MARY STEWART L'ULTIMO INCANTESIMO (The Last Enchantment, 1979) A qualcuno che era morto e rivive che era smarrito ed è r...
39 downloads
445 Views
2MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
MARY STEWART L'ULTIMO INCANTESIMO (The Last Enchantment, 1979) A qualcuno che era morto e rivive che era smarrito ed è ritornato LIBRO I Dunpeldyr Uno Cominciare il proprio regno con una strage degli innocenti non è precisamente quanto un re possa desiderare. Ma questo è ciò che si mormora di Artù, per altri versi considerato invece addirittura il modello di nobile governante, protettore dei potenti come degli umili. È più difficile soffocare un mormorio che una calunnia proclamata a gran voce. Inoltre, nell'animo dei semplici, per i quali il Sommo re è l'arbitro delle loro vite e il dispensatore di tutti i destini, Artù era ritenuto responsabile di ciò che avveniva nel suo regno, in bene e in male, da una vittoria sensazionale sul campo di battaglia a un nubifragio o alla sterilità di un gregge. Così, anche se fu una strega a tramare la strage, e un altro re a dare l'ordine di eseguirla, e benché io stesso tentassi di assumerne la colpa, la voce gira ancora: che nel primo anno del suo regno Artù, il Sommo re, mandasse i suoi soldati a cercare e a sterminare alcune decine di neonati, nella speranza che in quella rete sanguinosa rimanesse impigliato un particolare neonato di sesso maschile, il bastardo nato dal suo incesto con la sorellastra Morgause. «Calunnia» l'ho chiamata, e sarebbe bello poter dire a gran voce che è tutta una menzogna. Ma non è esattamente così. È falso che egli abbia ordinato il massacro; ma il suo peccato ne fu la causa prima e, anche se non gli sarebbe mai venuto in mente di sterminare degli innocenti, è vero che voleva che suo figlio fosse ucciso. È giusto quindi che parte della colpa ricada su di lui; ed è giusto, anche, che in parte essa mi venga attribuita; perché io, Merlino, che gli uomini ritengono dotato di poteri magici e di doti profetiche, ero rimasto passivo mentre quel figlio pericoloso veniva
generato e tragicamente veniva posto termine alla pace e alla libertà che Artù avrebbe potuto assicurare al suo popolo. Io posso sopportare il biasimo, perché sono ormai al di là del giudizio degli uomini, ma Artù è ancora abbastanza giovane per sentirsi ferito da questa storia ed essere assillato da pensieri di espiazione; e quando avvenne l'episodio era ancora più giovane, nella prima ebbrezza biancodorata della vittoria e della regalità, con l'appoggio che gli veniva dall'amore del popolo, dall'entusiasmo dei soldati e dal fulgore del mistero che circondava l'impresa compiuta estraendo la spada dalla pietra. Le cose andarono così. Re Uther Pendragon si trovava con il suo esercito a Luguvallium, nel regno settentrionale del Rheged, e si preparava a tener testa a un poderoso attacco sassone condotto dai fratelli Colgrim e Badulf, nipoti di Hengist. Il giovane Artù, ancora poco più che un ragazzo, venne condotto a quello che doveva essere il suo primo campo di battaglia dal suo tutore, il conte Ector di Calava, che lo presentò al re. Artù era stato mantenuto nell'ignoranza della propria nascita e della propria origine reali e Uther, pur essendosi tenuto al corrente dello sviluppo e dei progressi del ragazzo, non lo aveva mai visto. Motivo di questo atteggiamento era stata l'uccisione del vecchio duca di Cornovaglia, Gorlois, il più fedele comandante di Uther, avvenuta proprio nella folle notte d'amore in cui Uther si era giaciuto con Ygraine, la sposa del duca. La sua morte, di cui pure Uther non poteva esser ritenuto responsabile, aveva colpito così profondamente il re che questi aveva giurato di non riconoscere mai come propria la creatura nata dall'amore colpevole di quella notte. A tempo debito, mi era stato affidato Artù perché lo allevassi e questo avevo fatto, tenendolo a buona distanza dal re come dalla regina. Ma alla coppia reale non era nato un altro figlio maschio e finalmente re Uther, da tempo infermo, e conscio del pericolo sassone che avrebbe dovuto affrontare a Luguvallium, era stato costretto a mandare a prendere il ragazzo, per riconoscerlo pubblicamente come il proprio erede e presentarlo ai nobili e ai re minori lì radunati. Però prima che potesse farlo, i sassoni avevano sferrato l'attacco. Uther, troppo malato per cavalcare alla testa dei suoi uomini, era sceso in campo su una lettiga, con Cador, il duca di Cornovaglia, al comando dell'ala destra, e sull'ala sinistra re Coel del Rheged, Caw dello Strathclyde e altri comandanti del nord. Solo Lot, re del Lothian e delle Orcadi, non era sceso in campo. Lot, re potente ma dubbio alleato, aveva tenuto i suoi uomini di riserva, per gettarli nella battaglia dove e quando ci sarebbe stato bisogno
di loro. Si disse che li aveva trattenuti deliberatamente nella speranza che l'esercito di Uther venisse distrutto e che in tal caso il regno andasse a lui. Se davvero questo era stato il suo progetto, le sue speranze andarono deluse. Quando, nell'infuriare della battaglia che si svolgeva intorno alla lettiga del re, al centro del campo, la spada del giovane Artù gli si spezzò nella mano, re Uther gli lanciò la propria spada reale e insieme a essa (e gli uomini lo capirono) gli consegnò la guida del regno. Poi ricadde nella sua lettiga, seguendo con lo sguardo il ragazzo, fiammeggiante come una cometa di vittoria, condurre l'attacco che sbaragliò i sassoni. In seguito, durante i festeggiamenti per la vittoria, Lot capeggiò una fazione di signori ribelli che rifiutarono la scelta dell'erede compiuta da Uther. Nel punto culminante del banchetto, in mezzo alle contestazioni e alla rissa, re Uther morì, lasciando il ragazzo, con me al suo fianco, ad affrontare e sconfiggere gli oppositori. Quel che accadde dopo è diventato materia di canzoni e di leggende. Qui basti dire che, con il suo atteggiamento regale e grazie al segno mandato dal dio, Artù si dimostrò indubitatamente re. Ma il seme del male era già stato gettato. Il giorno precedente, ancora ignaro della sua vera origine, Artù aveva conosciuto Morgause, figlia bastarda di Uther e sua sorellastra. Morgause era molto bella e il ragazzo era giovane, in tutta l'ebbrezza della sua prima vittoria, sicché quando, quella notte, essa lo mandò a chiamare da un'ancella, si recò bramoso da lei, senza pensare che quel breve piacere potesse avere altro effetto che calmargli il sangue ardente e fargli perdere la verginità. Lei la verginità, si può starne certi, l'aveva persa da un pezzo. E neppure per altri versi era innocente. Sapeva chi fosse Artù e peccò scientemente con lui, tentando di assicurarsi il potere. Nel matrimonio, ovviamente, non poteva sperare, ma un bastardo nato dall'incesto avrebbe potuto essere un'arma formidabile nelle sue mani dopo la morte del vecchio re, suo padre, e l'ascesa al trono del nuovo re. Quando Artù scoprì che cosa aveva fatto, non fosse stato per il mio intervento, avrebbe potuto aggravare ancora il suo peccato uccidendola. Io la bandii dalla corte, ordinandole di partire a cavallo per York, dove si trovava, con le sue ancelle, Morgana, figlia legittima di Uther, in attesa del matrimonio con il re del Lothian. Morgause, che come tutti gli altri a quel tempo mi temeva, ubbidì e se ne andò a praticare i suoi fascini femminili e ad allevare il suo bastardo in esilio. E questo fece, come sentirete, a spese di sua sorella Morgana.
Ma di ciò parleremo in seguito. È meglio, per adesso, riandare al momento in cui, allo spuntare di un nuovo e propizio giorno, con Morgause lontana dai suoi pensieri e diretta a York, Artù Pendragon era rimasto a Luguvallium del Rheged a ricevere gli omaggi che gli spettavano, mentre il sole splendeva. Io non c'ero. Gli avevo già presentato i miei omaggi, nelle ore piccole tra il tramonto della luna e il sorgere del sole, nel santuario della foresta dove Artù aveva alzato la spada di Massimo dall'altare di pietra, dimostrandosi con quell'atto il legittimo re. In seguito, quando in compagnia degli altri principi e nobili, Artù era partito, in tutta la pompa e lo splendore del trionfo, io ero rimasto solo al santuario. Dovevo estinguere un debito verso gli dei del luogo. La chiamavano cappella, adesso - la Cappella dei Perigli, l'aveva battezzata Artù - ma era un luogo sacro già molto tempo prima che gli uomini mettessero pietra su pietra e innalzassero l'altare. Dapprima era stata consacrata agli dei della terra, ai piccoli spiriti che frequentano i monti, i corsi d'acqua e le foreste, e insieme agli dei maggiori dell'aria, il cui potere alita attraverso la nuvola, la brina e il vento che parla. Nessuno sapeva in onore di chi fosse stata costruita la cappella in un primo tempo. In seguito, con i romani, era venuto Mitra, il dio dei soldati, e all'interno di essa era stato innalzato un altare a lui dedicato. Ma nel luogo ancora alitava tutta la sua antica sacralità; i vecchi dei ricevevano i loro sacrifici e le lampade a nove bracci ancora ardevano, senza estinguersi, presso la porta aperta. Per tutti gli anni durante i quali Artù era stato nascosto, per la sua incolumità, presso il conte Ector nella Foresta Selvaggia, io ero rimasto accanto a lui, e tutti mi avevano conosciuto come il custode del santuario, l'eremita della Cappella nel Verde. Qui avevo finalmente nascosto la grande spada di Massimo (che i gallesi chiamano Macsen), perché vi rimanesse fino a quando il ragazzo sarebbe stato in età da sollevarla, e grazie ad essa cacciare e distruggere i nemici del regno. Era quanto aveva fatto lo stesso imperatore Massimo un centinaio di anni prima, sicché adesso gli uomini consideravano la grande spada come un talismano, una spada magica mandata dal dio, che doveva essere brandita solo per la vittoria, e solo da chi ne avesse il diritto. Io, Merlino Ambrogio, discendente di Macsen, l'avevo tolta dal nascondiglio nella terra dove era rimasta a lungo, serbandola per quello che doveva venire e che sarebbe stato più grande di me. L'avevo nascosta prima in una grotta piena d'acqua sotto il lago nella foresta, poi, finalmente, sull'altare della cappella, chiudendola come una scultura nella
pietra e avvolgendola, per proteggerla dalla vista e dal contatto degli uomini, nel freddo fuoco bianco evocato dal cielo grazie alla mia arte. Da quella vampa sovrannaturale, con meraviglia e terrore di tutti i presenti, Artù aveva alzato la spada. In seguito, quando il nuovo re, e con lui nobili e capitani, ebbero lasciato la cappella, si poté vedere che la fiamma del nuovo dio aveva svuotato il luogo di tutto quanto fin lì era stato ritenuto sacro, lasciando solo l'altare, affinché venisse addobbato a nuovo per lui solo. Da molto tempo sapevo che quel dio non tollera compagni. Non era il mio dio, e neppure (sospettavo) sarebbe mai stato quello di Artù, ma si stava muovendo attraverso tutta la dolce Britannia, svuotando gli antichi santuari, e cambiando le apparenze del culto. Avevo visto con timore reverenziale, e con dolore, i suoi fuochi cancellare i segni di un più antico genere di sacralità; ma egli aveva contrassegnato la Cappella dei Perigli - e forse la spada - come sua, incontestabilmente. Così per tutto il giorno lavorai per rendere il santuario di nuovo pulito e atto al suo nuovo occupante. Ci volle molto tempo; ero rigido per le recenti ferite e per la notte di insonne attesa; inoltre, ci sono cose che vanno compiute in modo decoroso e ordinatamente. Ma alla fine tutto fu a posto e quando, poco prima del tramonto, il custode del santuario tornò dalla città, presi il cavallo che aveva portato e mi allontanai attraverso i boschi silenti. *
*
*
Era tardi quando arrivai alle porte, ma le trovai aperte e nessuno mi intimò l'altolà quando entrai. La città ancora risonava di grida; il cielo era illuminato dai falò, l'aria vibrava di canti e attraverso i fumi si avvertiva l'odore della carne arrostita e i vapori del vino. Neppure la presenza del re morto, composto nella chiesa del monastero e circondato dalle sue guardie, poteva tener a freno la lingua degli uomini. I tempi erano troppo pieni di avvenimenti, la città troppo piccola: solo quelli che erano molto vecchi o molto giovani presero sonno quella notte. Io, certamente, no. Era da un pezzo passata la mezzanotte quando entrò il mio servo, seguito da Ralf. Questi abbassò rapidamente la testa per l'architrave - era un giovane alto - e aspettò che la porta fosse chiusa, guardandomi con uno sguardo circospetto, simile a quelli che mi lanciava quando, essendo mio paggio, aveva temuto i miei poteri.
«Sei ancora in piedi?» «Come vedi.» Ero seduto sul seggiolone dall'alto schienale, accanto alla finestra. Il servo aveva portato un braciere acceso per contrastare il freddo della notte settembrina. Mi ero fatto il bagno, e avevo di nuovo curato le mie ferite, lasciando che il servo mi aiutasse a indossare l'ampia tunica da letto prima di congedarlo e di dispormi al riposo. Dopo quel crescendo di fuoco, di dolore e di gloria che aveva portato Artù al trono, io, che solo per quello ero vissuto, sentivo bisogno di solitudine e di silenzio. Il sonno non sarebbe ancora venuto, ma io mi limitavo a stare seduto, soddisfatto e inerte, gli occhi fissi sul pigro bagliore del braciere. Ancora armato e adorno di gioielli come l'avevo visto la mattina al fianco di Artù nella cappella, Ralf appariva anche lui stanco e aveva gli occhi infossati, ma era giovane e il culmine di quella notte rappresentava per lui un inizio, non una fine. Disse, inaspettatamente: «Dovresti riposare. A quanto capisco sei stato assalito la notte scorsa, mentre salivi alla cappella. Sei stato ferito gravemente?». «Non in modo mortale, benché faccia piuttosto male! No, no, non ti preoccupare, erano contusioni più che ferite e me ne sono già occupato. Ma temo di averti azzoppato il cavallo. Mi dispiace.» «L'ho visto. Non ha niente di serio. Si rimetterà in una settimana, non di più. Ma tu... hai un'aria esausta, Merlino. Dovrebbero darti il tempo di riposare.» «E non me lo danno?» Siccome esitava, alzai un sopracciglio, interrogativamente. «Forza, di che si tratta? Perché non vuoi dirmelo?» L'aria circospetta diventò qualcosa che assomigliava a un sorriso. Ma la sua voce, di colpo formale, era assolutamente priva di espressione, la voce di un cortigiano che non è sicuro, come si dice, della direzione che prenderà il cervo. «Principe Merlino, il re ha ordinato che venissi per portarti nei suoi appartamenti. Vuole vederti appena ti sarà comodo.» Mentre parlava, i suoi occhi indugiavano sulla porta che si apriva nella parete di fronte alla finestra. Fino alla notte prima, Artù aveva dormito nella stanza annessa alla mia, ed era andato e venuto a mio comando. Ralf incontrò il mio sguardo e quella specie di sorriso si trasformò in un vero sorriso. «In altri termini, immediatamente» disse. «Mi spiace, Merlino, ma questo è il messaggio, come me l'ha trasmesso il ciambellano. Avrebbero potuto aspettare fino a domani mattina. Io pensavo che tu dormissi.» «Ti spiace? Per che cosa? I re devono cominciare da qualche parte. Lui almeno si è riposato?»
«Niente da fare. Ma finalmente si è liberato della folla e mentre eravamo su al santuario hanno preparato gli appartamenti reali. Adesso è lì.» «Con un accompagnamento?» «Solo Bedwyr.» Questo, lo sapevo, significava che oltre al suo amico Bedwyr c'era una piccola folla di gentiluomini di camera e servi, e che magari c'erano ancora alcune persone che aspettavano in anticamera. «Allora pregalo di scusarmi per alcuni minuti. Sarò da lui appena mi sarò vestito. Vuoi mandarmi Lleu, per piacere?» Ma a questo non acconsentì. Il servo venne mandato con il messaggio e poi, con la stessa naturalezza con cui l'aveva fatto in passato, quand'era un ragazzo, Ralf mi aiutò personalmente a vestirmi. Mi tolse la tunica da notte e la piegò, poi delicatamente, con tutte le precauzioni richieste dalle mie membra irrigidite, mi infilò una veste da giorno e s'inginocchiò a infilarmi i sandali e ad allacciarmeli. «È andata bene la giornata?» gli chiesi. «Benissimo. Senza neppure un'ombra.» «E Lot del Lothian?» Alzò un attimo gli occhi, arcignamente divertito. «Rimesso al suo posto. L'episodio della cappella ha lasciato il segno su di lui... come su noi tutti.» Quell'ultima frase fu detta tra i denti, come a se stesso, mentre si chinava ad allacciare il secondo sandalo. «Anche su di me, Ralf» dissi. «Neanch'io sono esente dal fuoco del dio. Come vedi. Come sta Artù?» «Ancora sulla sua nuvola eccelsa e fiammeggiante.» Questa volta si sentiva l'affetto in quel suo tono divertito. Si rialzò. «Comunque, credo stia già scrutando davanti a sé per scorgere le tempeste. Adesso la cintura. È questa?» «Sì, va bene. Grazie. Tempeste? Così presto? Lo immagino.» Presi la cintura dalle sue mani e me l'annodai. «Pensi di stare con lui, Ralf, e aiutarlo a superarle, o consideri compiuto il tuo dovere?» Ralf aveva trascorso gli ultimi nove anni a Galava, nel Rheged, in quell'angolo remoto del paese in cui Artù era vissuto, oscuramente, come pupillo del conte Ector. Si era sposato una ragazza del nord e aveva bambini piccoli. «Per dirti la verità, non ci ho ancora pensato» rispose. «Troppe cose sono accadute, e troppo in fretta.» Rise. «Certo, se rimango con lui, già capisco che penserò con nostalgia ai giorni tranquilli in cui non avevo altro da fare che cavalcare accanto a quei piccoli diav... - voglio dire a Bedwyr e al
re! E tu? Non potrai tornare a fare l'eremita della Cappella nel Verde, adesso? Uscirai dalla tua roccaforte per andare con lui?» «Devo. L'ho promesso. E poi, è il mio posto. Non il tuo, però, a meno che tu non lo desideri. Tra tutti e due, abbiamo fatto di lui un re, e questa è la fine della prima parte della storia. Adesso devi scegliere. Ma avrai un sacco di tempo per farlo.» Mi aprì la porta e si fece da parte per lasciarmi uscire prima di lui. Tacqui un momento. «Abbiamo suscitato un forte vento, Ralf. Vediamo da che parte ci spingerà.» «Gli permetteresti di sospingerti?» Risi. «Qualcosa mi dice che forse dovrò farlo. Forza, cominciamo a ubbidire a questa chiamata.» *
*
*
Nell'anticamera principale che portava agli appartamenti del re erano rimaste alcune persone, per lo più servi, che sparecchiavano e portavano via gli avanzi di un pasto che il re, pareva, doveva aver appena finito. Immobili e inespressive, delle guardie erano piantate sulla porta che dava accesso alle stanze interne. Su una panca bassa, vicino a una finestra, era sdraiato un giovane paggio, profondamente addormentato; ricordai di averlo visto quando ero venuto lì, tre giorni prima, per parlare con Uther morente. Ulfin, valletto e ciambellano capo di Uther, non c'era. Potevo immaginare dove si trovasse. Avrebbe servito il nuovo re con tutta la devozione che aveva tributato a Uther, ma per quella notte rimaneva con il suo vecchio signore nella chiesa del monastero. L'uomo fermo presso la porta di Artù era uno sconosciuto per me, come lo era la metà degli altri servi presenti: erano uomini e donne normalmente al servizio del re del Rheged nel suo castello e che adesso stavano dando una mano dato il volume di lavoro straordinario portato dall'occasione e dalla presenza del Sommo re. Ma loro mi conoscevano, tutti. Al mio ingresso nell'anticamera calò di colpo il silenzio e ogni movimento s'interruppe, come per un incantesimo. Un servo che portava dei vassoi in equilibrio sul braccio si bloccò, come se avesse visto la testa della Gorgona, e i visi voltati verso di me rimasero ugualmente immobili, pallidi e a bocca aperta, colmi di timore reverenziale. Sorpresi lo sguardo di Ralf posato su di me, ironico e affettuoso. Aveva un sopracciglio inarcato. «Vedi?» mi diceva, e io capii meglio l'esitazione che aveva dimostrato entrando nella mia stanza con il messaggio del re. In quanto mio servo e compagno, era stato molto vicino a me nel passato e
molte volte, nella profezia e in ciò che gli uomini chiamano magia, aveva osservato e sentito il mio potere all'opera; ma quel potere che aveva fiammeggiato e alitato la notte precedente nella Cappella dei Perigli era stato qualcosa di un ordine del tutto differente. Potevo solo cercare di immaginare le voci che dovevano essere corse, rapide e mutevoli come quello stesso fuoco divino, per tutta Luguvallium: certamente la gente più umile non aveva parlato d'altro per tutta la giornata. E come tutte le storie insolite questa si sarebbe ingrossata passando di bocca in bocca. Così rimasero a fissarmi. Quanto al timore reverenziale che gelava l'aria, simile al vento freddo che precede un fantasma, ci ero abituato. Passai attraverso quella folla immobile per arrivare alla porta del re, e la guardia si fece da parte senza darmi l'altolà, ma prima che il ciambellano potesse accostare la mano alla porta, questa si aprì e ne uscì Bedwyr. Bedwyr era un ragazzo bruno e tranquillo, più giovane di Artù di un paio di mesi. Era figlio di Ban, re del Benoic e cugino di un re della Britannia minore. I due ragazzi erano grandi amici sin dall'infanzia, quando Bedwyr era stato mandato a Galava per imparare le arti della guerra dal maestro d'armi di Ector e per partecipare alle lezioni che io impartivo a Emrys (con questo nome era chiamato a quel tempo Artù) al santuario della Foresta Selvaggia. Fin d'allora dimostrava nel carattere quella strana contraddizione che faceva di lui un combattente nato e nello stesso tempo un poeta, ugualmente a suo agio nell'azione e nel mondo della fantasia e della musica. Un celta puro, si sarebbe detto, laddove Artù, come mio padre il Sommo re Ambrogio, era romano. Avrei potuto aspettarmi di scorgere sul viso di Bedwyr quello stesso timore reverenziale che sul volto dei presenti più umili avevano lasciato gli avvenimenti di quella notte di portenti, ma vi trovavo solo i postumi della gioia, una specie di felicità priva di complicazioni e una solida fiducia nel futuro. Si fece da parte per farmi passare, sorridendo. «È solo, adesso.» «Tu dove dormirai?» «Mio padre è alloggiato nella torre ovest.» «Allora buona notte, Bedwyr.» Ma mentre mi muovevo per oltrepassarlo, mi bloccò. Si chinò rapidamente e mi prese la mano, poi di scatto la portò a sé e la baciò. «Avrei dovuto saperlo che ci avresti pensato tu a mettere tutto a posto. Ho avuto paura, per qualche minuto, lì, nella sala quando Lot e i suoi sciacalli hanno cominciato con quell'infido tafferuglio...» «Sss» feci. Aveva parlato a bassa voce, ma c'erano orecchie che poteva-
no ascoltare. «Per il momento è una cosa passata. Lascia stare. E vai direttamente da tuo padre nella torre ovest. Hai capito?» Gli occhi scuri scintillarono. «Il re Lot è alloggiato, mi hanno detto, nella torre est?» «Precisamente.» «Non ti preoccupare. Ho già ricevuto lo stesso avvertimento da Emrys. Buona notte, Merlino.» «Buona notte e un sonno tranquillo per noi tutti. Ne abbiamo bisogno.» Sorrise, abbozzò un mezzo saluto e se ne andò. Io feci un segno al servo in attesa ed entrai. La porta si chiuse dietro di me. Le stanze reali erano state liberate da tutta l'apparecchiatura che accompagna la malattia e dal grande letto erano stati tolti i rivestimenti cremisi. I mattoni del pavimento erano stati strofinati e lucidati da poco, e sul letto erano lenzuola nuove non candeggiate e una coperta di pelli di lupo. Era rimasto lo scranno con il cuscino rosso e il drago d'oro cesellato sullo schienale, insieme allo sgabello per i piedi e all'alta lampada a treppiede. Le finestre erano aperte sulla fresca notte di settembre, e l'aria che entrava faceva storcere la fiamma delle lampade e proiettava ombre strane sulle pareti dipinte. Artù era solo. Era accanto a una finestra, un ginocchio poggiato su uno sgabello e i gomiti sul davanzale. La finestra si affacciava non sulla città ma su quella striscia di giardino che costeggiava il fiume. Teneva lo sguardo fisso sull'oscurità esterna e mi parve quasi di vederlo bere, come da un altro fiume, sorsi profondi di quell'aria fresca e ventilata. Aveva i capelli umidi, come se li avesse appena lavati, ma portava gli stessi vestiti che aveva indossato per le cerimonie della giornata: la tunica bianca e argento, con una cintura d'oro del Galles tempestata di turchesi e chiusa da una fibbia smaltata. Si era tolto il cinturone della spada, e la grande Caliburn era appesa nel suo fodero sulla parete oltre il letto. La luce della lampada brillava cupamente sulle gemme dell'elsa: smeraldi, topazi, zaffiri. E faceva balenare l'anello sulla mano del ragazzo: l'anello di Uther, con inciso lo stemma del Drago. Mi sentì entrare e si voltò. Pareva rarefatto e leggero, come se i venti di quella giornata avessero soffiato attraverso di lui lasciandolo senza peso. La sua pelle aveva quel pallore tirato dell'estrema stanchezza, ma gli occhi brillavano, pieni di vita. Su di lui, già presente e inconfondibile, c'era quel mistero che cala come un manto su di un re. Lo si vedeva dal suo aspetto nobile e dal suo modo di tenere la testa. Mai più «Emrys» avrebbe potuto
restare nascosto nell'ombra. Ora mi domandavo di nuovo come, in tutti quegli anni di clandestinità avessimo potuto tenerlo al sicuro e ignorato in mezzo a gente di minore nascita. «Mi volevi?» chiesi. «È tutto il giorno che ti voglio. Avevi promesso di starmi vicino mentre affrontavo questa prova di uscire dall'uovo per diventare re. Dov'eri?» «A portata di voce, se non di mano. Sono stato al santuario - alla cappella - quasi fino al tramonto. Pensavo che tu fossi occupato.» Fece una risata breve come uno schiocco. «Così lo chiami. Era come esser mangiato vivo. O forse come nascere... e una nascita travagliata, per di più. Ho detto "uscire dall'uovo", vero? Scoprirsi principe tutt'a un tratto è già abbastanza difficile, ma pure è diverso dall'essere re come lo è l'uovo dal pulcino nato da un giorno.» «Paragonati almeno a un aquilotto.» «Col tempo, forse. Questo è stato il guaio, naturalmente. Il tempo, è mancato il tempo. Un momento essere nessuno... il bastardo non riconosciuto di qualcuno, e felice di avere l'occasione di poter arrivare nelle vicinanze di una battaglia e magari di intravedere il re al suo passaggio; e il momento successivo - dopo aver respirato un paio di volte come principe e erede al trono - diventare io stesso il Sommo re, e in modo così clamoroso come non può essere accaduto mai a nessun altro re fino a ora. Mi sento ancora come se mi avessero fatto salire a calci i gradini del trono mentre ero inginocchiato sul pavimento.» Sorrisi. «Lo so come ti senti, più o meno. Non mi hanno mai preso a calci per farmi arrivare neppure a metà della tua altezza, ma già in partenza ero molto più in basso di te. Adesso, puoi rilassarti quanto basta per dormire un po'? Domani arriverà abbastanza presto. Vuoi una pozione per dormire?» «No, no, quando mai ne ho prese? Dormirò appena te ne sarai andato. Merlino, scusami se ti ho chiesto di venire qui a quest'ora, ma avevo bisogno di parlarti e finora non ne ho avuto l'opportunità. Né l'avrò domani.» Si scostò dalla finestra, mentre parlava, e si avvicinò a un tavolo che era cosparso di pergamene e di tavolette. Prese uno stilo e con l'estremità arrotondata lisciò la cera. Lo fece distrattamente, con la testa china sicché i capelli scuri gli piovvero in avanti e la luce della lampada scivolò oltre il contorno della gota e sfiorò le ciglia nere che frangiavano le palpebre abbassate. La vista mi si annebbiò. Il tempo scorreva all'indietro. Era mio padre Ambrogio lì fermo, che si gingillava con lo stilo e mi diceva: «Se un
re ti avesse accanto potrebbe governare il mondo...». Bene, finalmente il suo sogno si era avverato e adesso era il momento. Allontanai il ricordo battendo le palpebre e aspettai che il ragazzo, re da un giorno, parlasse. «Ho riflettuto» disse lui a un tratto. «L'esercito dei sassoni non è stato completamente distrutto, e non ho avuto neppure rapporti sicuri a proposito di Colgrim o di Badulf. Credo che siano riusciti a mettersi in salvo tutti e due. Forse domani o poco più in là sapremo che sono salpati, per tornare in patria al di là del mare, o nei territori sassoni a sud. Oppure possono essersi semplicemente rifugiati nelle regioni incolte a nord del Vallo, con la speranza di potersi raggruppare quando avranno ripreso le forze.» Alzò la testa. «Non ho bisogno di fingere con te, Merlino. Non sono un soldato esperto e non ho modo di giudicare quanto sia stata decisiva la loro sconfitta, o quali possibilità ci siano di una ripresa da parte dei sassoni. Ho sentito qualche parere, naturalmente. Ho convocato un consiglio improvvisato al tramonto, quando l'altra faccenda era ormai conclusa. Ti ho mandato a... cioè, mi sarebbe piaciuto averti qui, ma tu eri ancora su alla cappella. Neppure Coel ha potuto esser presente... Saprai che è stato ferito, naturalmente; o forse lo hai visto tu stesso. Che probabilità ha di cavarsela?» «Scarse. È anziano, come sai, e ha avuto un brutto squarcio. Ha perso troppo sangue prima di essere soccorso.» «Lo temevo. Sono stato a trovarlo, ma mi hanno detto che era privo di sensi, e temevano un'infiammazione ai polmoni... Be', in sua vece è venuto il principe Urbgen, il suo erede, con Cador e Caw dello Strathclyde. C'erano anche Ector e Ban del Benoic. Ne ho parlato con loro e dicono tutti la stessa cosa: qualcuno dovrà inseguire Colgrim. Caw deve tornare a nord appena possibile; ha le sue frontiere da difendere. Urbgen deve rimanere qui nel Rheged, con il re suo padre a un passo dalla morte. Perciò logicamente la scelta dovrebbe cadere su Lot o su Cador. Be', non può essere Lot, credo che sarai d'accordo. Nonostante il suo giuramento di fedeltà, su nella cappella, ancora non voglio fidarmi di lui, tanto meno quando c'è Colgrim a poca distanza.» «Sono d'accordo. Manderai Cador, allora? Certo non puoi avere più dubbi su di lui.» In effetti Cador, il duca di Cornovaglia, era la scelta logica. Era un uomo nel pieno rigoglio delle sue forze, un combattente esperto e leale. Un tempo l'avevo erroneamente creduto nemico di Artù, e in verità la sua ostilità sarebbe stata giustificata; ma Cador era un uomo di buon senso, assennato
e lungimirante, capace di concepire, al di là del suo odio per Uther, la visione più vasta di una Britannia unita contro il Terrore sassone. Perciò aveva sostenuto Artù. E Artù, nella Cappella dei Perigli, aveva proclamato Cador e i suoi discendenti maschi eredi al trono. Così Artù disse semplicemente: «Come potrei?» e ancora per un momento guardò torvo lo stilo. Poi lo lasciò cadere sul tavolo e si raddrizzò. «Il fatto è che io stesso sono appena arrivato al trono e...» Allora rialzò la testa, e vide che sorridevo. Il suo cipiglio svanì, sostituito da un'espressione che conoscevo: impaziente, impetuosa, l'espressione di un ragazzo che nascondeva però la volontà di un uomo il quale ardendo si sarebbe aperto un varco attraverso qualsiasi opposizione. Gli occhi splendevano di eccitazione. «Sì, hai ragione, come al solito. Andrò io di persona.» «Cador verrà con te?» «No. Credo che mi tocchi andare senza di lui. Dopo quello che è accaduto, la morte di mio padre, e poi il...» esitò «poi quello che è accaduto lassù nella cappella... Se ci sarà ancora da combattere, devo esserci io, a condurre gli eserciti, in modo che mi vedano finire l'opera che abbiamo incominciato.» S'interruppe, come se si aspettasse ancora una domanda o una protesta, ma io non ne feci. «Credevo che avresti cercato di impedirmelo.» «No. Perché? Sono d'accordo con te. Devi dimostrare che sei superiore alla fortuna.» «Esattamente questo.» Rifletté un momento. «È difficile tradurlo in parole, ma da quando mi hai portato a Luguvallium e presentato al re, è stato come... non esattamente come un sogno, ma come se qualche cosa si stesse servendo di me, servendo di noi tutti...» «Sì. Un vento impetuoso che imperversava, trascinando con sé tutti noi.» «E adesso il vento è cessato» disse lui, misurato «e noi siamo lasciati a vivere con le nostre sole forze. Come se... be', come se tutto fosse stato magia e miracoli, e adesso essi fossero finiti. Hai notato, Merlino, che nessuno ha parlato di quello che è accaduto lassù nel santuario? È già come se fosse accaduto in un passato remoto, in qualche canzone o leggenda.» «Si capisce perché. La magia era reale, e troppo forte per molti di quelli che vi hanno assistito, ma si è impressa nel ricordo di tutti quelli che l'hanno vista, e nel ricordo degli uomini che compongono le canzoni e le leggende. Bene, questo è per il futuro. Ma noi siamo qui, adesso, e con un'o-
pera ancora da compiere. E una cosa è certa: solo tu puoi compierla. Perciò devi andare avanti e farla a modo tuo.» Il viso del ragazzo si rilassò. Le sue mani si appiattirono sul tavolo mentre egli vi si appoggiava con tutto il suo peso. Per la prima volta si vide che era molto stanco, e che era una specie di sollievo per lui lasciarsi sommergere dalla stanchezza e insieme dal bisogno di dormire. «Avrei dovuto sapere che mi avresti capito. Perciò tu capisci perché devo andare di persona, senza Cador. A lui la cosa non piaceva, devo ammetterlo, ma alla fine ha capito. E per esser sincero mi avrebbe fatto piacere averlo con me... Ma questa è una cosa che devo fare da solo. Per rassicurare me stesso, quanto per rassicurare il popolo. A te posso dirlo.» «Hai bisogno di esser rassicurato?» L'ombra di un sorriso. «Non proprio. Domattina probabilmente potrò credere a tutto ciò che è accaduto sul campo di battaglia, e sapere che è vero, ma adesso è ancora come essere ai margini di un sogno. Dimmi, Merlino, posso chiedere a Cador di andare a sud per scortare la regina Ygraine, mia madre, nel viaggio dalla Cornovaglia?» «Non c'è motivo per cui tu non possa chiederglielo. È il duca di Cornovaglia, perciò dopo la morte di Uther la casa di tua madre a Tintagel viene a trovarsi sotto la sua protezione. Se Cador è stato capace di soffocare l'odio verso Uther per il bene comune, da molto tempo deve aver saputo perdonare a Ygraine il tradimento verso suo padre. E adesso tu hai proclamato i suoi discendenti maschi tuoi eredi al Sommo regno, perciò tutti i debiti sono saldati. Sì, manda Cador.» Parve sollevato. «Allora è tutto a posto. Le ho già mandato un messaggero, naturalmente, con la notizia. Cador dovrebbe incontrarla a mezza strada. Saranno ad Amesbury in tempo per l'arrivo della salma di mio padre, prima della sepoltura.» «Devo dedurne, allora, che vuoi che io accompagni la salma ad Amesbury?» «Se accetti. Non mi è possibile andare io, come dovrei, e mio padre deve avere una scorta reale. Meglio tu, forse, che lo conoscevi, anziché me, re così di recente. E poi, se deve riposare accanto ad Ambrogio nella Danza delle Pietre Pendenti, tu devi essere lì per vedere che spostino la pietra del re e preparino la tomba. Lo farai?» «Certo. Dovremmo metterci, a un'andatura decorosa, circa nove giorni.» «A quel momento, dovrei esserci anch'io.» Un improvviso balenare dello sguardo. «Con una certa fortuna, voglio dire, mi aspetto di ricevere pre-
sto notizie di Colgrim. Partirò al suo inseguimento tra quattro ore circa, appena sarà giorno pieno. Bedwyr viene con me» aggiunse, come se questo gli fosse di conforto e lo rassicurasse. «E che farà re Lot, dato che a quanto capisco non viene con te?» Allora mi lanciò uno sguardo ironico, e il suo tono era mite come sarebbe stato quello di un esperto politicante. «Parte anche lui, alle prime luci. Non per il suo paese... Cioè, non vi tornerà finché non avrò scoperto dov'è andato Colgrim. No, ho insistito con re Lot perché si recasse direttamente a York. Credo che la regina Ygraine sarà lì dopo il funerale, e Lot può riceverla. Poi, quando il matrimonio con mia sorella Morgana sarà stato celebrato, immagino che, gli piaccia o no, potrò considerarlo mio alleato. E per il resto dei combattimenti, qualsiasi cosa accada tra qui e Natale, posso fare a meno di lui.» «Perciò ti vedrò ad Amesbury? E poi?» «Caerleon» rispose lui senza esitazione. «Se le guerre lo permetteranno, andrò lì. Non l'ho mai vista e da quanto mi dice Cador, deve diventare il mio quartier generale, adesso.» «Fino a quando i sassoni non violeranno il trattato e si muoveranno dal sud, per attaccare.» «Come naturalmente faranno. Fino ad allora. Dio voglia che ci sia il tempo di riprendere il fiato, prima.» «E di costruire un'altra roccaforte.» Alzò gli occhi, con vivacità. «Sì. A questo stavo pensando. Ci sarai a farlo?» Poi, improvvisamente pressante: «Merlino, giura che ci sarai sempre». «Finché ci sarà bisogno di me. Anche se mi sembra» aggiunsi con tono leggero «che l'aquilotto stia già mettendo le piume abbastanza in fretta.» Poi, sapendo che cosa c'era dietro quell'improvvisa insicurezza: «Ti aspetterò ad Amesbury, e sarò lì per presentarti a tua madre». Due Amesbury è poco più di un villaggio, ma dall'epoca di Ambrogio ha assunto un suo genere di grandiosità, come si addice al luogo natale di quel Sommo re e alla vicinanza con il grande monumento delle Pietre Pendenti che si erge sulla ventosa pianura di Sarum. Si tratta di un anello di pietre enormi, una Danza dei Giganti, che fu innalzata in tempi di cui si è persa la memoria. Io avevo (grazie a quanto la gente si ostinava a considerare «arte
magica») ricostruito la Danza per farne un monumento alla gloria della Britannia maggiore e il cimitero dei suoi re. Lì Uther avrebbe riposato accanto a suo fratello Ambrogio. Portammo il suo corpo, senza incidenti, ad Amesbury, e lo lasciammo al monastero, cosparso di oli profumati, in una bara fatta del tronco di una quercia, sotto il drappo funebre viola davanti all'altare della cappella. La guardia del re (che era venuta a sud con la salma) lo vegliò e i monaci e le suore di Amesbury pregarono accanto al catafalco. Essendo la regina Ygraine cristiana, il morto re sarebbe stato sepolto con tutti i riti e le cerimonie della chiesa cristiana, benché in vita egli non si fosse neppure data la pena di onorare formalmente il Dio dei cristiani. Anche adesso era lì, le palpebre coperte dalle monete d'oro che dovevano servire a pagare un traghettatore il quale aveva preteso quel pedaggio secoli e secoli prima di San Pietro, custode della Porta del Cielo. La cappella stessa, pareva, doveva essere sorta al posto di un santuario romano; era poco più di una costruzione rettangolare di graticcio ricoperto di argilla, con pali di legno che sostenevano un tetto di paglia, ma il pavimento era un bel mosaico, ben pulito e quasi intatto. Con le sue volute di vite e foglie di acanto, non poteva offendere nessun'anima cristiana, e il tappeto posto nel centro probabilmente nascondeva qualche dio, o qualche dea, pagani che si libravano nudi in mezzo all'uva. Il monastero rispecchiava in parte la nuova prosperità di Amesbury. Era un complesso eterogeneo di edifici che in qualche modo si accalcavano intorno a un cortile pavimentato con selci, ma gli edifici erano ben tenuti e la casa dell'abate, che era stata lasciata libera per la regina e il suo seguito, era fatta bene, di pietra, con pavimenti di legno e un grande camino a un'estremità. Anche il capo del villaggio aveva una buona casa, che si affrettò a offrirmi perché vi alloggiassi, ma, spiegandogli che ben presto sarebbe arrivato anche il re, lo lasciai in un trambusto di preparativi ulteriori e mi recai con i miei servi alla taverna. Questa era piccola, con scarse pretese di comodità, ma pulita e nei camini il fuoco ardeva senza risparmio per combattere il freddo autunnale. Il locandiere ricordava che avevo alloggiato lì all'epoca della ricostruzione della Danza; dimostrò ancora il timore reverenziale che quell'impresa aveva suscitato in lui, e si affrettò a darmi la stanza migliore e a promettermi per la cena pollame fresco e un pasticcio di montone. Si mostrò sollevato quando gli dissi che mi ero portato due servi, che mi avrebbero servito nella mia camera, e rimandò i suoi garzoni
che mi fissavano a occhi spalancati ai loro posti davanti ai fornelli in cucina. I servi che mi ero portato facevano parte di quelli di Artù. Negli ultimi anni, vivendo da solo nella Foresta Selvaggia, avevo provveduto personalmente alle mie necessità, sicché adesso non avevo nessun servo mio. Uno era un uomo piccolo e vivace proveniente dalla regione montuosa del Gwynedd; l'altro era Ulfin, che era stato il servo personale di Uther. Il defunto re lo aveva riscattato da una pesante schiavitù, e gli aveva dimostrato gentilezza, che Ulfin aveva ricambiato con un'assoluta devozione. La stessa devozione adesso l'avrebbe data ad Artù, ma sarebbe stato crudele negare a Ulfin la possibilità di seguire il suo padrone durante il suo ultimo viaggio, perciò avevo chiesto espressamente che mi venisse dato lui. Secondo i miei ordini era andato nella cappella con il catafalco e dubitavo di rivederlo prima che il funerale fosse finito. Intanto il gallese, Lleu, aprì le mie casse e ordinò acqua calda; poi mandò al monastero il più intelligente dei garzoni della locanda, a portare un mio messaggio perché fosse consegnato alla regina al suo arrivo. Con esso le davo il benvenuto e le proponevo di andarle a far visita non appena fosse abbastanza riposata da mandarmi a chiamare. Aveva già avuto notizia di quanto era accaduto a Luguvallium; adesso mi limitai ad aggiungere che Artù non era ancora ad Amesbury, ma che si pensava sarebbe arrivato in tempo per il funerale. Io non mi trovavo ad Amesbury quando la regina arrivò con il suo seguito. Me ne ero andato a cavallo fino alla Danza dei Giganti per accertarmi che tutto fosse pronto per la cerimonia e seppi solo al ritorno che la regina e il suo seguito erano arrivati poco dopo mezzogiorno, e che Ygraine e le sue dame erano sistemate nella casa dell'abate. La sua chiamata mi arrivò quando il pomeriggio scolorava nella sera. Il sole era calato in un cielo pieno di nuvole e quando, dopo aver rifiutato la scorta che mi era stata offerta, percorsi a piedi la breve distanza che mi separava dal monastero, era già quasi buio. La notte era greve come un drappo funebre, con un cielo in lutto, senza stelle. Ricordai la grande stella del re che aveva sfolgorato per la morte di Ambrogio e i miei pensieri tornarono al re che giaceva nella cappella, lì vicino, con i monaci a piangerlo e le guardie, immobili come statue, accanto al catafalco. E a Ulfin che, solo tra quanti l'avevano visto morire, aveva pianto per lui. Un ciambellano mi venne incontro alla porta del monastero. Non era il guardiano dei monaci: questo era uno dei servi della regina, un ciambellano reale che riconobbi proveniente dalla Cornovaglia. Sapeva chi fossi,
naturalmente, e mi fece un profondo inchino ma capii che non ricordava il nostro ultimo incontro. Era lo stesso individuo, adesso più grigio e più curvo, che mi aveva accompagnato alla presenza della regina, circa tre mesi prima della nascita di Artù, quando essa aveva promesso di affidare il bambino alle mie cure. In quell'occasione mi ero servito di un travestimento, temendo l'ostilità di Uther, ed era naturale che il ciambellano non riconoscesse, nell'alto principe fermo sulla porta, l'umile «medico» barbuto venuto a parlare con la regina. Attraverso il cortile coperto di erbacce, egli mi guidò verso il grande edificio col tetto di paglia in cui era alloggiata la regina. Delle torce ardevano fuori della porta e qua e là sulle pareti, sicché era ben evidente la miseria del luogo. Dopo quell'estate piovosa le erbacce erano spuntate rigogliose in mezzo ai selci, e negli angoli del cortile le ortiche arrivavano all'altezza della vita. In mezzo alle ortiche, erano abbandonati gli aratri di legno e le zappe dei frati contadini, avvolti in tela di sacco. Accanto alla soglia di una porta c'era un'incudine e da un chiodo conficcato in uno stipite pendeva una cordicella che recava parecchi ferri di cavallo. Una figliata di magri maialetti neri ruzzolò strillando e si allontanò dalla nostra strada, richiamata dal grugnito ansioso di una scrofa che giungeva da dietro le assi spezzate di un portellone. I santi uomini e le sante donne di Amesbury erano gente semplice. Mi chiesi come ci si trovasse la regina. Non c'era proprio bisogno che mi preoccupassi per lei. Ygraine era sempre stata una signora che sapeva quello che voleva, e da quando aveva sposato Uther aveva mantenuto sempre un fasto regale, a ciò spinta, forse, dall'irregolarità stessa di quelle nozze. Ricordavo la casa dell'abate come un'umile dimora, pulita e asciutta sì, ma senza alcuna pretesa di comodità. Adesso, in qualche breve ora, la servitù della regina aveva provveduto a che diventasse una dimora lussuosa. Le pareti, di pietra nuda, erano state coperte da arazzi scarlatti, verdi e blu pavone, e da un bel tappeto orientale che io le avevo portato da Bisanzio. Il pavimento di legno era stato raschiato fino a diventare bianco, e sulle panche disposte lungo le pareti erano ammucchiati cuscini e pellicce. Un grande fuoco di ceppi ardeva nel camino. A un lato di questo era posto un alto seggio di legno dorato, con cuscini di lana ricamata e uno sgabello con frangia d'oro. Di fronte, dall'altro lato del camino, c'era un altro seggio a schienale alto, con i braccioli scolpiti che raffiguravano teste di drago. La lampada, di bronzo, era un drago a cinque teste. La porta che dava sull'austera camera da letto dell'abate era aperta e riuscii a vedere di sfuggita un letto dal baldacchino azzur-
ro e lo scintillio di una frangia d'argento. Tre o quattro donne - due delle quali non più che adolescenti - erano affaccendate nella camera da letto e intorno al tavolo che, all'estremità della stanza più lontana dal fuoco, era preparato per la cena. Paggi vestiti di azzurro correvano con piatti e caraffe. Tre levrieri bianchi erano distesi vicino al fuoco, e più vicino di così evidentemente non osavano arrivare. Quando entrai, trambusto e chiacchiere s'interruppero. Tutti gli occhi si volsero verso la soglia. Un paggio che portava un'anfora di vino, sorpreso a nemmeno un metro dalla porta si fermò di botto, cambiò strada e sgranò gli occhi, strabuzzandoli. Qualcuno accanto al tavolo lasciò cadere un tagliere di legno e i levrieri si precipitarono sui dolci finiti a terra. I loro artigli che raschiavano il pavimento e la masticazione rumorosa erano gli unici suoni percepibili nella stanza, al di sopra del crepitio del fuoco. «Buona sera» dissi, cordiale. Risposi alle riverenze delle donne, osservai con serietà un ragazzo raccogliere il tagliere caduto e allontanare con un calcio i levrieri, poi lasciai che il ciambellano mi accompagnasse verso il caminetto. «La regina...» stava incominciando a dire, quando tutti gli occhi si spostarono da me alla porta che dava sull'altra stanza e i levrieri, la schiena arcuata, scodinzolando, saltellarono incontro alla donna che la stava attraversando. Non fosse stato per i levrieri e per le donne che facevano la riverenza, un estraneo avrebbe potuto credere che fosse la badessa venuta ad accogliermi. La donna che entrò contrastava con quella ricca stanza quanto quella stessa stanza contrastava con lo squallido cortile. Era vestita di nero dalla testa ai piedi, con un velo bianco che le copriva i capelli e le scendeva sulle spalle, e le cui morbide pieghe fissate da spilli le incorniciavano il viso come un soggolo. Le maniche della sua veste erano foderate con una stoffa di seta grigia e sul petto portava una croce di zaffiri, ma nient'altro rischiarava il cupo bianco e nero del suo lutto. Da molto tempo non vedevo Ygraine e mi ero aspettato di trovarla cambiata, ma lo stesso fui scosso da quello che vidi. Bella lo era ancora, nella struttura ossea, nei grandi occhi di un azzurro intenso e nel portamento regale; ma la grazia aveva lasciato il posto alla dignità, i polsi e le mani avevano una magrezza che non mi piaceva e le ombre che le cerchiavano gli occhi erano scure quasi quanto gli occhi stessi. Fu questo, non la devastazione del tempo, che mi colpì dolorosamente. In tutta la sua persona c'erano segni che un medico poteva leggere pure troppo chiaramente.
Ma io ero lì come principe e ambasciatore, non come medico. Ricambiai il sorriso, mi chinai sulla sua mano e la condussi al seggio coperto di cuscini. A un suo cenno, i ragazzi corsero a prendere per la collottola i levrieri e a toglierli di mezzo, e lei si accomodò, lisciandosi la gonna. Una delle ragazze avvicinò a lei uno sgabello poi, le palpebre abbassate e le mani giunte, rimase ferma, in piedi, accanto al seggio della sua padrona. La regina mi invitò a sedermi e ubbidii. Qualcuno portò il vino e al di sopra delle coppe ci scambiammo le formalità d'uso. Io le chiesi come stava, esclusivamente per cortesia formale, sapendo che lei non poteva leggere sul mio viso nulla di quanto sapevo. «E il re?» chiese alla fine la regina. La parola le uscì dalla bocca come a forza, nascondendo una specie di sofferenza. «Artù ha promesso che sarà qui. Lo aspetto per domani. Non sono arrivate notizie dal nord, perciò non abbiamo modo di sapere se ci sono stati altri combattimenti. Ma non devi allarmarti per la mancanza di notizie; significa solo che arriverà presto, come qualsiasi messaggero che avrebbe potuto inviare.» Lei annuì, senza dimostrare ansia, sia che non riuscisse a pensare molto al di là della perdita subita, sia che interpretasse il mio tono tranquillo come l'assicurazione di un profeta. «Si aspettava altri combattimenti?» «Si è fermato per precauzione, non più di questo. Gli uomini di Colgrim sono stati definitivamente sconfitti, ma personalmente Colgrim è fuggito, come ti ho scritto. Non siamo riusciti a sapere dove. Artù ha ritenuto opportuno accertare che le disperse forze dei sassoni non potessero ricostituirsi, almeno mentre egli sarebbe venuto a sud per il funerale di suo padre.» «È giovane» disse la regina «per un tale compito.» Sorrisi. «Ma pronto a svolgerlo, e più che in grado di farlo. Credimi, è stato come vedere un giovane falco spiccare il volo, o un cigno slanciarsi sull'acqua. Quando l'ho lasciato, quasi non aveva dormito per due notti, eppure era pieno di coraggio e in ottima forma fisica.» «Ne sono lieta.» Aveva parlato in modo formale, inespressivo, ma io ritenni opportuno puntualizzare. «La morte di suo padre lo ha scosso e addolorato, ma come tu certamente capisci, Ygraine, non poteva toccarlo molto intimamente e tutto quello che c'era da fare gli ha impedito di soffrire.» «Io non sono stata così fortunata» disse lei, pianissimo, gli occhi abbassati sulle mani.
Tacqui, comprensivo. La passione che aveva unito Uther e quella donna, una passione in cui era stato in gioco un regno, non si era spenta con gli anni. Uther era stato un uomo cui le donne erano necessarie come alla maggior parte degli uomini il cibo e il sonno, e quando i suoi doveri reali lo avevano tenuto lontano dal letto della regina, il suo era stato di rado vuoto; ma quando erano insieme non aveva mai guardato da un'altra parte, né le aveva dato motivo di addolorarsi. Si erano amati, il re e la regina, di quell'amore immutabile e puro che dura più della gioventù e della salute, che supera il compromesso e l'opportunismo che sono il prezzo del trono. Io ero giunto a pensare che Artù, loro figlio, privo come era stato della sua condizione reale e allevato in una situazione umile e oscura, era stato meglio nella sua famiglia adottiva di Galava di quanto sarebbe stato alla corte paterna dove, data la presenza del re e della regina, sarebbe venuto molto dopo di loro. Essa rialzò lo sguardo, infine, il volto di nuovo sereno. «Ho ricevuto la tua lettera, e anche quella di Artù, ma ci sono molte altre cose che voglio sapere. Dimmi che cosa è accaduto a Luguvallium. Quando è partito per il nord, per scontrarsi con Colgrim, sapevo che non era in condizioni di farlo. Lui giurava di dover scendere in campo, anche su una portantina, se fosse stato necessario. Il che, a quanto capisco, è ciò che è avvenuto.» Per Ygraine, quel «lui» di Luguvallium non era certo il figlio. Quello che voleva era il racconto degli ultimi giorni di Uther, non quello della miracolosa ascesa al trono di Artù. E io glielo diedi. «Sì. È stata una grande battaglia, e lui l'ha combattuta in modo eccezionale. Lo hanno fatto scendere in campo su uno scranno e durante tutto il combattimento i suoi servi lo hanno tenuto lì, nel più folto della mischia. Io avevo fatto venire Artù da Galava perché fosse ai suoi ordini, in modo che lo riconoscesse pubblicamente, ma Colgrim attaccò all'improvviso e il re dovette scendere in campo senza averlo potuto proclamare suo figlio. Tenne Artù vicino a sé, e quando vide che la spada del ragazzo si era spezzata, nel combattimento, gli lanciò la sua. Dubito che Artù, nel furore della battaglia, capisse il gesto per quello che era, ma lo capirono tutti quelli che gli erano vicini. Fu un grande gesto, compiuto da un grande uomo.» Lei non parlò, ma i suoi occhi mi ricompensavano. Ygraine sapeva, chi meglio di lei?, che fra Uther e me non c'era mai stata molta simpatia. Una lode proveniente da me era qualcosa di completamente diverso dalle adulazioni della corte. «E poi il re si è riseduto sul suo scranno e ha osservato suo figlio soste-
nere la battaglia contro il nemico e, inesperto com'era, far la sua parte nella disfatta dei sassoni. Così, in seguito, quando finalmente ha presentato il ragazzo ai nobili e ai comandanti, questo compito era già in parte compiuto. Avevano visto il re consegnargli la spada reale, e avevano visto con quanta nobiltà essa era stata usata. Ma c'è stato, per la verità, qualche dissenso...» Esitai. Era stato proprio quel dissenso a uccidere Uther; aveva anticipato la sua morte solo di qualche ora, è vero, provocandola però con la stessa efficacia di un colpo di scure. E il re Lot, che aveva capeggiato i dissenzienti, era impegnato a sposare la figlia di Ygraine, Morgana. Ygraine disse, calma: «Ah, sì. Il re del Lothian. Ne ho sentito qualcosa. Raccontami». Avrei dovuto conoscerla. Le riferii tutto l'accaduto, senza tralasciare niente. L'opposizione rumoreggiante, il tradimento, la morte improvvisa del re che aveva fatto calare il silenzio sulla sala. Le dissi come alla fine Artù fosse stato acclamato dai presenti, pur soffermandomi appena sulla parte da me avuta in questo («In verità, se ha la spada di Macsen, l'ha avuta per dono di Dio, e se ha Merlino accanto a sé, allora, per il dio che egli segue, qualunque esso sia, io seguirò lui»). E non indugiai neppure sulla scena della cappella, limitandomi a raccontarle del giuramento, della sottomissione di Lot e di come Artù avesse proclamato suo erede Cador, il figlio di Gorlois. A questo punto, per la prima volta, i begli occhi si illuminarono e Ygraine sorrise. Vidi che questo le riusciva nuovo e doveva in qualche modo mitigare il suo senso di colpa per la parte avuta nella morte di Gorlois. A quanto pareva Cador, o per delicatezza o perché tra lui e Ygraine i rapporti erano ancora abbastanza freddi, non gliel'aveva detto. Tese la mano per prendere il vino e si mise a sorseggiarlo mentre io finivo il mio resoconto, il sorriso che continuava ad aleggiarle sulle labbra. Un'altra cosa, una cosa assai importante, le sarebbe pure riuscita nuova; ma di questa non dissi niente. Però la parte non detta mi pesava sull'anima, sicché quando Ygraine riprese a parlare feci un salto come un cane sotto la frusta. «E Morgause?» «Madonna?» «Non hai parlato di lei. Deve essere addolorata per il padre. È stata una buona cosa che potesse essergli vicina. Lui e io abbiamo avuto motivo di ringraziare Dio per le sue doti.» Io dissi, la voce inespressiva: «Lo ha curato con dedizione. Sono certa
che ne sentirà dolorosamente la mancanza». «Sta venendo a sud con Artù?» «No. È andata a York, per stare vicina a sua sorella Morgana.» Fui sollevato perché lei non fece altre domande a proposito di Morgause, ma abbandonando l'argomento mi chiese invece dove alloggiassi. «Alla taverna» risposi. «La conosco dal tempo in cui ho lavorato qui. È modesta, ma si sono preoccupati di farmi star comodo. Non mi tratterrò a lungo.» Gettai uno sguardo intorno a me, alla stanza che sfavillava di colori. «Quanto a te, progetti un soggiorno prolungato, madonna?» «Solo alcuni giorni.» Se aveva colto il mio sguardo diretto al lusso che la circondava, non lo diede a vedere. E io, che in genere non sono molto acuto per quanto concerne le donne, capii a un tratto che la ricchezza e la bellezza della stanza non erano state pensate per il benessere di Ygraine, ma deliberatamente escogitate per servire da cornice al suo primo incontro con il figlio. L'oro e lo scarlatto, i profumi e le candele di cera, erano lo scudo e la spada incantata di quella donna che stava invecchiando. «Dimmi...» Entrò direttamente in argomento, mossa dalla preoccupazione che, in mezzo a tutte le altre cose, la dominava. «Ce l'ha con me?» Dava la misura del mio rispetto per Ygraine il fatto che le rispondessi con schiettezza, senza fingere che quanto mi aveva chiesto non fosse anche in cima ai miei pensieri. «Credo che tu non debba temere questo incontro. Appena ha saputo le sue origini e il suo retaggio, si è domandato perché tu e il re abbiate ritenuto opportuno negargli quel diritto di nascita. Non lo si può biasimare se in un primo momento si sia sentito trattato ingiustamente. Aveva già cominciato a sospettare di essere di origine reale, ma presumeva che, come nel mio caso, la sua regalità fosse indiretta... Quando ha saputo la verità, insieme all'esultanza ha provato curiosità. Ma, e ti giuro che è vero, non ha mostrato la minima amarezza, né ira; solo era impaziente di conoscere il motivo. Quando gli ho raccontato la storia della sua nascita, della sua infanzia e della sua adolescenza, ha detto... e voglio ripeterti esattamente le sue parole: "Giudico la situazione come tu dici che la giudicarono loro: per essere principe è necessario lasciarsi comandare dall'ineluttabile. Lei non rinunciò a me per niente".» Ci fu un momento di silenzio, nel quale sentii riecheggiare, ma solo nella mia memoria, le parole con cui Artù aveva concluso: «Stavo meglio nella Foresta Selvaggia, credendomi orfano di madre e tuo bastardo, Merlino, che ad aspettare di anno in anno nel castello di mio padre che la regina partorisse un altro figlio che mi avrebbe soppiantato».
Le labbra di lei adesso non erano più così strette; la vidi sospirare. La pelle morbida sotto gli occhi fu attraversata da un lieve tremore, che si arrestò come quando si appoggia un dito su una corda che vibra. Il colore le affluì al viso, ed essa mi guardò come mi aveva guardato tanti anni prima, quando mi aveva chiesto di portar via il bambino e nasconderlo alla collera di Uther. «Dimmi... com'è?» Le rivolsi un piccolo sorriso. «Non te l'hanno detto, quando ti hanno portato la notizia della battaglia?» «Oh, sì, me l'hanno detto. È alto come una quercia e forte come Fionn, e ha ucciso novecento uomini da solo. È Ambrogio rivissuto, o addirittura Massimo, armato di una spada che ha la rapidità del lampo, e in battaglia lo circonda una luce magica, come le immagini degli dei alla caduta di Troia. Ed è l'ombra e lo spirito di Merlino, e dappertutto lo segue un grande cane, al quale parla come fosse un suo pari.» Gli occhi le danzarono. «Da tutto questo puoi indovinare che i messaggeri erano neri uomini di Cornovaglia, soldati di Cador. Loro preferiscono sempre cantare un poema anziché dire la realtà. Io voglio la realtà.» Era stata sempre così. Come lei, anche da bambino Artù aveva affrontato la realtà: la poesia la lasciava a Bedwyr. Le diedi ciò che voleva. «L'ultima parte è quasi vera, ma l'hanno capita al contrario. È Merlino che è ombra e spirito di Artù, come il grande segugio, che è assolutamente vero: è Cabal, il cane che gli ha dato il suo amico Bedwyr. Per il resto, che devo dirti? Lo vedrai da te domani... È alto e assomiglia a Uther più che a te, benché abbia i colori di mio padre; ha gli occhi e i capelli scuri come i miei. È forte, pieno di coraggio e di capacità di resistenza... tutte le cose che i tuoi cornovagliesi ti hanno detto, ma ridotte a grandezza naturale. Ha il sangue caldo e l'impulsività della gioventù, e può essere appassionato o arrogante, ma fondamentalmente ha un solido buon senso e una sempre maggior capacità di controllarsi, come ogni retto uomo della sua età. E possiede quella che considero una grandissima virtù. È disposto ad ascoltarmi.» Questo si meritò un altro sorriso da lei, un sorriso pieno di calore. «Tu lo dici per scherzo, ma come te anch'io la considero una virtù! È fortunato ad avere te. Come cristiana, non posso credere nella tua magia... in effetti non ci credo come ci crede la gente comune; ma qualunque cosa sia, e da chiunque provenga, ho visto il tuo potere all'opera, e so che è buono, e che tu sei saggio. Credo che ciò che ti possiede e che ti muove è ciò che io chiamo Dio. Rimani con mio figlio.» «Rimarrò finché avrà bisogno di me.»
Allora il silenzio discese tra noi, ed entrambi rimanemmo a guardare il fuoco. Gli occhi di Ygraine erano sognanti sotto le palpebre ornate dalle lunghe ciglia, e il viso di nuovo calmo e tranquillo; ma io pensai che era la calma piena di attesa del più folto della foresta, dove i rami, in alto, stormiscono al vento, e gli alberi sentono i temporali scuoterli fin nelle radici. Entrò in punta di piedi, un ragazzo che s'inginocchiò davanti al focolare per mettere altri ceppi sul fuoco. Le fiamme guizzarono, crepitarono, si lanciarono in alto illuminando la stanza. Le guardai. Anche per me, quella pausa era solo di attesa; le fiamme si limitavano a essere fiamme. Il ragazzo si allontanò senza far rumore. La fanciulla prese la coppa dalla mano rilassata della regina e tese la propria, in un gesto timido, verso la mia. Era una graziosa creatura, snella come un giunco, con occhi grigi e capelli castanochiari. Sembrava che avesse un po' paura di me e stette attenta, quando le diedi la coppa, a non sfiorare la mia mano. Si allontanò in fretta con i calici vuoti. Io dissi, piano: «Ygraine, hai il tuo medico qui con te?». Sbatté le palpebre. Non mi guardò ma rispose anche lei con voce sommessa: «Sì. Viaggia sempre con me». «Chi è?» «Si chiama Melchiorre. Dice di conoscerti.» «Melchiorre? Un giovane che conobbi a Pergamo quando studiavo medicina lì?» «Proprio lui. Non più così giovane. Mi ha assistito quando è nata Morgana.» «È un uomo capace» dissi soddisfatto. Ygraine mi lanciò uno sguardo obliquo. La fanciulla non poteva sentirci, era con le altre donne all'estremità opposta della stanza. «Avrei dovuto saperlo che non potevo nasconderti niente. Non lo farai sapere a mio figlio?» Fui pronto a prometterglielo. Che fosse mortalmente malata lo sapevo da quando l'avevo vista, ma Artù, non conoscendola e non essendo esperto in medicina, forse non si sarebbe accorto di niente. In seguito, ci sarebbe stato tempo quanto ne bastava per questo. Il presente era per un inizio, non per una fine. La fanciulla si avvicinò a bisbigliare qualcosa alla regina, che annuì e si alzò. Mi alzai con lei. Il ciambellano stava venendo avanti cerimoniosamente, e dava un altro tocco di regalità a quell'alloggio preso in prestito. La regina si voltò a metà verso di me, alzando la mano per invitarmi alla
sua tavola, quando di colpo la scena s'interruppe. Giunse dall'esterno, chissà esattamente da dove, uno squillo lontano di tromba; poi un altro, più vicino, e poi, improvvisamente, il frastuono e l'animazione di cavalieri in arrivo, oltre le mura del monastero. Ygraine alzò la testa, con qualcosa della gioventù e dell'ardire di una volta. Poi rimase immobile. «Il re?» la sua voce rapida e leggera. Tutt'intorno alla stanza in ascolto, si levò il mormorio delle donne. La fanciulla accanto alla regina era tesa come la corda di un arco e vidi un vivo rossore di eccitazione salirle dal collo alla fronte. «È in anticipo» dissi. La mia voce suonò recisa e precisa. Stavo riducendo il battito del mio polso, che si era accelerato con l'avvicinarsi del rumore degli zoccoli. Sciocco, mi dissi, sciocco. Adesso lui si occupa del suo dovere. Lo hai lasciato andare, e lo hai perso; questo è un falco al quale non si rimetterà mai più il cappuccio. Rimani indietro nell'ombra, profeta del re; guarda le tue visioni e sogna i tuoi sogni. Lascia a lui la vita, e aspetta che abbia bisogno di te. Bussarono alla porta e si udì la voce rapida di un servo. Il ciambellano cominciò ad agitarsi, ma un ragazzo si slanciò, riferendo in fretta il messaggio, spoglio di qualsiasi formula cerimoniosa: «Con licenza della regina... Il re è qui e vuole il principe Merlino. Subito, dice». Mentre mi allontanavo udii dietro di me la stanza silenziosa cominciare a rumoreggiare, perché i paggi venivano mandati precipitosamente a rilucidare le tavole, e a rifornirle di candele nuove, di profumi e di vino; e le donne, chiocciando e mormorando come uno stuolo di galline, si affrettarono a seguire la regina nella camera da letto. Tre «È qui, mi dicono?» Artù stava intralciando, anziché aiutarlo, un servo che tentava di sfilargli gli stivali infangati. Ulfin era finalmente tornato dalla cappella; potevo sentirlo, nella stanza contigua, dare ordini ai servi della casa che aprivano i bagagli e disponevano i vestiti e le cose di Artù. Fuori, la città pareva esplodere di rumori, luci di torce, scalpitio di cavalli, voci che gridavano ordini. Di quando in quando si percepiva, distintamente in mezzo a quel fracasso, la risatina acuta di una ragazza. Non tutti erano in lutto, ad Amesbury. Anche il re non dimostrava molto di esserlo. Con un calcio si liberò fi-
nalmente degli stivali e scrollando le spalle fece cadere il pesante mantello. I suoi occhi mi cercarono, esatta parodia dell'occhiata obliqua lanciatami da Ygraine. «Le hai parlato?» «Sì. L'ho appena lasciata. Stava per offrirmi la cena, ma adesso credo che pensi di invitare te, invece. È arrivata solo oggi, e la troverai stanca, ma ha già potuto riposarsi un poco e riposerà molto meglio dopo averti visto. Non ti aspettavamo prima di domani mattina.» «"La rapidità di Cesare".» Fece un largo sorriso, citando una delle frasi di mio padre; di certo, quando gli facevo da maestro, l'avevo ripetuta un po' troppo spesso. «Soltanto io e un piccolo gruppo, naturalmente. Gli altri arriveranno. Confido che saranno qui in tempo per il funerale.» «Chi viene?» «Maelgon del Gwynedd e suo figlio Maelgon. Il fratello di Urbgen del Rheged... il terzogenito del vecchio Coel, si chiama Morien, vero? Anche Caw non è potuto venire, così ha mandato Riderch... non Heuil, sono lieto di dirlo, non ho mai potuto soffrire quello spaccone che parla in modo così scurrile. Poi, lasciami pensare, Ynyr e Gwilim, Bors... e mi dicono che Ceretic dell'Elmet sta arrivando da Loidis.» Proseguì nominando alcuni altri. Pareva che i re settentrionali avessero mandato quasi tutti figli o rappresentanti; era naturale che con i resti degli eserciti sassoni che ancora battevano il nord, desiderassero restare a sorvegliare i propri confini. Tutto questo, in verità, lo stava dicendo Artù, tra gli scrosci dell'acqua che il servo gli versava perché potesse lavarsi. «Anche il padre di Bedwyr è tornato a casa. Si è scusato adducendo il pretesto di faccende urgenti, ma, rimanga tra noi credo che volesse tener d'occhio per me i movimenti di Lot.» «E Lot?» «Diretto a York. Ho preso la precauzione di farlo sorvegliare. È sicuro che a quest'ora è in viaggio. Morgana è ancora lì, o è venuta a sud per vedere la regina?» «È ancora a York. Di un re ancora non hai parlato.» Il servo gli porse un asciugamano, e Artù vi scomparve dentro, strofinando per asciugarsi i capelli bagnati. La sua voce mi giunse soffocata. «Chi?» «Colgrim» risposi, mitemente. Emerse di colpo dall'asciugamano, la pelle splendente e gli occhi sfavillanti. Dimostrava, pensai, circa dieci anni. «Hai bisogno di chiederlo?» La voce non era quella di un bambino di dieci anni; era la voce di un uomo,
calma di simulata arroganza che, sotto la malizia, pareva reale. Be', voi, dei, pensai, voi lo avete messo qui; questa non potete considerarla hybris, arroganza. Ma mi sorpresi a fare il segno. «No, ma te lo chiedo.» Diventò subito serio. «È stato un lavoro più duro di quanto ci aspettassimo. Si può dire che la seconda parte della battaglia era ancora da combattere. Avevamo annientato la loro forza a Luguvallium, e Badulf è morto per le ferite, ma Colgrim era illeso e quello che restava delle sue formazioni l'ha radunato un po' a est. Non si trattava solo di inseguire i fuggiaschi; da quella parte avevano un contingente formidabile, e disperato. Se ci fossimo avvicinati a loro con forze inferiori, avrebbero anche potuto capovolgere le sorti della guerra a nostro danno. Dubito che ci avrebbero attaccati di nuovo... si stavano dirigendo verso la costa orientale, per tornarsene a casa, ma noi li abbiamo sorpresi a mezza strada e loro hanno opposto resistenza sul fiume Glein. Conosci quella regione?» «Non bene.» «È incolta e montuosa, con folte foreste e vallate percorse da fiumi nati sugli altopiani, verso il sud. Una regione pessima per darvi battaglia, però questo avrebbe nuociuto anche a loro oltre che a noi. Colgrim, personalmente, è riuscito di nuovo a scappare, ma ormai non ha nessuna possibilità di fermarsi a radunare un qualsiasi contingente nel nord. Si è diretto a est; questa è una delle ragioni per cui Ban è rimasto indietro, benché sia stato così gentile da lasciare che Bedwyr tornasse a sud con me.» Rimase immobile, docile adesso alle mani del servo che lo stava vestendo, un mantello pulito sulle spalle e il fermaglio chiuso. «Sono contento» concluse concisamente. «Che Bedwyr sia qui? Anch'io...» «No. Che Colgrim sia di nuovo riuscito a sfuggire.» «Dici?» «È un uomo coraggioso.» «Però dovrai ucciderlo.» «Lo so. Adesso...» Il servo indietreggiò, il re era pronto. Lo avevano vestito di grigio scuro, il mantello fornito di bavero e foderato di suntuosa pelliccia. Ulfin arrivò dalla camera da letto, recando uno scrigno scolpito e foderato di tessuto a ricami sul quale era appoggiata la corona regale di Uther. I rubini colsero la luce, rispondendo allo sfolgorio delle gemme che adornavano la spalla e il petto di Artù. Ma quando Ulfin gli offrì lo scri-
gno, lui scosse la testa. «Non ora, penso.» Ulfin chiuse lo scrigno e uscì dalla stanza, portando con sé l'altro uomo. La porta si chiuse alle loro spalle. Artù mi guardò, ancora un'eco dell'esitazione di Ygraine. «A quanto capisco mi sta aspettando, adesso?» «Sì.» Si gingillò con il fermaglio appuntato sulla sua spalla, si punse un dito e imprecò. Poi, rivolgendomi un mezzo sorriso: «Non ci sono molti precedenti per questo genere di cose, vero? Come si fa la conoscenza con la propria madre che ci ha abbandonati alla nascita?». «Come hai salutato tuo padre?» «Era un'altra cosa, lo sai.» «Sì. Vuoi che io ti presenti?» «Stavo per chiedertelo... Be', è meglio che ci decidiamo. Certe situazioni non diventano più facili rimandandole... Senti, sei sicuro a proposito della cena? Non mangio dall'alba!» «Sicurissimo. Stavano correndo a cercare altre carni quando me ne sono andato.» Fece un respiro, come un nuotatore prima di tuffarsi. «Allora andiamo?» *
*
*
Lei aspettava accanto al suo seggio, in piedi alla luce del fuoco. Le guance adesso erano colorite e i bagliori delle fiamme le pulsavano sulla pelle e rendevano rosato il bianco del soggolo. Appariva bella, con le ombre sotto gli occhi cancellate e la gioventù restituita dalla luce del fuoco e dallo sfolgorio degli occhi. Artù si soffermò sulla soglia. Vidi il lampo azzurro della croce di zaffiri di Ygraine mentre il suo seno si alzava e si riabbassava. Socchiuse le labbra, come per parlare, ma rimase in silenzio. Artù avanzò lentamente, con un incedere così dignitoso e rigido da apparire anche più giovane di quanto fosse. Io lo seguii, ripassando mentalmente le parole giuste da dire, ma alla fine non ci fu bisogno di parlare. Ygraine, la regina che aveva superato momenti peggiori ai suoi tempi, prese nelle mani la situazione. Lo osservò per un momento, fissandolo come se volesse leggergli nell'anima, poi si inchinò fino a terra e disse: «Mio signore». Lui protese subito una mano, poi tutt'e due le mani, per rialzarla. Le diede il bacio del saluto, breve e formale, e trattenne ancora un poco le mani di lei prima di lasciarle. Disse: «Madre?» come se sperimentasse la parola.
Così aveva sempre chiamato Drusilla, la moglie del conte Ector. Poi, sollevato: «Madonna? Scusami se non ho potuto essere qui ad Amesbury per accoglierti, ma a nord c'era ancora pericolo. Merlino te l'avrà detto. Ma sono venuto appena mi è stato possibile». «Sei stato più rapido di quanto avremmo potuto sperare. Sono certa che hai avuto successo. E che il pericolo costituito dagli uomini di Colgrim è passato.» «Per il momento. Almeno, abbiamo il tempo di respirare... e di fare quello che va fatto qui ad Amesbury. Sono dolente per il tuo dolore e la tua perdita, madonna. Io...» Esitò, poi parlò con una semplicità che, lo vidi, confortò lei e rinfrancò lui stesso: «Non posso fingere davanti a te un dolore che forse dovrei provare. Quasi non lo conoscevo come padre, ma per tutta la vita l'ho conosciuto come re, come un re forte. Il suo popolo lo piangerà, e anch'io lo piangerò, come tutti». «Adesso sta a te proteggerli, come lui ha cercato di fare.» Una pausa, mentre di nuovo si valutavano l'un l'altro. Lei era di un niente la più alta di loro. Forse lo stesso pensiero la sfiorò; gli indicò il seggio sul quale io ero stato seduto e a sua volta si lasciò ricadere sui cuscini ricamati. Un paggio arrivò, correndo, con il vino e ci fu un respiro generale e un fruscio per tutta la sala. La regina cominciò a parlare della cerimonia dell'indomani; lui, rispondendole, si rilassò e ben presto parlavano tutti e due in modo più disinvolto. Ma ancora, dietro le battute cerimoniose si poteva sentire tutta l'agitazione di quanto, inespresso, era tra loro, e l'atmosfera era così tesa, la loro mente così presa l'uno dell'altra, da far sì che avessero dimenticato totalmente la mia presenza, come se fossi stato uno dei servi in attesa accanto alla tavola imbandita. Lanciai un'occhiata da quella parte, poi verso le donne e le fanciulle che si tenevano accanto alla regina: tutti gli occhi erano fissi su Artù, e lo divoravano, gli uomini con curiosità e un certo timore reverenziale (i resoconti li avevano raggiunti abbastanza in fretta), le donne con qualcosa di più della curiosità e le due fanciulle abbagliate e come perse in estasi. Il ciambellano aspettava sulla soglia. Incrociò il mio sguardo e con il suo formulò una domanda. Feci segno di sì. Lui si avvicinò alla regina e le mormorò qualche cosa. Ygraine annuì come sollevata e si alzò, e il re la imitò. Notai che adesso la tavola era apparecchiata per tre, ma quando il ciambellano mi si avvicinò, dal dietro, scossi la testa. Dopo cena la loro conversazione sarebbe diventata più facile, e avrebbero potuto congedare i servi. Sarebbero stati meglio da soli. Così mi accomiatai, ignorando lo
sguardo quasi implorante di Artù, e me ne tornai alla taverna a vedere se gli altri ospiti mi avevano lasciato qualcosa da mangiare. *
*
*
Il giorno seguente era luminoso e pieno di sole, con nuvole che si ammassavano, basse, all'orizzonte, e un'allodola che cantava come se fosse primavera. Spesso una giornata serena, alla fine di settembre, porta la brina e un vento penetrante - e non c'è luogo in cui i venti penetrino di più, siano più taglienti, che sulle distese della Grande Pianura. Ma il giorno del funerale di Uther fu una giornata presa a prestito dalla primavera: vento tiepido, cielo luminoso, e il sole che brillava sulla Danza delle Pietre Pendenti. La cerimonia presso la tomba fu lunga, e le ombre gigantesche della Danza girarono con il sole finché la luce risplendette proprio al centro: e fu più facile guardare il terreno, la stessa tomba, le ombre delle nuvole che si ammassavano e si spostavano come eserciti nelle distanze remote, che il centro della Danza, dove erano fermi i preti nelle loro tonache, e i nobili indossavano il bianco del lutto, adorni di gioielli che abbagliavano. Per la regina era stato eretto un padiglione. Essa era ferma, in piedi, alla sua ombra, composta e pallida in mezzo alle sue dame, senza rivelare stanchezza né malattia. Artù, con me al fianco, era fermo ai piedi della tomba. Finalmente la cerimonia ebbe termine. I preti si allontanarono, e dietro di loro il re e il corteo reale. Mentre sull'erba ci avvicinavamo ai cavalli e alle portantine, già dietro di noi si percepiva il tonfo attutito della terra sul legno. Poi, dall'alto, giunse un altro rumore a coprire quello. Alzai gli occhi. Su, nel cielo di settembre, si poté vedere uno stormo di uccelli, veloci, piccoli e neri, che cinguettavano ed emettevano grida dirigendosi verso sud. L'ultimo volo di rondini conduceva l'estate via con sé. «Speriamo» disse Artù, piano accanto a me «che i sassoni capiscano l'avvertimento. Mi farebbe comodo che passasse tutto l'inverno, per gli uomini e per me stesso, prima di ricominciare a combattere. E poi, c'è Caerleon. Magari potessi andarci oggi.» Ma naturalmente doveva rimanere, come noi tutti, finché la regina si fosse trattenuta ad Amesbury. Dopo la cerimonia, lei rientrò direttamente al monastero e non ricomparve in pubblico, ma trascorse il tempo riposando, o in compagnia del figlio. Questi era con lei per tutto il tempo lasciato libero dai suoi impegni, mentre il seguito della regina si preparava per il viaggio a York, che avrebbe avuto luogo non appena essa si fosse sentita
in grado di affrontarlo. Artù nascondeva la sua impazienza e si teneva occupato ispezionando le truppe che si addestravano, o parlando per lunghe ore con gli amici e i comandanti. Lo vedevo ogni giorno più assorbito da ciò che stava facendo e da ciò che lo aspettava. Personalmente, vidi poco lui e Ygraine: gran parte del mio tempo la trascorrevo alla Danza dei Giganti, a dirigere le operazioni per porre di nuovo la pietra del re nel suo alloggiamento, sopra la tomba reale... Finalmente, otto giorni dopo il funerale di Uther, la regina con il suo seguito si mise in strada per il nord. Opportunamente, Artù rimase a guardarli finché scomparvero sulla strada per Cunetio, poi tirò un grande sospiro di sollievo e fece uscire i soldati da Amesbury, con la rapidità e la semplicità con cui si fa uscire il tappo da una fiasca. Era il quinto giorno di ottobre, pioveva, e ci dirigevamo, come sapevo per esperienza personale, verso l'estuario del Severn e il traghetto che ci avrebbe portati a Caerleon, città di legioni. Quattro Nel punto dove passa il traghetto, l'estuario del Severn è largo, con alte maree che salgono rapidamente coprendo lo spesso fango rosso. Dei ragazzi sorvegliano il bestiame notte e giorno, perché in quel fango lasciato dalle maree tutta una mandria può sprofondare e andar perduta. E quando le maree di primavera e d'autunno incontrano il flusso del fiume si forma un'onda come ne ho viste a Pergamo dopo il terremoto. Sul lato verso sud, l'estuario è contornato da una parete rocciosa; la sponda nord è acquitrinosa, ma a un tiro d'arco dal livello massimo cui arriva la marea, c'è ghiaia ben drenata in dolce pendio, fino ai grandi boschi di querce e di dolci castagni. Piantammo il campo sul pendio al riparo dei boschi. Durante questa operazione, Artù uscì a fare un giro esplorativo con Ynyr e Gwilim, rispettivamente re del Guent e del Dyfed, poi dopo cena rimase nella sua tenda per ricevere i capi dei vicini insediamenti. Gli abitanti del luogo fecero ressa per vedere il nuovo giovane re, e tra loro c'erano pure i pescatori, che non hanno altra casa che le grotte nelle scogliere e le loro fragili imbarcazioni di vimini. Egli parlò a tutti loro, accettando nello stesso modo omaggi e lagnanze. Dopo un paio d'ore, chiesi permesso con un'occhiata, lo ottenni, e uscii all'aria aperta. Da tanto tempo non sentivo il profumo dei
monti del mio paese, e inoltre c'era un luogo, nelle vicinanze, che da molto desideravo visitare. Era il santuario, famoso in passato, di Nodens, che è Nuatha dalla mano d'argento, noto nel mio paese come Llud, o Bilis, il re dell'Aldilà, del quale le grotte nelle montagne sono le porte. Era stato lui a custodire la spada dopo che io l'avevo sollevata dalla tomba in cui era rimasta a lungo sotto il pavimento del tempio di Mitra, a Segontium. L'avevo lasciata alla sua cura nella grotta del lago che si sapeva consacrata a lui, prima di portarla infine nella Cappella nel Verde. Anche con Llud avevo un debito da pagare. Il suo santuario presso il Severn era molto più antico del tempio di Mitra, o della cappella nella foresta. Le sue origini si erano perse da molto tempo, anche nelle canzoni e nelle leggende. Era stato dapprima una fortezza sulla collina, forse con una pietra o una sorgente dedicate al dio che aveva cura delle anime dei morti. Poi scavando avevano trovato il ferro e per tutta l'epoca romana il luogo era diventato una miniera, una ricca miniera. Forse furono i romani che per primi la chiamarono la Montagna dei Nani, a causa dei piccoli uomini bruni venuti dall'occidente che vi lavoravano. La miniera era ormai chiusa da un pezzo, ma il nome rimaneva, e così le leggende, a proposito degli Antichi che si vedevano nascondersi nei boschi di querce, o che uscivano in folla dalle profondità della terra nelle notti di temporale e nelle notti stellate per unirsi al corteo del re delle tenebre, quando veniva fuori a cavallo dalla sua grotta nella montagna con il suo nugolo tumultuante di fantasmi e di spiriti incantati. Giunsi in cima alla collina dietro l'accampamento e mi avviai in mezzo alle querce sparse verso il fiume, nel fondovalle. La luna piena d'autunno mi mostrava la strada. Le foglie dei castagni, già allentate e mosse dal vento, cadevano qua e là sull'erba, senza rumore, ma le querce conservavano ancora il fogliame, per cui l'aria era piena di fruscii, perché i rami secchi si muovevano e bisbigliavano. La terra, dopo la pioggia, aveva un profumo intenso e soave; era il tempo giusto per arare, per raccogliere le noci; la stagione degli scoiattoli, nell'imminenza dell'inverno. Sotto di me qualcosa si mosse sul pendio in ombra. L'erba si agitò, si udì uno scalpiccio, poi, come il rumore di una grandinata che investe il terreno, passò un branco di cervi, rapidi come rondini in volo. Erano vicinissimi. La luce della luna colpiva i mantelli maculati e le punte d'avorio delle corna ramificate. Talmente vicini erano, che vidi perfino lo scintillio liquido dei loro occhi. C'erano cervi pezzati e bianchi, fantasmi pomellati e argentei, che correvano leggeri come le loro ombre, rapidi come un turbine
improvviso di vento. Mi passarono accanto di corsa, scendendo verso il fondovalle, tra i mammelloni delle colline tondeggianti, sfiorando una distesa di querce, e già erano scomparsi. Si dice che un cervo bianco sia una creatura magica. Io credo sia vero. Ne ho visti due nella mia vita, ognuno di essi foriero di un portento. Anche questi, scorti alla luce della luna, che fuggivano come nuvole nell'oscurità degli alberi, parevano cose di magia. Forse, insieme agli Antichi, frequentavano quella collina in cui c'è ancora una porta aperta sull'Aldilà. Attraversai il torrente, mi arrampicai sulla collina successiva e mi diressi verso le mura dirute che la incoronavano. Mi feci strada tra le macerie di quelle che parevano antiche fortificazioni, poi salii per l'ultimo rapido tratto del sentiero. In un alto muro rivestito di rampicanti c'era una porta. Aperta. Vi entrai. Mi trovai sull'area del santuario, un ampio cortile che si estendeva su tutta la larghezza della piatta sommità della collina. Il chiaro di luna, più intenso a ogni momento che passava, rivelò una striscia di lastricato sconnesso rivestito da erbacce. Due lati dell'area del santuario erano delimitati da alte mura, malridotte verso l'alto; sugli altri due lati sorgevano un tempo grandi edifici, parte dei quali ancora coperti dal tetto. Con quella luce, il luogo conservava tutta la sua maestosità, e tetti e colonne apparivano intatti al chiaro di luna. Solo un gufo, spiccando il volo silenzioso da una finestra in alto, rivelava che il luogo era da tempo abbandonato e che le rovine sarebbero state a poco a poco di nuovo inghiottite dalla collina. C'era un altro edificio che sorgeva quasi al centro del cortile. Il timpano del tetto alto spiccava nitido contro la luna, ma il chiarore lunare si riversava in finestre vuote. Quello, lo sapevo, doveva essere il santuario. Gli edifici che fiancheggiavano il cortile erano ciò che rimaneva delle foresterie e dei dormitori dove erano stati alloggiati pellegrini e supplici; c'erano celle, murate, senza finestre e isolate, come ne avevo viste a Pergamo, dove avevano dormito persone, sperando in sogni risanatori o in visioni profetiche. Avanzai senza far rumore sul lastricato sconnesso. Sapevo che cosa avrei trovato: un luogo di culto pieno di polvere e di aria fredda, con il tempio abbandonato di Mitra a Segontium. Ma era possibile, pensai mentre salivo i gradini e attraversavo gli stipiti ancora imponenti della cella centrale, che gli antichi dei che erano spuntati come le querce e l'erba e gli stessi corsi d'acqua… era possibile che quegli esseri d'aria, di terra e d'acqua del nostro dolce paese, fossero più difficili da cacciare degli dei stra-
nieri di Roma. Uno di loro, lo credevo da molto tempo, apparteneva a me. Forse era ancora qui, dove la brezza notturna spirava nel santuario vuoto, riempiendolo del rumore degli alberi. Il chiaro di luna, che si proiettava attraverso le finestre più alte e le brecce del tetto, illuminava il santuario con una luce pura e intensa. Qualche giovane virgulto, che spuntava in alto tra le pietre del muro, ondeggiava alla brezza, sicché ombra e fredda luce si spostavano e scivolavano nell'oscurità all'interno. Era come trovarsi in fondo allo sfiatatoio di un pozzo; l'aria, ombra e luce, scivolava come acqua sulla pelle, altrettanto pura e fredda. Il mosaico del pavimento, increspato e irregolare dove il terreno di fondo si era mosso sotto di esso, luccicava come il fondo del mare, con le sue strane creature marine che nuotavano nella luce oscillante. Da dietro le mura in rovina giungeva il sibilo, come di spuma d'onde infrante, degli alberi che frusciavano. Rimasi lì a lungo, assolutamente immobile e silenzioso. Abbastanza a lungo, comunque, perché il gufo spiccasse di nuovo il volo senza fruscio d'ali, tornando a posarsi sul suo appoggio, sopra il dormitorio. Abbastanza a lungo perché la brezza cadesse di nuovo e le increspature dell'acqua si calmassero. Abbastanza a lungo perché la luna si spostasse dietro il timpano, e i delfini sotto i miei piedi scomparissero nell'oscurità. Niente si muoveva né parlava. Non c'era nessuna presenza. Dissi a me stesso, con umiltà, che questo non significava niente. Io, un tempo mago e profeta tanto potente, ero stato trascinato da un'ondata vigorosa alle porte stesse di Dio e adesso venivo buttato dal riflusso su una riva desolata. Se lì c'erano delle voci, io non le avrei udite. Ero mortale quanto i cervi spettrali. Mi voltai per andarmene. E sentii odore di fumo. Non fumo di sacrifici; normale fumo di legna, accompagnato da lievi profumi di cucina. Veniva da qualche punto, oltre la foresteria in rovina del lato nord dell'area del santuario. Attraversai il cortile, entrai passando sotto i resti di un imponente passaggio a volta e, guidato dall'odore e dalla fievole luce del fuoco, mi feci strada fino a un piccolo locale dove un cane, all'erta, cominciò ad abbaiare e i due che fino ad allora avevano dormito accanto al fuoco di colpo balzarono in piedi. Erano un uomo e un ragazzo, padre e figlio all'apparenza; povera gente, a giudicare dall'abbigliamento dimesso e consunto, ma un po' con l'aria di persone che sono padrone di se stesse. In questo mi sbagliavo, combinazione.
Si mossero con la rapidità che è dettata dalla paura. Il cane - era vecchio e rigido, con il muso grigio e un occhio bianco - non attaccò ma rimase fermo, ringhiando. L'uomo fu più rapido a rialzarsi del cane, un lungo pugnale in mano; era affilato e scintillante e aveva l'aspetto di un'arma sacrificale. Il ragazzo, squadrando lo sconosciuto con tutta la spavalderia del dodicenne che su per giù era, afferrò un pesante ciocco di legno. «Pace a voi» dissi, e poi ripetei la frase nella loro lingua. «Sono venuto a dire una preghiera, ma nessuno mi ha risposto; perciò, quando ho sentito l'odore del fuoco, mi sono avvicinato per vedere se il dio avesse ancora dei servi qui.» La punta del pugnale si abbassò, ma l'uomo teneva ancora stretta l'arma e il vecchio cane ringhiò. «Chi sei?» chiese l'uomo. «Solo uno straniero di passaggio. Avevo spesso sentito parlare del famoso santuario di Nodens, e ho colto l'occasione per visitarlo. Ne sei tu il custode, signore?» «Sì. Cerchi un alloggio per la notte?» «Non era mia intenzione. Perché? Date ancora alloggio?» «Qualche volta.» Era diffidente. Il ragazzo, più fiducioso, o forse perché mi vedeva disarmato, si girò e pose il ciocco, con cautela, sul fuoco. Il cane, che non ringhiava più, avanzò piano per toccarmi la mano con il muso grigio. Scodinzolava. «È un buon cane e molto feroce» disse l'uomo «ma è vecchio, e sordo.» I suoi modi non erano più ostili. Quando il cane si era mosso, il pugnale era scomparso. «Saggio, anche» dissi io. Carezzai la testa alzata. «Sa vedere il vento.» Il ragazzo si voltò, gli occhi spalancati. «Vedere il vento?» chiese l'uomo, fissandomi. «Non sai che è così quando un cane ha un occhio bianco? E, vecchio e lento com'è, vede che non vengo con l'intenzione di farvi del male. Il mio nome è Myrddin Emrys e vivo a ovest di qui, presso Maridunum, nel Dyfed. Ho compiuto dei viaggi e sto tornando a casa.» Gli avevo dato il mio nome gallese: come chiunque, doveva aver sentito parlare del mago Merlino, e la paura è cattiva consigliera. «Posso venire a godere per un po' del vostro fuoco, e vorresti parlarmi del santuario del quale sei custode?» Mi fecero spazio e il ragazzo tirò fuori uno sgabello da qualche cantuccio. Rassicurato dalle mie domande, alla fine l'uomo si rilassò e cominciò a parlare. Il suo nome era Mog: questo non è veramente un nome, perché in effetti significa soltanto «servo», ma ci fu un re una volta che non disde-
gnò di chiamarsi Mog Nuatha, e il figlio dell'uomo, ancora più grandiosamente, aveva preso il nome da un imperatore. «Costante sarà il servo dopo di me» disse Mog, e proseguì a raccontare con orgoglio e rimpianto del periodo di splendore del santuario, quando l'imperatore pagano lo aveva ricostruito e allestito di nuovo, solo mezzo secolo prima che l'ultima delle legioni abbandonasse la Britannia. Già molto tempo prima di allora, raccontò l'uomo, un «Mog Nuatha» attendeva al santuario con tutta la sua famiglia. Ma adesso c'erano solo lui e suo figlio; sua moglie non era lì, perché la mattina era scesa al mercato e avrebbe trascorso la notte con la sorella malata al villaggio. «Sempre che ci sia posto, con tutto quello che c'è in questo momento» brontolò l'uomo. «Da quel muro laggiù si vede il fiume, e quando abbiamo visto le barche che lo attraversavano ho mandato il ragazzo a dare un'occhiata. L'esercito, ha detto che è, insieme al giovane re...» S'interruppe, sbirciando al chiarore del fuoco la mia semplice veste e il mantello ugualmente semplice. «Non sei un soldato, vero? Stai con loro?» «Sì all'ultima domanda, no alla prima. Come vedi, non sono un soldato, però sto con il re.» «Che cosa sei, allora? Un segretario?» «In certo qual modo.» L'uomo annuì. Il ragazzo ascoltava con attenzione, seduto a gambe incrociate accanto al cane, ai miei piedi. Il padre chiese: «Com'è, questo giovane a cui dicono che re Uther ha dato la sua spada?». «È giovane, ma ormai uomo, ed è un buon soldato. È in grado di guidare le truppe, e ha abbastanza buon senso da ascoltare quelli più anziani di lui.» Annuì di nuovo. Non erano per quella gente i racconti e le speranze di potere e di gloria. Loro, vivevano per tutta la vita su quel cocuzzolo solitario, con quell'unico criterio per guidare le loro giornate: quanto accadeva oltre le querce non li riguardava. Dall'inizio dei tempi, nessuno era penetrato di forza nel sacro luogo. L'uomo fece l'unica domanda che poteva avere importanza per loro due: «È cristiano, questo giovane Artù? Abbatterà il tempio, in nome di questo dio adesso in auge, o rispetterà ciò che è stato?». Gli risposi con calma, e in tutta sincerità: «Sarà incoronato dai vescovi cristiani, e s'inginocchierà al Dio dei suoi genitori. Ma è un uomo di questa terra, conosce gli dei di questa terra e la gente che ancora serve quegli dei sulle montagne, presso le sorgenti e i guadi». Avevo scorto, su un largo
scaffale davanti al fuoco, una quantità di oggetti disposti con cura. Ne avevo visti di simili a Pergamo e in altri luoghi noti per le guarigioni divine; erano offerte per gli dei: parti del corpo umano in miniatura, o statuine di animali o di pesci, che contenevano messaggi di supplica o di ringraziamento. «Vedrai» dissi a Mog «che i suoi eserciti attraverseranno questo paese senza far danni e che se mai lui stesso verrà qui pronuncerà una preghiera al dio e lascerà un'offerta. Come ho fatto e come farò anch'io.» «Hai parlato proprio bene» disse a un tratto il ragazzo, rivelando nel sorriso i denti bianchi. Anch'io gli sorrisi, mentre lasciavo cadere due monete sul suo palmo teso. «Per il santuario, e per i suoi servi.» Mog brontolò qualche cosa e il ragazzo Costante si alzò e si avvicinò a un armadio in un angolo. Ne tornò con una fiasca di cuoio e una coppa scheggiata per me. Mog sollevò la propria coppa dal pavimento e il ragazzo versò il liquore. «Alla salute» disse Mog. Io risposi al brindisi e bevemmo. Era idromele, dolce e forte. Mog bevve di nuovo e si passò la manica sulla bocca. «Ci hai fatto domande su tempi molto lontani, e noi ti abbiamo risposto del nostro meglio. Adesso dicci tu, signore, che cosa è accaduto su a nord. Tutto quel che abbiamo saputo, quaggiù, erano racconti di battaglie, di re che morivano e di altri re portati al trono. È vero che i sassoni se ne sono andati? È vero che il re Uther Pendragon ha tenuto questo principe nascosto per tutto il tempo, e che lo ha tirato fuori, improvviso come un rombo di tuono, proprio sul campo di battaglia, e che il principe ha ucciso quattrocento bestie sassoni, con una spada magica che cantava e beveva sangue?» Così ripetei ancora la storia, mentre il ragazzo, in silenzio, alimentava il fuoco, e le fiamme crepitavano, guizzavano e splendevano sulle offerte accuratamente lucidate, disposte sullo scaffale. Il cane dormiva di nuovo, la testa sul mio piede, la pelliccia ispida riscaldata dal fuoco. Mentre parlavo, la fiasca passava di mano e il livello dell'idromele diminuiva, finché alla fine il fuoco diminuì e i ciocchi si ridussero in cenere, mentre io concludevo il mio racconto con il funerale di Uther e il progetto di Artù di approntare Caerleon per le campagne primaverili. Il mio ospite rovesciò la fiasca e la scosse. «È finita. E non ha mai fatto lavoro migliore di questa notte. Grazie delle notizie, signore. Noi viviamo a modo nostro quassù, ma tu saprai, trovandoti in mezzo al tumulto degli avvenimenti, che perfino le cose che accadono laggiù in Britannia» (ne parlava come di un paese straniero, a cento miglia dal suo tranquillo rifu-
gio) «possono avere un'eco, che a volte è di sofferenza e di disordine, nei luoghi piccoli e solitari. Pregheremo affinché tu abbia ragione a proposito del nuovo re. Puoi dirgli, se mai arrivi così vicino a lui da parlargli, che finché sarà fedele alla vera terra avrà due uomini, qui, che saranno anche servi suoi.» «Glielo dirò» dissi alzandomi. «Grazie per la vostra accoglienza, e per il liquore. Scusate se ho disturbato il vostro sonno. Adesso me ne vado e vi lascio dormire.» «Te ne vai adesso? Diamine, si sta avvicinando l'alba. Ti avranno chiuso fuori dal tuo alloggio. Sta' certo. Oppure eri laggiù nell'accampamento? In questo caso, la sentinella non ti lascerà entrare, se non hai un pegno del re. Sarebbe meglio che tu restassi qui. No» io avevo fatto per protestare «c'è ancora una stanza libera, proprio come ai vecchi tempi, quando venivano qui da ogni parte per avere dei sogni. C'è un buon letto e la stanza è asciutta. Troveresti di peggio in molte taverne. Facci il favore, rimani.» Esitavo. Il ragazzo mi fece segno di sì, con gli occhi che gli brillavano, e il cane, che si era alzato contemporaneamente a me, agitò la coda e fece un grande sbadiglio, uggiolando e stirando le zampe anteriori irrigidite. «Sì. Rimani» pregò il ragazzo. Capii che per loro avrebbe significato qualche cosa se avessi acconsentito. Rimanere significava restituire al luogo, in parte, la sua antica santità; un forestiero nella foresteria, così accuratamente spazzata, areata e tenuta in ordine per ospiti forestieri che non venivano più. «Ne sarò»felice» dissi. Raggiante, Costante piantò una torcia nella cenere e ve la tenne finché si accese. «Allora vieni da questa parte.» Mentre lo seguivo, suo padre, avvolgendosi di nuovo nelle sue coperte accanto al focolare, pronunciò le parole venerande di quel luogo risanatore. «Dormi bene, amico, e possa il dio mandarti un sogno.» *
*
*
Il sogno venne, chiunque fosse stato a mandarlo, e fu veridico. Sognai Morgause, che avevo cacciato dalla corte di Uther a Luguvallium con una scorta distaccata incaricata di condurla, senza pericolo e con le debite forme, al di là degli alti Pennini, e poi a sudest, fino a York, dove si trovava la sua sorellastra Morgana.
Il sogno si svolse in modo intermittente, come quelle vette che appaiono tra le nuvole sospinte dal vento in una giornata buia. E tale era la giornata nel sogno. Vidi i viaggiatori per la prima volta la sera di un giorno di pioggia e di vento, in cui la pioggia sottile sotto la sferza del vento trasformava la ghiaia della strada in una viscida pista di fango. Si erano fermati in riva a un fiume, ingrossato dalla pioggia. Non riconobbi il luogo. La strada conduceva al fiume, nel quale avrebbe dovuto trovarsi un guado poco profondo, ma adesso si vedeva un tumultuare impetuoso di acqua bianca, e questa si frangeva e spumeggiava intorno a un'isola che divideva la corrente come una nave in movimento. Non c'era nessuna casa in vista, e neppure una grotta. Al di là del guado, la strada continuava sinuosa verso est, in mezzo agli alberi fradici di pioggia, e attraverso le ondulate propaggini collinose saliva verso le brulle alture. Con il crepuscolo vicino, pareva che i viaggiatori avrebbero dovuto trascorrere la notte lì, aspettando che il livello del fiume scendesse. L'ufficiale che comandava la scorta pareva stesse spiegando proprio questo a Morgause; non riuscivo a sentire le parole, ma all'aspetto si sarebbe detto irritato e il suo cavallo, per quanto stanco, continuava ad agitarsi. Supposi che non fosse stato l'uomo a scegliere l'itinerario: di regola per andare a Luguvallium si passa dalla strada alta nella brughiera che abbandona la principale strada occidentale a Brocavum e valica le montagne presso Verterae. Questa località, sempre fortificata e in buono stato di manutenzione, sarebbe stata per i viaggiatori una comoda tappa e avrebbe costituito la scelta ovvia per un soldato. Invece dovevano aver preso la vecchia strada di montagna che si biforca a sudest dell'incrocio a cinque diramazioni, presso l'accampamento sul fiume Lune. Non ero mai passato di lì. Non era una strada che fosse mai stata minimamente tenuta a posto. Risaliva la valle del Dubglas e attraversava le brughiere in alto, poi attraversava i monti al valico formato dai fiumi Tribuit e Isara. Questo valico lo chiamano il Varco dei Pennini, e in passato i romani l'avevano tenuto fortificato e avevano curato che le strade fossero aperte e pattugliate. È una regione selvaggia e ancora, tra le lontane vette e le pareti rocciose al di sopra del limite degli alberi, ci sono caverne in cui vivono gli Antichi. Se era questa la strada che Morgause avrebbe preso, non potevo far altro che chiedermene la ragione. Nuvole e nebbia; pioggia in lunghi rovesci grigi; il fiume ingrossato che mandava a sbattere le bianche onde inarcate contro il legname alla deriva e contro i salici che si piegavano sull'isolotto in mezzo all'acqua. Poi le tenebre e un intervallo di tempo mi nascosero la scena.
Quando li rividi erano fermi, piuttosto in alto nel valico, in un punto dove a destra della strada c'erano pareti rocciose da cui spuntavano degli alberi, e a sinistra una vista digradante sulla foresta con un fiume che si snodava sinuosamente sul fondovalle e, oltre il fiume, altri monti. Si erano fermati all'altezza di una pietra miliare, presso il punto più alto del valico. Di lì scendeva un sentiero verso una piccola conca nella valle, dove brillavano alcune luci. Morgause le stava indicando, e pareva che si stesse svolgendo una discussione. Anche se non potevo sentire niente, il motivo del battibecco era ovvio. L'ufficiale si era spinto avanti accanto a Morgause, e si sporgeva dalla sella, discutendo animatamente, e indicava prima la pietra miliare e poi la strada che si snodava avanti a loro. Un ultimo sprazzo di luce da occidente rivelò, nelle ombre proiettate dalle lettere incise nella pietra, il nome OLICANA. Non riuscivo a vedere la distanza in miglia, ma era chiaro quello che stava dicendo l'ufficiale: che sarebbe stata una follia rinunciare alle comodità sicure che li aspettavano a Olicana per l'eventualità che quella casa che si vedeva in lontananza (ammesso che fosse una casa) potesse ospitare i viaggiatori. I suoi uomini, che adesso si erano affollati intorno a loro, lo appoggiavano apertamente. Le donne, accanto a Morgause, la guardavano con ansia, anzi si poteva dire con atteggiamento supplichevole. Dopo un po', con un gesto rassegnato, Morgause cedette. Il corteo si riformò. Le donne si strinsero intorno a lei, sorridenti. Ma prima che avessero percorso dieci passi, una delle donne lanciò un grido acuto e Morgause, abbandonando le redini sul collo del cavallo, annaspò delicatamente nell'aria, come in cerca di un appiglio, e vacillò sulla sella. Qualcuno gridò di nuovo. Le donne si assieparono intorno a lei per sostenerla. L'ufficiale, voltatosi, spronò il suo cavallo portandolo accanto a quello di lei e tese un braccio per sorreggere il suo corpo reclinato. Morgause si abbandonò contro di lui e rimase inerte. Non restava altro che rassegnarsi alla sconfitta. In capo a qualche minuto, scivolando e sobbalzando, i viaggiatori percorrevano il sentiero in discesa che li avrebbe condotti a quella luce lontana nella valle. Tutta avvolta nel suo gran mantello, Morgause era immobile e priva di sensi tra le braccia dell'ufficiale. Ma io, che verso le streghe sono diffidente, sapevo che dietro il riparo del cappuccio santuosamente foderato di pelliccia lei era cosciente e che sorrideva di quel suo sorrisetto trionfante, mentre gli uomini di Artù la
stavano portando alla casa dove, per sue oscure ragioni, lei li aveva condotti e dove progettava di fermarsi. Quando di nuovo si dissiparono le nebbie della visione, vidi una camera da letto riccamente arredata, con un letto dorato e copriletto color cremisi, e con un braciere acceso che illuminava la donna stesa sul letto contro i cuscini. C'erano le donne di Morgause, le stesse che erano al suo servizio a Luguvallium, la fanciulla di nome Lind che aveva accompagnato Artù al letto della sua padrona, e la vecchia che aveva dormito per tutta quella notte il sonno pesante provocato dai farmaci. La fanciulla Lind era pallida e aveva l'aria stanca; ricordai che Morgause, infuriata contro di me, l'aveva fatta frustare. Serviva la sua padrona con circospezione, le labbra strette e gli occhi bassi, mentre la vecchia, i movimenti legati per la lunga cavalcata sotto la pioggia, assolveva con lentezza ai suoi compiti, brontolando ma lanciando qua e là qualche occhiata di sottecchi per essere sicura che la padrona non le badasse. Quanto a Morgause, non rivelava traccia di malattia e neppure di stanchezza. Non me ne ero aspettate. Abbandonata sui cuscini cremisi, gli occhi verdedorati che fissavano, attraverso le pareti della camera, qualcosa di lontano e di piacevole, aveva sulle labbra quello stesso sorriso che le avevo visto mentre Artù dormiva accanto a lei. Dovetti destarmi a questo punto, strappato al sogno dall'odio e dallo sgomento, ma la mano del dio era ancora su di me, perché ricaddi nel sonno e mi trovai nella stessa camera. Doveva essere più tardi, doveva esser trascorso un certo lasso di tempo, forse addirittura qualche giorno; il tempo che era occorso, quanto che fosse, a Lot, re del Lothian, per assistere a tutte le cerimonie a Luguvallium, poi radunare i suoi uomini e dirigerli verso sudest, seguendo lo stesso itinerario indiretto, verso York. Di sicuro il grosso dei suoi uomini aveva seguito la via più breve mentre lui, con un piccolo gruppo rapido di cavalieri, si era affrettato verso il luogo dell'appuntamento con Morgause. Perché appariva ormai chiaro che tutto questo era stato predisposto. Lei doveva avergli fatto avere un messaggio prima di andarsene dalla corte, poi aveva costretto la sua scorta a cavalcare lentamente, perdendo tempo e finalmente li aveva obbligati, fingendo un malore, a cercare riparo nell'intimità della casa di una persona amica. Mi parve di capire il suo piano. Nella sua caccia al potere, essendo fallito il tentativo di procurarselo mediante la seduzione di Artù, chissà come aveva persuaso Lot a recarsi a quel convegno, e adesso con i suoi trucchi da strega si accaniva a conquistarne il favore, in modo da assicurarsi una certa posizione alla corte di sua
sorella, la futura regina di Lot. Subito dopo, a una ripresa del sogno, vidi quale specie di trucchi stava usando; sortilegi di un certo tipo, immagino, ma del tipo che qualsiasi donna sa usare. La scena era di nuovo la camera da letto, con il braciere che dava luce e calore e accanto, su un tavolo basso, cibo e vino in suppellettili d'argento. Morgause era in piedi accanto al braciere, la cui luce rosata scherzava sulla tunica bianca e sulla pelle lattea di lei e faceva brillare i lunghi capelli lucidi che le ricadevano fino alla vita come rivoli di luce color albicocca. Perfino io, che la detestavo, dovevo ammettere che era molto bella. Gli occhi a mandorla verde-dorati, sotto la folta frangia delle ciglia d'oro, scrutavano la porta. Era sola. La porta si aprì ed entrò Lot. Il re del Lothian era un uomo bruno e massiccio, con spalle potenti e occhi ardenti. Aveva un debole per i gioielli e scintillava di bracciali e anelli; sul petto sfoggiava una catena con incastonati quarzi citrini e ametiste. Sulla spalla, dove i lunghi capelli neri sfioravano il mantello, portava uno splendido fermaglio di granati e oro lavorato, alla moda sassone. Abbastanza bello, pensai torvo, da poter essere un dono fatto dallo stesso Colgrim per ricambiare l'ospitalità ricevuta. I suoi capelli e il mantello erano bagnati di pioggia. Morgause stava parlando. Io non la sentivo. Era una visione che mi restituiva solo movimenti e colori. Non fece nessun gesto di benvenuto, né d'altronde Lot parve aspettarselo. Lui non dimostrò sorpresa vedendola. Disse poche parole, poi si chinò sulla tavola, prese la caraffa d'argento e rovesciò il vino in una coppa con tale fretta e trascuratezza che il liquido color cremisi traboccò sulla tavola e cadde sul pavimento. Morgause rise. Ma Lot non le rispose neppure con un sorriso: tracannò il vino ingordamente, come se ne avesse bisogno, poi gettò la coppa a terra, oltrepassò il braciere e con le sue grosse mani, ancora segnate e infangate dopo la cavalcata, afferrò i due lati della tunica bianca di lei e la lacerò completamente, denudandola fino all'ombelico. Poi afferrò la donna e la sua bocca fu su quella di lei, e la divorava. Non si era preoccupato di chiudere la porta. Vidi lo spiraglio allargarsi e la ragazza Lind, di sicuro spaventata dal tonfo della coppa caduta a terra, sbirciare nella stanza, pallida. Come Lot, non parve sorpresa da ciò che vedeva, ma, forse impaurita dalla violenza dell'uomo, esitò come sul punto di correre in aiuto della sua padrona. Ma poi vide, come avevo visto io, il corpo seminudo abbandonarsi contro quello dell'uomo aderendovi, e le mani di lei affondare nei capelli neri bagnati. La veste stracciata scivolò andando a formare un mucchietto sul
pavimento. Morgause disse qualche cosa e rise. L'uomo spostò la presa delle mani sul suo corpo. Lind si ritrasse e la porta si chiuse. Lot sollevò Morgause e con quattro lunghi passi arrivò al letto. Astuzie di strega, proprio. Anche fosse stato uno stupro sarebbe stato molto affrettato: per una seduzione era un primato. Chiamatemi ingenuo, o stupido, o come volete, ma in un primo momento riuscii solo a pensare, chiuso com'ero nella nebbia del sogno, che doveva trattarsi di un incantesimo. Credo che pensai vagamente a un vino drogato, alla coppa di Circe, e a uomini trasformati in porci in calore. Fu solo un po' più tardi, quando l'uomo stese una mano da sotto le coperte e alzò lo stoppino della lampada e la donna, stordita dal sesso e dal sonno, si tirò su sorridendo contro i cuscini cremisi e si avvicinò le pellicce per coprirsi, che cominciai a sospettare la verità. A passo felpato Lot attraversò la stanza, calpestando i propri vestiti disordinatamente buttati sul pavimento, si versò un'altra coppa di vino, la vuotò, poi la riempì ancora e la portò a Morgause. Allora si gettò di nuovo nel letto accanto a lei, si riappoggiò alla testiera e cominciò a parlare. Lei, tra seduta e sdraiata contro di lui, annuiva e rispondeva, seria e parlando a lungo. Mentre chiacchieravano così, la mano di Lot scivolò a carezzarle i seni; lo fece quasi distrattamente, il che era abbastanza naturale per uno come Lot, che era abituato alle donne. Ma Morgause, la fanciulla dai capelli sciolti e dalla voce sommessa e modesta? Morgause non notò il gesto più di quanto lo avesse notato lui. Solo allora, con una scossa nervosa che fu come una freccia che si conficca profonda in uno scudo, vidi la verità. Erano già stati lì. Erano in confidenza. Anche prima che lei andasse a letto con Artù, Lot l'aveva avuta, e molte volte. Erano talmente abituati l'uno all'altro, che potevano stare nudi e intrecciati su un letto e parlare, seri e animati, parlare... Di che cosa? Tradimento. Naturalmente, fu il mio primo pensiero. Tradimento contro il Sommo re che entrambi, per ragioni diverse, avevano motivo di odiare. Da tanto tempo gelosa della sorellastra che doveva sempre aver la precedenza su di lei, Morgause aveva messo l'assedio a Lot e se lo era portato a letto. C'erano stati, era da supporre, anche altri amanti. Poi c'era stato, a Luguvallium, il tentativo ad opera di Lot per conquistarsi il potere. Era fallito e Morgause, non indovinando la forza e la clemenza di Artù che lo avrebbe spinto a riaccettare Lot tra i suoi alleati, si era volta verso lo stesso Artù in quella sua personale e disperata battaglia per conquistare il potere. E adesso? Possedeva un certo genere di magia. Era possibile che sapesse, come lo sapevo io, che nell'incesto di quella notte con Artù aveva con-
cepito un figlio. Le serviva un marito, e chi meglio di Lot per lei? Se avesse potuto persuaderlo che il figlio era suo, avrebbe potuto sottrarre all'odiata sorella minore matrimonio e regno, e costruirsi un nido nel quale il cuculo potesse nascere al sicuro. A quanto pareva ci stava riuscendo. Quando la vidi ancora, attraverso il fumo del sogno, ridevano insieme, lei si era liberata delle coperte ed era seduta eretta sulle pellicce contro i tendaggi color cremisi della testiera, con i capelli roseodorati che le fluivano sulle spalle come un manto di seta. La parte anteriore del suo corpo era nuda, e sulla sua testa era posato il cerchietto reale di Lot, oro bianco che scintillava di quarzi citrini e delle perle azzurro lattee dei fiumi del nord. Aveva gli occhi scintillanti e socchiusi come una gatta che fa le fusa, e l'uomo rideva con lei alzando la coppa e bevendo in quello che parve un brindisi in suo onore. In quel gesto la coppa oscillò e il vino traboccò rovesciandosi come sangue sui seni di Morgause. Essa sorrise, senza muoversi e il re si chinò ridendo e succhiò il vino da lei. Il fumo si fece più denso. Ne sentivo l'odore, come se fossi in quella stanza, accanto al braciere. Poi, grazie al cielo, mi svegliai nella notte fredda e silenziosa, ma con l'incubo che come sudore ancora mi strisciava sulla pelle. Per chiunque altro tranne me, che ben li conoscevo, la scena non avrebbe avuto niente di trasgressivo. La ragazza era bella e l'uomo abbastanza piacente e se erano amanti, diamine, lei aveva ben il diritto di mirare alla sua corona. Non avrebbe dovuto esserci, in quella scena, niente per cui trasalire, non più che in quella dozzina di scene analoghe che si vedono qualsiasi sera d'estate lungo le siepi, o nella sala di un banchetto a mezzanotte. Ma una corona, perfino quella di uno come Lot, ha qualcosa di sacro; è un simbolo di quel mistero, il nesso tra il dio e il re, il re e il popolo. Perciò vedere la corona sulla testa di quella donna dissoluta, e la testa del re spogliata della sua regalità, china sotto di lei come quella di una bestia al pascolo, era assistere a una profanazione, come veder sputare su un altare. Allora mi alzai, tuffai la testa nell'acqua e lavai via il ricordo della scena. Cinque Quando arrivammo a Caerleon, al mezzogiorno dell'indomani, un luminoso sole di ottobre stava asciugando la terra e al riparo di mura e costru-
zioni resisteva la brina, di un color azzurro indaco. Lungo la riva del fiume gli ontani, i rami neri ornati delle monete gialle che erano le foglie, apparivano luminosi e immobili, come un lavoro d'ago sullo sfondo del cielo pallido. Le foglie morte, ancora orlate di brina, scricchiolavano e frusciavano sotto gli zoccoli dei nostri cavalli. L'odore del pane appena fatto e della carne che stava arrostendo riempiva l'aria proveniente dalle cucine del campo, e mi riportò vivido alla mente il ricordo della visita che avevo compiuto lì con Tremorino, l'ingegnere capo che aveva ricostruito il campo per Ambrogio e completato i suoi progetti con le più belle cucine del paese. Lo dissi al mio compagno - era Caio Valerio, mio amico di vecchia data - e lui emise un brontolio di soddisfazione. «Speriamo che il re si prenda il tempo necessario per un pasto come si deve prima di cominciare la sua ispezione.» «Credo che su questo possiamo star tranquilli.» «Ah, certo, è un ragazzo che deve crescere.» Lo disse con una specie di indulgente orgoglio, senza la minima sfumatura di condiscendenza. Detto da Valerio suonava bene: lui era un veterano che aveva combattuto con Ambrogio a Kaerconan, e in seguito con Uther: era anche uno dei comandanti che erano stati con Artù alla battaglia del fiume Glein. Se uomini del suo stampo potevano accettare con rispetto il giovane re e credere nelle sue capacità di comando, voleva dire che davvero avevo svolto il mio compito. Il pensiero non era accompagnato da una sensazione di perdita o di declino, ma da un tranquillo sollievo che per me era nuovo. Pensai: sto invecchiando. Poi mi resi conto che Valerio mi aveva chiesto qualche cosa. «Scusa. Stavo riflettendo. Dicevi?» «Ti ho chiesto se saresti rimasto qui fino all'incoronazione.» «Non credo. Può darsi che lui abbia bisogno di me per un po', se ci tiene molto a ricostruire. Spero che mi sarà consentito andarmene dopo Natale, ma tornerò per l'incoronazione.» «Se i sassoni ci consentiranno di farla.» «Appunto. Aspettare per la cerimonia fino a Pentecoste parrebbe un po' rischioso, ma a decidere sono stati i vescovi, e sarebbe saggio da parte del re non opporsi a loro.» Valerio brontolò. «Magari se loro se ne preoccupano e pregano seriamente per questo, Dio gli farà la grazia di far ritardare l'offensiva primaverile. Pentecoste, eh? Credi che sperino di nuovo nel fuoco che scende dal
cielo?... il loro fuoco, magari, questa volta?» Mi sbirciava di sottecchi. «Che cosa dici?» Combinazione, conoscevo la leggenda alla quale si riferiva. Da quando nella Cappella dei Perigli era divampato il fuoco bianco, i cristiani erano soliti far riferimento a un episodio della loro storia, a quando, alla Pentecoste, il fuoco era caduto dal cielo sui servi prescelti dal loro dio. Io non vedevo motivo di lamentarmi per tale interpretazione di quanto era accaduto alla cappella: era necessario che i cristiani, il cui potere era sempre maggiore, accettassero Artù come il condottiero voluto dal loro dio. Inoltre, per quanto ne sapevo, avevano ragione. Valerio stava ancora aspettando la mia risposta. Sorrisi. «Solo che se sanno da chi cade il fuoco, ne sanno più di me.» «Ah, certo, è probabile.» Il suo tono leggermente beffardo. Valerio si era trovato di servizio alla guarnigione di Luguvallium la notte in cui Artù aveva tratto la spada dal fuoco nella Cappella dei Perigli, ma, come tutti, aveva sentito la storia. E come tutti rifuggiva da quanto era accaduto lì. «Così ci lasci dopo Natale? Possiamo sapere dove andrai?» «Torno a casa mia, a Maridunum. Sono cinque anni... no, sei anni che sono partito. Troppo. Vorrei vedere se tutto è a posto.» «E poi vedi di tornare per l'incoronazione. Grandi fatti si svolgeranno qui a Pentecoste. Sarebbe un peccato perderli.» Per quel momento, pensai, lei sarà quasi arrivata al suo termine. Ad alta voce dissi: «Oh, sì. Con o senza i sassoni, ci saranno grandi fatti a Pentecoste». Poi parlammo d'altro finché non fummo giunti ai nostri alloggi, dove ci ordinarono di raggiungere il re e i suoi ufficiali per il pasto. *
*
*
Caerleon, l'antica città romana delle legioni, era stata ricostruita da Ambrogio, e in seguito era sempre stata sede di una guarnigione e mantenuta in perfetta efficienza. Adesso Artù si era proposto di ingrandirla quasi fino alla capienza originaria e inoltre di farne una roccaforte e una residenza reali, oltre che una fortezza. La vecchia città reale di Winchester adesso era ritenuta troppo vicina alle frontiere del territorio federato sassone, e troppo vulnerabile, anche, di fronte a nuove invasioni, data la sua posizione sul fiume Itchen, dove già in passato avevano approdato le navi lunghe degli invasori. Londra era ancora al sicuro in mano dei britannici, e nessun
sassone aveva mai tentato di spingersi nella valle del Tamigi, ma al tempo di Uther le navi lunghe erano penetrate fino a Vagniacae, e Rutupiae e l'isola di Thanet erano da molto tempo saldamente detenute dai sassoni. La minaccia si sentiva in quel punto, anzi cresceva di anno in anno e dopo l'ascesa al trono di Uther, Londra aveva cominciato, in un primo tempo impercettibilmente, poi con sempre maggior rapidità, a rivelare i segni della decadenza. Adesso era una città caduta in miseria: molti dei suoi edifici erano crollati per la vecchiaia e l'incuria; la miseria si rivelava dappertutto, perché i mercati si spostavano e chi poteva permetterselo l'abbandonava in cerca di luoghi più sicuri. Non sarebbe mai più, si diceva, tornata a essere una capitale. Così, finché la sua nuova roccaforte non fosse stata pronta a contrastare qualsiasi seria invasione proveniente dalla Sponda sassone, Artù progettava di fare di Caerleon il suo quartier generale. Era la scelta più ovvia. A meno di otto miglia di distanza sorgeva la capitale del Guent di Ynyr, e la fortezza stessa, situata com'era in un'ansa del fiume ma al riparo dal pericolo delle inondazioni, era circondata alle spalle da monti e per di più protetta a est da acquitrini alla confluenza dell'Isca e del piccolo Afon Lwyd. Naturalmente la forza stessa di Caerleon era causa di limitazioni: poteva difendere solo una piccola parte del territorio che si trovava sotto la protezione di Artù. Ma per il momento poteva costituire il quartier generale della sua politica di difesa mobile. Rimasi con lui durante tutto quel primo inverno. Artù mi chiese una volta, sollevando le sopracciglia con un sorriso, se non avevo intenzione di lasciarlo per tornare alla mia grotta nella montagna, ma io mi limitai a rispondere: «Più tardi» e lasciai cadere l'argomento. Non gli dissi niente del sogno che avevo fatto quella notte nel santuario di Nodens. Aveva troppe cose cui pensare, e io ero anche troppo lieto del fatto che sembrasse aver dimenticato le possibili conseguenze di quella notte trascorsa con Morgause. Ci sarebbe stato tempo per parlare con lui quando sarebbe giunta da York la notizia del matrimonio. Che in effetti giunse, in tempo per bloccare i preparativi della corte che si disponeva a spostarsi a nord per i festeggiamenti, a Natale. Prima di tutto arrivò una lunga lettera, della regina Ygraine per il re; con lo stesso messaggero ne giunse anche una per me che mi venne portata mentre passeggiavo lungo il fiume. Per tutta la mattina avevo sorvegliato la posa in opera di una conduttura, ma adesso il lavoro era momentaneamente interrotto perché gli operai stavano consumando il loro pasto di mezzogiorno, a
base di pane e vino. I soldati che facevano esercitazioni sulla piazza d'armi, presso l'antico anfiteatro, si erano sparpagliati e la giornata invernale era calma e luminosa, con una nebbiolina perlacea. Ringraziai l'uomo e aspettai, con la lettera in mano, che se ne andasse. Poi ruppi il sigillo. Il sogno era stato veridico. Lot e Morgause erano sposati. Prima ancora che la regina Ygraine e il suo seguito arrivassero a York, li aveva preceduti la notizia che i due amanti erano promessi in matrimonio. Morgause - questo lo lessi tra le righe - era entrata a cavallo in città insieme a Lot, infiammata per il trionfo e addobbata dei gioielli di lui, e la città, che si preparava a nozze reali che avrebbero vantato la presenza del Sommo re in persona, aveva fatto buon viso davanti alla delusione e, con settentrionale parsimonia, aveva tenuto lo stesso la festa di nozze. Il re del Lothian, scriveva Ygraine, si era comportato con mitezza verso di lei, e aveva fatto doni ai capi della città, tanto da ricevere un'accoglienza dopo tutto abbastanza cordiale. E Morgana - in quelle semplici parole potevo capire il sollievo di Ygraine - Morgana non aveva dimostrato ira né umiliazione; aveva riso forte, e poi pianto, ed era stato evidente che erano solo lagrime di sollievo. Si era recata alla festa con un'allegra veste rossa, e non c'era stata fanciulla più gaia di lei anche se Morgause (concludeva Ygraine, con quella punta di sarcasmo che ben ricordavo) aveva tenuto sulla testa la sua corona nuova dal momento del risveglio a quello in cui si era coricata... Quanto alla reazione personale della regina, mi parve che anch'essa fosse di sollievo. Era comprensibile che Morgause non le fosse mai stata molto cara, mentre Morgana era l'unica figlia che avesse avuto con sé e allevato. Era evidente che, pur essendo pronte a ubbidire al re Uther, tutte e due, lei e Morgana, avevano considerato con avversione il matrimonio con il nero lupo del nord. Mi domandai anzi se Morgana non ne sapesse di lui più di quanto aveva detto a sua madre. Era addirittura possibile che Morgause, che era quella che era, si fosse vantata di esser già andata a letto con Lot. Personalmente, Ygraine non faceva mostra di sospettare una cosa simile, e neppure di sospettare che una gravidanza della sposa potesse essere la ragione di quel matrimonio affrettato. Sperabile che accenni in tal senso non ne avesse fatti neppure nella lettera che aveva scritto ad Artù. Questi aveva adesso troppe cose per la mente: ci sarebbe stato tempo, in seguito, per l'ira e lo sgomento. Prima era necessario che fosse incoronato, e poi che fosse libero di badare al suo formidabile dovere di guerra senza l'in-
ciampo di quelle che erano questioni di donne... e che, pure troppo presto, sarebbero state questioni mie. *
*
*
Artù buttò via la lettera. Era in collera, evidente, ma si dominava. «Be'? Immagino che saprai.» «Sì.» «Da quanto tempo lo sai?» «La regina tua madre mi ha scritto. Ho appena letto la lettera. Immagino contenga la stessa notizia della tua.» «Non era questo che ti avevo chiesto.» Dissi, mite: «Se mi stai chiedendo se sapevo che stava per accadere, la risposta è sì». Lo sguardo cupo, pieno d'ira, si infiammò. «Lo sapevi? Perché non me l'hai detto?» «Per due ragioni. Perché eri occupato con cose che hanno maggiore importanza, e perché non ne ero del tutto sicuro.» «Tu? Non ne eri sicuro? Avanti, Merlino! Non esserne sicuro tu?» «Artù, tutto ciò che di questa storia sapevo o sospettavo, mi è venuto da un sogno, fatto una notte di alcune settimane fa. Mi è venuto non come un sogno di potere, o di profezia, ma come un incubo causato da un eccesso di vino, o da un eccesso di riflessione su quella strega, le sue trame e i suoi sistemi. Avevo nella mente re Lot, e anche lei. In sogno li ho visti insieme, e lei stava provando la sua corona. Ti pare che questo fosse sufficiente per indurmi a farti una relazione che avrebbe seminato zizzania nella corte e magari ti avrebbe fatto precipitare a York, a bisticciare con lui?» «Sarebbe stato sufficiente, una volta.» La sua bocca aveva una piega ostinata e ancora incollerita. Capii che l'ira nasceva dalla preoccupazione venuta fuori nel momento sbagliato e concernente le intenzioni di Lot. «Questo» dissi «accadeva quando ero il profeta del re. No» feci, bloccando un suo gesto di sorpresa «non sono fedele a nessun altro. Sono tuo, come sempre. Ma non sono più un profeta, Artù. Credevo che tu lo avessi capito.» «Come avrei potuto? Che cosa vuoi dire?» «Voglio dire che quella notte a Luguvallium, quando tu traesti la spada che avevo nascosto per te nel fuoco, fu l'ultima volta che il potere mi visitò. Tu non vedesti la scena dopo, quando il fuoco era spento e la cappella
vuota. Il fuoco aveva spaccato la pietra in cui era la spada e distrutto le sacre reliquie. Me, non mi distrusse, ma credo che bruciando mi tolse il potere, forse per sempre. I fuochi finiscono in cenere, Artù. Pensavo che lo avessi indovinato.» «Come avrei potuto?» ripeté lui, ma il tono era cambiato. Non più irato e brusco, ma lento e riflessivo. Come, dopo Luguvallium, io mi ero sentito invecchiare, così Artù aveva definitivamente abbandonato la fanciullezza. «Mi sei sembrato sempre lo stesso. Con le idee chiare e così sicuro di te che è come chiedere consiglio a un oracolo.» Risi. «Quelli non erano sempre così chiari, a detta di tutti! Vecchie o ragazze senza cervello che borbottavano in mezzo al fumo. Se in queste ultime settimane sono stato sicuro di me, ciò dipende dal fatto che i consigli che mi sono stati chiesti concernevano le mie capacità professionali, da nient'altro.» «"Nient'altro?" Abbastanza, si direbbe, perché qualsiasi re si rivolgesse a te, anche se fosse l'unica cosa che sa di te... Ma sì, credo di capire. Succede a te la stessa cosa che a me; i sogni e le visioni sono svaniti, e adesso c'è una vita che dobbiamo vivere secondo le regole degli uomini. Avrei dovuto capirlo. Tu l'hai capito, quando io sono andato personalmente a inseguire Colgrim.» Si avvicinò al tavolo dov'era la lettera di Ygraine e posò il pugno chiuso sul marmo. Vi si appoggiò, lo sguardo corrucciato verso il basso, ma senza vedere niente. Poi rialzò gli occhi. «E che succederà negli anni che ci aspettano? Avremo combattimenti duri, che non finiranno quest'anno né il prossimo. O stai dicendo che d'ora innanzi non potrò aspettarmi niente da te? Non parlo delle tue macchine da guerra, o della tua conoscenza medica; ti chiedo se non potrò avere la "magia" di cui mi parlano i soldati, l'aiuto che hai dato ad Ambrogio e a mio padre.» Sorrisi. «Quella sì, certo.» Stava pensando, lo sapevo, all'effetto che le mie profezie, e a volte la mia presenza, avevano avuto sui soldati in combattimento. «Ciò che gli eserciti pensano di me adesso, continueranno a pensarlo. E dov'è il bisogno di ulteriori profezie a proposito delle guerre che hai intrapreso? Né tu né i tuoi uomini avrete bisogno che ve lo ricordi in ogni occasione. Essi sanno quello che ho detto. Fuori, in campo aperto, per tutta la Britannia, c'è gloria per te e per loro. Riporterai dei successi, e altri successi, e alla fine - ma non so quando - avrai la vittoria. Questo è ciò che ti ho detto, ed è ancora vero. È l'opera alla quale sei stato preparato: vai a compierla, e lascia che trovi il modo di compiere la mia.» «E quale sarebbe, adesso che hai fatto spiccare il volo al tuo aquilotto, e
tu rimani attaccato alla terra? Aspettare la vittoria e poi aiutarmi nella ricostruzione?» «Quando sarà il momento.» Indicai la lettera sgualcita. «Ma a più corto termine, occuparmi di cose come questa. Dopo Pentecoste, col tuo permesso, andrò a nord, nel Lothian.» Per un attimo non si mosse, poi vidi il suo viso riprendere colore per il sollievo. Non chiese che cosa avessi in mente di fare lì, si limitò a dire: «Ne sarò lieto. Lo sai. Non mi pare ci sia bisogno che discutiamo sul motivo per cui può essere accaduto». «No.» «Prima avevi ragione, naturalmente. Come sempre. Era il potere ciò che voleva, e per lei non aveva importanza il modo in cui l'avrebbe preso. E neppure dove cercarlo. Adesso lo capisco. Posso solo essere felice di vedermi sciolto da qualsiasi pretesa potesse vantare su di me.» Con un lieve gesto della mano si sbarazzò di Morgause e delle sue trame. «Ma restano due cose. La più importante è che mi serve ancora avere Lot come alleato. Hai avuto ragione - daccapo! - a non raccontarmi il tuo sogno. Avrei certamente bisticciato con lui. A questo punto...» Si fermò, con un'alzata di spalle. Annuii. «A questo punto puoi accettare il matrimonio di Lot con la tua sorellastra, e considerarlo un imparentamento sufficiente a trattenerlo sotto il tuo vessillo. La regina Ygraine, sembra, ha agito saggiamente, e lo stesso ha fatto tua sorella Morgana. Dopo tutto, questo è il matrimonio che in origine aveva proposto re Uther. Adesso possiamo tranquillamente ignorare i motivi che l'hanno determinato.» «Con tanta maggior facilità» fece lui «in quanto pare che a Morgana non dispiaccia quanto è accaduto. Se si fosse mostrata offesa... Questo era il secondo problema cui accennavo. Ma pare che dopo tutto non sia affatto un problema. Ti ha detto la regina nella sua lettera che Morgana non ha dimostrato altro che sollievo?» «Sì. E ho anche interrogato il messaggero che ha portato le lettere da York. Mi ha detto che Urbgen del Rheged era a York per le nozze e che si può dire Morgana non abbia visto Lot perché guardava sempre lui.» Urbgen era diventato re del Rheged perché il vecchio re Coel era morto poco dopo la battaglia di Luguvallium. Il nuovo re era un uomo più vicino ai cinquanta che ai quaranta, un guerriero di pregio, ed era ancora bello e pieno di vigore. Era vedovo da due o tre anni. Lo sguardo di Artù si ravvivò per l'interesse. «Urbgen del Rheged?
