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DEAN KOONTZ L'UOMO CHE AMAVA LE TENEBRE (Fear Nothing, 1998) A Robert Gottlieb che ogni giorno ringrazio per la sua fantasia, genialità, dedizione e amicizia. Abbiamo un peso da portare e una distanza da percorrere. Abbiamo un peso da portare, una destinazione che non possiamo conoscere. Abbiamo un peso da portare e non vi è luogo ove posarlo. Noi siamo il peso che portiamo da là a qui a là. The Book of Counted Sorrows PARTE PRIMA Il crepuscolo 1 Sulla scrivania del mio studio, rischiarato dalla fiamma di una candela, il telefono squillò e io compresi che ben presto si sarebbe verificato un terribile cambiamento. Non sono un sensitivo. Non riesco a scorgere nel cielo indizi e segni premonitori. Le linee che segnano il palmo della mia mano non sanno svelarmi nulla sul mio futuro e non possiedo nemmeno la capacità degli zingari di leggere il destino nelle foglie di tè in fondo a una tazza. Ma mio padre era in fin di vita già da diversi giorni e, dopo aver trascorso la sera precedente al suo capezzale, tergendogli il sudore dalla fronte e ascoltando il suo respiro affannoso, mi ero reso conto che non avrebbe resistito ancora per molto. Ero terrorizzato all'idea di perderlo, e di restare solo per la prima volta in ventotto anni di vita. Sono figlio unico e mia madre è deceduta due anni fa. La sua morte era stata uno choc ma, per lo meno, non aveva dovuto sopportare lo strazio di
una lunga malattia. Esausto, la sera precedente ero tornato a casa per riposare un po'. Ma non avevo dormito a lungo, né il breve sonno era riuscito a rinfrancarmi. Adesso me ne stavo sprofondato nella poltrona, curvo in avanti, desiderando solo che il telefono smettesse di suonare, ma gli squilli si susseguivano implacabili. Anche il cane aveva compreso il loro significato. Emerse dall'ombra, mi si avvicinò, camminando con i suoi passi felpati, poi rimase a osservarmi con gli occhi colmi di tristezza. Al contrario di alcuni suoi simili, riesce a sostenere lo sguardo di un uomo o di una donna per tutto il tempo che vuole. Di solito gli animali ci fissano solo per pochi istanti... poi volgono gli occhi altrove, come innervositi da ciò che scorgono nello sguardo degli umani. Forse Orson vede ciò che gli altri cani vedono, e forse anche lui ne rimane turbato, ma certo non ne è intimidito. È un cane strano. Ma è il mio cane, un amico sempre fedele, e io gli voglio bene. Al settimo squillo, mi arresi all'ineluttabilità degli eventi e risposi. Era un'infermiera del Mercy Hospital. Le parlai continuando a fissare Orson. Mio padre si stava rapidamente spegnendo. L'infermiera mi invitava a raggiungerlo subito. Non appena riagganciai, Orson si avvicinò alla poltrona e mi appoggiò la massiccia testa nera sulle ginocchia. Uggiolando sommessamente, strofinò il muso contro la mia mano. Non scodinzolava. Per un momento rimasi stordito, incapace di pensare o di muovermi. Il silenzio che avvolgeva la casa era profondo come l'acqua di un abisso oceanico e la sua pressione mi schiacciava con tanta forza da lasciarmi paralizzato. Poi, in qualche modo, riuscii a telefonare a Sasha Goodall per chiederle di accompagnarmi all'ospedale. Abitualmente Sasha dormiva da mezzogiorno alle otto di sera. E, da mezzanotte alle sei del mattino, diffondeva musica nella notte sulle onde di KBAY, l'unica stazione radio di Moonlight Bay. Dato che erano le cinque e qualche minuto di un tiepido pomeriggio di marzo, probabilmente stava dormendo; mi dispiaceva doverla svegliare. Ma come Orson, il mio cane dagli occhi tristi, anche Sasha era una fedele amica, alla quale potevo rivolgermi in qualsiasi momento. E guidava decisamente meglio di lui.
Rispose al secondo squillo, senza alcuna traccia di sonno nella voce. «Mi dispiace tanto, Chris», disse ancor prima che potessi dire qualcosa; era come se fosse rimasta in attesa della mia chiamata e se, nello squillo del suo telefono, avesse udito lo stesso tono sinistro che Orson e io avevamo sentito nel mio. Mi morsi il labbro inferiore, rifiutando di prendere in considerazione ciò che sarebbe accaduto in seguito. Fintanto che papà era vivo, restava sempre la speranza di un errore dei medici. Il cancro poteva regredire anche all'ultimo momento. Credo nei miracoli. Dopo tutto, nonostante le mie condizioni, sono riuscito a vivere per più di ventotto anni, il che è una specie di miracolo... anche se gli altri, vedendola dall'esterno, potrebbe considerare la mia vita una maledizione. Credo nei miracoli, ma per essere più esatto, credo che abbiamo bisogno dei miracoli. «Sarò da te fra cinque minuti», promise Sasha. Se fosse stato buio, sarei andato in ospedale a piedi, ma a quell'ora avrei attirato l'attenzione di tutti, e oltretutto sarebbe stato troppo pericoloso. «Guida pure con calma», le risposi. «Ci metterò almeno dieci minuti per prepararmi.» «Ti voglio bene, Uomo delle Nevi.» «Anch'io.» Presi la penna con la quale stavo scrivendo quando il telefono aveva squillato, le rimisi il cappuccio e la posai accanto al blocco di fogli gialli. Servendomi di uno spegnitoio d'ottone dal manico lungo, spensi le tre grosse candele. Sottili volute di fumo serpeggiarono nell'oscurità. Mancava un'ora al crepuscolo e il sole, anche se ormai basso sull'orizzonte, rappresentava ancora un pericolo. Scintillava minaccioso lungo i bordi dei pannelli che coprivano tutte le finestre. Anticipando, come sempre, le mie intenzioni, il cane era già uscito dalla stanza e percorreva silenzioso il corridoio del piano superiore. Orson è un meticcio di labrador, pesa più di quaranta chili ed è nero come il gatto di una strega. La sua sagoma è quasi invisibile quando vaga attraverso le differenti sfumature di oscurità della nostra casa e si percepisce la sua presenza solo dal rumore smorzato delle grosse zampe sui tappeti e dal ticchettio delle unghie sui pavimenti di legno. Entrando in camera... la stanza che si trova in fondo al corridoio, dalla parte opposta rispetto allo studio... non accesi l'illuminazione a soffitto, anche se aveva i vetri smerigliati e poteva essere regolata da un commuta-
tore. La luce indiretta del sole quasi al tramonto, che premeva contro i pannelli delle finestre, era più che sufficiente per me. Nella semioscurità, i miei occhi vedono meglio di quelli della maggior parte delle persone. Sebbene mi senta vicino ai gufi, almeno in senso figurato, devo tuttavia precisare che non possiedo il dono della vista notturna e neppure qualcosa di così romantico o eccitante come una dote paranormale. Più semplicemente, la lunga abitudine all'oscurità ha affinato la mia capacità di vedere al buio. Orson balzò sullo sgabello, poi andò a raggomitolarsi sulla poltrona e infine rimase a osservarmi mentre mi preparavo ad affrontare il mondo della luce. Da un cassettino del bagno adiacente presi una bottiglia di plastica contenente lozione solare con filtro a protezione cinquanta. Ne versai in abbondanza sulla mano e mi spalmai viso, orecchie e collo. La lozione profumava leggermente di cocco, un aroma che associo a palme illuminate dal sole, a cieli tropicali, a spiagge bagnate dall'oceano e scintillanti sotto i raggi di mezzogiorno, e ad altre cose che non faranno mai parte della mia esistenza. Questo profumo rappresenta per me la fragranza del desiderio irrealizzabile e del piacere negato, il ricco aroma di tutto ciò che è irraggiungibile. A volte sogno di passeggiare lungo una spiaggia caraibica inondata dal sole, e la bianca sabbia sotto i miei piedi è come un cuscino di pura luce. Il calore del sole sulla pelle mi sembra più erotico del tocco di un'amante. Nel sogno, non sono soltanto inondato dalla luce, ma addirittura trafitto dai raggi del sole. Al mio risveglio, sento quanto tutto questo mi manchi. Sebbene profumasse di sole tropicale, la lozione era fredda sulla pelle. Me ne spalmai anche sulle mani e sui polsi. Il bagno aveva una sola finestra il cui pannello al momento era sollevato; nonostante ciò, la stanza restava in penombra per via dei vetri smerigliati e perché la luce veniva filtrata dai frondosi rami di un mirto. Le foglie tremolavano sul vetro. Nello specchio sopra il lavandino, il riflesso del mio viso era poco più che un'ombra. Anche se avessi acceso la luce, non sarei riuscito a vedermi chiaramente, perché vi era un'unica lampadina a basso voltaggio che emanava un chiarore color pesca. Solo di rado mi ero visto in piena luce. Sasha dice che le ricordo James Dean, più il ragazzo di La valle dell'Eden che quello di Gioventù bruciata.
Quanto a me, non vedo alcuna somiglianzà. Sì, i capelli sono gli stessi e anche gli occhi azzurro chiaro. Ma lui aveva un'aria molto vulnerabile, e io non mi vedo così. Non sono James Dean. Sono me stesso, Christopher Snow, e questo mi basta. Una volta terminato di spalmare la lozione, tornai in camera. Orson sollevò la testa dalla poltrona per annusare la fragranza di cocco. Indossavo già un paio di calzettoni sportivi, le Nike, i jeans e una maglietta nera. Mi infilai rapidamente una camicia di cotone nero con le maniche lunghe, che abbottonai fino al collo. Orson mi precedette nell'atrio del pianterreno. Dato che la casa si affacciava su un'ampia veranda dal soffitto basso e che in giardino crescevano due imponenti querce della California, la luce diretta del sole non poteva raggiungere i vetri laterali che fiancheggiavano la porta d'ingresso; di conseguenza, questi non erano stati coperti con tende o veneziane. I vetri al piombo... mosaici geometrici trasparenti, verdi, rossi e ambra... emanavano la morbida luce dei gioielli. Da un armadio dell'ingresso presi un giubbotto di pelle chiuso da una cerniera. Sarei rimasto fuori fino a sera e, anche se la giornata era stata tiepida, la costa centrale della California può diventare davvero fredda dopo il tramonto. Sul ripiano dell'armadio, trovai un berretto blu con la visiera, che mi calcai in testa. Sulla parte anteriore, al di sopra della visiera, vi era una scritta ricamata in rosso scuro: MYSTERY TRAIN. Una sera dell'autunno precedente, avevo trovato il berretto a Fort Wyvern, la base militare ormai abbandonata che sorgeva poco lontano da Moonlight Bay, all'interno della costa. Era l'unico oggetto rimasto in una stanza fredda, asciutta e dalle pareti di cemento, scavata tre piani sottoterra. Sebbene non sapessi a che cosa si riferivano quelle parole, incuriosito, avevo deciso di tenermi il berretto. Mentre mi voltavo verso la porta d'ingresso, Orson prese a uggiolare con tono supplichevole. Mi accoccolai per accarezzarlo. A papà farebbe piacere vederti un'ultima volta, amico mio. Ne sono certo. Ma non puoi entrare in ospedale. I suoi occhi neri come il carbone scintillarono. Avrei giurato che traboccassero di dolore e comprensione. Forse perché lo guardavo attraverso le lacrime che cercavo di soffocare.
Il mio amico Bobby Halloway dice che tendo ad antropomorfizzare gli animali, attribuendo loro qualità umane che, in realtà, non possiedono. Forse questo accade perché gli animali, al contrario di alcune persone, mi hanno sempre accettato per quello che sono. I cittadini a quattro zampe di Moonlight Bay sembrano dotati di una più profonda comprensione della vita, oltre che di una maggiore gentilezza, rispetto a certi miei vicini. Bobby asserisce che, antropomorfizzare gli animali, indipendentemente dal mio rapporto con loro, è segno di immaturità. Io rispondo a Bobby che può andare a farsi una sega. Consolai Orson, accarezzando il lucido manto e grattandogli le orecchie. Appariva stranamente teso. Per due volte rizzò la testa, restando in ascolto di rumori che io non udivo... come se percepisse una minaccia incombente, qualcosa anche peggiore della morte di mio padre. All'epoca, non avevo visto nulla di particolare nell'imminente morte di mio padre. Il cancro era una fatalità, non un omicidio... a meno che uno non voglia rivolgere questa accusa a Dio. Il fatto di aver perso entrambi i genitori nel giro di due anni, il fatto che mia madre fosse morta a soli cinquantadue anni, che mio padre ora ne avesse soltanto cinquantasei, sembrava unicamente dovuto alla sfortuna... una specie di maledizione che mi aveva letteralmente accompagnato fin dal mio concepimento. In seguito, avrei avuto motivo di ricordare la tensione di Orson... e ottimi motivi per chiedermi se il cane avesse percepito che una spaventosa serie di disgrazie stava per abbattersi su di noi. Sicuramente Bobby Halloway mi guarderebbe con disprezzo, dicendo che adesso non mi limitavo ad antropomorfizzare il cane, ma che gli attribuivo addirittura qualità sovrumane. In questo caso, sarei stato costretto a dargli ragione, dopodiché gli avrei consigliato di farsi una megasega. Continuai a carezzare, grattare e coccolare Orson fino a quando non sentii il suono di un clacson salire dalla strada e, subito dopo, dal vialetto d'accesso alla casa. Sasha era arrivata. Nonostante la lozione sul collo, rialzai il bavero del giubbotto per proteggermi ulteriormente. Dal tavolino in stile Stickley che si trovava nell'ingresso, sotto una stampa del Daybreak di Maxfield Parrish, presi un paio di occhiali avvolgenti. Con la mano già sul pomello di rame battuto della porta, mi voltai ancora una volta a guardare Orson. «Ce la faremo», mormorai.
In realtà non sapevo proprio come avremmo fatto senza mio padre. Era lui il nostro collegamento con il mondo della luce e con il popolo del giorno. Oltretutto, mi voleva bene come nessun altro al mondo poteva volermene, come soltanto un genitore rimasto solo può volerne a un figlio malato. Mi capiva come forse nessuno mi avrebbe mai capito. «Ce la faremo», mormorai di nuovo. Il cane mi osservò con aria solenne, poi sbuffò, come se sapesse che stavo mentendo. Aprii la porta e, mentre uscivo, inforcai gli occhiali avvolgenti. Le lenti speciali non lasciavano in alcun modo filtrare i raggi ultravioletti. Gli occhi sono il mio punto più vulnerabile. Con loro non posso permettermi di correre rischi. La Ford Explorer di Sasha era ferma sul vialetto d'accesso con il motore acceso, mentre lei era rimasta seduta al volante. Chiusi la porta a chiave. Orson non aveva nemmeno tentato di seguirmi. Da ovest soffiava una leggera brezza che, venendo dall'oceano, portava con sé un vago profumo di mare. Le foglie delle querce sussurravano come se si confidassero segreti da un ramo all'altro. Mi sentii stringere il petto con tanta forza da sembrare che anche i polmoni ne restassero schiacciati; mi accadeva sempre quando ero costretto a uscire alla luce del sole. Si trattava di un sintomo puramente psicologico e tuttavia assai sgradevole. Mentre scendevo i gradini della veranda e percorrevo il vialetto lastricato, mi sentivo oppresso da un enorme peso. Forse era questa la sensazione che provava un palombaro rinchiuso nello scafandro e con una immensa distesa d'acqua sopra di lui. 2 Mentre salivo sull'Explorer, Sasha mi salutò: «Salve, Uomo delle Nevi». «Salve», risposi. Allacciai la cintura di sicurezza, mentre la mia amica inseriva la retromarcia. Da sotto la visiera del berretto, lanciai un'occhiata alla casa che si allontanava, e mi domandai come mi sarebbe apparsa al ritorno. Una volta che mio padre avesse lasciato questo mondo, tutte le sue cose sarebbero sembrate più consunte e prive di valore, perché sarebbe mancato il tocco del
suo spirito. Si tratta di una villetta rustica: lastroni di pietra fissati con un minimo di malta, tavole a vista in cedro che il tempo e le intemperie hanno patinato d'argento, una struttura dalle linee decisamente moderne ma per nulla artificiale o fragile, al contrario era una casa ben solida, sia nelle fondamenta sia nei materiali. Le recenti piogge invernali avevano fatto crescere un morbido strato di licheni sulle linee irregolari del tetto di ardesia. Mentre facevamo un'inversione per immetterci sulla strada, mi sembrò di vedere in fondo alla veranda il pannello di una delle finestre del soggiorno che veniva spinto di lato e Orson che, con le zampe anteriori sul davanzale, premeva il muso contro il vetro. Mentre l'auto si allontanava dalla casa, Sasha mi domandò: «Da quanto tempo non uscivi in queste condizioni?» «Durante il giorno? Poco più di nove anni.» «Una novena per l'oscurità.» Sasha scriveva anche canzoni. «Per l'amor del cielo, Goodall, non mettiamola sul poetico», esclamai. «Che cosa è successo nove anni fa?» «Appendicite.» «Già, è stata quella volta in cui quasi ci lasciavi la pelle.» «Solo la morte mi costringe a uscire di giorno.» «In compenso, ti è rimasta una cicatrice molto sexy.» «Dici?» «Mi piace baciarla, no?» «La cosa mi ha sempre lasciato perplesso.» «Per la verità, quella cicatrice mi mette ancora paura», confessò Sasha, cambiando tono. «Potevi morire.» «Ma non sono morto.» «Quando la bacio è come se dicessi una piccola preghiera di ringraziamento. Perché sei qui con me.» «Oppure è la deformità che ti eccita.» «Stronzo.» «Tua madre non ti ha mai insegnato a dire le parolacce.» «Sono state le suore della scuola parrocchiale.» «Sai che cosa mi piace?» domandai. «Stiamo insieme da quasi due anni. Credo proprio di sapere che cosa ti piace.» «Quello che mi piace è che non me ne lasci passare una.»
«Perché dovrei?» «Appunto.» Nonostante la corazza di indumenti, la lozione e le speciali lenti per proteggere gli occhi dai raggi ultravioletti, il giorno sopra e intorno a me mi rendeva nervoso. Stretto nella sua morsa, mi sentivo fragile come un guscio d'uovo. Sasha era consapevole del mio disagio ma fingeva di non averlo notato. Per distogliere la mia mente dalla minaccia e, allo stesso tempo, dalla sconfinata bellezza del mondo esterno, faceva quello che le riusciva così bene... ovvero, essere Sasha. «Dove pensi di andare, dopo?» volle sapere. «Cioè, quando sarà tutto finito.» «Se sarà finito. Potrebbero essersi sbagliati.» «Dove sarai mentre io lavoro?» «Dopo mezzanotte... probabilmente a casa di Bobby.» «Fai in modo che accenda la radio.» «Stanotte trasmetti musica a richiesta?» domandai. «Non c'è bisogno che telefoni. So già di che cosa avrai bisogno.» All'incrocio successivo, svoltò a destra e imboccò la Ocean Avenue. Poi si diresse verso l'interno, lasciandosi il mare alle spalle. Di fronte ai negozi e ai ristoranti che si affacciavano sugli ampi marciapiedi, pini cembri alti quasi venticinque metri tendevano i rami al di sopra della strada, come ali spiegate. Il lastricato ondeggiava tra luci e ombre. Moonlight Bay, città natale di dodicimila anime, si estende dal porto e dalla pianura verso una zona di dolci colline. Nella maggior parte delle guide turistiche della California, la nostra cittadina viene definita il gioiello della Costa Centrale, in parte perché la camera di commercio vuole a tutti i costi che questo soprannome si diffonda ovunque e venga usato regolarmente. Ma anche perché molte sono le ragioni per cui la cittadina si è conquistata il titolo, non ultima la sua abbondanza d'alberi. Querce maestose dalla chioma centenaria. Pini, cedri, palme. Estesi boschi di eucalipti. I miei preferiti sono i grappoli merlettati della melaleuca che, in primavera, si ammantano di fiori come fossero stole d'ermellino. All'inizio del nostro rapporto, Sasha aveva foderato i finestrini dell'Explorer con una pellicola protettiva. Nonostante ciò. i colori del paesaggio erano molto più vivaci di quelli ai quali ero abituato. Feci scivolare gli occhiali sul naso e sbirciai al di sopra della montatura.
Gli aghi dei pini formavano un complesso e scuro ricamo sul cielo del tardo pomeriggio, scintillante di mistero e dall'incredibile color azzurroporpora. L'elaborato disegno si rifletteva tremolante sul parabrezza. Riportai bruscamente gli occhiali al loro posto, non soltanto per proteggermi gli occhi, ma anche perché, all'improvviso, provai vergogna nel godere di questo viaggio diurno, evento per me assai raro, proprio mentre mio padre stava morendo. Aumentando un poco la velocità, senza fermarsi completamente agli incroci privi di traffico, Sasha mi comunicò: «Vengo anch'io da tuo padre». «Non ce n'è bisogno.» La profonda avversione di Sasha per medici, infermieri, e tutto quanto riguardi la medicina, rasentava la fobia. Di solito era convinta di poter vivere per sempre; aveva un'enorme fiducia nelle vitamine, nei minerali, negli antiossidanti, nel pensiero positivo e nelle tecniche per guarire il corpo con il pensiero. Tuttavia, quando entrava in un ospedale, questa sua convinzione veniva temporaneamente scossa. «No, è giusto che venga con te. Voglio molto bene a tuo padre.» La sua calma apparente era contraddetta da un tremolio nella voce; ero commosso dal fatto che, per amor mio, fosse disposta a entrare nel luogo che più detestava. Trovai una buona scusa: «Desidero restare solo con lui, per quel poco che ci resta». «Davvero?» «Davvero. Ascolta, ho dimenticato di mettere il cibo nella scodella di Orson. Puoi passare da casa mia e pensarci tu?» «Stai tranquillo», esclamò, sollevata all'idea di aver qualcos'altro da fare. «Povero Orson. Tuo padre e lui erano molto legati.» «Sono sicuro che ha capito cosa sta succedendo.» «Certo. Gli animali intuiscono le cose.» «Soprattutto Orson.» Lasciò la Ocean Avenue e svoltò a sinistra sulla Pacific View. Il Mercy Hospital sorgeva a due isolati di distanza. «Vedrai che supererà questo momento», commentò. «Anche se non lo dimostra, a modo suo sta già soffrendo per la perdita del padrone.» «Ci penserò io a riempirlo di coccole.» «Papà rappresentava il suo collegamento con il giorno.» «Adesso sarò io il suo collegamento», promise.
«Orson non può vivere esclusivamente al buio.» «Ci sono io, e non ho intenzione di andarmene da nessuna parte.» «Davvero?» domandai. «Certo, e vedrai che ce la farà.» Ormai non stavamo più parlando del cane. L'ospedale è un edificio di tre piani in stile mediterraneo-californiano costruito in un'altra epoca, quando questa definizione non riportava alla mente squallide villette a schiera e costruzioni popolari. Le finestre, dall'intelaiatura di bronzo satinato, sono profondamente incassate nei muri. Le camere al pianterreno si mantengono fresche e ombreggiate grazie alle logge impreziosite da archi e da colonne in calcare. Intorno ad alcune di queste colonne si aggrappano i legnosi viticci dell'antica buganvillea che ricopre i tetti delle logge. Quel giorno, anche se mancavano ancora un paio di settimane alla primavera, dalle grondaie scendevano cascate di fiori porpora e cremisi. Per un attimo, osai far scivolare gli occhiali sul naso e rimasi incantato ad ammirare quella festa di colori spruzzata di sole. Sasha si fermò davanti a un'entrata laterale. Mentre mi liberavo della cintura di sicurezza, posò una mano sul mio braccio, stringendolo leggermente. «Chiamami sul cellulare quando vuoi che torni a prenderti.» «Uscirò dopo il tramonto. Posso tornare a casa a piedi.» «Se è così che preferisci.» «Sì.» Ancora una volta abbassai gli occhiali da sole, questa volta per vedere Sasha Goodall come non l'avevo mai vista. A lume di candela, i suoi occhi grigi sono profondi ma limpidi... proprio come alla luce del giorno. I folti capelli rosso mogano, illuminati dalle fiammelle, mandano bagliori come vino in un bicchiere di cristallo... ma sotto la carezza del sole appaiono ancora più lucenti. La pelle chiara e vellutata è leggermente segnata da minuscole lentiggini, di cui conosco la disposizione come le costellazioni in ogni quadrante del cielo notturno, stagione per stagione. Con un dito, Sasha spinse gli occhiali al loro posto. «Non fare lo sciocco.» Sono umano. E gli esseri umani sono sciocchi. E in ogni caso, se dovessi diventare cieco, il ricordo del suo volto mi sarebbe di conforto nella lunga oscurità. Mi sporsi sul cruscotto e la baciai.
«Sai di cocco», commentò. «Ci provo.» La baciai un'altra volta. «Non dovresti restare ancora all'aperto», disse in tono fermo. Il sole, una buona mezz'ora sopra la superficie del mare, era arancione e intenso, un perpetuo olocausto termonucleare lontano quasi centocinquanta milioni di chilometri. In alcuni punti, il Pacifico era bronzo fuso. Vattene, noce di cocco. Via di qui. Bardato come l'Uomo Elefante, scesi dall'Explorer e corsi all'interno dell'ospedale, con le mani affondate nelle tasche del giubbotto di pelle. Lanciai un'occhiata alle mie spalle. Sasha era rimasta a osservarmi. Con i pollici rivolti verso l'alto, indicò che era tutto a posto. 3 Quando entrai in ospedale, Angela Ferryman mi stava aspettando nel corridoio. Era una delle infermiere del terzo piano che svolgevano il turno serale ed era scesa per venirmi incontro. Sulla cinquantina, dolce e graziosa, era magra come un chiodo e con occhi curiosamente chiari, come se la sua dedizione al lavoro fosse così totale che, in un crudele patto con il diavolo, avesse ceduto l'essenza di se stessa in cambio della guarigione degli ammalati. I suoi polsi sembravano troppo fragili per il lavoro che doveva svolgere, e si muoveva con tanta leggerezza e rapidità da far credere che avesse le ossa cave come quelle degli uccelli. Spense i pannelli al neon che dal soffitto illuminavano il corridoio. Poi mi abbracciò. Da piccolo, ogni volta che venivo colpito dalle malattie tipiche dell'infanzia e dell'adolescenza... orecchioni, influenza, morbillo... ma non potevo curarmi fuori casa, era Angela l'infermiera a domicilio che ogni giorno veniva a controllare il mio stato di salute. Quei calorosi e ossuti abbracci rappresentavano una parte integrante del suo lavoro, come gli abbassalingua, i termometri e le siringhe. Ma questa volta la sua stretta riuscì più a spaventarmi che a darmi conforto, quindi mi affrettai a domandare: «È ancora?...» «Stai tranquillo, Chris. È ancora vivo. Penso che stia resistendo solo per te.» Raggiunsi le scale d'emergenza. Mentre la porta del corridoio si chiude-
va alle mie spalle, notai che Angela stava provvedendo a riaccendere i pannelli del pianterreno. La luce delle scale non era così forte da costituire un pericolo, tuttavia preferii salire in fretta, senza togliermi gli occhiali da sole. Al terzo piano scorsi Seth Cleveland che mi stava aspettando in cima alle scale. È il medico di mio padre, nonché uno dei miei. Sebbene sia un uomo alto e dalle spalle massicce... credo che, se cercasse di passare attraverso uno degli archi delle logge, probabilmente vi resterebbe incastrato... riesce comunque a non dare l'impressione di giganteggiare sugli altri. Si muove con la grazia di un uomo dal fisico minuto e ha la voce di un dolce orsacchiotto da fiaba. «Gli abbiamo somministrato degli antidolorifici», mi informò mentre spegneva le luci, «di conseguenza passa da momenti di incoscienza a momenti di lucidità. Ma ogni volta che si sveglia, chiede di te.» Finalmente potei togliermi gli occhiali, che infilai nel taschino della camicia, e percorsi rapidamente l'ampio corridoio, passando davanti a stanze in cui i pazienti, affetti da mali di tutti i tipi e a diversi stadi, o giacevano privi di coscienza o se ne stavano seduti davanti al vassoio della cena. Coloro che avevano visto spegnersi le luci erano al corrente della mia situazione, quindi smisero di mangiare per osservarmi mentre passavo davanti alle porte aperte. Anche se la cosa non mi fa particolarmente piacere, per Moonlight Bay sono una celebrità. Dei dodicimila residenti e dei quasi tremila studenti dell'Ashdon College, un istituto privato di Belle Arti che sorge nella zona più alta della cittadina, io sono l'unico di cui tutti conoscono il nome. Tuttavia, dato che la mia vita si svolge di notte, sono molti i miei concittadini che non hanno mai avuto l'occasione di vedermi. Mentre avanzavo lungo il corridoio, diverse infermiere e inservienti mi chiamavano o allungavano il braccio per toccarmi. Immagino che provassero simpatia nei miei confronti, ma non perché vi fosse qualcosa di particolarmente accattivante nella mia personalità, né perché volessero bene a mio padre... anche se tutti quelli che lo conoscevano gli erano affezionati... ma piuttosto perché, da devote professioniste, mi consideravano il non plus ultra in fatto di oggetto di cure. Per tutta la mia vita ho avuto bisogno di assistenza, ma la mia malattia non può essere guarita né da loro né da nessun altro. Mio padre occupava una camera a due letti, ma al momento era da solo. Esitante, mi fermai sulla soglia. Poi trassi un profondo respiro, che non
servì a darmi coraggio, ed entrai, chiudendomi la porta alle spalle. Le stecche delle veneziane non lasciavano filtrare la luce ma, lungo i margini di ogni tenda, il telaio bianco e lucido delle finestre mandava bagliori arancioni, riflettendo i raggi di sole dell'ultima mezz'ora del giorno. Sdraiato sul letto più vicino all'ingresso, mio padre era una sagoma indistinta. Respirava affannosamente. Quando gli parlai, non rispose. Veniva monitorato esclusivamente da un elettrocardiografo. Per non disturbarlo, il segnale audio era stato spento; il tracciato del battito cardiaco appariva come una sottile linea di luce verde su un tubo a raggi catodici. Le pulsazioni erano deboli e rapide. Mentre le osservavo, ebbero un breve momento di aritmia, che mi allarmò, poi si stabilizzarono nuovamente. Nel secondo dei due cassetti del comodino, trovai un accendino a gas e un paio di grosse candele di mirica protette da coppe di vetro. Il personale medico fingeva di non essere al corrente della presenza di tali oggetti. Posai le candele sul comodino. Naturalmente è a causa dei miei limiti che vengo dispensato dall'osservare il regolamento dell'ospedale. L'alternativa sarebbe quella di restare completamente al buio. Violando le leggi antincendio, feci scattare l'accendino e accostai la fiamma prima a uno stoppino, poi all'altro. Forse la mia strana celebrità mi consente anche qualche abuso. Oggigiorno, in America, la fama ha un potere che è difficile sopravvalutare. Il tremulo chiarore delle candele fece emergere dall'oscurità il volto di mio padre. Aveva gli occhi chiusi. Respirava attraverso la bocca. Obbedendo a sue precise disposizioni, i medici non avevano fatto sforzi particolari per mantenerlo in vita. Non gli era stato nemmeno applicato un inalatore per facilitare la respirazione. Mi tolsi il giubbotto e il berretto con la scritta Mystery Train, e li posai sulla sedia a disposizione dei visitatori. In piedi accanto al letto, dalla parte più lontana rispetto alle candele, gli presi una mano e la strinsi fra le mie. La pelle era fredda, sottile come pergamena. Mani ossute. Unghie gialle, spezzate, come mai erano state prima di allora. Si chiamava Steven Snow ed era una grande persona. Non aveva vinto nessuna guerra, né composto una sinfonia e neppure scritto un romanzo famoso come, da giovane, aveva sperato di fare, ma era più grande di qualsiasi generale, politico, compositore o premiato romanziere mai esistito. Era grande perché era un uomo gentile. Perché era umile, mite, gioioso.
Era stato sposato con mia madre per trent'anni e, durante tutto quel lungo periodo di tentazione, le era sempre rimasto fedele. Il suo amore per lei era come una luce che illuminava la nostra casa, le cui stanze restavano quasi sempre immerse nella penombra. Come professore di letteratura ad Ashdon, dove mia madre aveva insegnato scienze, mio padre era stato così benvoluto dai suoi allievi che molti di loro, dopo aver terminato i corsi, erano rimasti in contatto con lui per decenni. Sebbene la malattia di cui soffro gli avesse limitato la vita praticamente fin dal giorno della mia nascita... all'epoca anche lui aveva ventotto anni... mai aveva lasciato intendere che avrebbe preferito non avermi generato, né mi aveva fatto sentire qualcosa di meno che una continua fonte di gioia e di orgoglio per lui. Viveva con dignità, senza lamentarsi, e non tralasciava mai di gioire per tutto ciò che di giusto vi era nel mondo. Prima di ammalarsi era un uomo robusto e di bell'aspetto. Ora aveva il corpo raggrinzito e il viso appariva grigio e smunto. Dimostrava molto di più dei suoi cinquantasei anni. Dal fegato, il cancro si era diffuso nel sistema linfatico, intaccando poi altri organi, fino a invadere tutto il corpo. Combattendo contro la malattia, aveva perso gran parte dei suoi folti capelli bianchi. Sul monitor, la luce verde prese a muoversi in modo irregolare, con picchi e depressioni. Rimasi a fissarla terrorizzato. La mano di papà strinse debolmente la mia. Quando tornai a guardarlo, i suoi occhi di zaffiro erano aperti e mi fissavano con la consueta intensità. «Acqua?» domandai, perché negli ultimi tempi aveva sempre sete. «No. grazie», rispose, anche se sembrava che avesse la gola riarsa. La sua voce era poco più che un sussurro. Avevo la mente vuota, non riuscivo a dire nulla. Durante tutta la mia vita, ho vissuto in una casa in cui si facevano lunghe conversazioni. I miei genitori e io parlavamo di romanzi, di vecchi film, delle follie dei politici, di poesia, musica, storia, scienze, religione, arte, e di gufi e peromischi, di procioni e pipistrelli, di uca e delle altre creature che vivono di notte come me. Si passava dai seri discorsi sulla condizione umana a futili pettegolezzi sui vicini. Nella famiglia Snow, nessun esercizio fisico, per faticoso che fosse, veniva preso in considerazione se non comprendeva il quotidiano movimento della lingua. E ora che avevo disperatamente bisogno di aprire il mio cuore e di parlare con mio padre, non riuscivo a dire nulla.
Sorrise, come se comprendesse la mia situazione e ne rilevasse il lato ironico. Poi il sorriso svanì. Contratto e giallastro, il viso si fece ancor più sparuto. Era così magro che, quando un soffio d'aria spostò le fiamme delle candele, mi sembrò quasi di guardare un volto riflesso sulla superficie di un laghetto. Mentre la luce tremolante si stabilizzava, non potei fare a meno di pensare a quanto mio padre doveva soffrire, ma quando riprese a parlare, più che dolore, dal tono della sua voce traspariva tristezza e rimpianto: «Mi dispiace, Chris. Mi dispiace tanto». «Non hai nulla di cui dispiacerti», lo rassicurai, chiedendomi allo stesso tempo se fosse lucido o se parlasse con la mente annebbiata dalla febbre e dalle medicine. «Mi dispiace per l'eredità, figliolo.» «Non importa. Me la caverò.» «Non mi riferisco ai soldi. Di quelli ce ne sono abbastanza», rispose in un sussurro che si andava affievolendo sempre più. Le parole gli scivolavano dalle labbra esangui come il liquido fuoriesce dal guscio incrinato di un uovo. «L'altra eredità... quella che tua madre e io ti abbiamo lasciato. L'XP.» «Ma no, papà. Voi non potevate saperlo.» Chiuse di nuovo gli occhi. Parole come l'albume di un uovo crudo: «Mi dispiace tanto...» «Mi hai dato la vita», mormorai. La sua mano giaceva inerte fra le mie. Per un momento pensai che fosse morto. Sentii il cuore pesante come un macigno. Ma la luce verde dell'elettrocardiografo indicava che mio padre aveva solo perso di nuovo conoscenza. «Papà, mi hai dato la vita», ripetei, sconvolto perché non poteva sentirmi. I miei genitori erano entrambi inconsapevoli portatori sani di un gene recessivo che compare in un individuo su duecentomila. C'è una sola probabilità su diversi milioni che due persone di questo tipo si conoscano, si innamorino e abbiano dei figli. Ma anche in questo caso, perché il nascituro venga colpito dalla malattia, devono entrambi trasmettergli il gene in questione. E c'è una probabilità su quattro che questo avvenga.
Nel mio caso, papà e mamma avevano fatto tombola. Sono afflitto da xeroderma pigmentoso, detto anche XP, una rara e spesso letale malattia genetica. Gli individui affetti da XP sono estremamente predisposti allo sviluppo di tumori della pelle e degli occhi. Anche una breve esposizione alla luce del sole... per la verità, a tutti i tipi di raggi ultravioletti, compresi quelli emessi dalle lampade a incandescenza e a fluorescenza... potrebbe avere un effetto disastroso su di me. Ogni essere umani subisce i danni che la luce solare provoca nel DNA delle sue cellule, favorendo così l'insorgere di melanomi e di altri tumori maligni. Le persone sane possiedono un naturale sistema di riparazione: gli enzimi che rimuovono i segmenti danneggiati dei filamenti nucleotidi e li sostituiscono con DNA sano. Ma negli individui affetti da XP, gli enzimi non funzionano; il danno non viene riparato. Quindi tutte le forme cancerogene provocate dai raggi ultravioletti si sviluppano con estrema facilità e si riproducono per metastasi in modo incontrollato. Fra i suoi duecentosettanta milioni di abitanti, gli Stati Uniti annoverano ottantamila nani e novantamila persone che superano i due metri. Il nostro paese può vantare quattro milioni di miliardari, e altre diecimila persone raggiungeranno tale invidiabile posizione nel corso di quest'anno. Nello stesso periodo, probabilmente saranno mille i nostri connazionali che verranno colpiti da un fulmine. Gli americani affetti da XP sono meno di mille, e meno di cento i bambini che, ogni anno, nascono con questa malattia genetica. Il numero è limitato in parte perché si tratta di un morbo assai raro. E in parte perché molti di noi non sopravvivono a lungo. Quasi tutti i medici esperti di xeroderma pigmentoso erano convinti che sarei morto durante l'infanzia. Pochi erano quelli disposti a scommettere che avrei superato l'adolescenza. Nessuno di loro avrebbe rischiato il proprio denaro sul fatto che sarei stato ancora vivo all'età di ventotto anni. Vi è uno sparuto gruppetto di XPosi (così chiamo quelli come me) composto da persone maggiori di me, alcuni anche di diversi anni, ma la maggior parte di loro, se non tutti, hanno sofferto di progressivi disturbi neurologici associati alla malattia. Tremori della testa e delle mani. Perdita dell'udito. Linguaggio confuso. Perfino problemi mentali. Quanto a me, a parte l'esigenza di proteggermi dalla luce, sono sano e normale come chiunque altro. Non sono albino. L'iride dei miei occhi è co-
lorata. La pelle è pigmentata. E anche se decisamente più pallido di un «ragazzo da spiaggia» californiano, non sono di un bianco spettrale. Alla luce delle candele e nel mondo notturno in cui vivo, la mia carnagione può addirittura sembrare piuttosto scura. Ogni giorno che riesco a superare rappresenta per me un dono prezioso e cerco di utilizzare al meglio e quanto più intensamente possibile tutto il tempo a mia disposizione. Trovo motivi di piacere e divertimento esattamente dove li trovano gli altri, ma anche dove pochi andrebbero a cercarli. Nel 23 a.C., il poeta Orazio scriveva: «Afferra il giorno, e non fidarti del domani!» Io afferro la notte e la cavalco come se fosse un potente stallone nero. Quasi tutti i miei amici sono convinti che io sia la persona più felice che conoscono. La felicità era qualcosa che potevo accogliere o rifiutare, e io l'ho accolta. Ma senza genitori così speciali, forse non avrei avuto la possibilità di scegliere. Mia madre e mio padre sono stati disposti a modificare radicalmente le loro vite per proteggermi in tutti i modi dal pericolo della luce e, fino a quando non sono stato abbastanza grande per comprendere quale fosse la mia situazione, hanno dovuto tenermi costantemente e faticosamente sotto controllo. Il loro altruismo è stato fondamentale per la mia sopravvivenza. Inoltre mi hanno dato un amore... e un amore per la vita... così grande che, in seguito, mi è stato impossibile scegliere la depressione, la disperazione e un'esistenza solitària. Mia madre è morta all'improvviso. Anche se sapeva quanto i miei sentimenti per lei fossero profondi, avrei tanto voluto poterli esprimere in modo adeguato nell'ultimo giorno della sua vita. A volte, di notte, sulla spiaggia immersa nell'oscurità, quando il cielo è limpido e la volta celeste mi fa sentire contemporaneamente mortale e invincibile, quando il vento tace e anche il mare si frange sulla costa con un dolce mormorio, penso a mia madre e le dico quanto fosse importante per me. Ma non so se mi sente. Anche mio padre... ancora con me, ma per poco... non mi udì quando mormorai: «Mi hai dato la vita». Temevo che se ne sarebbe andato prima che potessi rivelargli i miei sentimenti, così come era avvenuto con mia madre. La sua mano era sempre fredda e inerte. Ma continuai a stringerla, quasi volessi trattenerlo in questo mondo fino al momento in cui sarei riuscito a dirgli addio nel modo migliore.
Ai lati delle veneziane, le intelaiature delle finestre passarono dall'arancio a un rosso infocato mentre il sole scendeva sul mare. Solo in un caso potrò guardare direttamente un tramonto. Se un giorno venissi colpito da un tumore agli occhi, prima di morire o di diventare cieco, sceglierò un tardo pomeriggio per andare sulla spiaggia e immaginare, dall'altra parte dell'oceano, quei lontani imperi asiatici che non visiterò mai. All'imbrunire, mi toglierò gli occhiali da sole e mi fermerò a guardare la luce che si spegne lentamente. Dovrò comunque tenere gli occhi socchiusi. La luce violenta mi provoca dolori lancinanti. E i suoi effetti sono così immediati che praticamente riesco a sentire l'insorgere dell'ustione. Mentre i riflessi rosso sangue che contornavano le veneziane si scurivano sempre più, percepii la mano di mio padre che stringeva leggermente la mia. Abbassai lo sguardo e vidi che aveva gli occhi aperti; tentai quindi di rivelargli quanto avevo in cuore. «Lo so», mormorò lui. Ma quando si accorse che non riuscivo più a fermare il fiume di parole che sgorgava da dentro di me, trovò in sé un'insperata energia e strinse la mia mano con tanta forza che fui costretto a interrompermi. Approfittò del mio silenzio commosso per dire: «Ricorda...» Lo udivo appena. Mi chinai sul letto, avvicinando l'orecchio sinistro alle sue labbra. Con voce fioca, e tuttavia con una determinazione che riecheggiava d'ira e di disprezzo, mi spronò per l'ultima volta: «Non avere paura di niente, Chris. Non avere paura di niente». Poi se ne andò. Il tracciato luminoso dell'elettrocardiogramma ebbe un sussulto, poi un altro, infine si stabilizzò in una linea piatta. Le uniche luci che ancora si muovevano erano le fiamme delle candele, che danzavano sugli stoppini neri. Non riuscii immediatamente a staccarmi dalla sua mano inerte. Lo baciai sulla fronte, sulla guancia ispida. Dai margini delle veneziane non filtrava più alcuna luce. Il mondo si era immerso in quell'oscurità che ogni sera mi accoglieva tra le sue braccia. In quel momento si aprì la porta. Ancora una volta avevano spento la fila di pannelli luminosi più vicini e l'unico chiarore era quello che filtrava dalle altre camere affacciate sul corridoio.
Alto quasi quanto il vano della porta, il dottor Cleveland entrò nella stanza e, con aria grave, venne a fermarsi ai piedi del letto. Angela Ferryman lo seguì con i suoi passetti da uccellino e con una mano dalle nocche aguzze stretta a pugno sul petto. Teneva le spalle ricurve, in atteggiamento di difesa, come se la morte del suo paziente rappresentasse per lei un colpo fisico, oltre che morale. L'elettrocardiografo accanto al letto di mio padre era dotato di un apparecchio di telemetria collegato a un monitor della sala infermiere, in fondo al corridoio. Di conseguenza, avevano saputo subito del suo decesso. Non accorsero con siringhe piene di adrenalina né con un defibrillatore portatile per riattivare il cuore. Non ci sarebbe stato accanimento terapeutico, proprio come aveva chiesto mio padre. La fisionomia del dottor Cleveland non era adatta ai momenti solenni. Con i suoi occhi ridenti e le guance rosee e paffute, somigliava a un Babbo Natale senza barba. Si sforzò di assumere un'espressione cupa, ma riuscì soltanto ad apparire perplesso. Ma dalla voce traspariva quali fossero i suoi sentimenti: «Come ti senti, Chris?» «Tengo duro», risposi. 4 Dalla camera dell'ospedale chiamai Sandy Kirk, delle Pompe Funebri Kirk, con il quale mio padre aveva preso accordi diverse settimane prima. In base alle sue disposizioni, sarebbe stato cremato. Due inservienti, dai baffi sottili e i capelli rasati, vennero a prendere il corpo per portarlo in un locale refrigerato che si trovava nei sotterranei. Mi domandarono se volevo vegliare il cadavere fino all'arrivo del furgone delle pompe funebri. Risposi di no. Quello non era mio padre, ma soltanto il suo corpo. Mio padre se ne era andato da qualche parte. Decisi anche di non sollevare il lenzuolo per dare un'ultima occhiata al suo viso giallastro. Non era così che volevo ricordarlo. Gli inservienti trasferirono il corpo su un lettino. Sembravano piuttosto maldestri, eppure era un compito al quale dovevano essere abituati; inoltre, mentre lavoravano, mi lanciavano occhiate furtive, come se si sentissero inspiegabilmente colpevoli per quello che stavano facendo. Forse coloro che trasportano cadaveri non riescono mai ad accettare
completamente il loro lavoro. Sarebbe davvero di conforto riuscire a credere che sia questo il motivo, perché tale disagio starebbe a indicare che le persone non sono così indifferenti al destino degli altri come a volte può sembrare. Ma molto più probabilmente, quelle che i due inservienti mi lanciavano, erano solo occhiate di curiosità. Dopo tutto, sono l'unico cittadino di Moonlight Bay cui sia stato dedicato un lungo articolo sulla rivista Time. E sono anche colui che vive di notte e che si ritrae alla vista del sole. Un vampiro! Un lupo mannaro! Un lurido pervertito! Nascondete i bambini! Per essere onesto, la maggior parte della gente è gentile e comprensiva. Vi è tuttavia una astiosa minoranza di pettegoli pronti a credere qualsiasi cosa sentano dire su di me... e che infiorano ogni maldicenza con l'ipocrisia di chi fa la parte dello spettatore a uno dei tanti processi alle streghe di Salem. Se questi due giovani appartengono al secondo gruppo, devono essere rimasti piuttosto delusi dalla mia aria assolutamente normale. Niente pallore spettrale. Niente occhi iniettati di sangue. Niente canini aguzzi. Non mi stavo nemmeno facendo uno spuntino a base di ragni e vermi. Che tipo noioso. Le ruote del lettino cigolarono quando gli inservienti uscirono dalla stanza portando via il corpo. Anche dopo che la porta si fu completamente chiusa, continuai a sentire quel rumore stridulo che si allontanava nel corridoio. Rimasto da solo, a lume di candela, presi la ventiquattrore di mio padre dall'angusto armadietto. Conteneva soltanto gli indumenti che indossava quando era entrato in ospedale per l'ultima volta. Nel primo cassetto del comodino trovai l'orologio, il portafogli e quattro libri tascabili. Riposi tutto nella valigetta. Mi infilai l'accendino in tasca, ma lasciai le candele. Non ho mai più voluto sentire il profumo di mirica. Fa sorgere nella mia mente insopportabili associazioni di idee. Dato che avevo radunato gli oggetti appartenuti a mio padre con tanta efficienza, ritenni di essere molto bravo a mantenere il controllo di me stesso. In realtà, la sua perdita mi aveva lasciato completamente stordito. Quando spensi le candele, soffocando le fiamme tra il pollice e l'indice, non sentii nemmeno il calore né percepii l'odore degli stoppini bruciacchiati. Uscii dalla stanza con la valigetta e un'infermiera, vedendomi, si affrettò
a spegnere le luci ancora una volta. Mi avviai verso le scale che, solo poco prima, avevo salito. Non mi servivo mai degli ascensori perché le loro luci non potevano essere spente indipendentemente dal meccanismo di funzionamento. La lozione solare sarebbe stata una protezione sufficiente per la breve corsa dal terzo piano fino a terra, ma non potevo correre il rischio di restare per molto tempo bloccato tra un piano e l'altro. Dimenticandomi di rimettere gli occhiali, scesi rapidamente le scale immerse nella penombra, e... sorprendendo me stesso, non mi fermai al piano terreno. Spinto da un impulso che non riuscii a spiegare immediatamente, accelerando, con la valigetta che batteva contro la mia gamba, proseguii fino allo scantinato dove avevano portato mio padre. Lo stordimento che sentivo in cuore si trasformò in gelo. Una serie di brividi, che sembrava uscire a spirale da quel battito di ghiaccio, mi scuoteva il corpo. Di colpo, ero come sopraffatto dalla convinzione di aver abbandonato il corpo di mio padre senza aver compiuto un qualche solenne dovere, anche se la mia mente non riusciva a esprimere con le parole che cosa avrei dovuto fare. Il cuore mi batteva tanto forte che ne sentivo il rumore: colpi di tamburo in un corteo funebre che si avvicina a passo di corsa. Avevo la gola gonfia e serrata, e dovevo fare uno sforzo per riuscire a deglutire la saliva improvvisamente acida. In fondo alle scale si apriva una porta antincendio d'acciaio con una scritta rossa: USCITA D'EMERGENZA. Confuso, mi bloccai, esitando per un momento con la mano sulla sbarra trasversale. Solo in quel momento ricordai l'impegno che avevo quasi mancato di rispettare. Romantico come sempre, papà aveva chiesto di essere cremato insieme con una fotografia della mamma, la sua preferita, e mi aveva incaricato di assicurarmi che venisse mandata all'impresa di pompe funebri. La fotografia era nel suo portafogli. E il portafogli era nella valigetta che stringevo in mano. Seguendo l'impulso, spinsi la porta e mi ritrovai in un passaggio sotterraneo. Le pareti di cemento erano coperte da una lucida vernice bianca. Dal soffitto, argentei diffusori parabolici inondavano il corridoio con torrenti di luce. Avrei dovuto ritrarmi immediatamente o almeno cercare l'interruttore per spegnere i pannelli. Invece mi lanciai in avanti, lasciando che la pesan-
te porta si chiudesse alle mie spalle, e mi misi a correre a testa bassa nella speranza che la visiera riuscisse a proteggermi il viso. Affondai la sinistra nella tasca del giubbotto. La destra era stretta intorno alla maniglia della valigetta, esposta ai raggi. La quantità di luce che mi avrebbe bombardato in quei trenta metri di corridoio non sarebbe stata, di per sé, sufficiente a sviluppare un carcinoma della pelle o tumori degli occhi. Ma mi rendevo perfettamente conto che il danno subito dal DNA delle mie cellule si aggiungeva a quello già esistente, non essendo il mio corpo in grado di porvi rimedio. Sessanta secondi di esposizione al giorno, per un periodo di due mesi, avrebbero avuto lo stesso effetto catastrofico dell'ustione provocata da un'ora di sessione suicida di adorazione del sole. Fin da piccolo, i miei genitori mi avevano inculcato l'idea che, se le conseguenze di un singolo atto di irresponsabilità potevano apparire irrilevanti o addirittura inesistenti, quelle di un comportamento abitualmente irresponsabile sarebbero state terribili. Pur tenendo la testa bassa e con la visiera che mi impediva di vedere i pannelli al neon, ero tuttavia costretto a strizzare gli occhi per via del riflesso accecante che rimbalzava dalle pareti bianche. Avrei dovuto mettermi gli occhiali da sole, ma ormai ero a qualche secondo di distanza dalla fine del corridoio. Il pavimento grigio e rosso in vinile marmorizzato sembrava carne cruda. Provai un lieve senso di nausea, provocato dal disegno del pavimento e da quella luce spaventosa. Passai davanti a magazzini e sale macchine. A quanto sembrava, lo scantinato era vuoto. In breve raggiunsi la porta in fondo al corridoio. Entrai in un piccolo garage sotterraneo. Non era il parcheggio pubblico, che si trovava a livello della strada. Là dentro vi erano solo un furgoncino con il nome dell'ospedale sulla fiancata e un'ambulanza. Più avanti, vidi il carro funebre Cadillac delle Pompe Funebri Kirk. Provai un senso di sollievo all'idea che Sandy Kirk non si fosse ancora portato via il corpo. Così facevo in tempo a mettere la foto della mamma fra le mani di papà. Parcheggiato accanto al nero e lucido carro funebre, vi era un furgone Ford simile a un'ambulanza, ma privo dei fari sul tettuccio. Sia il carro funebre, sia il furgone erano rivolti verso una grande saracinesca spalancata sulla notte. A parte questi veicoli, l'uscita era sgombra, per permettere ai
camion dei fornitori di entrare e scaricare cibo, biancheria e forniture sanitarie direttamente nel montacarichi. In quel momento, nessuno stava consegnando della mercé. Il garage non aveva le pareti verniciate e i pannelli luminosi sul soffitto erano in numero minore e più distanziati rispetto al corridoio che mi ero lasciato alle spalle. Tuttavia, costituivano sempre un pericolo per me e quindi mi affrettai a raggiungere il carro funebre e il furgone bianco. Sull'angolo a sinistra della saracinesca e oltre i due veicoli parcheggiati, si apriva una stanza a me ben nota. Era il locale refrigerato dove venivano lasciati i cadaveri fino a quando non venivano trasportati nelle camere ardenti. Durante una terribile notte di gennaio di due anni prima, mio padre e io avevamo trascorso più di mezz'ora in quella stanza, a lume di candela, per vegliare il corpo di mia madre. Non potevamo sopportare l'idea di lasciarla da sola. Papà l'avrebbe volentieri seguita dall'ospedale fino alla camera ardente e poi dentro il forno crematorio quella stessa notte... se non fosse stato incapace di abbandonarmi. Un poeta e una scienziata, ma due anime incredibilmente simili. Mamma era stata portata all'ospedale in ambulanza direttamente dal luogo dell'incidente e spostata subito dal pronto soccorso in chirurgia. Morì tre minuti dopo, sul tavolo operatorio, senza aver ripreso conoscenza e senza che fosse possibile determinare tutta la gravita delle sue ferite. Notai che la porta del locale refrigerato era aperta e, mentre mi avvicinavo, sentii giungere dall'interno voci di uomini che discutevano. Seppure alterati, mantenevano la voce bassa; a un tono di forte disaccordo ne rispondeva un altro di urgenza e segretezza. Più che le voci irate, fu la loro circospezione che mi indusse a fermarmi quand'ero quasi sul punto di varcare la soglia. Nonostante la pericolosa luce al neon, rimasi un momento bloccato per l'indecisione. Da dietro la porta, giunse una voce che conoscevo. Sandy Kirk stava dicendo: «Allora, chi è il tizio che dovrò cremare?» Un uomo rispose: «Nessuno, soltanto un vagabondo». «Avresti dovuto portarlo da me, non qui», si lamentò Sandy. «E che cosa succede se qualcuno lo cerca?» Intervenne un terzo uomo, e io riconobbi la voce di uno degli inservienti venuti a prendere il corpo di mio padre: «Per l'amor del cielo, non potremmo semplicemente andare avanti?»
Improvvisamente ebbi la certezza che sarebbe stato pericoloso trovarsi con le mani occupate, quindi posai la valigetta contro la parete. Nel vano della porta apparve un uomo, che tuttavia non mi vide perché camminava all'indietro, trainando un lettino montato su ruote. Il carro funebre si trovava a circa tre metri di distanza. Lo raggiunsi prima di essere visto e mi accovacciai vicino alla portiera posteriore, attraverso la quale venivano caricati i cadaveri. Sbirciando da dietro il paraurti, riuscivo a scorgere l'ingresso del locale refrigerato. Non avevo mai visto l'uomo che ne usciva camminando all'indietro: sulla trentina, alto circa un metro e ottanta, fisico massiccio, collo taurino e testa rasata. Indossava scarponi, blue jeans, una camicia di flanella rossa a quadri, e un orecchino con una perla. Una volta superata la soglia, l'uomo fece un'inversione, in modo da poter spingere il lettino verso il carro funebre. Adagiato sul materassino, vi era un cadavere infilato in un sacco di vinile opaco chiuso da una cerniera. Due anni prima, anche mia madre era stata messa in un sacco di quel tipo prima che la trasferissero dal locale refrigerato alla camera ardente. Seguendo lo sconosciuto dalla testa pelata, Sandy Kirk afferrò il lettino con una mano. Poi, bloccando una ruota con il piede sinistro, chiese nuovamente: «Che cosa succede se qualcuno lo cerca?» Il tizio pelato aggrottò la fronte e piegò la testa di lato. La perla dell'orecchino era decisamente troppo grande. «Te l'ho già detto, era un vagabondo. Non aveva niente, se non quello che teneva nello zaino.» «E allora?» «Se anche sparisce... chi vuoi che ci badi?» Sandy aveva trentadue anni ed era così attraente che, nonostante il suo macabro lavoro, le donne non gli lasciavano un attimo di respiro. Era un uomo simpatico e non aveva l'atteggiamento solenne tipico degli impresari di pompe funebri, tuttavia quand'ero con lui mi sentivo a disagio. I bei lineamenti del suo viso sembravano una maschera dietro la quale non si nascondeva un'altra faccia ma solo il vuoto, come se non fosse un uomo diverso e spinto da scopi meno nobili di quelli che fingeva di avere, ma semplicemente che non fosse un uomo. «Che mi dici della sua cartella clinica?» volle sapere Sandy, non del tutto convinto. «Non è morto qui», lo rassicurò il pelato. «L'ho raccattato prima, sulla statale. Faceva l'autostop.»
Non avevo mai espresso le mie perplessità su Sandy Kirk, né ai mei genitori, né a Bobby Halloway o a Sasha, e neppure a Orson. Troppa gente superficiale aveva fatto sgradevoli ipotesi su di me, basandosi sul mio aspetto fisico e sulla mia preferenza per le ore notturne, per non voler entrare a far parte del loro gruppo, parlando male di una persona senza averne ampiamente motivo. Il padre di Sandy, Frank, era stato un uomo apprezzato da tutti e Sandy si era sempre comportato in modo altrettanto corretto. Fino ad allora. Rivolgendosi all'uomo con il lettino, Sandy fece notare: «Sto correndo un bel rischio». «Tu sei al di sopra di ogni sospetto.» «Mi chiedo se sia poi così vero.» «Chieditelo in un altro momento», ribattè il pelato, spingendo la ruota che Sandy teneva bloccata sul piede dell'impresario. Sandy lanciò un'imprecazione e si fece da parte, mentre l'uomo avanzò dritto verso di me. Le ruote cigolavano, proprio come quelle del lettino sul quale avevano portato via mio padre. Restando accovacciato, scivolai da dietro il carro funebre, fermandomi tra questo e il Ford bianco. Mi bastò una rapida occhiata per accorgermi che non vi era alcuna scritta di società o ente stampata sul fianco del furgone. Il cigolio del lettino si avvicinava rapidamente. Mi resi conto di essere in grave pericolo. Li avevo sorpresi a fare qualcosa che non comprendevo ma che, chiaramente, doveva essere illegale. E che doveva restare segreto, soprattutto per me. Mi lasciai cadere bocconi sul pavimento, poi scivolai sotto il carro funebre, fuori dal loro campo visivo e dalla luce, e nell'ombra fresca e morbida come seta. In quel nascondiglio lo spazio era appena sufficiente per me e, quando inarcai la schiena, sentii che questa premeva contro il sistema di trasmissione. Ero rivolto verso la parte posteriore del veicolo. Vidi il lettino superare il carro funebre e avvicinarsi al furgone. Voltando il capo, scorsi la soglia del locale refrigerato a meno di tre metri di distanza. Ancor più vicino a me, vidi le scarpe nere e lucide, e i risvolti dei pantaloni blu marino di Sandy che, evidentemente, si era fermato e seguiva con lo sguardo l'uomo calvo che spingeva il lettino. Dietro a Sandy, appoggiata alla parete, vi era la valigetta di mio padre. Quando l'avevo posata, non c'era stato tempo per nasconderla e ora, se l'a-
vessi avuta con me, non sarei stato in grado di muovermi abbastanza in fretta né di scivolare silenziosamente sotto il carro funebre. Nessuno l'aveva ancora notata. Forse avrebbero continuato a ignorarla. I due inservienti, che riconoscevo dalle scarpe e dai pantaloni bianchi, spinsero un altro lettino fuori dal locale refrigerato. Le ruote di questo non cigolavano. Il primo lettino, quello spinto dal calvo, raggiunse la parte posteriore del furgone. Sentii l'uomo aprire le portiere posteriori del veicolo. Uno degli infermieri disse al suo collega: «È meglio che io salga, prima che qualcuno si chieda perché ci sto mettendo tanto». E si allontanò verso il fondo del garage. Le gambe pieghevoli del primo lettino si richiusero con uno scatto quando il calvo lo infilò nel furgone bianco. Mentre l'inserviente rimasto si avvicinava con il secondo lettino, Sandy aprì le portiere posteriori del carro funebre. Evidentemente su questo ci doveva essere un sacco opaco di vinile contenente il corpo del vagabondo. Mi sentii pervadere da una sensazione di irrealtà, era tutto così assurdo. Credevo quasi di trovarmi in un sogno senza, prima, essemi addormentato. Le portiere posteriori del furgone si chiusero con fragore. Volgendo il capo a sinistra, rimasi a osservare le scarpe del calvo che si avvicinavano alla portiera del guidatore. Una volta che i due veicoli fossero usciti, l'inserviente avrebbe abbassato la grossa saracinesca. E se io fossi rimasto sotto il carro funebre, l'uomo mi avrebbe scoperto immediatamente. Non sapevo quale dei due inservienti era rimasto nel garage, ma non aveva molta importanza. Ripensando ai giovani che avevano portato via il corpo di mio padre, ero ragionevolmente sicuro di riuscire ad avere la meglio su di lui, chiunque dei due fosse. Tuttavia se, uscendo dal garage, Sandy Kirk avesse dato un'occhiata nello specchietto retrovisore, con tutta probabilità mi avrebbe visto. A quel punto, sarei stato costretto ad affrontare entrambi. Il motore del furgone venne acceso. Mentre Sandy e l'inserviente facevano scivolare il lettino nel carro funebre, sgusciai da sotto il veicolo. Mi era caduto il berretto. Lo afferrai e, senza nemmeno lanciare un'occhiata ai due uomini... non osavo farlo... avanzando carponi, percorsi diagonalmente i pochi metri che mi dividevano dalla porta aperta del locale refrigerato. Non appena varcata la soglia di quella tetra stanza, mi rimisi in piedi e
mi nascosi dietro la porta, premendo la schiena contro la parete di cemento. Dal garage non giunsero grida d'allarme. Evidentemente non mi avevano visto. In quel momento mi resi conto che stavo trattenendo il fiato. Espirai con un lungo sibilo attraverso i denti serrati. Avevo gli occhi che lacrimavano, irritati dalla luce. Me li asciugai con il dorso delle mani. Due pareti della stanza erano occupate da file sovrapposte di cassetti da obitorio in acciaio inossidabile; all'interno di questi, l'aria era ancora più gelida che nel locale stesso, già abbastanza freddo da farmi rabbrividire. Da una parte, vi erano due squallide sedie di legno. Il pavimento era piastrellato di bianco con le giunture intonacate a malta, in modo da poter essere ripulito con facilità nel caso che uno dei sacchi contenenti i cadaveri lasciasse fuoriuscire del liquido. Dato che questo locale era illuminato da diversi, troppi, tubi al neon montati sul soffitto, mi rimisi il berretto Mystery Train, calcandolo fino alle sopracciglia. Per fortuna, gli occhiali che avevo conservato nel taschino della camicia non si erano rotti. Me li infilai. Una percentuale di radiazioni ultraviolette riesce a penetrare anche attraverso i filtri solari a più alto fattore protettivo. Nell'ultima ora, mi ero esposto alla luce più che in tutto l'anno precedente. L'elenco dei pericoli di un'esposizione cumulativa mi rimbombava nella mente come il rumore di zoccoli di un terribile cavallo nero. Oltre la porta, il motore del furgone cominciò a ruggire. Il rombo si trasformò rapidamente in un borbottio, e questo scemò in un mormorio sempre più lontano. Subito dopo, anche il carro funebre uscì nella notte. La grossa saracinesca elettrica si abbassò fino a toccare la soglia con un colpo così violento che riecheggiò attraverso i sotterranei dell'ospedale e, come conseguenza, l'eco strappò un tremulo silenzio alle pareti di cemento. Mi irrigidii, stringendo le mani a pugno. L'inserviente doveva trovarsi ancora nel garage, tuttavia non si sentiva alcun rumore. Lo immaginai con la testa leggermente tesa in avanti, che osservava incuriosito la valigetta di mio padre. Un minuto prima ero certo di poter avere la meglio su quell'individuo. Ora la mia sicurezza cominciava a vacillare. Fisicamente, ero alla sua altezza. E forse anche più robusto. Ma lui poteva essere spinto da una ferocia
che io non possedevo. Non lo sentii avvicinarsi. Si trovava dall'altra parte della porta aperta, a pochi centimetri da me e io mi accorsi di lui solo quando varcò la soglia, perché la suola di gomma delle sue scarpe scricchiolò sulle piastrelle del pavimento. Se fosse entrato completamente nella stanza, non avrei potuto fare a meno di affrontarlo. Avevo i nervi tesi come le molle di un orologio. Dopo aver esitato per un tempo che mi parve stranamente lungo, l'inserviente spense le luci. Poi, camminando all'indietro, uscì dalla stanza e chiuse la porta. Sentii che inseriva una chiave nella toppa. Il chiavistello scattò con il rumore che fa il cane di un revolver di grosso calibro quando spinge il percussore in una camera di caricamento vuota. Dubitavo che vi fossero cadaveri nei gelidi cassetti dell'obitorio. Il Mercy Hospital della tranquilla Moonlight Bay non produceva morti al ritmo frenetico dei grossi istituti ospedalieri delle metropoli dominate dalla violenza. Ma anche se in quelle cuccette d'acciaio inossidabile vi fossero stati dei viaggiatori dell'eternità, il fatto non mi avrebbe in alcun modo disturbato. Un giorno io sarò morto esattamente come chiunque altro... e certo molto prima di tante persone della mia età. I morti erano solo i miei futuri concittadini. Ciò che invece mi terrorizzava era la luce e, per me, l'assoluta oscurità di quella stanza senza finestre era come l'acqua fresca per un uomo che sta morendo di sete. Per un minuto o forse più, rimasi fermo a godere del buio assoluto che mi inondava la pelle e gli occhi. Riluttante all'idea di muovermi, rimasi accanto alla porta, con la schiena contro la parete. Mi aspettavo che l'inserviente tornasse da un momento all'altro. Alla fine tolsi gli occhiali e li riposi nuovamente nel taschino della camicia. Sebbene fossi avvolto dalle tenebre più fitte, nella mia mente ruotavano luminose girandole di inquietanti congetture. Il corpo di mio padre si trovava nel furgone bianco. Stava viaggiando verso una destinazione a me ignota. Ed era nelle mani di individui le cui motivazioni mi risultavano del tutto incomprensibili. Non riuscivo proprio a immaginare una ragione logica per questo scambio di cadaveri... a parte il fatto che la morte di mio padre non doveva es-
sere stata provocata dal cancro, ma da qualcos'altro di molto meno chiaro. Tuttavia, se le povere ossa di mio padre potevano incriminare qualcuno, perché i colpevoli non avevano lasciato che il forno crematorio di Sandy Kirk distruggesse le prove? Evidentemente avevano bisogno del suo corpo. Per quale motivo? All'interno dei pugni serrati, mi si era formato del sudore e avevo la nuca bagnata. Più ripensavo alla scena alla quale avevo assistito, meno mi sentivo a mio agio in quella stazione intermedia per cadaveri. Quegli strani avvenimenti facevano riaffiorare primitive paure, le cui radici affondavano tanto nella mia mente che non riuscivo nemmeno a stabilirne la forma, mentre le vedevo nuotare e girare nel buio. Un autostoppista assassinato avrebbe preso il posto di mio padre nel forno crematorio. Ma perché uccidere un innocuo vagabondo per una cosa del genere? Sandy avrebbe potuto riempire l'urna di bronzo con normali ceneri di legna bruciata e io non avrei avuto alcun dubbio che fossero umane. Inoltre, sarebbe stato davvero improbabile che, ricevuta l'urna, io rompessi il sigillo per pura curiosità, e ancor più improbabile che facessi esaminare il suo contenuto da un laboratorio per stabilirne la composizione e la vera origine. I mei pensieri sembravano essersi impigliati in una fitta rete. Non riuscivo a districarli. Tremando, presi l'accendino dalla tasca. Rimasi in ascolto di qualche rumore furtivo dall'altra parte della porta chiusa, poi, con uno scatto, accesi la fiammella. Non sarei rimasto sorpreso di vedere, in piedi davanti a me, un cadavere di alabastro alzatosi dal suo sarcofago d'acciaio, il volto viscido di morte e luccicante alla debole luce, le orbite spalancate e vuote, la bocca che si contorce nel tentativo di rivelarmi dei segreti, ma da cui non esce nemmeno un sussurro. Non mi trovai di fronte ad alcun cadavere, bensì a serpenti di luci e ombre che strisciavano dalla luce tremolante e formavano spirali sui pannelli d'acciaio, dando l'impressione che i cassetti si aprissero lentamente. Mi voltai verso la porta e scoprii che, per evitare che qualcuno restasse accidentalmente chiuso nel locale, il chiavistello poteva essere disinserito dall'interno. Da questa parte, non serviva alcuna chiave; la serratura poteva essere azionata girando semplicemente il pomello. Feci scivolare il chiavi-
stello dalla bocchetta il più silenziosamente possibile. Il pomello cigolò sommessamente. Il garage era immerso nel silenzio e appariva deserto, ma tutti i miei sensi erano in allerta. Poteva esserci qualcuno nascosto dietro una delle colonne portanti, l'ambulanza o il furgoncino. Strizzai gli occhi sotto l'arida pioggia di luce al neon e, con mio grande disappunto, vidi che la valigetta di mio padre era sparita. Doveva averla presa l'inserviente. Non volevo attraversare il sotterraneo dell'ospedale per tornare alle scale che avevo disceso. Era troppo grande il rischio di incontrare uno o entrambi gli inservienti. Fino a quando non avessero aperto la valigetta ed esaminato il contenuto, probabilmente non avrebbero capito a chi apparteneva. Ma una volta trovato il portafogli di mio padre con la sua tessera di identificazione, si sarebbero resi conto che io ero stato lì e si sarebbero preoccupati per ciò che avevo visto o sentito, ammesso che avessi visto o sentito qualcosa. Un autostoppista era stato ucciso non perché fosse in qualche modo al corrente delle loro attività, non perché potesse incriminarli, ma unicamente perché avevano bisogno di un corpo da cremare per motivi che ancora mi sfuggivano. Sarebbero stati implacabili con chiunque costituisse una reale minaccia per loro. Premetti il bottone che azionava la saracinesca. Il motore si accese con un ronzio; in alto, la trasmissione a catena si mosse sobbalzando e i segmenti della grossa porta cominciarono a salire facendo un baccano spaventoso. Mi guardai nervosamente intorno, ero certo che, da un momento all'altro, qualcuno sarebbe sbucato fuori dal suo nascondiglio e si sarebbe scagliato contro di me. Quando vidi che la porta era per metà sollevata, la bloccai con un colpetto sul pulsante, poi premetti una terza volta per farla scendere di nuovo. Mentre ricominciava a muoversi, scivolai sotto la saracinesca e uscii nel buio della notte. Alti lampioni diffondevano una luce fredda e giallastra sulla rampa d'accesso che conduceva al garage sotterraneo. A livello stradale, anche l'area di parcheggio era immersa in questa sgradevole luminosità; faceva venire in mente la frigida incandescenza dell'anticamera di un girone infernale, in cui la punizione preveda un'eternità di ghiaccio invece che di fuoco. Per quanto possibile cercavo camminare nel verde, riparandomi sotto gli alberi di canfora e i pini.
Correndo, attraversai la stradina che conduceva a un quartiere residenziale formato da pittoreschi villini in stile spagnolo. Presi un vicoletto privo di lampioni. Scesi le strade che correvano parallele al retro delle case con le finestre illuminate. Oltre quelle finestre vi erano stanze dove si vivevano strane vite, piene di infinite possibilità e di gioiosa ordinarietà; vite fuori della mia portata e quasi al di là della mia comprensione. Spesso, di notte, mi sento privo di peso e questa era una di quelle volte. La mia corsa era silenziosa come il volo di un gufo che scivola sulle ombre. Questo mondo senza sole mi aveva accolto e nutrito per ventotto anni, era sempre stato per me un luogo confortevole e pieno di pace. Ma ora, per la prima volta in vita mia, avevo la tragica sensazione che una belva feroce mi stesse inseguendo attraverso le tenebre. Resistendo all'impulso di guardarmi alle spalle, accelerai l'andatura e scattai-scorsi-schizzai-volai attraverso le anguste stradine e gli scuri vicoli di Moonlight Bay. PARTE SECONDA La sera 5 Ho visto fotografie di alberi del pepe della California illuminati dal sole. La luce li fa apparire simili a merletti, come graziose, verdi fantasie di alberi. Ma di notte, l'albero del pepe assume una personalità diversa. Sembra chinare il capo, e abbassare i lunghi rami quasi a nascondere un viso contratto per l'ansia o per il dolore. Questi erano gli alberi che fiancheggiavano il lungo viale d'accesso alle Pompe Funebri Kirk, situate su un poggiolo di tre acri, alla periferia nordorientale della città, nell'entroterra che la statale 1 divide dalla costa e alla quale era collegato da un cavalcavia. Gli alberi del pepe sembravano persone che, dopo aver partecipato al funerale, si mettono in fila ad aspettare i famigliari del defunto per porgere le loro condoglianze. Mentre percorrevo il ripido vialetto, lungo il quale bassi lampioni a forma di fungo gettavano cerchi di luce, gli alberi furono percorsi da una lieve brezza. Il fruscio del vento tra le foglie era come un lamento appena sussurrato.
Non vidi alcuna automobile parcheggiata nei pressi della camera ardente, ciò voleva dire che non vi erano defunti esposti in quel momento. Quanto a me, preferisco muovermi per Moonlight Bay a piedi o in bicicletta. Non ha senso che impari a guidare un'automobile. Di giorno non potrei usarla, e di notte dovrei comunque tenere gli occhiali da sole per ripararmi dai fari delle altre auto. Ma i poliziotti non hanno molta simpatia per chi, di notte, guida nascondendosi dietro un paio di occhiali da sole, anche se ha un'aria molto chic. La luna piena era ormai alta in cielo. Mi piace la luna. Rischiara senza bruciare. Mette in risalto ciò che è bello e nasconde ciò che non lo è. In cima alla collina, la strada asfaltata descriveva un'ampia curva e tornava indietro, formando una comoda piazzola di manovra, al centro della quale si apriva un rotondo spiazzo erboso. In mezzo allo spiazzo era stata collocata una riproduzione in calcestruzzo colato della Pietà di Michelangelo. Riflettendo i raggi della luna, il corpo del Cristo, adagiato in grembo alla madre, sembrava emanare una propria luminosità. Anche la Vergine risplendeva leggermente. Alla luce del sole, quella copia grossolana doveva apparire terribilmente volgare. Tuttavia, i famigliari e gli amici dei defunti si sentivano confortati all'idea che esistesse un significato universale per il loro dolore, anche se espresso in modo alquanto rozzo attraverso quella riproduzione. Se c'è una cosa che mi piace della gente, è la sua capacità di elevare lo spirito aggrappandosi anche alla più flebile speranza. Mi fermai esitante sotto la veranda dell'edificio, perché non riuscivo a valutare la gravita del pericolo che stavo per affrontare. L'imponente villa a due piani in stile georgiano... mattoni rossi e decorazioni in legno bianco... sarebbe stata la casa più bella della città, se la città in questione non fosse stata Moonlight Bay. Un'astronave giunta da un'altra galassia sarebbe apparsa meno aliena al nostro litorale di quanto non lo fosse la bella costruzione di Kirk. A una villa di quel tipo si adattavano più gli olmi che gli alberi del pepe, più i cieli grigi che quelli azzurri della California, nonché una pioggia più fredda di quella che bagna questo litorale. Il secondo piano, quello abitato da Kirk, era immerso nel buio. Le sale in cui venivano esposti i defunti si trovavano al pianterreno. Attraverso i pannelli di vetro molato, posti ai lati della porta d'ingresso, vidi una luce fioca che proveniva dal retro della casa.
Suonai il campanello. In fondo al corridoio apparve un uomo che si avvicinò alla porta con passo svelto. Sebbene riuscissi a scorgere solo la sua sagoma, dall'andatura riconobbi immediatamente Sandy Kirk. Si muoveva con un'eleganza che sottolineava la prestanza fisica. Raggiunto l'ingresso, accese sia le luci interne sia quelle della veranda. Quando aprì la porta e vide che lo fissavo a occhi strizzati da sotto la visiera del berretto, sembrò alquanto sorpreso. «Christopher?» «'Sera, signor Kirk.» «Mi è davvero dispiaciuto per tuo padre. Era una persona meravigliosa.» «Sì, è vero.» «Lo abbiamo già ritirato dall'ospedale. Lo stiamo trattando come se fosse un parente, con il più grande rispetto... ne puoi essere certo. Ho seguito il suo corso di poesia del ventesimo secolo ad Ashdon. Lo sapevi?» «Certo.» «Grazie a lui, ho imparato ad amare Eliot e Pound. Auden e la Plath. Beckett e Ashbery. Robert Bly. Yeats. Tutti quanti. Prima di iniziare il corso, detestavo la poesia... ma alla fine, non potevo più farne a meno.» «Wallace Stevens. Donald Justice. Louise Glück. Questi erano i suoi poeti preferiti.» Sandy annuì, sorridendo. Poi: «Oh, scusa, avevo dimenticato». E, con un gesto di considerazione nei miei confronti, spense le luci. Sempre fermo sulla soglia ora immersa nel buio, soggiunse: «Deve essere terribile per te, ma almeno non soffre più». Gli occhi di Sandy erano verdi ma, alla fioca luce del giardino, sembravano neri e lucidi come la corazza di certi scarafaggi. Mentre continuavo a fissarli, domandai: «Posso vederlo?» «Che cosa... tuo padre?» «Non ho sollevato il lenzuolo per guardarlo prima che lo portassero via. Non ne ho avuto il coraggio, pensavo di non averne bisogno. Ma adesso... vorrei proprio dargli un'ultima occhiata.» Gli occhi di Sandy Kirk erano come un tranquillo mare notturno. Sotto l'anonima superficie vi erano brulicanti profondità. Mantenne il tono compassionevole di un distinto signore che si rivolge ai parenti del caro estinto. «Mi dispiace, Christopher... ma l'operazione è già iniziata.» «L'avete già bruciato?»
Cresciuto in un tipo di lavoro che richiedeva un continuo uso di eufemismi, Sandy non poté trattenere una smorfia di fronte alla mia brutalità. «Sì, il defunto si trova nel forno crematorio.» «Non avete fatto un po' troppo in fretta?» «Nel nostro lavoro, è meglio non attendere. Se avessi saputo che stavi per arrivare...» Mi chiesi se quegli occhi da corazza di scarafaggio sarebbero riusciti a guardami dritto negli occhi, se ci fosse stata abbastanza luce perché io potessi vedere il loro vero colore verde. Davanti al mio silenzio, Sandy soggiunse: «Christopher, sono veramente addolorato, vedendoti in questo stato e sapendo che avrei potuto aiutarti». Nel corso della mia strana vita, ho avuto molta esperienza di alcune cose e poca di altre. Sebbene io sia un estraneo per il giorno, conosco la notte come nessuno. E anche se sono stato bersaglio della crudeltà di persone ignoranti, gran parte della mia comprensione del cuore umano deriva dal rapporto con i miei genitori e con alcuni cari amici che, come me, vivono principalmente fra il tramonto e l'alba; di conseguenza, solo di rado ho avuto modo di provare cocenti delusioni. Mi sentii imbarazzato per la falsità di Sandy, come se quel sentimento non disonorasse solo lui ma anche me, e non riuscii più a sostenere il suo sguardo vitreo. Abbassai il capo e rimasi a fissare il pavimento. Fraintendendo il mio imbarazzo per un dolore che mi lasciava ammutolito, Sandy uscì sulla veranda e mi posò una mano sulla spalla. Riuscii a non ritrarmi. «Il mio compito è quello di confortare la gente, Christopher, e lo so fare bene. Ma per essere sincero... non conosco parole che possano dare un senso alla morte né renderla più facile da sopportare.» Avrei voluto prenderlo a calci. «Stai tranquillo, ce la farò», risposi mentre pensavo che dovevo andarmene in fretta, prima di fare qualcosa di avventato. «Le parole che meccanicamente ripeto alla gente sono solo banalità, frasi che non troveresti mai nelle poesie che tuo padre amava tanto, quindi te le risparmierò, non potrei dirle proprio a te.» Con il capo sempre abbassato, annuii e cominciai a indietreggiare, togliendo la spalla da sotto la sua mano. «Grazie, signor Kirk. Scusi per il disturbo.» «Non mi hai disturbato affatto. Neanche un po'. Solo mi dispiace che tu non sia venuto prima. Avrei potuto... ritardare l'operazione.»
«Non è colpa sua. Non importa. Davvero.» Dopo aver percorso a ritroso la veranda priva di scalini fino al vialetto asfaltato, mi voltai per andarmene. Sandy indietreggiò, poi si fermò nuovamente sull'uscio di casa, immerso fra due oscurità, e domandò: «Hai già pensato al servizio?... Quando e come vuoi che si svolga?» «No, no, non ancora. Glielo farò sapere domani.» Mentre mi allontanavo, si premurò di chiedere: «Christopher, ti senti bene?» Mi voltai a guardarlo, ora ero abbastanza lontano, e risposi con voce intenzionalmente, ma non del tutto, priva di espressione: «Sì, mi sento bene. Non si preoccupi. Grazie, signor Kirk». «Peccato che tu non sia venuto prima.» Scrollando le spalle, affondai le mani nelle tasche del giubbotto, mi voltai di nuovo e passai accanto alla Pietà. Vi era della mica nell'impasto di cui era composta la statua e la luna piena si rifletteva in quelle minuscole schegge e sembrava che alcune lacrime brillassero sul volto di Nostra Signora del Calcestruzzo Colato. Resistetti alla tentazione di voltarmi a guardare l'impresario di pompe funebri. Di certo non si era mosso e mi stava ancora osservando. Continuai a scendere il vialetto, accompagnato dal mormorio di quegli alberi sconsolati. La temperatura era scesa a sedici gradi. La brezza che soffiava verso terra si era purificata, dopo il lungo viaggio attraverso migliaia di chilometri di oceano, e portava con sé soltanto una lieve traccia di salmastro. Osai guardarmi indietro solo parecchio tempo dopo, quando la discesa del viale mi aveva nascosto alla vista di Sandy. Riuscivo a scorgere unicamente il tetto spiovente e i comignoli aguzzi, tetri profili contro il cielo punteggiato di stelle. Abbandonai l'asfalto per il prato e tornai indietro, ma questa volta camminando sotto l'ombra protettrice del fogliame. Gli alberi del pepe intrecciavano la luna fra le loro lunghe chiome. 6 Ancora una volta vidi davanti a me la piazzola rotonda, la Pietà, la veranda. Sandy era rientrato. La porta d'ingresso era chiusa.
Continuando a camminare sul prato e nascondendomi dietro alberi e cespugli, girai intorno alla casa. Un ampio portico scendeva verso una piscina, lunga una ventina di metri e a una sola corsia, e verso un enorme patio di mattoni e roseti simmetrici; nulla di tutto questo si poteva vedere dalle sale aperte al pubblico. In una cittadina grande come la nostra vi sono quasi duecento nascite e cento decessi all'anno. Vi erano soltanto due imprese di pompe funebri e a quella di Kirk andava probabilmente il settanta per cento del lavoro, più la metà dei funerali che riguardavano le altre cittadine della contea. La morte permetteva a Sandy di vivere molto bene. Di giorno, la vista dal patio doveva essere stupenda: a est, dolci pendii di colline disabitate, lungo i quali si scorgevano tronchi scuri e contorti di querce isolate, si susseguivano a perdita d'occhio. Avvolte dal chiarore lunare, le colline sembravano giganti addormentati sotto pallide lenzuola. Non vedendo nessuno alle finestre illuminate che si affacciavano sul retro della casa, attraversai rapidamente il patio. La luna, bianca come un petalo di rosa, galleggiava sulle acque nere inchiostro della piscina. La casa era adiacente a uno spazioso garage a L, che girava intorno a un motel, al quale si accedeva solo dalla parte anteriore. Nel garage si trovavano due carri funebri e i veicoli personali di Sandy, ma anche, in fondo all'ala più distante dalla casa, il forno crematorio. Muovendomi con circospezione, svoltai l'angolo del garage e avanzai lungo la parte posteriore del lato più lungo della L, dove enormi alberi di eucalipto impedivano alla luce della luna di filtrare. L'aria era impregnata della loro fragranza medicinale; e, sotto i miei piedi, scricchiolava un tappeto di foglie morte. Non vi è angolo di Moonlight Bay che io non conosca... soprattutto questo. Ho trascorso gran parte delle notti a esplorare la nostra bizzarra cittadina e questo mi ha portato a fare alcune macabre scoperte. Più avanti, sulla sinistra, una gelida luce contrassegnava la finestra del forno crematorio. Mi avvicinai convinto... giustamente, come risultò in seguito... che avrei visto qualcosa di più strano e decisamente peggiore di quello che Bobby Halloway e io, allora tredicenni, avevamo scorto in una notte di ottobre... Una quindicina di anni prima, come tutti i ragazzini della mia età, avevo provato una forte attrazione per il macabro e l'orripilante; al pari degli altri, anch'io subivo il fascino del mistero e della morte. Bobby Halloway e io,
già allora grandi amici, pensavamo che sarebbe stato un gesto veramente coraggioso entrare di nascosto nella proprietà dell'impresario di pompe funebri, in cerca di qualcosa di disgustoso, di orrido, di sconvolgente. Non ricordo che cosa pensassimo, o sperassimo, di trovare. Una raccolta di teschi umani? Sulla veranda, un'altalena fatta di ossa? Un laboratorio segreto in cui l'apparentemente normale Frank Kirk e il suo apparentemente normale figlio Sandy attiravano i fulmini dal cielo, per rianimare i nostri vicini deceduti e utilizzarli come schiavi per la cucina e le pulizie di casa? Forse speravamo di imbatterci in un tempio eretto alle divinità del male Cthulhu e Yog-Sothoth, in qualche sinistro angolo del roseto, nascosto da rovi. A quei tempi Bobby e io leggevamo molti racconti di H.P. Lovecraft. Bobby dice che eravamo due ragazzini assai strani. Io rispondo che strani lo eravamo, certo, ma né più e né meno degli altri. Bobby ribatte che può essere, però gli altri ragazzi, a poco a poco, hanno smesso con le bizzarrie da adolescente, mentre noi ci crogioliamo sempre più nella nostra stranezza. Su questo non sono d'accordo con Bobby. Non credo proprio di essere più strano di chiunque abbia mai conosciuto. Anzi, lo sono molto meno di tanti. Il che vale anche per Bobby. Ma dato che lui ha una grande stima della sua diversità, vuole che io creda nella mia e che la tenga nella dovuta considerazione. Bobby si ostina a essere strano. Dice che, riconoscendo e accettando la realtà delle cose, ci sentiremo più in armonia con la natura... visto che la natura stessa è assai bizzarra. Comunque, in una notte di ottobre, dietro al garage delle pompe funebri, Bobby Halloway e io scoprimmo la finestra del forno crematorio. Fummo attratti da una luce misteriosa che pulsava contro il vetro. Dato che la finestra era collocata piuttosto in alto, non ci era possibile sbirciare all'interno. Con la circospezione di un commando che penetra in un un campo nemico, rubammo una panchina di teak dal patio e la portammo dietro al garage, posandola sotto la finestra illuminata. In piedi sulla panchina, uno accanto all'altro, riuscimmo a fare una accurata ricognizione della scena. Dalla parte interna, il vetro della finestra era coperto da una veneziana Levolor; ma qualcuno aveva dimenticato di chiudere le stecche e questo ci permise di osservare Frank Kirk e il suo assistente mentre svolgevano il loro lavoro. Dato che mi trovavo a una certa distanza, la luce non era abbastanza for-
te per farmi male. O almeno questo fu ciò che mi dissi, mentre premevo il viso contro il vetro. Anche se avevo imparato a essere un ragazzo prudente, ero pur sempre un ragazzo e, come tale, amante dell'avventura e del cameratismo; avrei perfino rischiato consapevolmente la cecità pur di condividere quel momento con Bobby Halloway. Adagiato sopra un lettino, accanto alla finestra, vi era il corpo di un uomo anziano. Era avvolto in un lenzuolo che lasciava scoperto solo il volto devastato. Aveva i capelli bianco-giallastro tutti arruffati e aggrovigliati, e sembrava quindi che fosse stato travolto da una raffica di vento. Ma a giudicare dalla pelle grigiastra, dalle guance incavate e dalle labbra profondamente screpolate, doveva essere morto non per una tempesta ma per una lunga malattia. Era possibile che avessimo conosciuto quell'uomo da vivo, ma Bobby e io non fummo in grado di riconoscere quel volto emaciato e grigiastro. Se si fosse trattato di qualcuno che avevamo conosciuto anche solo superficialmente, pur apparendoci spaventoso, forse l'uomo non avrebbe costituito un oggetto di infantile attrazione e di oscuro piacere. Per noi, che avevamo solo tredici anni e ne andavamo orgogliosi, la cosa più interessante, straordinaria e meravigliosa del cadavere era, naturalmente, anche la più orripilante. L'uomo aveva un occhio chiuso, ma l'altro era spalancato e fisso, macchiato da una chiazza di sangue rosso. Come ne restammo incantati. Cieco come l'occhio dipinto di una bambola, riusciva tuttavia a vedere fin nel nostro intimo. In silenziosa estasi oppure sussurrando tra di noi come in una immaginaria radiocronaca sportiva, osservammo Frank e il suo assistente che preparavano il forno crematorio in un angolo del locale. La stanza doveva essere calda, perché i due uomini si tolsero la cravatta e si rimboccarono le maniche, mentre minuscole gocce di sudore imperlavano i loro volti. Fuori, la temperatura in quella sera di ottobre era mite. Eppure Bobby e io continuavamo a rabbrividire, confrontando la pelle d'oca di uno con quella dell'altro, e ci stupivamo perché il nostro fiato non si condensava in nuvolette bianche. L'impresario e il suo assistente ripiegarono il lenzuolo, scoprendo il cadavere, e noi ragazzi restammo senza fiato davanti agli orrori della vecchiaia e della malattia mortale. Ma quella sensazione di soffocamento era accompagnata dallo stesso dolce brivido di terrore che avevamo provato
nel vedere film come La notte dei morti viventi. Quando il cadavere venne messo in una scatola di cartone e fatto scivolare nel forno crematorio, io afferrai con forza un braccio di Bobby e lui mi strinse la nuca con una mano sudaticcia; ci tenemmo stretti l'un l'altro, come se una calamità soprannaturale potesse attirarci inesorabilmente, farci attraversare la finestra in frantumi e la stanza, e gettarci nel forno crematorio insieme con il morto. Frank Kirk chiuse il forno. Anche attraverso la finestra, il rumore metallico della porta fu abbastanza forte, abbastanza definitivo, da riecheggiare nelle cavità delle nostre ossa. In seguito, dopo aver riportato la panca di teak nel patio ed essere scappati dalla villa di Frank Kirk, ci rifugiammo sulle gradinate del campo di football, dietro la scuola. Visto che non si stava svolgendo alcuna partita, il posto era abbastanza buio e sicuro per me. Trangugiammo la Coca Cola e ci rimpinzammo con le patatine che, all'andata, Bobby aveva comprato al 7-Eleven. «E stato fantastico, davvero fantastico», dichiarò Bobby eccitato. «È stata la cosa migliore che abbia mai visto», concordai. «Meglio delle carte di Ned.» Ned era un amico che, solo l'agosto prima, si era trasferito a San Francisco con i genitori. Era riuscito a procurarsi, non aveva voluto dire come, un mazzo di carte da gioco sulle quali erano stampate foto veramente eccitanti di donne nude, cinquantadue bellezze, tutte diverse l'una dall'altra. «Sì, decisamente meglio delle carte», annuii. «E anche meglio di quando quella enorme autocisterna si è ribaltata sull'autostrada e si è incendiata.» «Ma certo! È stato un megamiliardo di volte migliore di quello. E anche di quando Zach Blenheim è stato morsicato da quel pit bull e gli hanno dovuto dare ventotto punti sul braccio.» «Neanche lo si può paragonare!» confermai. «E quell'occhio!» esclamò Bobby, ricordando la chiazza di sangue. «Sì, buon Dio, il suo occhio!» «Super-mega-fantastico ! » Continuammo a ingollare Coca Cola, a chiacchierare e a ridere più di quanto avessimo mai riso in una sera. Che creature straordinarie eravamo a tredici anni. Là, sulle gradinate dello stadio, capii che quella macabra avventura ci aveva legato per sempre e che mai nessuno avrebbe potuto sciogliere la
nostra amicizia. All'epoca ci conoscevamo già da due anni, ma quella notte la nostra amicizia si consolidò e divenne più complessa. Avevamo condiviso un'esperienza intensamente formativa e sentivamo che quell'episodio aveva un significato più profondo di quanto apparisse in superficie, più profondo di quanto dei ragazzi della nostra età potessero comprendere. Ora vedevo Bobby con occhi diversi, così come lui ora vedeva me in modo nuovo, perché insieme avevamo osato affrontare l'orrore. In seguito, scoprii che quel momento era stato solo un preludio. Il nostro vero legame ebbe inizio nella seconda settimana di dicembre, quando ai nostri occhi si presentò qualcosa di molto più spaventoso del cadavere dall'occhio insanguinato. Quindici anni dopo, avrei pensato di essere troppo grande per questo tipo di avventura e troppo responsabile per introdurmi nelle proprietà altrui con l'incoscienza di un tredicenne. E invece stavo avanzando furtivamente su strati di foglie di eucalipto secche con l'intenzione di sbirciare ancora una volta attraverso quella finestra. La veneziana Levolor, ormai ingiallita dal tempo, era la stessa che, tanti anni prima, aveva permesso a Bobby e a me di osservare ciò che avveniva nel locale. Le stecche erano parzialmente chiuse, tuttavia gli spazi tra una e l'altra permettevano di vedere il forno crematorio, questa volta anche senza l'aiuto della panca del patio. Sandy Kirk e un assistente stavano lavorando accanto all'impianto di cremazione Power Pak II. Indossavano mascherine chirurgiche, guanti di latice e grembiuli monouso di plastica. Sul lettino accanto alla finestra vi era uno dei sacchi opachi di vinile, che la cerniera abbassata faceva sembrare un baccello maturo, contenente un cadavere. Di certo l'autostoppista da cremare al posto di mio padre. Era alto circa un metro e ottanta e doveva pesare un'ottantina di chili. Le percosse ricevute lo avevano ridotto in condizioni tali che non mi fu possibile stabilirne l'età. Il volto appariva come una maschera grottesca. Inizialmente pensai che avesse gli occhi coperti da croste di sangue. Poi mi resi conto che stavo fissando due orbite vuote. Ripensai all'uomo dall'occhio iniettato di sangue della nostra adolescenza e a come ci fosse sembrato spaventoso. Non era niente in confronto a questo. In quel caso eravamo di fronte alla fredda opera della natura, in questo si trattava di crudeltà umana.
Durante i mesi di ottobre e novembre di quell'anno, Bobby Halloway e io tornammo spesso alla finestra del forno crematorio. Avanzando quatti nel buio, cercando di non inciampare nell'edera, ci riempivamo i polmoni dell'aria odorosa di eucalipti, un profumo che ancor oggi associo all'idea di morte. Nel corso di quei due mesi, Frank Kirk si occupò di quattordici funerali, solo tre dei quali richiesero la cremazione del defunto. Gli altri corpi vennero imbalsamati per una sepoltura tradizionale. Bobby e io eravamo alquanto seccati, perché la sala delle imbalsamazioni non aveva finestre a cui potessimo accedere. Quel sancta sanctorum, dove «li mettono sotto spirito» come diceva Bobby, era nel sotterraneo, al sicuro dagli spioni come noi. Dentro di me, ero sollevato al pensiero che le nostre incursioni fossero necessariamente limitate al forno crematorio. E credo che, per quanto si fingesse profondamente deluso, anche Bobby condividesse il mio sollievo. Il lato positivo, se così possiamo dire, era che Frank eseguiva, gran parte delle imbalsamazioni di giorno e limitava le cremazioni alle ore notturne. In questo modo potevo assistervi anch'io. Sebbene l'ingombrante forno crematorio, decisamente più rudimentale del Power Pak II usato da Sandy, incenerisse i cadaveri a temperature molto elevate e fosse dotato di dispositivi per il controllo delle emissioni, dal camino usciva sempre un filo di fumo. Di conseguenza, Frank eseguiva le cremazioni di notte per rispetto dei famigliari e degli amici dei defunti che abitavano in città e che, durante il giorno, avrebbero potuto sollevare lo sguardo verso l'edificio in cima alla collina e vedere i loro cari per l'ultima volta salire al cielo sotto forma di esili volute grigie. Fortunatamente per noi, il padre di Bobby, Anson, era redattore capo della Moonlight Bay Gazette. Bobby approfittava delle sue conoscenze e della sua dimestichezza con la redazione del giornale per informarsi sugli ultimi decessi, provocati da incidenti o avvenuti per cause naturali. Sapevamo sempre quando da Frank c'era un nuovo arrivo, ma quello che ignoravamo era se il cadavere sarebbe stato imbalsamato o cremato. Appena dopo il tramonto, inforcavamo le biciclette e raggiungevamo le pompe funebri, poi ci avvicinavamo silenziosamente al retro della casa e aspettavamo dietro la fatidica finestra fino al momento in cui iniziava l'operazione o fino a quando ci rendevamo conto che quello sarebbe stato un funerale tradizionale. Il signor Garth, sessantenne presidente della First National Bank, morì
d'infarto alla fine di ottobre. E noi assistemmo alla sua cremazione. In novembre, un carpentiere di nome Henry Aimes cadde da un tetto e si spezzò il collo. Sebbene anche Aimes fosse stato cremato, Bobby e io non potemmo vedere nulla perché Frank Kirk e il suo assistente si ricordarono di chiudere le stecche della Levolor. La veneziana era aperta quando, nella seconda settimana di dicembre, tornammo per assistere alla cremazione di Rebecca Acquilain. Era la moglie di Tom Acquilain, professore di matematica della scuola media frequentata da Bobby, ma non da me. La signora Acquilain aveva trent'anni, lavorava nella biblioteca cittadina ed era la mamma di Devlin, un bimbo di soli cinque anni. Adagiata sul lettino, avvolta in un lenzuolo dal collo in giù, la signora Acquilain era così bella che il suo viso non rappresentava per noi solo uno spettacolo per gli occhi ma anche un peso nel cuore. Quasi non riuscivamo a respirare. Immagino che ci fossimo già resi conto che era una bella donna, ma non l'avevamo mai guardata veramente come stavamo facendo in quel momento. Dopo tutto era la bibliotecaria, nonché la madre di qualcuno; inoltre avevamo tredici anni, un'età in cui non si nota quel tipo di bellezza tranquilla come la luce delle stelle e limpida come una goccia di pioggia. Le donne che avevamo visto nude sulle carte da gioco erano assai vistose e, proprio per questo, ci erano sembrate molto attraenti. Fino a quel momento, avevamo visto la signora Acquilain senza mai guardarla veramente. La morte non aveva infierito su di lei perché era morta rapidamente. Un'incrinatura nella parete dell'arteria cerebrale, che probabilmente la signora Acquilain ignorava di avere fin dalla nascita, si era allargata e poi aveva ceduto completamente, il tutto nel giro di un pomeriggio. Era morta in poche ore. Giaceva sul lettino con gli occhi chiusi. I tratti del volto apparivano rilassati. Sembrava che dormisse; e infatti, i lati della bocca erano leggermente piegati all'insù, come se stesse facendo un bel sogno. Quando Frank Kirk e l'assistente tolsero il lenzuolo per trasferire la signora Acquilain nella scatola di cartone e poi farlo scivolare nel forno crematorio, Bobby e io notammo che era snella, perfettamente proporzionata... e assolutamente meravigliosa, non c'erano parole per descriverla. La sua era una bellezza che andava al di là del puro erotismo e noi non la guardavamo con desiderio e morbosità, ma con rispetto e soggezione. Sembrava così giovane.
