CHRISTOPHER CALDWELL
L'ULTIMA RIVOLUZIONE DELL'EUROPA L'immigrazione, l'islam e l'Occidente
Garzanti
Se lui potesse...
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CHRISTOPHER CALDWELL
L'ULTIMA RIVOLUZIONE DELL'EUROPA L'immigrazione, l'islam e l'Occidente
Garzanti
Se lui potesse dimenticare l'ambizione infantile di essere vecchio e le istituzioni in cui questa imparò a lavare e a mentire, direbbe la verità per la quale si considera troppo giovane: che ogni luogo sul suo orizzonte, tutto il cielo, sta ora, come sempre, aspettando solo di essere detto per divenire la sua casa paterna e parlare la sua lingua madre. W.H. Auden, The Quest
1. FIUMI DI SANGUE
Le ragioni e i torti di Enoch Powell - Quanti sono gli immigrati in Europa ? L'immigrazione musulmana - Il problema demografico europeo - Civiltà e declino - Il principio della diversità è sopravvalutato - Può lEuropa rimanere sé stessa con una popolazione diversa ?
L'Europa occidentale è diventata una società multietnica in un momento di distrazione. L'immigrazione di massa ebbe inizio - senza suscitare un gran dibattito pubblico, come si sarebbe poi sottolineato nel decennio successivo alla seconda guerra mondiale, quando industrie e governi di Gran Bretagna, Francia, Germania, Paesi Bassi e Scandinavia misero a punto programmi di reclutamento di manodopera per alimentare le loro economie in forte crescita. I migranti furono dunque invitati. Alcuni dei nuovi arrivati occupavano posizioni, soprattutto nell'industria pesante, che oggi paiono di una sicurezza invidiabile e ben pagati. Ma altri svolgevano le mansioni più dure, ingrate e pericolose che l'industria europea aveva da offrire. Molti di loro erano fedeli sudditi delle colonie e avevano addirittura combattuto negli eserciti europei. L'Europa divenne meta di immigrazione a seguito di un accordo tra le sue élite politiche e quelle economiche, le quali, fin dove si spinsero a immaginare le conseguenze a lungo termine, formularono una serie di previsioni: gli immigrati sarebbero stati pochi; inoltre, dovendo essi colmare una carenza di forza lavoro a breve termine, sarebbero rimasti in Europa per poco tempo. Qualcuno, magari, sarebbe restato più a lungo. Nessuno immaginava che potessero un giorno aver diritto alla previdenza sociale. L'idea, poi, che mantenessero le abitudini e la cultura dei villaggi e dei
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clan da cui provenivano, i loro mercati e le loro moschee, era troppo assurda per poter essere contemplata. Le previsioni iniziali si rivelarono quasi tutte errate, e l'invito rivolto dall'Europa ai poveri del mondo fu revocato: dapprima in modo ambiguo, negli anni Sessanta, nei discorsi di certi agitatori politici; poi più esplicitamente, negli anni Settanta, per mezzo di severe leggi anti-immigrazione. I sondaggi d'opinione, invece, hanno sempre rilevato nei paesi dell'Europa occidentale una forte opposizione all'immigrazione di massa. Questo, però, non è che l'inizio della nostra storia. La revoca dell'invito agli immigrati, per quanto esplicita, servì ben poco ad arginarne l'afflusso che, anzi, si intensificò con il passare del tempo. In nessun momento gli europei furono indotti a valutarne costi e benefici a lungo termine.
Le ragioni e i torti di Enoch Powell
Il 20 aprile 1968, due settimane dopo l'assassinio di Martin Luther King Jr. e i tumulti razziali scoppiati a Washington e in altre città statunitensi, il deputato conservatore britannico Enoch Powell tenne un discorso al Midland Hotel di Birmingham che continua a tormentare il pensiero politico europeo. Powell parlò dell'arrivo di soggetti «di colore» dalle ex colonie - fenomeno di proporzioni ancora modeste, all'epoca -, soprattutto dal subcontinente indiano, ma anche dai Caraibi. Fino a quel momento, l'immigrazione aveva cambiato il volto di un numero limitato di quartieri urbani. Powell prefigurò a lungo termine la nascita di ghetti simili a quelli statunitensi, in cui stavano infuriando le sommosse popolari. «Dobbiamo essere impazziti», disse, «letteralmente impazziti, come nazione, per consentire l'afflusso di qualcosa come 50.000 lavoratori ogni anno, che formeranno in sostanza l'humus per la futura crescita della popolazione di origine straniera. E come osservare una na
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zione assiduamente intenta a preparare la sua stessa pira funeraria.» Citando il poeta Virgilio, Powell ammoniva: «E spumeggiare il Tevere vedo di molto sangue».1 Sei mesi dopo, nel corso di un discorso ancora più inquietante al Rotary Club di Londra, avvertiva che, se il flusso migratorio avesse continuato così, la popolazione delle aree urbane dello Yorkshire, delle Mid- lands e delle Home Counties sarà perlopiù, o interamente, costituita da afroasiatici. Ci saranno tante Washington in Inghilterra. La popolazione indigena, ossia il popolo inglese, che sogna ingenuamente di vivere nel proprio paese e nelle proprie città, sarà dunque sloggiato - ho scelto a bella posta il termine più neutro che mi sia venuto in mente - dalle suddette zone. Orbene, stamattina, in questa sede, per la prima volta sento di dover esprimere la mia opinione personale [...]. Il popolo d'Inghilterra non lo tollererà. 2
Da quel momento, l'intero dibattito sull'immigrazione in Gran Bretagna si trasformò, sostanzialmente, in una diatriba sul seguente punto: Enoch Powell era nel giusto? Si è rivelata una controversia sterile, poiché chiunque vi si impegni tende a confondere due accezioni diverse del termine «giusto»: una di natura morale, l'altra di natura empirica. Dire che il Proclama di emancipazione è «giusto» non è come dire che lo è il teorema di Pitagora. Le osservazioni di Powell misero in risalto una divergenza tra le diverse classi sociali su quale delle due accezioni fosse di pertinenza politica. E tale divergenza sembra essere dovunque una costante, nel dibattito sulle recenti migrazioni. Le élite politiche si preoccuparono di stabilire se Powell fosse nel giusto da un punto di vista morale. Benché le paure a cui il parlamentare conservatore faceva appello fossero perlopiù legittime, e benché numerosi aspetti della sua persona (per esempio, la sua passione per l'India e per le lingue di quel paese) provassero che, in realtà, lui non era un razzista, è necessario ricorrere a dei cavilli per difendere il
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suo discorso dalle accuse di fanatismo. I giornali gli si rivoltarono contro. Il leader conservatore Ted Heath, suo antico rivale all'interno del partito, lo costrinse a dare le dimissioni da ministro ombra della Difesa. Da un punto di vista morale, Powell non era nel giusto. L'opinione pubblica, però, si interrogava soprattutto sulla correttezza empirica del suo discorso e, da quel punto di vista, lui era indubbiamente nel giusto. Le sue proiezioni demografiche, che pure all'epoca suscitarono non poche ironie, si sono dimostrate rigorosamente esatte, tenendo conto del grado di accuratezza raggiungibile con previsioni di questo tipo. Nel suo discorso al Rotary Club di Londra, Powell scioccò i suoi ascoltatori affermando che la popolazione non bianca della Gran Bretagna, che allora ammontava a circa un milione di unità, entro il 2002 avrebbe raggiunto i quattro milioni e mezzo di individui.3 (Stando ai dati del censimento nazionale, nel 2001 la «minoranza etnica» in Gran Bretagna ammontava a 4.635.296 unità.)4 Durante la campagna elettorale del 1970, disse agli abitanti di Wolverhampton che la popolazione della loro città, come quella di Birmingham e della Inner London, in futuro sarebbe consistita per il 20-25% di immigrati del Commonwealth e di loro discendenti.5 (Nel censimento del 2001 Wolverhampton aveva il 22,2% di residenti di colore, Birmingham il 29,6% e la Inner London il 34,4%.)6 Il discorso di Powell fu accolto con molto favore dalla gente comune in Gran Bretagna. Nei dieci giorni successivi, il politico conservatore ricevette 100.000 lettere, e tra queste solo ottocento esprimevano disaccordo.7 Tuttavia, se Powell aveva ragione quando affermava che l'immigrazione sarebbe aumentata in misura tale da superare di gran lunga la capacità di sopportazione di un cittadino britannico del 1968, si sbagliava quando prevedeva che gli inglesi della generazione successiva non l'avrebbero tollerata. A parte alcuni episodi di violenza - come gli omicidi di stampo razzista ai danni di cittadini asiatici nell'East End di Londra nel
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1970, una decina di rivolte gravi nel corso dei decenni e numerosi attentati terroristici, tra cui quello del 7 luglio 2005, a opera di un gruppo islamista inglese di origine pakistana - di fiumi spumeggianti di sangue non se ne sono visti. Che cosa era sfuggito a Powell? Innanzitutto, non aveva tenuto conto della vergogna. Nell'Europa postbellica, la cui coscienza era gravata dagli storici misfatti del colonialismo e del nazismo, il sentimento dominante era il rimorso. E vero che la Gran Bretagna, unica tra le nazioni dell'Europa occidentale, non aveva motivo di sentirsi in colpa per aver perpetrato, incoraggiato o accettato passivamente le infamie del fascismo tre decenni prima. Tuttavia, la dissoluzione dell'impero coloniale più esteso della storia mondiale - con le sue conseguenze - aveva lasciato nella maggioranza dei cittadini un senso di imbarazzo e timidezza. Powell era un'eccezione. Ancora legato a un'idea romantica del vecchio impero, non coglieva questo collettivo lamento penitenziale e non capiva che i suoi contemporanei sentivano una musica diversa dalla sua. Parlando di africani, asiatici e altri potenziali immigranti, gli europei provavano un senso di indegnità morale che si intensificò nel corso dei decenni. Il sentimento allora dominante è chiaramente espresso dal film The March, prodotto da BBCl in occasione della «One World Week» del 1990, in cui si documenta la storia di un carismatico leader politico, tale El-Mahdi, che convince 250.000 sudanesi a lasciare il loro campo profughi per intraprendere una marcia di 5000 chilometri alla volta dell'Europa, guidati da un'unica persuasione - «Siamo poveri perché voi siete ricchi» -8 che il film non si sforza granché di contraddire. Persino coloro che ritenevano ingiustificato questo senso di vergogna dilagante erano costretti a riconoscerne l'impatto. Nel cupo romanzo del francese Jean Raspail, intitolato Il campo dei santi (1973), un gruppo di attivisti incita un milione di indiani affamati a salire a bordo di una flottiglia di vecchie navi dirette in Europa innescando una serie di
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sciagure, tra cui la morte dei filantropi accorsi ad accogliere le orde di diseredati e travolti dalla folla. Rispetto a The March, l'opera di Raspail coglie più a fondo la complessità del mondo moderno. Gli scontri politici non derivano solo dalle ingiustizie, bensì anche da semplici incidenti, dalla vanità delle élite intellettuali e dall'«effetto valanga» generato dai mass media. Quella che i registi della BBC chiamano coscienza, per Raspail è un misto di codardia e conseguenze involontarie. Powell la pensava allo stesso modo. L'immigrazione di massa per lui non significava singole persone che arrivavano in Europa in cerca di una vita migliore, come si diceva allora, bensì masse organizzate che rivendicavano il diritto a una vita migliore, che è un'aspirazione dalle conseguenze politiche del tutto diverse. Così egli descrisse il problema: «E di gran lunga più esatto parlare di distaccamenti di comunità delle Indie Occidentali, dell'India o del Pakistan accampati in alcune zone dell'Inghilterra».9 Powell sbaglia a utilizzare metafore militari e termini come «distaccamenti» o «accampamenti». Ma anche quando i migranti non agiscono collettivamente, la decisione di emigrare come individui, nell'era della globalizzazione, può comportare enormi effetti cumulativi. Come scrisse nel 1992 il saggista e poeta tedesco Hans Magnus Enzensberger: Il libero movimento di capitali comporta tendenzialmente il libero movimento della forza lavoro. Con la globalizzazione dell'economia mondiale, completata solo di recente, anche i movimenti migratori assumeranno una nuova qualità. Anziché guerre coloniali organizzate dai governi, campagne militari ed espulsioni, avremo probabilmente migrazioni di massa molecolari.10
Se si rinuncia al pregiudizio secondo cui gli europei occidentali sarebbero per natura rapaci e inclini allo sfruttamento, e alla concezione stereotipata dell'africano, dell'asiatico e di qualsiasi altro potenziale migrante in quanto vit
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time, la differenza tra colonialismo e migrazioni di forza lavoro non risulta più così ovvia.
Quanti sono gli immigrati in Europa ? Per la prima volta nella storia moderna l'Europa è un continente di migranti. Dei 375 milioni di abitanti dell'Europa occidentale,11 40 risiedono al di fuori dei loro paesi natii. In quasi tutte le nazioni dell'Europa occidentale gli immigrati e le loro famiglie superano il 10% della popolazione. Persino i paesi storicamente più poveri e arretrati dell'Europa cattolica periferica, come l'Irlanda (14,1%) e la Spagna (11,1%), sono divenuti meta di immigrazione. Tra il 2000 e il 2005 si è registrato un aumento medio annuo dei residenti nati all'estero dell'8,4% in Irlanda e del 21,6% (non è un errore tipografico) in Spagna.12 E doveroso, tuttavia, operare una netta distinzione. Gran parte di questo movimento - cioè quello che riguarda gli europei che si spostano all'interno del continente - non può essere definito immigrazione, in quanto rientra in un programma di mobilità esplicitamente promosso dai trattati sottoscritti dai ventisette stati membri dell'Unione Europea, formalmente votati a «un'unione sempre più stretta». Gli accordi di Schengen del 1985 consentono, ai residenti dei paesi europei firmatari, il libero movimento senza passaporto né controlli attraverso le frontiere che li separano. Poco importa che un terzo della popolazione del Lussemburgo (il 37%) sia nato fuori dai suoi confini. Quasi tutti i cittadini sono originari di paesi UE, tra cui soprattutto il Portogallo, la Francia, il Belgio, la Germania e l'Italia. Il Lussemburgo è membro fondatore dell'Unione Europea, e tra i più fedeli. Un polacco che si trasferisca in Irlanda - dal 2000 ben 63.000 cittadini della Polonia hanno compiuto questa scelta, fino a costituire il 2% della popolazione del
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l'isola - non si sposta da un paese a un altro, bensì all'interno di una federazione. Non tutti gli europei sono entusiasti dell'UE, e in molti non vedono di buon occhio la libera circolazione dei cittadini europei all'interno dell'Unione (il 78% degli irlandesi, per esempio, vorrebbe che fossero reintrodotte restrizioni sull'immigrazione dall'Est europeo.).13 La mobilità erode le culture nazionali che hanno plasmato e confortato le popolazioni nel corso dei secoli, e ha ben poca importanza quale sia il paese d'origine degli stranieri. Il sociologo Àke Daun ha spesso ribadito quanto gli svedesi amino «essere uguali tra loro».14 Vale un po' per tutti i popoli, e diventa diffìcile realizzare questa aspirazione se i rispettivi paesi si riempiono di stranieri. La predilezione per l'uniformità culturale si riferisce spesso a piccole cose: gli svedesi, per esempio, hanno l'abitudine di mangiare minestra di piselli il giovedì, e la loro discrezione è tale, secondo Daun, che persino «suonare il clacson nel traffico è spesso considerato un'espressione di aggressività».11 Se siete tra gli svedesi che provano un senso di calore mangiando la minestra di piselli il giovedì e un leggero fastidio nel suonare il clacson imboccando una curva, l'immigrazione può rendervi la vita un po' più difficile, in quanto sconvolge i vostri modelli. E questo accade anche se gli immigrati sono onesti cittadini di paesi limitrofi. Ma l'immigrazione da paesi vicini non innesca gli interrogativi più inquietanti, tipo: riusciranno a integrarsi? Vogliono essere assimilati? E soprattutto: a quale paese sono davvero fedeli? E infine: dove porterà questa situazione? Descrivere gli spostamenti all'interno dell'Europa come «immigrazione» può essere un astuto stratagemma dialettico per evitare in malafede un dibattito serio sui gravi problemi posti dall'immigrazione extraeuropea. («Perché i quartieri marocchini ad Amsterdam sono un problema, e non lo sono invece i pensionati tedeschi residenti a Ibiza?») In tal senso, utilizzare il termine immigrazione per descrivere i movimenti al
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l'interno dell'Europa è quasi insensato come definire «immigrato» un newyorchese che si trasferisca in California. Il movimento tra i paesi europei conta come immigrazione per scopi statistici. Ma non è di questo che si occupa il mio libro.
L'immigrazione musulmana Questo libro tratta di un altro tipo di immigrazione: quella proveniente da culture e paesi extraeuropei. In particolare, si occupa di alcuni problemi generati dal desiderio dei non europei di stabilirsi per sempre in Europa: i problemi delle società multietniche e multiculturali. In Europa occidentale ci sono da sempre paesi in cui convivono popoli europei distinti con identità linguistiche e culturali tra loro differenti: si pensi soprattutto al Belgio, alla Gran Bretagna, alla Finlandia, alla Francia, alla Spagna e alla Svizzera. Un'immigrazione intercontinentale delle proporzioni attuali non ha invece precedenti nella storia e non è vista di buon occhio dalla gente. Non c'è paese in Europa in cui il grosso della popolazione aspiri a vivere in un bazar di culture di ogni angolo del mondo. Eppure tutti i paesi europei sono giunti alla lacerante constatazione di ritrovarsi proprio in questa condizione, senza che la popolazione lo abbia deciso. In teoria, qualsiasi cultura profondamente diversa può incontrare difficoltà nel processo di assimilazione alla vita europea. In pratica, però, è l'islam a creare i problemi più gravi. Sono 1400 anni che il mondo musulmano e quello cristiano si contrappongono, e in determinati momenti in modo violento. Oggi stiamo attraversando proprio uno di questi momenti. D'altro canto, se l'immigrazione è in qualche modo necessaria in Europa, da un punto di vista strutturale ed economico (aspetto, questo, di cui mi occuperò più a fondo nel capitolo seguente), è normale che proven
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ga in prevalenza dai sovrappopolati paesi musulmani a sud e a sudest dell'Europa. Naturalmente, tale migrazione è già in corso da tempo. In Europa, il flusso migratorio netto da paesi extraeuropei ha raggiunto livelli record, intorno al milione e 700.000 nuovi ingressi all'anno.16 In prospettiva futura, la pace e la prosperità dell'Europa dipendono dalla capacità di questi nuovi arrivati (e dei loro figli e nipoti) di assimilarsi alla vita europea. Fino alla metà del XX secolo i musulmani in Europa occidentale quasi non c'erano. Ora, all'inizio del XXI, ce ne sono tra i 15 e i 17 milioni,17 concentrati soprattutto in Francia (5 milioni), in Germania (4 milioni) e in Gran Bretagna (2 milioni). Il «peso» demografico dell'immigrazione in Europa è al- l'incirca equivalente a quello che si registra negli Stati Uniti, al punto che si sarebbe tentati di paragonare l'immigrazione musulmana in Europa a quella latinoamericana negli USA. Un tale confronto, però, è fuorviarne. In generale, le abitudini culturali degli immigrati latinoamericani negli Stati Uniti - a parte la diversa lingua madre (europea), inevitabilmente abbandonata per l'inglese a partire dalla seconda generazione - non sono altro che versioni più antiquate di quelle americane. Rispetto agli statunitensi di nascita, i latini hanno meno denaro, hanno una presenza numericamente più massiccia nel mondo del lavoro dipendente, hanno strutture familiari più autoritarie, divorziano meno e frequentano più assiduamente le chiese (soprattutto cattoliche, anche se il protestantesimo evangelico ha conosciuto una diffusione impressionante), seguono diete meno sane e tendono ad arruolarsi di più nell'esercito. In altre parole, la cultura latina corrisponde grosso modo a quella della classe operaia americana di quarant'anni fa ed è perfettamente comprensibile per qualsiasi cittadino americano dotato di un minimo di pazienza e che abbia parlato dei tempi passati con i propri genitori. L'immigrazione di massa di ispanici può sconvolgere alcune abitudini, e l'entità dell'afflusso può procurare gravi problemi logistici ai
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governi locali, ma non richiede alcuna fondamentale modifica delle consuetudini e delle istituzioni americane. Anzi, tutto sommato, potrebbe anche rafforzarle. La presenza di musulmani in Europa è tutt'altra cosa. Questa migrazione, cominciata una cinquantina di anni fa, ha sin dall'inizio infranto - o costretto a adeguamenti e difese di retroguardia - numerosi costumi, idee radicate e strutture statali con cui è venuta a contatto. In alcuni casi, si tratta solo di piccole concessioni alle tradizioni musulmane: aziende che sospendono la tradizione della bevuta dopo il lavoro; piscine che introducono orari per sole donne; imprese, fabbriche e grandi magazzini che allestiscono stanze per la preghiera. Talvolta si rende necessaria l'adozione di nuove leggi, come per esempio quella che vieta alle musulmane residenti in Francia di indossare il velo a scuola. Di tanto in tanto, è l'essenza stessa dell'Europa a doversi adattare. Nell'ultima parte di questo libro parlerò di come l'immigrazione sia onerosa non solo sul piano economico, bensì anche in termini di libertà individuali. Il multiculturalismo, ossia il modo in cui l'Europa ha finora gestito l'immigrazione di massa, richiede il sacrificio di libertà un tempo date per acquisite. Nell'ultimo decennio, nella maggior parte dei paesi occidentali si è per esempio intensificata la sorveglianza sulle moschee e sugli imam estremisti. Tali pratiche vengono facilmente (e talvolta cinicamente) bollate come pretesti per mettere la gente sotto sorveglianza solo perché musulmana. Un regime di alta sorveglianza nei confronti di tutti i cittadini può portare a perdere ogni difesa. In paesi che giudicano repressivi i costumi degli immigrati nei confronti delle donne sono sempre più diffuse pratiche di intrusione nella vita privata di tutte le famiglie. Per fare un esempio che riproporrò più avanti, al Capitolo Otto, un ministro dell'Integrazione svedese - al fine di combattere la pratica dell'infibulazione diffusa tra i membri dell'esigua minoranza somala e dell'Africa orientale a maggioranza musulmana (presente nel paese dagli anni Novanta) - ha pro
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posto di rendere obbligatoria una visita ginecologica per tutte le bambine residenti. Gli europei sono diventati sempre più cauti e timorosi nel manifestare in pubblico il proprio malumore nei confronti dell'immigrazione. In privato e nei sondaggi, però, esprimono con chiarezza il proprio disagio non solo nei confronti dei nuovi arrivati, bensì della società multiculturale in generale. Solo il 19% degli europei ritiene che l'immigrazione sia stata un bene per il suo paese. Più della metà (57%) sostiene invece che ci siano «troppi stranieri». L'ostilità aumenta a seconda dell'impatto che il fenomeno ha avuto localmente: il 73% dei francesi è convinto che nel proprio paese ci siano troppi immigrati, così come il 69% dei britannici. Il problema non è quanta immigrazione gli europei desiderino, bensì fino a che punto siano disposti a tollerarla in futuro. I sospetti nei confronti dell'immigrazione in generale si identificano con quelli nei confronti dei musulmani in particolare. Dall'11 settembre 2001, in tutti i paesi europei si è creato un clima di sospetto ai danni degli immigrati e dei loro figli, considerati una sorta di quinta colonna. E tuttavia i sondaggi di cui sopra dimostrano che, anche prima di quella data, i francesi avevano tre volte più probabilità di lamentarsi dell'«eccessiva presenza» di arabi nel loro paese piuttosto che di qualsiasi altra cosa.18 Il sindaco di Madrid, Alberto Ruiz-Gallardón, nel 2006 ha dichiarato, con riferimento alla presenza di musulmani: «La nostra città non è - e non desidera essere - multiculturale».19 Nel 2002, in Italia, La rabbia e l'orgoglio di Oriana Fallaci, invettiva contro la presenza dei musulmani in Europa, è stato il saggio più venduto nella storia del paese. Nel 2004, Bernard Lewis, studioso di cultura islamica a Princeton, ha risposto con una frase sprezzante a chi gli aveva chiesto se l'Europa entro la fine di questo secolo sarebbe diventata una superpotenza: «L'Europa», sono state le sue parole, «sarà la zona più occidentale del mondo arabo, farà parte del Maghreb».20
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Nell'ultimo decennio, la Danimarca ha inasprito le leggi sull'immigrazione, soprattutto a causa delle allarmanti proiezioni effettuate negli anni Novanta, secondo cui, entro il 2020, il 13,7% dei danesi sarebbe stato originario di paesi con culture di stampo «autoritario».21 Poiché nessun paese dell'UE è di stampo autoritario, il termine può essere interpretato come un eufemismo per indicare i cittadini extraeuropei. Il fatto che gli europei siano molto inquieti per la presenza di individui di razze diverse non significa necessariamente che siano razzisti. Il disagio potrebbe derivare dal timore che si risveglino antichi risentimenti, insieme alla nostalgia per le identità di clan. Un disagio analogo caratterizza la posizione di molti europei nei confronti di popoli del continente, come i baschi, gli irlandesi e altri; non è sorprendente che si indirizzi anche verso gli immigrati più recenti. Nel 2006, alcuni musulmani residenti in Danimarca, dopo il famoso incidente delle vignette blasfeme, hanno girato il mondo per fomentare l'odio nei confronti del proprio paese, e cittadini britannici di fede islamica hanno pianificato e portato a termine attentati contro la popolazione civile, non solo in Inghilterra, bensì anche in Israele. Forse, a lungo termine, l'islam si dimostrerà assimilabile dall'Europa, ma non è affatto scontato.
Il problema demografico europeo Quale che sia, in ogni singolo paese, la proporzione tra immigranti europei e non europei, i secondi stanno aumentando e sono destinati a prevalere. Questo perché gli europei non fanno abbastanza figli. Sia che dipenda dalla prosperità, dalla decadenza o da altri fattori relativi al morale della nazione, il fenomeno è chiaro: il tasso di fertilità dei nativi europei continua a precipitare da anni, e al momento è il più basso che si sia mai registrato in qualsiasi grande regione del mondo.22 La popolazione nativa sta ca-
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landò praticamente in tutti gli stati dell'UE, e in alcuni casi in modo precipitoso.
Di solito, gli europei minimizzano su questo punto, dicendo che i demografi si sono sbagliati in passato e che è impossibile prevedere con precisione come sarà composta la popolazione europea tra venti o trent'anni. E un errore. Anche se è vero che, a un certo punto, potrebbe verificarsi un altro boom delle nascite, è altrettanto vero che, a breve termine, la demografia è tra le scienze sociali più esatte. Questo processo di assottigliamento demografico non ha necessariamente limite, soprattutto ora che si è diffuso il modello della famiglia poco numerosa. In Austria e in Germania, per esempio, le donne tra i 20 e i 34 anni pensano che la famiglia «ideale» preveda 1,7 figli. Come hanno sottolineato Wolfgang Lutz e altri colleghi, questo tasso è vicinissimo a quello in cui un paese sprofonda in una «trappola della bassa fertilità», da cui è quasi impossibile riemergere. Affinché una società rimanga numericamente inalterata, ogni donna deve avere in media 2,1 bambini nel corso della vita (il cosiddetto «tasso totale di fertilità»). In tutti i paesi europei, fatta eccezione per la musulmana Albania, i livelli sono di molto inferiori. Esiste una «zona di sicurezza», al di sopra di 1,6 bambini per donna, in cui il calo è graduale e facilmente reversibile. Al di sotto di essa si verifica un crollo della popolazione, piuttosto che un calo. Una società che mantiene un tasso totale di fertilità dell'1,8, entro la fine del secolo avrà mantenuto l'80% di sé stessa; una società con un tasso totale di fertilità di 1,3 (come Italia, Spagna, Germania Est e paesi baltici) si ridurrà a un quarto.23 Entro la metà di questo secolo, cioè fra poco più di una generazione, se il tasso di natalità rimarrà costante, la popolazione nativa dell'Italia sarà la metà di quella attuale.24 Oltre a non mettere al mondo bambini, gli europei sono vecchi. Già un quarto del loro totale ha superato i 60 anni. Nella banlieue parigina di Montfermeil, popolata in larga misura da nordafricani, i bambini delle case popolari chia
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mano il quartiere con le case monofamiliari, che loro attraversano ogni giorno per andare a scuola, la ville des vieux, la città dei vecchi.25 In molti paesi d'Europa i giovani tendono a essere stranieri. A Parigi, parlando di aggressioni a opera di bandes desjeunes, ci si riferisce spesso a soggetti di origine nordafricana. Laddove ci sono molti vecchi si creano dei vuoti, che vengono riempiti dagli immigrati, mettendo in evidenza a livello di quartieri quello che sta succedendo a livello di civiltà europea in generale. Non producendo in sé alcuna crescita demografica, l'Europa può mantenere le proprie dimensioni e il proprio dinamismo solo importando extraeuropei. In alcuni paesi europei, la percentuale di immigrati o figli di immigrati ammonta ormai quasi a un quarto della popolazione totale. Dei 9 milioni di abitanti della Svezia, 1,5 milioni sono immigranti o figli di questi ultimi. Lo stesso vale per 3 milioni di olandesi, sui 16 milioni complessivi, inclusi due terzi degli studenti residenti ad Amsterdam, Rotterdam e all'Aia. Entro il 2050 si prevede che il 29% degli olandesi avrà almeno un genitore straniero. Alcuni di essi saranno europei, ma la maggioranza - 2,7 circa milioni, o quasi un quarto della popolazione - sarà di origine non occidentale.26 Forse tali cifre non sono sufficienti a descrivere il numero reale dei futuri cittadini di origine non europea, dato che alcuni saranno figli di cittadini olandesi nati nei Paesi Bassi. Secondo David Coleman, demografo di Oxford, se la migrazione dovesse interrompersi bruscamente, nel 2050 in Gran Bretagna ci saranno 7 milioni di «non bianchi»;27 mentre se l'alto livello di incremento attuale - 108.000 individui in più all'anno - dovesse rimanere invariato, ce ne sarebbero 16 milioni. (E forse persino gli alti livelli attuali potrebbero indurre a sottovalutare la pressione migratoria. Nella metà del primo decennio di questo secolo, la Gran Bretagna ha ricevuto 500.000 nuovi immigranti ogni anno,28 l'equivalente dell'1% della popolazione.) Entro la metà di questo secolo, la popolazione di origine straniera di
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tutti i grandi paesi europei rappresenterà una quota compresa tra il 20 e il 32% di quella totale.29 L'incremento dipende in parte dai nuovi arrivi, ma soprattutto dal divario nel tasso di fertilità tra europei e immigrati extraeuropei, che potrebbe rimanere invariato per generazioni. A Torino, gli stranieri saliti improvvisamente, a partire dagli anni Novanta, al 10% della popolazione nel giro di un decennio - rappresentano lo 0,2% delle morti e il 25% delle nascite.30 Un quinto dei bambini di Copenaghen, un terzo di quelli di Parigi e la metà di quelli di Londra nascono da madri straniere.31 Le donne nate in Francia hanno 1,7 figli l'una; quelle nate altrove e residenti in Francia 2,8.32 Le tunisine, le turche e le marocchine ne fanno in media 3,3-3,4, più delle loro controparti nei paesi d'origine. Gli europei ritengono che il rapido aumento della popolazione degli immigrati a un certo punto si interromperà. Tendono a riporre una fede quasi religiosa nelle teorie della «transizione demografica», secondo cui il tasso di natalità diminuisce con l'aumento del benessere. Stando a tali teorie, quando una società garantisce cure mediche moderne, igiene e una dieta sana, gli anziani vivono più a lungo e un numero maggiore di giovani raggiunge l'età riproduttiva... ma le vecchie abitudini di formazione familiare cambiano più lentamente. Di conseguenza, per una o due generazioni si assisterà a un'imponente crescita demografica. Tuttavia, dato che la modernità comporta un livello maggiore di benessere e di istruzione, e la società dei consumi genera soddisfazioni alternative a quelle della procreazione, a un certo punto si verificherà un crollo precipitoso della fertilità. Talvolta questo succede davvero all'interno di certi gruppi di immigranti. I cosiddetti African Indians giunti in Gran Bretagna dal Kenya e dall'Uganda alla fine degli anni Sessanta e all'inizio degli anni Settanta ora hanno un tasso di natalità quasi identico a quello dei nativi britannici. Talvolta, però, tale convergenza non si verifica. I pakistani e i bengalesi, gruppi presenti in Gran Bretagna da prima degli
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African Indians, hanno un tasso di fertilità ancora molto al di sopra della media nazionale.33 Ci sono motivi per ritenere che gli immigrati del Terzo mondo, soprattutto i musulmani, forse non sperimenteranno la modernizzazione vissuta dalle popolazioni occidentali che li ospitano. La cultura musulmana, più di qualsiasi altra, tende a mettere in rilievo i vantaggi pratici dati dalla procreazione. Un hadith recita così: «Sposatevi, perché attraverso di voi sovrasterò per numero i popoli...» (Ibn Majah, 1,599). Yasser Arafat, constatando che nel giro di una sola generazione la popolazione palestinese si era ingrandita di sette volte (da 450.000 unità nel 1967 a 3,3 milioni nel 2002), considerava l'utero delle palestinesi alla stregua di un'«arma segreta» al servizio della sua causa.34 Certo, l'ostilità di Arafat nei confronti di Israele non è paragonabile a quella dei musulmani europei verso l'Europa. Tuttavia, gli immigrati non devono necessariamente essere ostili all'Occidente e ai suoi valori per non condividere la sua riluttanza a fare e allevare bambini. Sulla via verso la modernizzazione europea (istruzione, diritti civili, individualismo ecc.) si incontrano centri commerciali, ombelichi con il piercing, scommesse online, un tasso di divorzio del 50%, alti livelli di anomia e di scarsa autostima. Che cosa ci fa pensare che sarà proprio l'europeizzazione la strada che gli immigrati decideranno di intraprendere?
Civiltà e declino Le discussioni più o meno ragionevoli sull'immigrazione rivelano, in buona parte, un sentimento di panico represso e generalizzato per le condizioni in cui versa la civiltà europea. La capacità del Vecchio continente di inglobare con successo e per la prima volta nella storia le minoranze non europee dipenderà dal modo in cui i nativi e i nuovi arriva
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ti vedranno l'Europa: se la percepiranno cioè come una civiltà florida o, al contrario, in declino. Per gli ottimisti, la facile reperibilità di tortillas, copie del Corano e sari nelle più grandi metropoli è un segno di buona salute: l'Europa è un faro luminoso per i poveri del mondo. Gli stranieri portano prodotti e tradizioni affascinanti, ma solo perché l'Europa è abbastanza forte e sicura di sé da accoglierli con favore. A Dublino ci sono sette giornali in lingua polacca,35 e in Ungheria vengono pubblicati sei quotidiani cinesi.36 Melanzane, manghi, baklava sono molto più facili da trovare di un tempo. Persino gli allucinanti ingorghi stradali nella Spagna del Sud, ogni estate, quando i lavoratori nordafricani di tutt'Europa caricano le loro famiglie su vecchie auto per convergere al porto dei traghetti e salpare per il Marocco, hanno il loro lato positivo: dimostrano che l'Europa migrante è dinamica, attiva, varia, vitale. Tuttavia, le culture «avanzate» hanno più volte dimostrato di sottovalutare quelle cosiddette «primitive». Gli immigrati portano anche molto disordine, povertà e criminalità. Gruppi di immigrati turchi si sono resi responsabili di sparatorie in alcune scuole della Francia e dell'Olanda. In Italia ci sono lavavetri balcanici37 che estorcono denaro agli automobilisti alla maniera di certi mendicanti di Manhattan negli anni Settanta e Ottanta. La maggioranza dei paesi europei ha assistito a manifestazioni di malcontento da parte degli immigrati e, talvolta, a vere e proprie rivolte. Secondo i pessimisti, la vitalità e l'energia delle comunità etniche e degli immigrati finisce per andare a discapito delle comunità europee. Gli europei sono più esperti di calligrafia araba e di tessuti kente perché non fanno più molto caso a Montaigne e a Goethe. Se la diffusione della cucina pakistana è il solo grande progresso nella vita pubblica degli inglesi degli ultimi cinquant'anni, è anche vero che le bombe utilizzate per gli attentati falliti del 21 luglio 2005 nella metropolitana londinese erano state fabbricate con
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un misto di acqua ossigenata e farina per chapati.38 L'immigrazione non incentiva né avvalora la cultura europea, bensì la sta soppiantando. L'Europa non sta dando il benvenuto ai nuovi residenti, bensì sta cedendo loro il passo. Questi due sentimenti contrastanti convivono nella testa di quasi tutti gli europei: quella dell'immigrazione è in effetti un'opportunità culturale esaltante e rigenerante, ma è anche una prova di forza tra due culture. Le irrisorie migrazioni di massa tra paesi europei avvenute negli ultimi secoli - si pensi ai profughi ebrei e ugonotti e agli operai polacchi, irlandesi e italiani - sono state abbastanza massicce da arricchire i paesi destinatari, ma non tali da minacciarli. E improbabile che l'ondata attuale segua un modello analogo. Esistono molti tipi di migrazione, e non tutti si concludono con 1'«assorbimento» dei nuovi arrivati da parte del paese ospitante: le poche centinaia di avventurieri britannici che nel XVIII secolo si trasferirono in India erano anch'essi immigrati, così come gli ambiziosi agricoltori che all'inizio del XIX secolo si stabilirono nella Nuova Spagna (attuale Texas). L'immigrazione rafforza i paesi e le culture forti, ma può sopraffare quelle deboli.
Il principio della diversità è sopravvalutato I giornalisti e i portavoce governativi presentano spesso l'Europa dei migranti come un fenomeno diversificato. E difficile generalizzare sulle questioni che riguardano l'Europa, dicono. In Francia si continua a pubblicare libri che presentano i problemi generati dall'immigrazione come conseguenze del colonialismo, anzi, come una continuazione del colonialismo stesso con mezzi diversi.39 In Germania, invece, si sente spesso dire che la società tedesca fatica a integrare i turchi perché è priva di un passato coloniale, esperienza che avrebbe permesso a paesi come la Francia e l'Inghilterra di accogliere i nuovi cittadini quantomeno alla
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stregua di vecchi conoscenti. Molti francesi si mostrano scettici sulle possibilità di integrazione degli arabi e più ottimisti nei riguardi dei fieri e indipendenti berberi kabili d'Algeria; gli olandesi, d'altro canto, cercano di spiegare l'alto tasso di criminalità tra i marocchini sostenendo che, in fin dei conti, sono berberi del Rif, e che non si può pretendere che si integrino bene come gli arabi. Altra teoria diffusa tra gli esperti di scienze sociali è che i problemi dell'immigrazione deriverebbero dallo scontro tra la cultura «rurale» e quella «metropolitana». Lo storico olandese Geert Mak ha scritto: Intorno agli anni Settanta, l'Olanda, al pari di altri paesi dell'Europa occidentale, ha commesso un grave errore politico. In assenza di adeguate misure di selezione, di una leadership efficiente e di programmi di accoglienza dei nuovi arrivati nella società olandese, una grande ondata migratoria proveniente dalle zone rurali della Turchia e del Marocco si è riversata nelle metropoli del paese.40
Secondo Mak, l'Europa non sta assistendo a qualcosa di simile, per esempio, alla conquista della Spagna da parte degli omayyadi, bensì a una replica delle migrazioni dei pastori e delle mungitrici dei villaggi normanni alla volta delle fabbriche di Boulogne-Billancourt. Mak, che si considera un paladino degli immigrati e si è scagliato in modo feroce contro la somalo-olandese Ayaan Hirsi Ali, scettica nei confronti dell'islam, sa bene che in Olanda il progetto di integrazione degli immigrati (quantomeno di quelli musulmani) è fallito. Ma non è disposto ad ammettere che ciò dipenda soprattutto dalle scarse possibilità di riuscita del progetto stesso. Le opinioni di Mak sui mali del suo paese sono condivise da numerosi intellettuali di tutta Europa. Scrittori, accademici e politici sembrano attribuire le cause dei gravi problemi che affliggono i loro paesi non all'immigrazione stessa, bensì a qualche strano incidente o epifenomeno: errori
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politici o lungaggini burocratiche, magari, o qualche peculiarità trascurata della popolazione migrante, tutte cose risolvibili per mezzo di nuovi provvedimenti. Non è così. La situazione migratoria europea non cambia da un paese all'altro, per quanto diversi siano i paesi stessi. Prescindendo dalla crisi economica cominciata nel 2008, la necessità di affrontare gli effetti dell'immigrazione è il problema principale di ogni nazione dell'Europa occidentale e si presenta ovunque in modo identico. Se si comprende il modo in cui immigrazione, islam e cultura europea interagiscono in un paese, è possibile stabilire grosso modo quale sarà la loro interazione in qualsiasi altro luogo europeo, a prescindere dal carattere nazionale, dal passato imperialista o meno, dal ruolo svolto nella seconda guerra mondiale e dal luogo di provenienza degli immigrati musulmani. In tutti i paesi europei la popolazione è in calo. Tutti i paesi fanno le stesse diagnosi sulle sfide poste dall'immigrazione e portano avanti le stesse politiche economiche. Quando, nel 2001, la cristiano-democratica tedesca Rita Sùssmuth pubblicò il resoconto di un'indagine condotta da una commissione indipendente sull'immigrazione, sostenendo che la Germania avrebbe avuto bisogno di 500.000 immigranti all'anno per mantenere l'età media in linea con la situazione esistente, il demografo Gunnar Heinsohn scrisse in tono sarcastico, ma a ragione: «Adesso tutti i paesi dell'OCSE, persino quelli dell'Europa dell'Est, hanno il loro rapporto Sùssmuth. Tutti, ignari di quello che dicono gli altri, dichiarano coraggiosamente di essere pronti ad accogliere quantità ancora maggiori di geni della tecnologia qualificati e facili da integrare».41 Tutti i paesi adottano più o meno la stessa strategia per assimilare l'islam: elevazione delle lobby musulmane al rango di soggetti pseudo-governativi nella convinzione dichiarata che ciò indurrà l'islam a rispettare i valori dell'Europa (in luogo del contrario). Questo è il principio che ispira il Conseil français du culte musulman, la Consulta islamica in Italia e la Islamkonfe-
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renz tedesca (anche se in misura minore) e sta alla base dei vani tentativi della Gran Bretagna di estorcere dichiarazioni più moderate ai capi del Muslim Council of Britain. Viaggiando di paese in paese, a un giornalista può addirittura capitare di sentire le stesse barzellette e gli stessi giochi di parole sugli immigrati. I francesi sono molto soddisfatti del loro umorismo quando si lamentano dell'importazione di imam estremisti dal Londonistan, come lo sono gli italiani nel deplorare i disordini a «Cremonistan».42 Come mai gli opinionisti europei insistono nel dire che esistono diversi tipi di immigrazione e di islam? Forse per escludere a priori l'ipotesi che i vari problemi legati all'immigrazione, simili in tutti paesi dell'Europa occidentale, siano solo diverse sfaccettature di un unico grande «scontro di civiltà». Questa formula viene associata a Samuel Huntington, politologo di Harvard, che l'adottò come titolo di un suo saggio; ma il timore che la globalizzazione possa esacerbare le tensioni tra i popoli anziché mitigarle non è certo riducibile a una fantasia partorita da Huntington negli anni Novanta. Nel 1961 il filosofo politico Raymond Aron tenne una conferenza a Londra intitolata L'alba della storia universale. Egli disse: «Con la graduale unificazione dell'umanità, l'ineguaglianza tra i popoli assume il significato che un tempo aveva l'ineguaglianza tra le classi. Ora esiste un divario senza precedenti nella storia tra le condizioni delle masse nei diversi continenti e nei diversi paesi. Nel frattempo, la coscienza dell'ineguaglianza si diffonde, e la rassegnazione alla povertà e al proprio destino scompare».43 All'epoca di Internet l'analisi di Aron si dimostra ancora più esatta. I paesi europei rimpiccioliscono, invecchiano e sono carenti di manodopera. Le uniche fonti dirette di giovani e forza lavoro sono i territori musulmani a sud e a sudest dell'Europa, storicamente nemici, talvolta sottomessi talaltra dominanti. L'Europa punta sul fatto che certe tendenze tramandate da secoli da entrambe le parti siano scomparse o
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possano essere eliminate. Probabilmente, non è una scommessa molto saggia.
Può l'Europa rimanere sé stessa con una popolazione diversa ? Questo libro tratta dell'Europa e di come e perché l'immigrazione e le società multietniche che ne risultano segnino un punto di svolta nella storia del continente. E scritto con un occhio di riguardo verso i problemi che l'immigrazione comporta all'interno della società europea. Non si occupa delle difficoltà degli immigrati e delle minoranze etniche, delle ingiustizie dell'economia globale o di diritti umani, benché siano tutti argomenti importanti a cui si accennerà laddove necessario. Questo libro mira a descrivere la situazione critica in cui si trova l'Europa, non a indicare agli europei quali debbano essere i loro desideri e obiettivi o come dovrebbero funzionare le loro società. La situazione è caratterizzata da due problemi diversi che, sovrapponendosi, tendono a essere scambiati per un problema unico. Il primo è dato dalla capacità dell'Europa di assimilare immigrati, il secondo dalle incomprensioni con l'islam. Quale dei due verrà affrontato di volta in volta sarà deducibile dal testo. Il lettore, però, sappia che per dire qualcosa di serio è necessario adottare una certa schiettezza e sinteticità. Se avessi dovuto corredare ogni frase con distinzioni e precisazioni, questo libro sarebbe stato di una pesantezza intollerabile, sia da scrivere sia da leggere. I termini che ho scelto sono da intendersi nel loro significato comune e non socioscientifico. L'aggettivo «nativo» può per esempio essere utilizzato per designare la componente non musulmana di un paese europeo. Ciò non significa che l'autore ignora l'esistenza di nativi europei musulmani. Quando dico che i musulmani europei hanno reagito male alla decisione del giornale «Jyllands-Posten» di pubblicare vignette umoristiche su Maometto nel settembre del 2005, parlo in senso
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generale. Non affermo cioè di aver intervistato tutti i musulmani d'Europa e di averli trovati unanimi. L'obiettivo è una certa economia espressiva, non certo la diffusione di stereotipi o l'esclusione. Insomma, con questo libro mi ripropongo di evitare toni allarmistici, ma anche gli eufemismi e le formule di umiltà preventiva che caratterizzano la maggior parte degli scritti relativi alle identità etniche. L'immigrazione di massa che l'Europa ha conosciuto negli ultimi cinquant'anni e che potrebbe conoscere in futuro non ha precedenti nella storia. Alcune delle migrazioni di modesta entità avvenute alla fine del XIX secolo e all'inizio del XX si sono concluse bene: per esempio, quella dei braccianti agricoli polacchi in Germania e degli operai italiani in Francia. Una di esse ha avuto un esito catastrofico: quella degli ebrei dei paesi dell'Est nelle città dell'Europa occidentale. L'attuale migrazione è di gran lunga superiore alle precedenti, e le differenze culturali sono molto più accentuate. Il suo esito è incerto. L'immigrazione di massa potrebbe in teoria dare un impulso vitale a economie frenate da vecchie abitudini e a società demoralizzate dagli errori e dai peccati commessi nel XX secolo. Eppure pare improbabile. Gli europei, come vedremo nel prossimo capitolo, hanno sopravvalutato il proprio bisogno di forza lavoro. I benefici economici prodotti dall'immigrazione sono stati marginali e temporanei e ormai appartengono al passato. Di contro, i cambiamenti sociali imposti dall'immigrazione sono stati imponenti e duraturi. Accogliere gruppi etnici diversi non significa acquisire qualcosa di più, bensì modificare quello che già esiste. L'immigrazione mal si adatta allo stato sociale, pietra angolare dell'identità europea sin dalla fine della seconda guerra mondiale, e rende più ardui gli sforzi di costruire un'Unione Europea. La religione islamica, professata da una metà circa dei nuovi arrivati, mal si combina con il tradizionale laicismo europeo. Se le due concezioni dovessero entrare in conflitto, sarebbe arrogante presumere che la se
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conda abbia più possibilità di imporsi. La miseria spirituale che gli immigrati islamici colgono nell'Occidente moderno non è immaginaria. Forse è l'ostacolo più grave che l'Europa incontrerà nel tentativo di preservare la propria cultura. Per il resto, questo libro si pone un interrogativo: può l'Europa rimanere sé stessa pur ospitando una popolazione diversa? La risposta è no.
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2. L'ECONOMIA DELL'IMMIGRAZIONE
Com "e cominciata la migrazione postbellica -1 livelli record dell 'immigrazione recente L'argomentazione capitalista: salvare le industrie moribonde - I lavori che nessuno vuokfare - L'argomentazione socialista: salvare lo stato sociale
A partire dal 1945 l'Europa si impegnò a ricostruire ciò che la guerra aveva distrutto: strade e ferrovie, case e uffici, ruoli e rituali. La forza lavoro del continente sarebbe stata in ogni caso insufficiente a realizzare obiettivi di quella portata, ma la perdita di milioni di persone in età lavorativa durante la guerra aveva aggravato ulteriormente la situazione. Il ricordo della seconda guerra mondiale (in cui il nemico sconfitto era razzista) e il graduale inasprirsi della guerra fredda (in cui l'Occidente faceva a gara con il blocco comunista nel tentativo di ingraziarsi le masse del mondo extraeuropeo) si combinarono nel mitigare i timori degli europei di fronte all'arrivo di grandi quantità di persone di razze e culture diverse, timori che in altri momenti della storia sarebbero senz'altro sorti.
Com 'è cominciata la migrazione postbellica I paesi che stavano perdendo le proprie colonie (Francia, Gran Bretagna e Olanda) compensarono la carenza di forza lavoro in parte riaccogliendo in patria quegli europei che non erano più i benvenuti o a proprio agio nei loro avamposti imperiali, in parte reclutando «nativi» delle ex colonie. I primi giamaicani arrivarono nel 1948 a bordo delVEmpire Windrush, che fa la parte del Mayflower nella mitologia fondativa della Gran Bretagna multiculturale. I nuo
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vi arrivati cominciarono a lavorare nelle fonderie, nei cantieri ferroviari, negli uffici postali e negli ospedali, oppure come idraulici ed elettricisti. Nessuno si aspettava un afflusso così imponente. Il Nationalities Act del 1948 aveva concesso la nazionalità britannica ai sudditi delle ex colonie, nell'intento di rassicurare i canadesi, gli australiani e altri tradizionali migranti verso la Gran Bretagna sul fatto che la porta sarebbe rimasta sempre aperta per loro, anche se l'impero si era trasformato in Commonwealth. Dei sudditi tropicali non ci si preoccupò. In fin dei conti, perché avrebbero dovuto arrivare proprio allora, se non erano arrivati prima? Il Nationalities Act incentivò l'immigrazione e complicò enormemente il compito di fermarla, o anche solo rallentarla, almeno fino alla riforma delle leggi sulla cittadinanza degli anni Sessanta.1 Nel 1953, a Bradford, nello Yorkshire, c'erano circa 350 non europei, tra africani, asiatici e caraibici. Subito dopo, però, indiani e pakistani cominciarono ad arrivare in massa, lavorando perlopiù come filatori di lana, conducenti dei trasporti pubblici e ristoratori. Nel giro di cinque anni, la popolazione asiatica di Bradford era decuplicata, e il 15% dei conducenti d'autobus della stessa città era indiano o pakistano. Alla fine degli anni Cinquanta, in Gran Bretagna c'erano 55.000 indiani e pakistani e 125.000 caraibici.2 L'immigrazione, intanto, accelerava. Stando al censimento nazionale più recente, in Gran Bretagna, i cittadini di origine indiana, pakistana e bengalese sono 2.083.759, mentre i «britannici neri», come vengono definiti nel censimento, sono 1.148.738, metà dei quali di origini caraibiche.3 Qualcosa di simile è successo in Francia. Nel discorso del 3 marzo 1945, Charles De Gaulle dichiarò che la carenza di manodopera era «l'ostacolo principale per la ripresa del paese».4 Secondo le stime di allora, la Francia necessitava di 1,5 milioni di lavoratori. Dapprima si cercò di farli arrivare dalla Polonia, dal Belgio e dall'Olanda, ma anche quei paesi erano afflitti da un'analoga carenza di forza lavoro, sicché
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di migranti ne arrivarono pochi. Si prese in considerazione di invitare a rimanere i tedeschi internati, ma l'opinione pubblica non l'avrebbe mai accettato. Si cercò, allora, di reclutare lavoratori dal Norditalia, sennonché la Svizzera offriva loro condizioni migliori. La migrazione dall'Italia fu comunque massiccia, nei primi decenni dopo la guerra, ma ebbe un carattere improvvisato e caotico: decine di migliaia di siciliani si riversarono in Francia nei decenni postbellici. Il governatore dell'Algeria suggerì ai francesi di reclutare 100.000 lavoratori musulmani, ma la Francia rifiutò per evitare «rischi sanitari, sociali e morali». Nei tre decenni successivi avrebbe accolto una quantità di algerini sette volte maggiore, e attraverso canali meno formali. Nessuno organizzò il loro arrivo: giunsero in Francia per sfuggire alla violenza della rivoluzione algerina. A un certo punto, nel 1962, presero ad arrivare a un ritmo di 70.000 unità alla settimana.5 Nel 2004, in Francia vivevano 4,3 milioni di persone nate all'estero, di cui circa un terzo aveva acquisito la nazionalità francese.6 I paesi che non avevano avuto un impero stipularono accordi con le nazioni più povere per l'importazione di «lavoratori ospiti». La Svezia fece da pioniera in questo campo. Grazie alla sua neutralità nella seconda guerra mondiale, all'indomani della carneficina era l'unico paese dotato di una base industriale avanzata che non fosse stata distrutta dalle bombe o saccheggiata dagli occupanti. La Svezia aveva buone probabilità di trarre il massimo beneficio dalla ricostruzione europea, e infatti così fu: tra la guerra e la crisi petrolifera degli anni Settanta registrò un tasso di crescita del 4% e, per buona parte degli anni Sessanta, addirittura del 7%. L'unica cosa che le mancava era una quantità di manodopera sufficiente per le sue industrie. L'arrivo di numerosi finlandesi (molti dei quali parlavano svedese) risolse il problema in buona parte, ma non del tutto. Così nacque l'idea dei programmi di reclutamento di lavoratori ospiti, come espediente semplice e a breve termi
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ne. Ogni paese industrializzato avrebbe potuto firmare un accordo bilaterale con un paese meno sviluppato afflitto da disoccupazione o da carenza di valuta forte. Reclutatori aziendali, medici e funzionari governativi sarebbero stati mandati a selezionare squadre di giovani lavoratori da impiegare per brevi periodi - di solito, due anni - e rimandare poi a casa. La Svezia firmò accordi di assunzione di manodopera a tempo determinato con alcuni paesi stranieri, a cominciare dall'Italia e dall'Ungheria nel 1947. Ma le risorse di forza lavoro di un singolo paese non erano mai del tutto adeguate, sicché il programma dei lavoratori ospiti si estese a luoghi più lontani, fino a coinvolgere, due decenni più tardi, anche la Iugoslavia e la Turchia.7 Grazie agli accordi sui lavoratori ospiti e all'arrivo di un numero insolitamente alto di rifugiati politici, quasi un sesto dell'attuale popolazione svedese è nato all'estero oppure da genitori originari di altri paesi.8 Il programma per l'accoglienza di lavoratori ospiti (Gastarbeiter) in Germania ebbe proporzioni colossali. Cominciò tardi, nel 1955, con l'obiettivo di accogliere un numero limitato di braccianti agricoli italiani. Il paese, però, era in pieno «miracolo economico» postbellico e anche l'industria richiedeva manodopera. Il programma si estese subito ad altri settori dell'economia, e la Germania cominciò a reclutare lavoratori provenienti da tutta l'Europa meridionale e dal Nordafrica: Spagna, Grecia, Turchia, Marocco, Portogallo, Tunisia e Iugoslavia. Il bisogno di lavoratori a tempo determinato si intensificò nel 1961, con la chiusura dei confini da parte della Germania comunista. Fino ad allora, l'Est stagnante e sfruttato aveva procurato all'Ovest capitalista riserve di milioni di lavoratori. Nel 1960 c'erano 329.000 Gastarbeiter, nel 1964 un milione e 2,6 milioni nel 1973.9 (Stranamente, anche la Germania orientale elaborò un suo programma di accoglienza di lavoratori ospiti, importando vietnamiti da impiegare per esempio alla Narva, una fabbrica di lampadine di Berlino.)10
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La maggior parte degli stranieri immigrati in Germania erano turchi. Il programma dei Gastarbeiter era una manna dal cielo per la Turchia, e solo di recente si è capito con quale aggressività il governo turco di allora fece pressione per esservi incluso.11 Dapprima arrivarono soprattutto uomini non sposati che furono alloggiati in ostelli (Wohnheime) e impiegati nelle miniere e nelle acciaierie della Ruhr-Re- nania. Erano lavoratori diligenti e onesti. Insomma, un buon acquisto per la Germania. Secondo gli accordi, sarebbero dovuti giungere a rotazione, tornando nei paesi natii alla conclusione dei due anni di lavoro. Così accadde per tre quarti dei 18,5 milioni di lavoratori che arrivarono in Germania tra il 1960 e il 1973.12 Tuttavia, con il passare del tempo, tra nativi e ospiti si approfondì la diversità di vedute sul modo di intendere l'invito ai Gastarbeiter. Ben pochi di questi ultimi riuscivano a ottenere in patria stipendi paragonabili a quelli europei. D'altro canto, reclutare, selezionare e sottoporre a visita medica i nuovi lavoratori costava molto denaro. Quindi le aziende fecero pressione sul governo affinché rendesse rinnovabili i contratti dei Gastarbeiter e autorizzasse i ricongiungimenti familiari e la permanenza di coloro che nel frattempo avevano messo su famiglia. All'epoca in cui il programma era stato avviato, praticamente nessuno in Germania avrebbe giudicato ammissibile un esito del genere. Ma il movimento di masse di lavoratori - persino se pianificato, come nel caso tedesco - è un fenomeno che si autoalimenta. Il fattore più importante dell'immigrazione è l'immigrazione stessa. Ci vuole coraggio per migrare da soli e sottostare alle leggi, ai costumi e ai capricci di una società indifferente. Se però altri connazionali hanno costruito una testa di ponte, migrare diventa una cosa semplice, normale. Le comunità di immigrati riducono la paura, guariscono dalla nostalgia di casa con la stessa efficacia con cui la penicillina combatte la tonsillite. Già a metà degli anni Sessanta, chi si trasferiva in Germania non
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era più costretto ad abbandonare la cucina turca a favore di quella tedesca e (nelle grandi città) neppure il culto musulmano a favore del cristianesimo o della laicità. Riducendo ulteriormente gli incentivi per il ritorno in patria dei lavoratori al termine del periodo stabilito, la Germania divenne sempre meno ambigua e sempre più accogliente. Negli anni Sessanta, l'economia turca passava da una crisi all'altra. I Gastarbeiter rimpatriarono in massa dopo i licenziamenti seguiti alla recessione del 1966-1967, ma non durante la crisi più globale del 1973-1974, che fece aumentare la disoccupazione nei paesi d'origine.13 Quella seconda crisi economica mise fine al programma dei lavoratori ospiti. Nel 2006, però, la «popolazione straniera» della Germania avrebbe raggiunto le 7.289.149 unità.14 Mentre l'Europa si riempiva di lavoratori extraeuropei, nei paesi d'origine dei migranti e, in una certa misura, in tutto il Terzo mondo, si diffuse una maggiore comprensione del mercato del lavoro europeo, e ciò aprì la strada all'iniziativa individuale. La Danimarca non aveva avviato nessun programma di accoglienza di lavoratori e non aveva mai avuto un impero, eppure, fino al 1973, il suo mercato del lavoro era aperto.15 Iugoslavi, turchi, marocchini e persino immigrati di altri paesi d'Europa (per esempio, i pakistani della Gran Bretagna) vennero a sapere che in Danimarca si poteva trovare lavoro ben pagato e cominciarono a riempire i quartieri più poveri di Copenaghen. Fino al 1986 l'Italia è stata priva di leggi sull'immigrazione a livello nazionale. Quando i lavoratori stranieri smisero di essere i benvenuti nei paesi d'immigrazione «più vecchi», nuovi migranti cominciarono ad arrivare nei paesi limitrofi, con o senza invito.
I livelli record dell'immigrazione recente Gli europei sono riluttanti ad ammettere che si tratta di un fenomeno senza precedenti nella storia. In tutti i paesi
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occidentali si trovano intellettuali pronti a sostenere che il loro è sempre stato «un paese di immigrati». Lo dice qualcuno persino in Svezia, portando per esempio alcuni avamposti commerciali anseatici e porti franchi per la carne di renna in Lapponia. Ma l'immigrazione di massa è una cosa molto diversa dal commercio e dalla migrazione individuale, come gli Stati Uniti hanno da lungo tempo compreso. La città di Boston, Massachusetts, prima di essere trasformata per sempre - o distrutta, secondo la prospettiva dell'epoca - dall'ondata migratoria irlandese successiva al 1840, contava già immigrati che parlavano ventisette lingue diverse. «Gli stranieri, però», scriveva lo storico Oscar Handlin, «erano solo individui allo sbando, spinti da motivi personali piuttosto che da contingenze sociali tali da provocare migrazioni di massa.»16 E una distinzione fondamentale. Pocahontas, gli indiani delle isole Fiji trasportati in Gran Bretagna sul brigantino HMS Beagle, il nonno nero di Aleksandr Puskin o tre famiglie cinesi che gestiscono una lavanderia in un vicolo di Roma non fanno un «paese di immigrati». Oggi è vero che tutti i paesi dell'Europa occidentale sono «paesi di immigrati», ma fino a una generazione fa ciò non era vero, se si eccettua in parte la Francia. Questa distinzione sfugge a molti storici attuali. Un saggio recente definisce la Gran Bretagna il prodotto «di un lungo e costante movimento di popoli verso le nostre coste prima dell'era moderna».17 E falso, e lo dimostrano gli studi genetici condotti nell'ultimo decennio. Tali studi evidenziano una notevole stabilità genetica della popolazione delle isole britanniche per interi millenni. A parte le invasioni di angli, sassoni e juti, cominciate nel IV secolo a.C., che portarono al massimo 250.000 nuovi abitanti nel giro di alcuni secoli, la stirpe britannica ha subito ben poche alterazioni. La conquista normanna comportò un afflusso di non più di 10.000 persone. Nel 1685, dopo la revoca dell'Editto di Nantes, giunsero decine di migliaia di ugonotti. Fatto sta, però, che tre quarti degli antenati dei britannici e de
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gli irlandesi contemporanei viveva già sulle isole britanniche 7500 anni fa. Solo il 12% del patrimonio genetico irlandese è costituito dal DNA di gente arrivata successivamente.18 Descrivere i paesi della Gran Bretagna come nazioni di immigrati è assurdo, a meno che non si alluda a fenomeni che precedono non la modernità, bensì la civilizzazione stessa. E ciò che ha fatto il «Guardian» - con intenti semiseri, si presume - pubblicando un articolo su recenti scoperte paleontologiche. Il titolo recitava: 700.000 anni di immigrati in Gran Bretagna: le ere glaciali sconfissero sette tentativi di colonizzazione,19 Naturalmente, migrazioni di varia natura e tensioni tra gruppi indigeni e forestieri hanno sempre caratterizzato la storia dell'Europa, come di qualsiasi altro luogo, peraltro. Partendo da piazza della Repubblica, a Torino, se vi dirigete verso nord vedrete, mutatis mutandis, ciò che già gli antichi romani vedevano. A est rimangono due torri ben conservate, romane come le mura costruite per separare i cittadini dai barbari. Oggi, camminando a piedi per circa un minuto, si passa da eleganti negozi ed enoteche a un vivace mercato multietnico e infine a un ghetto nordafricano tra i più pericolosi d'Europa. Torino ha sempre avuto minoranze etniche e religiose, ma prima di dieci anni fa non si era mai trattato di masse di persone. Primo Levi, grande testimone degli orrori di Auschwitz, proveniva dalla comunità ebraica torinese, un tempo fiorente. Il capoluogo piemontese era anche una roccaforte dei valdesi, asceti protoprotestanti che vi prosperarono per secoli, fino al 1655, quando li rapìan sabaudi mostri gittando dalle rupi madri e infanti
come scrisse Milton.20 Negli anni Trenta Torino conobbe una forte immigrazione verso gli stabilimenti FIAT del Lingotto. Questi «migranti» provenivano però da altri luoghi del Piemonte, dal vicino Veneto oppure dalla Sardegna, an
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ch'essa parte del regno dei Savoia. E poi non erano in 100.000. Le abitudini intellettuali con cui statisti e industriali Alleati e dell'Asse gestirono l'economia europea durante la seconda guerra mondiale prepararono la strada all'immigrazione di massa. Quanto a dimensioni, l'attuale immigrazione di forza lavoro «temporanea» ha un solo precedente nella storia, e anche molto recente. Nel bel mezzo del conflitto mondiale, la Germania nazista deportò 10 milioni di uomini provenienti da tutta Europa per costringerli a lavorare nelle sue industrie. Durante la guerra, in Germania, un terzo del lavoro complessivo e più della metà di quello nell'industria degli armamenti era svolto da stranieri.21 Con ciò non intendo certo proporre un paragone morale tra le deportazioni naziste e i programmi di reclutamento di lavoratori nel dopoguerra. I due fenomeni hanno però un importante punto in comune: il lavoro che la manodopera «ospite» fu chiamata a svolgere in tempo di pace non sarebbe stato più duraturo di quello imposto dai nazisti ai popoli assoggettati in tempo di guerra. Le carenze di forza lavoro cui i migranti dovevano sopperire erano crisi acute e momentanee, non fenomeni cronici e strutturali. Molte tra le fabbriche in cui essi furono impiegati erano ormai allo stremo. Le fabbriche di lino della Francia settentrionale si riempirono di lavoratori algerini solo negli anni Sessanta, quando era ormai chiaro che quei posti di lavoro sarebbero stati tagliati entro breve.22 Lo stesso accadde negli stabilimenti tessili nel Nord della Gran Bretagna. Che i pianificatori avessero esagerato il bisogno di manodopera industriale a lungo termine si è capito solo decenni più tardi. Tra gli anni Settanta e il XXI secolo, le fabbriche europee hanno conosciuto incrementi della produttività (e conseguenti licenziamenti di massa) analoghi a quelli avvenuti nella Rust Belt, la «cintura» industriale americana, nello stesso periodo. A Duisburg, porto fluviale situato alla
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confluenza della Ruhr e del Reno, lavoravano 64.000 persone - tra cui decine di migliaia di turchi giunti nel corso degli anni - in appena tre acciaierie, e altre decine di migliaia nell'arcipelago di miniere della zona. Oggi le ultime miniere di carbone tedesche sono vicine alla chiusura, e l'intera città di Duisburg, in un certo senso la più turca della Germania,23 non offre più di 20.000 posti di lavoro nell'industria. L'Europa ha risolto problemi economici transitori con un cambiamento demografico permanente. A questo riguardo, nessun paragone tra immigrazione europea e americana è possibile. La grande ondata migratoria latinoamericana cominciò negli anni Settanta. Negli Stati Uniti la maggior parte dei 35 milioni di residenti nati all'estero - da quelli altamente qualificati a quelli più umili - è giunta nell'ultimo quarto di secolo, quando la transizione verso un'economia postindustriale era già ben avviata. L'immigrazione europea del dopoguerra, invece, veniva incontro alle esigenze della vecchia economia. Le analogie con gli Stati Uniti non vanno ricercate nel fenomeno dell'immigrazione, bensì semmai nella componente migratoria del problema razziale americano. Come hanno sottolineato Nicholas Lemann e altri storici, la meccanizzazione dell'agricoltura del Sud all'inìzio e nella metà del XX secolo generò una forte migrazione di neri del Sud verso le città del Nord.24 Per un tragico incidente della storia, essi giunsero proprio quando l'industria pesante smetteva di assumere operai, incidente a cui si deve almeno in parte la nascita di un sottoproletariato nero. In Europa è accaduto qualcosa di simile. La forza lavoro turca, che è stata per tutti gli anni Sessanta e Settanta percentualmente superiore a quella attuale dei nativi tedeschi, costituisce ora, se non proprio una classe sottoproletaria, quantomeno un problema economico, con un tasso di disoccupazione che in alcune città (compresa Berlino) raggiunge il 40%, un livello di dipendenza dal sussidio pubblico tre volte superiore a quello medio nazionale e un'età
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media di pensionamento intorno ai 50 anni.25 Una differenza tra la situazione europea e quella americana sta nel fatto che i Gastarbeiter, in quanto stranieri, non potevano rivendicare all'interno della società europea i diritti che i neri del Sud potevano reclamare al Nord in quanto cittadini americani. L'immigrazione di forza lavoro presentava sia vantaggi che svantaggi. Dopo pochi anni, il contesto che aveva generato i vantaggi smise di sussistere. I lavoratori «temporanei» erano stati accolti come risorsa a breve termine. Quando fu chiaro che non se ne sarebbero tornati a casa, cambiò anche il modo di giustificare i programmi per i Gastarbeiter. L'immigrazione di massa cominciò a essere presentata come una strada per ottenere vantaggi economici in un futuro non meglio specificato. Può darsi che all'inizio i cittadini europei abbiano accettato questa spiegazione semiufficiale,26 ma ora è evidentemente vero il contrario: il 47% dei britannici ritiene che l'immigrazione abbia avuto un impatto negativo sul paese, contro il 19% che lo valuta positivamente.27 Quando la pace sociale dipende dalla capacità della gente di far finta di credere in qualcosa in cui non crede, prevale il bipensiero. Nel 2006 il «Financial Times» pubblicava un articolo dal titolo curioso: II cosmopolita a disagio: come i migranti arricchiscono un padrone di casa sempre più ansioso.28
L'argomentazione capitalista: salvare le industrie moribonde Per difendere l'immigrazione sul piano economico si possono adottare due diverse argomentazioni, una capitalista, l'altra socialista. Per un lungo periodo i leader politici hanno concordemente affermato che l'immigrazione rafforza l'economia senza creare problemi, senza danneggiare più di tanto la produttività e senza intaccare in alcun modo i salari dei nativi. Tale teoria si scontra con i principi dell'economia classica e viene attaccata con sempre mag
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giore rigore dagli economisti.29 Essa rimane tuttavia la più diffusa su riviste, giornali e libri divulgativi. Una tipica valutazione viene fornita da Philippe Legrain, che nel suo saggio Immigrati. Perché ne abbiamo bisogno afferma: Gli economisti più lucidi ritengono che la liberalizzazione della migrazione globale comporterebbe vantaggi enormi e di gran lunga superiori a quelli derivanti dalla liberalizzazione del commercio mondiale. [...] Secondo la Banca mondiale, se i paesi ricchi consentissero l'incremento della propria forza lavoro anche solo nella misura del 5%, accogliendo, tra il 2001 e il 2025, 14 milioni di lavoratori provenienti dai paesi in via di sviluppo, ogni anno il mondo produrrebbe 356 miliardi di dollari di ricchezza in più, con un incremento annuo di 162 miliardi per i nuovi migranti stessi, di 143 miliardi per gli abitanti dei paesi poveri e di 139 miliardi per i nativi dei paesi ricchi.30
La tesi secondo cui l'arrivo di «soli» 14 milioni di nuovi immigranti farebbe aumentare le ricchezze delle economie avanzate di 139 miliardi di dollari pecca decisamente di ingenuità o di malafede. Viene da pensare a uno dei film di Austin Powers, in cui il dottor Male, ripresentandosi dopo anni di ibernazione, minaccia di far esplodere il mondo intero se non gli danno «un milione di dollari!». Secondo le stime del Fondo monetario internazionale, il prodotto interno lordo totale delle economie avanzate per l'anno 2008 ammonta a quasi 40 trilioni di dollari.31 Al confronto, 139 miliardi non sono poi così tanti: lo 0,0035%, ossia circa un trecentesimo del prodotto interno lordo complessivo dei paesi avanzati. Circa un sesto del piano di rilancio economico varato dal governo americano nel 2009. E questo senza calcolare tutti gli «imprevisti prevedibili», ossia le spese che l'immigrazione comporta. Il reddito di un «mediatore culturale» compare per esempio nelle statistiche nazionali come una parte di quell'incremento di produzione economica. Non potrebbe invece essere detratto in quanto costo per la gestione della diversità culturale? Il già
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citato David Coleman raccomanda che nel calcolo dell'impatto economico dell'immigrazione vengano anche considerati: i costi totali derivanti dal processo di integrazione e dalle attività relative all'immigrazione e ai rapporti interrazziali, nonché dalle particolari esigenze abitative, di istruzione e di assistenza medica degli immigrati; gli effetti complessivi sull'istruzione dei bambini residenti nelle zone in cui vi è una forte presenza di immigrati; il costante bisogno di «bonificare» anziché demolire aree urbane occupate da immigrati; i problemi di criminalità e di ordine pubblico, [e] l'effetto moltiplicatore sulla futura immigrazione. 32
Coleman ha ragione nell'affermare che il calcolo economico degli effetti dell'immigrazione spesso non tiene conto di costi importanti. Si potrebbe addirittura dire che è davvero sorprendente l'importanza che certi esperti dell'immigrazione di massa attribuiscono a porzioni tanto irrisorie del PIL. Si ha l'impressione che si voglia evitare a bella posta l'aspetto più serio della questione, quello non economico. Gli effetti sociali, spirituali e politici dell'immigrazione sono enormi e durevoli, mentre quelli economici sono minimi e transitori. Se, al pari di certi europei, vi infuriate di fronte ai mercati poliglotti e ai cartelli stradali scritti in polacco, ur- du e arabo, rinunciare allo 0,0035% del vostro bilancio sarebbe un sacrificio minimo da fare, per riappropriarsi del proprio paese. Se invece, come altri europei, vedete l'immigrazione come un fatto eccitante e un'ancora di salvezza, un modo per arricchire il vostro paese grigio e provinciale di nuove culture e cibi gustosi, per voi l'immigrazione sarebbe conveniente anche se dovesse comportare un considerevole costo economico. Anche ammettendo, per ipotesi, che l'immigrazione implichi un lieve incremento della ricchezza, rimane il fatto che il contesto politico in cui si inserisce - la democrazia -
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rende tale incremento fragile e forse insostenibile. L'economia richiede più migranti di quanti la politica sarà in grado di tollerare. Ci si chiede quali membri della società siano i beneficiari della crescita economica determinata dagli immigrati. Benché oggi i mercati del lavoro siano più fluidi e difficili da misurare rispetto all'epoca delle città industriali del XIX secolo, l'economia moderna non ha abolito le leggi dell'economia. Secondo un analista, tali leggi dicono che l'immigrazione genera crescita economica perché «aumenta l'offerta di lavoro, incrementa la domanda, dato che i migranti spendono denaro, e fa lievitare la produzione esercitando con tutta probabilità una pressione verso il basso sull'inflazione».33 Tradotto dal gergo dell'economia accademica, ciò significa che l'immigrazione rende più efficiente l'economia perché fa calare gli stipendi di alcune categorie di nativi. La logica del discorso non fa una grinza, e trova riscontro anche nella pratica, come si è visto con le massicce migrazioni di polacchi a Londra e di ispanici negli Stati Uniti.34 Forse talvolta il verdetto degli elettori è che la pressione verso il basso sugli stipendi è un bene per l'intera società. In effetti, negli anni di massima immigrazione, tra gli elettori dell'Europa occidentale era diffusa la convinzione che un sindacato troppo aggressivo potesse danneggiare gravemente l'economia e la società. L'aumento dell'offerta di lavoro provocato dall'immigrazione ha contribuito a rendere irragionevoli dal punto di vista economico le rivendicazioni salariali dei sindacati e ad aumentare i profitti, la flessibilità e la competitività delle aziende. Una società ha diritto di fare un simile uso dell'immigrazione, ma una politica del genere si fonda per forza di cose su un consenso silenzioso, fragile e temporaneo. Gran parte dei benefici economici dell'immigrazione vanno agli stessi immigrati. Una delle aziende più grandi di Kreuzberg, il quartiere berlinese che funge da capitale della Germania turca, è l'agenzia di viaggi Oger Tùrk-tur, il cui ti
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tolare è un europarlamentare dell'SPD. Specializzata in viaggi in Turchia, è un'ottima azienda sotto ogni profilo, ed è additata come esempio dello spirito imprenditoriale e del dinamismo economico di Kreuzberg. Ma quale guadagno ne ricavano i nativi tedeschi? La domanda che tale azienda soddisfa è una conseguenza, non una causa dell'immigrazione. Similmente, è una buona cosa che il fondo capitale Business Angel des Cités finanzi l'iniziativa imprenditoriale nelle banlieues francesi. Le nuove imprese, però, sembrano a uso esclusivo della comunità: si pensi a Kool Hallal, una catena di fast-food hallal a Mulhouse, a Mecca Pasta e a Medina Shop, che vende prodotti marocchini.35 A partire dal 2002, chi voleva esprimere la propria solidarietà alla causa palestinese boicottando i prodotti americani poteva acquistare una Coca-Cola prodotta in Francia chiamata MeccaCola. Fu di grande incentivo per la solidarietà anti-israelia- na. Molto meno per l'economia francese. In Spagna, dagli anni Novanta fino al collasso del mercato edilizio, si vedevano gru dappertutto, massimo emblema di salute economica secondo la mentalità comune. In buona parte gli operai nei cantieri erano migranti. Arrivavano per aiutare un paese comunque bisognoso di quelle case? Probabilmente no, poiché negli anni Novanta, quando i migranti cominciarono a giungere in massa, la popolazione nativa spagnola stava per subire una contrazione incredibilmente brusca. Da allora, però, la popolazione complessiva del paese è aumentata di 4 milioni di persone (10%), interamente a causa dell'immigrazione. E più probabile che l'immigrazione sia la causa, piuttosto che un sintomo del boom edilizio. I nuovi arrivati stanno costruendo le loro case.
I lavori che nessuno vuole fare Nell'elencare i benefici dell'immigrazione si dice spesso che gli immigrati accetterebbero i lavori che gli europei non
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vogliono fare. Ovviamente, con ciò si intende i lavori che gli europei non vogliono fare a certe condizioni salariali. Di recente, l'esperto di immigrazione Philip Martin della University of California-Davis, insieme a due colleghi, ha paragonato le migrazioni attuali al movimento di persone verso le colonie europee nel XVIII secolo.36 All'epoca i migranti firmavano, con il proprietario terriero che finanziava il loro viaggio, un contratto che li impegnava a ripagarlo con un certo numero di anni di lavoro. Forse gli immigranti di oggi sono costretti a un tipo di contratto diverso, sotto forma di privazione di diritti e di irregolarità legale che li costringe a svolgere i lavori più umili. Ammesso che esistano lavori che gli europei non sono disposti a svolgere a nessun prezzo, questo «scambio» rappresenta buona parte di ciò che i nativi credono di «ottenere» dall'immigrazione. Se tale «contratto» sia equo o meno dipende dal contesto in cui lo si considera. Da una parte, ha un effetto corrosivo, perché crea, nei paesi d'immigrazione, un diritto a due marce. Dall'altra, è improbabile che i migranti se ne lamentino. In fin dei conti, se la passano sempre meglio che nei loro paesi d'origine. Il problema, però, è che i paesi possono godere dei vantaggi appena elencati solo fintanto che i migranti rimangono clandestini e di passaggio. Gli immigrati non restano per sempre in quelle condizioni. Una volta inseriti legalmente nel tessuto sociale (che è poi l'obiettivo che la società afferma di perseguire), acquisiscono diritti e aspettative di ogni tipo. Diventano europei e quindi, per definizione, non sono più disposti a fare i lavori che nessun europeo vuole fare. Pertanto, quando l'immigrazione va a buon fine dal punto di vista sociale, viene a mancare il principale motivo economico per cui la società crede di aver bisogno di immigrati. A quel punto, per garantire che i lavori che nessuno vuole fare vengano fatti, la società deve reclutare un altro esercito di riserva di lavoratori non qualificati nati all'estero, il
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che fa pensare al peggior capitalismo immaginato da Karl Marx. L'unica alternativa sarebbe l'estensione della precarietà legale degli immigrati alla generazione successiva, negando il diritto di cittadinanza ai bambini nati in Europa - con il rischio, però, di ricreare una sorta di feudalesimo moderno. In ogni caso, i benefici apportati dall'immigrazione vengono necessariamente scontati dalle generazioni a venire: non si tratta di benefici acquisiti per sempre, bensì di un semplice prestito. Quanto più rapida e profonda è l'integrazione dei nuovi arrivati, tanto maggiore sarà il numero degli immigrati necessari. In tal modo, le economie dei paesi di destinazione finiscono per dipendere dall'immigrazione (per assuefarvisi, addirittura) e tendono inevitabilmente verso una delle seguenti due opzioni: aumentare il numero degli immigrati o limitare l'assimilazione. Non ha senso ipotizzare che l'immigrazione di massa sia l'unica alternativa a lungo termine che rimane all'Europa. Per molti secoli l'economia europea ne ha fatto a meno. Mentre scrivo questo libro, è in corso un esperimento in vivo per stabilire se sia vero o meno che l'immigrazione è inevitabile in un'economia moderna. Gli emendamenti apportati nel 2002 alla legge che regola l'afflusso di stranieri in Danimarca37 e le nuove leggi introdotte in Olanda al fine di limitare l'immigrazione - elaborate all'inizio di questo decennio e notevolmente inasprite dopo l'assassinio del regista Theo van Gogh nel 2004 - hanno determinato un forte calo dell'immigrazione. Se quest'ultima fosse davvero così indispensabile come si dice, ci si aspetterebbe di vedere le economie danese e olandese superate da quelle di altri paesi, dato che nell'elaborare le loro previsioni di crescita a lungo termine gli investitori avrebbero dovuto tenere conto della ridotta presenza di immigrati. Invece, nulla di tutto ciò è avvenuto. Sostenere che i paesi europei «abbiano bisogno» di immigrati è errato. E più corretto affermare che per lungo tempo alcuni paesi europei, o quantomeno i loro leader
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economici, hanno preferito un'economia di migranti a un'economia di non migranti. Tale preferenza poggia su basi razionali. Benché dell'immigrazione si dica spesso che è sfuggita al controllo («La Gran Bretagna sta perdendo il controllo dei propri confini»), potrebbe essere considerata altrettanto spesso come una strategia per mantenere o riacquistare il controllo di un'economia. Ciò risulta evidente se si osserva un fenomeno su cui concordano tutti gli economisti: l'immigrazione ostacola la crescita della produttività. Se il lavoro costa poco, l'esigenza dì «risparmiare lavoro», per esempio con tecnologia moderna, è meno sentita.38 Si pensi all'Italia, che da tempo accoglie più di mezzo milione di migranti all'anno dall'Africa e dal Medio Oriente, i quali finiscono perlopiù a lavorare nelle aziende agricole, nei negozi e nei ristoranti. Il prezzo di mercato di certi tipi di prodotti agricoli italiani - così, almeno, affermano i produttori italiani - rischia di scendere al punto da non coprire neppure più i costi di trasporto. E in effetti, nel contesto della globalizzazione, il vero vantaggio relativo dell'Italia potrebbe risiedere in altri settori, anziché nell'agricoltura, ossia in qualche modello economico ad alta tecnologia, remunerativo ma non particolarmente «italiano». Un'eventualità che agli italiani potrebbe non piacere. L'uso di tecniche tradizionali per la lavorazione della terra può risultare conveniente solo in presenza di tanti immigrati. Un discorso analogo vale per i ristoranti tradizionali italiani, che nell'economia attuale possono sperare di tenere testa alle scialbe catene di ristorazione con l'aiuto di stranieri sottopagati. Lo stesso dicasi per gli splendidi parchi pubblici del paese, la cui manutenzione ha sempre richiesto decine di giardinieri, ossia un numero di lavoratori impossibile da reperire nell'Italia in calo demografico, se non dietro alti compensi. In assenza di manodopera algerina e maliana, quei parchi scomparirebbero o sarebbero sottoposti a manutenzione automatica come in America (con l'installazione di spruzzatori e la sostituzione di giardini elegantemente
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progettati con semplice erba). Per molti versi, l'Italia si trova costretta a scegliere se preservare l'aspetto della popolazione com'era cinquantanni fa o conservare il paesaggio com'era cinquant'anni fa. Optando per l'immigrazione, sta dando la priorità al secondo corno del dilemma. Può essere che alcuni nativi si sentano «travolti» dal cambiamento demografico, ma forse quello dell'immigrazione, per quanto non il più ideale, può essere il modo più pratico perché l'Italia continui a sembrare sé stessa. Come scrisse Giuseppe Tornasi di Lampedusa: «Bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com'è». Chi conosce la storia dell'immigrazione di forza lavoro in Europa negli ultimi cinquant'anni potrebbe obiettare che gli italiani perderanno comunque buona parte delle loro strutture economiche tradizionali, con o senza immigrati. In fin dei conti, quando un'industria è ormai alla fine dei suoi giorni (come quella del lino nella Francia del Nord), gli immigrati possono ritardarne la morte di qualche anno, ma non per sempre. Quando le imprese tagliano posti di lavoro (come nel caso delle acciaierie tedesche) gli immigrati possono ritardare i piani di ristrutturazione di alcuni anni, ma non per sempre. La disillusione rispetto all'utilità dei migranti, che ha ormai preso piede nei paesi di immigrazione più antica, deriva dalla scomparsa dei ruoli che gli stranieri erano chiamati a ricoprire. Esiste un'unica industria europea che i migranti, a parere dei cittadini di tutti i paesi, potrebbero ancora salvare: ma questo discorso ci conduce direttamente al secondo dei due approcci all'economia dell'immigrazione, quello socialista, perché l'industria a cui alludiamo è quella del welfare.
L'argomentazione socialista: salvare lo stato sociale I cosiddetti «welfare state» dell'Europa occidentale del dopoguerra accordarono ai lavoratori il trattamento più ge
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neroso mai concesso nella storia. L'archetipo fu «l'economia sociale di mercato» della Germania. All'inizio di questo secolo, in alcune grandi aziende tra i diritti riconosciuti ai dipendenti figuravano una settimana lavorativa di trentadue ore; sette settimane di ferie; copertura sanitaria totale; pranzo gratuito; pacchetti di incentivi che, nel caso dei metalmeccanici sindacalizzati, arrivavano a poco meno di cinquanta dollari all'ora; e - soprattutto - pensionamento a 50 anni, cioè all'apice del reddito. Il sistema, per sua natura intrinseca, tendeva a migliorare il trattamento fino al limite della sostenibilità. Gli accordi generosi con i sindacati incoraggiavano scioperi frequenti e tattiche negoziali estreme. I lavori più ambiti, per coloro che riuscivano a trovarli, erano accompagnati da forti disincentivi - compresi generosi sussidi di disoccupazione - a cambiare tipo di impiego. L'economia sociale di mercato è stata presa a modello dal mondo intero fino a buona parte degli anni Settanta. Ma la Thatcher e Reagan misero in luce le sue contraddizioni intrinseche, e l'economia dell'informazione ne minò gravemente il prestigio. I paesi europei avevano dedicato buona parte della propria passione politica e del proprio capitale d'investimento alla costruzione e in seguito alla protezione dei sistemi di previdenza sociale. Le imprese medio-grandi, insieme al governo, erano in grado di garantire il migliore trattamento sul piano dei benefit e della copertura previdenziale. Di conseguenza, l'Europa vantava poche di quelle aziende piccole e flessibili che negli ultimi decenni si sono dimostrate le più innovative. Fatta eccezione per l'industria scandinava dei telefoni cellulari, il Vecchio continente non ha avuto un ruolo di primo piano nel boom della tecnologia informatica avvenuto alla fine del XX secolo. Il deficit imprenditoriale europeo è stato oggetto di numerosi studi negli anni Novanta. L'economia sociale di mercato presentava un altro problema: rendeva statico il mercato del lavoro europeo. Per esempio, nei primi decenni del dopoguerra, la relativa po
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vertà del Mezzogiorno italiano fu gradualmente alleviata dalla migrazione verso il Nord della penisola e altri paesi europei. Lo stato, però, divenne sempre più generoso, e molti preferirono vivere del sussidio pubblico in Sicilia, per quanto misero, piuttosto che affrontare la solitudine e l'anonimato del lavoro in fabbrica nel freddo Nord.39 Lo stato sociale europeo finì per avere un effetto che i suoi promotori non avevano previsto: qualsiasi impiego che non desse accesso alla generosità del governo e delle aziende a esso collegate cominciò a essere considerato indegno del più misero dei proletari. I lavori poco ambiti erano nel settore dell'agricoltura, della collaborazione domestica, delle pulizie e della preparazione del cibo. Grazie alle generose indennità garantite dallo stato, i proletari non erano costretti ad accettarli. Se tali lavori dovevano essere svolti comunque, era necessario affidarli a gente esclusa dal sistema. Cioè agli immigrati. In presenza di milioni di non cittadini con relativa prole sul suolo europeo, gli stati sociali cominciarono a interagire in modo preoccupante con la demografia. I sistemi previdenziali pubblici europei funzionano secondo un meccanismo a ripartizione: le indennità vengono pagate con le entrate fiscali, anziché sulla base del denaro «accantonato» da ogni lavoratore per la propria pensione. Polemisti e studiosi del welfare hanno sempre sottolineato la tendenza di tali sistemi - sottoposti alla pressione della demografia - a degenerare e a trasformarsi in schemi di Ponzi. Ossia i politici fanno promesse eccessive, e poi le mantengono impegnandosi in nuovi investimenti (generalmente indebitandosi in cambio di futuri introiti fiscali) per dare ai beneficiari del momento più di quanto il sistema possa davvero permettersi di elargire. Nei casi di società in crescita demografica quest'operazione è semplice perché aumenta anche il «tasso di dipendenza economica», ossia il rapporto tra la popolazione attiva e i pensionati. I politici sono tentati di utilizzare nell'immediato il surplus derivante dalla temporanea sovrabbondanza di lavoratori, anziché reinvestirlo in vista del momento in cui la
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massa di lavoratori si trasformerà in una massa di pensionati dipendenti. I politici europei non hanno resistito alla tentazione. Oggi la popolazione europea sta invecchiando, il tasso di dipendenza si sta contraendo e la «generazione futura» di lavoratori, a causa del calo delle nascite, non sarà sufficiente a ripristinare l'equilibrio. Naturalmente, a brevissimo termine, un boom delle nascite come quello già avvenuto in Europa può innalzare il livello di vita, dal momento che riduce il numero di soggetti dipendenti per ogni singolo lavoratore. A lungo termine, però, è necessario fare dei calcoli, e il lungo termine è già arrivato. Mentre la popolazione europea calava (come il livello del mare), è emersa una soluzione (come un iceberg). La parte immigrata della popolazione europea era ancora relativamente giovane e immune ai ridotti tassi di natalità. Ci avrebbero pensato loro a ripristinare l'equilibrio del sistema previdenziale! Se solo l'opinione pubblica europea fosse riuscita ad accantonare i pregiudizi per un po', tanto da consentire un aumento dell'immigrazione - si diceva - gli stati sociali avrebbero potuto fondarsi di nuovo su solide basi attuariali. Gli immigrati, un tempo sintomo di problemi non riconosciuti del sistema europeo, si ritrovarono d'un tratto a rivestire il ruolo di deus ex machina del lusso europeo. Sarebbero sbucati da miseri e aridi villaggi del Terzo mondo per andare a salvare le pensioni, le case di cura, le vacanze subacquee ed enogastronomiche della forza lavoro più viziata della storia del pianeta. L'idea è a dir poco lontana dai principi su cui si fondarono gli stati sociali europei, e non regge neppure in termini freddamente economici. Molti ritengono che l'immigrazione possa salvare lo stato sociale, ma solo perché non sono informati. La divisione delle Nazioni Unite per la Popolazione calcola che, per riprodurre la struttura generazionale e il tasso di dipendenza economica europei, entro la metà del secolo dovrebbero arrivare 701 milioni di migranti,40 cioè molta più gente di quanta non popoli adesso il continente.