Quello sì che sarebbe un matrimonio! È il matrimonio che avrei preferito fin dall'inizio, ma quando si combinò con Lot, la moglie di Urbgen era ancora viva. Urbgen, sì... Con Maelgon del Gwynedd, è il miglior soldato di tutto il nord, e non ci sono mai stati dubbi sulla sua lealtà. Tra l'uno e l'altro, il nord sarebbe al sicuro...» Completai la frase per lui. «E che Lot e la sua regina facciano pure quello che gli pare?» «Esattamente. Pensi che Urbgen se la prenderebbe?» «Si considererà fortunato. E credo che a lei andrebbe meglio di quanto sarebbe mai andata con l'altro. Stanne certo, riceverai presto un altro messaggero. E questo lo so da fonte autorevole, non è una profezia.» «Te ne dispiace, Merlino?» Era il re che me lo chiedeva, un uomo vecchio e saggio quanto me; un uomo che sapeva guardare oltre i problemi che lo assediavano, e indovinare che cosa potesse significare per me aggirarmi nell'aria morta laddove il mondo era stato un tempo un giardino colmo del dio. Riflettei un poco prima di rispondergli. «Non ne sono sicuro. Ci sono stati tempi come questo prima d'ora, tempi passivi, il riflusso dopo la marea; ma mai quando ci trovavamo ancora prima di grandi avvenimenti. Non sono abituato a sentirmi impotente, e riconosco che non può piacermi. Me se una cosa ho imparato negli anni in cui il dio è stato con me, è di fidare in lui. Adesso sono abbastanza vecchio per camminare tranquillamente, e quando ti guardo so di esser stato esaudito. Perché dovrei dolermi? Me ne starò in cima ai monti e ti guarderò compiere l'opera per me. È questa la ricompensa della vecchiaia.» «Della vecchiaia? Parli come se fossi canuto! Quanti anni hai?» «Sono abbastanza vecchio. Quasi quaranta.» «Ma allora, per amor di Dio?...» Così, ridendo, superammo quel punto critico. Poi lui mi portò vicino alla finestra dove si trovavano i miei modellini in scala della nuova Caerleon, e si lanciò a discuterne. Non parlò più di Morgause, e io pensai: ho parlato di fiducia, che genere di fiducia è questa? Se lo deludo, allora veramente sarò solo un'ombra e un nome, e la mia mano sulla spada di Britannia sarà stata uno scherno. Quando chiesi il permesso di recarmi a Maridunum, dopo l'Epifania, egli me lo accordò distrattamente, già assorto nel prossimo compito che lo aspettava quel mattino.
*
*
*
La grotta che avevo ereditato da Galapas l'eremita si trovava circa sei miglia a est di Maridunum, la città posta a guardia della foce del fiume Tywy. Mio nonno, il re del Dyfed, era vissuto lì e io, allevato come un bastardo trascurato nella casa reale, grazie a un precettore pigro avevo potuto crescere senza controllo. Avevo fatto amicizia con il vecchio saggio eremita che viveva nella grotta di Bryn Myrddin, un monte consacrato al dio del cielo Myrddin, creatura della luce e dell'aria aperta. Galapas era morto da molto tempo, ma in seguito il luogo era diventato la mia casa e la gente veniva ancora a vedere la sorgente risanatrice di Myrddin, e a prendere da me cure e medicine. Ben presto le mie capacità come medico avevano superato anche quelle del vecchio eremita, e con esse la mia fama in quel potere che gli uomini chiamano magia, sicché adesso il luogo veniva familiarmente chiamato il monte di Merlino. Credo che le persone più semplici credessero addirittura che ero Myrddin in persona, custode della sorgente. C'è un mulino sul Tywy, proprio nel punto in cui il sentiero per Bryn Myrddin lascia la strada. Quando vi arrivai, vidi che una chiatta aveva risalito il fiume ed era ormeggiata lì. Il suo grande cavallo baio brucava dove poteva l'erba invernale, mentre un giovanotto scaricava dei sacchi sul pontile. Lavorava senz'aiuto; il padrone della chiatta doveva essere di dentro, a calmare la sete; ma un uomo bastava a sollevare quella decina di sacchi di grano mandati lì per farli macinare da qualche deposito di scorte per l'inverno. Un bambino che poteva avere cinque anni andava avanti e indietro, intralciando il lavoro e parlando ininterrottamente in una strana mistura di gallese e qualche altra lingua nota ma talmente deformata - oltre tutto era anche bleso - che non riuscivo ad afferrare niente. Poi il giovane gli rispose nella stessa lingua, e io riconobbi lui, e la lingua. Tirai le redini. «Stilicone!» chiamai. Mentre lui metteva giù il sacco e si voltava, aggiunsi nella sua lingua: «Avrei dovuto fartelo sapere, ma avevo poco tempo e non mi aspettavo di arrivare qui così presto. Come stai?». «Mio signore!» Rimase un momento sbalordito, poi attraversò di corsa il cortile pieno di erbacce e arrivò fino al bordo della strada, si pulì le mani sulle brache, mi prese la mano e la baciò. Vidi delle lagrime nei suoi occhi, e ne fui commosso. Era un siculo che era stato mio schiavo durante i miei viaggi fuori della Britannia. A Costantinopoli gli avevo dato la libertà, ma lui aveva deciso di rimanere con me e di venire in Britannia, servendomi
mentre risiedevo a Bryn Myrddin. Quando me n'ero andato al nord, aveva sposato Mai, la figlia del mugnaio, e si era trasferito nella valle, per andare a vivere al mulino. Adesso mi dava il benvenuto, parlando tutto agitato la stessa lingua sconnessa del bambino. Quel che di gallese poteva aver imparato per il momento pareva averlo dimenticato. Il bambino si avvicinò e rimase fermo a fissarci, con un dito in bocca. «È tuo?» gli chiesi. «Un bel bambino.» «Il mio primo» disse lui con orgoglio. «Sono tutti maschi.» «Tutti?» chiesi, sollevando interrogativamente un sopracciglio. «Solo tre» fece lui, con l'espressione limpida che ricordavo «e presto ce ne sarà un altro.» Risi e gli feci le congratulazioni, augurandogli un altro maschio robusto. Questi siculi si riproducono come topi e almeno lui non sarebbe stato costretto, come suo padre, a vendere come schiavi alcuni dei figli per dar da mangiare agli altri. Mai era l'unica figlia del mugnaio, e avrebbe ereditato un sostanzioso patrimonio. L'aveva già ereditato, scopersi. Il mugnaio era morto due anni prima; soffriva di calcoli, e non aveva voluto farsi curare né prendere medicine. Adesso se n'era andato; e Stilicone era mugnaio al suo posto. «Ma alla tua casa abbiamo accudito, mio signore. O io o il ragazzo che lavora per me saliamo su a cavallo ogni giorno per assicurarci che sia tutto a posto. Non c'è pericolo che qualcuno osi andare dentro; troverai le tue cose esattamente come le hai lasciate, e la grotta pulita e arieggiata... ma naturalmente non c'è da mangiare. Perciò, se vuoi salire su adesso...» Esitò. Capii che aveva paura di fare lo sfacciato. «Non vuoi onorarci, signore, dormendo qui per stanotte? Farà freddo lassù, e anche umido, malgrado ci abbiamo acceso il braciere una volta alla settimana, d'inverno, come mi avevi detto tu, perché i libri non si rovinassero. Rimani qui, mio signore, e il garzone salirà adesso a cavallo fin lassù per accendere il braciere, e domani mattina Mai e io possiamo andare su...» «Sei molto gentile» dissi «ma non sentirò il freddo, e forse posso fare il fuoco da solo... anche più in fretta del tuo garzone, magari?» Sorrisi della sua espressione: non aveva dimenticato alcune delle cose che aveva visto quando era stato al servizio del mago. «Perciò ti ringrazio, ma non voglio disturbare Mai, anche se forse accetterei qualcosa da mangiare. Se potessi riposarmi qui per un po', e parlare con te, e vedere la tua famiglia, e poi salire lassù prima che faccia buio... Posso portare da solo tutto ciò che mi
servirà fino a domattina.» «Certo, certo... lo dico subito a Mai. Sarà onorata... felice...» Avevo già scorto per un momento a una finestra un viso pallido e due occhi sbarrati. Sarebbe stata felice, lo sapevo, quando il terrificante principe Merlino si fosse riallontanato; ma ero stanco per la lunga cavalcata, e, per di più, avevo sentito il profumo del gustoso stufato che si stava cuocendo e certamente avrebbe potuto bastare a un commensale in più. E in effetti Stilicone stava ingenuamente spiegando: «C'è sul fuoco un bel pollo grasso, perciò va benissimo. Entra, e riscaldati, e riposa fino all'ora di cena. Bran accudirà al tuo cavallo, mentre io scarico gli ultimi sacchi dalla chiatta, e la rimando in città. Vieni, perciò, signore, e bentornato a Bryn Myrddin». *
*
*
Di tutte le numerose volte che avevo risalito a cavallo quel fianco della valle diretto a casa mia, a Bryn Myrddin, non so perché con tanta chiarezza io debba ricordare proprio quella. Non ci fu niente di speciale per distinguerla dalle altre; fu un ritorno a casa, nient'altro. Ma fino a questo momento in cui ne scrivo, a distanza di tanto tempo, ogni particolare di quella cavalcata continua a presentarmisi vivido alla mente. Il rumore cupo degli zoccoli del cavallo sul terreno indurito dall'inverno; lo scricchiolio delle foglie sotto le zampe dell'animale e quello dei rametti che si spezzavano; il volo di una beccaccia e il frullio d'ali di un colombo spaventato. Poi la luce del sole, tutt'a un tratto intensa e uniforme come avviene proprio prima che faccia buio, che illuminava le foglie di quercia cadute, ormai in ombra, orlate di una brina che pareva polvere di diamanti; i rami di agrifoglio che sbattevano e risuonavano per gli uccelli che avevo disturbato mentre stavano becchettando le bacche; il profumo del ginepro bagnato mentre il mio cavallo si addentrava nei cespugli; la vista di un unico ramoscello di fiori di ginestrone, indorati dall'ultimo sole, mentre la brina notturna già rendeva friabile il terreno e l'aria pura e sottile come cristallo tintinnante. Portai il cavallo al riparo, sotto il costone roccioso e risalii il sentiero fino al piccolo spiazzo erboso davanti alla grotta. E finalmente c'era la grotta, con il suo silenzio, i profumi ben noti e l'aria immobile che si spostò solo per il movimento quasi impercettibile, come di velluto su velluto, dei pipistrelli che su nel lucernario di roccia, avevano udito il mio passo familiare e rimanevano dove si trovavano, in attesa del buio.
Stilicone non aveva mentito: il luogo era ben tenuto, secco e arieggiato, e sebbene qui facesse più freddo dello spessore di un mantello rispetto alla gelida aria di fuori, a questo avrei potuto rimediare presto. Il braciere era pronto per essere acceso, e dei ceppi ben secchi erano disposti sul focolare aperto, vicino all'imboccatura della grotta. Sullo scaffale, al solito posto, erano l'esca e la pietra focaia: in passato di rado mi ero data la pena di usarle, ma questa volta le presi e ben presto la fiamma scoppiettò. Può darsi che, ricordando un altro, tragico ritorno a casa, avessi un po' paura di mettere alla prova, anche in quel momento di calma dopo l'agitazione precedente, il minore dei miei poteri: ma credo che la decisione derivasse da prudenza anziché da paura. Se ancora mi restava del potere di cui servirmi, era meglio che lo tenessi in serbo per cose più grandi che l'accensione di un fuoco a cui riscaldarmi. È più facile evocare la tempesta nel cielo sereno che maneggiare il cuore di un uomo; molto presto, se l'istinto non mi mentiva, avrei avuto bisogno di tutto il potere, da contrapporre a una donna; e questo è più difficile di qualsiasi cosa riguardante gli uomini, come è più difficile vedere l'aria che una montagna. Così mi accesi il braciere in camera da letto e diedi fuoco ai ceppi vicino alla soglia, poi aprii le mie bisacce da sella e uscii con la brocca per attingere acqua alla sorgente. Questa stillava da una roccia coperta di felci accanto all'imboccatura della grotta e attraversava mormorando l'aereo merletto di brina per poi gocciolare in un bacino di pietra rotondo. Sopra alla sorgente, in mezzo al muschio e incoronata da uno scintillio di ghiaccio, era l'immagine del dio Myrddin, che custodisce le strade del cielo. Versai l'acqua per lui, poi rientrai nella grotta a guardare i miei libri e i miei medicamenti. Era tutto intatto. Perfino i vasetti di erbe medicinali, sigillati e legati come avevo insegnato a fare a Stilicone, parevano in buono stato, e fresco il loro contenuto. Scoprii la grande arpa che si trovava in fondo alla grotta, e la portai vicino al fuoco per accordarla. Poi, dopo essermi fatto il letto, mi preparai un po' di vino caldo e aromatizzato e lo bevvi, seduto accanto al fuoco di ceppi che guizzava. Finalmente, aprii l'involto che conteneva la piccola arpa da ginocchio che mi ero sempre portata in tutti i miei viaggi, e rimisi lo strumento a posto, nella grotta di cristallo. Questa era una piccola grotta interna, in cui si penetrava attraverso una fessura posta in alto, nella parete di fondo della grotta principale, e proprio dietro una sporgenza della roccia sicché normalmente le ombre la nascondevano alla vista. Da bambino, quella era stata per me la porta che mi aveva dato accesso alle visioni.
Lì, nel silenzio più profondo della collina, immerso nell'oscurità e nella solitudine, nessun senso poteva esercitarsi salvo l'occhio della mente, nessun suono poteva giungere. Eccetto, come adesso, le vibrazioni dell'arpa quando la posavo. Quell'arpa me l'ero fatta da bambino, le corde così bene tese che bastava l'aria per farla bisbigliare. I suoni che ne emanavano erano irreali e a volte belli, ma in un certo senso diversi dal genere di musica che conosciamo, come è bello il canto della foca grigia sugli scogli, che però è il rumore del vento e delle onde più che la voce di un animale. L'arpa cantò da sola quando la deposi, con una specie di ronzio sonnolento, come un gatto che fa le fusa perché è di nuovo sulla familiare pietra del focolare. «Riposa qui» le dissi, e al suono della mia voce che correva tutt'intorno sulle pareti di cristallo, l'arpa emise di nuovo un ronzio. Tornai al fuoco luminoso e alle stelle che tempestavano il cielo scuro fuori dalla grotta. Mi accostai l'arpa grande e - dapprima esitando, poi più spontaneamente - creai musica. Riposati qui, mago, mentre la luce svanisce. Si riduce la visibilità, e il lontano Orlo del cielo è scomparso con il sole. Accontentati della piccola scintilla Del carbone, dell'odore Del cibo, e dell'alito Del gelo oltre la porta chiusa. Qui è la casa, e le cose familiari; Una coppa, una ciotola di legno, una coperta; La preghiera, un'offerta per il dio e il sonno. (E la musica, dice l'arpa, E la musica.) Sei Con la primavera, inevitabilmente, arrivarono i guai. Colgrim, fiutando cautamente la via del ritorno lungo le coste orientali, sbarcò all'interno dei vecchi territori federati e si dispose a mettere insieme un nuovo esercito per sostituire quello sbaragliato a Luguvallium e sul Glein. A quell'epoca, io ero già tornato a Caerleon ed ero occupato a realizzare i progetti di Artù che prevedevano la costituzione sul posto della sua nuova
cavalleria mobile. L'idea, per quanto sorprendente, non era del tutto nuova. Con i federati sassoni già stabilitisi, e per trattato, nei distretti sudorientali dell'isola, e con tutta la fascia costiera orientale sempre in pericolo, era impossibile istituire e mantenere efficiente una linea di difesa fissa. Già esistevano, naturalmente, alcuni baluardi difensivi, il maggiore dei quali era il Vallo di Ambrogio. (Ometto qui il grande Vallo di Adriano; quella non è mai stata una struttura puramente difensiva, ed era anche ai tempi dell'imperatore Macsen, indifendibile. Adesso vi erano brecce in decine e decine di punti; e inoltre, il nemico non era più il celta delle selvagge regioni settentrionali; adesso veniva dal mare. Oppure già si trovava, come ho spiegato, all'interno del paese, nel sudest della Britannia.) Gli altri, Artù si dispose a estenderli e a rimetterli a nuovo, in particolare la Diga Nera del Northumbria, che protegge il Rheged e lo Strathclyde, e il più antico Vallo eretto originariamente dai romani attraverso le alte e ondulate colline calcaree a sud della pianura del Sarum. Il re progettava di continuare il Vallo verso nord. Le strade che lo attraversavano dovevano essere lasciate aperte, ma avrebbero potuto esser chiuse rapidamente appena il nemico avesse tentato di spingersi verso la Terra dell'estate a ovest. Altre opere difensive erano in programma e presto avrebbero avuto inizio i lavori di ' costruzione. Nel frattempo, l'unica cosa che il re poteva fare era fortificare e guarnire di uomini determinate posizioni strategiche, istituire posti di segnalazioni tra l'una e l'altra di esse, e tenere aperte le vie di comunicazione. I re e i comandanti britannici avrebbero difeso ognuno il proprio territorio, mentre sarebbe stato compito del Sommo re tener pronto un contingente di uomini che in caso di necessità potesse essere destinato ad aiutare chiunque di loro, o gettato nelle eventuali brecce apportate alle nostre difese. Era il vecchio piano d'azione mediante il quale Roma aveva difeso con successo la sua provincia per un certo tempo prima del ritiro delle legioni: il comandante della Sponda sassone aveva avuto a disposizione proprio un contingente mobile di questo tipo, e anche Ambrogio, più di recente, si era regolato nello stesso modo. Ma Artù si proponeva di fare di più. La «rapidità di Cesare», a suo avviso, poteva diventare dieci volte più rapida se tutti gli uomini fossero stati a cavallo. Oggigiorno, si vedono quotidianamente sulle strade e nelle piazze d'armi soldati di cavalleria e questa sembra una cosa abbastanza normale; ma allora, la prima volta che egli ne ebbe l'idea e me ne parlò, il suo progetto provocò lo stesso effetto di sorpresa che egli sperava di poter ottene-
re attuandolo. Ci sarebbe voluto tempo, ovvio; gli inizi sarebbero stati necessariamente modesti. Finché non si fosse addestrato a combattere stando a cavallo un numero sufficiente di soldati, la cavalleria sarebbe stata un corpo scelto abbastanza ridotto, costituito da ufficiali e amici di Artù. Con questo presupposto, il piano era realizzabile. Non poteva però essere attuato senza i cavalli adatti, e di questi noi ne avevamo relativamente pochi. I robusti, piccoli cavalli locali, per quanto resistenti, non erano abbastanza veloci né abbastanza grandi da portare in battaglia un uomo armato. Ne parlammo per giorni e per notti, esaminando ogni dettaglio della cosa, prima che Artù presentasse l'idea ai suoi comandanti. Ci sono quelli - e spesso possono anche essere i migliori - che sono contrari a qualsiasi specie di cambiamento; e a meno che non si sia in grado di smontare ogni obiezione, gli incerti sono indotti a schierarsi con i contrari. Artù e Cador, insieme a Gwilim del Dyfed e a Ynyr di Caer Guent, elaborarono il progetto studiando le mappe. Io non ero in grado di dare un grande contributo alle discussioni militari, però risolsi il problema dei cavalli. Esiste una razza di cavalli dei quali si dice che siano i migliori al mondo. Di certo sono i più belli. Io li avevo visti in oriente, dove gli uomini del deserto attribuiscono loro maggior valore che alle loro donne o all'oro; ma era possibile trovarli, lo sapevo, più vicino. I romani avevano riportato alcuni esemplari di quella razza dal Nordafrica in Iberia, dove si erano incrociati con i più tozzi cavalli europei. Il risultato di tali incroci era uno splendido animale, rapido e focoso, ma nello stesso tempo forte, agile e docile, come dev'essere un cavallo da battaglia. Se Artù avesse mandato qualcuno laggiù per vedere che cosa era possibile acquistare, appena il tempo avesse consentito un trasporto senza rischi, avrebbe potuto fin dall'estate successiva procedere alla formazione di un contingente a cavallo. Perciò, quando tornai a Caerleon, in primavera, ci fu da avviare la costruzione di grandi scuderie nuove, mentre Bedwyr veniva spedito oltremare per trattare l'acquisto dei cavalli. Caerleon era già trasformata. Sulla fortezza i lavori erano proceduti rapidi e con buoni risultati, e adesso intorno ad essa spuntavano altri edifici, sufficientemente comodi e grandiosi da fare onore a una capitale provvisoria. Malgrado Artù utilizzasse come quartier generale la casa del comandante all'interno delle mura, si stava costruendo al di fuori di esse, nella bella ansa del fiume Isca, presso il ponte romano, un'altra casa che la gente chiamava «il palazzo». Una volta finita, sarebbe stata una grande casa, con
parecchi cortili per gli ospiti e i loro servi. Era ben costruita, in pietra e laterizi, con intonaco dipinto e colonne scolpite alle porte. Il tetto era dorato, come quello della nuova chiesa cristiana, che sorgeva sull'area del vecchio tempio di Mitra. Tra quei due edifici, e la piazza d'armi a ovest di essi, stavano spuntando case e negozi, e il tutto dava vita a una città animata dove prima c'era stato solo un piccolo villaggio. La popolazione, orgogliosa del fatto che Artù avesse scelto Caerleon e disposta a ignorarne i motivi, lavorava di lena per rendere il luogo degno di un nuovo regno e di un re che avrebbe portato la pace. Una pace per modo di dire la portò fin da Pentecoste. Con il suo nuovo esercito, Colgrim aveva violato i confini nelle regioni orientali. Artù combatté contro di lui due volte, una volta non molto a sud del fiume Humber, la seconda più vicino alla frontiera sassone, nei campi pieni di canne intorno a Linnuis. Nella seconda di queste battaglie, Colgrim fu ucciso. Poi, mentre la Sponda sassone, turbata, tornava di nuovo alla calma, Artù fece ritorno da noi, in tempo per veder sbarcare Bedwyr con il primo contingente dei cavalli promessi. Valerio, che aveva aiutato a farli sbarcare, era entusiasta. «Alti fino al petto di un uomo, e forti per di più, e mansueti come fanciulle. Cioè, come qualche fanciulla. E veloci, dicono, come levrieri, benché siano ancora intorpiditi per il viaggio in mare, e ci vorrà un po' di tempo prima che ritrovino l'andatura da terraferma. E belli! Non poche fanciulle, mansuete o no, farebbero sacrifici a Ecate per avere occhi altrettanto grandi e scuri, e una pelle così vellutata...» «Quanti ne ha portati? Ci sono anche delle giumente? Quand'ero in oriente, si separavano solo dagli stalloni.» «Ci sono anche delle giumente. Un centinaio di stalloni in questo primo lotto, con trenta giumente. Stanno meglio dei soldati durante le campagne, ma è sempre una concorrenza dura, no?» «Sei stato troppo tempo in guerra» gli dissi. Sogghignò e se ne andò, e io chiamai i miei assistenti per andare a passare in rassegna le nuove scuderie onde accertarmi che tutto fosse pronto per ricevere i cavalli e controllare ancora una volta i nuovi, leggeri finimenti da campo che le botteghe dei sellai avevano preparato per loro. Mentre mi avviavo, le campane cominciarono a suonare dalle torri dorate. Il Sommo re era tornato, e potevano avere inizio i preparativi per l'incoronazione.
*
*
*
Dopo aver assistito all'incoronazione di Uther, avevo viaggiato fuori del mio paese e visto splendori - a Roma, Antiochia, Bisanzio - in confronto ai quali qualsiasi cosa potesse fare la Britannia era come le pantomime di volgari saltimbanchi: ma nella cerimonia di Caerleon ci fu una magnificenza giovane e primaverile che nessuna delle ricchezze orientali avrebbe potuto produrre. I vescovi e i preti erano splendidi, con le loro vesti scarlatte, viola e bianche, messe ancor più in risalto dai marroni e dai neri dei santi uomini e delle sante donne che li seguivano. I re, ognuno con il suo seguito di nobili e di guerrieri, sfolgoravano per i gioielli e le armature dorate. Le mura della fortezza, sopra le quali spuntavano teste di persone che si spostavano e cercavano di allungare il collo per vedere, erano animate dall'ondeggiare degli arazzi dai colori vivaci ed echeggiavano di acclamazioni. Le dame della corte erano spensierate come martin pescatori: perfino la regina Ygraine, in un impeto di orgoglio e di felicità, aveva messo da parte i suoi vestiti da lutto e risplendeva come le altre. Accanto a lei, Morgana non aveva per nulla l'aspetto della promessa sposa abbandonata; era solo vestita un po' meno santuosamente di sua madre e ostentava la stessa sorridente e regale compostezza. Era difficile ricordare quanto fosse giovane. Le due dame reali rimasero al loro posto tra le donne, senza venire al fianco di Artù. Sentii serpeggiare dei mormorii tra le donne, e forse anche più tra le nobili matrone, che avevano tutte gli occhi fissi su quel posto vuoto accanto al trono; ma per me era giusto che non ci fosse ancora nessuno a partecipare della gloria di Artù. Questi rimase ritto e solo al centro della chiesa, e la luce che penetrava dalle lunghe finestre accendeva i rubini infiammandoli e proiettava riquadri d'oro e di zaffiro sul bianco della sua veste e sulla pelliccia che ornava il suo manto scarlatto. Mi ero chiesto se Lot sarebbe venuto. Le voci si erano gonfiate, come una pustola, fino al punto di rottura e noi ancora non ne sapevamo niente; ma per venire, venne, alla fine. Forse aveva capito che ci avrebbe rimesso di più rimanendo lontano anziché sfidando il re, la regina e la principessa da lui offesa, perché qualche giorno prima della cerimonia, si videro le sue lance, insieme a quelle di Urien del Gore, di Aguisel di Bremenium e di Tydwal che teneva Dunpeldyr al suo posto, sfidare il cielo verso nordest. I signori settentrionali che formavano questo corteo se ne rimasero accampati tutti insieme un po' più in là della città, però poi vennero a prender parte ai festeggiamenti, come se niente di infausto fosse mai accaduto a
Luguvallium o a York. Personalmente Lot ostentò una fiducia troppo disinvolta per essere definita una smargiassata; forse, contava sul fatto di essere ormai imparentato con Artù. Così mi disse Artù, in privato; in pubblico ricevette con formale cortesia l'omaggio cerimonioso di Lot. Mi domandai, con vero timore, se Lot già sospettasse di avere in suo potere il figlio non nato del re. Morgause, almeno, non era venuta. Conoscendola come la conoscevo, avevo pensato che forse sarebbe venuta affrontando perfino me, per il gusto di sfoggiare la sua corona davanti a Ygraine e il ventre gonfio davanti ad Artù e anche a me. Ma fosse per paura di me, fosse che a Lot era mancata la sfrontatezza e gliel'aveva proibito, se ne rimase lontana, con la scusa della gravidanza. Io ero accanto ad Artù quando Lot presentò le scuse della sua regina; né il suo viso né la sua voce tradivano minimamente che sapesse qualche cosa, e se anche sorprese l'occhiata improvvisa che Artù mi lanciò, o il suo leggero, immediato pallore, non lo lasciò apparire. Poi il re riuscì di nuovo a controllarsi, e quel momento passò. Così la giornata esaurì le sue ore sfavillanti e logoranti. I vescovi non risparmiarono alcun punto del sacro cerimoniale e per i pagani presenti gli auspici erano fausti. Avevo visto in strada, mentre il corteo procedeva, la gente fare segni che non erano quello della croce e sugli angoli si prediceva il futuro con le ossa, i dadi e guardando la sfera di cristallo, mentre i venditori ambulanti facevano affari con amuleti e portafortuna di ogni specie. All'alba erano stati sgozzati galletti neri, e fatte le offerte al guado e ai crocicchi, dove la vecchia erma aspettava i doni dei viaggiatori. Fuori città, sulla montagna, nella valle e nella foresta, i piccoli, bruni abitanti delle cime certamente osservavano i loro auspici e invocavano i loro dei. Ma nel centro della città, in chiesa come nel palazzo e nella fortezza, il sole illuminava la Croce. Quanto ad Artù, egli procedette per quella lunga giornata pallido e ammantato di calma dignità, irrigidito dai gioielli e dai ricami, scrupolosamente rispettando il cerimoniale, una marionetta che i preti dovevano santificare. Se tutto questo era necessario per proclamare finalmente davanti a tutto il popolo la sua autorità, lui si adeguava. Ma io che lo conoscevo e che rimasi al suo fianco per tutta quella interminabile giornata, non sentivo in quella tranquilla compostezza né consacrazione né preghiera. Probabilmente, pensai, stava progettando la prossima incursione bellica a est. Per lui, come per tutti quelli che avevano assistito alla scena, il regno era venuto a trovarsi nelle sue mani quando aveva tratto dal lungo oblio la grande spada di Massimo e pronunciato la sua solenne promessa
alle foreste in ascolto. La corona di Caerleon era solo il pubblico suggello di ciò che da allora aveva in mano e che avrebbe continuato a tenere in mano fino alla morte. Poi, dopo la cerimonia, ci fu il banchetto. I banchetti si somigliano tutti, e in questo ci fu di particolare solo il fatto che Artù, di solito buon mangiatore, mangiò pochissimo e stette a guardarsi ripetutamente intorno come se non ce la facesse ad aspettare la fine della festa per tornarsene agli affari del regno. Mi aveva detto che quella sera avrebbe voluto parlarmi, ma la gente che gli si accalcava intorno lo trattenne fino a tardi, perciò vidi per prima Ygraine. Questa aveva abbandonato presto il banchetto, e quando il suo paggio mi si avvicinò bisbigliandomi un messaggio, captai un lieve cenno di assenso di Artù e lo seguii. L'appartamento di Ygraine era nel palazzo del re. Qui arrivava solo debolmente lo strepito del convito, frammisto al rumore più lontano del tripudio popolare. La porta mi fu aperta da quella stessa fanciulla che era con la regina ad Amesbury: era una fanciulla esile, vestita di verde, i capelli castanochiari ornati di perle e gli occhi dello stesso verde della veste: non il luccicante colore di strega di Morgause, ma un grigioverde chiaro, che faceva pensare al sole su un torrente nella foresta in cui si riflettessero le tenere foglie primaverili. Aveva il volto imporporato per l'eccitazione e il banchetto e mi sorrise, rivelando una fossetta e denti magnifici, mentre con un inchino mi faceva entrare alla presenza della regina. Ygraine mi porse una mano. Appariva stanca e la suntuosa veste viola, scintillante di perle e d'argento, metteva in risalto il suo pallore e le ombre che cerchiavano la bocca e gli occhi. Ma i suoi modi, freddi e composti come sempre, non tradivano alcuna stanchezza. Venne subito al punto. «Allora, l'aveva messa incinta.» Pure mentre mi attanagliava la morsa della paura, capii che non aveva il minimo sospetto della verità; parlava di Lot e di quello che riteneva il motivo per cui questi aveva rifiutato sua figlia Morgana a favore di Morgause. «Così pare.» Fui altrettanto brusco. «Almeno salva la faccia a Morgana, che è l'unica cosa di cui dobbiamo preoccuparci.» «È la cosa migliore che potesse accadere» disse Ygraine recisa. Sorrise appena vedendo la mia espressione. «Quel matrimonio non mi era mai piaciuto. Approvavo la prima idea di Uther, quando aveva offerto a Lot Morgause, anni fa. Per lui sarebbe stato abbastanza, e per lei sarebbe stato un onore. Ma Lot era ambizioso, per un verso o per l'altro, anche allora, e
non gli andava bene niente che fosse meno di Morgana. Perciò Uther acconsentì. In quel momento avrebbe acconsentito a qualsiasi cosa che fosse in grado di garantire l'alleanza dei regni settentrionali contro i sassoni; ma anche se, per opportunità politica, capivo che quel matrimonio andava fatto, voglio troppo bene a mia figlia per desiderare di vederla legata a quel traditore avido e ribelle.» La guardai sollevando interrogativamente le sopracciglia. «Parole forti, madonna.» «Vuoi negare i fatti?» «Lungi da me. Ero a Luguvallium.» «Allora saprai quanto, in fatto di lealtà, il fidanzamento con Morgana vincolasse Lot ad Artù e quanto lo avrebbe vincolato il matrimonio se per lui fosse stata vantaggiosa un'altra via.» «Sì. D'accordo. Soltanto sono lieto che anche tu la veda così. Temevo che l'affronto recato a Morgana irritasse te e addolorasse lei.» «In un primo momento, più che addolorata lei era irritata. Lot è uno dei più importanti tra i re minori e, che lui le piacesse o no, sarebbe stata regina di un vasto regno e i suoi figli avrebbero avuto una cospicua eredità. Non poteva farle piacere che il suo posto venisse preso da una bastarda: da una bastarda, per giunta, che non le ha mai dimostrato la minima amabilità.» «E poi, quando si è cominciato a parlare del fidanzamento, Urbgen del Rheged aveva ancora una moglie.» Le lunghe ciglia si sollevarono e gli occhi della regina studiarono il mio viso impassibile. «Esattamente» fu tutto ciò che disse, senza dimostrare alcuna sorpresa. E lo disse come per chiudere una discussione, più che per avviarla. Non c'era da sorprendersi che Ygraine avesse ragionato come Artù e come me. Come suo padre Coel, Urbgen si era dimostrato fedele al Sommo re. Nel passato, e più di recente a proposito della battaglia di Luguvallium, le cronache avevano riportato le imprese del re del Rheged insieme a quelle di Ambrogio e di Artù, come il cielo accoglie la luce del sole al tramonto e quella del sole nascente. Pensierosa, Ygraine stava dicendo: «Se è per questo, potrebbe andare. Non è necessario assicurarsi la fedeltà di Urbgen, naturalmente, ma Morgana avrebbe un potere che penso sia in grado di gestire, e quanto ai suoi figli maschi...». S'interruppe. «Be', Urbgen ne ha già due, entrambi già adulti e guerrieri come il loro genitore. Chi può dire che arriveranno alla
corona? E per il re di un regno grande come il Rheged, i figli maschi non sono mai abbastanza.» «Ha già vissuto gli anni migliori della sua vita, e lei è ancora molto giovane.» Lo dissi come una constatazione, ma Ygraine rispose con calma: «E allora? Io non ero molto più vecchia di Morgana quando Gorlois di Cornovaglia mi sposò». In quel momento, credo, aveva dimenticato che cosa avesse significato per lei quel matrimonio: la prigionia di una creatura giovane, impaziente di aprire le ali e di volare; la fatale passione del re Uther per la bella duchessa di Gorlois; la morte del vecchio duca e poi la nuova vita, con tutto ciò che aveva comportato di amore e di dolore. «Morgana farà il suo dovere» disse Ygraine, e adesso vidi che aveva ricordato ma nei suoi occhi non ci fu la minima esitazione. «Se era disposta a prendersi Lot, di cui aveva paura, accetterà volentieri Urbgen, se Artù glielo proponesse. È un peccato che i vincoli di parentela con Cador siano troppo stretti perché lei possa sposarlo. Mi sarebbe piaciuto vederla sistemata vicino a me, in Cornovaglia.» «Non è una parentela di sangue.» Cador era il figlio di primo letto del marito di Ygraine, Gorlois. «Ma è una parentela troppo stretta» disse Ygraine. «La gente dimentica molto rapidamente, si parlerebbe di incesto. Non starebbe bene, anche solo l'allusione a un crimine così disgustoso.» «No. Capisco.» La mia voce suonò fredda e inespressiva. «E per di più Cador sta per sposarsi, l'estate che viene, al suo rientro in Cornovaglia. Il re approva.» Capovolse la mano che era abbandonata in grembo, come per ammirare lo scintillio degli anelli che la ornavano. «Perciò forse sarebbe bene parlare di Urbgen al re, non appena una parte del suo pensiero sarà libera di preoccuparsi di sua sorella.» «Se ne è già preoccupato. Ne ha parlato con me. Credo che molto presto manderà a chiamare Urbgen.» «Ah! E allora...» Per la prima volta una soddisfazione semplicemente umana e femminile le vibrò nella voce con qualcosa di insolitamente simile al rancore. «E allora vedremo Morgana prendersi quanto le è dovuto in fatto di ricchezza e priorità su quella strega dai capelli rossi, e possa Lot del Lothian meritarsi le trappole che lei ha predisposto per lui!» «Credi che lo abbia deliberatamente intrappolato?» «Come potrebbe non esserlo? Tu la conosci. Ha tessuto i suoi incantesimi per questo.»
«Un tipo di incantesimo molto comune» osservai seccamente. «Ah, certo. Ma a Lot le donne non sono mai mancate, e non si può negare che Morgana fosse migliore come partito, e che per di più è anche una bella ragazza. E con tutte le arti di cui si vanta Morgause, Morgana è meglio di lei in grado di essere la regina di un grande regno. È stata destinata a questo, e la bastarda no.» La osservai con curiosità. La fanciulla dai capelli castani era mezzo addormentata sul suo sgabello, accanto allo scranno di Ygraine. Ma questa pareva non curarsi di quanto potesse sentire. «Ygraine, che male ti ha mai fatto Morgause da renderti così dura contro di lei?» Il rossore le salì al viso come sale una bandiera sul pennone, e per un attimo pensai che avrebbe cercato di smontarmi, ma nessuno di noi era più giovane, né aveva bisogno di difendersi con l'amor proprio. Parlò con semplicità: «Se pensi che io odiassi avere sempre una bella ragazza vicina a me e a Uther, con un diritto su di lui che precedeva il mio, è vero. Ma c'era anche dell'altro. Anche quando era una bambina, di dodici, tredici anni, non più, la sentivo corrotta. Per questo ho accolto con piacere il matrimonio con Lot. La volevo lontana dalla corte.» Era una risposta più franca di quanto mi fossi aspettato. «Corrotta?» chiesi. La regina chinò un attimo lo sguardo sulla fanciulla seduta sullo sgabello accanto a lei. La testa castana ciondolava, le palpebre erano calate. Ygraine abbassò la voce, ma parlò chiaramente, anche se con cautela. «Non voglio insinuare che ci fosse qualcosa di male nel suo rapporto con il re, anche se non si comportava mai con lui da figlia; e non gli voleva bene come dovrebbe voler bene una figlia; lo blandiva per ottenere da lui dei favori, nient'altro. Quando l'ho definita corrotta, pensavo al fatto che pratica la magia. Ne è sempre stata attratta, e frequentava indovine e ciarlatani, e se qualcuno parlava di magia spalancava gli occhi come un gufo di notte. Poi ha cercato di insegnarla a Morgana, quando la principessa era ancora una bambina. Questo non posso perdonarle. Io non ho tempo per cose di questo genere, e nelle mani di una come Morgause...» S'interruppe. L'impeto dei sentimenti le aveva fatto alzare la voce, e vidi che la fanciulla, svegliata, spalancava anche lei gli occhi come il gufo. Ygraine si riprese e chinò la testa, arrossendo di nuovo leggermente. «Principe Merlino, devi perdonarmi. Non intendevo mancarti di rispetto.» Risi. Vidi che la fanciulla doveva aver sentito, e la cosa mi divertì; anche
lei stava ridendo, ma silenziosamente, mostrandomi le fossette da dietro le spalle della sua padrona. Dissi: «Sono troppo orgoglioso per considerarmi sullo stesso piano delle ragazze che perdono il tempo con gli incantesimi. Mi dispiace per Morgana. È vero che Morgause ha un certo genere di potere, ed è anche vero che queste cose possono essere pericolose. È difficile detenere qualsiasi potere, perché usato male esso si ritorce contro chi se ne serve». «Forse un giorno, se ne avrai l'opportunità, lo dirai a Morgana.» Sorrise, cercando di assumere un tono più leggero. «Te, ti ascolterà, mentre scrollerebbe le spalle se glielo dicessi io.» «Volentieri.» Tentai di apparire spontaneo, come un nonno invitato a far la predica ai giovani. «Forse quando sarà regina e disporrà di un vero potere smetterà di desiderare tanto un potere d'altro genere.» Aggirò l'argomento. «Così, adesso che Lot ha una figlia di Uther, anche se solo una bastarda, si considererà vincolato alla bandiera di Artù?» «Questo non posso dirtelo. Ma a meno che i sassoni non conquistino un tale vantaggio da far sì che valga la pena per Lot tentare un altro tradimento, credo che si accontenterà del potere di cui dispone e combatterà per difendere la sua terra, se non per amore del Sommo re. Non vedo che ci sia da preoccuparsi, per questo.» Non aggiunsi: «Non in quel senso». Mi limitai a concludere: «Quando sarai di nuovo in Cornovaglia, madonna, ti scriverò delle lettere, se ti farà piacere». «Te ne sarei grata. Le tue lettere mi sono state di grande conforto in passato, quando mio figlio era a Galava.» Parlammo ancora un poco, per lo più degli avvenimenti di quel giorno. Quando cercai di interrogarla sulla sua salute, ignorò la domanda con un sorriso che mi fece capire che ne sapeva quanto me, perciò lasciai stare e mi informai invece del progettato matrimonio del duca Cador. «Artù non ne ha parlato. Chi è la sposa?» «La figlia di Dinas. Lo conoscevi? Lei si chiama Manona. Il matrimonio è stato deciso, ahimè, quando tutti e due erano bambini. Adesso Mariona è in età da marito, perciò si sposeranno quando il duca tornerà a casa.» «Conoscevo il padre di lei, sì. Perché hai detto "ahimè"?» Ygraine guardò con un sorriso affettuoso la fanciulla seduta accanto a lei. «Perché altrimenti non avrei avuto difficoltà a trovare marito alla mia piccola Ginevra.» «Sono certo» osservai «che ciò risulterà molto facile.»
«Ma un partito come quello» disse la regina, e la fanciulla incurvò le labbra nel sorriso e abbassò gli occhi. «Se osassi servirmi della divinazione in tua presenza, madonna» feci allora sorridendo «potrei predire che se ne presenterà uno altrettanto splendido, e presto.» Lo dissi con tono leggero, per pura cortesia, e mi spaventò sentire nella mia voce un'eco, per quanto fievole e presto svanita, del ritmo della profezia. Nessuna delle due donne la udì. La regina mi stava porgendo la mano e mi augurava la buona notte, e la fanciulla Ginevra mi teneva la porta, sprofondando mentre passavo in un inchino sorridente, pieno di umiltà e di grazia. Sette «È mio!» disse Artù con violenza. «Basta contare! Ho sentito gli uomini che ne parlavano nel posto di guardia. Non sapevano che ero abbastanza vicino da sentire. Hanno detto che già all'Epifania era incinta, e che era stata fortunata ad acchiappare Lot così presto che avrebbe potuto far credere che il bambino era di sette mesi. Merlino, tu lo sai quanto me che a Luguvallium Lot non si è mai avvicinato a lei! Non c'era neppure fino alla sera stessa della battaglia, e quella notte... quella fu la notte...» S'interruppe, come soffocasse a quelle parole, e si girò facendo turbinare la veste per ricominciare ad andare avanti e indietro. Mezzanotte era passata da un pezzo. Gli strepiti dei festeggiamenti nella città adesso erano più deboli, attutiti col freddo dell'ora che precede l'alba. Nella camera del re le candele si erano quasi consumate, formando grumi di cera profumata di miele. Quell'aroma si confondeva con il fumo acre di una lampada cui si sarebbe dovuto spuntare il lucignolo. Artù si girò di scatto e tornò a fermarsi davanti a me. Si era tolto la corona e la catena ricca di gemme e aveva riposto la spada, ma indossava ancora la splendida veste dell'incoronazione. Il mantello ornato di pelliccia era buttato di traverso sul tavolo come un fiotto di sangue alla luce della lampada. Dalla porta, aperta, della sua camera da letto potevo vedere le coperte pronte per la notte sul grande letto, ma per quanto fosse tardi Artù non dava segno di stanchezza. Ogni suo movimento era pervaso da una specie di furia nervosa. La controllava, però, parlando sommessamente. «Merlino, quando par-
lammo quella notte, di ciò che era accaduto...» S'interruppe per respirare, poi cambiò tono, passando a una brutale franchezza: «Quando mi giacqui incestuosamente con Morgause, ti chiesi che cosa sarebbe accaduto se avesse concepito un figlio. Ricordo che cosa rispondesti. Lo ricordo bene. E tu?» «Sì» dissi a malincuore «lo ricordo.» «Mi dicesti: "Gli dei sono gelosi, e cercano di impedire che uno abbia troppa gloria. Ogni uomo ha in sé il seme della propria morte e a ogni vita deve esserci un termine. Quello che è accaduto stanotte è che tu stesso hai stabilito il termine".» Io non dissi niente. Lui mi era di fronte con quell'espressione, così lontana da qualsiasi compromesso, che sarei giunto in seguito a conoscere tanto bene. «Quando mi parlasti in quel modo, mi dicevi la verità? La tua era una profezia, o stavi cercando le parole per consolarmi, in modo che io fossi in grado di affrontare ciò che sarebbe accaduto il giorno dopo?» «Era la verità.» «Intendevi dire che, se lei fosse rimasta incinta di una creatura mia, potevi prevedere che lui - oppure lei? - sarebbe stata la mia morte?» «Artù» dissi «la profezia non funziona in questo modo. Io non sapevo, nel senso in cui la maggior parte degli uomini crede di "sapere", né che Morgause avrebbe concepito un figlio, né che il bambino sarebbe stato un pericolo mortale per te. Sapevo solo, per tutto il tempo in cui tu eri con quella donna, che gli uccelli della morte si erano posati sulle mie spalle, che mi opprimevano e avevano il fetore di carogne. Avevo il cuore che mi pesava per il terrore e vedevo la morte, questo pensai, che collegava voi due. Morte e tradimento. Ma in che modo, non lo sapevo. Quando lo capii, ormai era fatta, e l'unica cosa che mi rimaneva era di aspettare quel che gli dei decidevano di mandare.» Lui si allontanò di nuovo da me, dirigendosi verso la porta della camera da letto. Vi si appoggiò in silenzio, la spalla contro lo stipite, il viso voltato dall'altra parte, poi di colpo si staccò dalla porta e si girò. Arrivò fino alla sedia che era dietro al grande tavolo, si sedette e mi guardò, appoggiando il mento sul pugno chiuso. I suoi movimenti erano controllati e calmi, come sempre, ma io, che lo conoscevo, sapevo che mordeva il freno. Parlò ancora con voce sommessa. «E adesso sappiamo che gli uccelli dal fetore di carogna avevano ragione. Lei ha concepito un figlio. Tu mi dicesti un'altra cosa quella notte, quando riconobbi la mia colpa. Dicesti che avevo
peccato senza saperlo e che ero innocente. Allora, sarà punita l'innocenza?» «Non è una cosa insolita.» «I peccati dei padri?» Riconobbi nella frase una citazione delle scritture cristiane. «Il peccato di Uther» dissi «è ricaduto su di te.» «E il mio, adesso, sul bambino?» Non dissi niente. Non mi piaceva la piega che stava prendendo il colloquio. Per la prima volta, parlando con Artù, pareva che io non fossi in grado di dominare la situazione. Mi dissi che ero stanco, che ero ancora nel riflusso del potere, che il mio tempo sarebbe tornato; ma la verità è che mi sentivo un po' come quel pescatore della fiaba orientale che, sturata la bottiglia, lascia uscire un genio molte volte più potente di lui. «Benissimo» disse il re. «Il peccato mio e di lei ricadrà sul bambino. Non deve essergli consentito di vivere. Tu andrai a nord e lo dirai a Morgause. O, se preferisci, ti darò una lettera per lei e glielo dirò io stesso.» Tirai un respiro, ma lui proseguì, senza darmi il tempo di parlare. «Lasciando stare le tue predizioni - che, Dio lo sa, sarei sciocco a non rispettare - non capisci quanto questa cosa potrebbe essere pericolosa adesso, se Lot la scoprisse? È piuttosto chiaro quel che è avvenuto. Lei temeva di essere incinta e per salvare il suo onore ha deciso di accalappiare un marito. Chi meglio di Lot? Già in passato era stata proposta a lui: per quanto ne sappiamo lo aveva desiderato, e adesso ha visto una possibilità di eclissare la sorella e di garantirsi una casa e un nome, di cui la morte del padre l'aveva privata.» Strinse le labbra. «E chi può saperlo meglio di me che se lei si propone di prendersi un uomo, qualsiasi uomo, quello sarà pronto ad accorrere al suo fischio?» «Artù, parli del suo "onore". Ma non crederai di essere il primo che lei si sia portato a letto, vero?» Lui disse, un po' troppo in fretta: «Non l'ho mai pensato». «Allora come lo sai che non è stata con Lot prima che con te? Che non fosse già incinta di lui, e che non abbia preso te nella speranza di ghermire qualche sorta di potere e di favore per se stessa? Sapeva che Uther stava morendo; temeva che Lot, per il suo modo di agire a Luguvallium, avesse perso il favore del re. Se riusciva ad attribuirti la paternità del figlio di Lot...» «Questa è una congettura. Non è ciò che dicesti quella notte.» «No. Ma pensaci. Quadrerebbe altrettanto bene con i dati di fatto della
mia previsione.» «Ma non con la loro validità» fece lui, aspro. «Se il pericolo rappresentato da questo bambino è reale, che importa di chi è figlio? Le congetture non ci aiuteranno.» «Non sto facendo congetture quando ti dico che lei e Lot erano amanti prima che tu entrassi nel suo letto. Ti ho detto che avevo fatto un sogno quella notte in cui rimasi al santuario di Nodens. Li vidi incontrarsi in una casa non molto lontana da una strada poco frequentata. Dovevano essersi accordati in precedenza. Si videro lì come due che sono amanti da un pezzo. Questo bambino può effettivamente essere di Lot e non tuo.» «E noi abbiamo capito esattamente il contrario? Sono stato io quello cui lei ha fatto un fischio per salvare il suo onore?» «È possibile. Tu eri comparso dal nulla, eclissando Lot come ben presto avresti eclissato Uther. Lei ha cercato di attribuirti la paternità del figlio di Lot, ma poi ha dovuto abbandonare il tentativo, per paura di me.» Rimase in silenzio, riflettendo. «Bene,» disse alla fine «il tempo ce lo dirà. Ma fino a quel momento rimarremo forse in attesa? Chiunque ne sia il padre, questo bambino è un pericolo; e non serve un profeta per capire in che senso... o un dio per mandarlo ad effetto. Se Lot viene a sapere - o crede - che il suo figlio maggiore è stato generato da me, quanto tempo credi che durerà questa sua cauta fedeltà? Il Lothian è un punto strategico, lo sai. Io ho bisogno di quella fedeltà; devo averla. Anche se avesse sposato mia sorella Morgana, difficilmente avrei potuto fidarmi di lui, adesso poi...» Tese una mano, il palmo rivolto verso l'alto. «Merlino, si fa ogni giorno, in ogni villaggio del regno. Perché non in una casa reale? Vai a nord e parla da parte mia con Morgause.» «Credi che mi ascolterebbe? Se non avesse voluto il bambino, da un pezzo non avrebbe esitato a sbarazzarsene. Non ti ha cercato per amore, Artù, e non prova amicizia per te che hai permesso fosse cacciata dalla corte. E per me...» sorrisi amaro «prova un accentuato e ben spiegabile rancore. Mi riderebbe in faccia. Peggio ancora: ascolterebbe, e riderebbe del potere che il suo gesto le ha dato su di noi, e poi farebbe quello che pensa possa ferirci di più.» «Ma...» «Hai creduto che avesse potuto persuadere Lot a sposarla semplicemente nel proprio interesse, o per umiliare sua sorella? No. Se l'è preso perché io ho sventato i suoi piani, che erano di corromperti e averti, e perché in fondo, qualunque cosa il tempo possa costringerlo a fare ora, Lot è nemico tuo
e mio, e per mezzo suo lei potrà un giorno farti del male.» Seguì un silenzio carico di tensione. Poi: «Credi?». «Sì.» Artù si agitò. «Allora, daccapo ho ragione. Non deve portare avanti il bambino.» «Che cosa hai intenzione di fare? Pagare qualcuno che prepari il suo pane con segala cornuta?» «Troverai qualche sistema. Tu andrai...» «Io non farò niente in questa storia.» Balzò in piedi, come un arco che di scatto si raddrizza se si spezza la corda. I suoi occhi scintillavano alla luce della candela. «Mi hai detto che eri mio servo. Mi hai fatto re, e hai detto che era la volontà di dio. Adesso sono il re, e tu mi ubbidirai.» Ero più alto di lui di due dita. Avevo già tenuto testa a più di un re, e lui era molto giovane. Tacqui appena quanto bastava, poi dissi, piano: «Sono tuo servo, Artù, ma servo il dio in primo luogo. Non costringermi a scegliere. Devo lasciarlo operare come lui vuole». Lui sostenne il mio sguardo ancora per un momento, poi trasse un lungo respiro e espirò, come se fosse un peso di cui si liberava. «E fare questo? Distruggere, forse, proprio quel regno che mi aveva mandato a costruire, come tu dicevi?» «Se ti ha mandato a costruirlo, sarà costruito. Artù, io non fingo di capire tutto questo. Posso solo dirti di aver fiducia nel tempo, come me, e di aspettare. Adesso, fai come avevi fatto finora, non ci pensare e cerca di dimenticare. Lascia che me ne occupi io.» «Che farai?» «Andrò a nord.» Rimase per un attimo immobile, teso, poi disse: «Nel Lothian? Ma avevi detto che non saresti andato». «No. Ho detto che non avrei fatto niente per far uccidere il bambino. Ma posso studiare Morgause e forse, con il tempo, giudicare meglio quello che dobbiamo fare. Ti farò sapere che cosa succede.» Ci fu un altro silenzio. Poi la tensione defluì da lui, che si voltò e cominciò ad allentarsi la cintura. «Benissimo.» Stava per farmi qualche domanda, ma si trattenne e mi sorrise. Dopo avermi mostrato la frusta, pareva che adesso fosse preoccupato di tornare alla fiducia e all'affetto di sempre. «Ma rimarrai per il resto dei festeggiamenti? Se la guerra me lo consente, personalmente dovrò rimanere qui altri otto giorni prima di poter montare
di nuovo a cavallo.» «No. Credo proprio che dovrò partire. Meglio, forse, finché Lot è ancora qui con te. Così posso scomparire prima che lui torni a casa, stare a vedere e aspettare, e intraprendere l'azione che mi parrà opportuna. Con il tuo permesso, partirò domani mattina.» «Chi verrà con te?» «Nessuno. Posso viaggiare da solo.» «Devi prenderti qualcuno. Questa volta, non è come quando te ne torni a casa a Maridunum. E inoltre potrebbe occorrerti un messaggero.» «Mi servirò dei tuoi.» «Sì, però...» Si era tolto la cintura. La lanciò su una sedia. «Ulfin!» Dalla stanza vicina giunse un rumore, poi dei passi discreti. Ulfin, con una lunga veste da notte sul braccio, uscì dalla camera da letto, soffocando uno sbadiglio. «Mio signore?» «Sei stato lì tutto questo tempo?» chiesi brusco. Il viso inespressivo, Ulfin si avvicinò per aprire i fermagli sulla spalla del re. Tenne la lunga veste mentre il re se la sfilava. «Dormivo, mio signore.» Artù si sedette e tese un piede. Ulfin s'inginocchiò per sfilargli la scarpa. «Ulfin, mio cugino il principe Merlino parte domani per il nord, un viaggio che risulterà forse lungo e difficile. Mi spiacerà perderti, ma voglio che tu vada con lui.» Con la scarpa in mano, Ulfin rialzò il viso e mi sorrise. «Volentieri.» «Non dovresti rimanere con il re?» protestai. «Proprio questa settimana...» «Io faccio come lui mi dice» rispose semplicemente Ulfin, e si chinò sull'altro piede. Come te, in definitiva. Queste parole Artù non le disse, ma erano scritte nell'occhiata rapida che mi lanciò mentre si alzava di nuovo perché Ulfin potesse avvolgergli intorno la veste per la notte. Mi arresi. «Benissimo. Sarò contento di averti con me. Partiamo domani, e devo avvertirti che può darsi saremo lontani per un periodo abbastanza lungo.» Gli diedi tutte le istruzioni che potevo dargli, poi mi rivolsi di nuovo ad Artù. «Adesso è meglio che vada. Non penso che ti vedrò prima della partenza. Ti manderò un messaggio appena potrò. Saprò certamente dove ti trovi.» «Certamente.» Tutt'a un tratto appariva risoluto, un vero condottiero. «Puoi darmi ancora un paio di minuti? Grazie, Ulfin, adesso puoi andare.
Dovrai prepararti anche tu... Merlino, vieni a vedere il mio nuovo giocattolo.» «Un altro?» «Come, un altro? Ah, pensavi alla cavalleria. Hai visto i cavalli che ha portato Bedwyr?» «Non ancora. Me ne ha parlato Valerio.» Gli occhi gli si illuminarono. «Sono splendidi! Veloci, focosi e docili. Mi dicono che possono vivere con poco, se è necessario, e che hanno il cuore così nobile che possono galoppare tutto il giorno e poi combattere con te fino alla morte. Bedwyr ha portato degli stallieri insieme a loro. Se quello che dicono è vero, allora di certo avremo una cavalleria in grado di conquistare il mondo! Ci sono due stalloni addestrati, bianchi, che sono una bellezza, più belli perfino del mio Canrith. Bedwyr li ha scelti proprio per me. Da questa parte...» Parlando mi aveva guidato attraverso la stanza, verso un passaggio a volta ornato da colonne e chiuso da una tenda. «Non ho ancora avuto il tempo di provarli, ma di sicuro riuscirò a liberarmi delle mie catene per un paio d'ore domani.» La sua voce era quella di un ragazzo insofferente. Risi. «Lo spero. Io sono più fortunato del re. Sarò in viaggio.» «Certo sul tuo vecchio cavallo nero castrato.» «Neppure. Su un mulo.» «Un mulo?... Ah, naturale. Parti travestito?» «Per forza. Non posso certo penetrare nella roccaforte del Lothian come il principe Merlino.» «Be', stai attento. Sei sicuro di non volere una scorta, almeno per la prima parte del viaggio?» «Sicurissimo. Non mi succederà niente. Che cosa vuoi farmi vedere?» «Solo una mappa. Ecco.» Tirò la tenda. Dietro di essa c'era una specie di anticamera, poco più di un ampio porticato che si affacciava su un piccolo cortile privato. La luce della torcia baluginò sulle lance delle guardie che erano lì di servizio, ma peraltro l'ambiente era vuoto, privo anche di mobili a parte un enorme tavolo; rozzamente ricavato con l'ascia dalla quercia. Era un tavolo per mappe, ma invece della solita base di sabbia reggeva, vidi, una mappa in rilievo fatta di argilla, con monti e valli, coste e fiumi, realizzata da qualche abile scultore, per modo che lì, chiara ed evidente, si stendeva la terra di Britannia come potrebbe vederla un uccello che volasse molto in alto. Artù fu chiaramente felice della mia lode. «Sapevo che ti avrebbe inte-
ressato! Hanno finito di sistemarla solo ieri. Splendida, vero? Ricordi quando mi insegnavi a tracciare le mappe nella polvere? Questo è meglio che fare con la sabbia valli e colline che cambiano forma appena ci respiri sopra. Naturalmente, si può rimodellarla, via via che ne sappiamo di più. A nord dello Strathclyde, si può solo cercar di indovinare... Ma dopo tutto, grazie a Dio, niente di ciò che si trova a nord dello Strathclyde deve preoccuparmi. Non ancora, almeno.» Toccò un piolo, scolpito a forma di drago e dipinto in rosso, piantato sopra «Caerleon». «E ora, in quale direzione hai in mente di andare, domani?» «Pensavo di prendere la strada occidentale che passa da Deva e Bremet. Devo far visita a qualcuno a Vindolanda.» Col dito seguì il percorso che saliva verso il nord finché raggiunse Bremetennacum (adesso comunemente nota come Bremet), e si fermò. «Mi faresti un piacere?» «Volentieri.» «Passa da quella orientale. Non è molto più lontano, e la strada è migliore per la maggior parte del tragitto. Qui vedi? Se volti a Bremet, prendi questa strada che passa dal valico.» Il suo dito continuava a seguire il percorso: a est dopo Bremetennacum, risalendo la vecchia strada che segue il fiume Tribuit, poi oltre il passo e di nuovo giù, attraversando Olicana nella valle di York. Qui passa la Dere, una strada maestra ancora buona e rapida, che attraverso Corstopitum e il Vallo, sempre proseguendo verso il nord, arriva direttamente nel Manau Guotodin, dove sorge la capitale di Lot, Dunpeldyr. «Dovrai tornare un po' indietro per Vindolanda» disse Artù «ma non di molto. Non ti farà perdere tempo, credo. È la strada che passa dal Varco dei Pennini che voglio tu segua. Personalmente non ci sono mai stato. Mi hanno riferito che funziona benissimo - non dovreste avere difficoltà, essendo solo in due - ma qua e là è troppo sconnessa per la cavalleria. Manderò su delle squadre per ripararla. Dovrò pure farla fortificare... Sei d'accordo? Con tratti della costa orientale così scoperti per il nemico, se i sassoni dovessero insediarsi nelle pianure orientali, questa sarebbe la loro testa di ponte per la penetrazione nel cuore stesso della Britannia a ovest. Esistono già due forti; mi si dice che potrebbero essere utilizzati. Voglio che tu li esamini per me. Ma non ci perdere tempo: posso avere rapporti particolareggiati dai topografi, ma se tu potessi andare da quella parte, mi piacerebbe sapere che cosa ne pensi.» «Lo saprai.»
Mentre si raddrizzava, abbandonando la mappa, un gallo cantò di fuori, da qualche parte. Il cortile era grigio. Artù disse, piano: «Quanto all'altra faccenda di cui abbiamo parlato, sono nelle tue mani, e Dio sa che dovrei esserne grato». Sorrise. «Adesso è meglio che andiamo a letto. Tu hai un viaggio che ti aspetta, e io un'altra giornata di piaceri. Ti invidio! Buona notte, e che Dio ti accompagni.» Otto Il giorno seguente, con provviste per due giorni di viaggio e tre buoni muli presi dalle salmerie, Ulfin e io ci mettemmo in strada diretti a nord. Avevo già affrontato dei viaggi in circostanze altrettanto pericolose, viaggi in cui esser riconosciuti avrebbe significato andare incontro al disastro, o addirittura alla morte. Per forza di cose, ero diventato esperto in travestimenti, e questo aveva dato origine a un'altra delle innumerevoli leggende a proposito del «mago», cioè che egli fosse in grado di svanire nell'aria quando voleva per sottrarsi ai nemici. È vero che avevo perfezionato l'arte di sparire fondendomi con il paesaggio: in realtà mi limitavo a prender con me gli strumenti di qualche mestiere, e poi a frequentare luoghi in cui nessuno avrebbe potuto aspettarsi di vedere un principe. La gente mette a fuoco ciò che è un viaggiatore, non chi è, e lo classifica secondo le sue capacità. Avevo viaggiato sotto le spoglie del musico, quando mi serviva avere accesso alla corte di un principe come a un'umile taverna, ma più spesso viaggiavo assumendo l'identità di dottore o di oculista ambulante. Era questo il travestimento che preferivo. Mi consentiva di esercitare la mia arte dove più era necessaria, tra i poveri, e di accedere a ogni genere di dimora, eccetto le più nobili. Fu quello il travestimento che scelsi in tale occasione. Presi la mia arpa piccola, ma solo per mio uso privato; non osavo rischiare che la mia capacità di musico mi procurasse un invito alla corte di Lot. Perciò l'arpa, smorzata e bene avvolta fino a diventare un oggetto anonimo, era appesa al misero basto del mulo che portava i bagagli, mentre le mie cassette di unguenti e il rotolo degli strumenti erano bene in vista. La prima parte del nostro itinerario la conoscevo bene, ma dopo Bremetennacum, quando voltammo verso il Varco dei Pennini, il paese mi divenne sconosciuto. Il Varco è formato dalle valli di tre grandi fiumi. Due di essi, il Wharfe e l'Isara nascono nella pietra calcarea sulle cime dei Pennini e scorrono ser-
peggiando verso est. L'altro, un corso d'acqua importante con innumerevoli affluenti minori, scorre in direzione ovest. Si chiama Tribuit. Superato il Varco e arrivato nella valle del Tribuit, un nemico avrebbe avuto via libera fino alla costa occidentale e agli ultimi lembi fortificati della Britannia. Artù aveva parlato di due forti che sorgevano al centro del Varco. Dalle domande apparentemente oziose che avevo rivolto ai locali nella taverna di Bremetennacum, avevo dedotto che in passato c'era stato un terzo forte a guardia dell'imboccatura occidentale del Varco, dove la valle del Tribuit si allarga verso le pianure e la costa. Era stato costruito dai romani per servire da accampamento provvisorio durante gli spostamenti, perciò gran parte della struttura in legno e torba doveva essere marcita e scomparsa, ma mi venne in mente che la strada che conduceva al forte poteva esser sottoposta a un rilevamento e, se trovata in condizioni ragionevoli, poteva costituire una rapida scorciatoia per la cavalleria che scendeva dal Rheged a difendere il Varco. Dal Rheged a Olicana e poi a York. La strada che doveva aver seguito Morgause per incontrarsi con Lot. Questo mi fece decidere. Avrei seguito la stessa strada, la strada del mio sogno nel santuario di Nodens. Se il sogno non aveva mentito - e su questo non avevo dubbi - c'erano cose che desideravo sapere. Abbandonammo la strada principale subito dopo Bremetennacum e cominciammo a risalire la valle del Tribuit sulla ghiaia di una strada romana abbandonata. Con un giorno di viaggio arrivammo all'accampamento. Come avevo sospettato, ciò che ne era rimasto era ben poco, esclusi i terrapieni, i fossati e qualche tavola di legno marcito dove un tempo erano state le porte. Ma come tutti gli accampamenti romani la scelta della posizione era stata molto intelligente, in margine a una brughiera che dominava, in tutte le direzioni, un territorio completamente scoperto. Ai piedi del pendio scorreva un affluente e a sud il fiume che, attraverso le pianure, andava a gettarsi nel mare. Con la sua posizione, tanto a ovest, era sperabile che l'accampamento non fosse mai utilizzato per la difesa; ma come base di tappa per la cavalleria, o come base provvisoria per una rapida incursione dal Varco, era l'ideale. Non ero riuscito a trovare nessuno che ne conoscesse il nome. Quella sera, quando scrissi la mia relazione per Artù, lo chiamai semplicemente «Tribuit». Il giorno dopo ci avviammo attraverso la campagna verso il primo dei forti di cui aveva parlato Artù. Sorgeva nell'ansa di un fiume acquitrinoso,
accanto all'inizio del valico. Accanto al forte, il fiume si allargava formando un lago, dal quale il luogo prendeva il nome. Benché fosse in rovina, calcolai che si sarebbe potuto rapidamente rimetterlo a posto. Nella valle c'erano legname in abbondanza, una quantità di pietra e uno strato profondo di torba di brughiera. Vi arrivammo sul finire del pomeriggio e poiché l'aria era asciutta e balsamica e le mura della fortezza promettevano un riparo sufficiente, ci accampammo lì. La mattina seguente cominciammo a salire verso la cresta, diretti a Olicana. Un bel po' prima di mezzogiorno eravamo arrivati oltre il limite della foresta e avanzavamo nella brughiera. Era una bella giornata, la nebbia si ritirava dai carici scintillanti e da ogni crepaccio nella roccia saliva il gorgoglio dell'acqua, rigagnoli che scendevano per alimentare il fiume ancora vicino alla sorgente. Anche il cielo mattutino vibrava di suoni, con i chiurli che scendevano in diagonale lungo risonanti rivi di canto verso i loro nidi nell'erba. Vedemmo una lupa, appesantita dal latte, attraversare furtiva la strada davanti a noi, con una lepre nelle fauci. Ci lanciò una rapida occhiata indifferente, poi sparì, al riparo della nebbia. Era una strada selvaggia, una pista per lupi come piacciono agli Antichi. Io tenevo l'occhio sulle rocce che coronavano i ghiaioni, ma non vidi indizio che potessi riconoscere dei loro remoti e scomodi rifugi. Ero sicurissimo, però, che ci tenevano d'occhio a ogni passo del nostro percorso. E sicurissimo, anche, che il vento avesse portato a nord la notizia che il mago Merlino era per strada, e in segreto. Questo non mi turbava. Non è possibile tener nascosto qualcosa agli Antichi: loro sanno tutto ciò che viene o va nella foresta e sulla montagna. Da molto tempo loro e io avevamo raggiunto un accordo, e Artù aveva la loro fiducia. Facemmo sosta alla sommità della brughiera. Mi guardai intorno. Adesso la nebbia si era alzata, disperdendosi sotto il sole sempre più forte. Tutt'intorno a noi si stendeva la brughiera, interrotta da rocce grigie e da chiazze di felci, e in lontananza apparivano le sommità ancora avvolte dalla nebbia di fell e montagne. Sulla sinistra del sentiero il pendio scosceso finiva nell'ampia valle dell'Isara, dove si vedeva l'acqua scintillare tra gli alberi fitti. L'insieme non avrebbe potuto apparire più diverso dalla visione velata dalla pioggia che mi era apparsa nel santuario di Nodens, non fosse stato per la pietra miliare con la sua indicazione, OLICANA, e lì, sulla sinistra, per il sentiero che sprofondava verso gli alberi nella valle. In mezzo agli
alberi, appena visibili per il fogliame, s'intravedevano i muri di una casa di notevoli proporzioni. Accostandosi con il suo mulo al mio, Ulfin la stava indicando. «Se solo l'avessimo saputo, avremmo potuto trovare un alloggio migliore laggiù.» Risposi lentamente: «Ne dubito. Credo che siamo stati meglio sotto le stelle». Mi scoccò un'occhiata di curiosità. «Credevo che tu non fossi mai passato da questa strada, signore. Conoscevi quel posto?» «Diciamo che sapevo della sua esistenza. E che vorrei saperne di più. La prossima volta che attraversiamo un villaggio, o se incontriamo un pastore, cerca di sapere a chi appartiene quella villa, te ne prego.» Mi guardò di nuovo, ma senza aggiungere altro, e proseguimmo. Olicana, il secondo dei due forti di Artù, sorgeva all'incirca dieci miglia a est. Con mia sorpresa la strada, che dapprima era molto scoscesa, poi attraversava una striscia piuttosto estesa di brughiera acquitrinosa, era in ottime condizioni. Fossati e argini parevano esser stati sottoposti a recente manutenzione. C'era un buon ponte di legno che attraversava l'Isara e il guado del più vicino affluente era tenuto libero e lastricato. Di conseguenza potemmo tenere una buona velocità e nelle prime ore della sera entrammo nell'abitato. A Olicana c'è un villaggio piuttosto grande. Trovammo camere in una taverna situata accanto alle mura della fortezza e frequentata dagli uomini della guarnigione. Dopo quanto avevo visto della strada di accesso e della pianta bene organizzata delle vie e della piazza della città, non mi sorprese il fatto che le mura della fortezza fossero ugualmente ben tenute. Porte e ponti levatoi erano in buono stato e robusti e le parti in ferro parevano nuove di zecca. Dalle risposte alle mie domande cautamente oziose, e dalle chiacchiere che ascoltai nella taverna all'ora di cena, fui in grado di desumere che una guarnigione ridotta al minimo era stata dislocata lì ai tempi di Uther, per tener d'occhio la strada che passava dal Varco e le torri di segnalazioni a est. Era stata una misura di emergenza, adottata affrettatamente negli anni peggiori del Terrore sassone, ma gli stessi uomini di allora erano ancora lì, senza speranza di essere ritirati, annoiati fino alla follia, ma mantenuti al massimo dell'efficienza dal comandante della guarnigione che avrebbe meritato, si poteva dedurre, qualcosa di meglio di quel lugubre avamposto di inattività. Il modo più semplice per ottenere la notizia che mi serviva consisteva
nel farmi conoscere da quell'ufficiale, il quale avrebbe potuto vedere che il mio rapporto veniva inoltrato direttamente al re. Di conseguenza, lasciando Ulfin nella taverna, mi presentai al posto di guardia, con il salvacondotto fornitomi da Artù. Dalla rapidità con cui fui fatto entrare, dalla mancanza di sorpresa davanti alla mia apparenza dimessa e al rifiuto di dire il mio nome e lo scopo della mia visita a nessuno che non fosse il comandante in persona, si poteva dedurre che i messaggeri erano frequenti lì. Messaggeri segreti, per di più. Se quello era davvero un avamposto dimenticato (e in effetti né io né i consiglieri del re ne avevamo supposto l'esistenza), era chiaro che gli unici messaggeri che andavano e venivano assiduamente erano spie. Cominciai a essere tanto più impaziente di conoscere il comandante. Fui perquisito prima di essere fatto entrare, e questo c'era naturalmente da aspettarselo. Poi un paio di guardie mi scortarono nel forte fino alla costruzione che ospitava il comando. Mi guardai intorno. Il luogo era bene illuminato e per quanto potevo vedere strade, cortili, pozzi, campi di addestramento, officine, caserme erano tenuti in condizioni perfette. Oltrepassammo botteghe di carpentieri, di sellai, di fabbri. Dal lucchetto sulle porte dei granai, dedussi che dovevano essere pieni. Il forte non era grande ma pure, calcolai, il numero degli uomini era eccessivamente ridotto. La cavalleria di Artù avrebbe potuto essere alloggiata qui quasi prima che si riuscisse a formare il corpo. Il mio salvacondotto venne portato dentro, poi fui ammesso nella stanza del comandante, e le guardie si ritirarono con un disciplina che la diceva lunga. Era lì che venivano accolte le spie; e di solito, ipotizzai, a un'ora altrettanto tarda. Il comandante mi ricevette in piedi; un omaggio non a me ma al sigillo reale. La prima cosa che mi colpì fu la sua gioventù: non poteva avere più di ventidue anni. La seconda cosa fu che era stanco. Rughe di tensione gli solcavano il viso: la sua gioventù, quell'incarico solitario, con la responsabilità di un contingente di uomini duri e annoiati; la sua vigilanza costante, dato il flusso e riflusso delle ondate di invasori sulle coste orientali; e tutto questo, estate e inverno, senza aiuti e senza essere appoggiato alle spalle. Pareva proprio che, da quando lo aveva mandato lì quattro anni prima, quattro anni, Uther si fosse completamente dimenticato di lui. «Hai notizie per me?» Il tono uniforme non nascondeva nessuna impazienza; questa da molto tempo era stata cacciata dalla frustrazione. «Posso darti le notizie quando avrò svolto il mio compito più importan-
te. Sono stato mandato, a mia volta, per avere informazioni da te, se sarai così gentile da fornirmele. Devo mandare una relazione al Sommo re. Sarei lieto se un messaggero potesse portargliela appena l'avrò terminata.» «Questo possiamo farlo. Subito? Entro mezz'ora un uomo può essere pronto.» «No, non è così urgente. Potremmo prima parlare, per favore?» Si sedette, indicandomi una sedia. Per la prima volta lasciò apparire una scintilla di interesse. «Vuoi dire che la relazione riguarda Olicana? Posso sapere perché?» «Te lo dirò, naturalmente. Il re mi ha chiesto di scoprire tutto quello che potevo su questo forte, e anche su quello in rovina che si trova sul valico, quello che chiamano il forte del lago.» Annuì. «Lo conosco. È un rudere da quasi duecento anni. Fu distrutto nella ribellione dei Briganti, e lasciato marcire. Anche a questo forte toccò lo stesso destino, ma Ambrogio lo fece ricostruire. Aveva dei progetti anche per il forte del lago, mi hanno detto. Se avessi avuto l'incarico, avrei potuto...» Si controllò. «Ah, bene... Vieni da Bremet? Allora saprai che un paio di miglia a nord di quella strada c'è un altro forte - non ne è rimasto niente, solo le tracce - ma secondo me sarebbe altrettanto essenziale per qualsiasi strategia che prendesse in considerazione il Varco. Ambrogio lo pensava, mi hanno detto. Lui vedeva il Varco come un punto chiave della sua strategia.» Su quel «lui» non si avvertiva un'enfasi particolare, ma era facile trarre le deduzioni. Non solo Uther aveva dimenticato l'esistenza di Olicana e della guarnigione che vi era dislocata, ma aveva anche ignorato o non capito l'importanza di quella strada che passava dal Varco dei Pennini. Mentre il giovane che era davanti a me, nel suo impotente isolamento, l'aveva capito molto bene. Dissi in fretta: «Adesso il nuovo re lo vede nello stesso modo. Vuole fortificare di nuovo il Varco, non solo con l'intenzione di chiuderlo e attestarvisi per resistere a una eventuale penetrazione da est, ma anche per utilizzare il valico come base per rapidi attacchi. Mi ha incaricato di vedere che cosa c'è da fare qui. Credo che dopo che avranno esaminato le mie relazioni puoi contare sulla venuta dei topografi. Questo forte è stato mantenuto in una condizione di efficienza che il re, lo so, non si aspettava. Ne sarà compiaciuto». Poi gli dissi qualche cosa dei progetti di Artù sulla costituzione della cavalleria. Lui ascoltava avidamente, si era lasciato alle spalle la noia logorante, e le domande che mi fece dimostravano che era piuttosto informato
sulla situazione della costa orientale. Inoltre pareva conoscere in modo sorprendentemente approfondito i movimenti e la strategia dei sassoni. Su questo per il momento sorvolai e cominciai a mia volta a fare domande sulla ricettività e gli approvvigionamenti di Olicana. Dopo un paio di minuti si alzò, si avvicinò a un cofano chiuso con uno dei soliti grossi lucchetti, l'aprì e tirò fuori tavolette e pergamene che contenevano, come poi risultò, elenchi particolareggiati di quanto volevo sapere. Li studiai per alcuni minuti, poi mi resi conto che lui era in attesa, scrutandomi, con altri elenchi nelle mani. «Credo» esordì, poi esitò. Quindi, dopo un momento, decise di continuare. «Non credo che il re Uther, in questi ultimi anni, abbia valutato appieno che cosa poteva significare nella prossima guerra la strada che attraversa il Varco. Quando sono stato mandato qui - quand'ero giovane - ho considerato il forte solo come un avamposto, un luogo in cui far pratica, si potrebbe dire. Era meglio del forte del lago, allora, ma appena un po' meglio... Ci è voluto un bel po' di tempo per rimetterlo in efficienza... Be', tu sai che cosa è successo, signore. La guerra si è spostata verso nord e verso sud; il re Uther era malato, e il paese diviso; pareva che ci avessero dimenticati. Di tanto in tanto mandavo dei corrieri, con le notizie, ma senza ricevere nessun riscontro. Perciò per mia esclusiva istruzione e, lo riconosco, per mio piacere, ho cominciato a mandare in giro degli uomini - non soldati, ma per lo più ragazzi del villaggio, amanti dell'avventura - e a raccogliere informazioni. Ho sbagliato, lo so, ma...» S'interruppe. «Le hai tenute per te, quelle informazioni?» lo incitai a continuare. «Sì, ma non per motivi sconvenienti» disse lui in fretta. «Mandai un corriere, con una notizia che a me era parsa importante, ma non seppi più niente di lui né del messaggio che aveva portato. Perciò non volli più affidare qualche cosa a messaggeri che forse non sarebbero stati ricevuti dal re.» «Ti posso assicurare che qualsiasi cosa io mandi al re, purché gli arrivi riceverà immediatamente la sua attenzione.» Durante la nostra conversazione mi aveva esaminato di sottecchi paragonando, immagino, il mio aspetto dimesso con i modi che, davanti a lui, non avevo fatto nessun tentativo per camuffare. Disse lentamente, sbirciando gli elenchi che aveva in mano: «Ho il salvacondotto e il sigillo del re, perciò devo fidarmi di te. Posso sapere il tuo nome?». «Se lo desideri. Ma tienilo per te. Ho la tua promessa?» «Ovvio» disse lui con un filo di impazienza.
«Posso dirti allora che sono Myrddyn Emrys, comunemente noto come Merlino. Come avrai capito, viaggio privatamente, con il nome di Emrys, medico itinerante.» «Signore...» «No» feci in fretta. «Risiediti. Te l'ho detto solo perché tu potessi esser sicuro che le tue notizie arriveranno all'orecchio del re, e presto. Posso vedere, adesso?» Depose gli elenchi davanti a me. Li esaminai. Altre notizie; progetti di insediamenti fortificati con il numero dei soldati e delle armi; movimenti di soldati accuratamente annotati; rifornimenti; navi... Rialzai gli occhi, perplesso. «Ma questi sono i piani degli schieramenti sassoni?» Annuì. «E anche recenti, signore. Ho avuto un colpo di fortuna, l'estate scorsa. Mi hanno messo in contatto - come non importa - con un sassone, un federato della terza generazione. Come molti dei vecchi federati, vuole mantenere il vecchio ordinamento. Per questi sassoni la parola data è sacra e inoltre» l'ombra di un sorriso passò sulla giovane bocca dura «non si fidano degli immigranti. Alcuni di questi nuovi avventurieri vogliono prendere il posto dei federati ricchi, esattamente come vogliono cacciare i britannici.» «E queste informazioni vengono da lui. Possiamo fidarcene?» «Credo di sì. I particolari che ho potuto controllare ho scoperto che sono esatti. Non so quanto siano sicure, e recenti, le informazioni che ha il re, ma credo che dovresti attirare la sua attenzione sulla parte - ecco, questa che riguarda Elesa e Cerdic Elesing. Vuol dire...» «Figlio di Elesa. Sì. Perché Elesa sarebbe il nostro vecchio amico Eosa?» «Appunto. Il figlio di Horsa. Certamente saprai che, dopo che lui e il suo parente Octa fuggirono dalla prigione in cui li teneva Uther, Octa morì a Rutupiae, mentre Eosa se ne andò in Germania e chiamò a raccolta i figli di Octa, Colgrim e Badulf, incitandoli a sferrare l'attacco nel nord... Bene, quello che forse non sai è che prima di morire Octa rivendicava il titolo di re, qui in Britannia: non era molto più della carica di capotribù che aveva avuto come figlio di Hengist. Né Colgrim né Badulf sembra lo tenessero in gran conto; però adesso sono morti anche loro e, come vedi...» «Eosa viene fuori con la stessa rivendicazione. Sì. Con maggior successo?» «Così pare. Re dei sassoni occidentali, si definisce, e il suo giovane fi-
glio, Cerdic, è noto come "Aetheling". Pretendono di discendere da qualche remoto eroe o semidio. Questa è una cosa normale, naturalmente, ma il fatto è che il suo popolo ci crede. Puoi capire che questo getta una nuova luce sulle invasioni sassoni.» «Potrebbe modificare quello che dicevi a proposito dei federati di vecchia data.» «Appunto. Eosa e Cerdic hanno una reputazione di questo genere, capisci. Questo discorso di un regno... Lui va promettendo stabilità - e diritti ai vecchi federati, e rapida morte per gli immigranti. È sincero, anche. Voglio dire, ha dimostrato di essere qualcosa di più di un avventuriero intelligente; ha instaurato la leggenda di una sovranità eroica, è accettato come legislatore, ed è abbastanza potente da imporre nuove usanze. Cambiare addirittura le consuetudini in fatto di funerali... loro non bruciano più i morti adesso, mi dicono, e neppure li sotterrano con le armi e gli arredi tombali secondo la vecchia usanza. Secondo Cerdic Aetheling, sarebbe uno spreco». Di nuovo quell'accenno di sorriso duro. «Fanno purificare ritualmente, ai loro preti, le armi dei morti, e poi le riutilizzano. Adesso credono che una lancia che è stata usata da un buon soldato renderà il prossimo proprietario altrettanto valoroso, o migliore... e che l'arma tolta a un guerriero sconfitto combatterà con maggior foga, perché le è stata data una seconda possibilità. Te lo dico io, un uomo pericoloso. Il più pericoloso, forse, dopo Hengist.» Mi aveva colpito, e glielo dissi. «Il re esaminerà questo materiale appena potrò farglielo avere. Verrà immediatamente sottoposto alla sua attenzione, te lo prometto. Hai certamente capito la sua importanza. Quando puoi farmi fare delle copie?» «Ho già le copie. Queste si possono mandare immediatamente.» «Bene. Adesso, se permetti, aggiungerò una parola alla tua relazione, e vi allegherò il mio rapporto sul forte del lago.» Lui portò il materiale per scrivere e me lo mise davanti, poi si diresse alla porta. «Vado a vedere per un messaggero.» «Grazie. Un momento, però...» Si fermò. Avevamo parlato in latino, ma c'era qualcosa nel suo modo di servirsi di questa lingua che mi aveva rivelato la sua provenienza dal sudovest. Dissi: «Alla taverna mi hanno detto che il tuo nome è Geronzio. Posso arrischiarmi a supporre che un tempo era Gereint?». Sorrise, e di colpo fu molto più giovane. «Lo è ancora, signore.» «È un nome che Artù sarà felice di conoscere» dissi, e mi misi a scrive-
re. Lui rimase fermo un momento, poi si avviò verso la porta, l'aprì e parlò con qualcuno che era lì fuori. Tornò indietro e, avvicinandosi a un tavolo in angolo, versò il vino e posò un calice accanto a me. Lo sentii tirare il respiro una volta, come se fosse sul punto di parlare, ma non disse niente. Finalmente, completai il mio messaggio. Lui si avvicinò di nuovo alla porta, poi tornò nella stanza, questa volta seguito da un uomo, un tipo magro e scattante che aveva l'aria di essere stato appena svegliato, ma già vestito per il viaggio. Aveva una borsa di cuoio munita di un solido lucchetto. Era pronto a mettersi in viaggio, disse, riponendo i plichi che gli tendeva Gereint; avrebbe mangiato strada facendo. Le concise direttive impartite da Gereint dimostravano, ancora una volta, quanto questi fosse bene informato. «La cosa migliore è che passi da Lindum. Ormai il re dev'essere partito da Caerleon e deve trovarsi sulla via del ritorno, diretto a Linnuis. Quando arriverai a Lindum, troverai sue notizie.» L'uomo annuì appena e se ne andò. Così, a solo poche ore dal mio arrivo a Olicana, il mio rapporto, con quelle preziose aggiunte, era già in viaggio. Adesso ero libero di rivolgere i miei pensieri a Dunpeldyr e a quanto vi avrei trovato. Ma in primo luogo dovevo compensare Gereint per il servizio reso. Egli mi versò dell'altro vino e si accinse, con un'impazienza che da molto tempo doveva essergli estranea, a tempestarmi di domande sull'ascesa al trono di Artù a Luguvallium, e sulle attività che aveva svolto, in seguito, a Caerleon. Meritava che gli rispondessi in modo esauriente, e lo feci. Solo quando stava quasi per passare la ronda di mezzanotte, potei fargli le domande che mi premevano. «Subito dopo Luguvallium, Lot del Lothian è passato di qui?» «Sì, ma senza attraversare Olicana. C'è una strada - è poco più di una pista, ormai - che parte dal tracciato principale e va esattamente a est. È una pessima strada, e costeggia alcuni pericolosi acquitrini, perciò è molto poco usata, benché sia la via più rapida per chi va a nord.» «Ma Lot l'ha usata, anche se si dirigeva verso sud, a York? Per evitare di essere visto a Olicana, pensi?» «Questo non mi è venuto in mente» disse Gereint. «No, cioè, non mi è venuto in mente che più tardi... Lui possiede una casa su quella strada. Andava a stare lì, anziché alloggiare qui in città.» «Possiede una casa? Capisco. Sì, l'ho vista dal valico. Un posticino tran-
quillo, ma solitario.» «Se è per questo» disse lui «la usa molto poco.» «Ma tu sapevi che era lì?» «So la maggior parte delle cose che avvengono nei dintorni.» Indicò, con un gesto, la cassa chiusa col lucchetto. «Come una vecchia seduta sulla porta della sua casetta, ho ben poco da fare oltre che osservare i miei vicini.» «Ho motivo di esserne grato. Allora devi sapere chi ha incontrato Lot nella sua casa in montagna?» Il suo sguardo sostenne il mio per dieci secondi buoni. Poi il giovane sorrise. «Una certa dama semiregale. Sono arrivati separatamente e sono ripartiti separatamente, ma sono arrivati a York insieme.» Alzò interrogativamente le sopracciglia: «Ma tu questo come lo sapevi, signore?». «Ho i miei sistemi di spionaggio.» Lui disse, calmo: «Lo credo. Be', adesso tutto è sistemato e messo a posto davanti a Dio e agli uomini. Il re del Lothian è andato con Artù da Caerleon a Linnuis, mentre la sua giovane regina aspetta a Dunpeldyr di partorire il bambino. Sapevi, naturalmente, del bambino?». «Sì.» «Si erano incontrati qui altre volte» disse Gereint, con un cenno che voleva dire, chiaramente «e adesso vediamo i risultati di quegli incontri.» «Veramente? Spesso? E da quando?» «Da quando io sono venuto qui, forse tre o quattro volte.» Il suo tono non era quello di uno che trasmette pettegolezzi da taverna, era il tono deciso di chi si limita a dare un'informazione. «Una volta sono stati qui insieme per tutto un mese, ma sono rimasti nascosti. Soltanto ce lo riferirono; noi non li vedemmo mai.» Pensai alla camera da letto, con il cremisi e l'oro regali. Non mi ero ingannato. Amanti da lunga data, appunto. Se solo avessi potuto credere a ciò che avevo detto ad Artù, che in effetti il bambino poteva essere di Lot. Almeno, dal tono indifferente usato da Gereint, questo era finora ciò che la maggior parte della gente credeva. «E adesso» stava dicendo Gereint «l'amore l'ha spuntata, a dispetto della politica. Posso osare chiederti se il Sommo re è arrabbiato?» Si era guadagnato una risposta sincera e gliela diedi. «Era arrabbiato, naturalmente, per il modo in cui il matrimonio è stato concluso, ma adesso capisce che sarà utile quanto sarebbe stato l'altro. Morgause è sua sorellastra, perciò l'alleanza con il re Lot rimarrà in piedi
malgrado tutto. E Morgana è così libera per qualsiasi altro matrimonio che si possa presentarle.» «Il Rheged» fece lui, immediatamente. «Può darsi.» Sorrise, e lasciò cadere l'argomento. Parlammo ancora un po', poi mi alzai per andarmene. «Dimmi una cosa» gli chiesi ancora. «Il tuo sistema di informazioni ti aveva anche permesso di localizzare Merlino?» «No. Mi era stato riferito che c'erano due viaggiatori, ma non c'era nessun indizio sulla loro identità.» «O sul luogo verso il quale erano diretti?» «No, signore.» Ero soddisfatto. «Non c'è bisogno che insista sul fatto che nessuno deve sapere chi sono, vero? Non farai cenno di questo colloquio nei tuoi resoconti.» «Si capisce. Signore...» «Che c'è?» «A proposito di quella tua relazione su Tribuit e il forte del lago. Hai detto che sarebbero arrivati dei topografi. Mi viene in mente che potrei far risparmiare loro un bel po' di tempo mandando lì immediatamente delle squadre di lavoro. Potrebbero cominciare con le incombenze preliminari sgomberare, raccogliere torba e legname, cavare pietra, tracciare i fossati... Se tu autorizzassi il lavoro?» «Io? Non ho nessuna autorità.» «Nessuna autorità?» ripeté lui senza capire poi si mise a ridere. «No, ho capito. Non posso certo far riferimento all'autorità di Merlino, altrimenti la gente potrebbe chiedere come essa sia arrivata qui da me. E potrebbe ricordare un certo umile viaggiatore, venditore ambulante di erbe medicinali e medicamenti... Be', dato che quello stesso viaggiatore mi ha portato una lettera del Sommo re, sarà certamente sufficiente la mia personale autorità.» «Da un pezzo deve essere sufficiente» riconobbi, e, molto soddisfatto, mi congedai. Nove Così ripartimmo verso nord. Una volta raggiunta la strada principale che portava a nord da York, quella che chiamano la Dere, procedere fu facile, e
tenemmo una buona velocità. Qualche volta alloggiavamo in taverne ma, dato che il tempo era bello e faceva caldo, il più delle volte proseguivamo finché c'era luce, poi ci accampavamo in qualche macchia fiorita, accanto alla strada. Poi, dopo aver cenato, io facevo musica per mio piacere e Ulfin ascoltava, sognando i suoi sogni personali, finché il fuoco si consumava, ormai bianca cenere, e spuntavano le stelle. Era un buon compagno di viaggio. Ci conoscevamo fin da ragazzi, quando io mi trovavo in Britannia minore con Ambrogio che raccoglieva e addestrava l'esercito con cui avrebbe sconfitto Vortigern e conquistato la Britannia maggiore. Ulfin era allora servo - schiavo fanciullo - del mio precettore Belasio. Aveva avuto una vita dura con quell'uomo singolare e crudele, ma dopo la morte di Belasio Uther l'aveva preso al suo servizio, dove Ulfin aveva presto conquistato una posizione di fiducia. Aveva ormai all'incirca trentacinque anni, capelli scuri e occhi grigi, molto silenzioso e riservato, come lo sono quelli che sanno di dover vivere per tutta la vita da soli o come compagni di altri uomini. Gli anni in cui era stato l'amasio del mio antico precettore avevano lasciato il segno. Una sera composi una canzone e la cantai rivolto alle dolci colline che sono a nord di Vinovia, dove fiumicelli impetuosi serpeggiano profondi nelle loro valli ammantate di foreste, mentre la grande strada scavalca le alture, attraverso leghe e leghe di felci e di ginestre, sulle lunghe brughiere fiorite di erica, dove gli unici alberi sono pini e ontani e boschetti di betulle argentee. Eravamo accampati in uno di questi boschetti, il terreno asciutto sotto di noi e i rami snelli delle betulle, immobili nella sera calda, come tenda di seta sopra di noi. Ecco la canzone. La chiamai una canzone di esilio e da allora ne ho sentito varie versioni, elaborate da qualche famoso musico sassone, ma la prima fu la mia: Chi non ha compagni Cerca spesso la misericordia, La grazia Del creatore, Dio. Triste, oh triste, l'uomo fedele Che sopravvive al suo signore. Egli vede il mondo desolato Come un muro sfiorato dal vento,
Come un castello deserto, dove la neve Entra turbinando dalle finestre, Si ammucchia sul letto rotto E sulla nera pietra del focolare. Piango la coppa scintillante! Piango la sala del banchetto! Piango la spada che teneva Gregge e frutteto Al riparo dagli artigli del lupo! Morto è l'uccisore del lupo, Morto colui che dettava legge, Colui che la faceva rispettare, Mentre il triste lupo, e l'aquila, e il corvo, Come re si istallano al suo posto. Mi ero fatto trascinare dalla musica e quando, alla fine, lasciai che l'ultima nota si perdesse nel silenzio, fui molto sorpreso di vedere due cose: una era Ulfin che, seduto dall'altra parte del fuoco, ascoltava rapito, il viso rigato di lagrime; l'altra era che avevamo visite. Né Ulfin né io, chiusi nel cerchio della musica, avevamo notato i due viandanti che si avvicinavano sul muschio morbido della strada in mezzo alla brughiera. Ulfin li vide proprio contemporaneamente a me e balzò in piedi, la mano sul pugnale. Ma era evidente che non avevano cattive intenzioni, sicché il pugnale tornò nel fodero prima che io dicessi «Mettilo via» o che il primo degli intrusi sorridesse, tendendo in avanti la mano come a rabbonirci. «Tranquilli, compari, tranquilli. Un po' di musica mi è sempre piaciuta, e tu hai davvero talento, proprio molto talento.» Lo ringraziai e, come se le parole fossero state un invito, lui si fece più vicino al fuoco e sedette, mentre il ragazzo che lo accompagnava, grato di quella sosta, scaricava i fardelli che aveva sulle spalle e si lasciava ugualmente cadere a terra. Rimase un po' indietro, lontano dal fuoco, benché con l'oscurità notturna avesse incominciato a soffiare un venticello freddo, che rendeva molto gradito il calore di quel fuoco di ceppi. Il nuovo arrivato era un uomo piuttosto piccolo, anziano, con una bella barba grigia e sopracciglia indocili sugli occhi marroni da miope. Il suo abbigliamento era logoro per il viaggio, ma pulito, il mantello di buon tessuto, i sandali e la cintura di cuoio morbido per la buona concia. Strana-
mente, la fibbia della sua cintura era d'oro - oppure aveva una doratura molto spessa - e di foggia elaborata. Il mantello era tenuto chiuso da un massiccio fermaglio a disco, pure dorato, con una decorazione di ottima fattura, un triscele in filigrana, racchiuso entro il bordo di una profonda scanalatura. Il ragazzo, che in un primo momento avevo creduto fosse suo nipote, era vestito in modo analogo, ma il suo unico gioiello era qualcosa che assomigliava a un amuleto, che portava appeso a una sottile catena, al collo. Quando protese le braccia per srotolare le coperte per la notte e la manica gli si sollevò, gli scorsi sull'avambraccio la cicatrice raggrinzita di un vecchio marchio. Uno schiavo, quindi; e dal modo in cui si teneva lontano dal calore del fuoco, e in silenzio si dava da fare a disfare i bagagli, schiavo doveva essere ancora. Il vecchio era un possidente. «Non ti dispiace?» Il vecchio si rivolgeva a me. Il nostro abbigliamento semplice e le abitudini ancor più semplici - il necessario per dormire sotto le betulle, i piatti comuni e i corni per bere, le bisacce da sella consunte che usavamo come cuscino - gli avevano fatto capire che eravamo socialmente non superiori a lui, se pure eravamo suoi pari. «Abbiamo perso la strada a qualche miglio da qui, e ci ha fatto molto piacere sentirti cantare e vedere la luce del fuoco. Abbiamo indovinato che potevate essere non troppo lontani dalla strada e adesso il ragazzo mi dice che è proprio laggiù, sia ringraziato il fuoco di Vulcano! La brughiera va benissimo con la luce, ma quando fa scuro è traditrice, sia per gli uomini che per le bestie...» Continuò a parlare; nel frattempo Ulfin, a un mio cenno, si alzò per andare a prendere la fiasca del vino e offrirgliene. Ma l'uomo si fece pregare, con un certo compiacimento. «No, no. Ti ringrazio, mio buon signore, ma abbiamo da mangiare. Non c'è bisogno che ti disturbiamo... a parte, se ce lo permetti, per godere del tuo fuoco e della compagnia per la notte. Il mio nome è Beltane, e il mio servo si chiama Ninian.» «Noi siamo Emrys e Ulfin. Sii il benvenuto. Non vuoi un po' di vino? Ne abbiamo abbastanza.» «Anch'io. Anzi, mi offendo se non lo bevete con me. Un vino notevole, spero siate d'accordo...» Poi, voltando la testa: «Da mangiare, ragazzo, in fretta, e offri a questi signori un po' del vino che mi ha dato il comandante». «Vieni da lontano?» gli chiesi. Secondo l'etichetta della strada, non è lecito chiedere direttamente a uno da dove viene né dove è diretto, ma la stessa etichetta impone a lui di dirlo anche se quello che racconterà può
essere palesemente falso. Beltane rispose senza esitazione, mentre masticava la coscia di pollo che il ragazzo gli aveva presentato. «Da York. Ho trascorso l'inverno in città. Di solito mi metto in cammino prima, ma aspettavo... Molto piena la città...» Masticò e inghiottì, aggiungendo, con voce più chiara: «Era un momento favorevole. Gli affari andavano bene, perciò sono rimasto». «Sei passato da Catraeth?» Aveva parlato nella lingua britannica perciò, per adeguarmi, diedi alla città il suo vecchio nome. I romani la chiamavano Cataracta. «No. Dalla strada a est sulla pianura. Non te la consiglio, signore. Siamo stati contenti di voltare sui sentieri della brughiera per raggiungere la Dere, a Vinovia. Ma questo sciocco» con un movimento della spalla indicò lo schiavo «non ha visto la pietra miliare. Io devo fare affidamento su di lui; la mia vista è pessima, salvo quando una cosa mi è vicina come questo pezzo di pollo. Be', Ninian stava contando le nuvole, come al solito, invece di stare attento alla strada, e già al crepuscolo non avevamo idea di dove ci trovassimo, e non sapevamo se avessimo già oltrepassato la città. L'abbiamo oltrepassata adesso? Io temo di sì.» «Ho paura di sì, infatti. Noi l'abbiamo attraversata nel tardo pomeriggio. Mi spiace. Avevi affari da sbrigare?» «Ho affari in tutte le città.» Pareva per nulla preoccupato. Ne fui lieto, per il bene del ragazzo. Questi era accanto a me con la fiasca del vino, e mesceva serio e assorto; Beltane, mi parve di capire, era il tipo che abbaia e non morde: Ninian non dimostrava la minima paura. Lo ringraziai e lui alzò il viso per lanciarmi un'occhiata e mi sorrise. Capii allora di aver giudicato male Beltane; in effetti, le sue critiche sembravano giustificate; era chiaro che i pensieri del ragazzo, a dispetto del suo apparente concentrarsi sui suoi compiti, erano a mille miglia da lì; quel dolce sorriso appena velato veniva dal sogno in cui era immerso. I suoi occhi, alla luce piena d'ombre del fuoco e della luna, erano grigi, cerchiati di qualcosa di oscuro simile al fumo. Qualcosa in quegli occhi, e nella grazia assente dei suoi movimenti, mi era certamente familiare... Sentii l'aria notturna alitarmi sulla schiena e i capelli rizzarmisi come il pelo di un gatto che va in cerca di prede la notte. Ma il ragazzo si era allontanato da me senza parlare e adesso era curvo su Ulfin, con la fiasca. «Provalo, signore» mi incitò Beltane. «È un buon vino. L'ho avuto da
uno degli ufficiali di guarnigione a Ebor... Dio sa dove era riuscito a metterci le mani, ma è meglio non fare domande, no?» E accennò una strizzatina d'occhio, mentre aveva ripreso a masticare il suo pezzo di pollo. Il vino era effettivamente buono, robusto, vellutato e scuro, e poteva competere con qualunque vino avessi mai assaggiato, perfino in Gallia o in Italia. Feci i complimenti a Beltane, chiedendomi, mentre parlavo, quale servizio avesse potuto provocare un pagamento del genere. «Aha!» fece lui sempre con quell'atteggiamento compiaciuto. «Ti stai chiedendo che cosa posso aver fatto per fargli sganciare una roba di questo genere, eh?» «Be', sì. Me lo stavo chiedendo» riconobbi, sorridendo. «Sei un mago, che leggi nel pensiero?» Ridacchiò. «Non un mago di quel genere. Ma anche adesso so che cosa stai pensando.» «Davvero?» «Muori dalla voglia di sapere se sono il mago del re in incognito, garantito! Si crederebbe che può essere necessario quel genere di magia per strappare a Vitruvio un vino come questo... E Merlino viaggia come me; lo prenderesti per un semplice venditore, dicono, magari con un solo schiavo per compagno, o magari neppure quello. Ho ragione?» «A proposito del vino, sì, certo. Devo supporre, allora, che sei più di un "semplice venditore"?» «Potresti ben dirlo.» Annuì, pieno di sé. «Ma parliamo di Merlino. Ho saputo che è partito da Caerleon. Nessuno sapeva dove fosse diretto, o con quale incarico, ma lui fa sempre così. Dicevano, a York, che il Sommo re sarebbe stato di ritorno a Linnuis prima della prossima luna, ma Merlino è scomparso il giorno dopo l'incoronazione.» Spostò lo sguardo da me a Ulfin. «Sapete niente di quello che si prepara?» La sua curiosità non era altro che la normale prassi dello scambio di notizie cui si dedica il venditore ambulante. Questa categoria di persone è speciale per diffondere notizie e scambiarle: per questo è bene accolta dappertutto e considera queste attività alla stregua di veri e propri ferri del mestiere. Ulfin scosse la testa. Il suo viso era totalmente inespressivo. Il ragazzo Ninian non ascoltava nemmeno. Aveva voltato la testa verso l'oscurità profumata della brughiera. Potevo sentire il richiamo intermittente, gorgogliante di qualche uccello ritardatario che si agitava nel nido; sul viso del ragazzo la gioia andava e veniva, uno sprazzo di luce fuggevole ed evane-
scente come il chiarore delle stelle sulle foglie in movimento sopra a noi. Ninian sapeva dove rifugiarsi, a quanto pareva, per sfuggire a un padrone loquace e al lavoro ingrato della giornata. «Veniamo da occidente, sì, da Deva» dissi, fornendo a Beltane l'informazione che stava cercando di ottenere. «Ma le notizie che posso avere sono superate. Viaggiamo lentamente. Io sono un dottore e non posso mai allontanarmi molto senza lavorare.» «Davvero? Ah, bene» disse Beltane, addentando con voluttà una focaccina d'orzo «di certo sapremo qualche cosa quando arriveremo al ponte di Cor. Anche tu sei diretto lì? Bene, bene. Ma non devi aver paura se viaggi con me! Non sono un mago, in incognito né altro, e anche se gli uomini della regina Morgause dovessero promettermi oro, o minacciarmi la morte sul rogo, farei presto a dimostrarlo!» Ulfin alzò gli occhi di scatto, ma io mi limitai a chiedere: «In che modo?». «Grazie al mio mestiere. Ho una mia particolare magia. E anche se dicono che Merlino è maestro di quell'arte, la mia è tale che se non l'hai imparata non puoi fingere di averla. E per impararla» questo fu detto con la solita ilare soddisfazione «ci vuole una vita.» «Possiamo sapere di che si tratta?» La domanda era di pura cortesia. Quello era chiaramente il momento della rivelazione che era venuto accuratamente preparando. «Ve lo mostrerò.» Inghiottì l'ultima briciola della focaccina, si pulì delicatamente la bocca e prese un altro sorso di vino. «Ninian! Ninian! Avrai tempo per sognare tra poco! Tira fuori il pacco e metti la legna sul fuoco. Vogliamo luce.» Ulfin si sporse all'indietro e gettò sul fuoco dell'altra fascina. Le fiamme guizzarono in alto. Il ragazzo andò a prendere un involto voluminoso di morbido cuoio, e s'inginocchiò accanto a me. Sciolse i legacci e srotolò l'involto sul terreno, nel cerchio di luce proiettato dal fuoco. Ci fu un lampo e un bagliore. L'oro rifletteva la luce morbida e intensa, smalti neri e scarlatti, madreperla, vetri color granata e azzurri - disposti o appuntati sulla pelle di capretto c'erano gioielli di ottima fattura. Vidi fermagli, spille, collane, amuleti, fibbie per sandali o cinture, e un grappolo di incantevoli ghiande d'argento per la cintura di qualche dama. I fermagli erano per lo più del tipo rotondo che anche l'uomo aveva indosso, ma ce n'erano uno o due del vecchio modello ad arco, e vidi anche alcuni animali, e uno molto elaborato a forma di drago arrotolato, eseguito con grande
maestria, di granati tempestati d'oro a rilievo e in filigrana. Alzai gli occhi e sorpresi Beltane che mi osservava con impazienza. Gli diedi quello che voleva. «Sono lavori splendidi. Meravigliosi. I più belli che abbia mai visto.» Avvampò di puro e semplice piacere. Adesso che lo avevo messo a fuoco, potevo permettermi di stare più tranquillo. Era un artista, e gli artisti vivono delle lodi come le api del nettare. E non hanno grandi interessi al di fuori della loro arte; Beltane si era dimostrato ben poco curioso della mia attività. Le sue domande erano piuttosto innocue, le domande di un venditore ambulante in cerca di notizie; e con gli avvenimenti di Luguvallium ancora oggetto di chiacchiere intorno a ogni focolare, quale boccone più ghiotto di un accenno agli spostamenti e alle destinazioni di Merlino? Sicuramente non aveva idea dell'identità delle persone con cui stava parlando. Gli feci alcune domande sul lavoro, e queste per autentico interesse: ho sempre imparato quello che potevo su qualsiasi attività umana. Le sue risposte mi dimostrarono ben presto che era sicuramente l'artefice dei gioielli, e ciò spiegava anche per quale servizio il vino fosse servito da ricompensa. «La vista» dissi. «Te la sei rovinata con questo lavoro?» «No, no. La mia vista è pessima, ma per questo lavoro, per vedere da vicino, va benissimo. Essendo un artista, è stata davvero un dono del cielo. Anche adesso, che non sono più giovane, vedo molto bene i particolari, ma per me il tuo viso, mio buon signore, è tutt'altro che nitido; e quanto agli alberi che ci circondano, perché alberi credo che siano...» Sorrise e scosse le spalle. «Ecco perché mi tengo questo pigro sognatore di ragazzo. Lui è i miei occhi. Senza di lui non potrei viaggiare come faccio e, per la verità, sono stato fortunato ad arrivare fin qui sano e salvo, anche con i suoi occhi, sciocchino com'è. Questo non è un paese in cui si possano lasciare le strade e avventurarsi in mezzo agli acquitrini.» La sua acredine era un'abitudine. Ninian la ignorava; aveva colto l'occasione di mostrarmi i gioielli per stare accanto al fuoco. «E adesso?» chiesi all'orafo. «Mi hai mostrato lavori adatti a corti regali. Di sicuro troppo belli per le piazze dei mercati. Dove li stai portando?» «C'è bisogno di chiederlo? A Dunpeldyr, nel Lothian. Con il re sposo di fresco e la regina bella come il biancospino e l'acetosella, ci saranno affari di sicuro per uno come me.» Stesi la mano verso il calore della fiamma. «Ah, sì» dissi. «Ha sposato Morgause, alla fine. Impegnato con una principessa e sposato con un'altra.
Ne ho sentito parlare. Tu c'eri?» «Certo che c'ero. E il re Lot non ha gran colpa, dicevano tutti. La principessa Morgana è piuttosto bella, ed è chiaro che è figlia di re, ma l'altra... be', lo sai quello che si dice. Nessun uomo, e non parliamo di un uomo come Lot del Lothian, può trovarsi a portata di mano quella senza bruciare dal desiderio di portarsela a letto.» «Per questo la tua vista era buona abbastanza?» chiesi, e vidi Ulfin sorridere. «Non mi serviva la vista.» Rise sonoramente. «Le orecchie le ho; e ho sentito i discorsi che si fanno, e una volta le sono stato abbastanza vicino da sentire il suo profumo, e scorgere il colore dei suoi capelli al sole, e ascoltare la sua voce aggraziata. Allora ho chiesto al ragazzo di dirmi com'era, e ho fatto questa catena per lei. Credi che il suo signore vorrà comprarmela?» Palpai il delizioso oggetto, d'oro, ogni anello delicato come la bava del bozzolo, con fiori di perle e quarzo citrino incastonati nella filigrana. «Sarebbe uno sciocco se non lo facesse. E se la dama vede quest'oggetto per prima, lui certamente gliela comprerà.» «Su questo conto» fece lui sorridendo. «Per quando sarò a Dunpeldyr, lei dovrebbe star di nuovo bene e preoccuparsi dell'eleganza. Lo sapevi, vero? Almeno due settimane fa ha partorito, prima del termine.» L'improvvisa immobilità di Ulfin aprì una parentesi di silenzio fragoroso come un grido. Ninian alzò il viso. Io sentii i nervi tendermisi. L'orafo avvertì l'acuirsi dell'attenzione che gli era dedicata e parve compiaciuto. «Non l'avevi saputo?» «No. Da quando abbiamo superato Isurium non abbiamo più alloggiato in città. Due settimane fa? Sei sicuro?» «Sicuro, signore. Troppo sicuro, forse, perché qualcuno possa stare tranquillo.» Rise. «Non ho mai visto tanta gente contare sulle dita, gente che non aveva mai contato prima! E per quanto contino, con la migliore buona volontà del mondo, arrivano sempre a settembre per il concepimento del bambino. Cioè» concluse quella specie di comare «sarebbe successo a Luguvallium, quando morì il re Uther.» «Immagino che sia così» dissi con tono indifferente. «E il re Lot? L'ultima volta che ne ho sentito parlare, era andato a Linnuis, a raggiungere Artù.» «Proprio così, è vero. Non saprà ancora la notizia. Noi l'abbiamo saputa una notte che siamo rimasti a dormire a Elfete, sulla strada orientale. Il
messaggero della regina passava da quella strada. Aveva sentito dire che passando da lì avrebbe evitato guai, ma secondo me gli avevano detto di prendersela comoda. Quando re Lot riceverà la notizia della nascita, sarà trascorso un intervallo di tempo più decente dal giorno delle nozze.» «E il bambino?» Domanda oziosa la mia. «È un maschio?» «Sissignore, e malaticcio, dicono tutti, perciò con tutta la sua fretta può darsi che Lot non abbia ancora un erede.» «Ah, be'» dissi «ha tutto il tempo.» Cambiai argomento. «Non hai paura di viaggiare così, con un carico di tale valore?» «Confesso che una certa paura ce l'ho» riconobbe l'uomo. «Sì, sì, certo. Devi sapere che in genere, quando chiudo la mia bottega, e mi metto sulle strade per l'estate, porto con me solo roba di quella che alla gente piace comprare nei mercati, o, nella migliore delle ipotesi, fronzoli vistosi per le mogli dei mercanti. Ma ho avuto contro la fortuna e non sono riuscito ad avere pronti in tempo questi gioielli per mostrarli alla regina Morgause prima che partisse per il nord, perciò adesso devo portarglieli. La mia fortuna, adesso, è stata di imbattermi in un onest'uomo come te; non c'è bisogno di essere Merlino per capirlo... Lo vedo che sei onesto e uomo dabbene come me. Dimmi, durerà fino a domani questa mia fortuna? Possiamo avere la vostra compagnia, mio buon signore, fino al ponte di Cor?» Su questo punto avevo già preso una decisione. «Fino a Dunpeldyr, se vuoi. Sono diretto lì. E se strada facendo tu ti fermi per vendere la tua merce, anche questo mi sta bene. Di recente ho avuto una certa notizia, per cui non ho fretta di arrivare lì.» Egli ne fu deliziato, e per fortuna non vide l'aria sorpresa di Ulfin. Io avevo già deciso che l'orafo poteva essermi utile. Capivo che non sarebbe rimasto a York oltre la primavera, a mettere insieme i suntuosi gioielli che mi aveva mostrato, se non avesse avuto una qualche sicurezza che Morgause li avrebbe almeno guardati. Mentre continuava a parlare allegramente, senza bisogno di molti incoraggiamenti per raccontarmi altri particolari sugli avvenimenti di York, scoprii di aver visto giusto. In qualche modo era riuscito ad attrarre l'interesse di Lind, la giovane ancella di Morgause, e l'aveva convinta, in cambio di un paio di graziosi gioiellini senza valore, a parlare della sua merce con la regina. Non che l'avessero mandato a chiamare, ma Lind aveva preso un paio delle sue creazioni per mostrarle alla sua padrona e aveva assicurato all'orafo che a Morgause interessavano. Mi raccontò tutto questo abbastanza estesamente. Per un po' lo lasciai parlare, poi chiesi con tono distaccato: «Hai detto qualche cosa a proposito di
Morgause e Merlino. Che lei avrebbe mandato dei soldati a cercarlo, ho capito bene? Perché?». «No, mi hai frainteso. Parlavo per scherzo. Quand'ero a York, e ascoltavo com'è mia abitudine le chiacchiere locali, ho sentito qualcuno dire che Merlino e lei avevano litigato a Luguvallium, e che adesso lei parlava di lui con odio, mentre aveva sempre parlato dimostrando invidia per la sua arte. E ultimamente, certo, tutti si domandavano dove fosse andato. Regina o non regina, poco male potrebbe fare a uno come lui!» E tu, pensai io, meno male che sei miope, altrimenti avrei dovuto stare in guardia da un omino acuto e loquace come te. Sta di fatto che ero lieto di essermi imbattuto in lui. Ci stavo ancora riflettendo, ma oziosamente, quando, infine calmatosi, lui decise che era ora di dormire, per cui lasciammo che il fuoco si abbassasse e ci avvolgemmo nelle nostre coperte sotto gli alberi. La sua presenza avrebbe reso credibile il mio camuffamento; inoltre Beltane poteva essere, se non i miei occhi, le mie orecchie e fonte di notizie alla corte di Morgause. E Ninian, che faceva il lavoro dei suoi occhi? Il vento freddo mi fece di nuovo drizzare i capelli e le mie pigre riflessioni svanirono come un'ombra quando arriva il sole. Che cos'era? Prescienza, l'eccitazione quasi dimenticata di un certo potere? Ma anche quella riflessione cadde mentre la brezza notturna si calmava tra i rami delicati delle betulle e l'ultima legna sottile finiva in cenere. La notte senza sogni mi avvolse. Al neonato malaticcio di Dunpeldyr non volli pensare affatto, se non per sperare che non prosperasse, liberandomi così da ogni problema. Ma sapevo che quella speranza era vana. Dieci Non ci sono neppure trenta miglia da Vinovia alla città accanto al ponte di Cor, ma ci presero sei giorni di viaggio. Non rimanemmo sulla strada ma procedemmo su viottoli tortuosi e a volte accidentati, sostando in ogni villaggio e in ogni cascina, per quanto umile, che si trovava tra noi e il ponte. Non avendo motivo di affrettarci, il viaggio si svolse piacevolmente. Era evidente che Beltane godeva della nostra compagnia e Ninian trovava la sua sorte meno dura potendo servirsi dei muli per il trasporto dei suoi scomodi fardelli. L'orafo era loquace come sempre, ma era un uomo di cuore e per giunta un artigiano onesto e molto preciso, qualità che merita-
no tutto il rispetto. Il nostro procedere errabondo era più che mai rallentato dal tempo che egli dedicava al suo lavoro, piccole riparazioni, per lo più, nelle località più povere; negli abitati più grandi, o nelle taverne, naturalmente era occupato tutto il tempo. Ugualmente occupato era il ragazzo, ma durante gli spostamenti tra i vari centri abitati e la sera accanto al fuoco da campo, demmo inizio a un strana sorta di amicizia. Stava sempre zitto, ma quando scoprì che conoscevo le usanze degli uccelli e degli animali, che la mia arte medica era accompagnata da una minuziosa conoscenza delle piante e che, di notte, sapevo addirittura leggere la mappa del cielo, cominciò a starmi vicino tutte le volte che gli era possibile, e si arrischiò perfino a farmi delle domande. Amava la musica, e aveva molto orecchio, perciò cominciai a insegnargli ad accordare la mia arpa. Non sapeva leggere né scrivere ma dimostrava, una volta risvegliato il suo interesse, un'intelligenza pronta che, col tempo e con un maestro adatto, avrebbe potuto sbocciare. Quando arrivammo al ponte di Cor, io stavo già cominciando a pensare se non potessi essere io quel maestro e se non si sarebbe potuto convincere Ninian ammesso che il suo padrone lo permettesse - a entrare al mio servizio. Avendo in mente quest'idea, tenni gli occhi bene aperti ogni volta che passavamo davanti a qualche cascina o a qualche cava, per il caso potesse esserci uno schiavo promettente che avrei potuto acquistare per fargli servire Beltane, persuadendo poi questo a liberare il ragazzo. Di quando in quando quella piccola nuvola continuava a opprimermi, e a farsi sentire il gelo di qualche vaga previsione che mi rendeva irrequieto e apprensivo; i guai erano lì, pronti al mio fischio, alla ricerca di un punto in cui colpire. Dopo un po' rinunciai a tentare di vedere dove sarebbe caduto il colpo. Ero certo che non poteva riguardare Artù, e se doveva riguardare Morgause, ci sarebbe stato tempo per preoccuparmi. Perfino a Dunpeldyr pensavo che sarei stato abbastanza al sicuro: Morgause avrebbe avuto altro per la mente, non ultimo il ritorno del suo signore, il quale sapeva anche lui, come tutti, farsi i conti sulle dita delle mani. E i guai potevano non essere gravi, solo la banale seccatura di un giorno, presto dimenticata. È difficile dire, quando gli dei fanno passare davanti alla luce le ombre della preveggenza, se quella nuvola cancellerà il regno di un sovrano, o farà piangere un neonato nel sonno. Finalmente arrivammo al ponte di Cor, nella regione ondulata che è proprio a sud del grande Vallo. All'epoca dei romani la località si chiamava Corstopitum. C'era una solida fortezza, opportunamente situata dove la
Dere, proveniente dal sud, interseca la grande strada di Agricola che va da est a ovest. Col tempo, in quel punto, privilegiato, si era costituito un insediamento non militare, ben presto diventato un centro fiorente da cui passava tutto il traffico, civile e militare, dei quattro lati della Britannia. Ormai la fortezza è un complesso diroccato e molte delle sue pietre sono state saccheggiate per utilizzarle nella costruzione di nuovi edifici, ma a ovest di esso, su una curva del terreno in pendio delimitato dal rivo Cor, la nuova città continua a espandersi e a prosperare, con case, locande e botteghe, oltre a un fiorente mercato che è quanto di più vivo rimanga della prosperità di cui ha goduto in epoca romana. Il bel ponte romano, che dà al luogo il suo nome moderno, è ancora in piedi e attraversa il Tyne nel punto in cui il rivo Cor, proveniente dal nord, si getta in esso. C'è un mulino in quel punto e le travi del ponte gemono tutto il giorno sotto i carichi di grano. Sotto il mulino c'è un pontile, cui possono ormeggiarsi le chiatte con poco pescaggio. Il Cor è poco più di un fiumiciattolo, e solo grazie alla forte pendenza del letto riesce ad azionare la ruota del mulino, ma il grande fiume Tyne è largo e rapido, e scorre in questo punto su una ghiaia scintillante, tra le belle sponde alberate. La sua valle è larga e fertile, piena di alberi da frutto che si ergono nel bel mezzo di campi di grano. Da questa distesa fiorita e sinuosa di verde, il terreno sale verso nord, verso la brughiera ondulata dove, sotto un cielo battuto dai venti, all'improvviso, laghi azzurri balenano al sole. D'inverno è una regione desolata, con lupi e uomini indomiti che vagano sulle alture, e a volte vengono anche troppo vicini alle case; ma d'estate è un paese incantevole, con foreste piene di cervi e stormi di cigni che solcano le acque. Nelle brughiere l'aria sfavilla di canti d'uccello, e le valli sono animate dal volo radente delle rondini e dal bagliore brillante dei martin pescatore. E lungo il margine basaltico corre il grande Vallo dell'imperatore Adriano, che si innalza e sprofonda seguendo l'innalzarsi e lo sprofondare della roccia. Domina la regione dall'alto della sua parete rocciosa, sicché da qualsiasi punto di esso svaniscono nell'azzurra lontananza un avvallamento dopo l'altro, a est o a ovest, finché l'occhio non riesce più a individuare la terra che si fonde nella caligine del cielo. Era una regione che non avevo mai visto. Ero passato di lì, come avevo spiegato ad Artù, perché dovevo vedere qualcuno. Uno dei segretari di mio padre, che avevo conosciuto in Britannia minore e poi visto ancora a Winchester e a Caerleon, dopo la morte di Ambrogio si era per così dire ritirato lì in Northumbria. Il lascito ricevuto da mio padre gli aveva con-
sentito di comprarsi un podere vicino a Vindolanda, in un luogo riparato nei pressi della via di Agricola, con un paio di robusti schiavi per lavorarlo. Qui si era stabilito, coltivando piante rare nel suo amato giardino e scrivendo, mi era stato detto, una storia dei tempi da lui vissuti. Si chiamava Blaise. Alloggiammo nella parte antica della cittadina, in una taverna situata nei dintorni della fortezza originaria. Con improvvisa e irremovibile ostinazione, Beltane aveva rifiutato di pagare il pedaggio che si esigeva sul ponte, perciò passammo al guado, circa mezzo miglio a valle, poi girammo seguendo il fiume oltre la fucina ed entrammo nella città dalla vecchia porta est. Qui arrivammo che calava la notte, perciò ci fermammo alla prima taverna incontrata. Era un luogo rispettabile, non lontano dalla piazza del mercato principale. Per quanto fosse tardi, c'era ancora un grande andirivieni. Dei servi spettegolavano alla cisterna mentre riempivano le brocche d'acqua; in mezzo alle risate e alle chiacchiere si sentiva lo sciabordio fresco di una fontana; in qualche casa, nelle vicinanze, una donna cantava una nenia di tessitori. Beltane era euforico alla prospettiva degli affari che avrebbe potuto concludere l'indomani, e anzi addirittura cominciò a darsi da fare quella sera stessa quando, dopo la cena, la taverna si riempì. Io non rimasi a vedere come faceva. Ulfin riferì che esistevano delle terme ancora in funzione presso l'antico muro occidentale, perciò trascorsi lì la sera e poi, rinfrescato, me ne andai a letto. La mattina seguente Ulfin e io facemmo colazione insieme all'ombra dell'imponente platano che cresceva accanto alla locanda. La giornata prometteva di essere molto calda. Per quanto fossimo stati mattinieri, Beltane e il ragazzo ci avevano preceduto. L'orafo aveva già montato la sua bancarella in posizione strategica vicino alla cisterna; il che significava semplicemente che aveva, o meglio, Ninian aveva, steso per terra qualche stuoia di giunchi, disponendovi sopra quegli ornamenti vistosi che avrebbero potuto tentare gli occhi e la borsa della gente semplice. I begli oggetti di oreficeria erano accuratamente nascosti nelle fodere delle sacche. Beltane era nel suo elemento, e parlava ininterrottamente a qualsiasi passante si fermasse anche per un momento a osservare la mercanzia: su ogni pezzo veniva allora impartita, per così dire, una lezione completa di oreficeria. Il ragazzo rimaneva in silenzio, come al solito. Pazientemente riordinava gli articoli che erano stati presi in mano e lasciati ricadere senza
cura sulle stuoie, prendeva il denaro dato in pagamento, o a volte qualche merce di scambio, roba da mangiare o pezze di tessuto. Nelle pause se ne stava seduto, a gambe incrociate, a ricucire le cinghiette logore dei suoi sandali, che durante il viaggio gli avevano dato un sacco di guai. «E questa, signora?» stava dicendo Beltane a una donna con la faccia tonda che portava un cesto di dolci al braccio. «Questa noi la chiamiamo lavorazione in rilievo o a intarsio, molto bella, ti pare? Ho imparato l'arte a Bisanzio e, credi a me, neppure a Bisanzio potresti vedere qualcosa di più raffinato. E questo identico fregio l'ho visto fatto in oro, e lo portavano le dame più nobili del paese. Questo, dici? Be', questo è di rame, signora... e si capisce dal prezzo, ma è proprio bello lo stesso... il lavoro è identico, come puoi ben vedere... Guarda i colori. Alzalo alla luce, Ninian. Come sono scintillanti e limpidi, e come risplendono le fasce di rame, e tengono i colori staccati... Sì, filo di rame, molto delicato; bisogna disporlo secondo il disegno, poi si applicano i colori e il filo funge, per così dire, da muro per contenere il disegno. Ah, no, signora, non sono pietre preziose, a questo prezzo sarebbe impossibile! È vetro, ma ti do la mia parola che non hai mai visto pietre preziose con colori più belli. Il vetro lo faccio io stesso, e anche questo è un lavoro di fino, in questa mia piccola Etna - così chiamo il mio crogiuolo - ma tu non hai tempo, stamattina, l'ho capito, signora. Falle vedere la gallinella, Ninian, o magari preferisci il cavallo... cioè, Ninian... Su, signora, non sono belli i colori? Dubito che in tutto il paese, a girarlo in lungo e in largo, tu possa trovare un lavoro pari a questo, e solo per un soldo di rame. Diamine, c'è altrettanto rame in questa spilla, quasi, quanto ce n'è nel soldo che mi darai per pagarla...» Allora comparve Ulfin, che conduceva i muli. Si era convenuto che lui e io avremmo compiuto il breve tragitto per Vindolanda e saremmo ritornati l'indomani, mentre Beltane e il ragazzo avrebbero continuato a svolgere i loro commerci nella città. Pagai la colazione poi mi alzai per andare a salutarli. «Parti adesso?» Beltane parlava senza togliere gli occhi di dosso alla donna che stava rigirandosi la spilla nella mano. «Allora buon viaggio, mastro Emrys, e speriamo di rivederci domani sera... No, no, signora, non ci servono i tuoi dolci, per quanto abbiano l'aria di essere deliziosi. Un soldo di rame è il prezzo per oggi. Ah, ti ringrazio. Non lo rimpiangerai. Ninian, appunta la spilla alla signora... Come una regina, signora, te lo assicuro. In verità anche la regina Ygraine, che è la più nobile di questo paese, potrebbe invidiarti. Ninian» mentre la donna si allontanava, la sua
voce passò al solito tono di rimbrotto che usava sempre con il ragazzo «non startene lì a sbavare! Prendi il soldo adesso e comprati un paio di scarpe nuove. Quando ci mettiamo in strada per il nord, non posso vederti che zoppichi e ti trascini con le suole penzolanti, come hai fatto finora...» «No!» Non mi resi neppure conto di aver parlato finché non mi accorsi che mi fissavano con gli occhi sgranati. Anche allora non capii che cosa mi spingesse a continuare: «Lascia che il ragazzo si compri i dolci, Beltane. I sandali basteranno e, vedi, ha fame e il sole splende». L'orafo alzò la testa per guardarmi, controluce, stringendo gli occhi miopi. Infine, lasciandomi un po' sorpreso, annuì e rivolto al ragazzo fece, brusco: «Va bene, vai». Ninian mi lanciò un'occhiata radiosa, poi corse a inseguire la donna in mezzo alla folla. Pensai che Beltane mi avrebbe fatto delle domande, ma non ne fece. Cominciò a rimettere in ordine la sua merce, limitandosi a dire: «Hai ragione, certo. I ragazzi sono sempre morti di fame, e questo è un buon figliolo, e fedele. Può andare scalzo, se occorre, ma almeno che abbia la pancia piena. Di roba dolce non ne abbiamo spesso, e quei pasticcini profumavano che era una delizia». Mentre ci allontanavamo sui nostri muli lungo il fiume, in direzione ovest, Ulfin chiese, la voce decisamente preoccupata: «Che c'è mio signore? Qualcosa ti addolora?». Scossi la testa e lui non disse altro, ma dovette capire che mentivo perché io stesso mi sentivo le lagrime scorrere fredde sulle guance, nel vento estivo. *
*
*
Mastro Blaise ci ricevette in una ordinata e pulita casetta di pietra color sabbia, costruita intorno a un cortiletto, con meli a spalliera contro i muri e cespugli di rose che nascondevano le colonne moderne, quadrate. Una volta, molto tempo prima, la casa era appartenuta a un mugnaio; accanto ad essa scorreva un ruscello, il ripido dislivello del suo letto controllato da bassi gradini, gli argini in muratura tempestati da piccole felci e fiori. Qualche centinaio di passi più in giù, il ruscello scompariva sotto una volta di faggi e di noccioli. Più in alto rispetto a questo terreno alberato, sul ripido pendio alle spalle della casa, in pieno sole, c'era il giardino recintato da un muro che conteneva le piante che il vecchio curava come un tesoro. Mi riconobbe immediatamente, benché fossero passati molti anni dall'ul-
tima volta che ci eravamo visti. Viveva solo, a parte i due giardinieri e una donna che, insieme alla figlia, accudiva alla casa e gli preparava i pasti. Il vecchio le chiese di preparare i letti per noi ed essa si diede da fare, brontolando, sui fornelli in cucina. Ulfin andò a vedere che i muli fossero nella stalla, e Blaise e io fummo liberi di parlare. Nel nord la luce dura fino a tardi, sicché dopo cena uscimmo sulla terrazza che si affacciava sul ruscello. Le pietre ancora sprigionavano il caldo della giornata, e l'aria della sera era profumata di cipresso e rosmarino. Qua e là nell'ombra degli alberi s'intravedeva la forma chiara di una statua. Un tordo cantava chissà dove, eco più profonda del canto dell'usignolo. Accanto a me il vecchio (magister artium, gli piaceva adesso definirsi) stava parlando del passato, in un latino purissimo senza la minima traccia di accento. Era una serata presa a prestito dall'Italia: avrei potuto essere di nuovo un giovane, durante i miei viaggi giovanili. Glielo dissi, e lui parve raggiante dal piacere. «Mi piace pensarlo. Uno cerca di perseverare in quei valori di civiltà che ha conosciuto in gioventù. Lo sapevi che lì avevo studiato, prima di avere il privilegio di entrare al servizio di tuo padre? Quegli anni, ah, quelli erano anni stupendi, ma invecchiando, forse, si tende a riandare troppo al passato, troppo.» Dissi qualcosa di cortese sul fatto che questo costituiva un vantaggio per uno storico, e gli chiesi se mi avrebbe fatto l'onore di leggermi qualcosa del suo lavoro. Avevo notato la lampada accesa posata su un tavolo di pietra accanto ai cipressi, con accanto delle pergamene. «Davvero ti interesserebbe sentirlo?» Si allontanò con prontezza verso il tavolo di pietra. «Alcune parti, ne sono sicuro, ti interesserebbero enormemente. E ce n'è una che tu puoi aiutarmi a completare, credo. Guarda caso, ce l'ho qui con me, questa pergamena, sì, questa, qui... Ci sediamo? La pietra è asciutta e la serata sufficientemente mite. Credo che qui, vicino alle rose, non ci prenderemo certo un malanno...» Il pezzo che decise di leggere era il resoconto degli avvenimenti successivi al ritorno di Ambrogio in Britannia maggiore; per la maggior parte di quel periodo era stato vicino a mio padre, mentre io ero occupato altrove. Dopo aver finito di leggere fece le sue domande, e io fui in grado di fornirgli i particolari sullo scontro definitivo con Hengist a Kaerconan, sul conseguente assedio di York, e sul lavoro di insediamento e di ricostruzione che seguì a quegli avvenimenti. Inoltre completai per lui la campagna condotta da Uther in Irlanda contro Gilloman. Io avevo accompagnato U-
ther, mentre Ambrogio si tratteneva a Winchester; Blaise era rimasto lì con lui, e a Blaise ero debitore del resoconto della morte di mio padre, avvenuta mentre io mi trovavo al di là del mare. Me ne parlò di nuovo adesso. «La vedo ancora, quella grande camera da letto a Winchester, con i dottori e i nobili, fermi in piedi, e tuo padre appoggiato ai cuscini, prossimo alla morte ma in sé, che ti parlava come se tu fossi in quella camera. Io ero accanto a lui, pronto a scrivere tutto quello che poteva essere necessario, e più di una volta guardai verso i piedi del letto del re, quasi pensando di vederti lì. E nel frattempo tu stavi tornando dalla campagna d'Irlanda, e riportavi la grande pietra che sarebbe stata sistemata sulla sua tomba.» A questo punto cominciò ad annuire, come fanno i vecchi, come se volesse continuare a fermarsi sulle storie del passato. Io lo riportai al presente. «Ma fin dove sei arrivato, con la tua cronaca dei nostri tempi?» «Ah, tento di mettere per iscritto tutto quello che succede. Ma adesso che sono fuori dal mondo, e devo fare affidamento sulle chiacchiere che si fanno in città, o su chiunque venga a farmi visita, è difficile per me sapere quanto degli avvenimenti mi sfugge. Ho qualche corrispondente, ma a volte sono negligenti, sì, i giovani non sono più quelli di una volta... È una grande opportunità quella che ti porta qui, Merlino, un gran giorno per me. Ti fermerai? Per tutto il tempo che vuoi, mio caro ragazzo; avrai visto che viviamo semplicemente, ma viviamo bene, e c'è ancora così tanto di cui dobbiamo parlare, così tanto... E poi devi vedere le mie viti. Sì, un'ottima uva bianca, che quando è matura è di una dolcezza incredibile, se la stagione è stata buona. Anche i fichi vengono bene, qui, e le pesche, e ho perfino ottenuto qualche successo con un melograno portato dall'Italia.» «Ho paura di non potermi fermare, per questa volta» risposi con sincero rincrescimento. «Devo partire per il nord domattina. Ma se potrò tornerò tra non molto... e con moltissime cose da dirti, per di più, te lo prometto! Grandi cose sono avviate e renderai un vero servizio agli uomini se le annoterai. Nel frattempo, se mi sarà possibile, ti farebbe piacere che ti scrivessi di quando in quando? Io spero di tornare da Artù prima dell'inverno, e questo potrebbe servire a mantenerti in contatto con gli avvenimenti.» La sua felicità era evidente. Parlammo ancora un po', poi, siccome gli insetti notturni cominciavano ad essere attratti dalla lampada, la portammo dentro casa e ci separammo per la notte. La finestra della mia camera dava sulla terrazza dove eravamo stati seduti. A lungo, prima di mettermi a letto per dormire, stetti con i gomiti
appoggiati sul davanzale, guardando di fuori e aspirando i profumi della notte che arrivavano a ondate con la brezza. Il tordo aveva smesso di cantare, e adesso lo scroscio sommesso dell'acqua riempiva la notte. La luna nuova era posata sulla gobba, e c'erano le stelle. Lì, lontano dalle luci e dai rumori della città o del villaggio, la notte era fonda, il cielo nero si estendeva, impenetrabile, tra le varie sfere, verso qualche mondo inimmaginabile dove si muovevano gli dei e soli e lune si riversavano giù come una pioggia di petali. Esiste qualche potere che attira gli occhi e il cuore degli uomini in alto e all'esterno, al di là della greve argilla dalla quale sono legati alla terra. Può portarveli la musica, o la luce della luna, e, immagino, l'amore, benché io allora ancora non lo conoscessi, salvo che nel culto. Le lagrime tornarono a sgorgare, e io le lasciai scorrere. Sapevo ora quale nuvola aveva oscurato il mio orizzonte, a partire da quell'incontro fortuito sulla strada della brughiera. In che modo, non lo sapevo, ma il ragazzo Ninian, così giovane e quieto, con quella grazia nell'aspetto e nei movimenti a smentire il marchio della schiavitù che gli deturpava il braccio... il ragazzo Ninian portava su di sé il segno di una morte prossima. Per questo chiunque avrebbe potuto piangere, vedendolo, ma io piangevo anche per me; per il mago Merlino che vedeva e non poteva far niente; che si aggirava sulle sue cime solitarie dove pareva che nessuno gli si sarebbe mai avvicinato. Sul viso quieto e negli occhi attenti del ragazzo, quella notte nella brughiera, ascoltando il canto degli uccelli, avevo colto un barlume di ciò che avrebbe potuto essere. Per la prima volta, dai giorni lontani in cui, seduto ai piedi di Galapas, avevo imparato l'arte della magia, avevo visto qualcuno che avrebbe potuto degnamente imparare da me. Non come avevano desiderato imparare altri, per conquistare il potere o perché lo trovavano stimolante, non per portare avanti qualche inimicizia o soddisfare qualche personale avidità; ma perché aveva visto, oscuramente con gli occhi di un bambino, che gli dei si spostano con i venti, parlano con il mare e dormono nelle erbe profumate, e che Dio è il compendio di tutto quanto si trova sulla superficie della bellissima terra. La magia è la porta attraverso la quale a volte può passare il mortale per trovare l'accesso alle grotte nelle montagne e introdursi nell'atrio di quell'altro mondo. Io avrei potuto, non fosse stato per quel filo scintillante del destino, aprirgli quella porta e, quando non ne avessi avuto più bisogno, lasciargliene la chiave. E adesso era morto. Lo avevo saputo, credo, dopo aver parlato sulla piazza del mercato. Quella mia protesta brusca, avventata, l'avevo espressa senza nessun motivo di cui fossi cosciente: la conoscenza era venuta dopo.
