli stivali che tanto erano diventati troppo stretti per i piedi che ora erano irrigiditi e gonfi dal quotidiano esercizio ri-
petitivo del «pestare i piedi sulla pietra». Sì. Li avrebbe bruciati quel giorno. Poi, quando sarebbe venuta la notte e sarebbe stato certo di non essere visto, sarebbe andato a trovarla: quella notte sarebbe stata una notte speciale, una notte intima. XII VISITA ALLO ZOO Lo zoo di Filadelfia è lo zoo più vecchio di tutti gli Stati Uniti. Con le sue dodici sezioni e le centosettanta gabbie per animali, è anche uno dei più grandi. Situato a sei chilometri a ovest dal centro della città, all'incrocio tra la Girard Avenue e la Trentaquattresima Strada, lo zoo è facilmente raggiungibile sia dalla periferia che dal centro di Filadelfia. Anche in un giovedì mattina di novembre il vecchio cancello di ferro rotante all'entrata vede passare un flusso costante di turisti e cittadini in visita. «Gli escrementi, Bill, arrivano da un grande mammifero di qualche tipo. Non domestico. Posso supporre che sia un cammello.» «Un cammello?» ripeté Fogarty. «Sì. È questo che ci dicono la pelle fibrosa e l'alto contenuto di sostanza oleosa. È nutrito con un cibo preparato industrialmente,» proseguì Moyer. Anche Tanaka era presente, in piedi accanto al magro patologo, e annuiva in segno di approvazione. Sembrava essersi completamente ripreso, a parte sette punti e un occhio che da nero era diventato azzurrino. «Il tuo assassino, oltre a camminare nella merda di cammello, porta degli stivali numero quarantaquattro. Con le suole gommate di cui la sinistra è consumata sul lato esterno del tacco.» Dieci minuti più tardi Fogarty aveva diretto la Le Mans ad ovest verso la Girard Avenue e stava andando allo zoo di Filadelfia. Durante il tragitto, il tenente aveva raccontato al suo collega ciò che aveva saputo dal conte Dante. «Come hai detto che l'ha chiamato, Bill?» chiese Tanaka. «Mantide,» rispose Fogarty. Mantide. Tanaka ripeté la parola nella sua testa mentre la Le Mans vibrava e si scuoteva passando sopra gli ultimi buchi nell'asfalto prima dell'uscita sulla Trentaquattresima Strada. «Non mostrerò il distintivo. Lasciamogli credere che siamo dei visitato-
ri,» disse Fogarty mentre lui e il medico camminavano a fianco di una statua di pietra che rappresentava una leonessa con i suoi cuccioli, dirigendosi verso i cancelli girevoli. Il tenente pagò i biglietti e chiese dov'erano i cammelli. Quando furono dentro, Fogarty si fermò a prendere due sacchetti di pop corn. «Sono senza sale,» disse, porgendo un sacchetto a Tanaka. «Non importa che cosa accadrà, Joey, lascia che stavolta me ne occupi io.» «Credi che la volta scorsa io abbia esagerato, vero?» Fogarty notò che Tanaka aveva un tono vulnerabile: era una novità. Scosse la testa mentre metteva il sacchetto di pop corn in mano al medico. «Ad essere sinceri, probabilmente mi hai salvato la vita. È soltanto che, be', sono io il poliziotto e tu mi fai fare brutta figura.» Risero entrambi. Poi camminarono ad andatura moderata, masticando i loro pop corn, come due turisti. Otto metri sopra le loro teste c'era un'auto a due posti aperta, simile a un vagoncino fuori moda, su una rotaia unica, e un cartello che diceva: «Monorotaia chiusa per riparazioni» era appeso a fianco della vettura. «Nell'ultimo anno sono successi tre incidenti lassù,» disse Fogarty guardando in alto. Tanaka notò la calma professionale nella voce del tenente. Molto professionale. Ricordò di aver già fatto prima quella considerazione. E si accorse anche che alla bocca del suo stomaco provava un lieve senso di agitazione. «Siamo vicini, Bill. Siamo dannatamente vicini,» disse Tanaka, ascoltando la sua dichiarazione come se fosse stata pronunciata da una terza persona. La sua voce gli parve distante e vuota tra le risate dei bambini e il leggero scalpiccio della gente che passava. Fogarty si voltò verso di lui e, solo per un istante, i loro sguardi si incontrarono. «Lo so.» Questo fu tutto ciò che il tenente disse. Poi i due uomini camminarono con calma lungo il percorso segnalato. Una ringhiera di ferro, una palizzata e un fossato di un metro e mezzo separavano i visitatori dagli abitanti delle pianure africane. Al di là dell'acqua marrone e del ferro scuro, una mezza dozzina di cammelli vagavano tra le dune di sabbia artificiale del loro recinto. «I quattro a sinistra sono cammelli, gli altri due sono dromedari,» fece notare Fogarty. Tanaka sembrò confuso.
«Guarda le gobbe. I dromedari hanno una sola gobba, mentre i cammelli due,» spiegò Fogarty. «Vengo qui fin da quando ero bambino,» aggiunse. Tanaka cercò di immaginare il tenente da bambino e non vi riuscì. Fogarty si diresse verso la ringhiera e vi appoggiò il petto contro, in modo da far penzolare le braccia dall'altra parte, continuando a fissare i cammelli mentre mangiava il pop corn. Tanaka gli si avvicinò. «Quello che faremo è questo,» disse il tenente. «Passeremo la prossima ora a camminare qua attorno, prendendo degli appunti mentali, guardando i volti della gente.» Fogarty esitò, lanciando un'occhiata a un cammello. L'animale cominciò a defecare. «Una cosa è certa...» Tanaka attese. «Rimanendo da questa parte del fossato, non possiamo mettere i piedi nella merda di cammello,» dichiarò Fogarty. Tanaka annuì, chiedendosi se il lavoro dei poliziotti fosse sempre così raffinato. Mentre osservavano, due inservienti uscirono da una porta nascosta da lastroni di pietra: insieme, suppose Tanaka, per risistemare le sabbie del deserto... «Esamina i loro stivali,» sussurrò Fogarty. Tanaka fissò lo sguardo sugli stivali in gomma alti fino al ginocchio. Tutti e due gli inservienti li indossavano, insieme a delle tute color kaki e dei giubbotti di tela cerata. Il più alto dei due trasportava un tubo di gomma mentre l'altro aveva una pala. Tanaka osservò gli uomini camminare ciondolando le teste a tempo con i loro passi. Erano rilassati, sì, ma si vedeva che non erano allenati. L'assassino avrebbe camminato a pancia in dentro, a testa alta, con passo sicuro e deciso. Come cammina un uomo dopo molti anni di allenamento a piedi nudi sul legno di pino o sulle stuoie del pavimento di un dojo. L'uomo che cercavano sarebbe stato un vero uomo d'azione. Tanaka lo sapeva. E sapeva anche dell'altro, qualcosa che non voleva affrontare, non ancora, forse mai. I suoi pensieri rimasero inconclusi. «Un'altra cosa è certa,» disse sogghignando Fogarty. «Questi tizi hanno sicuramente della merda sulle scarpe.» Il tono di Fogarty ricordò qualcosa a Tanaka, tirandolo come un filo attraverso la cruna di un ago. «Stai bene?» chiese Fogarty. «Non sono quelli gli stivali che cerchiamo, Bill,» constatò Tanaka. «I tacchi di quegli stivali non sono chiodati. Hanno la suola tutta di gomma, senza giunture.»
Fogarty guardò di nuovo, annuendo lentamente. Poi, come per contraddire il suo assenso, un terzo uomo entrò nel recinto. Indossava un giubbotto scozzese imbottito, un paio di jeans e degli stivali di pelle. Quel tipo di stivali con le suole di gomma dal bordo rigido. L'uomo stava parlando e agitava le braccia come se stesse spiegando qualcosa. Si diresse direttamente nella merda di cammello. «Vedi, Josef, è così che si fa,» disse Fogarty. Il palazzo degli uffici amministrativi dello zoo era stato, una volta, una maestosa casa privata d'abitazione. Battezzata «Solitudine» e costruita nel 1785, la villa di pietra bianca occupava uno spazio di mezzo ettaro a fianco del prato dei fenicotteri. Fogarty e Tanaka seguirono un vialetto lastricato, dietro un grande acero fino alla porta con le maniglie di ottone del Solitudine. La porta introduceva in una stanza con i muri dipinti di beige, poltrone in pelle e un caminetto con un bruciatore a gas. Una segretaria alzò lo sguardo dalla scrivania. Fu Fogarty a parlare. «Siamo venuti per vedere il signor Anthony Galenti. Credo che sia l'amministratore capo.» «Avete un appuntamento?» chiese la donna elegantemente vestita. «No. Siamo qui per affari che riguardano la polizia. E inoltre devo chiederle di considerare confidenziale la nostra visita.» «Può mostrarmi un documento?» Fogarty le fece vedere il suo portafogli con il distintivo all'interno. La compassata signora di mezza età lo guardò stupita. «Tenente Fogarty! Mio Dio, ho appena sentito parlare di lei al telegiornale. È qui per quell'orribile omicidio?» Fogarty sorrise e Tanaka vide un lieve rossore che gli passava sul volto. Il tenente non rispose e la segretaria, come per riempire il silenzio del poliziotto continuò a parlare. «Il sindaco Bright ha detto che lei stava per consegnare alla giustizia un sospettato... da un giorno all'altro, in qualunque momento,» aggiunse speranzosa. Fogarty annuì in tono rassicurante, segretamente incollerito dalla promessa del sindaco. Scrutò gli occhi della donna dietro le lenti a contatto azzurre. Abituato a mantenere la calma, parlò pacatamente. «Posso chiederle come si chiama?» «Doris Herman,» rispose la segretaria. «Be', Doris, non ho ascoltato l'intervista al sindaco e non so proprio chi
gli abbia detto che possiamo trovare il colpevole 'in qualsiasi momento', ma posso dirle che abbiamo bisogno di tutta la collaborazione possibile per svolgere le indagini.» «Certamente, tenente,» rispose la segretaria e poi aggiunse, sollevando la cornetta del telefono: «Vedrò se il signor Galenti è libero.» Anthony Galenti era un uomo sulla cinquantina, con i capelli biondo rossicci, un volto scavato e mani forti e callose. Aveva la pelle chiara ma resa rugosa dalle troppe abbronzature. Indossava un completo leggero di tweed, anche se sarebbe stato molto più a suo agio con un paio di pantaloni cachi e un cappello coloniale. Ascoltò con profondo interessamento la descrizione che Fogarty gli fece dell'omicidio di Jeanette Key. Quando il tenente terminò di parlare, finalmente Galenti prese il telefono interno e premette il pulsante con la luce gialla con la scritta «Personale». «Alice, quanto tempo ci vuole per accedere ai fascicoli degli impiegati?» Galenti attese, ascoltò, poi scosse lentamente la testa. «Grazie, ti richiamerò.» Posò il telefono e si voltò verso Fogarty. «Sarà una questione di giorni, non di ore,» spiegò Galenti. Fogarty assentì. «A meno che lei possa darmi un nome specifico,» aggiunse l'amministratore. Fogarty estrasse lentamente dalla tasca la copia del disegno del pittore. La dispiegò e la porse a Galenti. «Lo riconosce?» Galenti esaminò l'identikit, lanciando uno sguardo prudente a Tanaka prima di guardare nuovamente il tenente. «Non a prima vista, ma questo non vuol dire molto. Qui da noi lavorano centocinquanta persone a tempo pieno e inoltre, fino a Natale, quando finisce la stagione, ci sono almeno un centinaio di stagionali.» Fogarty annuì e guardò Tanaka, notando che il medico era insolitamente calmo. Tanaka non riusciva a scacciare quella sensazione; da quando aveva oltrepassato il vecchio cancello girevole, era andata e venuta un centinaio di volte. Era come se stesse per verificarsi una connessione cruciale: come se lui sapesse, ma non riuscisse a definire con precisione quello che sapeva. Poi c'era l'altra sensazione, quella che non aveva bisogno di essere definita. «Le dirò cosa posso fare, tenente,» disse Galenti, alzandosi mentre restituiva a Fogarty l'identikit. Alle spalle dell'amministratore capo c'era una
parete piena di fotografie: Galenti in piedi a fianco di una Land Rover in completo da safari, circondato da parecchi uomini vestiti come lui; Galenti con un pitone di sette metri avvolto attorno alle spalle; Galenti a fianco di una gabbia contenente una grande tigre bianca; Galenti e un altro uomo accanto ad un enorme gorilla. L'ultima fotografia attirò l'attenzione del tenente, e Galenti se ne accorse. «Posso presentarla a Gordon Forrest. È il mio capo del personale, si occupa lui delle assunzioni e dei licenziamenti.» «È lui quello nella foto, vero?» chiese Fogarty, indicando la fotografia. Era un primo piano in bianco e nero di un uomo e un leone, l'uno a fianco all'altro. Erano tanto vicini che la lunga barba brizzolata dell'uomo si mescolava con la bianca criniera del leone. Gli occhi dell'uomo erano infossati, uno era vivace e penetrante ma l'altro stranamente inespressivo. La pelle della sua fronte era segnata da rughe. Al suo fianco, il leone sembrava placido e rilassato. «Sì. Conosce Gordon?» chiese Galenti, stupito. Fogarty annuì, sorridendo senza mostrare i denti. «Non lo vedo dai tempi in cui importava gli alligatori dalle Everglades vendendoli per ordine postale.» Galenti si rilassò. «Allora deve averlo conosciuto prima che lavorasse qui.» «Sette o otto anni fa,» rispose Fogarty. «Non ha precedenti penali, vero?» indagò Galenti. Fogarty ebbe un attimo di esitazione. Ricordò la prima volta che aveva visto Gordon Forrest: un uomo violento, ubriaco, nudo come un verme e pieno di tatuaggi che agitava una pistola lanciarazzi dalla finestra di un appartamento al quarto piano. Il razzo era atterrato sul tetto a cupola di una moschea sottostante, spargendo il panico. E poi aveva lanciato un urlo esagitato: «Stanno arrivando gli israeliani!!» Forrest stava ridendo e scherzando, incurante della confusione che aveva provocato. Fogarty l'aveva preso istantaneamente in simpatia ed era riuscito a tirarlo fuori dalla prigione con la scusa dello stress del combattente: in fin dei conti Forrest aveva ricevuto la «Purple Heart» in Vietnam. Dopo quell'episodio avevano bevuto di tanto in tanto insieme, ed era sempre stato qualcosa di più di una tequila con fetta di limone. Era successo prima dell'incidente di Fogarty. Dopo, il tenente non aveva più frequentato nessuno. «Gordon ha dei precedenti, tenente?» ripeté Galenti. Fogarty rispose con
un ampio sorriso. «No. Gordon è un brav'uomo... Ci dica soltanto dove possiamo trovarlo.» «Cosa accidenti ti capita?» Tanaka ignorò la domanda del tenente e mantenne la testa girata verso la fila di gabbie. «È un'ora che non dici una parola,» continuò Fogarty. Il giaguaro era nero come l'ebano e se ne stava acciambellato in un angolo della gabbia. I suoi grandi occhi luccicanti sembravano seguire Tanaka. Fogarty cambiò tattica e si avvicinò a Tanaka. «Sai, questi gattoni di solito diventano più scuri quando sono tenuti in cattività.» Tanaka concentrò l'attenzione sul giaguaro. «Il loro manto prende il colore delle sbarre della gabbia. È una tecnica mimetica. Buffo, no?» Tanaka sospirò udibilmente e si voltò verso Fogarty. «So qualcosa su quel tizio, Bill.» Il suo tono era freddo e distaccato. Fu più il tono che le parole a colpire Fogarty; si avvicinò di più e sussurrò: «Che cos'è, Joey?» «So che sono io quello che lo farà a pezzi,» rispose Tanaka. Fogarty mise una mano sulla spalla di Tanaka e lo guardò dritto negli occhi. Una gruppo compatto di persone li oltrepassò, facendo attorno a loro un ampio arco. Fogarty mantenne un tono calmo. «Ti ho trascinato in questa indagine perché non avevo alcun indizio e Bob Moyer ha detto che forse tu potevi avere una pista. Ho continuato a tenerti con me perché ti rispetto, e la verità è che mi hai salvato la vita. Ma quando si arriva al dunque dev'essere un ufficiale di polizia colui che fa gli onori di casa. Non un medico legale. Mi hai capito?» Tanaka era immobile, con lo sguardo fisso su Fogarty, ma privo di espressione. I suoi pensieri inespressi avevano preso il sopravvento. Fogarty interpretò quel silenzio come un segno di risentimento. Ricordò l'episodio dell'ospedale. «Questo non è un caso in cui c'entrino l'onore o l'orgoglio,» iniziò, con cautela. «Non è una questione di amor proprio. È soltanto che tu non sei un ufficiale di polizia addestrato.» La sua voce si indurì. «Tu sei sotto la mia responsabilità, capisci cosa intendo?» Tanaka annuì. Fu un gesto formale e brusco, quasi un inchino. Un tipo di
atteggiamento che poteva precedere un litigio o un duello. Fogarty sentì una pulsazione alla bocca dello stomaco, un avvertimento. Intensificò la presa sulla spalla di Tanaka e la tensione passò nelle sue dita come un flusso di corrente. «Rilassati, Joey, mi stai rendendo nervoso...» Gli occhi di Tanaka rimasero fissi su di lui: sembravano affaticati, mentre il volto era duro e la bocca pronta a parlare. Era come se Tanaka fosse sul punto di fare una dichiarazione. Poi, improvvisamente, si rilassò e sorrise. «Ottimo!» disse Fogarty. «Adesso andiamo a trovare Gordon.» Guidò il medico su un sentiero lastricato, passando dietro alle Pianure Arabe, fino a fianco di un largo edificio grigio, e poi si infilarono oltre una porta con il cartello: «Riservato al personale». Fogarty e Tanaka avevano fatto solo due passi nel corridoio quando i versi rochi iniziarono, intensi e rimbombanti. «Cristo. Spero che non ci sia qualche animale che gironzoli liberamente qui,» sussurrò Fogarty. Su entrambi i lati c'erano degli alti muri di cemento e delle porte chiuse. I versi arrivavano da qualche luogo dall'altra parte del muro. «Ehi! Che cosa state facendo?» Tanaka si voltò in tempo per vedere un uomo con una camicia e un paio di pantaloni color cachi che li aveva seguiti attraverso la porta. «Siete dal lato sbagliato,» li rimproverò il robusto inserviente, avanzando lentamente. Fogarty si mise davanti a Tanaka. «Ufficio d'igiene,» disse, mostrando il suo distintivo molto in fretta in modo che l'uomo non riuscisse a metterlo a fuoco. «Il signor Galenti ha detto che troveremo il vostro capo del personale quaggiù.» L'inserviente si rilassò e poi fece una risatina, tra sé e sé. Un altro verso animale giunse da dietro la parete. «Sì, lo troverete, ma credo che non avrete voglia di disturbarlo. Non ora...» «Possiamo parlargli soltanto ora,» dichiarò Fogarty all'inserviente. L'uomo si strinse nelle spalle. «Okay.» Un sorriso ambiguo attraversò il volto tondo e carnoso. «Seguitemi.» Gli stivali da lavoro che arrivavano sopra la caviglia lasciavano impronte polverose sulla pietra grigia. Dopo aver percorso cinque metri, i tre uomini si fermarono davanti a una porta socchiusa. I versi di un animale arri-
vavano da dietro quella porta, insieme a una puzza soffocante. «State cercando Gordon e Gordon è qua dentro,» disse l'uomo, facendosi da parte. Fogarty avanzò e bussò alla porta. Un altro verso, sonoro ma in qualche modo sottomesso. Fogarty batté le nocche contro la pesante lamiera consumata. «Non ora!» disse una voce aspra. Tanaka notò una traccia di accento. Non americano. «Gordon. Sono Bill Fogarty. Devo parlarti!» Nessuna risposta. Si udì un altro gemito, ora più simile a un muggito, e un rapido scambio di parole tra due voci maschili. Fogarty spinse la pesante porta metallica. «Io non entrerei là dentro,» avvisò l'inserviente. A prima vista sembrava che l'uomo in piedi sulla scala a fianco dell'enorme giraffa avesse soltanto un braccio. Guardando più attentamente si scopriva invece che il suo braccio destro era infilato fino alla spalla nell'ano dell'animale in piedi. Un guanto di gomma lungo un braccio faceva ben poco per impedire che le feci si spargessero sul serpente piumato tatuato sul petto e le spalle dell'uomo dalla carnagione scura. Lanciò una rapida occhiata ai poliziotti che entravano nella stanza. Tanaka notò l'occhio di vetro e l'incisivo d'oro. Gordon Forrest non portava più la barba. «Bill. Come diavolo stai?» La voce di Gordon Forrest era amichevole e il suo accento suggeriva ormai solo vagamente le origini australiane. «State calmi un istante, un movimento improvviso basterebbe a farmi chiamare 'Sheila',» continuò, strizzando l'occhio buono in direzione di Fogarty. Poi si voltò di nuovo verso la giraffa e spinse il braccio ancora qualche centimetro dentro l'apertura. Un altro uomo era al suo fianco, a controllare, tenendosi ben fuori dal raggio di azione degli zoccoli duri come l'acciaio dell'animale. «Okay dottore, ci sono.» Il veterinario si avvicinò un po' di più. «Va bene, va bene, adesso muova delicatamente le dita sulla superficie delle ovaie.» Forrest seguì le istruzioni e fu ricambiato con un peto forte e schioccante. «Liscia. È molto liscia,» descrisse l'uomo ignorando il peto. «Prosegui. Esamina tutto intorno.» Forrest ruotò il braccio. «Ah, sì. Adesso trovo qualcosa. Sulla parte inferiore.» «Esamina l'altra.»
«Ce ne sono due anche qui. Gesù, amico, queste sembrano palle da golf,» disse Forrest. «Sì. Possono essere molto grandi,» confermò il veterinario. «Adesso puoi tirare fuori il braccio.» Lentamente, con una delicatezza che contrastava con il suo corpo vigoroso e con le sue fattezze grossolane, Gordon Forrest ritrasse il braccio. Scese dalla scala e si allontanò dalla giraffa, poi si voltò verso Fogarty. C'era una luce nell'occhio ancora funzionante di Forrest. «Sono passati alcuni anni, Bill.» Tese la mano guantata e gocciolante verso il tenente. «Non ti offenderai, spero, Gordon...» disse Fogarty rifiutando la mano. Forrest rise e poi si tolse il guanto dal braccio. Guardò verso la giraffa. «La povera vecchia Nellie probabilmente non potrà restare incinta.» «Follicoli, cisti ovariche,» confermò il veterinario. «Mi spiace,» disse Fogarty. «E a parte Sturgis, suo marito, io sono l'unico uomo che la vecchia ragazza lasci avvicinare.» «Sei andato sempre forte con le donne,» esclamò Fogarty. «L'ultima volta, se ricordo bene, era una scimmia di duecento chili.» Forrest rise. «Bamboo non era una donna.» «Scusami, Gordon. Non intendevo insultarti.» Forrest rise più forte. «Tra l'altro, questo è Ed Reeves. Lui sì che è un medico degli animali.» «Soltanto che non riesco ad avvicinarmi all'animale!» scherzò Reeves. «E questo è il dottor Tanaka, della specie umana,» disse Fogarty, concludendo le presentazioni. «Cristo, Bill, siamo in compagnia di persone illustri,» commentò Forrest, pulendosi con un asciugamano il petto e la parte superiore del braccio. «Be', credo che dopo cinque anni tu non sia qui per parlarmi delle mie multe...» «No. Niente di simile,» rispose Fogarty diventando leggermente più serio. «Sto svolgendo un'indagine in cui potresti darci una mano. È soltanto un tentativo, ma forse potresti esserci d'aiuto.» Quindi, il tenente lanciò un'occhiata al veterinario e si schiarì la gola. Ed Reeves comprese. «Se volete scusarmi, ho una tigre con il mal di stomaco.» Reeves guardò Nellie. «Per adesso può rimanere qui e riposarsi un po'.» «Sdraiati, Nellie,» ordinò Forrest. «Sdraiati,» ripeté. La giraffa piegò le zampe e si sistemò su un enorme mucchio di paglia.
«Non so proprio come faccia,» constatò Reeves e uscì scuotendo la testa. Fogarty attese che la porta si chiudesse e poi estrasse l'identikit dalla tasca. Lo porse a Forrest. «Sai dirmi chi è?» Forrest esaminò un istante il disegno, poi alzò lo sguardo e rispose: «Certo.» Tanaka tenne lo sguardo incollato sul tenente. Anche in quel momento vi fu soltanto un lievissimo cambiamento nella sua espressione. «Mettiamogli i capelli lunghi e un paio di occhiali e avremo Willard Ng,» rispose Forrest, pronunciando il cognome «Nigg». «Lavora qui.» «Dove?» chiese Fogarty. «Alla fossa dei serpenti.» «Puoi portarci da lui?» Forrest scosse la testa. «Non viene al lavoro da alcuni giorni. Ha telefonato che sta male... È una faccenda seria, eh, Bill?» «Hai letto i giornali?» domandò il tenente. Forrest si mise la mano sulla fronte, scuotendo la testa. «Non ho neanche la TV.» Tanaka notò la cicatrice rosa chiaro che correva in una linea sottile entrando nella lunga capigliatura dalla calvizia incipiente. Forrest notò l'occhiata del medico. «Un proiettile mi ha mancato il cervello per un millimetro. Mi ha spaccato la calotta cranica. Adesso ho una placca d'acciaio là sotto. Di tanto in tanto soffro di emicrania. Mi hanno ridotto tanto male da farmi desiderare il suicidio: non riesco a leggere nulla perché non riesco a mettere bene a fuoco.» Tanaka annuì. «Abbiamo motivo di sospettare di omicidio quest'uomo, Gordon,» disse Fogarty. «Accidenti...» esclamò Forrest. «Cinque donne e un uomo,» proseguì il tenente. «Gesù, Bill. Ho assunto io quello stronzo. È un po' originale, direi che lo si può definire introverso ma non ha niente che faccia supporre che sia un violento...» «È qualcosa di peggio che un violento,» dichiarò Fogarty. Il cercapersone del tenente suonò proprio mentre lui e Tanaka stavano
esaminando gli stivali da lavoro di Willard Ng. Erano un paio di Timberland, tomaia di cuoio e suole di gomma con il bordo rigido. Molto consumate. Misura quarantaquattro. «Mi serve un telefono,» disse Fogarty. Forrest lo indirizzò verso un piccolo magazzino a fianco degli armadietti del personale. Tanaka non lo seguì. «Cosa fa esattamente qui il signor Willard?» chiese Tanaka. «Niente di particolare. Manutenzione generica, dà un po' di nutrimento agli animali, fa qualche pulizia...» «Ha sempre lavorato nella stessa area dello zoo?» «Sì. È questa la cosa strana di lui. Dice che non gli importa quello che fa, purché si tratti di lavorare con gli insetti.» Tanaka allungò una mano e prese una camicia da lavoro color cachi da un gancio al fondo dell'armadietto. Era ben stirata e odorava di candeggina. «È la divisa?» chiese, aprendo il capo di vestiario. «Sì. Viene lavata e stirata qui, nella lavanderia.» Tanaka appoggiò la camicia su di sé. Le maniche erano troppo lunghe e le spalle erano più grandi delle sue di due centimetri per lato. «Il signor Ng è un uomo corpulento,» commentò. «È un gigante,» confermò Forrest. «Riesce a ricordare le sue mani?» Forrest strinse le palpebre. «Gli ho stretto la mano soltanto una volta. Quando l'ho assunto. Ha delle mani grandi, come guantoni da baseball.» «Le sue dita non hanno niente di insolito?» continuò Tanaka. Forrest scosse la testa. «Devo essere onesto con lei. Non ho mai prestato molta attenzione a Willard. Non lo vedo molto sovente e non ha mai fatto parlare molto di sé. Molte volte fa l'ultimo turno.» «In che orario?» «Dalle sei a mezzanotte, dopo la chiusura. Pulisce, dà l'ultimo pasto.» «Quando il tenente ritorna, sarebbe possibile dare un'occhiata alla zona precisa in cui il signor Ng lavora?» «È molto generica, davvero, amico.» Forrest si strinse nelle spalle. «Potrebbe essere ugualmente utile.» Fogarty irruppe nello spogliatoio, la sua energia era incontenibile: aveva un'espressione risoluta e il passo svelto.
«Ng è il nostro uomo, ne sono certo al novantanove per cento.» Tanaka drizzò la testa. «Ho avuto la relazione dell'ospedale di Norristown. Nel dicembre 1989, un tale Willard Ng è stato tenuto in osservazione per due notti. Ha avuto un'orchiectomia destra.» «Che cos'è?» chiese Forrest. «La rimozione di un testicolo,» rispose Tanaka. «Questo conferma il racconto di Dante,» disse Fogarty. Poi si voltò verso Gordon Forrest. «Ho bisogno di mettere alcuni uomini qui dentro. A cominciare da oggi pomeriggio.» «Fa' pure, Bill,» rispose Forrest. «Un gruppo di sorveglianza all'entrata e alle uscite e un paio di uomini all'interno. Ng potrebbe sospettare qualcosa se vede dei volti nuovi?» «No. Non in questo periodo. C'è molto ricambio di personale.» «Gordon. Questo è un compito che spetta a te e ad Anthony Galenti: nessuno deve sapere niente di questa storia. È veramente importante. Questo tizio ha continuato a lavorare qui per tutto il tempo che ha ucciso quelle persone, quindi se non lo mettete in agitazione è probabile che non faccia delle follie. Ma se subodorasse qualcosa...» «Nessuno saprà niente,» gli assicurò Forrest. «Puoi occuparti tu della faccenda? Cioè, saresti in grado di incontrarlo e di interagire con lui?» Forrest sorrise e il suo dente d'oro luccicò. «Ricordati che io sono il tizio che ha grattato la pancia di Bamboo. Dannazione, quel gesto mi è quasi costato il posto di lavoro.» «Questo potrebbe costarti molto di più,» disse Fogarty, e il suo sguardo incrociò quello dell'occhio buono di Forrest. L'impiegato dello zoo si irrigidì. Era di quindici centimetri più basso del tenente ma il suo corpo muscoloso era molto svelto. «Io non parlo a vanvera, Bill.» «Bene. I miei uomini saranno qui entro un'ora. Fino a quel momento, aspetterò assieme a te.» Poi, voltandosi verso Tanaka, aggiunse: «Tu dovresti andare agli uffici e cercare di vedere il fascicolo di Willard Ng. Ci serve l'indirizzo che ha dato al momento dell'assunzione.» Tanaka esitò e fece per dire qualcosa. Ma Fogarty intervenne: «Ha pagato in contanti all'ospedale e non ha dato alcun indirizzo, dicendo che non aveva fissa dimora.» «Bill. Mi piacerebbe dare un'occhiata nella sezione in cui lavora Ng.»
Non cominciare a cercare di prendere la direzione della mia indagine, pensò Fogarty. Non disse nulla ma guardò verso Forrest e annuì in segno di approvazione. Il settore degli insetti si trovava nello zoo per i bambini dietro il recinto principale. Era una delle attrazioni minori dello zoo ed era anche stagionale, durava dalla primavera fino all'inizio dell'autunno. In quel periodo era chiusa e le sue teche erano stipate in un magazzino metallico a forma ottagonale. «Merda,» mormorò Tanaka, fissando le porte chiuse con lucchetti della piccola baracca. «Che cosa stai cercando, Joey?» chiese Fogarty, mentre la sua pazienza cominciava a diminuire. Tanaka, invece di rispondere, fece una domanda a Forrest. «Tenete delle mantidi religiose, qua dentro?» Mantidi religiose... Fogarty ripeté nella sua mente quelle parole. Dante aveva descritto Ng come «la Mantide». Improvvisamente il tenente e il medico furono sulla stessa lunghezza d'onda. «In certi periodi della stagione. Le lasciamo andare in autunno,» rispose Forrest. «Sono difficili da esporre,» aggiunse. «E perché?» chiese Fogarty. «Sono delle cattive bricconcelle. Se non gli si danno dei buoni avanzi con una certa frequenza cominciano a lottare tra loro. Si strappano gli occhi reciprocamente e diventano cannibali.» Fogarty annuì. «Dallo studio delle loro tecniche di combattimento è nato un vero e proprio sistema di lotta,» intervenne Tanaka. «È meglio imitare il loro sistema di lotta che quello di accoppiarsi,» disse Forrest. Tanaka fece un mezzo sorriso e Fogarty assunse un'espressione interrogativa. Forrest rispose allo sguardo del tenente. «Dopo l'accoppiamento, la femmina ringrazia il suo compagno azzannandolo al collo. Lo scorso agosto avevamo qui un autobus carico di giovani campeggiatori che rimasero affascinati vedendo quei due insetti che si accoppiavano, finché la femmina si è voltata con la testa del suo amante tra i denti. La loro accompagnatrice avrebbe dovuto saperlo. Non lo sapeva e così ha scritto una lettera di protesta a Galenti. 'Danneggia la morale dei minori.' Galenti ha chiuso l'esposizione.»
«Possiamo dare un'occhiata qua dentro?» chiese Tanaka. Si era fermato di fronte a una sottile porta metallica chiusa con un lucchetto. Forrest staccò un mazzo di chiavi dalla sua cintura. Dovette provare con tre chiavi prima che il lucchetto si aprisse. Dentro la baracca c'erano una fila di vasi di vetro vuoti. Un corridoio scuro, lungo sei metri, correva a fianco della casa degli insetti. Quel posto puzzava di stracci umidi e di detersivo disinfettante. «Ci sono dei magazzini? Delle stanze un po' nascoste?» chiese Tanaka. «Questo è tutto per quanto riguarda la casa degli insetti, dottore.» «Mi riferisco all'intero zoo,» precisò Tanaka. Forrest pensò un istante poi rispose: «Ci saranno probabilmente duecento magazzini. Una dozzina di stanze per la nutrizione. Più o meno.» Fogarty guardò Tanaka. «Che cosa hai in mente?» chiese. «Quattrocento anni fa, quando fu sviluppato lo stile di lotta Mantide, i monaci dei templi trascorrevano giornate in clausura a studiare i loro insetti. Li mettevano in gabbie, gli facevano patire la fame, li nutrivano con prede più grandi e più forti di loro... Imitavano i loro attacchi e i loro scontri... Probabilmente Willard Ng avrà un posto da qualche parte, un posto suo personale...» Fogarty ingoiò un altro po' del suo orgoglio: quella avrebbe finito davvero per diventare l'indagine del medico. «Quanto tempo ci vorrà per vedere tutti i magazzini, Gordon?» L'indirizzo registrato di Willard Ng era 1605 Rising Sun Avenue, una via della zona nord-est della città che era dominio degli spacciatori di crack. Non era stato mai arrestato. Nel suo fascicolo c'era anche una lettera di raccomandazione della City Bank and Trust, dove aveva lavorato in qualità di custode e guardiano notturno. La lettera comprendeva anche degli encomi come ad esempio: «Il signor Ng è meticoloso e puntuale». Fogarty chiamò Bob Moyer dalla sua auto per chiedere, implorare, qualsiasi cosa che potesse collegare Ng agli omicidi. Una fibra di tessuto, un capello, qualunque cosa. Moyer rispose negativamente, si scusò ma fu fermo. Fogarty proseguì ugualmente la sua strada, giù per la Allegheny fino all'incrocio con Broad Street. Poi risalì per la Rising Sun Avenue, diretto verso una camera ammobiliata in cui Ng non abitava più da due anni. XIII
MY WAY Gli stivali di cuoio sono difficili da bruciare. Inizialmente si scaldano finché il calore raggiunge una temperatura sufficiente a fargli prendere fuoco. Qualche spruzzata di liquido per accendere il barbecue può essere d'aiuto. Possono essere necessari parecchi tentativi ma, alla fine, la fiamma fa presa. Willard Ng spruzza il liquido per la settima volta. Lo stivale più vicino si infiamma, la spessa suola di gomma puzza. Soddisfatto, si volta da un'altra parte. È circondato da mucchietti fumanti di spazzatura, come collinette. Percorre lo stretto sentiero verso un furgone Volkswagen, vecchio ma in perfetto stato, il modello che una volta era noto come Microbus. Salta dentro e si allontana. Rallenta davanti alla guardiola che c'è esattamente prima del cancello aperto ma fermato con un catenaccio. Porge al custode di colore due quarti di dollaro nuovi di zecca. Mentre cadono dalle sue dita forti e scure, sembrano minuscoli dischi d'argento. «Avaro del cazzo,» grugnisce l'uomo di colore, ma non abbastanza forte perché l'uomo calvo lo senta. Il guardiano segue con lo sguardo il furgone grigio metallizzato. Prende un appunto mentale per ricordarsi di non far più entrare quell'uomo corpulento nel recinto. Il suo lavoro non varrà molto, ma sicuramente vale qualcosa di più di cinquanta centesimi. Willard Ng si dirige a nord sulla Delaware Avenue, verso Penn's Landing, continuando fino all'incrocio con la Route 95. Poi svolta a destra entrando nel traffico che va verso il ponte Benjamin Franklin. Paga il pedaggio. Segue le indicazioni per Camden, Broadway, rilassandosi mentre si dirige verso casa. Manovra la manopola della radio per trovare la miglior ricezione del WMMR, un canale FM di Filadelfia che trasmette musica rock. La canzone inizia con un unico accordo, suonato da un sintetizzatore che scende per la scala musicale terminando in un melanconico gruppo di note blues. Poi una chitarra, dolce, quasi eterea e finalmente la voce di Sid Vicious. And now the end is near and so I face the final curtain Willard Ng ascoltò. Era la sua canzone, la canzone di Willard: capiva le parole. E la voce del cantante, la vibrazione, l'intonazione. Morte. Ecco,
c'era la morte dentro quella voce. Il cantante stava facendo la corte alla morte, anelava ad essa. Cantando per Willard. I've lived a life that's full travelled each and every highway and more, much more than this I did it my way Alzò il volume. La musica cambiò, diventò più rapida. Le chitarre e la batteria con i loro accordi e il loro ritmo si potenziavano, mentre la voce del cantante saliva di due ottave. Il piede sinistro di Ng si mise a battere il tempo e l'energia scorse nella sua gamba. Guidò più veloce e prese un buco nella strada, la radio gracchiò e tacque. Lui afferrò freneticamente la manopola desiderando disperatamente ascoltare ancora. Deviò bruscamente da quel tratto di autostrada sconnesso e prese una strada a senso unico nel senso sbagliato. Jack Tucker si stava godendo un breve intervallo lavorativo, terminando il secondo di due panini a doppio strato con burro di arachidi e gelatina di frutta, quando vide il furgone che si avvicinava. «Preso!» sussurrò, puntando i fari direttamente contro il parabrezza del furgone che arrivava. «Figlio di puttana,» grugnì quando non si fermò, accese il motore della Ford, fece manovra e si mise all'inseguimento. Si trovava a dieci metri dal furgone quando accese la sirena e stavolta diresse la luce del suo riflettore nello specchietto retrovisore del veicolo pirata. Willard Ng alzò la mano destra per offuscare il bagliore. Mi acceca. Cerca di accecarmi. Era molto arrabbiato quando si fermò sul ciglio della strada. L'auto della polizia proseguì e si fermò esattamente a fianco dello sportello laterale del furgone. Il riflettore rimase diretto contro Willard Ng. «Mi faccia vedere la patente e il libretto.» La voce nasale giunse da una luce abbagliante. Un istante dopo, Jack Tucker fece un passo avanti coprendo la luce con il suo corpo. Gli occhi di Ng rimisero rapidamente a fuoco. Guardò il piccolo agente di polizia. C'era una rossa macchietta di marmellata sulla camicia dell'uomo, sopra il cuore.
«Patente e libretto, per favore,» insistette Tucker. Lo sportello del furgone cominciò ad aprirsi. Tucker fece un passo indietro, con la mano appoggiata sopra la fondina della pistola. «Per favore. Non esca dal veicolo.» Ng pensò un istante e poi infilò la mano nella tasca posteriore dei pantaloni da lavoro e prese un consunto portafogli di coccodrillo. Porse la patente al poliziotto. Tucker esaminò la fotografia sul documento. Mostrava un uomo con gli occhiali e folti capelli ricci. Il volto era identico a quello di colui che aveva davanti. Alopecia, suppose. «Signor Nigg, sa perché è stato fermato?» «Il mio cognome si pronuncia 'Ng'», rispose Willard. Il suo tono era inespressivo. «Stava andando controsenso in una strada a senso unico,» proseguì Tucker. Ng annuì. Stava diventando impaziente. «Nello stato del New Jersey, è un reato guidare contromano...» Tucker esagerò in spiegazioni. Ng fissava il pancione del poliziotto che sporgeva sopra la larga cintura di cuoio con la custodia della pistola. «Posso vedere il libretto di circolazione del suo furgone?» Ng sentì che il respiro soffiante voleva scaturire dal centro del suo addome. Lo tenne sotto controllo, a stento. «Per favore.» Tucker trasformò la richiesta in un comando. «Non ce l'ho con me,» rispose Willard. Tucker fece un cenno col capo. «Aspetti qui, prego,» disse dirigendosi verso la volante. Non vi erano infrazioni al codice stradale né precedenti penali a carico di Ng e il furgone era registrato a suo nome. Tucker fu lieto di quella notizia, non gli andava proprio l'idea di portare dentro Ng. Quell'uomo poteva dargli dei problemi. Tuttavia, gli avrebbe fatto una multa. Il poliziotto udì strani respiri soffianti a sei metri di distanza. Quello stronzo è pazzo, disse a se stesso, mentre si dirigeva cautamente verso il furgone. Quando arrivò le respirazioni erano terminate e gli occhi semichiusi di Ng avevano una spaventosa immobilità. Tucker gli diede la patente e un foglietto giallo. «Se paga la multa entro trenta giorni, non dovrà comparire in tribunale.»