Sembrava immortale. L'impresario e l'assistente la portarono verso il forno crematorio con un atteggiamento di particolare delicatezza e rispetto. Quando la porta si chiuse dietro la donna morta, Frank Kirk si tolse i guanti di latice e passò il dorso di una mano sull'occhio sinistro, poi su quello destro. E non era sudore quello che asciugava. Durante le altre cremazioni, Frank e il suo assistente chiacchieravano in continuazione, anche se noi non riuscivamo a sentire quello che dicevano. Ma quella notte, non parlarono granché. Anche Bobby e io eravamo ammutoliti. Riportammo la panca nel patio, poi uscimmo silenziosamente dal giardino di Frank Kirk. Dopo aver recuperato le nostre biciclette, attraversammo Moonlight Bay, scegliendo le stradine più buie. Giungemmo alla spiaggia. A quell'ora, in quella stagione, l'ampia distesa di sabbia era deserta. Alle nostre spalle, sfarzose come le piume della fenice, adagiate sulle colline e palpitanti tra le foglie degli alberi, si scorgevano le luci della città. Davanti a noi, la superficie nera come inchiostro dell'immenso Oceano Pacifico. Il mare era calmo. Distanziate le une dalle altre, le onde scivolavano verso la riva, rovesciando pigramente le loro creste fosforescenti, che si staccavano da destra a sinistra come pelle bianca dalla carne nera del mare. Seduto sulla sabbia, mentre guardavo le onde, pensavo a quanto fossimo vicini a Natale. Mancavano solo due settimane. Avrei voluto concentrarmi su qualcos'altro, ma il Natale continuava a far capolino e a tintinnare nella mia mente. Non sapevo a che cosa stesse pensando Bobby. Non glielo domandai. Non volevo parlare. E nemmeno lui. Immaginai come sarebbe stato il Natale per il piccolo Devlin Acquilain, senza sua madre. Forse era troppo piccolo per comprendere che cosa significasse morire. Però Tom Acquilain, il marito, lui sì che lo sapeva. Nondimeno, avrebbe addobbato l'albero di Natale per Devlin. Dove avrebbe trovato la forza di appendere le decorazioni ai rami? Bobby, che non aveva più pronunciato una parola da quando aveva visto togliere il lenzuolo dal corpo della donna, disse semplicemente: «Andiamo a nuotare». Anche se avevamo avuto una giornata mite, eravamo pur sempre in di-
cembre, e quell'anno El Nino, la corrente calda proveniente dall'emisfero australe, non passava vicino alla costa. L'acqua sarebbe stata gelida e anche l'aria era piuttosto fredda. A mano a mano che si svestiva, Bobby ripiegava accuratamente gli indumenti e, per non sporcarli, li posava su un ammasso di alghe che il mare aveva scagliato sulla spiaggia durante il giorno e che il sole aveva asciugato. Piegai i miei vestiti accanto ai suoi. Nudi, avanzammo nell'acqua scura, poi ci mettemmo a nuotare incontro alle onde. Ci allontanammo troppo dalla riva. Virando verso nord, procedemmo paralleli alla costa. Bracciate tranquille. Battendo i piedi solo lo stretto necessario. Affrontando con perizia il flusso e il riflusso delle onde. Ci portammo a una distanza decisamente pericolosa. Eravamo entrambi ottimi nuotatori, anche se, in quel momento, agivamo da sconsiderati. Di solito un nuotatore trova l'acqua fredda meno insopportabile dopo esservi rimasto per un certo periodo di tempo; via via che la temperatura del corpo si abbassa, la differenza tra il calore della pelle e il gelo dell'acqua si sente di meno. Inoltre, lo sforzo crea una sensazione di caldo; sensazione rassicurante ma falsa e pericolosa. Ma l'acqua in cui stavamo nuotando si raffreddava più in fretta dei nostri corpi. Il che non ci permise di giungere alla sensazione di calore, falsa o reale che fosse. Essendoci portati troppo a nord, saremmo dovuti tornare a riva. Se avessimo avuto un po' di buon senso, avremmo raggiunto a piedi la massa di alghe sulla quale avevamo posato gli indumenti. Invece ci limitammo a fare una pausa, mantenendoci a galla con il movimento dei piedi, inspirando boccate d'aria abbastanza fredda da spazzar via il prezioso calore dalle nostre gole. Poi, contemporaneamente, senza dire una parola, virammo verso sud, ripercorrendo in senso contrario il tragitto seguito all'andata, restando sempre troppo lontano dalla riva. Cominciai a sentire le gambe pesanti. Lo stomaco si contraeva in crampi leggeri ma che mi spaventarono a morte. Il cuore batteva furiosamente, pensai addirittura che i colpi mi avrebbe spinto sott'acqua. Sebbene le onde lunghe che ci venivano incontro erano tranquille come quando eravamo entrati in acqua, ora ci sembrarono più infide. Mordevano con denti di fredda schiuma bianca. Continuammo a nuotare uno accanto all'altro, attenti a non perderci di
vista. Il cielo invernale non ci infondeva coraggio, le luci della città erano distanti come stelle e il mare ci era ostile. Tutto ciò che avevamo era la nostra amicizia e sapevamo che, in caso di necessità, ognuno di noi sarebbe stato pronto a morire nel tentativo di salvare l'altro. Quando infine giungemmo al punto di partenza, avevamo appena il fiato sufficiente per rialzarci e uscire dall'acqua. Sfiniti, con lo stomaco in subbuglio, più pallidi della sabbia, scossi dai brividi, sputammo il gusto di salmastro che avevamo in bocca. Eravamo talmente infreddoliti, che avevamo completamente dimenticato il calore del forno crematorio. Anche dopo esserci rivestiti, continuammo a tremare dal freddo, e questo non era poi così negativo. Camminando, riportammo le biciclette fuori dal terreno sabbioso, attraverso il prato che confinava con la spiaggia, fino alla strada più vicina. Montando in sella, Bobby commentò: «Merda». «Già», dissi. Pedalammo ognuno verso la propria casa. Ci infilammo subito sotto le coperte, come se fossimo ammalati. Dormimmo. Sognammo. La vita continuò. Non tornammo mai più alla finestra del forno crematorio. Non parlammo mai più della signora Acquilain. Ancora dopo tutti questi anni, sia io che Bobby saremmo pronti a dare la vita per salvare l'altro, e senza un attimo di esitazione. Com'è strano il mondo: le cose che possiamo facilmente toccare, le cose che sono così reali per i nostri sensi... la delicata forma di un corpo di donna, la propria carne e le proprie ossa, il mare freddo e lo scintillio delle stelle... sono molto meno reali delle cose che non possiamo toccare, assaporare, annusare o vedere. Le biciclette e i ragazzi che le pedalano sono meno reali di ciò che sentiamo nella mente e nel cuore, meno concreti dell'amicizia, dell'amore e della solitudine, tutte cose che durano molto più a lungo del mondo. *** In quella notte di marzo, dopo che tanto tempo era trascorso dalla mia adolescenza, la finestra del locale del forno crematorio e la scena che vedevo al di là del vetro erano molto più reali di quanto avrei desiderato. Qualcuno aveva picchiato brutalmente l'autostoppista, poi gli aveva cavato gli occhi.
Anche se l'omicidio e la sostituzione del cadavere con il corpo di mio padre, una volta conosciuti tutti i fatti, avessero avuto una spiegazione, perché togliere gli occhi a quell'uomo? Esisteva una ragione per mandare questo poveraccio senza occhi in un forno crematorio che lo avrebbe incenerito? O forse qualcuno aveva sfigurato l'autostoppista per il puro gusto di farlo? Mi tornò alla mente il colosso dalla testa rapata e la perla all'orecchio. Il suo viso largo e l'espressione ottusa. Gli occhi da cacciatore, neri e determinati. La voce dura e fredda, con un fondo roco. Non era difficile immaginare che un uomo del genere traesse piacere dal dolore di un altro, incidendo carne umana con la stessa pigra indifferenza con cui un gentiluomo di campagna intaglia un rametto. Oppure, considerato lo strano mondo con il quale ero entrato in contatto durante la mia visita al sotterraneo dell'ospedale, poteva essere stato lo stesso Sandy Kirk a infierire sul corpo. Sandy, bello ed elegante come un indossatore; Sandy, il cui buon padre aveva pianto cremando Rebecca Acquilain. Forse gli occhi erano stati lasciati come offerta sacrificale in quel tempio, situato nell'angolo più remoto e spinoso del roseto, quello che Bobby e io non eravamo mai stati capaci di trovare. Nella stanza, mentre Sandy e il suo assistente spingevano il lettino verso il forno crematorio, squillò il telefono. Con un balzo mi ritrassi dalla finestra, sentendomi in colpa come se avessi fatto scattare un allarme. Quando mi avvicinai nuovamente, vidi Sandy che si abbassava la mascherina e sollevava il ricevitore del telefono a muro. Il tono della voce indicava perplessità, poi allarme e subito dopo rabbia ma, attraverso il doppio vetro della finestra, non riuscivo a sentire le parole. Sandy sbattè il ricevitore con tanta violenza da far quasi cadere l'apparecchio. Chiunque fosse stato all'altro capo del telefono, aveva ricevuto una bella pulizia dell'orecchio. Mentre si toglieva i guanti di latice, Sandy disse qualcosa in tono concitato al suo assistente. Mi sembrò che facesse il mio nome... ma non con affetto o ammirazione. L'assistente, Jesse Pinn, era un uomo con la faccia stretta e lunga da cane levriere, i capelli rossi, gli occhi color ruggine e una bocca sottile e tesa in una smorfia, come se già pregustasse la carne del coniglio inseguito. Men-
tre Pinn richiudeva il sacco dell'autostoppista, Sandy andò a prendere la sua giacca che era appesa a uno dei diversi ganci a destra della porta. Rimasi allibito; al gancio era appesa anche una fondina da spalla insellata sotto il peso di una pistola. Vedendo che Pinn perdeva tempo con il sacco, Sandy si rivolse a lui in tono brusco, indicandogli la finestra. Feci un balzo all'indietro. L'uomo chiuse le stecche semiaperte della veneziana. Ero quasi certo di non essere stato visto. Tuttavia, considerando che il mio ottimismo è talmente radicato da essere parte integrante dei miei atomi, decisi che, in quell'occasione, avrei fatto meglio ad ascoltare il pessimismo e abbandonare il campo. Correndo fra la parete del garage e il boschetto di eucalipti, respirando l'aria odorosa di morte, tornai nel giardino dietro la casa. Le foglie secche scricchiolavano sotto i piedi come gusci di lumache. Fortunatamente avevo dalla mia il fruscio della brezza tra i rami. Infatti, portando con sé il mormorio cupo del mare sul quale aveva viaggiato per tanto tempo, il vento copriva il rumore dei miei passi. Ma avrebbe coperto anche quello di un eventuale inseguitore. Ero sicuro che la telefonata fosse stata fatta da uno degli inservienti dell'ospedale. Dovevano aver esaminato il contenuto della valigetta e aver trovato il portafogli di mio padre, giungendo alla conclusione che ero stato nel garage e avevo assistito allo scambio di corpi. Una volta ricevuta tale informazione, Sandy aveva compreso che la mia visita non era innocente come sembrava. Insieme con Jesse Pinn, sarebbe uscito per controllare che non fossi ancora nascosto da quelle parti. Il prato perfettamente curato del giardino posteriore mi sembrò più vasto ed esposto di quanto ricordassi. La luna piena non era più brillante di prima, ma ogni superficie solida che in precedenza aveva assorbito il suo languido chiarore, ora lo rifletteva, amplificandolo. La notte appariva soffusa da una strana, argentea luminosità che mi rendeva chiaramente visibile. Non osai attraversare il grande patio. Decisi anzi di stare alla larga anche dalla casa e dal viale d'accesso. Sarebbe stato troppo pericoloso ripercorrere il tragitto seguito all'andata. Correndo a perdifiato, attraversai il prato in direzione dei roseti, che occupavano un intero acro sul retro della casa. Davanti a me, si estendevano terrazzamenti sui quali erano piantate lunghe file di graticci, che si interse-
cavano tra di loro, numerosi pergolati a forma di galleria e un labirinto di sentieri. Da noi, la primavera non ha bisogno di attendere la data ufficiale di inizio della stagione per manifestarsi, di conseguenza le rose erano già fiorite. Illuminati dalla luna, i fiori rossi e quelli da colori scuri apparivano neri, come rose per un sinistro altare, ma vi erano anche enormi fiori bianchi, grossi come teste di neonati, che dondolavano cullati dalla brezza. Improvvisamente, udii voci di uomini alle mie spalle. Giungevano flebili e spezzettate per via di quel vento inquietante. Mi accovacciai dietro un alto pergolato e mi voltai a guardare attraverso i riquadri formati dalle bianche grate. Spinsi da parte, con circospezione, un rampicante pieno di pericolose spine. Vicino al garage, i coni di luce di due torce stanavano ombre dai cespugli, facevano balzare figure spettrali sui rami degli alberi, abbagliavano le finestre. Dietro una delle torce c'era Sandy Kirk e, con lui, sicuramente anche la pistola che avevo intravisto. Forse anche Jesse Pinn aveva con sé un'arma. Un tempo gli impresari di pompe funebri e i loro assistenti non giravano armati. Fino a quella sera, avevo dato per scontato di vivere ancora in quel tempo. Sobbalzai vedendo un terzo fascio di luce apparire da dietro un angolo della casa. Poi un quarto. E un quinto. Un sesto. Non avevo la benché minima idea di chi fossero questi nuovi inseguitori, né da dove venissero, per riuscire ad arrivare tanto in fretta. Si distanziarono gli uni dagli altri e cominciarono ad avanzare paralleli, attraversando il giardino, il patio, superando la piscina, verso il roseto, affondando la luce delle torce in ogni angolo, figure minacciose e indefinite come demoni di un incubo. 7 Gli inseguitori senza volto e i labirinti senza uscita che ci angustiano nel sonno adesso erano divenuti realtà. I roseti si estendevano su cinque ampi terrazzamenti, scavati nel fianco della collina. Ma nonostante le terrazze e la scarsa ripidità dei pendii, scendendo avevo acquistato troppa velocità e temevo di inciampare, di cadere e di rompermi una gamba. I pergolati a galleria e i fantasiosi graticci, che si innalzavano da tutti i
lati, cominciarono ad apparirmi come edifici sventrati. Vicino al terreno, erano cresciuti a dismisura e i loro rami spinosi graffiavano le grate e, quando li sfioravo, si contorcevano come fossero animati. La notte si era trasformata in un incubo senza sonno. Il cuore mi batteva così forte che vedevo le stelle roteare sopra di me. Era come se la volta celeste mi stesse scivolando addosso con la crescente velocità di una valanga. Mentre correvo a perdifiato, più che vedere, intuii la recinzione in ferro battuto: era alta più di due metri, con la vernice nera che scintillava al chiaro di luna. Piantai i tacchi nella terra soffice e umida e frenai, andando a sbattere contro i robusti picchetti, ma non così forte da farmi male. Non avevo fatto neanche molto rumore. Le appuntite sbarre verticali erano solidamente saldate a quelle orizzontali e, invece di sferragliare al mio impatto, la recinzione fu brevemente percorsa da una leggera vibrazione. Mi afflosciai contro l'inferriata. Avevo un gusto amaro in bocca. Ma la gola era così secca che non riuscivo nemmeno a sputare. Sentivo un bruciore alla tempia destra. Portai la mano al viso. Tre spine mi si erano conficcate nella pelle. Le tolsi con cura. Dovevo essere stato punto da un tralcio spinoso durante la mia folle corsa, anche se non me ne ero accorto. Forse perché stavo respirando affannosamente, il dolce profumo delle rose improvvisamente mi parve troppo dolce, con una punta di odore di marcio. Sentivo di nuovo la fragranza del mio olio solare, era quasi forte come nel momento in cui me lo ero spalmato sulla pelle... solo che adesso puzzava leggermente di acido, perché si era mescolato con il mio sudore. Ero sopraffatto dall'assurda, e tuttavia incrollabile, convinzione che i sei inseguitori potessero fiutare il mio odore come cani da caccia. Per il momento ero al sicuro solo perché mi trovavo sottovento a loro. Aggrappandomi all'inferriata, la cui vibrazione si era trasmessa alle mie mani e alle mie ossa, levai lo sguardo verso la sommità della collina. Il gruppo di inseguitori stava scendendo dalla prima alla seconda terrazza. Sei lame di luce falciavano le rose. Le strisce di graticcio illuminate da dietro e distorte da quelle falci luminose, apparivano come ossa di draghi trucidati. Ora che dovevano perlustrare i roseti, gli inseguitori si trovavano davan-
ti a molti più possibili nascondigli che nel prato accanto alla casa. Nondimeno, riuscivano a muoversi molto più in fretta. Scalai l'inferriata, superandola poi con un balzo, facendo attenzione a non restare impigliato nelle punte a forma di lancia con il giubbotto o una gamba dei pantaloni. Davanti a me si estendeva la campagna: valli immerse nel buio, file di colline, tutte delle stessa altezza e illuminate dalla luna, rare querce nere, quasi invisibili nella notte. Quando saltai dall'inferriata, l'erba incolta, lussureggiante per le recenti piogge invernali, mi arrivava fino alle ginocchia. Calpestandone i fili, percepivo il profumo della sua linfa verde. Ero sicuro che Sandy e i suoi compari avrebbero perlustrato tutto il perimetro della proprietà, quindi continuai a scendere lungo il fianco della collina, allontanandomi dalla villa di Kirk. Non vedevo l'ora di trovarmi fuori della portata delle torce prima che i miei inseguitori giungessero all'inferriata. La direzione che avevo preso mi avrebbe condotto lontano dalla città, il che non era proprio l'ideale. In un luogo disabitato, non avrei potuto chiedere aiuto a nessuno. Ogni passo verso est era un passo verso l'isolamento e, in una situazione del genere, io ero vulnerabile come chiunque altro, anzi più vulnerabile di tanti. Per mia fortuna, eravamo in primavera. Se mi fossi trovato in quella situazione durante una delle nostre torride estati, l'erba alta sarebbe stata gialla come il grano e secca come un foglio di carta. E il mio passaggio avrebbe lasciato una scia di steli calpestati. Speravo che l'erba ancora verde fosse abbastanza elastica da raddrizzarsi dietro di me, nascondendo, almeno in buona parte, le mie orme. In ogni caso, una persona attenta sarebbe probabilmente riuscita a individuare e seguire le mie tracce. A una sessantina di metri dall'inferriata, in fondo al pendio, il prato lasciava il posto a una fitta boscaglia. A una barriera di agrostide bianca, alta più di un metro e mezzo, si mescolavano ammassi di aureola metamorfica e quella che avrebbe potuto essere barba di becco. Continuando a correre, mi feci largo in mezzo alla vegetazione, finché mi ritrovai in un canale di drenaggio naturale, largo poco più di tre metri. In quel bassopiano non crescevano molte piante, perché il dilavamento delle acque superficiali aveva fatto affiorare un rilievo del basamento delle colline. Dato che non pioveva da due settimane, il letto roccioso era completamente asciutto. Mi fermai e feci una pausa per riprendere fiato. Sporgendomi di nuovo
verso la boscaglia, separai alcune piante di agrostide bianca per vedere di quanti terrazzamenti erano scesi i miei inseguitori. Quattro di loro erano già alla recinzione. Mentre si arrampicavano e scavalcavano l'inferriata, i fasci di luce delle loro torce falciavano il cielo, mitragliavano i picchetti e pugnalavano a caso il terreno. Apparivano così veloci e agili da rendermi nervoso. Erano tutti armati come Sandy Kirk? Considerato il loro istinto animalesco, la velocità e la tenacia, forse non avevano bisogno di armi. Se mi avessero catturato, probabilmente mi avrebbero fatto a pezzi con le mani. Mi ritrovai a domandarmi se mi avrebbero anche cavato gli occhi. Il canale di drenaggio e il più ampio declivio che lo conteneva, risalivano la collina verso nordest e scendevano a valle puntando a sudovest. Dato che mi trovavo all'estremo limite nordorientale della città, salendo non avrei sicuramente trovato nessuno che potesse aiutarmi. Mi diressi quindi verso sudovest, seguendo il canale costeggiato dalla boscaglia, con l'intenzione di rientrare il più presto possibile in una zona densamente abitata. Davanti a me, il fondo roccioso del canale leggermente concavo rimandava una luce smorzata, come quella che riflette la superficie ghiacciata di un laghetto d'inverno, poco prima di svanire nel buio. La fitta barriera di agrostide appariva rigida e argentata per la brina. Soffocando la paura di inciampare in un sasso o di rompermi una caviglia sprofondando in una buca, mi affidai alla notte, consentendo all'oscurità di spingermi in avanti, così come il vento fa avanzare una barca a vela. Correvo a perdifiato lungo il pendio, non avevo nemmeno la sensazione di toccare il terreno, era come se, in realtà, stessi pattinando sulla roccia gelata. Dopo circa duecento metri, giunsi in un punto in cui le colline si intersecavano e, di conseguenza, il bassopiano si divideva. Quasi senza rallentare, imboccai il canale sulla destra, in modo da tornare più rapidamente verso Moonlight Bay. Avevo superato da poco la biforcazione, quando vidi delle luci che si avvicinavano. Un centinaio di metri più avanti, il bassopiano formava un'ampia curva, girando attorno al pendio erboso di una collina. Le fonti delle luci erano nascoste dalla curva, ma sapevo che dovevano essere delle torce. Gli uomini usciti dalla villa di Kirk non potevano aver già perlustrato
tutti i roseti ed essere scesi prima di me. Doveva trattarsi di altri inseguitori. Stavano tentando di catturarmi con una manovra a tenaglia. Mi sentivo inseguito da un esercito, da plotoni di soldati che, come per magia, erano spuntati dal terreno. Mi bloccai. Presi in esame la possibilità di nascondermi fra l'erba alta che ancora fiancheggiava il canale. Ma per quanto potessi movermi con circospezione, quasi certamente avrei lasciato tracce che i miei inseguitori non avrebbero tardato a notare. A quel punto mi avrebbero facilmente catturato in mezzo alla boscaglia, oppure mi avrebbero sparato mentre cercavo di risalire la collina. Le luci dietro la curva si fecero più intense. Steli d'erba alta scintillarono come decorazioni finemente cesellate su un piatto d'argento. Tornai alla biforcazione e imboccai il canale di sinistra che, solo un minuto prima, avevo scartato. Una ventina di metri dopo, mi ritrovai davanti a un'altra biforcazione; avrei preferito imboccare la destra e tornare verso la città, ma, per evitare di cadere nella trappola tesa dai miei inseguitori, mi lanciai a sinistra, anche se in questo modo mi addentravo sempre più fra le colline deserte. Da qualche parte sopra di me, verso ovest, si levò il brontolio di un motore, prima lontano, poi improvvisamente vicino. Il rombo del motore era così forte che pensai provenisse da un aereo in volo a bassa quota. Non si trattava del fragore da mitragliatrice di un elicottero, ma piuttosto di quello di un velivolo ad ali fisse. Poi le cime delle colline vennero spazzate da una luce accecante, alla mia destra e alla mia sinistra, passando direttamente sopra il canale, a venti-venticinque metri d'altezza. Il fascio di luce era così intenso che sembrava dotato di struttura e peso, come il getto incandescente di una sostanza fusa. Era un proiettore ad alta potenza. Il fascio di luce si allontanò disegnando un arco nel cielo e riflettendosi poi su distanti crinali a est e a nord. Dove avevano trovato del materiale militare tanto sofisticato in così breve tempo? Sandy Kirk era forse il gran capo di una milizia antigovernativa che aveva posto il suo quartier generale sotto l'edificio delle pompe funebri, in bunker segreti pieni di armi e munizioni? No, suonava falso. Quelli erano fatti che si verificavano realmente. Si-
tuazioni quasi normali in una società ormai in caduta libera come la nostra. Invece, tutto questo appariva misterioso. Era un'area che il torrente impetuoso dei notiziari non aveva ancora inondato. Dovevo scoprire che cosa stava succedendo in cima a quella collina. Se non vi avessi fatto un giro di perlustrazione, non sarei stato in una condizione migliore di uno topo nel labirinto di un laboratorio. Mi feci largo tra la boscaglia che si estendeva a destra del canale, attraversai il fondo dell'avvallamento e cominciai a risalire il lungo declivio che portava in cima alla collina, perché mi era sembrato che la luce del proiettore fosse partita da quella direzione. Mentre salivo, il fascio luminoso riprese a perlustrare il terreno sopra di me... avevo ragione, partiva proprio da nordovest... ripassò una terza volta, illuminando la cima della collina verso la quale mi stavo dirigendo. Dopo aver percorso carponi i penultimi dieci metri, avanzai sulla pancia per gli ultimi dieci. Strisciai quindi fino a un gruppo di rocce levigate dalle intemperie, che mi fornirono una specie di riparo, poi sollevai cautamente la testa. Un Hummer nero... o forse un Humvee, l'originale versione militare del veicolo prima che fosse modificato per la vendita ai civili... era fermo a una cima di collina da me, immediatamente sottovento a una gigantesca quercia. Anche se scarsamente illuminato dalle sue stesse luci, l'Hummer mostrava la sua inconfondibile sagoma: un ingombrante, squadrato furgone a quattro ruote motrici, appollaiato su giganteschi pneumatici, in grado di avanzare praticamente su qualsiasi terreno. Vidi anche due proiettori: entrambi erano manovrati a mano, uno dall'autista e l'altro dal passeggero sul sedile anteriore, e ciascuno aveva una lente grande come un piatto da insalata. Considerata la loro intensità, potevano essere messi in funzione solo dal motore dell'Hummer. L'autista spense la luce e inserì la marcia. Il grosso furgone uscì rapidamente da sotto i rami frondosi della quercia e attraversò il prato a tutta velocità, come se fosse stato su un'autostrada, mentre io vedevo la sua porta posteriore che si allontanava sempre più. Scomparve oltre il limitare del prato, ma ben presto ricomparve da un avvallamento e, in un attimo, risalì un pendio lontano, superando senza alcuna fatica le alture. Gli uomini a piedi, con le torce e forse armati di pistole, restavano nelle vallette. Evidentemente l'Hummer pattugliava le cime delle colline con l'intento di impedirmi l'accesso alle aree più elevate e costringermi a scendere dove i miei inseguitori mi avrebbero potuto catturare.
«Chi diavolo siete?» borbottai. Dall'Hummer, i proiettori lanciarono i loro fasci di luce, setacciando colline più distanti, illuminando un mare d'erba che ondeggiava sotto il vento incerto. Un'onda dopo l'altra, raggiunsero le cime più elevate e lambirono i tronchi delle querce, simili a isole. Poi il grosso furgone riprese a muoversi, in cerca di terreni meno ospitali su cui divertirsi. Con i fari anteriori che sobbalzavano, un proiettore che oscillava violentemente, scese lungo una cresta, giunse in fondo a un avvallamento, risalì di nuovo, si diresse a est e poi a sud, verso un'altra posizione che gli consentisse una visione globale del territorio. Mi chiesi quanto questi movimenti fossero visibili dalle strade di Moonlight Bay che si snodavano sulle colline più basse e in pianura, vicino all'oceano. Non dovevano essere molti i cittadini che, trovandosi fuori casa, avevano levato lo sguardo verso le colline e avevano notato qualcosa di così insolito da sentirsi incuriositi. Anche vedendo i proiettori, avrebbero pensato a un gruppo di ragazzi che voleva illuminare qualche alce costiero o qualche cervo: un divertimento illegale ma innocuo, che la maggior parte della gente tollera senza protestare. Ben presto l'Hummer sarebbe tornato verso di me. A giudicare dagli spostamenti che aveva fatto fino ad allora, poteva arrivare sulla collina dove mi trovavo in due sole mosse. Scesi dal pendio e tornai nell'avvallamento dal quale ero partito: cioè, proprio dove volevano loro. Ma non avevo altra scelta. Fino a quel momento, avevo creduto nella possibilità di sfuggire ai miei inseguitori. Ora la mia sicurezza cominciava a vacillare. 8 Attraversai la distesa erbosa e raggiunsi il canale di drenaggio, proseguendo poi nella direzione che avevo scelto prima che i proiettori mi spingessero in cima alla collina. Avevo fatto solo pochi passi, quando mi bloccai spaventato: un paio di brillanti occhi verdi mi aspettavano poco più avanti. Un coyote. Simile a un lupo, ma più piccolo e con un muso più affilato, queste creature dal fisico agile e snello possono essere assai pericolose. Quando la società civilizzata aveva cominciato a invadere il loro territorio, i coyote era-
no diventati lo spauracchio di tutti gli animali domestici, perfino di quelli che vivevano nei tranquilli giardini dei quartieri residenziali sorti vicino alle colline. Di tanto in tanto giungeva notizia che un coyote aveva assalito addirittura un bambino piccolo. Solo di rado attaccavano gli umani adulti, tuttavia, se avessi incontrato un branco o anche solo due coyote nel loro territorio, non avrei fatto troppo conto sulla loro diffidenza, e neppure sulla mia mole. Disturbato dalla luce violenta dei proiettori, non avevo ancora riacquistato completamente la mia capacità di vedere al buio, quindi rimasi paralizzato dalla paura per diversi secondi prima di realizzare che quei vivaci occhi verdi erano troppo vicini tra loro per appartenere a un coyote. Inoltre, a meno che la bestia fosse in posizione d'attacco con il petto contro il terreno, il suo sguardo minaccioso partiva da un punto troppo basso. Quando finalmente la mia vista si adattò nuovamente all'oscurità e al chiarore lunare, mi resi conto che la belva feroce davanti a me era solo un gatto. Non un puma, che sarebbe stato ben peggio di un coyote, ma semplicemente un micio: grigio chiaro o beige, difficile dirlo. Generalmente i gatti sono tutt'altro che stupidi. Anche quando si lanciano all'inseguimento di topi o di piccole lucertole del deserto, stanno bene attenti a non addentrarsi troppo nel territorio dei coyote. E infatti, ora che lo vedevo meglio, il micio mi sembrò un tipo piuttosto sveglio. Seduto sulle zampe posteriori, se ne stava ben eretto, con la testa leggermente tesa in avanti, le orecchie dritte, e mi studiava attentamente. Quando feci un passo verso di lui, il gatto si alzò. Un altro passo, e fece dietrofront, fuggendo come un razzo lungo il sentiero inondato dall'argenteo chiarore lunare e svanendo nell'oscurità. Da qualche altra parte, l'Hummer si era rimesso in moto. Il cigolio e il fragore crebbero rapidamente d'intensità. Accelerai. Avevo percorso meno di cento metri, quando mi accorsi che l'Hummer non rombava più; adesso aspettava poco lontano, con il motore in folle che ansimava sommessamente. In alto, lo sguardo implacabile dei proiettori riprese a percorrere la notte. Nel momento in cui raggiunsi la seconda biforcazione dell'avvallamento, vidi che il gatto mi stava aspettando. Era seduto nel punto in cui il canale si divideva, come se non avesse ancora scelto la direzione da prendere. Io avanzai verso sinistra, lui si lanciò a destra. Ma si fermò dopo alcuni passi, voltandosi a guardarmi con quei suoi occhi fosforescenti.
Il gatto doveva essersi accorto degli inseguitori intorno a noi, e non solo del fragoroso Hummer, ma anche degli uomini a piedi. I suoi sensi, più acuti di quelli umani, forse avevano addirittura percepito i feromoni dell'aggressione emanati da quegli individui, la violenza che c'era nell'aria. Certamente anche lui voleva evitare sgradevoli incontri. Visto che ne avevo la possibilità, forse avrei fatto meglio ad affidarmi all'istinto di quell'animale invece che ai miei. Il motore in folle dell'Hummer improvvisamente salì di giri. Il fragore riecheggiò da una parte all'altra dell'avvallamento, così che il veicolo sembrava avvicinarsi e allontanarsi contemporaneamente. Quando questa tempesta di rumori si abbattè su di rne, mi sentii travolgere dall'indecisione e, per un momento, annaspai senza sapere che cosa fare. Poi decisi di seguire il gatto. Proprio mentre abbandonavo il sentiero di sinistra, l'Hummer rombò in cima alla collina sul lato orientale dell'avvallamento, quello che stavo per imboccare. Per un attimo rimase in bilico, come senza peso in una pausa del tempo in cui gli orologi si sono fermati; i fari erano simili a corde parallele di un acrobata da circo e uno dei proiettori affondava la lama di luce nel tendone della volta celeste. Improvvisamente il tempo riprese a fluire: l'Hummer si ribaltò in avanti, le ruote anteriori cozzarono contro il fianco della collina, quelle posteriori superarono la cima e, mentre il furgone si lanciava lungo la discesa, zolle di terra e ciuffi d'erba partivano come proiettili da sotto gli pneumatici. Un uomo lanciò grida di entusiasmo, un altro scoppiò a ridere. Si stavano godendo la caccia all'uomo. Il grosso furgone continuava la sua discesa a una distanza di circa cinquanta metri da me e, contemporaneamente, il fascio di luce del proiettore frugava ogni angolo dell'avvallamento. Mi gettai a terra, ruzzolando in cerca di riparo. Il fondo roccioso del canale sembrava volermi frantumare le ossa e io sentii gli occhiali da sole spezzarsi nel taschino della camicia. Mentre cercavo di rimettermi in piedi, una luce accecante spazzò il punto in cui mi trovavo un attimo prima. Feci una smorfia di terrore e strizzai gli occhi, poi vidi il proiettore vibrare e spostare il fascio di luce verso sud. L'Hummer non aveva imboccato il canale nella mia direzione. Potevo fermarmi dov'ero, nel punto in cui i sentieri si biforcavano, con l'estremità più stretta della collina alle mie spalle, fino a quando l'Hummer non si fosse allontanato, altrimenti avrei corso il rischio di incontrarlo nel
prossimo avvallamento. Ma vidi quattro torce lampeggiare in fondo al sentiero dal quale arrivavo e capii che non era più tempo di incertezze. Per il momento le torce non riuscivano a illuminarmi, ma gli uomini si stavano avvicinando in fretta e ben presto mi avrebbero scoperto. Girai intorno all'estremità della collina e imboccai il canale di destra. Il gatto era ancora lì, come se mi stesse aspettando. Mostrandomi la coda, riprese a correre, ma non così in fretta da scomparire nel buio. Fortunatamente il canale aveva il fondo roccioso e questo mi permetteva di non lasciare traccia del mio passaggio... ma proprio in quel momento mi resi conto che nel taschino della camicia erano rimasti solo pochi frammenti dei miei occhiali. Continuando a correre, palpai il taschino e, sotto la stoffa, sentii una stanghetta piegata e un pezzo di lente frantumata. Il resto doveva essersi sparpagliato sul terreno nel punto in cui ero caduto, alla biforcazione del sentiero. I quattro uomini avrebbero sicuramente notato la montatura rotta. Si sarebbero divisi, due uomini per ogni canale, e si sarebbero lanciati all'inseguimento più determinati che mai, stimolati dal fatto che la preda era ormai vicina. In fondo alla collina, uscendo dalla valle nella quale ero miracolosamente scampato alla luce del proiettore, l'Hummer ricominciò la sua ascesa. L'urlo del motore salì di tono e aumentò di volume. Se l'autista si fosse fermato sullo spiazzo erboso in cima alla collina per perlustrare i dintorni ancora una volta, sarei riuscito a passare senza farmi vedere. Se invece avesse attraversato di corsa la collina e fosse subito sceso verso questo avvallamento, probabilmente mi avrebbe illuminato con i fari o mi avrebbe inchiodato con il proiettore. Il gatto continuò a correre e io continuai a seguirlo. Via via che scendeva e si insinuava fra due colline, la depressione nel terreno si faceva più larga, così come il canale dal fondo roccioso che costituiva la sua parte centrale. Lungo i bordi del sentiero di pietra, la vegetazione cresceva più fitta che negli altri luoghi, evidentemente bagnata da acque superficiali più abbondanti, ma mi lasciava pericolosamente esposto perché era troppo distante per gettare su di me la benché minima ombra. Inoltre, questo ampio declivio, al contrario dei precedenti, era dritto come una strada cittadina, senza curve che potessero nascondermi alla vista dei miei inseguitori. L'Hummer sembrava essersi di nuovo fermato sulle alture. Il suo borbottio veniva portato via dal vento. Gli unici rumori erano quelli prodotti dal
mio respiro ansante e dal cuore che mi martellava in petto. Con le sue quattro zampe, il gatto era potenzialmente più veloce di me; avrebbe potuto scomparire nel giro di pochi secondi. Tuttavia, mantenne la mia andatura per un paio di minuti, precedendomi di quattro o cinque metri, grigio chiaro o beige, un fantasma di gatto rischiarato dalla luna, voltandosi ogni tanto per lanciarmi un'occhiata fosforescente. Proprio quando cominciavo a pensare che quella creatura avesse deciso di aiutarmi a uscire dal pericolo in cui mi trovavo, proprio quando stavo per abbandonarmi a una di quelle orge di antropomorfizzazione che fanno rizzare i capelli in testa a Bobby Halloway, il gatto schizzò via, veloce come il vento. Due secondi, forse tre, ed era svanito nella notte. Un minuto dopo, lo ritrovai alla fine del canale. Eravamo finiti in un vicolo, cioè, in un avvallamento cieco, circondato su tre lati da ripide colline erbose. Dato che i pendii erano quasi verticali, non avrei mai potuto scalarli così in fretta da eludere i due individui che, con certezza, mi stavano inseguendo a piedi. Ero incastrato. Intrappolato. In fondo al canale si erano ammassati legni ed erbacce impastate con fango. Quasi mi aspettavo che il micio mi mostrasse un bel sorriso da gatto del Cheshire, due file di denti bianchi che scintillano nell'oscurità. Invece, si lanciò verso il mucchio di detriti e, contorcendosi e scivolando, sparì in una delle tante fessure. Giustamente, quello era un canale. Di conseguenza, una volta arrivata fin lì, l'acqua doveva per forza andare da qualche parte. Muovendomi in fretta, mi arrampicai sull'ammasso di rami ed erba, lungo circa tre metri e alto quasi un metro, che s'incurvò, crepitò, scricchiolò, ma resistè sotto il mio peso. I detriti si erano ammucchiati contro una grata d'acciaio, posta all'imboccatura di una galleria di drenaggio, che si apriva nel fianco della collina. Al di là della grata si apriva un tunnel di cemento del diametro di circa due metri, forse una ventina di centimetri meno, fissato a due contrafforti dello stesso materiale. Evidentemente era stato costruito per tenere sotto controllo le inondazioni: la pioggia che cadeva in quella zona, veniva convogliata nell'impianto fognario di Moonlight Bay, passando al di sotto della Pacific Coast Highway, e poi scaricata in mare. Un paio di volte all'anno, una squadra di manutenzione ripuliva la grata dai detriti, in modo che l'acqua potesse continuare a defluire. Evidentemente l'ultima manutenzione risaliva a parecchio tempo prima. Il gatto lanciava il suo richiamo all'interno della galleria e il suo miago-
lio, amplificato, riecheggiava sepolcrale lungo il tunnel di cemento. Le sbarre d'acciaio della grata formavano riquadri di una decina di centimetri l'uno, abbastanza larghi da permettere il passaggio del flessuoso gattino, ma non certo il mio. Tuttavia la grata si estendeva in larghezza da un contrafforte all'altro, ma non raggiungeva la parte più alta del tunnel. Facendo passare prima le gambe, poi la schiena, mi infilai nel varco, alto poco più di mezzo metro, che divideva l'estremità superiore della grata dal soffitto ricurvo del tunnel. Fortunatamente, in alto, la grata era completata da una sbarra orizzontale, altrimenti sarei rimasto infilzato nelle punte delle sbarre verticali. Lasciandomi alle spalle luna e stelle, mi appoggiai alla grata, cercando di distinguere qualcosa nel buio più completo. Per non sbattere la testa contro il soffitto, dovevo curvarmi un po' in avanti. L'odore di cemento umido e di erba marcia che saliva dal basso non era poi così sgradevole. Avanzai con circospezione, facendo strisciare i piedi. Il pavimento era liscio e leggermente in pendenza. Dopo aver percorso solo pochi metri, mi fermai; temevo di imbattermi in un brusco dislivello, in fondo al quale mi sarei sfracellato o sarei rimasto con la schiena spezzata. Estrassi dalla tasca l'accendino a gas, ma ero piuttosto riluttante all'idea di usarlo. La fiammella riflessa sulle pareti curve del tunnel sarebbe stata perfettamente visibile dall'esterno. Il gatto si fece sentire di nuovo e l'unica cosa che riuscivo a vedere davanti a me erano i suoi occhi fosforescenti. Considerando la distanza tra noi e l'angolatura del mio sguardo su di lui, giunsi alla conclusione che il pavimento del grosso tunnel continuava a scendere, ma non in modo brusco. Avanzai circospetto verso quegli occhi brillanti. Ma quando giunsi vicino alla bestiola, questa si voltò per fuggire e io, non potendo più contare sui due piccoli fari, dovetti necessariamente fermarmi. Qualche secondo dopo, il micio riprese a miagolare, posando su di me il suo sguardo verde. Mentre avanzavo lentamente, pensavo con stupore alla strana esperienza che stavo vivendo. Tutto ciò che mi era capitato dal tramonto in poi... il furto del corpo di mio padre, la vista del cadavere martoriato e senza occhi, l'inseguimento... era, come mimimo, incredibile; tuttavia, quanto a stranezza, nulla uguagliava il comportamento di quel piccolo felino. Forse stavo attribuendo a un semplice micio una consapevolezza che in
realtà non possedeva. Forse. Improvvisamente, mi imbattei in un altro ammasso di detriti, ma più piccolo del primo. E al contrario del precedente, questo era umido. A ogni mio passo, legna ed erba spruzzavano acqua ed emettevano un intenso odore di marcio. Mi arrampicai, brancolando nel buio, e scoprii che i detriti finivano contro un'altra grata d'acciao. Evidentemente, tutto ciò che riusciva a passare al di sopra della prima barriera, veniva bloccata dalla seconda. Dopo aver scavalcato anche questa grata ed essere arrivato dall'altra parte sano e salvo, mi arrischiai a usare l'accendino. Proteggendo la fiamma con una mano, cercai nei limiti del possibile di circoscriverne e indirizzarne la luminosità. Gli occhi del gatto sfavillarono: erano giallo oro, screziati di verde. Restammo a fissarci per un lungo momento, poi la mia guida, se così possiamo dire, fece un rapido dietrofront e si lanciò lungo il tunnel, con la velocità di un fulmine. Servendomi dell'accendino per trovare la strada, mantenendo bassa la fiamma per risparmiare gas, continuai a scendere verso il cuore delle colline costiere, passando davanti a tunnel più piccoli che si immettevano in quello principale. A un certo punto, trovai uno sfioratore formato da ampi gradini di cemento, sui quali vi erano pozzanghere d'acqua stagnante e un tappeto di robusti funghi grigio-nero, che probabilmente crescevano solo durante i quattro mesi della stagione delle piogge. Quei gradini erano davvero insidiosi ma, per la sicurezza delle squadre di manutenzione, lungo una parete avevano montato un corrimano d'acciaio che, al momento, appariva ornato da una massa grigiastra di erba secca, depositata dall'ultima inondazione. Mentre proseguivo nella discesa, restai in ascolto di eventuali inseguitori e di voci nel tunnel; ma sentii solo i rumori furtivi che io stesso provocavo. O gli uomini che mi cercavano avevano deciso che non ero fuggito attraverso la galleria, oppure avevano aspettato così a lungo prima di seguirmi, che adesso avevo un buon vantaggio su di loro. Giunto agli ultimi due ampi gradini dello sfioratore, rischiai di sprofondare in quelli che, inizialmente, mi parvero chiari e rotondi cappelli di grossi funghi dall'aria poco rassicurante; cresciuti in un ambiente umido e buio dovevano essere estremamente velenosi. Aggrappandomi al corrimano, passai accanto a quelle forme arrotondate
che spuntavano dal cemento scivoloso, cercando di non toccarle nemmeno con le scarpe. Quando, dopo i gradini, il tunnel riprese la sua normale pendenza, mi voltai per osservare meglio quegli strani funghi. Alzando la fiamma dell'accendino, scoprii che, quelli davanti a me, non erano funghi, bensì teschi. Fragili teschi d'uccelli. Oblunghi teschi di lucertole. Teschi di dimensioni maggiori che potevano essere appartenuti a gatti, cani, procioni, porcospini, conigli, scoiattoli... Non un lembo di carne era rimasto attaccato alle teste, come se fossero state bollite prima di essere scarnificate. Alla luce della fiammella, apparivano bianco-giallastre; ve ne erano a dozzine, forse centinaia. Niente ossa di zampe, niente casse toraciche, solo teschi. Erano stati accuratamente sistemati uno accanto all'altro in tre file, due sull'ultimo gradino e una sul penultimo, ed erano tutti rivolti nella stessa direzione come se, nonostante le orbite vuote, si trovassero là per assistere a una scena o a qualcosa del genere. Non sapevo che cosa pensare di tutta questa storia. Non vi erano simboli satanici dipinti sulle pareti del tunnel, nessuna indicazione che laggiù si svolgessero macabre cerimonie, e tuttavia quella esposizione aveva senza dubbio un significato simbolico. La quantità dei teschi parlava chiaramente di un'ossessione e la crudeltà sottintesa in quelle uccisioni e decapitazioni era addirittura raggelante. Ricordando il fascino che la morte aveva esercitato su Bobby Halloway e me quando avevamo tredici anni, mi chiesi se un ragazzino ben più strano di noi non fosse il responsabile di una così macabra operazione. I criminologi asseriscono che i serial killer cominciano a torturare e a uccidere gli insetti già a partire dai tre o quattro anni, quando raggiungono l'infanzia e l'adolescenza si esercitano sugli animali di piccole dimensioni, e da adulti, infine, si dedicano agli esseri umani. Forse in quelle catacombe, un giovane assassino particolarmente crudele si stava addestrando per quello che, un giorno, sarebbe stato il lavoro della sua vita. Al centro della terza fila, quella più in alto, era stato collocato un teschio chiaramente diverso dagli altri. Sembrava umano. Piccolo, ma umano. Da neonato. «Oh, mio Dio.» La mia voce rimbalzò in un sussurro dalle pareti di cemento. Ora più che mai, mi sembrò di essere finito in uno scenario da film dell'orrore, dove cose come il cemento e le ossa non sono più consistenti di un
filo di fumo. In ogni caso, non allungai la mano per toccare il piccolo teschio, e nemmeno gli altri, per la verità. Per quanto apparissero irreali, sapevo che li avrei sentiti freddi, lisci e troppo solidi al tatto. Non avendo alcuna voglia di incontrare il proprietario di una simile collezione, chiunque egli fosse, ripresi a scendere lungo il tunnel. Pensavo che il gatto dallo sguardo enigmatico sarebbe riapparso da un momento all'altro, con le sue chiare zampette che sfioravano silenziose il cemento, ma o mi precedeva di molto oppure aveva imboccato uno dei tunnel secondari. Incontrai altri sfioratori che si alternavano con tratti di galleria e, proprio quando cominciavo a temere che l'accendino non contenesse abbastanza gas per illuminarmi la strada fino all'uscita, scorsi un cerchio di luce fioca e grigiastra che, via via che mi avvicinavo, si faceva sempre più intensa. Mi misi a correre e raggiunsi l'uscita del tunnel che non era chiusa da nessuna grata e che terminava in un canale di drenaggio a cielo aperto costruito con pietre di fiume e malta. Finalmente mi trovavo in un territorio a me familiare, nella zona settentrionale della città. A un paio di isolati dal mare. A meno di un isolato dalla scuola superiore. Dopo l'aria umida e stagnante del tunnel, quella notturna mi sembrò non solo fresca, ma anche dolce. Nel cielo terso, le stelle luccicavano come diamanti. 9 Secondo l'orologio digitale installato sull'edificio della Wells Fargo Bank, erano le 19.56, il che significava che mio padre era morto da meno di tre ore, anche se mi sembrava di averlo perso da giorni. Il riquadro luminoso indicava anche la temperatura: +16 °C, ma io avevo l'impressione che facesse molto più freddo. Oltre l'angolo dell'edificio, in fondo all'isolato, la lavanderia a gettone Tidy Time appariva inondata dalla luce al neon. Ma in quel momento nessuno stava usando le lavatrici. Con una banconota da un dollaro già pronta in mano e con gli occhi come due fessure, mi immersi nella fragranza floreale dei detersivi e nell'odore pungente della candeggina. Avanzando a testa bassa per sfruttare al massimo la protezione della visiera, corsi dritto alla macchina cambiasoldi, infilai la banconota e afferrai le quattro monete da un quarto che mi scara-
ventò sul vassoio, poi uscii il più rapidamente possibile. A due isolati di distanza, fuori dell'ufficio postale, vi era un telefono pubblico insonorizzato da due pannelli a forma d'ala; l'apparecchio era illuminato dall'alto da una luce di sicurezza montata sul muro dell'edificio e protetta da una gabbia metallica. Vi posai sopra il mio berretto per ottenere un po' d'ombra. A quell'ora Manuel Ramirez doveva essere ancora a casa. Ma, quando gli telefonai, sua madre Rosalina mi spiegò che era uscito già da diverse ore. Un suo collega si era dato malato e di conseguenza a lui era toccato il doppio turno. Avrebbe lavorato in ufficio per tutta la sera poi, dopo mezzanotte, sarebbe stato di pattuglia. Chiamai il centralino della polizia di Moonlight Bay e chiesi di parlare con l'agente Ramirez. Manuel, a mio avviso il miglior poliziotto della città, è alto circa dodici centimetri meno di me ma pesa quindici chili di più, ha quarant'anni ed è di origine messicana. Lui adora il baseball; io invece non seguo gli sport perché ho un forte senso del tempo che fugge e quindi mi rifiuto di sprecare ore preziose dedicandomi ad attività passive. Manuel preferisce la musica country; io amo il rock. Lui è un fervente repubblicano. A me non interessa la politica. Riguardo ai film, le sue preferenze vanno ad Abbott e Costello; io sono per l'immortale Jackie Chan. Siamo amici. «Ho sentito di tuo padre, Chris», disse Manuel dall'altra parte del filo. «Non so che cosa dire.» «Per la verità, nemmeno io.» «Infatti, non ci sono parole, giusto?» «Nulla che abbia veramente senso.» «Adesso come stai?» Non riuscivo a parlare e ne rimasi sorpreso. All'improvviso, quella terribile perdita fu come un ago chirurgico che mi avesse chiuso la gola e cucito la lingua al palato... Strano, immediatamente dopo la morte di mio padre, quando il dottor Cleveland mi aveva posto la stessa domanda, ero riuscito a rispondere senza alcuna esitazione. Ma mi sentivo più vicino a Manuel che al medico. L'amicizia ha un effetto rilassante sui nervi e rende possibile sentire il dolore. «Vieni a trovarmi una sera, quando non sono di servizio», mi invitò Manuel. «Ci facciamo qualche birra, mangiamo dei tamales, vediamo un paio di film di Jackie Chan.»
Nonostante il baseball e la musica country, abbiamo molto in comune, Manuel Ramirez e io. Il suo turno di lavoro va da mezzanotte alle otto del mattino, e quando manca il personale, come in questa sera di marzo, gli tocca anche il turno precedente, dalle sedici a mezzanotte. È uno che, come me, ama la notte, ma l'ha scelta anche per necessità. Dato che a nessuno piace fare questo turno, la paga è più alta. E, soprattutto, gli permette di trascorrere il pomeriggio e la sera con suo figlio, al quale è molto affezionato. Sedici anni fa, la moglie di Manuel, Carmelita, è morta pochi minuti dopo aver messo al mondo Toby. Il ragazzo è dolce, simpatico... e affetto dalla sindrome di Down. Subito dopo la morte di Carmelita, la madre di Manuel si è trasferita da lui e ancor oggi lo aiuta a badare a Toby. Manuel Ramirez sa che cosa significhi avere una vita limitata. Ogni giorno sente su di sé la mano del destino, in un'epoca in cui la maggior parte della gente non crede più in cose come vivere per qualcuno o accettare il fato. Abbiamo molto in comune, Manuel Ramirez e io. «La birra e Jackie Chan vanno benissimo», approvai. «Ma chi prepara i tamales... tu o tua madre?» «Non mi madre, lo prometto.» Manuel è un cuoco eccezionale e sua madre pensa di esserlo. Mettere a confronto i loro piatti significa capire la differenza tra una buona azione e una buona intenzione. Un'auto passò sulla strada alle mie spalle e, abbassando lo sguardo, vidi la mia ombra dare uno strappo ai piedi immobili, allungarsi sul marciapiede, formare una curva da sinistra a destra, facendosi non solo più lunga ma anche più scura, tentare di staccarsi da me e fuggire... ma poi tornare di scatto alla mia sinistra subito dopo che l'auto si era allontanata. «Ascolta Manuel, c'è qualcosa che puoi fare per me, qualcosa di più importante dei tamales.» «Di' pure, Chris.» Dopo un lungo momento di esitazione, spiegai: «Ha a che fare con mio padre... con il suo corpo». Anche Manuel ebbe un momento di esitazione. Il suo silenzio pensoso equivaleva al rizzare le orecchie di un gatto interessato. Aveva sentito che nelle mie parole c'era qualcosa di più di quanto avessi detto. Quando riprese a parlare, aveva un tono diverso. Era ancora la voce dell'amico, ma il tono era quello, più risoluto, del poliziotto. «Che cosa è successo, Chris?» «Qualcosa di piuttosto strano.»
«Strano?» ripetè, assaporando la parola come se avesse un gusto inatteso. «Preferirei non parlarne al telefono. Se ti raggiungo alla stazione di polizia, possiamo trovarci nel parcheggio?» Non potevo certo aspettarmi che i poliziotti spegnessero tutte le luci del loro ufficio e ascoltassero la mia dichiarazione a lume di candela. «Stai parlando di un crimine?» «Decisamente. E anche insolito.» «Oggi il comandante Stevenson ha lavorato fino a tardi. È ancora qui, ma non per molto. Gli dico di aspettarti?» Mi tornò alla mente il volto senza occhi dell'autostoppista morto. «Sì», risposi. «Penso proprio che Stevenson dovrebbe sentire questa storia.» «Ce la fai a essere qui fra una decina di minuti?» «Certo. Ci vediamo.» Riagganciai il ricevitore, afferrai il berretto dalla gabbia metallica della luce, poi mi voltai verso la strada, proteggendo gli occhi con una mano, mentre due veicoli sfrecciarono davanti a me. Il primo era una Saturn ultimo modello. L'altro era un pickup Chevrolet. Nessun furgone bianco. Nessun carro funebre. Nessun Hummer nero. In realtà, non temevo che mi stessero ancora cercando. A quell'ora, l'autostoppista stava già bruciando nel forno crematorio. E con le prove ridotte in cenere, non esisteva nulla di concreto a sostegno della mia incredibile storia. Sandy Kirk, gli inservienti e tutti gli altri sconosciuti non avevano più nulla da temere. Anzi, un tentativo di uccidermi o di rapirmi avrebbe potuto avere dei testimoni, dei quali sarebbe poi stato necessario occuparsi, e così sarebbero aumentate le probabilità che tali delitti avessero a loro volta altri testimoni. A quei misteriosi cospiratori ora conveniva più la discrezione che l'aggressione, soprattutto considerando che il loro unico accusatore era il fenomeno della città, quello che usciva solo dal tramonto all'alba, che temeva il sole, che viveva esclusivamente grazie a mantelli, veli, cappucci e maschere di lozione, che anche di notte si muoveva furtivamente, indossando una corazza di indumenti e creme. Visto il tipo di accuse che rivolgevo a quella gente, ben pochi avrebbero creduto alla mia storia, tuttavia ero certo che Manuel non avrebbe avuto dubbi sulla mia sincerità. E speravo che anche il comandante mi avrebbe creduto.
Mi allontanai dal telefono pubblico, dirigendomi verso la stazione di polizia. Era solo a un paio di isolati di distanza. Mentre camminavo di buon passo, ripetevo mentalmente quello che avrei raccontato a Manuel e al suo capo, Lewis Stevenson, un uomo straordinario per il quale volevo essere ben preparato. Alto, spalle larghe, fisico atletico, Stevenson aveva un viso dai lineamenti così nobili da poterne stampare il profilo su qualche antica moneta romana. A volte sembrava un attore che recitasse la parte dell'efficiente comandante di polizia, tuttavia svolgeva il suo lavoro con tanta dedizione che, se fosse stata un recita, avrebbe meritato un premio. A cinquantadue anni, dava l'impressione di essere molto più assennato della sua età, guadagnandosi senza sforzo rispetto e fiducia. In lui vi era un po' dello psicologo e un po' del prete, qualità che, nella sua posizione, tutti dovrebbero avere, ma che pochi possiedono. Era una di quelle rare persone che apprezzano il potere, senza tuttavia abusarne, e che esercitano l'autorità con discernimento e compassione; era comandante della polizia da quattordici anni e mai, nel suo dipartimento, vi era stata la benché minima ombra di scandalo, inettitudine o inefficienza. Per arrivare al luogo dell'appuntamento, seguii vicoli illuminati solo dalla luna ormai alta in cielo, passai davanti a staccionate e sentieri, giardini e bidoni della spazzatura, rimuginando mentalmente le parole che avrei usato per risultare convincente; invece dei dieci concordati, impiegai solo due minuti per raggiungere il parcheggio della stazione di polizia e questo mi permise di cogliere il comandante Stevenson in una situazione che fece crollare l'immagine di uomo pieno di qualità che avevo proiettato su di lui. Quello che stava davanti a me era un individuo che, indipendentemente dai suoi nobili tratti, non meritava proprio l'onore di comparire su medaglie o monumenti, e nemmeno di avere la sua foto nella stazione di polizia, appesa accanto ai ritratti del sindaco, del governatore e del Presidente degli Stati Uniti. Stevenson si trovava all'estremità opposta dell'edificio municipale, vicino all'ingresso di servizio della stazione di polizia, ed era illuminato dalla luce azzurrina di una lampada di sicurezza posta al di sopra della porta. L'uomo con il quale parlava era a poca distanza da lui, in parte nascosto dall'oscurità. Attraversai il parcheggio, dirigendomi verso di loro. Non mi videro arrivare, assorti com'erano nella conversazione. Inoltre, rimanevo nascosto alla loro vista perché avanzavo tra camion per la raccolta dei rifiuti e auto di polizia, camion per il lavaggio delle strade e veicoli privati, e in più mi
mantenevo a distanza dalla luce diretta dei tre alti lampioni. Un attimo prima di uscire allo scoperto, il visitatore sconosciuto si avvicinò a Stevenson, entrando nel cono di luce, e io mi bloccai incredulo. Vidi la testa rasata, il viso duro. La camicia di flanella rossa a quadri, i blue jeans, gli scarponi. Da quella distanza, non riuscii a scorgere l'orecchino con la perla. In quel momento mi trovavo fra due grossi veicoli, feci quindi qualche passo indietro, lasciando che il buio odoroso di olio mi nascondesse del tutto. Uno dei motori era ancora caldo. Raffreddandosi, batteva e ticchettava. Sebbene sentissi le voci dei due uomini, non riuscivo ad afferrarne le parole. Il vento che soffiava dall'oceano cantava tra gli alberi e si scontrava con le opere dell'uomo: sussurri e sibili che mi impedivano di captare la conversazione. Improvvisamente, mi resi conto che il veicolo alla mia destra, quello con il motore ancora caldo, era il Ford bianco sul quale, qualche ora prima, il calvo si era allontanato dal Mercy Hospital. Con i resti mortali di mio padre. Mi domandai se le chiavi erano ancora inserite nell'accensione. Premetti il viso contro il finestrino accanto al posto di guida, ma non riuscii a vedere granché. Se avessi rubato il furgone, molto probabilmente sarei entrato in possesso della prova cruciale che la mia storia era vera. Anche se il corpo di mio padre era stato portato altrove, e quindi non si trovava più all'interno del veicolo, potevano essere rimaste tracce facilmente rilevabili da un medico legale, se non addirittura macchie di sangue dell'autostoppista. Non avevo la minima idea di come accendere un motore collegando i fili. Accidenti, io non sapevo guidare. Anche se avessi scoperto di possedere un talento naturale per la guida pari a quello di Mozart per la musica, non sarei nemmeno riuscito a raggiungere la stazione di polizia di un'altra giurisdizione. Non certo restando accecato dalla luce dei veicoli che mi venivano incontro. Non senza i miei preziosi occhiali da sole, i cui frammenti erano sparpagliati da qualche parte fra le colline. Oltretutto, aprendo la portiera, si sarebbero accese le luci della cabina. E i due uomini le avrebbero notate. Mi sarebbero piombati addosso.
Mi avrebbero ucciso. La porta dell'ingresso di servizio della stazione di polizia si aprì e vidi Manuel Ramirez che varcava la soglia. Lewis Stevenson e il vistatore interruppero bruscamente la conversazione. Da quella distanza, non fui in grado di stabilire se Manuel conoscesse il calvo, ma mi sembrò che si stesse rivolgendo solo al comandante. Non potevo credere che Manuel... il bravo figlio di Rosalina, l'afflitto vedovo di Carmelita, l'affettuoso padre di Toby... potesse essere coinvolto in omicidi e furti di cadaveri. Nel corso della nostra vita, non riusciamo a conoscere molte persone, a conoscerle veramente, anche se siamo convinti che non abbiano misteri per noi. Nella maggior parte dei casi, ogni individuo è come un lago dalle acque torbide, contenenti infiniti strati di particelle sospese, che in profondità vengono smosse da strane correnti. Tuttavia, ero pronto a scommettere la mia stessa vita che una persona cristallina come Manuel non era capace di alcuna slealtà. Ma non avevo certo intenzione di scommettere la sua vita, e se lo avessi chiamato per controllare il furgone e chiedergli di farlo mettere sotto sequestro in attesa di un approfondito esame, probabilmente avrei firmato la sua condanna a morte. Anzi, sicuramente. D'improvviso, Stevenson e il calvo si allontanarono da Manuel e cominciarono a perlustrare il parcheggio. Compresi che il mio amico doveva avergli appena parlato della mia telefonata. Mi accovacciai tra il furgone e il camion, cercando di sprofondare nel buio. Sporgendo la testa, cercai di leggere la targa sulla parte posteriore del Ford. Di solito il mio problema è l'eccesso di luce, ma in quel momento non ce n'era a sufficienza. Tentai freneticamente di riconoscere al tatto i numeri e le lettere. Tuttavia mi era difficile memorizzarli attraverso quella specie di lettura in braille, o quanto meno non sarei riuscito a farlo abbastanza in fretta da evitare di essere scoperto. Sapevo che il calvo si stava avvicinando al furgone, e forse Stevenson era con lui. Si avvicinava sempre più. Il calvo, l'assassino, il commerciante di cadaveri, il ladro di occhi. Sempre accovacciato, ripercorsi al contrario il tragitto seguito all'andata, passando tra file di camion e automobili parcheggiate, seguendo il vicolo, mantenendomi al riparo dei bidoni della spazzatura, quasi andando a sbattere contro un cassonetto, poi, svoltato l'angolo, nell'altro vialetto, sempre
più lontano dall'edificio municipale, finalmente di nuovo in piedi, correndo come un gatto, scivolando come un gufo, una creatura della notte, domandandomi se sarei riuscito a trovare un nascondiglio sicuro prima dell'alba o se, trovandomi ancora all'aperto, mi sarei accartocciato e annerito sotto i raggi di fuoco del sole nascente. 10 Pensai che non sarebbe stato pericoloso passare da casa, ma che sarebbe stato folle restarvi troppo a lungo. Alla stazione di polizia mi aspettavano non prima di un altro paio di minuti, poi ne avrebbero attesi altri dieci, ma a quel punto il comandante Stevenson avrebbe capito di essere stato visto in compagnia del calvo, ovvero di colui che aveva sottratto il corpo di mio padre. Era comunque possibile che non venissero a cercarmi a casa. Non rappresentavo ancora una grave minaccia per loro, e non c'erano probabilità che lo diventassi. Non avevo alcuna prova di quello che avevo visto. Tuttavia, sembravano propensi a ricorrere a misure estreme pur di impedire che la loro misteriosa cospirazione venisse scoperta. Può darsi che non volessero lasciare nulla al caso... il che avrebbe significato la mia morte Aprendo la porta d'ingresso, mi aspettavo di vedere Orson nell'atrio, invece non mi era venuto incontro. Lo chiamai, ma invano; anche al buio, se si fosse avvicinato, avrei sentito le sue grosse zampe risonare sul pavimento. Probabilmente era in uno dei suoi momenti di cattivo umore. Di solito è allegro, giocherellone e felice di stare in compagnia, con tanta energia nella coda da spazzare tutte le strade di Moonlight Bay. Ma a volte sembra schiacciato da un peso, e in quelle occasioni se ne sta afflosciato come uno straccio, gli occhi tristi, fissi su qualche ricordo o su qualche visione canina di un altro mondo, e rimane a lungo in silenzio, a parte un occasionale lieve sospiro. Più raramente, ho trovato Orson in uno stato di quella che definirei cupa depressione. Questa dovrebbe essere una condizione troppo profonda per un cane, ma a lui si adatta perfettamente. Una volta si è seduto davanti all'anta a specchio di un armadio ed è rimasto a fissare la propria immagine per quasi mezz'ora... un'eternità per la mente di un cane, che in genere vive il mondo come una successione di meraviglie che durano due minuti ed entusiasmi che ne durano tre. Non
ero riuscito a comprendere che cosa della sua immagine lo affascinasse, anche se esclusi immediatamente la vanità canina e la semplice perplessità; infatti appariva profondamente abbattutto, teneva le orecchie basse, le spalle curve e la coda immobile. Giuro che, in certi momenti, i suoi occhi erano colmi di lacrime che riusciva appena a trattenere. «Orson?» chiamai. L'interruttore che accendeva la plafoniera delle scale era dotato di un reostato, così come la maggior parte degli interruttori installati in casa. Lo regolai in modo da avere un minimo di luce che mi permettesse di salire al piano superiore. Orson non era sul pianerottolo. Non mi aspettava nemmeno nel corridoio del primo piano. Entrato nella mia camera, accesi una lucina fioca. Orson non era nemmeno là. Mi diressi verso il comodino più vicino. Dal primo cassetto prelevai una busta nella quale tenevo una somma di denaro per le spese quotidiane. Vi erano solo centottanta dollari, meglio di niente. Anche se non sapevo se avrei avuto bisogno di denaro, non volevo trovarmi impreparato, quindi trasferii le banconote in una delle tasche dei jeans. Mentre richiudevo il cassetto del comodino, notai un oggetto scuro sul copriletto. Mentre lo raccoglievo, rimasi sorpreso nel constatare che era proprio quello che appariva nella penombra: una pistola. Non avevo mai visto quell'arma prima di allora. Mio padre non possedeva pistole. D'istinto, posai di nuovo la pistola sul letto e, con un angolo della coperta, cancellai le mie impronte. Avevo l'impressione che qualcuno stesse cercando di tendermi una trappola e addossarmi un crimine che non avevo commesso. Anche se i televisori emettono radiazioni ultraviolette, se resto a una certa distanza dallo schermo non corro alcun pericolo; questo mi ha permesso, nel corso della mia vita, di assistere a molti film. Conosco tutte le appassionanti storie di uomini innocenti, da Cary Grant e James Stewart a Harrison Ford, inseguiti senza un attimo di respiro per delitti che non hanno mai commesso e incarcerati in base a prove costruite. Entrai nel bagno adiacente e accesi la lampadina a basso voltaggio. Niente bionda nella vasca. Ma anche niente Orson. Tornato nuovamente in camera, rimasi immobile ad ascoltare se dal resto della casa giungevano rumori. Se c'era qualcuno, doveva essere un fan-
tasma che si muoveva con la silenziosità tipica degli ectoplasmi. Nuovamente in camera, esitai, raccolsi la pistola e armeggiai fino a quando riuscii a far uscire il caricatore. Non mancava nemmeno un proiettile. Con un colpo secco, inserii di nuovo il caricatore nell'impugnatura. Non essendo proprio un esperto di armi, non mi aspettavo che la pistola fosse così pesante: doveva superare il mezzo chilo. Sul copriletto, poco distante da dove avevo trovato l'arma, c'era una busta bianca. Fino a quel momento non l'avevo notata. Da un cassetto del comodino estrassi una torcia a stilo e indirizzai il sottile fascio di luce sulla busta. Non vi era scritto nulla, a parte l'indirizzo del mittente, stampato sull'angolo superiore sinistro: THOR'S GUN SHOP, un'armeria di Moonlight Bay. La busta aperta, priva sia di francobollo sia di timbro postale, appariva leggermente stropicciata e con degli strani punti in rilievo. Quando la raccolsi, era leggermente umida. Ma i fogli piegati che si trovavano all'interno erano asciutti. Esaminai i documenti alla luce della piccola torcia. Riconobbi l'ordinata scrittura a stampatello di mio padre sulla copia carbone del modulo della polizia locale, in cui dichiarava di non avere precedenti penali, che nella sua famiglia non vi erano stati casi di malattie mentali, e che pertanto non sussistevano motivi per negargli il porto d'armi. Allegata, vi era la fattura originale nella quale si indicava che la pistola era una Glock 17, calibro 9, e che mio padre l'aveva pagata con un assegno. Quando lessi la data della fattura, sentii i brividi corrermi lungo la schiena: il 18 gennaio di due anni prima. Mio padre aveva acquistato la pistola solo tre giorni prima che mia madre restasse uccisa in quell'incidente sulla statale 1, come se pensasse di aver bisogno di protezione. Nello studio in fondo al corridoio, il mio telefono cellulare si stava ricaricando. Lo staccai dalla spina e me lo agganciai alla cintura. Orson non era nello studio. Qualche ora prima, Sasha era passata da casa mia per dargli da mangiare. Forse, uscendo, lo aveva portato con sé. Se Orson era triste come quando lo avevo lasciato per andare in ospedale e, soprattutto, se il suo umore si era fatto ancora più cupo, probabilmente Sasha non aveva avuto il coraggio di lasciare la povera bestia tutta sola; nelle vene di quella ragazza scorre una miscela di sangue e compassione. Ma anche se Orson era con lei, chi aveva portato la Glock dalla camera di mio padre alla mia? Non certo Sasha. Non sapeva nemmeno che la pi-
stola esistesse, in più non si sarebbe mai permessa di frugare tra le cose di mio padre. Il telefono sulla scrivania era collegato a una segreteria. Accanto alla spia luminosa intermittente, il display indicava che vi erano due messaggi. Secondo la voce che comunicava data e ora del messaggio, la prima telefonata risaliva a mezz'ora prima. Durava quasi due minuti, ma colui che aveva chiamato non aveva detto nemmeno una parola. All'inizio, aveva inspirato con calma e profondamente, espirando poi l'aria quasi con altrettanta lentezza, come se fosse dotato del magico potere di percepire le miriadi di odori presenti nelle stanze anche attraverso la linea telefonica, e scoprire quindi se ero in casa o no. Poi aveva cominciato a canticchiare fra sé e sé, come se avesse dimenticato di essere al telefono e fosse perso nei suoi sogni, canticchiava qualcosa di apparentemente improvvisato, una melodia priva di coerenza, bassa, strana e ripetitiva. Era sicuramente un estraneo. Sono certo che avrei riconosciuto la voce di un amico, anche solo da un canticchiare senza parole. Ero anche certo che non avesse composto il numero sbagliato; in qualche modo, quella telefonata aveva a che fare con quanto avvenuto dopo la morte di mio padre. Quando, alla fine, la telefonata dello sconosciuto venne interrotta, io mi ritrovai con le mani strette a pugno. Avevo trattenuto il respiro. Dalla bocca mi uscì un violento soffio d'aria calda e secca. Mi affrettai a inspirare aria fresca e dolce. Ma ancora non riuscivo ad aprire le dita. La seconda telefonata, giunta pochi minuti prima che io tornassi a casa, era di Angela Ferryman, l'infermiera che aveva accudito mio padre. Non disse il suo nome, ma ne riconobbi la voce esile e tuttavia musicale. Durante il messaggio, le parole si fecero sempre più concitate, come un uccellino inquieto che continua a saltare da una punta all'altra di una staccionata, aumentando progressivamente la velocità. «Chris, vorrei parlarti. Devo parlarti. Non appena possibile. Stanotte. Se puoi, stanotte. Sono in macchina, sto andando a casa. Tu sai dove abito. Vieni a trovarmi. Non telefonare. Non mi fido dei telefoni. Non mi piace neppure dover fare questa telefonata. Anche se sarà molto tardi quando sentirai questo messaggio, vieni lo stesso. Non starò dormendo. Non riesco a dormire.» Inserii una nuova cassetta nella segreteria telefonica. E nascosi quella originale sotto i fogli di carta stropicciati e appallottolati che riempivano il cestino accanto alla scrivania. Queste due brevi registrazioni non avrebbero convinto un poliziotto o un
giudice. Tuttavia, erano gli unici stracci di prove in mio possesso che indicavano che mi stava accadendo qualcosa di straordinario... qualcosa di ancor più straordinario del nascere in questa sparuta casta di senzasole. Ancor più straordinario che essere riuscito a sopravvivere e a restare incolume dopo ventotto anni di xeroderma pigmentoso. Ero a casa da meno di dieci minuti. Ma mi ero fermato anche troppo. Mentre cercavo Orson, mi aspettavo da un momento all'altro di sentire la porta d'ingresso che veniva forzata o un vetro che veniva infranto al piano terreno, poi dei passi sulle scale. In realtà la casa era tranquilla, ma quel silenzio tremulo somigliava alla tensione superficiale su un lago. Il cane non si era rintanato, con aria avvilita, nella camera o nel bagno di papà. E non era nemmeno nella cabina-armadio. La mia preoccupazione per il cane cresceva di momento in momento. Chiunque avesse posato la Glock sul mio letto, poteva anche aver preso Orson o avergli fatto del male. Tornato in camera, trovai un paio di occhiali da sole in un cassetto. Erano in una custodia morbida, chiusa da una striscia di velcro, che riposi nel taschino della camicia. Lanciai un'occhiata al mio orologio, sul quale le ore erano indicate per mezzo di diodi a emissione luminosa. Infilai rapidamente la fattura e il questionario della polizia nella busta del Thor's Gun Shop. Prove o carta straccia che fossero, decisi comunque di nasconderli sotto il materasso. La data dell'acquisto sembrava avere un significato. Improvvisamente, tutto sembrava avere un significato. Mi tenni la pistola. Forse era una trappola, proprio come nei film, ma mi sentivo più al sicuro con un'arma. Avrei tanto voluto sapere come usarla. Le tasche del giubbotto di pelle erano abbastanza profonde per potervi nascondere la pistola. Una volta infilata nella tasca destra, non sembrava più un oggetto metallico e inanimato, ma la sentivo come una cosa viva, un serpente addormentato ma non in letargo. Ogni volta che mi muovevo, sembrava dimenarsi lentamente: grasso e pigro, un umido groviglio di grosse spire. Stavo per scendere al piano terreno in cerca di Orson, quando mi tornò alla mente una notte di luglio in cui ero rimasto a osservare il cane dalla finestra della mia camera: se ne stava seduto in giardino, dietro la casa, con
il capo rivolto verso l'alto, il muso sollevato ad annusare il vento, lo sguardo fisso verso qualcosa in cielo: era immerso in uno dei suoi più enigmatici momenti. Non ululava... nel cielo estivo non brillava la luna... e nemmeno guaiva o uggiolava, il suo era un lamento strano, che mi aveva turbato. Ora sollevai il pannello di quella stessa finestra e lo vidi in giardino. Era impegnato a scavare un buco nero nel prato che la luna ricopriva d'argento. Comportamento piuttosto insolito da parte di Orson, un cane bene educato e a cui non era mai piaciuto fare buchi. Mentre continuavo a guardarlo, Orson abbandonò il punto in cui aveva furiosamente scavato fino a quel momento, si spostò a destra di circa mezzo metro e ricominciò l'operazione. C'era qualcosa di frenetico nei suoi movimenti. Che cosa è successo, ragazzo? mi domandai mentre, nel giardino sottostante, il cane scavava, scavava, scavava. Scendendo, con la Glock pesantemente raggomitolata nella tasca del giubbotto, ripensai a quella notte di luglio, quando mi ero seduto nel giardino dietro la casa, accanto al cane... Il suo lamento si era fatto flebile come il sibilo di un soffiatore di vetro che modella un vaso sopra una fiamma, così basso che non disturbava nemmeno i nostri vicini più prossimi, e tuttavia vi era in quel gemito una disperazione che mi turbava profondamente. Con quel lamento modellava un dolore più cupo del vetro più nero e gli dava una forma più strana di quella che qualsiasi soffiatore poteva creare. Non era ferito e non sembrava malato. Per quanto ne sapevo, era la vista delle stelle in sé che lo riempiva di disperazione. Tuttavia, se il campo visivo dei cani è limitato come ci viene detto, non possono certo vedere chiaramente le stelle, ammesso che le vedano. E, comunque, per quale motivo quegli astri luminosi avrebbero dovuto suscitare in lui tanto dolore? O era la notte, che pure non aveva nulla di diverso dalle altre notti? Ma Orson teneva lo sguardo rivolto al cielo, emetteva questo verso straziante e non reagiva alle mie parole rassicuranti. Quando gli posai una mano sulla testa e gli accarezzai il dorso, sentii che aveva il corpo scosso da forti brividi. Scattò in piedi e si allontanò, voltandosi poi a fissarmi da lontano; potrei giurare che, per un breve periodo di tempo, il cane mi odiò. Mi voleva bene, come sempre; dopo tutto era sempre il mio cane e non poteva fare a meno di volermi bene; ma, allo stesso
tempo, mi odiava intensamente. In quella calda notte di luglio, potevo quasi sentire l'astio pieno di gelo che irradiava da lui. Cominciò a camminare avanti e indietro, Un po' guardando me... e sostenendo il mio sguardo come solo lui, fra tutti i cani, è capace di fare... e un po' il cielo, ora rigido e fremente di rabbia, ora fiacco e disperato. Quando avevo raccontato questa storia a Bobby Halloway, lui aveva commentato che i cani sono incapaci di odiare chiunque e non provano sentimenti così complessi come una vera disperazione, che la loro vita emotiva è semplice come quella intellettiva. Quando avevo insistito nella mia interpretazione dei fatti, Bobby aveva ribattuto: «Ascoltami bene, Snow, se pensi di venire qui a rompermi le balle con queste stronzate da New Age, compra un fucile e sparami. Almeno mostreresti un po' di pietà per me, invece di torturarmi con queste storielle lagnose e con le tue stupide teorie filosofiche. Santo cielo, c'è un limite alla sopportazione umana... perfino alla mia». Ma io so quello che so, e sono certo che, in quella notte di luglio, Orson mi ha odiato; mi ha odiato e mi ha voluto bene. E so anche che c'era qualcosa nel cielo che lo tormentava e lo colmava di disperazione: le stelle, il buio, o forse qualcosa che era nella sua immaginazione. I cani sono capaci di immaginare? E perché no? So che possono sognare. Li ho osservati mentre dormono, con le zampe che scalciano mentre inseguono i conigli che popolano i sogni, li ho sentiti sospirare e uggiolare, li ho sentiti ringhiare contro avversari immaginari. L'odio che Orson mi dimostrò quella notte fece nascere in me non la paura di lui, ma per lui. Avevo capito che il suo non era un problema di carattere o un disturbo fisico che avrebbe potuto renderlo pericoloso nei miei confronti, ma piuttosto una malattia dell'anima. Bobby impazzisce quando sente parlare di anima negli animali e comincia a farfugliare in modo assolutamente spettacolare. Potrei vendere i biglietti. Ma preferisco aprire una bottiglia di birra, appoggiarmi allo schienale e godermi lo spettacolo tutto da solo. In ogni caso, restai seduto in giardino per tutta la notte, tenendo compagnia a Orson, anche se forse avrebbe preferito farne a meno. Mi guardava torvo, levava al cielo i suoi flebili lamenti, era scosso dai brividi, e continuò a girare, a girare, a girare fin quasi all'alba, quando infine mi si avvicinò esausto, mi posò la testa sulle ginocchia, e non mi odiò più. Poco prima del sorgere del sole, salii in camera per andare a dormire, in anticipo di diverse ore rispetto al solito, e Orson venne con me. La mag-
gior parte delle volte in cui decide di seguire i miei orari, il cane si raggomitola in fondo al letto; ma in quella occasione, mi si sdraiò accanto, voltato di schiena, e io continuai ad accarezzargli la grossa testa e il lucido manto nero fino a quando non si addormentò. Quanto a me, quel giorno non riuscii a prendere sonno. Rimasi sdraiato a pensare alla calda mattina d'estate che trascorreva dietro le finestre schermate. Al cielo simile a una azzurra tazza di porcellana che qualcuno ha rivoltato, con gli uccelli che volano intorno ai suoi bordi. Uccelli diurni, di quelli che avevo visto solo nei quadri o nelle fotografie. E le api, le farfalle. E le ombre nette come tagliate da un coltello e scure come inchiostro, ombre che non potranno mai esistere di notte. Il dolce sonno non poteva riversarsi dentro di me perché ero colmo fino all'orlo di amaro desiderio. Erano trascorsi quasi tre anni da quella notte e, mentre aprivo la porta della cucina e uscivo sulla veranda dietro la casa, sperai che Orson non fosse in uno dei suoi momenti di depressione. Non avevo tempo per le terapie, né per lui, né per me. Appoggiata al muro, trovai mia bicicletta. La sollevai per scendere i gradini e la feci avanzare fino a raggiungere il cane, ancora impegnato nei suoi scavi. Nell'angolo a sudovest del giardino, vi era una mezza dozzina di buchi, di vari diametri e profondità, e dovetti fare attenzione a non cadervi dentro e a non stonarmi una caviglia. Quell'area del giardino era disseminata di ciuffi d'erba sradicata e zolle di terra rivoltate. «Orson?» Nessuna reazione. Non smise nemmeno di scavare freneticamente. Facendo un ampio giro per evitare di essere investito dalla terra che le zampe anteriori lanciavano all'indietro, mi portai davanti al buco per riuscire a guardare in faccia il cane. «Salve, amico», esclamai. Orson teneva la testa bassa, il muso affondato nel terreno e annusava mentre continuava a scavare. Il vento si era calmato e la luna piena sembrava un palloncino sfuggito alla mano di un bimbo e finito tra i rami più alti delle melaleuche. Sopra di me, i succiacapre scendevano in picchiata, si innalzavano e volteggiavano, emettendo il loro pint-pint-pint mentre afferravano in aria formiche volanti e lepidotteri. Guardando Orson che non smetteva di lavorare, domandai: «Trovato
qualche bell'osso?» Smise di scavare, ma continuò a ignorarmi. Annusò febbrilmente la terra smossa, il cui odore giungeva fino a me. «Chi ti ha fatto uscire?» Forse Sasha lo aveva portato in giardino per fargli fare i suoi bisogni ma, dopo, l'avrebbe sicuramente ricondotto in casa. Comunque domandai: «Sasha?» Se era stata Sasha a permettergli di compiere quel macello, Orson non avrebbe certo fatto la spia. Non voleva guardarmi negli occhi per timore che leggessi la verità nei suoi. Abbandonando il buco che aveva appena scavato, tornò a quello precedente, lo annusò, e si rimise al lavoro. Forse sapeva che papà era morto. Gli animali percepiscono le cose, come mi aveva fatto notare Sasha qualche ora prima. Magari con questo suo lavoro frenetico, Orson si liberava della tensione nervosa. Posai a terra la bicicletta e mi accovacciai davanti al cane scavatore. Lo afferrai per il collare e lo costrinsi gentilmente a prestarmi attenzione. «Che cosa ti succede?» Nei suoi occhi c'era la cupa oscurità della terra smossa, non quella scintillante del cielo stellato. Avevano un'espressione profonda e indecifrabile. «Devo andare via, amico», gli dissi. «E voglio che tu venga con me.» Uggiolò, voltando la testa da una parte e dall'altra come a dire che non voleva lasciare incompiuta quell'opera grandiosa. «Fra qualche ora sarà mattina, io vado a stare a casa di Sasha, non voglio che tu rimanga qui da solo.» Rizzò le orecchie, ma non sentendo il nome di Sasha o per qualsiasi altra cosa che avevo detto. Con uno violento strattone si girò a guardare la casa. Appena lasciai la presa, Orson attraversò di corsa il giardino, ma poi si bloccò a pochi passi dalla veranda. Rimase in allerta, la testa eretta, immobile. «Che cosa c'è, ragazzo?» sussurrai. Da una distanza di cinque o sei metri, nonostante il vento si fosse placato e la notte fosse silenziosa, riuscivo a malapena a sentire il suo basso ringhiare. Uscendo di casa, avevo spento tutti gli interruttori, lasciandomi alle spalle solo stanze buie. La casa appariva ancora immersa nell'oscurità e non scorgevo alcun volto spettrale premuto contro i vetri delle finestre. Ma Orson aveva percepito la presenza di qualcuno, perché cominciò a
indietreggiare. All'improvviso, agile come un gatto, girò su se stesso e si lanciò di corsa nella mia direzione. Afferrai la bicicletta e la rimisi in piedi. Con la coda bassa, ma non fra le zampe, le orecchie appiattite contro la testa, Orson mi sfrecciò accanto, dirigendosi verso il cancello posteriore. Dato che mi fido dei sensi particolarmente acuti dei cani, lo seguii senza un attimo d'esitazione. La proprietà è cinta da una staccionata in legno di cedro alta quanto me, e anche il cancello è di cedro. Sentii il freddo del chiavistello sotto le dita. Lo feci scivolare silenziosamente e, altrettanto silenziosamente, maledissi i cardini che cigolavano. Al di là del cancello vi è un sentiero in terra battuta, da una parte fiancheggiato da case, e dall'altra da un boschetto di vecchi eucalipti. Varcando il cancello, ero convinto che qualcuno ci sarebbe saltato addosso, ma il sentiero era deserto. Verso sud, oltre il boschetto di eucalipti, si estende un campo da golf, al termine del quale vi sono il Moonlight Bay Inn e il Country Club. Di venerdì sera, a quest'ora, il campo da golf appariva nero e ondulato come il mare, e le scintillanti finestre color ambra della locanda sembravano i portali di una lussuosa nave da crociera eternamente diretta verso la lontana Tahiti. A sinistra, il sentiero saliva verso il cuore della città e terminava davanti al cimitero adiacente la chiesa cattolica di Santa Bernadette. A destra scendeva verso la zona pianeggiante, il porto e il Pacifico. Cambiando marcia, cominciai a pedalare verso il cimitero, mentre il profumo degli eucalipti mi faceva tornare alla mente la luce alla finestra del locale con il forno crematorio e una splendida, giovane madre che giaceva morta sul lettino dell'impresario di pompe funebri; ma c'era anche il mio caro Orson che trotterellava a fianco della bici, c'era la musica lontana che, attraversa il campo di golf, giungeva dalla locanda, c'era il pianto di un neonato in una casa vicina, c'era il peso della Glock nella tasca e, in alto, c'erano i succiacapre che afferravano gli insetti con i loro becchi aguzzi: i vivi e i morti, tutti intrappolati tra terra e cielo. 11 Volevo parlare con Angela Ferryman perché il messaggio che mi aveva lasciato sulla segreteria sembrava promettere interessanti rivelazioni. E io ero proprio in vena di ascoltare delle rivelazioni.
Ma prima dovevo telefonare a Sasha che stava ancora aspettando di ricevere notizie su mio padre. Mi fermai nel cimitero di Santa Bernadette, uno dei miei luoghi favoriti, un'oasi di oscurità in mezzo a uno dei quartieri più illuminati della città. I tronchi di sei querce gigantesche si innalzano come colonne che sostengono un soffitto formato dalle loro chiome intrecciate, mentre il tranquillo spazio sottostante è suddiviso in corridoi come quelli di una biblioteca; le pietre tombali somigliano a file di libri intitolati a coloro che sono stati cancellati dalle pagine della vita, persone che altrove possono essere state dimenticate, ma che sono ricordate qui. Senza allontanarsi troppo da me, Orson vagava tra un corridoio e l'altro, annusando le tracce degli scoiattoli che, di giorno, facevano scorta di ghiande nei pressi delle tombe. Non era un cacciatore che inseguiva una preda ma piuttosto uno studioso che soddisfava la sua curiosità. Sganciai dalla cintura il cellulare, lo accesi e composi il numero del telefonino di Sasha Goodall. Rispose al secondo squillo. «Papà se ne è andato», dissi, e le mie parole significavano molto più di quanto lei potesse sapere. Nel pomeriggio, prevedendo la fine di mio padre, Sasha aveva espresso tutto il suo dispiacere. Ora, invece, riuscì a controllare così bene il dolore, che soltanto io potevo percepirlo nel leggero cambiamento del tono nella voce: «È arrivato... è arrivato fino alla fine senza problemi?» «Niente dolore.» «Era cosciente?» «Sì. Abbiamo potuto salutarci.» Non avere paura di nulla. «La vita è uno schifo», commentò Sasha. «Sono le regole», le feci notare. «Entrando nel gioco, accettiamo il fatto che, prima o poi, dovremo chiudere la partita.» «Fa schifo lo stesso. Sei ancora in ospedale?» «No. Sono in giro. Cerco di scaricare la tensione. Tu dove sei?» «In macchina. Sto andando da Pinkie's Diner a mangiare un boccone e a lavorare un po' sulla musica per il programma.» Mancavano tre ore e mezza alla sua trasmissione radiofonica. «Se mi faccio mettere tutto in un sacchetto, potremmo mangiare insieme da qualche parte.» «Non ho molta fame», rifiutai, senza nemmeno dover mentire. «Comunque ci vediamo dopo.» «Quando?»
«Sarò da te domani mattina, quando torni a casa dal lavoro. Sempre che ti vada bene, naturalmente.» «Perfetto. Ti amo, Uomo delle Nevi.» «Ti amo», risposi. «Questo è il nostro piccolo mantra.» «È la nostra verità.» Chiusi la comunicazione, spensi il cellulare e lo riagganciai alla cintura. Quando salii sulla bicicletta e uscii dal cimitero, il mio compagno a quattro zampe mi seguì, anche se, all'inizio, piuttosto riluttante. La sua testa era piena di misteri da scoiattoli. Mi avviai verso la casa di Angela Ferryman seguendo, per quanto possibile, vicoli poco trafficati e strade dai lampioni distanziati. Quando non avevo scelta ed ero costretto a passare per luoghi intensamente illuminati, pedalavo a tutta velocità. Da cane fedele, Orson adeguava la sua andatura alla mia. Appariva più sereno, ora che poteva trotterellarmi accanto, più nero delle ombre notturne. Incrociammo solo quattro veicoli. Ogni volta, io strizzavo gli occhi e distoglievo lo sguardo dai fari. La casa di Angela era una graziosa villetta in stile spagnolo, situata in collina e seminascosta da magnolie non ancora fiorite. Le finestre sulla strada erano immerse nell'oscurità. Il cancelletto laterale, che non era chiuso a chiave, si affacciava su un vialetto coperto da una pergola, lungo la quale si arrampicavano piante di gelsomino. In estate, i minuscoli fiori bianchi crescevano così fitti che i graticci sembravano ornati da diversi strati di merletti. Ma già in quel periodo dell'anno il fogliame verde scuro era ravvivato dai fiorellini a forma di girandola. Mentre inspiravo profondamente e con piacere il dolce profumo di gelsomino, Orson sternuti due volte. Scesi dalla bicicletta e la condussi a mano fuori del pergolato, appoggiandola poi contro uno dei pali in legno di sequoia che sostenevano la veranda posteriore della villetta. «Fai la guardia», raccomandai a Orson. «Devi fare il cagnone feroce.» Orson sbuffò come se avesse compreso che cosa doveva fare. E forse lo aveva capito davvero, qualunque cosa ne dicesse Bobby Halloway, con tutta la sua razionalità.
Da dietro la finestra della cucina, schermata all'interno da tendine semitrasparenti, filtrava il chiarore incerto delle candele. Sulla porta vi erano quattro piccoli riquadri di vetro. Battei leggermente con le nocche di una mano su uno dei vetri. Angela Ferryman spostò una tendina. I suoi occhi nervosi e irrequieti guardarono prima me, poi la veranda alle mie spalle, per assicurarsi che fossi venuto da solo. Mi fece entrare con un'aria da cospiratrice e subito dopo chiuse la porta a chiave. Poi continuò a sistemare la tendina fino a quando ebbe la certezza che non fosse rimasta alcuna fessura attraverso la quale essere spiati. Sebbene la cucina fosse piacevolmente calda, Angela indossava una tuta grigia e una giacca di lana blu marino. La giacca, lavorata a punto cordoncino, doveva essere appartenuta al suo defunto marito; le arrivava alle ginocchia e le spalle scendevano fin quasi ai gomiti. Aveva dovuto arrotolare le maniche più volte e, di conseguenza, i polsini apparivano spessi come manette di ferro. Sotto questa massa di indumenti, Angela sembrava più esile che mai. Nonostante tutto, doveva avere ancora freddo, perché era molto pallida e continuava a rabbrividire. Mi abbracciò. Era, come sempre, un intenso, ossuto e forte abbraccio, anche se vi percepii una insolita stanchezza. Si sedette dietro al tavolo di pino lucidato e mi invitò ad accomodarmi nella sedia davanti a lei. Mi tolsi il berretto e pensai anche di levarmi il giubbotto, la cucina era decisamente troppo calda. Tuttavia nella tasca c'era la pistola e temevo che potesse cadere sul pavimento o sbattere contro la sedia. Non volevo allarmare Angela, e di certo si sarebbe spaventata scoprendo che ero armato. Al centro del tavolo, vi erano tre candele votive inserite in coppette di vetro rosso scuro. Venature di luce rossa si allungavano sul legno di pino. Oltre alle candele, sul tavolo vi era anche una bottiglia di brandy all'albicocca. Angela mi diede un bicchiere da liquore, che io riempii per metà. Il suo bicchiere era colmo fino all'orlo. E non doveva essere il primo. Lo teneva con entrambe le mani, come se volesse assorbirne il calore, e quando lo portò alle labbra, mi sembrò più che mai un passerotto. Nonostante la sua estrema magrezza, dimostrava almeno una quindicina di anni meno di quelli che aveva. In quel momento, aveva addirittura l'aria di una bambina. «Fin da piccola ho sempre desiderato fare l'infermiera.»
«E sei la migliore», esclamai con sincerità. Leccandosi le labbra umide di liquore all'albicocca, rimase a fissare il mio bicchiere. «Mia madre soffriva di artrite reumatoide. La malattia ebbe un'evoluzione più rapida del solito. Terribilmente rapida. Quando avevo sei anni, lei aveva già le gambe ingabbiate nei sostegni ortopedici e camminava con le stampelle. Quando ho compiuto dodici anni, lei era ormai confinata a letto. E morta che ne avevo sedici.» Non c'erano parole che potessero aiutarla o consolarla. Qualsiasi cosa avessi detto, per quanto sincera e dettata dal cuore, sarebbe suonata falsa. Certo, doveva dirmi qualcosa di importante, ma aveva bisogno di mettere ordine nelle parole prima di consegnarmele. Perché era chiaro che qualunque cosa dovesse dirmi, la spaventava. La sua paura era evidente, nella fragilità delle ossa così come nel pallore della pelle. Avanzando faticosamente verso il vero scopo di quella conversazione, Angela soggiunse: «Mi piaceva portare a mia madre tutto ciò che per lei era difficile procurarsi da sola. Un bicchiere di tè freddo. Un panino. Le medicine. Un cuscino per la sedia. Qualsiasi cosa. In seguito, fu la padella per i suoi bisogni. E verso la fine, quando divenne incontinente, lenzuola pulite. Ma anche quello non mi disturbava. Ogni volta che le portavo qualcosa, mi sorrideva e mi accarezzava i capelli con le sue povere mani gonfie. Non potevo guarirla, non potevo far sì che riprendesse a correre o a ballare, non potevo alleviare il suo dolore o la sua paura, ma potevo occuparmi di lei, renderle più comoda l'esistenza, controllare il suo stato, insomma fare tutte quelle cose che, per me, erano più importanti di... di qualsiasi altra cosa». Il brandy all'albicocca era troppo dolce per essere definito un brandy, ma non dolce come pensavo. Anzi, era molto forte. Tuttavia, non c'era quantità che potesse far dimenticare a me i miei genitori e ad Angela sua madre. «Ho sempre desiderato fare l'infermiera», ripetè. «E per molto tempo è stato un lavoro che mi ha colmato di soddisfazioni. Certo, anche triste, ogni volta che si perdeva un paziente, ma assai gratificante.» Mentre sollevava lo sguardo dal bicchiere, un ricordo le fece spalancare gli occchi. «Buon Dio, mi sono così spaventata quando hai avuto l'appendicite. Ho pensato che avrei perso il mio piccolo Chris.» «Avevo diciannove anni. Non ero così piccolo.» «Tesoro, sono stata la tua infermiera a domicilio fin da quando ti hanno diagnosticato la malattia e, a quel tempo, ti reggevi appena in piedi. Per me tu resterai sempre un bambino piccolo.»
Sorrisi: «Anch'io ti voglio tanto bene, Angela». A volte dimentico che gli altri non sono abituati alla franchezza con la quale esprimo i miei sentimenti e ne rimangono sconvolti o. come in questo caso, profondamente commossi. I suoi occhi si colmarono di lacrime. Per cercare di trattenerle, Angela prima si morse il labbro inferiore, poi ricorse al brandy. Nove anni prima, ero stato colpito da uno di quei casi di appendicite in cui i sintomi si manifestano solo quando la situazione è ormai grave. Quel giorno, prima di pranzo, avevo cominciato a vomitare, ero paonazzo e sudavo copiosamente. Avevo delle fitte allo stomaco così dolorose, che mi ripiegavo su me stesso come un garnberetto nell'olio bollente. La mia vita era stata messa in serio pericolo perché il Mercy Hospital aveva dovuto approntare un sistema straordinario per potermi operare, e di conseguenza l'operazione era avvenuta con notevole ritardo. Naturalmente, non fu possibile convincere il chirurgo a tagliarmi l'addome e a eseguire l'operazione in una sala buia, o quantomeno scarsamente illuminata. Tuttavia, una lunga esposizione alla luce intensa di una sala operatoria avrebbe sicuramente comportato una grave ustione sulla zona non protetta che avrebbe impedito alla ferita di cicatrizzarsi, oltre al fatto che ci sarebbe stato il rischio di sviluppare un melanoma. Non fu difficile coprire tutta la parte del corpo al di sotto dell'incisione, dall'inguine fino agli alluci; bastò un triplo strato di lenzuola, fermate lungo i bordi del lettino per evitare che scivolassero. Altre lenzuola vennero usate per improvvisare una specie di tenda che mi coprisse la testa e la parte superiore del corpo; questa impalcatura, oltre a proteggermi, permetteva all'anestesista di infilarsi di tanto in tanto sotto il lenzuolo e, con una torcia a stilo, controllare la pressione e la temperatura, regolare la maschera dell'anestetico, nonché assicurarsi che gli elettrodi che partivano dall'elettrocardiografo restassero saldamente fissati al mio petto e ai polsi, per consentire il monitoraggio del battito cardiaco. Secondo la procedura standard, tutto l'addome sarebbe rimasto coperto, a parte un rettangolo nel punto in cui veniva eseguita l'incisione. Nel mio caso, però, fu necessario ridurre il rettangolo a una fessura quanto più sottile possibile. Usando i divaricatori autobloccanti per mantenere aperta l'incisione e un notevole quantitativo di cerotto per proteggere la pelle fino ai margini del taglio, finalmente osarono procedere con l'operazione. Le mie viscere avrebbero ricevuto tutta la luce con cui i medici intendevano illuminarle ma, prima che questo si verificasse, l'appendice era scoppiata. Nonostante la meticolosa pulizia, degenerò in peritonite; si sviluppò un a-
scesso, rapidamente seguito da choc settico che, due giorni dopo, rese necessario un secondo intervento chirurgico. Superato lo choc settico, e quando la mia vita non fu più in pericolo, per diversi mesi vissi con la paura che quanto avevo sopportato potesse far sorgere uno dei problemi neurologici connessi con l'XP. In genere, questi disturbi si sviluppano dopo un'ustione o in seguito a un'esposizione cumulativa alla luce o anche per motivi ignoti; ma, a volte, pare che siano generati da gravi traumi o choc fisici. Come conseguenza, si manifestano tremori del capo o delle mani. Perdita dell'udito. Difficoltà nel linguaggio. Perfino ritardi mentali. Rimasi in attesa dei primi segni di quei progressivi, irreversibili disturbi neurologici... ma non comparvero mai. Il grande poeta William Dean Howells ha scritto che la morte si trova in fondo alla tazza di ognuno di noi. Ma, nella mia, vi è ancora del dolce tè. E del brandy all'albicocca. Dopo aver bevuto un lungo sorso dal suo bicchiere, Angela mormorò: «Ho sempre voluto diventare un'infermiera, ma guarda come sono finita adesso». Si aspettava una domanda, e io l'accontentai: «Che cosa vuoi dire?» Fissando le fiammelle attraverso la curva delle coppette di vetro rosso, rispose: «Un'infermiera lavora per la vita, io adesso lavoro per la morte». Continuavo a non capire, ma preferii tacere. «Ho fatto cose orribili», confessò. «Sono sicuro che non è così.» «Ho visto altre persone fare cose orribili e non ho cercato di impedirglielo. Sono colpevole allo stesso modo.» «Se avessi tentato, saresti riuscita a fermarli?» Rimase in silenzio, pensosa. «No», rispose poi, ma questo non sembrò rasserenarla. «Nessuno può caricarsi il mondo sulle spalle.» «Ma qualcuno farebbe bene a tentare», ribattè. Le lasciai tutto il tempo di cui aveva bisogno. Il brandy l'avrebbe aiutata. «Se devo parlartene, è meglio che lo faccia subito. Non ho molto tempo. Mi sto trasformando», disse. «Trasformando?» «Lo sento. Non so che persona sarò fra un mese, o fra sei mesi. Qualcuno che non mi piacerà essere. Qualcuno che mi spaventa a morte.» «Non ti capisco.»
«Lo so.» «Posso aiutarti in qualche modo?» domandai. «Nessuno può farci nulla. Non tu. Non io. Neppure Dio.» Dopo aver spostato lo sguardo dalle candele votive al liquido dorato del suo bicchiere, riprese a parlare sommessamente ma in tono deciso: «Stiamo rovinando tutto, Chris, come sempre, ma questa volta è ancor peggio di prima. Per colpa dell'orgoglio, dell'arroganza, dell'invidia... stiamo rovinando tutto, buon Dio, stiamo rovinando ogni cosa e non c'è più modo di tornare indietro, di disfare quello che è stato fatto». Sebbene non parlasse in modo confuso, ebbi il sospetto che prima di questo, avesso bevuto più di un bicchiere di brandy. Cercai di rassicurare me stesso pensando che l'alcol la portava a esagerare, che la catastrofe che riteneva stesse per abbattersi su di lei non era un uragano, ma solo un piovasco ingigantito da una leggera sbornia. Tuttavia, con le sue parole, era riuscita a controbilanciare il calore della cucina e del brandy. Non sentivo più la necessità di togliermi il giubbotto. «Non posso fermarli», soggiunse. «Ma posso smettere di mantenere i segreti. Chris, tu hai il diritto di sapere che cosa è successo a tua madre e a tuo padre, anche se questo ti farà soffrire. La tua vita è già stata abbastanza difficile, molto difficile, anche senza tutta questa storia.» Per la verità, non credo che la mia vita sia stata particolarmente difficile, certo, è stata diversa. Se la mia diversità mi rendesse furioso e trascorressi le mie notti anelando con tutte le mie forze alla cosiddetta normalità, di certo renderei la mia vita un vero inferno. Accettando la differenza e scegliendo di ricavarne tutto ciò che posso, conduco un'esistenza non più difficile di quella degli altri, e a volte, penso, anche più facile. Ma ad Angela non dissi nulla di tutto ciò. Se poteva farmi determinate rivelazioni solo perché spinta dalla pietà, io ero senz'altro pronto a nascondere il viso dietro una maschera di sofferenza e ad apparire come il personaggio di una tragedia. Sarei stato Macbeth. Sarei stato il folle Lear. Sarei stato lo Schwarzenegger di Teminator 2, destinato alla fossa di acciaio fuso. «Vedi, Chris, tu hai tanti amici, ma hai anche dei nemici di cui non sai nulla», proseguì Angela. «Pericolosi bastardi. E alcuni di loro sono strani... si stanno trasformando.» Di nuovo quella parola: trasformando. Strofinandomi la nuca, mi resi conto che i ragni che vi sentivo passeggiare sopra erano del tutto immaginari.
«Per avere qualche possibilità di farcela», continuò Angela, «... una possibilità qualsiasi... hai bisogno di sapere la verità. Ho continuato a chiedermi da dove potevo iniziare, come dirtelo. Penso che comincerò dalla scimmia.» «La scimmia?» le feci eco, certo di non aver sentito bene. «Sì, la scimmia», confermò. In questo contesto, la parola aveva un significato decisamente comico e io mi domandai ancora una volta se Angela fosse del tutto sobria. Quando sollevò il viso, vidi che i suoi occhi erano pozze desolate nelle quali era affogata una parte vitale dell'Angela Ferryman che conoscevo fin ad bambino. Incontrando il suo sguardo, quel cupo scintillio grigio, sentii una stretta alla nuca e non trovai più nulla di comico nella parola scimmia. 12 «Bisogna risalire alla vigilia di Natale di quattro anni fa», cominciò a raccontare. «Il sole era tramontato da circa un'ora. Io mi trovavo qui in cucina e stavo preparando dei biscotti. Avevo acceso tutti e due i forni. Uno era per quelli al cioccolato. L'altro per quelli alle noci. La radio era accesa. Qualcuno, forse Johnny Mathis, cantava Silver Bells.» Chiusi gli occhi, cercando di visualizzare la cucina durante quella vigilia di Natale, ma volevo anche avere una scusa per non dover guardare lo sguardo spiritato di Angela. «Rod doveva tornare a minuti, eravamo entrambi in ferie quel fine settimana festivo.» Rod Ferryman era suo marito. Più di tre anni e mezzo prima, sei mesi dopo la vigilia di Natale di cui Angela stava parlando, Rod si era suicidato, sparandosi con un fucile nel garage di casa sua. Gli amici e i parenti erano rimasti allibiti, e Angela ne era stata sconvolta. Rod era un uomo estroverso, dotato di un buon senso dell'umorismo, simpatico a tutti, non certo un tipo deprimente e, a quanto risultava, senza problemi di tale gravita da portarlo a togliersi la vita. «Durante la giornata, avevo addobbato l'albero di Natale», soggiunse Angela. «Pensavamo di cenare a lume di candela, di aprire una bottiglia di vino e poi guardare insieme La vita è meravigliosa. Ci piaceva molto quel film. E poi ci saremmo scambiati i doni. Avevamo preparato tanti pacchetti. Il Natale era il periodo dell'anno che preferivamo e per i regali eravamo proprio come bambini...»