E sempre, quando parlavo in quel modo, la gente, senza domandare, faceva quello che dicevo io. Perciò almeno il ragazzo aveva avuto i dolci, e quella giornata di sole. Distolsi lo sguardo dalla lucente, sottile falce di luna e mi misi a letto. *
*
*
«Almeno ha avuto i dolci, e quella giornata di sole.» L'orafo Beltane ci raccontò il fatto mentre cenavamo insieme nella taverna della città, la sera successiva. Era insolitamente silenzioso, pareva stordito, e non si staccava da noi come, nonostante la sua lingua tagliente, doveva non essersi mai staccato dal ragazzo. «Ma... affogato.» Ulfin aveva un tono d'incredulità, ma da un suo sguardo mi resi conto che aveva incominciato a collegare gli avvenimenti e a capirli. «Com'è successo?» «La sera, all'ora di cena, mi ha riportato qui e ha preparato i bagagli. Era stata una buona giornata e l'incasso era stato sostanzioso; eravamo sicuri che avremmo mangiato bene. Lui aveva lavorato sodo, perciò quando ha visto dei ragazzi che andavano a farsi il bagno nel fiume, mi ha chiesto il permesso di andare con loro. Era uno che ci teneva tanto alla pulizia... e la giornata era stata calda, la gente solleva un sacco di polvere coi piedi, e sterco, anche, sulle piazze dei mercati. L'ho lasciato andare. E poi sono tornati i ragazzi, di corsa, a dirmelo. Deve essere capitato in una buca e esser finito sott'acqua. È un fiume infido, mi hanno detto... Come potevo saperlo? Come facevo a saperlo? Quando siamo arrivati, ieri, il fiume pareva così poco profondo, e così sicuro...» «E il cadavere?» chiese Ulfin dopo un momento di silenzio, quando capì che non avevo intenzione di parlare. «Sparito. Portato via dalla corrente, hanno detto i ragazzi, come un tronco nella piena. È riaffiorato mezza lega più a valle, ma nessuno di loro è riuscito ad avvicinarglisi, e poi è scomparso. È una brutta morte, una morte da cucciolo. Bisognerebbe trovarlo, e seppellirlo come un uomo.» Ulfin disse qualche parola gentile e, dopo un po', le lamentele dell'omino si esaurirono, arrivò la cena e lui se la cavò a mangiare e a bere, e poi si sentì meglio. La mattina dopo il sole splendeva ancora e ci dirigemmo verso nord, noi tre insieme, e dopo quattro giorni arrivammo nel paese dei votadini, che, nella lingua britannica, si chiama Manau Guotodin.
Undici Una decina di giorni più tardi, con le debite soste per il commercio, arrivammo nella capitale di Lot, Dunpeldyr. Era il tardo pomeriggio di un giorno coperto di nuvole, e pioveva. Fummo tanto fortunati da trovare alloggio adeguato in una taverna presso la porta sud. La città era poco più di un mucchio compatto di case e botteghe ai piedi di un grande dirupo sul quale sorgeva il castello. In passato sul picco sorgeva tutta la fortezza, ma adesso le case si pigiavano, disordinatamente, tra le pareti rocciose e il fiume, e sugli stessi pendii del picco, fino alle mura del castello. Il fiume (anche questo si chiama Tyne) gira intorno alla base della parete rocciosa, poi attraversa, largo e sinuoso, un miglio circa di terreno in pianura, fino all'estuario sabbioso. Sulle rive si addensano le case, e le barche vengono tirate in secco sul greto di sassi. Ci sono due ponti, uno pesante, di legno, posato su piloni di pietra, su cui passa la strada che conduce alla porta principale del castello, su in alto; l'altro ponte è uno stretto tavolato che sbuca su un ripido sentiero dal quale si arriva alla porta laterale del castello. Strade non se n'erano costruite; il centro era venuto su senza progetti, e certamente privo di qualsiasi bellezza o amenità. La città è misera, case fatte di mattoni di fango e tetto di torba, e strade scoscese che col cattivo tempo diventano torrenti di acqua sporca. Il fiume, così bello solo a poca distanza da lì, è, in questo tratto, pieno di erbacce e di macerie. Tra il dirupo e il fiume a est c'è la piazza del mercato, dove al mattino Beltane avrebbe esposto la sua mercanzia. Una cosa sapevo di dover fare senza indugio. Se, ironia della sorte, Beltane doveva essere i miei «occhi» all'interno del castello, né io né Ulfin dovevamo farci vedere in giro con lui; perciò, dato che lui non poteva fare a meno di un servo, bisognava trovare qualcuno per sostituire il ragazzo annegato. Beltane non aveva fatto il minimo tentativo per provvedere a ciò lui stesso durante il nostro viaggio verso il nord, e adesso si dimostrò più che riconoscente quando gli proposi di farlo per lui. Poco prima delle porte della città, avevo notato una cava; non grande, ma in funzione. La mattina seguente, accuratamente anonimo con un misero mantello color ruggine, mi recai lì e trovai il padrone della cava, una canaglia grande e grossa dall'aria cordiale, che andava in giro in mezzo ai lavori semiabbandonati, e agli operai altrettanto abbandonati, come un possidente che prende l'aria, d'estate, nella sua residenza di campagna.
Mi squadrò con una bell'aria di disprezzo. «Servi sani e robusti vengono cari, mio buon signore.» Capivo che mi valutava, parlando, e che la risposta non sarebbe stata soddisfacente. «E poi non posso togliermene nessuno. In un posto come questo arriva tutta la marmaglia... prigionieri, criminali, di tutto. Nessuno potrebbe mai diventare un decente schiavo per la casa, o una persona fidata per il podere, o per qualsiasi genere di lavoro specializzato. E i muscoli costano caro. Meglio che aspetti la fiera. Lì ne arrivano di tutti i tipi, che si fanno prendere a servizio con le famiglie, o si vendono, o vendono i marmocchi per un po' di cibo... però, ora che ci penso dovresti aspettare l'inverno e il cattivo tempo, perché allora i prezzi scendono.» «Non voglio aspettare. Posso pagare. Sono in viaggio e ho bisogno di un uomo o di un ragazzo. Non c'è bisogno che sappia un mestiere, basta che sia pulito e fedele al suo padrone, e sia abbastanza forte da viaggiare anche d'inverno, quando le strade sono cattive.» Via via che parlavo il suo atteggiamento diventava più cortese e capii che salivo di un paio di posizioni nella sua stima. «Viaggiare? Allora qual è la tua attività?» Non vedevo motivo per dirgli che il servo non era per me. «Sono un dottore.» La mia risposta provocò l'effetto che provoca nove volte su dieci. Cominciò a descrivermi tutti i suoi mali e, dato che aveva superato la quarantina, ne aveva un'infinità. «Bene» dissi quando ebbe finito «io posso aiutarti, credo, ma dev'essere una cosa reciproca. Se hai una persona che puoi darmi come servo - e dev'essere abbastanza a buon mercato, dato che qui arriva solo la marmaglia - forse possiamo metterci d'accordo. Un'altra cosa. Come puoi capire, nel mio lavoro si devono saper mantenere dei segreti. Non voglio un chiacchierone. Dev'essere un tipo parco di parole.» A questa mia richiesta, il briccone mi fissò sgranando gli occhi, poi si batté una manata sulla coscia e scoppiò a ridere, come se quello fosse il più bello scherzo mai sentito. Voltò la testa e sbraitò un nome. «Casso! Vieni qua! Presto, zoticone! Questa è la fortuna per te, ragazzo, un nuovo padrone e cominci una bella vita di avventure!» Un giovane ossuto si staccò da un gruppo che faticava a spaccare le pietre sotto una sporgenza che pareva sul punto di franargli addosso. Si raddrizzò lentamente e ci guardò, prima di lasciar cadere il piccone e avviarsi verso di noi. «Posso cederti questo, mastro dottore» disse cordiale il padrone della
cava. «È esattamente quello che cerchi.» E daccapo si lasciò andare a un accesso di ilarità. Il giovane arrivò vicino a noi e si fermò, le braccia ciondolanti e gli occhi fissi a terra. Tirando a indovinare, doveva essere sui diciotto, diciannove anni. Pareva abbastanza forte - doveva esserlo, per esser sopravvissuto per più di sei mesi a una vita come quella - ma stupido fino a rasentare l'idiozia. «Casso?» dissi. Lui alzò lo sguardo e vidi che, semplicemente, era esausto. In una vita priva di speranza o di piacere, non aveva senso sprecare energia a pensare. Il suo padrone di nuovo stava ridendo. «Inutile parlargli. Se vuoi sapere qualche cosa devi chiedere a me o vedertela da solo.» Prese il ragazzo per il polso e alzò il braccio. «Vedi? Forte come un mulo, e in piena forma. E sufficientemente discreto, anche per te. Maledettamente discreto, è il nostro Casso. È muto.» Il giovane non si curò di essere palpeggiato più di quanto se ne sarebbe curato un mulo, ma all'ultima frase cercò di nuovo, per un attimo, il mio sguardo. Mi ero sbagliato. Pensare pensava, e di conseguenza era capace di sperare; vidi la speranza morire. «Ma non anche sordo, immagino?» dissi. «Che cosa l'ha reso così, lo sai?» «Si potrebbe dire la sua stupida lingua.» Avviò di nuovo la sua fragorosa risata, sorprese il mio sguardo e si schiarì la voce. «Questo non lo potrai guarire, mastro dottore, non ha più la lingua. Come siano andate esattamente le cose non l'ho mai saputo, ma era a servizio giù a Bremenium e a quanto ho sentito, ha aperto troppo la bocca, e una volta di troppo. Non è uno che sia paziente con l'insolenza, no certo, il signore Aguisel... Ah, be', ma questo ha imparato la lezione. Io l'ho avuto con un gruppo di manovali quando sono finiti i lavori di riparazione dei ponti. Non mi ha dato nessun disturbo. E per quanto ne so, serviva in casa, prima, perciò fai un ottimo affare, ti prendi un servo bravo, giovane... Ehi, voialtri!» Mentre parlava aveva spostato lo sguardo, di quando in quando, sul gruppo degli uomini che spicconavano la pietra. Adesso si avviò verso di loro, urlando improperi contro quell'«oziosa feccia» che aveva approfittato dell'occasione per rallentare il ritmo del lavoro. Guardai Casso pensieroso. Avevo sorpreso l'espressione del suo viso e la rapida, involontaria scossa della testa mentre il padrone parlava di «insolenza». «Eri nella casa di Aguisel?» gli chiesi.
Con la testa fece segno di sì. «Capisco.» Credevo di capire, infatti. Aguisel aveva una pessima reputazione, uno sciacallo nei confronti di quel lupo di Lot, e la sua tana era tra le rovine della fortezza di Bremenium, in cima a un monte, verso sud. Lì accadevano cose che un uomo ammodo poteva solo cercare di indovinare. Avevo sentito sussurrare che aveva l'abitudine di servirsi di schiavi muti o accecati. «Ho ragione a pensare che hai visto cose che non poteva esserti consentito di riferire?» Di nuovo fece segno di sì. Questa volta i suoi occhi rimasero fissi su di me. Doveva essere passato molto tempo da che qualcuno aveva tentato con lui anche quella specie di limitata comunicazione. «Lo pensavo. Anch'io ho sentito dire molte cose sul conto del signore Aguisel. Sai leggere o scrivere, Casso?» Scosse la testa. «Devi esserne grato» dissi freddamente. «Altrimenti, a quest'ora saresti morto.» Il padrone della cava aveva rimesso al lavoro i suoi uomini in modo per lui soddisfacente. Stava tornando verso di noi. Io riflettevo rapidamente. Il fatto che il giovane fosse muto poteva non essere un danno per Beltane, che era più che capace di parlare per suo conto; ma io avevo agito fino a quel momento partendo dal presupposto che il nuovo schiavo avrebbe funzionato come «gli occhi» del suo padrone finché eravamo a Dunpeldyr. Adesso capivo che non ce n'era bisogno: qualsiasi cosa trapelasse nella fortezza di Lot, Beltane era perfettamente in grado di riferirne da solo. La sua vista non era acuta, ma lo era il suo udito, e avrebbe potuto dirci che cosa veniva detto: l'aspetto del luogo non aveva grande importanza. Quando fossimo ripartiti da Dunpeldyr, se l'orafo avesse avuto bisogno di un altro genere di servo, certamente avremmo potuto trovarglielo. Ma adesso il tempo premeva e con Casso mi sarei certamente acquistata la discrezione, anche se forzata, e, pensavo, la fedeltà che accompagna la gratitudine. «Be'?» chiese il padrone della cava. Risposi: «Uno che sia sopravvissuto dopo aver servito a Bremenium è certamente abbastanza forte per qualsiasi cosa mi possa servire. Benissimo. Lo prendo». «Splendido! Splendido!» L'uomo cominciò a lodare a gran voce la mia capacità di giudizio e i diversi pregi di Casso, tanto che io presi a domandarmi se in realtà gli schiavi fossero suoi o se, vedendo un modo per riem-
pirsi la borsa, non pensasse magari di raccontare ai suoi capi che il giovane era morto. Quando cominciò a discutere sul prezzo, mandai Casso a raccogliere le sue eventuali proprietà e gli dissi di aspettarmi sulla strada. Non ho mai capito perché, quando un uomo è tuo prigioniero o schiavo, debba essere privato del più elementare rispetto di sé. Anche un cavallo o un segugio lavorano meglio se conservano la loro fierezza. Quando si fu allontanato, mi rivolsi di nuovo al padrone. «Adesso, se ricordi, siamo rimasti d'accordo che avrei pagato una parte del prezzo in medicamenti. Mi troverai alla taverna presso la porta sud. Se vieni stasera, o mandi qualcuno a chiedere di mastro Emrys, ti avrò preparato i medicamenti e li lascerò lì per te. E ora, per il residuo del prezzo...» Alla fine ci accordammo e, seguito dal mio nuovo acquisto, ripresi la strada verso la taverna. Il viso di Casso diventò triste quando seppe che non avrebbe dovuto servire me ma andare con Beltane; ma prima che finisse la sera, con il caldo, il buon cibo e la compagnia animata che faceva ressa nella taverna, parve una pianta che, lasciata morire al buio, all'improvviso è stata tuffata nell'acqua e al sole. Beltane mi fu francamente grato e quasi subito s'imbarcò in una dettagliata e orgogliosa esposizione della sua arte, a beneficio di Casso. Questi non avrebbe potuto trovare un posto in cui la sua mutilazione avesse minore importanza. Via via che la sera si prolungava, mi venne in mente che Beltane cominciava a pensare che un servo muto avrebbe costituito un vero vantaggio. Ninian era stato uno che quasi non parlava, ma non ascoltava neppure. Casso assorbiva tutto, palpando i vari pezzi con le sue mani callose, mentre il suo cervello si risvegliava dal torpore di una stanchezza priva di speranza, e davanti ai nostri occhi si apriva a quel nuovo piacere. La taverna era troppo piccola - e noi eravamo in apparenza troppo poveri - per poter avere una sala privata, ma all'estremità della stanza comune, lontano dal fuoco, c'era una nicchia profonda con un tavolo e due panche dove potevamo stare abbastanza per conto nostro. Nessuno badava molto a noi, e rimanemmo per tutta la sera nel nostro angolo, ascoltando i pettegolezzi che si facevano nella taverna. Fatti non ce n'erano, ma circolavano moltissime voci, secondo la più importante delle quali Artù aveva combattuto e vinto altre due battaglie, e i sassoni avevano dovuto scendere a patti. Il Sommo re sarebbe rimasto ancora per un po' di tempo a Linnuis, ma Lot, si diceva, era atteso a Dunpeldyr di giorno in giorno. In realtà non tornò prima di altri quattro giorni.
Io li trascorsi nella taverna, scrivendo a Ygraine e ad Artù, e passai le sere a studiare la città e i dintorni. La città era piccola e non attirava molti forestieri sicché, volendo evitare di richiamare l'attenzione su di me, uscivo al crepuscolo, quando la gente si trovava per lo più a cena. Per lo stesso motivo non feci sapere il mio mestiere: Beltane esigeva l'attenzione di chiunque si avvicinasse al nostro gruppetto, che non pensava perciò a guardare altro. Mi prendevano, immagino, per una specie di povero scrivano. Ulfin batteva le porte della città, cercando di raccogliere notizie e in attesa di sapere qualcosa dell'avvicinarsi di Lot. Beltane, ingenuo e senza sospetti, esercitava il suo commercio. Sistemò il suo crogiuolo sulla piazza vicino alla taverna e cominciò a insegnare a Casso i primi elementi dell'arte del restauro. Inevitabilmente questo attirò l'interesse, poi la clientela, e ben presto l'orafo fece affari molto proficui. E questo produsse, il terzo giorno, esattamente il risultato che noi tutti avevamo sperato. La ragazza Lind, attraversando la piazza del mercato e vedendo Beltane, si avvicinò e si fece riconoscere. Beltane la rimandò dalla sua padrona con un messaggio, regalando a lei una fibbia nuova, e presto ricevette la ricompensa. Il giorno dopo lo mandarono a chiamare dal castello, e lui si avviò trionfalmente, seguito da Casso carico di merce. Anche se non fosse stato muto, Casso non avrebbe potuto riferire niente. Quando entrarono dalla porta secondaria, Casso fu trattenuto ad aspettare nella tana del guardiano, mentre un servitore del piano di sopra condusse l'orafo nell'appartamento della regina. Tornò alla taverna al crepuscolo, traboccante di notizie. Nonostante tutto il suo parlare di gente importante, quella era la prima casa reale in cui entrava, e Morgause sarebbe stata la prima regina che avrebbe portato i suoi gioielli. L'ammirazione che aveva concepito per lei a York era arrivata ora a una vera e propria adorazione; vista da vicino, perfino su di lui, la bellezza roseodorata di Morgause faceva l'effetto di una droga. Durante tutta la cena riversò su di me il suo racconto, con ricchezza di particolari, ovviamente senza pensare neppure per un attimo che io potessi non essere affascinato da tutto quello che mi riferiva. Casso e io (Ulfin era ancora fuori) ci sorbimmo il resoconto meticoloso di tutto ciò che era stato detto, delle grazie di lei, delle lodi che aveva espresso per il lavoro dell'orafo, della generosità con cui aveva acquistato tre gioielli accettandone in dono un quarto; e perfino del suo profumo. L'orafo fece anche del suo meglio per descrivere la bellezza della regina, e gli splendori della sala in cui lo aveva ricevuto, ma qui si trattava solo di impressioni: il quadro che egli ci fece
era una foschia profumata di luce e di colore; la luce fredda proveniente da una finestra che batteva sullo splendore di una veste color ambra e illuminava i meravigliosi capelli d'oro rosato; il fruscio della seta, il bagliore e il crepitio del fuoco acceso per contrastare la giornata grigia. E la musica, anche; la voce di una fanciulla che sussurrava una ninnananna. «Così il bambino era lì?» «Certo. Dormiva in una culla alta accanto al fuoco. La vedevo, ah, chiaramente, profilarsi contro le fiamme; e anche la fanciulla che la faceva dondolare e cantava. La culla aveva un baldacchino di seta e tulle, e un campanellino che tintinnava mentre la fanciulla la faceva dondolare, e scintillava alla luce del fuoco. Una culla regale. Che bella visione. Solo per quello, avrei desiderato avere altri occhi.» «E il bambino l'hai visto?» Risultò che non l'aveva visto. Il bambino si era svegliato una volta, aveva pianto un po', e la bambinaia lo aveva calmato senza sollevarlo dalla culla. In quel momento la regina stava provando una collana e senza neppure girarsi aveva preso lo specchio dalle mani della fanciulla e le aveva ordinato di cantare. «Una voce graziosa» disse Beltane «ma una canzoncina così triste. E addirittura non avrei riconosciuto neppure la fanciulla, se non fosse venuta lei a parlarmi ieri. Così magra e si muove furtiva come un topolino, anche la voce è diventata flebile, come se si consumasse. Lind, così si chiama, te l'avevo detto? Strano nome per una ragazza, vero? Non vuol dire serpente?» «Credo di sì. Hai saputo come si chiama il bambino?» «Lo chiamano Mordred.» A questo punto, Beltane dimostrò una tendenza a ritornare sulla descrizione della culla, e del bel quadretto costituito dalla ragazza che la faceva dondolare e cantava, ma io lo riportai al problema essenziale. «Hanno detto niente del ritorno del re Lot?» Beltane, da quell'artista che era, solo devoto alla sua arte, non vide neppure le implicazioni della domanda. Lo stavano aspettando, mi disse tutto allegro, da un momento all'altro. La regina gli era parsa eccitata come una bambina. In effetti, non riusciva a parlare d'altro. Sarebbe piaciuta la collana al suo signore? E gli orecchini, avrebbero reso più splendenti i suoi occhi? Diamine, aggiunse Beltane, metà di quegli acquisti lui la doveva all'arrivo del re. «La regina non sembrava intimorita?»
«Intimorita?» Mi fissò inespressivo. «No. Perché avrebbe dovuto esserlo? Era felice e eccitata. "Aspettate soltanto" diceva alle sue dame, esattamente come direbbe qualsiasi giovane madre il cui signore è in guerra "aspettate solo che il mio signore veda il bel figlio che gli ho partorito, somigliante a suo padre come un lupo somiglia a un altro lupo." E rideva, rideva. Era uno scherzo, capisci, mastro Emrys. Da queste parti chiamano Lot il Lupo, e sono orgogliosi di lui, il che è più che naturale tra gente selvaggia come questa qui a nord. Solo uno scherzo. Perché la regina dovrebbe aver paura?» «Pensavo alle voci di cui mi avevi parlato. Mi avevi raccontato le cose che hai sentito a York, e poi, avevi detto, qui la gente, sulla piazza del mercato, si scambiava occhiate e bisbigliava.» «Ah, quelli sì. Be', ma erano solo chiacchiere. So dove vuoi arrivare, mastro Emrys, a quelle brutte voci che giravano. Lo sai che succede sempre così quando c'è un parto prematuro, e per forza dovranno parlarne anche di più in una casa reale perché, si può dire, le conseguenze sono maggiori.» «Allora è nato prima del termine?» «Sì, così dicono. Li ha colti tutti di sorpresa. È nato prima ancora che i dottori del re potessero arrivare qui; li avevano tolti dall'esercito e mandati qui a nord perché assistessero la regina. Invece sono state le donne che l'hanno fatta partorire, ma è andato tutto bene lo stesso, grazie a Dio. Ricordi che ci avevano detto che il bambino era malato? Per la verità, l'avrei detto anch'io, dal modo in cui gridava. Ma adesso prospera e prende peso. Me l'ha detto la ragazza Lind, quando le ho parlato mentre mi riaccompagnava alla porta. "Ed è vero che è il ritratto del re Lot?" le ho detto. Lei mi ha dato un'occhiata, da far tacere tutti i pettegolezzi, per dire, ma tutto quello che ha risposto è stato: "Sì, non potrebbe somigliargli di più".» Si sporse attraverso il tavolo, annuendo enfaticamente, allegro. «Perciò, come vedi erano tutte bugie, mastro Emrys. In effetti, basta parlare con la regina. Quella creatura incantevole ingannare il suo signore? Diamine, pareva di nuovo una sposa all'idea che lui stava tornando. E rideva, una risata deliziosa, pareva il campanellino d'argento della culla. Ah, sì, puoi star sicuro che erano tutte bugie. Messe in giro a York, dovevano essere, da quelli che avevano motivo di essere invidiosi... Sai di chi parlo, eh? E il bambino, il ritratto del padre. Dicevano tutte la stessa cosa: "Re Lot ci si vedrà, come se fosse allo specchio, quant'è vero che tu ti stai guardando allo specchio, madonna. Guardalo, il ritratto di suo padre è, agnellino mi-
o..." Lo sai come parlano le donne, mastro Emrys? "Esattamente il ritratto del suo reale padre".» Così proseguì a cianciare mentre Casso, affaccendato a lucidare qualche fibbia da poco prezzo, ascoltava sorridendo e io, solo di poco meno silenzioso, lasciavo che le sue chiacchiere mi sfiorassero mentre seguivo i miei pensieri. Il ritratto di suo padre? Capelli neri, occhi neri, la descrizione poteva adattarsi a tutti e due, Lot come Artù. Esisteva anche solo la più debole probabilità che il destino fosse dalla parte di Artù? Che Morgause avesse concepito da Lot e poi avesse sedotto Artù nel tentativo di legarlo a sé? A malincuore, abbandonai quella speranza. Quando, a Luguvallium, avevo sentito incombere un fato funesto, attraversavo un periodo in cui il potere era con me. E non occorreva neppure questo per dirmi di diffidare di Morgause. Ero venuto al nord per tenerla d'occhio e adesso quel nuovo tassello del quadro appena fornitomi da Beltane mi stava forse dicendo che cosa esattamente dovevo tener d'occhio. In quel momento entrò Ulfin, scuotendosi dal mantello la pioggia sottile. Si guardò in giro, ci vide e mi fece un segno appena percettibile. Io mi alzai, dissi una parola a Beltane, e andai a raggiungerlo. Ulfin parlò a bassa voce. «Ci sono notizie. Il messaggero della regina è rientrato in città proprio adesso. L'ho visto. Il cavallo doveva aver corso alla disperata, era quasi crollato. Ti ho detto che avevo fatto amicizia con una delle sentinelle del posto di guardia all'ingresso della città? Dice che re Lot è sulla via del ritorno. Viaggia ad andatura rapida. Lo aspettano per stasera o domani.» «Grazie» risposi. «Adesso sei stato fuori tutto il giorno. Mettiti qualcosa di asciutto addosso, e prenditi qualcosa da mangiare. Ho appena saputo da Beltane una cosa che mi convince che potrebbe essere utile tener d'occhio l'entrata secondaria del castello. Te ne parlerò più tardi. Quando avrai mangiato, scendi a raggiungermi. Troverò un posto asciutto in cui aspettare, dove non ci vedranno.» Tornammo dagli altri e io chiesi: «Beltane, potresti darmi Casso per mezz'ora?». «Certo, certo. Però avrò bisogno di lui più tardi. Mi hanno ordinato di tornare domani, dopo aver riparato questa fibbia per il ciambellano, e per farlo mi serve l'aiuto di Casso.» «Non lo tratterrò. Casso?» Lo schiavo era già in piedi. Ulfin disse, con una punta di apprensione: «Allora, sai che cosa devi fare, adesso?».
«Cerco di indovinarlo» dissi. «In questo non ho nessun potere, come ti ho detto.» Parlavo sottovoce, e con tutto il frastuono della taverna Beltane non poteva sentirmi, ma Casso mi sentì e spostò lo sguardo in fretta da me a Ulfin e poi di nuovo a me. Gli sorrisi. «Non ti preoccupare. Ulfin e io abbiamo delle cose da fare qui che non danneggeranno te o il tuo padrone. Vieni con me, ora.» «Potrei venire io» disse Ulfin in fretta. «No. Fa' come ti ho detto, e mangia prima. Potrebbe essere una lunga sorveglianza. Casso...» Attraversammo il dedalo di viuzze sporche. La pioggia, adesso continua, formava pozzanghere di fango e faceva schizzare il letame formando pozze maleodoranti. Le luci, quando se ne vedevano nelle case, erano fievoli, riflessi fumosi del fuoco che pelli o teli di sacco appesi alle finestre separavano dalla notte piovosa. Niente ostacolava la nostra visione notturna e presto fummo in grado di farci strada con precisione in mezzo ai lucenti rigagnoli. Dopo un po' vedemmo indistintamente, sopra di noi, il pendio coperto di alberi della rocca su cui sorgeva il castello. In alto, nelle tenebre, era appesa una lanterna che indicava l'ingresso secondario. Casso, che mi aveva seguito per tutto il tempo, mi toccò il braccio indicando un viottolo stretto, poco più di una cunetta per l'acqua piovana, in ripida discesa. Io non ci ero mai stato. In fondo potevo sentire, fragoroso sopra il sibilo regolare della pioggia, il rumore del fiume. «Una scorciatoia per la passerella?» chiesi. Annuì con energia. Ci incamminammo con cautela nella discesa sui sudici ciottoli. Il rombo del fiume cresceva. Scorgevo l'acqua bianca della rapida e, su quello sfondo, la grande ruota di un mulino. Al di là di questo, contro lo scintillio riflesso della spuma, si profilava la passerella. Non c'era nessuno. Il mulino non era in movimento; probabilmente il mugnaio abitava lì, di sopra, ma aveva sbarrato le porte e non filtrava nessuna luce. Un sentiero stretto, pieno di fango, passava davanti al mulino chiuso e lungo l'erba inzuppata degli argini del fiume, verso il ponte. Mi chiesi, vagamente irritato, perché Casso avesse scelto quella strada. Doveva aver captato che c'era una certa esigenza di segretezza, anche se la strada principale era di sicuro, con quel tempo e a quell'ora, deserta. Ma poi delle voci e la luce oscillante di una lanterna mi fecero fermare di colpo al riparo della porta del mugnaio. Tre uomini scendevano dal sentiero. Camminavano in fretta, parlando
sottovoce. Vidi una bottiglia passare di mano in mano. Servi di ritorno al castello, certamente, dopo esser stati alla taverna. Si fermarono all'estremità del ponte e si guardarono alle spalle. Adesso nei loro movimenti si notava qualcosa di furtivo. Uno di loro disse qualche cosa e ci fu una risata, presto repressa. Proseguirono, ma non prima che io li avessi visti, con sufficiente chiarezza, al bagliore della lanterna: erano armati e non ubriachi. Casso era vicinissimo a me, schiacciato nell'oscurità del vano della porta. Gli uomini non avevano gettato neanche un'occhiata dalla nostra parte. Attraversarono rapidamente il ponte, e i loro passi risuonarono cupi sulle assi bagnate. Un'altra cosa mi aveva mostrato quella luce fuggevole. Appena oltre il mulino, sull'angolo del sentiero, c'era un'altra porta aperta. Dal mucchio di legname e di cerchioni segati che si trovava fuori, in quella striscia di cortile piena di erbacce, pensai trattarsi della bottega di un carraio. Era disabitata per la notte, ma nella baracca principale ancora lucevano i resti di un fuoco. Protetto da quell'oscurità, sarei stato in grado di sentire e di vedere tutti quelli che si avvicinavano al ponte. Casso mi precedette di corsa nella grotta calda della bottega e sollevò un paio di fascine. Le portò accanto al fuoco e fece il gesto di buttarle sulla cenere. «Solo una» dissi piano. «Bravo. Adesso, se torni indietro, trovi Ulfin e me lo porti qui, dopo puoi asciugarti e cambiarti, e dimenticarti completamente di noi.» Assentì poi, sorridendo, improvvisò una mimica per farmi capire che il mio segreto, qualunque fosse, sarebbe stato al sicuro con lui. Dio sa che cosa pensava che io stessi facendo; forse una missione, o un lavoro di spionaggio. Comunque, ne sapeva all'incirca quanto me. «Casso. Ti piacerebbe imparare a leggere e scrivere?» Rimase immobile. Il sorriso scomparve. Nel guizzare del fuoco che stava prendendo lo vidi rigido, tutto occhi, incredulo come il viandante smarrito che, contro ogni speranza, si trova in mano l'indicazione necessaria per proseguire. Fece cenno di sì, una volta, con uno scatto. «Vedrò che ti venga insegnato. Va' adesso, e grazie. Buona notte.» Se ne andò, correndo come se il sentiero maleodorante fosse chiaro come il giorno. A metà della salita lo vidi saltare e scattare, come un giovane animale improvvisamente liberato dal suo recinto, in una bella mattinata. Tornai silenziosamente nella bottega, avanzando cautamente oltre l'alloggiamento del tornio e la pesante slitta appoggiata accanto a un mucchio di
raggi. Vicino al fuoco c'era lo sgabello su cui doveva star seduto il ragazzo che faceva funzionare il mantice. Sedetti ad aspettare, allargando il mio mantello bagnato al calore del fuoco. Fuori rombava la rapida, soffocando i rumori lievi della pioggia. Una pala allentata della grande ruota, martellata dall'acqua, sbatteva con un rumore sordo. Un paio di cani famelici passarono di corsa, litigandosi qualcosa di indefinibile scovato in un letamaio. La bottega del carraio profumava di legna fresca, di linfa che si asciugava e dei nodi di olmo che bruciavano. Il leggero scoppiettio del fuoco si distingueva chiaramente nell'oscurità calda, contro il sottofondo dei rumori dell'acqua che provenivano dall'esterno. Il tempo passò. Già una volta ero stato seduto così, accanto a un fuoco, da solo, i pensieri rivolti alla camera di una partoriente, con un dio che mi rivelava il fato di un bambino. Era stata una notte piena di stelle, con il vento che soffiava sul mare senza onde e la grande stella di re che brillava. Ero giovane, allora, sicuro di me e del dio che mi guidava. Adesso non ero sicuro di niente, salvo del fatto che avevo altrettanta speranza di far deviare il male che Morgause progettava, qualunque esso fosse, quanta poteva averne un ramo secco di ostacolare la forza della chiusa. Ma il potere derivato dalla conoscenza, quello l'avevo. Congetture umane mi avevano portato lì; adesso era da vedere se avevo capito correttamente la strega. E benché il mio dio mi avesse abbandonato, pure continuavo ad avere più potere di quanto ne è concesso agli uomini comuni: avevo a disposizione un re. Ed ecco Ulfin, giunto a dividere con me quell'attesa, come l'aveva divisa a Tintagel. Non udii niente, vidi solo la sagoma del suo corpo bloccare il cielo scuro sulla soglia. «Qua» dissi, e lui entrò, cercando di orientarsi verso il bagliore del fuoco. «Ancora niente, mio signore?» «Niente.» «Che cosa stai aspettando?» «Non ne sono del tutto sicuro, ma credo che qualcosa verrà da questa parte stanotte, mandato dalla regina.» Lo sentii voltarsi per sbirciarmi nell'oscurità. «Perché si aspetta il ritorno di Lot?» «Sì. Ci sono altre notizie in proposito?» «Solo quanto ti ho detto prima. Pensano che Lot stia arrivando a tappe
forzate. Potrebbe essere qui molto presto.» «Lo credo anch'io. Comunque, Morgause dovrà essere sicura.» «Sicura di che cosa, mio signore?» «Sicura per il figlio del Sommo re.» Ci fu una pausa. «Intendi dire che pensi che lo faranno uscire di nascosto, per il caso che Lot creda alle voci e uccida il bambino? Ma in questo caso...» «Sì? In questo caso?» «Niente, mio signore. Pensavo, questo è tutto... Credi che lo porteranno da questa parte?» «No. Credo che lo abbiano già portato.» «Lo hanno portato? Hai visto da quale parte?» «Non mentre io ero qui. Volevo dire che sono sicuro che il bambino che è al castello non è il figlio di Artù. Lo hanno scambiato.» Sentii un lungo respiro accanto a me, nell'oscurità. «Per paura di Lot?» «Naturale. Riflettici, Ulfin. Qualsiasi cosa Morgause possa dirgli, Lot deve aver sentito quello che stanno dicendo tutti, addirittura da quando si è saputo che lei era incinta. Morgause ha tentato di persuaderlo che il bambino era suo, ma prematuro; e può darsi che lui le creda. Ma credi che correrà il rischio che lei possa mentire e che il figlio di un altro, figurarsi poi di Artù, si trovi in quella culla e diventi l'erede del Lothian? Qualunque cosa creda, c'è la possibilità che uccida il bambino. E Morgause lo sa.» «Pensi che abbia sentito le voci secondo cui può essere figlio del Sommo re?» «Non può non averle sentite. Artù non ha fatto mistero della sua visita a Morgause quella notte, e neppure lei. Proprio questo Morgause voleva. In seguito, quando l'ho costretta a cambiare i suoi piani, può anche darsi che abbia persuaso le sue donne a tenere il segreto, o che le abbia terrorizzate per costringerle a ciò, ma comunque le sentinelle lo videro, e già al mattino tutta Luguvallium era al corrente. Perciò che può fare Lot? Non tollererebbe comunque il bastardo di un altro; ma quello di Artù potrebbe essere pericoloso.» Ulfin rimase in silenzio per un momento. «Mi fa pensare a Tintagel. Non alla notte che vi facemmo entrare re Uther, ma all'altra volta, quando la regina Ygraine ti ha dato Artù, perché tu lo nascondessi e lo tenessi lontano da Uther.» «Sì.» «Mio signore, stai forse progettando di prendere anche questo bambino,
per salvarlo da Lot?» La sua voce, sommessa com'era, parve assottigliarsi per chissà quale tensione. Io quasi non gli badavo; fuori, in lontananza, in qualche punto della notte, oltre il rumore della chiusa, avevo sentito risonare degli zoccoli di cavallo; non tanto un rumore, piuttosto una vibrazione sotto i piedi, come trasportata dalla terra. Poi il debole battito era svanito e lo scroscio dell'acqua era tornato a imporsi. «Dicevi?» «Mi domandavo, mio signore, quanto tu fossi sicuro a proposito del bambino che è su al castello.» «Sicuro di quanto dicono i fatti, non più di questo. Riflettici. Morgause ha mentito a proposito della data della nascita, in modo che si potesse spargere la voce che il parto è stato prematuro. Benissimo: potrebbe essere un trucco per salvare le apparenze, nient'altro; si fa in continuazione. Ma guarda con che sistema è stato fatto. Ha fatto in modo che non fosse presente nessun dottore, poi ha sostenuto che la nascita era inaspettata e che si è svolta in modo così rapido da rendere impossibile la convocazione di testimoni nella camera, come è consuetudine nel caso di parti reali. Solo le sue donne, che sono sue creature.» «Va bene, ma perché, mio signore? Che altro ci poteva guadagnare?» «Solo questo: un neonato da mostrare a Lot e che lui possa uccidere se vuole, mentre il figlio di Artù e di Morgause è incolume.» Un ansito e un momento di silenzio. «Intendi dire?...» «Quadra, non è vero? Potrebbe già aver organizzato lo scambio con un'altra donna che doveva partorire nello stesso periodo, una povera donna disposta a prendersi il denaro e a stare zitta, contenta per di più dell'opportunità di allattare il bambino del re. Possiamo solo supporre che cosa le ha detto Morgause; può darsi che la donna non sospetti neppure che il suo bambino potrebbe correre dei rischi. Così il bambino sostituito è al castello mentre il figlio di Artù, strumento del potere per Morgause, è nascosto nelle vicinanze. Non troppo lontano, secondo me. Vorranno sue notizie, di quando in quando.» «E se quello che dici è vero, quando Lot arriva...» «Dovranno fare qualche mossa. Se fa del male al bambino, Morgause dovrà fare in modo che la madre non ne sappia niente. Può perfino esser costretta a trovare un'altra casa per Mordred.» «Ma...» «Ulfin, non possiamo fare niente per salvare quell'altro bambino. Solo
Morgause potrebbe salvarlo, se volesse. Non è neppure sicuro che sarà in pericolo; Lot non è proprio un selvaggio, dopo tutto. Ma tu e io non faremmo altro che andarci a cercare la morte e trascinare con noi il bambino.» «Lo so. Ma che cosa pensi di tutto quello che dicono su al castello? Beltane te ne ha parlato. Non ha fatto che raccontare mentre io cenavo. Voglio dire, il bambino che assomiglia tanto a re Lot, il ritratto vivente, come dicevano tutti. Non potrebbe essere solo una supposizione la tua? E, dopo tutto, il bambino essere di Lot? Anche la data potrebbe essere giusta. Dicevano che era un bambino malaticcio, e piccolo.» «Potrebbe essere. Ti ho detto che facevo delle supposizioni. Ma noi sappiamo che non c'è verità nella regina Morgause... e che è nemica di Artù. Le sue azioni, e quelle di Lot, vanno tenute d'occhio. Anche Artù dovrà sapere, senza possibilità di dubbio, qual è la verità.» «Certo. Lo capisco. Una cosa potremmo fare, ed è scoprire chi ha partorito un maschio all'incirca contemporaneamente alla regina. Potrei chiedere in giro domani. Mi sono già fatto un paio di amici utili, grazie a qualche bevuta.» «In una città di queste dimensioni potrebbero essercene altri venti. E noi non abbiamo tempo. Ascolta!» Di nuovo il terreno trasmise, più chiaramente adesso, i tonfi degli zoccoli. Una squadra di uomini che cavalcavano a briglia sciolta. Poi il rumore diretto degli uomini in arrivo, vicino e sempre più vicino, nitido sopra il fragore del fiume, e subito dopo, lo strepito dell'abitato mentre la gente usciva nelle strade a vedere. Grida di uomini; lo sbattere del legno contro i muri quando le porte vennero spalancate; il tintinnio del morso dei cavalli e il rumore metallico delle armature, lo sbuffare dei cavalli stanchi. Poi ancora grida di uomini e un'eco dalla rocca del castello, che ci sovrastava, poi lo squillo di una tromba. Il ponte principale rimbombò. Le pesanti porte scricchiolarono e sbatterono. I rumori diminuirono mentre arrivavano al cortile interno, e si persero negli altri rumori più vicini. Mi alzai, mi avvicinai alla porta della bottega del carraio e guardai verso l'alto dove, oltre il tetto del mulino, la massa del castello sovrastava, contro lo sfondo della notte piena di nuvole. Non pioveva più. C'erano luci che si spostavano. Le finestre risplendevano di luce e ridiventavano buie via via che i servi del re gli facevano strada attraverso il castello. Nell'ala ovest due finestre brillavano di una luce tenue. Le luci in movimento arrivarono
lì, e si fermarono.«Lot è tornato» dissi. Dodici Dal castello venne il suono di una campana. Mezzanotte. Appoggiandomi al muro nel vano della porta della bottega del carraio, stirai le spalle indolenzite per l'umidità della notte. Dietro di me, Ulfin alimentava il fuoco gettandovi un'altra fascina, cautamente, in modo che nessun baluginio della fiamma potesse attirare l'attenzione di quanti fossero eventualmente svegli. Sprofondata di nuovo nel suo torpore notturno, la città taceva, a parte i latrati di qualche cagnaccio e, di quando in quando, il grido di un gufo in mezzo agli alberi sul fianco scosceso del dirupo. Abbandonai silenziosamente il mio riparo nel vano della porta per uscire nel viottolo vicino all'estremità del ponte. Qui alzai la testa a guardare la massa scura del picco. Le alte finestre del castello erano ancora illuminate, e dietro le mura che chiudevano il cortile, più in basso, si spostavano le luci provenienti dalle torce dei soldati, luci rosse e fumose. Accanto a me, Ulfin prese fiato per formulare una domanda. Non poté farlo. Qualcuno attraversò di corsa la passerella con la testa voltata all'indietro, venne a sbattere a capofitto contro di me, ansimò, si lasciò sfuggire un grido represso e deviò bruscamente per proseguire. Mi colse tanto di sorpresa che non fui pronto nella reazione, ma Ulfin balzò, afferrò un braccio e premette una mano sulla bocca a soffocare un altro grido. Il nuovo venuto si contorse e lottò per liberarsi dalla sua presa, ma a Ulfin fu facile trattenerlo. «Una ragazza» disse Ulfin sorpreso. «Presto, dentro la bottega» dissi io in fretta e li precedetti. Quando fummo entrati, gettai sul fuoco un altro pezzo di legno d'olmo. Le fiamme si alzarono. Ulfin portò la sua prigioniera, che continuava a dimenarsi e a scalciare, alla luce del fuoco. Le era caduto il cappuccio che prima le nascondeva la testa e il viso, sicché la riconobbi, con soddisfazione. «Lind.» Lei si irrigidì nella stretta di Ulfin. Vidi lo scintillio degli occhi pieni di paura che mi fissavano da sopra la mano di Ulfin. Poi spalancò gli occhi, e rimase immobile, come una pernice davanti a una donnola. Anche lei mi aveva riconosciuto. «Sì» dissi. «Sono Merlino. Ti aspettavo, Lind. Adesso, se Ulfin ti lascia,
tu non gridare.» Lei mosse la testa, assentendo. Ulfin le tolse la mano dalla bocca ma continuò a tenerla stretta dalla spalla. «Lasciala» dissi. Mi ubbidì, indietreggiando per mettersi tra lei e la porta, ma non avrebbe avuto bisogno di preoccuparsi. Appena lui la liberò, la ragazza corse verso di me e si gettò in ginocchio sui trucioli che coprivano il pavimento. Mi afferrò la veste. Il suo corpo era scosso da un pianto di terrore. «Oh, mio signore, mio signore! Aiutami!» «Non sono qui per fare del male a te, o al bambino.» Per farla calmare, parlai con freddezza. «Il Sommo re mi ha mandato qui per avere notizie di suo figlio. Tu sai che non posso andare direttamente dalla regina, perciò sono rimasto qui ad aspettare te. Che cosa è accaduto su al castello?» Ma lei non parlava. Credo che non fosse in grado di farlo. Era aggrappata alla mia veste, tremava e piangeva. Parlai più dolcemente. «Qualunque cosa sia accaduta, Lind, se non lo so, non posso aiutarti. Vieni accanto al fuoco, calmati e raccontami.» Ma quando cercai di strappare la mia veste dalla sua stretta, lei ci si aggrappò ancora di più. Singhiozzava forte. «Non mi trattenere qui, signore, lasciami andare! Oppure aiutami! Tu hai il potere... tu sei fedele ad Artù... e non hai paura della mia signora...» «Ti aiuterò se parlerai. Voglio notizie del figlio di Artù. Era re Lot quello che è arrivato poco fa?» «Sì. Oh, sì! È tornato un'ora fa. È pazzo, pazzo, ti dico! E lei non ha neppure tentato di fermarlo. Rideva e gliel'ha lasciato fare.» «Lasciato fare che cosa?» «Uccidere il bambino.» «Lui ha ucciso il bambino che Morgause ha su al castello?» La ragazza era troppo sconvolta per trovare strana la formulazione della mia domanda. «Sì, sì!» Deglutì. «Ed era il figlio di lui, il suo stesso figlio. Io ero presente alla nascita, e lo giuro sui miei cari. Era...» «Che cos'era?» Questa volta a parlare, bruscamente, era stato Ulfin, di guardia sulla soglia. «Lind!» Mi chinai, la tirai in piedi e la tenni ferma. «Non è il momento di parlare per enigmi. Continua. Dimmi tutto quello che è successo.» Lei si premette sulla bocca il dorso del polso e dopo un paio di secondi riuscì a parlare con una certa calma. «Quando è arrivato, era arrabbiato. Ce l'eravamo aspettato, ma non a questo punto. Aveva sentito quello che dice
la gente, che il Sommo re era stato a letto con lei. Tu lo sapevi, signore, sapevi che era vero... Così re Lot si è scatenato e le ha fatto una scenata, chiamandola sgualdrina, adultera... Noi eravamo tutte lì, le sue donne, ma il re non se ne curava. E lei... se gli avesse parlato con dolcezza, gli avesse mentito, anche...» Deglutì. «Lo avrebbe calmato. Lui le avrebbe creduto. Non ha mai potuto resisterle. Tutte noi pensavamo che lei avrebbe fatto così, ma no. Gli ha riso in faccia e ha detto: "Ma non lo vedi quanto ti somiglia? Credi davvero che un ragazzo come Artù potrebbe avere un figlio così?". E lui ha detto: "Allora è vero? Ti sei giaciuta con lui?". E lei: "Perché no? Tu non mi sposavi. Ti prendevi quella bambina tutta dolcezza, Morgana, invece di me. Io non ero tua, non lo ero in quel momento". Questo lo ha fatto arrabbiare ancora di più.» La ragazza rabbrividì. «Se lo avessi visto in quel momento, perfino tu avresti avuto paura.» «Lo credo. E lei?» «No. Lei non si è mossa; è rimasta seduta lì, con la veste verde e tutti i gioielli, e sorrideva. Si sarebbe detto che facesse apposta a farlo arrabbiare.» «Questo faceva» dissi. «Continua, Lind, presto.» Adesso si dominava. La lasciai e lei rimase ferma, ancora tremante, ma con le braccia incrociate sul petto, l'atteggiamento delle donne quando sono afflitte. «Lui ha strappato i tendaggi dalla culla. Allora il bambino si è messo a piangere. Lui ha detto: "Assomiglia a me? Il marmocchio di Pendragon è bruno e io sono bruno. Solo questo". Poi si è voltato verso di noi, le donne, e ci ha cacciato via. Siamo scappate. Sembrava un lupo impazzito. Le altre sono corse via, ma io mi sono nascosta dietro le tende nell'anticamera. Ho pensato... ho pensato...» «Hai pensato?» Scosse la testa. Le lagrime sgorgarono dai suoi occhi, scintillando alla luce del fuoco. «È stato allora che lui l'ha fatto. Il bambino ha smesso di piangere. C'è stato un fracasso, come se la culla fosse caduta. La regina ha detto, senza scomporsi: "Avresti dovuto credermi. Il bambino era tuo, nato da qualche puttana che hai montato in città. Te l'avevo detto che la somiglianza c'era". E ha riso. Lui non ha parlato per un po'. Sentivo il suo respiro. Poi ha detto: "Capelli neri, occhi che diventavano neri. Il marmocchio figliato dalla puttana di lui dev'essere uguale. Dov'è, allora, quel bastardo?". Lei ha detto: "Era un bambino malaticcio. È morto". Il re ha detto: "Stai mentendo di nuovo". Allora lei ha detto, molto lentamente: "Sì, sto mentendo. Ho detto alla levatrice di portarlo via, e di trovarmi un figlio
che osassi mostrarti. Forse ho sbagliato. L'ho fatto per salvare il mio nome e il tuo onore. Odiavo quel bambino. Come avrei potuto desiderare partorire il figlio di chiunque non fossi tu? Avevo sperato che fosse tuo figlio, non il suo, ma era suo figlio. Speriamo che sia morto, anche lui, insieme a questo." Il re ha detto: "Facciamo qualcosa di più. Vediamo di esserne sicuri".» Fu Ulfin, questa volta, a dire in fretta: «E allora? Va' avanti». La ragazza tirò il fiato rabbrividendo. «Allora lei ha aspettato un momento, poi ha detto - con un tono spensierato, sprezzante, il tono con cui si sfida un uomo a fare qualcosa di pericoloso: "E come potresti farlo, re del Lothian, se non uccidendo ogni bambino nato in città dopo il primo di maggio? Te l'ho detto che non so dove l'abbiano portato". Lui non si è neppure fermato a pensare. Ansimava, come se corresse. Ha detto: "Allora è esattamente quello che farò. Sì, tutti i maschi e anche le femmine. Come posso sapere, altrimenti, la verità su questo dannato parto?". Avrei voluto correre via, ma non potevo. La regina ha cominciato a dire qualche cosa a proposito della gente, ma lui non se n'è curato, è andato alla porta e ha gridato ai suoi capitani di venire. Sono arrivati di corsa. Lui gli ha parlato gridando, diceva la stessa cosa. Quegli ordini, che ogni neonato della città... non ricordo come ha detto. Ho creduto di svenire, e di cadere, e ho avuto paura che si accorgessero di me. Ma poi ho sentito la regina dire qualcosa con una voce di pianto, qualcosa a proposito degli ordini del Sommo re, e del fatto che re Artù non avrebbe tollerato le voci che erano girate dopo Luguvallium. Poi i soldati se ne sono andati. E la regina non stava affatto piangendo, mio signore, ma rideva di nuovo e abbracciava re Lot. Dal modo in cui gli parlava, allora, si sarebbe detto che lui avesse compiuto qualche nobile gesto. Anche lui si è messo a ridere. Ha detto: "Sì, lasciamo che lo dicano di Artù, non di me. Macchierà il suo nome più di qualsiasi cosa che io possa mai escogitare". Allora sono andati nella camera da letto, e hanno chiuso la porta. Ho sentito che lei mi chiamava, ma non me ne sono curata e sono corsa via. È cattiva, cattiva! Io l'ho sempre odiata, ma è una strega e mi faceva paura.» «Nessuno ti riterrà responsabile per quello che ha fatto la tua padrona» la rassicurai. «E adesso tu puoi controbilanciarlo. Portami dove è nascosto il figlio del Sommo re.» Alla mia richiesta la ragazza indietreggiò, lanciando un'occhiata terrorizzata dietro di sé, come se volesse di nuovo scappare. «Vieni, Lind. Se temevi Morgause, quanto più dovresti temere me? Tu
correvi da questa parte per andare a proteggerlo, vero? Non puoi farlo da sola. Non puoi proteggere neppure te stessa. Ma se adesso mi aiuti, ti proteggerò io. Ne avrai bisogno. Ascolta.» Su in alto, l'ingresso principale del castello fu aperto rumorosamente. Attraverso i fitti rami si scorgevano torce in movimento dirigersi, dirette dondolando verso il ponte principale. Alle torce si accompagnavano il rumore degli zoccoli dei cavalli e le voci che gridavano ordini. Ulfin disse, brusco: «Sono usciti. È troppo tardi». «No!» gridò la ragazza. «La casetta di Macha è dall'altra parte. Sarà l'ultima cui arriveranno! Te la indicherò io, signore. Per di qua!» Senza aggiungere altro si diresse alla porta, con me e Ulfin alle calcagna. Risalimmo il sentiero dal quale eravamo venuti, attraversammo uno spiazzo aperto, poi scendemmo per un altro vicolo scosceso che tornava serpeggiando verso il fiume e lì prendemmo un sentiero lungo l'argine dove si affondava nelle ortiche e niente si muoveva salvo nugoli di topi sbucati dai letamai. Era molto buio e non potevamo andare più in fretta, benché la notte ci alitasse orrore sulla nuca come un levriero alla caccia. Dietro di noi, in lontananza, all'estremità della città, cominciarono i rumori. In primo luogo i latrati dei cani, le grida dei soldati, lo scalpiccio degli zoccoli. Poi porte che sbattevano, donne che gridavano, urla di uomini; e di quando in quando lo sferragliare delle armi. Mi sono trovato durante saccheggi di città, ma qui era diverso. «Qui!» ansimò Lind, e girò in un altro vicolo a zigzag che portava lontano dal fiume. I rumori terrificanti che giungevano da oltre le case continuavano a rendere immonda la notte. Corremmo sul fango viscido del vicolo, poi salimmo una rampa di gradini spezzati e sbucammo di nuovo su una viuzza stretta. Qui tutto taceva, vidi però brillare una luce dove alcuni capifamiglia spaventati si erano svegliati meravigliandosi di tutti quei rumori. Alla fine della strada uscimmo nell'erba di un campo dove era legato un asino, oltrepassammo un frutteto con alberi ben curati e la porta spalancata di una bottega di fabbro, e arrivammo finalmente a una casetta dignitosa, un po' discosta da tutto il resto dietro una siepe di rovi, con una striscia di giardino sul davanti, una piccionaia e un canile accanto alla porta. La porta della casetta era spalancata e sbatteva. Il cane, all'estremità della catena, era in delirio e faceva balzi come impazzito. I colombi erano usciti dalla piccionaia e sbattevano le ali nell'aria cupa. Nella casetta non
c'era nessuna luce, non si sentiva nessun rumore. Lind attraversò di corsa il giardino e si fermò sulla soglia buia, sbirciando dentro la casetta. «Macha? Madia?» Accanto alla porta, su una sporgenza del muro, era posata una lanterna. Non c'era tempo per cercare esca e acciarino. Scansai con dolcezza la ragazza. «Portala fuori» dissi a Ulfin e, mentre lui mi ubbidiva, presi la lanterna e la feci dondolare, tenendola alta. La fiamma scaturì sibilando dallo stoppino, vivida e forte. Sentii Lind ansimare, poi il respiro le morì in gola. La luce sfavillante rivelava ogni angolo della casetta: il letto contro il muro, la pesante tavola e la panca, i recipienti di coccio per il cibo e per l'olio, lo sgabello con la conocchia che gli era caduta accanto e la lana che si srotolava, il focolare pulito e il pavimento di pietra bianco tanto era stato lavato e sfregato, salvo dove il corpo della donna era steso scompostamento nel sangue sgorgato dalla gola tagliata. La culla accanto al letto era vuota. *
*
*
Lind e Ulfin aspettavano al margine del frutteto. La ragazza adesso taceva, tanto scossa da non poter neppure più piangere; alla luce della lanterna aveva il viso sbiancato di chi sta per vomitare. Ulfin le teneva un braccio intorno alle spalle, e la sorreggeva. Era molto pallido. Il cane guaì una volta, poi si risedette e alzò il muso in un lungo, funereo ululato. Gli fecero eco il fragore di armi e le grida che riempivano il buio tre vicoli più in là. E poi di nuovo, più vicino. Richiusi dietro di me la porta della casetta. «Mi spiace, Lind. Qui non possiamo più fare niente. Dobbiamo andarcene. Conosci la taverna vicino alla porta sud? Ci puoi portare lì? Evita le strade più centrali in cui si sente il rumore. Cerca di non aver paura; ho detto che ti avrei protetto e lo farò. Per il momento è meglio che tu rimanga con noi. Vieni, adesso.» Lei non si mosse. «Lo hanno preso! Il bambino, hanno preso il bambino. E hanno ucciso Macha!» Si voltò verso di me come accecata. «Perché hanno ucciso Macha? Il re non avrebbe mai ordinato una cosa simile. Era la sua ganza!» La guardai, pensieroso. «In effetti, perché?» Poi, prontamente, la presi per la spalla e le diedi una scossetta, delicatamente: «Vieni adesso, bambina, non dobbiamo rimanere qui. Gli uomini non torneranno da questa parte, ma finché rimani per la strada puoi essere in pericolo. Guidaci alla porta
sud». «Dev'essere stata lei a indicargli questo posto!» gridò Lind. Era come se io non avessi detto niente. «Sono venuti in primo luogo qui! Siamo arrivati troppo tardi! Se non mi aveste fermata al ponte...» «Saresti morta anche tu» disse Ulfin deciso. Pareva del tutto normale, come se gli orrori di quella notte non lo toccassero affatto. «Che cosa avreste potuto fare tu e Macha? Vi avrebbero trovate e uccise prima che riusciste ad arrivare alla fine di quel frutteto, laggiù. Adesso, è meglio fare come dice il mio signore. Voglio dire, a meno che tu non abbia intenzione di tornare dalla regina e dirle quello che è successo qui? Puoi contarci, lei ha indovinato dov'eri andata. Ben presto cominceranno a cercarti.» Era un discorso brutale, ma funzionò. Quando sentì accennare a Morgause tornò in sé. Lanciò un'ultima occhiata di orrore alla casetta, poi si tirò il cappuccio fin sul viso; e si girò, cominciando a ripercorrere il cammino già fatto tra gli alberi del frutteto. Mi fermai accanto al cane afflitto e mi chinai a carezzarlo. Il terribile lamento s'interruppe. Era tutto un brivido. Tirai fuori la daga e recisi la corda che lo teneva legato. Non si mosse, e io lo lasciai lì. Quella notte furono portati via circa venti bambini. Qualcuno - megera o levatrice - doveva aver detto ai soldati dove cercarli. Quando arrivammo alla taverna, seguendo una strada tortuosa nei sobborghi deserti della città, l'orrore era finito, i soldati spariti. Nessuno ci abbordò o parve anche solo notarci. Le strade erano piene di gente e di rumore. La gente correva in giro senza meta, o sbirciava terrorizzata dalle porte buie. Qua e là si raccoglievano dei capannelli, intorno a qualche donna piangente e a qualche uomo infuriato o sconvolto. Era povera gente, che non aveva alcun mezzo di opporsi alla volontà del suo re. La furia regale si era rovesciata su tutta la città, non lasciando a loro nient'altro che il dolore. E la possibilità di maledire. Udii il nome di Lot: dopo tutto, erano stati i suoi soldati. Ma il nome di Lot era accompagnato da quello di Artù. La menzogna era già all'opera e col tempo, lo si poteva prevedere, avrebbe soppiantato la verità. Artù era il Sommo re, principale dispensatore del bene e del male. Una cosa era stata loro risparmiata: non c'era stato olocausto di sangue. L'unica morte era stata quella di Macha. I soldati avevano preso i neonati dalle culle e con loro si erano allontanati a cavallo nelle tenebre. A parte un paio di teste rotte, quando un padre aveva opposto resistenza, non avevano commesso alcuna violenza.
Questo mi raccontò Beltane, ansimando. Ci venne incontro sulla porta della taverna, completamente vestito e tremante per l'agitazione. Parve non accorgersi neppure della presenza di Lind. Mi prese per il braccio e sciorinò la sua versione degli avvenimenti di quella notte. L'elemento più chiaro che ne emerse fu che i soldati erano passati di lì non da molto, con i bambini. «Ancora vivi, e piangenti... puoi immaginare, mastro Emrys!» Si torse le mani, con un lamento. «Terribile, terribile, sono proprio tempi crudeli. E tutte quelle chiacchiere sul fatto che erano ordini di Artù, chi può credere a una tale frottola? Ma silenzio, non dire niente. Prima ci mettiamo in cammino, meglio è. Questo non è un posto per onesti mercanti. Me ne sarei andato prima, mastro Emrys, ma sono rimasto per te. Ho pensato che forse ti avevano chiamato per farsi aiutare, alcuni degli uomini erano feriti, dicono. Affogheranno i bambini, l'hai saputo? Dei del cielo, e pensare che solo oggi... Ah, Casso, bravo figliolo! Mi sono preso la libertà di far sellare le tue bestie, mastro Emrys. Ero certo che saresti stato d'accordo. Adesso dobbiamo andare. Ho pagato il locandiere, è tutto a posto, potrai regolare i conti con me quando saremo per strada... E vedrai che ho comprato dei muli anche per noi, volevo farlo da tanto tempo e oggi, con gli affari che ho fatto su al castello... Che fortuna, che fortuna! Ma quella bella signora, chi avrebbe potuto pensare... basta, non ne parliamo più, qui!» Miope com'era stava sbirciando Lind, che si aggrappava al braccio di Ulfin, quasi svenendo. «Diamine, certo... non è la giovane donzella?...» «Dopo» dissi in fretta. «Niente domande, adesso. La ragazza viene con noi. Intanto, mastro Beltane, grazie. Sei un buon amico. Sì, dobbiamo andare senza indugio. Casso, sposta il bagaglio, per piacere. La ragazza cavalcherà il mulo da soma. Ulfin, hai detto che avevi un amico al posto di guardia. Precedici, e parlagli perché ci faccia passare. Scopri da che parte sono andati i soldati. Corrompi le sentinelle, se necessario.» Combinazione, non fu necessario. Le porte stavano per essere chiuse quando vi arrivammo, ma le sentinelle non fecero difficoltà a lasciarci uscire. In effetti, da qualche brontolio che riuscimmo a sentire, erano sconvolti quanto gli abitanti della città per quel che era accaduto e trovavano assolutamente comprensibile che pacifici mercanti avessero fatto i bagagli in fretta e lasciassero la città nel cuor della notte. Dopo un breve tratto di strada, quando ormai non ci potevano più sentire dal posto di guardia, tirai le redini. «Mastro Beltane, ho qualche faccenda da sistemare. No, non devo torna-
re in città per questo, perciò non temere per me. Ti raggiungerò più tardi. Puoi arrivare fino alla taverna dove ci siamo fermati durante il viaggio di andata, quella con un cespuglio di ginestra fuori... ricordi? Aspettaci lì. Lind, sarai al sicuro con questi uomini. Non aver paura, ma farai bene a star zitta fino al mio ritorno. Capito?» La ragazza annuì in silenzio. «Al Cespuglio di ginestra, allora, mastro Beltane?» «Certo, certo. Non posso dir di capire, ma forse domattina...» «Domattina, spero, tutto sarà chiarito. Per adesso, buona notte.» Si allontanarono con uno scalpiccio di zoccoli. Io tirai su, bruscamente, la testa del mio mulo. «Ulfin?» «Hanno preso la strada a est, mio signore.» Così prendemmo la strada a est. *
*
*
Con le misere cavalcature che avevamo, non ci saremmo aspettati, in condizioni normali, di raggiungere dei soldati che cavalcavano come pazzi. Ma le nostre bestie erano riposate, mentre gli uomini di Lot dovevano, pensai, cavalcare ancora le povere bestie che li avevano portati dai campi di battaglia, dal sud. Perciò quando, dopo mezz'ora di strada, non vidi né sentii alcun indizio della loro vicinanza, tirai le redini e mi voltai sulla sella. «Ulfin. Una parola.» Lui fece accostare il suo mulo al mio. Con quel buio battuto dal vento, non potevo vedere il suo viso, ma da lui emanava qualcosa. Aveva paura. Non aveva paura prima, neppure nella casetta di Macha. E adesso poteva esserci un'unica fonte di paura: io. Gli dissi: «Perché mi hai mentito?» «Mio signore...» «I soldati non sono venuti da questa parte, vero?» Lo udii deglutire. «No, mio signore.» «Da che parte, allora?» «Verso il mare. Credo... si credeva che avevano intenzione di mettere i bambini in una barca, e lasciarla andare alla deriva. Il re aveva detto che li avrebbe affidati alle mani di Dio, in modo che gli innocenti...» «Puah!» dissi. «Lot parlare delle mani di Dio? Ha avuto paura di quello che avrebbe potuto fare la gente se avesse visto che sgozzavano i bambini, questo è tutto. Certamente avrà fatto spargere la voce che è stato Artù a
ordinare il massacro, ma che lui ha mitigato la condanna, dando un'opportunità ai neonati. La spiaggia. Dove?» «Non lo so.» «È vero?» «Certo, certo che è vero. Ci sono parecchie strade. Nessuno lo sapeva con sicurezza. Questa è la verità, mio signore.» «Sì. Se qualcuno l'avesse saputo, alcuni degli uomini avrebbero potuto tentare di seguirli. Perciò torniamo indietro, e prendiamo la prima strada che porta al mare. Possiamo cavalcare lungo la riva e cercarli. Vieni.» Ma mentre mi accingevo a far girare il mio mulo, la sua mano calò sulle redini. Era una cosa che non avrebbe mai osato fare, se non fosse stato alla disperazione. «Mio signore... perdonami. Che cosa hai intenzione di fare? Dopo tutto questo... Stai ancora cercando di trovare il bambino?» «Che cosa pensi? Il figlio di Artù?» «Ma anche Artù lo vuole morto!» Ecco di che si trattava. Avrei dovuto indovinarlo da un pezzo. Il mio mulo recalcitrò, mentre le redini mi balzavano nelle mani. «Allora ascoltavi a Caerleon. Hai sentito che cosa mi ha detto quella notte.» «Sì.» Questa volta la sua voce quasi impercettibile. «Rifiutare di assassinare un bambino, signore, questo è una cosa. Ma quando l'assassinio viene commesso in tuo nome...» «Non c'è bisogno di impedirlo? Forse no. Ma dato che origliavi quella notte, forse mi hai anche sentito dire al re che io prendo gli ordini da un'autorità che è superiore alla sua. E finora i miei dei non mi hanno detto né mostrato niente. Immagini forse che vogliano che emuliamo Lot, e quella cagna della sua regina? E hai udito la calunnia che hanno rovesciato su Artù. Per il suo onore, e anche solo per la sua serenità, Artù deve sapere la verità. Io sono qui per lui, per osservare e per riferire. Qualsiasi cosa accada, lo farò. Adesso togli la mano dalla mia bestia.» Ubbidì. Con un calcio misi il mulo al galoppo. Pesantemente ripercorremmo il cammino da cui eravamo venuti. Quella era la strada che avevamo preso durante il viaggio di andata verso Dunpeldyr, e che avevamo percorso col giorno. Cercai di ricordare che cosa avessimo visto allora della costa. È una costa di alte scogliere, intramezzate da ampie baie sabbiose. Un grande promontorio si protendeva nel mare, a circa un miglio dalla città, e anche con la bassa marea pareva improbabile che si potesse costeggiarlo a cavallo. Ma immediatamente oltre il promontorio c'era un sentiero che portava al mare. Da lì - e la marea cal-
colai, doveva essere bassa in quel momento - avremmo potuto ripercorrere lungo la costa tutta la distanza che ci separava dalla foce del Tyne. Lentamente, ma in modo percettibile, la notte stava ritirandosi davanti all'alba. Ormai riuscivamo a vedere la strada. Alla nostra destra si profilò vagamente un cumulo di pietre. Su una lastra piatta, alla base, un mucchio di piume si muoveva al vento e i muli strabuzzarono gli occhi; immaginai che sentissero odore di sangue. Ed ecco il sentiero, che attraverso un campo erboso molto accidentato portava al mare. Ci inoltrammo su di esso. Poco dopo il sentiero cominciò a scendere, poi ci trovammo davanti la spiaggia e il grigio mormorio del mare. Il vasto promontorio si profilava alla nostra destra; a sinistra la spiaggia sabbiosa si stendeva piatta e grigia. Voltammo in quella direzione, mettendo, una volta di più, i muli al galoppo. La marea si era ritirata, la sabbia ondulata si era indurita. Alla nostra destra il mare proiettava una specie di luce grigia fino al cielo coperto di nuvole. Un po' a nord, piantata al centro di quella grigia luminosità, si delineava la sagoma massiccia dello scoglio sul quale sorge il faro. La luce era rossa e costante. Presto, pensai mentre i muli avanzavano pesantemente, sarebbe stato possibile distinguere in lontananza il picco di Dunpeldyr verso l'entroterra e i tratti piani della baia dove il fiume si getta nel mare. Davanti a noi si protendeva un basso promontorio, dalla punta nera e frastagliata, l'acqua che gli spumeggiava tutt'intorno. Ne facemmo il giro, i muli che affondavano fino ai garretti nella risacca spumeggiante. Adesso potevamo vedere Dunpeldyr, a un miglio o due nell'entroterra, ancora animata e piena di luci. Davanti a noi si stendeva l'ultimo tratto sabbioso. Alberi indistinti segnavano il corso del fiume e il pallido luccichio dove le sue acque si allargavano a incontrare il mare. E lungo la riva del fiume, dove correva la strada per il mare, avanzavano sobbalzando le torce di uomini a cavallo che a un piccolo galoppo regolare se ne tornavano in città. Il lavoro era stato compiuto. Il mio mulo fu contento di fermarsi. Quello di Ulfin si fermò anch'esso sbuffando, una mezza lunghezza più indietro. Sotto i loro zoccoli il riflusso trascinava la sabbia, con un lieve stridio. Dopo un po', parlai. «Hai ottenuto quello che volevi, pare.» «Mio signore, perdonami. L'unica cosa a cui pensavo...» «Che cosa dovrei perdonare? Dovrei forse serbarti rancore per aver servito il tuo padrone anziché me?» «Avrei dovuto capire che sapevi quello che stavi facendo.»
«Quando non lo sapevo neppure io? Per quanto ne so, sei stato più saggio di me. Almeno, dato che la cosa è fatta e Artù ne porterà in parte la colpa, possiamo essere perdonati se speriamo che il bambino di Morgause sia morto con gli altri.» «Come potrebbe salvarsene qualcuno? Guarda, mio signore.» Mi girai per guardare nella direzione che indicava. In mare aperto, oltre un banco di scogli a fior d'acqua all'estremità della baia, la pallida falce di una vela scintillava debolmente nel chiarore del mare. Poi la barca superò il banco di scogli e uscì verso il mare aperto. Il vento, che spirava regolare da terra, gonfiava la vela, portando la barca verso il largo con la velocità di un gabbiano che plana. Lì era la clemenza di Erode per gli innocenti, nel movimento del vento e del mare, con quella barca alla deriva che si immergeva e si sollevava sul filo dell'acqua, portando rapidamente lontano dalla riva il suo infelice carico. La vela si confuse con il grigio e svanì. Il mare sospirava e mormorava sotto il vento. Piccole onde lambivano il grande scoglio e trascinavano sabbia e conchiglie rotte oltre le zampe dei muli. Sulla cresta accanto a noi il giunco marino fischiava nel vento. Poi, al di sopra di questi suoni, lo sentii, molto flebile, che ci arrivava sul mare in una pausa del vento: un pianto esile, lamentoso, inumano come il canto delle foche grigie nei loro convegni. Diminuì d'intensità mentre ascoltavamo; poi tornò di colpo, forte e penetrante, proprio sopra di noi, come se qualche anima, abbandonando la barca fatale, stesse tornando in volo verso casa, verso la riva. Ulfin si ritrasse, come per evitare un fantasma, e fece il segno di scongiuro; ma era solo un gabbiano che volava sopra di noi, alto nel vento. Di nuovo Ulfin non disse niente, e io rimasi in silenzio sul mio mulo. C'era qualcosa nelle tenebre; qualcosa che mi opprimeva di cordoglio. Non solo il destino dei bambini; certamente non la morte presunta del figlio di Artù. Ma la visione confusa di quella vela che si allontanava sul mare grigio e i suoni dolenti che uscivano dall'oscurità trovavano un'eco in qualche punto, nel più profondo della mia anima. Rimasi lì immobile, mentre il vento diminuiva e cadeva, l'acqua lambiva lo scoglio e sul mare i gemiti si andavano affievolendo. LIBRO II Camelot Uno
Non me ne andai subito da Dunpeldyr, anche se molto mi sarebbe piaciuto farlo. Artù era ancora a Linnuis, e avrebbe avuto bisogno della mia relazione, non solo sul massacro in sé ma su quanto era accaduto dopo. Ulfin, credo, si aspettava di essere congedato, ma considerando che alloggiare all'interno di Dunpeldyr non sarebbe stato prudente, mi fermai al Cespuglio di ginestra e perciò trattenni Ulfin che avrebbe potuto servirmi come messaggero e tenere i collegamenti. Beltane, che era rimasto scosso, com'era comprensibile, dagli avvenimenti della notte, partì direttamente per il sud con Casso. Mantenni la mia promessa nei confronti di questo: era stata una promessa dettata da un impulso, ma ho constatato che questo genere di impulsi ha di solito un'origine che non si deve ignorare. Perciò parlai con l'orafo e lo convinsi facilmente dei vantaggi che avrebbe potuto trarre da un servo in grado di leggere e scrivere; chiarii, inoltre, che gli lasciavo Casso per un prezzo inferiore a quanto era costato a me, a condizione che il mio desiderio venisse soddisfatto. Mi accorsi che non c'era bisogno di insistere; quel buon uomo di Beltane mi promise volentieri che avrebbe insegnato lui stesso a Casso, e poi entrambi si congedarono da me e si avviarono verso il sud, diretti di nuovo a York. Con loro partì anche Lind che, a quanto pareva, aveva conosciuto a York un uomo che avrebbe potuto proteggerla; era un piccolo mercante, una persona perbene che aveva parlato di matrimonio ma che, per paura della sua padrona, lei aveva rifiutato. Mi congedai da loro e mi disposi a vedere che cosa avrebbero portato i giorni seguenti. Due o tre giorni dopo la notte terribile del ritorno di Lot cominciarono a venire a riva i relitti del naufragio della barca e con loro i corpi. Era chiaro che l'imbarcazione era stata sospinta contro uno scoglio, chissà dove, e poi era stata fatta a pezzi dalla marea. Le povere donne accorse sulla spiaggia finirono per litigare furiosamente circa l'identità dei bambini. La spiaggia era invasa da queste infelici. Esse piangevano molto e dicevano poco; era chiaro che erano abituate, come bestie, ad accettare ciò che i signori distribuivano loro, si trattasse di elemosine o di percosse. Per me, che me ne stavo con l'orecchio teso nella taverna, era anche chiaro che, malgrado la versione diffusa sulla responsabilità di Artù nel massacro, moltissimi davano la colpa precisamente a chi l'aveva, a Morgause e a Lot, il quale era stato tradito e si era perciò infuriato. E dato che gli uomini sono uguali dappertutto, essi erano inclini a non dare eccessivamente la colpa al loro re per la sua affrettata reazione a quell'ira. Qualsiasi uomo, cominciarono ben
presto a dire, avrebbe fatto altrettanto. Torni a casa per trovare che tua moglie ha appena partorito il figlio di un altro, e non ti si può dare troppo la colpa se perdi il lume degli occhi. E quanto alla strage, be', un re era un re e doveva pensare al suo trono oltre che al suo letto. E a proposito di re, non aveva questo, forse, fatto riparazione con generosità regale? Perché ciò, saggiamente, aveva fatto Lot; e per quanto le donne potessero ancora piangere e dolersi, gli uomini in complesso accettavano il gesto di Lot, insieme al risarcimento in oro che a quello seguì, come l'azione naturale di un re vittima di un torto e giustamente irato. E Artù? Lasciai cadere la domanda una sera, con aria indifferente, nel corso di una di quelle discussioni. Se erano vere le voci messe in giro a proposito della responsabilità del Sommo re in quello sterminio, non era forse lo stesso Artù ugualmente giustificato? Se il neonato Mordred era davvero suo bastardo, nato dalla relazione con la sorellastra, e possibile causa di calamità in mano a re Lot (che non era stato precisamente sempre il suo più affezionato amico) certamente si poteva dire che la politica giustificava l'azione. Quale modo più sicuro avrebbe potuto trovare Artù per mantenersi amico il grande re del Lothian, che assicurare la morte del cuculo nel suo nido e assumersi la responsabilità di quell'uccisione? Mi risposero con mormorii e scuotimenti di testa, che alla fine si risolsero in una sorta di limitato assenso. Così aggiunsi un'altra idea. Tutti sapevano che in problemi di politica come questo - di alta e segreta politica, riferendosi a un grande paese come il Lothian - tutti sapevano che non era il giovane Artù a prendere le decisioni pubbliche, bensì il suo principale consigliere, Merlino. Ora si poteva star certi che quella era la decisione di una mente spietata e contorta, non quella di un valoroso, giovane soldato che trascorreva ogni momento della sua giornata sul campo contro i nemici della Britannia, e che aveva ben poco tempo per la politica di alcova... a parte, naturalmente, quella per cui ogni uomo poteva trovare il tempo... Così l'idea fu gettata, come un seme d'erba, e con la stessa rapidità dell'erba spuntò e crebbe; cosicché quando arrivò la notizia della nuova vittoriosa battaglia di Artù, la realtà del massacro era stata accettata e la colpa di esso, che fosse di Merlino, di Artù o di Lot, quasi perdonata. Era chiaro che il Sommo re - volesse Iddio proteggerlo dal nemico - aveva avuto poco a che fare con tutta la faccenda, a parte il vederne la necessità. Inoltre i neonati, per la maggior parte, sarebbero morti nella primissima infanzia di questo o quel male, e ciò sarebbe avvenuto senza i doni in oro che Lot aveva distribuito ai padri dolenti. Per di più, le donne per la mag-
gior parte rimasero ben presto di nuovo incinte e per forza dimenticarono le lagrime. Così fu anche per la regina. A questo punto si capì che re Lot si era comportato in modo davvero regale. Tornato precipitosamente a casa pazzo d'ira, aveva tolto di mezzo il bastardo (avesse fatto questo per ordine di Artù o per propria decisione), si era garantito un erede legittimo al posto del bambino morto, e se n'era andato di nuovo, assolutamente integra la sua lealtà verso il Sommo re. Alcuni dei padri dolenti, essendo stato loro offerto un posto nell'esercito, ripartirono con lui, confermando così a loro volta la loro personale lealtà. Quanto a Morgause, apparentemente tutt'altro che atterrita per la violenza del suo signore, o preoccupata per l'ira del popolo, aveva un'aria (quel paio di volte in cui la incontrai, essendo uscita a cavallo) tranquilla e soddisfatta di sé. Qualsiasi cosa avesse potuto credere la gente a proposito della parte da lei avuta nel massacro, il fatto che adesso fosse incinta del legittimo erede del regno la metteva al riparo dalla loro malevolenza. Se era afflitta per il figlio perduto, non lo lasciava in nessun modo capire. Questo dimostrava, disse la gente, che davvero era stata sedotta da Artù, e che non avrebbe mai potuto desiderare il bastardo che le era stato fatto concepire. Ma per me, che osservavo e aspettavo nel mio grigio anonimato, cominciò a significare qualcosa di totalmente diverso. Io non credevo affatto che il neonato Mordred si fosse trovato tra gli innocenti massacrati della barca. Ricordavo i tre uomini armati, sobri e risoluti, rientrare nel castello dall'ingresso secondario appena prima del ritorno di Lot... e dopo l'arrivo del messaggero di Morgause dal sud. Anche la donna Macha, ricordavo, morta sul pavimento della sua casetta, accanto alla culla vuota, con la gola tagliata. E Lind, che sbucava di corsa nell'oscurità, senza che Morgause lo sapesse o lo autorizzasse, per andare ad avvertire Macha e portare in salvo il neonato Mordred. Mettendo insieme i vari tasselli della storia, mi parve di sapere che cosa era accaduto. Macha era stata scelta per allevare Mordred perché aveva a sua volta partorito un maschio bastardo di Lot; guardare uccidere il bambino poteva addirittura aver fatto piacere a Morgause; aveva riso, secondo il racconto che ci aveva fatto Lind. Così, con Mordred al sicuro e l'altro bambino pronto per il massacro, Morgause aveva aspettato il ritorno di Lot. Appena questo le era stato annunciato, i suoi uomini d'armi erano stati mandati a trasferire Mordred in un altro focolare adottivo sicuro, e a uccidere Macha la quale, nel caso il suo stesso bambino avesse dovuto andarci
di mezzo, avrebbe potuto essere tentata di tradire la regina. E adesso Lot si era acquietato, la città era tranquilla e, ne ero sicuro, il bambino che rappresentava per Morgause l'arma per arrivare al potere, cresceva al sicuro, chissà dove. Dopo la partenza di Lot, diretto a raggiungere Artù, mandai di nuovo a sud Ulfin, ma personalmente rimasi nel Lothian, a guardarmi intorno, in attesa. Senza più l'intralcio di Lot, tornai a stabilirmi a Dunpeldyr e tentai in ogni possibile modo di trovare qualche indizio sul luogo in cui Mordred poteva adesso esser nascosto. Che cosa avrei fatto se lo avessi trovato non so, ma il dio non mi addossò quel fardello. Così aspettai per quattro mesi buoni in quella sordida piccola città, e sebbene passeggiassi sulla riva alla luce delle stelle e sotto il sole e mi rivolgessi al mio dio con ogni lingua e in ogni modo a me noti, non vidi niente, sia alla luce del giorno sia in sogno, capace di guidarmi dal figlio di Artù. Col tempo giunsi a credere che forse mi ero sbagliato; che neppure Morgause potesse essere così malvagia, e che Mordred fosse perito insieme agli altri innocenti in quel mare notturno. Così infine, mentre l'autunno scivolava nei geli dell'inverno, e giungeva la notizia che si era combattuto a Linnuis e che, ancora una volta, Lot sarebbe stato ben presto sulla via del ritorno, abbandonai Dunpeldyr, l'animo riconoscente. Artù sarebbe stato a Caerleon per Natale e mi avrebbe cercato lì. Interruppi solo una volta il mio viaggio per passare alcune notti da Blaise in Northumbria e dargli le notizie, poi mi diressi verso il sud, perché volevo essere lì quando il re sarebbe rientrato. *
*
*
Tornò nella seconda settimana di dicembre, quando la terra era coperta di brina e i bambini uscivano a raccogliere l'agrifoglio e l'edera per ornare la tavola di Natale. Quasi non aspettò, per mandarmi a chiamare, di essersi fatto il bagno e cambiato dopo la cavalcata. Mi ricevette nella stanza in cui avevamo parlato prima di separarci. Questa volta la porta della camera da letto era chiusa, e lui era solo. Era cambiato molto, da Pentecoste. Più alto, sì, di una mezza testa - era a un'età in cui i giovani si alzano come i gambi dell'orzo - e naturalmente più largo di spalle, con quell'abbronzatura e quella magrezza scattante che gli venivano dalla sua vita di soldato. Ma non era in questo il vero cambiamento. Era nella sua nuova autorità. Dal suo comportamento si capiva ora
che sapeva quel che faceva e dove andava. Non fosse stato per questo, il colloquio avrebbe potuto essere un'eco di quello che avevo avuto con Artù, più giovane, la notte in cui era stato concepito Mordred. «Dicono che sono stato io a ordinare questa cosa abominevole!» Non si era neppure preoccupato di salutarmi. Percorreva la stanza, avanti e indietro, con la stessa andatura guardinga, forte e leggera da leone, ma i passi erano più lunghi di un palmo. La stanza era una gabbia che lo limitava. «Quando anche tu sai che, proprio in questa stanza, avevo detto, no, lascia che ci pensi il dio. E adesso così!» «È quello che volevi, no?» «Tutte quelle morti? Non essere sciocco, lo avrei forse fatto in questo modo? O l'avresti fatto tu?» La domanda non chiedeva una risposta, e non la ebbe. Mi limitai a dire: «Lot non ha mai brillato per la saggezza e la capacità di dominarsi, e per di più era infuriato. Si può dire che l'azione gli è stata suggerita, o che almeno è stata incoraggiata, dal di fuori». Mi lanciò una rapida occhiata, di ira repressa. «Da Morgause? Questo è quello che capisco.» «Immagino che Ulfin ti abbia raccontato tutto? Ti ha anche detto la parte che ha avuto lui in questa storia?» «Il fatto che abbia tentato di portarti nella direzione sbagliata, lasciando che il destino colpisse i bambini? Sì, me l'ha detto.» S'interruppe brevemente. «Era sbagliato, e gliel'ho detto, ma è difficile arrabbiarsi con qualcuno perché ti è stato fedele. Pensava... sapeva che la morte del bambino mi avrebbe lasciato indifferente. Ma quegli altri bambini... Un mese dopo che avevo promesso solennemente di proteggere il popolo, e già il mio nome veniva pronunciato con riprovazione per le strade...» «Credo che tu possa consolarti. Dubito che siano in molti a credere che tu abbia avuto qualcosa a che fare con questa faccenda.» «Non ha importanza.» Lo disse quasi in un ringhio, voltando la testa all'indietro. «Alcuni lo penseranno, e già questo basta. Quanto a Lot, aveva per così dire una scusa; cioè, una scusa che la gente semplice può capire. Ma io? Posso forse rendere di dominio pubblico che il profeta Merlino mi ha detto che il bambino poteva rappresentare un pericolo per me, e per questo l'ho assassinato, e gli altri con lui, per paura che sfuggisse alla retata? Che genere di re fa di me tutto questo? Del genere di Lot?» «Posso solo ripeterti che dubito tu sia ritenuto responsabile. Le donne di
Morgause erano presenti e hanno sentito, ricordi?, e le guardie sapevano da dove erano partiti gli ordini che avevano ricevuto. Anche gli uomini che scortarono Lot... loro sapevano che tornava a casa deciso a cercare vendetta, e non posso credere che tacesse le sue intenzioni. Non so che cosa ti abbia raccontato Ulfin, ma quando sono partito da Dunpeldyr quasi tutti attribuivano il massacro agli ordini impartiti da Lot, e quelli che pensavano invece che fossi stato tu a ordinarlo erano convinti che lo avessi fatto per mio consiglio.» «Davvero?» disse lui. Era proprio molto in collera. «Sono il tipo di re che non può neppure decidere da solo? Se per questo episodio deve essere data la colpa a uno di noi, devo essere io ad assumerla, non tu. Lo sai benissimo. Ricordi quanto me esattamente ciò che abbiamo detto.» Anche a questo non c'era risposta, e io non ne diedi. Riprese ad andare su e giù per la stanza prima di proseguire: «Chiunque possa avere impartito l'ordine, puoi dire, se vuoi, che io mi sento colpevole. E avresti ragione. Ma, per tutti gli dei del cielo e dell'inferno, io non avrei agito in quel modo! Questo è quel tipo di impresa che continua a vivere con te, e dopo di te! Io non sarò ricordato come il re che ha sconfitto e cacciato i sassoni dalla Britannia, ma come l'uomo che a Dunpeldyr ha rappresentato la parte di Erode e ha assassinato gli innocenti!». S'interruppe. «Che c'è da sorridere?» «Non credo tu debba preoccuparti della reputazione che ti lascerai dietro.» «Lo dici tu.» «L'ho detto.» Il cambiamento di tempo, o qualcosa nel tono della mia voce lo bloccarono. Incontrai il suo sguardo e lo sostenni. «Sì, io, Merlino, l'ho detto. L'ho detto quando avevo il potere, ed è vero. È giusto che tu sia angosciato per questo abominio, ed è anche giusto che ti assuma parte della colpa. Ma se questa azione viene tramandata alla storia come tua, sarai assolto da ogni colpa. Puoi credermi. Ciò che deve venire, qualunque cosa sia, ti assolverà da qualsiasi azione.» La collera era svanita, Artù rifletteva. Parlò lentamente. «Intendi dire che qualche pericolo risulterà dalla nascita e dalla morte del bambino? Qualcosa di talmente terribile che la gente considererà giustificato l'assassinio?» «Non intendevo questo, nessuno...» «Facesti un'altra profezia, ricorda. Mi facesti capire... no, me lo dicesti... che il figlio di Morgause avrebbe potuto essere un pericolo per me. Bene,
adesso è morto. Potrebbe esser stato questo il pericolo? Questa macchia sul mio nome?» S'interruppe, colpito. «O forse un giorno uno degli uomini i cui figli sono stati assassinati mi aspetterà al buio con un pugnale? È questo il genere di cosa che avevi in mente?» «Te l'ho detto, non avevo in mente niente di preciso. Non dissi che quel figlio "avrebbe potuto" essere un pericolo per te. Dissi che lo sarebbe stato. E se bisogna credere alla mia parola, lo sarebbe stato direttamente, non attraverso il pugnale brandito da un altro uomo.» Adesso stava fermo quanto prima era stato irrequieto. Mi fissò torvo, attento. «Vuoi dire che la strage non ha raggiunto lo scopo? Che il bambino - Mordred, lo hai chiamato? - è ancora vivo?» «Sono arrivato a pensare così.» Trasse un rapido respiro. «Allora è stato, in qualche modo, salvato dal naufragio?» «È possibile. Sia stato egli salvato per caso, e viva ora chissà dove, ignorando e ignorato, come è accaduto a te per tutta l'infanzia... e se così è un giorno o l'altro puoi incontrarlo, come Laio incontrò Edipo, e cadere per mano sua, ignorando...» «Correrò questo rischio. Ognuno incappa in qualcuno, prima o poi. Oppure?» «Oppure non è mai stato su quella barca.» Assentì, mentalmente. «Morgause, sì. Può quadrare. Che cosa ne sai tu?» Gli raccontai quel poco che sapevo, e le conclusioni che ne avevo tratte. «Lei doveva sapere» conclusi «che la reazione di Lot sarebbe stata violenta. Sappiamo che voleva tenersi il bambino, e perché. Non avrebbe lasciato che suo figlio corresse il rischio, al ritorno di Lot. È abbastanza chiaro che ha architettato tutta questa cosa. Lind ci ha dato altri particolari, in seguito. Sappiamo che ha fatto infuriare Lot, determinandolo al massacro; sappiamo anche che è stata lei a mettere in giro la voce secondo la quale tua era la responsabilità di quel massacro. Perciò in sostanza, che cosa ha fatto? Ha placato i timori di Lot e ha rafforzato la propria posizione. E sono convinto, dopo averla osservata e per quanto so di lei, che nello stesso tempo è riuscita...» «A conservare l'arma del ricatto.» Tutto il colore lo aveva abbandonato. Appariva freddo, gli occhi come ardesie battute da una pioggia gelata. Quello era un Artù che altri avevano visto, io ancora mai. Quanti sassoni avevano visto quegli occhi proprio prima di morire? Disse, amaro: «Sono
stato ben ripagato per quella notte di lussuria. Magari tu mi avessi lasciato ucciderla. Meglio che quella donna non mi venga mai più vicina, a meno che non lo faccia in ginocchio, e vestita di tela di sacco». Il tono era quello di una solenne promessa. Poi cambiò. «Quando sei tornato dal nord?» «Ieri.» «Ieri? Credevo... avevo capito che quell'abominio fosse accaduto qualche mese fa.» «Sì. Io sono rimasto per osservare gli avvenimenti. Poi, quando ho cominciato a costruire una mia teoria, ho aspettato per vedere se Morgause facesse qualche mossa che mi avrebbe mostrato il nascondiglio del bambino. Se Lind avesse potuto tornare da lei, e avesse osato aiutarmi... ma era una cosa impossibile. Perciò sono rimasto finché è arrivata la notizia che eri partito da Linnuis, e che Lot si sarebbe messo presto sulla via del ritorno. Sapevo che una volta rientrato Lot, non avrei potuto far niente, perciò sono partito.» «Capisco. Hai fatto tutto quel viaggio, e io ti tengo in piedi e me la prendo con te come se fossi una sentinella sorpresa a dormire durante il servizio. Vuoi perdonarmi?» «Non c'è niente da perdonare. Mi sono riposato. Ma sarei contento di sedermi, ora. Grazie.» Questo lo dissi mentre mi avvicinava una sedia e si sedeva a sua volta sul grande scranno dietro il tavolo massiccio. «Non dicevi niente nelle tue relazioni a proposito di quest'ipotesi che Mordred fosse ancora vivo. E Ulfin non ha mai parlato di una possibilità del genere.» «Credo che non gli sia passato per la testa. È stato soprattutto dopo che lui è partito, e io ho avuto il tempo per riflettere e osservare, che ci ho ripensato e sono arrivato a quella conclusione. E comunque non c'è nessuna prova che io abbia ragione. E null'altro che il ricordo di una vecchia previsione per dirmi se ha o non ha importanza. Ma posso dirti una cosa: dall'oziosa soddisfazione che il profeta del re si sente dentro in questi giorni, direi che qualsiasi minaccia proveniente da Mordred, direttamente o meno, non si manifesterà ancora per molto tempo.» Mi lanciò un'occhiata in cui non era rimasta traccia d'ira. Un sorriso gli scintillò negli occhi, dal profondo. «Dunque, ho tempo.» «Hai tempo. È stata una cosa terribile, e avevi ragione di essere in collera; ma già la ricordano appena e ben presto essa sarà dimenticata nel fulgore delle tue vittorie. A proposito di queste, non ho sentito parlare di nient'altro. Perciò adesso lascia stare, e pensa al futuro. Il tempo trascorso a
rimuginare nell'ira è tempo sprecato.» Finalmente la tensione si ruppe nel sorriso familiare. «Lo so. Essere uno che crea, mai uno che demolisce. Quante volte me l'hai detto? Be', non sono che un mortale. Prima demolisco, per fare spazio... Benissimo, lo dimenticherò. Ci sono un sacco di cose a cui pensare e per cui fare progetti, senza perdere tempo su quel che è fatto. In effetti» qui il sorriso si accentuò «ho sentito che re Lot ha in animo di trasferirsi più a nord nel suo regno. Forse, malgrado mi abbia addossato la colpa, non si sente a suo agio a Dunpeldyr?... Le Orcadi sono isole fertili, mi dicono, e belle nei mesi estivi, ma possono essere piuttosto isolate dal resto del paese per tutto l'inverno, no?» «A meno che il mare non si copra di ghiaccio.» «E questo» fece lui con una soddisfazione molto poco regale «sarà di certo al di sopra anche dei poteri di Morgause. Così la lontananza ci aiuterà a dimenticare Lot e le sue gesta...» La sua mano si mosse tra le pergamene e le tavolette sul tavolo. Io stavo pensando che avrei dovuto cercare Mordred più lontano: se Lot aveva detto alla sua regina i suoi progetti di spostare la corte verso il nord, era possibile che lei si fosse preoccupata di mandare lì il bambino. Ma Artù aveva ricominciato a parlare. «Sai qualcosa a proposito di sogni?» Trasalii. «Di sogni? Bene, ne ho fatti.» Ebbe un'espressione divertita. «Sì, era una domanda sciocca, vero? Volevo dire, puoi dirmi che cosa significano, i sogni degli altri?» «Ne dubito. Quando i miei significano qualche cosa, sono chiari al di sopra di ogni dubbio. Perché, il tuo sonno è stato turbato?» «Ormai da molte notti.» Esitò, spostando gli oggetti sul tavolo. «Sembra una cosa banale di cui preoccuparsi, ma il sogno è così vero, ed è sempre lo stesso.,.» «Descrivimelo.» «Sono solo, e sono fuori a caccia. Niente segugi, solo io e il mio cavallo, lanciato sulle tracce di un cervo. Questa parte del sogno varia un po', ma io so sempre che l'inseguimento dura da molte ore. Poi, proprio quando sembra che stiamo raggiungendo il cervo, lui balza in una macchia di alberi e scompare. Nello stesso momento, il mio cavallo cade morto sotto di me. Io vengo scagliato sull'erba. Qualche volta mi sveglio a questo punto, ma quando mi riaddormento, sono ancora sull'erba, vicino alla riva di un torrente, il cavallo morto sotto di me. Allora, all'improvviso, sento arrivare
dei segugi, tutta una muta, mi metto a sedere e mi guardo intorno. Ormai ho fatto questo sogno tante volte che, anche sognando, so che cosa aspettarmi, e ho paura... Non è una muta di cani che arriva ma un'unica bestia... una strana bestia che non so descrivere, pur avendola vista tante volte. Viene aprendosi un varco tra le felci e le piante del sottobosco, e il rumore che fa è come quello di trenta coppie di segugi all'inseguimento. Non si cura di me o del mio cavallo, ma si ferma al torrente e beve, poi prosegue e scompare nella foresta.» «Finisce così?» chiesi, perché si era fermato. «No. La fine può variare, ma sempre, dopo la bestia all'inseguimento, arriva un cavaliere, solo e a piedi, che mi dice che anche il suo cavallo è crollato durante la ricerca. Ogni volta - succede ogni notte - io cerco di chiedergli che cos'è la bestia, ma proprio quando lui sta per dirmelo arriva il mio stalliere con un cavallo fresco per me, e il cavaliere se ne impadronisce senza la minima cortesia, monta in sella e si prepara ad allontanarsi. E io mi scopro con le mani sulle redini del cavallo per fermarlo, a pregarlo di lasciarmi intraprendere la ricerca "perché" dico "sono il Sommo re e tocca a me intraprendere qualsiasi ricerca che comporti un rischio". Ma lui scansa la mia mano, dicendo: "Dopo. Dopo, quando ne avrai bisogno, potrai trovarmi qui, e io risponderò di quello che ho fatto". E se ne va, lasciandomi solo nella foresta. Allora mi sveglio, ancora con quella sensazione di paura. Merlino, che cosa significa?» Scossi la testa. «Non te lo so dire. Potrei essere sincero con te e dirti che era una lezione di umiltà: che perfino il Sommo re non deve assumersi tutta la responsabilità...» «Vuoi dire che devo tirarmi indietro e lasciare che tu ti prenda la colpa della strage? No, questo sarebbe essere di gran lunga troppo astuti, Merlino!» «Ho detto che sarei stato sincero, no? Non ho idea di quel che possa significare il tuo sogno. Probabilmente nient'altro che qualche preoccupazione e una digestione difficile messe insieme. Ma una cosa posso dirtela, ed è quella che non mi stanco di ripeterti: quali che possano essere i pericoli che hai davanti, tu li supererai, e conquisterai la gloria; e qualsiasi cosa sia avvenuta, qualsiasi cosa tu abbia fatto, o farai, morrai di una morte onorevole. Io sbiadirò e svanirò come musica quando l'arpa tace, e gli uomini chiameranno vergognosa la mia fine. Ma tu continuerai a vivere, nella fantasia e nel cuore degli uomini. Comunque per il momento hai degli anni avanti a te, tempo quanto basta. Perciò dimmi che cosa è accaduto a Lin-
nuis.» Parlammo un bel po'. Alla fine lui tornò all'argomento dell'immediato futuro: «Fino a quando non si riaprono le strade, con la primavera, possiamo proseguire il lavoro qui a Caerleon. Tu rimarrai qui per badare a questo. Ma in primavera voglio che cominci a lavorare per il mio nuovo quartier generale». Avevo un'espressione interrogativa, e lui annuì. «Sì, ne abbiamo già parlato. Quello che andava bene all'epoca di Vortigern, o anche in quella di Ambrogio, non andrà bene tra un anno o qualcosa di simile. Il quadro sta cambiando, verso est. Avvicinati alla mappa e lascia che ti mostri... Adesso quel tuo uomo, Gereint, è stata una scoperta magnifica. Ho mandato a prenderlo. È il genere di uomo che ho bisogno di avere accanto a me. Le notizie che mi mandò a Linnuis erano impagabili. Ti ha raccontato di Eosa e Cerdic? Noi stiamo raccogliendo tutte le notizie che possiamo, ma sono sicuro che lui ha ragione. Secondo le informazioni più recenti, Eosa è tornato in Germania, e sta promettendo il sole, la luna e le stelle, oltre a un regno sassone stabile, a chi si unirà a lui...» Per un momento discutemmo le informazioni di Gereint, e Artù mi disse che cosa era arrivato di recente da quella fonte. Poi proseguì: «Ha ragione anche a proposito del Varco, naturalmente. Abbiamo cominciato i lavori lassù appena ho ricevuto i tuoi rapporti. Ho mandato su Torre... Credo che la prossima pressione verrà dal nord. Aspetto notizie da Caw e da Urbgen. Ma in definitiva sarà qui, a sudovest, che dovremo opporre la resistenza decisiva. Con Rutupiae che gli serve da base, e la Sponda dietro di loro, che lo si chiami "regno" o no, la minaccia più pericolosa deve venire da questa parte, qui e qui...». Il suo dito si spostava sulla mappa in argilla a rilievo. «Per tornare da Linnuis abbiamo fatto questa strada. Mi sono fatto un'idea della situazione della zona. Ma per ora basta, Merlino. Mi stanno preparando nuove mappe e più tardi potremo esaminarle. Conosci quella regione?» «No. Ho viaggiato su quella strada, ma pensavo ad altro.» «Non c'è fretta, ancora. Se possiamo cominciare ad aprile, o a maggio, e tu come al solito fai un miracolo, dovrebbe esserci tempo sufficiente. Pensaci per me, e poi vai a vedere quando arriva il momento. Lo farai?» «Volentieri. Ho già guardato... No, volevo dire mentalmente. Mi sono ricordato di una cosa. C'è un monte che domina tutta quella parte della regione... Per quanto ricordo, la cima è pianeggiante e abbastanza grande da ospitare un esercito, o una città, o qualsiasi cosa tu ci voglia fare. È an-
che abbastanza alto. Dalla cima si vede Ynys Witrin - l'Isola di Vetro - e tutta la serie di segnali, e poi senza ostacoli si vede per molte miglia in direzione sud come in direzione ovest.» «Fammelo vedere» fece lui brusco. «All'incirca per di qua.» Misi un dito sulla mappa. «Non lo so con esattezza, e d'altronde non penso che la mappa sia esatta. Ma credo che questo sia il corso d'acqua presso il quale sorge.» «Come si chiama?» «Non conosco il nome. È un monte con un fiume che gli gira intorno, e il fiume si chiama, credo, Carnei. Il monte era una fortezza già prima che i romani venissero in Britannia, perciò anche i britanni primitivi devono averlo considerato un punto strategico. Lo difesero contro i romani.» «Che lo conquistarono?» «Alla fine. Poi lo fortificarono a loro volta e lo difesero.» «Ah. Perciò c'è una strada.» «Sicuro. Forse questa, che oltrepassa il lago dall'Isola di Vetro.» Così gli mostrai tutto sulla mappa, e lui guardò, parlò e continuò a parlarne; poi i servi portarono la cena e le lampade e lui si raddrizzò, si spinse indietro i capelli che gli cadevano sugli occhi e risalì a galla dai suoi progetti, come un tuffatore emerge dall'acqua. «Be', bisognerà aspettare fin dopo Natale. Ma tu vai appena potrai, Merlino, e dimmi che cosa ne pensi. E adesso rimani a cena con me, e ti racconterò della battaglia sul Blackwater. Ne ho già parlato così tante volte, che si è ingrandita tanto che quasi non la riconosco. Ma raccontarla ancora una volta, a te, non è sconveniente.» «Obbligatorio. E ti prometto che crederò a ogni parola.» Rise. «L'ho sempre saputo che potevo contare su di te.» Due Fu in una dolce e tranquilla giornata primaverile che uscii dalla strada e vidi il monte chiamato Camelot. Quel nome lo prese in seguito; all'epoca era conosciuto come Caer Camel, dal nome del piccolo corso d'acqua serpeggiante nella pianura che lo circonda, e che gli gira intorno vicino alla base. Era, come avevo detto ad Artù, un monte dalla sommità pianeggiante, non molto alto ma abbastanza in paragone delle pianure circostanti perché dalla sua cima si potesse godere di una vista senza intoppi in ogni direzione, e dai fianchi abbastanza
scoscesi da consentire formidabili opere difensive. Era facile capire perché i celti, e dopo di loro i romani, l'avessero scelto per farne una roccaforte. Dal punto più alto il panorama è straordinario in quasi tutte le direzioni. A est alcune montagne ondulate impediscono la vista, ma a sud e a ovest l'occhio può spaziare per miglia e miglia, e verso nord può arrivare alla costa. Verso nordovest il mare rientra di circa otto miglia, i flussi si allungano e penetrano attraverso le pianure acquitrinose che alimentano il grande lago in mezzo al quale sorge l'Isola di Vetro. Quest'isola, o piuttosto questo gruppo di isole, emerge dalle sue acque lisce come l'olio, simile a una dea sdraiata; in effetti, da tempo immemorabile è dedicato alla dea stessa, e il suo santuario sorge accanto al palazzo del re. Al di sopra di esso si vede chiaramente la cima della torre di segnalazioni sul Tor e, molte miglia più in là, proprio sulla costa del canale Severn, si scorge la successiva torre di segnalazioni di Brent Knoll. Le colline dell'Isola di Vetro, circondate da terreni bassi e paludosi, sono dette Terra dell'estate. Il re era un uomo a nome Melwas, giovane e leale sostenitore di Artù; egli mi ospitò durante le mie prime ispezioni a Caer Carnei, e parve compiaciuto del fatto che il Sommo re progettasse di porre la propria roccaforte principale al margine del suo territorio. Si interessò molto alle mappe che gli mostrai e mi promise aiuti di ogni genere, dal prestito di operai locali a un impegno di difesa, per il caso ce ne fosse bisogno, durante l'esecuzione dei lavori. Il re Melwas si era offerto di mostrarmi personalmente il luogo, ma per la mia prima ispezione preferivo essere solo, perciò riuscii a esimermi con i più cortesi pretesti. Lui e i suoi giovani compagni mi scortarono a cavallo per la prima parte della strada, poi svoltarono su una pista che era poco più di un sentiero rialzato attraverso gli acquitrini e si accinsero allegramente alla loro caccia quotidiana. Quello è un paese straordinario per la caccia: abbonda di uccelli selvatici di ogni tipo. Scorsi un buon presagio nel fatto che, subito dopo avermi lasciato, re Melwas fece levare il suo falcone contro uno stormo di uccelli di passo provenienti da sudest e, nello spazio di pochi secondi, il falco uccise la preda con precisione e tornò immediatamente sul pugno del padrone. Poi, con grida e risa, il gruppo di giovani si allontanò in mezzo ai salici e io proseguii da solo per la mia strada. Avevo avuto ragione nel supporre l'esistenza di una strada che conducesse a quella che era stata la fortezza romana di Caer Carnei. La strada lascia Ynys Witrin diventando un sentiero rialzato che costeggia la base del Tor, attraversa uno stretto braccio del lago e raggiunge una striscia di
terreno duro, asciutto, che si estende verso est. Qui raggiunge la vecchia via Fosse, poi dopo un po' gira di nuovo in direzione sud, verso il villaggio che sorge ai piedi di Caer Carnei. Questo era stato in origine un insediamento celtico, poi il vicus della fortezza romana, i cui abitanti ricavavano dalla terra il loro magro sostentamento e nei momenti di pericolo salivano a ripararsi entro le mura della fortezza. Da quando questa era andata in rovina, avevano una vita molto dura. Oltre all'onnipresente pericolo a sud e a est, dovevano anche, negli anni più difficili, respingere gli abitanti della Terra dell'estate, quando gli acquitrini che circondavano Ynys Witrin non potevano provvedere che pesce e uccelli di palude e i giovani andavano disperatamente in cerca di emozioni fuori dei confini del loro territorio. C'era ben poco da vedere mentre mi aggiravo a cavallo in mezzo alle capanne diroccate dai tetti di paglia imputriditi; qua e là degli occhi mi osservavano da una soglia buia, o si sentiva una voce stridula di donna chiamare un bambino. Il mio cavallo affondava nel fango e nello sterco, poi guadò il Carnei con l'acqua fino alle ginocchia, infine lo feci voltare in mezzo agli alberi e attaccare la salita, e a un piccolo galoppo ci lanciammo sulla ripida curva della carreggiabile. Benché sapessi che cosa mi dovevo aspettare, fui sbalordito dalla vastità della cima. Attraverso le rovine della porta sudovest arrivai in un grande campo inclinato verso sud ma che davanti a me saliva bruscamente verso un crinale il cui punto più elevato era a ovest del centro. Avviai lentamente il mio cavallo verso di esso. Il campo, o piuttosto il pianoro, era deturpato e butterato da costruzioni in rovina, e circondato su tutti i lati da un profondo fossato e dai resti di mura di sostegno e fortificate. Rovi e ginestrone coprivano disordinatamente le mura in rovina e tane di talpe avevano sollevato le lastre di pietra incrinate della pavimentazione. Di pietra ce n'era dappertutto, buona pietra romana squadrata in qualche cava locale. Al di là delle fortificazioni esterne in rovina, si abbassavano i fianchi scoscesi del monte sui quali gli alberi, un tempo potati quasi a livello del suolo, erano germogliati formando alberelli e grovigli di polloni. In mezzo a loro, le scarpate erano imbottite di una rete invernale di rovi e biancospini. Un sentiero battuto tra germogli di felci e ortiche conduceva a una breccia nel muro nord. Seguendolo, scorsi il punto, a metà del fianco nord del monte, dove, nel folto degli alberi, sgorgava una sorgente. Doveva essere la Fonte della Signora, la buona sorgente dedicata alla dea. L'altra sorgente, quella che forniva la maggior parte dell'acqua alla fortezza, era a metà della ripida strada che conduceva alla porta nordest, all'angolo opposto del monte
rispetto alla carreggiabile che avevo seguito. Pareva che ci fosse del bestiame che ancora si abbeverava lì: mentre osservavo, vidi una mandria avanzare lentamente e, attraverso la ripida breccia, uscire e spargersi a brucare al sole, diffondendo un flebile e disarmonico scampanio. Lo seguiva il pastore, una figuretta snella che dapprima presi per un ragazzo e in cui poi, dal modo in cui si muoveva, usando il bastone per appoggiarcisi, riconobbi un vecchio. Diressi il mio cavallo verso di loro, facendolo avanzare cautamente tra il caos delle macerie. Una gazza si alzò in volo e si allontanò, gracchiando. Il vecchio sollevò lo sguardo. Si fermò di botto, stupito e, mi parve, preoccupato. Io agitai una mano verso di lui, in segno di saluto. Qualche cosa, in quel cavaliere solitario e disarmato, dovette rassicurarlo perché dopo un momento si avvicinò a un muro basso in pieno sole e si sedette ad aspettarmi. Smontai, lasciando pascolare il mio cavallo. «Ti saluto, padre.» «E pure io saluto te.» Fu poco più di un borbottio, ma era evidente l'accento marcato, dalle erre arrotate, della regione. Mi sbirciò sospettoso, gli occhi velati dalle cataratte. «Sei straniero da queste parti.» «Vengo da occidente.» La risposta non parve rassicurarlo. Si capiva che le popolazioni di quella zona avevano conosciuto una troppo lunga storia di guerra. «Allora perché hai lasciato la strada? Che vuoi quassù?» «Vengo da parte del re, per esaminare le mura della fortezza.» «Daccapo?» Mentre lo fissavo sorpreso, spinse il suo bastone nel tappeto erboso, come per rivendicarlo, e parlò con una specie di collera vibrante. «Questa terra era nostra prima che venisse il re, ed è di nuovo nostra malgrado il re. Perché non ci permette di continuare a tenercela?» «Io non credo...» incominciai, interrompendomi poi per un pensiero improvviso. «Tu parli di un re. Quale re?» «Non so come si chiama.» «Melwas? O Artù?» «Forse. Ma ti dico che non lo so. Che cosa vuoi qui?» «Io sono uno degli uomini del re. Vengo da parte sua...» «Sissignore. A innalzare di nuovo le mura della fortezza, poi a portar via il nostro bestiame, a uccidere i nostri figli e violentare le nostre donne.» «No. A costruire qui una roccaforte per proteggere il vostro bestiame, i
vostri figli e le donne.» «Non li ha protetti, prima, la roccaforte.» Tra noi calò il silenzio. La mano del vecchio tremava sul bastone. Il sole splendeva caldo sull'erba. Il mio cavallo brucava delicatamente intorno a un fiore di cardo, basso e rotondo come una ruota svasata. Una farfalla precoce si posò su un fiore violaceo di trifoglio. Un'allodola si alzò in volo, cantando. «Vecchio» dissi dolcemente «non c'è stata nessuna fortezza qui durante la tua vita, e neppure durante quella di tuo padre. Quali mura erano in piedi qui, orientate a sud, a nord e a ovest, dominando il mare? Quale re le ha mai prese d'assalto?» Mi osservò per qualche secondo, la testa tremula per l'età. «È una storia, solo una storia, padrone. Me lo raccontava mio nonno, come la gente viveva qui con le bestie e le capre sui dolci pascoli, come tessevano il panno e coltivavano il pianoro, finché arrivò il re e li cacciò giù da quella strada fino in fondo alla valle, e quel giorno ci fu una tomba per tutti loro, grande come il fiume e profonda come la grotta nella montagna, e lì deposero anche il re per l'ultimo riposo, perché il suo momento giunse poco dopo.» «Che monte era? Ynys Witrin?» «Che cosa? Come avrebbero potuto portarlo fin lì? Lì è un paese straniero. La chiamano la Terra dell'estate, malgrado sia per tutto l'anno uno specchio d'acqua come un lago, salvo che durante la siccità a metà dell'estate. No, penetrarono nella grotta e lì lo deposero, e con lui quelli che erano annegati insieme a lui.» Proruppe, d'improvviso, in una risata chioccia, stridula. «Affogato nel lago, con la gente che stava a guardare e non fece un passo per salvarlo. Fu la dea che lo prese, e i suoi bei capitani insieme a lui. Chi poteva fermarla? Dicono che passarono tre giorni prima che lo restituisse, e allora tornò nudo, senza la corona né la spada.» Di nuovo quella risata chioccia, mentre il vecchio scuoteva la testa. «Al tuo re, gli conviene far la pace con lei, diglielo.» «Lo farà. Quando è accaduto tutto questo?» «Cent'anni fa. Duecento. Come faccio a saperlo?» Calò di nuovo il silenzio, mentre io valutavo mentalmente il racconto. Quello che avevo ascoltato, lo sapevo, era un ricordo popolare tramandato oralmente sotto forma di racconto, d'inverno, accanto al focolare, dai contadini. Ma confermava ciò che mi era stato detto. Quel luogo doveva esser stato sede di fortificazioni da tempo immemorabile. "Il re" poteva esser stato uno qualsiasi dei signori celti, cacciato alla fine dalla cima del monte
ad opera dei romani, ovvero lo stesso generale romano, rimasto lì per fortificare la posizione strategica conquistata. A un tratto dissi: «Dov'è la strada che penetra nella montagna?». «Quale strada?» «L'accesso alla tomba del re, da dove passarono per deporlo nella tomba.» «Che ne so? Esiste, è tutto ciò che so. E a volte, di notte, escono di nuovo a cavallo. Io li ho visti. Arrivano con la luna d'estate e rientrano nella montagna che albeggia. E a volte, nelle notti di temporale, quando l'alba li sorprende, se uno arriva tardi trova chiusa la porta. Allora è condannato fino alla prossima luna a vagare solo in cima al monte, finché...» Gli mancò la voce. Abbassò la testa impaurito, sbirciandomi. «Uno degli uomini del re, hai detto che sei?» Risi. «Non aver paura di me, padre. Non sono uno di quelli. Sono uno degli uomini del re, sì, ma sono venuto da parte di un re vivo, che ricostruirà la fortezza, e prenderà voi, il vostro bestiame, i vostri figli e i figli dei vostri figli, sotto la sua protezione, e vi terrà al sicuro dal nemico sassone che viene dal sud. E tu avrai ancora dolci pascoli per la tua mandria. Te lo prometto.» A questo non rispose ma rimase per un momento seduto al sole, annuendo ripetutamente. Capii che era un semplice. «Perché dovrei aver paura? C'è sempre stato un re qui, e sempre ci sarà. Un re non è niente di nuovo.» «Questo lo sarà.» Non mi seguiva più. Rivolgeva versi di incoraggiamento alle mucche. «Forza Morella, forza Rugiadosa. Un re, che bada alle bestie per me? Mi prendi per scemo? Ma la dea bada ai suoi. Meglio che lui badi alla dea.» Poi si acquietò, mordicchiando il suo bastone e brontolando. Gli diedi una moneta d'argento, come si dà una ricompensa a un giullare per il suo racconto, quindi presi il mio cavallo e lo portai verso la cresta che segnava la parte più alta del pianoro. Tre Alcuni giorni dopo arrivò il primo gruppo di topografi, per cominciare a misurare, contando i passi, mentre il loro capo era chiuso con me nel quartier generale provvisorio che era stato allestito per noi sul luogo. Tremorino, l'ingegnere capo che mi aveva insegnato tanta parte del suo mestiere quand'ero ragazzo, in Britannia minore, era morto da qualche
tempo. L'ingegnere capo di Artù era adesso un tale di nome Derwen, che avevo conosciuto anni prima, durante la ricostruzione di Caerleon sotto Ambrogio. Era un uomo con la barba rossa e dal colorito acceso, ma non aveva il caratteraccio che spesso accompagna questi tratti; per la verità era taciturno fino a risultare scontroso e poteva dimostrarsi cocciuto come un mulo quando si insisteva un po' troppo con lui. Ma io lo sapevo competente ed esperto, e per di più conosceva il segreto per ottenere dagli uomini che lavorassero rapidamente e volentieri per lui. Inoltre, si era data molta pena per saper far bene personalmente di tutto, e non rifuggiva dal rimboccarsi le maniche e fare lui stesso un lavoro pesante, se era necessario per ragioni di tempo. Né parve seccato di prendere le direttive da me. A quanto sembrava, nutriva il più lusinghiero rispetto per le mie capacità: questo, lo sapevo, non perché io avessi dimostrato particolare ingegno a Caerleon o a Segontium - che erano state costruite secondo il modello romano, secondo principi stabiliti e consolidati col tempo e ormai ben noti a ogni costruttore - ma perché si era trovato, in qualità di apprendista, in Irlanda quando io avevo spostato l'enorme pietra del re di Killare, e poi ad Amesbury, durante la ricostruzione della Danza dei Giganti. Così andavamo avanti abbastanza bene insieme, e ognuno capiva le possibilità dell'altro. La previsione di Artù a proposito di disordini a nord si era rivelata esatta, e all'inizio di marzo il re si era recato sul posto. Ma nei mesi invernali lui e io, insieme a Derwen, avevamo trascorso molte ore insieme a studiare i progetti per la nuova roccaforte. Trascinato dalla mia ostinazione e dall'entusiasmo di Artù, Derwen era stato finalmente indotto ad accettare quelle che molto evidentemente considerava le mie idee avventate a proposito della ricostruzione di Caer Carnei. Solidità e rapidità... volevo che il complesso fosse pronto per Artù quando la campagna nel nord si fosse avvicinata alla conclusione, e volevo anche che fosse un'opera duratura. Dimensioni e solidità della fortezza dovevano corrispondere alla sua dignità. Le dimensioni c'erano: il pianoro in cima al monte era grande, con una superficie anche superiore ai tre ettari. Ma la solidità... Mi ero fatto redigere elenchi del materiale già disponibili sul luogo e, facendo del mio meglio in mezzo alle macerie, avevo studiato come fosse stata costruita la fortezza, l'opera muraria dei romani edificata su strati e strati dei primitivi fossati e mura dei celti. Lavorando avevo in mente alcune delle fortificazioni che avevo visto nei miei viaggi fuori della Britannia, roccaforti innalzate in luoghi ancor più selvaggi di quello, e su terreni altrettanto difficili. Rico-
struire secondo il modello romano sarebbe stato un compito immane, se non impossibile: anche se i muratori di Derwen avessero avuto pratica delle opere murarie di tipo romano, le dimensioni stesse di Caer Carnei avrebbero reso impossibile la cosa. Ma i muratori erano tutti esperti nel loro genere di costruzione di muri a secco e c'era una quantità di pietre squadrate disponibili, e una cava nelle vicinanze. Avevamo boschi di querce e carpentieri, e le segherie tra Caer Carnei e il lago erano state stivate per tutto l'inverno di legname da stagionare. Perciò avevo predisposto i progetti definitivi. Che siano stati eseguiti splendidamente, lo può vedere chiunque. I fianchi dirupati, solcati da fossati, del monte che adesso chiamano Camelot, s'innalzano coronati da mura massicce di pietra e travi. Le sentinelle pattugliano gli spalti e sono di guardia alle grandi porte. Una strada per carri pesanti si arrampica tra le banchine ben sorvegliate fino alla porta nord, mentre alla porta che si apre sull'angolo sudovest - quella che chiamano la Porta del re - sale descrivendo molte curve un'arteria adatta alle bighe e carrozze veloci, con pendenze pensate per convenire alle ruote più rapide, abbastanza larghe per uno squadrone di cavalleria al galoppo. Oggi all'interno di quelle mura, altrettanto ben tenute in questo periodo di pace quanto lo erano nei giorni agitati per i quali le edificai, è sorta una città, gaia nelle dorature e nello sventolio degli stendardi e fresca per i frutteti e i giardini. Sulle terrazze lastricate passeggiano donne riccamente vestite, e nei giardini giocano i fanciulli. Le strade sono affollate, piene di conversazioni e di risate, ed echeggiano le contrattazioni del mercato, gli zoccoli rapidi degli agili, lustri cavalli di Artù, le grida dei giovani e lo scampanio della chiesa. La città si è arricchita con il commercio fiorente in tempo di pace ed è ormai magnifica per le arti. Camelot è splendida alla vista, nota attualmente ai viaggiatori provenienti dai quattro angoli della terra. Ma allora, su quella cima brulla, in mezzo alla confusione degli edifici abbandonati, non era più di un'idea, un'idea scaturita dalle dure necessità della guerra. Avremmo cominciato, naturalmente, con le mura esterne, e per queste progettavo di utilizzare le macerie sparse tutt'in giro: tegole degli antichi ipocausti, pietre per lastricare, materiale usato come basamento per i pavimenti e anche per la vecchia strada che attraversava la fortezza romana. Con tutto questo materiale avremmo innalzato un muro solido di pietrisco a sostegno del muro esterno, e nello stesso tempo avremmo fornito l'appoggio necessario a una ampia piattaforma per combattimenti, situa-
ta lungo il lato interno dello spalto. Sul lato esterno, il muro si sarebbe innalzato direttamente dal fianco scosceso del monte, simile alla corona su una testa di re. Dal fianco del monte sradicammo tutti gli alberi, e lo segnammo di fossati, sicché diventò un vero e proprio precipizio solcato da pericolosi piccoli burroni, che terminava con un'imponente muraglia rivestita di pietra. Per questa avremmo utilizzato il tufo del luogo, squadrato, e altre pietre estratte dalle cave dagli operai di Melwas e dai nostri. Ancora sopra a questa progettavo di porre un muro liscio ma massiccio di legno, fissato alla pietra e al pietrisco del muro di sostegno mediante una solida intelaiatura di legno. Per le porte, dove le strade di accesso alla fortezza arrivavano incassate in mezzo ad argini rocciosi, progettai una specie di galleria che sarebbe penetrata nel muro fortificato, consentendo alla piattaforma per i combattimenti di estendersi ininterrotta sopra le porte. Queste gallerie, abbastanza alte e larghe da consentire il passaggio di carri, o di cavalieri in fila per tre, sarebbero state munite di enormi battenti che si potevano ripiegare contro le mura rivestite di quercia. Per realizzare tutto questo avremmo dovuto rendere le vie di accesso ancora più incassate in mezzo agli argini. Questa, e molte altre cose, avevo spiegato a Derwen. Lui in un primo momento si era dimostrato scettico e solo il rispetto che nutriva per me gli aveva impedito, lo capivo, dall'esprimere un totale e ostinato disaccordo specie per quanto riguardava le porte, delle quali non esistevano precedenti; e per lo più gli ingegneri e gli architetti lavorano, il che è abbastanza ragionevole, basandosi su precedenti ben collaudati, specie quando si tratta di opere belliche e di difesa. All'inizio non riusciva a capire perché si dovesse abbandonare il modello sperimentato delle torrette gemelle e dei posti di guardia. Ma col tempo, dopo esser rimasto ore e ore sui miei progetti, a studiare gli elenchi da me redatti dei materiali già disponibili sul posto, giunse ad accettare, con riserva, il mio amalgama di pietra e legno, e in seguito a una specie di controllato entusiasmo per il complesso dell'opera. C'era in lui quel tanto del professionista che bastava a farlo entusiasmare per le nuove idee, tanto più che qualsiasi responsabilità per un eventuale insuccesso sarebbe stata mia e non sua. Non che ciò fosse probabile. Artù, che aveva preso parte alle riunioni per la progettazione, era entusiasta ma - come ci teneva a sottolineare quando ci si rimetteva a lui su qualche dettaglio tecnico - sapeva il fatto suo e faceva assegnamento sul fatto che noi conoscessimo il nostro. Sapevamo tutti quale funzione avrebbe avuto la roccaforte; dipendeva da noi
costruirla in modo adeguato a tale funzione. Una volta che l'avessimo costruita (concludeva Artù con la concisione di un'assoluta e inconsapevole arroganza), avrebbe saputo lui come difenderla. Adesso, finalmente sul posto e col tempo buono arrivato precocemente e stabile, pareva, Derwen cominciò a lavorare con entusiasmo e rapidità e, prima che il vecchio mandriano avesse richiamato le mucche per la mungitura, la prima sera, i picchetti erano stati conficcati, si erano cominciati a scavare i fossati e il primo carro carico di rifornimenti saliva scricchiolando, tirato da buoi in piena tensione. Caer Carnei stava risorgendo. Il re ritornava. *
*
*
Arrivò in una splendida giornata di giugno. Salì dal villaggio cavalcando la sua giumenta grigia Amrei, accompagnato da Bedwyr e dal suo fratello adottivo Cei, con forse una dozzina di capitani della sua cavalleria. Questi in genere non venivano chiamati equites o cavalieri: Artù li diceva i suoi «compagni». Cavalcavano senza corazza, come se stessero andando a caccia. Artù scese piroettando dalla giumenta, lanciò le redini a Bedwyr e mentre gli altri smontavano e lasciavano pascolare i cavalli, risalì da solo il pendio di erba ondeggiante. Mi vide e alzò una mano, ma senza affrettarsi. Si fermò presso il muro di sostegno esterno e parlò agli uomini che erano lì al lavoro, poi attraversò la passerella di tavole gettata su un fossato, mentre gli operai alzavano la schiena dal loro lavoro per rispondere alle sue domande. Vidi uno di loro indicargli qualche cosa; lui guardò da quella parte, e poi tutt'in giro intorno a sé, prima di lasciarli per arrampicarsi fino alla cresta centrale dove erano state scavate le fondamenta del suo quartier generale. Da lì, avrebbe dominato tutta la regione e sarebbe riuscito a dare un senso, forse, a quel labirinto di fossati e di fondamenta, mezzo nascosto com'era dal groviglio di cordami e di impalcature. Girò lentamente sui tacchi, fino a compiere un giro completo. Poi si diresse rapidamente al punto in cui mi trovavo, con i disegni in mano. «Sì» fu tutto quello che disse, ma soddisfatto e raggiante. E poi: «Quando?». «Ci sarà qualche cosa di pronto qui per te entro l'inverno.» Di nuovo spostò gli occhi tutt'intorno, uno sguardo pieno di orgoglio e di presentimenti che avrebbe potuto essere il mio. Sapevo che vedeva, come
potevo vederli io, le mura terminate, le torri orgogliose, la pietra, il legno e il ferro che avrebbero chiuso quello spazio d'aria estiva dorata, e costituito la sua prima creazione. Era anche lo sguardo di un soldato che si vede offrire un'arma potente. I suoi occhi, colmi di quella nobile e orgogliosa soddisfazione, tornarono a posarsi su di me. «Ti avevo detto di fare un miracolo, e credo che tu l'abbia fatto. In questo modo lo vedo io. Ma forse tu hai in te troppo del professionista per pensare così, quando vedi ciò che era solo un disegno sull'argilla, o addirittura un'idea nella tua mente, che si innalza fino a diventare qualcosa di reale, che durerà per sempre.» «Credo che tutti i costruttori abbiano questa sensazione. Io sicuramente ce l'ho.» «Come ha progredito in fretta! L'hai costruito con la musica, come la Danza dei Giganti?» «Mi sono servito anche qui dello stesso miracolo. Puoi vederlo. Gli uomini.» Mi lanciò una rapida occhiata, poi il suo sguardo si posò sul caos della terra smossa e degli operai al lavoro, e arrivò in quella parte in cui, in ordine come in una vecchia città recintata da mura, le officine dei carpentieri e dei fabbri risuonavano di martellamenti e di voci. Adesso i suoi occhi avevano un'espressione lontana eppure erano rivolti verso il suo intimo. Parlò sommessamente. «Me ne ricorderò. Dio sa che ogni comandante dovrebbe farlo. Mi servo anch'io dello stesso miracolo.» Poi, di nuovo rivolto a me: «E per il prossimo inverno?». «Per il prossimo inverno dovrai averlo completo all'interno, e così sicuro da poterlo usare come base per combattere. Questo posto è tutto ciò che speravamo. Poi, quando le guerre saranno finite, ci sarà spazio e tempo per costruire per altri scopi, comodità, bellezze e splendori degni di te e delle tue vittorie. Ti costruiremo un vero nido d'aquila, appollaiato su una bella montagna. Una roccaforte da cui partire per la guerra, e una casa in cui generare dei figli in tempo di pace.» Si era appena scostato da me, per fare un cenno a Bedwyr che ci stava osservando. I giovani montarono a cavallo e Bedwyr ci si avvicinò, portando la giumenta di Artù. Artù girò su se stesso per trovarsi di nuovo di fronte a me, le sopracciglia sollevate. «Allora lo sapevi? Avrei dovuto saperlo che non potevo avere segreti con te.» «Segreti? Io non so niente. Quale segreto stavi cercando di mantenere?»