Ng prese in mano la patente e la multa. Sembrava che il suo sguardo attraversasse il poliziotto. «Dovrebbe portare con sé il libretto di circolazione,» lo ammonì Tucker. Ng intuì una lieve vibrazione di paura nella voce dell'uomo. Non prestò attenzione alle sue parole ma tenne lo sguardo fisso sul poliziotto, paralizzandolo con la sua mente. Accrescendo la sua paura come desiderava. «Adesso giri il veicolo e proceda nella direzione giusta.» Ng accese il motore del furgone e continuò a viaggiare contromano, ignorando l'ordine del poliziotto. «Dannazione!» imprecò Tucker, chiedendosi se poteva ignorare l'infrazione. Poi, drizzando le spalle, corse verso la sua macchina, salì e seguì il furgone grigio. Una volta arrivato sulla Ferry Avenue, Ng si diresse direttamente sulla Benson, parcheggiò sul marciapiede ed entrò in casa. Adesso si sentiva pulito. Bruciare i suoi stivali e i suoi abiti gli aveva fatto recuperare la stima di sé. Era come se il senso di colpa per la sua sbadataggine si fosse disintegrato insieme al cuoio e alla stoffa. Entrò in camera da letto e si spogliò completamente. Poi, facendo una forte presa sul pavimento di legno con le lunghe punte dei piedi muscolosi, si diresse nella stanza del potere. Era la camera più grande della sua villetta a un piano, quasi venti metri quadrati. La sua immagine riflessa apparve, accarezzandolo da ogni angolazione. Ognuna delle quattro pareti era ricoperta di specchi che salivano dal pavimento fino al soffitto e due tubi al neon argentati erano fissati al soffitto. In fondo alla stanza c'erano due gruppi di pietre da allenamento, ciascuna fissata su un palo di legno lungo trenta centrimetri. Le pietre erano fatte di cemento e avevano un peso che andava da cinque a dodici chili. Davanti a Ng c'era il Mon Fat-Yong, uno strumento di allenamento che assomigliava a una figura umana, con la testa fissata su una molla e delle estensioni che rappresentavano le braccia. Un pezzo di legno intagliato sporgeva dalla base del fantoccio, simulando un ginocchio e una gamba piegata, dando equilibrio all'aggeggio di legno. Ng aveva costruito con le sue mani il manichino, con un pezzo di legno stagionato, duro e resistente. E aveva anche imbottito tutti i punti vitali da colpire. Un anno prima, un mese prima di iniziare l'esercizio mortale, Ng aveva tolto le imbottiture, preferendo abituare le sue mani a colpire il duro legno. Alla sinistra del fantoccio c'erano tre sacchetti
da allenamento appesi a una traversina di legno, uno pieno di paglia, un altro pieno di fagioli e un altro pieno di sabbia. Alla sinistra dei sacchi di canapa, appeso come a un patibolo medievale, c'era uno scheletro umano con le ossa secche e ingiallite. Ng non lo colpiva mai, usandolo piuttosto per la precisione, trattenendo i suoi colpi a breve distanza dai punti vitali della fragile struttura. Rimase un momento a osservarsi negli specchi alti due metri e mezzo. L'illuminazione argentea gettava sul sul corpo un'ombra imponente e faceva sembrare corde tese le striature sui suoi pettorali. La perfezione. Vi era quasi arrivato. E cosa rimaneva, dunque? Dopo la perfezione. La morte, ovviamente. Adesso era quello che doveva aspettare con ansia. Chiuse gli occhi, rivivendo il combattimento con l'uomo di colore. Ricordò lo strano gusto acido, seguito dall'insensibilità, mentre il naso dell'uomo si rompeva tra i suoi denti. Strapparlo via era stato difficile, aveva richiesto sei rotazioni parziali del collo. Troppo difficile. Si diresse verso le pietre da allenamento e si accovacciò a fianco di una palla di cemento da dieci chili. Tolse con cura il peso dal suo sostegno, poi prese un pezzo di gomma dura. La gomma era nera ed era stata tagliata via da un pneumatico d'automobile in modo speciale. Gli era stata data la forma di una dentiera di gomma da pugile: c'erano dei segni di denti su entrambi i lati di gomma e una pesante catena di ferro era attaccata al lato esterno a forma di V. Ng infilò la catena nel buco della pietra da allenamento e si mise il pezzo di gomma nero in bocca. All'inizio era secco e Willard sentiva il gusto salato degli allenamenti precedenti. Visualizzò il naso di Arthur Stubbs e immediatamente cominciò a salivare. Mordendo con forza, i suoi incisivi superiori e inferiori trovarono i solchi preparati. Morse più a fondo, cercando di penetrare nella gomma dura, sollevando contemporaneamente la testa e alzando dal pavimento il peso di dieci chili: «Mordi, tira, strappa... Mordi, tira, strappa.» Ripeté l'ordine, ruotando la testa a destra e a sinistra, come aveva visto fare a lei negli stadi finali del combattimento. Chiuse gli occhi e pensò di nuovo all'uomo di colore. Mordi più a fondo. Dopo un tempo imprecisato la mascella gli fece male e i muscoli del collo cominciarono a irrigidirsi. Abbassò il peso e rilassò la mascella. Sentiva gusto di sangue. Questo era un bene, perché significava che la pressione delle sue mascelle gli aveva fatto sanguinare le gengive. Inspirò e l'aria fece un rumore sibilante mentre passava nelle fenditure tra i suoi
denti e la gomma. Poi espirò, e sollevò il peso agitando la testa da una parte e dall'altra, ringhiando mentre i suoi canini aguzzi si avvicinavano attraverso l'arnese da allenamento. Davanti al numero 31 della Benson, esattamente dall'altra parte del Santa Isabel Social Club, a meno di venti metri dal furgone Volkswagen grigio, Jack Tucker si chiedeva che cosa dovesse fare. Probabilmente quel tizio non si era neanche accorto di lui perché di certo non avrebbe tentato di sfuggire alla volante. In realtà, al poliziotto che lo seguiva, Ng era sembrato totalmente ignaro. Tucker aveva avuto intenzione di seguire il furgone fino al ponte, di vederlo attraversare e dimenticarlo. Fuori dallo stato, non vale la pena di prendersi il fastidio. Inoltre, quel figlio di puttana era un brutto stronzo e Tucker doveva occuparsi del traffico e non dei criminali. Tuttavia, perché il tizio era entrato nella villetta? Perché aveva una chiave? Tucker accese una Marlboro e attese. Il suo turno sarebbe finito dopo venti minuti e si sentiva morire di fame. C'era anche un bel film in TV, Predator con Arnold Schwarzenegger. Cristo, quel tizio era forzuto come Schwarzenegger e aveva un'aria molto più violenta. Però la realtà era quella, cioè che il tizio lo aveva minacciato mentre avrebbe dovuto succedere il contrario. Che importa se lo scimmione abitava nel New Jersey e guidava con una patente della Pennsylvania, che importa se aveva ignorato l'ordine di un agente di polizia di Camden? Tucker era quasi uscito dalla volante quando un raggio di luce, come quello che esce quando si apre una porta in una stanza buia e la luce della stanza adiacente filtra, illuminò la finestra del numero 31. Tucker raggelò. Una sagoma scura riempì la cornice della finestra dietro le tendine, come una statua immobile di pietra. Mi sta guardando. Sa che sono qui. A un momento di indecisione seguì una prudente ritirata verso la Ford azzurra e bianca. Tucker tirò su il finestrino dalla parte del volante, chiudendo fuori la fredda aria notturna. La sagoma non si era mossa. Tucker pensò a Sally e ai suoi due figli. Adesso il suo turno era ufficialmente terminato. Prese il telefono. «Qui parla l'agente J.R. Tucker...» «Sono Preston, continua pure Tuck.» «Gene, sto andando a casa ma fammi un favore: dai un'altra controllatina su un tal Willard Ng. Guarda se c'è qualcosa a proposito di un cambiamen-
to di indirizzo registrato al dipartimento dei trasporti. Controlla il numero 31 della Benson.» Udì Preston che grugniva dall'altra parte del telefono. «Ci vorrà un po' di tempo, Jack, il computer è sovraccarico.» «Va bene, lascia stare, Gene, me ne occuperò io domani mattina.» Ng osservò l'auto della polizia passare lentamente oltre il furgone e proseguire su per la strada. Era lo stesso poliziotto che lo aveva fermato, lo stesso poliziotto che lui avrebbe potuto uccidere mezz'ora prima. Non era un avversario valido. Osservò le luci dell'auto lampeggiare e svanire, poi ritornò nella stanza del potenziamento e riprese gli allenamenti. Fogarty lasciò Hawkins e Magee di sorveglianza per tutta la notte, poi accompagnò Tanaka alla Ruttenhouse Square e si diresse a ovest verso il Presidential. Il corpo gli faceva male per la stanchezza ma la sua mente non voleva smettere di pensare. Considerò l'ipotesi di prendere del Valium, ma solo per un momento. Aveva bisogno di riposo, ma anche di essere ben sveglio. Ciò di cui aveva bisogno veramente era una donna. Qualcuno con cui potesse parlare, qualcuno che gli togliesse la tensione dal cervello. Diane Genero. Cristo, lei gli aveva telefonato... Diane Genero gli aveva telefonato due volte. Si sorprese sul punto di fantasticare e quindi cercò di cancellare quei pensieri volgari dal suo subconscio. Pensare a lei in quel modo era un sacrilegio. Certamente Diane aveva telefonato per avere notizie sul caso; l'avrebbe richiamata l'indomani mattina, perché ora era troppo tardi. Ebbe il desiderio di dire: l'abbiamo preso. No, io l'ho preso. Già, l'ho preso, lo, Bill Fogarty, l'ho fatto a pezzi. E l'ho fatto per te, Diane. Per te e Gina, Sarah e Ann... e improvvisamente Bill Fogarty cominciò a piangere. Grandi lacrimoni gli scorrevano sulle guance. Lasciale scorrere. Non preoccuparti, Bill. Va tutto bene. Le lacrime ti lavano la mente. Non era questo che gli aveva detto la sua terapista la prima volta che era scoppiato a piangere? La prima volta che aveva realmente parlato con qualcuno dell'incidente. Non ho mai pianto davanti a una donna, aveva detto, mentendo. Aveva pianto davanti a una donna prima di quel momento: quando Ann era nata, aveva pianto davanti a Sarah. E anche quella volta era stato giusto farlo. Poi i suoi pensieri si schiarirono e Fogarty rimise a fuoco la situazione. Prese il telefono e si mise in collegamento con la pattuglia autostradale. La sua voce non aveva alcuna traccia di angoscia ma mostrava soltanto severa
autorità. «C'è qualcosa di nuovo su Willard Ng?» Anche Fogarty pronunciò il cognome «Nigg». La voce dall'altra parte sembrò fioca e lontana. «Niente, tenente. Nessun cambiamento di indirizzo, nessun reato fuori dallo stato. Niente negli ultimi diciotto mesi. Non abbiamo ottenuto una risposta completa dal New Jersey. Sovraccarico del computer. Ci hanno promesso una relazione completa entro domattina.» «Va bene, continua a occupartene. Voglio qualunque cosa. Assolutamente qualunque cosa.» «Capisco.» «Non importa di cosa si tratti,» rimarcò Fogarty prima di agganciare. Josef Tanaka aveva meritato di morire fin da quell'episodio a Tokio. Da quella volta che aveva rubato la vita a Hiro. Sapeva che si stava spingendo verso di essa, sapeva che un giorno, in qualche posto, si sarebbe trovato in bilico tra la vita e la morte. Allora avrebbe deciso se vivere o morire. Era questo che motivava le sue azioni. Inizialmente non l'aveva capito ma ora era chiaro. Aveva creduto che probabilmente sarebbe successo sulla moto. Certe volte viaggiava seguendo quell'idea. Quando era solo, durante una gara, o magari mentre risaliva la Route verso Alien Town o quando usciva dalle strade principali e si infilava nelle stradine di campagna. Curve e inversioni a U, abbassandosi tanto sulla Harley da sentire la parte inferiore della carrozzeria grattare sulla ghiaia, lasciando scivolare la ruota posteriore al punto di quasi perdere il controllo. Quasi. Ora che la moto non c'era più, la sua ossessione rimaneva. Aveva interrotto la relazione con tre innamorate prima di incontrare Rachel Saunders. A un certo punto loro non erano più riuscite a sopportare la sua tendenza a portare tutto all'esasperazione. In cerca della libertà, del sollievo dal senso di colpa, che si trovava al di là di... di che cosa? Certe volte accadeva al dojo, quando cercava quell'unico colpo, quell'unico gesto soltanto leggermente diverso da quello che era un colpo mortale, leggendo la paura negli occhi del suo compagno di allenamento. All'inizio pensava che la sua personale aspirazione alla perfezione fosse giustificata, ma poi aveva cominciato a capire che era qualcosa di più: era la sua personale richiesta di espiazione. La vita in cambio della vita, la morte in cambio della morte. Perché dopo la perfezione, dopo la libertà data dall'illuminazione, veniva certamente la morte. Josef Tanaka aveva un desiderio di morte.
Prima di Rachel Saunders c'era stata Lynda Bellings. Lui era riuscito a portarla sulla soglia di un collasso nervoso. Infine, lei aveva confessato di dipendere dai tranquillanti e poi aveva cercato conforto tra le braccia del suo psicologo. Ma Rachel era diversa ed era anche aggressiva. In un modo più sano e più convenzionale di come lo era Josef Tanaka, ma non meno di lui. Poteva eguagliarlo quanto a energia e resistenza. Quando Rachel Saunders voleva qualcosa solitamente lo otteneva. Si chiese se lei avrebbe continuato a desiderarlo abbastanza a lungo da vederlo superare ciò che lui era certissimo sarebbe successo. Se lei lo avesse aspettato e se lui fosse sopravvissuto, l'avrebbe sposata. Ricordò la recente telefonata che aveva fatto a suo padre. Aveva avuto intenzione di dire a Mikio Tanaka i suoi progetti, di chiedergli la sua approvazione. Invece di fare questo, aveva riagganciato il telefono nel momento in cui aveva udito la voce bassa e rauca di suo padre. In fin dei conti, non era ancora pronto a parlare con suo padre. C'era qualcosa che restava incompiuto, qualcosa riguardante la perfezione e la morte. Quando aveva fatto quella telefonata non era certo di cosa si trattasse, ma ora lo sapeva. «Sei ancora sveglio?» La voce di Rachel era dolce e calma e riempì lo spazio vuoto al termine dei suoi pensieri. La donna spinse contro di lui i suoi fianchi caldi, mentre il retro delle sue cosce si appoggiava contro quelle di lui. Era quasi in erezione e gli fu facile trovare il punto umido tra le gambe di lei. Lei gemette mentre lui spingeva e aprì leggermente le anche in modo che potesse penetrarla. Avvolgendole il petto con le braccia e appoggiando lievemente le labbra alla nuca di Rachel, Josef divenne calmo e tranquillo. XIV UNA SERATA DI INTIMITÀ Erano le due di notte quando Willard Ng arrivò allo zoo. Erano tre giorni che non andava a trovarla, sapeva che avrebbe avuto fame. Lasciò il furgone in Zoological Avenue, dall'altra parte dei binari della ferrovia, e si diresse verso la Porta H. Si inginocchiò sotto alla barriera chiusa con una catena, si voltò sulla schiena e si trascinò sulla ghiaia pungente passando sotto di essa ed entrando nel cortile. Usava sempre quel sistema quando andava allo zoo a tarda notte. Solitamente i guardiani notturni erano negligenti ma lui non vedeva alcun motivo di rischiare. Non era tanto la sua si-
curezza che lo preoccupava, quanto quella di lei. Non poteva sopportare il pensiero che qualcuno scoprisse il suo nascondiglio, che penetrasse nel suo santuario. Era come se la semplice presenza di un altro essere umano potesse provocare uno squilibrio irreparabile. Lei lo guidava verso la perfezione e lui, in cambio, le garantiva l'inviolabilità. Si fermò davanti alla porta che introduceva nei corridoi sul retro del rettilario. Rimase un istante in ascolto. Udì in lontananza il grido di un leopardo e il richiamo di una civetta, poi nient'altro. Trovò la chiave giusta in un mazzo di chiavi uguale a quello che restituiva tutti i giorni alla fine del turno. Chiavi che gli era costato dei quattrini duplicare. Aprì la porta e si infilò dentro. Il corridoio era fiocamente illuminato dal bagliore delle teche da esposizione, e l'ambiente umidificato era reso più familiare dall'odore del detersivo antisettico. Ng si muoveva con passi felpati con le sue scarpe da allenamento dalla suola di gomma sul pavimento di cemento. Oltrepassò la porta contrassegnata dal cartello: «Riservata al personale» e scese la stretta scala che portava alla Stanza della nutrizione. Dopo alcuni passi si fermò e rimase immobile, per abituarsi all'oscurità, aspettando di sentire la voce della Mantide. Non era sicuro se il tremore che cominciava a sentire al centro della fronte, al di sopra del naso tra gli occhi, in quel medesimo punto in cui era stato sfiorato tanti anni prima nel giardino del St. Thomas, fosse un'emanazione interna o esterna. Certamente era un collegamento. Inspirò, lentamente e profondamente, gustando il caldo flusso elettrico del loro contatto. Il suono era come un ronzio che gli frullava nella testa. Poi udì la voce di lei, che si formava sulla sottile linea della vibrazione. Stasera sono affamata, Willard. Sono affamata e sola. Muoio dalla fame... Ng corse in direzione della sua voce, a lunghe ed elastiche falcate, nell'oscurità. La stanza della mantide era al fondo del corridoio, collegata alla Stanza della quarantena. Dietro una parete di gabbie, piene dei nuovi arrivi. Serpenti a sonagli diamantini, lucertole peruviane lunghe un braccio, con i piccoli occhi penetranti che fissavano sospettosamente l'oscurità.» Willard spostò di lato le gabbie, scoprendo la porta metallica. Era stata dipinta di grigio, con quel tipo di vernice che una volta veniva usata sulle navi da guerra, spessa e lucida. Aveva lo stesso colore del furgone di Willard Ng. Era chiusa con un lucchetto Yale, tondo e pesante. Un lucchetto messo da Willard, che possedeva l'unica chiave esistente. All'interno, la stanza era immersa in una luce calda, infrarossi al posto
degli ultravioletti. Aveva acceso le lampade riscaldanti cinque giorni prima e ora la temperatura era costantemente di ventisei gradi. Era umido e lui cominciò a sudare mentre si dirigeva verso il tempio di bambù della Mantide. Quando i loro occhi si incontrarono lei tremò leggermente. Sono affamata. Muoio di fame. Sono sola. I pensieri di Willard erano nitidi. Lei lo osservò pazientemente mentre si toglieva gli abiti. Finalmente, fu nudo davanti a lei. Aveva una profonda coscienza della sua inadeguatezza. Gli occhi di lei penetravano nell'intimo del suo essere, valutando il suo livello di evoluzione. Sono affamata, Willard. Muoio di fame e sono sola. È la stagione adatta per l'amore? Era una domanda intima, una domanda che faceva sempre prima dell'accoppiamento. La stagione è perfetta. Come una calda notte di agosto. E io mi sento sola. Ng le sorrise. Lei lo faceva sentire così innocente, così inesperto, gli concedeva una tale libertà all'interno della sua disciplina. Si diresse verso la fila di vasi con le provviste, prese l'ultimo vaso al fondo del lungo scaffale e vi guardò dentro. Due maschi giacevano raggomitolati pigramente al fondo del vaso, con le ali chiuse, confusi tra la paglia e l'erba. Ng si voltò. Adesso lei era in piedi e seguiva i suoi gesti attraendolo dentro la propria coscienza. Mise il vaso sul tavolo, a fianco della Mantide. Allungò la mano. No, Willard. Prima il più piccolo. Comincia sempre con il più debole. L'insetto arretrò lentamente, dimostrandogli che aveva scelto l'offerta giusta. Ng si sentì pulsare l'inguine mentre spingeva il maschio magrolino attraverso lo sportello per la nutrizione. Inizialmente la Mantide arretrò, timorosa. Poi alla sua timidezza si sostituì l'indifferenza. Chinò la testa e attese. Willard si sedette nudo sul suo sgabello rotondo di legno, con i gomiti sul tavolo e il mento appoggiato sulle palme delle mani. Nell'aria c'era un'atmosfera piacevolmente calma, come se il tempo si fosse fermato. Calma e sognante. La mantide più piccola si mosse in avanti, verso di lei. Si mosse tanto lentamente che il suo movimento avrebbe potuto sfuggire sbattendo le palpebre. Ma Willard Ng non sbatté le palpebre, aveva imparato a non sbatterle. Il calore diffuso dalle lampade sul soffitto pulsava contro la carne del suo collo e delle sue spalle. Tutto il suo essere era concentrato su di lei: in attesa di un suo segnale. Sapeva che cosa sarebbe successo, che cosa doveva succedere. Ma non accadde e così, diventando cosciente della sua attesa, la sua capacità di concentrazione diminuì lentamente. Un rivoletto di sudore gli scese giù dal sopracciglio, scorrendo lento giù per la guancia. Sentì un
gusto salato in bocca. La temperatura della stanza era inadeguata, troppo umida? La Mantide non era contenta della sua offerta? Doveva mettere la mano nel tempio e togliere il maschio? Esaminò il più piccolo dei due insetti, per la prima volta attratto dalla fragilità di quell'insetto sottile come un bastoncino. Lei voltò la testa e quel movimento sembrò quasi meccanico, con quella testa a forma di diamante che ruotava facendo perno sul collo. La Mantide puntò gli occhi nei suoi, e Willard sentì la familiare sensazione dentro la fronte, la scarica elettrica che precedeva il loro contatto. Desiderò allontanarsi, negare quella presenza, ma la sua mente si aprì e una nuova coscienza sconosciuta lo invase. Una coscienza pervasa dalla consapevolezza primordiale della morte. Una forte sensazione di sofferenza minacciò di sopraffarlo, una sofferenza che era triste e al tempo stesso bella. Willard chiuse gli occhi e guardò dentro quel dolore, vedendo se stesso. Comprese con lucida chiarezza che c'era la morte nel suo futuro, la morte che si protendeva come un'ombra. Era la morte che lo guidava verso il completamento, la morte che adesso gli era vicina. Sentì un nuovo flusso di energia arrivargli ai lombi. Sperimentò una bramosia che era indiscutibile e al tempo stesso conclusiva. Guardò di nuovo negli occhi della Mantide e vide la soddisfazione per una comune consapevolezza. Poi gli occhi si ritrassero e la testa a forma di diamante si girò da un'altra parte. La danza dell'accoppiamento iniziò e il piccolo insetto esile si gettò in avanti, ad ali spiegate verso la femmina in attesa. Per la prima volta Willard si rese conto dell'evidente abbandono nei gesti della creatura, della libertà con cui affrontava la morte. La lezione finale. Il maschio la montò da dietro, aggrappandosi alla sua schiena per rafforzare la presa. Lei tremò mentre lui la penetrava. Quando si alzò dallo sgabello Willard sudava profusamente. Arretrò verso lo scaffale senza mai distogliere lo sguardo dalla Mantide con il suo compagno. La scatoletta metallica era fredda nella sua mano: si aprì facilmente e la fiala con il liquido ambrato e la siringa caddero nel suo palmo. Infilò l'ago nel cappuccio di gomma, tirò indietro lo stantuffo della siringa e svuotò la fiala. Il suo pene flaccido era umido e morbido al tatto mentre lo sollevava verso la punta dell'ago. Pizzicando un po' di pelle alla base dell'organo infilò lentamente l'ago nella carne. Furono necessari trenta secondi buoni per iniettare la papaverina. La droga formò un rigonfiamento che poi Ng disperse massaggiando la parte. Allora iniziò il formicolio, un
calore elettrizzante. Il suo pene cominciò a diventare turgido, grosso e duro. La Mantide recalcitrava sempre un pochino, chinando la testa in avanti in segno di sottomissione mentre il suo amante accelerava la velocità dell'accoppiamento. Passarono tre ore. Willard mantenne una posizione a gambe divaricate davanti al tempio del suo mentore. Strinse le natiche gustando il dolore bruciante tra le cosce. Masturbandosi delicatamente. Mantenne un ritmo lieve per prolungare l'orgasmo nello stesso modo in cui lo rimandava quando portava a termine la transizione. Era in estasi e tutto il suo essere ondeggiava con le vibrazioni sessuali presenti nella stanza. Il ronzio lo circondava completamente, era dentro e fuori di lui. Era totalmente collegato. Era sia maschio che femmina: aveva superato la distinzione tra i sessi, aveva trasceso l'umanità. Entrambe le mani accarezzavano su e giù la sua asta, concentrandosi sulla sua coscienza, guidandolo lungo il perfetto tunnel della stabilità. Un'altra ora, un altro secolo: un lento dissolvimento dell'io. Tremava mentre raggiungeva il culmine, contemporaneamente alle convulsioni della fragile mantide maschio. Il suo testicolo pulsò, ebbe un rapido spasmo, la sua prostata si contrasse e si atrofizzò. Adesso la Mantide si stava alzando, gettando da parte il suo partner morto, che si scosse e tremò mentre cadeva. Lei incombeva su di lui, valutando con gli occhi scuri la qualità della sua prestazione, giudicandolo come sovente giudicava Willard. Il maschio sembrava pallido e debole, rimpicciolito dalla sua perdita di seme. Willard guardò la Mantide, impaurito dai suoi occhi scuri. Calò il silenzio. Ng cambiò posizione per permettere alla circolazione sanguigna di disperdere l'acido lattico nei suoi quadricipiti. Il suo pene rimase turgido, gonfio e infiammato dalla lunga masturbazione. Per un angoscioso momento fu come se la sua mente si fosse divisa in due e Willard fosse contemporaneamente il mentore e l'offerta. Quel momento si protrasse e una profonda paura minacciò di offuscare la sua lucidità. La paura di essere rifiutato, seppellita profondamente nei recessi della sua mente umana. Era di nuovo un bambino, nudo e vulnerabile. Incapace di esprimere le emozioni. Non amato e non voluto. Rifiutato dai suoi genitori, rifiutato dai suoi compagni. E, infine, rifiutato dalla morte. Un senso di nausea lo afferrò alla bocca dello stomaco e cominciò a salire. Tossì e sentì il cuore che gli bruciava, voleva urlare, aprire la bocca. Il suo urlo fu silenzioso e poi sentì il brivido che lo prendeva, afferrandolo come non lo aveva mai afferrato prima, ancorandolo alla Mantide.
Lei aveva cominciato a muoversi, ad avanzare verso il suo amante, a testa alta e con lo sguardo fermo. Willard percepì quel momento di tregua. Il maschio esausto rimase immobile: c'era una certa dignità in quella immobilità. Lei aveva accettato la sua prestazione, lui l'aveva soddisfatta. Willard inspirò, una lunga inspirazione fluida. Il vuoto che l'aveva avvolto tanto perfettamente, ritornò. Sapeva che cosa sarebbe successo come anche lo sapeva il maschio debole. Adesso la Mantide era vicina e Willard poteva immaginare i suoi brevi e caldi soffi contro la gola di lui. Osservò affascinato le mascelle che si aprivano, rivelando una fila perfetta di denti acuminati. Il primo morso fu rapido e decisivo. Ng ansimò mentre la Mantide strappò la cartilagine sotto la mascella del maschio, a fianco del collo. Il suo primo morso non uccise il maschio, né ne aveva intenzione. Lui rimase in piedi, a fianco di lei. Orgoglioso e soddisfatto, finalmente all'apice del completamento. Il suo secondo morso non fu molto profondo e mentre sollevava la testa, Willard riuscì a vedere la carne dentro la sua bocca. Osservare la soddisfazione nei suoi occhi. Che godeva del sapore. Il maschio cadde al terzo morso. Lei era andata più a fondo e gli aveva distaccato completamente la testa. La Mantide si voltò verso Willard, con la testa del maschio ancora in bocca. La morte è la permanenza. Semplice e completa. Senza la morte gireremmo in eterno sulla ruota dell'imperfezione. Vittime di ciò che siamo stati, assillati da ciò che non riusciremo mai a ottenere. Giudicati, Willard Ng. Le mascelle della Mantide si mossero mentre gli trasmetteva i suoi pensieri, mentre faceva scricchiolare la testa a forma di diamante del maschio, succhiandogli il cervello. Una volta terminata la testa, iniziò con il corpo, mangiandolo lentamente e accuratamente finché rimasero soltanto le pallide ali velate. Erano quasi le cinque del mattino quando Willard chiuse e mise il lucchetto alla porta della camera della Mantide. La sua erezione era scomparsa e si allontanò con il portamento solenne di chi ha appena seppellito un amico intimo. Mentre scendeva il sentiero selciato e usciva dalla Porta H, non vide nessuno. Non che il fatto di essere visto lo preoccupasse: era superiore a quelle meschinità. Sarebbe morto. Presto. Questo era certo. Era necessario. Se Tyrone Johnson avesse alzato lo sguardo dalle sue uova «alla ranchero» e avesse lanciato un'occhiata nello specchietto retrovisore della Ford berlina azzurra, avrebbe notato un uomo gigantesco con un paio di pantaloni da lavoro color cachi che camminava lentamente in direzione della sua macchina. L'uomo non aveva né barba né capelli e stava parlando da solo,
anzi era profondamente immerso in conversazione. I suoi lineamenti avevano un'espressione pacifica e sognante e muoveva le mani in un modo stranamente fluttuante per enfatizzare quello che diceva. Grazie alla vicinanza e alle sue dimensioni Johnson avrebbe identificato il gigante come Willard Ng. Il poliziotto di sorveglianza avrebbe comunicato la segnalazione e Ng sarebbe stato preso. Avrebbe anche potuto andarsene tranquillamente. Invece con Jeb Hawkins addormentato che russava sul sedile del passeggero al suo fianco, Johnson tenne la testa china e si concentrò per evitare che il tuorlo d'uovo gli macchiasse la giacca di tweed di Harris: era la sua vecchia e fortunata giacca preferita. Alle sue spalle, a non più di trenta metri dalla Ford, Willard Ng svoltò un angolo e scomparve. XV LA TELEFONATA Fogarty era appena uscito di casa quando il telefono squillò. «Tenente Fogarty?» Era una voce maschile, una che non riconobbe. «Dica,» rispose. «Mi chiamo Jack Tucker e faccio parte del dipartimento di polizia della città di Camden. Polizia stradale,» aggiunse in tono riluttante la voce. Lo stomaco di Fogarty si strinse e il tenente provò l'inquietante sensazione del déjà vu. Sapeva dove avrebbe condotto quella conversazione. «Ho visto la sua richiesta a proposito di qualcosa che riguardi una patente della Pennsylvania intestata a Willard Ng.» «Esatto, agente, che cosa ha trovato?» Fogarty tentò di sembrare disinvolto e indifferente. «Ieri alle diciassette e quindici ho fermato un furgone Volkswagen del 1973 guidato da un uomo che si è presentato come Willard Ng,» rispose Tucker. «Cosa aveva fatto?» chiese il tenente, fingendo scarso interesse. «Andava contromano in una strada a senso unico.» Tucker si sentì sciocco nel dare quella risposta: aveva cose più importanti in mente. «Ha un indirizzo recente di quel tizio?» proseguì Fogarty. «Quello che abbiamo noi non è più il suo.» «Per coincidenza, ho avuto un motivo per seguirlo,» rispose Tucker in tono guardingo. Adesso viene la fregatura. Fogarty attese il pugno allo stomaco. «Questo fatto ha qualche collegamento con la sua indagine sul serial
killer?» La voce di Tucker era condiscendente ma solenne. Eccoci, pensò il tenente. Un altro poliziotto in cerca della promozione. Stava per rispondere seccamente, ma riuscì a controllarsi. Il New Jersey era vicino ma era sempre fuori dallo stato. Gli sarebbe servita collaborazione. Simulò il suo tono di voce più confidenziale e mentì: «Abbiamo ragione di credere che Willard Ng si sia involontariamente messo in contatto con il killer nei mesi passati. Non è molto ma qualunque cosa otterremo potrebbe capovolgere la situazione.» L'ultima cosa al mondo di cui Fogarty avesse bisogno era un detective del New Jersey alle calcagna. O, peggio ancora, un poliziotto della stradale che cercava di farsi ammazzare. «Posso far arrestare il signor Ng, tenente?» Fogarty attese un po' prima di rispondere, per assicurarsi che la sua disperazione non trapelasse. «Agente Tucker...» esitò intenzionalmente. «Sì, tenente.» Tucker attese. Aveva visto i notiziari TV e aveva letto i giornali. Sapeva che Fogarty era su qualcosa. Lo percepiva: era un'intuizione. Quel tenente Fogarty probabilmente pensava che lui fosse un idiota. «Data la delicatezza della situazione, è forse meglio che me ne occupi io stesso. Tuttavia approvo certamente la sua cooperazione. E ora, mi dia l'indirizzo del signor Ng.» Tucker rimase silenzioso, per pensare. Si chiese se poteva farcela a portar dentro Ng per trasgressione al codice, disubbidendo all'ufficiale di polizia. Poi ricordò la sagoma sinistra alla finestra e si chiese se avesse realmente intenzione di provare a catturarlo. «L'indirizzo, agente Tucker, per favore.» La voce di Fogarty stava cominciando a salire di volume. «31, Benson Street. Subito dopo il ponte, appena usciti dalla South Fifth,» rispose Tucker. Si sentì come se fosse stato appena derubato. «È quello il posto fin dove l'ho seguito,» aggiunse Tucker. «Molte grazie, Jack. Molte grazie.» Fogarty posò il telefono e si chiese se il poliziotto avrebbe tentato qualche atto eroico. Aveva capito che quell'uomo era diffidente. Camden. Le sette del mattino. Venti minuti se si sbrigava. Non c'era tempo per un mandato, non c'era tempo per organizzare dei rinforzi. Doveva arrivare prima dell'agente Tucker. Sapeva bene che quel tizio aveva sentito odore di promozione. Fogarty scrisse l'indirizzo su un pezzo di carta, se lo infilò in tasca e si voltò per uscire. La sua gamba sfregò contro il lato di una cassapanca di
acero. Al sole il legno sembrava oro lucidato. Quella era una giornata nuvolosa e l'acero era del colore del miele. Un bel mobile, che Sarah aveva preso durante una delle sue visite ai mercatini dalle parti di New Hope. Sua moglie l'aveva usato per tenere le bottiglie. Dopo l'incidente Fogarty lo aveva adoperato per tenere qualcos'altro. Pensò un istante, poi si inginocchiò a fianco della cassapanca e fece scorrere la mano sul fondo. La chiave era lì, sotto una striscia di nastro adesivo che la nascondeva. Aprì la cassapanca: un lieve odore di metallo e olio precedette la vista della Colt Officers Model. La calibro 45 automatica compatta era carica, ma aveva la sicura. Un centinaio di proiettili a punta vuota erano sistemati ordinatamente dentro scatolette a fianco della pistola. Cristo. Che cosa ho intenzione di fare? Di far fuori quel bastardo prima di arrestarlo? Si corresse. Non posso arrestarlo. Non ho prove. Poi si tolse il giubbotto e si sfilò la cintura ascellare sostituendola con una Milt Sparks Summer Special: appese la fondina alle cinghie doppie al di sopra del fianco sinistro. La sua Smith and Wesson si poteva nascondere bene ed era ragionevolmente precisa per colpire a piccolo e medio raggio. Fogarty però non si fidava molto, non completamente. Da quando erano state necessarie tre ricariche per bloccare un solo sospettato durante un'umida notte di luglio dell'86. Il tizio era fuori di sé per un misto di metadrina e PCP, un acido allucinogeno usato per lo sviluppo delle pellicole. Forte come un gorilla e inconsapevole che i proiettili di Teflon che entravano nel suo corpo da una distanza di sei metri avevano lo scopo di fargli gettare a terra la spada da samurai di novanta centimetri e arrendersi. Aveva già decapitato sua moglie e il suo cane quando il tenente era arrivato. Continuò a colpire e a fare a fette le sue vittime mentre lo prendevano in trappola. Il fatto che fosse stato colpito da quattordici proiettili calibro 38 non sembrò affatto calmarlo. La calibro 45 evidentemente sfregava contro il fondoschiena di Fogarty, ma lui era disposto tutti i giorni a sacrificare l'eleganza per la sicurezza. Soprattutto il giorno in cui stava per incontrare Willard Ng. Avrebbe dovuto mandare un paio di investigatori del New Jersey ad arrestarlo e poi avrebbe dovuto far estradare l'indiziato. Sarebbe stato soltanto un piccolo ostacolo, una formalità, non un problema, dato che gli dovevano un paio di favori in quello stato. Purché qualcuno non diventasse ambizioso. «Jack Tucker, per favore non fare lo stronzo,» disse Fogarty a voce alta mentre si lasciava cadere due caricatori di munizioni di riserva nella tasca laterale. Poi chiuse la porta del 611A e pensò a Willard Ng. E se non fosse lui? Se
dopo tutto questo mi trovassi di nuovo al punto di partenza? Era un pensiero troppo penoso da considerare. E se quell'uomo era Ng, fino a che punto arrivava la sua astuzia? Probabilmente sapeva che non c'era nessuna prova valida. Niente testimoni, niente di niente. E aveva ragione. Non c'era niente a parte il disegno del pittore e un'impronta di scarpe numero 44 con tracce di sterco di cammello. Grazie a Dio, non avevano concesso l'identikit alla TV e alla stampa. Fogarty si era battuto per evitarlo. Era meglio non renderlo pubblico perché così aveva una carta nascosta nella partita psicologica che stava per giocare. Probabilmente si sarebbe servito di quella per cogliere in fallo il sospettato, per fare in modo che si incriminasse da solo. Ma come? Fogarty si mise in contatto con Johnson e Hawkins dal suo telefono in auto. Nessun risultato, a parte il fatto che Johnson aveva una forte diarrea per sospetta indigestione di uova «alla ranchero» e che stava minacciando di denunciare il McKinneys Diner. «Succhia un paio di Rolaids e rimani lì ancora per un paio d'ore,» ordinò il tenente. Poi chiamò la Roundhouse e prese accordi per incontrarsi con il detective Jim Ratigan al numero 31 della Benson: Ratigan era sempre una persona sicura come rinforzo. Inoltre aveva lavorato su quel caso quasi a lungo quanto Fogarty. L'ultima telefonata che il tenente fece fu quella al laboratorio di medicina legale. Willard Ng era immerso da circa un'ora nel profondo sonno senza sogni che seguiva sempre un contatto con la sua guida. Era un sonno molto pesante, quasi mortale. I ritmi naturali del suo corpo rallentavano e il cuore batteva a meno di trenta colpi al minuto. Giaceva nudo sul suo giaciglio a due piazze, la cui compatta imbottitura gli dava un supporto rigido. Il volto era placido e se non fosse stato per un certo irrigidimento dei suoi tratti, una crudeltà che sembrava più una maschera che qualcosa di innato, si sarebbe potuto dire che era bello: ma in modo strano, non umano. I suoi occhi chiusi avevano una posizione molto distante l'uno dall'altro e la sua bocca era sottile e larga. Il naso era piccolo e leggermente storto verso sinistra, mentre le orecchie erano perfettamente proporzionate alla struttura lunga e ampia del suo cranio. La pelle era perfetta, liscia e gialla, e il fatto che né la faccia né la testa fossero profanate da un solo capello o dalla minima ombra di barba aumentava la delicatezza del suo essere. Una trapunta di cotone lo copriva fino alle spalle, alzandosi e ricadendo dolcemente al ritmo dei suoi respiri poco profondi. Aveva un aspetto non diverso da quello che probabilmente avevano le mummie egiziane prima che il tempo
e la decomposizione facessero rinsecchire e raggrinzire il cadavere appena imbalsamato. Scuri e pesanti tendaggi impedivano alle prime luci del mattino di entrare dalla finestra e la porta della sua camera da letto era chiusa e sprangata dall'interno. Adesso la fase di sonno profondo di Willard Ng lascia il posto a un nuovo stadio, quello REM, quello dei movimenti rapidi oculari, o fase del sogno. E, dopo un contatto con la Mantide, il sogno è sempre lo stesso. Willard Ng è un ragazzino di sei, forse sette anni, all'incirca dell'età che aveva quando sua madre morì. È nudo e corre da solo tra una macchia d'alberi ai margini dei vasti prati e giardini che circondano un edificio in pietra. Riconosce l'edificio: è il St. Thomas. È stato di nuovo cattivo, ha pianto nel sonno. Ora verrà punito. Sta correndo velocemente perché è inseguito. Suo padre arriva, ha in mano una mazza, simile a una mazza da baseball, ma di plastica e vuota. Ha già usato quella mazza su Willard molte volte: schiocca sonoramente quando colpisce la carne nuda delle sue cosce. Certe volte, se il padre di Willard è davvero arrabbiato, spinge la punta della mazza nell'ano di Willard. A fondo. Willard non può camminare dopo che suo padre ha finito con la mazza. Può soltanto trascinarsi. Willard accelera il passo. Suo padre lo sta raggiungendo, non ce la farà a raggiungere il St. Thomas. Poi la vede: è posata sul ramo di un albero che si protende sul sentiero polveroso. Lei apre le sue ali mentre Willard si avvicina. Le sue ali si aprono come braccia per accoglierlo. Willard corre verso di lei. La Mantide adesso è grande, più grande di Willard. Più grande anche del padre di Willard. Tutto il corpo di lei trema mentre il ragazzino le si avvicina, poi lo avvolge con le sue ali. Per proteggerlo. Il sogno di quel mattino è diverso. Lei ha aperto la sua bocca, non le sue ali. Willard vede i suoi denti aguzzi. È spaventato ma non tanto quanto lo è di suo padre. Corre in avanti e la bocca della Mantide si apre di più. Adesso vede dentro la bocca, al di là dei denti come aghi. Prima vede tutto buio, come in una caverna, poi scorge una scala che sale a chiocciola. Adesso è dentro, i denti si sono chiusi alle sue spalle, come un bianco cancello, bloccando fuori suo padre. Sente la voce di Raymond Willard che urla e minaccia. Più in alto sale, più fievole diventa la voce di suo padre. Prosegue su per la scala. Esattamente in cima c'è una luce, una luce che viene dall'alto e cade come un unico raggio di sole, illuminando una figura solitaria che aspetta Willard.