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Non è realistico sperare che l'immigrazione possa portare un sia pur modesto sollievo allo stato sociale. L'economista di Harvard Martin Feldstein ha preso in esame il caso spagnolo. Nei prossimi cinquant'anni, la popolazione rimarrà invariata - circa 44 milioni di abitanti - ma il rapporto tra lavoratori e pensionati scenderà da 4,5 a l a una proporzione inferiore di 2 a 1. Feldstein si chiede quale effetto avrebbe l'ingresso di 2 milioni di lavoratori stranieri, cioè un aumento del 54% degli attuali residenti nati all'estero. Possiamo presumere un effetto sociale enorme, con tutta probabilità destabilizzante e costoso. L'effetto fiscale, invece, come dimostra Feldstein, sarebbe irrisorio. Tali nuovi arrivati determinerebbero un aumento di appena il 10% nella forza lavoro. E poiché gli immigrati tendono a occupare gli strati più bassi dell'economia, il relativo aumento della retribuzione - da cui si ricavano le tasse che servono a finanziare la previdenza sociale - sarebbe di gran lunga inferiore. La stima di Feldstein sull'aumento della retribuzione - «intorno all'8% o meno» - pare fin troppo generosa. A quell'8% bisogna sottrarre le spese (ingenti) per l'assistenza sanitaria e l'istruzione degli immigrati.41 A quel punto, il beneficio che gli immigrati portano allo stato sociale difficilmente compensa le loro eventuali pretese su di esso. Poiché gli immigrati non sono immortali. Invecchiano e vanno in pensione come tutti gli altri, e il sistema deve assistere loro e le loro famiglie più numerose della media. I leader europei hanno affrontato il problema crogiolandosi in pie illusioni o poco più. «A lungo termine, i migranti stessi invecchieranno e contribuiranno all'aumento del tasso di dipendenza economica», si leggeva su un rapporto del 2007 dell'Home Office, «ma solo se presumiamo che rimangano nel Regno Unito in età pensionistica.»42 Diamine, che cos'altro dovremmo presumere? Che gli immigrati regalino decenni della propria vita e decine di migliaia di sterline di contributi per finanziare uno stato sociale costoso e onnicomprensivo per europei, e che poi se ne ritornino buoni
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buoni nel Terzo mondo a trascorrere la vecchiaia in povertà, proprio quando è arrivato il momento di godere della propria contribuzione? Per contribuire allo stato sociale, gli immigrati e i loro discendenti dovrebbero dare al welfare più di quanto ne ricevano. Il fatto è che non lavorano né guadagnano abbastanza per farlo. E dimostrato che gli immigrati ottengono più assistenza sociale di quanta ne finanzino. In Olanda, per esempio, il 40% degli immigrati gode di qualche forma di sussidio pubblico.43 Secondo l'Istituto per il futuro del lavoro, mentre per i nativi tedeschi tra i 20 e i 65 anni le tasse sono superiori al corrispettivo da loro percepito in termini di servizi, fra i turchi la fascia d'età per cui vale questo discorso è compresa tra i 28 e i 57 anni.44 Un dato statistico stupefacente nella storia dell'immigrazione europea è che tra il 1971 e il 2000 il numero di residenti stranieri in Germania è cresciuto in modo costante - da 3 milioni di unità si è passati a circa 7,5 milioni - mentre il numero degli stranieri impiegati nella forza lavoro è rimasto invariato. E rimasto fisso a circa 2 milioni di persone. Nel 1973 il 65% degli immigrati in Germania lavorava; nel 1983, dieci anni dopo, lavorava solo il 38%.45 Un'evoluzione analoga si è verificata in tutta Europa. Nel 1994, solo il 29% dei migranti giungeva in Francia per motivi di lavoro.46 Ciò non significa che il 71% sia rimasto disoccupato, bensì soltanto che è giunto grazie a programmi di ricongiungimento familiare, richieste d'asilo o altri motivi non economici. Tra questi, il 70% proveniva da altri paesi europei e il 7% dal Nordafrica. Nel 1997, in Gran Bretagna, solo il 12% di chi giungeva dai cosiddetti «paesi del New Commonwealth» (le zone non bianche dell'ex impero britannico) era spinto da motivi di lavoro. Appena il 45% degli immigrati non europei in Danimarca fa parte della forza lavoro, percentuale che gli economisti giudicano estremamente alta e frutto di un'etica del lavoro molto rigorosa,47 dato che la metà di loro guadagna ogni mese ap
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pena un centinaio di euro in più di quanto potrebbe percepire sotto forma di sussidio di disoccupazione. L'economista Torben Andersen, che nel 2005 ha guidato una commissione sul finanziamento della previdenza sociale danese, ha scritto che «l'aumento dell'immigrazione da paesi a basso reddito peggiorerebbe le cose, poiché questi gruppi hanno un tasso medio di partecipazione alla forza lavoro molto inferiore ai livelli del mercato del lavoro danese».48 Se negli anni Sessanta l'immigrazione era necessaria a causa della carenza di manodopera, per quale ragione ha continuato a essere tale dopo gli anni Ottanta, allorché l'Europa si trovò ad affrontare un periodo di diffusa disoccupazione? Ora l'Europa soffre di quella che Hans Magnus Enzen- sberger definisce «bulimia demografica».49 E convinta che ci sia, al contempo, troppa gente e troppo poca. Questo dipende in larga misura dallo stato sociale. Il welfare europeo ha reso l'immigrazione più gestibile e ordinata di quella che caratterizza gli Stati Uniti. Gli immigrati illegali sono relativamente pochi: in Gran Bretagna ci sono alcune centinaia di migliaia di clandestini, nei paesi scandinavi solo alcune decine di migliaia; negli Stati Uniti, invece, ce ne sono 12 milioni. Questo perché il rischio di espulsione è basso e perché lo stato offre vantaggi economici agli immigrati che rendono nota la propria presenza. Il problema è capire quale scopo abbia tale presenza.
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3. A CHI GIOVA L'IMMIGRAZIONE?
Immigrati buoni e immigrati cattivi - L'immigrazione giova ai nativi o agli immigrati? - Il welfare e la fuga dei bianchì - Idraulici polacchi - Barcellona o morte - Il dovere dell'ospitalità - Asilo politico e diritti umani — Asilo politico e democrazia
Alcuni mesi prima delle elezioni presidenziali francesi del 2007, il candidato conservatore Nicolas Sarkozy fu preso di mira da un'orecchiabile canzoncina satirica di Zèdess, un artista reggae dell'Africa occidentale. Sarkozy aveva espresso la sua preoccupazione - sempre più diffusa nel paese dopo l'ondata di sommosse dell'autunno del 2005 - per il progressivo peggioramento della qualità degli immigrati. La criminalità e la dipendenza dai sussidi statali erano in crescita. Pensando all'immigrazione, il cittadino medio francese non vedeva più lo straniero diligente che lavorava per dieci ore al giorno al tornio, bensì il signor «Conosco-i- miei-diritti» descritto da Oriana Fallaci1 e i giovani rivoltosi, che pure erano perlopiù nati in Francia. Fiero delle sue origini straniere (suo padre era fuggito dall'Ungheria nel secondo dopoguerra), Sarkozy non era contrario all'immigrazione, ma era convinto che la Francia dovesse essere più selettiva. Invocò dunque un immigration choisie, che avrebbe consentito al suo paese di stabilire chi avesse i requisiti o meno per accedere al suo sistema previdenziale, contrapponendola a un 'immigration subie, ossia passivamente tollerata, o subita. «La Francia», dichiarò il presidente in occasione di un viaggio a Bamako, in Mali, nel maggio del 2006, «non può essere il solo paese al mondo a cui sia proibito decidere chi è benvenuto sul suo territorio e chi non lo è.»2 Una delle conseguenze di quel di
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scorso fu la canzone di Zèdess, che gli oppositori politici di Sarkozy diffusero allegramente su Internet: Il suo nome è Nicolas Sarkozy Ha inventato l'immigration choisie E la storia di un figlio d'Ungheria Che vuol farsi incoronare in Gallia Finita l'epoca dei negri muscolosi: che bei denti! Adesso lui vuole i neri laureati, intelligenti. Ecco il criterio nel nuovo negriero Che ha le palle per spiegarlo al Continente Nero. Nicolas Sarkozy, Perché tuo padre dall'Ungheria fuggì?3
Immigrati buoni e immigrati cattivi In realtà, l'ironia di Zèdess gli si ritorse contro. Innanzitutto, non era stato Sarkozy a «inventare» il concetto di immigration choisie (che diviene legge nel 2006 e nel 2007). All'epoca dell'uscita del video, la Francia, proprio come aveva detto Sarkozy, era uno degli ultimi paesi del mondo sviluppato in cui la selezione dei migranti non fosse ancora divenuta una priorità nazionale. In tutti i paesi europei si invocava una politica dell'immigrazione più «canadese». Negli ultimi anni il Canada ha accolto più migranti pro capite di qualsiasi altro paese al mondo, se si escludono piccoli paradisi fiscali come il Liechtenstein e la Svizzera. Circa un quinto (18,9%) della popolazione canadese è nato all'estero.4 Il Canada, però, accoglie solo migranti molto selezionati. A chi aspira alla residenza permanente viene assegnato un punteggio (il massimo è 100) sulla base dell'istruzione (25 punti), delle conoscenze linguistiche (24 punti), dell'esperienza lavorativa (21 punti), dell'età (10 punti), dei contatti lavorativi (10 punti) e dell'«adattabilità
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sociale» (10 punti).5 Vengono anche effettuati controlli sulle condizioni finanziarie, mediche e assicurative dei soggetti e sulla loro fedina penale. Era la selettività canadese a essere presa per esempio, non le proporzioni della sua immigrazione. Quando gli europei cominciarono a valutare attentamente le qualifiche dei migranti, la Gran Bretagna era già avanti in questo senso. Nel 2000 un terzo dei medici britannici (33,7%) era nato all'estero.6 L'Irlanda (35,3%) e la Svizzera (28,1%) accolsero anch'esse molti medici stranieri. Le percentuali stanno crescendo7 con il progressivo invecchiamento della popolazione. Nel 2002 il Regno Unito promosse il Programma dei migranti qualificati e alcuni anni dopo introdusse ulteriori incentivi a favore di quelli laureati. Anche in Germania il dibattito era in corso da tempo. Il ministro degli Interni Wolfgang Schäuble sottolineò che la Germania, a differenza della Spagna, per esempio, non aveva bisogno di lavoratori non qualificati, date le scarse risorse nazionali e il progressivo abbandono delle industrie estrattive, come quella del carbone.8 A chi affermava che negli anni a venire la Germania avrebbe avuto bisogno di 700.000 migranti, il sociologo Gunnar Heinsohn replicò: «Ci occorrono 700.000 migranti altamente qualificati. Da noi arriva gente di cui non abbiamo bisogno, mentre quelli che ci farebbero comodo vanno negli Stati Uniti o in Canada».9 Aveva ragione. Nel 2000, sette fra i nuovi entrati nell'elenco di «Forbes» dei 4000 americani più ricchi provenivano dalla sola India, e tutti avevano fatto strada come imprenditori nel settore high-tech.10 Il Consorzio di ricerca applicata sulla migrazione internazionale, un think tank finanziato dalla UE con sede a Firenze, ha rilevato che il 54% dei migranti con qualifiche accademiche va negli Stati Uniti o in Canada.11 A parte poche eccezioni, come il caso dei medici britannici, l'Europa non è stata capace di attrarre migranti altamente qualificati in grado di stimolare l'economia. Al
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l'inizio del mandato di Gerhard Schróder la Germania tentò di introdurre la sua versione dell' immigration choisie. Offrì permessi di soggiorno in Germania fino a cinque anni a esperti di informatica indiani e di altri paesi.12 Fu un fallimento.13 Tra i 20.000 permessi offerti, neanche la metà trovò un candidato. Alcuni, compresi gli stessi migranti, diedero la colpa alla ristrettezza del programma. La Germania non consentiva ai nuovi arrivati di portare con sé la propria famiglia e non offriva prospettive di cittadinanza. Altri sottolinearono i segnali di ostilità pervenuti insieme ai messaggi di benvenuto. Il governatore del Nord Reno-Westfalia, il cristiano-democratico Jurgen Rùtt- gers, per esempio, fece una memorabile battuta, dicendo che la Germania aveva bisogno di Kinder stati Inder, di bambini piuttosto che di indiani. Il concetto di immigration choisie contraddiceva quello che gli ansiosi europei si erano sentiti dire per decenni sul ruolo economico dei migranti, e cioè che svolgevano i lavori rifiutati dai nativi dei paesi ricchi. Protagonista dell'immigrazione europea non era più la custode bengalese che spingeva il carrello delle pulizie lungo il corridoio di una grande azienda alla fine dell'orario lavorativo, bensì un suo compatriota con tanto di diploma di dottorato in fisica impiegato in un ufficio di quello stesso piano. Il mercato dell'immigrazione aveva parlato ed evidentemente aveva detto: «Portinai e uscieri». Ora i governi intervenivano per fargli dire: «Medici e ingegneri informatici». Perché erano tutti così sicuri che un'immigrazione gestita in base ai piani governativi sarebbe stata più efficiente rispetto a un'immigrazione gestita in base alle leggi del mercato, come quella di un tempo? L'immigration choisie evidenziava una sfiducia nei confronti dell'efficienza del mercato del lavoro globale, mentre era soprattutto tale efficienza a giustificare l'immigrazione stessa.
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L'immigrazione giova ai nativi o agli immigrati ? Il disagio causato dall' immigration choisie derivava soprattutto dal fatto che riproponeva un vecchio interrogativo: a che cosa e a chi giova l'immigrazione? Ai nativi o ai migranti? Quanto più i politici dicevano che giovava ai primi, tanto più li si sospettava di pensare il contrario. «Loro [gli immigrati] sono qui perché noi eravamo là», recita un vecchio motto quando i britannici parlano dei pakistani o gli olandesi dei nativi del Suriname. Naturalmente, la presenza di sudanesi in Norvegia o di bosniaci in Irlanda, per esempio, dimostra l'erroneità di questa bonaria battuta. Ma molti europei ed extraeuropei tendevano a vedere l'immigrazione in Europa come un diritto acquisito: una parte del debito che l'Europa, dopo secoli di sfruttamento economico, aveva contratto con il resto del mondo. Quando il governo francese cominciò a parlare di cooperazione europea per porre dei limiti all'immigrazione, nel 2006, il primo ministro Dominique de Villepin promise di aumentare del 50% gli aiuti allo sviluppo nel giro di tre anni.14 Quando i leader della UE approvarono una politica comune dell'immigrazione che sarebbe entrata in vigore a partire dal 2010, sette capi di stato del Mercosur, il mercato comune del Sudamerica, criticarono aspramente il progetto, proclamandosi vittime di un'espropriazione indebita. Il premier boliviano Evo Morales ammonì gli europei: «Mangiare è un diritto umano».15 Strana affermazione da parte di un capo di stato democraticamente eletto. Se i suoi cittadini non mangiano, di chi è la colpa? Morales parla come se il suo ruolo di rappresentante di un elettorato all'interno dell'economia globale sia più importante di quello di capo di stato. Forse ha ragione. In ogni caso, i politici dei paesi di emigrazione hanno sfruttato al meglio la confusione generale. Nel 2006, mentre le autorità spagnole tentavano di rallentare l'arrivo di barche cariche di migranti africani diretti in
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Europa, il presidente gambiano Yahya Jammeh dichiarò che nessuno poteva impedire ai suoi cittadini di compiere quella traversata. «Questo paese ha ottenuto l'indipendenza dalla Gran Bretagna solo quarantun anni fa», disse. «Lo sfruttamento che le nostre popolazioni hanno subito autorizza i nostri giovani a rimanere in Gran Bretagna per i prossimi 359 anni.»16 Se mettiamo da parte la demagogia e ci concentriamo sulle aspirazioni economiche, dobbiamo ammettere che Jammeh non aveva tutti i torti. Da un punto di vista prettamente economico, nessun piano di aiuti per lo sviluppo ha mai funzionato meglio della migrazione: dopo aver costituito una testa di ponte in un paese economicamente avanzato, i migranti spediscono soldi a casa sotto forma di «rimesse». Stando a un documento interno della Banca mondiale, nel 2006 sono state spedite rimesse per un importo complessivo di 250 miliardi di dollari; aggiungendo i flussi non ufficiali, si parla di cifre superiori a tutto l'investimento diretto all'estero a livello mondiale e del doppio degli aiuti internazionali.17 I bonifici spediti in E1 Salvador principalmente dagli Stati Uniti, ma anche dalla Spagna - costituiscono ormai un sesto dell'economia del paese;18 nel 2003 i marocchini, presenti soprattutto in Europa, hanno mandato a casa 3,6 miliardi di dollari.19 Nella primavera del 2007, la Western Union, ex compagnia telegrafica attualmente specializzata in servizi di trasferimento di denaro utilizzati soprattutto da migranti, ha aperto la sua trecentomillesima agenzia al mondo, in un paese, l'India, dove ne esistevano già 36.000.20 Per quanto verosimilmente destinate ad allinearsi alla crisi economica mondiale, le rimesse rimangono significative. Le rimesse hanno un effetto economico controverso: sottraggono il denaro guadagnato dai migranti ai sistemi economici in cui è stato guadagnato oppure permettono ai paesi del Terzo mondo di assumere il controllo dello sviluppo del proprio capitale, cosa che alla fine gioverà a tutti i paesi che concorrono all'economia globale? L'immigration choisie
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complica ulteriormente la risposta a queste domande. Essa sfrutta quella che molti difensori della causa degli immigrati considerano un grave problema - ossia la fuga di cervelli dai paesi più poveri - e la sovvenziona. Gli economisti hanno opinioni discordi su questo punto: qualcuno sostiene che la migrazione di persone qualificate giovi ai paesi poveri perché facilita la trasmissione delle competenze, altri la ritengono invece nociva perché priva tali paesi delle sue menti migliori. A breve termine è sicuramente nociva. La migrazione di medici in Gran Bretagna ha determinato tragiche carenze di personale medico nei Caraibi, in Sierra Leone, in Tanzania, in Liberia, nel Malawi e altrove.21 Accogliere così tanti dottori stranieri è pericoloso o egoista? Zèdess aveva torto, nel senso più ristretto del termine, a individuare elementi di razzismo nell'immigration choisie di Nicolas Sarkozy. Il governo francese era divenuto molto esigente, ma non avrebbe mai respinto africani in possesso dei requisiti previsti dalla legge. La canzone coglieva però un aspetto reale: Sarkozy e altri riproponevano il vecchio principio secondo il quale ci sarebbe migrazione e migrazione. Sarkozy stava sostituendo l'accoglienza incondizionata da parte della Francia verso tutti i giramondo con un contratto ben preciso tra la Francia e alcuni soggetti qualificati. La Francia sarebbe rimasta «aperta ai migranti», ma solo nel senso in cui lo era ai tempi in cui il padre di Emile Zola vi era giunto da Venezia: avrebbe accolto soltanto quei migranti adatti a soddisfare le necessità economiche del paese e compatibili con le sue preferenze culturali. Le necessità economiche sono spesso difficili da distinguere dalle preferenze culturali, e queste ultime sono, non di rado, semplicemente un sinonimo di preferenze etniche. Su un punto Zèdess aveva ragione: parlare di immigrazione in termini di «competenza» e «adattabilità sociale» non cancellava come per magia quei problemi etnici di cui ora esamineremo alcuni esempi.
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Il welfare e la fuga dei bianchi Il welfare presenta un problema. Stati sociali complessi come quelli intorno ai quali sono state organizzate le economie europee negli ultimi sessantanni non si sviluppano, in genere, nelle società multietniche. L'attuale ondata migratoria dimostrerà se le società multietniche sono in grado di mantenere tali economie. I segnali che si colgono, però, volgono al negativo. Gli economisti di Harvard Alberto Alesina e Edward Glaeser hanno dimostrato che grosso modo metà dell'antipatia nei confronti del socialismo di tipo europeo manifestata dagli americani può essere attribuita alla variegata composizione etnica degli Stati Uniti.22 (L'altra metà è questione di istituzioni politiche.) Tale opinione è confermata con forza dalla recente indagine dal sociologo Robert Putnam, anch'egli harvardiano,23 che ha rilevato come la gente che vive in contesti multietnici tenda a «rintanarsi». Si fida meno dei vicini ed è meno incline a spendere denaro per cause comuni o sociali. Potrei elencare un numero molto consistente di studi scientifico-sociali che arrivano alla stessa conclusione.24 Il fatto che gli stati sociali tendano a nascere solo in situazioni di omogeneità etnica non è che la forma nuova assunta da un problema antico. «Così come la città non di qualsivoglia moltitudine è composta, medesimamente ella non si compone ancora in qualsivoglia tempo», scrisse Aristotele. «Onde tutti quei, che hanno ricevuto compagni, o forestieri, la più parte hanno avuto tumulti civili.»25 Quelli che Aristotele chiamava «tumulti civili», noi, nell'età del relativismo, li chiameremmo «espressioni di dissenso». Gli immigrati non hanno pregiudizi uguali a quelli dei nativi. Hanno «modi innovativi di fare le cose». Questo potrebbe renderli preziosi in una società moderna e competitiva. Il welfare, però, dovrebbe appunto rappresentare un rifugio da quel tipo di società. Lo stato sociale è una dimensione a cui il dissenso, l'eccentricità e il desiderio di fare a modo
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proprio non si adattano, come confermerà qualsiasi americano che ricordi la rivolta scatenata negli anni Ottanta dalle cosiddette welfare queens che compravano vodka con i buoni alimentari forniti dallo Stato. Quando gli immigrati imparano a districarsi tra i meccanismi della burocrazia del welfare europeo, è possibile che interpretino a modo proprio le finalità della previdenza sociale. Anziché usare gli aiuti per comprare cibo, per esempio, può essere che decidano di spenderli a favore dell'islam. Due terzi degli imam francesi percepiscono un sussidio dallo stato. Lo stesso dicasi per molti imam britannici. Ghayasuddin Siddiqui, il capo del «parlamento musulmano» britannico, nel corso di una conferenza tenuta a Birmingham nel 2005 dichiarò: «Le nostre moschee sono frequentate in larga misura da persone di cultura tribale e controllate da anziani che vivono del sussidio di disoccupazione e non hanno idea dei cambiamenti che avvengono nel mondo circostante».26 Due terzi degli imam francesi percepiscono il sussidio di disoccupazione.27 La maggior parte dei cittadini francesi e britannici non considera gli assegni sociali alla stregua di sussidi fai-da-te per la religione; se così fosse, non sarebbero disposti a finanziarli attraverso le tasse. Se i beneficiari dell'assistenza pubblica non condividono i valori della società in cui vivono, questa finirà per rivoltarsi contro lo stato sociale. Un altro problema riguarda la mobilità. Si pensa che l'immigrazione finisca per porre in contrasto la mobilità dei nuovi arrivati e la staticità dei nativi. In effetti, è vero, ma solo per breve tempo. I nativi sono più mobili di quello che sembra. Le migrazioni causano migrazioni secondarie.28 In un saggio del 1998 il sociologo Rogers Brubaker le chiamava «migrazioni da mancata mescolanza etnica». Con tutti i bei discorsi che si fanno sulla multietnicità, di fatto la gente tende a rifiutarla. Negli Stati Uniti degli anni Sessanta, durante il periodo della desegregazione, tali migrazioni erano condannate come «fuga dei bianchi», e i migranti seconda
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ri tacciati di razzismo. I bianchi, però, non sono gli unici a intraprendere tali migrazioni, e la questione razziale è solo una delle sue possibili cause. Come ho detto prima, l'arrivo degli irlandesi a Boston distrusse la cultura protestante di una delle città più importanti della storia del protestantesimo. Tale distruzione, però, ebbe luogo non solo perché arrivarono gli irlandesi, ma anche perché gli anglosassoni scelsero di non vivere in una città governata dagli irlandesi, sempre più violenta e corrotta. Come ha osservato Oscar Handlin, solo la metà dei discendenti dei bostoniani del 1820 risiedeva ancora a Boston trent'anni dopo.29 L'immigrazione in generale e l'islam migrante in particolare sono potenzialmente in grado di provocare fughe del genere anche in Europa. Valutando l'impatto e la sostenibilità dell'immigrazione sulla base del «numeratore» dei nuovi immigrati, la gente potrebbe non fare caso al «denominatore» della popolazione nativa. Un denominatore in calo intensifica l'effetto dell'immigrazione. Le popolazioni native europee, come è già stato sottolineato, si stanno riducendo in modo naturale, e il calo viene accelerato dall'emigrazione. Se 109.500 tedeschi hanno lasciato la Germania nel 2001, altri 144.800 hanno fatto la stessa scelta nel 2005, trasferendosi in Canada, Australia, America, Spagna e altrove. Tale fenomeno ha persino ispirato un nuovo programma televisivo intitolato Addio, Germania Tali partenze potrebbero essere collegate all'immigrazione. Di certo, è stata quella la causa della fuga dalla Francia di numerosi ebrei. Nel 2002, anno in cui si verificarono centinaia di episodi di violenza antisemita, perlopiù a opera di immigrati nordafricani e dei loro figli, oltre 3000 ebrei francesi (circa lo 0,5% di tutta la comunità) si sono trasferiti in Israele - come conferma l'Agenzia ebraica per Israele, che tiene il conto di tali trasferimenti - e molti altri sono partiti per il Canada e gli Stati Uniti. L'ondata di violenza ha turbato anche gli olandesi. Nel 2004, il regista di sinistra Theo van Gogh fu
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assassinato brutalmente in pieno giorno da un islamista olandese per aver realizzato un film che condannava certi brani del Corano dedicati alle donne. Quello stesso anno in Olanda ci fu più emigrazione che immigrazione.31 Nella settimana successiva all'assassinio di van Gogh, un'agenzia specializzata in documenti per l'espatrio ricevette 13.000 contatti via e- mail, e le ambasciate del Canada, dell'Australia e della Nuova Zelanda dichiararono di essere state subissate di richieste di informazioni sull'emigrazione.32 Nel 2006, George Wal- den, ex ministro conservatore, scrisse E tempo di emigrare?, una lettera in forma semiromanzesca indirizzata a un figlio prima di lasciare la Gran Bretagna per sempre; praticamente tutti i motivi che adduceva a giustificazione di quella scelta erano conseguenze dell'immigrazione.33 A giudicare dalle statistiche demografiche, non v'è dubbio che questa fuga dei bianchi stia avvenendo davvero. La popolazione bianca di Birmingham, che all'inizio degli anni Novanta costituiva il 77% del totale, nel 2006 era solo il 65,3% e, in base alle proiezioni, sarebbe destinata a divenire minoritaria entro il 2026. Nel 1991, a Leicester, i bianchi erano il 70,1%, ma nel 2006 erano scesi al 59,5%. Lì i bianchi saranno in minoranza fra poco più di un decennio.34 Il problema non è tanto la composizione razziale dei residenti di una determinata città, quanto il significato culturale che il cambiamento etnico comporta. La fuga dei bianchi negli Stati Uniti degli anni Sessanta e Settanta esprimeva un senso di pericolo, rovina e decadenza. Alcune storiche città industriali come Camden e Detroit non si sono mai più riprese da allora. Gli Stati Uniti, però, potevano contare su un territorio immenso e su decine di città industriali, e furono in grado di assorbire tali perdite. In Europa la posta in gioco è molto più alta, dato che un'unica città come Amsterdam può racchiudere in sé buona parte del patrimonio storico, culturale e letterario di un intero paese. «L'Olanda è un paese d'arte», afferma la femminista somalo-olandese Ayaan Hirsi Ali. «Se non si fa in modo che i cittadini di Amsterdam,
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il 60% dei quali sarà presto di origine non occidentale, ne siano partecipi, tutto andrà in malora. Se il comune dovesse decidere se stanziare fondi per preservare opere d'arte o costruire una moschea, i cittadini potrebbero chiedersi: "Perché dovrei sborsare soldi per uno stupido quadro?"»35 La compatibilità culturale è dunque una questione di primaria importanza. Il Canada, come ho sottolineato prima, premia esplicitamente 1'«adattabilità» dei migranti. I paesi europei sono meno espliciti, ma non meno preoccupati. Si pensi alla Spagna. Benché sia praticamente attaccata al Nordafrica, solo il 20% dei migranti proviene da lì; il 38% arriva dall'America Latina.36 A parere di Bernabé López García, professore di studi mediterranei all'Universidad Autònoma di Madrid, nonché esperto di cultura marocchina, non è una circostanza casuale. I programmi consolari spagnoli di reclutamento di migranti provenienti dall'America Latina (e dalle Filippine) non hanno equivalenti in nessun altro paese. Secondo López si tratta di una sorta di «filtro etnico», ovvero di un tentativo di limitare l'arrivo di musulmani.37 Quello del filtro etnico è un sistema meno sinistro di quanto sembri. E una misura selettiva sul modello del Canada, ma con mezzi diversi. La scelta di reclutare cittadini latinoamericani è un metodo senza dubbio discriminatorio, ma non razzista. Quello che preme alla Spagna non è tanto che i migranti siano bianchi, bensì che abbiano una visione del mondo simile a quella dei residenti, a partire dalla familiarità con il culto cristiano.
Idraulici polacchi Questo, però, non basta a risolvere i problemi legati all'immigrazione. Ogni domenica, a Parigi, orde di immigrati polacchi invadono la seicentesca chiesa di Notre-Dame- de-1 'Assomption, costruita dai gesuiti, che da quando ospi
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ta, davanti alla scalinata, una nuova statua di Giovanni Paolo II, si riempie come non accadeva da decenni. Eppure l'immigrazione polacca ha suscitato reazioni controverse. Fattori culturali ed economici interagiscono fra loro confondendo le acque, anche quando i migranti provengono da una cultura affine. Nel 2004 l'Unione Europea accolse dieci nuovi paesi (passando da quindici a venticinque membri), otto dei quali facevano un tempo parte del blocco sovietico. Mentre in alcuni paesi si diffuse il timore di un'invasione di slavi, i tre paesi europei più liberisti - Gran Bretagna, Irlanda e Svezia - tennero le loro frontiere aperte. Il Regno Unito si preparò a un numero di nuovi ingressi compreso fra i 5.000 e i 13.000.38 E i nuovi arrivati furono 627.000 circa. Nella Repubblica d'Irlanda, dopo l'ingresso della Polonia nella UE, nel 2004, giunsero così tanti migranti che di lì alla fine del 2005 i 164.000 nuovi arrivati dall'ex blocco dell'Est costituivano oltre il 4% della popolazione totale. L'economista Hans-Werner Sinn aveva previsto già da tempo un tale fenomeno, poiché i nuovi paesi aderenti erano molto più poveri, rispetto alla media UE, dei loro predecessori Spagna e Portogallo.39 Al tempo dell'ingresso nella UE, i lavoratori europei orientali - in paesi ad alta scolarizzazione come la Slovacchia e l'Ungheria - guadagnavano un settimo della senescente e lamentosa forza lavoro tedesca. Quindi l'allargamento della UE è stata una novità positiva e insieme negativa per l'Europa occidentale. Da una parte, ha comportato una pressione verso il basso sugli stipendi; nel 2005 1'«idraulico polacco» assurse a icona della campagna referendaria francese contro il trattato costituzionale europeo; dall'altra, alimentò le speranze che il fabbisogno di manodopera in Europa occidentale potesse essere soddisfatto da gruppi dotati di una mentalità affine (per esempio, domestiche ungheresi e macchinisti bulgari) anziché profondamente diversa (per esempio, studenti pakistani e algeri
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ni). La disponibilità di europei pronti a svolgere lavori nel campo dei servizi sembrava illimitata.
E invece un limite c'era, eccome. Fatta eccezione per la Polonia e la Slovacchia, tutti i nuovi paesi membri sono entrati nella UE con un tasso di natalità inferiore alla media occidentale. Si calcolava, in particolare, che gli stati baltici fossero destinati a perdere il 37,7% della popolazione entro la metà del XXI secolo.40 L'ampliamento a est della UE non alleviò la carenza di manodopera del continente, anzi l'esacerbò. Si pensi, per esempio, alla Lettonia, paese che contava meno di un milione di abitanti; nei diciotto mesi successivi all'apertura delle frontiere britanniche, irlandesi e svedesi ai cittadini dei paesi dell'Est europeo, 100.000 tra i giovani lettoni più ambiziosi decisero di emigrare, un quarto dei quali in Irlanda. Il deficit di forza lavoro indusse gli imprenditori lettoni a prendere in considerazione l'ipotesi di importare lavoratori dal Ghana. Il confine orientale dell'Europa si stava spostando a est per assecondare le pretese dei leader europei? Oppure si stava spostando a ovest, seguendo la migrazione della popolazione europea? «Durante la guerra fredda sognavamo tutti di andarcene», ha dichiarato un lettone, «ma se ce ne andiamo tutti, il paese rischia di scomparire.»41 In effetti, il rischio c'è. Non tutti i paesi, non tutte le culture e non tutte le lingue sopravvivranno a quest'ultima grande Völkerwanderung1 Philip Larkin, nella sua poesia Going, Going (1972) scrisse dell'eccessiva cementificazione e delle devastazioni ambientali in corso in Inghilterra e della rassegnazione generale rispetto a ciò che viene percepito come inevitabile. Anziché opporsi alle cose che causano disagio, la gente cerca di «inventare / scuse che le fanno apparire utili». L'utilità
1 Letteralmente «migrazione di popoli». Termine utilizzato per descrivere quelle che per l'impero romano furono le «invasioni barbariche». [n.d.t.]
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economica dell'immigrazione di massa funziona allo stesso modo. Le spiegazioni continuano a cambiare: prima serve alla crescita, poi al welfare; prima giova alla società ospitante, poi agli stessi immigrati. L'immigrazione è un fait accom- pli che la gente si affanna a giustificare a posteriori.
Barcellona o morte Ufficialmente, Gran Bretagna, Francia e Germania avevano chiuso le porte all'immigrazione di massa alla fine degli anni Settanta. Avevano raggiunto un livello di saturazione economica. I vantaggi che l'immigrazione apportava (in teoria) al sistema capitalistico erano meno evidenti (in pratica) per gli elettori, a cui pareva che un maggior numero di lavoratori significasse disoccupazione. Tuttavia, la chiusura dei programmi di reclutamento di forza lavoro e lo stanziamento di generose indennità per il rimpatrio della manodopera non riuscì ad arginare l'immigrazione. Che ci fosse sotto qualche disegno occulto o si trattasse di semplice negligenza, fatto sta che il flusso continuò inarrestabile. L'immigrazione trovò nuove giustificazioni. Innanzitutto, il dovere morale di offrire asilo agli stranieri che fuggivano dalla violenza, dalla povertà e dalle persecuzioni politiche. L'immigrazione di forza lavoro cedeva il passo all'immigrazione di rifugiati e al ricongiungimento (e alla formazione) familiare. Quando i nativi cominciarono a dubitare dell'utilità economica dell'immigrazione, si sentirono dire che l'aspetto economico non c'entrava nulla. Dato che l'accoglienza di migranti non rientrava più in un piano economico, bensì costituiva un imperativo morale, la politica aveva minori possibilità di intervento. Lo spostamento di priorità incrementò il flusso proprio quando i politici dichiaravano di volerlo arrestare. Le differenze politiche si approfondirono: da una parte c'era la rabbia degli elettori delle fasce più basse, dall'altra la saggezza convenzionale
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delle élite, che nell'immigrazione di massa vedevano qualcosa di inevitabile. Quando le considerazioni umanitarie si mescolano a quelle economiche, l'immigrazione diventa ingestibile, come dimostra la situazione in Spagna, paese che contende all'Italia il primato per l'afflusso di migranti. La Spagna ha due città-enclave nel Nordafrica, Ceuta e Melilla. Europee sin dal XV secolo,42 sono divenute meta di immigrazione solo a partire dalla fine del XX secolo. La città di Ceuta fu circondata da filo spinato soltanto nel 1971, e per evitare un'epidemia di colera. Dal 1999 le due città sono protette da recinzioni di sicurezza e ospitano centri di accoglienza per immigrati.43 Questi sono sempre stati pieni, e le recinzioni insufficienti. Per anni, migranti dell'Africa centrale e occidentale e di altri paesi si sono ammassati fuori dalla recinzione, scavalcando o passando sotto i suoi i punti vulnerabili per entrare nel territorio dell'Unione Europea. Nel settembre del 2005 la migrazione ebbe un'escalation esponenziale. La polizia marocchina disperse un gruppo di quattrocento migranti, soprattutto del Mali e del Cambia, che si erano accampati nella boscaglia appena fuori Melilla. Si trattava, perlopiù, di gente senza soldi, e molti avevano attraversato il Sahara per arrivare fin lì. Il giorno dopo migliaia di migranti, forse timorosi di essere allontanati dalla frontiera europea, si radunarono per assaltare in massa la recinzione di filo spinato. Cinquecento uomini, alcuni muniti di scale, altri armati di pietre o bastoni, caricarono all'alba; in centotrenta riuscirono a raggiungere Melilla, molti con le mani scorticate dal filo spinato. Quella stessa notte altre centinaia di persone assalirono il recinto e in duecento riuscirono a superarlo. Con grande sorpresa delle autorità, i migranti presenti a Melilla sembravano in contatto con quelli fuori Ceuta, a 320 chilometri di distanza, perché anche lì ci furono analoghi tentativi di abbattere la recinzione. In totale, gli assalti furono dieci in undici giorni.44 La Spagna si affrettò a mandare tre compagnie dell'esercito nelle due città.
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Anche le guardie di confine marocchine reagirono con violenza. Il 29 settembre uccisero quattro uomini che tentavano di superare la recinzione di Ceuta.45 Una settimana dopo, fecero fuori altri sei uomini, tra i quattrocento circa che assaltarono Melilla. Molti testimoni descrissero gli assalti di migranti come «disperati», e in effetti così furono.46 E tuttavia c'era qualcosa di più della disperazione. Le migrazioni non sono innescate solo dai disagi, bensì anche dalle ambizioni personali. Oltre alla disperazione degli immigrati, colpì la loro straordinaria ingegnosità, insieme alla serietà e alla lucidità tattica con cui cercarono di confondere, gabbare e sopraffare i soldati spagnoli e marocchini. Si trattò di vere e proprie operazioni militari coordinate, sia pur a basso livello tecnologico. Coloro che riuscirono a superare i recinti, i sopravvissuti, fecero domanda di asilo politico (e lo stato di guerra che caratterizza buona parte dell'Africa fornisce i requisiti prima facié) e furono alloggiati in ostelli allestiti dalla Croce rossa e da altre organizzazioni umanitarie. Molti furono mandati nella Spagna peninsulare e messi in libertà con «ordini di espulsione» che nessuno - né in Spagna né tra gli immigrati si aspetta mai che vengano eseguiti o rispettati. Da lì, grazie all'allentamento dei controlli di confine, furono in grado di raggiungere indisturbati la maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale. Oggi Ceuta e Melilla sono protette da fossati e doppie recinzioni alte sei metri.47 Pochi mesi dopo, al largo delle Canarie cominciarono a comparire flottiglie motorizzate di lunghi pescherecci a forma di banana, che nella lingua senegalese dei wolof vengono chiamati lothio. Trasportavano decine di migliaia di uomini e ragazzi del Senegal e di altri paesi dell'Africa occidentale. Anche questi migranti erano estremamente coraggiosi. Il motto in lingua wolof che pronunciarono davanti ai giornalisti a Dakar e scrissero sui loro natanti era Barga mba barsakh, «Barcellona o morte».48 «Barca», naturalmente,
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non è il nome della città, bensì della sua squadra di calcio, e questo è forse indicativo del realismo delle aspirazioni dei migranti. Realisti o meno, facevano sul serio. Poiché sulla costa dell'Africa occidentale la Corrente del Golfo gira a sud e poi devia rapidamente a ovest per tornare nell'Atlantico, un semplice blocco del motore durante la traversata poteva essere loro fatale. Mesi più tardi furono trovate barche cariche di cadaveri finite alla deriva e trascinate fino alle Barbados. Alla fine dell'estate del 2006, quasi 30.000 di questi nuovi profughi erano approdati sulle coste delle Canarie. Secondo i calcoli del commissario europeo italiano Franco Frattini, altri 3000 erano deceduti in mare.49 Da decenni le Canarie erano una meta prediletta dai migranti, soprattutto da coloro che tentavano la traversata di sessanta miglia dai villaggi marocchini di Tarfaya e Laayou- ne fino all'isola di Fuerteventura. Il traffico, però, era limitato a gruppi di sei o sette nordafricani che giungevano a bordo di piccole imbarcazioni in cerca di lavoro a breve termine. L'uso dei lothio, alcuni dei quali potevano trasportare centocinquanta uomini alla volta, fece registrare un brusco aumento, fino a diventare una vera e propria industria. Queste e altre grandi imbarcazioni aprirono la strada per l'Europa a popolazioni che vivevano a dieci giorni di viaggio via mare, e anche più lontano, dato che quella rotta, una volta dimostratasi affidabile, non fu scelta solo dagli africani occidentali. Venne infatti intercettata una vecchia nave arrugginita stracarica di pakistani, e centinaia di asiatici furono raccolti mentre attraversavano il deserto tra il Marocco e la Mauritania, a diverse migliaia di chilometri da casa.50 Il fenomeno non riguardò solo le Canarie. Barche partite dalla Libia piene di migranti mediorientali e asiatici approdarono a Lampedusa e Pantelleria. Le proporzioni degli sbarchi furono di molto inferiori (10.000 ingressi nell'estate del 2006), le lingue erano diverse, ma le scene simili. Alcuni tra i nuovi migranti utilizzarono motoscafi da corsa e
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acquascooter per eludere la catena di motovedette della guardia costiera che circonda le isole italiane e greche; altri raggiunsero la UE passando per le montagne intorno alla cittadina slovacca di Ubl'a, dove l'Unione Europea confina con l'Ucraina. Naturalmente, queste irruzioni rocambolesche in territorio europeo erano l'eccezione, piuttosto che la regola. La maggior parte dei migranti illegali entrano in Europa per vie legali, a bordo di aeroplani, navi e automobili, in quanto familiari di cittadini europei o come semplici turisti. Diventano clandestini alla scadenza del periodo di soggiorno consentito dal visto turistico o dopo essersi visti negare il permesso di residenza o il diritto d'asilo. L'invasione dei lothio generò sì preoccupazione, ma anche compassione. C'era un che di vergognoso nel respingere della gente tanto povera che aveva rischiato la vita e mostrato un tale coraggio. I migranti più astuti avevano sempre saputo sfruttare la cattiva coscienza degli europei, e presto impararono a farlo anche i nuovi «boat people». Ecco perché gli approdi erano quasi sempre pacifici e ben pochi viaggiatori portavano con sé documenti di identificazione. In Spagna, per legge, le persone di nazionalità sconosciuta non possono essere espulse e neppure fermate per più di quaranta giorni. Chi non rispondeva agli interrogatori era automaticamente ammesso in Spagna e, nella maggioranza dei casi, veniva spedito sul continente in aereo con il solito inutile «ordine di espulsione». L'invasione dei lothio sopraffece le autorità spagnole sul piano logistico e burocratico proprio com'era nelle intenzioni dei suoi organizzatori. Nei casi in cui si verificarono effettivamente episodi di violenza, le dinamiche furono sorprendentemente molto simili. Nell'aprile del 2007, al largo della costa della Mauritania, la motovedetta spagnola Río Duero fu investita da una pioggia di bombe molotov mentre si avvicinava a un lothio con cinquantasette migranti a bordo. '1 Il Río Duero mandò poi alcuni uomini a bordo di un gommone, e i migranti tentarono di bucarlo con piccozze e strumenti appuntiti. La moto
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vedetta scortò la barca al porto di Arguineguin, alle Canarie. I malfattori identificabili furono rispediti in Mauritania affinché venissero processati in patria. Molti altri furono liberati in Spagna e, quindi, in Europa. All'apice della crisi dei lothio, la Spagna perseguì una politica schizoide e incoerente. Da una parte, trattava i migranti come fratelli: ristrutturò decine di edifici popolari per offrire loro un alloggio provvisorio; li sistemò in alberghi, stazioni balneari, discoteche e scuole; allestì campi con tende per far fronte all'emergenza. Le caserme militari, come quella di Las Raices alle Canarie, erano particolarmente adatte a ospitare i profughi, dato che erano munite di cucine e strutture ricreative. Poiché la Spagna, al pari di altri paesi europei, stava riducendo il proprio esercito, di edifici del genere ce n'erano in abbondanza. Si fece inoltre in modo che, all'interno degli accampamenti improvvisati, i nuovi arrivati potessero praticare il loro culto, di solito islamico. Dall'altra, la Spagna oppose resistenza trattando gli immigrati alla stregua di invasori. Le guardie di confine dell'agenzia Frontex, fondata nel 2005 e costituita da soldati di tutti gli eserciti degli stati membri della UE, furono per la prima volta impiegate in modo massiccio. Purtroppo, però, con un budget di soli 15,8 milioni di euro, erano una sorta di corazzata Potèmkin. Il lavoro più consistente fu svolto dagli elicotteri della Guardia Civil spagnola. La marina italiana e quella portoghese diedero un contributo, sia pur a fasi alterne, ma il Senegal e la Mauritania si rifiutarono di autorizzare qualsiasi tipo di operazione bellica da parte del Frontex nelle loro acque territoriali. José Luis Rodriguez Zapatero - a capo del governo probabilmente meno incline alle azioni militari di tutta l'Europa - decise allora di varare misure più severe. All'apice della crisi, il governo mise a punto dei piani per l'invio di navi sulla costa africana per estirpare il fenomeno alla radice. L'idea fu poi respinta dal ministro della Difesa José Antonio Alonso, il quale temeva che le grandi navi da guerra potessero travolgere quelle im
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barcazioni sgangherate, creando un caso internazionale di violazione di diritti umani.52 L'ambivalenza della Spagna è comprensibile. Che cosa significa «Barcellona o morte»? «Aiutatemi, sto morendo!» o piuttosto «Chi mi ostacola lo fa a suo rischio e pericolo»? Naturalmente, il governo spagnolo non ne aveva idea. Gli europei in generale non erano in grado di stabilire se questi migranti fossero giovani disperati, lavoratori coscienziosi 0 invasori senza scrupoli, e non erano abbastanza fantasiosi da ammettere che avrebbero potuto essere ognuna o nessuna di quelle cose. In tali circostanze, l'Europa avrebbe avuto bisogno di un codice morale in grado di fornire risposte sul trattamento da riservare a queste persone. Questo codice è tuttora inesistente. La vaga idea secondo cui l'Europa avrebbe bisogno di forza lavoro coincide con una mancanza di curiosità sul reale desiderio di lavorare dei migranti; la vaga idea che i migranti debbano essere accolti come profughi fa apparire scortese il calcolo dei costi che l'assunzione di responsabilità per i poveri del mondo comporta. Dare il benvenuto a tutta questa gente sarebbe una follia; respingerla sarebbe razzista. Incapaci di scegliere tra una politica di calorosa accoglienza o dichiarata autodifesa, 1 paesi europei sperano che il mondo scambi la loro paralisi per ospitalità.
Il dovere dell'ospitalità L'ospitalità è una tradizione e un imperativo morale per tutte le culture. Il lettore moderno dell' Odissea è talvolta sorpreso di leggere di Ulisse che, sotto mentite spoglie, viene accolto per giorni e giorni in casa propria, in quanto ospite forestiero, senza che nessuno gli chieda come si chiami, perché sarebbe stato scortese. Nel Vecchio Testamento questo tipo di ospitalità è una legge divina (Levitico 19,33-34: «Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro
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paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l'amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d'Egitto»), Il Nuovo Testamento (Matteo 25,31-46) riconferma lo stesso imperativo («Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato...») e precisa le conseguenze della sua violazione. La severità della pena - ossia la dannazione eterna - dimostra quanto l'ospitalità sia fondamentale nella cultura europea e cristiana come in ogni altra cultura. L'idea ormai diffusa secondo cui la volontà di ostacolare l'immigrazione sarebbe un segno di arretratezza e tradizionalismo, mentre la disponibilità ad accogliere i migranti denoterebbe apertura mentale e modernità di pensiero è un abbaglio. Nei paesi storicamente cristiani, i politici «proimmigrazione» hanno sempre fatto appello a profonde tendenze culturali, per non parlare del contributo dato dalla maggioranza dei portavoce ufficiali delle varie chiese, mentre i politici «anti-immigrazione» finiscono sempre per infrangere una serie di tabù nel tentativo di trovare ascolto. Il principio di ospitalità reca in sé un paradosso. Hans Magnus Enzensberger lo descrive così: Al fine di evitare continui bagni di sangue e di consentire un minimo di scambio e di relazioni tra clan, tribù ed etnie diverse, le società antiche hanno inventato i tabù e i rituali dell'ospitalità. Tali misure, però, non eliminano lo status di «forestiero». Al contrario, lo fissano in modo indelebile. L'ospite è sacro, ma non ha il permesso di trattenersi troppo a lungo.53
L'ospitalità ha lo scopo di proteggere chi viaggia in territori ostili, e non quello di cedere a grandi gruppi di visitatori - tra cui magari militanti, scrocconi e opportunisti - il controllo dell'intero territorio. Ciononostante, poiché l'ospitalità è una tendenza innata di ogni essere umano, gli astuti non hanno difficoltà ad approfittarne, così come i
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pubblicitari fanno leva su altre pulsioni profondamente umane come la sessualità. Ecco perché le culture sottomettono l'ospitalità a regole di ogni tipo. Un ospite che non se ne vuole andare diventa un intruso. L'ospitalità è intimamente legata alla xenofobia. In verità è una delle sue possibili espressioni. Allorché, nel 382, le tribù gotiche stipularono un accordo di pace con l'impero romano in difficoltà, ottennero il diritto di hospitalitas (ossia di permanenza su terre redditizie), ma non di connu- bìurn (cioè di sposarsi con cittadini romani): il primo privilegio escludeva il secondo.54 L'esempio più spettacolare che la storia ci offre dell'intimo legame tra ospitalità e diffidenza è la vicenda del capitano Cook. Nel 1779, durante il suo ultimo viaggio, egli fu festeggiato, coperto di doni e adorato per un mese dagli abitanti della baia hawaiana di Kea- lakekua. In seguito, però, quando lui e il suo equipaggio tornarono sull'isola per un'emergenza, ossia per riparare un albero della nave, furono massacrati. I musulmani giunti in Danimarca negli anni Settanta hanno avuto modo di cogliere molto bene la distinzione tra ospitalità e accoglienza piena e duratura. Sia gli estimatori sia i denigratori della cultura danese ricordano la straordinaria generosità con cui furono inizialmente accolti dal governo e dalla gente.55 A un certo punto degli anni Novanta, però, ci fu una brusca inversione di rotta e si instaurò un clima di sospetto e persino di ostilità. Si è tentati di ricercare un fatto, un episodio di malafede da parte di qualcuno, tale da far precipitare gli eventi. I progressisti danesi riconducono spesso questo cambiamento all'ascesa del Partito del popolo danese dopo il 1995, come se in una democrazia fosse possibile fabbricare dal nulla un sentimento anti-immigrati. L'imam Ahmed Abu Laban, agitatore palestinese che trascorse gli ultimi anni della sua vita in Danimarca, cercò di spiegare il fenomeno come un fatto di intolleranza religiosa. I danesi, disse, «non hanno reagito [agli immigrati] in quanto musulmani. Dopo breve tempo,
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però, si sono accorti che i musulmani sono attaccati al loro culto e non sono disposti ad abbandonare l'islam». Ciò che è accaduto in Danimarca era più inevitabile di così. L'accoglienza riservata agli immigrati nei primi mesi o anni della loro permanenza non apparteneva all'ordine naturale delle cose. Era la cortesia che si riserva abitualmente agli ospiti. Gli immigrati sono rimasti abbastanza a lungo da perdere il loro ruolo ritualizzato di «ospiti» e con esso anche il diritto all'ospitalità dei danesi. (Ciò non significa che abbiano perso il diritto a un trattamento rispettoso, solo a quella forma particolare di rispetto che viene chiamata ospitalità.) Una volta perso tale ruolo, che cos'erano diventati gli immigrati? Danesi come gli altri, con responsabilità costituzionali ben definite e altre tacite responsabilità culturali o piuttosto danesi con privilegi speciali che li esoneravano dalle suddette responsabilità? Lavoratori che esigevano nuovi rapporti contrattuali oppure intrusi a cui bisognava opporre resistenza? Il problema della Danimarca, così come della Spagna e del resto dell'Europa più in generale, è non aver trovato una risposta unanime a tali interrogativi. E sbalorditivo quanto tempo abbiano impiegato gli europei a capire che gli immigrati si erano stabiliti in Europa per sempre. Sono andati avanti a pensare che gli stranieri a un certo punto se ne sarebbero «tornati a casa» almeno fino agli anni Settanta, quando la Francia promosse per la prima volta dei programmi per sovvenzionare il rimpatrio spontaneo degli immigrati, e in alcuni casi addirittura fino al decennio successivo. Oggi gli europei commettono l'errore opposto. Sopravvalutano il grado di radicamento raggiunto dagli immigrati in Europa. Nei paesi ad alta immigrazione come la Spagna e l'Italia, la stragrande maggioranza degli stranieri sono di prima generazione, e persino nei paesi che ricevono immigrazione da molto più tempo gli immigrati sono molto meno radicati di quel che sembra. Nel 2000, il 60% della popolazione straniera in Germania era giunto dopo il 1985.56 Molti immigrati sono piena
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mente integrati nella società della nuova patria e si aspettano di essere trattati di conseguenza. Tanti altri non lo sono.
Asilo politico e diritti umani L'asilo politico è la versione moderna e burocratizzata dell'antico dovere di ospitalità. Come osserva Enzensber- ger: l'idea del «nobile richiedente asilo» è un prodotto della letteratura del XIX secolo.57 Tuttavia, l'esperienza del XX secolo ha sfumato la distinzione tra chi arriva in cerca di rifugio e chi arriva per restare. L'accoglienza o meno da parte di uno stato era spesso una questione di vita o di morte per i migranti, come per gli ebrei della Francia occupata dai nazisti e per i polacchi «rimpatriati» nell'Europa orientale occupata dai comunisti dopo la seconda guerra mondiale, per citare solo due tra i molti esempi. Ansioso di non ripetere tali errori, l'Occidente ha dunque sviluppato una comprensibile riluttanza ad abbandonare i profughi. Tutti coloro che fuggivano dalla tirannia comunista e da altre dittature nate nel dopoguerra avevano automaticamente accesso all'ospitalità del mondo libero. L'accoglienza che gli Stati Uniti riservarono ai profughi cubani trovò un corrispettivo europeo nell'apertura delle frontiere ai profughi delle ex colonie. Nei casi in cui tale accoglienza veniva rifiutata, voci influenti di ogni schieramento politico sfogavano la propria rabbia. Quando nel 1968 la Gran Bretagna approvò l'Immigration Act, il cui scopo era la chiusura delle frontiere britanniche agli indiani cacciati dal Kenya a causa dell'«africanizzazione» del paese, il giornalista conservatore Auberon Waugh lo definì «una delle leggi più immorali mai scaturita da un parlamento britannico». Il «Times» scrisse: «Il Partito laburista ha una nuova ideologia. Non dichiara più di credere nell'uguaglianza degli uomini. Non crede neppure nell'uguaglianza dei cittadini britannici. Crede nell'uguaglianza dei cittadini britannici bianchi».58
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Nonostante l'approvazione di alcune leggi (come quella del 1968) miranti a limitare la concessione del diritto d'asilo, si diffuse la convinzione che l'accoglienza dovuta ai profughi fosse praticamente incondizionata. La popolazione di profughi europei cominciò a crescere, innescando quello che l'economista svedese Torsten Persson definì «un circolo vizioso di crisi politiche».'9 Alla fine degli anni Sessanta, nella sola Scandinavia cominciarono ad arrivare ebrei polacchi perseguitati dall'antisemitismo di stato e greci in fuga dalla dittatura dei «colonnelli». Negli anni Settanta giunsero cileni pro-Allende e, poco dopo, «boat people» vietnamiti; negli anni Ottanta fu il turno dei nazionalisti curdi residenti in Turchia e dei profughi di guerra iracheni e iraniani. Bastava provenire da una zona di guerra - per esempio dalla Turchia orientale o dall'Algeria - per trovare una sistemazione in Europa a spese dei governi, in attesa che le autorità esaminassero il tuo caso. Alcuni paesi, tra cui soprattutto l'Olanda, introdussero leggi per cui chi negava il diritto d'asilo ai rifugiati era tenuto a portare delle prove per giustificare la sua decisione. Spesso il governo continuava a mantenere anche i rifugiati (con relative famiglie) a cui aveva negato il diritto d'asilo, qualora questi decidessero di non rientrare nei paesi d'origine. Ordinare loro di tornare a casa sembrava una violazione della suprema legge dell'ospitalità. Negli anni Novanta, quando scoppiarono, quasi simultaneamente, la carestia provocata dai signori della guerra in Somalia e il conflitto etnico nei Balcani, vigeva un sistema tale da rendere automatica l'ammissione di qualsiasi migrante in grado di comprendere il suo funzionamento. Varie ONG europee promigranti fecero in modo che tutti lo comprendessero. Molte di queste erano ex organizzazioni caritatevoli religiose, come per esempio il potente VluchtelingenWerk in Olanda. Gruppi antirazzisti svolgevano spesso lo stesso ruolo in Francia, e la Croce rossa fungeva sovente da avvocato informale per gli africani giunti in Europa in barca dopo il 2006. Il diritto di sistemare i propri pa
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renti nel paese ospitante era una conseguenza inevitabile dell'immigrazione umanitaria. Nel quarto di secolo successivo al 1980, secondo l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, metà dei permessi di residenza concessi in Svezia - circa 400.000 - hanno avuto come motivazione il ricongiungimento familiare di soggetti provenienti da situazioni geopolitiche disastrose.60 I paesi europei finirono per essere travolti dalle domande d'asilo. Nel 2006 il ministro degli Interni britannico John Reid annunciò l'intenzione - di difficile realizzazione - di smaltire nel giro di cinque anni le domande d'asilo accumulatesi.61 Nel solo 1992 la Germania ricevette quasi mezzo milione di domande d'asilo, soprattutto da parte di cittadini dell'ex Iugoslavia.62 Nonostante l'entità delle cifre, può darsi addirittura che non sia stata la Germania il paese maggiormente colpito da questo fenomeno. In quello stesso periodo, in Svezia, paese con appena 9 milioni di abitanti, si stava raggiungendo il picco di 84.000 richieste d'asilo all'anno. Questa ondata giunse nel momento sbagliato. Schiacciata tra il settore pubblico in espansione e la crescente concorrenza mondiale, tra il 1990 e il 1994 la Svezia attraversò la peggiore crisi economica mai conosciuta da alcun paese occidentale tra la seconda guerra mondiale e il 2008. Il PIL crollò del 6%, e i livelli di occupazione scesero del 12%. Poiché la stragrande maggioranza delle domande d'asilo venivano accettate, la popolazione aumentava ogni anno dell'1%. E a quel punto non era ancora intervenuto il fattore del «ricongiungimento familiare». Un partito espressamente xenofobo, Nuova democrazia, fondato alla vigilia delle elezioni svedesi, fece irruzione in parlamento con il 6% dei voti. I profughi non sono un assortimento casuale di umanità. Essi sono, per definizione, prodotti di società violente e/o corrotte, e nessun principio umanitario consente di selezionare solo i soggetti più meritevoli tra coloro che fuggono da tali contesti. Le catastrofi umanitarie più gravi e le guerre più sanguinose verificatesi nei dintorni dell'Europa han
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no riguardato il mondo islamico (Iran, Iraq, Somalia, Turchia orientale) o suoi i confini (l'ex Iugoslavia). Alla fine del XX secolo, la Svezia contava una popolazione musulmana compresa tra le 200.000 e le 400.000 unità, cifra poi rabboccata, dopo il 2003, dalle decine di migliaia di iracheni in fuga dalle conseguenze dell'invasione americana. Negli ultimi anni le leggi sui rifugiati e sull'asilo politico si sono inasprite in tutta Europa a seguito delle proteste dell'opinione pubblica. Un rapporto dell'Alta Commissione per i Rifugiati delle Nazioni Unite del 2006 ha reso nota la presenza di soli 9,2 milioni di rifugiati e richiedenti asilo in tutto il mondo:63 il livello più basso mai registrato nell'ultimo quarto di secolo e probabilmente indicativo di un inasprimento delle procedure selettive europee. La Danimarca, che nel 2001 accettava più della metà delle richieste di asilo, tre anni dopo ne accolse solo un decimo.64 Nel 2001 persino la progressista Olanda modificò le proprie leggi, limitando le possibilità di appello che potevano tirare in lungo i processi per anni e offrire un pretesto per l'acquisizione di una residenza de facto. Nel 2006 solo a un sesto dei richiedenti asilo è stato riconosciuto lo status «A», ossia il diritto al trasferimento immediato in un alloggio sovvenzionato dal comune, ad attività di integrazione e a lezioni di olandese. (Chi si vede negare lo status di rifugiato ottiene comunque il diritto di mandare i propri figli in scuole olandesi, e nessuno va ad accertarsi che lasci il paese.) «Bisogna avere una storia davvero convincente da raccontare», ha dichiarato un funzionario olandese per l'immigrazione nel 2005.65 Le storie convincenti, però, si potevano facilmente inventare. Erano ben note, anzi, grazie a una rete informativa molto efficiente tra gli immigrati. Le leggi sull'asilo politico saranno sempre in qualche misura manipolabili. All'inizio del 2006, alle donne provenienti da paesi che praticano l'infibulazione l'Olanda accordava un permesso di soggiorno di cinque anni. Chi fuggiva dall'Iran di solito doveva dimostrare di essere stato torturato o comunque pre
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so di mira dal regime, a meno che non fosse omosessuale, perché in tal caso veniva ammesso automaticamente. Molto ben viste erano anche le donne incinte entrate in conflitto con la «politica del figlio unico» cinese. Non sorprende dunque il progressivo aumento delle richieste d'asilo da parte di donne cinesi e dell'Africa orientale e di gay persiani. Quanto ai minori, il diritto internazionale impone responsabilità molto specifiche. Sono pochi i migranti adolescenti che dichiarano di avere più di 18 anni, e molti negano di avere genitori in vita. Nei paesi europei vigono leggi diverse sull'applicabilità di procedure forensi per la determinazione dell'età (esami ai raggi X del polso, test dentali). I migranti sapevano quali erano le nazionalità migliori da dichiarare; poiché nel 2006 la Costa d'Avorio era in guerra, molti di coloro che giunsero in Spagna in barca affermarono di venire da lì, benché parlassero lingue senegalesi e non ivoriane. I migranti sanno anche quali sono i paesi migliori in cui andare:66 visitando un ostello olandese nel 2005 per immigrati era possibile sentire le classifiche personali dei luoghi di più facile accesso. All'epoca era la seguente: 1. Irlanda; 2. Belgio; 3. «Inghilterra» (nel senso di Gran Bretagna); 4. Svezia (che ultimamente, dopo un periodo di controlli più severi, si è ammorbidita di nuovo); 5. Francia. L'elenco varia certamente a seconda dei momenti. Non dimostra necessariamente l'approccio costantemente «morbido» di certi paesi (anche se alcuni sono davvero poco severi), bensì soltanto l'incredibile sensibilità dei migranti nel cogliere i cambiamenti delle leggi sull'immigrazione e dell'umore dei vari paesi verso gli immigrati.
Asilo politico e democrazia Gli europei convinti del fatto che il continente soffra di un problema di immigrazione ritengono che la radice del problema stia nella politica d'asilo. Negli Stati Uniti, invece,
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dove il discrimine principale è quello tra immigrati legali e illegali, le richieste d'asilo non suscitano particolare indignazione. In Europa, chi fa domanda d'asilo viene sottoposto a un processo legale dopo una serie di verifiche governative. Importante è dunque distinguere tra i richiedenti asilo legittimi, cioè coloro che hanno diritto di rimanere, e quelli «fasulli», che invece non ce l'hanno. La maggioranza rientra nella categoria dei fasulli, poiché si tratta di gente non esposta a particolari minacce a parte quella della povertà. Alcune settimane dopo gli assalti a Ceuta e Melilla, 3000 sudanesi si accamparono davanti agli uffici dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati al Cairo, per richiedere lo status di rifugiati.67 La cosa strana era che molti di loro lo status di rifugiati in Egitto ce l'avevano già. Si trattava dunque di richiedenti fasulli, nel senso che il loro obiettivo era quello di ottenere accesso a paesi più ricchi dell'Egitto. Il triste epilogo della vicenda, tuttavia, mostra che la linea tra vere e fasulle richieste d'aiuto non sempre è facilmente tracciabile: alla fine del 2005 la polizia egiziana attaccò il campo, facendo ventitré vittime. Solo in pochissimi paesi europei vengono messe in atto misure concrete per rispedire a casa i richiedenti asilo respinti. Si pensa che circa l'80% di essi resti nei paesi ospitanti.68 Intervistato dalla BBC nel 2003 sulla quantità di stranieri residenti illegalmente in Gran Bretagna, il ministro degli Interni David Blunkett rispose: «In realtà, non ne ho idea. Probabilmente, i miei consulenti inorridiranno vedendo i titoloni sui giornali, ma il fatto è che nessuno lo sa, né io né i miei colleghi del governo».69 Una diffusa opinione populista è che le politiche d'asilo liberali predilette dalle élite non siano un fine, bensì un mezzo per avere più immigrazione di manodopera. Forse c'è qualcosa di vero in questa teoria. Si sente spesso dire che limitare le domande d'asilo rimandando a casa i non idonei sarebbe troppo crudele o troppo costoso. Non di rado viene invocata la «tesi della futilità» (per utilizzare la formula coniata da Albert O.
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Hirschman) .70 I 4,7 miliardi di sterline che la Gran Bretagna dovrebbe spendere - secondo l'Institute of Public Po- licy Research - per espellere tutti i richiedenti asilo respinti rimandano a quello che la giornalista del «Guardian» Ma- deleine Bunting definisce «il territorio della politica illusoria».71 Forse è vero, ma non necessariamente per via del fatto che gli elettori considererebbero uno spreco di denaro pubblico la spesa di 4,7 miliardi di sterline per rendere la politica dell'immigrazione più efficiente e spietata. Le modalità con cui viene affrontato il tema sull'asilo politico in Europa non fanno che radicalizzare il dibattito politico. Fondandosi su valori universali e norme civili, il diritto d'asilo non è sottoposto ai processi democratici che negli ultimi anni hanno posto dei limiti ad altri tipi di immigrazione. Chi seguita a opporsi ai livelli di immigrazione europea e desidera restringere ulteriormente il numero delle concessioni d'asilo è pertanto costretto a prendere di mira le stesse norme civili. I politici populisti ostili agli immigrati - a partire da Pia Kjaersgaard del Partito del popolo danese fino a Robert Kilroy-Silk, presentatore di talk-show che alle elezioni europee del 2004 portò l'eccentrico Partito dell'Indipendenza del Regno Unito al terzo posto nelle preferenze degli elettori britannici - hanno invitato i rispettivi paesi a ritirare la firma dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati, che elenca gli obblighi dei paesi firmatari nei confronti dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Nell'estate 2006, anche il primo ministro britannico Tony Blair e il ministro degli Interni John Reid accennarono all'ipotesi di riconsiderare l'adesione britannica alla Convenzione. Gordon Brown, pur senza rilasciare dichiarazioni esplicite sull'argomento, non si è certo messo a far proseliti per la causa della legislazione europea sui diritti umani. Deputati di spicco del partito della Kjaersgaard proclamano apertamente la loro sfiducia nei confronti dei criteri di assegnazione del diritto d'asilo, che a loro parere si fondano sui valori degli «intellettuali di sinistra» e dei co
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siddetti «esperti».72 Essi utilizzano il termine «esperto» come sinonimo di «antidemocratico», e non gli si può dar torto. L'idea per cui l'elettorato democratico non sarebbe affidabile come custode delle norme civili trapela da ogni discussione politica sull'immigrazione, in Europa e altrove. L'amministrazione delle politiche di asilo e la questione se i richiedenti siano autentici o fasulli disperati ha a che fare con l'indignazione pubblica meno di quanto non appaia a prima vista. Il diritto d'asilo ha provocato sdegno tra i nativi europei perché contraddice ciò che era stato detto loro all'inizio dell'immigrazione di massa. Come osservò il compianto sociologo Abdelmalek Sayad, i problemi sorgono «quando l'immigrazione a fini esclusivamente lavorativi - cioè di soli lavoratori - si trasforma in ricongiungimento familiare (o immigrazione stanziale)».73 Coloro che arrivano come parenti degli immigrati o come rifugiati non vengono per fare qualcosa, bensì per essere qualcosa. Da quando le conseguenze dei programmi dei Gastarbeiter sono divenute evidenti, si è spesso sentito dire che l'Europa, in cerca di fattori di produzione, si era accorta solo in seguito di aver importato esseri umani. I richiedenti asilo sono indubbiamente esseri umani: si presentano in nome dell'umanità sofferente. Raramente si pensa a loro come «fattori di produzione». Quindi, sebbene offrano meno benefici quantificabili ai paesi ospitanti, le loro rivendicazioni sono molto più elevate rispetto a quelle dei vecchi lavoratori immigrati. Questa trasformazione è stata inevitabile, una volta innescata l'immigrazione di massa. I nativi europei l'hanno recepita come parte di un cambiamento più ampio: la popolazione degli immigrati, un tempo passiva, era divenuta assertiva. E i valori europei, sviluppatisi nei decenni del secondo dopoguerra, non erano assolutamente preparati a questo cambiamento.
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4. LA PAURA MASCHERATA DA TOLLERANZA
Neutralità e correttezza polìtica - Criminalizzazione dell'opinione - Gruppi dì pressione - Diversità e disprezzo dì sé - Cittadini di sene B
Un problema fondamentale legato all'accoglienza di persone provenienti da paesi poveri sta nel fatto che gli europei hanno perso fiducia in alcuni aspetti della civiltà che ha attirato i migranti stessi. «Gli europei vorrebbero uscire dalla storia, dalla grande histoire, dalla storia scritta a caratteri di sangue», scrisse il politologo Raymond Aron negli anni Settanta. «Altri, a centinaia di migliaia, desiderano entrarci.»1 Ai nuovi arrivati viene detto di seguire le regole europee e di abbracciare i valori europei, ma non è impresa facile, quando gli stessi europei si mettono a riscrivere quelle regole e a rimettere in discussione quei valori. E inevitabile che i paesi meta di immigrazione di massa risentano di qualche forma di conflitto etnico. Per comprendere le ragioni di questo fenomeno basta ripensare al clima morale e intellettuale che ha caratterizzato l'Europa negli ultimi sei decenni. Negli anni Cinquanta, epoca in cui cominciarono a giungere i migranti, il continente era ancora sconvolto dagli orrori della seconda guerra mondiale e impegnato a creare istituzioni capaci di evitare che tali orrori si ripetessero. La più importante fra queste era la NATO. L'Unione Europea, all'epoca ancora in embrione, era la più ambiziosa. Era la guerra a fornire ai pensatori europei le categorie morali e i termini di riferimento, che si trattasse di progresso della civiltà, di criteri di governo etici o di giustificazione di interventi militari. Evitare un'altra guerra europea significava soprattutto far piazza pulita del nazionalismo, termine che racchiudeva in sé le vestigia del razzi
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smo e del militarismo, lo sciovinismo culturale e persino il patriottismo, l'orgoglio e ogni disdicevole forma di competitività. In alcuni paesi, cantare l'inno o agitare la bandiera nazionale divenne appannaggio esclusivo di estremisti di destra e tifosi di calcio. Spronati dagli Stati Uniti, alle prese con i propri problemi razziali, e dalla minaccia del comunismo, gli europei cominciarono ad articolare un codice di «valori europei», tra cui l'individualismo, la democrazia, la libertà e i diritti umani. Questi valori non furono mai definiti con precisione. A quanto pare, però, favorirono la coesione sociale, e la loro adozione è coincisa con sessantanni di pace. Che poi il merito della pace sia da attribuire ai valori europei o alla potenza militare statunitense è questione assai più ardua da risolvere.2 Il risultato finale di tali sforzi fu la creazione dell'Unione Europea, che all'inizio del XXI secolo conta ventisette stati membri. Era un progetto elitario, concepito da statisti e diplomatici, ed etico. Chi non aderiva non veniva tacciato di scarsa capacità di giudizio, bensì di scarsa moralità, di voler precipitare il continente negli orrori del XX secolo. Nel maggio del 2005, durante un discorso presso l'ex campo di concentramento di Theresienstadt, alla vigilia della serie di referendum sulla UE, il commissario europeo svedese Mar- got Wallstròm ammonì i paesi incerti che qualsiasi esitazione a cedere la propria sovranità nazionale a organismi europei come la UE significava esporre l'Europa al rischio di un nuovo Olocausto.3 Gli architetti e i fautori del «progetto europeo» non si peritarono di esibire i propri meriti. «L'Unione Europea è un faro di luce in un mondo tormentato», scrisse Jeremy Rifkin, economista di origine americana e consigliere di Romano Prodi all'epoca in cui quest'ultimo era presidente della commissione europea. «Ci indica la strada verso una nuova era di accoglienza, diversità, qualità della vita, profondo coinvolgimento, sostenibilità, diritti umani universali, rispetto
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della natura e pace sulla Terra.»4 Mark Léonard, nuovo stratega del New Labour, descrive l'Europa come superiore ai propri rivali per la sua «capacità di attirare altri soggetti e pertanto di stabilire le regole dell'economia mondiale».5 «Attrazione», però, non è sinonimo di «ammirazione». I migranti hanno una miriade di motivi per aver voglia di venire in Europa, oltre al desiderio di vivere secondo le sue regole. La «capacità di attrazione» di una bella donna in un bar alle due del mattino è indipendente dai «valori» della stessa signora. Anche l'impero ottomano e la Cina esercitavano un «potere d'attrazione» sugli occidentali nel XIX secolo. Ma a spingere le potenze europee a firmare trattati, insediarsi e far crollare la vita nazionale di quei paesi non fu l'ammirazione per i loro sistemi di governo o per i loro ideali in tema di diritti umani, bensì il fatto che erano luoghi ricchi e troppo deboli e disorganizzati per badare a sé stessi.
Neutralità e correttezza politica Il «progetto europeo» non fu elaborato in previsione dell'arrivo dei migranti, ma finì per stabilire le regole in base alle quali essi sarebbero stati accolti. L'Europa del dopoguerra fu costruita sulla base di un'intolleranza nei confronti dell'intolleranza: atteggiamento mentale celebrato, da un lato, in quanto antirazzista e antifascista e preso di mira, dall'altro lato, con la formula caricaturale della «correttezza politica». Non è nostro interesse, in questa sede, difendere questo atteggiamento come espressione di buon senso o tacciarlo di becero autoritarismo. Ci preme invece capire in primo luogo che cosa avesse in mente l'Europa quando accolse un numero così grande di migranti dato che in epoche precedenti non si sarebbe mai sognata di fare una cosa simile - e in secondo luogo quali motivi avesse per trattare i nuovi arrivati con l'ingenuità e l'indulgenza che spesso ha dimostrato.
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Gli europei del dopoguerra si comportarono come se non esistessero culture migliori di altre. Nel 1996 il governo olandese stabilì che il dibattito sulla multiculturalità dovesse partire «dal presupposto che le culture» - presumibilmente tutte quante - avessero «pari dignità».6 Le culture autoctone non dovevano essere privilegiate rispetto a quelle dei nuovi arrivati. Lo stato avrebbe affrontato le questioni inerenti l'immigrazione e le etnie con scrupolosa neutralità, guidato solo da una serie di «valori universali» ritenuti condivisi da ogni cultura. Sembrava inappropriato costringere - e persino persuadere - gli immigrati a adottare quei vecchi sentimenti di lealtà nazionalista che gli europei stessi stavano abbandonando. «Non vorremo mica stressare i bambini turchi con l'Occupazione, vero?», disse un direttore scolastico olandese durante una discussione sull'istruzione multiculturale.7 Nel 2006, nel corso di un dibattito sull'immigrazione in Catalogna, un leader socialista domandò ironicamente se gli immigrati fossero tenuti a imparare a memoria il Virolai, l'inno a Nostra Signora di Mont- serrat composto dajacint Verdaguer.8 Il fatto che i migranti arrivassero in Europa non implicava la loro accettazione, la comprensione o anche solo la coscienza dell'intenzione europea di lasciarsi alle spalle «la storia scritta a caratteri di sangue». Al contrario, molti immigrati, e molti dei loro figli e nipoti, si sentivano in dovere di invocare a gran voce uno stato palestinese, una patria curda o un'Algeria islamista. Coltivavano sogni di gloria culturale, nazionale e addirittura razziale che gli europei, con il loro universalismo, non erano in grado di comprendere. L'incomprensione era reciproca. In nome dell'universalismo vennero gettate alle ortiche molte leggi e abitudini che un tempo avevano cementato le società europee. La tolleranza divenne una priorità da anteporre ai principi di ordine, libertà, onestà e intelligibilità su cui si fondavano tradizionalmente lo stato e la società e finì per andare a discapito degli stessi. Verso la fine del secolo,
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l'ideologia della neutralità europea, schiacciata dal peso dell'immigrazione di massa, non fu una fonte di forza, ma di ciò che Alsana, la scorbutica casalinga bengalese del romanzo di Zadie Smith Denti bianchi, chiama «una stupidaggine senza senso». Guardando al suo vicinato londinese, variegato e benpensante, Alsana considera: «Non è che da qualche parte ci fosse qualcuno in qualche modo più liberale di altri. Il fatto era che qui, a Willesden, non c'era nessun gruppo abbastanza numeroso da sfondare le vetrine di un altro gruppo costringendolo a rifugiarsi in cantina».9 La formula «politicamente corretto» fu coniata in America per descrivere le contorsioni imposte alla logica dall'universalismo europeo. Questa formula ha sempre lasciato tutti insoddisfatti. Forse è un modo eccessivamente duro di descrivere le piccole bugie in buona fede, le pie illusioni e gli errori meschini di chi parla a vanvera. In un forum sull'identità britannica il musicista Billy Bragg per esempio dichiarò: «Quando Churchill parlò della "loro ora più bella", si riferiva a 500 milioni di uomini e donne di lingue e culture diverse, tutti riuniti nella nostra piccola isola a combattere il fascismo».10 («No, non è vero», avrebbe dovuto replicare qualcuno.) In Francia, dopo le rivolte dell'autunno del 2005, il ministro per le Pari opportunità Azouz Begag invocò una raccolta di dati relativi all'appartenenza etnica dichiarando: «La diversità non è questione di beneficenza, bensì di redditività».11 («No, non è vero.») La correttezza politica è spesso ridicola. La Società olandese per l'onore e la riparazione lanciò una campagna contro Zwarte Piet, l'aiutante nero di san Nicola che, secondo le secolari leggende legate alle festività invernali, metterebbe i bimbi cattivi in un sacco e li porterebbe in Spagna, variante del carbone della tradizione tedesco-americana. «Se vogliamo creare una società multiculturale», lamentava il capo della Società per l'onore e la riparazione, «non possiamo permettere che ogni Natale i neri si ricordino dell'epoca schiavista.»12 Nelle Midlands britanniche, la città di
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Dudley bandì alcuni giocattoli e immagini dagli uffici municipali dopo che un impiegato musulmano protestò per la presenza di un poster di Pimpi (il maialino di Winnie the Pooh) sulla scrivania di una collega. Sempre per paura di offendere i musulmani, le autorità di Derby decisero di non rimettere al suo posto la statua di un cinghiale fiorentino che ornava il vivaio della città dal 1840 ed era stata danneggiata durante la seconda guerra mondiale.13 (La decisione fu revocata dopo una petizione.) Alla fine del 2007, in Sudan, la maestra elementare britannica Gillian Gibbons fu arrestata e minacciata di fustigazione perché i suoi alunni di sette anni avevano deciso di chiamare un orsacchiotto di peluche «Mohammed».14 Anche laddove la correttezza politica tendeva a eccessi autoritari, i suoi convinti promotori assomigliavano più a personaggi di Gilbert e Sullivan2 piuttosto che ad aguzzini stalinisti. Queste, invece, erano faccende serie. Una nuova ideologia intransigente si faceva strada mascherata dalla sua stessa assurdità: forse non era paragonabile alla leggendaria grande Menzogna hideriana, ma recava in sé un presagio altrettanto sgradevole, al punto che potremmo chiamarla «la grande Barzelletta». Tutti potevano vedere che la sua avanzata si accompagnava a paure e intimidazioni. All'interno dell'Unione Europea e della camera bassa olandese si tennero angosciati dibattiti su come dovessero essere utilizzati termini quali «jihad» e «terrorismo», ammesso che fosse il caso di pronunciare quelle parole.15 Nel 2008 il ministro degli Interni britannico Jacqui Smith smise di parlare di «terrorismo islamico» per utilizzare la formula «attività anti-isla- mica».16 Due anni prima, la Gran Bretagna aveva approvato una legge contro l'istigazione all'odio religioso, il cui obiet
2 William Schwenck Gilbert (1836-1911) e Arthur Sullivan (1842- 1900), librettista il primo, compositore il secondo - entrambi inglesi - produssero insieme una serie di opere comiche sul finire del XIX secolo.
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tivo originario (poi scongiurato, una volta introdotti gli emendamenti) era quello di criminalizzare qualsiasi critica all'islam. La giornalista Melanie Phillips disse a ragione: «L'espressione "politicamente corretto" non è adeguata per definire un progetto così inquietante e totalitario».17 Alla fine del secolo scorso l'immigrazione era un tema in cui persino il minimo dissenso rispetto allo status quo poteva scatenare aspre condanne. Nel suo già citato discorso dei «fiumi di sangue» (1968), Enoch Powell aveva interrotto la sua invettiva contro l'immigrazione per affrontare il tema della libertà di espressione: Nelle centinaia e centinaia di lettere che ho ricevuto, dopo aver pronunciato l'ultimo discorso sull'argomento due o tre mesi fa, ho colto una novità inquietante. Tutti i parlamentari sono abituati a ricevere le classiche lettere anonime; ciò che nel mio caso colpisce e allarma è la quantità di lettere razionali e spesso educate scritte da persone normali, perbene e assennate, convinte di dover omettere il proprio indirizzo perché ritenevano pericoloso manifestare per iscritto a un deputato la propria approvazione nei confronti di idee come quelle da me espresse e non volevano esporsi a sanzioni o rappresaglie di vario tipo, qualora lo si fosse venuto a sapere.18
La gamma di opinioni espresse su immigrazione e moralità si stava indubbiamente riducendo in modo drammatico. Il popolo europeo approvava questi sviluppi o vi si era soltanto adeguato? Era stato convinto o costretto? Stava acquisendo nuove modalità di comportamento o regredendo sul piano delle libertà? E sempre difficile stabilirlo con precisione. Come disse Tocqueville a proposito della caduta in disgrazia del cristianesimo alla fine dell' ancien regime: «Coloro che avevano mantenuto la vecchia fede temevano di essere gli unici ad averla mantenuta e, terrorizzati all'idea dell'isolamento ancor più che dell'errore, si unirono alla folla senza condividerne il pensiero. Le opinioni di una parte della nazione sembrarono condivise da tutti e risultarono
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irresistibili persino per coloro che avevano conferito loro questa falsa apparenza».19 Criminalizzazione dell 'opinione Con il passare del tempo l'ideologia della tolleranza cambiò in due sensi. In primo luogo estese il proprio campo d'azione. Le categorie di persone che avevano diritto a essere protette dall'intolleranza aumentarono, e il concetto di violazione del principio di tolleranza assunse un carattere arbitrario e ad hoc. Il «rapporto Macpherson», frutto dell'inchiesta ordinata dal ministero dell'Interno britannico per far luce sul raccapricciante omicidio del nero londinese Stephen Lawrence, avvenuto nel 1993 e rimasto impunito, definisce episodio di razzismo «qualsiasi incidente percepito come razzista dalla vittima o da altra persona» .20 Tale definizione - secondo la quale il razzismo sarebbe qualsiasi cosa una persona giudichi tale - divenne la norma in molti paesi europei. Per citare Pierre-André Taguieff, esisteva un nuovo «catalogo allargato dei diritti dell'uomo».21 In secondo luogo, l'ideologia si inasprì. Sviluppò veri poteri coercitivi, in parte perché si tradusse in legge, in parte perché alcune entità non governative se ne fecero autonomamente promotrici. Qualsiasi affronto all'ideologia della tolleranza esponeva non più soltanto alle critiche e all'ostracismo sociale, bensì anche al rischio di essere denunciati o licenziati. Quando queste due tendenze - l'estensione e l'inasprimento interagivano, venivano adottate gravi sanzioni fino a tempi recenti considerate normali. I casi più estremi di tale fenomeno si sono verificati nell'ambito dei diritti degli omosessuali. Nel 2006 due coniugi della chiesa evangelica britannica sono stati interrogati per ottanta minuti dalla polizia a causa del contenuto «potenzialmente omofobico» dei testi da loro distribuiti;22 in Svezia, un predicatore lute-
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rano sessantatreenne è stato condannato a un mese di prigione per aver citato brani della Bibbia che condannavano l'omosessualità;23 e Christian Vanneste, membro dell'Assemblea nazionale francese che aveva dichiarato la superiorità morale dell'eterosessualità rispetto all'omosessualità, è stato il primo francese a essere condannato e incarcerato per omofobia.24 Un'opinione condivisa da tutta l'umanità, dagli albori della civiltà fino alla fine del XX secolo, era diventata un reato punibile con la prigione. Anche in materia di razza e immigrazione, le regole furono rapidamente rinegoziate. Nel 1984 Ray Honeyford, stimato insegnante di una scuola etnicamente mista di Bradford, in Inghilterra, pubblicò un articolo sulla «Salisbury Review» in cui criticò certi metodi introdotti da quella che definì la «lobby delle relazioni interrazziali». In sintonia con il rapporto di Patrick Moynihan del 1965 dal titolo The Negro Family, egli dichiarò che l'attivismo politico del governo rischiava di danneggiare le minoranze che intendeva favorire. A suo parere, il degrado, l'indifferenza e l'ostilità generali non erano sufficienti a spiegare i pessimi risultati scolastici dei bambini pakistani e caraibici. Dato che tali alunni dovevano adeguarsi allo stile d'apprendimento britannico, la promozione delle culture d'origine e del ghetto - o del «multiculturalismo», come lo chiameremmo oggi rischiava di ostacolarli a scuola e di accentuare la loro segregazione dalla società britannica. Alla fine si scoprì che Honeyford aveva ragione. Oggi, il corpo studentesco misto da lui descritto un quarto di secolo fa non è più misto - gli alunni di origine inglese sono pochissimi - e la scuola si chiama Iqra School.25 Il fatto di aver ragione e di essere molto apprezzato da tutti gli studenti non salvò Honeyford dal licenziamento. Nel 1990 l'Assemblea nazionale francese superò una nuova frontiera. Con l'intento di reprimere «qualsiasi atto di razzismo, antisemitismo o xenofobia», approvò una legge proposta dal deputato comunista Jean-Claude Gayssot che
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poneva dei limiti alla libertà di stampa, conquistata cento- nove anni prima.26 La legge Gayssot criminalizzava non solo gli atti concreti, bensì anche l'ideologia o l'opinione, con particolare riferimento alla negazione della shoah. La Germania e la Svizzera si affrettarono a seguire l'esempio francese, imitati poi da altri paesi. Negare l'Olocausto (o minimizzarne la gravità) divenne reato in Austria, in Belgio, nella Repubblica Ceca, in Lituania, in Polonia, in Slovacchia e in Svizzera. Nel 2006, in seguito a questa legge, lo storico britannico David Irving fu condannato a tre anni di carcere in Austria (ridotti poi a meno di un anno). La Francia era stata messa in imbarazzo da una serie di intellettuali marginali ed ex politici di Vichy secondo cui l'Olocausto non era mai accaduto. La legge sembrava un mezzo ragionevole per imporre il senso della decenza. Non lo fu. La compianta storica Madeleine Rebérioux, biografa di Jean Jaurès, grande socialista dreyfusiano, mise in guardia la Francia di fronte alla legge Gayssot non appena questa fu approvata. Ovviamente, né la Rebérioux (che veniva da una stimata famiglia di résistants e deportati nei campi di concentramento)27 né i molti altri storici che si opposero alla legge28 intendevano attribuire il benché minimo valore storico alla negazione dell'Olocausto. Il problema era più che altro politico. «L'URSS ha già pagato un prezzo molto alto per la posizione assunta in queste materie, e la Repubblica francese dovrebbe evitare di seguirne le orme», scrisse in seguito la Rebérioux. « [La legge] finirà quasi inevitabilmente per estendersi ad altri campi, oltre a quello del genocidio degli ebrei: ad altri genocidi e ad altri assalti a quella che sarà definita la "verità storica".»29 Aveva ragione. Nel 1995 un tribunale francese condannò lo storico angloamericano Bernard Lewis - massimo esperto occidentale sulla Turchia contemporanea - per non aver utilizzato il termine «genocidio» in riferimento ai massacri di armeni perpetrati dai turchi alla vigilia della rivoluzione kemalista. Nel 2001 fu approvata una legge che descriveva
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tali massacri come «genocidio»; cinque anni più tardi l'Assemblea nazionale discusse una legge (mai approvata) che comminava la pena di un anno di reclusione e una multa di 45.000 euro a chiunque negasse tale definizione. Un'altra legge definì il traffico di schiavi un «crimine contro l'umanità»; nel 2005, a rao' di concessione ai nostalgici del colonialismo, una nuova legislazione invitava gli insegnanti a sottolineare «il ruolo positivo» svolto dalla Francia in Nor- dafrica. Come aveva previsto la Rebérioux, non appena la legge Gayssot fu approvata divenne sempre più difficile contrastare in modo efficace la continua criminalizzazione delle opinioni. I fatti su cui i gruppi di pressione volevano imporre una verità ufficiale - i massacri di armeni, gli orrori del colonialismo, il traffico di schiavi - erano reali quanto l'Olocausto. Se la Francia intendeva davvero eliminare ogni atto di razzismo, xenofobia e antisemitismo, perché concentrarsi solo sull'Olocausto? Si potrebbe controbattere che il negazionismo di solito deriva dall'antisemitismo, e che l'antisemitismo ha dimostrato di saper corrompere i sistemi politici occidentali, sicché la Francia aveva buoni motivi per tenerlo a bada. Inoltre, nessuno ha mai osato negare la verità storica dello schiavismo e del colonialismo. Diverse lobby etniche interpretarono la legge Gayssot alla stregua di un tentativo di «assimilare» la loro sofferenza a quella degli ebrei. Un'associazione dei «Figli e delle figlie dei deportati africani» coniò, per designare il trasporto di schiavi, un termine dal suono vagamente ebraico, yovodah,30 in grado di porsi sullo stesso livello di shoah. In un'intervista del 2005, il massimo storico francese dello schiavismo Olivier Pétré-Grenouilleau criticò la legge del 2001 sul traffico di schiavi. Un gruppo di pressione di «discendenti di schiavi» lo portò in tribunale per aver «messo in dubbio un crimine nei confronti dell'umanità». Molti, sulla scia del predicatore afroamericano musulmano Louis Farrakhan, ritenevano gli ebrei responsabili di tutti i traffici di schiavi oc
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cidentali. Il comico di sinistra Dieudonné Mbala-Mbala, capo di un'organizzazione militante afrofrancese chiamata «Les indigènes de la République», dichiarò: «Agli africani è proibito controllare i propri archivi, così come ai palestinesi è proibito tornare nelle loro terre».31 La legge Gayssot fu inventata per sconfiggere una tigre di carta. Prendeva di mira tendenze degli anni Trenta (populismo, nazionalismo, fascismo) che alla fine del secolo erano ormai da tempo screditate e confinate a qualche caso isolato di fanatismo. I problemi del XXI secolo (immigrazione, islamismo, bancarotta degli stati sociali, panico finanziario e senso di isolamento dell'individuo all'interno della società consumistica) erano diversi. Ora esistevano estremisti d'altro tipo, molti dei quali - come gli antisemiti «discendenti degli schiavi» erano bravissimi a sfruttare ai propri fini un sistema legale imperniato sui mali di settantacinque anni fa. Ogni ufficializzazione della memoria faceva sorgere nuove «lobby morali» (come furono successivamente chiamate in Francia), che portavano avanti le loro rivendicazioni con sempre maggiore insistenza e incisività in settori sempre più centrali della vita politica. Impegnata a tenere a bada una manciata di attempati buffoni «fascisti», l'Europa si esponeva a minacce molto gravi, che non tardarono a manifestarsi.