«Nessuno. A che servirebbe? Te l'avrei detto subito, ma tutto questo si è presentato prima... Anche se a lei non piacerebbe sentirmi parlare così.» Devo esser rimasto a bocca aperta come uno sciocco. I suoi occhi mobilissimi. «Sì, scusami, Merlino. Ma davvero, stavo per dirtelo. Mi sposo. Su, non essere arrabbiato. Questa è una cosa in cui difficilmente potresti farmi da guida in modo soddisfacente per me.» «Non sono arrabbiato. Con quale diritto lo sarei? Questa è una cosa che devi decidere da te. A quanto pare l'hai fatto, e ne sono lieto. È già stabilito?» «No, come potrebbe esserlo? Aspettavo di parlare con te, prima. Fino a ora non c'è stato altro che uno scambio di lettere tra la regina Ygraine e me. La proposta è partita da lei, e immagino che in primo luogo ci sarà molto da discutere. Ma ti avverto» gli occhi gli brillarono «io ho già deciso.» Bedwyr si lasciò scivolare dalla sella accanto a noi e Artù prese le briglie della giumenta dalle sue mani. Avevo un'espressione interrogativa, e lui annuì: «Sì, Bedwyr lo sa». «Vuoi dirmi, allora, chi è lei?» «Suo padre era March, che combatteva sotto il duca Cador e rimase ucciso durante una schermaglia sulla Sponda irlandese. Sua madre morì mettendola al mondo e dalla morte di suo padre è sotto la protezione della regina Ygraine. Devi averla vista, ma non l'avrai notata, immagino. Era tra le dame d'onore della regina ad Amesbury, e poi all'incoronazione.» «La ricordo. Avevo sentito il suo nome? L'ho dimenticato.» «Ginevra.» Un piviere volò sopra di noi, sbattendo le ali nel sole. La sua ombra si librò sull'erba in mezzo a noi. Qualche cosa pizzicò le corde della memoria; qualche cosa di quell'altra vita fatta di potere, terrore e vivida visione. Ma mi sfuggì. L'atmosfera di placida realizzazione era priva di increspature, come la superficie del lago. «Che c'è, Merlino?» La sua voce suonò preoccupata, come quella di un ragazzo che tema il biasimo. Rialzai lo sguardo. Accanto a lui, Bedwyr mi guardava con la stessa espressione preoccupata. «Assolutamente niente. È una bella ragazza e ha un bel nome. Sta certo che gli dei benediranno il matrimonio, a suo tempo.» I giovani volti si rilassarono. Bedwyr disse in fretta qualcosa di scherzoso, poi vi fece seguire qualche commento entusiastico sui lavori in corso, e i due giovani si immersero in una discussione da cui rimasero totalmente
assenti i progetti matrimoniali. Io scorsi Derwen presso la strada di accesso, perciò ci incamminammo in quella direzione per parlare con lui. Poi Artù e Bedwyr presero commiato, montarono in sella e gli altri ragazzi fecero girare i cavalli impazienti per iniziare la discesa al seguito del loro re, verso la strada. Non andarono lontano. Mentre cominciava a inoltrarsi sulla strada di accesso incassata, il piccolo corteo di cavalieri venne a trovarsi faccia a faccia con Morella, Rugiadosa e le loro sorelle, che lentamente salivano il pendio. Il vecchio pastore, tenace come la potentilla, continuava a tenersi stretti i suoi diritti di pascolo su Caer Carnei, e portava la sua mandria, quotidianamente, fin lassù, in quella parte del pianoro ancora non rovinata dai lavori. Vidi la giumenta grigia fermarsi, girarsi e cominciare a far corvetta. Le bestie, ruminando imperturbabili, continuarono a venire avanti, le mammelle che dondolavano. Improvvisamente come uno sbuffo di fumo dalla terra, in mezzo a loro apparve il vecchio, curvo sul suo bastone. La giumenta si impennò, con un grande agitare di zoccoli. Artù la tirò di lato, e voltandosi la bestia andò a sbattere contro la spalla del puledro nero di Bedwyr, che immediatamente scalciò, mancando per un pelo Rugiadosa. Bedwyr stava ridendo, ma Cei gridò incollerito: «Dacci strada, vecchio sciocco! Non vedi che è il re? E leva di torno le tue dannate mucche. Non hanno più niente da fare qui, adesso». «Altrettanto da fare quanto te, giovane padrone, se non di più» disse il vecchio aspro. «Prendono quello che c'è di buono dalla terra, che tu e i tuoi simili siete solo capaci di rovinare! Perciò siete voi che dovete levare di mezzo i vostri cavalli e andare a caccia sulla Terra dell'estate, e lasciar stare la brava gente!» Cei non era mai capace di capire quando doveva dominare l'ira, o addirittura risparmiare il fiato. Spinse il suo cavallo oltre la giumenta di Artù e abbassò il viso acceso avvicinandolo al vecchio. «Sei sordo, vecchio scemo, o soltanto stupido? A caccia? Noi siamo i capitani del re, e questo è il re!» Artù, mezzo ridendo, cominciò: «Oh, piantala, Cei», ma dovette di nuovo, bruscamente, tenere a freno la giumenta mentre il vecchio folletto continuava a saltellare verso la sua mano che reggeva la briglia. Gli occhi velati cercavano di sbirciare verso l'alto. «Il re? Nossignori, non potete prendermi in giro, padroncini. Questo è solo un ragazzetto. Il re è un uomo adulto. E poi, non è ancora il suo tem-
po. Verrà a mezza estate, con la luna piena. L'ho visto, l'ho, con tutti i suoi guerrieri.» Un gesto con il bastone che fece, di nuovo, agitare la testa ai cavalli. «I suoi capitani, questi? Ragazzini, questo è quello che sono. Gli armigeri del re hanno la corazza, e speroni lunghi come frassini, e pennacchi come le criniere dei loro cavalli. Li ho visti, li ho, ero qui da solo una notte d'estate. Ah, sissignore, lo conosco io, il re.» Cei fece per riaprire la bocca, ma Artù alzò una mano. Parlò come se lui e il vecchio fossero soli nel campo. «Un re che è venuto qui d'estate? Che cosa ci stai raccontando, padre? Che uomini erano?» Qualche cosa dei suoi modi, forse, arrivò all'intimo del vecchio. Rimase un momento incerto. Poi mi vide, e m'indicò. «Gliel'ho detto, a lui. Sì. Uno degli uomini del re, ha detto che era, e mi ha parlato con bontà. Un re stava arrivando, ha detto, che avrebbe badato alle mucche per me, e mi avrebbe dato il pascolo per loro...» Si guardò intorno, come se solo allora assimilasse gli splendidi cavalli, le allegre bardature e le espressioni ridenti e sicure di sé dei giovani. La voce gli mancò e ricadde nel suo biascicare. Artù mi guardò. «Sai di che cosa stia parlando?» «Di una vecchia leggenda e di una torma di fantasmi che, dice, escono a cavallo dalla loro tomba nel monte a una mezzanotte d'estate. Secondo me, quella che racconta è una vecchia storia che si riferisce ai dominatori celti di qui, o ai romani, o a tutti e due. Niente che debba preoccuparti.» «Non deve preoccuparci?» disse qualcuno e parve a disagio; credo che fosse Lamorak, un gentiluomo coraggioso e molto sensibile che cercava segni nelle stelle e cavalcava una bestia la cui bardatura tintinnava di amuleti. «Fantasmi, e non dobbiamo preoccuparci?» «E li ha visti proprio lui, in questo esatto posto?» disse un altro. Poi ci furono altri mormorii: «Speroni e pennacchi fatti di criniera di cavallo? Be', si direbbero sassoni». E di nuovo Lamorak, tastando un pezzo di corallo che gli ornava il petto: «Fantasmi di uomini morti, uccisi qui e sepolti proprio sotto il monte dove tu progetti di costruire una roccaforte e una cittadella? Artù, lo sapevi?». Pochi uomini sono più superstiziosi dei soldati. I soldati sono, dopo tutto, coloro che, più di ogni altro, vivono vicini alla morte. Le risate erano svanite, soffocate, e un brivido attraversò quella giornata luminosa, come se una nuvola fosse passata tra noi e il sole. Artù era accigliato. Era un soldato anche lui, ma era pure un re e, come il re suo padre prima di lui, si occupava di fatti. Disse, con evidente vivaci-
tà: «E con ciò? Fammi vedere una qualsiasi solida fortezza, bella quanto questa, che non sia stata difesa da valorosi e basata sul loro sangue! Siamo forse dei bambini, per temere i fantasmi di uomini che sono morti qui prima di noi, per difendere questa terra? Se mai indugiassero ancora qui, sarebbero al nostro fianco, signori!». Poi, rivolto al pastore: «Be', Raccontaci la tua storia, padre. Chi era quel re?». Il vecchio esitò, confuso. Poi, improvvisamente, chiese: «Hai mai sentito parlare di Merlino, il mago?». «Merlino?» Era stato Bedwyr a parlare. «Diamine, non lo sai?...» Incontrò il mio sguardo e s'interruppe. Nessun altro parlò. Artù, lanciando appena un'occhiata nella mia direzione, chiese, nel silenzio generale: «Che vuoi dire di Merlino?». Gli occhi velati si volsero tutt'intorno come se potessero distinguere con chiarezza ogni uomo, ogni viso attento nell'ascolto. Perfino i cavalli erano tranquilli. Il pastore parve trarre coraggio da quel silenzio intenso. Di colpo cominciò a parlare in modo chiaro e comprensibile. «C'era una volta un re, che decise di costruire una roccaforte. E, come i re dei tempi antichi, che erano uomini forti e spietati, si mise in cerca di un eroe, per ucciderlo e sotterrarlo sotto le fondamenta, perché fossero ben salde. Così prese Merlino, che era l'uomo più grande di tutta la Britannia, e lo avrebbe ucciso; ma Merlino chiamò i suoi draghi e fuggì a volo attraverso i cieli, salvandosi, e fece venire un nuovo re in Britannia, che ridusse l'altro in cenere nella sua torre, e con lui la regina. Avevi già sentito questa storia, padrone?» «Sì» «Ed è vero che sei un re, e che questi sono i tuoi capitani?» «Sì» «Allora chiedi a Merlino. Dicono che vive ancora. Chiedigli quale re deve temere di aver sotto la sua soglia la tomba di un eroe. Non sai che cosa fece Merlino? Mise il grande re del Drago in persona sotto le Pietre Pendenti, questo fece, e disse che quella era la cittadella di tutta la Britannia. Almeno così dicono.» «Dicono la verità» fece Artù. Si guardò intorno, e vide che il sollievo aveva già cacciato il disagio. Si rivolse di nuovo al pastore. «E quel forte re che dorme con i suoi uomini dentro il monte?» Ma a questo punto non ottenne altro. Messo alle strette, il vecchio diventava vago, poi incomprensibile. Qua e là si poteva cogliere una parola: elmi, pennacchi, scudi rotondi e cavalli piccoli, e poi, di nuovo, lance lunghe «come frassini» e mantelli svolazzanti nel vento «quando non c'è un
alito di vento». Io dissi freddamente, per interrompere quelle nuove visioni spettrali: «Anche di questo devi chiedere a Merlino, mio signore re. Credo di sapere che cosa direbbe». Artù sorrise: «Che cosa direbbe?». Mi rivolsi al vecchio. «Mi hai detto che la dea uccise questo re e i suoi uomini, e che essi furono sepolti qui. Mi hai detto, anche, che il nuovo, giovane re doveva fare la pace con la dea, altrimenti essa lo avrebbe rifiutato. Adesso guarda che cosa ha fatto la dea. Senza sapere niente di questa storia, egli è venuto qui con la sua guida, per costruire la sua roccaforte esattamente nel punto dove la dea uccise e sotterrò una squadra di forti soldati e il loro capo, in modo che fossero la prima pietra della sua soglia. Ed essa gli diede la spada e la corona. Perciò dì questo alla tua gente, e dì che il nuovo re viene con l'approvazione della dea, per costruire una sua fortezza e per proteggere voi e i vostri figli, e fare in modo che il vostro bestiame possa pascolare in pace.» Udii Lamorak trattenere il respiro. «Per la dea, l'hai detto, Merlino!» «Merlino?» Si sarebbe detto che il vecchio sentisse quel nome per la prima volta. «Sissignori, questo è quello che direbbe lui... e io ho sentito come trasse la spada dalle profondità dell'acqua e poi la diede al re...» Poi, per alcuni minuti, mentre gli altri si chiudevano in gruppo, parlando di nuovo tra loro, sollevati e sorridenti, tornò al suo borbottio. Ma da ultimo, essendo arrivata alla sua comprensione la mia incauta frase conclusiva, tornò di colpo, e con assoluta chiarezza di linguaggio, al problema delle sue mucche e all'iniquità dei re che avevano interferito nel loro pascolo. Lanciandomi una rapida occhiata significativa, Artù lo ascoltava con gravità, mentre gli altri giovani trattenevano il riso e gli ultimi residui di turbamento svanivano nell'allegria. Alla fine, con nobile cortesia, il re promise di continuare a consentirgli il pascolo fino a quando su Caer Carnei fosse cresciuta erba tenera e dolce, e quando non ne fosse più cresciuta di trovare un pascolo per lui in un altro posto. «Sulla mia parola di Sommo re» concluse. Non fu chiaro se, anche allora, il pastore gli credesse. «Be', che tu ti definisca un re oppure no» disse «per essere un ragazzo dimostri un certo buon senso. Tu stai a sentire quelli che sanno, non come certuni» e a questo punto scoccò un'occhiata malevola verso Gei «che sono solo chiasso e vento. Soldati, proprio! Chiunque sappia qualche cosa di battaglie e simili, sa che nessuno può combattere a pancia vuota. Tu dai l'erba alle mie muc-
che e noi riempiremo la pancia dei tuoi uomini.» «Ho detto che l'avrai.» «E quando quel tuo costruttore» adesso si riferiva a me «avrà rovinato Caer Carnei, quale terra mi darai allora?» Forse Artù non aveva pensato di essere preso in parola così presto, ma esitò solo un momento. «Vedo delle belle strisce verdi laggiù vicino al fiume, al di là del villaggio. Se posso...» «Quelle non sono affatto buone per le bestie. Per le capre, può darsi, e per le oche, ma non per le mucche. È erba aspra, quella, e piena di ranuncoli. È veleno, per pascolare.» «Davvero? Non lo sapevo. Quale sarebbe terra buona, allora?» «Oltre il monte dei tassi. Quello laggiù.» Indicò. «Ranuncoli!» Ridacchiò rumorosamente. «Re o no, padroncino, per quanto uno ne possa sapere, c'è sempre qualcuno che ne sa di più.» Artù disse, serio: «Questa è un'altra cosa che terrò a mente. Benissimo. Se posso procurarmi il monte dei tassi, sarà tuo». Poi tirò le redini e fece indietreggiare il cavallo per lasciar passare il vecchio e, lanciandomi un cenno di saluto, si buttò giù per il pendio, seguito dai suoi cavalieri. Derwen mi stava aspettando alle fondamenta della torre sudovest. Mi avviai verso di lui. Un piviere - sempre lo stesso, forse s'inclinò e scivolò d'ala, lanciando il suo richiamo, nella brezza. E mi tornò il ricordo, facendomi fermare... ... La Cappella nel Verde sopra Galava. Gli stessi due giovani volti, quello di Artù e quello di Bedwyr, che mi guardavano mentre raccontavo loro storie di battaglie e di luoghi lontani. E dall'altro lato della stanza, proiettata dalla luce delle lampade, l'ombra di un uccello in volo - il barbagianni bianco che viveva nel tetto - guenhwyvar, l'ombra bianca, al cui nome mi ero sentito accapponare la pelle, un momento di confusa preveggenza che adesso a mala pena potevo ricordare, a parte per la sensazione di paura che il nome Guenever - Ginevra - gli potesse in qualche modo essere fatale. Adesso non avevo provato niente del genere. Non me l'aspettavo. Sapevo appena che cosa fosse rimasto del potere che avevo avuto di mettere in guardia e proteggere. Ormai ero solo quel che aveva detto il vecchio pastore, un costruttore. «Solo?» Ricordai gli occhi del re colmi di orgoglio e di timore reverenziale durante la visita alle fondamenta del «miracolo» che stavo compiendo per lui, adesso. Abbassai gli occhi sui progetti che avevo nelle mani e
sentii agitarsi in me l'entusiasmo familiare, esclusivamente umano, del creatore. L'ombra si allontanò e si dileguò nel sole e io mi affrettai a raggiungere Derwen. Almeno avevo ancora capacità tecnica sufficiente per costruire al mio ragazzo una roccaforte sicura. Quattro Tre mesi dopo Artù sposò Ginevra a Caerleon. Non aveva avuto nessuna occasione di rivedere la sposa; per la verità, credo che con lei Artù avesse scambiato solo qualche formalità senza importanza in occasione dell'incoronazione. Aveva dovuto recarsi di nuovo al nord all'inizio di luglio, perciò non aveva avuto il tempo di recarsi in Cornovaglia per accompagnarla nel Guent. Comunque, essendo lui il Sommo re, era conveniente che la sposa gli venisse recata. Perciò fece a meno di Bedwyr per tutto un prezioso mese e lo mandò a Tintagel a prendergli la sposa e portargliela a Caerleon. Per tutta quell'estate ci furono sporadici combattimenti nel nord, per lo più, data anche la natura del paese, montuoso e coperto di alberi, imboscate e schermaglie con inseguimento, ma alla fine di luglio Artù costrinse il nemico alla battaglia presso un attraversamento sul fiume Bassas. La sua vittoria fu così decisiva da consentire una gradita tregua che si protrasse diventando una vera e propria tregua per tutto il periodo della mietitura, e gli consentì alla fine di recarsi a Caerleon in tutta tranquillità. Nonostante ciò, il suo fu un matrimonio in guarnigione; non poteva permettersi di sacrificare minimamente la prontezza per un eventuale scontro, sicché le nozze furono, possiamo dire, inserite in mezzo alle altre sue preoccupazioni. La sposa pareva aspettarselo, e accettava tutto felice come se si fosse trattato di una grande festa a Londra, e comunque la cerimonia fu allegra e magnifica, come sempre in occasioni analoghe, anche se gli uomini tennero le lance ammucchiate fuori della sala del banchetto, e le spade pronte a essere sguainate, anche se il re stesso passò ogni momento possibile in riunioni con i suoi ufficiali, o nelle esercitazioni, oppure - a volte a notte tarda - a studiare attentamente le sue mappe, con i rapporti delle sue spie posati sul tavolo accanto a lui. Partii da Caer Carnei nella prima settimana di settembre, diretto a Caerleon. I lavori nella fortezza proseguivano bene, e si poteva lasciare l'esecuzione a Derwen. Viaggiai con cuor leggero. Tutto ciò che avevo potuto scoprire a proposito della ragazza era positivo: era giovane, sana, di buon
ceppo ed era ora che Artù fosse sposato e mettesse al mondo dei figli. Pensando alla ragazza non andai più in là di così. Giunsi a Caerleon in tempo per assistere all'arrivo del corteo della sposa. Non presero il traghetto, ma risalirono a cavallo la strada da Glevum, i cavalli splendidi con i finimenti di cuoio dorato e le nappine a colori, le lettighe delle donne scintillanti di vernice fresca. Le dame più giovani indossavano mantelli multicolori, e le criniere dei loro cavalli erano intrecciate con fiori. Anche la sposa aveva disdegnato la lettiga; cavalcava un bell'animale color crema, un dono proveniente dalle scuderie di Artù. Bedwyr, con un mantello nuovo color ruggine, si teneva accanto a lei dalla mano che reggeva le redini, avendo all'altro fianco la principessa Morgana, sorella di Artù. Il cavallo di questa era focoso quanto quello di Ginevra era docile, ma lei lo controllava senza sforzo. Pareva di ottimo umore, emozionata, si poteva indovinarlo, per il suo prossimo matrimonio quanto per quello, ben più importante, del fratello. E non sembrava invidiare a Ginevra il ruolo di protagonista nei festeggiamenti, né le prove di deferenza che riceveva per il suo nuovo rango. Quanto a rango, ne aveva anche Morgana, e da vendere: data l'assenza di Ygraine, lei era venuta in rappresentanza della regina e, insieme al duca di Cornovaglia, per mettere la mano di Ginevra in quella del Sommo re. Ignorando ancora la gravità della malattia di Ygraine, Artù si era aspettato la sua venuta. Al suo arrivo, Bedwyr gli parlò un momento a quattr'occhi e io vidi un'ombra attraversare il viso del re, ma subito egli la cacciò per dare il benvenuto a Ginevra. Le sue parole furono pubbliche e formali, ma pronunciate con un sorriso cui essa rispose con pudiche fossette sulle guance. Le donne, tutte fruscii e sussurri, lo squadravano e gli uomini osservavano con indulgenza, i più vecchi approvando la gioventù e la freschezza della sposa, il pensiero sempre volto a un erede per il trono. I giovani osservavano con la stessa approvazione, venata di pura e semplice invidia. Ginevra aveva allora quindici anni. Era appena più alta dell'ultima volta che l'avevo vista, e più femminile, ma era ancora una bambina, dalla pelle fresca e gli occhi pieni di allegria, visibilmente felice della sorte che l'aveva portata fuori della Cornovaglia per diventare la sposa del beneamato del paese, il giovane re Artù. Presentò con grazia le scuse della regina, senza fare il minimo accenno al fatto che Ygraine soffrisse di qualcosa di più di una indisposizione pas-
seggera, e il re accettò le scuse tranquillamente, poi le diede il braccio e l'accompagnò lui stesso, insieme a Morgana, nella casa approntata per loro e per le loro dame. Era la casa migliore della città al di fuori delle mura della fortezza, e in essa le dame potevano riposarsi e prepararsi per le nozze. Subito dopo il re ritornò nelle sue stanze, e mentre stava ancora percorrendo il corridoio lo sentii parlare in tono vivace con Bedwyr. E non era un discorso di nozze e di donne. Entrò nella stanza già togliendosi gli abiti eleganti e Ulfin, che era abituato ai suoi modi, era lì pronto ad afferrare al volo lo splendido mantello, e a prendere la pesante cintura che reggeva la spada per metterla da parte. Artù mi salutò allegramente. «Be'? Che ne pensi? Non è diventata deliziosa?» «È molto bella. Sarà degna di te.» «E non è timida o pudibonda, grazie a Dio. Non avrei tempo per cose simili.» Vidi Bedwyr sorridere. Sapevamo tutti e due che intendeva alla lettera quello che stava dicendo. Lui non aveva tempo per disturbarsi a conquistare una sposa delicata; voleva sposarla e portarla a letto poi, soddisfatti finalmente i nobili più anziani e lui stesso libero da preoccupazioni del genere, avrebbe potuto tornare alla sua impresa incompiuta nel nord. Questo appunto stava dicendo, precedendoci nell'anticamera dove si trovava il tavolo della mappa. «Ma di questo parleremo tra un momento, quando ci saranno gli altri membri del consiglio. Li ho mandati a chiamare. Sono arrivate informazioni recenti, stanotte, portate da un messaggero. A proposito, Merlino, te l'ho detto, vero?, che avevo mandato a chiamare il tuo giovanotto, Gereint, da Olicana. È arrivato la notte scorsa... l'hai già visto? No? Be', deve venire con tutti gli altri. Ti sono molto riconoscente: è stata una scoperta, e ha già dimostrato quello che valeva tre volte, nel frattempo. Ha portato notizie dall'Elmet... Ma adesso lasciamo stare questo. Prima che arrivino voglio chiederti qualche cosa a proposito della regina Ygraine. Bedwyr mi dice che era fuori discussione per lei venire a nord per le nozze. Tu sapevi che è malata?» «Ho visto ad Amesbury che non stava bene, ma lei non volle parlarne, né allora né in seguito, e non mi ha mai consultato. Diamine, Bedwyr, quali notizie di lei ci sono adesso?» «Io non sono in grado di giudicare» disse Bedwyr «ma mi è parsa gravemente malata. Anche dall'incoronazione ho potuto vedere un cambia-
mento in lei: è magra come un fantasma e sta per lo più a letto. Ha mandato una lettera ad Artù e avrebbe voluto scrivere anche a te, ma era superiore alle sue forze. Mi ha incaricato di trasmetterti i suoi saluti, e di ringraziarti per le tue lettere e la tua premura per lei. Le aspetta con impazienza.» Artù mi guardò. «Sospettavi qualcosa del genere, quando la vedesti? La malattia è mortale?» «Così credo. Quando la vidi ad Amesbury, i semi della malattia erano già gettati. E quando le parlai di nuovo all'incoronazione, credo sapesse anche lei che stava per andarsene. Ma indovinare quanto tempo... Anche se fossi stato il suo medico, dubito che avrei potuto formarmi un giudizio in merito.» Ci si sarebbe potuto aspettare che chiedesse perché non gli avevo rivelato i miei sospetti, ma i motivi erano abbastanza ovvi e lui non ci sprecò il fiato. Si limitò ad annuire, e aveva un'espressione turbata. «Io non posso... Sai che devo tornare a nord appena sbrigata questa faccenda.» Parlava come se il matrimonio fosse un consiglio o una battaglia. «Non posso scendere in Cornovaglia. Dovrei mandare te?» «Sarebbe inutile. Inoltre, il suo medico è il migliore che si possa desiderare. Lo conobbi quand'era giovane studente a Pergamo.» «Bene» fece lui, accettando le mie parole; e poi di nuovo: «Bene...». Ma era irrequieto e si gingillava con gli spilli conficcati qua e là nella mappa di argilla. «Il guaio è che uno ha sempre l'impressione che c'è qualche cosa che dovrebbe fare. A me piace essere quello che lancia i dadi, non rimanere ad aspettare che un altro li lanci. Ah, sì, so che cosa dirai - che l'essenza della saggezza sta nel sapere quando fare e quando è inutile anche solo provare. Ma qualche volta penso che non sarò mai abbastanza vecchio per essere saggio.» «Forse la cosa migliore che puoi fare, sia per la regina Ygraine che per te, è adoperarti perché questo matrimonio venga consumato, e badare che tua sorella Morgana sia incoronata regina del Rheged» dissi io, e Bedwyr annuì. «D'accordo. Dal modo in cui lei ne ha parlato, ho avuto l'impressione che viva solo per vedere saldamente stretti questi nodi matrimoniali.» «Ed è ciò che mi dice nella sua lettera» disse il re. Girò la testa. Dal corridoio giunse smorzato il suono di un «chi va là» e della risposta. «Bene, Merlino, difficilmente sarei riuscito a fare a meno di te per la durata di un viaggio in Cornovaglia. Voglio rimandarti a nord. Si può lasciare a Derwen la responsabilità di Caer Carnei?»
«Se lo desideri, sì, certo. Funzionerà benissimo, anche se mi piacerebbe essere di ritorno molto per tempo in primavera.» «Non c'è motivo per cui tu non debba esserlo.» «Si tratta del matrimonio di Morgana? Oppure... forse avrei dovuto essere più prudente? Si tratta di nuovo di Morgause?... Ti avverto, se è per un viaggio nelle Orcadi mi rifiuto.» Lui rise. A vederlo e a sentirlo parlare non si sarebbe certo detto che avesse in mente Morgause o il suo bastardo. «Non ti farei correre un simile rischio, da parte di Morgause né da parte dei mari del nord. No, si tratta di Morgana. Voglio che tu la porti nel Rheged.» «Questo sarà un piacere.» Lo sarebbe stato davvero. Gli anni che avevo trascorso nel Rheged, nella Foresta Selvaggia che fa parte di quella vasta superficie chiamata la Foresta di Caledonia, avevano costituito l'apice della mia vita; erano stati gli anni in cui ero stato guida e maestro di Artù fanciullo. «Immagino che potrò vedere Ector?» «Perché no, dopo che avrai visto Morgana felicemente sposata? Devo ammettere che sarà un sollievo per me, come per la regina, saperla sistemata lì nel Rheged. È possibile che per la primavera ci sia di nuovo guerra a nord.» Messa in questo modo, l'osservazione suonava strana, ma nel contesto dei tempi aveva un senso. Quelli erano anni di matrimoni invernali; a primavera gli uomini partivano per andare a combattere e non era male lasciarsi dietro un cuore fedele. Per uno come Urbgen del Rheged, non più giovane, signore di grandi territori e guerriero entusiasta, sarebbe stato sciocco rinviare ancora il matrimonio. Dissi: «Certo che la porterò lassù. Quando?». «Appena tutto sarà concluso qui, e prima dell'inverno.» «Tu ci sarai?» «Se potrò. Ne riparleremo. Ti affiderò dei messaggi, e naturalmente porterai i miei doni a Urbgen.» Fece un segno a Ulfin che si avvicinò alla porta. Allora entrarono gli altri - i suoi cavalieri, e i componenti del consiglio, e alcuni dei re minori venuti a Caerleon per le nozze. C'erano Cador, e Gwilim, e altri del Powys, del Dyfed e della Dumnonia, ma nessuno dell'Elmet o del nord. Era comprensibile. Fu un sollievo non vedere Lot. Tra i più giovani vidi Gereint. Mi salutò con un sorriso, ma non ci fu il tempo di scambiare qualche parola. Parlò il re e rimanemmo in consiglio fino al tramonto, quando vennero serviti dei cibi; poi tutti si congedarono, e io con loro.
Mentre me ne tornavo nelle mie stanze, capitò accanto a me Bedwyr, e con lui Gereint. Pareva che i due giovani si conoscessero piuttosto bene. Gereint mi salutò calorosamente. «Fu un giorno fortunato per me» disse sorridendo «quello in cui arrivò a Olicana quel medico ambulante.» «Lo fu anche per Artù, credo» risposi. «Come va il lavoro al Varco?» Allora mi parlò della situazione. Non esisteva, a quanto pareva, un pericolo immediato dall'est. Artù aveva fatto piazza pulita a Linnuis e intanto il re dell'Elmet faceva la guardia per lui. La strada che passava dal Varco era stata ricostruita, da Olicana a Tribuit, e tutt'e due i forti occidentali rimessi in efficienza. Da questo discorso passò a Caer Carnei, e qui Bedwyr si unì a lui per assillarmi di domande. Dopo poco arrivammo al punto in cui le nostre strade si separavano. «Vi lascio qui» disse Gereint, con un'occhiata alla direzione da cui venivamo, gli appartamenti del re. «Badate» disse «la meta non mi è stata detta.» Parlava come se facesse una citazione, ma era di qualcosa che non conoscevo. «Questi sono grandi giorni per noi tutti.» «E saranno ancora più grandi.» Poi ci augurammo la buonanotte, e Bedwyr e io proseguimmo insieme. Il ragazzo che portava la torcia ci precedeva di qualche passo. Dapprima parlammo, abbassando la voce, di Ygraine. Bedwyr poté dirmi qualcosa di più di ciò che aveva detto davanti ad Artù. Il medico della regina, non volendo mettere niente per scritto, lo aveva incaricato di portarmi le notizie, ma nessuna di esse mi riuscì nuova. La regina stava morendo, in attesa solo - questa era l'impressione personale di Bedwyr - che le due fanciulle, incoronate col dovuto sfarzo, prendessero il loro posto, e dopo sarebbe stato strano (aveva detto Melchiorre) che sopravvivesse fino a Natale. La regina stessa mi aveva mandato un messaggio di amicizia, e un pegno che avrei dovuto dare ad Artù dopo la sua morte. Era un fermaglio finemente lavorato d'oro e smalto azzurro, con un'immagine della dea madre dei cristiani, e il nome, MARIA, scritto tutt'intorno sull'orlo. Aveva già donato dei gioielli a sua figlia Morgana e a Ginevra, ma si era trattato di regali di nozze, benché Morgana già conoscesse la verità. Ginevra, a quanto pareva, non ancora. La fanciulla era stata altrettanto cara a Ygraine, anzi di recente quasi più cara, della propria figlia, e la regina aveva avuto cura di dare istruzioni a Bedwyr perché nulla rovinasse i festeggiamenti per le nozze. Non che la regina, disse Bedwyr, che visibilmente provava il massimo rispetto per Ygraine, non che la regina nutrisse la minima illusione a proposito del dolore che Artù avrebbe provato per lei; essa aveva sacrificato
l'amore del figlio per quello di Uther e per il futuro del regno, e personalmente era rassegnata alla morte, salda nella sua fede; ma si rendeva conto di quanto la fanciulla fosse arrivata ad amarla. «E Ginevra?» chiesi alla fine. «Devi essere arrivato a conoscerla bene durante il viaggio. E conosci Artù, chi meglio di te? Come staranno insieme? Com'è lei?» «Deliziosa. È piena di vita - a modo suo lo è esattamente come lui - ed è intelligente. Mi ha assillato di domande sulle guerre, e non erano domande oziose. Capisce quello che fa Artù, e ha seguito ogni suo movimento. È stata perdutamente innamorata di lui dal primo momento che l'ha visto ad Amesbury... in realtà, credo che fosse innamorata di lui ancora prima di allora, come ogni altra fanciulla in Britannia. Ma ha senso dell'umorismo, non è una di quelle anemiche ragazze che sognano la corona e un uomo che le porti a letto: sa quale sarà il suo dovere. Io so che la regina Ygraine aveva in mente questo matrimonio e sperava che si realizzasse. Per tutto questo tempo vi ha preparato la fanciulla.» «Non poteva esserci maestra migliore.» «D'accordo. Ma Ginevra è molto dolce, e anche allegra. Sono contento» concluse Bedwyr semplicemente. Parlammo allora di Morgana, e dell'altro matrimonio. «Speriamo che vada altrettanto bene» dissi io. «Certo è ciò che vuole Artù. E Morgana? Sembra ben disposta, addirittura felice, di questo matrimonio.» «Ah, sì» fece lui e poi, sorridente e scrollando le spalle: «si crederebbe che è un matrimonio d'amore, e che tutta la storia con Lot non sia mai avvenuta. Tu dici sempre, Merlino, che non sai niente delle donne e che non puoi neppure indovinare che cosa le spinga. Be', io non sono più bravo di te, eppure non sono un eremita nato, come te. Ne ho conosciute in quantità, e adesso ho passato più o meno un mese, ogni giorno, al loro servizio... e ancora non comincio neppure a capirle. Desiderano appassionatamente il matrimonio, che per loro è una specie di schiavitù... e pericolosa per di più. Si potrebbe capirlo per quelle che non hanno niente in proprio; ma guarda Morgana: ha ricchezza e rango, e la libertà che queste due cose le danno, e ha la protezione del Sommo re. Eppure se ne sarebbe andata da Lot, del quale è ben nota la fama, e adesso se ne va, con impazienza, da Urbgen del Rheged, che ha più di tre volte la sua età, e che quasi non conosce. Perché?» «Immagino per via di Morgause.»
Mi scoccò un'occhiata. «È possibile. Ne ho parlato con Ginevra. Dice che da quando è arrivata la notizia dell'ultimo parto di Morgause, e le sue lettere a proposito della pompa con cui vive...» «Nelle Orcadi?» «Così dice lei. Sembra sia vero che governa il regno. Chi lo farebbe, altrimenti? Lot era con Artù... Be', Ginevra mi ha detto che di recente Morgana stava diventando sempre più aspra, e che aveva cominciato a parlare con odio di Morgause. Aveva anche cominciato a praticare di nuovo quelle che la regina chiamava le sue "arti oscure". Ginevra pare ne abbia paura.» Esitò. «Ne parlano come di magia, Merlino, ma non hanno niente a che fare con il tuo potere. È qualcosa di fumoso, che si fa in una stanza chiusa.» «Se è stata Morgause a insegnargliele, devono essere oscure davvero. Be', perciò prima Morgana sarà regina nel Rheged, con una famiglia sua, meglio sarà. E che mi dici di te, Bedwyr? Hai già pensato al matrimonio.» «Non ancora» fece lui, allegro. «Non ho tempo.» Ridemmo della battuta, e ce ne andammo ognuno per la sua strada. *
*
*
Così il giorno seguente, con un bel sole e tutta la pompa, la musica e la baldoria che una folla festante poteva provocare, Artù sposò Ginevra. E dopo il banchetto, quando le torce ardevano ormai a fiamma bassa, e uomini e donne avevano mangiato, riso e bevuto a sazietà, la sposa fu condotta via, e in seguito, accompagnato dai suoi compagni, i cavalieri, lo sposo si recò presso di lei. Quella notte feci un sogno. Fu breve e torbido, solo un barlume di quella che poteva essere una vera visione. Le tende erano tirate e si agitavano, e il luogo era pieno di fredde ombre, e c'era una donna nel letto. Non potevo vederla con chiarezza; né capire chi fosse. Pensai in un primo momento che fosse Ygraine, poi, a un guizzo della luce, avrebbe potuto essere Ginevra. E pareva morta, o profondamente addormentata dopo una notte d'amore. Cinque Così mi diressi ancora una volta a nord, seguendo adesso la strada a ovest fino a Luguvallium. Fu proprio un viaggio nuziale. Il tempo rimase
buono per tutto il mese, lo splendido e dorato mese di settembre, che è il migliore per i viaggiatori, dato che Mercurio, il dio dei viandanti, lo rivendica come suo. La sua mano fu su di noi per tutto il viaggio. La strada, la principale via di comunicazione di Artù verso ovest, era ben tenuta e sicura, e perfino nelle brughiere la terra era asciutta, per modo che non avevamo bisogno di fissare in anticipo i tempi del viaggio per cercare luoghi in cui fare sosta che fossero adatti alle donne. Al tramonto, se non c'erano città o villaggi nelle vicinanze, piantavamo il campo dove ci fermavamo, e mangiavamo vicino a qualche corso d'acqua dove ci fossero alberi per darci riparo, mentre i pivieri lanciavano il loro richiamo nel crepuscolo e gli aironi sopra di noi battevano le ali, di ritorno dalla pesca. Per me avrebbe potuto essere un viaggio idilliaco, non fosse stato per due cose. La prima era il ricordo del mio ultimo viaggio verso nord. Come tutti gli uomini ragionevoli, avevo cacciato dalla mente il rimpianto, o pensavo di averlo fatto; ma quando una sera qualcuno mi supplicò di cantare, e il mio servo mi portò l'arpa, parve tutt'a un tratto che avessi solo da alzare gli occhi dalle corde per vederli entrare nel cerchio di luce del fuoco, l'orefice Beltane, sorridente, seguito da Ninian. E in seguito, il ragazzo fu presente ogni sera, nel ricordo o nei sogni, e con lui il più straziante di tutti i dolori, il rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e che era scomparso per sempre. Era più del semplice dolore per un discepolo perduto che avrebbe potuto fare il mio lavoro quando io non ci sarei stato più. Questo era accompagnato da un doloroso disprezzo per me stesso, per l'incapacità di reagire con la quale lo avevo lasciato andare. Di sicuro avrei dovuto sapere, al momento di quella irritante, involontaria protesta al ponte di Cor, il motivo per cui protestavo. La verità era che la perdita del ragazzo mi colpiva molto più profondamente dell'impossibilità di farmene un erede e discepolo: la sua perdita era il simbolo stesso della mia. Siccome io non ero più Merlino, Ninian era morto. La seconda vespa nel miele di quel viaggio era Morgana. Io non l'avevo mai conosciuta bene. Era nata a Tintagel, e lì era cresciuta durante gli anni nei quali io vivevo nascosto nel Rheged, vegliando sull'infanzia di Artù. Da allora, l'avevo vista solo due volte, all'incoronazione del fratello e al matrimonio di questo, e in tutt'e due le occasioni sì e no le avevo parlato. Assomigliava al fratello perché era alta per la sua età, con i capelli scuri e gli occhi scuri che venivano, credo, dal sangue spagnolo portato dall'im-
peratore Massimo nella famiglia degli Ambrosii, ma nei lineamenti ricordava Ygraine, mentre Artù assomigliava a Uther. Aveva la pelle chiara ed era tranquilla quanto Artù era esuberante. Malgrado ciò, percepivo in lei lo stesso genere di forza, un'energia tenuta sotto controllo, un fuoco che covava sotto la cenere fredda. Aveva anche qualcosa di quella elusività che la sua sorellastra Morgause rivelava in abbondanza e che Artù non possedeva affatto. Ma questa è una qualità essenzialmente femminile: in maggiore o minor misura ce l'hanno tutte; troppo spesso è la loro unica arma, il loro unico scudo. Morgana rifiutò di usare la lettiga assegnatale, e ogni giorno cavalcava accanto a me per una parte del viaggio. Immagino che quand'era con le donne, o tra gli uomini più giovani, la conversazione dovesse vertere sulle nozze imminenti e sul futuro; ma quand'era accanto a me Morgana parlava soprattutto del passato. Ripetutamente mi induceva a rievocare quelle delle mie gesta che erano divenute leggenda, la storia dei draghi a Dinas Emrys, quella della pietra del re rialzata a Killare, quella della spada di Macsen strappata dalla pietra. Io rispondevo abbastanza volentieri alle sue domande, attenendomi alle realtà delle storie e (ricordando ciò che di Morgana avevo saputo da sua madre e da Bedwyr) cercando di trasmetterle in parte quel che significava «magia». Le fanciulle come lei la considerano una faccenda di filtri e bisbigli in stanze buie, di incantesimi per legare il cuore di un uomo o per evocare la visione di un amante la vigila del giorno di mezza estate. Quel che a loro interessa principalmente, e si può capire, sono le nozioni afrodisiache - come rimanere incinte o come evitarlo, incantesimi, le formule magiche per avere un parto sicuro, le previsioni sul sesso di un bambino. Va detto, per renderle giustizia, che su nessuna di queste cose Morgana portò la conversazione con me; c'era da pensare che in esse fosse già esperta. E non pareva neppure interessata, come lo era stata Morgause bambina, alla medicina e alle arti della guarigione. Le sue domande concernevano tutte il potere più grande, e principalmente in quanto esso era arrivato ad Artù. Di tutto ciò che era avvenuto tra il primo corteggiamento fatto da Uther a sua madre e il concepimento di Artù, fino al sollevamento della grande spada di Macsen, essa era avida di sapere. Io le rispondevo garbatamente, e in modo abbastanza esauriente; aveva diritto a conoscere i fatti, pensavo, e (dato che stava per diventare la regina del Rheged e quasi sicuramente sarebbe sopravvissuta al marito) cercavo di farle capire quali fossero gli obiettivi di Artù per gli anni di calma dopo la guerra, e di istillarle le stesse ambizioni.
Difficile dire quanto successo ottenessi. Dopo un po' di tempo notai che la sua conversazione girava con sempre maggior frequenza sui come e i perché del potere di cui ero stato dotato. Trascurai le sue domande, ma lei persistette, giungendo alla fine perfino a suggerire, con una sicurezza calma e tranquilla come quella di Artù, che avrei dovuto darne qualche dimostrazione, esattamente come se fossi una vecchia che mescolava incantesimi e erbe medicinali sul fuoco, o un indovino che nei giorni di mercato interroga la sfera di cristallo. A quest'ultima impertinenza la mia risposta fu, immagino, così fredda da risultarle indigesta. Poco dopo essa tirò le briglie e fece in modo che il suo destriero rimanesse indietro, e in seguito compì il resto del viaggio in compagnia dei giovani. Come sua sorella, di rado Morgana si contentava della compagnia delle donne. Il suo compagno più assiduo era un certo Accolon, un giovanotto florido splendidamente abbigliato, che rideva rumorosamente e aveva il colorito acceso. Essa non si concesse mai di rimanere sola con lui più di quanto fosse decente, benché il giovanotto non facesse mistero dei propri sentimenti; la seguiva dappertutto con gli occhi e, ogni volta che gli era possibile, le toccava la mano o faceva avanzare il suo cavallo così vicino a quello di lei, da sfiorare con la coscia quella di lei, mentre le criniere delle due cavalcature si intrecciavano. Lei non parve avvedersene, e mai, per quanto potei vedere, gli rivolse qualcosa di più degli sguardi e delle risposte fredde che rivolgeva a tutti gli altri. Io avevo, naturalmente, il dovere di portarla intatta e vergine (ammesso che vergine ancora ella fosse) nel letto di Urbgen, ma non avrei potuto per il momento nutrire preoccupazioni circa il suo onore. Sarebbe stato difficile per un amante avvicinarla durante quel viaggio, anche se lei lo avesse chiamato. La maggior parte delle notti quando ci accampammo, Morgana era scortata da tutte le sue dame nel padiglione a lei riservato, dove poi rimanevano a dormire due delle sue ancelle più anziane, oltre che le amiche più giovani. Lei non lasciò mai neanche lontanamente supporre di desiderare che le cose andassero diversamente. Si comportava e parlava come qualsiasi sposa regale in viaggio verso un desiderato talamo, e se il bel viso e la corte accanita di Accolon la commuovevano essa non lo lasciò vedere. Facemmo l'ultima sosta appena fuori dai confini del territorio che dipende da Caerluel, come i britannici chiamano Luguvallium. Qui facemmo riposare i cavalli, mentre i servi si affaccendavano a lustrare i finimenti e a lavare le lettighe dipinte e, questi erano compiti delle donne, a rinfrescare vestiti, capelli e aspetto. Poi il corteo si ricostituì e proseguimmo verso il
gruppo che veniva ad accoglierci e che incontrammo un bel po' oltre i confini della città. Esso era guidato da re Urbgen in persona, montato su uno splendido cavallo donatogli da Artù, uno stallone baio bardato in cremisi e oro. Un servo accanto a lui conduceva una giumenta bianca con finimenti d'argento e nappine azzurre, destinata alla principessa. Urbgen era splendido come il suo destriero, un uomo vigoroso dal petto ampio e le braccia potenti, e dotato della stessa energia di qualsiasi guerriero che avesse la metà dei suoi anni. Un tempo biondorossiccio, adesso capelli e barba, come avviene agli individui biondorossicci, erano diventati completamente bianchi, folti e sottili. Aveva il viso abbronzato dalle estati passate a guerreggiare e dagli inverni trascorsi in gelide cavalcate. Lo sapevo un uomo forte, un alleato coraggioso e un governante intelligente. Mi accolse con la stessa cortesia che se fossi stato il Sommo re in persona, e allora io gli presentai Morgana. Questa si era vestita in giallo primula e bianco, e aveva intrecciato ornamenti d'oro nei lunghi capelli scuri. Gli porse una mano, gli fece un profondo inchino e gli offrì una guancia fredda da baciare, poi montò in sella alla giumenta bianca e cavalcò al fianco di lui, sostenendo con serena compostezza gli sguardi del suo seguito e le occhiate di valutazione dello stesso re. Vidi Accolon restare indietro, con un'aria intensa e tetra, mentre il gruppo di Urbgen circondava noi tre, e proseguimmo ad andatura moderata verso il confluire dei tre fiumi, dove sorgeva Luguvallium, in mezzo agli alberi rossi per l'autunno. *
*
*
Il viaggio era stato piacevole, ma non così fu la conclusione, in cui si realizzarono i miei peggiori timori. Morgause venne al matrimonio. Tre giorni prima della cerimonia arrivò un messaggero al galoppo con la notizia che nell'estuario era stata avvistata una nave, con vele nere e lo stemma degli orcadiani. Re Urbgen uscì a cavallo per incontrarla nel porto. Io mandai il mio servo a cercare notizie ed egli ritornò a spron battuto, prima ancora che la comitiva proveniente dalle Orcadi avesse avuto il tempo di sbarcare. Il re Lot non c'era, mi disse, ma era venuta la regina Morgause e con una certa pompa. Lo spedii subito verso il sud con un messaggio per Artù: non sarebbe stato troppo difficile a questo trovare una scusa per non essere presente. Grazie al cielo, io personalmente non avevo bisogno di andare a cercar troppo lontano per trovare una scusa analoga: avevo
già organizzato, su richiesta dello stesso Urbgen qualche giorno prima, una sortita a cavallo per andare a ispezionare le stazioni di segnalazioni lungo la riva dell'estuario. Con una certa prontezza, e forse una leggera mancanza di dignità, ero uscito dalla città prima che arrivasse il corteo di Morgause, e non vi feci ritorno fino alla vigilia delle nozze. In seguito appresi che anche Morgana aveva evitato di vedere la sorella, ma d'altronde questo non si sarebbe neppure potuto aspettare da parte di una sposa tanto immersa nei preparativi di un matrimonio regale. Così fui presente quando le due sorelle s'incontrarono, alla porta stessa della chiesa dove, con i riti cristiani, Morgana doveva sposarsi. Ognuna di loro, regina e principessa, era splendidamente vestita e accompagnata da un seguito magnifico. Si videro, parlarono, si abbracciarono con sorrisi belli come in un quadro e altrettanto rigidi sulle loro bocche. Secondo me, fu Morgana ad avere la meglio, perché, abbigliata com'era per le nozze, splendeva come il centro luminoso di quel giorno di festa. La veste era splendida, con lo strascico di porpora trapuntato d'argento. Sui capelli scuri aveva una corona e tra gli splendidi gioielli che le aveva donato Urbgen ne riconobbi alcuni che Uther aveva dato a Ygraine nei primi tempi della loro passione. Il corpo snello era eretto sotto il peso delle vesti suntuose, il viso pallido, composto e molto bello. A me ricordò Ygraine giovane, piena di forza e di grazia. Sperai, fervidamente, che fossero vere le voci circa la reciproca antipatia tra le due sorelle, e che Morgause non riuscisse ad accattivarsela, adesso che Morgana era sulla soglia di una posizione elevata e potente. Ma mi sentivo a disagio; non riuscivo a vedere nessun'altra ragione che spiegasse la venuta della strega per assistere al trionfo della sorella, facendosi porre in ombra da lei come importanza e bellezza. Niente poteva togliere a Morgause la bellezza aureo-rosata che, con la maturità, era diventata, se possibile, più intensa di prima. Ma era evidente che era di nuovo incinta, e inoltre aveva portato con sé un altro bambino, maschio. Era un lattante, ancora in braccio alla bambinaia. Il figlio di Lot; non quello che, con un misto di speranza e di paura, stavo cercando. Morgause mi aveva visto guardare. Mi sorrise, quel suo solito sorrisetto, mentre mi faceva la riverenza, poi entrò nella chiesa con il suo seguito. Io, che dovevo fare le veci di Artù, aspettavo per accompagnare la sposa. Ubbidendo al mio messaggio, il Sommo re era occupato in qualche altro luogo. Qualsiasi speranza avessi nutrito di poter evitare Morgause dopo la chiesa, essa s'infranse al banchetto nuziale. Essendo i due principi più vicini
alla sposa, lei e io fummo messi accanto intorno all'alto tavolo. La sala era la stessa in cui Uther aveva tenuto il banchetto della vittoria che si era concluso con la sua morte. In una stanza di quello stesso castello Morgause si era giaciuta con Artù e aveva concepito il figlio Mordred, e la mattina seguente, nello scontro di due opposte volontà, io avevo distrutto le sue speranze e l'avevo cacciata lontana da Artù. Quello, per quanto poteva saperne lei, era stato il nostro ultimo incontro. Ignorava ancora - o almeno io lo speravo - il mio viaggio a Dunpeldyr e la sorveglianza che avevo esercitato sulla città. La vidi guardarmi in tralice, di sotto le chiare palpebre allungate. Mi domandai a un tratto, con ansia, se potesse sapere che adesso non avevo più nessuna difesa contro di lei. L'ultima volta in cui ci eravamo incontrati aveva provato su di me i suoi trucchi da strega, e io ne avevo percepito la potenza stringermi la mente come una rete invischiata. Ma allora non avrebbe potuto nuocermi più di quanto un ragno avrebbe potuto sperare di intrappolare un falcone. Avevo rivolto i suoi incantesimi contro di lei, sconfiggendo la sua furia mediante la semplice autorità del potere. Adesso, questo mi aveva abbandonato. Era possibile che lei fosse in grado di misurare la mia debolezza. Non avrei potuto dirlo. Non avevo mai sottovalutato Morgause, e non lo facevo ora. Parlai con tranquilla cortesia. «Hai un bel figlio, Morgause. Come si chiama?» «Galvano.» «Somiglia molto a suo padre.» Abbassò le palpebre. «Tutti e due i miei figli» disse piano «somigliano molto al padre.» «Tutti e due?» «Suvvia, Merlino, dov'è la tua arte? Credesti forse alla terribile notizia quando l'apprendesti? Dovevi saperlo che non era vera.» «Sapevo che non era vero che Artù avesse ordinato il massacro, malgrado la calunnia che tu hai messo in giro su di lui.» «Io?» I begli occhi erano spalancati e innocenti. «Sì, tu. Il massacro forse fu opera di Lot, quello sciocco irruento, e furono certamente gli uomini di Lot che gettarono i neonati nella barca e li mandarono al largo con la marea. Ma chi provocò Lot spingendolo a questo? Tu lo progettasti fin dall'inizio, non è vero?, arrivando a pensare fino all'assassinio di quel povero piccolo nella culla. E non fu Lot a uccidere Macha, e a sollevare l'altro bambino togliendolo dal sangue per portarlo
nel suo nascondiglio.» Imitai il suo tono sarcastico. «Suvvia, Morgause, dov'è la tua arte? Dovresti avere il buon senso di non fare l'innocente con me.» Al nome di Macha vidi la paura, come una scintilla verde, guizzarle negli occhi, ma null'altro trapelò dal suo atteggiamento. Rimase a sedere tranquilla ed eretta, una mano intorno allo stelo del calice, facendolo girare dolcemente, sicché l'oro fiammeggiò alla luce della torcia. Vidi il sangue pulsarle rapido nell'incavo della gola. Fu, nella migliore delle ipotesi, un'amara soddisfazione. Avevo avuto ragione. Mordred era vivo, nascosto, indovinai, chissà dove in quel gruppo di isole dette le Orcadi, dove aveva corso il potere di Morgause e dove io, privato della Vista, non avevo nessuna possibilità di trovarlo. Né, ricordai a me stesso, l'autorità di ucciderlo se lo avessi trovato. «Lo vedesti?» Parlò a bassa voce. «Certo che lo vidi. Quando mai hai potuto tenermi nascosto qualcosa? Devi saperlo che tutto è chiaro ai miei occhi e anche, lascia che te lo ricordi, a quelli del Sommo re.» Rimase immobile, in apparenza padrona di sé, a parte quella rapida pulsazione sotto la carne lattea. Mi domandai se ero riuscito a convincerla che ero ancora temibile. Non le era venuto in mente che Lind avrebbe potuto esser venuta da me; e perché mai avrebbe dovuto ricordare Beltane? La collana che l'orefice aveva fatto per lei vibrava e mandava bagliori intorno alla sua gola. Essa deglutì e, con una voce sottile che difficilmente si udiva nel frastuono della sala, disse: «Allora saprai che, anche se l'ho salvato da Lot, non so dove si trova. Forse potrai dirmelo tu?». «Ti aspetti che io ti creda?» «Devi crederlo, perché è vero. Non so dov'è.» Girò la testa, per guardarmi bene in faccia. «E tu?» Io non risposi. Mi limitai a sorridere, presi il mio calice e bevvi. Ma, senza guardarla, la sentii improvvisamente rilassarsi e mi chiesi, con un brivido che mi percorse la pelle, se avevo commesso un errore. «Anche se lo sapessi» disse lei «come potrei tenerlo accanto a me, lui che assomiglia a suo padre quanto una goccia di vino a un'altra goccia?» Bevve, posò il calice, poi si riappoggiò allo schienale del suo seggio, le mani ripiegate sulla veste in modo che risaltò il rigonfiamento del ventre. Mi sorrise, un sorriso di malizia e odio e nessuna traccia di paura. «Profetizza su questo, allora, mago Merlino, se non vuoi farlo sull'altro. Sarà un altro maschio che prenderà il posto di quello che ho perso?»
«Non ho il minimo dubbio» dissi brusco e lei rise forte. «Sono lieta di apprenderlo. Non so che farmene delle femmine.» I suoi occhi si posarono sulla sposa, che sedeva eretta e sicura di sé accanto a Urbgen. Questi aveva bevuto abbondantemente, e aveva le guance arrossate, ma conservava tutta la sua dignità, anche se con gli occhi accarezzava la sposa e si chinava verso il seggio di lei. Morgause l'osservò, poi disse, sprezzante: «Così la mia sorellina alla fine ha avuto il suo re. Un regno, sì, una bella città e vaste terre. Ma un vecchio, prossimo ai cinquanta, che ha già dei figli maschi...» Con la mano si lisciò la veste sul ventre. «Lot può anche essere uno sciocco impetuoso, come tu lo hai definito, ma è un uomo.» Era un'esca, ma io non abboccai. Dissi: «Dove si trova, se non è potuto venire alle nozze?». Con mia sorpresa lei rispose in modo del tutto normale, abbandonando in apparenza quella maliziosa partita a scacchi. Lot, pareva, si era recato di nuovo a est, in Northumbria, con Urien, marito di sua sorella, ed era impegnato lì a ispezionare il prolungamento della Diga Nera. Ho già scritto a proposito di questa. Si estende dal mare del nord verso l'interno e fornisce una sorta di difesa contro le incursioni sulla costa nordorientale. Morgause ne parlava con competenza, sicché mio malgrado ne ero interessato e, nella conversazione che seguì, l'atmosfera si allentò; poi qualcuno mi fece una domanda sulle nozze di Artù e sulla nuova giovane regina, e Morgause rise e disse, con molta naturalezza: «A che serve chiederlo a Merlino? Può anche conoscere ogni cosa del mondo, ma chiedetegli di descrivere un matrimonio e scommetto che non saprà neppure il colore dei capelli della sposa, o quello della sua veste!». Poi la conversazione si fece generale intorno a noi, inframmezzata da molte risate, e furono pronunciati discorsi e scambiate promesse, e io dovevo aver bevuto molto di più di quanto non fosse mia abitudine perché ricordo bene la luce delle torce palpitare e gonfiarsi, di volta in volta luminosa e cupa, mentre conversazione e risate fluivano e s'interrompevano a raffiche, e con loro quel profumo di donna, dolce e spesso come caprifoglio, che prendeva e imprigionava i sensi come un ramoscello spalmato di vischio cattura un'ape. I vapori del vino salivano attraverso quel profumo. Una brocca dorata s'inclinò e il mio calice fu di nuovo pieno fino all'orlo. Qualcuno disse, sorridendo: «Bevi, mio signore». C'era un sapore di albicocche nella mia bocca, dolce e aspro; la pelle aveva la grana simile alla peluria di un'ape, o di una vespa morente, al sole, sul muro di un giardino...
E per tutto il tempo occhi che mi guardavano, colmi di eccitazione e di cauta speranza, poi di disprezzo, e di trionfo... Poi i servi mi furono accanto, mi aiutarono ad alzarmi, e vidi che la sposa se n'era già andata e che re Urbgen, a fatica frenando l'impazienza, teneva d'occhio la porta per cogliere il segnale che era ora di seguirla a letto. Il posto accanto a me era vuoto. Intorno al mio si affollarono i servi, sorridenti, per aiutarmi a ritornare nelle mie stanze. Sei La mattina dopo avevo un mal di testa violento quanto quelli che solevano affliggermi dopo la magia. Rimasi per tutto il giorno nelle mie stanze. Il giorno successivo mi congedai da Urbgen e dalla sua regina. Prima dell'arrivo di Morgause avevamo avuto una serie di colloqui ufficiali e ora potevo lasciare la città - si può immaginare con quale sollievo - e dirigermi a sud-ovest attraverso la Foresta Selvaggia, nel cuore della quale sorgeva Galava, il castello del conte Ector. Non mi congedai da Morgause. Era bello trovarmi di nuovo all'aperto, e questa volta con due soli compagni. La scorta di Morgana era stata formata per lo più da gente che la principessa si era portata dalla Cornovaglia e che rimaneva con lei a Luguvallium. I due uomini che mi accompagnavano erano stati messi al mio servizio da Urbgen; sarebbero arrivati con me fino a Galava, poi sarebbero tornati indietro. Fu inutile da parte mia protestare che preferivo andare da solo, e che non avrei corso nessun pericolo; re Urbgen si limitava a ripetere, sorridendo, che neppure la mia magia mi sarebbe servita contro i lupi, o le nebbie autunnali, o l'assalto violento e improvviso della neve precoce, che nelle regioni montuose può molto rapidamente imprigionare il viandante tra i passi scoscesi, e portarlo alla morte. Le sue parole servirono a ricordarmi che, armato com'ero ormai solo della fama del passato potere, e non più del potere in sé, ero soggetto alla violenza di ladri e altri disperati quanto qualsiasi viandante solitario in quel paese selvaggio; perciò accettai riconoscente la scorta, e questo, immagino, mi salvò la vita. A cavallo attraversammo il ponte e ci inoltrammo nella bella valle verdeggiante solcata dal fiume che scorre sinuoso, fiancheggiato da ontani e salici. Benché il mio mal di testa fosse scomparso e io mi sentissi abbastanza bene, pure persisteva in me una certa stanchezza, ed era con gratitudine che respiravo la dolce aria familiare, carica dei profumi di pino e di felci.
Ricordo un piccolo incidente. Usciti dalle porte della città, mentre attraversavamo il fiume, sentii un grido lacerante, che dapprima mi parve proveniente da un uccello, da uno dei gabbiani che volteggiavano in cerca di rifiuti sulle rive. Poi un movimento attrasse il mio sguardo e abbassando gli occhi vidi una donna, con in braccio un bambino, che camminava sul greto di ciottoli sotto il ponte. Il bambino piangeva e lei cercava di farlo calmare. Mi vide e rimase immobile, guardando in alto. Riconobbi la bambinaia di Morgause. Poi il mio cavallo oltrepassò rumorosamente il ponte, e i salici mi nascosero alla vista la donna e il bambino. Il piccolo episodio non mi suscitò alcun pensiero, e di lì a poco lo dimenticai. Proseguimmo per la nostra strada, attraverso villaggi e fattorie con molte mucche che pascolavano. I salici erano dorati e i boschetti di noccioli brulicavano di scoiattoli. Le ultime rondini si raccoglievano lungo i tetti, e mentre ci avvicinavamo a quella serie di montagne e di laghi che segnano i limiti meridionali della grande foresta, i rilievi più bassi fiammeggiavano al sole di felci mature, d'oro rossiccio tra le rocce. Negli altri punti la foresta, di querce e pini sparsi, era dorata e oscura. Ben presto giungemmo al limitare della Foresta Selvaggia, dove gli alberi sono così fitti, nelle valli, da impedire che filtri la luce del sole. Non molto tempo dopo, attraversammo il sentiero che porta alla Cappella nel Verde. Mi sarebbe piaciuto rivederla, ma per questo il viaggio si sarebbe allungato di qualche ora, e poi ci si poteva arrivare più facilmente da Galava. Perciò proseguimmo senza deviare e continuammo a seguire la strada fino a Petrianae. Oggi come oggi è difficile definirla una città, ma in epoca romana era un prospero centro commerciale. Un mercato c'è ancora, dove passano di mano alcune mucche, pecore e altre merci, ma di per sé Petrianae è ormai solo un misero gruppo di capanne in graticcio ricoperto di argilla, il suo unico santuario un semplice guscio di muratura contenente un altare in rovina dedicato a Marte, qui impersonato dal dio locale Cocidio. Non vi scorsi offerte, a parte, sul gradino muschioso, una fionda di cuoio, come ne usano i pastori, e un mucchio di pietre da fionda. Mi chiesi per quale scampato pericolo, rappresentato dal lupo e da qualche feroce essere umano, il pastore stesse rendendo grazie. Superata Petrianae abbandonammo la strada per seguire i sentieri di montagna, ben noti agli uomini che mi scortavano. Viaggiammo con calma, godendoci il tepore di quel sole di tardo autunno. Via via che continuavamo a salire, il caldo persisteva e l'aria era mite, con appena un fremi-
to che indicava come le prime gelate non fossero lontane. Ci fermammo per far riposare i cavalli in un'alta conca solitaria, con un laghetto di montagna raccolto nell'incavo del tappeto erboso cosparso di pietre, e qui ci imbattemmo in un pastore, uno di quei rudi montanari che vivono per tutta l'estate sulla cima di monti brulli, con le loro piccole pecore dal vello bluastro, tipiche del Rheged. Guerre e battaglie possono infuriare fragorosamente sotto di loro, ma loro guardano in alto, anziché verso il basso, per scrutare il possibile pericolo, e al primo assalto dell'inverno si ritirano nelle grotte, passandosela miseramente con pane nero, uva secca e focacce cotte su un fuoco di torba. Per metterle al sicuro, conducono le loro greggi in ovili ricavati tra gli affioramenti rocciosi sul fianco dei monti. A volte non capita loro di udire un'altra voce umana dal periodo della nascita degli agnelli alla tosatura, e poi di nuovo fino alla fine dell'autunno. Il giovane pastore che incontrammo era tanto poco abituato a parlare da trovare difficile esprimersi, e quello che diceva lo pronunziava con un accento così stretto che perfino i due soldati, che pure erano del luogo, non ci capivano niente, e io, che ho il dono delle lingue, incontravo una certa difficoltà. A quanto pareva, aveva parlato con gli Antichi ed era abbastanza disposto a trasmettere le notizie ricevute. Rispondevano negativamente a ogni domanda ma non per questo erano cattive notizie. Artù era rimasto a Caerleon per quasi un mese dopo le sue nozze, poi se n'era andato, insieme ai suoi cavalieri, passando dal Varco dei Pennini, diretto in apparenza verso Olicana e la Pianura di York, dove doveva incontrare il re dell'Elmet. Queste non erano novità per me, ma almeno costituivano la conferma del fatto che durante la pace del tardo autunno non c'era stata nessuna mossa di guerra. Il pastore aveva serbato per ultimo il boccone migliore. Alla partenza del Sommo re (lui lo chiamava «il giovane Emrys» con un tale miscuglio di orgoglio e di familiarità da lasciarmi indovinare che la strada di Artù doveva aver incrociato la sua in passato) la sua regina era incinta. Su questo i soldati si dimostrarono apertamente scettici: può darsi che così fosse, fu il loro verdetto, ma come si poteva esserne sicuri, dopo neppure un mese? Quando si rivolsero a me, io mi dimostrai più ottimista. Come ho già detto, gli Antichi hanno mezzi per sapere a noi incomprensibili ma degni di rispetto. Se il ragazzo aveva saputo la notizia da loro... L'aveva saputa da loro. Questo era tutto ciò che sapeva. Il giovane Emrys era andato nell'Elmet e la ragazza che aveva sposato era incinta. Lui veramente diceva che avrebbe «figliato», come quando parlava di pecore e di capre, il che parve suscitare l'ilarità dei soldati, ma io lo ringraziai e gli
diedi una moneta e lui se ne tornò soddisfatto alle sue pecore, attardandosi solo a lanciarmi un'occhiata, forse, penso, perché aveva in parte riconosciuto l'eremita della Cappella nel Verde. Quella notte eravamo ancora molto lontani dalle strade, o da qualsiasi speranza di trovare una sistemazione per dormire, sicché quando giunse, di buon'ora, il crepuscolo reso ancora più confuso da una nebbia leggera, ci accampammo sotto gli alti pini al limitare della foresta e gli uomini prepararono la cena. Durante il viaggio avevo sempre bevuto acqua, perché mi piace l'acqua pura e buona della montagna, ma per festeggiare la notizia portata dal pastore aprii una fiasca di vino proveniente dalla cantina di Urbgen di cui ero stato fornito. Avevo in mente di dividerla con i miei compagni, ma essi rifiutarono, preferendo il vino scadente della loro razione, che aveva preso il sapore degli otri di pelle in cui era contenuto. Così mangiai e bevvi da solo, poi mi distesi per dormire. *
*
*
Non posso scrivere di quanto accadde poi. Gli Antichi conoscono la storia, e può darsi che da qualche parte qualcun altro l'abbia messa per iscritto, ma io la ricordo confusamente, come una visione osservata in uno specchio scuro e fumoso. Però non fu una visione; queste rimangono con me in modo anche più valido del ricordo. Fu una specie di pazzia che mi prese, causata, adesso lo so, da una qualche droga sciolta nel vino che avevo bevuto. Due volte prima d'allora, quando Morgause e io ci eravamo affrontati, essa aveva tentato su di me i suoi trucchi da strega, ma la sua magia da principiante mi era scivolata di dosso come il sassolino di un bimbo dalla roccia. Ma quell'ultima volta... Dovevo ricordare come, al banchetto nuziale, la luce si era oscurata e aveva palpitato intorno a me, mentre l'odore di caprifoglio appesantiva il ricordo di tradimento, e il sapore di albicocche richiamava alla mente l'assassinio. E come, io che sono parco nel cibo e nel vino, ero stato portato a letto ubriaco. Ricordai, anche, la voce che diceva: «Bevi, mio signore», e gli occhi verdi che mi osservavano. Doveva aver tentato di nuovo i suoi stratagemmi, scoprendo che ormai la sua magia era abbastanza forte da intrappolarmi nella sua viscida trama. Può darsi che i semi della follia fossero stati gettati allora, al banchetto nuziale, e lasciati perché si sviluppassero in seguito, quando sarei stato abbastanza lontano perché nessuno potesse darne la colpa a lei. La sua serva si trovava sotto il ponte
del fiume, per assicurarsi che uscivo davvero dalla città. In seguito, la strega aveva perfezionato la droga con qualche altro veleno, versato in una delle mie fiasche. In questo era stata fortunata. Se non avessi appreso la notizia della gravidanza di Ginevra, avrei potuto non aprire mai la fiasca avvelenata. Comunque, eravamo un bel po' lontani da Luguvallium quando bevvi il veleno. Se gli uomini che mi facevano da scorta l'avessero bevuto anche loro, peggio per loro. Morgause si sarebbe disfatta anche di cento uomini come quelli, pur di nuocere al suo nemico Merlino. Non c'era bisogno di cercare oltre il motivo per cui era venuta alle nozze della sorella. Quale che fosse il veleno, le mie abitudini frugali la defraudarono della mia morte. Ciò che accadde dopo che ebbi bevuto e mi fui messo a dormire, posso solo ricostruirlo da quanto mi è stato detto in seguito, e da qualche frammento turbinante del mio ricordo. Pare che i due soldati, spaventati nella notte dai miei lamenti, si precipitarono accanto al mio giaciglio e rimasero inorriditi di trovarmi evidentemente assalito da conati di vomito e in preda a terribili dolori, che mi contorcevo in terra e gemevo, a quanto pareva non più in me. Fecero quello che potevano, che non era molto, ma il loro rozzo aiuto mi salvò come sarebbe stato impossibile se mi fossi trovato solo. Mi fecero vomitare, poi aggiunsero le loro coperte alle mie, mi ci avvolsero in modo che fossi ben caldo e aggiunsero altra legna al fuoco. Poi uno di loro rimase accanto a me, mentre l'altro si mise in marcia per scendere a valle, dove avrebbe trovato aiuto, o un posto in cui alloggiare. Ci avrebbe rimandato gli aiuti, e una guida, e lui avrebbe proseguito fino a Galava per portare la notizia. L'altro, rimasto solo, fece quel che poteva, e dopo un paio d'ore io sprofondai in una specie di sonno. All'uomo quel sonno non piaceva un granché, ma quando alla fine ebbe il coraggio di staccarsi da me, allontanandosi di un paio di passi in mezzo agli alberi per urinare, io rimasi immobile e non emisi neppure un lamento, sicché egli decise di arrischiarsi di andare a prendere acqua al ruscello. Questo scorreva a meno di venti passi di distanza, un po' più in basso sul muschio silenzioso. Arrivato lì, si ricordò del fuoco, che di nuovo si stava spegnendo, perciò attraversò il ruscello e fece ancora qualche passo - trenta passi, non di più, giurò in seguito - per raccogliere un altro po' di legna. C'era una quantità di legna secca intorno, lui rimase lontano solo alcuni minuti. Quando ritornò nel punto in cui eravamo attendati io ero scomparso e per quanto perlustrasse il luogo come meglio poteva, non riuscì a trovare tracce di me. Non si può condannarlo se dopo un'ora circa trascorsa a vagare e a chiamarmi nell'oscurità piena di
echi della grande foresta, prese il suo cavallo e cercò di raggiungere al galoppo il compagno. Il mago Merlino aveva al suo attivo troppe strane scomparse perché all'ingenuo soldato potesse sussistere il minimo dubbio su quanto doveva essere accaduto. Il mago era scomparso, e l'unica cosa che loro potevano fare era riferirne e aspettare che tornasse. *
*
*
Fu un lungo sogno. Non ricordo niente di come cominciò ma immagino che, sostenuto da una qualche forza delirante, sgusciai fuori dal mio giaciglio e mi allontanai errando sul muschio spesso della foresta, poi rimasi a giacere, forse dov'ero caduto, in fondo a qualche fossato o nel folto di qualche boschetto, dove il soldato non riuscì a trovarmi. Dovetti riprendermi in tempo per trovare riparo dalle intemperie, e naturalmente dovetti trovare da mangiare, e forse anche accendere il fuoco, durante le settimane di burrasca che seguirono, ma di tutto questo io non ricordo niente. Tutto quello che posso ricordare adesso è una serie di immagini, una specie di sogno luminoso e silenzioso nel quale io mi muovevo come uno spirito, privo di peso e di corpo, sostenuto dall'aria come un corpo pesante è sostenuto dall'acqua. Le immagini, per quanto vivide, sono ridotte in una lontananza priva di emozione, come se guardassi un mondo che quasi non mi riguarda. In questo modo, immagino a volte, i morti senza corpo devono osservare il mondo che hanno lasciato. In questo modo vagabondai nel cuore della foresta autunnale, inosservato come uno spettro della nebbia. Sforzandomi a riandare indietro con il ricordo, le immagini mi si presentano. Profonde navate di faggi, piene di faggiole, dove i cinghiali frugavano tra le radici, i tassi scavavano in cerca di cibo e i cervi maschi si scontravano e lottavano, emettendo possenti bramiti, senza mai rivolgermi uno sguardo. C'erano anche i lupi; la strada che attraversa quei boschi di montagna è nota come la Via dei lupi, ma benché io fossi una facile preda mi lasciarono in pace, perché avevano avuto una buona estate. Poi, con il primo vero brivido dell'inverno, giunse il candido luccichio delle mattine di gelo, quando le canne emergevano rigide e nere dal ghiaccio coagulato, e la foresta fu abbandonata, il tasso nella sua tana e il cervo nel fondovalle, partite le oche selvatiche e vuoto il cielo. Poi venne la neve. Una breve visione, questa, dell'aria silenziosa, turbi-
nante, calda dopo il gelo; della foresta che svanisce nella nebbia, indistinta, apparendo qua e là nel turbinio dei fiocchi bianchi e grigi, e poi un freddo accecante, silenzioso... Una grotta, con profumi di grotta, e un fuoco di torba, e il sapore di un tonico, e voci roche e sgraziate che parlavano la lingua aspra degli Antichi, appena troppo sommesse perché io potessi udirle. Il fetore di pelli di lupo mal conciate, il caldo e il prurito di coperte infestate da pidocchi e, una volta, l'incubo di braccia e gambe legate, con un peso che mi teneva a terra... Qui c'è un lungo intervallo buio, ma dopo arriva il sole, il verde tenero, il primo canto di uccelli e la visione, nitida come la prima apparizione della primavera a un bambino, di un sponda coperta di celidonie, lucide come oro levigato. E la vita che si muove di nuovo nella foresta; volpi scarne che escono a passo felpato, la terra che si solleva sulle tane dei tassi, i cervi maschi che trottano lì accanto inermi e mansueti, e di nuovo il cinghiale, fuori in cerca di cibo. Poi il sogno assurdo e confuso di un cinghialetto ancora con le strisce e il lungo pelo morbido della nascita, che avanzava zoppicando su una zampa fratturata, abbandonato da quelli della sua specie. Poi, d'improvviso, in un'alba grigia, un rumore di cavalli al galoppo riempì la foresta, e lo sbattere di spade e il turbinio di asce scintillanti, le grida e gli urli delle bestie ferite e degli uomini e, come un sogno lampeggiante e intermittente di violenza, una bufera lunga tutto un giorno di combattimenti che si concluse con una quiete risonante di gemiti, odore di sangue e di felci schiacciate. Infine ci fu il silenzio, il profumo dei meli e la sensazione di dolore, da incubo, che ti assale quando ti svegli e ricordi la perdita che nel sonno avevi dimenticato. Sette «Merlino!» mi diceva Artù all'orecchio. «Merlino!» Aprii gli occhi. Ero a letto in una stanza che doveva trovarsi in alto. Il sole luminoso del primo mattino vi entrava a fiotti, cadendo sulle pareti di pietra intonacate e ricurve, a un certo punto, tanto da far pensare a una torre. All'altezza del davanzale riuscii a vedere di sfuggita punte di alberi che si agitavano sullo sfondo di una nuvola. L'aria turbinava, ed era fredda, ma nella stanza c'era un braciere acceso e io ero comodo e caldo nelle co-
perte e nella buona biancheria di lino profumata di legno di cedro. Nella carbonella del braciere era stata gettata qualche erba aromatica e il fumo leggero aveva un odore puro, di resina. Non c'erano arazzi alle pareti, ma sul pavimento erano stese folte pelli di pecora grigio ardesia, e una semplice croce di legno di ulivo era appesa sulla parete di fronte al letto. Una casa cristiana e, a giudicare dalle suppellettili, ricca. Accanto al letto, su una mensola di legno dorato, erano posati una brocca e un calice di ceramica di Samo, e una coppa di argento battuto. Accanto c'era uno sgabello con le zampe incrociate, sul quale doveva essersi seduto un servo per sorvegliarmi: adesso era in piedi, appoggiato al muro, gli occhi fissi non su di me ma sul re. Artù emise un lungo respiro, un po' di colore gli tornò sulle guance. Aveva un aspetto che non gli avevo mai visto. Gli occhi erano cerchiati per la stanchezza e sotto gli zigomi le guance erano incavate. Quanto fino allora gli era rimasto della gioventù, adesso era scomparso; quello era un uomo che conduceva una vita dura, sostenuto da una volontà che quotidianamente spingeva lui e quelli che lo seguivano all'estremo limite delle loro forze e oltre. Era inginocchiato accanto al letto. Mentre spostavo gli occhi per guardarlo, la sua mano mi calò sul polso con una rapida stretta. Gli sentii i calli sul palmo. «Merlino? Mi riconosci? Puoi parlare?» Tentai di formulare una parola, ma senza riuscirci. Avevo le labbra secche e screpolate. La mia mente era abbastanza limpida, ma il corpo non mi ubbidiva. Il braccio del re mi circondò, sollevandomi, e a un suo cenno il servo si fece avanti e riempì il calice. Artù lo prese dalle sue mani e me lo accostò alla bocca. Conteneva un tonico dolce e forte. Artù prese ancora un tovagliolo dalle mani dell'uomo, mi asciugò le labbra e mi riappoggiò sui cuscini. Gli sorrisi. Dovette essere appena più di un lieve movimento dei muscoli. Tentai di dire il suo nome, «Emrys». Non udii nessun suono. Immagino che produssi un respiro, non di più. La sua mano si abbassò di nuovo sulla mia. «Non cercare di parlare. Ho fatto male a costringerti. Sei vivo, è l'unica cosa che importi. Riposati adesso.» Il mio sguardo, spostandosi per la camera, cadde su qualcosa che era dietro di lui: la mia arpa posata su una sedia accanto alla parete. Dissi, sempre senza l'ombra di un suono: «Hai trovato la mia arpa», e sollievo e
gioia m'inondarono, come se, in un certo senso, adesso tutto dovesse andare bene. Lui seguì il mio sguardo. «Sì, l'abbiamo trovata. È intatta. Riposati adesso, mio caro. Va tutto bene. Davvero, va tutto bene...» Daccapo tentai di formulare il suo nome e, non riuscendoci, scivolai di nuovo nell'oscurità. Confusamente, come movimenti nell'Aldilà del sogno, ricordo ordini rapidi, pronunciati sommessamente, i servi che si affrettavano, passi attutiti di pantofole e il fruscio di vesti femminili, mani fresche, bisbigli. Poi la consolazione dell'oblio. *
*
*
Quando mi ridestai, avevo ripreso completamente conoscenza, come dopo un lungo sonno ristoratore. Avevo la mente limpida e il corpo molto debole, ma mio. Capii, con piacere, di aver fame. Tanto per provare mossi la testa e poi le mani. Erano rigide e pesanti, ma mi appartenevano. Dovunque avessi vagato, ero tornato al mio corpo. Avevo lasciato il mondo del sogno. Capii, dalla luce cambiata, che era sera. Un servo, un altro, aspettava accanto alla porta. Ma una cosa era uguale: Artù era ancora lì. Aveva tirato avanti lo sgabello ed era seduto accanto al letto. Voltò la testa, vide che lo guardavo e la sua espressione cambiò. Fece un movimento rapido in avanti, e di nuovo la sua mano calò sulla mia, un tocco delicato come quello di un medico, per sentirmi il polso. «Per Dio» disse «ci hai spaventato! Che è successo? No, no, dimenticati tutto. Più tardi ci dirai quello che ricordi... Adesso è sufficiente sapere che sei salvo, e vivo. L'aspetto è migliore. Come ti senti?» «Sognavo.» La mia voce non era la mia voce: pareva venire da chissà dove, da un punto lontano dell'aria, quasi al di fuori del mio controllo. Era fievole come quella del cinghialetto mentre gli aggiustavo la zampa rotta. «Sono stato malato, credo.» «Malato?» Proruppe in una risata secca del tutto priva di allegria. «Sei stato completamente pazzo, mio caro profeta del re. Ho creduto che tu fossi del tutto uscito di senno, e che non ti avremmo mai più riavuto con noi.» «Dev'essere stato un genere di febbre. Quasi non ricordo...» Aggrottai le sopracciglia, riandando indietro con la mente. «Sì. Ero in viaggio verso Galava con due degli uomini di Urbgen. Ci siamo accampati vicino alla Via dei lupi e... Ma dove mi trovo adesso?»
«Proprio a Galava. Questo è il castello di Ector. Sei a casa.» Casa, lo era stata per Artù più che per me; per motivi di segretezza, personalmente non ero mai vissuto nel castello, trascorrendo gli anni di clandestinità nella foresta, alla Cappella nel Verde. Ma girando la testa percepii i profumi familiari della foresta di pini, dell'acqua del lago e la fragranza della fertile terra coltivata del giardino di Drusilla sotto la torre, e me ne sentii rassicurato, come può rassicurare la vista di una luce nota attraverso la nebbia. «La battaglia che vidi» dissi. «Era vera o l'ho immaginata?» «Ah, quella era piuttosto vera. Ma non sforzarti ancora a parlarne. Te lo garantisco, va tutto bene. Adesso dovresti riposarti ancora. Come ti senti?» «Ho fame.» Questo, naturalmente, mise in moto un altro tramestio. Dei servi portarono brodo, pane, e ancora dei tonici, e la contessa Drusilla in persona mi aiutò a mangiare, poi mi sistemò per un sonno gradito e senza sogni. *
*
*
Era di nuovo mattino, con la luce chiara e nitida alla quale mi ero svegliato la prima volta. Mi sentivo ancora debole, ma padrone di me. Pare che il re avesse dato ordini di essere chiamato appena mi fossi svegliato, ma io non lo permisi finché non avessi fatto il bagno, non mi fossi rasato e non avessi mangiato. Quando finalmente arrivò aveva un'aria molto diversa. La tensione si era allentata nel suo sguardo e sotto l'abbronzatura gli era tornato un po' di colore sul viso. Era anche tornato qualcosa di quella sua qualità particolare: quella forza giovane cui gli uomini potevano attingere, come a una sorgente, ed esserne essi stessi rafforzati. Dovetti rassicurarlo sulla mia guarigione prima che mi lasciasse parlare, ma alla fine si dispose a darmi le notizie. «L'ultima cosa che avevo saputo» dissi «era che eri andato nell'Elmet... ma questa è roba vecchia ormai, a quanto pare. Immagino che la tregua sia stata rotta, vero? Che cosa fu quella battaglia che ho visto? Deve essersi svolta da queste parti, nella Foresta di Caledonia? Chi vi ha preso parte?» Mi sbirciò, in modo strano, mi parve, ma rispose abbastanza prontamente. «Urbgen mi ha chiamato in aiuto. Il nemico aveva fatto irruzione nello Strathclyde e Caw non riusciva a resistere. Sarebbero riusciti a passare attraverso la Foresta fino alla Via dei lupi. Io sono venuto su con loro, li ho
dispersi e li ho respinti. I superstiti sono scappati verso sud. Avrei dovuto inseguirli subito, ma a quel punto ti trovarono e sono dovuto rimanere... Come potevo ripartire, prima di sapere che eri a casa, e che ti accudivano?» «Allora ho assistito davvero al combattimento? Mi domandavo se non facesse parte del sogno.» «Devi aver visto tutto. Abbiamo combattuto attraverso la foresta, lungo il fiume che l'attraversa. Lo sai com'è, un buon campo aperto con boschi radi, betulle e ontani, il posto ideale per un attacco di sorpresa con rapidi manipoli di cavalleria. Avevamo la montagna alle spalle e li abbiamo raggiunti quando erano arrivati al guado. Il fiume era in piena; facile per i soldati a cavallo, ma una trappola per quelli appiedati... Poi, quando siamo tornati indietro dopo il primo inseguimento, alcuni sono venuti di corsa a dirmi che c'eri tu. Ti avevano trovato che vagavi tra i morti e i feriti e davi istruzioni ai dottori... Dapprima nessuno ti ha riconosciuto, ma poi sono cominciate a correre delle voci secondo cui c'era lo spettro di Merlino.» Un mezzo sorriso forzato. «Suppongo che i consigli dello spettro fossero buoni, per lo più. Ma naturalmente quelle voci hanno provocato il panico, e qualche sciocco ha cominciato a lanciare pietre per cacciarti. È stato uno dei barellieri, un uomo di nome Paolo, a riconoscerti e a far finire le storie dello spettro. Ti ha seguito fino dove vivevi, e poi mi ha mandato a chiamare.» «Paolo. Sì, naturale. Un brav'uomo. Ho lavorato spesso con lui. E dove vivevo?» «In una piccola torre in rovina, con intorno un frutteto inselvatichito. Non ricordi?» «No. Ma qualcosa sta cominciando a ritornare. Una piccola torre, sì, in rovina, piena di edera e gufi. Anche di meli?» «Sì. Era poco più di un mucchio di pietre, con felci come giaciglio, e mucchi di mele che marcivano, e una riserva di noci, e stracci appesi per farli asciugare ai rami del melo.» Tacque un momento per schiarirsi la voce. «In un primo momento hanno creduto che tu fossi uno di quegli eremiti un po' fuori di senno e per la verità, anch'io, la prima volta che ti ho visto...» Fece un sorriso un po' contratto. «Interpretavi quella parte meglio di quanto avessi mai fatto alla Cappella nel Verde.» «Lo immagino.» Davvero potevo immaginarlo. La barba, prima che mi radessero, era diventata lunga e grigia, e le mie mani, abbandonate sulle coperte dai colori brillanti, apparivano magre e vecchie, ossa tenute insie-
me da una rete di vene nodose. «Così ti abbiamo portato qui. Sono dovuto tornare al sud subito dopo. Li abbiamo raggiunti a Caer Guinnion e lì abbiamo avuto uno scontro sanguinoso. Tutto è andato bene, ma poi è arrivato un messaggero da Galava, con le ultime notizie su di te. Quando ti avevamo trovato, e portato qui, eri abbastanza saldo sulle gambe, ma fuori di testa; non riconoscevi nessuno e parlavi di cose assolutamente senza senso; ma una volta qui, e affidato alle cure delle donne, sei ricaduto nel sonno e nel silenzio. Bene, il messaggero è venuto dopo la battaglia a dirmi che non ti eri mai svegliato. Pare che ti sia venuta la febbre alta, e che allora tu parlassi ancora in quel modo folle, poi finalmente sei rimasto così a lungo privo di sensi che ti hanno creduto morto e mi hanno mandato il messaggero. Io sono venuto più presto che ho potuto.» Guardandolo socchiusi gli occhi. La luce che entrava dalla finestra era forte. Lui se ne accorse e fece un cenno allo schiavo, che tirò la tenda. «Fammi capire bene questo. Dopo avermi trovato nella foresta che portava a Galava, sei andato a sud. E c'è stata un'altra battaglia? Artù, da quanto tempo sono qui?» «Sono passate tre settimane da quando ti abbiamo trovato. Ma sono sette mesi buoni che ti sei allontanato nella foresta e ti sei perso. Sei scomparso per tutto l'inverno. Non c'è da meravigliarsi che ti credessimo morto.» «Sette mesi?» Spesso, nella mia qualità di medico, ho dovuto dare una notizia del genere a pazienti che avevano avuto una lunga febbre, o erano rimasti in coma, e ogni volta vedo lo stesso genere di incredulità, di shock e di confusione. Adesso questo lo provavo io. Sapere che mezzo anno era scivolato fuori dal tempo, e quale mezzo anno... Che cosa poteva essere successo in quei mesi a un paese dilaniato e pronto alla guerra come il mio? E al suo re? Altre cose, fino allora dimenticate nelle caligini della malattia, cominciarono a tornarmi. Guardandolo, vidi di nuovo, con paura, le sue guance incavate e sotto gli occhi il segno delle notti insonni. Artù, che mangiava come un giovane lupo e dormiva come un bambino; che era una creatura di gaiezza e di forza. Non c'erano state sconfitte sul campo; lì la sua gloria non aveva subito neppure l'ombra di una macchia. E neppure l'ansia per me poteva averlo ridotto così. Restava la sua famiglia. «Emrys, che è successo?» Ancora una volta, in quel luogo, il nome della sua infanzia mi venne spontaneo. Vidi il suo volto contrarsi, come se il ricordo fosse una soffe-
renza. Chinò la testa, fissando le coperte. «Mia madre, la regina. È morta.» Il ricordo si agitò in me. La donna che giaceva nel grande letto rivestito di ricchi tendaggi? Lo avevo saputo, allora. «Mi dispiace» dissi. «Lo appresi subito prima della battaglia di Caer Guinnion. Fu Lucano a portarmi la notizia, insieme al pegno che tu avevi affidato a lui. Lo ricordi, un fermaglio con il simbolo cristiano? La sua morte non è stata una sorpresa. Ce l'aspettavamo. Ma credo che il dolore contribuì ad affrettarla.» «Il dolore? Perché, c'è stato...» M'interruppi di colpo. Adesso mi era tornata alla mente nitidamente, la notte nella foresta, e la fiasca di vino che avevo sturato per berla con i due soldati. E perché l'avevo fatto. La visione si agitò di nuovo davanti ai miei occhi, la camera inondata dal chiarore della luna, i tendaggi mossi dal vento e la donna morta. Qualche cosa mi strinse la gola. Dissi, a fatica: «Ginevra?». Lui annuì, senza alzare lo sguardo. Chiesi, pur conoscendo la risposta: «E il bambino?». Artù alzò gli occhi, vivacemente: «Lo sapevi? Sì, certo che lo sapevi... Non arrivò a termine. Dissero che era incinta ma, poco prima di Natale, cominciò a perdere sangue e poi, a Capodanno, morì con grandi sofferenze. Se ci fossi stato tu...». S'interruppe, deglutì e rimase in silenzio. «Mi dispiace» ripetei. Lui proseguì, con una voce così dura che parve in collera: «Ti credevamo morto, anche. Poi, dopo la battaglia, tu eri lì, sporco, invecchiato e pazzo, ma i medici di campo dissero che avresti potuto guarire. Questo, almeno, sono riuscito a salvare dai disastri dell'inverno... Poi ho dovuto lasciarti per andare a Caer Guinnion. Ho vinto la battaglia, sì, però ho perso alcuni uomini valorosi. Poi, immediatamente dopo l'azione, è arrivato il messaggero di Ettore a dirmi che tu eri morto. Quando sono arrivato qui, ieri all'alba, mi aspettavo di trovare il tuo corpo già cremato o seppellito». Tacque, abbassò con forza la fronte contro il pugno chiuso e rimase in quella posizione. Il servo, fermo impalato accanto alla finestra, incontrò il mio sguardo e se ne andò. Dopo un momento Artù alzò la testa e parlò con voce normale. «Perdonami. Per tutto il tempo, mentre cavalcavo verso il nord, ho continuato a ricordare quello che tu dicevi sul fatto di morire in modo disonorevole. Era duro da sopportare.» «Ma io sono qui, puro e integro, con la mente limpida, e pronta a diventare ancora più limpida quando mi avrai detto tutto quello che è successo
in questi ultimi sei mesi. Adesso, sii gentile, versami un po' di vino e ricomincia, te ne prego, dal tuo viaggio nell'Elmet.» Mi ubbidì, e dopo un po' la conversazione si fece più facile. Artù parlò del suo viaggio a Olicana, passando dal Varco, di ciò che vi aveva trovato e del suo incontro con il re dell'Elmet. Poi del suo ritorno a Caerleon, dell'aborto e della morte della regina. Questa volta, quando gli feci delle domande, fu in grado di rispondermi sicché alla fine potetti dargli la gelida consolazione che la mia presenza a corte accanto alla giovane regina non sarebbe stata di alcuna utilità. I suoi medici erano esperti nei medicamenti e le avevano risparmiato le sofferenze peggiori: io non avrei potuto fare di più. Il bambino era stato mal concepito; niente avrebbe potuto salvare lui o la madre. Quando ebbe ascoltato quello che avevo da dirgli, lo accettò e cambiò lui stesso discorso. Era impaziente di sapere che cosa era accaduto a me e non sopportava il fatto che io potessi ricordare ben poco dopo il banchetto nuziale a Luguvallium. «Non ti ricordi proprio di come arrivasti alla piccola torre dove ti abbiamo trovato?» «Qualche cosa. Mi sta tornando alla mente un frammento dopo l'altro. Devo essere andato errando per la foresta tenendomi in vita in qualche modo fino all'inverno. Poi mi sembra che qualche rozzo montanaro abitante della foresta deve avermi ospitato e essersi preoccupato di me. Altrimenti, dubito che avrei potuto sopravvivere dopo la caduta della neve. Pensavo che potessero essere uomini appartenenti alla gente di Mab, gli Antichi delle montagne, ma se così fosse stato ti avrebbero di sicuro fatto avvertire.» «L'hanno fatto. Il messaggio arrivò, ma solo dopo che eri di nuovo scomparso. Come sempre, gli Antichi rimasero tutto l'inverno bloccati dalla neve nelle loro grotte, e tu con loro. Quando la neve si sciolse, andarono a caccia e rientrati nelle loro grotte scoprirono che te n'eri andato. Da loro ho saputo per la prima volta della tua pazzia. Avevano dovuto legarti, dissero, ma in seguito, a volte, tu eri tranquillo e molto debole, e così eri appunto quella volta che ti lasciarono. Quando rientrarono, te n'eri andato.» «Ricordo di esser stato legato. Sì. Allora, dopo, devo essere sceso verso la valle, andando a finire nelle rovine vicino al guado. Immagino che, nella mia pazzia, stessi ancora dirigendomi verso Galava. Era primavera; qualcosa ne ricordo. Poi la battaglia deve avermi sorpreso, e tu mi trovasti lì
nella Foresta. Di questo non ricordo niente.» Lui mi raccontò di nuovo come ero stato trovato, magro, sporco e sulle labbra parole insensate, nascosto nella piccola torre in rovina, con una specie di provvista da scoiattolo di ghiande e faggiole, e accanto un mucchio di mele bacate buttate giù dal vento e per tutta compagnia un cinghialetto con la zampa steccata. «Allora questo sogno era vero!» dissi sorridendo. «Ricordo di aver trovato la bestiola, e di averle curato la zampa, ma non molto di più. Se ero davvero malridotto come dici, è stato gentile da parte mia non mangiare Mastro Cinghialetto. Che ne è stato?» «È nei porcili di Ector.» Il primo barlume di ironia gli sfiorò le labbra. «È destinato, credo, a una vita lunga e disonorevole. Non c'è uno solo dei ragazzi che oserebbe allungare una mano sul cinghiale personale del mago, che ha tutta l'aria di voler diventare, crescendo, un buon cinghiale da combattimento, per cui finirà col diventar il re del porcile, com'è giusto. Merlino, mi hai raccontato tutto ciò che puoi ricordare di quanto accadde dopo che vi accampaste sulla Via dei lupi: che cosa ricordi su quanto avvenne prima? Che cosa ti fece male? Gli uomini di Urbgen hanno detto che successe all'improvviso. Pensarono che si trattasse di veleno, e anch'io l'ho pensato. Mi chiedevo se la strega ti avesse fatto seguire, dopo il banchetto nuziale, e se uno dei suoi non ti avesse trascinato fuori dal letto quella notte, mentre il soldato ti voltava le spalle. Ma se ciò fosse accaduto, di certo ti avrebbero ucciso. Né si poteva sospettare slealtà da parte di quei due uomini; erano uomini di Urbgen, scelti appositamente.» «Assolutamente nessuna slealtà. Erano brava gente, e devo loro la vita.» «Mi hanno detto che tu bevesti del vino quella sera, prendendolo dalla tua fiasca. Loro non ne presero. Dicono anche che eri ubriaco al banchetto nuziale. Ubriaco tu? Io non ti ho mai visto ubriaco. Ed eri seduto accanto a Morgause. Hai motivo di ritenere che abbia aggiunto qualche sostanza al tuo vino?» Aprii la bocca per rispondergli e oggi ancora giuro che la parola già pronta sulle mie labbra era «Sì». Quella, per quanto io ne sapevo, era la verità. Ma un dio deve avermi prevenuto. Invece del «Sì» che la mia mente aveva formulato, le mie labbra dissero: «No». Dovevo aver parlato in modo strano, perché lo vidi fissarmi, bloccato, gli occhi socchiusi. Era uno sguardo imbarazzante e mi sorpresi ad approfondire il discorso. «Come faccio a dirlo? Ma non credo. Ti ho detto che non ho più potere, adesso, ma la strega questo non lo sapeva. Lei ha ancora
paura di me. Aveva tentato prima, non una sola volta ma due, di intrappolarmi con i suoi incantesimi di donna. Tutt'e due le volte ha fallito, e non credo che avrebbe osato riprovarci.» Lui rimase per un po' in silenzio. Poi disse, brusco: «Quando la mia regina è morta si è parlato di veleno. E ci ho pensato pure io». Qui fui in grado di protestare, sinceramente: «Se ne parla sempre, ma ti prego di non prendere in considerazione queste dicerie! Da quanto mi hai detto, sono sicuro che non avvenne niente del genere. E poi, come avrebbe potuto?». E aggiunsi, nel modo più convincente che mi fu possibile: «Credimi, Artù. Se fosse colpevole, riesci a vedere qualsiasi motivo per cui dovrei desiderare di proteggerla da te?». Lui pareva ancora dubbioso, ma non insistette. «Bene» fu tutto quel che disse. «Si troverà le ali tagliate adesso, per un po'. È tornata nelle Orcadi e Lot è morto». Accolsi la notizia in silenzio. Era un altro colpo. In quei pochi mesi, quante cose erano cambiate. «Come?» chiesi. «E quando?» «Nella battaglia della Foresta. Non posso dire di piangerlo, se non per il fatto che dominava quella carogna di Aguisel, e credo che da quella parte avrò ben presto dei guai.» Dissi lentamente: «Mi sono ricordato di un'altra cosa. Durante la battaglia nella Foresta, li ho sentiti gridarsi tra loro che il re era morto. Ne provai un dolore impotente. Per me, esiste un solo re... Ma dovevano parlare di Lot. Be', sì, almeno Lot era un male noto. Adesso, immagino che Urien farà completamente a modo suo nel nordest, e Aguisel con lui... Ma per questo c'è tempo. Intanto, che ne è di Morgause? A Luguvallium era incinta e ormai dovrebbe aver partorito. Un maschio?». «Due. Due gemelli maschi, nati a Dunpeldyr. Era tornata lì, da Lot, dopo il matrimonio di Morgana. Strega o non strega» osservò con una sfumatura di amarezza «è una buona fattrice di figli maschi. Quando ci raggiunse qui nel Rheged, Lot si vantava di avergliene lasciato ancora un altro prima di partire da Dunpeldyr.» Abbassò lo sguardo sulle mani. «Tu devi aver parlato un po' con lei alle nozze. Hai scoperto qualche cosa a proposito dell'altro bambino?» Non c'era bisogno di chiedere a quale bambino si riferisse. Pareva che non potesse risolversi a dire «mio figlio». «Solo che è vivo.» I suoi occhi cercarono rapidi i miei. In loro passò un guizzo, subito soppresso. Ma ero sicuro che era stato di gioia. Così poco tempo prima, aveva
cercato il bambino solo per ucciderlo. Dominando la voce per nascondere la pietà che provavo, dissi: «Lei mi ha detto che non sa dove sia. Forse mente, non ne sono sicuro. Dev'essere vero che lo ha tenuto nascosto, lontano da Lot. Ma può darsi che adesso lo porti allo scoperto. Che cos'avrebbe da temere, adesso che Lot se n'è andato? Salvo, forse, che da te?» Lui si stava di nuovo guardando le mani. «Non deve temere me, adesso, per quel motivo» disse, la voce inespressiva. Questo è tutto ciò che riesco a ricordare di quel colloquio. Udii qualcuno dire, ma le parole giravano attorno alle pareti curve della torre come un'eco bisbigliata, o come parole che risuonassero solo nella mia testa: «È la donna più falsa che esista, ma deve vivere per allevare i quattro figli maschi che ha avuto dal re delle Orcadi, perché saranno tuoi fedeli servitori, e i più valorosi dei tuoi compagni». Dovetti chiudere gli occhi, allora, come reagendo all'ondata di sfinimento che mi si rovesciò addosso, perché quando li riaprii era buio, Artù se n'era andato e il servo era inginocchiato accanto al letto e mi offriva una ciotola di brodo. Otto Sono un uomo forte e mi riprendo rapidamente. Fui di nuovo in piedi poco dopo quel colloquio e due o tre settimane dopo mi parve di essere in grado di intraprendere il viaggio verso sud, sulle orme di Artù. Questi era partito la mattina successiva al nostro colloquio, diretto a Caerleon. In seguito un messaggero aveva portato la notizia che nell'estuario del Severn erano state avvistate le navi lunghe degli invasori, perciò pareva che ben presto il re avrebbe dovuto affrontare un'altra battaglia. Mi sarebbe piaciuto rimanere ancora un po' a Galava, magari passare l'estate in quella regione familiare, e tornare sui luoghi che un tempo avevo frequentato nella foresta. Ma dopo l'arrivo del messaggero, malgrado i tentativi di Ector e Drusilla per trattenermi, mi parve più che ora di partire. La battaglia ormai imminente si sarebbe combattuta da Caerleon: era possibile invero (diceva il dispaccio) che gli invasori tentassero in forze di distruggere la principale fortezza e centro di approvvigionamenti del comandante in capo. Io non avevo dubbi che Artù sarebbe riuscito a tenere Caerleon, ma era ora per me di tornare a Caer Carnei per vedere che cosa aveva fatto Derwen durante la mia assenza.
Era estate piena quando rividi il luogo, e gli uomini di Derwen avevano fatto meraviglie. Eccola lì, sul suo monte scosceso culminante con un pianoro, la visione diventata realtà. Le opere esterne erano completate, il grande muro doppio di pietra intonacata rifinito in alto dalla sopraelevazione di legno, che girava su tutto il margine del pendio, incoronando tutto il crinale del monte. Le grandi porte che lo perforavano ai due angoli opposti erano ultimate, e imponenti. I due massicci battenti di quercia, coperti di borchie di ferro, erano aperti, tirati contro le pareti delle gallerie che attraversavano lo spesso bastione. Sopra di essi passava il camminamento protetto dalle merlature. Lassù c'erano inoltre le sentinelle. Fin dall'inverno, mi disse Derwen, il re aveva fatto fortificare il luogo in modo che i lavori di rifinitura potessero svolgersi all'interno di mura ben difese. E sarebbero stati terminati molto presto. Artù aveva fatto sapere che, per luglio o agosto, lui voleva trovarsi lì con i suoi compagni cavalieri e tutta la cavalleria. Derwen era incline ad accelerare il lavoro per gli edifici del quartier generale, e per gli appartamenti personali del re, ma io conoscevo meglio di lui le idee di Artù. Avevo dato istruzioni affinché gli acquartieramenti degli uomini e le scuderie, i settori delle cucine e dei servizi fossero completati per primi, e così era stato fatto. Anche gli edifici centrali erano bene avviati: il re certamente avrebbe dovuto alloggiare in ripari provvisori di pelli e travi di legno, come se si trovasse ancora sul campo, ma la sua grande sala era ultimata e coperta da un tetto, e i carpentieri si stavano dando da fare a costruire le lunghe tavole e le panche che l'avrebbero arredata. L'aiuto non era neppure mancato da parte della popolazione locale. Gli abitanti dei dintorni, riconoscenti vedendo erigere una roccaforte accanto ai loro villaggi, erano venuti ogni volta che era stato loro possibile, prestandosi per andare a prendere e portare materiali, o mettendo a disposizione dei nostri operai le loro capacità. Insieme a loro venivano molti che erano disposti a lavorare, ma troppo vecchi o troppo giovani per poterlo fare. Derwen li avrebbe rimandati tutti a casa ma io li misi a ripulire i fossati invasi dalle ortiche di un punto non lontano dal quartier generale dove un tempo doveva esserci stato un santuario. Non sapevo, e non lo sapevano neppure loro, a quale dio fosse stato consacrato; però io so che i soldati e tutti quelli che combattono hanno bisogno di un punto di riferimento, con una luce e un'offerta, capace di indurre il loro dio a scendere in mezzo a loro per un momento di comunione, quando in cambio della speranza e
della fede si può ricevere forza. Analogamente, misi le donne a sgombrare il terreno della sorgente, sul terrapieno nord, che era rimasto chiuso entro i lavori esterni di fortificazione. Lo fecero con entusiasmo perché era noto che, in tempi immemorabili, la sorgente era stata dedicata proprio alla dea. Ormai da molti anni era trascurata, sprofondata in un intrico di rovi che impediva loro di fare le offerte e di innalzare quel genere di preghiere che sono le preghiere delle donne. Adesso i boscaioli avevano aperto dei varchi nella boscaglia, perciò permisi alle donne di farsi il loro santuario. Lavorando, cantavano: avevano temuto, credo, che il loro luogo sacro sarebbe rimasto chiuso in una zona riservata agli uomini. Io dissi loro che non sarebbe andata così: una volta sgominata la forza sassone, il Sommo re progettava che uomini e donne andassero e venissero in pace, e Caer Carnei sarebbe stata una bella città eretta su un'altura, anziché un campo di combattenti. Finalmente, nella parte più bassa del campo, sgomberammo il terreno per la popolazione e il bestiame, un terreno sul quale avrebbero potuto trovare rifugio e vivere, in caso di necessità, finché il pericolo fosse passato. Poi arrivò Artù. Durante la notte il Tor improvvisamente divampò, e al di là della fiamma si poteva distinguere il punto lucente che era la collina successiva con il fuoco di segnalazione, di dietro. Nella luce del primo mattino egli giunse, cavalcando sulla sponda del lago, alla testa dei suoi cavalieri. Il bianco era ancora il suo colore; cavalcava il suo bianco destriero; bianco era il suo stendardo e anche il suo scudo, troppo orgoglioso per recare anche un emblema come gli altri. Spiccava nel paesaggio caliginoso come un cigno sulle distese perlacee del lago. Poi il corteo di cavalieri fu nascosto alla vista dagli alberi fitti alla base del monte, e poco dopo si udì il rumore forte e costante degli zoccoli che risalivano la nuova strada a tornanti che conduceva alla Porta del re. I due battenti rimasero aperti per riceverlo. All'interno, la strada di recente lastricata era fiancheggiata da tutti quelli che avevano costruito per lui la cittadella. Così per la prima volta Artù, duce di battaglie, Sommo re tra gli altri re di Britannia, entrò nella roccaforte che sarebbe diventata la sua bella città di Camelot. *
*
*
Naturalmente se ne compiacque, e quella notte ebbe luogo un banchetto
al quale fu invitato chiunque avesse dato una mano nel lavoro, uomo, donna o bambino che fosse. Lui e i suoi cavalieri, con Derwen, me e alcuni altri, eravamo nel salone, seduti alla lunga tavola, smerigliata così di recente che la polvere era ancora sospesa a mezz'aria e formava degli aloni intorno alle torce. Fu un'occasione gioiosa, senza formalità né solennità, come il banchetto su un campo di battaglia. Lui pronunciò una specie di discorso di benvenuto - del quale non ricordo adesso neppure una parola alzando la voce in modo che le persone che si accalcavano fuori delle porte potessero udirlo; poi, quando noi nel salone avemmo cominciato a mangiare, lasciò il suo posto a capotavola e, con una coscia di montone in una mano e un calice nell'altra, fece il giro della cittadella, sedendosi con questo o quel gruppo, attingendo da una brocca insieme ai muratori o lasciando che i carpentieri gli riempissero in continuazione il calice dal barile dell'idromele, e sempre guardando, facendo domande, lodando, con tutto il fascino di un tempo. Ben presto, man mano che svaniva in loro il timore reverenziale, cominciarono a rivolgergli una gragnuola di domande, fitte come palle di neve. Che cosa era successo a Caerleon? A Linnuis? Nel Rheged? Quando si sarebbe stabilito lì? C'era qualche probabilità che i sassoni si spingessero fin lì attraversando le colline calcaree del sud? Com'erano costituite le forze di Eosa? Era vero quanto si diceva, di questa e di altre cose? A tutte rispondeva con pazienza: gli uomini avrebbero affrontato le situazioni note, perché era la paura della sorpresa, della freccia scoccata nelle tenebre, a scoraggiare i più ardimentosi. Fu tutto nello stile che era stato quello di Artù, il giovane re come io lo conoscevo. Anche il suo aspetto si accordava con quello stile. Stanchezza e disperazione scomparsi; il dolore messo da parte, quello era ancora una volta il re che attirava su di sé gli sguardi di tutti gli uomini, i quali sentivano che avrebbero potuto sempre attingere alla sua forza, senza mai indebolirlo. Il mattino dopo, non ci sarebbe stato nessuno lì che non fosse disposto a morire con gioia al suo servizio. Che egli lo sapesse e che fosse pienamente consapevole dell'effetto che produceva, non toglieva niente alla sua grandezza. Come al solito, scambiammo qualche parola prima di andare a dormire. Lui era alloggiato con semplicità, ma meglio che in una tenda da campo. Un tetto di pelli era stato steso sui travi della sua camera da letto non ancora completata e per terra erano dei tappeti. Il suo letto da campo era accostato a una parete, con il tavolo e la lampada che gli servivano per lavorare; inoltre c'erano un paio di sedie, la cassa delle vesti e il tavolino con la
ciotola d'argento e la brocca dell'acqua. Non avevamo più parlato a quattr'occhi dopo Galava. S'informò della mia salute e parlò del lavoro che avevo fatto a Caer Carnei, poi di quello che ancora rimaneva da fare. Ciò che era accaduto alla battaglia di Caerleon lo avevo già appreso, dai discorsi a tavola. Dissi qualche cosa a proposito del cambiamento sopraggiunto in lui. Mi guardò per un paio di momenti, poi parve prendere una decisione. «C'è una cosa che volevo dirti, Merlino. Non so se ne ho il diritto ma la dirò lo stesso. L'ultima volta che tu mi vedesti, a Galava, malato com'eri devi aver notato qualche cosa di ciò che provavo. In effetti, come avresti potuto non notarlo? Come al solito, io scarico tutti i miei guai su di te, incurante del fatto che tu sia o no in grado di sopportarli.» «Non lo ricordo. Parlammo, sì. Io ti chiesi che cos'era accaduto e tu me lo dicesti.» «Lo feci, infatti. Adesso ti chiedo di avere di nuovo pazienza con me. Questa volta, spero, non scaricherò niente su di te, ma...» Una breve pausa, per raccogliere le idee. Pareva stranamente esitante. Mi domandai che cosa stesse per venire. Lui proseguì: «Una volta mi dicesti che la vita è divisa in luce e tenebre, così come il tempo si divide in giorno e notte. È vero. Una disgrazia sembra portarne un'altra; e così è stato per me. Questo è stato un tempo di tenebre... le prime che mi abbiano colpito. Quando sono venuto da te ero quasi sfinito dalla stanchezza, affranto sotto il peso di quei lutti venuti uno dopo l'altro, come se tutt'a un tratto il mondo fosse diventato disgustoso e la mia fortuna si fosse spenta. La perdita di mia madre, di per sé, avrebbe potuto non costituire per me un grande dolore; tu conosci i sentimenti del mio cuore e per dirti la verità soffrirei di più per la morte di Drusilla, o quella di Ector. Ma la morte della mia regina, della piccola Ginevra... Avrebbe potuto essere un buon matrimonio, Merlino. Avremmo potuto, credo, arrivare ad amarci. Ciò che rese il dolore così insopportabile fu la perdita del bambino, e lo spreco della giovane vita di Ginevra nella sofferenza, e insieme a questo la paura che potesse esser stata assassinata, e dai miei nemici. Aggiungi - questo a te posso dirlo - la prospettiva faticosa di dover ricominciare daccapo a cercarmi un partito conveniente, e daccapo ripercorrere tutte le tappe rituali del matrimonio, quando ci sono tante altre cose da fare che mi aspettano.» Io dissi, in fretta: «Ma certo non crederai ancora che sia stata assassinata?». «No. Su questo tu mi hai tranquillizzato, come mi hai tranquillizzato a
proposito della tua malattia. Provavo la stessa paura per te, che la tua morte fosse stata colpa mia.» Tacque, poi aggiunse, reciso: «E questa era la cosa peggiore. Come un ultimo lutto, che sovrastava gli altri». Un gesto, un po' di imbarazzo, un po' di rassegnazione. «Tu mi hai detto, non una volta ma molte, che quando ti avessi cercato perché avevo bisogno di te, tu ci saresti stato. E fino ad allora era sempre stato così. Poi a un tratto, nei momenti più scuri, tu eri scomparso. Mentre c'era ancora tanto da fare. Caer Carnei appena incominciato, e altre battaglie in vista, e dopo, gli accordi, la promulgazione di nuove leggi e l'istituzione di un ordinamento civile... Ma tu eri scomparso... assassinato. Per colpa mia, pensai, così come era morta la mia piccola regina. Non riuscivo a pensare ad altro. Io non ho ucciso i neonati di Dunpeldyr ma, per Dio, avrei potuto uccidere la regina delle Orcadi, se fosse capitata sulla mia strada in quei mesi!» «Questo lo capisco. Credo di averlo saputo. Continua.» «Hai appreso, adesso, delle mie vittorie sul campo avvenute in quel periodo. Agli altri deve esser parso che ero all'apice del successo. Ma a me, soprattutto a causa della tua perdita, pareva di esser precipitato nell'abisso più profondo. E non era solo il dolore per la perdita di quello che c'è tra noi, la lunga amicizia, la protezione - vorrei dire l'amore - ma anche una ragione che non ho bisogno di ricordarti. Tu sai che mi sono abituato a rivolgermi a te per ogni cosa, salvo che in materia di tattica militare.,» Aspettai, ma lui non continuò. Dissi allora: «Bene, questa è la mia funzione. Nessuno, neppure un Sommo re, può fare tutto. Tu sei ancora giovane, Artù. Perfino mio padre Ambrogio, con tutti gli anni che aveva dietro di sé, chiedeva consiglio ad ogni occasione. Non c'è nessuna debolezza in questo. Perdonami, ma il pensarlo è tipico della gioventù». «Lo so. Io non lo penso. Non è questo che sto cercando di dire. Voglio raccontarti una cosa che mi è accaduta mentre tu eri malato. Dopo la battaglia nel Rheged ho preso degli ostaggi. I sassoni fuggirono in un folto bosco su un monte, proprio al di sopra della piccola torre dove ti trovammo subito dopo. Circondammo il monte e poi battemmo la zona da tutti i lati, uccidendoli, finché gli ultimi sopravvissuti si arresero. Credo che avrebbero potuto arrendersi anche prima, ma io non diedi loro nessuna possibilità. Alla fine quei pochi che erano rimasti deposero le armi e vennero fuori. Li prendemmo. Uno di loro era stato il comandante in seconda di Colgrim, Cynewulf. Lo avrei ucciso immediatamente, ma aveva abbandonato le armi. Lo lasciai andare perché mi promise di prendere le sue navi e di andarsene; e mi tenni degli ostaggi.»