Si interruppe e rimase in silenzio per un po'. Quando osai guardarla, vidi che aveva chiuso gli occhi. A giudicare dall'espressione straziata dal dolore, la sua memoria inquieta doveva essersi spostata da quella sera di Natale al successivo mese di giugno, quando aveva trovato il corpo del marito nel garage. La luce tremolante delle candele le si rifletteva sulle palpebre. Dopo qualche tempo, riaprì gli occhi, ma il suo sguardo rimase fisso su un'immagine lontana. Sorseggiò il brandy. Poi riprese il racconto: «Ero felice, il profumo di biscotti, la musica natalizia. E il fiorista mi aveva consegnato un'enorme stella di Natale da parte di mia sorella Bonnie. L'avevo messa in fondo al ripiano della cucina, era così rossa e allegra. E io ero al settimo cielo. È stata l'ultima volta che mi sono sentita. e che mi sentirò, tanto felice. Come ti dicevo, stavo mettendo cucchiaiate di impasto per biscotti su un foglio di carta per forno, quando sentii uno strano rumore alle mie spalle, come se qualcuno avesse schioccato la lingua, e poi una specie di sospiro: mi voltai e vidi una scimmia seduta proprio qui, sul tavolo». «Oh, santo cielo!» «Una scimmia bunder dagli orribili occhi giallo scuro. Non come i loro soliti occhi. Questi erano strani.» «Bunder? Hai riconosciuto la specie?» «Mi sono pagata il corso di infermiera lavorando alla UCLA, come assistente di laboratorio di uno scienziato. Le scimmie bunder sono una delle specie più comunemente usate per gli esperimenti. Ne ho viste un'infinità.» «E, all'improvviso, te ne sei trovata una proprio qui.» «Sul tavolo c'era un cesto pieno di mele e di mandarini. L'animale stava appunto sbucciando e mangiando un mandarino. Era molto ordinata; una scimmia grande e grossa che posava accuratamente i pezzetti di buccia uno sull'altro.» «Grande e grossa?» «Già probabilmente stavi pensando a una di quelle scimmie che suonano l'organetto, a quelle creaturine tanto graziose. Ma i bunder non sono così.» «Come sono?» «Alti più di mezzo metro. E pesano circa dieci-dodici chili.» Una scimmia del genere deve apparire enorme se uno, improvvisamente, se la trova sul tavolo della cucina. «Devi essere rimasta davvero sorpresa», commentai. «Direi più che sorpresa. Per la verità, ero un po' spaventata. So che quel-
le canagliette sono piuttosto forti per le loro dimensioni. Nella maggior parte dei casi sono animali pacifici, ma di tanto in tanto se ne incontra una dal carattere irascibile, e allora tenerla a bada diventa un bel problema.» «Insomma, non certo il tipo di scimmietta che uno vorrebbe come animale domestico.» «Buon Dio, no. Non una persona normale... almeno, non a mio avviso. Certo, a volte i bunder possono essere anche carini, con i loro visetti chiari e tutta quella pelliccia. Ma quella non era carina.» L'immagine della scimmia doveva essere ancora molto viva nella sua mente. «No, non quella.» «Da dove era arrivata?» domandai. Invece di rispondermi, Angela si irrigidì sulla sedia, tendendo il capo, in ascolto. Non sentivo alcun rumore particolare giungere dall'interno della casa. Evidentemente, non udì nulla nemmeno lei. Tuttavia, quando riprese a parlare, non riuscì più a rilassarsi. Le sue mani sottili stringevano il bicchiere come artigli. «Non riuscivo a spiegarmi come quella bestia fosse entrata in casa. Quell'anno, il mese di dicembre non era stato particolarmente mite. Non c'erano porte o finestre aperte.» «Non l'avevi sentita entrare nella stanza?» «No. Avevo fatto parecchio rumore: i fogli di carta da forno, il miscelatore per la pasta dei biscotti, la musica alla radio... Ma quel maledetto animale doveva essere seduto sul tavolo da non più di uno o due minuti, perché quando mi sono accorta della sua presenza, aveva mangiato solo mezzo mandarino.» Lanciò una rapida occhiata per tutta la cucina, come se, con la coda dell'occhio, avesse visto un movimento nell'ombra. Dopo essersi calmata i nervi con un altro sorso di brandy, soggiunse: «Che schifo, una scimmia proprio sul tavolo della cucina». Con una smorfia, passò una mano tremante sul lucido legno di pino, quasi che, a quattro anni da quell'episodio, alcuni peli dell'animale potessero trovarsi ancora sul tavolo. «E allora, che cosa hai fatto?» domandai. «Muovendomi con molta circospezione, mi sono avvicinata alla porta di servizio e l'ho aperta, sperando che la scimmia scappasse via.» «Ma si stava mangiando un mandarino e stava benissimo dov'era, giusto?» «Infatti. Guardò prima la porta aperta, poi me, e sembrò quasi che si
mettesse a ridere. Fece uno strano verso, come un risolino soffocato.» «Io ho visto i cani ridere, giuro. Forse lo fanno anche le scimmie.» Angela scosse il capo. «Non ricordo di averle mai sentite ridere nel laboratorio. Certo, con la vita che facevano... non avevano alcun motivo di stare allegre.» Imbarazzata, levò lo sguardo al soffitto, sul quale le coppette rosse disegnavano tre piccoli anelli di luce sovrapposti che fremevano d'odio come gli occhi di uno spettro. Per incoraggiarla a proseguire, commentai: «Al posto della scimmia, io non sarei uscito». Invece di riprendere il racconto, si alzò e si avvicinò alla porta per controllare che il chiavistello fosse ancora chiuso. «Angela?» Facendomi cenno di tacere, spinse di lato la tendina per scrutare la veranda e il giardino illuminato dalla luna, la spostò con la massima cautela e solo di un paio di centimetri, come se si aspettasse di vedere, premuto contro il vetro, un viso mostruoso che la spiava. Il mio bicchiere era vuoto. Afferrai la bottiglia di brandy ma, dopo un attimo di esitazione, la posai di nuovo. Quando Angela si voltò, disse: «Non era una semplice risata, Chris. Era un verso spaventoso che non riuscirò mai a descriverti. C'era qualcosa di maligno... di cattivo in quella risatina stridula. Sì, lo so che cosa stai pensando, che era solo un animale, soltanto una scimmia e quindi non poteva essere né buona né cattiva. Magari dispettosa, ma non malvagia, perché, sì, gli animali possono avere un brutto carattere, ma non sono mai consapevolmente cattivi. Questo stai pensando. Be', ti dico una cosa, quella scimmia era più che dispettosa. La sua risata è il suono più gelido che abbia mia sentito, il più gelido, orribile e... maligno». «Ti credo», la rassicurai. Invece di far ritorno alla sedia, Angela si avvicinò al lavello. Ogni centimetro quadrato di vetro delle finestre era coperto dalle tendine, ma lei tirò ulteriormente i rettangoli di stoffa gialla per essere ben certa che fossimo protetti da occhi indiscreti. Voltandosi a fissare il tavolo, come se la scimmia vi fosse ancora seduta sopra, Angela continuò: «Presi la scopa con l'intenzione di far scendere l'animale dal tavolo e poi spingerlo verso la porta. Non volevo picchiarla, niente del genere, pensavo solo di spingerla fuori, capisci?» «Ma certo.»
«Ma lei non si è spaventata per niente, anzi ha avuto un'esplosione di rabbia. Ha scagliato a terra il mezzo mandarino, poi ha afferrato la scopa, cercando di strapparmela dalle mani. Quando ha visto che non intendevo lasciargliela, si è arrampicata lungo il manico, dritta verso le mie mani.» «Oh, Gesù!» «Era incredibilmente agile. E veloce come un fulmine. Digrignava i denti, strideva, sputava, stava per saltarmi addosso, allora ho lasciato la scopa e la scimmia è caduta a terra, poi ho cominciato a indietreggiare, finché sono andata a sbattere contro il frigorifero.» Vi sbattè di nuovo contro. Dall'interno venne un rumore soffocato di bottiglie che urtavano l'una contro l'altra. «Era a terra, proprio davanti a me. Scagliò lontano la scopa. Chris, era furiosa. Una rabbia spropositata rispetto a quello che era accaduto. Non le avevo fatto male, non l'avevo nemmeno sfiorata, ma evidentemente si era offesa a morte.» «Mi hai detto che i bunder sono scimmie pacifiche.» «Non questa. Mi mostrava i denti, urlava come impazzita, si scagliava contro di me, poi faceva un balzo indietro, agitando le braccia in aria, fissandomi con odio, pestando i pugni sul pavimento...» Le maniche della giacca si erano parzialmente srotolate, e Angela ritrasse le mani, nascondendole alla vista. Il ricordo di quella scimmia era così vivo che, probabilmente, era convinta che l'animale potesse ancora aggredirla e. con un morso, staccarle la punta delle dita. «Era un troll», cercò di spiegare, «una specie di gremlin. un essere maligno uscito da un libro di racconti. E quegli occhi giallo scuro.» Mi sembrava quasi di vederli. Pieni di odio. «All'improvviso è balzata sugli armadietti, poi sul ripiano della cucina, accanto a me, tutto con la velocità di un fulmine. Era proprio qui», indicò con un dito, «vicino al frigorifero, i suoi occhi allo stesso livello e a una distanza di pochi centimetri dai miei. Ha cominciato a sibilare, un sibilo furioso, le sentivo il fiato che sapeva di mandarino. Immagina come eravamo vicine. Sapevo...» Si interruppe di nuovo, restando in ascolto. Voltò la testa verso sinistra, in direzione della porta aperta che dava sulla sala da pranzo immersa nel buio. La sua paranoia era contagiosa. E, considerato quanto mi era successo subito dopo il tramonto, era facile restare contagiato da quell'infezione. Mi irrigidii sulla sedia e tesi l'orecchio per riuscire a percepire anche il
più piccolo rumore. I tre anelli di luce riflessa luccicavano silenziosi sul soffitto. Le tendine pendevano mute dalle finestre. Poco dopo Angela ripetè: «Le sentivo il fiato che sapeva di mandarino. E soffiava, soffiava. Sapevo che, se avesse voluto, poteva uccidermi, in qualche modo avrebbe potuto farlo, anche se era solo una scimmia e se non raggiungeva nemmeno un quarto del mio peso. Prima, quando era ancora a terra, forse potevo assestarle un bel calcio, ma adesso era proprio davanti alla mia faccia». Non avevo nessuna difficoltà a immaginare quanto Angela fosse spaventata. Quando un gabbiano vuole proteggere il nido che ha costruito su una scogliera in riva al mare, si lancia in picchiata nel cielo notturno, leva alti gridi accompagnati da irosi frulli d'ali, becca la testa dell'intruso e gli strappa ciocche di capelli; insomma, la sua ira è davvero terrificante, nonostante che il suo peso sia soltanto una frazione di quello della scimmia descritta da Angela. «Ho anche pensato di lanciarmi di corsa verso la porta aperta», continuò, «ma temevo che si sarebbe infuriata ancor di più. Quindi sono rimasta immobile, raggelata. Con la schiena contro il frigorifero. Viso a viso con quella spaventosa creatura. Dopo un po', quando ha capito di essere riuscita a terrorizzarmi, con un balzo è scesa dal ripiano, ha attraversato di corsa la cucina, ha chiuso la porta di servizio con un colpo secco, è saltata di nuovo sul tavolo e ha ripreso a mangiare il suo mandarino.» Decisi che, dopo tutto, potevo versarmi un altro goccio di brandy. «A quel punto ho allungato la mano verso la maniglia di questo cassetto vicino al frigorifero. Contiene una serie di coltelli», spiegò. Mantenendo tutta l'attenzione concentrata sul tavolo, così come aveva fatto quella vigilia di Natale, Angela fece scivolare all'indietro una manica della giacca e allungò un braccio per mostrarmi quale cassetto conteneva i coltelli. Se non voleva fare un passo di lato, era costretta a sporgersi il più possibile. «Non pensavo di colpirla, volevo soltanto avere qualcosa con cui, eventualmente, potermi difendere. Ma prima che riuscissi ad afferrare uno dei coltelli, la scimmia è balzata in piedi, ricominciando a urlare.» Cercò a tentoni la maniglia del cassetto. «Ha afferrato una mela dalla fruttiera e me l'ha scagliata addosso. Mi ha colpito in pieno. Sulla bocca. Mi ha spaccato il labbro.» Incrociò le braccia sul viso, come se la scimmia la stesse aggredendo in quel momento. «Ho
cercato di proteggermi. Ma la bestia mi ha lanciato contro un'altra mela e un'altra ancora, e continuava a strillare così forte che, se in casa ci fosse stato del cristallo, l'avrebbe mandato in frantumi.» «Mi stai dicendo che sapeva che cosa c'era nel cassetto?» Abbassò le braccia, abbandonando la posizione di difesa, e confermò: «Sì, doveva averlo intuito». «E tu non hai fatto un altro tentativo di prendere il coltello?» Angela scrollò la testa. «La scimmia era veloce come un fulmine. Sarebbe balzata dal tavolo e mi avrebbe aggredito o morso una mano, ancora prima che io avessi la possibilità di aprire il cassetto. Non volevo proprio che mi mordesse.» «Certo, anche se non aveva la schiuma alla bocca, poteva essere idrofoba», ammisi. «Peggio», mormorò in tono enigmatico, mentre si arrotolava nuovamente le maniche della giacca. «Peggio dell'idrofobia?» domandai. «Insomma, sono lì vicino al frigorifero, sanguino dal labbro, sono terrorizzata, cerco di pensare a che cosa posso fare, e in quel momento Rod torna dal lavoro, fischiettando entra dalla porta di servizio e si ritrova nel bel mezzo di quella incredibile situazione. Ma non fa nulla di quello che potresti aspettarti. È sorpreso e allo stesso tempo... non è sorpreso. Cioè, è sorpreso di vedere la scimmia in questa stanza, ma non è sorpreso dalla scimmia in sé. Ciò che lo turba è il fatto di vederla qui. Capisci quello che intendo dire?» «Credo di sì.» «Rod, accidenti a lui, conosce la scimmia. Non dice: 'Una scimmia?' Non dice: 'Da dove diavolo salta fuori quella scimmia?' Si limita a esclamare: 'Oh, Gesù'. Soltanto: 'Oh, Gesù'. Quella sera fa abbastanza freddo, minaccia di piovere e Rod indossa un impermeabile. E all'improvviso estrae una pistola da una tasca, come se si aspettasse qualcosa del genere. Cioè, voglio dire, sta tornando a casa dal lavoro ed è in divisa, ma in ufficio non porta la pistola alla cintura. Siamo in tempo di pace. Santo cielo, non si trova certo in zona di guerra. È di stanza appena fuori Moonlight Bay, svolge un lavoro d'ufficio, tutto il giorno tra le scartoffie, dice che si annoia, che sta mettendo su peso e che non vede l'ora di andare in pensione, e improvvisamente viene fuori che se ne va in giro con una pistola, un'arma che non ho mai visto prima.» Il colonnello Roderick Ferryman, ufficiale dell'esercito degli Stati Uniti,
era stato di stanza a Fort Wyvern, una base militare che per molto tempo aveva rappresentato uno dei grossi motori economici della contea. La base era stata chiusa diciotto mesi prima e adesso era abbandonata; una delle molte strutture militari considerate superflue dopo la fine della guerra fredda, e quindi disarmate. Sebbene conoscessi Angela e, anche se molto meno, suo marito fin dalla mia infanzia, non ho mai saputo che cosa, esattamente, facesse il colonnello Ferryman nell'esercito. E forse non lo aveva veramente saputo nemmeno Angela. Fino a quella vigilia di Natale, quando il marito era tornato a casa. «Rod se ne sta lì, con la pistola puntata dritto contro la scimmia, più spaventato di me. Ha un'espressione torva. Le labbra tirate. È di un bianco cadaverico, sembra che non abbia più sangue, colore, niente. Mi lancia un'occhiata e vede che il mio labbro comincia a gonfiarsi e che ho il mento tutto insanguinato, ma non mi chiede che cosa è successo, riporta subito lo sguardo sulla scimmia, come se avesse paura di toglierle gli occhi di dosso. La scimmia ha in mano l'ultimo spicchio di mandarino, ma non lo mangia. Fissa attentamente la pistola. Rod mi dice: 'Angie, vai al telefono. Devi chiamare il numero che ti dico'.» «Ricordi che numero era?» «Non ha importanza. Ormai non viene più usato. Ho riconosciuto il numero del centralino perché le prime tre cifre corrispondevano a quelle del suo ufficio presso la base.» «Ti ha fatto chiamare Fort Wyvern.» «Proprio così. Ma il tizio che risponde non dice il suo nome e nemmeno in quale ufficio si trova. Dice solo pronto e io spiego che chiamo da parte del colonnello Ferryman. A quel punto, Rod prende il ricevitore con la sinistra... nella destra stringeva la pistola. Dice al tizio: 'Ho trovato il bunder qui a casa mia, in cucina'. Rimane in ascolto, continuando a tenere lo sguardo fisso sulla scimmia, poi risponde: 'Non lo so, però è qui, accidenti, e ho bisogno che qualcuno mi aiuti a catturarla'.» «E la scimmia? È stata sempre ferma?» «Quando Rod riaggancia, la scimmia stacca i suoi occhietti maligni dalla pistola, fissa mio marito con un'espressione rabbiosa, quasi di sfida, e se ne viene fuori con quel maledetto verso, quell'orribile risatina che ti fa venire la pelle d'oca. Poi sembra perdere qualsiasi interesse per Rod e me, e anche per la pistola. Prende un altro mandarino e comincia a sbucciarlo.» Allungai la mano verso il brandy che mi ero versato ma non avevo anco-
ra bevuto, mentre Angela si sedeva nuovamente di fronte a me e sollevava il suo bicchiere colmo a metà. Ebbi un moto di sorpresa quando lo fece tintinnare contro il mio. «A che cosa brindiamo?» domandai. «Alla fine del mondo.» «Con il fuoco o con il ghiaccio?» «Niente di così facile», rispose. Era terribilmente seria. I suoi occhi erano del colore dei cassetti d'acciaio del locale refrigerato del Mercy Hospital e il suo sguardo era troppo diretto; poi, grazie al cielo, smise di fissarmi e tornò a guardare il suo bicchiere di brandy. «Dopo aver concluso la telefonata, Rod vuole che gli racconti quello che è successo. Mi fa mille domande, vuole saperne di più sul labbro che sanguina, se la scimmia mi ha toccato, se mi ha morso, sembra che non riesca a credere alla storia della mela. Però si rifiuta di rispondere alle mie domande. Si limita a dire: 'Angie, non vuoi veramente sapere'. In realtà, io voglio sapere, ma capisco quello che cerca di dirmi.» «Informazioni riservate, segreti militari.» «In passato mio marito ha lavorato a progetti alquanto delicati, questioni che riguardano la sicurezza nazionale, ma pensavo che fossero storie concluse. Mi ha detto che non ne poteva parlare. Non con me. Né con persone estranee all'ufficio. Nemmeno una parola.» Angela continuò a fissare il suo brandy, mentre io bevvi un sorso del mio. Non era più dolce come prima. Anzi, questa volta percepii un fondo amaro, il che mi ricordò che dai noccioli delle albicocche si ricava il cianuro. Brindare alla fine del mondo porta la mente a focalizzarsi sul sinistro potenziale presente in ogni cosa, anche in un umile frutto. Per riaffermare il mio incorreggibile ottimismo, bevvi un altro, lungo sorso e mi concentrai sul gusto gradevole che, in precedenza, avevo tanto apprezzato. Angela riprese il racconto: «Dopo la richiesta di aiuto di Rod, non passa nemmeno un quarto d'ora, e arrivano tre tizi. Devono essere arrivati da Wyvern a bordo di un'ambulanza, o qualcosa del genere, anche se non abbiamo sentito nessuna sirena. Oltretutto, non sono in divisa. Due di loro fanno il giro della casa, aprono la porta di servizio ed entrano senza bussare. Il terzo deve essere riuscito a scassinare la serratura dell'ingresso principale perché, silenzioso come uno spettro, entra in cucina dalla sala da
pranzo. Rod sta ancora puntando la pistola contro la scimmia, con le braccia che tremano per la tensione, mentre gli altri tre sono armati di pistole caricate ad anestetico». Pensai alla tranquilla stradina, illuminata dai lampioni, che costeggiava la casa, alle armoniose linee architettoniche della villetta, alla coppia di alberi di magnolia, al pergolato ricoperto di gelsomini. Quella sera, passando davanti alla casa, nessuno avrebbe potuto immaginare il dramma che si stava svolgendo fra quelle pareti. «La scimmia si comporta come se si aspettasse di vederli arrivare», spiega Angela, «non è preoccupata, non cerca di scappare. Uno dei tre spara una siringa piena di anestetico. La scimmia scopre i denti, sibila, ma non tenta nemmeno di estrarre l'ago. Lascia cadere la parte di mandarino che non ha ancora mangiato, ingoia a fatica lo spicchio che ha in bocca, poi si acciambella sul tavolo e si addormenta con un sospiro. I tre tizi prendono l'animale e se ne vanno. Rod li segue. E quella è stata la prima e l'ultima volta che ho visto la scimmia. Rod torna solo alle tre del mattino, quando la vigilia di Natale è ormai passata, e non riusciamo a scambiarci i regali fino al giorno di Natale inoltrato, ma ormai la nostra vita è diventata un inferno e niente sarà mai più lo stesso. Non c'è via d'uscita, lo so.» Scolò anche l'ultimo goccio di brandy rimasto e posò il bicchiere sul tavolo con un colpo secco, che risonò come uno sparo. Fino a quel momento, aveva mostrato solo paura e tristezza, entrambe profonde come un cancro delle ossa. Ma ora riaffiorava l'ira, un sentimento che nasceva da profondità ancora maggiori. «Il giorno dopo Natale, ho dovuto acconsentire che mi prelevassero dei campioni di sangue.» «Chi?» «Quelli del progetto che veniva mandato avanti a Wyvern.» «Il progetto?» «E dal quel giorno, una volta al mese... vogliono il loro campione. Come se il mio corpo non mi appartenesse più, come se dovessi pagare un affitto in sangue, solo per avere il diritto di continuare a vivere.» «Ma Wyvern è stato chiuso un anno e mezzo fa.» «Non tutto. Ci sono cose che non muoiono. Non possono morire. Per quanto lo si desideri.» Nonostante la sua estrema magrezza, a modo suo Angela è sempre stata piuttosto carina. Pelle di porcellana, sopracciglia ben disegnate, zigomi alti, naso dritto, una bocca piena contrapposta alle linee verticali del resto
del viso e sempre pronta ad aprirsi in larghi sorrisi; queste qualità, unite al suo cuore generoso, facevano di lei una donna attraente, nonostante il fatto che la sua pelle aderisse troppo al teschio e che il suo scheletro non fosse sufficientemente nascosto per creare quell'illusione di immortalità che la carne conferisce. Ma ora il suo viso appariva duro e freddo, e l'ira metteva in evidenza le sue angolosità, rendendolo decisamente brutto. «Se mi rifiutassi di dare, ogni mese, un campione di sangue, mi ucciderebbero. Ne sono certa. Oppure mi rinchiuderebbero in qualche ospedale segreto, dove potrebbero tenermi meglio sotto controllo.» «A che cosa serve il campione di sangue? Di che cosa hanno paura?» Stava per dirmelo, ma poi strinse le labbra. «Angela?» Anch'io consegnavo ogni mese un campione di sangue per il dottor Cleveland e spesso era proprio Angela a prelevarmelo. Nel mio caso, serviva a un procedimento sperimentale, che tentava di individuare immediatamente l'insorgenza di tumori della pelle e degli occhi attraverso variazioni, anche minime, nei valori sanguigni. Sebbene il prelievo fosse del tutto indolore e venisse eseguito per il mio bene, lo percepivo come qualcosa di invasivo; potevo quindi immaginare come mi sarei risentito se l'operazione fosse stata obbligatoria invece che volontaria. «Forse non dovrei dirtelo», proseguì Angela con tono esitante, «anche se devi sapere... per difenderti. Raccontarti tutto questo è come accendere una miccia. Prima o poi, il tuo mondo salta in aria.» «La scimmia poteva forse trasmettere una malattia?» «Magari fosse una malattia. Sarebbe meraviglioso, no? A quest'ora potrei essere guarita. O morta. Meglio la morte che quello che sta per succedere.» Afferrò il suo bicchiere vuoto, lo strinse con forza e, per un momento, pensai che volesse scagliarlo lontano. «La scimmia non mi ha morso», ribadì, «santo cielo, non mi ha graffiato, né toccato. Ma loro non vogliono credermi. E forse nemmeno Rod mi aveva creduto. Ma non vogliono correre rischi. Mi hanno costretto... Rod mi ha costretto a farmi sterilizzare.» Vi erano lacrime nei suoi occhi, brillavano come le fiamme delle candele votive nelle coppette rosse. «All'epoca avevo quarantacinque anni e non avevo mai avuto figli perché ero già sterile. Avevamo cercato in tutti i modi di avere un bambino...
specialisti, terapie ormonali, tutto... ma non ci siamo mai riusciti.» Angosciato dalla sofferenza che sentivo nella sua voce, facevo fatica a restarmene passivamente seduto a guardarla. Sentivo l'esigenza di alzarmi, di cingerla con le braccia. Di essere io l'infermiere per una volta. «Nonostante questo, quei bastardi mi hanno obbligato a operarmi.» Era fremente di rabbia. «Un'operazione definitiva, non si sono limitati a legarmi le tube, ma mi hanno asportato le ovaie, mi hanno tolto tutto, anche la speranza.» Stava quasi per scoppiare a piangere, ma era una donna forte: «Ormai avevo quarantacinque anni e avevo comunque rinunciato a sperare, o quantomeno fingevo di aver rinunciato. Ma il fatto che abbiano asportato tutto... Una cosa così umiliante, così definitiva. E non mi hanno nemmeno detto il perché. Rod mi ha portato alla base il giorno dopo Natale, in teoria per rispondere ad alcune domande sulla scimmia, sul suo comportamento. Era abbastanza vago. Misterioso. Mi ha portato in un posto... un luogo sconosciuto anche alla maggior parte della gente che lavorava nella base. Mi hanno addormentato contro la mia volontà, poi hanno eseguito l'operazione senza nemmeno chiedermi se ero d'accordo. E quando era tutto finito, quei figli di puttana non hanno neppure voluto dirmi perché!» Spinsi indietro la sedia e mi alzai. Avevo le spalle che dolevano e sentivo le gambe fiacche. Non mi aspettavo una storia così dolorosa. Per quanto desiderassi consolarla, non cercai di avvicinarmi ad Angela. Stringeva ancora in mano il bicchiere da liquore. L'ira aveva trasformato il suo viso, un tempo così grazioso, in una serie di aguzzi coltelli. Pensai che non avrebbe gradito di essere toccata proprio in quel momento. Dopo essere rimasto per alcuni, interminabili secondi accanto al tavolo, imbarazzato, senza sapere che cosa fare, alla fine mi avvicinai alla porta e controllai ancora una volta che il chiavistello fosse inserito. «Rod mi amava, lo so, e questa storia gli ha spezzato il cuore. L'aver fatto quello che ha dovuto fare, lo ha completamente distrutto. Dover collaborare con loro, portarmi alla base con l'inganno sapendo che cosa mi avrebbero fatto... Dopo, non è più stato lui.» Mi voltai e vidi che teneva la mano stretta a pugno intorno al bicchiere e sollevata in aria. Le lame del suo volto riflettevano la luce delle candele. «Ma se i suoi superiori fossero stati a conoscenza di quanto Rod e io eravamo uniti, avrebbero anche compreso che non sarebbe più riuscito a tenermi dei segreti, non dopo che avevo sofferto tanto per causa loro.» «Quindi, alla fine, ti ha raccontato tutto», dedussi. «Certo. E allora l'ho perdonato, l'ho perdonato di cuore per quello che mi
aveva fatto, ma lui non riusciva a darsi pace. Non potevo fare nulla per consolarlo. Era così disperato... e spaventato.» Adesso la sua ira era venata da pietà e dispiacere. «Era talmente spaventato che il suo cuore era incapace di provare gioia. Alla fine si è ucciso... e quando lui è morto, in me non è rimasto più niente che potessero strapparmi.» Abbassò il pugno. Fissò il bicchiere che teneva in mano, poi lo posò delicatamente sul tavolo. «Angela, che cosa c'era che non andava in quella scimmia?» domandai. Non mi rispose. Il riflesso delle fiamme delle candele danzava nei suoi occhi. Il volto di Angela era un tempio di pietra a una dea morta. «Che cosa c'era che non andava in quella scimmia?» domandai di nuovo. Quando alla fine Angela mi rispose, la sua voce era poco più di un sussurro: «Non era una scimmia». Sapevo di aver sentito bene, ma le sue parole non avevano senso. «Non era una scimmia? Ma tu hai detto...» «Sembrava una scimmia.» «Come sembrava?» «E lo era, naturalmente.» Non riuscendo a capire, rimasi in silenzio. «Lo era, e non lo era», mormorò. «Ecco che cosa c'era che non andava in lei.» Non doveva essere completamente in sé. Cominciai a chiedermi se, nell'incredibile storia che mi aveva raccontato, non vi fosse più fantasia che realtà, e se Angela si rendeva conto della differenza. Distogliendo lo sguardo dalle candele votive, i suoi occhi incontrarono i miei. Non appariva più brutta come prima, ma non era nemmeno graziosa. Il suo era un volto di cenere e ombra. «Forse non avrei dovuto chiamarti. Ma ero così dispiaciuta per la morte di tuo padre. Avevo la mente un po' confusa.» «Hai detto che dovevo sapere… per difendermi.» Annuì. «È vero. Proprio così. È giusto che tu sappia. Sei appeso a un filo così sottile. Devi sapere chi è che ti odia.» Le tesi la mano, ma lei non la strinse. «Angela», supplicai, «voglio sapere che cosa è realmente accaduto ai miei genitori.» «Sono morti. Se ne sono andati per sempre. Volevo molto bene ai tuoi, Chris, per me erano degli amici, ma ormai non ci sono più.»
«Comunque, io ho bisogno sapere.» «Se pensi che ci sia qualcuno che deve pagare per la loro morte... allora renditi conto che nessuno lo farà mai. Non in questa vita, tua o di altri. Anche se venissi a sapere tutta la verità, ricorda che nessuno verrà condannato a pagare. Qualunque cosa tu cerchi di fare.» Mi accorsi di aver ritratto la mano, che avevo allungato sul tavolo verso di lei, e di aver serrato le dita a pugno. «Vedremo», ribattei, dopo un momento di silenzio. «Questa sera mi sono licenziata dal Mercy Hospital.» Nel darmi questa triste notizia, Angela sembrò raggrinzirsi, fino ad apparire come una bambina avvolta negli abiti di un'adulta, ancora una volta la ragazzina che portava tè freddo, medicine e cuscini alla madre malata. «Adesso non sono più un'infermiera.» «Che cosa farai?» Non rispose. «Era quello che hai sempre desiderato fare», le ricordai. «Ora non ha più alcun significato. Fasciare ferite durante una guerra è un lavoro di vitale importanza. Fasciare ferite durante lo scontro decisivo tra il bene e il male è da sciocchi. Oltretutto, mi sto trasformando. Mi sto trasformando. Non lo vedi?» Non riuscivo a vedere. «Mi sto trasformando. In un'altra me stessa. In un'altra Angela. In qualcuno che non voglio essere. In qualcuno che non oso immaginare.» Non sapevo ancora che cosa pensare di quel suo discorso apocalittico. Erano parole razionali, basate sulla conoscenza dei segreti di Wyvern, o erano frutto della sua disperazione per la perdita del marito? «Se insisti nel sapere, ricorda che, una volta venuto a conoscenza dei fatti, non potrai fare altro che sederti, bere quello che ti piace di più e stare a guardare la fine di tutto.» «In ogni caso, voglio sapere.» «Allora penso che sia arrivato il momento della presentazione, come dicono in pubblicità», esclamò. «Ma... santo cielo, Chris, questa storia ti spezzerà il cuore.» La tristezza faceva sembrare più lunghi i suoi lineamenti. «Penso che tu debba sapere... ma ti spezzerà il cuore.» Mi voltò le spalle e incominciò ad attraversare la cucina; io la seguii. Si fermò, dicendo: «Devo accendere delle luci per prendere quello che mi serve. E meglio che mi aspetti qui, torno subito». Rimasi a osservarla mentre attraversava la sala da pranzo immersa nel
buio. Giunta in salotto, accese una lampada, poi scomparve da qualche parte. Inquieto, cominciai a girare per la stanza, con la mente in subbuglio. La scimmia che era e non era una scimmia, e l'assurdo di questa affermazione aveva senso unicamente nel mondo di Lewis Carroll, con Alice in fondo a una magica tana per conigli. Mi avvicinai alla porta di servizio e, ancora una volta, controllai il chiavistello. Chiuso. Spostai di lato la tendina e cercai di vedere nell'oscurità. Non riuscii a scorgere Orson. Gli alberi fremevano. Di nuovo si era alzato il vento. Nel cielo vi era grande agitazione. Evidentemente, dal Pacifico stava per arrivare un cambiamento di clima. Mentre il vento scagliava brandelli di nuvole verso la luna, una argentea, luminosità sembrava increspare il paesaggio notturno. In realtà, quelle che si muovevano erano le ombre delle nuvole, e il movimento della luce era pura illusione. Nondimeno, il giardino posteriore della villetta era stato trasformato in un torrente invernale e la luce formava mulinelli come l'acqua che scorre sotto il ghiaccio. Da qualche angolo della casa giunse un breve grido. Era fievole e disperato proprio come Angela. 13 Il grido era stato così breve e sordo che poteva essere frutto di un'illusione, proprio come il movimento del chiaro di luna in giardino, un suono fantasma in una stanza della mia mente. Al pari della scimmia, possedeva entrambe le qualità dell'essere e del non-essere. Tuttavia, mentre la tenda della porta mi scivolava fra le dita, ricadendo silenziosa sul vetro, da un'altra parte della casa giunse un tonfo soffocato che rabbrividì attraverso le pareti. Il secondo grido fu ancora più breve e flebile del primo, ma senza ombra di dubbio esprimeva dolore e paura. Forse Angela era semplicemente caduta da uno sgabello e si era distorta un caviglia. Forse avevo solamente udito il vento e gli uccelli sulle grondaie. E forse la luna è fatta di formaggio e il cielo è un dischetto di cioccolato con stelline di zucchero. La chiamai a voce alta. Non rispose.
Non poteva non avermi sentito, la casa era tutt'altro che grande. Il suo silenzio non lasciava presagire nulla di buono. Imprecando fra i denti, estrassi la Glock dalla tasca del giubbotto. La tenni sollevata alla luce delle candele, cercando disperatamente la sicura. C'era solo una specie di bottoncino che poteva essere quello che cercavo. Quando lo spinsi verso il basso, da un piccolo foro sotto la bocca partì un fascio di intensa luce rossa, che disegnò un puntino luminoso sulla porta del frigorifero. Mio padre, desiderando un'arma facilmente utilizzabile anche da un mite professore di letteratura, aveva pagato un sovrapprezzo per far dotare la pistola di un puntamento al laser. Bravo, papà. Senza essere un esperto di armi, sapevo che alcuni modelli erano dotati di congegni di sicurezza interni che si disinserivano nel momento in cui veniva premuto il grilletto e che si inserivano automaticamente dopo lo sparo. Forse la Glock era una di queste pistole. In caso contrario, trovandomi davanti a un aggressore, o non sarei stato in grado di sparargli, oppure, preso dal panico, avrei finito con lo spararmi sul piede. Anche se non sapevo usare un'arma, in quel momento non avevo altra scelta. Per essere onesto, pensai anche di catapultarmi fuori della stanza, inforcare la mia bicicletta, raggiungere un luogo sicuro e fare una telefonata anonima alla polizia. Dopodiché non avrei mai più avuto il coraggio di guardarmi in uno specchio... e neppure di fissare Orson negli occhi. Mi tremavano le mani e questo non mi piaceva affatto, ma non potevo certo fermarmi a fare esercizi di respirazione o di rilassamento. Mentre attraversavo la cucina, diretto alla sala da pranzo, presi in considerazione l'idea di rimettere la pistola in tasca e di prendere un coltello dal cassetto delle posate. Raccontando la storia della scimmia, Angela mi aveva indicato dove li teneva. Sarebbe stata una sciocchezza. Ero esperto di coltelli quanto lo ero di armi. Oltretutto, usare un coltello, ferire o trafiggere un essere umano con una lama, mi sembrava che richiedesse un'aggressività maggiore di quella necessaria per premere un grilletto. Probabilmente, avrei fatto qualsiasi cosa se la mia vita o quella di Angela fossero state in pericolo, ma mi sentivo più adatto a un'operazione asettica come lo sparare, piuttosto che a un lavoro sporco e «a stretto contatto» come lo squarciare il ventre di qualcuno. In un corpo a corpo, un attimo di esitazione poteva risultare fatale. Attraversando di corsa la sala da pranzo, chiamai Angela a gran voce.
Anche questa volta, non rispose. Meglio non chiamarla più. Se in casa vi era davvero un intruso, gridando non facevo che rivelare i miei spostamenti. Non mi fermai a spegnere la luce in soggiorno, ma passai il più lontano possibile dalla lampada e voltai il viso dall'altra parte. Strizzando gli occhi nell'ingresso inondato di luce, lanciai un'occhiata attraverso la porta aperta dello studio. Non vi era nessuno. La porta del guardaroba era socchiusa. La spalancai. Non ebbi bisogno di accendere la luce per vedere che anche quella stanza era vuota. Mi sentivo nudo senza il berretto, che avevo lasciato sul tavolo della cucina; spensi quindi la plafoniera dell'ingresso e sul locale scese una meravigliosa oscurità. Sollevai lo sguardo e osservai attentamente il pianerottolo, dove le scale, immerse nella penombra, giravano per poi sparire nel buio. Da quel che potevo vedere, non vi erano luci accese al piano superiore, il che era l'ideale per me. La mia vista abituata all'oscurità rappresentava il mio maggior vantaggio. Mentre salivo le scale, pensai di chiamare la polizia con il cellulare che tenevo agganciato alla cintura. Ma visto che non mi ero presentato all'appuntamento, era possibile che Lewis Stevenson mi stesse cercando. In questo caso, a casa di Angela sarebbe arrivato il comandante stesso. Magari in compagnia del calvo con l'orecchino. Manuel Ramirez non poteva accorrere alla mia chiamata perché era di servizio in ufficio. E io non mi sentivo abbastanza sicuro di nessun altro agente. Per quel che ne sapevo, il comandante Stevenson poteva non essere l'unico poliziotto di Moonlight Bay implicato in questa storia; forse, a parte Manuel, tutti gli agenti facevano parte del complotto. E per la verità, nonostante la nostra amicizia, non potevo fidarmi completamente nemmeno di Manuel, almeno non fino a quando fossi stato più al corrente della situazione. Salendo le scale, stringevo la Glock con entrambe le mani, pronto ad abbassare il bottoncino del puntamento a laser se avessi notato un movimento. Continuavo a ripetermi che fare 1 eroe significava anche cercare di non colpire Angela per errore. Dal pianerottolo vidi che la seconda rampa di scale, non raggiunta dalla luce del soggiorno, era ancor più buia della prima. Continuai a salire rapido e silenzioso come un gatto.
Constatai con una certa sorpresa che il mio cuore non batteva all'impazzata, anche se era chiaramente più accelerato. Soltanto qualche ora prima, non avrei mai immaginato di sapermi adattare così in fretta alla violenza. Stavo perfino cominciando a notare in me uno sconcertante entusiasmo per il pericolo. Sul corridoio del piano superiore si affacciavano quattro porte. Tre erano chiuse. La quarta, quella più lontana dalle scale, era socchiusa e dalla stanza proveniva un tenue chiarore. Non mi piaceva l'idea di passare davanti alle tre stanze chiuse senza aver prima controllato che fossero vuote. Una volta giunto in fondo al corridoio, avrei avuto le spalle scoperte. Ma, allo stesso tempo, considerando che i miei occhi bruciavano e lacrimavano se esposti a una luce intensa, avrei dovuto esaminare le stanze con la torcia a stilo stretta nella mano sinistra, dato che nella destra tenevo la pistola. Sarebbe stato scomodo, mi avrebbe fatto perdere tempo e sarebbe stato anche pericoloso. Infatti, anche restando accovacciato e muovendomi con grande rapidità, ogni volta che fossi entrato in una stanza, la piccola torcia avrebbe immediatamente rivelato la mia posizione al presunto aggressore. L'unica speranza era quella di affidarmi ai miei punti di forza, il che significava sfruttare l'oscurità e mescolarmi alle ombre. Avanzai di lato, tenendo d'occhio entrambe le direzioni, e riuscii a non fare alcun rumore; ma chiunque si trovasse in casa, fu silenzioso quanto me. La seconda porta a sinistra era appena socchiusa e lo stretto cuneo di luce non lasciava intravedere molto della stanza. Spinsi la porta con la canna della pistola. Era la camera padronale. Accogliente. Il letto appariva rifatto con cura. Un afgan dai colori vivaci era posato sul bracciolo di una poltrona e sopra uno sgabello vi era un giornale piegato. Dal ripiano del cassettone, antiche bottiglie di profumo mandavano bagliori variopinti. Una delle lampade dei comodini era accesa. La lampadina non era molto forte e il paralume di stoffa plissettata schermava la luce. Di Angela, neppure l'ombra. La porta dell'armadio era aperta. Forse Angela era salita al piano superiore per prendere qualcosa là dentro. Ma non riuscii a veder altro che vestiti appesi e scatole per scarpe. Una porta socchiusa dava sul bagno adiacente, immerso nel buio. Se all'interno vi fosse stato qualcuno, avrei rappresentato per lui un bersaglio
molto ben illuminato. Mi avvicinai al locale il più obliquamente possibile, puntando la Glock verso lo spazio scuro fra la porta e lo stipite. Quando spinsi la porta, questa si aprì senza opporre alcuna resistenza. Fu l'odore a bloccarmi sulla soglia. Il fioco chiarore della lampada non riusciva a illuminare lo spazio davanti a me, quindi frugai nella tasca per cercare la torcia a stilo. Il sottile fascio di luce percorse la superficie scintillante di una pozza rossa sul pavimento di piastrelle bianche. Le pareti erano schizzate di gocce di sangue. Angela Ferryman era a terra, con la testa rovesciata all'indietro che poggiava sul bordo della tazza. Aveva gli occhi spalancati, slavati e piatti come quelli del gabbiano che, una volta, avevo trovato sulla spiaggia. A una prima occhiata, pensai che le avessero squarciato ripetutamente la gola con un coltello non ben affilato. Non me la sentivo di guardarla troppo a lungo o da vicino. L'odore non era soltanto di sangue. Morendo, si era sporcata. La puzza mi venne incontro come un'ondata. Mi accorsi che la finestra all'inglese era spalancata. Non si trattava di una finestrella, come abitualmente sono quelle dei bagni; questa era grande abbastanza da lasciar passare l'assassino, che peraltro doveva essersi abbondantemente imbrattato di sangue. Forse Angela aveva lasciato la finestra aperta. Se da quella parte il tetto di un'eventuale veranda arrivava fino al primo piano, l'assassino poteva averne approfittato sia per entrare in casa sia per fuggire. È vero che Orson non aveva abbaiato, ma la finestra del bagno si affacciava sulla facciata della villetta, mentre lui si trovava nel giardino posteriore. Angela aveva le mani lungo i fianchi, che sembravano quasi perdersi nelle maniche della giacca di lana. Appariva così innocente. Sembrava una ragazzina di dodici anni. Per tutta la vita non aveva fatto che donarsi agli altri. E adesso qualcuno, senza alcuna considerazione per il suo altruismo, le aveva crudelmente tolto quanto le era rimasto. Addolorato, scosso dai tremiti, uscii dal bagno. Non ero stato io a rivolgermi ad Angela perché rispondesse alle mie domande. Non era colpa mia se aveva fatto questa orribile fine. Era stata lei a telefonarmi e. sebbene avesse chiamato dal telefono dell'automobile, qualcuno lo aveva saputo e aveva deciso che Angela doveva essere messa a ta-
cere rapidamente e per sempre. Forse questi cospiratori senza volto avevano capito che la sua disperazione la rendeva pericolosa. Si era licenziata dall'ospedale. Sentiva di non avere più uno scopo per cui vivere. Ed era terrorizzata all'idea di trasformarsi, qualunque cosa intendesse dire con quella parola. Era una donna che non aveva più nulla da perdere, ormai al di là del loro controllo. L'avrebbero uccisa anche se io non avessi accettato il suo invito. Nondimeno, mi sentivo sopraffatto dal senso di colpa, mi sembrava di annegare fra gelide acque che mi toglievano il respiro; ansante, dovetti fermarmi per riprendere fiato. Alla sensazione di freddo, seguì la nausea: ondeggiava come una grassa, viscida anguilla attraverso le mie viscere, saliva su per la gola, fino ad arrivarmi quasi in bocca. La inghiottii a fatica. Dovevo uscire da quella casa, ma non riuscivo a muovermi. Mi sentivo schiacciato dal terrore e dal senso di colpa. Il peso della pistola faceva aderire il mio braccio destro al fianco, tendendolo come un filo a piombo. La torcia a stilo, stretta nella mano sinistra, disegnava linee spezzettate sulla parete. Avevo la mente confusa. I miei pensieri rotolavano come ammassi di alghe aggrovigliate in un torbido mare. Dal comodino più vicino a me giunse lo squillo del telefono. Non mi avvicinai. Avevo la strana sensazione che si trattasse di «respiro profondo», quello che aveva lasciato il messaggio sulla mia segreteria telefonica; sentivo che avrebbe cercato di rubare qualche aspetto vitale della mia persona con le sue inspirazioni, come se la mia anima potesse essere risucchiata fuori da me e portata via attraverso la linea telefonica. Non volevo sentire quel suo canticchiare basso, privo di melodia e che mi faceva accapponare la pelle. Quando finalmente il telefono tacque, la mia mente si era in qualche modo schiarita. Spensi la piccola torcia e la riposi in tasca, poi sollevai la pistola e... mi accorsi che qualcuno aveva acceso la luce nel corridoio del primo piano. La finestra del bagno aperta e il sangue che imbrattava l'intelaiatura mi avevano fatto credere che, a parte il corpo di Angela, in casa ci fossi solo io. Mi sbagliavo. L'intruso non se ne era andato ed era in attesa... tra me e le scale. L'assassino non poteva essere scappato dal bagno attraversando la camera padronale perché avrebbe lasciato una scia di sangue sulla moquette co-
lor crema. Per quale motivo allora, dopo essere riuscito a fuggire dal primo piano, sarebbe rientrato immediatamente da una porta o da una finestra del piano terreno? Tuttavia, se non voleva lasciare testimoni ed era tornato per uccidermi, non aveva senso accendere la luce e rivelare così la sua presenza. Sarebbe certo stato meglio per lui cogliermi di sorpresa. Avanzando con circospezione, strizzando gli occhi nella luce accecante, uscii nel corridoio. Era deserto. Le tre porte che avevo visto chiuse, ora erano spalancate. E le stanze risplendevano, pericolosamente illuminate a giorno. 14 Come sangue che sgorga da una ferita, il silenzio saliva lungo le scale e si riversava nel corridoio del piano superiore. Improvvisamente sentii un suono, giungeva da fuori: il lamento funebre del vento sotto le grondaie. Sembrava che si stesse svolgendo uno strano gioco. Non conoscevo le regole. Né l'identità del mio avversario. Non avevo alcuna possibilità di vincere. Diedi un colpetto a un interruttore a parete e sul corridoio scese una riposante penombra, che fece apparire la luce nelle stanze ancora più viva. Volevo lanciarmi verso le scale. Scendere, uscire, scappare. Ma non osavo lasciarmi alle spalle le stanze che, in precedenza, non avevo controllato. Sarei finito come Angela, con la gola squarciata, ma da dietro. L'unica opportunità che avevo di restare vivo era quella di mantenere la calma. Di pensare. Avvicinarmi a ciascuna porta con la massima circospezione. Muovermi molto lentamente fino a guadagnare l'uscita. Verificare, a ogni passo, di avere sempre le spalle coperte. Strizzai un po' meno gli occhi, rimasi di più in ascolto, non udii nulla e mi spostai verso il vano della porta che si apriva di fronte alla camera padronale. Non varcai la soglia, ma rimasi nell'ombra, servendomi della mano sinistra come di una visiera per proteggere gli occhi dalla luce violenta che illuminava la stanza. Se Angela avesse avuto figli, questa poteva essere la camera dei bambini. Invece conteneva un armadietto per attrezzi con numerosi cassetti, uno sgabello da bar con spalliera e due alti tavoli da lavoro uniti a L. Qui Angela trascorreva il tempo libero dedicandosi al suo hobby: la fabbricazione di bambole. Continua a muoverti. Non diventare un facile bersaglio.
Spalancai completamente la porta della stanza. Non nascondeva nessuno. Entrai nel locale intensamente illuminato, fermandomi di traverso rispetto al corridoio per coprire entrambi i lati. Angela era stata un'ottima artigiana, come dimostravano le trenta bambole esposte sui ripiani di un mobile in fondo alla stanza. Le sue creazioni erano vestite con gli abiti, fantasiosi e realizzati con grande cura, che Angela aveva cucito personalmente: costumi da cowboy e cowgirl, da marinaio, abiti da sera con sottogonne bordate in pizzo... Ma ciò che rendeva quelle bambole veramente belle era il loro viso. Angela aveva modellato ogni testa con grande pazienza e vero talento, poi l'aveva fatta essiccare nell'apposito forno che teneva in garage. Alcune erano in bisquit. Le altre erano smaltate a vetro. Tutte erano state dipinte a mano con un'attenzione ai particolari che faceva sembrare veri i loro volti. Nel corso degli anni, Angela aveva venduto alcune bambole e ne aveva regalate molte altre. Evidentemente, quelle esposte erano le sue preferite, le opere dalle quali non aveva voluto separarsi. Perfino il quel momento, attento a ogni rumore che rivelasse la presenza di un pazzo armato di coltello, notai che ogni viso aveva lineamenti diversi, come se Angela non si fosse limitata a fabbricare bambole, ma avesse anche immaginato i possibili volti dei figli che non aveva mai avuto. Spensi il lampadario, lasciando accesa solo una lampada da tavolo. Nell'improvvisa penombra, le bambole sembrarono muoversi sui ripiani, quasi stessero per saltare sul pavimento. I loro occhi dipinti... alcuni con bagliori di luce, altri fissi e scuri... avevano un'espressione attenta e penetrante. Mi facevano venire i brividi. Fantastico. Erano solo bambole. Non rappresentavano un pericolo. Di nuovo in corridoio, spostando la Glock a sinistra, a destra, ancora a sinistra. Nessuno. La stanza successiva, dall'altra parte del corridoio, era un bagno. Pur con gli occhi stretti a fessura per ridurre al minimo i riflessi abbaglianti della porcellana, del vetro, dello specchio e delle piastrelle di ceramica gialla, riuscivo a vedere ogni angolo del locale. Anche qui nessuno. Mentre allungavo un braccio per spegnere le luci, percepii un rumore dietro di me. Si allontanava verso la camera padronale. Un rapido ticchettio, come le nocche di una mano che battono contro il legno. Con l'angolo dell'occhio vidi un movimento. Con uno scatto, mi voltai verso il rumore e sollevai la Glock stringendo-
la con entrambe le mani, come se sapessi quello che stavo facendo, imitando contemporaneamente Willis e Stallone, Schwarzenegger, Eastwood e Cage in uno di quei film tutto salti, corse, spari e inseguimenti, come se credessi davvero che loro sapessero che cosa diavolo stavano facendo. Mi aspettavo di vedere un gigante, con gli occhi da pazzo, con un braccio alzato e un coltello stretto in mano, ma ancora una volta non c'era nessuno nel corridoio. Il movimento che avevo visto era quello della porta della camera padronale che veniva chiusa dall'interno. Per un attimo, nel cuneo di luce formatosi tra porta e stipite, scorsi un'ombra distorta giganteggiare, fremere, rimpicciolirsi. Poi la porta si chiuse con il rumore di una cassaforte di banca. Quella stanza era vuota quando io l'avevo lasciata e nessuno mi era passato accanto da quando ero uscito nel corridoio. L'unico che poteva trovarsi là dentro era l'assassino, ma allora doveva essere rientrato attraverso la finestra del bagno, salendo dal tetto della veranda, dove evidentemente si trovava quando avevo scoperto il corpo di Angela. Tuttavia, se l'assassino era già nella camera padronale, non poteva anche essermi passato alle spalle, qualche minuto prima, per andare ad accendere le luci del primo piano. Quindi c'erano due intrusi. E io ero intrappolato fra di loro. Andare avanti o indietro? Gran brutta storia. Qualunque cosa scegliessi, mi sarei trovato nella merda, e senza stivali di gomma. Di certo si aspettavano di vedermi correre verso le scale. Allora, meglio sorprenderli con una mossa imprevista: mi lanciai senza un attimo di esitazione verso la porta della camera padronale. Non persi tempo ad abbassare la maniglia, con un calcio feci scattare la serratura a molla e mi scaraventai nella stanza con la Glock puntata, pronto a sparare quattro o cinque colpi contro qualunque cosa si muovesse. Nessuno. La lampada sul comodino era ancora accesa. Sulla moquette non vi erano impronte rossastre, quindi l'assassino non era rientrato dalla finestra, né aveva attraversato il bagno schizzato di sangue per venire a chiudere la porta sul corridoio. Andai comunque a controllare il bagno. Questa volta lasciai la torcia a stilo in tasca, sperando che la fioca luce della lampada facesse affluire un vago chiarore anche nel locale adiacente. In realtà non mi serviva, o non volevo, rivedere la scena in tutti i suoi particolari. L'odore era ripugnante
come prima. La sagoma afflosciata contro la tazza era sempre quella di Angela. E anche se pietosamente velata dalla penombra, riuscivo a scorgere la sua bocca aperta, quasi fosse rimasta incredula davanti a ciò che aveva visto, e gli occhi sgranati e fissi. Tornai indietro e lanciai un'occhiata nervosa alla porta aperta sul corridoio. Nessuno mi aveva seguito. Perplesso, mi fermai al centro della stanza. Il vento che entrava dalla finestra del bagno non era abbastanza impetuoso da far sbattere la porta della camera. Oltretutto, nessuna folata di vento aveva gettato l'ombra distorta che avevo intravisto per un attimo. Sebbene lo spazio sotto il letto fosse sufficiente per nascondere un uomo, questi non sarebbe certo stato a proprio agio, schiacciato tra il pavimento e le molle; e comunque, nessuno avrebbe potuto infilarsi là sotto prima che io entrassi di corsa nella camera. La porta aperta della cabina-armadio mi permetteva di vedere che non vi era nessuno nascosto là dentro. Tuttavia preferii controllare. Il fascio di luce della torcia a stilo rivelò che, dal soffitto della cabina, si poteva accedere al solaio. Ma anche se vi fosse stata una scala pieghevole montata dall'altra parte della botola, nessuno poteva essere così veloce da raggiungere il solaio e ritirare la scala nei due o tre secondi che avevo impiegato per entrare nella stanza. Il letto era fiancheggiato da due finestre. Entrambe erano chiuse dall'interno. L'assassino non era uscito da quella parte, ma forse lo potevo fare io. Volevo evitare di tornare nel corridoio. Continuando a tenere d'occhio la porta della camera, cercai di aprire una finestra. Scoprii che vi era solo una massiccia intelaiatura e i vetri, ma in realtà si trattava di una falsa finestra. Ero voltato di spalle rispetto al bagno. All'improvviso mi sembrò che dei ragni stessero correndo lungo la mia spina dorsale. Con l'immaginazione, vidi Angela dietro di me, non a terra, vicino alla tazza, ma in piedi, sanguinante, con gli occhi lucidi e piatti come monete d'argento. Ero convinto che avrei sentito la sua ferita alla gola gorgogliare, mentre lei cercava di dirmi qualcosa. Quando mi voltai, tremante di paura, constatai che non c'era nessuno, ma il sospiro di sollievo che uscì come un getto caldo dai miei polmoni era la dimostrazione di quanto mi fossi lasciato impressionare da simili fantasie. E lo ero ancora: da un momento all'altro mi aspettavo di sentire che si
alzava in piedi. Il mio dolore per la sua morte era già stato travolto dalla paura per la mia vita. Per me, Angela non era più una persona. Era una cosa, era la morte stessa, un mostro pronto a ricordarci che tutti dobbiamo morire, decomporci e tornare a essere polvere. Devo ammettere con vergogna che la odiavo un po' perché mi ero sentito in dovere di salire ad aiutarla, la odiavo perché, a causa sua, ero finito in questa trappola, odiavo me stesso perché odiavo lei, la mia affettuosa infermiera, la odiavo perché mi costringeva a odiarmi. A volte non esiste luogo più buio dei nostri stessi pensieri: la notte senza luna della mente. Avevo le mani umidicce. Il calcio della pistola era scivoloso per via del sudore freddo. Smisi di inseguire fantasmi e, controvoglia, tornai nel corridoio. Un bambolotto mi stava aspettando. Con i suoi cinquanta-sessanta centimetri di altezza, era una delle bambole più grandi fra quelle esposte sui ripiani della stanza degli hobby di Angela. Era seduto a terra, con le gambe aperte, rivolto nella mia direzione e rischiarato dalla luce che proveniva dall'unica stanza che non avevo ancora esaminato, quella di fronte al secondo bagno. Aveva le braccia tese, sulle quali vi era posato qualcosa. Qualcosa di brutto. Riconosco una cosa brutta quando la vedo, e questa era assolutamente, completamente, decisamente brutta. Nei film alla comparsa di una bambola come quella faceva inevitabilmente seguito la drammatica entrata di un tipaccio dalle cattive intenzioni. Di solito è un omone che indossa una maschera da hockey. O un cappuccio. Ed è armato di sega a catena o di sparachiodi ad aria compressa oppure, se è uno tradizionale, di una scure così grossa da decapitarci un Tirannosaurus Rex. Lanciai una rapida occhiata alla stanza degli hobby, ma là dentro non vi era nascosto nessuno. Avanti. Nel secondo bagno. Ancora vuoto. Avevo bisogno di usare la toilette. Non era il momento migliore. Avanti. Mi avvicinai al bambolotto, che indossava scarpe da tennis nere, jeans neri e maglietta nera. L'oggetto che teneva tra le braccia era un berretto blu marino con due parole ricamate in rosso, proprio sopra la visiera: MYSTERY TRAIN. Per un momento pensai che si trattasse di un berretto simile al mio. Poi
mi resi conto che era proprio il mio, quello che avevo lasciato sul tavolo della cucina. Lanciando ora un'occhiata alle scale, ora alla porta aperta della stanza che non avevo ispezionato, entrambe possibili fonti di problemi, afferrai il berretto e me lo calcai in testa. Alla luce e nelle circostanze giuste, qualsiasi bambola o bambolotto può assumere un aspetto strano e crudele. Ma questo era diverso, perché non vi era alcun tratto del suo viso di bisquit che mi apparisse malvagio. Tuttavia, nel guardarlo, ebbi la sensazione che la nuca mi si increspasse come una decorazione per la festa di Halloween. Quello che mi spaventava non era la sua stranezza, bensì la sua incredibile familiarità: aveva il mio volto. Era stato modellato pensando a me. Mi sentii allo stesso tempo commosso e terrorizzato. Angela mi aveva voluto così bene da modellare i miei lineamenti con estrema precisione, da commemorarmi affettuosamente in una delle sue creazioni, inserendola poi fra le sue preferite. Ma il fatto di trovarsi all'improvviso davanti a una riproduzione della propria immagine risveglia timori ancestrali, come se, toccando questo feticcio, la mia mente e la mia anima vi restassero intrappolate, permettendo così a uno spirito maligno prigioniero del bambolotto di impadronirsi del mio corpo. Finalmente libero, facendosi passare per me, si sarebbe aggirato nella notte, spaccando il cranio alle fanciulle vergini e mangiando il cuore dei neonati. In tempi normali, ammesso che questi tempi esistano, ho la fortuna di possedere un'immaginazione particolarmente viva. Con un certo sarcasmo, Bobby Halloway la definisce «il circo a trecento piste della tua mente». Questa è, senza dubbio, una qualità che ho ereditato sia da mia madre, sia da mio padre, persone abbastanza intelligenti per sapere che la nostra conoscenza è molto limitata, abbastanza curiosi per non smettere mai di imparare e dotate di sufficiente intuito per comprendere che ogni cosa e ogni evento contengono infinite possibilità. Quando ero piccolo, mi leggevano i versi di A.A. Milne e di Beatrix Potter ma, sicuri che fossi un bambino precoce, anche quelli di Donald Justice e Wallace Stevens. Da allora in poi, la mia mente è stata un continuo turbinio di immagini tratte da versi di poesie: dai piccoli alluci rosa di Timothy Tim alle lucciole che si contorcevano nel sangue. In tempi straordinari, come questa notte dei cadaveri rubati, la mia fantasia esagerata finiva per danneggiarmi e, nel circo a trecento piste della mia mente, tutte le tigri erano pronte a uccidere i loro domatori e tutti i clown nascondevano coltelli da macellaio e cuori malvagi
sotto gli indumenti sformati. Devo andare avanti. Ancora una stanza. Un rapido controllo, coprirsi le spalle, poi giù per le scale. Evitando, per superstizione, di toccare il mio piccolo sosia, mi avvicinai alla porta aperta della stanza di fronte al secondo bagno. Una camera per gli ospiti, arredata in modo assai semplice. Abbassando la visiera sulla fronte e strizzando gli occhi, mi guardai intorno: nessuno. I bordi del copriletto erano ripiegati sotto il materasso, di conseguenza lo spazio tra il pavimento e il letto risultava chiaramente visibile. Al posto della cabina, vi era un lungo cassettone e un massiccio armadio a due ante che aveva, alla base, un paio di cassetti, uno accanto all'altro. L'armadio era decisamente abbastanza profondo da poter contenere un uomo, con o senza sega. Nella stanza c'era un'altra bambola che mi aspettava. Questa era seduta al centro del letto, tendeva le braccia come il bambolotto Christopher Snow che avevo lasciato in corridoio ma, nella luce accecante, non riuscii a distinguere che cosa tenesse fra le rosee manine. Spensi il lampadario. A guidarmi rimase una lampada accesa sul comodino. Entrai camminando all'indietro, pronto a sparare contro chiunque fosse apparso nel corridoio. Il grosso armadio torreggiava al limite del mio campo visivo. Se le ante avessero cominciato ad aprirsi, non mi sarebbe nemmeno servito il puntamento laser per riempirle di buchi con i proiettili calibro 9. Continuando a indietreggiare, finii per andare a sbattere contro il letto e, costretto a voltarmi, ebbi la possibilità di vedere più da vicino la bambola. In ognuna delle manine rivolte verso l'alto vi era un occhio. Non un occhio dipinto. Non un bottoncino di vetro, di quelli usati dai fabbricanti di bambole. Un occhio umano. Le ante dell'armadio non si erano spostate sui cardini. Tranne il tempo, non si muoveva nulla nel corridoio. Io ero immobile come le ceneri in un'urna, ma la vita continuava a fluire dentro di me: il cuore batteva come mai aveva fatto prima d'allora, non era più gradevolmente accelerato; in preda al panico, ora martellava furiosamente contro la gabbietta da scoiattolo delle costole. Ancora una volta guardai quell'offerta di occhi che riempivano le piccole
mani di porcellana: occhi castani iniettati di sangue, umidi e lattiginosi, spaventosi e spaventati nella loro nudità senza palpebre. Sapevo che una delle ultime cose che avevano visto era un furgone bianco che si fermava in risposta a un pollice teso. E un uomo con la testa rasata e una perla per orecchino. Ma sapevo anche che in quel momento non era con l'uomo calvo che mi stavo confrontando. Quella provocazione, quel giocare a nascondino, non era nel suo stile. A lui si addiceva l'azione rapida, violenta, crudele. Avevo invece l'impressione di essere finito in un istituto per giovani disadattati, in cui i bambini psicotici erano riusciti, con la violenza, ad avere la meglio sui loro sorveglianti e adesso, ubriachi di libertà, si stavano divertendo. Mi sembrava perfino di udire le loro risa soffocate nelle altre stanze: macabre risatine dietro piccole, fredde mani. Mi rifiutai di aprire l'armadio. Ero salito per aiutare Angela, ma non potevo fare niente per lei, né adesso, né mai più. Volevo soltanto scendere, uscire da quella casa, inforcare la mia bicicletta e scappare il più lontano possibile. Mentre mi avviavo verso la porta, le luci si spensero. Qualcuno aveva azionato un interruttore in una scatola di raccordo. L'oscurità era così profonda che non risultò gradita nemmeno a me. Le finestre erano coperte da pesanti tendaggi e la luna, simile a una brocca di latte, non riusciva a trovare varchi attraverso i quali riversarsi all'interno. Tutto era nero su nero. Correndo alla cieca, mi precipitai verso la porta. Poi deviai, fermandomi accanto a uno stipite, perché ebbi la netta sensazione che ci fosse qualcuno nel corridoio e che, varcando la soglia, mi sarebbe piombata addosso raffilata lama di un coltello. Rimasi in ascolto, con la schiena appoggiata alla parete. Trattenevo il fiato, ma non ero in grado di calmare il mio cuore, che sbatacchiava come gli zoccoli di un cavallo, anzi di un'intera sfilata di cavalli, sull'acciottolato di una strada, e mi sentii tradito dal mio stesso corpo. Nondimeno, al di sopra della corsa tumultuosa del mio cuore, udii il cigolio dei cardini. Le ante dell'armadio si stavano aprendo. Oh, Gesù. Era una preghiera, non un'imprecazione. O forse entrambe le cose. Stringendo la Glock con tutte e due le mani, puntai l'arma nella direzione in cui pensavo vi fosse l'armadio. Colto dal dubbio, spostai la mira di circa dieci centimetri a sinistra. Ma subito dopo la riportai a destra.
Ero disorientato da quel buio così fitto. Sicuramente avrei colpito l'armadio, ma non ero certo di mandare il proiettile a colpire proprio lo spazio al di sopra dei cassetti. Dovevo fare centro al primo colpo, perché la fiammata dello sparo avrebbe rivelato la mia posizione. Non potevo rischiare di sparare a caso. Sebbene una scarica di proiettili avrebbe probabilmente sistemato una volta per tutte quel bastardo, chiunque fosse, esisteva però la possibilità che riuscissi soltanto a ferirlo, e una ancor minore, ma concreta, possibilità che lo facessi semplicemente imbufalire. E quando il caricatore si fosse esaurito, che cosa avrei fatto? Giusto, che cosa avrei fatto? Avanzando di lato, uscii nel corridoio, dove il tanto temuto incontro non avvenne. Mentre varcavo la soglia, mi chiusi alle spalle la porta, in modo che facesse da barriera tra me e l'individuo uscito dall'armadio, ammesso che il cigolio dei cardini non fosse stato frutto della mia immaginazione. Le luci al piano terreno dovevano essere collegate a un circuito separato. In fondo al corridoio, una calda luminosità saliva dalla tromba delle scale. Invece di fermarmi a vedere chi sarebbe balzato fuori dalla camera degli ospiti, mi lanciai di corsa verso le scale. Sentii una porta aprirsi dietro di me. Ansimando, scesi i gradini a due a due ed ero quasi arrivato al pianerottolo, quando la mia testa in miniatura mi schizzò accanto, andando a frantumarsi contro la parete davanti a me. Spaventato, sollevai un braccio per proteggermi gli occhi. Schegge di biscuit mi rimbalzarono sul viso e sul petto. Inavvertitamente appoggiai il tallone destro sul bordo arrotondato di un gradino e slittai. Quasi sul punto di cadere, piombai in avanti, urtai contro la parete del pianerottolo, ma riuscii a mantenere l'equilibrio. Calpestando pezzetti del mio viso di biscuit, mi voltai con uno scatto per affrontare il mio aggressore. Il corpo senza testa del bambolotto, giustamente vestito di nero, arrivò con la velocità di un proiettile. Abbassandomi, lasciai che passasse sopra la mia testa e andasse a colpire la parete alle mie spalle. Quando sollevai lo sguardo e puntai la pistola contro l'oscuro spazio in cima alle scale, non trovai nessuno contro cui sparare... come se il bambolotto si fosse staccato la testa da solo e me l'avesse scagliata contro, e poi si fosse lanciato a capofitto nella tromba delle scale.
Le luci al piano terreno si spensero. Attraverso quella pericolosa oscurità, percepii un odore di bruciato. 15 Brancolando nel buio impenetrabile, riuscii finalmente a trovare il corrimano. Mi aggrappai al legno liscio con una mano sudaticcia e cominciai a scendere la seconda rampa di scale che conduceva all'ingresso. Quel buio aveva una strana sinuosità, sembrava avvolgersi e serpeggiare intorno a me. Ma poco dopo mi resi conto che era l'aria, non l'oscurità, quella che percepivo: sinuose correnti d'aria calda salivano a frotte lungo la tromba delle scale. Un momento dopo, viticci, poi tentacoli e infine una pulsante nuvola di fumo dall'odore disgustoso invase le scale, salendo dal basso, invisibile ma palpabile, simile a un gigantesco anemone di mare che avvolga un sommozzatore. Tossendo, ansimando, sentendomi mancare il fiato, decisi di tornare al piano superiore, nella speranza di riuscire a scappare attraverso una delle finestre; ma in ogni caso non da quella del bagno di Angela. Di nuovo sul pianerottolo, presi a salire tre o quattro gradini alla volta, poi mi bloccai. Attraverso le lacrime che mi inondavano gli occhi irritati e attraverso la spessa coltre di fumo, vidi al piano superiore una luce che sembrava palpitare. Fuoco. Avevano appiccato due incendi, uno sopra e uno sotto. Quegli invisibili bambini psicotici si erano scatenati nel loro folle gioco; sembravano così numerosi che mi fecero tornare alla mente il vero e proprio plotone di inseguitori di qualche ora prima, come avessi avuto l'impressione che spuntassero letteralmente dal terreno intorno all'impresa di pompe funebri, quasi che Sandy Kirk possedesse il potere di far uscire i morti dalle tombe. Tornai a scendere, ancora una volta e alla massima velocità. Mi tuffai verso l'unica possibile fonte di aria respirabile. Forse sarei riuscito a trovarla nel punto più basso della casa, visto che il fumo tende a salire, mentre le fiamme, per alimentarsi, attirano l'aria più fresca verso la base. Ogni volta che inspiravo, venivo preso da un accesso di tosse, la sensazione di soffocamento aumentava e io mi sentivo stretto nella morsa del panico. Trattenni quindi il fiato fino a quando raggiunsi l'ingresso. Poi mi lasciai cadere a terra, mi sdraiai e, finalmente, riuscii a respirare. L'aria era calda e puzzolente ma, dato che tutto è relativo, la trovai più fresca di quel-
la del Pacifico. Non rimasi sdraiato a lungo per abbandonarmi a un'orgia di respirazione. Mi fermai il tempo appena sufficiente per trarre diversi, profondi respiri, in modo da purificare i polmoni affumicati, e raccogliere saliva a sufficienza per sputare un po' di fuliggine. Poi sollevai il capo per controllare l'altezza di quella preziosa zona di sicurezza. Soltanto cinque-dieci centimetri. Nondimeno, questa specie di bassa piscina sarebbe probabilmente bastata a permettermi di raggiungere l'uscita. Nei punti in cui la moquette era in fiamme, non ci sarebbe naturalmente stato alcuno strato di aria respirabile. Le luci erano ancora spente, il fumo mi accecava; strisciando sullo stomaco, mi diressi verso la porta d'ingresso, o almeno speravo che si trovasse da quella parte. La prima cosa che incontrai nel buio fu un divano, quindi dovevo aver superato l'arco che immetteva nel soggiorno, il che significava che mi trovavo fuori rotta di novanta gradi. Adesso l'aria relativamente pulita vicino al pavimento era attraversata da luminose pulsazioni color arancio, che mettevano in evidenza le spesse volute di fumo simili a nuvole scure sopra una pianura. Dalla mia prospettiva, le fibre di nylon beige erano una distesa di erba gialla illuminata da una tempesta elettrica. Questo angusto regno al di sotto del fumo mi appariva come un mondo alternativo nel quale ero precipitato varcando la porta fra le due dimensioni. Quelle pulsazioni luminose erano il riflesso delle fiamme che avevano invaso le altre stanze, ma non rischiaravano l'oscurità abbastanza per permettermi di trovare l'uscita. Anzi, riuscivano solo a confondermi di più. Fino a quel momento, mi ero illuso che le fiamme fossero lontane da me. Ora che le vedevo, anche questa illusione era svanita. Oltretutto, non ero nemmeno in grado di dire se stavano avanzando o se si allontanavano, di conseguenza la luce non mi era di aiuto, anzi, faceva solo aumentare la mia preoccupazione. O il fatto di aver inspirato del fumo aveva avuto su di me effetti peggiori del previsto, compresa una percezione distorta del tempo, oppure coloro che avevano appiccato il fuoco si erano serviti di una sostanza accelerante, come la benzina, perché le fiamme si stavano propagando con insolita rapidità. Deciso a raggiungere la porta d'ingresso, inspirai disperatamente l'aria sempre più acre e strisciai sul pavimento, appoggiandomi sui gomiti, ur-
tando i mobili, finché andai a sbattere con la fronte contro il caminetto di mattoni. L'ingresso era più lontano che mai, tuttavia non riuscivo a immaginarmi mentre mi arrampicavo su per il camino come Babbo Natale che torna alla slitta. Ero stordito. Un dolore lancinante mi spaccava il cranio, formando una diagonale che partiva dal sopracciglio sinistro e arrivava all'attaccatura dei capelli sulla destra. Gli occhi mi bruciavano per il fumo e il sudore salato che si mescolava alle lacrime. Non mi sentivo soffocare, ma provavo un forte senso di nausea per via delle pungenti esalazioni che impregnavano anche l'aria vicino al pavimento; stavo cominciando a pensare che non ne sarei uscito vivo. Cercando di ricordare dove si trovava il caminetto rispetto all'arco che immetteva nell'ingresso, ripresi a strisciare verso il centro della stanza. Mi sembrava assurdo non riuscire a trovare la porta e andarmene da quella casa. Non era certo un castello, c'erano solo sette stanze, nemmeno troppo grandi, e due bagni e mezzo. Di tanto in tanto, nei notiziari della sera, trasmettevano servizi su persone che erano morte in un incendio, e non si capiva mai com'era possibile che non riuscissero a raggiungere né una porta, né una finestra. A meno che, naturalmente, non fossero ubriachi. O drogati, O così scemi da tornare tra le fiamme per cercare di salvare Fluffy, il loro micino. Il che può sembrare ingrato da parte mia visto che, solo qualche ora prima, in un certo senso ero stato salvato da un gatto. Ma adesso capivo come la gente potesse morire in simili circostanze: il fumo e il buio possono disorientare più della droga e dell'alcol; inoltre, più si respirava quell'aria intossicata, meno lucida era la mente, alla fine i pensieri si facevano totalmente confusi e non si riusciva a capire più nulla. Quando ero corso al piano superiore per andare a vedere che cosa fosse successo ad Angela, ero rimasto stupito dalla mia calma nell'affrontare il pericolo. Avevo perfino sentito dentro di me uno sconcertante entusiasmo. Che grande differenza possono fare dieci minuti. Ora sapevo che, in situazioni del genere, non mi sarei mai comportato con l'aplomb di Batman, e non mi sentivo più attratto dal lato romantico del pericolo. All'improvviso, sbucando fuori da quella lugubre nebbia, qualcosa si strofinò contro di me, annusandomi il collo e il mento: qualcosa di vivo. Nel circo a trecento piste della mia mente, immaginai una Angela Ferryman tornata in vita grazie a un sortilegio, che strisciava verso di me e mi piantava un freddo, insanguinato bacio sulla gola. Gli effetti della mancan-
za di ossigeno si stavano facendo così seri che nemmeno questa spaventosa immagine riuscì a rischiararmi la mente e, senza volerlo, sparai un colpo. Fortunatamente, mirai nella direzione sbagliata perché, proprio nel momento in cui il rumore secco dello sparo riecheggiava nella stanza, riconobbi il naso freddo sulla gola e la lingua calda sull'orecchio del mio solo e unico cane, del mio fedele compagno, del mio Orson. Emisi un verso gutturale che doveva significare: «Ciao, amico». Mi leccò la faccia. Aveva un fiato da cane, ma non potevo fargliene una colpa. Sbattei furiosamente le palpebre per cercare di schiarirmi la vista e una luce rossa pulsò nella stanza. Nonostante i miei sforzi, riuscii soltanto a scorgere davanti a me l'immagine confusa di una testa pelosa premuta sul pavimento. Il quel momento mi resi conto che, se era riuscito a entrare in casa, avrebbe potuto mostrarmi come raggiungere l'uscita, prima che entrambi prendessimo fuoco, con una gran puzza di tela di jeans e pelo di cane. Feci appello a tutte le mie forze e riuscii in qualche modo a rialzarmi in piedi. Sentii l'ostinata anguilla di nausea risalirmi nuovamente fino in gola, ma ancora una volta la ricacciai indietro. Chiudendo gli occhi, cercando di non pensare alla violenta ondata di calore che mi aveva investito, allungai il braccio e afferrai lo spesso collare di cuoio di Orson, che, nel frattempo, non si era allontanato di un centimetro e continuava a starmi incollato alle gambe. Mentre mi guidava attraverso la casa, Orson respirava tenendo il muso vicino al pavimento, io invece dovevo trattenere il fiato e fingere di ignorare il fumo che mi pizzicava le narici. Cercando di raggiungere la porta d'ingresso, andammo a sbattere contro alcuni mobili, ma durante quel breve tragitto non potei fare a meno di ringraziare Dio per avermi fatto nascere con una malattia genetica come l'XP, piuttosto che cieco. Proprio quando ero convinto che sarei svenuto se non mi fossi gettato a terra per respirare, sentii una folata d'aria fredda sul viso e, aprendo gli occhi, mi accorsi che riuscivo a vedere. Eravamo in cucina. La stanza non era ancora stata invasa dalle fiamme e l'aria che penetrava dalla porta di servizio aperta spingeva tutto il fumo verso la sala da pranzo. Sul tavolo vi erano ancora le candele votive nelle coppette di vetro rosso, i bicchieri da liquore e la bottiglia di brandy all'albicocca. Sbattei le palpebre più volte davanti a questo grazioso quadretto; guardandolo, avrei
quasi potuto convincermi che quanto accaduto era solo uno spaventoso incubo e che Angela, ancora persa nella giacca di suo marito, si sarebbe seduta di fronte a me, avrebbe riempito di nuovo il bicchiere e avrebbe continuato il suo strano racconto. Avevo la bocca così riarsa che fui tentato di portarmi via la bottiglia di brandy. Ma a casa di Bobby Halloway ci sarebbe eertamente stata della birra. Il chiavistello della porta adesso era tirato. E per quanto in gamba, dubito che Orson fosse stato capace di aprire una porta chiusa a chiave; tanto per cominciare, non aveva la chiave. Evidentemente, gli assassini erano scappati da quella parte. Una volta fuori, cercai di espellere anche le ultime tracce di fumo dai polmoni, poi infilai la Glock in tasca e, guardandomi nervosamente intorno, mi asciugai le mani sudate sui jeans. Come un branco di pesci sotto l'argentea superficie di un laghetto, le ombre delle nubi nuotavano sul prato illuminato dalla luna. A parte le piante agitate dal vento, nulla si muoveva intorno a me. Afferrai la bicicletta e la condussi oltre la veranda, verso il pergolato di gelsomini; voltandomi a guardare la casa, con mio grande stupore notai che non appariva avvolta dalle fiamme. Anzi, dall'esterno ci si accorgeva appena dell'incendio: sottili lingue di fuoco salivano, attoreigliandosi come rampicanti, sui tendoni di due finestre del primo piano, mentre bianchi petali di fumo uscivano dai fori di ventilazione del sottotetto. A parte i fruscii e i sibili del vento incostante, la notte era immersa in un silenzio soprannaturale. Moonlight Bay non è certo una metropoli, tuttavia possiede una sua voce notturna: i motori delle auto, una musica lontana proveniente da qualche locale o dalla chitarra di un ragazzo che si esercita sulla veranda di casa, un cane che abbaia, il rumore delle grosse spazzole montate sul camion per la pulizia delle strade, le voci dei passanti, le risate dei ragazzi che si riuniscono fuori della Millennium Arcade, lungo l'Embarcadero Way. e, di tanto in tanto, il fischio melanconico di un treno passeggeri o di un convoglio di vagoni merci che si avvicina all'incrocio di Ocean Avenue... ma adesso questa voce notturna taceva. Sembrava di essere in una città fantasma. Evidentemente, il rumore del colpo di pistola che mi era sfuggito nel soggiorno non era stato abbastanza forte da attirare l'attenzione di qualcuno. Passando sotto il pergolato fragrante di gelsomini, accompagnando la
bicicletta, le cui ruote emettevano un leggero ticchettio, il battito del cuore che mi rimbombava nelle orecchie, seguii di buon passo Orson, che trotterellava verso il cancello. Fece un balzo e con una zampa riuscì ad aprire il paletto; era un gioco che gli avevo già visto fare. Insieme percorremmo il vialetto che conduceva alla strada, camminando in fretta, ma senza correre. Eravamo fortunati: nessuno ci aveva visto. In quel momento la strada era deserta. Se un vicino mi avesse visto uscire di corsa dalla casa in fiamme, il comandante Stevenson avrebbe avuto una scusa per venire a cercarmi. E per spararmi, dato che avevo opposto resistenza. Che lo avessi fatto o no. Inforcai la bicicletta, mi mantenni in equilibrio posando la punta della scarpa sul marciapiede e mi voltai a guardare la casa. Il vento faceva fremere le foglie degli alberi di magnolia e. attraverso i rami, vidi che le fiamme ora lambivano quasi tutte le finestre. Pieno di dolore e agitazione, di curiosità e di terrore, di tristezza e di perplessità, mi allontanai rapidamente, pedalando sul marciapiede, dirigendomi verso strade meno illuminate, con Orson che mi correva accanto e ansimava rumorosamente. Avevamo percorso circa un isolato, quando sentii che le finestre di casa Ferryman cominciavano a esplodere per il calore. 16 Stelle che scintillavano fra i rami, il chiarore lunare che filtrava tra le foglie, gigantesche querce, una riposante oscurità, la pace delle tombe e, almeno per uno di noi, l'intrigante odore degli scoiattoli nascosti: eravamo tornati nel cimitero adiacente la chiesa di Santa Bernadette. Avevo appoggiato la bicicletta a una lapide in granito, sormontata dalla testa, cinta dall'aureola, di un angelo anch'esso in granito. Io, senza aureola, me ne stavo seduto per terra, con la schiena appoggiata contro un'altra lapide sormontata da una croce. A qualche isolato di distanza, le sirene delle autopompe, dirette verso la casa dei Ferryman, ululavano nel silenzio. Non ero andato direttamente a casa di Bobby Halloway, perché avevo un accesso di tosse che mi impediva di controllare il manubrio. Anche l'andatura di Orson si era fatta barcollante e il cane cercava di scacciare il persistente odore di fumo con una serie di violenti sternuti. Ora, trovandomi in compagnia di persone che certo non si sarebbero of-
fese, raccolsi in bocca un bel po' di catarro al gusto di fuliggine e sputai più volte in mezzo alle contorte radici di una quercia, sperando che il mio sputo non uccidesse quell'imponente albero, dopo che era riuscito a sopravvivere a due secoli di terremoti, temporali, incendi, insetti, malattie e, più recentemente, alla passione tutta americana di costruire mini centri commerciali a ogni angolo. Il gusto che sentivo in bocca non poteva essere peggiore se avessi mangiato mattonelle di carbone in brodo di olio per motori. Essendo rimasto nella casa in fiamme per un tempo più breve rispetto al suo sconsiderato padrone, Orson si riprese prima di me. Mentre io stavo ancora liberandomi della fuliggine, lui aveva già cominciato a camminare avanti e indietro tra le tombe più vicine, annusando il terreno e seguendo diligentemente le tracce dei simpatici roditori. Tra uno sputo e l'altro, quando non si allontanava troppo, parlavo con Orson che sollevava la nobile testa, fingendo di ascoltarmi e scodinzolando a mo' di incoraggiamento, anche se spesso non riusciva a distogliere l'attenzione dall'odore degli scoiattoli. «Che diavolo è successo in quella casa?» domandai. «Chi l'ha uccisa e che significato avevano quegli orrendi giochetti che facevano con me? Che cosa voleva dire tutta quella storia delle bambole, perché non si sono limitati a tagliarmi la gola e a bruciarmi insieme con lei?» Orson scrollò la testa e io cercai di interpretare quella reazione. Non sapeva darmi una risposta. Era perplesso. Non aveva indizi. Non riusciva a spiegarsi perché non mi avessero tagliato la gola. «Non penso che sia stato per la Glock. Erano in due, forse in tre; potevano saltarmi addosso tutti insieme, se avessero voluto. Inoltre, anche se Angela è stata sgozzata, sicuramente avevano delle pistole. Santo cielo, questi sono assassini, individui senza scrupoli. Cavano gli occhi alla gente solo per divertimento. Non hanno certo problemi a girare armati, figurati se si spaventavano per la Glock.» Orson rizzò il capo, esaminando la questione. Forse era stato per la Glock. Forse no. O forse sì. Chi lo sapeva? E che cos'è una Glock? E che cos'è quell'odore? Un odore formidabile. Una fragranza così voluttuosa. Pipì di scoiattolo? Scusa, Padron Snow. Affari. Ho degli affari da sbrigare. «Non credo che abbiano incendiato la casa per uccidere me. In realtà, a loro non importava se morivo o no. Altrimenti, si sarebbero mossi diversamente. Hanno incendiato la casa per coprire l'omicidio di Angela. Questa
è la spiegazione.» Mentre parlavo, Orson svuotava i polmoni dell'aria piena di fuliggine della casa in fiamme e li riempiva con aria buona, odorosa di scoiattolo. «Era proprio una brava donna, così generosa», commentai amaramente. «Non meritava di morire in quel modo, anzi, non meritava di morire affatto.» Orson smise per un momento di annusare. Sofferenza umana. Terribile. Che cosa terribile. Dolore, morte, disperazione. Ma non c'è niente da fare. Non ci si può fare nulla. Così va il mondo. Questa è la natura dell'esistenza umana. Terribile. Vieni ad annusare gli scoiattoli con me, Padron Snow. Ti sentirai meglio. Sentii un groppo in gola, non per il dolore ma per qualcosa molto più prosaico che, come un'ostrica nera, sputai tra le radici dell'albero. «Se Sasha fosse qui, direbbe ancora che le ricordo James Dean?» Sentivo il viso coperto da uno strato unto. Vi passai sopra una mano, anch'essa unta. Sull'erba rada che cresceva fra le tombe e sulle lucidi superfici delle lapidi, le ombre lunari delle foglie agitate dal vento danzavano come fate di cimiteri. Anche in quella strana luminosità, riuscii a vedere che il palmo della mano che avevo passato sul viso era sporco di fuliggine. «La mia puzza si deve sentire fino in paradiso.» Quasi a conferma delle mie parole, Orson perse tutto il suo interesse per le tracce di scoiattolo e si avvicinò a me con grande entusiasmo. Cominciò ad annusarmi energicamente le scarpe, le gambe, il petto, infilando poi il muso sotto il giubbotto e fino all'ascella. A volte ho il sospetto che il mio cane non solo comprenda più di quanto si possa immaginare, ma che sia anche dotato di un buon senso dell'umorismo e che abbia uno speciale talento per il sarcasmo. Costringendolo a ritirare il muso dalla mia ascella e tenendogli il capo fra le mani, gli feci notare: «Nemmeno tu profumi di rosa, amico mio. Inoltre, che razza di cane da guardia sei? È possibile che, quando sono arrivato, gli assassini fossero già in casa all'insaputa di Angela. Ma perché non gli hai morso il sedere quando se ne sono andati? Se sono fuggiti dalla cucina, devono essere passati accanto a te. E allora perché non ho trovato un gruppo di tipacci che si rotolavano sull'erba, tenendosi il sedere e ululando di dolore?» Lo sguardo di Orson era fermo, gli occhi profondi. La domanda e l'im-
plicita accusa lo lasciavano allibito. Sconvolto. Era un cane pacifico. Un cane di pace, era lui. Uno che inseguiva le palle di gomma, che leccava la faccia alla gente, un filosofo e un compagnone. Oltretutto, Padron Snow, il mio compito era quello di impedire ai cattivi di entrare, non di uscire dalla casa. Tanto meglio se vanno via. Chi li vuole tra i piedi? Cattivi e mosche. Via, via. Mentre me ne stavo seduto naso-a-naso con Orson, mi sentii pervadere dalla sensazione che qualcosa di prodigioso stava avvenendo in me... o forse si trattava di una temporanea forma di pazzia... e per un momento mi sembrò di poter leggere i suoi pensieri, che erano completamente diversi da quelli che avevo inventato per lui. Diversi e inquietanti. Smisi di tenergli la testa fra le mani, ma lui non si allontanò da me, né abbassò lo sguardo. Io non riuscivo ad abbassare il mio. Raccontare un fatto del genere a Bobby Halloway avrebbe significato farsi raccomandare una lobotomia; nondimeno, avevo la sensazione che il cane temesse per me. Mi compiangeva perché lottavo furiosamente per non ammettere la reale profondità del mio dolore. Mi compiangeva perché non volevo riconoscere quanto mi spaventasse la prospettiva di essere solo. Ma più di qualunque altra cosa, temeva per me, come se sulla mia vita incombesse qualcosa di terribile, di cui io non ero consapevole: una ruota bianca e luminosa, grande come una montagna, che mi avrebbe schiacciato, frantumato, lasciando dietro di sé la mia polvere infocata. «Che cosa, quando, dove?» mi chiesi. Lo sguardo di Orson era intenso. Anubi, il dio dalla testa di cane, signore delle tombe, che pesava il cuore dei morti, non avrebbe potuto fissarmi in modo più penetrante. Il mio cane non era un Lassie, uno spensierato cagnone che aveva sempre voglia di divertirsi. «A volte mi spaventi», gli confessai. Sbattè gli occhi, scrollò la testa e si allontanò da me con un balzo, vagando in cerchio fra le tombe, annusando febbrilmente l'erba e le foglie di quercia cadute, fingendo insomma di essere di nuovo un cane. Forse non era Orson che mi aveva spaventato. Forse avevo spaventato me stesso. Forse i suoi occhi lucidi erano specchi nei quali avevo visto i miei, e attraverso quel riflesso, forse avevo scorto nel mio cuore verità che rifiutavo di vedere direttamente. «Questa sarebbe l'interpretazione di Halloway», conclusi. Improvvisamente agitato, Orson cominciò a raspare un cumulo di foglie
ancora umide per l'innaffiatura pomeridiana dell'impianto d'irrigazione, vi sprofondò il muso come se stesse cercando tartufi e, sbuffando, prese a battere il terreno con la coda. Scoiattoli. Gli scoiattoli hanno fatto sesso. Hanno fatto sesso, proprio qui. Scoiattoli. Proprio qui. Qui odore di scoiattoli-calore-muschio, proprio qui. Padron Snow, vieni a odorare qui, vieni a odorare, presto, presto, vieni a odorare sesso scoiattoli. «Così mi confondi», gli dissi. La mia bocca sapeva ancora di posacenere, ma non sputavo più fuliggine. Ora sarei stato in grado di raggiungere la casa Bobby Halloway in bicicletta. Ma prima di avviarmi, mi misi in ginocchio e mi voltai a guardare la lapide contro la quale ero rimasto appoggiato. «Come vanno le cose, Noah? Stai ancora riposando in pace?» Non avevo bisogno della torcia a stilo per leggere l'incisione che appariva sulla pietra. L'avevo già letta migliaia di volte e avevo trascorso ore a riflettere su nome e date. NOAH JOSEPH JAMES 5 giugno 1888-2 luglio 1984 Noah Joseph James, l'uomo dai tre nomi propri. Ma non è il tuo nome che mi stupisce, è la tua incredibile longevità. Novantasei anni di vita. Novantasei primavere, estati, autunni, inverni. Contro ogni probabilità, finora ho vissuto ventotto anni. Se la Signora Fortuna fosse davvero generosa con me, potrei raggiungere i trentotto. Se salta fuori che i medici non sanno fare previsioni, se le leggi delle probabilità vengono sospese e se il destino si prende una vacanza, forse arriverò a quarantotto. E a quel punto avrei vissuto la metà degli anni di Noah Joseph James. Non so chi fosse, che cosa abbia fatto in quasi un secolo trascorso sulla terra, se abbia avuto una moglie con cui trascorrere i suoi giorni o se abbia fatto in tempo a seppellirne tre, se i suoi figli siano diventati preti o serial killer; e, per la verità, non voglio saperlo. Ho immaginato per quest'uomo una vita ricca e meravigliosa. Voglio credere che abbia viaggiato molto, che sia andato nel Borneo e in Brasile, che sia stato in vacanza a Mobile Bay per il suo cinquantesimo compleanno e a New Orleans per il martedì
grasso, che abbia visitato le isole greche, inondate dal sole, e la terra segreta di Shangrila, tra le cime del Tibet. Voglio credere che abbia amato veramente e che, a sua volta, sia stato amato profondamente; che sia stato un guerriero e un poeta, un avventuriero e uno studioso, un musicista e un artista; un marinaio che ha solcato tutti i sette mari e che ha saputo superare coraggiosamente tutte le barriere impostegli dagli altri. Fintante che rimane solo un nome, può essere tutto ciò che desidero che sia e, immaginandomi al suo posto, posso vivere anch'io una lunga, lunga vita sotto il sole. «Ehi, Noah, scommetto che quando sei morto, nel 1984, gli impresari di pompe funebri non giravano armati», gli sussurrai. Mi alzai in piedi e mi avvicinai alla lapide adiacente dove, sotto lo sguardo vigile dell'angelo di granito, avevo appoggiato la bicicletta. Improvvisamente, Orson cominciò a ringhiare con tono basso. Era teso, attento. Testa e orecchie dritte. Sebbene la luce fosse piuttosto scarsa, mi sembrò che tenesse la coda tra le gambe. Seguii la direzione del suo sguardo e vidi un uomo alto, dalle spalle cadenti, che avanzava fra le tombe con aria furtiva. Nonostante le ombre, che tendevano ad ammorbidire le figure, l'uomo era una vera raccolta di angoli e linee nette, come uno scheletro vestito di nero; sembrava che uno dei vicini di Noah fosse uscito dalla bara per andare a fare una visita. L'uomo si fermò lungo la stessa fila di tombe dove ci trovavamo Orson e io, e consultò uno strano oggetto che teneva nella mano sinistra. Aveva l'aria di un telefono cellulare con un minuscolo schermo luminoso. Lo sconosciuto battè sulla tastiera. Per un momento, la strana musica delle note elettroniche si diffuse nel cimitero, tuttavia queste erano diverse da quelle del telefono. Quando una nuvola coprì la faccia della luna come un velo, l'uomo avvicinò al viso lo schermo verde mela e quelle lucine, benché fioche, mi permisero di riconoscerlo. Non potevo vedere il rosso dei suoi capelli, né gli occhi color ruggine ma, anche di profilo, il viso da levriere e le labbra sottili mi risultarono tristemente famigliari: era Jesse Pinn, l'assistente di Kirk. Non si era accorto di noi, nonostante ci trovassimo a una decina di metri alla sua sinistra. Fingemmo di essere di granito. Orson non ringhiava più, anche se il gemito del vento tra i rami delle querce avrebbe facilmente mascherato il rumore. Pinn sollevò il viso dall'apparecchio, lanciò un'occhiata a destra, in dire-
zione di Santa Bernadette, poi tornò a consultare il suo schermo. Infine, si avviò verso la chiesa. Continuò a non accorgersi di noi, nonostante gli fossimo così vicini. Guardai Orson. Orson guardò me. Dimenticati gli scoiattoli, seguimmo Pinn. 17 L'assistente di Kirk si avviò di buon passo verso la parte posteriore della chiesa, senza mai guardarsi indietro. Discese poi un'ampia scalinata in pietra che conduceva al seminterrato. Lo seguii da vicino per non perderlo di vista. Mi fermai soltanto a qualche metro dai gradini e, mantenendomi di lato, restai a osservare le sue mosse. Se si fosse voltato a guardare in cima alla scala, non avrei fatto in tempo a nascondermi alla sua vista, ma non ne ero molto preoccupato. Sembrava così preso da quanto stava facendo, che nemmeno il suono delle trombe del paradiso e il rumore di una folla di morti resuscitati avrebbero attirato la sua attenzione. Esaminò l'apparecchio che teneva in mano, lo spense e se lo infilò in una tasca interna del cappotto. Poi, da un'altra tasca, estrasse un secondo oggetto, ma la luce era troppo scarsa per permettermi di vederlo; al contrario del primo, questo strumento non era dotato di schermi luminosi. Nonostante il mormorio del vento e delle foglie, sentii una serie di scatti e di rumori striduli, seguiti da tre colpi secchi. Al quarto colpo riconobbi il rumore caratteristico di una pistola apriserrature Lockaid. La pistola era dotata di una barretta metallica, sottile e appuntita, che andava inserita nella toppa, sotto il meccanismo di ritenuta. Quando si premeva il grilletto, una molla laminare d'acciaio scattava verso l'alto e spingeva alcuni pioli nei loro alloggiamenti. Alcuni anni prima, Manuel Ramirez mi aveva mostrato come funzionava una Lockaid. Queste pistole apriserrature potevano essere vendute solo alle forze di polizia e il possesso da parte dei civili era illegale. Sebbene anche Jesse Pinn, così come Sandy Kirk, fosse capace di atteggiare il suo brutto muso a una convincente espressione di cordoglio, aveva comunque accettato di cremare delle persone che erano state uccise, con l'intento di coprire gravi crimini, quindi non si faceva certo scrupoli a pos-
sedere un attrezzo illegale come la Lockaid. Chissà, forse anche per lui esistevano dei limiti. Forse non avrebbe mai, per nessuna ragione al mondo, spinto una suora giù da una scogliera. Nondimeno, ricordando la luce assassina che avevo scorto nei suoi occhi quando, qualche ora prima, si era avvicinato alla finestra che si affacciava sul forno crematorio, non avrei scommesso neanche un soldo sulla vita dell'ipotetica suora. Pinn dovette premere il grilletto dell'apriserrature cinque volte per riuscire a riportare tutti i pioli nei loro alloggiamenti e aprire la serratura, dopodiché ripose la Lockaid in tasca. Quando spinse la porta, notai che il seminterrato, privo di finestre, era illuminato. Rimase sulla soglia per circa mezzo minuto, con le spalle ossute inclinate a sinistra e il capo teso verso destra, i capelli che il vento scompigliava come fili di paglia. Improvvisamente Pinn si raddrizzò e il movimento lo fece assomigliare a uno spaventapasseri animato che si sia liberato del suo bastone; subito dopo entrò nel locale, lasciando la porta leggermente socchiusa. «Resta qui», sussurrai a Orson. Cominciai a scendere la scalinata e, obbediente come sempre, il cane mi seguì. Appoggiai un orecchio alla porta, ma non udii nulla. Orson infilò il muso nel varco tra la porta e lo stipite, annusando l'aria, e sebbene gli dessi qualche colpetto sulla testa, finse di non capire e mi ignorò. Sporgendomi oltre il cane, infilai anch'io la testa, non per annusare ma per scoprire che cosa ci fosse all'interno. Strizzando gli occhi per proteggermi dalla luce, vidi un locale di circa sei metri per dodici, con pareti e soffitto di cemento, nel quale venivano conservati gli oggetti e le attrezzature usate per la chiesa e per l'annessa scuola di catechismo; vi erano poi cinque caldaie a gas, un grosso scaldabagno, pannelli con gli interruttori dell'impianto elettrico, nonché altri macchinari che non riconobbi. Vidi Jesse Pinn di spalle; aveva già attraversato per tre quarti la stanza e si stava dirigendo verso una porta che si apriva sulla parete opposta. Feci un passo indietro ed estrassi la custodia degli occhiali dal taschino della camicia. La chiusura in velcro si aprì con un rumore che mi parve simile a un peto di serpente, anche se non ho mai sentito un serpente emettere un peto. La mia viva immaginazione, di cui ho già parlato, aveva assunto una tendenza scatologica. Dopo aver inforcato gli occhiali da sole, sporsi di nuovo la testa oltre la
soglia, ma Pinn era già entrato nella seconda stanza del seminterrato. Come in precedenza, aveva lasciato la porta socchiusa e vidi che la luce era accesa anche dall'altra parte. «Le mie Nike non faranno rumore sul pavimento di calcestruzzo», sussurrai a Orson, «ma le tue unghie si sentirebbero subito. Rimani qui.» Spinsi la porta ed entrai. Orson rimase fuori, ai piedi della scalinata. Forse mi aveva obbedito perché gli avevo dato una spiegazione logica. O forse perché, da qualcosa che aveva annusato, sapeva che era meglio non procedere oltre. I cani hanno un olfatto migliaia di volte più acuto del nostro, che permette loro di raccogliere più dati di tutti i sensi umani messi insieme. Gli occhiali da sole mi proteggevano dalla luce e, allo stesso tempo, mi permettevano di muovermi nel locale illuminato senza alcuna difficoltà. Evitando di camminare al centro della stanza, mi mantenni vicino alle caldaie e agli altri macchinari, fra i quali mi sarei tuffato se Pinn fosse tornato indietro, sperando naturalmente di non essere visto. Il tempo e il sudore avevano ormai diminuito l'efficacia della lozione solare, ma speravo che la fuliggine mi avrebbe protetto a sufficienza. Avevo le mani foderate da quelli che sembravano guanti di seta nera e, con tutta probabilità, anche il viso doveva essere nelle stesse condizioni. Quando raggiunsi la porta interna, sentii in distanza due voci, entrambe maschili, una delle quali apparteneva a Pinn. Mi giungevano soffocate e non riuscii a capire che cosa stessero dicendo. Lanciai un'occhiata verso l'uscita e vidi Orson che sbirciava attraverso la porta, un orecchio dritto e l'altro abbassato. Al di là della porta interna, vi era una stanza lunga e stretta, quasi completamente vuota. La luce proveniva soltanto da alcuni tubi al neon appesi a catene fissate al soffitto e disposti in mezzo a condutture dell'acqua e del riscaldamento; per sicurezza preferii tenere gli occhiali. Giunto in fondo alla stanza, mi accorsi che si trattava di un locale a L, che proseguiva a destra con una stanza più lunga e più larga della prima, ma sempre poco illuminata. Questa seconda parte era adibita a magazzino e, mentre cercavo di avvicinarmi alle voci, oltrepassai scatole di provviste, addobbi per festività e celebrazioni varie, nonché armadietti metallici contenenti gli archivi della chiesa. Dato che la stanza era piena di ombre simili a gruppi di monaci in saio e cappuccio, decisi di togliere gli occhiali da sole.