Gruppi di pressione Nei tre decenni che precedettero la crisi finanziaria del 2008, per motivi legati alla globalizzazione e al mutamento tecnologico, si è assistito a un progressivo trasferimento di autorità dal governo a gruppi di interesse privati. Questo slittamento, duraturo o meno che sia, ha fatto parte dello spirito del nostro tempo. E continuato sotto governi di ogni colorazione ideologica investendo i settori più disparati, dalla diplomazia (si ricordi il ruolo svolto dal cantante Bo
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no per lo stanziamento degli aiuti all'Africa), allo zoning (diffusione in tutta Europa delle cosiddette gated communi- ties, zone residenziali private regolate da leggi altamente elaborate). Anche nel campo della tolleranza e delle relazioni interrazziali i gruppi non governativi hanno assunto importanti funzioni un tempo riservate agli stati nazionali. In Francia si sono moltiplicate al punto da essere chiamate semplicemente les associations. Il Movimento di ispirazione comunista contro il razzismo e per l'amicizia tra i popoli (MRAP), per esempio, fondato in Francia nel 1949 per combattere il razzismo e l'antisemitismo, nel corso dei decenni ha finito per assumere un ruolo diverso. All'indomani degli attacchi al World Trade Center dell'I 1 settembre 2001, la giornalista Oriana Fallaci scrisse un articolo incendiario sulle pagine del quotidiano milanese «Corriere della Sera». Ripubblicato in un libro dal titolo La rabbia e l'orgoglio, divenne uno dei saggi più venduti in Europa nel dopoguerra. Il MRAP le fece causa per incitamento all'odio razziale e cercò di bloccarne la pubblicazione in Francia. E vero che c'era del razzismo nel libro della Fallaci. «Grazie a Dio», scrisse l'autrice in una famosa nota a piè di pagina, «non ho mai avuto rapporti sessuali o sentimentali o amichevoli con un uomo arabo. A parer mio v'è qualcosa, negli uomini arabi, che disgusta le donne di buon gusto.»32 In altri casi, la scrittrice usò un linguaggio non razzista, ma estremamente rozzo e offensivo nei confronti dei musulmani più religiosi, definendoli «barbari che invece di lavorare e contribuire al miglioramento dell'umanità stanno sempre col sedere all'aria cioè a pregare cinque volte al giorno».33 Oppure impiegò formule dal «sapore» razzista, benché il contenuto non fosse tale, per esempio quando scrisse che «i seguaci del fondamentalismo islamico si moltiplicano come i protozoi».34 La rabbia e l'orgoglio non era solo un trattatello razzista, e la Fallaci fu accusata di qualcosa di ben più grave (cioè, di
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molto meno grave) del razzismo. Una delle affermazioni che più offesero il MRAP è la seguente: «In difesa della fede il Corano ammette la menzogna, la calunnia, l'ipocrisia. Qualsiasi teologo dell'islam può confermartelo».35 Dichiarò anche che «gli Usama Bin Laden sono decine di migliaia, ormai, e non stanno soltanto in Afghanistan o negli altri paesi musulmani. Stanno dappertutto, e i più agguerriti stanno proprio in Occidente».36 Queste ultime due tesi, benché discutibili, non sono del tutto infondate. Molti studiosi dell'islam, per non parlare dei teologi islamici, affermano in effetti che per difendere la fede è possibile ricorrere alla taqiyyah, ossia alla dissimulazione. Ben pochi possono sostenere di avere amato la cultura araba quanto il compianto Marshall G.S. Hodgson, islamologo dell'Università di Chicago. Ecco che cosa scrisse a proposito della taqiyyah nella sua opera principale The Venture of islam: ... molti sciiti costretti a compiacere le autorità che in coscienza non potevano accettare avevano sviluppato il concetto di taqiyyah, ovvero la pia dissimulazione delle proprie vere opinioni. Questa era finalizzata a proteggere non solo sé stessi, bensì anche la propria comunità dalla maggioranza e dal governo sun- nita o, quantomeno, a non attirare l'attenzione sul fatto che gli sciiti non riconoscevano la corrente islamica maggioritaria e il governo sunnita in carica, bensì erano convinti della necessità di rovesciarlo in nome dell'imam.37
Il discorso della Fallaci sulla presenza di pericolosi estremisti in Occidente risale più o meno all'epoca in cui Omar Bakri, fondamentalista islamico di origine siriana, espulso dall'Inghilterra dopo gli attentati del 7 luglio 2005,38 dichiarò al quotidiano arabo di Londra «Al-Hayat»: «Se Allah vuole, trasformeremo l'Occidente in Dar Al-islam con un'invasione dall'esterno. Se uno stato islamico dovesse insorgere e invadere, noi saremo il suo esercito e i suoi soldati infiltrati».39 La causa intentata dal MRAP rientrava nel quadro di una campagna contro l'«islamofobia», neologismo molto diffu
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so nei mesi dopo gli attacchi dell'I 1 settembre 2001. Que^ sto termine minacciava di cancellare una distinzione fondamentale, tra le critiche rivolte alle minoranze per motivi di intolleranza e quelle rivolte a ogni minoranza per qualsiasi motivo, e di estendere la censura già esistente in materia di razza alle questioni religiose e non solo, cioè ad atti politici compiuti in nome della religione. L'islamismo approfittava dei vantaggi offerti da entrambi i mondi. Mentre i funzionari governativi si rifiutavano di associare i termini «islamico» e «terrorismo», il fatto che invece i terroristi proclamavano di agire per motivazioni religiose garantiva a questi ultimi un certo grado di immunità alle critiche. Oriana Fallaci fu messa nella posizione di dover dimostrare la propria «ragionevolezza» prima di poter mettere in guardia gli europei sulla presenza di un movimento pericoloso e violento che si annidava tra loro. Il MRAP perse la causa, ma la vicenda riaprì il dibattito sull'esistenza o meno di un linguaggio con cui criticare la violenza islamista senza finire in tribunale. L'accusa di «islamofobia» poteva essere mossa a chiunque esprimesse preoccupazione per gli attacchi suicidi in Medio Oriente o per le aggressioni antisemite da parte di giovani arabi a Parigi. Le leggi sulla tolleranza cominciavano a favorire gli intolleranti. L'«affare Finkielkraut»,40 che infiammò la Francia all'indomani delle rivolte dei ghetti del 2005, segnò un altro punto di svolta, poiché dimostrò che si poteva incorrere nell'ira dell'establishment «antirazzista» anche senza aver mai manifestato inclinazioni razziste. Il filosofo Alain Finkielkraut rilasciò un'intervista al giornale israeliano «Ha'aretz» in cui si dichiarava in disaccordo con l'opinione diffusa secondo cui le rivolte dei ghetti dipendevano dalle condizioni sociali svantaggiate dei residenti.41 Finkielkraut sottolineò come neppure i protagonisti delle sommosse avessero descritto la loro rivolta in questi termini. Molti testi rap e slogan contro la Francia e la «francesità» riconduce- vano i fatti a questioni etnico-religiose. «Pensate per un at
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timo a ciò che sarebbe accaduto se fossero stati bianchi, come per esempio i rivoltosi di Rostock», aggiungeva. «Tutti sarebbero insorti dicendo: "Il fascismo non sarà tollerato".» Finkielkraut criticò anche le tesi di alcuni intellettuali francesi che vedevano nell'emarginazione attuale degli immigrati una perpetuazione delle condizioni coloniali. «Okay», disse, «ma non si deve dimenticare che durante il periodo coloniale l'integrazione dei lavoratori arabi in Francia era molto più facile.» Finkielkraut è un moderato dai modi gentili, molto meno presente sui media rispetto a tanti suoi colleghi contemporanei, che ha passato buona parte della propria carriera a studiare i problemi etici e metafisici posti dalla violenza totalitaria. Quando «Le Monde» pubblicò un articolo sulla sua intervista riportando alcune citazioni, Finkielkraut fu vittima di una campagna diffamatoria. La rivista «Le Nouvel Observateur» lo definì un «neoreazionario»42. Una lettera indirizzata al quotidiano «Libération» lo attaccò in quanto «esempio della tradizione tutta francese di scrittori che, ormai sprofondati nella propria disperazione, abbandonano gli ideali umanitari».43 In un altro caso, fu paragonato a un agente del Fronte nazionale fascista di Jean-Marie Le Pen.44 Tutto ciò - per quanto triste e volgare possa apparire - rientra nelle normali dinamiche del dibattito pubblico francese. L'aspetto più inquietante della vicenda è quello legale. Il MRAP dichiarò la propria intenzione di denunciare per incitamento all'odio razziale sia Finkielkraut sia Hélène Carrè- re d'Encausse, membro dell'Académie Française, che aveva fatto alcune dichiarazioni piuttosto rozze sul presunto legame tra le rivolte dei ghetti e la pratica della poligamia tra gli immigrati musulmani. Il MRAP ritirò la denuncia qualche giorno dopo averla presentata,45 a dimostrazione dello scarso fondamento dell'intero caso. Fu però una magra consolazione. Nessuno si fece illusioni sulla possibilità per chiunque - intellettuale o normale cittadino che fosse - di esprimere un parere nuovo sul
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problema sociale più grave della Francia senza incorrere in grane legali. I cosiddetti «diritti delle minoranze», in nome dei quali la gente poteva essere perseguita legalmente, consistevano in buona sostanza nel diritto dei rivoltosi delle ban- lieues a non essere messi in difficoltà dalla libertà di parola. Si trattava di un altro caso in cui le istituzioni create per promuovere la tolleranza avevano cominciato a operare contro la tolleranza da esse proclamata.46 L'imposizione della tolleranza non aveva limiti intrinseci né alcuna logica evidente. Come mai 1'«orgoglio etnico» era una virtù e il «nazionalismo» una piaga? Come mai l'identità dei Sinti-Rom, per esempio, era legittima, mentre quella dei «bianchi» disdicevole? Come mai d'un tratto era vietato porre certi quesiti che dieci anni prima erano ammessi? Eruditi filosofi della tolleranza come Jurgen Habermas erano forse in grado di sciogliere tali enigmi e di tracciare le dovute distinzioni. Le élite politiche di risolverli con un decreto. Ma lasciavano persone di intelligenza e classe medie in preda alla confusione e alla sfiducia. Una democrazia non può tollerare a lungo un sistema in cui sia necessario possedere un diploma di dottorato in sociologia o ricoprire un'alta carica governativa per poter esprimere la minima preoccupazione sulla situazione in cui versa il proprio paese. I pregi dell'era multiculturale avevano un carattere elitario. Non a torto, il politologo britannico Geoff Dench espresse l'opinione secondo cui il multiculturalismo tenderebbe in larga misura a favorire le classi privilegiate. I conflitti nel contesto di un'agguerrita meritocrazia, osserva Dench, sono con tutta probabilità molto più facili da gestire in presenza di gruppi la cui appartenenza alla nazione è ancora ambigua, che dipendono dall'appoggio delle élite e la cui esistenza innesca reazioni etnocentriche nelle masse, alle quali si possono poi rinfacciare tali tendenze. Può darsi, pertanto, che una società legata al concetto di meritocrazia abbia un particolare bisogno di minoranze.47
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L'immigrazione, in quanto mezzo principale per la soddisfazione di questo bisogno di minoranze, divenne il perno di tutte le politiche europee, e non solo di quelle sui migranti. Questa è una delle differenze più significative tra i problemi europei e quelli analoghi esistenti negli Stati Uniti. In America il problema «razziale» e quello «dell'immigrazione» si presentavano spesso disgiunti tra loro. Benché talvolta venissero confusi, le persone in buonafede erano sempre in grado di distinguerli. In Europa, il problema dell'immigrazione si identificava con il problema razziale. Da un certo momento in poi, fu possibile avere un'unica opinione accettabile in materia, e cioè che l'immigrazione era un successo e un «arricchimento» per la società. Definirla un fallimento equivaleva a proclamarsi razzisti; esprimere qualche dubbio era come confessare inclinazioni razziste. Il filosofo Pierre-André Taguieff coniò il termine ìmmigrationisme per descrivere l'ideologia dominante, secondo cui l'immigrazione sarebbe sempre «inevitabile e buona».48 La gente continuava a parlare dell'immigrazione e delle sue conseguenze, ma senza uscire da binari autorizzati. Le autentiche discussioni sulla crescente «diversità» della società europea e sui suoi risvolti positivi e negativi erano ormai bandite.
Diversità e disprezzo di sé Il concetto di «diversità» descriveva tanto una realtà sociologica («si vedono più stranieri in giro») quanto un'ideologia («se ne dovrebbero vedere di più»). L'ideologia era in perfetta sintonia con la neutralità culturale adottata dai costruttori dell'ideale europeo. Il concetto di diversità, però, non poteva in alcun caso essere un concetto stabile o neutrale, dato che gli europei non conoscevano tanto bene le altre culture da poterlo formulare. In nome della diversità bisognava eliminare tradizioni che tendevano a escludere la gente e a limitare le libertà dei nuovi arrivati. Tutte le cultu
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re sono piene di tradizioni di questo tipo, ma gli europei, abili a smantellare i propri pregiudizi, erano al contempo ciechi di fronte ai pregiudizi degli altri gruppi etnici. Alla base dell'universalismo c'era il provincialismo europeo. Gli europei che consideravano le chiese alla stregua di culle della stupidità, del sessismo e della superstizione non conoscevano abbastanza le moschee e gli ashram per farsi un'opinione in materia e lasciarono che si diffondessero indisturbati. Bandirono dalle scuole i vecchi e ridicolizzati discorsi sulle virtù degli antenati gaulois, ma assorbirono con ingenua credulità le nuove dottrine sui pregi delle altre culture e sulla giustizia e nobiltà delle cause politiche esotiche. I nativi che avessero mantenuto i pregiudizi, i miti e le confortanti tradizioni in cui si crogiolavano gli immigrati, sarebbero stati redarguiti, castigati, ostracizzati o addirittura messi in prigione. Diversità, in buona sostanza, significava prendere le vecchie gerarchie e sovvertirle. L'ossessione europea per le «cause» del Terzo mondo dipendeva dall'ordine morale vigente nel Vecchio continente, fondato sul senso di colpa. Gli immigrati e i loro figli avevano la libertà di esprimere politicamente le loro aspirazioni come popolo, in un modo che ai nativi europei era precluso. Qualsiasi manifestazione nostalgica da parte degli europei veniva subito censurata con severità: anche semplici buffonerie, come quando l'Independence Party si proclamò a favore dell'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea. Le uniche rivendicazioni nazionali che potevano essere avanzate senza attirare accuse di nazionalismo, razzismo o xenofobia erano quelle degli stranieri. Non potendo aderire al nazionalismo autoctono, molti europei furono tentati di abbracciare i nazionalismi di altri popoli, soprattutto quello palestinese che, nelle sue versioni più estreme, permise agli europei di riallacciare i contatti con le frange screditate del nazionalismo europeo, come quelle antisemite. Laddove interagiva con l'immigrazione, vi era un che di illogico nel principio di diversità. Se è vero quello che dice
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vano tutti, e cioè che la diversità «arricchisce» e «rafforza» le nazioni, perché allora le nazioni dovrebbero desiderare l'integrazione degli immigrati nella società in senso ampio? Se si integrassero, la preziosa fonte di diversità si esaurirebbe. Gli etiopici, allora, dovrebbero servire solo cibo etiopico e contribuire a corroborare le vanterie dei presidi delle zone suburbane, secondo cui nelle case degli studenti si parlerebbero «170 lingue diverse», e non, invece, accettare impieghi come responsabili del marketing o igienisti dentali. Oppure la fonte di diversità, ossia l'immigrazione, era già in partenza destinata a rimanere sempre aperta? Il popolo europeo sarebbe stato contrario a quest'ultima ipotesi. I leader europei, quindi, hanno difeso l'immigrazione di massa dicendo che i paesi, da una parte, sarebbero cambiati (grazie alla diversità), ma dall'altra sarebbero rimasti uguali (grazie all'integrazione). La diversità si guadagnò il massimo consenso a livello di consumi soprattutto nei settori della cucina e dell'abbigliamento. Negli anni Cinquanta e Sessanta, prima che gli immigrati cambiassero significativamente la cultura europea in ogni suo aspetto, gli europei erano molto felici delle novità portate dagli stranieri, come samba, hashish, baba gha- noush. Stranamente, però, dagli anni Sessanta in poi, l'immigrazione divenne sempre meno questione di curiosità da mercatini e sempre più legata alle strutture profonde della società welfare, la prosperità di importanti industrie, il contributo delle varie economie europee al commercio mondiale, i principi di diritto che governano le transazioni tra gli individui. Bizzarramente, quando l'immigrazione ha cominciato a trasformare il nucleo economico e culturale dell'Europa, il vocabolario politico è rimasto identico a quando l'immigrazione era un fenomeno marginale. La gente ha continuato a parlare di ristoranti. Essenzialmente, la diversità non era altro che esotismo: un esotismo presentato come qualcosa di sobrio, ragionevole e gentile, e non frivolo, opportunista e colonialista. I
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giovani dei ghetti etnici ebbero un'influenza'enorme sulla moda. Nei quartieri più poveri della Francia, la spesa media dei ragazzi per l'abbigliamento si aggirava mediamente sui duecento euro al mese, e non di rado raggiungeva i seicento euro.49 Ogni paese si distingueva per mode giovanili nate come uniformi dei ghetti e poi estese ad ampie fasce di gioventù autoctona. In Francia si parlava di look banlieue;50 in Gran Bretagna, i giovani così abbigliati erano chiamati chavs; in Olanda e altrove, un'azienda britannica di nome Lonsdale fece palate di soldi vestendo gli adolescenti con capi pseudosportivi da rapper. Gli immigrati non europei non saranno stati invidiabili sul piano socioeconomico, ma su quello esistenziale lo erano eccome. Erano più fichi. Veri aristocratici dell'identità. Questo era il messaggio di fondo dell'affascinante rivista «Gringo», nata nei quartieri popolari di Stoccolma abitati in larga misura da immigrati.51 Lo svartkalle del ghetto - «testa nera» nel gergo svedese - era lo stereotipo della persona oppressa ed esclusa. Eppure le pagine di «Gringo» erano piene di sbruffonate fatte passare per autoironia. L'appellativo Svennar designava con condiscendenza gli autoctoni, così come nello slang dei ghetti americani i «bianchi» venivano chiamati chucks. I nativi svedesi erano degli imbranati quasi sempre incapaci di ballare. Ogni edizione recava il motto Sverìges svenskaste tidning (Il giornale più svedese della Svezia). Il direttore della rivista, Zanyar Adami, dichiarò più volte che l'obiettivo del periodico era creare una nuova identità nazionale svedese ossia, presumibilmente, sbarazzarsi della zavorra di quella vecchia.
Cittadini di serie B Per molti anni l'immigrazione di massa e la conseguente rivoluzione demografica è stata difesa in quanto indispensabile trasfusione di gioventù. Ma di quanta gioventù aveva
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bisogno l'Europa? E a che cosa serviva la gioventù? A svolgere qualche mansione concreta? O semplicemente a fornire un impeto di dinamismo a una società troppo vecchia e stanca per farcela da sola? La masai bianca -52 autobiografia erotica di Corinne Hofmann che racconta di come durante una vacanza in Kenya avesse messo gli occhi sul corpo ingioiellato di un giovane masai e, stregata, avesse deciso di abbandonare per lui la sua vita in Svizzera - non rifletteva solo i gusti della scrittrice, bensì di tutto il mondo germanofono. Il libro vendette quattro milioni di copie e rimase per alcuni anni nella classifica dei bestseller di lingua tedesca. Come scrisse Kingsley Amis in un contesto analogo, si può capire che gli europei apprezzino cose del genere; il problema è come mai le apprezzino così tanto.53 Gli europei hanno cominciato a percepirsi come esseri spregevoli, piccoli, brutti e asessuati: a vedere sé stessi come i loro antenati ottocenteschi vedevano i «selvaggi» delle colonie. I fortunati romanzi di Michel Houellebecq, che esplorarono a fondo questo tipo di ansie, hanno venduto milioni di copie non solo in Francia, bensì in tutta Europa. Il protagonista de Le particelle elementari, per esempio, descrive i propri accessi di angoscia culturale e di insicurezza sessuale nell'insegnare Proust e i classici francesi in un liceo della periferia parigina pieno di discendenti di immigrati. Nessuno è interessato a Proust, e la ragazza per cui lui si è preso una cotta stravede per un macho africano (il babbuino) che disprezza il professore. Questi, allora, comincia a sospettare che l'alta cultura europea che insegna sia in realtà priva di valore: Che cos'erano un banchiere, un ministro, un capitano d'industria, rispetto a un attore del cinema o a una rockstar? Nullità, sul piano finanziario, su quello sessuale e da tutti i punti di vista. Le strategie di distinzione descritte da Proust non avevano più alcun senso. [...] Proust rimaneva profondamente europeo. Insieme a Thomas Mann, era stato uno degli ultimi euro
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pei. Quel che aveva scritto non aveva più alcun legame con qualsivoglia realtà.54
Nel 2005 il romanziere Matthias Politycki scrisse un saggio dal titolo White Man, What Now ? (E adesso, pover'uomo bianco?).55 Anch'egli, al pari di Houellebecq, si interrogava su chi si sentisse inferiore, in realtà, nel confronto tra europei e non europei. Mentre svolgeva una ricerca per un romanzo ambientato a Cuba, scrisse Politycki, era arrivato al punto di osservare la vitalità della gente povera e scura non solo con timore, bensì con una sorta di invidia. Politycki sottolineò che usava il colore della pelle «solo in senso metaforico» - ma naturalmente discussioni culturali sul colore della pelle sono sempre metaforiche. Scrive: La brutalità della vita esuberante, che non si curava dei principi morali e neppure estetici di un vecchio signore europeo, la selvaggia sfrenatezza della volontà che non di rado si esprimeva come pura violenza: potevo forse disprezzarle come mancanza di cultura? Oppure dovevo ammirare quell'eccesso di vitalità, di fronte al quale io ero già sconfitto in partenza? [...] Tale era la mia umiliazione, a volte, di fronte a quelle eruzioni di forza fisica, che cercavo di convincermi di essere portatore, con la mia pelle bianca, di tutta l'estenuazione epocale del Vecchio mondo; di certo, non mi era d'aiuto camuffare la mia debolezza di fronte alla realtà affermando la superiorità della civile ragione.56
Politycki rivive la stessa esperienza, benché in diverse varianti, in tutti i paesi del Terzo mondo in cui si reca. Nel Burundi percepisce un senso di minaccia che aleggia nell'aria. Lui e i suoi impauriti compagni di viaggio occidentali, però, non avrebbero voluto avere un'arma per difendersi, confessa l'autore, perché sarebbe loro mancata la volontà di usarla. In Estremo Oriente, Politycki è turbato «dalla sfrenata energia» degli abitanti «che non genera particolari riflessioni di ordine etico, bensì soprattutto un senso di im
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potenza».57 Nel mondo arabo è snervato dall'energia sessuale dei marocchini, in particolare. «L'aspetto sconvolgente di queste esperienze di viaggio», scrive, «non è tanto la vergogna di fronte alle manifestazioni di sfrenata virilità, bensì l'amara percezione della debolezza della nostra cultura, o meglio, della nostra visione del mondo.»58 L'aggettivo che Politycki usa più spesso in riferimento ai poveri è «sfrenato»; agli occidentali riserva invece «camuffato». Egli giunge a pensare che la ragione, l'illuminismo e 1'«individualismo» indeboliscano l'energia vitale degli europei senza estìnguere l'ammirazione per essa. Fare stravaganti affermazioni sulla superiorità dello stile di vita europeo richiede pertanto un sistema di menzogne e razionalizzazioni. Scrive Politycki: «Se una società completamente illuminata (leggi: senza Dio) abbia qualche valore da opporre a una società solo parzialmente illuminata è una questione di fondo che ha accompagnato alla rovina molte culture avanzate».59 Nelle mani di Politycki e di altri europei il multiculturalismo è divenuto quasi (se mi perdonate l'espressione) xenofobia verso sé stessi. Questa tendenza è manifesta in tutta la società, come il poeta Hans Magnus Enzensberger fu tra i primi a notare. «La difesa degli immigrati è sempre inscenata con un "gestus" moraleggiante e la massima convinzione di essere nel giusto», scrive l'autore. «Slogan come "Stranieri, non lasciateci soli con i tedeschi!" o "Mai più Germania" dimostrano un capovolgimento farisaico. E il negativo fotografico di un cliché razzista.»60 La gente comune ha difficoltà a riflettere sui principi, prima di agire; di solito, ricorre al criterio euristico «amico/nemico» e a generiche regole pratiche. Ora gli occidentali tendono quasi automaticamente a pensare che le cose familiari, tradizionali e occidentali siano da rifiutare; mentre tutto ciò che è straniero e mette a disagio sia al contrario da proteggere. Così, nel 2006 Nadia Eweida, hostess della British Airways e cristiana d'Egitto, fu sospesa dal la
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voro senza paga per aver indossato un crocifisso, benché la compagnia permettesse ai dipendenti musulmani di indossare hijab e veli. (Alla fine, dopo alcuni giorni di attacchi sui tabloid, la compagnia aerea si arrese e la riassunse.) La BBC una volta costrinse una donna cristiana a togliere la croce che teneva in ufficio, senza però impedire alle musulmane di portare il velo.61 Gli europei cominciavano a disprezzare le proprie culture, proprio come i loro antenati più fanatici avevano disprezzato le culture altrui. Nel 2005 il giurista tedesco Udo Di Fabio affermò che il linguaggio del multiculturalismo e della diversità «apre la strada a un nuovo Medioevo, il cui modello di riferimento non è l'essere umano come individuo, bensì un'armoniosa gerarchia tra i gruppi».62 E la gerarchia tra i gruppi lasciava spesso ai nativi la sensazione di essere cittadini di serie B nel proprio paese. Secondo una relazione del 2008 dell'Office of Communities and Locai Government del governo britannico, «i bianchi hanno meno fiducia nella propria capacità di influenzare le decisioni a livello locale rispetto ai componenti dei gruppi etnici minoritari (37% contro 45%). Sono anche meno numerosi i bianchi che ritengono di poter influenzare le decisioni che riguardano l'intera Gran Bretagna (19% contro 31%)».63 Il relativo pessimismo dei bianchi rispetto alla possibilità di esercitare i propri diritti potrebbe apparire sconcertante, o sorprendente, ma non Io è affatto. Esso riflette la loro sensazione che la vita politica e le aspirazioni culturali della Gran Bretagna non li riguardino. Il messaggio che anche le maggioranze abbiano esigenze è sovente male accolto. Bassam Tibi, studente di origine siriana residente in Germania, ipotizzò che all'interno della società multiculturale di quel paese la cultura tedesca dovesse essere considerata quella principale (Leitkultur). Tibi fu messo alla gogna per aver sostenuto che Beethoven e Thomas Mann avrebbero dovuto rivestire un ruolo più importante, nella formazione della coscienza nazionale, rispetto ad altre voci straniere. Lo stesso accadde a Friedrich
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Merz, il politico cristiano-democratico che tentò di diffondere tesi analoghe. L'Europa era un luogo dove gli immigrati potevano avere aspirazioni, mentre i nativi dovevano mantenere un atteggiamento deferente e represso. I valori che avrebbero dovuto liberare gli europei avevano finito per paralizzarli addirittura fino a mettere in questione la legittima richiesta che gli immigrati si adattino ai costumi europei. «Consideriamo ormai illegittima e inintelligibile qualsiasi azione umana», scrisse il filosofo Pierre Manent, «a meno che non dimostri di essere soggetta a una qualche regola di diritto universale o a qualche principio etico universale.»64 Quest'etica universale presentava alcune inquietanti analogie con il fondamentalismo religioso e con altre culture dell'esclusione a cui avrebbe dovuto fare da antidoto. Quanto all'universalismo e al fondamentalismo religioso, Manent osservò: «L'unica azione umana veramente imperdonabile ai nostri occhi è quella che un tempo veniva chiamata conversione. [...] Non esiste più alcun cambiamento legittimo, perché non esiste più alcuna preferenza legittima».65 Prima che gli immigrati potessero vivere secondo le regole europee, gli europei dovevano scoprire quali fossero tali regole. Negli anni in cui non era ancora primo ministro, Gordon Brown suggerì che i suoi conterranei fossero più espliciti sui valori e sui costumi che ognuno avrebbe dovuto rispettare all'interno di una società, a prescindere dal luogo di provenienza.66 Una ben magra consolazione... e comunque era troppo tardi. Le vecchie culture europee basate sulla religione svolsero le funzioni descritte da Brown solo finché non furono messe in discussione negli anni Sessanta e Settanta, nel nome della liberazione personale e dell'autonomia dell'individuo; e infine ripudiate negli anni Ottanta e Novanta, allo scopo di rendere l'Europa più aperta alle minoranze. Come poteva Brown pretendere che gli immigrati e i loro figli contribuissero a vivificare una cultura che i nativi e i loro figli non avevano fatto altro che sbef
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feggiare? Soprattutto da quando esisteva una fonte alternativa di valori che agli occhi di molti immigrati europei appariva più legittima, coerente e vitale rispetto alle culture nazionali europee da tempo screditate. Tale fonte di valori, naturalmente, era l'islam.
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5. COLONIE ETNICHE
Storia (All'atteggiamento europeo nei confronti dell'islam - Popolazioni musulmane, attuali e future - Riqualificazione dei quartieri degradati - Architettura e segregazione Aree di illegalità - Segregazione o autosegregazìone? - Spazi della sharia - Violenza, criminalità e rivolte - Le rivolte delle ban- iieues e l'islam - Tribalismo, ideologia ed escalation
Se negli anni Cinquanta e Sessanta, epoca in cui cominciarono ad arrivare migranti dalla Turchia, dall'Algeria e da altri paesi, gli europei avessero saputo che mezzo secolo più tardi nel loro continente ci sarebbero state migliaia di moschee, non avrebbero mai permesso che ciò accadesse. La tolleranza degli europei nei confronti delle altre culture era sincera, soprattutto nelle fasce sociali più alte, ma neppure queste ultime avevano previsto che tale tolleranza avrebbe consentito l'affermazione, il radicamento e la progressiva diffusione di un'altra religione sul suolo europeo. In cambio di vantaggi economici di brevissimo respiro, l'Europa si era di nuovo esposta a una minaccia che era riuscita ad allontanare soltanto dopo molti secoli di pazienza e di violenza: la minaccia dei conflitti interreligiosi, interni e internazionali.
Storia dell'atteggiamento europeo nei confronti dell'islam Si può dire che l'islam sia stato, fino al suo brusco declino avvenuto a cavallo dei secoli XIX e XX, il principale nemico della civiltà europea. Per buona parte della storia del continente, ossia dal medioevo in poi, ha rappresentato una minaccia letale. Tra i secoli VII e IX, l'islam militarizzato giunse a conquistare metà dell'impero romano ormai frammentato. «Arrivò molto vicino a distruggerci», scrisse Hilai-
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re Belloc nel 1938. Ai tempi Belloc riteneva pericoloso che gli occidentali hanno dimenticato tutto dell'islam. Non sono mai venuti in contatto con esso. Danno per scontato che sia ormai in declino e che in ogni caso sia solo una religione straniera che non li riguarda. In realtà, è il nemico più formidabile e persistente che la nostra civiltà abbia mai conosciuto, e da un momento all'altro potrebbe ridiventare minaccioso come in passato. [...] Ho sempre reputato possibile, e persino probabile, una rinascita dell'islam, prima o poi, e temo che un giorno i nostri figli o nipoti vedranno rinnovarsi il tremendo conflitto tra la cultura cristiana e quella che per più di un millennio è stata la sua grande antagonista.1
Belloc scriveva con un linguaggio molto schietto persino per l'epoca. Si riferiva alla cultura occidentale con la formula «civiltà bianca». Difese a spada tratta le crociate, che definì «l'unico tentativo supremo di liberare l'occidente cristiano dalla pressione [dell'islam]».2 Tuttavia, le sue opinioni sul mondo musulmano erano analoghe a quelle manifestate dalla maggioranza degli europei in quasi tutte le epoche storiche. Secondo lo storico francese Henri Pirenne, furono proprio le conquiste islamiche a creare l'Europa, o almeno quell'Europa che prese forma a partire dalla fine dell'impero romano. Al contrario delle invasioni barbariche dei primi secoli dopo Cristo, che furono facilmente assorbite dalle istituzioni esistenti, le invasioni islamiche cambiarono ogni cosa. L'avanzata dell'islam distrusse il mondo antico perché mise fine all'unità culturale del Mediterraneo. Lontani dalla capitale cristiana trasferita a Costantinopoli (e dalla flotta imperiale), gli europei abbandonarono il Mediterraneo alle flotte musulmane e ai pirati saraceni. «L'Occidente rimase imbottigliato e abbandonato a sé stesso, sotto vuoto», scrive Pirenne.3 «Per la prima volta nella storia, il centro della vita si sposta dal Mediterraneo verso il
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Nord.» Il cuore dell'Europa si spostò dal suo litorale meridionale verso la zona compresa tra la Senna e il Reno. «Ora, sulle coste del Mare Nostrum», prosegue Pirenne, «sono schierate due civiltà diverse e ostili.»4 Nonostante la generale diffidenza verso l'islam, in Europa ci sono sempre state delle voci fuori dal coro. Goethe e Carly- le, ammiratori della civiltà musulmana, tendevano a sottolinearne i pregi. Questa linea di pensiero, minoritaria nelle generazioni passate, è ormai divenuta maggioritaria nella nostra, al punto che si viene spesso indotti a pensare che l'Europa dovrebbe essere riconoscente all'islam per la sua secolare ostilità. Il sociologo tedesco di origine siriana Bassam Tibi, che tra gli studiosi della presente generazione è senza dubbio il lettore più tendenzioso di Pirenne, scrive: «Senza la sfida dell'islam, l'Occidente cristiano di Carlo Magno non sarebbe mai esistito. Pirenne intende dire questo: i due grandi - l'Europa in quanto Occidente e l'islam come civiltà - sono nati nello stesso momento storico e costituiscono una sfida l'uno per l'altro».5 Non sarà l'ultima volta che sentiremo utilizzare la parola «sfida» anziché «problema», benché gli eufemismi varino di volta in volta. L'antropologo di Cambridge Jack Goody, per esempio, individua nella secolare ostilità non tanto una serie di battaglie, quanto piuttosto una serie di «incontri».6 L'influenza del mondo musulmano sulla farmacologia e sulla poesia dei trovatori, l'opera di conservazione di molte opere di filosofi greci durante il medioevo interessano Goody quanto le conquiste militari e i massacri. Tali meriti del mondo musulmano sono reali e ben documentati (sempre di più). Fino alla generazione attuale, però, la civiltà islamica non aveva mai suscitato particolare ammirazione negli europei. Il pensiero più diffuso era in sintonia con le opinioni dell'eclettico Ernest Renan, che nel 1883 scrisse: Quei liberali che difendono l'islam non lo conoscono. L'islam è l'unione inscindibile tra spirituale e temporale, è il regno di
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un dogma, la catena più pesante che l'umanità abbia mai portato. Nella prima metà del medioevo, l'islam tollerò la filosofia perché non era in grado di fermarla; non potè fermarla perché non possedeva ancora l'unità e la forza necessarie a seminare il terrore. [...] Non appena ebbe a disposizione masse di fedeli ardenti, fece terra bruciata. Il terrore religioso e l'ipocrisia erano ordinaria amministrazione. L'islam è stato liberale nei momenti di debolezza e violento nei momenti di forza. Non rendiamogli onore per quello che non è stato in grado di sopprimere.7
Sia Renan che Belloc deploravano la compiacenza di molti contemporanei. Niente di nuovo. Nessuno dei due, però, visse nell'epoca dell'immigrazione di massa di musulmani. Senza dubbio, le generazioni future si chiederanno sconcertate come mai gli europei non si siano preoccupati un po' di più della religione di questi lavoratori ospiti che negli anni Cinquanta e Sessanta cominciarono ad arrivare dall'Asia meridionale, dal Nordafrica e dalla Turchia. Come mai, tra la seconda guerra mondiale e 1*11 settembre 2001, gli europei hanno dato l'impressione di condividere all'unanimità la visione tollerante (o panglossiana) dell'islam di Tibi e Goody, anziché quella intollerante (o fanatica) di Belloc e Renan? Si potrebbe in parte rispondere che le masse europee hanno accettato le tesi dei leader d'opinione europei. Le ferite del razzismo e del fascismo erano ancora aperte e i sospetti popolari nei confronti dell'islam erano facilmente repressi dalle dottrine ufficiali e dalle mode intellettuali. Per qualche decennio, gli europei percepirono di avere più da temere dal fanatismo nativo e laico che non da quello straniero e religioso. Essi inoltre avevano scambiato la guerra fredda, in cui i conflitti politici tendevano a ruotare intorno alle ideologie economiche e materialistiche dell'era industriale, per l'ordine permanente delle cose. Tale errore non dovrebbe sorprendere gli americani. Di sicuro, negli Stati Uniti nessuno aveva sospettato che negli
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anni Settanta l'importazione di manodopera agricola dal Messico potesse aumentare l'influenza del cattolicesimo tradizionalista (eppure non sarebbe stato fuori luogo, dato che gli anni di massima immigrazione coincisero con le battaglie politiche attorno al femminismo, le lotte per il diritto all'aborto e la trasformazione delle abitudini tradizionali). Semplicemente, la religione non rientrava nei timori politici dell'epoca. Quasi non compariva neppure tra i valori fondanti dell'identità delle persone. La maggiore compatibilità con la cultura maggioritaria dimostrata dai migranti in America rispetto alle controparti europee è stata spesso presentata dagli americani a mo' di prova della superiorità economica o della maggiore tolleranza statunitensi. Può essere, ma va detto che l'America ha, appunto, ricavato manodopera a basso costo dal cattolicesimo latinoamericano, mentre l'Europa per i lavori più umili ha in larga misura attinto all'islam mediterraneo. Insomma, il fallimento europeo e il successo americano sono, almeno in parte, meri accidenti geografici. E storici. Negli anni Cinquanta, il nazionalismo arabo, come per esempio quello praticato da Gamal Abdel Nasser in Egitto e dai leader del partito Ba'ath in Siria e in Iraq, era la principale corrente politica emersa nel mondo musulmano. Nacque soprattutto dal desiderio di porre fine al controllo asfissiante esercitato dalla teologia sulle società musulmane. Benché il nazionalismo arabo costituisse una minaccia, era improbabile che un giovane pronto ad abbandonare il suo paese per andare a lavorare in una fabbrica belga se ne facesse portatore. I nuovi arrivati arabi, e musulmani in generale, probabilmente gli individui più laici e moderni dei loro paesi, erano inclini a comportarsi come europei. In effetti, fotografie di gruppo di marocchini e turchi appena sbarcati al porto di Rotterdam o in una stazione della Renania, mostrano uomini sbarbati di fresco in giacca e cravatta.8
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In coincidenza con l'inizio delle migrazioni di massa, però, ci fu un primo risveglio dell'islam politico, che ora è all'apice della potenza. L'islam è tornato in cima alla listadelle preoccupazioni degli europei. Nel 2004, in Francia, la Commission nationale consultative des droits de l'homme (CNCDH) condusse un'indagine sulla percezione generale delle varie religioni. Più della metà degli intervistati (52%) manifestò un'opinione «positiva» sul cristianesimo, a fronte di un 13% che dichiarò di averne una visione «negativa».9 Per l'ebraismo, le stesse categorie erano rispettivamente al 30 e al 20%, e per l'islam al 23 e al 66%. Un sondaggio condotto in Germania nel 2007 poneva la seguente domanda: «Quando sente la parola "islam", che cosa le viene in mente?». Il 93% rispose «oppressione delle donne»;10 l'83% «terrorismo»; l'82% «estremismo». Dopo milletrecento anni di conflitti, le prime generazioni europee a non vedere l'islam come una minaccia furono evidentemente anche le ultime.
Popolazioni musulmane, attuali e future Mentre l'islam politico cresceva fuori dai propri confini, in Europa si aggravava un altro problema. Questa immigrazione nuova e quasi interamente musulmana era più difficile da gestire e da spiegare rispetto a quelle precedenti. In parte, ciò dipendeva dall'ampiezza del fenomeno. Le onde di immigrazione del dopoguerra furono incomparabilmente più ampie delle precedenti. Alla fine del secolo scorso, un sesto abbondante (16,9%) dei residenti francesi sotto i 18 anni aveva genitori stranieri; il dato saliva al 40% considerando la sola Parigi.11 C'erano decine di città più o meno grandi dove la maggioranza dei bambini aveva genitori nati all'estero. Gli immigrati, però, non solo erano più numerosi, bensì anche «più stranieri». In Francia, per esempio, esistevano enclave italiane, spagnole e polacche già dall'inizio del XX secolo, ma c'è una bella differenza tra immigrati che parlano lingue affini e frequentano chiese locali e immigrati portatori di una cultura che stride con quella autoctona.
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Una generazione fa, in Francia, le zone a forte concentrazione di immigrati erano quelle delle miniere della Mo- sella, abitate in larga misura da italiani. Nel 1968, a Behren- lès-Forbach, per esempio, il 72% dei giovani aveva genitori stranieri, e il 43% era costituito da italiani. Behren-lès-For- bach rimane una zona ad alta densità di immigrati (anche se altri trentacinque comuni l'hanno ormai superata in questo senso). Oggi, però, solo il 7% dei giovani ha genitori italiani; il 41%, infatti, è nato da nordafricani. Tale processo si sta verificando in tutto il paese. Tra il 1999 e il 2004, la popolazione di immigrati subsahariani in Francia è cresciuta del 45%. Nel dipartimento della Seine, a Saint-Denis, zona a forte concentrazione di immigrati maghrebini e dell'Africa occidentale dove sono scoppiate le rivolte del 2005, il numero dei bambini nati da genitori francesi è sceso al 41%, mentre quello dei figli di immigrati è salito di due volte e mezzo. Molte zone del paese sono caratterizzate da quello che la demografa Michèle Tribalat definisce «processo di sostituzione».12 Nel continente ci sono circa 20 milioni di musulmani, contando i milioni di musulmani nativi dei Balcani.13 Come si è detto, ce ne sono 5 milioni in Francia, 4 milioni in Germania e 2 milioni in Gran Bretagna. In Inghilterra predominano i pakistani e i bengalesi; in Francia, Belgio e Spagna sono più numerosi gli arabi; in Germania i turchi; ma in tutti i paesi europei l'islam è fondamentalmente un miscuglio di persone provenienti da tutto il mondo musulmano. La forte concentrazione di queste popolazioni potrebbe finire per moltiplicare la loro influenza. Attualmente, a Londra vivono un milione di musulmani, ossia un ottavo della popolazione.14 Ad Amsterdam, i musulmani costituiscono più di un terzo dei credenti, superando i cattolici nonché tutte le varie confessioni protestanti messe insieme.15 Ora i musulmani dominano o puntano a dominare alcune importanti città europee, tra cui, per esempio, Amsterdam e Rotterdam in Olanda; Strasburgo e Marsiglia (e
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molti sobborghi parigini) in Francia; Duisburg, Colonia e i quartieri berlinesi di Kreuzberg e Neukölln in Germania; Blackburn, Bradford, Dewsbury, Leicester, East London e la periferìa di Manchester in Inghilterra. Questi luoghi, dato che l'immigrazione non si ferma e il potere elettorale e la consapevolezza politica dei musulmani aumentano, hanno un carattere sempre più marcatamente musulmano. Nei primi anni di questo secolo la maggior parte dei leader europei abbracciò la tesi da me esposta (e contestata) nel Capitolo Due, secondo cui l'Europa «avrebbe bisogno» dell'immigrazione per motivi economici. Se ciò fosse vero, la pressione demografica dell'islam sull'Europa sarebbe solo agli inizi, perché i paesi islamici economicamente arretrati e sovrappopolati sono molto vicini: sull'altra sponda del Mediterraneo. Il National Intelligence Council degli Stati Uniti prevede che entro il 2025 la popolazione musulmana d'Europa raddoppierà in misura uniforme in tutto il continente.16 Non è solo l'immigrazione a causare l'aumento della presenza islamica in Europa. La maggiore fertilità degli immigrati rispetto ai nativi riguarda soprattutto i musulmani. La religione, o la religiosità, è l'indicatore di fertilità più attendibile. Osservando il caso britannico, il sociologo Eric Kaufmann ha notato che i caraibici e gli slavi hanno rapidamente adottato lo stile di vita laico (e il basso tasso di natalità) della società britannica, mentre la seconda generazione di musulmani bengalesi e pakistani ha mantenuto suppergiù le stesse abitudini religiose (e lo stesso tasso di fecondità) della generazione precedente.17 Nel 1991 a Birmingham i pakistani erano il 7,1% della popolazione. Si calcola che entro il 2026 saranno il 21%, ossia quasi il triplo. Il Barrow Cadbury Trust, ente che ha raccolto i dati, sottolinea come «l'aumento sarà probabilmente causato soprattutto dalla popolazione giovane già residente a Birmingham, piuttosto che dall'immigrazione».18
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L'Austria offre un buon esempio per studiare la differenza di crescita demografica tra nativi e stranieri. Essa ha avuto una forte immigrazione non europea ed è fra i pochi a censire anche la religione dei residenti. Qui il tasso di fertilità totale delle cattoliche è di 1,32 bambini per donna. Il dato scende a 1,21 per le protestanti e allo 0,86 per le laiche. Il tasso complessivo di fertilità delle musulmane è di 2,34. Tale divario può sembrare poco significativo - in fin dei conti, nel periodo del boom demografico in America si registravano livelli ancora più alti - ma i suoi effetti crescono rapidamente. Secondo quattro studiosi dell'Istituto demografico di Vienna, entro la metà del secolo l'islam potrebbe essere la confessione religiosa predominante tra i cittadini sotto i 15 anni; i cattolici austriaci, che nel XX secolo costituivano il 90% della popolazione, entro la metà del XXI potrebbero scendere sotto il 50%.19 In Belgio, la comunità marocchino-belga, relativamente ben inserita, ha un tasso di natalità due volte e mezzo più alto rispetto alla popolazione nativa.20 A Bruxelles, i cui residenti sono per un quarto cittadini stranieri, più di metà dei bambini (57%) nati nel 2006 erano figli di musulmani, e i sette nomi più comuni fra i maschietti erano: Mohamed, Adam, Rayan, Ayoub, Mehdi, Amine e Hamza.21
Riqualificazione dei quartieri degradati
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Una delle cose che, secondo la mitologia popolare dell'immigrazione, gli immigrati farebbero è «riqualificare» o «portare nuova vita» in zone che hanno perduto fascino per i nativi. In molti paesi europei, è accaduto proprio questo, anche se a volte i nativi fanno fatica ad ammetterlo. I turchi stabilitisi in massa a Kreuzberg sono stati spesso accusati di aver trasformato il quartiere berlinese in un ghetto da questo destino; in realtà, sarebbe più corretto dire che l'hanno salvato. La costruzione del Muro di Berlino nel 1961 aveva trasformato Kreuzberg in una cloaca urbana all'ombra dei cecchini armati della Germania Est. Gli operai residenti si trasferirono altrove. Nel 1974 fecero la loro comparsa le grottesche torri dell'edilizia popolare. «I pendolari non arrivarono più», recita una laconica didascalia del Museo di Kreuzberg.22 Tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, hippy e turchi occuparono in massa gli appartamenti ormai in rovina di questo quartiere, attratti dagli affitti a buon mercato. Gli hippy portarono musica rock, accattonaggio, alcolismo di strada, prostituzione, droga e distributori di medicinali e aghi ipodermici sponsorizzati dal comune. I turchi (oltre alle moschee nei magazzini) portarono famiglie, laboratori tessili, pasticcerie, club sportivi e strade sempre più sicure, benché malandate. I genitori si organizzavano addirittura per ripulire i marciapiedi dalle siringhe abbandonate. A Torino, il letterato e romanziere Younis Tawfik trasformò un vecchio bagno pubblico, costruito nel 1958 per gli immigrati meridionali e in disuso da più di un decennio, nello splendido Centro culturale italoarabo, con tanto di hammam (o bagno turco), ristorante e biblioteca multicon- fessionale. A Duisburg, porto fluviale della Renania, la fine dell'attività industriale comportò l'atrofizzazione del centro storico, ma gli immigrati mantennero vitali quartieri popolari come Marxloh e Wanheimerort. Quando furono raccolti i fondi per la costruzione della più grande moschea della Germania (aperta alla fine del 2008), una parte consistente del denaro fu impiegata per la fondazione di un centro aperto a tutte le confessioni religiose. A Londra, i bei quartieri pieni di ristoranti intorno a Whitechapel e Bethnal Green (dominati da bengalesi) in certi punti si confondevano con quelli intorno a Liverpool Street (dominata da palazzi dell'alta finanza).
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Questa era l'immigrazione che le élite europee - sempre più simili a turisti internazionali à l'interieur- tendevano a vedere. Era fuorviarne. La maggior parte dei musulmani viveva separata dal resto della popolazione, in luoghi che per la stragrande maggioranza degli europei erano territorio inesplorato. In tali condizioni di isolamento, molti quartieri musulmani si trasformarono in ghetti, dove vigevano tradizioni, regole e istituzioni a sé stanti. Era diffìcile dire se fossero i nativi o gli immigrati stessi a volerlo. Eppure la prospettiva che la parte musulmana della popolazione immigrata europea possa separarsi sempre di più per formare una società parallela preoccupa gli europei da molto prima dell'I 1 settembre 2001. Per meglio comprendere il malessere del Vecchio continente, è necessaria una digressione su un altro argomento: la pianificazione urbana e la segregazione.
Architettura e segregazione Negli anni Cinquanta e Sessanta, nella maggior parte dei paesi europei e negli Stati Uniti furono avviati vasti progetti di edilizia popolare destinati alle fasce a basso reddito con un unico scopo: allontanare i poveri dagli ambienti sudici e malsani dei bassifondi. Un tale «progresso», però, aveva un prezzo, che alla fine si rivelò troppo alto. I grandi complessi popolari erano tutti uguali e isolati dal mercato del lavoro. Se i quartieri armonizzati con il contesto possono trasformarsi in ricche comunità, le vaste e anonime città- dormitorio non lo consentono. L'idea dell'edilizia popolare era partita dall'Europa. Fu l'architetto svizzero Le Corbusier a ispirare i lotti abitativi delle HLM (habitations à loyermodére) che circondano Parigi e altre città europee. Secondo la sua teoria, gli esseri umani assomigliano molto alle piante: oltre che di cibo, hanno bisogno soprattutto di sole e di aria. Negli Stati Uniti è ormai risaputo che gli agglomerati di palazzoni costruiti secondo la filosofia di Le Corbusier - le Homes di Robert Taylor a Chicago e la zona di Pruitt-Igoe a Saint Louis, per menzio
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nare i più famosi - erano trappole di violenza e povertà per la gente (soprattutto neri) che si ritrovò costretta a viverci. Finché in Europa ci fu un vasto proletariato industriale - regolato da abitudini politiche tramandate e disciplinato dal lavoro - tale edilizia non ebbe conseguenze catastrofiche come negli Stati Uniti. La gente, però, detestava quei luoghi, e grazie alle possibilità concesse dal boom economico, li abbandonò. A quel punto, l'architettura prese a interagire con la migrazione in modi imprevisti. Le trasformazioni più drammatiche si ebbero in Svezia, forse perché fu lì che l'edilizia popolare conobbe l'espansione più repentina. La carenza di abitazioni all'inizio degli anni Sessanta indusse il governo a intraprendere l'ambizioso progetto di costruire un milione di alloggi, in un paese con 7 milioni di abitanti. Tale progetto passò alla storia come il Programma Milione. Gli appartamenti che ne risultarono erano simili a quelli omologhi costruiti in altri paesi europei, ma in Svezia non c'è mai stata la cultura dell'appartamento, e i nativi li abbandonarono non appena poterono permettersi una casa indipendente. Nel corso del decennio, i funzionali appartamenti del Programma Milione si svuotarono. Quando i migranti cominciarono ad arrivare in massa soprattutto all'inizio degli anni Novanta, allorché i profughi di guerra curdi, bosniaci e somali saturarono il sistema di accoglienza dei rifugiati del paese - c'era un posto dove metterli.23 Si pensi a Bergsjòn, agglomerato residenziale alle porte di Goteborg. Sede di uno stabilimento della Volvo e di alcuni tra i più grandi cantieri navali del mondo, Goteborg era un importante e storico centro industriale. Bergsjòn fu costruito tra il 1967 e il 1972 per premiare gli operai della città. A poche fermate di tram dalle fabbriche, Bergsjòn assomigliava ai luoghi in cui gli svedesi di tutte le classi andavano a trascorrere le vacanze estive: tranquillo, pulito, punteggiato di laghetti e odorosi sempreverdi. Nel «campus» centrale non potevano entrare le auto. Circa 14.500 perso
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ne vivevano in appartamenti sistemati su collinette erbose circondate da una strada. Tra gli anni Ottanta e Novanta, però, i cantieri navali svedesi subirono un tracollo. Gli operai per cui era stata costruita Bergsjòn se ne andarono. Di lì al 2006 il quartiere si riempì di immigrati di cento nazionalità diverse, molti dei quali rifugiati. Il 70% dei residenti era nato all'estero o da genitori nati all'estero. Lo stesso valeva per il 93% dei bambini in età scolare.24 Ora si vedono donne somale camminare per i vialetti con i loro hijab e le loro lunghe tuniche, e sui muri si leggono scritte come «Bosna i Hercegovina 4-Ever.» Le case popolari, carenti di spazi e luoghi coperti dove far rumore e difficili da sorvegliare da parte degli adulti responsabili, non sono mai state un ambiente sano per crescere i bambini.25 Poco accoglienti per la stessa classe operaia per cui erano state progettate, sono ancora meno adatte agli immigrati, con le loro famiglie sterminate e i loro astronomici tassi di disoccupazione. Quartieri costruiti negli anni Sessanta per permettere alle famiglie svedesi di vivere in mezzo al verde, quattro decenni dopo sono serviti a tenere lontani dal mercato del lavoro i disoccupati nati all'estero. Secondo Assar Lindbeck, decano degli economisti svedesi fautori dello stato sociale, mandare i nuovi arrivati a vivere in zone piene di appartamenti vuoti significava relegarli in luoghi «per definizione ad alta disoccupazione». Nel 2006, il 40% delle famiglie di Bergsjòn percepiva un vero e proprio sussidio di disoccupazione, e molti altri ricevevano indennità di varia natura diverse tra loro solo per il nome. Ora sono molto meno della metà gli suoi abitanti che possiedono un impiego. Secondo quanto dichiarato dal sindaco di Goteborg qualche anno fa, «le prospettive di trasformare Bergsjòn in un normale quartiere svedese sono pressoché nulle». E di quartieri del genere se ne trovano in tutta la Svezia: intorno a Stoccolma, per esempio, i sobborghi di Rinkeby e Tensta, centinaia di chilometri a nordest di Goteborg, non sono granché diversi. Qui gli immigrati e i
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loro figli costituiscono l'85% dei residenti, con livelli di dipendenza dallo stato paragonabili a quelli di Bergsjòn. A Tensta, per esempio, un quinto delle donne tra i 45 e i 50 anni riceve il sussidio d'invalidità.26 L'abitudine di identificare il Programma Milione con gli immigrati è talmente radicata che persino «Gringo», rivista degli immigrati di Stoccolma, ha coniato il termine miljonsvenskar o «svedesi del Milione» per descriverli. Questo processo di sostituzione degli operai nativi con gli immigrati è avvenuto in quasi tutti i paesi europei. Sul rapporto tra edilizia pubblica e immigrati si potrebbe ripetere ciò che nel film americano L'uomo dei sogni si dice a proposito dei campi da baseball e dei giocatori: «Basta costruirne uno che arrivano». Anche la Francia cominciò ad ammassare gli immigrati in luoghi abbandonati dai suoi cittadini. Oggi, più della metà dei nordafricani del paese vive nelle 27 HLM, a fronte di un misero 17,6% di nativi. L'abbandono delle case popolari si intensificò. I bianchi che furono costretti a rimanere andarono a costituire la base elettorale dei partiti di destra, compreso il Fronte nazionale di Le Pen. Nella città industriale di Torino, le case popolari, costruite negli anni Sessanta per ospitare temporaneamente gli immigrati siciliani, alla fine del XX secolo si riempirono di nordafricani.28 Nella periferia sudorientale di Amsterdam, le famose torri di De Bijlmer, completate solo nel 1975, si riempirono ben presto soprattutto di immigrati. Ampi settori del complesso De Bijlmer sono già stati demoliti, mentre buona parte del resto è in via di ristrutturazione.
Aree di illegalità
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Le case popolari europee, come quelle statunitensi, rispondevano perfettamente alle esigenze di criminali e teppisti. Chiunque riuscisse a controllare l'ascensore (e, quando questi diventarono troppo terrificanti per essere utilizza ti, le scale ricoperte di graffiti) poteva tenere in ostaggio una decina di famiglie (addirittura diverse decine, se l'edificio era abbastanza alto). Chiunque riuscisse a controllare le lunghe strade d'accesso era in grado di bloccare l'entrata e l'uscita dalle case popolari e di ostacolare (e persino respingere) la polizia.29 Nell'estate del 2004, a causa di ripetuti episodi di aggressione ai passeggeri, la polizia stradale svedese sospese la linea degli autobus da Tensta. Nelle periferie di Malmò furono aggrediti pompieri e personale medico d'emergenza. Alla fine del XX secolo, in Francia, erano numerosi i luoghi in cui la polizia non si avventurava, più per evitare di provocare disordini che per timore o per indifferenza. Tali luoghi finirono per diventare noti come zones de non-droit o aree di illegalità.30 I giovani del luogo organizzavano ronde di quartiere al contrario, cioè non per avvertire la polizia della presenza di criminali, bensì viceversa. Pierre Cardo, per molti anni stimato sindaco di Chanteloup-les-Vignes, trenta chilometri a ovest di Parigi, descriveva molte infrastrutture della sua città come architettura criminogena. Chanteloup è uno dei fallimenti più spettacolari nella storia della pianificazione di stato francese. Nel 1966 si era deciso di trasformare un grazioso paesino di 2000 anime, situato in mezzo a ricche cave di gesso e nelle vicinanze di numerosi stabilimenti automobilistici, in una città dormitorio di 20.000 abitanti. A metà dei lavori di costruzione, il settimanale satirico e investigativo «Le Canard enchaîné» denunciò il piano di espansione di Chanteloup come il caso di corruzione più vasto del dopoguerra francese (poi balzato agli onori della cronaca con il nome di «affare Aranda»). La magistratura ordinò la sospensione dei lavori. I costruttori, irritati, ricoprirono tubature e impianti già costruiti e distrussero i documenti che ne indicavano l'ubicazione. All'inizio degli anni Settanta, il presidente Valéry Giscard d'Estaing aprì gli alloggi non desiderati agli immigrati. Gli edifici popolari a tre, quattro, cinque piani che costituivano due terzi delle strutture architettoni
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che di Chanteloup portavano nomi di poeti e pedagoghi, ma tutti li conoscevano con appellativi (affibbiati dai bambini locali) evocanti scenari da combattimento come «Bestiario» e «Ippodromo».31 Nel 1995 due terzi dei residenti di Chanteloup erano di origine straniera.32 Quello stesso anno uscì il film L'odio (La Haine), del regista Matthieu Kassovitz, un drammatico resoconto di violenza suburbana e brutalità poliziesca girato a Chanteloup. Fu considerato una testimonianza dura e realistica della vita di certi adolescenti francesi in trappola, al punto che il primo ministro di allora, Alain Juppé, ordinò a tutti i suoi ministri di andare a vederlo.33 Oggi, alcuni particolari del film appaiono un po' datati e al limite del sentimentalismo. In particolare, pensando alle periferie francesi attuali, risulta poco plausibile la figura dell'adolescente ebreo che entra in una gang insieme a un nordafricano. Già prima che uscisse La Haine, le bande di giovani attraversavano il fiume che separa Chanteloup dalla vicina città di Andrésy per attaccare le gang rivali armati di spranghe e mazze da baseball.34 (Nei quartieri poveri d'Europa stupisce la sovrabbondanza di mazze da baseball in paesi dove questo sport non è praticato.) Un decennio più tardi, le gang di Chanteloup, sempre più ambiziose e audaci, erano uscite dai confini dei quartieri popolari. Bande di teppisti imperversavano spesso a La Défense e a Cergy Pontoise, a diverse fermate di treno di distanza. Nel 2006, dopo che, nel corso di una rapina a mano armata nel grande magazzino parigino Gap, un ventiquattrenne di Chanteloup era stato ucciso mentre minacciava un ostaggio, sessanta giovani armati e incappucciati sferrarono un assalto coordinato alla caserma della polizia locale.35 Al confronto, L'odio appariva quasi ingenuo. Tra il film e la violenza della Francia del XXI secolo c'era un rapporto simile a quello tra West Side Story e la guerriglia urbana negli Stati Uniti degli anni Sessanta.
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Segregazione o autosegregazione? Nel 2005 Trevor Phillips, presidente della Commission for Racial Equality, dichiarò che la Gran Bretagna «si stava inconsapevolmente avviando verso la segregazione». Questa tendenza all'isolamento riguardava soprattutto pakistani e bengalesi. Phillips osservò che il numero di cittadini britannici di origine pakistana che viveva in autentici «ghetti» - luoghi in cui almeno due terzi dei residenti appartengono a un gruppo etnico specifico - era triplicato nel corso degli anni Novanta. In alcune città britanniche, come Bradford e Leicester, quasi il 15% del campione considerato risiedeva in ghetti, percentuale paragonabile a quella dei neri in città come Miami e Chicago, che non sono certo modelli di relazioni interrazziali. «Alcune minoranze si trasferiscono in zone medio-borghesi a minore concentrazione etnica», disse Phillips, «ma chi rimane tende a rinchiudersi ulteriormente.»36 Alcuni ironizzarono sul pessimismo di Phillips. Secondo il sindaco di Londra Ken Livingstone, la segregazione all'interno della società britannica stava anzi diminuendo, dato che nel corso degli anni Novanta i «quartieri misti» erano passati da 864 a 1070.37 Egli dichiarò anche che «le coppie interetniche e i figli di genitori originari di paesi diversi erano aumentati del 20% in dieci anni». Tuttavia, la ricerca citata da Livingstone, sponsorizzata da una lobby multicultu- ralista, non dimostrava tanto l'inesistenza della segregazione, bensì si limitava a definirla in altri termini. Il ragionamento su cui si fondava era il seguente: dato che non si parlava di segregazione per le migliaia di zone popolate al 95% da bianchi, definire segregato un quartiere solo perché vi abitavano pochi bianchi era un «criterio basato sul colore della pelle che fonda una quantità di altre tesi discriminatorie.»38 Non è vero. Un quartiere privo di residenti nativi può essere caratterizzato da diversità, ma non integrato, sempre
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che sia davvero l'Inghilterra il luogo in cui gli autori dello studio desiderano che gli immigrati si integrino. Questo utilizzo di «statistiche» più ideologiche che scientifiche per indurre la gente a non credere a quel che vedeva con i propri occhi non fece altro che radicalizzare le opinioni dei nativi europei sull'immigrazione. Se si definisce «misto» un quartiere in cui vivono numerose minoranze, qualsiasi incremento della popolazione minoritaria (o immigrazione) determinerà un incremento dei quartieri misti, che può essere presentato alla stregua di un incentivo per l'armonia sociale, a prescindere dal fatto che i nuovi arrivati si integrino o meno. Così è accaduto in Gran Bretagna. I tanto decantati matrimoni misti erano soprattutto tra immigrati e non tra discendenti di immigrati e discendenti di nativi, come affermarono gli stessi autori dello studio. I «cristiani bianchi», come venivano descritti gli inglesi autoctoni, tendevano a non sposarsi con gli stranieri.39 Gli immigrati britannici si lamentavano spesso delle loro scarse occasioni di incontrare europei nativi. Un rapporto del governo britannico pubblicato nel 2001, dopo giorni di violenti scontri tra bianchi e asiatici in alcune città del Nord, riportava una dichiarazione di un britannico di origine pakistana: «Quando tu e io ci saluteremo, me ne andrò a casa e, finché non tornerò la settimana prossima, non vedrò più una sola faccia bianca».40 Eppure, le lamentele sempre più mutevoli di numerosi immigrati convinti di essere sistematicamente esclusi dalla vita europea rimanevano spesso inascoltate o venivano liquidate in quanto irragionevoli. Gli europei tendevano a incontrare immigrati nei negozi o nei ristoranti etnici, oppure negli uffici pubblici: situazioni in cui la cortesia può essere comprata anche quando non è autentica. «Come fate a dire di essere esclusi», domandavano gli autoctoni, «se continuiamo a decantare le vostre baklava?» Gli europei più preoccupati per l'isolamento degli immigrati erano quelli che, al pari di Phillips, si erano adoperati in prima persona per favorire l'armonia interrazziale. Chi
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era responsabile di quest'isolamento? Era stato imposto o scelto} Era segregazione o autosegregazione? Colpa dei nativi, razzisti e freddi, o dei nuovi arrivati, pigri e violenti? D'altra parte, la discriminazione sul mercato del lavoro e della casa era oggettiva, per quanto debole al confronto della situazione americana di quarantanni fa. Da alcuni studi condotti in Svezia è emerso che gli stranieri adottati da svedesi, spesso diversi all'aspetto rispetto agli autoctoni, incontravano più difficoltà nella ricerca di un impiego rispetto ai nativi in condizioni analoghe, e che alcuni appartamenti risultavano «liberi» per gli svedesi e «occupati» per i non europei.41 In diversi paesi europei, tra cui la Francia poche settimane dopo l'elezione di Nicolas Sarkozy nel 2007, furono proposte leggi che imponevano, nell'assegnazione degli impieghi, la valutazione dei curriculum vitae a prescindere dal colore della pelle del candidato. Studi simili a quelli svedesi erano stati condotti anche in Francia prendendo però in esame anche i curriculum vitae di persone con cognomi dall'aria musulmana - e avevano rilevato una particolare riluttanza, da parte dei francesi, ad assumere musulmani o a dar loro appartamenti in affitto. E se i fallimenti degli immigrati dimostrano spesso l'esistenza di pregiudizi, i successi non ne provano certo l'assenza. I figli degli immigrati musulmani, al pari degli ebrei americani nell'era industriale, aggiravano i pregiudizi guadagnandosi prestigio professionale. Spesso capita di sentire tassisti arabi o venditori di kebab curdi parlare del «figlio dottore» o della «figlia avvocato». In Francia gli arabi sono molto presenti nelle facoltà di Medicina e di Giurisprudenza, e alcuni tra i dottori più in vista del paese sono figli di immigrati. Stabilire chi fosse responsabile della segregazione era forse importante sul piano morale, ma non su quello pratico. Era un circolo vizioso. Il giornalista Giovanni Di Lorenzo, osservando come le minoranze di terza generazione in Germania si stessero ritirando nei loro «mondi paralleli», scrisse: «L'assenza di qualifiche professionali viene prontamen
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te giustificata con la presunta discriminazione da parte dei tedeschi, e l'aggressività che ne deriva, per esempio da parte dei giovani turchi, produce effettivamente un rifiuto».42 Una volta che le minoranze si trincerano in isole etniche, è difficile invertire il processo, anche nei rari casi in cui la maggioranza della popolazione abbia la volontà e la capacità economica per farlo. In Francia si usa distinguere tra mixité (condizione in cui persone di razza e religione diverse vivono le une accanto alle altre) e sociabilité (situazione in cui si creano relazioni più profonde, persino intime, tra persone di culture diverse). La prima è abbastanza facile da ottenere; come si possa conseguire la seconda rimane invece un mistero. Quando un quartiere della periferia orientale di Helsinki (tra le capitali europee che hanno conosciuto meno immigrazione) si riempì così tanto di somali da guadagnarsi l'appellativo di «Via Mogadiscio»,43 la giunta comunale propose la costruzione di abitazioni di lusso nella zona. La presenza di persone facoltose, però, non attenuò l'isolamento e la disoccupazione dei somali. Non fece altro che sostituire la segregazione tra quartieri con la segregazione all'interno dei quartieri. Gli americani si erano resi conto dell'inutilità di tale pratica già nella fase più avanzata della desegregazione, caratterizzata da infruttuosi programmi di divisione sociale come il pendolarismo forzato degli studenti della scuola secondaria. Gli americani che vogliano comprendere l'impasse nell'integrazione delle minoranze etniche in Europa, soprattutto musulmane, dovrebbero ripensare alla storia delle relazioni razziali e dell'immigrazione nel proprio paese. L'immigrazione americana comporta da sempre un processo abbastanza prevedibile di avanzamento economico e di assimilazione sociale in cui le abitudini del paese d'origine gradualmente si perdono. Le differenze tra i nativi e gli immigrati di seconda generazione sono spesso superficiali e relative, anche quando appaiono profonde e culturali. C'è molto attrito perché c'è molto contatto. Il problema razzia
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le americano, invece, è scaturito dalla mancanza di contatto tra bianchi e neri. Questo non riguarda certo i migranti latini negli Stati Uniti: ha più a che fare con i musulmani in Europa, come vedremo più avanti. La segregazione dei quartieri europei non è solo una conseguenza dei modelli di migrazione, della povertà che viene a contatto con l'opulenza, del Terzo mondo che viene a contatto con il Primo. Le difficoltà che l'Europa ebbe con la prima generazione di migranti di massa non sono nulla rispetto ai problemi creati dagli irlandesi violenti e inclini a delinquere che giunsero negli Stati Uniti nel XIX secolo. Analogamente, le difficoltà che l'Europa creò ai nuovi arrivati sotto forma di pregiudizi furono irrisorie rispetto a quelle che i migranti del XIX secolo dovettero affrontare in America. I problemi dell'Europa sono arrivati più tardi. I figli generati in Europa dai lavoratori ospiti e dai rifugiati finirono per essere visti con molto più sospetto rispetto ai loro genitori, che erano giunti come contadini analfabeti dell'Anatolia orientale, per fare un esempio, o dai monti dell'Atlante. Perché? In occasione di un convegno di esperti di migrazioni tenutosi in Italia nell'estate del 2006, alcuni mesi prima che scoppiassero le rivolte in Francia, un ministro europeo pronunciò ufficiosamente una diagnosi sconfortante. Aveva parlato delle prospettive di integrazione degli immigrati con un collega di un paese dove l'immigrazione di massa era un fenomeno più antico. «Era molto pessimista», disse il ministro. «Secondo la sua esperienza, nei quartieri difficili la seconda generazione è peggiore della prima e la terza ancora peggiore della seconda.»44 L'Italia non aveva ancora incontrato problemi con gli immigrati di seconda generazione solo perché - temeva il ministro questi andavano ancora alla scuola elementare. Se l'Italia era uguale agli altri paesi europei, avrebbe imboccato la strada opposta rispetto al modello americano. Generazione dopo generazione, i figli degli immigrati avrebbero fondato più, non meno, insediamenti,
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sviluppato più, non meno, sentimenti separatisti e preteso più, non meno, concessioni dallo stato. E fu a questo punto che entrò in gioco l'islam.
Spazi della sharia Il problema della formazione di società parallele riguardava più i musulmani che le altre comunità di immigrati. Nel 2004 i Renseignements Généraux, i servizi segreti francesi, condussero un'indagine su centinaia di quartieri a forte presenza musulmana, riscontrando una ghettizzazione di carattere religioso in metà di essi.45 Che l'islam fosse la causa o solo un fattore estremamente grave di tale separazione, fatto sta che gli europei - compresi i musulmani che vivevano tra loro - avevano cominciato a pensare all'islam come alla religione dei ghetti del continente. Anche prima dell'I 1 settembre 2001 i telegiornali europei parlavano quasi tutte le sere delle ambizioni di predominio globale dei musulmani. Non appena risultò chiaro che alcuni immigrati intendevano diffondere culture straniere in terra europea, l'immigrazione - soprattutto quella musulmana - cominciò a essere vista sotto una luce diversa, ovvero come un progetto di annessione territoriale. La creazione di istituzioni musulmane era fonte di preoccupazione a prescindere da quanto innocenti fossero i loro fini o pacifici i loro comportamenti. Nel 2005 il giornalista inglese Rod Liddle vide delinearsi un primo abbozzo di stato musulmano in Europa. Scrisse che c'erano già diverse «città e metropoli, da Rennes, al Sud, passando per Lilla, Bruxelles, Anversa, Zeebrugge, Rotterdam, Brema, fino ad Aarhus, in Danimarca, all'estremo Nord, dove la popolazione musulmana si avvicina o supera il 20% del totale (e in alcuni casi costituisce addirittura la maggioranza) ».4h Il problema non stava nel fatto che i giovani musulmani si mostravano troppo lenti ad assimilare la cultura europea,
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bensì nella loro progressiva de-assimilazione. Nel 2002 un imam di Roubaix, in Francia, si rifiutò di incontrare Martine Aubry, sindaco di Lilla ed ex ministro del Lavoro, nel proprio quartiere, dicendo che era territorio musulmano e che sarebbe stato haram (impuro) accoglierla proprio lì. Ad Aubervilliers, paesino appena a nord della Parigi périphéri- que (ormai così densamente popolato da nordafricani e musulmani che molti bambini il venerdì stanno a casa da scuola per prepararsi alle preghiere), il consiglio comunale decise di introdurre nelle piscine pubbliche orari per soli uomini o sole donne, in ossequio al pudore delle donne musulmane.47 Nella città di Dreux, in Normandia, e anche in Danimarca, scoppiò un putiferio perché nelle mense scolastiche non veniva servita carne halal.m II quartiere residenziale di Rosengàrd, nella periferia di Malmò, si trasformò con una velocità allarmante. Il 90% delle donne portava il velo (persino quelle che prima di arrivare in Svezia non lo indossavano e le loro figlie nate in Svezia).49 Rosengàrd non era un luogo pericoloso sul piano della criminalità e del consumo di stupefacenti, almeno non in prima battuta. Era inquietante dal punto di vista politico, perché era diventato un luogo assolutamente non svedese. Alla fine ci furono scontri con la polizia. Nel dicembre del 2008 vi furono per diverse sere gravi sommosse, con tanto di molotov e bombe artigianali. In tutta Europa molta gente notò l'evolversi di «società parallele» o, addirittura, di «colonie etniche», come le chiamò l'etnografo turco-tedesco Rauf Ceylan. I figli degli immigrati non sempre erano convinti della superiorità della cultura europea - con il suo individualismo, il suo consumismo e la sua sfrenatezza sessuale rispetto a quella dei loro genitori. Grazie alla televisione e agli aeroplani, è ora generalmente facile, per la prima volta nella storia della migrazione transcontinentale, per gli immigrati e i loro discendenti tornare alle tradizioni ancestrali. A mezzo secolo dall'inizio dell'immigrazione turca in Germania - osservò
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Ceylan - nei caffè, nelle moschee e nei negozi di parrucchieri di Neufeld, vicino a Duisburg, tutù continuavano a parlare turco, persino i giovani nati in Germania. I locali frequentati dagli uomini erano divisi per appartenenza politica, e la politica che li divideva era quella della Turchia, non della Germania.50 Ecco perché gli europei autoctoni cominciarono a essere turbati da cambiamenti che in un qualsiasi contesto americano - e un tempo anche europeo - sarebbero parsi come comportamenti del tutto naturali da parte di immigrati. Una sala da tè pakistana situata in una zona ostile agli estranei (per esempio, una via segregata di Oldham) riveste un significato culturale diverso rispetto a una sala da tè pakistana inserita in un contesto multiculturale (per esempio, alla stazione londinese di Liverpool Street). Una volta che la comunità si rinchiude in sé stessa, solo chi è pakistano è in grado di «ricavarne» qualcosa. Il loro quartiere fa pensare più a un territorio occupato piuttosto che a un arricchimento multiculturale. E se la comunità è sempre più religiosa (come nella maggioranza dei casi), ecco che esso diventa uno spazio non solo di separatismo, ma di sharia, argomento che tratteremo nel Capitolo Otto. L'apertura di un Franprix halalche non vendeva alcol nella banlieue relativamente ricca di Evry, a sud di Parigi, sollevò talmente tante proteste che il locale dovette chiudere immediatamente. Gli europei erano allarmati, soprattutto, dalla costruzione di moschee. Il significato a lungo termine di tali edifici era evidente. Non erano punti di riferimento provvisori per la generazione successiva, che si sarebbe inevitabilmente europeizzata. No, quella era una dichiarazione d'intenti: gli immigrati volevano vivere - almeno relativamente a un aspetto della propria vita, e forse il più importante come da tempo immemorabile avevano fatto nei loro paesi d'origine. Certo, la creazione di istituzioni religiose è un momento prevedibile e usuale della vita degli immigrati, eppure i residenti nativi di Amsterdam Ovest, Monaco e Colonia - do
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ve la costruzione di una moschea ha scatenato battaglie civili — non erano dello stesso avviso. Lo stesso complesso della moschea di Duisburg/Marxloh, candidata a essere la più grande della Germania, incontrò resistenza, nonostante fosse un modello di istituzione religiosa moderna, con i suoi bravi membri dell'alta borghesia e i milioni di euro stanziati dall'Unione Europea e dalla municipalità. La richiesta di un minareto alto trentaquattro metri fu approvata, ma non il richiamo settimanale del muezzin.51 La rete televisiva ZDF si mise a fare del sensazionalismo, dichiarando che da quel momento in poi i tedeschi avrebbero dovuto imparare il turco per aggirarsi nel quartiere di Marxloh.52 La grande moschea moderna ideata con l'obiettivo di portare la comunità turca musulmana nell'era moderna suscitò molta più preoccupazione di quanto non avessero fatto le altre quarantaquattro moschee della città, nonostante queste fossero nascoste in garage, scantinati e stradine appartate e, in alcuni casi, guidate da integralisti islamici. Il motivo era ovvio: la grande moschea significava che l'islam si era insediato stabilmente in Germania.
Violenza, criminalità e rivolte La relativa violenza dei quartieri musulmani era forse l'ostacolo principale sulla via dell'integrazione e dell'inserimento sociale. Gli immigrati erano responsabili di una notevole parte dei crimini commessi in tutti i paesi europei, e in alcuni di questi addirittura della maggior parte. Il 26% dei detenuti nelle carceri svedesi è costituito da cittadini stranieri. Tra coloro che devono scontare pene più lunghe di cinque anni - inflitte in Svezia solo per crimini gravi come traffico di droga, omicidio e stupro - all'incirca la metà è composta da cittadini stranieri, escludendo i nati all'estero divenuti svedesi.53 Tra gli immigrati, i musulmani erano particolarmente inclini alla violenza. Secondo il sociologo
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Farhad Khosrokhavar, l'islam è ormai «probabilmente la prima religione nelle prigioni francesi».54 Benché sia difficile stabilire cifre precise, i musulmani costituiscono il 50% dei detenuti in molte carceri francesi, e fino all'80% in quelle ubicate nei pressi delle banlieues. Un dirigente carcerario stima che a Torino i detenuti siano per il 45% stranieri (marocchini, tunisini, algerini e albanesi sono ai primi posti) e questo tasso è al di sotto di quello nazionale italiano (47%).55 L'enorme afflusso di rumeni negli scorsi decenni è stato al centro di accese controversie politiche, ma in privato si parlava spesso di nordafricani. «Quando in Italia viene commesso un reato», raccontò un giornalista nel 2006, «si sente spesso dire: "Sarà stato un marocchino".»56 La violenza teneva gli europei alla larga dai quartieri degli immigrati con l'efficacia di un recinto elettrico. Questi luoghi sono colonie etniche, nel senso più letterale della formula di Ceylan. Benché si tratti di territorio europeo de jure, sono posti in cui gli europei sentono di aver perso il loro «diritto di passaggio». «Silenziosi e nauseati, i nativi si stanno allontanando», scriveva l'ex ministro conservatore George Walden nel 2006, «e intorno a noi si delineano i confini di mini-stati etnici.»57 Le rivolte scoppiate nelle banlieues parigine nell'ottobre del 2005 furono l'episodio di violenza civile più grave e diffuso che l'Europa occidentale avesse conosciuto da decenni. Il 27 ottobre, due adolescenti di Clichy-sous-Bois, Zyed Benna e Bouna Traoré, credendo (erroneamente) di essere inseguiti dalla polizia, si introdussero in una zona recintata contenente un trasformatore d'energia e rimasero fulminati. Quella notte furono bruciate decine di auto in segno di protesta. Nei giorni successivi la protesta divampò in tutto il paese e persino in altre nazioni europee. Furono due settimane di devastazioni, tra auto bruciate, vetrine infrante e gesti minacciosi copiati dai video hip-hop a beneficio delle telecamere. La rivolta toccò tutte le città medio-grandi della Francia. Furono bruciate 8000 automobili e arrestate
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2900 persone. Fu un'esplosione che molti studiosi delle banlieues (la maggioranza, anzi) avevano previsto. Storicamente la Francia è stata meno soggetta alle rivolte razziali rispetto alla Gran Bretagna, per esempio, che aveva alle spalle decenni di violenze su base etnica, a partire dalle aggressioni di razzisti bianchi ai danni di immigrati caraibici a Notting Hill alla fine degli anni Sessanta. Da allora, la Gran Bretagna ha assistito ad almeno una decina di rivolte a sfondo razziale lanciate da minoranze etniche. Negli anni Ottanta si verificarono alcuni gravi episodi di rivolta a Bradford, Bristol, Brixton e Broadwater Farm. Nonostante in Francia ci fossero state meno esplosioni di violenza, nelle banlieues lo scontento è sempre stato dilagante. Nel 1981 e nel 1990 c'erano state rivolte scatenate nei quartieri popolari di Lione dai beurs, come venivano chiamati gli arabi francesi. Ogni Capodanno, a Strasburgo, venivano bruciate centinaia di auto a opera di giovani teppisti. Per una strana coincidenza, il giorno prima che la morte di Benna e Traoré scatenasse le rivolte, l'allora ministro degli Interni Nicolas Sarkozy aveva dichiarato che quell'anno erano state distrutte 9000 auto della polizia, in media venti-trenta al giorno.58 Nel 2005 c'erano stati duecento casi di rivolte isolate in vari luoghi della Francia. Chi erano i rivoltosi? Erano forse ammiratori della cultura maggioritaria francese, frustrati dalla propria impossibilità di accedervi su un piano di parità? Oppure aspiravano solo a distruggere una società che disprezzavano, per la sua tendenza a escludere, per la sua ipocrisia e la sua debolezza? A differenza delle rivolte razziali scoppiate negli Stati Uniti negli anni Sessanta, e anche di quelle studentesche del 1968, questo tipo di violenza che esplodeva di tanto in tanto non produceva leader né movimenti, né sistemi di pensiero che osservatori esterni avrebbero potuto accettare o deplorare, né domande a cui dare risposte costruttive.59 A distanza di anni, l'opinione pubblica francese non aveva trovato il minimo accordo neppure sui motivi delle rivolte.
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Nelle discussioni polidche o sui media si tendeva ad afferrare la prima spiegazione disponibile: le rivolte nei quartieri poveri erano solo una risposta al razzismo ufficiale e a qualche forma di esclusione. Non era chiaro, tuttavia, in quali modi questo presunto razzismo si fosse concretizzato. Le spiegazioni erano fondamentalmente due.60 La prima era che le autorità francesi trascuravano le banlieues, ipotesi improbabile in un paese che stanziava l'I,9% del PIL per le case popolari. La seconda era la violenza della polizia, ancora meno probabile. Centinaia di video girati durante le rivolte del 2005 rivelarono ben pochi casi di eccesso di zelo, e ancor meno di violenze gratuite, da parte delle forze dell'ordine. In centinaia di migliaia di ore lavorative passate ad arginare le violenze e le devastazioni, non è stato ucciso un solo ragazzo riottoso. Le accuse alla polizia avevano un che di convenzionale. Il magistrato di sinistra Jean de Maillard, dopo l'ennesima ondata di rivolte nel dicembre del 2007, disse che alcune banlieues erano diventate zone di non-diritto, e non perché la polizia fosse più debole sul piano militare, bensì perché i residenti resistevano a qualsiasi intervento della polizia, anche il più moderato. Pensare di poter placare i ghetti con interventi più morbidi da parte delle forze dell'ordine era una pia illusione, scrisse de Maillard: non si possono utilizzare i vigili urbani in una società tanto malata e lacerata e i cui membri si ribellano apertamente contro di essa. La polizia è un mezzo, non un fine. [...] La polizia non è più considerata legittima in queste banlieues [...] e non può più esercitare il minimo controllo senza provocare piccole rivolte ed essere tacciata di razzismo.61
Che la polizia fosse divenuta più violenta era improbabile, mentre era indubbio che le strade della Francia fossero divenute più pericolose. Nel 2002 le statistiche dell'Unione Europea rivelarono che in Francia si registravano annual
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mente 4244 reati ogni 100.000 residenti, dato superiore persino ai tanto disprezzati Stati Uniti.62 Ribadisco che molti, se non la maggior parte, dei crimini venivano commessi dalle minoranze di immigrati e dai loro figli. Probabilmente non è stato un caso se proprio nel 2002 il Fronte nazionale di Jean-Marie Le Pen, partito di stampo fascista, è riuscito a raggiungere il ballottaggio alle elezioni presidenziali, scalzando i socialisti come secondo partito. Il trionfo dei reazionari inclini ad alimentare la paura della gente fu attribuito più spesso all' insécurité - nuovo eufemismo ufficiale piuttosto che alla criminalità. In Francia e altrove i politici tendevano a privilegiare il termine «insicurezza». Questa indicava la percezione della criminalità, e l'implicazione sottintesa era che la gente percepiva più criminalità di quanta ce ne fosse in realtà. Ciò che i dati statistici attestavano in modo inequivocabile veniva fatto passare per una fissazione della viziata classe medio-borghese. Se ¡'«insicurezza» per il crimine era il problema, allora andava incolpato non chi lo commetteva, ma chi lo riportava, la gente comune. Negli anni precedenti le rivolte, le librerie francesi erano piene di titoli che alimentavano e al contempo liquidavano i timori legati alla criminalità: Violenza e insicurezza: fantasia e realtà nel dibattito francese, o Punire i poveri: il nuovo governo dell'insicurezza sociale.63 Anche nelle critiche rivolte alla retorica dell'allora ministro degli Interni Nicolas Sarkozy si celava un'analoga tendenza. Mentre si trovava in visita ad Aulnay-sous-Bois, il 31 ottobre 2005, all'apice delle rivolte, a una madre che da una finestra lo pregava di fare qualcosa con la «marmaglia» (racaille) che stava terrorizzando il quartiere, Sarkozy promise che se ne sarebbe occupato, usando a sua volta la parola racaille. Intervistati alla TV, molti giovani delle banlieues dissero che il motivo principale del loro malcontento erano le dichiarazioni di Sarkozy, che pure aveva parlato quando le rivolte erano in corso già da quattro giorni. I giornali di lingua inglese in tutto il mondo crearono ulteriore confu
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sione traducendo il termine racaiUe con scum, ossia «feccia», benché né il dizionario Larousse64 né il Robert65 traducano così l'antico lemma francese imparentato con l'inglese ra- scal, «mascalzone». Il termine scum faceva apparire le dichiarazioni di Sarkozy disumane, di una spietatezza nazista. C'era un desiderio quasi disperato di ricondurre le rivolte a qualche comportamento sbagliato da parte della società maggioritaria. Perché nel caso non fosse stato possibile spiegarle in questi termini, allora non rimaneva che ricondurle a un più vasto obiettivo dei rivoltosi. E tirare in ballo gli obiettivi dei rivoltosi significava, ancora una volta, tirare in ballo l'islam.
Le rivolte delle banlieues e l'islam Tenendo conto dell'origine nordafricana di buona parte degli immigrati francesi, della presenza militare occidentale in Iraq e in Afghanistan e della paura del terrorismo jihadi- sta diffusa in tutti i paesi europei, era naturale chiedersi se i rivoltosi non stessero imboccando la strada del fondamentalismo. Nel 1995 dalle banlieues francesi era partita un'ondata di attentati islamisti:66 Khaled Kelkal, un giovane simpatizzante del Gruppo islamico armato (GIÀ) algerino proveniente dal quartiere lionese di Vaulx-en-Velin, aveva messo una bomba su un treno a Parigi e in una scuola ebraica di Lione. Al momento delle rivolte del 2005, altri lionesi furono deportati a Guantànamo perché sospettati di terrorismo e legami con al-Qaeda. L'islam sembrava rivestire un'importanza centrale per i ribelli. Il 31 ottobre le sommosse, che pure parevano ormai alla fine, tornarono a divampare in seguito all'esplosione di una bomba lacrimogena vicino a una moschea di Clichy, che fu interpretata come una profanazione.67 Nel tentativo di pacificare gli animi, la polizia chiese scusa ai leader musulmani e a quanto pare, su richiesta degli
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imam locali, si ritirò persino dai quartieri. Ovunque, a Cli- chy, si sentiva invocare: «Allah akhbar!». La maggioranza degli osservatori cercò di spiegare le rivolte prescindendo dall'islam: il fatto che i ribelli fossero musulmani, sostenevano, non significava che si trattasse di rivolte musulmane. Forse non erano musulmani arrabbiati, bensì solo poveri arrabbiati che per puro caso erano anche musulmani. L'International Crisis Group (ICG), pur ammettendo la presenza di forti elementi islamici, dichiarò che quanto più le rivolte sembravano islamiche, tanto meno lo erano. «Paradossalmente», spiegò l'iCG, «è proprio l'indebolimento dell'islam politico, più che la sua radicalizzazione, a spiegare questa violenza prevalentemente musulmana, e quel che dovrebbe inquietarci è soprattutto la depoliticizzazione dei giovani musulmani, anziché la loro presunta riorganizzazione in senso fondamentalista.»68 Queste tesi non convincono. Le conclusioni dell'lCG si basavano su definizioni parziali. Per «islam politico» 1ÌCG intendeva l'islam politico ufficiale, così come viene definito dai burocrati francesi: gli imam locali vecchio stampo in carica da molto tempo; l'Unione delle organizzazioni islamiche francesi (UOIF), legate alla Fratellanza musulmana; gruppi antirazzisti finanziati dal governo; e varie organizzazioni che avevano partecipato al Consiglio francese sulla fede musulmana (CFCM) promosso da Nicolas Sarkozy nei primi anni di incarico come ministro degli Interni. Queste organizzazioni, in effetti, non furono in grado di ottenere il favore dei giovani dei ghetti né di controllarli durante le rivolte, perché i giovani si erano orientati verso altre identità. Invece, erano proprio quelle identità verso cui i giovani del ghetto si erano orientati - anomiche, moderne, individualiste mutuate dalla TV ciò a cui la maggioranza dei francesi pensava quando sentiva parlare di «islam politico». I giovani simpatizzavano con la jihad, ammetteva il rapporto dell'lCG. Erano sostenitori agguerriti della causa araba in Iraq, Afghanistan e Palestina. Abbracciavano una versione autodi
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dattica del fondamentalismo che gli autori del rapporto chiamarono «salafismo shaikista». Leggendo le tre raccomandazioni urgenti che l'iCG fece alle autorità francesi - fermare la repressione della polizia, incentivare la partecipazione politica dei musulmani, affrontare il problema del malcontento dei rivoltosi sulla Palestina e l'Iraq -69 non si ricava l'impressione che l'islam politico non c'entrasse nulla con le rivolte. Forse l'iCG stava cercando per le sommosse una motivazione religiosa, anziché sociologica. La religione, però, non si esaurisce nella teologia, e questi gangster delle banlieues ossessionati dalle loro sneaker non si interessavano granché di dispute teologiche. Una religione può proiettare un'«ombra» di alleanza comunitaria che, in apparenza, non ha nulla a che vedere con le dottrine religiose. Forse è vero che i giovani non attaccavano i nemici della religione musulmana, ma attaccavano i nemici (secondo loro) del popolo musulmano. Se anche non credevano nell'islam, credevano nella «squadra» dell'islam. Questo fenomeno non dovrebbe sorprendere gli occidentali. Non è tipico solo dell'islam. Come il filosofo Alain Finkielkraut spiegò nelle settimane successive alla rivolta, «la religione è rilevante non in quanto religione, bensì come fondamento di identità. La religione che compare su Internet e sulle televisioni arabe serve da fondamento d'identità per alcuni di questi giovani».70 Le opinioni di Finkielkraut non erano molto lontane da quelle dell'International Crisis Group. Lui, però, aveva scelto di vedere i ribelli come agenti storici anziché come vittime di una società disumana. A suo avviso, quei giovani bruciavano scuole e istituzioni statali non perché fossero stati discriminati da una società insensibile, bensì perché intendevano attaccare le scuole e le istituzioni statali. «Anziché sentire quello che dicono - "In culo a tua madre!", "In culo allo Stato!", "In culo alla polizia!" - noi li ascoltiamo», disse Finkielkraut. «Ossia interpretiamo i loro
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appelli all'odio come richieste d'aiuto e i vandalismi nelle scuole come richieste di istruzione.»71 La distinzione tra protesta e rivolta è spesso vaga. All'inizio del 2007 Angelo Hoekelet, immigrato congolese trentaduenne senza fissa dimora con lunghi trascorsi penali, aggredì due agenti che l'avevano fermato alla Gare du Nord di Parigi perché viaggiava senza biglietto.72 Hoekelet si mise a urlare per chiedere aiuto, e decine - e alla fine centinaia - di giovani si radunarono urlando e intonando slogan, galvanizzati da racconti ingigantiti trasmessi di cellulare in cellulare. Ne seguì una piccola rivolta che durò fino a notte fonda, tra incendi, saccheggi, vetrine infrante e cartelloni pubblicitari distrutti da giovani armati di spranghe. I rivoltosi intendevano attaccare la Francia e i suoi simboli: «Nell'istante in cui un agente o poliziotto ferma qualcuno», dichiarò un leader sindacale della polizia dopo l'episodio, «la folla non cerca di capire che cosa stia succedendo e se la prende con l'uniforme».73 Quando Hoekelet fu arrestato, qualcuno tra la folla prese a urlare, come era ormai normale in simili circostanze: «Nique laFrance!» («In culo alla Francia!»). Queste persone, sempre che si tratti di non cittadini, dovrebbero essere messe sul primo aereo in partenza per il loro paese d'origine? Dipende dal significato che si attribuisce all'espressione «in culo alla Francia!». Potrebbe trattarsi di una legittima lamentela, ammessa dalla costituzione, benché formulata con poco decoro, ma anche di un incitamento alla rivolta contro la Francia. Potrebbe esprimere un senso di delusione, ma anche inimicizia.
Tribalismo, ideologia ed escalation L'analisi delle rivolte proposta da Finkielkraut era corretta. Si rivelò anche straordinariamente coraggiosa, perché le sue opinioni risultarono intollerabili per alcuni guar
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diani dell'opinione pubblica francese. Le rivolte, a suo avviso, erano un prodotto delle aspirazioni, più che delle recriminazioni dei ragazzi dei ghetti, di un'ideologia nata all'interno del ghetto più che di una reazione all'oppressione. Così facendo, mise in discussione l'idea secondo cui la violenza etnica scaturirebbe sempre dall'ingiustizia sociale e dal razzismo. Simili rivolte si erano in effetti verificate poco prima in contesti in cui sarebbe stato impossibile invocare il razzismo da parte dei nativi, dato che i bianchi erano del tutto assentì. Pochi giorni prima che dilagassero le rivolte delle banlieues, nel quartiere Lozells di Birmingham, dove asiatici musulmani e neri caraibici coesistevano da molti anni in un clima di tensione, c'erano state due notti di scontri sanguinosi.74 Alcuni negozianti pakistani avevano infranto una legge non scritta vendendo prodotti che attiravano acquirenti caraibici, danneggiando così gli affari dei commercianti caraibici. Sulle stazioni radiofoniche e sui siti web dei neri si era sparsa la voce - senza il supporto della benché minima prova - che una quattordicenne caraibica sorpresa a rubare in una profumeria pakistana era stata violentata da un gruppo di diciannove musulmani a mo' di punizione. Che i fatti non fossero veri non impedì a «The Voice», principale giornale nero della Gran Bretagna, di titolare in apertura: «Adolescente violentata da 19 uomini».75 Per le strade cominciarono a radunarsi bande armate, e un giovane caraibico fu accoltellato a morte da alcuni pakistani. E altamente improbabile che il movente generale fosse il razzismo, a meno che non si voglia generalizzare il termine fino a privarlo di qualsiasi significato. Se qualcuno avesse svolto un'indagine tra i neri e gli asiatici di Birmingham chiedendo loro se fossero a favore di una Gran Bretagna dove, in base al colore della pelle, la gente potesse essere o fare solo determinate cose, entrambi i gruppi avrebbero in larga maggioranza risposto
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di no. In questo caso erano in gioco gli interessi contrastanti di tribù reciprocamente diffidenti. Le rivolte tendono a dilagare. Milioni di francesi della classe media che fino al 2005 avevano sostenuto politiche di tolleranza nei confronti delle banlieues, finirono per appoggiare l'assunzione di poteri speciali da parte dei governi. Centinaia di giovani che appena prima delle rivolte dei ghetti non erano in grado di preparare bombe molotov si distinsero come esperti leader paramilitari.76 Negli ultimi giorni del 2007, a Villiers-le-Bel, tra le comunità che due anni prima erano rimaste relativamente tranquille, un marocchino quindicenne di nome Moushin Souhelli e il suo amico senegalese Larami Samoura, di 16 anni, mentre viaggiavano a settanta chilometri orari a bordo di un motorino andarono a schiantarsi contro un'auto della polizia e rimasero uccisi. Stavolta gli scontri raggiunsero l'apice della violenza in sole quarantott'ore. Nel giro di una notte furono incendiate cen- totrentotto auto e feriti ottantadue poliziotti, molti per mezzo di armi da fuoco. Il giorno seguente, per riportare l'ordine nel quartiere fu necessario il dispiego di mille poliziotti pesantemente armati. «Qui vivono intere popolazioni che non sentono più di appartenere a questo paese», disse il socialista francese Malek Boutih, segretario per le Questioni sociali ed ex presidente di SOS razzismo.77 Aggiunse che la violenza era in aumento e che avrebbe continuato ad aumentare. L'elemento nuovo e inquietante emerso a Villiers-le-Bel fu che i residenti erano pronti allo scontro con le autorità già prima che i due ragazzini andassero a schiantarsi con il motorino. Avevano accumulato scorte di benzina, e utilizzavano walkie-talkie per tenersi informati sui movimenti della polizia. Una donna raccontò a «Le Monde» che erano «in guerra»78 contro le autorità. Benché non ci siano indizi di intenzionalità nell'operato dei giovani rimasti uccisi, è evidente che i due si consideravano in uno stato di guerra fredda con la polizia. In seguito si scoprì che uno di loro,
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Larami, il senegalese, teneva un blog in cui poco prima dell'incidente aveva scritto: «Sarei felice di morire, ma non ammazzato da uno sbirro».79 I due adolescenti, entrambi cittadini francesi, furono seppelliti rispettivamente in Marocco e in Senegal.80 Per descrivere il tipo di affiliazione dei ribelli fu coniata una formula, nationalisme de quartier, utilizzata anche per spiegare le pratiche di omertà 3 che si stavano sviluppando nei quartieri musulmani d'Europa. L'implicazione era che quel senso di solidarietà che spingeva i ragazzi a devastare le strade era solo una forma particolarmente appassionata di buon vicinato all'antica, in poche parole una manifestazione d'affetto nei confronti dei ragazzi con cui si era cresciuti. In realtà, però, questo ragionamento non regge. Non spiega, infatti, come mai un episodio a Clichy fosse in grado di scatenare rivolte in Bretagna e persino a Bruxelles. Se esisteva davvero qualcosa come il nationalisme de quartier, si trattava di nazionalismo al 99% e di quartiere all'1%. Le identità erano più ampie: politiche o, per essere più schietti, tribali. Ma quali identità? Chi credevano di essere, di preciso, i musulmani europei?