«E allora? Fu una mossa saggia. Sappiamo però che non funzionò.» Parlai con voce inespressiva. Indovinavo quello che stava per arrivare: avevo già sentito raccontare l'episodio da altri. «Merlino, quando seppi che, invece di tornare in Germania, Cynewulf aveva piegato di nuovo verso le nostre coste, e che stava incendiando villaggi, feci uccidere gli ostaggi.» «Non fu cosa che dipendesse da te. Cynewulf lo sapeva. Era esattamente quello che avrebbe fatto lui.» «Lui è un barbaro, e uno straniero. Io no. Ammettiamo pure che Cynewulf lo sapesse. Può darsi abbia pensato che non avrei effettuato la minaccia. Alcuni di loro erano solo dei ragazzi. Il più giovane aveva tredici anni, meno di quanti ne avevo io la prima volta che scesi in battaglia. Furono portati davanti a me, e io diedi l'ordine.» «Con pieno diritto. Dimenticalo, adesso.» «Come? Erano coraggiosi. Ma io l'avevo minacciato e così feci. Hai parlato del cambiamento che si è verificato in me. Avevi ragione. Non sono più l'uomo che ero prima di quest'ultimo inverno. Quella non fu la prima cosa che ho fatto in guerra sapendo che era male.» Pensai ad Ambrogio a Doward, a me stesso a Tintagel. Dissi: «Tutti abbiamo fatto cose che ci piacerebbe dimenticare. Può darsi che anche questa guerra sia male». «Come potrebbe esserlo?» Il tono era impaziente. «Ma non te ne parlo adesso perché ho bisogno da te di consiglio o di conforto.» Aspettai, perplesso. Lui proseguì, scegliendo con cura le parole: «Fu la cosa peggiore che mi toccasse fare. La feci e me ne assumo la responsabilità. Ciò che devo dirti adesso è questo: se tu ci fossi stato, mi sarei rivolto a te come sempre, e ti avrei chiesto consiglio. E anche se tu hai detto che non hai più il dono della profezia, avrei ancora sperato - sarei stato sicuro - che tu vedessi ciò che conteneva il futuro, e mi guidassi sul sentiero che avrei dovuto seguire». «Ma questa volta il tuo profeta era morto, perciò scegliesti da solo il sentiero?» «Proprio così.» «Capisco. Questo mi stai proponendo come consolazione, che sia l'azione che la decisione possono venir tranquillamente lasciate a te, anche se io sono di nuovo qui? Sapendo come tutti e due sappiamo, che il tuo "profeta" è ancora morto?» «No.» Parlò rapido, con forza. «Non mi hai capito. Ti sto offrendo con-
solazione, sì, ma di un genere differente. Credi che non sappia che è stato un periodo buio anche per te, da quando la spada è stata alzata dalla pietra? Perdonami se mi immischio in cose che non capisco, ma riandando a quello che è accaduto, credo... Merlino, quello che sto cercando di dirti è questo, che credo che il tuo dio sia ancora con te.» Seguì il silenzio. Allora si sentì ondeggiare la fiamma nella lampada di bronzo e, lontanissimi, giunsero i rumori dell'accampamento, all'esterno. Ci guardammo, lui ancora nella prima virilità, io già anziano e, lo sapevo bene, gravemente indebolito dalla recente malattia. E, impercettibilmente, l'equilibrio tra noi stava cambiando, forse era già cambiato. Era lui che offriva a me forza e consolazione. Il tuo dio è ancora con te. Come poteva crederlo? Bastava solo che ricordasse l'assenza in me di qualsiasi cosa non fossero i più banali trucchi della magia, la mia impotenza contro Morgause, la mia incapacità di scoprire qualche cosa a proposito di Mordred. Ma Artù aveva parlato, non con l'appassionata convinzione della gioventù, ma con la calma certezza di un giudice. Rievocai il passato, abbandonando per la prima volta l'apatia che, dopo la mia malattia, aveva sostituito la tranquilla rassegnazione di prima. Cominciavo a capire quale direzione avessero seguito i suoi pensieri. Si sarebbe potuto dire che erano i pensieri di un generale capace di ricavare una vittoria da una ritirata studiata con cura. O di un condottiero, capace con una parola di dare o rifiutare fiducia. Il tuo dio è con te, aveva detto. Con me, forse, nella coppa avvelenata e nei mesi di sofferenza che mi avevano tenuto lontano dal fianco di Artù, e costretto lui al suo potere solitario? Con me (benché egli non lo sapesse) nel mormorio sottile che mi aveva indotto a negare l'avvelenamento, salvando così dalla sua vendetta Morgause, la madre di quei quattro maschi?... Con me nello smarrimento di Mordred, la cui sopravvivenza aveva acceso quel barlume di gioia negli occhi di Artù? Come sarebbe stato con me, anche, quando alla fine sarei entrato nella tomba vivente che paventavo, lasciando Artù solo nella terra di mezzo, con Mordred, il suo destino, ancora libero? Come il marinaio immobilizzato dalla bonaccia, sul punto di morire di fame, sente il primo alito di vento e di vita, così io sentii agitarsi la speranza. Non era sufficiente, in quel momento, accettare, puntare sul ritorno del dio in tutta la sua luce e la sua forza. Nel flusso oscuro della marea, così come nel riflusso, era possibile percepire la piena potenza del mare. Chinai la testa, uomo che accettava il dono di un re. Non c'era bisogno di
parlare. Ognuno di noi leggeva nel pensiero dell'altro. Artù disse, con tono improvvisamente cambiato: «Quanto ci vorrà perché tutto sia a posto, qui?». «Perché sia del tutto pronto per una battaglia, ancora un mese. Praticamente è già a posto.» «Era quanto pensavo. Posso trasferire subito da Caerleon fanteria, cavalleria e salmerie?» «Quando vuoi.» «E poi? Che cosa hai progettato di fare tu, fino a quando ci sarà di nuovo bisogno di te per le costruzioni della pace?» «Non ho progetti. Tornarmene a casa, forse.» «No. Rimani qui.» Il tono era quello di un ordine. Sollevai le sopracciglia. «Merlino. Proprio questo intendevo dire. Ti voglio qui. Non dobbiamo spaccare in due il potere del Sommo re prima del momento in cui saremo costretti a farlo. Mi capisci?» «Sì.» «Allora rimani. Costruisci un posto per te qui e rimani ancora un po' lontano dalla tua meravigliosa grotta del Galles.» «Ancora un po'» promisi, sorridendo. «Ma non qui, Artù. Ho bisogno di silenzio e solitudine, e sarebbe difficile procurarseli accanto a una città come diventerà questa, quando tu, il Sommo re, sarai qui. Posso cercare un posto e costruirci una casa? Quando tu sarai pronto ad appendere la spada sulla parete dietro il tuo trono, la mia meravigliosa grotta sarà qui, nelle vicinanze, e l'eremita vi si sarà insediato, pronto a partecipare alle sedute del tuo consiglio. Sempre che, allora, ti ricordi di aver bisogno di lui.» Lui rise e parve soddisfatto, e ce ne andammo a dormire. Nove Il giorno dopo Artù e i suoi compagni tornarono a cavallo a Ynys Witrin, e io andai con loro. Ci recavamo, su invito del re Melwas e della regina sua madre, a una cerimonia di ringraziamento per le recenti vittorie del re. Ora, benché a Ynys Witrin ci sia una chiesa cristiana, e sul monte presso la sacra sorgente esista un nucleo monastico, la divinità che governava quell'antica isola era ancora la dea, la Madre il cui santuario è lì da tempi immemorabili e che ancora è servita dalle sue sacerdotesse, le ancillae. È
un culto simile, ma a mio parere più antico, del mantenimento del fuoco sacro da parte delle vestali nell'antica Roma. Il re Melwas, come gran parte del suo popolo, era un seguace degli dei più antichi; inoltre, e questo era molto più importante, sua madre, una vecchia formidabile, adorava la dea ed era generosa con le sue sacerdotesse. L'attuale Signora del santuario (l'alta sacerdotessa, in quanto rappresentante della dea, aveva questo titolo) era sua parente. Benché Artù personalmente fosse stato educato in una casa cristiana, non mi meravigliò che accettasse l'invito di Melwas. Ma alcuni ne furono sconcertati. Quando ci radunammo alla Porta del re, pronti per la cavalcata, sorpresi un paio di occhiate scoccategli dai compagni con, qua e là, un'ombra di disagio. Artù sorprese il mio sguardo - stavamo aspettando Bedwyr che parlava un momento con la sentinella alla porta - e sorrise. Parlò a bassa voce. «C'è bisogno che lo spieghi a te?» «Assolutamente no. Hai considerato che Melwas sta per diventare tuo vicino e che ha dato un aiuto non indifferente per la costruzione della roccaforte. Hai anche capito che era saggio compiacere la vecchia regina. E naturalmente ti sei ricordato di Rugiadosa e Morella, e di ciò che ti era stato detto sul modo di placare la dea.» «Rugiadosa e... Ah, le mucche del vecchio. Sì, certo! Avrei dovuto saperlo che ci saresti arrivato immediatamente! In effetti, ho ricevuto un messaggio dalla Signora in persona. La popolazione dell'isola vuole rendere grazie per le vittorie di quest'anno e invocare le benedizioni su Caer Carnei. Vivo nella paura che qualcuno dica loro che durante la battaglia di Caer Guinnion portavo il pegno di Ygraine!» Stava parlando del fermaglio con il nome MARIA inciso tutt'intorno sul bordo. Maria è il nome della dea dei cristiani. Dissi: «Non credo tu ti debba preoccupare. Quel santuario è antico come la terra su cui sorge, e quale che sia la Signora cui tu parlerai lì, ad ascoltarti sarà sempre la stessa. Ne esiste solo una, dal principio. Almeno così credo... Ma che diranno i vescovi?». «Io sono il Sommo re» disse Artù, e chiuse così la discussione. Allora arrivò Bedwyr, e uscimmo tutti dalla porta. Era una giornata mite, grigia, con, nelle nuvole, la promessa di una pioggia estiva, da qualche parte. Fummo presto fuori della zona boscosa, e ci inoltrammo negli acquitrini. Ai due lati della strada si estendeva l'acqua, grigia e increspata dalla brezza che l'attraversava in tutti i sensi, come le
zampe di una lince. I pioppi impallidivano nelle raffiche ostinate e i salici si piegavano, strisciando sulle secche. Isolotti, ciuffi di salici e tratti di palude parevano galleggiare sulla distesa argentea, sulla quale si riflettevano le loro immagini, rese confuse dalla brezza. La strada lastricata, coperta di muschio e di felci come avviene alla maggior parte delle strade in quelle terre basse, conduceva attraverso quella distesa di giunchi e d'acqua al margine di un terreno più elevato che si direbbe un braccio che circonda a metà un'estremità dell'isola. A un tratto gli zoccoli presero a correre sulla pietra e la strada a salire dolcemente. Adesso davanti a noi si stendeva il lago che come un mare cingeva l'isola, distesa ininterrotta a parte lo stretto sentiero rialzato che l'attraversava, e qua e là le barche dei pescatori o le chiatte degli abitanti degli acquitrini. Da quello specchio d'acqua scintillante s'innalzava il monte chiamato Tor, a forma di enorme cono, perfettamente simmetrico come se l'avesse foggiato mano d'uomo. Era fiancheggiato da un'altura più dolce, arrotondata, e oltre quella da un'altra, un lungo crinale basso, come un ramo che si allungasse nell'acqua. Lì erano i pontili: si potevano vedere alberature, come giunchi, al di là di un varco nel verde. Al di là dei tre rilievi dell'isola, in lontananza, si stendeva un grande specchio d'acqua scintillante, in cui crescevano carici e giunchi di palude e, in mezzo ai salici, quel gruppo di capanne dai tetti di canne in cui viveva la gente dell'acquitrino. Era tutto un lungo, mutevole, ondeggiante scintillio, fino al mare. Era comprensibile che l'isola fosse chiamata Ynys Witrin, l'Isola di Vetro. A volte, adesso, la chiamano Avalon. C'erano frutteti dappertutto, su Ynys Witrin. Gli alberi crescevano così fitti, intorno al porto e sulle pendici più basse del Tor, che solo i pennacchi di fumo che s'innalzavano in mezzo ai rami indicavano la posizione del villaggio - che titolo maggiore non meritava benché fosse capitale e sede di re. Un po' più in alto sulla collina, al di sopra degli alberi, si scorgeva il gruppo di capanne, simili ad alveari, in cui vivevano gli eremiti cristiani e le pie donne. Melwas li lasciava in pace; avevano perfino la loro chiesa, costruita accanto al santuario della dea. La chiesa era una costruzione estremamente modesta di graticcio coperto di argilla, con un tetto di paglia. Si sarebbe detto che il primo temporale violento l'avrebbe fatta volare via. Molto diverso era il santuario della dea. Si diceva che, col passare dei secoli, la terra gli fosse lentamente cresciuta intorno, Impadronendosene, sicché adesso si trovava sotto il livello del terreno, come una cripta. Io non l'avevo mai visto. Normalmente gli uomini non erano ammessi nell'area
del santuario, ma quel giorno la Signora in persona, seguita da donne e fanciulle velate e vestite di bianco, che recavano tutte dei fiori, aspettava di accogliere il Sommo re. La vecchia accanto a lei, con il suntuoso mantello e il cerchietto regale sui capelli grigi, doveva essere la madre di Melwas, la regina. Lì aveva la precedenza sul figlio. E Melwas si teneva lontano, in disparte, in mezzo ai suoi capitani e ai suoi giovani sudditi. Era un bell'uomo robusto, con una chioma di riccioli castani e una lucida barba. Non si era mai sposato: correva voce che nessuna donna avesse mai superato la prova del giudizio di sua madre. La Signora salutò Artù, e due delle fanciulle più giovani si fecero avanti e gli misero al collo ghirlande di fiori. Si levò un canto, tutte voci femminili, alte e dolci. Il cielo grigio si aprì lasciando passare un riflesso di sole. Fu interpretato come un presagio; i presenti sorrisero e si guardarono l'un l'altro, e il canto si fece più esultante. La Signora si voltò e, con le sue donne, fece strada sulla lunga rampa di bassi gradini che scendevano nel santuario. Dietro di loro veniva la vecchia regina, e dopo di lei Artù, con tutti noi. Da ultimo veniva Melwas, con il suo seguito. Il popolo rimase all'esterno. Per tutta la durata della cerimonia lo udimmo mormorare e muoversi: tutti erano rimasti lì per vedere ancora una volta il leggendario Artù, eroe delle nove battaglie. Il santuario non era grande; noi lo riempivamo completamente. L'illuminazione era fioca, non più di una mezza dozzina di lampade profumate, raggruppate ai due lati del passaggio a volta che dava accesso ai penetrali. Nella luce fumosa le vesti bianche delle donne, spettrali. Dei veli nascondevano loro il volto e coprivano i capelli, fluttuando un po' indistinti fino a terra. Di tutte loro, solo la Signora era chiaramente visibile; era ferma in piena luce, con una stola d'argento e un diadema che rifletteva tutta la luce delle lampade. Era una figura regale; era facile credere che fosse di stirpe regale. Velati erano pure i penetrali; a parte gli iniziati nessuno - neppure la vecchia regina in persona - avrebbe potuto posare lo sguardo oltre il tendaggio. La cerimonia cui assistemmo (anche se non sarebbe conveniente scriverne qui) non era quella solita dedicata alla dea. Era sicuramente piuttosto lunga; la subimmo per due ore, stando in piedi, tutti pigiati: immagino che la Signora volesse sfruttare al massimo l'occasione, e chi avrebbe potuto biasimarla se pensava a una futura protezione? Ma finalmente giunse al termine. La Signora accettò il dono di Artù, lo presentò con l'opportuna preghiera, e riemergemmo tutti nel giusto ordine alla luce, a ricevere
le ovazioni della gente. Fu un episodio abbastanza trascurabile, che avrebbe potuto non lasciar traccia nella mia memoria non fosse stato per quanto avvenne in seguito. Fatto sta che ricordo ancora la sensazione dolce e intensa della giornata, le prime gocce di pioggia che ci colpirono in faccia mentre uscivamo dal santuario, e il canto del tordo posato sul biancospino in mezzo all'erba estiva fiorita degli spighi di pallide orchidee e punteggiata dell'oro di quei fiorellini che chiamano pantofole della signora. Per andare al palazzo di Melwas si passava attraverso superfici a prato, dove in mezzo ai meli crescevano fiori che non potevano essere spontanei, tutti utilizzati, come ben sapevo, in medicina o in magia. Le ancillae praticavano le arti delle guarigioni e avevano piantato quelle benefiche erbe medicinali. (Non vidi fiori di altra specie. La dea non è la stessa il cui pugnale insanguinato fu lanciato, una volta, dalla Cappella nel Verde.) Almeno, pensai, se devo vivere nei dintorni, questo paese è un giardino migliore per le mie piante del pendio scoperto del monte a casa mia. Così arrivammo al palazzo e fummo accolti da Melwas nella sala dei banchetti. Il banchetto di per sé assomigliava a qualsiasi altro, a parte (com'era naturale dato il luogo) per la bontà e la varietà dei piatti a base di pesce. La vecchia regina era al posto d'onore dell'alto tavolo, con Artù a un fianco e Melwas all'altro. Non era presente nessuna delle donne del santuario, neppure la Signora. Le donne presenti, rilevai piuttosto divertito, erano tutt'altro che delle bellezze, e nessuna di loro era giovane. Le voci che correvano sulla regina forse dopo tutto erano esatte. Ricordai un'occhiata e un sorriso scambiati tra Melwas e una fanciulla nella folla: be', la vecchia non poteva sorvegliarlo in continuazione. Quanto agli altri suoi appetiti pareva potesse soddisfarli abbastanza bene: il cibo era abbondante e ben cucinato, anche se con scarsa fantasia, e c'era un musico dalla voce piacevole. Il vino, che era buono, veniva (ci fu detto) da un vigneto che si trovava a quaranta miglia da lì, su un terreno calcareo. Era stato distrutto di recente durante una delle pesanti incursioni dei sassoni, che quell'estate avevano cominciato ad avvicinarsi. Dopo questa osservazione, era scontato che i discorsi andassero per un certo verso. Tra l'esame minuzioso del passato e la discussione sul futuro, il tempo passò veloce, lasciando Artù e Melwas in pieno accordo, il che era di buon auspicio. Ci congedammo prima di mezzanotte. La luna quasi piena proiettava un
bel chiarore. Era bassa e pareva vicina al fuoco di segnalazione sulla cima del Tor, per modo che contrassegnava di ombre marcate le mura della roccaforte di Melwas, un forte ricostruito sulle fondamenta di qualche antica postazione sulla cima del monte. Era un luogo di rifugio in tempo di disordini: il suo palazzo, dove eravamo stati ricevuti, sorgeva più in basso, in piano, vicino al lago. Non eravamo partiti troppo presto. La nebbia stava salendo dall'acqua. In pallide volute turbinava tra l'erba, sotto gli alberi, arrivando alle ginocchia dei cavalli. Tra poco il sentiero rialzato sarebbe stato nascosto. Melwas, che ci accompagnava con i portatori di torce, ci guidò attraverso la pallida foschia del lago, e poi fino a dove l'aria era di nuovo limpida, sulla pietra risonante del crinale. Lì ci disse addio e si accinse a tornarsene a casa. Tirai le redini e mi guardai indietro. Da quel punto, delle tre alture che formavano l'isola era visibile solo il Tor, che emergeva da un lago di nuvole. Nella foschia che lo avvolgeva in basso, si intravedeva il bagliore rosso della torcia del palazzo, non ancora spenta per la notte. La luna si era alzata sopra il Tor, in un cielo nero. Vicino alla torre per le segnalazioni, sulla ripida spirale della strada che portava alla fortezza in alto, una luce tremolò e si mosse. Sentii aggricciarmisi la pelle, come a un cane quando vede uno spettro. Lassù, in alto, aleggiava un filo di nebbia e al di là della nebbia si muoveva rapidamente un'ombra, gigantesca. Il Tor era, notoriamente, una porta d'ingresso nell'Aldilà; per un attimo mi chiesi se, essendo tornata in me la Vista, non stessi guardando uno dei custodi dell'Aldilà, uno degli spiriti ardenti che sono a guardia della porta. Poi gli occhi mi si schiarirono e vidi che era solo un uomo con una torcia che saliva di corsa il ripido pendio del Tor per andare ad accendere il fuoco di segnalazione. Mentre davo di sprone al cavallo, sentii la voce di Artù formulare rapidamente un ordine. Un uomo a cavallo si staccò dal gruppo e si slanciò in avanti, galoppando a spron battuto. Gli altri, tutt'a un tratto silenziosi, lo seguirono, rapidi ma compatti, mentre dietro di noi le fiamme guizzavano nella notte, chiamando Artù delle nove battaglie a un altro combattimento ancora. Dieci L'assedio a Caer Carnei segnò l'inizio della nuova campagna. Sarebbe
durata altri quattro anni: assedio e schermaglie, rapidi attacchi e agguati... esclusi i mesi di pieno inverno, Artù non si riposò mai. E ancora due volte, verso la fine di quel periodo, trionfò sul nemico in battaglie di grande importanza. Alla prima di queste battaglie partecipò in seguito a una richiesta di aiuto giunta dall'Elmet. Eosa in persona era sbarcato lì dalla Germania, alla testa di nuovi gruppi di guerrieri sassoni, in attesa di esser raggiunto dai sassoni dell'est, già insediati a nord del Tamigi. Cerdic aggiunse alla lancia una terza punta, rappresentata dalle forze trasportate da Rutupiae mediante una lunga nave. Fu la minaccia peggiore dopo Luguvallium. Gli invasori risalirono in forze la valle dell'Elmet, minacciando ciò che Artù aveva previsto da un pezzo, di far breccia nella barriera montuosa passando dal Varco. Sorpresi e (certamente) sconcertati dalla reazione tempestiva del forte di Olicana, furono fermati e trattenuti lì, mentre con rapidità fulminea veniva inviato un dispaccio a sud, per Artù. Le forze dei sassoni dell'est, che erano considerevoli, erano concentrate su Olicana; il re dell'Elmet le tratteneva lì, ma le altre dilagavano verso est attraverso il Varco. Artù, risalendo rapidamente la via occidentale, arrivò al forte Tribuit prima di loro e riorganizzandosi militarmente lì, li raggiunse al guado di Nappa. Qui li sconfisse con una battaglia sanguinosa, poi lanciò la sua veloce cavalleria verso Olicana, passando dal Varco e, combattendo al fianco del re dell'Elmet, ricacciò il nemico nella valle dell'Elmet. Da lì, con una mossa cui i sassoni non riuscirono a opporsi, continuò a ricacciarli indietro, verso est e verso sud, fin dentro le antiche frontiere, finché il "re" sassone, contemplando intorno a sé le sue forze sanguinanti e fiaccate, dovette ammettere la sconfitta. Una sconfitta, come poi risultò, tutt'altro che definitiva. Tale era ormai la fama di Artù che il solo fatto di nominarlo era giunto a significare vittoria e "l'arrivo di Artù" era diventato sinonimo di salvezza. Quando lo chiamarono, la volta successiva - per un'operazione di ripulitura della regione nel corso della lunga campagna - la terribile cavalleria preceduta dal cavallo bianco, con il Drago che scintillava sugli elmi, era appena comparsa sul passo di Agned, che il nemico fu travolto da uno scompiglio che confinava col panico, cosicché l'azione si risolse in un inseguimento più che in una battaglia, un rastrellamento del territorio dopo l'azione principale. Per tutto il corso dei combattimenti, Gereint (che conosceva la regione palmo a palmo) fu con la cavalleria, con un'autorità degna di lui. Così Artù compensava i servizi che gli erano stati resi.
Anche Eosa era stato ferito nella battaglia di Nappa. Non scese mai più in campo. Fu il giovane Cerdic, l'Aetheling, che guidò i sassoni ad Agned, facendo del suo meglio perché resistessero al terrore suscitato dall'attacco violento di Artù. Si disse che in seguito, quando egli si ritirò - con un ordine degno di lode - verso le lunghe navi in attesa, giurasse che, la prossima volta che avrebbe messo piede in terra britannica, ci sarebbe rimasto, e che neppure Artù glielo avrebbe impedito. Ma per questo, come io avrei ben potuto dirgli, avrebbe dovuto aspettare che Artù non ci fosse più. *
*
*
Non è mai stata mia intenzione dare qui i particolari concernenti gli anni di guerra. Questa è una cronaca di altro genere. Inoltre, a tutti è nota ormai la sua campagna per liberare la Britannia e purificarne le sponde dal Terrore. Di tutto questo hanno scritto, su nella casa di Vindolanda, Blaise e il solenne, taciturno studioso che di quando in quando andava ad aiutarlo. Qui desidero solo ripetere che neppure una volta, per tutti gli anni che gli ci vollero per fermare i sassoni, io fui in grado di aiutarlo con la profezia o con la magia. La storia di quegli anni è storia di coraggio umano, di sopportazione e di dedizione. Ci vollero dodici battaglie importanti e circa sette anni di duro lavoro perché il giovane re potesse considerare il paese sicuro, almeno per l'agricoltura e le arti della pace. Non è vero, come vorrebbero poeti e musici, che Artù cacciò tutti i sassoni dalle sponde britanniche. Come già Ambrogio prima di lui, Artù era arrivato a riconoscere che era impossibile liberare un paese che si estendeva per miglia in difficili condizioni geografiche e che, per di più, aveva alle spalle la facile via di scampo del mare. Dai tempi di Vortigern, che per primo aveva invitato i sassoni a stabilirsi in Britannia come suoi alleati, la sponda sudorientale del nostro paese era stata definita territorio sassone, con governanti e leggi suoi propri. Il fatto che Eosa si attribuisse il titolo di re aveva qualche giustificazione. Anche se fosse stato possibile ad Artù sgomberare la Sponda sassone, egli si sarebbe trovato a dover cacciare residenti forse della terza generazione, nati e cresciuti su quelle sponde, e farli imbarcare per rientrare nel paese dei loro nonni, dove avrebbero potuto incontrare un'accoglienza altrettanto ostile della nostra. Quando l'alternativa è di ritrovarsi dei senzatetto, gli uomini combattono disperatamente per le loro case. E poi una cosa era vincere le grandi battaglie campali,
mentre Artù sapeva bene che cacciare degli uomini nelle montagne, nelle foreste e in zone desolate, da dove non avrebbero mai potuto essere sloggiati, o neppure inchiodati e combattuti, significava lanciarsi in una lunga guerra che avrebbe potuto concludersi senza una vittoria. Aveva davanti a sé l'esempio degli Antichi: cacciati dai romani essi erano fuggiti nelle zone incolte dei monti; a distanza di quattrocento anni erano ancora lì, nelle loro remote fortezze montane, mentre i romani se n'erano andati. Così, accettando il fatto che dovevano esserci ancora regni sassoni entro il territorio britannico, Artù si accinse ad assicurarsi che i loro confini fossero stabili, e che anche solo per paura i loro re li rispettassero. In questo modo trascorse il suo ventesimo anno. Fece ritorno a Camelot alla fine di ottobre, e immediatamente convocò il consiglio. Io ero presente, e a volte interpellato, ma per lo più occupato solo a osservare e ascoltare: il consiglio che gli diedi, glielo diedi privatamente, e a porte chiuse. Ufficialmente, le decisioni le prendeva lui. In realtà, le prendeva lui quanto me, e col passar del tempo fui sempre più contento di lasciar prevalere il suo giudizio. A volte era impulsivo e in molte cose gli mancava ancora l'esperienza o dei precedenti da seguire; ma non lasciò mai che il suo giudizio fosse dominato dall'impulso e, malgrado l'arroganza che ci si sarebbe potuto aspettare gli avrebbe dato il successo, conservò l'abitudine di lasciare che gli altri parlassero a volontà, per modo che, quando alla fine veniva annunciata la decisione del re, ognuno era convinto di aver detto la sua in merito. Uno dei problemi su cui si discusse a lungo fu quello di un nuovo matrimonio. Capii che non se l'era aspettato; ma rimase in silenzio e dopo un po' parve più tranquillo e diede ascolto agli anziani. Erano quelli che conoscevano a memoria nomi, discendenze e diritti sulla terra. Mi venne anche in mente, guardandoli, che erano quelli che, alla proclamazione di Artù, non avevano preso posizione a favore del suo diritto. Adesso neppure i suoi compagni cavalieri avrebbero potuto dimostrarsi più fedeli. Aveva conquistato gli anziani, come tutti gli altri. Si sarebbe detto che ognuno di loro lo avesse scoperto, sconosciuto, nella Foresta Selvaggia, e gli avesse porto la spada del regno. Si sarebbe detto, anche, che ognuno di loro stesse discutendo il matrimonio di un figlio prediletto. Si accarezzavano la barba e scuotevano la testa, e venivano proposti e discussi dei nomi, o addirittura su qualche nome si bisticciava, ma nessuno incontrò un consenso generale finché un giorno un uomo del Gwynedd, che aveva combattuto con Artù in tutte le
guerre e era imparentato con lo stesso Maelgon, si alzò e fece un discorso sul suo paese natale. Ora, far alzare in piedi, pronto a parlare, un nero gallese, è come invitare un bardo; l'intervento sarà ben organizzato, cadenzato e molto lungo: ma tali erano i modi dell'uomo, tale la bellezza della sua voce, che dopo i primi minuti i presenti si riappoggiarono comodamente agli scranni per ascoltare, così come avrebbero potuto rimanere in ascolto durante un banchetto. L'argomento di cui parlava pareva fosse il suo paese, la bellezza delle sue valli e dei suoi monti, i laghi azzurri, i mari spumeggianti, i cervi, le aquile e i piccoli uccelli canori, il coraggio degli uomini e la bellezza delle donne. Poi lo udimmo parlare dei poeti e dei giullari, dei frutteti e dei pascoli fioriti, della ricchezza delle greggi e delle mandrie e delle vene di minerali nelle rocce. Da qui passò alla valorosa storia del paese, alle battaglie e alle vittorie, al coraggio dimostrato nella disfatta, alla tragedia della morte prematura e alla feconda bellezza di un giovane amore. Si stava avvicinando al punto che l'interessava. Vidi Artù agitarsi sul suo grande scranno. E, proseguì l'oratore, la ricchezza, la bellezza e l'ardimento del paese, tutte queste doti erano presenti nella famiglia dei suoi re, una famiglia che... avevo smesso di ascoltare attentamente; stavo osservando Artù, alla luce di una lampada che bruciava male, e mi doleva la testa... una famiglia che a quanto pareva aveva una genealogia lunga due volte quella di Noè... C'era, naturalmente, una principessa. Giovane, bella, discesa da una stirpe di antichi re gallesi imparentati con una nobile gens romana. Neppure Artù discendeva da più nobile lignaggio.... E finalmente si capì il motivo del lungo panegirico e dell'occhiata leggermente obliqua lanciata al giovane re. A quanto pareva, il nome della principessa era Ginevra. *
*
*
Li vidi di nuovo, tutti e due. Bedwyr, bruno e entusiasta, gli occhi pieni d'affetto fissi sull'altro ragazzo; Artù-Emrys, a dodici anni già il capo, pieno di energia e del fuoco ardente della vita. E l'ombra bianca del barbagianni che si spostava in alto, tra loro; il guenhwyvar di una passione e di un dolore, di un tentativo sublime e di una ricerca che avrebbero condotto Bedwyr in un mondo dello spirito e lasciato solo Artù, ad aspettare lì, nel cuore stesso della gloria, di diventare nella sua persona una leggenda, e un
graal nella sua persona... *
*
*
Tornai nel salone. Il dolor di testa era feroce. La luce abbagliante, intermittente, mi colpì gli occhi come una lancia. Sentii il sudore scorrermi sotto la tunica. Le mani mi scivolavano sui braccioli intagliati dello scranno. Mi sforzai di rendere regolare il mio respiro e il battito martellante del mio cuore. Nessuno aveva fatto caso a me. Il tempo era passato. Il consiglio formalmente si era sciolto. Adesso Artù era al centro di un gruppo, e parlava e rideva; intorno alla tavola i più anziani erano ancora seduti, rilassati e a loro agio, e chiacchieravano tra loro. Erano entrati dei servi a versare il vino. Le conversazioni s'intrecciavano tutt'intorno a me, come una marea montante. Vi si notavano accenti di trionfo e di sollievo. Era fatta: ci sarebbe stata una nuova regina, e una discendenza. Le guerre erano finite e la Britannia, unica delle terre che un tempo erano state soggette a Roma, era al sicuro dietro i suoi bastioni reali, per il prossimo arco radioso di tempo. Artù voltò la testa e incrociò il mio sguardo. Io non mi mossi e non parlai, ma la risata gli morì sul viso ed egli si alzò. Mi si avvicinò, rapido come una lancia verso il bersaglio, facendo un cenno ai compagni perché non si avvicinassero ad ascoltare. «Merlino, che c'è? Questo matrimonio? Non puoi certo pensare che...» Scossi la testa. Il dolore me l'attraversò come una sega. Credo di aver urlato. A un cenno del re si zittirono; adesso nel salone il silenzio era assoluto. Silenzio, e sguardi, e fiamme instabili e abbaglianti. Lui si chinò in avanti, come per prendermi la mano. «Che c'è? Stai male? Merlino, puoi parlare?» La sua voce si gonfiò, turbinò, fu trascinata via rapidamente. Non mi riguardava. Niente mi riguardava salvo la necessità di parlare. Le fiamme delle lampade mi bruciavano da qualche parte nel petto, il loro olio, bollente, mi si rovesciava gorgogliando nel sangue. Il respiro diventò denso e pungente, come fumo nei polmoni. Quando finalmente trovai le parole, mi sorpresero. Io non avevo più visto niente da molto tempo prima, nella Cappella dei Perigli, dopo la visione che poteva, o no, aver avuto un significato. Ciò che mi udii dire, con una voce aspra e risonante che fece scattare Artù come un colpo, e balzare in piedi spaventato ogni uomo, aveva un peso ben diverso.
«Non è ancora finita, o re! Sali a cavallo, e cavalca! Hanno violato la pace e saranno ben presto a Badone! Uomini e donne muoiono nel loro sangue, e i bambini piangono, prima di essere infilzati come polli allo spiedo. Nessun re è vicino per proteggerli. Recati lì subito, duce dei re! Tocca a te solo, quando il popolo ti invoca! Vai con i tuoi compagni, e metti fine a questa cosa! Poiché, per la Luce, Artù di Britannia, questa è l'ultima volta, e l'ultima vittoria! Va', adesso!» Le parole si susseguivano nel silenzio totale. Quelli che non mi avevano prima di allora mai sentito parlare pervaso dal potere erano pallidi: tutti fecero il gesto. Respiravo rumorosamente nel salone silenzioso, il respiro di un vecchio che si sforza di ritardare la morte. Poi dal gruppo dei più giovani giunsero voci incredule, o addirittura beffarde. Non c'era da meravigliarsi. Avevano udito raccontare le mie gesta passate, ma tanta parte di queste erano così evidentemente opera di poeti e tutte, essendo già tradotte in canzoni, avevano assunto i toni accesi della leggenda. L'ultima volta che avevo parlato in quel modo era stato a Luguvallium, prima che fosse alzata la spada, e alcuni di loro a quel tempo erano bambini. Mi conoscevano solo come ingegnere e uomo di medicina, il tranquillo consigliere prediletto dal re. Tutt'intorno a me si levò un brontolio, vento tra gli alberi. «Non c'è stata nessuna segnalazione; di che cosa sta parlando? Come se il Sommo re potesse partire basandosi solo sulla sua parola, lasciandosi spaventare da una cosa simile! Artù ha già fatto abbastanza, e anche noi; la pace è consolidata, chiunque può vederlo! Badone? Dov'è? Comunque, i sassoni non attaccherebbero lì, non ora... Sì, ma se lo facessero, lì non c'è forza che potrebbe opporsi a loro, in questo aveva ragione... No, è una sciocchezza, il vecchio è di nuovo uscito di senno. Vi ricordate, su nella Foresta, com'era ridotto? Matto, è questa la verità... e adesso è di nuovo pazzo lunatico, colpito dalla stessa malattia?» Artù non mi aveva tolto gli occhi di dosso. I bisbigli risonavano, avanti e dietro. Qualcuno chiamò un dottore e ci fu un certo andirivieni nel salone. Lui lo ignorava. Lui e io eravamo soli. La sua mano si protese e mi afferrò dal polso. Sentii, attraverso il dolore turbinante, la sua giovane forza costringermi a risedermi sul mio seggio. Non mi ero neppure accorto di stare in piedi. L'altra sua mano si tese, e qualcuno vi pose un calice. Lui mi accostò il vino alle labbra. Voltai da parte la testa. «No. Lasciami. Va', adesso. Fidati di me.» «Per tutti gli dei esistenti» disse lui, con una voce di gola. «Io mi fido di
te.» Girò su se stesso e parlò. «Tu, e tu, e tu, impartite gli ordini. Partiamo immediatamente. Pensateci voi.» Poi, di nuovo rivolto a me ma parlando in modo che tutti potessero udire: «Vittoria, hai detto?». «Vittoria. Puoi dubitarne?» Per un attimo, nella tensione della sofferenza, vidi la sua espressione: l'espressione del ragazzo che aveva sfidato la fiamma bianca alla mia parola, e alzato la spada incantata. «Non dubito di niente» disse Artù. Poi rise, si chinò a baciarmi sulla guancia e, seguito dai suoi compagni, uscì rapidamente dal salone. Il dolore cessò. Adesso potevo respirare e ci vedevo. Mi alzai e li seguii, fuori all'aperto. Quelli che erano rimasti nel salone si ritrassero e mi lasciarono passare. Nessuno mi parlò, o osò farmi delle domande. Salii sul bastione e guardai lontano. La sentinella di turno si allontanò, non come un soldato ma furtivamente. La vidi strabuzzare gli occhi. La voce si era diffusa rapidamente. Lasciai che il mantello si ingobbisse contro il vento e rimasi fermo dov'ero. Erano partiti, uno stuolo così esiguo per combattere la forza dell'ultimo tentativo sassone di conquistare la Britannia. Il rumore dei cavalli al galoppo diminuì nella notte e scomparve. In qualche punto, in quell'oscurità, verso nord, il Tor si ergeva nel cielo nero. Nessuna luce, niente. Nessuna luce, al di là di esso. Né a sud, né a est; nessuna luce in nessun posto, né fuochi di segnalazione. Solo la mia parola. Poi, nelle tenebre piene di vento, risonò da qualche parte un rumore. Per un attimo pensai fosse un'eco della galoppata lontana; poi, percependo in esso, fievolmente, grida e fragore di eserciti, pensai che fosse di nuovo una visione. Ma la mia mente era limpida e la notte, con tutti i suoi rumori e le sue ombre, era una notte umana. Ed ecco i rumori si avvicinarono turbinando, e fluirono su, in alto nell'aria nera. Erano le anitre selvatiche, la muta dei cani celesti, la Caccia selvaggia che solca i cieli con Llud, re dell'Aldilà, nei momenti di guerra e di tempesta. Si erano alzate dalle acque del lago, e adesso volavano in alto, fuggendo le tenebre. Direttamente dal silente Tor venivano, a turbinare sopra Caer Carnei, per poi tornare indietro, oltre l'isola addormentata, il rumore dei loro gridi e il battito delle loro ali persi infine nelle distese della notte verso Badone. All'alba, i fuochi di segnalazione brillavano su tutta la regione. Ma chi guidava le orde sassoni a Badone, chiunque egli fosse, dovette a mala pena
riuscire a posare il piede su quel suolo insanguinato: dalle tenebre, più rapidi di quanto avrebbero potuto essere il volo degli uccelli o le segnalazioni dei fuochi, il Sommo re Artù e i suoi scelti cavalieri si avventarono su di loro e li distrussero, frantumando completamente il barbaro potere, per il presente e per tutta quella generazione. Così il dio tornò a me, Merlino, suo servitore. Il giorno successivo lasciai Caer Carnei e salii a cavallo in cerca di un luogo in cui avrei potuto costruirmi una casa. LIBRO III Applegarth Uno A est di Caer Carnei il terreno è ondulato e boscoso, crinali e monti di un verde tenero con qua e là, tra i cespugli e le felci delle cime, tracce di antiche dimore o fortificazioni del passato. Avevo già notato un luogo così e adesso, aggirandomi tra monti e valli, lo esaminai ancora una volta e lo trovai adatto. Era un punto solitario, in una conca tra due monti, con una sorgente che sgorgava dal terreno erboso dando origine a un minuscolo ruscello che scendeva scrosciando a confluire nel torrente di fondovalle. Molto tempo prima lì avevano vissuto degli uomini. Quando il sole vi cadeva in un determinato modo, era visibile il vago contorno di antiche mura sotto l'erba. Quell'insediamento era scomparso da molto tempo, ma in seguito, in tempi più difficili, altri uomini vi si erano costruita una torre, che era in buona parte ancora in piedi. Per di più, era stata costruita con pietre romane ricavate da Caer Carnei. Sotto i giovani virgulti invadenti e sotto quei fantasmi irritanti che crescono rigogliosi dovunque abbia vissuto l'uomo, le ortiche, la pietra scalpellinata in blocchi quadrati rivelava ancora gli spigoli nitidi. Comunque anche le ortiche non erano sgradite: sono ottime per molte indisposizioni e io avevo in mente, non appena la casa fosse stata costruita, di farmi un giardino, che è la principale arte della pace. E pace avemmo alla fine. La notizia della vittoria a Badone mi raggiunse anche prima che avessi preso le misure per stabilire le dimensioni della mia nuova casa. Dal resoconto che della battaglia mi mandò Artù, pareva certo che quella dovesse essere la vittoria definitiva della campagna, e che adesso il re stesse imponendo delle condizioni, essendo deciso a definire in
modo stabile i confini del suo regno. Non c'era motivo di supporre, continuava il messaggio, che di lì a qualche tempo potessero esserci altre aggressioni o anche solo resistenze. Non avendo visto il campo di battaglia, ma sapendo quello che sapevo, io mi preparai a costruire per la pace una casa dove mi fosse possibile vivere nella solitudine che amavo e che mi era necessaria, a debita distanza dalla confusione del luogo in cui si sarebbe stabilito Artù. Nel frattempo sarebbe stato prudente da parte mia assicurarmi tutti i muratori e gli artigiani di cui avrei avuto bisogno, prima che cominciassero a germogliare i grandi progetti di Artù per la sua città. Gli operai vennero, scossero la testa sui miei progetti, poi si misero allegramente al lavoro per costruire ciò che volevo. Si trattava di una piccola casa, una casupola, se preferite, che sorgesse in una conca sul fianco del monte, con esposizione a sud e a ovest, lontana da Caer Carnei e rivolta verso il lontano ondeggiare delle colline calcaree. A nord e a est il luogo era riparato e, grazie a una curva della collina sottostante, lo era anche dai pochi viandanti che percorrevano la strada del fondovalle. Feci ricostruire la torre come era stata, e la nuova casa addossata contro di essa, a un solo piano, con alle spalle un cortile quadrato, o chiostro in stile romano. La torre costituiva un angolo di esso, tra la mia abitazione personale e la zona della cucina. Dalla parte opposta della casa c'erano laboratori e magazzini. Sul lato nord del chiostro si alzava un alto muro con un tetto di tegole, contro il quale speravo di poter sistemare alcune delle piante più delicate. Da molto tempo pensavo di fare ciò per cui adesso gli operai scuotevano la testa; il muro era doppio e l'ipocausto convogliava aria calda nell'intercapedine. Non solo d'inverno sarebbero sopravvissute le viti e i peschi, ma tutto il chiostro avrebbe tratto beneficio dal calore dell'ipocausto e dal sole trattenuto e conservato dal muro. Era la prima volta che vedevo messa in pratica un'idea del genere, ma in seguito essa venne realizzata a Camelot e nell'altro palazzo di Artù a Caerleon. Un acquedotto in miniatura portava l'acqua dalla fonte a un pozzo posto al centro del chiostro. Gli uomini, trovandovi un diversivo piacevole dopo gli anni di costruzioni a scopo militare, lavorarono celermente. Avemmo un inverno senza ghiaccio, quell'anno. Mi recai a cavallo a Bryn Myrddin per sovrintendere al trasferimento dei miei libri e di parte delle riserve di medicinali, poi andai a trascorrere il Natale a Camelot con Artù. I carpentieri entrarono nella mia casa all'inizio del nuovo anno, e il lavoro fu completato e gli
uomini furono liberi in tempo per cominciare le costruzioni permanenti a Camelot, in primavera. Non avevo ancora un servo mio particolare, e adesso dovetti accingermi a trovarne uno - compito non facile, perché pochi uomini si sistemano volentieri in quel genere di solitudine di cui io ho ardentemente bisogno, e inoltre io non ho mai avuto le abitudini di un normale padrone. I miei orari sono strani; mi servono poco cibo e sonno e ho un grande bisogno di silenzio. Avrei potuto comprare uno schiavo che avrebbe dovuto sopportare pazientemente tutto quello che volevo, ma non mi è mai piaciuto comprare il servizio di qualcuno. Comunque anche questa volta, come sempre, fui fortunato. Uno dei muratori del luogo aveva uno zio che era giardiniere; gli aveva riferito, disse, la costruzione del muro riscaldato, e lo zio aveva scosso la testa brontolando qualcosa a proposito delle stravaganti assurdità straniere, ma in seguito aveva dimostrato la più accesa curiosità circa ogni fase della costruzione. Si chiamava Varrone. Sarebbe stato felice di venire, disse il muratore, e con lui sarebbe venuta sua figlia, che sapeva cucinare e fare le pulizie. Così la cosa fu risolta. Varrone cominciò immediatamente a dissodare e vangare il terreno, e la ragazza Mora cominciò a strofinare e a dare aria, e allora, in uno di quei tersi e splendidi momenti di una primavera precoce, con le primule che già spuntavano sotto i biancospini pieni di germogli, e gli agnelli che dormivano caldi accanto alle pecore nelle conche piene di ginestrone in fiore, io portai il cavallo nella scuderia, aprii l'involucro che proteggeva la mia grande arpa e fui a casa. *
*
*
Poco dopo, Artù venne a trovarmi. Io ero nel chiostro, seduto al sole su una panca sotto il colonnato in miniatura. Ero occupato a scegliere semi raccolti nel corso dell'estate precedente e chiusi in buste di pergamena. Udii, al di là del muro, lo scalpiccio e il tintinnio prodotto dalla scorta del re, ma lui entrò da solo. Varrone lo oltrepassò con occhi sgranati e salutandolo militarmente, la vanga sulla spalla. Io mi alzai in piedi quando Artù levò una mano in segno di saluto. «È molto piccolo» furono le sue prime parole, mentre si guardava intorno. «Sufficiente. È solo per me.» «Solo!» Rise, poi girò sui tacchi. «Ehmm... se a te piacciono i canili, e
sembra di sì, devo dire che questo è molto simpatico. Così questo è il famoso muro, vero? Me ne hanno parlato i muratori. Che cosa hai intenzione di piantarci?» Glielo dissi, e poi gli feci fare il giro del mio piccolo chiostro. Artù, che se ne intendeva di giardini quanto io di tecniche belliche ma a cui interessava sempre l'azione creativa, guardò, toccò e fece domande; dedicò un sacco di tempo al muro riscaldato e alla costruzione del piccolo acquedotto che alimentava il pozzo. «Verbena, camomilla, consolida, calendula...» Rigirò tra le mani i pacchetti etichettati di semenza appoggiati sulla panca. «Ricordo che Drusilla coltivava le calendule. Quando avevo mal di denti mi dava qualche mistura a base di calendule.» Si guardò di nuovo intorno. «Lo sai, qui c'è già qualcosa di quella pace che si sentiva a Galava. Foss'anche solo per amor mio, avevi ragione di rifiutare di venire a vivere a Camelot. Quando le cose diventeranno troppo incalzanti per me, so che qui potrò trovare un rifugio.» «Spero che sarà così. Be', questo è tutto. Qui coltiverò i miei fiori, e fuori un frutteto. C'erano già alcuni vecchi alberi, e pare che stiano bene. Vuoi entrare a vedere la casa, adesso?» «Con piacere» disse lui, ma in un tono di voce di colpo così formale che gli lanciai un'occhiata, scoprendo che la sua attenzione non era più affatto rivolta a me, ma a Mora, che era uscita da una porta e stava scuotendo un panno all'aria. La veste le aderiva al corpo e i capelli, che erano belli, luminosi e arruffati le circondavano il viso. Si fermò per ravviarli all'indietro, vide Artù, arrossì e ridacchiò, poi corse di nuovo dentro casa. Scorsi un occhio splendente sbirciare da uno spiraglio, poi lei vide che l'osservavo e si ritirò. La porta venne chiusa. Era chiaro che la fanciulla non aveva la minima idea sull'identità del giovane che aveva squadrato così sfacciatamente. Lui mi stava sorridendo. «Devo sposarmi tra un mese, perciò puoi smetterla di guardarmi in quel modo. Sarò davvero un modello di marito.» «Ne sono certo. Ti stavo guardando? Non è affar mio, ma ti devo avvertire che il giardiniere è suo padre.» «E sembra anche un duro. Benissimo, manterrò il sangue freddo fino a maggio. Dio sa se mi ha già cacciato nei guai, e se non lo farà ancora.» «Un modello di marito?» «Stavo parlando del passato. Tu mi hai avvertito che avrebbe avuto conseguenze su di me in futuro.» Lo disse con tono leggero; il passato, capii,
se l'era lasciato proprio dietro le spalle. Dubitavo che il pensiero di Morgause turbasse ancora i suoi sonni. Mi seguì in casa e, mentre prendevo il vino e lo versavo, continuò il suo giro esplorativo. C'erano solo due stanze. Il soggiorno prendeva due terzi della lunghezza della casa e tutta la larghezza, e aveva finestre che davano sui due lati, sul chiostro e sul monte. La porta si apriva sul colonnato che circondava il chiostro. Quel giorno per la prima volta era aperta ad accogliere l'aria mite, e il sole si rovesciava caldo sui mattoni di terracotta del pavimento. All'estremità della stanza c'era il focolare, con un'ampia cappa per mandare il fumo all'esterno. In Britannia maggiore è necessario il fuoco quanto il pavimento riscaldato. La pietra del focolare era di ardesia e le pareti della stanza, di pietra ben lavorata, erano ricoperte di splendidi tappeti che avevo riportato dai miei viaggi in Oriente. Tavolo e sgabelli erano di quercia, tutti fatti con legno dello stesso albero, ma il grande scranno era di legno di olmo, come la cassa sotto la finestra, che conteneva i miei libri. Una porta all'estremità della stanza immetteva nella mia camera da letto, che era semplicemente arredata con il letto e la cassa dei miei abiti. Forse ricordando la mia infanzia, avevo piantato un pero davanti alla finestra. Gli mostrai tutto questo, poi lo condussi alla torre. La porta della torre si apriva nel colonnato, all'angolo del chiostro. A piano terra c'era il laboratorio o distilleria, in cui venivano messe a essiccare le erbe e preparati i medicinali. Non v'erano altri mobili che un grande tavolo, sgabelli e armadietti, e una piccola stufa di mattoni con il forno e un fornello a carbone. Una scaletta in pietra, addossata a una parete, portava alla stanza di sopra. Questo era l'ambiente che intendevo utilizzare come mio studio privato. Conteneva per il momento un tavolo da lavoro e una sedia, un paio di sgabelli e un armadio in cui erano riposte le tavolette e gli strumenti matematici che mi ero portato da Antiochia. In un angolo c'era un braciere. Mi ero fatto fare una finestra che dava a mezzogiorno, che non era chiusa né da lastre di corno né da tende. Non soffro facilmente il freddo. Artù si muoveva nella minuscola stanza chinandosi, guardando, aprendo scatole e armadi, sporgendosi a guardare fuori dalla finestra, puntellato sui pugni chiusi, e riempiendo quello spazio esiguo della sua immensa vitalità, per modo che perfino le robuste mura romane parevano difficilmente riuscire a contenerlo. Tornati che fummo nella sala principale, accettò un calice da me e lo alzò. «Alla tua nuova casa. Come la chiamerai?» «Applegarth1.»
«Mi piace. È un nome che le sta bene. Ad Applegarth, allora, e che tu ci possa vivere a lungo!» «Grazie. E al mio primo ospite.» «Sono il tuo primo ospite? Ne sono lieto. Possano essercene molti di più, e possano tutti venire in pace.» Bevve e depose il calice, guardando di nuovo intorno a sé. «È già piena di pace. Sì, comincio a capire perché tu l'abbia scelta... ma sei sicuro che è tutto ciò che vuoi? Lo sai, e anch'io lo so, che tutto il mio regno è tuo di diritto, e ti assicuro che te ne darei la metà se tu me lo chiedessi.» «La lascerò a te per il momento. È già stato troppo seccante per me invidiarti tanto. Hai tempo di rimanere un po'? Di mangiare con me? La sola idea spaventerà Mora al punto di darle una crisi epilettica, perché puoi star certo che nel frattempo è uscita a chiedere al padre chi è il giovane sconosciuto, ma sono sicuro che troverà qualche cosa...» «Grazie, no. Ho già mangiato. Hai solo loro due come servi? Chi fa la cucina per te?» «La ragazza.» «Bene?» «Ah, abbastanza bene.» «Il che significa che non ci hai neppure fatto caso. Santo Dio!» fece Artù. «Lascia che ti mandi un cuoco. Non mi piace pensare che mangi solo cibi da contadini.» «No, ti prego. Questi due intorno a me per tutta la giornata sono ciò di cui ho bisogno, e di notte se ne vanno anche a casa loro. Va molto bene così, ti assicuro.» «Benissimo. Ma vorrei che tu mi permettessi di fare qualche cosa, di darti qualche cosa.» «Quando scoprirò una cosa che desidero, sta' tranquillo che te la chiederò. Adesso dimmi come vanno i lavori. Temo di esser stato troppo occupato con il mio canile per interessarmene molto. La casa sarà pronta per il tuo matrimonio?» Artù scosse la testa. «Entro l'estate, forse, potrà essere a posto per portarvi una regina. Ma per le nozze tornerò a Caerleon. Saranno in maggio. Ci sarai?» «A meno che tu non lo desideri assolutamente, preferirei rimanere qui. Comincio ad avere l'impressione di aver viaggiato troppo in questi ultimi anni.» «Come vuoi. No, non darmi altro vino, grazie. C'è una cosa che volevo
chiederti. Ti ricordi, la prima volta che si è discusso del mio matrimonio il mio primo matrimonio - pareva che tu avessi qualche dubbio. Ho capito poi che dovevi aver avuto una specie di presentimento di sciagura. Se così fu, avevi ragione. Dimmi, ti prego... questa volta, hai dubbi del genere?» Mi dicono che quando controllo il mio viso nessuno può leggervi che cosa ho in mente. Sostenni il suo sguardo. «Nessuno. Hai bisogno di chiedermelo? Hai qualche dubbio tu stesso?» «Nessuno.» Il balenare di un sorriso. «Non ancora, almeno. Come potrei, quando mi dicono che lei è la perfezione fatta persona? Dicono tutti che è bella come un mattino di maggio, e mi dicono questo, quello e quell'altro. Ma questo, lo fanno sempre. Basterà che abbia l'alito profumato e sia d'indole compiacente... Ah, e che abbia anche una bella voce. Ho scoperto che faccio caso alle voci. Ammesso tutto questo, non potrebbe esserci matrimonio migliore. Come gallese, Merlino, dovresti essere d'accordo.» «Ah, lo sono. Sono d'accordo con tutto quello che ha detto Gwyl, quella volta nel salone. Quando ti recherai nel Galles per portarla a Caerleon?» «Non posso andarci personalmente; tra una settimana devo recarmi a nord. Mando Bedwyr anche questa volta, e con lui Gereint, e poi - per renderle onore, dato che non posso andarci io - re Melwas della Terra dell'estate.» Annuii, e la conversazione si spostò allora sui motivi che rendevano necessario il suo viaggio a nord. Aveva intenzione di andare, lo sapevo, soprattutto per ispezionare le strutture difensive nel nordest. Tydwal, parente di Lot, adesso reggeva Dunpeldyr, all'apparenza per conto di Morgause e del primogenito di Lot, Galvano, anche se era dubbio che la famiglia della regina avrebbe mai lasciato le Orcadi. «E questo a me va benissimo» disse il re con voce indifferente. «Ma provoca alcune difficoltà nel nordest.» E si spiegò. Il problema era rappresentato da Aguisel; che aveva in mano la roccaforte di Bremenium, in un punto riparato dei monti del Northumbria, dove la Dere sale verso lo High Cheviot. Fino a quando Lot aveva governato nel nord, Aguisel si era contentato di seguirlo, «come suo sciacallo», disse Artù con tono sprezzante, «insieme a Tydwal e Urien. Ma adesso che Tydwal è seduto sul trono di Lot, Aguisel comincia a diventare ambizioso. Mi è giunta la voce - ma non ho nessuna prova - che l'ultima volta che gli angli hanno risalito l'Alaunus con le loro navi, Aguisel si è trovato lì con loro, non in battaglia, ma per parlare con il loro capo. E U-
rien lo segue, tutti e due sciacalli che giocano a fare i leoni. Forse pensano di essere troppo lontani da me, ma io intendo far loro visita e deluderli. La scusa è che voglio ispezionare il lavoro che è stato fatto sulla Diga Nera. Da quello che sentirò, mi piacerebbe trovare un pretesto per togliere di mezzo definitivamente Aguisel, ma devo farlo senza spingere Tydwal e Urien a difenderlo. L'ultima cosa che potrei permettermi, finché non sarò sicuro dei sassoni occidentali, è di disperdere i re alleati del nord. Se devo eliminare Tydwal, questo può significare riportare Morgause a Dunpeldyr. Poca cosa, se paragonata con il resto, ma il giorno in cui lei starà di nuovo in un castello in Britannia non potrà essere un giorno fortunato per me.» «Allora speriamo che quel giorno non arrivi mai.» «Che sia come tu dici. Io farò del mio meglio perché ciò non avvenga.» Si guardò di nuovo intorno mentre si girava per andarsene. «È un bel posto. Temo che non avrò più tempo di rivederti prima della partenza, Merlino. Sarà prima della fine della settimana.» «Allora, che tutti gli dei ti accompagnino, mio caro. Possano esserti vicino pure al tuo matrimonio. E un giorno, torna a trovarmi.» Se ne andò. La stanza parve tremare e ridiventare più grande, e l'aria si riassestò nella calma. Due E la calma fu quello che sintetizzò i mesi che seguirono. Mi recai a Camelot poco dopo la partenza di Artù per il nord, per vedere come procedevano i lavori; poi, soddisfatto, lasciai Derwen a completarli e mi ritirai nella mia appena costruita fortezza, quasi con la stessa sensazione di essere a casa che provavo a Bryn Myrddin. Il resto di quella primavera lo dedicai alle mie faccende, riempiendo di piante il mio giardino, scrivendo a Blaise e, poiché la campagna era in pieno germoglio, raccogliendo le erbe che mi servivano a reintegrare le mie provviste. Non rividi Artù prima delle nozze. Un messaggero mi portò sue notizie, succinte ma positive. Artù aveva trovato prove del tradimento di Aguisel e lo aveva attaccato a Bremenium. I particolari non li conoscevo, ma il re aveva conquistato la fortezza e messo a morte Aguisel; e questo senza mettersi contro né Tydwal o Urien, né nessuno dei loro parenti. Anzi, Tydwal aveva combattuto al fianco di Artù nell'assalto finale alle mura. Come il re fosse riuscito a ciò, la relazione non lo diceva, ma con la morte di Aguisel il mondo sarebbe stato più pulito e, dato che era morto senza lasciare figli
maschi, un uomo scelto da Artù avrebbe potuto adesso occupare il castello che dominava il passo di Cheviot. Artù scelse Brewyn, uno di cui poteva essere sicuro, poi tornò a sud, a Caerleon, molto soddisfatto. Madonna Ginevra arrivò a tempo debito a Caerleon, regalmente scortata da principi - Melwas e Bedwyr, oltre a un gruppo dei cavalieri di Artù. Cei non era andato con loro; come siniscalco di Artù, il suo dovere lo teneva nel palazzo di Caerleon, dove furono celebrate le nozze, con grande sfarzo. Sentii dire in seguito che il padre della sposa aveva proposto il primo di maggio e che Artù, dopo aver esitato una frazione di secondo, aveva detto: «No», con un tono così reciso che molti avevano sollevato le sopracciglia. Ma quella fu l'unica ombra. Tutto il resto parve fisso sul bello. I due si sposarono alla fine del mese, in una splendida giornata di sole, e per la seconda volta Artù si portò a letto una sposa, ma questa volta con giorni e notti da dedicarle. All'inizio dell'estate vennero a Camelot, e io vidi per la prima volta la seconda Ginevra. La regina Ginevra di Northgalis era più che una ragazza passabile e «con l'alito profumato»; era una bellezza. Per descriverla, si sarebbe dovuto rubare ai bardi tutti i loro antichi stereotipi: capelli come il grano maturo, occhi come un cielo d'estate, pelle fresca come i petali di un fiore e corpo flessuoso... ma a tutto questo bisogna aggiungere una personalità abbagliante, una specie di gaiezza estroversa e un certo modo di trasmettere gioia, e si potrà avere un'idea del fascino che emanava. Perché affascinante lo era; la sera in cui fu portata a Camelot la osservai per tutta la durata del banchetto, e vidi che altri occhi, oltre quelli del re, erano posati su di lei per tutta la serata. Era evidente che sarebbe stata la regina non soltanto di Artù ma di tutti i compagni. Tranne, forse, Bedwyr. Solo i suoi occhi non cercavano in continuazione quelli di lei; Bedwyr pareva più silenzioso del solito, perso nei suoi pensieri, e quanto a Ginevra, essa difficilmente spostò gli occhi nella sua direzione. Mi domandai se durante il viaggio da Northgalis fosse accaduto qualcosa che tormentava ora nel ricordo Bedwyr. Ma Melwas, seduto accanto alla regina, pendeva dalle labbra di lei e la guardava con gli stessi occhi adoranti di tutti gli altri giovani. Quella, rammento, fu una splendida estate. Il sole risplendette, abbagliante, ma di quando in quando venne una dolce pioggia e un vento leggero, sicché i campi avevano messi quali pochi potevano ricordare, e mandrie e greggi mostravano un manto morbido e lucente, e la terra fece maturare splendidi raccolti e dappertutto, benché la domenica suonassero le campane nelle chiese cristiane, e ormai si vedessero croci dove una volta, lungo
le strade, si erano innalzati cumuli di pietre o statue, dappertutto la gente di campagna accudiva ai lavori benedicendo il giovane re perché a lui si doveva non solo la pace in cui le messi avevano potuto essere coltivate, ma la loro stessa abbondanza. Per loro, abbondanza e gloria scaturivano dal giovane sovrano, come, nell'ultimo anno di vita di Uther malato, la terra era stata gravata da un influsso malefico. E il popolo aspettava - come lo aspettavano i nobili a Camelot - l'annuncio che era stato concepito un erede. Ma l'estate finì, venne l'autunno e, benché la terra desse il suo splendido raccolto, la regina, che usciva quotidianamente a cavallo con le sue dame, continuava a essere snella e flessuosa come sempre, e non arrivava nessun annuncio. E lì, a Camelot, il ricordo della fanciulla che aveva concepito l'erede e ne era morta non turbava nessuno. Tutto era nuovo, splendente, in fase di costruzione e di creazione. Il palazzo era stato completato e adesso scultori e doratori erano al lavoro, mentre le donne tessevano e cucivano e ogni giorno arrivavano nella nuova città ceramiche e vasellame d'oro e d'argento, sicché le strade erano tutto un andirivieni. Era il momento della gioventù e del riso, della costruzione dopo la conquista; gli anni bui erano dimenticati. Quanto "all'ombra bianca" del mio presentimento, cominciai a domandarmi se non fosse stata la morte dell'altra graziosa Ginevra a proiettare quell'ombra sulla luce, quell'ombra che pareva ancora indugiare negli angoli come un fantasma. Ma non vidi mai quel fantasma e Artù, se anche si ricordò talvolta di lei, non disse niente. Così trascorsero quattro inverni, le torri di Camelot splendevano di nuove dorature, i confini erano calmi, i raccolti buoni e la gente si stava abituando alla pace e alla sicurezza. Artù aveva venticinque anni, ed era alquanto più silenzioso che in passato; pareva che stesse di più lontano da casa, e ogni volta vi rimaneva più a lungo. Cador di Cornovaglia ebbe un figlio maschio dalla duchessa sua sposa, e Artù si recò in Cornovaglia perché era il padrino del bambino, ma la regina Ginevra non andò con lui. Per alcune settimane si bisbigliò, e si sperò, che potesse avere una buona ragione per rifiutare di intraprendere il viaggio; ma il re e i suoi si recarono in Cornovaglia e ritornarono, e poi partirono di nuovo, per mare, diretti nel Gwynedd, e la regina a Camelot continuò a uscire a cavallo, a ridere, a ballare e tener corte, sempre snella come una fanciulla e, si sarebbe detto, altrettanto spensierata. Poi, in un giorno piovoso all'inizio della primavera, proprio quando calava il crepuscolo, un uomo a cavallo, facendo risonare gli zoccoli nel ga-
loppo, giunse alla mia porta con un messaggio. Il re continuava ad essere assente e non lo si aspettava ancora per un'altra settimana circa. E la regina era scomparsa. *
*
*
Il messaggero era Cei il siniscalco, fratello adottivo di Artù, figlio di Ector di Galava. Era un uomo massiccio, di un tre anni maggiore di Artù, florido e con spalle larghe. Era un buon soldato e un uomo coraggioso, benché non fosse, come Bedwyr, d'istinto atto al comando. Non aveva paure né immaginazione, e questo mentre favorisce il valore in guerra, non favorisce altrettanto le capacità di comando. Bedwyr, poeta e sognatore, capace per un qualsiasi dolore di soffrire dieci volte di più, era il migliore dei due. Ma Cei era fedele e adesso, avendo la responsabilità della casa del re, era venuto di persona a trovarmi, accompagnato solo da un servo. E questo sebbene avesse un braccio al collo, malamente sistemato, e apparisse stanco e con tutta la sua ottusità fosse quasi pazzo per la preoccupazione. Mi raccontò tutta la storia, seduto nella stanza, con la luce del fuoco che danzava sulle travi del soffitto. Accettò una coppa di vino cotto e parlò rapidamente mentre, per mia insistenza, toglieva la fascia e mi lasciava esaminare il braccio ferito. «Bedwyr mi ha mandato perché ti raccontassi. Ero ferito, perciò ha fatto tornare me. No, non ho visto un dottore. Maledizione, non ce n'è stato il tempo! Avrebbe potuto accadere qualsiasi cosa, aspetta che ti racconti... Lei se n'è andata fin dall'alba. Ricordi com'era bello il tempo stamattina? Lei è uscita con le sue dame, solo con i palafrenieri e un paio di uomini come scorta. Era una cosa normale... tu lo sai.» «Sì.» Era vero. A volte uno o più cavalieri accompagnavano la regina, ma spesso essi erano occupati in cose più importanti che scortarla nelle sue cavalcate quotidiane. Lei aveva soldati e palafrenieri, e ormai non c'era più, così vicino a Camelot, quel genere di pericolo rappresentato dai feroci fuorilegge che quand'io ero ragazzo battevano le strade solitarie. Così Ginevra si era alzata di buon'ora, quella mattina che prometteva di essere bellissima, era montata sulla sua giumenta grigia e si era avviata con due delle sue dame e quattro uomini, due dei quali erano soldati. Si erano diretti verso sud, al di là di una fascia di asciutta brughiera delimitata, a sud, da una folta foresta. Alla loro destra c'erano gli acquitrini, dove i fiumi, dise-
gnando innumerevoli anse, scendono verso il mare nei profondi letti folti di canneti, e a est il paesaggio saliva, ondulato e boscoso, verso le colline calcaree. Il gruppetto aveva trovato selvaggina in quantità; i piccoli levrieri l'avevano inseguita accanitamente e, disse Cei, i palafrenieri erano stati occupatissimi a inseguire loro per riportarli indietro. Intanto la regina aveva lanciato il suo smeriglio2 dietro a una lepre, e lei stessa aveva seguito l'azione, addentrandosi nella foresta. Cei grugnì quando con le dita, tastandolo, trovai il muscolo offeso. «Be', ma te l'avevo detto che non era quasi niente. Solo uno strappo muscolare, vero? Uno stiramento? Ci vorrà molto? Ah, comunque non è il braccio che mi serve per la spada... Insomma, la regina si è lanciata al galoppo sulla giumenta grigia, e le donne sono rimaste indietro. La sua ancella non cavalca molto bene e l'altra, madonna Melissa, non è giovane. I palafrenieri stavano tornando con i levrieri sulla sella, ed erano ancora un po' distanti. Nessuno si è preoccupato. Lei cavalca splendidamente - lo sai che ha montato perfino lo stallone di Artù e se l'è cavata bene? - e poi l'aveva già fatto altre volte, tanto per prenderli in giro. Perciò non se la sono presa, e i due soldati si sono messi a seguirla.» Il resto fu facile da raccontare. Era vero che era già successo altre volte, senza alcun rischio, perciò i soldati seguivano la regina a un'andatura rilassata. Sentivano risonare davanti a sé gli zoccoli della giumenta di lei, nella fitta foresta, e cespugli e rami secchi frusciare e spezzarsi sul terreno. La foresta divenne più fitta; i due soldati adesso si misero a un piccolo galoppo, scansando i rami che ancora si muovevano dopo il passaggio della regina, e guidando i cavalli attraverso il groviglio di legna morta e di buche piene d'acqua che rendevano così pericoloso il terreno della foresta. Metà imprecavano, metà ridevano ed erano talmente occupati che passarono alcuni minuti prima che si rendessero conto di non sentire più gli zoccoli della giumenta. L'intrico del sottobosco non rivelava tracce del passaggio di un cavallo. Si fermarono per ascoltare. Niente, a parte il brontolio lontano di una ghiandaia. Gridarono, e non ebbero alcuna risposta. Irritati, più che allarmati, si separarono: uno si diresse verso il punto da cui proveniva il grido della ghiandaia, l'altro si addentrò ancora nella foresta. «Ti risparmio il resto» disse Cei. «Lo sai come succede. Dopo un po' si ritrovarono e a questo punto, naturalmente, si allarmarono. Gridarono ancora un po', e i palafrenieri li udirono, e li raggiunsero e si misero anch'essi a cercare la regina. Poi, di lì a poco, sentirono di nuovo la giumenta. Doveva essere lanciata, dissero, e la udirono nitrire. Diedero di sprone ai ca-
valli e l'inseguirono.» «E allora?» Sistemai il braccio danneggiato nella fascia che avevo di nuovo legato, e lui mi ringraziò. «Così va meglio. Grazie. Be', hanno trovato la giumenta a tre miglia di distanza, azzoppata, con una briglia rotta, ma della regina nessuna traccia. Hanno rimandato a casa le donne con uno dei palafrenieri e hanno proseguito le ricerche. Bedwyr e io siamo usciti con dei soldati, e per il resto della giornata abbiamo setacciato la foresta meglio che potevamo, ma niente.» Alzò la mano illesa. «Sai com'è la zona. Dove non c'è un groviglio di alberi e cespugli che farebbe fermare un drago che sputa fuoco, c'è l'acquitrino dove cavalli e uomini possono sprofondare completamente. E anche nella foresta ci sono fossi più alti di un uomo, e troppo larghi per saltarli. È stato lì che mi sono fatto male. Rami secchi messi a nascondere una buca, assolutamente come una trappola per lupi. Sono stato fortunato a cavarmela con così poco danno. Al mio cavallo, gli si è conficcata una punta nella pancia, povera bestia. Dubito che possa ancora servire a molto.» «La giumenta» dissi. «Era caduta? Si era impantanata?» «Fin sopra la testa, ma questo non significa niente. Deve aver galoppato per un'ora attraverso acquitrini e pantani. La gualdrappa era lacera, però. Credo che sia caduta, perché non riesco a immaginare come altrimenti sarebbe stata sbalzata di sella la regina, a meno che non sia stato per un ramo. Credimi, abbiamo frugato ogni cespuglio e ogni fosso della foresta. Lei dev'essere da qualche parte in stato di incoscienza... se non peggio. Dio, se proprio doveva fare una cosa simile, non poteva farlo quando c'era il re?». «Naturalmente lo avete mandato ad avvisare?» «Bedwyr ha mandato un uomo a cavallo prima che uscissimo da Camelot. Adesso sono usciti altri uomini. Si sta facendo troppo buio per trovarla, ma se lei è rimasta svenuta e adesso è tornata in sé, forse possono sentirla chiamare. Che altro potevamo fare? Bedwyr adesso ha fatto andare laggiù degli uomini con reti da pesca. Alcune di quelle buche sono profonde, e in quel fiume a ovest ci sono delle correnti...» Non continuò. I suoi occhi azzurri dall'espressione un po' ottusa mi fissavano, come chiedendomi di fare un miracolo. «Dopo che sono stato disarcionato, mi ha rimandato da te. Merlino, puoi venire con me adesso, e farci vedere dove possiamo cercare la regina?» Abbassai lo sguardo sulle mie mani, poi sul fuoco, ridotto ormai a qual-
che fiammella che lambiva un ciocco già grigio. Non avevo più verificato i miei poteri dopo monte Badone. E per quanto tempo, prima di allora, non avevo osato evocare neppure il minore di essi? Né fiamme, né sogni, neppure il baluginio della Vista nel cristallo o nelle gocce d'acqua: non importunavo Dio per il più lieve alito del grande vento. Se egli veniva a me, bene. Toccava a lui scegliere il momento, e a me assecondarlo. «O almeno dirlo a me, adesso?» la voce di Cei implorante, incrinata. C'era stato un tempo, pensai, in cui mi sarebbe bastato guardare il fuoco, così, alzare una mano, così... Le fiammelle sibilarono e guizzarono innalzandosi, avvolgendo il ciocco grigio di abbaglianti fasci di luce, e emettendo un calore cauterizzante. Le scintille sgorgarono, ferirono con la solita, gradita, stimolante sofferenza. La luce, il fuoco, tutto il mondo vivente fluirono verso l'alto, luminosità e tenebre, fiamma e fumo e tremula visione, portandomi con sé. Un suono emesso da Cei riportò la mia attenzione su di lui. Era in piedi e indietreggiando si era allontanato dalla vampata. Attraverso la luce rossastra che gli si rovesciava addosso vidi che era impallidito. Il suo viso era imperlato di sudore. Disse con voce roca: «Merlino...». Già stava svanendo, sprofondato nella fiamma e nelle tenebre. Sentii la mia voce dire: «Vai. Preparami il cavallo. E aspettami». Non lo udii uscire. Io ero già lontano dalla stanza illuminata dal fuoco, trasportato dal fiume freddo e scintillante che mi lasciò cadere, leggero come una foglia staccata dal vento, nelle tenebre, alle porte dell'Aldilà. *
*
*
Le grotte continuavano, continuavano all'infinito, la volta perduta nelle tenebre, le pareti illuminate da qualche strano bagliore subacqueo che metteva in evidenza ogni spigolo e sporgenza della roccia. Da archi di pietra pendevano stalattiti, come muschi da vecchi alberi, e colonne di roccia s'innalzavano dal pavimento di pietra per incontrarle. Chissà dove c'era acqua che cadeva, e il rumore riecheggiava, e la luce ondeggiante s'increspava, riflettendola. Poi, piccola e lontana, si vide una luce: rivelava una porta a colonne, regolare e bella. Al di là di essa qualcosa - qualcuno - si mosse. Nel momento stesso in cui desiderai andare oltre per vedere, mi trovai lì senza sforzo, come foglia al vento, o fantasma in una notte di tempesta. La porta era l'ingresso a una grande sala illuminata come per una festa.
Qualsiasi cosa potessi aver visto, in movimento, non c'era più; solo i grandi spazi di luce abbagliante, il pavimento colorato di una sala di re, le colonne dorate, le torce infilate in supporti d'oro a forma di drago. Seggi d'oro io vidi, tutt'intorno alle pareti lucenti, e tavoli d'argento. Su uno di essi era posata una scacchiera, d'argento, brunito e chiaro, con i pezzi d'argento dorato ancora disposti, come se fosse stata interrotta una partita. Al centro dell'enorme sala era un grande scranno di avorio e davanti ad esso una scacchiera d'oro, sulla quale erano posati dei pezzi del gioco, forse una dozzina, pure d'oro e un altro pezzo non finito, con accanto una bacchetta d'oro e una lima, nel punto in cui era stato colui che intagliava i pezzi. Sapevo che quella non era una vera visione ma il sogno della leggendaria sala di Llud-Nuatha, re dell'Aldilà. In quel palazzo erano venuti tutti, eroi delle canzoni e della storia. Lì era stata la spada, lì un giorno qualcuno avrebbe potuto sognare il graal e la lancia e sollevarli. Lì Macsen aveva visto la sua principessa, la fanciulla che nel mondo di sopra aveva sposato, e con la quale aveva generato la stirpe di condottieri di cui l'ultimo discendente era Artù... Come un sogno mattutino, era svanito. Ma le grandi grotte c'erano ancora, e in esse, adesso, un trono su cui era seduto un re tenebroso, con accanto una regina, visibile solo a metà nell'ombra. Un tordo, chissà dove, cantava e io la vidi girare la testa e la udii sospirare. Allora, e durante tutta la scena, seppi che io, Merlino, questa volta tra tutte non volevo vedere la verità. Già conoscendola, forse, a un livello inferiore a quello della consapevolezza, per me stesso avevo costruito il palazzo di Llud, il salone di Dite e della sua prigioniera Persefone. Dietro di loro era la verità, e dato che ero il servitore del dio e di Artù, dovevo trovarla. Guardai di nuovo. Lo scroscio dell'acqua e il canto di un tordo. Una stanza oscura, ma non grandiosa, senza arredi d'oro e d'argento; una stanza con tendaggi, bene illuminata, in cui un uomo e una donna erano seduti a un tavolino intarsiato e giocavano a scacchi. Pareva che lei stesse vincendo. Vidi lui corrugare la fronte e la tensione delle sue spalle mentre si curvava sulla scacchiera studiando la mossa da fare. Lei rideva. Lui alzò la mano, esitando, ma la ritirò e rimase per un po' assolutamente immobile. Lei disse qualche cosa e l'uomo guardò di lato, poi si voltò per regolare lo stoppino di una delle lampade vicino a lui. Mentre teneva gli occhi distolti dalla scacchiera, la mano di lei si mosse furtivamente per spostare un pezzo, precisa come un ladro al mercato. Quando egli tornò a guardare, la donna era seduta, pudi-
ca, con le mani in grembo. Lui guardò, sgranò gli occhi, poi rise rumorosamente e fece la mossa. Il suo cavallo fece volar via la regina di lei dalla scacchiera. Lei parve sorpresa e lanciò in alto le mani, bella come un quadro, poi cominciò a disporre daccapo i pezzi. Ma l'uomo, a un tratto assolutamente impaziente, balzò in piedi e, sporgendosi attraverso la scacchiera, prese le mani di lei nelle sue e l'attirò a sé. La scacchiera, in mezzo a loro, cadde e gli scacchi si rovesciarono sul pavimento. Vidi la regina bianca rotolare vicino al piede di lui, e il re rosso andarle sopra. Il re bianco era in disparte, a faccia in giù. L'uomo abbassò lo sguardo, rise di nuovo e le disse qualcosa all'orecchio. Le sue braccia si chiusero intorno a lei. La veste di lei disperse gli scacchi, e il piede dell'uomo calò sul re bianco. L'avorio si frantumò in mille schegge. Così si frantumò anche la visione, si ritrasse nell'ombra che svanì, grigia, di nuovo nella luce della lampada, e nell'ultimo bagliore del fuoco morente. Mi alzai in piedi, rigido. I cavalli scalpitavano di fuori, e in qualche punto del chiostro c'era un tordo che cantava. Presi il mantello dal gancio e me lo avvolsi intorno. Uscii. Cei si stava gingillando accanto ai cavalli, rosicchiandosi le unghie. Si affrettò a venirmi incontro. «Lo sai?» «Un po'. È viva, e illesa.» «Ah! Sia ringraziato Dio! Ma dove, allora?» «Ancora non lo so, ma lo saprò. Un momento, Cei. Avete ritrovato lo smeriglio?» «Cosa?» fece lui con voce inespressiva. «Il falcone della regina. Lo smeriglio che lei ha fatto volare e seguito nella foresta.» «Neppure la traccia. Perché? Sarebbe stato utile?» «Non saprei. Era solo una domanda. Adesso portami da Bedwyr.» Tre Grazie al cielo, Cei non pose altre domande, tutto preso com'era dal suo cavallo mentre scivolavamo e sobbalzavamo sul terreno irregolare. Sebbene, nonostante la pioggia, vi fosse ancora luce sufficiente per scorgere la strada, non era facile scegliere un percorso rapido e sicuro attraverso la discesa acquitrinosa che era la via più rapida tra Applegarth e la foresta in cui la regina era scomparsa.
Per l'ultima parte del tragitto ci guidarono le luci lontane delle torce e le voci degli uomini, ingrandite e deformate dall'acqua e dal vento. Trovammo Bedwyr immerso nell'acqua fino alle cosce, a tre o quattro passi dal bordo di un profondo canale fiancheggiato da nodosi ontani e dai ceppi di vecchie querce, alcune tagliate molto tempo prima per il legname, altre, secche per la vecchiaia e i temporali, che stavano mettendo nuovi germogli al riparo dei rami rotti. Gli uomini erano radunati accanto a una di queste querce. Avevano fissato le torce ai rami secchi, e c'erano due uomini che reggevano torce accanto a Bedwyr, per far luce mentre si dragava il canale. Sull'argine, poco lontano dal ceppo della quercia, c'era un mucchio di detriti inzuppati da cui gocciolava l'acqua, che scintillavano alla luce delle torce. E si potevano immaginare le reti che ogni volta venivano ritirate, pesanti, dal fondo del canale, e gli uomini che ogni volta si protendevano verso la luce della torcia per vedere, sgomenti, se non contenessero il corpo annegato della regina. Uno di questi carichi era stato appena rovesciato dalla rete quando Cei e io ci avvicinammo, con i cavalli che, scivolando, si fermarono, per fortuna, proprio a un pelo dall'acqua. Bedwyr non ci aveva visto. Sentii la sua voce, arrochita dalla stanchezza, indicare agli uomini che reggevano le reti dove lanciarle la volta successiva. Ma quelli che erano sull'argine lo chiamarono e lui si voltò, poi, prendendo una torcia dall'uomo che gli era accanto, venne verso di noi facendo schizzare l'acqua. «Cei?» Era troppo preoccupato ed esausto per vedere me. «L'hai visto? Che cosa ha detto? Aspetta, arrivo tra un minuto.» Voltò la testa per gridare agli uomini rimasti dietro di lui: «Continuate, voi!». «Inutile» dissi io. «Smetti questo lavoro, Bedwyr. La regina è salva.» Era proprio sotto l'argine. Sul suo viso, alzato verso la luce della torcia, passò un tale sollievo, una tale gioia che si sarebbe potuto giurare che le torce, di colpo, diventassero più luminose. «Merlino? Siano ringraziati gli dei! Allora l'hai trovata?» Qualcuno aveva riportato un po' indietro i nostri cavalli. Tutt'intorno a noi adesso si accalcavano gli uomini, con le loro domande impazienti. Qualcuno tese una mano a Bedwyr, che risalì l'argine a balzi e poi si fermò, grondante acqua limacciosa. «Ha avuto una visione» disse Cei, seccamente. Gli uomini si quietarono immediatamente, con gli occhi sgranati, e le domande svanirono in un borbottio che tradiva timore reverenziale e disagio. Ma Bedwyr chiese,
semplicemente: «Dov'è la regina?». «Questo temo di non potertelo ancora dire.» Mi guardai intorno. Sulla sinistra il canale limaccioso si addentrava, serpeggiando, ancor più nell'oscurità della foresta, ma verso ovest, sulla destra, si poteva scorgere attraverso gli alberi, là dove si stendeva un lago acquitrinoso, un'apertura di luce crepuscolare. «Perché dragavate in questo punto? Avevo capito che i soldati non sapessero dov'è caduta.» «È vero che non l'hanno sentito, né visto, e che la regina dev'essere caduta un po' prima che ritrovassero le orme della giumenta. Ma ci sono molti indizi che l'incidente sia avvenuto qui. Il terreno adesso è stato molto calpestato, sicché non puoi più vedere un gran che, ma c'erano tracce di una caduta, il cavallo probabilmente deve essersi impennato, e poi esser scappato via in mezzo a quei rami. Avvicina la torcia, per piacere. Lì, Merlino, vedi? I segni sui rami e un brandello di stoffa che dev'essere del suo mantello... C'era anche del sangue, su uno di quei rami. Ma se tu dici che è salva...» Alzò la mano, stancamente, per mandare indietro i capelli che gli cadevano sugli occhi. Gli rimase una striscia di fango sulla guancia. Lui non ci badò. «Il sangue doveva essere della giumenta» disse qualcuno, alle mie spalle. «Aveva le zampe graffiate.» «Sì, questo può essere» disse Bedwyr. «Quando l'abbiamo ripresa, era azzoppata, e aveva una briglia spezzata. Poi quando abbiamo trovato le tracce qui sull'argine e tra i rami, ho creduto di capire... ho temuto di sapere che cosa fosse successo. Ho pensato che la giumenta doveva aver scartato e esser caduta scaraventando la regina nell'acqua. Il canale è profondo qui, proprio sotto l'argine. Ho pensato che forse lei si fosse aggrappata alla briglia, tentando di farsi tirar fuori dalla giumenta, ma che la briglia si fosse spezzata e la giumenta si fosse imbizzarrita, che le redini fossero rimaste impigliate in uno dei ceppi, e che solo dopo un po' di tempo la giumenta avesse potuto liberarsi e fuggire. Ma ora... Che cosa è successo?» «Questo non posso dirtelo. Ciò che importa adesso è trovarla, e al più presto. E per questo, ci serve l'aiuto del re Melwas. È qui, lui o qualcuno dei suoi?» «Nessuno dei suoi uomini d'armi, no. Ma abbiamo incontrato tre o quattro abitanti delle paludi, brava gente, che ci hanno indicato alcuni dei sentieri che attraversano la foresta.» Alzò la voce, girandosi. «Gli uomini di
Mere, sono ancora qui?» Pareva che ci fossero. Si fecero avanti, riluttanti e molto impauriti, spinti dai loro compagni. Due uomini, piuttosto bassi e con spalle larghe, con la barba e arruffati, e con loro un ragazzo, un adolescente, il figlio, indovinai, dell'uomo più giovane. Io mi rivolsi al più anziano. «Venite da Mere, nella Terra dell'estate?» Annuì, torcendo nervosamente le dita con un lembo della sua tunica inzuppata. «È stato gentile da parte vostra aiutare gli uomini del Sommo re. Non dovrete pentirvene, te lo prometto. E adesso, sai chi sono io?» Annuì ancora, continuando a torcere le mani. Il ragazzo deglutì, percettibilmente. «Allora non aver paura, ma rispondi alle mie domande, se puoi. Sai dov'è adesso il re Melwas?» «Non esattamente, mio signore, no.» L'uomo parlò lentamente, quasi come uno che parli una lingua straniera. Gli abitanti delle paludi sono taciturni e quando accudiscono alle occupazioni quotidiane, si servono di un dialetto loro particolare. «Ma non lo troverai nel suo palazzo sull'isola, questo lo so. Lo abbiamo visto che andava a caccia, due giorni fa. Va a caccia, di quando in quando, solo lui e uno dei signori, o magari due.» «A caccia? In queste foreste?» «No, padrone, è andato a caccia di anitre. Solo lui, con uno che remava sulla barca.» «E tu l'hai visto? Da che parte andava?» «Daccapo verso sudovest.» L'uomo indicò. «Laggiù dove il sentiero rialzato attraversa l'acquitrino. La terra è asciutta in qualche punto lì, e ci sono anitre selvatiche in quantità, che vengono a mangiare. Ha un casotto per la caccia, lì, oltre il canale, ma certamente adesso non c'è. È vuoto fin dall'inverno passato, e non ci sono servi. Inoltre, all'alba è arrivata la notizia dal mare che il giovane re sta tornando a casa da Caer-y-n'a Von con una ventina di vele, perciò dovrebbe approdare all'isola, magari alla prossima marea. E il nostro re Melwas dovrà di sicuro essere lì per accoglierlo.» La cosa era nuova per me e, come potei vedere, anche per Bedwyr. È sempre un mistero come questi isolati abitanti delle paludi abbiano le notizie con una tale rapidità. Bedwyr mi guardò. «Non c'era nessun fuoco di segnalazione acceso sul Tor quando abbiamo ricevuto le notizie a proposito della regina. Tu l'hai
visto, Merlino?» «No. E non l'ha visto nessun altro. Le vele non possono ancora esser state avvistate. Dobbiamo andare adesso, Bedwyr. Ci dirigeremo verso il Tor.» «Intendi parlare con Melwas, anche prima di cercare la regina?» «Credo di sì. Vuoi dare gli ordini? E badare a che questi uomini siano compensati per l'aiuto che ci hanno dato?» Nella confusione che seguì, toccai Bedwyr al braccio e me lo trassi da parte. «Non posso parlare, adesso, Bedwyr. Questa è una faccenda grossa, e pericolosa. Tu e io dobbiamo andare da soli a cercare la regina. Puoi fare in modo che ci riusciamo, senza che facciano domande?» Lui si accigliò, e mi scrutò in viso. Tuttavia, disse immediatamente: «Certo. Ma Cei? Lo accetterà?» «Si è fatto male. E poi, se Artù sta per arrivare, Cei deve tornare a Camelot.» «È vero. E gli altri possono recarsi all'isola, ad aspettare la marea. Farà buio abbastanza presto perché noi possiamo allontanarci inosservati.» La tensione della giornata improvvisamente gli affiorò nella voce. «Hai intenzione di dirmi di che si tratta?» «Te lo spiegherò strada facendo. Ma non voglio che nessun altro senta, neppure Cei.» Alcuni minuti dopo ci eravamo avviati. Io ero a cavallo tra Cei e Bedwyr, gli uomini ci seguivano rumorosamente. Parlavano spensieratamente tra loro, del tutto rassicurati, a quanto pareva, dato che io avevo detto che andava tutto bene. Io stesso, benché per il momento sapessi solo quanto il sogno mi aveva mostrato, mi sentivo curiosamente leggero e tranquillo, mentre cavalcavo all'andatura affrettata imposta da Bedwyr su quel terreno infido, senza pensieri o preoccupazioni, senza neppure accorgermi della sella o della briglia. Non era una sensazione nuova, ma erano molti anni che non la provavo: il volere del dio che fluiva superandomi, e io che mi lasciavo trascinare, scintilla sospinta tra le stelle eterne. Non sapevo che cosa era davanti a noi in quel piovoso crepuscolo, sapevo soltanto che la regina e la sua avventura non erano che un piccolo frammento del destino di quella notte, ombre già sospinte da parte da quel grande impeto di potere. Il mio ricordo di quella cavalcata è molto confuso, adesso. Il gruppo di Cei ci lasciò e poco dopo trovammo le barche e Bedwyr vi fece salire metà del gruppo e disse loro di attraversare il lago per la via più breve. Gli altri
li divise, mandandone alcuni per la strada lungo la riva, altri per il sentiero rialzato che portava direttamente al pontile. La pioggia era cessata, adesso, e con il sopraggiungere della notte la nebbia avvolgeva ogni cosa; al di sopra della nebbia, il cielo si stava riempiendo di stelle, come una rete che scintilla di pesce argenteo. Furono accese altre torce e i traghetti piatti stipati di uomini e di cavalli furono spinti lentamente, con i pali, sull'acqua coperta di nebbia la cui superficie era striata da luce riflessa che pareva fumo. Mentre i soldati sulla riva si dividevano e si riformavano, con i cavalli immersi fino alle spalle nella nebbia ondeggiante, scorgemmo lo scintillio di una torcia lontana che saliva sul Tor. Le vele di Artù erano state avvistate. Fu facile allora per Bedwyr e me andarcene inosservati. I nostri cavalli si buttarono fuori della strada battuta, percorsero a un piccolo galoppo sostenuto una lega di prati allagati per poi ritrovare la buona velocità della strada che portava a sudovest. Ben presto le luci e i rumori dell'isola sprofondarono dietro di noi e scomparvero. La nebbia si sollevava a spire dall'acqua sui due lati. Le stelle indicavano il cammino, ma erano fioche, come lumi su una strada per fantasmi. I nostri cavalli avanzavano regolarmente, a lunghe falcate, e presto la strada si allargò, e potemmo proseguire affiancati. «Quel casotto di caccia a sudovest.» Ansimava. È lì che stiamo andando?» «Lo spero. Lo conosci?» «Posso trovarlo. È per questo che avevi bisogno dell'aiuto di Melwas? Di certo, quando saprà dell'incidente della regina, farà frugare la sua terra da un capo all'altro dai suoi soldati. E se non è al casotto adesso...» «Speriamo che non ci sia.» «Che cos'è, un indovinello?» Per la prima volta, da quando lo conoscevo, la sua voce si sarebbe potuta difficilmente dire garbata. «Hai detto che mi avresti spiegato. Hai detto che sapevi dov'era la regina, e adesso ti metti a cercare Melwas. Be', ma allora...» «Bedwyr, non hai capito? Credo che Ginevra sia nel casotto di caccia. Melwas ce l'ha portata.» Il silenzio che seguì era più tempestoso di qualsiasi imprecazione. Quando parlò, quasi non riuscivo a sentirlo. «Non sta a me chiederti se sei sicuro. Lo sei sempre. E se hai avuto una visione, non posso fare altro che accettarla. Ma dimmi come, e perché?» «Il perché è ovvio. Come ancora non lo so. Immagino che lui lo proget-
tasse da un po' di tempo. L'abitudine della regina di uscire a cavallo è nota, e lei si reca spesso nella foresta che confina con l'acquitrino. Se lo ha incontrato lì, quando si era staccata dal suo gruppo, precedendo gli altri, che cosa poteva esserci di più naturale che fermasse la sua giumenta e si mettesse a parlare con lui? Questo potrebbe spiegare il silenzio all'inizio, quando i soldati hanno cominciato a cercarla.» «Sì... E se lui ha afferrato le redini e ha tentato di prenderla, e lei ha dato di sprone alla giumenta... Questo spiegherebbe la briglia rotta e i segni che abbiamo trovato presso gli argini. Per tutti gli dei, Merlino! Stai parlando di rapimento!... E hai detto che lui deve averlo progettato da un po' di tempo?» «Posso solo fare delle congetture» dissi. «Sembra probabile che lui debba aver fatto alcuni tentativi sbagliati prima che gli capitasse l'occasione buona: la regina senza scorta e la barca lì vicino.» Non rivelai altro dei miei pensieri. Mi stava tornando in mente la stanza illuminata dalla lampada, con tanta cura preparata per lei; la partita a scacchi; l'atteggiamento pudico della regina e la sua aria sorridente. Pensavo anche alle lunghe ore di giorno chiaro e di crepuscolo che erano trascorse da quando lei era sparita. Lo stesso, ovviamente, stava pensando Bedwyr. «Dev'essere pazzo! Un re minore come Melwas rischiare la collera di Artù? È uscito di senno?» «Si potrebbe ben dirlo» risposi seccamente. «È successo altre volte, quando c'è una donna di mezzo.» Ci fu un altro silenzio, interrotto alla fine da un gesto, che si vedeva appena, e da un cambiamento nell'andatura del cavallo. «Rallenta, qui. Tra poco lasciamo la strada.» Ubbidii. I cavalli si misero al trotto, al passo, mentre ci guardavamo intorno nella nebbia. Poi lo vedemmo, un sentiero che in apparenza portava direttamente nell'acquitrino. «È questo?» «Sì. È un brutto sentiero. Può darsi che ci tocchi far nuotare i cavalli.» Scorsi lo sguardo che mi aveva lanciato, voltandosi. «Andrà bene per te?» Un ricordo mi assalì: Bedwyr e Artù nella Foresta selvaggia, che cavalcavano a rotta di collo, come fanno i ragazzi, ma sempre solleciti e premurosi verso di me, cavaliere scadente che arrancava dietro di loro. «Me la caverò.» «Allora da questa parte.» Il suo cavallo si tuffò lungo la stretta spirale di fango tra i canneti, poi entrò in acqua come una barca al varo; il mio lo
seguì e avanzammo, con l'acqua fino alle cosce, guadando l'acqua liscia. Era uno strano modo di andare avanti, perché la nebbia nascondeva l'acqua; nascondeva, perfino, la testa dei nostri cavalli. Mi domandai come facesse Bedwyr a vedere la strada, poi scorsi a mia volta, lontano, al di là del luccichio dell'acqua e dei banchi di nebbia, oltre le sagome nere degli alberi e dei cespugli, il minuscolo scintillio di una luce che indicava una casa. Lo guardai avvicinarsi a poco a poco, mentre a velocità vertiginosa passavo in rassegna le varie alternative di ciò che si doveva fare. Artù, Bedwyr, Melwas, Ginevra... e per tutto il tempo, come il ronzio profondo che l'arpa costruisce sotto una struttura intricata di musica, ecco quell'altra pressione del potere che mi spingeva verso... verso che cosa? I cavalli si issarono fuori dell'acqua e rimasero fermi, ansimando e sgocciolando, su una cresta di terra asciutta. Questa si estendeva per circa cinquanta passi davanti a noi, e dopo, a circa venti passi di distanza, c'era la casa, al di là di un altro braccio d'acqua. Non c'era ponte. «E neppure una barca.» Lo udii imprecare sottovoce. «È qui che ci tocca nuotare.» «Bedwyr, dovrò lasciarti fare quest'ultimo pezzo da solo. Ma tu...» «Sì, per Dio!» La sua spada frusciò, lenta nel fodero. Di scatto avanzai una mano e afferrai la briglia del suo cavallo sopra il morso. «... Ma tu farai esattamente come ti dico.» Un silenzio. Poi la sua voce, sommessa e ostinata. «Lo ucciderò, naturalmente.» «Tu non farai niente del genere. Tu salverai l'onore del Sommo re e quello della regina. Questa storia riguarda Artù, non te. Lascia che ci pensi lui.» Un altro silenzio, lungo questa volta. «Benissimo. Mi lascerò dirigere da te.» «Bene.» Girai piano il mio cavallo, portandolo al riparo di un gruppo di ontani. Il suo, naturalmente, seguì, con me che ancora lo tenevo per il morso. «Adesso aspetta. Guarda laggiù.» Indicai verso nordovest, nella direzione da cui venivamo. Lontano, nella notte, dall'altra parte dei piatti acquitrini, si vedeva un ammasso di luci, in alto, come stelle. La fortezza di Melwas, che scintillava in segno di benvenuto. A meno che non ci fosse il re, rientrato a casa dalla caccia, tutte quelle luci potevano significare una cosa sola: Artù era tornato. Poi, il rumore talmente ingrandito dall'acqua che ci fece sussultare, ci giunse lo scatto e il cigolio di una porta che si apriva lì vicino, e il tenue
sciabordio dell'acqua solcata da una barca. I rumori venivano da dietro la casa, dove qualcosa che non potevamo vedere fendeva l'acqua e si allontanava nella nebbia. Una voce d'uomo, sommessa, pronunciò qualche parola. Bedwyr si mosse di scatto, e il suo cavallo lanciò in alto la testa, contro la mia mano che lo tratteneva. La sua voce era carica di tensione. «Melwas. Ha visto le luci. Maledizione, Merlino, la sta portando...» «No. Aspetta. Ascolta.» Nella casa brillava ancora una luce. Una voce di donna gridò qualche cosa. Il grido conteneva una specie di implorazione, ma non si capiva se dettata dalla paura, dal desiderio, o dal dispiacere di essere lasciata sola. Il rumore della barca si affievoliva. La porta della casa si chiuse. Tenevo ancora la briglia del cavallo di Bedwyr. «Adesso vai dall'altra parte a prendere la regina, e la riportiamo a casa.» Quattro Quasi prima che io avessi finito di parlare lui balzò giù dal cavallo, abbandonò il pesante mantello sulla sella e fu in acqua, nuotando come una lontra verso la scarpata erbosa davanti alla porta. Vi arrivò e cominciò a tirarsi fuori dall'acqua. Lo vidi fermarsi, sentii un grugnito di dolore, un rantolo soffocato, un'imprecazione. «Che c'è?» Non mi diede risposta. Portò un ginocchio sull'argine, poi lentamente, afferrandosi al ramo pendulo di un salice, si tirò in piedi. Si fermò solo per scuotersi l'acqua dalle spalle, poi arrancò su per la scarpata fangosa verso la porta della casa. Camminava lentamente, come con difficoltà. Mi parve che zoppicasse. Mentre avanzava, sentii raschiare la spada estratta dal fodero. Con l'elsa martellò la porta. Il rumore riecheggiò, come se risonasse in una casa vuota. Non vi fu nessun movimento, nessuna risposta. (E questo è quanto, pensai amaro, per la dama che aspetta di essere salvata.) Bedwyr riprese a martellare la porta di colpi. «Melwas! Apri a Bedwyr del Benoic! Apri in nome del re!» Ci fu un lungo momento di silenzio. Si capiva che qualcuno all'interno della casa aspettava trattenendo il respiro e con il cuore in tumulto. Poi la porta si aprì. Si aprì non già con l'impeto della sfida e del coraggio, ma lentamente, appena uno spiraglio che rivelò la luce fioca di un cero e l'ombra di una
persona che sbirciava di fuori. Una figura sottile, snella e diritta, con i capelli sciolti che ondeggiavano e una lunga veste di stoffa sottile dai morbidi riflessi. Bedwyr disse, e aveva la voce strozzata: «Madonna? Signora! Stai bene?». «Principe Bedwyr.» La voce di lei ansimante, ma bassa e apparentemente calma. «Ringrazio Dio per te. Quando ti ho sentito arrivare ho avuto paura... Ma poi, quando ho capito che eri tu... Come hai fatto a venire sin qui? Come mi hai trovato?» «Mi ha guidato Merlino.» La udii chiaramente, da dove mi trovavo con i cavalli, trattenere di colpo il respiro. Il cero illuminò il suo viso pallido mentre girava di scatto la testa, scorgendomi dall'altra parte dell'acqua. «Merlino?» Poi la sua voce fu di nuovo sommessa e ferma. «Allora di nuovo ringrazio Dio per la sua arte. Ho pensato che nessuno sarebbe venuto mai da questa parte.» Questo, pensai, lo credo bene. Dissi forte: «Puoi prepararti madonna? Siamo venuti per riportarti dal re.» Lei non mi rispose, ma si voltò per rientrare, poi si fermò e disse qualche cosa a Bedwyr, con voce troppo bassa perché io potessi udirla. Lui rispose, ed essa spalancò la porta, e gli fece cenno di seguirla di dentro. Bedwyr entrò, lasciando aperta la porta. Nella stanza vidi la luce alzarsi e abbassarsi, ondeggiando, segno di un fuoco acceso. L'ambiente era illuminato dalla luce tenue di una lampada, e attraverso la porta e la finestra scorsi fugacemente una stanza più riccamente arredata di quanto potesse esserlo qualsiasi casotto da caccia abbandonato da tanto tempo, con sgabelli dorati e cuscini scarlatti, e, da un'altra porta semiaperta, l'angolo di un letto o giaciglio, con un copriletto gettato sopra una confusione di lenzuola. Melwas aveva ben preparato, dunque, il nido per lei. La mia visione, con la luce del fuoco, il tavolo della cena e l'amichevole partita a scacchi, era stata abbastanza precisa. Le parole con le quali Artù sarebbe stato informato si agitavano, si allontanavano e si riformavano nella mia mente. La nebbia saliva intorno alla casa, formando bianchi fantasmi, ombre bianche... Bedwyr uscì dalla casa. La spada di nuovo nel fodero, con una mano reggeva una lampada; con l'altra teneva un palo di cui gli abitanti delle paludi si servono per spingere tra i canneti le loro imbarcazioni dal fondo piatto. Si avvicinò alla riva, avanzando cauto. «Merlino?» «Sì? Vuoi che faccia nuotare i cavalli fin lì?» «No!» fece subito lui, aspro. «Ci son delle lame conficcate sott'acqua.
Avevo dimenticato quel vecchio trucco, e ci sono andato proprio sopra con un ginocchio.» «Mi pareva che zoppicassi. Sei ferito gravemente?» «No. Solo ferite superficiali. Madonna me le ha fasciate.» «Ragione di più per non tornare a nuoto, allora. Come pensi di portarla da questa parte? Dev'esserci un punto in cui io possa portare i cavalli senza pericolo. Chiedilo a lei.» «L'ho già fatto. Non lo sa. E non c'è nessuna barca.» «E allora?» dissi io. «Melwas non ha qualche aggeggio che possa galleggiare?» «È quello che stavo pensando. Sicuramente deve esserci qualche cosa che si possa usare; e più è costoso meglio è.» Nella voce tetra passò un'intonazione divertita. Ma nessuno di noi due si preoccupò di commentare la situazione, separati com'eravamo da sei metri d'acqua su cui le parole riecheggiavano, con Ginevra stessa così vicina da poter sentire. «Si sta vestendo» fece Bedwyr laconicamente, come in risposta ai miei pensieri. Posò la lampada accanto all'acqua. Rimanemmo ad aspettare. «Principe Bedwyr?» La porta si riaprì. Lei era vestita per cavalcare e aveva i capelli intrecciati. Portava il mantello sul braccio. Bedwyr risalì zoppicando l'argine. Tenne il mantello per aiutarla a indossarlo, e lei se lo strinse addosso e tirò il cappuccio sui capelli luminosi. Lui disse qualche cosa, poi sparì dentro casa, per riapparire subito dopo portando un tavolo. Immagino che i minuti che seguirono, se ci fosse stato qualcuno di umore da apprezzarli, sarebbero stati ricchi di spunti comici, ma stando come stavano le cose, la regina Ginevra su un lato del braccio d'acqua e io sull'altro, rimanemmo silenziosi a osservare Bedwyr che improvvisava la sua assurda imbarcazione e poi, come ripensandoci, vi lanciava un paio di cuscini e invitava la regina a salire a bordo. Così essa fece e attraversarono il braccio d'acqua, un viaggio tutt'altro che dignitoso nell'aspetto, con la regina accovacciata che si reggeva a una zampa intagliata e dorata del tavolo, mentre il principe del Benoic spingeva quel marchingegno con moto irregolare, mediante la pertica, attraverso il canale. L'oggetto arrivò fino all'argine e io afferrai una zampa e la tenni. Bedwyr sbarcò arrampicandosi sull'argine e si voltò per aiutare la regina. Essa scese con movimento abbastanza aggraziato, ansimò qualche ringra-
ziamento e rimase ferma a scuotere il mantello macchiato, sgualcito. Come la sua veste per cavalcare, doveva essersi bagnato e poi esser stato fatto asciugare alla meno peggio. Vidi che era lacerato. Qualcosa di chiaro scivolò dalle pieghe e cadde sull'erba limacciosa. Mi chinai per raccoglierlo. Era un pezzo degli scacchi, di avorio bianco. Il re, rotto. Lei non se ne accorse. Bedwyr rimandò il tavolo nell'acqua e mi prese dalle mani la briglia del suo cavallo. Io gli tesi il suo mantello e mi rivolsi alla regina con tono formale, così formale che la mia voce suonò fredda e altera: «Sono lieto di vederti sana e salva madonna. Abbiamo passato una brutta giornata, in pensiero per te.» «Me ne dispiace.» La voce era sommessa, il volto nascosto dal cappuccio. «Sono stata disarcionata malamente quando la mia giumenta è caduta, nella foresta. Io... non ricordo molto dopo di allora, fino al momento in cui mi sono svegliata qui, in questa casa...» «E il re Melwas era accanto a te?» «Sì. Sì. Mi ha trovato per terra, e mi ha portato qui. Ero svenuta, immagino, non ricordo. Il suo servo si è preso cura di me.» «Avrebbe fatto meglio, forse, a rimanere con te finché non arrivava qualcuno dei tuoi. Stavano perlustrando la foresta in cerca di te.» La mano che teneva il cappuccio accostato al viso si mosse. Mi parve che tremasse. «Sì. Penso di sì. Ma la casa era vicina, appena dall'altra parte del canale, e lui temeva per me, così disse, e in effetti pareva meglio che andassi con la barca. Non sarei stata in grado di andare a cavallo.» Bedwyr era già a cavallo. Presi la regina per il braccio, per aiutarla a montare in sella davanti a lui. Con sorpresa - niente nella sua voce sottile e tranquilla mi aveva indotto a sospettarlo - la sentii tremare in tutto il corpo. Smisi di interrogarla e mi limitai a dire: «Allora ce la prenderemo comoda. Il re è tornato, lo sapevi?». Sentii che era percorsa da un brivido, come avesse avuto la febbre malarica. Non disse niente. Il suo corpo era leggero e snello, come quello di una fanciulla, quando la misi in sella davanti a Bedwyr. Ci avviammo senza affrettarci sulla via del ritorno. Avvicinandoci all'isola, scorgemmo il pontile risplendere di luci e brulicare di uomini a cavallo. Eravamo ancora a una certa distanza quando vedemmo, illuminati dalle torce in movimento, alcuni cavalieri staccarsi dalla folla e lanciarsi al galoppo sul sentiero rialzato. Li precedeva un uomo su un cavallo nero, che indicava la strada. Poi ci videro. Ci furono delle grida. Ben presto arrivarono alla nostra altezza. Adesso era Artù a precedere il gruppo, lo stallone
bianco nero di fango fino ai garresi. Accanto a lui, sul cavallo nero, esprimendo ad alta voce sollievo e preoccupazione per la regina, veniva Melwas, re della Terra dell'estate. *
*
*
Tornai a casa da solo. Non c'era niente da guadagnare, e troppo da perdere, ad affrontare Artù e Melwas in quel momento. Per ora, grazie alla rapida mossa di Melwas - lasciare la casa nell'acquitrino dalla porta sul retro, in modo da esser presente per dare il benvenuto ad Artù non appena le navi di questo avessero attraccato al pontile - lo scandalo era stato evitato e Artù non sarebbe stato costretto, quali che fossero i suoi sentimenti intimi scoprendo o indovinando la verità, a un avventato diverbio pubblico con un alleato. Meglio lasciar stare per il momento. Melwas li avrebbe condotti tutti nel suo palazzo illuminato, avrebbe dato loro cibo e vino e forse li avrebbe ospitati per la notte, e al mattino Ginevra avrebbe raccontato al marito la sua versione - una qualche versione. Non potevo neppure vagamente indovinare quale sarebbe stata. C'erano elementi dell'episodio che essa si sarebbe trovata in difficoltà a giustificare: la stanza preparata con tanta cura per lei; il letto in disordine, le bugie che essa aveva detto a me e a Bedwyr a proposito di Melwas. E soprattutto il pezzo degli scacchi rotto e la prova che esso forniva della veridicità di un sogno. Ma tutto ciò avrebbe dovuto aspettare, almeno, finché fossimo fuori dal territorio di Melwas, e non più circondati dai suoi uomini d'armi. Quanto a Bedwyr, non aveva detto niente e in futuro, qualsiasi cosa pensasse, il suo affetto per Artù lo avrebbe indotto a tener la bocca chiusa. E io? Artù era il Sommo re e io ero il suo principale consigliere. Gli dovevo una verità. Ma non sarei rimasto quella notte, ad affrontare le sue domande, e forse a eluderle, o a scansarle con menzogne. Più tardi, pensai stancamente mentre il mio cavallo, spossato, arrancava lungo la riva del lago, più tardi avrei visto con maggior chiarezza il da farsi. *
*
*
Tornai a casa facendo tutto il giro del lago, senza disturbare il traghettatore. Anche se fosse stato disposto a effettuare il servizio in ora così avanzata, non mi sentivo di affrontare le sue chiacchiere, o quelle dei soldati che forse erano sulla via del ritorno. Volevo il silenzio, la notte e i soffici
veli di bruma. Il cavallo, fiutando la stalla e la biada, drizzò le orecchie e allungò il passo. Ben presto i rumori e le luci dell'isola rimasero dietro di noi, perfino il Tor non più di una forma nera della notte, con stelle che spuntavano dietro le sue pendici. Gli alberi si intravedevano appena, avvolti dalla nebbia, e sotto di loro l'acqua del lago lambiva il greto di ciottoli spianati. Odore di acqua, di giunchi e di fango calpestato, il rumore costante degli zoccoli che arrancavano, la superficie increspata del lago, e attraverso tutto questo, fievole e lontanissimo ma pungente come sale sulla lingua, l'alitare della marea, sul punto di rifluire, dopo esser giunta fiaccamente al suo limite. Un uccello emise un grido roco, schizzando l'acqua da qualche parte, invisibile. Il cavallo scosse il collo bagnato e continuò ad arrancare. Silenzio, aria immota e la calma della solitudine tiravano un velo, palpabile come la nebbia, tra le tensioni della giornata e la tranquillità della notte. La mano del dio si era ritirata. Nessuna visione si impresse nel buio. Al domani, e alla parte che io avrei avuto in esso, non volevo pensare. Un sogno profetico mi aveva spinto a impedire il peccato; ma quali «questioni superiori» facessero presagire quell'improvvisa ripresa del potere del dio in me, non potevo dirlo, ed ero troppo stanco per indovinarlo. Feci schioccare la lingua al cavallo e lui affrettò il passo. Il profilo della luna, sopra un boschetto di olmi, rivelava la notte buia e argentea. Ancora un breve mezzo miglio e avremmo abbandonato la sponda del lago, dirigendoci verso casa sulla strada inghiaiata. Il cavallo si arrestò così bruscamente che fui gettato in avanti contro il suo collo. Se non fosse stato talmente sfinito avrebbe scartato, forse disarcionandomi. Fatto sta che si impennò, le zampe posteriori puntate rigide in avanti, scuotendomi profondamente. In quel punto la strada correva lungo la sommità di una scarpata che contornava il lago. C'era un vero e proprio salto, alto quanto la metà di un uomo, fino alla superficie dell'acqua. La nebbia era fitta, ma qualche movimento dell'aria - forse proveniente dalla marea stessa - l'agitava debolmente, sicché turbinava e si alzava formando punte, come la panna nella zangola, oppure fluiva, come acqua, densa e lenta. Poi udii uno sciabordio sommesso e vidi ciò che aveva visto il mio cavallo. Una barca, che avanzava mediante la spinta di una pertica a poca distanza dalla riva, e a bordo qualcuno in piedi, che si teneva in equilibrio con la stessa delicatezza di un uccello su un rametto oscillante. Solo una fugace visione io ebbi, vaga e indefinita, di qualcuno che pareva giovane e
snello, con indosso qualcosa che pareva un mantello, un mantello che arrivava ai banchi e scendendo oltre il bordo della barca si trascinava nell'acqua. Il ragazzo si chinò poi si raddrizzò, strizzando l'indumento. La nebbia si avvolse a spirale e si lacerò intorno al suo movimento e nel suo pallido turbinio rifletté per un attimo la luce delle stelle. Lo vidi in viso. Il colpo che provai mi scosse il cuore come la freccia fa vibrare il bersaglio. «Ninian!» Lui trasalì, si girò, arrestò la barca con mossa esperta. Gli occhi scuri apparivano enormi nel viso pallido. «Sì? Chi è?» «Merlino. Il principe Merlino. Non mi ricordi?» Poi mi ripresi. L'emozione mi aveva reso stupido. Avevo dimenticato che, incontrando l'orefice e il suo aiuto sulla strada per Dunpeldyr, ero travestito. Dissi in fretta: «Tu mi hai conosciuto come Emrys; questo è il mio nome, Myrddin Emrys del Dyfed. C'erano dei motivi che mi impedivano di viaggiare con il mio vero nome. Ti ricordi, adesso?» La barca dondolò. La nebbia divenne più fitta e la nascose e per un momento provai un panico irragionevole. Era sparito di nuovo. Poi lo vidi, ancora lì, la testa voltata da un lato. Rifletté e poi parlò, prendendo tempo, come sempre. «Merlino? Il mago? È questo che sei?» «Sì. Mi spiace di averti spaventato. È stato un colpo per me vederti così. Credevo che tu fossi annegato, quella volta al ponte di Cor, quando andasti a fare il bagno nel fiume con gli altri ragazzi. Che accadde allora?» Mi parve che esitasse. «Sono un buon nuotatore, mio signore.» Doveva esserci qualche segreto. Non aveva importanza. Niente aveva importanza. L'avevo trovato. Questo era dunque il risultato verso cui la notte si era mossa. Questa, non il peccato della regina, la «questione superiore» verso la quale il potere mi aveva spinto. Qui era il futuro. Le stelle lampeggiavano e scintillavano come una volta avevano lampeggiato e scintillato sull'elsa della grande spada. Mi protesi sul collo del cavallo e parlai con voce insistente. «Ninian, ascolta. Se non vuoi rispondere alle domande, non te ne farò. Benissimo, così sei fuggito dalla schiavitù; questo non mi interessa. Io posso proteggerti, perciò non aver paura. Voglio che tu venga da me. Appena ti vidi, seppi che cosa eri; tu sei come me, e per la Vista che Dio mi ha dato, credo che avrai le mie stesse possibilità. L'avevi indovinato anche tu, vero? Verrai da me e mi permetterai di insegnarti? Non sarà facile; sei ancora giova-
ne; ma io ero più giovane di te quando andai dal mio maestro, e tu puoi imparare tutto, lo so. Abbi fiducia in me. Verrai, mi servirai e imparerai tutto ciò che posso darti della mia arte?» Questa volta non ci fu nessuna esitazione. Era come se da molto tempo le domande fossero state formulate e avessero ricevuto una risposta. Come forse era stato. In alcune cose c'è questa ineluttabilità; erano nelle stelle fin dall'ultimo giorno del Diluvio. «Sì» disse lui «verrò. Dammi un po' di tempo, però. Ci sono cose da... da sistemare.» Mi tirai su. La gabbia toracica mi fece male per il lungo respiro che tirai. «Sai dove vivo?» «Lo sanno tutti.» «Allora vieni quando potrai. Sarai il benvenuto.» E aggiunsi, sottovoce, per me quanto per lui: «In nome di Dio, sarai il benvenuto». Non ebbi risposta. Quando guardai di nuovo, non c'era altro che la nebbia bianca illuminata dalle stelle, di un bianco abbagliante, e l'acqua del lago che lambiva la sponda. *
*
*
Eppure, dovetti arrivare fino a casa per capire quella verità tanto semplice. Da quando avevo visto il ragazzo Ninian e avevo anelato a lui come l'unico essere umano che avessi conosciuto in grado di venire con me ovunque io andassi, erano passati degli anni. Quanti? Nove, dieci. E lui aveva allora forse sedici anni. Tra un ragazzo di sedici e un uomo di venticinque c'è tutto un universo di sviluppo e di trasformazione; il ragazzo che avevo riconosciuto con tanta emozione e gioia, il volto che avevo ricordato con dolore un'infinità di volte... non poteva trattarsi dello stesso ragazzo, anche se quello si fosse salvato dal fiume tanti anni prima, e fosse vivo. Disteso nel mio letto quella notte, guardando le stelle attraverso i rami neri del pero come quand'ero bambino, ripercorsi mentalmente la scena. La nebbia, quella nebbia incorporea; il chiarore delle stelle in cielo; la voce che giungeva come un'eco dall'acqua invisibile; il viso che ricordavo così bene, che avevo tante volte sognato in quei dieci anni; tutte queste cose, congiurando improvvisamente a suscitare una vana e dimenticata speranza, mi avevano ingannato. Capii allora, e piansi, che il ragazzo Ninian era veramente morto e che
quell'incontro nell'oscurità spettrale aveva solo schernito la mia estrema stanchezza con un sogno confuso e crudele. Cinque Non venne, naturalmente. La prima persona che arrivò da me fu un messaggero da parte di Artù, che mi ordinava di recarmi a Camelot. Erano passati quattro giorni. Mi ero un po' aspettato di esser convocato da tempo, poi, non vedendo arrivare niente, avevo pensato che Artù non avesse ancora deciso quale mossa fare, oppure che avesse l'intenzione di mettere a tacere la cosa, e che anche in consiglio non avrebbe imposto una discussione pubblica. Di solito il messaggero andava e veniva tra noi tre o quattro volte la settimana, e quando a qualche inviato capitava, per l'incarico che doveva svolgere, di passare accanto alla mia casa, da molto tempo era abitudine che venisse a fare una visita ad Applegarth, caso mai io avessi una lettera da recapitare, o volessi fargli delle domande. In questo modo mi ero sempre tenuto informato. Avevo saputo che, per incredibile che ciò potesse apparire, Ginevra era ancora a Ynys Witrin, dove l'avevano raggiunta alcune delle sue dame, ospiti dell'anziana regina. Anche Bedwyr era ancora ospite del palazzo di Melwas; le lame sotto l'acqua erano coperte di ruggine e un paio delle ferite che avevano causato si erano infiammate; inoltre, egli si era preso un'infreddatura per esser rimasto a lungo bagnato e adesso era malato e aveva la febbre. Erano con lui alcuni dei suoi uomini, ospiti nel palazzo di Melwas. La regina Ginevra, disse il mio informatore, andava a trovarlo personalmente ogni giorno, e aveva insistito per aiutare le donne che lo assistevano. Un altro frammento di notizia avevo raccolto da solo. Lo smeriglio della regina era stato trovato morto, con i geti impigliati in un albero alto, vicino al punto in cui Bedwyr aveva dragato il canale. Il quinto giorno arrivò la chiamata, una lettera che mi pregava di conferire con il Sommo re a proposito della nuova sala del consiglio, che era stata completata mentre lui si trovava nel Gwynedd. Sellai il cavallo e partii immediatamente per Camelot. Artù mi stava aspettando sul terrapieno ovest del palazzo. Questo era un ampio viale lastricato, con aiuole geometriche in cui fiorivano alcune delle rose della regina, viole e allegri fiori dell'estate. Adesso, in quel freddo
pomeriggio primaverile, l'unica macchia di colore era fornita dalle giunchiglie e dalle pallide corolle quasi avvizzite dei bucaneve. Artù era fermo accanto al muro del terrapieno, lo sguardo perso in lontananza verso la linea scintillante che era la linea dell'orizzonte sul mare. Non si voltò a salutarmi, ma aspettò che io fossi accanto a lui. Allora gettò un'occhiata per assicurarsi che il servo che mi aveva accompagnato se ne fosse andato, e disse, entrando subito in argomento: «Avrai indovinato che sulla sala del consiglio non c'è niente da dire. È stato solo per i segretari. Voglio parlare con te in privato». «Melwas?» «Naturalmente.» Si girò, voltando la schiena al parapetto, appoggiandosi in parte. Mi guardò, accigliato. «Eri con Bedwyr quando egli trovò la regina e la riportò a Ynys Witrin. Ti vidi lì, ma poi quando mi voltai a cercarti eri scomparso. Mi dicono, inoltre, che sei stato tu a dire a Bedwyr dove trovarla. Se sapevi qualcosa a proposito di questa faccenda che io non sapevo, perché non sei rimasto a parlarmi allora?» «Niente avrei potuto dirti allora che non suscitasse preoccupazioni di cui potevi bene fare a meno. Quel che serviva era il tempo. Tempo perché la regina si riposasse; tempo perché tu potessi parlare con lei; tempo per dissipare i timori degli uomini, non per eccitarli. Come sembra tu abbia fatto. Mi dicono che Bedwyr e la regina sono ancora a Ynys Witrin.» «Sì. Bedwyr è malato. Quella sera andò a letto con un'infreddatura, e la mattina dopo aveva la febbre.» «L'ho saputo. E me ne faccio una colpa. Sarei dovuto rimanere a medicare quelle ferite. Hai parlato con lui?» «No. Lui non era in grado.» «E la regina?» «Sta bene.» «Ma non è ancora pronta a compiere il viaggio per tornare a casa?» «No» fece lui brusco. Di nuovo distolse lo sguardo, fissando il lontano scintillio del mare. «Immagino che Melwas debba aver fornito qualche specie di spiegazione» dissi io alla fine. Mi aspettavo che la domanda facesse scoccare una scintilla, ma lui aveva semplicemente quell'aspetto stanco, grigio nel pomeriggio grigio. «Ah, certo. Ho parlato con Melwas. Mi ha detto che cosa era accaduto. Lui era a caccia di anitre negli acquitrini, lui con un solo servo, un uomo che si chiama Berin. Avevano portato la barca fino al limitare della foresta,
nel corso d'acqua che hai visto. Sentì il trambusto nella foresta e poi vide la giumenta della regina scivolare e cadere nel fango della riva. La regina venne gettata direttamente nell'acqua. La gente di lei non si vedeva. I due uomini remarono fino a lei e la tirarono fuori dall'acqua: era in stato di incoscienza, come se cadendo avesse battuto la testa. Mentre erano così occupati, udirono le persone del suo seguito passare a una certa distanza, senza avvicinarsi al canale.» Tacque un momento. «Certo che a questo punto Melwas avrebbe dovuto mandare il suo servo a cercarli, ma lui era a piedi e quelli erano a cavallo, inoltre la regina era fradicia e svenuta, e aveva freddo, sicché sarebbe stato comunque difficile portarla a casa se non con la barca. Così Melwas disse al servo di remare fino al casotto di caccia e di accendere il fuoco. Lì aveva cibo e vino. Aveva progettato di andare lì lui stesso a passarvi la notte, perciò tutto era stato preparato.» «Fu una fortuna.» Cercai di evitare il sarcasmo, ma lui mi scoccò una rapida occhiata, tagliente come un pugnale. «Infatti. Dopo un po' lei cominciò a riprendersi. Melwas mandò il servo con la barca a Ynys Witrin perché riportasse aiuti, e donne per assistere la regina, con cavalli e una lettiga oppure una chiatta che avrebbe potuto trasportarla con ogni comodità. Ma prima che fosse arrivato lontano, l'uomo tornò a dire che le mie vele erano state avvistate, e che pareva che avrei attraccato con la marea. Melwas ritenne opportuno partire subito lui stesso per venirmi ad accogliere al pontile, com'era suo dovere, e darmi notizia che la regina era al sicuro.» «Lasciando lei lì» osservai, con voce inespressiva. «Lasciando lei lì. L'unica imbarcazione che aveva era il leggero barchino di pelle che usa per andare a caccia di anitre. Non era adatto a lei... certamente non nello stato in cui si trovava. Questo devi averlo visto da solo. Quando Bedwyr la portò da me non riusciva a far altro che piangere e tremare. Ho dovuto lasciare che le donne la portassero via immediatamente per metterla letto.» Si scostò dal parapetto, poi voltandosi si allontanò rapidamente di una mezza dozzina di passi e tornò di nuovo indietro. Ruppe un rametto di rosmarino e se lo rigirò tra le dita. Da dove mi trovavo, ne percepii il profumo acre, pungente. Non dissi niente. Dopo un po' lui smise di camminare e rimase fermo, a gambe larghe, a guardarmi, ma sempre rigirando tra le dita il rosmarino. «Ecco, questa è la storia.» «Capisco.» Lo guardai pensieroso. «Così hai trascorso la notte nel ca-
stello di Melwas, e Bedwyr è ancora lì, e anche la regina è ospite lì... fino a quando?» «Manderò a prenderla domani.» «E oggi hai mandato a prendere me. Perché? Sembra che la faccenda sia sistemata e che le tue decisioni siano già state prese.» «Devi sapere benissimo perché ho mandato a prenderti.» La sua voce aveva un'asprezza improvvisa che contraddiceva la calma di prima. «Che cosa sai che avrebbe "suscitato preoccupazioni" se mi avessi parlato quella notte? Se hai qualche cosa da dirmi, Merlino, dilla.» «Benissimo. Ma prima dimmi, hai parlato con la regina?» Inarcò le sopracciglia. «Che cosa credi? Un uomo che è stato lontano dalla moglie per quasi un mese? E una moglie bisognosa di essere confortata?» «Ma se era malata, accudita dalle donne...» «Non era malata. Era stanca, turbata, e molto spaventata.» Pensai alla voce sicura, calma di Ginevra, al suo atteggiamento cauto, al corpo che tremava. «Non per il mio arrivo.» La voce, aspra, in risposta a una domanda che non avevo formulato. «Aveva paura di Melwas, e aveva paura di te. Ti sorprende? Quasi tutti hanno paura di te. Ma lei non ha paura di me. Perché dovrebbe? Io l'amo. Aveva paura però che qualche malalingua potesse avvelenarmi con menzogne... Perciò finché non sono andato da lei, e non ho ascoltato la sua versione, non è riuscita a riposare.» «Aveva paura di Melwas? Perché? La sua versione non coincideva con quella di lui?» Questa volta rispose all'implicita osservazione. Fece volare il rametto straziato di rosmarino oltre il muro del terrapieno. «Merlino.» Lo disse con calma, ma come per chiudere l'argomento, con durezza. «Merlino, non hai bisogno di dirmi che Melwas mi ha mentito e che questo è stato un rapimento. Se Ginevra si fosse fatta così male quando è caduta, da rimanere svenuta per quasi tutto il giorno, difficilmente avrebbe potuto cavalcare con te per tornare a casa, né sarebbe stata così in buona salute e benportante quando mi sono giaciuto con lei quella notte. Non si era fatta male per niente. Non ha avuto altro che paura.» «Lei ti ha detto che la versione di Melwas era una bugia?» «Si.» Se Ginevra gli aveva raccontato una versione diversa, credevo di sapere che cosa non aveva chiarito. Dissi, lentamente: «Quando parlò con Bedwyr
e me, la sua versione coincideva con quella di Melwas. Adesso tu vuoi dire che la regina stessa ti ha detto che si è trattato di un rapimento». «Sì.» Aggrottò le sopracciglia. «Tu non credi a nessuna delle due versioni, vero? È questo che stai cercando di dirmi? Tu credi... per Dio, Merlino, che cosa credi esattamente?» «Io non conosco ancora la versione della regina. Dimmi che cosa ti ha raccontato.» Era così arrabbiato che pensai mi avrebbe piantato ipso facto. Ma dopo un paio di giri sul terrapieno, tornò nel punto dove io aspettavo. Aveva quasi l'aria di uno che va verso un corpo a corpo. «Benissimo. Dopo tutto sei il mio consigliere, e pare che io debba aver bisogno di un consiglio.» Inspirò profondamente e raccontò quella versione dei fatti con brevi frasi inespressive. «Questo è quello che dice. Non cadde affatto di cavallo. Vide il suo falcone calare sulla preda e rimanere impigliato con i geti nel ramo di un albero. Fermò la giumenta e smontò. Poi vide Melwas, nella sua barca vicino all'argine. Lo chiamò per farsi aiutare. Lui risalì l'argine verso di lei, ma non fece niente per lo smeriglio. Cominciò a parlarle d'amore, e di come l'amasse da quando avevano fatto insieme il viaggio dal Galles. Non le diede ascolto quando lei cercò di interromperlo, e quando lei si accinse a risalire a cavallo la trattenne e, mentre lottavano, la giumenta si liberò e scappò. La regina cercò di gridare per chiamare i suoi, ma egli le mise una mano sulla bocca e la buttò nella barca. Il servo spinse la barca verso il largo e remando li fece allontanare; aveva paura, dice la regina, e tentò in qualche modo di protestare, ma fece come Melwas gli ordinava. Egli la portò nel casotto di caccia. Tutto era pronto, come se lui l'avesse aspettata... lei o un'altra donna. Tu lo vedesti. Non era così?» Pensai al fuoco acceso, al letto, ai suntuosi arazzi, alla tunica che Ginevra aveva indosso. «Lo vidi, un poco. Sì, era pronto.» «Lui pensava a lei da tanto tempo... Era solo rimasto in attesa che si presentasse l'occasione. L'aveva seguita prima di allora... era noto che lei aveva l'abitudine di precedere gli altri, quando cavalcava.» Un velo di sudore gli copriva il viso. Portò la mano alla fronte e con il palmo si asciugò. «Si giacque con lei, Artù?» «No. La trattenne lì per tutto il giorno, supplicandola, dice la regina, chiedendole amore... All'inizio le disse dolci parole e le fece delle promesse, ma vedendo che non lo portavano a niente diede in smanie, dice lei, e diventò violento, cominciando a vedere il pericolo che lui stesso stava cor-
rendo. Quando allontanò il suo servo, lei credette che avrebbe potuto usarle violenza, ma il servo tornò poco dopo per dire al suo padrone che le mie vele erano state avvistate, e Melwas, in preda al panico, la lasciò e si affrettò a venirmi incontro per raccontarmi le sue menzogne. La minacciò anche, se mi avesse detto la verità, di dire, lui stesso, Melwas, di essersi giaciuto con lei, in modo che io avrei ucciso tutti e due. Lei avrebbe dovuto raccontare la sua stessa versione. E questo fece, tu dici, a te.» «Sì.» «E tu sapevi che non era vera?» «Sì.» «Capisco.» Mi stava ancora guardando con quello sguardo feroce, ma circospetto. Cominciai a rendermi conto, ma senza eccessiva sorpresa, che anch'io non potevo più nascondergli niente. «E pensasti che avrebbe potuto mentire a me? Queste erano le "preoccupazioni" che prevedevi?» «In parte, sì.» «Pensavi che mentisse a me? A me?» Lo ripeté, come se fosse una cosa inimmaginabile. «Se era impaurita, chi poteva biasimarla per una menzogna? Sì, so che non ha paura di te, dici. Ma è solo una donna, dopo tutto, e potrebbe ben aver paura della tua ira. Qualsiasi donna mentirebbe per salvarsi. Sarebbe stato tuo diritto ucciderla, e uccidere anche lui.» «È ancora mio diritto farlo, che ci sia stato rapimento oppure no.» «Ebbene, allora?... Possibile che lei sapesse che le avresti dato ascolto, che saresti stato re e uomo di stato prima di concedere a te stesso di essere il marito vendicativo? Persino io sono stupito, e credevo di conoscerti.» Per un attimo ebbe un'aria tetramente divertita. «Con Bedwyr e la regina ostaggi sull'isola, si può dire che avevo le mani legate... Lo ucciderò, naturalmente. Questo lo sai, vero? Ma il momento lo deciderò io, e con un pretesto, quando tutta questa storia sarà dimenticata e l'onore della regina non potrà soffrirne.» Si allontanò da me, poggiando le mani sul parapetto, e di nuovo lasciò errare lo sguardo sulla striscia di terra via via più scura verso il mare. In qualche punto una lama di sole filtrò attraverso le nuvole e un fascio di luce cupa si rovesciò sulla terra, illuminando un lontano nastro d'acqua che scintillò abbagliante. Artù parlò lentamente, come rivolgendosi a quelle lontananze. «Ho riflettuto sulla versione che metterò in giro. Sarà qualcosa di mezzo tra le bugie di Melwas e ciò che mi ha detto la regina. È rimasta lì tutto il giorno con lui, dopo tutto, dall'alba al crepuscolo... Farò dire che lei cadde da ca-
vallo, come ha detto Melwas, e venne trasportata in stato di incoscienza nel casotto di caccia, e lì rimase, prostrata e svenuta, per la maggior parte della giornata. Tu e Bedwyr dovete confermarlo. Se si sapesse che non si era fatta per niente male, alcuni la criticherebbero perché non cercò di fuggire. Questo, malgrado il servo tenesse d'occhio la barca per tutto il giorno, e anche se lei avesse potuto nuotare c'erano le lame... Naturalmente, avrebbe potuto minacciare loro la mia vendetta, ma ritenne che tale minaccia non avrebbe fatto altro che affrettare la sua fine. Lui avrebbe potuto trattenerla lì, prendersi il suo piacere e poi ucciderla. Sai che quelli che erano con lei avevano già accettato l'idea che fosse morta. Eccetto te. Fu questo a salvarla.» Non dissi niente. Lui si girò. «Sì. Eccetto te. Tu dicesti loro che era viva e portasti Bedwyr fino a lei. Adesso, dimmi come lo sapevi. Fu la Vista?» Chinai il capo. «Quando Cei venne a chiamarmi, invocai gli antichi poteri, ed essi risposero. La vidi nella fiamma, e anche Melwas.» Un momento, improvviso, di intensificata concentrazione. Non accadeva spesso che il Sommo re indagasse in me per avere la verità, come era abituato a fare con quelli a lui sottoposti. Percepivo qualcosa di quella qualità che aveva fatto di lui ciò che era. Adesso era immobile. «Sì. Adesso arriviamo al punto, vero? Dimmi esattamente che cosa vedesti.» «Vidi un uomo e una donna in una stanza suntuosa, e oltre la porta una camera da letto, con un letto nel quale qualcuno si era giaciuto. Ridevano insieme e giocavano a scacchi. La donna indossava una veste sciolta, come per la notte, e anche i suoi capelli erano sciolti. Quando lui la prese tra le braccia, i pezzi degli scacchi si rovesciarono per terra, e l'uomo li calpestò.» Gli tesi una mano, con il pezzo rotto. «Quando la regina uscì dalla casa per venire da noi, questo era impigliato nelle pieghe del suo mantello.» Artù lo prese e vi si chinò sopra, come per studiarlo. Poi lo fece volare appresso il rametto di rosmarino. «Già. Fu un sogno veridico. Lei ha detto che c'era un tavolo, e i pezzi degli scacchi erano di avorio e d'ebano.» Con mia sorpresa stava sorridendo. «Tutto qui?» «Tutto? È più di quanto ti avrei mai detto, se non fosse stato mio dovere in quanto tuo consigliere.» Annuì, ancora sorridente. Tutta l'ira pareva scomparsa. Guardò di nuovo, in lontananza, la pianura sempre più velata, con quegli sprazzi di luminosità e il raggio di luce che turbinava. «Merlino, poco fa hai detto: "È solo
una donna". Tu mi hai detto tante volte che non sai niente delle donne. Non ti viene mai in mente che conducono una vita di così assoluta dipendenza che non può che generare incertezza e paura? Che la loro vita è come quella degli schiavi, o degli animali utilizzati da esseri più forti di loro, e talvolta crudeli? Diamine, anche le donne di stirpe reale sono vendute e comprate, e vengono cresciute per vivere lontano dalla loro famiglia e dalla loro gente, come proprietà di uomini a loro sconosciuti.» Aspettai per vedere dove andava a parare il suo discorso. Era un pensiero che già mi era venuto, quando avevo visto donne soffrire per i capricci degli uomini; anche quelle che, come Morgause, erano più forti e più intelligenti della maggior parte degli uomini. Le donne erano fatte, pareva, per essere usate dagli uomini, e ne soffrivano. Quelle fortunate trovavano uomini che potevano dominare, o che le amavano. Come la regina. «Questo è accaduto a Ginevra» egli proseguì. «Tu stesso hai detto proprio adesso che per molti versi io devo essere ancora un estraneo per lei. Non ha paura di me, no, ma a volte credo che abbia paura della vita in sé, e di vivere. Non capisci? Il tuo sogno era veridico. Lei sorrideva, e gli parlava cortesemente, nascondendo la sua paura. Che cosa avresti voluto che facesse? Che si rivolgesse al servo? Che minacciasse tutti e due della mia vendetta? Sapeva che questo non avrebbe fatto altro che affrettare la sua fine. Quando lui le mostrò la camera da letto, perché si cambiasse i vestiti bagnati (a volte, porta delle donne in quella casa, sembra, lontano dagli sguardi della vecchia regina, sua madre, e ci sono sempre dei vestiti, roba come piace alle dame), lei si limitò a ringraziarlo, poi gli chiuse la porta in faccia. Più tardi, quando Melwas venne a invitarla a mangiare, finse languore, ma dopo un po' lui si fece sospettoso, poi importuno, e Ginevra temette che avrebbe abbattuto la porta, perciò andò a mangiare con lui e gli parlò cortesemente. E così andò avanti per tutta quella lunga giornata, fino al crepuscolo. Gli fece credere che, al calar della notte, avrebbe avuto il suo piacere, mentre per tutto il tempo continuava a sperare in un salvataggio.» «Che poi arrivò.» «Contro ogni speranza, e grazie a te, arrivò. Ecco, questa è la versione di Ginevra, e io le credo.» Di nuovo girò la testa di scatto. «E tu?» Io non risposi immediatamente. Lui aspettava, senza dimostrare ira, né impazienza, e neppure la minima ombra di dubbio. Quando alla fine parlai, il mio tono era quello della certezza. «Sì. Ha detto la verità. Puoi esserne certo, che io te lo dica basandomi sulla ragio-
ne, l'istinto, la "Vista" o la fede cieca. Mi dispiace di aver dubitato di lei. Avevi ragione ricordandomi che non capisco le donne. Avrei dovuto sapere che aveva paura, e sapendolo avrei potuto indovinare che usava le misere armi di cui disponeva contro Melwas... E per il resto - il suo silenzio fino al momento in cui avrebbe potuto parlare con te, la sua preoccupazione per il tuo onore e la sicurezza del tuo regno - per il resto ha la mia ammirazione. E l'hai anche tu, o re.» Lo vidi notare la forma in cui mi rivolgevo a lui. Nel suo sollievo affiorò il riso. «Perché? Perché non sono esploso in un nobile furore regale e non ho fatto cadere delle teste? Se la regina, impaurita com'era, era riuscita a fare la commedia per un giorno, certo potevo farlo io solo per qualche ora, quando erano in gioco il suo onore e il mio. Ma non per un periodo più lungo. Per l'Ade, non per un periodo più lungo!» La violenza con cui picchiò il pugno chiuso sul parapetto dimostrava l'intensità dei sentimenti che stava dominando. Con un improvviso cambiamento di tono, aggiunse: «Merlino, certamente ti sei reso conto che il popolo non... non ama la regina». «Ho sentito mormorare qualche cosa, sì. Ma questo non c'entra con ciò che essa è, o ha fatto. È solo perché ogni giorno sperano in un erede, e Ginevra è regina da quattro anni e ancora non ne ha partorito uno. È naturale che ci siano delle speranze deluse, e qualche mormorio.» «Non ci sarà nessun erede. Ginevra è sterile. Adesso ne sono sicuro, e lo è anche lei.» «Lo temevo. Mi spiace.» «Se non avessi piantato qua e là altri semi» fece lui con un sorriso teso «potrei prendermi anch'io parte della colpa; ma c'è stato il bambino che ho generato con la mia prima regina, per non parlare del bastardo che Morgause ha avuto da me. Perciò è noto che la colpa - se tale essa è - è solo della regina, e dato che è una regina il suo dolore non può rimanere privato. E ci sarà sempre chi comincia a mormorare, nella speranza che io la ripudi. Cosa che» aggiunse con una specie di vivacità «non farò.» «Non mi verrebbe in mente di consigliartelo» dissi mitemente. «Quello che mi viene in mente è di chiedermi se è questa l'ombra che vidi una volta proiettarsi sul vostro letto nuziale... Ma non parliamone più. Quel che dobbiamo fare adesso è farle riconquistare l'amore del suo popolo.» «Lo dici come se fosse facile. Se sai come...» «Credo di saperlo. Un momento fa tu hai imprecato per l'Ade, e questo mi ha svelato il significato di un sogno che avevo fatto. Mi lascerai andare
a Ynys Witrin, per riportartela io stesso?» Lui cominciò a chiedere il motivo, poi abbozzò una risata e si strinse nelle spalle. «Perché no? Può darsi che per te sia facile come sembra... Vai, allora. Farò preparare una scorta regale. Io la riceverò qui. Almeno, questo mi risparmia di rivedere Melwas. Vuoi forse, con i tuoi savi consigli, cercare di impedirmi di ucciderlo?» «Avrei la stessa efficacia della femmina del cigno che cerca di far uscire dall'acqua il giovane cigno. Farai come meglio ti parrà.» Guardai, in lontananza, la pianura allagata, verso il Tor e il contorno della vicina isola, con il porto. Aggiunsi, pensieroso: «Peccato che lui ritenga opportuno chiedere tariffe portuali - peraltro esorbitanti - al condottiero che lo protegge». Spalancò gli occhi, cercando di capire. Un sorriso gli allargò la bocca. Disse lentamente: «Sì, vero? E poi, c'è la questione del pedaggio sulla strada lungo il crinale. Se per caso i miei capitani dovessero rifiutarsi di pagare, certamente Melwas verrebbe a lamentarsi qui di persona e chissà, potrebbe anche essere la prima questione dibattuta nella nuova sala del consiglio. Adesso, dato che ho detto allo scrivano che venivi per questo, andiamo a vederla? E domani, all'ora terza, manderò la scorta reale per riportarla a casa». Sei Essendo Bedwyr ancora a Ynys Witrin, la scorta reale era condotta da Nentres, uno dei signori delle regioni a occidente che aveva combattuto sotto Uther e adesso aveva promesso ad Artù la propria fedeltà e quella dei suoi figli. Era un veterano brizzolato, con un corpo magro e agile in sella quanto un giovane. Lasciò la scorta ad agitarsi sotto gli stendardi del Drago sulla strada sotto casa mia e risalì il sentiero pieno di curve lungo il torrente, seguito da un palafreniere che portava un cavallo sauro con bardatura d'argento. Cavallo e gualdrappa erano stati lustrati tanto da scintillare quanto lo scudo di Nentres, e pietre preziose brillavano sul pettorale. La gualdrappa era violacea, intessuta di fili d'argento. «Il re ti ha mandato questo» disse Nentres con un largo sorriso. «Pensa che il tuo, al confronto con gli altri, sembrerebbe lo scarto di un mercante di cavalli. Non lo guardare in quel modo è molto più calmo di quel che sembra.» Il palafreniere mi diede una mano per aiutarmi a salire in sella. Il sauro
lanciò in aria la testa e strinse il morso, ma la sua falcata era piana e naturale. In confronto con il mio flemmatico vecchio castrato nero, era come navigare su una barca a vela dopo essere stato su una chiatta spinta dalla pertica. Il mattino era freddo, come il vento del nord che da metà marzo gelava i campi. Quel giorno, all'alba, ero salito sulla vetta oltre Applegarth e avevo sentito sulla pelle quella differenza indefinibile che annuncia il cambiamento del vento. I biancospini sulla vetta si stavano appena coprendo di gemme, ma nella valle si poteva vedere la foschia verde dei boschi lontani e lì vicino gli argini più riparati erano pieni di primule e di aglio selvatico. I corvi gracchiavano e svolazzavano disordinatamente negli alberi ricoperti di edera. La primavera era lì, in attesa, ma trattenuta dai venti freddi, come i fiori del prugnolo chiusi nella gemma. Ma il cielo era ancora nuvoloso e greve, quasi come per una minaccia di neve, ed io ero lieto del mio mantello malgrado il suo regale splendore di pelliccia e scarlatto. Tutto era pronto per noi nel palazzo di Melwas. Il re personalmente era vestito di un suntuoso blu scuro e, notai, armato di tutto punto. Il suo bel viso ostentava un sorriso spontaneo di benvenuto, ma gli occhi avevano un'espressione circospetta, e nella sala c'erano troppi uomini d'armi che si accalcavano, oltre a una compagnia al completo di fuori, richiamata in gran fretta dalla fortezza sulla cima del monte e che adesso affollava i frutteti che fungevano da giardini del palazzo. Stendardi e gualdrappe dai colori vivaci davano un'aria di festa a quell'accoglienza, ma si poteva vedere che ogni uomo era armato sia di pugnale che di spada. Naturalmente, Melwes si era aspettato che venisse Artù. Quando mi vide dapprima parve sollevato, poi lo scorsi farsi ancora più circospetto, mentre intorno alla sua bocca si disegnavano dei solchi duri. Mi salutò con cortesia, ma molto freddamente, come un giocatore che apra una partita a scacchi con un gambitto. Io risposi con il lungo e ben studiato discorso che conveniva al rappresentante di Artù, poi mi rivolsi alla regina, sua madre, che era ferma accanto a lui all'estremità della lunga sala. Non mostrava la circospezione del figlio. Mi accolse con naturale autorevolezza e fece un segno in direzione di una porta sulla destra della sala. La folla si divise con un certo rimescolio ed entrò la regina Ginevra circondata dalle sue dame. Anche lei si era aspettata Artù. Esitò, mentre lo cercava con lo sguardo nello splendore della sala affollata. Il suo sguardo passò su di me, senza vedermi. Mi chiesi quale dio l'avesse spinta a vestirsi di verde, un verde primaverile, con fiori ricamati sul davanti della veste. Anche il mantello
era verde, con un colletto di martora bianco, che le incorniciava il viso dandole un'aria di fragilità. Era molto pallida, ma si comportava con rigida calma. Ricordai come, quella notte, l'avessi sentita tremante nella mia stretta; e a quel pensiero, come un tuffo improvviso in acqua fredda, capii che Artù aveva avuto ragione riguardo a lei. Ginevra poteva essere una regina nel portamento e nel coraggio, ma sotto tali apparenze, era una timida fanciulla, una fanciulla continuamente in cerca dell'amore. La gaiezza, la facile risata e l'ottimismo della giovinezza avevano celato l'appassionata ricerca di amici, da parte dell'esule, tra gli estranei di una corte tanto diversa dal semplice focolare del regno paterno. Assorto com'ero da vent'anni in Artù, non mi ero mai neanche disturbato a pensare a lei in modo diverso da come la pensava il suo popolo: un vaso per il suo seme, una compagna per il suo piacere, una splendente colonna di bellezza destinata a brillare, argento accanto all'oro di lui, sulla vetta della sua gloria. Adesso la vedevo come se non l'avessi mai vista prima. Vedevo una fanciulla, fragile nella carne e piuttosto semplice nello spirito, che aveva avuto la ventura di sposare l'uomo più grande della sua epoca. Essere la regina di Artù non era un peso da nulla, con tutto quello che implicava di solitudine, una vita di esilio in un paese straniero e, il più delle volte, senza il marito vicino che potesse frapporsi tra lei e gli adulatori, gli intriganti avidi di potere, coloro che le invidiavano il rango e la bellezza o - forse più pericolosi di tutti - i giovani pronti ad adorarla. Poi c'erano quelli (e si poteva giurare che erano molti) i quali le parlavano, ripetendosi a non finire, dell'«altra» Ginevra, della graziosa regina che aveva concepito un figlio fin dalla prima volta che si era giaciuta con il re, e che egli aveva pianto così amaramente. Niente veniva tralasciato. Ma tutto questo non sarebbe stato niente, sarebbe passato e sarebbe stato dimenticato con l'amore del re e il nuovo, entusiasmante potere che a lei sarebbe derivato, se solo fosse riuscita a concepire un figlio. Che Artù non si fosse servito dell'episodio di Melwas per ripudiarla, per portare nel suo letto una donna feconda, era certo una prova del suo amore; ma dubitavo che lei avesse avuto il tempo di accorgersene. Artù aveva avuto ragione quando mi aveva detto che Ginevra aveva paura della vita, paura della gente che la circondava, paura di Melwas; e - lo vedevo adesso - più che di qualsiasi altro, aveva paura di me. Mi aveva visto. Gli occhi azzurri si spalancarono e le mani si alzarono a stringere la pelliccia che le ornava la gola. Per un attimo si fermò, poi, di nuovo pallida e calma, prese posto accanto alla regina, che aveva Melwas
dall'altro fianco. Né lei né il re si erano lanciati uno sguardo. Ci fu un silenzio pieno di echi. Si sentì frusciare una veste, e parve il fruscio di un albero nel vento. Mi feci avanti. Come se Ginevra fosse l'unica persona presente, feci un profondo inchino, poi mi raddrizzai. «Ti saluto, madonna. È bello vedere che ti sei rimessa. Sono venuto, con altri tuoi amici e servi, per scortarti a casa. Il Sommo re ti aspetta per riceverti nel tuo palazzo, a Camelot.» Il colore le riaffluì al viso. Di statura più piccola della mia, mi arrivava appena al collo. Ho visto occhi come i suoi in un giovane cervo, buttato a terra e in attesa di esser finito dalla lancia. Mormorò qualche cosa e ammutolì. Per nascondere il suo sgomento e darle tempo, mi rivolsi a Melwas e a sua madre e mi addentrai con tono mellifluo in un discorso cortigianesco, superelaborato, con cui li ringraziavo per le cure che avevano dato alla regina di Artù. Via via che parlavo era sempre più chiaro che la madre di Melwas ancora non aveva la minima idea che ci potesse essere qualcosa che non andava. Mentre il figlio mi guardava con aria ardita che mascherava un misto di circospezione e di spacconeria, la vecchia regina mi rispose con ringraziamenti altrettanto cortigianeschi, messaggi per Artù, complimenti per Ginevra e, infine, una pressante offerta di ospitalità. A questo punto la giovane regina alzò lo sguardo, per un attimo, poi riabbassò le palpebre nascondendo di nuovo gli occhi. Mentre declinavo l'invito, vidi le sue mani rilassarsi. Immaginai che da quando si erano separati, nella casa dell'acquitrino, Melwas non aveva avuto nessuna occasione per parlarle e tentare di scoprire che cosa lei avesse raccontato ad Artù. Credo che avesse intenzione di insistere per farci rimanere, ma qualche cosa nei miei occhi lo bloccò e allora la madre, accettando la decisione, arrivò con evidente impazienza all'argomento che le interessava. «Ti abbiamo cercato quella notte, principe Merlino, Credo di capire che tu fosti guidato dalla tua visione a trovare la regina, prima ancora che mio figlio tornasse all'isola con la notizia. Non vorresti dirci, mio signore, come fu quella visione?» Melwas, trasalendo, era diventato molto attento. Il suo sguardo temerariamente mi sfidava ad andare avanti. Sorrisi e con lo sguardo lo costrinsi ad abbassare il suo. Senza che io ve la spingessi, la vecchia aveva fatto proprio la domanda che volevo. Alzai la voce. «Volentieri, signora. È vero che ebbi una visione, ma non so dire se essa venne dagli dei dell'aria e del silenzio che mi hanno parlato in passato o
dalla dea madre al culto della quale è consacrato il santuario oltre quei meli. Ebbi comunque una visione che mi condusse direttamente attraverso l'acquitrino come una freccia pennata al suo bersaglio. Fu una doppia visione, un sogno luminoso attraverso il quale chi sogna accede a un sogno più cupo, sottostante; un riflesso visto nell'acqua profonda dove il colore superficiale è come vetro posto sull'oscuro mondo più basso. Le visioni erano confuse, ma il loro significato era chiaro. Le avrei seguite più rapidamente, ma credo che gli dei avessero disposto altrimenti.» A questo punto Ginevra rialzò la testa e la vidi spalancare gli occhi. E di nuovo, in quelli di Melwas, quella scintilla di dubbio. Fu la regina che chiese: «Come, altrimenti? Non volevano che la regina venisse ritrovata? Quale enigma è questo, principe Merlino?». «Te lo dirò. Ma prima ti racconterò il sogno che feci. Vidi un palazzo di re con pavimento di marmo e con colonne d'argento e d'oro, dove non c'erano servi, ma lampade e ceri ardevano con fumo profumato, e illuminavano a giorno...» Avevo lasciato che la mia voce assumesse il ritmo del bardo che canta in una corte; essa risonava riempiendo la sala e portava le parole, attraverso il colonnato, fino alla folla silenziosa radunata di fuori. Vidi dita muoversi nel segno contro la magia potente; anche le dita di Ginevra. La vecchia regina ascoltava con soddisfazione e piacere evidenti; bisognava ricordare che essa era la principale protettrice del santuario della dea. Quanto a Melwas, mentre parlavo lo osservai passare dal sospetto e dall'apprensione allo sgomento e, infine, al timore reverenziale. Per chiunque si trovava lì, già, il sogno aveva assunto uno schema familiare, l'archetipo del viaggio che ogni uomo compirà nel mondo dal quale pochi viaggiatori ritornano. «...E sul tavolo prezioso i pezzi degli scacchi in oro, e lì accanto un grande scranno con i braccioli ricurvi come teste di leone, in attesa del re, e uno sgabello d'argento con zampe di colomba, in attesa della signora. Allora riconobbi il palazzo di Llud, dove è conservato il sacro vaso e dove un tempo fu appesa la grande spada che adesso è appesa sul muro di Artù, a Camelot. E da sopra, nel cielo al di là della grotta nella montagna, li sentii giungere al galoppo, quelli della Caccia selvaggia, in cui i cavalieri dell'Aldilà inseguono la loro preda e la portano in fondo, in fondo, nei palazzi adorni di gemme da cui non si ritorna. Ma proprio mentre cominciavo a domandarmi se il dio volesse dirmi che la regina era morta, la visione cambiò...» Alla mia destra c'era una finestra, alta rispetto alla sala. Di fuori, una
prospettiva del cielo, nuvolo sopra le cime degli alberi del frutteto. I rami dei meli pieni di germogli, nei loro teneri verdi e castani, apparivano più chiari del cielo color ardesia. I pioppi si ergevano pallidi come lance. Ma c'era stato quell'alito di cambiamento al mattino; io lo sentivo ancora; tenni gli occhi su una nuvola color indaco, e ripresi a parlare, più lentamente. «...E io mi trovai in una sala più antica, una grotta più profonda. Ero nell'Aldilà vero e proprio, e c'era il re oscuro, che è più antico anche dello stesso Llud; accanto a lui era seduta la pallida, giovane regina, sottratta ai campi luminosi di Enna e trascinata fuori del caldo mondo per diventare la regina degli Inferi; Persefone, figlia di Demetra, la madre di tutto ciò che vegeta sulla superficie della terra...» La nuvola si spostava lentamente, lentamente. Oltre i rami coperti di gemme vedevo l'orlo della sua ombra scostarsi. Chissà da dove arrivò una brezza che fece fremere gli alti pioppi intorno al frutteto. La maggior parte dei presenti non conosceva la storia, perciò la raccontai, con evidente soddisfazione della vecchia regina che, come tutti i fedeli del culto della madre, doveva sentire la fredda minaccia del cambiamento anche lì, in quell'antica roccaforte della dea. Una volta, quando Melwas, dubbioso sulla piega che avrebbe preso il discorso, fece per parlare, lei lo zittì con un gesto e, forse istintivamente comprendendo, tese una mano e attirò la regina più vicino a sé. Io non guardavo né l'oscuro Melwas né Ginevra, pallida e pensierosa, ma con la coda dell'occhio osservavo la finestra in alto e intanto raccontavo il rapimento di Persefone ad opera di Ade, e la lunga, faticosa ricerca di lei intrapresa da Demetra, la dea madre, mentre la terra, privata del suo sviluppo primaverile, languiva nel freddo e nelle tenebre. Oltre la finestra i pioppi, sfiorati dalla prima luce, fiorirono improvvisamente d'oro. «E quando la visione svanì capii ciò che mi era stato detto. La vostra regina, la vostra giovane e bella regina, era sana e salva, assistita dalla dea, e aspettava solo di esser riportata a casa. Con la sua venuta, giungerà infine la primavera, le fredde piogge avranno fine, e avremo una terra ancora una volta ricca di messi, nella pace conquistata dalla spada del Sommo re e nella gioia recata dall'amore che ha per lui la regina. Questo è il sogno che ho fatto e che io, Merlino, principe e profeta, interpreto per te.» Ignorando Melwas, mi rivolsi direttamente alla vecchia regina. «Perciò ti chiedo adesso, signora, di permettermi di portare a casa la regina, con onore e con gioia.»