A mano a mano che procedevo, le voci si facevano sempre più alte, ma l'acustica era terribile e non riuscivo ancora a distinguere le parole. Sebbene non gridasse, Pinn doveva essere furibondo, lo dedussi dal tono di minaccia con cui parlava. L'altro uomo cercava di calmarlo. A metà della stanza era stato disposto un vero e proprio presepio a grandezza naturale: non soltanto Giuseppe, Maria e una culla con Gesù Bambino, ma tutta la rappresentazione completa, con magi, cammelli, asini, agnellini e angeli del cielo. La stalla, di legno, conteneva vero fieno; i personaggi e gli animali erano fatti con stecche di legno e rete metallica ricoperte di gesso; gli abiti e i lineamenti erano stati dipinti con vera maestria e protetti da una vernice impermeabile che, perfino alla fioca luce della stanza, conferiva una brillantezza soprannaturale. Dagli attrezzi, le vernici e altri prodotti posati accanto alle statue, dedussi che vi erano lavori di restauro in corso. Una volta terminati, il presepio sarebbe stato coperto da teli di protezione in attesa del Natale successivo. Cominciavo ad afferrare qualche parola della conversazione tra Pinn e lo sconosciuto, ma continuai ad avanzare in mezzo alle statue, alcune delle quali erano più alte di me. Guardando quella scena, mi sentivo vagamente disorientato, perché nessuno dei personaggi si trovava al suo posto rispetto agli altri. Uno dei magi aveva il viso appoggiato contro la tromba di un angelo e Giuseppe sembrava stesse conversando con un cammello. Gesù Bambino se ne stava tutto solo nella culla, posata su una balla di fieno in un angolo della stalla. La Vergine aveva un sorriso beato e uno sguardo adorante, ma l'oggetto di tanta attenzione non era il suo santo bambino, bensì un secchio di metallo. Un altro dei magi sembrava fissare il sedere di un cammello. Passai in mezzo a questo presepio così disorganizzato e, arrivato quasi in fondo, mi nascosi dietro un angelo che suonava il liuto. Mentre io ero in ombra, guardando oltre l'ala parzialmente ripiegata della statua, vidi Jesse Pinn in piena luce: era a circa sei metri di distanza da me e stava strapazzando un uomo fermo ai piedi della scala che conduceva al piano terra della chiesa, dove si svolgevano le funzioni. «Sei stato avvertito», diceva Pinn, alzando la voce fino a farla quasi diventare un ringhio rabbioso. «Quante volte te lo abbiamo già detto?» Inizialmente non riuscii a scorgere l'uomo, perché la sua figura era nascosta da quella di Pinn. Aveva una voce bassa e pacata, e non riuscivo a distinguere le sue parole. L'assistente di Kirk fece un gesto di disgusto e cominciò a camminare
avanti e indietro, chiaramente agitato, passandosi una mano fra i capelli scompigliati. Finalmente fui in grado di vedere l'altro uomo: era padre Tom Eliot, il parroco di Santa Bernadette. «Idiota, stupido pezzo di merda», lo insultò Pinn, «non sei che un deficiente rammollito.» Padre Tom superava appena il metro e settanta, era grassoccio e aveva il viso mobile ed espressivo del comico nato. Sebbene non facessi parte della sua chiesa, né di altre per la verità, avevo parlato con lui in diverse occasioni e mi era sembrato un brav'uomo, sempre pronto a prendersi in giro e dotato di un entusiasmo quasi infantile per la vita. Non era difficile capire perché i suoi parrocchiani lo adorassero. Ma Pinn non lo adorava affatto. Alzò una mano scheletrica e puntò un dito ossuto contro il parroco: «Mi fai schifo, brutto ipocrita, figlio di puttana». Evidentemente, padre Tom aveva deciso di non reagire a questa violenta aggressione verbale. Mentre continuava a camminare nervosamente avanti e indietro. Pinn sferzava l'aria con il taglio di una mano, come se cercasse con tutte le forze... ma con notevole frustrazione... di scolpire le sue parole in una verità che il prete potesse capire: «Non siamo più disposti ad accettare le tue stronzate, basta con le interferenze. Non ti sto minacciando di farti saltare i denti a calci, anche se ne avrei una gran voglia. Non mi è mai piaciuto ballare, lo sai, ma ti garantisco che proverei un immenso piacere a farlo sulla tua stupida faccia. Ma adesso basta, ora niente più minacce. E nemmeno dico che ti lascerò nelle loro mani, perché sono convinto che la cosa ti andrebbe a genio. Padre Tom, il martire, quello che soffre per Dio. Certo che ti piacerebbe, vero? Diventare un martire, sopportare una morte così atroce senza nemmeno un lamento». Padre Tom se ne stava a capo chino, con gli occhi rivolti a terra, le braccia lungo i fianchi, come se aspettasse pazientemente la fine di quella sfuriata. La passività del prete riusciva solo a far uscire ancor più dai gangheri Jesse Pinn. Stringendo le dita ossute della mano destra, battè il pugno contro il palmo della sinistra, quasi che avesse bisogno di sentire il rumore della carne che picchiava altra carne, poi con la voce carica di sarcasmo, oltre che di rabbia, soggiunse: «Ti potrebbero saltare addosso di notte, oppure potrebbero coglierti di sorpresa nel campanile o in sacrestia, mentre
stai pregando sull'inginocchiatoio, e tu ti lasceresti martirizzare in estasi, godendo di quel dolore, soffrendo per il tuo Dio... perché è questo che sarebbe per te... una sofferenza per il tuo Dio morto, la via più diretta per il paradiso. Stupido bastardo. Povero deficiente. E addirittura pregheresti per loro, pregheresti con tutto il cuore mentre ti fanno a pezzi. Non è così, prete?» A questi insulti, il parroco rispondeva mantenendo gli occhi bassi e sopportando gli insulti in silenzio. Non intervenire richiese da parte mia un notevole sforzo. Avevo delle domande da fare a Jesse Pinn. Molte domande. Ma qui non vi era un forno crematorio a cui eventualmente avvicinargli i piedi, nel caso non avesse voluto rispondermi. Pinn si fermò e, fissando padre Tom dall'alto, ribadì: «Niente più minacce, prete. Servono soltanto a eccitarti all'idea di soffrire per il Signore. Quindi, ecco quello che succederà se non smetti di ostacolarci... ce la prenderemo con tua sorella Laura. La bella Laura». Padre Tom sollevò il capo e fissò Pinn negli occhi, ma continuò a restare in silenzio. «L'ammazzerò io stesso», promise Pinn. «Con questa.» Estrasse da sotto la giacca una pistola, che evidentemente teneva in una fondina a spalla. Anche a distanza e con quella scarsa illumuiazione, notai che la canna era assai lunga. Istintivamente, infilai la mano in tasca e la posai sul calcio della Glock. «Lasciatela stare», mormorò il prete. «Non la lasceremo mai stare. E troppo... interessante. Anzi, prima di uccidere Laura, la violenterò. E ancora una bella donna, anche se sta diventando un po' strana.» Laura Eliot, un tempo amica e collega di mia madre, era davvero una donna molto piacente. Anche se non la vedevo da un anno, il suo viso mi tornò subito alla mente. Ufficialmente, aveva trovato lavoro a San Diego, dopo che la direzione di Ashdon aveva deciso di sopprimere la sua mansione. Papà e io avevamo ricevuto una sua lettera, ma eravamo rimasti male, perché non era venuta a salutarci di persona prima di partire. Evidentemente quella era una storia inventata; Laura si trovava ancora a Moonlight Bay o nelle vicinanze e veniva trattenuta contro la sua volontà. Ritrovando finalmente la voce, padre Tom disse: «Che Dio ti aiuti». «Non ho bisogno di aiuto», ribattè Pinn. «Quando le ficcherò la pistola in bocca, prima di premere il grilletto, le dirò che suo fratello la rivedrà
molto presto all'inferno, poi le farò saltare le cervella.» «Che Dio mi aiuti.» «Che cosa hai detto, prete?» domandò Pinn sarcastico. Padre Tom non rispose. «Hai forse detto: 'Che Dio mi aiuti'?» lo schernì Pinn. «'Che Dio mi aiuti'? Poco probabile. Dopo tutto, non sei più uno dei suoi, giusto?» A questa strana frase, padre Tom si appoggiò contro la parete e nascose il viso fra le mani. Forse piangeva. Non potevo esserne certo. «Prova a immaginare il bel volto di tua sorella», soggiunse Pinn. «E ora prova a immaginare la sua testa che si contorce e subito dopo la scatola cranica che salta in aria.» Sparò contro il soffitto. La canna della pistola era insolitamente lunga perché dotata di un silenziatore; invece di un colpo secco e forte, si udì il rumore smorzato di un pugno contro un cuscino. Nello stesso momento, il proiettile andò a colpire, con grande fragore, il rettangolo metallico che proteggeva la lampada sospesa proprio sopra la testa di Pinn. Il tubo non andò in frantumi, ma le catene che lo reggevano oscillarono violentemente; simile a una falce, una gelida lama di luce tagliò una serie di archi nella stanza. Nel ritmico dondolio della luce, sebbene inizialmente lo stesso Pinn non si fosse mosso, la sua sagoma da spaventapasseri sembrò balzare su altre ombre, che si agitarono come merli. Subito dopo Pinn ripose la pistola nella fondina. Mentre le catene che reggevano i tubi al neon continuavano a torcersi, la frizione degli anelli che urtavano uno contro l'altro provocava uno strano stridore, come se chierichetti dagli occhi di lucertola, vestiti con tonaca e cotta inzuppate di sangue, stessero suonando le stonate campane di una messa satanica. Quel rumore stridulo e il movimento delle ombre sembrarono eccitare Jesse Pinn. Improvvisamente lanciò un urlo disumano, che aveva qualcosa di primitivo e folle, un grido lamentoso, di quelli che a volte ci svegliano di notte lasciandoci in dubbio sulla loro origine. Mentre gridava, spruzzando saliva dalle labbra, si scagliò contro il prete, assestandogli due violenti pugni nello stomaco. Uscendo di corsa da dietro l'angelo con il liuto, cercai di estrarre la Glock, ma l'arma si impigliò nella fodera della tasca. Padre Tom si piegò in due dal dolore, mentre Pinn, congiungendo le mani e usandole come fossero bastoni, prese a colpire ripetutamente il prete nulla nuca. Padre Tom cadde a terra e io riuscii a strappare la pistola dalla fodera.
Pinn cominciò a prendere a calci la sua vittima, insistendo sulle costole. Sollevai la Glock, mirai alla schiena di Pinn e feci partire il puntamento a laser. Quando il mortale punto rosso apparve in mezzo alle sue scapole, stavo per dire basta, ma in quel momento Pinn smise di malmenare il prete e si allontanò da lui. Io rimasi in silenzio. Invece, rivolgendosi a padre Tom, Pinn disse: «Se non fai parte della soluzione, allora fai parte del problema. Se non riesci a far parte del futuro, allora togliti dai piedi». Aveva tutta l'aria di essere una frase di congedo. Spensi il puntamento a laser e tornai dietro l'angelo, proprio mentre Pinn si voltava. Non mi vide. Mentre le catene continuavano a tintinnare, Jesse Pinn si allontanò, ripercorrendo lo stesso tragitto seguito all'entrata, e quel suono così stridulo non sembrava venisse dall'alto, ma da dentro di lui, come se sciami di locuste gli corressero nel sangue. La sua ombra sfrecciò ripetutamente davanti a lui, per poi balzare all'indietro, fino a che, superata la falce di luce che partiva dal soffitto, l'uomo si fuse con l'oscurità e svoltò l'angolo, allontanandosi lungo l'altra parte della L. Infilai nuovamente la Glock in tasca. Dal mio nascondiglio, rimasi a osservare padre Tom Eliot. Se ne stava in fondo alle scale, in posizione fetale, raggomitolato nel suo dolore. Per un momento pensai di avvicinarmi per vedere come stava e farmi raccontare che cosa c'era dietro la terribile scena a cui avevo appena assistito, ma era meglio che nessuno sapesse della mia presenza, quindi preferii non muovermi. Un nemico di Jesse Pinn poteva essere un mio alleato, ma non ero certo dell'amicizia di padre Tom. Anche se avversari, il prete e Pinn avevano un loro ruolo nel misterioso mondo criminale della cui esistenza, fino a quella sera, io ero del tutto ignaro, pertanto quei due avevano più cose in comune fra di loro che con me. Era ben possibile che, vedendomi, padre Tom si sarebbe messo a gridare, chiedendo aiuto proprio a Jesse Pinn, il quale sarebbe tornato indietro di corsa, con il suo svolazzante completo nero e l'urlo disumano fra le labbra sottili. Inoltre, era evidente che Pinn e i suoi compiici tenevano prigioniera la sorella del prete. E questo rappresentava per loro un punto di forza su cui far leva e ottenere tutto quello che volevano da padre Tom, mentre io non avevo nulla in mano. La raggelante musica delle catene svanì lentamente e la falce di luce descrisse archi sempre più corti.
Senza un lamento, senza neppure un gemito involontario, il prete si sollevò prima in ginocchio, poi in piedi. Non era in grado di mantenersi completamente eretto. Piegato in avanti come una scimmia, senza più nulla di comico nel viso o nel corpo, sostenendosi al corrimano, cominciò faticosamente a salire i ripidi e scricchiolanti gradini che conducevano alla chiesa. Una volta giunto in cima alla scala, avrebbe spento le luci, e io sarei rimasto là sotto, immerso in un'oscurità che avrebbe spaventato perfino Bernadette, la piccola santa di Lourdes. Era tempo che me ne andassi. Prima di passare nuovamente in mezzo al presepio a grandezza naturale, levai lo sguardo verso gli occhi dipinti dell'angelo che suonava il liuto e mi sembrò che avessero la stessa tonalità di azzurro dei miei. Esaminai attentamente i lineamenti della statua e, sebbene la luce fosse piuttosto fioca, non c'erano dubbi: l'angelo e io avevamo lo stesso viso. La somiglianzà mi lasciò confuso e cercai di capire com'era possibile che quell'angelo Christopher Snow mi stesse aspettando in quel seminterrato. Solo di rado ho avuto l'occasione di vedere il mio volto alla luce, ma sono abituato a scorgerne il riflesso allo specchio, in una penombra simile a quella che regnava nella stanza. Non mi stavo sbagliando, il modello della statua ero io: con un'espressione beata che io non ho, idealizzato, ma pur sempre io. A partire da quanto era avvenuto nel garage dell'ospedale, ogni episodio e ogni oggetto sembravano avere un significato. Non potevo più illudermi, pensando a coincidenze. Ovunque voltassi lo sguardo, vedevo un mondo che trasudava mistero. Naturalmente questa era la strada che portava dritto alla follia: considerare la vita come un'unica, elaborata cospirazione guidata da un gruppo di manipolatori che vedono e sanno tutto. Le persone sane di mente si rendono conto che gli esseri umani sono incapaci di sostenere cospirazioni su larga scala, perché, fra le qualità che ci caratterizzano come specie, vi sono la mancanza di attenzione ai particolari, la tendenza a farci prendere dal panico e l'incapacità di tenere la bocca chiusa. Cosmicamente parlando, siamo a malapena in grado di allacciarci le scarpe. Se veramente esiste un ordine segreto nell'universo, non siamo noi ad averlo creato e, probabilmente, non siamo nemmeno in grado di comprenderlo. Il prete aveva percorso un terzo della scala. Ero talmente stupefatto che mi trattenni ancora a guardare l'angelo. Nel corso degli anni, durante le feste di Natale, mi era spesso capitato di
percorrere, di sera, in sella alla mia bicicletta, la strada che costeggiava Santa Bernadette. In quei giorni il presepio veniva preparato sul prato antistante la chiesa, ogni figura al suo posto, nessuno dei tre magi sistemato come fosse un proctologo per cammelli... e quell'angelo non c'era. Oppure non mi ero accorto della sua presenza. Naturalmente, la spiegazione più logica era che, essendo il presepio illuminato da luci molto vive, io non potevo fermarmi ad ammirarlo, sarebbe stato troppo rischioso; l'angelo Christopher Snow aveva fatto parte del presepio, ma io ero sempre stato costretto a strizzare gli occhi e a voltare il viso da un'altra parte. Il prete era ormai a metà scala e ora saliva più in fretta. In quel momento ricordai che Angela Ferryman assisteva alla messa domenicale proprio nella chiesa di Santa Bernadette. Certamente, considerata la sua abilità nel fabbricare bambole, aveva prestato il suo talento alla creazione del presepio. Fine del mistero. Ancora non capivo perché avesse destinato il mio viso proprio a un angelo. L'unico a cui i miei lineamenti potevano adattarsi era l'asinello. Evidentemente, aveva di me un'alta, anche se ingiustificata, considerazione. Senza che lo volessi, mi tornò alla mente un'immagine di Angela: quella che avevo visto per l'ultima volta sul pavimento del suo bagno, con lo sguardo fisso su qualcosa più lontano di Andromeda, la testa rivolta all'indietro, la gola squarciata. Improvvisamente, mi resi conto che, quando mi ero trovato davanti al suo povero corpo martoriato, mi era sfuggito un importante dettaglio. Disgustato dal sangue che imbrattava le pareti, stretto nella morsa del dolore, in stato di choc, spaventato, avevo evitato di guardarla... così come, per anni, avevo evitato di guardare le statue illluminate del presepio esposto fuori della chiesa. Avevo visto un indizio di vitale importanza, ma non lo avevo consapevolmente registrato. Ora il mio inconscio mi rimproverava per la mia leggerezza. Quando padre Tom giunse in cima alle scale, scoppiò in singhiozzi. Si sedette sul pianerottolo e pianse sconsolato. Non potevo soffermarmi sulla visione di Angela. In seguito avrei avuto tempo di affrontare e, con riluttanza, esplorare quel ricordo da grandguignol. Dall'angelo al cammello ai magi a Giuseppe all'asinello a Maria all'agnello, attraversai silenziosamente il presepio, passai accanto ai mobiletti con gli archivi e alle scatole di provviste, oltre l'angolo, nella parte più
stretta e corta del locale, dove non vi era conservato quasi nulla, poi sempre dritto, fino alla stanza di servizio con le caldaie e vari macchinari. I singhiozzi del prete echeggiavano dalle pareti, smorzandosi a poco a poco, fino a che sembrarono i gemiti di una strana entità, a malapena in grado di farsi sentire oltre la fredda barriera che divide questo mondo dal prossimo. Ripensai alla disperazione di mio padre, nel locale refrigerato del Mercy Hospital, la sera della morte di mia madre. Per motivi che non riesco a comprendere bene, preferisco tenere per me il mio dolore. Quando sento che sto per lanciare un urlo di disperazione, stringo forte i denti e mastico la mia disperazione, fino a ingoiarla. Mentre dormo, digrigno i denti... non c'è da stupirsene... e a volte mi sveglio con le mascelle che mi dolgono. Forse temo di dare voce, nel sonno, a sentimenti che ho scelto di non esprimere da sveglio. Uscendo dal seminterrato della chiesa, temevo che Jesse Pinn... bianco come un morto, con gli occhi simili a campioni di sangue fresco... mi piombasse addosso dall'alto o mi afferrasse i piedi, comparendo all'improvviso dal terreno. Invece non mi aspettava da nessuna parte. Chi mi venne incontro fu Orson, che si era nascosto fra le lapidi del cimitero. A giudicare dal suo comportamento, Pinn se ne era andato. Mi fissò con grande curiosità, o almeno immaginai che lo facesse, e ritenni opportuno spiegargli: «Non so che cosa è veramente successo là sotto. Non saprei come interpretarlo». Aveva un'espressione dubbiosa. È particolarmente dotato per le espressioni dubbiose. «Davvero», confermai. Tornai alla bicicletta, con Orson che mi camminava accanto. L'angelo di granito non mi somigliava affatto. Il vento stizzoso si era di nuovo calmato, trasformandosi in una lieve brezza, e le querce tacevano. Una filigrana di nuvole in movimento attraversava la luna d'argento. Uno stormo di rondoni piombò dal tetto della chiesa, andandosi a posare sugli alberi, e sui rami tornarono anche alcuni usignoli, come se il cimitero fosse tornato a essere un luogo sacro solo dopo che Pinn se ne era andato. Tenendo la bicicletta per il manubrio, esaminai le file di lapidi e dissi: «'L'oscurità si fece solida intorno a loro, trasformandosi infine in terra.' Questa è Louise Glück, una grande poetessa». Orson sbuffò, come se fosse d'accordo.
«Non so che cosa sta succedendo, ma credo che, prima che tutto sia finito, morirà un sacco di gente... e, probabilmente, fra di loro ci saranno persone alle quali vogliamo bene. Magari perfino io. O tu.» Orson aveva un'espressione solenne. Guardai, al di là del cimitero, le strade della mia città, improvvisamente molto più spaventose di un camposanto. «Andiamo a berci una birra.» Montai in sella e Orson cominciò a fare una danza da cane sull'erba del cimitero e, almeno per il momento, ci lasciammo i morti alle spalle. PARTE TERZA La mezzanotte 18 Il villino è proprio l'abitazione ideale per uno come Bobby, che ha in testa solo la tavola da surf. Sorge sul promontorio della baia, proprio all'estremità meridionale, ed è l'unica costruzione nel raggio di un chilometro. Su tre lati è circondato dalle spumeggiami creste dei cavalloni. Dalla città le luci della casa di Bobby Halloway appaiono così distanti rispetto a quelle che costeggiano la curva interna della baia, che i turisti pensano si tratti di una barca ormeggiata nel canale che scorre all'interno della costa. Per i residenti, la casa rappresenta invece un punto di riferimento. Il villino è stato costruito quarantacinque anni fa, prima che venissero posti innumerevoli vincoli all'edilizia costiera, ed è rimasto isolato perché, all'epoca, vi era abbondanza di terreni a buon mercato lungo la costa, dove il vento e le condizioni climatiche erano più favorevoli che sul promontorio, e dove i residenti potevano contare su strade e su collegamenti con le reti dei pubblici servizi. Alla fine, i lotti di terreno sulla costa e sulle retrostanti colline si esaurirono, ma nel frattempo la commissione per la salvaguardia della costa californiana aveva posto vincoli tali che rendevano impossibile costruire sui due promontori che chiudono la baia. Molto tempo prima che Bobby entrasse in possesso della casa, una clausola in deroga alla legge ne preservava l'esistenza. Bobby aveva deciso che sarebbe morto in quella casa, avvolto nel sudario del fragore delle onde... comunque era una cosa che sicuramente sarebbe avvenuta molti anni dopo la seconda metà del primo secolo del nuovo millennio.
Sul promontorio non vi è alcuna strada asfaltata o dal fondo coperto di ghiaia, ma solo un sentiero roccioso, fiancheggiato da basse dune fissate al suolo da una rada erba costiera. I promontori che cingono la baia sono formazioni naturali e rappresentano ciò che resta in superficie dell'orlo del cratere di un massiccio vulcano estinto. La baia in sé è il cratere che migliaia di anni di maree hanno colmato di sabbia. Vicino alla costa, il promontorio meridionale è largo forse centoventi metri, ma sulla punta si restringe fino a una trentina di metri. Dopo aver percorso due terzi del sentiero che conduceva alla casa di Bobby, dovetti scendere dalla bicicletta e continuare a piedi. Soffici dunette di sabbia, alte meno di trenta centimetri, si spostavano attraverso il fondo roccioso del sentiero. Non avrebbero rappresentato un problema per la jeep di Bobby, ma mi riusciva piuttosto difficile pedalare. Questa passeggiata ha sempre rappresentato per me una tranquilla e stimolante meditazione. Ma adesso il promontorio, che pure era sereno, mi appariva estraneo come una dorsale rocciosa sulla luna, e continuavo a guardarmi indietro, convinto che qualcuno mi stesse seguendo. Il villino a un piano è costruito in teak e ha il tetto di assicelle di cedro. Con le intemperie che gli hanno conferito una patina grigio-argento, il legno riceve la carezza della luna così come il corpo di una donna riceve il tocco dell'amante. La casa è circondata su tre lati da un'ampia veranda, disseminata di sedie a dondolo e altalene. Non vi sono alberi. Il paesaggio circostante offre solo sabbia ed erba. Ma gli occhi si possono saziare con la vista del cielo, del mare e delle luci scintillanti di Moonlight Bay, che sembra assai più lontana di un chilometro. Prendendo tempo per calmare i nervi, appoggiai la bicicletta contro la balaustra della veranda anteriore e, oltrepassata la casa, proseguii fino all'estremità della punta. In compagnia di Orson mi fermai davanti a un pendio che si tuffava in mare, dopo un salto di una decina di metri. La marea era così bassa che bisognava impegnarsi molto per riuscire a prendere un'onda e la corsa non sarebbe comunque durata a lungo. Doveva essere quasi al minimo, anche se la luna era piena. La superficie appariva leggermente increspata per via del vento, che soffiava verso la costa con forza sufficiente a provocare un po' di maretta; nella baia, però, il mare sembrava quasi fermo. Preferisco il vento che soffia da terra, rende la superficie dell'oceano liscia come l'olio ma, allo stesso tempo, lancia spruzzi d'acqua dalle creste
delle onde, facendo in modo che rimangano sollevate più a lungo e che si incavino prima di frangersi. Bobby e io pratichiamo il surf fin da quando avevamo undici anni: lui di giorno, entrambi di notte. Molti amano navigare sulle onde al chiaro di luna, meno numerosi sono quelli che lo fanno quando la luna è tramontata; Bobby e io preferiamo il mare in burrasca, e senza nemmeno le stelle in cielo. In questo sport, da ragazzini ci comportavamo come teppistelli, ma prima dei quattordici anni eravamo già stati promossi al rango di nazisti del surf e avevamo raggiunto il titolo di teste-di-surf quando Bobby era uscito dalla scuola superiore e io avevo ottenuto il diploma corrispondente per gli studi che avevo svolto a casa. Adesso Bobby è più che una testa-di-surf; ora è diventato un vero guru in materia e c'è gente che si rivolge a lui da ogni parte del mondo per sapere dove andranno a frangersi le onde migliori nella prossima stagione. Buon Dio, come mi piace il mare di notte. È oscurità liquida. Non vi è luogo al mondo in cui mi senta più a mio agio che in mezzo a queste onde lunghe e nere. L'unica luce che a volte si diffonde dall'oceano è quella del plancton bioluminescente, che emette il suo chiarore quando viene disturbato; tuttavia, anche se è in grado di illuminare le onde di un verde sfolgorante, la sua non è una luminosità pericolosa per i miei occhi. Il mare notturno non contiene nulla dal quale io debba nascondermi e neppure distogliere lo sguardo. Quando tornai al villino, vidi che Bobby era uscito sulla veranda. Per rendere più agevole la nostra amicizia, ha installato un reostato a tutte le luci di casa; in quel momento erano regolate in modo che emanassero un chiarore pari a quello delle candele. Non avevo idea di come fosse venuto a sapere che ero arrivato. Né io né Orson avevamo fatto rumore. Il fatto è che Bobby sa sempre tutto. Era scalzo, anche se eravamo solo a marzo, ma indossava una paio di jeans al posto dei soliti pantaloncini o del costume da bagno. Portava una camicia havvaiana con le mezze maniche... non ne possiede di altro tipo... ma, in via del tutto eccezionale, sotto la camicia si era messo una maglietta a girocollo, con le maniche lunghe, di cotone bianco, stampata con pappagalli variopinti e palme lussureggianti. Mentre salivo i gradini della veranda, Bobby mi diede uno shaka, il segno della mano che i surfisti si scambiano tra di loro e che è meno complicato di quello che si vede in Star Trek, anche se è proprio sullo shaka che
probabilmente si sono basati gli autori dei telefim. Piegate le tre dita centrali verso il palmo, tendete il pollice e il mignolo, e dimenate pigramente la mano. Significa molte cose... salve, che succede, non te la prendere, una corsa fantastica... ma tutte gentili; è un gesto che non verrà mai interpretato come un insulto, a meno che non sia diretto a qualcuno che non è un surfista, per esempio a un teppista di una banda di Los Angeles, in quel caso si può finire secchi. Non vedevo l'ora di raccontargli tutto quello che mi era successo dal tramonto in poi, ma Bobby preferisce affrontare la vita in modo rilassato. Se fosse ancor più rilassato, sarebbe morto. A parte quando cavalca le onde, per il resto ama la tranquillità. L'adora. Se si vuole essere amici di Bobby, bisogna accettare la sua visione della vita: nulla che accada a più di un chilometro dalla spiaggia è abbastanza importante da preoccuparsene, e non esiste avvenimento così solenne o elegante che giustifichi l'uso di una cravatta. Si trova più a suo agio nelle conversazioni che nelle chiacchiere, preferisce i giri di parole alle dichiarazioni franche e dirette. «Mi offri una birra?» domandai. «Corona, Heineken. Löwenbraü?» volle sapere Bobby. «Corona, grazie.» Precedendomi nel soggiorno, Bobby domandò: «Anche quello con la coda beve?» «Lui prende una Heinie.» «Chiara o scura?» «Scura», risposi. «Deve essere stata una gran brutta notte per i cani.» «Uno schifo.» Il villino è composto da un vasto soggiorno, da uno studio in cui Bobby segue le onde sulle mappe di tutto il mondo, una camera, una cucina e un bagno. Pareti di lucido teak, scuro e solido, ampie finestre, pavimenti ricoperti di ardesia e mobili confortevoli. Unica forma di ornamento, a parte la collocazione naturale, sono gli otto stupefacenti acquarelli di Pia Klick, una donna che Bobby continua ad amare, anche se lei lo ha lasciato per trascorrere un periodo di tempo indefinito a Waimea Bay, sulla costa settentrionale di Oahu. Bobby voleva partire con lei, ma Pia gli ha spiegato che aveva bisogno di rimanere da sola a Waimea, quella che lei chiama la sua dimora spirituale; l'armonia e la bellezza del luogo dovrebbero riuscire a darle la pace mentale di cui ha bisogno per poter decidere se vivere, o no, con il suo destino. Non so che cosa
voglia dire. E neanche Bobby. Pia ha detto che sarebbe rimasta lontana per uno o due mesi. Questo è successo quasi tre anni fa. Le acque di Waimea sono estremamente profonde e le onde sono alte come pareti. Pia dice che sono di un verde giada fosforescente. Ci sono giorni in cui sogno di camminare su quella spiaggia e di sentire il fragore di quei cavalloni. Una volta al mese, Bobby telefona a Pia, oppure è lei che lo chiama. A volte parlano per pochi minuti, a volte per ore. Pia non si è messa con un altro e ama davvero Bobby. Fra l'altro, è una delle persone più gentili, miti e intelligenti che abbia mai conosciuto. Non so perché si stia comportando così. Non lo sa neanche Bobby. I giorni passano. E lui aspetta. Bobby prese una bottiglia di Corona dal frigorifero della cucina e me la porse. Svitai il tappo e ne bevvi un sorso. Niente limetta, niente sale, nessuna pretenziosità. Aprì una Heineken per Orson. «Tutta o metà?» «E una notte speciale», gli feci notare. Nonostante le terribili notizie che avevo da raccontare, mi ero lasciato prendere dal ritmo tropicale di Bobbyland. Svuotò la bottiglia in una profonda ciotola di metallo smaltato, che tiene appositamente per Orson, e la posò a terra. Sulla ciotola aveva dipinto a stampatello la parola ROSEBUD, il nome che ha lo slittino del bimbo nel film Quarto potere di Orson Welles. Non ho alcuna intenzione di indurre il mio compagno a quattro zampe a diventare un alcolista. Bere una birra non è per lui cosa di tutti i giorni, e di solito ne divide una con me. Nondimeno, anche lui ha i suoi piccoli vizi e non intendo negargli ciò che gli piace. Visto il suo considerevole peso, non è una birra che lo fa ubriacare. Ma provate a dargliene due e avrete una nuova definizione di animale da festa. Mentre Orson lappava rumorosamente la Heineken, Bobby svitò una Corona per sé e si appoggiò al frigorifero. Io mi rilassai contro il mobiletto vicino al lavello. C'era anche un tavolo con le sedie ma, quando siamo in cucina, ci piace appoggiarci contro i mobili. Per molti versi, Bobby e io ci somigliamo. Siamo alti uguali, abbiamo circa lo stesso peso e la stessa struttura fisica. Anche se i suoi capelli sono castano scuro e gli occhi così neri da avere riflessi blu, spesso ci prendono per fratelli. Abbiamo entrambi una serie di bozzi da surf e, mentre se ne stava ap-
poggiato al frigorifero, Bobby usava la pianta di un piede per strofinarsi i bozzi sul collo dell'altro piede. Si tratta di depositi di calcio provocati dalla costante pressione contro la tavola da surf; questi depositi si formano sulle dita e sul collo del piede per via del continuo battere quando si è in posizione prona. Ma ne abbiamo anche sulle ginocchia e a Bobby sono venuti perfino sulle ultime due costole. Naturalmente, io non sono abbronzato come Bobby. In verità, lui è più che abbronzato. È una divinità del sole all'ennesima potenza per tutto l'anno, e d'estate diventa come una fetta di pane tostato e imburrato. Balla il mambo con il melanoma e forse un giorno morirà per colpa di quel sole che lui cerca e dal quale io rifuggo. «Oggi c'erano onde fantastiche», mi informò. «Alte un paio di metri, perfette.» «Adesso sembra che si sia calmato.» «Già. Verso il tramonto la superficie si è fatta liscia come l'olio.» Continuammo a sorseggiare le birre. Orson si leccava i baffi. «E così tuo padre è morto», commentò. Annuii. Di certo Sasha gli aveva telefonato. «Bene», commentò. «Già.» Bobby non è insensibile e nemmeno crudele. Intendeva dire che era un bene che mio padre avesse smesso di soffrire. Spesso, con poche parole ci diciamo molte cose. Non è solo per l'altezza, il peso e la struttura fisica così simili che la gente ci prende per fratelli. «Sei arrivato all'ospedale in tempo. Ottimo.» «Infatti.» Non mi chiese come la stavo prendendo. Lo sapeva già. «E dopo l'ospedale», soggiunse, «sei andato a cantare un paio di canzoni in uno spettacolo di neri.» Con una mano fuligginosa mi toccai il viso fuligginoso. «Dei tizi hanno ucciso Angela Ferryman, poi le hanno incendiato la casa per coprire l'omicidio. Per poco non finivo in fumo anch'io.» «Chi sono questi tizi?» «Magari lo sapessi. Gli stessi che si sono portati via il corpo di mio padre.» Bobby bevve un altro sorso di birra e rimase in silenzio. «Hanno ammazzato un vagabondo e hanno sostituito il suo corpo con quello di mio padre. Ma forse è meglio che tu non sappia niente di questa
storia.» Per alcuni istanti, soppesò da una parte l'opportunità di restare nell'ignoranza e dall'altra la forza d'attrazione della curiosità. «In caso di necessità, posso sempre dimenticare quello che ho sentito.» Orson ruttò. La birra gli fa sempre questo scherzo. Ma quando cominciò a scodinzolare e a guardare Bobby con occhi supplichevoli, questi lo rimproverò bonariamente: «Per te basta, muso peloso». «Sono affamato», esclamai. «Sei anche sudicio. Fatti una doccia. Mettiti dei vestiti puliti, prendi i miei. Intanto io preparo dei taco al bacio.» «Pensavo di pulirmi con una nuotata.» «Fa un freddo boia.» «Ci saranno circa sedici gradi.» «So parlando della temperatura dell'acqua. Credimi, è veramente un ghiaccio. Meglio una doccia.» «Anche Orson ha bisogno di una ripulita.» «Fagli fare la doccia con te. Ci sono un sacco di asciugamani.» «Sei un vero fra'», lo ringraziai. Nel nostro gergo «fra'» significa fratello. «Già, trasudo carità cristiana. Non cavalco più le onde. Adesso ci cammino sopra.» Erano bastati pochi minuti in Bobbyland e già mi sentivo rilassato, ero pronto raccontare con calma quello che mi era accaduto. Bobby è più che un caro amico. È un tranquillante. Improvvisamente si raddrizzò, staccandosi dal frigorifero e rimase con il capo teso, in ascolto. «Hai sentito qualcosa?» gli chiesi. «Qualcuno.» Io non avevo udito nulla, a parte la voce, che andava scemando, della brezza marina. Con le finestre chiuse e il mare calmo, non sentivo nemmeno le onde, però notai che anche Orson era in allarme. Mentre Bobby usciva dalla cucina per andare a vedere chi fosse arrivato, lo fermai, dicendo: «Fra'», e gli porsi la Glock. Fissò prima la pistola, poi me, con aria dubbiosa. «Non ti scaldare.» «Quel vagabondo. Gli hanno cavato gli occhi.» «Perché?» Scrollai le spalle. «Forse perché lo potevano fare?»
Per un momento Bobby si fermò a considerare quello che avevo detto. Poi estrasse una chiave da una tasca dei jeans e aprì l'armadietto delle scope che, per quanto potessi ricordare, non aveva mai avuto una serratura. Prese un fucile da caccia con otturatore scorrevole e impugnatura a pistola. «È nuovo», osservai. «Repellente per teppisti.» Questa non era la solita vita di Bobbyland. Non potei resistere. «Non ti scaldare», dissi in tono ironico. Orson e io seguimmo Bobby attraverso il soggiorno e sulla veranda. Le onde che si frangevano sulla riva emanavano un leggero odore di macrocistidi. Il villino era rivolto a nord. Nella baia non vi erano imbarcazioni, o quanto meno nessuna che avesse le luci di posizione. A est. la città scintillava lungo la costa e sulle colline. Sulla punta del promontorio e intorno al villino non vi erano che basse dune e una rada erba che il chiarore lunare ammantava d'argento. Non si vedeva nessuno. Orson avanzò fino in cima ai gradini e rimase immobile, con la testa dritta e tesa in avanti; annusando l'aria, doveva aver percepito un odore più interessante dei macrocistidi. Forse affidandosi a un sesto senso, Bobby non ebbe nemmeno bisogno di guardare il cane per avere la conferma dei suoi sospetti. «Resta qui. Se stano qualcuno, digli che non se ne può andare prima che gli abbiamo convalidato il biglietto del parcheggio.» Sempre a piedi nudi, scese i gradini e attraversò le dune per andare a controllare il ripido pendio che scendeva alla spiaggia. Su quel pendio poteva esserci qualcuno che, dal suo nascondiglio, teneva d'occhio la casa. Bobby avanzò lungo l'argine, dirigendosi verso la punta, esaminando attentamente il pendio e la spiaggia sottostante, voltandosi a ogni momento per controllare lo spazio fra lui e la casa. Stringeva il fucile con entrambe le mani e conduceva la ricerca con sistematicità militare. Ovviamente doveva aver già fatto quel controllo prima di allora. Non mi aveva mai detto di essere stato molestato da qualcuno né di aver avuto problemi con eventuali intrusi. In tempi normali, se avesse avuto un problema serio, ne avrebbe parlato con me. Mi chiesi quale segreto mi stesse nascondendo. 19
Dopo essersi allontanato dai gradini e aver infilato il muso fra due colonnine sul lato orientale della veranda, invece di guardare verso ovest, dove si trovava Bobby, Orson si era voltato e fissava il promontorio, in direzione della città. Ringhiava, con un verso basso e gutturale. Seguii la direzione del suo sguardo. Nonostante la luna piena, in quel momento non oscurata dai brandelli di nuvole, non riuscivo a scorgere nessuno. Il cane continuava a ringhiare con l'uniformità di un motore. A ovest, Bobby aveva raggiunto l'estremità del promontorio e continuava a perlustrare l'argine. Sebbene lo vedessi ancora, mi appariva come una sagoma grigia contro lo sfondo nero del cielo e del mare. Mentre guardavo dall'altra parte, senza che me ne accorgessi, qualcuno poteva aver aggredito Bobby e averlo colpito con una tale violenza da non lasciargli la possibilità di gridare. Pertanto, quella figura grigia e confusa, che aveva girato intorno alla punta e che tornava verso casa camminando lungo il fianco meridionale del promontorio, poteva appartenere a chiunque. «Mi fai venire i brividi», mormorai, rivolgendomi al cane che non smetteva di ringhiare. L'attenzione di Orson era puntata verso est, ma per quanto aguzzassi la vista in quella direzione, non riuscivo a vedere nulla e nessuno che potesse costituire una minaccia. L'unico movimento era quello dell'erba alta. Il vento che andava calando non era nemmeno abbastanza forte da sollevare la sabbia dalle dune compatte. Orson smise di ringhiare e, con il suo passo pesante, scese i gradini della veranda come se volesse lanciarsi all'inseguimento della preda. Ma, dopo aver percorso qualche metro, si fermò sulla distesa di sabbia a sinistra dei gradini, alzò una delle zampe posteriori e svuotò la vescica. Mentre tornava indietro, i suoi fianchi erano visibilmente scossi da brividi. Tornò a guardare verso est, ma invece di ringhiare, adesso uggiolava nervosamente. Questo nuovo comportamento mi turbò più che se avesse cominciato ad abbaiare furiosamente, Avanzando di lato, attraversai la veranda e raggiunsi l'angolo occidentale del villino, nel tentativo di tenere sotto controllo il terreno sabbioso antistante e, allo stesso tempo, non perdere d'occhio Bobby, sempre che si trattasse proprio di lui. Tuttavia, continuando a mantenersi sull'argine meri-
dionale del promontorio, ben presto il mio amico scomparve dietro la casa. Mi accorsi che Orson aveva smesso di uggiolare, mi voltai e non lo vidi più al suo posto. Doveva essersi lanciato all'inseguimento di qualcosa che aveva percepito nel buio, anche se era strano che si fosse allontanato senza fare alcun rumore. Spinto da un'ansia improvvisa, riattraversai la veranda e mi avvicinai ai gradini, ma non riuscii a scorgerlo fra le dune illuminate dalla luna. Lo ritrovai sulla soglia della porta d'ingresso, mentre guardava fuori con aria circospetta. Teneva le orecchie appiattite sulla testa. Il capo basso. Aveva il pelo dritto come se fosse stato sottoposto a un elettrochoc. Non ringhiava né uggiolava, ma era scosso dai brividi. Orson è molte cose... e, fra le altre, anche piuttosto strano... ma non è vigliacco né stupido. Qualunque cosa lo avesse indotto a tornare sulla soglia di casa, doveva essere davvero terribile. «Qual è il problema, amico?» Non mi rivolse nemmeno una breve occhiata e continuò a fissare il brullo paesaggio che si estendeva oltre la veranda. Sebbene avesse sollevato le labbra nere, mostrando i denti, dalla sua bocca non usciva alcun verso. Da come si comportava, era chiaro che non avesse più alcun intento aggressivo, i denti scoperti mostravano solo un estremo disgusto, una totale repulsione. Mentre mi voltavo per scrutare nel buio, colsi un movimento con la coda dell'occhio: la sagoma confusa di un uomo che, chino in avanti, correva a una decina di metri dal villino, muovendosi da est a ovest e attraversando a lunghe falcate l'ultima fila di dune, oltre le quali iniziava il pendio verso la spiaggia. Mi voltai di scatto, estraendo la Glock. L'uomo doveva essersi nascosto, oppure era solo frutto della mia immaginazione. Per un attimo mi chiesi se potesse trattarsi di Pinn. No. Orson non avrebbe avuto paura di Jesse Pinn, né di gente come lui. Attraversai la veranda, scesi i tre gradini di legno e mi fermai sulla sabbia a osservare più da vicino le dune circostanti. I radi ciuffi di erba alta ondeggiavano, cullati dalla brezza. Tutto il resto era immobile. Come una benda consunta che si stacchi dal volto pallido di un faraone mummificato, un nuvola lunga e stretta si districò dal mento della luna. Forse l'uomo che correva era solo l'ombra di una nuvola. Forse. Ma non ne ero convinto. Lanciai un'occhiata oltre le spalle, verso la porta d'ingresso del villino.
Orson era indietreggiato ulteriormente nel soggiorno. Per una volta, non si sentiva a suo agio nella notte. E anch'io non ero proprio tranquillo. Stelle. Luna. Sabbia. Erba. E la sensazione di essere osservato. Dal pendio che scendeva alla spiaggia o dal basso avvallamento fra le dune, attraverso una cortina d'erba, qualcuno mi stava osservando. Uno sguardo può avere peso, e questo mi arrivava come una successione di onde, non onde lunghe e basse, ma spaventosi cavalloni che si abbattevano su di me come magli. Adesso non era solamente il cane ad avere il pelo dritto. Proprio mentre cominciavo a pensare che Bobby stesse impiegando un tempo infinitamente lungo per fare quel giro, lo vidi arrivare dal lato orientale del villino. Mentre si avvicinava, sollevando sbuffi di sabbia, non smise mai di frugare con lo sguardo tra le dune. «Orson ha il pelo dritto come un gatto», gli feci notare. «Non ci posso credere.» «Davvero. Mai successo prima. È un cane con le palle, questo.» «Be', se si è spaventato, lo capisco benissimo», commentò Bobby. «Anch'io mi sono quasi sentito rizzare i capelli in testa.» «C'è qualcuno là fuori.» «Ce n'è più di uno.» «Chi sono?» Bobby non rispose. Spostò la mano sull'impugnatura del fucile, ma continuò a tenerlo in posizione di tiro, mentre continuava a perlustrare la notte. «Sono già venuti da queste parti», ipotizzai. «Già.» «Perché? Che cosa vogliono?» «Non lo so.» «Ma chi sono?» domandai nuovamente. Ancora una volta, non rispose. «Allora?» lo incitai. In quel momento notammo un'enorme massa bianca, alta diverse decine di metri, che, uscita improvvisamente dall'oscurità, avanzava sull'oceano, dirigendosi verso ovest: un banco di nebbia, illuminato dalla luna, che si estendeva da nord a sud. Sia che raggiungesse la costa o che si fermasse sul mare, la nebbia spingeva davanti a sé una pressione che acquietava la natura. Uno stormo di pellicani in formazione volò basso sulla penisola e
svanì oltre le nere acque della baia. Quando anche la lieve brezza si placò e l'erba alta rimase immobile, curva verso il terreno, riuscii a finalmente sentire le onde lunghe che si frangevano contro la costa, con un rumore più simile a una ninna nanna che al fragore del mare. Dall'estremità del promontorio un grido strano, che faceva venire la pelle d'oca come il richiamo di una gavia, graffiò quel silenzio sempre più profondo. Un grido di risposta, altrettanto stridulo e raggelante, si levò dalle dune vicine alla casa. Mi tornarono alla mente quei vecchi film western, in cui gli indiani si scambiano richiami nell'oscurità, imitando gli uccelli o i coyote, per coordinare i propri movimenti prima di attaccare i carri che i coloni hanno disposto in cerchio. Bobby lasciò partire un colpo in direzione di una vicina duna di sabbia, facendomi sobbalzare per lo spavento. Quando l'eco dello sparo rimbalzò dalla baia e tornò indietro, quando anche le ultime risonanze furono assorbite dal vasto cuscino di nebbia, domandai: «Perché l'hai fatto?» Invece di rispondermi immediatamente, Bobby inserì un altro proiettile e rimase in ascolto. Mi tornò alla mente il colpo che Pinn aveva sparato verso il soffitto del seminterrato della chiesa per accentuare la sua minaccia contro padre Tom Eliot. Alla fine, quando non si udirono altri richiami di gavie, Bobby mi spiegò: «Forse non è necessario, ma non mi sembrava una cattiva idea ricordargli, ogni tanto, che cosa sono i pallettoni». «Chi? A chi devi ricordarlo?» In passato, si era già comportato in modo misterioso, ma non era mai stato enigmatico come adesso. Continuò a mantenere l'attenzione fissa sulle dune, poi indugiò per un altro minuto, finché, all'improvviso, mi fissò come se si fosse dimenticato della mia presenza. «Entriamo. Tu ti togli quella maschera da Denzel Washington e io preparo dei taco da leccarsi le dita.» Sapevo che non era il caso di insistere. O faceva il misterioso per stuzzicare la mia curiosità e sottolineare ancora una volta la sua stranezza di cui andava tanto orgoglioso, oppure aveva ottimi motivi per mantenere il segreto anche con me. In entrambi i casi, si trovava in un luogo mentale tutto suo, era inaccessibile come se fosse stato sulla tavola da surf, nel bel mezzo di un'evoluzione su un'onda spaventosamente incurvata.
Lo seguii in casa, continuando ad avere la netta sensazione di essere osservato. Quest'attenzione da parte di uno sconosciuto mi faceva correre lungo la schiena brividi che lasciavano tracce, come granchi su una spiaggia liscia. Prima di chiudere la porta, scrutai ancora una volta nel buio, ma i nostri visitatori se ne stavano ben nascosti. Il bagno è ampio ed elegante: pavimento e ripiani in marmo nero, lussuosi armadietti in teak e chilometri di specchi molati. L'enorme cabina della doccia può contenere quattro persone, il che è l'ideale per lavare un cane. Corky Collins, l'uomo che ha costruito il villino molto tempo prima che Bobby nascesse, era un tipo semplice, ma aveva un debole per le comodità. Come, per esempio, la vasca a idromassaggio per quattro persone, internamente rivestita di marmo, situata nell'angolo opposto rispetto a quello della doccia. Forse Corky, che prima di cambiare nome si chiamava Toshiro Tagawa, sognava orge con tre fantastiche ragazze da spiaggia, oppure gli piaceva essere completamente e decisamente pulito. Toshiro, il piccolo genio che nel 1941, a soli ventun anni, si era laureato in legge, da giovane era rimasto seppellito a Manzanar, il campo in cui i leali soldati nippo-americani erano stati confinati durante tutta la seconda guerra mondiale. Alla fine del conflitto, furibondo per l'umiliazione, Toshiro era diventato un attivista impegnato a garantire giustizia agli oppressi. Dopo cinque anni, perse fiducia nella possibilità di ottenere una giustizia uguale per tutti e si convinse anche del fatto che, alla prima occasione, gli oppressi erano pronti a trasformarsi in entusiastici oppressori. Decise di dedicarsi allo studio delle norme giuridiche che regolano i casi di lesioni personali. Data la sua notevole capacità di apprendimento, in breve tempo divenne l'avvocato più famoso di tutta l'area di San Francisco, specializzato in quel settore. Dopo pochi anni, essendo riuscito a guadagnare un bel po' di denaro, abbandonò l'ufficio legale per il quale lavorava. Nel 1956, all'età di trentasei anni, scelse l'estremità meridionale di Moonlight Bay per costruirvi questa casa, spendendo cifre considerevoli per farvi arrivare elettricità, acqua e linee telefoniche, il tutto accuratamente interrato. Con l'ironia di cui era dotato e che impedì al suo cinismo di trasformarsi in amarezza, Toshiro Tagawa cambiò legalmente il proprio nome in Corky Collins nello stesso giorno in cui si trasferì nel villino e dedicò il resto della sua vita alla spiaggia e all'oceano.
Si fece venire i bozzi sulle dita e sul collo dei piedi, sotto le ginocchia e sulle ultime due costole. Siccome desiderava sentire chiaramente il rombo dei cavalloni, non sempre usava i tappi per le orecchie quando praticava il surf, e così sviluppò una esostosi; il canale dell'orecchio interno si restringe quando viene invaso dall'acqua fredda e, se questo avviene ripetutamente, un tumore benigno deforma l'osso che finisce per ostruire il canale. A cinquant'anni, Corky di tanto in tanto era sordo dall'orecchio sinistro. Tutti i surfisti si ritrovano ad avere il naso che cola come un rubinetto dopo una serie di cavalcate finte a faccia in giù; i seni paranasali si svuotano, espellendo con forza tutta l'acqua di mare entrata durante le evoluzioni... sottomarine; di solito questa situazione imbarazzante si verifica proprio mentre state parlando con una ragazza assolutamente fantastica, che indossa uno di quei bikini tipo filo interdentale. Dopo venti anni di tremende spanciate e conseguenti cascate del Niagara dalle narici, a Corky venne un'esostosi nei passaggi dei seni paranasali, che richiese un'operazione per alleviare le emicranie e per ripristinare il corretto drenaggio. A ogni anniversario dell'operazione, organizzava una festa. La lunga esposizione alla luce del sole e all'acqua salata gli provocò anche lo pterigio, detto anche occhio del surfista, ovvero un ispessimento della congiuntiva, che si ripiega come un'ala sul bianco dell'occhio e che si espande progressivamente su tutta la cornea. A poco a poco il suo campo visivo peggiorò. Nove anni prima avrebbe dovuto sottoporsi a un'operazione all'occhio, ma riuscì a evitarla perché fu ucciso... non da un melanoma, né da uno squalo, bensì da Grande Mamma in persona, cioè dall'oceano. Sebbene a quel tempo Corky avesse già sessantanove anni, era voluto uscire con onde mostruose, giganti di sei metri, tuoni in movimento che scuotevano il mare e dai quali, surfisti molto più giovani di lui, si sarebbero tenuti lontani; ma, secondo i testimoni che avevano assistito alla scena, Corky si era divertito come un matto, lanciava urla di gioia mentre veniva scagliato in aria, filava come un razzo sulla cresta, si lanciava in evoluzioni spericolate, ma spesso si ritrovava all'interno del tunnel formato dall'onda... finché perse il controllo e venne trattenuto troppo a lungo sott'acqua da un cavallone gigantesco che si era abbattuto su di lui. Mostri di quelle dimensioni possono pesare migliaia di tonnellate, davvero un bel po' d'acqua, troppa per contrastarla e anche un nuotatore molto forte può essere tenuto sul fondo per mezzo minuto o più, a volte molto di più, prima che riesca a tornare in superficie per respirare. Il guaio fu che Corky riaffiorò proprio nel momento peggiore, quando l'onda successiva si abbattè su di lui, che annegò in quel-
lo che viene definito doppio bloccaggio. Da un capo all'altro della California, tutti i surfisti si trovarono d'accordo nel dire che Corky Collins aveva condotto una vita perfetta e che la sua morte era stata perfetta. Esostosi dell'orecchio, esostosi dei seni paranasali, pterigio in entrambi gli occhi... niente di tutto questo aveva avuto importanza per lui, anzi, tutte quelle malattie erano sempre meglio della noia o di una cardiopatia, meglio che essere in pensione e ricevere ogni mese un assegno, dopo aver trascorso tutta la vita in un ufficio. La vita era il surf, la morte era il surf, la forza di una natura sconfinata e avvolgente, e il cuore aveva un fremito pensando all'invidiabile passaggio di Corky in un mondo che, per tanti altri, rappresentava solo una fonte di preoccupazioni. Bobby aveva ereditato il villino. Questo fatto lo aveva lasciato sbalordito. Entrambi conoscevamo Corky Collins da quando avevamo undici anni e cominciavamo ad avventurarci fino alla punta estrema del promontorio con le tavole da surf sui portapacchi delle biciclette. Corky era il maestro di tutti i ragazzini avidi di esperienze e ansiosi di riuscire a padroneggiare le onde della punta. Non si comportava come se quel tratto di mare fosse suo, ma tutti rispettavano Corky, quasi fosse davvero il proprietario della spiaggia, da Santa Barbara a Santa Cruz. Si innervosiva quando un dilettante, non sapendo prendere una buona onda, la spezzava e la rovinava anche per gli altri, e provava solo disprezzo per i surfisti della domenica e per gli aspiranti-qualcosa di ogni genere, ma era un amico e un modello per tutti noi che amavamo il mare e ci sentivamo in sintonia con il suo ritmo. Corky aveva un moltitudine di amici e ammiratori, alcuni dei quali lo conoscevano da più di trent'anni; quindi non riuscimmo a spiegarci per quale motivo avesse lasciato tutte le sue proprietà terrene a Bobby, che aveva conosciuto solo otto anni prima. Come spiegazione, l'esecutore testamentario aveva consegnato a Bobby una lettera che rappresentava un capolavoro di coincisione: Bobby, ciò che per gli altri è importante, per te non lo è. Questa è saggezza. A ciò che ritieni importante, sei pronto a dedicare mente, cuore, anima. Questa è una grazia. Noi abbiamo solo mare, amore e tempo. Dio ci ha dato il mare. Solo con le tue azioni troverai sempre l'amore. Io ti regalo il tempo. Corky aveva visto in Bobby qualcuno che possedeva una innata com-
prensione di quelle verità che lo stesso Corky aveva appreso solo a trentasette anni. Desiderava onorare e incoraggiare tale comprensione. Che Dio lo benedica per questo. All'epoca Bobby frequentava il primo anno del college di Ashdon; dopo aver ereditato il villino e una modesta somma di denaro, l'estate successiva aveva abbandonato gli studi. Questo mandò i suoi genitori su tutte le furie. Ma Bobby si poté permettere di non dare grande importanza alla loro ira, perché la spiaggia, il mare e il futuro erano suoi. Comunque, i suoi genitori sono sempre furibondi per qualcosa e Bobby ci è abituato. Possiedono e dirigono il quotidiano locale e si considerano due infaticabili crociati a favore di una politica illuminata; in pratica, secondo loro, quasi tutti i cittadini sono o troppo egoisti per fare la cosa giusta o troppo stupidi per capire che cosa è meglio per loro. Si aspettavano che Bobby condividesse quella che definivano la loro «passione per i grandi temi del nostro tempo», ma Bobby voleva solo fuggire dall'idealismo troppo sbandierato della sua famiglia, nonché dall'invidia, dal rancore e dall'egocentrismo che facevano parte di quel finto idealismo e che, per quanto tentassero, i suoi genitori non riuscivano a dissimulare. Tutto quello che Bobby desiderava era un po' di pace. Anche i suoi la volevano, nell'intero pianeta, in ogni angolo dell'astronave Terra, ma erano incapaci di farla regnare entro le mura della propria casa. Con il villino e un gruzzoletto che gli permise di avviare l'attività di cui ora viveva, Bobby trovò finalmente la pace. Le lancette di ogni orologio sono cesoie che ci tagliano in fretta, pezzetto dopo pezzetto, e ogni quadrante a lettura digitale ci porta, lampeggiando, verso l'implosione. Il tempo è così prezioso che non può essere acquistato. In realtà, quello che Corky aveva donato a Bobby non era il tempo, ma l'opportunità di vivere senza orologi, senza la consapevolezza degli orologi. così che il tempo sembrasse passare più lentamente, lontano dalla furia delle cesoie. Anche i miei genitori avevano cercato di regalarmi la stessa cosa. Ma, a causa dell'XP, di tanto in tanto sento quel ticchettio. Forse anche Bobby ogni tanto lo sente. È possibile che nessuno di noi riesca a sfuggire completamente alla consapevolezza degli orologi. E anche la disperazione di Orson, nella notte in cui guardava le stelle con tanta tristezza e si era opposto a tutti i miei tentativi di consolarlo, forse era stata provocata dalla consapevolezza che i suoi giorni stavano passando inesorabili. Si dice che la mente semplice degli animali non sia in
grado di comprendere il concetto della propria mortalità. Tuttavia ogni animale possiede l'istinto di sopravvivenza e riconosce il pericolo. Se lotta per sopravvivere, significa che comprende la morte, qualunque cosa ne dicano scienziati e filosofi Il mio non è sentimentalismo da New Age. È semplicemente buon senso. Nella doccia di Bobby, mentre gli strofinavo vigorosamente il pelo, Orson continuava a tremare. L'acqua era tiepida. Erano altri i motivi per cui il cane rabbrividiva. Sembrò calmarsi solo dopo che lo ebbi asciugato con numerosi teli di spugna e reso il pelo vaporoso con l'asciugacapelli lasciato da Pia Klick. Mentre mi infilavo un paio di jeans di Bobby e una sua maglietta di cotone blu a maniche lunghe, Orson lanciò diverse occhiate in direzione della finestra appannata, timoroso di chiunque potesse trovarsi là fuori, nel buio della notte; ma poi sembrò tranquillizzarsi. Servendomi di asciugamani di carta, ripulii il mio giubbotto e il berretto. Puzzavano ancora di fumo, soprattuto il berretto. Sotto la fioca luce del bagno, riuscivo a malapena a leggere le parole sopra la visiera: MYSTERY TRAIN. Strofinai il polpastrello del pollice sopra le lettere ricamate e ripensai alla stanza in cemento e priva di finestre in cui avevo trovato il berretto, in una delle più strane aree abbandonate di Fort Wyvern. Mi tornarono alla mente le parole di Angela Ferryman, il suo commento quando le avevo detto che Wyvern era chiuso ormai da un anno e mezzo. Alcune cose non muoiono. Non possono morire. Per quanto lo si desideri. Per un istante rividi il bagno di Angela: una visione dell'espressione incredula dei suoi occhi morti e della silenziosa sorpresa che vi era sulla sua bocca. Ancora una volta, ebbi la netta sensazione di aver trascurato un importante dettaglio che riguardava le condizioni del suo corpo ma, come prima, quando cercavo di ottenere dalla mia memoria un ricordo più nitido del suo viso chiazzato di sangue, invece di farsi più chiara, l'immagine diveniva confusa. Stiamo rovinando tutto, Chris... ma questa volta è ancora peggio di prima... e non c'è più modo di tornare indietro... di disfare quello che è stato fatto. I taco, farciti con striscioline di pollo, lattuga, formaggio e salsa, erano davvero deliziosi. Invece di appoggiarci ai mobili, ci sedemmo a tavola e
innaffiammo il cibo con la birra. Sebbene Sasha gli avesse già dato da mangiare, Orson riuscì a scroccarmi alcuni pezzetti di pollo ma, nonostante le sue moine, non mi convinse a versargli un'altra Heineken. Bobby aveva acceso la radio e l'aveva sintonizzata sul programma di Sasha appena iniziato. Era mezzanotte. Non fece il mio nome, né introdusse la canzone con una dedica, ma mandò in onda Heart Shaped World di Chris Isaak, perché è una delle mie preferite. Sintetizzando al massimo gli avvenimenti della serata, raccontai a Bobby ciò che era avvenuto nel garage dell'ospedale, la telefonata ricevuta da Kirk nel locale del forno crematorio e la squadra di sconosciuti che mi avevano inseguito fra le colline. Durante il racconto, Bobby mi interruppe solo per domandare: «Tabasco?» «Che cosa?» «Per rendere la salsa più piccante.» «No, grazie», risposi. «Va bene così com'è.» Prese dal frigorifero una bottiglietta di tabasco e ne spruzzò qualche goccia sul suo taco già cominciato. Adesso Sasha stava trasmettendo Two Hearts, sempre cantata da Chris Isaak. Per un po' di tempo, non feci che lanciare occhiate alla finestra vicino al tavolo, chiedendomi se qualcuno ci stesse osservando dall'esterno. All'inizio mi sembrò che Bobby non condividesse le mie preoccupazioni, ma poi mi accorsi che anche lui, di tanto in tanto, scrutava il buio oltre il vetro, cercando però di non darlo a vedere. «Hai abbassato la veneziana?» domandai. «No. Potrebbero pensare che me ne importi qualcosa.» Fingevamo di non essere spaventati. «Chi sono?» Rimase in silenzio, ma io aspettai e. alla fine, Bobby disse: «Non lo so con certezza». Non era una risposta sincera, ma lasciai perdere. Riprendendo il racconto, per evitare il sarcasmo di Bobby. preferii tacere sulla storia del gatto che mi aveva guidato fino al tunnel sotto le colline, tuttavia gli descrissi la raccolta di teschi accuratamente disposta sugli ultimi due gradini dello sfioratore. Gli raccontai anche di aver visto il comandante Stevenson che parlava con il calvo con l'orecchino e della Glock che avevo trovato sul mio letto.
«Bella pistola», commentò in tono ammirato. «Mio padre l'aveva voluta con il puntamento a laser.» «Carino.» A volte Bobby ha un'incredibile padronanza di sé, è talmente calmo che viene da domandarsi se stia veramente ascoltando quello che dite. Anche da bambino gli capitava di comportarsi così, ma adesso, quanto più passano gli anni, tanto più spesso assume questo atteggiamento. Avevo appena finito di raccontargli una serie di avventure straordinarie e lui reagiva come se avesse ascoltato i risultati delle partite di pallacanestro. Lanciando un'occhiata al buio oltre la finestra, mi chiesi se qualcuno non mi stesse guardando attraverso il mirino di un'arma, magari nella croce di collimazione di un cannocchiale notturno. Ma mi resi conto che, se avessero voluto spararci, lo avrebbero fatto quando eravamo all'aperto, fra le dune. Riferii a Bobby ciò che era accaduto a casa di Angela Ferryman. «Brandy all'albicocca», commentò con una smorfia. «Non ne ho bevuto molto.» «Due bicchieri di quella roba e ti ritrovi a parlare con le foche.» Che nel gergo dei surfisti significa vomitare. Avevamo mangiato tre taco a testa, quando finii di raccontagli di come Jesse Pinn avesse minacciato padre Tom nel seminterrato della chiesa; Bobby ne preparò altri due e li portò a tavola. Sasha stava trasmettendo Graduation Day. «Ma è un vero e proprio festival di Chris Isaak.» «Le trasmette per me.» «Davvero? Vuoi dire che Chris Isaak non si trova nella stazione radio e non le sta puntando una pistola alla testa?» Nessuno di noi parlò fino a quando non spazzammo via anche gli ultimi due taco. Finalmente Bobby si decise a fare una domanda, ma l'unica cosa che volle sapere riguardava qualcosa che aveva detto Angela: «E così diceva che era una scimmia e non lo era». «Se non ricordo male, le sue parole esatte sono state... 'Sembrava una scimmia. E lo era naturalmente. Lo era e non lo era. Ecco che cosa c'era che non andava in lei.'» «Ti è sembrata a posto con il cervello?» «Era nervosa, spaventata, molto spaventata, ma non era fuori come un terrazzino, se è questo che vuoi dire. Inoltre, l'hanno ammazzata per chiu-
derle il becco, quindi doveva esserci qualcosa di vero nelle sue parole.» Annuì e bevve un altro sorso di birra. Rimase in silenzio così a lungo, che alla fine sbottai: «E adesso?» «A me lo chiedi?» «Non stavo parlando con il cane», gli feci notare. «Molla», rispose. «Che cosa?» «Dimentica questa storia, continua la tua vita.» «Sapevo che l'avresti detto», ammisi. «Allora perché me lo hai chiesto?» «Ascolta, Bobby, forse la morte di mia madre non è stata un incidente.» «Direi che è un po' più di un forse.» «E forse nel cancro di mio padre c'era qualcosa di più che un cancro.» «Così hai deciso che devi vendicarti?» «Questa gente non può passarla liscia, dopo aver commesso degli omicidi.» «Certo che possono. Ogni giorno ci sono persone che uccidono e la fanno franca.» «Be', allora non dovrebbero.» «Non ho mai detto questo. Ti ho solo fatto notare che così vanno le cose.» «Sai una cosa, Bobby, forse la vita non è solo surf, sesso, cibo e birra.» «Non ho mai detto nemmeno questo. Ho solo detto che così dovrebbero andare le cose.» «Bene», esclamai, fissando l'oscurità oltre la finestra, «io non ho paura.» Bobby si appoggiò allo schienale della sedia, con un sospiro. «Se stai aspettando di acchiappare un'onda, le condizioni sono perfette e i cavalloni hanno le creste affilate come rasoi, ma poi arriva una serie di onde alte più di cinque metri, che sono oltre il tuo limite, però tu sai che ce la puoi fare a controllarle, e invece decidi di startene tranquillo a fare il galleggiante, quello vuole dire avere paura. Ma diciamo invece che quelle che ti vengono incontro sono onde da dieci metri, montagne d'acqua che ti massacreranno, che ti espelleranno dalla tavola e ti spingeranno sotto e tu non riuscirai più a respirare e pregherai Gesù. Se hai la possibilità di scegliere fra lasciarci le penne e fare il galleggiante, e decidi di startene tranquillo fino a quando le onde sono passate, in quel caso non dimostri di avere paura. Dimostri di essere uno che fa funzionare il cervello. Anche un pazzo del surf ne ha bisogno. E il dilettante che prova a cavalcare un'onda quando sa
che cadrà giù dalle cascate e che andrà a spiaccicarsi... be', quello è un cretino.» Rimasi commosso dalla lunghezza del suo discorso, perché significava che era veramente preoccupato per me. «Quindi mi stai dando del cretino», conclusi. «Non ancora. Dipende da quello che intendi fare.» «Quindi sono un cretino in attesa che succeda qualcosa.» «Diciamo che il tuo potenziale di cretino supera la scala Richter.» Scrollai la testa. «Da come la vedo io, non si tratta di un'onda da dieci metri.» «Magari quindici.» «A me sembrano cinque al massimo.» Rovesciò gli occhi all'indietro, come a dire che l'unico luogo dove sarebbe riuscito a trovare un po' di buon senso era dentro la sua testa. «Secondo quanto ti ha detto Angela, la storia ha inizio con un progetto portato avanti a Fort Wyvern.» «Era salita al piano superiore per prendere qualcosa da mostrarmi, una specie di prova, credo, roba che suo marito doveva aver conservato. Di qualsiasi cosa si trattasse, è andata distrutta nell'incendio.» «Fort Wyvern. L'esercito. I militari.» «E allora?» «Qui si sta parlando del governo», mi fece notare Bobby. «Fra', il governo non è un'onda da dieci metri. È da trenta. È un maremoto.» «Guarda che siamo in America, non in uno staterello del Terzo Mondo.» «Un tempo era così.» «Sento di avere un dovere in questa storia.» «Che dovere?» «Un dovere morale.» Corrugando le sopracciglia e stringendo la radice del naso tra l'indice e il pollice, come se ascoltare i miei discorsi gli avesse fatto venire mal di testa, commentò: «Immagino che se al notiziario della sera dicono che sta arrivando una cometa che distruggerà la terra, tu indossi calzamaglia e mantello e ti lanci verso lo spazio siderale per deviare quella disgrazia ambulante e spedirla verso l'altra estremità della galassia». «A meno che il mantello sia in lavanderia.» «Stronzo.» «Stronzo.»
20 «Guarda qui», indicò Bobby. «Mi stanno arrivando dei dati. Sono inviati dal satellite meteorologico del governo inglese. Dopo averli elaborati, sei in grado di misurare l'altezza di ogni onda, in qualsiasi parte del mondo, con un'approssimazione di pochi centimetri.» Non aveva dovuto accendere le luci in ufficio. I grandi schermi dei vari computer rischiaravano il locale a sufficienza per lui e anche troppo per me. Sui monitor si muovevano colorati diagrammi a colonne, mappe, dettagliate foto satellitari e schemi di flusso delle situazioni dinamiche relative alle condizioni climatiche. Non sono mai entrato nel mondo dei computer e non vi entrerò mai. Con un paio di occhiali da sole non è facile leggere ciò che appare sugli schermi, ma non posso rischiare gli occhi, trascorrendo ore davanti a uno schermo, anche se dotato di filtro, con tutti quei raggi UV che mi arrivano addosso. Per gli altri sono emissioni a basso livello, ma considerando il danno cumulativo, per me alcune ore davanti a un computer sarebbero come una tempesta di luce. Scrivo tutto a mano, su fogli per uso legale: qualche occasionale articolo, un libro di successo, in seguito al quale la rivista Time ha pubblicato un articolo su di me e sull'XP. Questa stanza piena di computer rappresenta il cuore di Surfcast, il servizio di previsioni onde avviato da Bobby, che fornisce previsioni quotidiane via fax agli abbonati di tutto il mondo, che ha un suo sito Web e un numero per le informazioni a pagamento. Vi sono quattro impiegati a Moonlight Bay che, collegati in rete, svolgono la loro attività da casa, ma è lo stesso Bobby a preparare l'analisi finale dei dati e le previsioni degli spostamenti delle onde. Lungo le spiagge di tutti gli oceani del mondo, circa sei milioni di persone praticano regolarmente il surf; cinque milioni e mezzo di queste si accontentano di onde alte due o tre metri, misurate dalla base alla cresta. I rigonfiamenti oceanici nascondono la loro forza al di sotto della superficie, arrivando a toccare i trecento metri, e non sono vere e proprie onde fino a quando non diminuiscono di profondità e si frangono sulla riva; di conseguenza, fino alla fine degli anni Ottanta, non si poteva prevedere con un certo margine di sicurezza dove e quando sarebbe stato possibile trovare cavalloni da due metri. I patiti del surf potevano trascorrere sulla spiaggia intere giornate, galleggiando su un mare appena increspato, o addirittura piatto, mentre a pochi chilometri di distanza onde meravigliose corru-
gavano l'orizzonte e si rompevano sulla costa. Una buona percentuale di questi cinque milioni e mezzo di surfisti è disposta a pagare qualche dollaro a Bobby per venire a sapere dove ci sarà, o non ci sarà, un po' di movimento, piuttosto che affidarsi unicamente alla magnanimità di Kahuna, il dio del surf. Solo pochi dollari. Il numero per le informazioni a pagamento da solo riceve ottocentomila telefonate all'anno, a due dollari l'una. È buffo pensare che proprio Bobby, lo scansafatiche, il ribelle del surf, è probabilmente diventato il cittadino più ricco di Moonlight Bay, anche se nessuno se ne rende conto e se lui regala gran parte del suo denaro. «Ecco qua», esclamò, sprofondando in una poltroncina davanti a uno dei computer. «Prima di precipitarti a salvare il mondo e a farti sparare addosso, pensa un po' a questo.» Mentre Orson tendeva il suo capoccione per vedere meglio lo schermo, Bobby picchiò sulla tastiera per richiamare altri dati. La maggior parte del restante mezzo milione di surfisti si fermano davanti a onde che superano i cinque metri e, probabilmente, meno di diecimila sono in grado di affrontare quelle di sei; tuttavia, quanto più è ridotto il numero di questi intrepidi assi del surf, tanto maggiore è la percentuale di quelli che richiedono le previsioni di Bobby. Vivono e sono disposti a morire per una calvalcata sulle onde; perdersi una serie di cavalloni di proporzioni epiche sarebbe per loro una tragedia shakespeariana con l'aggiunta di sabbia. «Domenica», disse Bobby, continuando a battere sulla tastiera. «Questa domenica?» «Fra due sere, immagino che vorrai essere qui. Invece che essere morto, voglio dire.» «Stanno arrivando onde interessanti?» «Di tutto rispetto.» Forse non più di tre o quattrocento surfisti al mondo hanno l'esperienza, l'abilità e le palle per cavalcare cavalloni giganteschi che superano i cinque metri e alcuni di loro sono disposti a pagare profumatamente Bobby perché li informi su dove poterli trovare, anche se affrontarli non significa solo correre un grave pericolo, ma addirittura rischiare di lasciarci la pelle. Fra questi maniaci, vi sono miliardari disposti a prendere un aereo per raggiungere, in qualsiasi parte del mondo, le tanto ambite montagne d'acqua, sulle cui creste si fanno trascinare da un jet ski, perché è troppo difficile e spesso impossibile seguire il sistema tradizionale. In tutto il pianeta, non si
trovano onde di queste dimensioni, ben fatte e degne di essere cavalcate, per più di trenta giorni all'anno, e spesso vanno a frangersi sulle coste di località quanto mai lontane. Attraverso mappe, foto scattate dai satelliti e dati sulle condizioni climatiche ottenuti da fonti varie, Bobby è in grado di fornire indicazioni con due o tre giorni di anticipo e le sue previsioni sono così affidabili che perfino i surfisti più esigenti sono sempre rimasti soddisfatti. «Eccole», esclamò, indicando un profilo ondulato sul computer. Orson si avvicinò allo schermo per vedere meglio e Bobby soggiunse: «Moonlight Bay, cavalloni giganteschi si romperanno sulla costa. Sarà un classico. Domenica pomeriggio e sera, per tutta la notte, fino all'alba di lunedì... dei veri mostri». Scrutai lo schermo, sbattendo le palpebre: «Quelle sarebbero onde da tre metri?» «Sì, da due, tre metri, forse con qualche gruppo da quattro. Prima colpiranno le Hawaii... poi noi.» «Ci sarà un bel po' di movimento.» «Decisamente. Dalla zona a nord di Tahiti sta arrivando un grosso temporale. Ci sarà anche il vento che soffia dalla costa, di conseguenza quelle montagne d'acqua formeranno i tunnel più concavi che tu abbia mai. non dico visto, ma nemmeno sognato in vita tua.» «Grandioso.» Fece ruotare la sedia per guardarmi in faccia. «Allora, che cosa preferisci affrontare? La domenica notte di onde provenienti da Tahiti o il maremoto di morte proveniente da Wyvern?» «Tutti e due.» «Kamikaze», commentò sarcastico. «Anatra», lo insultai sorridendo... una parola che, per noi, ha lo stesso significato di galleggiante, ovvero uno che se ne sta fermo in mezzo al mare, senza avere mai il coraggio di affrontare un'onda. Orson voltava la testa per guardare, alternativamente, una volta Bobby e una volta me, come se stesse assistendo a un incontro di tennis. «Esaltato.» «Qua-qua-qua», lo presi in giro, ribadendo il concetto di anatra. «Stronzo», che ha lo stesso significato sia per i surfisti, sia per i profani. «Devo dedurre che non hai intenzione di aiutarmi.» Alzandosi dalla sedia, mi fece notare: «Non puoi andare alla polizia. Non puoi rivolgerti all'FBI. Sono tutti pagati dai tuoi avversari. Che cosa
speri di scoprire di un progetto che, evidentemente, a Wyvern considerano molto segreto?» «Ho già scoperto qualcosa.» «Già, e la prossima cosa che scoprirai è che ti ammazzeranno. Ascolta, Chris, non sei Sherlock Holmes e nemmeno James Bond. Al massimo, potresti essere Nancy Drew.» «Nancy Drew può vantare un'incredibile percentuale di soluzione dei casi», gli ricordai. «È riuscita a inchiodare il cento per cento dei bastardi di cui si è occupata. Per me sarebbe un onore essere paragonato a una bestia nera della criminalità come la signorina Nancy Drew.» «Kamikaze.» «Anatra.» «Esaltato.» «Qua-qua-qua.» Ridacchiando, scrollando la testa e grattandosi i corti peli della barba, Bobby concluse: «Mi fai vomitare». «Altrettanto.» Squillò il telefono e Bobby rispose: «Ciao, bellissima, mi è piaciuta da morire la nuova impostazione del programma... sempre e solo Chris Isaak. Mi fai un favore? È possibile ascoltare Dancin'?» Mi porse il ricevitore. «È per te, Nancy.» Mi piace la voce di Sasha quando è in veste di disc-jockey. Anche se è solo leggermente diversa dalla sua voce di tutti i giorni... un po' più profonda, più morbida, più suadente... l'effetto è straordinario. Quando ascolto Sasha alla radio, sento il desiderio di rannicchiarmi a letto con lei. Per la verità, questo è un desiderio che provo sempre, vorrei farlo il più spesso possibile, ma quando usa la voce da radio, il mio desiderio si fa impellente. Assume quella tonalità nel momento in cui entra nello studio e la mantiene anche quando non è al microfono, fino al termine del lavoro. «Questa canzone finisce fra un paio di minuti e devo fare qualche chiacchiera fra un pezzo e l'altro, quindi vado di fretta. Poco fa, è venuto qualcuno allo studio che voleva mettersi in contatto con te. Dice che è una questione di vita o di morte.» «Chi era?» «Non posso fare il suo nome per telefono. L'ho promesso. Quando ho detto che, probabilmente, eri da Bobby... questa persona si è rifiutata di chiamarti o di venire lì.» «Per quale motivo?»
«Non lo so esattamente. Ma... questa persona era veramente nervosa. Ascolta, Chris, 'Sono stato uno che ha conosciuto la notte'. Sai a chi mi riferisco?» Sono stato uno che ha conosciuto la notte. Era un verso di Robert Frost. Mio padre mi aveva instillato la passione per la poesia. E io avevo contagiato Sasha. «Sì», risposi. «Credo di sapere a chi ti riferisci.» «Vuole vederti prima possibile. Dice che si tratta di vita o di morte. Che cosa sta succedendo, Chris?» «Domenica pomeriggio arriveranno delle onde enormi.» «Non è quello che intendevo dire.» «Lo so. Più tardi ti racconterò il resto.» «Cavalloni. Sono alla mia portata?» «Tre metri.» «Penso che me ne starò sulla spiaggia a divertirmi.» «Adoro la tua voce», mormorai. «Calda come la baia.» Riagganciò. Sebbene avesse potuto ascoltare soltanto la mia parte di conversazione, grazie al suo straordinario intuito, Bobby comprese il motivo della telefonata di Sasha e domandò: «In quali pasticci ti stai andando a ficcare?» «Roba da Nancy», risposi. «Niente che ti possa interessare.» Mentre Bobby e io precedevamo un Orson ancora piuttosto inquieto sulla veranda, in cucina la radio cominciò a trasmettere Dancin' di Chris Isaak. «Sasha è una donna eccezionale», commentò Bobby. «Fantastica», confermai. «Non potrai stare con lei se sarai morto. Non è così depravata.» «Messaggio ricevuto.» «Hai preso gli occhiali da sole?» Diedi un colpetto al taschino della camicia. «Sì.» «Ti sei messo la mia crema solare?» «Sì, mamma.» «Cretino.» «Stavo pensando...» «Era ora che cominciassi a farlo.»
«Ho iniziato un nuovo libro.» «Finalmente hai ripreso a muovere il culo.» «Parla dell'amicizia.» «Ci sono dentro anch'io?» «Per quanto possa apparire incredibile, sì.» «Non starai usando il mio vero nome, spero.» «Ti ho chiamato Igor. Il problema è che... Ho paura che i lettori non possano rispecchiarsi in quello che dico, perché tu e io... tutti i miei amici... viviamo vite così diverse.» Bobby si fermò in cima ai gradini della veranda e mi fissò con la sua tipica espressione piena di sarcasmo: «Pensavo fosse necessario essere intelligenti per scrivere libri». «Non c'è nessuna legge che lo imponga.» «Evidentemente no. Anche l'equivalente letterario di un surfcretino saprebbe che ognuno di noi ha una vita differente rispetto a quella degli altri.» «Davvero? Anche Maria Cortez ha un'esistenza diversa?» Maria è la sorella minore di Manuel Ramirez ed è nostra coetanea. Fa la parrucchiera e suo marito lavora in un'officina meccanica. Hanno due bambini, un gatto e una villetta a schiera con un pesante mutuo da pagare. «La sua vita non è quella che vive in negozio», rispose Bobby, «quando si occupa dei capelli di qualcuno, e nemmeno quella che conduce a casa, passando l'aspirapolvere. La sua vita è quella che c'è tra un orecchio e l'altro, nella sua testa. Dentro ha un mondo intero, probabilmente assai più strano e interessante di quanto noi, con i nostri piccoli cervelli, possiamo immaginare. Sei miliardi di individui che camminano su questo pianeta, sei miliardi di piccoli mondi su un mondo più grande. Commessi di negozi di scarpe e cuochi di tavole calde che, visti da fuori, ci sembrano noiosi, hanno vite molto più strane delle nostre. Sei miliardi di storie, ognuna delle quali è un poema epico, ricco di momenti tragici e di trionfi, di bene e di male, di disperazione e di speranza. Tu e io... non siamo poi così speciali, fra'.» Per un attimo rimasi senza parole. Poi, sfiorando la manica delle sua camicia tutta palme-e-pappagalli, commentai: «Non sapevo che fossi un filosofo». Scrollò le spalle. «Per questa piccola perla di saggezza? Figurati, l'ho trovata in un cioccolatino.» «Doveva essere un cioccolatino grande come una casa.»
«Casa? Era un grattacielo», esclamò con un sorrisetto furbo. Il gigantesco muro di nebbia, illuminato dalla luna, si era fermato a circa un chilometro dalla costa; da quando l'avevamo visto per la prima volta, sembrava non fosse avanzato né retrocesso nemmeno di un metro. L'aria della notte era diventata immobile come quella del locale refrigerato del Mercy Hospital. Nessuno ci sparò mentre scendevamo i gradini della veranda. E nessuno lanciò lo strano grido da gavia. Ma erano ancora là, nascosti fra le dune o appena oltre il bordo del promontorio, lungo il pendio che scendeva alla spiaggia. Percepivo la loro attenzione come la pericolosa energia che emana un serpente a sonagli, immobile e pronto a colpire. Sebbene avesse lasciato il fucile in casa, Bobby si manteneva vigile. Mentre mi accompagnava verso la bicicletta, scrutando nell'oscurità, cominciò a mostrare più interesse per la mia storia di quanto avesse voluto ammettere poco prima: «Quella scimmia di cui Angela ti ha parlato...» «Che cosa vuoi sapere?» «Com'era?» «Come una scimmia.» «Voglio dire, era simile a uno scimpanzè, a un orango o a che cosa?» Stringendo le mani intorno al manubrio e girando la bicicletta, pronto a ripercorrere a piedi il tratto di sentiero sabbioso, risposi: «Era un bunder. Non te lo avevo detto?» «Quanto era grande?» «Angela diceva che era alto poco più di mezzo metro e che doveva pesare circa dieci-dodici chili.» Fissando le dune, Bobby confessò: «Anch'io ne ho viste un paio». Sorpreso, appoggiai nuovamente la bicicletta alla balaustra della veranda. «Bunder? Qui?» «Scimmie di qualche tipo, più o meno di quelle dimensioni.» Naturalmente, non esistono scimmie native della California. Gli unici primati che popolano i suoi boschi e i suoi campi sono gli esseri umani. «Una notte», raccontò Bobby, «ne ho sorpresa una che mi fissava attraverso il vetro della finestra. Sono uscito, ed era sparita.» «Quando è successo?» «Forse tre mesi fa.» Orson venne a mettersi in mezzo a noi, quasi cercasse protezione. «Dopo le hai visto ancora?» domandai.
«Sei o sette volte. Sempre di notte. Sono piuttosto riservate. Ma, ultimamente, sono diventate più spavalde. Si muovono sempre in branco.» «Branco?» «Sì, come i lupi. Se per i cavalli si usa la parola mandria, per le scimmie il termine esatto è branco.» «Evidentemente hai fatto delle ricerche. Per quale motivo non me ne hai parlato?» Rimase in silenzio, continuando a fissare le dune. Anch'io le stavo osservando. «Sono loro, nascoste laggiù?» «Può darsi.» «Quante ce ne sono in questo branco?» «Non lo so. Forse sei o otto. Ma sto tirando a indovinare.» «Hai comprato un fucile da caccia. Pensi che siano pericolose?» «Può essere.» «Hai denunciato la cosa a chi di dovere? Non so, all'ente per la protezione degli animali?» «No.» «Perché no?» Invece di rispondere, Bobby esitò un momento, poi disse: «Pia mi sta facendo diventare matto». Pia Klick, andata a Waimea per un paio di mesi, ancora là dopo tre anni. Non capivo che cosa c'entrasse Pia con il fatto che non avesse denunciato la presenza delle scimmie, ma ero certo che, con un po' di pazienza, Bobby me lo avrebbe spiegato. «Dice che ha scoperto di essere la reincarnazione di Kaha Huna», rivelò Bobby. Kaha Huna è la mitica dea hawaiana del surf che, non essendosi mai incarnata, è incapace di essere re. Visto che Pia non era una kamaaina, ovvero una nativa delle Hawaii. ma una haole nata e cresciuta a Oskaloosa, nel Kansas, città che aveva lasciato solo all'età di diciassette anni, sembrava una candidata alquanto improbabile per essere una mitologica uber wahine. «Mi pare che le manchino le credenziali», feci notare. «Ma lei è molto seria riguardo a questa faccenda.» «Di certo è abbastanza bella per essere Kaha Huna. O anche qualsiasi altra dea.» Dalla posizione in cui mi trovavo, di fianco a Bobby, non riuscivo a guardarlo bene negli occhi, ma mi accorsi che era assai scuro in volto. Non
lo avevo mai visto così. Anzi, non mi ero mai reso conto che la depressione facesse parte dei suoi sentimenti. «Sta cercando di capire se essere Kaha Huna preveda la condizione di nubile.» «Oh, santo cielo.» «Pensa che, probabilmente, non dovrebbe vivere con un tizio normale, cioè un mortale. Qualcuno che rappresenterebbe un blasfemo rifiuto del suo destino.» «Questa è dura da ingoiare», commentai. «Per lei, la cosa migliore sarebbe convivere con l'attuale reincarnazione di Kahuna.» Kahuna è il mitico dio del surf. Si tratta in gran parte di una divinità creata dai moderni surfisti che, per arricchire la leggenda, si sono ispirati alla vita di un antico sciamano delle Hawaii. «E tu non sei la reincarnazione di Kahuna», dedussi. «Mi rifiuto di esserlo.» Da quella risposta capii che Pia stava cercando di convincere Bobby che era davvero il dio del surf. Con la voce carica di tristezza e di confusione, Bobby commentò: «È una ragazza così intelligente e piena di talento». Pia aveva ottenuto una laurea summa cum laude all'UCLA. Si era pagata gli studi dipingendo ritratti; adesso, se e quando aveva voglia di dipingere, le sue opere iperrealiste venivano vendute immediatamente e a cifre sbalorditive. «Come fa a essere così intelligente e dotata», si chiese, «e poi... questo?» «Magari tu sei davvero Kahuna», suggerii. «Guarda che non è divertente», ribattè; detto da lui questo era piuttosto strano, visto che per Bobby più o meno tutto era divertente. L'erba che cresceva sulle dune si era piegata verso il terreno e non un filo si muoveva nella notte ormai senza vento. Il ritmo pacato delle onde, che giungeva dalla spiaggia sottostante, sembrava la sommessa preghiera di una folla lontana. La storia Pia era senza dubbio affascinante, ma io ero più interessato alle scimmie. «Negli ultimi anni», proseguì Bobby, «il fatto che Pia mi abbia riempito la testa di tutta questa faccenda della New Age... a volte mi sta anche bene, ma altre volte mi sembra di ritrovarmi per giorni interi in mezzo a frulla-
te.» Una frullata è un'onda piena di sabbia e ghiaia, che fa un male tremendo quando vi arriva in faccia. Insomma, è come dire: «trovarsi in una situazione tutt'altro che piacevole.» «Dopo aver parlato al telefono con Pia», continuò Bobby, «talvolta mi sento così sottosopra, mi manca tanto e vorrei esserle vicino... ci sono momenti in cui potrei anche convincermi che è davvero Kaha Huna. È così sincera. E non è che si comporti da esaltata. Ti parla di tutta questa storia con assoluta serenità, il che la rende ancora più allarmante.» «Non sapevo che fossi preoccupato.» «Nemmeno io lo sapevo.» Sospirando e sfregando un piede nella sabbia, arrivò finalmente a spiegare la relazione tra Pia e i bunder. «La prima volta che ho visto la scimmia alla finestra, era divertente, mi sono messo a ridere. Ho pensato che fosse scappata dalla casa di qualcuno... Ma la seconda volta, ne ho viste più di una. E c'era qualcosa di strano, come in questa storia di Kaha Huna, perché non si comportavano affatto come avrebbero dovuto.» «Che cosa vuoi dire?» «Le scimmie sono animali giocosi e un po' pasticcioni... Queste non erano per niente allegre. Erano piccoli esseri molto determinati e solenni, mostriciattoli che ti facevano accapponare la pelle. Mi osservavano, studiavano attentamente la casa, non per curiosità, ma come se seguissero un programma ben preciso.» «Quale progamma?» Bobby si strinse nelle spalle. «Erano così strane...» Sembrava che non riuscisse a trovare la parola giusta, allora gliene suggerii una di H.P. Lovecraft, le cui storie tanto ci avevano entusiasmato all'età di tredici anni: «Misteriose». «Esatto. Erano misteriose al massimo. Sapevo che nessuno mi avrebbe creduto. Ero quasi convinto di avere le allucinazioni. Sono andato a prendere la macchina fotografica, ma non sono riuscito a scattare nemmeno una fotografia. Sai perché?» «Hai messo il pollice sulla lente?» «Perché non volevano essere fotografate. Appena hanno visto la macchina fotografica, sono andate a nascondersi, e correvano come razzi.» Mi lanciò un'occhiata, cercando di intuire la mia reazione, poi tornò a fissare le dune. «Sapevano di che cosa si trattava.» Non riuscii proprio a resistere. «Aspetta un momento, non le starai an-
tropomorfizzando, vero? Lo sai... quel brutto vizio di attribuire caratteristiche umane agli animali?» Ignorando il mio sarcasmo, proseguì nel racconto: «Dopo quella sera, invece di conservare la macchina fotografica nell'armadio, ho preferito lasciarla su un ripiano della cucina, a portata di mano. Se fossero comparse di nuovo, pensavo che sarei riuscito a scattare un'istantanea prima che si rendessero conto di quello che stava succedendo. Una sera, circa sei settimane fa, c'erano delle belle onde di circa tre metri, con un vento che soffiava da terra, così, anche se faceva parecchio freddo, ho indossato la muta e ho trascorso un paio di ore in acqua. Non mi ero portato la macchina fotografica alla spiaggia». «Come mai?» «Perché era da una settimana che non vedevo quei dannati animali. Pensavo che forse se ne erano andati. Comunque, sono tornato a casa, mi sono tolto la muta e sono andato in cucina per prendere una birra. Quando ho chiuso il frigo e mi sono voltato, ho visto alcune scimmie dietro i vetri di due finestre, erano appese alle intelaiature e mi osservavano. Allora ho allungato la mano verso la macchina fotografica... ed era sparita.» «L'avevi spostata.» «No. È proprio sparita definitivamente. Quella sera non avevo chiuso a chiave la porta. Ora lo faccio sempre.» «Vuoi dire che sono state le scimmie a prenderla?» «Non è finita. Il giorno dopo ho comprato una macchina fotografica usa e getta. L'ho posata sul ripiano, accanto al forno, proprio come l'altra. Quella sera ho lasciato le luci accese, ho chiuso la porta a chiave e sono sceso in spiaggia.» «Onde interessanti?» «No, lente. Ma volevo dare un'opportunità alle scimmie. E loro l'hanno colta al volo. Durante la mia assenza, hanno spaccato un vetro, hanno aperto la finestra e hanno rubato anche la seconda macchina fotografica. Niente altro. Solo quella.» Adesso capivo perché tenesse il fucile in un armadietto chiuso a chiave. Il villino sul promontorio, senza vicini intorno, mi era sempre apparso come uno splendido rifugio. Di sera, quando i surfisti andavano via, il cielo e il mare formavano una sfera, all'interno della quale la casa si ergeva come un diorama in quei fermacarte di vetro che, quando vengono scossi, si riempiono di neve, in questo caso però, al posto della neve, scendeva una profonda pace e una splendida solitudine. Ma adesso quella tanto gra-
dita solitudine si era trasformata in un inquietante isolamento. Invece di offrire un senso di pace, la notte era immobile e densa di aspettativa. «E mi hanno anche lasciato un avvertimento», disse Bobby. Immaginai un foglietto faticosamente scritto in stampatello: ATTENTO AL CULO. FIRMATO: LE SCIMMIE. Ma erano troppo furbe per lasciare un prova scritta e, soprattutto, i loro messaggi erano molto più diretti. «Una di loro ha cagato sul mio letto», spiegò Bobby. «Che idea simpatica.» «Come ti ho detto, sono animali molto riservati. Ho deciso di non tentare più di fotografarli. Se una notte riuscissi a scattare una foto con il flash... Immagino che s'incazzerebbero da morire.» «Hai paura di loro. Non sapevo che ti preoccupassi ed ero convinto che non avessi mai paura. Questa notte sto imparando un sacco di cose su di te, fra'.» Non voleva ammettere di avere paura. «Però hai comprato un fucile», gli feci notare. «Ritengo che, di tanto in tanto, sia necessario dargli una regolata, bisogna far capire a quelle piccole bastarde che sono geloso del mio territorio, perché, accidenti, questo è il mio territorio. Però non mi fanno paura. Davvero. Sono soltanto scimmie.» «Lo sono... e non lo sono.» «In certi momenti mi chiedo se per caso non mi sia beccato qualche virus New Age da Pia, attraverso il telefono, e adesso, mentre lei è ossessionata dal fatto di essere Kaha Huna, io sono ossessionato con le scimmie del nuovo millennio. Immagino che i giornali le chiamerebbero così, non credi?» «Le scimmie del nuovo millennio. Suona bene.» «Ecco perché non ho denunciato la loro presenza. Non intendo diventare il bersaglio della stampa o di chiunque altro. Non voglio essere preso per l'esaltato di turno che ha visto lo yeti o gli extraterrestri su un'astronave simile a un tostapane. Dopo un fatto del genere, la mia vita non sarebbe più la stessa.» «Saresti il mostro del villaggio, proprio come me.» «Esattamente.» La sensazione di essere osservato si fece più intensa. Stavo quasi per imitare Orson e mettermi a ringhiare a bassa voce. Il cane, ancora al riparo tra me e Bobby, pur restando in silenzio, aveva un'aria attenta, con un o-
recchio dritto e uno piegato in avanti. Non tremava più, ma mostrava un evidente rispetto per chiunque o qualunque cosa ci stesse guardando dall'oscurità. «Ora che ti ho detto di Angela, sai che le scimmie hanno a che fare con il progetto che veniva portato avanti a Fort Wyvern», feci notare a Bobby. «Questa non è un'invenzione da giornali scandalistici. Questi sono fatti reali, molto reali, e noi dobbiamo fare qualcosa.» «Continua ancora», mormorò Bobby. «Che cosa?» «Secondo quello che Angela ti ha detto, Wyvern non è stato chiuso completamente.» «Ma è stato abbandonato diciotto mesi fa. Se fosse rimasto del personale per mandare avanti qualche operazione, l'avremmo saputo. Anche se vivessero alla base, verrebbero in città per fare acquisti, per andare al cinema.» «Hai detto che Angela aveva definito questa storia lo scontro finale. Ha detto che era la fine del mondo.» «Infatti. E allora?» «Se uno è impegnato in un progetto per distruggere il mondo, può darsi che non abbia tempo per andare al cinema. Comunque, come ti ho già detto, Chris, questo è un maremoto. Si tratta del governo. Non c'è modo di cavalcare queste onde e uscirne vivi.» Strinsi le mani intorno al manubrio della bicicletta e la raddrizzai. «Nonostante le scimmie e quello che hai visto, sei ancora dell'idea di startene a guardare?» «Certo. Se rimango calmo, è possibile che alla fine se ne vadano. E comunque, non è che vengano qui tutte le sere. Una o due volte alla settimana. Se ho la pazienza di aspettare che si stanchino... può darsi che la mia vita ritorni come prima.» «Già, ma può darsi che Angela non avesse fumato qualcosa. E che non ci sia più la possibilità che tutto torni come prima.» «Allora, perché indossare la calzamaglia e il mantello, se è comunque una causa persa?» «Per un Super-XP-Man come me», risposi con finta solennità, «non esistono cause perse.» «Kamikaze.» «Anatra.» «Esaltato.»
«Qua-qua-qua», ribattei in tono affettuoso, mentre mi allontanavo dalla casa, accompagnando la bicicletta lungo il morbido strato di sabbia. Orson si lasciò sfuggire un timido guaito di protesta quando vide che lasciavamo la relativa sicurezza del villino, ma mi seguì ugualmente, pur mantenendosi vicino a me e annusando l'aria della notte. Avevamo percorso una decina di metri, quando Bobby si mise a correre, sollevando spruzzi di sabbia, e dopo averci raggiunto, ci bloccò la strada. «Sai qual è il tuo problema?» «Gli amici che scelgo?» «Il tuo problema è che vuoi lasciare un'impronta nel mondo. Vuoi lasciare dietro di te qualcosa per poter dire: 'Io sono esistito'.» «Non mi interessa una cosa del genere.» «Stronzate.» «Non dire parolacce. C'è un cane.» «Ecco perché scrivi articoli, libri. Per lasciare un segno.» «Scrivo perché mi piace scrivere.» «Te ne lamenti sempre.» «Certo, perché è la cosa più faticosa che abbia mai fatto. Ma è anche quella che mi da più soddisfazione.» «Sai perché è così faticosa? Perché non è naturale.» «Forse per la gente che non sa né leggere, né scrivere.» «Ascolta fra', non siamo nati per lasciare impronte. Monumenti, eredità, segni... è in questo che sbagliamo sempre. Siamo qui per goderci il mondo, per immergerci nella sua bellezza, per divertirci il più possibile durante questa brevissima corsa.» «Guarda, Orson, sta facendo di nuovo il Filosofo Bob.» «Il mondo è perfetto così com'è, bellezza che va da un orizzonte all'altro. Qualunque impronta cerchiamo di lasciare... accidenti, sono soltanto graffiti. Nulla può migliorare il mondo che ci è stato dato. Qualunque segno lasciamo non è che un atto di vandalismo.» «La musica di Mozart?» «Vandalismo», ribattè Bobby. «L'arte di Michelangelo.» «Graffiti.» «Renoir.» «Graffiti.» «Bach. I Beatles.» «Graffiti per l'orecchio», insistè.
Per seguire la nostra conversazione, Orson faceva scattare la testa da una parte all'altra come fosse una frusta. «Matisse, Beethoven, Wallace Stevens, Shakespeare.» «Vandali, teppisti.» «Dick Dale», dissi, osando menzionare il sacro nome del Re della Chitarra Surf, il padre di tutta la musica surf. Bobby sbatté le palpebre, ma rispose: «Graffiti». «Sei completamente matto.» «Sono la persona più sana che tu conosca. Lascia perdere questa crociata folle e inutile, Chris.» «Evidentemente devo stare proprio in mezzo a un branco di scansafatiche, se una semplice curiosità viene definita addirittura una crociata.» «Vivi la tua vita. Buttatici dentro. Divertiti. Per questo sei venuto al mondo.» «A modo mio, mi sto divertendo», lo rassicurai. «Non ti preoccupare... sono uno che ama godersela, proprio come te.» «Ti piacerebbe.» Quando cercai di spostare la bicicletta per passargli accanto, Bobby mi bloccò nuovamente. «Va bene», cedette in tono rassegnato. «Va bene. Ma tieni il manubrio con una mano e stringi la Glock nell'altra fino a quando non arrivi sul terreno duro. Poi monta in sella e pedala più in fretta che puoi.» Con una mano diedi un colpetto alla tasca del giubbotto, nella quale sentivo il peso della pistola. Un colpo era partito accidentalmente in casa di Angela. Ne restavano ancora nove. «Ma sono soltanto scimmie», dissi, ripetendo le parole di Bobby stesso. «E non lo sono.» Scrutando il buio in cerca di occhi scuri, domandai: «C'è qualcos'altro che dovrei sapere?» Si morse il labbro inferiore. Alla fine ammise: «Forse sono davvero Kahuna». «Non è questo che intendevi dirmi.» «È vero, però non è così assurdo come quello che stavo per dirti.» Il suo sguardo percorse le dune. «Il capo del branco... Sono riuscito a vederlo solo per un attimo e da lontano, al buio, era poco più che un'ombra. È più grande degli altri.» «Quanto grande?» Il suoi occhi incontrarono i miei. «Penso che sia alto più o meno quanto
me.» Prima, quando ero rimasto sulla veranda aspettando il ritorno di Bobby dalla sua perlustrazione del pendio, avevo notato un movimento con la coda dell'occhio: una sagoma confusa di un uomo che, curvo in avanti, correva fra le dune a grandi falcate. Ma quando mi ero voltato, impugnando la Glock, la sagoma non c'era più. «Un uomo?» domandai. «Che guida il branco di scimmie del millennio? Abbiamo il Tarzan di Moonlight Bay?» «Spero che sia un uomo.» «Perché, che cosa dovrebbe essere?» Distogliendo lo sguardo, Bobby scrollò le spalle. «Sto solo dicendo che non ho visto soltanto le scimmie. Insieme con loro c'è qualcosa o qualcuno di molto più grosso.» Guardai verso le luci di Moonlight Bay. «Ho la sensazione che. da qualche parte, ci sia un orologio che continua a ticchettare, una bomba a orologeria, e che tutta la città se ne stia seduta su una carica di esplosivi.» «È esattamente quello che intendevo dire, fra'. Stai alla larga da quel terreno minato.» Tenendo la bicicletta con una mano, estrassi la Glock dalla tasca. «Mentre ti lanci nelle tue pericolose avventure, Super-XP-Man, c'è qualcosa che non devi dimenticare.» «Altre perle di saggezza da surfista.» «Qualunque cosa stesse succedendo a Wyvern... e magari sta succedendo ancora... al progetto dovevano lavorarci un bel po' di scienziati. Gente con una cultura mostruosa e con fronti più alte della tua faccia. Oltre a tizi del governo e militari, tanti. Insomma l'elite del sistema. Gente che conta. Sai perché facevano parte di questo progetto, prima che andasse tutto storto?» «Conti da pagare, famiglie da mantenere?» «Ognuno di loro voleva lasciare la propria impronta.» «Ma nel mio caso non si tratta di ambizione. Voglio solo sapere perché mia madre e mio padre sono dovuti morire.» «Hai la testa più dura della conchiglia di un'ostrica.» «Sì, però dentro c'è una perla.» «Non è una perla», ribattè. «È merda di gabbiano fossilizzata.» «Sai usare bene le parole. Dovresti scrivere un libro.» Se ne uscì con un ghigno acido come la scorza di un limone. «Preferirei scoparmi un cactus.»