3 In italiano nel testo. [n.d.t.]
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6. UNA CULTURA ANTAGONISTA
Jus soli e jus sanguinis, assimilazione e integrazione - L'illusione della diversità L'islam come iperidentiici - Doppia lealtà - Umiliazione e islamofobia - Musulmani e afroamericani
La lealtà di un individuo a un paese non ha necessariamente a che vedere con la cittadinanza e neppure con il comportamento esteriore delle persone. «La popolazione immigrata non era radicata in questo paese», ribadiva Enoch Powell nel 1968. «Apparteneva ancora alle comunità di casa propria, a occidente e a oriente [...]. Per la stragrande maggioranza [degli immigrati] si è trattato di un semplice trasferimento da una comunità in capo al mondo a un luogo che, per puro caso, era la Gran Bretagna e che avrebbe potuto essere ovunque.»1 Per Powell l'afflusso in massa di stranieri in Europa assomigliava più a una colonizzazione che a una migrazione. Negli anni Novanta era inammissibile esprimere opinioni del genere negli ambienti «perbene». All'epoca, l'ex presidente del partito conservatore Norman Tebbit propose un criterio più blando e bonario per valutare il senso di lealtà dei nuovi arrivati, ossia il loro comportamento o sentimento più autentico durante le partite di cricket tra l'Inghilterra e i paesi d'origine. «A quale squadra tengono?», domandava Tebbit. «E un test interessante: pensi ancora al paese d'origine o a quello in cui vivi? Mi sa che è un bel dilemma.» L'osservazione maliziosa di Tebbit attirò accuse di irragionevolezza che non fecero che rafforzare il suo punto di vista. Il problema del «test di Tebbit» era che moltissimi immigrati - e persino i loro figli - non l'avrebbero mai superato. Nella cittadina olandese di Osdorp, dove viveva una numerosa comunità marocchina, un barista fu assalito da
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urla di sdegno quando tentò di sintonizzare il televisore sull'incontro di qualificazione della Coppa del mondo tra Olanda e Repubblica Ceca, anziché su quello tra Marocco e Tunisia.2 Il 6 ottobre 2001, un mese dopo gli attacchi al World Trade Center, le nazionali di calcio francese e algerina si sfidarono in un'amichevole allo Stade de France, nella periferia nord di Parigi. Migliaia di giovani francoarabi fischiarono la squadra francese e la stessa Marsigliese. In centinaia si riversarono sul campo, interrompendo la partita. «Fischiare la Marsigliese non è reato e neppure cattiva condotta», aveva scritto preventivamente un giornalista di «Libération» sull'edizione di quello stesso giorno. «Rimproverare i giovani francesi e francoalgerini per una cosa simile è come contestare il loro status di cittadini a pieno tìtolo.»3 Secondo l'opinione politica predominante, il test di Tebbit era una prova troppo dura per gli immigrati.
Jus soli e') us sanguinis, assimilazione e integrazione Per buona parte del secondo dopoguerra ottenere la cittadinanza europea era stato relativamente facile. La Gran Bretagna, con grande indignazione di Powell e altri oppositori dell'immigrazione, smantellò un impero di oltre mezzo miliardo di persone senza neppure enunciare criteri chiari per l'assegnazione della cittadinanza. Il Nationality Act del 1948 tentò di farlo istituendo una categoria di soggetti non cittadini, ma grazie a una scappatoia burocratica chiunque fosse in possesso di un «passaporto del Regno Unito o rilasciato dal governo del Regno Unito» era in grado di entrare in Gran Bretagna.4 Poiché i passaporti coloniali erano stati rilasciati dal Regno Unito, la legge aprì le porte della Gran Bretagna a tutti coloro che furono in grado di approfittarne. La cittadinanza europea era attribuita secondo due principi diversi. Lo jus soli (letteralmente, diritto del suolo), pri
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vilegiato in Francia e negli Stati Uniti, prevedeva che chiunque nascesse su un determinato territorio fosse automaticamente cittadino del relativo paese, a prescindere dalla provenienza dei genitori. Lo jus sanguinis (diritto di sangue), di tradizione tedesca, stabiliva invece che il diritto di cittadinanza spettasse solo (e talvolta esclusivamente) ai figli di genitori tedeschi. Pertanto, chi nasceva in Francia da genitori algerini poteva definirsi francese, mentre i figli nati in Germania da genitori turchi non erano tedeschi per legge. Lo jus sanguinis non era illiberale come sembrava;5 traeva le sue origini storiche dalla dispersione geografica e dall'organizzazione politica semifeudale dei Land tedeschi fino alla fine del XIX secolo, e non si ispirava ad alcuna dottrina razziale moderna. A dire il vero, nella Germania del passato lo jus sanguinis era stato più liberale: voleva dire che l'individuo era innanzitutto figlio dei propri genitori e non proprietà del principe sulle cui terre era incidentalmente nato. Tuttavia, nell'Europa del dopoguerra lo jus sanguinis fu preso di mira dai progressisti. Nel 1998 la Germania cercò di rispedire in Turchia Muhlis Ari, un non cittadino quattordicenne che si era macchiato di una serie di crimini violenti (veniva ufficialmente chiamato «Mehmet» per proteggerne l'anonimato). Quando gli avvocati e i parenti di Ari furono in grado di dimostrare che il ragazzino sapeva poco o niente della Turchia e della lingua turca, i giudici gli accordarono inevitabilmente il diritto di rimanere in Germania.6 Lo jus sanguinis stava per essere abrogato. La volontà di sostituire lo jus sanguinis con lo jus soli non si fondava solo su principi etici. Dietro c'erano anche motivazioni pratiche e persino un pizzico di cinismo. Per alcuni dei sostenitori dello jus soli, ridurre al minimo gli ostacoli per l'assegnazione della preziosa cittadinanza europea era di per sé un bene. Per molti immigrati i diritti di pari dignità acquisiti con lo jus soli erano una strada per ottenere i privilegi particolari legati allo jus sanguinis. Potevano scegliere quel che di meglio le due leggi avevano da offrire. In
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base a principi formali, legalitari e «moderni», nel senso più impersonale del termine, per il solo fatto di aver risieduto a lungo su un determinato suolo, o di esserci nato, un immigrato, o figlio di immigrati, otteneva la cittadinanza. Poi, in base ai solenni, mistici e tribali principi premoderni del «sangue», questi poteva rivendicare il diritto di residenza (e in seguito di cittadinanza) per i suoi parenti stranieri. Una delle prime riforme introdotte dal governo di Gerhard Schròder, una volta salito al potere nel 1998, fu proprio quella della cittadinanza, che sancì in larga misura il passaggio allo jus soli. Stabiliva che a partire dal 2009 i bambini nati in Germania da stranieri potessero (e dovessero) decidere, una volta raggiunta la maggiore età, se essere cittadini tedeschi o del loro paese d'origine. Dato che la Germania aveva milioni di «stranieri» sul proprio territorio nazionale, la riforma era tanto impegnativa sul piano burocratico quanto rischiosa sul piano politico. Riclassificare gli stranieri come nativi sembrava un modo semplice per «risolvere» una serie di problemi, sempre che gli elettori non se ne accorgessero. Naturalmente, però, gli elettori se ne accorsero, eccome! A poche settimane dall'approvazione della nuova legge sulla cittadinanza, il Partito socialdemocratico di Schròder subì una serie di batoste alle elezioni per il Bundesrat, tutte causate dalla questione della cittadinanza, da cui non si riprese mai del tutto (almeno fino alla stesura di questo libro, ossia un decennio dopo). La più vasta concessione di cittadinanza della storia recente - ossia la grande sanatoria del primo ministro spagnolo Zapatero che nel 2005 regolarizzò 700.000 clandestini - ebbe conseguenze analoghe. Nel caso spagnolo, l'ostilità non fu indirizzata verso il governo, bensì verso i suoi beneficiari. Indagini condotte un anno dopo la sanatoria rilevarono che i musulmani avevano un'opinione relativamente positiva della qualità dei loro rapporti con gli occidentali non musulmani. Quasi la metà dei musulmani (49%) si diceva contenta dei rapporti con gli spagnoli nativi, a fronte di un
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23% di insoddisfatti. La situazione era più rosea che in Gran Bretagna, dove il rapporto era di 23 a 62, in Germania (29- 60) e in Francia (41-58). Gli spagnoli non musulmani, invece, si dichiararono d'un tratto più ostili ai musulmani del loro paese rispetto ad altri nativi europei.7 Solo il 23% degli spagnoli riteneva di essere in buoni rapporti con i vicini musulmani e l'83% associava l'islam al fanatismo. Il conflitto tra jus soli e jus sanguinis emergeva solo nei momenti di forte immigrazione. Altrimenti, le leggi sulla cittadinanza non suscitavano particolare interesse nei cittadini. Una persona nata su suolo francese, per esempio, aveva la cittadinanza francese. Avrebbe vissuto la sua vita da francese come un autoctono. Sarebbe stata assimilata dalla Francia e dalla cultura francese e sarebbe diventata francese. Che cos'altro avrebbe potuto fare? Prima dell'immigrazione di massa, l'assimilazione era d'obbligo, se non si voleva incorrere nell'ostracismo sociale e nella solitudine. La necessità di assimilarsi non era mai diventata legge solo perché appariva fin troppo ovvia. Così come esistevano due modi per diventare europei secondo la lettera delle leggi (sulla cittadinanza), c'erano due modi per divenire europei anche secondo lo spirito delle leggi (in rapporto all'assimilazione). Esisteva un modello di assimilazione francese, in base al quale gli immigrati avrebbero dovuto riconoscersi nella cultura del paese ospitante; e poi c'era il modello britannico, più multiculturale, che consentiva agli immigrati il mantenimento della cultura d'origine, pur nel rispetto delle leggi della nazione ospitante. In epoca di migrazioni di massa - di masse soprattutto musulmane nessuno dei due modelli si è mostrato particolarmente efficace ai fini del mantenimento della pace e della creazione di posti di lavoro per le minoranze etniche. Tra i politici dei vari paesi era in voga ora il modello francese ora quello britannico, a seconda del tempo trascorso dalle ultime rivolte etniche. Alla fine risultò evidente - tenendo conto del terrorismo, della violenza di strada e delle mobilita
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zioni di massa contro la libertà di parola - che la Gran Bretagna aveva più problemi ad assimilare gli immigrati rispetto a qualsiasi altro paese europeo. A quel punto, però, il modello britannico, che presentava il vantaggio di richiedere il minimo sforzo da parte dei leader politici, aveva trionfato quasi ovunque. Gli immigrati naturalizzati rivendicavano sempre più spesso il diritto di «integrazione» - in sostanza di vivere in Europa da stranieri -, anziché di «assimilazione». I politici aderirono a questo modello, persino quelli che avevano la fama di reazionari e intolleranti, quasi l'integrazione fosse una nuova versione migliorata dell'assimilazione. Il fatto che il termine «integrazione» fosse stato mutuato dalle lotte per i diritti civili negli Stati Uniti sottolinea come l'Europa fosse alle prese con un problema di difficile soluzione (come quello razziale in America) e non in una fase di transizione (come l'immigrazione in America). Gòran Johansson, leader laburista svedese della vecchia scuola divenuto sindaco di Goteborg, era conosciuto per le sue sparate sulle trasformazioni inflitte alla sua città dall'immigrazione. Eppure persino lui disse: «Non mi piace l'assimilazione; preferisco l'integrazione. Sia la Svezia sia gli immigrati devono cambiare». Quando gli fu chiesto di chiarire che cosa intendesse per integrazione, Johansson rispose: «Non mi interessa che uno rispetti o meno la nostra cultura. Basta che obbedisca alle leggi».8 Per forza bisogna obbedire alle leggi, sennò perché esisterebbero? Chiedere agli immigrati di rispettare le leggi equivale a non chiedere loro proprio nulla. Di conseguenza, l'Europa si riempì di ottima gente virtuosa e rispettosa delle leggi, le cui idee di virtù ed eccellenza non avevano nulla a che vedere con l'Europa. Sarfraz Manzoor, giornalista inglese di origine pakistana, scrive: La mia generazione, come quella successiva, continua ad arrovellarsi su quali debbano essere i nostri sentimenti di appartenenza, e questo dopo aver vissuto tutta la vita immersi nella cul
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tura britannica. Gli uomini che sognano di trasferirsi da Laho- re a Leicester, le donne che pregano che un matrimonio organizzato le trasporti dal Bangladesh a Brick Lane non vengono qui perché sentano qualche affinità con quelli che molto vagamente potrebbero essere definiti i valori britannici. Cercano di venire per il semplice fatto che qui si vive meglio che nel luogo d'origine. E un motivo del tutto onorevole e comprensibile, ma è ridicolo ipotizzare che ciò possa avere un impatto unicamente economico sul nostro paese.9
L'idea che dagli immigrati non si dovesse pretendere nulla, neppure la lealtà verso il paese ospitante, a parte il rispetto delle leggi, continuava a essere riproposta in forme diverse, persino - come dicevo - da certi esponenti della cosiddetta «linea dura». Anche Jurgen Rùttgers, il governatore del Nord Reno-Westfalia che si era guadagnato la reputazione di arcixenofobo e per dichiarazioni come quella sugli indiani citata al Capitolo Tre, aveva spesso sostenuto che le società multiculturali non funzionavano in nessun luogo del mondo, si spinse a dichiarare: «Integrazione non è assimilazione. Non è necessario rinunciare alla propria religione, bensì aderire ai nostri valori fondamentali».10 Rita Verdonk, ex ministro olandese per l'Immigrazione che, negli anni successivi all'assassinio di Theo van Gogh (2004), era considerata la più implacabile statista europea, ribadì più volte che il modello olandese è improntato all'integrazione e non all'assimilazione. «Assimilazione significa perdita dell'identità di origine», disse. «La nostra politica è questa: devi imparare la lingua olandese, seguire le nostre norme e i nostri valori e obbedire alle leggi.»11 Nello scorso decennio l'unico politico di spicco che dichiarò pubblicamente il proprio dissenso rispetto a questa visione fu Otto Schily, ministro degli Interni tedesco, conservatore, ex membro della sinistra: «La forma migliore di integrazione», sosteneva lui, «è l'assimilazione».12
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L'illusione della diversità Ogni volta che gli europei si preoccupavano della possibilità di assimilazione a lungo termine degli immigrati, pensavano soprattutto, se non esclusivamente, ai musulmani. In Danimarca, dove la destra, ossia il Partito popolare danese (DF), minacciava di mietere consensi tali da indurre la coalizione governativa a promulgare le leggi sull'immigrazione più severe d'Europa, i leader del DF si sforzarono di far capire alla gente che non tutti gli immigrati costituivano un problema. «Non sono un problema, se si integrano completamente», dichiarò Jesper Langballe, parlamentare del DF e sacerdote, riferendosi ai numerosi tamil residenti nella sua stessa parrocchia dello Jutland. «Il problema è che non si possono integrare grandi comunità di musulmani in un paese la cui base culturale sia il cristianesimo.»13 Rikke Hvil- sh0j, allora ministro danese per l'Integrazione, disse che un'opinione del genere non era insolita in Danimarca. Il paese aveva ricevuto vasti flussi migratori dall'Ungheria nel 1956 e dalla Polonia nel 1968, nonché un contingente insolitamente numeroso di profughi vietnamiti tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta. «Oggi, quando i danesi parlano di immigrati», almeno stando alle sue parole, «non si riferiscono agli ungheresi o ai vietnamiti.»14 L'uomo della strada europeo (l'88% dei tedeschi, per esempio) ritiene che i musulmani vogliano «rimanere diversi»15 eppure tale opinione non trovava alcun riscontro nelle politiche dei governi. Secondo la visione ufficiale, i musulmani assomigliavano in tutto e per tutto agli altri gruppi di immigrati e, benché avessero effettivamente dimostrato una certa riluttanza ad abbracciare la cultura europea, i processi irreversibili della storia erano ormai in corso. A lungo termine, sostenevano i politici, i musulmani non avrebbero potuto costituire una cultura a parte, bensì si sarebbero comportati né più né meno come gli altri immigrati dei secoli precedenti, e questo a causa della diver-
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sita degli orientamenti all'interno dell'islam. L'islam è uno spettro variegato di credenze e culture - arabi e non arabi, sunniti e sciiti, correnti tradizionali e moderne - e questo spettro risulta ulteriormente rifratto per effetto dell'improvviso ingresso dell'islam in Europa. In fondo, che cos'hanno in comune i pakistani di lingua inglese, i marocchini che parlano italiano e i turchi tedeschi? Parlare di «musulmani» in generale era uno stereotipo ignorante, un'illusione ottica. Quello che i francesi avrebbero definito un amalgame. Le differenze tra musulmani sono sicuramente maggiori di quanto sembri. Quartieri che a occhi estranei potrebbero sembrare «pakistani», magari sono pakistani e bengalesi, e i pakistani potrebbero essere suddivisi tra originari del Punjab o del Mirpur.16 Un unico quartiere parigino abitato da algerini immigrati negli anni Sessanta (Ménilmontant, per esempio) potrebbe, in realtà, essere diviso tra arabi e berberi. Un quartiere della Renania abitato da turchi giunti negli anni Sessanta (Marxloh, per esempio) sarà certamente diviso tra sunniti e aleviti, nonché - a livello etnico - tra turchi e curdi. Sensibili a tali distinzioni, molti musulmani non sopportano di essere considerati alla stregua di una massa indifferenziata. «Che cosa intende per "islam"?», domandò un assistente sociale tedesco a un giornalista dello «Stern». «Non esiste un unico islam.»17 La sociologa francese Dounia Bouzar ha scritto un libro dal titolo Monsieur Islam n'exisle pas (Il signor Islam non esiste).w Eppure, tutta questa faciloneria, questa continua sottolineatura delle diversità era incauta. Equivaleva ad affermare che, siccome la Volvo è diversa da una Volkswagen, l'automobile non esiste. Benché l'islam sia effettivamente una realtà variegata, si è attribuita troppa importanza alle differenze. Il fatto che questo mito delle differenze sia divenuto tanto caro agli europei bene intenzionati ha una sua spiegazione: sulla sua base era possibile costruire un'utopia. Se esistono tante forme d'islam, si argomentava, perché non dovrebbe
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esserci anche quella europea, capace di innestare sulla religione non solo la lealtà al nuovo paese di appartenenza dei musulmani, bensì anche il rispetto per i diritti costituzionali, quasi sempre visti come fumo negli occhi all'interno del mondo musulmano? Alla fine degli anni Ottanta il compianto islamologo Jacques Berque propose per primo di sostituire il concetto di islam in Francia con quello d'islam di Francia,19 idea che d'allora in poi divenne popolare, insieme allo slogan, presso burocrati e intellettuali di tutta Europa. Stefano Allievi, probabilmente il maggiore sociologo italiano dell'islam, descrive le generazioni più giovani in cui «l'islam in Italia diventa islam italiano».20 Creare un «islam tedesco» a partire dalla massa di musulmani in Germania è l'obiettivo esplicito della Islamkonferenz promossa dal ministro degli Interni Wolfgang Schäuble nel 2006. In realtà, in Europa è successo l'esatto opposto: dopo una parziale adozione dell'identità nazionale del nuovo paese c'è stato un ritorno all'antica identità religiosa. Il fenomeno è maggiormente pronunciato tra le generazioni più giovani. Nella Francia di Berque, paese che più di ogni altro si è prodigato per addomesticare l'islam, i giovani di origine musulmana si considerano musulmani ancor prima che francesi. Alla domanda su quale fosse l'elemento che meglio li caratterizzasse, un terzo degli studenti musulmani ha risposto che era la religione, mentre meno del 5% dei coetanei di origine francese ha dato la stessa risposta.21 Il giornalista di sinistra Alain Gresh osserva che l'espressione «seconda generazione» non era mai stata utilizzata in riferimento alle generazioni di giovani francesi nati da genitori italiani e polacchi.22 Forse si tratta di un fallimento delle tradizioni di citoyenneté, ma più probabilmente significa solo che - per quanto solide tali tradizioni possano essere - l'attaccamento di questa generazione di musulmani alle proprie tradizioni ancestrali è più forte. La situazione è simile anche in Gran Bretagna. All'inizio del 2007 il think tank Policy Exchange pubblicò uno studio
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inquietante. Da esso risultava che quasi un terzo (31%) dei musulmani britannici riteneva di avere più cose in comune con i musulmani di altri paesi che con i propri connazionali.23 Solo la metà di essi descriveva il Regno Unito come il «mio paese». Il senso di appartenenza alla Gran Bretagna era più forte nella fascia d'età al di sopra dei 45 anni (55%) che tra i giovani compresi tra i 18 e i 24 anni (45%). Un altro indizio di quanto si sentano «british» i giovani musulmani britannici è la loro presenza nell'esercito. Nel febbraio del 2007 le autorità del Regno Unito sventarono un piano messo a punto da un gruppo di musulmani di Birmingham. Questi avevano intenzione di rapire un soldato musulmano britannico e di torturarlo a morte per poi diffondere il video su Internet. Si scoprì poi che il soldato preso di mira era uno dei soli 330 musulmani arruolati nelle forze armate britanniche, numero che non è aumentato neppure dopo una massiccia campagna di reclutamento. Il tasso di arruolamento dei musulmani era di circa venti volte inferiore a quello degli altri sudditi di Sua Maestà.24 In teoria, la Germania avrebbe maggiori possibilità di successo nel costituire quel tipo di islam nazionale che i governi europei affermano di auspicare: e non perché abbia mai mostrato particolare saggezza nelle politiche adottate, bensì grazie all'orientamento della cultura turca da cui proviene la maggioranza dei suoi immigrati. «La gente è orgogliosa della storia della propria modernizzazione inaugurata da Ataturk», scrisse il giornalista Jòrg Lau, «e perlopiù si considera già parte dell'Europa e dell'Occidente».25 Ciò non significa che i turchi siano più desiderosi degli altri gruppi di immigrati di adattarsi alla Germania, bensì solo che hanno meno bisogno di farlo. Per avere un'idea di quale sia il senso di appartenenza più profondo dei turchi, basta vedere dove scelgono di essere sepolti. Tutte le organizzazioni musulmane in Germania dispongono di fondi per la sepoltura (Bestattungsfonds) a cui contribuiscono i membri della comunità. In generale,
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la sepoltura musulmana avviene nel paese d'origine dei sottoscrittori del fondo. Ebbene, stando a una ricerca condotta nel 2000 dal Zentrum fur Tùrkeistudien (Centro per gli studi sulla Turchia), solo il 5% dei turchi prendeva in considerazione l'ipotesi di farsi seppellire in Germania. Il fatto che il 68% sia a favore della costruzione di cimiteri musulmani in Europa - che, tra l'altro, obbligherebbe ad autorizzare l'utilizzo di sudari al posto delle bare - potrebbe essere un segno incoraggiante.26 Il che tuttavia indica che il prezzo da pagare per ottenere un islam più «europeo» sarebbe un'Europa più islamica. Interrogati sull'esistenza o meno di una forma specificamente tedesca di islam, il 68% dei turchi tedeschi risponde negativamente. Sono divisi persino sulla compatibilità tra le leggi dell'islam e le regole della società tedesca: il 52% risponde in modo affermativo, mentre il 46% è di parere contrario.27 Certo, un po' dello stile di vita europeo penetra nella vita culturale dei musulmani residenti. Come potrebbe essere diversamente? La cultura di qualsiasi popolo abbia vissuto in un dato paese per cinquant'anni recherà in sé i segni di quell'esperienza. Tali segni possono riflettere qualcosa di profondo o essere puramente superficiali. Il fatto che la maggior parte degli imperialisti britannici sapesse dire cosa significavano pukka e sahib non li rendeva indiani. Anche in questo caso, come quando si insisteva sulla necessità del rispetto delle leggi da parte degli immigrati, gli europei prendono una cosa ovvia e la presentano come il soddisfacimento di una richiesta. Gli organismi ufficiali sulla cui base sarebbero dovute sorgere le varie forme di islam nazionale - dal CFCM francese alla quasi autonoma Muslim Associa- tion of Britain - sono frutto di un equivoco: non avrebbero rifiutato i fondi stanziati dallo stato, ma un islam nazionale non erano in grado di crearlo, islam de France, deutscher islam, islam italiano... sono semplici slogan, risposte a una domanda che l'islam non pone.
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L'islam come iperìdentità L'islam è sempre stato inteso come identità forte che caratterizza ogni aspetto della vita del credente e riduce all'irrilevanza qualsiasi altro legame di minore importanza. Nel 1883 Ernest Renan scrisse che certe abitudini inculcate dalla fede musulmana «sono talmente forti che qualsiasi differenza di razza e nazionalità scompare di fronte alla conversione all'islam. I berberi, i sudanesi, i circassi, i malesi, gli egiziani, i nubiani, una volta divenuti musulmani, non sono più berberi, sudanesi, egiziani eccetera: sono musulmani».28 Questa non è solo opinione dei detrattori dell'islam, bensì dei suoi aderenti, soprattutto quando cercano di presentare tale religione come motivo di fratellanza e antidoto contro il razzismo e il nazionalismo occidentali. Nel 1964, durante il suo pellegrinaggio alla Mecca, Malcolm X scrisse: È da una settimana che, affascinato e senza parole, osservo la bellezza della gente di tutti i colori che mi circonda. [...] L'America deve comprendere l'islam, perché è l'unica religione che cancella il problema razziale dalla società. In tutti i miei viaggi nel mondo musulmano ho incontrato, parlato, persino mangiato con persone che in America sarebbero state considerate «bianche»; la religione dell'islam aveva però cancellato l'atteggiamento da «bianchi» dalle loro menti. In vita mia non ho mai visto una fratellanza così sincera e autentica tra persone di tutti colori, incuranti del proprio colore. [...] Se i bianchi americani riuscissero ad accettare l'Unicità di Dio, forse riuscirebbero anche ad accettare davvero l'Unicità dell'Uomo e smetterebbero di misurare, ostacolare e ferire gli altri a causa delle «differenze» di colore.29
Inyat Bunglawala, importante attivista del Muslim Coun- cil of Britain, fornì un resoconto contrito - benché sconcertante nella sua franchezza - della sua partecipazione a una dimostrazione a Hyde Park nel 1989 a favore della
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fatwalanciata dall'ayatollah Khomeini contro il romanziere britannico Salman Rushdie: Fu una giornata straordinaria. Eravamo sempre più consapevoli del fatto che, attribuendo più importanza alla nostra identità islamica, avremmo potuto trascendere e superare le divisioni tra noi. Potevamo essere pakistani, bengalesi, gujarati, arabi, turchi, ma la nostra origine era meno importante del motivo che ci aveva condotti lì tutti insieme: eravamo musulmani britannici. Così il romanzo di Rushdie divenne, senza dubbio in modo inconsapevole, il catalizzatore per la creazione di un'identità islamica più forte.30
Quanto alla fatwa, Bunglawala ricorda di esserne rimasto «estasiato». Che sia vero o meno, come affermano Renan, Malcolm X e il giovane Inayat Bunglawala, che l'islam elimina tutte le distinzioni sociali, culturali e nazionali, i tempi sono maturi perché tutte le comunità musulmane d'Europa si coalizzino a formare un'identità unificata. Gli Stati Uniti offrono il migliore esempio di come, nell'era dell'immigrazione di massa, le identità più pìccole finiscano per fondersi con quelle più grandi. L'identità «ispanica» era una categoria in larga misura fittizia ai tempi in cui fu inventata dagli autori dei censimenti degli anni Settanta. Il termine «ispanico» designava un'appartenenza linguistica, non sociologica. Era utile come per denotare i flussi migratori verso nord, ma l'«ispanico», in quanto persona, non esisteva. Gli stessi immigrati di lingua spagnola si
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New York, i portoricani e i boliviani che guardano gli stessi programmi della Univisión e i nuovi migranti impiegati in settori come l'architettura del paesaggio e la ristorazione, nei quali lo spagnolo è una sorta di lingua franca. In Europa, quelli che un tempo erano gli interessi di singole comunità hanno cominciato a convergere per formare una cultura musulmana più ampia. Le antenne satellitari costellano gli edifici di quasi tutti i quartieri degli immigrati per captare le notizie trasmesse dai paesi d'origine. Ciò sembrerebbe rivoluzionare il ruolo tradizionale della televisione come strumento di assimilazione degli immigrati, in quanto mantiene aperti i canali di comunicazione con i loro luoghi di provenienza. Per altri versi, però, è vero che la televisione contribuisce all'assimilazione, ma non nella cultura tradizionale europea, bensì nell'islam globalizzato. Il programma settimanale di al-Jazeera in cui il predicatore e studioso musulmano Yusuf Qaradawi emette le sue fatwa, per esempio, è seguito in tutta Europa.31 Solo per il fatto che l'Europa costituisce il principale pubblico per questa nuova cultura islamica online, non è detto che tale cultura sia a favore dell'Europa. Può essere vero il contrario. I siti web musulmani sono prodighi di affermazioni totalmente infondate e dichiarazioni politiche incendiarie, non meno delle loro controparti nel mondo non musulmano. Uno dei paradossi di Internet è che il più moderno dei mezzi di comunicazione ha alimentato modalità di discorso premoderne, basate su dicerie, pettegolezzi, leggende metropolitane, racconti passati di bocca in bocca. Molti giovani palestinesi in Danimarca, perlopiù rifugiati della guerra civile libanese, sono convinti di non avere alcun debito nei confronti dello stato danese per il sussidio statale che ricevono, perché quel denaro sarebbe stato rubato a famiglie come le loro. «Dicono: "Il denaro viene dalle Nazioni Unite"», spiega un esperto dell'integrazione di Copenaghen. «"Lo mandano in Danimarca, e la Danimarca se ne tiene la metà. Per questo non sarò mai fedele allo sta
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to danese."»32 Più della metà (56%) dei musulmani britannici non crede che gli autori degli attacchi dell' 11 settembre 2001 fossero arabi, a fronte del 17% che invece ne è persuaso.33 I musulmani europei finiscono spesso per rimanere invischiati nei problemi antichi e attuali dei loro paesi d'origine, e in quelli di altri popoli. Estremisti addetti al reclutamento di volontari per la jihad all'estero si sono spesso serviti di video corredati da suggestivi basi sonore con immagini di musulmani maltrattati, umiliati, feriti e uccisi in varie zone di guerra; un amico degli autori dell'attentato del 7 luglio dichiarò al «Wall Street Journal» che i quattro «sapevano che i musulmani soffrivano in molte zone del mondo come Iraq, Afghanistan, Palestina ecc.».34 L'idea secondo cui i musulmani sarebbero coloro che soffrono di più al mondo è alla base del sentimento identi- tario di un numero sempre maggiore di musulmani europei. All'indomani del raccapricciante attentato del luglio 2005 nella metropolitana londinese, Imran Waheed, esponente del gruppo radicale Hizb ut-Tahrir dichiarò: «Noi abbiamo molta più esperienza come vittime che come autori di terrorismo».35 A chi alludeva con il pronome «noi»? Di certo non ai britannici. Aggiunse, poi, che fino ad allora la comunità musulmana britannica aveva reagito in modo «estremamente contenuto» al coinvolgimento del Regno Unito nelle guerre in Afghanistan e in Medio Oriente.
Doppia lealtà L'empatia tra musulmani in Europa crea un grave problema potenziale che non esiste all'interno di altre immigrazioni. Poniamo, per esempio, che l'Occidente, in piena guerra fredda, avesse ricevuto un afflusso di massa di migranti provenienti dai paesi comunisti che non sapevano bene da che parte stare.36 Ora sta accadendo qualcosa di si
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mile. Ultimamente, i paesi europei hanno combattuto contro eserciti musulmani in Iraq, in Afghanistan, nei Balcani e in Africa; per non parlare di altri paesi di cultura europea, come gli Stati Uniti e Israele, impegnati in battaglie analoghe. Il politologo di Harvard Samuel Huntington ha dedicato buona parte del suo saggio Lo scontro delle civiltà ai «confini insanguinati dell'islam».37 La sua tesi può essere controversa, ma non è certo campata per aria. Mentre scrivo questo libro, paesi o gruppi musulmani sono in guerra o in una situazione di tregua ostile con ogni civiltà confinante, dalla Nigeria allo Xinjiang. L'empatia tra musulmani europei pone, almeno potenzialmente, un problema: quello della doppia lealtà. A due anni dall'inizio della guerra in Iraq, le autorità francesi avevano già identificato sette musulmani francesi rimasti uccisi per aver preso parte alla resistenza irachena; in campo c'era anche una «brigata britannica» di centocinquanta britannici antibritannici, mentre altri miliziani continuavano ad affluire grazie a reti di reclutamento con base in Belgio.38 Nel caso di Omar Khan Sharif e Asif Mohammed Hanif, la doppia lealtà non costituì solo un problema potenziale, bensì un pericolo chiaro e immediato.39 Sharif era nato e cresciuto a Derby, in una bella villa bifamiliare di mattoni rossi, aveva frequentato per due anni una scuola privata da 10.000 sterline l'anno e studiato alla Kingston University. Hanif, benché nato in Pakistan, era ben radicato in Inghilterra. Eppure assimilarono entrambi il fondamentalismo islamico attraverso la televisione e il computer. Nel 2003 si recarono in una discoteca di Tel Aviv con le loro molto britanniche camicie ben stirate e i loro eleganti pantaloni neri e assassinarono diverse persone in un attentato suicida.40 La loro origine britannica, o almeno il loro passaporto, aveva avuto un'importanza cruciale per la messa in atto del piano. Erano entrati in Israele dalla Giordania, in un punto dove gli europei subiscono controlli meno severi rispetto ai visitatori provenienti dal mondo musulmano.
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Uno studente che aveva conosciuto Hanif e Sharif a Damasco ipotizzò che il loro intento fosse quello di «fuggire dalla desolazione senz'anima della modernità».41 In questo non vi è nulla di non britannico o di non europeo. La storia europea è piena di episodi di «turismo» avventuroso e violento al servizio di ideologie sia nobili sia sadiche, dai tempi delle crociate fino alla guerra civile spagnola. Questi viaggiatori hanno seguito un impulso che lord Byron descrisse in alcune delle sue Stanzas composte nel novembre del 1820, appena prima di partire per la Grecia, dove combatté contro l'impero ottomano. Quando un uomo non ha libertà per cui lottare in patria, che combatta per quella dei suoi vicini; che pensi alle glorie della Grecia e di Roma, e che si prenda un colpo in testa per i suoi sforzi, fare il bene dell'umanità è il cavalleresco fine, che sempre trova un altrettanto nobile compenso; battetevi, dunque, per la libertà ovunque sia possibile, e se sfuggirete alle pallottole e alla forca, sarete nominati [cavalieri.
Omar Abdullah, portavoce del gruppo fondamentalista al-Muhajiroun espresse concetti molto simili nel suo linguaggio da estremista. Giustificò gli attentatori suicidi di Derby dicendo: «Ci sono cittadini britannici che si arruolano nell'esercito israeliano, e quando muoiono nessuno dice niente». Abdullah, in teoria, non ha tutti i torti. La fedeltà a due paesi è sempre potenzialmente problematica. Se dei cittadini britannici si fossero arruolati in una milizia israeliana durante la guerra di indipendenza di Israele nella Palestina ancora sotto mandato britannico si sarebbe giustamente messa in dubbio la loro fedeltà. Ma, per quanto riguarda il mondo di oggi, la tesi di Abdullah è disonesta. E tuttavia sbaglia a livello pratico. I britannici non si arruolano nell'esercito israe-
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liano con l'intenzione di uccidere civili stranieri o di combattere contro la Gran Bretagna, mentre certi fondamentalisti islamici combattono all'estero proprio per questi motivi. «Conosco persone che sono andate in Iraq per cacciare gli invasori», ha dichiarato un esiliato di Birmingham addestrato in Siria a un giornalista britannico. «Io sto dalla loro parte perché l'Iraq è un paese musulmano che è stato aggredito dall'America e dalla Gran Bretagna.»42 E proprio questo a distinguere gli avventurieri islamisti europei dai loro predecessori alla Byron. Laddove il terrorismo non c'entra, la doppia lealtà può essere qualcosa di vago, pericoloso e costituzionalmente corrosivo. Ma le opinioni politiche estreme bastano a giustificare un'accusa di tradimento? Certo che no. E l'adesione a un gruppo estremista? Dipende dal gruppo e dai suoi scopi. Il problema si complica a causa delle sovvenzioni elargite dagli stati più conservatori del Medio Oriente per la creazione di istituzioni islamiche in Europa, spesso con la complicità degli stessi paesi europei. L'Arabia Saudita, dove predomina il wahabismo conservatore, stanzia somme enormi per la costruzione di moschee e altre istituzioni. I sauditi hanno versato cento milioni di sterline per finanziare il controverso progetto di costruzione della più grande moschea d'Europa a East London, in vista delle olimpiadi del 2012.43 In Francia, l'UOIF, il gruppo che racchiude tutte le organizzazioni giovanili musulmane più intransigenti, riceve un quarto delle sue entrate annuali dall'Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti, dal Kuwait e da altri donatori stranieri.44 La grande moschea di Stoccolma fu finanziata a lungo da uno sceicco degli Emirati Arabi Uniti.45 Gli europei si trovano di fronte a un compromesso. Da una parte, il tipo di islam promosso dai paesi del Golfo Persico può essere considerato anti-occidentale e dunque capace di contribuire all'adozione di posizioni più estreme da parte dei musulmani europei. Gli islamologi francesi af
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fermano che l'entità del finanziamento saudita alle istituzioni musulmane europee è in realtà molto sottostimato, perché il denaro stanziato da molti altri governi per finanziare le moschee francesi (l'Algeria, per esempio, sostiene la moschea di Parigi) proviene dall'Arabia Saudita. D'altro canto, l'arrivo di fondi stranieri non ha risvolti solo negativi. In Spagna e in Olanda, alcuni accaniti nemici del fondamentalismo sono favorevoli alle sovvenzioni da parte di stati esteri perché a loro parere è più facile fare pressione sul re del Marocco, per esempio, piuttosto che su un occulto imam carismatico che riceva denaro da fonti sconosciute, come bande criminali o fanatici religiosi. Più complicato, invece, è il caso di quelle organizzazioni non statali che impongono esplicitamente ai propri membri di giurare fedeltà unicamente all'organizzazione stessa. Hizb ut-Tahrir, frangia estremista della Fratellanza musulmana fondata in Giordania nel 1953, mira alla restaurazione del califfato musulmano, abolito nel 1924 insieme all'impero ottomano. I suoi membri giurano solennemente di «mettere in atto qualunque decisione presa dai leader del partito, anche quando non la condividono». Eppure, poiché Hizb ut- Tahrir non autorizza esplicitamente aggressioni agli stati europei, questi ultimi non hanno raggiunto una soluzione comune sulle misure da adottare nei suoi confronti, così come mezzo secolo prima non erano riusciti a mettersi d'accordo sul modo di affrontare la questione delle adesioni al Partito comunista. In Russia e in Germania Hizb-ut-Tahrir è illegale (in entrambi i casi, per via delle sue presunte posizioni antisemite); Olanda, Danimarca e Gran Bretagna hanno preso in considerazione l'ipotesi di bandirla a loro volta; la maggioranza dei paesi europei, però, permette all'organizzazione di operare nella legalità.46 Hizb ut-Tahrir non è l'unico gruppo che si mantiene formalmente all'interno delle leggi occidentali pur eludendone in sostanza lo spirito. La moschea salafista (fondamentalista) as-Soennah all'Aia, sotto l'influenza dell'imam di ori-
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trine siriana Fawaz Jneid, non promuove la violenza e tuttavia incoraggia i suoi membri a prendere le distanze dalle istituzioni occidentali. Alcune donne del gruppo Hofstad, a cui apparteneva l'assassino di Theo van Gogh, domandarono all'imam se avessero o meno il permesso di testimoniare in un tribunale olandese per il caso Hofstad. (La risposta fu affermativa.)47
Umiliazione e islamofobia Gli europei affermavano di aver fatto di tutto per accogliere l'islam, e infatti era vero. Per la prima volta nella storia moderna, le società europee erano disposte ad accettare che alcuni fra i loro residenti - e sempre più spesso anche cittadini - conducessero la propria esistenza all'interno di una cultura straniera. Tale separazione è stata conseguita perlopiù grazie a iniziative private. Un immigrato arabo in Germania, per esempio, poteva essere assimilato dalla «parte araba» del suo nuovo paese multiculturale, nelle «colonie etniche» descritte da Rauf Ceylan. All'Accademia Re Fahd di Bonn, finanziata dall'Arabia Saudita, l'orario settimanale degli studenti prevedeva dodici ore di religione, sei ore di arabo e un'ora di tedesco.48 Le autorità pubbliche approvavano - e persino finanziavano istituzioni separatiste di questo tipo. Mohammed Bouyeri, l'assassino di Theo van Gogh, aveva fatto domanda per un servizio di navetta che gli consentisse di raggiungere il suo circolo giovanile finanziato dallo stato. Aveva insistito affinché le autorità municipali ristrutturassero l'appartamento dei suoi genitori secondo le tradizioni islamiche. Pochi mesi prima di assassinare van Gogh, Bouyeri aveva tagliato la gola a un poliziotto, ricevendo una condanna a dodici settimane di carcere.49 La magnanimità, l'indulgenza e la tendenza a non giudicare dimostrate dai governi euro
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pei, scrisse il giornalista Ian Buruma, suscitava il disprezzo e la tentazione di «mungere lo stato».50 Eppure, nonostante la generosità pubblica e privata, l'Europa ha ricevuto accuse sempre più frequenti di prevenzione contro i musulmani e addirittura di islamofobia. Gli immigrati manifestano spesso delusione nei confronti dell'Europa, e persino la sensazione di essere stati «fregati». Giudicando l'integrazione in Svezia «un completo fallimento», Massoud Ramali, di origine iraniana, influente professore di studi etnici a Uppsala, nel 2005 parlò delle grandi speranze che avevano nutrito tanti immigrati: «Molti di noi vedevano la Svezia come la patria della tolleranza, della solidarietà e della democrazia, per via dell'immagine che questo paese ha all'estero».51 Eppure, proseguiva Ramali, coloro che erano nati all'estero avevano la sensazione di essere tanto più stranieri quanto più a lungo vivevano in Svezia. Come ha osservato Hans Magnus Enzensberger, questo aumento del rancore è parte di un paradosso del progresso liberale. Quanto più una società diviene giusta e ugualitaria e rifiuta il razzismo, tanto più i suoi fallimenti vengono percepiti come umiliazioni. La gente rimane più facilmente delusa52 e va disperatamente in cerca di capri espiatori e alibi di ogni tipo. Ciò accade a livello di singoli individui (quando è l'ego a patire) e in grande (quando le culture perdono prestigio). E mentre molti europei cominciavano a prendere le distanze dal multiculturalismo, tra gli immigrati si diffuse un altro tipo di delusione. L'accoglienza europea fece loro l'effetto di un tranello, di un patto violato. Un aspetto molto allettante dell'Europa era l'idea che gli europei fossero disposti ad accettare gli stranieri così com'erano. E infatti l'Europa aveva fatto proprio questo. Ma rimanendo com'erano, mantenendo la loro identità non europea, gli stranieri avrebbero avuto un accesso solo parziale all'economia, alla civiltà e alle istituzioni per cui avevano deciso di trasferirsi in Europa.
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Anche la transizione dall'economia industriale all'economia dei servizi, pur rendendo più umano l'ambiente di lavoro di molte persone, ha creato nuovi motivi di umiliazione, invidia e risentimento etnico. In passato ci si lamentava spesso di come il lavoro in fabbrica impedisse agli individui di realizzarsi o, per utilizzare la terminologia marxista, di come fosse alienante. Per lo stesso motivo, però, l'economia industriale - e forse soltanto quella - era in grado di assorbire persone di culture diverse senza provocare automaticamente pericolosi conflitti culturali. Le qualità essenzialmente umane di un operaio non erano rilevanti sul posto di lavoro. Un musulmano poteva lavorare fianco a fianco con un cristiano senza problemi e far girare il tornio alla stessa maniera. Di contro, l'odierna economia dei servizi occidentale richiede, sul lavoro, un notevole coinvolgimento personale, servilismo a pagamento e persino una certa intimità; è imperniata su piaceri sensuali e di altra natura. Una famiglia di immigrati residenti in Germania nel 1975 sarebbe stata fiera di avere una figlia dipendente di una grande azienda internazionale come la Siemens. Decenni dopo, la stessa famiglia sarebbe ancora orgogliosa di vedere la nipote impiegata in una grande azienda internazionale come Hooters? Tornando all'osservazione di Huntington secondo cui i musulmani entrano in conflitto con qualsiasi cultura vengano a contatto, o se consideriamo la povertà, l'oppressione, la violenza e la mediocrità delle società musulmane nel mondo... come possiamo spiegarcelo? Delle due, una: o l'islam ha qualche problema intrinseco che gli stessi musulmani dovrebbero affrontare oppure ammettiamo l'incredibile coincidenza che una grande varietà di culture non musulmane nutra esattamente la stessa ingiustificata malevolenza nei confronti dell'islam. Naturalmente, quest'idea piace molto agli immigrati più militanti e ai loro difensori. E a questo che si riferiscono quando parlano di «islamofobia». Verrebbe la tentazione di considerare il termine «islamofobia» come una variante europea dell'affettato gergo
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del «politicamente corretto» americano (inventato per parlare del problema razziale all'epoca della lotta per i diritti civili), usata qui per designare un nuovo tipo di discriminazione, dopo quelle fondate sul genere, sulle preferenze sessuali, sull'età eccetera. Sennonché il termine «islamofobia» è molto più vago. Si riferisce a ogni sorta di cattiva condotta nei confronti dei musulmani, dal razzismo al timore del fondamentalismo musulmano, passando per qualsiasi forma di opposizione a certe tendenze politiche islamiste. Chi accusa gli altri di islamofobia, spesso vuole la botte piena e la moglie ubriaca. Si taccia di islamofobia la riluttanza europea ad approvare l'immigrazione islamica, ma anche qualsiasi discorso sulla necessità di adattamento degli immigrati e dei loro figli allo stile di vita europeo. Alcuni europei ipotizzarono con troppa condiscendenza che la scelta di abbracciare l'identità islamica fosse l'ultima spiaggia per chi aveva un basso livello di scolarizzazione o di specializzazione nel lavoro, ma si sbagliavano. Uno studio condotto in Germania e pubblicato nel 2007 dimostra esattamente il contrario: «I musulmani residenti in zone con un tasso minore di disoccupazione manifestano un senso di identità più forte».53 E non esisteva neppure il problema della riluttanza, da parte dei musulmani, a rinunciare alle proprie tradizioni. Le tradizioni musulmane esercitavano un forte fascino anche sui ragazzi nati in Europa da famiglie che a tali tradizioni avevano rinunciato. Qualcosa li induceva a ritornare alle loro origini culturali, anche quando le loro famiglie risiedevano da talmente tanto tempo in Europa che tali origini erano poco più che parodie, hobby, affettazione, sogni romantici. Le vecchie identità non sembravano scomparire. Erano serbatoi sempre disponibili a cui potevano attingere anche i musulmani di seconda o terza generazione, per qualche ragione scontenti della cultura europea. Il Vecchio continente era pieno di «capi di comunità» musulmane che, pur essendo di origine musulmana, avevano imparato l'arabo
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non in casa, bensì all'università. Da una parte, pareva improponibile, di fronte alla loro decisione di studiare una lingua straniera, insospettirsi più di quanto si sarebbe fatto con un qualsiasi altro europeo desideroso di fare lo stesso. Dall'altra, era difficile non domandarsi se non stessero imparando quella lingua straniera nella speranza di divenire soggetti non europei. Mohammed Sidique Khan, la mente dell'attentato del 7 luglio, parlava con l'accento tipico della zona dello Yorkshire, dove abitava e giocava a calcio con molti compagni di squadra autoctoni che lo chiamavano «Sid». Il suo problema non era la mancata assimilazione, bensì la sua scelta di ^-assimilarsi. Nel caso di Khan era una scelta individuale, di ricerca delle proprie «origini». Ma un senso di alienazione nei confronti della cultura europea non sorge sempre così. In alcune famiglie, il senso di appartenenza non al proprio paese, bensì alla propria religione viene inculcato sin dalla prima infanzia. Un'indagine nelle scuole francesi promossa dal ministero della Pubblica istruzione ha rilevato che: moki studenti francesi di origine nordafricana, persino di seconda generazione, che in certe scuole costituiscono la maggioranza del corpo studentesco, vivono come stranieri all'interno della comunità nazionale. Questi, nell'interloquire con gli altri, individuano sempre due categorie di persone: «i francesi» e «noi». Se un tempo rivendicavano la propria identità araba (che, tra l'altro, non è sempre scontata per i nordafricani), oggi tendono sempre più a proclamare la loro identità «musulmana». L'indottrinamento comincia sin dalle scuole elementari, sostengono alcuni insegnanti. Interrogati su quale sia la loro nazionalità, molti alunni rispondono: «Musulmana». Se qualcuno ricorda loro che sono francesi, loro ribattono che è impossibile, perché sono musulmani!54
L'immigrazione musulmana si distingueva, dunque, da quelle precedenti. Le nuove alleanze nazionali erano negoziabili, reversibili, revocabili e sempre provvisorie. Che di
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pendesse dalla natura senza tempo dell'islam stesso o dai cambiamenti del XXI secolo, fatto sta che l'Europa non era alle prese con un normale problema migratorio, bensì con una cultura antagonista.
Musulmani e afroamericani Abbiamo già sottolineato come l'esperienza dell'immigrazione musulmana in Europa non vada raffrontata con l'immigrazione in America (perlopiù riuscita), bensì con il problema razziale statunitense, tuttora molto grave (nonostante la situazione sia in taluni casi migliorata, a costi peraltro elevatissimi). Non tanto perché le condizioni di vita dei musulmani assomiglino a quelle dei neri dei ghetti americani della fine XX secolo, anche se esistono alcune analogie - come l'uso di stupefacenti, la criminalità, i disordini di strada e l'abbandono scolastico precoce - che generano problemi apparentemente insolubili. Il fatto è che la loro visione di sé sul piano culturale è più simile a quella dei neri americani che non a quella degli altri immigrati. La cultura nera può essere definita «antagonista»: una cultura fondata sulla sfiducia nei confronti di quella dominante e tendente a adottare posizioni antitetiche su quasi tutte le questioni politiche.55 Una cultura antagonista non è necessariamente una cultura «malata» o «fallimentare», come invece affermano certi critici. Al contrario, la cultura nera americana è molto vigorosa per due importanti motivi. Innanzitutto, non è stata scalfita dal ciclone della globalizzazione, sopravvivendo persino al proprio arricchimento (al contrario della contemporanea cultura irlandese, i cui nativi, per esempio, hanno abbandonato le proprie tradizioni non appena hanno potuto permettersi di adottare nuovi stili di vita). In secondo luogo, i suoi prodotti culturali hanno conquistato il mondo. In particolare, i musulmani europei, nei quali hanno suscitato empatia ed emulazione più che in qualsiasi altra po
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polazione mondiale. Un rapper turco, fan di Dr. Dre, Emi- nem e 50 Cent, dichiarò di sentire «una certa comunanza» con i neri americani. «In America si chiamavano schiavi», disse. «Qui, Gastarbeiter.»5(> Ai tempi delle sommosse francesi del 2005, quando gli incendiari con scarpe da basket da 200 euro ai piedi e berretti dei New York Yankees portati dì sbieco comunicavano con le telecamere con gesti copiati dai rapper dei video, mostravano di aver adottato atteggiamenti ormai tìpici di quella che lo storico americano Mark Lilla definisce «la cultura universale dei miserabili della Terra».57 Eppure, malgrado la sua straordinaria coerenza interna e l'influenza globale, la sottocultura dei neri statunitensi rimane la più povera d'America ed è rimasta per secoli in una condizione subalterna. I neri hanno rappresentato un problema culturale per gli Stati Uniti, non una minaccia alla loro cultura. Prima dell'era di Internet, era naturale considerare la sottocultura dei musulmani europei nei singoli paesi ancora meno influente di quella dei neri americani: esiliata, sradicata, divisa al suo interno ed estremamente marginale. Oggi non è più nulla di tutto questo. Una popolazione in rapida decrescita, formata da alcune centinaia di milioni di europei, vive a nord del Mediterraneo, mentre a sud del Mare Nostrum vive una popolazione in rapida espansione, costituita da alcune centinaia di milioni di persone animate da un desiderio apparentemente implacabile di stabilirsi in Europa. Tra queste ultime, per giunta, c'è chi si è votato alla distruzione del continente per mezzo della violenza armata. Si tratterà anche di una parte esigua, ma gli attentati di Londra e Madrid mostrano che è molto difficile stabilire con precisione fino a che punto. Nell'era delle comunicazioni globali, l'islam non appare in alcun modo come una «sotto» cultura. Al mondo ci sono 1,2 miliardi di musulmani, uniti in una umma, o nazione di credenti, mondiale grazie a Internet. Perlopiù è un senso di appartenenza in modo solo formale, ma in qualche caso sfocia in un senso di lealtà sfrenato.
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Poiché i musulmani costituiscono ormai la metà della «nuova popolazione europea», potrebbero divenire una cultura dominante tra gli immigrati in genere, persino tra quelli che non professano la fede musulmana. Potrebbero divenire una Leitkultur, per utilizzare il concetto tedesco di «cultura dominante» in un contesto diverso. I latinoamericani fornirono una simile Leitkultur ai contestatori statunitensi degli anni Ottanta. Che si protestasse contro il Ku Klux Klan o contro l'energia nucleare, lo slogan era sempre lo stesso: «¡El pueblo!/ ¡Unido!/ ¡Jamás será vencido!», cioè in una lingua mutuata da un'altra causa, non compresa né dai dimostranti né dalla gente che difendevano né dai destinatari della protesta. L'analogo fascino esercitato dalle comunità dei ghetti musulmani ha fatto sì che si sviluppasse un linguaggio utile ad arringare gli insoddisfatti. Risulta evidente dai successi ottenuti dagli islamisti nella loro opera di proselitismo tra i carcerati non musulmani.58 Lo si vede anche a livello di bande criminali. La quasi totalità degli attacchi agli ebrei cominciati in Francia nel 2002 furono organizzati da beurs (musulmani francesi di origine nordafricana), che però in molti casi erano stati appoggiati dai vicini africani e caraibici. La banda dei cosiddetti «barbari», una ventina di giovani capeggiati da musulmani che nel 2006 torturarono a morte per tre settimane di seguito, con acidi, coltelli e butano, Ilan Halimi, venditore di telefoni cellulari ebreo, era un miscuglio multiculturale di immigrati recenti dall'Africa e dall'Asia e di una minoranza di nati in Francia.59 A quanto pare, si sta sviluppando una sorta di sistema cuius regio, eius religio a livello di bracci carcerari o pianerottoli.
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7. LA CRISI DELLA FEDE IN EUROPA
Rinascita religiosa - L'islam e i credenti europei - L'islam e i non credenti europei Benedetto XVI: nuove idee su fede e ateismo - Simpatie occidentali per l'islam e conversioni - L'Europa e il suo rapporto con la religione - Organizzazione delle istituzioni religiose - Libertà religiosa = libertà dell'islam - La crisi delle vignette danesi
Alla fine l'islam ha dimostrato di non essere quella reliquia del passato che molti avevano descritto e prefigurato negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, quando i migranti cominciavano ad arrivare. E un forza da tenere in considerazione. Commentatori e politici amano ripetere il luogo comune - quasi si trattasse di una generosa concessione - secondo cui l'islam sarebbe ormai «la seconda religione d'Europa». Alcuni ritengono addirittura che questa affermazione sopravvaluti l'impatto dell'islam sul nostro continente. «E in corso un dibattito sull'ipotesi che i musulmani religiosi costituiscano davvero il 30% della popolazione», dice lo studioso di religioni danese Anders Jeri- chow. «Quelli davvero religiosi sono probabilmente meno dell'1%.»1 In realtà, però, dire che l'islam è la seconda religione d'Europa è riduttivo. Se si tiene conto della determinazione dei suoi seguaci, della sua centralità nel dibattito politico, dei privilegi legali di cui gode in molti paesi europei e della sua capacità di intimidire eventuali detrattori, l'islam non è la seconda religione d'Europa, bensì la prima. In alcuni paesi dell'Europa occidentale, il numero assoluto di frequentatori di chiese e di moschee è simile. In tutti i paesi il tasso di frequenza nelle moschee è più alto. L'inquietudine di molti europei di fronte a quella che, in fin dei conti, rimane una religione minoritaria non è ingiustificata. Forse, alla fine, l'Europa non si trasformerà in un avamposto del
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mondo arabo, come ebbe a pronosticare Bernard Lewis. Tuttavia, è vero che al suo interno esiste una «nazione islamica», piccola, ma in crescita inesorabile.
Rinascita religiosa Nella maggioranza delle comunità musulmane europee l'importanza e il prestigio dell'islam sono in crescita, tra immigrati ricchi e poveri, appena sbarcati dall'aereo o di seconda generazione. I giovani musulmani della classe media non provano imbarazzo nell'ammettere di avere genitori religiosi, al contrario degli europei di uguale estrazione sociale, ma di cultura cristiana. In Francia, l'85% degli studenti musulmani definisce la propria fede religiosa «molto importante», mentre solo il 35% dei non musulmani afferma lo stesso.2 Anche in Germania la religiosità è più diffusa tra gli immigrati musulmani che tra i nativi: 1*81% dei turchi ha alle spalle famiglie religiose, a fronte del 23% dei tedeschi. Non meno rilevanti sono la passione e le certezze manifestate dai musulmani: il 68% dei turchi è convinto che l'islam sia l'unica vera religione, contro un misero 6% di cristiani tedeschi.3 Il 70% dei musulmani europei digiuna durante il Ramadan.4 L'islam è divenuto una fonte alternativa di servizi sociali per i poveri, talvolta più efficiente dello stato. I gruppi delle moschee danno spesso da mangiare agli affamati (come prescrive il fondamentale principio musulmano della zakat), e i programmi «basati sulla fede» per il recupero dei giovani tossicodipendenti dei ghetti vantano risultati di tutto rispetto. Quando gli spacciatori di droga cominciarono a frequentare le strade di Beeston, a Leeds, Mohammad Silique Khan che sarebbe poi salito alla ribalta come capobanda degli attentati del luglio del 2005 nella metropolitana londinese - organizzò un gruppo chiamato «Mullah Boys» insieme a quindici o venti altri pakistani di seconda
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generazione.5 Era una sorta di gang di strada con obiettivi sociali. Una volta identificato un giovane tossicodipendente, Khan e i Mullah Boys, previo permesso dei genitori, rapivano il ragazzo e lo tenevano prigioniero in un appartamento vicino alla moschea wahabita locale. Ciò non significa necessariamente che i giovani musulmani residenti in quartieri più ricchi e meno frequentati da spacciatori fossero meno attratti dall'islam. Come sottolineato nello scorso capitolo, molti europei tendono ad attribuire l'orientamento dei giovani immigrati verso un fervente islamismo a fattori non religiosi, come la povertà o l'esclusione sociale. Non è così. La religione non è mera consolazione. L'improvviso aumento di visibilità dell'islam rientra in un mutamento globale. Sono decenni che i musulmani europei, al pari di tutti gli altri gruppi religiosi (cristiani europei esclusi), manifestano un rinnovato interesse per la religione. Il movimento evangelico americano rientra in questa stessa tendenza globale. Il peso demografico e culturale dell'islam nel mondo, e soprattutto in Europa, continua a crescere. In questo c'è qualcosa di strano. L'islam ha circa 1,3 miliardi di aderenti, ma la religione che più affonda le sue radici in Europa, ossia il cristianesimo, ne conta 2 miliardi. Il cristianesimo cresce più rapidamente dell'islam e, anzi, di qualsiasi altra religione al mondo. Nel 1900, in Africa, c'erano 9 milioni di cristiani di ogni orientamento; nel 2005 erano già 393 milioni.6 Un fattore chiave nell'opera di contenimento della diffusione dell'islam militante in Africa è stato proprio l'incremento del cristianesimo, talvolta ugualmente militante (con tutta la serie di problematiche che ne deriva). Indizi di una crescita analoga e dell'esistenza di qualche forza contrapposta in Europa non ce ne sono. L'ideologia su cui si fondano le aspirazioni musulmane possono essere arbitrarie. Il ritorno dell'islam non implica solo la rinascita di una dottrina, bensì di un popolo. Gli eserciti musulmani (compresi quelli terroristi) sono sempre più
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aggressivi. In molti casi, soprattutto nelle dichiarazioni antioccidentali, la retorica dei «fanatici religiosi» arabi di oggi è indistinguibile da quella dei «nazionalisti senza dio» di ieri. Chi sostiene che sempre più giovani si definiscono musulmani perché si sentono in qualche modo umiliati sbaglia. Qualunque sia la ragione per cui si definiscono musulmani, l'islam sembra avere il vento in poppa.
L'islam e i credenti europei Gli sforzi di assimilazione dell'islam hanno puntato soprattutto sul dialogo interreligioso. Nel 1970, presso la chiesa di Breeplein nel quartiere popolare di Feyenoord, a Rotterdam, il pastore protestante olandese Pleun Reedijk notò che anche in pieno inverno i musulmani trasferitisi in quel quartiere si prostravano in mezzo alla strada per pregare. Naturalmente, non avevano moschee. Reedijk decise di aprire le porte della sua chiesa affollata ai musulmani, permettendo loro di professarvi la loro religione. Per mesi la stampa popolare e la stessa congregazione di Reedijk si spaccò sul significato di quella scelta: era un gesto coraggioso o vano, era generoso o ingenuo? Nel 2005, nel suo appartamento di Rotterdam, ripensando all'episodio di tanti anni prima il pastore non era più tanto sicuro di aver agito con saggezza. «Fu un bene prestare la chiesa ai musulmani?», si domandava. «Un po' sì e un po' no.»7 Da una parte, i parrocchiani un tempo ostili agli immigrati sono ora meglio disposti nei loro confronti, spiegò. Episodi come questi, dove si sono verificati, hanno suscitato nei musulmani molta apertura e disponibilità verso i cristiani. Dai sondaggi, che pure - come abbiamo sottolineato in precedenza - registrano una certa diffidenza da parte dei musulmani nei confronti della società europea in generale, emerge un'ampia approvazione nei riguardi dei cristiani in particolare. In Francia, il 91% dei musulmani ha una buona opinione dei
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cristiani, e anche i dati relativi alla Spagna (82%), alla Gran Bretagna alla Germania (69%) sono positivi.8
(71%) e
D'altro canto, nella vecchia chiesa di Reedijk rimangono ora solo 250 parrocchiani, a fronte dei 2000 di quarant'an- ni fa, allorché il parroco, dalla sua posizione di forza, aveva latto la sua generosa offerta. La chiesa di Breeplein non tratta più con nessuno da una posizione di forza, specialmente ora che il quartiere è ormai in larga misura occupato da turchi e marocchini. Nei giorni di tensione che seguirono l'assassinio di Theo van Gogh, qualcuno lanciò una bomba incendiaria contro gli uffici della chiesa. Il dialogo interreligioso si fondava in larga misura su un malinteso cristiano, o forse sarebbe meglio dire delusione. Poiché i nativi conoscono meglio le istituzioni del proprio paese, e poiché detengono ancora i posti di comando all'interno dell'economia, del mercato del lavoro e della cultura alta e popolare, i gruppi cristiani si sono spesso aperti al dialogo con i musulmani con l'atteggiamento di chi si sente più forte e invita generosamente gli stranieri a far parte della propria cultura. La moneta di scambio nel dialogo religioso, diversamente da quanto accade nel rapporto tra le comunità religiose e lo stato, non è il denaro né il lavoro né l'influenza culturale, bensì la fede religiosa. A trarre profitto dal dialogo interreligioso sono le persone religiose. Chi non è credente non ne ricava nulla. Quello che gli europei consideravano un magnanimo gesto di buona volontà non era che uno spostamento dei rapporti di forza religiosi tra il cristianesimo e l'islam a favore di quest'ultimo. Il ministro degli Interni tedesco Wolfgang Schäuble ama citare una frase di Federico il Grande, che regnò nel XVIII secolo in Prussia: «Se i turchi venissero con l'intento di occupare la terra, noi costruiremmo loro delle moschee».9 Per il giornalista Georg Paul Hefty quelle parole altro non erano che l'espressione del provincialismo della Germania settentrionale. «Coloro che vivevano più a sud, nelle zone di lingua tedesca», scrisse Hefty, «soprattutto a
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est di Vienna, sapevano che quando i turchi invadevano un paese, non chiedevano il permesso ai re cristiani per costruire le loro moschee.»10 Oggi uno dei temi più frequenti nei dibattiti interreligiosi è quello delle procedure da seguire per l'acquisto di chiese da parte di gruppi musulmani che poi le riconsacrano come moschee. Un documento pubblicato nel 2006 dal- l'EKD, massima autorità della chiesa protestante tedesca, suscitò polemiche all'interno del Consiglio centrale dei musulmani4 che vi colse una certa chiusura (o forse solo nostalgia) da parte dei cristiani: La perdita di un luogo di culto è una cosa sempre diffìcile da spiegare a una congregazione, perché molta gente è affezionata alla propria chiesa. La trasformazione di una chiesa in moschea è vissuta da molti cristiani non solo come una perdita privata, bensì anche come un motivo di irritazione pubblica. Il valore simbolico esteriore della chiesa rimane intatto, mentre all'interno viene praticata un'altra religione. I cittadini hanno l'impressione che i cristiani stiano cedendo il passo ai musulmani, oppure che l'islam e il cristianesimo siano, in ultima analisi, religioni intercambiabili.5
4 tono abbattuto, poco competente e apocalittico di tali comunicati ricorda il dialogo interreligioso, in genere incentrato su come i cristiani possano rendere la vita più facile ai musulmani. Presso l'Hamara Centre di Leeds, finanziato dalla collettività, i musulmani e i cristiani del luogo promuovono sentimenti di fratellanza tra loro sottolineando, fra le altre cose - come scrisse il «Wall Street Journal» «la loro comune opposizione alla globalizzazione, alla guerra in Iraq e, in alcuni casi, alle politiche di Israele nei territori palestinesi».13 Questa non è comunicazione interculturale. Questo è un tentativo di indurre i cristiani a sostenere le cause musulmane.
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sulmane hanno sortito esiti simili. Ottocento anni fa, Cordoba era sotto dominio musulmano e la cattedrale era una moschea. D'altro canto, la moschea stessa era stata costruita sul sito di una chiesa visigota. La cattedrale non viene utilizzata come moschea dal 1236, anno in cui i cristiani la sottrassero ai mori (tuttavia, nel 1974, l'ormai vecchio dittatore Francisco Franco, dopo aver consumato un pranzo insieme a Saddam Hussein, permise a quest'ultimo di pregare nel vecchi mihrab).ì4 «A noi non verrebbe mai in mente» disse un leader cattolico del luogo contrario alla condivisione della cattedrale, «di andare alla Mecca e recitare il Padre Nostro.»la Tocca un tema esplosivo. Da un punto di vista religioso, il dialogo con i musulmani non è alla pari. I conservatori italiani sono particolarmente sensibili alla questione. Essi sottolineano come il principio guida del dialogo interreligioso debba essere la reciprocità6 Non è giusto, sostengono, consentire che la più grande moschea d'Europa venga costruita a Roma con denaro saudita, mentre l'Arabia Saudita perseguita i cristiani e altri paesi musulmani vietano la costruzione di chiese e missioni. «Il dialogo senza reciprocità è una parola vuota» dichiarò il cardinale Mario Pompedda pochi mesi prima di morire nel 2006. Per garantire l'armonia interreligiosa, continuava, è essenziale «esigere che i diritti che assicuriamo in Italia siano assicurati anche nei paesi arabi. In altre parole, se qui apriamo una scuola islamica o assicuriamo agli alunni musulmani l'insegnamento della loro fede, lo stesso deve essere garantito in una nostra scuola nei territori islamici».16 Per Pompedda, come per molti musulmani, la giusta sede per dirimere le questioni dei rapporti tra cristiani e musulmani non era questo o quell'altro stato europeo, bensì il mondo intero. La sua era una richiesta giusta, ma praticamente impossibile da realizzare. Il
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problema non è tanto il divieto imposto dai sauditi alla pratica del cristianesimo nel loro paese, bensì soprattutto il fatto che gli europei sono molto meno interessati all'evangelizzazione dei territori sauditi di quanto questi ultimi non lo siano all'islamizzazione dell'Europa. Finché la religiosità dei musulmani sarà più fervente di quella cristiana e finché il mondo cristiano sarà più libero di quello musulmano, la reciprocità rimarrà solo una pia illusione.
L'islam e i non credenti europei «Per un secolo e mezzo, i laici hanno continuato ad annunciare la fine della religione come gli ebrei più ferventi proclamano l'arrivo del Messia», dice l'islamologo Hans Jansen.17 Eppure, a un certo punto dopo la seconda guerra mondiale, questo messia laico alla fine è arrivato davvero in Europa. Almeno tra i nativi, la religione appare sempre più come roba d'altri tempi. Da una recente indagine condotta da «Le Figaro» è emerso che il 45% dei francesi che si autodefiniscono cattolici non sa spiegare il significato della Pasqua.18 Nel 2003 un pastore luterano fu sospeso dalla sua carica nella zona settentrionale di Copenaghen per aver dichiarato in un'intervista: «Non credo nel Dio creatore».19 Nel corso della controversia che ne seguì, un'indagine realizzata da un quotidiano cristiano rilevò che meno di due terzi dei 2100 pastori presenti in Danimarca riteneva tali affermazioni così gravi da escludere una persona «dal contesto della chiesa».20 Non è solo la religione a essere scomparsa dall'Europa, bensì anche il ricordo di com'erano le società organizzate secondo la religione o anche solo orientate verso la religione. Per la maggior parte degli europei moderni, una buona definizione di religione potrebbe essere «opinione irrazionale sostenuta con fervore». Quando una sottocultura straniera profondamente religiosa irrompe in una cultura meno religiosa, i nativi forni-
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scono solitamente due tipi di risposta allo stimolo. La prima c semplice
e reazionaria: un ripiegamento sulla propria identità etnica e sulle proprie tradizioni. L'abbandono della propria religione e di altre tradizioni viene tendenzialmente visto come un errore, forse nel timore che ciò possa esporre maggiormente al rischio di sopraffazione da parte degli stranieri. La seconda reazione è un atteggiamento di superiorità. La società autoctona vede il proprio distacco | dalla religione non come una perdita, bensì come una conquista culturale. Proclama dunque il proprio universalismo postreligioso con maggiore forza, arroganza, snobismo. In genere le società hanno entrambe le reazioni, insieme. La coscienza di gruppo delle masse di cattolici irlandesi giunte a Boston nel XIX secolo indusse i bostoniani nativi a sottolineare (e in molti casi a fabbricarsi dal nulla) la propria identità anglosassone. Passarono dal congregazionalismo all'episcopalismo (l'anglicanesimo americano) «non tanto in virtù di determinate differenze dottrinali, quanto piuttosto per il desiderio di appartenere a strutture che dessero più importanza all'autorità, all'ordine, alla ritualità e ai legami con l'Inghilterra», scrisse lo storico Oscar Handlin.21 Più spesso, però, i nativi, maledicevano i nuovi arrivati sostenendo che il cattolicesimo irlandese era essenzialmente, «alieno allo spirito del progresso»22 che pervadeva il New England del XIX secolo. Per i bostoniani, una prova dell'arretratezza degli irlandesi era la loro totale estraneità alla i «splendid Gli europei del XXI secolo fanno qualcosa di simile con l'islam. Molti, ormai, individuano nello scetticismo religioso un elemento essenziale dell'identità europea. Quando, in nome della religione rivelata, i nuovi arrivati rifiutano la civiltà europea costruita sul razionalismo burocratizzato, gli europei possono solo sentirsi insultati o semplicemente pre-
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si in giro. La fede religiosa, a prescindere da ciò che la origina, viene vista come una sorta di inganno. L'ex presidente del senato italiano Marcello Pera, molto preoccupato per lo sgretolamento della cultura italiana, ha utilizzato una formula logica forse un po' contorta per dimostrare che le culture europee sono superiori a quelle degli immigrati: «Se i membri della cultura B mostrano liberamente di preferire la cultura A e non viceversa - se, per esempio, i flussi migratori vanno dall'islam all'Occidente e non viceversa -, allora c'è ragione di credere che A sia migliore di B».24 Chi parla prova soddisfazione nel presupporre che A siano i «paesi occidentali» e B «quelli musulmani». Tuttavia, le classifiche di Pera non risulteranno così ovvie a chi non dà per scontata la superiorità dell'Occidente. Definendo A «le sinfonie di Beethoven» e B «la pornografia su Internet» l'affermazione sarebbe ugualmente veritiera. Stabilire il valore delle culture sulla base dei movimenti di massa può andar bene per gli economisti, non per gli storici della cultura. Pera non è un cattolico praticante e la maggior parte degli intellettuali che proclamano la superiorità dell'Occidente non intendono sostenere che il cristianesimo sia migliore dell'islam. Essi intendono che trascendere la religione - nel nome della razionalità, della neutralità e di altri ideali dell'illuminismo - sia meglio che praticarla. L'Europa, però, è sempre meno sicura della propria laicità. Nel 2004 e nel 2005, quando furono pubblicate nuove traduzioni della Bibbia in olandese e in danese, le vendite del testo sacro raggiunsero livelli mai visti. Nei Paesi Bassi si è parlato molto di ietsisme. Un numero crescente di persone non religiose afferma di credere non propriamente in Dio, ma in «qualcosa» ( ìels) P I libri che invocano - velatamente - un revival spirituale sono sempre tra i più acquistati. Il saggio dell'esperto di televisione Peter Hahne che esortava i tedeschi a prendere seriamente in considerazione la propria crisi «di valori» dopo
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[• ] 1 settembre, è rimasto per mesi in cima alla classifica dei libri più venduti.26 Questo potrebbe denotare un gusto diffuso per le banalità incoraggianti, oppure costituire il primo indizio di un ritorno alla religione tradizionale. Quando, all'inizio degli anni Settanta, la sdolcinata favoletta educativa Il gabbiano Jonathan Livingston rimase per trentotto settimane il libro più venduto degli Stati Uniti, nessuno interpretò il fenomeno come un presagio di un revival religioso nazionale, benché, con il senno di poi, si possa affermare che invece lo fu, eccome. Lo storico olandese Joshua Livestro segnala la sempre più ampia diffusione delle chiese giovanili in Olanda, che nel 2003 erano quarantacinque (con 10.000) membri e due anni dopo erano già ottantotto (con 20.000 membri). I praticanti sotto i 20 anni sono passasti dal 9 al 14% tra il 2003 e il 2004. Nelle scuole cattoliche olandesi sono stati reintrodotti i crocifissi.27 Livestro ritiene che l'immigrazione di cristiani del Terzo mondo, non ancora nauseati dalla religione, sia un fattore determinante per questo revival. Può essere, però, che anche l'islam abbia fatto la sua parte, indirettamente. In altri paesi europei la vicinanza dell'islam alimenta il sentimento religioso dei non musulmani. Il sociologo Eric Kaufmann ha rilevato che, nei quartieri britannici ad alta concentrazione musulmana, la percentuale di britannici bianchi che si definiscono «cristiani» (anziché «non religiosi») è considerevolmente più alta che in quartieri simili, ma meno misti, anche tenendo conto del reddito e di altri fattori che complicano ulteriormente le cose.28 Difficile stabilire se sia un autentico ritorno alla fede o il richiamo tribale delle schiere con la squadra della cristianità. In tempi recenti, ovunque l'islam si sia affermato, si sono registrate reazioni tra i cristiani. Nel 2005, due anni dopo l'inizio della guerra in Iraq, il generale sir Richard Dannatt, il pluridecorato capo dello stato maggiore britannico, suscitò involontariamente un dibattito nazionale sulla fede. Dannatt invitò i britannici a ridimensionare o addirittura a
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riconsiderare le operazioni militari in Iraq, per evitare «spaccature» all'interno dell'esercito britannico. Prima che le polemiche scatenate dalle sue osservazioni si placassero, i giornali cominciarono a interessarsi a Dannatt per motivi molto diversi. Da cristiano praticante quale era, aveva subito messo in chiaro che i suoi dubbi sulla condotta della guerra in Iraq non significavano indifferenza nei confronti del radicalismo islamico. Al contrario. I rischi che lui individuava erano di natura più spirituale che militare, e più interni alla Gran Bretagna che esterni: «Osservando la minaccia islamista», disse, «mi auguro che non si espanda oltremisura, perché esiste un vuoto morale e spirituale nel nostro paese. La nostra società si è sempre fondata sui valori cristiani; una volta levata l'ancora, si rischia di prendere la direzione del vento prevalente». Secondo il generale Dannatt, qualcosa interverrà a colmare il vuoto spirituale in Europa, e questo «qualcosa» potrebbe essere l'islam.29
Benedetto XVI: nuove idee su fede e ateismo Gli europei hanno la sensazione di avere un grave problema in ambito religioso, che nessuno è mai riuscito a identificare con precisione. Si tratta del declino della religione in generale? Del declino del cristianesimo in particolare? Di un eccesso di sentimentalismo o di mancanza di coraggio nella difesa dei «valori illuministici» contro il cristianesimo? Il pensiero occidentale su queste questioni è cambiato in misura considerevole nell'ultimo decennio, sia tra i credenti sia tra i non credenti. Uno dei revisionisti più audaci, dal punto di vista intellettuale, è stato Benedetto XVI.30 II suo predecessore, Giovanni Paolo II, vedeva un mondo essenzialmente diviso tra religiosi e non religiosi. I ferventi cristiani, musulmani, buddhisti avevano più affinità tra loro che con gli atei. Giovanni Paolo cercò il dialogo tra i leader
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di altre fedi, andò a visitare moschee e chiese scusa per le crociate. Benedetto è di altro avviso. Secondo lui, credenti e atei coabitano in simbiosi nelle società. I laici occidentali, egli dà a intendere, hanno molto in comune con i loro amici religiosi. Non è un caso che ideologie laiche come la difesa dei diritti umani e il socialismo democratico si siano diffusi soprattutto nell'Occidente cristiano, in quanto affondano le loro radici nell'etica del cristianesimo. Secondo il pensiero di Benedetto, gli intellettuali laici dovrebbero essere in sintonia con la chiesa, benché non in comunione. Per esempio egli osserva: Ai tempi di Gesù il giudaismo della diaspora era circondato da un'ampia cerchia di «timorati di Dio» che si riferivano più o meno strettamente alla sinagoga e che, secondo diverse modalità, vivevano del tesoro spirituale della fede d'Israele. Soltanto pochi desideravano entrare pienamente, attraverso la circoncisione, nella comunità d'Israele, ma per tanti era un punto di riferimento che indicava loro la via verso la vita.31
Quindi, da una parte egli cerca di convincere i laici a unirsi al gregge, dall'altra cerca di convincerli che, in un certo senso, ci sono già. Non c'è alcun bisogno razionale di occuparsi di diritti umani, per esempio: chiunque dichiari di averli a cuore adotta il giudaismo e il cristianesimo «come punti di riferimento indicanti la via verso la vita». Ecco perché Benedetto ha dedicato così tanto tempo al dialogo pubblico con importanti filosofi laici quali l'italiano Paolo Flores d'Arcais e il tedesco Jurgen Habermas il quale, pur continuando a professare l'ateismo, sostiene che il «cristianesimo, e nient'altro, sia il massimo fondamento della libertà, della coscienza, dei diritti umani e della democrazia, il caposaldo della civiltà europea. A tutt'oggi, non abbiamo altre opzioni. Continuiamo ad attingere a questa fonte. Tutto il resto sono solo chiacchiere postmoderne».32 Sia Habermas sia il papa hanno ragione su questo punto. Se ci sof
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fermiamo sul significato di questa affermazione relativamente al rapporto tra chiesa e non credenti occidentali, la posizione Benedetto/Habermas appare più moderna, tollerante, ecumenica, sensibile. Ma se allarghiamo il nostro orizzonte e consideriamo gli incontri tra cristianesimo e altre fedi, il messaggio suona nettamente più reciso. Nel novembre del 2006, il papa pronunciò un discorso presso la sua alma mater, l'università cattolica bavarese di Ratisbona. Benedetto XVI citò un dialogo del XIV secolo in cui l'imperatore bizantino Manuele II Paleologo interrogava un erudito persiano su che cosa ci fosse di nuovo nell'islam, a parte il comandamento di diffondere la fede con la spada. La tesi di Manuele II contro la conversione violenta è la seguente: «Non agire secondo ragione è contro la natura di Dio». Benedetto fece propria questa tesi, osservando che il Dio islamico è «assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata ad alcuna categoria, neppure alla razionalità». Che fosse corretta o meno (alcuni cattolici avevano sollevato simili obiezioni nei confronti del calvinismo), tale affermazione scatenò un putiferio tra i musulmani in Europa e altrove. Il Marocco richiamò il proprio ambasciatore in Vaticano; in Palestina furono incendiate sei chiese; e in Somalia fu uccisa una suora italiana. Le ritorsioni musulmane furono davvero eccessive, ma non dettate dall'ignoranza. Il papa, in buona sostanza, diceva che la gente razionale moderna, illuminata - trovava un rifugio naturale nel cristianesimo. Di conseguenza, i cristiani possono godere di una posizione autorevole all'interno dell'ordine secolare europeo fondato sulla ragione, anch< se tale ordine lascia meno spazio a Dio di quanto vorrebbe ro i cristiani. Se i musulmani abbiano qualche possibilità di svolgere un ruolo all'interno della laica Europa rimane un quesito irrisolto. D'altro canto, sappiamo bene che Benedetto nutre seri dubbi al riguardo. Non solo si è domandato pubblicamente se sia possibile inserire l'islam in una società pluralistica, bensì ha retrocesso uno dei principali consu
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lenti sull'islam di Giovanni Paolo II, affidandogli il compito più modesto di coordinare il programma del dialogo interreligioso gestito dai monaci francescani di Assisi. Tuttavia, Benedetto non è tra quelli che vedono nella rinascita dell'islam una semplice conseguenza delle valanghe di denaro che i principi sauditi e le fondazioni mettono in circolazione. Secondo lui, la forza dell'islam risiede soprattutto nella convinzione «di offrire una base spirituale valida per la vita dei popoli».33 Il papa si mostra affascinato dall'islam, e gli rivolge un involontario omaggio, che traspare anche dall'essersi ridotto a difendere la superiorità della fede cristiana proprio a Ratisbona. Un astuto musulmano convertito, Audalla Conget, ex monaco cistercense di Saragozza divenuto segretario della Lega islamica in Spagna, indirizzò al papa una lettera aperta in cui scrisse: Voi criticate al fine di nascondere la profonda ammirazione che nutrite nei confronti della nostra fede, della nostra adorazione intensa e perseverante. Una fede incrollabile che vi induce a domandarvi, senza trovare una risposta convincente: come mai così pochi musulmani si convertono al cristianesimo, e come mai così tanti di noi, un tempo attivi cristiani, sono giunti a riconoscere nell'islam il loro luogo nel cosmo? Per un cristiano è doloroso vedere ogni venerdì le moschee stracolme di uomini e donne di tutte le età, con la fronte prostrata a terra nella più sincera accettazione della volontà di Dio.34
Simpatie occidentali per l'islam e conversioni In quale sede un portavoce dell'islam può permettersi di trattare con degnazione il papa? Il mondo islamico è un insieme di contraddizioni economiche e intellettuali: la più arretrata tra le regioni del mondo potenzialmente civilizzato, come illustrano chiaramente ogni anno gli Arab Human Development Reports pubblicati dalle Nazioni Unite. Nei paesi arabi che, pur non rappresentando l'intero mondo
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musulmano, ne costituiscono il cuore, risiede il 5% della popolazione mondiale, ma solo lo 0,5% degli utenti Internet. La Spagna traduce in un anno più libri stranieri di quanti l'insieme dei paesi di lingua araba ne abbia mai tradotti dai tempi del regno del califfo Mamoun nel IX secolo. La metà dei giovani arabi intervistati desidera emigrare dal proprio paese.35 Se si esclude il petrolio, l'intero mondo arabo esporta meno della Finlandia.36 Il prestigio dell'islam è scarso tra i non musulmani. Un sondaggio IFOP (Institut français d'opinion publique) condotto in Francia alla fine del 2001 richiese a un campione di musulmani e non musulmani di descrivere l'islam con le proprie parole. I musulmani scelsero termini come giustizia, libertà e democrazia. I francesi nativi optarono per fanatismo, sottomissione e rifiuto dei valori occidentali.37 Allora perché persone come Conget sentono il bisogno di abbracciare l'islam e, anzi, di cantarne incondizionatamente le lodi? Può essere che l'islam sia oggettivamente arretrato, ma in questo particolare momento storico il progresso non ha più una buona reputazione. Affermare che certe figure controverse del mondo musulmano «sembrano uscite dal medioevo» - che si tratti di sant'uomini come Yusuf Qaradawi, per esempio, o di terroristi come Osama bin Laden - non toglie nulla al fascino di queste persone. Il medioevo è il loro punto di forza. Non è necessario essere fondamentalisti o fanatici per preoccuparsi dell'eccessiva rapidità con cui la società occidentale si evolve. I movimenti verdi e no globalizzazione condividono le stesse preoccupazioni, come pure un numero crescente di scrittori e statisti. «Per certi aspetti - come il senso della decenza, il rispetto, la lealtà, la cura per la propria moglie - l'islam potrebbe avere un'influenza positiva sulla nostra cultura», afferma l'autorevole filosofo olandese Andreas Kinneging.38 Il ministro degli Interni Wolfgang Schäuble confida ottimisticamente nel fatto che l'islam possa riportare in auge valori che egli considera essenzialmente tedeschi, come «l'importanza della famiglia, il
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per gli anziani, la consapevolezza e l'orgoglio nei confronti della propria storia, della propria cultura, della religione e della tradizione; e la pratica quotidiana della propria fede».39 Le tesi di Kinneging e Schäuble potrebbero essere estese, (ìli intellettuali occidentali, profondamente ostili alle risposte metafisiche tradizionali, hanno messo in secondo piano i quesiti metafisici fondamentali. E difficile non provare almeno un pizzico di gratitudine nei confronti dell'islam per aver riproposto tali quesiti. L'ultimo incontro con l'islam, per quanto doloroso e violento, è stato una boccata di ossigeno per la squallida, pedante e materialistica vita intellettuale dell'Occidente. E una liberazione poter tornare a parlare di Dio, persino in una lingua straniera. Se è vero che gli europei hanno bisogno di quel che i musulmani portano con sé - cioè, in buona sostanza, più religione - significa forse che hanno fatto male a sbarazzarsi delle loro tradizioni? In tal caso, quando è stato commesso l'errore? Negli anni Sessanta? Due secoli prima? E se gli europei si sentono di nuovo attratti dalla religione, dobbiamo forse aspettarci che ritornino a una fede chiusa, sbeffeggiata e poco chic come il cristianesimo europeo, anziché aderire a una religione dinamica, sicura di sé ed esperta di vita di strada come l'islam europeo? La risposta è no, non conviene aspettarselo. E diffìcile procurarsi statistiche affidabili sul numero reale di europei che si convertono all'islam. Secondo l'Archivio sull'islam tedesco, sarebbero circa 4000 le conversioni ogni anno, sebbene tali cifre siano state contestate. Francesca Paci, nota giornalista italiana esperta di questioni musulmane, afferma che sarebbero circa 50.000 gli italiani convertiti all'islam,40 tra cui due importanti diplomatici - l'ex ambasciatore alle Nazioni Unite Mario Scialoja e l'ex ambasciatore in Arabia Saudita Torquato Cardilli - nonché Hamza Piccardo, ex leader di Autonomia operaia, poi allarispetto
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guida dell'Unione delle comunità islamiche in Italia (UCOII). Quali che siano le attrattive della teologia musulmana per gli occidentali, molti dei convertiti più in vista tendono a occuparsi anche di politica. Yvonne Ridley, giornalista britannica rapita dai talebani in Afghanistan nel 2001, due anni dopo il rilascio era convertita all'islam. Nel giro di pochi anni era diventata un'importante portavoce del Respect Party, gruppo nato in opposizione alla guerra in Iraq, e invitava i musulmani a non collaborare con la polizia.41 Poiché la politica fa più notizia della preghiera, questi resoconti di fanatiche conversioni all'islam non sono necessariamente rappresentativi. Si sente parlare meno dei proseliti che praticano la propria fede tranquillamente - quand'anche siano famosi come il musicista inglese Yusuf Islam (Cat Stevens) - che dei convertiti per cui l'islam è una via d'accesso alla politica. Esiste, poi, un sottogruppo abbastanza nutrito di soggetti per cui la conversione non è soltanto un modo per fare politica, bensì per abbracciare posizioni estreme fino al terrorismo. L'operaio belga Lionel Dumont, proveniente da una famiglia di ferventi cattolici con otto figli, tra maschi e femmine; giunse a detestare i suoi concittadini francofoni, definendoli «bambini viziati». Si convertì all'islam e andò a combattere in Bosnia, prese a frequentare una moschea estremista a Roubaix, nel Nord della Francia, e nel 1996 venne arrestato per aver preso parte a una serie di attentati terroristici contro la polizia nelle vicinanze di Lilla.42 La storia di Muriel Degauque, anche lei fervente cattolica originaria di una cittadina di minatori ormai in rovina, è ancora più nota. Finita in un giro di droga e motociclette, riuscì a uscirne anche grazie alla conversione all'islam, a cui si era avvicinata tramite un suo fidanzato. Nel dicembre del 2005 si fece saltare in aria in mezzo a una pattuglia militare americana a Baquba, in Iraq, ferendo un soldato.43 Il più distruttivo dei convertiti occidentali all'islam fu Germaine
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brillante studente cresciuto a Huddersfìeld, in una famiglia giamaicana di religione evangelica. Nel luglio 2005 si fece esplodere su un convoglio della metropolitana a Pic- cadilly, uccidendo altre ventisei persone.44 Questa gente violenta sembrava in cerca di qualcosa che il cristianesimo non era stato in grado di offrire. Che i casi Dumont, Degauque e Lindsay siano rappresentativi o meno, lo zelo del proselito può essere il fine esplicito, e non una conseguenza accidentale, della conversione all'islam. Può darsi che l'islam, rispetto al cristianesimo, si adatti maggiormente a una società che per mezzo secolo si è impegnata a smantellare le proprie istituzioni al fine di rendere la vita più diretta e «autentica», meno formale e «ipocrita». «A me pare che il pregio del Corano sia la sincerità, in tutti i sensi», scriveva Thomas Carlyle un secolo e mezzo fa, «ciò che lo ha reso prezioso per quegli arabi selvaggi.»45 La mancanza di una gerarchia ecclesiastica attrae tutti coloro che colgono un che di fasullo nell'autorità e nei ruoli ufficiali. Inoltre, il fatto che la teologia islamica si fondi molto poco sui miracoli è un aspetto positivo per le persone moderne, ossia per coloro che liquidano con impazienza il principio della rivelazione cristiana. Come sottolineò Alain Besançon, eclettico cattolico francese, l'islam racchiude in sé sia i pregi della religione naturale che quelli della religione rivelata. Come egli sintetizza in una brillante formula, esso è «la religion naturelle du Dieu révélé».4h Nel maggio del 1840, a Londra, Carlyle tenne una lezione su Maometto. A un certo punto, pronunciò una frase che indusse John Stuart Mill, presente tra il pubblico, ad alzarsi in piedi per gridare con rabbia il proprio disappunto.47 Carlyle sosteneva che, al contrario dei moderni e utilitaristici europei, Maometto aveva colto la terribile serietà di tutto ciò che facciamo sulla Terra, impartendoci dunque una lezione che l'umanità tende a dimenticare a proprio rischio e pericolo. Questa serietà, disse Carlyle: Lindsay,
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è la prima di tutte le verità. É venerabile in ogni sua manifestazione. Qual è il fine ultimo dell'uomo sulla Terra? La risposta di Maometto a questa domanda potrebbe far vergognare alcuni di noi! Egli, a differenza di un Bentham o di un Paley, non considera ciò che è Giusto e ciò che è Sbagliato, facendo un calcolo del profitto e delle perdite, del piacere massimo garantito dall'uno o dalle altre, per poi domandarci, facendo le dovute addizioni e sottrazioni, se ciò che è Giusto alla fin fine non sia di gran lunga preponderante. [...] L'utilitarismo di Bentham, la virtù calcolata sulla base del profitto e delle perdite, la riduzione di questo mondo di Dio a un motore a vapore brutale e privo di vita, l'anima infinita e celestiale dell'Uomo a una sorta di bilancia per pesare il fieno e i cardi, piacere e dolore... Se mi chiedete chi - tra loro o Maometto - offra la visione più miserabile e falsa dell'Uomo e delle sue sorti in questo universo, io vi rispondo: non certo Maometto!48
L'Europa e il suo rapporto con la religione Il sistema di separazione tra stato e chiesa vigente in Europa occidentale non incoraggia le prese di posizione su quali idee di verità siano migliori e quali «più miserabili», per citare Carlyle. Anziché analizzare le dottrine religiose al loro interno, si occupa del ruolo della religione nella società. Questo pudore si è rivelata una grande forza. Finché le battaglie religiose consistevano in battibecchi tra le diverse dottrine cristiane o vertevano sullo status da attribuire ai non credenti all'interno delle comunità cristiane, il sistema funzionava a meraviglia. Si è dimostrato, però, inadeguato ad affrontare l'islam. Un indice di questa inadeguatezza è il fatto che i politici si trovano sempre più spesso costretti a prendere posizione su ciò che l'islam è o non è. Tali pronunciamenti hanno spesso l'obiettivo di difendere l'islam dall'accusa di essere una religione violenta e intollerante, come nel caso della famosa frase pronunciata da George W. Bush pochi giorni dopo 1*11 settembre 2001: «L'islam è pace». Capita di senti
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re statisti non arabofoni che discettano di quel che il Corano dice e non dice sul dovere di portare il velo. Si legge di «imam poco preparati e perlopiù stranieri»49 che incitano i giovani al terrorismo e di «giudici incompetenti» nei tribunali della sharia.50 Le accuse non sono mai rivolte all'islam in sé, bensì sempre a qualcosa di aberrante, casuale, esogeno, atipico: a circostanze causate da una manciata per nulla rappresentativa di folli eretici, cattivi maestri, manipolatori e agenti segreti. L'opinione pubblica, di solito, non si lascia convincere. Si interroga sulla natura di una religione che richiede competenza - persino «preparazione» - per non trasformarsi in qualcosa di pericoloso nelle mani dei suoi seguaci. Di sicuro, la maggioranza dei sacerdoti cristiani negli Stati Uniti è «poco preparata», e i nuovi preti irlandesi (ne vengono ordinati pochissimi all'anno) sono perlopiù «stranieri». Eppure non spaventano la gente. E se lo facessero, ben pochi sarebbero pronti a sostenere che le cose terribili che dicono non hanno nulla a che vedere con il «vero» cristianesimo. Il sistema religioso pluralista vigente in Europa presenta caratteristiche specifiche in ogni paese. In alcuni, come la Danimarca e la Gran Bretagna, esiste una chiesa di stato, ma si tratta solo di residui del passato e la sua funzione è quasi esclusivamente cerimoniale: la religione di stato non ha alcun privilegio rispetto alle altre. La Germania impone una tassa per le chiese e utilizza le organizzazioni religiose come strumenti di distribuzione di servizi sociali e di assistenza sanitaria. L'Irlanda menziona la Santa Trinità nella propria costituzione. Il sistema francese, improntato alla laïcité, è il più elaborato. Separa rigidamente la politica dalla religione e stabilisce che le comunità religiose eleggano rappresentanti che fungono da interlocutori del governo. A grandi linee, però, tutti questi sistemi, e le libertà fondamentali che garantiscono, sono simili tra loro. Costituiscono un sistema unico che potremmo chiamare «secolarismo europeo».