E in quel momento il sole benedetto uscì dalle nuvole e proiettò un raggio di luce nitidamente sul pavimento, fino ai piedi della regina, sicché essa rimase eretta, tutta oro, bianco e verde, in una pozza di sole. *
*
*
La cavalcata verso casa ebbe luogo in una giornata splendente odorosa di primule. Le nuvole erano scomparse e il lago era azzurro e scintillante sotto i suoi salici dorati. Una rondine precoce si lanciava a caccia di mosche, radendo l'acqua rilucente. E la regina di primavera, rifiutando la lettiga che avevamo portato per lei, cavalcava al mio fianco. Parlò una sola volta, e brevemente. «Ti ho mentito quella notte. Lo sapevi?» «Sì.» «Allora tu vedi? Davvero vedi? Vedi tutto?» «Vedo molto. Se comincio a guardare, e se Dio lo vuole, io vedo.» Il colore le affluì al viso, che si rasserenò, come se qualche cosa l'avesse liberata. Prima, mi ero limitato a credere alla sua innocenza: adesso ne ero certo. «Perciò tu hai anche detto la verità al mio signore. Quando non è venuto personalmente a prendermi, ho avuto paura.» «Non devi averne, ora né mai. Credo tu non debba dubitare che egli ti ama. E anch'io posso dirti, cugina Ginevra, che anche se tu non partorirai mai un erede per la Britannia, lui non ti ripudierà. Il tuo nome rimarrà insieme al suo, fin tanto che Artù verrà ricordato.» «Cercherò» disse lei, così sommessamente che a mala pena la udii. Poi apparvero le torri di Camelot e lei rimase in silenzio, facendo appello a tutte le sue forze per affrontare ciò che stava per venire. *
*
*
Così erano stati gettati i semi della leggenda. Nelle dorate settimane primaverili che seguirono, mi capitò più di una volta di ascoltare uomini che parlavano sottovoce del «ratto» della regina e di come questa fosse stata portata giù, quasi fin nei tenebrosi palazzi di Llud, e riportata indietro da Bedwyr, il primo dei cavalieri di Artù. Così la spina della verità fu tolta; nessuna vergogna macchiò Artù, né la regina; e a Bedwyr fu attribuita la prima delle sue numerose glorie, mentre la storia si ingrossava e il suo eroe acquistava in statura, via via che le sue ferite guarivano, finché alla fine
furono solo un ricordo. Quanto a Melwas, come sempre succede, se il «re oscuro» dell'Aldilà nel pensiero degli uomini finì per essere collegato con il re dagli oscuri intendimenti la cui roccaforte era il Tor, anche ciò avvenne senza che nessun'onta ricadesse su Ginevra. Che cosa pensasse Melwas nessuno lo sapeva. Doveva essersi reso conto che Ginevra aveva raccontato la verità ad Artù. Può darsi che si fosse stancato di interpretare la parte del «cattivo» della storia, e che si fosse stancato di aspettare (come stavano aspettando tutti) che il Sommo re intervenisse contro di lui. Può anche darsi che accarezzasse ancora la speranza di potere, in un vago futuro, arrivare a possedere la regina. Comunque stessero le cose, fu lui a fare la mossa successiva e in tal modo a dare ad Artù la possibilità di agire a modo suo. Un mattino arrivò a cavallo fino a Camelot e, avendo come d'obbligo lasciato la sua scorta armata fuori della sala del consiglio, prese posto sul Seggio delle doglianze. *
*
*
La sala del consiglio era stata costruita sullo stile di una sala più piccola che Artù aveva visto durante una delle visite fatte al padre della regina, nel Galles. Quella era semplicemente una versione più in grande della costruzione rotonda in graticcio ricoperto di argilla dei celti. Questa di Camelot era una grande costruzione circolare, edificata in modo imponente per durare, con costoloni di pietra levigata, tra i quali si ergevano pareti di piccoli mattoni romani provenienti dalle vicine fornaci da lungo tempo abbandonate. C'erano grandi porte di quercia a due battenti, scolpite con il Drago, e finemente dorate. All'interno era stato disposto un pavimento di piastrelle a spirale, che partiva dal centro, simile a una tela di ragno. E, come i fili esterni di una tela di ragno, le pareti non s'incurvavano ma erano divise in sezioni di pannelli piatti. I pannelli erano ricoperti di stuoie di una bella paglia dorata per impedire le correnti, ma col tempo avrebbero sfavillato di arazzi; Ginevra aveva già messo all'opera le sue ancelle. Contro ognuna di queste sezioni era appoggiato un alto seggio, con il suo sgabello poggiapiedi, e quello del re non era più alto di quello degli altri. La sala era, diceva il re, destinata alla libera discussione tra lui stesso e i suoi pari, ed era anche il luogo in cui ognuno dei comandanti del re poteva portare i suoi problemi. L'unica cosa che contrassegnava il seggio di Artù era lo scudo bianco appeso al di sopra di esso; col tempo, forse, vi avrebbe brillato il
Drago, in oro e scarlatto. Alcuni degli altri pannelli già ostentavano i blasoni dei compagni. Il seggio opposto a quello del re non era destinato a nessuno in particolare. Esso veniva occupato da chiunque avesse rivendicazioni o lagnanze che la corte avrebbe risolto. Artù l'aveva chiamato il Seggio delle doglianze. Ma negli anni successivi lo sentii chiamare Seggio dei perigli, e credo che questo nome venne coniato dopo quel giorno. *
*
*
Non ero presente quando Melwas espose il suo reclamo. Benché avessi all'epoca un posto nella Sala rotonda (come si giunse a chiamarla), lo occupavo di rado. Se lì i pari erano uguali al re, il re doveva essere visto pari a loro in conoscenza e dare i suoi giudizi senza appoggiarsi al consiglio di un mentore. Le discussioni tra me e Artù si svolgevano sempre in privato. Avevamo parlato per molte ore del problema di Melwas prima che esso venisse portato davanti alla tavola del consiglio. Tanto per cominciare, Artù pareva sicuro che avrei tentato di farlo desistere dal combattere Melwas, ma quello era un caso in cui ragionamento freddo e impulsività coincidevano. Per Artù sarebbe stato soddisfacente, e per me opportuno, che Melwas subisse pubblicamente le conseguenze delle sue azioni. Il tempo intercorso e il silenzio di Artù, insieme alla leggenda che io avevo ricordato, bastavano ad assicurare che l'onore di Ginevra non sarebbe stato in discussione: la gente l'aveva riaccolta nel suo affetto e dovunque essa andasse la sua strada era disseminata di fiori e le venivano lanciate benedizioni come petali. Essa era la loro regina - il tesoro del loro tesoro - che era stata quasi rapita loro dalla morte ed era stata salvata dalla magia di Merlino. Così la storia si era diffusa nel popolo. Ma tra i più esperti delle cose del mondo c'era chi aspettava che il re agisse contro Melwas e chi sarebbe stato pronto a disprezzarlo se non lo avesse fatto. Artù lo doveva a se stesso, come uomo e come re. L'autocontrollo che si era imposto riguardo al ratto della regina era stato enorme. Adesso, quando scoprì che ero d'accordo con lui, si dispose, con feroce esultanza, a fare i propri piani. Avrebbe potuto, naturalmente, convocare re Melwas davanti al consiglio architettando una scusa, ma non voleva. «Se lo infastidiamo finché sarà lui stesso a presentare una lagnanza, agli occhi di Dio è veramente la stessa cosa» disse freddamente «ma per la mia coscienza - o se preferisci, per il mio orgoglio - non userò una falsa accusa nella Sala rotonda. Tutti devono sapere che è un luogo dove nessuno può temere di presentarsi davanti a
me, se non mente egli stesso.» Pertanto lo molestammo. Con la posizione dell'isola, tra la roccaforte del Sommo re e il mare, era abbastanza facile trovare dei pretesti. In un modo o nell'altro si arrivò a continue discussioni a proposito delle tariffe portuali, dei tributi e delle tasse arbitrariamente imposti e accanitamente contestati. Qualsiasi altro dei re minori sarebbe diventato intrattabile sotto quella serie costante di piccole vessazioni, ma Melwas era ancora più rapido a protestare di molti altri. Secondo Bedwyr (che mi fece il resoconto della riunione del consiglio) fu evidente fin dall'inizio che Melwas aveva indovinato di esser stato deliberatamente portato davanti al re per rispondere dell'accusa più lontana e più pericolosa. In effetti pareva impaziente di farlo ma, com'era naturale, non lasciò che il minimo indizio di ciò trapelasse dalle sue parole: questo avrebbe significato per lui sicura morte decretata da tutto il consiglio. Così i reclami per le tariffe e le tasse, le discussioni sui giusti tributi per la protezione offerta da Camelot, seguirono il loro corso lungo e tedioso, mentre i due uomini si squadravano come schermitori, per arrivare alla fine al nocciolo della questione. Fu Melwas che propose la singolar tenzone. Come si decise a questo passo non fu del tutto chiaro, ma oserei dire che non ci vollero molti pungolamenti. Giovane, pronto all'ira, buono schermitore, sapendo di essere in grave pericolo, dovette lanciarsi sulla possibilità di una soluzione rapida e decisiva che gli dava una parziale speranza di successo. Può darsi che facesse assegnamento su qualcosa di più. La sfida arrivò alla fine, con violenza: «Un incontro per risolvere queste questioni, adesso, e da uomo a uomo, se dobbiamo andare d'accordo di nuovo come vicini! Tu sei la legge, re; e allora dimostralo con la tua spada!». Seguì un gran trambusto, con dispute che s'incrociavano per tutta la sala. I più anziani tra i presenti trovavano impensabile che il re corresse il rischio di persona, ma ormai tutti avevano un po' il sospetto che in gioco c'era qualcosa di più dei diritti portuali, e i più giovani dei cavalieri erano apertamente eccitati all'idea di un combattimento tra i due. Più d'uno tra loro (Bedwyr fu quello che più insistette) si offrì di prendere il posto di Artù nella tenzone, finché alla fine il re, decidendo che era venuto il momento, balzò risolutamente in piedi. Nel silenzio improvvisamente determinatosi, si avvicinò a lunghi passi alla tavola rotonda che era nel mezzo della sala, sollevò le tavolette che contenevano l'enumerazione delle lagnanze di Melwas e le buttò sul pavimento, frantumandole. «Adesso portatemi la spada» disse.
*
*
*
Era mezzogiorno quando si affrontarono sul campo spianato, che si estendeva nel settore nordest di Caer Carnei. Il cielo era senza nubi, ma una brezza fredda costante temperava il caldo della giornata. La luce era intensa e uniforme. La gente si assiepava intorno al campo e perfino i bastioni erano affollatissimi. In cima a una delle torri dorate di Camelot vidi macchie di azzurro, verde e scarlatto: le donne che si erano radunate per assistere allo scontro. In mezzo a loro, la regina era in bianco, il colore di Artù. Mi chiesi che cosa provasse e dal suo atteggiamento calmo indovinai che avrebbe comunque nascosto la paura. Poi la tromba risonò e si fece silenzio. I due uomini erano armati di lancia e scudo e ognuno di loro portava spada e pugnale alla cintura. Artù non utilizzava Caliburn, la spada reale. La sua armatura - elmo leggero e corsaletto di cuoio - era priva sia di gemme, sia di stemma. L'abbigliamento di Melwas, che era appena più alto di Artù, era più principesco. Melwas appariva fiero e impaziente, e lo vidi gettare un'occhiata verso la torre del palazzo in cui si trovava la regina. Artù non aveva neppure girato lo sguardo da quella parte. Appariva calmo e sorretto da una enorme esperienza, mentre ascoltava, esteriormente serio e attento, l'annuncio ufficiale dell'araldo. Su un lato del campo c'era un sicomoro. Bedwyr, accanto a me all'ombra dell'albero, mi diede una lunga occhiata, poi tirò un sospiro di sollievo. «Ecco. Non sei preoccupato. Ne sia ringraziato Dio!» «Doveva finire così. È la cosa migliore. Ma se ci fosse stato pericolo per lui, avrei impedito questa cosa.» «Sì, però è lo stesso una follia. Ah, lo so che lui lo voleva, ma non dovrebbe mai correre un rischio simile. Avrebbe dovuto lasciare che lo facessi io.» «E che genere di spettacolo avresti dato, cosa credi? Zoppichi ancora. Melwas avrebbe potuto abbatterti, se non peggio e in questo caso la leggenda avrebbe dovuto ricominciare. Ci sono persone semplici, convinte che il diritto è dalla parte della spada più forte.» «E in effetti così è oggi, altrimenti tu non rimarresti a guardare oziosamente, lo so. Ma io vorrei...» Bedwyr s'interruppe. «Lo so che cosa vorresti. Credo che il tuo desiderio sarà esaudito, non una ma molte volte, prima che abbia termine la tua vita.»
Mi lanciò un'occhiata indagatrice, cominciò a dire qualche altra cosa, ma in quel momento il pennone fu abbassato e ebbe inizio il combattimento. Per un bel po' i due uomini si girarono intorno, le lance bilanciate per il tiro, gli scudi pronti. Nessuno dei due era avvantaggiato dalla luce. Fu Melwas ad attaccare per primo. Fece una finta poi, con grande rapidità e imprimendo molta forza all'arma, la scagliò. Lo scudo di Artù si alzò balenando per deviarla. La lama scivolò stridendo sulla borchia e la lancia andò a conficcarsi, inoffensiva, nell'erba. Afferrando l'elsa della spada, Melwas balzò indietro. Ma Artù, nel momento stesso in cui deviava la lancia dell'avversario, lanciò la sua. Così facendo, annullò il vantaggio che aveva dato a Melwas il fatto di fare il primo lancio; ma non sguainò a sua volta la spada; protese la mano verso la lancia scagliata dall'avversario, dritta accanto a lui conficcata nel tappeto erboso, la tirò e la sollevò proprio mentre Melwas, abbandonando l'elsa della sua spada, deviava a sua volta con lo scudo la lancia del re, che sibilò inoffensiva, e si girava, rapido come una volpe, a raccoglierla nello stesso modo, sicché ancora una volta si sarebbero affrontati lancia contro lancia. Ma l'arma di Artù, scagliata con maggior forza e schivata più violentemente, volò girando vorticosamente su un lato, e rotolò sul tappeto erboso, sfuggendo alla mano di Melwas. Melwas non poteva sperare di afferrarla prima che Artù ripetesse il lancio. Lo scudo in posizione, Melwas tentò delle finte da una parte e dall'altra, sperando di strappare la lancia dell'avversario e così riconquistare il vantaggio. Raggiunse l'arma sull'erba; si chinò per alzarla, l'asta quasi spinta contro la sua mano da un ciuffo di cardi. La mano di Artù si mosse e la cuspide della sua lancia lampeggiò nella luce, attirando lo sguardo di Melwas. Questi chinò la testa, alzando lo scudo sulla traiettoria del lancio, e nello stesso tempo si abbassò storcendosi per afferrare l'arma caduta. Ma quella del re era stata solo una finta; nel momento di disattenzione in cui Melwas si chinava di fianco per afferrare l'altra lancia, quella del re, lanciata diritta e bassa, lo colpì nel braccio teso. Poi Artù sguainò rapidamente la spada mentre seguiva la traiettoria della lancia. Melwas barcollò. Mentre un urlo possente si levava tra le mura e riecheggiava intorno al campo, egli si riprese, afferrò la lancia e la scagliò dritta contro il re. Se fosse stato di un niente meno rapido, Artù gli si sarebbe fatto vicino prima che potesse servirsi della lancia. Fatto sta che l'arma di Melwas raggiunse il bersaglio quando Artù era a metà della distanza che li separava. Il
re la ricevette sullo scudo, ma a una distanza così ravvicinata l'impeto era troppo forte perché potesse deviarla. La lunga asta sferzò l'aria a semicerchio, bloccando la corsa del re. Con la spada ancora nella destra, questi tentò allora di strappare dal cuoio la punta della lancia, che però si era conficcata vicino a uno dei rinforzi di ferro ed era bloccata lì, trattenuta dalle sue punte. Lanciò via lo scudo, con la lancia ancora conficcata, e di corsa si avventò su Melwas, con nient'altro che il pugnale a sinistra per proteggergli il fianco scoperto. L'impeto dell'assalto non lasciò a Melwas il tempo di riprendersi e afferrare una lancia per scagliarla per la terza volta. Con il sangue che gli scorreva sul braccio, egli sguainò la spada e fronteggiò l'attacco del re, in un cozzo che produsse un gran fragore di metallo. Lo scontro li aveva lasciati ancora alla pari, perché la ferita di Melwas con la conseguente perdita di forza nel braccio che teneva la spada era controbilanciata dal fianco scoperto del re. Melwas era un buono schermitore, rapido e molto forte, e per i primi minuti di quel corpo a corpo diresse ogni colpo e ogni fendente alla sinistra di Artù. Ma si scontrarono tutti col ferro. E poco alla volta il re lo stava incalzando; e poco alla volta Melwas fu costretto a cedere davanti all'attacco. Il sangue continuava a sgorgare, sempre più indebolendolo. Artù, per quanto si poteva vedere, era illeso. Incalzava l'avversario, e i suoi colpi risonanti calavano veloci e spietati, mentre il lungo pugnale, sibilando, sferzava e parava. Per terra, dietro Melwas, era la lancia caduta. Melwas lo sapeva, ma non osava guardare per vedere dove stesse esattamente. Il terrore di non farcela e di cadere rallentava i suoi movimenti. Sudava copiosamente e stava cominciando ad ansimare come un cavallo spossato. Ci fu un momento in cui, petto contro petto, arma contro arma, i due uomini rimasero inchiodati l'uno all'altro, immobili. Intorno al campo la folla adesso taceva, trattenendo il respiro. Il re parlò, la voce calma e sommessa. Nessuno riuscì a sentire quello che diceva. Melwas non rispose. Ci fu un momento di silenzio, poi un movimento rapido, un'improvvisa pressione, un brontolio da parte di Melwas, e una specie di ringhio come risposta. Poi Artù si liberò tranquillamente e, pronunciando a bassa voce un'altra frase, tornò ad attaccare. La mano destra di Melwas era una macchia confusa di sangue brillante. La sua spada si muoveva più lentamente, come se fosse diventata troppo pesante per lui. Respirava a fatica, rumorosamente come il maschio del cervo in calore. Con enorme sforzo, e un brontolio, calò lo scudo, come un'ascia, sul re. Artù lo evitò, ma scivolò. Il bordo dello scudo lo colpì
sulla spalla destra e dovette intorpidirgli il braccio. La spada gli volò via lontano. La folla che assisteva ansimò e gridò. Melwas emise un urlo e fece roteare la spada per dare il colpo mortale. Ma Artù, ormai armato solo del pugnale, non balzò all'indietro fuori della sua portata. Prima che i presenti potessero tirare il respiro, balzò in avanti, oltre lo scudo, e il suo lungo pugnale intaccò la gola di Melwas. Ma qui si fermò, e si vide solo sgorgare un rivolo di sangue. Non affondò. Il re parlò di nuovo, con voce sommessa ma con violenza. Melwas si bloccò dove si trovava. La spada gli cadde dalla mano alzata. Lo scudo piombò a terra. Il pugnale fu ritirato. Il re indietreggiò. Lentamente, davanti a tutta quella moltitudine, agli uomini di Artù e ai suoi, davanti alla regina che guardava dalla sua torre, Melwas, re della Terra dell'estate, s'inginocchiò sull'erba insanguinata davanti ad Artù e si arrese. Regnava, adesso, un silenzio assoluto. Con un movimento così lento da risultare quasi rituale, il re alzò il suo pugnale e lo lanciò, a punta in giù, vibrante nel tappeto erboso. Poi parlò di nuovo, con voce ancora più sommessa di prima. Questa volta Melwas, a capo chino, gli rispose. Parlarono per qualche momento. Finalmente il re, ancora con quella ritualità nel gesto, tese una mano e fece rialzare Melwas. Poi fece cenno alla scorta dell'avversario vinto di avvicinarsi e, mentre la sua gente cominciava ad accalcarglisi intorno, si allontanò in mezzo a loro avviandosi verso il palazzo. *
*
*
Negli anni che seguirono udii parecchie versioni di questo duello. Alcuni dissero che fu Bedwyr, non Artù, a battersi, ma questa è una evidente sciocchezza. Altri affermarono che non ci fu nessuno scontro, altrimenti Melwas sarebbe stato sicuramente ucciso. Artù e Melwas, dicevano, durante il consiglio erano stati convinti da qualche paciere a mettersi d'accordo. Anche questo non è vero. Avvenne esattamente come ho raccontato. In seguito seppi dal re che cosa era accaduto tra i due uomini sul campo; Melwas, aspettandosi la morte, giunse a riconoscere la verità delle accuse che gli muoveva la regina, e la propria colpa. È vero che non sarebbe servito a niente se Artù lo avesse ucciso, ma Artù, senza che io l'avessi in ciò consigliato, agì con saggezza e misura. Sta di fatto che dopo quel giorno
Melwas gli fu fedele e Ynys Witrin fu considerata un gioiello tra tutte le città soggette alla sovranità di Artù. È un fatto pubblicamente documentato che le navi del re non pagarono più tariffe portuali. Sette Così trascorse l'anno e venne il bel mese di settembre, il mese della mia nascita, il mese del vento, il mese del corvo e dello stesso Myrddin, quel pellegrino tra cielo e terra. I meli erano carichi di frutti e le erbe medicinali erano state raccolte e stavano seccando: erano appese in fasci e mazzi alle travi dei capanni ad Applegarth, e la distilleria era piena di barattoli ben allineati e di scatole in attesa di essere riempite. Tutta la casa, il giardino, la torre e le stanze di abitazione profumavano dolcemente di erbe e di frutta, e del miele che fluiva dalle arnie, e anche, all'estremità del giardino, dalla quercia cava dove viveva uno sciame di api selvatiche. Si sarebbe detto che Applegarth rispecchiasse entro i suoi confini limitati l'aurea abbondanza dell'estate del regno. L'estate della regina, la chiamavano, quando le messi seguirono al fieno e la terra continuò a risplendere della profusione donata dalla dea. Un'età dell'oro, dissero. Anche per me un'età dell'oro. E avevo il tempo di rimanere solo, come mai prima d'allora. La sera, quando il vento soffiava da sudovest, me lo sentivo nelle ossa ed ero riconoscente per il fuoco. Quelle settimane in cui ero rimasto nudo e affamato, esposto alle intemperie della montagna nella Foresta di Caledonia, mi avevano lasciato un'eredità di cui neppure una costituzione robusta riusciva a disfarsi e mi facevano avanzare verso la vecchiaia. Un'altra eredità mi aveva lasciato quel periodo; fosse un perdurante effetto ritardato del veleno di Morgause, o derivasse da qualche altra causa, fatto sta che di quando in quando avevo brevi crisi di qualcosa che avrei potuto definire mal caduco se non avessi saputo che questa non è una malattia che viene in età matura se non se ne è sofferto prima. Inoltre, i sintomi non erano uguali a quelli dei casi che avevo visto o curato. La crisi mi era venuta tre volte, e sempre quand'ero solo, sicché nessuno all'infuori di me ne sapeva niente. Ecco come accadeva: riposavo tranquillamente lasciandomi trascinare, nel sonno, pareva, e mi risvegliavo, gelato, intorpidito e reso debole dalla fame - benché senza nessuna voglia di mangiare molte ore dopo. La prima volta durò all'incirca dodici ore, ma dal senso di vertigine e dal leggero sfinimento capii che non si era trattato di un sonno
normale. La seconda volta la crisi coprì un arco di tempo di due notti e un giorno, e fui fortunato che mi avesse colpito mentre ero al sicuro nel mio letto. Non lo dissi a nessuno. Nell'imminenza del terzo attacco riconobbi i sintomi: una lieve sensazione quasi di fame, un leggero capogiro, il desiderio di riposo e di silenzio. Perciò rimandai a casa Mora, chiusi a chiave le porte e me ne andai in camera da letto. Dopo l'attacco mi sentivo come a volte mi ero sentito dopo una profezia, leggero come una creatura sul punto di volare, con i sensi freschi e puri come se fossero appena creati, che mi trasmettevano colori e suoni nuovi e brillanti come se accadesse a un bambino. Naturalmente mi rivolsi ai miei libri per avere dei lumi, ma non trovandovi alcun aiuto misi da parte la cosa, accettandola, come avevo imparato ad accettare le sofferenze della profezia, e la loro scomparsa, perché in esse avevo sentito la mano del dio che mi sfiorava. Forse adesso quella mano mi stava attirando più vicino a sé. Non c'era nessuna paura in quel pensiero. Avevo fatto ciò che egli aveva preteso da me e, giunto il momento, sarei stato pronto ad andare. Ma egli non pretendeva, pensai, che sacrificassi il mio orgoglio. Che gli uomini ricordassero il profeta del re e il mago che al momento giusto si era sottratto alla vista degli uomini e al servizio del re; non il vecchio rimbambito che aveva tardato troppo a prender congedo. Perciò me ne rimasi solitario, occupandomi del giardino e delle mie medicine, scrivendo e inviando lunghe lettere a Blaise in Northumbria, accudito abbastanza bene dalla giovane Mora, la cui cucina era ogni tanto arricchita da qualche dono proveniente dalla tavola di Artù. Anche da me partivano dei doni per lui: un cesto di mele particolarmente buone di uno dei giovani meli; tonici e medicamenti; profumi, anche, che producevo per il piacere della regina; erbe aromatiche per la cucina del re. Semplici cose, dopo i doni fiammeggianti della profezia e della vittoria, ma per certi versi con il profumo della pace e dell'età dell'oro. Doni d'amore e di contentezza; adesso avevamo tempo per tutt'e due questi sentimenti. Un'età dell'oro, in verità, non turbata da presentimenti, ma con il formicolio che ben conoscevo e che annunciava qualche cambiamento a venire; qualcosa mai paventata ma ineluttabile come la caduta delle foglie e l'arrivo dell'inverno. Che cosa fosse, non mi permettevo di pensarlo. Ero come un uomo solo in una stanza vuota, abbastanza soddisfatto, ma con l'orecchio teso per cogliere i rumori al di là della porta chiusa, in attesa, quasi con la speranza, di qualcuno che deve venire, pur sapendo nel più profondo del suo cuore
che non verrà. Ma venne. Venne una sera dorata, verso la metà del mese. C'era la luna piena che, come uno spirito, si era insinuata nel cielo molto prima del tramonto. Spuntava da dietro i rami del melo, come un grande faro velato dalla bruma, la luce via via più intensa mentre il cielo si faceva più scuro tutt'intorno, fino ad assumere un colore albicocca, o dorato. Io ero nella distilleria, intento a sminuzzare un mucchio di issopo secco. I vasetti erano puliti e pronti. La stanza profumava di issopo, e anche delle mele e delle susine messe a maturare sugli scaffali. Alcune vespe ritardatarie ronzavano e una farfalla, imprigionata dal caldo della stanza, appiattiva le ali suntuose contro la pietra che incorniciava la finestra. Udii il passo leggero dietro di me e mi voltai. Mago mi chiamano, e lo sono. Ma non mi aspettavo la sua venuta, né lo udii finché non lo vidi lì, fermo nel crepuscolo, illuminato dall'oro sempre più cupo della luna. Avrebbe potuto essere un fantasma, perciò rimasi fermo a fissarlo, paralizzato. L'incontro nella nebbia sulla riva dell'isola mi era tornato spesso alla mente, ma mai come qualcosa di reale; a ogni sforzo per ricordarlo diventava sempre più simile a un sogno, qualcosa che avevo immaginato, solo una speranza. Adesso il ragazzo era lì in carne ed ossa, rosso in viso e ansimante, sorridente ma non del tutto a suo agio, come se non fosse sicuro dell'accoglienza. Reggeva un fagotto che, immaginai, doveva contenere i suoi averi. Era vestito di grigio, con un mantello del colore dei germogli del faggio. Non aveva alcun ornamento, e non era armato. Cominciò: «Immagino che non ti ricordi di me, ma...». «Perché non dovrei ricordarmi di te? Tu sei il ragazzo che non è Ninian.» «Ah, ma lo sono. Voglio dire, Ninian è uno dei miei nomi. Davvero.» «Capisco. Perciò, quando ti ho chiamato...» «Sì. Quando hai cominciato a parlare ho pensato che dovevi conoscermi; ma poi, quando hai detto chi eri, ho capito che ti sbagliavi e... be', ho avuto paura. Scusami. Avrei dovuto dirtelo subito, invece di scappare in quel modo. Scusami.» «Ma quando ti ho detto che volevo insegnarti la mia arte, e ti ho chiesto di venire da me, tu hai detto di sì. Perché?» Le sue mani, bianche sul fagotto, si strinsero e si torsero sulla stoffa. Rimase fermo sulla soglia, come pronto a fuggire. «È stato... Quando tu
hai detto che lui, l'altro ragazzo, era stato il... genere di persona che poteva imparare da te... Ne avevi avuto la sensazione fin dall'inizio, hai detto, e anche lui lo sapeva. Be'...» deglutì «credo di esserlo anch'io. Ho saputo, per tutta la vita, che c'erano delle porte in fondo alla mia mente che si sarebbero aperte alla luce, purché uno ne trovasse la chiave.» Esitò, ma i suoi occhi non abbandonarono i miei. «Sì?» Non volevo proprio aiutarlo. «Poi, quando tu mi hai parlato in quel modo, all'improvviso, uscendo dalla nebbia, è stato come un sogno che diventava realtà. Merlino in persona, che mi parlava chiamandomi per nome e mi offriva proprio quella chiave... Anche quando mi sono reso conto che mi avevi preso per un altro, che era morto, mi è venuto il pensiero folle che forse avrei potuto venire da te e prendere il suo posto... Poi naturalmente ho capito che era stupido, pensare di poter ingannare proprio te, tra tutti. Perciò non ho osato venire.» «Ma adesso hai osato.» «Ho dovuto.» Parlò semplicemente, come enunciando un fatto. «Non sono riuscito a pensare ad altro, da quella notte. Avevo paura perché... Avevo paura, ma ci sono cose che uno deve fare, che non ti lasciano in pace, è come essere costretti. Più che costretti, braccati. Capisci?» «Benissimo.» Era difficile mantenere la voce ferma e grave. Doveva essere percettibile, in essa, qualcosa di ciò che provava il mio cuore perché, fievole e dolce sentii dalla stanza superiore la risposta della mia arpa. Lui non aveva sentito niente. Stava ancora facendo appello a tutte le sue forze, sfidandomi, costringendosi nella parte del supplice. «Adesso sai la verità. Non sono il ragazzo che conoscevi. Tu non sai niente di me. Qualsiasi cosa io provi, qui, dentro di me» spostò una mano, come per toccarsi il petto, poi la strinse di nuovo sul fagotto «può darsi tu pensi che non sono degno di imparare. Non mi aspetto che tu mi accetti, o che mi dedichi del tempo. Ma se volessi - se solo volessi lasciarmi rimanere qui, a dormire nella stalla, dove vuoi, ad aiutarti per... be', per lavori come quello» lanciò un'occhiata al mucchio di issopo «fino a quando magari arriveresti a sapere...» La voce gli tremò di nuovo, e stavolta gli mancò. Si passò la lingua sulle labbra aride, e rimase a guardarmi, muto. Fui io che non riuscii a sostenere il suo sguardo, non lui il mio. Mi voltai per nascondere la gioia che, lo sentivo, mi faceva avvampare le guance. Affondai le mani fino al polso nelle erbe fragranti e mi strofinai tra le dita i frammenti secchi. Il profumo di issopo, netto e acre, se ne sprigionò dan-
domi forza. Parlai lentamente, volto verso i vasetti delle erbe. «Quando ti ho chiamato in riva la lago, ti avevo preso per un ragazzo con cui ho viaggiato al nord, molti anni fa, il cui spirito parlava al mio. Quel ragazzo morì, e da allora ho sempre pianto la sua morte. Quando ti ho visto, ho pensato di essermi sbagliato, e che lui vivesse ancora; ma quando ho avuto il tempo di pensarci, ho capito che adesso non sarebbe più un ragazzo, ma un uomo adulto. È stato, si può dire, uno stupido errore. Non ne commetto di solito, ma allora mi sono detto che era un errore causato dalla stanchezza e dal dolore e dalla speranza, ancora viva in me, che lui, o un altro animo come il suo, tornasse un giorno da me.» Mi fermai. Lui non disse niente. La luna si era spostata, oltre l'inquadratura della finestra, e la porta sulla quale il ragazzo si era fermato era quasi al buio. Mi rivolsi di nuovo a lui. «Avrei dovuto sapere che non era un errore. Era la mano del dio che portava la tua strada a incrociare la mia, e che adesso ti ha spinto da me, malgrado la tua paura. Tu non sei il ragazzo che conoscevo, ma se non fossi stato esattamente come lui, puoi essere certo che non ti avrei visto, o non ti avrei parlato. Quella notte era colma di potente magia. Avrei dovuto ricordarlo, e confidare.» Lui disse, appassionatamente: «Anch'io ho provato lo stesso. Si sentivano le stelle come brina sulla pelle. Ero uscito a pescare... ma lasciai stare. Non era una notte di morte, neppure per un pesce.» Vagamente, lo vidi sorridere, ma quando trasse il respiro aveva il fiato corto. «Vuoi dire che posso rimanere? Che andrò bene?» «Andrai bene.» Sollevai le dita dall'issopo lasciandolo di nuovo scorrere sul setaccio, e strofinai i polpastrelli per liberarli dalla polvere. «Chi di noi, dopo questo, oserà ignorare il dio che ci guida? Non aver paura di me. Sei molto gradito. Sta' tranquillo che ti metterò in guardia, quando avrò il tempo di essere prudente, contro il faticoso compito che ti assumi, e contro tutte le spine di cui è disseminata la strada, ma in questo preciso momento non oso dire niente che possa spaventarti e indurti a fuggire di nuovo da me. Entra, e lasciati vedere.» Mentre mi ubbidiva, tolsi la lampada spenta dalla mensola. Lo stoppino prese fuoco dall'aria e brillò di una luce vivida. Illuminato in pieno com'era, capii che non avrei mai potuto scambiarlo per il garzone dell'orefice, però gli somigliava molto. Era di poco più alto e aveva il viso meno sottile. La pelle era più bella e le mani, dall'ossatura
elegante e all'apparenza abili quanto quelle dell'altro ragazzo, non avevano mai compiuto il lavoro di uno schiavo. I capelli erano uguali, una folta criniera bruna, tagliata alla meglio appena sopra le spalle. La bocca era identica, talmente identica che daccapo avrei potuto essere tratto in inganno: aveva quelle pieghe dolci e sognanti che, sospettavo, nascondevano fermezza o addirittura ostinazione. Il ragazzo Ninian aveva dimostrato una tranquilla indifferenza per tutto ciò di cui non voleva accorgersi: i discorsi del suo padrone gli erano passati sopra la testa, inascoltati, mentre lui si rifugiava nei suoi pensieri. In questo c'era la stessa dolce ostinazione e nei suoi occhi, inoltre, lo stesso sguardo sognante e un po' assente, capace di escludere il mondo con uguale efficacia delle palpebre abbassate. Erano grigi, l'iride orlata di nero, e avevano la trasparenza dell'acqua del lago. Avrei scoperto che, come l'acqua del lago, erano in grado di riflettere i colori, e diventare verdi, azzurri o di un nero tempestoso a secondo dell'umore. Adesso mi guardavano un po' affascinati, pareva, e un po' pieni di paura. «La lampada?» dissi. «Non avevi mai visto evocare il fuoco? Bene, questa è una delle prime cose che imparerai; fu la prima che il mio maestro insegnò a me. Oppure sono i vasetti? Li guardi come se pensassi che sto imbottigliando veleno. Stavo preparando le erbe del giardino per usarle durante l'inverno.» «Issopo» disse lui. Mi parve di sentire un filo di malizia, quello che in una fanciulla avrei definito falsa pudicizia. «Da bruciare con lo zolfo per le infiammazioni di gola; oppure da far bollire con il miele per guarire la pleurite.» Risi. «Galeno? Be', si direbbe che partiamo in volata. Perciò sai leggere? Conosci... No, può aspettare fino a domani mattina. Per il momento, hai già cenato?» «Sì, grazie.» «Hai detto che Ninian era "uno dei tuoi nomi". Come vuoi essere chiamato?» «Andrà bene Ninian... cioè, a meno che tu preferisca non usarlo. Che cosa gli è successo, al ragazzo che conoscevi? Credo tu abbia detto che si era annegato?» «Sì. Eravamo a Corstopitum, e lui andò a nuotare con alcuni altri ragazzi nel fiume, accanto al ponte, dove il Cor si butta nel Tyne. Tornarono di corsa a dire che era stato travolto dalla corrente.» «Mi dispiace.»
Gli sorrisi. «Dovremo lavorare sodo per rendere utile la sua perdita. Perciò vieni, Ninian, dobbiamo trovarti un posto per dormire.» *
*
*
Fu così che mi guadagnai un aiuto, e il dio un servo. Aveva tenuto la sua mano sopra entrambi per tutto quel tempo. Adesso mi sembra che il primo Ninian fosse solo un annuncio - un'ombra proiettata in anticipo - di quello vero che giunse a me in seguito, dal lago. Fin dall'inizio fu chiaro che l'istinto non aveva ingannato né l'uno né l'altro di noi; Ninian del lago, pur sapendo poco delle arti che praticavo, si rivelò esperto per natura. Imparava rapidamente, assorbendo conoscenza e arte come una stoffa assorbe l'acqua limpida. Sapeva leggere e scrivere correntemente e pur non possedendo, come l'avevo posseduto io in gioventù, il dono delle lingue, parlava un buon latino puro quanto il latino colloquiale e aveva imparato casualmente abbastanza greco da saper leggere un'etichetta e essere preciso sulla composizione di una ricetta. Una volta aveva potuto arrivare, mi disse, a una traduzione di Galeno, ma di Ippocrate non sapeva niente al di là del sentito dire. Glielo feci leggere nella versione latina che possedevo e mi scoprii, per certi versi, rimandato a scuola dalla quantità di domande che mi fece, delle quali da tanto tempo davo per scontata la risposta che avevo dimenticato come ci si arrivasse. Di musica non sapeva niente, e non volle impararla; quella fu la prima volta che mi trovai ad affrontare la sua dolce e irremovibile caparbietà. Ascoltava, il viso sognante e luminoso, quando suonavo o cantavo; ma cantare anche lui, o anche provare a cantare, no; sicché dopo qualche tentativo per insegnargli le note sull'arpa grande, ci rinunciai. Mi sarebbe piaciuto se avesse avuto una bella voce; non avrei voluto stare ad assistere mentre un altro faceva musica con la mia arpa, ma ormai con l'età la mia voce non era più quella di un tempo, e mi sarebbe piaciuto ascoltare una voce giovane che cantasse i miei poemi. Invece niente. Lui sorrideva, scuoteva la testa, mi accordava l'arpa (questo lo sapeva fare e lo faceva) e si metteva ad ascoltare. In tutte le altre cose, però, era ansioso di imparare e imparava rapidamente. Ricordando come meglio potevo il modo in cui il vecchio Galapas, il mio maestro, mi aveva introdotto alle arti della magia, lo introdussi, passo a passo, nelle strane e nebulose dimore di quell'arte. La Vista l'aveva già, in una certa misura; ma là dove fin dall'inizio io avevo superato il mio maestro, per Ninian sarebbe già stato bene se col tempo fosse riuscito a
eguagliarmi, e i voli della profezia gli erano ancora sconosciuti. Se fosse arrivato solo a metà strada di dov'ero io, già sarei stato soddisfatto. Come tutti i vecchi, non potevo credere che il suo giovane cervello e il suo tenero corpo potessero resistere alle tensioni cui io stesso avevo tante volte resistito. Lo aiutai, come Galapas aveva fatto con me, con certi farmaci misteriosi ma sicuri, e in breve egli fu in grado di vedere nel fuoco e nella fiamma della lampada, e di svegliarsi in seguito dalla visione solo un po' stanco e, a volte, turbato da ciò che aveva visto. Ancora non riusciva a mettere insieme verità e visione. Io non lo aiutai in questo; e in effetti in quei tranquilli mesi del suo apprendistato accadde poco di così importante da far agitare la profezia nelle fiamme. Un paio di volte lui mi parlò, con una specie di confusione, della regina, di Melwas, di Bedwyr e del re, ma io ignorai quelle visioni ritenendole oscure e non tentai di perseguirle. Rifiutava fermamente di parlare di se stesso o delle sue origini. Aveva vissuto per la maggior parte della sua vita, diceva, sull'isola o nei pressi dell'isola, e mi permetteva di supporre che i suoi genitori fossero poveri abitanti di uno dei villaggi intorno al lago. Ninian del lago, si faceva chiamare, e diceva che questo bastava; e come tale io lo accettai. Il suo passato, dopo tutto, non rivestiva alcuna importanza; quello che sarebbe diventato, l'avrei fatto io. Non lo assillai; ne avevo avuto abbastanza, come bastardo e figlio di padre ignoto, della vergogna di simili interrogatori: così rispettai i silenzi del ragazzo, e non chiesi più di quanto fosse disposto a dirmi. Gli interessava, e in questo era bravo, tutto il lato pratico della cura delle malattie, lo studio dell'anatomia e l'impiego dei farmaci. Sapeva anche, un dono che non avevo mai avuto, disegnare con vera abilità. Cominciò, quel primo inverno, per puro piacere del lavoro, a compilare un suo erbario locale, anche se per lo più la ricerca e l'identificazione delle piante, che è più della metà dell'arte medica, avrebbe dovuto aspettare fino alla primavera. Ma non c'era fretta. Aveva, mi disse, tutto il tempo, fino all'eternità. Così l'inverno trascorse in profonda felicità, ogni giorno troppo corto per tutto ciò di cui lo si sarebbe potuto riempire. Essere con Ninian significava avere ogni cosa: ritrovare la mia giovinezza, avida di apprendere e pronta a farlo, mentre la vita si svelava piena di luminose promesse; e nello stesso tempo avere i piaceri del pensiero sereno e della solitudine. Pareva che lui avvertisse quando avevo bisogno di essere solo e allora o si ritirava fisicamente dalla mia presenza andando nella sua stanza, o si immergeva nel silenzio e, si sarebbe detto, in qualche profonda divagazione, che lasciava i
miei pensieri liberi della sua presenza. Non aveva voluto abitare nel mio alloggio preferendo, aveva detto, avere delle stanze sue dove non avrebbe dovuto disturbarmi, perciò avevo fatto preparare da Mora le stanze del piano di sopra, che avrebbero dovuto ospitare i servi, se ne avessi avuti, che vivevano con me. Le stanze erano sopra alla distilleria e al magazzino, esposte a ovest e, benché piccole e basse sotto le travi, erano piacevoli e ariose. Mi chiesi in un primo tempo se Mora e lui fossero arrivati a qualche genere d'intesa; passavano moltissimo tempo insieme chiacchierando nella cucina, o giù al torrente dove la ragazza faceva un po' di bucato; io li sentivo ridere e vedevo che si trovavano bene insieme; ma non c'era nessun segno di intimità tra loro e col tempo mi resi conto, da accenni che faceva parlando, che Ninian sapeva dell'amore poco quanto me. E questo, visto come il potere cresceva in lui, palpabilmente, una settimana dopo l'altra, mi parve solo naturale. Gli dei non danno due doni insieme, e sono gelosi. *
*
*
La primavera venne presto, l'anno successivo; miti giornate di sole in marzo e le anitre selvatiche che ci sorvolavano ogni giorno, dirette verso i loro nidi, nel nord. Mi buscai una specie di infreddatura e dovetti rimanere a casa, ma poi una belle giornata uscii e mi misi a sedere nel piccolo chiostro, dove le colombe erano già intente a fare l'amore. Le mura riscaldate rendevano quella parte della casa piacevole come l'angolo accanto al fuoco; c'erano rosee corolle di meli cotogni contro la pietra e le iris d'inverno sbocciavano ai piedi del muro. Nei giardini al di là delle stalle potevo sentire il rumore regolare della vanga di Varrone, e pensai pigramente alle piante che avevo in mente di coltivare. Non c'era nella mia mente null'altro che vaghi progetti di carattere domestico, la vista dello splendore rosa delle piume sul petto delle colombe e il rumore sonnolento dei loro versi d'amore... In seguito, ripensandoci, mi chiesi se la malattia non mi avesse per una breve ora nascosto la consapevolezza del presente. Mi sarebbe piaciuto pensarlo. Ma sembra probabile che la malattia che mi colse d'improvviso fosse l'età, la debolezza lasciata dall'infreddatura e quel sedativo che è la contentezza. Rapidi passi sulle scale di pietra mi svegliarono facendomi trasalire. Alzai gli occhi. Ninian scendeva di corsa dalla sua stanza, ma con passi in-
certi, come se fosse lui, non io, a essere semistordito da una droga, o anche malato. Aveva una mano sul muro di pietra, come se, senza di quello, potesse barcollare. Ancora malfermo, attraversò il colonnato e uscì al sole. Qui si fermò, appoggiandosi a una delle colonne. Aveva il viso pallido, gli occhi enormi, le pupille nere dilatate tanto da coprire le iridi. Le labbra parevano aride, ma aveva la fronte coperta di sudore, e due solchi di sofferenza incisi profondamente tra le sopracciglia. «Che c'è?» cominciai, allarmato e feci per alzarmi, ma lui tese una mano per calmarmi, poi si fece avanti. Si lasciò cadere sui lastroni di pietra ai miei piedi. «Ho fatto un sogno» disse, e anche la voce non era la sua. «No, non dormivo. Stavo leggendo accanto alla finestra. C'era una tela di ragno, ancora piena di gocce della pioggia di ieri notte. Io la guardavo oscillare al sole...» Allora capii. Gli appoggiai una mano sulla spalla e ve la tenni. «Rimani seduto e tranquillo un momento. Il sogno non lo dimentichi. Aspettami qui. Puoi raccontarmelo dopo.» Ma mentre mi alzavo, lui di scatto mosse la mano ad afferrarmi la veste. «Non capisci! È stato un avvertimento! Ne sono sicuro! C'è un qualche pericolo...» «Capisco benissimo. Ma finché ti rimane il mal di testa non potrai ricordare niente in modo chiaro. Adesso aspetta. Torno subito.» Entrai nella distilleria. Mentre miscelavo il tonico, avevo un solo pensiero nella mente. Lui, seduto a leggere e a pensare, aveva avuto una visione che gli era arrivata nella scintilla di luce di una goccia di rugiada: io, abbandonato oziosamente e con lo spirito passivo in pieno sole, non avevo visto niente. Scoprii che la mano mi tremava leggermente mentre versavo il tonico per lui; sarebbe stato necessario molto amore, pensai, per rimanere tranquillamente in disparte e osservare il dio sollevare la sua ala da me e accogliere un altro nella sua ombra. A prescindere da ciò che esso abbia portato di sofferenza, paura da parte degli uomini e addirittura a volte odio, nessuno che abbia conosciuto un potere di quel genere desidera abdicare in favore di un altro. In favore di nessun altro. Portai fuori il calice nella luce del sole. Ninian, ancora raggomitolato sui lastroni di pietra, aveva la testa bassa, e un pugno chiuso premuto contro la fronte. Appariva molto esile e giovane. Alzò la testa sentendo i miei passi e gli occhi grigi, inondati di lagrime di sofferenza, mi guardarono come ciechi. Mi sedetti, presi la sua mano tra le mie e gli accostai il calice alla
bocca. «Bevi questo. Ti farà sentire subito meglio. No, non cercare ancora di parlare.» Bevve, poi riabbassò la testa, questa volta contro il mio ginocchio. Gli appoggiai una mano sui capelli. Per un po' rimanemmo così mentre le colombe, disturbate dalla sua venuta, volavano di nuovo sulla cimasa del muro, riprendendo ancora una volta il loro dolce amoreggiare. Al di là delle stalle, il rumore monotono della vanga di Varrone continuava senza interruzione. Dopo poco Ninian si mosse. Alzai la mano. «Va meglio?» Lui annuì e sollevò la testa. I solchi di sofferenza erano scomparsi. «Sì. Sì, è andato via del tutto. È stato più di un mal di testa; era come un dolore fortissimo che mi attraversasse il cervello. Non ho mai avuto niente di simile in vita mia. Sono malato?» «No. Sei solo un veggente, un occhio e una voce per un dio terribilmente tirannico. Hai avuto un sogno in stato di veglia, ciò che gli uomini chiamano una visione. Adesso raccontamelo, e vedremo se è una visione veridica.» Sollevò le ginocchia allacciandosele con entrambe le mani. Parlava guardando, dietro di me, il muro con i suoi rami neri e le rosee corolle del melo cotogno. Gli occhi erano ancora cupi, dilatati dalla visione, e la voce era bassa e monotona, come se recitasse una cosa imparata a memoria. «Ho visto una striscia di mare grigio, battuto da venti di tempesta, che s'infrangeva bianco su scogli simili a zanne di lupo. C'era una spiaggia di ciottoli, anch'essi grigi e grondanti di pioggia. Le onde si rovesciavano sulla spiaggia, e con loro arrivarono alberi spezzati, barili e vele stracciate - i resti di una naufragio. E persone: corpi annegati di uomini e donne. Il corpo di un uomo rotolò accanto a me, e vidi che non era annegato; aveva una profonda ferita al collo, ma il sangue era stato completamente lavato dal mare. Pareva un animale dissanguato. C'erano anche dei bambini morti, tre. Uno era nudo, ed era stato trafitto da un colpo di lancia. Poi vidi, al di là dei frangenti, un'altra nave, una nave in perfetto ordine, le vele gonfiate dal vento e i remi fuori, che la tenevano ferma. Aspettava lì, e vidi che affondava molto nell'acqua, come per un carico eccessivo. Aveva la prora alta, ricurva, cui erano assicurate corna ramificate di cervo, un paio. Non riuscii a vedere se erano vere o scolpite nel legno. Vidi il nome della nave, però; era Re Cervo. Gli uomini a bordo osservavano i corpi gettati sulla riva, e ridevano. Erano lontani dalla riva, ma io sentivo quello che
dicevano, con chiarezza... Ci credi?» «Sì. Continua.» «Dicevano: "È stato Dio a guidarti! Chi avrebbe potuto credere che quella vecchia chiatta contenesse tante ricchezze? Una fortuna come la tua, e un'equa divisione del bottino, e ci faremo tutti un bel patrimonio!" Parlavano al capitano.» «Riuscisti a udire il suo nome?» «Credo di sì. Lo chiamavano Heuil.» «È tutto?» «No. Ci fu una specie di oscurità, come una nebbia. Poi il Re Cervo era scomparso, ma accanto a me, sulla riva, c'erano dei cavalieri, e alcuni erano scesi da cavallo e stavano guardando i corpi. Uno sollevò una tavola spezzata con qualcosa sopra che avrebbe potuto essere il nome della nave naufragata, e la portò a un altro uomo, che era ancora a cavallo. Era un uomo bruno, senza insegne che io potessi vedere, ma era chiaro che era il loro capo. Pareva in collera. Disse qualche cosa, e gli altri rimontarono a cavallo e al galoppo si allontanarono dalla spiaggia, attraverso le dune e le alte graminacee. Io rimasi lì, e a quel punto anche i cadaveri erano scomparsi, e il vento mi soffiava negli occhi e li faceva lagrimare... Non c'è stato altro. Stavo guardando la tela di ragno, e le gocce si erano dissolte al sole. Una mosca vi era rimasta impigliata, e faceva tremare la ragnatela. Immagino che fu questo che mi svegliò. Merlino...» S'interruppe, e drizzò la testa, in ascolto. Allora distinsi, dalla strada più in basso, i rumori di un gruppo di cavalieri in arrivo e, lontano, l'ordine di fermarsi. Un unico cavaliere si staccò dal gruppo, e lo sentimmo avvicinarsi a un piccolo galoppo rapido. «Un messaggero da Camelot?» dissi. «Chissà, forse questa è la tua visione che colpisce nel segno.» Il cavallo si fermò. Si sentì il tintinnio delle redini lasciate a Varrone. Fu Artù ad apparire sotto l'arcata. «Merlino, sono contento di vederti in giro. Mi hanno detto che sei stato malato, e sono venuto a vedere di persona.» Tacque, guardando Ninian. Sapeva, naturalmente che il ragazzo viveva con me, ma non si erano mai incontrati. Ninian aveva rifiutato di recarsi con me a Camelot, e ogni volta che il re era venuto a trovarmi, con qualche scusa si era ritirato nelle sue stanze. Io non avevo mai insistito perché restasse, conoscendo il timore reverenziale che la gente dei villaggi intorno al lago provava per il Sommo re.
Mi ero alzato in piedi, e stavo cominciando a dire: «Questo è Ninian», quando il ragazzo mi interruppe. Balzò in piedi con una mossa improvvisa, rapido come il serpente che si srotola, e gridò: «È lui! È quello lì! Era un sogno veridico, allora, un sogno veridico!». Artù inarcò le sopracciglia non, lo sapevo, per quella infrazione all'etichetta, ma per le parole. Spostava lo sguardo da Ninian a me. «Un sogno veridico?» disse con voce sommessa. Conosceva quella espressione del passato. Sentii Ninian ansimare, come se dal fondo della visione riemergesse il presente. Rimase lì sbattendo le palpebre, come spinto improvvisamente nella luce abbagliante. «È il re. Allora era il re.» Artù disse, questa volta brusco: «Allora che cos'era il re?». Arrossendo, Ninian cominciò a balbettare: «Niente. Cioè, stavo proprio parlando con Merlino. Non sapevo chi tu fossi, in principio. Io...». «Non importa. Adesso lo sai. Che cos'è quella storia del sogno veridico?» Ninian mi guardò con aria supplichevole. Raccontare il suo sogno a me era una cosa; fare la sua prima profezia di fronte al re era tutt'altro. Mi rivolsi ad Artù: «Pare che un tuo vecchio amico si stia dando alla pirateria, o a qualche altra scellerataggine eccezionalmente simile ad essa, in qualche punto delle acque costiere. Assassinio e rapina, e pacifici mercanti depredati e poi fatti naufragare, senza che nessuno venga lasciato vivo per poter raccontare come sono andati i fatti.» Corrugò la fronte. «Un mio vecchio amico? Ma chi?» «Heuil.» «Heuil?» Si rabbuiò in viso. Poi rimase pensieroso per alcuni momenti. «Sì, quadra. Un po' di tempo fa, ho ricevuto un messaggio di Ector, il quale mi diceva che Caw stava per andarsene e che quella sua prole selvaggia si stava guardando intorno come una muta di cani oziosi in cerca di qualcosa da azzannare. Poi tre giorni fa ho avuto notizia da Urbgen, il signore di mia sorella, re del Rheged, di un villaggio sulla costa attaccato e saccheggiato, dove la popolazione era stata uccisa o dispersa. Lui propendeva a dare la colpa agli irlandesi, ma io ho avuto i miei dubbi; il tempo è stato troppo inclemente perché fosse possibile qualcosa di più che scorrerie locali. Così è Heuil? Non mi sorprendi. Devo andare?» «Pare che sarebbe meglio. Immagino che Caw sia morto, o morente. Non posso credere che Heuil oserebbe, altrimenti, fare qualche cosa per provocare il Rheged.»
«Immagini?» «Nient'altro.» Annuì. «Sembra probabile. Comunque, come pretesto andrà benissimo. Ero già quasi pronto a inventarne uno per giustificare una mia incursione al nord. Se Caw sta allentando il pugno, con quel cane nero di Heuil che cerca di mettere insieme un gruppo di seguaci in grado di contestare le pretese del fratello al governo dello Strathclyde, preferisco essere sul posto per vedere le cose di persona. Pirateria eh? Non ha visto dove?» Lanciai un'occhiata a Ninian. Questi scosse la testa. «No» dissi «ma lo troverai. Sarai lì, sulla riva, mentre ci sono ancora i resti del naufragio e i morti. La nave dei pirati si chiama Re Cervo. È tutto ciò che sappiamo. Dovresti essere in grado di inchiodare i colpevoli alle loro responsabilità.» «Lo farò, non temere.» Era torvo in viso. «Stasera manderò a nord un messaggio per Ector e Urbgen affinché mi aspettino, e io stesso mi metterò in viaggio in mattinata. Ti sono grato. Stavo cercando un pretesto per isolare Heuil dalla muta, e tu adesso me lo fornisci. Può essere proprio l'occasione che mi serviva per far ratificare un altro accordo tra lo Strathclyde e il Rheged, e mettere la mia influenza dietro il nuovo re. Non so quanto tempo rimarrò lontano. E tu, Merlino? Va tutto bene davvero?» «Va tutto molto bene.» Sorrise. Non gli era sfuggito lo sguardo che ci eravamo scambiati Ninian e io. «Pare che tu abbia qualcuno con cui dividere le tue visioni, finalmente. Bene, Ninian, sono contento di averti conosciuto.» Sorrise al ragazzo e gli disse una frase gentile. Ninian, gli occhi sgranati, formulò una specie di risposta. Mi ero sbagliato, lo capivo, su di lui; non era intimorito per la presenza del re. C'era una caratteristica nel modo in cui guardava Artù, qualcosa che non riuscivo a definire: non l'adorazione che ero abituato a vedere negli occhi degli altri uomini, ma una seria valutazione. Artù la vide anche lui, parve divertito, poi congedò il ragazzo e si rivolse di nuovo a me, chiedendomi se avevo messaggi per Morgana e per Ector. Infine salutò e se ne andò. Ninian lo seguì con lo sguardo, pensieroso. «Sì, è stato un sogno veridico. Il comandante bruno sul cavallo bianco, con lo scudo bianco che scintillava, e nessuna insegna su di esso, tranne la luce del cielo. Era Artù, senza alcun dubbio. Chi è esattamente Heuil e perché il re vuole un pretesto per stroncarlo?» «È uno dei figli di Caw dello Strathclyde, il quale regna sulla rocca di Dumbarton quasi da prima che io possa ricordare. È molto vecchio, e ha
generato diciannove figli maschi con diverse donne. Può darsi che ci siano anche delle figlie, ma quei selvaggi del nord delle femmine non si curano molto. Il più giovane dei figli, Gilda, di recente è stato mandato dal mio vecchio amico Blaise, del quale mi hai sentito parlare, per imparare a leggere e scrivere. Lui, almeno, sarà un uomo di pace. Ma Heuil è il più selvaggio di una genia selvaggia. Lui e Artù non si sono mai potuti soffrire. Bisticciarono e se le suonarono una volta, a causa di una ragazza, quando Artù era ragazzo e viveva nel nord. Da allora, con la salute di Caw che declina, il re ha sempre considerato Heuil un pericolo per l'equilibrio della pace nel nord. Heuil farebbe qualsiasi cosa, credo, per nuocere ad Artù, anche un'alleanza con i sassoni. O almeno, Artù ne è convinto. Ma adesso che Heuil si è messo a saccheggiare e uccidere, è possibile dargli la caccia e annientarlo, e si eviterà il pericolo maggiore.» «E il re si porta un esercito a nord, così, solo basandosi sulla tua parola?» Adesso il suo viso rifletteva timore, ma non il timore che si prova per i re e le loro decisioni. Per la prima volta, avvertiva in se stesso il potere. Sorrisi. «No, sulla tua. Se è sembrato che mi attribuissi il merito della visione, mi dispiace. Ma era una questione urgente, e forse a te non avrebbe creduto con la stessa prontezza.» «Certo che no. Ma hai visto anche tu?» «Io non ho visto niente.» Parve perplesso. «Però mi hai creduto immediatamente.» «Certo. Il fatto che non sia venuto anche a me, non significa che non fosse un sogno veridico.» Parve preoccupato, poi piuttosto spaventato. «Ma Merlino, vuoi dire che non sapevi niente di questa storia prima che io ti raccontassi il mio sogno? Voglio dire, del fatto che Heuil si è messo a fare il pirata... dovrei dire, della sua intenzione di fare il pirata? Che hai fatto partire il re per il nord, basandoti solo sulla mia parola?» «È ciò che voglio dire, sì.» Un silenzio, durante il quale preoccupazione, apprensione, entusiasmo e poi gioia si succedevano sul suo viso, nitidi come il riflesso della luce e delle nuvole sulle acque del suo lago natale. Stava ancora assimilando le conseguenze del potere. Ma quando parlò mi sorprese. Simile ad Artù, considerò subito, oltre quelle conseguenze, altre, che riguardavano me, non lui. E le parole che pronunciò subito dopo erano l'eco esatta di quelle di Artù. «Merlino, ti dispiace?» Gli risposi con semplicità. «Forse. Un po', adesso. Ma tra poco, non più.
È un dono pesante, e forse era tempo che il dio lo consegnasse a te e mi lasciasse sedere in pace al sole, a guardare le colombe sul muro.» Parlai sorridendo, ma sul suo volto non c'era il minimo riflesso di quel sorriso. Poi fece una cosa strana. Tese una mano per prendere la mia, se la sollevò fino alla guancia, poi la lasciò ricadere e risalì in camera sua, senza una parola né uno sguardo. Rimasi lì in piedi nel sole, a ricordare un altro ragazzo, molto più giovane, che scendeva, a cavallo, verso la valle dalla grotta di Galapas, la mente piena di visioni turbinanti e il viso inondato di lagrime, mentre le nuvole sopra di lui erano gravide di tutta quella sofferenza e quel pericolo solitari. Allora rientrai nella mia camera, e rimasi a leggere accanto al fuoco finché Mora non servì il pasto di mezzogiorno. Otto Il giorno seguente, Artù si mise in viaggio per il nord, e da allora, non ricevemmo altre notizie. Ninian si aggirava per la casa con un'aria quasi stordita, causata, credo, da meraviglia per se stesso e la sua «visione veridica», e meraviglia nei miei confronti dato che non sembravo disperarmi per il modo in cui questa aveva ignorato me. Quanto a me, riconosco che ero combattuto; ripensando a quel giorno, ho capito che avevo indugiato ai margini del sogno avvelenato che era la mia malattia; ma anche dopo la visita di Artù e l'accettazione della profezia di Ninian, niente era venuto a me dalle tenebre, né nel senso di una conferma né in quello di una smentita. Nonostante tutto, mi pareva di sentire, nella suntuosa pace di quei giorni, soltanto una tranquilla approvazione. Era come osservare un'ombra che lentamente, mentre le nuvole lontane si spostano, si ritira da una foresta o da un campo e prosegue, per velare il successivo. Mi era stato mostrato, abbastanza dolcemente, dov'era adesso la felicità; perciò la presi, preparando il ragazzo Ninian a essere quello che io ero stato, e preparando me stesso a un futuro intravisto e indovinato molte volte, ma adesso visto con maggior chiarezza e non più temuto, ma verso il quale anzi mi avviavo, come un animale verso il proprio sonno invernale. Ninian, ancor più di prima, pareva rinchiudersi in se stesso. Un paio di volte, mentre giacevo insonne la notte, lo sentii attraversare il chiostro a passi felpati, poi correre, come una giovane creatura finalmente libera, scendendo a valle, verso la strada. Due volte, anzi, cercai di seguirlo con la vista, ma doveva aver preso cura di sottrarsi ad essa, perché non vidi altro che la strada, poi la figuretta esile che correva, correva, nella nebbia che
separava Applegarth dall'isola. Non mi turbava il fatto che avesse dei segreti, non più di quanto mi turbasse sentirlo parlare con la ragazza Mora - a volte molto a lungo - nella distilleria o in cucina. Non mi ero mai considerato una compagnia brillante e con l'età tendevo a essere ancora più chiuso. Non poteva che farmi piacere che i giovani trovassero interessi in comune, e stessero entrambi soddisfatti al mio servizio. Perché un servizio era. Facevo lavorare il ragazzo più duramente di uno schiavo. Così agisce l'amore, trovo; uno desidera con tale intensità per il proprio amato che possa raggiungere i risultati migliori, che non gli risparmia niente. E che io amassi Ninian non poteva più essere in dubbio; il ragazzo era me stesso, e attraverso di lui io avrei continuato a vivere. Finché Artù avesse avuto bisogno della visione e del potere di un profeta del re, li avrebbe trovati, pronti a portata di mano come la spada reale. Una sera accendemmo un gran fuoco per difenderci dal vento gelato di aprile e vi sedemmo accanto, a osservare le fiamme. Ninian si sistemò immediatamente al suo solito posto, sul tappeto davanti al focolare, col mento appoggiato sul pugno, gli occhi grigi socchiusi contro il bagliore delle fiamme. A poco a poco, sulla morbida pelle pallida, cominciò a brillare il sudore, un velo che rifletteva la luce del fuoco e disegnava nitidamente il suo viso, inumidendo le punte dei capelli e frangiando di arcobaleni le ciglia scure. Come di recente mi accadeva sempre più spesso, mi sorpresi a guardarlo, piuttosto che tendere verso il mio personale potere. Era un misto di profonda soddisfazione e di un amore crudelmente sconvolgente, che io non facevo nessun tentativo per controllare o per capire. Avevo imparato le lezioni del passato: col tempo ero giunto a convincermi di essere abbastanza padrone di me e dei miei pensieri da non far alcun male al ragazzo. Sul suo viso ci fu un cambiamento. Qualcosa si mosse, un riflesso di dolore, di angoscia o di sofferenza, come qualcosa di intravisto vagamente in uno specchio. Il sudore gli scorreva negli occhi ma lui non sbatteva le palpebre, né si muoveva. Era tempo che lo accompagnassi. Smisi di guardarlo e volsi lo sguardo al fuoco. Immediatamente vidi Artù. Era in sella al suo gran cavallo bianco, in riva al mare. La spiaggia era di ciottoli e io riconobbi il castello abbarbicato sul dirupo, su in alto: la fortezza sul mare del Rheged, che domina l'estuario dell'Ituna. Era il crepuscolo e il cielo tempestoso ammassava nuvole color indaco dietro un mare grigio più chiaro del suo stesso orizzonte. On-
de tumultuose si abbattevano sugli scogli e risalivano sibilando la riva per morire nella schiuma, poi trascinate di nuovo indietro nello scroscio dei ciottoli. Lo stallone bianco era saldo, la schiuma che gli turbinava ai garretti; i suoi fianchi bagnati di schizzi e scintillanti, e il mantello grigio di Artù, agitato dal vento insieme alla criniera del cavallo, parevano parte del panorama, come se il re, col cavallo, fosse uscito dal mare. Un uomo, all'apparenza un contadino, era accanto ad Artù, parlava animatamente e gli indicava il mare. Il re seguì la direzione del gesto poi, diritto sulla sella, si portò la mano agli occhi. Vidi che cosa stava guardando: una luce, lontana sull'orizzonte, che si agitava con il mare agitato. Il re fece una domanda e l'uomo indicò di nuovo, questa volta verso l'entroterra. Il re annuì, qualcosa passò da una mano all'altra, poi egli girò lo stallone e alzò un braccio. Il cavallo bianco risalì al galoppo il sentiero che arrivava al mare e, nelle nebbie sempre più fitte della visione, io vidi i soldati che si accalcavano dietro di lui. Appena prima che la visione svanisse, vidi, in cima al dirupo, delle luci apparire nella fortezza. Feci ritorno nella stanza illuminata dal fuoco scoprendo che Ninian vi era arrivato prima di me. Era in ginocchio, o meglio accovacciato sul tappeto, con la testa tra le mani. «Ninian?» Non ci fu nessun movimento, appena un leggero scuotere della testa. Lo lasciai stare un momento, poi presi il tonico che tenevo sempre a portata di mano. «Vieni. Bevi questo.» Lui lo sorseggiò, ringraziandomi con gli occhi, ma sempre senza parlare. Lo guardai alcuni minuti in silenzio, poi dissi: «Così, a quanto pare, il re è arrivato all'estuario dell'Ituna, e ha scoperto tutto sui pirati. Adesso si riposa nella fortezza sul mare del Rheged e al mattino, ne sono certo, si metterà alle calcagna di Heuil; che c'è allora? Artù è al sicuro, la tua visione era veridica, e il re sta facendo quello che si era accinto a fare». Ancora non ci furono parole, solo quell'espressione di assoluta angoscia. Dissi in fretta: «Forza, Ninian, non prendertela così a cuore. Per Artù questa è una cosa da poco. L'unica cosa difficile in tutto questo è che deve punire Heuil senza offendere i suoi fratelli; ma anche questo non sarà troppo complicato. È da molto tempo che Heuil ha, tanto per fare una metafora, sputato sul focolare di suo padre e se n'è andato a fare danni a modo suo. Perciò, anche se il vecchio Caw è ancora vivo, non so se si affliggerà; e quanto ai suoi figli maggiori, non ho nessun dubbio che la morte di Heuil
sarebbe per loro un sollievo». Con tono più brusco aggiunsi: «Se è una disgrazia quella che hai visto, o una sventura, è tanto più importante che tu ne parli. La morte di Caw l'aspettavamo: chi è morto allora? Morgana, la sorella del re? O il conte Ector?». «No.» La sua voce strana, come uno strumento fatto per la musica in cui soffi un vento pieno di sabbia. «Il re non l'ho visto affatto.» «Vuoi dire che non hai visto niente? Senti, Ninian, succede. Ti ricordi che è successo l'altro giorno, anche a me. Non devi fartene turbare. Ci saranno molte volte in cui non ti giungerà niente. Ti ho già detto che devi aspettare il dio. È lui che sceglie il momento, non te.» Scosse la testa. «Non è questo. Ho visto. Ma non il Sommo re. Un'altra cosa.» «Allora dimmela.» Mi lanciò un'occhiata disperata. «Non posso.» «Sta' a sentire, mio caro: come non scegli ciò che ti viene mostrato, non scegli neppure che cosa dire. Può darsi che verrà il tempo in cui userai il tuo discernimento nei palazzi di re, ma, con me, devi dirmi tutto ciò che vedi.» «Non posso.» Aspettai un momento. «Allora. Hai visto nelle fiamme?» «Sì.» «Ciò che hai visto era in contraddizione con ciò che era venuto prima, o con ciò che credo di aver appena visto?» «No.» «Allora se taci per paura di me, o per paura che io possa per qualche ragione andare in collera...» «Non ho mai avuto paura di te.» «Allora» dissi pazientemente «di sicuro non può esserci motivo per restare zitto, e ci sono tutte le ragioni per dirmi ciò che credi di aver visto. Può darsi che non sia quella sventura che tu così chiaramente credi che sia. Può darsi che tu l'interpreti male. Non ti è venuto in mente, questo?» Un lampo di speranza, subito spento. Fece un respiro incerto e io credetti che stesse per parlare, ma lui si morse le labbra e continuò a tacere. Mi domandai se avesse previsto la mia morte. Mi chinai, gli presi il viso tra le mani e lo costrinsi a voltarlo verso di me. I suoi occhi, riluttanti, si alzarono a incontrare i miei. «Ninian. Credi che io non possa andare dove sei appena stato tu? Mi costringerai a una tale fatica e a una tale tensione, o vuoi ubbidirmi, adesso? Che cos'era ciò
che hai visto nelle fiamme?» Si passò la lingua sulle labbra aride e poi parlò, appena un mormorio, come se avesse paura del suono della sua voce. «Sapevi che Bedwyr non è con il Sommo re? Che è rimasto a Camelot?» «No, ma avrei potuto immaginarlo. È chiaro che il re deve lasciare uno dei suoi comandanti in capo a difendere la fortezza e proteggere la regina.» «Sì.» Di nuovo, si passò la lingua sulle labbra. «Questo è ciò che ho visto. Bedwyr a Camelot... con la regina. Erano... credo che siano...» S'interruppe. Tolsi le mani dal suo viso e lui, grazie al cielo, distolse gli occhi dai miei, abbassandoli. C'era un solo modo di interpretare il suo sgomento. «Amanti?» «Credo. Sì. So che lo sono.» Poi, parlando in fretta, adesso: «Merlino, come può la regina fare una cosa simile? Dopo tutto quello che è accaduto... dopo tutto quello che lui ha fatto per lei! La storia di Melwas... lo sanno tutti che cosa accadde lì! E Bedwyr, come ha potuto tradire il re in questo modo? La regina... una donna capace di prendersi delle distrazioni mentre ha al fianco un uomo simile, un tale re... Se solo potessi credere che non era un sogno veridico! Ma so che lo era!» Mi fissava, gli occhi ancora dilatati dal sogno. «Ma, Merlino, in nome di Dio, che cosa dobbiamo fare?» Dissi lentamente: «Ancora non posso dirtelo. Ma tu non ci pensare, se puoi. Questo è un fardello che non ti sarà chiesto di portare con me». «Glielo dirai?» «Sono il suo servitore. Tu che cosa pensi?» Si morse di nuovo il labbro, lo sguardo fisso nel fuoco ma questa volta, lo sapevo, senza vedere niente. Aveva il viso pallido e infelice. Ricordo che provai una certa sorpresa perché, a quanto pareva, se la prendeva più con Ginevra per la sua debolezza che con Bedwyr per il suo tradimento. Alla fine fece: «Come potresti dirgli una cosa simile?». «Ancora non lo so. Il tempo me lo farà vedere.» Alzò la testa. «Tu non sei sorpreso.» Suonava come un'accusa. «No. Credo di averlo saputo, la notte in cui lui passò a nuoto quel braccio d'acqua per arrivare al casotto da caccia di Melwas nel lago. E poi, quando lei lo curava... E ricordo anche che quando Ginevra giunse a Caerleon per le nozze, Bedwyr era l'unico dei cavalieri che non la guardava, e neppure lei guardava lui. Credo che già avessero provato quel sentimento, durante il viaggio da Northgalis, prima ancora che lei vedesse il re.» Aggiunsi: «E si può dire che mi fu detto quasi con chiarezza molti anni fa,
quando erano ancora ragazzi e stavano insieme, e ancora nessuna donna era venuta a turbare la loro vita, come fanno le donne». Si alzò in piedi di scatto. «Io vado a letto» disse, e mi lasciò. Rimasto solo, tornai a contemplare le fiamme. Li vidi quasi immediatamente. Erano fermi sul terrapieno ovest, dove avevo parlato con Artù. Adesso il palazzo era immerso nelle tenebre, a parte qua e là lo scintillio delle stelle e un raggio di luce proiettato dalla lampada sulle mezzane, tra i vasi di rose in germoglio. Erano in piedi in silenzio e immobili. Avevano le mani intrecciate e si guardavano con una sorta di frenesia. Lei aveva un'aria impaurita e le guance rigate di lacrime; lui aveva un viso tormentato, come se l'ombra bianca gli distruggesse l'anima. Qualunque fosse il genere d'amore che li aveva ghermiti, era un amore crudele e, lo sapevo, nessuno dei due aveva ancora osato lasciare che uccidesse la sua lealtà. Li guardai ed ebbi pena di loro, poi distolsi lo sguardo dai ceppi fumiganti e li lasciai alla loro intimità. Nove Otto settimane dopo il re tornò a Camelot. Aveva raggiunto Heuil, lo aveva battuto in leale battaglia, aveva bruciato le sue navi e lo aveva condannato al pagamento di un tributo che per un po' di tempo gli avrebbe fatto abbassare la cresta. Ancora una volta aveva represso i suoi istinti per considerazioni politiche. Mentre era in viaggio verso il nord, lo aveva raggiunto la notizia che Caw dello Strathclyde era morto, tranquillamente nel suo letto. Tranquillamente, cioè, per uno come Caw; aveva trascorso la giornata a caccia e metà della notte a banchettare poi, quando nelle ore piccole dell'alba l'inevitabile resa dei conti si era abbattuta sul suo corpo di novantenne, era morto, circondato da quanti tra i suoi figli maschi e le loro madri erano riusciti ad arrivare in tempo al suo letto di morte. Aveva anche nominato suo erede il secondo figlio Gwarthegydd (il primogenito era rimasto gravemente menomato durante una battaglia di alcuni anni prima). Il messaggero che aveva portato la notizia ad Artù, recava anche le assicurazioni dell'amicizia di Gwarthegydd. Perciò Artù non volle mettere in pericolo quell'amicizia prima di aver visto Gwarthegydd, di aver parlato con lui e aver capito in che rapporti era con il fratello Heuil. Non avrebbe avuto bisogno di essere così prudente. Si disse che, ap-
prendendo della sconfitta di Heuil, Gwarthegydd proruppe in una risata fragorosa quasi quanto l'urlo consueto di suo padre e che bevve un corno colmo di idromele alla salute di Artù. Perciò il re, insieme a Urbgen e a Ector, si recò a Dumbarton e per dieci giorni rimase con Gwarthegydd, e al termine di quel soggiorno assistette alla sua incoronazione. Poi, soddisfatto, si rimise in viaggio per il sud. Prese la strada a est che portava nell'Elmet, trovò le terre dei sassoni e la Valle dell'Elmet tranquille, poi attraverso il Varco nei Pennini arrivò a Caerleon. Lì rimase un mese e ai primi di giugno rientrò a Camelot. Era ora. Ripetutamente avevo visto nel fuoco gli amanti, combattuti tra desiderio e fedeltà, Bedwyr magro e taciturno, la regina con occhi sbarrati e mani nervose. Non si vedevano mai da soli: sempre con loro c'erano le dame di lei che cucivano, o gli uomini di lui, quando uscivano cavallo, che formavano la scorta. Ma loro stavano seduti, oppure cavalcavano, un po' in disparte dagli altri, e parlavano, parlavano, come se potessero trovare conforto nelle parole e, di quando in quando, in un lieve e disperato sfiorarsi delle mani. E aspettavano, notte e giorno, l'arrivo di Artù: Bedwyr, perché non poteva abbandonare senza il permesso del re il suo torturante incarico; Ginevra con i tristi presentimenti di una giovane donna sola, che da una parte teme suo marito e dall'altra dipende da lui per protezione, conforto e quel poco di compagnia che lui ha tempo di darle. Artù era rientrato a Camelot da una decina di giorni quando venne a trovarmi. Era una dolce e luminosa mattina di giugno. Mi ero alzato subito dopo l'alba, com'era mia abitudine, e me n'ero andato a camminare sulle montagne ondulate che dominavano la casa. Ero andato solo: di solito Ninian non si faceva vedere fino a quando Mora lo chiamava per la colazione. Passeggiavo da un'ora, riflettendo e soffermandomi di quando in quando a raccogliere le piante di cui ero in cerca quando, al di là di un avvallamento delle colline calcaree, udii un rumore di zoccoli che si avvicinavano adagio. Non chiedetemi come capii che era Artù: gli zoccoli di cavallo su un sentiero producono tutti lo stesso rumore, e l'aria quel giorno non conteneva presagi, ma l'amore ha ali più forti della visione, sicché semplicemente mi voltai e rimasi ad aspettarlo, al riparo di uno di quei boschetti di biancospino che interrompevano qua e là la pallida distesa delle alte colline calcaree. I biancospini incoronavano l'imboccatura di una valletta nella quale correva un sentiero, antico quanto la terra stessa. Su quel sentiero lo vidi inoltrarsi poco dopo, tranquillamente in sella a una graziosa giumenta
baia seguito dal suo giovane cane, successore di Cabal. Alzò una mano verso di me, girò la giumenta verso la salita, poi si lasciò scivolare giù dalla sella e mi rivolse un sorriso. «Bene, così avevi ragione. Come se dovessi dirtelo! E adesso immagino non ci sia neppure bisogno di raccontarti quello che è successo. Hai mai pensato, Merlino, che cosa noiosa è avere un profeta che sa tutto prima che accada? Non solo non posso mai mentirti, ma non posso neppure, dopo, venire a vantarmi da tè.» «Mi dispiace. Ma ti assicuro che questa volta il tuo profeta aspettava i tuoi dispacci con la stessa impazienza di chiunque altro. Ti ringrazio per le lettere... Come mi hai trovato? Sei stato ad Applegarth?» «Stavo andando lì, ma un tipo con un carro tirato da buoi - uno dei taglialegna - mi ha detto di averti visto venire da questa parte. Vai più in là? Cammino un po' con te, se permetti.» «Certo. Stavo giusto per tornare indietro... Le tue lettere sono state molto gradite, ma voglio lo stesso sentirti raccontare direttamente come sono andate le cose. È strano pensare che il vecchio Caw alla fine se n'è andato. Era arroccato su quel suo picco di Dunbarton da quando io riesco a ricordare. Credi che Gwarthegydd riuscirà a conservarselo ora?» «Contro gli irlandesi e i sassoni, sì. Su questo non avrei dubbi. Come riesca a cavarsela con gli altri diciassette pretendenti al trono è un'altra faccenda.» Sorrise. «Sedici, immagino, dato che a Hueil ho mozzato io le ali per conto suo.» «Diciamo quindici, allora. Non puoi calcolare il giovane Gilda, dato che adesso è andato a far lo scrivano da Blaise.» «È vero. Un ragazzo intelligente, quello, è sempre stato l'opposto di Heuil. Immagino che quando Blaise morirà verrà avviato in un monastero. Forse meglio così. Come suo fratello, non mi ha mai amato.» «Allora speriamo che gli si possano lasciare in mano le carte del suo maestro. Dovresti far mettere per iscritto le tue imprese da alcuni dei tuoi scrivani.» Inarcò un sopracciglio, guardandomi. «Che cos'è? Un avvertimento da profeta?» «Niente del genere. Un pensiero fuggevole, nient'altro. Allora Gwarthegydd è dalla tua? A un certo momento aveva cercato di emanciparsi da Caw e faceva la corte ai re irlandesi.» «Era più giovane, e Caw aveva la mano pesante. Adesso è finita. Credo che andrà abbastanza bene. Ciò che veramente è importante a questo punto
è che vada d'accordo con Urbgen...» Continuò a parlare, raccontandomi gli avvenimenti principali delle settimane precedenti, mentre lentamente tornavamo indietro attraverso le colline calcaree, con la giumenta che ci seguiva e il grande cane che correva col naso a terra, disegnando cerchi sempre più larghi intorno al nostro sentiero. Nella sostanza, pensavo ascoltandolo, niente era cambiato. Non ancora. Lui aveva sempre meno bisogno di venire da me a chiedere consiglio, ma, come sempre da quando era bambino, aveva bisogno di poter riandare con il discorso - per se stesso come per me - al corso degli avvenimenti e ai problemi che via via sorgevano dalla recente coalizione dei regni. In genere, in capo a un'ora o due, dopo una conversazione alla quale potevo aver portato grossi contributi, o qualche volta assolutamente nessuno, potevo capire, sia con la vista che con l'udito, che si era a buon punto per la soluzione dei dilemmi. Allora a un tratto lui si alzava, si stirava, mi salutava e se ne andava; per chiunque altro sarebbe stato un modo brusco di separarsi, ma tra noi non c'era bisogno d'altro. Io ero il forte albero sul quale l'aquila si posava, passando, per riposarsi o riflettere. Adesso però quella quercia rivelava uno o due rami secchi. Quanto ci sarebbe voluto perché il giovane virgulto arrivasse alla sua altezza? Artù era arrivato alla fine del suo resoconto. Allora, come se i miei pensieri gli si fossero comunicati, mi lanciò un lungo sguardo inquieto. «E adesso, parliamo di te. Come sei stato in questi ultimi mesi? Sembri stanco. Sei stato di nuovo malato?» «No. Non devi preoccuparti per la mia salute.» «Ho ripensato spesso all'ultima visita che ti avevo fatto. Tu dicesti che era stato quel...» qui esitò «quel tuo aiutante a "vedere" Heuil e la sua marmaglia al lavoro.» «Ninian. Sì, fu lui.» «E tu non vedesti niente?» «Sì» feci io. «Niente..» «Così mi dicesti. Ancora oggi lo trovo strano. Non trovi anche tu?» «Immagino di sì. Ma se ricordi, non stavo bene, quel giorno. Immagino che non mi ero completamente rimesso da quell'infreddatura.» «Sta con te... da quanto tempo?» «È venuto a settembre. Fa, quanto? Nove mesi.» «E tu gli hai insegnato tutto quello che sapevi?» Sorrisi. «Non proprio. Ma gli ho insegnato molto. Non ti mancherà mai
un profeta, Artù.» Lui non rispose al mio sorriso. Appariva profondamente turbato. Continuò a camminare sul tappeto erboso indurito, con il muso della giumenta alla spalla e il cane che correva davanti a lui. Il cane stava perlustrando quell'estensione di ginestrone, pieno di profumati fiori gialli. Dovunque andasse, faceva volar via nugoli di minuscole farfalle azzurre e disperdeva il rosso lucente delle coccinelle. Ce n'era stata una disastrosa invasione quella primavera, e i cespugli di ginestrone ne avevano migliaia come le more sui rovi. Artù rimase silenzioso per un po', accigliandosi per i suoi pensieri. Poi parve arrivare a un'improvvisa decisione. «Ti fidi di lui?» «Di Ninian? Certo. Perché no?» «Che cosa sai di lui?» «Tutto quello che ho bisogno di sapere» risposi, forse un po' freddamente. «Ti ho raccontato come è venuto da me. Fui certo allora, e lo sono ancora, che fu il dio a farci incontrare. Non potrei avere un allievo con maggiore predisposizione di lui. Tutto ciò che gli devo insegnare, lui è più che ansioso di impararlo. Non devo spingerlo, devo frenarlo.» Gli lanciai un'occhiata. «Perché? Pensavo che tu avessi avuto la prova delle sue attitudini. La sua visione era veridica.» «Ah, io non dubito delle sue attitudini.» Parlava con sarcasmo. Colsi il leggero rilievo che aveva dato all'ultima parola. «Di che cosa allora? Che cosa stai cercando di dirmi?» Perfino io non mi aspettavo tanto gelido stupore nella mia voce. Lui disse, in fretta: «Mi spiace, Merlino, ma devo dirtelo. Nutro dei dubbi sulle sue intenzioni nei tuoi confronti». Sebbene avesse, in un certo senso, preannunciato il colpo, questo mi raggiunse con una forza che mi paralizzò. Sentii il sangue defluire dal mio cuore. Mi fermai e lo guardai, faccia a faccia. Intorno a noi alitava il profumo di ginestrone, forte e soave. Frammisti ad esso, senza neppure riflettere, distinsi quelli del timo, dell'acetosella, dell'erba schiacciata, quando la giumenta baia abbassò la testa e strappò un boccone d'erba. Io non sono rapido all'ira, meno che mai con Artù. Bastarono un paio di minuti perché riuscissi a dire, con calma: «Qualsiasi cosa tu abbia da dire, certamente è meglio che la dica subito. Ninian è più che il mio aiuto, promette di essere il mio secondo io. Se mai sono stato un appoggio per la tua mano, Artù, ugualmente lo sarà lui quando io sarò morto. Che il ragazzo ti piaccia o no - e perché non dovrebbe piacerti, se lo conosci appena? - può
darsi che tu debba accettarlo così com'è. Io non vivrò in eterno, e lui ha il potere. Ha già il potere, e questo aumenterà». «Lo so. È questo che mi preoccupa.» Di nuovo, distolse lo sguardo da me. Non potevo capire se fosse perché non riusciva a guardarmi in faccia. «Non capisci, Merlino? Lui ha il potere. È stato lui ad avere la visione. Non tu. Tu dici che eri stanco, che eri stato malato. Ma quando mai il tuo dio si è preoccupato di una cosa simile? Quella non era una banale visione; non era qualcosa che normalmente avresti mancato. Grazie a quella visione, io ero già lì, ai confini del Rheged, quando Caw è morto, e sono stato in grado di appoggiare Gwarthegydd e di impedire Dio sa quanti disordini tra quei principi in lotta. E allora, perché mai non hai avuto tu la visione?» «Devo continuare a ripeterlo? Ero...» «Sì, eri malato. Perché?» Silenzio. Una brezza passò sulla lunga estensione collinare, profumata di miele. Sotto di essa, nell'immensa quiete del giorno, l'erba frusciò. La giumenta brucava avidamente; il cane era tornato ai piedi del suo padrone e si era seduto lì, con la lingua ciondolante. Artù si mosse e ricominciò a parlare, ma io lo prevenni. «Che cosa vuoi dire?... No, non rispondere. So benissimo quello che stai per dire. Che io ho ospitato questo ragazzo sconosciuto, me ne sono infatuato, gli ho rivelato tutte le segrete conoscenze dei farmaci e qualcosa di magia, e che adesso lui progetta di prendere il mio posto e di usurpare il mio potere. Che non può non essere ritenuto colpevole di usare i miei stessi farmaci contro di me. È così?» Qualcosa che assomigliava a un sorriso gli incurvò le labbra, senza tuttavia rischiarare la sua espressione truce. «L'ambiguità non ha mai fatto per te, vero?» «Non ho mai nascosto la verità, a te meno che a chiunque altro.» «Ma allora, mio caro, il fatto è che non sempre vedi la verità.» Per chissà quale ragione, la dolcezza stessa della risposta mi colmò di presentimenti. Lo guardai, accigliandomi. «Questo sono pronto ad accettarlo. Perciò adesso, dato che non posso immaginare che tutto ciò derivi da qualche vago sospetto, devo presumere che tu sappia di Ninian qualcosa che io non so. Se è così, perché non me lo dici, lasciandomi giudicare della sua importanza?» «Benissimo. Ma...» Un mutamento nell'espressione del suo viso mi fece girare e seguire la direzione del suo sguardo. Guardava al di là di me, lontano oltre il profilo della collina, una valletta in cui scorreva un torrentello
fiancheggiato da betulle e salici. Dietro alla valletta s'innalzava la collina verde al cui riparo si trovava Applegarth. In mezzo ai salici scorsi un bagliore di azzurro, poi vidi Ninian, che dopo tutto doveva essersi alzato presto, chinarsi su qualche cosa in riva al torrente. Poi si raddrizzò e vidi che aveva le mani piene di verde. In quel punto cresceva il crescione d'acqua, e la menta selvatica, frammisti ai ranuncoli. Rimase fermo un momento, come se vagliasse le piante che aveva in mano, poi saltò il torrentello e risalì di corsa il pendio, il mantello azzurro che si gonfiava nel vento dietro di lui come una vela. «Ebbene?» chiesi. «Stavo per dire, scendiamo. Dobbiamo parlare e devono esserci modi più comodi di farlo che stando in piedi, faccia a faccia, in cima al mondo. Mi intimidisci ancora, sai, Merlino, anche quando so di aver ragione.» «Non era mia intenzione. Comunque, scendiamo.» Lui tirò la cavalla, per farle alzare la testa dall'erba, e cominciò a scendere per primo, fino al piccolo bosco che arrivava sulla riva del torrentello. Gli alberi erano per lo più betulle e qua e là c'era il tronco contorto di un ontano, ricoperto di rovi e di caprifoglio. Una betulla era caduta da poco, con la sua corteccia d'argento. Il re allentò un fermaglio del morso della giumenta. Legò una estremità delle briglie a un giovane virgulto, poi la lasciò brucare e tornò a sedersi accanto a me, sul tronco della betulla. Andò dritto al punto. «Ninian ti ha mai raccontato niente della sua famiglia? Di casa sua?» «No. Io non ho mai insistito. Ho immaginato che avesse basse origini, o che fosse un bastardo... non ha né l'aspetto, né il modo di fare e di parlare di un contadino. Ma sia tu che io sappiamo come questo genere di domande può essere sgradito.» «Io non ho avuto i tuoi scrupoli. Ho pensato a lui da quando l'ho visto con te ad Applegarth, quel giorno. Quando sono tornato, mi sono informato su di lui.» «E che cosa hai scoperto?» «Abbastanza per capire che ti ha ingannato fin dal principio.» Poi, battendosi un pugno sul ginocchio, con un'improvvisa, violenta esasperazione: «Merlino, Merlino, sei così cieco? Giurerei che nessun uomo può essere ingannato così, ma ti conosco... Anche adesso, qualche minuto fa, guardandolo laggiù vicino al torrente, non hai visto niente?». «Che cosa avrei dovuto vedere? Immagino che sia andato a raccogliere corteccia di ontano. Sapevo che ce ne serviva, e vedi anche tu dove è stata
strappata, da quell'albero. E aveva nelle mani crescione d'acqua.» «Vedi? I tuoi occhi riescono a vedere queste cose, ma non ciò che qualsiasi altro uomo al mondo avrebbe visto... se non immediatamente almeno qualche giorno dopo averlo conosciuto! Io lo sospettai in quei primi minuti, lì nel tuo cortile, quando tu mi raccontavi il "sogno veridico", poi ho fatto delle indagini e ho scoperto che era vero. Proprio adesso, abbiamo guardato insieme la stessa persona risalire di corsa il pendio. Tu hai visto un ragazzo che portava del crescione d'acqua, ma quello che ho visto io era una fanciulla.» Non riesco a ricordare in quale momento, mentre mi parlava, capii quello che stava per dirmi; prima che arrivasse a metà la cosa mi colpì come una verità già conosciuta: il calore prima che il fulmine colpisca, il silenzio dopo il fulmine, riempito dal tuono in arrivo. Quel che il saggio incantatore, con le sue visioni mandate dal dio non aveva saputo scorgere, il giovane versato nei modi delle donne l'avevo visto immediatamente. Era vero. Potevo solo meravigliarmi, in silenzio, di essermi lasciato ingannare così facilmente. Ninian. La figura vagamente intravista nella nebbia, così simile al ragazzo perduto da farmela salutare e metterle nella testa quelle parole «ragazzo» e «Ninian», prima ancora che potesse parlare. Averle detto che ero Merlino: averle offerto i doni del mio potere e della mia magia, quei doni che un'altra fanciulla - la strega Morgause - aveva cercato invano di strapparmi, e che io mi ero affrettato con impazienza a deporre ai piedi di quell'estranea. Non c'era da meravigliarsi che si fosse presa il tempo per riflettere, per sistemare le sue cose, per tagliarsi i capelli e cambiarsi d'abito e raccogliere tutto il suo coraggio, prima di venire da me, ad Applegarth. Che avesse rifiutato di vivere nella mia stessa casa, preferendo le stanze lontano dal colonnato, con la loro scala indipendente; che non mostrasse interesse per Mora ma che loro due stessero così bene insieme. Mora aveva indovinato, allora? Accantonai questa riflessione mentre, nella mia mente, se ne affollavano altre. La rapidità con la quale aveva imparato da me; il potere, con tutta la sua sofferenza, già accettato con terrore, con rassegnazione e finalmente con spontanea gioia. L'espressione seria e dolce, i gesti di un'adorazione offerta cautamente e altrettanto cautamente tenuta a freno. Il modo in cui mi aveva lasciato quando con tanta leggerezza avevo parlato di donne che turbano la vita degli uomini. La sua rapida condanna di Ginevra, anziché di Bedwyr, perché aveva ceduto a un amore crudele. Poi, mentre la memoria si ravvivava, la sensazione dei suoi capelli scuri sotto
le mie mani, l'ossatura delicata del suo viso e gli occhi grigi che guardavano la luce del fuoco, e quell'amore sconvolgente che tanto mi aveva turbato e che adesso non doveva più turbarmi. Mi venne in mente, come tanto tempo prima il sole che facendosi strada tra i rami di betulla era caduto sulle campanule dimenticate del sottobosco dove una fanciulla mi aveva offerto amore, poi mi aveva schernito per la mia impotenza, mi venne in mente che questa volta nessun dio geloso doveva mettersi tra noi. Finalmente ero libero di dare, insieme a tutto ciò che mi rimaneva di potere, di fatica e di gloria, quella virilità che fino ad allora era appartenuta solo al dio. L'abdicazione che avevo temuto, e che avevo temuto di concedere a malincuore, non sarebbe stata una privazione, ma invece la conquista di una nuova felicità. Feci ritorno al sole, a un altro boschetto di betulle e alle campanule appassite di giugno, e vidi Artù che mi fissava. «Non sembri neppure sorpreso. Lo avevi indovinato?» «No. Ma avrei dovuto; se non per uno qualsiasi dei segnali che per te erano evidenti, per ciò che provavo... e che provo ora.» Sorrisi alla sua espressione. «Ah, sì. Un vecchio sciocco, se vuoi. Ma adesso so per certo che i miei dei sono misericordiosi.» «Perché credi di amare quella fanciulla?» «Perché la amo.» «Ti credevo un saggio» disse lui. «E perché sono un saggio. So pure troppo bene che l'amore non si può negare. È troppo tardi, Artù. Qualsiasi cosa possa venirne, è troppo tardi. È accaduto. No, ascolta. Tutto è chiaro, adesso, come il sole sull'acqua. Tutte le profezie che ho fatto, le cose del futuro che ho previsto con terrore... Le vedo avvicinarsi a me, adesso, e il terrore è svanito. Ho ripetuto abbastanza che la profezia è una spada a doppio taglio; gli dei sono ambigui: le loro minacce, come le loro promesse di successo, si trasformano nelle mani degli uomini.» Alzai la testa e guardai in alto, attraverso le foglie che si agitavano dolcemente. «Ti dissi che avevo visto la mia fine. C'è un sogno che feci una volta, una visione che scorsi nelle fiamme. Vidi la grotta nella montagna del Galles, e la fanciulla che era mia madre, che si chiamava Niniane, e il giovane principe mio padre, che si giacevano insieme. Poi, nella stessa visione, vidi me stesso, i capelli grigi, e una fanciulla con una massa di capelli scuri e gli occhi chiusi, e pensai che anche questa fosse Niniane. E lo era. Lo è. Capisci? Se essa ha una qualsiasi parte nella mia fine, allora questa sarà misericordiosa.»
Artù balzò in piedi così bruscamente che il cane, raggomitolato accanto a lui, con un salto si fece da parte, la schiena arcuata, e cominciò a guardarsi intorno per vedere il pericolo. Con tre passi il re si allontanò da me, e con altri tre passi venne a mettermisi di fronte. Batté un pugno sul palmo dell'altra mano con tanta violenza che la giumenta, distante da noi una dozzina di passi, trasalì e poi rimase immobile, le orecchie erette. «Come puoi aspettarti che io rimanga qui ad ascoltarti parlare della tua morte? Una volta mi dicesti che saresti finito in una tomba, vivo, e che credevi ciò sarebbe stato a Bryn Myrddin. Adesso immagino che mi chiederai di lasciarti tornare laggiù affinché questa... questa strega possa lasciarti lì chiuso nella tomba!» «Non esattamente. Non hai capito...» «Capisco quanto te, e credo di ricordare meglio di te! Hai dimenticato la maledizione di Morgause? Che la magia delle donne alla fine ti avrebbe preso in trappola? E ciò che un giorno ti promise la regina Ygraine, mia madre? Tu mi raccontasti ciò che essa disse. Che se Gorlois di Cornovaglia fosse morto, lei avrebbe passato il resto della sua vita a pregare tutti gli dei esistenti affinché tu morissi tradito da una donna.» «E allora?» dissi. «Non sono forse stato preso in trappola? E non sono stato tradito? E questo è tutto.» «Ne sei così sicuro? Perdonami se ti ricordo ancora una volta che non conosci le donne. Ricorda Morgause. Essa cercò di persuaderti a insegnarle la tua magia, e quando tu non accettasti prese il potere in altro modo... nel modo che sappiamo. Adesso questa fanciulla è riuscita dove Morgause aveva fallito. Dimmi una cosa: se fosse venuta da te come è, come donna, l'avresti accettata e le avresti insegnato le tue arti?» «Questo non so dirtelo. Probabilmente no. Ma il fatto è che non lo fece. L'inganno non fu suo, al principio; essa vi fu spinta dal mio errore, e a quell'errore a mia volta fui indotto dal caso che mi aveva in primo luogo portato a conoscere e ad amare il ragazzo Ninian che annegò. Se non riesci a vedere l'opera del dio qui, mi dispiace.» «Sì, sì» con impazienza «ma mi hai appena ricordato che questo è un dio ambiguo. Ciò che adesso vedi come una gioia può essere quella stessa morte che hai paventato.» «No» dissi. «Devi vederla in un altro modo. Che un destino da lungo tempo paventato può risultare, alla fine, misericordioso, come questo "tradimento". Il mio lungo incubo di essere chiuso in una tomba buia, vivo, può risultare qualcosa di simile. Ma comunque sia, io non posso evitarlo.
Quel che verrà, verrà. Il dio sceglie il tempo e la forma. Dopo tutti questi anni, se non avessi fiducia in lui, sarei lo sciocco che tu mi credi.» «Così tornerai da quella ragazza, la terrai con te e continuerai a insegnarle la tua arte?» «Proprio così. Adesso non potrei fermarmi. Ho gettato in lei i semi del potere e non posso fermarlo, come non potrei fermare la crescita di un albero o un figlio che avessi generato. E l'altro seme è stato gettato, per il bene o per il male. Io l'amo, e foss'anche dieci volte una maga, posso solo ringraziare il mio dio di questo e tenerla ancora più vicino a me.» «Non sopporto di vedere che ti si faccia male.» «Lei non mi farà male.» «Se lo farà» disse lui tranquillo «strega o non strega, amante o non amante, la tratterò come merita. Bene, sembra che non ci sia altro da dire. Meglio che torniamo. Il tuo cesto sembra pesante. Lascia che lo porti io.» «No, un momento. C'è un'altra cosa.» «Sì?» Era in piedi, proprio di fronte a me, e io ancora seduto sul tronco di betulla. Contro lo sfondo costituito dai rami delicati delle betulle e delle foglie che si agitavano nella brezza lieve, appariva alto e possente, e le gemme che portava sulla spalla, alla cintura e sull'elsa della spada scintillavano come di vita propria. Appariva non giovane ma pieno della ricchezza della vita, un uomo nel fiore della sua forza; un capo tra tutti i re. Il viso non lasciava trasparire emozioni. Niente che mi lasciasse capire che cosa avrebbe detto, che cosa avrebbe potuto fare, dopo che io gli avessi parlato. Dissi, lentamente: «Poiché abbiamo parlato delle ultime cose, c'è una cosa che devo dirti. Un'altra visione, che è mio dovere farti conoscere. È una cosa che ho visto, non una ma parecchie volte. Il tuo amico Bedwyr e la tua regina Ginevra si amano». Non lo guardavo, parlando, perché non volevo vedere quanto dolorosamente sarebbe rimasto colpito. Immagino che mi fossi aspettato rabbia, un'esplosione di violenza, o come minimo sorpresa e irosa incredulità. Invece ci fu silenzio, un silenzio tanto protratto che alla fine rialzai lo sguardo e sulla sua faccia non scoprii l'ombra dell'ira o anche della sorpresa che mi ero aspettato, ma una specie di calma controllata, mitigata solo da compassione e rimpianto. Dissi, ma senza crederci: «Lo sapevi?». «Sì» fece lui, semplicemente. «Lo so.» Ci fu una pausa, nella quale io cercai le parole senza trovarne nessuna. Lui sorrise. C'era qualcosa in quel
sorriso che non faceva per niente pensare alla gioventù e al potere, solo a una saggezza forse più grande, perché più esclusivamente umana, di quella che viene attribuita a me. «Io non ho visioni, Merlino, ma vedo ciò che ho davanti agli occhi. E non credi che altri, che indovinano e mormorano, non si siano dati da fare per dirmelo? A volte mi sembra che i soli che non me ne abbiano dato nessun indizio con le parole o con gli sguardi sono stati Bedwyr e la regina.» «Da quanto tempo lo sai?» «Dall'episodio di Melwas.» E io che non l'avevo indovinato. La sua bontà verso la regina, il sollievo e poi la felicità di lei, non mi avevano detto niente. «Allora perché hai lasciato Bedwyr con lei quando sei partito per il nord?» «Perché potessero avere qualcosa, anche se poco.» Aveva il sole negli occhi, che gli faceva corrugare la fronte. Parlò lentamente. «Hai appena finito di dirmi che non si può comandare all'amore, né fermarlo. Se tu sei disposto ad accettare l'amore, sapendo che ti può portare alla morte, quanto maggiormente non devo accettarlo io, sapendo che non può distruggere l'amicizia o la fedeltà?» «Lo credi?» «Perché no? Ogni altra cosa che mi hai detto si è avverata. Ripensa, adesso, alle tue profezie sul mio matrimonio, "sull'ombra bianca" che vedesti quando Bedwyr e io eravamo ragazzi, quella guenhwyvar che ci toccava tutti e due. Tu dicesti allora che non avrebbe offuscato o distrutto la fiducia reciproca che ci univa.» «Ricordo.» «Bene. Quando sposai la mia prima Ginevra tu mi avvertisti che il matrimonio avrebbe potuto essermi nefasto. "Nefasta" quella bambina?» Rise, senza allegria. «Bene, adesso sappiamo la veridicità della profezia. Adesso abbiamo visto l'ombra. E adesso la vediamo proiettata sulla vita di Bedwyr e sulla mia. Ma se essa non distruggerà la nostra reciproca fiducia, che vorresti che io facessi? Sono forse un poveraccio con nient'altro nella vita che una donna e un letto di cui essere geloso, come un gallo del suo letamaio? Io sono un re, e la mia vita è una vita da re; lei è una regina, e non ha figli, perciò la sua vita è meno di quella di ogni altra donna. Deve forse rimanere ad aspettare, anno dopo anno, in un letto vuoto? Andare a passeggiare, cavalcare, prendere i pasti con un posto vuoto accanto al suo? È giovane e ha le stesse esigenze di ogni altra ragazza, di compagnia e d'amore. Per il tuo dio, Merlino, o per qualsiasi altro dio, se, durante gli anni
fatti di lunghi giorni in cui il mio lavoro mi tiene lontano dalla corte, lei si porterà mai un uomo a letto, non dovrei di questo essere grato a Bedwyr? E che cosa vorresti che io dicessi, o facessi? Qualsiasi cosa io dicessi a Bedwyr, corroderebbe alle radici la fiducia stessa che nutriamo l'uno per l'altro, e non servirebbe a niente contro ciò che è già accaduto. L'amore, tu dici, non si può negare. Perciò io taccio e lo stesso farai tu, e grazie a questa garanzia fiducia e amicizia rimarranno intatte. E possiamo considerare una fortuna la sterilità della regina.» Di nuovo quel sorriso. «Così il dio agisce per tutti e due, con le sue vie tortuose, vero?» Mi alzai. Le betulle stormivano e il sole arrivò fino a noi. Il torrente scintillante mi abbagliava, tanto da farmi lagrimare gli occhi. Dissi piano: «Vedi? Ecco ancora una fortuna. Tu non hai più bisogno della mia forza né del mio consiglio. Di qualsiasi avvertimento o profezia tu abbia ancora bisogno dopo di questo, li troverai ad Applegarth. Quanto a me, lascia che il tuo servitore se ne vada in pace, che torni nella sua casa e nelle sue montagne, verso ciò che lo aspetta lì, di qualunque cosa si tratti». Raccolsi il canestro e glielo porsi. «Ma intanto, vuoi tornare con me ad Applegarth e vederla?» Dieci Quando arrivammo ad Applegarth pareva deserta. Era ancora molto presto. Varrone non era ancora arrivato per lavorare e da lontano avevo visto Mora che si avviava al mercato del villaggio, con il paniere infilato nel braccio. La giumenta conosceva la strada della scuderia, e si allontanò al trotto, dopo una pacca sul fianco. Noi entrammo in casa. La fanciulla era lì, seduta sul suo solito sgabello nel vano della finestra, e leggeva. Non lontano da lei, sul davanzale della finestra, un pettirosso becchettava le briciole che lei vi aveva sparso. Doveva aver sentito il cavallo e pensato o che io fossi uscito a cavallo invece di andare a piedi, oppure che fosse arrivato un messaggero molto mattiniero da Camelot. Era chiaro che non si era aspettata il re in persona. Quando entrai nella stanza lei alzò gli occhi, con un sorriso e un «Buon giorno», poi, vedendo l'ombra di Artù proiettarsi sulla soglia dietro di me, si alzò in piedi, lasciandosi scivolare il libro tra le mani. «Vi lascio parlare, vero?» disse e si voltò senza fretta, per andarsene. Feci per metterla in guardia. «Ninian...» cominciai a dire, ma allora il re
mi superò rapidamente per entrare nella stanza, e si fermò appena superata la soglia, piantandole gli occhi in viso. State certi che anch'io la fissavo. Adesso che sapevo, mi domandavo come avessi potuto non sapere fin dall'inizio. Per avere diciott'anni, non poteva essere un viso maschile; un diciottenne non sviluppato forse poteva avere quelle guance lisce e quella bocca dolce, e il corpo di lei sotto le vesti informi era magro come quello di un ragazzo, ma non erano maschili le mani, né i piedi snelli. Posso solo pensare che il mio ricordo del ragazzo Ninian mi avesse fermato, ciecamente, all'immagine di lui sedicenne: il mio desiderio di averlo con me era stato abbastanza forte da farmelo ricreare, prima nell'essere appena intravisto sul lago, poi in questa fanciulla, così vicina a me, scrutata con tanta attenzione eppure non vista, per tutti i lunghi mesi trascorsi. E poi, forse (pensai) lei era riuscita a usare un po' della mia stessa magia contro di me, in modo che restassi cieco... e in modo da rimanere accanto a me, fino a raggiungere i suoi scopi. Era lì ferma, diritta come un fuso, di fronte a noi. Immagino che non le servisse nessuna magia per capire che sapevamo. Gli occhi grigi incontrarono i miei per una frazione di secondo, poi essa guardò il re. Ciò che accadde allora è difficile da descriversi. C'era la tranquilla stanza di ogni giorno, colma dei profumi e dei rumori del mattino estivo; rose selvatiche e rose precoci e i garofani che lei aveva piantato sotto la finestra; i ceppi bruciati della sera precedente (le notti potevano essere ancora un po' fredde, e lei aveva insistito per accendere il fuoco in modo che io potessi sedermici accanto); il dolce canto di fondo del pettirosso quando volò fuori, tra i rami del melo. Una stanza estiva dove, per chiunque avesse percezioni normali, non succedeva assolutamente niente. Solo tre persone, in un momento di silenzio. Ma, per me, l'aria improvvisamente vibrò sulla pelle, come pioggia quando il fulmine colpisce. Sentii la carne accapponarmisi sulle ossa e rizzarmisi i peli che mi coprivano le braccia; mi sentii fremere la nuca, come accade al cane durante il temporale. Non credo che mi mossi. Né il re né la fanciulla parvero accorgersi di qualche cosa. Lei lo osservava seria, ma non allarmata. Avrei potuto crederla impassibile e scarsamente interessata, non mi fossi sentito inondare da quelle terribili correnti che m'investivano nella carne come la marea s'infrange sullo scoglio della riva. Gli occhi grigi di lei sostenevano lo sguardo del re; quelli scuri di Artù la trafiggevano. Sentivo la forza che si sprigionava dal loro incontro. L'aria
ne tremò. Poi Artù annuì e sollevò una mano per allentare il mantello sulla spalla. Vidi la bocca di lei incresparsi in un accenno di sorriso. Il messaggio era arrivato. Per amor mio, il re l'accettava. E per amor mio lei sopportava il giudizio. La stanza fu di nuovo ferma e io dissi: «Permettimi» e gli tolsi il mantello per appoggiarlo in qualche posto. La fanciulla disse: «Ti porto qualcosa per colazione? Mora l'aveva preparata, ma tu eri in ritardo, perciò è andata al mercato. Dice che se non ci arriva presto le cose migliori le hanno già date via». Si allontanò. Sul tavolo vennero posati i vassoi, e ci sedemmo. Lei portò il pane e il coccio pieno di miele, oltre a una brocca di latte e a una di idromele. Quest'ultima la mise a portata di mano del re, poi senza una parola sedette al suo solito posto di fronte a me. Non mi aveva più guardato in faccia. Quando le versai una coppa di latte mi ringraziò, ma senza alzare gli occhi. Poi stese il miele sul pane e cominciò a mangiare. «Il tuo nome» disse il re. «È Niniane?» «Sì» fece lei «ma mi hanno sempre chiamato Nimuë.» «I tuoi genitori?» «Mio padre si chiamava Dyonas.» «Sì. Re delle Isole del fiume?» «Appunto. Adesso è morto.» «Lo so. Si batté al mio fianco a Viroconium. Perché hai abbandonato la tua casa?» «Fui mandata al servizio della Signora, nell'Isola di vetro. Fu volontà di mio padre.» L'abbozzo di un sorriso. «Mia madre era cristiana, e al suo letto di morte egli le promise che mi avrebbe mandato all'isola. So che lei desiderava che io fossi al servizio della chiesa, lì. Io avevo solo sei anni, ma lui glielo promise. Lui personalmente non aveva mai approvato quello che chiamava il nuovo dio; era iniziato di Mitra... suo padre lo aveva portato lì all'epoca di Ambrogio. Così quando venne per lui il momento di mantenere la promessa fatta a mia madre mi portò, sì, sull'isola, ma a servire la buona dea, nel santuario sotto il Tor.» «Capisco.» Capivo anch'io. Essendo una delle ancillae del santuario, doveva essere stata lì in occasione delle cerimonie di ringraziamento indette da Artù dopo Caer Guinnion e Caerleon. Forse mi aveva intravisto lì, accanto al re. Doveva aver saputo che per lei c'erano poche possibilità di avvicinarsi al principe-mago, e di imparare qualcosa delle arti maggiori. Poi, in quella
notte di nebbia, io le avevo messo la chiave in mano. C'era voluto coraggio per prenderla, ma Dio sapeva che di coraggio lei ne aveva in abbondanza. Il re la stava ancora interrogando. «E tu volevi studiare la magia? Perché?» «Signore, non so dirti il perché. Perché un musico desidera per prima cosa studiare la musica? O un uccello vuole saggiare l'aria? Appena venni sull'isola, ne trovai alcune tracce: e imparai tutto ciò che avevano da insegnarmi, ma desideravo imparare ancora. Poi un giorno vidi...» Esitò, per la prima volta... «Vidi Merlino nel santuario. Ricorderai quel giorno. In seguito seppi che era venuto a vivere qui ad Applegarth. Pensai che se solo fossi stata un uomo avrei potuto andare da lui. Lui era saggio, avrebbe saputo che avevo la magia nel sangue, e mi avrebbe insegnato.» «Ah, sì. Il giorno che rendemmo grazie per le nostre vittorie. Ma se eri lì, come mai non mi hai riconosciuto la prima volta che mi hai visto qui?» Il viso le diventò di fuoco. Per la prima volta smise di guardarlo negli occhi e abbassò lo sguardo. «Non ti vidi, signore. Te l'ho detto, guardavo Merlino.» Ci fu un momento di assoluto silenzio, come quando si posa una mano sulle corde dell'arpa, per soffocare il suono. Vidi Artù aprire la bocca e richiuderla, poi lampeggiare una risata sul suo viso. Lei, lo sguardo fisso sul tavolo, non si accorse di niente. Il re mi lanciò un'occhiata divertita, poi vuotò la sua coppa e si appoggiò all'indietro sulla sedia. La sua voce era immutata, ma mancava ormai la provocazione: aveva abbassato la spada. «Ma tu sapevi che non era probabile che Merlino ti accettasse come allieva, anche se la Signora avesse potuto convincersi a permetterti di lasciare i suoi chiostri.» «Sì. Lo sapevo. Non avevo nessuna speranza. Ma dopo di allora mi adattai ancor meno facilmente alla vita laggiù, in mezzo alle altre donne. Parevano tutte, ah, così soddisfatte di essere rinchiuse, con quelle piccole magie, le preghiere e gli incantesimi, lo sguardo sempre rivolto ai tempi della leggenda... È difficile spiegarlo. Se uno ha qualcosa di dentro, qualcosa che arde dal desiderio di essere libero, lo sa.» Gli scoccò uno sguardo franco, da pari a pari. «Tu devi averlo conosciuto, questo. Ero ancora non nata, e picchiavo contro l'uovo, per uscire all'aria. Ma l'unico modo in cui avrei potuto fuggire dall'isola sarebbe stato che un uomo mi proponesse il matrimonio, e per questo io non me ne sarei andata, né mio padre me lo avrebbe permesso.» Lui fece un breve cenno di assenso e, mi parve, di comprensione. «E al-
lora?» «Non era neppure facile trovare il tempo per rimanere sola. Io osservavo e aspettavo l'occasione, a volte uscivo furtivamente, solo per restare sola con i miei pensieri, e con l'acqua e il cielo... Poi, la notte in cui la regina Ginevra era scomparsa, e l'isola era in subbuglio, io... temo che l'unica cosa a cui pensai fu che quella era finalmente l'occasione per uscire senza che notassero la mia mancanza... C'era una barca che qualche volta prendevo a prestito. Uscii. Sapevo che nella nebbia non mi avrebbe visto nessuno. Poi Merlino comparve sulla strada del lago, e mi parlò.» S'interruppe. «Credo che tu sappia il resto.» «Sì. Così quando il caso - tu diresti il dio, se sei discepola di Merlino fece sì che Merlino ti scambiasse per il ragazzo Ninian, e ti chiedesse di venire a imparare da lui, tu determinasti da sola la seconda occasione.» Lei chinò la testa. «Appena lui parlò, fui confusa. Era come un sogno. Dopo mi resi conto di ciò che era accaduto, che lui mi aveva preso per un ragazzo conosciuto in passato.» «Come riuscisti a liberarti del santuario, alla fine? Che cosa dicesti alla Signora?» «Che ero stata chiamata per un servizio più nobile. Non diedi spiegazioni. Le lasciai credere che tornavo nella casa di mio padre. Credo che lei immaginò che dovessi tornare alle Isole del fiume, forse per sposare mio cugino, che adesso governa lì. Non fece domande. Non mi creò ostacoli.» No, pensai tra me; quella arrogante signora doveva esser stata lieta di liberarsi di un'adepta che certo prometteva di eclissarla. Tra tutte quelle fanciulle in veste bianca, questa giovane maga doveva rifulgere come un diamante in mezzo al lino bianco. Dietro di me, il pettirosso tornò a posarsi sul davanzale della finestra e tentò di gorgheggiare qualche nota. Dubito che Artù o Nimuë lo udissero. Le domande del re avevano cambiato direzione: «Ti serve il fuoco per le tue visioni, oppure, come Merlino, riesci a vedere nelle gocce di rugiada?». «Nelle gocce di rugiada ho avuto la visione di Heuil.» «Ed è stata veridica. Già. Sembra che tu abbia già qualcosa del potere più grande. Bene, non c'è fuoco, ma vorresti guardare di nuovo per me e dirmi se le stelle mi riservano altri avvertimenti?» «Non posso vedere a comando.» Mi morsi il labbro. Era la mia stessa voce da giovane, sicura di me, forse un po' enfatica. Anche lui la riconobbe. Disse, serio: «Scusami. Avrei dovuto saperlo».