Adesso Willard è veramente spaventato. Forse suo padre non gli avrebbe spinto la mazza nel sedere, forse dovrebbe voltarsi e ridiscendere la scala. Si sente in qualche modo costretto a guardare la figura. Dio, com'è bella! E una creatura metà uomo e metà mantide. Ha il corpo dell'insetto e la testa di un uomo. L'uomo-mantide sta sorridendo. Conosce Willard, e Willard conosce lui. Il viso dell'uomo-mantide è il ritratto di quello di Willard. Però non è un viso da bambino: è Willard da grande. Gli occhi del Willard uomo-mantide sono enormi e indulgenti. Sanno con quanto sforzo Willard ha cercato di essere un bravo ragazzo, con quanto sforzo ha cercato di conformarsi alla disciplina del padre. L'uomo-mantide non ha paura. Willard è ai piedi della creatura. L'uomo-mantide torreggia su di lui e lo guarda. C'è una grande compassione nel suo sguardo. Willard è tranquillo... Finché iniziano i colpi contro la porta. Quel terribile frastuono contro i cancelli. Ininterrotto. Deve essere suo padre, deciso a punirlo. Il rumore incessante distrugge la sua pace, annebbia la sua vista. L'uomo-mantide disapprova, scuotendo la testa da una parte e dall'altra. Ng comincia a sentire l'odore del cotone pulito delle lenzuola del letto. Willard Ng sta tornando in sé, costretto a uscire dal suo sogno dalla vibrazione di un pugno chiuso che batte contro il legno della sua porta di entrata. «Dannazione, non rompere la porta, Bill. Se è dentro uscirà.» Il fiato di Ratigan era come una nuvoletta di fumo nella fredda aria del mattino. Aveva il naso rosso e bulboso, sebbene non avesse più bevuto da quel barbecue in famiglia del 4 luglio '88, la prima e ultima volta che aveva picchiato sua moglie. Tanaka si sedette sul sedile del passeggero dell'auto di Ratigan, in attesa. Quel bussare era palesemente autoritario. Non aveva intenzione di smettere finché lui non si fosse alzato e avesse fatto qualcosa. Willard Ng scivolò fuori dalla coperta e rimase nudo a fianco del letto basso. Considerò l'idea di mettersi una delle sei parrucche che teneva sulle loro teste di sostegno dentro l'armadio, poi decise che non era necessario. Allora tolse dal suo appendiabiti la vestaglia di seta cinese e se la mise, legando la cintura. Poi tolse il chiavistello alla porta della camera da letto e si diresse con calma attraverso il piccolo salotto verso l'origine del disturbo. I due uomini in piedi sul piccolo marciapiede davanti alla soglia della
porta di casa sua erano due poliziotti. Era evidente dalla loro ostentata serietà. Uno era di venti centimetri buoni più alto dell'altro e aveva qualcosa di strano nella faccia. Teneva il viso leggermente di fianco, più per abitudine che intenzionalmente. Un terzo uomo stava uscendo da una delle due auto parcheggiate davanti alla casa di Ng. Fu quell'uomo che attirò l'attenzione di Willard. Era diverso dai poliziotti, più aggraziato, si muoveva con passo elastico e preciso. Ng fissò quel terzo uomo cercando di incrociare il suo sguardo, irrevocabilmente attratto dai lineamenti del viso che assomigliavano tanto ai suoi. E mentre Ng fissava lo sguardo, concentrando la sua energia mentale su Josef Tanaka, cominciò a vedere in un modo in cui non aveva mai visto prima. Un alone di luce sembrò circondare la testa dell'uomo diverso dagli altri: dorata e verde, con uno sprazzo di rosso. Una luce in costante movimento, emanata verso l'esterno, che cercava e sfiorava la mente di Ng. E mentre Ng si concentrava su quest'aura di luce, cominciò a sentire il ronzio. Il medesimo ronzio che aveva accompagnato il primo contatto con la sua guida, come un flusso di connessione elettrica. Finalmente, Josef Tanaka incontrò gli occhi della Mantide. E fu come se una fredda elettricità penetrasse in lui, gelandogli il cuore e attraendolo verso l'enorme testa calva. Fu la stessa sensazione che aveva provato allo zoo, una sensazione di inevitabilità. Allora, era riuscito ad annientarla, a negarla. Adesso lo sovrastava. «Signor Willard Ng?» La voce di Fogarty interruppe il collegamento tra Tanaka e la Mantide. Ng impiegò parecchio tempo a rispondere. Era come rifugiato in un altro piano di coscienza e rifiutasse di entrare nella realtà di Fogarty. «Nessuno. Il mio nome è nessuno.» La voce era quasi metallica nella sua mancanza di espressione. «Signor Ng,» riprese Fogarty pronunciando il nome esattamente, «mi chiamo William Fogarty e sono un tenente del dipartimento di polizia di Filadelfia.» Mostrò il suo distintivo. Ng annuì. Si aspettava che arrivassero, alla fine. Era sempre stata soltanto una questione di tempo. Per fortuna il tempo era stato sufficiente. In effetti, non poteva finire diversamente con la pratica dell'esercizio mortale. Fogarty distolse l'attenzione dalla cicatrice a forma di lama che scorreva giù dal petto di Ng fino all'apertura della vestaglia. «Possiamo entrare?» «Perché?» chiese Ng, cambiando posizione in modo da bloccare l'entrata. Si era preparato per quel confronto, in effetti, non gli importava confessare. Era solo che non avrebbe mai confessato a un poliziotto. Lui non era
un criminale. Ratigan percepì la tensione di Fogarty. «Signor Ng,» fece il detective con il naso bulboso, «siamo qui per chiederle di collaborare. Non abbiamo un mandato e lei non è in arresto.» Ng annuì nuovamente. «Possiamo entrare?» ripeté Fogarty, eliminando qualsiasi minaccia dalla sua voce. Ng guardò Josef Tanaka e fu come guardare un fratello. Azzardò un mezzo sorriso. «Avremmo piacere di farle qualche domanda,» proseguì Ratigan, guardando le villette intorno. «Parleremo più tranquilli dentro. Non vorrà che i suoi vicini facciano pettegolezzi.» Ng fece un passo di lato, permettendo che i poliziotti entrassero nel suo salotto. Non c'erano sedie nella stanza di sei metri per otto. Invece sei stuoie per la meditazione creavano un motivo quadrato lungo il perimetro della stanza. Ng annuì con approvazione quando Tanaka si tolse le scarpe prima di camminare sul pavimento coperto dai tatami. Se non fosse stato per la presenza di Tanaka, Ng avrebbe chiuso la porta in faccia ai poliziotti. Ma Tanaka era diverso. Tanaka era stato mandato. Ng chiuse la porta. A fianco della stanza c'era un cucinino tirato a lucido. Fogarty notò che la porta della cucina era chiusa con un lucchetto Yale. Probabilmente conduce in un cortile o in un giardino, pensò, prendendo nota mentalmente. Altre tre porte collegavano la stanza principale con le altre parti della casa. Erano chiuse. La vicinanza dei quattro uomini rendeva l'atmosfera claustrofobica. Ng era acutamente consapevole dell'odore corporeo dei suoi visitatori. L'uomo più piccolo con il naso bulboso puzzava di sudore asciutto e di una notte insonne; il tenente con la cicatrice sul volto puzzava di colonia al limone e di grasso per pistole; mentre il guerriero era pulito. Willard Ng non era nervoso. Fogarty dovette schiarirsi la gola prima di riuscire a parlare. Era a disagio, malgrado fossero in vantaggio numerico e armati. «Signor Ng, siamo qui per indagare su una serie di omicidi iniziati il febbraio scorso. Abbiamo ragione di credere che lei sia collegato a questi fatti di sangue.» Fogarty parlò esplicitamente, esaminando le pupille di Ng per vedere se si dilatavano. Certe volte, quando un indiziato sottoposto a interrogatorio viene sconvolto da una domanda o si sta preparando a mentire, le sue pupille si
dilatano. Le pupille di Ng non palesarono nulla, assolutamente nessuna reazione. «Sa a cosa mi riferisco, signor Ng... legge i giornali?» L'ultima parte della domanda di Fogarty aveva lo scopo di ottenere una risposta positiva. Qualunque cosa poteva andare bene per far parlare Ng. Willard scosse la testa, studiando la curiosa configurazione di cicatrici che deturpavano il volto squadrato e quasi bello del detective. «Si sentirebbe più a suo agio se la portassimo in centro e parlassimo con lei alla stazione di polizia, signor Ng? Laggiù abbiamo molto più spazio a disposizione, potremmo sederci tutti,» intervenne Ratigan con un lieve accento sarcastico sotto il fare sincero. Ng si voltò verso Tanaka. «Perché sei qui? Con questi uomini, perché sei qui con loro?» Tanaka vide gli occhi dalle palpebre strette di Ng; gli ricordarono una specie di rettile, un serpente... o un insetto. Una mantide. «Il mio nome è Tanaka. Sono un medico legale della polizia e sono stato assegnato a questa indagine.» La franca semplicità della risposta di Tanaka piacque a Ng. Nell'aura di Tanaka aveva visto il colore verde e verde era il colore della guarigione; aveva anche visto il rosso, il colore della violenza, il guerriero... Ng aveva bisogno di parlare con Tanaka, era un'esigenza imperativa. Sapeva che loro due erano destinati a diventare molto intimi. «Possiamo parlare in privato?» «Sì,» rispose Tanaka, come per coercizione. Sentì l'immediata agitazione che afferrava i due poliziotti. «Non può farlo, signor Ng,» disse Ratigan. «Perché?» La voce di Tanaka fu come una sferzata. «Tu non sei un agente di polizia.» Fogarty meditò un istante. «Si può fare, Jim. Il dottor Tanaka se la caverà benissimo,» disse, mettendo il braccio attorno alla spalla di Ratigan e conducendolo verso la porta. «Staremo qua fuori, dottore, esattamente qua fuori,» aggiunse il tenente. Poi la porta si chiuse e Josef Tanaka e Willard Ng rimasero soli. Inizialmente vi fu silenzio. Poi Ng sussurrò: «Dovremmo sederci.» C'era qualcosa di tanto lontano ma intimo nel tono di Ng che se Tanaka non avesse visto le sottili labbra muoversi, avrebbe giurato che la voce proveniva da qualche altro punto della stanza.
Tanaka si sedette sul cuscino più vicino. Ng si sedette davanti a lui e poi, lentamente, si tolse la vestaglia di seta. Drizzando le spalle, piegò le gambe nella posizione del loto. «Ti aspettavo.» Di nuovo quella voce atona e sussurrata. Tanaka fissò la pallida cicatrice al centro del petto di Ng. «Lo so,» rispose. Di nuovo le parole sembrarono precedere i suoi pensieri. Era come se fosse trascinato in un campo di coscienza potente e alieno. «È mio desiderio che tu mi capisca completamente,» proseguì Ng. «Farò qualunque cosa sia necessaria per aumentare la tua comprensione.» Tanaka alzò lo sguardo dalla cicatrice verso gli occhi scuri e vide riflesso in essi il proprio viso. Ng lo tenne lì, in bilico sul baratro della rivelazione. Quell'immobilità divenne insopportabile per Tanaka, era come se la sua mente fosse costretta ad andare oltre i suoi limiti. Voleva parlare, prendere il controllo della situazione, ma non ne era capace. Invece, si rifugiò nei ricordi. Anni prima, gli occhi del fratello, occhi a mandorla... occhi di samurai, puri e belli. Hironori lo fissava attraverso il velo della coscienza. Padre nostro che sei nei cieli. Sia santificato il Tuo nome... Ricordò di averla detta, la preghiera al Signore. Ricordò quando non poté più credere... «Venga il Tuo regno...» La voce inespressiva di Ng pronunciò ad alta voce quelle parole. Le tolse dalla testa di Tanaka, le rubò dalla sua mente. Tanaka saltò in piedi, per riflesso difensivo. La Mantide lo imitò. «Siamo in perfetta armonia,» disse dolcemente la Mantide. «Ho ascoltato la tua mente. Ora ascolta tu.» Tanaka sentì una pressione nella zona della fronte al di sopra e tra gli occhi. Aveva avuto il desiderio di andare via ma sarebbe stato impossibile. Poi il ronzio iniziò. Come un sottile flusso tranquillizzante di elettricità. E con esso venne la pace. Tanaka fissò l'uomo nudo davanti a lui. E in quel momento di pace perfetta vide al di là dell'involucro corporeo di Willard Ng; al di là del petto ampio e glabro e della grande testa calva, oltre le cicatrici sfiguranti e gli occhi tormentati. Al di là della colpa e della sofferenza dell'esistenza umana. Vide la morte. La morte gettata come un nero ponte tra loro due. Poi, lentamente, molto lentamente, Ng alzò le braccia in alto, con le dita tese. Dritto, cominciò le potenti respirazioni. Tanaka lo fissò, con lo sguardo non contaminato dalla paura. Ogni respirazione potente di Ng aveva l'effetto di aumentare la concentrazione di Tanaka, fissando il suo sguardo sulla metamorfosi dell'essere davanti a lui.
Le braccia divennero ali, ampie e distese con le dita come arpioni dalla lunga lama. E il pallido tessuto cicatrizzato al centro del petto di Ng sembrò rilucere come una perfetta stella a sei punte, che attraeva verso di sé Tanaka come un magnete. Soltanto una piccola parte della mente razionale di Tanaka rimase distaccata da quella illusione. Fu quella parte di lui che, finalmente, parlò alla Mantide. «Perché? Perché le uccisioni?» chiese. «Mi sto evolvendo,» rispose la voce atona. «Evolvendo?» ripeté Tanaka. «In uno stato di permanenza. Oltre la condizione umana,» rispose la Mantide. «Perché hai scelto di dirlo a me?» continuò Tanaka. «Tu sei stato mandato. Lo sai bene quanto me. Il sentiero della tua vita ti ha guidato in questo posto. Da me.» «Per quale scopo?» La voce di Tanaka era dolce, come doveva essere stata quando, da bambino, sussurrava a sua madre in chiesa. «Espiazione...» Anche la voce della Mantide era dolce, calmante. E da qualche parte, nei lontani recessi della sua mente, Tanaka si sentiva spaventato. Era una buia paura premonitrice, una paura senza speranza né spiegazione razionale. Una paura infantile, come la paura del diavolo o dell'orco. Finalmente la Mantide fece un cenno col capo, come in segno di comprensione, poi chiuse gli occhi e chinò la testa. Cautamente, Tanaka si alzò in piedi e il suo istinto di sopravvivenza riuscì a separarli. «Quindi lei ammette di aver compiuto gli omicidi.» La sua voce suonò forte e incerta, impacciata all'interno della loro connessione. Improvvisamente si sentì stupido e banale. Willard Ng abbassò le braccia, prese la vestaglia dal pavimento e se la avvolse attorno al corpo. «Un'altra volta,» sussurrò. Un istante dopo Fogarty e Ratigan rientrarono nella stanza. A Tanaka, sembrarono emergere da un'altra realtà. «Il tempo è scaduto,» disse ironicamente Ratigan guardando prima Ng e poi Tanaka. «Ha detto qualcosa?» domandò Ratigan. Tanaka scosse la testa. Fogarty pensò che il dottore sembrasse un po' confuso, leggermente fuori centro. «Stai bene, Joey?» Joey. Joey... La Mantide prese nota mentalmente del nome del dottore.
«Bene, Bill. Sto bene,» rispose Tanaka. Voleva soltanto andarsene, mettere più distanza possibile tra lui e Willard Ng. Sedersi e pensare. «Signor Ng.» La voce di Ratigan stava diventando insistente. «Le spiacerebbe farci fare un giro nella sua casa?» La Mantide fece un passo in direzione di Ratigan e il detective piccolino si tese visibilmente. Fogarty fu, per la prima volta durante quell'interrogatorio, cosciente del peso della calibro 45 appesa alla sua cintura. «Credo di essere stato tollerante e di aver collaborato.» Il tono di Ng era intenzionalmente controllato. «No, con me non lo è stato,» rispose Ratigan. «Adesso insisto perché lasciate la mia casa,» concluse Ng. Ratigan stava per obiettare ma Fogarty lo afferrò per la manica della giacca. «Signor Ng, se penseremo di aver bisogno di parlare con lei in futuro, ci metteremo in contatto,» disse il tenente. Percepì il disagio di Tanaka. Sapeva anche che Willard Ng non era stato forzato a confessare. Otterrò un mandato e tornerò, pensò Fogarty mentre usciva sulla soglia. Mentre apriva lo sportello della sua Le Mans notò un'autopattuglia della città di Camden svoltare l'angolo della Fifth. Ricordò Jack Tucker. Guardò di nuovo la volante della polizia mentre scompariva. Una coincidenza? Sperò che fosse così. «Joey. Perché non sale in macchina con me?» propose Fogarty. Ratigan colse l'occhiata del tenente. «Tutto bene, Jim. Porterò Joey al mio ufficio e parleremo là. Ci vediamo tra mezz'ora.» La sagoma di Willard Ng riempiva la finestra frontale della sua casa. Non fece alcuno sforzo per nascondersi mentre guardava i tre uomini allontanarsi. Dottor Tanaka. Joey Tanaka. Quel nome giocherellava dolcemente nei suoi pensieri. Oggi sarebbe andato allo zoo, di nuovo al lavoro. Avrebbe ripreso la sua vita normale. Ora che aveva incontrato Joey Tanaka, sapeva che la permanenza era vicina. Poteva calcolare il tempo che lo separava dal raggiungimento di quello stato sui battiti del cuore. Tanaka rimase silenzioso mentre Fogarty mostrava il suo distintivo e si infilava nel cancello girevole, oltrepassando il ponte ed entrando in Filadelfia. Fogarty rispettò il silenzio del medico, ma aveva anche bisogno di sapere che cosa era successo tra il dottore e il sospettato.
Erano intrappolati in un ingorgo in fondo alla Vine, quando Fogarty si schiarì la gola. Tanaka rispose anticipatamente alla sua domanda. «È lui, Bill. Willard Ng ha assassinato quelle donne. Ne sono certo come sono certo che siamo seduti qui.» «Mi stai dicendo che hai ottenuto una confessione? È questo che mi stai dicendo?» chiese Fogarty. «Non è stato così, Bill. Non è stato un discorso esplicito,» rispose Tanaka, poi esitò. «Andiamo, Joey, parla con me. Sai che ho corso un rischio lasciandoti solo con lui. Sai che Ratigan sarebbe ben contento di trascinare il mio culo su un letto di tizzoni ardenti.» «Bill, hai mai avuto una premonizione?» «Per favore, non fare il mistico con me, Joey,» disse Fogarty. Il traffico adesso si muoveva e il tenente si chiese che cosa sarebbe riuscito a ricavare nei cinque minuti di percorso che lo separavano dalla Roundhouse. Aveva bisogno di sapere qualcosa prima che Ratigan, McMullon e il resto della squadra investigativa contattassero il dottore. «Ricordi, Bill, allo zoo? Quando ho detto che io sarò colui che prenderà il killer?» «Sì, ricordo,» rispose Fogarty. Pensava di aver chiarito la cosa quel giorno. Forse si era sbagliato. «Ho quel tizio nella testa, Bill. Come se fossi collegato a lui, quasi sapessi quale sarà la sua prossima mossa.» «Che cosa ti ha detto nella casa, Joey? Ho davvero bisogno di saperlo.» «Mi ha detto che mi aspettava. Mi ha detto che voleva che lo capissi completamente.» Ora Fogarty si trovava nel parcheggio e stava lentamente dirigendosi verso il suo posto riservato. «Willard Ng ha confessato l'assassinio di...» Stava quasi per dire «Gina Genero», ma si frenò e disse: «... una di quelle ragazze?» «Non è stato così, Bill,» rispose Tanaka. Fogarty spense il motore. «E allora come è stato?» Aveva un tono duro e freddo. «Senti, non ti sto prendendo in giro,» disse Tanaka, esitando. «Willard Ng si è infilato nella mia mente, ha letto i miei pensieri. Mi ha attratto verso di lui.» «Oh, merda,» disse Fogarty. Tanaka è fuori di testa. Non riesce a reggere la tensione e non posso biasimarlo. Provò un'altra volta. «Ng ha confes-
sato?» «Ha confessato, Bill. Ti dico che l'ha fatto,» rispose Tanaka. Fogarty percepì l'agitazione del medico. Sapeva che era inutile forzarlo. Allungò una mano e la posò sulla spalla di Tanaka. «Tutto bene, Joey. Tutto bene... Ora, quando entreremo sarai circondato da un mucchio di gente frustrata. Ti faranno un sacco di domande, probabilmente le stesse. In continuazione. Per favore, non ti far coinvolgere a discutere di lettura del pensiero e premonizioni. Tu e io possiamo discutere di questo, ma con loro lascia perdere. Mi capisci?» Tanaka ascoltò quelle parole attentamente e udì la sincerità nella voce del tenente. «Sì, ti capisco, Bill.» «Bene. E dopo aver parlato con loro, tornerai in laboratorio.» Tanaka alzò di scatto la testa, si sentì come avesse appena ricevuto uno schiaffo sul viso. Fogarty capì la sua reazione. «Non fare il pazzo, Joey! Nessuno più di te mi è stato utile in questa indagine. Cristo, hai messo insieme gli elementi per me. Non lo dimenticherò. È soltanto che adesso si passerà ai mandati e alla prassi abituale. Questo è lavoro della polizia.» Non andrà così, Bill. Vorrei che fosse così, ma non lo sarà. Pensò Tanaka, ma non riuscì a esprimere il suo pensiero. Fogarty interpretò quel silenzio come un segno di approvazione di Tanaka. Strinse la robusta spalla del dottore. «Dopo aver parlato con loro tornerai alla medicina legale e andrai per la tua strada. Sarai fuori da questa storia, Joey.» Due ore più tardi il dipartimento di polizia di Filadelfia aveva richiesto, tramite lo stato del New Jersey, un mandato per l'arresto di Willard Ng. Le dichiarazioni di Tanaka avevano avuto un certo peso il quale, aggiunto alla prova fornita dal medico legale sull'altezza e sul peso approssimativi del sospettato, il suo numero di scarpe e l'identikit del pittore, avrebbe dato alla polizia ragioni sufficienti per fermare Ng per il tempo necessario a farlo confessare. Se avessero insistito, Fogarty era certo che avrebbero potuto incarcerare Ng nel giro di quarantotto ore. Nel frattempo, non intendevano lasciarlo scomparire. Dan McMullon era raggiante. Non soltanto la sua squadra stava per fare un arresto, ma uno dei suoi agenti aveva ritrovato un diario, nascosto sotto un materasso dall'ultima vittima, Jeanette Key. Era una prova che custodi-
va gelosamente. Dei pettegoli avevano detto che il diario non aveva alcuna rilevanza nell'indagine sulla Mantide, ma che conteneva dettagliate descrizioni dello strano comportamento sessuale di un eminente personaggio politico di Filadelfia. Si erano fatte delle supposizioni su chi potesse essere quel personaggio, ma soltanto McMullon e il detective che aveva scoperto il diario sapevano con esattezza chi era. Il sindaco Winston Bright, d'altra parte, fu sorprendentemente riservato di fronte ai recenti avvenimenti. La sua richiesta a gran voce di una conferenza stampa fu perfino tenuta cautamente in sospeso. Fogarty riaccompagnò Tanaka al laboratorio. Mentre si trovava là, insistette con Bob Moyer perché presentasse ulteriori elementi probanti prima dell'arresto di Ng. «Quando questa faccenda giungerà all'orecchio della stampa scoppierà il putiferio, Bob,» disse Fogarty. «Tutti i difensori pubblici da Herbie Pressman a quell'avvocato senza scrupoli di Izzy Weiss vorranno difendere Ng. Non voglio assolutamente che ne esca grazie a una stretta interpretazione della legge.» Moyer apparve teso quando incontrò lo sguardo del tenente. «Se soltanto avessimo le scarpe che quel figlio di puttana indossava quando ha aggredito Jeanette Key. Allora, potrei collegare a lui le impronte, tanto strettamente che non se la caverebbe.» «Allo zoo non è stato trovato nulla. Adesso lui è là dentro, e porta le sue Timberland nuove, le stesse che abbiamo trovato nel suo armadietto. Pulite,» rispose Fogarty. «E in casa sua?» chiese Moyer. «Non avevamo un maledetto mandato.» Fogarty, nel rispondere, si sentì colpevole. «Molto male.» Questo fu tutto ciò che il patologo disse. Fogarty lesse il resto nel debole bagliore degli occhi di Moyer. XVI LA SECONDA TELEFONATA Fogarty fece una rapida telefonata a Tyrone Johnson mentre tornava dalla Roundhouse. Johnson relazionò che Willard Ng stava attualmente lavorando in sostituzione di un custode malato nella parte dello zoo chiamata Pianure arabe, e che Gordon Forrest aveva accettato la richiesta di Ng di fare il doppio turno. In questo modo Ng sarebbe rimasto allo zoo ben oltre
l'ora di chiusura alle sei del pomeriggio. Forse addirittura fino a mezzanotte, dipendeva da quali compiti aggiuntivi Forrest sarebbe riuscito ad affidargli. Fogarty spiegò a Johnson che doveva assicurarsi che Forrest capisse che era bene che Ng lavorasse fino a tardi, fino al più tardi possibile. Poi Fogarty ricordò il vecchio lucchetto Yale che chiudeva la porta della cucina di Ng. Era tutto lì, non c'erano chiavistelli interni, neanche una catena. Entrare era una scemenza, stabilì Fogarty. Tuttavia si sentiva nervoso, che rischi doveva correre per fare un arresto! Poteva essere accusato da Jack Tucker di violazione di domicilio. Era ora di pranzo quando Fogarty entrò nel suo ufficio. Dieci minuti più tardi stava componendo il numero di telefono del New Mexico di Diane Genero. Ricordò i sentimenti della notte precedente: aveva pianto pensando di fare quella telefonata. Reazione da stress, pensò, mentre udiva il telefono che squillava. Ansia mal riposta. Dìo, sto diventando bravo nell'autoanalisi. O è così o sto diventando esperto nel pensare stronzate. Lo squillo del telefono di Diane Genero sembrò particolarmente distante. Era come se Fogarty lo ascoltasse attraverso un lungo tubo vuoto. Al decimo trillo Fogarty divenne leggermente nervoso, mentre una parte di lui sperava che nessuno rispondesse. In fin dei conti, entro due giorni avrebbero messo in galera Ng. Allora sì che avrebbe avuto qualcosa da dire alla madre di Gina. Quella telefonata sarebbe stata una sciocchezza e Diane Genero non era una donna con cui Fogarty voleva fare la figura dello sciocco. Tredici squilli. Cominciava a sudare e il gomito che teneva il telefono gli doleva nel punto in cui era appoggiato sul bordo della scrivania. Stava per abbassare il telefono quando udì uno scatto nella cornetta. «Ola.» Una vocina straniera parlò in spagnolo. «Per favore, posso parlare con Diane Genero?» «Uno momento, por favor.» Si udì un tonfo come se il ricevitore del telefono fosse stato posato su un tavolo di legno. A una lunga pausa seguì un altro suono, echeggiante, del sospiro che precede un discorso. Fogarty sentì una stretta allo stomaco. «Señora no aqui.» Rispose la stessa voce di prima. Fogarty rimase silenzioso per alcuni secondi mentre cercava di far riaffiorare al cervello quel po' di spagnolo studiato alle superiori. Non aveva neanche passato l'esame. «Ola. Ola.» Cristo, metterà giù il telefono. «Donde? Donde?» Sperò che in qualche
modo quella fosse la parola giusta per dire «dove». Un altro istante di esitazione. «Donde està señorita Genero?» Adesso gli era tornato in mente. Tutto il suo spagnolo, il suo intero repertorio di spagnolo. «Nuevo Yak.» «Pardonnez-moi?» Cristo. Adesso si era messo a parlare in francese. Era stato bocciato anche in quella materia. La vocina spagnola si schiarì la gola. Fogarty percepì l'imbarazzo. «Señor, la siniora Genero andata a Nuevo Yoork.» La voce ora sembrava quella meccanica di un computer. Fogarty sentì un senso di eccitazione. «Muchos bien... Ha il numero...» «Gracias.» Fu ciò che il tenente udì prima che la linea cadesse. New York. Lei è a centocinquanta chilometri da qui. Un'ora e mezza. Per qualche motivo quel pensiero gli diede una carica di energia come se avesse inaspettatamente acquisito un alleato per i suoi piani di battaglia. Quindi prese una copia recente del Daily News dalla sua scrivania, la aprì alla seconda pagina e controllò l'ora del tramonto: 17.43. Per le 19/19.30 sarebbe stato buio. Fogarty trascorse il resto della giornata a incalzare i suoi amici della polizia del New Jersey per ottenere il mandato e le pratiche di estradizione. Due investigatori con i quali aveva lavorato in passato avrebbero effettuato l'arresto, accompagnati da un terzo agente che, una volta, era stato il vice di Fogarty nel dipartimento di Filadelfia. Fogarty, Ratigan e un paio di altri due detective sarebbero stati presenti per la supervisione e per il passaggio di mani appena Ng avesse oltrepassato il ponte di Filadelfia. Nessuna fuga di notizie alla stampa fino alla conclusione. L'aveva ripetuto trenta volte in dieci telefonate. Rimaneva una sola questione cruciale e Bob Moyer gli aveva detto quale fosse. Gli stivali misura 44 con il tacco sinistro consumato e le tracce di sterco di cammello non erano stati trovati allo zoo di Filadelfia. C'è la probabilità che si trovino in un armadio o sotto il suo letto, meditò Fogarty. Posso entrare in casa di Ng e uscirne in meno di cinque minuti. Mentre si dirigeva verso il Presidential, si mise in contatto con Johnson: novità scarse. Willard Ng stava lavorando tranquillamente, intento a spalare gli escrementi e a pulire le zone esterne delle riserve naturali di cemento con una pompa. Gordon Forrest era stato avvisato e nessuno lasciava che Ng scomparisse dalla vista.
«Grosso figlio di puttana. Ci vuole un fucile per elefanti per abbatterlo,» aggiunse filosoficamente Johnson prima di chiudere la comunicazione. Fogarty accarezzò la zigrinatura dell'impugnatura della sua calibro 45, decidendo di portare con sé il pesante arnese finché la Mantide non fosse finita in gabbia. Quando fu entrato nel Presidential si spogliò e fece la doccia, sostituendo gli abiti da lavoro e le pesanti scarpe con una tuta da allenamento blu scuro che aveva comprato quando aveva deciso di iniziare a giocare a squash. L'aveva indossata soltanto una volta. Le suole aerate delle sue Nike lo facevano sentire leggermente distaccato dal pavimento mentre si dirigeva verso l'armadio nell'ingresso. «Quando ti sarai abituato a usarle, ti sembrerà di volare,» aveva promesso il venditore mentre Fogarty gli porgeva centoventi dollari per le suole aerate color argento con la fascia bianca luminosa ai lati. Prese dall'armadio una giacca a vento marrone scuro con il bordo di lana. Ci vuole un fucile per elefanti per abbatterlo. Ricordò la dichiarazione di Johnson mentre infilava le scatole di proiettili a punta vuota di riserva nella tasca anteriore. Ogni proiettile aveva una carica «Inspector», comprendente 200 pallini vuoti che, sparati dal barile da 3.5 pollici della massiccia calibro 45, avevano una percentuale di successo al primo colpo dell'83%. Soprannominato «il portacenere volante», il proiettile «Inspector» era noto per il suo foro d'uscita, attraverso il quale poteva passare agevolmente un pugno. Fogarty era soltanto lievemente nervoso quando oltrepassò il museo di belle arti, diretto a est, verso il New Jersey. Il portiere del suo palazzo gli aveva chiesto se stava andando in palestra, notando le suole aerate e facendo domande sulle loro prestazioni. Fogarty aveva risposto che non le conosceva ancora: prima doveva usarle sul serio. Chiedimelo stasera, dopo che ho commesso il crimine. Aveva pensato quella battuta sorridendo tra sé. Il portiere gli aveva augurato un buon allenamento. Alle 18.30, fece un'altra chiamata a Johnson. «Sì, sta facendo le pulizie. È soltanto andato un attimo nel retro per pisciare. Bobby Spinks l'ha seguito nell'urinatoio. È stato meglio che andasse Spinks al posto mio perché io non riuscirei assolutamente a pisciare accanto a quel perverso figlio di puttana.» Fogarty proseguì, oltrepassò la City Hall e la Roundhouse alla sua destra. Il sindaco, il campione della popolazione, composto sia degli uomini
d'affari sia dei comuni cittadini, durante le ultime ventiquattr'ore era stato sorprendentemente tranquillo. Nessuna pressione, nessuna improvvisa conferenza stampa, niente di niente. McMullon sembrava, per una volta nella vita, essere davvero il capo delle forze di polizia. Fogarty era ancora intento ad analizzare il personaggio oscuro di Winston Bright mentre si infilava nella corsia di traffico meno affollata e si fermava a fianco del casello per pagare il pedaggio. La sua mano cercò il portafoglio e il distintivo e non lo trovò nel taschino interno. «Merda!» «Mi scusi, signore?» Fogarty alzò lo sguardo sulla faccia pustolosa del casellante. «Mostri il biglietto o paghi la tariffa, signore.» Giurerei su Dio che è lo stesso stronzo che lavorava come fattorino al Bellevue. «Per favore, sta bloccando il traffico.» La stessa voce incredula e lamentosa. Fogarty abbassò lo sguardo dai piccoli occhi color azzurro slavato del casellante fino al suo cartellino. Arthur Kline. «Cristo, sembra impossibile.» «Prego, signore.» Adesso nella voce nasale c'era un accento impaziente e autoritario. «Spiacente, Arthur, credo di aver incontrato tuo fratello,» disse Fogarty, frugando nella tasca dei pantaloni in cerca di un biglietto da un dollaro; ne trovò uno e lo porse al casellante, senza aspettare le monetine di resto né la ricevuta. Bobby Spinks era seduto sull'asse di plastica del water dietro la porta chiusa del piccolo gabinetto. Non slacciò neanche la cintura dei pantaloni, nel caso che dovesse muoversi in fretta. L'uomo nel gabinetto a fianco del suo, invisibile dietro il sottile pannello metallico, aveva la diarrea. Si udivano degli schizzi rumorosi uscire e la puzza era quasi insopportabile. Spinks si era diplomato all'accademia di polizia da un anno e quello era il suo primo incarico di sorveglianza. Eccone una da raccontare ai ragazzi, una freddura: indiziato asfissia poliziotto di pattuglia. Cristo, che cosa aveva mangiato quell'idiota? Merda di scimmia? Willard Ng odiava defecare nei gabinetti pubblici. Lo infastidiva la mancanza di igiene a cui lo costringevano. Per dieci anni aveva praticato la pulizia del colon, era necessaria per avere successo nel controllo del fiato e nella concentrazione. Non usava carta igienica, invece si accovacciava nella vasca da bagno parzialmente piena, immergendo l'ano qualche centime-
tro sotto la superficie. Usava un disciplinato movimento dei muscoli addominali per risucchiare l'acqua attraverso il retto fin dentro il colon. La teneva lì per dieci battiti del cuore prima di espellerla. Questa sì che era pulizia. Pulizia perfetta. La carta igienica era disgustosa. Inoltre, dopo dieci anni di pulizia appropriata, gli procurava un'irritazione pruriginosa. Oggi era stato preso di sorpresa, non avrebbe dovuto andare a lavorare finché il suo intestino non si fosse risistemato completamente. Era stato costretto ad adoperare tre volte la toelette degli impiegati. Dopo tre volte il suo retto era ferito a sangue. Tirò l'acqua, chiuse la cerniera dei pantaloni da lavoro e aprì la porta dirigendosi verso il lavandino. Udì lo sciacquone dell'altro gabinetto alle sue spalle. Si lavò rapidamente le mani, cercando di evitare l'occupante dell'altro gabinetto, incollerito da quell'invasione della sua privacy. Stava per uscire dalla porta principale quando apparve l'altro uomo. Ng provò un senso di repulsione vedendo che Bobby Spinks non si fermava a lavarsi le mani. Invece di fermarsi al lavandino, il poliziotto si voltò e seguì Ng verso la porta. Una volta uscito dalla toelette Ng svoltò a destra: aveva deciso di non continuare a lavorare. Poteva telefonare a Forrest quando sarebbe arrivato a casa, spiegando che si era sentito male. Oppure poteva non chiamare del tutto, tanto non ci sarebbero più state delle conseguenze perché ormai il suo lavoro era temporaneo. Ehi amico, maledizione, stai andando nella direzione sbagliata. Maledizione, quella è la direzione sbagliata, pensò Spinks, esaminando le ampie spalle robuste del sospettato e i suoi passi lenti e silenziosi mentre questi scompariva dietro una svolta del corridoio lungo e stretto. La mano del poliziotto andò istintivamente alla ricetrasmittente, ma poi pensò al rumore che le voci gracchianti avrebbero fatto. Esitò. Seguilo. Ma non c'era nessuno nel retro del padiglione dei mammiferi. Certamente Ng si sarebbe insospettito, ma lui non poteva certo fare la parte del giovane detective che fa fallire un'indagine. Seguilo. La sua mente ripeté l'ordine. Cosa capiterà se quel folle si accorge di essere seguito? Potrebbe aver architettato tutto. Potrebbe essere lì ad aspettarmi. Tutti quelli che si occupano di questo caso sanno che Ng mangia carne umana. Seguilo. Questo è il tuo compito. Spinks fece del suo meglio per fingere un atteggiamento indifferente mentre percorreva i dieci metri dal punto in cui si trovava fino all'angolo oltre al quale era andato Ng.
Quando il poliziotto svoltò la seconda curva del corridoio, il sospettato era uscito dalla porta posteriore e si stava dirigendo indisturbato verso i cancelli a sud. Finalmente Spinks usò la radio. «L'ho perso.» Le tre parole che Tyrone Johnson temeva. «L'ho perso,» ripeté Spinks. «Dove?» chiese Johnson. «Sono davanti all'uscita posteriore del padiglione dei mammiferi, e sto guardando verso i cancelli posteriori dello zoo. Non lo vedo.» Spinks avrebbe spiegato che Ng aveva preso una direzione incomprensibile dopo la sua visitina ai gabinetti, ma Johnson non era più in linea. Il telefono nell'appartamento di Fogarty suonò venti volte prima che Johnson riagganciasse. Il telefono nella Le Mans del tenente, parcheggiata a quattro isolati di distanza dal numero trentuno di Benson Street, stava ancora suonando mentre Fogarty, sceso dall'auto, passava vicino alla Plymouth azzurra con i due investigatori del New Jersey a bordo, oltrepassava un lampione e si infilava nelle ombre dietro la casa di Ng. Impiegò meno di un minuto a far saltare la vecchia serratura Yale. Il profumo muschiato dell'incenso, unito a un leggero odore di sudore umano e ad un odore fetido ancor più leggero, diventava più intenso mentre Fogarty attraversava la cucina entrando nella stanza principale. Le porte delle camere che davano sulla stanza principale erano chiuse, come ricordava erano state quel mattino. Scelse la porta più vicina, l'aprì ed entrò. La stanza era minuscola, priva di finestre. Fogarty chiuse la porta alle sue spalle, poi puntò la torcia verso le file di vasi che occupavano gli scaffali alle pareti. Alcuni sembravano contenere del riso, altri grano, mentre altri erano pieni di carta velina appallotolata e nella parte più bassa avevano un basso strato di segatura. Sollevò uno dei vasi e con le mani guantate tolse facendo leva il coperchio di sughero che lo chiudeva. Un istante dopo stava barcollando per l'impatto con il gas cianuro. Riuscì a rimettere il coperchio e lasciò quasi cadere il vaso mentre lo spingeva di nuovo sullo scaffale. Trova ciò per cui sei venuto e vattene. Quell'avvertimento gli balenò nella mente mentre spegneva la torcia elettrica e si allontanava dagli scaffali. La seconda porta che aprì conduceva nella camera da letto di Ng. Un sottile raggio di luce lunare illuminava l'unica coperta bianca di cotone che copriva il materasso. Il tenente chiuse la porta, eliminando la luce della luna. Nella stanza cadde l'oscurità, Fogarty accese la torcia, la luce tremolò
una volta e poi si stabilizzò, rivelando un basso tavolino sul quale c'era un'abat-jour, un telefono, una sveglia digitale e un libro sottile con la copertina rigida. Un bel nugolo di polvere si levò davanti alla luce della torcia mentre il tenente faceva girare la luce attorno al letto di Willard Ng. Niente stivali, né scarpe. Si diresse verso il tavolino basso, con le suole di gomma silenziose sulle stuoie tatami. Maledizione, trova quelle cose e vattene. Sapeva ciò che doveva fare, tuttavia era attratto dai pochi effetti personali presenti in quel posto molto personale. Attratto verso la comprensione della mente di Willard Ng. Si chinò e prese in mano il libro sottile. Il kung fu della mantide religiosa di H.B. Un; lo aprì e si accorse che tutte le sue pagine erano state meticolosamente tolte e sostituite con un unico foglio di carta di riso. Sulla carta c'erano delle scritte a matita, delle note fatte a casaccio. «L'illuminazione è l'intuizione... Il pensiero non è più necessario, il vuoto non ha stile, né forma... L'insegnamento scritto è una mappa verso la libertà... La libertà è un segreto proibito al gregge... Gelosamente custodito. Quando la libertà viene trovata, la mappa deve essere distrutta... La libertà è la consapevolezza. La consapevolezza totale è la perfezione. Oltre la perfezione c'è la morte. La morte... La morte.» Poi c'era il disegno di due insetti a forma di bastoncino. Due mantidi religiose. Il più grande dei due stava tenendo molto chiaramente la testa staccata dell'altro tra le enormi mandibole. Non c'era niente di violento in quel disegno, poteva essere opera di un artista. Fogarty, però, non aveva tempo per i ragionamenti filosofici. Non c'era niente sotto il basso letto di Ng. Un bruciatore di incenso, della forma di un Buddha seduto, era al fondo della stanza. Una piccolo cumulo polveroso di cenere recente giaceva ai piedi della statua. L'altro odore, quello meno piacevole, veniva dal bagno a fianco della stanza. Una porta chiusa nascondeva quello che Fogarty sperò fosse uno spogliatoio. Si diresse verso la porta e l'aprì. Tyrone Johnson cominciava a disperarsi. Non soltanto aveva perso il sospettato, ma non riusciva nemmeno a localizzare Fogarty. Prese in considerazione l'idea di chiamare Dan McMullon, ma poi ci ripensò. Perché buttar giù le pareti quando non si è ancora sicuri che la casa sta bruciando? meditò. Nessuno aveva visto Ng lasciare lo zoo. Forse era solo questione di tempo e sarebbe ricomparso. Johnson non avrebbe lasciato più un novellino a occuparsi di lui, questo era certo.