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La storia del secolarismo non coincide però con la teoria del secolarismo, almeno per come quest'ultima viene presentata oggi. Tutti gli insiemi di norme e regole concepiti in Europa relativamente alla religione sono stati elaborati per porre limiti non alla religione in senso astratto, bensì al cristianesimo in particolare. Nel secolarismo europeo vige sempre un tacito equilibrio tra cristianesimo e scetticismo illuministico, e a volte tale punto di equilibrio è esplicitamente definito. In Olanda, dall'inizio dell'immigrazione di massa, le scuole del cosiddetto «Articolo 23» - che consente alle comunità religiose di fondare i propri istituti educativi - hanno cominciato a suscitare polemiche. In teoria, consentono ai musulmani di insegnare ai loro ragazzi principi che ripugnano agli olandesi, a cominciare da quello della disuguaglianza tra i sessi. Tali scuole, però, non possono essere semplicemente abolite. Si inseriscono nel contesto di uno scambio di favori, risalente a un secolo fa, tra lo stato e la forte comunità della chiesa riformata olandese, cui in cambio veniva chiesto di rinunciare alla pretesa di una più ampia cristianizzazione della cultura olandese. La tradizionale «ora di religione» cattolica nelle scuole pubbliche italiane era un risarcimento riconosciuto alla chiesa cattolica al momento dell'Unità d'Italia.51 Anche dove le concessioni alla religione non sono sancite espressamente dalla costituzione, il carattere religioso della società viene dato per scontato. Tutte le culture europee si affidano, per la loro stabilità, a certi principi etici del cristianesimo e avrebbero serie difficoltà a difendere i propri «valori» in loro assenza. Poco dopo l'omicidio di Theo van Gogh, lo scrittore olandese Leon de Winter si lamentò di come la pressione dell'immigrazione di massa minacciasse le «forze di compensazione» su cui si fondava la tolleranza del suo paese. «Sotto l'affabile facciata del "tutto è ammesso", la maggioranza degli olandesi continuava a essere legata ai valori della disciplina calvinista», scriveva de Winter. «A lungo termine, dovremo in qualche modo sti
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molare i giovani musulmani a identificarsi con i valori calvinisti della maggioranza.»52 Tuttavia, come avrebbe predetto Benedetto XVI, non esiste un modo evidente a tutti per trasformare i musulmani in calvinisti, anche in assenza di quella che de Winter chiama la cultura del «tutto è ammesso». Calvino non era soltanto un moralista o un dispensatore di «segreti» per esercitare bene il potere, bensì un capo religioso. I valori calvinisti non sono nati dal nulla, bensì da una certa interpretazione della dottrina cristiana e da secoli di esperienza religiosa. Viene da pensare a una frase del filosofo Rèmi Bra- gue: «La fede produce i suoi effetti solo se rimane fede, e non calcolo», scriveva negli anni Novanta. «Se esiste una civiltà europea, lo dobbiamo a chi ha creduto in Cristo, e non a chi a creduto nel cristianesimo.»33 Il secolarismo europeo è un sistema messo a punto e calibrato sul rapporto con i cristiani. I conflitti che nascono a causa delle comunità musulmane non sono identici a quelli che un tempo sorgevano tra comunità cristiane e continuano a sorgere tra comunità postcristiane. Negli ultimi decenni, i problemi fondamentali nel rapporto tra stato e cristianità tendenzialmente hanno riguardato l'educazione e la sessualità. Problemi che vengono fuori anche nel rapporto tra l'islam e lo stato, accanto però a conflitti sull'abbigliamento, sulle relazioni interpersonali e sulla politica estera. Si tratta di questioni più complesse, sulla cui risposta non c'è ancora consenso. Una donna ha il diritto - per motivi religiosi - di rifiutare le cure di un dottore maschio usufruendo del servizio sanitario nazionale? (Il verdetto francese è no.) Un poliziotto può indossare il turbante? (Gli inglesi hanno deciso di sì.) In tempo di guerra è consentito ai cittadini parteggiare dichiaratamente per il nemico? (Di fatto, sì, data la posizione privilegiata di cui gode il British Muslim Council di Bradford, considerato un interlocutore dal governo, anche dopo il voto unanime a sostegno dell'Iraq durante la prima guerra del Golfo del 1991.)
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Dopo la seconda guerra mondiale, il significato del termine «tolleranza» è mutato in profondità, per gli europei. Influenzati da una serie di fattori senso di colpa per la guerra, moderne concezioni dei diritti umani, media globalizzati e organizzazioni non governative - i capi di governo hanno finito per vedere il secolarismo come un modo non di gestire le relazioni tra le comunità religiose, bensì di trasformare il ruolo della religione da pubblico a privato. Le tradizioni non vengono più considerate giuste per definizione, in quanto tali. Si pensi alle feste dei Moros y cristianos che si tengono annualmente in circa quattrocento comunità distribuite tra Valencia, Alicante, Murcia e Albacete, per ricordare la cacciata dell'islam dalla Spagna.54 All'apice delle celebrazioni una grossa effigie di legno chiamata «Maometto» viene spesso gettata da una torre, se non decapitata con un'esplosione di fuochi d'artificio. Fino a un decennio fa, questi eventi attiravano molti turisti, ma poi sono stati presi di mira dalla sinistra e dai gruppi musulmani, per non parlare della chiesa cattolica uscita dal Concilio Vaticano II, in parte perché sono celebrazioni che escludono le donne e in parte per il loro trionfalismo. Il fatto che tali processioni si fossero svolte grosso modo alla stessa maniera per secoli (quella di Lérida risale al 1150 d.C.) non venne considerato un valido motivo per la loro conservazione. Nell'ultimo decennio quasi tutte le celebrazioni sono state sostanzialmente modificate. Dopo il 2000, nei cinque anni di trattative serviti alla ste sura del trattato costituzionale dell'Unione Europea, ci furono discussioni molto accese sulla posizione privilegiata da attribuire alla tradizione religiosa occidentale. Il disaccordo fu particolarmente forte sull'opportunità di introdurre nel documento la parola «Dio» e un riferimento alle radici cristiane dell'Europa. Un argomento a favore dell'inclusione era che, come abbiamo visto, i valori stessi di cui l'Unione Europea intendeva farsi custode - democrazia, individualismo, libertà di coscienza e di parola - erano nati dal cristia
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nesimo. Ma solamente tre paesi sostenevano quest'argomento: Irlanda, Italia e Polonia. Nessun altro era d'accordo. Gli altri paesi obiettarono che l'invocazione di Dio avrebbe avuto un significato autoritario ed esclusivo, su cui incombeva l'ombra della vecchia cultura nazionalista. Con il riferimento a Dio si rischiava di alienarsi le culture islamiche vicine e le patrie di molti cittadini dell'Unione Europea. I sostenitori della presenza della parola «Dio» nella costituzione replicarono che i secolaristi europei utilizzavano due termini molto diversi tra loro - «secolare» e «ateo» - come se fossero sinonimi. In questo non avevano tutti i torti. Nel 2004, Rocco Buttiglione, professore universitario e fervente cattolico, si vide negare la nomina a commissario europeo per la giustizia non a causa delle sue posizioni politiche - aveva promesso di sostenere la costituzione europea - bensì per le opinioni personali che aveva espresso sulla dottrina cattolica. Come ebbe a dire l'islamologo Olivier Roy: «Dobbiamo mettere in chiaro qual è il problema per la nostra laicità: una religione in particolare oppure la religione in generale?».55 Gli europei non hanno dato risposte convincenti al riguardo. Da una parte, esiste il secolarismo storico, che controlla il cristianesimo, considerandolo una realtà sociologica. Dall'altra, un secolarismo ideologico, che mira a spezzare qualsiasi legame tra religione e vita pubblica, inducendo la gente ad allontanarsi dalla religione. Se gli europei erano confusi da questa ambiguità, si può immaginare quanto lo fossero gli immigrati musulmani, con i loro figli e nipoti. Quale versione di secolarismo avrebbero dovuto rispettare?
Organizzazione delle istituzioni religiose Nel momento in cui l'islam è diventato il problema religioso principale dell'Europa quasi nessuno ha avuto il coraggio di dirlo apertamente. Al contrario, sono state varate
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in tutto il continente politiche mirate a imbrigliare l'islam fingendo di voler imbrigliare tutte le religioni senza distinzione. Esemplare in questo senso fu la cosiddetta «commissione Stasi» voluta dal presidente francese Jacques Chirac nel 2003 per arginare la crescente tendenza, da parte delle studentesse musulmane, a presentarsi a scuola con il velo, pratica che suscitava sdegno a livello nazionale già da quattordici anni. La commissione Stasi diede a intendere di voler affrontare generiche minacce alla laïcité, piuttosto che uno specifico simbolo dell'islam sempre più diffuso. Per rafforzare l'illusione della neutralità, bandì anche le kippah e i «grossi crocifissi» (qualunque cosa siano) dalle scuole pubbliche. Seguendo la stessa tattica, propose di introdurre una nuova festa nazionale in coincidenza dell'Eid al-Adha, aggiungendo, a mo' di compensazione, anche lo Yom Kip- pur. (Quest'ultima proposta fu respinta.) Tale approccio, benché poco chiaro a livello intellettuale, registrò un successo insperato a livello politico. Il velo fu eliminato dalle scuole senza scatenare troppe rimostranze.56 Da allora in poi, altri paesi adottarono questo sistema di concedere o revocare diritti religiosi secondo un criterio di «neutralità».57 In Italia e in certi Land tedeschi dov'è divampata questa polemica, il prezzo da pagare per eliminare il velo dalle scuole pubbliche è stato la rimozione delle croci appese da secoli ai muri delle classi. I governi si attenevano a questa neutralità fasulla anche per questioni di pubblica sicurezza. Settimane dopo l'attentato del 7 luglio nella metropolitana londinese, Tony Blair propose un pacchetto legislativo sul terrorismo che mirava a mantenere l'equilibrio su due fronti: da una parte, seguire una linea più dura contro il terrorismo; dall'altra, dimostrare rispetto nei confronti delle libertà costituzionali.58 Le intenzioni erano lodevoli; peccato, però, che qualsiasi provvedimento comportasse effetti sproporzionati sui musulmani sia stato interpretato come una violazione dei diritti costituzionali. Per esempio, l'idea di chiudere le mo
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schee estremiste, obiettivo centrale del progetto, fu subito giudicata impraticabile. Le cose sarebbero andate senza dubbio in altro modo, se solo il governo fosse riuscito a trovare anche qualche chiesa estremista da chiudere. Nell'interesse di negoziare principi neutrali di questo tipo, i principali paesi europei hanno cominciato a favorire la creazione di istituzioni musulmane ufficiali in grado di negoziare con le autorità su varie questioni. Uno dei risultati di cui Nicolas Sarkozy si vantò maggiormente durante la campagna presidenziale francese del 2007 fu la fondazione, durante il suo mandato da ministro degli Interni, del Consiglio francese della fede musulmana (CFCM), impresa che aveva già visto il fallimento di alcuni suoi predecessori. Tale organismo ha il compito di organizzare i musulmani del paese in quanto minoranza religiosa. Il CFCM offre allo stato la possibilità di discutere pacatamente con i musulmani questioni riguardanti la comunità, come l'esclusione della carne di maiale dalle mense scolastiche, la possibilità per i musulmani di essere sepolti secondo la loro religione nei cimiteri municipali, la mediazione tra le comunità (generalmente immigrate) che necessitano di moschee e i quartieri (generalmente europei) che si oppongono alla loro costruzione. Le omologhe organizzazioni cattoliche ed ebraiche si comportano in questo modo, anche se l'analogia migliore è senz'altro quella della confederation delle varie chiese protestanti francesi. Il consiglio musulmano, però, è diventato ben presto più importante dei suoi equivalenti cattolico, protestante ed ebraico. Una differenza risiede nel fatto che le questioni di competenza del CFCM sono molto più controverse e difficili da circoscrivere al campo puramente religioso. In un'epoca di violenza etnica, il governo, nel disperato bisogno di interlocutori, ha incoraggiato il CFCM e altri leader musulmani, la cui funzione dovrebbe essere strettamente spirituale, ad assumere un ruolo più esplicitamente politico. Durante le rivolte delle hanlieues parigine, il sindaco socialista di Nantes Jean-Marc Ayrault si lamentò del fatto che Sarkozy
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avesse «incoraggiato le organizzazioni religiose ad assumere un ruolo di mediazione nelle questioni di vita quotidiana dei quartieri popolari».59 Il CFCM è diventato un'organizzazione più scomoda del previsto. Sarkozy era riuscito a varare il «suo» Consiglio solo dopo aver concesso un ruolo guida all'Unione delle organizzazioni islamiche della Francia (UOIF), gruppo di tendenze radicali, fortemente influenzato dalla Fratellanza musulmana. Circa la metà dei musulmani intervistati in tutto il paese considerava il capo originario del CFCM, Dalil Boubakeur, guida della grande moschea di Parigi, uno «zio Tom» (i musulmani francesi usano proprio quest'espressione) e riservava la propria fedeltà esclusivamente all'uoiF.60 Quest'ultima ha registrato alti e bassi, ma in certi momenti ha governato dodici dei venticinque consigli regionali che controllano l'arcana burocrazia del CFCM. In Italia, la nascente Consulta islamica è stata organizzata su basi analoghe. Anch'essa ha dovuto affrontare il problema, tutt'altro che raro all'interno delle strutture politiche, per cui i gruppi meglio organizzati non sono, in genere, né i più rappresentativi né i più moderati. Ecco perché, in generale, è tanto difficile inserire i musulmani in un sistema di libertà religiosa sponsorizzato dallo stato. Il ruolo del cristianesimo nella moderna vita nazionale dei paesi occidentali è stato determinato dall'intera società in un'epoca anticlericale. Il ruolo dell'islam viene determinato dai musulmani in un'epoca multiculturale e, in particolare, da un sottogruppo di musulmani abbastanza devoti e politicizzati da entrare a far parte di organizzazioni musulmane.
Libertà religiosa = libertà dell'islam Il secolarismo universalista è grandioso nella sua concezione, ma nella pratica si è dimostrato impotente quanto il
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suo avversario tradizionale, cioè il cristianesimo militante. Come mezzo per regolare l'islam si è rivelato inadeguato. Le regole designate per le chiese spirituali funzionano meno bene se applicate a organizzazioni dotate di dinamismo tutt'altro che spirituale come l'islam: reti, finanziatori esteri (in Arabia Saudita e altrove), obiettivi politici, un chiaro senso di quali siano gli amici e i nemici, la volontà di combattere contro ogni dissenso all'interno della comunità e contro lo scetticismo al suo esterno. Questo dinamismo porta a quel che Thomas Nagel, filosofo del diritto dell'Università di New York, definisce «l'impatto disuguale di leggi formalmente neutrali».61 Siccome ormai gli atei, gli agnostici e i cristiani non si avvalgono più della libertà religiosa, quest'ultima finisce per coincidere con la libertà dell'islam. L'idea secondo cui il corso della storia occidentale sarà imitato, o almeno subito, da tutti gli altri paesi è una convinzione quasi religiosa per molti esponenti del liberalismo occidentale. E uno spettacolo quasi patetico vederli in attesa che l'islam si «modernizzi» o cessi di essere «onnipervasivo» nella vita dei suoi praticanti - com'è avvenuto per il cristianesimo dal xvi secolo in poi. Così facendo, infatti, commettono un errore fondamentale. Noi tendenzialmente apprendiamo della riforma protestante e dell'illuminismo come di episodi della storia intellettuale, cosicché pensiamo al secolarismo europeo, dunque, come al frutto di una ricerca spirituale. In parte è vero, ma le autorità religiose europee sono state anche costrette a cambiare pervia dell'ostilità, spesso armata, dei loro avversari. Uno dei motivi per cui gli europei attendono che l'islam si disintegri dall'interno è che il loro sistema della tolleranza ha eretto intorno all'islam un muro che lo protegge da tutte le pressioni esterne che dal XVI al XIX secolo assediarono il cristianesimo. Una delle armi principali degli illuministi contro il cristianesimo fu l'ironia. Gli europei, però, nell'attesa che i musulmani imparino le lezioni dì Voltaire, hanno fatto di tutto per salvare l'islam dai metodi dello stesso filosofo. Iro
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nizzare sull'islam è visto come un atto di xenofobia e razzismo. Chi ha qualcosa da ridire sull'islam deve accontentarsi di prendersela con il vecchio e decadente cristianesimo, nella speranza che i musulmani comprendano, per induzione, che quel tipo di leggi generali riguarda anche la loro religione. Le sparate contro la «religione», in generale, di Richard Dawkins, Michael Onfray, Christopher Hitchens e altri devono sicuramente molto del loro successo al disagio e alla timidezza di molti nell'esprimere i propri dubbi sull'islam in particolare. L'irragionevolezza del cristianesimo è stata spietatamente presa di mira per secoli, e lo è tuttora. Finora non è ancora emersa una modalità socialmente accettabile per attaccare l'irragionevolezza dell'islam. Di fatto, l'islam riceve dalla legge sempre più protezione contro le critiche. Nel gennaio del 2009, il politico Geert Wilders fu rinviato a giudizio da un tribunale olandese con l'accusa di incitamento alla violenza per Fìtna, un film in cui definiva il Corano un libro violento e lo paragonava al Mein Kampf. Il mese successivo, il ministro degli Interni britannico negò a Wilders l'ingresso nel paese, benché fosse stato invitato a presentare Fitna alla camera dei lord. La critica di Wilders era rozza e fuori mira, ma era una protesta contro la violenza, non un incitamento. Nel 2006 il governo Blair presentò una legge, da tempo in gestazione, «contro l'odio religioso». Formalmente la nuova legge protegge le persone di tutte le religioni, ma di fatto fu voluta solo dai musulmani e, in particolare, dall'Action Committee on Islamic Affairs, gruppo formatosi nel 1989 in segno di protesta contro il ritratto che Salman Ru- shdie offrì di Maometto nei suoi Versetti satanici.62 Quando tali rimostranze furono portate all'attenzione dell'ayatollah Khomeini, questi emise contro Rushdie una fatwa di condanna a morte. Essa non venne mai revocata, anzi fu addirittura rinnovata dall'organo legislativo iraniano, i Majli, a vent'anni dalla sua emissione, nel 2009. Khalid Mahmood,
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parlamentare laburista di Birmingham, appoggiò la legge contro l'odio religioso dicendo che se fosse esistita già negli anni Ottanta avrebbe consentito alle autorità di «emendare» il testo di Rushdie. Nessun'altra fede dei tempi moderni ha mai posto al governo britannico condizioni anche solo vagamente simili. Il vero obiettivo della legge era proteggere i principi cardine dell'islam dalle critiche pubbliche. I promotori della legge, tra cui David Blunkett, a più riprese ministro degli Interni britannico, lo hanno persino ammesso. Gli anglicani, in quanto appartenenti a una chiesa ufficiale, erano già tutelati per legge da certi insulti - si sosteneva - mentre per tutelare gli ebrei e i sikh contro altri insulti c'erano le leggi antirazziste. I musulmani non godevano di protezioni di questo tipo. Si tratta, però, di un'analogia pericolosa. Proteggere la gente da critiche relative a cose di cui non è responsabile - come il colore della pelle, il genere, l'appartenenza etnica - è diverso dal proteggerla da critiche rivolte alle sue credenze. E la legge contro l'incitamento all'odio religioso non aveva precedenti per la sua portata. Nella versione iniziale avrebbe creato immense difficoltà a chiunque avesse voluto criticare qualsiasi idea si presentasse nel nome della fede o della pratica religiosa, dato che la legge consentiva di perseguire legalmente chiunque si mostrasse «incurante del pericolo di istigazione all'odio religioso» con scritti o dichiarazioni. Su insistenza della camera dei lord e contro le obiezioni sollevate dal governo, furono inserite clausole a esplicita difesa di «discussioni, critiche, espressioni di antipatia e disgusto, derisione, insulto o disprezzo nei confronti di qualsiasi religione, credenza o pratica da parte dei suoi seguaci».63 Questa legge, entrata in vigore nel 2007, finì per diventare poco meno di una legge postmoderna contro la blasfemia. Tuttavia vige già, de facto, una legge antiblasfemia a favore dei musulmani. Nasce dalla provata volontà, da parte dei fanatici religiosi all'interno delle società occidentali e dei go
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verni dei paesi musulmani di usare violenza contro chiunque, persino cittadini privati occidentali, si riferisca all'islam in modo per loro inaccettabile. Le intimidazioni si manifestano per la prima volta con la fatwa contro Salman Rushdie e proseguono con l'omicidio del suo traduttore giapponese e del suo editore norvegese, con l'uccisione di Theo van Go- gh in Olanda nel 2004, con le minacce di morte continue trasmesse su Internet contro il politico olandese Geert Wil- ders, con le violente dimostrazioni all'indomani della crisi delle vignette danesi, ma la lista potrebbe continuare a lungo. Il clima di paura emerge anche in modi meno eclatanti. Tutti i traduttori dell'opera della femminista somala-olande- se Ayaan Hirsi Ali hanno preteso di rimanere anonimi. L'insegnante francese Robert Redeker è stato costretto a nascondersi in seguito alla minaccia di morte che ricevette all'indomani dell'uscita di un suo articolo su «Le Figaro» in cui descriveva Maometto come un «maestro d'odio». Esiste chiaramente una fatwa permanente contro i critici più duri e arguti dell'islam. Ed è sufficiente da un punto di vista pratico a limitare la libertà nelle discussioni sull'islam a ogni livello della società. Nel ricercare le cause del terrorismo, Geert Mak spiegò che «l'umiliazione, a livello nazionale o individuale, sembra essere uno dei maggiori fattori di rischio» in tema di scelta terroristica.64 Infatti! Ma poiché l'umiliazione è negli occhi di chi la subisce, e poiché non esistono due soli fanatici religiosi uguali fra loro, e poiché alcuni di loro sono ipersensibili fino alla paranoia, nessun cittadino sapeva più che cosa fosse consentito dire dell'islam. Traducendo l'osservazione di Mak in regola di comportamento, significa che scrivere una qualunque cosa sui musulmani è come andare in cerca di guai. Chi è in grado di tracciare il confine tra ciò che è ammissibile e ciò che non lo è? Sarebbe possibile parlare della famiglia musulmana nei termini adottati da Betty Friedan per ritrarre il ménage familiare dei quartieri residenziali americani nel suo libro La mistica della femminilità}
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Non certo senza temere rappresaglie. Nell'autunno del 2008 la casa londinese dell'editore Martin Rynja fu incendiata dopo che questi aveva annunciato l'intenzione di pubblicare un romanzo su una moglie del profeta Maometto. Dal momento che la società ha altri problemi di cui parlare, scrittori, artisti e commentatori politici continuano ad avere l'impressione di svolgere il proprio dovere anche se non affrontano l'argomento islam. In Europa questa tendenza a lasciare da parte le questioni musulmane risulta più vistosa tra quegli artisti «sovversivi» e «trasgressivi» osannati per i loro assalti alle regole borghesi e la loro indifferenza alla correttezza politica. La direzione della Deutsche Oper reputò troppo rischioso rappresentare un Idomeneo in cui, a un certo punto, comparivano in scena le teste tagliate di Gesù, di Maometto e del Buddha. Probabilmente non era la testa di Cristo a metterli in crisi. Grayson Perry, ceramista inglese dedito al travestitismo e celebre per le sue opere che sbeffeggiano le credenze religiose occidentali (si pensi alla Vergine che nasce da un pene), si è imposto di non prendere mai di mira l'islam e ha avuto la franchezza di dire chiaramente perché. «Se non ho attaccato esplicitamente l'islamismo con la mia arte», ha dichiarato, «è perché ho molta paura che qualcuno mi tagli la gola.»65
La crisi delle vignette danesi Quando artisti antireligiosi come Grayson Perry criticano la quasi totalità delle religioni, facendo eccezione solo per l'islam, non producono un'arte quasi totalmente libera o controcorrente, bensì arte oggettivamente islamista. Il fatto che agiscano così per paura e non per convinzione non cambia la natura della loro arte. E questa la ragione - e non la codardia o la mancanza di fantasia - per cui quasi tutti gli artisti seri non si sono mai curati di essere «trasgressivi» e «sovversivi» secondo questa moderna accezione del termi
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ne. Sono troppe le possibilità di cadere nel servilismo e nel conformismo. La decisione di Flemming Rose - combattivo direttore delle pagine culturali del quotidiano danese «Jyl- lands-Posten» - di lanciare una campagna di informazione per mettere a nudo questa verità ebbe esiti esplosivi. Un autore danese di libri per bambini aveva dichiarato di non essere riuscito a trovare artisti disposti a illustrare la sua biografia del profeta Maometto, sempre per i soliti motivi. La biografia era benevola e scritta secondo lo spirito del multiculturalismo. L'islam, però, non ammette raffigurazioni di Maometto, e gli artisti temevano ritorsioni violente. Nella speranza di far piazza pulita di tutta questa autocensura, Rose commissionò una dozzina di vignette su Maometto ad altrettanti artisti.66 Furono pubblicate nel settembre del 2005. Alcune erano semplici scarabocchi corredati da battute di spirito. Altre (compresa quella che ritraeva un arabo con una bomba nel turbante) erano offensive. In Danimarca destarono non poco risentimento; in Pakistan scatenarono invece un'ondata di indignazione, tanto che il partito estremista Jamaat-i-islami mise (inspiegabilmente) una taglia sulla testa del biografo. La reazione fu deplorevole, ma probabilmente contenibile. Nelle settimane seguenti, però, due imam residenti in Danimarca mandarono emissari in Medio Oriente per mostrare le vignette a una serie di teste calde molto influenti. Stranamente, gli imam danesi aggiunsero dei disegni pomo- grafici antimusulmani mai pubblicati da «Jyllands-Posten» o da altro giornale. Negli ultimi giorni di gennaio, un predicatore saudita molto seguito in tutto il mondo pronuncio alla televisione un sermone sull'argomento. Nel mondo musulmano divampò la rabbia contro la Danimarca. Siria, Kuwait, Arabia Saudita e Libia ritirarono i loro ambasciatori da Copenaghen. Lo «Jyllands-Posten» fu evacuato due volte per pericolo di bombe. L'ambasciata danese a Djakarta subì un attentato. A Gaza, i terroristi palestinesi minacciarono i turisti danesi, ma anche francesi e
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norvegesi (perché nei loro paesi le vignette erano state ripubblicate) e, chissà perché, anche svedesi. Un gruppo di uomini armati occupò un ufficio dell'Unione Europea a Gaza, e una coppia di tedeschi fu rapita. Il prete cattolico Andrea Santoro fu assassinato a Trebisonda, in Turchia. Poche settimane dopo, a Bengasi, l'esercito libico uccise quindici persone sparando sulla folla che protestava contro un ministro italiano che aveva indossato una maglietta con le vignette stampate. Nel mondo musulmano fu lanciata una campagna di boicottaggio delle aziende danesi come Lego, Bang&Olufsen e Aria Foods, che lamentò perdite quotidiane pari a 2,4 milioni di dollari. La reazione del governo danese e del mondo degli affari europeo fu abietta e strisciante. La catena di supermercati francesi Carrefour affisse poster nei suoi punti vendita con la scritta: «Esprimiamo la nostra solidarietà alla comunità islamica ed egiziana». E poi, in rosso: «Carrefour non vende prodotti danesi». L'aspetto più allarmante della questione fu che i musulmani europei erano più propensi a stare dalla parte dei contestatori all'estero, piuttosto che con i propri concittadini. A Westminster ci furono scene sbalorditive di giovani estremisti che sfilavano con cartelli tipo: «Tagliate la testa a chi insulta l'islam», «Massacrate chi insulta l'islam» e «Europa, striscerai sotto l'assalto dei mujaheddin». Tutte le persone coinvolte nella crisi delle vignette furono perseguitate per anni da minacce di morte. Nel febbraio del 2008 due tunisini e un danese naturalizzato furono arrestati ad Arhus, dove ha sede la redazione del «Jyllands-Posten», per aver progettato l'omicidio del settantatreenne Kurt Wester- gaard, autore di una delle vignette.67 La simpatia dei musulmani europei per le proteste non riguardò piccole frange di violenti e spregiudicati estremisti, bensì fu estesa e profonda. Alla domanda se la controversia derivasse dall'intolleranza musulmana o dalla mancanza di rispetto occidentale, gli europei scelsero in larga maggio
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ranza la prima risposta (67-28% in Francia, 59-19% in Gran Bretagna). I musulmani occidentali, invece, lamentavano la «mancanza di rispetto» per il profeta in proporzioni di poco inferiori a quelle del mondo musulmano: 79-19% in Francia, 73-9% in Gran Bretagna, 80-5% in Spagna.68 «Lo "Jyl- lands-Posten" non inventò nulla con quelle vignette», avrebbe commentato in seguito Rose. «Le vignette parlavano solo di una realtà già esistente.»69 La realtà era l'abissale e reciproca incomprensione tra musulmani e non musulmani in Europa, cosa che agli americani poteva ricordare la divisione razziale che caratterizzò il processo a O.J. Simpson. Tali divaricazioni non erano facili da colmare. I musulmani non avevano avanzato «richieste» esplicite. Nessun dimostrante al mondo potè prendersela con «messaggi» offensivi eventualmente contenuti nelle vignette, perché non ve ne erano. L'oltraggio consisteva semplicemente nella raffigurazione di Maometto. Le proteste, dunque, non erano la richiesta di rispetto o di trattamento equo o di riconoscimento della dignità dell'islam tra le culture del mondo. Erano qualcosa di inedito, un avvertimento ai non musulmani di ogni luogo: chiunque infrangesse i tabù musulmani era in pericolo. L'idea, fino ad allora diffusa in Europa, secondo la quale sarebbe possibile rispettare la libertà di parola e al tempo stesso la dignità della religione si rivelò un'illusione ottica. In precedenza, le due cose erano sembrate compatibili solo perché per circa mezzo secolo, in Europa, nessuno si era sentito di sollevare con urgenza l'argomento della dignità della religione. Quando lo fecero gli immigrati musulmani, la comoda coesistenza tra religione e libertà di espressione divenne un orpello del passato. Ora bisognava scegliere. La maggior parte dei giornalisti e dei politici cercò di dare a intendere che i termini del dibattito non erano cambiati a causa dell'aumento degli attivisti islamici in Europa. Inquadrare l'episodio nello storico dovere europeo di combattere l'antisemitismo e considerare la situazione dei mu
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sulmani analoga a quella degli ebrei d'Europa prima della seconda guerra mondiale era una strategia retorica. «La questione di fondo non è l'"autocensura"», scrisse Edgar Bronfman del World Jewish Congress sul «Times». «Qui si tratta di stabilire se il rispetto per altre fedi religiose, tradizioni e pratiche possa riguardare davvero tutti, compresi i musulmani.»70 Anche Bill Clinton, ex presidente USA, paragonò le vignette all'antisemitismo storico. Un altro approccio fu l'ossessione per la «neutralità» in tutte le politiche governative in materia religiosa e l'imposizione della stessa ai singoli cittadini nelle loro dichiarazioni personali. Sarebbe dunque lecito attaccare la «religione» in astratto (un diritto non molto sensato), ma non l'islam in particolare. «Non ci sarebbe stato nulla da ridire», scrisse la sociologa olandese Jytte Klausen sulla crisi delle vignette danesi, «se il giornale avesse avuto una lunga tradizione di difesa dell'impavida espressione artistica. Si dà il caso, però, che tre anni fa, lo stesso "Jyllands-Posten" si rifiutò di pubblicare vignette su Gesù, per evitare di offendere i suoi lettori.»71 Il giornale satirico francese «Charlie Hébdo» fu denunciato per diffamazione per aver ripubblicato le vignette. L'avvocato cercò di difenderlo affermando che «"Charlie" era stato molto duro [anche] con la religione cattolica».72 L'equiparazione tra le critiche all'islam e l'antisemitismo, da un lato, e la pretesa della «neutralità» intellettuale come prerequisito per partecipare a un dibattito, dall'altro, erano due modi diversi per dire che l'Europa era tenuta a mostrare maggiore rispetto per la religione e meno per il «diritto di offendere» illimitato. Se fosse stato detto in modo esplicito - fuori dal contesto dell'intimidazione violenta - sarebbe stata una posizione difendibile. Tuttavia, nessuno l'ha mai espresso chiaramente. E stato un tentativo di far passare per concessione un atto di sottomissione. Rose non si perse in discorsi vani. Diversamente da buona parte dei provocatori della politica e della stampa, era
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un uomo di cultura che aveva viaggiato parecchio, ex corrispondente da Mosca, anticomunista, parlava russo come un madrelingua e conosceva i confini storici dei dibattiti sulla libertà di parola. Coloro che attaccavano il suo giornale, dichiarò appena prima che scoppiassero le rivolte, gli ricordavano la Commissione ideologia del comitato centrale del PCUS. I censori sovietici affermavano spesso di essere aperti a qualsiasi discorso purché dimostrasse di avere i requisiti per rientrare in un dibattito pubblico legittimo, dopo di che davano la loro definizione estremamente ristretta di dibattito pubblico legittimo. «I professori di diritto sostengono che dietro qualsiasi azione debba esserci un'intenzionalità», disse Rose. E dopo una pausa aggiunse: «No, non c'è nessuna intenzionalità!».73 Rose intendeva dire che la libertà di parola non significa solo libertà di dire ciò che le autorità reputano ragionevole. Tutti i governi - comprese le peggiori dittature del XX secolo - garantiscono quel tipo di libertà di parola. La necessità di tenere a bada l'islam la si sconta con una perdita di diritti.
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8. REGOLE SESSUALI
Libertà sessuale: un punto non negoziabile per l'Europa - Verginità e violenza - Islam o consuetudine? - Il fascino della sharia - Matrimoni combinati - La legge danese sul matrimonio - Controversie sul velo - La legge francese sul velo - Liberazione obbligatoria
I musulmani in Europa vengono da paesi o sono allevati da genitori la cui cultura prescrive la subordinazione assoluta delle donne ai loro mariti e, in generale, agli uomini. Talvolta questa subordinazione è giustificata dalla religione, talaltra no, ma nel mondo musulmano è un dato di fatto sociologico quasi universale. Gli immigrati musulmani in Europa approdano in una società impegnata a proclamare l'uguaglianza tra i sessi. Per loro è uno shock. E molti, anzi, ritengono sia addirittura un imbroglio. Affermano che, in realtà, la società europea opprime loro, i maschi, e in un certo senso è vero. I capiufficio e i buttafuori europei, gli insegnanti e i poliziotti sono molto severi con i maschi musulmani, da loro associati a fenomeni di delinquenza, criminalità e cattivo rendimento scolastico. Le donne hanno meno difficoltà a essere assunte nelle aziende, a frequentare gli spazi pubblici e a essere ammesse nei locali notturni. Le discrepanze nei risultati scolastici sono notevoli e in crescita. In Olanda, le studentesse di legge native sono di poco più numerose degli omologhi maschi; tra gli immigrati non occidentali e i loro figli, le donne iscritte a giurisprudenza sono quasi il doppio degli uomini.1 Non sono tanto rari i casi di donne che lavorano come segretarie di direzione in qualche importante studio legale o come assistenti di sala di famosi chirurghi e hanno il marito tassista o disoccupato.
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Libertà sessuale: un punto non negoziabile per l'Europa La maggioranza dei leader europei propugna l'uguaglianza assoluta tra i sessi, proprio come i leader americani. Eppure una differenza c'è. Gli Stati Uniti sono molto più aperti nei confronti delle donne che scelgono di non lavorare o che vogliono vivere in situazioni domestiche simili a quelle tipiche di cinquant'anni fa. In buona parte d'Europa o, perlomeno, secondo la mentalità della classe dirigente nordeuropea, una tale flessibilità è interpretata come regressione o sconfitta culturale. Il mestiere di casalinga non esiste né come aspirazione né come categoria intellettuale. Nel 2005, in Svezia, la saggista femminista Nina Bjórk sollevò un dibattito a livello nazionale quando, sulle pagine del «Dagens Nyheter», osò affermare che, forse, per i bambini sarebbe stato meglio essere allevati dai propri genitori, anziché in strutture impersonali finanziate dallo stato.2 In Olanda, il filmato che illustra le responsabilità degli aspiranti cittadini olandesi afferma che l'obiettivo del paese è «che tutti, maschi e femmine, lavorino e abbiano un reddito proprio. Comprese le donne con bambini».3 La famiglia con due redditi non è un optional, come negli Stati Uniti, bensì un traguardo. L'adattamento al tipo di sessualità e di relazioni tra i generi vigente in Europa è l'unica condizione non negoziabile che il continente pone agli immigrati. I principi del femminismo che devono essere obbligatoriamente assimilati sono così rigidi che in Svezia esiste un ministro «dell'Integrazione e dell'Uguaglianza fra i sessi» (carica occupata, mentre scrivo, da Nyamko Sabuni, nata in Burundi), come se i due termini fossero solo due modi diversi per esprimere lo stesso concetto. Gli europei sono magari riluttanti a proclamare la propria predilezione per l'alta cultura o la cucina europea, rinunciano volentieri a una parte del proprio diritto di parola pur di non urtare la sensibilità dei musulmani e tacciano di estremismo o fascismo chiunque dichiari
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che l'islam costituisce un pericolo particolare per quanto attiene al terrorismo. Ma quando si parla di sesso, tutto cambia. E il banco di prova per valutare il livello di assimilazione e persino di appartenenza alla comunità nazionale. È l'unica sfera in cui gli europei nutrono profondi sospetti nei confronti dei costumi dei musulmani e una fiducia incondizionata nelle proprie istituzioni. Inoltre, i sospetti ricadono direttamente e senza mezzi termini sull'islam in quanto religione e non su qualche epifenomeno come la «povertà», la «segregazione» o la «tradizione». In Gran Bretagna, il paese europeo dove l'atteggiamento dei musulmani e dei non musulmani nei confronti delle donne è meno distante, il 60% dei nativi considera i musulmani «non rispettosi» nei confronti delle donne. La sfiducia è reciproca ovunque. In Spagna, alla domanda se gli islamici «rispettino le donne», l'83% dei non musulmani risponde di no, a fronte di un misero 12% che afferma il contrario. Se chiedi ai musulmani spagnoli se a loro avviso i non musulmani rispettino le donne, questi rispondono di no in proporzioni quasi identiche (82 contro 13%).4 Quanto all'opinione diffusa tra i tradizionalisti musulmani secondo cui l'abbigliamento succinto costituirebbe un invito all'aggressione sessuale, la femminista egiziana-olandese Nahed Selim scrive: «E probabile che molti musulmani olandesi condividano in pieno questa opinione, anche se, per motivi comprensibili, non lo ammetterebbero mai in pubblico».5 La collisione tra femminismo e immigrazione musulmana crea un problema maschile. Per i maschi musulmani non è così evidente che il sistema occidentale che accorda pari diritti delle donne sia superiore per i suoi meriti. Umiliati dal sovvertimento delle tradizionali relazioni economiche tra i sessi, angosciati nel vedere le proprie donne svincolate dal proprio controllo in una società ricca e edonistica, è facile che guardino con nostalgia alle vecchie tradizioni dei paesi d'origine, dove il comportamento sessuale è più rigidamente regolato dalla comunità. Questo non con
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cerne solo gli immigrati, bensì anche i loro figli maschi nati in Europa, che talvolta danno al femminismo occidentale la colpa della bassa condizione, della castrazione, dei loro padri. Gli uomini si rifugiano in spazi che possono controllare: quartieri popolari, circoli sociali e, soprattutto, moschee. Le moschee sono istituzioni maschili nella maggior parte del mondo, come le chiese tendono a essere luoghi a maggioranza femminile. Tra gli algerini residenti in Francia, per esempio, il 15% degli uomini frequenta le moschee, contro il 6% delle donne.6 Con la proliferazione delle istituzioni musulmane - per quanto moderate e animate da senso civico - prolifera anche un modello alternativo di rapporto tra i generi.
Verginità e violenza La retorica di entrambe le culture sui diritti delle donne va di pari passo con l'idea secondo cui i valori della cultura rivale minaccerebbero la virtù delle giovani. Per molti immigrati, la virtù assume la forma tradizionale della castità; per molti occidentali, quella più moderna dell'autonomia sessuale. Le due cose sono spesso incompatibili fra loro. La «circoncisione femminile» (mutilazione o rimozione della clitoride durante l'infanzia) e l'infìbulazione (cucitura della vagina) sono usanze diffuse nei paesi musulmani dell'Africa orientale come la Somalia, il Sudan e, sebbene in misura minore, anche l'Egitto. Nonostante tali pratiche siano generalmente giustificate sulla base del concetto musulmano di purezza, molti studiosi ritengono che non vi siano indicazioni specifiche al riguardo nel Corano o nella sharia. Di certo, la mutilazione genitale è rara in gran parte del mondo musulmano. Qualunque giustificazione addotta nei paesi d'origine non può avere alcun senso all'interno di una cultura sessuale basata sull'autonomia. Si sarebbe portati a credere
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che uno di questi modelli - quello della castità o quello dell'autonomia debba scomparire. Non è detto. La storia europea è ricca di casi esemplari in cui certi comportamenti sessuali pubblici corrispondevano ad abitudini private assai diverse. Da uno studio condotto dalla libera Università di Amsterdam è emerso che all'interno di alcuni gruppi di immigrati dell'Africa orientale è ancora diffusa la mutilazione genitale, benché venga di norma praticata in occasione di visite nei paesi d'origine, al fine di evitare denunce penali.7 Tali tradizioni vengono difese con ferocia. La senatrice di Anversa Mimount Bousakla fu oggetto di violente minacce per aver tentato di mettere fine alla mutilazione genitale in Belgio. La controversia sulla mutilazione genitale in Svezia mostra come l'integrazione di grandi popolazioni portatrici di culture marcatamente differenti possa significare una perdita di diritti in cambio della pace sociale. Nyamko Sabuni, comprensibilmente allarmata da notizie di mutilazioni genitali, invocò l'introduzione per legge di un esame ginecologico, monitorato dallo stato, per tutte le bambine residenti in Svezia, ma la sua proposta fu respinta dai musulmani come dai non musulmani, in quanto violava la privacy dei cittadini.8 E, in effetti, così era. Si può apprezzare la serietà con cui Sabuni affrontò il problema, ma bisogna anche riconoscere il danno inferto all'ordine costituzionale del paese da un simile approccio. Cinquant'anni fa, se un politico avesse chiesto che i genitori sottoponessero le figlie bambine a un esame intimo monitorato dal governo, l'opinione pubblica sarebbe inorridita. Oggi l'emergenza della mutilazione genitale fa sì che proposte del genere appaiano quantomeno difendibili, se non esattamente realizzabili. Le consuetudini mediorientali, qualora siano seguite in modo rigoroso, sono incompatibili con quelle occidentali, sia cristiane sia laiche. Eppure, com'è noto, sono compatibili con la scienza e la tecnologia occidentali. Da un punto di vista strategico, questa mistura di elementi ha dato vita al
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l'ideologia ibrida del terrorismo islamista. Da un punto di vista economico, ha reso possibile la cultura da centro commerciale dei paesi del Golfo. Da un punto di vista culturale, ha trasformato molti quartieri popolari europei in versioni moderne e computerizzate dei villaggi musulmani tradizionali, dove la verginità di una ragazza è il bene più prezioso in assoluto. I genitori musulmani a volte richiedono il «certificato di verginità» ai ginecologi delle figlie.9 In Olanda, la ricostruzione degli imeni rotti veniva spesso sovvenzionata dalla sanità pubblica, prima dell'intervento del ministro della Sanità nel 2004.10 Nel 2007, in Gran Bretagna è scoppiato un piccolo scandalo quando si è scoperto che nei due anni precedenti decine di «ricostruzioni chirurgiche dell'imene» erano state pagate con i soldi della collettività. 11 «Daily Mail» intervistò un medico specializzato in questo genere di operazioni, incluse quelle prematrimoniali, in cui «viene costruita una membrana, a volte contenente una capsula piena di una sostanza simile al sangue».11 Questa cultura ibrida, questo puritanesimo tecnologicamente avanzato è davvero qualcosa di inedito e alternativo. Costituisce, di fatto, un'evoluzione della «diversità», benché sia improbabile che venga celebrata in quanto tale. Ci sarebbe molto da dire sull'attribuzione di un grande valore alla castità e alla verginità: di certo, può incentivare la dignità, la responsabilità e il rispetto di sé. Quello che indigna degli interventi chirurgici che «ricostruiscono» la verginità non è la pruderie, bensì l'ipocrisia, la sgradevolezza della pratica e il fatto che a volte venga addirittura pagata con denaro pubblico. A parte questo, sempre che si tratti di una libera scelta, perché dovrebbe turbarci più di una normale vasectomia? O dei vari lifting, innesti e piercing a cui si sottopongono gli occidentali pur di adeguarsi alle aspettative sessuali, più o meno ragionevoli, della loro società, o per combattere (che poi è la stessa cosa) la loro mancanza di autostima, giustificata o meno che sia?
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Tuttavia, non occorre essere libertini o femministe per comprendere che, a livello antropologico, l'ossessione per la verginità può avere risvolti ben più sgradevoli. Di solito la si critica perché, considerati gli istinti sessuali umani, è molto difficile rimanere vergini fino al matrimonio, e quando la carne è debole la colpa ricade sempre sulle donne e mai sugli uomini. D'altro canto, all'interno di una sottocultura sessista, questo non è che uno dei tanti motivi di preoccupazione per una donna. Le società dominate dai maschi, infatti, non stabiliscono il requisito della verginità nonostante sia diffìcile da rispettare, bensì a causa di tale difficoltà. Tale norma crea una categoria di «sgualdrine» che gli uomini possono usare sessualmente conservando la coscienza pulita, perché queste donne hanno violato le leggi della società e in tal modo se ne sono giocate il rispetto.12 E dove le famiglie, la polizia e le altre istituzioni sociali sono deboli, si crea un clima di terrore sessuale. Samira Bellil, di origine algerina, residente nel quartiere socialmente molto degradato di Seine-St-Denis, decise di spendere gli ultimi anni della sua breve vita (morì di cancro nel 2004) a denunciare la pratica dei tournantes, o stupri di gruppo, praticati in una serie di quartieri popolari francesi. La Bellil era stata violentata diverse volte, la prima a 14 anni, da gruppi capeggiati da un giovane del luogo particolarmente intraprendente. Quando alcune amiche le confidarono di essere state stuprate dallo stesso ragazzo, lei prese la decisione di andare dalla polizia a denunciarlo. A quel punto, fu abbandonata dalla sua stessa famiglia. Quanto più il codice imposto è vago e arbitrario, tanto meglio si adatta ai predatori. Nel 2002 Sohane Benziane, una giovane donna berbera che viveva nei dintorni di Parigi13 fu condotta a forza in una cantina abbandonata, dove un caïd locale (una specie di piccolo boss) di nome Jamal Derrar, che aveva tentato senza successo di avere rapporti sessuali con lei, la cosparse di benzina e la bruciò viva. Derrar, che definiva la Benziane la sua «fidanzata», si era con
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vinto che lei avesse messo in imbarazzo la comunità tenendo un comportamento indecoroso che solo lui si era immaginato.14 Questo fu l'episodio che indusse l'attivista franco-al- gerina Fadela Amara (futuro segretario di stato francese per gli Affari Urbani) a fondare l'importante organizzazione Ni Putes Ni Soumises (Né puttane né sottomesse). I cosiddetti «omicidi d'onore», la forma più grave di intimidazione sessuale, si concentrano nelle comunità curde e, in minor misura, pakistane. Si tratta di fratelli che assassinano le proprie sorelle (o padri che uccidono le proprie figlie) colpevoli di aver infranto una qualche regola di decenza sessuale (di solito, indossando vestiti occidentali o uscendo con uomini non musulmani). In Germania, secondo uno studio condotto nel 2005 dalla polizia investigativa federale, ci sono stati quarantacinque omicidi di questo tipo solo nella prima metà del decennio.15 A Berlino, Ha- tun Surucù «disonorò» la famiglia uscendo con un tedesco e allevando un bambino da sola. La sua uccisione spettacolare a opera di alcuni fratelli in pieno giorno all'inizio del 2005 fu uno dei sei episodi del genere verificatisi nello stesso anno nella sola Berlino. Fadime Sahindal, immigrata curda in Svezia, nel 2001 suscitò un'ondata di indignazione nazionale raccontando in parlamento di come fosse stata inseguita per tutto il paese dal padre e dai fratelli perché avevano scoperto che si era innamorata di uno svedese: Improvvisamente, da brava ragazza che ero, mi sono ritrovata una sgualdrina. Ho deciso di tagliare i ponti con la mia famiglia e di trasferirmi nel Sundsvall. Mio fratello mi ha rintracciata per minacciarmi. La situazione degenerò sempre di più, sempre peggio. Il motivo per cui era stato mandato proprio lui era che, essendo ancora minorenne, sarebbe stato trattato meno severamente dalla legge.16 L'utilizzo di minorenni per la messa in atto della violenza d'onore è un'abitudine diffusa, come si è visto anche nel ca
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so dell'omicidio di Hatun Surùcu. Può essere che le famiglie curde siano troppo confuse dalla cultura occidentale per garantire autonomia alle loro donne - lasciò intendere la stessa Sahindal - ma sono senz'altro abbastanza astute da capire che il codice penale occidentale concede ai minorenni la quasi impunità persino per crimini gravi come un tentato omicidio. Il padre di Sahindal aveva ricevuto un'ingiunzione penale che gli vietava qualsiasi contatto con la figlia, ma otto settimane dopo, quando la giovane andò a trovare la madre a Uppsala, le tese un agguato e la uccise con una pistola.
Islam o consuetudine? A differenza delle rivolte urbane, per esempio, o delle dimostrazioni contro Stati Uniti o Israele, la violenza dei musulmani sulle donne non suscita alcun imito alla «comprensione» delle circostanze che l'ha provocata. Roger Cohen, saggista acuto e sensibile che si occupa di immigrazione europea, commenta in questi termini gli omicidi d'onore: «Una cosa è la cultura autentica di un popolo, un'altra la violazione di diritti umani fondamentali come l'uguaglianza tra uomini e donne».17 Il fatto che la cultura curda possa essere violenta e sessista non la rende meno autentica. E neppure l'uguaglianza tra uomini e donne è un diritto tanto «fondamentale»; in un'ottica globale, anzi, si tratta di una peculiarità, della vittoria di una corrente del pensiero sociale occidentale (d'élite) diffusasi a partire dal XIX secolo. Bastano pochi atti di violenza perché questa conquista si trasformi in rischio per un'intera comunità di donne musulmane. Ci vorranno molti anni perché l'omicidio di Fadi- me Sahindal smetta di terrorizzare le ragazze curde in Svezia. Il significato di efferatezze come il rogo di Sohane Ben- ziane va ben al di là del singolo episodio di orrore e violenza. Atti del genere dettano legge. Istituiscono, in una parte
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del territorio europeo, la sovranità di un regime sessuale alternativo. Qual è la natura di questo regime? Uccidere, bruciare, mutilare le donne è un modo per obbedire ai dettami dell'islam? O l'islam è solo una scusa a posteriori per giustificare la brutalità? Non è facile stabilirlo. La subordinazione delle donne è senza dubbio presente nella maggior parte delle culture islamiche. La circoncisione femminile e gli omicidi d'onore come sanzioni disciplinari nascono da tradizioni specifiche dell'Africa orientale e dell'Anatolia orientale, entrambe regioni a maggioranza musulmana. Tuttavia, bisogna fare attenzione a non confondere la misoginia e la violazione della legge di alcuni musulmani con l'islam conservatore o, addirittura, con l'islam radicale. I musulmani conservatori in Occidente si sono spesso adoperati per estirpare pratiche tradizionali particolarmente ripugnanti agli occhi degli occidentali laici. Hassan Moussa, del Consiglio degli imam svedesi, ha combattuto in prima persona contro la pratica della circoncisione femminile.18 A Duisburg, Yasemin Yadi- garoglu, musulmana devota con tanto di hijab, ha guidato una campagna contro la pratica turca di sposarsi tra cugini, definendola un «travisamento dell'islam».19 I musulmani più politicizzati, i radicali o islamisti, non sempre hanno posizioni prevedibili in tema di rapporti tra i sessi - ce ne sono di tradizionalisti e di modernisti, di sostenitori dell'uguaglianza e di sessisti. Le giovani donne del gruppo Hofstad, di cui faceva parte l'assassino di Theo van Gogh, dissero al giornalista investigativo olandese Janny Groen che il radicalismo islamico era per loro un modo per sfuggire alla tradizione. «Nelle moschee imparano a conoscere l'islam "puro", quello di 1400 anni fa», scrive Groen. «Lì viene insegnato loro che uomini e donne sono biologicamente diversi, ma che a quei tempi erano uguali. Imparano in modo schietto a conoscere i loro diritti sessuali. Per quelle ragazze l'islam "puro" è come una liberazione dai partner oppressivi.»20 Hanno persino trovato una scappa
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toia all'interno della legge islamica che, se interpretata con una certa capziosità, permette loro di godere della generale promiscuità della società olandese, grazie a matrimoni poligami informali che durano da cinque giorni a qualche mese. Il giornalista britannico Shiv Malik ha rilevato lo stesso fenomeno tra i musulmani radicali del suo paese. «Tra i fattori che hanno maggiormente contribuito alla crescita del radicalismo islamico c'è il matrimonio», scrive. «Il principio più importante dell'islamismo è quello per cui i musulmani non devono essere divisi da questioni razziali o dal nazionalismo, perché costituiscono un unico popolo. Questa può essere una valida ragione per non sposare il proprio cugino.»21 L'edonismo occidentale è disprezzato da molti musulmani radicali, ma il desiderio di sfuggire alla famiglia tradizionale e di fare più sesso può essere un incentivo alla radicalizzazione dei giovani musulmani.
Il fascino della sharia «Presi a uno a uno», scrive l'esperto di islam francese Olivier Roy, «gli elementi dell'islam che appaiono incompatibili con l'Occidente (il velo, la carne ballai) in realtà non lo sono, compresa la questione delle donne.»22 Presi a uno a uno, però, anche i pezzi di una pistola sono innocui. Gli europei hanno l'impressione che gli ostacoli posti dall'islam all'assimilazione nascano in qualche misura dal modo in cui tutti i pezzi compongono l'insieme, dall'ampiezza del sistema alternativo che regola questa religione, ossia dall'insieme di leggi sacre conosciute con il nome di sharia. La gente può liberarsi da convenzioni morali oppressive, ma non dal bisogno di convenzioni morali nel suo complesso. «Coscienza individuale» significa perlopiù libertà di scegliere fra tali convenzioni, combinata con l'integrità che renda capaci di fare la scelta giusta. E nella natura umana
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orientarsi verso le convenzioni proclamate con maggiore convinzione e da più tempo. La sharia corrisponde a questa descrizione. Essa, naturalmente, ha molte sfaccettature. Per gli europei, è un orribile spettro alimentato dalla stampa scandalistica: la legge del taglione ancora in vigore in Arabia Saudita; la lapidazione delle adultere, praticata in Iran a partire dalla rivoluzione khomeinista nel 1979. La sharia è anche questo, ovviamente. In Europa, però, è anche una realtà molto più articolata e spesso persino ammirevole. Ci sono macellai ballai in tutto il continente. Ci sono fondi d'investimento che rispettano i principi della sharia (come quelli offerti dalla Deutsche Bank) per i musulmani che non vogliono investire in alcool, tabacco, carne dì maiale o gioco d'azzardo.23 Molti di essi hanno fruttato bene nel 2008.24 Ci sono imam e studiosi che fanno da mediatori nelle procedure di divorzio. La questione cruciale è se la sharia continuerà a essere una questione privata e volontaria (come, per esempio, le pratiche kosher) o se riceverà qualche riconoscimento da parte dello stato. L'Europa tende verso quest'ultima direzione. Nel 2008 l'arcivescovo di Canterbury Rowan Williams ha tenuto un discorso sulla religione e il diritto britannico davanti alle Royal Courts of Justice. Durante una successiva intervista ha dichiarato: «In questo paese esistono già alcune situazioni in cui la legge interna delle comunità religiose è riconosciuta dal diritto nazionale».25 Da una parte, si riferiva all'obiezione di coscienza e, dall'altra, al ricorso alla corte rabbinica da parte degli ebrei ortodossi per la convalida dei matrimoni e per i divorzi. Con cautela, nel corso della conferenza, aveva suggerito «una delega di certe funzioni legali alle istanze religiose delle comunità».26 Come prevedibile, ne è scaturita una tragedia. Atto primo: i giornali scandalistici insorgono dicendo che l'arcivescovo aveva parlato bene della sharia - il «Sun» titolò, tra l'altro:27 Vittoria del terrorismo, Arci nemico e Bish Bosh: What a
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Load ofTosh! 7 Atto secondo: un'altrettanto fastidiosa difesa dell'arcivescovo viene inscenata da alcuni attivisti musulmani che sottolinearono come, stando così le cose, gli ebrei fossero favoriti o, almeno, trattati meglio dei musulmani dalla legge britannica. Atto terzo: l'arcivescovo Williams e la parte «assennata» della stampa obiettano che le sottili argomentazioni del prelato sono state fraintese e distorte dalla parte più rozza dell'opinione pubblica. In questa vicenda, però, la stampa scandalistica aveva visto più lontano dei difensori dell'arcivescovo. In effetti, le corti rabbiniche o Battei Din (Case di giustizia), presentì in Gran Bretagna sin dal XVIII secolo,28 vengono riconosciute solo come istanza arbitrale vincolante, simile a quelle cui possono rivolgersi le aziende nelle trattative d'affari. Le loro decisioni non rientrano nel «diritto nazionale», nella misura in cui non comportano la stipula di contratti. 29 Anche i musulmani, se lo desiderano, possono avvalersi di possibilità analoghe. Ma, allora, a quale tipo di accordo con i musulmani alludeva Williams nel suo lungo discorso? In realtà, sembrava davvero invocare una giurisdizione interna per i credenti delle comunità (sia pur con lo stato a fungere da ultima istanza), e non semplicemente il diritto di chiunque a sottoporsi a un arbitrato vincolante. I lettori dei tabloid non sono gli unici a temere l'introduzione della sharia - come legge vera e propria - in certe comunità europee. In Gran Bretagna, il 37% dei musulmani tra i 16 e i 24 anni vorrebbe che fosse introdotta, e il 37% è favorevole alla pena di morte per quei musulmani che si allontanano dall'islam.30 La maggioranza dei musulmani in Irlanda (57%) vorrebbe che il paese diventasse uno stato islamico.31 Posizioni del genere sono compatibili con un popolo lontano dalla propria terra, che si rifugia nella
7 Il senso di questa «rima» intraducibile è: arcivescovo sconclusionato dice un mucchio di sciocchezze, [n.d.t.]
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nostalgia. Sono anche compatibili con l'atteggiamento di un popolo che sta pazientemente conquistando le città dell'Europa, strada dopo strada. Alla fine del 2006 il ministro della Giustizia olandese Piet-Hein Donner aveva dichiarato in un'intervista: «Se due terzi di tutti gli olandesi volessero introdurre la sharia domani, sarebbe senz'altro possibile? Non esisterebbero vincoli di legge? Certo, sarebbe vergognoso dire: "Non si può fare". Ciò che conta è la maggioranza. Questa è l'essenza della democrazia».32 Ovviamente, ha ragione. Non sarà forse l'essenza del liberalismo, ma della democrazia sì. E improbabile che a breve succeda che due terzi degli olandesi vogliano introdurre la sharia. Ma è probabile che due terzi di alcune comunità più piccole e caratterizzate da una massiccia immigrazione la vogliano subito. Contro tali comunità le obiezioni che si possono muovere sono in difesa del liberalismo, non della democrazia. Alcuni aspetti della sharia riguardanti il sesso sono difficili da limitare, una volta che la democrazia abbia optato per la liberazione sessuale. Può sembrare paradossale ma non lo è. L'accettazione della poligamia, per esempio, sembrerebbe una logica conseguenza dell'attacco alla legislazione «etica» condotto negli ultimi cinquant'anni, a partire dalla revoca, nel 1960, della censura sul romanzo L'amante di Lady Chatterley per arrivare ai «Pacs» francesi e altre leggi sulle unioni civili approvate negli anni Novanta. Tutte queste riforme condividono l'obiettivo di fare della moralità sessuale una questione di coscienza individuale. Alla gente viene accordato il diritto di organizzare i propri rapporti interpersonali su base contrattuale senza intervento alcuno da parte dello stato e senza l'avallo di consolidate norme sociali. Dove lo stato non può più esigere che il matrimonio comporti una presa d'impegno nei confronti di un individuo del sesso opposto, non c'è motivo (a parte la superstizione) di pretendere che il matrimonio si limiti a una persona sola o a molte. Il tema della poligamia, tradizionale in alcune culture musulmane, non ha mai appassionato granché l'opinione
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pubblica. Neppure il potenziale costo sociale costituito da mogli aggiuntive nate all'estero ha suscitato particolare indignazione tra gli europei. Nel 1991, in un discorso a Gro- ningen, il liberal olandese Frits Bolkestein cercò di giustificare il principio secondo cui il diritto di ricongiungimento familiare non poteva essere esteso al matrimonio poligamo. La JOVD, organizzazione giovanile del suo stesso partito, prese le distanze dalle sue dichiarazioni, e altri lo accusarono di fomentare un «sentimento anti-islamico».33 Nel febbraio del 2008, il dipartimento britannico per il Lavoro e la previdenza sociale emise una direttiva che accordava il riconoscimento (e una serie di benefici) alle mogli aggiuntive. «In presenza di un matrimonio poligamo valido, al richiedente e a una delle mogli sarà corrisposto un importo doppio», recitava la direttiva. «La cifra da versare per ognuna delle mogli aggiuntive è attualmente di 33,65 sterline.»34 La poligamia ha invece suscitato polemiche per questioni che non riguardano né la morale sessuale, né il denaro. Gli osservatori sono in maggioranza persuasi dell'esistenza di decine di migliaia di famiglie poligame in Francia, molte delle quali originarie dell'Africa occidentale.35 All'indomani delle rivolte scoppiate nelle banlieues del paese nel novembre del 2005, due esponenti dell'UMP, il ministro del Lavoro Gérard Larcher e il leader del partito Bernard Ac- coyer, provarono a incolpare la poligamia. Come però la poligamia potesse essere considerata responsabile non era chiaro - aveva qualcosa a che fare con ristretti spazi vitali. Si aveva l'impressione che mettere in discussione il matrimonio nascondesse uno scopo ulteriore, ed era vero.36
Matrimoni combinati In molti paesi europei, le questioni legate ai matrimoni non costituiscono un aspetto del problema dell'immigrazione, bensì coincidono con esso.37 Quando, durante la cri
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si economica del 1973, il programma tedesco di «importazione» di lavoratori ospiti fu bruscamente interrotto, la massiccia immigrazione dalla Turchia non si ridusse altrettanto drasticamente. Per anni i turchi continuarono a ottenere il diritto d'asilo con estrema facilità, per via degli omicidi politici, dei colpi di stato e del violento movimento nazionalista curdo attivo nell'Anatolia orientale. Dagli anni Novanta in poi, sotto la pressione dei profughi dei Balcani, anche la Germania, al pari dei paesi vicini, rese più severi i criteri per la concessione dell'asilo politico. Una porta d'accesso all'Europa rimase però spalancata, perché non poteva essere chiusa senza compromettere i diritti dei nativi. Stando ai dati del ministero dell'Interno tedesco, metà dei cittadini di origine turca va a cercar moglie in Turchia. Circa 25.000 persone all'anno, per due terzi donne, hanno richiesto e ottenuto per anni nei consolati in Turchia il permesso di formare una famiglia in Germania.38 Ciò significa che a partire dagli anni Ottanta vi è stato un afflusso di mezzo milione di mogli «importate», con la formazione di nuovi nuclei familiari grazie ai quali fratelli, sorelle, genitori e figli avrebbero potuto in seguito fare le loro legittime domande di ricongiungimento familiare. La «migrazione a catena», come viene generalmente chiamata, assicura la crescita esponenziale della popolazione minoritaria, anche se i confini sono del tutto chiusi ai migranti illegali. La popolazione turca in Germania nell'arco di un ciclo vitale si moltiplica non una volta, bensì due: con le nascite e con il matrimonio. La situazione è simile in tutti i paesi europei. In Francia, il numero di mogli straniere è salito da 23.000 nel 1990 a più di 60.000 nel 2004,39 e l'immigrazione da ricongiungimento familiare rappresenta ormai il 78% di quella legale permanente.40 In Danimarca, la stragrande maggioranza di turchi e pakistani di prima, seconda e terza generazione torna nei paesi natii per prendere moglie; da alcuni studi è emerso che, per quanto riguarda i turchi, il tasso supera il
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90%. Sulle pagine della «Bradford District Race Review», pubblicata dopo l'ondata di scontri razziali dell'estate 2001, Sir (in seguito lord) Herman Ouseley dichiarò che il «50% dei matrimoni nella comunità asiatica avviene con residenti acquisiti incapaci di comunicare in lingua inglese, cosa che limita la loro partecipazione alle attività sociali ed educative della società nel suo insieme».41 Il 60% dei pakistani e bengalesi sì sposa con donne nate all'estero, fattore determinante per spiegare la crescita del 50% circa della popolazione pakistana di Manchester, Birmingham e Bradford negli anni Novanta.42 Sessant'anni dopo l'immigrazione di massa dal subcontinente indiano, tre quarti dei bambini bengalesi tra 0 e 4 anni hanno madri nate in Bangladesh.43 Perché questa grande quantità di matrimoni fra migranti dovrebbe costituire un problema? Se i migranti si assimilassero, non ci sarebbero difficoltà. Gli stessi matrimoni, però, dimostrano la scelta collettiva di non assimilarsi. Come fanno notare i demografi David Coleman e Sergei Scherbov, la migrazione coniugale nel Regno Unito «è aumentata in maniera direttamente proporzionale alla crescita delle fasce d'età più giovani della minoranza etnica asiatica».44 Che la predilezione per i matrimoni con straniere incentivi l'ulteriore aumento di un gruppo etnico in un paese europeo è una triste sorpresa. Indica che una «minoranza etnica» non aspetta con pazienza di essere abbastanza gradita da poter essere assimilata, bensì di essere abbastanza forte da separarsi del tutto. Ci si potrebbe chiedere se questo desiderio di separazione riguardi gli immigrati o i nativi. Nel 2000 l'Istituto tedesco per la gioventù rilevò che il 53% delle donne turche tra il 16 e i 29 anni non avrebbe mai preso in considerazione l'ipotesi di sposare un tedesco «in nessuna circostanza».45 Il sentimento, però, è reciproco. Da un'indagine condotta alla fine degli anni Novanta è emerso che per la maggioranza dei tedeschi sarebbe «spiacevole» avere un parente turco.
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Tra i musulmani britannici, i nuovi arrivati sembrano i più desiderosi di accelerare la segregazione. I ricercatori Tariq Modood e Richard Berthoud hanno dimostrato che solo l'l% dei bengalesi britannici e pakistani ha partner bianchi, contro il 20% degli afrocaraibici.40 I matrimoni tra i musulmani tradizionalisti sono raramente unioni d'amore in stile occidentale. Quelli dei turchi in Germania vengono spesso combinati dai genitori. Uno studio del 2003 del ministero federale per la Famiglia ha rilevato che un quarto delle donne turche in Germania non aveva neppure conosciuto il marito prima del matrimonio. Diffusa è la pratica dell'Anatolia rurale di far sposare giovani imparentati tra loro, di solito cugini di primo grado. Secondo il Centro per gli studi sulla Turchia dell'Università di Duisburg-Essen, ciò riguarda da un sesto a un quarto delle unioni binazionali. Questi matrimoni portano nel cuore della Germania tradizioni dell'Anatolia che, in molti casi, risultano detestabili per gli europei. L'intimidazione domestica, ossia il pestaggio delle mogli, è una pratica dominante in molte culture musulmane. Si può discutere sulle cause del fenomeno, ma non sulla sua diffusione. Gülgün Teyhani, responsabile della Casa delle donne maltrattate di Duisburg, ha dichiarato che tra le ottantasei donne accolte dalla sua organizzazione nel 2006, sessanta avevano un passato da migranti e ben cinquantuno parlavano solo turco.47 I medici dell'Inghilterra del Nord hanno segnalato numerosi casi di donne pakistane ricoverate in ospedale con i volti permanentemente sfigurati da «incidenti con la friggitrice», sennonché alcune di loro non avevano, in casa, una friggitrice.48 Scotland Yard sospetta che si tratti di una forma di punizione per qualche trasgressione contro la morale sessuale o l'autorità del marito. Ancora più difficile è stabilire se i matrimoni siano decisi liberamente o imposti con la forza. Un rapporto pubblicato dal senato tedesco nel 2002 documentò centinaia di lamentele relative a matrimoni «obbligati». Ma se un matrimonio
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sia obbligato o meno è questione di punti di vista. Nella cultura turca, per esempio, la gente tende a parlare di libertà della famiglia piuttosto che dell'individuo. Fino a qualche decennio fa, le culture occidentali in genere condividevano questa concezione della libertà. Se la si accetta, i fidanzamenti in stile turco non sono altro che normali consultazioni all'interno di una famiglia unita. Non coinvolgono mediatori o istituzioni extrafamiliari. Ovviamente, sorgono conflitti culturali tra generazioni di immigrati. Un padre influenzato dalla mentalità del suo villaggio può scegliere un anziano abitante di un villaggio dell'Anatolia come marito per la propria figlia nata in Italia e iscritta a un corso universitario in Irlanda. Non tutte le figlie, però, si oppongono ai matrimoni combinati. E non è neppure detto che debbano farlo. Questo tipo di matrimoni può vantare risultati migliori quanto a capacità di creare relazioni durevoli - persino in Europa - rispetto ai più individualistici matrimoni europei. Più ci si avvicina alla cultura europea, più ci si allontana dalla famiglia e dalla sua raison d'ètre, cioè i figli. Nel Nord Reno-Westfalia, il Land più popoloso della Germania, l'80% dei turchi tra i 25 e i 34 anni è sposato; l'età media in cui si sposano è 21 anni per le donne e 24 per gli uomini. Tra i non turchi, solo il 32% dei giovani tra i 25 e i 34 anni è sposato; in media, il matrimonio avviene a 29 anni per le donne e a 32 per gli uomini. I tedeschi hanno il tasso di fertilità più basso della storia del mondo: 1,36 bambini per donna, secondo i dati relativi al 2004. Benché sia difficile stabilire cifre precise per i turchi in Germania, si ritiene che il tasso sia più alto. Il tasso di natalità in Turchia è quasi il doppio: 2,4 bambini per donna. Se assimilazione significa avere buone probabilità di rimanere senza figli in coincidenza con la mezza età e in solitudine durante la vecchiaia, be', per molti turchi è un prezzo troppo alto da pagare. Il ministro degli Interni tedesco Wolfgang Schäuble tende a non vedere coercizione in questi accordi familiari. «I
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matrimoni imposti sono illegali», dichiarò nel 2007. «Sono violazioni dei diritti umani. Non rispecchiano le norme più elementari di una società libera. I matrimoni combinati, però, sono qualcosa di più complesso.»49 Schäuble ammette, d'altro canto, che la tendenza dei turchi a cercar moglie all'estero è il «motivo principale per cui non sono stati fatti passi avanti nell'integrazione nonostante il susseguirsi delle generazioni». E più facile che i figli delle centinaia di migliaia di nuove famiglie che si sono formate con l'immigrazione siano di madrelingua turca piuttosto che tedesca. Non è raro che maestri di scuola raccontino di ex alunni modello, figli di lavoratori ospiti degli anni Settanta, i cui bambini faticano, benché nati in Germania, a imparare il tedesco alle scuole elementari. Dopo mezzo secolo di immigrazione, ogni nuova generazione di turchi è ancora in larga misura una prima generazione.
La legge danese sul matrimonio Naturalmente, per gli europei i matrimoni combinati non sono soltanto un problema demografico, bensì anche uno schiaffo morale, una manifestazione di disprezzo. Così facendo, i musulmani, dopo essere stati accolti dalla società europea, la ripudiano mostrando di ritenere che non esista nel nuovo paese persona con cui valga la pena di sposarsi e mettere su famiglia. E il disprezzo non colpisce soltanto i nativi europei, bensì anche i musulmani contaminati da abitudini occidentali. Per trovare un «vero uomo» o una «vera donna», bisogna andare a Diyarbakir o Tetuan. Secondo una ricerca condotta dal Centro per gli studi sulla Turchia, i giovani turchi cresciuti in Germania, sia maschi sia femmine, vedono i loro amici turco-tedeschi di sesso opposto come «lontani dalla loro cultura, o "degenerati"». Poiché le giovani donne tradizionali mettono su famiglia, mentre quelle assimilate fanno fatica a trovare compagni, la
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prossima generazione sarà allevata - inevitabilmente - da coloro che si sono assimilati di meno. Ora torniamo all'affermazione di Marcello Pera, secondo cui qualsiasi migrazione da un luogo A a un luogo B implicherebbe la superiorità della cultura del secondo, e consideriamo quanto sia sciocca e insensata. Il comportamento degli immigrati e dei loro figli relativamente al matrimonio (per non parlare della storia della colonizzazione) dimostra che si può benissimo migrare in un luogo rimanendovi ostili o, quantomeno, senza nutrire un particolare attaccamento nei suoi confronti. E vero, come dice il luogo comune, che gli immigrati «desiderano solo una vita migliore», tuttavia non desiderano vivere all'europea. Desiderano vivere come nel Terzo mondo, ma con un tenore di vita europeo. Desiderano sfruttare il cosmopolitismo reso possibile dallo stato di diritto europeo al fine di ottenere la cittadinanza per le loro mogli non femministe e le loro usanze preilluministiche. Questi matrimoni non sono più fragili di quelli europei, anzi sono forse più solidi. E per questo potrebbero finire per corrodere le istituzioni sociali europee. Qualsiasi corrente di pensiero europea, dal femminismo al nazionalismo, vorrebbe che fossero fermati. Ma com'è possibile in una società regolata dallo stato di diritto, dove persino un ministro degli Interni tedesco ammette che si tratta di contratti di matrimonio stipulati liberamente? Alcuni paesi europei sono riusciti a imporre severe restrizioni a coloro che scelgono di sposare degli stranieri. Ciò ha inevitabilmente intaccato la costituzione dei paesi in questione, comportando una perdita di diritti e di libertà per i nativi. Dopo l'assassinio di van Gogh, l'Olanda ha imposto esami di educazione civica e di lingua autoctona a tutti coloro che intendevano sposare cittadini olandesi. Nei matrimoni che coinvolgevano un cittadino non UE, entrambe le parti dovevano avere più di 21 anni. (Da alcuni studi è emerso che più il matrimonio è precoce, più è probabile che sia combinato.) Il governo tedesco ha seguito
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subito l'esempio: nel 2007 ha innalzato l'età minima delle spose straniere a 18 anni. I prowedimenti più severi in questo senso li ha adottati la Danimarca. Con la sua legge sugli stranieri, estesa e resa più severa negli ultimi due decenni sotto l'influenza del Partito popolare danese (DF), fortemente contrario all'immigrazione, i matrimoni sono ora regolati da una serie di test, attese e selezioni estremamente rigorosa. I cittadini al di sotto dei 24 anni che sposano cittadini extra UE non possono, salvo casi particolari, risiedere all'interno della Danimarca. L'esperimento danese, con le sue restrizioni, ha avuto un successo sbalorditivo. Nel 2002 il 67,7% dei danesi di origine non occidentale si sposava con stranieri; nel 2005 il dato era già sceso al 37,9%.50 In rapporto ai diritti umani vigenti nella UE, questa legge è inattaccabile perché non fa il minimo riferimento a questioni di razza, religione e appartenenza etnica. Si configura come misura neutra, dal punto di vista razziale, perché, invece di concentrarsi sul problema a cui cerca di porre rimedio, sottrae diritti a tutti i cittadini. «Ha avuto conseguenze bizzarre per gente che non si sarebbe mai aspettata di doversi scontrare con le autorità in materia di immigrazione», dice T0ger Seidenfaden, giornalista del quotidiano «Politiken», che ha condotto una lunga campagna contro questa legge.51 «La legislazione vale tanto per i danesi quanto per gli stranieri», afferma orgoglioso il ministro per l'Integrazione Rikke Hvilsh0j.52 E, tuttavia, introduce un'innovazione costituzionale che coinvolge i diversi gruppi etnici in modo differente: la tillknytningskrav, ossia la durata del proprio «legame» con la Danimarca. I cittadini sono esenti dal provvedimento dopo ventotto anni di «legame» (cioè, in pratica, di cittadinanza). Un nativo di 22 anni potrà portare la moglie nata all'estero a vivere a Copenaghen dopo tre anni, perché a quel punto lei avrà accumulato tre anni di cittadinanza e lui compiuto 25 anni. Ma un ventenne divenuto danese solo due anni prima dovrà attenere a lungo
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prima di poter essere accolto con sua moglie. Una volta stabilito il principio, buona parte delle chiacchiere sentimentali sull'immigrazione mostra la sua vera natura di educata finzione o di cinica impostura. Mettendo al bando le ipocrisie, viene fuori che il ventenne naturalizzato Mohammed non è «danese come te e me». Forse lo sarà dopo. AI momento, però, lui e il suo passaporto danese sono sotto controllo: «Possiamo solo dire: "E necessario"», dichiara Hvil- sh0j. «Spero che un giorno non ce ne sarà più bisogno.»33 La Danimarca è riuscita ad arginare l'insediamento della cultura musulmana sul proprio territorio dando l'impressione di essere preoccupata per i matrimoni precoci e avventati e non per l'islam e l'immigrazione. L'opinione pubblica europea comincia non solo ad accettare, bensì a pretendere che i governi oscurino la verità, o almeno nascondano il vero intento delle leggi che approvano. Qualcosa di simile è successo quando gli europei hanno cominciato a desiderare disperatamente che qualcuno fermasse la diffusione del velo musulmano.54
Controversie sul velo Poiché il pudore delle donne è raccomandato dal Corano e dalla Sunna, tutte le culture musulmane hanno sempre prescritto qualche forma di «velo» o copertura del capo. Può trattarsi di un foulard largo del tipo indossato in Turchia, ma le donne più all'antica indossano lo hijab, che copre tutti i capelli. Il niqab, che lascia intravedere solo gli occhi, viene portato dalle donne saudite, insieme all'ingombrante abaya nero che copre il corpo. Il famoso burqa, diffuso in Afghanistan da quando salirono al potere i tale- bani, nasconde il corpo interamente. Come abbiamo visto, gli europei, all'inizio dell'immigrazione non fecero molto caso alla religione dei nuovi arrivati. Per quanto riguardava le donne, non ne avevano motivo.
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Diverse figlie di immigrati anche molto religiosi - cioè la maggioranza si «emanciparono» in fretta, adottando stili di abbigliamento meno costrittivi. Quando però i musulmani cominciarono a sentirsi a casa propria in Europa, si verificò un'inversione di rotta. Negli anni Ottanta, le donne di origine musulmana, comprese quelle provenienti da culture e famiglie in cui non veniva imposta la copertura del capo, cominciarono a indossare il velo. Le controversie sul velo presero a infuriare in Francia a partire dal 1989, quando due ragazze di ritorno da una vacanza dai parenti in Marocco pretesero di indossare il velo anche a scuola, nel quartiere di Creil a Parigi. Il dibattito si protrasse per tutti gli anni Novanta, si placò e poi ricominciò con una serie di divieti, regole, tentennamenti, dietrofront e decreti. Chi decide su questioni del genere, e su quali basi? Nel 1985, quando alcune scolare musulmane si rifiutarono di togliersi il velo nella città olandese di Alphen aan den Rijn, un assistente sociale domandò a Jan Brugman, professore di arabo dell'Università di Leida, se il Corano prescrivesse esplicitamente di tenere il capo coperto. Egli - con motivazioni abbastanza condivisibili - rispose di no. La domanda, però, non teneva conto dell'esistenza di altre fonti giuridi- co-religiose, e comunque non esiste risposta in grado di risolvere quella che in buona sostanza è una diatriba politica. I musulmani - persino quelli contrari all'uso del velo - lo considerano in maggioranza un'espressione di religiosità, ed è improbabile che su questo punto si lascino dissuadere da qualsivoglia studioso del Corano. Gli occidentali, però, si divertono a dire allegramente la loro su quel che il Corano dice e non dice a proposito del velo e di altri obblighi dei musulmani, e su quel che un buon musulmano deve e non deve fare. Persino Bel Moo- ney, titolare della posta del cuore sul «Times» di Londra, ricorse a un'esegesi del testo sacro quando ricevette una lettera da una divorziata convertita all'islam che si domandava quali sviluppi avrebbe potuto avere la sua nuova amicizia
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con un uomo di nome Hassan. «Se stesse semplicemente temporeggiando per essere sicuro dei suoi sentimenti», consigliò Mooney, «starebbe solo seguendo un comportamento approvato dal Corano, che invita gli uomini a non illudere le donne: "Non sarete rimproverati se accennerete a una proposta di matrimonio, o se ne coltiverete segretamente l'intenzione".»55 Da semplice fastidio che era, il velo finì per trasformarsi in una minaccia vera e propria. Nel 2000, dopo la seconda Intifada in Palestina e prima degli attacchi al World Trade Center dell'anno seguente, i francesi cominciarono a notare che i loro licei - almeno quelli situati in zone a forte presenza araba - erano divenuti culle di antisemitismo e di altri tipi di intimidazione e violenza. Nel 2002 Emmanuel Bren- ner (pseudonimo dello storico Georges Bensoussan) scrisse un libro di duecento pagine, Les territoires perdus de la Répu- blique (I territori perduti della repubblica),56 in cui raccontò decine di casi di studenti che sbeffeggiavano gli insegnanti con battute nelle loro lingue d'origine e ridevano sfacciatamente durante le lezioni sull'Olocausto. A quanto pare, questo libro colpì molto il presidente francese Jacques Chirac. Il fatto che tali incidenti siano coincisi con la diffusione del velo tra le studentesse trasformò - almeno agli occhi europei - tale indumento in un simbolo non solo dell'identità musulmana, bensì anche dell'islamismo più truculento. I nativi europei interpretavano il velo come un segno di solidarietà con un movimento politico internazionale violento. Cercarono un modo per impedire alle giovani donne di indossarlo. Ma nelle società democratiche in cui vige la libertà di espressione non è facile trovare motivi neutrali per bandire un indumento particolare. Bisognava trovare la formula giusta. Una via promettente parve quella di puntare sui rischi creati dalla circolazione di soggetti con il capo coperto. Esistevano dei precedenti storici. Per secoli, in Italia, sono esistite leggi che vietavano di portare maschere e travisamenti in pubblico, reintrodotte poi negli anni Set
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tanta, in coincidenza con l'attività delle Brigate rosse.57 Per motivi analoghi, la Spagna proibisce ai fattorini in moto di entrare in certi uffici con il casco in testa.58 Entrambi i paesi invocarono le loro leggi contro i travisamenti quando scoppiarono le controversie sull'uso del velo. Non è una preoccupazione poi così campata per aria. Nel 2006, Mustaf Jama, all'epoca il criminale più ricercato in Gran Bretagna, accusato di aver ucciso una poliziotta nel corso di una rapina a mano armata, riuscì a fuggire dal paese su un volo commerciale verso la Somalia nascondendosi sotto il niqab di sua sorella.59 (Alla fine del 2007 fu arrestato in Africa ed estradato in Gran Bretagna.) In realtà, però, con i discorsi sulla «pericolosità» del velo, i politici alludevano ai pericoli che esso rappresentava per qualcosa di più astratto: l'ordine femminista europeo. Erano consapevoli delle pratiche di violenza sessuale diffuse nei quartieri controllati dai musulmani. Guardavano a quartieri come Rosengàrd, a Malmò, in Svezia, dove quasi tutte le donne circolavano velate, persino quelle provenienti da culture che non imponevano la copertura del capo. Aveva tutta l'aria di un contagio provocato dall'intimidazione o dalla pressione della famiglia, benché potesse essere visto altrettanto plausibilmente come una questione di privacy. Poiché l'uguaglianza dei generi è un principio fondante e non negoziabile delle istituzioni europee, il velo può essere facilmente interpretato come una provocazione politica, come un simbolico rifiuto dei costumi occidentali. Da uno studio condotto in Inghilterra nel 2007 è emerso che poco più della metà dei musulmani nel Regno Unito (53%) preferirebbe che la propria donna indossasse il velo. Ma tale percentuale cela un ritorno di massa alle tradizioni da parte delle generazioni musulmane più giovani. Solo il 28% degli uomini sopra i 55 anni preferisce il velo, mentre lo predilige il 74% della fascia d'età tra i 18 e i 24 anni.60 La maggior parte delle indagini britanniche sulle pratiche re
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ligiose rivela un analogo irrigidimento di vedute da parte degli intervistati più giovani. Quasi un terzo dei musulmani britannici pensa che convertirsi a un'altra religione «sia proibito e punibile con la morte». Tra i musulmani sopra i 55 anni, però, solo il 19% ne è persuaso, contro il 36% di quelli tra i 18 e i 24 anni.61 Tali dati furono rilevati poco dopo che una giovane donna di nome Aishah Azmi era stata rimossa dalla sua cattedra di insegnante elementare a Dewsbury per la sua ostinazione a indossare il niqab durante le lezioni. Una corte locale ratificò il suo licenziamento, ma ordinò altresì che le fosse corrisposto un risarcimento di millecento sterline per via del clima di ostilità in cui era venuta a trovarsi. Tony Blair, che allora era primo ministro, approvò l'espulsione di Azmi dalla scuola. A suo avviso, indossare il niqab «è un segno di separazione che mette a disagio le persone esterne alla comunità musulmana. Con ciò non si intende negare il diritto di indossarlo».62 In realtà, Blair si sbagliava su entrambi i punti: il 98% dei britannici - se vogliamo fidarci dell'inferocito tabloid «Daily Espress» - era convinto che il niqab dovesse essere proibito del tutto.63 E poi, che cosa c'era di male in un «segnale di separazione»? Non sarebbe stato fuori luogo che i musulmani osservanti domandassero al primo ministro che cos fossero, secondo lui, le parrucche indossate dai signori della camera dei lord. Anche Jack Straw, che a quel punto aveva appena abbandonato la carica di ministro degli Esteri, disse che il velo stava diventando una «dichiarazione visibile di separazione e alterità».64 Si trattò di un'allarmante inversione di rotta da parte sua. Straw, infatti, aveva costruito la sua carriera politica nella città di Blackburn, sempre più musulmana e segregata, dove nel 2006 il segretario di stato statunitense Condoleezza Rice era stata accolta con tale ostilità che i suoi incontri pubblici con Straw dovettero essere cancellati. In tutta la sua carriera politica, Straw era stato un sostenitore ottimista ed entusiasta del multiculturalismo.
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All'improvviso, al tramonto della sua carriera politica, ammetteva che, in effetti, c'erano motivi di preoccupazione. Nelle questioni riguardanti l'islam è un comportamento abbastanza tipico: si direbbe che i politici si sentano in dovere di esprimere il loro pensiero più autentico solo al momento di ritirarsi, o subito dopo. L'ex ministro inglese George Walden, noto per la sua schiettezza, ha scritto che anche lui sì atterrebbe a un certo riserbo nelle circostanze attuali: Sarei talmente allarmato dalla situazione che farei il possibile per dare l'impressione che tutto è sotto controllo. Durante le crisi, ai politici spetta il compito di sdrammatizzare, al popolo quello di comprendere che il governo non è in grado di fare molto di più di quanto fa già. L'ultima cosa che i politici dovrebbero dire è che siamo di fronte a una minaccia di cui non si vede la fine, essendo il frutto di uno scontro tra culture. Sull'LRA abbiamo detto la verità; sul problema islamico mentiamo.65
I leader britannici non affermavano valori. Combattevano un inquietante fenomeno sociale con misure improvvisate, che cercavano di giustificare a posteriori sul piano dei valori. Il vero motivo delle iniziative contro il velo era che la società britannica diveniva suo malgrado sempre più musulmana. Non lo si poteva dire ad alta voce. Ogni discorso doveva partire da principi neutrali. Nel bel mezzo delle controversie per il velo, Trevor Phillips, leader del British Council on Racial Equality, disse: «Quello che avrebbe dovuto essere un dialogo civile tra britannici di tutti i tipi sembra essersi trasformato in un processo a una comunità particolare, e questo non può essere giusto».66 Che cosa avrebbe dovuto fare, allora, la Gran Bretagna? Promuovere una discussione basata sulla falsa premessa che tutti i suoi cittadini avevano preso l'abitudine di indossare un indumento religioso separatista? Evidentemente, sì. E la Francia, in effetti, fece proprio questo.