«È più o meno la stessa cosa. Ma dà soddisfazione.» «Quest'onda ti farà finire nel ciclo del risciacquo e poi ti manderà giù per il tubo di scarico.» «Può darsi. Ma sarà una corsa fantastica. Non sei stato tu a dire che dobbiamo godercela?» Finalmente sconfitto, si spostò di lato e sollevò la destra per fare il segno di shaka. Tenni la bicicletta con la mano nella quale stringevo la pistola abbastanza a lungo per riuscire a fare il segno di Star Trek. Come risposta, Bobby chiuse la mano a pugno, mostrandomi solo il dito medio. Con Orson al mio fianco, accompagnai la bicicletta sulla sabbia, dirigendomi verso est e verso la parte più rocciosa del promontorio. Non ero andato lontano, quando sentii Bobby che diceva qualcosa, ma non riuscii ad afferrare le parole. Mi fermai per voltarmi e vidi che si stava già dirigendo verso il villino. «Che cosa hai detto?» «Che sta arrivando la nebbia.» Guardai oltre il mio amico e vidi un'imponente massa che avanzava da occidente, una valanga di vapore tumultuoso rischiarato dalla luna. Come una parete che, in sogno, crolla silenziosamente, portando morte e distruzione. Le luci della città sembravano a un continente di distanza. PARTE QUARTA Il cuore della notte 21 Il breve tragitto, che ci portò dalle dune al sentiero dal fondo roccioso bastò perché Orson e io ci ritrovassimo avvolti da una spessa coltre. Il banco di nebbia era profondo qualche centinaio di metri e, sebbene una pallida spolverata di chiarore lunare filtrasse fino a terra, eravamo immersi in una grigia oscurità che ci impediva di vedere allo stesso modo che se ci fossimo trovati in una notte buia e senza luna. Le luci della città erano svanite. La nebbia giocava strani scherzi con i rumori. Sentivo ancora il mormorio delle onde che si frangevano sulla spiaggia, ma adesso sembrava giun-
gere da ogni lato, come se fossi stato su un'isola. Non ero certo di riuscire ad andare in bicicletta in quelle tenebre. La visibilità variava in continuazione da un minimo di zero a una massimo di due metri. Anche se il terreno non presentava ostacoli, né crescevano alberi sul promontorio, avrei potuto facilmente perdere l'orientamento e precipitare dalla scarpata; se la bicicletta avesse imboccato la discesa e la ruota anteriore fosse affondata nella sabbia, bloccandosi all'improvviso, io sarei stato catapultato verso la spiaggia e avrei finito per rompermi una gamba, se non addirittura il collo. Inoltre, per riuscire a mantenere l'equilibrio, avrei dovuto stringere il manubrio con entrambe le mani, il che mi avrebbe costretto a riporre la pistola in tasca. Dopo quanto Bobby aveva detto, mi sentivo più sicuro con la Glock in mano. In quella nebbia, chiunque o qualunque cosa avrebbe potuto arrivare a pochi centimetri di distanza da me senza che nemmeno me ne accorgessi e, soprattutto, senza lasciarmi il tempo di estrarre la pistola. Camminavo di buon passo, tenendo la bicicletta con la sinistra; fingevo di essere tranquillo e sicuro di me, ma Orson, che trotterellava qualche passo avanti, manteneva un atteggiamento guardingo, non riusciva a ostentare indifferenza e continuava a girarsi da una parte e dall'altra. Il ticchettio provocato dai cuscinetti delle ruote e dalla catena tradivano la mia presenza. L'unico modo di far tacere la bicicletta sarebbe stato quello di caricarsela in spalla, cosa che avrei potuto fare solo per brevi tratti. Forse il rumore non aveva poi grande importanza. Con tutta probabilità, le scimmie possedevano sensi molto acuti ed erano in grado di percepire il mio odore. Però anche Orson avrebbe annusato la loro presenza. Avvolta dall'oscurità e dalla nebbia, la sua sagoma nera si scorgeva appena, non mi era quindi possibile vedere se gli si fosse rizzato il pelo intorno al collo, fatto che mi avrebbe indicato con certezza che le scimmie si trovavano nelle vicinanze. Mentre camminavo, mi chiedevo che cosa ci fosse in quelle creature che le rendeva diverse da normali bunder. Esteriormente, l'animale che Angela aveva trovato sul tavolo della sua cucina era stato un tipico esemplare della sua specie, anche se fra i più grandi, quanto a dimensioni. Secondo Angela, la scimmia aveva «orribili occhi giallo scuro», ma per quanto ne sapevo, nella gamma di colore degli occhi di quei primati vi era anche il giallo scuro. Bobby non aveva men-
zionato nulla di speciale riguardo al branco che continuava a infastidirlo, a parte un comportamento piuttosto strano e le insolite dimensioni del loro capo: niente malformazione del cranio né terzo occhio sulla fronte, niente bulloni sul collo a indicare che i vari pezzi erano stati assemblati nel laboratorio segreto di Heather Frankenstein, la megalomane bis-bis-bis-nipote del dottor Victor Frankenstein. I responsabili del progetto di Fort Wyvern si erano mostrati preoccupati all'idea che la scimmia avesse graffiato o morsicato Angela. Visti i timori degli scienziati, era facile supporre che l'animale fosse portatore di una malattia infettiva che poteva essere trasmessa attraverso il sangue, la saliva o altri fluidi del corpo. Questa ipotesi era supportata dai controlli a cui Angela era stata immediatamente sottoposta. In seguito, per quattro anni, le avevano prelevato campioni di sangue, quindi la malattia doveva avere un periodo di incubazione potenzialmente lungo. Evidentemente il progetto di Fort Wyvern riguardava la guerra biologica. I capi di tutti i paesi del mondo negavano recisamente di prepararsi per questo spaventoso conflitto. Appellandosi a Dio, richiamandosi al giudizio della storia, firmavano solenni trattati in cui garantivano che mai si sarebbero impegnati in simili ricerche. Nel frattempo, in ogni nazione si miscelavano cocktail di antrax, si preparavano aerosol contenenti i batteri della peste bubbonica e si mettevano insieme collezioni di nuovi virus, talmente spaventosi che a nessuno scienziato pazzo capitava mai di restare senza lavoro. Tuttavia non riuscivo a comprendere per quale motivo avessero costretto Angela a farsi sterilizzare. Non vi sono dubbi sul fatto che determinate malattie incrementano le probabilità di malformazione del feto, ma da ciò che Angela mi aveva riferito, la preoccupazione di quegli individui non riguardava né lei né i figli che avrebbero potuto concepire. Più che dalla compassione, sembrava fossero stati mossi da una paura trasformatasi in panico. Avevo chiesto ad Angela se la scimmia fosse stata portatrice di una malattia infettiva. Con la sua risposta, in pratica l'aveva escluso: Magari fosse una malattia. Sarebbe meraviglioso, no? A quest'ora potrei essere guarita. O morta. Meglio la morte che quello che sta per succedere. Ma se non era una malattia, allora di che cosa si trattava? Improvvisamente un verso stridulo, simile a quello della gavia che avevamo già sentito, trafisse il buio e la nebbia, scuotendomi dalle mie riflessioni.
Orson si bloccò di colpo. Anch'io mi fermai e la bicicletta smise di ticchettare. Il grido sembrava giungere da sudovest e, dopo un attimo, uno stridio di risposta sembrò levarsi da nordest. Ci stavano inseguendo. Dato che la nebbia confondeva i rumori, non sapevo dire a che distanza si trovassero gli animali. Ma avrei scommesso qualsiasi cosa che erano molto vicini. Il movimento ritmico delle onde pulsava nella notte come il battito di un cuore. Mi chiesi quale canzone di Chris Isaak stesse trasmettendo Sasha in quel momento. Orson riprese a camminare e anch'io mi mossi, un po' più in fretta di prima. Restare fermi non ci avrebbe portato alcun vantaggio. Saremmo stati al sicuro solo dopo aver lasciato il promontorio ed essere tornati in città, e forse nemmeno allora saremmo stati tranquilli. Avevamo percorso dieci o quindici metri, quando il grido si fece sentire di nuovo. E, proprio come prima, giunse la risposta. Questa volta continuammo a camminare. Il mio cuore batteva furiosamente e non servì a nulla ripetermi che erano solo scimmie. Non si trattava di belve feroci. Questi animali si nutrivano di frutta, di bacche, di noci. Erano bestiole pacifiche. All'improvviso, in modo quasi perverso, mi apparve davanti agli occhi il viso morto di Angela. In quel momento capii che cosa, sconvolto dal dolore, avevo sbagliato a interpretare. Mi ero convinto che le avessero tagliato la gola con un coltello male affilato perché i margini della ferita apparivano irregolari. In realtà, lo squarcio non era stato fatto con un'arma. La carne era stata morsa, strappata, masticata. Vedevo la ferita più chiaramente adesso di quanto l'avessi vista qualche ora prima, sulla soglia del bagno. Mi tornarono alla mente altri segni, ferite che non avevo avuto la forza di prendere in considerazione al momento. Livide impronte di denti sulle mani. E forse anche una sul viso. Scimmie. Ma non scimmie normali. Il modo di agire degli assassini a casa di Angela... le bambole, quel giocare a nascondino... mi era sembrato il comportamento di bambini psicotici. Evidentemente ci dovevano essere stati diversi bunder: abbastanza piccoli per nascondersi in spazi troppo ristretti per un uomo e tanto veloci da sembrare quasi dei fantasmi. Dalle tenebre si levò un altro grido, a cui risposero da due posizioni diverse.
Orson e io continuammo a camminare, mantenendo un'andatura assai vivace, ma io dovetti resistere all'impulso di mettermi a correre. Se lo avessi fatto, il mio gesto poteva, giustamente, essere interpretato come indice di paura. Per un predatore, la paura significa debolezza. Se avessero percepito il mio terrore, probabilmente avrebbero attaccato. Tenevo sempre la Glock, che stringevo come se avessi la mano saldata all'impugnatura. Ma non potevo sapere di quanti animali era composto il branco: forse solo tre o quattro, o forse più di dieci. Considerato che non avevo mai sparato in vita mia, se si esclude il colpo partito accidentalmente durante l'incendio, non sarei certo stato in grado di abbattere tutte quelle bestie prima che avessero il sopravvento su di me. Sebbene non desiderassi offrire alla mia fervente immaginazione materiale così macabro su cui lavorare, non potei fare a meno di chiedermi come fossero i denti di quelle scimmie. Tutti premolari smussati? No. Anche gli erbivori, ammesso che i bunder fossero davvero erbivori, hanno bisogno di morsicare e strappare la pelle della frutta, i gusci e le conchiglie. Dovevano quindi avere gli incisivi e magari anche dei canini aguzzi, proprio come gli esseri umani. Anche se questi particolari esemplari si erano scagliati contro Angela, il bunder in sé non era un animale predatore; quindi non doveva essere dotato di zanne. Per la verità, vi erano alcuni tipi di scimmia che avevano le zanne. I babbuini, per esempio. Comunque, i morsi dei bunder dovevano avere una certa forza perché, indipendentemente dai denti di cui madre natura li aveva forniti, erano stati in grado di ammazzare Angela Ferryman con violenza e rapidità. Dapprima, più che vedere, udii o percepii un movimento sulla destra, a poco più di un metro di distanza. Poi intravidi, vicino al suolo, una sagoma scura che si avvicinava rapida e silenziosa. Mi voltai di scatto verso il movimento. Sfiorandomi la gamba, la creatura svanì nella nebbia prima che potessi vederla chiaramente. Orson ringhiò ma, allo stesso tempo, sembrò trattenersi, come se volesse tenere a bada qualcosa, senza tuttavia assumere un'aria di sfida. Era rivolto verso il muro di nebbia grigia che percorreva l'oscurità dall'altra parte della bicicletta ed ero quasi certo che, se ci fosse stata più luce, avrei visto che non gli si era rizzato solo il pelo del collo, ma anche quello della schiena. Tenevo lo sguardo basso, fissando il terreno, convinto di vedere, da un momento all'altro, i lucenti occhi giallo scuro di cui aveva parlato Angela. Ma la sagoma che apparve nella nebbia era alta quasi come me. Forse di più. Confusa, amorfa, come un angelo della morte che ci sfiori in sogno,
più suggestione che sostanza, terrificante proprio perché misteriosa. Niente malevoli occhi gialli. Né lineamenti ben definiti. Né forma distinta. Uomo o scimmia, o nessuno dei due: il capo branco, era lì e non c'era già più. Orson si era di nuovo bloccato. Voltai lentamente la testa per scrutare attentamente le tenebre che fluivano intorno a noi, teso a percepire qualsiasi rumore. Ma il branco si muoveva silenzioso come la nebbia. Mi sentivo come un sommozzatore che, sceso nelle profondità sottomarine e intrappolato da correnti fitte di plancton e alghe, per un attimo abbia scorto uno squalo che nuotava intorno a lui e sia in attesa di vederlo riapparire, pronto ad azzannarlo e a tranciarlo a metà. Qualcosa mi sfiorò i polpacci e diede uno strattone ai miei jeans; non era Orson, perché l'essere soffiò orribilmente. Gli lanciai un calcio, senza colpirlo, e quello svanì prima che riuscissi a vederlo. Orson guaì sorpreso, come se anche lui fosse stato toccato. «Qui, amico», lo chiamai, e lui si avvicinò immediatamente. Lasciai cadere la bicicletta, che sbatacchiò sulla sabbia. Stringendo la pistola con entrambe le mani, cominciai a girare lentamente su me stesso, in cerca di una sagoma contro cui sparare. Si levarono grida stridule e furibonde. Non era difficile riconoscere i versi delle scimmie. Dovevano essere almeno una mezza dozzina. Se ne avessi uccisa una, le altre sarebbero probabilmente fuggite per la paura. Oppure avrebbero reagito con estrema aggressività, come aveva fatto la scimmia vedendosi minacciata dalla scopa di Angela. In ogni caso, la visibilità era quasi nulla e delle creature non riuscivo a vedere né lo scintillio degli occhi né le sagome, quindi non osavo sparare perché, probabilmente, avrei solo sprecato munizioni. Quando il caricatore della Glock si fosse esaurito, sarei diventato una facile preda. I suoni striduli tacquero improvvisamente. Le nuvole dense e in continua ebollizione ora attutivano anche il mormorio delle onde. Gli unici rumori erano il respiro ansante di Orson e il furioso battito del mio cuore. L'imponente sagoma scura del capo branco apparve di nuovo attraverso la grigia coltre di nebbia. Piombò dall'alto come se avesse avuto le ali, naturalmente quella sembianza di volo doveva essere puramente illusoria. Orson si mise a ringhiare; io feci un balzo all'indietro e, nello stesso istante, azionai il meccanismo di puntamento a laser. Una macchiolina rossa fluttuò attraverso la barriera di nebbia. Il capo branco, niente più che u-
n'ombra effimera, venne completamente inghiottito dalle tenebre prima che potessi fissare il laser sulla sua mutevole sagoma. Mi tornò alla mente la raccolta di teschi sui gradini di cemento dello sfioratore sotto il tunnel. Forse il collezionista non era un ragazzino mentalmente disturbato che si addestrava alla sua futura professione. Era possibile che i teschi fossero stati raccolti e sistemati dalle scimmie... il che sarebbe stato assai inquietante. Ma fui colto da un pensiero ancor più sgradevole, e cioè che i nostri teschi, il mio e quello di Orson, debitamente scarnificati, privati degli occhi e ben lucidati, potessero entrare a far parte della collezione. Orson prese a ululare nel momento in cui una scimmia uscì d'improvviso dall'oscurità e gli saltò sulla schiena, lanciando urla stridule. Il cane cominciò a scuotere la testa, cercando invano di azzannare la sgradita cavallerizza e, allo stesso tempo, di scaraventarla lontano. Eravamo così vicini che, pur in quella fioca luce e avvolti dalla nebbia, riuscii a vedere i suoi occhi gialli. Luminosi, freddi e feroci. Mi fissavano pieni di odio. Non potevo sparare senza colpire anche Orson. La scimmia abbandonò quasi subito il dorso del cane e si lanciò contro di me, dodici chili di muscoli e ossa che mi fecero barcollare all'indietro, poi si arrampicò sul mio petto, aggrappandosi al mio giubbotto di pelle; in tutto quel caos non mi fu possibile sparare nemmeno un colpo, avrei rischiato di ferirmi. Per un attimo ci trovammo faccia a faccia, i suoi occhi pieni di odio fissi nei miei. La creatura digrignava i denti e soffiava inferocita, aveva un alito acre e disgustoso. Era una scimmia e tuttavia non lo era, e il suo sguardo aggressivo aveva qualcosa di profondamente alieno che risultava terrificante. Afferrò il mio berretto e io presi a colpirla con la canna della Glock. Continuando a stringere il berretto, la scimmia saltò a terra. Le lanciai un calcio e riuscii a farle cadere il berretto dalle mani. Stridendo e ruzzolando, il bunder fuggì nella nebbia. Orson si lanciò all'inseguimento della bestia, abbaiava furiosamente, la sua paura già dimenticata. Quando gli gridai di tornare indietro, non mi obbedì. Di nuovo l'ombra del capo branco, più fugace di prima, una forma sinuosa che ondeggiava come un mantello al vento, svanita quasi nel momento stesso in cui era apparsa, ma la cui breve presenza fu sufficiente per convincere Orson a riconsiderare l'opportunità di inseguire la piccola
scimmia. «Gesù», urlai nel momento in cui il cane indietreggiava uggiolando. Raccolsi in fretta il berretto, ma non me lo calcai in testa. Preferii invece piegarlo e infilarlo in una tasca del giubbotto. Tremando per la tensione, mi accertai di non essere stato morso. Non sentii nemmeno il bruciore di eventuali graffi sul viso o sulle mani. No, non mi aveva graffiato. Grazie a Dio. Se la scimmia era portatrice di una malattia che poteva essere trasmessa solo attraverso fluidi del corpo, non ne ero rimasto infettato. D'altra parte, avevo respirato il suo alito fetido quando ci eravamo trovati faccia a faccia. Se il contagio avveniva attraverso le vie respiratorie, avevo già un biglietto di sola andata per l'obitorio. Sentendo un sommesso rumore metallico dietro di me, mi voltai di scatto e vidi la bicicletta che veniva trascinata verso la barriera di nebbia da qualcosa che non riuscivo a scorgere. Piegata di lato, con i raggi che pettinavano la sabbia, l'unica parte che ancora si vedeva era la ruota posteriore ed era ormai quasi scomparsa, quando allungai un braccio e l'afferrai con forza. L'invisibile ladro e io ingaggiammo una breve lotta che vinsi facilmente; evidentemente avevo avuto a che fare con una o due scimmie, non con il capo branco. Rialzai la bicicletta e vi appoggiai il corpo per mantenerla in equilibrio, poi sollevai di nuovo la Glock. Orson tornò al mio fianco. Svuotò nervosamente la vescica, liberandosi anche delle ultime gocce di birra, e per poco non mi bagnò i jeans. Ansimavo rumorosamente ed ero talmente scosso dai brividi che, nonostante stringessi la pistola con entrambe le mani, non potevo evitare che la canna tremasse visibilmente. A poco a poco riacquistai la calma. Il cuore non sembrava più così deciso a spaccarmi le costole. Come scafi di navi fantasma, grigie pareti di nebbia solcavano l'oscurità come una flotta senza fine, trascinando dietro di sé una quiete innaturale. Niente più urla stridule. Niente richiami. Né sospiro del vento o mormorio delle onde. Mi sembrava di essere stato ucciso, senza però averne avuto coscienza, e di trovarmi ora in una fredda anticamera, fuori del corridoio della vita, in attesa che si aprisse la porta di accesso al giorno del giudizio. Alla fine mi resi conto che, almeno per il momento, il gioco si era concluso. Stringendo la Glock nella destra, ripresi a spingere la bicicletta lungo il promontorio. Orson mi camminava accanto.
Ero certo che il branco ci stesse ancora osservando, anche se a una certa distanza. Non scorsi più sagome che si muovevano furtive nell'oscurità, ma c'erano ancora, su questo non avevo dubbi. Scimmie. Ma non scimmie. Evidentemente fuggite da un laboratorio di Wyvern. La fine del mondo, aveva detto Angela. Non con il fuoco. Non con il ghiaccio. Qualcosa di peggio. Scimmie. La fine del mondo per mezzo delle scimmie. L'apocalisse con i primati. Lo scontro finale. La fine, l'omega, il giorno del giudizio, chiudete la porta e spegnete le luci per sempre. Questa storia era decisamente e totalmente folle. Ogni volta che la mia mente cercava di raccogliere i fatti e dar loro un ordine che avesse senso, finivo a faccia in giù, incastrato in una gigantesca onda di imponderabilità. L'atteggiamento di Bobby, la sua incrollabile determinazione a restare ben lontano dai problemi insolubili del mondo moderno e la sua decisione di essere il campione degli scansafatiche, mi erano sempre apparsi come uno stile di vita più che legittimo. Adesso mi sembrava anche ponderato, logico e saggio. Dato che non era previsto che raggiungessi l'età adulta, i miei genitori mi avevano educato a giocare, a divertirmi, a soddisfare la mia curiosità, a vivere per quanto possibile senza preoccupazioni e senza paura, a godere del presente senza pormi domande sul futuro; in poche parole ad affidarmi a Dio e a credere che, come chiunque altro, anch'io sono venuto al mondo per un motivo preciso; a essere grato per le limitazioni con le quali sono nato così come per le capacità e per i doni che ho ricevuto, perché entrambe le cose fanno parte di un disegno che va al di là della mia comprensione. Naturalmente, ritenevano che dovessi imparare a controllarmi e ad avere rispetto per gli altri. In realtà, queste sono cose che si appprendono naturalmente quando si è convinti che la propria vita abbia una dimensione spirituale e che la propria presenza nel mondo sia un elemento non casuale nel misterioso mosaico della vita. Sebbene vi fossero ben poche probabilità che potessi sopravvivere a entrambi i genitori, mio padre e mia madre si erano preparati a questa eventualità fin dal momento in cui mi era stato diagnosticato l'XP e avevano stipulato una consistente polizza sulla vita che ora mi avrebbe permesso di vivere agiatamente, anche se non avessi
guadagnato più nulla con i libri e gli articoli. Nato per il gioco, il divertimento e la meraviglia, destinato a non aver mai necessità di lavorare, né a dover sopportare le responsabilità che gravano sulle spalle della maggior parte degli esseri umani, potevo benissimo rinunciare a scrivere e dedicarmi soltanto al surf, così che, al mio confronto, Bobby Halloway sarebbe apparso un fanatico del lavoro, capace di divertirsi quanto un cavolfiore. Inoltre, avrei potuto abbandonarmi all'ozio senza alcun senso di colpa, senza provare scrupoli o rimorsi, perché ero stato educato a essere ciò che tutta l'umanità sarebbe stata se non avesse violato i patti, facendosi cacciare dall'Eden. Naturalmente, come tutti gli esseri viventi, anch'io devo sottostare ai capricci del destino, ma a causa dell'XP ne percepisco più acutamente le insidie e ritengo che questa consapevolezza sia liberatoria. Nondimeno, mentre spingevo la bicicletta lungo il promontorio, non smisi di cercare un senso in ciò che avevo visto e sentito dal tramonto del giorno precedente in poi. Prima che il branco cominciasse a molestare Orson e me, stavo cercando di definire chiaramente che cosa di diverso ci fosse in queste scimmie; la mia mente tornò di nuovo a quell'enigma. Normalmente i bunder sono animali timidi, ma questi si mostravano spavaldi, invece di essere giocosi avevano un'aria cupa. Certo, la differenza più evidente consisteva nel loro carattere irascibile e aggressivo. Tuttavia, la potenziale violenza non era la caratteristica fondamentale che li separava nettamente dagli altri esemplari della loro specie; questa era solo la conseguenza di un'altra, più profonda differenza che avevo notato, ma che mi rifiutavo di prendere in considerazione. La coltre di nebbia non si era assottigliata ma, a poco a poco, cominciò a rischiararsi. Nell'oscurità apparvero macchie di luce dai contorni incerti: gli edifici e i lampioni che costeggiavano la spiaggia. Orson uggiolò di gioia, o forse di sollievo, davanti a questi segnali di civilizzazione, ma, in città o fuori, non eravamo comunque al sicuro. Una volta abbandonato il promontorio, e prima di imboccare l'Embarcadero Way, mi fermai per estrarre il berretto dalla tasca del giubbotto e me lo calcai in testa, abbassando la visiera con uno strattone. L'Uomo Elefante si rimette in ordine. Orson mi sbirciò, tendendo il capo, poi sbuffò come approvasse. Dopo tutto, era il cane dell'Uomo Elefante e, in quanto tale, la sua immagine dipendeva anche da come si presentava e si vestiva il suo padrone. Grazie ai lampioni, la visibilità era aumentata a una trentina di metri.
Come le onde fantasma di un antico mare morto, la nebbia saliva dalla baia e si riversava nelle strade; ogni minuscola goccia rifletteva la dorata luce ai vapori di sodio e la trasmettava alla goccia successiva. Se alcuni esemplari del branco ci stavano ancora seguendo, per evitare di essere visti dovevano necessariamente mantenersi a una distanza superiore rispetto a prima. Come i personaggi di un rifacimento del racconto di Poe I delitti della Rue Morgue, la loro presenza doveva limitarsi ai parchi, ai vicoli poco illuminati, alle terrazze, ai cornicioni e ai tetti. A quell'ora della notte, non vi erano in giro né automobilisti, né pedoni. La città sembrava abbandonata. Fui pervaso dall'inquietante sensazione che queste strade vuote e silenziose presagissero la reale e spaventosa desolazione che si sarebbe abbattuta su Moonlight Bay in un futuro non troppo lontano. Il nostro borgo si stava preparando a diventare una città fantasma. Montai in bicicletta e imboccai la Embarcadero Way, dirigendomi verso nord. L'uomo che mi aveva contattato attraverso Sasha, presentandosi alla stazione radio, mi stava aspettando sulla sua imbarcazione ormeggiata nel porto. Mentre pedalavo lungo il viale deserto, la mia mente tornò alle scimmie del nuovo millennio. Ero certo di essere riuscito a identificare la differenza fondamentale tra i normali bunder e questo straordinario branco che vagava nella notte, ma ero riluttante all'idea di accettare le mie stesse conclusioni, anche se ciò sarebbe stato comunque inevitabile: queste erano scimmie più intelligenti di quelle normali. Molto più intelligenti. Avevano capito a che cosa serviva la macchina fotografica di Bobby e l'avevano rubata. Poi si erano impossessati anche di quella nuova. Avevano riconosciuto il mio viso fra le facce delle bambole esposte nel laboratorio di Angela e avevano usato proprio quel bambolotto per prendersi gioco di me. Successivamente, avevano incendiato la casa per nascondere l'omicidio di Angela. Con tutta probabilità, i cervelloni di Fort Wyvern avevano svolto ricerche segrete per preparare armi batteriologiche, ma questo non spiegava perché l'intelligenza dei bunder usati per i loro esperimenti fosse nettamente superiore a quella di tutte le altre scimmie. Il problema era quanto «nettamente superiore»? Forse non abbastanza per vincere i premi di una trasmissione a quiz. Forse non sufficiente per insegnare poesia a livello universitario, né per gestire con successo una sta-
zione radio, e nemmeno per rintracciare gli spostamenti delle onde negli oceani o per scrivere un libro salito in testa alla classifica del New York Times, ma forse più che sufficiente per rappresentare la più pericolosa e incontrollabile pestilenza che l'umanità abbia mai conosciuto. Proviamo a immaginare quanti danni provocherebbero i topi, e con quanta velocità si moltiplicherebbero, se fossero intelligenti anche solo la metà degli esseri umani e sapessero come evitare tutte le trappole e i veleni. Quelle scimmie erano davvero scappate da un laboratorio e, ormai libere, riuscivano a sfuggire alla cattura? Ma, anche ammettendo che questa fosse la verità, come avevano fatto a diventare così intelligenti? Che cosa volevano? Quali erano le loro intenzioni? Per quale motivo non era stata organizzata una vasta battuta per catturarle e rinchiuderle in gabbie più sicure? O forse le scimmie erano solo strumenti che qualcuno, a Fort Wyvern, aveva deciso di utilizzare? Allo stesso modo in cui la polizia si serviva dei cani addestrati. O come la marina militare usava i delfini per rintracciare i sottomarini nemici e, in tempo di guerra, almeno così si dice, per collocare involucri magnetici pieni di esplosivo sugli scafi di determinate navi. Migliaia di domande si affollavano nella mia mente. Tutte assolutamente folli. A seconda delle risposte, la superiore intelligenza di queste scimmie portava a risultati devastanti per il mondo intero. Particolarmente inquietanti erano le possibili conseguenze per gli esseri umani e per la loro civiltà, soprattutto se si considerava la violenza di questi animali e la loro evidente, innata ostilità. Forse la previsione di Angela di una fine del mondo non era così inverosimile, poteva anzi essere meno pessimistica rispetto a quella che sarebbe stata la mia valutazione, una volta giunto a conoscenza di tutti i fatti. Una cosa era certa, per Angela la fine del mondo era già arrivata. Qualcosa mi diceva che c'era dell'altro in questa storia. Le scimmie rappresentavano solo un capitolo di una vicenda molto più complessa. Altri fatti sconvolgenti attendevano di essere scoperti. Paragonato al progetto di Wyvern, il mitico vaso di Pandora, dal quale sono usciti tutti i mali che affliggono l'umanità... guerre, pestilenze, malattie, carestie, inondazioni... potrebbe aver contenuto soltanto una serie di piccole seccature. Nella fretta di arrivare al porticciolo, pedalavo a una tale velocità che Orson non riusciva a mantenere l'andatura. Correva a perdifiato, con le o-
recchie che sbatacchiavano, ansimando, ma continuava a restare indietro. Per la verità, la mia fretta non nasceva dal desiderio di arrivare al porto, ma dall'inconscia speranza di lasciarmi alle spalle l'ondata di terrore che sembrava inseguirmi. Tuttavia non c'era modo di evitarla e, per quanto corressi furiosamente, riuscivo solo a distanziare il mio cane. Ricordando le parole di mio padre, smisi di pedalare e rallentai, fino a raggiungere una velocità che permettesse a Orson di trotterellarmi accanto senza sforzo eccessivo. Non bisogna mai lasciare indietro un amico. Gli amici sono l'unica cosa che abbiamo per riuscire ad andare avanti nella vita... e sono anche le uniche cose di questo mondo che possiamo sperare di vedere anche nell'altra. Inoltre, il modo migliore di affrontare i cavalloni in un mare di guai è quello di prendere l'onda nel punto giusto e cavalcarla fino in fondo, poi scivolare lungo la montagna d'acqua, lasciarsi avvolgere dalle pareti verdi e condurre la tavola fino al tunnel, lanciando grida di entusiasmo, senza mostrare di aver paura. Non è solo divertente, è la cosa migliore in assoluto. 22 Con il rumore, tenero e delicato, della carne sulla carne in un letto nuziale, le basse onde scivolavano tra i piloni e si rompevano contro la banchina. L'aria umida offriva una leggera e gradevole miscela aromatica di brina, alghe fresche, creosoto, ferro arrugginito e altre fragranze che non riuscii a identificare in modo preciso. Il porticciolo, incuneato nell'angolo nordorientale della baia, può contenere un massimo di trecento imbarcazioni, di cui soltanto sei vengono usate dai loro proprietari come residenze a tempo pieno. Anche se la vita sociale di Moonlight Bay non è incentrata sul porto, per ogni posto che potrebbe rendersi disponibile vi è una lunga lista d'attesa. Spinsi la bicicletta fino all'estremità del molo principale, che correva parallelo al mare. Le gomme frusciavano e sobbalzavano leggermente sulle assi irregolari. In tutto il porticciolo, solo un'imbarcazione aveva le luci accese a quell'ora della notte. Le luci della banchina, anche se fioche, mi permettevano di trovare la strada in mezzo alla nebbia. Dato che la flotta dei pescherecci viene ormeggiata lungo il promontorio settentrionale della baia, le acque ben più riparate del porticciolo sono riservate alle imbarcazioni da diporto. Vi sono barche a vela, a uno o a due
alberi, le cui dimensioni vanno dalle modeste alle imponenti... per la verità le prime sono più numerose delle seconde, nonché imbarcazioni a motore, perlopiù di lunghezza e prezzo ragionevoli, alcune Boston Whalers e perfino due case galleggianti. Attualmente, l'imbarcazione a vela di stazza maggiore, anzi quella più grande in assoluto, ormeggiata nel porto è il Sunset Dancer, un cutter Windship di diciotto metri, mentre fra gli yacht a motore quello che supera tutti gli altri è il Nostromo, un cruiser Bluewater di diciassette metri; ed era proprio verso quest'ultima imbarcazione che mi stavo dirigendo. Mantenendomi sul lato sinistro del molo principale, giunsi fino in fondo, poi svoltai di novanta gradi e imboccai un molo secondario, lungo il quale le imbarcazioni erano ormeggiate su entrambi i lati. Il Nostromo si trovava all'ultimo ancoraggio sulla destra. Sono stato uno che ha conosciuto la notte. Questa era la frase in codice che Sasha aveva usato per identificare l'uomo che mi aveva cercato alla stazione radio, che aveva chiesto di non fare il suo nome al telefono e che si era dimostrato riluttante all'idea di raggiungermi a casa di Bobby. La frase era un verso di Robert Frost, difficilmente riconoscibile da chiunque stesse ascoltando la conversazione, e io avevo intuito che si riferiva a Roosevelt Frost, il proprietario del Nostromo. Mentre appoggiavo la bicicletta contro la ringhiera del molo, accanto alla passerella che conduceva all'ormeggio di Roosevelt, il movimento delle onde provocò un rollio delle imbarcazioni, che presero a cigolare e a gemere come vecchi artritici che si lamentano nel sonno. Quando lasciavo la bicicletta incustodita, non la assicuravo mai con la catena perché Moonlight Bay non era ancora stata contagiata dalla criminalità, almeno fino al quel momento. Prima che la fine settimana si fosse conclusa, la nostra pittoresca cittadina avrebbe potuto trovarsi percentualmente in testa alla classifica nazionale in fatto di omicidi, mutilazioni, maltrattamenti di preti, ma probabilmente non ci saremmo dovuti preoccupare per un incremento nel numero dei furti di biciclette. La passerella era piuttosto ripida perché c'era la bassa marea ed era scivolosa per via dell'umidità. Orson e io scendemmo con la massima cautela. Avevamo percorso due terzi della distanza che ci separava dal lato sinistro dell'ormeggio, quando una voce bassa, poco più che un sussurro, che sembrava nata come per magia dalla nebbia, proprio sopra la mia testa, domandò: «Chi c'è lì?»
Sobbalzai dallo spavento e per poco non caddi in acqua, ma mi aggrappai al corrimano della passerella e fortunatamente riuscii a non scivolare. Il Bluewater 563 è uno yacht bianco, dalla linea affusolata, dotato di un ponte di comando sopraelevato, con il tetto rigido e le pareti di tela. L'unica luce accesa a bordo proveniva da dietro le tendine delle finestre della sala a poppa e dell'alloggio principale, che si trovavano a metà nave, sottocoperta. Dato che il ponte di coperta e quello di comando erano immersi nell'oscurità e avvolti dalla nebbia, non riuscivo a vedere la persona che aveva parlato. «Chi c'è lì?» sussurrò nuovamente l'uomo, ma con maggiore decisione. Riconobbi la voce di Roosevelt Frost. Risposi anch'io con un sussurro: «Sono io, Chris Snow». «Proteggiti gli occhi, figliolo.» Mi riparai con una mano e strizzai gli occhi, mentre la luce abbagliante di una torcia veniva puntata contro di me. Roosevelt la spense quasi immediatamente poi, sempre sussurrando, volle sapere: «Quello accanto a te è il tuo cane?» «Sì, certo.» «E non c'è niente altro?» «Prego?» «Non c'è niente o nessun altro con te?» «No, stia tranquillo.» «Allora, sali a bordo.» Ora riuscivo a vederlo perché si era avvicinato al parapetto del ponte di coperta, a poppa del ponte di comando. Tuttavia, nonostante la vicinanza, non mi era possibile distinguerne i lineamenti per via della fitta nebbia, del buio e del suo stesso colore scuro. Incitando Orson a precedermi, passammo attraverso il varco nel parapetto e salimmo rapidamente i gradini che conducevano al ponte di coperta. Roosevelt Frost ci stava aspettando con un fucile in mano. Non teneva l'arma puntata contro di me, ma sicuramente dovevo essere rimasto sotto tiro fino a quando non mi aveva illuminato con la torcia. Anche senza fucile, era una figura che incuteva rispetto. Superava il metro e novanta. Collo massiccio. Spalle larghe quanto la boma di una vela di straglio. Torace possente. Le due mani unite superavano abbondantemente il diametro di una normale ruota di timone. Il capitano Achab avrebbe dovuto chiamare lui per dare un bel pugno a Moby Dick e mandarla nel mondo dei sogni. Negli anni Sessanta e fino all'inizio degli anni Settanta,
Roosevelt Frost era stato un campione di football e i giornalisti sportivi lo avevano soprannominato La Mazza. Sebbene ora avesse sessantatré anni, fosse un ricco uomo d'affari proprietario di un negozio di abbigliamento maschile e di un piccolo centro commerciale, nonché padrone, insieme con altri soci, del Moonlight Bay Inn e del Country Club, aveva tutta l'aria di essere ancora in grado di distruggere tutti quei mutanti, gonfiati dagli steroidi, che ricoprivano ruoli di primaria importanza nelle squadre del campionato. «Salve, cagnolone», mormorò. Orson sbuffò. «Reggi questo, figliolo», sussurrò Frost, porgendomi il fucile. Appeso al collo aveva uno strano binocolo dall'aria avveniristica. Lo portò agli occhi e, avvantaggiato dalla posizione sopraevelata del ponte di coperta, cominciò a perlustrare attentamente il molo dal quale ero arrivato. «Come fa a vedere con questo buio?» domandai, meravigliato. «È un binocolo per la visione notturna. Potenzia la luce disponibile di diciottomila volte.» «Ma la nebbia...» Premette un bottone e si udì un ronzio all'interno del binocolo. «È anche dotato di un sistema a raggi infrarossi che mostra solo le fonti di calore.» «Ce ne devono essere molte qui intorno.» «Non quando i motori delle imbarcazioni sono spenti. Inoltre, quello che a me interessa sono le fonti di calore che si muovono.» «Persone.» «Forse.» «Chi, se no?» «Chiunque ti abbia potuto seguire. Ora taci, figliolo.» Rimasi in silenzio. Mentre Roosevelt perlustrava accuratamente il porticciolo, mi soffermai a pensare a questo ex campione e uomo d'affari locale, che, dopo tutto, era un po' diverso da quello che sembrava. Non potevo dirmi proprio sorpreso. Dal tramonto del giorno precedente, le persone con le quali mi ero incontrato mi avevano mostrato aspetti della loro vita fino a quel momento a me sconosciuti. Perfino Bobby aveva mantenuto dei segreti nei miei confronti: il fucile da caccia nell'armadietto, il branco di scimmie. Ripensando a Pia Klick e alla sua idea di essere la reincarnazione di Kaha Huna, fatto che Bobby aveva tenuto per sé, comprendevo meglio la reazione amara e polemica del mio amico per tutto ciò che riguardava la filosofia New Age, inclusi i miei occasionali commenti
sulla stranezza del mio cane. Per la verità, fino a quel momento l'unico rimasto fedele a se stesso era stato proprio Orson, anche se, visto come stavano andando le cose, non sarei rimasto sorpreso se avessi improvvisamente scoperto che era capace di alzarsi sulle zampe posteriori e ballare il tip-tap. «Non vi ha seguito nessuno», mi rassicurò Roosevelt, abbassando il binocolo e riprendendosi il fucile. «Da questa parte, figliolo.» Ci precedette attraverso il solarium, fino a un boccaporto aperto che si trovava a dritta. Roosevelt si fermò, voltandosi a guardare, al di sopra della mia testa, Orson che indugiava accanto alla ringhiera sulla sinistra. «Forza. Vieni qui, piccolo.» Il cane era rimasto indietro non perché sentisse che vi fosse qualcosa di pericoloso sul molo. Ma perché, come sempre, diventava stranamente timido alla presenza di Roosevelt. Il nostro ospite era un esperto di «comunicazione con gli animali», un concetto tipicamente New Age che aveva rappresentato il pane quotidiano di innumerevoli dibattiti televisivi. Roosevelt era sempre stato molto discreto riguardo a questa sua capacità e la metteva in pratica solo quando gli amici o i vicini glielo chiedevano. Mi era bastato pronunciare la frase «comunicazione con gli animali», per far sì che a Bobby venisse la schiuma alla bocca, e questo molto prima che Pia Klick decidesse di essere la dea delle onde in cerca del suo Kahuna. Roosevelt asseriva di percepire le ansietà e i desideri degli animali domestici che gli venivano portati. Non si faceva pagare per i suoi servizi, ma questo disinteresse per il denaro non convinceva Bobby. «Accidenti, Snow, non ho mai detto che è un imbroglione e che frega i soldi alla gente. So che è onesto. Ma, quando giocava, deve aver sbattuto la testa contro il palo della porta una volta di troppo.» Roosevelt diceva che l'unico animale con il quale non riusciva a comunicare era il mio cane. Considerava Órson una sfida e non perdeva mai l'occasione di rivolgergli la parola. «Dai, vieni, cucciolone.» Pur riluttante, alla fine Orson accettò l'invito. Le sue zampe ticchettarono sul ponte. Sempre stringendo il fucile, Roosevelt Frost si infilò nel boccaporto e cominciò a scendere una scala in fibra di vetro, illuminata in basso da una tenue luce perlacea. Per riuscire a passare, fu costretto a piegare la testa, incurvare le spalle e a stringere le braccia contro i fianchi; nondimeno sembrava che rischiasse di restare incastrato nell'angusto vano della scala.
Orson esitò, nascose la coda tra le zampe, ma alla fine mi precedette nel boccaporto. I gradini conducevano al ponte di poppa, arredato come una veranda e sul quale si affacciava il solarium. Orson rimase incerto davanti al salone, per quanto il locale apparisse confortevole e accogliente alla luce soffusa di una lampada da tavolo. Ma vedendo che Roosevelt e io entravamo, si scrollò energicamente le goccioline di nebbia condensata dal manto, bagnando tutto il ponte di poppa, e ci seguì. Sembrava quasi che avesse indugiato all'esterno perché temeva di sporcare il pavimento. Una volta entrato anche Orson, Roosevelt chiuse la porta a chiave. Controllò che non si aprisse. Poi ricontrollò. Al di là del salone di poppa, l'alloggio comprendeva una cambusa arredata con mobiletti in mogano e pavimento dello stesso colore, una zona pranzo e un salotto, il tutto in un unico spazio aperto. Per venire incontro alle mie esigenze, oltre che dalla lampada, la zona era rischiarata solo da un faretto, che illuminava i trofei di football esposti in una vetrina e da due grosse candele posate sul tavolo da pranzo. L'aria profumava di caffè appena fatto e Roosevelt mi domandò se ne volevo una tazza. Accettai. «Ho sentito quello che è successo a tuo padre. Mi dispiace.» «Per lo meno è finita», risposi. Inarcò le sopracciglia. «Davvero?» «Per lui, volevo dire.» «Ma non per te. Non dopo quello che hai visto.» Corrugai la fronte. «Come fa a saperlo?» «Da quel che si dice in giro», rispose in modo enigmatico. «Che cosa intende...» Sollevò una mano enorme. «Ne parleremo tra un minuto. Proprio per questo motivo ti ho chiesto di venire. Ma sto ancora riflettendo su quello che devo dirti. Fammici arrivare a modo mio, figliolo.» Dopo avermi servito il caffè, Roosevelt si tolse la giacca a vento di nylon e l'appese alla spalliera di una delle grosse sedie intorno al tavolo, sulla quale poi si sedette. Mi indicò di accomodarmi diagonalmente rispetto a lui, poi spinse un'altra sedia con il piede e l'offrì a Orson. «Eccone una anche per te, piccolo.» Sebbene la scena si ripetesse ogni volta che venivamo a trovare Frost, Orson finse di non avere capito. Si accucciò sul pavimento, davanti al frigorifero.
«Non mi sta bene», lo informò tranquillamente Roosevelt. Orson sbadigliò. Sempre con il piede, Roosevelt fece sbatacchiare sul pavimento la sedia che aveva spinto per il cane. «Fai il bravo cucciolone.» Orson sbadigliò più a lungo. Ostentava il più assoluto disinteresse. «Se mi costringi a farlo, verrò lì, ti prenderò in braccio e ti metterò su questa sedia», spiegò Roosevelt, «il che sarà molto imbarazzante per il tuo padrone, che vorrebbe che tu ti comportassi educatamente.» Sorrideva divertito e non vi era alcuna minaccia nel tono della voce. Il suo largo viso somigliava a quello di un buddha nero e gli occhi esprimevano gentilezza e divertimento. «Fai il bravo cucciolone.» Orson cominciò a scodinzolare, poi si accorse di quello che stava facendo e smise subito. Con aria timida, spostò lo sguardo da Roosevelt a me, tendendo il capo. Io scrollai le spalle. Di nuovo, Roosevelt fece sbatacchiare la sedia con il piede. Orson si alzò, ma non si avvicinò immediatamente. Da una tasca della giacca a vento appesa alla spalliera della sedia, Roosevelt estrasse un biscotto per cani a forma di osso. Lo avvicinò alla luce della candela in modo che Orson lo vedesse chiaramente. Stretto fra il pollice e l'indice di quell'enorme mano, il biscotto sembrava il ciondolo di un braccialetto, in realtà si trattava di una grossa leccornia. Roosevelt lo posò solennemente sul tavolo, di fronte alla sedia destinata al cane. Orson seguì il movimento della mano, e del biscotto, con occhi golosi. Lentamente si avvicinò al tavolo, ma si fermò a poca distanza. Quella notte era più riservato del solito. Dalla giacca a vento, Roosevelt estrasse un secondo biscotto. Lo tenne vicino alle candele, facendolo girare come fosse stato uno splendido gioiello illuminato dalle fiamme, successivamente lo posò sul tavolo, accanto al primo. Pur uggiolando dal desiderio, Orson non si avvicinò alla sedia. Chinò timidamente la testa, poi guardò il padrone di casa da sotto le sopracciglia. Era l'unico uomo che, talvolta, Orson rifiutava di guardare negli occhi. Roosevelt prese un terzo biscotto. Lo avvicinò al naso, che oltre a essere largo era stato rotto più volte, e inspirò profondamente, a lungo, come se stesse assaporando l'incomparabile aroma di quella leccornia. Sollevando il capo, anche Orson si mise ad annusare l'aria.
Roosevelt sorrise con aria maliziosa, poi strizzò l'occhio al cane... e si gettò il biscotto in bocca. Lo masticò con grande soddisfazione, lo innaffiò con un sorso di caffè ed emise un sospiro di piacere. Ero rimasto veramente colpito. Non gli avevo mai visto fare nulla del genere prima d'allora. «Che sapore ha?» «Non è cattivo. Sa di grano tritato. Ne vuoi uno?» «No, no, grazie. Davvero», risposi, affrettandomi a bere un sorso di caffè. Orson aveva le orecchie ben dritte; Roosevelt era riuscito a ottenere tutta la sua attenzione. Se a quel gigantesco umano, di colore nero e dalla voce gentile, piacevano davvero i biscotti, ben presto non ne sarebbero rimasti molti per i cani che facevano troppo gli sdegnosi. Dalla tasca della giacca a vento, Roosevelt estrasse ancora un altro biscotto. Se lo portò al naso e cominciò a inspirare con tanta forza che per poco non mi lasciò senza ossigeno. Abbassò le palpebre con aria sensuale. Si finse scosso da brividi di piacere e sul punto di cadere in estasi davanti al biscotto. L'inquietudine di Orson si fece palpabile. Con un balzo salì sulla sedia che era stata messa a sua disposizione e allungò il collo fino a che il suo naso non si trovò a pochi centimetri da quello di Roosevelt. Insieme, annusarono il tanto ambito biscotto. Invece di gettarselo in bocca, Roosevelt lo posò con cura sul tavolo, di fronte alla sedia di Orson, accanto agli altri due. «Bravo cucciolone.» Non ero certo di credere nella sua presunta capacità di comunicare con gli animali ma, secondo me, Frost era sicuramente un eccellente psicologo per cani. Orson annusò i biscotti posati sul tavolo. «Ah, ah, ah», lo ammonì Roosevelt. Il cane sollevò lo sguardo su di lui. «Non devi mangiarli finché non te lo dirò io.» Il cane si leccò i baffi. «Quindi, stai bene attento, cucciolone, perché se li mangerai senza il mio permesso, non ci saranno mai, mai più biscotti per te.» Orson si lasciò sfuggire un guaito supplichevole. «Sto parlando sul serio», gli fece notare Roosevelt in tono fermo. «Non posso costringerti a parlare con me, se non lo vuoi. Ma insisto che tu mostri un minimo di educazione quando sei sulla mia barca. Non puoi semplicemente venire qui e divorarti i biscotti come fossi una bestia selvag-
gia.» Orson fissò il padrone di casa negli occhi, come se cercasse di capire fino a che punto questa regola del non-divorare andasse rispettata. Roosevelt sostenne lo sguardo. Convinto che non si trattava di una minaccia a vuoto, Orson riportò l'attenzione sui biscotti. Li guardava con un tale desiderio che mi fece quasi venire voglia di assaggiarne uno. «Bravo cucciolone», approvò Roosevelt. Dopo di che prese un telecomando che stava sul tavolo e premette un tasto, anche se il suo polpastrello sembrava troppo grosso per riuscire a premerne meno di tre alla volta. Alle spalle di Orson, alcune veneziane motorizzate si arrotolarono, scomparendo poi all'interno della parte superiore di un mobile incassato nella parete, mettendo in mostra due ripiani stipati di congegni elettronici, lampeggianti per via dei diodi a emissione luminosa. Orson si mostrò abbastanza interessato per voltare brevemente la testa, prima di tornare alla sua venerazione dei biscotti proibiti. Roosevelt accese un ampio monitor inserito nel mobile. Lo schermo, diviso in quattro parti, mostrava la baia e il porticciolo, immersi nel buio e nella nebbia, così come apparivano dai quattro angoli del Nostromo. «Che cosa è?» domandai. «È un sistema di sicurezza», spiegò Roosevelt, posando il telecomando. «Rivelatori di movimento e sensori a raggi infrarossi intercettano chiunque si avvicini e ci avvertono immediatamente. A quel punto, una lente telescopica isola e avvicina automaticamente l'immagine dell'intruso prima che possa arrivare fin qui, in modo che noi si possa sapere con che cosa abbiamo a che fare.» «Esattamente, con che cosa abbiamo a che fare?» Prima di rispondermi, l'omone bevve due brevi sorsi di caffè. «Forse sai già troppo.» «Che cosa intende dire? Chi è lei?» «Io sono soltanto me stesso», rispose. «Il vecchio Rosie Frost. Se pensi che ci sia anch'io, fra quelli che stanno dietro a tutta questa storia, ti sbagli di grosso.» «Chi sono quelli? E dietro a che cosa?» Fissando le riprese delle quattro telecamere proiettate sul monitor, Roosevelt commentò: «Con un po' di fortuna, non si sono nemmeno resi conto che io so di loro». «Ma chi? Quelli di Wyvern?»
Tornò a guardarmi. «Ormai non si tratta più soltanto di quelli di Wyvern. Adesso ci sono dentro anche comuni cittadini. Non so quanti. Forse duecento, forse cinquecento, non dovrebbero essere di più, non ancora almeno. Ma sicuramente la faccenda si sta allargando... ha già superato i confini di Moonlight Bay.» Scoraggiato dal suo atteggiamento, sbottai: «Sta forse cercando di fare il misterioso?» «Sì, per quanto mi è possibile.» Si alzò, prese la caffettiera e, senza aggiungere altro, andò a riempirla di nuovo. Evidentemente voleva farmi desiderare ogni frammento di informazione così come il povero Orson era costretto ad aspettare prima di poter mangiare il suo spuntino. Il cane continuava a leccare la superficie del tavolo intorno ai biscotti, senza che la sua lingua toccasse mai le barrette a forma di osso. Quando Roosevelt tornò al tavolo, gli domandai: «Se lei non ha nulla a che vedere con quella gente, come mai sa tante cose su di loro?» «Non ne so granché.» «A quanto pare, molto più di me.» «So solo ciò che gli animali mi dicono.» «Quali animali?» «Non certo il tuo cane.» Orson sollevò lo sguardo dai biscotti. «Lui è una vera sfinge.» Sebbene non me ne fossi accorto, a un certo punto, dopo il tramonto, dovevo aver attraversato uno specchio magico. Deciso a giocare secondo le strane regole di questo nuovo mondo, mi informai: «E così... a parte il mio flemmatico cane, che cosa le dicono questi animali?» «Non è il caso che ti racconti tutto. Solo l'indispensabile perché tu capisca che la cosa migliore è dimenticare quello che hai visto nel garage dell'ospedale e nell'edificio delle pompe funebri.» Mi raddrizzai sulla sedia, come se fosse stato il mio scalpo a tirarmi verso l'alto. «Ma allora lei è uno di loro.» «No. Rilassati, figliolo. Con me sei al sicuro. Da quanto tempo è che siamo amici? Sono trascorsi più di due anni da quando tu e il tuo cane siete venuti qui per la prima volta. Ormai puoi fidarti di me.» In realtà, ero abbastanza convinto dell'amicizia di Roosevelt Frost, anche se non ero più così sicuro della mia capacità di giudicare le persone.
«Ma se tu non dimentichi quello che hai visto», soggiunse, «se cerchi di contattare le autorità fuori di Moonlight Bay, metterai in pericolo delle vite.» Sentii un stretta al cuore. «Lei mi ha appena detto che potevo fidarmi e adesso mi sta minacciando.» Sembrò ferito dalle mie parole. «Sono tuo amico, figliolo. Non ti minaccerei mai. Ti sto solo dicendo...» «Sì. lo so. Quello che hanno detto gli animali.» «Sono quelli di Wyvern che vogliono tenere nascosta questa storia a ogni costo, non certo io. Comunque, anche se decidessi di rivolgerti alla polizia di un'altra città, personalmente non correresti alcun pericolo, non all'inizio perlomeno. Non ti toccherebbero. No di certo. Tu sei rispettato.» Questa era la cosa più sconcertante che avesse detto fino a quel momento e io sbattei le palpebre confuso. «Rispettato?» «Sì. Hanno grande soggezione di te.» Mi accorsi che Orson mi fissava con attenzione, temporaneamente dimentico dei biscotti promessi. L'affermazione di Roosevelt non era solo sconcertante, era decisamente strana. «Per quale motivo qualcuno dovrebbe avere soggezione di me?» volli sapere. «Per quello che sei.» La mia mente volteggiò, girò su se stessa e ruzzolò come un gabbiano che fa le capriole. «Chi sono io?» Roosevelt corrugò la fronte e si accarezzò pensosamente il viso con una mano, prima di sbottare: «Che cosa diavolo ne so. Ti sto solo ripetendo quello che mi hanno detto». Quello che gli animali ti hanno detto. Il nero Dottor Dolittle. Un po' del sarcasmo di Bobby era entrato anche in me. «Il punto è», soggiunse, «che quelli di Wyvern non intendono ammazzarti, a meno che tu non gli lasci altra scelta, se è l'unico sistema per farti stare zitto.» «Quando ha parlato con Sasha, alla stazione radio, ha detto che era una questione di vita o di morte.» Roosevelt annuì solennemente. «Infatti lo è. Per lei e per altri. Da quel che ho sentito, quei bastardi cercheranno di tenerti sotto controllo uccidendo le persone alle quali vuoi bene, fino a quando non la smetterai di essere così ostinato, dimenticherai quello che hai visto e continuerai a vivere normalmente.»
«Persone alle quali voglio bene?» «Sasha. Bobby. Perfino Orson.» «Ammazzeranno i miei amici per farmi stare zitto?» «Non per, ma fino a quando non starai zitto. Uno alla volta. Li ammazzeranno uno alla volta, finché non accetterai di tacere per salvare chi è ancora vivo.» Ero disposto a rischiare di morire pur di scoprire che cosa fosse successo ai miei genitori, e perché, ma non potevo mettere a repentaglio anche la vita dei miei amici. «E mostruoso. Uccidere degli innocenti...» «Ecco con chi hai a che fare.» Mi sembrava che il cranio stesse per scoppiare dalla frustrazione. «Con chi esattamente ho a che fare? Ho bisogno di qualcosa di più specifico che un'indicazione vaga come 'quelli di Wyvern'.» Roosevelt sorseggiò il caffè senza rispondere. Può darsi che fosse mio amico e che, seguendo il suo consiglio, avrei salvato la vita di Sasha o quella di Bobby, ma sentivo una gran voglia di prenderlo a pungi. Avrei potuto anche farlo, avrei potuto scaricargli addosso una gragnuola di pugni, se solo ci fosse stata la possibilità di non fratturarmi le mani. Orson aveva posato una zampa sul tavolo, non con l'intenzione di far cadere a terra i biscotti e poi di scappare con il bottino, ma per tenersi in equilibrio mentre si sporgeva di lato sulla sedia per osservare qualcosa nel salotto, oltre la cambusa e la zona pranzo, che aveva attirato la sua attenzione. Quando mi voltai per seguire lo sguardo di Orson, vidi un gatto seduto sul bracciolo del divano, illuminato alle spalle dalla vetrinetta piena di trofei. Sembrava grigio chiaro. Nell'oscurità che mascherava il suo muso, gli occhi apparivano di un verde fosforescente, screziato d'oro. Poteva trattarsi dello stesso gatto che, solo alcune ore prima, avevo incontrato fra le colline dietro all'edificio delle pompe funebri di Kirk. 23 Come una scultura sul sarcofago di un faraone egiziano, il gatto se ne stava immobile e sembrava pronto a trascorrere l'eternità seduto sul bracciolo del divano. Sebbene si trattasse di un semplice micio, voltargli le spalle non mi faceva sentire a mio agio. Mi spostai nella sedia di fronte a quella di Roose-
velt Frost, dalla quale potevo vedere, alla mia destra, l'intero salotto e il divano situato in fondo al locale. «Da quando ha un gatto?» domandai. «Non è mio», rispose Roosevelt, «è solo venuto a trovarmi.» «Credo di aver visto proprio questo gatto alcune ore fa.» «Sì, infatti.» «È stato lui a dirglielo?» dissi con una sfumatura di sarcasmo alla Bobby nella voce. «Esatto. Mungojerrie e io abbiamo fatto una chiacchierata», confermò Roosevelt. «Chi?» «Mungojerrie», ripetè, indicando il gatto. Il nome era strano e, allo stesso tempo, mi era familiare. Dato che sono figlio di mio padre, e non solo di nome, impiegai pochi secondi per ricordare dove l'avessi già sentito. «È il nome di uno dei gatti de Il libro dei gatti tuttofare, di T.S. Eliot.» «Alla maggior parte di questi gatti piacciono i nomi tratti dal libro di Eliot.» «Questi gatti?» «Questi nuovi gatti come Mungojerrie.» «Nuovi gatti?» domandai, cercando di capire. Invece di spiegare che cosa intendesse dire, Roosevelt ribadì: «Preferiscono quei nomi. Non saprei dirti perché... né come hanno fatto a sapere della loro esistenza. Ne conosco uno chiamato Rum Tum Tugger. Un altro, Rumpelteazer. Poi ci sono Coricopat e Growltiger». «Come preferiscono? Lo dice come se fossero loro a scegliersi i nomi.» «Quasi.» Scrollai la testa. «Tutta questa storia è davvero incredibile.» «Nonostante tutti questi anni di comunicazione con gli animali, a volte la trovo anch'io piuttosto strana.» «Bobby Halloway è convinto che lei sia stato colpito in testa una volta di troppo.» Roosevelt sorrise. «Non è l'unico a pensarla così. Ma io ero un giocatore di football, non un pugile. Tu che cosa ne pensi, Chris? Credi che metà del mio cervello sia ormai una poltiglia?» «No, certo», dovetti ammettere. «Lei è una persona molto intelligente.» «D'altra parte, intelligenza ed eccentricità non si escludono a vicenda, giusto?»
«Ho conosciuto troppi colleghi dei miei genitori per poterle dar torto.» Dal salotto, Mungojerrie continuava a osservarci e, dalla sua sedia, Orson non smetteva di esaminare il gatto, non con il tipico antagonismo canino, ma con grande interesse. «Ti ho mai raccontato come ho cominciato questa storia della comunicazione con gli animali?» domandò Roosevelt. «No. Non glielo ho mai chiesto.» Richiamare l'attenzione su una simile eccentricità mi era sembrato scortese come menzionare una deformità fisica, di conseguenza avevo sempre accettato questo aspetto di Roosevelt come se fosse del tutto normale. «Circa nove anni fa, avevo un cane davvero fantastico, di nome Sloopy, nero e marrone, grande circa la metà di Orson. Era solo un cane, ma era speciale.» L'attenzione di Orson si era spostata dal gatto a Roosevelt. «Sloopy aveva un carattere meraviglioso. Sempre allegro, sempre pronto a giocare; mai che fosse di cattivo umore. Poi il suo atteggiamento è cambiato. Improvvisamente è diventato introverso, nervoso, perfino depresso. Ormai aveva dieci anni, non era più un cucciolo, quindi lo portai da un veterinario, temendo di sentirgli pronunciare la peggiore delle diagnosi. Ma il veterinario non gli trovò nulla di particolare. Sloopy soffriva un po' di artrite, qualcosa che un non più giovane ex giocatore di football può comprendere molto bene, ma le sue condizioni non erano così gravi da impedirgli di muoversi normalmente e, a parte questo, non aveva altri disturbi. Tuttavia, settimana dopo settimana, il cane sprofondava sempre più nella depressione.» Mungojerrie si era mosso. Dal bracciolo del divano era salito sulla spalliera e ora si stava avvicinando furtivamente. «Un giorno», soggiunse Roosevelt, «ho letto su un giornale la storia di una donna di Los Angeles che diceva di essere in grado di comunicare con gli animali domestici. Si chiamava Gloria Chan. Aveva partecipato a numerosi dibattiti televisivi, molti personaggi del cinema si erano rivolti a lei per risolvere i problemi dei loro piccoli amici e aveva anche scritto un libro. Il giornalista che aveva scritto l'articolo usava un tono molto saccente e faceva apparire Gloria come una ciarlatana, di quelle che riscuotono tanto successo a Hollywood. Per quel che ne sapevo, il giornalista poteva anche averla inquadrata nel modo giusto. Forse ricorderai che, dopo aver chiuso con il football, ho girato alcuni film. In quel periodo, ho avuto modo di conoscere un sacco di gente famosa, attori, cantanti rock, comici. E
anche produttori e registi. Alcuni erano simpatici e certi perfino intelligenti, ma francamente la maggior parte di loro e delle persone che gli gironzolavano intorno erano talmente stronzi che avresti voluto frequentarli solo se avevi intenzione di sparargli.» Dopo aver percorso silenziosamente tutta la spalliera del divano, il gatto scese sul bracciolo a noi più vicino. Si contrasse, incurvando la schiena, con i muscoli tesi, la testa bassa e in avanti, le orecchie appiattite sul cranio, come fosse pronto a spiccare un salto dal divano e, dopo un volo di due metri, atterrare sul tavolo intorno al quale eravamo seduti. Orson lo fissava, attento, dimentico sia di Roosevelt sia dei biscotti. «Dato che dovevo sbrigare degli affari a Los Angeles», continuò a raccontare Frost, «decisi di portare Sloopy con me. Scelsi di fare il viaggio via mare. A quel tempo non avevo il Nostromo. Possedevo un Chris-Craft Roamer di diciotto metri che era un amore. Dopo averlo ormeggiato a Marina Del Rey, noleggiai un'auto e per un paio di giorni mi occupai delle mie attività. Da alcuni amici che lavorano nel cinema, mi feci dare il numero di telefono di Gloria e, quando la chiamai, lei accettò di incontrarmi. Abitava alle Palisades e, una mattina, Sloopy e io salimmo in macchina e andammo a trovarla.» Il gatto era ancora in posizione, pronto a saltare dal bracciolo del divano. Aveva i muscoli ancora più tesi di prima. Una piccola pantera grigia. Orson si era irrigidito ed era immobile come il gatto. Emise un gemito sottile, poi tornò in silenzio. «Gloria era una cino-americana della quarta generazione. Un donna minuta, sembrava una bambola. Stupenda, davvero stupenda. Lineamenti delicati, occhi enormi. Come una statuina di giada scolpita da un Michelangelo cinese. Mi aspettavo di sentire una voce da bambina, e invece parlava con un tono basso e sensuale, tipo Lauren Bacali. Nel giro di qualche minuto, Sloopy le si era già seduto in braccio e la guardava negli occhi, mentre lei gli parlava, lo coccolava e mi spiegava per quale motivo il cane era così depresso.» Mungojerrie balzò dal bracciolo del divano ma, invece di piombare sul tavolo, atterrò sul pavimento e da lì saltò sulla sedia che avevo lasciato per sedermi più avanti, in modo da tenerlo d'occhio. Nel momento in cui il vivace micetto saliva sulla sua sedia, Orson e io sobbalzammo sulle nostre. Mungojerrie si rialzò sulle zampe posteriori e, appoggiando quelle anteriori sul tavolo, fissò attentamente il cane.
Orson si lasciò nuovamente sfuggire quel gemito sottile e sostenne lo sguardo del gatto. Senza badare al micio, Roosevelt soggiunse: «Gloria mi spiegò che Sloopy era depresso perché non trascorrevo più molto tempo con lui. 'Stai sempre con Helen', mi disse. 'E Sloopy sa di non piacerle. Crede che sarai costretto a scegliere fra loro due e sa che preferirai lei.' Come puoi immaginare, figliolo, rimasi allibito sentendo quelle parole perché, in effetti, all'epoca uscivo con una donna di Moonlight Bay che si chiamava proprio Helen, ma questo Gloria Chan non poteva assolutamente saperlo. Inoltre, ero pazzo di Helen, trascorrevo quasi tutto il mio tempo libero con lei e, siccome non le piacevano i cani, Sloopy finiva per restare sempre solo. Ero convinto che, prima o poi, Helen avrebbe accettato Sloopy, perché nemmeno Hitler sarebbe riuscito a restare insensibile davanti a quella bestiola. Ma alla fine venne fuori che Helen già stava cominciando a provare nei miei confronti un'avversione simile a quella che provava per i cani, anche se allora non lo sapevo». Continuando a fissare Orson, Mungojerrie scoprì le zanne. Orson si ritrasse sulla sedia, evidentemente impaurito all'idea che il gatto stesse per lanciarsi su di lui. «Poi Gloria mi rivelò che c'erano altre cose che disturbavano Sloopy, fra cui il camioncino Ford che avevo acquistato. L'artrite di cui soffriva non era molto grave, ma il povero cane aveva molte più difficoltà a salire e a scendere da un furgone che da un'auto, e in più temeva di rompersi un osso.» Sempre con le zanne scoperte, il gatto cominciò a soffiare. Orson trasalì e si lasciò sfuggire un breve gemito di ansietà, come il fischio di una teiera elettrica. Evidentemente ignaro di questo dramma felino-canino, Roosevelt proseguì con il suo racconto: «Gloria e io pranzammo insieme e trascorremmo tutto il pomeriggio a parlare del suo lavoro di comunicatrice con gli animali. Mi spiegò che non era dotata di un talento particolare, che la sua capacità non aveva nulla a che fare con il paranormale e con tutte quelle sciocchezze, la sua era soltanto una sensibilità verso le altre specie, sensibilità che tutti possiedevamo, ma che avevamo represso. Disse che chiunque poteva farlo, anch'io, bastava apprendere determinate tecniche e dedicarvi abbastanza tempo, il che, francamente, mi sembrò assurdo». Mungojerrie soffiò di nuovo, questa volta con maggiore aggressività, ancora una volta Orson trasalì, e giuro che il gatto sorrise, o quanto meno
nei suoi occhi apparve un'espressione ridente. La cosa più strana fu che anche Orson si aprì in un largo sorriso... il che non richiede una grande immaginazione, perché tutti i cani lo sanno fare. Ansimava allegramente, mostrando gioioso tutti i suoi dentoni al gatto che sorrideva con gli occhi, come se il loro breve scontro fosse stato un gioco divertente. «Ora ti chiedo, figliolo, chi non desidererebbe imparare una cosa del genere?» domandò Roosevelt. «Certo», risposi intontito. «E così Gloria me l'ha insegnato. Ci ho impiegato un tempo infinito, mesi e mesi, ma alla fine sono diventato bravo come lei. Il primo, grosso ostacolo è credere che puoi veramente farlo. Devi mettere da parte dubbi, cinismo e preconcetti su ciò che è possibile e ciò che non lo è. Soprattutto, ed è la cosa più difficile, devi smettere di preoccuparti di apparire stupido, perché il timore di essere umiliato è quello che ti impedisce di andare avanti. Un sacco di gente non ce la fa a superare questa paura e a me sembra ancora incredibile di esserci riuscito.» Spostandosi in avanti sulla sedia, Orson si chinò sul tavolo e mostrò le zanne a Mungojerrie. Gli occhi del gatto si spalancarono per la paura. In silenzio, ma con aria minacciosa, Orson digrignò i denti. La voce profonda di Roosevelt si riempì di malinconia: «Sloopy morì tre anni dopo. Buon Dio, quanto lo piansi. Ma quei tre anni furono meravigliosi e sentirsi così in sintonia con lui fu un'esperienza affascinante». Continuando a digrignare i denti, Orson ringhiò sommessamente verso Mungojerrie e il gatto cominciò a gemere. Orson ringhiò di nuovo e il gatto, terrorizzato, lanciò uno straziante miagolio... poi sorrisero entrambi. «Che cosa diavolo sta succedendo fra questi due?» domandai, meravigliato. Vi era nella mia voce un tremore che sembrò lasciare Orson e Mungojerrie alquanto perplessi. «Si stanno solo divertendo», mi rassicurò Roosevelt. Confuso, lo guardai sbattendo le palpebre. Alla luce delle candele, il suo viso brillava come teak lucidato. «Si divertono a prendere in giro i rispettivi stereotipi», spiegò. Non potevo credere di aver sentito bene. Visto che avevo dei problemi così gravi con l'udito, forse avrei fatto meglio a farmi sturare le orecchie da un idraulico. «Stanno prendendo in giro i loro stereotipi?»
«Esatto», confermò, annuendo vigorosamente. «Naturalmente loro non userebbero questi termini, ma è proprio quello che stanno facendo. Un luogo comune vuole che cani e gatti si detestino, anche senza motivo. Orson e Mungojerrie si stanno divertendo a prendere in giro questo luogo comune.» Ora Roosevelt mi sorrideva stupidamente, proprio come stavano facendo il cane e il gatto. Le sue labbra erano di un rosso così scuro da essere praticamente nere e i denti erano così grossi e bianchi da sembrare zollette di zucchero. «Mi scusi, ritiro quello che ho detto poco fa», dissi, in tono molto serio. «Dopo un attento esame, sono giunto alla conclusione che lei sia completamente pazzo, fuori di testa all'ennesima potenza.» Senza smettere di sorridermi, annuì di nuovo con convinzione. Improvvisamente, come un lampo scuro in una luna nera, sul suo viso apparve un guizzo di follia. «Non avresti nessun problema a credermi se fossi bianco», ruggì, calcando la voce sull'ultima parola e, nello stesso momento, colpendo il tavolo con un pugno massiccio e con tanta forza da far sbatacchiare le tazzine sui piattini. Se fosse stato possibile barcollare all'indietro, pur restando seduto su una sedia, l'avrei certamente fatto, perché l'accusa mi aveva lasciato sbigottito. Non avevo mai sentito i miei genitori denigrare un gruppo etnico o fare un commento razzista; ero stato educato a non avere pregiudizi. Anzi, se c'era qualcuno che veniva emarginato, quello ero io. Da solo, costituivo una minoranza: il Lombrico, così mi chiamavano certi teppistelli quand'ero bambino, prima di conoscere Bobby e di avere un amico che stava dalla mia parte. Anche se non sono un albino, anche se la mia pelle è pigmentata, per alcune persone ero più strano di Bo Bo, il ragazzo dalla faccia di cane. C'era gente che mi considerava sporco, infetto, come se la mia vulnerabilità genetica ai raggi ultravioletti potesse essere trasmessa con uno starnuto; molti mi temevano e mi disprezzavano come fossi stato un mostro da circo, anzi di più, perché ero un loro vicino di casa. Alzandosi a metà sulla sedia, sporgendosi sul tavolo, scuotendo un pugno grosso come un melone, Roosevelt Frost mi aggredì con una voce così carica d'odio che mi lasciò allibito e disgustato: «Razzista! Con quella tua faccia da cadavere, sei solo un bastardo razzista!» A malapena riuscii a trovare il fiato per ripondergli: «Quando mai la razza ha avuto importanza per me? Del resto, come potrebbe averne per uno come me?» Mi fissò furibondo, sembrava che volesse allungare un braccio, strap-
parmi dalla sedia e stringermi una mano intorno alla gola, fino a che la lingua mi fosse arrivata alle scarpe. Poi digrignò i denti e si mise a ringhiare, come un cane, proprio come un cane, stranamente come un cane. «Che cosa diavolo sta succedendo?» domandai, ma questa volta mi resi conto di essermi rivolto a Orson e a Mungojerrie. Roosevelt ringhiò ancora e, vedendo che lo guardavo a bocca aperta, con un'aria da stupido, mi invitò: «Forza figliolo, se non riesci a insultarmi, almeno ringhia un po' anche tu. Solo un pochino. Su, figliolo, ce la puoi fare». Orson e Mungojerrie sembravano incoraggiarmi con lo sguardo. Roosevelt ringhiò un'altra volta, dando al verso un'intonazione interrogativa, e alla fine gli risposi ringhiando. Alzò il tono, feci altrettanto. Sorrise divertito e spiegò: «Ostilità. Cane e gatto. Nero e bianco. Ci stiamo divertendo a prendere in giro i nostri stereotipi». Mentre Roosevelt tornava a sedersi, il mio stupore lasciò il posto alla tremula percezione del miracoloso. Intuii di trovarmi di fronte a una rivelazione che avrebbe rivoluzionato tutta la mia vita, che mi avrebbe svelato aspetti del mondo che non riuscivo nemmeno a immaginare, ma per quanto cercassi di afferrarla, questa rivelazione continuava a sfuggirmi, era allettante e inafferrabile. Guardai Orson. I suoi occhi liquidi e neri come inchiostro. Guardai Mungojerrie. Il gatto scoprì i denti. Orson lo imitò. Una lieve, fredda paura fece rabbrividire le mie vene, come avrebbe detto il bardo di Avon, non perché pensassi che il cane e il gatto potessero mordermi, ma per il significato che questa divertita espressione di ostilità sottintendeva. Non era solo paura quella che provavo, era anche un delizioso fremito di meraviglia e agitazione. Anche se un comportamento del genere non era nel suo stile, mi chiesi se Roosevelt Frost avesse corretto il caffè. Non con il brandy. Con allucinogeni. Mi sentivo allo stesso tempo disorientato e lucido come non ero mai stato in vita mia, quasi che mi trovassi in una condizione di superiore consapevolezza. Il gatto soffiò verso di me. Io soffiai verso il gatto. Orson ringhiò contro di me. Io ringhiai contro Orson. Fu il momento più incredibile della mia vita: eravamo seduti intorno al tavolo, uomini e animali, e sorridevamo; mi tornarono alla mente quei
simpatici e un po' stucchevoli quadretti, che per alcuni anni hanno avuto molto successo, in cui si vedevano cani che giocavano a poker. Naturalmente, soltanto uno di noi era un cane e non avevamo carte, quindi quel ricordo non sembrava molto pertinente, tuttavia più ci pensavo, più mi avvicinavo alla rivelazione, all'epifania, alla comprensione di tutte le implicazioni di ciò che era avvenuto intorno a quel tavolo negli ultimi minuti... ... ma il mio treno di pensieri fu fatto deragliare dal suono intermittente che giungeva dalle apparecchiature elettroniche installate nel mobile accanto al tavolo. Mentre Roosevelt e io ci voltavamo a guardare il monitor, le quattro immagini divennero una sola. Il sistema automatizzato zoomò sull'intruso, che apparve illuminato dalla strana, potenziata luce delle lenti per visione notturna. Il visitatore, avvolto in un ribollio di nebbia, era fermo all'estremità della passerella che conduceva al Nostromo. Sembrava essere passato direttamente dal Giurassico alla nostra era: alto poco più di un metro, simile a uno pterodattilo, con un becco lungo e dall'aria pericolosa. La mia mente era così piena di febbrili speculazioni concernenti il gatto e il cane, ed ero così teso per gli altri avvenimenti della nottata, che ero pronto a vedere il mistero anche nelle cose più normali. Sentivo il cuore che batteva all'impazzata. La bocca amara e riarsa. Se non fossi rimasto paralizzato dallo spavento, sarei balzato in piedi, rovesciando la sedia. Altri cinque secondi e sarei riuscito a rendermi ridicolo, ma fortunatamente Roosevelt venne in mio aiuto. O era un tipo più riflessivo di me. oppure aveva vissuto così a lungo con il mistero da saper riconoscere il soprannaturale vero da quello falso. «Un airone azzurro», commentò. «Deve aver deciso di fare un po' di pesca notturna.» Conoscevo il grande airone azzurro, così come mi erano familiari tutti gli uccelli che vivevano a Moonlight Bay e dintorni. Ora che Roosevelt ne aveva fatto il nome, lo riconobbi per quello che era. Cancellare la telefonata al signor Spielberg. Qui non stanno girando alcun film. A mia difesa, vorrei sottolineare il fatto che, nonostante la sua elegante struttura fisica e la sua innegabile grazia, quell'airone possedeva qualcosa di ferocemente predatorio e un freddo sguardo da rettile, che lo rendevano facilmente riconoscibile come un sopravvissuto all'era dei dinosauri. L'uccello si era fermato proprio sul bordo della passerella e scrutava nel-
l'acqua. All'improvviso si piegò in avanti, con uno scatto della testa verso il basso, e affondò il becco nell'acqua. Quando si raddrizzò, vidi che aveva catturato un pesciolino. Rovesciò quindi la testa all'indietro e ingoiò la preda. Alcuni muoiono perché altri possano vivere. Considerando con quanta fretta avevo attribuito qualità soprannaturali a un normale airone, cominciai a chiedermi se non avessi dato al recente episodio con Orson e Mungojerrie un significato che in realtà non aveva. La certezza lasciò il passo al dubbio. L'impetuosa ondata d'epifania si ritirò bruscamente senza rompersi e io venni travolto nuovamente da una di quelle «frullate» piene di sabbia e sassolini. «Da quando Gloria Chan mi ha insegnato a comunicare con le altre specie, cosa che, fondamentalmente, significa diventare un buon ascoltatore a livello cosmico, la mia vita si è enormemente arricchita», ammise Roosevelt, distogliendo la mia attenzione dal video. «Un buon ascoltatore a livello cosmico», ripetei, chiedendomi come si sarebbe comportato adesso Bobby sentendo una frase come quella; sarebbe ancora stato in grado di farsi venire uno dei suoi divertenti attacchi isterici? O forse l'esperienza con le scimmie gli aveva tolto gran parte del suo sarcasmo e del suo scetticismo. Speravo di no. Il cambiamento sarà pure un principio fondamentale dell'universo, però alcune cose dovrebbero essere eterne, compresa l'ostinazione di Bobby nel vivere una vita basata su cose essenziali come sabbia, surf e sole. «È stato per me un grande piacere trattare con tutti gli animali con cui sono venuto in contatto», commentò Roosevelt in tono distaccato, come potrebbe fare un veterinario parlando della propria carriera. Allungò un braccio verso Mungojerrie per accarezzargli la testa e grattargli le orecchie. Il gatto si sporse verso quella grande mano e cominciò a fare le fusa. «Ma questi nuovi gatti che ho conosciuto negli ultimi due anni... aprono una dimensione della comunicazione molto più interessante.» Poi, voltandosi a guardare Orson, soggiunse: «E sono certo che anche tu devi essere interessante quanto i gatti». Ansimando, con la lingua a penzoloni, Orson assunse un'espressione di perfetta vacuità canina. «Ascoltami bene, cucciolone, non sei mai riuscito a ingannarmi», gli assicurò Roosevelt. «E dopo quel giochetto con il gatto, un attimo fa, puoi anche smettere di recitare la parte del cane sciocco.» Ignorando Mungojerrie, Orson abbassò lo sguardo sui tre biscotti posati sul tavolo davanti a lui.
«Puoi fingere di essere solo un cane ingordo e che per te non vi sia nulla di più importante di quelle leccornie, ma io so che le cose stanno in modo diverso.» Con lo sguardo fisso sui biscotti, Orson uggiolò di desiderio. «Guarda cucciolone che sei stato tu a portare qui Chris la prima volta; per quale motivo saresti venuto se non per parlare?» Erano trascorsi più di due anni... mia madre sarebbe morta meno di un mese dopo... quando, alla vigilia di Natale, Orson e io stavamo facendo una delle nostre abituali passeggiate notturne. All'epoca il cane aveva solo un anno e, da cucciolo, Orson era vivace e giocherellone, anche se non sfrenato come la maggior parte dei cani di quell'età. Nondimeno, a un anno, Orson non era sempre in grado di controllare la sua curiosità e non si comportava in ogni occasione da cane educato, come invece avrebbe fatto in seguito. Ci trovavamo sul campo di pallacanestro all'aperto, dietro l'edificio della scuola superiore, e stavo facendo qualche tiro verso il canestro. Stavo spiegando a Orson che Michael Jordan doveva essere molto contento che io fossi nato con l'XP e che, quindi, non fossi in grado di giocare sotto le luci, quando, improvvisamente, il cucciolo cominciò a correre. Lo chiamai più volte, ma lui si fermò solo per lanciarmi una rapida occhiata, poi prese a trotterellare, allontanandosi sempre più. Mi resi conto che non aveva alcuna intenzione di tornare indietro e non ebbi nemmeno il tempo di raccogliere il pallone e infilarlo nella reticella che portavo appesa al manubrio della bicicletta. Mi lanciai all'inseguimento di quella palla di pelliccia, che mi condusse da una strada a un vicolo a un'altra strada, attraverso Quester Park, giù al porticciolo, lungo i moli e infine al Nostromo. Sebbene fosse un cane piuttosto silenzioso, quella notte cominciò ad abbaiare furiosamente, poi, lanciandosi dalla banchina, saltò sul ponte di poppa dello yacht. Prima che riuscissi a frenare sul terreno scivoloso, Roosevelt era già uscito all'aperto e stava cercando di calmare il cucciolo. «Vuoi parlarmi», ribadì Roosevelt. «La prima volta sei venuto qui perché volevi parlarmi, ma temo che tu non abbia fiducia in me.» Orson mantenne il capo abbassato, gli occhi fissi sui biscotti. «Dopo due anni, sospetti ancora che io abbia qualcosa a che fare con la gente di Wyvern e, fino a quando non sarai sicuro di me, continuerai a comportati come il più cane dei cani.» Leccando la superficie intorno ai biscotti, annusandoli, Orson aveva l'aria di non rendersi nemmeno conto che qualcuno stesse parlando con lui. Riportando l'attenzione su di me, Roosevelt spiegò: «Questi nuovi gatti
vengono da Wyvern. Alcuni sono esemplari della prima generazione, quelli fuggiti dalle gabbie, altri appartengono alla seconda generazione e sono nati in libertà». «Animali da laboratorio?» domandai. «Quelli della prima generazione, sì. Questi gatti e i loro piccoli sono diversi dagli altri. Diversi per molti aspetti.» «Sono più intelligenti», suggerii, ricordando il comportamento delle scimmie. «Ne sai più di quel che pensassi.» «Sono successe parecchie cose questa notte. Quanto sono intelligenti?» «Non saprei dirlo con esattezza», rispose in tono evasivo. «Ma di sicuro sono più intelligenti e anche diversi sotto molti punti di vista.» «Perché? Che cosa gli hanno fatto?» «Non ho idea.» «Come sono riusciti a fuggire?» «Ne so quanto te.» «Come mai non sono riusciti a catturarli?» «Non saprei proprio.» «Non si offenda, ma lei è un pessimo bugiardo.» «Lo sono sempre stato», rispose sorridendo. «Ascolta, figliolo, nemmeno io so tutto. Soltanto quello che mi dicono gli animali. Ma è meglio che tu rimanga all'oscuro anche di quel poco o tanto che so. Più cose ti dico, più ne vorrai sapere... e tu hai il tuo cane e i tuoi amici a cui pensare.» «Suona come una minaccia», commentai senza animosità. Quando scrollò le enormi spalle, mi aspettavo che lo spostamento d'aria provocasse un piccolo tuono. «Se pensi che io sia uno di loro, allora è una minaccia. Se credi che sia un amico, allora è un consiglio.» Sebbene volessi fidarmi di Roosevelt, condividevo i dubbi di Orson. Mi sembrava difficile credere che quest'uomo fosse capace di ingannarmi. Ma allo stesso tempo, trovandomi dall'altra parte dello specchio magico, dovevo ritenere che ogni viso fosse una maschera. Nonostante fossi già abbastanza nervoso per la caffeina, mi alzai per andare a riempire la tazza direttamente dalla macchina del caffè. «Quello che posso dirti è che a Wyvern dovevano esserci anche cani, oltre che gatti.» «Orson non arriva da là», lo rassicurai. «E da dove viene?» Mi appoggiai al frigorifero e sorseggiai il caffè. «È stato un collega di
mia madre a regalarcelo. La sua cagnolina aveva avuto diversi cuccioli e lui aveva bisogno di sistemarli.» «Era un collega di tua madre all'università?» «Sì. Un professore di Ashdon.» Roosevelt Frost mi guardò in silenzio e una nuvola di pietà attraversò il suo viso. «E allora?» domandai con un tremore nella voce che non mi piacque affatto. Aprì la bocca per dire qualcosa, ci ripensò e preferì tacere. Improvvisamente sembrò che volesse evitare il mio sguardo. Ora sia lui sia Orson fissavano i maledetti biscotti. Evidentemente al gatto non interessavano, perché stava osservando me. Se un altro gatto, d'oro massiccio e occhi di pietre preziose, rimasto per millenni a guardia della stanza più sacra di una piramide, sotto un mare di sabbia, avesse improvvisamente preso vita di fronte ai miei occhi, non mi sarebbe apparso più misterioso di questo gatto con il suo sguardo fisso e, in qualche modo, antico. «Lei non crede che Orson sia venuto da Wyvern, vero?» domandai a Roosevelt. «Perché mai il collega di mia madre avrebbe dovuto mentirle?» Scrollò la testa come se non lo sapesse, ma lo sapeva benissimo. Quel rivelare alcune cose e tacerne altre, mi provocava un gran senso di frustrazione. Non capivo quale fosse il suo gioco. Non riuscivo ad afferrare il motivo del suo atteggiamento discontinuo. Lo sguardo enigmatico del gatto grigio, la luce delle candele, che una lieve brezza faceva tremare, l'aria umida resa più pesante dal mistero che fluttuava come incenso, tutto contribuiva a creare una strana atmosfera in quella stanza. Lo feci notare a Roosevelt: «Per completare la scena, le manca soltanto una sfera di cristallo, due cerchi d'argento alle orecchie, un fazzoletto da zingara intorno alla testa e un accento rumeno». La mia frase sarcastica non suscitò in lui alcuna reazione. Tornando a sedermi dietro il tavolo, cercai di sfruttare quel poco che sapevo, fingendo che fosse molto, per stimolarlo a rivelarmi qualcosa di più. Forse, se avesse creduto che alcuni segreti non lo erano poi così tanto, si sarebbe aperto un po'. «Non c'erano solo cani e gatti nei laboratori di Wyvern. C'erano anche scimmie.» Roosevelt non rispose, ma continuò a evitare il mio sguardo. «Naturalmente lei sa delle scimmie, vero?» «No», rispose, ma spostò gli occhi dai biscotti al monitor.
«Secondo me è proprio a causa delle scimmie che lei, tre mesi fa, ha preso un ormeggio fuori del porticciolo.» Resosi conto di essersi tradito nel momento in cui, sentendo menzionare le scimmie, aveva guardato il monitor, si concentrò nuovamente sui biscotti. Nelle acque della baia, fuori del porticciolo, vi erano solo un centinaio di ormeggi, ambiti quasi quanto i posti lungo i moli, anche se, per accedervi, era necessario servirsi di un'imbarcazione d'appoggio. Roosevelt aveva subaffittato uno spazio da Dieter Gessel, un pescatore il cui motopeschereccio era ancorato vicino al promontorio settentrionale, insieme con il resto della flotta da pesca, ma che aveva tenuto l'ormeggio, lasciandovi una vecchia lancia, per quando fosse andato in pensione e avesse acquistato un'imbarcazione da diporto. Si diceva che Roosevelt pagasse a Dieter cinque volte la somma che questi dava al padrone. Visto che non ne aveva mai parlato, mi ero guardato bene dal fare domande in merito, perché pensavo che non fossero affari miei. Ma questa volta dissi: «Ogni sera lei sposta il Nostromo, va a ormeggiarlo nella baia e dorme là. Ogni sera, senza eccezione... a parte stanotte, perché mi stava aspettando. La gente pensava che avesse deciso di comprare un'altra barca, qualcosa di più piccolo, giusto per divertirsi. Ma quando hanno visto che andava a dormire nella baia, hanno commentato: 'Si sa, è sempre stato un po' eccentrico il vecchio Roosevelt, con quella sua mania di parlare con gli animali e cose del genere'». Continuò a restare in silenzio. Sia lui sia Orson sembravano così affascinati da quei tre biscotti per cani che non sapevo chi dei due per primo non avrebbe mantenuto l'impegno e li avrebbe ingoiati in un sol boccone. «Dopo quello che ho visto questa notte», soggiunsi, «credo di sapere perché dorme fuori del porticciolo. È convinto che là sia più al sicuro. Perché le scimmie non nuotano bene, o quanto meno lo fanno malvolentieri.» Fingendo di non avermi sentito, disse al cane: «Okay, cucciolone, anche se non mi vuoi parlare, puoi mangiare lo stesso i tuoi biscottini». Orson si arrischiò a guardarlo negli occhi, chiedendo conferma. «Avanti», lo incitò Roosevelt. Orson mi rivolse un'occhiata dubbiosa, come per chiedere se, a mio avviso, il permesso non nascondesse un trucco. «È lui il padrone di casa», gli feci notare. Il cane afferrò il primo biscotto e lo masticò con aria soddisfatta.