Willard Ng oltrepassò tranquillamente il ponte Benjamin Franklin. Niente traffico e un vento gelato che entrava dal finestrino aperto e lo colpiva in volto. Si tolse la parrucca e la gettò sul sedile del passeggero, mentre si avvicinava al casello. Arthur Kline fece un piccolo buco nel tesserino stagionale di Ng e osservò il furgone grigio metallizzato passare nel labirinto di sbarre di cemento e scomparire sulla rampa di uscita per Broadway, Camden. Ng girò la manopola dei canali della sua radio, sperando di trovare quella canzone che aveva continuato a frullargli in testa da quella sera alla discarica. And now the end is near, and so I face the final curtain. Ricordava alcune parole ma non il motivo. In realtà, era la voce del cantante che voleva sentire. Si fermò su un canale che trasmetteva il notiziario di Filadelfia. «La polizia dichiara che è vicina a fare un arresto collegato alla brutale serie di omicidi che hanno sconvolto e paralizzato Filadelfia negli ultimi...» Ng spense la radio. Vicina. La polizia è vicina. Magnifico. È vicina. E anche io lo sono. Fogarty fissò le sei teste di manichino. Soltanto una era spoglia, bianca e porosa alla luce della torcia. Le altre erano coperte da parrucche, parrucche folte. La terza da sinistra era pettinata molto alta e all'indietro, come quella di un cantante di rock and roll degli anni Cinquanta. Era esattamente la pettinatura che Jeanette Key aveva descritto. Metti quella parrucca in testa a Ng e lui sarà il tizio dell'identikit. O forse no, non corriamo con la fantasia, pensò Fogarty, mentre allungava una mano e prendeva la parrucca: era sorprendentemente leggera, leggera come un uccello, tutto penne e senza ossa. La infilò in una tasca della giacca a vento. Poi si accovacciò per terra e cominciò a esaminare le varie scarpe, stivali e scarpe da ginnastica in cerca di un tacco sinistro particolarmente consumato. Willard Ng era leggermente infastidito dal fatto che ancora una volta il suo posto macchina davanti al numero trentuno della Benson era stato rubato dal camioncino Pick-up chevrolet del suo vicino. S'infilò in uno spazio dall'altra parte della strada, davanti al Santa Isabel Social Club, spense il motore e guardò verso la sua finestra frontale. Fogarty si fermò con lo stivale con la suola rugosa di gomma nella mano
destra. Ascoltò per un istante. Nulla. I suoi sensi parvero acutizzarsi. Fa' quello che devi fare e vattene! Di nuovo l'avvertimento. Più severo. Era stato imprudente. Raggiunse la porta dello spogliatoio e gli diede una spinta, questa si chiuse di scatto, nascondendo dentro di sé il raggio di luce della sua torcia. Willard Ng vide il lieve movimento nell'oscurità dietro la sua finestra. In casa sua c'era qualcuno. Nella camera da letto di casa sua. E questo qualcuno violava le zone più interne del suo santuario. Pensò a Josef Tanaka. Una lieve scarica elettrica gli agitò l'inguine. I cardini lubrificati di fresco dello sportello della sua macchina ruotarono silenziosamente. Scivolò fuori dal sedile e saltando lievemente sul marciapiede con la punta dei piedi corse verso la sua porta di entrata. Uno degli investigatori del New Jersey annotò l'ora del ritorno del sospettato mentre Ng si toglieva gli stivali prima di infilare la chiave nella serratura. Una volta entrato, Ng chiuse la porta a chiave. Poi rimase immobile. Completamente immobile. Si sintonizzò sulle vibrazioni nell'aria. Pensò di nuovo a Josef Tanaka e, per un istante, pensò di togliersi gli abiti, di prepararsi. Impossibile: la sua siringa e la medicina erano sotto il materasso del suo letto. Magari poteva farlo più tardi. Dalla camera da letto giunse un fruscio, come di qualcuno che strisciava. Qualcuno robusto ma privo della grazia di Tanaka. Qualcuno che sarebbe servito come ulteriore esercizio per il suo affinamento. Un altro spirito attratto dalla potenza del suo essere. Un altro recipiente vuoto in cui scaricare gli ultimi resti dell'imperfezione di Willard Ng. Controllò il fiato, rallentando i battiti del cuore, per rendere le sue vibrazioni impercettibili. Sapeva di essere alle soglie dell'invisibilità. Fogarty era in camera da letto con la torcia elettrica spenta, e lo stivale di Ng ancora in mano. Non aveva trovato traccia di un paio di stivali da lavoro. Probabilmente non ci sono più, suppose. Se la parte consumata sul tacco di questi stivali di pelle corrisponde al calco in gesso di Moyer allora è valsa la pena di venire fin qui. Il suo iniziale flusso di adrenalina si era dissolto e la sua mente stava divagando. Ancora una stanza. Ancora un minuto. Poi andrò via. Fece tre passi sul pavimento buio, aprì la porta e si fermò un istante nella stanza esterna più illuminata. Guardò alla sua sinistra e notò che la porta della terza stanza era leggermente socchiusa. Non ricordava di averla vista aperta. In effetti, ricordò chiaramente che le tre porte erano chiuse. Oppure le aveva viste chiuse quel mattino. Quel matti-
no! Cristo, sembra un anno fa. Guardò l'orologio: le 20.06; era dentro la casa di Ng da quattordici minuti. Da un tempo più lungo del doppio di quello che un bravo ladro avrebbe impiegato. Pensò di restare tutta la notte dato che sapeva che tanto non sarebbe riuscito a dormire finché non fosse stato certo di non aver tralasciato nulla. Spalancò la porta e guardò nella terza stanza. Notò che lì dentro l'oscurità era diversa da quella dello spogliatoio o della camera da letto. Era come se lo spazio fosse illuminato da una morbida luce indiretta. Le suole aerate di gomma delle sue Nike fecero un rumore attutito ma stridente mentre posava i piedi sul pavimento di legno tirato a lucido. Chiuse la porta alle sue spalle e la stanza si abbuiò. Rimase immobile, aspettando che gli occhi si adattassero. Stava per accendere la torcia quando mise a fuoco l'enorme sagoma davanti a lui. Il fiato gli si mozzò in gola e per un istante fu incapace di reagire. Nella mano destra, quella con cui sparava meglio, aveva ancora lo stivale. Però, la figura non si era mossa. Fogarty fece un passo di lato e con un solo movimento fluido lasciò cadere lo stivale e infilò la destra sotto la giacca a vento. L'impugnatura della Colt era fredda e robusta. La figura rimase immobile. Il tenente esitò. O si stava sbagliando oppure veramente l'uomo davanti a lui aveva quattro braccia e una gamba sola. Cautamente, Fogarty si avvicinò e sfiorò il Mon Fat-Jong con la mano sinistra. Il fantoccio da allenamento era duro e asciutto sotto le sue mani sudate. Poi si voltò, ansimò ed estrasse la pistola, prendendo di mira la forma oscura davanti a lui. Un istante dopo realizzò che era la sua immagine riflessa allo specchio. Una derisoria parodia di se stesso. Scoppiò quasi a ridere. Quel posto cominciava a ricordargli le sale dove si allenava a sparare durante il corso per dirigere le scorte dei pezzi grossi. Il tipo di stanza che era creata per mettere alla prova l'abilità dell'allievo ad agire sotto pressione, a pensare e reagire. Il tipo di stanza in cui Fogarty si era esercitato prima che il senatore Kennedy visitasse la Liberty Bell. Grazie a Dio, non lo era. Sarebbe potuto morire due volte. Prese fiato, rilassando la stretta sul calcio della calibro 45. Il suo respiro sembrò rumoroso in qualche modo sinistro all'interno di quel luogo pieno di specchi. Respirò di nuovo e trattenne il fiato. Alle sue spalle, il rumore del respiro continuò. Tyrone Johnson rintracciò Jim Ratigan al suo incontro bimensile agli Alcolisti Anonimi. Ratigan stava raccontando come avesse dato un manro-
vescio a sua moglie Alice al loro barbecue del 4 luglio quando gli arrivò il messaggio. Fu la prima volta in quattro mesi che frequentava l'associazione che pensò seriamente di bere un whisky. Lottando contro l'impulso, telefonò a Dan McMullon e lo mise al corrente della situazione. Poi, a causa di un pauroso presentimento, Jim Ratigan decise di fare un salto a Camden. Fogarty si voltò, si piegò su un ginocchio con la pistola che seguiva il movimento del suo corpo, che era tenuta alzata stretta con entrambe le mani e con le braccia tese. Per una frazione di secondo pensò di vedere la sagoma di un crocifisso in piedi davanti a lui. Il crocifisso respirava con lunghe inspirazioni sbuffanti. Il dito del tenente cominciò a tendersi sul grilletto della Colt. Mirò alla parte centrale del crocifisso, leggermente a destra. Direttamente verso il cuore di Willard Ng. Willard Ng esitò, trattenendo il suo primo colpo, trastullandosi nello spazio rarefatto tra la vita e la morte. L'uomo davanti a lui era allenato, non in modo perfetto, ma pur sempre allenato. Eccitato ma non dominato dalla paura. «Dannazione, non muoverti.» Parlando, Fogarty si alzò. Ng riconobbe quella voce. Riusciva appena a distinguere i tratti cicatrizzati del viso di Fogarty. Odiava l'imperfezione. Perché gli era stato mandato un involucro così imperfetto? Fogarty stava bleffando. Non poteva sparare. Non aveva alcun diritto in casa di Ng, alcun mandato, e nemmeno il distintivo. Allo stato attuale, Ng poteva farlo arrestare. Tenne la pistola puntata e arretrò cautamente. Ng si mosse insieme a lui, come un'ombra nera. Non aveva intenzione di permettere a Fogarty di uscire dalla porta. «Mettiti in ginocchio, con le mani sulla testa,» ordinò Fogarty. Adesso Ng aveva la percezione della sua preda e la sua iniziale negatività si era dispersa, rischiarando lo spazio tra le loro due menti. Si sintonizzò. Sapeva che la sua preda era confusa: non ci sarebbe stato alcun attacco iniziale. «Giù!» urlò Fogarty, spostando il mirino della pistola a livello della fronte di Ng. Poi vide la grande mano dell'uomo passargli rapidamente sulla sinistra. Come un falco predatore, la mano sembrò volare in un lento e ampio arco. Avrebbe potuto premere il grilletto allora... più tardi, molte volte, si sarebbe detto che avrebbe potuto sparare, che era stata soltanto la consapevolezza di essere fuori della sua giurisdizione a impedirgli di ucci-
dere quel bastardo allora e mettere fine alla faccenda. Altre volte, quando era più vulnerabile, solo nella sua camera singola, immerso nel dormiveglia, che fluttuava in un oceano di antidolorifici a base di codeina, avrebbe ammesso che la Mantide l'aveva preso sotto il suo controllo, risucchiando la sua mente fuori dal cranio, e lui era diventato debole e impotente. Avrebbe ammesso che, tutto sommato, aveva desiderato la morte. Quei pensieri lo terrorizzavano. Come se ci fosse una parte di lui che non era ritornata. Che non sarebbe ritornata mai più. «Hai sentito qualcosa? Un urlo, uno strillo?» chiese il detective Hugh Howard al suo collega. «Niente. Non ho sentito niente,» rispose Murphy. «Vado su, darò un'occhiata,» disse Howard, facendo il gesto di aprire la porta della Plymouth. «Non fare il pazzo, Hugh, il tizio non ha neanche acceso la luce. Probabilmente si è buttato sul letto. Se ci facciamo vedere faremo fallire la missione. Cristo, possiamo prenderlo domattina. Legalmente. Abbiamo il compito di arrestarlo.» Il pingue detective esitò, rientrò nella macchina e guardò il collega. C'era un buon senso superficiale nel suo sguardo stanco. «Hai ragione, Murph, sto diventando ansioso.» La Colt volò via dalla mano di Fogarty. Facilmente. Come se le sue dita non fossero mai state strette attorno alla sua fredda impugnatura metallica. Non la sentì mai raggiungere il pavimento. Sembrò semplicemente scomparire. Il secondo colpo lo colpì a lato della testa. La mano che colpiva era aperta e il palmo della Mantide sbatté a forma di coppa esattamente contro il suo orecchio, spingendo violentemente l'aria nel canale uditivo e rompendo la sottile membrana di pelle del timpano, assordandolo. Fogarty sentì i morsi del dolore in tutta la zona laterale del collo, ne seguì uno shock, una incapacità a reagire: rimase semplicemente fermo a guardare. La Mantide fece un passo indietro, con le braccia alzate e leggermente piegate ai gomiti, le dita puntate verso gli occhi della sua preda. Sarebbe stato facile infilare le dita nel tessuto morbido e umido. Il sangue si sarebbe mescolato alle lacrime. Ma lui voleva qualcosa di più, voleva mettersi alla prova, raffinarsi; voleva esercitarsi. La Mantide fece un passo di lato, girando una spalla verso la porta. Fogarty seguì il suo movimento, mentre
solo l'istinto gli diceva di allontanarsi dal suo aggressore. Si fermò esattamente al centro della stanza. La Mantide bloccò la porta. La mente di Fogarty si stava schiarendo ma il suo orecchio era stordito. Sapeva che doveva combattere. O sarebbe morto. La Mantide avrebbe potuto trasmettere il prossimo messaggio con la sua mente ma non era certa che la sottigliezza del contatto avrebbe sortito l'effetto desiderato. Forse la preda avrebbe frainteso il suo flusso di pensiero, perché i filtri della coscienza sociale avrebbero interpretato erroneamente il suo intendimento. No, avrebbe parlato. Cercò la sua voce e la trovò sepolta sotto gli strati della sua umanità rifiutata. «Sto per...» Ecco che arrivava, sottile e acuta. Un suono alieno. «...sodomizzarti. Sai che sodomizzo tutte le persone che uccido.» Ecco. L'aveva detto. In modo rude e che descriveva sommariamente il procedimento, ma sufficiente. Fogarty reagì con una rabbia che nasceva dalla paura e dalla repulsione. Si slanciò in avanti grugnendo raucamente. Un destro incrociato, con la mano chiusa in un pugno robusto ma impreciso. Sentì l'impatto e poi diede un sinistro, ruotando sulle gambe per cercare di raggiungere con i colpi l'avversario. Poi un diretto destro. E un sinistro, con i gomiti vicini al petto lanciato mantenendosi in equilibrio, ben radicato al pavimento. «Fottuta troia. Ti ucciderò! Fottutissima troia!» La voce di Fogarty era dura e aspra, ma le sue braccia cominciavano a sembrargli pesanti come il piombo. La Mantide si sintonizzò sulla vibrazione delle parole di Fogarty, sentendole emergere con il torrente di colpi fisici che piovevano sulle ali piegate protettivamente del corpo della Mantide. Poi la voce si calmò mentre i colpi cominciavano a perdere vigore, diventando infine fiacchi e lenti. Fogarty fu colpito con un pugno. La Mantide era ancora in piedi, con le braccia attorno al corpo a proteggere il viso e il petto, mentre il ginocchio sinistro era posizionato leggermente davanti al destro e spingeva all'indentro per proteggere la zona inguinale. Poi, con una grazia e una fluidità che faceva sembrare lento quel gesto, aprì le braccia e si gettò in avanti. Fogarty era senza fiato, troppo stanco per tenere le mani alzate e quando la Mantide lo afferrò, indietreggiò ma scivolò maldestramente sui calcagni. Jack Tucker individuò la Le Mans argentata con la targa della Pennsylvania nel preciso istante in cui svoltò l'angolo della Mickie Street. Per-
correva quella strada tanto sovente che conosceva quasi tutti i veicoli parcheggiati davanti alle due file di villette cadenti. La Le Mans lo colpì. Cristo! È la macchina del tenente! Ricordò di averla vista il mattino precedente. Si fermò a fianco della Le Mans, uscì dalla volante e guardò dentro dal finestrino. Vide la radio della polizia. La Mantide usò un pugno corto a dita strette, con il palmo girato lateralmente, per il primo attacco. Fu un rapido movimento schioccante, mentre le sue nocche indurite si infilavano profondamente sotto le costole più basse fino al diaframma di Fogarty. L'effetto del colpo fu una paralisi respiratoria che impedì al tenente di respirare, costringendolo a sforzarsi di immettere aria nei polmoni malgrado la contrazione dei muscoli intercostali che gli tiravano le costole come travi di acciaio contro i polmoni. Sarebbe caduto come un sacco se la Mantide non l'avesse trattenuto e sostenuto con un braccio. Fogarty, consapevole di un caldo fiato che gli soffiava sul viso, si raddrizzò all'interno della forte stretta e alzò il ginocchio destro in direzione dell'inguine del suo aggressore. La Mantide bloccò l'aggressione con un colpo di taglio a nocche tese, sulla rotula di Fogarty. La cartilagine e i legamenti si ruppero sotto il colpo, trasmettendo un'esplosione di dolore attraverso le terminazioni nervose, percorrendo il corpo di Fogarty fino a esplodere nel suo cervello. Poi sentì la mano d'acciaio chiudersi sui suoi testicoli, tirandoli come per distaccarli dall'inguine e cominciò a urlare... Fu un urlo senza suono, reso muto e senza effetto dalla mascella grande e muscolosa che si chiudeva sulla sua gola. «Senta, agente. Glielo dico per l'ultima volta, in quella casa non è entrato nessuno a parte l'indiziato,» insistette l'investigatore Murphy. Tucker arretrò perché il fiato di Murphy puzzava di cipolla. «Allora può spiegarmi perché la macchina di un agente della polizia di Filadelfia è parcheggiata a tre isolati dalla casa del sospettato?» Adesso Murphy era irritato e Hugh Howard lo era anche lui. Mentre gli parlava, Murphy guardò ostentatamente il distintivo di poliziotto stradale di Tucker. «Signor Tucker, non credo che sia nostro dovere fare questa discussione con lei e tantomeno spiegarle qualcosa. Ora, faccia a tutti noi il piacere di andarsene a casa.» Tucker annuì lentamente, sostenendo lo sguardo di Murphy mentre si al-
lontanava dall'auto, si girava e si dirigeva verso la sua volante. Mentre passava, scrutò la casa di Willard Ng. Fogarty giaceva in posizione fetale sul pavimento di legno. Fluttuava all'interno e all'esterno dello stato di coscienza. Enormi mani callose gli stavano togliendo gli abiti. Non aveva la forza di resistere. Cercò di raddrizzarsi una volta sola, quando le mani gli tirarono giù gli slip, tenendogli ferme le ginocchia e strappandoglieli via dalle gambe. Il peso di due ginocchia unite lo immobilizzarono completamente. In certi momenti, in cui c'era una pausa nel procedimento di spogliarlo, immaginò di essere morto. Di essere nel purgatorio, in quel posto di espiazione, tra il cielo e l'inferno. Quel posto di cui gli avevano parlato a lungo alla scuola cattolica che aveva frequentato. Era nel purgatorio. Poi i gesti riprendevano e sapeva, con sua paura e dolore, che non era morto. Udì un rumore gorgogliante, vicino. Non lo collegò al proprio respiro. La sua trachea era ostruita e gonfia perché il suo pomo d'Adamo si era fratturato e bloccava il passaggio dell'aria verso i polmoni. Qualcuno lo sollevava, lo manovrava. No, non le mie gambe, non piegare le mie gambe così. Il mio ginocchio. Per favore, no, non toccarmi il ginocchio. Poi l'oscurità. Svegliarsi per ritrovarsi messi a faccia in giù contro il pavimento. Ho il culo all'aria. La sua memoria viaggiò e un ricordo vivido affiorò. Era al Lankenau Hospital, pronto per un'operazione chirurgica. Emorroidi. Era in sala operatoria, era stordito. Gli avevano iniettato l'anestetico ma era ancora cosciente della posizione del suo corpo. Come se pregasse. E uno strumento sarebbe stato inserito nel suo retto. Era troppo grande per quell'apertura, Cristo, gli avrebbe fatto male. La Mantide prese la fiala e la siringa che teneva sotto il materasso. Stava per portare l'attrezzatura nella stanza della potenza, quando udì Fogarty urlare. «No, non sono addormentato. Non farlo. NO, NO, NO!» Poi Fogarty si mise a scalciare, agitando le gambe e cadde come un corpo morto sul pavimento duro. Tucker udì delle urla soffocate. Estrasse la pistola e corse verso la porta d'entrata della villetta di Willard Ng. Delle voci urlarono alle sue spalle: «Alt!», poi giunse lo stridio dei freni della Ford grigia di Jim Ratigan che si fermava in mezzo alla strada. Ng inghiottì la piccola fiala un secondo dopo aver udito il tonfo contro
la sua porta d'entrata. Quando la porta venne sfondata, aveva frantumato la siringa nel palmo calloso della sua mano ed era riuscito a infilare l'ago e i vetri rotti nello scarico della vasca da bagno. Alzò la cornetta del telefono. Le luci si accesero proprio mentre Jack Tucker irrompeva nella camera da letto. Brian Murphy e Hugh Howard erano a un passo dietro di lui. «Contro il muro!» urlò Tucker, subito imbarazzato dal tono isterico della propria voce. «Stavo per chiamare la polizia,» mormorò Ng. Gli sembrava di essere stato risucchiato da una qualche forza di gravità in un livello di coscienza più rozzo e più brutto. «Oh, Cristo, Gesù Cristo. Bill, Bill, mi senti?» La voce di Jim Ratigan giungeva dall'altra stanza. «Chiamate un'ambulanza! Maledizione, chiamate un'ambulanza!» Era mezzanotte quando a fianco del letto matrimoniale, nell'appartamento al terzo piano di Rittenhouse Square, squillò il telefono. Rachel Saunders era esausta ma completamente sveglia. Aveva terminato un intervento chirurgico ricostruttivo particolarmente delicato quel pomeriggio alle sei e al ritorno a casa aveva litigato con Josef Tanaka per cinque ore. Quando il litigio era terminato, né Tanaka né la dottoressa Saunders erano più riusciti a ricordare che cosa l'avesse scatenato. Qualcosa a proposito di un impegno, o la mancanza di esso. La cosa importante era che Josef Tanaka stava per andarsene. Per trovare un altro posto dove vivere. Tutto ciò fino a quando era arrivata la telefonata. Dopo di essa, il loro litigio sembrò meschino e passò in secondo piano. Quando riagganciò la cornetta, Tanaka aveva il volto terreo. «Joey, cosa c'è? Cosa è successo?» Non c'era nulla di professionale nel tono di Rachel Saunders, Era scomparsa la freddezza di cui lui l'aveva accusata un'ora prima. Nel suo sguardo c'era persino una traccia di paura. «Bill ha avuto un incidente. Molto brutto. Bob Moyer dice che temono non sopravviverà.» «Un incidente?» La voce di Rachel denotava la stessa sincerità di prima. Tanaka era già fuori del letto e si stava vestendo. Si voltò verso di lei e Rachel vide l'espressione angosciosa e disperata che gli distorceva i lineamenti, come sfigurandolo. Vederlo così la spaventò più della telefonata. «Bill è andato a casa di Willard Ng. È entrato scassinando la porta, stava perquisendo quel posto in cerca di una prova. Ng lo ha sorpreso. Dio, credono che morirà.» Fu allora che le lacrime di Tanaka cominciarono a cadere.
Rachel Saunders si alzò nuda dal letto. Non aveva mai visto piangere Joey e si era anche chiesta se ne fosse capace. «Per me è stato come un...» Tanaka stentava a dire quella parola. Lei gli si avvicinò titubante, incerta se lui avrebbe accettato il suo conforto. Anche lei stava piangendo, lo avvolse tra le sue braccia coprendogli la testa con i suoi morbidi capelli. I singhiozzi di Tanaka diminuirono e lui alzò la testa per vederla in viso. Adesso con più intensità. «Come un pa...» No, non era così. «È stato come un fratello per me.» Rachel scrutò i suoi occhi e vide il dolore che esprimevano. Poi vide che lo sguardo di Tanaka si induriva. «Bill non aveva un mandato. Non aveva neanche il distintivo. Ng gli muoverà delle accuse.» Tanaka smise di parlare e la fissò negli occhi. «Capisci ciò che sto dicendo?» Rachel continuò a guardarlo ma non parlò. «Se Bill vivrà, quel figlio di puttana lo farà arrestare.» Rachel Saunders voleva rispondere: No, è impossibile. Non può fare una cosa simile. Non preoccuparti. Ma era un medico, non un avvocato, e fu abbastanza saggia da non dire nulla. «Andrò a trovare Bob Moyer al laboratorio e andrò a Camden insieme a lui,» continuò Tanaka. Lei annuì. «Potrei non andarmene e potremmo sposarci,» sbottò Tanaka con voce tagliente. «Come?» esclamò Rachel. Ma lui era scomparso, era uscito dalla stanza e dalla porta di casa. E Rachel Saunders non era sicura di quello che aveva udito e non sapeva se desiderasse veramente sentirlo dire. Bob Moyer viaggiava a bordo di una BMW I. La macchina era silenziosa come una tomba. La sua voce era debole e in certi momenti tremante mentre faceva del suo meglio per raccontare quello che Dan McMullon gli aveva detto. «Bill era nudo quando sono entrati. Completamente nudo, con la faccia sul pavimento. Il suo ginocchio destro era gravemente fratturato, la trachea era rotta e i testicoli quasi strappati via dal corpo. Aveva ricevuto anche un colpo al collo che gli ha contuso la vena carotide. Temono abbia avuto una trombosi cerebrale.» «E Willard Ng è a spasso?» «Legittima difesa, Joey, legittima difesa. Hanno trovato un'arma non re-
golamentare con le impronte di Bill e nelle sue tasche i proiettili per quella pistola. Aveva una fondina appuntata al giubbotto. Nessun distintivo, nessun documento...» Tanaka scosse la testa. «Perché lo ha fatto, Bob? Perché?» Moyer continuò a guidare in silenzio, poi, finalmente, si voltò verso Tanaka. «Lo ha fatto perché io ho trovato poche prove. Perché gli ho detto che potevamo risolvere il caso se avesse avuto gli stivali che Ng indossava la notte che uccise Jeanette Key. Lo ha fatto perché,» Moyer esitò, «perché doveva essere fatto.» «Non si poteva aspettare di avere i mandati?» «Certe volte non si può, Joey. Il fatto che fosse nel New Jersey rovinava tutto, troppi problemi burocratici, troppi rischi di fallimento. C'era troppa gente che voleva proteggere il proprio territorio. Se a tutto questo aggiungiamo il tempo, le prove, e anche i sospettati, possono scomparire. Ecco com'è andata la faccenda.» «Quali sono le possibilità di Bill?» «Di sopravvivere o di continuare a fare il suo lavoro?» La risposta di Moyer sarebbe sembrata ironica se non fosse stato per il suo tono sincero. «Cosa vuoi dire, 'continuare a fare il suo lavoro?'» chiese Tanaka. «Winston Bright sta già facendo pressioni su Dan McMullon perché ritiri il distintivo a Bill. Aspetta domani mattina, quando lo chiederà davanti alla stampa e alla televisione.» «Oh...» Tanaka sentì una terribile sensazione di sconfitta che li coglieva entrambi. Le parole che disse furono quasi sussurrate. «Bill sarà ancora vivo domani mattina?» Moyer viaggiava alla destra di due motociclisti. Tanaka li guardò, notando il loro abbigliamento colorato. Il nome «Warlocks» era stampato a forma di arco sulla stoffa sporca dei loro giubbotti di jeans. Viaggiavano su delle Harley Shovelheads, con i motori che rombavano con un suono basso e gutturale. La mente di Tanaka andò alla propria moto, abbandonata in un fosso sotto le intemperie. Distrutta. Un indennizzo dell'assicurazione. Sembrava tutto accaduto molto tempo prima. «Il centro traumatologico del Cooper è uno dei migliori,» rispose Moyer. «Sì o no, Bob?» «La situazione non è rosea.» «E Willard Ng se la caverà. Che ne diresti di un'accusa per eccesso di difesa?» Nella voce di Tanaka c'era qualcosa di più che la collera. «Bill aveva una pistola, Joey. Si è introdotto nella casa di quel tizio.»
«Hai detto che Bill era nudo quando l'hanno trovato. È così che agisce quel maledetto pazzo.» «Ng era al telefono quando la polizia è entrata. Ha detto che stava per chiamare la centrale. Ha dichiarato di aver spogliato Bill in cerca di armi.» «Oh, andiamo, Bob. Sembra che tu voglia sostenere la difesa. Quel tizio è un folle, un maledetto folle pervertito.» Moyer posò lo sguardo su Tanaka. I suoi occhi erano duri e la sua voce palesemente controllata. «Ti ho detto come stanno le cose, Joey. E certe volte sono queste cose le uniche che vengono prese in considerazione.» Poi tra i due uomini cadde un silenzio malinconico. XVII CICATRICI Il Cooper Hospital è un edificio moderno di pietra bianca. È alto dieci piani, ha cinquecentocinquantadue letti e uno dei servizi di pronto soccorso più moderni della costa est degli Stati Uniti. Il tenente William T. Fogarty aveva smesso di respirare quando fu introdotto nel reparto traumatologico al piano terreno del Cooper Hospital. La tracheotomia effettuata dal paramedico sull'ambulanza non era riuscita ad andare sufficientemente a fondo per togliere i frammenti della cartilagine tiroidea fratturata che erano scivolati dall'epiglottide di Fogarty fin dentro la trachea. Il dottor Gabriel Forner ne aveva viste di tutti i colori nei sette anni passati all'Unità traumatologica I. Tuttavia, mentre rimuoveva delicatamente le schegge di cartilagine dall'apertura, stando attento a non spostare con le dita il tubo dell'ossigeno inserito alla base della trachea del paziente, fu costretto a distogliere lo sguardo dagli evidenti segni di morsi a entrambi i lati della gola tumefatta. Quei segni profondi e ampi facevano pensare che un animale rabbioso avesse addentato e lacerato la trachea dell'uomo. Quattro ore più tardi, quando ebbe ripreso a respirare con un gorgoglio rauco, Fogarty fu portato in una cameretta singola e gli venne somministrata una robusta dose di farmaco anticoaugulante. Se fosse sopravvissuto per alcune ore esistevano buone probabilità che i farmaci avrebbero dissolto il coagulo cerebrale. Tanaka e Moyer erano insieme a Dan McMullon, Jim Ratigan e ad uno dei detective del New Jersey che avevano fermato Willard Ng. Ng era attualmente recluso alla centrale di polizia di Camden per essere interrogato.
Ufficialmente, non era in stato di arresto. «Tiene duro con la sua storia.» Brian Murphy parlava sottovoce, con quel tono rispettoso che Tanaka si era abituato a sentire nei corridoi degli ospedali. Un tono rispettoso nei confronti dei moribondi. «È tornato a casa, le luci erano spente. Un tizio robusto lo ha assalito arrivando da chissà dove, agitando una pistola. Così lui si è difeso.» «Bucando a morsi la gola di un uomo?» chiese sarcasticamente McMullon. Murphy si strinse nelle spalle. «Ehi... questo tizio lottava per la sua vita. Ne ho viste di peggio giù ai docks. Credimi.» Nessuno gli credette. «Vi dirò che cosa succederà adesso,» proseguì Murphy ostentando autorità. «Domani mattina, appena il nostro difensore pubblico riceverà il rapporto sulla scrivania, a voi ragazzi verrà chiesto di trovare un accordo.» McMullon si era aspettato quella faccenda. Strinse le labbra, come per impedire a se stesso di pronunciare qualche oscenità. Ratigan notò che il corpulento ispettore capo aveva un aspetto più duro del solito. «Voi ritirate la denuncia contro Willard Ng e lo stato del New Jersey ritirerà la sua denuncia contro la città di Filadelfia.» Le parole di Murphy erano pesanti come piombo. «E forse dissuaderà persino Ng dall'intentare una causa civile contro il vostro tenente.» Dan McMullon stava per esplodere ma si bloccò vedendo il dottor Gabriel Forner che usciva dalla camera di Fogarty. Il dottore era un uomo dalla carnagione scura di altezza media e alcune volte era stato scambiato per l'attore Robert De Niro. Quando ciò accadeva, se ne rallegrava, perché quel fatto aggiungeva un tocco di leggerezza alla sua vita quotidiana nel reparto traumatologico. Moyer fece un passo avanti, si presentò e andò direttamente al sodo. La voce di Gabriel Forner era quasi monotona e le sue parole comunicavano soltanto una lieve speranza. «Se il coaugulo si è disperso ci sono probabilità che il tenente sopravviva. In ogni caso, è stato privato dell'ossigeno per un tempo imprecisato e finché non riprenderà conoscenza sarà impossibile dire se ci sono dei danni cerebrali permanenti. In quest'ultimo caso, la situazione peggiorerebbe...» «Che cos'altro gli ha fatto quel tizio?» chiese Tanaka. Forner abbassò lo sguardo un istante prima di incontrare i profondi occhi castani di Tanaka. «Il ginocchio destro del tenente è stato spappolato. La rotula si è rotta all'interno contro i legamenti crociati. Sia i legamenti anteriori che quelli posteriori si sono spezzati. Forse potranno essere ricuciti,
forse no. Dipende da quando lo potremo portare in ortopedia. Il suo sacco scrotale è stato parzialmente distaccato dall'inguine ma i testicoli sono ancora intatti. Gli ho fatto una sutura allo scroto e non dovrebbero esserci problemi.» Forner esitò. «Sapete già del morso alla gola. Ha spezzato la cartilagine ialina a fianco dell'esofago.» «Quando potrò entrare?» chiese Tanaka, guardando verso la porta chiusa della camera di Fogarty. Era difficile credere che il suo amico era là dentro, che giaceva in un letto, inerme. Era una sensazione strana, di sospensione. Tanaka l'aveva provata già prima di allora. Una volta, dopo le finali dei campionati giapponesi di karaté. Allora era stato suo fratello Hironori, colui che stava dietro una porta, ed era stato Josef a farlo finire là dentro. Allontanò dalla mente quel ricordo. «Il dottor Tanaka ha lavorato con il tenente Fogarty durante questa indagine e sono diventati amici,» spiegò Bob Moyer. «Capisco, dottore, mi creda,» rispose Forner. Poi rivolse la sua attenzione a Tanaka. «Se il nostro tentativo di sciogliere il coaugulo avrà successo, allora quando riprenderà coscienza sarà utile che sia presente qualcuno in cui il tenente abbia fiducia e con cui si senta a suo agio... A quanto ho capito, non ci sono parenti stretti.» Non ci sono parenti stretti. Quelle parole colpirono profondamente Tanaka. Si sentì prendere da un senso di vuoto e di solitudine; pensò a Rachel Saunders. «Posso preparare una stanza per lei dove potrà stare fino a domattina,» propose Forner. «Grazie, dottore, ma aspetterò qui.» Forner annuì in segno di approvazione e si allontanò dai due uomini. McMullon, Ratigan e Murphy erano ancora in attesa in un angolo della stanza. «Non riuscirai mai a convincere nessuno che c'è stata una colluttazione,» dichiarò Ratigan. «Ng non ha neanche un graffio su di sé.» «Ci sono ferite su entrambe le braccia,» ribatté Murphy. «Dammi tregua.» Ratigan sembrava disgustato. «In ogni caso non importerebbe,» proseguì Murphy. «È la pistola che rovina tutto. Un'arma carica con la sicura disinserita.» «È un gran peccato che non abbiate perso quella pistola,» disse Ratigan. La voce di Murphy si abbassò. «Se fosse stato per me l'avrei gettata via. Ma la situazione era troppo complicata.» Non sembrò molto convincente. «Già, dimenticavo. Il primo uomo a entrare è stato un agente del traffico,»
disse amaramente Ratigan. «Se non era per lui, il nostro uomo sarebbe morto,» aggiunse. Brian Murphy sembrò per un istante intenzionato a dare un ceffone a Jim Ratigan, ma poi parve acquietarsi visibilmente. «Incastreremo Ng, lo incastreremo,» mormorò e poi si diresse verso i gabinetti maschili. Bob Moyer osservò il detective del New Jersey aprire la porta e scomparire. Mise una mano sulla spalla di Ratigan. «Siamo tutti stanchi, Jim. Questo fatto ci ha gettati tutti a terra.» Tanaka era in uno stato di dormiveglia e l'occasionale rumore di scarpe dalla suola di gomma certe volte lo faceva sobbalzare. Gli agenti di polizia e Bob Moyer se ne erano andati dall'ospedale alle quattro del mattino. A quell'ora, aveva telefonato alla segreteria telefonica di Rachel Saunders, lasciando un messaggio che diceva che l'avrebbe vista a una certa ora l'indomani mattina. Aveva avuto il desiderio di dirle che la amava ma non era riuscito a dirlo alla fredda voce che rispondeva alla segreteria. Quando era ritornato dalla cabina telefonica aveva visto che le infermiere avevano messo una poltroncina per lui davanti alla porta della camera di Fogarty. Era verde e morbida e le molle uscivano al disotto del sedile. Era sprofondato in essa, addormentandosi quasi istantaneamente. Per un'ora. Nelle altre tre ore aveva dormito a sprazzi e i suoi occhi erano stanchi e arrossati. «Dottor Tanaka. Dottor Tanaka.» La voce parlava sopra di lui. Inizialmente pensò che fosse l'altoparlante sulla sua testa che chiamava un dottore. Poi riconobbe il proprio nome e capì che si era nuovamente addormentato. «Dottor Tanaka.» Era una voce di donna. Alzò lo sguardo e vide gli occhi della caposala. Gabriel Forner era in piedi alle sue spalle. Un altro uomo era alla sinistra di Forner. Il dottore aveva una corta barbetta nera che gli ombreggiava i lineamenti. Sembrava esausto, abbattuto. Tanaka si alzò in piedi e attese. Aspettandosi di sentirsi dire il peggio. Forner si schiarì la gola. «Il coaugulo si è dissolto.» Tanaka cominciò a sorridere. «Comunque, siamo ancora incerti per quanto riguarda i danni cerebrali del tenente Fogarty.» Forner si voltò verso l'uomo calvo, più alto di lui. «Questo è il dottor James Reed, dirige il nostro dipartimento neurochirurgico.» Tanaka tese la mano. Le dita di Reed erano lunghe, fredde e delicate al
tatto. Il dottor Reed fece un cenno col capo. «A causa delle condizioni precarie del suo amico, preferisco non portarlo in radiologia per una TAC. Almeno per qualche giorno, in ogni caso.» La voce di Reed si armonizzava perfettamente con le sue mani, era dolce e fluida, con le vocali larghe. «Se avesse voglia di sedersi accanto a lui e parlargli, forse la sua voce susciterà una reazione. Non possiamo avere alcuna certezza dell'estensione dei danni cerebrali. Almeno per ora.» «Certo che lo farò,» rispose Tanaka. «Non si aspetti molto,» aggiunse Forner mentre conduceva Tanaka alla porta della camera di Fogarty. Due infermiere sedevano al sistema di monitoraggio a fianco del letto. L'immagine computerizzata di una palla che saltava sullo schermo azzurro di un monitor: i battiti del cuore del paziente. Sottile sullo schermo luminoso. Un elettrodo collegava il paziente al monitor. «Fogarty, William T.» era scritto su un cartellino al fondo del letto. Una sagoma umana giaceva sotto le bianche lenzuola e la coperta del letto. Bende larghe fasciavano il collo dell'uomo. Dove terminavano, una massa gonfia di tessuto rosso scuro saliva come una fiamma rabbiosa su per il viso fino alla tempia destra. L'altro lato della faccia, quello con le cicatrici, era gonfio come un pallone. Due fleboclisi erano collegate all'uomo, una a ogni lato del letto. I suoi occhi erano chiusi e il rumore del suo fiato assomigliava al sibilo di un'ancia rotta. Le stesse ferite che avevano i corpi delle donne, notò Tanaka mentre si soffermava sulle ferite al collo di Fogarty. Poi le sue emozioni sembrarono influire su ciò che vedeva, scacciando via il punto di vista professionale. Sentì scaturire una furia adrenalinica, mitigata dal sentimento di pietà. La sua voce era un sussurro. «Bill... Bill. Che cosa è successo? Che cosa ti è successo?» A un chilometro e mezzo di distanza, seduto su una sedia metallica pieghevole in uno dei piccoli stanzini per gli interrogatori della stazione di polizia di Camden, Willard Ng era al centro dell'attenzione. Un flusso continuo di agenti di polizia era entrato e uscito dalla stanza dove si svolgeva l'interrogatorio per tutta la notte. Willard sentiva la rabbia repressa di molti di loro ed era altrettanto consapevole del loro timore. Gli era stato ricordato parecchie volte che non era in stato di arresto. Che stava collaborando di sua spontanea volontà. Alle otto del mattino aveva raccontato la sua ver-
sione dei fatti della notte precedente almeno una decina di volte. Il suo terrore nello scoprire un uomo armato nella sua casa buia. Sì, forse aveva reagito in modo eccessivo, lo ammetteva, ma l'uomo era grande e forte e teneva una pistola puntata contro la sua testa. No, l'uomo non si era mai qualificato come agente di polizia. Sì, Ng sapeva che il tenente stava occupandosi dell'indagine sulla serie di omicidi avvenuti a Filadelfia. No. Non aveva commesso lui quei delitti. Ng sospettò che uno degli uomini che lo interrogavano fosse uno psichiatra. L'uomo era diverso dai poliziotti, era più piacevole parlare con lui. Era molto cortese, rispettoso. E aveva un modo particolare di ripetere le risposte di Willard, tramutandole in un'ulteriore domanda. «Ha mai avuto un'esperienza sessuale con un uomo, signor Ng?» «Una volta, forse due, al St. Thomas,» rispose Willard. «Una volta, forse due?» ripeté l'uomo dal volto giovanile, aggiungendo alla risposta di Ng un'intonazione particolare. Poi aspettò silenziosamente. Willard comprese che doveva riempire quel silenzio. Elaborare. Certe volte lo fece. Altre volte rimase semplicemente seduto a fissare le lenti chiare degli occhiali del suo inquisitore. Quelle lenti ingrandivano solo leggermente e Willard era certo che il dottore le indossasse per aggiungere età e autorità al suo volto altrimenti scialbo e insignificante. Willard non si concentrò mai, nutrendosi invece dell'energia di coloro che lo interrogavano. Era come caricare una batteria. Più loro diventavano stanchi ed esasperati, più Willard si sentiva rinvigorito. «Ha avuto rapporti sessuali con un uomo durante l'ultimo anno?» Mentre parlava, il giovane medico teneva gli occhi fissi su Willard. Tentava di rimanere passivo, neutrale. Il tic nervoso che aveva cominciato a fargli muovere l'angolo della bocca, tendendogli i minuscoli muscoli che contornavano le sottili labbra rosee, lo tradiva. Era leggermente emozionato. «Ne ha avuti?» Willard aveva tenuto sotto controllo il suo pensiero, tenendo a freno la lingua. Impiegò parecchio tempo a rispondere, ma quando lo fece capì che ne era valsa la pena. «Non posso assolutamente avere rapporti sessuali.» «Non può avere rapporti sessuali?» Il giovane viso sembrava sinceramente sconvolto. «Parecchi anni fa sono stato ferito durante una gara atletica. Ho ricevuto un colpo all'inguine e ho perso un testicolo. Alcuni nervi della mia ghiandola prostatica furono recisi. Sono impotente.» Willard abbassò la testa, per accentuare l'effetto.
Furono necessarie parecchie contrazioni del viso, un intenso rossore e una lunga schiarita alla gola prima che il giovanotto si riprendesse. «Nessuno le ha mai fatto questa domanda prima di oggi?» «Non mi è mai stata fatta,» rispose Willard. Si era sintonizzato senza sforzo sulla mente che stava cercando di sondare la sua. Era una mente fresca e veloce. Priva di profondità. Ciò fece desiderare a Willard che fosse Josef Tanaka a interrogarlo. Come un amante che desideri un'altra persona che sia al suo stesso livello di esperienza. Il volto giovane distolse lo sguardo da Willard e colse l'occhiata dell'agente che vigilava davanti alla porta. «Credo che sia meglio che mi incontri con l'ufficiale che si occupa di questo caso,» disse, e poi aggiunse, voltandosi di nuovo verso Willard: «Posso portarle qualcosa? Un caffè, un bicchier d'acqua?» Willard scosse la testa. «Credo che potrò chiarire questo pasticcio per lei, signor Ng.» Willard sorrise. «Sarebbe disposto a sottoporsi a un esame fisico effettuato da un medico legale?» Willard fece in modo che la sua espressione diventasse passiva. «Per provare ciò che mi ha appena detto. Si tratterebbe di una visita strettamente riservata.» Willard annuì. Tanaka sedeva silenzioso accanto al letto di Fogarty. «Qualcosa. Dica qualsiasi cosa. Certe volte il suono di una voce familiare suscita una reazione,» ripeté la caposala. Tanaka pensò un istante poi alzò lo sguardo e disse: «Che ne direbbe di lasciarmi solo con lui?» «Non possiamo. Se ci fossero dei problemi respiratori...» «Io sono medico.» Si diresse verso il macchinario. «So come funzionano i monitor. Ho fatto un anno come internista nel reparto di pronto soccorso al Filadelfia Hospital.» «Va bene,» rispose l'infermiera, facendo segno alle altre due di uscire con lei dalla stanza. Tanaka attese finché il rumore dei loro passi si affievolì nel corridoio. Poi avvicinò di più al letto la sua poltrona, tese una mano e sfiorò delicatamente il braccio di Fogarty. Inizialmente Tanaka rimase in silenzio, stranamente imbarazzato. Finalmente trovò le parole.