Poi si alzò e tese la mano per prendere il mantello che io avevo posato su una sedia. Nel contegno di lei si percepì un'incrinatura, quando si affrettò ad aiutarlo a indossarlo. Artù mi stava salutando, ma io quasi non lo udii. Il mio contegno prometteva di andare in pezzi. Io, che non ero mai stato in difficoltà, non avevo avuto il tempo di pensare che cosa dovevo dire. Il re era sulla soglia. Il sole lo colpì e proiettò la sua ombra nella stanza, in mezzo a noi. Il grande smeraldo sull'elsa di Caliburn lampeggiò alla luce.» «Re Artù!» fece Nimuë bruscamente. Il re si voltò. Se aveva trovato il tono di lei troppo perentorio non lo diede a vedere. Lei disse. «Se tua sorella, madonna Morgana, viene a Camelot, metti al sicuro la tua spada e stai attento al tradimento». Artù parve spaventato, poi disse brusco: «Che cosa intendi dire?». Nimuë esitò, apparendo a sua volta sorpresa di quello che aveva detto. Poi alzò le mani con i palmi in fuori, un gesto che equivaleva a una scrollata di spalle. «Mio signore, non lo so. Solo questo. Scusami.» «Bene...» disse Artù. Mi guardò, alzò le sopracciglia, a sua volta scrollò le spalle e uscì. Ci fu silenzio, così a lungo che il pettirosso entrò addirittura nella stanza e saltellò sul tavolo, dov'era rimasta la colazione, che quasi non era stata toccata. «Nimuë» dissi. Allora lei mi guardò e vidi che, mentre non aveva dimostrato nessun timore del re, adesso aveva paura di incontrare il mio sguardo. Le sorrisi, e con stupore vidi gli occhi grigi riempirsi di lacrime. Tesi le mani. Quelle di lei le sfiorarono. Alla fine non ci fu bisogno di parole. Non sentimmo il cavallo del re discendere il sentiero della collina né, molto più tardi, Mora tornare dal mercato, trovando la colazione ancora intatta. LIBRO IV Bryn Myrddin Uno Così, verso la fine della vita, trovai un nuovo principio. Fu un principio
nell'amore, per tutti e due. Io non avevo nessuna pratica e lei, votata fin dall'infanzia a essere una delle vergini del lago, non aveva mai pensato all'amore. Ma ciò che avevamo era sufficiente, e più che sufficiente: lei, malgrado fosse di tanti anni più giovane di me, pareva felice e soddisfatta; e io, pur dandomi dentro di me del rimbambito, del vecchio sciocco - la saggezza attaccata al carro dello scherno - sapevo di non essere niente di tutto ciò: tra me e Nimuë c'era un legame più forte del legame che univa le coppie meglio assortite, nel fiore dell'età e della forza. Eravamo la stessa persona. Eravamo parte l'uno dell'altro come la notte e il giorno, le tenebre e l'alba, il sole e l'ombra. Quando ci giacevamo insieme, eravamo sul limitare della vita dove gli opposti si fondono formando nuove entità, non di carne, ma di spirito, frutto tanto del continuo scambio delle menti quanto del piacere del corpo. Non ci sposammo. Rievocando il passato adesso, dubito che uno di noi addirittura abbia mai pensato a cementare così la nostra relazione; non era chiaro di quali riti ci saremmo serviti, né in quale legame più forte avremmo potuto sperare. Con il trascorrere dei giorni e delle notti di quella dolce estate, ci scoprimmo più vicini e ancora più vicini, come se fossimo stati fatti dallo stesso stampo: ci svegliavamo al mattino e sapevamo di aver avuto lo stesso sogno; ci trovavamo la sera e ognuno sapeva ciò che l'altro aveva imparato e fatto quel giorno. E per tutto il tempo, così credevo, ciascuno di noi nutriva la sua privata e crescente gioia; io, quella di vederla tentare le ali del potere, come un giovane uccello robusto che prova per la prima volta il dominio dell'aria; lei, quella di ricevere questa forza crescente e di sapere, con amore ma senza compatimento, che nello stesso tempo il potere stava abbandonando me. Così trascorse il mese di giugno e poi fummo in piena estate. Il cuculo scomparve dai boschetti, la spirea era sbocciata con il suo greve profumo di miele, le api ronzavano tutto il giorno tra l'azzurro della borragine e della lavanda. Nimuë ordinò a Varrone di sellare il sauro - era un dono che le aveva fatto Artù -, poi mi baciò e si allontanò in direzione del lago. Era ormai noto, naturalmente, che l'ex ancella della dea viveva con Merlino ad Applegarth. Dovevano esserci state congetture e chiacchiere, in parte certamente maligne, e tutte, ne ero sicuro, caratterizzate da stupore per ciò che poteva aver portato una bella ragazza giovane nel letto del mago in declino. Ma il Sommo re aveva pubblicamente dichiarato, e inoltre l'aveva manifestato mediante doni e visite, che la nostra relazione aveva il suo benestare; perciò, neppure la Signora del santuario si era provata a chiudere la
sua porta in faccia a Nimuë; anzi l'aveva accolta calorosamente nella speranza (congetturava Nimuë divertita) che il santuario potesse ereditare qualcuno dei segreti di Merlino. Quanto a Nimuë, di rado essa si allontanava da Applegarth per recarsi sull'isola o alla corte di Camelot. Ma certo non si poteva biasimarla se si era un tantino montata la testa con il potere e l'entusiasmo di quei primi mesi, e come una giovane sposa è contenta di ostentare la sua nuova condizione tra le amiche nubili, così, pensavo, Nimuë era impaziente di rivedere le sue amiche che erano ancora tra le ancillae della dea. Per il momento non era stata alla corte di Camelot senza di me; io indovinavo ciò che lei non diceva: che pur godendo dell'appoggio del re, nutriva dei dubbi sul modo in cui sarebbe stata accolta a corte. Tre volte, però, era tornata sull'isola e questa volta, mi disse, avrebbe cercato di farsi dare alcune piante che le erano state promesse, dal giardino presso la sacra fonte. Sarebbe tornata al crepuscolo. La salutai alla partenza, poi controllai la mia sacca di medicamenti, mi misi un cappello di paglia per proteggermi dal sole e mi avviai verso la casa di una donna che abitava dall'altra parte della montagna e si stava rimettendo da un attacco di febbre. Mi avviai allegramente. La giornata era bella ma fresca e i canti delle allodole scendevano dal cielo limpido come rigagnoli di acqua chiara. Arrivai in vetta e seguii il sentiero in mezzo a cespugli di ginestrone fiammeggianti di fiori. Uno stormo di cardellini, in un frullar d'ali, si tuffò in una chiazza di cardi alti, spigati, emettendo quel dolce a lamentoso richiamo che i sassoni chiamano chirm, cioè formula magica. La brezza odorava di timo. Questo è tutto ciò che ricordo. Subito dopo - e in tutto parve che passasse solo un attimo - il mondo divenne tenebroso e le stelle brillarono, con quello scintillio lucente che dà l'impressione di trafiggerti gli occhi e il cervello. Io ero disteso supino, sul tappeto erboso, e le fissavo. Tutt'intorno a me erano cespugli di ginestrone, scuri e incurvati, e gradualmente, come se i sensi mi tornassero, da una distanza sconfinata, mi sentii le braccia e le mani punte dalle loro spine. La luce delle stelle scintillava dalla rugiada. Dappertutto c'era un grande silenzio, come se la terra trattenesse il respiro. Poi sopra di me, alto nel cielo nero, cominciò a ingrossarsi un altro punto luminoso. Le tenebre si illuminarono. In quell'unico punto luminoso che si stava ingrandendo le stelle più piccole affluivano tutte, come polvere di metallo verso la magnetite, come uno sciame nell'alveare, finché in tutto il cielo non rimase nessun'altra luce. I miei occhi ne furono abbagliati. Non potevo muovermi e rimasi lì, solo sulla curva del mondo, si sarebbe detto,
a contemplare la stella. Allora, ormai intollerabilmente luminosa, essa si spostò e rapidamente, come un tizzone lanciato attraverso il cielo, seguì una traiettoria dallo zenit all'orizzonte, trascinando dietro di sé una gran scia di luce a forma di drago. Udii qualcuno gridare: «Il Drago! Il Drago! Guardate dove cade il Drago!» e seppi che quella era la mia voce. Poi luci, mani e il viso di Nimuë, bianco alla luce di una lanterna, e dietro di lei Varrone con un giovane nel quale riconobbi vagamente il pastore che guardava il suo gregge sulla collina calcarea. Poi le voci. «È morto?» «No, venite, presto, copritelo. È freddo.» «È morto, padrona.» «No! Mai! Non ci crederò mai! Fate come vi dico!» Poi, angosciata: «Merlino! Merlino!». E una voce maschile, piena di apprensione: «Chi lo dirà al re?». Dopo ci fu un intervallo di tempo, e il mio letto, e il sapore del vino caldo con le erbe, e un altro lungo intervallo, questa volta di sonno. *
*
*
Qui arriviamo a quella parte della mia cronaca che è la più difficile da raccontare. Fosse vero o no che (come diventò convinzione popolare) la cometa cadente con la coda del drago presagisse la vera fine dei poteri supremi di Merlino, io so che, riandando con la mente ai giorni e alle notti - meglio, alle settimane e ai mesi - che seguirono, non posso dire con certezza se ciò che ricordo fosse sogno o realtà. Fu l'anno del mio viaggio con Nimuë. Ripensandoci adesso lo vedo, una scena dopo l'altra, come riflessi che scivolano ai lati di una barca, indistinti, ripetuti e frammentari, mentre i remi rompono la superficie dell'acqua. O come i momenti che precedono appena il sonno, quando una scena dopo l'altra affiora all'occhio della mente, i ricordi veri come sogni, e i sogni veri come ricordi. Ancora oggi mi basta chiudere gli occhi per vedere Applegarth, serena al sole, il lichene argenteo folto sui vecchi alberi, dove i frutti verdi, che lentamente si inturgidivano, scintillavano come luci e nel chiostro riparato lavanda, salvia e rose canine inondavano l'aria della loro fragranza, densa come fumo. E sul monte dietro la torre i biancospini, quegli strani cespugli che fioriscono d'inverno e hanno dei fiorellini con stami come chiodi. E la soglia sulla quale si era fermata timidamente, dapprima, la fanciulla Nimuë, con la luce alle spalle, tenero fantasma del ragazzo annegato che avrebbe potuto essere un mago più grande di lei. E il fantasma stesso: «il ragazzo Ninian» che ancora ossessiona i miei ricordi del chiostro, insieme
all'esile fanciulla seduta ai miei piedi, al sole. Per una settimana, credo, dopo il mio attacco di mal caduco sul monte, trascorsi la maggior parte del tempo seduto sulla mia sedia scolpita nel chiostro. Non perché fossi debole, ma perché Nimuë insisteva e io avevo bisogno di tempo per riflettere. Poi una sera, nel caldo crepuscolo, la chiamai. Lei si accoccolò al suo vecchio posto, su un cuscino ai miei piedi. Aveva la testa appoggiata alle mie ginocchia e con la mano le carezzavo i folti capelli. Stavano crescendo, e le erano arrivati alle scapole. Mi meravigliavo, ogni giorno, di quella che era stata la mia cecità, quando non avevo visto le curve del suo corpo, le linee dolci della gola, della fronte e dei polsi. «Sei stata molto occupata questa settimana.» «Sì» fece lei. «Lavori di donna di casa. Tagliare le erbe e dividerle in mazzi per farle seccare.» «Sono pronte?» «Quasi. Perché?» «Sono stato in ozio questo periodo, mentre tu lavoravi, ma ho riflettuto.» «A che cosa?» «Tra l'altro a Bryn Myrddin. Tu non ci sei mai stata. Perciò prima che finisca l'estate penso che dobbiamo partire da Applegarth, tu ed io...» «Partire da Applegarth?» Si staccò da me, costernata. «Vuoi tornare a vivere a Bryn Myrddin... che ci viviamo tutti e due?» Risi. «No. Non so perché, ma non vedo una cosa simile. E tu?» Si abbandonò contro il mio ginocchio, a capo chino. Rimase in silenzio per un po', poi disse, la voce smorzata: «Non lo so. Non l'ho mai neppure visto fuggevolmente in sogno. Ma tu mi hai detto che morirai là. È questo che intendi?». Allungai di nuovo una mano e le toccai i capelli. «Lo so, ho detto che questo accadrà, ma ancora non ne ho avuto alcun presagio. Sto benissimo, meglio di quanto sia stato da molti mesi. Ma prendila così: quando la mia vita finirà, la tua deve cominciare. E perché ciò accada tu devi fare un giorno come ho fatto io, entrare nella grotta di cristallo della visione. Lo sai. Ne abbiamo già parlato.» «Sì, lo so.» Non pareva rassicurata. «Bene» feci io con voce allegra «andremo a Bryn Myrddin, ma alla fine del nostro viaggio. Prima di arrivare lì avremo viaggiato in lungo e in largo, avremo visto molti luoghi e molte cose. Voglio che tu veda i luoghi dove ho trascorso la vita, e veda le cose che ho visto. Te le ho raccontate
per quanto potevo; adesso devi vedere tutto ciò che sarò in grado di mostrarti. Capisci?» «Credo di sì. Vuoi darmi la sintesi della tua vita, sulla quale costruire la mia.» «Proprio questo. Per te, le pietre su cui costruire la vita che vuoi; per me, il coronamento e le messi.» «E quando avrò avuto tutto ciò?» chiese lei, vinta. «Allora vedremo.» Divertito, le carezzai di nuovo i capelli. «Non fare quella faccia, bambina, prendila allegramente. È un viaggio di nozze, non un corteo funebre. I nostri viaggi possono anche avere uno scopo, ma noi li considereremo un divertimento, questo è certo. Ci pensavo da un po' di tempo, non è stato solo quest'ultimo mio malessere a suggerirmelo. Siamo stati felici qui ad Applegarth, e certamente vi saremo felici ancora, ma tu sei troppo giovane per startene qui, con le ali piegate, un anno dopo l'altro. Perciò viaggeremo. Sospetto che il mio vero scopo sia semplicemente mostrarti i luoghi che ho visto e amato, per nessun'altra ragione se non quella di averli visti e amati.» Si drizzò a sedere, con l'aria più tranquilla. Gli occhi cominciarono a brillarle. Era giovane. «Una specie di pellegrinaggio?» «Potresti chiamarlo così.» «Tintagel, vuoi dire, e il Rheged, e il luogo dove trovasti la spada, e il lago dove la deponesti in attesa del re?» «Non solo questo. Che Dio ci aiuti tutti e due, ma dobbiamo salpare per la Britannia minore. La mia storia e quella del Sommo re sono legate - e lo sarà anche la tua - alla grande spada di Artù. Devo farti vedere dove il dio venne da me, con il primo segno della spada. Per questo dobbiamo andare presto. I mari sono calmi, ma tra un mese o poco più cominceranno le burrasche.» Lei rabbrividì. «Allora andiamo subito, assolutamente.» Poi all'improvviso, tutta partecipe di un piacere privo di complicazioni, divenne una giovane donna che si accingeva a un viaggio entusiasmante, senz'alcun altro pensiero che quello: «E devi portarmi a Camelot. Davvero non ho niente di adatto da mettermi...». Così il giorno dopo parlai con il messaggero di Artù, e non molto tempo dopo Artù in persona venne a dirmi che la scorta e le navi erano pronte, e che potevamo partire. Salpammo dall'isola alla fine di luglio, e Artù e la regina scesero al porto per augurarci buon viaggio. Bedwyr era con noi, il suo viso un misto di
sollievo e di infelicità: aveva avuto l'incarico di scortarci durante la traversata ed era come un uomo liberato dal tormento di una droga che lo ucciderà, lui lo sa, ma che brama notte e giorno. Artù gli aveva affidato dei dispacci per il proprio cugino, re Hoel della Britannia minore, sicché ci avrebbe scortato fino alla corte di Hoel, a Kerrec. Quando arrivammo sul pontile la nave stava ancora caricando, ma ben presto tutto fu pronto, e Artù ci salutò, esortando Nimuë a «prendersi cura di lui», il che mi riportò con violenza alla mente i ricordi della traversata compiuta con lo stesso Artù, allora neonato urlante, tra le braccia della sua balia e gli uomini della scorta di re Hoel accigliati a quelle urla, che cercavano di farmi malgrado tutto le debite accoglienze. Poi il re baciò Bedwyr, senza lasciar trapelare null'altro che profondo affetto, e Bedwyr brontolò qualche cosa, mentre lo abbracciava, prima di volgersi a prender congedo dalla regina. Sorridente al fianco del re, questa si dominava; il tocco della mano che sfiorò appena quella di Bedwyr e il sereno «Buon viaggio» che gli augurò non erano più calorosi di quelli che rivolse a Nimuë, mentre erano alquanto meno calorosi di quelli destinati a me. (Dopo l'episodio di Melwas, lei mi aveva dimostrato gratitudine e simpatia, come una fanciulla nei riguardi dell'anziano padre). Salutai a mia volta, lanciai uno sguardo diffidente al liscio mare estivo, e salii a bordo. Nimuë, già pallida, mi seguì. Non c'era bisogno di nessuna visione profetica per prevedere che non ci saremmo più visti fino a quando la nave non avesse gettato l'ancora nel Piccolo Mare. Non ha alcun interesse ai fini di questa storia il resoconto dettagliato dei nostri viaggi. In effetti, come ho già spiegato, non posso farlo. Ci recammo in Britannia minore, che conoscevo, e fummo accolti calorosamente da re Hoel; trascorremmo quindi l'autunno e l'inverno a Kerrec e io mostrai a Nimuë le strade che attraversavano la Foresta dei Pericoli, e l'umile locanda dove Ralf, allora mio paggio, aveva custodito Artù negli anni difficili in cui era stato nascosto. Ma qui già i ricordi sono confusi; mentre scrivo li vedo tutti, incrociarsi tra loro come fantasmi che si accalcano, un secolo dopo l'altro, in una vecchia dimora. Ognuno di loro è ugualmente nitido. Artù neonato, addormentato nella paglia della mangiatoia. Mio padre che mi osserva alla luce della lampada e chiede: "Che cosa accadrà alla Britannia?". I druidi intenti alla loro opera assassina a Nemet. E io stesso, bambino spaventato, che mi nascondevo nel capanno per le bestie. Ralf che cavalcava a tutta velocità in mezzo agli alberi con i messaggi che Hoel avrebbe provveduto a inoltrare a me. Nimuë accanto a me nei boschi verdi
di gemme in aprile, stesa sul terreno erboso di una radura. La stessa radura con la cerva bianca in fuga, come un'immagine di magia, per allontanare il pericolo da Artù. E al di là di questi ricordi, confusamente, altri ricordi o altri sogni; un cervo bianco con occhi di rubino; il cervo in fuga nel crepuscolo, tra le querce, al santuario di Nodens. Magia su magia. Ma in tutto questo, come una torcia accesa per un'altra ricerca, le stelle, il dio sorridente, la spada. Rimanemmo assenti fino all'estate, questo almeno lo so di sicuro. Posso addirittura raccontare il giorno del nostro ritorno in Britannia. Cador, duca di Cornovaglia, morì quell'anno e noi sbarcammo in un paese immerso nel lutto per quello che era stato un grande soldato e un buon duca. Quel che non posso ricordare è chi di noi - Nimuë o io - seppe che era ora di tornare e per quale porto far vela. Sbarcammo in una piccola baia a una lega circa da Tintagel, sulla costa settentrionale della Dumnonia, due giorni dopo la morte di Cador, e vi trovammo Artù, che era già lì con il suo seguito. Avendo avvistato le nostre vele, scese al molo per venirci incontro, e prima ancora di sbarcare vedemmo gli scudi coperti, i pennoni abbassati e il bianco disadorno del lutto e sapemmo che cosa ci aveva riportato a casa. Scene come queste riaffiorano, vividamente illuminate e quasi senza ombre. Ma poi viene la cappella con la luce delle candele, in cui è esposto il corpo di Cador per la veglia funebre, con i monaci salmodianti; poi la scena si cancella e io sono di nuovo ai piedi della bara di suo padre, e aspetto lo spirito dell'uomo che avevo tradito. Perfino Nimuë, una volta che le parlai di ciò, non fu in grado di aiutarmi. Perché da tanto tempo ormai avevamo in comune pensiero e sogno che anche lei non poteva (mi disse) separare la vista di Tintagel d'estate, con la dolce brezza che si alzava dal mare e alitava contro gli scogli, dai miei racconti di burrasche del passato. Tintagel in lutto per il duca Cador di recente scomparso sembra ad entrambi meno reale della roccaforte battuta dalla tempesta in cui Uther, giacendosi con Ygraine, moglie di Gorlois, generò Artù per la Britannia. E lo stesso fu con il resto del tempo. Dopo Tintagel proseguimmo per il nord. Il ricordo, o il sogno in questa lunga oscurità, mi mostrano i dolci monti del Rheged, la volta di alberi nella foresta, i laghi guizzanti di pesci e, riflesso nel cristallo del suo lago, Caer Bannog, dove avevo nascosto la grande spada in attesa che Artù la trovasse. Poi la Cappella nel Verde dove in seguito, in quella notte leggendaria, Artù finalmente la prese con la mano e la sollevò. Così, come avevo fatto negli anni ardenti del passato, seguimmo spen-
sieratamente la spada, ma qualche cosa - un istinto che non saprei più se definire profetico o anche solo saggio - mi indusse a tacere a proposito dell'altra ricerca che, a volte, avevo fuggevolmente intravisto nell'ombra. Non sarebbe stata per me; sarebbe venuta dopo di me, e non era ancora tempo. Così non parlai di Segontium, né del luogo dove ancora, nelle viscere della terra, erano sepolti gli altri tesori che erano tornati insieme alla spada in occidente. Infine giungemmo a Calava. Fu la felice conclusione di un bel viaggio. Fummo accolti calorosamente dal conte Ector, un Ector che l'età e il vivere nell'abbondanza avevano reso corpulento, che presentò Nimuë alla sua contessa Drusilla (strizzandomi l'occhio) come «la moglie del principe Merlino, mia cara, infine infine». E accanto a lui c'era il mio fedele Ralf, il viso rosso di piacere, orgoglioso come un pavone della sua graziosa moglie e dei suoi quattro figli vigorosi, e avido di notizie di Artù e del sud. Nimuë e io eravamo a letto nella stanza della torre, dove una volta ero stato portato per guarire dal veleno di Morgause. Era di poco passata la mezzanotte, e noi guardavamo, oltre la finestra, la luna sfiorare le cime dei monti, quando lei si mosse, appoggiò la guancia nell'incavo della mia spalla e disse, sommessamente: «E dopo di qui, dove andiamo? A Bryn Myrddin e nella grotta di cristallo?». «Credo di sì.» «Se le tue montagne sono belle come queste, forse dopo tutto non mi dispiacerà abbandonare Applegarth...» Percepii come un sorriso nella sua voce... «almeno per l'estate.» «Ti ho promesso che non saremmo arrivati a questo. Dimmi una cosa: per l'ultima tappa del tuo viaggio di nozze, preferisci che seguiamo le strade occidentali, oppure che prendiamo la nave a Glannaventa e arriviamo per mare a Maridunum? Mi dicono che i mari sono calmi.» Seguì un breve silenzio. Poi lei disse: «Ma perché chiedi a me di scegliere? Credevo...». «Credevi?» Un altro silenzio. «Credevo che avessi ancora qualche cosa da farmi vedere.» Il suo istinto, a quanto pareva, doveva esser sicuro come il mio. Dissi: «Che cosa, allora, mia cara?». «Mi hai raccontato tutta la storia della spada, e adesso mi hai mostrato che cosa le accadde, a questa splendida Caliburn che è il simbolo del pote-
re del re e grazie alla quale egli regge il suo regno. Mi hai mostrato i luoghi delle visioni che ti condussero a trovarla; dove la nascondesti finché Artù sarebbe stato pronto a sollevarla, e dove infine egli la sollevò. Ma non mi hai mai detto dove la trovasti tu. Avevo pensato che questa sarebbe stata l'ultima cosa che mi avresti mostrato, prima di riportarmi a casa.» Non risposi. Lei si sollevò nel letto, appoggiandosi su un gomito, e mi guardò. La luce della luna le scivolò addosso, facendo di lei una cosa d'argento e d'ombra, illuminando le belle linee della tempia e dello zigomo, della gola e del seno. Sorrisi, passandole dolcemente un dito sul contorno della spalla. «Come faccio a pensare e a rispondere se sei così bella?» «È facile.» Rispose al sorriso, senza muoversi. «Perché non me l'hai mai detto? Perché c'è qualcos'altro, non è vero?, che appartiene al futuro?» Così, si trattasse di istinto o di una visione, lei sapeva. Dissi lentamente: «Hai parlato di un'ultima cosa. Sì, c'è ancora un mistero, l'unico; e, sì, riguarda il futuro. Io stesso non l'ho visto con chiarezza ma una volta, prima che diventasse re, feci una profezia per Artù. Accadde tra il ritrovamento della spada e il suo sollevamento, quando il futuro era ancora confuso nel fuoco e nelle visioni. Ricordo ciò che dissi...». «Sì?» Lo ripetetti. «Vedo una terra popolata e splendente, con il grano che cresce rigoglioso nelle valli, e contadini che lavorano i loro campi in pace come facevano all'epoca dei romani. Vedo una spada diventata pigra e scontenta, e i giorni della pace che vanno a finire in litigi e divisioni, e la necessità di cercare le spade oziose e gli spinti privi di nutrimento. Forse è stato per questo che il dio mi ha ripreso il graal e la lancia e li ha nascosti nella terra, perché un giorno tu possa accingerti a trovare il resto del tesoro di Macsen. No, non tu, ma Bedwyr... È il suo spirito, non il tuo, che avrà fame e sete e le soddisferà alle fontane sbagliate.» Ci fu un lungo silenzio. Non riuscivo a vedere i suoi occhi; erano inondati della luce lunare. Poi essa bisbigliò: «Il graal e la lancia? Il tesoro di Macsen nascosto di nuovo nella terra, per diventare oggetto di una ricerca grande come quella della spada? Dove? Dimmi dove». Pareva impaziente; non intimorita, ma impaziente, come un corridore giunto in vista del traguardo. Quando vedrà il calice e la lancia, pensai, chinerà il capo davanti alla loro magia. Ma è solo una bambina, vede ancora le cose del potere come armi nelle sue mani. Non le dissi: «È la stessa ricerca, perché, a che serve a uno la spada del potere, senza l'appagamento
dello spirito? Tutti i re adesso sono un unico re. È tempo che gli dei diventino un unico Dio, e nel graal c'è quell'unicità che gli uomini cercheranno, e per la quale morranno, e morendo vivranno». Non lo dissi, ma rimasi per un po', disteso, in silenzio, mentre lei mi guardava, immobile. Sentivo il potere proveniente da lei, il mio stesso potere, adesso più forte in lei che nelle mie mani. Quanto a me, non provavo altro che stanchezza, e una specie di dolore. «Raccontami, mio amato» disse lei con un bisbiglio, avida. Perciò le raccontai. Le sorrisi e dissi, dolcemente: «Farò di meglio che raccontartelo. Ti porterò lì, e quel che c'è da vedere ti mostrerò. Ciò che è rimasto del tesoro di Macsen è sepolto sotto terra nelle rovine del tempio di Mitra a Segontium, che adesso si chiama Caer-y-n'a Von, sotto Y Wyddfa. E ora questo è tutto ciò che posso darti, cara, a parte il mio amore». Ricordo che lei disse: «E sarebbe stato sufficiente, anche senza il resto», mentre si chinava per appoggiare la bocca sulla mia. Quando si fu addormentata, continuai a contemplare la luna, piena e luminosa, immobile, per ore, mi parve, proprio al centro del riquadro della finestra. E ricordai come, molto tempo prima, da bambino, avessi creduto che una simile vista mi avrebbe portato l'esaudimento del desiderio del mio cuore. Quale esso fosse stato a quei tempi - potere, profezia, servizio, amore - non riuscivo a ricordare. Ora tutto ciò era passato e il desiderio del mio cuore era lì, addormentato tra le mie braccia. E la notte, così piena di luce, era vuota di futuro, vuota di visioni; ma come spiriti del passato ancora vivi, continuavano ad arrivare le voci. La voce di Morgause, la voce della strega che mi lanciava la sua maledizione: «Sei così sicuro di essere resistente alla magia delle donne, principe Merlino? Alla fine ti prenderà in trappola». E sopra quella la voce di Artù, vigorosa, irata, colma di affetto: «Non sopporto di vedere che ti si faccia male». E poi: «Strega o non strega, amante o non amante, la tratterò come si merita». Tenni il suo giovane corpo stretto contro il mio, e, dolcemente, baciai le sue palpebre chiuse. Dissi, agli spiriti, alle voci, al vuoto chiarore di luna: «Era tempo. Lasciatemi andare in pace». Poi, raccomandando il mio spirito a Dio che per tutti quegli anni mi aveva tenuto nella sua mano, mi accinsi al sonno. Quella fu l'ultima cosa di cui so che era verità, e non un sogno nelle tenebre.
Due Da bambino, a Maridunun, dormivo con la mia bambinaia in una stanza nell'ala della servitù del palazzo di mio nonno. Era una camera a pian terreno e davanti alla finestra cresceva un pero, dove la sera un tordo cantava, poi le stelle traforavano il cielo dietro i rami e sembravano, assolutamente, luci impigliate nei rami dell'albero. Io rimanevo disteso a guardarle nella pace della notte, sforzando l'udito per sentire la musica che, mi avevano detto, fanno le stelle muovendosi nel cielo. Adesso finalmente, pareva, la udii. Ero disteso, avvolto al caldo, su una lettiga, pensai, che a giudicare da come oscillava doveva essere portata sotto un cielo notturno. Una grande oscurità mi avviluppava e sopra di me, lontano, era l'arco del cielo notturno brulicante e turbinante di stelle, che spostandosi tintinnavano come campanellini. Io facevo parte della terra che si spostava e faceva eco ai battiti del mio cuore, e facevo parte dell'immensa oscurità che mi sovrastava. Non ero neppure sicuro di avere gli occhi aperti. La mia ultima visione, pensai, debolmente, e il desiderio del mio cuore. Il desiderio del mio cuore era sempre quello, udire, prima di morire, la musica delle stelle... Poi seppi dov'ero. Dovevano esserci persone vicino a me; sentivo voci che parlavano, sommesse ma a grande distanza, pareva, come le voci che si odono attraverso la febbre. Dei servi portavano la lettiga; le loro braccia mi sfioravano calde, il pulsare del terreno era il rumore attutito dei loro sandali. Non stavo avendo una visione illuminata dalle stelle e allietata dalla loro musica; ero solo un vecchio malato, legato alla terra, che a tappe veniva riportato a casa, nel silenzio impotente della malattia. La musica delle stelle non era altro che il tintinnio dei campanelli sui finimenti dei muli. Quanto tempo ci volle, non saprei dire. Alla fine la lettiga tornò in piano al termine di una lunga salita, e la calda luce di un fuoco mi venne incontro, e altre persone, voci dappertutto, qualcuno che piangeva, finché seppi che in qualche modo, a causa di un altro attacco di mal caduco, ero stato portato a casa, a Bryn Myrddin. Poi di nuovo tutto fu confuso. A volte credevo che Nimuë e io fossimo ancora in viaggio; le mostravo le strade di Bisanzio, o camminavo con lei sulle alture sopra Berito. Essa mi portava i farmaci che aveva fatto e me li accostava alla bocca. Era la sua bocca, premuta sulla mia, con un sapore di
fragole, e le sue labbra che mormoravano dolci incantesimi sopra di me, mentre la grotta si riempiva del fumo del prezioso incenso. C'erano candele dappertutto: nella loro calda luce guizzante, il mio smeriglio appollaiato sulla sporgenza della roccia accanto all'ingresso della grotta, aspettava l'alito del dio sulle piume. Accanto al braciere era seduto Galapas, e disegnava nella polvere le mie prime mappe, accanto alle quali, adesso, s'inginocchiò il ragazzo Ninian, a studiarle attentamente con occhi gravi e dolci. Poi rialzò lo sguardo e vidi che era Artù, vivace e impaziente, a dieci anni... e poi Ralf, giovane e accigliato... e infine il ragazzo Merlino, che per invito del suo maestro saliva alla grotta di cristallo. E così venivano le visioni; li vidi di nuovo, i sogni che per la prima volta si erano scatenati nel mio cervello di bambino, proprio lì, in quella grotta. Questa volta Nimuë mi teneva la mano e li vide con me, stella per stella, poi mi accostò il tonico alle labbra, mentre Galapas e il bambino Merlino, Ralf, Artù e il ragazzo Ninian sbiadivano e svanivano da quegli spiriti che erano. Solo i ricordi rimasero e adesso essi erano chiusi nel cervello di lei come erano stati nel mio, e sarebbero stati suoi per sempre. Intanto, benché non ne avessi alcuna nozione, il tempo trascorreva e i giorni si consumavano, e io rimanevo ancora in quello strano limbo in cui il corpo era inerme e la mente funzionava con vivacità, mentre gradualmente, come l'ape sugge il miele da un fiore, Nimuë la maga mi sottraeva, goccia a goccia, il distillato di tutti i miei giorni. Poi un mattino all'alba, mentre gli uccelli cantavano fuori, all'aperto, e il caldo vento estivo portava i profumi dei fiori e del fieno nella grotta, mi svegliai da un lungo sonno e vidi che la malattia mi aveva lasciato. Il tempo dei sogni era finito. Io ero vivo, e completamente sveglio. Ero anche solo, nelle tenebre, a parte il punto in cui un lungo filo di sole riusciva a penetrare da una fessura rimasta tra le rocce che avevano fatto franare davanti all'imboccatura della grotta, andandosene in seguito, e lasciandomi nella mia tomba. *
*
*
Non avevo modo di sapere per quanto tempo fossi rimasto in quella morte vivente. Eravamo stati nel Rheged a luglio e, a quanto pareva, si era ancora in piena estate. Tre settimane, o al massimo un mese?... Se fosse stato un periodo più lungo, sarei stato certamente più debole. Sta di fatto che, fino all'ultimo sonno profondo, che dovevano aver scambiato per la
morte, mi avevano curato somministrandomi i miei stessi tonici e i miei farmaci, sicché, benché irrigidito e molto debole, avevo tutte le probabilità di vivere. Non c'era speranza che io fossi in grado di togliere anche una sola delle pietre che sigillavano la mia tomba, ma c'era una buona probabilità che potessi attirare l'attenzione di qualcuno che passasse di lì. In tempi immemorabili, quel luogo era stato un santuario e la gente risaliva regolarmente la valle recando offerte per il dio che custodiva la sacra fonte accanto alla grotta. Era possibile, adesso, che il luogo fosse diventato per loro ancora più sacro, perché sapevano che lì era sepolto Merlino, il quale tanta influenza aveva avuto sul Sommo re ma era stato anche il loro mago e aveva dedicato il suo tempo e le sue arti a curare i loro malanni e quelli delle loro bestie. Finché ero vivo, avevano portato ogni giorno doni di cibo e di vino; sarebbero venuti con le loro offerte anche a placare il morto? Così, soffocando la paura, mi alzai per tentare di riflettere, nella debolezza e le vertigini del mio nuovo stato di veglia, sul da farsi. Mi avevano deposto non nella grotta di cristallo, che era una piccola cavità che si apriva a una certa altezza nella parete della grotta principale, ma proprio nella grotta principale, sul mio letto. Questo era stato addobbato di un tessuto che al tatto risultava rigido e suntuoso e rifletteva, illuminato da quello stesso filo di luce, lo scintillio di ricami e di pietre preziose. Tastai il sudario che mi copriva: era di una stoffa spessa, morbido e caldo, e splendidamente tessuto. Il mio dito seguì i contorni del ricamo che lo ornava: il Drago. Adesso potevo vedere, ai quattro angoli del letto, gli alti candelieri pesantemente lavorati che mandavano riflessi d'oro. A quanto pareva, ero stato lasciato con pompa e onori regali. Dunque c'era stato anche il re? Mi sarebbe piaciuto poterlo ricordare. E Nimuë? Immaginavo di dover ringraziare le mie stesse profezie se quella era stata tutta la sepoltura che mi avevano accordato, e se non mi avevano affidato alla terra, o al fuoco. Il pensiero mi fece correre un brivido sulla pelle, ma mi spinse ad agire. Guardai le candele. Tre di esse si erano consumate, ridotte a grumi informi di cera, e adesso spente. La quarta, spenta forse da qualche spiffero fortuito, era ancora alta più di un palmo. Accostai un dito alla più vicina, dove la cera si era coagulata alla base: era ancora morbida. Dodici ore calcolai, al massimo quindici, da quando le avevano accese e mi avevano lasciato lì. L'ambiente era ancora caldo. Se volevo restare in vita, dovevo mantenerlo così. Mi riappoggiai al rigido guanciale, mi tirai bene sul corpo il drappo funebre con il suo drago d'oro, fissai lo sguardo sulla candela spenta e pensai: vedremo. La più semplice delle magie, la prima che io
avessi imparato proprio in quella grotta: vediamo se anche questa mi è stata tolta. Lo sforzo mi fece ripiombare, esausto, nel sonno. Mi svegliai e vidi il sole, adesso fioco e roseo, illuminare un angolo lontano della grotta, ma tutta la grotta era piena di luce. La candela ardeva regolarmente, con una fiamma dorata e calda. Si rifletteva su due monete d'oro che si trovavano sul drappo funebre; ricordai, confusamente, il loro peso quando mi erano scivolate dagli occhi perché, svegliandomi, mi ero mosso. Mi rivelò anche qualcosa di più utile: il vino e le focacce rituali che erano stati lasciati accanto al catafalco, offerte per il morto. Allora parlai a voce alta a Dio che mi proteggeva, poi, seduto sul catafalco, avvolto nelle vesti funebri, mangiai e bevvi quello che era stato lasciato. Le focacce erano secche, ma sapevano di miele, e il vino era forte e lo sentii scorrere dentro di me come nuova vita. La luce della candela, che dava pure un suo tenue calore, dissipò le ultime tracce di paura. «Emrys» mi scopersi a sussurrare «Emrys, figlio della luce, prediletto di re... ti fu detto che saresti stato sepolto vivo nelle tenebre, e che sarebbe scomparso il tuo potere; e guarda, qui è accaduto, e non è terribile, dopo tutto; sei sepolto, e vivo, ma hai luce e aria e - se non hanno ripulito la grotta - da mangiare, da bere, calore e medicamenti...» Tolsi la candela dal pesante candelabro e la portai nelle grotte interne, dove si conservavano le provviste. Tutto era come io l'avevo lasciato. Stilicone era stato un servitore più che fedele. Pensai al vino e alle focacce lasciati accanto al "catafalco" e mi chiesi se, oltre a questo, le grotte fossero state ripulite, adornate e poi accuratamente preparate per il defunto. Per qualunque ragione le cose fossero state lasciate com'erano, lì, una fila dopo l'altra, una cassa dopo l'altra, c'erano le preziose provviste, ed erano al loro posto le fiasche e i vasetti di farmaci e di tonici, insomma tutto ciò che non avevo portato con me ad Applegarth. C'era una vera riserva da scoiattolo, frutta secca e noci, favi che dolcemente gocciolavano nei vasi, un barile di olive sott'olio. Niente pane, naturalmente, ma in un coccio trovai, dura come pietra, un po' di focaccia d'avena fatta molto tempo prima dalla moglie del pastore che me l'aveva donata; era ancora buona, benché fosse terribilmente secca, perciò la ruppi e ne misi un po' a inzupparsi nel vino. C'era ancora una metà della provvista di farina e con l'olio del barile di olive avrei potuto fare qualche genere di focacce. L'acqua, naturalmente, l'avevo; poco dopo essermi stabilito nella grotta avevo fatto sistemare dal mio servo una conduttura che dalla sorgente fuori della grotta portasse l'acqua in un serbatoio all'interno; questo, che era tenuto coperto, mi assi-
curava acqua pura anche in periodo di gelo e di temporali. L'acqua in eccedenza, incanalata verso una crepa in una lontana grotta più interna, serviva per la latrina. C'era una abbondante riserva di candele, e esca e acciarino sul ripiano roccioso dove li avevo sempre tenuti. C'era un bel mucchio di carbone, ma per paura del fumo e delle esalazioni esitai ad accendere il braciere. E poi, forse avrei avuto più bisogno di scaldarmi in futuro. Se il mio calcolo del tempo era esatto, di lì a un breve mese l'estate sarebbe finita e sarebbe arrivato l'autunno con i suoi freddi venti e la sua umidità micidiale. Perciò in un primo momento, quando ancora penetravano nella grotta i soffi caldi dell'estate, usai la luce solo quando ne avevo bisogno per prepararmi il cibo, e qualche volta per riconfortarmi, quando le ore al buio non passavano mai. Non avevo libri, perché tutti i miei libri erano stati portati ad Applegarth. Ma avevo a disposizione materiale per scrivere e col passar dei giorni, via via che riprendevo le forze e cominciavo a irritarmi per l'ozio forzato della cattività, mi venne l'idea di cercare di elaborare secondo un qualche ordine la storia della mia infanzia e quella dei tempi che avevo attraversato e che avevo contribuito a foggiare. Anche la musica era qualcosa che si sarebbe potuto fare al buio, ma l'arpa grande era finita con i miei libri ad Applegarth e la piccola non era stata portata insieme alle altre ricchezze ad adornare la dimora del defunto. Potete star certi che pensai di sottrarmi alla tomba; ma quelli che mi avevano deposto lì e che, per onorarmi, mi avevano destinato proprio il monte sacro, con tutto ciò che conteneva nelle sue viscere, avevano utilizzato il monte stesso per chiudermi ermeticamente; metà del fianco della montagna, a quanto pareva, era stato fatto precipitare sull'ingresso della grotta. Per quanto avessi potuto tentare, non sarei mai riuscito a praticare una via d'uscita, né spingendo né raschiando. È chiaro che qualcuno con gli arnesi adatti col tempo ci sarebbe riuscito, ma io non ne avevo. Le vanghe e le asce le tenevamo sempre nella stalla sotto il dirupo. Esisteva anche un'altra possibilità, che io esaminai ripetutamente. Oltre alle grotte che utilizzavo, ce n'erano altre, piccoli ambienti intercomunicanti che si addentravano dentro la montagna. Una di queste grotte interne era poco più di un cunicolo, uno sfiatatoio arrotondato che saliva attraverso gli strati di roccia, sboccando in una piccola conca della montagna. Qui, molti anni prima, per la pressione esercitata dalle radici degli alberi e per lo smottamento provocato dai temporali, una bassa parete rocciosa si era aperta e lasciava entrare la luce, e a volte qualche sasso e l'acqua piovana,
nella cavità sottostante. Col tempo, il mucchio di sassi caduti nella grotta aveva formato una specie di sperone, che arrivava forse a un terzo dell'altezza verso il "lucernario", come si sarebbe potuta definire l'apertura sovrastante. Quando, speranzoso, guardai per vedere se quella rozza scala avesse continuato a salire, rimasi deluso: sopra il mucchio di sassi c'era ancora una parete a strapiombo alta tre volte la statura di un uomo, e sopra quella parete ce n'era un'altra, dapprima molto ripida e poi in leggero pendio, che finalmente arrivava allo sfiatatoio. Sarebbe stato appena possibile a un uomo agile e in buone condizioni fisiche arrampicarsi e uscire di lì senza aiuti, benché in alcuni punti la roccia fosse bagnata e scivolosa e in altri evidentemente non sicura. Ma per un uomo anziano, che da poco era uscito dalla malattia, era impossibile. L'unica consolazione di quella scoperta stava nel fatto che quello era, letteralmente, uno "sfiatatoio"; nelle giornate fredde a venire avrei potuto accendere il braciere senza pericolo, e godermi calore e cibo e bevande caldi. Pensai, naturalmente, a accendere un fuoco, nella speranza che il fumo attirasse l'attenzione dei curiosi, ma due motivi lo sconsigliavano. In primo luogo, la gente di campagna che viveva nelle vicinanze della montagna era abituata a vedere ogni giorno i pipistrelli innalzarsi dal pendio, con un aspetto assolutamente simile a pennacchi di fumo; in secondo luogo non avevo legna da sprecare. Tutto quello che potevo fare era di conservare quelle preziose provviste e aspettare che qualcuno risalisse la valle per venire a vedere la sacra sorgente. Ma non venne nessuno. Venti giorni, trenta, quaranta e altrettante tacche sul mio bastone. Dovetti ammettere, controvoglia, che le persone semplici che in passato erano venute a pregare lo spirito della sorgente e a offrire doni all'uomo che li guariva, adesso avevano paura del mago morto di recente e del nuovo spirito che abitava la grotta nella montagna. Poiché la valle non conduceva altro che alla grotta e alla sorgente, non c'erano viandanti che se ne servissero. Nell'alta vallata non arrivava nessuno, salvo gli uccelli (che udivo), il cervo, immaginavo, e una volta anche un lupo o una volpe che udii respirare rumorosamente, la notte, davanti al mucchio di pietre che ostruivano l'ingresso della grotta. Così scorrevano lentamente i giorni, segnati dalle tacche sul bastone, e io rimanevo vivo e - ciò che era più difficile - tenevo a bada la paura con ogni mezzo che conoscevo. Scrivevo, armeggiavo con progetti di fuga e compivo quelle mansioni domestiche che si rendevano necessarie; e non mi vergogno di ricordare che drogavo le mie notti - e a volte i giorni dispe-
rati - con vino o con oppiacei che stordivano i sensi e offuscavano il tempo. Non provai disperazione; durante tutta quella lunga vita nella morte, mi aggrappai a una cosa, come fosse stata una scala calata dall'alto, dalla luce: per tutta la vita avevo ubbidito al mio dio, da lui avevo ricevuto il potere e gliel'avevo restituito; adesso avevo visto il potere passare alla mia giovane amante che mi aveva soppiantato; ma benché la mia vita fosse apparentemente compiuta, il mio corpo era stato sottratto - come o perché non sapevo - alla terra e al fuoco. Ero vivo, avevo ripreso forza fisica e volontà, e, prigione o no, quella era la grotta nella montagna del dio stesso. Non potevo credere che non ci fosse ancora qualche scopo da conseguire. Credo che fu con questo pensiero che alla fine mi feci animo e salii nella grotta di cristallo. In tutto quel tempo, con le forze in declino e il potere che mi aveva abbandonato, non me l'ero sentita di affrontare il luogo delle visioni. Ma una sera, dopo esser rimasto troppo a lungo al buio perché la mia provvista di candele si andava riducendo, mi indussi alla fine ad arrampicarmi sul ripiano in fondo alla grotta principale e, piegato in due, a infilarmi nel globo foderato di cristallo. Ci andai, credo, cercando solo i confortanti ricordi del potere passato, e dell'amore. Non presi nessuna luce con me, e non attesi alcuna visione. Rimasi semplicemente sdraiato, come avevo fatto da ragazzo, a pancia sotto, sugli aspri cristalli del pavimento, lasciando che il greve silenzio mi avvolgesse, e riempiendolo con i miei pensieri. Quali fossero adesso non posso ricordarlo: immagino che stessi pregando. Non credo di aver parlato ad alta voce. Ma dopo un certo tempo fui consapevole - come, nel buio della notte, uno si rende conto dell'arrivo dell'alba, più che vederlo - di qualcosa che rispondeva al mio respiro. Non un rumore, solo l'eco lievissima di un respiro; come se un fantasma si stesse svegliando, e sottraesse la vita a me. Il cuore mi cominciò a martellare; il respiro divenne più rapido. Nell'oscurità, anche il ritmo dell'altro respiro si intensificò. L'aria della grotta ronzava. Intorno alle pareti di cristallo correva, riecheggiando, un sussurro che conoscevo. Sentii salirmi agli occhi le facili lagrime della debolezza. Dissi ad alta voce: «Allora, dopo tutto, ti hanno riportato al tuo posto?». E dall'oscurità la mia arpa mi rispose. Avanzai brancolando verso il suono. Le mie dita incontrarono il contatto vivo, levigato del legno. La colonna intagliata mi si adattò nella mano,
come avevo visto l'elsa della grande spada scivolare nella stretta del re. Indietreggiando uscii dalla grotta, soffocai contro il mio petto il fievole lamento dell'arpa e cautamente discesi, avviandomi di nuovo nella mia prigione. *
*
*
Questa fu la canzone che composi. La chiamai Canto di Merlino dalla tomba. Dove sono andate, tutte le cose luminose? Ricordo la luce del sole E un vento forte che soffia; Un dio che mi rispondeva Sporgendosi dalle stelle, lassù; Una stella che brillava per me, Una voce che parlava a me, Un falco che mi guidava, Uno scudo che mi proteggeva; E una strada sgombra verso la porta Dove mi aspettano, Dove mi aspettano, sicuramente. Il giorno cala, Il vento si spegne. Se ne sono andate, tutte le cose luminose. Solo io rimango. A che serve chiamare me Che non ho scudo né stella? A che serve inginocchiarsi a me Che sono solo l'ombra Della sua ombra, Solo l'ombra Di una stella caduta Tanto tempo fa? *
*
*
Nessuna canzone nasce, nuova, originale e compiuta, alla sua prima esecuzione, sicché adesso non riesco a ricordare in quale occasione esattamente, mentre stavo cantando, mi resi conto di un suono insolito che, per così dire, stava bussando alla porta del mio cervello da parecchie frasi, ormai. Lasciai spegnersi gli accordi, posai una mano sulle corde e ascoltai. Il battito del mio cuore risonava forte nell'aria silente e immota della grotta. Sotto ad esso si sentì un'altra pulsazione, un colpo lontano che pareva uscire dal cuore della montagna. Non mi si può biasimare se, chiuso com'ero da troppo tempo al normale movimento del mondo, i primi pensieri che mi si affollarono alla mente viaggiassero sulle ali di un istinto nato da antiche credenze - Llud dell'Aldilà, i cavalli della Caccia selvaggia, tutte le ombre dimoranti nelle grotte delle montagne... La morte per me, finalmente, quella sera tranquilla di fine estate? Poi, in meno di quanto ci voglia per trarre due brevi respiri, arrivai alla verità... ed era già troppo tardi. Era il viandante che avevo aspettato, e del quale alla fine avevo disperato; era salito a cavallo fino alla grotta; si era fermato presso la parete rocciosa sulla quale si apriva lo "sfiatatoio" e aveva sentito la musica. Ci fu una pausa, interrotta solo dal colpo violento, agitato, degli zoccoli sulla roccia, perché il cavallo si innervosì e, tenuto a freno, cominciò a muoversi di lato. Poi una voce d'uomo, che gridava: «C'è nessuno qui?». Avevo già messo via l'arpa e, con tutta la rapidità possibile mi dirigevo a fatica, in quella semioscurità, verso la grotta sotto il viandante. Quando ci arrivai tentai di gridare, ma ci volle un momento perché il cuore che mi martellava dentro e la gola arida mi consentissero di rispondere. Allora gridai: «Sono io, Merlino! Non aver paura, non sono un fantasma. Sono vivo, e intrappolato qua dentro. Trovami una via d'uscita, in nome del re!». La mia voce fu sommersa dall'improvviso e confuso strepito proveniente dall'alto. Potevo immaginare quel che era accaduto. Il cavallo, avvertendo, come avviene agli animali, una certa stranezza - un uomo sottoterra, perché quei rumori innaturali parevano uscire dalla crepa nella parete rocciosa, e anche il mio tono di angoscia - emise un lungo, risonante nitrito e si slanciò sulla discesa, facendo schizzare pietre e ghiaietto e dando il via a una serie di altri echi. Io gridai di nuovo ma l'uomo o non mi udì o considerò la paura del cavallo un istinto più sicuro del proprio: ci fu di nuovo il
rumore forte degli zoccoli e delle pietre che rotolavano, poi il martellare ritmico del galoppo si allontanò, più veloce che all'arrivo. Non potevo biasimare l'uomo a cavallo, chiunque egli fosse: anche se non sapeva a chi appartenesse la tomba sotto i suoi piedi, doveva sapere che il monte era sacro e sentire della musica uscire dalla terra, al crepuscolo, su un monte del genere... Tornai a raccogliere l'arpa. Non aveva subito nessun danno. La misi da parte, e insieme a lei la speranza di salvezza, poi mi accinsi torvamente a preparare quella che, in mancanza di un termine peggiore, si poteva chiamare la mia cena. Tre Fu, forse, due notti dopo questo episodio, o magari tre, che qualcosa mi svegliò. Aprii gli occhi nell'oscurità assoluta, chiedendomi che cosa mi avesse disturbato. Poi sentii il rumore. Un furtivo raschiare, pietre che risonavano sbattendo tra loro, il picchiettio della terra che cadeva. I suoni venivano dallo «sfiatatoio» che era nella volta della grotta interna. Un animale, pensai, tasso, volpe o addirittura lupo, che grattando cerca di farsi strada verso il punto da cui viene odore di cibo. Mi avvolsi nelle coperte, mi girai e chiusi di nuovo gli occhi. Ma i rumori continuarono, regolari, insistenti e adesso impazienti, rumori di qualcuno che raschiava accanitamente tra le pietre e parevano indicare qualcosa di più dell'ostinazione di un animale nel perseguire il suo scopo. Daccapo mi rizzai a sedere, teso per l'improvvisa speranza. Forse l'uomo a cavallo era tornato? Oppure aveva raccontato quello che gli era accaduto e qualcun altro, più coraggioso, era venuto a indagare? Presi il fiato per gridare, poi mi fermai. Non volevo spaventare anche questo e farlo scappare come il primo. Avrei aspettato che fosse lui a parlarmi. Non lo fece; era occupato semplicemente a aprirsi un varco, raspando, nella crepa della parete rocciosa. Caddero altri detriti e percepii il tintinnio di una leva e poi, inequivocabile, un'imprecazione soffocata. Voce d'uomo, rozza e incolta. Ci fu un'interruzione, come se fosse rimasto in ascolto, poi daccapo ricominciarono i rumori e questa volta l'uomo usava chissà quale attrezzo pesante, una piccozza o una vanga, per aprirsi una strada. Adesso non avrei gridato per tutto l'oro del mondo. Nessuno che cercasse semplicemente di indagare su un episodio strano si sarebbe comportato con tanta furtiva discrezione; normale sarebbe stato fare quello che aveva
fatto l'uomo a cavallo, gridare in primo luogo, oppure aspettare in silenzio e restare in ascolto prima di tentare di aprirsi un varco dallo sfiatatoio. Ma soprattutto, nessuno che non avesse intenzioni inconfessabili sarebbe venuto, spontaneamente, da solo e di notte. Qualche momento di riflessione mi portò a quella che era la probabile verità. L'uomo doveva essere un saccheggiatore di tombe; un fuorilegge, forse, che aveva sentito voci sull'esistenza di una tomba regale nel monte di Merlino, che certamente aveva già dato un'occhiata all'imboccatura della grotta, decidendo che era stata troppo ben bloccata, e si era perciò fermato sullo sfiatatoio, che gli era parso la via d'accesso più facile e meno in vista. O forse un abitante del luogo che aveva visto passare il ricco corteo e che conosceva da anni la parete rocciosa con la sua precaria via d'accesso nella grotta. O addirittura un soldato - uno di quelli che, dopo le cerimonie funebri, avevano lavorato per bloccare l'imboccatura della grotta, e che da allora era ossessionato dal ricordo delle ricchezze che vi erano state rinchiuse. Di chiunque si trattasse, doveva essere un uomo dai nervi saldi. Era pienamente preparato a trovarsi al cospetto di un cadavere; a sfidare il tanfo e la vista di un corpo morto da parecchie settimane; addirittura pronto a mettergli le mani sopra e a derubarlo dei suoi gioielli prima di farlo rotolare dal drappo funebre tempestato di gemme e dal guanciale con la frangia d'oro. E se invece di un cadavere avesse trovato un uomo vivo? Un vecchio, indebolito dai lunghi giorni trascorsi sottoterra; un uomo, per di più, che il mondo riteneva morto? La risposta era semplice. Mi avrebbe ucciso e avrebbe ugualmente saccheggiato la mia tomba. E io, privato del mio potere, non avevo nessuna difesa. Mi alzai silenziosamente dal letto e mi avviai allo sfiatatoio. I rumori dello scavo proseguivano, adesso regolari, e dall'apertura già allargata all'estremità del cunicolo potevo vedere la luce. L'uomo doveva avere con sé una lanterna, che gli dava luce sufficiente. Ma che gli avrebbe anche impedito di notare il fievole chiarore di un lumicino nella grotta. Tornai nella grotta principale, accesi un lume mettendolo dietro uno schermo, poi mi accinsi agli unici preparativi che potessi fare. Se fossi rimasto in agguato per sorprenderlo con un coltello (non avevo nessun pugnale, ma c'erano i coltelli che servivano alla preparazione dei cibi) o con qualche arnese pesante, non era assolutamente sicuro che sarei stato abbastanza svelto, o abbastanza forte da tramortirlo; e un'aggressione di quel genere avrebbe reso certa la mia fine. Dovevo trovare un altro si-
stema. Considerai freddamente la situazione. L'unica arma di cui disponessi era quella che in passato avevo scoperto più efficace sia del pugnale che della mazza: la paura dell'uomo. Tolsi le coperte dal letto, le piegai e le nascosi. Distesi sul giaciglio il drappo funebre, lo lisciai e rimisi a posto il guanciale di velluto. I candelieri d'oro erano rimasti dove li avevano messi, ai quattro angoli del catafalco. Accanto ad esso posi il calice d'oro che aveva contenuto il vino e il vassoio d'argento tempestato di granati. Tolsi le monete d'oro, il compenso per il traghettatore, da dove le avevo messe, mi avvolsi nel mantello del re che avevano lasciato per me e mi distesi sul drappo funebre. Uno schianto improvviso dal cunicolo, pietrisco che cadeva sul pavimento della grotta e insieme una ventata di aria fresca notturna, mi fecero capire che l'uomo aveva completato il suo lavoro. Chiusi gli occhi, mi misi le monete d'oro sulle palpebre, lisciai le lunghe pieghe del mio mantello, poi incrociai le braccia sul petto, controllai come meglio potevo il respiro, e aspettai. Era forse la cosa più rischiosa che avessi mai fatto. Spesso mi era già capitato di affrontare il pericolo, ma mai senza sapere per un verso o per l'altro quali fossero i rischi cui mi esponevo. Avevo sempre, nei momenti di tensione o di terrore - la lotta con Brithael, l'agguato nella Foresta Selvaggia - avevo sempre saputo che avrei dovuto affrontare delle sofferenze, ma che alla fine ci sarebbe stata la vittoria, la salvezza e il trionfo della causa; adesso, non sapevo niente. Quel subdolo assassinio nell'oscurità, commesso per qualche gioiello, poteva davvero essere la fine ingloriosa che gli dei, con il loro sorriso obliquo, mi avevano fatto vedere nelle stelle: «sepolto vivo in una tomba». Sarebbe stato secondo la loro volontà. Ma, pensai (e questa volta nient'affatto freddamente), se mai ti ho servito, o Dio mio dio, fa' che prima di morire io possa sentire ancora una volta la dolce aria di fuori. Seguì un tonfo attutito quando l'uomo scese dallo sfiatatoio. Doveva avere con sé una corda, e doveva averla legata a uno degli alberi che spuntavano dalla parete rocciosa. Avevo visto giusto: era solo. Debolmente, da sotto le palpebre appesantite dalle monete d'oro, potevo vedere l'oscurità animarsi, il che significava che si era portato una lanterna. Adesso avanzava a tentoni, circospetto, sul suolo irregolare, verso la grotta nella quale io ero disteso. Annusavo il suo sudore e il fumo della sua lanterna di cattiva qualità; e questo, pensai con soddisfazione, significava che non avrebbe percepito gli odori stagnanti di cibo e di vino, né quello del lumicino appe-
na spento. Inoltre, il respiro lo tradiva: con soddisfazione anche maggiore capii che, fosse o non fosse un fanfarone, aveva paura. Mi vide e si fermò dove si trovava. Lo udii trattenere il respiro, roco come un rantolo. Si era preparato, si poteva indovinare, ad affrontare un cadavere in decomposizione, ma lì c'era un corpo che pareva quello di un vivo, o di qualcuno appena morto. L'uomo rimase qualche secondo, esitante, respirando affannosamente poi, forse ricordando qualcosa che aveva sentito a proposito dell'arte degli imbalsamatori, imprecò di nuovo sottovoce e si fece avanti in punta di piedi. La luce della lanterna tremò e ondeggiò nella sua mano. Avendo percepito l'odore e il suono della sua paura, la mia calma aumentò. Respirai tranquillo e a fondo, confidando nel fatto che la sua lanterna oscillante dalla luce fumosa non gli avrebbe rivelato che il cadavere si muoveva. Per un'eternità, parve, l'uomo rimase così ma alla fine, con un altro rantolo e un movimento improvviso come quello del cavallo sotto gli speroni, si costrinse ad avanzare fino accanto a me. Una mano, malferma e madida di freddo sudore, mi strappò le monete d'oro dalle palpebre. Aprii gli occhi. In quell'attimo, prima di muovermi, di sbattere le palpebre o di respirare, assimilai tutta la scena: la scura faccia celtica illuminata dalla lanterna di corno, il rozzo abbigliamento di qualche coscrizione contadina; la pelle butterata madida di sudore, la bocca molle e avida, gli occhi dall'espressione tarda, il pugnale infilato nella cintura, affilato come un rasoio. Dissi, calmo: «Benvenuto nel palazzo dei morti, soldato». E dal suo angolo al buio, al suono della mia voce, l'arpa sussurrò qualche cosa, su una nota dolce che si andava affievolendo. Le monete d'oro caddero, tintinnando, e rotolarono lontano, nel buio. Le seguì la lanterna che si fracassò sul suolo nel proprio olio fumigante. L'uomo emise un grido di paura, come non mi è accaduto spesso di udirne nella mia lunga vita e di nuovo, dall'oscurità, giunse il dileggio dell'arpa. Gridando ancora l'uomo se la diede a gambe e corse via, uscì inciampando come cieco dalla grotta e si diresse verso lo sfiatatoio. Qui dovette fare un primo, vano tentativo di arrampicarsi sulla sua corda: gridò di nuovo quando ricadde pesantemente sul fondo cosparso di sassi. Poi la paura gli diede forza; udii il respiro rotto per lo sforzo che si allontanava verso l'alto mentre risaliva in direzione dell'uscita. Sentii il rumore dei suoi passi, in corsa, che scivolavano sul pendio. Poi i rumori svanirono e io fui di nuovo solo, sano e salvo.
Sano e salvo nella mia tomba. Si era portato via la corda. Per la paura, forse, che il fantasma del mago gli si arrampicasse appresso e lo seguisse, l'aveva tirata su dietro di sé. La breccia che aveva aperto rivelava uno squarcio frastagliato di cielo, in cui brillava una stella, remota, pura e indifferente. Mi arrivò nella grotta l'aria fresca e il profumo freddo, inconfondibile dell'alba imminente. Sentii un tordo cantare in cima alla parete rocciosa. Dio aveva risposto alla mia preghiera. Avevo respirato di nuovo la dolce aria di fuori e udito il canto soave dell'uccello. E la vita era lontana da me, come prima. Tornai nella grotta interna e, come se niente fosse accaduto, cominciai i preparativi per un altro giorno. *
*
*
E ancora un altro. E un terzo. Il terzo giorno, dopo aver mangiato, riposato e calmato per quanto possibile il mio spirito, tornai a esaminare lo sfiatatoio del cunicolo. Quel disgraziato saccheggiatore di tombe mi aveva lasciato una nuova speranza, anche se appena un briciolo. Il mucchio di pietre cadute nella grotta era diventato più alto di quasi cinque palmi, e benché avesse ritirato la corda andandosene, ne aveva lasciato un'altra, arrotolata mollemente, che trovai per terra, alla base dello sfiatatoio. Ma le speranze che quest'altra corda suscitò si rivelarono ben presto infondate; era di qualità molto scadente, e non più lunga di venti-venticinque metri. Potevo solo immaginare che il ladro avesse pensato di legare insieme i vari pezzi del bottino - non avrebbe certo potuto sperare di portare con sé mentre si arrampicava per uscire neppure uno solo dei candelieri -, di assicurarli all'estremità dell'altra corda e di tirarseli appresso. Calcolai che, solo per portar via i quattro candelieri, il ladro sarebbe stato costretto a scendere e a salire quattro volte nel cunicolo. La corda, anche se fosse stata abbastanza lunga per fissarla e agganciarla con un cappio a qualche sporgenza della roccia, non sarebbe stata abbastanza resistente da reggermi. E non potei neppure, esaminando ancora una volta le pareti viscide e friabili del cunicolo, scorgere una sporgenza o un punto d'appoggio sicuri. Un uomo giovane o un ragazzo agile avrebbero potuto riuscire ad arrampicarsi, ma io, pur essendo stato per tutta la vita un uomo forte, con la resistenza di un uomo forte, non ero mai stato un atleta e adesso, con l'età, la malattia e le privazioni, quella scalata era assolutamente fuori discussione per me.
Ma il ladro aveva fatto anche un'altra cosa: mentre prima avrei dovuto raggiungere lo sfiatatoio in alto e poi mettermi al lavoro per scavare un passaggio - un'impresa impossibile senza attrezzi e senza scala - adesso il passaggio era aperto. Tutto quel che dovevo fare era raggiungerlo. E avevo anche un buon pezzo di corda. Sarebbe stato difficile, pensai, che non riuscissi a escogitare una specie di ponteggio che mi avrebbe portato fino alla parte in pendenza del cunicolo e lì, forse, avrei potuto costruire una qualche scala di fortuna. Gran parte dei mobili della grotta era sparita, ma c'era ancora il letto, un paio di sgabelli, un tavolo, i barili e una solida panca dimenticata in un angolo. Se avessi potuto trovare il modo di smontarli, legare i pezzi con la corda, o con strisce strappate dalla coperta, bloccarli con pezzi di coccio dei vasi del magazzino... Per il resto della giornata e per tutta la giornata successiva, lavorando direttamente sotto la luce che penetrava dall'alto, mi affaticai sulla mia impalcatura di fortuna, rivolgendo un pensiero ironico a Tremorino, l'ingegnere capo di mio padre, che per primo mi aveva insegnato il mestiere. Avrebbe riso vedendo il grande Merlino, l'ingegnere e inventore che aveva superato il suo maestro e aveva risollevato le Pietre pendenti della Danza dei Giganti, rappezzare una struttura della quale si sarebbe vergognato il più meschino apprendista. L'unica cosa che dovevo fare, avrebbe detto, sarebbe stato di prendere la mia arpa come Orfeo, e suonare per i frammenti dei mobili rotti, e poi osservarli erigersi da soli, come le mura di Troia. Questa era allora la sua teoria, vigorosamente sostenuta in pubblico, sul metodo da me impiegato per rialzare i grandi triliti della Danza. Quando giunse la sera del secondo giorno, avevo tirato su alla meglio un rozzo ponteggio coperto con la solida tavola della panca, che avrebbe potuto servire d'appoggio a una scala. Era alto circa dodici spanne e tenuto fermo, in modo abbastanza sicuro, da un mucchio di sassi. Mi restava solo, calcolai, da innalzarlo di altre trentadue spanne. Lavorai fino al crepuscolo, poi accesi la lanterna e preparai il mio miserabile pasto. In seguito, come l'uomo che cerca conforto nell'amante, presi l'arpa e, senza pensare a Orfeo o a Troia, feci musica finché mi si abbassarono le palpebre, e un accordo sbagliato mi avvertì che era ora di dormire. L'indomani sarebbe stato un altro giorno. *
*
*
Chi avrebbe potuto immaginare che tipo di giorno? Stanco per tutto il
lavoro compiuto, dormii profondamente e mi svegliai più tardi del solito alla luce viva di un raggio di sole e sentendo qualcuno gridare il mio nome. Per un attimo rimasi immobile, credendomi ancora invischiato nelle brume di un sogno che mi aveva già schernito così spesso, ma poi mi svegliai completamente, sentendo la scomodità del terreno della grotta (avevo fatto a pezzi anche il mio letto per costruire il ponteggio) e di nuovo qualcuno che gridava il mio nome. La voce arrivava dallo sfiatatoio, una voce d'uomo, stridula per il nervosismo, ma con qualcosa di familiare nella strana pronuncia del latino. «Mio signore? Mio signore Merlino? Ci sei, mio signore?» «Eccomi! Arrivo!» Malgrado le articolazioni indolenzite, fui in piedi con la rapidità di un ragazzo, e corsi alla base del cunicolo. La luce del sole si rovesciava dall'alto. Arrivai, inciampando, ai piedi della rozza struttura che quasi riempiva la base del cunicolo. Girai la testa verso l'alto. Inquadrate nello squarcio di cielo blu, si vedevano la testa e le spalle di un uomo. A tutta prima, poco riuscii a vedere contro quello sfondo così luminoso. Me, lui doveva vedermi chiaramente, scarmigliato, la barba lunga, certamente pallido come il fantasma che doveva aver temuto di vedere. Lo sentii ansimare, poi la testa si ritirò. Io gridai: «Rimani, per amor di Dio! Non sono un fantasma! Rimani! Aiutami a uscire da qui! Stilicone, rimani!». Quasi senza riflettere, avevo identificato la sua pronuncia e lui nello stesso tempo. Quello che era stato il mio servo, il siculo Stilicone, che aveva sposato Mai, la figlia del mugnaio e mandava avanti il mulino sul Tywy, nel fondovalle. Conoscevo quelli della sua specie, ingenui, superstiziosi, facilmente spaventati di fronte a ciò che non capiscono. Mi appoggiai contro il montante del ponteggio, lo afferrai con mani tremanti e mi sforzai di mantenere una calma che lo avrebbe rassicurato. La sua testa ricomparve cautamente. Vidi gli occhi neri sgranati, il pallore terreo del suo viso, la bocca aperta. Riuscii a dominarmi con uno sforzo che mi inondò di debolezza, e gli parlai nella sua lingua, lentamente e con apparente calma: «Non aver paura, Stilicone. Non ero morto quando erroneamente mi lasciarono qui, e per tutte queste settimane sono rimasto intrappolato nella montagna. Non sono un fantasma, ragazzo: sono davvero Merlino, vivo, e
molto bisognoso del tuo aiuto». Lui si sporse ancora un poco per farsi più vicino. «Allora il re... e tutti quegli altri che erano qui?...» S'interruppe, deglutendo con sforzo. «Tu credi che un fantasma avrebbe potuto costruire quest'impalcatura?» gli chiesi. «Non avevo perso la speranza di uscire di qui. Ho vissuto di questa speranza, per tutte queste settimane, ma per il Dio di tutti gli dei, Stilicone, se adesso tu mi lasci senza aiutarmi a uscire di qui, giuro che sarò morto prima che finisca il giorno.» M'interruppi, vergognandomi. Si schiarì la gola. Pareva scosso, e ne aveva di che, ma non più spaventato. «Allora sei davvero tu, signore? Hanno detto che eri morto e sepolto, e noi ti abbiamo pianto... ma avremmo dovuto sapere che la tua magia ti avrebbe preservato dalla morte.» Scossi la testa. Mi costrinsi a continuare a parlare, sapendo che con ogni parola lui si avvicinava di più ad accettare come vera l'idea della mia sopravvivenza, e che si faceva forza per avvicinarsi alla tomba e al suo fantasma vivente. «Non la magia» dissi «è stata la malattia a ingannarvi tutti. Non sono più un mago, Stilicone, ma devo ringraziare Dio perché sono ancora un uomo robusto. Altrimenti queste settimane sottoterra mi avrebbero ucciso di sicuro. Adesso, mio caro, puoi farmi uscire da qui? Più tardi potremo parlare, e decidere il da farsi, ma adesso, per amor di Dio, aiutami a uscire da qui, a venire a respirare l'aria pura...» Non fu un lavoro da poco, e richiese molto tempo anche perché, quando lui propose di lasciarmi per andare a cercare aiuto, lo supplicai, in termini dei quali adesso mi vergogno, di non abbandonarmi. Lui non discusse, ma si accinse ad annodare la lunga corda robusta che aveva trovato ancora attaccata a un giovane frassino che spuntava nella roccia sopra lo sfiatatoio. All'estremità fece un cappio dove avrei dovuto poggiare il piede, poi la calò con cautela. Arrivava fino alla piattaforma, e avrebbe potuto scendere ancora un tratto. Poi si calò lui stesso nello sfiatatoio, e in breve fu accanto a me ai piedi del ponteggio. Credo che si sarebbe messo in ginocchio, com'era stata sua abitudine, per baciarmi le mani, ma io mi aggrappai a lui così forte che viceversa mi sostenne, sorreggendomi con la sua forza giovanile, e poi mi aiutò a tornare nella grotta principale. Trovò per me l'unico sgabello rimasto, poi accese la lanterna e mi portò del vino, sicché dopo un po' fui in grado di dire, con un sorriso: «Perciò adesso lo sai che sono un corpo di carne e ossa, e non un fantasma? Sei stato coraggioso ad arrivare fin qui, e ancora più coraggioso a rimanerci.
Che cosa mai ti ha portato quassù? Sei l'ultima persona al mondo che avrei pensato andasse a visitare una tomba». «Non sarei venuto affatto» disse lui con franchezza «non fosse stato per qualcosa che ho sentito e mi ha fatto pensare che forse dopo tutto non eri morto, ma che vivevi qui da solo. Sapevo che sei un mago potente, e ho pensato che forse la tua magia non ti avrebbe permesso di morire come gli altri uomini.» «Qualcosa che hai sentito? Di che si tratta?» «Conosci l'uomo che mi aiuta al mulino, Bran, si chiama? Be', ieri è stato in città, e al ritorno ha raccontato di un tale che era sbronzo fradicio in una delle taverne, e che circolava la voce che era stato su a Bryn Myrddin, e che il mago era uscito dalla tomba e gli aveva parlato. Gli altri gli offrivano da bere e gli chiedevano di raccontare ancora, e naturalmente quello che ha raccontato lui erano solo bugie, ma tanto bastava per farmi riflettere...» Esitò. «Che cosa è accaduto, signore? Ho capito che qui c'era stato qualcuno, perché ho visto la corda legata all'albero.» «Per due volte» dissi. «La prima volta è stato un uomo a cavallo a venire fin quassù... puoi vedere quanto tempo fa, l'ho segnato con le tacche sul mio bastone, laggiù. Deve avermi sentito fare musica; il suono doveva arrivagli dalla crepa del dirupo. La seconda volta è stata quattro - cinque? giorni fa, quando un farabutto è venuto per saccheggiare la tomba, ha aperto un passaggio nella roccia, come hai visto, e si è calato con la corda.» Gli raccontai l'accaduto. «Doveva essere troppo spaventato per fermarsi a slegare la corda. È una fortuna che tu abbia sentito la sua storia e sia arrivato quassù prima che lui riprendesse coraggio e tornasse a recuperare la corda... e magari si arrischiasse di nuovo a entrare nella tomba.» Mi guardò di sottecchi, l'espressione vergognosa. «Io non voglio fingere con te, signore. Non è giusto che tu lodi il mio coraggio. Sono salito quassù ieri sera. Non mi piaceva essere solo ma mi sono vergognato di portarmi Bran, e quanto a Mai non arriverebbe a meno di un miglio da qui... Bene, ho visto che l'imboccatura della grotta era esattamente come prima, poi ho sentito l'arpa. Io... io ho fatto dietrofront e sono scappato a casa. Scusami.» Dissi, dolcemente: «Ma sei tornato». «Sì. Non sono riuscito a dormire tutta la notte. Ricordi quando una volta mi lasciasti a guardia della grotta, e mi mostrasti la tua arpa, e perché a volte suonava da sola, giusto per lo spostamento d'aria? E tu mi facesti coraggio, e mi mostrasti la grotta di cristallo dicendomi che lì sarei stato al
sicuro? Be', a tutto questo ho pensato, e ho pensato a tutte le volte che eri stato buono con me, come mi togliesti dalla schiavitù e mi desti la libertà e la vita che ho ora. E ho pure pensato che, anche se era il fantasma del mio signore, o l'arpa che faceva musica per magia, sola nella grotta della montagna, non mi avrebbe mai fatto del male... Perciò sono ritornato, ma questa volta di giorno. Ho pensato che se era un fantasma finché c'era il sole avrebbe dormito.» «Infatti stavo dormendo.» Mi sfiorò il pensiero, freddo come la punta di un pugnale, che se la sera prima avessi preso qualcosa per drogarmi, come avevo fatto così spesso, avrei potuto non sentire niente. Lui stava proseguendo: «Questa volta sono arrivato in cima, ho visto la roccia appena spaccata che risaltava bianca nella conca, dove sbocca quel piccolo sfiatatoio. Mi sono avvicinato per guardare. Allora ho visto la corda, assicurata al frassino, e quella grande breccia nella parete rocciosa, e quando ho guardato giù nello sfiatatoio, ho visto quella» esitò «quella cosa che hai costruito lì». Non avevo creduto di potermi mai più divertire così. «Quella è un'impalcatura da muratori, Stilicone». «Sì, certo. Be', ho pensato che non poteva averlo fatto nessun fantasma, quello. Così ho chiamato. Questo è tutto.» «Stilicone» dissi «se mai ho fatto qualcosa per te, sta' certo che mi hai ripagato mille volte. In effetti, mi hai salvato doppiamente. Non solo oggi; se tu non avessi lasciato qui tutto come l'ho trovato, sarei morto da qualche settimana, di fame e di freddo. Non lo dimenticherò.» «Adesso dobbiamo tirarti fuori di qui. Ma come?» Si guardò intorno, notando la grotta spoglia e i mobili fatti a pezzi. «Adesso che abbiamo parlato, e tu ti senti più forte, signore, non potrei andare a cercare uomini e attrezzi, e liberare la porta? Sarebbe la cosa migliore, davvero lo sarebbe.» «Lo so, ma non credo. Ho avuto tempo per riflettere. Finché non saprò come stanno le cose nei regni, non posso "tornare in vita" all'improvviso. Perché il popolo la vedrebbe così, se il principe Merlino esce dalla tomba. Finché il re non saprà tutto, tutta questa storia deve restare segreta. Perciò, finché non potremmo fargli avere un messaggio in segreto...» «È andato in Britannia minore, dicono.» «Davvero? riflettei un momento. «Chi è il reggente?» «La regina, con Bedwyr.» Rimasi un momento in silenzio, abbassando lo sguardo sulle mie mani. Stilicone era seduto a terra a gambe incrociate. Alla luce della lanterna
pareva ancora molto simile al ragazzo che avevo conosciuto. I cupi occhi bizantini mi osservavano. Mi bagnai le labbra. «E madonna Nimuë? Sai chi intendo? Lei...» «Ah, certo, tutti la conoscono. Lei ha la magia, come l'avevi tu... come l'hai tu, signore. È sempre vicina al re. Vive vicino a Camelot.» «Sì» dissi. «Bene, mi dispiace, caro Stilicone, ma non posso far sapere questa storia prima che il re torni dalla Britannia minore. In qualche modo, tu e io, dobbiamo riuscire a tirarmi fuori dallo sfiatatoio. Sono sicuro che, se porti qui gli attrezzi che abbiamo nella stalla, qualcosa riusciremo a fare.» E così decidemmo. Lui tornò in meno di mezz'ora con chiodi, attrezzi e la piccola provvista di legna segata che avevamo lasciato nella stalla. Fu una mezz'ora dura per me: non avevo nessun dubbio sul fatto che sarebbe tornato, però la reazione fu così intensa che, trovandomi di nuovo solo, mi risedetti sullo sgabello, sudato e tremante come uno sciocco. Ma quando Stilicone lasciò cadere l'attrezzatura nel cunicolo, e subito dopo la seguì, io avevo ripreso il controllo di me e ci mettemmo al lavoro: io stesso rimasi seduto oziosamente sullo sgabello a guardare e a dargli le direttive, e lui riuscì a costruire una specie di scala a pioli e la sistemò sulla piattaforma che avevo fatto io. La scala arrivava al tratto in pendio del cunicolo. Qui, in aggiunta alla corda con i nodi, egli tagliò pezzi di legno che, grazie a crepe e sporgenze della roccia, fissò, a intervalli, sulla parete dello sfiatatoio dove sarebbero serviti, se non come scalini, almeno come punti d'appoggio contro i quali volendo si poteva puntellare un ginocchio. Quando il lavoro fu finito ne controllò la solidità, mentre io avvolgevo l'arpa in ciò che rimaneva della coperta, e insieme ad essa i miei manoscritti e alcuni dei farmaci che avrebbero potuto servirmi per riprendere appieno le forze. Stilicone uscì dal cunicolo portando tutte queste cose. Infine presi un coltello, ritagliai dal drappo funebre la maggior parte dei gioielli e li lasciai cadere, insieme alle monete d'oro, in una sacca di cuoio che aveva contenuto erbe medicinali. Mi avvolsi intorno al polso la cinghia della sacca e rimasi ad aspettare alla base del ponteggio finché Stilicone riapparve su in cima, prese la corda e mi gridò di cominciare ad arrampicarmi. Quattro Rimasi un mese al mulino da Stilicone. Mai, che in passato aveva prova-
to nei miei confronti un tremebondo timore reverenziale, dopo aver constatato che non ero terrificante ma solo un uomo malato e bisognoso di cure, mi curò con devozione. Oltre a loro due non vidi nessuno. Rimasi nella stanza al piano di sopra che essi mi diedero - era la loro, la migliore, e non vollero sentir ragioni su questo. Il garzone dormiva fuori nel granaio e sapeva solo che c'era in casa un anziano parente del mugnaio. Ai bambini fu detta la stessa cosa, ed essi mi accettarono senza far domande, come fanno i bambini. In un primo tempo rimasi a letto. La reazione alle ultime settimane fu forte; trovavo fastidiosa la luce del giorno, e difficile sopportare i rumori quotidiani - le voci degli uomini in cortile quando al pontile arrivavano le chiatte con il grano, il martellare degli zoccoli dei cavalli sulla strada, le grida dei bambini che giocavano. In principio il solo fatto di parlare con Mai e Stilicone era pesante, ma essi mi dimostrarono tutta la gentilezza e la comprensione degli umili, sicché gradualmente le cose furono più facili e ricominciai a sentirmi me stesso. Ben presto lasciai il letto e cominciai a passare il tempo a scrivere, poi, chiamati i bambini più grandi, mi misi a insegnar loro le lettere dell'alfabeto. Col tempo arrivai perfino a gradire l'esuberanza di Stilicone e lo interrogai avidamente su ciò che era accaduto dopo che io ero stato chiuso nella grotta. Di Nimuë sapeva poco, oltre a quanto mi aveva già detto. Credetti di capire che la sua fama nella magia, nelle settimane dopo la mia scomparsa, era cresciuta così rapidamente che in modo del tutto naturale il mantello di profeta del re si era posato sulle sue spalle. Trascorreva parte del tempo ad Applegarth, ma dalla morte della Signora era tornata al santuario dell'isola, dove era stata accettata senza discussioni come la nuova Signora. Una voce corrente pareva indicare che la posizione sociale della Signora era cambiata con lei; essa non rimaneva sull'isola, vergine tra le vergini; faceva frequenti visite a Corte, a Camelot, e si parlava lì di un probabile matrimonio. Stilicone non seppe dirmi chi venisse indicato come futuro sposo. «Ma naturalmente» concluse «sarà un re.» Dovetti contentarmi di queste notizie. Per il resto si sapeva ben poco. Gli uomini che risalivano il fiume fino al mulino erano per lo più semplici lavoratori, o padroni di chiatte, che sapevano solo ciò che accadeva sul posto, e a cui importava ben poco di qualcosa oltre al fatto di spuntare un buon prezzo per le loro merci. Tutto quel che potei capire fu che i tempi dovevano essere ancora prosperi; il regno era in pace; i sassoni rispettavano i trattati. E di conseguenza, il Sommo re si era sentito libero di partire
per altri paesi. Il perché, Stilicone lo ignorava. E per il momento questo non aveva importanza per me, a parte il fatto che rendeva necessario continuare a mantenere il segreto. Riflettei di nuovo sull'intera vicenda, dopo aver ritrovato la salute, e le conclusioni cui arrivai erano sempre le stesse. Un mio pubblico ritorno alla scena del regno non poteva essere utile a niente. Neppure il «miracolo» di un ritorno dalla tomba avrebbe potuto fare per il regno e per il suo Sommo re più di quanto avevano fatto la mia «morte» e il passaggio del mio potere. Non avevo potere né visioni da portargli; sarebbe stato sbagliato compiacersi di un ritorno che tendenzialmente avrebbe screditato Nimuë nella sua posizione di mia continuatrice, senza portare niente di nuovo o addirittura di valido al servizio di Artù. Avevo fatto gli addii e la mia leggenda, quale essa era, aveva già cominciato a farsi strada. Tanto potevo arguire dalle storie che, secondo Stilicone, già si erano aggiunte a quelle del saccheggiatore di tombe circa il fantasma del mago. Quanto a Nimuë, valevano le stesse argomentazioni. Con la saggezza di cui potevo disporre in materia, capivo che l'amore che ci aveva unito era già una cosa del passato. Non potevo tornare indietro, aspettandomi di rivendicare il posto che era stato mio accanto a lei, e legare geti alle zampe di un falcone che già si era levato in volo. Un'altra cosa mi tratteneva, una cosa che non avrei ammesso alla luce del giorno ma che mi scherniva nei sogni, dove vecchie profezie mi ronzavano intorno come mosche tormentose. Che cosa ne sapevo delle donne, anche ora? Quando ricordavo il costante esaurirsi del mio potere, l'ultima, disperata debolezza, lo stato come di catalessi prima del definitivo abbandono nelle tenebre, mi chiedevo cosa mai fosse stato quell'amore se non il vincolo che mi aveva legato a lei, costringendomi a darle tutto ciò che possedevo. E anche quando ricordavo la sua dolcezza, la sua generosa adorazione, le sue parole d'amore, sapevo (e non c'era bisogno di visione per saperlo) che adesso lei non avrebbe deposto il suo potere, neppure per riavere me. Fu difficile far capire a Stilicone la mia riluttanza a ricomparire, ma alla fine egli accettò il mio desiderio di aspettare il ritorno di Artù prima di fare progetti. Da ciò che diceva quando parlava di Nimuë, era evidente che non sapeva ancora che essa era stata per me più che una discepola che adesso si era assunta il compito del suo maestro. Alla fine, sentendomi di nuovo normale, e non volendo imporre ancora la mia presenza alla piccola famiglia di Stilicone, mi preparai a partire per il Northumbria e chiesi al mugnaio di curare i preparativi per me. Decisi di
andare a nord per mare. Una traversata per mare non è mai cosa che io intraprenda volentieri, ma per terra sarebbe stato un viaggio lungo e difficile, senza la certezza che il tempo continuasse a essere bello, e per di più difficilmente avrei potuto andare da solo; Stilicone avrebbe insistito per accompagnarmi, anche se in quella stagione sarebbe stato difficile fare a meno di lui al mulino. Per la verità, egli cercò di insistere ad accompagnarmi anche in nave, ma alla fine si lasciò convincere; e non solo per convenienza, ma perché credo che mi ritenesse ancora quel «grande mago» che aveva servito in passato con tanto timore reverenziale e orgoglio. In conclusione, feci a modo mio e una mattina presto scesi tranquillamente il fiume su una delle chiatte e m'imbarcai a Maridunum su una nave costiera diretta al nord. Non avevo inviato messaggi a Blaise in Northumbria, perché non c'era nessuno cui mi sentissi di affidare la notizia del «ritorno di Merlino dal regno dei morti». Avrei pensato al modo di prepararlo quando fossi arrivato nelle vicinanze. Era anche possibile che non avesse ancora avuto notizia della mia morte; viveva così ritirato dal mondo - solo grazie ai miei dispacci in contatto con i tempi - che era pensabile avesse appena srotolato la mia ultima lettera da Applegarth. Come poi risultò, le cose stavano proprio così; ma io non lo seppi ancora per un po' di tempo. Non arrivai in Northumbria, anzi non mi spinsi più a nord di Segontium. La nave si ormeggiò là in una bella mattina serena. La cittadina si scaldava al sole in riva allo stretto scintillante, con le sue case, a gruppi, che sembravano piccolissime accanto alle mura imponenti della fortezza costruita dai romani che era stata quartier generale dell'imperatore Massimo. Oltre lo stretto, i campi dell'isola di Mona erano d'oro al sole. Dietro la città, poco oltre le mura della fortezza, si ergevano i ruderi della torre nota come la Torre di Macsen. Lì accanto era il tempio di Mitra, in rovina, dove anni prima avevo trovato la spada del re di Britannia e dove, profondamente nascosto sotto le macerie del pavimento e l'altare semidistrutto del dio, avevo lasciato quanto rimaneva del tesoro di Macsen, la lancia e il graal. Quello era il luogo che avevo promesso di mostrare a Nimuë, nel viaggio di ritorno a casa dopo Galava. Al di là della torre la grande Montagna della Neve, Y Wyddfa, si ergeva sullo sfondo del cielo. In vetta aveva la prima neve e le pendici in parte avvolte nelle nuvole, anche in quella giornata di sole, erano neroviolacee per le pietraie e l'erica secca. Lentamente la nave si fece strada per attraccare al molo. C'erano mer-
canzie da scaricare, e questo avrebbe richiesto tempo, perciò fui felice di sbarcare e, dopo aver scambiato qualche parola nell'ufficio del comandante del porto, mi diressi alla locanda sul molo. Qui avrei potuto ottenere un pasto caldo e osservare le operazioni di scarico e carico della mia nave. Ero affamato, e probabilmente lo sarei diventato anche di più. La mia concezione di un viaggio per mare, per quanto compiuto col mare calmo, prevede di scendere sottocoperta e restare lì, senza mangiare né bere, finché la traversata è finita. Il comandante del porto mi aveva detto che la nave non sarebbe salpata prima di sera, cosicché avevo tutto il tempo per riposarmi e prepararmi per la prossima, temuta fase del viaggio. Mi passò per la mente il desiderio di avere il tempo per tornare di nuovo al tempio di Mitra, ma lo accantonai. Anche se fossi tornato sul posto, non avrei disturbato il tesoro. Non era per me. Inoltre, le privazioni del viaggio mi avevano stancato, e avevo bisogno di mangiare. Mi diressi alla locanda. Questa era costruita sui tre lati di un cortile, mentre il quarto lato era aperto verso il molo, per avere il vantaggio, immagino, di poter portare le merci direttamente dalle navi alle dispense della locanda, che fungevano da magazzino per tutta la città. C'erano panche e robusti tavoli di legno sotto le gronde sporgenti del cortile all'aperto ma, benché il tempo fosse bello, non faceva abbastanza caldo da persuadermi a mangiare fuori. Mi feci strada nella stanza principale dove ardeva un bel fuoco, e ordinai cibo e vino. (Avevo pagato il viaggio in mare, opportunamente, con una delle monete d'oro che avevano costituito il «compenso per il traghettatore»; mi era rimasto un resto e avevo ottenuto dal padrone della nave un rispetto che le mie apparenze difficilmente gli avrebbero ispirato). Adesso il servo si affrettò a servirmi un buon pasto, montone e pane, con una fiasca di grossolano vino rosso come piace alla gente di mare, poi mi lasciò in pace a godermi il calore del fuoco e a seguire dalla porta aperta la scena che si svolgeva sul molo. La giornata trascorreva. Io ero più stanco di quanto mi fossi reso conto. Sonnecchiavo, poi mi svegliavo, sonnecchiavo di nuovo. Sul molo continuava il lavoro, tra il cigolio degli argani, lo sferragliare della catena e il tendersi delle corde, mentre le gru caricavano la nave di sacchi e balle. In alto i gabbiani giravano emettendo i loro gridi. Di quando in quando un carro a buoi avanzava cigolando sulle ruote sgraziate. Nella locanda stessa c'era ben poco andirivieni. Una volta una donna attraversò il cortile con una cesta del bucato sulla testa, e un ragazzo passò in fretta con un'infornata di pane. C'era un altro gruppo sistemato, pareva, in
camere sulla destra del cortile. Un tale in abbigliamento da schiavo entrò in fretta proveniente dalla città, recando un cesto piatto coperto da un panno di lino. Scomparve attraverso una porta, e poco dopo uscirono da lì, correndo, quattro bambini, maschietti, ben vestiti ma rumorosi, e con una pronuncia straniera che non riuscii a individuare. Due di loro, in apparenza gemelli, si sistemarono sul pavimento a lastroni di pietra, in pieno sole, per giocare agli aliossi, mentre gli altri due, benché male assortiti per età e corporatura, avviarono una specie di finto combattimento, con bastoni al posto delle spade e vecchi coperchi di casse al posto degli scudi. Poco dopo una donna dall'aria dignitosa, che doveva essere la bambinaia, uscì dalla stessa porta e si sedette su una panca al sole a osservarli. Dal modo in cui i bambini di quando in quando correvano a guardare dalla parte del pontile, immaginai che la loro comitiva dovesse essere in attesa di imbarcarsi sulla mia nave, o di continuare il viaggio con un'altra imbarcazione che era ormeggiata a poca distanza, al molo. Da dove ero seduto potevo vedere il capitano della mia nave e accanto a lui una specie di controllore munito di stilo e tavoletta di cera. Questi non aveva scritto niente per un po' di tempo e anche l'attività a bordo pareva interrotta. Presto sarebbe giunto il momento di far ritorno alla mia scomoda cuccetta sottocoperta, e di aspettare miseramente che le leggere brezze ci spingessero a nord, per la prossima tappa del nostro viaggio. Mi alzai. Proprio in quel momento vidi il capitano alzare la testa con lo stesso movimento di un cane che fiuta l'aria. Poi l'uomo girò su se stesso, alzando lo sguardo verso il tetto della locanda. Sentii allora, direttamente sopra la mia testa, il lungo cigolio della banderuola che girava, poi gemendo si spostava avanti e indietro descrivendo piccoli archi agitati quando l'investiva la brezza improvvisa della sera. Andava avanti e indietro, poi di fronte a un vento costante si stabilizzò nel silenzio. Il vento attraversò il porto come un'ombra grigia sull'acqua, e sulla scia ondeggiarono le navi ormeggiate, e le sartie brontolarono e risonarono contro le alberature come bacchette di tamburo. Accanto a me il fuoco guizzò e salì rombando per il camino. Il capitano, con un gesto di ira impaziente, si avviò rapidamente verso la passerella della nave, gridando degli ordini. Oltre all'irritazione, adesso provavo sollievo: con quel vento il mare sarebbe diventato ben presto burrascoso, ma io non ci sarei stato. Il vento aveva girato con la volubile violenza dell'autunno. La nave non poteva salpare. Il vento freddo soffiava proprio da nord. Mi mossi per andare a parlare con il capitano il quale, mentre sorveglia-
va i marinai stivare e legare il carico adeguandosi al vento cambiato, mi confermò tetramente che sarebbe stato fuori discussione salpare finché il vento non ci era di nuovo favorevole. Mandai un ragazzo a prendere la mia roba dalla nave e tornai a fissare una camera nella locanda. Sapevo che una vuota doveva essercene, perché il vento a noi contrario a quanto pareva era diventato propizio per gli altri ospiti della locanda. Potevo vedere marinai darsi da fare sull'altra nave, e nella locanda ferveva un'affannosa confusione di preparativi. I bambini erano scomparsi dal cortile e ricomparvero di lì a poco, con mantelli e scarpe pesanti, il più piccolo tenuto per mano dalla bambinaia, gli altri che saltellavano felici intorno a lei, vivaci, rumorosi e ovviamente eccitati alla prospettiva del viaggio per mare. Aspettarono, irrequieti per l'impazienza, finché lo schiavo che avevo già visto, aiutato da un altro, uscì carico di bagagli, seguito da un uomo con la livrea del servitore di camera, che aveva la voce aspra e l'aspetto autoritario. Dovevano essere persone importanti, malgrado il loro strano modo di parlare. Nel più alto dei ragazzi, pensai, c'era qualcosa di vagamente familiare. Rimasi all'ombra della porta principale della locanda, a osservarli. Il locandiere si era dato da fare, fino a quel momento, per farsi pagare dal servitore di camera, e adesso una donna, che forse era sua moglie, accorse correndo con un pacco. Udii la parola «bucato», poi l'uomo e la donna si allontanarono indietreggiando dalla porta, con inchini e riverenze, mentre finalmente emergeva dalla locanda l'ospite principale. Era una donna, chiusa dalla testa ai piedi in un mantello verde. Era di corporatura sottile, ma aveva il portamento fiero. Scorsi uno scintillio d'oro al suo polso, e vidi gemme intorno al suo collo. Il suo mantello era orlato e foderato di volpe rossa, folta e suntuosa, e così il cappuccio. Questo era gettato all'indietro sulle spalle, ma lo stesso non riuscivo a vederla in viso; era voltata dall'altra parte e parlava con qualcuno rimasto nella camera dietro di lei. Un'altra donna uscì con passo cauto, recando una cassetta. Questa era avvolta in un panno e sembrava pesante. La donna era vestita con semplicità, come un'ancella. Se la cassetta conteneva i gioielli della sua padrona, questa doveva davvero essere un personaggio importante. Poi la dama si voltò e io la riconobbi. Era Morgause, regina del Lothian e delle Orcadi. Non c'era da sbagliarsi. I bei capelli avevano perso lo scintillio roseodorato, si erano scuriti e avevano adesso una sfumatura roseocastana; il corpo le si era ingrassato a furia di partorire figli, ma la voce era sempre la stessa, e così i lunghi occhi a mandorla e la bella bocca incurva-
ta. Così i quattro solidi ragazzi, esuberanti e rumorosi, con la pronuncia settentrionale, erano i figli che aveva avuto da Lot del Lothian, il nemico di Artù. Ma adesso non guardavo loro. Tenevo d'occhio la porta. Mi chiedevo se alla fine sarei riuscito a vedere il figlio maggiore di Morgause, quello che lei aveva generato con Artù. Uscì dalla porta a passo svelto. Era più alto della madre, un ragazzo snello che avrei riconosciuto dappertutto, anche se non l'avevo mai visto prima. Occhi neri, capelli neri, e il corpo di un ballerino. Una volta qualcuno aveva detto questo di me, e lui era come me, era Mordred, il figlio di Artù. Si fermò accanto a Morgause e le disse qualche cosa. Aveva una voce delicata e gradevole, un'eco della voce della madre. Colsi le parole «nave» e «il conto», e vidi lei annuire. Essa appoggiò la sua bella mano su quella di lui e il gruppo si mosse. Mordred lanciò un'occhiata verso il cielo e riprese a parlare, con una punta di apprensione, mi parve. Passarono tutti e due a una distanza di pochi passi dal punto in cui mi trovavo io. Indietreggiai. Quel movimento dovette attrarre l'attenzione di Morgause perché la vidi alzare gli occhi e per una frazione di secondo i nostri sguardi si incontrarono. Il suo non dimostrò di avermi riconosciuto. Ma mentre si voltava, affrettandosi verso la nave, la vidi rabbrividire e stringersi il mantello ornato di pelliccia come se, di colpo, trovasse freddo il vento. La seguivano il corteo dei servi e i figli di Lot: Galvano, Agravano, Gaheris, Gareth. E tutti salirono sulla passerella della nave in attesa. Stavano andando a sud, tutti loro. Che cosa Morgause si proponesse di fare lì non potevo indovinarlo, ma non poteva essere che male. E io non avevo alcun potere per fermarli, e neanche la possibilità di mandare un messaggio che li precedesse, perché chi avrebbe prestato fede al messaggio di un morto? Poi il padrone e la padrona della locanda arrivarono accanto a me, per conoscere i miei desideri. Dopo tutto, non chiesi di occupare le stanze che la regina delle Orcadi e il suo seguito avevano appena lasciato libere. *
*
*
Il giorno dopo il vento soffiava ancora dal nord, freddo, forte e costante. Era fuori discussione che la mia nave continuasse il viaggio verso nord. Pensai di nuovo di mandare un messaggio a Camelot per metterli in guar-
dia, ma la nave di Morgause avrebbe facilmente preceduto un uomo a cavallo e, comunque, a chi avrei potuto mandarlo? A Nimuë? A Bedwyr o alla regina? Non potevo fare niente finché il Sommo re non fosse tornato in Britannia maggiore. E analogamente, finché Artù era lontano, Morgause non poteva fargli alcun male. Su ciò riflettevo mentre uscivo dalla città e mi avviavo sul sentiero che conduceva sotto le mura della fortezza, verso la Torre di Macsen. Sarebbe stato davvero un vento funesto se non fossi riuscito a ricavarne alcun vantaggio. Il riposo del giorno prima mi aveva rinvigorito e la giornata era tutta mia. L'avrei utilizzata. L'ultima volta che ero stato a Segontium, la potente cittadella militare costruita e fortificata da Massimo, che i gallesi chiamano Macsen, era tutta solo una rovina. Da allora, Cador di Cornovaglia l'aveva restaurata e fortificata di nuovo contro gli aggressori irlandesi. Questo era stato molti anni prima, ma più di recente Artù aveva predisposto che Maelgon, suo comandante nell'ovest, la tenesse in ordine e efficienza. Avevo interesse a vedere che ciò fosse stato eseguito, e in che modo; e fu questo, a parte altri interessi, che mi portò sul sentiero della valle. Ben presto mi trovai abbastanza più in alto rispetto al centro abitato. Era una giornata di sole e di vento freddo, e la cittadella si stendeva, luminosa e inondata di colori, sotto di me, in riva a quel braccio di mare di color blu intenso. Accanto al sentiero le mura della fortezza si innalzavano solide e ben tenute e potevo sentire, provenienti dall'interno, i rumori metallici e il trambusto che indicavano la presenza di una guarnigione vigile e bene addestrata. Come se fossi ancora l'ingegnere di Artù, con il proposito di riferire tutto a lui, presi nota di ciò che vedevo. Poi raggiunsi il lato sud della fortezza, dove rovina e venti avevano avuto via libera, e mi fermai per alzare lo sguardo verso le pendici dove sorgeva la Torre di Macsen. Ecco lì il sentiero, una volta calpestato dai fedeli legionari ma adesso probabilmente percorso solo da pecore e capre e dai loro pastori. Conduceva su per il ripido pendio fino al rigonfiamento di tappeto erboso cosparso di pietre che nascondeva l'antico santuario sotterraneo di Mitra. Da oltre cento anni esso era in rovina, ma nella mia visita precedente i gradini che scendevano verso l'ingresso erano ancora praticabili, e anche il tempio, benché chiaramente pericolante, ancora riconoscibile. Mi avviai lentamente su per il sentiero, chiedendomi perché, tutto sommato, fossi tornato a rivederlo. Non c'era bisogno che me lo chiedessi. Il tempio non c'era. Non v'era segno né del tumulo che aveva nascosto il tetto, né degli scalini che condu-
cevano di sotto. Non era necessario guardare tanto lontano per scoprirne la causa. In cima al pendio, nel punto dove era stato il tempio, gli operai che avevano restaurato Segontium, spostando con le leve i grandi massi delle mura della fortezza per il loro lavoro di ricostruzione, e scavando qua e là in cerca di pietrisco, avevano fatto franare una buona metà della china che era ormai diventata una lunga pietraia. Su questa erano nati e cresciuti piccoli alberi e arbusti - biancospini, frassini e more -, forse una cinquantina, sicché ormai era difficile anche rintracciare la pietraia. E dappertutto, come la trama di un telaio, bianche per la polvere dell'estate, si incrociavano sul fianco del monte le strette piste delle pecore. Mi parve di udire di nuovo, debolmente, la voce sempre più lontana del dio. «Abbatti il mio altare. È tempo di abbatterlo.» Altare, santuario, tutto era scomparso nel cuore ben custodito della montagna. *
*
*
C'è qualcosa di non completamente credibile in una trasformazione di questo genere. Rimasi lì un po' di tempo, cercando i punti di riferimento noti. La precisione del mio ricordo non c'entrava; una linea retta, dalla Torre di Macsen sul monte all'angolo sudovest della vecchia fortezza, e un'altra, dalla casa del comandante alla vetta lontana di Y Wyddfa, si intersecavano esattamente sul santuario. Adesso, si intersecavano esattamente in mezzo alla pietraia. Potevo vedere dove, quasi il punto preciso, in cui la vegetazione era rada e tra i massi si individuavano crepe che parevano indicare un vuoto sottostante. «Cerchi qualcosa?» chiese una voce. Mi girai a guardare. Un ragazzo era appollaiato, un po' più in su, su un macigno. Era molto giovane, una decina d'anni, e molto sporco. Era arruffato e mezzo nudo, e stava mangiando un bel pezzo di pane d'orzo. Accanto a lui per terra c'era una bacchetta di nocciolo e le sue pecore brucavano placidamente sul pendio, poco più in alto. «Un tesoro, pare» dissi. «Che genere di tesoro? Oro?» «Può darsi. Perché?» Inghiottì l'ultimo pezzo di pane. «Quanto vale per te?» «Ah, la metà del mio regno. Vuoi aiutarmi a trovarlo?»
«Ho già trovato dell'oro qui.» «Davvero?» «Sissignore. E una volta una monetina d'argento. E una volta una fibbia da cintura. Di bronzo, era.» «A quanto pare il tuo pascolo è più ricco di quanto potrebbe sembrare» dissi io, sorridendo. Un tempo lì era passata una strada molto frequentata che collegava la fortezza al tempio. Quel luogo doveva essere ricco di tesori del genere. Guardai il ragazzo. I suoi occhi erano limpidi e vivi nel viso sporco. «Be'» aggiunsi «io non voglio veramente scavare per cercare l'oro, ma se puoi aiutarmi dandomi alcune notizie, c'è una moneta di rame per te. Dimmi, hai sempre vissuto qui?» «Sissignore.» «Guardi le pecore in questa valle?» «Sissignore. Di solito venivo con mio fratello. Poi lui è stato venduto a un commerciante e se n'è andato su una grande nave. Adesso tengo solo io le pecore. Non sono mie. Il padrone è un uomo importante sulla montagna.» «Ti ricordi...» lo chiesi senza nessuna speranza; alcuni degli arbusti avevano di sicuro dieci anni «... ti ricordi quando c'è stata la frana? Forse quando ricostruivano la fortezza?» Scosse la testa arruffata. «È sempre stato così.» «No. Non è sempre stato così. Quando sono stato qui, molti anni fa, c'era un bel sentiero sul fianco della montagna che passava di qui, e dentro la montagna, proprio per di là, c'era una costruzione sotterranea. Una volta era stato un tempio. Nei tempi antichi, qui i soldati adoravano Mitra. Ne hai mai sentito parlare?» Il ragazzo scosse di nuovo la testa. «Magari da tuo padre?» Lui sorrise. «Dimmi chi è mio padre e ti dirò che cosa ha detto.» «Allora dal tuo padrone?» «No. Ma se è qua sotto» con uno scatto della testa indicò la pietraia «so dov'è. C'è acqua là sotto. Dove c'è l'acqua, sarà di certo quello il posto, vero?» «Non c'era acqua quando io...» M'interruppi. Un fremito mi corse nella carne, come uno spiffero freddo. «Acqua sotto che punto?» «Sotto le pietre. Lì. Un po' sotto. Profonda due volte la statura di un uomo, a giudicare da come si sente.» Assimilai la figuretta sporca, i luminosi occhi grigi, la bacchetta di noc-
ciolo ai suoi piedi. «Sei capace di trovare l'acqua sotto la terra? Con la bacchetta?» «È facilissimo con questa. Ma a volte la sento da solo, esattamente nello stesso modo.» «E anche il metallo? È stato così che hai trovato l'oro qui?» «Una volta. Era un bel pezzo di una statua, o qualcosa del genere. Una specie di cane. Il padrone me l'ha presa. Adesso se ne trovo ancora non glielo dico. Ma per lo più si trova rame, monete di rame. Per di qua, nelle vecchie costruzioni.» «Capisco.» Pensavo che quando avevo trovato il santuario, quello era già un rudere abbandonato da cento anni o più. Ma quando era stato costruito, non c'era dubbio che dovevano averlo fatto vicino a una sorgente. «Se mi fai vedere dov'è l'acqua sottoterra, ci troveremo dentro dell'argento per te.» Non si spostò. Mi parve avesse l'aria diffidente. «E lì che si trova, il tesoro che stai cercando?» «Lo spero.» Gli sorrisi. «Ma non è niente che tu possa trovare da solo, bambino. Servirebbero uomini con leve di ferro per spostare quei macigni, e anche se tu li portassi qui, non ti darebbero niente di quello che potrebbero trovare. Se lo fai vedere a me adesso, ti prometto che sarai pagato.» Rimase seduto, fermo, per un paio di secondi, strascicando i piedi nudi nella polvere. Poi, cercando a tastoni nel kilt di cuoio che era il suo unico indumento, esibì, posata sul palmo sporco, una moneta d'argento. «Sono già stato pagato, padrone. C'erano altri che sapevano del tesoro. Come facevo a sapere che era tuo? Io gli ho indicato dove dovevano scavare, e loro hanno spostato i macigni e si sono portati via la cassa.» Silenzio. Lì, in quel canalone riparato, il vento non arrivava. Il mondo luminoso parve allontanarsi girando vorticosamente, poi fermarsi e tornare indietro. Mi sedetti su un macigno. «Padrone?» Il ragazzo si lasciò scivolare dal masso su cui era stato appollaiato e scese verso di me. Mi si fermò accanto, scrutandomi, ma ancora circospetto, come in posizione per fuggire. «Padrone? Se ho fatto male...» «Non hai fatto male. Come potevi sapere? No, rimani, per piacere, e raccontami tutto. Non ti farò del male. Come potrei? Chi erano, e quanto tempo fa hanno preso la cassa?» Mi lanciò un'altra occhiata dubbiosa, poi parve prendermi in parola. Parve ansioso di dire tutto: «Solo due giorni fa. Erano due uomini. Io non li conosco, schiavi erano, e sono venuti con la signora».
«La signora?» Qualcosa sul mio viso lo fece indietreggiare di mezzo passo e fermarsi dove si trovava. «Sicuro. È venuta due giorni fa, è venuta. Doveva avere una magia, credo. E andata direttamente sul posto, come una cagna sulla pentola della zuppa. Ha indicato quasi il punto esatto, e ha detto: "Provate qui". I due uomini hanno cominciato a spostare i massi. Io ero su per di qui. Dopo che gli uomini hanno lavorato per un po', stavano andando nella direzione sbagliata, allora io sono sceso lì. Ho detto alla signora quello che ho detto a te, che ero capace di trovare le cose. "Bene" ha detto lei "qui ci sono oggetti di metallo nascosti da qualche parte. Ho perso la mappa" dice "ma so che è qui. Me l'ha mandata il proprietario. Se tu ci fai vedere dove dobbiamo scavare, ci sarà una moneta d'argento per te." Così io l'ho trovato. Metallo! Mi ha strappato la bacchetta dalla mano, come un cagnaccio che ti strappa un osso. Dev'essere stato un tipo d'oro molto potente, vero?» «Certamente» dissi. «Li hai visti quando l'hanno trovato?» «Sissignore. Ho aspettato perché mi dovevano pagare, capisci?» «Naturale. Com'era?» «Un cofano, grande così e così.» I gesti indicavano le dimensioni. «Pareva pesante. Non l'hanno aperto. Lei gli ha detto di posarlo, poi ci ha messo le mani sopra, così. Te l'ho detto che aveva una magia. Guardava su in alto, proprio verso Y Wyddfa, come se parlasse allo spirito. Lo sai, quello che vive lì. Ha fatto una spada, una volta, dicono. Ce l'ha il re, adesso. Merlino l'ha presa per lui dal re delle montagne.» «Sì» dissi. «E poi?» «L'hanno portato via.» «Hai visto dove sono andati?» «Be', sì. Giù, verso la città.» Strascicò gli alluci nella terra, guardandomi con occhi rattristati. «Lei ha detto che era stato il proprietario a mandarla. Era una bugia? Parlava in modo così dolce, e gli schiavi avevano delle insegne con sopra una corona. Ho pensato che era una regina.» «Lo era» dissi. Mi raddrizzai. «Non fare quella faccia, bambino, non hai fatto niente di male. Anzi, hai fatto più di quanto avrebbe fatto la maggior parte degli uomini al tuo posto: mi hai detto la verità. Avresti potuto guadagnarti un'altra moneta d'argento tenendo là bocca chiusa, indicandomi il posto e andandotene per i fatti tuoi. Perciò ti pago, come ti avevo promesso. Ecco.» «Ma è argento, padrone. E per niente.» «Non per niente. Mi hai dato delle informazioni che dovrebbero valere
la metà del regno, o anche più. Un grosso valore, un riscatto da re,3 non dicono così?» Mi alzai. «Non sforzarti di capirmi. Rimani qui in pace, bada alle tue pecore, trova la tua sorte e che gli dei siano con te.» «E anche con te, padrone», fece lui, sgranando gli occhi. «Può darsi» dissi «che siano ancora con me. Adesso tutto quello che devono fare è mandarmi un'altra nave sulla scia della prima, una nave che mi porti a sud.» Lo lasciai che mi guardava pensieroso, la moneta d'argento ben stretta nella mano sporca. Il giorno dopo, a mezzogiorno, entrò in porto una nave diretta a sud, che salpò di nuovo con la marea della sera. Io ero a bordo e rimasi, prostrato e sofferente finché, cinque giorni dopo, la nave entrò felicemente nel Canale del Severn. Cinque I venti si mantennero forti, ma variabili. Quando arrivammo al Canale, il tempo si era messo sul bello, sicché non facemmo scalo a Maridunun, ma proseguimmo risalendo l'estuario. Qualche indagine mi aveva informato che l'Orc, la nave di Morgause, era diretta a Ynys Witrin, e che aveva fatto scalo almeno due volte interrompendo il viaggio. Dato che per fortuna la mia nave era veloce, poteva darsi che Morgause e i suoi compagni non mi precedessero di molto. Immagino che avrei potuto corrompere il capitano della mia nave per far scalo, anche noi, all'isola, ma lì niente avrebbe potuto impedire che mi riconoscessero, con il conseguente clamore che mi ero tanto sforzato di evitare. Se, vedendo Morgause, avessi saputo che aveva con sé gli oggetti del potere provenienti dal mitreo, e che aveva ancora (perché il giudizio del ragazzo mi pareva degno di fede) una certa magia nelle mani, mi sarei sentito tenuto, correndo qualsiasi rischio, a imbarcarmi con lei sull'Orc, anche se probabilmente non sarei sopravvissuto alla traversata. Non avevo modo di sapere per quando si aspettasse Artù, e fino alla sua venuta dovevo restare nascosto. Probabilmente Morgause sarebbe stata in grado di vederlo prima di me. Quello che speravo, mentre viaggiavo, verso il sud, seguendola così da presso, era di poter in qualche modo mettermi in contatto con Nimuë. Avevo preso in considerazione quelle che potevano essere le conseguenze di una tale eventualità. Un ritorno dal regno dei morti di rado è un successo. Era possibilissimo che anche lei volesse im-
pedirmi di raggiungere Artù, per riprendere il posto che mi spettava nel suo affetto e al suo servizio. Ma Nimuë aveva il mio potere. Il graal era per il futuro, e il futuro era suo. Avvertirla dovevo che un'altra strega era in arrivo. Il rapimento del tesoro di Macsen aveva fatto risonare una nota di pericolo che non potevo ignorare. Con mio sollievo la nave oltrepassò quella bocca dell'estuario da cui si arrivava al porto dell'isola e cominciò a risalire il Canale del Severn che si andava sempre restringendo. Finalmente ci ormeggiammo a un piccolo pontile alla foce del fiume Frome, da dove una buona strada porta direttamente a Aquae Sulis, nella Terra dell'estate. Questa volta avevo pagato il viaggio con una delle pietre preziose che avevo preso dai miei drappi funebri, e con il resto mi comprai un buon cavallo, riempii le bisacce da sella di provviste e di abiti di ricambio, e mi misi immediatamente in viaggio sulla strada che portava alla città. A parte i luoghi in cui mi conoscevano proprio bene, pensavo che ci fossero per me scarse probabilità di essere riconosciuto. Da quando ero stato chiuso nella tomba mi ero dimagrito, i miei capelli erano ormai del tutto grigi e mi ero lasciato crescere la barba. Malgrado ciò, progettavo di rimanere ai margini delle città e dei villaggi, per quanto possibile, e di fermarmi in taverne di campagna. All'aperto non avrei potuto dormire; il tempo stava diventando sempre più freddo e il viaggio a cavallo risultava estenuante, anche se ciò non mi sorprendeva eccessivamente. Già la sera del primo giorno avevo estremo bisogno di riposo e fui felice di fermarmi a una piccola taverna dall'aspetto decoroso, a quattro o cinque miglia da Aquae Sulis. Prima ancora di ordinare da mangiare chiesi notizie e mi venne detto che Artù era tornato, e si trovava a Camelot. Quando parlai di Nimuë risposero con prontezza, ma in modo più vago. La «signora di Merlino», la chiamavano, «la maga del re», e misero su un paio di storie fantasiose, ma dei suoi spostamenti non erano sicuri. Uno disse che si trovava a Camelot con il re, ma un altro era sicuro che fosse partita di lì un mese prima; c'erano stati, disse l'uomo, disordini nel Rheged, e correvano voci sulla regina Morgana e sulla grande spada del re. Così, a quanto pareva, Nimuë era irraggiungibile e Artù era a casa. Anche se sbarcava sull'isola, poteva ben darsi che Morgause non si affrettasse ad affrontare immediatamente il re. Stringendo i tempi al massimo, forse sarei riuscito a raggiungerlo prima di lei. Consumai rapidamente il mio pasto, poi pagai il conto, mi feci sellare il cavallo e mi rimisi in strada.
Benché fossi così stanco non avevo coperto neppure dieci miglia e il mio cavallo era ancora fresco. Sapevo che, senza mettergli fretta, avrebbe potuto andare avanti tutta la notte. Splendeva la luna e la strada era ben tenuta, sicché potemmo procedere rapidamente, giungendo ad Aquae Sulis un bel po' prima di mezzanotte. Le porte erano chiuse, perciò costeggiai le mura. Mi fermarono due volte: la prima volta fu un soldato di guardia alla porta che mi chiese di che cosa mi occupassi, la seconda una pattuglia di uomini con l'insegna di Melwas. Entrambe le volte mostrai loro il fermaglio con il Drago e risposi concisamente: «Missione del re», e ogni volta il fermaglio, o la mia sicurezza, produssero il loro effetto, ed essi mi lasciarono proseguire. All'incirca un miglio dopo la strada si biforcava e io presi verso sud-sudest. Il sole si levò, piccolo e rosso in un cielo glaciale. La strada che si svolgeva davanti a me portava direttamente alla desolata regione montuosa dove il calcare affiora, bianco come ossa, e gli alberi sono tutti piegati verso nordest per via delle raffiche di vento. Il mio cavallo cominciò ad andare al passo, poi ad arrancare. Io, a mia volta, cavalcavo come in un sogno, talmente esausto da non accorgermi più di essere irrigidito e indolenzito in tutto il corpo. Per pietà verso entrambi quegli esseri esausti, tirai le briglie al primo abbeveratoio che incontrammo, trassi un po' di fieno dalla rete appesa all'arcione, e mi sedetti sul bordo dell'abbeveratoio, tirando fuori la mia colazione di uva secca, pane nero e idromele. La luce si allargò, scintillando sull'erba coperta di brina. Faceva molto freddo. Ruppi il leggero strato di ghiaccio che copriva l'abbeveratoio e mi lavai il viso e le mani. Questo mi rinfrescò, ma mi fece rabbrividire. Se il cavallo e io volevamo restare in vita, dovevamo riprendere al più presto la strada. Così rimisi il morso al cavallo e lo avvicinai al punto da dove avrei potuto salire in sella, dal bordo dell'abbeveratoio. Il cavallo lanciò in alto la testa e drizzò le orecchie, e allora anch'io percepii il rumore: erano zoccoli di cavallo che si avvicinavano, provenienti dalla città, a un rapido galoppo. Qualcuno che doveva essere uscito dalla città non appena erano state aperte le porte e che si veniva avvicinando, in fretta, e su un cavallo fresco. E finalmente fu visibile: un giovane che cavalcava a spron battuto, su un grande cavallo dal mantello roano carico. Quando fu a cento passi di distanza riconobbi i distintivi del corriere reale e, dopo essere sceso con movimenti rigidi dall'abbeveratoio, mi misi in mezzo alla strada e alzai una mano.
Non si sarebbe fermato per me, ma in quel punto la strada era fiancheggiata da un lato da un basso argine roccioso e dall'altro da un salto scosceso; inoltre l'abbeveratoio ostruiva l'argine. E io avevo anche girato il mio cavallo in modo che bloccasse il passaggio. L'uomo tirò le briglie, trattenendo il roano irrequieto e disse, impaziente: «Che c'è? Se cerchi compagnia, brav'uomo, non posso fartene. Non vedi chi sono?». «Un messaggero del re. Sì. Dove sei diretto?» «A Camelot.» Era giovane, con capelli rossicci e il colorito acceso e, come tutti quelli della sua categoria, aveva una specie di orgogliosa arroganza per la professione che esercitava. Parlò tuttavia abbastanza urbanamente. «Il re è lì, e anch'io devo esserci domattina. Che cosa c'è, vecchio, ti si è azzoppato il cavallo? La cosa migliore è che...» «No. Io me la caverò. Grazie. Non ti avrei fermato per una sciocchezza, ma si tratta di una cosa importante. Voglio che tu porti un mio messaggio. Deve essere consegnato al re.» Sgranò gli occhi su di me, poi rise, e il suo alito formò una nuvola nell'aria gelida. «Al re, dice lui! Mio buon signore, perdonami, ma un messaggero del re ha di meglio da fare che stare a sentire storielle da ogni passante. Se è una petizione, ti consiglio di tornare tu stesso a Caerleon. Il re ci sarà per Natale, e se fai un po' in fretta potresti arrivarci in tempo.» Mosse i talloni come se stesse per dar di sprone al cavallo, e proseguire. «Perciò, col tuo permesso, scansati e fammi passare.» Io non mi spostai. Dissi, piano: «Faresti bene ad ascoltare, credo». Egli si raddrizzò sulla sella, adesso irosamente, e fece schioccare la frusta. Pensai che mi avrebbe travolto. Poi incontrò il mio sguardo e trattenne quello che era stato per dire. Il roano, prevenendo la frusta, fece un balzo in avanti e venne frenato bruscamente. Cedette, mordendo il freno, e sbuffò emettendo alito bianco come quello di un drago. L'uomo si schiarì la gola, mi guardò dubbioso da capo a piedi, poi mi piantò di nuovo gli occhi in viso. Vidi che i suoi dubbi aumentavano. Allora si decise a fare una concessione, che nello stesso tempo gli avrebbe salvato la faccia. «Be'... signore... posso ascoltarti. E sta' certo che porterò ogni messaggio che sembri degno del mio incarico. Ma noi non dobbiamo comportarci come comuni corrieri, e c'è un orario da rispettare.» «Lo so. Non ti disturberei, ma è urgente che io possa arrivare al re, e come tu hai ben detto ci arriverai molto prima di me. Il messaggio è questo: hai incontrato per la strada un vecchio il quale ti ha dato un pegno e ti
ha detto che sta andando a Camelot a vedere il re. Ma è in grado di avanzare solo lentamente, perciò se il re desidera vederlo deve venire a incontrarlo per la strada. Digli da dove sto venendo e digli che ti ho pagato con il compenso del traghettatore. Ripeti, per favore.» Questi uomini sono esperti a ricordare i messaggi parola per parola. Spesso i messaggi vengono trasmessi da persone che non sanno leggere e scrivere. Senza riflettere, il giovane cominciò a ubbidirmi: «Ho incontrato per la strada un vecchio, il quale mi ha dato un pegno e mi ha detto che sta andando a Camelot a vedere il re. Ma è in grado di avanzare solo lentamente, perciò se il re desidera vederlo deve... ehi, ma che specie di messaggio è questo? Sei uscito di senno? Come ti esprimi tu, sembra che stai mandando a chiamare il re, proprio così». Sorrisi. «Suppongo che dia quest'impressione. Forse potrei formularlo meglio, se in questo modo tu fossi più a tuo agio nel trasmetterlo. Comunque, ti consiglio di trasmetterlo al re, a quattr'occhi.» «Lo credo bene che sarà meglio che glielo comunichi a quattr'occhi! Stai a sentire, io non so chi sei, signore... e immagino che devi essere qualcuno malgrado, insomma, malgrado tu non ne abbia l'aspetto, ma per il dio dei viandanti, sarà bene che il pegno sia sostanzioso, e che anche il compenso lo sia, se mi tocca comunicare una convocazione al re Artù, per quanto a quattr'occhi possa farlo.» «Ah, lo è.» Avevo avvolto il mio fermaglio col Drago in una tela, e avevo legato l'involto facendo un pacchetto. Glielo porsi, insieme alla seconda delle monete d'oro con cui mi avevano suggellato le palpebre nella tomba. Lui guardò con occhi spalancati la moneta d'oro, poi me, poi si rigirò il pacchetto tra le dita, sbirciandolo. Disse, dubbioso: «Che c'è dentro?». «Solo il pegno di cui ti ho parlato. E permettimi di ripetertelo, è importante e è urgente che tu lo consegni al re, a quattr'occhi. Se con lui c'è Bedwyr, non importa, ma nessun altro. Capisci?» «Ssìì, ma...» Con un movimento delle ginocchia e del polso fece girare il roano allontanandolo da me, e con un altro movimento, troppo rapido perché io potessi impedirlo, aprì il pacchetto. Il mio fermaglio, con il Drago reale scintillante in campo oro, gli cadde nella mano. «Questo? Questo è il monogramma reale.» «Sì.» Lui fece, bruscamente: «Chi sei?». «Sono il cugino del re. Perciò non aver paura di trasmettere il messaggio.»
«Il re non ha cugini, a parte Hoel della Britannia minore, e Hoel non può fregiarsi del Drago. Solo il...» La voce gli morì. Vidi il sangue defluirgli dal viso. «Il re saprà chi sono» dissi. «Non credere che io ti biasimi perché dubiti di me, o perché hai aperto l'involto. Il re è servito bene. Glielo dirò.» «Sei Merlino.» La sua voce non più di un sussurro. Dovette passarsi la lingua sulle labbra e provare due volte prima di poter emettere un suono. «Sì. Adesso capisci perché devo vedere il re da solo. Anche per lui sarà un'emozione violenta. Non aver paura di me.» «Ma... Merlino è morto ed è stato sepolto.» Adesso il giovane era pallidissimo. Le redini gli scivolarono tra le dita e il roano, avendo deciso di approfittare di quella tregua, abbassò la testa e cominciò a brucare l'erba. Dissi in fretta: «Non far cadere il fermaglio. Stai a sentire, ragazzo, non sono un fantasma. Non tutte le tombe sono la porta della morte». L'avevo detto per rassicurarlo, ma lui diventò, se possibile, ancora più pallido. «Mio signore, noi pensavamo... Tutti sapevano...» «Si era creduto che io fossi morto, sì.» Parlai svelto, con un tono volutamente realistico. «Ma è accaduto semplicemente che fossi colpito da un male simile alla morte, e poi sono guarito. Questo è tutto. Adesso sto bene, e rientrerò al servizio del re... ma in segreto. Nessuno deve saperlo finché il re in persona non ne ha avuto notizia, e parlato con me. Non l'avrei detto a nessuno all'infuori che a uno dei corrieri del re. Capisci?» Il discorso produsse l'effetto, che avevo sperato, di ridargli la sicurezza di sé. Il colore tornò ad affluirgli alle guance, ed egli raddrizzò le spalle. «Sì, mio signore. Il re sarà... molto felice, mio signore. Quando tu sei morto... cioè, quando tu... be', quando è accaduto, è rimasto chiuso da solo per tre giorni, e non voleva parlare con nessuno, neppure con il principe Bedwyr. Almeno, questo dicono.» La sua voce era tornata normale, mentre parlava, riscaldandosi, lo vedevo, di piacevole entusiasmo all'idea della buona notizia che avrebbe dovuto portare al re. L'oro era ciò che contava meno. Mentre finiva di dirmi quanto Merlino fosse stato pianto e rimpianto «in lungo e in largo per tutto il regno, te lo assicuro, signore», fece sollevare il muso del roano dall'erba coperta di brina, facendolo saltellare. Aveva di nuovo il colorito acceso e un'espressione eccitata e impaziente. «Allora mi metto in cammino.» «Quando pensi di arrivare a Camelot?» «Domani a mezzogiorno, se la fortuna mi aiuta e se trovo un buon cambio di cavalli. Più probabile che arrivi domani all'ora in cui si accendono i
lumi. Non potresti dare un paio d'ali al mio cavallo, già che ci sei?» Risi. «Dovrei rimettermi ancora un po' in salute prima di riuscirci. Ancora un momento, prima che tu vada... C'è un altro messaggio da comunicare direttamente al re. Forse già lo stai recando? Ad Aquae Sulis non hai per caso avuto notizia della regina delle Orcadi? Ho saputo che era diretta a sud, su una nave, che andava a Ynys Witrin, certamente per recarsi a corte.» «Sì, è vero. È arrivata. È sbarcata, voglio dire, e adesso è in viaggio verso Camelot. C'era chi diceva che non avrebbe ubbidito alla convocazione...» «Convocazione? Intendi dire che il Sommo re l'ha mandata a chiamare?» «Sì, signore. Lo sanno tutti, perciò non sto parlando a sproposito. Anzi per dire la verità, ci ho vinto una piccola scommessa: loro dicevano che non sarebbe venuta, neppure con il salvacondotto per i ragazzi. Io dicevo che sarebbe venuta. Con Tydwal che se ne sta arroccato nell'altro castello di Lot, ed è un fedelissimo di Artù, dove potrebbe cercare rifugio se il Sommo re decidesse di stanarla?» «Certo, dove?» dissi io con tono assente, quasi inespressivo. Questo non l'avevo previsto, e non riuscivo a capirlo. «Perdonami se ti trattengo, ma sono rimasto a lungo senza notizie. Puoi dirmi perché il Sommo re l'abbia fatta venire... e a quanto pare minacciandola?» Aprì la bocca, la richiuse, poi, avendo evidentemente stabilito che rispondere al cugino del re, già suo consigliere capo, non significava infrangere l'obbligo della segretezza, annuì. «A quanto capisco è per una faccenda che riguarda i ragazzi, signore. Uno, in particolare, il maggiore dei cinque. La regina doveva portarli tutti a Camelot.» Il maggiore dei cinque. Perciò Nimuë gli aveva trovato Mordred... mentre io non ci ero riuscito. Nimuë che era andata a nord in «missione per il re». Ringraziai il giovane e indietreggiai, facendo spostare il cavallo che gli ostruiva la strada. «E adesso vai, Bellerofonte, più rapido che puoi, e stai attento ai draghi.» «Ho già tutti i draghi che mi servono, grazie.» Riprese le briglie e alzò una mano per salutarmi. «Ma io non mi chiamo così.» «Come ti chiami, allora?» «Perseo» disse lui e parve sconcertato quando mi misi a ridere. Poi rise anche lui con me, agitò la frusta e mi oltrepassò mettendo il roano al galoppo.