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La legge francese sul velo Per tornare a una questione discussa nello scorso capitolo, la Francia è l'unico paese che abbia sollevato con coerenza un'eccezione di incostituzionalità contro il velo. Ha avuto successo solo in virtù della sua costituzione, unica in Europa per l'ostilità - o sfiducia, per moderare un po' i termini - che la caratterizza in tema di religione. Già nel 1905 erano state promulgate leggi per punire la chiesa cattolica che ai tempi controllava le scuole elementari, influenzava la politica grazie alle sue risorse e aveva da poco esposto la Francia al disonore internazionale per il ruolo svolto nell'affare Dreyfus, scandalo che vide come protagonista un capitano ebreo dell'esercito condannato ingiustamente per spionaggio. Fu sancita così la separazione tra stato e chiesa in base al principio della laïcité, che si distingue da quello della tradizione angloamericana perché non mira tanto a limitare l'intervento delle autorità pubbliche in materia di religione, quanto piuttosto a neutralizzare le ingerenze delle istituzioni religiose nella vita pubblica
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Nel dicembre del 2003 una commissione di venti membri guidata da un politico e da un esperto di immigrazione, Bernard Stasi, concluse uno studio durato cinque mesi, elogiato dal presidente Chirac per il contributo dato all'aggiornamento del principio di laicità in una società multiculturale. La commissione raccomandò di impedire l'uso di simboli religiosi vistosi - non solo il velo, bensì anche la kip- pah e le croci di grandi dimensioni - nelle scuole pubbliche e nelle sedi di altre istituzioni. Nell'interesse della neutralità, a quanto pareva, ogni intervento che colpiva in modo sproporzionato il culto musulmano doveva essere «compensato» da qualche restrizione imposta alla cultura maggioritaria, sia pur con provvedimenti ingannevoli e prò forma. La messa al bando della kippah e delle «croci di grandi dimensioni» aveva come unico scopo quello di non dare l'impressione che l'islam fosse l'unica religione presa di mi
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ra. La maggioranza dei francesi se ne rese conto. All'indomani del provvedimento, lo scienziato sociale Farhad Kho- srokhavar scrisse a ragione: «Lo sanno tutti che l'obiettivo fondamentale è l'islam, soprattutto il velo. Tutto il resto è un dettaglio insignificante».67 Di nuovo emerge come a lungo termine, la gestione dei problemi legati agli immigrati comporti una perdita di diritti da parte della società in generale. Per gli studenti ebrei che frequentavano istituti violenti poteva valere la pena di rinunciare alla kippah pur di ottenere un provvedimento dello stato contro l'islamizzazione delle istituzioni. Le conseguenze sui cristiani sono state quasi nulle, dato che le croci che portano al collo sono generalmente di piccole dimensioni. (Nessuno, in effetti, capì che cosa si intendesse con «croci di grandi dimensioni».) La società civile non musulmana comprese che quello era con tutta probabilità il compromesso più vantaggioso che si potesse spuntare. Le leggi francesi sul velo erano insincere quanto quelle danesi sul matrimonio, e funzionarono per lo stesso motivo: esprimevano la volontà dei non musulmani, cioè della stragrande maggioranza della popolazione.68 Nel Natale del 2003, mentre si discuteva sulla messa al bando del velo, migliaia di donne dal capo coperto sfilarono per le strade di Parigi, e i leader musulmani - dallo studioso militante Tariq Ramadan all'agitatore antisemita alsaziano Mohammed En- nacer Latrèche minacciarono ritorsioni ben peggiori, se la legge fosse stata approvata. Quando però la determinazione della Francia risultò evidente a tutti, le manifestazioni di protesta si smorzarono progressivamente fino a coinvolgere pochi esagitati. Il primo giorno di scuola, nell'autunno del 2005, solo 12 studentesse si presentarono con il velo, rispetto alle 639 dell'autunno precedente.69 Chirac ordinò di limitare al minimo le celebrazioni per il centenario della legge sulla laicità del 1905.70
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Liberazione obbligatoria Sarebbe più facile condividere l'opinione di Straw secondo la quale vi sarebbe qualcosa di intrinsecamente illegittimo nella scelta di una donna di sottrarsi allo sguardo degli altri, se il modello alternativo di comportamento non fosse tanto spesso basato sulla pubblicità osé, sul reality show e (almeno in questo decennio) sulla moda degli ombelichi in mostra e dei jeans calati fino a mostrare il solco tra le natiche. Ayaan Hirsi Ali ha sostenuto con più eloquenza di qualsiasi occidentale la superiorità della concezione occidentale dei diritti delle donne rispetto a quella musulmana. Ai musulmani, tuttavia, non è sfuggito il fatto che lei abbia parlato proprio da Amsterdam, città che, a prescindere dai suoi indubbi meriti, è conosciuta nel mondo come un luogo dove giovani donne si espongono nude in vetrina in attesa di uomini disposti a pagarle per fare sesso con loro. Che un'industria del sesso dove tutto è ammesso sia causata dal femminismo o semplicemente correlata a esso, è stato tradizionalmente considerato ben più grave della scelta - o dell'obbligo di indossare un pezzo di stoffa. La «liberazione»può porre i propri limiti alla libertà delle donne. Oggi come oggi, sono pochi i politici europei non musulmani a vederla in questo modo. Alcuni sono inquietati dallo sgretolamento della famiglia per esempio, dal 43% di figli nati fuori dal matrimonio in Gran Bretagna -l ma se qualcuno esprime la propria inquietudine sollevando dubbi sulla liberazione sessuale (Christine Boutin in Francia, Ann Widdecombe in Inghilterra, per limitarci a due soli esempi) è più facile che venga sbeffeggiato che ascoltato. L'approvazione pubblica della liberazione sessuale pare quasi obbligatoria. Gli europei non capiscono perché qualcuno dovrebbe tenere alla propria castità o al proprio pudore. Si pensi all'impietosa osservazione di Jacques Chirac, proprio mentre infuriava il dibattito sul velo, secondo cui «nulla può giusti-
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fìcare il fatto che un paziente, per principio, rifiuti di essere curato da un medico dell'altro sesso».72 Si consideri anche il video informativo che le autorità olandesi mostrano a quanti chiedono la cittadinanza. Di solito, in Europa, per ottenere la cittadinanza è sufficiente conoscere la lingua quel tanto che basta per cavarsela nella vita di tutti giorni e conoscere il sistema politico vigente in modo da poter esercitare i propri diritti. La Germania, per esempio, richiede un corso di tedesco di seicento ore e un corso di storia di trenta ore. Ma il pacchetto di legge olandese per la naturalizzazione esige anche la capacità di convivere con la mentalità prevalente nel paese in fatto di morale. Il tutto è sintetizzato da un video in cui, tra le altre cose, si vedono coppie omosessuali che si scambiano effusioni in pubblico e donne in spiaggia senza reggiseno. (Ai richiedenti che vivono in paesi dove il possesso di un video del genere sarebbe illegale viene presentata una versione emendata.)73 Wolfgang Schäuble, ministro degli Interni tedesco, ha difeso il film olandese e vedrebbe di buon grado la diffusione di qualcosa di simile nel proprio paese. «Chi non vuole vedere simili immagini non dovrebbe recarsi nel paese dove sono realtà», ha dichiarato.74 Per i musulmani il fatto che gli europei rifiutino anche solo di ascoltare le ragioni che fondano il loro senso del pudore potrebbe rappresentare un motivo di radicalizzazio- ne. Tahar Ben Jelloun, scrittore franco-marocchino che su tali questioni ha un punto di vista moderato, individua nel relativo edonismo europeo una causa della diffusione del velo. In un articolo intitolato I marocchini e le ragioni del velo, osserva: «Un certo tipo di islamismo è arrivato in Marocco attraverso gli emigrati in Belgio e in Olanda. Per paura di perdere le proprie figlie, i padri le costringono a coprirsi».7-' Un danese nato in Turchia che lavora in una scuola fondamentalista tra le più intransigenti ricorda che, prima di diventare un devoto musulmano, il suo interesse principale era la discoteca. Quell'interesse aveva molto a che fare
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con il suo desiderio di vivere in Europa. «Avevo letto un romanzo che parlava di uno svizzero», disse. «Volevo essere come lui. Era sempre affamato.»76 Dietro gli audaci discorsi di liberazione, in realtà l'Europa è molto divisa. Il suo rapporto con la propria etica po- streligiosa è ambivalente. Come in una pubblicità televisiva della birra, il prodotto (in questo caso «i valori europei») è talmente mischiato a promesse edonistiche che i confini tra il prodotto stesso e gli stimoli suscitati diventano labili. In Estensione del dominio della lotta (1994), Michael Houelle- becq, per certi versi il più libertino tra i romanzieri moderni, scrive che in un mondo dove il piacere sessuale viene presentato come un bene fondamentale la gente si sente più unita; di contro, il divario tra quel che si ha e non si ha risulta esasperato a livelli inediti. Essendo attento a insidie del genere, l'islam soprattutto nelle sue forme più pedanti e conservatrici - può apparire come un arricchimento, e non solo agli occhi dei musulmani. Il parlamentare britannico Denis MacShane ricorda che l'intellettuale islamista Tariq Ramadan «ripudia i principi europei fondamentali, da Galileo ai matrimoni omosessuali».77 Non è bene etichettare recentissime innovazioni in materia di sesso e di genere come «principi europei fondamentali». Forse lo saranno un giorno, quando avranno superato la prova del tempo. Per ora sono novità, accuratamente esentate dal dibattito parlamentare grazie alle leggi sui diritti umani. I laici europei attribuiscono all'islam una serie di valori che Dante ed Erasmo avrebbero riconosciuto come propri; di fronte a certi diritti acquisiti di recente e definiti «principi europei fondamentali» Dante ed Erasmo resterebbero sconcertati. Quando gli europei oppongono i propri «valori» all'islam, a che cosa si riferiscono? A una tradizione religiosa, filosofica, morale? A uno stile di vita? Evidentemente, non lo sanno neppure loro. In una delle sue più feroci invettive contro l'islam, la scrittrice Oriana Fallaci, da poco scom
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parsa, minacciò di scatenare una guerra contro qualunque terrorista islamico osasse danneggiare una serie di monumenti fiorentini, a cominciare dalla cattedrale di Santa Maria del Fiore e dal vicino Battistero.78 Difendeva le cattedrali in quanto attrazioni turistiche? (In tal caso, le sarebbe stato impossibile prevalere su una religione nata 1300 anni fa.) Oppure le difendeva in quanto luoghi di culto? (In tal caso, era in contrasto con la maggioranza degli europei, inquietati dall'islam per la minaccia che rappresenta ai fini dell'emancipazione dalla religione.) Non è neppure chiaro se i beneficiari della liberazione sessuale combatteranno per difenderla. Henryk Broder, giornalista di «Der Spiegel», nota il comportamento di quanti accorrono alle varie parate erotiche e ai festival del sesso che sono divenuti un segno distintivo della Germania contemporanea. Al Carnevale delle culture di Berlino, i partecipanti amano accusare Joachim Meisner, cardinale di Colonia, di essere un inquisitore, o raffigurare la cancellie- ra Angela Merkel mentre viene sodomizzata da George W. Bush. Poi però si dimostrano sensibili alle inquietudini dei musulmani nei confronti delle parate e si astengono da battute oscene su leader di gran lunga meno tolleranti nei confronti della liberazione sessuale, come l'iraniano Mahmoud Ahmadinejad.79 L'islam non è una religione particolarmente puritana; anzi, quasi tutte le religioni lo sono meno del cristianesimo, che è il culto tradizionale europeo, nella forma cattolica o protestante. Come osserva il demografo David Coleman, il regime sessuale disinibito noto come «seconda transizione demografica» è uno sviluppo europeo recente, ma non così recente per altre culture. «Il divorzio e la possibilità di risposarsi facilmente (per gli uomini) è una pratica diffusa in alcune società poligame africane» ha scritto Coleman, «[così come] all'interno dell'islam e nel Giappone tradizionale, mentre in America Latina e nei Caraibi - e, in una certa misura, tra i neri statunitensi - la convivenza e la procreazione
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al di fuori del matrimonio sono state istituzionalizzate con un secolo di anticipo rispetto alla "prima" transizione demografica.»80 Ci sono motivi per ritenere che i musulmani siano vicini, più di quanto crediamo, ad assimilare lo stile di vita sessuale e familiare postreligioso dell'Europa. Nella prima metà di questo decennio, in Olanda, i divorzi nella comunità marocchina sono aumentati del 46% e in quella turca del 42%.81 Ci sono femministe e omosessuali musulmani, naturalmente, e persino i musulmani più ortodossi vivono spesso a stretto contatto con le strutture e i locali sessualmente più disinibiti che l'Europa abbia da offrire. La moschea radicale di Monaco di Baviera sorge di fronte a una scuola di lap-dance.82 Molti quartieri a forte presenza omosessuale sono anche a forte presenza musulmana. «I gay sono attratti dalla diversità culturale», dice Ilda Corti, responsabile del progetto «The Gate» per la riqualificazione del quartiere di Porta Palazzo di Torino, popolato da numerosi musulmani. Anche Sankt Georg ad Amburgo presenta una composizione demografica analoga. Chissà... Ma l'armonia tra omosessuali e musulmani è più realisticamente transitoria e illusoria. Omosessuali e musulmani occupano quei quartieri in quanto sottoculture, in virtù del loro rapporto con la cultura dominante e non tra di loro. Leggendo un articolo del «New York Times» su un nightclub turco di Kreuzberg che ogni mese offre una serata per gay non si ha esattamente l'impressione di una comunità omosessuale sicura di sé. Un ventiduenne turco chiese di mantenere l'anonimato «per paura di essere ostracizzato o peggio, se per caso la sua famiglia fosse venuta a conoscenza delle sue inclinazioni sessuali». Un ventunenne arabo si rifiutò di dare il proprio nome dicendo che i suoi l'avrebbero «ucciso».83 La diversità di vedute sui gay tra musulmani e non musulmani è ancora enorme. In Francia il numero di musulmani che disapprovano l'omosessualità è doppio rispetto a quello dei non musulmani.84
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Al pari del nostro sistema di separazione tra stato e chiesa, la nostra attuale morale sessuale nacque in opposizione al cristianesimo, e non alla religione in generale. La nuova, «permissiva» etica sessuale dell'Occidente privilegia soprattutto le prerogative maschili piuttosto che femminili. Essa si adatta forse alla morale sessuale musulmana tradizionale più che a quella tradizionale occidentale. Se l'ossessiva proibizione sessuale cristiana è pruderie, quella dell'islam è sessismo. L'islam tradizionale è solo in parte in contrasto con la liberazione sessuale così come viene intesa oggi, e non del tutto, come il cristianesimo.
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9. TOLLERANZA E IMPUNITÀ
Autoaffermazione politica come punto di svolta — Intimidazione e autodifesa - La politica del terrore - Antisemitismo e antisionismo - «Il comunismo del XXI secolo»
Le controversie sul velo in Francia furono risolte in modo soddisfacente per la maggioranza della popolazione e senza provocare rivolte da parte dei musulmani. Quella soluzione, però, non mancò di suscitare inquietudini.1 Il muftì d'Egitto avvisò Jacques Chirac che la legge contro il velo avrebbe «distrutto la pace sociale nella società francese». La Fratellanza musulmana egiziana la definì «un'interferenza nella sfera della libertà personale e religiosa dei musulmani». Mohamed Hussein Fadlallah, leader spirituale del gruppo estremista libanese Hezbollah, indirizzò al presidente francese una lettera piena di livore accusando la Francia di aver «privato i musulmani delle loro libertà, nonostante non avessero disobbedito alla legge». Questi avvertimenti provocarono uno shock. Neanche un anno, infatti, era passato da quando la Francia, opponendosi all'invasione statunitense dell'Iraq, si era conquistata la gratitudine dei musulmani. La Francia si vantava di essere un'interlocutrice privilegiata dell'islam. A quel punto, risultò chiaro che i leader musulmani internazionali erano convinti di ricoprire, in Francia, un ruolo di primo piano. E, in effetti, così era. Nicolas Sarkozy, allora ministro degli Interni, interruppe una vacanza per andare a trovare Mohamed Sayyed Tantawì, influente imam e rettore dell'Università al-Azhar del Cairo. Di ritorno in patria, dichiarò che secondo Tantawi la Francia aveva il diritto di vietare il velo. Il governo francese, evidentemente, sentiva l'esigenza di ricevere il nullaosta di un religioso musulmano straniero
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per un'iniziativa politica interna allo stato. Naturalmente, ci si domandò se il mondo musulmano non avesse, per caso, un analogo diritto di veto anche sulla politica estera francese, e quanto avesse influito tale potere sulle deliberazioni di Chirac in merito alla guerra in Iraq. Di certo, fu un fattore più rilevante che nel 1991, quando il presidente François Mitterand riuscì a fare entrare la Francia nella coalizione della guerra del Golfo senza mostrare il benché minimo interesse per le opinioni dei musulmani. Se Chirac avesse deciso di appoggiare gli Stati Uniti in Iraq nel 2003, le rivolte nelle banlieues francesi sarebbero scoppiate con due anni di anticipo? Era l'islam che cominciava a far parte della Francia o era la Francia che stava diventando parte del mondo islamico?
Autoaffermazione politica come punto di svolta In tutte le migrazioni di massa esiste un momento di svolta in cui gli immigrati - o i loro figli nati sul posto - smettono di abitare semplicemente nel paese che li ha accolti e iniziano a plasmarlo. I nativi si aspettano che gli immigrati diventino uguali a loro, prima che questi ultimi comincino a far sentire il proprio peso politico. Ciò accade, tuttavia il processo non è mai completo prima che gli immigrati inizino a farsi valere. Il momento in cui i nativi si accorgono di dover condividere il potere con i semistranieri che vivono tra loro può essere carico di tensione quanto quello dell'arrivo dei migranti. Secondo Oscar Handlin, quando gli irlandesi cominciarono ad arrivare a Boston ci fu un periodo di calma. Erano quasi invisibili e non avevano alcuna influenza politica o economica.2 Il Massachusetts, all'epoca probabilmente la società democratica più avanzata dell'Occidente, si considerava uno stato illuminato e sensibile alle questioni umanitarie.3 La prima generazione di immigrati irlandesi fu accolta a Boston con l'atteggiamento più bene
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volo che si possa accordare a una massa di analfabeti violenti e bisognosi. Handlin scrisse: Le paure dei nativi non si svilupparono subito in modo significativo, perché prima del 1845 gli irlandesi non compromettevano in alcun modo la stabilità della vecchia società. Erano una minoranza separata e, soprattutto, priva di potere politico. [...] Le loro opinioni erano ancora limitate alla sfera privata e non influenzavano le politiche della comunità. [...] Il gruppo dominante prese provvedimenti per limitare i loro diritti e i loro privilegi sociali e politici solo quando gli ideali dei nuovi arrivati cominciarono a minacciare di sostituire quelli della vecchia società.4
Quando ai bostoniani balenò il dubbio che i nuovi arrivati potessero un giorno rivendicare quote di potere, il punto di non ritorno era già stato superato. Prima che gli irlandesi mettessero un solo piede in un'istituzione democratica di Boston, il loro futuro dominio incontrastasto era già scritto. Fu a quel punto, negli anni Cinquanta dell'Ottocento, che i nativi cominciarono a esprimere opinioni intolleranti, a lamentarsi apertamente dei tassi di natalità più alti che si registravano tra gli irlandesi, a formare partiti estremisti e clandestini e a prendere iniziative concrete per escludere gli irlandesi dalle loro istituzioni.5 Intorno al 1855 il partito xenofobo Know-Nothing (Non so niente), così chiamato più per la sua segretezza che per il suo oscurantismo, conquistò tutte le principali cariche politiche dello stato. Il suo, però, non era tanto un programma politico quanto un rantolo di morte. Decenni dopo gli irlandesi, ormai abbastanza numerosi da dominare la politica del Massachusetts, scalzarono la classe dirigente preesistente e la privarono di ogni potere. Le generazioni successive di irlandesi-americani avrebbero ricordato quella stessa classe politica come i reazionari della seconda fase dell'immigrazione (quella del Know-Nothing) e non come i buoni samaritani della prima.
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In Europa si creò una situazione simile, nelle sue linee fondamentali, a quella del primo periodo di immigrazione irlandese a Boston. La Francia iniziò a promuovere leggi anti-immigrati alla fine degli anni Sessanta, quando gli stranieri cominciarono per la prima volta a protestare e a scioperare.6 La Germania interruppe bruscamente il suo programma di accoglienza per i lavoratori ospiti nel 1973. In parte, tale decisione dipese sicuramente dalle difficoltà economiche intervenute in seguito alla crisi petrolifera, ma un ruolo lo giocò anche l'inedita partecipazione degli immigrati agli scioperi operai. Ora, a decenni di distanza, una seconda ondata di malessere si è diffusa a causa del ruolo attivo dei musulmani nelle democrazie europee. Per lungo tempo sono rimasti, per rimanere agli standard della politica americana sulle minoranze, disinteressati, indifferenti alla politica e isolati. Nel 2009, nessuno dei 577 deputati dell'Assemblea nazionale francese è musulmano, anche se almeno il 10% dei residenti aderisce a questa religione. La Gran Bretagna sembrerebbe in una fase più avanzata per alcuni versi e più arretrata per altri. Il suo articolato sistema di governo locale - benché notevolmente indebolito dai governi succedutisi dall'avvento di Margaret Thatcher in poi - è ampio abbastanza da far sì che ogni comunità di migranti, ovunque sia insediata, produca un suo ceto politico. Questo è particolarmente il caso di luoghi come Leicester, Blackburn e Bradford, dove i nativi finiranno presto per essere minoranza. Nel parlamento britannico i musulmani sono numerosi, e ce ne sono alcuni persino alla camera dei lord.7 Eppure non esiste paese in Europa dove le opinioni politiche dei musulmani divergano così profondamente da quelle dei non musulmani. I problemi di cui la politica europea si occupa non sono al passo con la realtà demografica del continente. In pieno terzo millennio, certamente fino a prima che le menti degli elettori venissero assorbite dal collasso finanziario della fine
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del 2008, nella maggior parte dei paesi europei le questioni politiche pressanti erano in larga parte ancora quelle che si dibattevano in Europa all'indomani della guerra fredda. Si tratta di questioni che non hanno nulla a che vedere con i musulmani: si discute di integrazione e allargamento dell'Unione Europea, delle pensioni pagate dal sistema previdenziale pubblico, ormai antiquato, di cui i musulmani, giunti troppo tardi, non potranno beneficiare. I nuovi arrivati hanno mantenuto le stesse preoccupazioni che avevano nei paesi d'origine, sovrapponendole come meglio potevano alla politica europea. Per esempio, uno dei motivi per cui i turchi in Germania per molti anni hanno votato più per i socialdemocratici che per i verdi, nonostante il reclutamento copioso (e senza precedenti) di politici turchi da parte di questi ultimi, è il fatto che i verdi non mancavano di denunciare le violazioni dei diritti umani da parte del governo turco.8 Il voto dei musulmani è comunque già influente. Solo poche centinaia di migliaia di turchi tedeschi vanno a votare, ma il loro monolitico appoggio a Gerhard Schròder fornì il margine microscopico di voti che gli permise di essere rieletto cancelliere nel 2002.1 musulmani - come tutti gli immigrati, per la verità - hanno sempre mostrato la tendenza a votare in massa per i partiti di centro-sinistra dei paesi ospitanti, poiché sono stati i laburisti, i socialdemocratici e i verdi ad assimilare con più prontezza gli ideali di eguaglianza razziale e culturale della sinistra americana (o, per essere più precisi, le relative tattiche di organizzazione del voto etnico in blocco). Le cose stanno però cambiando. Ora i musulmani si orientano politicamente in base alle questioni suscitate dagli attentati dell'I 1 settembre 2001 e dalle loro conseguenze. Nelle elezioni del maggio del 2005 molti musulmani abbandonarono il partito laburista britannico a causa della sua adesione alla guerra in Iraq, anche se le indagini statistiche dimostrano che già solo il coinvolgimento britannico nella guerra in Afghanistan, guidata
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dagli Stati Uniti, sarebbe bastato ad alienare le simpatie degli elettori musulmani. In futuro non si tratterà di stabilire se il volto musulmano sarà in grado di spostare l'equilibrio elettorale sulle questioni d'attualità, bensì se riuscirà o meno a modificare le questioni stesse, riaprendo dibattiti sulla società europea oggi considerati chiusi. Nei due mesi successivi allo scoppio delle rivolte nella periferia parigina di Clichy-sous-Bois, il numero di elettori iscritti era quasi triplicato.9 Si presume che questa nuova ondata di votanti non fosse per la maggior parte preoccupata per le tasse, la svalutazione o i progetti infrastnitturali. Quale problema li aveva spinti a decidere di far sentire la propria voce?
Intimidazione e autodifesa L'opinione dei musulmani è difficile da interpretare, perché la maggior parte delle rivendicazioni politiche musulmane può esprimersi in due modi: ragionevole o intimidatorio. In genere, i musulmani partecipano con estrema correttezza al sistema politico dei paesi in cui si sono insediati. In nessun paese c'è carenza di interlocutori pacati, non violenti e patriottici. Le questioni che riguardano direttamente l'islam non rientrano tuttavia nel campo d'azione dei politici, e sono spesso regolate dall'intimidazione. Vengono risolte, spesso, in ambito familiare, con omicidi d'onore e violenza contro le donne, e tra giovani maschi, con le attività delle gang criminali. I nativi quasi non se ne accorgono neppure. Paradossalmente, più i musulmani si sono integrati più questo tipo di intimidazione è dilagata. La fatwa dell'ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie costituì una svolta epocale per due motivi. Innanzitutto, un atto del genere metteva in discussione per la prima volta da secoli la sovranità europea sui propri cittadini. Le implicazioni della fatwa erano queste: Rushdie poteva anche definir
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si un inglese, ma restava innanzitutto un musulmano. Doveva rendere conto all'islam dell'apostasia di cui i suoi Versetti satanici costituivano una prova. Era una cosa seria: secondo il Corano, l'apostasia dev'essere punita con la morte. In nessun paese occidentale la maggioranza dei musulmani ritiene che tale pena debba essere messa in pratica. Il tasso più alto di adesione a questa forma di giustizia draconiana è tra i giovani musulmani britannici, dove i favorevoli sono il 36%.10 Per uccidere una persona, però, non occorre la maggioranza. Uno dei motivi per cui gli europei non hanno fatto molto caso alle inclinazioni politiche delle minoranze etniche è la fede quasi superstiziosa che essi nutrono nel meccanismo decisionale democratico. Benché la gente sia preoccupata per ciò che potrebbe succedere una volta che le minoranze etniche costituiranno il 50,1% della popolazione di alcune città, non le balena il dubbio che qualcosa possa andare storto anche prima che quel momento arrivi. Le minoranze sono certamente in grado di cambiare i paesi. Di conquistarli. Nel 1917 in Russia i bolscevichi erano probabilmente meno numerosi degli islamisti in Europa oggi. Fino a quando ci saranno imam influenti e pazzi organizzati che crederanno nella necessità di rinforzare le proprie conoscenze teologiche con l'intimidazione, nessun musulmano o ex musulmano, per quanto ben assimilato, potrà scrivere o dire alcunché senza sentirsi minacciato da gente pericolosa. Quando la rivista olandese «HP/De Tijd» pubblicò un articolo su alcuni musulmani convertiti al cristianesimo, la maggior parte degli intervistati pretese di rimanere nell'anonimato.11 All'inizio del 2008, appena prima di essere battezzato per diventare cattolico, il commentatore italiano nato in Egitto Magdi Allam dichiarò che in Italia vivevano migliaia di «cristiani segreti», musulmani divenuti cattolici o protestanti, ma che tenevano nascosta la propria fede religiosa per paura di essere uccisi.12 La fatwa contro Rushdie non mandò soltanto un messaggio ai musulmani europei. Essa fece anche sì che le pretese
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dell'islam insidiassero gli europei non musulmani. Fino a quel momento, l'ostilità verso la libertà di espressione era rimasta circoscritta: poteva essere intesa come imposizione - con metodi più o meno arretrati e violenti - delle norme interne di una comunità. Non fu più così. L'idea di condannare a morte Rushdie non era partita dall'Iran, bensì dai musulmani nella città di Bradford, a forte presenza musulmana. Rushdie, però, non era un membro della comunità musulmana di Bradford. Era uno stimato scrittore londinese nato in India. Se una sentenza di morte poteva essere pronunciata contro di lui, per non parlare di tutti i suoi editori e traduttori, era evidente che i costumi delle comunità di immigrati ora influenzavano in parte anche la vita pubblica britannica. Nel 2005 la giornalista ventenne marocchino-olandese Hasna E1 Maroudi smise di tenere la sua rubrica su un sito giovanile del giornale nazionale «NRC Handelsblad» quando cominciò a ricevere minacce di morte per alcune cose che aveva scritto sulle tensioni tra arabi e berberi.13 Era una questione tra gli immigrati o una minaccia alla libertà di stampa rivolta a uno dei giornali più importanti d'Olanda? Entrambe le cose, naturalmente, ma tutti coloro che erano troppo spaventati per reagire, liquidarono la faccenda adottando la prima spiegazione. Le comunità di immigrati erano diventate troppo numerose per rimanere in quarantena. Ma il problema era più grande di una semplice questione di proporzioni. Esso derivava anche dai successi delle politiche di integrazione, non solo a livello internazionale (nella forma della globalizzazione) , ma anche nazionale. Nella generazione precedente, tra gli scrittori di spicco europei non c'erano personaggi come Salman Rushdie e Hasna E1 Maroudi. Le comunità di immigrati d'un tratto non erano più soltanto in Europa, bensì erano diventate l'Europa stessa. L'Europa - intesa come l'insieme dei suoi cittadini musulmani e non musulmani - era ormai oggetto di intimidazione da parte di religiosi musulmani e dei loro seguaci. I nativi eu
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ropei sentivano che la loro posizione - sul piano demografico e della determinazione - si stava indebolendo. All'inizio del 2006 fu assegnata una scorta armata a una parlamentare italiana dichiarata «nemica dell'islam» da alcuni capi religiosi iraniani.14 All'inizio di questo decennio, in ambiente accademico, si verificò il cosiddetto «affare Luxenberg», in cui uno studioso arabo tedesco (scrivendo sotto lo pseudonimo di Christoph Luxenberg) sostenne che il Corano, anziché essere scritto in arabo «puro», risentiva dell'influenza di altre lingue e letterature. Nonostante gli studiosi condividessero in maggioranza l'osservazione, in ambiente universitario era quasi impossibile parlarne. «La primissima sura del Corano [versetto 5] contiene una parola latina», confermò un professore di arabo. «Ma quando insegno arabo devo spiegare che l'alfabeto fu inventato due secoli dopo la morte del profeta, sicché il Corano non può e non deve contenere quelle macchie. I musulmani non possono ammetterlo. Si attengono al dogma secondo il quale il Corano sarebbe scritto in arabo puro. Quindi il preside di facoltà si aspetta che io non fornisca spiegazioni. Dice che non è il caso di insegnare cose che inducono gli studenti musulmani a disertare le aule.»15 Non si tratta di casi gravi o estremi, ma di semplici esempi dell'effetto «raggelante» che l'islam cominciò ad avere sui giornali, sulla legislazione e sulla conversazioni abituali tra la gente quando si toccava l'argomento islam. Le proibizioni andarono aumentando così come le categorie di persone a cui erano rivolte in base a una serie molto chiara di ragionamenti. 1. I musulmani devono rispettare la legge islamica. 2. I membri delle «comunità» musulmane, anche se non credenti e perfettamente integrati nella cultura nazionale autoctona, devono rispettare la legge islamica. 3. I non musulmani devono rispettare la legge islamica. 4. I non musulmani devono essere addirittura al di sopra di ogni sospetto, quanto a rispetto della legge islamica.
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Ci sono voluti cinquant'anni di immigrazione di massa prima che gli europei cominciassero a sentirsi minacciati dalle loro minoranze. Quando la gente comincia ad agire per paura e non più per convinzione o generosità, di solito non si rende conto di questo cambiamento delle motivazioni e non è disposta ad ammetterlo.
La politica del terrore Per anni gli europei hanno manifestato un'evidente inquietudine nei confronti delle «reali» inclinazioni politiche dei musulmani che vivevano tra loro. Gli attacchi dell'11 settembre 2001, organizzati in parte ad Amburgo, Duisburg e in altre città europee, confermarono i timori inespressi. Fu un giorno di festa per buona parte del mondo musulmano, persino in certe zone dell'Europa musulmana, per esempio in Belgio e nella città britannica di Halifax, nel West York- shire.16 Nella località olandese di Ede ci fu chi esultò per le strade.17 Un'indagine condotta dalla rivista «Contrast» scoprì che poco meno della metà dei musulmani olandesi si sentiva «in totale sintonia» con gli attacchi.18 Un quarto dei musulmani francesi era contrario ad aiutare gli Stati Uniti nella caccia ai terroristi.19 Molti musulmani hanno posizioni ambivalenti riguardo alla lotta tra Occidente e islam estremista. L'ambivalenza è evidente soprattutto nel Regno Unito, il paese europeo dove i musulmani sembrano meglio integrati nella politica e nel mondo del lavoro. Nel 2005, nove giorni dopo l'attentato nella metropolitana londinese, l'al- lora primo ministro Tony Blair denunciò «l'ideologia malvagia» che motivava gli estremisti musulmani. «Pretendono l'eliminazione di Israele»,20 disse Blair, «il ritiro di tutti gli occidentali dai paesi musulmani [...] la fondazione di stati governati a tutti gli effetti dai talebani e l'imposizione della legge della sharia nel mondo arabo in vista di un califfato
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comprendente tutte le nazioni musulmane. Inutile chiedersi quale sarebbe la natura di tali stati». Il problema stava nel fatto che non tutti i musulmani britannici erano contrari alla prospettiva. Taji Mustafa, rappresentante di Hizb ut-Tahrir, organizzazione che promuove la rifondazione del califfato, dichiarò: «Vi sfido: andate a Whitechapel e provate a domandare: "Dubitate della legittimità dello stato di Israele? Credete nella legge della sharia?"».21 E il venticinquenne Hassan Butt, aspirante jihadista e portavoce del gruppo estremista al-Muhajiroun, si spinse oltre. Quella stessa estate disse che «la maggior parte dei musulmani di questo paese se ne infischia sia dell'islam moderato sia di quello radicale: la gente pensa alle proprie faccende quotidiane. E contenta così. Ma tra i praticanti, la maggioranza la pensa come me. Solo che alcuni lo dicono pubblicamente, altri no».22 (Nel frattempo, Butt ha abbandonato le sue posizioni da jihadista.) Praticamente tutte le indagini statistiche rivelano che i musulmani britannici hanno posizioni decisamente più estreme rispetto al resto della popolazione islamica europea. A dire il vero, sono più estremisti dei musulmani di molti paesi islamici. Un sesto dei musulmani britannici ritiene giustificati gli attacchi suicidi contro obiettivi militari nel Regno Unito.23 Quasi due terzi di loro (il 63%) considerano gli occidentali «arroganti»: un livello di sfiducia più alto di quello registrato in Nigeria, Indonesia e Turchia.24 Questo fenomeno è dovuto in parte a certe tendenze sviluppatesi nell'islam all'estero. Poiché molti musulmani britannici sono pakistani, bengalesi e indiani, la maggioranza delle circa millecinquecento moschee in Gran Bretagna affonda con tutta probabilità le radici nel sufismo dell'Asia centrale e del subcontinente indiano. Il sufismo, praticato in Inghilterra da gran parte degli immigrati pakistani più anziani, nel paese d'origine non è che un residuo del passato, come il francese parlato in Québec. Poiché le masse di migranti cominciarono ad arrivare in Europa più di mezzo se
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colo fa, questo tipo di islam più moderato ha perso terreno nell'Asia meridionale per cedere il passo a tendenze meno spirituali e più aggressive. Influenzata dal wahabismo (e dal denaro) saudita, la scuola Deobandi, fondata in Pakistan nel XIX secolo, è sempre più conservatrice e diffidente nei confronti delle culture non islamiche. A partire dal conflitto in Afghanistan negli anni Ottanta, in tutto il Pakistan proliferarono madrase Deobandi con tendenze oltranziste. Dagli anni Sessanta, Jamaat-i-islami, movimento settario e altamente politicizzato fondato nel 1941 dal giornalista Abu A'ia Mau- dudi, si è esteso enormemente a partire dagli anni Sessanta ed è ora un'importante corrente all'interno del principale gruppo musulmano in Gran Bretagna, il Muslim Council of Britain (MCB). L'MCB non ha alcun ruolo istituzionale ufficiale, ma sostiene di rappresentare buona parte della popolazione musulmana. In Gran Bretagna «maggioritario» e «moderato» non sono necessariamente sinonimi. Nel 2004 la prima bozza di un rapporto del ministero degli Interni britannico su Giovani musulmani ed estremismo25 evidenziava come la principale causa di rabbia tra i giovani fosse «la sensazione che in politica estera la Gran Bretagna usasse "due pesi e due misure", predicando la democrazia e, al contempo, opprimendo la umma (la comunità dei credenti) o tollerandone l'oppressione, come per esempio in Palestina, Iraq, Afghanistan, Kashmir, Cecenia». La stragrande maggioranza dei musulmani disapprova qualsiasi intervento nel mondo arabo e musulmano. Tra il 64 e l'80% di essi, a seconda dei sondaggi, si proclamarono contrari alla partecipazione britannica alla guerra in Afghanistan. Gli europei non erano tuttavia nella posizione di stigmatizzare tali opinioni come tradimento, e molti di loro non erano inclini a lamentarsene. In fin dei conti, alle manifestazioni dei musulmani contro la guerra parteciparono anche cittadini laici e cattolici. Come disse un parlamentare tedesco: «I giovani di sinistra sono orgogliosi di essere tedeschi perché non ci sono soldati in Iraq». Con ciò si riferiva
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a tutti i giovani, non solo ai musulmani.26 Perché mai si sarebbero dovuti punire i musulmani se avevano manifestato opinioni che molti europei condividono con orgoglio? La questione generò il caos in tutta Europa. Dopo l'il settembre, a Torino, l'estremista marocchino Bouriki Bou- chta incendiò una bandiera italiana, insultò Israele e parlò in favore di Osama bin Laden. Benché dopo gli attentati di Madrid del 2004 avesse modificato le proprie posizioni, alla fine del 2005 fu estradato in Marocco, suo paese d'origine. A quel punto ingaggiò degli avvocati e fece il possibile per essere riammesso. La difesa si basò in parte sul fatto che il suo comportamento era assimilabile a quello di un qualsiasi esponente della sinistra estrema italiana. «In un certo senso», ricorda Francesca Paci, giornalista ed esperta di islam che si occupò del caso, «si era comportato fin troppo da italiano.»27 Da una parte, esiste il diritto al dissenso. Dall'altra, a certi immigrati musulmani questo diritto è stato garantito troppo presto, prima cioè che divenissero cittadini e che imparassero a cogliere la distinzione tra dissenso e sovversione. Sicché l'Europa si è ritrovata d'un tratto alle prese con un problema grave, forse l'ultimo che si sarebbe aspettata di dover affrontare all'inizio del XXI secolo: il ritorno dell'antisemitismo.
Antisemitismo e antisionismo L'ondata più grave di violenza antisemita e di atti vandalici in Europa dopo la seconda guerra mondiale ebbe origine nell'autunno del 2000, in contemporanea con l'insurrezione palestinese conosciuta come l'Intifada di al-Aqsa. Diciotto mesi dopo, sul territorio francese si verificavano quotidianamente sei o sette episodi di aggressioni e molestie ai danni di cittadini ebrei. Scuole ebraiche e negozi di ebrei venivano bersagliati da bombe molotov; alcune sinagoghe
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furono incendiate e distrutte; e si videro dimostranti «propalestinesi» sfilare con svastiche e cinture esplosive da kamikaze. Pressato dalle critiche internazionali per non aver reagito con maggiore incisività, il ministro degli Esteri Hubert Vé- drine dichiarò: «In Francia l'antisemitismo non esiste». Il presidente Jacques Chirac gli fece prontamente eco. Erano sinceri. A loro avviso, nessun paese europeo era più vigile della Francia contro l'antisemitismo, e in effetti era vero. Tuttavia, l'antisemitismo che le autorità e la società francesi erano preparati a combattere era soprattutto quel tipo di settarismo alimentato dalla chiesa cattolica che aveva reso possibile il caso Dreyfus nel XIX secolo e che aveva caratterizzato la Francia di Vichy negli anni Quaranta. Tra quelle situazioni storiche e l'attuale c'erano chiare differenze. Quei tipi di società ormai scomparsi erano ostili alla «diversità». Oggi, le minacce agli ebrei d'Europa derivano dalla diversità stessa. Tra gli immigrati musulmani, il disprezzo (a dir poco) per gli ebrei è un fenomeno endemico. Un rapporto commissionato dal governo francese rilevò che nelle scuole a forte presenza di immigrati veniva utilizzato il termine feuj («ebreo», in gergo) per designare tutte le cose brutte, marce, sporche, rotte e indesiderabili.28 Si moltiplicano gli insulti, le minacce e le aggressioni ai danni di studenti ebrei o creduti tali, sia all'interno che all'esterno delle scuole. Tali aggressioni sono generalmente opera di compagni di scuola maghrebini. Secondo le testimonianze da noi raccolte, per legittimare parole e atti violenti, gli studenti invocano spesso gli avvenimenti del Medio Oriente o una sura del Corano. [...] Non sono neppure insolite le dimostrazioni di apprezzamento per il nazismo e Hitler: lo si capisce da innumerevoli graffiti pieni di svastiche, e persino da certi commenti fatti in classe, davanti a insegnanti, professori e presidi. 29
Le aggressioni in strada erano perlopiù opera di bande sparse di giovani di origine araba. La Francia, con la sua
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enorme popolazione musulmana, fu la più colpita dal fenomeno, che però riguardò l'intera Europa. A Londra e a Manchester si verificarono profanazioni di tombe ebraiche e, durante una cerimonia commemorativa della seconda guerra mondiale, alcuni giovani lanciarono delle uova contro la deputata ebrea britannica Oona King.30 Di lì al 2006, stando ai dati del Community Security Trust, con sede a Londra, il tasso annuo di aggressioni antisemite in Gran Bretagna arrivò a quota seicento.31 A Oslo una sinagoga fu crivellata di colpi d'arma da fuoco.32 A Roma furono distrutti venti negozi gestiti da ebrei.33 Gli europei, al pari degli americani, avevano sviluppato una serie di banali stereotipi sull'intolleranza. Il razzismo aveva una classe immutabile di colpevoli (bianchi ricchi e cristiani) e una classe immutabile di vittime (poveri, scuri di pelle, indigeni delle colonie, oppressi). Si pensava che gli atti di antisemitismo, sempre che dovessero manifestarsi di nuovo, si sarebbero ripresentati all'interno dell'ideologia del fascismo continentale come era accaduto negli anni Venti e Trenta. Il cambiamento dei ruoli confuse gli europei. Il nuovo antisemitismo era così lontano da questi stereotipi che la gente - soprattutto la parte della popolazione abituata a vigilare contro il razzismo - non fu in grado di riconoscerlo. Uno studio dell'Unione Europea sull'antisemitismo che sarebbe dovuto uscire nel 2003 rivelava il forte coinvolgimento delle gang musulmane in questo fenomeno.34 La ricerca, però, non fu pubblicata a causa dell'incredulità dei committenti. Un anno più tardi uscì accompagnato da un comunicato stampa della delegazione dell'Unione Europea e delle Nazioni Unite in cui si affermava che «il gruppo più numeroso di persone responsabili di attività antisemite pare essere costituito da giovani bianchi europei insoddisfatti. L'antisemitismo è anche presente, in alcuni paesi, tra giovani musulmani di origine nordafricana o asiatica». Ma la somma degli incidenti mostrava un'altra cosa: i musulmani erano i principali responsabili di atti antisemiti.
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La maggioranza dei cittadini di tutti i paesi europei manifesta una vera e propria ipersensibilità nei confronti dei propri comportamenti, presenti o passati, che possano contenere qualche traccia di antisemitismo; da tale esame di coscienza, però, sono esentati i musulmani: anzi, coloro che hanno provato a esigerlo hanno subito delle censure. Quando il teologo di Utrecht Pieter W. van der Horst propose di dedicare la sua ultima lezione all' islamizzazione dell'antisemitismo europeo, la direzione dell'università non gli accordò il permesso.35 Gli episodi di antisemitismo sono diventati un problema costante nella vita europea. Tendono a seguire le oscillazioni degli avvenimenti in Medio Oriente. I giovani musulmani di tutto il mondo vengono facilmente aizzati contro Israele da leggende metropolitane, sproloqui diffusi su Internet e canali televisivi via cavo arabi che mostrano filmati di operazioni antiterroristiche. I notiziari sempre più segmentati e mirati a un target particolare fanno sì che la televisione abbia sugli immigrati e sulle minoranze attuali un effetto opposto rispetto a quello che aveva avuto sulla generazione precedente. Se la BBC abbatteva le barriere tra le comunità, al-Jazeera le erige. I notiziari rivolti agli immigrati - sempre più sofisticati, eccitanti e intervallati da videoclip stile MTV e musica che induce accelerazioni cardiache - ritraggono Israele come responsabile di atrocità spettacolari e gratuite. Nell'ultimo decennio molti giovani musulmani europei hanno deciso di unirsi alla lotta per la creazione di uno stato indipendente palestinese (e di contribuire così a screditare la causa stessa), con la vaga convinzione di vendicarsi degli ebrei. E quelli a portata di mano erano i vicini europei. La partecipazione indiretta ai conflitti nei paesi d'origine è un atteggiamento abbastanza normale per gli immigrati di seconda e terza generazione degli Stati Uniti. I musulmani filopalestinesi europei possono, in qualche misura, essere paragonati ai sostenitori irlandesi-americani dell'lRA.
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Il loro rapporto con il paese di residenza è piuttosto incoerente. Da una parte ne sono annoiati (dato che pare aver risolto molti problemi di sopravvivenza quotidiana), dall'altra provano risentimento nei suoi confronti (poiché le sue pretese di dominio globale fanno apparire la cultura dei loro genitori e dei loro nonni debole e marginale). Il ritorno alla comunità ancestrale e il coinvolgimento in un grande dramma può restituire un senso di pienezza a un'esistenza atomizzata. Tuttavia ci sono delle differenze. La maggior parte dei musulmani europei non è affatto di origine palestinese. E mobilitarsi per il vecchio paese d'origine (un luogo geografico specifico e lontano) non è come farlo per la umma (la comunità astratta della fede musulmana, le cui leggi sono vincolanti per tutti i suoi adepti, ovunque essi si trovino). Le raccolte di fondi a favore dell'LRA non ebbero effetti sulla vita politica statunitense, a parte - si spera - qualche rimorso di coscienza. La umma, invece, avanza rivendicazioni in Europa, e non solo in Medio Oriente. «Nel Regno Unito vivono due milioni di musulmani», ricorda lo storico britannico David Cesarani, «e un collante di questa popolazione variegata è l'ostilità verso Israele e gli esponenti più in vista della sua diaspora».36 Come il sentimento antiamericano e antirazzista, l'odio per Israele è un modo per entrare a far parte di una cultura europea senza doversi assimilare a essa, di entrare a far parte dell'Europa in una posizione di estraneità e opposizione permanenti. Perché la retorica contro Israele non solo unisce i musulmani tra loro, bensì li associa a una parte importante di europei nativi, soprattutto di sinistra. E un modo particolare di assimilarsi. Nel 2002 Gretta Duisenberg, moglie di Wim Duisenberg, l'allora presidente della Banca centrale europea, appese una bandiera palestinese sulla facciata della propria abitazione di Amsterdam. Nel febbraio del 2006, all'apice della crisi delle vignette danesi, nella settimana in cui alcuni gruppi palestinesi avevano mi
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nacciato esplicitamente (per chissà quale processo di libera associazione) di uccidere qualsiasi norvegese avessero trovato a Gaza, alcuni membri della coalizione governativa norvegese si dissero pronti al boicottaggio dei prodotti israeliani,37 Nell'aprile del 2006 la Svezia si rifiutò di partecipare alle esercitazioni militari in Medio Oriente perché anche Israele vi avrebbe preso parte.38 Gli europei furono protagonisti della Conferenza mondiale sul razzismo tenutasi a Durban nell'estate del 2001, che organizzò il movimento internazionale no global sulla base di posizioni an- ti-israeliane. Non si trattò di attacchi oltraggiosi o di passi falsi: la maggioranza della popolazione europea era d'accordo con i propri politici. In una famigerata indagine del 2003 gli intervistati di molti paesi europei definirono Israele la «più grave minaccia alla pace nel mondo». Senza rendersene conto, gli europei tendevano a incolpare Israele per la violenza terroristica che subiva. Lo scrittore americano Paul Berman fu il primo a notare lo strano effetto che gli attentati suicidi avevano sull'opinione pubblica europea. Provocavano una «crisi filosofica in tutti coloro che volevano credere che il mondo fosse governato dalla logica razionale». Gli attentati suicidi dovevano per forza essere una conseguenza di ingiustizie intollerabili. Altrimenti sarebbe stato puro culto della morte. Per un continente che portava le cicatrici dei culti omicidi del XX secolo, questo era un pensiero intollerabile. Gli europei si interessarono sempre di più alle «cause» del terrorismo e sempre meno al terrorismo in sé. Quanto più numerosi erano gli israeliani uccisi e quanto più gratuiti erano gli attentati, tanto più l'opinione pubblica europea si indignava con Israele. Le proteste contro Israele, scrisse Berman, «aumentavano e diminuivano nel mondo in base agli attentati suicidi e non alle sofferenze dei palestinesi».39 All'inizio, le opinioni di Berman erano sembrate eccentriche, ma alla fine si rivelarono esatte. L'ostilità europea verso Israele è diminuita da quando è stato
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costruito un muro di sicurezza tra Israele e la Cisgiordania, che non ha cambiato la realtà dell'occupazione di Israele, giusta o ingiusta che sia, ma ha ridotto enormemente il tasso di attentati suicidi. Gli europei stavano forse approfittando dell'indignazione della loro minoranza araba nei confronti di Israele per spaventare gli «esponenti più in vista della diaspora» giudaica? I nativi davano ben poche dimostrazioni attive di antisemitismo, ma si mostravano ancora meno allarmati dall'antisemitismo musulmano. A loro sembrava una rabbia legittima espressa in modo irresponsabile. John Denham, presidente della commissione ristretta per gli Affari interni, dichiarò nel 2005: «Non è esagerato affermare che la politica di Israele nei territori occupati è ben più di una semplice questione di politica estera: in realtà, è una questione che riguarda anche la politica della sicurezza interna della Gran Bretagna».40 Denham, uomo di solidi principi che diede le dimissioni dal governo Blair alla vigilia della guerra in Iraq, probabilmente non apprezzò il modo in cui questo messaggio fu interpretato; fatto sta che mise gli ebrei britannici in una posizione orribile, non molto diversa da quella di capri espiatori in cui avevano vissuto per secoli. Se non rinnegavano Israele e tutti i suoi atti, sarebbero stati corresponsabili di qualsiasi attacco alla popolazione non ebraica britannica, presumibilmente attraverso il terrorismo. Ora: gli europei avevano due categorie per classificare la violenza contro gli ebrei. C'era l'antisemitismo (ingiustificabile odio verso gli ebrei, frutto di un indottrinamento profondo) e 1'«antisionismo» (opposizione a Israele, che può assumere forme responsabili e irresponsabili). In teoria, la distinzione è perfettamente valida. Si può essere contrari alle politiche di Israele senza essere antisemiti; in realtà, si può essere anche contrari all'esistenza stessa di Israele senza essere antisemiti. In pratica, tuttavia, tale distinzione ebbe l'effetto di sdoganare l'antisemitismo e riportarlo nell'ambito delle principali correnti politiche europee. Magari si agi
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va in nome dell'antisionismo; di fatto, però, gli ebrei europei venivano presi di mira in quanto ebrei: nessuno sottoponeva loro un questionario prima di attaccarli. In pratica antisionismo e antisemitismo erano due modi per descrivere lo stesso fenomeno, anche se il primo era oggetto di approvazione e l'altro di disapprovazione.
«Il comunismo del XXI secolo» Negli ultimi decenni l'Olocausto è stato la pietra angolare dell'ordine morale europeo. Il «superamento del passato» (o Vergangenheitsbewàltigung, per usare il termine tedesco) ha rappresentato un'impresa etica solenne, quasi religiosa, nel bene e nel male. Tale ordine morale ha funzionato per decenni, relegando l'antisemitismo agli estremi margini della vita europea; a un certo punto, però, quest'ordine morale è entrato in crisi: in modo spettacolare, improvviso, evidente. Nel 2005, in Francia, il 62% dei crimini motivati da odio avevano come vittime gli ebrei.41 Tale fallimento non è seguito a un abbandono della Vergangenheitsbewàltigung. Ogni volta che gli ebrei venivano diffamati, aggrediti o addirittura uccisi, il monito morale dell'Olocausto veniva evocato e proclamato con forza. Gli europei avevano coltivato quella che Pierre-André Taguieff ha definito un'«ipermnesia»42 sugli eccessi totalitaristici del loro passato, ma questo surplus di memoria è per certi versi anche selettivo. La sincera ripugnanza nei confronti dell'antisemitismo di tipo nazista e dell'Olocausto continuava a essere uno dei pilastri etici dell'Europa del xxi secolo. L'ordine morale costruito sulla memoria dell'Olocausto è crollato non perché sia stato abbandonato, bensì perché è stato applicato in modo indiscriminato. La memoria e il pentimento europei consistevano in una forma di disciplina morale: non era un conto che gli ebrei o altre minoranze potessero presentare per ottenere un trattamento di ri-
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guardo ogni volta che rimanevano invischiati in qualche controversia politica tra comunità. E comunque gli ebrei erano ormai troppo pochi per rivendicare trattamenti di riguardo. Sotto la pressione dell'immigrazione di massa, il pentimento per l'Olocausto divenne un modello di riferimento per regolare i casi in cui una minoranza sostenesse di aver subito gravi torti. I musulmani d'Europa erano un gruppo etnico vitale, fiorente, sicuro di sé e molto rivendicativo. Una volta giunti sul continente, i musulmani assunsero una posizione privilegiata in ogni dibattito pubblico sui diritti delle minoranze: anche loro erano «vittime». Adducen- do la condizione di svantaggio socio-economico vissuta in Europa e l'occupazione (secondo il loro punto di vista, anche quando non erano palestinesi) della Palestina, molti musulmani ritenevano che la loro comunità, più ancora di quella ebraica, dovesse suscitare nei nativi europei il bisogno di un esame di coscienza e un'autocritica morale. Sempre più musulmani vedevano sé stessi come i «nuovi ebrei». Nel dicembre del 2005, l'autore di sinistra Ziauddin Sardar scrisse un editoriale sul «New Statesman» intitolato II prossimo Olocausto. Il sindaco di Londra Ken Livingstone disse che il disagio dei britannici nei confronti del velo ricordava da vicino «la demonologia della Germania nazista».43 Nel 2006 Livingstone fu sospeso dal suo ufficio per quattro settimane per aver paragonato un giornalista ebreo alla guardia di un campo di concentramento. Mentre gli ebrei accumulavano «rivali» interessati a sottrarre loro il primato di vittime dell'Europa, ebbe luogo un brusco capovolgimento di ruoli. L'ideologia della diversità e dell'armonia razziale, da sempre ridicolizzata per il suo sentimentalismo e la sua «correttezza politica», si rivelò un modo per inoculare nuovamente nella vita europea la furia contro gli ebrei. Antisemiti e antisionisti non avevano dimenticato affatto la lezione dell'Olocausto, anzi ne erano
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ossessionati. Era per essi uno strumento retorico. Se i musulmani erano i nuovi ebrei, gli ebrei erano i nuovi nazisti. C'erano comici che ironizzavano sul «popolo eletto»,44 in particolare il talentuoso franco camerunese Dieudonné Mbala-Mbala. C'erano gang di strada antisemite, come la Tribù Ka, sorta di Legione San Giorgio postmoderna che pattugliava la rue des Rosiers abitata da ebrei ortodossi, tentando di fomentare la guerriglia urbana nella convinzione allucinatoria che qualcuno dovesse pur opporsi alle milices ebraiche. (Le milizie erano il corpo dì polizia collaborazionista durante l'occupazione nazista della Francia.) Nel luglio del 2006, dopo un assalto a una cerimonia in memoria di Ilan Halimi, il venditore di telefoni cellulari menzionato al Capitolo Sei, torturato per tre settimane e infine ucciso dalla gang dei cosiddetti «Barbari», guidata da africani, la Tribù Ka fu finalmente messa al bando.45 In seguito alla crisi scatenata dalle vignette danesi, un gruppo denominato Lega araba europea, con base ad Anversa, pubblicò una vignetta che ritraeva Hitler nudo a letto con Anna Frank che diceva: «Mettici questo nel tuo diario, Anna». Le aspirazioni di Dyab AbouJahjah, incendiario leader della Lega araba europea erano molto meno religiose e molto più nazionalistiche di quelle della maggioranza dei musulmani radicali europei. Viaggiava sempre scortato da un plotone di guardie del corpo e sosteneva le lotte degli arabi in tutto il mondo, soprattutto quelle contro Israele, ma anche contro l'Europa, dove invoca la creazione di una nazione araba. La vignetta di Anna Frank, secondo i suoi auspici, avrebbe dovuto rappresentare una «ritorsione» per quelle pubblicate dallo «Jyllands-Posten». «Anche l'Europa ha le svte vacche sacre», dichiarò trionfante Abou Jahjah, «anche se non sono religiose». Il commento di Abou Jahjah non era soltanto violento, bensì anche ottuso. Aveva ragione a dire che l'Europa aveva tabù e vacche sacre. Tuttavia, ignorava che lui e i suoi seguaci erano i diretti beneficiari di quella mentalità. Abou
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Jahjah era davvero così stupido da credere che fossero gli ebrei d'Europa i principali vincitori dell'ordine morale del dopoguerra? Per la maggioranza degli ebrei era ormai troppo tardi. Lo shock che il loro sterminio aveva provocato nella coscienza europea, però, aveva reso il continente sicuro per altre minoranze. L'immigrazione di massa che consentì a un così grande numero di musulmani di insediarsi in Europa sarebbe stata impensabile senza l'angoscioso senso di colpa generato dall'Olocausto. Un'immigrazione di tale portata avrebbe provocato diffidenza, xenofobia e violenza. Non è difficile immaginare quale sarebbe stata la reazione dell'Europa, in assenza del senso di colpa per la shoah, alla presenza di un gruppo di estremisti arabi nazionalisti con base nelle Fiandre. Era stato il «superamento del passato» a tenere a bada gli impulsi di intolleranza dell'Europa per mezzo secolo,46 e ci era riuscito fin troppo bene. Non solo aveva creato uno spazio vitale per i migranti, ma anche uno spazio di impunità per i peggiori di loro. Il nuovo antisemitismo non era una semplice recrudescenza del razzismo. Era un antisemitismo che si faceva strada sotto la protezione dell'antirazzismo, come il filosofo Alain Finkielkraut spiegò in una serie di interessanti saggi. «Credo che il nobile principio della "guerra contro il razzismo" si stia gradualmente trasformando in un'orribile falsa ideologia», dichiarò Finkielkraut nel 2005. «E nel XXI secolo questo anti razzismo rappresenterà quello che il comunismo ha rappresentato nel XX secolo: una fonte di violenza.»47
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10. RESISTENZA E JIHAD
Povertà, occupazione, grandeur perduta e altri motivi di malcontento - Islam e violenza «L'islam è pace» - Musulmani moderati — Tariq Ramadan e il «linguaggio doppio» Resistenza ejihad
L'islam è rimasto a lungo nascosto, ma adesso il mondo si sta accorgendo della sua esistenza. In particolare, l'attenzione è attratta dagli atti di terrorismo commessi in suo nome, perlopiù in Europa. Da ben prima dell'11 settembre 2001 gli attacchi terroristici contro l'Europa, escluse l'Inghilterra e la Spagna, giungevano per la maggior parte dal mondo arabo. Qualcosa, tuttavia, mutò tra la fine dell'estate del 1972, quando un gruppo di terroristi palestinesi assassinò diciassette atleti israeliani in occasione delle Olimpiadi di Monaco di Baviera, e il Natale del 1994, allorché le forze speciali francesi dispiegate all'aeroporto di Marsiglia disarmarono i quattro membri del Gruppo islamico armato algerino,1 che avevano dirottato il volo 8969 dell'Air France uccidendo alcuni passeggeri. I terroristi avevano intenzione di pilotare l'aereo contro la Tour Eiffel. L'islam non era più soltanto l'ambito culturale da cui proveniva il terrorismo, bensì era divenuto la causa in nome della quale i terroristi agivano. La causa dell'islam attirava sempre più musulmani europei. Nel 1995 Khaled Kelkal, originario di Lione, portò a termine una serie di attentati dinamitardi. Sempre in Francia, una settimana prima degli attacchi dell'11 settembre, Salir Bghouia assaltò la polizia e l'ufficio del sindaco di Béziers, sua città di residenza, gridando che era «figlio di Allah» e sparando raffiche di mitra e colpi di lanciarazzi.2 Musulmani europei in apparenza perfettamente assimilati, come Mohammed Bouyeri e Moham- med Sidique Khan, affascinati da un'idea romantica di ri
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bellione islamica, tradirono la patria d'adozione per tornare alle identità d'origine. Episodi del genere pongono i politici di fronte a un chiaro problema. Da una parte, i cittadini di tutti i paesi dell'Europa occidentale mettono il terrorismo quasi in cima alla lista delle loro preoccupazioni; dall'altra, l'Europa diventa sempre più musulmana, attraverso l'immigrazione e il naturale incremento demografico. L'opinione pubblica più diffusa è sintetizzata da una frase pronunciata da un anziano politico nell'estate del 2006: «La prima cosa da fare è tener separati immigrazione e terrorismo».3 Questo, però, è solo un desiderio che cerca di passare per analisi. Come scrisse il giornalista Lawrence Wright nel suo autorevole studio su al-Qaeda: Una cosa che tendeva ad accomunare le reclute - a parte le maniere urbane, un passato cosmopolita, l'istruzione elevata, la padronanza di diverse lingue e l'abilità nell'uso del computer - era il loro dislocamento in luoghi diversi da quelli d'origine. La maggior parte di loro aveva aderito ailiLjihad all'estero. Erano algerini residenti in comunità di espatriati in Francia, marocchini in Spagna o yemeniti in Arabia Saudita. [...] L'islam era il fattore di coesione. Più ancora che una fede, era un'identità.4
L'immigrazione, in realtà, ha molto a che fare con il terrorismo. In parte, è proprio per questo che il terrorismo è tanto difficile da combattere.
Povertà, occupazione, grandeur perduta e altri motivi di malcontento Quali sono le «cause» del terrorismo? È naturale presumere che il terrorismo, al pari della guerra, sia una continuazione della politica con altri mezzi e che quindi scaturisca da un qualche tipo di rivendicazione politica. I sangui
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nosi attentati sui treni di Madrid nel marzo del 2004, organizzati da un gruppo marocchino legato ad al-Qaeda con base in Spagna, fornisce l'esempio più lampante di tale visione clausewitziana perché: 1) al-Qaeda era contraria al coinvolgimento spagnolo nell'intervento anglo-americano in Iraq; 2) anche il 90%, e oltre, degli spagnoli era contrario alla guerra; 3) il candidato socialista José Luis Rodri- guez Zapatero aveva incentrato la propria campagna elettorale sull'opposizione alla guerra in Iraq; 4) gli attentati modificarono il risultato di elezioni le cui proiezioni davano Zapatero come sicuro sconfitto. La tesi secondo cui Zapatero dovrebbe la propria vittoria non agli attentati, bensì alla manipolazione dell'informazione pubblica da parte del Partito popolare all'indomani della strage, è molto diffusa in Spagna. Secondo tale tesi, il governo di José Maria Aznar (e non - è bene sottolinearlo - il candidato popolare Mariano Rajoy) avrebbe cercato di far credere al paese che gli attentati fossero opera dei terroristi baschi dell'ETA, e non di al-Qaeda. Non è compito né obiettivo di questo libro approfondire questo tema, che richiederebbe un resoconto preciso di quel che accadde nelle settantadue ore tra l'attentato dell'11 marzo e le elezioni del 14 marzo, nonché una conoscenza dettagliata delle personalità politiche spagnole, degli organigrammi della polizia e delle procedure militari. Ma tale spiegazione non convince. Le informazioni raccolte attraverso il controllo sull'ETA avevano indotto i funzionari dei servizi segreti a temere un attentato alla vigilia delle elezioni. I terroristi si erano procurati gli esplosivi attraverso i canali usati dall'ETÀ. E i politici socialisti erano «certi» quanto i popolari che gli attentati fossero opera degli indipendentisti baschi anche molto tempo dopo che erano stati compiuti. L'accusa di mendacio rivolta al Partito popolare non si fondava su prove, bensì sulle esigenze psicologiche della giovane democrazia spagnola. Più di qualsiasi altro paese europeo, la Spagna aveva bisogno di crede
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re che il proprio governo fosse salito al potere in virtù di decisioni interne spagnole e non dell'intervento armato di un avversario straniero. Una volta salito al potere, Zapatero ordinò l'immediato ritiro delle truppe spagnole dall'Iraq, mettendo fine all'alleanza spagnola con gli Stati Uniti e promuovendo in sua vece quella che egli chiama «alleanza di civiltà» con l'islam. Che gli attentati di Madrid fossero o meno una conseguenza diretta della politica spagnola in Iraq, la capitolazione per via elettorale della Spagna rimarrà probabilmente l'ultima nel suo genere ancora per un bel pezzo, e per ragioni pragmatiche. Non esiste più, nel campo terrorista, un interlocutore con cui negoziare e in grado di formulare richieste chiare e offrire credibilmente un quid prò quo, dove il quid è invariabilmente l'astensione da atti terroristici. Dopo l'il settembre 2001, Osama bin Laden rappresentava, almeno in teoria, un interlocutore di questo tipo. Egli, infatti, godeva di un certo prestigio all'interno del mondo musulmano, comandava l'esercito di terroristi più vasto ed efficiente del globo, formulava richieste e minacciava ritorsioni violente se tali richieste non venivano soddisfatte. Ora, però, quella struttura di comando è stata in larga misura decapitata dalla guerra al terrorismo, e di al-Qaeda non resta che un'ideologia vaga con l'unico scopo di spargere quanta più distruzione possibile tra le fila di quella che la propaganda islamista chiama l'«alleanza tra ebrei e crociati». L'Occidente non è in grado di adottare comportamenti tali da placare il malcontento dei terroristi, poiché le loro rivendicazioni sono numerose e mutevoli. Non è neppure possibile dire se tale malcontento di fondo, da parte di al-Qaeda e delle altre organizzazioni a essa collegate, sia geopolitico, metafisico o sociologico. Ha a che fare con 1'«occupazione» delle terre musulmane, da parte dei militari statunitensi con le loro basi o a opera di governi musulmani che, per qualche motivo, sono invisi ai musulmani europei? (In tal caso, non si spiegherebbe come mai i musul
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mani attacchino i paesi europei di cui sono cittadini.) È forse qualcosa di più vago, tipo il «rimpianto per la perduta grandeur» in cui si dibatte il mondo musulmano? (In tal caso, è strano che il rimpianto europeo per la perduta grandeur determini un comportamento diametralmente opposto, ossia la tendenza al pacifismo.) Ancora più difficile è riconoscere quali siano le rivendicazioni politiche all'origine degli attentati di Londra del luglio del 2005, compiuti da terroristi nati e cresciuti in Inghilterra di cui non si sa se fossero solo emuli di al-Qaeda o militanti addestrati dalla stessa organizzazione.5 Di certo, erano contrari alla politica britannica in Iraq. L'Iraq, però, non era che uno - e neppure il principale - dei motivi di scontento dei musulmani menzionati nel video dell'attentatore suicida Mohamed Sidique Khan. Come abbiamo visto, i sondaggi dimostrano che la partecipazione britannica all'occupazione dell'Afghanistan è di per sé sufficiente a generare, tra la popolazione musulmana interna, una forte simpatia nei confronti del terrorismo. Lo stesso vale per l'appoggio dato a Israele, e per la diffusa sensazione che i musulmani in Europa siano cittadini di seconda classe. Nel settembre del 2007, la Germania, che pure si era fatta promotrice e portabandiera della coalizione europea contro la guerra in Iraq, ha scoperto il tentativo, da parte di tre terroristi, di far esplodere nella città di Ulm una bomba confezionata con settecentocinquanta litri di acqua ossigenata ad alta concentrazione. All'epoca, nel solo stato del Baden- Württemberg erano già state individuate diverse centinaia di soggetti suscettibili di compiere attentati terroristici.6 Non avendo ben chiare le cause di tutta questa furia da parte dei terroristi islamici, i paesi europei si sono lanciati in fantasiose congetture e provvedimenti volti a prevenire l'insorgere di qualsivoglia lamentela nella testa di qualche irascibile musulmano. Da un documento di altissimo livello frutto della collaborazione di diverse agenzie governative, preparato per Tony Blair all'inizio del 2004, emergeva che
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«meno dell' 1%» dei musulmani in Gran Bretagna aveva legami con il terrorismo, in patria o all'estero. (E auspicabile: ì' l% equivale a circa 16.000 persone.) Secondo un'analisi del ministero britannico per il Lavoro e la previdenza sociale, inclusa nello stesso rapporto, «il metodo più efficace per coinvolgere questo gruppo (i musulmani) in modo positivo è ovviamente quello di ridurre la discriminazione e promuovere l'integrazione».7 L'uso dell'avverbio «ovviamente» la dice lunga. Per spiegare il terrorismo e qualsiasi mancanza da parte delle comunità musulmane, gli europei ricorrono per istinto a formule del tipo: sono depravato perché sono deprivato. Persino Laurence e Vaisse, tra i più validi studiosi dei musulmani francesi, giustificano così l'alta percentuale di musulmani tra la popolazione carceraria. «A causa dell'alienazione e della disperazione derivante da tali handicap socio-economici», scrivono, «i cittadini di origine musulmana costituiscono la maggioranza della popolazione carceraria francese.»8 Pecca di presunzione chi ritiene che gli obiettivi dei giovani musulmani possano essere condizionati dalle azioni dei non musulmani. Se i musulmani sono uguali a tutte le altre persone, tenderanno a costruire le proprie ideologie sulla base di valori e aspirazioni proprie, e non altrui. Negli ultimi decenni, l'atteggiamento occidentale nei confronti del resto del mondo è cambiato in maniera profonda: dall'arroganza coloniale si è passati all'insicurezza e al disprezzo di sé. E tuttavia l'animosità degli estremisti musulmani nei confronti dell'Occidente è rimasta sorprendentemente costante. Come si è evidenziato sopra, la retorica antioccidentale dei «fanatici religiosi» attuali non è in genere distinguibile da quella dei «nazionalisti senza dio» di un tempo. Il terrorismo è solo una modalità di autoaffermazione dei musulmani, e quindi non è solo l'affermarsi di una religione, bensì di un popolo. Secondo il tedesco Gunnar Heinsohn, sociologo e studioso dei genocidi, gli atti di violenza compiuti dai giovani
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maschi potrebbero anche non avere a che fare con concezioni ideologiche.9 E più probabile che sia la demografia a fungere da stimolo all'omicidio. I maschi tra i 15 e i 30 anni sono la parte più violenta di ogni società. Una società con un surplus di giovani maschi dovuto a una rapida crescita demografica - o «youth bulge», per usare l'espressione di Heinsohn - è tendenzialmente instabile. Una società con un alta percentuale di giovani non è in grado di fornire alla generazione successiva di maschi adulti un numero sufficiente di posizioni di prestigio sociale. In tal modo si innesca da una parte l'invidia nei confronti dei fratelli maggiori che ereditano tutti i beni di famiglia, dall'altra, un'ambizione sfrenata. L'eroismo militare offre da sempre a secondogeniti e terzogeniti o, come nel caso di Osama Bin Laden, ai diciottesimi nati, un modo per guadagnarsi una posizione onorata e rispettabile all'interno di una società altrimenti indifferente. Secondo i calcoli di Heinsohn, l'insorgere della violenza è quasi inevitabile quando i giovani tra i 15 e i 30 anni costituiscono più del 30% della popolazione maschile, come accade nella maggior parte del mondo musulmano. Attualmente vi sono sessantasette paesi con un numero sproporzionato di giovani, e nel 60% di questi paesi sono in corso guerre civili o genocidi. La teoria non si applica necessariamente ai giovani musulmani d'Europa, ma vale certamente per molti movimenti nel mondo con i quali i musulmani europei simpatizzano. Heinsohn ha evidenziato che se dagli anni Sessanta la Germania avesse avuto lo stesso tasso di natalità di Gaza (nove bambini per donna), a questo punto avrebbe 550 milioni di abitanti, tra cui 80 milioni di maschi fra i 15 e i 30 anni. «Credete che questi 80 milioni di giovani tedeschi sarebbero dieci volte più pacifisti dei 7 milioni che abbiamo oggi?», domandò provocatoriamente lo studioso in un articolo pubblicato su un giornale in tedesco. «Non è forse molto più probabile che andrebbero a lanciare bombe a
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Praga, Danzica e Breslavia dicendo, al pari dei palesdnesi: "Questa è la nostra terra, che ci è stata tolta per motivi storici che non ci interessano"?»10
Islam e violenza Seguendo fino in fondo la logica di questo ragionamento, le «cause» invocate a giustificazione della violenza perderebbero consistenza: la violenza diverrebbe una cosa fine a sé stessa. Ed è pressappoco questo che il giornalista pakistano Ahmed Rashid ha scoperto studiando i jihadisti più convinti e impegnati, quelli che negli anni Novanta andarono a combattere in Afghanistan. «I giovani uomini che venivano addestrati in quei campi», scrisse Rashid, «non avevano studiato nelle scuole islamiche chiamate madrase, e a ispirarli non era tanto l'ideologia islamica estremista quanto il desiderio di vedere il mondo, di maneggiare armi e di vivere un'avventura giovanile.»11 La religione dell'islam, attualmente al centro di molti dibattiti strategici, potrebbe essere un depistaggio, una giustificazione a posteriori, utile ai violenti che desiderano sentirsi qualcosa di più che semplici criminali. Lo scontro tra civiltà attualmente in corso non è necessariamente uno scontro civilizzatore. E tuttavia è il caso di attendere prima di scartare l'islam come spiegazione. Quali che siano le vere motivazioni dei terroristi, resta il fatto che loro stessi dichiarano di agire in nome dell'islam. Possiamo affermare con certezza che i più gravi problemi all'interno dei paesi europei nel confronto tra musulmani e Occidente non derivano dall'islam in sé, bensì dalle abitudini e dalle tradizioni della gente, a partire dai delitti d'onore fino alla circoncisione femminile. Il terrorismo jihadista, però, è diverso. Osama bin Laden non combatte in nome delle tradizioni hadhramite che rischiano di essere cancellate da un'ondata di globalizzazione scriteriata. Lui combatte per l'islam. Di certo, ci sono altri
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modi di vivere l'islam rispetto a quello di Osama bin La- den, ma ora sappiamo abbastanza della sua esistenza - delle sue lunghe ore di studio nei programmi postscolastici, della sua devozione religiosa sin da quando era solo un ragazzo timido, e non il leader tracotante di oggi -12 da poter capire che egli vive secondo i precetti dell'islam, così come li intende sinceramente. I musulmani di tutto il mondo, compresi quelli che a migliaia vivono in Europa, si sono mostrati desiderosi di seguire il suo esempio.13 Naturalmente, chiunque può invocare la religione ogni volta che imbraccia le armi. Il problema è stabilire se la violenza attuale dell'islam derivi da una congiuntura transitoria o dai fondamenti dell'islam stesso. Su questo punto ci sono opinioni discordi. Alla domanda se l'islam sia o meno una religione di pace, David Martin, sociologo delle religioni britannico, rispose: «Be', l'islam cerca la pace, ma alle proprie condizioni». Egli citò osservazioni analoghe mosse dall'arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, che definì l'islam come una religione raffinata, ma che attribuisce grande valore alla vittoria.14 Per alcuni di coloro che individuano nel Corano una fonte di violenza, è proprio questa tensione competitiva a distinguere gli incitamenti coranici da quelli presenti nel giudaismo e nel cristianesimo (dal Deuteronomio 18,20 agli Atti degli apostoli 3,22-23). Altri sostengono che vi sia una differenza nello stile etico dell'islam che rende i suoi adepti più inclini dei cristiani tradizionali a ricorrere alla violenza. Spesso viene menzionata un'altra differenza, e cioè la mancanza, nell'islam, del concetto di peccato originale. Nella sura 14,22 del Corano, per esempio, Satana ammette di non avere un vero potere sull'uomo. Lo scrittore Salman Rushdie sostenne con forza questa tesi: «La visione del mondo cristiano-occidentale è incentrata sui concetti di colpa e salvazione che sono, invece, del tutto irrilevanti in Oriente, dove non esiste il peccato originale né un salvatore. Di contro, viene attribuita
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grande importanza all'"onore". Personalmente, trovo che questo fatto sia un problema».15 Il diplomatico israeliano Mordechay Lewy enunciò la stessa tesi in modo leggermente diverso in un articolo del 2003, ormai divenuto un classico nel suo genere, che parlava delle differenze tra cristianesimo e islam, da lui rispettivamente definiti «cultura della colpa» e «cultura della condanna». Lewy scrive: «Nel conflitto aperto o nascosto tra le due culture, l'Occidente non può agire liberamente, a causa dei limiti morali che si è autoimposto. L'aggressiva cultura orientale, fondata sulla condanna degli altri, percepisce tale controllo dei propri impulsi come debolezza.16 Questioni del genere riguardano la sfera più intima dei singoli credenti e dunque esulano dai fini (e dalla competenza) di questo libro. Le ho menzionate solo per delineare i contorni di un dibattito ancora in corso, non per dire la mia in proposito. Due cose, tuttavia, vanno sottolineate riguardo a quello che, storicamente, è stato il rapporto dell'islam con la politica, perché attengono ai timori politici più profondi degli europei. Innanzitutto, l'islam contempla la sharia, un codice che - per quanto variegato e aperto a diverse interpretazioni - regola tutti gli ambiti della vita sociale. In secondo luogo, le culture islamiche hanno prodotto regimi autoritari con una tale costanza da costringere gli studiosi meglio intenzionati desiderosi di dimostrare l'apertura dell'islam alla reinterpretazione e al dibattito razionale - a tirare in ballo le effimere innovazioni introdotte dai mu'taziliti nel IX secolo.17 Il fatto che i non musulmani considerino l'islam la religione autoritaria per eccellenza è motivo di molte incomprensioni con i musulmani, i quali ribattono - a ragione - che in realtà si tratta di una religione profondamente egualitaria. In teoria, dovrebbe essere una religione radicalmente libera. Essa non prevede gerarchie religiose e neppure un clero, nel senso più stretto del termine. E possibile che, non riconoscendo alcuna autorità profana, l'i
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slam sfoci nell'anarchia. E i governi che fondino la propria legittimità sulla propria capacità di riportare l'ordine in una situazione di anarchia sono, quasi per definizione, governi autoritari. Questo paradosso balzò all'occhio dell'esploratore britannico Wilfred Thesiger durante un viaggio nell'«Empty Quarter», la zona desertica più desolata dell'Arabia Saudita, nei primi anni del secondo dopoguerra. Egli vide nei beduini che incontrò i musulmani originari e archetipici. In Sabbie arabe (1959) scrisse: La società in cui vivono i beduini è tribale. [...] Al di fuori della tribù d'appartenenza, un individuo non gode di alcuna protezione nel deserto. E questo che rende la legge tribale, fondata sul consenso, efficace anche per il popolo più individualista del mondo. [...] Stranamente, la legge tribale funziona solo in condizioni di anarchia e fallisce non appena viene ristabilita la pace nel deserto; in condizioni di pace, infatti, un uomo in disaccordo con una sentenza può rifiutare di sentirsene vincolato.18
Nel mondo musulmano, la gente è più incline a legarsi a un governo che parla nel nome dell'islam che a un governo che rappresenta un partito politico rivale, che poi può essere l'equivalente di una tribù rivale. Nel corso del secolo scorso sono state tentate, con esiti incostanti, forme di governo alternative alla teocrazia, da Kemal Ataturk in Turchia a Saddam Hussein in Iraq. Questa fase sembra ormai passata. I governi più recenti dei paesi musulmani - in Iraq e in Afghanistan, per esempio, per non parlare del regime postkemalista del Partito per la giustìzia e lo sviluppo (AKP) in Turchia - riconoscono tutti un forte ruolo costituzionale all'islam.
«L'islam è pace» Nel 2006, dopo un'indagine del ministero degli Interni francese, quarantatré addetti ai bagagli dell'aeroporto
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Charles de Gaulle di Parigi furono privati, per motivi di sicurezza, dell'autorizzazione a svolgere le loro mansioni. L'allora ministro, Nicolas Sarkozy, disse che era importante che chiunque aveva accesso alle piste di decollo non avesse alcun «legame, diretto o remoto, con organizzazioni estremiste». Le organizzazioni estremiste a cui erano legati gli addetti ai bagagli erano, anche se Sarkozy non lo specificò, musulmane. Le autorità francesi negarono preventivamente che gli addetti ai bagagli in questione fossero stati penalizzati in quanto musulmani e che la fede islamica costituisse un fattore decisivo dell'indagine. Sarkozy sottolineò che nessuno era stato indagato per ragioni legate alla sua identità.19 «Il fatto che un soggetto sia musulmano praticante non ha alcuna rilevanza», dichiarò Jacques Lebrot, viceprefetto di Roissy, località in cui è situato l'aeroporto. «A suscitare qualche dubbio in noi sono semmai le vacanze ripetute in Pakistan.» Così, nel tentativo di scrollarsi di dosso il sospetto di tener d'occhio l'islam, il governo ammise di tener d'occhio le visite ai parenti (dei pakistani) e i viaggi turistici (di chiunque altro). Alle prese con il terrorismo islamista, i politici occidentali - molti dei quali non distinguono un qadi da un wadi - hanno reagito con presuntuose rivendicazioni di competenza su questioni teologiche musulmane. Alcuni di essi sono antimusulmani e di destra, come l'olandese Geert Wil- ders, autore di un documentario diffuso su Internet (Fitna, 2008) che presenta il Corano alla stregua di un manuale per terroristi. Tali politici riescono a conquistare voti - quando il documentario uscì, il partito fondato da Wilders ottenne nove seggi nella seconda camera del parlamento olandese - ma vengono trattati dai media come personaggi rozzi e paranoici, ancorché pericolosi, e derisi oppure messi a tacere. La maggioranza dei politici, tra cui Sarkozy e Lebrot, ostenta invece certezze di segno opposto: afferma cioè che il terrorismo non ha mai nulla a che fare con la religione musulmana. I sostenitori di questa interpretazione «be
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nevola» dell'islam si risparmiano la gogna pubblica, benché non sia affatto certo che la loro conoscenza dell'islam sia superiore a quella di Wilders. A sdoganare questo tipo di interpretazioni fu lo stesso George W. Bush, che, pochi giorni dopo l'il settembre 2001, dichiarò che «l'islam è pace». Di conseguenza, il terrorismo non poteva aver nulla a che fare con l'islam. Sarkozy, apparentemente, concordava. «Gli attacchi dell'11 settembre», scrisse nel 2004, «sono opera di fanatici, di una mafia terrorista, di un clan di esaltati che ha preso a pretesto la religione.»20 Nel suo discorso televisivo dopo gli attentati di Londra, Tony Blair disse: «Sappiamo che questa gente agisce nel nome dell'islam, ma sappiamo anche che la stragrande maggioranza dei musulmani che vive tra noi e all'estero è gente perbene e rispettosa delle leggi, che aborre il terrorismo esattamente come noi». Alcuni giorni dopo, elogiò «la voce moderata e autentica dell'islam».21 Il leader del partito conservatore David Cameron gli fece eco. Ribadì che l'islamismo è frutto di «un'interpretazione del tutto scorretta - una distorsione estrema - della fede islamica».22 Secondo questa visione, l'islamismo, a prescindere dalla retorica e dalle aspirazioni teocratiche, è sempre e comunque un movimento politico, non religioso. I commentatori americani partono da questo presupposto quando parlano - come spesso accade - di «islamofascismo». L'esperto di islam Olivier Roy osserva che i «processi» di al-Qaeda alle vittime dei sequestri (che nei primi anni della guerra in Iraq venivano regolarmente decapitate, con tanto di registrazione video diffusa su Internet per il diletto dei jihadisti casalinghi) sono «improntati esplicitamente alle pratiche dall'estrema sinistra degli anni Settanta, in particolare alla messinscena del "processo" ad Aldo Moro da parte dalle Brigate rosse nel 1978».23 Ai tempi del suo massimo vigore, il comunismo è stato spesso paragonato non all'estremismo islamico, che non esisteva come lo conosciamo oggi, bensì all'islam nel suo in
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sieme, così come viene da sempre praticato. Il sociologo francese Jules Monnerot fece simili paragoni negli anni Quaranta.24 Poiché scriveva in un momento storico in cui l'islam era considerato una forza politica ormai esaurita, possiamo desumere che le sue osservazioni non avessero intenti polemici, perlomeno nei confronti dell'islam. Monnerot assimilava il comunismo all'islam in quanto costituiva una religione (sia pure laica) e, al contempo, uno stato universale (benché ancora in embrione). Al pari del comunismo, l'islam ha un progetto preciso di ordine sociale e si fonda, in teoria, su un tipo di egualitarismo che, nella pratica, tende a tradursi in oppressione. Come scrisse Monnerot: «Trae la sua forza dal risentimento e organizza e incanala gli impulsi che inducono le persone a rivoltarsi contro le società in cui sono nate».25 In particolare, i comunisti hanno dato corpo a un «mito storico capace di fomentare il fanatismo tra gli uomini», al pari dei fatimidi in Egitto e dei safavidi in Persia. All'epoca della diffusione e dell'espansione del comunismo - scrisse Monnerot - tale ideologia era sconosciuta in Europa dacché questa «si era separata dal mondo mediterraneo»,26 cioè da quando gli europei si ritirarono di fronte all'avanzata dell'islam. Secondo Monnerot, Stalin era una versione moderna del musulmano «comandante dei fedeli» (emir al-muminin), e i fedeli dei comunismo erano particolarmente facili da comandare. Nel comunismo, come nell'islam il fedele non si considera un «credente»: egli è in possesso della verità o, meglio, egli scambia la cosa che lo possiede per la verità. Questa verità gli infonde una devozione attiva che la verità (quella scientifica) non ispira a nessuno (né pretende di farlo).27
Utilizzando la terminologia dell'epoca, Monnerot definì il comunismo un «fenomeno sociale totale», che infrange «l'autonomia delle sfere d'azione» caratteristica della mo
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dernità. Secondo Monnerot, il sistema liberale è il più inadatto ad affrontare un'opposizione di tipo religioso, perché essa «aggrava le reali "contraddizioni interne" del capitalismo».28 Paragonare il comunismo a una religione che ha 1400 anni di storia e un miliardo e mezzo di fedeli non può che generare semplificazioni eccessive che finiscono per confondere le idee. Ma se paragoniamo il comunismo all'islam politico radicale, il concetto di «fenomeno sociale totale» risulta utile. Il più grande vantaggio ideologico dell'islamismo è la capacità di far presa su un'enorme quantità di gente. Al pari del comunismo, è un'ideologia abbastanza aperta da offrire una risposta a un'ampia varietà di rivendicazioni e, in tal modo, attirare persone tra loro diverse per estrazione sociale. Nel 2005 il «London Times» riportò i risultati di uno studio governativo in cui si dimostrava che «i giovani estremisti rientrano perlopiù in due particolari gruppi di persone: il primo è costituito da gente istruita, laureata o diplomata, munita di qualifiche professionali di livello più o meno alto; il secondo da ragazzi con pessimi risultati scolastici, privi o quasi di qualifiche e, spesso, con precedenti penali».29 L'islamismo può essere compreso da un professore universitario come una struttura intellettuale altamente elaborata e da un giovane analfabeta armato di mazza da baseball come uno slogan o un grido di guerra. I rapporti tra islamismo e islam esulano dall'argomento di questo libro. Per capire che l'islamismo è un pericoloso nemico dello stato liberale moderno non è necessario conoscere a fondo la sua logica politica o stabilire che cosa - e se - abbia in comune con il «vero» islam. Dimostrando che islamismo e islam non sono la stessa cosa, non si riduce certo la pericolosità del primo. L'affermazione secondo cui l'islam è pace, però, appare eccessiva, soprattutto nel momento in cui altre antiche e onorate istituzioni o sistemi di relazioni sociali (come il «patriarcato») vengono rigorosamente esaminate in cerca di
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meccanismi occulti di violenza e coercizione. A differenza di Gunnar Heinsohn, che mette da parte l'islam in quanto non 10 ritiene la causa principale del terrorismo, i politici occidentali sembrano metterlo da parte proprio perché temono nel profondo che lo sia. Mai si sente gridare tanto forte che l'islam è pace come quando vengono messe delle bombe in suo nome. Se l'idea di religione dei terroristi è così evidentemente una distorsione della realtà, perché i non musulmani sentono il bisogno di dare lezioni di religione ai musulmani? Se l'islam non ha nulla a che vedere con il terrorismo, perché, dopo ogni attacco terroristico, tutti i governi europei sentono il bisogno di ingraziarsi i gruppi musulmani?
Musulmani moderati Caposaldo della strategia europea contro il terrorismo è la collaborazione con i cosiddetti «musulmani moderati». I musulmani moderati sono coloro su cui si può contare per un'interpretazione non «distorta» dell'islam o, almeno, distorta in senso positivo, orientata alla costruzione di un «islam europeo» in grado di interagire con le istituzioni politiche del continente senza distruggerle. Ragionando sulla previsione di Bernard Lewis, secondo la quale l'islam è destinato a dominare l'Europa entro la fine di questo secolo, 11 sociologo siriano-tedesco Bassam Tibi disse: «Il problema non è se la maggioranza degli europei sarà o meno islamica, bensì quale tipo di islam - quello della sharia o l'euroi- slam - finirà per imporsi in Europa».30 Questo genere di discorsi entusiasma i pianificatori, i visionari e i politici, ma non placa certo l'inquietudine dei comuni cittadini europei. Questi non hanno mai trovato una definizione di «euroislam» nei manuali di storia e non sanno bene se sia una cosa reale o un'illusione dei leader politicamente corretti. Come se non bastasse, l'euroislam dovrebbe essere incentivato con sistemi simili ai negoziati di pace tra arabi e
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israeliani, fondati sull'idea di «terra in cambio di pace». La parte occidentale cede irrevocabilmente qualcosa di concreto e quantificabile (territorio); in cambio, la parte musulmana cede qualcosa di vago, soggettivo e revocabile al primo cambiamento d'umore (la pace). L'Europa può mobilitarsi per creare un «euroislam» soltanto alterando le proprie istituzioni. Ciò che otterrà in cambio è la rassicurazione, da parte dei musulmani moderati, che i musulmani estremisti saranno meno maldisposti nei suoi confronti. Nessuno ha mai spiegato che cosa sia, di preciso, l'«islam moderato» né se il termine debba essere inteso in senso politico o religioso. Se un «musulmano moderato» è una persona che pratica l'islam in modo moderato, allora per definizione esiste un'alternativa non moderata. Tale punto di vista è in linea con l'atteggiamento europeo nei confronti delle altre religioni: vanno bene se non le si prende troppo sul serio. Ma se alla base non c'è la convinzione che l'islam abbia qualcosa di particolarmente pericoloso, il termine «musulmano moderato» non ha alcun senso. Nessuno ha mai definito l'ex primo ministro francese Lionel Jospin un «protestante moderato». Più ottimistica (e ragionevole) è l'opinione per cui un «musulmano moderato» sarebbe moderato in politica, indipendentemente dalla sua concezione della religione: gli estremisti islamici sono estremisti in virtù del loro atteggiamento sul piano politico, e non su quello religioso. Solo in questa accezione il termine «musulmano moderato» risulta compatibile con il concetto tradizionalmente europeo di libertà di religione. Spingere l'identità islamica in direzione del «fondamentalismo» potrebbe indurre i musulmani a concentrarsi maggiormente su Dio e meno sul proprio malcontento. Se l'identità islamica, invece, tende verso una maggiore assimilazione e una minore devozione religiosa, potrebbe dar luogo a prese di posizione plateali e a ultimatum politici.31
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I musulmani conservatori, dal canto loro, possono essere sovversivi o patrioti o entrambe le cose. Hassan Moussa, imam di origine algerina formatosi in Arabia Saudita, menzionato nel capitolo precedente in quanto oppositore della mutilazione genitale, figurava all'inizio di questo decennio tra i più incendiari leader musulmani residenti in Svezia. Dopo gli attentati di Londra del 2005, tuttavia, dichiarò di essere rimasto scioccato e invocò la creazione di un consiglio per combattere l'estremismo. A quel punto, disse: «Decisi di eliminare la parola "ma" dalle mie prediche».32 (Cioè non avrebbe più cercato di giustificare il terrorismo come reazione esagerata, ma motivata da una giusta causa.) Moussa non guadagnò granché da questa sua presa di posizione pubblica. Perse influenza all'interno della moschea centrale di Stoccolma. Grazie ai suoi articoli pubblicati dalla stampa scandalistica, però, molti musulmani moderati residenti in Svezia fecero sentire la propria voce. La compatibilità dell'islam con le istituzioni liberali è difficile da quantificare. Al pari di molte religioni, l'islam viene vissuto dai credenti come un modo di accedere a forme di libertà più elevate, e abbracciare l'estremismo in difesa della libertà non è considerato un peccato. Se sei a favore della sharia, difficilmente ti preoccuperai per il fatto che la gente, le istituzioni o le tattiche sono «troppo islamiche». Si pensi al Libano. Lì, la maggioranza dei cristiani (53%) considera l'estremismo islamico una minaccia per il paese, contro un mero 42% di parere opposto. Tuttavia solo il 4% dei musulmani libanesi si preoccupa dell'estremismo musulmano, mentre l'85% non se ne preoccupa affatto.33 Le difficoltà aumentano per il fatto che buona parte degli occidentali non è in grado di accedere a molte sofisticate trattazioni sul rapporto dell'islam con la democrazia, per esempio a quelle di intellettuali iraniani come Akbar Ganji e Ab- dolkarim Soroush. In molti casi non sono neppure state tradotte. Questo tende a de-democratizzare il dibattito occidentale sull'islam e a lasciarlo nelle mani di pochi esperti.