«C'è qualcosa di cui ho sempre voluto parlarti, Bill. È il motivo per cui sono leggermente picchiato nella testa.» Fogarty emetteva lunghi respiri penosi, e i suoi occhi erano nascosti sotto le palpebre pallide e pesanti. Il volto era terreo. «Riguarda ciò che è successo in Giappone. Prima che volessi diventare un medico. Prima di allora non avevo mai pensato di venire qui.» Tanaka esitò, guardò una volta verso la porta chiusa, abbassò la voce e proseguì. «È successo durante le finali del torneo nazionale giapponese di karaté. È molto importante in Giappone, Bill. È un po' come le World Series per il baseball americano. È seguito dai giornali, dalla televisione, da dodicimila spettatori. Ma per noi è qualcosa di più di questo, perché è anche qualcosa che riguarda la nostra tradizione, è come una minuscola oasi della nostra cultura che non è stata contaminata dall'influenza dell'Occidente. E, durante quei tre giorni, in quello stadio di Tokyo, le virtù più importanti sono l'abilità, il coraggio e l'onore... Lavoro, vestiti, soldi: non significano nulla. «Dovresti vederli i vecchi maestri esibirsi con i loro katana, le lunghe spade, che ripetono le antiche forme di lotta. Si percepisce lo spirito del Giappone feudale. L'orgoglio del samurai. Mio padre è un samurai, Bill. Un samurai purosangue, i suoi antenati erano i guardiani e gli insegnanti dei più forti shogun della storia giapponese. «E mio fratello, Hiro, era...» Tanaka esitò, costringendosi a modificare la frase. «Mio fratello è un samurai. È nato da una madre diversa dalla mia, Bill. Prima che mio padre abbandonasse la prima moglie per sposare una straniera.» Fogarty mugolò, e sembrò sforzarsi di muovere la gamba danneggiata. Pesanti fasciature gliela tenevano rigida. I suoi occhi rimasero chiusi e, gradatamente, ritornò immobile. «Mi ascolti, Bill?» chiese Tanaka, afferrando la mano del tenente. «Non sforzarti di parlare. Stringimi soltanto la mano.» Tuttavia, la mano di Fogarty rimase inerte. «Hiro aveva quattro anni più di me. Lo idolatravo. Il suo aspetto era identico a quello di un giovane guerriero samurai in una di quelle incisioni in bianco e nero in un libro sulla storia del Giappone nel sedicesimo secolo. Era molto fiero di sé. Quando eravamo piccoli dormivamo nella stessa stanza. Ricordo che stavo seduto sul letto a osservarlo mentre si pettinava, e a scrutare il suo volto allo specchio, chiedendomi per quale motivo non fossi come lui. Voglio dire, si vedeva che eravamo fratelli; era solo che, be', i miei lineamenti non sono mai stati così fini, così ben delineati come
quelli di Hiro. Era come se lui fosse l'aristocratico e io il contadino. Non ero geloso, Bill. Ero confuso certe volte, ma non geloso. Hiro sembrava troppo superiore a me perché potessi esserne geloso. Accadeva lo stesso con i nostri caratteri: io avevo gli attacchi di rabbia, i nervi, e Hiro aveva il fascino, lo spirito arguto. Io mi mettevo sempre nei guai con ragazzi che sapevo di non poter battere e Hiro mi salvava, appianava la situazione. Quando guardo il passato, capisco che mi comportavo in quel modo per confermare la mia inadeguatezza. «Era un ragazzo dolce, Bill, un grande atleta, ma non era mai aggressivo quando non era in gara. Probabilmente se non fosse stato per mio padre non si sarebbe dedicato alle arti marziali. Nostro padre aveva bisogno di qualcuno che proseguisse la tradizione familiare. Mio padre era un campione e Hiro doveva diventare un campione. «Hiro mi trasmise l'interesse per il karaté, incoraggiandomi a concorrere con il gruppo dell'università di Waseda. Voleva soltanto il meglio per me, voleva che diventassi il suo successore.» Tanaka chinò la testa. «Non volevo combattere con lui in quel torneo: fu come un incubo. Nostro padre osservava, tutto il Giappone ci osservava. Il fratello mezzosangue contro il samurai. Il Giappone annacquato contro la tradizione. Era una cosa troppo grande per noi, completamente priva di prospettiva. Hiro non poteva permettere che lo vincessi. Tutto il resto non importava, era troppo per lui perdere la faccia. E io non potevo rimanere al tappeto, non potevo sopportare una simile umiliazione. Fu come se finalmente avessi capito che qualcosa dentro di me era stato al tappeto per tutta la mia vita, lasciando che fosse Hiro a combattere le mie lotte al posto mio. E mi dispiaceva per lui, ma mi dispiaceva ancor di più vivere per il resto della mia vita nella sua ombra.» Adesso Fogarty stava ascoltando. Per lui quelle parole erano senza significato, fluttuavano in un flusso di coscienza interrotto. La voce era maschile, emozionata, familiare. «Gli ho rotto il collo... Ho rotto il collo di mio fratello. Paralizzandolo dal collo in giù. Distruggendogli la vita. Strappandogliela via. L'ho ripagato per tutto quello che mi aveva dato rendendolo un incapace.» Adesso Tanaka parlava con amarezza, e Fogarty colse quel sentimento venendone attratto. Dan McMullon aveva il viso bianco come il gesso quando posò il tele-
fono. «Willard Ng ha intenzione di citare in giudizio la città di Filadelfia.» Ripeté la minaccia del difensore pubblico del New Jersey più volte a se stesso, scuotendo la testa con incredulità. «Ripetimelo di nuovo!» Winston Bright ascoltò la propria voce: sembrava proprio un urlo strozzato. Si alzò dall'enorme scrivania di mogano. Dan McMullon tenne le mani strette ai fianchi, con i pollici che tremavano nervosamente. Percepiva la collera del sindaco, sembrava sgorgare da ogni poro del corpo dell'uomo di colore. L'ispettore capo fece un passo indietro, scuotendo la testa. «Willard Ng si è sottomesso volontariamente sia a un esame medico che alla macchina della verità, e il medico legale che lo ha esaminato per conto dello stato del New Jersey ha giurato che Ng sarebbe stato incapace di avere un rapporto sessuale con le vittime.» «E Bill Fogarty? che mi dici di Bill Fogarty?» chiese Winston Bright, con la voce ridotta a un sibilo. «È ancora incosciente, ma a quanto sembra vivrà...» «Non me ne frega un cazzo che viva,» tagliò corto Bright. «Non è questo che ti ho chiesto.» McMullon cominciò a sentire i suoi nervi che si tendevano. In quegli anni aveva avuto parecchi scontri con Fogarty. Lo aveva sempre odiato a morte. Aveva testimoniato contro di lui una volta, all'ufficio affari interni. Grazie a quella testimonianza Fogarty era stato silurato. Era un forte bevitore, imprevedibile. Cristo, non sapevo che gli avrei rubato la promozione. McMullon si sentiva ancora in colpa. Si era sempre sentito in colpa. Ed era stato ancora peggio, perché Fogarty aveva mangiato la foglia e non gli aveva più telefonato. E Fogarty era un poliziotto, ed era anche bianco. Dan McMullon era debitore verso Bill Fogarty. «Hai autorizzato tu il tenente Fogarty ad andare nel New Jersey nella casa del sospettato? È stato un esempio della tua stupenda fottutissima idea del lavoro investigativo?» La voce di Winston Bright bombardò McMullon, il cui volto era passato dal bianco al grigio. «No,» rispose cupo. Quella risposta laconica faceva intendere una sfida. «Ti dirò che cosa dovrai fare, Dan.» Il sindaco adesso cercò di frenarsi. «Invierai un comunicato alla stampa in cui si dice che William T. Fogarty soffriva di gravi disordini mentali in seguito all'incidente di quattro anni fa, che era sottoposto a controllo psichiatrico e che ha agito assolutamente al di fuori della sua competenza giurisdizionale. Toglierai al tenente il distintivo e gli farai avere una pensione di invalidità minima, per pura compas-
sione da parte nostra.» «E per quanto riguarda Willard...» «Non mi interrompere, Dan.» Winston Bright aveva preso il sopravvento. McMullon si zittì. «Poi darai le dimissioni dal tuo posto di ispettore capo.» McMullon non riusciva a credere a quello che sentiva, avrebbe voluto ribattere ma la sua mente si bloccò. Aveva fatto la parte di quello che se le prende anche per gli altri così tante volte che non riuscì a staccarsi di dosso quel ruolo. «Quando la situazione si sarà calmata, ti sistemerò in un buon posto,» promise Bright. Quello fu tutto. Dan McMullon, cattivo ragazzo, giustamente punito. Stava quasi per rispondere «grazie». Poi, una alla volta una, le sue facoltà mentali si ripresero. I suoi processi di pensiero ricominciarono. Quante volte era stato il capro espiatorio di Winston Bright? Indifeso, alla mercé del sindaco? E dato che gli era debitore per il posto che aveva, era stato sempre costretto a fare quello che voleva. Ma ora le cose erano diverse. Una volta tanto aveva anche lui un'arma nelle mani. La rabbia e il risentimento cominciarono a salirgli dalla bocca dello stomaco. Winston Bright fece un sorriso forzato e tese la mano. Rimase in attesa. Finché la voce di McMullon esplose, come una burrasca. L'onda di una burrasca. Cogliendo Winston Bright di sorpresa. «Figlio di puttana di un negro. Fottuto bugiardo.» McMullon balzò in avanti. Trattenne il suo corpo e si concentrò su ciò che diceva. «Certo che terrò una conferenza stampa. Nessun problema. E leggerò brani del diario di Jeanette Key. Quelli in cui si dice che ti piaceva legarla, torturarla e urinarle addosso. Bastardo schifoso!» McMullon fu sorpreso di se stesso. Sapeva anche che aveva superato il confine ed era troppo tardi per fermarsi. «Quando lo farò sarai considerato il sospettato numero uno!» Gli occhi di Winston Bright sembrarono uscire dalle orbite e le sue labbra erano talmente strette che avevano i bordi bianchi. Il suo volto assomigliava a quello di un mostro ottenuto con effetti speciali in un film dell'orrore di serie B, un istante prima che la testa cada in pezzi ed esploda. Nel suo cuore, sotto la larga cravatta di seta e la costosa camicia bianca, stava avvenendo una guerra; il sereno politico nero che si era laureato in legge alla Tempie University grazie ai suoi risultati nel basket, stava tenendo forzatamente a freno il ragazzo violento proveniente dalla giungla di cemento di Lehigh Avenue; il ragazzo che voleva calpestare il bianco maiale
irlandese. Come era sempre successo, ad eccezione di quella volta dell'incidente con gli attivisti gay a metà degli anni Ottanta, la personalità più diplomatica e più politica di Winston Bright prevalse. Il suo volto si rilassò atteggiandosi a una maschera di esperta passività, mentre l'espressione dei suoi occhi, come l'indicatore di pressione di una caldaia a vapore, ritornò al di sotto del livello di guardia. Il sindaco scosse tristemente la testa. «Dan, abbiamo giocato insieme troppo a lungo per cominciare a darci colpi bassi. Sediamoci ed esaminiamo la questione. Troviamo un paio di alternative». McMullon percepì la sua vittoria e per una volta fu abbastanza furbo e prudente da non darlo a vedere. Annuì pensierosamente e accettò la grande mano tesa di Bright lasciandosi condurre verso una delle tre poltrone libere davanti all'enorme scrivania. Josef Tanaka era certo di sentire la mano di Fogarty stringere. Smise di parlare e si chinò sul letto del tenente. Avvicinò la bocca a pochi centrimetri dall'orecchio di Fogarty. «Mi senti, Bill? Stringimi la mano se mi senti.» Aveva proprio bisogno di credere che la mano robusta del tenente stesse tirando la sua. «Vuoi che continui a parlare? Che ti racconti il resto?» Percepì un altro strattone alla mano, o era tutto frutto della sua immaginazione? «Fu quando Hiro uscì dall'ospedale e tornò a casa che mi sentii davvero male. I medici cercano di prepararti ma niente ti può preparare a una cosa simile. Dentro di me mi ero fissato sull'idea che Hiro sarebbe entrato dalla porta camminando, che sarebbe stato bene.» La voce di Tanaka si affievolì. La mano di Fogarty si strinse. «Poi arrivò l'ambulanza. Fecero uscire Hiro e lo portarono in casa. Lo guardai negli occhi mentre passava. Era come se cercassi qualcosa: odio, rancore. Qualsiasi cosa...» Tanaka esitò, andando in cerca delle parole, come le aveva cercate allora. «Qualsiasi cosa che potesse rimetterci in comunicazione. «Sai cosa ho visto, Bill?» Adesso era tutto ricomparso, e la voce di Tanaka fluttuava su un ricordo scacciato. «Ho visto la vergogna. Hiro si vergognava. Si vergognava.» Tanaka esitò e si schiarì la gola. Era certo che Fogarty lo stava ascoltando. Aveva bisogno che lo ascoltasse. «Lo misero nella stanza che mio padre aveva preparato per lui, con tutti i suoi trofei allineati sugli scaffali. Chiesi a mio padre di non farlo, ma mio padre non mi ascoltava più. L'infermiera rimase per il primo mese, per assicurarsi che
imparassimo a occuparci di Hiro. A nutrirlo, a cambiargli gli abiti, a cambiargli i pannolini.» La voce di Tanaka si stava spezzando. Bill Fogarty aprì gli occhi. «Inizialmente promisi a me stesso che non avrei indossato più un kimono per tutta la vita ma, in fin dei conti, il dojo era l'unico posto dove potessi andare per allontanare l'incubo che avevo in casa. La mia famiglia era divisa, mio padre e mia madre litigavano perché mio padre rifiutava di accettarmi. Però, quando entravamo nella camera di Hiro, fingevamo che tutto andasse bene. Lui non era stupido, sapeva ciò che stava succedendo. Finalmente, come una specie di tentativo di riconciliazione, accettai di lavorare come guardia del corpo per mio padre. Un compito duro, con i sindacati giapponesi, la Yakuza. Cercavo di farmi uccidere, come per punirmi. E penso che mio padre mi aiutasse a farlo.» Fogarty cercò di parlare. Voleva dire a Tanaka che capiva. Che non aveva bisogno di dire altro. Le parole si conficcarono nella sua gola come lame di rasoio arroventate. I suoi occhi cominciarono a lacrimare. «Sono tornato a fare le gare, a lottare. Odiavo farlo, ma ciò che rendeva piacevole il karaté era la punizione... Finché lui cominciò a venire. Tutte le volte che lottavo, lui era lì. Seduto lì in prima fila. A fare il tifo urlando per me.» Fogarty fece forza sulle braccia e si raddrizzò sul cuscino. Fece uscire con sforzo una sola parola dalla bocca secca: «Chi?» «Mio fratello, Bill, mio fratello. Sulla sua sedia a rotelle. Urlava a pieni polmoni. E io lo odiavo per questo, per il suo sostegno. Per la sua capacità di perdonare. Mi veniva voglia di ucciderlo, perché non mi permetteva di soffrire... Perché non mi concedeva di essere solo di fronte a quello che avevo fatto. Desideravo ucciderlo e, in fondo, desideravo uccidere me stesso. È per questo che sono fuggito, che sono venuto qui. Ma non posso fuggire da quella cosa. Non posso fuggire da quel pensiero, dal pensiero della morte, dal desiderio della morte.» Tanaka si avvicinò di più e fissò Fogarty negli occhi. «Mi capisci, Bill?» Adesso Fogarty cercava di parlare. Di dire sì, che capiva. Che anche lui aveva il proprio incubo e che ci si sentiva meglio soltanto quando se ne parlava con qualcuno. Che l'incubo non era mai scomparso. Stava afferrando la mano di Tanaka saldamente, per attirarlo più vicino. Lottava per pronunciare le parole. La sua mente correva, anticipando la sua lingua. Non si era anche lui sentito colpevole per lo stesso motivo? Aveva cercato anche lui l'espiazione. Di pagare il suo debito eterno alla moglie e alla fi-
glia. Di far quadrare i conti nella sua coscienza colpevole. «Willard Ng mi capisce.» Tanaka disse quella frase come se fosse una confessione. «No! Questa è una stronzata!» Le parole di Fogarty uscirono insieme a un fiotto di sangue rosso che schizzando fuori dalla sua bocca si sparse sulla camicia di Tanaka. Il tenente si sforzò di alzarsi dal letto. Tanaka lo trattenne e al tempo stesso premette il pulsante di emergenza. Il dottore e due infermiere arrivarono nel giro di pochi secondi. «Le suture attorno alla trachea si sono staccate,» disse Tanaka. La sua voce era distaccata, professionale. «Ha ripreso conoscenza.» Fogarty stava ancora annaspando per afferrare la mano di Tanaka, per cercare di parlare, quando il dottor Gabriel Forner gli iniettò l'anestesia, preparandolo per l'operazione. XVIII È NATA UNA STELLA Il test della macchina della verità era stato facile, un semplice esercizio di respirazione e controllo mentale, ma gli avvocati e la stampa erano una questione completamente diversa. Sembrava che fosse impossibile per loro capire che Willard Ng non era interessato a citare in giudizio la città di Filadelfia; che non fosse interessato al milione e mezzo di risarcimento che una simile causa gli avrebbe garantito. I giornali avevano avuto una giornata campale, impegnati a raccogliere notizie sulla brutalità della polizia e sulla discriminazione nei confronti delle minoranze etniche. Il fatto che Willard Ng fosse ancora in prima fila nella caccia a un sospettato di omicidio era passato in secondo piano di fronte alla necessità dei media di avere un'attrazione da mettere in copertina. Per vendere bisognava trasformare Willard Ng in un eroe nazionale, un uomo senza paura, capace di difendere la sua casa dalle intrusioni. Da solo davanti all'invadenza della polizia di stato. Mezzo americano, mezzo vietnamita, Willard Ng era il figlio innocente della guerra più sporca che l'America avesse mai fatto. Dietro ai titoloni, dietro alla preoccupazione principale dei media, cioè il fatto che Ng non fosse esattamente materiale da talk-show, Bob Moyer aveva confermato che l'impotenza sessuale di Ng non era certamente una prova della sua innocenza. Qualunque oggetto avrebbe potuto essere impiegato per la penetrazione. E inoltre, non era la prima volta che un sospetto colpevole ingannava la macchina della verità. Ng aveva anche confessa-
to la sua colpevolezza a Josef Tanaka e le ferite sul corpo di William Fogarty erano quasi identiche a quelle inflitte alle vittime femminili del serial killer. Le dimensioni fisiche di Ng e la sua forza corrispondevano alle caratteristiche del killer individuate dalla polizia e lui era palesemente esperto in un sistema di lotta cinese a mani nude. Gli psicologi della polizia di Filadelfia concordarono nel dire che l'impotenza da sola avrebbe potuto far scoppiare i raptus omicidi. Poi c'erano l'impronta di una scarpa numero 44 con tracce di sterco di cammello e l'identikit del pittore. Una massiccia quantità di prove, tutte circostanziali. Willard Ng era il loro uomo. Ogni agente dell'unità operativa speciale lo credeva, come anche lo credeva Bob Moyer. Tanaka ne era certo. Il sindaco Winston Brighi rifiutò tutte le conferenze stampa, tranne una. Le domande riguardanti Willard Ng furono accolte a bocca chiusa, con un sorriso preoccupato e un sincero: «Spiacente, non sono in grado di fare commenti in questo particolare momento.» E quale risarcimento avrebbe ricevuto l'ex indiziato dalla città di Filadelfia? Risposta: «No comment.» E cosa ci dice del tenente di polizia che è entrato illegalmente nella casa del signor Ng e presumibilmente ha minacciato il signor Ng con una pistola carica? L'agente di polizia in questione era sospeso a tempo indefinito mentre veniva completata l'indagine sulle circostanze dell'incidente. Nessuna azione formale attualmente era stata inoltrata. No comment sulle circostanze. Su un punto il sindaco Winston Bright fu chiarissimo: l'ispettore capo Dan McMullon avrebbe continuato a dirigere l'indagine sugli omicidi. Diane Genero spense la televisione e prese il giornale al suo fianco sul letto. «Detective di Filadelfia accusato di reato.» Lesse l'articolo per la terza volta, con lo sguardo che si posava in continuazione sulla fotografia di Bill Fogarty. Il suo volto era giovanile e privo di cicatrici. Bello come era stato bello quando era capitano della squadra di football delle superiori, con un'espressione coraggiosa e al tempo stesso ingenua. Quel tipo di bellezza che sembrava attrarre la disgrazia. Un piatto intatto di insalata Caesar e una bottiglia semivuota di vino bianco a basso contenuto alcolico erano posati su un tavolo di noce a fianco della finestra della sua suite all'hotel. Dietro, una tendina parzialmente tirata mostrava il sole che tramontava. Sotto quella fredda luce brillante, il Central Park era quasi deserto.
Da quando aveva divorziato, Diane Genero aveva sempre alloggiato al Plaza Hotel tutte le volte che era venuta a New York. Inizialmente, era venuta per comprare la stoffa per il suo piccolo ma esclusivo atelier di moda e poi era venuta sempre più sovente per trovare gli amici. Uno in particolare era Vincent Bellows, socio del più potente studio di penalisti di New York. Quel pomeriggio, l'avvocato cinquantenne, frequentatore di palestre di body building, le aveva detto che il suo amico Bill Fogarty era in guai seri. «Sicuramente la sua carriera è distrutta, potrebbe anche essere condannato.» Il suo amico. Ripensò all'arrogante scelta delle parole. A che cosa avesse alluso Vincent chiamando Fogarty «il suo amico». Lei era andata da Bellows per cercare conforto, e gli aveva raccontato che doveva delle scuse al poliziotto di Filadelfia per i non voluti risultati negativi provocati dal suo tentativo di ringraziarlo. Un tentativo di ringraziarlo che era stato trasmesso da una televisione nazionale trasformandolo in una condanna. Diane aveva seppellito sua figlia meno di un mese prima, e l'ultima cosa di cui avesse bisogno in quel momento era di assurde insinuazioni da parte di Vincent Bellows. Forse sto diventando troppo sensibile, si disse. Guardò di nuovo la fotografia di Fogarty. Anche i suoi occhi erano cambiati, avevano perso la speranza. «Che cosa diavolo ti è successo, Bill Fogarty?» mormorò. Stava ancora meditando su quella domanda quando il telefono squillò. «Fatti vedere qui tra un'ora,» disse Vincent Bellows. Non si presentava mai. Probabilmente presume che chiunque a Manhattan riconosca la sua voce, pensò Diane. Quel fatto la infastidiva davvero. «Tutto bene?» proseguì lui, e fu più un'affermazione che una domanda. «Sì, bene,» rispose Diane Genero. «Ci vediamo,» confermò la voce sicura di sé. Poi la comunicazione si interruppe. Diane Genero allontanò la cornetta del telefono dall'orecchio e fissò i piccoli buchi di plastica nel ricevitore, incerta per il momento se volesse incontrarsi con Vincent. Se, in realtà, le fosse mai piaciuto Vincent Bellows. Era andata a letto con lui tre volte, ma non era del tutto esatto. Dire due volte e mezza era più preciso. Il telefonino di Vincent aveva suonato a metà del loro ultimo tentativo e lei aveva rifiutato di punto in bianco di continuare mentre lui parlava al telefono. Quando lui se ne era andato dalla sua stanza, Diane era rimasta in piedi, nuda, a guardarsi allo specchio. Era sola, questo era certo, ma non abba-
stanza sola da diventare la donna-oggetto di un dirigente. Guardò un'ultima volta la foto di Bill Fogarty sul giornale. C'era qualcosa nella sua espressione che le era molto familiare. «Che cosa ci sta capitando?» sussurrò. È la vita, madre, è soltanto la vita, rispose una voce nella sua testa, la voce di Gina. Prese di nuovo il telefono, sfogliò la sua agenda e trovò il numero di Fogarty. Diane stava piangendo. Piangeva per Gina, piangeva per se stessa e piangeva per Bill Fogarty. Per un momento fu quasi sul punto di riagganciare, ma udì il segnale del telefono e riprese il controllo di sé. Diane Genero non approdò a nulla telefonando alla Roundhouse. Non le fu detto dove si trovava Fogarty, ma poté soltanto sapere che le sue condizioni erano stabili. Dan McMullon, l'ispettore capo, era irreperibile. Quando posò la cornetta del telefono, le sue lacrime si erano asciugate e al loro posto c'era determinazione. La telefonata della Wheels fu quasi una sorpresa per Josef Tanaka, perché si era completamente dimenticato della Harley Davidson Softail. L'aveva ordinata due giorni dopo essere ritornato dall'ospedale in seguito all'incidente. Allora la moto gli sembrava importante, importante in modo ossessivo. Adesso non ci teneva assolutamente più. Se non avesse pagato anticipatamente per il sistema di scappamento con tubo a U e la verniciatura personalizzata, avrebbe chiesto al venditore di vendere la Harley a qualcun altro. Fu così che andò a prendere la moto senza alcuna gioia, si sforzò di fare alcuni commenti sull'ottima qualità della verniciatura nera e si diresse verso il Filadelfia Karaté Club. Il sensei Azzato lo fermò mentre andava verso il suo armadietto. «Josef...» Tanaka si voltò. Avrebbe volentieri evitato il sensei: non si sentiva di affrontare alcuna conversazione personale, e tanto meno l'inevitabile abituale domanda: «Come sta tuo padre?» Nascose il suo disagio dietro un inchino formale. Il volto di Azzato esprimeva un sincero interesse. «Entra, Josef.» Il sensei si fece di lato mentre Tanaka entrava nel piccolo ufficio. Azzato chiuse la porta alle sue spalle. «Sono tre settimane, Josef, tre settimane che non ti fai vedere al dojo.» Tanaka guardò pensieroso il robusto piccoletto nel gi bianco. La canapa del kimono da allenamento del sensei era stata stirata accuratamente, e la copertura in seta nera della cintura che gli circondava la vita era consumata
fino al ruvido cotone grigio sottostante. C'era qualcosa di rassicurante in Tetsuhiko Azzato, una fermezza, una risolutezza. «Problemi, sensei. Problemi al lavoro.» Tanaka abbassò gli occhi dopo aver risposto. «Ho visto i giornali. Il serial killer. È questo il caso a cui stavi lavorando?» «Questo è il caso a cui sto lavorando,» precisò Tanaka. «E quell'uomo, Fogarty, il tenente di polizia. Ammiri quell'uomo?» chiese Azzato. «Bill Fogarty è mio amico,» rispose Tanaka. «Il tuo amico è in un mare di guai.» «Lo so,» rispose Tanaka. «È vero quello che ho letto? Che si è introdotto nella casa di un sospettato? Che ha cercato di rubare puntando una pistola carica alla testa di quell'uomo?» «Non sono sicuro che tutto questo sia vero, sensei, ma qualunque cosa sia successa, il mio amico aveva delle buone ragioni,» rispose Tanaka. «Il tuo amico ha perso la strada,» dichiarò Azzato. Tanaka alzò lo sguardo, provò una sensazione di collera. «Mi spiace, Josef. Ma devo dirti queste cose. È mio dovere. Tu sei in collegamento con questo tale Fogarty e sei in collegamento con me. Lui ha scelto di fare il poliziotto e c'è un modo corretto di farlo.» Non essere così ingenuo, pensò Tanaka. «Capisco che in certe situazioni un uomo sia tentato di andare contro ciò che ritiene giusto, ma le conseguenze sono sempre negative.» «Sensei, rispetto quello che tu dici, ma devi capire lo stato di tensione in cui era il mio amico.» «Lo capisco, Josef, perché mi accorgo che quella tensione è anche in te. Nei tuoi occhi, nel tono della tua voce.» «Non sono un poliziotto, sono un medico.» «Sei anche un guerriero, Josef. E un guerriero non può permettersi di essere impetuoso. Il tuo amico è stato impetuoso. Non sta a me condannarlo. Non so che cosa l'abbia spinto a farlo, quale tensione, come la chiami tu.» «È stato spinto dal timore che se non si fosse procurato una prova certa, una persona di cui si sapeva che era un assassino avrebbe avuto buone probabilità di essere rimessa in libertà,» rispose Tanaka. Adesso era faccia a faccia con il suo insegnante. I suoi pensieri erano concentrati ed era turbato dall'intrusione di Azzato nella sua vita professionale.
«A quanto pare, per colpa del suo scarso buon senso il suo timore sta per realizzarsi,» insistette il sensei. Al di là della sottile porta dell'ufficio Tanaka udiva il fruscio della stoffa rigida dei gi degli altri studenti che si stavano cambiando. Si sentiva sempre più a disagio. È stata una pessima idea quella di venire qui stasera, pensò. «Nutri cattivi sentimenti nei confronti di quell'uomo che ha ferito il tuo amico?» Più che una domanda, era un'affermazione. Tanaka sospirò. L'interrogatorio di Tanaka cominciava a diventare difficile da sopportare. «Certo che ne ho, sensei. Mi piacerebbe...» La collera lo assalì in modo incontrollabile. «...uccidere quel fottuto.» Le sue parole rimasero sospese a mezz'aria. Il viso di Azzato si tese e Tanaka si preparò a una lavata di capo. Probabilmente aveva detto abbastanza da farsi espellere dal dojo. Attese. «Hai perso il controllo una volta, Josef, e hai sofferto. Non hai imparato niente dalla vita?» Gli occhi castani del sensei penetravano nei suoi. Tanaka si sentì piccolo e sciocco, impotente di fronte alla verità. Non rispose. «Quello che impari qui, in questo dojo, su quel pavimento, non fa parte della tua vita? O separi le due cose? Lo consideri un hobby? Come un giocattolo da usare per divertirti e poi per metterlo via e dimenticarlo? Hai un atteggiamento mentale sbagliato, privo di chiarezza. Lo stesso atteggiamento mentale del tuo amico.» Tanaka rimase silenzioso. Il sensei Azzato si rilassò lentamente, sorrise quasi. «Certe volte la vita ci manda un avversario. Qualcosa o qualcuno per mettere alla prova i nostri principi, la nostra disciplina. Può essere una situazione, una malattia, una persona. Qualcosa che mette in crisi quello che pensiamo di essere. Se fuggiamo davanti a un simile ostacolo, dovremo affrontarlo sotto innumerevoli altre forme. Se continuiamo a permettere che ci blocchi, moriremo.» Azzato esitò. «Smettere di crescere e morire sono la medesima cosa.» Tanaka si sentiva più forte, come se i suoi pensieri e le sue emozioni si stessero dipanando, si sgrovigliassero e assumessero forma. L'incidente in Giappone aveva creato una frattura nel suo spirito, simile a uno strappo nel tessuto della sua identità. Aveva cercato di sfuggire a quella frattura ma era riuscito soltanto a far sanguinare la piaga, ampliando lo squarcio nel suo animo e nella sua mente. In quello consisteva la sua affinità con Bill Fogarty: sapeva che da qualche parte il poliziotto aveva una ferita simile alla
sua. Ed era stato attraverso quella ferita che Willard Ng era riuscito a entrare nelle loro vite. «Tutto bene, ora?» chiese Azzato, mettendo una mano sulla spalla di Tanaka. «Grazie, sensei, sto molto meglio,» rispose Tanaka. Fuori dall'ufficio, Ben Chagan stava richiamando la classe all'ordine. «Allenati intensamente. Il nemico è vicino,» disse Azzato prima di aprire la porta per farlo uscire. Willard Ng chiuse la porta della sua stanza della potenza. Aveva capito che quello sarebbe stato un periodo difficile. Tuttavia, non aveva compreso a fondo le difficoltà. Una folla di reporter si era letteralmente accampata sul prato davanti alla sua porta d'ingresso. Ng non aveva niente da dire a loro. Non provava altro che disprezzo per la mancanza di pudore della loro professione. Lo stesso giudizio si applicava agli avvocati mangiasoldi che gli avevano offerto i loro servizi in quella contingenza, bombardandolo con proposte prive di interesse. Fece uno sforzo cosciente di bloccare il suo discorso interiore mentre si spogliava ed esaminava il suo corpo nudo allo specchio. Sembrava stanco, aveva gli occhi rossi e cerchiati. Il suo viso aveva un'ispida barbetta e la sua testa era scura nella zona in cui i capelli cominciavano a spuntargli. Altre parti del suo corpo, il petto, il pube e le ascelle, erano ancora lisce e pulite. Quelle erano le zone che avevano reagito bene alle scariche elettrolitiche che si somministrava da solo. Inspirò, espandendo i polmoni, aprendo le spalle, tendendo il tessuto cicatrizzato che gli copriva lo sterno. Niente, nessun lampo di percezione, nessuna sensazione di contatto. Chiuse gli occhi, visualizzando il volto della sua guida, per poi riaprirli e trovarsi solo e scollegato. La cicatrice sul suo petto sembrava spessa e brutta. C'era odore di sudore e pelle e un pungente puzzo acido che proveniva dai suoi piedi. Si voltò: il suo riflesso era ovunque, che lo accusava. Riusciva ancora a percepire la presenza del poliziotto nella stanza. Scrutò intorno e infine mise a fuoco un piccolo sacchetto di plastica che giaceva sul pavimento alla base del fantoccio di legno. Apparteneva a quel tipo di sacchetti che vengono usati per raccogliere le prove. Era stato lasciato dagli investigatori della polizia. Prese in mano il sacchetto e lo aprì: conteneva un unico capello color biondo rossiccio. Un capello di Bill Fogarty. Ng estrasse il capello e lo tenne delicatamente tra il pollice e l'indice. Forse
era la presenza di Fogarty che lo separava dalla perfezione. Si mise il capello in bocca, sentì il gusto amaro della medicazione a base alcolica di cui era impregnato. Inghiottì il capello, che gli pizzicò la gola mentre scendeva verso lo stomaco. Richiuse il sacchetto e lo posò a fianco dei suoi stivali con la suola di para. Poi si alzò e si mise di fronte al Mon Fat-Jong, tendendo la mano come la lunga ala di un'aquila e colpendo la gola di legno. La carne indurita della sua mano divenne ferita e dolorante dopo l'impatto. Piegò il braccio e colpì di nuovo. La sensibilità viaggiò lungo i muscoli estensori del suo avambraccio e si trasmise a tutto il suo corpo. Gli sforzi lo risvegliarono, rinvigorendo il suo intendimento e il suo fine. Ben presto il ronzio iniziò e Willard Ng fu immerso nel mare delle sue sensazioni fisiche e il dolore fisico trasformò il passato, il presente e il futuro dell'adesso. La sua concentrazione, unita alle endorfine simili a oppio che gli fluttuavano nelle vene, liberate dal suo sforzo esagerato, lo estraniarono dal fuoco di fila di domande che gli venne fatto quando uscì di casa. Il ronzio continuò, agendo come una radio guida, chiamandolo verso di lei. «Intende citare in giudizio la città di Filadelfia, signor Ng?» «È ancora un sospettato nell'indagine sugli omicidi?» «Si prevede che il tenente Fogarty sopravviverà. Cosa prova di fronte a ciò?» «Signor Ng. Signor Ng. Può voltarsi da questa parte.» Pronunciano tutti il mio nome scorrettamente. Nigg. Non è Nigg, pensò, aggiustandosi l'alta capigliatura con le mani, risistemandosi la parrucca mentre camminava tra quei parassiti. Era la stessa parrucca che aveva indossato la notte che aveva ucciso Gina Genero. Scatti di fotografie. Flash. E poi scomparve, chiudendosi al sicuro nel suo furgone grigio e allontanandosi a tutta birra da quella confusione. Sapeva di essere seguito. La Ford nera era a mezzo isolato di distanza e c'erano due uomini seduti davanti. Li condusse al ponte, guidando tranquillamente, senza sentirsi particolarmente teso. Un'altra auto della polizia, anche quella priva di segni che la identificassero, si accodò a lui dalla parte di Filadelfia del ponte. Era una sensazione insolita. Tante menti concentrate su di lui. Come rozzi tentacoli risucchianti, che esploravano e sondavano la sua coscienza, tentando di fargli perdere l'equilibrio, di farlo diventare distratto, disordinato.
Poi notò che il ronzio si era bloccato, come se le altre menti avessero interferito nel collegamento con lei. Aveva avuto intenzione di dirigersi allo zoo, per vederla. Allo stato attuale, quella era una cosa impossibile, perché non avrebbe mai condotto degli estranei al santuario della Mantide. Cambiò direzione e svoltò a sinistra prima del museo di belle arti, dirigendosi verso Walnut Street, prima di fare un'altra svolta puntando verso est, di nuovo in direzione di Camden. «Ci ha fregati,» disse Ratigan con realismo. «Già. Che cosa vuoi fare?» chiese Johnson, mentre osservava le rosse luci di coda del furgone lampeggiare e scomparire. «Non c'è niente che possiamo fare,» disse nervosamente Ratigan, mentre permetteva che il furgone di Ng li distanziasse. «Intendi lasciarlo andare?» «Cosa vuoi che faccia?» ribatté Ratigan. Non attese la risposta del detective nero e proseguì: «Vuoi che lo accosti e ci schiantiamo contro la sua fiancata?» Johnson si sentì stupido. Ratigan si calmò quasi all'istante e poi proseguì. «McMullon è già intervenuto in favore di Bill Fogarty. Non può fare un gesto simile una seconda volta. Se ci fanno un richiamo per molestie ci toglieranno dall'indagine, ci sospenderanno. Ci licenzieranno. E quel pervertito di Nigg, o Ng, o come diavolo si chiama, sarà a spasso.» Johnson fece una pausa rispettosa. «E allora che cosa facciamo?» Ratigan accelerò leggermente, cercò le luci di coda del furgone, non le vide e allora prese il telefono. «Dobbiamo mantenerci in contatto con i nostri amici del New Jersey. Tenere il più possibile d'occhio Ng e per le prossime due settimane dobbiamo lasciare circolare questo bastardo. Poi, quando la stampa non ne parlerà più e Ng si sentirà tranquillo, ci slanceremo su di lui come una tonnellata di mattoni. Non me ne importa un cazzo che sia colpevole o no. Quel bastardo ha pestato a sangue un poliziotto,» aggiunse Ratigan con decisione. Ng guardò nello specchietto: erano scomparsi. Rallentò e finalmente si fermò in un parcheggio con tachimetro a fianco del marciapiede. Spense il motore e attese. Nulla. Ponderò l'idea di fare inversione e proseguire verso lo zoo. Rimase un momento ad ascoltare la musica che usciva da un bar all'angolo. Era dolce e ritmata. Rallentò le respirazioni, regolarizzando il suo
respiro. «She is like a cat in the dark. Then she is the darkness.» Il noto brano lo attrasse e lo spinse a voltarsi verso il bar e così vide la porta a vetri che si apriva e una giovane studentessa che usciva. Ng non riuscì a distinguerne chiaramente le fattezze del volto. Si mise sui suoi passi; indossava degli stivali da cowboy e un paio di blue jeans, larghi nella gamba e stretti attorno alle piccole cosce muscolose, visibili sotto il giubbotto nero da motociclista. I suoi capelli erano striati di biondo e tagliati corti. Si muoveva con sicurezza. Una ballerina. Una ginnasta, suppose Ng. La osservò con curioso distacco. Sarebbe stata una facile preda. Tuttavia non ce n'era più alcuna necessità. Niente si agitava dentro di lui, nessun desiderio, nessuna fame. Nessun collegamento. Quella consapevolezza gli diede una sensazione di stabilità. Controllò di nuovo lo specchietto retrovisore e poi si voltò completamente all'indietro. Niente, a parte il normale flusso di traffico. Nessuna autopattuglia, nessun poliziotto a piedi. Era libero e se ne stava saldamente in piedi sull'ultimo altopiano. Ed era libero, lo sentiva. Sperimentò una stupefacente sensazione di lucidità mentale mentre si immetteva nuovamente nel traffico, dirigendosi verso Rittenhouse Square. Aprì il finestrino a lato del guidatore e lasciò che l'aria fredda del tardo autunno gli accarezzasse la pelle del viso. «Trentanove giorni a Natale,» diceva un segnale davanti a un negozio di abbigliamento. Un venditore ambulante stava arrostendo delle castagne a un angolo della strada e il loro aroma gli penetrava nelle narici. Udì delle voci, risate e chiacchiere provenienti da gruppi di persone che passavano nella strada. Era felice. Non riusciva a ricordare di essere stato felice prima di quel momento. Non voleva tornare a casa sua, dai giornalisti assiepati e dai vicini rumorosi; non voleva andare a trovare lei. Aveva sopportato abbastanza a lungo la disciplina. Tutta la sua vita era stata disciplina. Desiderava rimanere in quell'involucro di libertà collegato al rumore, agli odori e alle risate. Collegato alla vita. Voleva continuare a guidare in quel mare di felicità. All'inizio la coppia davanti all'entrata del viale che conduceva al condominio, intenta a esaminare la motocicletta nera e cromata non fu niente di più che un altro pezzo che si aggiungeva al collage della sua felicità. Poi i pensieri di Ng si misero a fuoco e il ronzio cominciò nuovamente. Josef Tanaka. È Josef Tanaka. Che parla con una bella donna con i capelli lunghi. La donna teneva una valigetta in una mano mentre l'altra era
appoggiata dolcemente sulla spalla di Tanaka. Ng proseguì per la strada tenendosi sulla sinistra, lontano dalla loro vista. Mise il furgone in folle, spense il motore e lasciò scivolare la macchina verso una zona ombrosa al fondo dello spiazzo circondato da alberi. Era a poco più di cento metri da Tanaka e Rachel Saunders. Tirò giù il finestrino dal lato del passeggero e osservò. Per due volte sentì iniziare una connessione con l'alto guerriero dai capelli neri. Entrambe le volte Tanaka alzò lo sguardo, denotando un prontezza di riflessi animalesca nel movimento della testa, ed entrambe le volte Ng modificò il ritmo della sua respirazione, rallentandolo a calmarsi per impedire il contatto. La concentrazione della coppia sulla motocicletta non durò a lungo e presto Tanaka e la donna sembrarono assorbiti da altri argomenti. Lui scuoteva la testa e lei parve volerlo consolare. Ng percepì la loro intimità. Vedere quella scena lo eccitò. La donna si alzò in punta di piedi e baciò Tanaka sulla bocca. Ng non ricordava di aver mai ricevuto un bacio sulla bocca. Mai. Odiava quella donna. La odiava insieme a tutto ciò che di umano restava in lui. Perché mi hai guidato qui? chiese. Poi cominciò a capire sul serio. Ovviamente la Mantide quella sera lo aveva chiamato. Lo aveva chiamato per allontanarlo dalla meschinità della sua vita, dall'incidente con il poliziotto, dagli avvocati e dai giornalisti. Per guidarlo attraverso la confusione evasiva della felicità umana portandolo dall'altra parte. Non era una coincidenza il fatto che si trovasse lì, in quel momento. Non si verificavano mai delle coincidenze, sul sentiero verso la permanenza. Tanaka era salito sulla moto. Il motore si accese con un rombo basso e rauco. La donna con i capelli lunghi osservò Tanaka che scompariva giù per una rampa entrando nel garage sotterraneo. Poi la donna si voltò e si diresse verso una grande porta a vetri. Un portiere aprì la porta e la salutò con un cenno del capo. La conosce. Abita qui o viene abbastanza sovente da essere riconosciuta. Forse Tanaka abita qui. Può darsi che abitino insieme. Poi Willard Ng seppe ciò che doveva fare. Era chiaro come il ronzio nella sua testa. Quella notte sognò la Mantide. Entrò nella sua bocca, salì la scala, trovò la luce. Sperimentò il suo compimento dentro la luce, la pace perfetta. Suo padre era scomparso dal sogno. XIX LA VISITA
Diane Genero prese un Amtrak Express per Filadelfia, salì su un taxi alla stazione della Trentesima e andò direttamente alla City Hall. Aveva con sé un'unica valigia Louis Vuitton e una borsa a tracolla della stessa marca. Appoggiò la valigia sul pavimento davanti alla reception. «Posso esserle d'aiuto, signora?» Diane guardò gli occhi castani dell'impiegata. Con la coda dell'occhio vide due agenti di colore della sicurezza che la osservavano. «Vorrei vedere il sindaco Bright. Ho telefonato tre volte da New York e non sono riuscita a parlargli.» La giovane e quasi bella segretaria sembrò incredula. «Ha un appuntamento con il sindaco?» Prima di rispondere, Diane Genero appoggiò a terra anche la borsa a tracolla. «No.» «Spiacente, signora. Purtroppo non è possibile entrare nella City Hall ed essere ricevuti dal sindaco di Filadelfia seduta stante. Il signor Bright è molto impegnato...» «Lei sa chi sono io?» chiese Diane Genero. La sua voce era dolce e non c'era alcun accento imperioso nella sua domanda. Una delle guardie di sicurezza si stava avvicinando a lei. La segretaria scambiò un'occhiata con l'uomo in uniforme e poi rispose: «Mi spiace, non lo so.» «Il mio nome è Diane Genero. Sono la madre di una delle ragazze...» Esitò, per modificare la frase, «...di una delle vittime della recente serie di omicidi.» Gli occhi castani sembrarono concentrarsi di nuovo sulla donna vestita con abiti costosi. «Posso dare un'occhiata a questa borsa, signora?» La voce della guardia la colse alle spalle. «Tutto bene, Victor,» disse l'impiegata, alzando una mano e facendo segno all'uomo di allontanarsi. «Lei è la signora che si è fatta intervistare in TV?» La domanda era cauta e rispettosa. Diane Genero sostenne lo sguardo della donna e annuì. «Credo che il sindaco sia impegnato in una riunione,» disse la segretaria, poi esitò e prese il telefono. «Mi permetta di vedere che cosa posso fare per lei.»