Riportando finalmente l'attenzione su di me, con quella snervante espressione di pietà sul viso e negli occhi, Roosevelt disse: «Coloro che stavano dietro al progetto di Wyvern... inizialmente erano mossi da buone intenzioni. Alcuni, per lo meno. E sono convinto che, dal loro lavoro, sarebbe potuto venir fuori qualcosa di buono». Allungò la mano per accarezzare di nuovo il gatto che, pur rilassandosi, non mi tolse gli occhi di dosso. «Ma vi era anche un lato oscuro in questa storia. Molto oscuro. Da quello che mi è stato detto, le scimmie sono soltanto una delle sue espressioni.» «Solo una?» Roosevelt sostenne il mio sguardo in silenzio, a lungo, abbastanza a lungo perché Orson mangiasse anche il secondo biscotto, e quando riprese a parlare, la sua voce era più gentile che mai: «In quei laboratori c'era molto di più che cani, gatti e scimmie». Non sapevo a che cosa si riferisse, ma suggerii: «Immagino che non stia parlando di cavie e topi bianchi». Distolse lo sguardo e si mise a fissare qualcosa oltre la cabina, al di là della barca. «Ci saranno molti cambiamenti.» «Dicono che cambiare fa bene.» «A volte sì.» Mentre Orson masticava il terzo biscotto, Roosevelt si alzò dalla sedia. Sollevò il gatto e se lo strinse al petto, accarezzandolo; sembrava stesse meditando su che cosa fosse opportuno fare: se rivelarmi altri segreti o tacere. Quando alla fine riprese a parlare, era tornato di nuovo al suo atteggiamento riservato. «Sono stanco, figliolo. Avrei dovuto essere a letto già da diverse ore. Mi è stato chiesto di avvertirti che i tuoi amici si troveranno in grave pericolo se non lascerai perdere, se insisterai con le tue indagini.» «È stato il gatto a chiederglielo.» «Esattamente.» Alzandomi, mi sembrò che il rollio della barca fosse più intenso. Per un attimo provai un senso di vertigine e dovetti aggrapparmi alla spalliera della sedia per mantenere l'equilibrio. A questo, si aggiunse anche una confusione mentale e la sensazione che la realtà stesse per sfuggirmi di mano. Mi sembrò di girare vorticosamente sull'orlo di un mulinello che mi avrebbe risucchiato sempre più in fretta, sempre più in fretta, fino a quando fossi precipitato attraverso un imbuto... la mia versione del tornado di Dorothy... e mi fossi ritrovato non a Oz, bensì a Waimea Bay, nelle Hawaii, a discutere solennemente con Pia Klick
sui vari punti della reincarnazione. Pur consapevole dell'irrazionalità della domanda, volli sapere: «E il gatto, Mungojerrie... non è d'accordo con quelli di Wyvern?» «È scappato da là.» Leccandosi accuratamente i baffi, per essere certo che nemmeno una delle preziose briciole gli fosse rimasta sulle labbra o sul pelo intorno al muso, Orson scese dalla sedia e venne a fermarsi accanto a me. «Solo alcune ore fa, ho sentito descrivere il progetto di Wyvern in termini apocalittici», riferii a Roosevelt, «... come la fine del mondo.» «Il mondo come noi lo conosciamo.» «Crede davvero a questa possibilità?» «Potrebbe finire così, certo. Ma può darsi che, alla fine, ci saranno più cambiamenti positivi che negativi. La fine del mondo come noi lo conosciamo non significa necessariamente che finisca il mondo.» «Lo vada a raccontare ai dinosauri dopo l'impatto con la cometa.» «Certo, anch'io qualche volta sono un po' spaventato», ammise. «Se è così terrorizzato da spostare tutte le sere la barca per andare in mezzo alla baia e se è davvero convinto che le conseguenze del progetto di Wyvern siano così pericolose, perché non lascia Moonlight Bay e si trasferisce da qualche altra parte?» «Ci ho già pensato. Ma le mie attività sono qui. La mia vita è qui. Inoltre, non sfuggirei al pericolo, guadagnerei solo un po' di tempo. In realtà, non esiste un luogo sicuro.» «È un'affermazione piuttosto deprimente.» «Immagino proprio di sì.» «Tuttavia lei non sembra depresso.» Sempre tenendo il gatto in braccio, Roosevelt ci precedette fuori del salotto e attraverso il salone di poppa. «Sono sempre stato in grado di affrontare ciò che il mondo mi offriva, figliolo, sia i momenti buoni sia quelli cattivi, purché fossero almeno interessanti. Sono stato fortunato ad avere una vita piena e variata, perché l'unica cosa di cui ho il terrore è la noia.» Uscimmo sul ponte di poppa e fummo avvolti da una cappa di nebbia. «Probabilmente la situazione si farà piuttosto pericolosa qui nel Gioiello della Costa Centrale ma, comunque vada, sono certo che non ci sarà da annoiarsi.» Roosevelt aveva più cose in comune con Bobby Halloway di quanto avessi immaginato. «Bene... la ringrazio per il consiglio. Credo.» Mi sedetti sul battente del boccaporto e, ruotando su me stesso, mi lanciai sulla passerella, mezzo
metro più in basso; Orson mi raggiunse con un balzo. Il grande airone azzurro se ne era già andato da tempo. La nebbia turbinava intorno a me e l'acqua scura gorgogliava sotto il panfilo, ma tutto il resto era immobile come un sogno di morte. Avevo fatto solo un paio di passi, quando Roosevelt mi chiamò: «Figliolo!» Mi fermai, voltandomi a guardarlo. «Guarda che è veramente in gioco la vita dei tuoi amici. Ma c'è di mezzo anche la tua felicità. Credimi, non ti piacerebbe saperne di più su questa faccenda. Hai già abbastanza problemi... con la vita che devi fare.» «Non ho alcun problema», lo rassicurai. «Solo vantaggi e svantaggi diversi da quelli degli altri.» La sua pelle era così scura che avrebbe potuto essere un miraggio o un gioco d'ombre. Anche il gatto che teneva in braccio era invisibile, a parte gli occhi che apparivano senza corpo, misteriosi... due sfere verde fosforescente che galleggiavano Dell'aria. «Solo vantaggi diversi... ne sei davvero convinto?» domandò. «Certo», risposi, anche se non ero sicuro di crederlo perché era vero o perché avevo trascorso gran parte della mia vita a convincermi che lo fosse. In molte occasioni, la realtà è quello che facciamo in modo che sia. «Ti dirò un'altra cosa. Potrebbe convincerti a lasciar perdere tutto e a vivere la tua vita.» Aspettai. Alla fine, con una punta di tristezza nella voce, disse: «Il motivo per cui la maggior parte di loro non vuole farti del male, per cui preferiscono cercare di controllarti uccidendo i tuoi amici, per cui quasi tutti ti rispettano, è per via di quello che era tua madre». Sentii la paura che mi saliva lungo la schiena, bianca come la morte e fredda come il ghiaccio e, per un attimo, mi sembrò di non riuscire a respirare, avevo i polmoni come stretti in una morsa... anche se non capivo per quale ragione l'enigmatica affermazione di Roosevelt dovesse colpirmi in modo così immediato e profondo. Forse comprendevo più di quanto pensassi. Forse la verità aspettava solo di essere riconosciuta nei meandri dell'inconscio... o negli abissi del cuore. Quando riuscii a respirare di nuovo, domandai: «Che cosa intende dire?» «Se ci pensi per un po'», suggerì, «se ci pensi davvero, forse ti renderai conto che non hai nulla da guadagnare nell'insistere su questa storia... e che hai molto da perdere. Raramente la conoscenza ci porta la pace, figlio-
lo. Cent'anni fa, non sapevamo niente della struttura atomica, del DNA o dei buchi neri... ma credi che siamo più felici e soddisfatti noi adesso di quanto lo fossero le persone allora?» Mentre pronunciava l'ultima parola, la nebbia riempì lo spazio occupato da Roosevelt sul ponte di poppa. La porta della cabina si chiuse con un rumore smorzato; con uno più forte venne tirato il chiavistello. 24 Intorno al Nostromo, dal quale salivano sinistri cigolii, la nebbia sembrava ribollire al rallentatore. Si aveva l'impressione che da quel muro bianco sbucassero creature d'incubo, restassero un istante sospese nell'aria, poi si dissolvessero. Suscitate dalla rivelazione finale di Roosevelt, ombre più spaventose dei mostri di nebbia prendevano forma, uscendo dalle tenebre della mia mente, ma non volevo prestarvi molta attenzione perché questo avrebbe conferito loro una maggiore solidità. Forse Roosevelt aveva ragione. Se avessi appreso tutto ciò che volevo sapere, probabilmente avrei rimpianto di non essere rimasto nell'ignoranza. Bobby dice che la verità è dolce ma pericolosa. È convinto che gli esseri umani non riuscirebbero a vivere se dovessero affrontare la cruda realtà su ciò che li riguarda. Quindi, gli rispondo sempre io, tu non ti suiciderai mai. Mentre Orson mi precedeva lungo la passerella, esaminai tutte le possibilità, cercando di decidere dove andare e che cosa fare. Una sirena stava cantando e soltanto io udivo la sua pericolosa canzone; sebbene temessi di sfracellarmi sugli scogli della verità, non potevo resistere a quella ipnotica melodia. Quando arrivammo in fondo alla passerella, dissi al cane: «Allora... in qualunque momento tu decida di spiegarmi tutta questa storia, sappi che sono pronto ad ascoltarti». Anche se fosse stato in grado di rispondermi, Orson non sembrava dell'umore giusto. La mia bicicletta era ancora appoggiata alla ringhiera del molo. Le manopole del manubrio erano fredde e scivolose per via delle goccioline di nebbia condensata. Alle nostre spalle si accesero i motori del Nostromo. Mi voltai a dare un'occhiata e vidi che le luci di posizione dello yacht diffondevano un chia-
rore circondato da aloni di nebbia. Non riuscivo a vedere Roosevelt sul ponte di comando, ma sapevo che c'era. Evidentemente, anche se restavano solo poche ore di buio e la visibilità era scarsa, preferiva trasferire l'imbarcazione al largo. Mentre spingevo la bicicletta attraverso il porticciolo, in mezzo alle barche che dondolavano dolcemente, mi girai un paio di volte per vedere se riuscivo a scorgere Mungojerrie nel fioco chiarore delle luci del molo. Anche se ci stava seguendo, lo faceva in modo molto discreto. Ma ebbi l'impressione che il gatto fosse rimasto sul Nostromo. Il motivo... per cui quasi tutti ti rispettano, è per via di quello che era tua madre. Quando svoltammo sul molo principale, dirigendoci verso l'entrata del porticciolo, percepii un odore nauseabondo che saliva dall'acqua. La marea doveva aver gettato fra i piloni il cadavere di un'aquila di mare, o di un calamaro, o forse di un pesce. Il corpo imputridito doveva essersi impigliato in uno di quegli ammassi di conchiglie che incrostavano i casseri di cemento. Il fetore, ributtante come una brodaglia demoniaca, si fece così intenso che l'aria umida sembrò esserne completamente intrisa. Trattenni il fiato e restai con la bocca serrata, cercando di non inspirare quella puzza disgustosa che ammorbava la nebbia. Il rombo dei motori del Nostromo era ormai svanito nella baia. I colpi ritmici e soffocati che ora giungevano dall'acqua non erano quelli di un motore, ma somigliavano al sinistro battito del cuore di un mostro marino che stava per affiorare in superficie con l'intento di far colare a picco tutte le imbarcazioni, distruggere il porticciolo e farci sprofondare in una fredda e umida tomba. Giunti a metà del molo principale, mi guardai nuovamente indietro e non vidi né il gatto né altri, e più pericolosi, inseguitori. Nondimeno, commentai con Orson: «Accidenti, tutto sta cominciando ad avere un'aria da fine del mondo». Concordò sbuffando, mentre ci lasciavamo il fetore alle spalle e ci avviavamo verso la morbida luce delle pittoresche lanterne da nave che, all'ingresso del molo, erano montate su massicci pilastri di teak. Uscendo dall'oscurità quasi liquida che circondava gli uffici del porticciolo e avanzando verso la luce del molo, improvvisamente apparve Lewis Stevenson, il comandante della polizia, ancora in uniforme come lo avevo visto alcune ore prima. «Sono di umore strano», disse. Per un attimo, mentre emergeva dal buio, qualcosa di particolare in lui
mi fece correre un brivido lungo la schiena. Ma qualunque cosa avessi visto, o pensassi di aver visto, svanì in un lampo e tutto quello che mi restò fu un profondo turbamento, l'angosciante sensazione di trovarmi in presenza di qualcosa di strano e maligno, senza tuttavia poter identificare l'esatta causa di questa sensazione. Il comandante Stevenson stringeva nella destra un'enorme pistola. Sebbene non fosse in posizione di tiro, teneva l'arma puntata contro Orson che, fermo a un paio di passi davanti a me, veniva illuminato dalla luce delle lanterne, mentre io ero ancora in ombra. «Vuoi sapere di che umore sono?» domandò Stevenson, fermandosi a circa tre metri di distanza. «Non buono», provai a indovinare. «Diciamo che è meglio non farmi incazzare.» Sentii qualcosa di strano nel modo di parlare del comandante. La voce era sempre la stessa, il timbro e l'accento non erano cambiati, ma nel suo tono, dove prima si percepiva una serena autorità adesso vi era una estrema durezza. Abitualmente le sue parole somigliavano a un fiume, calmo e rassicurante, sulla cui superficie era piacevole galleggiare; ora quel fiume era percorso da una corrente rapida e turbolenta, fredda e pungente. «Non mi sento bene», soggiunse. «Non mi sento affatto bene. Anzi, mi sento proprio una merda e non ho la pazienza di sopportare niente che mi faccia stare peggio. Capisci?» Sebbene non avessi capito esattamente quello che intendesse dire, annuii. «Sì, certo.» Orson era ancora immobile come una statua e teneva gli occhi fissi sulla bocca della pistola. Sfortunatamente per noi, a quell'ora il porticciolo era un luogo quanto mai deserto. Dalle sei di sera in poi, non restava più nessuno negli uffici o nella stazione di rifornimento. A parte Roosevelt Frost, soltanto altri cinque proprietari vivevano a bordo delle loro imbarcazioni e ormai dovevano essere profondamente addormentati. Quei moli non erano meno solitari delle lapidi di granito del cimitero di Santa Bernadette. La nebbia attutiva il rumore delle nostre voci. Era piuttosto improbabile che qualcuno ci sentisse e fosse attratto dalla nostra conversazione. Mantenendo l'attenzione su Orson, ma continuando a parlare con me, Stevenson ammise: «Non riesco ad avere quello che mi serve, perché non so nemmeno di che cosa ho bisogno. Non è roba da farti saltare i nervi?» Mi resi conto che stava per crollare e cercava in qualche modo di resiste-
re. Aveva perso il suo nobile aspetto. Anche la sua bellezza stava scomparendo come se i lineamenti del suo volto assumessero nuove forme, tesi da qualcosa che sembrava rabbia e da un'ansietà altrettanto violenta. «Senti mai questo vuoto, Snow? Senti mai il vuoto in modo così intenso che devi colmarlo, oppure muori, e tuttavia non sai dov'è questo vuoto, né con che cosa devi colmarlo?» A questo punto non lo capivo proprio per niente, ma ero convinto che non fosse proprio in vena di dare spiegazioni, assunsi quindi un'espressione solenne e annuii comprensivo. «Certo. Conosco bene quella sensazione.» Aveva le sopracciglia e le guance ricoperte di goccioline, ma non per l'umidità dell'aria; la pelle luccicava di sudore untuoso. Il suo volto era così pallido che la nebbia sembrava uscire a fiotti da dentro di lui, ribollire gelidamente dalla sua pelle, quasi fosse il padre delle nebbie. «Il momento in cui lo senti di più è di notte», soggiunse. «Proprio così.» «Ti arriva addosso in qualsiasi momento, ma la notte è il momento peggiore.» Il suo volto si contorse in una smorfia, forse di disgusto. «E comunque, che razza di cane è mai quello?» La mano che impugnava la pistola si irrigidì e mi parve di vedere il dito premere contro il grilletto. Orson gli mostrò le zanne, ma non si mosse né emise alcun suono. «È solo un meticcio di labrador», mi affrettai a spiegare. «È un cane molto tranquillo, non farebbe male a una mosca.» Senza un motivo apparente, la sua tensione aumentò fino a trasformarsi in furia. «E così è solo un meticcio di labrador? Col cavolo. Niente è solo qualcosa. Non in questo posto. Non più.» Per un momento pensai di estrarre la Glock dal giubbotto. Reggevo la bicicletta con la sinistra. La destra era libera. E la pistola era proprio nella tasca destra. Ma, per quanto sconvolto, Stevenson era pur sempre un poliziotto e, se minacciato, avrebbe sicuramente risposto con assoluta, e mortale, professionalità. Non mi fidavo molto della strana asserzione fatta da Roosevelt, e cioè che ero rispettato. Anche se avessi lasciato cadere la bicicletta per distrarlo, Stevenson mi avrebbe fatto secco prima ancora che la Glock fosse uscita dalla mia tasca. D'altronde, non avevo intenzione di puntare una pistola contro il comandante della polizia se non ero proprio costretto a usarla. E sparargli avreb-
be significato certamente la fine della mia vita. Improvvisamente, Stevenson rialzò il capo con uno scatto, distogliendo lo sguardo da Orson. Inspirò profondamente, poi trasse diversi respiri, corti e brevi, come un segugio che insegua la preda. «Che cos'è questo?» Aveva un olfatto molto più acuto del mio, perché solo in quel momento mi accorsi che la brezza aveva portato fino a noi una traccia assai lieve del fetore che saliva dalle acque del molo principale. Sebbene Stevenson si fosse comportato in modo abbastanza strano da farmi aggricciare lo scalpo della testa, adesso la situazione peggiorò ulteriormente. Si irrigidì, curvò le spalle, tese il collo e levò il viso verso la nebbia, come se assaporasse quell'odore nauseabondo. Nel volto pallido, gli occhi brillavano febbrili e, quando riprese a parlare, nella sua voce non c'era il tono inquisitivo, ma pacato, di un poliziotto, bensì una nervosa curiosità carica di perversione. «Che cos'è questo? Lo senti anche tu? Sa di morto, vero?» «Sì, deve esserci qualcosa sotto i piloni del molo», confermai. «Un pesce o qualcosa del genere.» «Morto. Morto e in putrefazione. Qualcosa... ha qualcosa di speciale, non ti sembra?» Sembrava sul punto di leccarsi le labbra. «Sì. Sì. Ha sicuramente qualcosa di interessante.» O sentì una strana tonalità nella propria voce, oppure percepì il mio allarme, perché mi guardò brevemente con aria preoccupata, poi lottò per ricomporsi. E fu davvero una lotta. Sembrava vacillasse su una cornice di emotività che stava per sgretolarsi, facendolo piombare in un baratro. Alla fine, ritrovò la sua voce normale, o qualcosa che le somigliava. «Ho bisogno di parlare con te, di giungere a un accordo. Adesso. Stanotte. Vieni con me, Snow.» «Venire dove?» «Ho l'auto della polizia qui di fronte.» «Ma la mia bicicletta...» «Non ti sto arrestando. Ci facciamo solo una chiacchierata. Dobbiamo essere certi di capirci bene.» L'ultima cosa che volevo era salire su un'auto della polizia insieme con Stevenson. Tuttavia, se avessi rifiutato, l'invito poteva trasformarsi in qualcosa di più formale, ovvero in un arresto. Se poi avessi opposto resistenza, se fossi montato sulla mia bicicletta e avessi pedalato fino a far fumare la ruota dentata... dove sarei andato? Ormai mancavano solo poche ore all'alba, non avrei mai avuto il tempo di
raggiungere la città più vicina, considerando quanto poco abitato è questo tratto di costa. In ogni caso, pur con tutto il tempo a disposizione, l'XP confinava il mio mondo ai dintorni di Moonlight Bay. Era qui che, tornando all'alba, avrei trovato un amico comprensivo, pronto ad accogliermi e a offrirmi l'oscurità di cui avevo bisogno. «Sono di umore strano», ripetè Lewis Stevenson, parlando a denti stretti, con quel tono duro che si faceva di nuovo sentire nella sua voce. «Sono proprio di umore strano. Allora, vieni con me?» «Ma certo. Non ho niente in contrario.» Indicando con la pistola, ci fece segno di precederlo. Spinsi la bicicletta verso l'uscita del molo, piuttosto inquieto all'idea di avere comandante e pistola entrambi dietro di me. Non c'era bisogno di saper comunicare con gli animali per capire che anche Orson era nervoso. Le assi del molo terminavano in una stradina di cemento, fiancheggiata da aiuole piene di diacciole, i cui fiori si aprono alla luce del sole e si richiudono di notte. Illuminate dai bassi faretti delle aiuole, numerose lumache, dalle antenne scintillanti, attraversavano la stradina pedonale, lasciando una argentea scia di bava. Alcune strisciavano dall'aiuola di diacciole sulla destra a quella, identica, sulla sinistra, altre percorrendo faticosamente il tragitto in senso inverso, come se questi umili molluschi condividessero con l'umanità le inquietudini e le insoddisfazioni dell'esistenza. Feci avanzare la bicicletta a zigzag per evitare di schiacciarle; Orson invece, dopo averle annusate, vi camminò sopra. Dietro di noi, udimmo un rumore di gusci frantumati, di carne spiaccicata. Stevenson non calpestava solo quelle che incontrava sul suo cammino, ma anche tutte le sfortunate lumachine che riusciva a vedere. Alcune venivano ammazzate con un colpo secco e rapido, ma in altri casi il comandante pestava il piede con tanta forza che il rumore della suola sul cemento rimbombava come una martellata. Non mi voltai a guardare. Temevo di scorgere il ghigno crudele che ricordavo anche troppo bene sui visi dei teppistelli che mi avevano tormentato durante l'infanzia, prima di diventare abbastanza in gamba e abbastanza robusto da rispondere alle loro aggressioni. Se già era sgradevole sul viso di un bambino, quell'espressione... gli occhi lucidi simili a quelli di un rettile anche senza le pupille ellittiche, le guance arrossate dall'odio, le labbra esangui tirate in un ghigno e i denti lucidi di saliva... mi sarebbe parsa molto più inquietante sul viso di un adulto, specialmente se l'adulto in questione aveva una pisto-
la e portava un distintivo. L'auto bianca e nera di Stevenson era parcheggiata lungo un cordolo rosso, a una decina di metri a destra dell'ingresso del porticciolo; l'illuminazione delle aiuole non arrivava fin laggiù e la macchina, protetta dai lunghi rami di un enorme alloro, era immersa nella più fitta oscurità. Appoggiai la bicicletta contro il tronco dell'albero, dal quale la nebbia pendeva come una tillandsia. Infine mi voltai con circospezione verso il comandante, che stava aprendo la portiera posteriore dell'auto dalla parte del passeggero. Pur in quella oscurità, riconobbi sul suo volto proprio l'espressione che avevo temuto di vedere, l'ira irrazionale, e impossibile da placare, che rende alcuni esseri umani più pericolosi di qualsiasi altra bestia esistente al mondo. Stevenson non aveva mai rivelato questo aspetto così malvagio della sua personalità. Era sempre apparso come una persona incapace fare un gesto scortese e, tanto meno, di provare un odio insensato. Se all'improvviso mi avesse rivelato di non essere il vero Lewis Stevenson, ma un alieno che aveva assunto il suo aspetto, gli avrei creduto. Indicando con la pistola, si rivolse a Orson: «Sali in macchina». «Può restare benissimo qui», intervenni. «Sali», ordinò al cane. Orson osservò con aria sospettosa la portiera aperta ed emise un guaito pieno di diffidenza. «Aspetterà qui», provai a insistere. «Non scappa mai.» «Lo voglio in macchina. Secondo le leggi comunali, dovrebbe stare al guinzaglio. Con te, Snow, abbiamo sempre lasciato perdere, abbiamo fatto finta di non vedere, per via di... perché un cane è esentato dal rispetto della legge se appartiene a un disabile.» Preferii non mettermi a litigare con Stevenson, facendogli notare che non mi stava proprio bene essere definito disabile. Comunque ero più interessato alla frase lasciata a metà, piuttosto che a quella completata. Ero convinto che, prima di interrompersi, stesse per dire «per via di quello che era tua madre». «Ma questa volta», soggiunse, «non ho alcuna intenzione di starmene a guardare mentre lui se ne va in giro, scorrazzando libero come l'aria, sporcando sul marciapiede e infischiandosene del guinzaglio.» Avrei potuto fargli notare che c'era una contraddizione tra il fatto che il cane di un disabile non era tenuto a stare al guinzaglio e l'affermazione che
Orson se ne infischiava dei regolamenti, ma preferii tacere. Non era il caso di discutere con Stevenson, fintanto che fosse stato in quelle condizioni. «Visto che non sale in macchina quando glielo dico io», decise il comandante, «lo costringerai tu a farlo.» Esitai, cercando una possibile alternativa alla collaborazione. Di secondo in secondo, la nostra situazione si faceva sempre più rischiosa. Mi ero sentito meno in pericolo sul promontorio, avvolto dalla nebbia e inseguito dal branco di scimmie. «Fai salire quel maledetto cane in questa maledetta macchina, subito!» urlò Stevenson e vi era tanto veleno in quel comando, che avrebbe potuto ammazzare dei serpenti senza nemmeno schiacciarli, solo con la voce. Il fatto che stringesse una pistola in mano, mi metteva in condizione di svantaggio, tuttavia mi consolai pensando che il comandante non sapeva che anch'io ero armato. Per il momento, non potevo fare altro che collaborare. «In macchina, amico mio», invitai Orson, cercando di non sembrare impaurilo, di non permettere al cuore che mi martellava in petto di trasmettere tremule vibrazioni alla mia voce. Riluttante, il cane obbedì. Lewis Stevenson chiuse la portiera posteriore con un colpo secco, poi aprì quella anteriore. «Adesso tu, Snow.» Mi accomodai sul sedile del passeggero, mentre il comandante girava intorno all'auto e si andava a sedere dietro il volante. Chiuse la propria portiera e mi invitò a fare altrettanto con la mia, cosa che avrei tanto voluto evitare. Abitualmente non soffro di claustrofobia nei luoghi angusti, ma nessuna bara mi sarebbe parsa così opprimente quanto quell'auto della polizia. La nebbia che premeva contro i finestrini era psicologicamente soffocante, come un incubo in cui si viene sepolti vivi. L'interno dell'auto mi sembrava più freddo e umido dell'aria esterna. Il comandante Stevenson avviò il motore in modo da poter accendere il riscaldamento. La radio della polizia crepitò e si sentì il gracchiare di una voce che trasmetteva messaggi. Stevenson spense l'apparecchio. Con le zampe posteriori posate sul fondo dell'auto, Orson appoggiò quelle anteriori sulla grata d'acciaio che lo separava da noi e restò a sbirciare preoccupato attraverso quella barriera. Quando il comandante premette con la canna della pistola un tasto sul ripiano accanto alla marcia, le
serrature delle portiere posteriori si bloccarono con un rumore deciso e definitivo come quello di una ghigliottina. Avevo sperato che, una volta salito in macchina, Stevenson avrebbe rinfoderato la pistola, ma non fu così. Posò l'arma sulla gamba, con la canna rivolta verso il cruscotto. Alla fioca luce verde del quadro della strumentazione di controllo, mi sembrò di vedere che aveva il dito premuto sul ponticello invece che sul grilletto, ma questo non riduceva di molto la sua posizione di vantaggio. Per un attimo, abbassò la testa e chiuse gli occhi, come se pregasse o cercasse di raccogliere i pensieri. La nebbia si condensava sull'albero di alloro e gocce di umidità cadevano dalla punta delle foglie, rimbalzando con un suono irregolare sul tettuccio e sul cofano dell'auto. Con aria indifferente, senza fare rumore, infilai le mani nelle tasche del giubbotto. Chiusi la destra intorno alla Glock. Mi dissi che era la mia eccessiva immaginazione a farmi esagerare il pericolo. Certo, Stevenson era di umore piuttosto strano e, da quello che avevo visto dietro la stazione di polizia, sapevo che non era quell'uomo integerrimo che per tanto tempo aveva finto di essere. Ma questo non voleva dire che intendesse compiere un atto di violenza. Forse era vero che voleva solo parlare e, una volta detto quello che doveva dire, ci avrebbe lasciato andare. Quando finalmente Stevenson sollevò la testa, i suoi occhi sembravano formati da un liquido amaro servito in tazze di osso. Mentre il suo sguardo si posava su di me, mi sentii nuovamente raggelare da quell'espressione di malvagità disumana, lo stesso sentimento che avevo provato quando, poco prima, l'avevo visto sbucare dall'oscurità che circondava gli uffici del porticciolo, ma questa volta sapevo che i miei nervi, tesi come le corde di un'arpa, vibravano di paura. Per un momento, visti da una certa angolazione, i suoi occhi brillarono di una gialla luminosità simile a quella che di notte emanano gli occhi di certi animali; una luce interna, fredda e misteriosa, che mai avevo visto nello sguardo di un essere umano. 25 Quella luminosità elettrica ed elettrizzante attraversò così rapidamente gli occhi del comandante Stevenson, nel momento in cui questi si voltava verso di me, che in qualsiasi altro momento prima di allora non avrei dato
alcuna importanza al fenomeno, considerandolo solo un insolito riflesso delle luci del cruscotto. Ma dal tramonto del giorno precedente, avevo visto scimmie che non erano semplicemente scimmie, un gatto che era più di un gatto ed ero passato attraverso misteri che scorrevano come fiumi per le strade di Moonlight Bay; di conseguenza avevo imparato ad aspettarmi significati particolari anche nelle cose apparentemente insignificanti. Gli occhi di Stevenson erano tornati neri come l'inchiostro, senza più strani bagliori. Nella sua voce, ora la rabbia era come una risacca, mentre la corrente superficiale era solo dolore e grigia disperazione. «Adesso è cambiato tutto, è cambiato tutto, e non c'è modo di tornare indietro.» «Che cosa è cambiato?» «Non sono più quello di un tempo. Non riesco quasi a ricordare come ero, il tipo d'uomo che ero. Non c'è più.» Ebbi l'impressione che stesse parlando più a se stesso che a me, che si lamentasse a voce alta per la perdita di quel sé che era nella sua mente. «Non ho più nulla da perdere. Mi è stato portato via tutto ciò di cui mi importava. Sono un morto che cammina, Snow. Ecco che cosa sono. Puoi immaginarti come ci si sente?» «No.» «È ovvio. Perché anche tu, con quella tua vita di merda, costretto a nasconderti di giorno, uscendo solo di notte come una lumaca che striscia da sotto un sasso... perfino tu hai qualche motivo per vivere.» Sebbene il comandante della polizia venisse eletto dai suoi concittadini, Lewis Stevenson non sembrava molto preoccupato di conquistare il mio voto. Avrei voluto dirgli di andare a farsi una sega. Ma c'è differenza tra non mostrarsi impauriti e supplicare che ti sparino in testa. Mentre voltava il viso per osservare la nebbia che, densa come fango, scivolava lateralmente attraverso il parabrezza, quel fuoco gelido guizzò nuovamente nei suoi occhi, un lampo più breve e smorzato, e tuttavia ancor più inquietante perché, questa volta, non poteva essere considerato semplice frutto dell'immaginazione. Abbassando la voce come se temesse di essere udito da estranei, confessò: «Soffro di incubi terribili, pieni di sesso e sangue». Prima di salire in macchina, non sapevo esattamente che cosa aspettarmi da quella conversazione; di certo, la confessione dei suoi tormenti personali non era in cima alla mia lista dei probabili soggetti. «Sono cominciati più di un anno fa», continuò a raccontare. «All'inizio
arrivavano solo una volta alla settimana, ma ora si sono fatti più frequenti. Nei primi incubi, le donne erano persone che non avevo mai visto in vita mia, personaggi del tutto immaginari. Erano quei tipi di ragazze che sogni durante la pubertà: pelle di seta, forme abbondanti, ansiose di concedersi... solo che in questi sogni io non facevo solo del sesso con loro...» Sembrava che, insieme con la nebbia, anche i suoi pensieri scivolassero verso un territorio più oscuro. Vedevo unicamente il suo profilo lucido di sudore, illuminato appena dalle luci del cruscotto, ma riuscivo comunque a scorgervi una tale brutalità da non desiderare affatto che si voltasse a guardarmi dritto negli occhi. Abbassando ulteriormente la voce, soggiunse: «In questi sogni, le picchio, le prendo a pugni in faccia, e continuo a colpirle fino a quando dei loro volti non rimane più nulla, poi le stringo alla gola, finché la lingua non esce dalla bocca...» Nel momento in cui aveva cominciato a descrivere gli incubi, avevo percepito nella sua voce un vero terrore. Adesso però, oltre alla paura, Stevenson rivelava una morbosa eccitazione, resa ancora più evidente dalla voce che si era fatta roca e da una nuova tensione del corpo. «... e quando cominciano a urlare di dolore, mi accorgo di godere di quelle urla, dello strazio sui loro volti, della vista del sangue. E così piacevole. Così eccitante. Mi sveglio in preda a brividi di piacere, gonfio di desiderio. E a volte... anche se ormai ho cinquantadue anni, raggiungo l'orgasmo nel sonno o proprio mentre mi sveglio.» Òrson rinunciò ad appoggiarsi alla grata di sicurezza e si accomodò sul sedile posteriore. Anch'io avrei voluto mettere una maggiore distanza tra me e Lewis Stevenson. L'angusta auto della polizia sembrava chiudersi intorno a noi, come se qualcuno la stesse comprimendo con una di quelle macchine idrauliche usate nei centri di rottamazione. «Poi, nei sogni, cominciò ad apparire Louisa, mia moglie... e le mie due... le mie due figlie. Janine. Kyra. Nei sogni hanno paura di me, e io faccio di tutto per terrorizzarle, perché questo mi eccita. Sono disgustato... ma anche elettrizzato da quello che sto facendo con loro, a loro...» La rabbia, la disperazione e il perverso eccitamento si percepivano ancora nella sua voce, nella respirazione bassa e lenta, nelle spalle incurvate e nell'espressione del volto, spaventosa anche di profilo. Ma fra questi sentimenti così contrastanti che lottavano per il controllo della sua mente, vi era anche la speranza di riuscire a non sprofondare nell'abisso della follia e
della crudeltà, sull'orlo del quale sembrava così precariamente in bilico, e questa speranza era espressa dall'angoscia che adesso trapelava dalla sua voce e dal suo comportamento con la stessa evidenza dell'ira, della disperazione e dei perversi desideri. «Gli incubi sono diventati così orripilanti, le cose che facevo in sogno erano così disgustose e repellenti che, alla fine, avevo paura di andare a dormire. Restavo sveglio finché non mi sentivo spossato, finché non c'era quantità di caffeina sufficiente a tenermi in piedi, finché anche un cubetto di ghiaccio posato sulla nuca non riusciva a farmi tenere gli occhi aperti. Ma quando alla fine crollavo addormentato, i miei sogni erano più intensi che mai, come se la fatica mi facesse raggiunger una più profonda oscurità interna, dove vivevano i mostri peggiori. Accoppiamenti e massacri, incessanti e vividi, i miei primi sogni a colori, colori così forti, e sentivo anche i suoni, le loro voci che supplicavano, le mie risposte spietate, le loro urla, i gemiti, le convulsioni e i rantoli di morte, quando squarciavo le gole con i denti, mentre ancora mi stavo accoppiando.» Sembrava che Lewis Stevenson vedesse queste spaventose immagini dove io vedevo soltanto la nebbia che ribolliva pigramente, quasi che il parabrezza fosse per lui uno schermo sul quale venivano proiettate le sue fantasie. «E dopo qualche tempo... cominciai a non combattere più contro il sonno. Per un po', mi limitai a sopportare ciò che il dormire comportava. Poi, non ricordo esattamente quando, gli incubi smisero di apparirmi spaventosi, anzi consideravo il loro contenuto decisamente piacevole, e non provai più i sensi di colpa che in precedenza mi avevano tormentato. Sebbene inizialmente non volessi ammetterlo, cominciai ad aspettare con ansia il momento di andare a dormire. Finché ero sveglio, quelle donne rappresentavano qualcosa di estremamente prezioso per la mia vita, ma quando dormivo, allora... allora mi sentivo eccitato all'idea di poterle svilire, umiliare, torturare nei modi più fantasiosi. Non mi risvegliavo più in preda al terrore... ma a una strana beatitudine. Me ne stavo sdraiato al buio, pensando a quanto sarebbe stato più piacevole commettere realmente quelle atrocità, invece di limitarmi a sognarle. Mi bastò pensare di realizzare questi sogni, per percepire che un'incredibile forza si riversava dentro di me; mi sentii libero, assolutamente libero, come mai ero stato fino a quel momento. Era come avessi vissuto tutta la mia vita con i polsi serrati in robuste manette di ferro, avvolto da catene e immobilizzato da blocchi pietra. Mi sembrava che non vi fosse nulla di moralmente particolare nel cedere a questi deside-
ri. Non era né giusto né sbagliato. Né buono né cattivo. Ma tremendamente liberatorio.» O l'aria all'interno dell'auto si stava facendo sempre più viziata, oppure provavo un senso di nausea all'idea di inspirare i vapori espirati dal comandante. Non so quale delle due. Sentii in bocca un gusto metallico, come se avessi succhiato una monetina, lo stomaco mi si stringeva intorno a qualcosa di duro e freddo come una roccia artica e avevo il cuore ricoperto di ghiaccio. Non riuscivo a comprendere per quale motivo Stevenson avesse deciso di scegliere me per mettere a nudo il suo animo inquieto, ma avevo il presentimento che queste confessioni fossero solo il preludio di una spaventosa rivelazione che, ne ero certo, avrei preferito non sentire. Volevo farlo tacere prima che mi mettesse a parte di quell'estremo segreto, ma mi rendevo conto che si sentiva costretto a raccontarmi le sue mostruose fantasie... forse perché ero il primo al quale aveva osato confidarsi. Non c'era modo di zittirlo, se non ammazzandolo. «Ultimamente», proseguì in un sussurro che avrebbe ossessionato il mio sonno per tutta la vita, «i miei incubi si erano concentrati su mia nipote Brandy. Ha dieci anni. Una bimba deliziosa. Molto carina. Così snella e attraente. Che cosa non le taccio in sogno. Ah, quante cose faccio. Non puoi nemmeno immaginare come sono crudele e spietato con lei. Ho un'inventiva raffinatamente depravata. E quando mi sveglio, sono al settimo cielo. In estasi. Me ne sto a letto, accanto a mia moglie che dorme tranquilla, che non sa, che non può nemmeno immaginare quali strani pensieri ossessionano la mia mente, e sento letteralmente vibrare questa forza dentro di me, ho la consapevolezza che la libertà assoluta è a portata di mano in qualunque momento desideri afferrarla. In qualsiasi momento. La settimana prossima. Domani. Ora.» Sopra le nostre teste, il silenzioso alloro parlò quando, in rapida successione, diverse puntute lingue verdi tremarono per il peso eccessivo della nebbia condensata. Ogni foglia liberò la propria nota liquida e io sobbalzai per l'improvviso fragore delle grosse gocce che rimbalzarono sull'auto, quasi sorpreso che ciò che scorreva sul parabrezza e lungo il cofano non fosse sangue. Nella tasca del giubbotto strinsi la mano intorno alla Glock. Dopo quanto Stevenson mi aveva raccontato, non c'era possibilità di lasciare quell'auto vivo. Mi spostai leggermente sul sedile, e quella fu la prima delle numerose piccole mosse che, pur non suscitando il sospetto del comandante, mi
avrebbero messo in condizione di sparargli attraverso il giubbotto, senza bisogno di estrarre la pistola. «La settimana scorsa», continuò Stevenson, «Kyra e Brandy sono venute a cena da noi e io ho fatto veramente fatica a togliere gli occhi di dosso alla bambina. Ogni volta che la guardavo, la vedevo nuda, come nei miei sogni. Così magra. Così fragile. Vulnerabile. Mi sono eccitato pensando alla sua vulnerabilità, alla sua delicatezza, alla sua debolezza, e sono stato costretto a nascondere la mia condizione sia a Kyra, sia a Brandy. E a Louisa. Volevo... volevo... avevo bisogno di...» I suoi singhiozzi mi colsero di sorpresa: fu percorso ancora una volta da ondate di dolore e disperazione, così come quando aveva cominciato a parlare. Le sue terribili necessità, la sua fame oscena, annegavano in questo mare di tormento e odio verso se stesso. «Una parte di me vorrebbe suicidarsi», ammise Stevenson, «ma solo una parte minore, quella più debole e più piccola, quel poco che resta dell'uomo che ero un tempo. La bestia feroce in cui mi sono trasformato non si ucciderà mai. Mai. È troppo viva.» Si portò alla bocca la mano sinistra, stretta a pugno, e la spinse tra i denti, mordendo con tanta rabbia le dita serrate che ero convinto si sarebbe fatto uscire il sangue; mordeva e ingoiava i singhiozzi più disperati che avessi mai sentito. In questo nuovo Lewis Stevenson non vi era traccia del comportamento calmo e sicuro che aveva fatto di lui una figura autorevole e simbolo di giustizia. Non certo in quel momento e nell'essere angosciato che vedevo davanti a me. Sembrava continuamente travolto da violente emozioni, di un tipo o di un altro, senza che attraversasse mai momenti di calma. La mia paura lasciò il posto alla pietà. Stavo quasi per allungare un braccio e posargli una mano sulla spalla per consolarlo, ma mi trattenni perché mi resi conto che il mostro, le cui parole avevo ascoltato fino a un momento prima, non era scomparso, né era stato reso inoffensivo. Abbassando il pugno, il comandante si voltò verso di me, mostrando un viso sconvolto da un tormento così profondo, da un'angoscia del cuore e della mente di tale intensità, che dovetti distogliere lo sguardo. Anche Stevenson tornò a fissare il parabrezza e, mentre l'alloro continuava a riversare sull'auto la pioggerella di nebbia distillata, a poco a poco i suoi singhiozzi si placarono, permettendogli di riprendere a parlare: «La settimana scorsa ho cominciato a cercare mille scuse per andare a casa di Kyra, per stare intorno a Brandy». Inizialmente le parole gli uscivano di-
storte da un tremore che, tuttavia, ben presto venne sostituito dall'avida voce del troll senz'anima. «E a volte, nel cuore della notte, quando vengo preso da questa smania, quando mi sento così freddo e vuoto dentro che vorrei mettermi a urlare e non smettere più, penso che l'unico modo di colmare questo vuoto, l'unico modo di fermare questo mostro spaventoso che mi rode le viscere... sia quello di realizzare concretamente ciò che mi rende così felice nei sogni. E lo farò. Presto o tardi, lo farò. Più presto che tardi.» Adesso la sua instabile emotività lo aveva portato dall'angoscia e dal senso di colpa a una tranquilla ma demoniaca euforia. «Ho proprio l'intenzione di farlo. Mi sono già guardato intorno alla ricerca di bambine dell'età di Brandy, non più di nove-dieci anni, con la sua stessa figura sottile, carine come lei. Sarà meno pericoloso cominciare con qualcuno che non abbia alcun rapporto di parentela con me. Meno pericoloso, ma non per questo meno soddisfacente. Comunque, sono certo che mi piacerà. Sarà così bello... la forza, la distruzione, liberarsi di tutte catene con cui ti costringono a vivere, abbattere tutti i muri, essere completamente libero, finalmente libero. Quando l'avrò tra le mani, morderò quella bambina, continuerò a morderla e a morderla. Nei miei sogni le lecco la pelle, che ha un gusto salato, poi la mordo, e sento le sue urla che mi vibrano fra i denti.» Anche se la luce era assai fioca, riuscivo comunque a scorgere il folle pulsare delle sue tempie. I muscoli della mascella erano tesi e l'angolo della bocca si contraeva per l'eccitazione. Sembrava un essere più animale che umano... o forse qualcosa di meno di entrambi. Stringevo con tanta forza la mano intorno alla Glock che il braccio mi doleva fino alla spalla. Improvvisamente mi accorsi che il mio dito era piegato sul grilletto e che rischiavo di far partire un colpo, senza aver prima puntato l'arma contro Stevenson. A fatica, mi costrinsi ad allentare la pressione. «Che cosa l'ha fatta diventare così?» domandai. Mentre si voltava verso di me, quella strana luminosità gli attraversò nuovamente lo sguardo. Quando il bagliore si spense, i suoi occhi tornarono scuri e sanguinari. «Un giovane fattorino», rispose enigmatico. «Solo un giovane fattorino che insisteva a non voler morire.» «Perché raccontarmi di questi sogni, di quello che ha intenzione di fare alle bambine?» «Perché, maledetto mostriciattolo, voglio darti un ultimatum, e voglio che tu capisca che parlo seriamente, che sono pericoloso, che ho ben poco da perdere e che, se dovesse arrivare il momento, sarebbe per me un gran-
de piacere poterti fare a pezzi. Ci sono altri che non ti toccherebbero mai...» «Per via di quello che era mia madre.» «Allora sai già anche questo?» «Ma non so che cosa significa. Che ruolo aveva mia madre in tutta la storia?» Invece di rispondermi, Stevenson riprese la frase interrotta: «Ci sono altri che non ti toccherebbero mai e che non vogliono che nemmeno io ti faccia del male. Ma se sarò costretto, lo farò. Continua a ficcare il naso e io ti spaccherò in due il cranio, ti strapperò il cervello e lo butterò ai pesci. Dici che non sarei capace di farlo?» «Le credo», risposi con la massima sincerità. «Dato che hai scritto quel libro famoso, potresti ricevere una certa attenzione dalla stampa. Se fai qualche telefonata per cercare di smuovere le acque, per prima cosa metterò le mani su quella tua puttanella della radio. La rivolterò come un guanto, e in mille modi.» Il suo riferimento a Sasha mi fece andare su tutte le furie, ma riuscì anche a spaventarmi tanto da lasciarmi senza parole. Adesso era chiaro che quello di Roosevelt Frost era stato davvero solo un consiglio. Questa invece era la minaccia di cui, dicendo di parlare a nome del gatto, Roosevelt mi aveva avvertito. Il pallore era scomparso dal viso di Stevenson come se, nel momento in cui aveva deciso di cedere ai suoi folli desideri, il freddo e il vuoto interni fossero stati colmati da un fuoco. Allungò la mano verso il cruscotto e spense il riscaldamento dell'auto. Prima del prossimo tramonto avrebbe rapito una bambina, nulla era più certo di questo. Trovai il coraggio di porre alcune domande solo perché mi ero spostato sul sedile abbastanza da riuscire a puntare la pistola contro di lui. «Dov'è finito il corpo di mio padre?» «A Fort Wyvern. È necessario eseguire un'autopsia.» «Per quale motivo?» «Non c'è bisogno che tu lo sappia. Ma per porre fine a questa tua stupida crociata, ti dirò una cosa: è stato proprio il cancro a ucciderlo. Un normalissimo cancro. Non esiste nessuno con cui fare i conti, come hai detto ad Angela Ferryman.» «Perché dovrei crederle?» «Perché ucciderti o darti una risposta per me è lo stesso... quindi per
quale motivo dovrei mentire?» «Che cosa sta succedendo a Moonlight Bay?» Il viso del comandante si aprì in un ghigno, di quelli che raramente si vedono fuori dei manicomi. Come se la prospettiva della catastrofe fosse il cibo di cui si nutriva, si raddrizzò sul sedile e, quando rispose, sembrò addirittura gonfiarsi: «Tutta la città è come una giostra impazzita che corre verso l'inferno, e sarà una corsa micidiale». «Questa non è una risposta.» «Non ho intenzione di dirti altro.» «Chi ha ucciso mia madre?» «È morta in un incidente.» «Fino a stanotte l'ho creduto anch'io.» Il ghigno perverso, sottile come l'incisione di un rasoio, si allargò in una ferita. «Va bene. Un'ultima informazione, visto che insisti. Tua madre è stata uccisa, proprio come sospettavi.» Sentii il cuore ruzzolare come una pesante ruota di pietra. «Chi l'ha uccisa?» «Lei stessa. Si è suicidata. Ha inchiodato il piede sull'acceleratore della sua Saturn e si è lanciata a tutta velocità contro la spalla del ponte. Non c'è stato alcun cedimento meccanico. Non si è bloccato l'acceleratore. Quella è stata una storia di copertura che abbiamo inventato.» «Bugiardo, figlio di puttana.» Stevenson si leccò le labbra molto lentamente, come se trovasse dolce il suo stesso sorriso. «Nessuna bugia, Snow. E sai una cosa? Se due anni fa avessi saputo che cosa mi sarebbe successo, come ogni cosa sarebbe cambiata, avrei ucciso io stesso la tua vecchia. L'avrei ammazzata per via del suo ruolo in questa storia. L'avrei portata da qualche parte, le avrei strappato il cuore e avrei riempito il buco con il sale, avrei bruciato tua madre su una catasta di legna... tutte quelle cose che si fanno per essere certi che una strega muoia davvero. Infatti, che differenza c'è tra quello che ha fatto lei e il maleficio di una strega? Scienza o magia? Che cosa importa, se il risultato è lo stesso? Ma allora non sapevo che cosa mi stava per capitare, invece lei sì e quindi mi ha risparmiato la fatica e si è lanciata contro un blocco di cemento spesso mezzo metro.» Una nausea untuosa mi strinse la gola perché sentii che stava dicendo la verità. Compresi solo un frammento delle sue parole, ma fu anche troppo. «Non hai nulla da vendicare, mostriciattolo», soggiunse. «Nessuno ha
ucciso i tuoi. Anzi, da un certo punto di vista, è stata tua madre ad ammazzare entrambi: se stessa e il tuo vecchio.» Chiusi gli occhi. Non sopportavo di guardarlo, non solo perché provava piacere nel fatto che mia madre fosse morta, ma anche perché era evidentemente convinto... a ragione?... che in questo vi fosse qualcosa di giusto. «Adesso, quello che voglio è che strisci di nuovo sotto un sasso e che ci rimani per il resto della tua vita. Non ti permetteremo di far venire a galla questa storia. Se si viene a sapere che cosa è successo qui, se la conoscenza dei fatti si propaga fuori di Wyvern e del nostro ambiente, l'intera contea verrà messa in quarantena. Verremo isolati dal resto del mondo, ci ammazzeranno a uno a uno, bruceranno gli edifici, avveleneranno ogni uccello, ogni coyote, ogni gatto... e, per maggior sicurezza, probabilmente bombarderanno più volte la zona con ordigni nucleari. Comunque sarebbe tutto inutile, perché ormai questa pestilenza è uscita dai confini della nostra contea, è già arrivata all'estremità opposta del continente e oltre. Ha avuto origine qui e, di conseguenza, è qui che gli effetti sono più evidenti e si sviluppano più in fretta, ma adesso continuerà a diffondersi anche senza di noi. Ma non abbiamo nessuna intenzione di farci ammazzare perché qualche politico succhiacazzi possa vantarsi di essere stato lui a prendere l'iniziativa.» Quando riaprii gli occhi, mi accorsi che aveva sollevato la pistola e me la puntava contro. La bocca dell'arma era a meno di mezzo metro dal mio viso. Ma Stevenson non sapeva della Glock e quello era il mio unico vantaggio, un vantaggio che mi sarebbe stato utile solo se avessi premuto il grilletto per primo. Pur sapendo che non avrei ottenuto nulla, tentai comunque di far ragionare il comandante... forse perché parlare era l'unico modo per distraimi da quanto mi aveva detto di mia madre. «Santo cielo, mi ascolti, solo qualche minuto fa ha detto di non aver nulla per cui vivere. Qualunque cosa sia successa qui, se riusciamo a ottenere degli aiuti, forse...» «Ero di umore strano», mi interruppe bruscamente. «Non mi sei stato ad ascoltare, mostriciattolo? Ti ho detto che ero di umore strano. Davvero terribile. Ma adesso è cambiato. Sto meglio. Sento di essere tutto ciò che posso essere, sento di poter accogliere a braccia aperte la mia trasformazione, invece di resistervi. Cambiamento, amico mio. Si tratta solo di questo. Cambiamento, un meraviglioso cambiamento, cambiare tutto, sempre e per sempre, cambiare. Il nuovo mondo che sta per arrivare... sarà impressionante.»
«Ma non possiamo...» «Se tu risolvessi il mistero e lo rivelassi al mondo, non faresti che firmare la tua condanna a morte. In più, ammazzeresti la tua amichetta tanto sexy e tutti i tuoi amici. Ora scendi dalla macchina, monta sulla bicicletta e riporta a casa quel tuo culo ossuto. Seppellisci le ceneri che Sandy Kirk ti consegnerà, a chiunque appartengano. E se proprio non ce la fai a vivere senza saperne di più, se il morso di un gatto ti ha fatto venire troppa curiosità, allora ti consiglio di scendere in spiaggia e di restare sotto il sole per qualche giorno, così ti abbronzi da morire.» Non riuscivo a credere che stesse per lasciarmi andare. Ma poi soggiunse: «Il cane resta con me». «No.» Indicò con la pistola: «Fuori». «È il mio cane.» «Non è il cane di nessuno. E questo non è un dibattito.» «Che cosa vuoi da lui?» «Una dimostrazione pratica.» «Una che cosa?» «Lo porto nel garage municipale. Là dentro c'è una sminuzzatrice, la usano per frantumare i rami degli alberi.» «Non se ne parla neanche.» «Prima pianto un proiettile nella testa del cane...» «No.» «Poi lo getto nella sminuzzatrice...» «Fallo subito scendere dall'auto.» «... infilo la poltiglia che ne esce in un sacco e te la lascio davanti a casa, per rinfrescarti la memoria in caso di necessità.» Fissando Stevenson, mi resi conto che non era soltanto diverso da prima. Non era proprio più lo stesso. Era qualcun altro. Qualcuno uscito dal vecchio Lewis Stevenson, come una farfalla dalla sua crisalide, solo che in questo caso si era verificato il processo inverso: la farfalla era entrata nella crisalide e si era trasformata in verme. Questa spaventosa metamorfosi, iniziata già da qualche tempo, si era conclusa sotto i miei occhi. Ciò che restava del comandante di prima ora non esisteva più e l'essere al quale stavo cercando di oppormi si lasciava trascinare solo dagli impulsi e dai desideri, non aveva una coscienza che gli ponesse dei limiti, non era più capace di singhiozzare come aveva fatto fino a pochi minuti prima ed era estremamente pericoloso.
Se era portatore di una malattia infettiva creata in laboratorio e in grado di produrre simili cambiamenti, era possibile che l'avesse trasmessa a me? Il mio cuore combatteva contro se stesso, scaricando pugni su pugni. Sebbene non avessi mai nemmeno immaginato di uccidere un essere umano, capii che sarei stato capace di ammazzare quest'uomo perché, in questo modo, non avrei salvato solo Orson, ma anche una serie di bambine e di donne che Stevenson voleva attirare nei suoi incubi. Con più fermezza nella voce di quanta mi sarei aspettato di avere, ordinai: «Fai scendere il cane dall'auto, subito. Sbrigati». Incredulo, il viso che si spaccava in quel sorriso da serpente, Stevenson domandò: «Hai dimenticato chi è il poliziotto? Eh, mostriciattolo. Hai dimenticato chi è che ha la pistola?» Se avessi sparato, anche da una distanza così ravvicinata, forse non sarei riuscito a ucciderlo all'istante. E anche se il primo colpo lo avesse fatto secco, con tutta probabilità avrebbe istintivamente premuto il grilletto e, a meno di mezzo metro, non poteva mancarmi. «Va bene», soggiunse, rompendo il mio silenzio, «vuoi guardare mentre lo faccio?» Si girò parzialmente sul sedile, infilò la canna della pistola nella grata di sicurezza e sparò al cane. L'esplosione fece tremare la macchina e Orson guaì. «No!» urlai. Nel momento in cui sfilava la canna dalla grata, feci partire il colpo. Il proiettile bucò il mio giubbotto e gli squarciò il petto. Istintivamente, Stevenson sparò verso il tettuccio. Feci nuovamente fuoco, questa volta mirando alla gola, e il proiettile che gli uscì dalla nuca mandò in frantumi il finestrino dietro di lui. 26 Rimasi seduto, come sotto l'incantesimo di uno stregone, incapace di muovermi, perfino di battere le ciglia, con il cuore simile a un piombino appeso nel petto, privo di emozioni, incapace di sentire la pistola nella mano, incapace perfino di vedere l'uomo morto, che pure sapevo sul sedile dell'auto accanto al mio, accecato dallo choc, stordito dall'oscurità, reso temporaneamente sordo dall'esplosione dei colpi o forse dal disperato desiderio di non sentire la voce della mia coscienza che mi parlava di problemi e conseguenze.
L'unico senso ancora funzionante era l'odorato. La puzza di zolfo dei proiettili, l'aroma metallico del sangue, le esalazioni acide dell'urina di Stevenson che, nell'agonia della morte, si era sporcato, nonché la fragranza dello shampoo alla rosa di mia madre; tutti questi odori mi avvolsero in un turbinio profumato e maleodorante. Erano percezioni olfattive reali, a parte l'essenza di rose che da tempo avevo dimenticato, ma che ora la memoria faceva riaffiorare con tutte le sue delicate sfumature. Il terrore estremo ci restituisce i gesti della nostra infanzia, ha detto Chazal. Nel mio terrore, il profumo di quello shampoo era il mio modo di tendere un braccio verso mia madre, nella speranza che la sua mano si chiudesse, rassicurante, intorno alla mia. In un momento, vista, udito e tutti i sensi ripresero a funzionare, facendomi sobbalzare con la stessa violenza con cui i due proiettili calibro 9 avevano scosso Lewis Stevenson. Spalancai la bocca in cerca d'aria e gridai. Tremando in modo incontrollabile, premetti il tasto sul ripiano accanto alla marcia e le serrature elettriche delle portiere posteriori si sbloccarono. Mi scaraventai fuori dell'auto e spalancai la portiera posteriore, chiamando disperatamente Orson, chiedendomi come avrei fatto a portarlo dal veterinario abbastanza in fretta da salvargli la vita, se era ferito, e come avrei semplicemente fatto, se era morto. Non poteva essere morto. Non era un cane qualsiasi: era Orson, il mio cane, strano e speciale, compagno e amico, con me solo da tre anni ma ormai parte essenziale del mio mondo fatto di oscurità. E non era morto. Si lanciò fuori dell'auto con un tale impeto di sollievo che mi fece quasi ruzzolare a terra. Il suo lacerante guaito era stato solo un'espressione di terrore conseguente allo sparo. Crollai in ginocchio sul marciapiede, lasciai che la Glock mi scivolasse dalla mano e attirai il cane fra le mie braccia. Lo tenni stretto, accarezzandogli la testa e il mantello nero, felice di sentirlo ansimare, di percepire il rapido battito del suo cuore, di vederlo scondinzolare, felice perfino di sentire la sua puzza di pelo umido e l'odore del suo fiato che sapeva di biscotto. Non osavo parlare. La mia voce era una chiave di volta fissata in gola. Se fossi riuscito a liberarla, probabilmente sarebbe crollata tutta la diga, dal mio petto sarebbe sgorgato un balbettio di dolore e nostalgia, e tutte le lacrime non versate per mio padre e per Angela Ferryman si sarebbero riversate all'esterno come un'inondazione. Non mi permetto di piangere. Preferirei essere un osso ridotto a schegge
dai denti della sofferenza che una spugna strizzata nelle sue mani. Inoltre, anche se avessi osato parlare, in questo caso le parole non erano importanti. Orson era certamente un cane speciale, ma non avrebbe comunque potuto seguirmi in un'animata conversazione... non fino a quando, e se, io avessi deciso di gettare a mare gran parte del mio buon senso e avessi chiesto a Roosevelt Frost di insegnarmi a comunicare con gli animali. Quando riuscii a staccarmi da Orson, raccolsi la Glock e mi alzai in piedi, soffermandomi a scrutare attentamente l'area di parcheggio del porticciolo. La nebbia nascondeva la maggior parte delle auto e dei veicoli di proprietà dello sparuto gruppetto di persone che vivevano sulle barche. Non si vedeva nessuno e il silenzio era rotto solo dal motore in folle dell'auto. Evidentemente il rumore degli spari era stato smorzato dalle pareti della macchina e soffocato dalla nebbia. Le abitazioni più vicine si trovavano al di fuori dell'area commerciale del porticciolo, a due isolati di distanza. Se qualcuno, a bordo delle imbarcazioni, aveva sentito il rumore sordo delle quattro esplosioni, doveva aver pensato ai ritorni di fiamma di un motore, oppure a immaginarie porte sbattute tra i mondi della veglia e del sonno. Non correvo il rischio di essere catturato immediatamente, ma non potevo nemmeno allontanarmi sulla mia bicicletta, pensando di sfuggire alle mie responsabilità e alla punizione. Avevo ucciso il comandante della polizia e, anche se non era più l'uomo che Moonlight Bay aveva conosciuto e ammirato per tanto tempo, anche se da scrupoloso servitore della cittadinanza si era trasformato in un essere privo di qualsiasi elemento di umanità, non avrei mai potuto dimostrare che quel'eroe era diventato proprio il tipo di mostro che aveva giurato di combattere. Sarei stato inchiodato dalle prove. Vista l'identità della vittima, sarebbero stati chiamati a collaborare alle indagini i migliori esperti, provenienti sia dagli uffici della contea sia da quelli statali, i quali, esaminando l'auto in cui era morto Stevenson, non avrebbero tralasciato nulla. Ma non potevo sopportare l'idea di venire rinchiuso in una angusta cella illuminata da una candela. Anche se la mia vita è condizionata dalla presenza della luce, fra il tramonto e l'alba non voglio pareti intorno a me. L'oscurità degli spazi chiusi è profondamente diversa da quella della notte; la notte non ha confini e offre continuamente misteri, scoperte, meraviglie, opportunità di allegria. La notte è la bandiera della libertà sotto la quale vivo, e io voglio vivere libero, oppure preferisco morire.
Mi disgustava l'idea di dover rientrare nell'auto e restare accanto al cadavere il tempo necessario a ripulire delle mie impronte tutte le superfici che avevo toccato. E comunque sarebbe stato un sforzo inutile, perché certamente ne sarebbe rimasta qualcuna. Inoltre, con tutta probabilità, avrei lasciato altre prove. Capelli, un filo dei jeans. Qualche minuscola fibra del mio berretto Mystery Train. I peli di Orson sul sedile posteriore, i segni delle sue unghie sulla tappezzeria. E diversi altri dettagli che mi avrebbero incriminato come e più di questi. Ero stato maledettamente fortunato. Nessuno aveva sentito gli spari. Ma, per loro natura, la fortuna e il tempo si esauriscono e, anche se il mio orologio conteneva un microchip al posto di una molla, avrei giurato di sentirlo ticchettare. Anche Orson era nervoso e annusava intensamente l'aria in cerca di scimmie o di altri esseri minacciosi. Mi portai verso la parte posteriore dell'auto e premetti sul pulsante che apriva il bagagliaio. Come temevo, era chiuso a chiave. Tic, tic, tic. Facendomi forza, tornai alla portiera anteriore che avevo lasciato spalancata. Inspirai profondamente, trattenni il respiro e mi sporsi all'interno. Il corpo contorto di Stevenson aveva la testa rovesciata all'indietro e appoggiata contro lo stipite della portiera. La bocca era aperta in una specie di gemito di estasi e i denti erano ricoperti di sangue, come se avesse finalmente realizzato i suoi sogni e stesse mordendo una delle bambine. Attratta dal lieve spostamento d'aria, un velo di nebbia galleggiò verso di me; sembrava vapore emanato dal sangue ancora caldo che macchiava la parte anteriore della divisa del comandante. Per riuscire a spegnare il motore fui costretto a sporgermi più di quanto avessi voluto, posando un ginocchio sul sedile del passeggero. Gli occhi di Stevenson, simili a olive nere, erano aperti. Non vi scorsi alcuno scintillio di vita, né bagliori innaturali, tuttavia mi aspettavo di vederli ammiccare, mettere a fuoco le immagini e fissarsi su di me. Prima che la mano appiccicaticcia del comandante potesse afferrarmi, tolsi le chiavi dal cruscotto, retrocessi fino a uscire dall'auto e lasciai che l'aria esplodesse finalmente dai miei polmoni. Come previsto, nel bagagliaio trovai una cassetta di pronto soccorso, dalla quale presi soltanto un grosso rotolo di benda garzata e un paio di forbici. Mentre Orson pattugliava l'intero perimetro dell'auto, annusando dili-
gentemente l'aria, io srotolai la garza, ripiegandola più volte in modo che formasse una serie di anelli lunghi circa un metro e mezzo, poi la tagliai. Attoreigliai bene le strisce, annodandole poi all'estremità superiore, al centro e all'estremità inferiore. Dopo aver ripetuto l'operazione, unii i due gruppi di strisce con un ultimo nodo... ottenendo così una miccia lunga circa tre metri. Tic, tic, tic. Arrotolai la miccia e la posai sul marciapiede, poi aprii lo sportello del serbatoio e tolsi il tappo. Nell'aria si diffusero le esalazioni della benzina. Tornato al bagagliaio, riposi le forbici e quanto era rimasto del rotolo di garza nella cassetta di pronto soccorso. Chiusi prima la cassetta, poi il bagagliaio. Il parcheggio continuava a essere deserto. Gli unici rumori erano quelli delle gocce di nebbia condensata che cadevano sull'auto della polizia e quelli dei passi felpati di un Orson piuttosto inquieto. Inserii nuovamente le chiavi nel cruscotto, anche se questo comportò un altro incontro ravvicinato con il cadavere di Stevenson. Avevo visto alla televisione diversi episodi delle serie poliziesche più famose e sapevo quanto fosse facile anche per il più diabolico dei criminali farsi incastrare da un abile investigatore della squadra omicidi. O da una scrittrice di gialli che risolve i casi più difficili solo per hobby. Oppure da un'insegnante, rimasta zitella e ormai in pensione. Il tutto tra l'iniziale elenco dei personaggi e, in chiusura, la pubblicità di un deodorante vaginale. Intendevo dar loro... sia ai professionisti, sia alle dilettanti ficcanaso... veramente il minimo su cui poter lavorare. Il morto gracchiò verso di me, quando, nel suo esofago, scoppiò una bolla di gas. «Prendi un digestivo», gli consigliai, cercando inutilmente di fare dell'umorismo per scaricare la tensione. Sul sedile anteriore, non vidi nemmeno uno dei quattro bossoli. Nonostante il plotone di investigatori dilettanti in attesa di avventarsi sull'auto e indipendentemente dal fatto che, una volta trovate le cartucce, sarebbero facilmente risaliti al tipo di pistola usata dall'assassino, decisi che non avevo il sangue freddo per mettermi a cercare sul fondo, specialmente sotto le gambe di Stevenson. In ogni caso, anche se avessi trovato le cartucce, c'era sempre un proiettile conficcato nel corpo. Se non si era eccessivamente distorto, quel pezzetto di piombo avrebbe presentato delle rigature che potevano essere fatte
combaciare con quelle dell'anima della mia pistola; ma nemmeno la prospettiva della prigione mi convinse a estrarre la mia torcia a stilo e a eseguire un'operazione chirurgica esploratoria per recuperare il proiettile in questione. Ma anche se avessi avuto il fegato di compiere un'autopsia improvvisata, non mi sarei comunque arrischiato a farla. Supponendo che il radicale cambiamento di personalità di Stevenson e la sua insolita sete di violenza non fossero che un sintomo della strana malattia di cui era portatore e supponendo che questa infezione potesse trasmettersi attraverso il contatto con tessuti infetti e fluidi corporei, era impensabile compiere un'operazione di quel genere; anche per questo motivo ero stato ben attento a non sporcarmi con il sangue delle ferite. Quando il comandante mi aveva raccontato dei suoi sogni di stupri e mutilazioni, mi ero sentito disgustato al pensiero di inspirare l'aria che lui aveva espirato. Ma avevo seri dubbi sul fatto che la malattia fosse trasmissibile attraverso le vie respiratorie. Se fosse stata così contagiosa, a quest'ora Moonlight Bay non sarebbe stata lanciata a tutta velocità verso l'inferno, come aveva asserito Stevenson; ci sarebbe già arrivata da un pezzo. Tic, tic, tic. Secondo l'indicatore del livello di carburante sul cruscotto, il serbatoio doveva essere quasi pieno. Bene. Perfetto. Solo qualche ora prima, a casa di Angela, il branco di scimmie mi aveva insegnato come distruggere le prove e nascondere un omicidio. L'incendio avrebbe dovuto essere così violento che le quattro cartucce d'ottone, la carrozzeria di lamiera dell'auto e perfino alcune parti del telaio si sarebbero certamente fuse. Del defunto Lewis Stevenson non sarebbero rimaste che poche ossa carbonizzate e il duttile proiettile di piombo si sarebbe sciolto completamente. Di certo, non sarebbe rimasta traccia delle mie impronte, dei capelli o delle fibre degli indumenti. C'era un altro proiettile, quello che aveva trapassato il collo di Stevenson e mandato in frantumi il finestrino alle sue spalle. Ora si trovava in qualche punto del parcheggio oppure, con un po' di fortuna, era sprofondato nel terreno ricoperto di edera della salita che, dall'estremità del parcheggio, conduceva all'Embarcadero Way; e là dentro sarebbe stato impossibile ritrovarlo. Il mio giubbotto presentava alcune bruciature, provocate dalla polvere da sparo, che avrebbero potuto incriminarmi. Avrei dovuto distruggerlo. Ma non potevo. Ero affezionato a quel giubbotto. Era troppo bello. E il foro del proiettile nella tasca lo rendeva ancora più bello.
«Devo pur dare qualche possibilità a quelle insegnanti zitelle», borbottai mentre chiudevo le portiere dell'auto. La breve risata che mi sfuggì era così fredda e priva di allegria che mi spaventò quasi quanto la possibilità di finire in prigione. Estrassi il caricatore della Glock e, dopo aver tolto un proiettile... ne restavano sei, con un colpo secco lo inserii nuovamente nella pistola. Orson guaì impaziente e afferrò un'estremità della miccia con la bocca. «Sì, sì, sì», dissi... poi gli lanciai una seconda occhiata. Era possibile che il cane avesse afferrato la miccia unicamente perché lo incuriosiva, e si sa che i cani sono curiosi. Buffo questo rotolo bianco. Come un serpente, serpente, serpente... ma non un serpente. Interessante. Interessante. C'è sopra l'odore di Padron Snow. Forse è buono da mangiare. Quasi tutto può essere buono da mangiare. Solo perché Orson aveva afferrato la miccia e guaiva con impazienza, non significava che capisse a che cosa doveva servire né quali fossero le mie intenzioni. Il suo interesse e il suo strano tempismo nel dimostrarlo, potevano essere una pura coincidenza. Sì. Certo. Come erano una pura coincidenza i fuochi d'artificio il Giorno dell'Indipendenza. Con il cuore che martellava, temendo di essere scoperto da un momento all'altro, presi la miccia arrotolata dalla bocca di Orson e annodai con cura il proiettile a una delle estremità. Il cane mi osservava attentamente. «Che cosa ne dici del nodo? Va bene?» domandai, «o preferisci farlo tu?» Avvicinandomi allo sportello del serbatoio, vi infilai il proiettile. Il suo peso trascinò tutta la miccia verso il fondo. La garza avrebbe immediatamente assorbito la benzina come uno stoppino. Orson correva nervosamente in cerchio: Presto, presto. Presto, svelto. Svelto, svelto, svelto Padron Snow. Lasciai fuori del serbatoio quasi un metro e mezzo di miccia. Penzolava lungo il fianco dell'auto e finiva sul marciapiedi. Dopo essere andato a prendere la bicicletta, che avevo appoggiato contro il tronco dell'albero d'alloro, mi chinai in avanti e accesi l'estremità della miccia con il mio accendino a gas. Sebbene la parte di garza rimasta fuori del serbatoio non fosse imbevuta di petrolio, la stoffa cominciò a bruciare più velocemente di quanto mi fossi aspettato. Troppo velocemente.
Inforcai la bicicletta e cominciai a pedalare come se tutti gli avvocati dell'inferno e alcuni demoni di questa terra mi inseguissero da vicino, cosa che probabilmente stavano facendo. Con Orson che correva al mio fianco, attraversai come un fulmine il parcheggio, fino alla rampa d'uscita e sull'Embarcadero Way, che era deserta, dirigendomi poi verso sud, passando davanti ai ristoranti dalle saracinesche abbassate e ai negozi che costeggiavano il lungomare. L'esplosione arrivò troppo presto, un rumore sordo e compatto, molto meno forte di quello che mi sarei aspettato. Tutt'intorno e perfino davanti a me si diffuse una luce arancione; il bagliore iniziale dell'esplosione venne rifratto a notevole distanza dalla nebbia. Con una manovra spericolata strinsi il freno a mano, curvai di centottanta gradi e, bloccandomi con un piede sull'asfalto, mi voltai a guardare. Non si vedeva granché: un nucleo di intensa luce bianco-giallastra circondato da pennacchi arancioni, il tutto sfumato dalla densa nebbia. L'immagine peggiore non fu quella che vidi davanti ai miei occhi, ma quella che si formò dentro la mia testa: il viso di Lewis Stevenson formava delle bolle, fumava ed era rigato da rivoli di grasso bianco e bollente, simile a fette di pancetta in una padella. «Buon Dio», mormorai con una voce così stridula e nervosa, che io stesso non la riconobbi. Tuttavia, non avevo avuto altra scelta che accendere quella miccia. Di certo i poliziotti avrebbero compreso che Stevenson era stato ucciso, ma ormai ogni prova del delitto era stata cancellata. Facendo cigolare la catena della bici, condussi il mio complice canino fuori del porto, attraverso un labirinto di stradine e vicoli, inoltrandomi sempre di più nel cuore oscuro e sommerso di Moonlight Bay. Nonostante il peso della Glock in tasca, il mio giubbotto di cuoio, che tenevo aperto, sbatteva come un mantello, e io, adesso con più di un motivo per evitare la luce, volavo via, quasi invisibile, un'ombra liquida attraverso le ombre, come se fossi il leggendario fantasma fuggito, su due ruote, dai sotterranei del teatro dell'opera e deciso a terrorizzare il mondo. Il fatto che fossi capace di rappresentarmi in modo così romantico immediatamente dopo aver commesso un omicidio non depone certo a mio favore. A mia difesa, posso soltanto dire che quel rimaneggiare gli eventi facendoli apparire come un'avventura, di cui ero il protagonista, rappresentava solo un disperato tentativo di controllare la mia paura e, soprattutto, di
cancellare il ricordo della sparatoria. Avevo anche bisogno di eliminare dalla mia mente le spaventose immagini del corpo di Stevenson che bruciava, immagini che la mia fervida fantasia continuava a produrre, simili a fantasmi che balzavano improvvisamente fuori dalle scure pareti di una galleria dell'orrore di un luna-park. Tuttavia, il mio precario tentativo di romanticizzare l'accaduto durò soltanto finché raggiunsi il vicolo che costeggiava il retro del Grand Theater, a un mezzo isolato di distanza da Ocean Avenue, dove la luce di una lampada di sicurezza incrostata di sudiciume dava alla nebbia un colore marrone e la faceva sembrare inquinata. Mi fermai, scesi rapidamente dalla bicicletta, che lasciai cadere a terra con un rumoroso sferragliare di ruote, poi mi appoggiai a un cassonetto e vomitai quanto non avevo ancora digerito della cena di mezzanotte con Bobby Halloway. Avevo ucciso un uomo. Indubbiamente, la vittima aveva meritato di morire. E prima o poi, con una scusa o con un'altra, Lewis Stevenson avrebbe ammazzato me, indipendentemente dall'intenzione dei suoi compari di riservarmi un trattamento di favore; soprattutto, avevo agito per legittima difesa. E per salvare la vita di Orson. Nondimeno, avevo ucciso un essere umano; nemmeno le circostanze in cui ciò era avvenuto potevano modificare l'atto in sé. Lo sguardo vuoto e oscurato dalla morte del comandante mi perseguitava. La sua bocca, aperta in un urlo muto, i denti insanguinati. La memoria richiama facilmente le immagini; molto più difficili da rievocare sono i sapori, i suoni e le sensazioni tattili, ed è praticamente impossibile percepire un profumo unicamente cercandolo nella nostra memoria. Tuttavia, poco prima avevo ricordato la fragranza dello shampoo di mia madre e ora sentivo l'odore metallico del sangue di Stevenson in modo così intenso, che dovetti restare aggrappato al cassonetto dei rifiuti come se fosse il parapetto di una nave che straorzava. Quello che mi lasciava sconvolto non era solo il fatto di aver ucciso un uomo, ma di avere anche distrutto il cadavere e tutte le prove della mia colpevolezza con notevole efficienza e autocontrollo. Evidentemente avevo un talento per la vita da criminale. Mi sentivo come se le tenebre nelle quali avevo vissuto per ventotto anni fossero penetrate in me, installandosi in una parte del mio cuore fino ad allora rimasta sconosciuta. Con lo stomaco più libero, ma continuando a stare male, risalii sulla bicicletta e condussi Orson attraverso una serie di stradine secondarie, rag-
giungendo infine la Shell di Caldecott, all'angolo fra San Rafael Avenue e Palm Street. La stazione di servizio era chiusa. La sola luce che filtrava dall'interno era quella del neon azzurrino di un orologio appeso alla parete dell'ufficio vendite, mentre l'unica illuminazione esterna proveniva dalla macchina distributrice di bibite. Acquistai una lattina di Pepsi per liberarmi del gusto acido che avevo in bocca. Mi avvicinai all'area di rifornimento, aprii il rubinetto dell'acqua e attesi che Orson finisse di bere. «Che cane incredibilmente fortunato sei ad avere un padrone così premuroso», gli dissi. «Che si preoccupa sempre di farti bere, di farti mangiare, di lavarti. Sempre pronto ad ammazzare chiunque alzi un dito su di te.» Sollevò il muso, rivolgendomi uno sguardo penetrante che mi lasciò sconcertato. Poi mi leccò una mano. «Gratitudine accettata.» Riprese a bere e, quando finì, si scrollò l'acqua dal muso bagnato. Mentre chiudevo il rubinetto, domandai: «Sinceramente, dove ti ha trovato la mamma?» Mi fissò nuovamente negli occhi. «Quali segreti nascondeva mia madre?» Sostenne il mio sguardo. Conosceva le risposte. Solo che non voleva parlare. 27 Suppongo che Dio potrebbe davvero fermarsi a oziare nella chiesa di Santa Bernadette, suonando una nuvola a forma di chitarra, accompagnato da un gruppo di angeli, oppure giocando partite mentali di scacchi. Potrebbe trovarsi là dentro, avere assunto una forma che noi non riusciamo a vedere ed essere intento a tracciare mappe di nuovi universi, nei quali problemi come l'odio e l'ignoranza, il cancro e il piede dell'atleta vengono eliminati già in fase di progettazione. Potrebbe galleggiare al di sopra dei banchi di quercia lucidata, come in una piscina piena non di acqua ma di nuvole d'incenso e umili preghiere, andando a sbattere silenziosamente contro le colonne e gli angoli del soffitto della cattedrale, immerso nelle sue inconoscibili meditazioni, aspettando i parrocchiani che, bisognosi d'aiuto, si rivolgono a Lui perché risolva i loro problemi. Sono certo, tuttavia, che quella notte Dio si teneva ben lontano dalla canonica adiacente alla chiesa, che superai pedalando in fretta perché mi fa-
ceva venire i brividi. Lo stile della casa in pietra a due piani era identico a quello della chiesa, ovvero un normanno modificato, le cui linee erano state sufficientemente ammorbidile per adattarlo meglio al più mite clima californiano. Le tegole sovrapposte di ardesia nera che formavano il tetto spiovente, in quel momento umido di nebbia, erano spesse come le scaglie di un drago dalle sopracciglia sporgenti e, al di là degli occhi neri e vuoti delle finestre... inclusi quelli che si aprivano su ciascun lato della porta d'ingresso... si estendeva un regno senz'anima. Prima d'allora, la canonica non mi era mai apparsa come un luogo sinistro e sapevo che ora la guardavo in modo diverso unicamente per via della scena tra Jesse Pinn e padre Tom, alla quale avevo assistito nel sotterraneo della chiesa. Pedalai oltre la canonica e la chiesa, inoltrandomi nel cimitero, sotto le querce e fra le tombe. Noah Joseph James, l'uomo vissuto novantasei anni, rimase in silenzio come sempre quando lo salutai e appoggiai la bicicletta contro la sua lapide. Staccai dalla cintura il telefono cellulare e composi il numero della linea privata, e non in elenco, che mi metteva direttamente in comunicazione con lo studio della KBAY. Il telefono squillò quattro volte prima che Sasha sollevasse il ricevitore, ma sapevo che all'interno della cabina non si era sentito alcun suono; Sasha era stata avvertita della chiamata in arrivo dal lampeggiare di una luce azzurra posta sulla parete di fronte a lei. Rispose premendo un tasto di attesa e, mentre aspettavo, potei ascoltare il suo programma attraverso la linea telefonica. Orson ricominciò ad annusare le tracce lasciate dagli scoiattoli. Forme indistinte di nebbia scivolavano fra le tombe come spiriti smarriti. Ascoltai Sasha che mandava in onda un paio di annunci «ciambella» da venti secondi l'uno; contrariamente a quanto si potrebbe credere, questi non sono spot durante i quali si fa la pubblicità delle ciambelle, bensì spazi con un inizio e una fine preregistrati, e una parte centrale vuota nella quale viene inserita una voce dal vivo. Terminata la pubblicità, e dopo aver fatto quattro chiacchiere sulla carriera di Elton John, Sasha continuò a parlare con la sua voce di seta sulle prime sei battute di Japanese Hands. Evidentemente il festival di Chris Isaak era finito. Cogliendomi di sorpresa, disse: «Sto mandando un pezzo dopo l'altro, tesoro, quindi hai solo cinque minuti». «Come facevi a sapere che ero io?» «Non sono in molti ad avere questo numero e, a quest'ora, stanno quasi tutti dormendo. Oltretutto, ho un intuito speciale che mi avvisa quando si
tratta di te. Nel momento stesso in cui ho visto lampeggiare la luce del telefono, le mie parti basse hanno cominciato a fremere.» «Le parti basse?» «Sì, quelle femminili. Ho una gran voglia di vederti, Uomo delle Nevi.» «Vederci va bene, ma quello è solo l'inizio. Ascolta, chi altri lavora con te stanotte?» «Doogie Sassman.» Era il collega che si occupava della regia tecnica. «Siete voi due da soli?» domandai preoccupato. «All'improvviso mi diventi geloso? Che tesoro. Ma non devi preoccuparti. Non sono all'altezza delle donne di Doogie.» Quando Doogie non era appollaiato su uno sgabello, davanti a una console, trascorreva la maggior parte del tempo con le gambe massicce intorno a una Harley-Davidson. Era alto meno di un metro e ottanta e pesava quasi centoquaranta chili. La sua selvaggia chioma bionda e la barba riccioluta erano così morbide e folte da far venire voglia di coccolarlo, e il murale colorato che gli ricopriva praticamente ogni centimetro di pelle del torace e delle braccia doveva aver consentito a qualche artista del tatuaggio di far studiare il proprio figlio fino alla laurea. Tuttavia Sasha non scherzava completamente quando diceva di non essere all'altezza delle sue donne. Doogie esercitava un fascino incredibile sul sesso opposto. Da quando lo conoscevo, cioè da sei anni, aveva avuto quattro relazioni e ognuna delle ragazze in questione era talmente bella che, se si fosse presentata alla cerimonia per la consegna degli Oscar in jeans, camicia di flanella e senza un filo di trucco, avrebbe comunque eclissato qualsiasi stellina presente alla serata. Bobby dice che Doogie Sassman (a scelta): ha venduto l'anima al diavolo, è il padrone segreto dell'universo, le dimensioni dei suoi genitali sono assolutamente incredibili, produce feromoni sessuali che attraggono più della forza di gravita. Ero contento che Doogie stesse facendo il turno di notte alla radio, perché indubbiamente era un tipo molto più deciso rispetto agli altri tecnici. «Pensavo che ci fosse qualcun altro, oltre a voi due», spiegai. Sasha sapeva che non ero geloso di Doogie e percepì il tono preoccupato della mia voce. «Lo sai che hanno dovuto dare un giro di vite da quando Fort Wyvern è stato chiuso e noi abbiamo perso il pubblico notturno della base militare. Anche con il personale ridotto all'osso, come in questa trasmissione, riusciamo a malapena a pagare le spese. Ma che cosa succede, Chris?»
«Tenete sempre chiuse le porte dello studio, vero?» «Certo. Tutti noi disc-jockey notturni dobbiamo rispettare le norme di sicurezza.» «Anche se te andrai dopo l'alba, promettimi che chiederai a Doogie o a qualcun altro del turno diurno di accompagnarti fino all'Explorer.» «Chi è scappato... Dracula?» «Promettimelo.» «Chris, che diavolo...» «Te lo dico dopo. Tu promettimelo», ripetei. Sospirò. «Va bene. Ti trovi forse in qualche guaio? Stai...» «Io sto bene, Sasha. Davvero. Non ti preoccupare. Solo, accidenti, promettimelo.» «Ma te l'ho già promesso...» «Non hai detto la parola.» «Oh, Gesù. Okay. D'accordo. Te lo prometto. Giuro. Che mi venga un accidenti se non mantengo la parola. Però, dopo, mi dovrai raccontare una storia davvero interessante, da farmi venire i brividi, come quelle che sentivo quando ero una scout e alla sera ci riunivamo intorno al fuoco. Ti troverò a casa mia ad aspettarmi?» «Indosserai la divisa da scout?» «L'unica cosa che posso trovare di simile sono i calzettoni.» «È sufficiente.» «Ti eccita un'immagine del genere, vero?» «Sto fremendo.» «Sei davvero un ragazzaccio, Christopher Snow.» «Hai ragione, sono un assassino.» «Ci vediamo fra un po', assassino.» Conclusa la telefonata, riappesi il cellulare alla cintura. Per un momento mi soffermai ad ascoltare il silenzio del cimitero. Non c'erano usignoli che cantavano e anche i rondoni erano andati a dormire. I vermi dovevano invece essere svegli e impegnati nel loro lavoro, che però svolgono sempre in rispettoso silenzio. Rivolgendomi a Orson, dissi: «Sento di aver bisogno di un consiglio spirituale. Facciamo una visitina a padre Tom». Mentre attraversavo a piedi il cimitero, dirigendomi verso il retro della chiesa, estrassi la Glock dalla tasca del giubbotto. In una città in cui il comandante della polizia sognava di picchiare e torturare bambine e gli impresari delle pompe funebri tenevano pistole sotto la giacca, non potevo
dare per scontato che il prete fosse armato unicamente della parola di Dio. Dalla strada, la canonica mi era sembrata immersa nel buio, ma quando raggiunsi il giardino posteriore, mi accorsi che le finestre di una stanza al piano superiore erano accese. Dopo la terribile scena alla quale avevo assistito nel sotterraneo della chiesa, nascosto dietro un angelo del presepio, non c'era da sorprendersi se il parroco di Santa Bernadette non riusciva a dormire. Nonostante fossero quasi le tre del mattino, e fossero trascorse quattro ore dalla visita di Jesse Pinn, evidentemente padre Tom era ancora troppo scosso per spegnere le luci. «Cammina come un gatto», sussurrai a Orson. In punta di piedi, salimmo alcuni gradini di pietra e avanzammo il più silenziosamente possibile sul pavimento di legno della veranda. Provai ad aprire la porta, ma era chiusa a chiave. Avevo sperato che un uomo di Dio si fidasse più del suo Creatore che di una serratura. Non avevo alcuna intenzione di bussare né di girare intorno alla casa per andare a suonare il campanello. Con un omicidio sulla coscienza, non mi sembrava proprio il caso di farsi prendere dagli scrupoli all'idea di introdursi di nascosto in una casa. Naturalmente speravo di non dover rompere qualche finestra, perché il rumore di vetri in frantumi avrebbe messo in allarme il prete. Al piano terreno della casa, quattro finestre a ghigliottina si affacciavano sulla veranda. Le provai a una a una; la terza non era bloccata. Fui costretto a infilare nuovamente la Glock in tasca, perché il legno della finestra si era gonfiato per l'umidità e non scorreva bene nell'intelaiatura. Dovetti spingere con entrambe le mani per sollevare la parte inferiore, prima spingendo il listello rompitratta orizzontale, poi piegando le dita sotto il traverso inferiore del telaio. Scivolò verso l'alto stridendo e cigolando in modo abbastanza sinistro da creare un'atmosfera da film dell'orrore. Orson soffiò come se volesse dimostrare tutto il suo disprezzo per uno scassinatore così maldestro. Aspettai fino a quando fui certo che il rumore non era stato udito al piano superiore, poi scivolai attraverso la finestra aperta, introducendomi in una stanza nera come la borsa di una strega. «Forza, amico», sussurrai; non avevo alcuna intenzione di lasciarlo là fuori, tutto solo, senza un'arma con cui difendersi. Orson entrò con un balzo e io richiusi la finestra il più silenziosamente
possibile. Per sicurezza, la bloccai dall'interno. Anche se ero convinto che nessuno, membro del branco di scimmie o altro, ci stesse osservando, non volevo nemmeno facilitare le cose a chiunque avesse voluto seguirci nella canonica. Una rapida perlustrazione alla luce della mia minuscola torcia mostrò che ci trovavamo in una sala da pranzo. Due porte, una alla mia destra, l'altra nella parete opposta alle finestre, conducevano fuori della stanza. Spensi la torcia, estrassi nuovamente la Glock e aprii la porta più vicina. Si affacciava sulla cucina. Le cifre luminose degli orologi digitali incassati nei due forni elettrici e in quello a microonde gettavano abbastanza luce da permettermi di attraversare la stanza e varcare la porta che dava sul corridoio, senza andare a sbattere contro il frigorifero e la cucina posta al centro del locale. Il corridoio, lungo il quale si aprivano numerose stanza buie, conduceva a un ingresso illuminato soltanto da una piccola candela. Su un tripode a forma di mezza luna, appoggiato a una parete, vi era una piccola edicola dedicata alla Madonna. Una candela votiva, protetta da una coppa di vetro rosso scuro, ardeva tremante nel centimetro di cera rimasto. Alla luce incostante della fiammella, il viso di Maria aveva più un'espressione di dolore che di beatitudine, quasi sapesse che l'uomo che viveva nella canonica aveva smesso di essere un soldato della fede ed era diventato un prigioniero della paura. Accompagnato da Orson, salii le due rampe di scale che conducevano al piano superiore. Il perfido mostro e il suo amico a quattro zampe. Il corridoio del primo piano formava una L e le scale terminavano proprio al punto di intersezione. Il tratto a sinistra era immerso nel buio. In fondo alla parte di corridoio che si trovava davanti a me, qualcuno aveva aperto una botola ritagliata nel soffitto e aveva abbassato una scala; in qualche angolo della soffitta doveva esserci una lampada accesa, ma attraverso la botola filtrava soltanto un vago chiarore. Una luce più forte proveniva da una porta aperta sulla destra. Avanzai lungo il corridoio e mi fermai sulla soglia, sbirciai con circospezione all'interno e vidi la camera di padre Tom, dall'arredamento spartano, con un crocifisso appeso sopra un semplice letto di pino scuro. Il prete non era lì; evidentemente doveva trovarsi nella soffitta. Il copriletto era stato tolto e le coperte apparivano ripiegate con cura, ma le lenzuola non erano state toccate. Le lampade sui comodini erano entrambe accese, il che rendeva la stanza troppo illuminata per me, ma il mio sguardo venne attratto da una scri-
vania rivolta verso la parete, in fondo alla stanza. Sotto una lampada da tavolo in bronzo, dal paralume di vetro verde, scorsi un quaderno aperto e una penna. Il quaderno aveva tutta l'aria di essere un diario. Alle mie spalle, Orson ringhiò a voce bassa. Mi voltai e vidi che si era fermato sotto la scala a pioli e fissava con aria diffidente verso la soffitta che si apriva al di là della botola. Quando si voltò a guardarmi, gli feci cenno di tacere portando un dito alle labbra, poi gli indicai di avvicinarsi. Invece di arrampicarsi su per la scala a pioli come un cane da circo, Orson mi raggiunse. Almeno per il momento, sembrava ancora divertirsi all'idea, per lui del tutto nuova, di essere un cane obbediente. Ero certo che, scendendo dalla soffitta, padre Tom avrebbe fatto abbastanza rumore da mettermi in allarme prima del suo arrivo. Nondimeno, lasciai Orson sull'uscio della camera, così da poter avere una buona visuale della scala a pioli. Con il viso girato per proteggermi dalla luce, oltrepassai il letto e, mentre mi dirigevo verso la scrivania, lanciai un'occhiata al bagno adiacente. Non c'era nessuno. Sulla scrivania, oltre al diario, vi era una caraffa piena di quello che mi parve scotch. Accanto alla caraffa, un grosso bicchiere pieno per tre quarti del liquido dorato. Il prete lo aveva sorseggiato liscio. Niente ghiaccio. O forse non lo aveva soltanto sorseggiato. Sollevai il diario. La calligafia di padre Tom era nitida e precisa come fosse stampata da una macchina. Mi portai nella zona più in ombra della stanza, perché i miei occhi non avevano bisogno di molta luce per leggere, e diedi una rapida scorsa all'ultimo paragrafo della pagina, che si riferiva a sua sorella. Aveva smesso di scrivere lasciando la frase a metà: Quando arriverà la fine, potrei non essere in grado di salvarmi. So che non potrò salvare Laura perché, fondamentalmente, non è più quella che era. Se ne è già andata. Di lei non rimane molto più che il suo guscio esterno... e forse anche quello è cambiato. O Dio, in qualche modo, ha già accolto la sua anima, lasciando che nel corpo risiedesse l'essere in cui si è trasformata... oppure l'ha abbandonata. E quindi abbandonerà tutti noi. Credo nella misericordia di Cristo. Credo nella misericordia di Cristo. Credo perché non ho altro per cui vivere. E se credo, allora devo vivere secondo la mia fede e salvare tutti quelli che posso. Se non sono in grado di salvare me stesso e nemmeno Laura, quanto meno posso soccorrere queste
infelici creature che si rivolgono a me per essere liberate dal tormento e dal controllo. Jesse Pinn, o coloro da cui riceve gli ordini, possono uccidere Laura, ma quella non è più Laura, Laura si è smarrita ormai da molto tempo, e io non posso lasciarmi fermare dalle loro minacce. Forse mi uccideranno, ma fino a quel Orson era sempre fermo sull'uscio della porta e teneva d'occhio il corridoio. Andai alla prima pagina del diario e vidi che era datata 1° gennaio di quell'anno: Sono più di nove mesi che Laura è prigioniera e ormai ho perso la speranza di rivederla. Ma anche se ne avessi la possibilità, forse rifiuterei, che Dio mi perdoni, perché avrei troppa paura di vedere quello che potrebbe essere diventata. Ogni sera prego la Vergine Maria di intercedere presso suo Figlio affinchè tolga Laura dalle sofferenze di questo mondo. Per avere un'idea precisa della situazione e delle condizioni di sua sorella avrei dovuto trovare il diario o i diari precedenti, ma non avevo tempo di cercarli. Nella soffitta, qualcosa cadde con un tonfo. Rimasi immobile, con lo sguardo rivolto verso l'alto, in ascolto. Sull'uscio, Orson rizzò un orecchio. Quando, passato circa mezzo minuto, non si udirono altri rumori, tornai a concentrarmi sul diario. Con la sensazione che il tempo disponibile stesse per finire, cominciai a sfogliare in fretta il diario, leggendo alcuni brani a caso. Una buona parte del contenuto riguardava i dubbi teologici e i tormenti del prete. Combatteva quotidianamente per ricordare a se stesso... per convincersi, per supplicare se stesso di ricordare... che la fede lo aveva sostenuto per tanto tempo e che sarebbe stato completamente perso se, in questo momento di crisi, non si fosse tenuto saldamente stretto alla fede. Queste erano pagine tristi che avrebbero potuto rappresentare una lettura interessante, perché offrivano il ritratto di una mente tormentata, ma non rivelavano nulla riguardo al progetto segreto di Wyvern e alla malattia che aveva contagiato Moonlight Bay. Di conseguenza, passai oltre senza soffermarmi troppo a lungo. Trovai una pagina, e poi anche altre, in cui la calligrafia precisa di padre Tom appariva talmente trasformata da essere poco più che uno scaraboc-
chio. Questi passaggi erano incoerenti, deliranti e paranoici, e io mi convinsi che doveva averli scritti dopo essersi scolato abbastanza scotch da cominciare a farfugliare. Più inquietante era un'annotazione datata 5 febbraio, tre pagine in cui l'elegante calligrafia appariva ossessivamente precisa: Credo nella misericordia di Cristo. Credo nella misericordia di Cristo. Credo nella misericordia di Cristo. Credo nella misericordia di Cristo. Credo nella misericordia di Cristo... Quelle cinque parole erano ripetute riga dopo riga, per circa duecento volte. Non una appariva scritta frettolosamente; ogni frase era inserita nella pagina con tanta meticolosità che nemmeno con un timbro si sarebbe riusciti a ottenere un risultato così uniforme. Esaminando queste pagine, percepivo la disperazione e il terrore che il prete aveva provato quando le aveva scritte, come se le sue tumultuose emozioni fossero state riversate sulla carta insieme con l'inchiostro, così che da essa potessero sprigionarsi per sempre. Credo nella misericordia di Cristo. Quale episodio, avvenuto il 5 di febbraio, aveva portato padre Tom sull'orlo di un abisso emotivo e spirituale? Che cosa aveva visto? Mi domandai se non avesse scritto quella specie di formula magica, intensa ma disperata, dopo aver avuto un incubo simile ai sogni di stupro e mutilazioni che aveva perseguitato, e ultimamente deliziato, Lewis Stevenson. Continuando a sfogliare il diario, trovai un'interessante osservazione datata 11 di febbraio. Era sepolta in mezzo a un lungo, tormentato passaggio nel quale il prete discuteva con se stesso sull'esistenza e la natura di Dio, interpretando sia il ruolo dello scettico, sia quello del credente, e sarei passato oltre se non mi fosse caduto l'occhio sulla parola branco. Questo nuovo branco, che mi sono impegnato a liberare, offre qualche speranza, perché rappresenta l'antitesi del branco originale. Non vi è malvagità in queste nuove creature, né sete di violenza, né rabbia... Un grido disperato proveniente dalla soffitta distolse la mia attenzione dal diario. Era un gemito di paura e di dolore, così spaventoso e patetico che, nella mia mente, il terrore risonò come il tocco di un gong, unitamente a una nota di pietà. La voce sembrava quella di un bambino, di tre o quat-
tro anni, smarrito, spaventato e veramente disperato. Orson era rimasto così colpito da quel grido, che uscì rapidamente dalla camera e si inoltrò nel corridoio. Il diario del prete era troppo grande per le tasche del giubbotto, quindi lo infilai nella cintura dei jeans, proprio sopra le reni. Quando uscii nel corridoio, trovai Orson nuovamente ai piedi della scala a pioli, che fissava le ombre e la fioca luce provenienti dalla soffitta. Voltò verso di me i suoi occhi espressivi e, se avesse potuto parlare, ero certo che mi avrebbe detto: dobbiamo fare qualcosa. Questo strano cane, non solo racchiude un'enorme quantità di misteri, non solo mostra di essere dotato di un'intelligenza superiore rispetto a quella che un cane dovrebbe possedere, ma spesso sembra avere un senso di responsabilità morale ben definito. Prima degli episodi qui descritti, a volte mi ero domandato, tra il serio e il faceto, se la reincarnazione potesse essere qualcosa di più che una semplice superstizione, perché non avevo difficoltà a immaginare Orson nelle vesti di un insegnante particolarmente impegnato o un integerrimo poliziotto, o anche in quelle di una suorina, tutte attività che poteva aver svolto in una vita precedente, mentre adesso era rinato con un fisico di dimensioni ridotte, peloso e con la coda. Naturalmente simili congetture mi hanno da tempo reso il candidato ideale al premio Pia Klick per i risultati eccezionali ottenuti nel campo delle ipotesi più stupide. La cosa buffa è che le origini di Orson, come ben presto avrei avuto modo di scoprire, anche se non soprannaturali, si sarebbero rivelate ancor più straordinarie di quelle che Pia Klick e io, con tutta la nostra fantasia messa insieme, saremmo riusciti a immaginare. Da sopra le nostre teste giunse un secondo grido e Orson emise un guaito di disperazione talmente flebile che di sicuro non raggiunse la soffitta. Ancor più della prima volta, il lamento sembrò quello di un bambino piccolo. Immediatamente dopo si udì un'altra voce, troppo bassa per distinguerne le parole. Sebbene fossi convinto che appartenesse a padre Tom, mi era impossibile capire se il tono fosse di conforto o di minaccia. 28 Se avessi dato retta al mio istinto, sarei immediatamente fuggito dalla canonica, me ne sarei tornato a casa e, dopo aver preparato una tazza di tè e spalmato marmellata al limone sui biscotti, mi sarei messo a guardare
una cassetta di Jackie Chan e avrei trascorso le due ore successive sdraiato sul divano, con una coperta sulle ginocchia, lasciando sbollire la mia curiosità. Ma siccome l'orgoglio mi impediva di ammettere che avevo un senso di responsabilità morale inferiore di quello del mio cane, indicai a Orson di farsi da parte e aspettarmi. Poi mi arrampicai sulla scala a pioli con la Glock stretta nella destra e il diario di padre Tom che premeva fastidiosamente contro le reni. Come un corvo che sbatte freneticamente le ali contro una gabbia, nella mia mente si dibattevano le cupe immagini suscitate dalle descrizioni che Lewis Stevenson mi aveva fatto dei suoi sogni. Il comandante aveva parlato di fantasie concernenti ragazzine dell'età di sua nipote, ma il grido che avevo appena sentito sembrava quello di un bimbo molto più piccolo. Tuttavia, se il parroco di Santa Bernadette era prigioniero degli stessi incubi di Stevenson, non avevo alcun motivo di credere che limitasse la ricerca delle sue prede fra bambini dai dieci anni in su. Ormai quasi in cima alla scala, con una mano sul fragile corrimano, voltai il capo di lato per sbirciare verso il corridoio sottostante e vidi Orson che mi fissava. Non aveva cercato di seguirmi, proprio come gli avevo detto. Era quasi un'ora che mi obbediva, senza nemmeno commentare i miei ordini con un sarcastico sbuffo, né levando gli occhi al cielo. Questo lasso di tempo durante il quale era riuscito a contenersi rappresentava il suo record personale. Un record migliorato di almeno mezz'ora, una prestazione a livello olimpionico. Anche se ero convinto che avrei ricevuto un calcio in testa da un ecclesiastico stivale, nondimeno continuai a salire e raggiunsi la soffitta. Evidentemente ero stato abbastanza silenzioso da evitare di attrarre l'attenzione di padre Tom, perché non lo trovai pronto a spaccarmi le ossa del cranio con un calcio. La botola si apriva al centro di uno spazio vuoto che, da quel che potevo vedere, era circondato da un labirinto di cartoni di dimensioni varie, vecchi mobili e altri oggetti che non riuscii a identificare, il tutto accatastato fino a un'altezza di circa sei metri. La lampadina che pendeva proprio sopra la botola non era accesa e la luce proveniva da sinistra, dall'angolo a sudest, verso la facciata della casa. Emersi dalla botola restando accovacciato, anche se avrei potuto mettermi in posizione eretta perché il tetto spiovente in stile normanno lascia-
va ampio spazio sopra la mia testa. Non temevo di andare a sbattere contro una trave del soffitto, ma di ricevere una bastonata in testa, o un proiettile in mezzo agli occhi, oppure di essere pugnalato al cuore da un prete impazzito; per quanto possibile, cercavo quindi di non rappresentare un facile bersaglio. Se avessi potuto strisciare sulla pancia come un serpente, non sarei nemmeno rimasto accovacciato. L'aria umida sapeva di tempo distillato e imbottigliato: polvere, odore stantio di cartone vecchio, fragranza di legno segato, muffa e puzza di una piccola creatura morta, forse un uccellino o un topo, che imputridiva in un angolo buio. A sinistra della botola vi erano due varchi che permettevano di inoltrarsi nel labirinto, uno largo circa un metro e mezzo, l'altro meno di un metro. Presumendo che il varco più ampio offrisse la via più diretta per attraversare la soffitta e che, di conseguenza, fosse quello usato regolarmente dal prete per raggiungere il suo prigioniero, sempre che vi fosse un prigioniero, mi infilai silenziosamente nel passaggio più stretto. Preferivo cogliere di sorpresa padre Tom, piuttosto che imbattermi in lui svoltando un angolo del labirinto. Avanzavo tra due file di cartoni, alcuni dei quali legati con spago, altri assicurati con corda da imballaggio un po' sfilacciata, i cui fili mi sfioravano il viso come insetti. Camminavo lentamente, confuso dalle ombre e attento a non fare rumore andando a sbattere contro qualcosa. Raggiunsi una diramazione a forma di T, ma invece di proseguire immediatamente, restai un momento in ascolto, trattenendo il fiato: non udii nulla. Muovendomi con circospezione, mi sporsi fuori del corridoio dal quale arrivavo, mi guardai a destra e a sinistra e vidi un altro passaggio, sempre largo meno di un metro. Sulla sinistra, la luce che giungeva dall'angolo, ora mi appariva più intensa. A destra, l'oscurità era così fitta che non avrebbe permesso di scoprire i suoi segreti nemmeno ai miei occhi innamorati della notte ed ebbi l'impressione che un ostile abitante di queste tenebre mi stesse osservando da vicino, pronto ad aggredirmi. Ripetendomi che i troll vivono sotto i ponti, che gli gnomi cattivi abitano nelle caverne, che i gremlin si installano solo nei macchinari e che i goblin, essendo demoni, non sceglierebbero mai una canonica come residenza, svoltai a sinistra e mi inoltrai nel nuovo corridoio, lasciandomi alle spalle l'impenetrabile oscurità. In quel momento si levò un urlo stridulo e così agghiacciante che girai di
scatto su me stesso, puntando la pistola contro il buio, convinto che troll, gnomi cattivi, gremlin, goblin, fantasmi, zombi, nonché mutanti psicotici vestiti da chierichetti stessero per piombarmi addosso. Fortunatamente non premetti il grilletto, perché la mia temporanea follia passò e io mi resi conto che l'urlo proveniva sempre dalla stessa direzione di prima: la zona illuminata nell'angolo a sudest. Questo terzo grido, che aveva coperto il rumore da me provocato nel voltarmi ad affrontare l'immaginaria orda di nemici, doveva essere stato emesso dalla stessa creatura che aveva urlato le prime due volte, ma adesso, nella soffitta, il suono era diverso da quello udito dal corridoio sottostante. Prima di tutto, non mi sembrava più la voce di un bambino. Poi c'era qualcosa di molto inquietante: il tono era decisamente più alto, al limite della scala, come se diverse note, emesse contemporaneamente da uno strumento elettronico, fossero uscite da una gola umana. Pensai di fare dietrofront e di ripercorrere in senso inverso il tragitto verso la scala a pioli, ma ormai mi ero spinto troppo avanti. C'era ancora la possibilità, per quanto remota, che le grida che avevo sentito fossero quelle di un bambino in pericolo. Oltretutto, se mi fossi ritirato, il mio cane avrebbe capito che mi ero fatto prendere dal panico. Dato che era uno dei miei tre amici più cari, in un mondo in cui solo gli amici e la famiglia contano qualcosa, e dato che non avevo più una famiglia, attribuivo un grande valore alla stima che Orson aveva di me. Alla mia sinistra, le scatole lasciarono il posto ad alcune sedie di vimini, accatastate una sull'altra, a un'accozzaglia di cesti di vimini e canne, ricoperti di paglia o verniciati, a una vecchia toeletta con uno specchio ovale talmente sudicio che, della mia figura, non riuscì a riflettersi neppure la sagoma, a una serie di oggetti indefiniti, coperti da teli e, successivamente, ad altre scatole. Svoltai un angolo e finalmente udii la voce di padre Tom. Parlava dolcemente, come se volesse calmare qualcuno, ma non riuscivo a distinguere nemmeno una parola. Andai a finire contro una ragnatela, sobbalzai nel sentirla aderire al mio volto e strofinarsi sulla mia bocca come le labbra di uno spettro. Con la sinistra, mi ripulii le guance e la visiera del berretto dai fili. Aveva un sapore amarognolo di funghi. Con una smorfia di disgusto, cercai di sputarne i fili senza fare rumore. Sperando di riuscire ad apprendere qualcosa di nuovo, seguii la voce del
prete come avrei potuto seguire la musica del pifferaio magico. Da quando ero salito nella soffitta, avevo dovuto soffocare il bisogno di starnutire provocato dalla polvere mista a un odore di muffa, che sembrava giungere dal secolo precedente. Dopo un'altra svolta, imboccai un ultimo, breve tratto di corridoio. Circa due metri oltre la fine di questo stretto passaggio tra file di scatole, vi era la parte inferiore e assai spiovente del tetto, che scendeva tra il fianco orientale e la facciata della casa. Le travicelle, i sostegni, le travi orizzontali e la parte più bassa del rivestimento del tetto, al quale erano attaccate le tegole, erano illuminate da una luce giallastra che proveniva da destra, da un punto fuori della mia visuale. Mentre percorrevo in punta di piedi l'ultimo tratto di corridoio, sentivo chiaramente il leggero scricchiolio del pavimento di legno sotto i miei piedi. Non era più forte o più allarmante dei rumori di assestamento degli oggetti che normalmente salivano da quella specie di roccaforte, tuttavia avrebbe potuto tradire la mia presenza. La voce di padre Tom si fece più chiara, anche se riuscivo ad afferrare solo una parola su cinque. Udii un'altra voce, tremula e acuta. Sembrava quella di un bambino molto piccolo, e tuttavia non era una normale voce di bimbo. Non ne aveva la musicalità. Né l'innocenza. Non riuscivo ad afferrare ciò che diceva, ammesso che dicesse qualcosa. Più l'ascoltavo, più strana mi sembrava, tanto che alla fine mi fermai... anche se non osavo restare immobile a lungo. L'angusto passaggio che stavo percorrendo terminava in un corridoio esterno che costeggiava il lato orientale del labirinto. Con molta cautela, sporsi la testa e diedi una sbirciatina in questo lungo rettilineo. A sinistra vi era soltanto il buio, ma il tratto a destra conduceva all'angolo sudorientale dell'edificio, da dove ritenevo provenisse la luce e dove pensavo di trovare il prete e il suo disperato prigioniero. Evidentemente mi ero sbagliato, perché il chiarore giungeva da destra rispetto all'angolo, oltre la curva, lungo la parete a sud. Seguii questo corridoio largo circa due metri, tenendo le ginocchia leggermente piegate, non più per paura di essere colpito, ma per necessità, in quanto la parete alla mia sinistra era anche la base del tetto. Sulla destra, oltrepassai il buio ingresso di un altro passaggio, che si apriva tra file di scatole accatastate e mobili vecchi... poi mi bloccai a due passi dall'angolo: adesso solo un ultimo muro di oggetti mi separava dalla lampada. Improvvisamente, un'ombra contorta balzò da una travicella all'altra, poi
sul rivestimento interno del tetto che formava la parete davanti a me; un aguzzo strascicare di arti seghettati con un rigonfiamento tondeggiante al centro, così mostruoso da farmi quasi urlare di paura. Mi ritrovai a stringere la Glock con entrambe le mani. Poi mi resi conto che la spaventosa apparizione era soltanto l'ombra distorta di un ragno appeso a un serico filo di ragnatela. L'insetto doveva trovarsi così vicino alla fonte di luce che la sua immagine, enormemente ingrandita, veniva proiettata sulle superfici che si trovavano davanti a me. Per essere uno spietato assassino, avevo i nervi troppo scossi. Forse la colpa era della caffeina contenuta nella Pepsi che avevo bevuto per liberarmi dal gusto acido del vomito. La prossima volta che avessi ucciso qualcuno, mettendomi poi a vomitare, avrei fatto meglio a scegliere una bevanda senza caffeina e ad aggiungervi qualche goccia di Valium, così non avrei infangato la mia immagine di fredda ed efficiente macchina omicida. Non più spaventato dal ragno, mi resi conto che finalmente riuscivo a sentire la voce del prete abbastanza chiaramente da afferrarne anche le parole: «... fa male, certo, fa molto male. Ma ora che ho asportato la trasmittente, che l'ho distrutta, adesso non possono più seguirti». Mi tornò alla mente l'immagine di Jesse Pinn che, qualche ora prima, attraversava con aria furtiva il cimitero, tenendo in mano uno strano apparecchio, ascoltandone i messaggi elettronici e leggendone i dati sul minuscolo schermo luminoso. Evidentemente aveva seguito i segnali inviati dalla trasmittente innestata chirurgicamente in quella creatura. Una scimmia? E, tuttavia, non una scimmia? «L'incisione non è stata molto profonda», soggiunse il prete. «La trasmittente si trovava appena dopo lo strato di grasso sottocutaneo. Ho sterilizzato e cucito la ferita.» Sospirò. «Vorrei tanto sapere quanto capisci di quello che ti dico, ammesso che tu capisca qualcosa.» Nel suo diario, padre Tom aveva menzionato un nuovo branco, meno ostile e meno violento del primo, e aveva scritto di essersi impegnato a liberarne i membri. Non riuscivo neanche lontanamente a immaginare per quale motivo esistesse un nuovo branco, opposto a quello vecchio, né perché i suoi membri fossero liberi di muoversi a loro piacimento ma con una trasmittente inserita sotto la pelle, e neppure come era accaduto che si fossero sviluppati branchi di scimmie più intelligenti, ostili e no. Ma era evidente che il prete aveva deciso di agire da moderno abolizionista, pronto a combattere per i diritti degli oppressi, e che la sua canonica rappresentava un
punto nodale nella strada per la libertà. Quando aveva affrontato padre Tom nel sotterraneo della chiesa, Jesse Pinn doveva essere convinto che il fuggitivo fosse già stato operato e trasportato altrove, e che il suo apparecchio ricevesse i segnali da una trasmittente non più innestata. Invece la creatura stava trascorrendo un periodo di convalescenza nella soffitta. Il misterioso visitatore del prete si lamentò sommessamente e il sacerdote rispose con parole di conforto, con il tono di chi si rivolge a un bambino piccolo. Ricordando la mansuetudine del prete davanti all'assistente di Kirk, mi feci coraggio e percorsi il restante mezzo metro che mi separava dall'ultimo muro di scatole. Mi fermai, appoggiando la schiena contro la fila di cartoni, con le ginocchia leggermente piegate per adattarmi all'inclinazione del tetto. Da quella posizione, per riuscire a vedere il prete e la creatura che si trovava con lui, mi sarebbe bastato sporgermi a destra, voltare il capo e guardare nel corridoio che costeggiava il lato meridionale della soffitta, da cui provenivano il chiarore e le voci. Esitavo a rivelare la mia presenza solo perché mi tornavano alla mente alcuni dei passaggi più strani del diario: le pagine deliranti che rasentavano la follia, le duecento ripetizioni della frase credo nella misericordia di Cristo. Forse non era sempre mite come era stato con Jesse Pinn. Agli odori di muffa, polvere e cartone vecchio, adesso se ne sovrapponeva uno medicinale, un insieme di alcol per frizioni, iodio e detergente antisettico. Da qualche parte, nel corridoio successivo, il grosso ragno si arrampicò sul filo, allontanandosi dalla lampada e la sua ombra si rimpicciolì rapidamente sul soffitto, riducendosi a un punto nero, che poi scomparve del tutto. Padre Tom riprese a parlare in tono rassicurante: «Ho una polvere antibiotica, capsule di vari derivati della penicillina, ma nessun analgesico efficace. Peccato. Ma la vita è tutta una sofferenza, vero? È una valle di lacrime. Vedrai che presto starai bene. Non sentirai più nulla. Te lo prometto. Attraverso la mia persona, Dio si prenderà cura di te». Non riuscivo a farmi un'opinione esatta su padre Tom: se era un santo o un criminale, una delle poche persone sane di mente rimaste a Moonlight Bay oppure un individuo completamente pazzo. Non avevo una sufficiente conoscenza dei fatti, non comprendevo il contesto in cui agiva. Di una cosa ero certo: anche se padre Tom fosse stato in grado di ragio-
nare e si stesse comportando nel modo più giusto, nondimeno nella sua testa dovevano esserci numerose rotelle fuori posto ed era decisamente sconsigliabile fargli tenere fra le braccia un neonato durante il battesimo. «Conosco i rudimenti della professione medica», stava dicendo al suo paziente, «perché, dopo il seminario, ho trascorso tre anni in una missione in Uganda.» Mi parve di udire un commento: un borbottio che mi ricordava, ma non del tutto, il basso tubare dei piccioni mescolato al verso più gutturale di un gatto che fa le fusa. «Sono certo che starai benissimo», proseguì padre Tom. «Però devi restare qui per qualche giorno, in modo che io possa darti gli antibiotici e possa controllare come si rimargina la ferita. Mi hai capito?» Con una nota di frustrazione nella voce, domandò di nuovo: «Ma tu capisci quello che dico?» Stavo per sporgermi oltre il muro di cartoni per dare un'occhiata, quando l'Altro rispose al prete. L'Altro: questo fu il termine che usai pensando al fuggitivo, quando lo udii parlare da una distanza tanto ravvicinata, perché non riuscii ad immaginare la sua voce come appartenente a un bambino o a una scimmia, né a qualsiasi altra creatura presente nel Grande Libro della Creazione. Mi sentii raggelare. Il dito premette con più forza sul grilletto. Di sicuro la voce somigliava in parte a quella di un bambino, anzi, di una bambina, e in parte a quella di una scimmia. In realtà somigliava a un sacco di cose, come se un fantasioso tecnico del suono di Hollywood si fosse divertito con un'intera collezione di voci umane e animali, miscelandole attraverso la sua console fino a ottenere il non plus ultra in fatto di voce da extraterrestre. La cosa che più colpiva nelle parole dell'Altro non era il tono, né l'inflessione, e neppure la serietà e l'emozione di cui erano chiaramente permeate. Quello che mi fece sobbalzare, perché inatteso, fu il fatto che avevano un significato. Non era il verso confuso e senza senso di un animale. L'Altro non si esprimeva nella mia lingua e, anche se non sono un esperto in materia, ero certo che non parlasse nemmeno una lingua straniera; le parole non erano articolate in modo abbastanza complesso per rappresentare un vero linguaggio. Tuttavia, si trattava di una fluente serie di suoni che, in modo rozzo, erano stati associati così da formare delle parole, un tentativo, elementare ma efficace, di creare una lingua composta da un piccolo vocabolario polisillabico, contrassegnato da ritmi incalzanti.