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Gli esperti si mostrano condiscendenti nei confronti delle masse europee che nutrono dubbi sulla compatibilità dell'islam con la democrazia, rimproverando loro essenzialmente il fatto di non avere un dottorato in teologia e di non essere in grado di leggere il farsi. Per ora la moderazione dell'islam è solo una speranza, non un dato di fatto. Eppure i leader europei hanno scommesso così tanto su di essa che ne vedono dimostrazioni dappertutto. Per esempio, Mustafa Geric, gran muftì della Bosnia-Erzegovina, si è guadagnato la reputazione di moderato soprattutto grazie a interpretazioni coraniche del tipo: «Il nostro Libro sacro prescrive chiaramente la tolleranza religiosa: "Allah non vi proibisce di essere buoni e giusti nei confronti di coloro che non vi hanno combattuto per la vostra religione e che non vi hanno scacciato dalle vostre case" (60,3)».34 Cogliere moderazione in una frase del genere è una forzatura. Questo brano del Corano, ancorché certamente aperto a interpretazioni moderate, può essere letto altrimenti, ossia non come invito alla tolleranza, bensì come permesso di non essere intolleranti, se lo si vuole. Espressioni quali «chi non vi ha combattuto» e «scacciato dalle vostre case» possono essere lette in senso radicale. Possono significare «riconoscimento dello stato di Israele» o «mancato intervento militare a favore dei pakistani in Kashmir» o qualcos'altro che non è ancora venuto in mente a nessuno. In effetti, così tendono a interpretarle i mufti estremisti, che le persone come Qeric dovrebbero ricondurre all'interno del sistema liberale. E non tutti sono propensi come Ceric a scegliere la via liberale. All'indomani della strage del 7 luglio a Londra, il musulmano britannico Massoud Shadjareh, presidente della Commissione islamica per i diritti umani, condannò l'attentato, ma con argomentazioni sbalorditive. «Bisogna distinguere tra coloro che commettono tali atrocità e coloro che lottano con passione contro le ingiustizie», disse. «Dobbiamo incoraggiare tale passione e dare modo a queste per
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sone di combattere le ingiustizie all'interno della società civile.»33 Pur non appoggiando il terrorismo in modo esplicito, tale affermazione implica un'essenziale approvazione dell'analisi del mondo di al-Qaeda. Passa per una posizione «moderata», ma in realtà non fa che elevare l'ultimatum all'Occidente a un livello diverso: dalla detonazione al reclutamento. Al-Qaeda dice che l'Occidente deve fare determinate cose se non vuole subire il terrorismo. I moderati dicono che l'Occidente deve fare determinate cose se non vuole che i moderati si uniscano ad al-Qaeda. Se sono queste le alternative a disposizione dell'Occidente, non si capisce bene a che cosa gioveranno gli sforzi di coltivare buoni rapporti con i musulmani moderati. Sono le voci come quella di Shadjareh che i politici occidentali stupidamente - desiderano sentire. Se la massima priorità è quella di trovare gente dotata della credibilità «di strada» necessaria a dissuadere potenziali terroristi, allora l'interlocutore musulmano ideale non dovrà essere solo «moderato», bensì anche «autentico». Dovrà avere posizioni politiche che coincidono almeno in parte con quelle dei terroristi, pur ripudiando il terrorismo. Si tratta di una trappola per gli stessi musulmani. Dopo l'il settembre, gli occidentali si aspettavano un'abiura chiara e forte del terrorismo da parte dei moderati, perché solo così sarebbe stato possibile distinguerli dagli estremisti. In America come in Europa, la condanna del terrorismo da parte dei musulmani non fu mai abbastanza decisa o frequente da rassicurare i loro concittadini. Ci fu una prova di lealtà collettiva, e i musulmani perlopiù non la superarono. In linea teorica, fu una grave ingiustizia. In fin dei conti, perché mai dei musulmani che si considerano francesi o britannici dovrebbero sentirsi tenuti, più dei loro concittadini non musulmani, a condannare i criminali? Il giornalista americano Kevin Cullen colse con precisione l'umore dei musulmani di Londra dopo gli attentati del luglio del 2005:
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I musulmani dicono che nessuno ritenne gli americani bianchi responsabili per le azioni di Timothy McVeigh, arrestato per l'attentato di Oklahoma City; e che nessuno accusò i britannici bianchi di essere complici delle malefatte di Harold Ship- man, un medico inglese arrestato cinque anni fa per aver ucciso più di 500 pazienti. Allora perché - si domandano - non solo vengono accusati di aver allevato gli attentatori che hanno colpito il mese scorso, bensì anche invitati a farsi da parte, per consentire ai buoni e ai giusti di risolvere la questione. 36
In pratica, c'è una bella differenza: non ci fu un gruppo nutrito di americani bianchi che applaudì l'atto di McVeigh; nessun gruppo significativo disse che, nonostante egli avesse agito con mezzi sbagliati, le ingiustizie da lui lamentate erano reali e che ignorare il suo messaggio avrebbe provocato nuove ritorsioni. Non ci furono gruppi di britannici bianchi che considerarono gli omicidi seriali di Harold Shipman meno che ripugnanti. La ripugnanza musulmana, invece, era tutt'altro che unanime. Nel 2003, in occasione del secondo anniversario degli attentati dell'I 1 settembre 2001, il gruppo estremista musulmano al-Muhajiroun diffuse per posta volantini che pubblicizzavano una festa in onore dei dirottatori, definiti «i magnifici diciannove».37 L'evento fu considerato a ragione un'iniziativa finalizzata ad alimentare la rabbia omicida e a reclutare nuovi terroristi. Un aspetto della reazione della Gran Bretagna alla minaccia terroristica - soprattutto dopo il trauma dei quattro attentati del luglio del 2005 - fu l'approvazione di leggi che prevedevano l'arresto o l'espulsione per chiunque «attaccasse i valori occidentali».38 L'al- lora ministro degli Interni Charles Clarke propose di rendere punibile per legge chiunque affermasse che «i terroristi vanno dritti in paradiso quando muoiono». Ma che cos'altro poteva essere fatto rientrare sotto la voce «esaltazione del terrorismo»? Qualcuno domandò se un irlandese che festeggiava la Sollevazione di Pasqua del 1916 potesse essere considerato un fuorilegge. Le autorità risposero di
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no, ovviamente. Dunque il concetto di «esaltazione del terrorismo» finì per ricevere la definizione che il giurista statunitense Potter Stewart diede della pornografia: una cosa che la gente riconosce subito appena la vede.39 Nel nome dell'universalismo, la Gran Bretagna promulgava leggi che potevano essere fatte rispettare solo sulla base della saggezza popolare. Nell'aprile del 2007, quasi due anni dopo gli attentati di Londra, Peter Clarke, capo delle unità antiterrorismo di Scotland Yard, disse: «Credo fermamente che esistano altre persone a conoscenza di cosa stava dietro gli attentati del 2005 e che non ci hanno detto quello che sapevano. Anzi, non solo lo credo: lo so per certo». Invitando con urgenza a uscire allo scoperto tutti coloro che sapevano qualcosa dei terroristi, aggiunse: «Comprendo che alcuni di voi siano preoccupati per le conseguenze che ogni rivelazione potrebbe avere. So anche che alcuni di voi sono stati attivamente dissuasi dal parlare con noi. Queste cose devono assolutamente finire».40 Non tutti i musulmani erano dunque «moderati». Affermare che esistevano musulmani moderati era solo un eufemismo per esprimere il concetto che procurò a George W. Bush tanto disprezzo da parte degli europei: «O state con noi o con i terroristi».41
Tarìq Ramadan e il «linguaggio doppio» Dopo il 2001, l'eccessiva cautela nel parlare di terrorismo mostrata dai musulmani inquietò gli europei, come pure gli americani. Molti tra quanti avevano una conoscenza vaga della terminologia islamica pensarono che i musulmani stessero utilizzando le antiche tattiche sciite della taqiyyah, ossia della dissimulazione del proprio pensiero a fini di autodifesa, e giunsero alla conclusione che non c'era da fidarsi di ciò che i musulmani dicevano in materia di religio
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ne o sullo scontro tra Oriente e Occidente. Nella maggior parte dei casi, però, le inquietanti dichiarazioni dei leader musulmani non erano né bugie né taqiyyah, bensì quello che in seguito fu definito «linguaggio doppio». Alcuni leader musulmani si contraddicevano spudoratamente, pronunciando un discorso in una lingua europea e poi un altro molto diverso in arabo. Un caso esemplare fu quello dell'imam danese Abu Laban, ora defunto, che nel 2005 parlò del nuovo concetto di islam in via di elaborazione presso il suo istituto (Islamisk Trossamfund) con sede a Copenaghen. «E una visione progressista e non costruita sulla paura della cultura occidentale. Rifiuta la mentalità del ghetto. Le donne rivestono un ruolo importante, parallelo a quello degli uomini.» Quanto al terrorismo, aggiunse: «Se dovessimo scoprire che l'islam costituisce una minaccia per l'Occidente, sarei io il primo a combatterlo».42 Eppure, in quello stesso periodo, Abu Laban aveva in progetto di aizzare certi leader religiosi estremisti in Medio Oriente con una serie di presentazioni sensazionali delle caricature su Maometto pubblicate poche settimane prima sulla stampa danese. Nei mesi a seguire, le denunce diffuse per televisione da questi leader avrebbero contribuito all'esplosione di violente proteste in tutto il mondo. Abu Laban, del resto, aveva manifestato questo suo lato meno moderato nel corso dell'intera carriera. Nel 1995 aveva tenuto un discorso sui «modi per difendersi dalla contaminazione occidentale»43 davanti al IX Congresso dell'Istituto culturale islamico di viale Jenner, a Milano. «Accettano i musulmani fra di loro, accettano il chador e lo stile di vita islamico», disse, «ma in cambio pretendono che noi accettiamo la loro religione e la loro libertà individuale. Ciò è impossibile. L'islam non può accettare nessuno che non adori Allah.»44 Il linguaggio doppio, tuttavia, è un'altra cosa. Non è come dire due cose diverse a seconda dell'uditorio a cui ci si rivolge, bensì predicare un messaggio coerente che sarà inteso in modi diversi da due tipi diversi di ascoltatori. Un
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buon esempio in questo senso fu l'uso del termine «rispetto» da parte dei leader delle comunità per descrivere le aspirazioni degli abitanti dei ghetti francesi. Assistenti sociali e politici interpretarono la parola come una richiesta di parità di diritti. Per gli abitanti del ghetto il termine aveva una connotazione vendicativa, intimidatoria e di potere. Tariq Ramadan, attivista politico carismatico, scrittore prolifico, teologo freelance e motivatore residente a Ginevra, è agli occhi dei suoi nemici l'incarnazione stessa del linguaggio doppio. Ramadan ha negato di avere mai fatto uso di qualsiasi tipo di «discorso doppio» Dichiarò ad Andrew Hussey sulle colonne del «New Statesman»: «A quanti sostengono il contrario rispondo: Portatemi le prove.45 Io sono assolutamente limpido in quello che dico». Ramadan gira i campus universitari europei per promuovere l'idea apparentemente ragionevole di una società basata sulla legge islamica, e chiedere pieno riconoscimento dell'islam da parte di tutte le istituzioni europee. Gli americani sono abituati a uomini di dio bene informati e altamente politicizzati di ogni orientamento politico e teologico, come Pat Robertson, William Sloane Coffin, Jeremiah Wright, John Shelby Spong e Michel Lerner, per citarne alcuni. Gli europei contemporanei, invece, non hanno l'esperienza sufficiente per comprendere il ruolo e le opinioni di Ramadan, che possono restare di ardua interpretazione anche dopo aver letto tutte le sue opere.46 Ramadan è nipote (per parte di madre) di Hassan al- Banna, che nel 1928 fondò la Fratellanza musulmana egiziana e con essa lo stile di islamismo che negli ultimi anni ha dilagato in tutto il mondo. Said, padre di Ramadan, era forse ancora più estremista: benché alcune fonti lo descrivano come un informatore della CIA,47 era anche vicino a Said Qutb intellettuale egiziano antiamericano i cui scritti ebbero una grande influenza sui fondatori di al-Qaeda -
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e fu coinvolto nel complotto contro il governo egiziano che costò l'impiccagione a Qutb.48 In quest'epoca piena di celebrità, Tariq Ramadan è un personaggio di riguardo per ogni fondamentalista musulmano. La sua stretta collaborazione con il fratello Hani, estremista irriducibile che ha pubblicamente appoggiato la lapidazione delle donne adultere, aumenta la sua credibilità «di strada». Ramadan stesso se ne esce spesso con osservazioni che suonano non poco inquietanti alle orecchie di qualsiasi europeo equilibrato. Mesi dopo gli attacchi dell'11 settembre, il massimo che riuscì a dire fu che c'erano «molte probabilità» che in quegli atti fossero coinvolti terroristi musulmani. Insistette tuttavia nel ribadire che c'erano altre possibilità, tra cui il traffico di armi e droga e non meglio specificati interessi legati al gas e al petrolio.49 È impegnato nella ricerca delle «cause oggettive»50 degli attentati islamisti, compreso il massacro di cristiani in Nigeria, di cui ha detto: «Dobbiamo considerare la situazione oggettivamente e osservare con sguardo critico tanto le cause, ossia l'uniformazione globale e un'occidentalizzazione talvolta selvaggia, quanto le conseguenze, ossia le tensioni etniche e religiose».51 In generale, però, Ramadan ha rappresentato l'islam in modo abbastanza pluralistico da rassicurare i leader politici europei sulla sua capacità di agire da ponte tra i musulmani e il resto della popolazione europea. Non ha negato il diritto all'esistenza di Israele. Non è misogino. I suoi avversari nei paesi musulmani sono spesso religiosi ultraconservatori. Inoltre, ha un dono particolare per la formulazione di frasi concise che concedono qualcosa sia ai musulmani più agguerriti sia agli occidentali più inquieti: «L'islam è a favore della liberazione delle donne» dice, «ma non a discapito dei bambini». Non tutti si sentono rassicurati. Ramadan fu espulso dalla Francia negli anni Novanta e dichiarato persona non grata in Tunisia, Egitto e Arabia Saudita a causa dei suoi scritti.
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Nel 2004 avrebbe dovuto prendere una cattedra alla University of Notre Dame, nello stato dell'Indiana; poi, però, il dipartimento di stato statunitense gli ritirò il visto per motivi mai del tutto chiariti, nonostante la vaga allusione al Patriot Act. Si è scritto e congetturato molto sui motivi del bando nei confronti di Ramadan: pare che il giudice spagnolo Baltasar Garzón fosse venuto a conoscenza di suoi contatti con un agente di al-Qaeda. Ramadan avrebbe detto a un funzionario dell'ambasciata statunitense di Berna che la resistenza in Iraq era giustificata. Aveva donato seicento euro a una fondazione (legale) con sede in Francia, collegata, secondo gli USA, ad Hamas. Ramadan si trasferì in Gran Bretagna dove, negli ultimi mesi del mandato di Tony Blair, lavorò come professore a Oxford e consigliere del governo britannico.52 Poiché Ramadan è il più ascoltato - da musulmani e non - tra gli interpreti contemporanei delle dottrine più problematiche dell'islam, è importante stabilire se le sue riflessioni sul ruolo dei musulmani in Occidente siano plausibili e sincere. Secondo lui, i musulmani possono essere veri cittadini europei, o rimarranno in qualche modo sempre stranieri? Per tradizione, i musulmani hanno sempre affrontato questioni del genere dividendo il mondo in due parti: il dar ai-islam, (la casa dell'islam) e il dar al-harb (la casa della guerra). Ramadan esordisce rifiutando tale divisione per due motivi. Innanzitutto, i termini sono stati coniati dagli storici e non figurano nel Corano. Essi si adattano ai primi tre secoli della conquista musulmana, ma non al mondo alterato dalla colonizzazione e dalla migrazione di massa.53 In secondo luogo, a parte alcuni piccoli screzi legati alla costruzione di moschee, le leggi europee garantiscono ai musulmani una libertà, di praticare la propria fede e di esprimere le proprie opinioni, che non ha uguali nel mondo. «Questo potrebbe indurre a concludere», sottolinea Ramadan, «che dal punto di vista della sicurezza e della pace, la formula dar al-islam si applichi a quasi tutti i paesi occidentali, e non alla
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stragrande maggioranza dei paesi musulmani contemporanei.»54 Egli definisce l'Europa dar al-shahada, che significa qualcosa come il «regno della testimonianza».55 Il problema, secondo Ramadan, è che i valori di fondo dell'Europa sono corrotti e peccaminosi. Pur non descrivendo la zona geografica europea come dar al-harb, egli condanna «il capitalismo senz'anima che riduce ogni cosa a merce»56 e parla del sistema euroamericano su cui esso si fonda come di alam al-harb: la «dimora della guerra».57 Ha invocato la «resistenza all'ordine internazionale uniforma- tore»58 e si è dichiarato «disposto a fare l'impossibile per sostenere e aderire a qualsiasi movimento di presa di coscienza e di resistenza, come per esempio quello dei cittadini di Seattle del 1999 (in occasione del vertice dell'Organizzazione mondiale del commercio).59 Inoltre, frequenta regolarmente appuntamenti anticapitalisti come il Social Forum europ
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Ramadan viene facilmente scambiato per un normale marxista europeo o per un militante no global: un compagno di lotta che, per puro caso, è anche musulmano, all'interno di un movimento perlopiù laico. Poiché è noto che gli islamisti più radicali non nutrono alcuna considerazione per il comunismo, è facile giungere alla conclusione che Ramadan sia disposto a sostenere opinioni non condivise dalla maggioranza dei suoi ascoltatori musulmani e ad assumersi il rischio di parlare apertamente davanti ai potenti. Giudicarlo in questo modo - come fanno molti astuti pensatori europei e americani, tra cui Gilles Kepel e Ian Buru- ma significa intendere il suo messaggio come molto più laico e molto meno religioso di quanto in realtà non sia. Buruma scrive: «Ramadan, come osserva Kepel, "cammina su un filo sottile", perché le sue idee socialiste non sono sempre congeniali ai musulmani più devoti. Marx (insieme all'«Ebreo», al «Crociato» e al «Laicista») è una figura diabolica per i Fratelli musulmani».60 Il fatto è che il «socialismo» di Ramadan non si fonda su alcun contenuto concre
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to, cioè su nessuna teoria politica, materialista o economica. Le sue posizioni di sinistra sono solo una valutazione spirituale negativa dell'ordine morale occidentale, di cui il «capitalismo» non è che conseguenza e metonimo. Egli è contro l'ordine occidentale, ma si guarda bene dal pronunciarsi a favore di ciò che potrebbe alienargli, in misura anche minima, le simpatie dei musulmani più oltranzisti. La parola «resistenza» è il concetto chiave del pensiero di Ramadan. E il fondamento di tutto ciò che in Ramadan può avere una doppia interpretazione. Il termine compare quasi immancabilmente nei suoi scritti e discorsi più importanti. Egli sottolinea che nella sua famiglia «resistenza era un concetto chiave: resistenza contro la dittatura e il colonialismo».61 Il verbo «resistere» non è democratico come «riformare», «dissentire» o «opporsi». E un verbo rivoluzionario. La resistenza è quella che si oppone a un sistema privo di qualsivoglia legittimità. I francesi riformarono il proprio ordine costituzionale nel 1958; dopo il 1942 resistettero contro i nazisti. Secondo la visione del mondo di Ramadan, i musulmani sono i salvifici superstiti. Sono l'ultima forza in grado di offrire un'alternativa spirituale, di opporsi a un ordine mondiale materialista. Se nessun'altra grande religione occidentale ha reputato necessario o è stata in grado di tenere a bada il capitalismo, non è colpa dei musulmani. «Di fronte all'ordine cosiddetto "progressista"», dice Ramadan, «il "bastione" cattolico e quello "ebraico" sembrano aver capitolato entrambi. Si sono adattati; talvolta, hanno persino appoggiato e promosso il nuovo ordine economico. Gli unici rimasti, gli implacabili, sono evidentemente i musulmani.»62 Gli europei contemporanei, incapaci di darsi un'identità altrettanto risoluta senza esservi legittimati agli occhi di tutti, hanno scelto di credere che quando Ramadan parla di «resistenza», invitando tutti i musulmani a praticarla ovunque si trovino, in realtà intenda «riforma». Non è così. In realtà, per lui «resistenza» significa jihad.
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Resistenza ¿jihad Quando Ramadan - in modo abbastanza commovente, bisogna ammetterlo - dice quanto sia essenziale combattere contro l'ordine occidentale, è evidente che non si riferisce solo a un sistema economico. Lui ha in mente qualcosa di più grande. Il suo è un discorso metafisico e persino religioso: Un essere umano che viva solo dei suoi desideri superficiali e i cui bisogni siano perlopiù indotti non è più un essere umano. [...] Può divenire una semplice bestia, conservando l'illusione della propria umanità, un mostro potenziale i cui eccessi vengono talvolta controllati solo da un briciolo di razionalità che assume la funzione di guinzaglio. Se questa razionalità è umana, il mostro rimane sotto controllo: ma se per disgrazia la razionalità è solo economica o finanziaria, la bestia si scatena e promette quanto di peggio, dalle stragi ai genocidi, come abbiamo constatato fin troppo spesso. La nostra religione ci insegna che la prima resistenza a tali derive si trova dentro di noi.
Tale resistenza interiore è la stessa che in altre sedi Ramadan chiama jihad: Per la stragrande maggioranza dei musulmani, il concetto di jihad si riferisce a una tensione spirituale e, più in generale, alla resistenza. [...] Utilizzo questa parola quotidianamente nel mio rapporto con me stesso: la jihad è innanzitutto lo sforzo interiore che ognuno fa per resistere alle forze negative che ha dentro di sé. E un lavoro di resistenza contro la propria rabbia, la propria violenza, la propria cupidigia.64
Ramadan rifiuta esplicitamente l'uso del termine jihad nel suo significato di «guerra santa». Questa particolarità lo assimila a una ventina di altri rappresentanti dell'islam in Occidente, i quali dichiarano che «la jihad più grande» è la lotta per il dominio di sé. Ma è davvero esatto affermare
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che la maggioranza dei musulmani nel sentire la parola «jihad» pensa a una «tensione spirituale»? Perché è così disperatamente importante tenere in circolazione questa parola, quando agli orecchi degli interlocutori occidentali dei musulmani - per non dire di molti musulmani comuni - rappresenta una chiamata alle armi? I diffidenti occidentali moderni tendono a eliminare del tutto parole come questa dal proprio vocabolario. Per comprendere con precisione il modo in cui Ramadan usa le parole «resistenza» e «jihad», è utile tornare agli scritti di suo nonno. Sarebbe ingiusto utilizzare le opere di al-Ban- na per comprendere il pensiero di Ramadan, se Ramadan stesso non continuasse a sottolineare l'influenza esercitata su di lui dall'illustre avo e a definirlo una pietra di paragone e una fonte di immenso orgoglio. Gli scritti di Ramadan sul nonno hanno un carattere di curatela più che di critico, e noi ci limiteremo a prendere in esame le opere di al-Banna che Ramadan stesso ha citato nei propri scritti. Per al-Banna, la resistenza mentale (la coscienza) e quella politica (la rivoluzione) sono solo due modi diversi di descrivere un unico e coerente processo. A suo avviso, l'aspetto peggiore dell'economia inglese e della colonizzazione politica è il fatto di aver prodotto una «colonizzazione dell'intimo» (colonisation des intimités) ,65 Essa forgiava e distorceva le decisioni private dei musulmani, allontanandoli dalla riflessione religiosa. Ecco perché la Fratellanza musulmana dell'epoca di al-Banna riteneva che esigere la partenza degli inglesi dall'Egitto fosse «un obbligo islamico».66 Questo discorso, che lo si condivida o meno, possiede una sua logica innegabile. Non ci sono due tipi di jihad- quella «vera» e la sua gemella cattiva - anche se una tale finzione serve a calmare gli animi degli europei. Jihad significa riconnettersi con il proprio io autentico e migliore combattendo elementi nocivi, stranieri e non islamici, che si trovino in una società o nella propria mente. Secondo la visione di al-Banna, la vittoria dell'io migliore era inevitabile, perché l'Occidente era in bancarotta spiri
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tuale.67 La sua civiltà materialistica68 era sull'orlo del collasso. «Non si tratta di un'illusione», scrisse al-Banna. «Si tratta piuttosto di una legge di natura, e se non accadrà nella nostra epoca, allora "Allah susciterà uomini che Egli amerà come essi ameranno lui, umili con i credenti e fieri con i miscredenti, che lotteranno per la causa di Allah e non avranno timore del biasimo di nessuno".»69 Ramadan qualifica al-Banna come un pluralista perché a suo avviso egli non «demonizzò mai l'Occidente».70 Si tratta, però, di un'interpretazione eccentrica. Nella migliore delle ipotesi, al-Banna è un pluralista di tipo selettivo e asimmetrico. Ciò che ammira dell'Occidente è il potere, e ciò che ammira dell'islam è la saggezza. L'islam ha sagesse; l'Occidente ha solo savoìrfaire.lx In una società giusta, il potere deve essere al servizio della saggezza e non viceversa. Se i musulmani sono in possesso di una verità e gli europei dispongono solo di un bagaglio di trucchi pratici, il sistema che regola la società europea - la garanzia dei diritti - non può avere un valore fine a sé stesso. Ha valore solo in virtù delle opportunità che offre alla pratica dell'islam. Facciamo chiarezza sulle implicazioni di un discorso del genere. Se la pratica dell'islam subisce delle costrizioni, il contratto sociale è nullo e privo di valore. L'accettazione da parte dei musulmani dei paesi in cui vivono può essere tutt'al più provvisoria e dipende dalla disponibilità europea a garantire la massima libertà all'islam. L'integrazione dei musulmani in Europa avrà luogo alle condizioni dei musulmani. Come dice Ramadan: «Essa avrà successo quando i musulmani troveranno nella propria tradizione elementi di accordo con le leggi dei paesi di cui sono cittadini, perché ciò risolverà la questione della doppia lealtà».72 E un'affermazione davvero singolare: i musulmani si sottometteranno ai costumi europei solo quando a loro avviso corrisponderanno a quelli dell'islam. In caso contrario, non si adatteranno. «L'islam è un elemento di cui tenere conto, adesso e in futuro», ha detto Ramadan. «La persistente negazione di
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questa realtà produrrà inevitabilmente strenue resistenze e scontri.»73 E linguaggio doppio? Senza mai minacciare ritorsioni violente, Ramadan avverte l'Occidente che se non cambierà secondo i desideri dei musulmani, le ripercussioni violente ci saranno. Quando parla del mondo al di fuori dell'Occidente, l'idea del pluralismo e dei diritti non viene, a quanto pare, neppure presa in considerazione. «L'avvenire dei paesi musulmani», dice Ramadan, «vedrà questa riappropriazione delle tradizioni e un'evoluzione endogena, secondo il pensiero e la mentalità di una civiltà, in relazione - questo è certo - con le altre.»74 Per Ramadan, islamisti del XX secolo come Muhammad Abduh e Jamal ai-Din ai-Afghani sono figure esemplari. «Hanno sentito il bisogno di resistere all'Occidente attraverso l'islam, pur prendendo da esso ciò che era loro utile» disse a Ian Buruma nel 2007.75 Gli islamisti del XX secolo ritenevano di poter fare un uso cinico delle innovazioni tecnologiche europee, pur disprezzando la cultura che le aveva prodotte. Islamisti del XXI secolo come Ramadan hanno lo stesso atteggiamento nei confronti delle libertà e dei diritti europei. A suo avviso, la libertà di religione non è un bene in sé e per sé. E un bene in quanto consente la pratica e il consolidamento dell'islam. Al pari di al-Banna, Ramadan dice quel che dice e fa quel che fa confidando nel fatto che l'Occidente è ormai in declino. «La vita quotidiana in Europa», scrive, «con le sue modalità di pensiero e di consumo, di organizzazione del lavoro e del tempo libero, la sua cultura cinematografica e musicale, tende a indurre, quasi inconsciamente, una seconda natura che assomiglia a una prigione.»76 In tali circostanze, sollevare la questione degli obblighi reciproci o domandare quale sarà il «contributo» dell'islam alla società occidentale risulta fuori luogo. Un'impertinenza, secondo un pensatore come Ramadan. Il contributo dato dall'islam all'Occidente sarà l'islam stesso.
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11. LIBERALISMO E DIVERSITÀ
Immigrazione, islam e Unione Europea - Il progetto di portare la Turchia in Europa - Pim Fortuyn e la debolezza dell'Occidente - «Destra» e «fascismo» nel contesto dell'immigrazione e dell'islam - Il Partito popolare danese - Nicolas Sarkozy e la forza della repubblica L'affirmative action ■(o discriminazione positiva)
L'Europa è un'entità sempre più concreta. L'ampiamen- to dell'Unione Europea, le comunicazioni globali e la diffusione dell'inglese tra le élite del continente hanno avvicinato gli europei tra loro. E se Henri Pirenne affermava a ragione che mille anni fa il movimento verso nord di musulmani ostili determinò la fondazione dell'Europa, ora è probabile che l'insediamento dell'islam in Europa e l'ostilità verso questo continente diffusa in buona parte del mondo musulmano risveglino nei suoi abitanti originari la coscienza di sé in quanto «europei», appunto, quand'anche non fosse l'UE l'espressione migliore di tale identità. Il problema dell'immigrazione e dell'islam sono simili in tutti i paesi dell'Europa occidentale. Certo, ci sono delle varianti. La Gran Bretagna rimane il paese di gran lunga più a rischio di gravi episodi di violenza ed estremismo politico. La Svezia è caratterizzata dalla segregazione più profonda. La Spagna, a causa dei preesistenti problemi di unità nazionale, è quella che corre il maggior pericolo di essere travolta dalle ondate migratorie. La popolazione turca della Germania riuscirà nell'impresa, ma si assimilerà più lentamente, soprattutto perché la sua cultura nazionale trapiantata è troppo ricca e compatta per crollare. La Francia avrà enormi problemi sociali ma, grazie alle sue tradizioni repubblicane, ha le migliori probabilità di assimilare completamente i figli e i nipoti degli immigrati. E l'unico
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paese dove è probabile la realizzazione di un equivalente europeo del «sogno americano». Eppure, le condizioni per l'unificazione dell'Europa da diversi decenni non erano così favorevoli, e questo lo si deve in parte all'islam. Il rinnovato incontro con l'islam ha restituito agli europei una forte idea di che cosa sia l'Europa, perché ha mostrato con più chiarezza ciò che essa non è.
Immigrazione, islam e Unione Europea Come abbiamo sottolineato in precedenza, il principale impegno politico di quasi tutti i paesi dell'Europa occidentale negli ultimi cinquant'anni è consistito nella creazione dell'Unione Europea. L'UE nacque da un paio di accordi di cooperazione internazionale sottoscritti negli anni Cinquanta: innanzitutto, la Comunità del carbone e dell'acciaio (CECA, 1952), con cui si cercò di vincolare tra loro l'industria francese e quella tedesca per rimuovere la potenziale causa di conflitti armati (visto quanto era accaduto dopo la prima guerra mondiale, quando la Francia aveva assunto il controllo delle zone industriali tedesche); in secondo luogo, con la CEE, fondata con il trattato di Roma (1957) da Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Olanda, che mirava a una più ambiziosa armonizzazione dei sistemi commerciali. Con il trattato di Maastricht del 1993, la comunità prese il nome di Unione Europea, allargandosi a quindici paesi che puntavano a «un'unione sempre più stretta». Al momento della stesura di questo libro i membri sono diventati ventisette. Sin dai suoi esordi, la UE aveva lo scopo di evitare conflitti eliminando dannosi nazionalismi economici. E cresciuta - almeno nelle menti dei suoi dirigenti - fino ad ambire all'eliminazione del nazionalismo tout court. Ma il «nazionalismo» è qualcosa di troppo vago perché dei burocrati possano estirparlo. Quello che possono estirpare è, invece, la so
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vranità nazionale. Questo ha fatto la UE in misura crescente. Ed è stato proprio tale impegno a rendere il progetto sempre meno apprezzato dalla gente. L'UE non era un'istituzione «democratica» nell'accezione che potrebbe essere utilizzata da un osservatore neutrale. C'erano elezioni periodiche che nominavano un parlamento con sede a Strasburgo, ma quest'ultima istituzione non era informata da un'apposita costituzione. Si contava, però, di risolvere il problema nel 2005, con l'entrata in vigore di un «trattato costituzionale» che avrebbe formalizzato il ruolo del parlamento europeo e trasferito altre funzioni dagli stati nazionali alle autorità europee, secondo procedure estremamente (e per molti intenzionalmente) fumose. Il trattato avrebbe dovuto passare il vaglio di una metà circa degli elettori europei, che avrebbero dovuto ratificarlo mediante referendum. Un'ampia percentuale di francesi tuttavia lo bocciò, insieme a quasi due elettori olandesi su tre. Dato che questo esperimento di democrazia non aveva dato i risultati sperati, tutti gli altri paesi revocarono i progettati referendum (a parte il Lussemburgo). L'unico paese a cui fu data un'altra possibilità di votare per la ratifica di un'unione più stretta fu l'Irlanda, che per puro caso era uno dei maggiori beneficiari economici dell'Unione Europea. Eppure nella primavera del 2008 anche gli irlandesi respinsero con un margine ampio di voti la costituzione (riproposta come il «trattato di Lisbona»). Si era sempre pensato che il grande ostacolo potenziale al «progetto» europeo sarebbe stato il riemergere di antiche rivalità nazionali che avrebbero potuto mettere in risalto le contraddizioni e i compromessi alla base della UE e minare le ambizioni più lungimiranti del progetto. Alla fine l'immigrazione fu distruttiva tanto quanto i nazionalismi. La UE aveva privato i governi nazionali della capacità di svolgere le rispettive funzioni in materia di immigrazione - difesa dei confini e delle culture - senza nel contempo sviluppare tale capacità a livello europeo. I cittadini dei paesi
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dell'Unione potevano stabilirsi, votare, lavorare, pagare le tasse e ricevere il sussidio di disoccupazione in qualsiasi paese membro avessero scelto (benché per i paesi appena divenuti membri fossero previsti dei sistemi di transizione). Con gli accordi di Schengen, negoziati a partire dagli anni Ottanta, erano stati aboliti i controlli doganali tra i paesi dell'Europa occidentale (escluse la Gran Bretagna e l'Irlanda). Decidere quali stranieri dovessero essere ammessi nell'UE - per motivi di lavoro o asilo politico - spettava però ancora a ogni singola nazione. Summit dopo summit - si ricordi in particolare quello di Lisbona del 2000 - persino i leader nazionali più favorevoli all'Unione si rifiutarono categoricamente di affidare la propria politica sull'immigrazione alla UE. Il loro elettorato non l'avrebbe permesso. Nel frattempo è stato fatto un altro tentativo di armonizzare le politiche sull'immigrazione, e una convenzione europea in materia è prevista per il 2010. L'effetto di questo miscuglio tra autodeterminazione democratica e autorità dell'Unione fu una situazione folle, determinata di volta in volta dallo stato membro che in quel momento mostrava l'atteggiamento più morbido, lassista, corrotto o falsamente compassionevole. All'inizio di questo secolo il paese più problematico era la Spagna. Nel 2005, alla vigilia dei referendum olandese e francese, il primo ministro socialista José Luis Rodriguez Zapatero regolarizzò 700.000 immigrati clandestini. Sanatorie del genere non erano una novità in Spagna. Il precedente governo conservatore di José Maria Aznar ne aveva concesse cinque dalla metà degli anni Novanta. Quella di Zapatero, però, fu più semplice e vasta di tutte le altre messe insieme, nonché la più aperta a ogni sorta di abuso. Annunciata con diversi mesi di anticipo, incoraggiò molti stranieri - soprattutto quelli che si trovavano in altri paesi europei - a recarsi in Spagna a presentare domande e richieste che li avrebbero resi immuni all'espulsione da qualsiasi paese europeo.
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Fu un'operazione solo apparentemente generosa. Ministri e editorialisti di altri paesi UE osservarono che tanta munificenza sarebbe stata attribuita a Zapatero, ma che a farne le spese non sarebbero stati gli spagnoli. Una volta naturalizzati, i non europei poterono migrare in altri paesi UE, come la Francia, l'Olanda e la Germania, dotati di sistemi previdenziali più generosi e di servizi sanitari migliori. In qualche caso fecero ritorno «da spagnoli» in quei paesi dove fino a poco prima avevano vissuto da clandestini. Un anno più tardi, quando la Spagna fu presa d'assalto da barche cariche di migranti provenienti dall'Africa, Zapatero ammise che i suoi critici avevano avuto ragione. Il suo governo andò a implorare la UE affinché l'aiutasse a gestire finanziariamente e burocraticamente il flusso di africani. Zapatero si lamentò dicendo che «regolare le condizioni d'entrata dei migranti non poteva essere compito esclusivo dei paesi sul confine», cioè ripetendo esattamente le argomentazioni di coloro che avevano condannato la sua sanatoria. In pratica, così, gli stati membri dell'UE si trovarono in una situazione critica. Avevano dei doveri nei confronti dei migranti, ma nessun controllo su quanti ne sarebbero arrivati. Gli immigrati avevano diritti rivendicabili in ogni paese, mentre le loro responsabilità dipendevano dalle realtà locali e duravano fintanto che loro decidevano di rimanere in un determinato paese. Per porre rimedio alla situazione, gli europei avevano davanti una varietà di opzioni poco gradevoli: tagliare i fondi del welfare e altri benefit per tutti, compresi i nativi, per rendere il paese meno invitante agli occhi dei nuovi arrivati; revocare gli accordi di Schengen; cedere più potere all'Europa, nella speranza che le autorità di Bruxelles limitassero le sanatorie unilaterali; o prendere le distanze dall'intero progetto di costruzione della UE. Scelsero l'ultima soluzione, non appena se ne presentò l'occasione, facendo fallire il referendum costituzionale.
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Il progetto di portare la Turchia in Europa Nulla compromise il sostegno popolare alla UE più della decisione della Commissione Europea di attribuire alla Turchia la qualifica di modello di islam «moderato» e «laico», che l'Europa ambirebbe ad avere all'interno dei propri confini, e di avviare i negoziati affinché la Turchia divenga membro della UE a pieno titolo. Tra le principali preoccupazioni elencate da un gran numero di francesi e olandesi che avevano votato no al referendum figurava proprio la questione turca.1 La Turchia è un paese in rapida crescita. Le proiezioni di crescita demografica prevedono che entro la metà del secolo avrà 100 milioni di abitanti: se fosse ammessa, assumerebbe immediatamente una posizione dominante nel parlamento europeo. Poiché il reddito pro capite turco è appena il 20% di quello medio europeo, l'Europa conoscerebbe un flusso migratorio senza precedenti. La Turchia è europea solo in virtù del fatto che il 5% del suo territorio si trova a ovest del Bosforo. Per il resto si estende in Asia e in Medio Oriente: confina con la Siria, l'Iraq e l'Iran. Inoltre, è probabile che irlandesi e danesi non sarebbero particolarmente ansiosi di partecipare al suo decennale conflitto contro i curdi. La Turchia è lontana anche culturalmente: il 90% della sua popolazione non tollererebbe di vivere accanto a un omosessuale e il 62% ritiene che sia «perfettamente accettabile» che un uomo abbia più di una moglie. Poco prima di diventare papa con il nome di Benedetto xvi, il cardinale Josef Ratzinger definì i negoziati della UE un «grave errore» e un obiettivo «antistorico», poiché le radici islamiche della Turchia la ponevano in «permanente contrasto» con l'Europa.2 Le sue posizioni erano evidentemente fondate. Secondo il 75% dei turchi era importante che l'islam svolgesse un ruolo influente nel mondo.3 Ciò si riflette anche nel voto della gente, come dimostra l'elezione di tre governi islamisti a partire dagli anni Novanta: uno
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estremista, due guidati dal partito AKP, più moderato. Sin dalla fondazione dello stato da parte di Kemal Atatùrk negli anni Venti, la moderazione religiosa è sempre stata imposta non per consenso popolare, bensì da un esercito impegnato soprattutto nella repressione dell'islam politico. Gli europei insistettero affinché la Turchia si «democratizzasse» per entrare nella UE: a cominciare dall'esclusione dell'esercito dalla politica. La Turchia si adeguò. Con l'emergere della volontà popolare, il paese si è sempre più allontanato dalla «laicità» imposta dall'esercito, che poi era il motivo principale per cui l'Europa desiderava inglobarla. La preoccupazione dell'europeo comune era la seguente: se per i suoi leader l'Europa era quella, allora poteva essere qualunque cosa. In tutto il continente solo un terzo degli europei era favorevole all'entrata della Turchia nell'Unione.4 Non c'era un solo paese in cui la maggioranza democratica appoggiasse l'ammissione della Turchia nella UE, e in alcuni paesi il tasso di opposizione era quasi di cinque a uno. Un'indagine sui Transatlantic Trends finanziata dal German Marshall Fund rivelò che il 46% dei francesi riteneva che l'entrata della Turchia fosse una «cosa negativa», contro un misero 10% che invece la reputava «positiva». Evidentemente, le alte sfere della burocrazia dell'Unione incontravano una schiacciante e inflessibile opposizione da parte dell'opinione pubblica. I leader musulmani europei attribuivano un'importanza vitale all'ammissione della Turchia: ciò avrebbe comportato non solo rapporti di buon vicinato tra una nazione musulmana e l'Europa, bensì anche un ruolo dell'islam quale «una delle religioni d'Europa». Come scrisse Oguz Ucuncu, leader della sezione tedesca del gruppo nazionalistico religioso Milli Gòrù§, all'inizio dei negoziati: «Se la Turchia non può far parte dell'Europa, il prossimo passo sarà che neanche i musulmani potranno farne parte».0 Forse questo spiega anche perché la UE - i cui livelli di popolarità tra gli europei sono precipitati al punto da far fallire il referendum -
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sia ancora estremamente apprezzata dagli immigrati: secondo il ricercatore iraniano svedese Masoud Ramali, alcune indagini rilevano un consenso pari all'85%. «Non sarai mai uno svedese», spiega Ramali, «o almeno non sarai tu a decidere se sarai o meno uno svedese. Forse, però, potrai scegliere di diventare europeo.»6 Un effetto quasi inevitabile della forte immigrazione è la diffusione di concezioni identitarie come quella di Ramali. Da uno studio sull'identità svolto dall'Institute for Public Po- licy Research (IPPR) un think tank del partito laburista, è emerso che in Inghilterra il 51% delle minoranze si considera «britannico», contro il 29% dei bianchi. Di contro, il 52% dei bianchi si considera «inglese», contro 1' 11% registrato tra le minoranze. Sir Bernard Crick, esperto in materia di istruzione e inventore del «curriculum di cittadinanza», osservò: «Per l'immigrato, l'identità britannica è essenzialmente una struttura legale e politica. Non ha nulla a che fare con la cultura. Quando l'immigrato dice di essere britannico, non dice di voler essere inglese, scozzese o gallese».7 Questo era il modello di appartenenza dell'UE: ogni individuo può essere due persone diverse: un soggetto culturale e un soggetto di diritto. Si può essere europei (per legge) pur non essendo europei «veri» (per cultura). Questa scissione dell'individuo può sembrare un'espressione di tolleranza e libertà, ma ha i suoi lati negativi. I diritti sono legati alla cittadinanza. Non appena la cittadinanza diviene un fatto giuridico, anche i diritti finiscono per diventare tali. Cessano di essere inalienabili. Le politiche rappresentate dall'UE cominciarono a sgretolarsi quando Pim Fortuyn - stravagante, omosessuale, ex marxista ed ex professore di sociologia - denunciò il fatto che l'Europa stava gettando via il bambino della cultura insieme all'acqua sporca del nazionalismo. Non poteva darsi Unione Europea in assenza di un'identità europea.
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PimFortuyn e la debolezza dell'Occidente Per decenni l'Olanda ha perseguito una politica scientemente multiculturale denominata «Integrazione con il mantenimento della propria identità». Chi sollevava anche le più blande obiezioni, sostenendo che quel tipo di politica minava le fondamenta della cultura nazionale, veniva immancabilmente censurato. Come sottolineato in precedenza, quando Frits Bolkestein, leader del partito di centro-destra, negli anni Novanta si disse contrario a concedere agli immigrati musulmani che avevano acquisito più mogli all'estero il diritto di portarle tutte in Olanda, l'ala giovanile del suo stesso partito prese le distanze da lui. Nel frattempo, qualsiasi opposizione netta all'immigrazione fu equiparata all'incitamento all'odio razziale. Hansjanmaat, che negli anni Ottanta aveva fondato il Centrum, minuscolo partito il cui programma si imperniava sul blocco dell'immigrazione, fu processato per le sue opinioni politiche. All'improvviso, però, l'orientamento dell'opinione pubblica mutò profondamente. All'inizio del 2002, Pim For- tuyn decise di candidarsi con il partito di opposizione Leef- baar Rotterdam (Rotterdam vivibile) alle elezioni nazionali. Pur non essendo mai stato particolarmente filoamericano, era rimasto scosso nel profondo dagli attacchi alle Torri gemelle dell'autunno precedente. Egli vedeva nella tolleranza neutrale dello stato olandese nei confronti delle culture non autoctone, soprattutto musulmane, una minaccia letale per il paese. Le sue posizioni divennero ben presto troppo estreme persino per gli esponenti più radicali di Leefbaar Rotterdam, sicché Fortuyn fu costretto a candidarsi con un partito da lui fondato: la Lista Pim Fortuyn. L'analisi del multiculturalismo proposta da Fortuyn era originale, sofisticata e complessa. In un certo senso, sorprende persino che sia riuscita a sollevare controversie. Grande beneficiario del multiculturalismo, prima come cattolico olandese e poi come omosessuale, Fortuyn difendeva
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il sistema libertario occidentale sulla base degli stessi motivi avanzati dall'establishment multiculturalista. Era anche d'accordo con la maggioranza nel sottolineare gli errori storici dell'Olanda — colonialismo, guerra coloniale, collaborazionismo con i nazisti - ma anche i suoi punti di forza, come la parità di trattamento garantito alle donne, ai cittadini non bianchi, agli ebrei e agli omosessuali. Qui, però, le posizioni cominciavano a divergere. I propugnatori del multiculturalismo sostenevano che il nuovo sistema di garanzie rendeva l'Occidente non solo migliore, bensì anche più forte. Fortuyn riteneva che quei diritti rendessero l'Occidente migliore, ma più vulnerabile, se non si fossero adottate nuove misure per proteggerlo. «Siamo molto meno forti di quel che crediamo», disse, riaccendendo il dibattito olandese sull'immigrazione.8 A suo avviso, la minaccia principale all'Occidente proveniva dalla cultura islamica importata insieme ai nuovi immigrati e innestata nell'Occidente dai loro figli. «L'idea che abbiamo della nostra cultura sta diventando pericolosamente relativista», scrisse. «L'islam fondamentalista non solo rappresenta una considerevole potenza culturale, politica, economica e militare in Medio Oriente, ma sta guadagnando terreno anche in Nordafrica. I sostenitori del relativismo culturale non hanno risposte al riguardo e preferirebbero nascondere la testa nella sabbia. Non ci sono motivi di dubitare che, a lungo termine, il fondamentalismo si rafforzerà anche nella nostra parte di mondo.»9 Se l'Occidente non era in grado di opporsi all'influenza dell'islam, considerato da Fortuyn «una cultura che minaccia la vita stessa»,10 la strada più saggia da imboccare era quella di esporvisi il meno possibile. Ciò avrebbe comportato un esame approfondito dei discorsi degli imam alla ricerca di tracce di sovversione, secondo modalità che Fortuyn paragonò esplicitamente alla sorveglianza sui comunisti durante la guerra fredda.11 Avrebbe anche significato l'introduzione di rigorose distinzioni culturali all'interno
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della politica occidentale sull'immigrazione. «C'è un'enorme differenza tra ammettere persone appartenenti alla nostra sfera culturale», scrisse, «e accogliere chi proviene da sfere culturali molto lontane dalla nostra. A mio parere è inevitabile stabilire un tetto massimo per l'accettazione di richieste d'asilo.»12 In un certo senso, tali concezioni facevano di Fortuyn un perfetto europeo. Tuttavia, il suo modo di essere europeo non era compatibile con i trattati e le istituzioni su cui si fondava la UE. Fortuyn invocava l'uscita dell'Olanda sia dagli accordi di Schengen sull'apertura dei confini sia dalla Convenzione sui rifugiati delle Nazioni Unite firmata nel 1951.13 Fortuyn, però, non ignorava la costituzione olandese. «Se sei nato e cresciuto qui, hai diritto di cittadinanza, punto», concedeva. «Di sicuro, Janmaat aveva posizioni molto più estreme delle mie. Voleva rispedire a casa la gente [gli immigrati] con un biglietto di sola andata. Cose del genere non le sentirete da uno come me.»14 Fortuyn non era razzista, e una sua colorita battuta sui marocchini con cui era andato a letto lo metteva al di sopra di qualsiasi sospetto al riguardo. Eppure, gira e rigira, le sue argomentazioni non erano diverse da quelle di Janmaat. Cambiava solo lo stile argomentativo. Diceva le stesse cose con un linguaggio multiculturale. Fortuyn aveva un'idea molto personale del multiculturalismo. «La gente usa questo termine con disinvoltura», disse, «ma non è mai in grado di definirlo e, tantomeno, di fornirlo di un contenuto sostanziale.»15 Il suo tentativo di dotare il multiculturalismo di un contenuto rivelava un rapporto di amore-odio con l'intero ordine costituzionale. L'articolo 1 della costituzione olandese vieta la discriminazione. Fortuyn esitava tra un suo elogio incondizionato (in quanto bastione dei diritti occidentali) e il disprezzo (in quanto ostacolo alla loro protezione).16 Propose di limitare l'immigrazione in Olanda nel nome dell'apertura. Propose di distruggere il villaggio globale al fine di salvarlo.
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Gli olandesi, che condividevano la sua ambivalenza, erano estasiati dal suo linguaggio. Mentre i sondaggi registravano crescenti consensi, risultò chiaro che l'intero ordine multiculturale olandese si fondava sul tabù e non sul consenso, e che la maggioranza degli olandesi nativi aveva la sensazione che gli immigrati approfittassero della loro tolleranza per raggirarli. Fortuyn sarebbe forse diventato primo ministro se non fosse stato assassinato pochi giorni prima delle elezioni nazionali nel maggio del 2002 da un militante animalista che dichiarò di aver agito in difesa dei musulmani olandesi. E difficile dire come si sarebbe evoluta la politica di Fortuyn se fosse sopravvissuto. Unico tra i politici del dopoguerra, era riuscito ad alimentare un dibattito sulla raison d'être, sui costi e benefici del multiculturalismo, dibattito che tuttora ben pochi dei suoi fautori sono disposti ad affrontare. Essenziale, per comprendere una figura come Fortuyn, è stabilire perché lui vedesse nell'islam una minaccia particolare per l'Europa. La preoccupazione di Fortuyn non sembra legata alle questioni dottrinarie, che lui cercava sempre di eliminare da ogni discussione. Amava parlare di «cultura giudaico-cri- stiana» e del suo passato cattolico, ma mai di «religione» giudaico-cristiana. «Parlo espressamente di cultura», scrisse, «che è concetto ben più ampio di quello di religione. Le religioni possono essere abbandonate, com'è accaduto in larga misura nel nostro paese. Molto più difficile è allontanarsi da una cultura.»17 Si tratta di premesse altamente discutibili, persino dubbie. Era davvero questa la ragione della sua riluttanza a parlare di religione? Oppure il fatto che quella postreligione - che lui definiva «cultura», ma che altri chiamano «stile di vita» - era l'unica forma di religione che riconosceva? Il multiculturalismo, per lui, era una sorta di tregua. «La chiesa e la religione appartengono alla sfera privata della vita e non devono determinare quella pubblica», diceva. «Al
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massimo possono influenzarla a livello normativo.»18 Sul piano culturale, all'interno di un ordine multiculturale si è tutti disarmati. Così come lo stato-nazione classico fu caratterizzato dal monopolio statale della violenza, lo stato-na- zione multiculturale è caratterizzato da un monopolio statale dell'ordine morale. Qualsiasi religione professata in modo troppo attivo costituisce una minaccia per tale monopolio, così come una milizia privata avrebbe minacciato il vecchio stato-nazione. I cristiani e gli ebrei possono continuare a adorare Dio privatamente, ma sulle questioni normative si sono affidati al nuovo ordine progressista. I musulmani si distinguono per il loro rifiuto di sottostare a questo disarmo spirituale. Si fanno notare in quanto unica fonte implacabile di resistenza al multiculturalismo nella sfera pubblica. Se l'ordine multiculturale dovesse fallire, l'islam è l'unico sistema di valori pronto a soppiantarlo. Si noti che l'analisi di Fortuyn sul ruolo dell'islam in quanto identità di resistenza è identica a quella di Tariq Ramadan, anche se l'uno giudica la cosa negativamente e l'altro positivamente. Fortuyn vedeva nell'islam il più grande problema dell'Europa. Ma la sua crescente popolarità mise in evidenza un più ampio problema, che l'Europa avrebbe avuto anche se non avesse avuto un solo immigrato musulmano. A suo avviso, non era ben chiaro se l'Europa fosse compatibile in generale con una qualsiasi visione del mondo religiosa. Era disposto ad ammettere che la cultura individualistica di cui era un fervente sostenitore derivava dal passato cristiano del continente, ma per lui la cosa più importante era che tale cultura fosse superata, non che avesse un carattere cristiano. L'aspetto (per Fortuyn) intollerabile dell'islam era in larga misura il fatto di essere una religione viva. Per lui, i diritti delle donne, la non discriminazione razziale e (soprattutto, forse) la libertà sessuale erano diritti assoluti. La libertà di religione è attualmente un diritto la cui rivendicazione è stata relativizzata dall'evoluzione della storia. Laddove si scontra con i più attuali diritti «culturali», deve ce
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dere il passo. Il che equivale a dire che la libertà di religione ha smesso del tutto di essere un diritto. «Destra» e «fascismo» nel contesto dell'immigrazione e dell'islam Pim Fortuyn era un liberale radicale e battagliero. Non era un fascista, ma l'uomo che l'assassinò aveva l'impressione che lo fosse. Questa attribuzione erronea di etichette, anche quando non risulta fatale, oscura sempre il dibattito sull'immigrazione in Europa. I termini «fascista», «xenofobo», «estremista» e «radicale» sono applicati in modo promiscuo a un'ampia varietà di partiti e tendenze contrari all'immigrazione, molti dei quali democratici. Esistono eccentrici partiti «amatoriali» i cui membri non sarebbero capaci di far male a una mosca, come il britannico Independence Party, che si concentra sull'uscita del Regno Unito dalla UE, o il Partito per i diritti dei cacciatori francesi che pone l'accento sulla proprietà privata. Ci sono anche partiti regionalisti che, in un contesto americano, sarebbero considerati solo conservatori. La Lega nord italiana, per esempio, sostiene la linea dura contro l'immigrazione, ma solo nell'ambito di una più ampia accusa nei confronti dello stato sociale italiano che, a suo avviso, sfrutterebbe i contribuenti della classe media per finanziare i privilegi politici. Tra i favoriti dalla politica figurerebbero (anche se non solo) gli immigrati e i richiedenti asilo. Il Vlaams Belang (VB) fiammingo mostra un comportamento analogo. Chiaramente contro l'immigrazione, è tuttavia più interessato a ottenere l'indipendenza delle Fiandre dal Belgio, accusato di sfruttare la regione. Si noti che il VB discende politicamente dal fascismo belga del periodo della seconda guerra mondiale. Gli attuali partiti europei che derivano dal fascismo sono, tuttavia, perlopiù in linea con le posizioni più diffuse nel continente in materia di immigrazione. Esemplare in questo senso è Alleanza naziona
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le, partito nato dal Movimento sociale-Destra nazionale di ispirazione neofascista. Il leader del partito, Gianfranco Fini, si è dimostrato uno dei politici più favorevoli agli immigrati (propose di garantire loro il diritto di voto)19 e forse il più fervente difensore di Israele. Fu il Partito popolare spagnolo che, dopo la morte di Franco, divenne la casa democratica dei politici conservatori, ad aprire la Spagna all'immigrazione di massa. Senza dubbio vi sono stati gravi episodi di violenza contro gli immigrati in Europa. Tra gli anni Cinquanta e Settanta, a Londra, di tanto in tanto scoppiavano i cosiddetti white riots, o rivolte dei bianchi. Nel 2005, in Gran Bretagna, un gruppo autodefinitosi «The Black Nation» profanò alcune tombe musulmane. Certe zone di Berlino est - soprattutto quartieri popolari dell'era sovietica come Hellersdorf e Marzahn - sono considerate inaccessibili per i tedeschi non bianchi. Nel 1993, a Solingen e Hoyerswerda, un gruppo di estremisti di destra incendiò gli appartamenti di cittadini di origine turca provocando la morte di diverse persone. Per non parlare degli hooligan e di altri gruppi che manifestano spesso tendenze di stampo razzista e fascista. Nel 2004, in Francia, un tifoso del Paris-St. Germain fu arrestato per aver appiccato il fuoco alla moschea di Annecy e a una sala di preghiere musulmana in compagnia di un collezionista di cimeli di Hitler.20 E probabile che la gravità delle aggressioni contro gli immigrati sia sottovalutata, perché in molti casi è camuffata da semplice violenza di strada. D'altro canto, si rischia di sopravvalutare l'impatto che i gruppi estremisti ostili agli immigrati hanno sulla politica europea attuale. Benché negli anni a venire, che hanno tutta l'aria di essere economicamente difficili, non sarebbe sorprendente una radicalizzazione della politica, è improbabile che i movimenti fascisti vecchio stile costituiscano la più grande preoccupazione per l'Europa. Altrettanto dubbio è se i partiti di destra sopravvissuti siano particolarmente preoccupati per l'immigrazione islamica. In Francia, il Front National
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di Jean-Marie Le Pen, la cui base è costituita in larga misura da ex comunisti e bianchi che vivono isolati nei quartieri popolari a forte presenza di immigrati, è noto per la sua retorica contro gli immigrati e il multiculturalismo. Le sue posizioni, però, sono più ambivalenti di quanto si pensi. Le Pen, in alcuni casi, si è addirittura preso la briga di corteggiare i musulmani e gli altri immigrati per carpire loro voti, dichiarando di condividere la politica estera araba nei confronti di Israele e (più di recente) a favore dell'Iraq. Le Pen è stato il più acceso difensore europeo di Saddam Hussein per tutto il periodo tra le due guerre in Iraq, da lui aspramente criticate. Nel corso della sua campagna presidenziale nel 2007, collaborò, insieme alla moglie Jany, con il comico franco africano Dieudonné per promuovere i diritti dei pigmei nel Camerun.21 Il Partito della libertà austriaco (FPÒ), che nel 2000 entrò a far parte della coalizione di governo, fece qualcosa di simile. L'unico obiettivo politico del defunto leader Jòrg Haider durante il periodo di notorietà internazionale fu quello di rafforzare i rapporti con il dittatore libico Muhammar Gheddafi, che ricambiò il favore invitando ossessivamente l'Europa a superare il proprio complesso di colpa per il passato nazista e a «badare agli interessi del suo popolo e non a quelli del sistema sionista».22 Nel paesaggio politico europeo esistono effettivamente alcuni partiti estremisti dediti a seminare odio e concentrati quasi esclusivamente sugli immigrati. Tra questi spicca il British National Party, che però è un partito marginale. Il BNP controlla una manciata di comuni dell'Inghilterra settentrionale e quartieri della zona sudest di Londra come Bermondsey, ex roccaforte del partito laburista, dove nel giro di un solo decennio il numero di residenti nati all'estero è cresciuto del 155%.23 Anche in questi casi estremi, però, il nesso antimmigra- zione non è sempre lampante. Nel 2004, il Partito nazio- naldemocratico tedesco (NPD), partito dai tratti aperta
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mente neonazisti costituito da intellettuali di estrema destra, habitué degli ambienti skinhead e fan del gruppo heavy metal anni Novanta dei Rammstein, ottenne una dozzina di seggi nel parlamento della Sassonia (ex Germania Est) presentando un programma che mischiava elementi neonazisti e neocomunisti.24 L'NPD si è talvolta presentato alle elezioni in alleanza con DVU (Deutsche Volksunion), con una denominazione diversa, a seconda dello stato in cui si trovava. Il bavarese Karl Richter, il più eloquente dei membri dell'NPD nel parlamento sassone, espresse la propria ammirazione per l'ex socialdemocratico Oskar Lafon- taine, ora leader del Linkspartei, erede della SED, l'ex partito comunista della Germania Est, di cui egli fece parte.25 L'NPD comunica con i suoi sostenitori attraverso CD di gruppi rock dai nomi come «La potenza del Capitale». Il 16% dei ragazzi sotto i 18 anni ha dichiarato che, se potesse, voterebbe per quel partito.26 E facile sopravvalutare l'importanza dell'NPD. Secondo le proiezioni demografiche, la Sassonia, che è lo stato della Germania con l'età media più elevata, perderà entro il 2020 un sesto della propria popolazione.27 Un movimento giovanile è dunque in grado di aumentare il proprio impatto elettorale anche senza incrementare il numero dei propri membri. Non ha neppure bisogno di un programma lungimirante. L'NPD, almeno in Sassonia, ha suscitato indignazione a causa delle posizioni «revisioniste» di alcuni dei suoi membri sulla seconda guerra mondiale e sull'Olocausto. Richter ha dichiarato che, durante la guerra fredda, la Germania Est era il più tedesco tra i due stati, «una copia meno efficiente ed estesa del Terzo Reich, in grado di risvegliare un certo tipo di nostalgia persino all'Ovest [della Germania]».28 Stranamente, però, la retorica dell'NPD sull'immigrazione e sull'islam denota meno animosità di quanto ci si potrebbe aspettare. Di contro, Richter mostra molta più preoccupazione nei confronti di quello che lui chiama «imperialismo americano» piuttosto che dell'estremismo musulmano. In
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politica estera il partito sostiene due punti fondamentali: un rapprochement con la Russia e il ripristino delle relazioni con il mondo musulmano «che per secoli erano filate lisce», prima dell'alleanza tedesca con gli Stati Uniti.
Il Partito popolare danese L'unico partito ossessionato in special modo dagli immigrati è anche rigorosamente democratico e rispettoso delle leggi. Il DF nasce da un movimento anti-immigrati fondato in Danimarca nel 1986 dal pastore luterano, intellettuale e scrittore S0ren Krarup e da suo cugino Jesper Langballe, anch'egli pastore protestante. I due avevano vissuto con particolare angoscia l'approvazione della legge sui rifugiati del 1983, che consentiva a ogni richiedente asilo il diritto di entrare in Danimarca in attesa che il suo caso venisse preso in esame. «Una regola del genere è un suicidio nazionale», ricorda Langballe due decenni più tardi. «Non puoi accordare al mondo intero diritti e garanzie del genere senza togliere diritti al popolo danese.»29 Molti danesi concordavano con lui e alcuni erano persino disposti a dirlo ad alta voce. Nel 1996 il DF - da poco fondato dalla casalinga Pia Kjaersgaard - entrò in parlamento. Alle elezioni del 2001 ottenne il 13% dei voti e ventidue seggi nel parlamento di Copenaghen, due dei quali occupati da Krarup e Langballe. Il DF non entrò a far parte della coalizione governativa, ma il Partito liberale (Venstre) al potere dipendeva dal suo appoggio e approvò normative sull'immigrazione e sulla naturalizzazione tra le più restrittive d'Europa. Il DF combina una diffidenza popolare nei confronti dell'immigrazione di massa con la determinazione a difendere il carattere cristiano della vita danese. Il partito gode di poco seguito tra le élite, sempre pronte a sottolineare che è «guidato da una casalinga che ha frequentato solo la scuola dell'obbligo».30 La Kjaersgaard ha dichiarato che l'islam
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non è una religione. Alcuni parlamentari del DF hanno fatto osservazioni ancora più discutibili. Louise Frevert, per esempio, suggerì di mandare i criminali immigrati nelle prigioni russe, «perché le nostre leggi ci vietano di ucciderli». Il partito, però, è aperto e ha un carattere composito. La Frevert, per esempio, è una lesbica sposata, nonché ex attrice porno, nota anche per aver fatto la danza del ventre al cospetto dello scià di Persia. Il partito, inoltre, è esplicitamente antiautoritario: stando a quel che dice Langballe, molti dei suoi membri più anziani erano anticomunisti militanti. T0ger Seidenfaden, direttore del quotidiano «Poli- tiken », uno dei più in vista tra i nemici del DF, dice del partito: «Non è subdolamente fascista, antidemocratico o violento. Gli estremisti vengono regolarmente espulsi. Non sono come il Fronte nazionale. Detto questo, sono xenofobi, intolleranti e antimusulmani».31 Il DF e i movimenti affini devono il proprio successo non al persistere in Europa delle tendenze più barbare, bensì al silenzio dei partiti principali su questioni cruciali per gli elettori. Per alcuni decenni i grandi partiti di tutti i paesi hanno visto una sensibile riduzione dei consensi. L'immigrazione non è un semplice problema su cui non sono riusciti a trovare una posizione unitaria, bensì il più grave. Al primo turno delle elezioni presidenziali francesi del 2002, Jacques Chirac riuscì a ottenere la maggioranza relativa con soltanto un quinto delle preferenze. I suoi concorrenti socialisti andarono così male da piazzarsi alle spalle del Front National. Ciò, tuttavia, non significa che la gente desideri la caduta dei partiti più grandi. Al secondo turno, quando fu chiaro che lo sfidante sarebbe stato Le Pen, l'80% della Francia votò per Chirac. Le elezioni del 2005 in Germania, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, videro un calo dei due principali partiti al di sotto del 40%, e i vincitori cristiano-democratici riuscirono ad arrivare a malapena al 35%. Ne risultò una grande coalizione che mise insieme socialdemocratici e
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cristiano-democratici: un governo che costituì un vero e proprio bastione dell'establishment politico. Fu un accordo analogo in Olanda - ossia la cosiddetta «coalizione viola», formata dai «rossi» (del Partito del lavoro) e dai «blu» liberali (WD) - a indurre Fortuyn a radicalizzare le proprie posizioni.32 I partiti dell'establishment non ebbero ragione di intervenire per placare l'inquietudine causata dall'immigrazione finché il DF e la Lista Pim Fortuyn non cominciarono ad attirare voti. E difficile perseguire una politica coerente per regolare i flussi migratori di una economia globale complessa e le conseguenze culturali che ne derivano. D'altra parte, è facile ironizzare su Pim Fortuyn e S0ren Krarup, dicendo o dando a intendere che sono la reincarnazione di Adolf Hitler. All'inizio del millennio la politica europea era in fase di stallo. Con la scusa di «difendere la democrazia», il sistema stava diventando sempre meno affidabile proprio sul piano democratico. Proteggere la democrazia significava mettere a tacere tutti coloro che sollevavano interrogativi per cui i leader non avevano risposte. La fase di stallo si interruppe nel maggio del 2007, quando Nicolas Sarkozy fu eletto presidente della Francia.
Nicolas Sarkozy e la forza della repubblica Alla fine del 2007, durante le sommosse scoppiate nel sobborgo di Villiers-le-Bel, caratterizzato da una forte presenza di immigrati, sei poliziotti riportarono ferite d'arma da fuoco mentre cercavano, con tecniche non letali di controllo della folla, di contenere la furia devastatrice delle bande giovanili. «Alcuni di questi erano incappucciati e non si limitavano a lanciare proiettili e bombe molotov», disse un poliziotto dopo le rivolte. «Usavano le pistole. La nostra risposta non si limiterà per sempre all'uso di proiettili di gomma e gas lacrimogeni.»33 Un giudice francese
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espresse la propria comprensione per le difficili condizioni di vita sopportate dai ribelli di Villiers-le-Bel, sottolineando tuttavia che a un certo punto l'attribuzione di responsabilità per le violenze non ha più senso. «Benché sia evidente», scrisse, «che gli eccessi di una parte della popolazione debbano essere intesi quale diretta conseguenza delle condizioni sociali in cui vive - che sono una vera vergogna per la nostra società - ciò non significa che la società non abbia diritto di difendersi.»34 Poco prima, nel corso di quello stesso anno, Xavier Le Moine, sindaco di Montfermeil, uno dei più violenti tra i sobborghi parigini, a proposito delle sommosse urbane aveva detto: «La Francia non è più capace di tollerare né la malattia né la cura».35 La «cura», ne deduciamo, consiste nell'adozione della linea dura con le minoranze in Europa, abbandonando ogni riguardo costituzionale e democratico. Una diagnosi decisamente cupa. Il problema più grave, in Europa, è dato dalle ricadute di decenni di immigrazione di massa. Il valore europeo più importante è la democrazia. E quest'ultima, a volte, dimostra una straordinaria incertezza nell'affrontare tali ricadute. Sarkozy è probabilmente la figura più rappresentativa di quella concezione politica che si sta sostituendo al multiculturalismo acritico. Egli è in tutto e per tutto un prodotto dell'establishment politico francese, dei vari partiti gaullisti degli anni Ottanta e Novanta, ma non della parte più elitaria, i cui esponenti provengono dalle università specializzate francesi (soprattutto l'École Nationale d'Administra- tion). La sua ascesa fu dunque accolta, in parte, con quel tipo di imbarazzo e di fastidio suscitati da Fortuyn. Sotto un aspetto molto importante, però, Sarkozy era l'opposto di Fortuyn. Il programma politico di quest'ultimo era nato dalla convinzione che la tolleranza occidentale indebolisse i paesi che la praticavano. Un paese come l'Olanda poteva essere difeso solo se avesse posto un limite all'immigrazione e alle richieste degli organismi multinazionali.
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Secondo Sarkozy, invece, «la repubblica e la democrazia sono più forti di quel che crediamo»36 e sono in grado di controllare l'immigrazione, anche di massa, come quella che aveva investito la Francia nel corso dei decenni. Invitò la gente a portare pazienza con i giovani riottosi delle ban- lieues e per i disordini che provocavano. «Sono giovani. Sono nuovi», disse nel 2004. «Un giorno tutto finirà. Date loro tempo.»37 Ma se l'integrazione, da un lato, era inevitabile, dall'altro non era negoziabile. I francesi erano in grado di controllare l'immigrazione perché la repubblica francese era capace di adottare maniere forti, persino spietate. Nel novembre del 2007, quando scoppiarono le rivolte a Villiers-le-Bel, le prime del suo mandato di presidente, Sarkozy dichiarò davanti a una sala stracolma di poliziotti: «La risposta alle sommosse non sta in ulteriori spese a carico dei contribuenti. La risposta alle sommosse sarà l'arresto dei ribelli».38 Quando gli fu domandato come mai avesse posticipato un piano di riqualificazione urbana, lui replicò: «Non spetta ai delinquenti che sparano alla polizia determinare l'agenda della Repubblica».39 I metodi duri sono l'aspetto più significativo del programma di Sarkozy, perché sono l'aspetto più significativo del suo carattere. Come sindaco di Neuilly-sur-Seine negli anni Ottanta, entrò in un edificio per trattare personalmente con un uomo armato che teneva in ostaggio alcune persone. Nel 1999, preso di mira durante una visita a un sobborgo popolare fuori Parigi da un teppista che gridava: «Sarko, vattene a casa!», andò incontro al giovane e disse: «Signor Sarkozy, se non le dispiace». In seguito, spiegò: «Se vedono che non hai paura, ti rispettano di più».40 Forse Sarkozy è praticamente l'unico politico francese ad aver visto di persona le banlieues. Alla vigilia delle rivolte del 2005, un undicenne figlio di immigrati fu ucciso mentre, nel giorno della Festa del papà, stava lavando l'auto del padre per fargli un regalo, nel quartiere popolare di Cité des
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Quatre Mille alla periferia di Parigi. Sarkozy andò a trovare la famiglia del ragazzino e promise di ripulire il quartiere à karcher, usando il nome della ditta che produce pompe ad alta pressione. Abbiamo già ricordato la sua promessa ai residenti di Aulnay-sous-Bois di occuparsi dei mascalzoni (vacatile) che li stavano terrorizzando. Sarkozy beneficiò del conflitto urbano che travolse la Francia nel 2005. Fu ripetutamente attaccato per aver usato espressioni come à karcher e racaille, ma fu l'unico politico nazionale di spicco a salire nei sondaggi durante le sommosse, persino tra gli elettori di Jean-Marie Le Pen e del Fronte nazionale. Da un sondaggio condotto nel 2007, durante la campagna elettorale che lo avrebbe portato alla presidenza, emerse addirittura che tra gli elettori di Le Pen lui era più popolare dello stesso Le Pen. Tra le sue proposte politiche più note figura quella di processare i sedicenni come fossero adulti, di istituire un ministero dell'Immigrazione e dell'Identità nazionale e di fare un test del DNA agli immigrati per evitare di riconoscere il diritto di cittadinanza e residenza a chi fingeva legami di parentela con cittadini francesi. Uno dei suoi vanti, relativamente al suo mandato di ministro degli Interni, è stato il calo del 2,6% dei permessi di soggiorno accordati per la prima volta.41 Sarkozy rispondeva in modo sprezzante a chi lo accusava velatamente di assecondare i fascisti. «Io cerco sempre di ottenere più voti possibile», disse durante un'intervista nell'inverno del 2006 al ministero degli Interni, «che provengano dal Fronte nazionale o da altri.»42 C'era, nel programma di Sarkozy, qualcosa che ricordava molto da vicino Richard Nixon; non sul piano etico, bensì su quello della pratica e della strategia politiche.43 Nel 1968, tre anni dopo le rivolte razziali, Nixon vinse le elezioni presidenziali trasformando in questione nazionale un problema di criminalità che aveva fino a quel momento attanagliato i capi della polizia locali e intimidito i politici nazionali riducendoli in uno stato di angosciata impotenza.
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Questo aspetto delle politiche di Nixon si dimostrò straordinariamente popolare e, da allora, ha sempre goduto di un favore incontrastato. L'emulazione di Nixon da parte di Sarkozy potrebbe essere stata persino deliberata. Così come Nixon, in un discorso sul Vietnam pronunciato nel novembre 1969, invocò il sostegno della «grande maggioranza silenziosa dei miei amici americani», Sarkozy fece appello, nella sua campagna presidenziale del 2007, alla «France si- lencieuse, ìmmensément majoritaire» ,44 C'era, però, nella politica di Sarkozy, un altro tratto nixo- niano molto meno apprezzato. Sarkozy non aveva nulla da ridire sui fondamenti del sistema creato dall'establishment politico della generazione precedente, prima che lui comparisse sulla scena. Proprio come Nixon, che fu ben contento di lasciare intatto lo stato assistenziale disegnato da Roosevelt e Johnson e, anzi, si diede molto da fare per difenderlo ed estenderlo, Sarkozy non aveva alcuna intenzione di riportare il paese ai tempi precedenti l'immigrazione. Non credeva affatto che la Francia sarebbe stata un paese migliore senza i musulmani. «Mi considero», scrisse nel 2004, «un amico esigente dei musulmani di Francia.»45 La credibilità di Sarkozy presso l'opinione pubblica francese si sarà anche fondata sulla sua promessa di limitare l'immigrazione e di punire più severamente chi trasgredisce la legge. Al contempo, però, Sarkozy avvertiva che i problemi creati dall'immigrazione e dalla società multietnica si sarebbero attenuati solo se la gente avesse accettato il fatto che gli immigrati già presenti rimanessero in Francia. Come Fortuyn, Sarkozy intendeva limitare, e non rovesciare, le conquiste della tolleranza postbellica. A questo fine, non fece certo economia di stereotipi. «Accettare e valorizzare la diversità di una nazione significa rendere questa nazione più forte», scrisse.46 La tolleranza di Sarkozy, però, rispetto a quella di Fortuyn, era più un fatto di principio. Fortuyn credeva nella difesa dei beneficiari della diversità designati dai movimenti sociali degli anni Sessanta e dai
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successivi decenni di consolidamento politico. Il superamento dell'antisemitismo, del razzismo e del moralismo in campo sessuale rappresentava un sicuro progresso nella vita pubblica olandese. Da questi progressi, però, non derivavano principi universali, e non era il caso di trarre conclusioni per analogia. I nuovi arrivati non erano automaticamente titolari di analoghi diritti. La concezione politica di Fortuyn era una sorta di tribalismo, formulata nel linguaggio della diversità. Sarkozy, invece, possiede una visione della politica tutta diversa. Innanzitutto, a differenza di Fortuyn, non ha mai manifestato alcun timore nei confronti della religione (e tanto meno della morale religiosa). Benché sia stato un acceso sostenitore del divieto di portare il velo negli edifici scolastici pubblici, il movente di Sarkozy non era la posizione folkloristico-progressista secondo cui il velo equivale automaticamente alla sottomissione delle donne, bensì un'idea di reciproco rispetto. «Quando io entro in una moschea, mi tolgo le scarpe», disse. «Quando voi entrate in una scuola, vi togliete il velo.»47 Chiaramente, però, istituire simili analogie tra un precetto religioso e il regolamento di un edificio pubblico non è del tutto logico. L'approccio di Sarkozy alla società mul- tietnica comportava alcuni rischi. Chiedeva ai nativi più di quanto questi ultimi si fossero mostrati inclini a concedere, ossia, in sostanza, di mischiarsi agli stranieri proprio nella misura in cui erano indisponibili a farlo. Il rischio più grosso era che la valutazione di Fortuyn sulla forza relativa dell'Occidente potesse rivelarsi corretta.
L'affirmative action (o discriminazione positiva) In definitiva, la strategia di Sarkozy si fondava su quello che lui stesso definiva «il notevole esperimento intrapreso a Sciences-po».48 Si riferiva all'introduzione dell'affirmative ac
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tion. Nel 2001, l'Institut des études politiques, noto anche come «Sciences-po», spesso attaccato in quanto roccaforte dell'elitismo francese, lanciò un programma che avrebbe concesso agli studenti di «zone educative prioritarie» (ZEP) di evitare l'esame scritto notoriamente selettivo per sottoporsi, invece, a un esame esclusivamente orale.49 Queste ZEP non erano scelte a caso. Erano tutte zone povere con popolazione in larga parte immigrata. Richard Descoings, direttore di Sciences-po, dichiarò a un giornalista: «Non li stiamo reclutando perché sono poveri, arabi o neri, bensì perché sono in gamba». Questa era una delle classiche bugie a fin di bene su cui si reggono tutti i programmi di discriminazione positiva. L'obiettivo più generale era evidentemente la diversità razziale. I sostenitori del programma hanno ammesso, in qualche momento di distrazione, che si tratta di un modo per «integrare» Sciences-po. Un gruppo di studenti denunciò Sciences-po perché l'ineguale trattamento dei candidati violava le leggi francesi sulla cittadinanza, che prevedono parità di trattamento. Nel 2003 una corte d'appello rigettò l'istanza. Pur criticando Sciences-po per aver attribuito a quel privilegio un carattere arbitrario (riservandolo ad alcune ZEP ed escludendone altre), affermò che la variabilità dei criteri di accesso è un mezzo accettabile per conseguire il fine dell'uguaglianza. Ora, pertanto, la Francia ha la sua affirmative action, e la strada è aperta per analoghe iniziative in altri settori della vita pubblica. L'invocazione della diversità è diventata un'ossessione anche nel settore privato,50 dove si passa dai gruppi di immigrati che protestano con successo per avere una maggiore presenza di volti non bianchi nelle trasmissioni televisive francesi ai tentativi di ottenere un maggior numero di firme arabe nella redazione di «Le Monde». Fonti ufficiali affermano con enfasi che «la diversità è una ricchezza». Per molte persone, in Francia, la necessità di politiche «all'americana» sulla diversità era a tal punto evidente da non ri
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chiedere giustificazioni. Le rivolte corroborarono ulteriormente queste tesi. Negli Stati Uniti, in periodi di disordini razziali come quelli avvenuti nel 1992, dopo il pestaggio di Rodney King, e nel 1995, per il processo a O.J. Simpson, le autorità possono contare su membri influenti della comunità nera quali interlocutori. Vaffirmatìve action ha svolto un ruolo chiave ai fini del coinvolgimento di queste persone (non solo uomini politici, ma anche burocrati e dirigenti di alto livello) nel sistema. Nel 2002, però, quando la violenza antisemita degli arabi francesi assunse le proporzioni di una crisi nazionale, o nel 2005, quando esplosero le periferie delle città francesi, nessuno conosceva influenti cittadini arabo-francesi a cui chiedere di diffondere appelli alla calma. Interlocutori di questo tipo li si conquista a caro prezzo. L'affirmative action impone un costo enorme soprattutto alla neutralità dello stato (che deve favorire alcuni gruppi a discapito di altri) e alla sua sincerità (perché V affirmative action sia davvero efficace, non si può ammettere che i suoi beneficiari debbano a essa la loro posizione). In Gran Bretagna il Policy Research Institute on Ageing and Ethnicity ha scoperto che, secondo un terzo degli uomini d'affari, le politiche sulla diversità influenzano i risultati, ma ce ne sono molti altri che dissentono.51 Il politologo Robert Put- nam, dell'Università di Harvard, ha collegato le politiche sulla diversità a una crisi delle reti sociali di sostegno che lui chiama «capitale sociale».52 Un leader politico che persegua la diversità come obiettivo deve valutare se i benefici compensano i costi. Sarkozy, da presidente, è diventato il principale paladino della diversità in Francia. Ha assegnato più cariche di rilievo ad arabi e berberi - tra cui il ministero della Giustizia a Ra- chida Dati e il sottosegretariato agli Affari urbani a Fadela Amara - più di qualsiasi suo predecessore. Nel 2008, nel discorso augurale di fine anno, ha auspicato attenzione per la diversità a tutti i livelli della società francese e ha persino
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proposto che la parola «diversità» fosse inserita nel preambolo della costituzione francese.53 E ha richiesto con insistenza ulteriori programmi imperniati sull'afjìrmative action. Sarkozy è dell'idea che tali programmi dovrebbero avere un carattere temporaneo. «La discriminazione positiva deve avere un limite temporale», disse nel 2006. «Una volta che l'ingiustizia sia sanata, non c'è più bisogno di provvedimenti specifici.» Alla domanda se ci sarebbero voluti vent'anni o più per sanare l'ingiustizia in questione, Sarkozy rispose: «No, vent'anni sono troppi».54 Questa idea pecca di ingenuità o, quantomeno, di ignoranza riguardo all'esperienza americana. I programmi di afi firmative action benché decisamente impopolari, tendono a essere permanenti. Non si riducono con la progressiva soluzione dei problemi... perché gli elettori beneficiati da tali programmi difendono con tutte le sue forze i privilegi acquisiti. In molti stati, per esempio, i programmi di discriminazione positiva sono stati aboliti tramite referendum, ma subito ripristinati con l'intervento dei tribunali o con ordini esecutivi. Né i programmi di affirmative action si evolvono con l'evolversi dei rapporti di forza demografici. La California finanzia tuttora programmi finalizzati a favorire l'assunzione di non bianchi, nonostante questa categoria costituisca ormai la maggioranza della popolazione. Si sta passando in modo fluido e quasi impercettibile da un mondo in cui V affirmative action non può interrompersi perché i suoi beneficiari sono troppo deboli a un mondo in cui la discriminazione positiva non può essere sospesa a causa dell'eccessiva forza dei beneficiari. Tale fenomeno, però, è ben chiaro alla popolazione bianca degli Stati Uniti e difficilmente sfuggirà ai nativi europei. Se qualcuno dev'essere favorito rispetto ad altri, con quale criterio si stabilisce chi debba esserlo? I programmi di affirmative action americani, almeno all'inizio, avevano il vantaggio della chiarezza, da questo punto di vista: dovevano
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fondarsi sulla razza, per porre rimedio a una storia di manifesta discriminazione razziale da parte dei bianchi ai danni dei neri. Il problema degli europei con le loro minoranze non presenta questo vantaggio. Non è un lascito della schiavitù o di Jim Crow, che non trovano equivalenti nella storia europea. Né ha a che fare con il colonialismo, evidentemente: paesi privi di una storia imperialistica di rilievo, quali Svezia e Italia, hanno con l'immigrazione e con l'islam problemi identici a quelli di ex potenze coloniali come Francia e Olanda. Gli europei, tuttavia, stanno tentando di risolvere il loro problema, quale che sia, come se fosse un problema razziale, e così facendo finiscono per conferirgliene le dimensioni. Mentre i programmi di affirmatìve action si estendono, la loro logica razziale si manifesta ancora più nettamente che negli Stati Uniti. Il ministero degli Interni britannico compie «valutazioni qualitative di impatto razziale» e predispone ambiziosi «obiettivi occupazionali razziali» per le nuove assunzioni nella polizia, tra i funzionari dell'ufficio immigrazione, tra le guardie penitenziarie e nel personale amministrativo delle sedi di Londra e Croydon (dove questo programma occupazionale razziale influiva sul 38% delle nuove assunzioni).''5 Può darsi che il razzismo non abbia ancora rimesso piede in Europa, ma la razza, come categoria dell'esperienza, è tornata più forte di prima. Lo scrittore francese Jean Birnbaum osserva che gli intellettuali di sinistra hanno finito per spiegare le rivolte delle banlieues attraverso la lente del concetto di razza. «La rivolta nelle periferie», scrive Etienne Balibar, «testimonia della profondità del conflitto razziale, accuratamente represso, presente nel cuore della società francese». Robert Castel, a proposito di quei medesimi tumulti, parlò di «un poderoso disvelamento del modo in cui la questione etnica pervade la società francese».56 Il razzismo è un problema terribile, ma - almeno a livello concettuale estremamente semplice. L'affirmatìve action è
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stata inaugurata negli Stati Uniti - se e quanto saggiamente, è da vedere sulla base del presupposto secondo cui i neri vogliono le stesse cose dei bianchi, e che solo il razzismo impedisce loro di ottenerle. Il problema con cui sono alle prese gli europei è molto più complicato. E un sistema di convinzioni radicate - non il colore della pelle - a costituire la sfida principale. La situazione dell'Europa presenta problemi di declino demografico, di invecchiamento, di immigrazione e di progressivo radicamento, da parte di una cultura e di una religione straniere, in una città dopo l'altra. Gli europei non sono assolutamente certi del fatto che le loro minoranze abbiano le stesse ambizioni.
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12. SOPRAVVIVENZA E CULTURA
Il dovere dell'Europa nei confronti del mondo — L'emancipazione dell'Europa dall'America -1 modelli americano e ottomano di società multiculturale - Da «l'islam è pace» a «prendere o lasciare» - Due tipi di utilità
Per la prima volta da secoli, gli europei vivono in un mondo che, perlopiù, non è stato plasmato da loro. Le migrazioni di massa sono un elemento di una serie di tendenze sociali - insieme all'affermazione di economie più libere, a una maggiore ricchezza, alla crescente presenza delle donne nel mondo del lavoro, a maggiori disuguaglianze di reddito, a un tasso di natalità decrescente - che tutti i paesi europei hanno visto affermarsi nell'arco delle due ultime generazioni al massimo. Dato che queste linee di tendenza non presentano eccezioni, sembrerebbe che Nicolas Sarkozy abbia torto a distinguere tra immigrazione scelta e immigrazione subita. Se l'immigrazione fosse davvero oggetto di una «scelta», alcuni paesi avrebbero scelto di rinunciarvi. E invece, in più di mezzo secolo, nessun paese occidentale libero lo ha fatto. Perché? A prima vista, ha tutta l'aria di essere un mistero. Si presume che i paesi occidentali siano sistemi democratici, tenuti a corrispondere alle valutazioni e alle preferenze degli elettori, e l'opinione pubblica di tutti i paesi occidentali ritiene senza eccezioni che vi sia un eccesso di immigrati. L'immigrazione, con tutte le sue conseguenze culturali, è un esempio di quello che il filosofo politico David Singh Grewal ha chiamato network power (potere reticolare),1 fenomeno per cui tante scelte individuali, cumulate, producono scelte «sociali» che nessuno ha compiuto in maniera consapevole ed esiti che nessuno desiderava. Certi autorevoli europei credevano, dopo la seconda guerra mondiale,
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che dovesse essere possibile portare immigrati dal Terzo al Primo mondo. Una volta sancita questa possibilità, però, la migrazione divenne inarrestabile in gran parte delle circostanze. In Messico il 40% della popolazione dichiara che si trasferirebbe volentieri negli Stati Uniti, se solo potesse.2 In Turchia, alcuni sondaggi condotti dalla Gallup hanno scoperto che la ragione principale per cui i turchi vedono di buon occhio l'ingresso del loro paese nell'Unione Europea è la possibilità di spostarsi liberamente e di lavorare in qualunque paese del continente.3 La storia della globalizzazione è la storia delle indesiderate conseguenze sociali di scelte individuali compiute liberamente. Tra le tante conseguenze, l'immigrazione è senz'altro quella che rappresenta la sfida più complessa per le democrazie (e, forse, per la democrazia in generale). Con l'immigrazione, infatti, non si importa semplicemente forza lavoro, bensì anche una serie di fattori di cambiamento sociale. Da decenni, gli europei sono insoddisfatti per l'incapacità dei loro leader sia di regolare l'immigrazione sia di trarne pienamente vantaggio a livello economico. Nella maggior parte dei casi, la globalizzazione e l'autogoverno repubblicano, che l'Europa ha avuto modo di apprezzare a partire dal XVII secolo, sono in contrasto tra loro. Se si vuole aprire il proprio paese alla globalizzazione sarà inevitabile qualche sacrificio sul piano del sistema di governo. Gli europei temono che i loro rispettivi paesi stiano sfuggendo al loro controllo politico, e ne hanno ben donde, benché solo di rado siano in grado di definire con precisione le modalità di questo fenomeno. Hanno l'impressione che l'Europa sia sul punto di essere culturalmente sopraffatta: ora dall'islam teocratico, ora dal liberismo (economico) che non assegna alcun particolare valore alle più sentite tradizioni europee. Lo slancio del mercato è stato bloccato dalla crisi finanziaria cominciata nel 2008, ma è improbabile che questa situazione di stallo duri per sempre. Entrambe queste forze, che siano o meno attivamente ostili, prendono
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piede attraverso una serie di atti e concessioni che, considerati singolarmente, sono troppo piccoli per suscitare proteste, ma che, nel loro insieme, producono una permanente e indesiderabile alterazione del continente.
Il dovere dell'Europa nei confronti del mondo Se l'Europa finisce per assorbire più immigrati di quanti i suoi elettori ne desiderino, non si può che rilevare il cattivo funzionamento della democrazia. I leader europei hanno preferito convincersi di una cosa diversa, e cioè che le loro politiche sull'immigrazione e sull'asilo politico tengono conto di quel genere di doveri morali non negoziabili che non sono sottoposti ad alcun voto. Come disse un ministro europeo nell'estate del 2006, «viviamo in un mondo senza confini in cui la nostra nuova missione consiste nel difendere i confini non del nostro paese, bensì quelli della civiltà e dei diritti umani».4 Se non si sta attenti, l'uso di un simile linguaggio potrebbe indurre a credere che l'Europa non abbia neppure il diritto di promuovere politiche in materia di immigrazione. Gli europei non sanno più se considerarsi cittadini del mondo o dei rispettivi paesi. Nel 2005, Spagna e Marocco lanciarono congiuntamente un appello per la convocazione di una conferenza internazionale sulle divergenze tra Europa e Africa in tema di immigrazione. Il Marocco era un ottimo partner commerciale per l'Unione Europea, stando a un servizio pubblicato dal «Financial Times», perché «Bruxelles considera il Marocco un esempio della riuscita del proprio decennale programma mirante ad approfondire le relazioni con i paesi della costa meridionale del Mediterraneo».5 Ora, è vero che l'Unione Europea si vanta dei propri successi nelle relazioni con il Marocco, ma la cosa appare strana se si pensa che solo tre anni prima le forze armate marocchine avevano attaccato il territorio del
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l'Unione Europea, sbarcando e innalzando la propria bandiera sull'isola spagnola di Perejil, a ridosso della costa africana, e provocando la più grande operazione militare della Spagna dopo il 1939, nonché una crisi diplomatica che fu disinnescata solo dopo strenui negoziati segreti condotti dal dipartimento di stato americano. I rapporti di forza tra l'Europa e i paesi poveri sono più complicati di quanto appaia. I paesi poveri non sono sprovvisti di buone carte da giocare, quando si tratta di immigrazione. La più importante tra queste è una particolare asimmetria informativa: essi sanno dell'Europa più di quanto l'Europa sappia di loro, e ricavano più dell'Europa dalla relazione che con questa instaurano. Funzionava così già ai tempi dell'impero romano, quando i barbari acquisivano una (preziosa) sapienza tattico-militare dalle sofisticate legioni romane, mentre i legionari riportavano a Roma le (indesiderabili) consuetudini delle guerre di confine. E oggi le cose funzionano allo stesso modo. Chiunque può trovare posto nell'economia occidentale o abbandonarla, perché la società occidentale è un sistema logico piuttosto comprensibile per chi voglia prendersi la briga di studiarlo. Si pensi agli immigrati africani giunti via mare in Spagna. I notiziari televisivi avevano fornito a questa gente - per il resto pressoché analfabeta - una conoscenza delle leggi spagnole sull'immigrazione che poteva competere con quella di gran parte dei funzionari dell'ufficio immigrazione. Sapevano bene che le autorità non possono espellere un nuovo arrivato prima che questi dichiari la propria nazionalità; e sapevano anche che, qualora la nazionalità non venga accertata nel giro di quaranta giorni, l'immigrato dev'essere rilasciato. Non ignoravano neppure che la Spagna ha con certi paesi trattati di estradizione più rigorosi e con altri meno, sicché, come abbiamo visto, è meglio dichiararsi ivoriani che senegalesi. Gli europei, di contro, possiedono una ben misera conoscenza delle società da cui arrivano gli immigrati. Ogni volta
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che si verifica un accumulo di domande d'asilo o un afflusso incontrollato di migranti, i paesi da cui questi arrivano devono essere pagati sottobanco affinché inviino «missioni di identificazione», grazie alle quali i paesi di destinazione possono esercitare quel tipo di pressione consentito alle autorità democratiche solo quando si conosce il luogo d'origine e la famiglia di una persona. Si capisce facilmente quale invidiabile privilegio rappresenti, per una persona, il fatto che nessuno sappia queste cose sul suo conto. In confronto a chi nasce nell'era di Internet in società come quella europea o statunitense, che si ritrova perlopiù spogliato del proprio anonimato, gli immigrati illegali si crogiolano nella loro privacy. Sono veri e propri aristocratici della privacy. Per arginare l'immigrazione occorre avere accesso a certe competenze del Terzo mondo. E tali competenze costano care, sotto forma di condono dei debiti, di aiuti allo sviluppo o di «co-sviluppo» (apertura di imprese occidentali in cui sia previsto un ruolo anche per uomini d'affari dei paesi in via di sviluppo) e di veicoli a trazione integrale ultimo modello per i funzionari governativi. Quando i leader dei paesi poveri collaborano con l'Occidente alla limitazione dell'immigrazione, si parla in generale di lotta contro «la mafia» o «la tratta di esseri umani».6 Una terminologia ben strana per denotare, poniamo, un pescatore che si fa pagare per offrire un passaggio sulla propria barca e che ha molte più cose in comune con i tassisti che con un'organizzazione criminale. La parola «mafia» è l'indispensabile foglia di fico per quei negoziatori dei paesi poveri, che non possono compromettersi agli occhi dei propri connazionali collaborando alla chiusura di una (forse l'unica) via di fuga dalla povertà. Ed è di grande consolazione anche per i leader europei. Il sottinteso è che se solo il continente riuscisse a risolvere questo problema di criminalità, anche il problema dell'immigrazione scomparirebbe. Questi discorsi, però, travestono quella che è una questione di volontà in un problema di coscienza: con essi i leader vogliono far cre
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dere di essere (altruisticamente) impegnati ad affrontare una crisi umanitaria e non in cerca di un modo per sbarrare (egoisticamente) la porta. L'asimmetria informativa tra l'Occidente e il resto del mondo potrebbe rivelarsi l'arma migliore a disposizione di quanti sono in guerra con l'Occidente. Ciò è vero, in particolare, laddove la guerra al terrorismo oppone le armi occidentali al radicalismo islamico. Paragonate la disinvoltura con cui i terroristi hanno operato negli aeroporti degli Stati Uniti alla situazione in cui operano le truppe NATO nelle zone tribali del Pakistan nordoccidentale. I musulmani hanno una profonda conoscenza delle società occidentali - a cominciare dalle loro lingue - mentre gli occidentali ignorano quasi tutto delle società musulmane. Qualunque cosa possa ristabilire un piano di parità epistemologica appare, agli occhi dei non occidentali, come una minaccia. Azar Natisi, per esempio, autrice del bestseller Leggere Lolita a Teheran, è stata elogiata da lettori di tutto il mondo per essere riuscita a umanizzare un popolo di cui, per oltre un quarto di secolo, si è saputo ben poco, per aver fornito qualche informazione sulla società di un paese che, di solito, viene descritto soltanto come nemico dell'Occidente. Questo, però, è esattamente ciò che dispiace a Hamid Da- bashi, docente di letteratura alla Columbia University. In un illuminante accesso di intolleranza, egli scrive, a proposito del libro della Natisi, che ricorda i più nefasti progetti coloniali dei britannici in India, per esempio quando nel 1835 un funzionario coloniale come Thomas Macaulay decretò: «Dobbiamo fare del nostro meglio per formare una classe che si faccia interprete tra noi e i milioni di persone che governiamo, una classe di indiani per sangue e colore, ma inglesi per gusti, opinioni, lingua e mentalità». Azar Nafisi è la personificazione dell'informatore nativo e dell'agente coloniale, che offre i propri servigi a una versione americana dello stesso progetto.