Dieci minuti più tardi Diane Genero entrò nell'ufficio del sindaco. Sia Winston Bright che Dan McMullon si alzarono, quando lei si avvicinò all'enorme scrivania. Il gradevole uomo di colore fece per tendere la mano, sembrò arrestarsi a metà del gesto, poi afferrò il diario di Jeanette Key dalla sua scrivania e lo gettò nel primo cassetto. Prima di rivolgere di nuovo l'attenzione a Diane Genero chiuse a chiave il cassetto. «Molto piacere, signora Genero, io sono Dan McMullon,» l'uomo che stava per essere nominato commissario di polizia si presentò. «La prego, si sieda,» aggiunse Winston Bright, riprendendo la sua compostezza. Diane Genero si sedette e andò direttamente al punto della questione. Il Lankenau Hospital guarda sulla Lancaster Avenue dal lato della Montgomery County della City Line. È un ospedale ricco, sovvenzionato da molte delle più vecchie e più importanti famiglie della zona periferica di Filadelfia. È un edificio grande e tranquillo con tutte le comodità moderne e ben tenuto che offre un'atmosfera favorevole per la convalescenza. Di tanto in tanto, il dipartimento di polizia di Filadelfia manda un agente a riprendersi al Lankenau, lontano dal rumore e dal trambusto della città. Meno accessibile ai giornalisti e ai visitatori indesiderati. «Bill, Bill.» La voce dell'infermiera era dolce, nell'intento di svegliarlo delicatamente. «C'è qualcuno qui che vuole vederti, Bill.» La voce apparteneva a Stella Stevens. Era l'infermiera preferita di Fogarty, si fidava di lei al punto da permetterle di somministrargli quelle spugnature che trovava così umilianti. «Un altro stronzo investigatore?» grugnì Fogarty, tenendo gli occhi chiusi. «Digli che sono in coma.» «Non è un investigatore, è un'investigatrice.» Non ci sono investigatori donna in questa inchiesta, pensò Fogarty, aprendo gli occhi. «Diane Genero,» disse l'infermiera Stevens, esitando prima di aggiungere: «È molto bella.» «Diane Genero... qui?» «È giù alla reception.» «Cristo.» Fogarty sembrava allarmato. Si sforzò di alzarsi a sedere. L'in-
gessatura gli copriva la gamba dalla caviglia fino a metà della coscia: sembrava pesare una tonnellata. Il suo piede nudo spuntò fuori dal fondo del lenzuolo bianco. «Credevo che ai civili non fosse permesso farmi visita,» disse il tenente. «A quanto ho capito questa donna è stata molto convincente,» commentò l'infermiera Stevens. Stella Stevens era felice che il tenente si alzasse perché ultimamente aveva dormito troppo e le uniche persone che vedeva volentieri erano i due medici, Moyer e Tanaka. Lo guardò mentre si passava una mano tra i capelli e poi sulla barbetta che gli cresceva sul mento. «Posso tenerla fuori mentre ti fai la barba,» propose. Fogarty guardò gli occhi castano chiaro di Stella Stevens. Sembrava vulnerabile e imbarazzato. L'infermiera quarantenne sorrise. «Qual è il problema, tenente?» «Diane Genero è la madre di una delle ragazze assassinate,» rispose. Stella Stevens lo sostenne saldamente mentre si alzava. Le piaceva il tenente e voleva che stesse bene, sia fisicamente che psicologicamente. «Questo non vuol dire che tu debba avere un aspetto disordinato, quando la incontri,» ribatté. Poi andò in bagno e gli preparò il rasoio elettrico. È la più bella donna che abbia mai visto. Fu un pensiero che lo rese particolarmente impacciato. Quando Diane Genero si diresse verso di lui, resistette all'istinto abituale di girare parzialmente la faccia. «Accidenti, come è riuscita a entrare qua dentro?» domandò. «Permesso speciale del sindaco,» rispose Diane Genero, aggiungendo dolcemente: «Alla condizione che non parli più con nessun giornalista.» Diane Genero se ne stava imbarazzata al fondo del letto di Fogarty, quasi incapace di guardarlo negli occhi. Per un istante si pentì di essere andata a trovarlo. Tutta la questione era troppo personale. Aveva fatto male ad andare lì. Il suo imbarazzo crebbe. «Sono venuta per scusarmi.» Fogarty rimase silenzioso, intento a tenere a bada i sentimenti che minacciavano di travolgerlo. Diane sembrava diversa da come la ricordava. Il viso sembrava più pieno e i lineamenti meglio delineati. Quante volte aveva cercato di ricordare il suo viso? Alla fine si era abituato a un ricordo che, al massimo, poteva essere una brutta imitazione della realtà. «Per l'intervista. Per il risultato che ha avuto. È sembrato che le avessi fatto delle critiche.»
Per scusarsi? Sua figlia viene assassinata nella mia città e lei viene a scusarsi, pensò Fogarty. Distolse lo sguardo da lei. Diane Genero osservò la striscia rosa di tessuto cicatrizzato sotto il collo del tenente e la pesante ingessatura che gli teneva la gamba destra in una posizione parzialmente piegata sotto il lenzuolo e la coperta. «Mi spiace, mi spiace davvero,» riuscì ancora a dire Diane e poi si voltò e tese la mano verso la maniglia della porta. «Per favore. Si sieda,» disse Fogarty. La sua voce era rasposa, quasi rauca. I loro sguardi si incontrarono. La sensazione di solitudine, la stessa che li aveva sfiorati quando si erano incontrati la prima volta, ricomparve. E questa volta quella sensazione rimase, come una terza presenza che aleggiava sopra di loro. Diane Genero si sedette nella poltrona a fianco del letto di Fogarty. Si è tagliata i capelli, ecco tutto. Se li è tagliati in modo da incorniciare il viso, osservò Fogarty. Non era consapevole del suo mezzo sorriso. Lei lo guardò e vide lo stesso volto che l'aveva guardata dal giornale. Era come se quella alchimia tra loro avesse cancellato gli anni, annullato le cicatrici, tolto la stanchezza ai suoi occhi riempiendoli di speranza. «Maledizione, lei mi sembra un angelo...» Le parole gli scivolarono fuori dalla bocca e si pentì di aver detto «maledizione» un istante dopo averlo detto. «Lei mi sembra maledettamente mal messo,» ribatté lei. Lui rise per la prima volta dopo molte settimane. La risata gli fece male dentro e fuori. Gli tirò la gola e risvegliò i suoi timori. Lo catapultò di nuovo nel mondo dei viventi. Un mondo in cui sapeva che Bill Fogarty, il poliziotto, era finito. Seguì un silenzio. Qualcosa era uscito dalla stanza: la solitudine era andata via. «Come sta?» riprese Fogarty. Prima di rispondere Diane Genero pensò un istante. «Bene, per quello che è possibile adesso.» Fogarty annuì. «E lei? Come sta a parte questo?» disse Diane osservando la sua gamba ingessata. «Sopravvivo.» Fogarty credette a stento alla propria spacconeria. «L'ha trovato, vero? È quello là che le ha fatto questo. Non si è affatto sbagliato,» dichiarò con certezza la signora Genero.
«L'ho trovato,» rispose Fogarty. Pregò che lei non gli chiedesse che cosa avesse intenzione di fare rispetto a quella faccenda. Perché non aveva una risposta da darle. Non ancora. Lei annuì. «Sapevo che l'avrebbe trovato.» Poi, sorridendo, come se avesse intuito il desiderio inespresso di Fogarty, Diane Genero cambiò argomento. «Non è mai stato nel West?» «Qualche volta. Una volta sono stato a San Francisco e due volte a Los Angeles,» rispose Fogarty. «Non ho mai considerato la California nel West. Intendevo l'Arizona o il New Mexico,» proseguì Diane Genero. Non era completamente certa di dove andasse a parare il suo discorso, ma quel cambiamento di argomento era piacevole. Fogarty scosse la testa. «Santa Fe ha la miglior luce naturale del mondo. È per questo che tanti pittori abitano in quella città.» «Ho sempre avuto una passione per i gioielli fabbricati dagli indiani d'America con l'argento e i turchesi. Vengono da quella zona, vero?» «Non più come una volta. Molti sono prodotti industrialmente per i turisti; i lavori pregiati appartengono tutti a collezioni private. È buffo, lei non mi sembra esattamente il genere di persona che ha una passione per i turchesi e l'argento,» rispose pensierosa Diane. Fogarty si strinse nelle spalle come per dire «mi hai scoperto.» «In effetti era mia moglie l'appassionata. Mia moglie adorava...» Qual era la parola giusta? Artigianato. Sì, era quella: «...tutti i gioielli artigianali,» rispose. «C'è una città a circa ottanta chilometri da qui che si chiama New Hope. È una specie di colonia di artisti, o almeno lo era vent'anni fa. Tutti i weekend era piena di mercatini. Un sacco di braccialetti d'argento e collane, quel tipo di cose... Sarah aveva l'abitudine di trascorrere ore lì a cercare oggetti.» Con me seduto in macchina, incavolato, ad aspettarla, pensò tra sé. «Sarah. Era così che si chiamava sua moglie. Sarah?» chiese Diane Genero. Fogarty annuì. Era la prima volta che era stato in grado di parlare di Sarah, e persino di pensare a lei senza un senso di colpa. Quel terribile senso di colpa. «Bel nome,» aggiunse lei e poi cambiò di nuovo argomento. «Un giorno, dovrebbe fare una gita nel West. È un magnifico posto
per...» Diane Genero esitò. «È un magnifico posto per scaldarsi. Nel corpo e nella mente. C'è qualcosa di particolare nel suo sole, tutte le cose sembrano più limpide.» Per qualche motivo, mentre diceva quelle cose, pensò a Vincent Bellows. L'aveva visto meno di ventiquattr'ore prima e il volto dell'uomo era già offuscato da nuvole nella sua mente. Si alzò dalla sedia e fu un gesto inaspettato. «Grazie per avermi ricevuta.» Stava per aggiungere: «Bill.» Invece disse: «Tenente.» La solitudine era rientrata nella stanza. Fogarty desiderò che Diane se ne andasse subito per evitare l'imbarazzo di chiederle di non farlo. «Per favore, mi faccia sapere che cosa succede. Preferirei sentirlo da lei. Non dai giornali.» Fogarty assentì. «Certo. Grazie per la visita.» Poi Diane Genero scomparve e la camera sembrò più buia. XX IL NUOVO PAZIENTE Era il tempo dell'essenza. Trentotto giorni a Natale, cinque giorni alla festa del Ringraziamento. Se si fosse organizzato meticolosamente, sarebbe stato pronto per la prima delle due feste nazionali. Cinque giorni di digiuno, di pulizia interna e di intenso allenamento. Gli ultimi cinque giorni. Cinque giorni ancora fino alla permanenza. Sedeva nudo sul bordo del suo letto. Fremeva, carico di energia. Non aveva neanche sorriso ai giornalisti che erano accanitamente rimasti accampati sul suo prato. Non aveva parlato con loro: non c'era bisogno di parlare. Avrebbero avuto molte cose su cui scrivere, dopo. Ci sarebbe stato molto materiale per i cronisti. Ora, lui aveva bisogno di concentrazione. Chiuse gli occhi, inspirò e trattenne il fiato. La percepiva al centro della sua fronte. Sentiva il delicato tremito delle sue ali. Il ronzio adesso era sempre presente, perfino quando dormiva. Anche il sogno era sempre presente. Durante tutte le sue ore di veglia. Il perfetto Uomo-Mantide era dentro di lui, malcelato sotto la superficie della sua pelle. Come gli sembrava volgare la sua carne umana, adesso. Com'erano meschini i suoi sforzi di plasmarla e trasformarla. Come una larva lucente che si sfalda prima della metamorfosi. È un essere rozzo ma necessario. Sollevò il ricevitore e compose il numero del servizio informazioni per Filadelfia.
«Tanaka, il dottor Josef Tanaka.» «Ha un indirizzo, signore?» «Rittenhouse Square.» «Un istante solo, signore.» Sapeva che l'indirizzo era giusto. Stava attraversando uno di quei periodi in cui tutto va con ordine. Quando ogni cosa si svolge logicamente. Ci fu un clic a cui seguì una voce computerizzata. «Il numero richiesto è... 215-568-3548. Ripeto, il numero richiesto è...» «215-568-3548.» Ng disse ad alta voce il numero, mandandolo a memoria. Posò il ricevitore, si alzò e chiuse con il chiavistello la porta della camera da letto. Ritornò al letto e compose il numero di Josef Tanaka. Il telefono squillò cinque volte prima che qualcuno rispondesse. Una voce di donna, acuta e nasale. «Dottoressa Saunders.» «Dottoressa Saunders?» La voce di Ng era poco più che un sussurro, finse di non aver capito bene il nome. «Dottoressa Rachel Saunders,» confermò la voce nasale. Ng ricordò la bella donna dai capelli lunghi che baciava Tanaka ed entrava nel condominio in Rittenhouse Square. Impiegò un istante a reagire. Controllando la sua eccitazione, disse: «Mi spiace. Nella mia agenda ho il suo numero accanto a quello del dottor Tanaka.» «Il dottor Tanaka non è in casa. Lei si è messo in contatto con la messaggeria telefonica della dottoressa Saunders.» Ng pensò rapidamente e comprese che gli veniva offerta un'opportunità. Lei lo stava guidando, più in fretta di quanto prevedesse. Si arrese alla sua guida. «In effetti telefono per la dottoressa Saunders, disse.» «Lei è un paziente?» «Sì,» rispose Ng. «Se mi lascia il suo nome e numero di telefono, avviserò la dottoressa e certamente lei le telefonerà.» «Telefono per un appuntamento,» rispose Ng. Trovò forza nella verità delle sue parole. Non c'era bisogno di inventare pretesti. «Allora dovrebbe chiamare la segretaria della dottoressa Saunders.» «Questo è l'unico numero che sono riuscito a trovare.» «Il numero dell'ufficio della dottoressa Saunders al Jefferson Hospital è 568-6767.» «Grazie molte. Scusi per il disturbo.»
«Nessun problema, signore. Arrivederci.» Ng riagganciò. Chiuse gli occhi: la sua fronte vibrava di una calda elettricità. 568-6767. Quel numero fu una specie di conferma. C'erano tante variabili, erano tanti i modi in cui poteva svolgersi una situazione. Si era preparato a dover mascherare la propria voce, a riagganciare e perfino all'idea di non riuscire a trovare il numero di Tanaka. Invece, tutto si era svolto in modo perfetto, secondo il piano della Mantide. Sollevò i piedi sul letto, piegò le ginocchia e assunse la posizione del loto, raddrizzando la schiena e aprendo le spalle. Eseguì una serie di profondi respiri purificatori, concentrandosi sul punto da cui scaturiva la vibrazione al centro della sua fronte. Il suo esercizio ebbe l'effetto di creare un vuoto dentro di lui, amplificando tutti i suoi sensi all'interno di quel vuoto. A ogni respirazione era cosciente di avvicinarsi sempre più al compimento. Come la crisalide prima della metamorfosi. Consapevole di ogni mutamento nelle fibre del suo essere. Gustando l'ultimo stadio prima della permanenza. Ng prese il telefono e compose il numero dell'ufficio di Rachel Saunders. 21 Novembre 1990 Quel giorno c'era un'aria fredda e secca. Cominciava a fare buio alle cinque del pomeriggio. L'ora del tramonto coincideva con l'ultimo appuntamento che Rachel Saunders aveva in agenda. J.C. Masters, un nuovo paziente, nessuna referenza. Dopo il signor Masters, avrebbe dovuto fare una rapida puntata al reparto e dedicare un'attenzione speciale alle palpebre superiori di Iva Snow, poi avrebbe fatto una ventina di vasche nella piscina del University Hospital. Dopo, a casa, per lavarsi e sistemarsi i capelli. I capelli avrebbero richiesto tre ore di cure. Perfetto, perché Tanaka non sarebbe ritornato dal dojo fino alle nove e trenta e avrebbero cenato tardi. La notte precedente, prima che lei si addormentasse, mentre raggomitolava il corpo nudo contro quello di lui, quel giapponese sciovinista aveva perfino avuto il coraggio di afferrarle lo strato di carne attorno all'addome chiedendole se poteva prestarglielo come ruota di scorta per la sua nuova moto. Che bastardo, pensò sorridendo, poi decise di aggiungere alla sua tabella di marcia dieci minuti di sauna per cercare di dimagrire. Si sarebbe pettinata i capelli come piaceva a lui. Come li aveva Bo Derek nel film 10. Dieci era il numero giusto, infatti era una pettinatura fuori moda da almeno dieci
anni, ma si adattava al suo volto. Lo ammetteva anche lei. Inoltre, Josef la adorava. Controllò l'orologio: 5.08. Premette il pulsante dell'interfono. «È già arrivato il misterioso signor Masters, Marge?» «Non ancora, dottore. Però ci sono due chiamate dalla signora Stoll.» «Oh, mio Dio, ha detto che cosa voleva?» chiese Rachel Saunders, sperando che non si trattasse di un'ulteriore lagnanza sulla immaginaria palpebra cadente. «Credo che volesse soltanto qualche consiglio. Sta pensando di farsi fare la liposuzione alle cosce. Voleva che le consigliasse qualcuno. Me ne sono occupata io, spero di aver fatto bene,» disse Marge. «Da chi l'hai mandata?» «Dal dottor Spielman.» Rachel rise. «Sam sarà contentissimo di avere Patricia Stool. Desidera follemente entrare nell'alta società e aspirare il grasso di Patricia sarà un'ottima carta di presentazione,» disse Rachel e poi aggiunse: «Inoltre, ora è single e sta cercando la quinta moglie.» Margery Yates ridacchiò dall'altra parte dell'interfono. «Cosa vuole che faccia con J.C. Masters?» «Se non arriva entro venti minuti, mandalo da Sam Spielman. Devo andare in piscina,» disse Rachel Saunders e poi chiuse la comunicazione. Utilizzò i venti minuti per organizzare gli impegni di lunedì, dopo i quattro giorni di vacanza. Lunedì era il giorno in cui Rachel Saunders stava in clinica a occuparsi della medicina seria: vittime di incidenti automobilistici, bambini con malformazioni, o persone con difetti congeniti. Lunedì era il giorno della sua espiazione medica. Erano le 5.40 quando Marge la chiamò. «Non è venuto, eh, Marge?» la prevenne Rachel. «A quanto pare, dottoressa. Comunque, la sua voce non mi è piaciuta. Era antipatica. Se non ci fosse stato disdetto un appuntamento, l'avrei fatto aspettare due mesi.» Rachel ridacchiò. Sovente Marge dava giudizi avventati sui pazienti, basandosi sulle loro voci al telefono. «Per me va bene così, io me ne vado,» disse chiudendo la valigetta. «Ha ancora intenzione di fare quella gita in moto?» chiese la segretaria alta dai capelli corvini mentre uscivano insieme dall'ufficio e si dirigevano verso l'ascensore. «Se il tempo si mantiene bello, ho promesso di andare,» rispose Rachel. Marge sorrise. «Quando si farà fare il tatuaggio?»
Rachel fece una risata. «Appena avrò deciso su quale natica stia meglio una farfalla.» Willard Ng era seduto dentro la sua auto in un parcheggio al di là della strada, davanti alle porte girevoli del palazzo dove si trovavano gli uffici medici. Era arrivato per il suo appuntamento, come concordato, alle cinque precise. Era Rachel Saunders che era in ritardo. Alle 5.53 vide le due donne lasciare l'edificio. Riconobbe subito la dottoressa Saunders per i lunghi capelli biondi. I capelli più lunghi che avesse mai visto. Attese mentre si salutavano e poi accese il motore del furgone e seguì la dottoressa che si dirigeva verso est sulla Decima Strada. Aveva scelto la sua più bella parrucca per quell'esercizio. L'aveva acquistata in un negozio di articoli teatrali, vicino al teatro di Locust Street. «Tutto materiale naturale. Probabilmente adoperata nell'ultima messa in scena dell'Amleto,» gli era stato assicurato mentre porgeva i settantacinque dollari al proprietario. Era una parrucca lunga fino alle spalle, riccia e di un nero così scuro che sembrava avesse dei riflessi blu quando la si osservava sotto la luce fosforescente del suo armadio dei travestimenti. Si adattava perfettamente con gli occhiali dalle lenti chiare e la montatura metallica e con il montgomery di lana marrone. Il corpo sotto l'abbigliamento era perfettamente rasato e impeccabilmente pulito. Cinque giorni di digiuno insieme a un fastidioso regime di pulizia gastrica e del colon avevano ottenuto come risultato una condizione costante di elevata consapevolezza. Era giunto alla completa coscienza che il suo involucro fisico non era più null'altro che il corpoospite dal quale sarebbe nata la sua identità superiore. Rachel Saunders vide l'entrata del centro sportivo ospedaliero a un isolato di distanza. Si fermò per dare un'occhiata all'orologio. Quando alzò di nuovo lo sguardo, Willard Ng si stava dirigendo verso di lei. Non l'aveva mai visto prima e considerava importante non infastidire Josef chiedendogli particolari a proposito di quell'incontro. Tuttavia c'era qualcosa di strano in quell'enorme uomo avvolto nel montgomery. J.C. Masters, ore cinque. Una tensione crescente mandò segnali d'allarme ai suoi arti. Si guardò attorno. Cristo, il marciapiede è affollato. Sono al sicuro. Si spostò lateralmente, dando al robusto uomo la possibilità di oltrepassarla. Lui si spostò insieme a lei: aveva il cappotto aperto e a Rachel Saunders sembrò che avesse una grande ala scura. Un istante dopo, Rachel capì chi era quell'uomo. Girò su se stessa e la
sua bocca riuscì quasi a emettere un grido di aiuto. Lo stomaco le si strinse e non riuscì a respirare. Scivolava nell'oscurità, sentendo la ruvida lana che le sfregava sulla guancia. Una mano come una morsa le strinse la gola afferrandole la trachea. Stava per morire, lo sapeva. Proprio lì, su un affollato marciapiede cittadino, un luogo familiare. Stava per soffocare. Le sue gambe si muovevano anche se non aveva la sensazione che i suoi piedi toccassero il suolo. Udì una voce, fievole, acuta. Era vagamente umana e la sovrastava, vicina ma lontana dalla sua percezione. «Scusate, fatemi passare, mia moglie sta male. Fatemi passare.» Poi Rachel si trovò dentro una macchina. In movimento. Respirava, con respiri faticosi e ansimanti. Willard Ng guardò quei lunghi capelli: coprivano le spalle della sua preda come un velo di seta. La donna era china in avanti sul sedile anteriore e si stava riprendendo. Ancora qualche minuto e sarebbe stata in grado di parlare. Ng non le aveva procurato alcuna frattura. Il suo pugno era entrato nel diaframma sfiorandole soltanto le costole inferiori. Un gesto molto abile, fatto con il braccio destro, sfruttando la spinta in avanti del piede sinistro che le aveva spinto i muscoli intercostali all'indentro, facendole uscire tutta l'aria dei polmoni. Poi l'aveva avvolta con la sua ala, guidandola al furgone. La gente gli aveva fatto largo, collaborando, preferendo credere alla menzogna della moglie malata piuttosto che intromettersi. La guardò di nuovo, quasi certo di non averla danneggiata. In ogni caso, l'avrebbe esaminata completamente prima di prepararla. Trenta secondi dopo, Rachel Saunders alzò la testa. La prima cosa che notò nella tenue luce del furgone, fu che il suo aggressore era calvo e si era tolto gli occhiali. La seconda, fu che sorrideva. Era spaventata ma non atterrita. Era una sensazione strana, rarefatta. L'aveva già provata prima, qualche volta, nel corso di un'operazione chirurgica particolarmente difficile. Quando le cose avevano smesso di andare come previsto. Una sensazione di intensa concentrazione, accentuata da una paura tenuta sotto controllo, unita all'abilità di dividere la sua coscienza tra chi agisce e chi osserva. L'osservatore era in grado di vedere una situazione senza coinvolgimento emotivo. L'osservatore che era in Rachel Saunders sapeva che lei si trovava nei pasticci, ma sapeva anche che era viva e indenne. Rimase rannicchiata, tenendo la testa reclinata in avanti. Non disse nulla, ma memorizzò ogni particolare del percorso che stavano facendo. Si preparò a saltare giù dal furgone appena avesse rallentato. A urlare. Persino ad aggredire il mostro che sedeva al suo fianco.
Willard Ng si diresse verso Vine, guidando a velocità moderata e prendendo strade laterali per evitare di fermarsi ai semafori. Infine girò bruscamente a sinistra e accelerò lungo l'ampio viale alberato illuminato da lampioni che girava attorno al museo di belle arti. Arrivò in Fairmount Park Drive, poi svoltò a destra sulla superstrada. Viaggiando a una velocità regolare di novanta chilometri all'ora, nella corsia dei veicoli lenti, si diresse verso la Trentaquattresima Strada. Aveva una forte percezione della sua preda, ammirava il suo silenzio e sapeva che avrebbe tentato di fuggire. Josef Tanaka lasciò il laboratorio alle 17.30. Lui e Bob Moyer avevano tentato di scambiarsi gli auguri per quei giorni di vacanza, ma si erano sentiti a disagio di fronte alla consapevolezza che il loro amico era in un grosso guaio e loro non potevano farci nulla. Tutte le persone impegnate in quell'indagine erano piombate in uno stato di gelido imbarazzo, compresi i medici legali. Nessuno doveva dire una parola su Willard Ng. «Appena la situazione si calmerà, riapriremo l'indagine e inchioderemo quel bastardo, ma mentre ci sono tutte queste complicazioni, lasciamo tutto fermo.» Quella era la linea assunta da Dan McMullon ed era anche la linea che loro seguivano. Tutti coloro che avevano partecipato all'indagine sapevano che l'ispettore capo aveva rischiato il posto per difendere il tenente Bill Fogarty. Si diceva che l'avesse fatto per liberarsi dal senso di colpa per aver calunniato Fogarty quattro anni prima rubandogli la promozione. «Quando si accoltella qualcuno alla schiena, non c'è modo di porvi rimedio.» Era questo che dicevano quelli che conoscevano la faccenda. Non aveva molta importanza. Almeno per una volta, il grassone aveva fatto una cosa giusta. Il furgone era uscito dalla superstrada allo svincolo per la Trentaquattresima e adesso viaggiava più lentamente. Abbastanza lentamente da poter saltare. Ma dove poteva fuggire? Non c'era nient'altro che una zona di parcheggio deserto e qualche pino sparuto, il tutto illuminato dal bagliore di pochi lampioni. Buon Dio. Ti prego. Fai in modo che veda delle persone. Qualsiasi persona. Ubriachi, teppisti, chiunque possa sentire le mie urla. Ma la notte era fredda, era tardo novembre e anche i finestrini delle auto che passavano di tanto in tanto erano alzati. Mantenne la testa bassa, per evitare di dare il minimo segno di un'intenzione di fuga. Il suo orologio segnava le 6.23. Dio, sono solo passati trentatré minuti. Sembravano un'e-
ternità. Pensò a Josef: dov'era in quel momento? Tanaka raggiunse la Quarantacinquesima Strada Sud alle sei in punto. La porta del dojo era aperta e Reuben Daniels, il segretario del club che, a settantadue anni, era anche il membro più anziano, era da solo sulla stuoia. Daniels stava eseguendo una passabile versione del Basai Dai, una delle figurazioni intermedie. Tanaka attese nella zona separata da un cordone a fianco del tappeto finché l'uomo di colore ebbe terminato. «Se tu avessi cinquant'anni di meno saresti pericoloso,» ironizzò Tanaka mentre Daniels si voltava. «Dieci anni fa non saresti riuscito a toccarmi neanche con un dito,» rispose Daniels. Risero entrambi, quindi Tanaka attraversò il tappeto e si diresse negli spogliatoi. Qualche minuto dopo era in piedi nel suo gi davanti al Makiware, un sacco da allenamento pieno di paglia. Piantò bene i piedi, piegò il braccio e lanciò un rovescio contro la paglia. Dopo un centinaio di colpi, le giunture del pugno di Tanaka cominciarono a sanguinare. Stava pensando a Willard Ng e a ciò che Ng aveva fatto al suo amico. Aveva paura di Ng. Non da un punto di vista fisico ma in un modo che sembrava strisciare dentro la sua psiche, minando le sue difese mentali ed emotive. Era come se Ng conoscesse un aspetto del suo animo che neanche lui conosceva. Era come se tra loro due ci fosse un legame, che Tanaka aveva percepito da parecchio tempo ma mai con l'intensità di quella mattina a Camden: da allora se ne era sentito ossessionato. Accelerò la velocità dei colpi. Le nocche diventavano insensibili e l'insensibilità sembrava trasmettersi anche ai suoi pensieri. C'era ancora un'ora di allenamento prima della lezione. In quell'ora, con i pugni, Josef poteva creare una distanza reale tra se stesso e la sua paura. Willard Ng percorse la Trentaquattresima, passando sotto il ponte della Pennsylvania Railroad e proseguì oltre l'entrata principale dello zoo. Mezzo chilometro più avanti svoltò a destra sulla Zoogical Avenue. Allora rallentò e finalmente spense il motore. Il furgone proseguì per gli ultimi cento metri, fermandosi a pochi passi di distanza dalla Porta H. Rachel Saunders era in suo possesso da trentacinque minuti e non aveva detto una parola. Ng percepì un forte autocontrollo. La ammirò. Si voltò, si sporse verso di lei e sbloccò lo sportello di Rachel, facendole segno che poteva uscire dal furgone. Anche con quel minimo contatto del suo corpo contro quello di lei, avvertì la sua tensione. Molto probabilmen-
te avrebbe subito tentato di scappare. E per lui sarebbe stata una sfortuna, perché non voleva ferirla per riprenderla. La voleva intatta. Ng si spostò verso il sedile del passeggero, spingendosi contro Rachel. Lei si sentì gelare e il suo stomaco si contrasse. Non voleva uscire dal furgone. Almeno, mentre viaggiavano, lui era stato impegnato. Non aveva rivolto l'attenzione a lei e c'era stata la possibilità di fuggire. Anche il rumore del traffico che passava era sembrato rassicurante. Adesso erano soli. Oh, mio Dio, non voglio che mi tocchi. Non voglio che mi violenti. Josef si era rifiutato di raccontarle le cose che il mostro aveva fatto alle altre vittime. Si erano tutte sentite come lei prima della loro fine? No. Non voglio morire. Per favore. Si bloccò prima di giungere al limite della disperazione. Fermò il gemito prima che uscisse dalla sua bocca. Sola. Era sola. Una volta, quando era una ragazzina di dodici anni, era andata in spiaggia con sua madre. Aveva nuotato, era una buona nuotatrice già allora. Si era allontanata in un posto dove non toccava il fondo, ritrovandosi nel mare mosso tra i cavalloni. Aveva cercato di raggiungere la spiaggia. Lottando, trascinata dalla corrente. Inizialmente si era sentita confusa, troppo confusa per chiedere aiuto, per ammettere di essere in pericolo. Ma infine, quando si era sentita esausta, aveva agitato le braccia, facendo dei segni. Era in acque troppo profonde. Non riusciva a tornare indietro... E nessuno l'aveva vista. Nessuno aveva visto la sua manina tra i flutti. Né sua madre, né il bagnino. Per un terribile, maledettissimo momento capì che sarebbe affogata. Capì che era tutto finito in quella bella giornata di luglio. Sarebbe stata strappata via alla sabbia calda e al rumore delle voci. Sola. In qualche modo, quella volta, molto tempo prima, aveva ripreso il controllo su di sé, ritrovando la calma interiore. Aveva fluttuato sulle onde, lasciando che la marea la riportasse alla spiaggia. «Dove stiamo andando?» Parlò con sforzo. Il suo tono era dolce ma quasi inespressivo. «Dentro,» rispose Ng. Rachel si mosse con il peso del corpo dell'uomo contro il suo, scese dal furgone e fu in strada. Lui era esattamente alle sue spalle e la teneva per il braccio. Le sue dita non avevano pietà: erano come una morsa d'acciaio. È più forte di Josef. Quel pensiero la fece rabbrividire. Proseguirono per la strada buia, con un alto recinto metallico a destra e a sinistra le rotaie sopraelevate della ferrovia. Rotaie silenziose e deserte. Per favore, fa' che passi un treno, che qualcuno si affacci al finestrino. Qualcuno che mi veda. Con cui mettermi in contatto.