Sei Non avevo più bisogno di affrettarmi. Era probabile che Morgause arrivasse da Artù prima del corriere, ma quanto a questo non potevo far niente. Benché ancora mi turbasse sapere che aveva con sé gli oggetti del potere, la più grave delle mie preoccupazioni era sparita: Artù era preparato; essa era lì per ordine di lui e aveva con sé le sue garanzie. Era anche probabile che io personalmente sarei stato in grado di vederlo e di parlare con lui prima che si occupasse di Morgause e di Mordred. Non avevo alcun dubbio che appena visto il mio pegno e udito il messaggio, Artù, si sarebbe messo in strada per trovarmi. Incontrare il corriere era stato un ottimo colpo di fortuna; neppure da giovane sarei stato capace di cavalcare alla velocità di uno di quegli uomini. E non era urgente, ormai, che mi mettessi in contatto con Nimuë. Di questo ero, oscuramente, contento. Ci sono prove davanti alle quali uno si ritrae, e verità che preferisce non udire. Credo che se avessi potuto nasconderle la mia esistenza l'avrei fatto. Volevo ricordare le sue parole d'amore e di dolore per la mia scomparsa, non vedere alla luce cruda del giorno la costernazione sul suo viso per la mia ricomparsa. Il resto di quel giorno avanzai lentamente e, un bel po' prima del tramonto dopo un pomeriggio gelido e silenzioso, giunsi davanti a una locanda lungo la strada, e qui mi fermai. Non c'erano altri viaggiatori, del che fui lieto. Badai a che il mio cavallo fosse ben sistemato e nutrito, poi consumai la buona cena servita dalla moglie del padrone e me ne andai presto a letto, sprofondando in un sonno senza sogni. Per tutto il giorno seguente rimasi in casa, contento di riposarmi. Poca gente passò dalla strada: un mandriano con le sue bestie, un contadino in compagnia della moglie, di ritorno a casa dal mercato, un corriere diretto a nordovest. Ma di nuovo, al calar della notte, rimasi l'unico ospite, con il fuoco tutto per me. Dopo cena, quando il padrone della locanda e sua moglie si ritirarono nella loro camera, venni lasciato solo nella piccola stanza col soffitto a travi, con il mio pagliericcio tirato accanto al fuoco e accanto una catasta di ciocchi per mantenere caldo l'ambiente. Quella notte non cercai di prendere sonno. Appena la locanda sprofondò nel silenzio, tirai una sedia accanto al focolare e alimentai il fuoco. La padrona di casa aveva lasciato una pentola d'acqua a bollire lentamente sull'angolo del focolare, perciò mescolai l'acqua calda con quanto restava del
vino della cena e lo bevvi, mentre intorno a me prendevano il sopravvento i piccoli rumori della notte: i ceppi che si assestavano nel fuoco, il crepitio delle fiamme, la corsa precipitosa dei topi nella paglia del tetto, il verso, lontano, di un gufo a caccia nella notte gelida. Poi misi da parte il vino e chiusi gli occhi. Non ho idea di quanto tempo rimanessi così, né di quale forma prendessero le preghiere che coprirono di sudore la mia pelle e fecero turbinare i rumori della notte, finché indietreggiarono in un silenzio illimitato e doloroso. Poi, alla fine, la luce delle fiamme contro i bulbi oculari, e attraverso la luce le tenebre, e attraverso le tenebre la luce... *
*
*
Era molto tempo che non vedevo la grande sala di Camelot. Adesso era illuminata in modo da vincere l'oscurità di una serata autunnale. La luce delle candele, distribuite con prodigalità, scintillava sulle gaie vesti delle donne, sui gioielli e le armi degli uomini. La cena era appena terminata. Ginevra era seduta al suo posto, al centro del tavolo alto, bella sul suo seggio a schienale d'oro. Bedwyr era alla sua sinistra. Apparivano più felici, pensai, allegri e sorridenti. Alla destra della regina, il grande scranno del re era vuoto. Ma proprio mentre rabbrividivo non vedendo colui che era tutto ciò che desideravo vedere, lo vidi. Stava attraversando la sala, soffermandosi qua e là a parlare con qualcuno al passaggio. Era calmo e sorridente, e un paio di volte li fece ridere. Un paggio lo precedeva; un messaggio, perciò, doveva esser stato inviato alla tavola alta e il re andava a rispondere di persona. Arrivò alla grande porta e, con una parola alle sentinelle, congedò il ragazzo e uscì. Lo aspettavano di fuori due soldati, due uomini del corpo di guardia, e, in mezzo a loro, uno che avevo già visto: il servitore di camera di Morgause. Questi si fece avanti non appena comparve il re, poi si fermò, in apparenza sconcertato. Era evidente che non si era aspettato di vedere Artù in persona. Poi, dominando la sorpresa, s'inginocchiò. Cominciò a parlare, con quella strana pronuncia del nord, ma Artù lo interruppe. «Dove sono?» «Diamine, alla porta della fortezza, mio signore. Madonna tua sorella mi ha mandato a chiederti udienza per stasera, lì nella sala.» «Secondo i miei ordini avrebbe dovuto venire domani nella Sala rotonda. Non ha ricevuto il messaggio?»
«Certo, mio signore. Ma viene da lontano, è stanca e piuttosto agitata a causa della tua convocazione. Lei e i suoi figli non potranno prendere riposo finché essa non conoscerà la tua volontà. Li ha portati, tutti, con sé stanotte, e chiede alla tua clemenza che tu e la regina li riceviate...» «Li riceverò, sì, ma non nella sala. Alla porta. Torna da lei e dille di aspettare là.» «Ma, mio signore...» Le proteste dell'uomo si spensero contro il silenzio del re. Allora si rialzò con una specie di dignità, s'inchinò ad Artù, poi indietreggiò nell'oscurità in mezzo alle due guardie. Più lentamente, Artù li seguì. La notte era asciutta e silenziosa, e la brina rivestiva di incrostazioni gli alberelli ben potati che delimitavano i terrapieni. La tunica del re li sfiorava passando. Camminava lentamente, Artù, a testa bassa, accigliato come non si era concesso di essere nella sala piena di uomini e donne. Non c'era nessuno in giro, tranne le guardie. Un sergente gli fece il saluto e gli chiese qualche cosa. Lui scosse la testa. Così, senza essere scortato né accompagnato, attraversò da solo i giardini del palazzo, oltrepassò il muro della cappella e scese i gradini accanto alla fontana silenziosa. Poi varcò un'altra porta, dove le sentinelle gli fecero il saluto, e proseguì sulla strada che attraverso la fortezza conduceva alla porta sudovest. Seduto davanti alle fiamme nella lontana taverna, mentre la visione affondava artigli di sofferenza nei miei occhi, io gli gridai un avvertimento, nel modo più chiaro che mi fu possibile: Artù. Artù. Questo è il fato che originasti quella notte a Luguvallium. Questa è la donna che prese il tuo seme per fare il tuo nemico. Distruggili. Distruggili adesso. Sono loro il tuo fato. Essa ha in mano gli oggetti del potere e io ho paura. Distruggili adesso. Sono in tua mano. Si era fermato a metà del cammino. Alzò la testa come se potesse sentire qualche cosa nel cielo notturno. Una lanterna appesa a un palo gli proiettò la sua luce sul viso. Un viso che quasi non conoscevo. Era torvo, crudele, freddo, il viso di un giudice, o di un boia. Rimase completamente immobile per qualche minuto, poi si mosse, repentino come un cavallo che ha sentito lo sprone, e si avviò a lunghi passi verso la porta principale della fortezza. Erano lì, tutto il gruppo. Si erano cambiati e agghindati, e avevano cavalli freschi e riccamente bardati. La luce delle torce rivelava lo scintillio di nappe d'oro, i finimenti verdi e scarlatti. Morgause era vestita di bianco, con una tunica ornata d'argento e piccole perle e un lungo mantello scarlat-
to foderato di pelliccia bianca. I quattro ragazzi più giovani erano un po' indietro, con un paio di servi, ma Mordred era accanto alla madre, su un bel cavallo nero, le briglie adorne di campanellini d'argento. Si guardava intorno con curiosità. Non lo sa, pensai; lei non gliel'ha detto. Le sopracciglia nere, a forma di ala, erano lisce; la bocca, una bocca immobile, incurvata come quella di Morgause, conservava i suoi segreti. Gli occhi erano quelli di Artù, e miei. Morgause era in sella alla sua giumenta, tranquilla ed eretta, in attesa. Il cappuccio le era ricaduto indietro, e la luce la colpiva in viso. Un viso inespressivo e piuttosto pallido; ma sotto le lunghe ciglia gli occhi verdi scintillavano, e notai i denti da gatta affondare nel labbro inferiore. Sapevo che, sotto quell'apparenza calma, Morgause era sconcertata, anche impaurita. Aveva ignorato il messaggero di Artù e deliberatamente portato il suo piccolo seguito a Camelot a un'ora così tarda, quando tutti dovevano essere radunati nella grande sala. Doveva aver contato di portare la sua regale nidiata ai gradini del sommo trono, e forse anche di presentare pubblicamente il figlio di Artù, in modo da forzare la mano al re in presenza della regina, di tutti i nobili lì raccolti e delle loro dame. Queste, poteva starne certa, avrebbero di sicuro appoggiato una regina sola con una nidiata di innocenti. Invece era stata fermata alla porta e adesso, contro ogni precedente, il re era uscito da solo a vederla, senz'altri testimoni che i suoi soldati. Adesso egli scendeva arrivando alla luce delle torce. Si fermò a pochi passi di distanza, in piena luce, e disse alle guardie: «Lasciateli venire». Mordred si lasciò scivolare di sella, e tese una mano alla madre per aiutarla a smontare. I servi presero i cavalli e si ritirarono fino al corpo di guardia. Poi Morgause, con un figlio a ciascun fianco e seguita dai tre più piccoli dietro, venne avanti a incontrare il re. Era la prima volta che si vedevano dopo la notte di Luguvallium, quando essa aveva mandato la sua ancella per condurlo al suo letto. Lui era allora un adolescente, un principe dopo la sua prima battaglia, allegro, giovane e pieno di fuoco; Morgause aveva vent'anni, era subdola ed esperta, e aveva saputo prendere il ragazzo nella rete del sesso e della magia. Adesso, malgrado tutte le gravidanze, le era rimasto qualcosa di quel che aveva attirato gli sguardi degli uomini, facendoli impazzire per lei. Ma adesso non aveva di fronte a sé un ragazzo immaturo e ardente; quello era un uomo nel pieno rigoglio della sua forza, dotato della capacità di giudizio che fa di un uomo un re e del potere necessario a metterlo in atto, e oltre a ciò con qualcosa di
formidabile, di pericoloso, come un fuoco che cova sotto la cenere, cui basta un soffio d'aria per divampare. Morgause smontò di sella, sul terreno gelato, davanti a lui, senza eseguire la profonda riverenza che ci si sarebbe potuti aspettare da una supplice bisognosa del perdono e della grazia del re; semplicemente si inginocchiò. Protese la mano destra e costrinse il giovane Mordred a fare lo stesso. Alla sua sinistra Galvano rimase in piedi, come gli altri figli, a spostare lo sguardo interrogativo da sua madre al re. Lei li lasciò così; erano figli di Lot, in modo manifesto, con l'ossatura robusta e il colorito acceso, e avevano la pelle chiara e i capelli biondi della madre. Qualsiasi cosa Lot avesse fatto in passato, Artù non ne avrebbe fatto ricadere la colpa sui suoi figli. Ma l'altro, il bambino oggetto in passato di sostituzioni, con quella faccia sottile e gli occhi neri che si ripetevano in tutta la stirpe reale discesa da Macsen... lei lo costrinse a inginocchiarsi e il ragazzo rimase inginocchiato, ma con la testa eretta e quegli occhi neri che dardeggiavano intorno, lanciando sguardi, si sarebbe detto, dappertutto nello stesso tempo. Morgause stava parlando con quella voce lieve, aggraziata che non era cambiata. Non riuscii ad afferrare ciò che diceva. Artù era immobile. Dubito che udisse una sola parola. Quasi non le aveva rivolto uno sguardo; i suoi occhi non si staccavano dal figlio. La voce di lei adesso aveva una sfumatura di insistenza. Captai la parola «fratello» e poi «figlio». Artù ascoltava, il viso inespressivo, ma io percepivo le parole volare come frecce tra loro. Poi egli fece un passo in avanti e tese una mano. Lei vi depose la sua e il re la fece alzare. Vidi i ragazzi, e gli uomini in attesa alla porta rilassarsi impercettibilmente. Le mani dei servi di Morgause non abbandonarono l'elsa della spada - volutamente non si erano messi accanto a lei e al re - ma l'effetto fu lo stesso. I due figli maggiori, Galvano e Mordred, si scambiarono un'occhiata mentre la madre si alzava, e vidi Mordred sorridere. Adesso si aspettavano che il re le desse il bacio della pace e dell'amicizia. Ma lui non glielo diede. La fece alzare e disse qualche cosa, poi, girandosi, la portò un po' in disparte. Vidi Mordred girare la testa come un cane da caccia. Poi il re parlò ai ragazzi: «Siate benvenuti qui. Adesso tornate al corpo di guardia e aspettate». I ragazzi se ne andarono, Mordred voltandosi ancora a guardare la madre. Per un attimo vidi il terrore dipinto sul viso di lei, poi vi calò di nuovo la maschera della calma. Doveva esser stato trasmesso qualche ordine,
perché adesso il servitore di camera si fece avanti, in gran fretta, dal corpo di guardia, recando tra le mani la cassetta che avevano portato da Segontium. Gli oggetti del potere... incredibile, Morgause li aveva portati per il re. Incredibile, ma sperava di arrivare a conquistare il favore di lui con il tesoro di Macsen... L'uomo si inginocchiò ai piedi del re. Aprì la cassetta. La luce risplendette sul tesoro che vi era contenuto. Vidi tutto, chiaramente come se fosse stato ai miei piedi. Argento, solo argento; coppe, bracciali e una collana fatta di piastre anch'esse d'argento, disegnate a linee sciolte e intrecciate mediante le quali gli orafi del nord evocano le loro arti magiche. Non v'era traccia degli emblemi del potere di Macsen, né il graal tempestato di smeraldi, né la lancia, né il vassoio tempestato di zaffiri e di ametiste. Artù vi gettò appena uno sguardo. Mentre il servitore se la svignava cercando rifugio nel corpo di guardia, il re si volse di nuovo a Morgause, lasciando i doni sul terreno gelato. E come aveva ignorato i doni, così ignorò tutto ciò che, fino a quel momento, lei era andata dicendo. Udii la voce del re con assoluta chiarezza. «Ti ho mandata a chiamare, Morgause, per motivi che forse non ti sono chiari. Sei stata saggia ubbidendomi. Uno dei miei motivi riguarda i tuoi figli: devi averlo indovinato, ma non occorre che tu tema per loro. Ti ho promesso che a nessuno di loro verrà fatto del male, e manterrò la promessa. Ma per quanto riguarda te, nessuna promessa del genere è stata fatta. Hai fatto bene a inginocchiarti e chiedere clemenza. E quale clemenza puoi aspettarti? Hai ucciso Merlino. Fosti tu a dargli il veleno che lo ha portato infine alla morte.» Questo lei non se l'era aspettato. La vidi ansimare. Le bianche mani si mossero nervosamente, come se lei volesse portarle alla gola. Invece le tenne ferme. «Chi ti ha raccontato questa menzogna?» «Non è una menzogna. Sul suo letto di morte, egli stesso ti ha accusato.» «È stato sempre mio nemico!» gridò lei. «E chi può dire che avesse torto? Tu sai ciò che hai fatto. Vuoi forse negarlo?» «Certo che lo nego! Merlino mi ha odiato, sempre! E tu sai perché. Voleva che nessuno, tranne lui stesso, avesse potere su di te. Abbiamo peccato, sì, tu ed io, ma abbiamo peccato nell'innocenza...» «Se hai un po' di saggezza, non ne parlare.» La sua voce distaccata e gelida. «Sai quanto me quali peccati siano stati commessi, e perché. Se speri nella clemenza, adesso, e per il futuro, non ne parlare.»
Lei chinò la testa. Teneva le dita intrecciate e tutto il suo atteggiamento era di umiltà. Quando parlò, la voce era sommessa. «Hai ragione, mio signore. Non avrei dovuto parlare così. Non ti opprimerò con i ricordi. Ti ho ubbidito e ti ho portato tuo figlio, e lascio che siano il tuo cuore e la tua coscienza a trattarlo giustamente. Non negherai che lui è innocente.» Artù non disse niente. Lei ci riprovò, con appena il ricordo dello sguardo obliquo e scintillante di un tempo. «Quanto a me, ammetto che mi si potrebbe accusare di follia. Io vengo a te, Artù, come una sorella che...» «Ho due sorelle» fece lui freddamente. «L'altra ha appena tentato di tradirmi. Non mi parlare di sorelle.» Lei rialzò la testa. La sottile maschera della supplice le era caduta. Lo affrontava, una regina che affronta il suo re. «Allora che cosa posso dire, salvo il fatto che vengo a te come la madre di tuo figlio?» «Sei venuta da me come l'assassina dell'uomo che era per me più del mio stesso padre. E come nient'altro. Per me non sei niente di più e niente di meno. Per questo ti ho mandato a chiamare, e per questo ti giudicherò.» «Mi avrebbe ucciso. Avrebbe voluto farti uccidere il tuo stesso figlio.» «Non è vero» disse il re. «Egli mi impedì di uccidere tutt'e due voi. Sì, vedo che la cosa ti scuote. Quando seppi della nascita del bambino, il mio primo pensiero fu di mandare qualcuno a ucciderlo. Ma se ricordi, Lot arrivò prima di me... E Merlino, proprio lui, avrebbe salvato il bambino, perché era mio.» Per la prima volta la passione si rivelò, da quell'incrinatura nella sua calma. «Ma adesso lui non è qui, Morgause. Non ti proteggerà di nuovo. Perché credi che abbia rifiutato di riceverti nella grande sala stasera, in presenza della regina e dei cavalieri? Era quello che avevi sperato, non è così? Tu, con il tuo bel viso e la voce aggraziata, con i tuoi quattro bei ragazzi figli di Lot, e con questo, con quegli occhi neri e quella sua così evidente parentela reale...» «Lui non ti ha fatto nessun male!» gridò Morgause. «No, non mi ha fatto nessun male. Adesso ascoltami. I quattro figli che hai avuto da Lot io te li toglierò, e li farò educare qui a Camelot. Non li lascerò affidati a te, per farli allevare come traditori, per far loro odiare il loro re. Quanto a Mordred, non mi ha fatto alcun torto, benché io gli abbia fatto un gravissimo torto, e anche tu. Non aggiungerò peccato a peccato. Sono stato messo in guardia contro di lui, ma un uomo deve fare ciò che è giusto, anche a suo rischio. E chi può interpretare con precisione gli dei? Anche lui lo lascerai da me.»
«Per fartelo assassinare appena me ne sarò andata?» «Se anche lo facessi, che altro puoi fare se non consentirmelo?» «Sei cambiato, fratello» fece lei sprezzante. Per la prima volta qualcosa che assomigliava a un sorriso sfiorò le labbra di Artù. «Puoi ben dirlo. Se ciò può esserti adesso di conforto, non lo ucciderò. Ma tu Morgause, tu che hai ucciso Merlino, che era l'uomo migliore di tutto questo regno...» Fu interrotto. Dal corpo di guardia arrivò un rumore di zoccoli, il rapido «chi va là» delle sentinelle, una parola pronunciata con voce ansimante, poi il cigolio e il fragore delle porte che venivano aperte. Un cavallo coperto di schiuma passò dalla porta con gran fracasso e venne a fermarsi accanto al re. Abbassò la testa fino alle ginocchia e le zampe gli tremavano. Il corriere si lasciò scivolare dalla sella, si afferrò al sottopancia per impedire alle gambe di piegarglisi sotto, poi cautamente mise a terra un ginocchio e fece il saluto al re. Non era certo un'interruzione opportuna. Artù si girò, le sopracciglia aggrottate e l'ira evidente sul viso. «Be'?» chiese. La sua voce era calma. Sapeva che nessun corriere sarebbe arrivato fino a lui in un momento simile, e in quello stato, a meno che non vi fosse costretto dalla sua missione. «Aspetta, mi ricordo di te. Sei Perseo, non è così? Quali notizie puoi portarmi da Glevum, per cui valga la pena di uccidere un buon cavallo e interrompere i miei colloqui privati?» «Mio signore...» l'uomo si schiarì la voce, lanciando un'occhiata a Morgause. «Mio signore è una notizia urgente, molto urgente, che devo trasmettere in privato. Perdonami.» Questo era in parte per Morgause, ferma immobile come una statua, con le mani alla gola. Qualche residuo di dimenticata magia, ancora indugiante in lei, forse l'aveva preavvertita sulla natura della notizia. Il re considerò l'uomo in silenzio per un momento, poi annuì. Pronunciò un ordine ad alta voce, e due delle guardie si fecero avanti, fermandosi ai due lati di Morgause. Poi si voltò, fece un cenno al corriere, e tornò indietro sulla strada seguito da lui. Ai piedi delle scale che portavano al palazzo si fermò e si voltò. «Il tuo messaggio?» Perseo gli porse l'involto che io gli avevo dato. «Per la strada ho incontrato un vecchio il quale mi ha dato questo pegno, e mi ha detto che sta venendo a Camelot a vedere il re. Ma è in grado di avanzare solo lentamente, perciò se il re desidera vederlo deve venire da lui. Sta percorrendo
la strada che passa sulle montagne tra Aquae Sulis e Camelot. Mi ha detto...» «Ti ha dato questo?» Il fermaglio era nella mano del re. Il Drago palpitava e scintillava. Artù distolse lo sguardo dall'oggetto, il viso pallidissimo. «Sì, mio signore.» Il messaggio interrotto fu ripreso in fretta. «Dovevo dirti che mi ha pagato il servizio con il compenso del traghettatore.» Tese una mano con la moneta d'oro sul palmo. Il re la prese come in sogno, vi gettò un'occhiata e gliela restituì. Nell'altra mano girava e rigirava il fermaglio, sicché il Drago mandava bagliori alla luce della torcia. «Lo sai che cos'è?» «Sì, mio signore. È il Drago. Quando l'ho visto gli ho chiesto con quale diritto lo portasse, ma poi l'ho riconosciuto. Mio signore, sì...» Il re, il viso adesso assolutamente esangue, lo fissava. L'uomo si passò la lingua sulle labbra, e in qualche modo riuscì a formulare il resto del messaggio. «Quando mi ha fermato, ieri, era vicino alla tredicesima pietra miliare. Non... non aveva un gran bell'aspetto, mio signore. Se gli vai incontro, immagino che non sarà arrivato oltre la prima locanda. È un po' indietro rispetto alla strada, sul lato sud, e l'insegna è un cespuglio di agrifoglio.» «Un cespuglio di agrifoglio.» Artù ripeté le parole con voce assolutamente inespressiva, come uno che parli nel sonno. Poi d'un tratto, quello stato catalettico s'infranse. Il sangue gli rifluì in viso. Lanciò in aria il fermaglio, che mandò bagliori mentre turbinava, e lo riafferrò. Rise forte. «Avrei dovuto saperlo! Avrei dovuto saperlo... Questo, comunque, è vero!» «Mi ha detto» proseguì Perseo «che non era un fantasma. E che non tutte le tombe sono la porta della morte.» «Anche fosse il suo fantasma» disse Artù. «Anche fosse il suo fantasma...» Girò su se stesso e gridò qualcosa. Degli uomini vennero in corsa. Lui lanciò loro degli ordini. «Il mio stallone grigio. Il mio mantello e la spada. Vi do quattro minuti.» Porse una mano al corriere. «Tu rimani qui a Camelot fino al mio ritorno. Ti sei comportato più che bene, Perseo. Me ne ricorderò. Adesso va' a riposarti... Ah, Ulfin. Dì a Bedwyr di portare venti dei cavalieri e di seguirmi. Quest'uomo dirà loro la strada. Dategli da mangiare, accudite al suo cavallo e tenetelo qui fino al mio ritorno.» «E madonna?» chiese qualcuno. «Chi?» Era evidente che il re aveva completamente dimenticato Morgause. Disse, indifferente: «Trattenetela finché avrò tempo per lei, e non lasciatela parlare con nessuno. Nessuno, mi capite?».
Venne portato lo stallone, con due palafrenieri che lo tenevano forte dal morso. Qualcuno arrivò di corsa con il mantello e la spada. Le porte si spalancarono con fragore. Artù era in sella. Lo stallone grigio nitrì e si sollevò nell'aria illuminata dalle torce, poi, sentendo gli sproni, balzò in avanti e uscì dalla porta con la velocità di una lancia scagliata con forza. Discese la ripida, tortuosa strada rialzata come fosse un rettilineo in piano alla luce del giorno. Era così che il ragazzo Artù aveva attraversato un tempo a cavallo la Foresta Selvaggia, diretto allo stesso appuntamento... Morgause, la cui bianca veste virginea era stata schizzata dal fango sollevato dagli zoccoli, rimase rigidamente immobile in mezzo alle guardie, mentre gli uomini d'armi le passavano accanto con fragore di ferro e di cavalli. I ragazzi erano in mezzo ai soldati, e Mordred con loro. Scomparvero verso il palazzo, senza voltarsi a guardare. Per la prima volta da quando la conoscevo vidi in lei nient'altro che una donna spaventata, che faceva il segno contro gli incantesimi. Sette La mattina seguente il padrone della locanda e sua moglie, allarmati e sgomenti, mi trovarono riverso sul focolare ormai quasi freddo, apparentemente svenuto. Mi misero a letto, disposero intorno a me mattoni riscaldati, ammucchiarono su di me le coperte e riaccesero il fuoco. Quando, a suo tempo, mi svegliai, quelle brave persone mi accudirono con la premura ansiosa che avrebbero dedicato a un padre. Ma non ero poi molto mal ridotto. Gli attimi di visione si scontano sempre; prima con la sofferenza che dà la visione stessa e dopo nella lunga catalessi di un sonno di sfinimento. Avendo calcolato le distanze, mi concessi di riposare per il resto della giornata, poi la mattina dopo, trascurando le proteste dei padroni della locanda, mi feci sellare il cavallo. Si tranquillizzarono quando dissi che non sarei andato lontano, ma che avrei percorso solo un miglio all'incirca di strada, fino al punto dove era probabile che incontrassi un amico. Dissipai ulteriormente i loro timori chiedendo loro di preparare un pranzo «per me e per il mio amico». «Perché a lui piace mangiare bene» dissi «e la cucina della padrona qui è saporita, lo giuro, quanto quella della corte del re a Camelot.» A questa battuta la moglie del padrone della locanda rise e tutta inorgoglita cominciò a parlare di capponi, sicché le lasciai del denaro per pagare il pranzo e me ne andai.
In seguito al periodo rigido di gelo, il tempo si era fatto più mite. Il sole era alto nel cielo e dava un po' di calore. L'aria era abbastanza dolce, ma dappertutto rimaneva ancora il presagio dell'inverno in arrivo: negli alberi spogli delle alture, nelle cesene affaccendate tra le bacche dell'agrifoglio, nei tordi alarossa che si accalcavano sui cespugli, nelle nocciole mature nei boschetti di noccioli. Le felci stavano diventando dorate e c'erano ancora fiori sul ginestrone. Dopo il lungo riposo, il mio cavallo era fresco e impaziente, e percorremmo il primo tratto di strada a un piccolo galoppo veloce. Non incontrammo nessuno. Ben presto la strada abbandonò la cresta di quelle colline calcaree e deviò scendendo sul fianco di una valle. In tutta la parte più bassa della valle le pendici erano coperte di alberi dai fiammeggianti colori autunnali: faggi, querce e castagni, betulle col loro giallo dorato, e dappertutto le guglie scure dei pini e il verde lucido dell'agrifoglio. Attraverso gli alberi scorsi lo scintillio dell'acqua che scorreva. In basso, accanto al fiume, mi aveva detto il padrone della locanda, la strada si biforcava. La strada vera e propria attraversava il fiume, qui con un guado poco profondo, lastricato, e oltre il fiume un altro viottolo conduceva a destra, attraverso la foresta. Questo era un sentiero poco usato, e abbastanza accidentato, una scorciatoia che andava a ricongiungersi con la strada coperta di breccia, qualche miglio più in là verso est. Quello era il luogo dove mi stavo dirigendo. Da un miglio buono non vedevo abitazioni di nessun genere, e per il nostro incontro il guado era un luogo appartato quanto una camera da letto a mezzanotte. Non osai proseguire incontro a lui. Quando Artù si spostava a cavallo, andava a tutta velocità, e prendeva tutte le scorciatoie possibili. Non conoscendo il sentiero attraverso la foresta, non potevo essere certo che sarebbe passato da quella parte, e quindi avrei potuto mancarlo, qualunque delle due strade seguissi. Era un buon posto per aspettare. Giù nella conca il sole era caldo e l'aria mite ma fresca. Profumava di pini. Due ghiandaie bisticciavano e si azzuffavano in un boschetto di agrifogli, poi sorvolarono la strada, tenendosi basse, un bagliore azzurro nelle ali. In lontananza, nei boschi a sudest, udii il lungo rumore stridente che indicava un picchio al lavoro. Il fiume mormorava dall'altra parte della strada, scorrendo dolcemente, appena più profondo di un palmo, sui blocchetti di granito messi dai romani per lastricare il guado. Tolsi la sella al cavallo e gli allentai il morso, poi sciolsi un'estremità della briglia, la legai a un ramo di nocciolo e lo lasciai brucare tranquilla-
mente. C'era un pino caduto a pochi passi dalla riva del fiume, e vi batteva il sole. Appoggiai la sella accanto al tronco, poi mi sedetti lì vicino ad aspettare. Avevo calcolato bene il tempo. Ero lì sì e no da un'ora quando udii il rumore degli zoccoli che si avvicinavano sulla strada coperta di breccia. Dunque aveva seguito la strada principale, non la scorciatoia attraverso il bosco. Non si affrettava, ma pareva cavalcare comodamente, certo per far riposare il suo cavallo. E non era solo. Bedwyr, che lo seguiva da presso, forse aveva avuto il permesso di accompagnarlo. Uscii sulla strada e mi fermai ad aspettare il re. Tre uomini a cavallo arrivarono al trotto attraverso la foresta, poi discesero il dolce pendio che conduceva dall'altro lato del guado. Erano tutti stranieri; inoltre erano di un tipo d'uomo ormai abbastanza raro. In tempi passati le strade, specie nelle regioni più disabitate nel nord e dell'ovest, erano piene di pericoli per il viandante solitario, ma Ambrogio, e Artù dopo di lui, avevano ripulito le principali vie di comunicazione dei fuorilegge e degli sbandati. Non completamente, a quanto pareva. Questi tre erano stati dei soldati; indossavano ancora la corazza di cuoio che ne indicava la professione e due di loro sfoggiavano elmi ammaccati. Il più giovane dei tre, più ricercato degli altri nell'abbigliamento, si era messo dietro un orecchio un ramoscello di bacche scarlatte. Tutti e tre avevano la barba lunga ed erano armati di pugnale e gladio. Il più vecchio, con striature grigie nella folta barba castana, aveva una mazza dall'aspetto minaccioso legata alla sella. I loro cavalli erano piccole bestie robuste di montagna, rispettivamente di color isabella carico, bruno e nero, con il mantello infangato e bagnato, ma ben nutriti, e possenti. Non occorreva nessun istinto profetico per capire che i tre individui potevano costituire un pericolo. Fermarono i cavalli in riva al fiume e mi guardarono. Io stetti lì, a piè fermo, e restituii lo sguardo. Avevo il pugnale alla cintura, ma la mia spada era rimasta con le bisacce da sella. E la fuga, con il mio cavallo legato e a cui avevo tolto la sella, era fuori discussione. Se devo dire la verità, ancora non ero più che lievemente preoccupato; c'era stato un tempo in cui nessuno, per quanto sconsiderato e disperato, avrebbe osato alzare un dito contro Merlino; e immagino che la fiducia del potere mi accompagnasse ancora. I tre si guardarono, trasmettendosi un tacito messaggio. Era un segnale di pericolo, dunque. Il capo, quello con la barba brizzolata e il cavallo nero, fece avanzare di un passo la bestia, sicché l'acqua le turbinò intorno ai
garretti. Poi si voltò, ghignando, verso i compagni. «Diamine, guardate un po', c'è qui un uomo coraggioso che ci contende il guado. Oppure sei Ermes in persona, venuto ad augurarci buon viaggio? Devo dire, non assomigli a come uno si aspetterebbe Ermes.» Le parole furono accompagnate da una risata fragorosa, alla quale si unirono gli altri due. Io mi spostai dal centro della strada. «Temo di non poter vantare nessuno dei suoi talenti, signori. Né intendo contendervi la strada. Quando vi ho sentiti arrivare, vi ho presi per i battistrada dei soldati che devono passare di qui tra pochissimo. Avete visto qualche traccia dei soldati per la strada?» Si scambiarono un'altra occhiata. Il più giovane, quello con il cavallo color isabella carico e il ramoscello di caprifoglio, portò il suo cavallo nell'acqua e mi si avvicinò facendomi schizzare l'acqua addosso. «Non c'era nessuno sulla strada» disse. «Soldati? Quali soldati dovresti aspettare? Magari il Sommo re in persona?» E strizzò l'occhio ai compagni. «Il Sommo re» dissi calmo «passerà presto di qui, a quanto si dice, e a lui piace che la legge delle strade sia rispettata. Perciò andatevene pacificamente per la vostra strada, signori, e lasciate che io vada per la mia.» Erano tutti in mezzo al guado, adesso, disposti intorno a me. Apparivano rilassati e abbastanza simpatici, addirittura cordiali. Barbacastana disse: «Ah, certo che ti lasciamo andare, vero Rosso? Libero come l'aria sarai, mio buon signore, libero come l'aria e viaggerai leggero». «Leggero come una piuma» fece Rosso, con una risata. Era quello col cavallo bruno. Girò la cinghia intorno alle cosce robuste, in modo che l'impugnatura del pugnale venisse a trovarsi più vicina alla sua mano. Il più giovane dei tre si stava già muovendo verso il tronco steso a terra contro il quale erano appoggiate le bisacce da sella. Cominciai a parlare, ma il capo pungolò a calci il cavallo per farlo arrivare più vicino a me, gli lasciò cadere le redini sui garresi poi di colpo si abbassò, afferrandomi dal collo della tunica. Stringeva la stoffa in una morsa soffocante, e mi sollevò a mezz'aria verso di sé. Era spaventosamente forte. «Allora, chi stavi aspettando, eh? Soldati, vero? Era la verità o hai mentito per spaventarci e farci scappare?» Il secondo uomo, Rosso, spinse il cavallo vicino a me, dall'altro lato. Non avevo la minima probabilità di sfuggire a quegli uomini. Il terzo era smontato e, senza prendersi il fastidio di disfarle, aveva tirato fuori un lun-
go coltello con il quale tagliava il cuoio delle bisacce da sella. Non si era neppure voltato a guardare che cosa stessero facendo i suoi compagni. Rosso teneva in mano il pugnale. «Mentiva, è naturale» disse con voce aspra. «Non c'erano soldati per la strada. E nessuna traccia di soldati. E poi non passerebbero dal sentiero della foresta, Erec, puoi starne certo.» Erec tese indietro la mano libera e liberò dalle cinghie la mazza ferrata. «Insomma, era una bugia» disse. «Puoi fare qualcosa di meglio che mentire, vecchio. Dicci chi sei e dove sei diretto. Questi soldati di cui parlavi, da dove verrebbero?» «Se mi lasciate stare» dissi con difficoltà perché mi stava quasi strangolando «ve lo dico. E di' al tuo amico di lasciar stare la mia roba.» «Diamine, canta forte il vecchio gallo!» Ma allentò la presa e mi lasciò posare di nuovo i piedi a terra. «Dicci la verità, allora, e può darsi che ti sia utile. Da che strada sei venuto e dove sono i soldati di cui parli? Chi sei, e dove sei diretto?» Cominciai a rimettermi in ordine le vesti. Le mani mi tremavano ma riuscii a rendere la mia voce abbastanza ferma. «Farete bene a lasciarmi andare e a mettervi in salvo. Io sono Merlino Ambrogio, detto Merlino, cugino del re, e sono diretto a Camelot. Un messaggio mi ha preceduto lì, e un manipolo di cavalieri mi sta venendo incontro su questa strada. Dovrebbero essere di poco indietro a voi. Adesso se andate verso ovest, e in fretta...» Un fragoroso scoppio di risa m'interruppe. Erec si dondolava sulla sua sella. «Sentito, Rosso? Balin, hai capito? Questo è Merlino, Merlino in persona, e è diretto alla corte di Camelot.» «Be', potrebbe essere, se è per questo» disse Rosso, scuotendosi per l'allegria. «Sembra proprio uno scheletro, no? Uscito dritto dritto dalla tomba, questo è certo.» «E ci torna dritto dritto.» Improvvisamente fuori di sé, Erec mi afferrò di nuovo e mi scosse violentemente. Un grido emesso da Balin lo fece fermare. «Ehi! Guardate qui!» Gli altri due si voltarono. «Che c'è?» «Tanto oro da pagarci da mangiare e da dormire bene per un mese, e per di più qualcuno con cui dormire in compagnia» gridò Balin, tutto allegro. Lanciò a terra le bisacce da sella e alzò la mano. Vi scintillavano due gemme. Erec trattenne il respiro. «Be', chiunque tu sia, la fortuna è con noi, si direbbe. Guarda nell'altra, Balin. Forza, Rosso, vediamo un po' che cos'ha addosso.»
«Se mi farete del male» dissi «state certi che il re...» M'interruppi, come se qualcuno mi avesse posato una mano sulla bocca. Ero stato fermo lì, forzatamente, chiuso tra i due cavalli, guardando, verso l'alto, la faccia barbuta china verso di me, con il cielo sereno e luminoso come sfondo. Ora attraverso quel cielo, con il sole che traeva riflessi bronzei dalla sua nera lucentezza, passò un corvo. Con un volo basso, una volta tanto silenzioso, inclinandosi e spostandosi obliquamente nell'aria, venne l'uccello di Ermes il messaggero, l'uccello della morte. Mi disse che cosa dovevo fare. Fino a quel momento, istintivamente, avevo cercato di guadagnare tempo, come farebbe chiunque, per schivare la morte. Ma se ci riuscivo, se facevo fermare gli assassini e trattenevo loro la mano, allora Artù, che cavalcava da solo, su una bestia stanca, senz'altro pensiero nel cuore che il prossimo incontro con me, si sarebbe imbattuto in quegli uomini lì, tre contro uno, proprio in quel punto solitario. Nel caso di uno scontro, non avrei potuto aiutarlo. Ma potevo ancora essergli utile. Dovevo a Dio una morte e potevo dare ad Artù un'altra vita. Dovevo convincere quei bruti a proseguire per la loro strada, e in fretta. Se Artù mi avesse trovato lì per caso, assassinato, li avrebbe inseguiti, su questo non c'era dubbio; ma allora avrebbe saputo quello che faceva e sarebbe stato aiutato da altri. Così non dissi niente. Balin si mise a frugare nell'altra bisaccia da sella. Erec mi afferrò di nuovo, trascinandomi accanto a sé. Rosso mi si avvicinò dal dietro, e mi strappò la cintura che reggeva la mia borsa, e nella cui fodera avevo cucito il resto del mio oro. La mazza ferrata volteggiò sopra la mia testa. Se avessi allungato la mano per prendermi un'arma anch'io, forse mi avrebbero ucciso più in fretta. Cercai con la mano il pugnale infilato nella mia cintura. Da dietro le spalle, la mano dura di Rosso si strinse sul mio polso e me lo tenne. Sogghignava. «Merlino, eh? Un grande mago come te potrebbe dimostrarci un paio di cose, ne sono certo. Forza, allora, salvati, perché non lo fai? Fai un incantesimo e facci cadere morti.» I cavalli si divisero. Qualche cosa lampeggiò e volò nel cielo, come una luce. La mazza volò via e cadde. La mano di Erec allentò la presa in modo così improvviso che vacillai e caddi in avanti contro il suo cavallo. La faccia del barbacastana, china su di me, aveva un'espressione di sorpresa. Gli occhi erano fissi, sbarrati. La testa, staccata di netto da quel terribile fendente, rimbalzò sul collo del cavallo inondandolo di sangue, poi cadde a terra con un rumore sordo. Il corpo si afflosciò lentamente, con un movi-
mento quasi aggraziato, sui garresi del cavallo. Uno zampillo di sangue, rosso vivido e fumante, fluì sulla spalla dell'animale e schizzò su di me che vacillavo, afferrandomi al pettorale. Il cavallo nitrì una volta, terrorizzato, poi s'impennò e scalciò nell'aria, si divincolò liberandosi e fuggì. Il corpo senza testa sobbalzò e oscillò rimbalzando un paio di volte prima di crollare dalla sella sulla strada, col sangue che ancora zampillava. Io venni scaraventato sull'erba. Il freddo umido mi colpì alle mani, ridandomi un po' di forza. Il cuore mi martellava in petto; l'oscurità traditrice mi minacciò, poi si ritrasse. Il suolo risuonava del rumore degli zoccoli di un cavallo, e ne tremava. Alzai la testa. Lui stava combattendo contro due di loro. Era arrivato da solo, sul suo gran cavallo grigio. Aveva preceduto Bedwyr e i cavalieri, ma né lui né lo stallone rivelavano la minima stanchezza. Mi meravigliò che i tre assassini non fossero fuggiti al solo vederlo. Aveva solo un'armatura leggera... niente scudo, ma indossava una tunica di cuoio con falere di metallo e aveva un pesante mantello avvolto intorno al braccio sinistro. La testa era scoperta. Aveva abbandonato le redini sul collo dello stallone, e lo controllava con la voce e con la pressione delle ginocchia. Il possente cavallo si impennava, ruotava e colpiva come un terzo braccio armato. E tutt'intorno al cavallo e al re, come uno scudo di luce impenetrabile, turbinava la lama lampeggiante della grande spada che era mia e sua: Caliburn, la spada del re di Britannia. Balin si lanciò sul suo cavallo e diede di sprone, gridando, mentre accorreva in aiuto del suo compagno. Una striscia di cuoio pendente dalla tunica di Artù mostrava il punto in cui uno di loro lo aveva colpito alle spalle probabilmente mentre lui stava uccidendo Barbacastana - ma ora, per quanto ci provassero, non riuscivano a superare quel cerchio mortale di metallo scintillante, né ad avvicinarsi oltrepassando gli zoccoli dello stallone che sferzavano l'aria. «Fuori dai piedi» gridò il re, brusco. I cavalli si lanciarono e mi girarono intorno. Faticosamente cominciai a tirarmi in piedi. Pareva che ci volesse un'infinità di tempo. Avevo le mani viscide di sangue e il corpo mi tremava. Scoprii che non riuscivo a stare in piedi e mi trascinai carponi fino al tronco di pino, dove mi misi a sedere. L'aria fremeva e rimbombava dello scontro, e io me ne stavo lì, inerme, tremante, vecchio; mentre il mio ragazzo combatteva per la sua vita e per la mia io non riuscivo neppure a fare appello alla forza umana mortale per dargli aiuto. Qualche cosa scintillò accanto al mio piede. Il pugnale che Rosso mi a-
veva fatto cadere di mano, proprio in quel punto. Protesi la mano per prenderlo. Ancora non riuscivo a stare in piedi, però lo lanciai con tutta la forza possibile contro la schiena di Rosso. Il lancio era stato debole e lo mancò. Ma lo scintillio del pugnale durante la traiettoria fece indietreggiare e scartare il cavallo bruno e mandò a vuoto il colpo dell'uomo che aveva in sella. Con il metallo che slittava e strideva, Caliburn colpì la lama, scagliandola ancora più lontana, poi Artù lanciò in avanti il grande stallone e uccise il Rosso colpendolo direttamente al cuore. Per un momento la spada si bloccò e non fu possibile ritirarla, e il corpo cadde come peso morto sul braccio del re che reggeva la spada. Ma anche lo stallone grigio sapeva il fatto suo. Balin, che cercava di far girare il suo cavallino color isabella carico per cogliere il re alla schiena, dovette misurarsi con i denti e con gli zoccoli ferrati della bestia. Un fendente verso l'alto squarciò la spalla del cavallino color isabella carico. Quello scartò nitrendo e tentò di fuggire malgrado le redini e gli speroni. Ma Balin - da quella canaglia coraggiosa che era - gli torse indietro la testa con violenza, proprio mentre il re estraeva la spada dal corpo del Rosso e indietreggiava girando, riportandosi a distanza di combattimento. Credo che, in quell'ultimo momento, Balin riconoscesse il re. Ma non gli fu concesso il tempo per parlare, tanto meno per chiedere clemenza. Ci fu una breve, ancora più accanita confusione, poi Balin fu colpito alla gola dalla punta di Caliburn e cadde nell'erba calpestata e rossa di sangue. Il cavallo color isabella carico, invece di correre ora che niente più lo tratteneva, rimase fermo, semplicemente, la testa bassa e le zampe che gli tremavano, mentre il sangue gli scorreva dalla spalla. Gli altri cavalli erano fuggiti. Artù smontò di cavallo con un balzo, pulì la sua spada sul corpo di Balin, scosse le pieghe del mantello dal braccio sinistro e venne verso di me, portando lo stallone. Mi toccò sulle spalle, macchiate di sangue. «È sangue. Sei ferito?» «No. E tu?» «Neppure uno sgraffio» fece lui, allegro. Respirava solo a ritmo un po' più affrettato del solito «malgrado non sia stato semplicemente un massacro. Erano uomini addestrati, o almeno così mi è sembrato quando ho avuto il tempo di notarlo... Stai seduto tranquillo per un po'. Ti porto dell'acqua.» Mi abbandonò nelle mani le redini dello stallone, si protese verso l'arcione per prendere il corno con montatura d'argento che vi era attaccato,
poi si avviò con passo agile verso il fiume. Sentii che con il piede urtava qualche cosa. Artù interruppe di colpo il rapido movimento e lanciò un'esclamazione. Girai la testa. Fissava, a terra, quanto rimaneva di una delle mie bisacce da sella dove, tra cose da mangiare sparse e cuoio fatto a pezzi, appariva una striscia, lacerata, di velluto, con pesanti ricami d'oro. Una delle gemme che Balin aveva strappato dal velluto era finita lì accanto e baluginava nell'erba. Artù girò su se stesso. Era diventato pallidissimo. «Per la Luce! Sei tu!» «E chi altro? Credevo che lo sapessi.» «Merlino!» Adesso davvero ansimava. Tornò indietro fermandosi accanto a me. «Ho pensato - quasi non ho avuto il tempo di guardare - semplicemente che quei furfanti assassini stessero massacrando un vecchio... disarmato, ho pensato, e povero, a giudicare dal cavallo e dalla bardatura...» Mise a terra tutt'e due le ginocchia accanto a me. «Ah, Merlino, Merlino...» Il Sommo re di tutta la Britannia appoggiò la testa sul mio ginocchio e rimase in silenzio. Dopo un po' si mosse e alzò la testa. «Ho avuto il tuo pegno, e il messaggio dal corriere. Ma penso di non avergli creduto completamente. Quando ha cominciato a parlarmi e mi ha fatto vedere il Drago, mi è parso vero... Immagino che non avevo mai creduto che tu potessi davvero morire, come tutti i mortali... ma poi strada facendo, mentre venivo qui, da solo, con nient'altro da fare che pensare... be' ha smesso di essere una cosa reale. Non so che cosa mi figurassi: me stesso che di nuovo sarei finito davanti all'imboccatura di quella grotta, ostruita, dove ti avevamo sepolto vivo.» Lo sentii rabbrividire. «Merlino, che è successo? Quando ti abbiamo lasciato credendoti morto, sigillato nella grotta, era la malattia, certo, a darti l'apparenza della morte: adesso me ne rendo conto. Ma dopo? Quando ti sei svegliato, solo e oppresso dai tuoi stessi drappi funebri? Dio sa che sarebbe bastato questo a farti morire un'altra volta. Che cosa hai fatto allora? Come hai potuto sopravvivere, chiuso da solo nel cuore della montagna? Come sei riuscito a metterti in salvo? E quando? Avrai saputo quanto ero afflitto. Dove sei stato tutto questo tempo?» «Non è stato molto tempo. Quando sono riuscito a mettermi in salvo, tu eri lontano. Mi dissero che ti eri recato in Britannia minore. Perciò non ho detto niente e sono rimasto da Stilicone, che fu un tempo mio servo e ades-
so ha il mulino vicino a Maridunum, e ho aspettato il tuo ritorno. Ti racconterò tutto al più presto... se mi porti quell'acqua.» «Stupido che sono, lo stavo dimenticando!» Balzò in piedi e corse verso il fiume. Riempì il corno e me lo portò, poi piegò un ginocchio per accostarmelo alle labbra. Scossi la testa e glielo presi dalle mani. «Grazie, ma adesso sono a posto. Non è niente. Non sono stato ferito. Mi vergogno di averti dato così poco aiuto.» «Mi hai dato tutto ciò di cui avevo bisogno.» «Che non era molto» dissi, quasi ridendo. «Quasi provavo pietà per quei disgraziati, convinti di aver trovato una facile preda, mentre si stavano attirando addosso Artù in persona, come un fulmine. Io li avevo messi in guardia, ma chi potrebbe far loro una colpa per non avermi creduto?» «Intendi dire che sapevano chi eri? E lo stesso ti trattavano in quel modo?» «Te l'ho detto, non mi hanno creduto. Perché avrebbero dovuto? Merlino era morto. E il solo potere che ho adesso è nel tuo nome... ma loro non hanno creduto neppure a quello. "Un vecchio, disarmato e povero".» Sorridendo ripetetti le sue parole. «Diamine, non mi hai riconosciuto neppure tu. Sono tanto cambiato?» Lui mi osservò. «È la barba e, sì, adesso sei completamente grigio. Ma se ti avessi guardato almeno una volta negli occhi...» Mi prese il corno dalle mani e si alzò in piedi. «Ah, sì, sei tu. Nelle cose importanti, non sei cambiato. Vecchio? Sì, dobbiamo invecchiare tutti. La vecchiaia non è altro che la somma della vita. E sei vivo, e sei tornato qui da me. Per il grande Dio del cielo, ti ho di nuovo con me. Di che dovrei temere, adesso?» Vuotò il corno, lo rimise al suo posto e si guardò intorno. «Immagino che farei meglio a mettere in ordine questo pasticcio. Davvero stai bene adesso? Puoi badare al mio cavallo? Credo che ora bisogna farlo abbeverare.» Condussi lo stallone in riva all'acqua, e insieme a lui il cavallino color isabella carico, che brucava tranquillo e non fece nessun tentativo per sfuggirmi. Quando si furono abbeverati li legai, poi presi un po' di balsamo dalla mia sacca e medicai la ferita sulla spalla del cavallino. Quello volse gli occhi a guardarmi e gli vidi guizzare la pelle sulla spalla, ma non parve soffrisse. Il taglio sanguinava ancora, ma lentamente, e l'animale non era azzoppato. Allentai il sottopancia a tutti e due i cavalli e li lasciai pascolare
mentre io recuperavo il contenuto sparpagliato della mia bisaccia da sella. Per Artù, mettere in ordine quel «pasticcio» - tre uomini morti di morte violenta - consisteva nel trascinare i cadaveri per i piedi fino a un nascondiglio decente al margine della foresta. Quanto alla testa mozza, la prese per la barba e gliela lanciò dietro. Intanto fischiettava una piccola melodia allegra, nella quale riconobbi una di quelle canzoni intonate dai soldati in marcia, una canzone schietta, per non dire troppo esplicita, a proposito delle capacità sessuali del loro comandante. Poi Artù si guardò intorno. «La prima pioggia laverà un po' di sangue. E anche se avessi una vanga o una zappa, che io possa essere dannato se sprecherei tempo e fatica a mettere sottoterra quelle carogne. Lasciamole ai corvi. Però potremmo sequestrare i loro cavalli; vedo che si sono fermati a pascolare lì lungo la strada. Dovrò prima togliermi il sangue di dosso, altrimenti non riuscirò mai ad avvicinarmi a loro. Meglio che abbandoni il tuo mantello, non tornerà più come prima. Ecco, puoi mettere il mio. No, insisto. È un ordine. Ecco.» Lo lasciò cadere sul tronco di pino, poi scese a lavarsi al fiume. Mentre risaliva in sella e si avviava sulla strada dietro agli altri cavalli, a un piccolo galoppo, mi tolsi il mio mantello, che già stava diventando rigido per il sangue, mi lavai, poi scrollai il mantello di porpora regale di Artù e lo indossai. Il mio lo arrotolai e lo lanciai tra i cespugli del sottobosco, con i cadaveri. Artù tornò indietro al trotto, conducendo i cavalli dei banditi. «E adesso, dov'è questa locanda con il cespuglio di agrifoglio?» Otto Il bambino del padrone della locanda era in mezzo alla strada a spiare il mio arrivo. Immagino che fosse stato piazzato lì per avvertire la madre quando sarebbe stato necessario quel «pasto degno della corte del re». Quando ci vide arrivare, due uomini con cinque cavalli, rimase un momento a fissarci, poi con un balzo rientrò nella taverna. Eravamo ancora a circa settanta passi dalla casa quando il padrone uscì a vedere. Riconobbe Artù quasi immediatamente. Ciò che dapprima attrasse il suo sguardo fu la qualità del cavallo del re. Poi diede un lungo sguardo indagatore all'uomo che lo cavalcava, e immediatamente cadde in ginocchio, lì in mezzo alla strada. «Alzati, amico» disse il re allegramente. «Mi hanno detto bene della lo-
canda che conduci qui e non vedo l'ora di sperimentare la tua ospitalità. C'è stata una piccola scaramuccia giù al guado... niente di grave, solo quello che ci voleva per farci venire appetito. Ma l'appetito dovrà aspettare un po'. Prima prenditi cura del mio amico, per favore, e se la padrona può pulirgli i vestiti, e qualcuno può badare ai cavalli saremo contenti di aspettare per il pasto.» Poi, mentre l'uomo cominciava a balbettare qualche cosa sulla povertà della sua casa, e sulla mancanza di comodità: «Se è per questo, amico, io sono un soldato e mi è capitato più volte di considerare un lusso qualsiasi riparo contro le intemperie. Da quanto ho sentito della tua taverna, è un posto molto tranquillo. Ma adesso, possiamo entrare? Per il vino non possiamo aspettare, e neppure per il fuoco...» Avemmo tutt'e due le cose in brevissimo tempo. Appena ripresosi, il padrone si adattò rapidamente all'idea di quell'invasione reale e molto giudiziosamente lasciò perdere tutto per prestare immediatamente i servizi che gli erano richiesti. Il ragazzetto andò di corsa a prendere i cavalli e il padrone in persona ammucchiò ceppi sul fuoco e portò il vino, poi mi aiutò a togliermi le vesti sporche e macchiate di sangue e portò acqua calda e vesti pulite prese dal mio bagaglio. Poi, per ordine di Artù, mise il catenaccio alla porta della locanda per evitare che entrassero viandanti di passaggio e lui stesso se ne andò in cucina, a far precipitare la sua ottima moglie in un panico frenetico. Quando mi fui cambiato, e Artù si fu lavato ed ebbe messo il mantello ad asciugare davanti al fuoco, lui mi versò il vino e si sistemò dall'altro lato del focolare. Pur dopo un lungo viaggio compiuto a ritmo serrato e concluso con un combattimento, appariva fresco e riposato come se si fosse appena alzato dal letto. I suoi occhi brillavano come quelli di un ragazzo e le sue guance erano accese. Tra la gioia di rivedermi e il pensiero stimolante del pericolo corso, pareva di nuovo un adolescente. Quando finalmente la padrona della locanda e il marito entrarono portando il pranzo, facendo un po' di confusione per apparecchiare e scalcare i capponi, lui li ricevette con allegra affabilità, e con una tale naturalezza che quando ci fummo serviti e loro erano sul punto di ritirarsi, la donna aveva dimenticato così bene la sua posizione da ridere fragorosamente per una delle storielle del re, e da mettersi a sua volta a raccontarne una. A questo punto il marito la tirò dalla veste e lei corse fuori, ma continuando a ridere. Finalmente rimanemmo soli. Il breve pomeriggio stava per finire. Ben presto sarebbe arrivato il momento di accendere la lampada. Tornammo ai nostri posti, ai lati del focolare. Credo che fossimo stanchi tutti e due, e
che avessimo sonno, ma nessuno dei due sarebbe riuscito a riposarsi finché non ci fossimo scambiati quelle notizie che non avevamo potuto comunicarci in presenza dei padroni della locanda. Il re aveva fatto tutto il viaggio, mi disse, fermandosi solo qualche ora per dormire e per far riposare il cavallo. «Perché» osservò «se il messaggio del corriere e il pegno che egli mi ha consegnato dicevano la verità, voleva dire che tu eri salvo, e che mi aspettavi. Bedwyr e gli altri sono venuti con me, ma anche loro si sono fermati per riposare. Ho detto loro di restare indietro e di concedermi qualche ora.» «Avrebbe potuto costarti caro.» «Con quelle carogne?» fece lui con tono di disprezzo. «Se non ti avessero sorpreso disarmato e alla sprovvista, avresti potuto cavartela da solo con loro.» E c'era stato un tempo in cui, senza neppure il pugnale in mano, avrei potuto cavarmela con loro. Se Artù stava pensando la stessa cosa non lo diede a vedere. Io dissi: «È vero che non si potevano considerare degni della tua spada. E a proposito, che cos'è la storia che ho sentito sul furto di Caliburn? Qualcosa a proposito di tua sorella Morgana?». Scosse la testa. «Acqua passata, perciò può aspettare. Quel che importa adesso è che io sappia che cosa ti è successo. Raccontami. Raccontami tutto. Senza tralasciare niente.» Così gli raccontai la mia storia. Il giorno stava finendo e al di là delle piccole finestre incassate il cielo si scuriva, passando dall'indaco a un color ardesia. La camera era silenziosa, a parte il crepitio e lo scoppiettio del fuoco. Un gatto strisciò da un angolo venendo ad acciambellarsi sul focolare, e si mise a fare le fusa. Era uno strano scenario per la storia che dovevo raccontare, storia di morte e di suntuosi funerali, di paura, solitudine e disperata sopravvivenza, di un tentativo di omicidio sventato e di un salvataggio finalmente portato a termine. Lui ascoltava, come mi aveva ascoltato tante volte prima di allora, attento, immerso nel racconto, accigliandosi a qualche particolare di esso, ma rilassato al calore e alla contentezza della serata. Quello è un altro degli episodi che mi tornano vividi alla memoria ogni volta che penso a lui: la stanza silenziosa, il re che ascolta, la luce della fiamma, rossa, che guizza sulla sua guancia e illumina la folta cascata di capelli neri, e gli occhi neri che mi guardano, assorti nella storia che io gli racconto. Ma con una differenza, questa volta: quello era un uomo che ascoltava con uno scopo preciso, formandosi rapidamente un giudizio su
quanto gli veniva detto e valutandolo, pronto ad agire. Alla fine si mosse. «Quel tale, il saccheggiatore di tombe... dobbiamo trovarlo. Non dovrebbe essere difficile, se è vero che con questo racconto sta scroccando da bere per tutta Maridunum... Mi domando chi fosse quello che hai sentito la prima volta. E il mugnaio Stilicone, certamente vorrai essere tu a pensarci?» «Sì, ma se una volta o l'altra tu potessi arrivare fin lì, magari la prossima volta che ti trovi a Caerleon. Mai ne sarà terrorizzata e estasiata, ma Stilicone lo accetterà semplicemente come dovuto, per il fatto di aver servito il grande mago... e poi se ne vanterà in giro per tutto il resto della vita.» «Certo» disse lui. «Stavo pensando, strada facendo: andremo direttamente da qui a Caerleon, adesso. Immagino che tu non ti senta ancora di tornare a corte...» «Né adesso né mai. E neppure ad Applegarth. Questo l'ho abbandonato definitivamente.» Non aggiunsi «a Nimuë»; il suo nome non era stato menzionato tra noi. Con tale cura l'avevamo evitato che pareva risonare in ogni frase che veniva pronunciata. Proseguii: «Sicuramente su questo tu mi osteggerai a morte, ma io voglio tornare a Bryn Myrddin. Sarò felicissimo di restare con te a Caerleon fino a quando la grotta sarà di nuovo abitabile». Naturalmente lui protestò e discutemmo per un bel po', ma alla fine mi permise di fare a modo mio a condizione (era una condizione molto ragionevole) che non andassi a viverci da solo, ma ci fossero dei servi ad accudirmi. «E se devi per forza avere la tua preziosa solitudine, l'avrai. Ti costruirò un locale per i servi, fuori della tua vista e sotto la parete rocciosa; ma servi devono esserci.» «E questo è un ordine?» Sorridendo, ripetetti una sua domanda. «Certo... Ci sarà tempo per occuparci di questo; io passerò il Natale a Caerleon, e tu sarai con me. Devo presumere che non insisterai per tornare lì prima della fine dell'inverno?» «No.» «Bene. Adesso, c'è una cosa nel tuo racconto che non coincide con i fatti... quella storia di Segontium.» Rialzò la testa, sorridendo. «Allora, è stato lì che hai trovato Caliburn? Nel santuario della Luce eretto dai soldati? Bene, coincide. Ricordo che mi dicesti, anni fa, appena prima che ce ne andassimo dalla Foresta, che erano rimasti altri tesori. Parlasti di un graal. Ricordo ancora quello che dicesti. Ma il dono che mi ha portato Morgause non era certo il tesoro di Macsen. Erano pezzi d'argento - coppe, fermagli e
collane, quel genere di oggetti che lavorano nell'estremo nord. Molto belli, ma diversi dal tesoro come me l'hai descritto tu.» «No. Li ho intravisti, nella visione. Non facevano parte del tesoro di Macsen. Però il pastorello era sicuro che il tesoro fosse stato portato via, e io gli credo.» «Non lo sai di sicuro?» «No. Come potrei, senza il potere?» «Ma hai avuto quella visione. Hai visto Morgause e i ragazzi avvicinarmi a Camelot. Hai visto i doni d'argento che essa mi ha dato. Sapevi che il corriere era arrivato e che io stavo venendo da te.» Scossi la testa. «Quello non era il potere, non il potere come tu ed io l'abbiamo conosciuto. Quella è solo la Vista, e credo che l'avrò fino alla morte. Qualsiasi fattucchiera di villaggio ce l'ha, in maggiore o minor grado. Il potere è qualcosa di più: è agire e parlare con la conoscenza; è ordinare senza riflettere e sapere che si sarà ubbiditi. E questo è scomparso. Non me ne affliggo, adesso.» Esitai. «E, spero, neppure tu, vero? Ho sentito parlare di Nimuë, del fatto che adesso è la Signora del lago, la gran sacerdotessa del santuario dell'isola. Mi hanno detto che la chiamano profetessa del re, e che ti ha reso servizio.» «In effetti, sì.» Distolse lo sguardo da me, chinandosi a sistemare un ceppo sulla catasta che ardeva. «È stata lei a occuparsi del furto di Caliburn.» Aspettai, ma lui non aggiunse altro. Alla fine dissi: «Credo di aver capito che Nimuë è ancora a nord. Sta bene?». «Benissimo.» Il ceppo stava bruciando come piaceva a lui. Appoggiò il mento sul pugno chiuso e rimase a fissare il fuoco. «Perciò, se Morgause lo aveva con sé quando si è imbarcata, il tesoro deve trovarsi da qualche parte, sull'isola. I miei uomini hanno badato a che non sbarcasse tra Segontium e il suo arrivo qui. Era ospite di Melwas, perciò non dovrebbe essere troppo difficile per me far rintracciare il tesoro. Morgause sarà tenuta sotto sorveglianza fino al mio ritorno. Se lei rifiuta di parlare, i bambini non saranno certo capaci di resistere alle domande. I più piccoli sono troppo innocenti per pensare che ci sia qualcosa di male a dire la verità. Ai bambini non sfugge niente; sapranno dove la madre ha lasciato il tesoro.» «A quanto capisco hai intenzione di tenerli tu.» «Hai visto anche questo? Sì. Vedesti pure che il tuo corriere è arrivato giusto in tempo per salvare Morgause.» Pensai al mio sforzo di arrivare fino a lui con la volontà immersa nel so-
gno, quando credevo che la strega avrebbe usato contro di lui il graal rubato. «Avevi intenzione di ucciderla?» «Certo, perché aveva ucciso te.» «Senza prove?» «Non ho bisogno di prove per far mettere a morte una strega.» Lo guardai alzando un sopracciglio, e gli ricordai quello che era stato detto all'inaugurazione della Sala rotonda: «Nessuno, uomo o donna, verrà ingiustamente danneggiato, o punito senza processo o prove evidenti del torto commesso». Sorrise. «Va bene, perfetto. Avevo le prove. Avevo la tua testimonianza che lei aveva tentato di ucciderti.» «Questo è ciò che le hai detto. Ho pensato che lo dicessi per spaventarla. Io non ti avevo detto niente.» «Lo so. E perché? Perché non volesti che sapessi che era stato il suo veleno e mandarti alla morte nella Foresta Selvaggia, e poi a lasciarti addosso quella malattia che di nuovo ha quasi causato la tua morte?» «A questa domanda hai risposto da solo. L'avresti uccisa, dopo quello che avvenne nella Foresta Selvaggia. Ma lei era la madre di quel bambino, e gravida di un altro bambino, e io sapevo che un giorno questi suoi figli sarebbero venuti da te, e che col tempo sarebbero diventati tuoi fedeli servitori. Perciò non te lo dissi. Chi è stato a dirtelo?» «Nimuë.» «Capisco. E lei come lo sapeva? Per dono profetico?» «No. Da te. Da qualcosa che avevi detto nel delirio.» Ogni cosa, mi aveva preso; anche l'ultimo segreto. Mi limitai a dire: «Ah, sì... E devo capire che ti ha anche trovato Mordred? Oppure Morgause l'ha fatto uscire allo scoperto, una volta che Lot e io eravamo morti?». «No. Era ancora nascosto. Credo che si trovasse in qualche punto delle Orcadi. Con questo Nimuë non ha avuto niente a che fare. È stato per puro caso che ho avuto notizie di lui. Ho ricevuto una lettera. Un orefice di York, che in passato aveva fatto dei lavori per Morgause, era andato in quella regione con alcuni gioielli che sperava di venderle. Questi artigiani, come sai, si recano in ogni angolo del regno e vedono tutto.» «Non Beltane.» Artù rialzò la testa, sorpreso. «Lo conosci?» «Sì. È bravo quanto è cieco. Deve viaggiare con un servo...» «Casso» disse il re, poi, mentre sgranavo gli occhi: «Ti ho detto che avevo ricevuto una lettera».
«Da Casso?» «Sì. Pare che fosse a Dunpeldyr quando... ah, capisco, è stato allora che li hai conosciuti? Allora saprai che erano presenti la notte della strage. Casso, a quanto pare, vide e udì gran parte di quanto accadde; la gente parla in presenza di uno schiavo e lui dovette capire più di quanto non dimostrasse. Fu impossibile convincere il suo padrone che Morgause fosse in qualche modo implicata in avvenimenti così orribili, perciò Beltane volle arrivare fin nelle Orcadi per ritentare la sorte. Casso, essendo meno ingenuo, osservava e ascoltava e alla fine riuscì a scoprire il bambino che era scomparso la notte della strage. Mi mandò direttamente un messaggio. Combinazione, avevo appena saputo da Nimuë che era stata Morgause a causare la tua morte. La mandai a chiamare, e provvidi a che portasse con sé Mordred. Perché hai quell'aria così sorpresa?» «Per due motivi. Che cosa induce uno schiavo - Casso lavorava in una cava quando lo trovai - a scrivere "direttamente" al Sommo re?» «Avevo dimenticato di dirtelo; mi aveva reso un servizio già prima di allora. Ricordi quando andai a nord, nel Lothian, per attaccare Aguisel? E quanto fu difficile trovare il modo di distruggere quello sporco sciacallo senza mettermi contro Tydwal e Urien, senza che loro giurassero vendetta? Qualche cosa su questo problema doveva esser trapelata in giro, perché io ricevetti un messaggio da quello stesso schiavo, le prove controllabili di qualche cosa che aveva visto mentre si trovava al servizio di Aguisel. Aguisel aveva abusato di un paggio, un figlioletto di Tydwal, e poi lo aveva assassinato. Casso ci disse dove trovare il corpo. Lo trovammo, insieme ad altri. Il bambino era stato ucciso esattamente come ci aveva detto Casso.» «E dopo» osservai seccamente «Aguisel faceva mozzare la lingua agli schiavi che erano stati presenti.» «Vuoi dire che quell'uomo è muto? Be', questo potrebbe spiegare la libertà con cui a quanto sembra parlano davanti a lui. Aguisel ha pagato caro il fatto di non essersi accertato se sapeva leggere e scrivere.» «Non sapeva in effetti leggere e scrivere. Quando l'ho incontrato a Dunpeldyr era muto e indifeso. Sono stato io a fare in modo che gli venisse insegnato a leggere e a scrivere, perché mi era stato di aiuto - o piuttosto, per nessuna ragione di cui mi ricordi, salvo forse il suggerimento del dio.» Sorridendo, Artù alzò la coppa verso di me. «Ho parlato forse di "puro caso"? Avrei dovuto ricordarmi chi era quello con cui stavo parlando. Dopo l'episodio di Aguisel, compensai Casso, naturalmente, e gli dissi dove avrebbe potuto mandare, eventualmente, altre notizie. Credo che si sia reso
utile un paio di volte. Poi, per quest'ultima faccenda, si è rivolto direttamente a me.» Continuammo ancora per un po' a parlare della cosa, poi io tornai ai problemi più attuali. «Che cosa farai adesso con Morgause?» «Con il tuo aiuto, dovrò risolvere questa faccenda al mio ritorno. Intanto darò ordine che sia tenuta, sotto sorveglianza, nel monastero di Amesbury. I ragazzi rimarranno con me, e li farò portare a Caerleon per Natale. I figli di Lot non ci causeranno alcuna difficoltà; sono abbastanza giovani per trovare entusiasmante la vita a corte, e abbastanza grandi per poter fare a meno di Morgause. Quanto a Mordred avrà le stesse opportunità degli altri. Lo tratterò nello stesso modo.» Non dissi niente. Nel breve silenzio che seguì il gatto si mise a fare le fusa, forte; poi s'interruppe di colpo con una specie di sospiro e si addormentò. «Be'» disse Artù «che vuoi che faccia? Adesso è sotto la mia protezione, perciò - anche ammesso che sia mai stato capace di fargli del male in passato - non posso ucciderlo. Non ho avuto tempo di riflettere a fondo su questo, e avremo tempo più tardi per discuterne insieme. Ma ho sempre pensato che, dato che il ragazzo era sopravvissuto alla strage omicida di Lot, sarebbe stato meglio averlo al più presto vicino a me, sotto i miei occhi, piuttosto che nascosto chissà dove nei confini del regno, con la minaccia che poteva essere implicita in una tale presenza. Dimmi che sei d'accordo con me.» «Lo sono. Sì.» «Perciò, se lo tengo con me, e gli garantisco quei diritti che gli derivano dalla nascita e che lui deve aver pensato non avrebbe mai visto...» «Dubito che un tale pensiero gli sia passato per la mente» dissi io. «Non credo che lei gli abbia detto chi è.» «Davvero? Allora glielo dirò io stesso. Meglio. Saprà che non ero tenuto ad accoglierlo. Merlino, potrebbe essere una buona cosa. Tu e io ricordiamo bene che cosa è stata la nostra infanzia come bastardi senza un padre, e sentirci poi dire che eravamo della stirpe di Ambrogio. E chi sono io per assumermi di nuovo la responsabilità di desiderare la morte di mio figlio? Già una volta è stato troppo. L'ho pagata, lo sa Dio.» Di nuovo lasciò errare lo sguardo tra le fiamme. Un solco di amarezza gli si era scavato intorno alla bocca. Dopo qualche momento scrollò le spalle. «Mi hai chiesto di Caliburn. Sembra che anche mia sorella Morgana si sia presa un amante; era uno dei miei cavalieri, un tale di nome Accolon, bravo soldato e bel-
l'uomo, ma incapace di dire di no a una donna. Quando il re Urbgen è stato qui con Morgana, lei ha messo gli occhi su Accolon e ben presto è riuscita ad averlo ai suoi piedi come un levriero saltellante intorno al padrone. Prima di venire qui a sud, si era fatta fare da un fabbro di lassù una copia di Caliburn, e quando è stata a Camelot ha convinto Accolon a sostituirla alla vera Caliburn. Deve aver contato, essendo un momento di pace, di potersi liberare della corte e tornare al nord prima che fosse scoperta la perdita della spada. Io non so quali favori abbia concesso ad Accolon, ma fatto sta che quando lei se ne è tornata al nord con re Urbgen, Accolon si è congedato ed è partito con loro.» «Ma perché Morgana fece tutto questo?» La sua occhiata rapida, di sorpresa, mi fece capire quanto di rado mi fosse stato necessario fare una domanda simile. «Ah, il solito motivo: l'ambizione. Aveva una mezza idea di mettere il marito sul sommo trono di Britannia, con se stessa al fianco come regina. Quanto ad Accolon, non so di sicuro che cosa gli abbia promesso, ma qualunque cosa fosse, gli è costata la vita. Avrebbe dovuto costarla anche a lei, ma non c'erano prove, e poi è la moglie di Urbgen. Il fatto di essere mia sorella non l'avrebbe aiutata, ma Urbgen non sapeva niente della congiura, e io non posso permettermi di farmene un nemico.» «Come sperava di cavarsela, Morgana?» «Tu non c'eri» rispose Artù semplicemente. «Deve aver saputo da Morgause che eri malato e si preparava al suo momento di gloria. Ha pensato che qualsiasi uomo con quella spada poteva avere un seguito, e se il re del Rheged l'avesse alzata... Ma prima, naturalmente, doveva farmi uccidere. Accolon ci ha provato. Ha provocato una disputa e si è battuto con me. La mia spada era la copia, naturalmente; il metallo era fragile come vetro. Appena l'ho provata, ho capito che qualcosa non andava, ma era troppo tardi. Al primo urto si è spezzata, poco al di sotto dell'elsa.» «E allora?» «Bedwyr e gli altri gridavano: "Tradimento!", ma non ce n'era bisogno. Capii dal viso di Accolon che da quella parte era il tradimento. Sebbene la sua spada fosse ancora intatta e la mia spezzata, credo che fosse atterrito. Gli scagliai in faccia l'elsa, e lo uccisi con il pugnale. Non credo che abbia opposto resistenza. Forse, dopo tutto, era un uomo fedele. Mi piace pensarlo.» «E la vera spada? Come hai saputo dov'era?» «Nimuë» fece lui. «È stata lei a dirmi quel che era accaduto. Ricordi
quel giorno, ad Applegarth, quando mi disse di stare attento a Morgana e alla spada?» «Sì. Pensai che volesse parlare di Morgause.» «Anch'io. Ma lei aveva detto bene. Durante tutto il soggiorno di Morgana a corte, Nimuë le rimase sempre al fianco. Mi domandavo perché, dato che era evidente che non si amavano affatto.» Fece una risatina mesta. «Temo di aver pensato che si trattasse di un dissidio tra donne... anche per Ginevra lei non sembra provare eccessiva simpatia... ma nel caso di Morgana aveva ragione. La strega l'ha corrotta quando era appena una bambina. Non so come Nimuë sia riuscita a riavere la spada. L'ha rimandata dal Rheged con una scorta armata. Lei, non la vedo da quando è andata a nord.» Feci per chiedere un'altra cosa, ma di colpo lui alzò la testa e rimase in ascolto. «Ecco Bedwyr che arriva, se non sbaglio. Abbiamo avuto poco tempo per noi, Merlino, ma ci saranno altre occasioni. Quant'è vero che Dio è buono, ci saranno altre occasioni.» Si alzò e tese le mani per farmi alzare. «Adesso abbiamo parlato abbastanza. Sembri sfinito. Vorresti salire a riposarti, adesso, e lasciare che sia io ad affrontare Bedwyr e gli altri, e a dare loro la notizia? Ti avverto, non saranno molto silenziosi. È probabile che facciano piazza pulita di tutto quello che c'è nelle cantine del nostro buon locandiere, e che passino la notte a bere...» Ma io rimasi con lui a ricevere i cavalieri, e poi a bere in loro compagnia. Nessuno, durante quei lunghi e chiassosi festeggiamenti, mi parlò di Nimuë, né io feci altre domande che la concernessero. Nove Trascorremmo un'altra giornata completa a riposare al Cespuglio di agrifoglio. Una parte degli uomini andò al guado a seppellire i banditi uccisi, proseguendo da lì per Camelot con messaggi del re. Un altro gruppo di cavalieri venne mandato a Caerleon, ad annunciare l'arrivo del re. Poi, mentre io mi riposavo, i giovani andarono a caccia. La selvaggina da loro procurata ci fornì un'ottima cena, e i loro servi e paggi, arrivati quel giorno, aiutarono il padrone della locanda e sua moglie a cucinare e a servire. Dove dormisse tutta quella gente, quella notte, non so proprio; sospetto che i cavalli fossero mandati fuori e che la stalla risultasse anche più piena della locanda. Il giorno seguente, con palese dispiacere del nostro locan-
diere, la comitiva reale si mise in strada per Caerleon. Anche dopo la costruzione di Camelot, Caerleon aveva conservato la sua posizione di roccaforte di Artù a ovest. Facemmo il nostro ingresso nella città in una luminosa giornata di vento, gli stendardi col Drago che ondeggiavano e sbattevano sui tetti, e le strade che salivano alle porte della fortezza gremite di gente. Avevo insistito per cavalcare, avvolto in un mantello e incappucciato, tra gli ultimi del corteo anziché accanto al re. Artù si era alla fine rassegnato ad accettare la mia decisione di non riprendere il mio posto accanto a lui: non si può revocare un'abdicazione, e la mia era stata completa. Lui non aveva ancora accennato alla parte in essa avuta da Nimuë, anche se doveva essersi chiesto (e insieme a lui gli altri, che evitavano anch'essi di fare il nome di lei in mia presenza) quanto precisamente del mio potere fosse riuscita a prendersi. Tra tutti, proprio lei avrebbe dovuto «vedere» che ero di nuovo sulla terra, e con il re; avrebbe dovuto sapere, anzi, che ero stato messo nella tomba ancora vivente... Ma nessuno fece domande e io del resto non ero pronto a fornire quelle che credevo fossero le risposte. A Caerleon mi avevano assegnato camere degli appartamenti reali vicine a quelle di Artù. Due giovani paggi, osservandomi con vivissima curiosità, mi accompagnarono alle mie stanze attraverso corridoi affollati di servi in gran fermento. Molti di questi mi conoscevano e chiaramente tutti avevano sentito qualche versione di quella strana storia; alcuni si limitarono a oltrepassarmi in fretta, facendo il segno contro gli incantesimi, ma altri si fecero avanti salutandomi e offrendomi i loro servizi. Finalmente arrivammo nelle mie stanze, un suntuoso appartamento in cui mi aspettava un ciambellano il quale mi mostrò una splendida serie di vesti mandate dal re perché scegliessi quel che mi occorreva, con gioielli provenienti dagli scrigni reali. Provocando in lui un certo disappunto, scartai le vesti d'oro e d'argento, quella color pavone, quella scarlatta e quella turchese, e scelsi una calda veste di lana rosso scura, con una cintura di pelle dorata e sandali analoghi. Allora lui si ritirò promettendo: «Ti manderò la lampada, mio signore, e acqua per le tue abluzioni». Con un po' di sorpresa lo vidi far cenno ai due paggi di uscire con lui, e lasciarmi solo senza seguito. Già da un pezzo si sarebbero dovute accendere le luci. Mi avvicinai alla finestra, oltre la quale il cielo stava lentamente passando dal rosso al viola, e mi sedetti in attesa che i paggi tornassero recando le luci. Non mi girai quando la porta si aprì. La luce tremolante di una torcia s'insinuò nella camera, facendo dissolvere il cielo della sera, sempre più
scuro, al di là delle sue prime, fievoli stelle. Il paggio si spostava silenziosamente per la stanza, sfiorando con la fiamma una lampada dopo l'altra, finché la stanza risplendette. Ero stanco dopo la cavalcata e per reazione intorpidito. Mi alzai e mi lasciai preparare per il banchetto della sera. Il paggio era uscito a rimettere la torcia nel suo braccio di ferro sulla parete del corridoio. La porta della camere fu socchiusa. Mi alzai. «Grazie» incominciai. «Adesso, se per gentilezza...» M'interruppi. Non era il paggio. Fu Nimuë che entrò rapidamente, poi si fermò appoggiandosi alla porta, guardandomi. Indossava una lunga veste grigia con ricami d'argento, e c'era argento tra i suoi capelli, sciolti, che le scendevano sulle spalle. Era pallida, e gli occhi, spalancati e incupiti, si colmarono improvvisamente di lagrime mentre io la fissavo a bocca aperta. Allora attraversò la stanza e mi prese in fretta tra le braccia, piangendo, ridendo e baciandomi, e pronunciando una cascata di parole alla rinfusa, parole completamente senza senso, a parte quell'unica affermazione, che io ero vivo e lei in tutto quel tempo mi aveva pianto per morto. «Magia» continuava a dire, con una voce piena di stupore e un po' spaventata «una magia più forte di qualsiasi altra che io potrei mai conoscere. E tu dicevi di averla data tutta a me. Avrei dovuto saperlo.' Ah, Merlino, Merlino...» Qualsiasi cosa fosse accaduta, qualsiasi cosa l'avesse tenuta lontana da me o l'avesse resa cieca davanti alla verità, niente aveva più importanza. Mi sorpresi a stringerla, la sua testa affondata nel mio petto e le mie guance sui suoi capelli, mentre lei continuava a ripetere, come una bambina: «Sei tu. Sei davvero tu. Sei tornato. È magia. Devi essere ancora il mago più grande del mondo». «È stata solo la malattia, Nimuë. Vi ha ingannato tutti. Non è stata magia. Quella l'ho ceduta tutta a te.» Alzò la testa. La sua espressione era tragica. «Sì, e in che modo me l'hai ceduta. Prego solo che tu non possa ricordarlo! Mi avevi detto che dovevo imparare tutto quello che dovevi dirmi. Avevi detto che dovevo sfruttare ogni particolare della tua vita; che dopo la tua morte Merlino dovevo essere io... E tu mi stavi lasciando, scivolando lontano da me nel sonno... Dovevo farlo, non è così? Costringere l'ultimo dei tuoi poteri ad abbandonarti, anche se con ciò mi prendevo ciò che rimaneva della tua forza? Lo feci in tutti i modi che conoscevo - blandendoti, dando in escandescenze, minacciandoti, dandoti dei tonici e rimettendoti in condizione di rispondere, ripe-
tutamente, alle mie domande - quando quel che avrei dovuto fare, se tu fossi stato qualsiasi altro uomo, era di lasciarti dormire e andartene in pace. E siccome eri Merlino, e nessun altro uomo, ti risollevasti nella sofferenza, per rispondermi e darmi tutto ciò che avevi. Così, minuto per minuto, ti indebolii, mentre adesso mi sembra che avrei potuto salvarti.» Dolcemente spostò le mani sul mio petto e sollevò gli occhi grigi inondati di lagrime. «Risponderai sinceramente a una domanda? Lo giuri sul dio?» «Quale domanda?» «Lo ricordi, quando io ti stavo attaccata, e ti tormentavo a morte, come un ragno che succhi la vita da un'ape?» Rialzai le mani per coprire le sue. La guardai dritto nei begli occhi e mentii. «Mia amata, non ricordo niente di quel tempo se non parole d'amore, e Dio che serenamente mi prendeva nella sua mano. Posso giurarlo, se vuoi.» Il sollievo le inondò il viso. Pure scosse ancora la testa, rifiutando di farsi consolare. «Però, dopo, neppure tutto il potere e la conoscenza che mi avevi dato riuscirono a farmi capire che ti avevamo sotterrato vivente, e a farmi tornare a tirarti fuori. Merlino, avrei dovuto saperlo, avrei dovuto saperlo! Sognavo, sognavo spesso, ma i sogni erano così confusi. Una volta sono tornata a Bryn Myrddin, lo sapevi? Sono arrivata alla grotta, ma la porta era sempre chiusa, bloccata, e io ho chiamato, ho chiamato, ma non si è sentito niente...» «Sss... sss...» Tremava tutta. La strinsi più forte a me e la baciai sui capelli. «È finita. Io sono qui. Quando tornasti alla grotta per cercarmi, dovevo essere ancora immerso in quel sonno catalettico. Nimuë, quel che è accaduto era la volontà del dio. Se egli avesse voluto salvarmi dalla tomba, ti avrebbe parlato. Adesso, mi ha riportato qui quando a lui è parso giusto, e per questo ha impedito che io fossi messo nella terra, oppure dato alle fiamme. Devi accettare tutto questo, e ringraziarlo, come faccio io.» Lei rabbrividì di nuovo. «Era ciò che avrebbe voluto il Sommo re. Ti avrebbe dedicato, diceva, una pira alta come quella di un imperatore, in modo che la tua morte potesse essere come un faro per i vivi per tutta l'estensione del paese. Era pazzo di dolore, Merlino. Non riuscivo quasi a farmi ascoltare da lui. Però gli dissi che avevo fatto un sogno e che tu stesso avevi detto che volevi esser deposto nella tua grotta, e lasciato lì in pace, per diventare parte della terra che amavi.» Si portò una mano al viso per asciugarsi le lagrime. «Ed era vero. Feci davvero quel sogno, tra tanti altri. Ma pure, ti sono venuta meno. Chi ha fatto ciò che avrei dovuto fare
io, aiutandoti a salvarti? Che cosa è accaduto?» «Vieni qui, accanto al fuoco, e te lo racconterò. Hai le mani fredde. Vieni, abbiamo ancora un po' di tempo, credo, prima che sia ora di recarci nella sala del banchetto.» «Il re aspetterà» disse lei. «Sa che io sono qui. È stato lui a mandarmi da te.» «Lui?» Ma per il momento misi da parte quel pensiero. In un angolo della stanza un braciere divampava davanti a un basso divano ricoperto di tappeti e di pelli. Ci sedemmo uno accanto all'altra in quella calda luminescenza e, cedendo alle sue richieste impazienti, narrai di nuovo la mia storia. Quando ebbi finito, la sua angoscia era dileguata e un po' di colore le era tornato sulle guance. Lei era seduta contro di me, circondata dal mio braccio, e mi teneva una mano tra le sue. Mago o essere mortale che io fossi, non avevo il minimo dubbio che la gioia che dimostrava fosse vera e reale come la luminescenza del braciere che ci riscaldava, tutti e due. Il tempo era tornato indietro. Non del tutto, però: creatura mortale o mago che io fossi, avvertivo ancora dei segreti. E lei ascoltava, emettendo di quando in quando delle esclamazioni, e mi teneva stretta la mano, poi, quando ebbi finito, continuò lei la storia. «Ti ho parlato del sogno che avevo fatto. Mi fece sentire a disagio; cominciai, addirittura, a chiedermi se eri davvero morto quando ti avevamo lasciato nella grotta. Ma pareva non ci fossero dubbi; eri rimasto disteso tanto tempo senza fare un movimento, e apparentemente senza respirare, e poi tutti i dottori avevano detto che eri morto. Perciò alla fine ti lasciammo lì. Poi, quando i sogni mi riportarono nella grotta, tutto mi parve normale. In seguito vennero altri sogni, altre visioni, che cacciarono con la loro ressa quel primo sogno e lo resero confuso...» Parlando si era allontanata da me, benché ancora mi tenesse la mano tra le sue. Si appoggiò all'indietro contro i cuscini, all'estremità del divano, e distolse lo sguardo da me, fissando il carbone incandescente. «Morgana» le suggerii «e il furto della spada?» Mi lanciò un'occhiata rapida. «Immagino che il re te l'abbia raccontato. Sì. Hai saputo com'è stata rubata la spada. Ho dovuto lasciare Camelot e seguire Morgana, per riprendere la spada. Anche in questo, il dio è stato con me. Mentre mi trovavo nel Rheged, arrivò un cavaliere dal sud; era partito per andare a trovare la regina e la sera, nella grande sala di Urbgen, raccontò una strana storia. Era Bagdemago - parente di Morgana e di Artù.
Lo ricordi?» «Sì. Suo figlio è stato malato due estati fa e io l'ho curato. È sopravvissuto, ma gli è rimasto un'infiammazione agli occhi.» Lei annuì. «Gli desti qualche balsamo, e gli dicesti di usarlo nello stesso modo se gli occhi gli avessero dato ancora dei fastidi. Dicesti che era un composto di erbe che tu avevi a Bryn Myrddin.» «Sì. Era salvia sclarea selvatica, che avevo portato dall'Italia. Ne avevo una riserva a Bryn Myrddin. Ma lui come pensava di procurarsela?» «Aveva creduto che tu intendessi dire che cresceva lì. Forse aveva pensato che tu ti fossi fatto un giardino, come l'avevamo ad Applegarth. Naturalmente sapeva che tu eri sepolto lì, nella montagna. Con noi non ammise di aver avuto paura, ma io credo che ne ebbe. Be', ci raccontò la sua storia, che era salito a cavallo oltre la cima della montagna, e aveva sentito musica che in apparenza usciva dalla terra. Ma poi il suo cavallo, terrorizzato, era fuggito e lui non aveva osato ritornare. Disse che non aveva raccontato a nessun altro la sua storia, perché si vergognava di esser fuggito e aveva paura che ridessero di lui; ma poi, disse, poco prima di partire per il nord, aveva sentito raccontare delle cose, a Maridunum, a proposito di un tale che aveva visto il tuo fantasma e ci aveva parlato... Be', lo sai di chi si trattava, del tuo saccheggiatore di tombe. Questi due episodi messi insieme, con l'aggiunta dei miei sogni persistenti, mi rivelarono chiaramente la verità. Tu eri vivo, e nella grotta. Avrei lasciato Luguvallium quella notte stessa, ma accadde un'altra cosa che mi costrinse a rimanere.» Mi guardò, come se aspettasse da me un cenno di assenso, per significare che sapevo già quel che sarebbe seguito. Ma io mi limitai a dire: «Sì?». Ci fu lo stesso leggero guizzo di sorpresa, come l'aveva avuto Artù, poi lei si morse il labbro e continuò. «Arrivò Morgause, con i figli. Tutti e cinque. Non si può dire che io fossi un'ospite molto gradita, come puoi immaginare, ma Urbgen era la cortesia in persona e Morgana aveva paura di ciò che aveva fatto e quasi mi si aggrappava. Credo pensasse che, finché rimanevo, l'ira di Urbgen non si sarebbe sfogata su di lei. E naturalmente suppongo sperasse in una mia intercessione presso Artù. Ma Morgause...» Si strinse nelle spalle come se avesse freddo. «La vedesti?» «Per poco tempo. Non potevo rimanere lì con lei. Presi commiato e lasciai loro credere che andavo a sud, ma non mi mossi da Luguvallium. In segreto mandai il mio paggio a parlare con Bagdemago, il quale venne a
trovarmi dov'ero alloggiata. È un brav'uomo e ti era debitore della vita di suo figlio. Non gli dissi che ti credevo ancora vivo. Mi limitai a dirgli che Morgause era stata la tua nemica, e la tua rovina, e che anche Morgana si era dimostrata una strega, e nemica del re. Lo pregai di spiare, se poteva, i loro piani e di riferirmeli. Puoi credere che già avevo tentato di penetrare io personalmente la mente di Morgause, ma senza riuscirci. L'unica cosa che potevo sperare era che le due sorelle parlassero tra loro, e che da questo colloquio potesse risultare qualche notizia a proposito della droga che era stata usata su di te. Se il mio sogno era esatto, e tu vivevi ancora, quelle notizie avrebbero potuto aiutarmi ancora a salvarti. Altrimenti, avrei avuto maggiori prove da fornire al re per ottenere la morte di Morgause.» Alzò la mano a carezzarmi la guancia. I suoi occhi erano incupiti. «Sono rimasta nelle mie stanze ad aspettare che tornasse, sapendo, per tutto il tempo, che forse tu stavi morendo, solo nella tomba. Ho tentato di arrivare fino a te, o almeno di vederti, ma ogni volta che cercavo di vedere te, la montagna e la tomba, la luce irrompeva nella visione e la dissolveva, e nella luce fluttuava un graal, velato come la luna nascosta dal temporale o dalla nebbia. Poi si dileguava e il sogno era pervaso da dolore e lutto finché mi svegliavo stordita e piangente, per il dispiacere e la nostalgia, e ricominciavo a sognare.» «Allora ne fosti avvertita? Povera bambina, lasciata a custodire un simile tesoro... Bagdemago ti disse che Morgause ne aveva sentito parlare e che intendeva rubarlo?» «Che cosa?» mi lanciò uno sguardo assolutamente privo di espressione. «Che vuoi dire? Che cosa aveva a che fare Morgause con il graal? Sarebbe stato contaminare il dio, se lo avesse anche solo guardato. Come poteva sapere dove trovarlo?» «Non lo so. Però lo ha preso. Questo mi è stato raccontato da qualcuno che era presente.» «Allora ti hanno raccontato una bugia» fece Nimuë senza mezzi termini. «Sono stata io a prenderlo.» «Sei stata tu a prendere il tesoro di Macsen?» «Appunto.» Si tirò su a sedere, avvampando. Nei suoi occhi, due piccoli bracieri riflessi risplendevano e scintillavano. Con quei punti rossi lucenti, i franchi occhi grigi parevano gli occhi di un gatto, o di una strega. «Me lo dicesti tu stesso dov'era sepolto, ricordi? O ti eri già inoltrato nelle tue nebbie, mio caro?» «Ricordo.»
Lei osservò, calma: «Tu mi hai detto che il potere è un padrone difficile. È stata la cosa più difficile che io abbia mai fatto, andare a Segontium invece di tornare a sud, a Bryn Myrddin. Ma alla fine sapevo che mi era stato ordinato di farlo, perciò andai. Presi due dei miei servi, due uomini di cui mi potevo fidare, e trovai il posto. Era cambiato. Il santuario era scomparso, sotto una frana, ma io mi basai sui punti di riferimento che tu mi avevi dato per scavare. Avrebbe potuto essere un lavoro lungo, ma trovammo un aiuto». «Uno sporco pastorello capace di tenere una bacchetta di nocciolo sul terreno e dirti dov'era nascosto il tesoro.» I suoi occhi mobilissimi. «Ma allora, perché mi stanco a raccontarti la mia storia? Sì. Venne e ci mostrò il punto, e noi scavammo lì e portammo via la cassa. Poi salii nella fortezza a parlare con il comandante, e quella notte dormii lì, con un uomo di guardia davanti alla mia stanza. E durante la notte, mentre ero a letto, le visioni vennero in folla. Seppi che eri vivo, e libero e che ben presto saresti stato con il re. Così, la mattina dopo chiesi una scorta per portare a sud il tesoro, e mi misi in strada per Caerleon.» «E mi mancasti per due giorni» dissi io. «Ti mancai? Dove?» «Credevi che il pastorello lo avessi "visto" nel fuoco? No, lì ci sono stato di persona.» Le raccontai, in poche parole, il mio soggiorno a Segontium e la mia visita al santuario scomparso. «Perciò quando quel bambino mi parlò di te e dei due servi, come uno sciocco fui sicuro che si trattasse di Morgause. Non descrisse la donna, a parte il fatto...» M'interruppi e la guardai sollevando le sopracciglia. «Disse che era una regina e che i servi avevano le insegne reali. Per questo supposi...» Tacqui. La sua mano, chiusa sulla mia, improvvisamente si era stretta. Il riso si spense nei suoi occhi; mi guardava fisso, con uno sguardo strano, tra il terrorizzato e il supplichevole. Non c'era bisogno della Vista per indovinare quella parte della storia che lei non mi aveva detto, e della quale Artù e gli altri avevano evitato di parlare con me. Nimuë non aveva usurpato il mio potere, né aveva tentato, anche lei, di distruggermi: tutto quel che aveva fatto, scomparso il vecchio mago, era stato di portarsi a letto un uomo giovane. Mi parve di essere da molto tempo in attesa di quel momento. Sorrisi e le chiesi, dolcemente: «Chi è lui, il tuo re?» Avvampò in viso. Vidi le lagrime bruciarle di nuovo gli occhi. «Avrei dovuto dirtelo subito. Mi hanno detto che non te l'avevano raccontato.
Merlino, non osavo.» «Non fare quella faccia, mia cara. Quello che abbiamo avuto, l'abbiamo avuto, e non si può bere due volte lo stesso sorso di elisir. Se ancora fossi stato solo la metà di un mago, lo avrei saputo da un pezzo. Chi è lui?» «Pelleas.» Lo conoscevo, un giovane principe, bello e gentile, con un genere di allegria che sarebbe servita a compensare la tormentosa tetraggine che a volte affliggeva lei. Cominciai a parlare di lui, lodandolo, e in breve lei si calmò e, con crescente disinvoltura, si mise a raccontarmi del suo matrimonio. Io ascoltavo, osservavo, e avevo tempo, ormai, per notare i cambiamenti intervenuti in lei: cambiamenti, pensavo, dovuti al potere che aveva dovuto assumersi in modo così drastico. La mia dolce Ninian era scomparsa, insieme a me, nella nebbia. Questa Nimuë aveva una durezza che prima non c'era stata; qualcosa di tranquillamente terribile, una specie di luminosità tagliente come il filo di un'arma. E nella sua voce, di quando in quando, risonava l'eco indefinibile dei toni più profondi usati dal dio quando, con autorità e potere, si abbassa a parlare il linguaggio dei mortali. Quegli attributi un tempo erano stati miei. Ma, accettandoli, io avevo rifiutato qualsiasi amante. Mi sorpresi a sperare, nel suo interesse, che Pelleas fosse un uomo molto risoluto. «Sì,» disse Nimuë «lo è.» Riaffiorai dalle mie riflessioni. Lei mi stava osservando, la stesa inclinata di lato, gli occhi in cui brillava il riso. Risi anch'io con lei, poi le apersi le braccia. Lei vi si precipitò, e alzò la bocca verso di me. La baciai, una volta con passione, una volta con affetto, e poi la lasciai andare. Dieci Natale a Caerleon. Le immagini mi tornano in folla alla mente, sole e neve e luce di torce, immagini di gioventù e di allegria, di coraggio, di appagamento e di tempo sottratto all'oblio. Mi basta chiudere gli occhi; no, neppure questo; mi basta guardare nel fuoco ed esse sono qui con me, tutte. Nimuë, con Pelleas, che trattava me con deferenza e lei con amore, ma che era re e uomo. «Nimuë appartiene al re» disse Pelleas «e poi a me. E io... be', è la stessa cosa, no? Io sono suo da prima ancora che lei fosse mia. Chi di noi, agli occhi di Dio e del re, è mai padrone di se stesso?»
Bedwyr, che mi raggiunge una sera in riva al fiume, gonfio e grigioardesia tra gli argini invernali. Una flottiglia di cigni frugava nel fango, tra i giunchi vicini alla riva. Aveva cominciato a cadere la neve, che si librava piccola e leggera come piume di cigno nell'aria immobile. «Mi hanno detto che eri venuto da questa parte» disse Bedwyr. «Sono sceso a prenderti. Il re ti aspetta. Vieni, adesso? Fa freddo, e diventerà ancora più freddo.» Poi, mentre tornavamo indietro insieme: «Ci sono notizie di Morgause» fece Bedwyr. «È stata rimandata a nord nel Lothian, nel monastero di Caer Eidyn. Tydwal veglierà perché non possa andarsene. E si dice che anche la regina Morgana sarà mandata a raggiungerla. Dicono che re Urbgen trova difficile perdonare il suo tentativo di coinvolgerlo nel tradimento, e ha paura, tenendola con sé, che l'onta colpisca anche lui e i suoi figli. Inoltre Accolon era il suo amante. Perciò si vocifera che Urbgen la ripudierà. Ha mandato a chiedere l'autorizzazione ad Artù. E l'otterrà, anche. Credo che Artù si sentirà molto meglio quando tutt'e due le sue affezionate sorelle saranno rinchiuse, e a buona distanza da lui. È stata Nimuë a suggerirglielo». Rise, guardandomi di sottecchi. «Perdonami, Merlino, ma adesso che i nemici del re sono donne, forse è meglio che ad affrontarle sia una donna. E se vuoi sapere come la penso, starai molto meglio tenendotene fuori...» Ginevra, seduta al suo telaio un mattino luminoso, con il sole che batteva sulla neve, di fuori, e accanto a lei un uccello in gabbia che cantava sul davanzale. Le sue mani erano abbandonate, inoperose, in mezzo ai fili colorati e la bella testa volta a osservare, più in basso, accanto al fossato, i ragazzi che giocavano. «Potrebbero essere miei» disse. Però vidi che i suoi occhi non seguivano le teste chiare dei figli di Lot, ma solo il bruno Mordred, un po' in disparte dagli altri, intento ad osservarli, non come un fuoricasta potrebbe guardare i fratelli privilegiati, ma come un principe potrebbe osservare i suoi sudditi. E lo stesso Mordred. Non parlai mai con lui. Per la maggior parte del tempo, i ragazzi risiedevano negli appartamenti a loro riservati, o erano affidati al maestro d'armi e ad altri incaricati di addestrarli. Ma un pomeriggio, in una giornata scura che scivolava verso il crepuscolo, m'imbattei in lui, fermo accanto al pilastro di un cancello del giardino, come in attesa di qualcuno. Esitavo un momento, chiedendomi in che modo salutarlo, e in che modo egli avrebbe accolto il nemico di sua madre, quando gli vidi girare la testa e lui si mosse. Artù e Ginevra stavano passando in mezzo alle rose sfiorite del giardino, poi uscirono dal cancello. Erano tutti troppo lontani perché potessi sentire ciò che dicevano, ma vidi la regina sorridere
e protendere una mano e il re parlare con un'espressione affabile. Mordred gli rispose, poi, ubbidendo a un gesto di Artù, li accompagnò mentre si allontanavano, camminando in mezzo a loro. E infine Artù, una sera negli appartamenti privati del re, quando Nimuë portò la cassa per mostrargli il tesoro proveniente da Segontium. La cassa era posata sul piano di marmo del grande tavolo che era stato di mio padre. Era di metallo, pesante, il coperchio segnato e intaccato da tutte le macerie che gli erano cadute sopra quando il santuario era crollato. Il re vi mise mano. Per qualche momento il coperchio gli resistette, poi di colpo, leggero come una foglia, si lasciò sollevare. Dentro c'erano gli oggetti esattamente come io li ricordavo. Bende di tela marcita e, scintillante attraverso l'imballaggio, una punta di lancia. Egli la estrasse dalla cassa, saggiandone il filo con il pollice, un gesto naturale come respirare. «Ornamentale, credo» disse, strofinando con la mano le gemme del bordo e mettendola da parte. Poi tirò fuori un vassoio quasi piano, d'oro, con il bordo tempestato di pietre preziose. E infine, da un mucchio di tela ingrigita e ormai ridotta in polvere, la coppa. Era quel tipo di coppa che a volte chiamano ciotola, o graal di foggia greca, largo e profondo. Era d'oro e, dal modo in cui lo reggeva, si sarebbe detto molto pesante. Tutt'intorno la superficie esterna della coppa, e il piede, erano cesellati. I due manici erano a forma di ali d'uccello. Una fascia che le girava intorno, dove le labbra di chi beveva non potevano arrivare, era tempestata di smeraldi e di zaffiri. Egli la girò e me la tese con tutt'e due le mani. «Prendila e guardala. È l'oggetto più prezioso che io abbia mai visto.» Scossi la testa. «Non spetta a me toccarlo.» «E neppure a me» disse Nimuë. Artù la osservò ancora un momento, poi la rimise nella cassa insieme alla lancia e al vassoio, avvolgendo delicatamente gli oggetti nella tela, talmente consumata da essere ridotta a un velo. «E non vorrai neanche dirmi dove conservare un tale splendore, o che cosa farne?» Nimuë mi guardò e tacque. Quando io parlai, le mie parole erano solo l'eco sommessa di ciò che avevo già detto, tanto tempo prima. «Non è neppure per te, Artù. Tu non ne hai bisogno. Sarai tu stesso il graal per il tuo popolo, ed essi a te si abbevereranno e ne saranno dissetati. Tu non verrai mai loro meno, e non li lascerai mai completamente. Tu non hai bisogno del graal. Lascialo per quelli che verranno.»
«Allora, dato che non è né mio né tuo» disse Artù «deve prenderlo Nimuë e con i suoi incantesimi nasconderlo, in modo che nessuno possa trovarlo, a parte coloro che sono prescelti.» «Nessuno lo troverà» disse lei, e abbassò il coperchio sul tesoro. *
*
*
In seguito, un altro anno iniziò gelido e lentamente scivolò nella primavera. Tornai a casa alla fine di aprile, con il vento che stava facendosi caldo, gli agnellini che belavano sulla montagna e gli amenti gialli che fremevano nel sottobosco. La grotta era di nuovo pulita e calda, un luogo adatto a viverci, e c'era cibo, pane fresco, un coccio di latte e un vaso di miele. Fuori, accanto alla sorgente, c'erano offerte lasciate dalla gente che conoscevo, e tutti i miei averi, con i libri, i medicamenti, gli strumenti e l'arpa grande da terra, erano stati riportati lì da Applegarth. Il mio ritorno alla vita era stato più facile di quanto avessi previsto. Sembra che per la gente semplice, e anche per quelli che abitavano in regioni lontane della Britannia, la storia del mio ritorno dalla morte fosse stata accettata non come la semplice verità, ma come una leggenda. Quel Merlino che avevano conosciuto e temuto era morto; un altro Merlino viveva nella «sacra grotta», dedito alle sue piccole magie, ma era, per così dire, solo l'ombra del mago che avevano conosciuto. Può darsi credessero che, a somiglianza di tanti simulatori del passato, io fossi solo un piccolo stregone che si faceva bello della fama di Merlino e cercava di prenderne il posto. A corte, nelle città e nei luoghi famosi del mondo, la gente ora contava su Nimuë, in quanto detentrice del potere, per averne aiuto. Da me venivano quelli del luogo per farsi guarire le piaghe e i malanni; a me Ban il pastore portava gli agnelli malati e i bambini del villaggio i loro cuccioli prediletti. Così l'anno lentamente trascorse, con tale lievità da parere solo la sera di un giorno tranquillo. I giorni erano dorati, dolci e sereni. Non giungeva nessuna chiamata da parte del potere, non soffiava alcun vento puro e impetuoso, e non c'era dolore nel mio cuore né formicolio nella carne. I grandi eventi del regno parevano non turbarmi più. Non avevo fame di notizie e non le chiedevo perché, quando arrivavano, era il re in persona a portarle. Esattamente come il ragazzo Artù, salito di corsa al santuario della Foresta Selvaggia per vedermi, aveva rovesciato ai miei piedi tutti i fatti della
giornata, così il Sommo re di Britannia mi portava tutte le sue azioni, i suoi problemi e le sue preoccupazioni, rovesciandole sul pavimento della grotta alla luce del fuoco e ne parlava con me. Che cosa io potessi fare per lui non lo so; ma ogni volta, dopo che se n'era andato, mi trovavo, svuotato e silenzioso, nella serenità della totale contentezza. Il dio, che era Dio, in effetti aveva congedato il suo servo e lasciava che se ne andasse in pace. *
*
*
Un giorno tirai verso di me l'arpa piccola e mi accinsi a comporre nuovi versi per una canzone cantata molti anni prima. Riposa qui, mago, mentre il fuoco muore. Tempo di un respiro, di un batter d'occhio, E li vedrai, i sogni; La spada e il giovane re, Il cavallo bianco e l'acqua che scorre, La lampada accesa e il ragazzo sorridente. Sogni, sogni, mago! Scomparsi Con l'eco dell'arpa quando le corde Ammutoliscono; con l'ombra delle fiamme Quando il fuoco Si spegne. Taci, e ascolta. Lontano nell'aria scura Soffia il forte vento, sale La marea, scorre il limpido torrente. Ascolta, mago, ascolta Attraverso l'aria scura e sonora La musica... Dovetti interrompere qui la canzone perché una corda si spezzò. Lui mi aveva promesso di portarmene delle nuove, la prima volta che sarebbe venuto. *
*
*
È tornato ieri. Qualcosa lo aveva richiamato a Caerleon, ha detto, perciò è salito fin qui a cavallo, appena per un'ora. Quando gli ho chiesto che cosa fosse accaduto a Caerleon, ha ignorato la domanda, tanto che mi sono chiesto - scartando poi l'ipotesi come assurda - se non avesse fatto il viaggio semplicemente per vedere me. Ha portato con sé dei doni - non viene mai a mani vuote - vino, un cesto di pietanze cucinate nelle sue cucine, le corde per l'arpa promesse e una coperta di morbida lana nuova tessuta, ha detto, dalle ancelle stesse della regina. Li ha portati dentro lui stesso, come un servo, e li ha riposti per me. Pareva su di morale. Mi ha raccontato di un giovane venuto di recente a corte, un nobile soldato, cugino di Marco di Cornovaglia. Poi ha parlato di un incontro che sta progettando con il «re» sassone Cerdic, successore di Eosa. Abbiamo parlato finché è scesa la notte e la sua scorta ha risalito il sentiero della valle, con un tintinnio di finimenti, per riaccompagnarlo. Allora si è alzato, agilmente, e come sempre, ormai, quando si accomiata, si è chinato a baciarmi. Di solito mi fa restare qui, accanto al fuoco, mentre lui esce fuori nella notte, ma questa volta mi sono alzato e l'ho seguito fino all'ingresso della grotta, poi sono rimasto lì a guardarlo mentre si allontanava. Avevo la luce alle spalle e la mia ombra si allungava, sottile, lunga, come quella di una volta, sul praticello, quasi fino al boschetto dei biancospini dove gli uomini della scorta aspettavano, sotto la parete rocciosa. Era quasi notte, ma oltre Maridunum, a occidente, una striscia di luce indugiante rivelava il sole al tramonto. La luce si rifletteva nel fiume che costeggia le mura del palazzo in cui sono nato e faceva scintillare come una pietra preziosa un punto lontano sul mare. Accanto a me gli alberi erano spogli per l'inverno e il terreno increspato per la prima brina. Artù si è allontanato da me con passo pesante attraverso l'erba, lasciando impronte immateriali nel bianco. È arrivato fino al punto dove il sentiero scende al boschetto e si è girato a metà. L'ho visto alzare una mano. «Aspettami.» È sempre lo stesso saluto. «Aspettami. Tornerò.» E come sempre, ho risposto: «Che altro ho da fare se non aspettare te? Sarò qui, quando tornerai». Il rumore dei cavalli è diminuito, riducendosi sempre più, scomparendo. Nella valle è tornato il silenzio invernale. L'oscurità è calata. Un alito notturno, come un sospiro, è scivolato in mezzo agli alberi festonati di brina. Nella sua scia, flebilmente, non come un suono ma come
l'ombra di un suono, è giunto dall'aria un sommesso, dolce riecheggiare. Ho alzato la testa, ricordando ancora una volta il bambino che, di notte, era stato in ascolto, tentando di sentire la musica dei corpi celesti ma senza mai riuscirci. Adesso eccola, tutt'intorno a me, una musica dolce, incorporea, come se la montagna stessa fosse un'arpa per la brezza. Sono cadute le tenebre. Dietro di me il fuoco si è affievolito e la mia ombra è scomparsa. Io sono rimasto ancora in ascolto, sommerso dalla calma di una infinita contentezza. Il cielo, greve della notte, si è avvicinato alla terra. Lo scintillio sul mare lontano si spostava, leggero e seguendo l'ombra, come la lenta traiettoria di una spada che scivola di nuovo nel fodero, o come la chiatta che rimpicciolisce sotto la vela allontanandosi sull'acqua. Era buio completo. Silenzio completo. Un brivido mi ha sfiorato la pelle, simile al contatto freddo del cristallo. Ho lasciato la notte, con le sue stelle remote e canore, e sono tornato dentro, al chiarore del fuoco, verso la sedia dove lui era stato seduto e l'arpa cui mancava una corda. La leggenda Quando re Uther Pendragon fu prossimo alla morte, Merlino gli si avvicinò al cospetto di tutti i signori e gli ordinò di riconoscere il figlio Artù come nuovo re. Ciò egli fece, e poi morì e fu sepolto accanto al fratello Aurelio Ambrogio all'interno della Danza dei Giganti. Merlino fece allora foggiare una grande spada e con arte magica la fissò in una grande pietra a forma di altare. Sulla spada, a lettere d'oro, era scritto: «Colui che strapperà questa spada dalla pietra è per legittima nascita re di tutta l'Inghilterra». Quando alla fine fu visto da tutti gli uomini che solo Artù poteva strappare la spada dalla pietra, il popolo gridò: «Vogliamo Artù come nostro re, non vogliamo che subisca altri indugi perché vediamo tutti che è volontà di Dio che egli sia nostro re, e chi si oppone a ciò noi lo uccideremo». Così Artù fu accettato dal popolo, dai nobili e dal volgo, e innalzato al trono. Quando egli fu incoronato, nominò sir Kay siniscalco d'Inghilterra e sir Ulfius proprio ciambellano. Seguirono molti anni di guerre e di battaglie, ma poi arrivò Merlino su un grande cavallo nero e disse ad Artù: «Tu non hai mai finito, non hai fatto abbastanza? È ora di dire: Fermi! E quindi ritirati nei tuoi appartamenti e riposati appena lo potrai, e compensa i tuoi bravi cavalieri con
oro e argento, perché lo hanno ben meritato». «Ben detto» fece Artù: «come hai pensato, sarà fatto». Allora Merlino si congedò da Artù e si mise in viaggio per recarsi dal suo maestro Blaise, che viveva in Northumbria. Così Blaise raccontò le battaglie, parola per parola, come gliele riferiva Merlino. Poi un giorno re Artù disse a Merlino: «I miei baroni non mi danno tregua, occorre che io prenda moglie». «È bene» disse Merlino «che tu prenda moglie. C 'è forse una fanciulla che tu prediligi?» «Sì» disse re Artù «amo Ginevra, figlia di Leodegrance, il re del paese di Cameliard, il quale ha nella sua casa la Tavola rotonda che, tu mi hai detto, ha ricevuto da mio padre Uther.» Merlino lo avvertì allora che Ginevra non sarebbe stata moglie giovevole per lui, e gli rivelò che Lancillotto l'avrebbe amata, e che lei gli avrebbe corrisposto. Malgrado ciò il re decise di sposare Ginevra e mandò sir Lancillotto, comandante dei suoi cavalieri e suo fidato amico, a prendergliela e portargliela. Durante questo viaggio, la profezia di Merlino si avverò, e Lancillotto e Ginevra giunsero ad amarsi. Ma erano impotenti a realizzare il loro amore, e Ginevra a suo tempo sposò il re. Leodegrance, il re suo padre, mandò ad Artù la Tavola rotonda come dono di nozze. Intanto Morgause, sorellastra di Artù, aveva partorito il figlio bastardo generato dal re. Il suo nome era Mordred e Merlino aveva profetizzato che da quel figlio gran pericolo sarebbe derivato per Artù e per il suo regno; perciò quando il re apprese la notizia di quella nascita ordinò che tutti i bambini nati ai primi di maggio fossero presi e messi a bordo di una nave, e che questa fosse mandata alla deriva. Alcuni avevano quattro settimane, altri meno. Per caso la nave andò a finire contro uno scoglio sul quale sorgeva un castello. La nave fu distrutta e tutti i bambini morirono, eccetto Mordred che fu trovato da un brav'uomo e allevato fino all'età di quattordici anni, quando venne portato al re. Poco dopo il matrimonio con Ginevra, Artù dovette allontanarsi dalla corte e in sua assenza re Meleagant (Melwas) portò la regina nel suo regno dal quale, si diceva, nessun viaggiatore era mai tornato. Alla prigione cinta da fossato dove era tenuta la regina si arrivava solo seguendo due sentieri molto pericolosi. Uno era detto «il ponte nell'acqua» perché il ponte era sommerso dall'acqua, invisibile e molto stretto. L'altro ponte era molto più pericoloso e non era mai stato attraversato da nessun uomo, perché era costituito da una spada tagliente. Nessuno osava seguire Ginevra salvo Lancillotto, il quale si aprì una strada nel paese sconosciuto,
finché arrivò presso la dimora che Meleagant aveva fatto costruire per la regina. Allora attraversò il ponte della spada, e sopportò perciò dolorose ferite, ma salvò la regina e in seguito, al cospetto di re Artù e della corte, combatté e uccise Meleagant. Avvenne poi che Merlino si rimbambisse per una delle fanciulle del lago, il cui nome era Nimuë, e non le lasciava tregua volendo sempre essere con lei. Egli avvertì re Artù che non sarebbe rimasto ancora a lungo sulla terra, perché malgrado tutte le sue arti sarebbe stato messo, vivo, dentro alla terra, e lo ammonì anche di tenere al sicuro la sua spada e il suo fodero, perché gli sarebbero stati rubati da una donna per la quale nutriva la massima fiducia. «Ah» disse il re «dato che conosci questo tuo rischio, perché non lo allontani con le tue arti magiche, e non impedisci che si realizzi?» «Non è possibile» disse Merlino. «È stabilito che tu morrai di una morte onorevole, mentre io avrò una morte infame.» Poi si separò dal re. Qualche tempo dopo, la fanciulla del lago, Nimuë, si allontanò e Merlino la seguì dovunque essa si recasse. Attraversarono il mare diretti al paese di Benwick, in Britannia minore, dove era re Ban e dove Elaine, sua moglie, portava con sé il figlio bambino di nome Galahad. Merlino profetizzò che un giorno Galahad sarebbe stato l'uomo più venerato della terra. In seguito Nimuë e Merlino lasciarono la Britannia minore e si recarono in Cornovaglia. E madonna lo temeva perché era figlio del diavolo, e non sapeva come sbarazzarsene. Or avvenne che Merlino le mostrasse una grotta nella roccia che era possibile bloccare con un macigno di pietra. Allora con subdoli artifici essa indusse Merlino ad entrarvi per mostrarle la magia che vi dimorava e lanciò un incantesimo in modo che egli non potesse mai più uscirne. Poi se ne andò lasciandolo nella grotta. Poco dopo un cavaliere, un cugino del re di nome Bagdemago, uscì a cavallo dalla corte per trovare un ramoscello di una pianta sacra dotata di virtù risanatrici. Avvenne che egli passasse vicino alla grotta in cui la donna del lago aveva rinchiuso Merlino, e che lo udisse lamentarsi. Bagdemago avrebbe voluto aiutarlo, ma quando si avvicinò al macigno lo trovò così pesante che cento uomini insieme non sarebbero riusciti a muoverlo. Quando Merlino si accorse che il cavaliere era fuori della grotta, gli disse di risparmiare la fatica, perché tutto era inutile. Così Bagdemago si allontanò, lasciandolo nella grotta. Intanto era avvenuto quanto Merlino aveva predetto, e la fata Morgana, sorella di Artù, aveva rubato la spada Excalibur e il suo fodero, dandoli poi ad Accolon perché combattesse proprio contro il re. E quando il re fu
pronto per il combattimento, arrivò una fanciulla inviata dalla fata Morgana, la quale recava ad Artù una spada identica ad Excalibur, completa del suo fodero, e il re la ringraziò. Ma la fanciulla lo ingannava, perché spada e fodero erano contraffatti, e fragilissimi. Ebbe quindi luogo il combattimento tra re Artù e Accolon. La signora del lago era presente a questo combattimento, perché sapeva che la fata Morgana voleva male al re, mentre essa voleva salvarlo. Ad Artù la spada si ruppe nella mano, e solo dopo accanito combattimento poté riprendere la propria spada Excalibur ad Accolon e batterlo. Allora Accolon confessò il tradimento della fata Morgana, moglie di re Urien, e Artù gli concesse misericordia. In seguito a ciò, la signora del lago diventò amica e protettrice di re Artù, in vece e luogo del mago Merlino. Nota dell'Autrice Secondo la leggenda, la principale fonte della quale è la Morte d'Arthur di Malory, Merlino rimase in vita solo per breve tempo dopo l'incoronazione di Artù. Il periodo di battaglie e tornei successivo all'incoronazione può con certezza essere interpretato come il complesso delle effettive battaglie combattute dal personaggio storico Artù. Del vero condottiero, del soldato Artù (dux bellorum) sappiamo solo che combatté dodici grandi battaglie prima di poter considerare la Britannia al sicuro dal nemico sassone, e che alla fine morì, e con lui Mordred, nella battaglia di Camlann. Il molto citato resoconto delle dodici battaglie si trova nella Historia Brittonum scritta nel nono secolo dal monaco gallese Nennio. Allora in quei giorni Artù combatté contro di loro, insieme ai re dei britanni, ma era lui il condottiero nelle battaglie. La prima di queste ebbe luogo alla foce del fiume che è detto Glein. La seconda, la terza, la quarta e la quinta si svolsero su un altro fiume, chiamato Dubglas, che scorre nei dintorni di Linnuis. La sesta battaglia ebbe luogo sul fiume Bassas. La settima fu una battaglia nella foresta di Celidon, cioè Cat Coit Celidon. L'ottava fu la battaglia di Castellum Guinnion, nella quale Artù portò sulle spalle l'immagine di santa Maria Vergine, e i pagani furono messi in fuga quel giorno e grazie alla potenza di Nostro Signore Gesù Cristo e di santa Maria Vergine, sua madre, di essi si fece gran massacro. La nona battaglia fu combattuta nella Città delle Legioni. La decima battaglia Artù la combatté sul fiume detto Tribuit. L'undicesima si svolse sul monte che si
chiama Agned. La dodicesima fu la battaglia di Monte Badone, e nel corso di essa in un sol giorno caddero novecentosessanta uomini sotto l'attacco di Artù, e nessun altro, salvo lui solo, li abbatté. E di tutte le battaglie egli fu vincitore. Solo due di queste battaglie possono essere localizzate con una qualche certezza: quella della Foresta di Caledonia - l'antica Foresta di Caledonia che si estendeva dallo Strathclyde fino all'attuale Lake Districi - e quella della Città delle Legioni, che potrebbe essere Chester o Caerleon. Io mi sono limitata a utilizzare i nomi geografici di Nennio e a identificare solo una località, quella in cui ebbe luogo la battaglia del fiume Tribuit. È stato ipotizzato che questo possa essere l'antico nome del fiume Ribble. C'è un punto in cui la vecchia strada romana attraversa il Ribble e si dirige verso l'Aire Gap (il «Varco dei Pennini»). Esso si chiama Nappa o Guado Nappay, e la tradizione locale ricorda che vi si è svolta una battaglia. Il vicino forte che io ho chiamato «Tribuit» sorgeva a Long Preston; gli altri due forti sul Varco erano naturalmente Elslack e Ilkley. Ho anche utilizzato la tradizione secondo la quale Artù combatté a High Rochester (Bremenium) sui monti Cheviot. A parte queste due «località di battaglie» non ne ho inserite altre nella carta geografica. Blaise. Secondo Malory, Blaise «registrò parola per parola le battaglie di Artù», cronaca questa che, se pure mai esistette, è del tutto scomparsa. Mi sono presa la libertà di creare un agente distruttivo nella persona di Gilda, figlio minore di Caw dello Strathclyde e fratello di Heuil. Questi sono personaggi storici. Sappiamo che Artù e Heuil si odiavano. Il monaco Gilda, scrivendo verso il 540 d. C, parla della vittoria di «Monte Badone» ma senza citare per nome Artù. Questo è stato interpretato quanto meno come indizio di disapprovazione per un condottiero che non si era dimostrato amico della Chiesa. La malattia di Merlino. L'episodio della Foresta Selvaggia è tratto dalla storia della follia di Merlino come ci è narrata nella Vita Merlin, poema latino del dodicesimo secolo comunemente attribuito a Goffredo di Monmouth. Esso è in parte una più recente versione del più antico racconto celta «Lailoken», su di un pazzo che errava per la Foresta di Caledonia. Merlino-Lailoken fu presente alla battaglia di Arfderydd (la moderna Arthuret, presso Carlisle) nella quale rimase ucciso il re suo amico. Reso
pazzo dal dolore, egli fuggì nella foresta dove condusse un 'esistenza miserabile. Nel Black Book of Carmarthen si trovano due poemi attribuiti a lui. In uno egli descrive il melo che lo ripara e lo nutre nella foresta; nell'altro si rivolge al maialino che è il suo solo compagno. Ginevra (Guenever e Guinevere). Secondo la tradizione Artù ebbe due mogli dallo stesso nome, o addirittura tre - benché questo fosse con ogni probabilità solo una cifra tonda messa lì per comodità poetica. Il ratto di Ginevra da parte di Melwas (o Meleagant) si trova nel romanzo medievale di Chrétien de Troyes, Lancelot. Nella narrazione di Chrétien de Troyes Lancillotto deve attraversare un ponte costituito da una spada che conduce alla grotta fatata nella montagna - versione dell'antica fantasia del ratto che troviamo nei racconti di Dite e Persefone, o di Orfeo e Euridice. Secondo le leggende medievali, prevedibilmente Ginevra subì di quando in quando dei rapimenti, e altrettanto prevedibilmente fu salvata da Lancillotto. Un lettore moderno capirà come nacquero le storie sulla «molto rapita» regina. I musici medievali trovarono in «Re Artù e la sua corte» una ricca fonte di narrativa, e col tempo una lunga serie di racconti venne a formarsi intorno ai personaggi centrali, un po' come attualmente gli autori di serials televisivi costruiscono le loro sceneggiature. Nelle leggende, gradualmente lo stesso Artù sbiadisce finendo sullo sfondo, mentre vari nuovi «eroi» vengono a trovarsi al centro della scena: Lancillotto, Tristano, Galvano, Gereint. Lancillotto, personaggio puramente fittizio (invenzione di qualche secolo posteriore alle «gesta arturiane»), è creato per assolvere al ruolo di amante della regina, tanto essenziale per gli autori medievali e per il loro codice dell'amor cortese. Ma è allettante credere che la prima delle «storie di ratto», il rapimento della regina ad opera di Melwas, fosse fondata su fatti reali. Melwas certamente esistette, e sono stati trovati resti di epoca coincidente che indicherebbero l'esistenza di roccheforti a Glastonbury Tor e dintorni. Nella mia storia Bedwyr, il cui nome è legato con quello di Artù molto prima che compaia «Lancillotto», assume il ruolo di Lancillotto. Nel personaggio di Ginevra, quale l'ho qui tratteggiato, credo di esser stata influenzata dalla «falsa» Criseide secondo Chaucer. Nimuë (Niniane, Vivien). Né esiste alcuna necessità di attribuire lo stesso genere di «falsità» all'amante di Merlino, Nimuë. Il «tema del tradi-
mento» di questa leggenda scaturisce dalla necessità di spiegare la morte o la scomparsa di un mago onnipotente. La mia versione della fine di Merlino si basa su una tradizione ancora viva in alcune zone della «Terra dell'estate»4. Molti anni fa essa mi è stata mandata da un corrispondente del Wiltshire. Secondo questa versione della storia, Merlino, con il passare degli anni, volle cedere i suoi poteri magici a qualcuno che potesse diventare consigliere di Artù dopo la sua morte. Per ciò scelse la sua allieva Nimuë, che se ne era dimostrata degna. Questa versione non soltanto salva la dignità del «grande incantatore» e anche un suo certo buon senso, ma spiega pure la successiva influenza di Nimuë su Artù. Difficilmente, altrimenti, il re l'avrebbe tenuta vicino a sé, o avrebbe accettato l'aiuto di lei contro i suoi nemici. Ninian. L'episodio del «ragazzo Ninian» mi è stato suggerito da un altro fatto che si trova nella Vita Merlini. In esso Merlino vede un giovane che si compra delle scarpe, e pezzi di cuoio per ripararle in modo da farle durare più a lungo. Merlino sa che il giovane non avrà bisogno delle scarpe nuove, perché annegherà lo stesso giorno. Cerdic Elesing. La Cronaca anglosassone registra che Cerdic e suo figlio Cynric sbarcarono con cinque navi a Cerdicesora. Cerdic era Elesing (figlio di Elesa, o Eosa). La data fornita è il 494 d.C. Per quanti dubbi si possano nutrire sulle date delle battaglie di Cerdic, o sulla localizzazione delle sue prime conquiste (Cerdicesora si ritiene essere l'attuale Netley, presso Southampton), tutti i cronisti sembrano d'accordo sul fatto che egli fosse il fondatore della prima monarchia dei sassoni occidentali, dalla quale avrebbe sostenuto di discendere Alfredo. Per Cerdic, e per le modifiche nelle consuetudini funebri, cui accenna Gereint a pag. 103, vedi History of the Anglo-Saxons, vol. I, sez. IV, di Hodgkin. Llud-Nuatha, o Nodens. Il santuario di Nodens si può ancora vedere, a Lydney, nel Gloucestershire. La canzone di Merlino. «Chi non ha compagni» si basa sul poema anglosassone «The Wanderer». Infine, per le numerose lacune della mia conoscenza su questo sconfina-
to argomento, posso solo chiedere perdono, parafrasando ciò che H. M. e N. K. Chadwick hanno scritto nella prefazione alla loro Growth of English Literature: «Se avessi avuto letture più vaste non avrei mai completato questo libro». Anzi: se avessi saputo quanto c'era da leggere non avrei mai osato neppure cominciare a scrivere. Per lo stesso motivo non posso citare tutte le fonti cui ho attinto. Posso però sperare, in tutta umiltà, che la mia trilogia di Merlino possa costituire, per qualche nuovo appassionato, un inizio. M.S. Note 1
Applegarth, cioè chiostro delle mele. [N.d.T.] Smeriglio (un tipo di piccolo falco) è la traduzione italiana del termine inglese merlin, dal quale ha nome Merlino. [N.d.T.] 3 E, quasi, un intraducibile gioco di parole. A king's ransom, cioè un riscatto da re, è l'esatto equivalente dell'espressione italiana «un'ira di Dio». [N.d.T.] 4 La Summer Country, che abbiamo tradotto con «Terra dell'estate», indica effettivamente, anche se non rigidamente, le contee del sud-ovest (fino al Canale di Bristol), tra cui appunto il Wiltshire e il Somerset. Non è comunque denominazione corrente in senso geografico. [N.d.T.] 2
FINE