L'Altro sembrava avere un patetico bisogno di comunicare. Ascoltandolo, provai un'intensa commozione di fronte allo struggimento, alla solitudine e all'angoscia che trapelava dalla sua voce. Non erano emozioni che mi sarei aspettato di trovare. Erano sentimenti concreti come le assi sotto i miei piedi, le scatole accatastate dietro le mie spalle e il martellare del mio cuore. Quando, infine, il prete e l'Altro rimasero in silenzio, non mi sentii di sporgermi a guardare. Avevo la sensazione che, qualunque fosse stato l'aspetto del visitatore di padre Tom, non poteva essere considerato come una vera scimmia, una di quelle che facevano parte del branco originale e che avevano molestato Bobby o inseguito Orson e me sul promontorio della baia. Anche nel caso di una somiglianzà con un bunder, le differenze sarebbero state maggiori e sicuramente più numerose del semplice colore giallo scuro degli occhi. Avevo paura di quello che avrei potuto vedere, ma i miei timori non avevano nulla a che fare con la possibile mostruosità di questo Altro creato in laboratorio. La morsa dell'emozione mi serrava il petto con tanta forza da impedirmi di respirare a fondo e deglutivo a fatica per via del nodo che sentivo in gola. Ciò che temevo era di incontrare lo sguardo di questa entità e scorgere nei suoi occhi il mio stesso isolamento, il mio desiderio di essere normale, che avevo negato per ventotto anni con abbastanza successo da considerarmi soddisfatto del mio destino. Ma la mia felicità, come quella di tutti, è assai fragile. Nella voce di quella creatura avevo sentito un terribile struggimento, molto simile a quello intorno al quale, secoli prima, avevo creato una perla di indifferenza e di pacata rassegnazione; temevo che, se nello sguardo dell'Altro avessi scorto un riflesso di me stesso, quella perla sarebbe andata in frantumi, lasciandomi ancora una volta terribilmente vulnerabile. Stavo tremando. Questo è anche il motivo per cui non posso, non oso, non voglio esprimere il mio dolore o la mia pena quando la vita mi ferisce o mi toglie qualcuno che amo. La sofferenza porta con troppa facilità alla disperazione. È nel terreno fertile della disperazione che si sviluppa e cresce l'autocommiserazione. E io non posso permettermi di indulgere in questo sentimento perché, enumerando e soffermandomi sulle mie limitazioni, non farei che scavare una fossa così profonda da non riuscire a emergerne più. Per sopravvivere devo comportarmi da persona fredda e dura, e racchiudere il cuore in una conchiglia senza crepe, almeno quando si tratta di soffri-
re per la morte di qualcuno. Sono capace di esprimere il mio amore per le persone vive, di accettare i miei amici senza riserve, di donare il mio cuore senza preoccuparmi di come verrà trattato. Ma nel giorno in cui mio padre se ne va per sempre, devo fare battute sulla morte, sui forni crematori, sulla vita, su qualsiasi cosa, perché non posso rischiare, non voglio rischiare, di passare dalla disperazione all'autocommiserazione, per poi sprofondare inevitabilmente in quella fossa di rabbia, di solitudine e di odio verso se stessi che è l'eccentricità. Non posso voler troppo bene alle persone morte. Indipendentemente da quanto desideri ricordarle e amarle, sono costretto a lasciarle andare... e in fretta. Devo cacciarle subito dal mio cuore, quando i loro corpi sono ancora caldi sul letto di morte. Allo stesso modo, devo scherzare sul fatto di essere un assassino, perché se pensassi troppo e troppo a lungo a ciò che realmente significa aver ucciso un uomo, sia pure un individuo spaventoso come Lewis Stevenson. comincerei a domandarmi se, in realtà, non sono proprio quel mostro che i teppistelli della mia infanzia mi consideravano: il Lombrico, il Piccolo Vampiro, Chris il Fantasma. Non devo preoccuparmi troppo dei morti, sia di quelli che amavo, sia di quelli che disprezzavo. Non devo preoccuparmi troppo di essere solo. Non devo preoccuparmi troppo di ciò che non può essere cambiato. Come tutti noi che ci troviamo in quella tempesta che va dalla nascita alla morte, non posso apportare grandi cambiamenti al mondo, solo piccoli miglioramenti, almeno così spero, nella vita di coloro che amo, e questo significa che, per vivere, non devo pensare a ciò che sono, ma a ciò che posso diventare, non al passato, ma al futuro, non tanto a me stesso, quanto al vivace circolo di amici che mi offrono l'unica luce nella quale sto bene. Tremavo al penisero di guardare oltre l'angolo e di vedere l'Altro, nei cui occhi avrei potuto scorgere una parte troppo importante di me stesso. Stringevo la Glock come fosse un talismano, invece che un'arma, come si trattasse di un crocifisso con il quale allontanare tutto ciò che poteva distruggermi. Ma mi costrinsi ad agire. Mi sporsi oltre l'angolo, voltai il capo... e non vidi nessuno. Il corridoio esterno, che costeggiava il lato meridionale della soffitta, era più ampio di quello del muro orientale, forse due metri e mezzo; sul pavimento di compensato, infilato sotto la grondaia, vi era uno stretto materasso e un groviglio di lenzuola. La luce proveniva da una lampada da tavolo, fornita di paralume conico e collegata a una presa montata sul sostegno di una delle grondaie. Oltre il materasso, vi erano un thermos, un piatto pieno di frutta già affettata e di pane imburrato, un secchio pieno d'acqua, flaconi
di alcol disinfettante e per frizioni, prodotti per fasciature, un telo di spugna ripiegato e un canovaccio da cucina umido e macchiato di sangue. Il prete e il suo ospite erano svaniti come per magia. Seppure paralizzato dall'impatto emotivo suscitato dalla voce dell'Altro, quando questi era tornato in silenzio, non potevo essere rimasto fermo per più di un minuto, forse trenta secondi. Tuttavia, nel corridoio davanti a me non si vedevano né padre Tom, né il suo visitatore. Regnava un silenzio assoluto. Non udivo neppure dei passi. Niente cigolii o ticchettii che potessero far pensare a qualcosa di diverso rispetto ai normali rumori di assestamento. Arrivai perfino a sollevare lo sguardo verso le travi al centro del soffitto, nella bizzarra convinzione che i due avessero imparato dal ragno come risalire lungo un filo di ragnatela, raggomitolarsi e scomparire nell'oscurità. Fintanto che restavo vicino al muro di scatole sulla mia destra, avevo abbastanza spazio per rimanere in posizione eretta. Innalzandosi dalle grondaie alla mia sinistra, le travi, assai inclinate, salivano verso il centro, lasciando un vuoto di circa venti centimetri tra la mia testa e il soffitto. Nondimeno, continuai ad avanzare in posizione di difesa, con le ginocchia leggermente piegate. La lampada non era eccessivamente luminosa e il paralume a cono indirizzava la luce lontano da me; decisi quindi di avvicinarmi al materasso per esaminare più da vicino gli oggetti che vi erano posati accanto. Con la punta di un piede, smossi l'intrico di lenzuola; sebbene non sapessi che cosa aspettarmi, quello che trovai fu un mucchio di niente. Non ero preoccupato all'idea che, una volta sceso, padre Tom avrebbe trovato Orson. Prima di tutto ero convinto che non avesse ancora finito il suo lavoro nella soffitta. Inoltre, il mio cane, ormai esperto di crimini, sarebbe stato abbastanza furbo da nascondersi da qualche parte e starsene tranquillo fino a quando non avesse avuto la possibilità di fuggire. Tuttavia all'improvviso mi resi conto che, se il prete fosse sceso, probabilmente avrebbe ripiegato la scala e chiuso la botola. Certo, avrei potuto forzarla e far scendere di nuovo la scala dall'alto, ma in questo modo avrei fatto più baccano di Satana e dei suoi compari quando sono stati cacciati dal paradiso. Anziché seguire il corridoio fino alla prossima entrata nel labirinto e rischiare di imbattermi nel prete e nell'Altro, che probabilmente avevano imboccato quella via, feci dietrofront e ripercorsi in senso inverso il tragitto che mi aveva portato fin lì, stando ben attento a camminare con passo
leggero. Le assi di compensato erano di ottima qualità, non presentavano molte fessure ed erano state avvitate, invece che inchiodate, alle travi del pavimento; di conseguenza avanzavo senza fare alcun rumore. Quando svoltai l'angolo in fondo alla fila di scatoloni, la figura grassoccia di padre Tom sbucò improvvisamente dall'oscurità, proprio dal punto in cui, un paio di minuti prima, mi ero soffermato ad ascoltare. Non indossava né i paramenti sacri di chi sta per celebrare una Messa, né gli indumenti di uno che intende andare a dormire, bensì una tuta grigia e una lucida patina di sudore, come se avesse combattuto contro la sua golosità ripetendo gli esercizi ginnici mostrati in un video. «Tu!» esclamò in tono aspro, quando mi riconobbe, come se non fossi semplicemente Christopher Snow, ma Baal in persona, balzato fuori dal pentacolo in gesso di uno stregone, senza prima aver chiesto il permesso o essermi purificato. Evidentemente il prete allegro, mite e gioviale che conoscevo era in vacanza a Palm Springs e aveva lasciato le chiavi della parrocchia al suo malvagio gemello. Mi colpì al petto con l'estremità arrotondata di una mazza da baseball, caricando il colpo con abbastanza forza da farmi male. Dato che anche Super-XP-Man è soggetto alle leggi della fisica, barcollai all'indietro, inciampai nella grondaia e sbattei la nuca contro una delle travi. Non vidi le stelle, nemmeno quelle del cinema, ma se non fossi stato protetto dalla mia folta chioma alla James Dean, probabilmente sarei svenuto. Continuando a colpirmi con l'estremità della mazza da baseball, padre Tom ripeteva: «Tu! Tu!» Ero proprio io, e non avevo mai detto il contrario, quindi non capivo perché il prete si scaldasse tanto. «Tu!» gridò di nuovo, furibondo. E questa volta fu la parte laterale della mazza ad abbattersi sul mio petto con tanta forza da lasciarmi senza fiato; avrebbe potuto andare peggio se non avessi visto arrivare il colpo. Un attimo prima che la mazza mi colpisse, contrassi i muscoli dello stomaco e, dato che avevo già vomitato quanto rimasto dei taco di Bobby, l'unica conseguenza fu una violenta fitta che mi attraversò il corpo dai genitali allo sterno, e che mi avrebbe solo fatto ridere se, sotto i normali indumenti, avessi indossato la mia calzamaglia corazzata da supereroe. Ansimando minacciosamente, gli puntai contro la Glock, ma o lui era un uomo di Dio che non temeva la morte, oppure era completamente matto.
Afferrando la mazza con entrambe le mani per imprimere al suo gesto la maggior forza possibile, mi piantò nuovamente l'estremità del bastone nello stomaco, quasi volesse sfondarlo. Parai il colpo voltandomi di lato, ma in questo modo, purtroppo, mi scompigliai i capelli contro una ruvida trave di legno. Questa lotta con il prete mi lasciava alquanto perplesso. Il nostro scontro sembrava più assurdo che spaventoso... anche se lo era abbastanza da farmi temere che avrei restituito a Bobby i jeans con diverse macchie d'urina. «Tu! Tu!» continuava a gridare, sempre più infuriato e, apparentemente, sempre più sorpreso, come se la mia presenza in quella soffitta fosse così improbabile e scellerata che il suo stupore avrebbe continuato a crescere fino a fargli scoppiare il cervello. Cercò nuovamente di colpirmi. Ma questa volta avrebbe mancato la mira anche se non mi fossi spostato. Dopo tutto, era un prete, non una ninja. In più, era grassoccio e di mezza età. La mazza da baseball si abbattè su uno dei cartoni con tanta forza da sfondarlo e sbucare dall'altra parte, nel corridoio parallelo. Sebbene ignorasse anche i fondamentali principi delle arti marziali e non fosse dotato di un fisico da invincibile guerriero, al buon sacerdote non mancava certo l'entusiasmo. L'idea di sparargli era fuori discussione, ma non potevo nemmeno permettergli di ammazzarmi a bastonate. Mi allontanai da lui indietreggiando verso la lampada e il materasso, portandomi nell'ampio passaggio che costeggiava il lato meridionale della soffitta, sperando che rientrasse in sé. Ma invece di calmarsi, il prete mi inseguì, facendo oscillare la mazza, che tagliava l'aria con una specie di sibilo, ripetendo, tra un'oscillazione e l'altra, come fosse una litania: «Tu!» I capelli arruffati gli ricadevano sulla fronte e il viso appariva distorto da una smorfia più di terrore che di rabbia. Le narici, dilatate, fremevano a ogni respiro e spruzzi di saliva gli esplodevano dalla bocca a ogni ripetizione di quel «tu» che sembrava costituire tutto il suo vocabolario. Non mi sembrava il caso di morire aspettando che padre Tom recuperasse la ragione. Anche se gliene era rimasta un po', doveva averla lasciata da qualche altra parte, magari in chiesa, sull'altare, chiusa in un reliquiario. Mentre sollevava la mazza per colpirmi, cercai nei suoi occhi quel bagliore animale che avevo visto nello sguardo di Lewis Stevenson, perché forse quella luce misteriosa avrebbe potuto giustificare una mia risposta violenta alla violenza di cui ero vittima. Avrebbe significato combattere
non contro un prete o un uomo qualsiasi, ma contro qualcosa di non completamente umano. Ma non scorsi alcun bagliore. Forse anche padre Tom era stato contagiato della stessa malattia che aveva colpito il comandante della polizia, ma se così stavano le cose, non era ancora giunto al livello di Stevenson. Mentre indietreggiavo e tenevo d'occhio la mazza da baseball, inciampai con un piede nel filo della lampada. Dimostrando di essere la degna vittima di un grasso prete di mezz'età, ruzzolai all'indietro, finendo steso a terra e facendo rimbalzare la nuca sul pavimento con un suono simile a un rullo di tamburi. La lampada si ribaltò ma, fortunatamente, il cono di luce non mi colpì direttamente gli occhi. Districai il piede dal filo e, scivolando sul sedere, indietreggiai proprio mentre padre Tom, che si era lanciato verso di me, sferrava una terribile mazzata sul pavimento. Mancò le mie gambe solo di qualche centimetro e accompagnò l'assalto con l'ormai familiare pronome: «Tu!» «Tu!» l'accusai a mia volta, in tono vagamente isterico, mentre continuavo a indietreggiare. Mi chiesi dove fossero tutte quelle persone che, in teoria, dovevano provare un grande rispetto per me. Non mi sarebbe dispiaciuto affatto ricevere un po' di considerazione, ma una cosa era certa, Stevenson e padre Tom non erano qualificati per entrare nel Circolo Ammiratori di Christopher Snow. Sebbene il prete sudasse copiosamente e ansimasse come un mantice, sembrava deciso a dare una dimostrazione della propria resistenza. Avanzava con le gambe leggermente piegate e le spalle curve; questa posizione gli permetteva di sollevare la mazza oltre la testa senza mandarla a sbattere contro una delle travi. Evidentemente voleva tenere il bastone bene in alto per poter sferrare un colpo tale da fracassarmi il cranio e farmi uscire il cervello dalle orecchie. Luccichio o non luccichio negli occhi, non c'era più tempo da perdere, dovevo sparare al prete. Non riuscivo a indietreggiare alla stessa velocità con cui padre Tom avanzava verso di me e, anche se ero leggermente isterico... okay, ero proprio isterico... capivo benissimo che anche il più disperato dei giocatori non avrebbe scommesso un soldo su di me. In quel momento di panico, frastornato dalla paura e dall'assurdità delle situazione, pensai che la cosa migliore fosse sparargli ai genitali, perché comunque
aveva fatto voto di castità. Fortunatamente non ebbi modo di dimostrare che ero un esperto tiratore, capace di colpire un punto così preciso. Mirai al cavallo dei pantaloni e cominciai a premere il dito sul grilletto. Non c'era tempo per il puntamento a laser. Ma prima che lasciassi partire il colpo, un essere mostruoso ringhiò nel corridoio alle spalle di padre Tom e un'enorme bestia nera gli balzò sulla schiena, facendo urlare di terrore il prete che, mentre cadeva a terra, lasciò andare la mazza da baseball. Per un momento rimasi allibito nel constatare che l'Altro non somigliava affatto a una scimmia e che aggrediva padre Tom, il suo infermiere ed eroe, invece di scagliarsi su di me per squarciarmi la gola. Ma, naturalmente, la grande bestia ringhiosa non era l'Altro, era Orson. In piedi sulla schiena del prete, il cane mordeva il colletto della tuta, facendone a brandelli il tessuto. Ringhiava con tanta ferocia che temevo avrebbe conciato il prete davvero molto male. Lo richiamai, mentre mi alzavo in piedi. Orson obbedì immediatamente, senza aver nemmeno scalfito la sua preda, evidentemente tutt'altro che assetato di sangue. Il prete non fece alcun tentativo di rialzarsi. Rimase a terra, con il capo rivolto di lato e il volto seminascosto da ciocche di capelli intrisi di sudore. Ansimava e singhiozzava e, ogni quattro o cinque brevi respiri, ripeteva amaramente: «Tu...» Era ovvio che fosse abbastanza a conoscenza di ciò che stava avvenendo a Fort Wyvern e a Moonlight Bay da rispondere a gran parte, se non a tutte, le mie domande più urgenti. Ma non volevo parlare con lui. Non potevo farlo. Era possibile che l'Altro si trovasse ancora nella canonica, forse era nascosto in qualche angolo buio della soffitta. Anche se non pensavo che rappresentasse una grave minaccia per me e per Orson, soprattutto considerando che avevo la pistola, tuttavia non sapevo com'era fsicamente e quindi non potevo escludere che fosse pericoloso. Inoltre, non volevo inseguirlo. o essere inseguito, in un spazio come quello che mi dava un senso di claustrofobia. Naturalmente l'Altro rappresentava soltanto un'ottima scusa per scappare. In realtà, ciò che temevo erano le risposte che padre Tom avrebbe potuto dare alle mie domande. Pensavo di voler sapere, ma evidentemente non ero ancora pronto per certe verità.
Tu. Aveva pronunciato quella parola fremendo d'odio, un sentimento che poco si addiceva non solo a un uomo di Dio, ma anche a una persona abitualmente mite e gentile. Aveva trasformato quel semplice pronome in una denuncia e in una maledizione. Tu. Non avevo fatto nulla per meritare la sua inimicizia. Non ero stato io a creare quelle povere creature che si era impegnato a liberare. Non avevo preso parte al progetto di Wyvern e quindi non era mia la colpa se sua sorella e forse anche lui erano stati contagiati. Questo significava che padre Tom non odiava me, come persona, ma per quello che ero. E chi ero? Chi, se non il figlio di mia madre? A detta di Roosevelt Frost, e anche secondo il comandante Stevenson, alcune persone, che non avevo ancora conosciuto, mi rispettavano perché ero figlio di mia madre. Ma per lo stesso motivo, c'era chi mi odiava. Christopher Nicholas Snow, unico figlio di Wisteria Jane Milbury in Snow... alla quale la madre (mia nonna) aveva imposto il nome di un fiore. Christopher, nato da Wisteria, è venuto in questo mondo troppo luminoso quasi all'inizio del decennio della disco music. Era nato in un'epoca di abiti vistosi e di frivolezze, in cui il paese stava finalmente concludendo una guerra e quando la paura peggiore era quella dell'olocausto nucleare. Che cosa poteva aver mai fatto la mia geniale e affettuosa madre per rendermi o degno di stima oppure oggetto di disprezzo? Disteso sul pavimento della soffitta, sconvolto da un tumulto di emozioni, padre Tom Eliot conosceva la risposta a quel mistero e, quasi certamente, me l'avrebbe rivelata non appena si fosse ricomposto. Invece di porre la domanda che stava al centro di tutto quanto era avvenuto in quella notte, mi rivolsi al prete balbettando le mie scuse: «Mi dispiace. Io... io non sarei dovuto venire qui. Oh, buon Dio. Mi ascolti. Mi dispiace davvero. La prego di perdonarmi. La prego». Che cosa aveva fatto mia madre? Non domandare. Non domandare. Se avesse cominciato a rispondere alla domanda che non avevo posto, mi sarei tappato le orecchie per non sentire. Richiamai Orson e insieme ci allontammo, ripercorrendo in fretta il labirinto. Gli angusti e contorti passaggi si aprivano in innumerevoli dirama-
zioni, tanto che alla fine non mi sembrava più di essere in una soffitta, bensì in un labirinto di catacombe. In alcuni punti l'oscurità era quasi accecante; ma dato che sono il figlio del buio, le tenebre non rappresentano un ostacolo per me. E infatti raggiunsi la botola senza alcuna difficoltà. Orson non aveva avuto problemi a salire la scala a pioli, ma ora guardava la discesa con una certa trepidazione e non sembrava affatto intenzionato ad affrontarla. Anche per un acrobata a quattro zampe, scendere una scala ripida era enormemente più difficile che salirla. Nella soffitta vi erano diversi cartoni di grosse dimensioni ed erano conservati anche mobili piuttosto ingombranti, di conseguenza doveva per forza esistere una seconda botola, molto più larga della prima e dotata di un sistema di brache e pulegge per sollevare e abbassare gli oggetti più pesanti. Non avevo alcuna voglia di mettermi a cercarla, ma non sapevo proprio come avrei fatto a scendere una ripida scala a pioli, tenendo in braccio più di quaranta chili di cane. Dall'estremità opposta della soffitta, sentii il prete che mi chiamava: «Christopher...» con la voce carica di rimorso. «Christopher, mi sono smarrito.» Non intendeva dire che si era perso nel labirinto. Niente di cosi semplice, come avrei sperato. «Christopher, mi sono smarrito. Perdonami. Sono così smarrito.» Da qualche parte, nel buio, giunse la voce da bambina-scimmia-non-diquesto-mondo dell'Altro: una che cercava faticosamente di esprimersi in una lingua, ansiosa di essere capita, colma di struggimento e solitudine, fredda come una distesa di ghiaccio ma anche, e questa era la cosa peggiore, piena di una sconsiderata speranza che, certamente, sarebbe andata delusa. Questo lamento era così sconvolgente che Orson decise di tentare di scendere e forse gli avrebbe dato anche la forza di arrivare fino in fondo. Ma, una volta giunto a metà scala, superò i restanti gradini con un balzo e atterrò sul pavimento del corridoio. Il diario del prete mi era quasi scivolato da sotto la cintura ed era praticamente finito nelle mutande. Mentre scendevo, strofinava dolorosamente contro il fondoschiena e, non appena arrivato in fondo, lo recuperai, tenendolo poi nella mano sinistra, mentre la destra continuava a stringere con forza la Glock. Correndo a gambe levate, Orson e io attraversammo la canonica, passando davanti all'edicola con la statua della Madonna, illuminata dal moz-
zicone di candela che si spense per lo spostamento d'aria provocato dalla nostra corsa. Continuammo a correre lungo il corridoio del piano terreno, attraverso la cucina con i suoi luminosi orologi digitali, fuori della porta di servizio, sulla veranda, nella notte e nella nebbia, come se stessimo fuggendo da un castello di carte sul punto di crollare. Oltrepassammo il retro della chiesa. La sua imponente mole somigliava a un'onda di maremoto che, mentre ci trovavamo all'ombra delle sue spesse mura, sembrava stesse per abbattersi su di noi. Per due volte lanciai un'occhiata alle mie spalle. Non eravamo inseguiti. Né dal prete, né da qualcos'altro. Ero convinto di non trovare più la bicicletta, o di trovarla rotta, invece la vidi appoggiata contro la lapide, proprio dove l'avevo lasciata. Niente scimmie da quelle parti. Non mi fermai a chiacchierare con Noah Joseph James. In un mondo come quello che stavo scoprendo nelle ultime ore, non mi sembrava più tanto auspicabile vivere per novantasei anni. Dopo aver infilato la pistola in tasca e il diario nella camicia, spinsi di corsa la bicicletta lungo un vialetto, fra due file di tombe, poi saltai in sella senza nemmeno fermarmi. Sobbalzando, scesi dal marciapiede e, chino sul manubrio, cominciai a pedalare furiosamente, perforando la nebbia come una trivella e lasciando dietro di me un breve tunnel che la foschia provvedeva a richiudere immediatamente. In quel momento a Orson non interessavano affatto le tracce degli scoiattoli. Anche lui desiderava mettere una certa distanza tra noi e la chiesa di Santa Bernadette. Avevamo già superato numerosi isolati, quando mi resi conto che non era possibile fuggire. Con il sopraggiungere dell'alba, i miei movimenti sarebbero stati limitati a Moonlight Bay e dintorni, e la follia della canonica di Santa Bernadette era qualcosa che avrei ritrovato in ogni angolo della città. Oltretutto, non era possibile sfuggire a quella minaccia, anche se mi fossi nascosto sull'isola più remota o in cima alla montagna più sperduta del mondo. Ovunque fossi andato, avrei portato con me ciò che temevo: il bisogno di sapere. Non ero terrorizzato solo dalle risposte che avrei ricevuto ponendo domande su mia madre. Essenzialmente, temevo le domande in sé, perché, anche se fossero rimaste senza risposta, la loro stessa natura avrebbe cambiato per sempre la mia vita.
29 Seduti su una panchina all'angolo tra Palm Street e Grace Drive, Orson e io osservavamo attentamente la scultura di una scimitarra d'acciaio in equilibrio su un paio di dadi di marmo bianco, rappresentati mentre ruzzolavano, a loro volta posati su una lucida Terra di marmo azzurro, appollaiata su una massa di bronzo fuso a forma di cacca di cane. Da circa tre anni quest'opera d'arte faceva mostra di sé nel centro del parco, circondata da una fontana dalle acque spumeggianti. Per molte notti eravamo rimasti seduti sulla panchina meditando sul significato di quella creazione, sentendoci incuriositi, stimolati, perplessi... ma senza le idee particolarmente chiare. All'inizio, il significato ci era apparso evidente. La scimitarra rappresentava la guerra o la morte. I dadi che ruzzolavano erano il destino. La sfera di marmo azzurro, ovvero la Terra, era il simbolo della nostra vita. Tutti insieme rappresentavano la condizione umana: viviamo o moriamo a seconda dei capricci del destino, la nostra vita su questa terra è governata dal caso. La base in bronzo a forma di cacca di cane non è che una ripetizione minimalista dello stesso tema: la vita è una merda. Alla prima interpretazione, ne sono seguite molte altre. Per esempio, la scimitarra potrebbe non essere affatto una scimitarra, ma una falce di luna. Gli oggetti a forma di dadi potrebbero essere cubetti di zucchero. La sfera azzurra forse non era il nostro pianeta, ma soltanto una palla da bowling. A ogni forma può essere attribuito un numero di significati praticamente infinito, a parte la fusione in bronzo che non può essere interpretata in altro modo se non come cacca di cane. Se le forme rappresentassero una falce di luna, cubetti di zucchero e una palla da bowling, questo capolavoro potrebbe significare che le nostre aspirazioni (raggiungere la luna) verranno sempre frustrate se puniremo i nostri corpi e agiteremo le nostre menti mangiando troppi dolci o restando piegati in due con il classico colpo della strega dopo aver lanciato la palla da bowling con troppa forza, nel tentativo di recuperare qualche punto. E la cacca di cane in bronzo ci mostra le conseguenze di una cattiva dieta unita all'ossessione per il bowling: la vita è una merda. Ci sono quattro panchine intorno all'ampio vialetto che circonda la fontana e la scultura posta al suo centro. Abbiamo osservato l'opera da tutte le posizioni possibili. I lampioni del parco sono regolati a tempo e vengono spenti a mezzanot-
te per risparmiare i soldi del comune. Anche la fontana viene chiusa. Il suo dolce mormorio stimola la meditazione e a noi piacerebbe che l'acqua continuasse a zampillare per tutta la notte. Per quanto riguarda il parco invece, lo preferisco senza illuminazione, e questo anche se non fossi affetto da XP. La luce naturale non è solo più che sufficiente, ma addirittura è ideale per lo studio di quest'opera, e un bel nebbione contribuisce in modo determinante a comprendere la visione dell'artista. Prima che venisse eretta questa scultura, sul piedistallo al centro della fontana vi era una semplice statua in bronzo di Junipero Serra, che aveva resistito per più di cento anni. Serra era un missionario spagnolo che, due secoli e mezzo prima, aveva svolto la sua opera tra gli indiani della California, creando una rete di missioni ora considerate costruzioni tipiche della regione, tesori dell'arte locale e punti di attrazione per turisti appassionati di storia. I genitori di Bobby, insieme con un gruppo di cittadini che condividevano le loro idee, avevano formato un comitato per chiedere che venisse tolta la statua di Junipero Serra, perché non era giusto che, in un parco mantenuto con fondi pubblici, vi fosse un monumento dedicato a un religioso. Separazione tra Stato e Chiesa. La costituzione degli Stati Uniti su questo era molto chiara. Wisteria Jane Milbury in Snow... «Wissy» per gli amici, «mamma» per me... nonostante fosse una scienziata e una razionalista, si era messa a capo di un comitato di opposizione che chiedeva di lasciare al suo posto la statua di Junipero Serra. «Quando una società, per qualsiasi motivo, cancella il proprio passato», diceva, «non può avere un futuro.» Perse mia madre. Vinsero i genitori di Bobby. La sera in cui venne presa la decisione, Bobby e io ci incontrammo, in quelle che furono le circostanze più solenni della nostra lunga amicizia, per stabilire se l'onore della famiglia e i sacri vincoli di sangue ci obbligassero a portare avanti una violenta e implacabile faida... alla maniera dei leggendari Hatfield e McCoy... fino a quando anche il più lontano cugino fosse stato mandato a dormire con i vermi e finché uno di noi, o entrambi, non fosse morto. Dopo aver bevuto abbastanza birra da chiarirci le idee, giungemmo alla conclusione che era impossibile combattere una faida vera e trovare anche il tempo di cavalcare ogni serie di cristalline montagne d'acqua che il buon mare mandava a frangersi sulla riva. Per non parlare del tempo sprecato in omicidi e ferimenti, quando invece lo si poteva dedicare ad ammiccanti fanciulle dai bikini a filo interdentale.
Composi il numero di Bobby sul cellulare e premetti il tasto di invio. Alzai leggermente il volume in modo che Orson potesse ascoltare la conversazione di entrambi. Nel momento in cui mi resi conto di quello che avevo fatto, capii che, inconsciamente e pur continuando a fingere di avere dei dubbi, avevo accettato la più incredibile delle possibilità che il progetto di Wyvern aveva tentato di realizzare. Bobby rispose al secondo squillo: «Sparisci». «Dormivi?» «Sì.» «Sono nel parco La Vita È Una Merda, seduto su una panchina.» «E io che cosa c'entro?» «Da quando ci siamo visti, sono successe cose veramente terribili.» «È colpa della salsa dei taco.» «Non posso parlartene al telefono.» «Meno male.» «Sono preoccupato per te.» «Carino da parte tua.» «Guarda che è una cosa seria, Bobby.» «Giuro che mi sono lavato i denti, mammina.» Orson sbuffò divertito. Accidenti a lui. «Sei più sveglio, adesso?» domandai a Bobby. «No.» «Tanto per cominciare, non credo che stessi dormendo.» Rimase in silenzio. Poi: «Da quando te ne sei andato, per tutta la notte c'è stato un film da far venire i brividi». «Il pianeta delle scimmie?» provai a indovinare. «Su un schermo a trecentosessanta gradi.» «Che cosa stanno combinando?» «I soliti scherzetti.» «Nulla di più pericoloso?» «Credono di essere tanto divertenti. Proprio in questo momento, una di loro è dietro la finestra e mi sta mostrando il culo.» «Sei stato tu a cominciare?» «Ho la sensazione che vogliano farmi perdere la pazienza, in modo che io esca di casa.» Allarmato, esclamai: «Non farlo!» «Non sono scemo», rispose irritato. «Scusa.»
«Però sono uno stronzo.» «Questo è vero.» «C'è una differenza fondamentale tra uno scemo e uno stronzo.» «Lo so.» «Ne dubito.» «Hai a portata di mano il tuo fucile?» «Santo cielo, Snow, non ho appena finito di dire che non sono scemo?» «Se riusciamo a restare in equilibrio su quest'onda fino all'alba, penso che potremo considerarci al sicuro fino a domani sera.» «Adesso sono salite sul tetto.» «Che cosa stanno facendo?» «Non lo so.» Per un momento rimase in ascolto, poi soggiunse: «Ce ne sono almeno due. Corrono avanti e indietro. Forse stanno cercando un modo per entrare». Con un balzo, Orson scese dalla panchina e si fermò, con un orecchio ritto in direzione del telefono, l'aria preoccupata. Se questo non mi turbava troppo, era disposto a non fingere più di essere un cane come gli altri. «C'è qualche possibilità che riescano a entrare?» domandai. «Gli sfiatatoi del bagno e della cucina non sono abbastanza larghi per far passare quelle bastarde.» Nonostante tutte le comodità di cui era dotata, stranamente nella casa non c'era un caminetto. Molto probabilmente Corky Collins... nato Toshiro Tagawa... aveva deciso di farne a meno perché, al contrario di un'ampia vasca a idromassaggio, un camino di pietra e mattoni non rappresentava il luogo ideale per sollazzarsi con un paio di ragazze nude. Grazie alle sue fantasie lussuriose, sul tetto della casa non vi era una canna fumaria attraverso la quale le scimmie potevano scendere. «Tra adesso e l'alba devo riuscire a farci stare ancora qualche lavoretto alla Nancy Drew.» «Come te la stai cavando?» domandò Bobby. «Sono spaventosamente bravo. Comunque, prima che sorga il sole, andrò a casa di Sasha e domani sera verremo a trovarti.» «Vuoi dire che dovrò preparare un'altra cena?» «Stai tranquillo, porteremo delle pizze. Ascolta, credo che cercheranno di farci la pelle. Almeno a uno di noi. L'unica possibilità di evitarlo è restare insieme. Cerca di dormire più che puoi durante il giorno. Domani notte, sul promontorio, potremmo trovarci in una situazione da farci veramente rizzare i capelli in testa.»
«Allora sei vicino alla soluzione?» «Non esiste una soluzione.» «Non mi sembri pimpante come Nancy Drew.» Non avevo intenzione di mentirgli, così come non avrei mentito a Orson o a Sasha. «Non c'è soluzione. Non puoi mettere tutto in un sacco e chiuderlo con una cerniera o con un bottone. Qualunque cosa stia succedendo, dovremo imparare a conviverci per il resto della nostra vita. Ma forse possiamo trovare un modo per cavalcare l'onda, anche se si tratta di una montagna d'acqua davvero terrificante.» Dopo un lungo silenzio, Bobby domandò: «Che cosa c'è che ti fa paura, fra'?» «Non te l'ho appena detto?» «Non tutto.» «Ci sono cose di cui non posso parlare al telefono.» «Non mi riferisco ai particolari. Mi riferisco a te.» Orson mi posò la testa sulle ginocchia, come se fosse convinto che accarezzarlo e grattargli le orecchie mi sarebbe stato di conforto. Aveva ragione. Funziona sempre. Un buon cane è un rimedio eccezionale contro la malinconia e, per rilassarsi, è anche meglio del Valium. «Fingi di essere tranquillo», mi fece notare Bobby, «ma si sente che sei teso.» «Dovresti chiamarti Bob Freud, il nipote maledetto di Sigmund.» «Allora vieni a sdraiarti sul mio lettino.» Accarezzando il manto di Orson nel tentativo di calmarmi i nervi, sospirai: «Il succo della faccenda è questo: forse mia madre ha distrutto il mondo». «Niente male.» «Vero?» «Di che cosa si occupava?» «Di genetica.» «Te l'avevo detto che è meglio non lasciare la propria impronta.» «Penso che la questione sia molto più grave. Credo che, all'inizio, stesse cercando un modo per aiutarmi.» «La fine del mondo, giusto?» «La fine del mondo come noi lo conosciamo», specificai, ricordando la definizione di Roosevelt Frost. «Nelle fiabe, le mamme si limitano a preparare torte.» Scoppiai a ridere. «Come farei senza di te, fra'?»
«C'è solo una cosa importante che ho fatto per te.» «Che cosa?» «Ti ho insegnato a guardare tutto in prospettiva.» Annuii. «Ciò che è importante e ciò che non lo è.» «La maggior parte delle cose non lo è.» «Nemmeno questa?» «Fai all'amore con Sasha. Cerca di dormire. Domani sera ci prepariamo una cena con i fiocchi. Prenderemo a calci nel culo qualche scimmia. Cavalcheremo onde da sballo. E fra una settimana, dentro di te, tua madre sarà nuovamente tua madre... se lo vorrai.» «Può darsi», risposi dubbioso. «Avere l'atteggiamento giusto, fra'. È fondamentale.» «Ci penserò.» «Però, c'è una cosa che mi sorprende.» «Che cosa?» «Se ha deciso di fare quello che mi hai detto, tua madre doveva essersi veramente incazzata per aver perso la battaglia della statua nel parco...» Bobby interruppe la comunicazione. Io spensi il cellulare. È giusta come strategia? Cioè, dire che non bisogna prendere seriamente quasi nulla. Insistere nel vedere la vita come uno scherzo cosmico. Seguire soltanto quattro principi: uno, non fare del male a chi ti sta intorno, almeno per quanto possibile; due, essere sempre disponibile per gli amici; tre, essere responsabili per se stessi e non chiedere niente agli altri; quattro, non lasciarsi sfuggire alcuna occasione di divertimento. Non dare alcuna importanza alle opinioni altrui, a parte quelle delle persone più intime. Non cercare di lasciare un'impronta del proprio passaggio nel mondo. Ignorare i grandi temi dei nostri giorni, con conseguente miglioramento della digestione. Non scavare nel passato. Non preoccuparsi per il futuro. Vivere alla giornata. Abbi fiducia nell'esistenza di un significato della tua vita e lascia che sia questo significato a venire da te, invece di affaticarti a cercarlo. Quando la vita ti prende a pugni, piegati pure in due... ma dalle risate. Acchiappa l'onda, amico. Così vive Bobby, ed è la persona più felice e più equilibrata che abbia mai conosciuto. Io cerco di imitarlo, ma non mi riesce altrettanto bene. A volte mi agito, invece di galleggiare. Spreco troppo tempo nell'aspettativa delle cose e ne lascio troppo poco per le sorprese che la vita mi riserva. Forse non mi impegno a sufficienza a vivere come Bobby. O forse mi impegno troppo.
Orson si avvicinò alla fontana che circondava la scultura. Lappò rumorosamente l'acqua, apprezzandone gusto e freschezza. Mi tornò alla mente quella notte di luglio, nel giardino dietro casa, quando era rimasto a fissare le stelle e si era lasciato prendere da una cupa malinconia. Non avevo la possibilità di stabilire con precisione quanto Orson fosse più intelligente degli altri cani. Ma dato che, grazie al progetto di Wyvern, le sue capacità intellettive erano state potenziate, comprendeva molto di più di quello che sarebbe stato naturale per lui. Quella notte di luglio, rendendosi conto, forse per la prima volta, del suo rivoluzionario potenziale e, allo stesso tempo, dei terribili limiti che la sua natura fisica gli poneva, era sprofondato in un abisso di disperazione dal quale sembrava non sarebbe più uscito. Essere intelligenti, ma non avere una struttura della laringe e di altri organi con cui poter parlare; essere intelligenti, ma non possedere mani con le quali scrivere o costruire oggetti e sentirsi intrappolati in una forma fisica che impedirà sempre l'espressione della propria intelligenza. Per una persona, era come nascere sordomuta e priva di arti. Adesso guardavo Orson con occhi nuovi, apprezzandone maggiormente il coraggio, e con una tenerezza che fino a quel momento non avevo provato per nessun essere al mondo. Tornando verso di me, si leccò i baffi gocciolanti e sorrise soddisfatto. Quando si accorse che lo stavo osservando, cominciò a scondinzolare, felice di avere tutta la mia attenzione, o forse soltanto contento di essere con me in quella strana notte. Pur con tutte le sue limitazioni e nonostante avesse ottimi motivi per essere costantemente triste, il mio cane, grazie a Dio, riusciva a imitare Bobby Halloway meglio di me. L'atteggiamento di Bobby nei confronti della vita è davvero il più giusto? E quello di Orson? Un giorno spero di raggiungere anch'io la maturità necessaria ad affrontare il mondo con la loro stessa filosofia. Alzandomi dalla panchina, indicai la scultura. «Non è una scimitarra. Non è una mezza luna. È il sorriso dell'invisibile gatto del Cheshire di Alice nel paese delle meraviglie.» Orson sollevò lo sguardo verso l'opera d'arte. «Niente dadi. Niente cubetti di zucchero», soggiunsi. «Ma solo un paio di pillole per rimpicciolire, o quelle per ritornare alle dimensioni normali, che Alice aveva preso nel romanzo.» Orson sembrò esaminare l'ipotesi con un certo interesse. Conosceva la storia per averne visto la versione di Disney in videocassetta.
«Quello non è il simbolo della Terra. E neppure una palla da bowling azzurra. È un grande occhio blu. Metti tutto insieme e che cosa ne viene fuori?» Orson mi guardò in attesa di delucidazioni. «Il sorriso del gatto del Cheshire rappresenta l'artista che ride degli allocchi che lo hanno pagato profumatamente. Le due pillole sono la droga con la quale si era impasticcato prima di cominciare a scolpire questa schifezza. L'occhio azzurro è il suo, e il motivo per cui non vedi anche l'altro è perché lo sta strizzando. La base in bronzo è, naturalmente, un mucchio di merda di cane, inteso come mordace commento critico all'opera, perché, come tutti sanno, i cani sono i critici più acuti.» A giudicare dall'entusiasmo con cui Orson si mise a scondinzolare, direi che quell'interpretazione lo soddisfo enormemente. Trotterellò intorno alla fontana, osservando la scultura da tutti i lati. In realtà, forse il motivo per cui sono nato non è quello di scrivere libri sulla mia vita, nei quali cerco un significato universale che possa aiutare gli altri a comprendere la propria esistenza, cosa che, nei momenti di maggiore megalomania, ritengo sia la mia missione. Invece di sforzarmi di lasciare un'impronta, anche minima, del mio passaggio su questa terra, forse dovrei convincermi che lo scopo della mia vita è quello di divertire Orson, di essere un fratello per lui, e non un padrone, di rendere la sua vita, così strana e difficile, quanto più facile, gioiosa e soddisfacente possibile. Il significato di una simile esistenza sarebbe valido come quello di tante altre vite e più nobile di alcune. Felice per l'allegro scodinzolio di Orson, almeno quanto il cane sembrava soddisfatto per la mia ultima interpretazione della scultura, consultai l'orologio. Mancavano solo un paio d'ore all'alba. Due erano i luoghi che volevo visitare prima che il sole mi costringesse a nascondermi. Il primo era Fort Wyvern. *** Per arrivare a Fort Wyvern dal parco che si estendeva tra Palm Street e Grace Drive, nella zona sudorientale di Moonlight Bay, non avrei impiegato più di dieci minuti in bicicletta, anche mantenendo un'andatura che non avrebbe stancato il mio fratello canino. Conosco una scorciatoia attraverso un tunnel per le acque piovane che passa sotto la statale numero 1. Il tunnel diventa poi un canale scoperto, largo circa tre metri, che penetra all'in-
terno della base militare, dopo essere intersecato da un'inferriata d'acciaio, sormontata da filo spinato, che delimita l'area. Lungo il recinto e all'interno della base, vi sono numerosi cartelli, scritti in rosso e nero, in cui si avvverte che i trasgressori verranno perseguiti secondo le leggi federali e che la condanna prevede una multa minima di diecimila dollari e una detenzione non inferiore ai dodici mesi. Ho sempre ignorato questi cartelli perché sono convinto che, considerate le mie condizioni, nessun giudice avrebbe il coraggio di farmi rinchiudere per un'infrazione di così lieve entità. Quanto ai diecimila dollari, posso permettermi di pagarli. Una notte, circa un anno e mezzo fa, poco dopo la chiusura ufficiale di Wyvern, avevo usato un tagliabulloni per tranciare l'inferriata nel punto in cui attraversa il canale. L'opportunità di esplorare un nuovo e vasto regno mi era sembrata troppo allettante per potervi resistere. Se la mia curiosità vi sembra strana, considerando che, all'epoca, non ero più un ragazzino avventuroso ma un giovane di ventisei anni, significa che, probabilmente, siete una persona che può prendere un aereo per Londra, se è questo che desidera; oppure partire in barca da un giorno all'altro per Puerto Vallarla, o salire sull'Orient Express e viaggiare da Parigi a Istanbul. È probabile che abbiate la patente e un'automobile. Che non abbiate trascorso tutta la vita entro i confini di una cittadina di dodicimila abitanti, attraversandola tutte le notti, fino al punto di conoscere ogni sua stradina come fosse la vostra camera. E, molto probabilmente, non impazzite d'entusiasmo per ogni luogo sconosciuto o nuova esperienza. Dovete quindi cercare di essere un po' comprensivi con me. Fort Wyvern, intitolato al generale Harrison Blair Wyvern, eroe pluridecorato della prima guerra mondiale, dal 1939 fungeva da centro di addestramento e di formazione. Con più di centotrentamila acri di estensione, non era né la più vasta, né la più piccola, base militare della California. Durante la seconda guerra mondiale, a Fort Wyvern venne creata una scuola per carristi, nella quale i militari venivano addestrati a manovrare e a provvedere alla manutenzione dei cingolati in uso sui campi di battaglia d'Europa e d'Asia. Sempre a Wyvern, si svolgevano corsi ad alto livello riguardanti bombe dirompenti e disinnesco degli esplosivi, sabotaggio, artiglieria da campo, medicina da campo, polizia militare e crittografia; inoltre, si forniva un addestramento di base a decine di migliaia di fanti. All'interno della base vi erano un poligono di tiro per artiglieria, una vasta rete di bunker usati come depositi per le munizioni e un campo d'aviazione; vi
erano inoltre alcuni edifici costruiti entro i confini di Moonlight Bay che, tuttavia, appartenevano alla base. Durante la Guerra Fredda, i militari in servizio attivo di stanza a Fort Wyvern erano, ufficialmente, 36.400. Vi erano inoltre 12.904 dipendenti e più di quattromila civili che lavoravano per la base. Gli stipendi dei militari ammontavano a più di settecento milioni di dollari all'anno e le spese per gli appalti superavano i centocinquanta milioni all'anno. Quando, su raccomandazione della commissione per il riallineamento e la chiusura delle basi di difesa, Fort Wyvern venne chiuso, il suono delle monete che veniva risucchiato dall'economia della regione fu così forte che, di notte, i negozianti non riuscivano a dormire per il rumore e i neonati piangevano disperatamente al pensiero che, quando fossero cresciuti, i genitori non avrebbero avuto denaro sufficiente per pagare i loro studi universitari. La KBAY, che aveva perso quasi un terzo del suo potenziale pubblico in tutta la contea e una buona metà degli ascoltatori dei programmi notturni, aveva dovuto ridurre il personale, ed era per questo il motivo che Sasha svolgeva sia il lavoro di disc-jockey sia quello di direttore generale, e perché Doogie Sassman faceva, ogni settimana, otto ore di straordinario senza chiedere un centesimo di più e senza mai incrociare i suoi possenti bicipiti in segno di protesta. Anche se in modo non continuativo, nell'area di Fort Wyvern vennero comunque intraprese importanti opere di edificazione di massima sicurezza affidate a società appaltatrici, i cui operai erano obbligati a mantenere il silenzio assoluto sul proprio lavoro e, se si fossero lasciati sfuggire anche una sola parola al riguardo, rischiavano una condanna per alto tradimento. A quanto si diceva, considerato il suo passato di importante centro di addestramento e formazione militare, Fort Wyvern era stato scelto per costruire al suo interno un enorme complesso sotterraneo e biologicamente sicuro, in cui sarebbero state portate avanti diverse ricerche per la guerra chimico-biologica. Visti gli eventi delle ultime dodici ore, ritenevo che quelle voci contenessero una buona dose di verità, anche se non avevo mai avuto una prova concreta che quella fortezza sotterranea esistesse davvero. Comunque, la base militare abbandonata offre scenari che lasciano sbalorditi, fanno venire i brividi e portano a domandarsi fino a che punto può arrivare la follia umana, e lo stesso accade in qualsiasi altro laboratorio per lo studio di una guerra criobiologica. Allo stato attuale, Fort Wyvern mi appare come un macabro parco di divertimenti a tema, suddiviso in vari
settori, un po' come Disneyland, con la differenza che qui viene ammesso un solo visitatore, accompagnato dal suo fedele cane. La Città Morta è uno dei miei settori preferiti. La Città Morta è il nome che gli ho dato io, non come veniva chiamata quando Fort Wyvern viveva la sua età dell'oro. Consiste in oltre tremila villette singole e bifamigliari, a quel tempo occupate dai militari in servizio attivo, e dai loro dipendenti, che avevano scelto di abitare all'interno della base. Da un punto di vista architettonico, queste semplici casette non hanno nulla di particolare e sono praticamente tutte uguali; erano state costruite per offrire un minimo di conforto alle famiglie, composte per lo più da giovani coppie, che le occupavano per un massimo di due anni. Ma nonostante la loro somiglianzà, c'è in loro qualcosa di grazioso e, quando si entra in quelle stanze vuote, si percepiscono ancora l'amore, le risate, le riunioni tra amici di cui sono state colme. Adesso, lungo le strade della Città Morta, che si intersecano con precisione militare, la polvere si è accumulata sotto i marciapiedi e gli amaranti secchi attendono di essere spazzati dal vento. Dopo la stagione delle pioggie, l'erba si tinge rapidamente di un colore marrone che non l'abbandona più per il resto dell'anno. I cespugli sono inariditi e molti alberi, ormai morti, hanno rami secchi e più neri del cielo scuro al quale sembrano aggrapparsi. Le case sono invase dai topi e gli uccelli costruiscono i nidi sugli architravi delle porte d'ingresso e imbrattano le piccole verande. La logica suggerirebbe di mantenere in buono stato tutte quelle strutture in vista di un possibile utilizzo, oppure di demolirle completamente; ma non ci sono soldi né per una cosa né per l'altra. Il materiale con cui le case sono state costruite e gli arredi interni valgono meno di quanto verrebbe a costare il loro recupero, di conseguenza non si riesce a raggiungere accordo con eventuali ditte specializzate in questo settore. Sono state così abbandonate alle intemperie, proprio come le città fantasma sorte durante gli anni della corsa all'oro. Girovagando per la Città Morta, si ha l'impressione che tutti gli esseri umani siano scomparsi dalla faccia della terra o morti per qualche epidemia, e ci si sente davvero soli al mondo. Oppure è come se si fosse diventati matti e si vivesse in un mondo puramente soggettivo, in cui rifiutiamo di vedere coloro che ci circondano. Oppure si è morti e, finiti all'inferno, siamo condannati a un perenne isolamento. Quando, a volte, si incontrano due coyote che avanzano guardinghi fra le case in cerca di una preda, magri, con lunghe zanne e occhi di fuoco, si è pronti a credere che siano de-
moni e che quindi quello sia davvero il mondo dei morti. Tuttavia, se il proprio padre è stato professore di poesia e se si è dotati di una fantasia che è un circo a trecento piste, la Città Morta più essere qualunque cosa. Tuttavia, quella sera non avevo tempo e decisi di attraversare in bicicletta alcune strade senza fermarmi. La nebbia aveva ancora raggiunto l'interno e l'aria asciutta era più tiepida di quella lungo la costa; sebbene la luna fosse ormai tramontata, il cielo scintillava di stelle ed era la notte ideale per un giro turistico. Ma per visitare accuratamente anche soltanto un settore di quel parco di divertimenti che è Wyvern, sarebbe necessario avere a disposizione un'intera settimana. Non avevo la sensazione di essere osservato. Eppure, dopo quanto avevo appreso nelle ultime ore, sapevo con certezza che, durante le mie precedenti visite, qualcuno mi aveva tenuto sotto controllo, anche se non in modo continuato. Oltre i confini della Città Morta, vi sono numerose caserme e altri edifici. Uno spaccio alimentare, un barbiere, una lavanderia a secco, un fiorista, un panettiere, una banca; le insegne sono ormai sbiadite e incrostate di polvere. Un nido per i più piccoli. I figli adolescenti dei militari frequentavano la scuola superiore a Moonlight Bay. Ma la cittadina era dotata di un asilo infantile e di una scuola elementare. Nella biblioteca della base, gli scaffali ricoperti di ragnatele sono completamente vuoti, a parte un libro: Il giovane Holden. Uno studio dentistico e un piccolo ospedale. Un cinema, il cui cartellone riporta una sola, enigmatica parola: CHI. Un bowling. Una piscina olimpionica, adesso vuota, il cui fondo si era riempito di crepe e di detriti. Una palestra. Nella fila di scuderie che non ospitano più cavalli, quando si alza il vento, le porte aperte oscillano avanti e indietro con un coro di sinistri cigolii. Il campo di softball è coperto di erbacce e la carcassa di un leone di montagna, che per più di un anno è rimasta a imputridire nel recinto del battitore, è ormai ridotta a scheletro. Ma la mia destinazione non era nessuno di questi luoghi. Li superai, dirigendomi verso un edificio simile a un hangar che sorge sopra l'alveare di locali sotterranei in cui, nell'autunno precedente, avevo trovato il berretto con la scritta MYSTERY TRAIN. Agganciata al portapacchi posteriore della mia bicicletta, ho una torcia elettrica, come quelle usate dalla polizia, dotata di un interruttore che consente di regolare la luce secondo tre diverse gradazioni di intensità. Parcheggiai la bicicletta vicino all'hangar e presi la torcia. Orson trova Fort Wyvern spaventoso o affascinante, a seconda dell'umo-
re, ma, in ogni caso, resta sempre al mio fianco senza lamentarsi. Questa volta era chiaramente spaventato, tuttavia non uggiolò, né ebbe un attimo di esitazione. La porticina, che si apriva in uno degli enormi portoni dell'hangar, non era chiusa a chiave. Accesi la torcia ed entrai, seguito da Orson. Questo hangar non si trova nei pressi del campo d'aviazione ed è improbabile che i velivoli venissero tenuti o riparati qui dentro. In alto, si vedono le rotaie di scorrimento lungo le quali una gru mobile, che ora non c'è più, si spostava da un'estremità all'altra del locale. A giudicare dalla massa e dalla complessità dei supporti d'acciaio di queste rotaie, la gru doveva essere in grado di sollevare oggetti considerevolmente pesanti. Un tempo, sopra le lastre di rinforzo in acciaio, ancora fissate al cemento, dovevano esserci stati imponenti macchinari. In altri punti, alcuni pozzi dalla strana forma, scavati nel pavimento e ora vuoti, dovevano aver ospitato apparecchiature idrauliche, usate per scopi a me del tutto ignoti. Il fascio luminoso della torcia faceva balzare dalle rotaie di scorrimento forme geometriche di luce e ombra. Come ideogrammi di una lingua sconosciuta, disegnavano le pareti e la curva del soffitto di lamiera ondulata, rivelando che almeno metà dei vetri degli alti lucernari erano rotti. Avevo l'impressione, tutt'altro che piacevole, di trovarmi non in un'officina meccanica o in un centro per la manutenzione di velivoli, bensì in una chiesa abbandonata. Le macchie d'olio e di sostanze chimiche sul pavimento emanavano un profumo d'incenso. Il freddo pungente non era unicamente una sensazione fisica, ma sembrava colpire anche lo spirito, come se ci si trovasse in un luogo sconsacrato. In un angolo dell'hangar, vi è un atrio con il pozzo di un ascensore, privo di cabina e di meccanismo di movimento, e una serie di gradini che scendevano sottoterra. Non ne sono certo ma, a giudicare da quanto è stato lasciato da coloro che hanno svuotato l'edificio, ritengo che l'accesso a questo atrio avvenisse attraverso un altro locale, e ho l'impressione che l'esistenza dell'ascensore e delle scale fosse stata tenuta segreta al personale che lavorava nell'hangar o che, per qualche motivo, doveva attraversarlo. In cima alla tromba delle scale vi è ancora una massiccia intelaiatura e una soglia, entrambe d'acciaio, ma senza la porta. Scacciai dai gradini ragni e scarafaggi, illuminandoli con la torcia, e precedetti Orson giù per i gradini, calpestando uno strato di polvere sul quale le uniche impronte visibili erano quelle lasciate da noi due in occasione delle precedenti visite. I gradini scendono per tre piani, ognuno dei quali occupa un'area note-
volmente più ampia di quella dell'hangar soprastante. Questo labirinto di corridoi e di locali privi di finestre è stato sistematicamente svuotato di qualsiasi oggetto che potesse fornire un'indicazione sulla natura delle attività che vi si svolgevano... non restava altro che il nudo cemento. Erano stati asportati perfino tutti gli elementi del sistema di aerazione e dell'impianto idraulico. Ho la sensazione che quel lavoro così meticoloso non fosse stato eseguito unicamente per tenere nascosto lo scopo per cui venivano usati i locali. Anche se la mia è solo un'intuizione, credo che abbiano fatto sparire ogni traccia delle loro attività perché provavano vergogna. Tuttavia non credo che questo fosse il laboratorio in cui si svolgevano le ricerche per la guerra chimico-biologica. Considerato l'alto livello di isolamento richiesto per condurre simili esperimenti, quei locali sotterranei dovevano trovarsi in una zona più isolata di Fort Wyvern, occupare un'area decisamente più vasta di questa, essere molto più nascosti e scavati a una profondità assai maggiore. Oltretutto, quel complesso pare sia ancora operativo. Nondimeno sono convinto che, sotto questo hangar, venissero svolte strane e pericolose attività. Vi sono numerosi locali che, pur ridotti a semplici strutture di cemento, presentano caratteristiche che lasciano sconcertati e che, per la loro stranezza, risultano decisamente inquietanti. Uno dei locali più misteriosi si trova al terzo livello, dove la polvere non si è ancora depositata, al centro del piano, circondato da corridoi e da stanze più piccole. Si tratta di un enorme ovoide, lungo più di trentacinque metri, con un diametro di meno di venti metri nel punto più largo, e che diventa più affusolato alle estremità. Pareti, soffitto e pavimento sono curvi; quando vi entro, mi sembra di essere dentro il guscio vuoto di un ovo gigantesco. All'ovoide si accede attraverso un piccolo spazio adiacente che, con tutta probabilità, fungeva da cassa d'aria. Invece di una porta, doveva esserci un portello; l'unica apertura nelle pareti di questo ovoide è un foro circolare del diametro di un metro e mezzo. Seguito da Orson oltrepassai la soglia curva e leggermente rialzata, introducendomi nel foro, e illuminai con la torcia la parete circostante, restandone come sempre meravigliato: un metro e mezzo di cemento armato, colato sul posto. All'interno dell'uovo gigantesco, la curva, liscia e continua che forma le pareti, il pavimento e il soffitto, è rivestita da una sostanza simile a vetro,
dello spessore di cinque o sei centimetri, lattiginosa e vagamente dorata. Ma non si tratta di vetro, perché è infrangibile e perché, quando ho provato a battervi sopra le nocche con una certa forza, emette un suono di campane tubolari. Inoltre non si vedono giunzioni di alcun tipo. Questo insolito materiale è lucido e scivoloso come porcellana bagnata. La luce della torcia penetra nel rivestimento, con guizzi e tremolii, rimbalza dalle lievi spirali dorate che lo attraversano e brilla sulla superficie. Tuttavia, quando giungemmo al centro dell'ovoide, il rivestimento non era affatto scivoloso. Le suole di gomma delle mie scarpe scricchiolavano appena. Le unghie di Orson emettevavo un ticchettio quasi impercettibile. Nella notte in cui era morto mio padre, in questa notte speciale, volevo tornare nel luogo dove, nell'autunno precedente, avevo trovato il berretto Mystery Train. Era a terra, proprio al centro della stanza ovoidale, l'unico oggetto rimasto in tutti i tre piani scavati sotto l'hangar. Avevo pensato che fosse stato semplicemente dimenticato dall'ultimo operaio o ispettore uscito dal locale. Ora avevo il sospetto che, in quella notte di ottobre, persone a me ignote avevano saputo della mia presenza nel complesso, mi avevano seguito un piano dopo l'altro senza che me ne accorgessi ed erano poi riusciti a precedermi, lasciando il berretto dove erano certi che lo avrei trovato. Se le cose si erano svolte in questo modo, il loro non sembrava un gesto dettato da cattive intenzioni, ma piuttosto un saluto, forse addirittura un atto di cortesia. L'intuito mi diceva che le parole Mystery Train avevano a che vedere con il lavoro di mia madre. Ventun mesi dopo la sua morte, qualcuno mi aveva dato il berretto perché rappresentava un collegamento con lei; chiunque mi avesse fatto quel dono, evidentemente ammirava mia madre e mi rispettava perché ero suo figlio. Volevo credere che, in quell'impenetrabile cospirazione, vi fosse davvero qualcuno che non considerava mia madre come una criminale e che provava solidarietà nei miei confronti, anche se non arrivava a sentire quel rispetto di cui Roosevelt aveva parlato. Volevo credere che, in questa storia, vi fossero anche i buoni, non solo i cattivi, perché, se dovevo venire a sapere che mia madre era responsabile della distruzione del nostro mondo, preferivo ricevere l'informazione da persone convinte delle sue buone intenzioni. Non volevo che a raccontarmi la verità fossero individui che, guardandomi, avrebbero visto mia madre e mi avrebbero gridato, come fosse una
maledizione e un'accusa: Tu! «C'è qualcuno?» domandai. La domanda formò due spirali lungo le pareti dell'ovoide e mi tornò indietro con due echi separati, una per orecchio. Orson sbuffò con aria indagatrice e il suo verso indugiò sulle pareti ricurve, come il mormorio della brezza sull'acqua. Non ricevemmo alcuna risposta. «Non sono in cerca di vendetta», dichiarai. «Ora non più.» Nulla. «Non intendo nemmeno rivolgermi alle autorità. È troppo tardi per rimediare a quello che è stato fatto. Me ne sono reso conto e l'ho accettato.» L'eco della mia voce svanì gradualmente. Come a volte succedeva, l'ovoide si colmò di un misterioso silenzio che sembrava più denso dell'acqua. Attesi un minuto prima di infrangere di nuovo quel silenzio: «Non voglio che qualcuno cancelli dalla faccia della terra Moonlight Bay... compresi me e i miei amici... senza un buon motivo. Tutto ciò che voglio è capire». Evidentemente nessuno intendeva darmi delle spiegazioni. In ogni caso, ci avevo provato. Non ero deluso. Solo di rado mi sono permesso di sentirmi deluso per qualcosa. Se c'è una lezione che ho imparato nella vita, è quella di avere pazienza. Al di sopra di queste caverne costruite dall'uomo, l'alba si stava avvicinando rapidamente e io non potevo dedicare altro tempo a Fort Wyvern. Dovevo compiere un'altra sosta della massima importanza, prima di andare a casa di Sasha per aspettare la quotidiana fine del regno del sole. Orson e io attraversammo il pavimento luccicante, le cui spirali dorate rifrangevano la luce della torcia come galassie di stelle sotto i nostri piedi. Al di là del foro d'accesso, nella stanza di cemento grezzo, trovammo la valigetta di mio padre. Quella che avevo posato nel garage dell'ospedale, prima di nascondermi sotto il carro funebre e che, dopo essere uscito dal locale refrigerato, non avevo più trovato. Naturalmente, cinque minuti prima, quando eravamo passati di lì, la valigetta non c'era. Le passai accanto e, portandomi al centro del locale, lo percorsi tutto con il fascio di luce della torcia. Nessuno. Orson si era diligentemente fermato accanto alla ventiquattrore e io tor-
nai indietro. Sollevai la valigetta da terra; era talmente leggera che pensai fosse vuota. Ma, in quel momento, sentii qualcosa che ruzzolava all'interno. Mentre facevo scattare le serrature, provai una stretta al cuore al pensiero di trovarvi dentro un altro paio di occhi. Per controbilanciare quest'orribile immagine, richiamai alla mente l'adorabile viso di Sasha e il cuore riprese a battere a ritmo normale. Una volta aperta la valigetta, ebbi l'impressione che contenesse solo aria. Gli indumenti, gli oggetti da toilette, i libri e gli altri effetti personali di mio padre erano scomparsi. Poi, in un angolo, scorsi la fotografia. Si trattava proprio dell'istantanea di mia madre che avevo promesso di far cremare insieme con il corpo di mio padre. Sollevai la foto, illuminandola con la torcia. Era una donna così bella. E i suoi occhi sprizzavano intelligenza. Scrutando attentamente il suo volto, mi resi conto che c'era qualcosa in me che le somigliava e che spiegava per quale motivo Sasha provasse una certa attrazione nei miei confronti. Nella foto, mia madre sorrideva, e il suo sorriso era molto simile al mio. Anche Orson sembrava voler dare un'occhiata alla foto e io la voltai verso di lui. Per alcuni, lunghi secondi, i suoi occhi fissarono l'immagine. Quando distolse lo sguardo, uggiolò sommessamente e il suo gemito era l'essenza della tristezza. Orson e io siamo veramente fratelli. Io sono il frutto del cuore e dell'utero di Wisteria. Orson è il frutto della sua mente. Non abbiamo lo stesso sangue, ma vi sono cose più importanti del sangue. Quando Orson uggiolò di nuovo, io dissi in tono fermo: «È morta e seppellita», con quella spietata concentrazione sul futuro che mi permette di andare avanti giorno per giorno. Rinunciando a guardare ancora una volta il volto di mia madre, infilai la fotografia nel taschino della camicia. Niente dolore. Niente disperazione. Niente autocommiserazione. Comunque, mia madre non è completamente morta. Vive in me e in Orson, e forse in altri come lui. Indipendentemente dai crimini contro l'umanità di cui potrebbero accusarla, mia madre continua a vivere in noi, nell'Uomo Elefante e nel suo strano cane. E, modestamente, ritengo che il mondo sia migliore con noi. Non facciamo parte dei cattivi.
Mentre uscivamo dal piccolo locale, dissi ad alta voce: «Grazie» a chiunque avesse lasciato la fotografia, anche se non sapevo se mi potesse sentire e se le sue intenzioni fossero state buone. All'esterno, trovai la bicicletta dove l'avevo parcheggiata. Anche le stelle erano dove le avevo lasciate. Riattraversai la periferia della Città Morta e mi diressi a Moonlight Bay dove mi attendevano la nebbia... e qualcos'altro. PARTE QUINTA Verso l'alba 30 La casa rivestita di assicelle di legno scuro e dalle ampie verande bianche sembrava essere scivolata per quasi cinquemila chilometri durante un ribaltamento del continente, passato del tutto inosservato, ed essere finita sulle colline della California che guardano il Pacifico. Più inserita nel paesaggio di quanto sarebbe logico aspettarsi, affacciata su un acro di terra, ombreggiata da cembri, la villetta emana la simpatia, la gentilezza e il calore della famiglia che vi abita. A quell'ora, tutte le finestre erano immerse nell'oscurità ma, di lì a poco, dietro alcuni vetri si sarebbe accesa la luce. Come sempre, Rosalina Ramirez si sarebbe alzata prima dell'alba per far trovare una ricca colazione a suo figlio Manuel, che presto sarebbe tornato dal doppio turno di lavoro alla stazione di polizia... sempre che non fosse stato trattenuto per compilare la documentazione relativa alla morte del comandante Stevenson. Dato che era un cuoco migliore di sua madre, Manuel avrebbe preferito prepararsi da solo la colazione, ma avrebbe comunque mangiato ciò che gli veniva presentato e ne avrebbe tessuto le lodi. In quel momento Rosalina stava ancora dormendo; occupava la camera matrimoniale in cui, un tempo, aveva dormito suo figlio, camera che lui non aveva più voluto usare da quando sua moglie era morta dando alla luce Toby. Al di là del giardino che si estende sul retro della casa, sorge un piccolo edificio dal tetto spiovente, anch'esso rivestito di legno e con le finestre dalle persiane bianche. La proprietà si trova all'estremità meridionale della città e dal giardino si accede direttamente ai viottoli percorsi dai cavalli e alle colline. Il primo proprietario della casa aveva tenuto i propri cavalli in questo edificio. Adesso la struttura è stata trasformata in un laboratorio dove Toby Ramirez
si prepara per guadagnarsi un giorno da vivere con il vetro. Mentre mi avviavo verso la casetta, vidi attraverso la nebbia che, dalle finestre, usciva una luce abbagliante. Spesso Toby si sveglia molto prima dell'alba e va a lavorare nel laboratorio. Appoggiai la bicicletta contro il muro della casetta e mi avvicinai alla finestra più vicina. Fermandosi accanto a me, Orson appoggiò le zampe anteriori sul davanzale e si mise a sbirciare all'interno. Quando vado a trovare Toby per ammirarlo mentre crea le sue opere, di solito non entro nel laboratorio. I pannelli al neon sono troppo forti. Inoltre, il vetro al borosilicato viene lavorato a una temperatura che supera i milleduecento gradi ed emette una quantità di luce molto intensa, che può danneggiare gli occhi di qualsiasi persona, non solo i miei. Se Toby ha concluso una fase del suo lavoro, prima di passare a quella successiva, spegne i pannelli e chiacchiera un po' con me. Attraverso la finestra, vidi che in quel momento Toby aveva inforcato i suoi occhialoni con le lenti al didimio e se ne stava seduto sulla sedia da lavoro, davanti al tavolo per la soffiatura del vetro e davanti al bruciatore Fisher Multi-Flame. Aveva appena terminato di modellare un grazioso vaso dal lungo collo, ancora così caldo da mandare bagliori rossi e oro; adesso stava provvedendo a temprarlo. Quando un oggetto di vetro viene tolto improvvisamente dalla fiamma, di solito si raffredda troppo in fretta, con conseguenti tensioni che portano l'oggetto a rompersi. Per evitare che questo avvenga, bisogna temprarlo, ovvero raffreddarlo gradualmente. La fiamma era alimentata da gas naturale mescolato a ossigeno puro proveniente da un serbatoio a pressione incatenato al tavolo. Durante l'operazione di tempratura, Toby faceva uscire piccole quantità di ossigeno, riducendo gradualmente la temperatura e dando alle molecole del vetro il tempo necessario per assumere una posizione più stabile. Considerati i numerosi pericoli che la soffiatura del vetro comportava, vi era molta gente a Moonlight Bay che considerava irresponsabile da parte di Manuel permettere che suo figlio, un ragazzo Down, si impegnasse in un tipo di lavoro artistico e artigianale così impegnativo. C'era chi immaginava, prevedeva e attendeva con impazienza il verificarsi di terribili catastrofi. All'inizio, nessuno si oppose al sogno di Toby più dello stesso Manuel. Per quindici anni, la casetta era stata usata come laboratorio dal fratello maggiore di Carmelita, Salvador, un eccellente soffiatore di vetro. Da
bambino, Toby aveva trascorso ore e ore con lo zio, infilando anche lui gli occhialoni protettivi, restando a osservare l'artista al lavoro, qualche volta indossando grossi guanti di Kevlar per trasferire un vaso o una ciotola da o verso il forno per la tempratura. Mentre a molti sembrava che Toby trascorresse quelle ore in uno stato di stordimento, lo sguardo spento e il sorriso ebete, in realtà aveva imparato il mestiere senza che nessuno glielo avesse insegnato direttamente. Per riuscire a superare gli ostacoli, le persone intellettualmente svantaggiate spesso devono possedere una pazienza sovrumana. Toby era rimasto seduto giorno dopo giorno, anno dopo anno, nel laboratorio dello zio, osservando e imparando lentamente. Quando, due anni prima, Salvador era morto, Toby, che all'epoca aveva solo quattordici anni, aveva chiesto al padre di poter continuare l'opera dello zio. Manuel non aveva preso seriamente la richiesta e, con delicatezza, aveva cercato di scoraggiare il figlio dal perseguire quel sogno impossibile. Una mattina, prima dell'alba, aveva trovato Toby nel laboratorio. All'estremità del tavolo, posata su un ripiano di Ceramfab resistente al fuoco, vi era una famiglia di cigni di vetro soffiato. Accanto ai cigni vi era un vaso, appena terminato e temprato, nel quale era stato introdotto un determinato quantitativo di impurità compatibili, che formavano nel vetro misteriose volute blu-notte con uno scintillio argenteo simile alla luce delle stelle. Manuel aveva immediatamente compreso che quell'opera non aveva nulla da invidiare ai migliori vasi prodotti da Salvador; proprio in quel momento, Toby stava temprando un altro piccolo capolavoro. Il ragazzo aveva appreso dallo zio gli aspetti tecnici dell'arte della soffiatura del vetro e, nonostante il suo ritardo mentale, sapeva molto bene come evitare di farsi male. Ma nel suo lavoro vi era anche la magia della genetica. Toby possedeva un notevole talento, qualcosa che nessuno poteva avergli insegnato. Non era solo un abile artigiano, ma anche un artista, e non solo un artista ma forse un idiot savant al quale l'ispirazione dell'artista e la tecnica dell'artigiano venivano naturali come le onde giungono alla riva. I negozi di articoli da regalo di Moonlight Bay, Cambria e su fino a Carmel, vendevano gli oggetti di vetro creati da Toby. Probabilmente, nel giro di pochi anni, sarebbe stato in grado di mantenersi da solo. A volte la natura getta un'ancora di salvezza a coloro sui quali infierisce. Un esempio è la mia capacità di comporre frasi e brani non proprio disprezzabili. Mentre Orson e io sbirciavamo dalla finestra, nel laboratorio una luce
color arancio sfolgorava e si innalzava dall'ampia fiamma per la tempratura. Toby stava attento a far girare il vaso a forma di pera in modo che venisse inondato uniformemente dal fuoco. Con il suo collo taurino, le spalle tonde, le braccia e le grosse gambe proporzionate ma corte, Toby avrebbe potuto essere uno gnomo da fiaba seduto davanti al fuoco di un caminetto. Sopracciglia folte e spioventi. Radice del naso piatta. Orecchie troppo basse su una testa leggermente troppo piccola per il suo corpo. I lineamenti dai contorni arrotondati e le pieghe formate dalla pelle nell'angolo interno dell'occhio gli conferiscono un'espressione perennemente sognante. Tuttavia, seduto sull'alta sedia da lavoro, mentre fa girare il vetro nella fiamma e regola il flusso d'ossigeno con estrema precisione, il viso scintillante di luce riflessa e gli occhi nascosti dietro gli occhialoni al didimio, Toby non sembrava affatto un individuo dall'intelligenza inferiore alla media, non mi appariva in alcun modo svilito dalla sua condizione. Al contrario, osservato nell'atto creativo, il ragazzo acquistava importanza e dignità. Orson sbuffò allarmato. Posò le zampe anteriori a terra, si voltò, poi si irrigidì, acquattandosi. Mi girai anch'io e scorsi una sagoma indistinta che si dirigeva verso di noi. Nonostante l'oscurità e la nebbia, lo riconobbi immediatamente dalla sua andatura tranquilla. Era Manuel Ramirez, il padre di Toby, numero due del dipartimento di polizia di Moonlight Bay ma, almeno per il momento, salito alla posizione più elevata a causa della morte violenta del suo capo. Infilai le mani in tasca. Strinsi la destra intorno alla Glock. Manuel e io eravamo amici. Non mi sarei sentito a mio agio nel puntargli contro una pistola e certamente non gli avrei mai sparato. A meno che non fosse più il Manuel che conoscevo. A meno che, come Stevenson, non fosse diventato qualcun altro. Si fermò a circa tre metri di distanza. Nel chiarore arancione della fiamma per la tempratura che trafiggeva la finestra del laboratorio, vidi che Manuel indossava ancora la divisa color cachi. La pistola era nella fondina, appoggiata sul fianco destro. Sebbene tenesse i pollici infilati nella cintura, sarebbe stato in grado di sfoderare l'arma con la stessa rapidità con cui io avrei estratto la Glock dalla tasca. «Hai già finito il turno?» domandai, pur sapendo che era troppo presto. Invece di rispondere, disse: «Spero che tu non voglia birra, tamales e film di Jackie Chan a quest'ora». «Ho pensato di venire a salutare Toby, nel caso stesse facendo una pausa
tra un lavoro e l'altro.» Il viso di Manuel, troppo segnato dalle preoccupazioni per i suoi quarant'anni, aveva un'espressione cordiale per natura. Perfino in quella luce infernale, il suo sorriso appariva sereno e accattivante. Da quanto potevo vedere, gli unici bagliori nei suoi occhi erano i riflessi della luce che proveniva dal laboratorio. Naturalmente, quella stessa luce poteva mascherare lo scintillio che avevo scorto nello sguardo di Lewis Stevenson. Orson adesso era più tranquillo e non stava più acquattato, manteneva però un atteggiamento guardingo. Manuel non mostrava la rabbia interna o l'eccessiva agitazione di Stevenson. Come sempre, la sua voce era dolce, quasi musicale. «Alla fine, non sei venuto alla stazione di polizia.» Esitai, pensando a che cosa rispondere, poi decisi di dire la verità. «Sì, sono venuto.» «Quindi, quando mi hai telefonato, eri già nelle vicinanze», intuì. «Proprio dietro l'angolo. Chi è quel tipo calvo con l'orecchino?» Manuel rimuginò sulla risposta da darmi, poi decise di seguire il mio esempio. «Si chiama Carl Scorso.» «Ma chi è?» «Un pezzo di merda qualsiasi. Fin dove vuoi arrivare con questa storia?» «Non voglio arrivare da nessuna parte.» Tacque, incredulo. «Mi ero lanciato in una crociata. Ma ora so di averla persa.» «Devi essere cambiato completamente, per accettare una sconfitta.» «Anche se riuscissi a mettermi in contatto con la polizia di un'altra città o con i mezzi d'informazione, non sono abbastanza al corrente della situazione per risultare convincente.» «E non hai prove.» «Niente di concreto. Fra l'altro, non penso che mi permetterebbero di contattare qualcuno. Se pure convincessi la polizia o un giornalista a venire qui, credo che né io né i miei amici saremmo ancora vivi per dargli il benvenuto.» Manuel non rispose, ma il suo silenzio era tutto ciò di cui avevo bisogno. Poteva essere ancora un tifoso di baseball. Poteva ancora amare la musica country, o Abbott e Costello. Poteva ancora comprendere, come me, che cosa significava vivere un'esistenza limitata e sentire la mano del destino. Forse poteva perfino continuare a provare simpatia nei miei confronti... ma
non era più un amico. Anche se, probabilmente, non avrebbe avuto il coraggio di premere il grilletto e di uccidermi personalmente, starebbe stato a guardare mentre qualcun altro lo faceva. Sentii il cuore inondato di tristezza, una malinconia densa, qualcosa che non avevo mai provato prima d'allora, simile alla nausea. «È coinvolto tutto il dipartimento di polizia, non è così?» Il sorriso era svanito. Appariva stanco. Quando nei suoi occhi scorsi la fatica al posto dell'ira, compresi che mi avrebbe rivelato più di quanto avrebbe dovuto. Lacerato dal senso di colpa, non sarebbe stato capace di mantenere il segreto. Già sospettavo che una delle rivelazioni avrebbe riguardato mia madre. Ero così riluttante all'idea di ascoltarla che fui sul punto di andarmene. Ma restai. «Sì», confermò. «Tutto il dipartimento.» «Perfino tu.» «Oh, mi amigo, specialmente io.» «Sei stato anche tu infettato dal virus, o di qualunque cosa si tratti, uscito dai laboratori di Wyvern?» «'Infezione' non è proprio il termine esatto.» «Ma ci va abbastanza vicino.» «Nel dipartimento, ce l'hanno tutti. Tranne me. Non che io sappia. Non ancora.» «Quindi, forse gli altri non hanno avuto scelta. Ma tu sì.» «Avevo deciso di collaborare perché, in tutto questo, potevano esserci aspetti positivi molto più numerosi di quelli negativi.» «Nella fine del mondo?» «Si stanno impegnando per rimediare a quello che è successo.» «Lavorano a Wyvern, nei locali sotterranei?» «Esatto. Laggiù e in altri posti. E se riusciranno a trovare un modo per risolvere i problemi... allora da questo si potrebbero ottenere risultati meravigliosi.» Mentre pronunciava queste parole, il suo sguardo si spostò da me alla finestra del laboratorio. «Toby», mormorai. Gli occhi di Manuel tornarono su di me. «Se ho ben capito, nel caso che riuscissero a riprendere il controllo di questa specie di epidemia, tu speri che siano in grado di aiutare Toby.» «La cosa dovrebbe interessare personalmente anche te, Chris.»
Dal tetto del piccolo laboratorio, un gufo sembrò ripetere per cinque volte, e in tono interrogativo, il pronome «tu», come se sospettasse di tutti gli abitanti di Moonlight Bay. Inspirai profondamente, prima di dire: «È questo l'unico motivo per cui mia madre portava avanti alcune ricerche biologiche per scopi militari. L'unico motivo. Perché vi erano ottime possibilità di trovare una cura per la mia XP». «E potrebbero essercene ancora.» «Si trattava di un progetto bellico?» «Non fargliene una colpa, Chris. Soltanto un progetto bellico poteva avere miliardi di dollari alle spalle. E lei non aveva mai avuto la possibilità di svolgere le proprie ricerche per scopi giusti. Costavano troppo.» Questo era senz'altro vero. Soltanto un progetto bellico poteva contare sulle risorse illimitate necessarie a finanziare le complesse e difficili ricerche che mia madre intendeva svolgere. Wisteria Jane Milbury in Snow era una genetista teorica. Il che stava a significare che, mentre lei svolgeva un lavoro mentale, gli altri scienziati portavano avanti quello fisico. Non trascorreva molto tempo nei laboratori, nemmeno in quelli virtuali del computer. Il suo laboratorio era la mente, un laboratorio dalle bizzarre attrezzature. Mia madre teorizzava e, sotto la sua guida, gli altri cercavano di dimostrare la validità di tali teorie. Ho già detto che era una donna intelligente, ma forse non ho spiegato che lo era in modo straordinario. Avrebbe potuto entrare in qualsiasi università del mondo. Era richiesta da tutti. Mio padre amava Ashdon, ma sarebbe stato pronto a seguirla ovunque. Non avrebbe avuto problemi a guadagnarsi la stima di qualsiasi ambiente accademico. Ma lei aveva scelto di restare ad Ashdon per me. Le università veramente importanti sorgono perlopiù nelle città di dimensioni medio-grandi; luoghi in cui, durante il giorno, la mia esistenza sarebbe stata limitata esattamente come a Moonlight Bay, ma che, di notte, non avrebbero potuto offrirmi una vita soddisfacente. Le grandi città sono illuminate anche dopo il tramonto. E i pochi quartieri bui non sono luoghi nei quali un ragazzo in bicicletta possa avventurarsi tra il crepuscolo e l'alba. Aveva quindi scelto di limitare la propria esistenza per permettere a me di viverne una migliore. Aveva accettato di restare confinata in una cittadina, disposta a non sviluppare appieno il proprio potenziale, pur di offrirmi la possibilità di realizzare il mio.
Quando sono nato, i test per stabilire i danni genetici in un feto erano ancora piuttosto rudimentali. Se fosse stato possibile eseguire analisi di livello più avanzato in grado di individuare la mia XP entro qualche settimana dal concepimento, forse lei avrebbe scelto di non farmi nascere. Amo il mondo in tutta la sua bellezza e la sua particolarità. Ma, proprio a causa mia, nei prossimi anni il mondo diventerà più strano e forse meno bello. Se non fosse stato per me, mia madre non avrebbe mai collaborato con il progetto di Wyvern e non avrebbe mai indirizzato i suoi scienziati verso questi nuovi sentieri della ricerca. E noi non avremmo seguito uno di questi sentieri, né ci troveremmo sull'orlo di un precipizio. Orson si spostò per far spazio a Manuel, che si era avvicinato alla finestra. Rimase a fissare il figlio, con il viso in piena luce. Nei suoi occhi non scorsi alcun sinistro luccichio, ma soltanto un amore immenso. «In che modo potenziare l'intelligenza degli animali poteva essere sfruttato militarmente?» domandai. «Esiste forse una spia migliore di un cane, intelligente come un uomo, che venga inviato oltre le linee nemiche? Nessuno avrebbe avuto sospetti. Nessuno controlla i passaporti dei cani. Chi mai potrebbe eseguire una più accurata ricognizione di un campo di battaglia?» Già. E gli scienziati potevano anche creare un cane eccezionalmente robusto, intelligente come un essere umano e, in caso di necessità, dotato di una ferocia spaventosa. Risultato: un nuovo tipo di soldato; una perfetta macchina per uccidere, con in più la capacità di prendere decisioni strategiche. «Ero convinto che l'intelligenza dipendesse dalla grandezza del cervello.» «Non so che dirti. Sono soltanto un poliziotto», commentò, scrollando le spalle. «Oppure dal numero di circonvoluzioni della sua superficie.» «Evidentemente hanno scoperto che le cose non stanno così. Comunque», soggiunse Manuel, «in passato, avevano già ottenuto dei risultati positivi. Qualcosa che risale a molti anni fa, chiamato progetto Francis. Erano riusciti a creare un golden retriever incredibilmente intelligente. L'operazione Wyvern è stata decisa per sviluppare ulteriormente ciò che avevano appreso con quell'esperimento. E a Wyvern non si occupavano solo di intelligenza animale. Ma anche di potenziare quella umana, si studiavano un sacco di cose, davvero tante.»
Nel laboratorio, con le mani protette dai guanti di Kevlar, Toby immerse il vaso bollente in un secchio colmo a metà di vermiculite. Questa era la seconda fase del processo di tempratura. «Molte cose? Che altro facevano?» incalzai Manuel, mettendomi al suo fianco. «Volevano potenziare l'agilità, la velocità, la longevità degli esseri umani... trovando il modo di trasferire il materiale genetico non solo da una persona all'altra, ma addirittura da specie a specie.» Da specie a specie. Udii me stesso mormorare: «Oh, mio Dio». Toby versò altra vermiculite granulare sul vaso, ricoprendolo. La vermiculite è un ottimo isolante che permette al vetro di raffreddarsi molto lentamente e in maniera graduale. Mi tornò alla mente ciò che Roosevelt Frost aveva detto: cani, gatti e scimmie non erano gli unici soggetti sui quali, nei laboratori di Wyvern, venivano effettuati gli esperimenti, e che c'era anche di peggio. «Persone», mormorai come intontito. «Eseguivano gli esperimenti sulle persone?» «Soldati che la corte marziale aveva giudicato colpevoli di omicidio e che, condannati all'ergastolo, avrebbero scontato la pena nelle carceri militari. Potevano marcire là dentro... oppure prendere parte al progetto e, magari, ottenere in cambio la libertà.» «Ma fare degli esperimenti sugli esseri umani...» «Dubito che tua madre ne sapesse qualcosa. Non sempre le dicevano in che modo utilizzavano le sue idee.» Toby doveva aver sentito le nostre voci attraverso la finestra, perché si tolse i guanti e sollevò gli occhialoni, strizzando gli occhi per guardarci. Poi fece un cenno di saluto con la mano. «Ma è andato tutto storto», proseguì Manuel. «Io non sono certo uno scienziato. Non mi chiedere che cosa è successo. Ma è andato tutto storto. La bomba gli è scoppiata fra le mani. All'improvviso sono successe cose che nessuno si aspettava. Sono avvenuti cambiamenti che non avevano previsto. Gli animali e i prigionieri usati per gli esperimenti... gli innesti genetici che avevano subito, hanno portato a cambiamenti indesiderati e incontrollabili...» Rimasi in attesa, ma evidentemente non intendeva dirmi altro. Lo incalzai: «È scappata una scimmia. Un bunder. L'hanno trovata nella cucina di Angela Ferryman».
Manuel mi rivolse uno sguardo così penetrante che, senza dubbio, era riuscito a leggermi nel cuore, a sapere che cosa tenevo in tasca e quanti colpi avevo ancora nella Glock. «Catturarono la scimmia, ma fecero l'errore di attribuirne la fuga a un momento di distrazione da parte di qualcuno. Non si resero conto che era stata appositamente liberata. Non capirono che vi erano alcuni scienziati, fra quelli che lavoravano al progetto, che si stavano... trasformando.» «Trasformando in che cosa?» «Semplicemente... trasformando. Diventando qualcosa di nuovo. Stavano cambiando.» Toby spense il gas naturale. Il bruciatore Fisher ingoiò le proprie fiamme. «Ma cambiando come?» insistetti. «Il sistema che avevano messo a punto per inserire nuovo materiale genetico negli animali o nei prigionieri da laboratorio... improvvisamente è stato come se quel sistema avesse preso vita.» Toby spense le luci, lasciando acceso solo un pannello, in modo che io potessi fargli visita. Manuel proseguì nella spiegazione: «Senza che gli interessati ne fossero al corrente, una certa quantità di materiale genetico era stata inserita nel corpo di alcuni scienziati del progetto. Alla fine, alcuni di loro cominciarono ad avere molte caratteristiche in comune con gli animali». «Oh, Gesù.» «Forse troppe cose in comune. C'è stato un... episodio. Non conosco i particolari. Ma fu qualcosa di terribile. Alcune persone morirono. E tutti gli animali o riuscirono a fuggire oppure vennero liberati.» «Il branco.» «Il branco, che è composto da una dozzina di scimmie particolarmente intelligenti e crudeli, ma anche cani e gatti... e nove prigionieri.» «E sono ancora liberi?» «Tre prigionieri furono uccisi mentre cercavano di catturarli. La polizia militare chiese la nostra collaborazione. Ed è stato così che la maggior parte dei poliziotti del dipartimento è rimasta contagiata. Ma gli altri sei e tutti gli animali... non sono mai stati trovati.» La porticina del laboratorio si aprì e Toby apparve sull'uscio. «Papà!» Strascicando i piedi, si avvicinò al padre e lo abbracciò con forza. Poi mi sorrise. «Ciao, Christopher.» «Salve, Toby.»
«Ciao, Orson», esclamò il ragazzo, staccandosi dal padre e lasciandosi cadere sulle ginocchia per salutare il cane. Orson provava simpatia per Toby. Quindi accettò di essere accarezzato. «Venite dentro», ci invitò il ragazzo. Rivolgendomi a Manuel, dissi: «Adesso c'è un branco completamente nuovo. Non è violento come il primo. Per lo meno, non ancora. In ogni animale è stata inserita una trasmittente, il che significa che sono stati liberati di proposito. Perché?» «Per trovare le scimmie del primo branco e indicare dove si trovano. Riescono a nascondersi così bene che ogni tentativo di scovarle è stato inutile. È un piano dettato dalla disperazione, un tentativo di fare qualcosa prima che il branco cattivo, chiamiamolo così, si moltiplichi e diventi troppo numeroso. Ma nemmeno questo sta funzionando. Anzi, si sta creando un altro problema. «E non solo per colpa di padre Eliot.» Manuel mi fissò a lungo. «Sei riuscito a sapere molte cose, vero?» «Non abbastanza. E anche troppo.» «Comunque hai ragione. Il problema non è padre Tom. Alcune scimmie sono andate da lui. Ma altre, con un morso, si sono staccate vicendevolmente le trasmittenti. Questo nuovo branco... è formato da animali non violenti ma molto in gamba, che ora rifiutano di ubbidire agli ordini. Vogliono la libertà. A ogni costo.» Abbracciando Orson, Toby ripetè l'invito: «Entra, Christopher». Prima che potessi rispondere qualcosa, Manuel spiegò al figlio: «È quasi l'alba, Toby, e Chris deve andare a casa». Mi voltai a guardare verso est, ma se in quella direzione il cielo cominciava a farsi grigio, la nebbia mi impediva di notare il cambiamento. «Siamo amici da diversi anni», commentò Manuel. «Mi sembrava di doverti qualche spiegazione. Sei sempre stato gentile con Toby. Ma adesso ne sai abbastanza. Ho fatto quello che ritenevo giusto per un vecchio amico. Forse anche troppo. Ora tornatene a casa.» Senza che me ne fossi accorto, aveva posato la destra sul calcio della pistola. Diede qualche colpetto all'arma. «Tu e io non potremo più vedere i film di Jackie Chan insieme.» Mi stava dicendo di non tornare mai più. Non avrei cercato di mantenere viva la nostra amicizia, ma, di tanto in tanto, sarei venuto a trovare Toby. Non adesso, però. Chiamai Orson e Toby, pur riluttante, lo lasciò andare.
«Forse posso dirti ancora una cosa», ci ripensò Manuel, mentre afferravo il manubrio della bicicletta. «Gli animali, quelli buoni, la cui intelligenza è stata potenziata... i cani, i gatti, le nuove scimmie... conoscono la loro origine. Tua madre... be', si potrebbe dire che per loro è una leggenda... è colei che li ha creati... è quasi come fosse il loro dio. Sanno chi sei e ti rispettano. Nessuno di loro ti farebbe del male. Ma il branco originario e coloro che sono stati modificati... anche se, da un certo punto di vista, sono contenti di quello che stanno diventando, odiano ancora tua madre per via di ciò che hanno perso. E, per ovvi motivi, odiano anche te. Prima o poi, entreranno in azione. Contro di te. Contro quelli che ti sono vicini.» Annuii. Fino a quel momento, avevo agito proprio in base a un simile presupposto. «E tu non puoi proteggermi?» Non rispose. Con un braccio, cinse le spalle del figlio. In questa nuova Moonlight Bay, la famiglia poteva ancora contare, ma il concetto di comunità stava già scomparendo. «Non puoi o non vuoi proteggermi?» domandai più a me stesso che a lui. Senza attendere il silenzio che ne sarebbe seguito, gli feci notare: «Non mi hai ancora detto chi è Carl Scorso», riferendomi all'uomo calvo con l'orecchino. «È uno dei primi prigionieri che ha firmato per essere sottoposto agli esperimenti. Il danno genetico connesso al suo precedente comportamento sociopatico è stato identificato ed eliminato. Ormai non è più pericoloso. Rappresenta uno dei loro pochi successi.» Lo fissai, ma non riuscii a leggere i suoi veri pensieri. «Ha ucciso un vagabondo e gli ha cavato gli occhi.» «No. È stato il branco a uccidere il vagabondo. Scorso ne ha solamente trovato il corpo e l'ha portato da Kirk perché lo facesse sparire. Fatti del genere ogni tanto accadono. Autostoppisti, barboni... ce ne sono sempre stati lungo la costa della California. Solo che, adesso, alcuni di loro non vanno oltre Moonlight Bay.» «E tu accetti anche questo.» «Faccio quello che mi dicono», rispose gelido. Toby cinse Manuel con entrambe le braccia, quasi volesse proteggerlo, e mi lanciò un'occhiata sgomenta per il modo in cui mi ero rivolto a suo padre. «Facciamo quello che ci viene ordinato», ribadì Manuel. «Così vanno le cose da queste parti, Chris. Qualcuno, molto in alto, ha deciso che tutta questa faccenda sia lasciata sbollire in silenzio. E quando dico molto in al-
to, intendo veramente in alto. Immagina che lo stesso Presidente degli Stati Uniti sia un patito della scienza e immagina che abbia visto la possibilità di passare alla storia mettendo a disposizione dell'ingegneria genetica enormi finanziamenti, un po' come avevano fatto Roosevelt e Truman con il progetto Manhattan, o Kennedy con le missioni spaziali e l'invio del primo uomo sulla luna, e immagina che adesso lui, e tutti quelli che gli stanno intorno, siano decisi a mantenere nascosta questa faccenda.» «È così che è andata?» «Nessuno vuole rischiare di tirarsi addosso l'ira di tutta la popolazione. Magari non hanno solo paura di essere buttati fuori a calci dai loro uffici. Magari, quello che li spaventa, è di essere processati con l'accusa di aver commesso crimini contro l'umanità. Hanno paura che una folla inferocita li faccia a pezzi. Vedi... i soldati di stanza a Wyvern e le loro famiglie, che potrebbero essere stati contaminati... ormai si sono dispersi per tutto il paese. A quante persone hanno trasmesso la mutazione genetica. La gente potrebbe lasciarsi prendere dal panico. Un movimento internazionale potrebbe chiedere che gli Stati Uniti fossero messi in quarantena. E tutto questo per niente. Perché le autorità pensano che l'intera faccenda è destinata a fare il suo corso senza provocare grandi danni, presto raggiungerà la sua fase culminante e poi si spegnerà gradualmente.» «È possibile?» «Forse.» «Non credo che ci sia una sola possibilità che le cose vadano in questo modo.» Scrollò le spalle e, con una mano, rassettò i capelli di Toby che erano stati scompigliati dall'elastico degli occhialoni. «Non tutte le persone che presentano sintomi di cambiamento sono come Lewis Stevenson. Ciò che avviene in loro varia da soggetto a soggetto. Alcuni, dopo aver attraversato una fase negativa, tornano a star bene. Cambiano in continuazione. Non si tratta di qualcosa di ben definito, come un terremoto o un tornado. Questo è un processo. Se mai fosse stato necessario, mi sarei occupato io stesso di Stevenson.» Senza fare alcuna ammissione, commentai: «Forse era più necessario di quanto tu ti rendessi conto». «Non possiamo permettere che chiunque si senta in diritto di condannare e di eseguire le sentenze. Ci deve essere ordine e stabilità.» «Ma non c'è nessuno a cui rivolgersi.» «Ci sono io.»
«Non potresti essere stato infettato senza saperlo?» «No. Non è possibile.» «Non può essere che tu stia cambiando e non te ne renda conto?» «No.» «Che ti stia trasformando?» «No.» «Mi fai davvero paura, Manuel.» Il gufo ripetè il suo verso. Come un mestolo, una lieve ma gradita brezza smosse la densa nebbia. «Torna a casa», suggerì Manuel. «Presto arriverà la luce.» «Chi ha ordinato di uccidere Angela Ferryman?» «Vai a casa.» «Chi?» «Nessuno.» «Io credo che sia stata uccisa perché intendeva rendere pubblica tutta la storia. Non aveva nulla da perdere, così mi aveva detto. Aveva paura di quello che stava... diventando.» «È stato il branco a ucciderla.» «Chi controlla il branco?» «Nessuno. Non riusciamo nemmeno a trovare quelle maledette bestie.» Ero convinto di sapere dove si nascondessero: nel canale di drenaggio scavato sotto le colline, dove avevo trovato la raccolta di teschi. Ma non potevo rivelarlo a Manuel perché, a questo punto, non sapevo chi fossero i miei nemici più pericolosi: il branco di scimmie o... Manuel e gli altri poliziotti. «Se nessuno gli ha ordinato di uccidere Angela, perché mai l'avrebbero fatto?» «Sono del tutto indipendenti nelle loro decisioni, anche se talvolta queste coincidono con le nostre. Nemmeno loro vogliono che la gente venga a sapere che cosa è successo. Il loro futuro non è nel disfare ciò che è stato fatto. È nel nuovo mondo che verrà. Quindi, se in qualche modo sono venute a conoscenza delle intenzioni di Angela, hanno pensato bene di farla tacere per sempre. Non c'è nessuno in particolare dietro questa storia. Ci sono invece varie fazioni... gli animali buoni, quelli cattivi, gli scienziati di Wyvern, la gente che è cambiata in peggio, quella che è cambiata in meglio. Diverse fazioni in lotta fra di loro. Il caos. E il caos peggiorerà, prima di migliorare. Ora tornatene a casa. Lascia perdere. Lascia perdere prima che qualcuno se la prenda con te come ha fatto con Angela.»