Concentrò lo sguardo sulla strada davanti a sé. Sapeva che doveva fare qualcosa. Combattere, correre, staccarsi dalla terribile stretta sul suo braccio, che nella sua mente sembrava ancora più forte. Continuò a camminare, come un prigioniero verso il patibolo. Poi vide la figura, una sagoma scura, che si dirigeva verso di loro dalla stessa parte della strada. La morsa le strinse ancor di più il tricipite e le punte delle dita di Ng si infilarono tra il muscolo e l'osso. Gemette di dolore e la stretta si allentò leggermente. Un uomo si dirigeva verso di loro, robusto come un giocatore di football, con le spalle larghe. Portava una borsa di tela, una specie di sacca sportiva. Era a non più di cinquanta metri di distanza. Continua ad avvicinarti, per favore. Continua ad avvicinarti, desiderò intensamente Rachel Saunders. Ancora qualche passo e strillerò. Un istante più tardi, Willard Ng le avvolse il braccio sinistro attorno al collo stringendolo così violentemente contro la sua arteria carotidea che Rachel perse temporaneamente conoscenza. Le gambe le divennero molli e i suoi piedi vennero trascinati sul cemento. Qualche istante dopo, quando si riprese, si accorse che camminava zoppicando. Dopo un attimo capì che aveva perso una scarpa. Si concentrò sull'uomo che era davanti a loro. Un occhio di vetro. Ha un occhio di vetro. Quello fu il suo primo pensiero. Poi udì la voce dell'uomo e fu come se i suoi sensi riprendessero a funzionare tutti insieme. «Lasciala andare, e poi ce la vedremo noi due, amico.» Rachel notò una traccia di accento. Londinese? Australiano? Capì che l'uomo stava tentando di salvarle la vita. Aveva posato a terra la sacca di tela e la sua mano sinistra era già stretta in un pugno. «Hai già pestato a sangue uno dei miei amici e questo per me è abbastanza.» La stretta al braccio di Rachel era meno robusta ma il corpo di lei era ancora vicino a quello di Ng. La donna si accorse della strana vibrazione che arrivava dal petto del suo rapitore. Aveva un suono sibilante, sembrava quasi l'ansimare di un asmatico. «Corri, chiama la polizia!» La sua voce riempì il silenzio. Gordon Forrest le sorrise e fu un sorriso coraggioso, reso leggermente forzato dal mal di denti. Era sempre lo stesso dolore che gli veniva prima di un attacco di emicrania. Era rosso in viso e gli era salita la pressione, la placca di acciaio che aveva sulla parte anteriore della testa sembrava do-
vesse esplodere. «Per favore, vada,» implorò Rachel. «Non posso lasciarti con questo animale.» L'ultima parola di Forrest fu pronunciata con un ansimare del diaframma mentre lui si slanciava bruscamente in avanti. Willard Ng osservò lo spostamento dell'uomo robusto. Percepì il braccio sinistro di Forrest muoversi circolarmente con il pugno che si dirigeva verso di lui. Prima di reagire prese saldamente la sua prigioniera per i capelli. Forrest sentì il suo pugno arrivare con violenza sulla spalla di Ng, lanciando subito dopo un upper cut all'inguine dell'uomo gigantesco. Ng espirò. Fu un respiro forte, un grugnito che coincise con un giro da destra verso sinistra per parare il colpo del suo aggressore. Adesso Rachel strillava, forte e acutamente. Poi perse il contatto con il suolo. Ng l'aveva presa per i capelli e l'aveva sollevata di tre centimetri dal marciapiede. Tirandole su la testa per costringerla a guardare la lotta che si svolgeva in quel momento. Willard Ng ruotò su se stesso trascinando Rachel con sé, questa volta da sinistra a destra e colpì la mascella dell'uomo con il gomito. Il colpo stordì Forrest. Sarebbe caduto se Willard Ng non l'avesse avvolto nella sua ala, immobilizzando la testa di Forrest in una morsa d'acciaio e piegandola all'indietro, stringendogli il collo contro il suo corpo vigoroso. Rachel Saunders non riuscì a vedere il volto di Gordon Forrest. Tutta la testa dell'uomo era stata infilata sotto il braccio di Willard Ng che la stringeva permettendo alla donna di vedere solo la parte anteriore del corpo di Forrest, piegata in un arco innaturale. Tuttavia, udiva gli ansimi soffocati e agonizzanti dell'uomo. Stava piangendo di dolore. «Fermo! Lo ucciderai! Ascoltami! Lo ucciderai!» Urlò, cercando di alzarsi in piedi sotto il peso della mano del suo rapitore. Fu impossibile. Poi si udì un rumore secco e forte, simile a quello di un ramo o di legno stagionato quando si spezza. Dopo fu silenzio. Rachel alzò lo sguardo sul volto di Willard Ng. L'uomo era immobile, con il corpo senza vita di Gordon Forrest stretto a sé. I lineamenti di Ng mostravano un ghigno. No, non un ghigno. Un sorriso. Fece un passo lateralmente e Gordon Forrest cadde sul marciapiede, con il collo rotto tanto nettamente che la vertebra, spingendo contro la trachea, gli aveva fatto uscire dalla bocca la lingua gonfia e insanguinata. Ng fece alzare in piedi Rachel Saunders. Lei provava una sensazione di confusione nella percezione di sé, era come se fosse lì soltanto con il cor-
po. Le sue emozioni si erano distaccate dalla situazione. Capiva quello stato, era come quando aveva visto per la prima volta un'autopsia. Era la fase iniziale dello shock. No. Non posso lasciare che succeda. Non posso perdere la presenza di spirito. Mantieniti lucida. Mantieniti sveglia. Ng prese l'uomo morto con una sola mano e lo trascinò alla base del recinto. Gli diede due calci, in modo da infilarlo tra il recinto e il terreno. Infine, prese il borsone sportivo di Gordon Forrest e lo gettò al di là delle punte acuminate in cima alla recinzione. Ignorò l'occhio di vetro marrone che lo guardava dall'asfalto crepato della strada. Rachel non fece resistenza mentre percorrevano gli ultimi dieci metri fino alla Porta H. Si fermarono un istante davanti alla sbarra di ferro, poi Ng si inginocchiò e la trascinò con lui mentre scivolava nell'apertura di trentacinque centimetri tra il viale asfaltato e l'ultima sbarra della vecchia cancellata. Una volta dentro, si infilarono in un groviglio di piccoli edifici scuri collegati da una serie di vialetti in cemento. Soltanto gli animali notturni si accorsero della loro intrusione e lanciarono urla di protesta oltre le sbarre delle loro gabbie. Un senso di irreparabilità era nell'aria. Adesso Ng la teneva meno saldamente, sentendosi al sicuro in quell'ambiente familiare. Percorsero cinquanta metri in un ampio viottolo, poi lui la guidò verso destra su per una rampa lastricata, fino a un'alta porta chiusa a chiave con la figura di una lucertola scolpita sulla pietra del pianerottolo. Ng aveva le chiavi in mano e aprì la porta. Entrarono in una grande stanza cavernosa con dei contenitori di vetro allineati alle pareti. Molti contenitori erano al buio, due o tre erano illuminati fiocamente. Rachel si accorse degli animali acciambellati nei contenitori illuminati che si guardavano intorno con occhi socchiusi. Ng la spingeva in avanti, e la guidava con la mano che le stringeva la spalla. Era soltanto il contatto con lui che le impediva di irrigidirsi per il terrore. Era invasa dal terrore, era spaventata in tutto il suo essere. Il corpo dell'uomo era così vicino al suo che ne sentiva l'odore. Un odore dolciastro e pungente. Un odore che sembrava appartenere a quell'ambiente umido e chiuso. Le gambe di Ng si muovevano in sincronia con quelle di lei, e il suo ginocchio sfregava contro la parte posteriore della sua coscia mentre era sospinta verso l'oscurità. Aveva la sensazione di essere risucchiata in un lungo tunnel nero, dal
quale non sarebbe mai più riemersa per vedere di nuovo la luce. Ng sembrava onnipotente. Pareva che nessuno potesse fermarlo, né un uomo né un Dio. Stava per farle delle cose. Delle cose terribili, delle cose a livello sessuale, le stesse che aveva fatto alle altre donne, le cose di cui Josef non aveva mai voluto parlarle. Rachel cominciò a tremare e il tremito si impadronì di lei e il suo corpo fu preso dalle convulsioni. Udì la sua voce che parlava. Diceva tra i singhiozzi: «Nessuno sa chi sono io. Nessuno.» Era la sua voce ma proveniva da un periodo precedente della sua vita. Risaliva a prima che crescesse, diventasse forte e indipendente. Era una voce di bambina. Di bambina spaventata. La mandò in collera. Concentrò la sua mente sulla bambina, si raddrizzò e prese a camminare senza trascinarsi. E per tutto il tempo, per dei secondi che sembrarono un'eternità, Ng rimase a seguirla silenzioso. Indifferente alla sua sofferenza, unicamente concentrato su ciò che sarebbe avvenuto dopo. Willard Ng strinse di più le dita e fermò la sua prigioniera davanti a una porta bianca. Spinse la chiave nella serratura. Attraversarono un piccolo ufficio, oltrepassarono degli archivi e una scrivania e uscirono da una porta posteriore, infilandosi in un corridoio pieno di tubature metalliche grigie collegate con serbatoi in ebollizione che sibilavano e stridevano con un frastuono incessante. Una luce in alto, rossa e racchiusa in una rete metallica, illuminò il loro tragitto verso la cima di una scala che scendeva. Uno spesso calore umido saliva a ondate dal fondo della scala. Non scenderò laggiù. Non scenderò, giurò a se stessa, piantando saldamente a terra le gambe. Poi fu sollevata in aria, con il braccio di lui avvolto attorno al petto che la stringeva talmente forte che il grido le morì in gola discendendo nel calore. Nella stanza al fondo delle scale c'erano altri contenitori di vetro e un labirinto di gabbie luccicanti. Esseri viventi con occhi minacciosi. Alcune avevano il cartello con scritto «Quarantena», altre dei cartellini che indicavano che erano «Cibo». Cibo per i rettili al piano di sopra. Un serpente a sonagli diamantino si arrotolò mentre passavano e il suo sonaglio spezzato tremolò un avvertimento silenzioso. Lungo un corridoio serpeggiante, altri tubi, altre pareti metalliche con la condensa che gocciolava lungo di esse. Adesso faceva più caldo e Rachel sudava e di tanto in tanto i suoi piedi strisciavano per terra. Il corridoio si stringeva e finalmente terminava. Era troppo buio perché Rachel potesse vedere ciò che Ng faceva. Udì il click di un lucchetto che si apriva e cadeva. Un raggio di luce rossa com-
parve quando l'ultima porta si aprì. A Rachel sembrò di guardare dentro un forno. Più caldo dell'inferno. Urlò, voltando le spalle alla porta e mettendosi le mani sul volto. Ng le storse la mano, piegandole il polso, e la costrinse a inginocchiarsi. Lei urlava, minacciandolo. «Josef ti ucciderà! Maledetto, ti ucciderà!» E al tempo stesso sentiva di odiare Josef Tanaka per averla cacciata in quell'inferno. Josef ti ucciderà. Josef Tanaka. La promessa di Rachel si ripeté nella mente di Ng mentre la sollevava con entrambe le braccia e la gettava sul pavimento della stanza. Cadde sulla schiena e la gonna le si sollevò. Ng la tenne d'occhio mentre chiudeva la porta e metteva il chiavistello dall'interno. La donna indossava il collant. Ng vedeva la sagoma degli slippini ridottissimi sotto il nylon e una macchia scura dove i peli pubici sporgevano. Gli venne in mente, in modo vago, che non aveva mai avuto una donna. Non nel senso convenzionale. Aveva sempre provato repulsione al pensiero della procreazione. La carnalità, le cose terrene: era stato sempre attratto verso una sorgente più alta. Si gettò su di lei prima che si fosse ripresa dalla caduta. Le strappò selvaggiamente gli abiti, facendoglieli a brandelli. Inizialmente lei lottò, aggrappandosi ai pezzi della gonna, della camicia. Stringendoli pateticamente. Infine, rimase nuda a fissarlo: al posto della paura ora nel suo sguardo c'era il disprezzo. Ng la osservò con curiosità. Esaminò i suoi piccoli seni con i grandi capezzoli rosei. Le sue lunghe gambe e le cosce tonde e piene. La ragazza di colore era più interessante, da un punto di vista fisico. Più giovane, con i muscoli più sviluppati, più flessibile. Flessibile? Ng ripensò a Jeanette Key. Non si poteva veramente giudicare la flessibilità fino a quando non le si metteva in posizione. E nella stanza faceva caldo, quindi tutto sarebbe stato più facile. In ogni caso, non era il fisico della donna che attraeva il guerriero. Erano la sua intelligenza e la sua determinazione. La sua volontà. Sarebbe stato interessante vedere fino a che punto lei avrebbe capito la trasformazione. Si chinò e la immobilizzò sul pavimento con il ginocchio, tenendola ferma facendo pressione contro lo sterno. Rachel dovette fare uno sforzo per respirare. Poi lui allungò la mano tra le sue gambe e lei le tenne chiuse, incrociando le caviglie. I muscoli delle cosce le tremavano per lo sforzo. «No. No. No.» Lei ripeté quella negazione a denti stretti. Nel suo sguar-
do c'era una rabbia furiosa. Ng le strinse tra le dita le labbra esterne della sua apertura. Le pizzicò forte e tirò, sollevando la parte più bassa del suo corpo dal pavimento. Rachel strabuzzò gli occhi e le sue gambe si afflosciarono. Allora lui infilò la mano e raggiunse il suo ano. Adesso lei si difendeva con le braccia, dando pugni e graffiando. Gli piantava le unghie nella carne e cercava di alzare la testa in modo da poterlo mordere. Willard Ng ricordò quanto male gli faceva suo padre quando lo sodomizzava. Tirando e strappando. Quella era la punizione più terribile che suo padre gli infliggeva. Ma gli aveva fatto smettere di comportarsi male, gli aveva fatto smettere di fare i capricci. Ng spinse dentro di lei due dita e poi usò il pollice per fare leva dall'altra parte. Lei urlò, un urlo forte e pieno. Ng la fissò, tenendola mentre ritraeva la mano. Rachel sembrò capire il suo sguardo. «Non ho intenzione di fare resistenza. Lo giuro.» Disse la donna mentre inspirava profondamente. Lui annuì e poi si alzò. Non voleva farle del male. La voleva in perfette condizioni. Fece un passo indietro invitandola ad alzarsi in piedi. Rachel Saunders era in piedi davanti al suo rapitore. Si sentiva molto più piccola senza gli abiti e più vulnerabile, però intuiva di non essere minacciata sessualmente. C'era qualcosa di clinico nel modo in cui lui la osservava. Era come venire esaminati da un medico abituato a vedere la nudità. Ciò le diede un attimo di tregua. Ora che l'ondata di paura era passata, a Ng la sua prigioniera piaceva di più. Senza la paura, l'intelligenza della donna trapelava dai freddi occhi azzurri. Lui la voleva in quello stato, con la mente non offuscata dalla paura. Una testimone. La sfiorò con cortesia, senza neanche tentare una carezza, e la guidò verso una sedia, di legno massiccio con i braccioli robusti e incatenata al pavimento. Lei cercò di esaminare la stanza per vederne le entrate e le uscite e qualsiasi cosa che potesse servire come arma. Vide l'unica porta chiusa con il chiavistello, il tavolo da lavoro, la gabbia, i vasi per l'uccisione sugli scaffali. Dentro i vasi c'erano degli insetti. Una grande gabbia di bambù conteneva un insetto solo, in piedi sulle zampe anteriori: sembrava guardarli. Che cos'è? Una cavalletta? Si chiese Rachel. «Lou-prego-dieu.» Pronunciò quella frase in modo ricercato, con reve-
renza. «L'animale che prega Dio.» Mi ha letto nella mente, pensò Rachel annuendo in silenzio. Ng le fece segno di sedersi sulla sedia con lo schienale alto. Lei gli obbedì e frattanto lui allungò la mano verso il tavolo e prese un grosso rotolo di cerotto. «Non hai bisogno di legarmi,» disse la donna, anche se capiva che la sua promessa era stata inutile. L'uomo lavorò meticolosamente, cominciando dalle caviglie e salendo su per le gambe. Ci vollero venti minuti buoni per completare l'operazione. Una volta, quando Rachel Saunders era una ragazzina, aveva giocato ai cow boys e agli indiani. Lei aveva fatto la parte della squaw e due suoi amici l'avevano legata a un albero. Poi erano corsi via ridendo. Era andato tutto bene, era stato solo un po' noioso, solo che a un certo punto le era venuta voglia di fare la pipì. E allora aveva sentito il senso di umiliazione che si prova quando si è prigionieri. Era rimasta lì in lacrime a tentare disperatamente di trattenersi finché le era sembrato di scoppiare. Infine, si era fatta la pipì addosso. Dopo quell'episodio i suoi due amici non le erano piaciuti più tanto. Anche adesso aveva necessità di urinare. E odiava Willard Ng. L'uomo le mise il cerotto sulla bocca e le fermò la testa contro lo schienale della sedia. Poi spostò la gabbia di bambù su un lato del tavolo. Rachel non capì se l'avesse fatto in modo che lei potesse vedere meglio l'insetto, o viceversa. Soddisfatto, Ng tolse il chiavistello alla porta e uscì. Quando Rachel udì la serratura che scattava dall'altra parte, urinò. Tanaka entrò in casa e chiuse la porta. Restò sorpreso nel vedere che il corridoio e il soggiorno erano bui. Rimase in silenzio ad ascoltare se sentiva il rumore della televisione provenire dalla camera da letto. Sovente, quando Rachel si asciugava i capelli, guardava una delle telenovele delle otto. «Mi aiuta a svuotare la mente,» spiegava quando lui le faceva l'inevitabile domanda: «Come fai a vedere queste sciocchezze?» Quella sera non si udiva alcun rumore di TV. Accese la luce. Il divano e le sedie non erano stati toccati da quando lui era uscito quel mattino. Gironzolò per le altre stanze: niente era stato toccato, perché Rachel non era tornata dal lavoro. Un attacco di collera gli fece tendere le labbra. Un'emergenza, sempre un'emergenza. In una professione in cui lei sosteneva
non vi fossero emergenze. Probabilmente si trattava di qualche vecchiaccia che si lagnava della forma delle sue ciglia. Perché proprio quella sera? Dovevano andare fuori a cena quella sera, mettersi eleganti. Tanaka si sedette sul basso divano ad angolo. Non essere così dannatamente egoista. Cercò di somministrarsi da solo un po' della filosofia della dottoressa Saunders. L'indomani avrebbero preso la moto e sarebbero andati a Poconos. Un weekend tra le montagne, per schiarire la sua mente. La sua mente: un altro atteggiamento egoista? No, probabilmente ne aveva davvero bisogno. Aveva bisogno di mettere dello spazio tra se stesso e quello che era successo. Prima sarebbero passati a trovare Bill Fogarty. Si trovava all'Ankenau ora, trasferito per cortese concessione del dipartimento di polizia di Filadelfia. Almeno così Dan McMullon e Winston Bright potevano stabilire loro con chi dovesse parlare il detective, chi mettere sulla lista dei visitatori. La polizia di Filadelfia aveva fatto una figura già abbastanza stupida ed era meglio evitare che il suo agente che aveva trasgredito venisse interrogato dalla squadra omicidi di Camden. Billy aveva davvero fatto fiasco, e non c'era alcun modo di aiutarlo. Né per quanto riguardava il caso, né per la sua carriera. E Willard Ng era ancora in circolazione. Josef Tanaka sapeva che era colpevole. E che cosa avrebbe fatto Josef Tanaka in merito a quella faccenda? Un telefono che squillava interruppe il corso dei suoi pensieri. «Ciao, Josef.» Tanaka riconobbe immediatamente la voce di Marge Yates. «Dov'è Rachel, Marge?» chiese, mentre progettava di rifiutare le scuse che si aspettava. «Non so, ma posso dirti dove non è.» «Cosa vuoi dire?» «Voglio dire che ho preso per sbaglio il suo costume da bagno mentre uscivo dall'ufficio. Era in un sacchetto di plastica e mi sono confusa e l'ho messo insieme alla mia spesa. Sarà arrabbiata,» spiegò la segretaria. «A che ora vi siete lasciate?» chiese Tanaka. «Poco prima delle sei.» «E lei stava andando in piscina?» «Sì. E poi doveva venire a casa per farsi una pettinatura alla Bo Derek prima che tu arrivassi.» Tanaka non rise e Marge Yates si chiese se avesse detto qualcosa di troppo. «C'è qualche problema?» chiese dolcemente.
«No,» rispose Tanaka, nascondendo la sua ansietà. «Sono tornato a casa un po' prima e lei non c'è, ecco tutto. A che ora aveva l'ultimo paziente?» «Alle cinque, ma il tizio non si è presentato.» «Chi era, lo ricordi?» chiese Tanaka. Cominciava ad avere un cattivo presentimento. Una premonizione. «Era nuovo. Ha dato il nome di J.C. Masters.» «Chi lo ha indirizzato?» «Nessuno. Ha detto che la dottoressa Saunders gli era stata raccomandata da un ex paziente.» «Per che cosa veniva?» «Setto nasale deviato. Sembrava che lo si potesse operare, è per questo che gli ho dato l'appuntamento. Qualcuno aveva disdetto...» «Riesci a ricordare la sua voce, Marge?» «Era un po' cupa. Echeggiante. La ricordo perché ho sempre cercato di farmi un'idea dei nuovi pazienti dal suono della voce. Quell'uomo sembrava che stesse soffrendo. O soffriva o aveva semplicemente una voce brutta. C'è qualcosa che non va, vero, Josef?» chiese nuovamente. «In che posto hai visto Rachel per l'ultima volta?» Aveva una voce quasi rauca. «Davanti agli uffici. Mentre andava alla piscina.» Tanaka stava lottando per tenere il panico fuori dalla sua mente. Quando parlò di nuovo fu come se fosse distaccato dalla propria voce. «Lasciami fare alcune telefonate e poi ti richiamerò.» Aveva un tono molto pragmatico. «Che cosa vuoi che faccia io?» si offrì Marge. Cominciava a realizzare la situazione, perché sapeva che Josef era stato coinvolto nel recente scandalo che riguardava la polizia e sapeva anche del mostro a cui si stava dando la caccia. «Tu preoccupati soltanto del costume da bagno.» Era il tipo di risposta evasiva che infastidiva sempre Margery Yates. Tanaka percepì il significato del silenzio dall'altra parte del filo. «Al diavolo le telefonate. Andrò all'ospedale: forse ha avuto un'emergenza. Se non è là andrò a vedere alla piscina. Potrebbe aver affittato un costume. Ti chiamerò più tardi, Marge.» «Grazie, Josef. Ti auguro di trovarla.» Tanaka fece di corsa i sette isolati fino all'ospedale. L'infermiera capo impiegò tre minuti e quattro telefonate per confermare che Rachel Saunders non era stata vista in nessun reparto dopo l'una di quel pomeriggio.
Allora Tanaka andò direttamente al centro sportivo dell'università. All'entrata incontrò Margery Yates: si era quasi aspettato di vederla. «Qui non è venuta,» disse Marge. «Sei sicura?» «L'usciere è stato in servizio dalle quattro del pomeriggio e Rachel non è mai stata registrata.» La sua voce era molto controllata, professionale. «Non c'è la possibilità che gli sia sfuggita? Magari si è allontanato dalla scrivania per un minuto.» Marge scosse la testa. «Doveva farsi registrare. Non c'è altro modo per avere la chiave di un armadietto.» «Scenderò a guardare,» disse Tanaka. E fece per dirigersi verso il cartello con la scritta «Donne». Marge Yates gli toccò la spalla per fermarlo. «Non puoi farlo, Josef. Provocheresti un mucchio di casini. Se aspetti qui, andrò io.» Marge scomparve per qualche minuto. Quando ritornò scosse la testa. «Rachel non è stata qui. Questo è certo.» Esitò. «Credi che dovremmo chiamare la polizia?» Tanaka si sentì prendere dall'ansia. Coinvolgere la polizia avrebbe convalidato i suoi peggiori timori. Guardò negli occhi castani di Marge Yates. Lei capì. «Torniamo a casa, vediamo se è tornata. Se non c'è, chiameremo la sua segreteria telefonica e controlleremo i messaggi. Poi decideremo cosa fare.» Willard Ng riagganciò il telefono per la quinta volta. Sempre la stessa voce. La stessa voce nasale che gli aveva dato l'indirizzo di Rachel Saunders e il numero di telefono del suo ufficio. Non aveva nulla da dire a quella voce, non serviva più ai suoi scopi. Si guardò attorno. Lo zoo era deserto, era chiuso per la festa del Ringraziamento. Forse un gruppo di guastafeste sarebbe venuto al mattino per pulire e nutrire i mammiferi più grandi. Non sarebbero arrivati fino alle otto. Il sole si alzava alle sei. Dopo quell'ora potevano fare quello che volevano. Lui sarebbe scomparso. Pensò alla sua prigioniera, era stato lontano da lei per circa mezz'ora. Era stato attento con il cerotto perché non voleva bloccarle la circolazione. Doveva essere in buone condizioni quando l'avrebbe messa in posizione. Rachel Saunders non riuscì a liberarsi. Aveva teso i muscoli contraendo-
li per poi rilassarli, nel tentativo di allentare la striscia di cerotto. Inspirava abbondantemente e poi soffiava contro il cerotto sulla bocca. Niente. Nessun suono, nessun risultato. Persino il sudore del suo corpo sembrava fermarsi attorno ai bordi del cerotto che la imprigionava e che le faceva prudere la pelle, impedendole ogni movimento. Era impossibile giudicare quanto tempo fosse passato da quando era entrata nella stanza con quella luce rossa; tutto era stato misurato dalle secrezioni di adrenalina, che aveva fatto aumentare e diminuire a ondate la sua paura, facendola salire a livelli incredibili o scendere eccessivamente. Durante le scariche adrenaliniche più intense, Rachel lottava intensamente contro la propria immaginazione. Che cosa intendeva fare con lei Willard Ng? Fu allora che la zona contusa attorno alla sua vagina e al suo retto sembrò più dolorosa, come se quelle parti si fossero gonfiate e sanguinassero. Nei momenti di calma pensava a Josef Tanaka. Lo immaginò entrare nel loro appartamento e scoprire che lei non c'era. Josef avrebbe saputo cosa fare. Dio mio, spero che sappia cosa fare. Rachel Saunders era cattolica, o almeno era stata cattolica. Non andava a messa da cinque anni. Nelle ore seguenti avrebbe pregato molto. Un'altra cosa che Rachel fece nei momenti di calma fu esaminare la piccola creatura alata che era davanti a lei. La Mantide era davvero molto bella, così lunga e color verde pallido, con le ali velate chiuse sotto il corpo sottile. C'era un non so che di intelligente nell'insetto, qualcosa nel modo in cui guardava e aspettava. Al terzo squillo della sua settima chiamata, Willard Ng ottenne risposta. Ancor prima di sentire la voce di Josef Tanaka, sentì il ronzio al centro della fronte. «Pronto.» C'era un'ansia contenuta nel tono del medico. Ng rimase calmo, concentrandosi. «Pronto,» ripeté Tanaka. Provava già una sensazione di malessere alla bocca dello stomaco. Marge Yates alzò lo sguardo dal divano. «Sei solo?» Josef riconobbe quella voce cupa. Sentì un tuffo al cuore e guardò Marge. «No.» «È importante che tu sia solo,» disse Ng, aggiungendo un accento bru-
sco alla sua voce. «Dammi cinque minuti,» rispose Tanaka. La comunicazione si interruppe. «Riguardava Rachel, vero?» domandò Marge. Tanaka annuì. «Sta bene?» La sua domanda era esitante. Tanaka non poteva perdere tempo. «Marge, ora devi andartene.» Lei si alzò. «È ora di chiamare la polizia, vero?» chiese. Tanaka la guardò negli occhi e capì che doveva tranquillizzarla. «Marge, io lavoro con la polizia. Tutti i giorni della mia vita. E amo molto Rachel. Credimi, quando sarà ora di chiamare la polizia, la chiamerò.» «Non vuoi raccontarmi che cosa sta succedendo?» chiese Marge fermandosi davanti alla porta aperta. Tanaka cedette: ne aveva abbastanza. «La verità è che non lo so. E non lo scoprirò qui con te adesso. E ora Marge, per favore, vai a casa. Ti telefonerò appena posso.» Le afferrò la spalla con più forza di quanto avesse voluto. Lei trasalì. «Non telefonare a nessuno. Mi hai capito?» ordinò Tanaka. Marge accennò di sì col capo, con aria sottomessa, come se fosse stata appena rimproverata per essersi comportata male. Tanaka vide la fragilità nei suoi occhi. La paura. Grazie a Dio, Rachel non è come te, pensò. «Ti chiamerò presto, lo prometto,» disse, e poi chiuse la porta. Era appena ritornato nella stanza quando il telefono riprese a squillare. Aveva le palpitazioni alzando la cornetta. «Sei solo?» domandò la voce cupa. «Sì.» «Sai perché telefono?» chiese la voce, con tono più deciso. «Credo di saperlo,» rispose Tanaka. «Ha i capelli più lunghi che abbia mai visto,» sussurrò la voce. Con sforzo, Tanaka chiese: «È viva?» «Sì.» «Che cosa vuoi?» domandò Tanaka. «Aspetto te.» Tanaka rimase silenzioso. Il suo cuore rallentava le pulsazioni e il respiro cominciava a regolarizzarsi. La connessione si stava instaurando, quel senso di fatalità, la stessa sensazione che aveva provato in presenza di Ng. Anche Ng la sentiva: aveva intenzionalmente mantenuta intatta la sua
identità umana durante la preparazione. Persino durante l'eliminazione di Gordon Forrest. L'identità umana era come uno scudo, serviva a tenere a freno l'Uomo-Mantide. A tenerlo pronto per la trasformazione finale. Adesso sentiva lo scudo che si dissolveva davanti a un flusso di calda elettricità. Gustò l'intrecciarsi delle loro due menti. «Dove sei?» chiese Tanaka, respirando piano. La sua voce era calma. «Voglio vederti. Non voglio nessun altro. Solo te, senza nessun altro.» «Capisco,» rispose Tanaka. «Sei spaventato?» C'era una certa innocenza nel tono di Ng. Una strana sincerità. «Sì,» rispose Tanaka. «È così che deve essere.» Tanaka si diresse verso la camera da letto. Quasi quattro ore esatte: ecco quanto mancava alle due. Avrebbe preferito che l'incontro avvenisse subito. Per il suo bene e per quello di Rachel. Meno tempo aveva per pensare e meno tempo avrebbe avuto la paura per tormentarlo. Niente polizia, niente armi. Nessuno deve sapere finché non è finita. Finita. Che cosa intendeva Ng con quella frase? Se mi tradisci lo saprò. Ci sarà un buco al centro del tuo essere. Lo percepirò, lo vedrò. Avrai strappato il legame che ci unisce. Poi Ng gli aveva detto il posto dove si sarebbero incontrati. Tanaka si sedette sul bordo del letto. In fondo alla bocca sentiva il gusto metallico dell'adrenalina e la sua mente era tesa e vuota. Adesso era importante essere razionali, precisi e calcolatori. Non c'era tempo per indulgere in sensi di colpa o per martirizzarsi. Sarebbe stato troppo facile lasciare che il passato determinasse il futuro. Questo avrebbe soltanto soddisfatto il suo desiderio di morire. «Espiazione,» così Willard Ng aveva definito quella faccenda. E la vita di Rachel Saunders dipendeva da quello che Ng avrebbe deciso. Allungò la mano sul comodino e prese la sua agendina in pelle. Cercò il numero di telefono di casa di Bob Moyer e rimase a fissarlo, sapendo già che cosa Moyer gli avrebbe consigliato di fare. Non drammatizzare. Segui la corretta procedura e chiama la polizia. Sono preparati a questo tipo di emergenze. Organizza l'incontro con numerosi rinforzi. Ng vuole parlare con te. Ha bisogno di confessare. Mettiti il giubbotto antiproiettile. Lo prenderemo. Salva la tua donna. Salva Bill Fogarty. XXI
DESIDERIO DI MORTE Il ricordo del corpo di Gina Genero accovacciato e violentato, inginocchiato sulle traversine di legno di un freddo dock sul fiume, con il sole del primo mattino che le sfiorava le spalle nude, si infilò come un cuneo nella mente di Tanaka. Fino a quel momento, la polizia aveva lottato e perso con Willard Ng. Squadre speciali, profili psicologici, prove medico-legali, tutto era stato di poca o nulla utilità. In effetti, era stato Josef Tanaka quello che aveva aperto uno spiraglio nell'indagine. E tutto grazie a una teoria basata sull'intuizione. La mia supposizione era esatta. Era intento a ripetersi quelle cose quando fu colto da un vero e proprio terrore, quando nella sua immaginazione il corpo di Rachel Saunders si sostituì a quello di Gina Genero. Quando si chiese se Rachel fosse ancora viva. Poi arrivarono le immagini più lontane e vergognose. Distaccate dal vecchio senso di colpa e dall'intensa paura. Immagini di suo fratello, Hiro, che lo guardava dalla stuoia con il collo rotto e il perdono nello sguardo. Con gli stessi occhi che si erano voltati da un'altra parte per l'umiliazione mentre il barelliere portava il suo corpo paralizzato nella casa di famiglia. E nella mente di Josef Tanaka comparve l'immagine del proprio corpo sulla barella. Colpito e reso inerme. Non più utile a se stesso né a Rachel Saunders. Espiazione? Sì, capiva il desiderio di espiazione. Che era ciò che aveva cercato Bill Fogarty, intensamente e con costanza. Era quel desiderio che li collegava, Tanaka a Fogarty, e loro due a Willard Ng. E Willard Ng lo capiva bene... Cristo, l'aveva perfino detto. Quella mattina a Camden. Quella ineluttabile mattina. Tanaka chiuse la sua agendina. Quella non sarebbe stata una faccenda per le radio della polizia, i tiratori scelti e le squadre di rinforzo. Non era il momento per una contagiosa tensione nervosa e per una spersonalizzata operazione di polizia. Era un affare personale, era sempre stato personale. Rachel Saunders notò un mutamento nel comportamento del suo rapitore nel momento stesso in cui questi rientrò nella stanza. Camminava in modo diverso, i suoi movimenti erano più bruschi e rapidi e aveva gli occhi leggermente socchiusi e dardeggianti. Ng mise il chiavistello alla porta. Poi si diresse verso di lei, esaminò i cerotti, notando che li aveva forzati nel tentativo di fuggire. Rachel aveva
valutato che la temperatura nella stanza fosse di un bel po' superiore ai venticinque gradi. Un sottile strato di sudore le copriva il corpo. Rimase immobile mentre Ng le strappava via il cerotto dalla bocca. Non fece alcun tentativo di parlare. L'uomo si accovacciò con il volto a livello del suo. La fissò negli occhi. Rachel vide che le pupille erano nere e dilatate: si chiese se avesse preso delle anfetamine. Qualcosa lo aveva alterato. Sembrava privo di emozioni. Ng rimase un momento in quella posizione, aprendo e chiudendo le narici come se stesse annusando l'aria. L'urina. Sente l'odore dell'urina, pensò, preoccupata che interpretasse quel gesto come un'offesa e si arrabbiasse. Si trattenne dallo scusarsi. Non dargli nessun pretesto. Nessuno stimolo, disse a se stessa. Ng si sporse in avanti, abbassando la testa al di sotto della mascella di lei. Rachel lottò contro l'impulso di urlare e si ritrasse involontariamente quando sentì la lingua dell'uomo, ruvida e secca, passare alla base del suo collo. Poi sulla sua bocca, muovendosi circolarmente mentre si spostava verso il lobo dell'orecchio. Il fiato dell'uomo era caldo sulla sua pelle e diventava più rumoroso mentre la leccava. La sua lingua era come quella di un gatto, però più spessa e incredibilmente forte, la invadeva. C'era qualcosa di osceno nel modo in cui invadeva la sua intimità. Si sentì venire i conati di vomito, chiuse gli occhi e cercò di ignorarlo. Era peggio con gli occhi chiusi. Il fatto di non vedere rafforzava la sensazione che lui stesse dissolvendo la sua carne. Succhiando il suo sangue. Mangiandola. Adesso ha cominciato. Ti prego, mio Dio, dammi la forza. Come in risposta alla sua preghiera, lui smise di leccarla. Willard Ng ritrasse la testa e la osservò con il volto leggermente di traverso. La punta della sua lingua uscì dalla bocca e Ng si leccò le labbra. «Sale. Hai perso molti sali. I muscoli ti faranno male senza i sali minerali.» Lei annuì. Anche il tono della voce dell'uomo era cambiato. Sembrava giungere da un punto diverso del suo corpo. Era più acuta, più sottile, e la pronuncia era chiara e precisa. Ng si alzò, si voltò e si diresse verso lo scaffale, poi prese un piccolo recipiente pieno di cloruro di sodio tra le sue bottiglie delle provviste. Ne versò il contenuto in un bicchiere d'acqua pieno a metà. Ritornò da lei e le mise il bicchiere davanti alle labbra. Rachel esitò. Ng le afferrò il mento e glielo spinse in dentro, tanto forte che lei credette che la sua mascella si sarebbe rotta. Buona parte dell'acqua
si sparse e le gocciolò giù per il collo, sul petto. Il resto le finì in bocca. Inghiottì. «Flessibile. Devi restare flessibile,» spiegò Ng. «Perché?» chiese Rachel, osservandolo ondeggiare la testa mentre la domanda le usciva dalle labbra. Era come se l'uomo afferrasse al volo ogni sillaba. Dato che la repulsione e il terrore che aveva provato sentendo la lingua del suo rapitore sul corpo erano passati, era ritornata a un nuovo stadio di calma. Ng percepì la calma di lei attraverso la vibrazione della voce. Era esattamente ciò che serviva. Sorrise, un sorriso timido e innocente. Poi andò allo scaffale e aprì un vaso per la nutrizione. Lo scarafaggio era intontito per il calore e si agitò appena mentre lo portava verso la Mantide. Josef Tanaka svuotò la vescica e gli intestini, si fece la barba e si lavò meticolosamente il corpo. Nudo, attraversò l'appartemento buio e dal bagno andò in cucina. Accese uno dei fornelli più piccoli della cucina a gas. Il bagliore del calore invase la piccola stanza. Sistemò una teiera piena d'acqua sul fornello e poi si diresse verso le porte scorrevoli che conducevano alla terrazza. Un'ondata d'aria fredda lo colpì mentre le apriva. Uscì, si appoggiò alla balconata in muratura e guardò verso le luci luccicanti della città. Sembravano tanto lontane. Lontane come Rachel Saunders. L'aria della notte lo fece tremare. Pensò a Willard Ng. Traboccava di paura. E quel terrore gli provocava minuscole convulsioni. Tremava. Era totalmente spaventato. Il freddo e la paura cospiravano contro di lui. Udì la teiera che fischiava in cucina. Rientrò e andò verso gli armadietti sopra il lavello. Nel momento in cui le sue dita toccarono la ruvida teiera di terracotta, cominciò il chado, la tradizionale cerimonia del tè, tanto naturale e importante per il samurai quanto la sua abilità con la spada. Tanaka iniziò a controllare con precisione la respirazione, mentre puliva il cucchiaino del tè e sistemava la tazza. Era come se stesse eseguendo un kata, disciplinando con precisione ogni gesto, perché l'obiettivo era di riuscire a controllare il flusso dei pensieri. Quella sera, dato che era solo e si preparava per la battaglia, era sia il padrone di casa che l'ospite, o okyaku. Quando il tè verde fu pronto, Tanaka portò la teiera e la tazza sul balcone. Si sedette sul muretto freddo. La paura cercò di penetrarlo un'altra volta, insieme al freddo della notte. Aveva la pelle d'oca sulle braccia. Si concentrò sul tè, sul suo intenso colore
smeraldino, sul bouquet dolceamaro. Lo sorseggiò lentamente, lasciando che il liquido lo scaldasse e lo pervadesse. Che alimentasse il suo animo. Lasciò che il suo sguardo si spostasse verso le stelle e la luna piena, mentre cercava quel nocciolo centrale di tranquillità che era dentro di lui. Trattenendolo a occhi chiusi. Lasciandolo affluire a poco a poco, in un posto oltre la paura, fuori del tempo. «Oshimai wo,» sussurrò, mentre posava a terra la tazza vuota. Sono pronto. Rachel Saunders fissava la stella bianca a sei punte. Un istante più tardi la mantide religiosa colpì, afferrando lo scarafaggio con gli uncini taglienti e facendolo a pezzi. Poi vi fu l'abbraccio, con le ali velate che avvolgevano la creatura tremolante, trascinandola verso la morte. Willard Ng osservava dall'altro lato del tavolo, ugualmente attratto dalla reazione della sua prigioniera quanto dalla meccanica di uccisione dentro la gabbia di bambù. Aveva osservato molte centinaia di volte il metodo della mantide, studiandolo e imparandolo. Le aveva attribuito un'intelligenza umana, molto evoluta. Si era sbagliato. Perché la mantide non poteva evolversi al di là della ripetizione dell'uccisione e del divoramento: fottere, uccidere, divorare. Quella era la sua essenza. Semplice ma perfetta in quella sua semplicità. La sua prigioniera sembrava infastidita da quello che aveva visto: la confusione era come un sottile velo sopra gli occhi della donna. Aveva ricominciato a sudare e le gocce formavano una piccola pozza sopra i suoi seni. Sudava perché era a disagio. Presto lui l'avrebbe liberata dai cerotti, e l'avrebbe messa in posizione per la trasformazione finale. Ng rivolse di nuovo l'attenzione all'insetto nella gabbia. Pensò a qualcosa, a un gesto finale. A un modo di dimostrare la gratitudine alla mantide religiosa per ciò che gli aveva dato. Si alzò e si diresse verso il suo vaso delle provviste. Il grande maschio era ancora vivo e faceva lo scontroso dietro una foglia secca. Ng lo tirò fuori dal vaso cullandolo dolcemente mentre lo portava verso la gabbia. La Mantide non aveva ancora finito il suo primo pranzo quando Ng le gettò il maschio al fianco. L'insetto non mostrò un interesse immediato e non c'era abbastanza tempo per aspettare. Ng allungò la mano nello sportellino per la nutrizione e portò via i resti dello scarafaggio. Una zampa uncinata gli colpì il dito. Pungendolo come un'ape. Un doloretto insignificante. Ng scosse via la Mantide e chiuse lo sportello. Era ora di cominciare i suoi preparativi.
Era mezzanotte quando Tanaka salì con la moto la rampa del parcheggio sotterraneo e si diresse a ovest verso lo zoo. Solo due ore di anticipo rispetto all'ora stabilita da Willard Ng. C'era ancora qualcosa che restava da fare. Un'ultima persona che doveva vedere. Helen Carter, l'infermiera alla ricezione del turno di notte, rimase stupita quando l'uomo vestito di nero entrò nell'atrio principale del Lankenau Hospital. Era alto ed eccezionalmente bello, aveva i capelli pettinati molto indietro e legati in uno stretto codino dietro la testa. I suoi abiti erano larghi ma i pantaloni erano stretti attorno alla vita; sotto il giubbotto di pelle nera indossava un pesante maglione fatto a mano. Le suole di gomma delle scarpe da ginnastica erano silenziose mentre si dirigeva verso di lei. Il suo modo di muoversi era distinto quanto il suo aspetto, sembrava quasi che scivolasse con lunghi passi sicuri. In una mano, guantata, teneva un casco da motociclista mentre l'altra stava cercando qualcosa nel taschino del giubbotto. Per un istante Helen Carter pensò che stesse per tirare fuori una pistola. Quegli occhi scuri avevano un'espressione che faceva sospettare un gesto del genere: forse era un drogato che stava per fare una rapina a mano armata. Quando l'uomo estrasse un portafogli di pelle, lo aprì e lo posò sulla sua scrivania, Helen si sentì sollevata. Visti più da vicino, quegli occhi castani erano limpidi e onesti come quelli che la fissavano dal tesserino di identificazione: Josef Tanaka, medico, assegnato alla divisione di medicina della polizia. «C'è stato uno sviluppo in uno dei nostri casi più importanti e ho la necessità di vedere il tenente William Fogarty.» Il suo tono non lasciava alcuno spazio per una risposta negativa. Helen Carter ritenne saggio controllare. In fin dei conti il tenente era stato ricoverato, sotto sorveglianza, solo quel pomeriggio con l'ordine tassativo che tutti i visitatori fossero registrati e si chiedesse prima il benestare al dipartimento di polizia di Filadelfia. La sua mano si posò sul telefono. Tanaka la coprì con la sua, gentilmente ma con fermezza. «A chi vuole telefonare a mezzanotte e mezza?» chiese. La gentilezza del suo tocco trapelava dalla sua voce. «Alla polizia,» rispose la donna. «Sono io la polizia, signora Carter.» Il tono della sua voce, dolce ma decisa, la fece sentire leggermente impacciata. «Sto cercando soltanto di seguire gli ordini,» spiegò.
Una seconda infermiera, in piedi vicino all'archivio alle spalle di Helen Carter, cominciò ad ascoltare la loro conversazione. Tanaka sapeva di dover decidere in fretta: l'ultima cosa di cui aveva bisogno erano fastidi. Era meglio piuttosto girarsi e andare via. Helen Carter interpretò la sua esitazione come impazienza. E allora cedette. «La accompagnerò alla camera del tenente.» Willard Ng era nudo. In piedi dietro il tavolo da lavoro, riempiva la siringa con una piccola fiala color ambra. Sarebbe stata la seconda siringa che si iniettava nel pene. Completò l'iniezione, appoggiò l'ago usato sul tavolo e guardò il suo organo turgido. La soluzione di papaverina scaldava e si diffondeva, irrompendo nei capillari. Per un certo tempo provò dolore e temette di aver iniettato troppa sostanza. Era l'erezione più grande che avesse mai avuto, l'organo pulsava e sembrava quasi dovesse scoppiare. Tutta la sua coscienza era concentrata laggiù, all'inguine; poi il formicolio si attenuò e la sua mente ritrovò l'equilibrio. Inizialmente, quando aveva cominciato a spogliarsi, Rachel aveva cercato di parlargli. Gli aveva fatto delle domande. Sulla cicatrice che aveva sul petto. La cicatrice, era così che lei l'aveva chiamata. Questo l'aveva irritato. Si era aspettato di più dal punto di vista della comprensione. Ma lui capiva. Capiva che la voce della donna la tradiva. Che era di nuovo spaventata, che sentiva la morte che si avvicinava. Che cercava di prendere tempo, provando a stabilire un rapporto con lui, alla ricerca di qualsiasi cosa che lo rendesse più umano ai suoi occhi. Ng non poteva più risponderle a quel livello. Non aveva risposto a una sola delle sue domande. Sui suoi genitori, sulla sua infanzia. Erano lo stesso tipo di domande che lo psichiatra della polizia gli aveva fatto. Domande vuote, di una vita passata. Aveva continuato a svestirsi, poi, quando era stato nudo, si era messo ad ascoltare. A una a una, le parole della donna erano gocciolate via. E lei era rimasta muta e silenziosa. Poi erano venute le lacrime, di tristezza e di frustrazione. Finché, come le sue parole, anche le lacrime erano gocciolate via. Quando lui aveva cominciato a farsi le iniezioni, Rachel aveva distolto lo sguardo. Fissando il pavimento. Aveva un'espressione vacua. Ng sentì un vuoto in lei. Si era chiusa in se stessa. Neanche gli insetti che si accoppiavano nella gabbia di bambù attiravano la sua attenzione. Meglio così,
sarebbe stato più facile occuparsi di lei. Rachel Saunders era molto lontana. Era aggrappata a Josef, seduta con lui sulla moto. Respirava l'aria fredda e pulita. In alto. Viaggiavano sulle montagne Pocono, lungo strade tortuose. Le foglie secche erano cadute e c'era quel meraviglioso odore di legna bruciata. Era la festa del Ringraziamento. Si sarebbero sposati. Avrebbero avuto dei bambini, probabilmente tre. Due maschi e una femmina. E lei avrebbe ridotto l'attività lavorativa, quel tanto che bastava per avere del tempo da trascorrere con la famiglia. Aveva aspettato a lungo l'uomo giusto. Aveva aspettato tanto a lungo che aveva abbandonato l'impresa, e si era rassegnata a vivere da sola. Si era sposata con il suo lavoro. Con una abilità che sapeva di avere fin da ragazzina. Aveva nove anni e si trovava nella camera da letto del villino dei nonni a Nantucket Island. Con la sua amica Betty Bowers, a tagliare bambole di carta da un grande libro di cartone. Bambole con il viso a forma di cuore e grandi labbra piene che si potevano colorare con la matita rossa. Le sue bambole erano sempre le meglio fatte, non avevano angoli strappati le sue bambole di carta. Era molto abile con le mani, anche allora. In quella stanza sul retro della casa si sentivano le onde frangersi sulla spiaggia. Di notte ti facevano addormentare dolcemente. Al sicuro, sotto la trapunta, con il papà e la mamma nella stanza di mezzo e il nonno e la nonna in quella vicino al bagno. Così la pila di nonno non svegliava tutti nel cuore della notte, quando vagava per la casa cercando di trovare il bagno. In quel periodo il nonno doveva essere sui settant'anni. La stessa età che sua mamma e suo papà avrebbero avuto adesso. Se fossero stati vivi. Suo padre era morto per un infarto e sua madre di cancro. Erano entrambi medici ed erano morti tutti e due a due anni di distanza l'uno dall'altro. Niente fratelli, né sorelle. Era completamente sola. Finché era arrivato Josef. È per questo che avremo tre bambini. In modo che nessuno rimanga da solo. Mai... Willard Ng adesso è vicino a lei, la punta del suo pene tocca la carne nuda della sua spalla. Non c'è niente di sessuale nel suo tocco: è più simile a uno strumento insensibile. Ng comincia a togliere i cerotti dal corpo di Rachel. Fa un rumore sgradevole. La pelle di lei è fresca e rosea sotto l'adesivo. Finora la donna non ha lottato.
Bill Fogarty era addormentato quando l'infermiera Helen Carter entrò nella sua piccola stanza con la tappezzeria verde. Alla luce fioca, Helen Carter riconobbe la busta che era arrivata per lui il giorno precedente. La ricordava perché aveva il timbro di Santa Fe, New Mexico. Aveva sempre desiderato fare una vacanza a ovest e si chiese se il poliziotto avesse dei parenti da quelle parti. La busta era stata aperta ed era appoggiata sul tavolino a fianco di un libro dal titolo Santa Fe, arte e architettura. In una delle mani del tenente c'era un foglio di carta azzurra. Se l'infermiera Carter non si sbagliava, c'era anche del profumo Chanel n. 5 nella stanza. Probabilmente veniva dalla costosa carta da lettere. Bill Fogarty stava russando. Come un marinaio che sega la legna, avrebbe detto il padre di Helen Carter. «Tenente Fogarty,» disse sfiorandogli la spalla. «Bill. Bill.» «Scusa, Sarah,» borbottò Fogarty. Il suo russare cambiò mentre si voltava dall'altra parte. Tanaka si diresse verso il letto e si chinò su Fogarty. «Bill. Svegliati.» Il tenente si svegliò con un sussulto. Spalancò gli occhi. «Joey?» I suoi occhi misero a fuoco la situazione. «Cosa succede?» «Bill, io...» Tanaka non voleva parlare davanti all'infermiera. «Credevo che saresti venuto domani mattina,» aggiunse il tenente mentre si alzava a sedere appoggiandosi alla testiera del letto. Sapeva che qualcosa non funzionava e sentiva che Tanaka era riluttante a parlare. «Scusa. Mi tengono ancora sotto sedativi. Probabilmente è già domattina.» Sorrise, mise la lettera di Diane Genero sul comodino, e poi tese la mano. «Gesù, è bello vederti.» Helen Carter fece un passo avanti. «Tenente, è l'una del mattino e il dottor Tanaka ha insistito per vederla. Non ho messo al corrente nessuno e forse...» «Non c'è bisogno di farlo. È tutto tranquillo,» confermò Fogarty. Poi le sorrise. «Le spiace lasciarci soli?» Helen Carter uscì dalla stanza. Fogarty attese. La visita di Tanaka era come quelle telefonate che ti svegliano nel cuore della notte. Foriere di cattive notizie. «Willard Ng ha preso Rachel.» Lo stomaco di Fogarty si strinse. «Quel maledetto mi ha telefonato alle dieci di stasera,» proseguì Tanaka. Fogarty guardò il suo orologio: l'1.03. «Chi è al corrente di questo fat-
to?» chiese. «Nessuno che sia fuori da questa stanza.» Cosa cazzo stai facendo, ragazzo! Ebbe il desiderio di gridare Fogarty, ma invece rimase calmo. «Rachel è viva. So dove si trova. So dove si trovano entrambi,» aggiunse Tanaka. «Che cosa hai intenzione di fare?» chiese Fogarty, in tono dolce. Tanaka incontrò lo sguardo del poliziotto: era pieno di comprensione. «Mi incontro con lui alle due. Farò qualunque cosa sia necessaria per riportarla a casa.» Fogarty sentì la collera che lo afferrava. Quello non era il momento di lasciarsi prendere dalla collera. Cambiò tattica. «Ascoltami, Joey. Ascoltami attentamente...» Fogarty esitò, stese una mano e toccò quella di Tanaka. «La ragione per cui sono stato alle costole di Ng è personale. Ho detto a me stesso che era perché avevamo bisogno di una prova per chiudere l'indagine. Erano stronzate. L'ho fatto per me. Per giustificare il fatto che sono seduto qui con te mentre mia moglie e mia figlia sono seppellite nel cimitero di St. Paul. Probabilmente conosci questa storia, vero Joey?» Tanaka alzò lo sguardo. I suoi occhi rispondevano sì. Fogarty non attese la risposta. «Tutti al dipartimento conoscono la storia.» Tanaka esaminò il volto del tenente. Non c'era alcuna traccia di autocommiserazione. «Be', ti dirò qualcosa che nessuno di loro sa. Qualcosa con cui sono stato costretto a vivere.» Afferrò la mano di Tanaka avvicinandolo di più a sé. «Quando ho avuto quell'incidente, ero ubriaco. Sbronzo a metà del pomeriggio, portavo mia moglie e la mia bambina a casa dalla spiaggia.» La sua stretta sulla mano di Tanaka si accentuò. «Non sapevo nemmeno bene da che parte della strada viaggiassi. In tribunale non è stato detto perché avevo degli amici nel New Jersey. Le relazioni sull'incidente sono state distrutte.» Fogarty esitò. «Ma io ricordo tutto. Sarà sempre la cosa che ricorderò meglio di tutta la mia vita.» Nel lungo silenzio che seguì, Tanaka pensò al Giappone, alla sua famiglia, a suo fratello, a Rachel Saunders. «Bill, devo farlo,» sussurrò. «Non eliminerà il tuo senso di colpa, Josef. Tuo fratello continuerà a essere paralitico,» disse Fogarty. «Quella è soltanto una parte della faccenda, Bill,» rispose Tanaka.
«Lascia che ottenga dei rinforzi per te. Che mandi degli uomini che non parleranno. Ratigan, John...» «No.» La voce di Tanaka era aspra. Fogarty tacque. «Tra me e Willard Ng c'è una connessione. Non so come o perché. Ha un collegamento con me. Mentale. Spirituale. Non saprei descriverlo. Dovrò scontrarmi direttamente con lui. Non posso mentire, perché lui lo capirebbe.» «Credi che Rachel sia ancora viva?» La voce di Fogarty era più dura adesso. Scettica. Tanaka annuì. «È viva.» «Dunque, che cosa vuoi che faccia?» chiese Fogarty. Tanaka frugò nella tasca e diede a Fogarty un liscio bigliettino color avorio. I numeri di telefono dell'ufficio di Mikio Tanaka e quelli privati, insieme all'indirizzo di casa, erano stampati sotto un'immagine in rilievo dello stemma della loro famiglia samurai. Fogarty fissò il bigliettino. «Se non tornassi dal mio incontro, sarà per me un onore se informerai la mia famiglia e ti occuperai di fare tutte le cose che potrebbero essere necessarie.» La voce di Tanaka aveva assunto un accento distintamente giapponese. Fogarty annuì, schiarendosi la gola. «Laggiù,» disse indicando verso l'armadio, «c'è una Smith & Wesson calibro 38. Sullo scaffale, sotto la mia valigetta...» Tanaka sorrise, ma cominciò a scuotere la testa. «Ci sono due caricatori pieni nella tasca del mio giubbotto,» proseguì Fogarty, ignorando il sorriso di Tanaka. «Mira alla testa. Non mirare ad altre parti. È l'unica possibilità che hai per fermarlo.» Tanaka si stava alzando dalla sedia e Fogarty sapeva che stava perdendo l'ultima possibilità di convincerlo. «Prendila, Joey,» insistette il tenente. «Grazie, Bill. Grazie di tutto,» rispose Tanaka, poi si voltò e passò vicino all'armadio uscendo dalla stanza. Pochi secondi dopo che la porta si era chiusa, Fogarty posò la mano sul telefono. Fermalo nell'atrio. Mettigli qualcuno alle calcagna. Arresta quel pazzo figlio di puttana. I suoi pensieri correvano e si scontravano. Controllò l'orologio: l'1.33. Ventisette minuti all'ora X. Cristo, Tanaka non sarebbe andato via così tardi se Ng fosse stato a Camden. No. Impos-
sibile. Ng doveva essere più vicino. Molto vicino. Allontanò la mano dal telefono. Willard Ng le stava accarezzando il corpo, sfregandole la pelle con le dita dure e deformi. Le massaggiava le cosce salendo su a rapidi movimenti circolari. Il cerotto le aveva bloccato la circolazione e Rachel non riusciva ad alzarsi dalla sedia. Si sentiva come quando ci si addormenta in una posizione scomoda, come quando ci si sveglia con una sensazione di torpore agli arti. Soltanto che ora tutto il suo corpo era in quelle condizioni. Indifeso. Qualunque cosa avesse intenzione di fare l'uomo, l'avrebbe fatta presto. Rachel lo intuiva dalla velocità e dalla precisione dei suoi movimenti. Era molto metodico, sembrava che avesse ripetuto l'identico rituale molte volte prima di quel momento. E il suo corpo nudo era soltanto una parte del rituale. Davanti a lei, nella gabbia, l'accoppiamento si era interrotto. Stava capitando qualcosa di diverso, c'era un frenetico agitarsi di ali. Il più grande dei due insetti aveva afferrato saldamente il più piccolo. Per mordergli la testa, Rachel sapeva. Aveva studiato il comportamento della mantide religiosa alle superiori. Era consapevole di tutto, e tuttavia non era partecipe di nulla. La cessazione della sensibilità del suo corpo era andata a vantaggio della sua mente, scollegandola dal calore del fiato dell'uomo e dal tocco di quelle dita ruvide. Tuttavia, mentre lui risvegliava la sua sensibilità corporea, con brevi e dolorosi pizzicotti, Rachel sperimentò il risveglio della sua volontà di resistere. Scrutò sulla tavola e sugli scaffali, in cerca di qualunque cosa che potesse servire da arma. Per colpire o per tagliare. Meglio per colpire. Gli occhi dell'uomo, la gola. Non era preoccupata delle conseguenze, aveva smesso di pensare alla vita o alla morte. Era più che altro un desiderio di imporre la sua identità su quella di lui. Di sconfiggere l'impotenza in cui lui l'aveva costretta. Così, osservò e aspettò. Silenziosa e calma, rassegnata a morire, decisa ad agire. Tanaka si chinò sul corpo di Gordon Forrest e toccò con le dita il punto in cui la terza vertebra del collo dell'uomo era stata spezzata verso l'interno e aveva così provocato una fuoriuscita di midollo spinale. Alla luce della luna, Tanaka poté vedere che non c'era pelle sotto le unghie di Forrest, né
lividi o segni sulle nocche delle sue mani. Fisicamente, era stato un uomo di una certa potenza fisica e, come ricordava Tanaka, un tipo coraggioso. Tuttavia, pareva che fosse morto senza lottare, come un bambino indifeso. Tanaka si rialzò e guardò nella strada deserta verso il punto in cui l'alto recinto era interrotto da una serie di costruzioni esterne e da un viale di ghiaia. La Porta H. Aprì il cinturino dell'orologio e guardò il quadrante: l'1.51. Entro nove minuti Willard Ng sarebbe arrivato dietro il cancello, per incontrarlo. Mise l'orologio in tasca e si diresse verso il luogo dell'appuntamento. L'intorpidimento era scomparso. Poteva muoversi facilmente e voleva farlo. Finse di essere rigida e tremante. Ng la guidò verso il fondo della stanza: aveva disteso una coperta sul pavimento, coprendola con un lenzuolo bianco. Rachel sapeva che qualsiasi cosa stesse per farle l'avrebbe fatta là, su quel lenzuolo bianco. Ng le sfiorò la spalla, indicando che doveva fermarsi. «Inginocchiati.» Parlava con voce cupa. Rachel cominciò a inginocchiarsi, attese che il suo quadricipite si tendesse, poi arretrò alzando di scatto la testa, sbattendola contro il petto di lui. Ng espirò, acutamente e sibilando, cercando di raggiungerla mentre correva. Rachel si allontanò da lui e giunse a metà della stanza. Corse al tavolo da lavoro e afferrò la siringa usata. La brandì davanti a sé, mentre arretrava verso la porta. Aveva previsto che lui le sarebbe balzato addosso, che sarebbe stata una lotta di colpi e di urla. Invece, Ng le si avvicinava lentamente, alzando le braccia ed emettendo il fiato come un lento ringhio. Non c'erano più di tre metri a separarli. Girati. Apri la porta. Corri! urlò la mente della donna. Ma per un istante, per un battito del cuore, Rachel Saunders scivolò nel vuoto della rivelazione. Si collegò con l'uomo insetto davanti a lei, il cui tessuto cicatrizzato si apriva a forma di stella a sei punte sul petto, e all'insetto nella gabbia di bambù. L'Uomo-Mantide si slanciò in avanti, coprendo i tre metri con un unico balzo e catturandola mentre si voltava e tirava il chiavistello. «No!» urlò Rachel, slanciandosi verso di lui e colpendolo al viso con la siringa. Poi venne sbalzata in aria. Volò verso il tavolo da lavoro e cadde su di esso distruggendo con il suo peso la gabbia di bambù, mentre l'ago della
siringa vuota che aveva in mano le penetrava nel palmo. Ng era chino in avanti e la fissava, tentennando il capo e guardandola con i suoi occhi predatori. Non c'era nulla di umano in quegli occhi, nulla con cui si potesse ragionare. Il ronzio. Il ronzio si è fermato. Non c'è più la connessione. Quel pensiero si registrò nella mente di Ng un istante prima che vedesse la sua guida, schiacciata e uccisa, che giaceva a fianco della donna. Aveva ancora in bocca la testa della mantide maschio. Willard Ng esitò. Abbastanza a lungo perché Rachel Saunders rotolasse di lato e si togliesse la siringa dalla mano. Colpì verso l'alto, verso la faccia del suo rapitore, mancandogli l'occhio destro di qualche millimetro, mentre l'ago si spezzava in due contro il naso di Ng. La punta rimase incastrata. Rachel ritrasse la siringa e iniziò un secondo attacco. Lui sferrò un pugno verso il basso, colpendola al braccio mentre lo tendeva, le fratturò l'osso in alto, vicino alla spalla. Lo shock provocato dal colpo si diffuse nella parte superiore del corpo di Rachel, paralizzandola. Lui la sollevò per i capelli, la trascinò oltre il tavolo fino al lenzuolo sul quale la gettò. Rachel cadde sul braccio rotto, cercò di alzarsi ma ricadde all'indietro. Il ronzio nella testa di Willard Ng era cessato. Adesso era solo. Come era giusto che fosse, stando in piedi sul precipizio della verità finale. La Mantide era dall'altra parte. In attesa. Il tempo stringeva. Ng si accovacciò a fianco di Rachel e la maneggiò rudemente, costringendola a mettersi sulla schiena. Lei cercò di resistere, scalciò, colpì con la mano ancora funzionante. Lui si accorgeva appena dei suoi sforzi di difendersi, e interruppe la sua procedura soltanto una volta per spingerle con forza il palmo della mano contro la fronte. Quello la calmò. Poi si concentrò sul suo lavoro, piegandole le gambe, e posizionando Rachel Saunders per l'ultima offerta. XXII LA PERMANENZA Tanaka attese. Erano le due e quattro minuti. La luna era piena e luminosa e il vento della notte fischiava tra i rami degli alberi. Era nervoso, e il suo corpo carico di adrenalina era freddo e irrigidito. Il ginocchio destro gli faceva male; se lo era ferito durante una gara di molti anni prima, ma non ci pensava più da anni. Quella notte gli pulsava. Dov'è? Perché è in ritardo? I dubbi rotolavano come dadi nella sua
mente. Spinse il cancello metallico. Nessun risultato, era chiuso dall'interno. C'era uno spazio sotto l'ultima sbarra, poteva infilarsi sotto. Si accovacciò, poi si trattenne. Non deviare, gioca secondo le sue regole. Verrà. Vuole me più di quanto voglia Rachel. Rachel è l'esca. È viva, disse a se stesso mentre si rialzava. Un'altra voce gli disse che qualcosa era andato storto. Che aveva fatto una sciocchezza, che avrebbe dovuto telefonare alla polizia. Prendere la pistola, o almeno dire a Fogarty dove andava. Le voci nella sua mente si zittirono quando udì i passi attutiti, da gatto. Appena udibili con il sibilo del vento. Che si avvicinavano. Tanaka sentì che il suo corpo si preparava, entrava in funzione a pieno ritmo. Tutti i suoi sensi si acutizzarono e nelle sue vene scorreva tanto sangue da farlo tremare. Lotta o sintomo di lotta. Ogni studente di biologia ne aveva sentito parlare. La differenza tra un eroe e un codardo stava soltanto nella maggior capacità di controllo. Inspirò profondamente dalla parte bassa dell'addome, cercando di regolarizzare i suoi ritmi biologici. Non sprecare energia. Non sprecare nulla. I passi si fermarono e Tanaka scrutò tra le ombre. Nulla. L'unica cosa in movimento erano i rami dell'albero scheletrico sopra la sua testa, che ondeggiavano in una triste danza. Tanaka ebbe il desiderio di urlare, di fermare il gioco. Ma stavolta era diverso. Quella era una realtà. Era un gioco vero più di qualunque altra cosa della sua vita. Attese e osservò. Osservò e ascoltò. Inizialmente il rumore era indistinguibile dallo scricchiolio dei rami o dal fruscio delle foglie secche sul terreno. Finalmente il rumore divenne più nitido e più udibile. Le orecchie di Tanaka si concentrarono su di esso. Poi lo vide. D'improvviso fu come se i suoi occhi avessero messo a fuoco, distinguendo le ombre dalla sagoma umana. Willard Ng era in piedi davanti a lui e indossava un kimono di seta nera. Sembrava che il gigantesco uomo fosse uscito da un muro invisibile. Ng attese, misurando il tempo sui suoi battiti del cuore e stendendo attorno a sé i tentacoli della sua coscienza. Tastando ed esaminando, finché fu certo che il guerriero non avesse violato il loro patto, finché fu certo che Josef Tanaka fosse solo. «Chinati, infilati sotto la sbarra,» comandò la voce cupa. In quel momento iniziò la lotta. Non con i pugni e con i denti, ma nelle
loro teste, una lotta di spiriti e anime. Ng fece segno a Tanaka di avanzare, arretrando per tenerlo a distanza di sicurezza. Tanaka si concentrò sugli occhi dalle palpebre strette, si accovacciò e seguì le istruzioni ricevute. Vulnerabile. Sono completamente vulnerabile, comprese, mantenendo il contatto visivo con Ng mentre si trascinava come un soldato sotto il fuoco nemico. Si rialzò dall'altra parte del cancello. Gli occhi della Mantide non batterono ciglio mentre Tanaka si avvicinava: si fermò a distanza di sicurezza. Ng fece strada, mantenendosi a mezzo passo da Tanaka, tra i deserti sentieri selciati. Le urla e i richiami degli animali notturni li sommersero. Non persero la concentrazione né parlarono. Ogni passo li avvicinava di più all'oscurità, dalla quale soltanto uno di loro avrebbe potuto ritornare. Willard Ng provava una gioia profonda. Il guerriero era proprio come lui aveva previsto, dalla pelle perfettamente rasata ai capelli raccolti, agli abiti ampi per facilitare i movimenti, alle scarpe dalle sottili suole di gomma: era pronto per combattere. Impeccabile. L'Uomo-Mantide sentì una connessione irrevocabile. Tra loro due c'era un'elettricità. Il ronzio era ritornato al suo posto al centro della fronte. Stava sommergendo e sovrastando qualunque pensiero. Era una conferma della sua fede: Willard Ng era completo anche senza il frullo delle ali velate. La mantide religiosa era stata la sua guida, la sua catalizzatrice. Ora, il suo ruolo di maestra era terminato. Lui era pronto ad andare oltre, ad acquisire la propria permanenza, la metamorfosi definitiva. Anche Tanaka sentì l'elettricità. Come un tenue ma eterno legame tra loro. Una conferma dell'inevitabile. Ng lo condusse all'entrata dell'edificio dei rettili. Era lo stesso percorso che Tanaka aveva fatto con Fogarty, quando aveva attraversato i portoni, entrando nella zona in cui vi erano le teche fiocamente illuminate. Poi oltrepassarono una porta con la scritta: «Riservata al personale» ed entrarono nell'ufficio che vi era dietro. Tanaka capì in che punto si trovavano. Dietro le porte chiuse c'era una caldaia. Giù per le scale, una cantina. Stanze che lui e Fogarty avevano ispezionato. Seguì Willard Ng. Tutto sembrava meno familiare, nell'oscurità. I gradini più alti, i soffitti più bassi. Minuscoli occhi di roditori li fissavano dalle gabbie del cibo. Tanaka stava sudando quando svoltarono a sinistra e camminarono per un corridoio che si stringeva, allontanandosi sempre più dalle luci fioche che illuminavano le teche. Arrivarono in un'altra stanza,
adesso faceva più caldo. Era una stanza più buia, impregnata dell'odore di carne macellata di fresco. Infine, arrivarono davanti a una stretta porta di ferro. Una porta che avevano tralasciato ispezionando quell'edificio. Apparve dietro una parete di gabbie che vennero spostate. Sopra la loro testa, un timer automatico si innescò, azionando la ventola per la circolazione dell'aria, con lo stridio del metallo contro il metallo che fece sobbalzare Tanaka. Una corrente d'aria calda attraversò lo stretto cunicolo. L'odore di carne e quello putrido dei rifiuti giungevano insieme alla corrente d'aria, come attratti dalle umide pareti metalliche. Ng era esattamente davanti a lui. Tanaka ne distingueva il profilo, nero sullo sfondo nero. Stava togliendo il lucchetto che chiudeva la porta. Si spinse dentro. Luci a raggi infrarossi invasero il cunicolo. Ng attese e indicò a Tanaka che doveva essere lui il primo a entrare. Josef la vide subito appena varcata la soglia. Messa in posizione sul lenzuolo bianco nell'angolo. Con le gambe incerottate alle caviglie e piegate nella posizione del loto completa, la testa piegata in avanti, in equilibrio sulla fronte e le ginocchia. Non riusciva a vederne il volto ma, dal punto in cui il suo naso appoggiava sul lenzuolo, proveniva un rumore forzato di respirazione. Aveva già visto prima dei corpi così. Corpi di porcellana. Sculture grottesche. Da tagliare ed esaminare. Pezzi che amputava per essere usati come prove, o indizi. Durante quelle autopsie le sue emozioni erano come spente. Era l'unico modo in cui la sua umanità poteva sopravvivere. Gli orrori non dovevano avere nome. Non doveva esservi niente di personale. Si diresse verso il corpo, notò il rossore che circondava il retto, le contusioni nella parte interna della coscia. La sporgenza dove l'osso rotto spingeva in fuori la carne della parte superiore del braccio. Tanaka non voleva dare a quel corpo un nome. Non voleva sentirsi responsabile per quel corpo. Ma era responsabile, e quel corpo aveva un nome. «Rachel,» sussurrò, inginocchiandosi a fianco della donna. Il suo spirito di guerriero era trafitto, crollava attorno a lui. Era perso nella rabbia. Alzò la mano e la accarezzò sulla schiena. «Non toccarla.» Era la prima parola che Willard Ng diceva da quando erano entrati nella costruzione. La sua voce colpì Tanaka come uno schiaffo che lo riportava alla realtà. Ng aveva chiuso la porta con il chiavistello e si era tolto gli abiti. Una sottile striscia di gomma, simile a un laccio emostatico, era legata
attorno alla sua vita e gli teneva il pene turgido stretto contro il ventre. Slegò il laccio e lo lasciò cadere sul pavimento. «Non l'ho ancora usata. Non come le altre. Pensavo che tu volessi assistere.» Ng avanzò. Rachel Saunders cominciò a dibattersi, le sue grida erano attutite dal cerotto sulla bocca. Tanaka si mise in mezzo a loro. La sua mente si stava schiarendo, non c'era tempo per le perplessità, non c'era tempo per stupirsi della follia. Fogarty era disteso sul sedile posteriore, con il ginocchio che gli pulsava e la testa che gli scoppiava. Se fosse stato in ospedale, avrebbe preso una dose doppia delle pillole rosa che aveva sul tavolino. Jim Ratigan e la sua squadra probabilmente stavano già andando a Camden. Avevano quindici minuti di ritardo sui poliziotti del New Jersey. Avrebbero trovato una casa vuota. Fogarty ne era quasi certo. Non tanto certo da non fare la telefonata, dieci minuti dopo che Tanaka era uscito dalla sua stanza. Dieci minuti. Aveva impiegato dieci minuti buoni per ritornare un poliziotto di Filadelfia. Prima di vedere Tanaka, prima di addormentarsi con la lettera di Diane Genero in mano, aveva deciso di trasferirsi a ovest. «Bill Fogarty, investigatore assicurativo. Bill Fogarty, detective privato. Buffalo Bill Fogarty, venditore di gioielli Navaho.» C'era voluto un duro impatto con la vita e la morte per farlo tornare quello di un tempo. Per riportarlo bruscamente alla realtà. Lui era un poliziotto. Stava dalla parte sbagliata all'interno di un brutto affare di scambi di favori, ma era un poliziotto. Mise il dito sul grilletto della sua calibro 38, e desiderò avere una Colt. Due cariche di Thunderzap. Devo colpirlo in fretta e con precisione. Alla tempia o alla gola. Non gli interessava arrestarlo. L'automobile di Moyer era più maneggevole della sua Le Mans e andava leggermente più veloce. Arrivarono all'uscita della Trentaquattresima Strada prima che Fogarty ricordasse come ci si sentiva a stare davanti a Willard Ng. Prima di allora, non si era mai sentito indifeso davanti a nessun uomo. Non indifeso in quel modo. E cominciò anche a ricordare che cosa era successo dopo che Ng l'aveva pestato. Che cosa stava per fargli quell'uomo, cioè la stessa cosa che aveva fatto alle donne che aveva ucciso e a tutte le sue vittime. E che avrebbe fatto a Rachel Saunders. La paura cominciò a danzargli nello stomaco, dapprima con passi leggeri. Poi cominciò a scalciare, bene e con forza. Gesù Cristo, deve morire. Ng deve morire.
Willard Ng si muoveva in circolo, con le mani che si aprivano e si chiudevano, i piedi che si aggrappavano e poi si distendevano, le ginocchia piegate, le cosce strette, con ogni muscolo che svolgeva il suo compito di controllare il movimento del corpo. La sua bocca era chiusa, le narici dilatate: inspirò in modo fluido e regolare. Teneva sotto controllo la spontaneità. Consapevolezza. Totale consapevolezza. Gli occhi e la mente si concentrarono su Josef Tanaka. Tanaka si spostò di un altro passo in avanti, ascoltando il respiro profondo e risonante, concentrandosi sulla sua sincronicità. Perfettamente a tempo con i battiti del suo cuore. Si concentrò sui freddi occhi inespressivi. Sentì la loro attrazione, come una forza di gravità, che lo trascinava verso un posto dove non era mai stato prima. Non attraverso un dojo, né attraverso una strada. Verso una membrana di tempo, fine e sottile, tra la vita e la morte, e attraverso una barriera, nell'oscurità che c'era dall'altra parte. Tanaka inspirò, con la parte bassa dell'addome e a fondo. Attento a non esternare l'inspirazione. A non mostrare un punto scoperto. Focalizzò la sua mente sull'espirazione, approfondendo il suo zanshin, la posizione perfetta. Era più una posizione mentale che fisica; Tanaka era consapevole di ogni cosa contemporaneamente: l'umidità dell'aria, l'odore stantio e dolciastro della stanza, il tubo che gocciolava alle sue spalle, il battito del cuore, il contatto delle morbide scarpe da ginnastica di pelle con il pavimento di pietra, il sudore che copriva il palmo delle sue mani, l'uomo davanti a lui. Che si stava muovendo. L'uomo fece un passo lateralmente, leggero e grazioso sulla punta dei piedi, cambiò il ritmo respiratorio, che coincise con il movimento ondeggiante delle braccia. Braccia lunghe e stranamente belle: sembrava che i suoi muscoli fossero stati scolpiti in una plastica morbida e flessibile. Si distendevano e assumevano forma. Internamente ed esternamente. Affascinanti come serpenti mortali. Mani a uncino, che si chiudono e si aprono con la stessa minaccia di mascelle dai denti appuntiti. Un altro mezzo passo e Tanaka riuscì a vedere, alle spalle della Mantide, il corpo sul pavimento. Il corpo di Rachel Saunders. Legato e inerme. Grottescamente contorto. Ucciderlo... Devo ucciderlo, promise solennemente Tanaka. Dovrai farlo, rispose la mente della Mantide. Tanaka alterò la sua percezione visiva, e distolse l'attenzione da Rachel, concentrandosi sulla testa, la gola e la parte superiore del petto del suo av-
versario. In cerca di un punto debole. Di una esitazione nel respiro. Non trovò nulla. «Hei!» Tanaka grugnì quella parola mentre cominciava a fare delle finte con i pugni, spostando il peso in avanti, muovendosi aggressivamente verso le mani uncinate. Ng reagì restringendo la sua posizione, avvicinando i gomiti ai fianchi, chinandosi leggermente all'altezza della vita. Invitando Tanaka ad attaccare. Tanaka attese, rifiutando di farsi ingannare dalla posizione immobile dell'avversario. Si avvicinò maggiormente ed entrò nel raggio d'azione. Ascoltò i respiri soffianti che iniziavano, bassi, come un ruggito disgustoso. Potenziamento. Osservò l'addome di Ng che si alzava, scendeva e poi si alzava... Tanaka iniziò il calcio circolare a metà di un'inspirazione di Ng, sollevando in alto il ginocchio e la coscia della gamba che agiva, puntando la punta del piede verso la tempia sinistra di Ng. Fece in modo che il suo attacco coincidesse con la massima espansione del petto di Ng. Irrigidì le cosce mentre il calcio circolare prendeva la sua tipica forma ad arco, deciso a dirigere il piede direttamente contro la testa di Ng. Nella frazione di secondo che passò tra l'esecuzione e il contatto, la Mantide sputò fuori l'aria dai polmoni, ruotò su se stessa e alzò il braccio sinistro per bloccarlo. Tanaka reagì, ritraendo il calcio e piegando la gamba, e usò il piede per assestare un colpo al tendine achilleo della gamba di sostegno di Ng. Per cercare di gettarlo a terra. Un istante prima del contatto, la Mantide spostò il suo peso, e sollevò il piede mentre Josef mancava il colpo. Ng ruotò bruscamente e colpì Tanaka con un rovescio dei suoi. Josef colpì la Mantide mentre cadeva, centrandolo con il suo pugno destro, buono e solido. Cadde, rotolò e poi guardò. La Mantide lo fissava sorridendo. Aveva il naso rotto e le narici non erano più visibili, la pelle pendeva senza più sostegno. Il sangue sgorgava. Continuando a sorridere, Ng alzò la mano e afferrò la sua pelle penzolante tra il pollice e l'indice. Stringendola con le unghie, cominciò a tirare. Poi, tenendosi il setto nasale rotto con la mano libera, strappò via la pelle dal suo viso. La gettò a terra, lasciando al posto del naso due buchi sanguinanti. Quando Tanaka si rialzò fece un passo indietro. «Ottimo. Sei proprio come speravo. Forte e concentrato.» Nella voce della Mantide c'era una grandissima gratitudine.
E tu sei completamente pazzo. Tanaka aveva appena formulato quel pensiero quando la Mantide si slanciò verso di lui, spruzzando ossigeno, muco e sangue dalle narici prive di pelle. Tanaka colpì di nuovo, stavolta con la mano sinistra. Ruotò le cosce in senso orario, aggiungendo potenza al suo slancio. Puntando al centro della gola di Ng. Il suo gesto venne bloccato a mezz'aria dalle braccia della Mantide, che si aprirono come ali, sviando il colpo mentre tendevano il tessuto cicatrizzato al centro del petto. Formando la stella e arrestando lo sguardo di Tanaka, spezzando il suo flusso di energia. Ng parò e rispose al colpo in una sola mossa. Una botta all'ingiù contro la parte morbida e cava alla base della trachea di Tanaka, impartita con la punta callosa e deforme delle dita. Una botta che fece tossire Tanaka, un istante prima che un pugno del dragone si schiantasse contro la fronte del medico mandandolo a sbattere contro il muro. Stordito, Tanaka si mosse solo con l'istinto, in tempo per sfuggire alla tecnica seguente di Ng, la mano a forma di zampa che passò rapidamente accanto al suo viso, mancandogli di poco gli occhi. Unghie appuntite incisero profondi tagli nella pelle sopra gli zigomi di Tanaka. Scalciò all'indietro mentre si spostava. Sentì il calcagno che penetrava nel plesso solare di Ng. Lo udì ansimare, respirare con affanno. Tanaka si voltò, usando lo slancio del suo corpo per potenziare il colpo che la sua mano sferrò di taglio alla gola di Ng. La Mantide si stava allontanando quando il colpo la raggiunse non facendole alcun danno grave. Poi furono distanti, a due metri l'uno dall'altro, e si mossero circolarmente. Entrambi con il gusto del sangue dell'altro nella bocca. Tanaka si muoveva rapidamente, facendo delle finte con i pugni, abbassando le spalle, continuando a cercare di prendere tempo e avanzare. Quando fu a un metro da Ng, scagliò un calcio destro in avanti, mirando basso, all'interno della coscia di Ng, sapendo che con qualsiasi cambiamento di posizione il suo piede si sarebbe alzato colpendo l'inguine di Ng. «Yei!» urlò Tanaka, spingendo avanti la gamba, lanciando avanti le cosce e mettendo tutto il suo peso nel calcio. Si impegnò a fondo e colpì Ng alle pelvi, sopra l'unico testicolo. Sentì il piede che affondava un istante prima che Ng arretrasse cadendo in ginocchio. Tanaka continuò la sua aggressione, sollevando la gamba sinistra in alto mentre si scagliava in avanti, abbassando bruscamente il tallone, come u-
n'ascia, per fracassare il cranio di Ng. Ng alzò le braccia proprio mentre il tallone di Tanaka discendeva, smorzando la potenza del calcio, e afferrò il polpaccio e la caviglia di Tanaka. La storse e gettò a terra Tanaka. Quindi Ng si alzò, ansimando. Tanaka alzò lo sguardo su un viso senza naso, coperto di sangue: una faccia che gli ricordava una maschera di qualche film horror di serie B. Una maschera di Halloween. Guardò le sottili labbra muoversi, udì la voce del suo avversario. «Per favore, continua. Devi continuare. Abbiamo quasi finito.» Tanaka si trascinò per due passi verso le gambe muscolose e senza peli di Ng, poi cominciò ad alzarsi prima di slanciarsi in avanti come un difensore nel football americano. Ng si rannicchiò leggermente e cominciò i respiri di potenziamento abbassando il centro dell'equilibrio. Mantenendosi ben saldo, fermamente deciso a far scorrere l'energia vitale nelle vene, ben a contatto con il pavimento. Diresse il flusso verso il basso, attraverso la pietra. Era inamovibile. La collocazione dell'energia, era quella la differenza tra le forme interne e quelle esterne. Stava per esprimere i suoi pensieri quando Tanaka lo colpì. A fondo e con forza, sprofondò i denti all'interno della coscia di Ng. Morse la pelle, i muscoli e le vene, finché i suoi denti si incontrarono. Il dolore penetrò a fondo in Willard Ng, attraverso le terminazioni nervose, su per la spina dorsale e nel suo cervello, trafiggendo la sua identità di Mantide. Distruggendo il suo collegamento con il suolo. Tanaka si accorse del cambiamento. Appoggiò saldamente la testa a fianco della coscia di Ng e cominciò ad alzarsi. I centoventi chili di Ng si alzarono insieme a lui. Poi Tanaka corse rapidamente verso la parete. Lo scaffale si sfasciò e due file di bottiglie e vasi andarono in pezzi cadendo a terra. Vasi per l'uccisione, insetti morti e vapori di cianuro ed etere si sparsero sul pavimento. Tanaka tossì, allontanandosi dai fumi. Ng ne approfittò per prendere il corpo di Tanaka nella sua morsa. Lo tirò all'indietro, avvolgendogli le gambe attorno alla vita, con l'avambraccio chiuso come una sbarra attorno alla sua gola. Arcuando il corpo, trascinò Tanaka verso di sé. Tanaka lottò contro il braccio che lo soffocava, sforzandosi di respirare, ansando. La sua schiena si piegò fin quasi a rompersi ma non si udì alcun cedimento. Nulla. Soltanto il respiro caldo contro il suo orecchio. Colori gli passarono davanti agli occhi, chiazze azzurre e verdi, rossi violenti. Ta-
tuaggi senza disegno o motivo. Colori che esplodevano. Sentì il suo corpo che chiedeva pietà, che voleva arrendersi alla forza indomita contro di lui. Morirai. Il tuo osso sacro si spezzerà e morirai. La morte. Non era per quello che era venuto lì da solo? Non era forse quello il suo viaggio verso la morte? Poi Tanaka si ricordò di Rachel Saunders. Anche lei sarebbe morta: e lei era innocente. Tese entrambe le mani all'indietro, trovò gli occhi di Ng e vi infilò i pollici, cercando di estrarne le pupille. Fogarty e Moyer erano entrati nel rettilario, perché avevano visto la porta esterna parzialmente aperta. Oltrepassarono le teche, attraversarono l'ufficio, scesero le scale. Avevano trovato la moto di Tanaka e il furgone di Ng. Avevano trovato il corpo di Gordon Forrest. «Non c'è nulla da dire. Lo ucciderò. Questo è quello che farò, lo ucciderò,» aveva giurato Fogarty. Moyer aveva fatto un cenno di approvazione. Aveva con sé soltanto la sua vecchia pistola. Una calibro 45 in dotazione alla polizia. Anche lui l'avrebbe ucciso. Quando Tanaka riprese conoscenza era seduto con la schiena contro la parete. La stanza era illuminata e i vetri rotti erano stati scopati in un angolo. Aveva entrambi i pollici rotti. Willard Ng era dall'altra parte della stanza e guardava Rachel Saunders. La donna aveva lottato, si era agitata e contorta finché era stramazzata su un fianco. Ng si chinò e la sollevò, rimettendola in posizione. Dentro di lui, l'Uomo-Mantide stava piangendo. Desiderava tanto essere libero. Magari un'ultima eiaculazione a vuoto, un'ultima emissione dell'essenza di Willard Ng. Si voltò. Josef Tanaka stava trascinandosi verso di lui. «Se il guerriero non è in grado di adempiere il suo compito, il guerriero sarà punito. Costretto a guardare. E ad ascoltare,» dichiarò Ng, mentre allungava la mano per strappare via il cerotto sulla bocca di Rachel. Subito, lei si sforzò di respirare. Poi, quando Ng si inginocchiò alle sue spalle e, guidandosi con la mano, le aprì il retto a forza, Rachel Saunders cominciò ad urlare. Tanaka si sforzò di alzarsi in piedi, afferrò una scheggia di bambù dalla gabbia rotta sul tavolo da lavoro e cercò di avanzare. Ng lo sentì arrivare, udì i passi zoppicanti. Non si voltò, mantenne l'attenzione concentrata sull'offerta alla Mantide. La donna contraeva il retto,
impedendogli di entrare. Aveva appena alzato la mano con l'intento di darle un pugno, quando la scheggia di legno gli entrò nella gola di lato, recidendo la sua vena carotidea. Il sangue uscì a fiotti, in controtempo con i battiti del suo cuore. Era quasi penetrato in lei quando giunse il secondo colpo. Come un martello, fece penetrare più a fondo il legno tagliente. Poi Ng si sentì trascinare all'indietro e guardò negli occhi del guerriero. C'era qualcosa di nuovo in quegli occhi. Erano limpidi e duri, privi di insicurezze. Non c'era la sconfitta negli occhi del guerriero. Willard Ng capì che la sua scelta era stata giusta. Cercò di alzarsi ancora una volta, colse l'immagine della suola di una scarpa da ginnastica che scendeva sulla sua testa. Oscurità. Seguita da una sensazione di leggerezza. Stava salendo. Salendo la scala. Era realtà. Non stava sognando. Tanaka colpì di nuovo. Un altro tonfo, forte e sordo. Willard Ng stava guardando il proprio corpo. Nudo e pieno di cicatrici, mentre sangue e un liquido grigio gli uscivano dalle orecchie. Era tanto imperfetto. Finalmente scartato, sapeva che doveva andare così. Un uomo torreggiava su di lui, pronto a calciare ancora. Raggiunse la cima della scala. Guardò giù una seconda volta. Due persone camminavano attorno al suo corpo, cercando di non toccarlo. Persone che conosceva quasi. Una donna, nuda, veniva sostenuta da un uomo vestito di nero. Sembrava in stato di shock. Willard Ng osservò attentamente l'uomo. Ricordava il suo nome. Josef Tanaka. Willard Ng aveva scelto lui per la sua esecuzione. La propria esecuzione. L'aveva scelto molto tempo prima. In un altro livello di esistenza. Josef Tanaka stava piangendo. Lacrime di dolore, lacrime di gioia, lacrime di liberazione. Willard Ng non aveva mai pianto. E non l'avrebbe fatto stavolta. Non gli era mai stato concesso di piangere. Ora Josef Tanaka stava coprendo la donna nuda con un lenzuolo, la abbracciava. Poi Tanaka si diresse verso la porta e tolse il chiavistello. La aprì e fece entrare altri due uomini. Uno di loro si appoggiava a una gruccia e trascinava la gamba destra. L'uomo con la gruccia alzò una pistola. La puntò verso il corpo di Willard Ng. La pistola sparò sei volte e la testa di Willard Ng esplose. La donna avvolta nel lenzuolo si voltò da un'altra parte. I tre uomini fissarono l'enorme ferita. Una voce volteggiò tra il fumo della pistola.
«Doveva essere un poliziotto a ucciderlo, Joey, te l'ho detto. Ricordalo quando faranno l'inchiesta. Bill Fogarty ha ucciso Willard Ng. In questo modo tutto è pulito.» In questo modo tutto è pulito. Le parole del tenente echeggiarono, ripetendosi in lontananza. In un altro tempo, in un'altra dimensione. EPILOGO La relazione del coroner sul corpo di Willard Ng fu eseguita da Bob Moyer, medico legale della città di Filadelfia. Causa della morte: una serie di ferite da arma da fuoco alla regione anteriore della testa. Le prove trovate sulla scena del delitto e una visita medica fatta a Rachel Saunders dimostrarono, oltre ogni dubbio, che Willard Ng era il responsabile dei «Delitti della Mantide» di Filadelfia. Il tenente William Fogarty fu premiato con un'onorificenza al valore e ritornò in servizio attivo. In seguito alla ferite riportate durante l'indagine, avrebbe camminato zoppicando leggermente per il resto della sua vita. Rachel Saunders continua a praticare la chirurgia plastica. Ha sofferto però di disordini emotivi post-traumatici e ha dovuto seguire una lunga psicoterapia. La dottoressa Saunders e il dottor Josef Tanaka, del dipartimento di medicina legale della polizia, intendono sposarsi in primavera. Hanno deciso che faranno una cerimonia con la famiglia al completo, a Tokyo, in Giappone. FINE