«È una minaccia?» Non rispose. Mentre mi allontanavo, spingendo la bicicletta attraverso il giardino posteriore della casa, Toby cominciò a cantilenare: «Christopher Snow, Christopher Neve. Neve come Natale. Natale e Babbo Natale. Babbo Natale e la slitta. Slitta sulla neve. Neve per Natale. Christopher Neve. Christopher Snow». Poi scoppiò a ridere come un bimbo, divertito da questo strano gioco di parole e compiaciuto per la mia espressione sorpresa. Il Toby Ramirez che conoscevo non sarebbe mai stato in grado di fare una pur semplice associazione di parole come questa. Fissando Manuel, domandai: «Hanno cominciato a pagarti per la tua collaborazione, vero?» L'orgoglio che mostrava per le nuove capacità del figlio era così commovente e profondamente triste che dovetti distogliere lo sguardo. «Nonostante tutto ciò che non aveva, era sempre felice», gli feci notare, riferendomi a Toby. «Aveva trovato uno scopo, si era realizzato. Adesso che cosa succederà se lo faranno avanzare fino al punto in cui proverà un senso di insoddisfazione per quello che è... senza però riuscire a portarlo alla completa normalità?» «Ci riusciranno», asserì Manuel con una convinzione del tutto ingiustificata. «Ci riusciranno.» «Chi? Le stesse persone che hanno scatenato questo incubo?» «In questa storia non c'è solo il lato negativo.» Ripensai ai gemiti strazianti della creatura che avevo sentito nella soffitta della canonica, la malinconia che permeava la sua voce, lo struggimento che accompagnava il suo disperato tentativo di dare un significato a quel suo miagolio. Ripensai a Orson in quella lontana notte d'estate, alla sua disperazione nel guardare le stelle. «Che Dio ti aiuti, Toby», mormorai, perché anche lui era mio amico. «Che Dio ti benedica.» «Dio ha già avuto la sua opportunità», ribattè Manuel. «Da ora in poi, ci costruiremo la nostra fortuna da soli.» Dovevo andarmene da lì, e non solo perché l'alba era ormai vicina. Ripresi a camminare, spingendo la bicicletta al mio fianco, e mi resi conto di essermi messo a correre soltanto dopo aver attraversato tutto il giardino, quando mi ritrovai in strada. Mi voltai a guardare brevemente la costruzione in stile isola di Nantucket: mi appariva diversa da come l'avevo sempre vista in passato. Più pic-
cola di come la ricordavo. Segreta. Ostile. A est, un chiarore grigio-argento stava prendendo forma al di sopra del mondo; poteva essere la luce del sole che filtrava attraverso la nebbia, oppure stava cominciando il giorno del giudizio. Nell'arco di dodici ore, avevo perso mio padre, l'amicizia di Manuel e di Toby, molte illusioni e molta innocenza. Mi sentivo sopraffatto dalla terribile sensazione che mi stessero aspettando altre perdite, e forse anche peggiori di queste. Orson e io ci lanciammo a tutta velocità verso la casa di Sasha. 31 La casa di Sasha appartiene alla KBAY e rappresenta un bonus extra cui ha diritto in qualità di direttrice della stazione radio. Si tratta di una villetta a due piani, in stile vittoriano, con elaborate decorazioni in legno che ornano le facciate degli abbaini, tutti gli spioventi dei timpani, le grondaie, i contorni delle finestre e delle porte, nonché la balaustra della veranda. La casetta sarebbe veramente una bomboniera se non fosse dipinta con i colori della stazione radio. Le pareti sono giallo canarino. Le persiane e la balaustra sono di un bel rosa corallo. E tutte le altre decorazioni in legno hanno esattamente il colore di una torta al limone. Guardandola, si ha la sensazione che un gruppo di fan di qualche cantante rock, dopo essersi scolati un certo numero di Margarita e di pina colada, si siano messi a dipingere la villetta durante una lunga festa all'aperto. A Sasha non dispiace che la sua casa sia, esternamente, così sgargiante. In fondo, fa notare, lei vive dentro, non fuori, dove sarebbe costretta a vederla. L'ampia veranda sul retro è chiusa da una vetrata e, grazie al riscaldamento elettrico che viene acceso nei mesi più freddi, Sasha l'ha trasformata in una serra. Su tavoli, banconi e ripiani di metallo, ha allineato centinaia di vasi di terracotta e vassoi di plastica nei quali fa crescere dragoncello e timo, angelica e maranta, cerfoglio e cardamomo, coriandolo e cicoria, finocchiella, ginseng, issopo, melissa e basilico, maggiorana e menta, verbasco, aneto, finocchio, rosmarino, camomilla e tanaceto. Sasha utilizza queste piante per cucinare, per formare meravigliosi e profumati potpourri e per preparare tisane meno disgustose di quanto si possa immaginare. Non ho bisogno di portarmi dietro la chiave. Ce n'è una di scorta nascosta in un vaso a forma di rospo, sotto le foglie giallastre di una pianta di ru-
ta. Mi rifugiai in casa, proprio mentre, a oriente, l'alba mortale rischiarava il cielo di una sfumatura di grigio più chiaro e il mondo si preparava a sogni omicidi. Entrando in cucina, accesi immediatamente la radio. Sasha era ormai giunta all'ultima mezz'ora di trasmissione e stava leggendo le previsioni del tempo. Eravamo ancora nella stagione delle piogge e, da nordovest, era in arrivo un temporale. Avrebbe cominciato a piovere poco dopo il tramonto. L'avrei ascoltata con grande piacere anche se avesse detto che sulla costa si sarebbe abbattuta un'onda di trenta metri e che erano previste eruzioni vulcaniche, con conseguenti fiumi di lava. Ascoltando la sua voce bassa e vellutata, il mio viso si aprì in un grande, stupido sorriso e, perfino in questa mattina così prossima alla fine del mondo, non potei fare a meno di sentirmi, allo stesso tempo, rilassato ed eccitato. Mentre, dietro le finestre, il giorno andava rischiarandosi, Orson si avvicinò alle due ciotole di plastica posate in un angolo del pavimento, sopra un tappetino di gomma. Su ogni ciotola c'è scritto il suo nome. Sia che andiamo a casa di Bobby, sia che veniamo qui, Orson è considerato uno di famiglia. Quand'era cucciolo, al mio cane erano stati dati diversi nomi, ma lui non rispondeva a nessuno in modo regolare. Un giorno, dopo aver notato che il cane guardava con grande interesse le cassette dei film di Orson Welles... soprattutto quando era lo stesso Welles che compariva sullo schermo... decidemmo per gioco di dargli il nome del regista-attore. Da quel momento ha sempre risposto ai richiami. Dato che entrambe le ciotole erano vuote, Orson ne prese una in bocca e me la portò. La riempii d'acqua e tornai a posarla sul tappetino di gomma, che le impediva di scivolare sulle piastrelle di ceramica del pavimento. Orson afferrò la seconda ciotola e mi guardò con occhi supplichevoli. Sebbene lo si possa dire di quasi tutti i cani, gli occhi e il muso di Orson riescono ad assumere un'espressione implorante più convincente di quella del migliore attore che abbia calcato le scene. A bordo del Nostromo, seduto intorno al tavolo insieme con Roosevelt, Orson e Mungojerrie, mi ero ricordato di quegli scherzosi dipinti di cani che giocavano a poker e avevo intuito che il mio subconscio stava cercando di dirmi qualcosa di importante, facendomi tornare alla mente quell'immagine così nitida. Ora capii di che cosa si trattava. Ognuno dei cani dipinti rappresentava un tipo umano a noi familiare e, naturalmente, ognu-
no di loro era intelligente tanto quanto un essere umano. Sul Nostromo, assistendo al gioco di Orson e del gatto, quando avevano «preso in giro i loro stereotipi», mi ero reso conto che alcuni degli animali, usati a Wyvern per gli esperimenti, potevano essere molto più intelligenti di quanto avessi immaginato... così intelligenti che non mi sentivo ancora pronto ad affrontare quella impressionante verità. Anche se non erano capaci di tenere le carte e parlare, potevano benissimo vincere un certo numero di mani a poker; potevano perfino lasciarmi sul lastrico. «È un po' presto», commentai, togliendo la ciotola del cibo dalla bocca di Orson. «Però hai avuto una notte molto intensa.» Dopo avergli versato una razione dei suoi croccantini preferiti, feci il giro della cucina, abbassando le veneziane Levolor per ripararmi dal crescente calore esterno. Mentre srotolavo l'ultima veneziana, mi sembrò di udire, in qualche parte della casa, il rumore di una porta che veniva chiusa delicatamente. Mi bloccai, in ascolto. «Hai sentito qualcosa?» sussurrai. Orson sollevò il muso dalla ciotola, annusò l'aria, tese il capo, poi sbuffò, riportando l'attenzione sul cibo. Il circo a trecento piste della mia mente. Mi avvicinai al lavello, mi lavai le mani, spruzzandomi poi acqua sul viso. La cucina di Sasha è sempre linda e profumata, ma è stipata di oggetti. Dato che è un'ottima cuoca, almeno metà dei ripiani è occupata da piccoli elettrodomestici per ogni necessità. Dalle rastrellare pende una tale quantità di pentole, padelle, mestoli e utensili, che sembra di stare in una caverna dal soffitto coperto di stalattiti. Passai da una stanza all'altra, abbassando le veneziane e sentendo la presenza vibrante di Sasha in ogni angolo. È una persona così viva da lasciare dietro di sé una specie di aura, qualcosa che rimane per molto tempo dopo che se ne è andata. La casa non è arredata secondo uno stile uniforme, mobili e oggetti non rispettano una precisa armonia. Piuttosto, ogni stanza rappresenta un monumento a una delle sue brucianti passioni. E una donna dalle molte passioni. Tutti i pasti vengono consumati su un ampio tavolo da cucina, in quanto la sala da pranzo è dedicata alla musica. Una parete è occupata da una tastiera elettronica, da un sintetizzatore completo e con il quale, se avesse
voluto, avrebbe potuto comporre musica per un'intera orchestra, e da un tavolo che Sasha usa per scrivere i versi delle sue canzoni, sul quale è posato un leggio e risme di fogli di carta da musica che attendono di essere riempiti di note. Al centro della stanza vi è una batteria. In un angolo, uno splendido violoncello con il suo sgabello. In un altro angolo, accanto a un alto leggio, un sassofono pende dal suo supporto in ottone. Vi sono inoltre due chitarre, una acustica e una elettrica. Il salotto non è lì per bellezza, ma per i libri... un'altra delle sue passioni. Le pareti sono nascoste da ripiani stipati di libri di tutti i tipi, da quelli costosi ai più economici. I mobili non sono proprio alla moda, non sono raffinati ma nemmeno sciatti; le poltrone e i divani, dai colori neutri, sono stati scelti per la loro comodità, perché sono l'ideale per restarci seduti a chiacchierare o per trascorrere ore a leggere un libro. Al primo piano, nella stanza in cima alle scale, si trovano una cyclette, un vogatore, una serie di pesi da uno a dieci chili e un materassino da ginnastica. Questa è anche la stanza della medicina omeopatica, nella quale tiene dozzine di flaconi di vitamine e sali minerali, e quella in cui pratica lo yoga. Una volta salita sulla cyclette, scende solo quando è fradicia di sudore e ha percorso almeno una cinquantina di chilometri. Con il vogatore, attraversa mentalmente il lago Tahoe e mantiene il ritmo cantando le canzoni di Sarah McLachlan o di Juliana Hatfield, di Meredith Brooks o di Sasha Goodall, cioè le sue; se invece attacca con gli addominali, non arriva a metà serie e già il materassino imbottito sotto di lei sembra che stia per mettersi a fumare. Dopo gli esercizi, è più carica di energia di quando ha cominciato, tutta accaldata e pimpante. Ma quando conclude una sessione nelle varie posizioni yoga, l'intensità del suo rilassamento è talmente forte che potrebbe far esplodere le pareti della stanza. Buon Dio, come la amo. Mentre, dalla stanza dedicata alla ginnastica, uscivo sul corridoio, fui nuovamente colto dalla premonizione di un'imminente perdita. Cominciai a tremare violentemente e dovetti appoggiarmi alla parete fino a quando il tremore si calmò. Di giorno non poteva accaderle nulla, non certo nei dieci minuti che impiegava dagli studi, in Signal Hill, fino al centro della città. Il branco sembrava muoversi solo di notte. Durante il giorno le scimmie si rintanavano da qualche parte, forse nei canali di scorrimento delle acque che passavano sotto la città oppure nel tunnel in cui avevo trovato la raccolta di teschi. E gli esseri umani di cui non ci si poteva più fidare, gli individui in trasfor-
mazione come Lewis Stevenson, sembravano riuscire a mantenere il controllo di se stessi più sotto i raggi del sole che sotto quelli della luna. Così come accadeva agli uomini-animali in L'isola del dottar Moreau, durante la notte faticavano a tenere nascosto quanto di selvatico vi era in loro. Evidentemente, con l'oscurità, perdevano un po' del loro autocontrollo; venivano colti da un desiderio di avventura e osavano compiere azioni che non avrebbero mai fatto di giorno. Ora che l'alba rischiarava il cielo, a Sasha non sarebbe accaduto nulla; forse per la prima volta in vita mia, mi sentii sollevato all'idea che iniziasse il giorno. Giunsi infine in camera sua. Qui non ci sono strumenti musicali, né libri o piante, niente flaconi di vitamine e neppure attrezzi ginnici. Il letto è molto semplice, con una testiera, niente piedi del letto, e un sottile copriletto di ciniglia bianca. Non vi è nulla di particolare nella toilette, o nei comodini e nelle lampade ai lati del letto. Le pareti sono tinteggiate in giallo chiaro, tanto che la luce del mattino sembra una nube, e la loro superficie liscia non è interrotta da alcun quadro. Ad alcuni questa camera sembra piuttosto spartana, ma quando si riempie della presenza di Sasha, la stanza appare ricca di complesse decorazioni come il salotto di un castello francese e serena come un angolo di meditazione di un giardino zen. Il sonno di Sasha non è mai inquieto, ma sempre profondo. Riposa sul suo letto immobile come una pietra sul fondo del mare; così mi ritrovo ad allungare un braccio per toccarla, per sentirne il tepore della pelle o il battito delle pulsazioni, in modo da placare l'improvvisa paura che sento per lei e che, di tanto in tanto, mi afferra come una morsa. Come per tante altre cose, ha una vera passione per il dormire. E ha anche una passione per la passione e, quando fa l'amore con me, la stanza smette di esistere, mi ritrovo in un tempo senza tempo e in un luogo senza luogo, dove c'è solo Sasha, soltanto la sua luce e il suo calore, la sua luce sfolgorante che splende ma non brucia. Mi diressi verso le finestre con l'intenzione di abbassare le veneziane ma, mentre passavo accanto al letto, notai un oggetto posato sul copriletto di ciniglia. Era piccolo, irregolare e molto lucido: un frammento di porcellana dipinta a mano e vetrificata. Una mezza bocca sorridente, la curva di una guancia, un occhio azzurro. Un pezzetto del bambolotto Christopher Snow, quello che era stato scagliato contro la parete a casa di Angela Ferryman, un attimo prima che si spegnessero le luci e il fumo cominciasse a invadere la tromba delle scale. Durante la notte, almeno una scimmia del branco doveva essere stata
qui. Ricominciando a tremare, ma questa volta di rabbia più che di paura, estrassi la pistola dalla tasca e iniziai a perlustrare sistematicamente la casa, iniziando dalla soffitta, controllando ogni stanza, ogni armadio, ogni sportello, ogni spazio, anche il più piccolo, in cui una delle odiose creature poteva essersi nascosta. Mi muovevo senza alcuna cautela. Maledicendo quelle bestiacce, profferendo minacce che avevo tutta l'intenzione di mettere in atto, spalancavo le porte, richiudevo con forza i cassetti, frugavo sotto i mobili con il manico di una scopa. Feci tanto fracasso che Orson arrivò di corsa, probabilmente convinto di trovarmi impegnato in chissà quale lotta furibonda, poi continuò a seguirmi, ma a debita distanza, come se temesse che, nello stato d'agitazione in cui mi trovavo, potessi spararmi sul piede e colpire lui alla zampa. In casa non c'era nessun membro del branco. Una volta terminata la perlustrazione, sentii l'impulso di riempire un secchio con l'ammoniaca e di pulire ogni superficie che l'intruso o gli intrusi potevano aver toccato: pareti, pavimenti, gradini e ringhiere delle scale, mobili. Non perché avessero lasciato qualche microrganismo in grado di infettarci. Ma piuttosto perché consideravo quelle bestie sudice in senso profondamente spirituale, come se non fossero uscite da uno dei laboratori di Wyvern ma da un orifizio della terra, dal quale salivano anche vapori sulfurei, una luce spaventosa e le lontane urla dei dannati. Invece di cercare l'ammoniaca, usai il telefono della cucina per chiamare il numero diretto dello studio della KBAY. Ma prima di comporre l'ultima cifra, mi resi conto che Sasha aveva già smesso di lavorare e si stava dirigendo verso casa. Riagganciai, poi composi il numero del suo cellulare. «Ciao, Uomo delle Nevi», mi salutò. «Dove ti trovi?» «A cinque minuti da te.» «Le portiere sono bloccate?» «Che cosa?» «Rispondimi, le portiere sono bloccate?» gridai. Dopo un attimo di esitazione, Sasha confermò: «Adesso sì». «Non ti fermare per nessuno. Nessuno. Né per un amico e neppure per un poliziotto. Soprattutto un poliziotto.» «E che cosa faccio se, per caso, investo una vecchietta?» «Non sarebbe una vecchietta. Le somiglierebbe soltanto.» «Improvvisamente sei diventato davvero strano, Uomo delle Nevi.»
«Non io. Il resto del mondo. Ascolta, voglio che tu rimanga al telefono con me fino a quando non imboccherai il vialetto di casa.» «Explorer a torre di controllo: la nebbia si sta già dissolvendo. Non c'è bisogno di darmi istruzioni fino all'atterraggio.» «Non ti sto dando istruzioni. Sei tu che mi stai calmando con la tua voce. Sono in uno stato penoso.» «Me ne sono accorta.» «Ho bisogno di sentirti parlare. Continuamente. Devo sentire la ma voce fino a quando arrivi a casa.» «È tutto liscio come l'olio», disse, cercando di rassicurarmi. Continuai a farla parlare fino a quando parcheggiò il furgone sotto la tettoia per le automobili e spense il motore. Sole o non sole, volevo uscire e aspettare che aprisse la portiera. Volevo trovarmi al suo fianco, con la Glock stretta in pugno, mentre girava intorno alla casa per raggiungere la veranda posteriore, dalla quale entrava abitualmente. Mi sembrò che fosse passata un'ora, poi sentii i suoi passi sulla veranda, mentre avanzava tra i tavoli stipati di piante. Quando spalancò la porta, mi trovò ad attenderla inondato dalla luce del mattino che rischiarava la cucina. La attirai a me, chiusi la porta con un colpo secco e la strinsi fra le braccia, così forte che per un momento non riuscimmo a respirare. Poi la baciai, ed era calda e reale, reale e meravigliosa, meravigliosa e viva. Ma per quanto la stringessi, per quanto dolci fossero i suoi baci, sentivo incombere su di me il presentimento che perdite ancora più dolorose mi stavano aspettando. PARTE SESTA Il giorno e la notte 32 Con tutto quello che era successo nel corso della notte precedente e con tutto quello che stava per abbattersi su di noi la notte successiva, non immaginavo che avremmo fatto l'amore. Sasha, invece, non poteva nemmeno immaginare di non farlo. Anche se non conosceva il motivo del mio terrore, vedermi così spaventato e scosso all'idea di perderla era stato per lei un afrodisiaco talmente forte che non potei opporle un rifiuto.
Orson, da cane bene educato qual è, rimase al piano terreno, in cucina. Noi salimmo in camera e partimmo per il luogo senza luogo nel tempo senza tempo, dove Sasha è l'unica energia, l'unica forma della materia, l'unica forza dell'universo. Così luminosa. Dopo, in uno stato mentale in cui anche le notizie più apocalittiche sembravano tollerabili, le raccontai tutto ciò che mi era successo dal tramonto all'alba, le parlai delle scimmie del nuovo millennio e di Stevenson, e le spiegai che, adesso, Moonlight Bay era diventata un vaso di Pandora da cui si riversavano miriadi di calamità. Se pensò che fossi impazzito, riuscì a nascondere molto bene la sua impressione. Quando le riferii come, dopo aver lasciato la casa di Bobby, Orson e io fossimo stati perseguitati dal branco di scimmie, fu presa dai brividi e le venne la pelle d'oca, tanto che dovette coprirsi con una vestaglia. A mano a mano che si rendeva pienamente conto della situazione in cui ci trovavamo, che non c'era nessuno a cui rivolgerci, né alcun luogo dove fuggire, ammesso che ci permettessero di lasciare la città, che forse eravamo già stati contagiati dall'epidemia di Wyvern, con effetti futuri che nemmeno potevamo immaginare, si strinse ancor di più il colletto della vestaglia intorno al collo. Se provò disgusto per ciò che avevo fatto a Stevenson, riuscì a reprimere le sue emozioni con notevole successo poiché, quando ebbi terminato, dopo averle raccontato anche del frammento di viso del bambolotto che avevo trovato sul suo letto, scivolò fuori della vestaglia e, sebbene avesse ancora la pelle d'oca, mi riportò nella sua luce. Questa volta, facemmo l'amore con più calma, muovendoci più lentamente e più delicatamente della prima volta. Già prima gesti e movimenti erano stati pieni di tenerezza, ma ora lo furono ancor di più. Ci aggrappammo l'uno all'altra con amore e desiderio, ma anche con disperazione, perché sentivamo una nuova e profonda consapevolezza del nostro isolamento. Stranamente, sebbene condividessimo la sensazione di essere due persone ormai condannate, con l'orologio del boia che ticchettava inesorabilmente, la nostra fusione fu più dolce che mai. O forse non è affatto strano. Forse il pericolo estremo ci libera di tutte le finzioni, di tutte le ambizioni, le confusioni, permettendoci di concentrarci con maggiore intensità, così che possiamo ricordare ciò che, altrimenti, passiamo la nostra vita a dimenticare: che la nostra natura e lo scopo della nostra vita è, più di ogni altra cosa, amare e fare l'amore, gioire della bellezza del mondo, vivere con la consapevolezza che, per nessuno di noi, il
futuro è un luogo reale quanto lo sono invece il presente e il passato. Se il mondo a noi noto fosse scomparso in quel preciso istante, i miei scritti e le canzoni di Sasha non avrebbero avuto alcuna importanza. Per parafrasare Bogart e Bergman insieme: in questo folle futuro che ci sta ruzzolando addosso come una valanga, le ambizioni di due persone non valgono un bel niente. L'unica cosa che importava era l'amicizia, l'amore e il surf. I maghi di Wyvern avevano regalato a me e a Sasha un'esistenza ridotta all'essenziale, proprio come quella di Bobby Halloway. Amicizia, amore e surf. Afferrali finché ci sono. Afferrali prima che svaniscano. Afferrali finché sei abbastanza umano da comprendere quanto siano preziosi. Restammo in silenzio, tenendoci stretti, aspettando che il tempo ricominciasse a scorrere. O forse sperando che non lo facesse. Poi Sasha disse: «Facciamo qualcosa...» «Perché, finora siamo stati fermi?» la interruppi. «... da mangiare. Magari delle omelette.» «Che meraviglia. Tutto quel delizioso bianco d'uovo», commentai, prendendola in giro per la sua mania di portare all'estremo il concetto di sana alimentazione. «Oggi userò uova intere.» «Adesso sono sicuro che è arrivata la fine del mondo.» «Fritte nel burro.» «Con il formaggio?» «Qualcuno deve pur mantenere in attività le mucche.» «Burro, formaggio, tuorli d'uovo. Hai deciso che dobbiamo suicidarci.» Fingevamo di essere di buon umore, ma non eravamo affatto tranquilli. E lo sapevamo. Tuttavia continuammo nella nostra finzione perché, comportarsi diversamente, sarebbe stato ammettere che eravamo davvero spaventati. Le omelette erano eccellenti, così come le patate fritte e le ciambelline imburrate. Mentre Sasha e io mangiavamo a lume di candela. Orson continuava a girare per la stanza, uggiolando lamentosamente e fissandoci con occhi da povero-bambino-che-sta-morendo-di-fame ogni volta che lo guardavamo. «Hai già mangiato tutto quello che ti ho messo nella ciotola», gli feci notare. Sbuffò come se fosse sorpreso da questa mia affermazione, poi riprese a
gemere in direzione di Sasha, cercando di convincerla che mentivo, che nessuno gli aveva dato niente da mangiare. Si sdraiò sulla schiena, dimenandosi e zampettando in aria, cercando in tutti i modi di intenerirci e di farsi lanciare qualche goloso bocconcino. Arrivò perfino a rialzarsi sulle zampe posteriori e a girare in circolo. Era veramente spudorato. Con un piede, allontanai una sedia da tavolo: «Va bene, sali pure». Balzò immediatamente sulla sedia, si sedette e mi fissò attentamente. «La qui presente signorina Goodall si è bevuta la storia completamente folle che le ho raccontato», spiegai, «qualcosa di cui non posso offrire alcuna prova, a parte i brani di un diario, scritti nell'arco di qualche mese da un prete chiaramente disturbato. La signorina deve avermi creduto perché va pazza per il sesso, ha bisogno di un uomo e io sono l'unico disposto ad andare con lei.» Sasha mi gettò contro un pezzo di pane tostato e imburrato, che finì sul tavolo, proprio davanti a Orson, che vi si lanciò sopra. «Non ci provare, fra'!» esclamai. Si bloccò con la bocca aperta e i denti in bella vista, a un paio di centimetri dal pane tostato. Invece di mangiare il boccone, Orson lo annusò con evidente piacere. «Se mi aiuterai a dimostrare alla signorina Goodall che quanto le ho raccontato del progetto di Wyvern risponde a verità, dividerò con te una parte della mia omelette e della mia porzione di palatine fritte.» «Chris, il suo cuore!» esclamò Sasha preoccupata, ricadendo nel personaggio della signorina-niente-grassi. «Non ha un cuore», la contraddissi. «È tutto stomaco.» Orson mi lanciò un'occhiata di rimprovero, come a dire che non era giusto prenderlo in giro, sapendo che non poteva controbattere. Rivolgendomi di nuovo al cane, spiegai: «Quando una persona annuisce, significa sì. Quando scuote la testa da una parte e dall'altra, significa no. Questo lo capisci, vero?» Orson mi fissò ansimando e sorridendo stupidamente. «Forse non ti fidi di Roosevelt Frost», commentai, «ma devi fidarti della qui presente signorina. Non hai altra scelta, perché, da oggi in poi, lei e io staremo sempre insieme, sotto lo stesso tetto, per tutta la vita.» Orson spostò la sua attenzione su Sasha. «Non è così?» le domandai. «Non staremo insieme per il resto della nostra vita?» Mi sorrise. «Ti amo, Uomo delle Nevi.»
«Ti amo, signorina Goodall.» Voltandosi a guardare Orson, Sasha confermò: «Da oggi in poi, cucciolone, non sarete più in due. Saremo in tre». Orson guardò me e sbattè le palpebre, guardò Sasha e sbattè le palpebre, poi fissò pieno di desiderio il pezzo di pane tostato che aveva davanti. «Hai capito che cosa significa annuire e scuotere la testa?» domandai. Dopo un momento di esitazione, Orson annuì. Sasha rimase a bocca aperta. «Pensi che sia una ragazza simpatica?» Orson annuì. «Ti piace?» Un altro cenno di approvazione. Mi sentii pervadere da una gioia mista a stordimento. Anche il viso di Sasha era illuminato dalla stessa esaltazione. Mia madre, che aveva distrutto il mondo, vi aveva anche portato cose meravigliose. Avevo voluto la collaborazione di Orson non solo per confermare la mia storia, ma anche per sollevarci il morale e offrire a noi stessi la possibilità di sperare che, dopo Wyvern, ci sarebbe stata comunque una vita. Anche se l'umanità ora doveva affrontare nuovi e pericolosi avversari, come le scimmie del primo branco sfuggite dai laboratori, anche se fra di noi si stava diffondendo una misteriosa epidemia di geni che passavano da una specie all'altra, anche se, negli anni a venire, pochi sarebbero riusciti a sopravvivere senza andare incontro a notevoli cambiamenti di tipo intellettivo, emotivo e perfino fisico, nondimeno vi era forse la possibilità che quando noi, attuali campioni del gioco evolutivo, fossimo caduti e finiti fuori gara, al nostro posto sarebbero subentrati eredi in grado di comportarsi con il mondo meglio di quanto avessero fatto i loro antenati. Una magra consolazione, certo, ma sempre meglio di niente. «Pensi che Sasha sia carina?» domandai al cane. Orson la osservò attentamente per alcuni lunghi secondi. Poi si voltò verso di me e annuì. «Poteva metterci un po' meno», si lamentò Sasha. «Almeno hai la certezza che è stato sincero, in caso contrario non si sarebbe preso tutto quel tempo», la rassicurai. «Anch'io penso che tu sia carino», ricambiò il complimento Sasha. Orson scodinzolò. «Sono un ragazzo fortunato, vero fra'?» gli domandai. Annuì energicamente.
«E io sono una ragazza fortunata», disse Sasha. Orson si voltò a guardarla e scosse la testa. «Perché no?» esclamai. Per quanto possa sembrare incredibile, il cane ammiccò, sorridendo e facendo quel verso soffocato e ansimante che, ci giurerei, è una risata. «Non sa parlare», commentai, «però sa prendermi in giro.» Adesso non fingevamo più. Ora ci stavamo divertendo davvero. Se sei di buon umore, riesci a superare qualunque cosa. Questo era uno dei principi fondamentali della filosofia di Bobby Halloway e, dal mio attuale punto di osservazione, post-Wyvern, posso dire che il filosofo Bob è in grado di offrire una guida migliore per una vita felice di quanto non siano stati capaci di fare tutti i suoi importanti colleghi, da Aristotele a Kierkegaard, da Thomas More a Schelling... fino a Jacopo Zabarella, che credeva nel primato della logica, dell'ordine e del metodo. Tutte cose importanti, certo. Ma soltanto con quegli strumenti è forse possibile analizzare e comprendere la vita? Non intendo affermare di aver incontrato lo yeti, né di essere capace di fare il medium e neppure di essere la reincarnazione di Kahuna, ma quando vedo a che cosa ci hanno condotto la logica, l'ordine e il metodo... a questa tempesta genetica... be', penso proprio che sarei più felice se riuscissi a cavalcare qualche onda colossale. A Sasha, nemmeno l'apocalisse faceva venire l'insonnia. Il suo sonno fu tranquillo e profondo come sempre. Al contrario, sebbene fossi esausto, io riuscii soltanto a sonnecchiare. La porta della camera era chiusa a chiave e avevamo incastrato una sedia sotto il pomello. Orson dormiva sul pavimento ma, se fosse entrato in casa qualcuno, si sarebbe comportato come un efficiente sistema d'allarme. Avevo posato la Glock sul comodino e, su quello di Sasha, c'era la sua Smith & Wesson calibro 38 Chiefs Special. Tuttavia mi svegliai più volte di soprassalto, convinto che un intruso avesse abbattuto la porta e si fosse lanciato in camera; non mi sentivo tranquillo. Anche i sogni non contribuirono a calmarmi. In uno, ero un vagabondo che camminava lungo una strada deserta, illuminata dalla luna piena, e che chiedeva inutilmente un passaggio con il pollice alzato. Nella destra, stringevo una valigetta identica a quella di mio padre. Non avrebbe potuto essere più pesante nemmeno se fosse stata piena di mattoni. Alla fine, la posai a terra e l'aprii, ritraendomi spaventato nel vedere Lewis Stevenson che ne usciva come un cobra da un cesto, con la luce dorata che scintillava nei
suoi occhi, e io sapevo che se nella valigetta ci poteva essere una cosa così strana come il comandante morto, dentro di me poteva esserci qualcosa di ancora più strano, e subito dopo sentii la mia testa aprirsi con il rumore di una cerniera che viene abbassata... poi mi svegliai. Un'ora prima del tramonto, telefonai a Bobby dalla cucina di Sasha. «Com'è il tempo giù alla centrale delle scimmie?» domandai. «Fra un po' arriverà un temporale. Sul mare, all'orizzonte, ci sono diversi nuvoloni scuri.» «Sei riuscito a dormire?» «Solo dopo che quelle simpaticone se ne sono andate.» «Quando è successo?» «Quando ho ribaltato la situazione e sono stato io a mostrargli il culo.» «Chissà come si sono spaventate», commentai. «Certo. Il mio culo è più grosso, e loro lo sanno.» «Hai molte munizioni per il tuo fucile?» «Qualche scatola.» «Ne porteremo altre.» «Sasha non lavora stanotte?» «Non di sabato», spiegai. «E forse non lavorerà più nemmeno negli altri giorni.» «A quanto pare, c'è qualche novità.» «Abbiamo deciso di vivere insieme. Ascolta, hai un estintore in casa?» «Mi sembra che esageri, fra'. Voi due non siete poi così travolti dalla passione.» «Porteremo anche un paio di estintori. Quel branco ha una particolare simpatia per il fuoco.» «Pensi che la situazione si farà tanto seria?» «Ne sono convinto.» Subito dopo il tramonto, mentre aspettavo nell'Explorer, Sasha entrò nel Thor's Gun Shop per comprare munizioni per il fucile da caccia, la Glock e la sua Chiefs Special. La mercé era così pesante che lo stesso Thor Heissen trasportò le scatole fino all'Explorer e le caricò nel retro del furgone. Poi si avvicinò al finestrino del passeggero per salutarmi. È un uomo alto, grasso, con il viso butterato dalle cicatrici lasciategli dall'acne e ha l'occhio sinistro di vetro. Non è certo l'uomo più bello del mondo, ma è un ex poliziotto di Los Angeles che si è dimesso per una questione di principio,
non perché coinvolto in qualche scandalo, è un decano molto attivo della sua chiesa, nonché fondatore e maggior finanziatore dell'orfanatrofio da essa gestito. «Ho sentito di tuo padre, Chris.» «Almeno non soffre più», commentai, chiedendomi che cosa ci fosse di diverso nel suo cancro da convincere quelli di Wyvern a eseguire un'autopsia sul suo cadavere. «A volte», soggiunse Thor, «è una benedizione potersi spegnere quando è arrivata la propria ora. Però c'è tanta gente che sentirà la sua mancanza. Era proprio una brava persona.» «La ringrazio, signor Heissen.» «E voi due ragazzi, che cosa avete in mente di fare? Dichiarare guerra a qualcuno?» «Esatto», risposi, mentre Sasha girava la chiavetta nel cruscotto e accendeva il motore. «Sasha mi ha detto che state andando a sparare ai molluschi.» «Non è ambientalmente corretto, vero?» Thor scoppiò a ridere e noi ci allontanammo, salutandolo con un cenno della mano. *** Sasha fece scorrere rapidamente il fascio di luce di una torcia sul giardino posteriore di casa mia, illuminando i crateri che Orson aveva scavato la notte precedente, quando ero andato a prenderlo prima di portarlo con me a casa di Angela Ferryman. «Che cosa ha sepolto qui sotto?» si chiese. «Un intero scheletro di Tirannosaurus Rex?» «La notte scorsa», spiegai, «ho pensato che tutto quello scavare fosse solo una reazione di dolore per la morte di mio padre, il modo che Orson aveva scelto per scaricare la sua energia negativa.» «Reazione di dolore?» domandò, aggrottando la fronte. Aveva avuto modo di constatare che Orson era intelligente, ma non aveva ancora afferrato del tutto quanto la sua vita interiore fosse complessa e simile alla nostra. Qualunque fossero le tecniche usate per potenziare l'intelligenza di questi animali, evidentemente dovevano comprendere l'inserimento nel loro DNA di materiale genetico umano. Quando Sasha fosse riuscita a capire questo, probabilmente avrebbe avuto bisogno di sedersi e
di restare seduta per un po'; magari per una settimana. «In seguito», soggiunsi, «mi è venuto in mente che forse stava cercando qualcosa che sapeva mi sarebbe servita.» Mi inginocchiai sull'erba, accanto a Orson. «Ascolta fra', so che la notte scorsa eri molto turbato, che soffrivi per via di papà. Eri scosso, non ricordavi esattamente dove dovevi scavare. Ormai è un giorno che non c'è più e ora la sua scomparsa è più facile da accettare, non credi?» Orson uggiolò sommessamente. «Adesso, prova di nuovo.» Non ebbe un attimo d'esitazione, si diresse immediatamente verso una buca che cominciò ad allargare. Dopo cinque minuti, la sue unghie urtarono contro qualcosa. Sasha diresse il fascio di luce verso un barattolo di vetro, sporco di terra, e io provvidi a estrarlo completamente. All'interno vi era un rotolo di fogli gialli, di quelli che si staccano dai blocchi per scrivere, tenuti insieme da un elastico. Li srotolai, avvicinai la prima pagina alla luce e riconobbi immediatamente la calligrafia di mio padre. Lessi soltanto il primo paragrafo: Chris, se stai leggendo queste parole, vuole dire che io sono morto e che Orson ti ha portato fino al barattolo sotterrato in giardino, perché solo lui è al corrente della sua esistenza. Ed è proprio da qui che dovremmo cominciare. Lascia che ti dica qualcosa sul tuo cane... «Tombola!» esclamai. Arrotolando di nuovo i fogli e riponendoli nel barattolo, sollevai lo sguardo. Niente luna. Niente stelle. Le nuvole che, spinte dal vento, correvano veloci in cielo, erano basse e scure, qua e là sfiorate dal chiarore giallastro delle luci che andavano via via accendendosi a Moonlight Bay. «Questi possiamo leggerli dopo», decisi. «Muoviamoci. Bobby è a casa da solo.» 33 Mentre Sasha apriva il portello dell'Explorer, alcuni gabbiani volteggiarono sopra di noi, lanciando i loro striduli versi, diretti verso terra e verso rifugi più sicuri, spaventati da un vento che mandava in frantumi il mare e lanciava schegge umide sull'estremità del promontorio. Tenendo fra le braccia la scatola del Thor's Gun Shop, restai a guardarli mentre svanivano nel cielo scuro e turbolento.
La nebbia si era dissolta già da diverso tempo. Sotto le nubi che si facevano sempre più basse, la sera appariva cristallina. Tutt'intorno a noi la rada erba della costa si agitava freneticamente. Alti mulinelli di sabbia si levavano dalla cima delle dune, simili a pallidi spiriti usciti dalle tombe. Mi chiesi se qualcos'altro, oltre al vento, avesse disturbato i gabbiani, facendoli fuggire lontano. «Non sono ancora arrivate», affermò Bobby mentre prendeva le due confezioni di pizza dal retro dell'Explorer. «Per loro è ancora presto.» «Di solito, a quest'ora, le scimmie stanno ancora cenando», confermai. «Poi escono per andare a ballare.» «Magari non verranno affatto questa notte», esclamò speranzosa Sasha. «Verranno», la disillusi. «Sì. Verranno», concordò Bobby. Bobby entrò in casa con la nostra cena. Orson non si staccò dal suo fianco, non per paura delle scimmie eventualmente già nascoste tra le dune, ma in qualità di sorvegliante del cibo, per controllare che si procedesse a un'equa suddivisione della pizza. Sasha scaricò dal furgone due sacchetti di plastica. Contenevano gli estintori che aveva acquistato nel negozio di ferramenta Crown Hardware. Poi chiuse il portello e, con il telecomando, bloccò le portiere. Dato che la jeep di Bobby occupava tutto il box, avremmo lasciato l'Explorer davanti al villino. Quando Sasha si voltò verso di me, la sua lucida capigliatura color mogano venne trasformata dal vento in una scintillante bandiera e la sua pelle acquistò una morbida luminosità, come se la luna avesse fatto filtrare uno dei suoi raggi attaverso la barriera di nubi per poter accarezzare il suo viso. Sasha appariva quasi soprannaturale, una divinità della natura. «Che cosa c'è?» domandò, incapace di interpretare il mio sguardo. «Sei così bella. Come una dea del vento che attiri la tempesta verso di sé.» «E tu sei un bugiardo», rispose, ma sorrideva. «È una delle mie qualità più affascinanti.» Un mulinello si lanciò in una danza vorticosa intorno a noi, scagliando granelli di sabbia sui nostri visi. Ci precipitammo in casa. Bobby aspettava in soggiorno, con le luci regolate in modo da lasciare la stanza immersa in una gradevole penombra. Si affrettò a chiudere a chiave la porta alle nostre spalle. Osservando le grandi vetrate, Sasha suggerì: «Forse sarebbe il caso di
inchiodarci sopra del compensato». «Questa è casa mia», ribattè Bobby. «E non ho alcuna intenzione di coprire le finestre con assi di legno, di rinchiudermi in una specie di bunker e di vivere come un prigioniero per colpa di un maledetto branco di scimmie.» Rivolgendomi a Sasha, commentai: «Da quando lo conosco, questo bel tipo non si è mai lasciato intimidire dalle scimmie». «Mai», confermò Bobby. «E non comincerò proprio adesso.» «Ma, almeno, abbassiamo le veneziane», esclamò Sasha. Scrollai il capo. «Non è una buona idea. Le renderebbe sospettose. Se possono tenerci d'occhio, e se noi non abbiamo l'aria di chi le sta aspettando, saranno meno prudenti.» Sasha tolse i due estintori dalle scatole e tagliò i sigilli di plastica delle leve a pistola. Erano estintori da cinque chili, del tipo usato sulle imbarcazioni, facili da manovrare. Ne posò uno in un angolo della cucina, in modo che non si potesse vedere dalle finestre e sistemò il secondo accanto a uno dei divani del soggiorno. Mentre Sasha era impegnata con gli estintori, Bobby e io eravamo andati a sederci in cucina, a lume di candela, con le scatole di munizioni sulle ginocchia, muovendo le mani al di sotto del ripiano del tavolo, nel caso che la mafia delle scimmie fosse arrivata proprio mentre eravamo all'opera. Sasha aveva comprato tre caricatori extra per la Glock e tre per la sua Chiefs Special, nei quali cominciammo a infilare le cartucce. «Ieri notte, dopo averti lasciato, sono andato da Roosevelt Frost», gli raccontai. Bobby mi guardò da sotto le sopracciglia. «Si è fatto una bella chiacchierata con Orson?» «Roosevelt ci ha provato. Ma Orson non ne ha voluto sapere. Però c'era uno strano gatto di nome Mungojerrie.» «Naturalmente», commentò asciutto. «Il gatto diceva che quelli di Wyvern volevano che lasciassi perdere tutta questa storia, che non ci pensassi più.» «Hai parlato personalmente con il gatto?» «No. Roosevelt mi ha comunicato il suo messaggio.» «Naturalmente. » «A detta del gatto, avrebbero cercato di dissuadermi. O smettevo di fare il Nancy Drew della situazione, o avrebbero ucciso i miei amici, a uno a uno, fino a quando non avessi lasciato perdere.» «Mi stai dicendo che ammazzerebbero me, per dissuadere te?»
«L'idea è loro, non mia.» «Ma non possono semplicemente ucciderti? Che cosa pensano, che ci sia bisogno della criptonite?» «Hanno una grande considerazione per me, così ha detto Roosevelt.» «Certo, tutti ti stimano.» Nonostante ciò che avevano fatto le scimmie, Bobby aveva ancora qualche dubbio in fatto di antropomorfizzazione del comportamento animale. Tuttavia il suo sarcasmo adesso era meno pungente. «Subito dopo aver lasciato il Nostromo», proseguii, «ricevetti un avvertimento, proprio come aveva detto il gatto.» Raccontai a Bobby l'episodio di Lewis Stevenson. «Voleva uccidere Orson?» domandò Bobby quasi incredulo. Dal suo posto di guardia, dal quale poteva tenere d'occhio le scatole delle pizze, Orson uggiolò come a confermare il mio racconto. «E così», commentò Bobby, «hai sparato allo sceriffo.» «Era il comandante della polizia», lo corressi. «Hai sparato allo sceriffo», insistè Bobby. Parecchi anni prima, era stato un patito di Eric Clapton, quindi sapevo perché preferiva usare quella frase. «D'accordo. Ho sparato allo sceriffo... ma non ho ammazzato il suo vice.» «Non posso lasciarti solo neanche un momento.» Finì con i caricatori e li infilò nella giberna che Sasha aveva comprato insieme al resto. «Che forza quella camicia», commentai. Bobby indossava una delle sue rare camice hawaiane a manica lunga, sulla quale era stampato un murale, relativo a una festa tropicale, dai colori spettacolari: arancione, rosso e verde. «Kamehameha Garment Company, 1950 circa», mi informò. Sistemati gli estintori, Sasha tornò in cucina e accese uno dei due forni per scaldare le pizze. Riprendendo il racconto, dissi: «Poi ho incendiato l'auto della polizia per distruggere le prove». «Che cosa c'è sulla pizza?» Bobby domandò a Sasha. «Salame su una, salsiccia e cipolle sull'altra.» «Bobby si è messo una camicia usata», le riferii. «Un pezzo d'antiquariato», mi corresse Bobby. «Comunque, dopo aver bruciato l'auto della polizia, ho raggiunto la parrocchia di Santa Bernadette e mi sono introdotto nella canonica.»
«Ti sei introdotto o hai scassinato la serratura?» «C'era una finestra aperta.» «Quindi si tratta di semplice violazione di domicilio», mi rassicurò. Mentre finivo di riempire i caricatori di scorta della Glock, gli feci notare: «Camicia usata o camicia d'antiquariato... a me sembra la stessa cosa». «Una costa poco», mi spiegò Sasha, «l'altra no.» «Una è un'opera d'arte», sottolineò Bobby. Poi, allungando la giberna di pelle con i caricatori, soggiunse: «Ecco la tua borsa con le munizioni». Sasha la prese e se l'attaccò alla cintura. «La sorella di padre Tom era una collega di mia madre», li informai. «Del tipo scienziata-pazza-che-fa-saltare-il-mondo?» scherzò Bobby. «Gli esplosivi non c'entrano. Però, sì, adesso anche lei è stata infettata.» «Infettata», commentò Bobby con una smorfia. «Non possiamo risparmiarci le spiegazioni?» «No. E una cosa molto complicata. Genetica.» «Roba da cervelloni. Noiosa.» «Non questa volta.» Lontano, sul mare, luminose arterie di lampi pulsavano nel cielo ed erano seguite da bassi palpiti di tuoni. Sasha aveva anche comprato una cartucciera per cacciatori e Bobby iniziò a riempirla di cartucce da fucile. «Anche padre Tom è infettato», dissi, infilandomi uno dei caricatori di scorta, per proiettili calibro 9, nel taschino della camicia. «E tu sei infettato?» domandò Bobby. «Forse. Mia madre doveva esserlo. E mio padre lo era.» «Come si trasmette?» «Attraverso i fluidi del corpo», risposi, nascondendo gli altri due caricatori dietro una grossa candela posata sul tavolo, dove non potevano essere visti dalle finestre. «E magari anche in altri modi.» Bobby guardò Sasha, che stava trasferendo le pizze sulla carta da forno. «Se Chris è infettato, allora lo sono anch'io», concluse lei, scrollando le spalle. «Noi ci siamo tenuti per mano per più di un anno», feci notare a Bobby. «Vuoi scaldarti la pizza da solo?» gli domandò Sasha. «No. Troppa fatica. Vai pure avanti e infettami.» Chiusi la scatola con le munizioni e la posai a terra. Avevo ancora la pistola nella tasca del giubbotto, che era appeso alla spalliera della sedia. Mentre Sasha continuava a preparare le pizze, spiegai: «È possibile che
Orson non sia proprio infettato. Cioè, è più probabile che sia un portatore sano». Facendo ruotare una cartuccia fra le dita e sulle nocche, come un prestigiatore con una moneta, Bobby domandò: «E quando si comincia a star male?» «Non è una vera e propria malattia. È più che altro un processo.» Un lampo illuminò di nuovo il cielo. Stupendo. E troppo breve per procurarmi alcun danno. «Un processo», ripetè Bobby, meditabondo. «Non si è veramente malati. Solo... cambiati.» Facendo scivolare le pizze nel forno per riscaldarle, Sasha domandò: «Chi era il proprietario della camicia, prima che arrivasse a te?» «Negli anni Cinquanta? Chi lo sa?» «I dinosauri erano ancora vivi?» mi domandai. «Non molti.» «Di che cosa è fatta?» si informò Sasha. «Di rayon.» «Sembra ancora in perfette condizioni.» «Una camicia come questa, non la si indossa tutti i giorni», le fece notare Bobby con aria solenne. «La si tiene da conto.» Aprii il frigorifero e presi bottiglie di Corona per tutti, tranne che per Orson. Il cane è abbastanza grosso e pesante per reggere tranquillamente una bottiglia di birra senza restare stordito, ma volevo che, questa notte, fosse completamente lucido. Al contrario, noi avevamo bisogno di bere qualcosa; con i nervi più calmi, saremmo stati più efficienti. Mi avvicinai al lavello per aprire le bottiglie e, oltre i vetri, un lampo squarciò di nuovo il cielo, tentando invano di strappare un po' di pioggia alle nubi e, in quel guizzo di luce, vidi tre figure chine in avanti, che correvano da una duna all'altra. «Sono arrivate», annunciai, portando le birre in tavola. «Hanno sempre bisogno di un po' di tempo per caricarsi», assicurò Bobby. «Speriamo che ci lascino il tempo di cenare.» «Già. Io sto morendo di fame», concordò Sasha. «E allora? Quali sono i sintomi più evidenti di questa nonmalattia, di questo processo?» domandò Bobby. «Alla fine avremo l'aspetto di chi si è preso il fungo delle querce?» «Alcuni possono degenerare psicologicamente come Stevenson», spie-
gai. «In altri si possono verificare piccoli cambiamenti fisici. O anche grandi, per quanto ne so. Ma sembra che ogni soggetto sia un caso a sé. Magari ci sono persone che non subiscono alcuna mutazione, o almeno non tale da essere notata, e invece c'è gente che cambia completamente.» Mentre Sasha, piena di ammirazione, palpava la manica della sua camicia, Bobby si voltò per dirle: «La stampa è la riproduzione di un murale di Eugene Savage intitolato Festa sull'Isola». «I bottoni sono una bomba», commentò lei. «Davvero», concordò Bobby, strofinando il pollice su uno dei bottoni striati, di un marrone-giallastro, sorridendo con l'orgoglio di un collezionista e di piacere nel toccare quella sensuale struttura. «Guscio di noce di cocco lucidato.» Sasha prese da un cassetto un pacco di tovaglioli di carta e li mise sulla tavola. L'aria era umida e pesante. Sembrava che la pelle del temporale si stesse gonfiando come un pallone. Presto sarebbe scoppiata. Dopo aver ingollato un sorso di Corona ghiacciata, dissi a Bobby: «Ascolta, fra', prima che io ti racconti il resto, Orson ha qualcosa da farti vedere». «Grazie, ma non devo comprare niente.» Chiamai Orson al mio fianco. «Sui divani del soggiorno ci sono dei cuscini. Uno l'ho regalato io a Bobby. Me lo vai a prendere, per favore?» Orson uscì dalla stanza. «Che cosa sta succedendo?» domandò Bobby, perplesso. Con la bottiglia di birra in mano, Sasha si sedette e rispose sorridendo: «Aspetta e vedrai». La sua Chiefs Special calibro 38 era sul ripiano della tavola, davanti a lei. Spiegò un tovagliolo di carta e ve lo posò sopra. «Aspetta e vedrai.» Ogni anno, a Natale, Bobby e io ci scambiamo un dono. Dato che entrambi abbiamo tutto quello che ci serve, comprando il regalo non pensiamo né al suo valore, né all'utilità. La nostra idea è quella di scovare l'oggetto più pacchiano che si possa trovare. È una tradizione iniziata quando avevamo dodici anni. Nella camera di Bobby ci sono alcune mensole sulle quali tiene tutti gli oggetti di pessimo gusto che gli ho regalato nel corso degli anni; l'unico regalo che non ritiene sufficientemente volgare per essere esposto sulle mensole è il cuscino. Orson tornò in cucina con l'oggetto non abbastanza pacchiano e Bobby lo prese, cercando di non apparire troppo colpito dalla prodezza del cane.
Il cuscino, grande circa trenta centimetri per venti, era ricamato sulla parte anteriore. Un popolare canale televisivo della chiesa evangelista produceva, e vendeva per autofinanziarsi, questo tipo di oggetti. All'interno di un'elaborata cornice, vi erano sette parole: GESÙ MANGIA PECCATORI E SPUTA ANIME SALVATE. «E questa non ti è sembrata una frase pacchiana?» domandò Sasha, incredula. «Sì, certo», ammise Bobby, mentre si sistemava la cartucciera intorno alla vita, senza alzarsi dalla sedia. «Ma non abbastanza.» «I nostri livelli di volgarità sono molto alti», spiegai. L'anno dopo avergli regalato il cuscino, comprai per Bobby una scultura in ceramica di Elvis Presley. Elvis è rappresentato con addosso uno dei suoi più sfolgoranti completi da palcoscenico di Las Vegas, in seta e lustrini bianchi, ed è seduto sul vaso della toilette, dove fu trovato morto; la statua lo mostra con le mani giunte, gli occhi levati al cielo e un'aureola intorno alla testa. In questa gara natalizia, Bobby parte svantaggiato perché insiste nell'andare a cercare gli oggetti spazzatura nei negozi di articoli da regalo. A causa della mia XP, io sono invece costretto a fare i miei acquisti per posta e sui cataloghi si possono trovare tanti di quei regali pacchiani da stipare tutti i ripiani della biblioteca del Congresso. Rigirando il cuscino tra le mani e lanciando uno sguardo perplesso a Orson, Bobby commentò: «Bel giochino». «Non è un giochino», esclamai. «Evidentemente, a Wyvern si svolgevano esperimenti di vario tipo. Fra i quali potenziare l'intelligenza sia umana, sia animale.» «Dimmi che non è vero.» «E invece sì.» «Roba da matti.» «Pienamente d'accordo.» Chiesi a Orson di riportare al suo posto il cuscino, poi di andare in camera, aprire una delle porte scorrevoli e tornare con uno degli eleganti mocassini che Bobby aveva comprato per il funerale di mia madre, essendosi accorto di possedere solo infradito, sandali e scarpe da ginnastica. La cucina profumava di pizza e il cane lanciò un'occhiata golosa verso il forno. «Avrai la tua parte», lo rassicurai. «Ora trovami quello che ti ho chiesto.»
Mentre Orson stava per uscire dalla stanza, Bobby gli intimò: «Aspetta». Orson si voltò a guardarlo, in attesa. «Non portarmi una scarpa qualsiasi. Né un mocassino qualsiasi. Ma il mocassino sinistro.» Sbuffando come per dire che questa complicazione era del tutto trascurabile, Orson uscì per portare a termine la sua commissione. Sul Pacifico, un'accecante scala di lampi collegava il cielo alla terra, come ad annunciare l'imminente discesa degli arcangeli. La successiva scarica di tuoni fece tremare i vetri delle finestre e riecheggiò fra le pareti della casa. Lungo questa costa dal clima temperato, raramente i temporali sono accompagnati da simili fuochi d'artificio, ma quella notte dovevamo prepararci ad assistere a uno spettacolo piuttosto vivace. Posai sulla tavola un barattolo di peperoncino rosso macinato, piatti di carta e sottopiatti sui quali Sasha posò le pizze calde. «Mungojerrie», ricordò Bobby. «È un nome tratto da un libro di poesie che parlano di gatti.» «Mi sembra un po' pomposo.» «No, è carino», lo contraddisse Sasha. «Pelucco», ribattè Bobby. «Questo sì che è un nome da gatto.» Si era alzato il vento, che faceva sbattere il coperchio di uno sfiatatoio e sibilava dentro le grondaie. Non ne ero certo, ma mi sembrò di sentire in distanza gli striduli richiami del branco. Bobby allungò un braccio per sistemare meglio il fucile, che aveva posato sul pavimento, accanto alla sua sedia. «Pelucco o Scintilla», ribadì. «Questi sono veri nomi da gatto.» Sasha staccò una fetta di pizza al salame e, con la forchetta e il coltello, la tagliò a pezzettini, mettendola poi da parte per Orson. In quel momento il cane rientrò in cucina tenendo in bocca un mocassino, che consegnò a Bobby. Si trattava del sinistro. Bobby si alzò e andò a gettare la scarpa nella pattumiera: «Non è per l'impronta dei denti, né per la bava di cane», assicurò a Orson. «Il fatto è che non prevedo di usare più scarpe del genere.» Mi tornò alla mente la busta del Thor's Gun Shop che, la sera precedente, avevo trovato accanto alla Glock. Nel prenderla, avevo notato che era umida e che presentava delle strane incisioni. Saliva. Impronte di denti. Era stato Orson a mettere la pistola di mio padre dove l'avrei sicuramente trovata.
Bobby si sedette nuovamente a tavola e rimase a fissare il cane. «E allora?» «Che cosa?» «Lo sai che cosa.» «Devo proprio dirlo?» «Sì.» «Mi sento come se una montagna d'acqua mi fosse piombata addosso, fracassandomi la testa, e la sua risacca mi avesse quasi risucchiato il cervello.» «Sei grande», mi complimentai con Orson. Per tutto il tempo, Sasha aveva continuato a sventolare una mano sui pezzetti di pizza di Orson, per evitare che il formaggio, troppo caldo, gli si attaccasse al palato, provocandogli delle ustioni. Finalmente posò il piatto sul pavimento. Orson cominciò a scodinzolare, colpendo con forza le gambe del tavolo e della sedia, come a dimostrare che avere una buona intelligenza non significa necessariamente comportarsi bene a tavola. «Seta», esclamò Bobby. «Un nome semplice. Un nome da gatto. Seta.» Mentre mangiavamo la pizza e sorseggiavamo le nostre birre, la tremula luce delle candele mi permise, anche se a malapena, di leggere i fogli gialli a righe, nei quali mio padre spiegava brevemente in che cosa consistevano le attività svolte a Wyvern, gli inattesi sviluppi che avevano portato alla catastrofe e fino a che punto mia madre era stata coinvolta in questi esperimenti. Sebbene mio padre non fosse uno scienziato e potesse riferire, con parole semplici e da profani, solo quanto gli aveva detto mia madre, quel documento conteneva una vera miniera di informazioni. «'Un giovane fattorino'», mormorai. «Ecco che cosa mi aveva detto Lewis Stevenson ieri notte, quando gli ho chiesto che cosa lo avesse reso diverso dall'uomo di un tempo. 'Un giovane fattorino che insisteva a non voler morire.' Stava parlando di un retrovirus... con la selettività di un retrotrasposone.» Quando sollevai lo sguardo dai fogli, vidi Bobby e Sasha che mi fissavano perplessi. «Probabilmente Orson sa di che cosa stai parlando, ma io non ho nemmeno finito il liceo», mi fece notare Bobby. «E io sono solo una disc-jockey», soggiunse Sasha. «Molto brava», si complimentò Bobby. «Grazie.»
«Anche se metti troppi dischi di Chris Isaak», sottolineò. Questa volta il lampo non scese dal cielo, ma si scaraventò dritto al suolo, come uno sfolgorante ascensore lanciato a tutta velocità, e pieno di esplosivi che scoppiarono nel momento in cui toccarono terra. L'intero promontorio sembrò sobbalzare, la casa tremò e una pioggia simile a detriti si abbattè sul tetto. Dopo aver gettato una breve occhiata alle finestre, Sasha commentò: «Può darsi che non amino la pioggia e che, per questa notte, se ne stiano lontane». Infilai la mano nella tasca del giubbotto appeso alla sedia ed estrassi la Glock. Dopo averla posata sul tavolo, la coprii con un tovagliolo di carta, come aveva fatto Sasha poco prima. «Già da tempo gli scienziati, attraverso esperimenti clinici, stanno tentando di trovare la cura per numerose malattie... AIDS, cancro, affezioni ereditarie... con diverse terapie genetiche. L'idea è che, se i geni del paziente sono difettosi o mancano del tutto, si provvede a sostituirli o a immetterli, in modo che possa combattere più efficacemente contro la malattia. Ci sono stati risultati piuttosto incoraggianti. Successi modesti, ma in continuo aumento. E anche fallimenti purtroppo, sgradevoli sorprese.» «C'è sempre un Godzilla», commentò Bobby. «Un momento Tokyo è una città laboriosa, prospera e felice... e un momento dopo, c'è questa gigantesca lucertola che distrugge tutti gli appartamenti, calpestandoli con le zampe.» «Il problema è immettere i geni sani nel paziente. Di solito usano virus neutralizzati per trasportare i geni nelle cellule. Nella maggior parte dei casi si tratta di retrovirus.» «Come neutralizzati?» volle sapere Bobby. «Che non sono in grado di riprodursi. Così non rappresentano una minaccia per il corpo. Una volta che hanno trasportato il gene umano nella cellula, sono in grado di innestarsi nei cromosomi della cellula in questione.» «I fattorini», riflette Bobby. «E una volta portato a termine il loro lavoro», intervenne Sasha, «dovrebbero morire?» «A volte le cose non vanno tanto lisce. Questi virus possono provocare infiammazioni», spiegai, «o gravi reazioni immunitarie che distruggono non solo i virus stessi ma anche le cellule alle quali hanno portato i geni. Di conseguenza, alcuni ricercatori hanno studiato sistemi diversi per modificare i retrovirus, rendendoli più simili a retrotrasposoni, che sono i segmenti del DNA di un individuo già capaci di copiarsi e inserirsi nei cromo-
somi.» «Ecco che arriva Godzilla», esclamò Bobby, rivolto a Sasha. «Scusa, Uomo delle Nevi, ma tu come fai a sapere tutte queste cose?» mi domandò lei. «Non puoi averle imparate leggendo quei fogli per un paio di minuti.» «Il fatto è che trovi interessanti anche i documenti più noiosi, se parlano di ricerche e sai che queste potrebbero salvarti la vita», risposi. «Se qualcuno potesse sostituire i miei geni difettosi con copie funzionanti, il mio corpo sarebbe in grado di produrre gli enzimi che riparano i danni provocati al mio DNA dai raggi ultravioletti.» «E a quel punto non saresti più il Lombrico», concluse Bobby. «Addio mostro», concordai. Al di sopra del tambureggiare dalla pioggia sul tetto, si udì lo scalpiccio di qualcosa che correva attraverso la veranda, sul retro della casa. Alzammo lo sguardo giusto in tempo per vedere un grosso bunder balzare sul davanzale della finestra sopra il lavello. Aveva la pelliccia bagnata e arruffata, il che lo faceva apparire ancor più magro. Con grande abilità, riusciva a restare in equilibrio su quella stretta cornice e, con una manina, si teneva aggrappato a un montante verticale. Mentre sbirciava all'interno della stanza con quella che sembrava la tipica curiosità delle scimmie, la bestiola aveva un'aria del tutto innocente... se non fosse stato per il suo sguardo minaccioso. «Probabilmente si irriteranno più in fretta se fingiamo di ignorarle», suggerì Bobby. «E più sono scocciate», soggiunse Sasha, «meno saranno prudenti.» Mentre davo un altro morso alla pizza con salsiccia e cipolle, battei un dito sulla pila di fogli gialli e dissi: «Qui c'è un paragrafo in cui mio padre spiega quello che aveva capito della nuova teoria di mia madre. Per il progetto di Wyvern, lei aveva sviluppato un approccio rivoluzionario alla preparazione dei retrovirus, così che potessero essere usati in modo più sicuro per trasportare i geni nelle cellule del paziente». «Sento le zampe del lucertolone che si avvicinano», commentò Bobby. «Bum, bum, bum, bum.» Da dietro i vetri, la scimmia gridò contro di noi. Lanciai un'occhiata alla finestra più vicina, quella accanto al tavolo, ma da là non ci stava osservando nessuno. Orson si alzò sulle zampe posteriori e posò quelle anteriori sul tavolo, esprimendo in modo teatrale il proprio interesse per un altro triangolo di pizza, rivolgendo le sue moine soltanto a Sasha.
«Lo sai che i bambini cercano appoggio in un genitore, quando l'altro gli rifiuta qualcosa», la avvertii. «Più che altro, io sono sua cognata», mi fece notare. «Comunque, questo potrebbe essere il suo ultimo pasto. E anche il nostro.» Sospirai. «Va bene. Ma se non ci ammazzano, quello di stasera sarà un pessimo precedente.» Un'altra scimmia balzò sul davanzale. Cominciarono entrambe a lanciare grida stridule e a mostrarci i denti. Sasha scelse il triangolo di pizza più piccolo, lo tagliò a pezzi e lo mise nel piatto del cane, sul pavimento. Orson guardò con aria preoccupata gli spiritelli maligni dietro la finestra, ma nemmeno i primati del giorno del giudizio potevano rovinargli l'appetito. Tornò a concentrarsi sulla cena. Una delle scimmie cominciò a battere ritmicamente una mano sul vetro, alzando il tono della voce, già così stridula. I suoi denti sembravano più grossi e più aguzzi di quelli di un normale bunder, abbastanza grossi e aguzzi da consentirgli di assumere il ruolo di animale predatore. Forse questa era una delle caratteristiche fisiche modificate da quei burloni di Wyvern. Mi tornò alla mente l'immagine della gola lacerata di Angela. «Magari lo fanno per distrarci», disse Sasha. «Non possono entrare in casa se non rompendo i vetri», la rassicurò Bobby. «E allora le sentiremo.» «Con il baccano che fanno e con la pioggia?» domandò Sasha, dubbiosa. «Le sentiremo.» «Non penso che dovremmo dividerci, a meno che non vi fossimo proprio costretti», consigliai. «E loro sono molto abili a dividere i nemici, per poi sopraffarli.» Sbirciai nuovamente attraverso la finestra vicina al tavolo, ma in quella parte di veranda non c'era nessuno, e gli unici movimenti che scorsi sulle dune erano quelli del vento e della pioggia. Al di sopra del lavello, una delle scimmie era riuscita a voltarsi di schiena, pur continuando a restare appesa alla finestra. Il suo verso era una risata stridula e ci mostrava il brutto sedere spelato, premendolo contro il vetro. «E poi, che cosa è successo dopo che ti sei introdotto nella canonica?» domandò Bobby. Rendendomi conto che non avevamo più molto tempo a disposizione, riassunsi brevemente quanto era avvenuto nella soffitta, durante la visita a
Wyvern e a casa di Ramirez. «Manuel, uno zombie», commentò Bobby, scuotendo tristemente la testa. «Che schifo», esclamò Sasha, ma non stava parlando di Manuel. Dall'altra parte della finestra, il bunder maschio rivolto verso di noi si era messo a urinare copiosamente contro il vetro. «Questa è nuova», osservò Bobby. Sul tratto di veranda dietro le finestre del lavello, altre scimmie cominciarono a saltare come chicchi di granturco in una padella di olio bollente, mostrandosi per un momento e poi scomparendo di nuovo. Urlavano e stridevano, sembrava che ce ne fossero a centinaia, ma doveva essere sempre la stessa mezza dozzina che saltava, roteava e si metteva in mostra. Terminai la mia birra. Fingere indifferenza diventava sempre più difficile. Forse anche agire con freddezza richiedeva un'energia e una concentrazione maggiori di quelle che possedevo. «Orson, non sarebbe una cattiva idea se andassi a fare un giretto per la casa», suggerii. Il cane si avviò immediatamente verso la porta della cucina per andare a perlustrare le stanze. Prima che varcasse la soglia, gli raccomandai: «Niente gesti eroici. Se noti qualcosa di strano, comincia ad abbaiare furiosamente e torna qui di corsa». Uscì dalla stanza, scomparendo alla vista. Mi pentii di averlo mandato a controllare, anche se sapevo che era la cosa giusta. Dopo che la prima scimmia ebbe svuotato la vescica, la seconda si girò verso di noi e fece altrettanto. Le altre scorrazzavano lungo la balaustra che cingeva la veranda e si dondolavano dalle travi del tetto. Bobby era seduto proprio davanti alla finestra adiacente al tavolo. Continuava a scrutare quella parte relativamente calma dell'oscurità con la stessa sospettosa perplessità che sentivo io. I lampi sembravano essersi placati, ma scariche di tuoni rimbombavano ancora da una parte all'altra dell'oceano. Queste cannonate rendevano più nervoso il branco. «Ho sentito dire che il nuovo film di Brad Pitt è proprio fantastico», ritenne opportuno farci sapere Bobby. «Non sono ancora andata a vederlo», si lamentò Sasha.
«Io devo per forza aspettare che escano in cassetta», gli ricordai. Qualcuno tentò di aprire la porta di servizio che dava sulla veranda posteriore. Il pomello sbatacchiò e cigolò, ma la serratura era ben chiusa. Le due scimmie scomparvero da dietro la finestra. Ma altre due balzarono sul davanzale, prendendo il loro posto e cominciarono a urinare contro il vetro. «Non ho nessuna intenzione di pulire quella roba», dichiarò Bobby. «Se pensi che lo faccia io, te lo puoi scordare», protestò Sasha. «Può darsi che scarichino la loro aggressività e la loro rabbia in questo modo, e poi vadano via», affermai speranzoso. Sembrava che Bobby e Sasha avessero seguito lo stesso corso su come fulminare una persona con un'occhiata sarcastica. «O forse no», mormorai. Un sasso grande quanto un nocciolo di ciliegia colpì una delle finestre e le scimmie, che stavano ancora minando, si lasciarono cadere a terra per togliersi dalla linea di fuoco. Al pruno, seguirono altri sassi, scagliati in rapida successione, che tempestarono il vetro come grandine. Nessun sasso venne lanciato contro la finestra più vicina. Bobby raccolse il fucile da terra e lo posò sulle ginocchia. La scarica raggiunse la massima intensità poi si interruppe bruscamente. Adesso le scimmie erano frenetiche e le loro urla si erano fatte più rabbiose. Quelle grida stridule, che continuavano ad aumentare di volume, facevano venire i brividi, sembravano possedere un effetto soprannaturale, caricando la notte di una tale demoniaca energia, che la pioggia cominciò a scrosciare più violenta che mai. I tuoni si abbatterono sul guscio della notte come implacabili martellate e, ancora una volta, i luminosi rebbi dei lampi affondarono nella carne del cielo. Con un rumore secco, un sasso più grosso dei precedenti rimbalzò da una delle finestre sopra il lavello. Fu seguito da un altro, all'incirca delle stesse dimensioni, scagliato con maggior forza del primo. Fortunatamente, le mani dei bunder erano troppo piccole per impugnare e usare correttamente pistole e revolver; oltretutto, essendo animali molto leggeri, sarebbero stati catapultati all'indietro dal rinculo. Queste creature erano certamente abbastanza intelligenti da capire a che cosa servissero e come funzionavano queste armi, ma almeno i geniali pazzerelloni di Wyvern non avevano scelto dei gorilla per i loro esperimenti. Tuttavia sono convinto che, se gli fosse venuta in mente questa idea, avrebbbero sen-
z'altro cercato di ottenere fondi per portare avanti la loro impresa e, non solo avrebbero addestrato i gorilla all'uso delle armi da fuoco, ma li avrebbero anche istruiti sulle caratteristiche salienti di quelle nucleari. Altri due sassi colpirono le finestre prese di mira. Sfiorai il telefono cellulare agganciato alla mia cintura. Doveva pur esserci qualcuno a cui potevamo chiedere aiuto. Non la polizia, non l'FBI. Se avessimo chiamato la prima, probabilmente i poliziotti di Moonlight Bay avrebbero garantito il fuoco di copertura per le scimmie. E anche se fossimo riusciti a contattare l'ufficio più vicino dell'FBI e fossimo risultati più credibili di tutti coloro che telefonavano dicendo di essere stati rapiti dai dischi volanti, ci saremmo comunque rivolti al nemico; Manuel Ramirez aveva detto che la decisione di lasciar sbollire la cosa era stata presa da qualcuno «molto in alto», e io gli credevo. Oggi più che in passato, la nostra vita e il nostro futuro sono affidati a professionisti ed esperti, secondo i quali noi non abbiamo conoscenze o facoltà intellettive sufficienti per prendere decisioni di una certa importanza relative all'organizzazione della società. Ciò che sta avvenendo, l'apocalisse attraverso i primati, non è che la conseguenza della nostra credulità e della nostra pigrizia. Un sasso ancor più grosso colpì la finestra. Il vetro si incrinò, senza tuttavia andare in frantumi. Afferrai i due caricatori di scorta dei proiettili calibro 9, che avevo posato sul tavolo, e li infilai ognuno in una tasca dei jeans. Sasha fece strisciare una mano sotto il tovagliolo di carta che copriva la Chiefs Special. La imitai, impugnando la Glock. Ci guardammo. Un'ondata di paura le attraversò lo sguardo e sono certo che anche lei vide la stessa corrente scura nei miei occhi. Cercai di offrirle un sorriso rassicurante, ma sentii che il mio viso si sarebbe spezzato come una maschera di gesso. «Andrà tutto bene. Una discjockey, un ribelle del surf e l'Uomo Elefante... la squadra perfetta per salvare il mondo.» «Se possibile», consigliò Bobby, «non ammazzate subito la prima o la seconda scimmia, aspettate che ne entri qualcun'altra. Prendete più tempo possibile. Lasciate che si sentano sicure. Quelle bestiacce schifose. Poi lasciatemi sparare per primo, voglio insegnargli un po' di rispetto. Con il fucile, non devo nemmeno prendere la mira.» «Sissignore, generale Bob», risposi. Due, tre, quattro sassi... adesso
grandi come noci di pesca... colpirono le finestre. Si incrinò anche il secondo vetro e si formò una crepa laterale, simile alla ramificazione di un lampo. Stavo vivendo un riassetto fisiologico che avrebbe affascinato qualsiasi medico. Lo stomaco si era ristretto e, dopo essere salito su per il torace, ora premeva insistentemente alla base della gola, mentre il cuore, che martellava furiosamente, era sprofondato nello spazio precedentemente occupato dallo stomaco. Un'altra mezza dozzina di sassi, scagliati con più forza di prima, colpirono le finestre e, questa volta, i vetri andarono in frantumi. Con uno scoppio tintinnante, una pioggia di schegge si riversò nel lavello d'acciaio inossidabile, sui ripiani di granito e sul pavimento. Alcune raggiunsero il tavolo, costringendomi a chiudere gli occhi per un momento, mentre gli aguzzi frammenti rimbalzavano sulla superficie e si conficcavano nelle fette rimaste di pizza fredda. Quando riaprii gli occhi, sul davanzale della finestra vi erano due scimmie, grandi come quelle descritte da Angela Ferryman. Muovendosi con circospezione per via dei vetri e fissandoci con diffidenza, balzarono sui ripiani di granito della cucina. Raffiche di vento entrarono con loro, scompigliando il loro pelo bagnato dalla pioggia. Una delle due lanciò un'occhiata verso l'armadietto delle scope, dove abitualmente il fucile veniva tenuto sotto chiave. Da quando erano arrivate, non ci eravamo avvicinati a quell'armadietto e, da dove si trovavano, non potevano scorgere l'arma posata sulle ginocchia di Bobby. Bobby le guardò per un attimo, ma poi tornò a concentrarsi sulla finestra davanti a lui, dall'altra parte del tavolo. Agili e chine in avanti, le due creature cominciarono ad avanzare lungo i ripiani, in direzioni opposte. Nella penombra della stanza, i loro occhi giallastri e maligni scintillavano come fiamme di uno stoppino. La scimmia a sinistra trovò sulla sua strada un tostapane e lo scaraventò a terra con rabbia. La spina venne strappata violentemente e dalla presa a muro si levarono alcune scintille. Ricordai quanto Angela mi aveva raccontato del bunder, di come l'avesse bombardata di mele con tanta forza da spaccarle un labbro. Nella cucina di Bobby non vi erano molti oggetti a portata di mano, ma se le bestie avessero aperto gli armadietti e avessero cominciato a scagliarci addosso piatti e bicchieri, avremmo corso il rischio di restare gravemente feriti. Un piatto, lanciato come un frisbee, che avesse colpito la radice di un naso,
poteva essere micidiale quasi quanto un proiettile. Altre due creature dagli occhi di fuoco balzarono dalla veranda sul davanzale della finestra, ormai senza vetri, e presero a soffiare contro di noi, scoprendo i denti. Il tovagliolo di carta che copriva l'arma di Sasha tremava visibilmente, e non perché fosse mosso dal vento. Nonostante le grida, i versi e il soffiare delle scimmie, nonostante le raffiche di vento che entravano dai telai vuoti della finestra, il brontolio dei tuoni e il tambureggiare della pioggia, mi parve di udire Bobby che canticchiava tra sé. Non prestava quasi nessuna attenzione alle scimmie in fondo alla cucina e rimaneva concentrato sulla finestra ancora intatta, davanti a lui... e vidi che muoveva le labbra. Forse rese più spavalde dalla mancanza di reazione da parte nostra, forse credendoci immobilizzati dalla paura, le due scimmie balzate sul vano della finestra rotta si lanciarono all'interno e avanzarono sui ripiani in direzione opposta, accompagnandosi ognuna con le prime due. O Bobby aveva cominciato a cantare a voce più alta, oppure il terrore acuiva il mio udito, perché, all'improvviso, riconobbi la canzone. Si trattava di Daydream Believer. Era un motivetto di parecchi anni prima, molto amato dai ragazzini di quell'epoca, reso famoso dai Monkees. Anche Sasha doveva averlo sentito, perché commentò: «Una carica di energia dal passato». Altri due membri del branco si arrampicarono sulle finestre al di sopra del lavello, appendendosi alle intelaiature, con gli occhi che sprizzavano fuoco, e vomitandoci addosso stridule urla colme d'odio. Le quattro bestie già entrate in cucina gridavano come le loro compagne, furibonde e più forte che mai, saltando sui ripiani, agitando i pugni in aria, scoprendo i denti e sputando verso di noi. Erano intelligenti, ma non abbastanza. La rabbia stava rapidamente offuscando la loro capacità di ragionare. «Via!» gridò Bobby. Ci siamo. Invece di spingere rapidamente la sedia all'indietro per allontanarsi dal tavolo, Bobby si girò di lato, si alzò di scatto e sollevò il fucile, come se avesse ricevuto, contemporaneamente, un addestramento militare e lezioni di balletto classico. Dalla bocca dell'arma partì una fiammata; la prima raffica colpì in pieno le due ultime arrivate, che si trovavano ancora nel vano della finestra, scaraventandole sulla veranda quasi fossero pupazzi di stoffa, mentre la seconda abbattè la coppia di scimmie sul ripiano alla sinistra del lavello.
Sentivo le orecchie rintronare come se mi fossi trovato dentro la campana di una cattedrale e, sebbene il fragore dei colpi in quello spazio chiuso fosse abbastanza forte da lasciarmi disorientato, balzai in piedi prima della seconda raffica; lo stesso fece Sasha, che si voltò di scatto e sparò in direzione delle ultime due scimmie, nello stesso istante in cui Bobby rivolgeva l'arma contro gli intrusi numero tre e quattro. Mentre il rumore degli spari rimbalzava da una parete all'altra, la finestra più vicina esplose verso di me. Volando al di sopra di una cascata di schegge di vetro, urlando orrendamente, un bunder atterrò sul tavolo, facendo cadere due delle tre candele, una delle quali si spense, spruzzando tutt'intorno la pioggia che bagnava il suo pelo e mandando ciò che restava di una pizza a roteare sul pavimento. Sollevai la Glock, ma l'animale balzò sulla schiena di Sasha. Se avessi sparato, il proiettile avrebbe trapassato quella bestiaccia ma, con tutta probabilità, avrebbe ucciso anche Sasha. Allontanai la sedia con un calcio e girai intorno al tavolo. Sasha urlava e, dato che la scimmia cercava di strapparle una ciocca di capelli, aveva istintivamente lasciato cadere la calibro 38, piegando le braccia all'indietro per cercare di afferrare il bunder, saldamente aggrappato alla sua schiena. L'animale cercò quindi di azzannarle le mani e si udì chiaramente lo sbattere dei denti che mordevano l'aria. Il corpo di Sasha premeva contro il tavolo e la scimmia continuava a tirare i capelli, in modo da costringerla a inclinare ulteriormente il capo all'indietro, lasciando così la gola esposta. Gettai la Glock sul tavolo e attaccai la bestia da dietro, stringendole il collo con la destra, e servendomi della sinistra per afferrare il pelo e la pelle fra le scapole. Cominciai a torcere la pelle con tanta violenza che la bestia si mise a urlare di dolore. Ma non lasciò la presa. Mentre tentavo di staccarla da Sasha, la scimmia continuava a tirare la ciocca di capelli per strapparla alla radice. Bobby spinse un'altro colpo in canna e sparò per la terza volta. Le pareti del villino sembrarono vibrare come per un terremoto e io pensai che, finalmente, anche l'ultima coppia di scimmie fosse stata abbattuta, ma sentii Bobby imprecare e compresi che i guai non erano ancora finiti. Visibili più per lo scintillio dei loro occhi gialli che grazie alla fioca luce delle due candele rimaste accese, un altro paio di bunder, veri kamikaze, erano balzati sul davanzale della finestra sopra il lavello. E Bobby stava ricaricando il fucile. Da un'altra parte della casa, Orson si mise ad abbaiare furiosamente.
Non riuscivo a comprendere se stesse correndo verso di noi per unirsi alla lotta, o se stesse chiedendo aiuto. Mi sentii imprecare con insolita vivacità e ringhiare con ferocia animalesca, mentre spostavo la presa sul bunder e gli stringevo entrambe le mani intorno alla gola. Cominciò ad ansimare, restò senza fiato, stava per soffocare, e alla fine non ebbe altra scelta che staccarsi da Sasha. La scimmia non doveva pesare più di tredici chili, ovvero un sesto del mio peso, ma era tutta ossa, muscoli e odio. Lanciando urla stridule e continuando a sputare, nonostante respirasse ancora a fatica, cercò di chinare la testa per mordere le mani che le serravano la gola. Prese ad agitarsi, a dimenarsi e a scalciare, sarebbe stato meno difficile tenere un'anguilla, ma ero talmente furibondo per quello che aveva tentato di fare a Sasha, che le mie mani sembravano d'acciaio e, alla fine, sentii il suo collo che si spezzava. Poi non fu che una cosa floscia, morta, e la lasciai cadere a terra. Con un senso di nausea, boccheggiando, raccolsi la Glock, mentre Sasha, che aveva recuperato la sua Chiefs Special, si avvicinò alla finestra senza vetri e cominciò a sparare nel buio. Mentre ricaricava il fucile, avendo evidentemente perso di vista le ultime due scimmie nonostante i loro occhi scintillanti, Bobby si avvicinò all'interruttore accanto alla porta. Regolò il reostato quasi al massimo e l'intensità della luce mi costrinse a strizzare gli occhi. Una di quelle piccole bastarde era su un ripiano, accanto alla piastra elettrica. Aveva afferrato il più piccolo dei coltelli appesi a una rastrelliera a muro e, prima che qualcuno di noi potesse aprire il fuoco, lo scagliò contro Bobby. Non so se il branco fosse stato addestrato alle più semplici tecniche di combattimento o se la scimmia fosse solo fortunata. Sta di fatto che il coltello roteò nell'aria e andò a conficcarsi nella spalla destra di Bobby, che lasciò cadere il fucile. Sparai due colpi in direzione del bunder e l'animale fece un balzo all'indietro, finendo sulla piastra elettrica, morto. Forse la scimmia rimasta doveva aver sentito dire che la prudenza è la parte migliore del coraggio, perché arrotolò la coda contro la schiena e, lanciandosi verso il lavello, fuggì fuori della finestra. Le sparai due colpi, ma mancai la mira. Sasha, che era ferma accanto all'altra finestra, sorprendendomi per la saldezza dei nervi e l'agilità delle dita, frugò nella giberna, estrasse un caricatore e lo inserì nella calibro 38. Poi lo fece ruotare, riempiendo tutte le
camere di caricamento in una volta sola, lo lasciò cadere a terra e, con un colpo secco, richiuse il tamburo. Mi domandai quale scuola per aspiranti disc-jockey offrisse anche corsi sulle armi da fuoco. Fino a quel momento ero stato convinto che Sasha fosse l'unica persona rimasta, fra gli abitanti di Moonlight Bay, a essere veramente quello che sembrava. Ora cominciavo a sospettare che mi nascondesse un paio di segreti. Riprese a sparare nel buio. Non so se mirasse a un obiettivo ben preciso, o se cercasse soltanto di scoraggiare gli eventuali membri del branco rimasti ancora vivi. Tolsi il caricatore semivuoto dalla Glock e ne inserii uno pieno, poi mi avvicinai a Bobby, che stava estraendo il coltello dalla spalla. La lama doveva essere penetrata solo per qualche centimetro, ma la chiazza di sangue, che macchiava la sua camicia, continuava ad allargarsi. «Fa male?» «Maledizione!» «Puoi resistere?» «Era la mia camicia migliore!» Forse non era nulla di grave. In un'altra stanza, sulla parte anteriore della casa, Orson continuava ad abbaiare, ma ora ai suoi latrati si erano aggiunti guaiti di terrore. Mi infilai la Glock nella cintura, appoggiandola contro le reni, raccolsi il fucile di Bobby, che era carico, e corsi in direzione dei latrati. In soggiorno, le luci erano accese al minimo, come le avevamo lasciate. Alzai leggermente il reostato per vedere meglio. Una delle vetrate era in frantumi. Raffiche di vento portavano la pioggia sotto il tetto della veranda, facendola entrare anche nel soggiorno. Quattro scimmie, appollaiate sulle spalliere delle sedie e sui braccioli del divani, lanciavano le loro grida stridule. Quando aumentai l'intensità della luce, si voltarono a guardarmi e presero a soffiare tutte insieme. Secondo le stime di Bobby, il branco avrebbe dovuto essere composto di otto o dieci animali, ma evidentemente era molto più numeroso. Ne avevo già viste dodici o quattordici e, nonostante fossero talmente furibonde e piene di odio da sembrare impazzite, ero convinto che non fossero così spericolate, o stupide, da sacrificare la maggior parte della loro comunità in un unico assalto. Erano in libertà da due o tre anni. Avevano avuto tutto il tempo di riprodursi.
Circondato dalle quattro bestie, che avevano ripreso a gridare e soffiare contro di lui, Orson continuava a muoversi in circolo, cercando di tenerle d'occhio tutte insieme. Una di loro si trovava a una distanza tale che non c'era pericolo di colpire Orson con un proiettile vagante. Senza esitare, abbattei l'animale che si trovava proprio sulla mia linea di tiro, e la scarica di pallettoni e gli spruzzi di budella di scimmia che si sparsero tutt'intorno probabilmente sarebbero costati a Bobby cinquemila dollari di riparazione e verniciatura della stanza. Strillando, le altre tre creature, saltarono da un mobile all'altro, dirigendosi verso le finestre. Riuscii ad ammazzarne un'altra, ma la terza scarica si limitò a sforacchiare una parete rivestita di teak, con un'ulteriore spesa, per Bobby, di altri cinque o diecimila verdoni. Gettai di lato il fucile, estrassi la Glock dalla cintura e inseguii le altre due scimmie che, attraverso i telai vuoti della finestra, cercavano di raggiungere la veranda... ma sentii i piedi quasi sollevarsi da terra e qualcuno mi afferrò da dietro. Un braccio nerboruto mi serrò la gola, lasciandomi senza fiato, e una mano mi portò via la Glock. Subito dopo, venni sollevato in aria e scaraventato sul pavimento come se non pesassi più di un bambino. Precipitai sopra un tavolino, mandandolo in mille pezzi. Con i frammenti di legno che mi pungevano la schiena, sollevai lo sguardo e vidi Carl Scorso che torreggiava su di me; da quella posizione sembrava ancora più gigantesco. La testa rasata. L'orecchino. Sebbene avessi aumentato l'intensità della luce, la stanza era ancora sufficientemente in penombra da permettermi di scorgere nei suoi occhi lo strano luccichio animalesco. Era lui il capo branco. Non avevo dubbi su questo. Indossava scarpe da ginnastica, jeans e una camicia di flanella, e portava un orologio al polso. Se la polizia lo avesse inserito in un gruppo di quattro gorilla per un confronto, nessuno avrebbe avuto difficoltà a riconoscerlo come l'unico essere umano. Tuttavia, nonostante gli indumenti e la sagoma di un uomo, emanava qualcosa di selvaggio, come un'aura, che lo rendeva subumano, non soltanto per lo scintillio degli occhi, ma perché i suoi lineamenti apparivano stravolti da un'espressione nella quale non si rifletteva alcuna emozione umana. Era vestito, ma avrebbe potuto essere nudo: era rasato dal collo fino alla cima della testa, ma avrebbe potuto essere peloso come una scimmia. Se conduceva due esistenze, doveva chiaramente sentirsi più in sinto-
nia con quella notturna, in giro con il branco, piuttosto che con quella diurna, in mezzo a individui che non erano in trasformazione come lui. Teneva la Glock puntata contro la mia faccia, con il braccio teso, come se stesse per portare a termine un'esecuzione. Orson si lanciò verso di lui, ma Scorso fu più rapido e gli assestò un violento calcio sulla testa; il cane stramazzò a terra e rimase immobile, senza nemmeno un guaito o un fremito delle zampe. Sentii il cuore che sprofondava come una pietra in un pozzo. Corso puntò di nuovo la Glock contro di me e mi sparò in faccia. O almeno così mi parve. Ma una frazione di secondo prima che premesse il grilletto, Sasha lo colpì alla schiena, sparando dall'estremità opposta della stanza, e il rumore che avevo sentito era la denotazione della sua Chiefs Special. Scorso sobbalzò per l'impatto, spostando così la mira della Glock. Dal pavimento di teak accanto alla mia testa si levò una rosa di schegge nel punto in cui il proiettile lo trapassò. Ferito, ma meno indebolito di quanto lo sarebbe stato un individuo qualsiasi che si fosse trovato con un proiettile nella schiena, Scorso si girò e cominciò a sparare quando era ancora in movimento. Sasha si gettò a terra e ruzzolò all'indietro, mentre Scorso svuotava il caricatore nel punto in cui, un attimo prima, lei si era trovata. Nonostante non vi fossero più proiettili, l'uomo continuò a cercare di premere il grilletto. Vidi che la macchia di sangue denso e scuro sulla parte posteriore della sua camicia si stava rapidamente allargando. Alla fine, gettò via la Glock, si voltò verso di me e sembrò meditare se fosse meglio schiacciarmi la faccia sotto le scarpe o cavarmi gli occhi, lasciandomi cieco e moribondo. Ma scelse di non abbandonarsi a nessuno di questi due piaceri e si diresse invece verso la finestra dai vetri rotti, dalla quale erano fuggite le ultime due scimmie. Era sul punto di uscire dalla casa quando riapparve Sasha che, incredibilmente, si lanciò al suo inseguimento. Le gridai di fermarsi, ma appariva così scatenata che, se avessi scorto nei suoi occhi il terribile luccichio, non ne sarei rimasto sorpreso. Mentre stavo ancora cercando di rimettermi in piedi, lei aveva già attraversato la stanza ed era uscita sulla veranda. Fuori, sentii la Chiefs Special sparare una volta, poi di nuovo, e di nuovo ancora.
Era evidente che Sasha sapeva badare a se stessa, tuttavia volevo correre fuori e trascinarla in casa. Anche se fosse riuscita a finire Scorso, probabilmente nel buio vi erano acquattate più scimmie di quante una pur ottima disc-jockey era in grado di affrontare... e la notte era il loro regno, non il suo. Si udì un quarto sparo. Poi un quinto. Esitai, perché Orson giaceva ancora a terra, così immobile che non riuscivo a vedere nemmeno il fianco alzarsi e abbassarsi nella respirazione. Era morto, oppure solo svenuto. In quest'ultimo caso, andava soccorso immediatamente. Aveva ricevuto un calcio in testa. Anche se era vivo, c'era il pericolo che avesse subito un danno cerebrale. Mi accorsi che stavo piangendo. Ingoiai il dolore, ricacciai indietro le lacrime. Come faccio sempre. Bobby era entrato nella stanza e si stava avvicinando a me, teneva una mano premuta contro la ferita sulla spalla. «Aiuta Orson», lo supplicai. Mi rifiutavo di credere che non ci fosse più nulla da fare, perché anche solo pensare a questa eventualità poteva renderla reale. Pia Klick avrebbe compreso un simile concetto. Forse, adesso anche Bobby era in grado di capirlo. Schivando mobili e scimmie morte, calpestando fragili schegge, mi precipitai verso la finestra. Argentee staffilate di pioggia spinta dal vento si abbattevano sui frammenti di vetro che spuntavano dall'intelaiatura. Attraversai la veranda, scesi di corsa i gradini e mi lanciai sotto l'acquazzone, verso Sasha che si era fermata in mezzo alle dune, a una decina di metri di distanza. Carl Scorso giaceva bocconi sulla sabbia. Fradicia e tremante, Sasha lo guardava dall'alto, mentre inseriva il suo terzo, e ultimo, caricatore nel revolver. Probabilmente Scorso era stato colpito da tutti i proiettili che avevo sentito sparare ma, a quanto sembrava, Sasha ne aveva bisogno di altri. E, infatti, Scorso si contorceva e annaspava nella sabbia, scavando con le braccia quasi volesse nascondersi come un granchio. Con un brivido di orrore, Sasha si sporse in avanti e sparò un ultimo colpo, questa volta alla nuca. Quando si voltò verso di me, stava piangendo. Senza tentare in alcun modo di reprimere le lacrime. Io non piangevo. Mi ero detto che uno di noi doveva mantenere il con-
trollo. «Tutto a posto?» le domandai sommessamente. Si gettò fra le mie braccia. «Tutto a posto», mormorò, con la bocca che sfiorava la mia gola. La tenni stretta. La pioggia torrenziale mi impediva perfino di vedere le luci della città, a poco più di un chilometro sulla nostra destra. Per quel che ne sapevo, Moonlight Bay poteva essere stata spazzata via da questa specie di inondazione mandata dal cielo, essersi dissolta come fosse stata solamente una eleborata scultura di sabbia. Invece era ancora al suo posto. Aspettava di veder passare questo temporale e di veder arrivare il prossimo, e tutti quelli che sarebbero seguiti fino alla fine dei giorni. Non c'era possibilità di sfuggire a Moonlight Bay. Non per noi. Mai. Ce l'avevamo, letteralmente, nel sangue. «Adesso che cosa ci accadrà?» domandò Sasha, tenendosi aggrappata a me. «La vita.» «È tutto un casino.» «Lo è sempre stato.» «Ma loro sono ancora in giro.» «Forse ci lasceranno in pace... almeno per un po'.» «Dove possiamo andare, Uomo delle Nevi?» «Per il momento, torniamo in casa. Beviamoci una birra.» Stava ancora tremando, e non per la pioggia. «E dopo? Non possiamo bere per sempre.» «Domani arriveranno delle onde formidabili.» «Pensi che sarà tutto così facile?» «Devi cavalcare l'onda fin che puoi.» Tornammo al villino, dove Orson e Bobby ci attendevano seduti sugli ampi gradini della veranda. C'era abbastanza spazio per far sedere anche noi. Nessuno dei miei due fratelli era al meglio delle proprie condizioni. Bobby riteneva di aver bisogno soltanto di un po' di Neosporin e di una bendatura. «Non è una ferita profonda, poco più di un centimetro, ed è sottile, come quando ti tagli con la carta.» «Mi dispiace per la tua camicia», disse Sasha. «Grazie.» Uggiolando, Orson si alzò, barcollando scese i gradini e si mise a vomi-
tare nella sabbia. Era proprio una notte da vomito. Non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Tremavo di paura per lui. «Forse dovremmo portarlo da un veterinario», suggerì Sasha. Scrollai il capo. Niente veterinario. Non avrei pianto. Io non piango. Ma quanto duri si rischia di diventare per aver ingoiato troppe lacrime? Appena fui nuovamente in grado di parlare, spiegai: «Non posso fidarmi di nessun veterinario della città. Probabilmente sono tutti coinvolti. Se il veterinario capisce che Orson è uno degli animali di Wyvern, potrebbe portarmelo via, potrebbe restituirlo ai laboratori.» Orson si era fermato sotto la pioggia, con il muso rivolto verso l'alto, come se trovasse sollievo al suo stordimento. «Torneranno», asserì Bobby, riferendosi alle scimmie. «Non stanotte», lo tranquillizzai, «e forse staranno alla larga per diverso tempo.» «Ma, prima o poi, torneranno.» «Già.» «E chi altri?» si chiese Sasha. «Che cos'altro?» «Siamo in pieno caos», spiegai, ricordando quanto mi aveva detto Manuel. «È un mondo completamente nuovo. Chi diavolo sa che cosa c'è dentro... o che cosa sta nascendo proprio in questo momento?» Nonostante tutto quanto avevamo visto e avevamo appreso sul progetto di Wyvern, forse solo ora, sui gradini della veranda, credevamo fino in fondo che la civiltà stava per finire, che ci trovavamo sull'orlo del baratro. Come i tamburi del giorno del giudizio, la pioggia batteva violenta e implacabile sul mondo. Era una notte come non ve ne erano state prima e non avrebbe potuto sembrarci più aliena se le nuvole si fossero aperte, mostrando tre lune e un cielo punteggiato di stelle sconosciute. Orson bevve l'acqua piovana che si era raccolta in una pozza sul primo gradino, poi mi raggiunse, accucciandosi accanto a me con passo meno malfermo di quando era sceso. Esitante e pieno di timori, servendomi del codice annuire uguale sì, scrollare il capo uguale no, controllai se avesse subito danni cerebrali. Era tutto a posto. «Gesù», esclamò Bobby in tono di sollievo. Non lo avevo mai visto così scosso. Entrai in casa, presi quattro birre e la ciotola con la scritta ROSEBUD, poi tornai sulla veranda.
«Un paio di quadri di Pia sono stati colpiti dai proiettili», confessai. «Daremo la colpa a Orson», decise Bobby. «Non c'è niente di più pericoloso di un cane con un fucile», sottolineò Sasha. Restammo seduti, in silenzio, ascoltando la pioggia e inspirando l'aria fresca e pulita. Poco più avanti, nella sabbia, vedevo il corpo di Scorso. Adesso Sasha era un'assassina come me. «Che storia eccitante», commentò Bobby. «Davvero», concordai. «Da sballo.» «Completamente fuori», convenne Sasha. Orson sbuffò. 34 Quella notte, avvolgemmo le scimmie morte in alcune lenzuola. Lo stesso trattamento venne riservato anche al cadavere di Scorso. Ero convinto che, da un momento all'altro, si sarebbe rialzato a sedere e avrebbe allungato una mano verso di me, trascinandosi dietro il suo sudario di cotone, come se fosse la mummia di qualche vecchio film girato quando la gente si spaventava ancora per il soprannaturale, cosa che, oggigiorno, il mondo reale non le consente quasi più. Terminata la macabra operazione, caricammo i corpi sull'Explorer. Nel garage, Bobby conservava numerosi teli di plastica, lasciati dagli operai l'ultima volta che erano venuti a dare una mano d'olio ai pannelli di teak. Fermandoli con una pinzatrice, li utilizzammo per sostituire temporaneamente i vetri rotti. Alle due del mattino, salimmo tutti e quattro sull'Explorer e Sasha guidò fino all'estremità nordorientale della città, su per il lungo viale d'accesso, oltre i leggiadri alberi del pepe che, bagnati dalla pioggia, erano più che mai simili a una fila di parenti in lacrime per il caro estinto, e oltre la Pietà di calcestruzzo. Ci fermammo sotto il portico, davanti all'imponente villa in stile georgiano. Tutte le luci erano spente. Non sapevo se Kirk stesse dormendo o non fosse in casa. Scaricammo i corpi avvolti nelle lenzuola e li lasciammo, uno sull'altro, davanti all'ingresso.
Mentre ci allontanavamo, Bobby domandò: «Ricordi quando venivamo qui da bambini... a guardare il padre di Kirk mentre lavorava?» «Certo.» «Immagina se, una notte, avessimo trovato qualcosa del genere davanti alla porta di casa sua.» «Sai come ci saremmo divertiti!» Ci aspettavano giorni di lavoro per ripulire e sistemare la casa di Bobby, ma per il momento non ce la sentivamo proprio di imbarcarci in un'impresa del genere. Andammo a casa di Sasha e trascorremmo il resto della notte nella sua cucina, rischiarandoci la mente con altra birra e leggendo il racconto sulle origini di quel nuovo mondo e della nostra nuova vita. Mia madre aveva immaginato un approccio totalmente rivoluzionario alla creazione di retrovirus, studiati allo scopo di trasportare i geni nelle cellule dei pazienti o dei soggetti scelti per gli esperimenti. Nei laboratori segreti di Wyvern, un gruppo di scienziati di livello mondiale aveva tradotto in realtà quella sua visione. Con questi nuovi «fattorini», addetti al trasporto dei microbi, si ottenevano risultati decisamente migliori e più selettivi di quanto si fosse sperato. «E poi è arrivato Godzilla», commentò Bobby. I nuovi retrovirus, anche se neutralizzati, si dimostrarono così validi che, non solo riuscivano a consegnare la quantità di materiale genetico a loro affidato, ma anche a selezionare dal DNA del paziente, o dell'animale da laboratorio, la quantità di materiale genetico da sostituire con quello da loro portato a destinazione. In questo modo, erano diventati «fattorini» che svolgevano una doppia funzione, quella di portare i geni dentro e fuori del corpo. Si dimostrarono anche capaci di catturare altri virus naturalmente presenti nel corpo del soggetto, di scegliere fra le caratteristiche proprie di quegli organismi e di ricreare se stessi. Si modificavano in modo più rapido e radicale di quanto avesse mai fatto un microbo prima di allora. La loro era una mutazione selvaggia, nel giro di poche ore si trasformavano in qualcosa di nuovo. Oltretutto, nonostante fossero neutralizzati, furono in grado di riprodursi. Prima che a Wyvern qualcuno si rendesse conto di ciò che stava accadendo, i nuovi retrovirus di mia madre avevano preso a trasportare fuori dei corpi degli animali usati come cavie tanto materiale genetico quanto ne portavano dentro, e trasferivano quel materiale non solo negli altri animali,
ma anche negli scienziati e in tutti coloro che lavoravano nei laboratori. Quindi il contagio non avviene solo attraverso i fluidi corporei. Basta un piccolo taglio o un graffio, e il contatto da pelle a pelle consente ai retrovirus di trasferirsi da una persona all'altra. Negli anni a venire, via via che ognuno di noi sarà contaminato, lui o lei riceverà una parte di DNA diversa da quella ricevuta da chiunque altro. L'effetto varierà da soggetto a soggetto. Qualcuno non cambierà in modo evidente perché, nel suo DNA, saranno così tanti i pezzetti provenienti dalle più svariate fonti che non vi sarà alcun effetto cumulativo. A mano a mano che le nostre cellule muoiono, il materiale inserito potrebbe ripresentarsi, o no, anche nelle nuove cellule. Ma è possibile che alcuni di noi diventino, psicologicamente e perfino fisicamente, dei mostri. Per parafrasare James Joyce: si farà scuro, si farà sfumato, tutto questo nostro mondo funambolanimale. Si farà scuro con una strana molteplicità. Non sappiamo se il cambiamento subirà un'accelerazione, se gli effetti diventeranno più ampiamente visibili, se sarà la stessa velocità con cui i retrovirus opereranno a svelare la loro esistenza, o se invece il processo si svilupperà in modo impercettibile per decenni o addirittura per secoli. Possiamo solo aspettare. E vedere. Secondo mio padre, il problema non era completamente dovuto a un errore presente nella teoria. Era convinto che gli scienziati di Wyvern, che avevano esaminato gli studi di mia madre, sviluppandoli poi fino a quando non erano stati in grado di produrre veri organismi, dovevano essere ritenuti più colpevoli di lei, in quanto avevano deviato dalla visione iniziale con dettagli che all'epoca erano sembrati irrilevanti, ma che, alla fine, si erano dimostrati rovinosi. Tuttavia, in qualunque modo si voglia vedere la questione, di fatto mia madre ha distrutto il mondo che conoscevamo... ma rimane sempre mia madre. In fondo, era stato il suo amore per me a spingerla in quella direzione, aveva sperato di poter salvare la mia vita. Le voglio bene come gliene volevo prima... e ciò che mi lascia meravigliato è constatare come fosse riuscita a nascondermi il terrore e l'angoscia che aveva provato negli ultimi anni della sua vita, quando aveva compreso che tipo di nuovo mondo sarebbe sorto. Mio padre non era molto convinto che si fosse suicidata, tuttavia, nei suoi appunti, ammette anche questa possibilità. Ma riteneva più probabile che fosse stata uccisa. Sebbene l'epidemia si fosse ormai ampiamente diffusa e la propagazione avvenisse con troppa rapidità per essere arginata,
alla fine mia madre aveva deciso di rendere pubblica la storia. Forse era stata messa a tacere per sempre. Che si sia uccisa o che abbia tentato di affrontare coraggiosamente le forze armate, che importa? In ogni caso, ormai lei non c'è più. Ora che comprendo meglio mia madre, so da dove prendo la forza... o l'assoluta volontà... di reprimere le mie emozioni quando sento che sono troppo difficili da gestire. È qualcosa di me stesso che voglio cercare di cambiare. Non vedo perché non dovrei riuscirvi. In fondo, proprio su questo si basa il nuovo mondo: sul cambiamento. Un cambiamento continuo. Anche se alcuni mi odiano perché sono il figlio di mia madre, mi viene permesso di vivere. Nemmeno mio padre sapeva per quale motivo avrei dovuto ottenere una simile concessione, considerando la ferocia di alcuni dei miei nemici. Tuttavia sospettava che mia madre avesse usato frammenti del mio materiale genetico per creare questi apocalittici retrovirus; è quindi possibile che, nei miei geni, stia la chiave per tornare indietro o quantomeno limitare la portata della calamità. Come mi è stato spiegato, i prelievi di sangue mensili ai quali vengo sottoposto non servono per controllare lo stato della mia XP, bensì per gli studi che vengono portati avanti a Wyvern. Forse sono un laboratorio ambulante: in me si trova la sostanza che garantisce l'immunità da questa epidemia... oppure un indizio per comprendere la distruzione e il terrore che alla fine essa provocherà. Fintanto che mantengo il segreto di Moonlight Bay e accetto le regole degli infettati, è molto probabile che mi lascino vivo e libero. D'altra parte, se cercassi di informare l'opinione pubblica di quanto è successo, certamente finirei i miei giorni in un buio locale di qualche laboratorio nascosto sotto i campi e le colline di Fort Wyvern. Per la verità, mio padre era convinto che, prima o poi, mi porteranno via e mi terranno prigioniero per garantirsi la possibilità di prelevare i campioni del mio sangue in ogni momento. È un pericolo di cui dovrò tenere conto, se e quando si presenterà. Mentre il temporale si abbatteva su Moonlight Bay, noi cercammo di dormire per tutta la domenica mattina e fino al primo pomeriggio ma, a parte Sasha, ognuno di noi si svegliò per qualche incubo. Dopo essere rimasto quattro ore a letto, scesi in cucina e, lasciando le veneziane abbassate, rimasi per un po' seduto a guardare, alla fioca luce della stanza, le parole MYSTERY TRAIN ricamate sul mio berretto, chie-
dendomi in che modo erano collegate al lavoro di mia madre. Sebbene non riuscissi a comprendere il significato di quelle due parole, sentivo che Moonlight Bay non era soltanto una giostra impazzita che correva verso l'inferno, come aveva affermato Stevenson. Stiamo viaggiando verso una destinazione misteriosa che non riusciamo completamente a immaginare; potrebbe essere un mondo fantastico... oppure qualcosa di assai peggiore dell'inferno. Poi presi una penna e un blocco di fogli e cominciai a scrivere a lume di candela. Ho intenzione di annotare tutto quanto avverrà nei giorni che ancora mi restano. Non mi aspetto che quest'opera venga stampata. Coloro che vogliono mantenere il segreto su Wyvern non mi permetteranno mai di farla conoscere al pubblico. Comunque, Stevenson aveva ragione: è troppo tardi per salvare il mondo. In realtà, è lo stesso messaggio che Bobby ha cercato di trasmettermi durante gran parte della nostra lunga amicizia. Anche se non scrivo più nulla con l'intento di farlo pubblicare, è importante che rimanga un resoconto di questa catastrofe. Il mondo a noi noto non dovrebbe scomparire senza che alle generazioni future venga spiegato il perché di tutto questo. Siamo una specie arrogante, piena di terribili potenziali, ma abbiamo una grande capacità di amare, di provare amicizia, generosità, gentilezza, fede, speranza e gioia. Penso sia più importante spiegare come noi stessi abbiamo provocato la nostra scomparsa, piuttosto che sapere in che modo sia iniziata la nostra esistenza... un mistero che comunque, adesso, non potremo mai risolvere. Anche se, a mano a mano che l'epidemia si diffonde, annoterò diligentemente tutto quanto succederà a Moonlight Bay e, per estensione, al resto del mondo... è possibile che questo non serva a nulla, perché un giorno potrebbe non essere rimasto nessuno a leggere le mie parole, oppure nessuno in grado di farlo. Correrò il rischio. Se fossi uno scommettitore, punterei sul fatto che altre specie sorgeranno dal caos e ci sostituiranno, diventando padroni della terra come un tempo lo siamo stati noi. Anzi, se fossi uno scommettitore, punterei tutto sui cani. Domenica notte, il cielo era profondo come il viso di Dio e le stelle erano pure come lacrime. Siamo andati tutti e quattro alla spiaggia. Cristalline montagne d'acqua, alte più di quattro metri, si abbattevano incessantemente sulla costa, provenienti dalla lontana Tahiti. Una cosa epica. Eccitante da morire.
Nota dell'autore La stazione radio di Moonlight Bay, KBAY, non esiste. La vera KBAY si trova a Santa Cruz, in California, e nessuno dei personaggi che operano nella stazione radio di Moonlight Bay è basato su dipendenti che hanno lavorato o che lavorano nella KBAY di Santa Cruz. Il nome è stato scelto per un solo motivo: è perfetto. Nel diciassettesimo capitolo, Christopher Snow cita un verso di Louise Glück. Il titolo della poesia è «Lullaby» e appare nella meravigliosa e commovente opera della Glück, Ararat. Christopher Snow, Bobby Halloway, Sasha Goodall e Orson esistono veramente. Abbiamo trascorso diversi mesi insieme. E, negli anni a venire, intendo trascorrere molto altro tempo in loro compagnia. FINE