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L'emancipazione dell'Europa dall'America La seconda guerra mondiale e il rischio incombente di vin ulteriore conflitto provocato dall'Unione Sovietica indussero la timorosa Europa a entrare a far parte di un'alleanza atlantica. Gli Stati Uniti, però, in veste di occupanti dei domini ex fascisti e di difensori di tutto il territorio a ovest della cortina di ferro, avocarono a sé gran parte delle decisioni sullo sviluppo delle società europee. Fu l'esperienza comune dell'occupazione americana, del liberalismo americano e del modello di legalità americano ciò che rese gli europei omogenei al punto di spingerli a concepire il progetto dell'unità europea. L'Unione Europea, però, benché americani ed europei siano restii ad ammetterlo, è l'espressione istituzionale dell'americanizzazione dell'Europa. Una volta sfumati i rischi della guerra fredda, gli europei hanno cercato di emanciparsi dalla tutela americana. Quando la Germania fu riunifìcata, il 58% dei suoi cittadini avrebbe voluto ritirarsi da entrambe le alleanze (NATO e patto di Varsavia) .8 Per tutta la durata della presidenza Clinton, alcuni leader europei hanno cercato pretesti - la pena di morte, l'indisponibilità dell'America a ratificare gli accordi di Kyoto sul riscaldamento globale, la sua opposizione al tribunale penale internazionale - per dichiarare la propria indipendenza dalla volontà degli Stati Uniti. L'Europa era divisa, su questo punto: alcuni leader europei hanno lottato con altrettanto vigore per conservare l'orientamento atlantista del continente. Com'è ovvio, il legame con gli Stati Uniti non poteva essere sciolto finché gli europei non avessero avuto la volontà - o compreso la necessità - di pagare per la propria difesa militare. Ma l'impazienza nei confronti della tutela americana è una costante. Va da sé che la presidenza Obama, salutata come la possibilità di un nuovo inizio nelle relazioni tra Europa e America, offrirà ampio materiale per dissapori transatlantici.
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La già forte impazienza europea nei confronti dell'influenza americana fu ulteriormente aggravata dagli attentati di al-Qaeda a New York e Washington del settembre del 2001. L'opposizione di Francia e Germania - e poi della Spagna - all'invasione americana dell'Iraq nel 2003 fu un'espressione del preesistente desiderio di emancipazione dell'Europa dalla tutela americana. L'invasione dell'Iraq non fu la causa di tale desiderio. Gli europei affermano, in genere, che l'opinione pubblica dei loro paesi era pienamente solidale con gli Stati Uniti dopo gli attentati del 2001 e che soltanto quando la legittima autodifesa si tradusse nelle disavventure militari di George W. Bush in Iraq l'Europa fu costretta a opporsi. Questa affermazione, però, è falsa. Mentre l'amministrazione Bush contava sul fatto che gli europei avessero lo stesso interesse degli americani a puntellare un sistema mondiale sotto attacco, gli europei erano in una condizione in cui la loro autostima aveva più importanza dei loro interessi. Da molte parti gli attentati contro il World Trade Center furono accolti con indifferenza. Nel suo diario dell'I 1 settembre 2001, l'ex deputato laburista Tony Benn racconta che, impegnato nella riunione mensile di un gruppo chiamato Labour Action for Peace, rimase sgomento per il comportamento dei suoi colleghi. «Benché fossero tutti al corrente di quanto era accaduto», scrive, «passarono un'ora a domandarsi chi dovesse preparare i volantini per un'imminente conferenza, chi avrebbe raccolto i fondi, se il pamphlet era pronto, se la sala era stata prenotata...»9 In tutta Europa, nei giorni successivi all'I 1 settembre, risuonarono espressioni di condanna preventiva nei confronti di un'ingiustificata ed eccessiva reazione che ancora non si era verificata, ma che appariva inevitabile. Migliaia di persone sfilarono a Parigi contro l'invasione dell'Afghanistan dietro striscioni che recitavano: «No alla crociata imperialista!».10 Il 13 settembre l'editorialista di sinistra Seumas Milne scrisse sul «Guardian» un articolo che poteva benissimo essere
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scambiato per una parodia dell'antiamericanismo presa da un giornale satirico come «Private Eye», «The Onion» o «Le Canard Enchainé»: Sono trascorsi due giorni dagli attacchi suicidi contro i lavoratori civili di New York e Washington, ed è ormai dolorosamente chiaro che la maggior parte degli americani semplicemente non capisce. [...] Lo shock, la rabbia e il lutto si sono manifestati con grande evidenza, ma risalta per la sua assenza il benché minimo barlume di consapevolezza sulla ragione che potrebbe aver motivato alcune persone a dare la vita per compiere simili atrocità o sul perché gli Stati Uniti siano odiati con tanta forza non solo nei paesi arabi e musulmani, bensì in tutti i paesi in via di sviluppo.
Ben più importante, ai nostri fini, è capire perché l'America sia odiata con tanta forza sulle pagine del «Guardian» e in altri ambiti di discussione in Europa. Una delle ragioni è certamente il fatto che gli Stati Uniti hanno corroso le varie tradizioni nazionali e le hanno sostituite con una cultura consumistica massificata e standardizzata. Almeno così la vedevano gli europei. L'Europa era arrivata al punto di non saper più neanche inventare le proprie mode. Negli Stati Uniti si è diffusa, alla fine degli anni Novanta, una mania per la narrativa etnica femminile (Laura Esquivel, Louise Erdrich), così come in Gran Bretagna (Zadie Smith, Monica Ali). All'inizio degli anni Novanta, invece, scoppiò in America una gigantesca e insensata polemica sulle riparazioni da offrire alle vittime della tratta degli schiavi; la Francia esplose per le medesime questioni (e anche per la loro formulazione antisemitica) nel 2005. L'affermative action, che - come abbiamo visto nel precedente capitolo fu concepita per un problema specificatamente americano negli anni Settanta, investì l'Europa tre decenni dopo. L'Europa si è presa gioco delle leggi americane contro il fumo per (pochissimi) anni, prima di adottarle integralmente. Tale dipendenza, anche se non costituisce il risultato di alcun
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progetto cultural-imperialistico da parte americana, risultava pur sempre umiliante per gli europei. L'America è una presenza immancabile nelle lagnanze culturali degli intellettuali europei, in quanto si ritiene che essa spenga Yélan vital ài queste civiltà un tempo dominanti. Come scrive Matthias Politycki, Un patrimonio è nondimeno un magazzino di modi di pensare, costruire e comportarsi, fonte di ispirazione per ogni genere di doveri presenti. Eppure, in Europa centrale, noi stiamo facendo di tutto per abbandonare ciò che resta della nostra millenaria tradizione - la varietà delle lingue e delle identità a esse associate - in favore di una rampante pseudoamericaniz- zazione.12
Michel Houellebecq, nel suo libro Le particelle elementari, descrive un chirurgo che si mordeva le mani per essersi lasciato sfuggire un'opportunità «perché si era completamente sbagliato a proposito dell'emergente mercato dei seni siliconati. La credeva una mania passeggera destinata a rimanere entro i confini americani. Era stata, evidentemente, un'idiozia. Non si dà neppure un caso di una moda nata negli Stati Uniti che non abbia finito, nel giro di qualche anno, per spopolare in Europa: neppure uno».13
I modelli americano e ottomano di società multiculturale L'immigrazione è americanizzazione. Sono le due facce dello stesso disastroso sistema di rapporti economici che sta soppiantando quello della tradizione europea. In un'epoca di pubblica contrizione e di retorico malessere, è stato spesso impossibile esprimere disagio o condanna nei confronti dell'immigrazione e delle politiche che attiravano masse di migranti. Si può dire, però, che la decisione europea di accogliere milioni di stranieri fu presa in un momento in cui il continente non era in pieno possesso delle proprie fa
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coltà mentali e fisiche, in un paesaggio politico disegnato da Hitler e da Stalin, quand'era un territorio sotto la tutela di un paese - gli Stati Uniti i cui interessi, ora che Hitler e Stalin non ci sono più, non coincidono più tanto con quelli dell'Europa. Enoch Powell (di nuovo), che in Europa, non a caso, era il più accanito tra i politici antiamericani della sua era, ammoniva nel 1968: «Nell'arco di una generazione o giù di lì riusciremo finalmente - senza benefici per alcuno - a riprodurre "sulla dolce e verde terra inglese" la paurosa tragedia degli Stati Uniti».14 Agli inizi degli anni Novanta, la Lega lombarda, poi divenuta Lega nord, distribuiva volantini che proclamavano: «Se vi piace così tanto la società multirazziale, potete trasferirvi a New York».15 L'Europa, pertanto, è in una strana condizione. E un continente sempre più antiamericano alle prese con tremendi problemi per i quali l'unica soluzione sperimentata consisterebbe nel diventare più simile all'America. Gli Stati Uniti, infatti, dimostrano come sia possibile per un paese accogliere enormi masse di migranti da tutto il mondo conservando, al contempo, una cultura aperta, libera e occidentale. La società americana, agli occhi di molti europei, sia prò sia contro gli Stati Uniti, appare come il premio di consolazione del loro continente. E il tipo di società che l'Europa si troverà per forza di cose ad avere, se avrà la determinazione (o riuscirà a sottoscrivere un accordo faustiano) per mantenere la propria economia nella massima libertà consentita dall'incerta congiuntura finanziaria di questo periodo. Ovviamente, l'«America» - quale esiste nella mente europea - è come sempre per due terzi un'idea mitizzata. Per l'Europa, «America» equivale a cultura europea più entropia. Il mito forse più diffuso in Europa riguardo agli Stati Uniti è quello per cui gli americani non hanno particolari rivendicazioni per la loro propria cultura (nella misura in cui possono dire di avercela) e non si preoccupano se i nuo
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vi arrivati conservano la loro. Questo è decisamente falso. L'America è molto aperta in teoria, ma nella pratica esercita pressioni procrustee per far sì che gli immigrati si conformino, e sono proprio queste pressioni, non l'apertura, ciò che ha unito persone di diverse provenienze a formare un unico popolo. Certo, si può avere un'«identità-con-trattino» se proprio la si vuole... ma conviene sapere da quale lato del trattino si deve stare per imburrare il proprio pane. Ciò che confonde gli osservatori esterni è il fatto che queste pressioni verso l'americanizzazione non sono mai manifestamente enunciate. Sono implicite nel sistema sociale e (soprattutto) in quello economico in cui gli immigrati devono imparare a cavarsela per sopravvivere. Chi immigra negli Stati Uniti - e ovunque, del resto - raramente si considera un immigrato. Si parte nella speranza di trovare spazio per le proprie ambizioni che non riescono a dispiegarsi nella società d'origine. Con la comodità dell'odierno sistema dei trasporti non è irrealistico, per un migrante, aspirare al ritorno, con una posizione socioeconomica migliore, nella società in cui è nato, dopo aver lavorato per alcuni anni in un contesto economico più progredito. In generale, tuttavia, poiché agli anni della migrazione seguono quelli dell'insediamento, l'immigrato finisce spesso per restare intrappolato in un paese in cui credeva di dover vivere solo temporaneamente. Può capitargli di sposarsi con una donna e di avere figli che non parlano la sua lingua d'origine. Se lavora, rischia di assuefarsi a un certo reddito. E vero che l'immigrato può conservare la sua cultura nativa, ma se la sua cultura gli impedisce di imparare bene l'inglese o di presentarsi al lavoro in orario, costui finirà ben presto per patire la fame. Se ne tornerà a casa, e nessuno sentirà la sua mancanza. Il successo americano nel gestire l'immigrazione è il prodotto non solo della brutale indifferenza e di politiche governative che suscitano ripulsa in gran parte degli europei, ma anche di condizioni storiche difficilmente replicabili. In primo luogo, chi immigrava in America nel XIX secolo
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aveva un continente perlopiù disabitato in cui insediarsi. E gli immigrati della fine del XX secolo avevano a disposizione le periferie praticamente desolate delle città affamate di lavoro della Sunbelt americana.8 In secondo luogo, la più recente migrazione di massa verso gli Stati Uniti ha interagito, traendone forza, con una delle più grandi rivoluzioni sociali della storia americana: la progressiva sconfitta della segregazione razziale. Il fatto che i neri non fossero più costretti a svolgere i lavori più umili non significa che tali lavori non dovessero più essere svolti. Può anche darsi che l'arrivo di immigrati non bianchi sia servito alla maggioranza bianca degli Stati Uniti, fornendo a quest'ultima un argomento inconfutabile da opporre a qualsiasi accusa di razzismo. In terzo luogo, un'altra rivoluzione sociale - non priva di legami con la desegregazione - facilitò ulteriormente l'assimilazione degli immigrati. A partire dagli anni della presidenza Nixon e, con rinnovato vigore, sull'onda della war on drugs (la guerra alla droga inaugurata negli anni Ottanta), il sistema penale americano fu trasformato in una macchina draconiana e spietata, con una tale quantità di reati e con pene così severe che, nel momento in cui scrivo, un quarto di tutti i detenuti al mondo sono rinchiusi nelle prigioni statunitensi. Benché le riviste sensazionalistiche pubblichino di tanto in tanto qualche articolo sulle gang salvadoregne o giamaicane, le città e i sobborghi americani sono luoghi estremamente inospitali per immigrati inclini a delinquere. In America non si è mai avuta, negli ultimi decenni, la sensazione - assai diffusa in Europa - che gran parte dei problemi di delinquenza fossero da ricondurre all'immigrazione. Eppure, nonostante tutti questi vantaggi - di cui l'Europa è totalmente priva - l'opinione pubblica continua a essere critica nei confronti dell'immigrazione. Un sondaggio con
8 Fascia geografica che comprende gli stati del Sud e del Sudovest degli Stati Uniti.
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dotto nel 2006 dal Pew Research Center ha rilevato che, per la maggioranza degli americani (53%), tutti gli 11 milioni di immigrati illegali dovrebbero essere «pregati di tornarsene a casa».16 Nell'attuale, tormentato contesto della guerra al terrore, è difficile ignorare un ulteriore privilegio di cui gode l'America. Pur avendo lanciato due guerre nel mondo musulmano e appoggiato senza esitazioni lo stato di Israele in tutti i suoi conflitti, gli Stati Uniti hanno registrato, a differenza dell'Europa, ben pochi segnali di sovversione antipatriottica da parte dei musulmani della prima e della seconda generazione. E stato, questo, motivo di grande autocompiacimento tra gli americani, che si sono affrettati a spiegare questa differenza con una varietà di vere o presunte virtù degli Stati Uniti, da una minore pressione fiscale a una minore diffusione del razzismo. Stando ad autorevoli osservatori, però, questo autocompiacimento è infondato. «La vera storia dei musulmani americani è una storia di sempre più rapido estraniamento dagli ambiti ufficiali della vita pubblica americana», ha scritto la giornalista Geneive Abdo, «perché i musulmani di questo paese hanno preferito l'identità islamica a quella americana.»17 Negli Stati Uniti ci sono dei musulmani, ma l'America non ha ancora avuto un'immigrazione islamica di massa. Le dimensioni contano. Gli Stati Uniti ospitano all'incirca 2 milioni di musulmani (esclusi i musulmani neri) sparsi un po' in tutto il paese. Se la popolazione musulmana in America avesse le proporzioni che ha in Francia, ci sarebbero, negli Stati Uniti, quasi 40 milioni di musulmani, concentrati in una manciata di importanti città e destinati ad assumerne il controllo politico. Ogni tipo di atteggiamento cambiereb- be, inclusi il rispetto dei musulmani nei confronti della società in generale (che si attenuerebbe) e le preoccupazioni della società nei confronti dell'islam (che aumenterebbero) . Resta ancora da verificare se il meltingpot degli Stati Uni
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ti funzionerebbe con i musulmani com'è accaduto con gli altri immigrati. In un mondo globalizzato dove le identità ancestrali non si estinguono più per effetto della prolungata lontananza dalla terra d'origine, c'è un secondo modello di immigrazione che potrebbe rivelarsi più pertinente al caso europeo: il sistema dei mìllet vigente nell'impero ottomano. Le città ottomane di allora, come Sarajevo, Salonicco e Istanbul, erano probabilmente le città più cosmopolite al mondo. Accoglievano nutrite comunità di cristiani greci, di cristiani armeni, di ebrei e altre ancora, organizzate in gruppi etnici, o mìllet, che godevano di un certo margine di autodeterminazione. All'inizio del XIX secolo, però, i vicini europei della Turchia fecero leva sull'oppressione dei rispettivi «fratelli», in Grecia e altrove entro i confini ottomani, come pretesto per smembrare l'impero. Per decenni, la corrente dominante nel pensiero nazionalista turco ha sostenuto che proprio la tolleranza ottomana sarebbe stata l'arma più efficace utilizzata dai nemici dell'impero contro di esso e, anzi, che questo sarebbe morto per la sua troppa tolleranza. E facile deplorare i miti nazionalistici, ma questo retroterra dovrebbe essere noto a chi voglia comprendere il massacro di milioni di armeni nel corso della prima guerra mondiale o l'idolatria di cui fu oggetto Kemal Ataturk o, ancora, ciò che ha portato il nazionalismo a un livello di virulenza e irriducibilità tale da indurre il governo centrale a negare la curdità dei curdi curdofoni per la quasi totalità dell'ultimo secolo. Per reazione allo smembramento del loro impero multinazionale, i turchi riqualificarono quel che ne era rimasto come luogo destinato per diritto di nascita a un unico «popolo». Avevano imparato la seguente lezione: avere all'interno dei propri confini una qualunque minoranza riconosciuta può essere, in determinate circostanze, una cosa pericolosa. E sbalorditivo che i principali fautori europei dell'ammissione della Turchia nell'Unione Europea, sempre
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pronti a elencare ciò che accomuna la storia turca a quella europea, non abbiano mai fatto caso alla politica turca nei confronti delle minoranze, se si eccettua l'odierna deplorazione della persecuzione anticurda e le proclamate condanne alla persecuzione degli armeni. La crisi delle vignette danesi mostra come europei e ottomani abbiano senz'altro alcuni tratti in comune. Le violenze e i boicottaggi suscitati in tutto il mondo dalla pubblicazione delle vignette satiriche su Maometto a opera del «Jyllands-Posten» non comportano necessariamente che la comunità musulmana in Danimarca fosse poco integrata o scontenta; la situazione, anzi, non era particolarmente problematica su questo piano. Era sufficiente un mondo caratterizzato da movimenti migratori, sistema dei media globale, radicalizzazione delle comunità musulmane, stravaganti invocazioni dei diritti umani e un progressivo sbiadire del principio per cui ciò che accade in un paese è affare del paese medesimo e non di altri. In queste condizioni, una piccola delegazione itinerante di imam danesi arrabbiati bastò ad aizzare gente violenta un po' in tutto il mondo in difesa dei «fratelli» che, a loro modo di vedere, erano stati offesi. Se le politiche europee sulle minoranze causeranno o meno tumulti ancora più vasti non dipenderà esclusivamente dal carattere più o meno gestibile delle rivendicazioni delle minoranze.
Da «l'islam è pace» a «prendere o lasciare» L'immigrazione di massa e il consolidamento dell'islam in Europa stanno cambiando in profondità la vita del continente. Come ha scritto lo storico della filosofia Mark Lilla nel 2007, E una situazione disgraziata, ma siamo stati noi - musulmani e non musulmani a crearla. Adattamento e rispetto reciproco
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possono servire [...] I paesi occidentali hanno adottato strategie diverse per gestirla, chi proibendo simboli religiosi come il velo nelle scuole, altri consentendolo. Va riconosciuto, però, che il problema all'ordine del giorno è quello della gestione, non della difesa di nobili principi, e che le nostre aspettative devono essere estremamente ridotte.18
Lilla coglie alla perfezione l'ambiguità di un'Europa a disagio per le conseguenze dell'immigrazione e troppo pigra (o troppo debole) per indignarsene. Le speranze espresse da Lilla per una strategia di gestione del problema sono tutt'altro che realistiche, almeno in una democrazia. I popoli fieri non si accontentano della semplice «gestione». E, che questi abbiano ragione oppure torto, tutti i politici che hanno propugnato le «aspettative ridotte» - da James Callaghan a Jimmy Carter - si sono in breve tempo trasformati in ex politici. La difficoltà più grave sta nel fatto che al momento il «noi» postulato da Lilla non esiste. Un tale «noi» esisteva vent'anni fa, quando gli europei vivevano ancora nell'incombente ombra della seconda guerra mondiale, ma ora non più. C'è una generazione di persone nate tra il 1930 e il 1960 che ha tratto dall'immigrazione non solo benefici economici, bensì anche prestigio morale. L'immigrazione ha consentito loro di presentarsi come persone di nobili principi. Quella generazione condivide attualmente il potere con una generazione successiva, che pagherà sia per i traguardi economici sia per la superbia morale di chi l'ha preceduta. In questo senso, gli europei non sono diventati «più severi» o «meno generosi» nei confronti degli immigrati. E semplicemente arrivato, per loro, il momento di pagare il conto di una transazione che ha già occasionato un gran numero di rimpianti nell'acquirente. Ci vuole un gran coraggio per decidere di emigrare, di lasciarsi alle spalle tutti i punti di riferimento e le certezze di un tempo e partire in cerca di una vita migliore. Ai nostri
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giorni, tuttavia, sono molti i nativi europei che si trovano esattamente in questa posizione. Vivono in una sorta di éxil à l'interieur. i cambiamenti culturali ed economici li hanno tagliati fuori dal mondo che credevano che avrebbero abitato. E per un aspetto almeno si trovano in una posizione più scomoda degli immigrati veri e propri: non sono stati loro a decidere questo cambiamento. E la crisi economica iniziata nel 2008 ha reso i paesi europei ancor meno riconoscibili ai nativi. Contrariamente ai diffusi sospetti, il vecchio, comodo contratto sociale l'Europa dei matrimoni solidi, del lavoro abbondante, delle politiche equilibrate e delle relazioni sociali prive d'attrito - non viene subdolamente negato ai musulmani e ad altri immigrati per mano degli europei stanchi di dispensarlo. Quel contratto sociale non è più disponibile neppure per gli europei. Un buon numero di nativi europei, in particolare appartenenti al proletariato, ha vissuto una vita all'insegna dell'espulsione dalla cultura dei propri genitori. Stando così le cose, non pare più così irragionevole pretendere che gli immigrati desiderosi di restare in Europa smettano di seguire il modello dei loro genitori. E più facile che si abbia questa richiesta in modo globalizzato. «Mi piace la metafora del club» disse l'intellettuale francese ed ex diplomatico israeliano Elie Barnavi a un giornalista nel 2007. Sei vuoi farne parte, ci sono delle regole da rispettare. Se le regole non ti piacciono, non devi iscriverti. Se vuoi giocare con regole diverse, trovati un altro club. Ecco perché, ancora una volta, la formula «Francia: prendere o lasciare» mi pare giusta. In un mondo aperto, non c'è ragione che vieti a qualcuno di spostarsi. Nessuno è costretto ad amare il proprio paese o i valori che esso propugna. Se si sceglie di vivere in un paese, però, bisogna accettarlo.
Barnavi intendeva rigettare l'idea secondo cui la ricerca di una vita migliore sarebbe ragione sufficiente per la mi
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grazione, e l'obbedienza alle leggi ragione sufficiente alla permanenza. Altri si limitavano a respingere l'idea che il desiderio di una vita migliore basti a giustificare l'arrivo di immigrati. «Perché mai dovremmo accogliere chiunque arrivi qui in cerca di denaro?» domandò il giornalista britannico Max Hastings. «Se un immigrato non è disposto a sottoscrivere i nostri valori, per quanto imperfetti possano sembrare, nessuna società occidentale è tenuta ad accoglierlo.»20 Certi europei sono determinati a difendere i valori del loro continente, in particolare contro l'islam. Ma che cosa significa? Non si può difendere ciò che non si è in grado di definire. Non c'è consenso, neanche un minimo abbozzo di accordo, su quali siano questi valori. Un'Europa unita non avrebbe nulla da temere dall'islam, ma l'Europa non è unita. La sua civiltà è divisa in due, lacerata tra l'ideale dei diritti umani e quello del patriottismo, tra la paura e l'orgoglio per il patrimonio religioso del continente, tra concezioni che vedono l'islam ora quale elemento ormai permanente del panorama religioso europeo ora come un fenomeno che si dissolverà al contatto con l'edonismo e il consumismo. Essere leali all'Europa può significare un indurimento (dato che il costo di uno scontro frontale con l'islam non farà che crescere con l'aumento del numero dei musulmani) o un ammorbidimento (dato che l'islam sarà un giorno così forte in Europa da far rimpiangere agli europei la decisione di contrastarlo). La Gran Bretagna è un paese che ha oscillato ripetutamente tra «l'islam è pace» e «prendere o lasciare». Aveva varato una severa legge antiterrorismo nel 2000, un anno prima degli attacchi contro il World Trade Center. Dopo gli attentati sui bus e sulla metropolitana di Londra, nel 2005, il primo ministro Tony Blair avvertì che chi non «condivide e sostiene i valori caratteristici della way of life britannica» o chi incita all'odio contro la Gran Bretagna «non troverà posto qui tra noi». Pochi mesi dopo aggiunse che i predicato
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ri islamisti indulgenti nei confronti del terrorismo «non dovrebbero stare in questo paese».21 Dopo il fallito progetto di far esplodere, nell'estate del 2006, una serie di aerei in volo tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, questo mutato atteggiamento divenne ancora più esplicito. Il terrorismo globale, disse Blair, «non confuta le tesi tradizionali a favore delle libertà civili, ma le rende anacronistiche».22 Come George W. Bush, anche Blair semplificò le procedure per l'estradizione di individui sospettati di terrorismo e l'intercettazione delle loro comunicazioni. Prolungò i tempi della carcerazione preventiva (senza processo) di soggetti sospettati. Questo fu un capovolgimento sorprendente, perché era stato proprio Blair, al momento della sua elezione a primo ministro, nel 1997, a uniformare la legge britannica alla convenzione europea sui diritti umani, facendo delle libertà civili moderne il nucleo dei valori britannici. Di colpo prese ad affermare che non esisteva nulla del genere, che quei valori erano forme temporanee di adattamento utili in particolari circostanze in una parte d'Europa tra la seconda guerra mondiale e la fine del XX secolo. Gli approcci severi e quelli più morbidi sono difficili da conciliare. A volte è persino difficile determinare in che cosa consistano tali opzioni severe o morbide. Per esempio, Souad Sbai, storica presidente dell'Associazione della comunità marocchina delle donne in Italia (Acmid-donna) e ora deputata nel partito di Silvio Berlusconi, ha speso molti anni della sua vita per cercare di diffondere nelle famiglie marocchine una concezione «italiana» dei diritti delle donne. Uno dei suoi impegni più assidui è stato quello nei confronti delle donne i cui mariti hanno sequestrato i figli portandoli con sé in Nordafrica.23 In genere, la causa di tali rapimenti era qualche accenno di indebito comportamento all'europea da parte delle madri: la resistenza contro la reclusione in casa, l'opposizione all'arrivo di una seconda moglie e alla poligamia, il rifiuto di indossare il velo. Da
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che parte debbano schierarsi gli europei ragionevoli in questo conflitto non è facile a stabilirsi. Una vittoria dei diritti delle donne richiederebbe molto probabilmente l'estradizione del padre sciovinista, che potrebbe essere abbastanza forte, all'interno della famiglia, per imporre la sua concezione islamista a tutti i suoi sette figli. Imponendo il rispetto della legge italiana si potrebbe finire per lavorare contro i valori italiani. L'espulsione dei predicatori islamisti radicali - pietra angolare della politica interna sia francese sia inglese intorno alla metà di questo decennio - fornisce un altro esempio in proposito. E utile solo come componente marginale della politica sull'immigrazione. Risulta ininfluente contro la diffusione dell'islamismo tra i cittadini europei. La severità con i musulmani stranieri e il garantismo con i cittadini musulmani sarà di conforto per gli europei solo nella misura in cui riusciranno a conservare l'idea falsa dell'immigrazione come fenomeno temporaneo e reversibile.
Due tipi di utilità Questa eventualità, però, è ormai esclusa. Gli europei possono solo sperare che i nuovi arrivati, soprattutto quelli musulmani, si assimilino pacificamente. Sul piano materiale, gli immigrati dovrebbero aver voglia di integrarsi nella cultura europea. In molti casi, il processo di emancipazione degli immigrati ha avuto esiti magnifici. In un'edicola di un centro commerciale di Copenaghen non è strano imbattersi nel commesso di un negozio di scarpe sportive che vanta un'istruzione di prim'ordine e parla quattro lingue: danese, inglese, turco e, poniamo, kurmanji. E un risultato straordinario, se si confronta la sua istruzione con quella disponibile nel villaggio anatolico dei suoi genitori o con quella che avevano un secolo fa i membri della classe lavoratrice europea. Di certo, gli Stati Uniti non hanno nulla di paragona
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bile. Da questo punto di vista, è difficile descrivere l'Europa come una civiltà in declino. Eppure lo è con ogni evidenza. Le sfugge un fattore difficile da definire. Che l'Europa abbia o meno la capacità di difendersi, il problema è che non sa più per quale ragione dovrebbe difendersi. Per quanto il commesso di calzature sportive possa apparirci significativo quale simbolo dell'Europa, non è affatto sicura la sua fedeltà ai valori europei. Come lamentava il giurista tedesco Udo Di Fabio, I
fautori della nostra benintenzionata politica della tolleranza, che diffonde generose offerte di integrazione per allontanare 10 spettro della frammentazione della società, perdono di vista 11 problema fondamentale: perché mai un membro di una vitale cultura mondiale dovrebbe avere intenzione di integrarsi nella cultura occidentale, se questa - che, almeno ai suoi occhi, non genera un numero sufficiente di figli ed è ormai priva di qualsiasi principio trascendente - è prossima al suo esaurimento storico? Perché dovrebbe sentirsi coinvolto in una cultura segnata in pari misura dai dubbi su sé stessa e dall'arroganza; che, nella sua marcia a tappe forzate verso la modernità, ha sperperato la sua tradizione religiosa e morale; e che non sa offrire ideali di vita più elevati del turismo, della longevità e del consumismo? 24
II sociologo ed economista italiano Vilfredo Pareto riteneva che ogni comunità perseguisse due diversi tipi di interesse collettivo: l'utilità della comunità (funzione di sopravvivenza) e l'utilità per la comunità (benessere). Il contrasto tra queste due utilità è talvolta evidente, come sul piano della preparazione della difesa militare e della salvaguardia per le generazioni future. Entrambe le utilità richiedono abnegazione da parte degli adulti e la sottrazione di risorse al mero godimento presente. Tali questioni emergono anche quando la gente deve decidere se importare migranti per preparare pasti, rifare i letti e lucidare i pavimenti in cambio di una miseria o, al contrario, sbrigarsela da sé. Co
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me scrisse nel 1943 il politico e intellettuale statunitense James Burnham, In generale, le misure che garantiscono con maggiore adeguatezza la forza della comunità in futuro, soprattutto in un futuro appena distante qualche anno o generazione, riducono le soddisfazioni per la generazione presente. O, in altre parole: meglio, per la comunità, una vita storica breve culminante nella sua distruzione, ma con crescenti soddisfazioni al suo interno, o una vita più lunga con meno soddisfazioni? Spesso - o sempre, forse - la scelta sembra essere questa. La risposta, inutile sottolinearlo, non deriva mai da una scelta logica e deliberata.25
Per decenni le autorità europee hanno privilegiato l'utilità per sé stesse rispetto all'utilità delle, loro società. Anzi, il solo fatto di domandare se l'immigrazione promuoverà o metterà in pericolo la sopravvivenza europea è considerato, nella migliore delle ipotesi, una volgarità indegna degli europei o, nella peggiore, estremismo puro e semplice. Le comunità immigrate non hanno mai sentito vincoli di questo tipo. Il problema fondamentale con l'islam, e più in generale con gli immigrati, è il fatto che le più forti comunità presenti in Europa non sono affatto, dal punto di vista della cultura, comunità europee. Il problema riguarda tutti i paesi europei, a dispetto della grande varietà di misure adottate per porvi rimedio: multiculturalismo in Olanda, laìcité in Francia, benigna indifferenza in Gran Bretagna, la puntigliosità costituzionale in Germania. Evidentemente il problema dell'Europa è con l'islam e con l'immigrazione, e non con una qualche errata applicazione di particolari misure messe in campo per risolvere la situazione. L'islam è una religione magnifica che, nel corso dei secoli, ha dato vita a una gloriosa cultura. Fino a prova contraria, però, non può in alcun modo essere considerata una religione o una cultura europea. Di certo, la cultura europea emergerà trasformata dal suo confronto con l'islam. Molto meno certo è che l'islam
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possa rivelarsi, in ultima istanza, assimilabile da parte della cultura europea. La sfida fra Europa e islam sulla lealtà dei nuovi immigrati è in pieno corso. Al momento, l'islam sembra prevalere, in maniera palese sul piano demografico e in modo meno evidente sul piano filosofico. In simili circostanze, parole come «maggioranza» e «minoranza» vogliono dire poco. Quando una cultura insicura, malleabile, relativista incontra una cultura ancorata a delle dottrine comuni che le infondono forza e fiducia, è generalmente la prima a cambiare per uniformarsi all'altra.
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NOTE
1. Fiumi di sangue 1
Enoch Powell, discorso all'annuale meeting generale del West Midlands Area Conservative Political Centre, 20 aprile 1968, in Id., Reflections of a Statesman, a cura di Rex Collings, Bellew Publishing, London 1991, pp. 375, 379 [La traduzione del passo di Virgilio (Eneide, libro VI, v. 87) è di Rosa Calzecchi Onesti (Mondadori, Milano 1976, n.d.t.] 2 Enoch Powell, discorso alla conferenza annuale del Rotary Club di Londra, Eastbourne, 16 novembre 1968, in Id., Reflections of a Statesman, cit., p. 390. 3 Ivi, p. 389. Al tempo, la popolazione britannica non bianca ammontava a 1 milione e 250.000 unità. 4 Censimento dell'aprile del 2001, Office for National Statistics. 5 Enoch Powell, discorso in seguito all'elezione, Wolverhampton, 11 giugno 1970, in Id., Reflections of a Statesman, cit., p. 403. 6 Office for National Statistics, indicatori di censo, http://www.statistics. gov.uk/census2001/profiles/00CW-A.asp; http://www.statistics.gov.uk/ census2001/profiles/00CN-A.asp; http://www.statistics.gov.uk/census 2001 /profiles/1 B-A.asp. 7 Sarfraz Manzoor, Black Britain's Darkest Hour, «The Observer», 24 febbraio 2008 (dati a p. 6). 8 Jay Rayner, Drama out of Crisis, «The Independent», 18 maggio 1990, p. 16; Steve Clarke, Stealing a March on the One World Ideal, «The Times», 13 maggio 1990. 9 Enoch Powell, discorso alla conferenza annuale del Rotary Club di Londra, Eastbourne, 16 novembre 1968, in Id., Reflections of a Statesman, cit., p. 391. 10 Hans Magnus Enzensberger, Die Grosse Wanderung, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1992, p. 21 (tr. it., La grande migrazione, Einaudi, Torino 1993). 11 Per «Europa occidentale» si intende qui il gruppo «EU-15» che comprende tutti i paesi principali, eccetto la Norvegia e la Svizzera, ed esclude i rimanenti, quasi tutti dell'Est europeo, ammessi nell'unione nel corso di questo decennio.
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Colgo l'occasione per inserire una notazione statistica: gli istituti di statistica dei singoli paesi europei sono le più complete fonti di dati sulle migrazioni. Purtroppo, però, ogni paese raccoglie dati anche molto diversi e li valuta sulla base di criteri particolari. Per esempio, è possibile ottenere approfondite informazioni sulle origini etniche dei cittadini o- landesi, ma non di quelli francesi. I criteri variano anche all'interno di o- gni singolo paese, sicché è possibile recuperare alcuni dati sui ricongiungimenti coniugali di cittadini delle ex colonie britanniche solo relativamente agli anni precedenti il 1997 e non oltre. (Si veda David A. Co- leman, Partner Choice and the Growth of Ethnic Minority Populations, «Be- volking en Gezin», 33[2004], pp. 2, 7-34.) E le leggi variano al punto da rendere impossibile qualsiasi confronto a lungo termine. I termini «tedesco» e «turco», in Germania, non hanno lo stesso significato prima e dopo la riforma della cittadinanza del 1999. Gli studiosi, le organizzazioni non governative e gli istituti governativi non nazionali (l'Eurostat dell'Unione Europea o i vari enti delle Nazioni Unite, per esempio) cercano di utilizzare i dati nel migliore dei modi, ma solo di rado ne producono di propri. Per affrontare la questione, sarebbe necessario un libro intero, ma tale libro non è quello che avete in mano. Per scrivere il presente volume ho usato numerose fonti che saranno indicate di volta in volta in nota. Alcuni dati provengono da istituti governativi, altri da indagini accademiche o giornalistiche. Un'ottima raccolta di dati demografici generali e facilmente interpretabili è European Demographic Data Sheet pubblicato dall'Istituto demografico di Vienna. E anche utile International Migration Outlook dell'OCSE. La fonte di statistiche più completa e fruibile è il «data hub» online del Migration Policy Institute (MPI), noto think tank di Washington, DC. Il sito fornisce i link per risalire agli studi o ai censimenti da cui sono tratti i dati. 12 Divisione demografica del dipartimento degli Affari economici e sociali del segretariato delle Nazioni Unite, World Migrant Stock: The 2005 Revision, database demografico, http://esa.un.org/migration. 13 Anthony Browne, Invasión of the New Europeans, «The Spectator», 28 gennaio 2006, pp. 12-13. 14 Intervista dell'autore a Ake Daun, Stoccolma 24 gennaio 2005. 15 Ake Daun, Swedish Mentality, University Park, Penn State University Press, University Park (Pa.) 1996, p. 121. 16 Edward Alden, Daniel Dombey, Chris Giles, Sarah Laitner, The Price of Prosperity, «Financial Times», 18 maggio 2006, p. 13. 17 La stima è di Tariq Ramadan, Dar ash-shahada, Tawhid, Lyon 2002, p. 13. 18 Christopher Caldwell, Allah Mode, «The Weekly Standard», 15 luglio 2002, p. 21.
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19
Id., Europe's Future, «The Weekly Standard», 4 dicembre 2006, p. 25. Wolfgang Schwanitz, Europa wird, am Ende des Jahrhunderts islamisch sein, «Die Welt», 28 luglio 2004, p. 6. 21 Aldo Keel, In der Gewalt der Tradition, «Neue Zürcher Zeitung», 11 dicembre 2006, p. 25. Keel cita un articolo di P.C. Matthiessen pubblicato dal quotidiano danese «Jyllands-Posten» nel 1999. 22 Nel 2007, in Germania, il tasso di natalità è sembrato salire di nuovo. Si veda Bertrand Benoit, Baby Boom Times Return for Germany, «Financial Times», 13 luglio 2007. 23 Wolfgang Lutz, Vegard Skirbekk, Maria Rita Testa, The Low Fertitilly Trap Hypothesis: Forces that May Lead to Further Postponement and Fewer Births in Europe, Vienna Institute of Demography, 2005, citato da David Coleman in un discorso tenuto allo Hudson Institute, Washington (DC), 25 settembre 2007. 24 Coleman, discorso tenuto allo Hudson Institute, cit. 25 Alain Auffray, Prune Perromat, A Montfermeil, le maire joue la carte an- tijeunes, «Libération», 26 aprile 2006. 26 Christopher Caldwell, Daughter of the Enlightenment, «New York Times Magazine», 3 aprile 2005, p. 29. L'articolo fa riferimento a In 2050 ruim 1,6 miljoen meer allochtonen, «CBS Webmagazine», 8 gennaio 2007. Una più alta percentuale di olandesi di origine straniera (32% nel 2050) viene fornita da David Coleman, Sergei Scherbov, Immigration and Ethnic Change in Low-Fertility Countries. Towards a New Demographic Transition ?, presentato all'incontro annuale della Population Association of America, Philadelphia, 1° aprile 2005. 27 Coleman, Scherbov, Immigration..., cit. 28 Agence France-Presse, 2004 Was Record Immigration Year, «International Herald Tribune», 21 ottobre 2005, p. 4. 29 Coleman, Scherbov, Immigration..., cit. 30 Intervista dell'autore a don Fredo Olivero, ASAI, Torino, 23 marzo 2006. 31 Per Copenaghen: Jeffrey Fleishman, A Mutual Suspicion Grows in Denmark, «Los Angeles Times», 12 novembre 2005. Per Parigi: L'accueil des immigrants et l'intégration des populations issues de l'immigration, Cour des Comptes, novembre 2004, p. 427, citato in Jonathan Laurence, Justin Vaïsse, Integrating Islam: Political and Religious Challenges in Contemporary France,, Brookings, Washington (DC) 2006, p. 23. Per Londra: George Waiden, Time to Emigrate?, Gibson Square Books, London 2006, p. 45. 32 François Legros, La fécondité des étrangères en France, «Insee Première», 898, maggio 2003. 33 Nicholas Eberstadt, A Union of a Certain Age, «Milken Institute Review», aprile-giugno 2005, p. 47. 20
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Gunnar Heinsohn, Söhne und Weltmacht: Terror im Autstieg und Fall der Nationen, Orell Füssli Verlag, Zürich 2003, p. 33. 35 Jörg Thomann, Wenn Auswandern zum Volkssport wird, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 17 luglio 2007, p. 38. 36 Pal Nyri, «2000 magazine», gennaio 2005. Cit. in www.perlentaucher. de/magazinrundschau/2005-04-05.html 37 Alexander Stille, No Blacks Need Apply; a Nation of Emigrants Faces the Challenge of Immigration, «The Atlantic», febbraio 1992, p. 28. 38 Court Hears oj Horror Scenes on Tube, «Guardian» (edizione online), 23 gennaio 2007. 39 Si veda Pascal Blanchard, Nicolas Bancel, Sandrine Lemaire (a cura di), La fracture coloniale: la société française au prisme de l'héritage colonial, E- ditions La Découverte, Paris 2005. 40 Geert Mak, Nagekomen flessenpost, Uitgeverij Atlas, Amsterdam- Antwerpen 2005, p. 34. La politologa Carmen González Enriquez dell'U- niversidad Nacional de Educación a Distancia (UNED) espresse un punto di vista simile in un'intervista con l'autore (Madrid, 28 ottobre 2006). 41 Heinsohn, Söhne und Weltmacht..., cit. 42 Si veda, per esempio, Dominique Thomas, Le Londonistan: Le djjhad au coeur de l'Europe, Michalon, Paris, 2005; e Cristina Giudici, Occhi chiusi a Cremonistan, «Il Foglio», 27 luglio 2005, p. 6. 43 Raymond Aron, L'aube de l'histoire universelle, in Une histoire du XXe siè- cle, Plön, Paris 1996, p. 805 (tr. it. di Rinaldo Falcioni, L'alba della storia u- niversale, in R. Aron, Il ventesimo secolo, a cura di Angelo Panebianco, il Mulino, Bologna 2003).
2. L'economia dell'immigrazione 1
Si allude al Commonwealth Immigrants Act del 1962, a cui fece seguito il Commonwealth Immigrants Act del 1968, ancora più restrittivo. - Per i caraibici, Peter Fryer, StayingPower, Pluto Press, London 1984, pp. 372-374; per i sudasiatici, Philip Lewis, Islamic Britain, I.B. Tauris, London 2002, p. 54. Il numero relativo alla popolazione indiana e pakistana è stato tratto da Fryer, p. 372. 3 Censimento del Regno Unito del 2001, composizione etnica della popolazione, http://www.statistics.gov.uk/cri/nugget.asp?id=273. 4 Patrick Weil, La France et ses étrangers, Gallimard, Paris 2004, pp. 68-69. 5 Ivi, pp. 81-86. '' Institut National de la Statistique et des Etudes, Les immigrés en France, edizione 2005 («Répartition de la population selon le lieu de naissance et la nationalité»).
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Christopher Caldwell, Islam on the Outskirts of the Welfare State, «The New York Times Magazine», 5 febbraio 2006. 8 Statistiska centralbyràn (Istituto di statistica centrale svedese), Statisk drsbok für Sverige 2007 (Annuario statistico svedese 2007), p. 121, tabella 99. Parliamo di circa 1.463.358 persone su un totale di circa 9 milioni di a- bitanti. 9 Philip Martin, Manolo Abella, Cristiane Kuptsch, Managing Labor Migration in the Twenty-First Century, Yale University Press, New Haven 2006, pp. 88-89. Le fasi del programma tedesco dei Gastarbeiter sono illustrate (tenendo conto di ogni singolo paese interessato) da Thomas Bauer, Claus Larsen, Poul Chr. Matthiessen, Immigration Policy and Danish and German Immigration, in Torben Tranaes, Klaus Zimmerman (a cura di), Migrants, Work and the Welfare State, University Press of Southern Denmark, Odense 2005, p. 36. Dopo l'Italia, il programma interessò la Spagna e la Grecia nel 1960, la Turchia nel 1961, il Marocco nel 1963, il Portogallo nel 1964, la Tunisia nel 1965 e la Iugoslavia nel 1968. 1(1 Mostra, Kreuzberg Museum, Adalbertstrasse, Berlino. 11 Si veda, per esempio, Stefan Luft, Abschied von Multikulti, Resch-Ver- lag, Gräfelfing 2006, pp. 101-115. 12 Elmar Hönekopp, Labor Migration from Central and Eastern Europe: Old and New Trends, IAB Labor Market Research Topics, 23, citato in Martin, Abella, Kuptsch, Managing Labor Migration..., cit., p. 86. 13 Ivi, pp. 16-18. 14 Statistische Amter des Bundes und der Länder, 30 novembre 2006. (http://www.statistik-portal.de/Statistik-Portal/en/enjb01jahrtab2.asp). 15 Intervista dell'autore con Klaus Rothstein, Copenaghen, dicembre 2005. 16 Oscar Handlin, Boston's Immigrants, 1790-1880: A Study in Acculturation, Belknap/Harvard, Cambridge (Mass.) 1969, p. 26. 17 Robert Winder, Bloody Foreigners: The Story of Immigration to Britain, A- bacus, London 2004, pp. 1, 472. 18 Nicholas Wade, English, Irish, Scots: They're All One, Genes Suggest, «New York Times», 5 marzo 2007, p. Fl. Wade cita i genetisti Stephen Oppenheimer e Bryan Sykes, entrambi di Oxford, e Daniel G. Bradley, del Trinity College di Dublino, nonché l'archeologo Heinrich Haerke. Lo studio di Sykes è accessibile al sito www.bloodoftheisIes.net. 19 Alokjha, «The Guardian», 6 settembre 2006, National News, p. 12. 20 John Milton, On the Late Massacre in Piedmont (Sui recenti massacri in Piemonte, sonetto, traduzione di Mario Praz. 21 Enzensberger, Die Grosse Wanderung, cit., p. 49. 22 Christopher Caldwell, The Crescent and the Tricolor, «The Atlantic», novembre 2000.
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23
Id., Where Every Generation Is First-Generation, «New York Times Magazine», 27 maggio 2007. 24 Nicholas Lemann, The Promised Land, Knopf, New York 1991. 25 Giovanni Di Lorenzo, Drinnen vor der Tiir, «Die Zeit» 30 settembre 2004. 26 Christopher Caldwell, Europe Needs Its Immigrants, «Financial Times», 2 maggio 2004. E citata un'indagine dell'Eurobarometro da cui emergeva che il 56% degli europei riconosceva la necessità dell'apporto della forza lavoro immigrata, mentre l'80% desiderava controlli più severi alle frontiere. 27 Scheherezade Daneshku, Public Do not See «Undoubted Economic Benefits» of Migrants, «Financial Times», 19 febbraio 2007. 28 Scritto da Stefan Wagstyl, l'articolo è comparso a p. 13 dell'edizione di giovedì 21 settembre 2006. 29 Si veda George J. Boijas, The Labor Demand Curve Is Downward Sloping: Reexamining the Impact of Immigration on the Labor Market, «Quarterly Journal of Economics», giugno 2003, pp. 1335-1374; David Card, Immigrant Inflows, Native Outflows and the Local Labor Market Lmpacts of Higher Immigration, «Journal of Labor Economics», 19(2001), pp. 22-64. Parlando di «strumenti di studio più sofisticati», mi riferisco (per semplificare) al fatto che entrambi gli studi citati si concentrano sull'attività dei migranti, piuttosto che sui luoghi, esaminando le categorie occupazionali, piuttosto che i singoli raggruppamenti geografici di immigrati, cogliendo meglio la realtà del mercato del lavoro moderno. Secondo queste indagini, l'immigrazione avrebbe un effetto negativo sugli stipendi netti dei nativi. 30 Philippe Legrain, Immigrants - Your Country Needs Them, Little Brown, London 2006, p. 19 (tr. it., Immigranti. Perché abbiamo bisogno di loro, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008). 31 Per la precisione 39.460.070.000.000 di dollari. Si veda il database dell'International Monetary Fund's World Economic Outlook dell'aprile 2007: http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2007/01/data/ weorept.aspx. 32 David Coleman, Why Europe Does not Need a «European» Migration Policy (Studio presentato alla camera dei lord, 1° febbraio 2001). 33 Chris Giles, British Fears Ignore Boost Foreign Labour Gives Economy, «The Financial Times», 20 febbraio 2007, p. 5. 34 Si veda Jonathan Portes, Simon French, The Impact of Free Movement of Workers from Central and Eastern Europe on the uk Labour Market: Early E- vidence, UK Department of Work and Pensions Working Paper n. 18, 2004, p. 33. L'esperienza americana è descritta negli scritti di Borjas e Card citati alla nota 29.
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35
Jacqueline de Linares, Quand ma cité sera la City, «Le Nouvel Observateur», 3 gennaio - 6 febbraio 2008, pp. 84-85. 36 Martin, Abella, Kuptsch, Managing Labor Migration..., cit., pp. 11-12. 37 Tali emendamenti sono elencati in Bauer, Larsen, Matthiessen, Immigration Policy..., cit., p. 35. 38 Sarah Laitner, Youngjobless, «The Financial Times», 20 febbraio 2007, p. 5, sottolinea che nel 2005 la crescita della produttività in Europa era inferiore all'I%, a fronte dell'I,8% degli USA e del 2,2% del Giappone. 39 Stille, No Blacks Need Apply..., cit., p. 28. 40 Nazioni Unite, Replacement Migration: Is it a Solution to Declining and Ageing Populations'?, United Nations Population Division, New York 2001. 41 Martin Feldstein, Immigration Is No Way to Fund an Aging Population, «The Financial Times», 13 dicembre 2006. 42 Home Office (ministero degli Interni britannico), The Economic and Fiscal Impact of Immigration, ottobre 2007, p. 35. 43 Marlise Simons, More Dutch Plan to Emigrate As Muslim Influx Tips Scales, «The New York Times», 27 febbraio 2005, p. 16. 44 Stefanie Rosenkranz, Die deutschen Gesichter des Islam, «Stern», 12 ottobre 2006. 45 Martin, Abella, Kuptsch, Managing Labor Migration..., cit., pp. 19-20. Gli autori utilizzano un grafico del Bundesauslànderbeauftragte, un ufficio federale per l'immigrazione. 46 Le informazioni sulla Francia e sulla Gran Bretagna sono tratte da Coleman, Why Europe Does Not Need..., cit. 47 Wages and Productivity of Non-Western Immigrants in Denmark, «Rockwool Foundation Newsletter», novembre 2006, p. 10. 48 Torben M. Andersen, Lars Haagen Pedersen, Financial Restraints in a Mature Welfare State - The Case of Denmark, «Oxford Review of Economic Policy», 22 (maggio 2006), 3, pp. 313-329. 49 Enzensberger, Die Grosse Wanderung, cit., p. 31.
3. A chi giova l'immigrazioneì 1
Oriana Fallaci, La rabbia e l'orgoglio, Rizzoli, Milano 2001, p. 124. Au Mali, Sarkozy prône un «partenariat rénové» et justifie sa loi sur l'immigration, «Le Figaro», 18 maggio 2006. 3 Un Hongrois chez les Gaulois, http://www.youtube.com/watch?v=hWhs- ses5KKU. Tradotta sulla base del seguente testo francese: «Il s'appelle Nicolas Sarkozy / Il a inventé l'immigration choisie / C'est l'histoire d'un fils d'hongrois / Qui veut se faire couronner chez les gaulois / Fini l'époque du nègre musclé - Belles dents! / Aujourd'hui il veut du noir di2
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plomé, intelligent / C'est ga le critère du nouveau négrier, / Il a le culot d'aller en Afrique pour l'expliquer / Nicolas Sarkozy, / Pourquoi ton pére a fui la Hongrie?». 4 World Migrant Stock, http://esa.un.org/migration. In alcuni casi, i britannici definiscono tali politiche «australiane», anziché «canadesi» (si veda Alan Travis, Migrants - The Verdict, «The Guardian», 17 ottobre 2007, p. 3). 5 Cittadinanza e immigrazione Canada, «Application for Permanent Residence», p. 4. Disponibile online a: http://www.cic.gc.ca/english/ immigrate/skilled/application-regular.asp. 6 OCSE, International Migration Outlook, Annual Report, edizione 2007, p. 165. 7 Ivi, p. 163. 8 Intervista dell'autore a Wolfgang Schäuble, ministero degli Interni, Berlino, 5 febbraio 2007. 9 ZDF, Philosophische Quartett (programma televisivo), 29 ottobre 2006, Radikalismus und Bevölkerungswachstum. 10 Richard Florida, The Flight of the Creative Class, HarperCollins, New York 2005, p. 108 (tr. it., La classe creativa spicca il volo. La fuga dei cervelli: chi vince e chiperde, Mondadori, Milano 2006). 11 Christiane Buck, Schlechtausgebildete Einwanderer ziehen nach Europa, «Die Welt», 19 ottobre 2005, AI. 12 Bloomberg News, German Cabinet Approves Plan to Allow More IT Workers, 31 maggio 2000. Il programma, avviato nel 2005, è stato allargato a chiunque promettesse su basi credibili di creare venticinque posti di lavoro. 13 Intervista dell'autore a Omid Nouripour, deputato verde al parlamento tedesco, Lipsia, 15 settembre 2005. 14 Associated Press, Sarkozy Calls for Creation of International Treaty on Migration, «International Herald Tribune», 11 dicembre 2006. 15 Mercosur Condemns eu Migrant Law, notiziario della BBC, 2 luglio 2008. 16 Caldwell, Europe's Future, cit. pp. 25-26. Jammeh ha fatto queste osservazioni durante un'intervista con Mohamed Mboyo Ey'ekula apparsa sul quotidiano «Walf Fadjri» di Dakar, Senegal, 3 ottobre 2006. 17 Sänket Mohapatra, Dilip Ratha, Zhimei Xu, con K.M. Vijayalakshmi, Migration and Development Brief 2: Remittance Trends 2006, documento non ufficiale della Banca mondiale. 18 Heinsohn, Söhne und Weltmacht..., cit., p. 50. 19 Alden, Dombey, Giles, Laitner, The Price of Prosperity, cit., p. 13. 20 Western Union Company, Western Union Reaches 300,000th Agent Location Milestone, comunicato stampa, 10 marzo 2007. 21 OCSE, International Migration Outlook, Annual Report, edizione 2007, p. 163.
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22
Alberto Alesina, Edward Glaeser, Fighting Poverty in the U.S. and Europe, Oxford University Press, New York 2005, p. 146 (tr. it., Un mondo di differenze: combattere la povertà negli Stati Uniti e in Europa, Laterza, Roma- Bari 2005). 23 Robert D. Putnam, «EPluribus Unum»: Diversity and Community in the Twenty-first Century, Johan Skytte Prize Lecture, «Scandinavian Political Studies», 30(2007), 2, pp. 137-174. 24 Putnam ne elenca circa trentasei in «E Pluribus Unum»..., cit., pp. 142-143. 25 Aristotele, Trattato dei governi, L. Vili, cap. 3, Sonzogno, Milano 1905, p. 175. 2b Munirà Mirza, Abi Senthikumaran, Zein Ja'far, Living Apart Together, Policy Exchange, London 2007, p. 40. 27 Laurence, Va'isse, Integrating Islam..., cit., p. 118. 28 Migrations of Ethnic Unmixing in the «New Europe», «International Migration Review», 32 (inverno 1998), 4, pp. 1047-1065. Inoltre (sul caso di polacchi e tedeschi) in Rogers Brubaker, Nationalism Reframed: Nationhood and the National Question in the New Europe, Cambridge 1996, p. 90 (tr. it., I nazionalismi nellEuropa contemporanea, Editori riuniti, Roma 1998). 29 Handlin, Boston's Immigrants..., cit., p. 12. 30 Mark Landler, Seeking Greener Pastures, «International Herald Tribune», 6 febbraio 2007, p. 1. 31 Oussama Cherribi, Pieter van Os, Houd toch op Nederland vol te noe- men, «NRC Handelsblad», 15 luglio 2006, p. 7. 32 Simons, More Dutch..., cit., p. 16. 33 Walden, Time to Emigrate?, cit. 34 Danny Dorling, Bethan Thomas, A Short Report on Plurality and the cities of Britain, s.d. Analisi statistica svolta da due membri del gruppo SASI, dipartimento di Geografia, University of Sheffield, pubblicata nel 2008 dal Barrow Cadbury Trust in occasione dell'iniziativa Cities in Transition. Disponibile online sul sito http://www.barrowcadbury.org.uk/pdf/short_ report_on_pIurality.pdf. Le statistiche di Birmingham sono a p. 41, tabella 6; quelle di Leicester (presenza di bianchi: dal 70,1% nel 1991 al 44,5% nel 2026) sono a p. 45, tabella 17. 31 Caldwell, Daughter of the Enlightenment, cit., p. 31. 3I ' Jason DeParle, Spain, Like u.s., Grapples with Immigration, «The New York Times», 10 giugno 2008. 37 Intervista con Bernabé López-Garcia, Madrid, 20 aprile 2004. Si veda Bernabé López-Garcia, El Islam y la integración de la inmigración social, «Cuadernos de Trabajo Social», 15(2002), pp. 129-143. Sulla base delle mie interviste a funzionari del governo spagnolo, sono convinto che abbia ragione.
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3S
Richard Ford, 30.400 New eu Migrants Will Be Looking for Work in Britain, «The Times», 25 ottobre 2006, pp. 6-7. 39 I calcoli di Sinn, contenuti nel saggio eu Enlargement, Migration and. the New Constitution (pubblicato da CESifo), sono citati da Martin Wolf, eu needs labour and welfare reform, «The Financial Times», 5 aprile 2005. Utili sull'argomento sono anche: Herbert Brücker, Tito Boeri, The Impact of Eastern Enlargement on Employment and Labour Markets in the eu Member Slates, European Integration Consortium, 2000; Christian Dustmann, Maria Casanova, Michael Fertig, Ian Preston, Christoph M. Schmidt, The Impact of e:u Enlargement on Migration Elmos, Home Office Online Report 25/03, London 2003 (contiene dati sui flussi spagnoli e portoghesi); John Kay, How the migration estimates turned out so wrong, «The Financial Times», 5 settembre 2006, p. 17. 40 Nazioni Unite, Replacement Migration..., cit. 41 Informazioni sulla Lettonia tratte da Dan Bilefsky, Migration \ Hip Side: All Roads Lead out, «International Herald Tribune», 7 dicembre 2005, p. 1. 42 Immigrazione a parte, per il mondo islamico, e soprattutto per la casa reale marocchina, Ceuta e Melilla sono due emblemi dell'«occupazione» europea e del «colonialismo». (Si veda Ignacio Cembrero, Mohamed vi aparca su reivindicación territorial, «El País», 29 gennaio 2006, p. 26; Rabat condiciona el diálogo con España a una negociación sobre el futuro de Ceuta y Melilla, ABC, 8 novembre 2007; e La Liga Arabe da su «apoyo total» a Marruecos en su reclamación de Ceuta y Melilla, «El Mundo», 9 novembre 2007). Strana rivendicazione. Mellila fu conquistata dalla Spagna nel 1497, prima dell'alta età imperiale. Ceuta divenne portoghese nel 1415 e spagnola nel 1580; è cristiana da prima che Istanbul divenisse musulmana. Non tutti i politici spagnoli si sono dimostrati ostili alla cessione di Ceuta e Melilla al Marocco. In effetti, il desiderio della Spagna di assorbire Gibilterra, l'avamposto iberico della Gran Bretagna, potrebbe giustificare una tale rinuncia, che pure sembra improbabile a breve termine. 43 Martin Dahms, Komm nicht, denn du kònntest sterben, «Stuttgarter Zei- tung», 8 novembre 2005, p. 3. 44 Karin Finkenzeller, Ansturm auf die Eestung; Afrikas Elucht nach Europa, «Die Welt am Sonntag», 9 ottobre 2005, p. 9. 4 -' Nuria Tesón Martín, Un año en el limbo de Melilla, «El País», 10 ottobre 2006, p. 28. Si veda, per esempio, Boubacar Boris Diop, Die neue Verdammten die- serErde, «Neue Zùrcher Zeitung», 21 ottobre 2005. Il giornalista lo definì un «verzweifelten Sturm», un assalto disperato. 47 Sulle aspirazioni dei rifugiati, si legga Mark Mulligan, Raphael Minder, Spain and Morocco Call for Joint Action over Tide of Migrants, «The Financial Times», 12 ottobre 2005, p. 3.
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48
Intervista dell'autore al sociologo Malick Ndiaye, Dakar, 16 ottobre 2006, in Caldwell, Europe's Future, cit., p. 24. 49 Ibidem. 50 Thierry Portes, L'Odyssée des elandestins du «Marín 1», «Le Figaro», 10-11 marzo 2007. nl Juan Manuel Pardellas, Un cayuco ataca una patrullera española con «cócteles molotov», «El País», 10 aprile 2007. (Una traduzione inglese dell'articolo, con qualche dettaglio modificato, fu pubblicata in Juan Manuel Pardellas, African Migrants Trying to Reach Spain in Small Boat Throw Molotov Cocktails at Patrol, Associated Press, 11 aprile 2007.) 32 Miguel González, Alonso se opuso en el Gobierno a que la Armada interceptara barcas de inmigrantes, «El País», 9 ottobre 2006, p. 1. Enzensberger, Die Grosse Wanderung, cit., p. 14. Henri Pirenne, Mahomet et Charlemagne, Librairie Félix Alean, Bruxelles 1937, p. 37 (tr. it., Maometto e Carlomagno, Laterza, Roma-Bari 2007). Si veda anche Herwig Wolfram, History of the Goths, University of California Press, Berkeley 1988, p. 133 (tr. it., Storia dei Goti, Salerno, Roma 1985). 53 Intervista dell'autore a Fahmy Almajid, Copenaghen, 12 dicembre 2005. 5(1 Martin, Abella, Kuptsch, Managin Labor Migration..., cit. 57 Enzensberger, Die Grosse Wanderung, cit., pp. 42-46. 68 Queste citazioni compaiono entrambe in Kenan Malik, The Meaning of Race, New York University Press, New York 1996, p. 24. Gli articoli a cui si riferisce l'autore sono stati pubblicati il Io marzo 1968. 59 Caldwell, Islam on the Outskirts..., cit., p. 56. 60 Ibidem. 61 Ben Leapman, Asylum Crisis Getting Worse, Say Officials, «Sunday Telegraph», 14 ottobre 2007, p. 12. sa per essere più precisi, la Germania nel 1992 ha ricevuto 438.000 domande. Si veda Roger Setter, David Griffiths, Silva Ferretti, Martyn Pearl, An assessment of the impact of asylum policies in Europe 1990-2000, «Findings 168» (pubblicazione del ministero degli Interni britannico), p. 3. 63 «The Guardian», 20 aprile 2006, p. 34. 64 Fleishman, A Mutual Suspicion..., cit., p. Al. 65 Intervista allo staff del Centraalorgaan Opvang Asielzoekers (COA, Organo centrale per l'accoglienza per i richiedenti asilo), Leida, 16 novembre 2005. 66 Queste informazioni sono emerse da discussioni con gente che ha lavorato a stretto contatto con gli immigrati al COA di Leida, 16 novembre 2005. b7 Michael Slackman, Fleeing Sudan, Only to Languish in an Egyptian
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Limbo, «The New York Times», 26 dicembre 2005, p. 3; Abeer Allam, Michael Slackman, 23 Sudanese Die in Raid in Egypt, «The New York Times», 31 dicembre 2005, p. 1. ,l8 The Return of Asylum Seekers Whose Applications Have Been Rejected in Europe, studio sulle politiche e le pratiche di rimpatrio della UE redatto nel gennaio del 2002 dall'International Centre for Migration Policy Development e citato al Consiglio europeo sui rifugiati ed esiliati, giugno 2005, p. 15. 69 Benedict Brogan, Illegal Migrants ? I Haven ì a Clue, Says Blunkett, «The Daily Telegraph», 22 settembre 2003, p. 2. 711 Si veda Albert O. Hirschman, The Rhetoric of Reaction, Harvard University Press, Cambridge 1991, pp. 43-80. 71 Madeleine Bunting, A Modern-Day Slavery Is Flourishing in Britain..., «The Guardian», 18 dicembre 2006, p. 25. 72 Intervista dell'autore ajesper Langballe (parlamentare del Dansk Folkeparti), Copenaghen, 12 dicembre 2005. 73 Abdelmakek Sayad, La double absence: des illusions de l'émigré aux souf- frances de l'immigré, Seuil, Paris 1999, pp. 17-18 (tr. it., La doppia assenza: dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze dell'immigrato, Raffaello Cortina, Milano 2002).
4. La paura mascherata da tolleranza ' Frase con cui Aron concludeva il suo libro Clausewitz: Penser la guerre, citato in Raymond Aron, Le Spectateur Engagé, Editions de Fallois, Paris 2004, p. 284 (tr. it., L'etica della libertà: memorie di mezzo secolo. Colloqui con Jean-Louis Missika e Dominique Wolton, Mondadori, Milano 1982). 2 II modo in cui la questione viene affrontata e risolta è uno degli argomenti principali di Robert Kagan, Of Paradise and Power, Knopf, New York 2003 (tr. it., Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Mondadori, Milano 2003). s David Rennie, Vote for eu Constitution or Risk New Holocaust, Says Brussels, «The Daily Telegraph», 10 maggio 2005. 4 Jeremy Rifkin, The European Dream, Polity Press, New York 2004 (tr. it., Il sogno europeo. Come l'Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano, Mondadori, Milano 2005), p. 385. Citato da Perry Anderson «London Review of Books», 20 settembre 2007, p. 13. Da questo interessante articolo si potrebbero estrarre molte altre citazioni decisamente inclini alla hybris. 5 Mark Leonard, Why Europe Will Run the 21st Century, Public Affairs Press, New York 2006, p 83 (tr. it., Europa 21, Bompiani, Milano 2006). '' Da: Sociaal en Cultured Rapport 1998: «25 jaar sociale verandering», So-
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ciaal en Cultureel Planbureau/Elsevier, Rijswijk 1998, p. 266, citato in Frits Bolkestein, Vijftien jaar later, «De Volkskrant», giovedì 31 agosto 2006, p. 10. 7 Paul Scheffer, Het multiculturele drama, «NRC Handelsblad», 29 gennaio 2000 (tradotto in inglese dallo stesso Scheffer.) 8 Jordi Barbeta, Irrumpe la inmigración, «La Vanguardia», 21 ottobre 2006. 9 Zadie Smith, White Teeth, Random House, New York 2000, p. 47 (tr. it., Denti bianchi, Mondadori, Milano 2001). 10 Britain Rediscovered, atti del convegno, «Prospect», aprile 2005. 11 Katrin Bennehold, French Minister Urges Collecting Minority Data, «International Herald Tribune», 16 dicembre 2005, p. 3. 12 Stéphane Kovacs, Saint Nicolas accuse d'esclavagisme, «Le Figaro», 5 dicembre 2005. 13 Mark Steyn, Making a Pig's Ear of Defending Democracy, «The Daily Telegraph», 10 aprile 2005. 14 Teacher Held for «Insulting Mohammed», «Irish Times», 26 novembre 2007. 15 Bolkestein, Vijftien jaar..., cit., p. 10. 16 Tories Attack Islamic Terrorism «Rebranding», «The Daily Telegraph», 19 gennaio 2008. 17 Intervista dell'autore con Melarne Phillips, Londra, 13 aprile 2006, citata in Christopher Caldwell, Counterterrorism in the UK: AfterLondonistan, «The New York Times Magazine», 25 giugno 2006, p. 46. 18 Discorso dei «fiumi di sangue» tenuto il 20 aprile 1968 al congresso annuale del West Midlands Area Conservative Political Centre, in Powell, Reflections..., cit. p. 377. 19 Alexis de Tocqueville, L'Ancien Regime et la Revolution, III, ii, in Oeu- vres, vol. Ili, Bibliothèque de la Plèiade, Paris 2004, p. 184 (tr. it., L'antico regime e la rivoluzione, BUR, Milano 1998). 20 Pubblicata nel 1999, nota come indagine Macpherson, dal nome del promotore sir William Macpherson, e citata in Mirza, Senthikuma- ran, Ja'far, Living Apart Together, cit., p. 25. 21 Pierre-André Taguieff, Les contre-réactionnaires, Denoél, Paris 2007, p. 562. 22 Jonathan Freedland, How Police Gay Rights Zealotry Is Threatening our Freedom of Speech, «The Guardian», 18 gennaio 2006, p. 23. 23 La corte suprema svedese revocò la pena carceraria in settembre con la motivazione che egli, nell'esprimere la sua condanna, si era basato solo sulla Bibbia. Si veda Nina Larson, Lepasteur suédois homophobe Aake Green disculpé par la Cour supreme, Agence France-Presse, 29 novembre 2005. 24 Jean Valbay, Le depute Vanneste condamné, «Le Figaro», 25 gennaio 2006.
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Mirza, Senthikumaran, Ja'far, Living Apart Together, cit., p. 24. L'articolo cita Patrick West, The Poverty of Multiculturalism, Civitas, London 2005. 26 La «legge Gayssot» è la Loi n. 90-61 du 13 juillet 1990 (NOR: JU- SX9010223L). Disponibile online sul sito www.legifrance.gouv.fr. La discussione che segue è tratta da Christopher Caldwell, Historical Truth Speaks for Itself «The Financial Times», 18-19 febbraio 2006 e Id., A Question of Expediency, «The Financial Times», 14-15 ottobre 2006. 27 Jean-Baptiste de Montvalon, Les historiens pris sous le feu des mémoires, «Le Monde», 17 dicembre 2005. 28 Nel 2006 due petizioni che invocavano l'abrogazione o la riformulazione di tutte «le leggi sulla memoria» ottennero l'appoggio di buona parte del mondo intellettuale di Parigi. La prima, «Libertà per la storia», fu firmata, tra gli altri, dagli storici Pierre Nora, Michel Winock e Mona Ozouf. La seconda «Libertà di dibattito», fu elaborata dal filosofo anticolonialista Paul Thibaud e firmata da alcuni tra i più celebri storici e filosofi del paese. 29 Madelein Rebérioux, Contre la loi Gayssot, «Le Monde», 21 maggio 1996, citata (in parte) in Montvalon, Les historiens..., cit. 30 Stéphanie Binet, Blandine Grosjean, La nébuleuse Dieudonné, «Libération», 10 novembre 2005, pp. 38-39. L'organizzazione in questione era il Coffad (Collectif des fils et filles d'Africains déportés), omologa di un'associazione in memoria dell'Olocausto. Secondo Alain Finkielkraut (in Rony Brauman, Alain Finkielkraut, La Discorde, Mille et une Nuits, Paris 2006, p. 245), yovodah è una parola inventata sulla base della lingua fon, parlata a Berlino. Significa «crudeltà bianca». 31 Binet, Grosjean, La nébuleuse Dieudonné, cit. 32 Nota nell'edizione francese: La Rage et l'Orgueil, Pion, Paris 2002, p. 188. 33 Fallaci, La rabbia..., cit., p. 79. 34 Ivi, p. 24. 35 Ivi, p. 31. 36 Ivi, p. 90. 37 Marshall G.S. Hodgson, The Venture of Islam, University of Chicago Press, Chicago 1977, vol. I, p. 381. 38 Ian Cobain, Bakri Pleads for uk Visa to Escape Bombs, «The Guardian», 22 luglio 2006, p. 15. Si noti che Bakri non fu espulso: si recò in Libano e gli fu negato il permesso di tornare in Gran Bretagna. 39 «Al-Hayat» (Londra), 31 luglio 2002. Citato in Middle East Media Research Institute, Special Dispatch 410, Islamist Leaders in London Interviewed, 9 agosto 2002. 40 Christopher Caldwell, Politically Correct Intolerance, «The Financial Times», 10-11 dicembre 2005.
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41
Dror Mishani, Aurelia Smotriez, What Sort of Frenchmen Are They ?, «Ha'aretz» (edizione in lingua inglese), 17 novembre 2005. 42 «Nouvel Observateur», 1° dicembre 2005. 43 Finkielkraut, réactions, «Libération», 30 novembre 2005, p. 6. 44 Ibidem. 43 Le Mrap renounce à porter plainte contre Finkielkraut, Agence France- Presse, 25 novembre 2005. 46 Christopher Caldwell, What Will Become of Europe, Bradley Lectures in Political Philosophy, Boston College, 10 febbraio 2006. 47 Geoff Dench, Minorities in the Open Society, Transaction, New Brunswick (NJ) 2003, p. vin. 48 Taguieff, Les contre-réactionnaires, cit. 49 «Les Echos», 24 novembre 2005, p. 12. 50 Ibidem. 51 Caldwell, Islam on the Outskirts..., cit., pp. 56-57. 52 Corinne Hofmann, La masai bianca, Rizzoli, Milano 2001. 53 Kingsley Amis, That Uncertain Feeling, Victor Gollancz, London 1955 (tr. it., Quell'incerto sentimento, Einaudi, Torino 1969). 54 Michel Houellebecq, Les particules élémentaires, Flammarion, Paris 1998, pp. 237-240 (tr. it., Le particelle elementari, Bompiani, Milano 2000). 55 Matthias Politycki, Weifier Mann - was nun?, «Die Zeit», 36 (1° settembre 2005), pp. 39-40. Il titolo allude al romanzo di Hans Fallada Kleiner Mann - was nun ? 06 Ibidem. 5 ' Ibidem. 58 Ibidem. 39 Ibidem. 60 Enzensberger, Die Grosse Wanderung, cit., p. 52. 61 Le due vicende sono raccontate in Gina Thomas, Religiose Accessoires verboten, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 29 novembre 2006, p. 39. 62 Udo di Fabio, Die Kultur der Freiheit, C.H. Beck, Mùnchen 2005, p. 126. Citato in Christopher Caldwell, Values and the German Debate, «The Financial Times», 4-5 novembre 2005. 63 Office of Communities and Local Government, Citizenship Survey April-September 2007, England & Wales, London, gennaio 2008, p. 1. M Pierre Manent, La Raison des Nations, Gallimard, Paris 2006, pp. 59® Ivi, p. 18. t,e Britain Rediscovered, cit.
60.
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5. Colonie etniche 1
Hilaire Belloc, The Great Heresies, Sheed & Ward, New York 1938, pp. 76, 92-93, 126-127. 2 Ivi, p. 102. 3 Pirenne, Mahomet et Charlemagne, cit., pp. 260-261. 4 Ivi, p. 132. 5 Bassam Tibi, Europeanisation, not islamisation, «Sign and Sight» (sito web), 22 marzo 2007. http://www.perlentaucher.de/artikel/3764.htrnl; in inglese: http://www.signandsight.com/features/1258.html 6 Si legga, per esempio, l'antropologo di Cambridge Jack Goody, Islam in Europe, Polity Press, Cambridge 2004, passim (tr. it., Islam ed Europa, Raffaello Cortina, Milano 2004). 7 Ernest Renan, L'Islam et la science (lezione alla Sorbona, 29 marzo 1883), L'Archange Minotaure, Paris 2005, pp. 38-39. 8 Si veda, per esempio, la magnifica raccolta di documenti, fotografie e ritagli di giornale del Dokumentationszentrum und Museum über die Migration aus der Türkei (DOMiT), Zur Geschichte- der Albeitsmigration aus der Türkei: Materialsammlung, [Nordrhein-Westfalen] Ministerium für Arbeit, Köln 2000. In particolare, pp. 39, 48, 56, 59. Si veda anche Jan Lucassen, Rinus Penninx, Nieuwkomers, Nakomelingen, Nederlanders: Immigranten in Nederland, 1550-1993, Het Spinhuis, Amsterdam 1994, p. 54. 9 Dominique Vidal, Quand Jean-Christophe Rufen prone le délit d'opinion, «Le Monde Diplomatique», 21 ottobre 2004. 10 Elisabeth Noelle, Der Kampf der Kulturen, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 15 settembre 2004, p. 5. Questo studio proviene dall'Institut für Demoskopie (Allensbach), archiviato sotto il titolo «Dokumentation 6614». 11 Tutte le statistiche qui riportate, relative a Parigi, Behren-lès-Forbach ecc., provengono da una fonte altamente attendibile: Michèle Tribalat, Les Concentrations ethniques en France, «Agir», 29 (gennaio 2007), pp. 77-86. L'informazione secondo cui il 40% dei bimbi parigini avrebbe almeno un genitore immigrato (p. 81) riguarda la sola città di Parigi; quanto alla vasta area metropolitana dell'Ile-de-France, si parla del 33,5%. 12 Ivi, p. 81. 13 Numero ottenuto prendendo la stima fatta da Tariq Ramadan, circa l'Europa occidentale (si veda Capitolo Uno, nota 17) e aggiungendo la popolazione musulmana dei Balcani. 14 Caldwell, Counterterrorism in the uk, cit. 15 Secondo il servizio di ricerca del comune della città (2006), tra i residenti di Amsterdam che professano una fede religiosa (34%), il 12% del totale sarebbe musulmano, il 10% cattolico, il 7% protestante, il 3% buddhista, l'l% induista e l'l% ebreo. Citato in Simon Kuper, Amster-
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dam's Soft Approach Courts Potentials fihadists, «The Financial Times», 11 settembre 2007, p. 8. "' Michael Freund, Say Goodbye to Europe, «Jerusalem Post», 10 gennaio 2007. 17 Eric Kaufmann, Breeding for God, «Prospect», novembre 2006. Secondo Coleman, Scherbov, Immigration and Ethnic Change..., cit., la fertilità totale della popolazione di origine pakistana in Gran Bretagna nel 2001 era 4,67; quella della popolazione di origine bengalese era 3,89. I due studiosi citano l'Office of National Statistics, International Migration: Migrants Entering or Leaving the United Kingdom and England and Wales 2002, serie MN, n. 29, The Stationery Office, London 2004. 18 Barrow Cadbury Trust, Cities in Transition (documento informativo basato sul già citato studio di Dorling, Thomas, A Short Report on Plurality) , p. 4. 19 Anne Goujon, Vegard Skirbekk, Katrin Fliegenschnee, Pawel Str- zelcki, New Times, Old Beliefs, scritti pubblicati dal Vienna Institute of Demography, gennaio 2006 (citati da Kaufmann, Breeding for God, cit.). 20 Nicholas Eberstadt, A Union of a Certain Age, «Milken Institute Review», aprile-giugno 2005, p. 47. 21 Hanspeter Born, Belgien, adieu?, «Die Weltwoche» (Zurich), 7 novembre 2007. 22 Museo di Kreuzberg. Visitato nell'autunno del 2005. '- '' Il materiale sul Programma milione svedese è tratto da Caldwell, I- slam on the Outskirts..., cit., pp. 56-57. Ibidem. Si veda Peter Hall, Cities of Tomorrow, Blackwell, Maiden (Mass.) 20023, p. 247. Hall osserva che gli edifici ad alta densità abitativa ispirati a Le Corbusier tendevano a funzionare solo nei casi in cui - si pensi alla modesta Unite di Marsiglia - erano abitati da professionisti della classe media, e cita una serie di critici sbalorditi dalla scarsa attenzione alle esigenze dei bambini dimostrata dall'architettura modernista. 2t> Caldwell, Islam on the Outskirts..., cit., p. 57. 2 ' Laurence, Vaisse, Integrating Islam..., cit., p. 36. 28 Intervista dell'autore con Ilda C-urti, responsabile del progetto «The Gate», Torino, 23 marzo 2006. 29 Christopher Caldwell, Revolting High Rises, «The New York Times Magazine», 27 novembre 2005, p. 30. 30 Robert Marquand, Europe Tightens Immigration Rules, «Christian Science Monitor», 17 ottobre 2007, p. 6. 31 Intervista dell'autore a Pierre Cardo, sindaco di Chanteloup-les-Vi- gnes, 23 marzo 2007. 32 Dal sito web del comune di Chanteloup-les-Vignes.
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ss
Sheila Johnston, Why the Prime Minister Had to See «La Haine», «The Independent» (London), 19 ottobre 1995. 34 Intervista dell'autore a Pierre Cardo, sindaco di Chanteloup-les-Vi- gnes, cit. 35 Intervista dell'autore a Françoise Nung, Chanteloup-les-Vignes, 23 marzo 2007; Julien Constant, Véronique Beaugrand, Affrontements; Nouvelle nuit de violence dans les Yvelines, «Le Parisien», 4 febbraio 2007, p. 13; Violences à Chanteloup-les-Vignes, Agence France-Presse, 6 febbraio 2006. 36 Trevor Phillips, After 7/7: Sleepwalking to segregation, discorso tenuto al Manchester Council for Community Relations, 22 settembre 2005. 37 Ken Livingstone, Society is Becoming More Mixed in the uk (lettera), «The Financial Times», 23-24 dicembre 2006, p. 6. 38 Ludi Simpson, Speech for Anti-racist Priorities for the Labour Government Fringe Meeting, congresso del Partito laburista, 2006. 39 Ibidem. 40 Community Cohesion («Cantle Report»), Home Office, London 2001, p. 9. 41 Caldwell, Islam on the Outskirts..., cit., p. 58. 42 Giovanni di Lorenzo, Drinnen vor der Tür, «Die Zeit» 41/2004. 43 Stéphane Kovacs, Helsinki impose la mixité sociale par le logement, «Le monde», 19 marzo 2007, p. 5. 44 Conversazione non registrata. 45 Ian Johnson (con John Carreyrou), Islam and Europe: A Volatile Mix, «The Wall Streetjournal», 11 luglio 2005, p. Al. Si veda anche Laurence, Vai'sse, Integrating Islam..., cit., p. 37. 4b Rod Liddle, The Crescent of Fear, «The Spectator», 12 novembre 2005. 4/ Johnson (con Carreyrou), Islam and Europe..., cit. 48 Ahmed Taghza, Des enfants musulmans refusent la viande non hallal, «L'Echo républicain», 25 novembre 2004, in Olivier Roy, La Laïcité face à l'Islam, Stock, Paris 2005, p. 56. 49 Stima dell'autore dopo una visita a Rosengârd nel 2005. 5,1 Rauf Ceylan, Ethnische Kolonien: Entstehung, Funktion und Wandel am Beispiel türkischer Moscheen und Cafés, Verlag für Sozial Wissenschaften, Wiesbaden 2006. Le citazioni sono tratte in parte da alcuni colloqui dell'autore con Ceylan, avvenuti nella primavera del 2007. Il saggio di Ceylan è il resoconto più rigoroso, dettagliato ed empatico che abbia mai letto su una comunità di immigrati europei. 51 Intervista dell'autore a ZehraYilmaz e Mustafa Kücük, moschea di Duisburg, 12 marzo 2007. 52 Cornelia Uebel, Alks getürkt?, «Die Zeit», 20 ottobre 2005, p. 15. r 3 ' Caldwell, Islam on the Outskirts..., cit., p. 58. I dati provengono dal Consiglio nazionale svedese per la prevenzione della criminalità (Brotts-
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fôrebyggande râdet). Va detto che per un non svedese si tratta di un problema marginale. Nel 2004, nell'intera Svezia, le persone che dovevano scontare pene superiori a cinque anni erano solo 329. 54 Farhad Khosrokhavar, L'Islam, dans les prisons, Balland, Paris 2004, p. 11. Intervista dell'autore a Pietro Buffa, direttore carcerario, Torino, 24 marzo 2006. :lb Intervista dell'autore a Franco Venturini, «Corriere della Sera», Roma, 18 marzo 2006. 57 Walden, Time to Emigrate?, cit., p. 60. 58 Michael Jeismann, Neutausend, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 26 ottobre 2005, p. 37. :l9 Christopher Caldwell, The Man Who Would Be le Président, «The Weekly Standard», 27 febbraio 2006. 60 Katrin Bennhold, In Egalitarian Europe, a not-so-hidden World of Squalor, «International Herald Tribune», 18 ottobre 2005, p. 1. 61 Jean de Maillard, Le pire reste à venir, www.rue89.com (scaricato il 28 novembre 2007). 62 Christopher Caldwell, Liberté, Egalité, Judeophobie, «The Weekly Standard», 6 maggio 2002, p. 20. B:1 Laurent Mucchielli, Violences el insécurité: fantasmes et réalités dans te débat français, La Découverte, Paris 2002. Loïc Wacquant, Punir les pauvres: La nouveau gouvernement de l'insécurité sociale, Agone, Marseille 2004 (tr. it., Punire i poveri: il nuovo governo dell'insicurezza sociale, DeriveAppro- di, Roma 2006). 64 Larousse Standard French-English Dictionary, 1994, p. 702. 05 HarperCollins/Robert French Unabridged Dictionary, 19985, p. 740. 6B Jean-Marie Pontaut, Itinéraire d'un terroriste, «L'Express», 26 settembre 1996. 67 Ivan Rioufol, Cités: les non-dits d'une rébellion, «Le Figaro», 4 novembre 2005. 68 International Crisis Group, La France face à ses musulmans: Emeutes, jihadisme et dépolitisation (Rapport Europe n. 172), 9 marzo 2006, p. II. 69 Ibidem. 70 Mishani, Smotriez, What Sort of Frenchmen..., cit. 71 Alexis Lacroix, Alain Finkielkraut: «L'illégimité de la haine», «Le Figaro», 15 novembre 2005, p. 18. 72 Quel che segue è tratto da Christopher Caldwell, Harsh Policing Goes Transatlantic, «The Financial Times», 31 marzo -1° aprile 2007, p. 6. 73 Jean-Marc Ledere, La banlieue, poudrière sous haute surveillance, «Le Figaro», 29 marzo 2007. 74 Questo resoconto si basa su Christopher Caldwell, A Bad Sense of Community, «The Financial Times», 24-25 ottobre 2005.
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Voice Censured for Birmingham «Rape» reporting, «Guardian Unlimited», 21 febbraio 2006. 76 Christopher Caldwell, France Must Maintain Ideals, «The Financial Times», 11-12 novembre 2005. 77 Villiers-le-Bel: il faut des «decisions poliliques majeures» (Boutih, PS), A- gence France-Presse, 28 novembre 2007. 78 Yves Bordenave, Ce sont eux les victimes et on les fait passer pour des vo- leurs et des criminels, «Le Monde», 28 novembre 2007, p. 10. 79 Henri Haget, Marie Huret, Le retour de flammes, «L'Express», 29 novembre 2007, p. 98. 80 Villiers-le-Bel: le dispositif sécuritaire maintenu «tant que nécessaire», «Le Monde» (edizione online), 28 novembre 2007.
6. Una cultura antagonista 1
Da BBC Panorama, 2 dicembre 1968, in Powell, Reflections of a Statesman, cit., p. 15. Roger Cohen, A European model for immigration falters, «International Herald Tribune», 17 ottobre 2005, p. 5. 3 Pierre Marcelle, Marseillaise, «Libération», 10 ottobre 2001. 4 Enoch Powell, The uk and Immigration, lezione all'Università di Sydney, settembre 1988, in Powell, Reflections of a Statesman, cit., pp. 410, 421-413. 5 Una storia completa, corredata da chiare e raffinate discussioni teoriche, dello jus soli e dello jus sanguinis si trova in Rogers Brubaker, Citizenship and Nationhood in France and Germany, Harvard University Press, Cambridge 1998 (tr. it., Cittadinanza e nazionalità in Francia e Germania, il Mulino, Bologna 1997). 6 Si veda Fassungslos zwischen Doner und Knödel, «Süddeutsche Zeitung», 27 maggio 1998; e Michael Mielke, Eine unendliche Geschichte, «Die Welt», 4 marzo 2005. Dieci anni dopo, mentre sono impegnato nella stesura di questo libro, Ari è ancora in Germania con trascorsi penali molto più lunghi rispetto al suo primo incontro con la giustizia e con i riflettori dei media. 7 Europe's Muslims More Moderale, 22 giugno 2006, The Pew Global Attitudes Project, Washington (DC), pp. 1, 5. E possibile che gli attentati terroristici islamisti del 2004 a Madrid abbiano contribuito alla diffidenza generale, benché precedano di un anno la sanatoria. 8 Intervista dell'autore a Göran Johansson, municipio di Göteborg, 7 dicembre 2005. Alcune parti dell'intervista sono state citate in Caldwell, Islam on the Outskirts..., cit. 9 Sarfraz Manzoor, It's about feeling you belong here, «The Guardian», 27 aprile 2005, Comment & Features, p. 5. 2
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Incontro a pranzo con Jürgen Rüttgers, German Marshall Fund of the United States, Washington (DC), 21 febbraio 2006. 11 Intervista dell'autore a Rita Verdonk, L'Aia, 17 novembre 2005. 12 Otto Schily, Ich möchte kein zweispracghigen Ortsschilder haben, «Süddeutsche Zeitung», 27 giugno 2002. 13 Intervista ajesper Langballe, del Dansk Folkeparti, Folketinget, Copenaghen, 12 dicembre 2005. 14 Intervista dell'autore con Rikke Hvilsh0j, Copenaghen, 10 dicembre 2005. 15 Pew Research Center (Pew Global Attitudes Project), Islamic Extre- mism: Common Concern far Muslim and Western Public, 14 luglio 2005, p. 17. 16 Per una discussione di queste differenze all'indomani degli attentati del 2005 ai trasporti pubblici di Londra, si veda Madeleine Bunting, Orphans of Islam, «The Guardian», 18 luglio 2005. 17 Rosenkranz, Die deutschen Gesichter des Islam, cìt. 18 Dounia Bouzar, Monsieur Islam nexiste pas, Hachette, Paris 2004. 19 Gli autorevoli Jonathan Laurence e Justin Vaisse, nel loro Integrating Islam..., cit., p. 100, attribuiscono l'idea della creazione di un «islam gallico, così come esiste un islam del Maghreb» ad alcune affermazioni di Berque in II reste un avenir: Entretiens avecjean Sur, Arlea, Paris 1993, p. 203. 20 Stefano Allievi, Islam italiano, Einaudi, Torino 2003, p. 216. 21 Vincent Geìsser, Khadija Mohsen-Finan, L'Islam à l ecole, Institut des Hautes Etudes de la Sécurité Intérieure (IHESI), 2001, citato in Laurence, Vaisse, Integrating Islam..., cit., p. 75. 22 Alain Gresh, Tariq Ramadan, L'islam en questions, Actes Sud, Arles 2002 (tr. it., Intervista sull'Islam, Dedalo, Bari 2002). 23 Mirza, Senthikumaran, Ja'far. LivingApart Together, cit.; discusso in Christopher Caldwell, Graphic Images of Separateness, «The Financial Times», 2-3 febbraio 2007. 24 Caldwell, Graphic Images..., cit. 25 Jörg Lau, Französische Verhältnisse verhindern, «Die Zeit» 3 novembre 2005. 26 Faruk Sen, Hayrettin Aydin, Islam in Deutschland, C.H. Beck, München 2002, pp. 110-111. 27 Rosenkranz, Die deutschen Gesichter des Islam, cit., p. 42, citando un sondaggio FORSA sui turchi musulmani in Germania. 28 Renan, L'Islam et la science, cit., pp. 22-23. Secondo Renan, lo scià di Persia costituì un'eccezione alla regola. 29 Malcolm X (con Alex Haley), -The Autobiography of Malcolm X, Ballan- tine Books, New York 1987, pp. 346-348 (tr. it., Autobiografia dì Malcom X, Einaudi, Torino 1967).
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Inayat Bunglawala, I Was Wrong About Salman, «The Guardian», 20 giugno 2007. Ian Johnson, Andrew Higgins, Carrick Mollenkamp, Bookstore Is a Focus of UK Probe, «The Wall StreetJournal», 19 luglio 2005, p. A12. 32 Intervista dell'autore a Fahmy Almajid, Copenaghen, dicembre 2005. 33 Europe's Muslims..., cit., p. 4. 34 Ian Johnson, Carrick Mollenkamp, UK Looks Hard at Muslim Community Dynamics, «The Wall Street Journal», 15 luglio 2005, p. A8. Questo articolo rientra in una serie straordinaria di articoli che vale la pena di consultare. Si veda anche Ian Johnson, Carrick Mollenkamp, Glenn Simpson, Jeanne Whalen, Close Quarters, «The Wall Street Journal», 14 luglio 2005, p. Al; e Johnson, Higgins, Mollenkamp, Bookstore Is a Focus..., cit. 35 Craig S. Smith, At Mosque That Recruited Radicals, New Imam calls for Help in Catching Bombers, «The New York Times», 9 luglio 2005, p. A6. 36 L'esempio più simile a questo tipo di migrazione fu il cosiddetto «Mariel Boatlift» dell'estate del 1980, quando - agevolati dall'atteggiamento del leader Fidel Castro 125.000 cubani abbandonarono l'isola. Si trattò, perlopiù, di un esodo inarrestabile di esuli volontari, ma c'era tra essi un numero di criminali apolitici e degenti di ospedali psichiatrici più consistente della norma. Ne risultò un arcipelago di campi di detenzione, in cui molti dei marielitos furono trattenuti per alcuni anni. Presso il campo più conosciuto, quello situato a Fort Chaffee, in Arkansas, nel 1982 si verificarono gravi sommosse che mandarono in frantumi ogni speranza di rielezione per l'allora giovane e carismatico governatore Bill Clinton. (Si veda David Maraniss, Cuban Refugee Uprising Offers View of Clinton's Reaction to Crisis, «The Washington Post», 22 ottobre 1992, p. A12.) 37 Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 20089, p. 378. 38 Sul caso dei combattenti francesi: Christophe Dubois, Des groupes de combattants se constituent en France, «Le Parisien», 19 settembre 2005. Per i britannici: David Leppard, British Brigade of Islamists Join Al-Qaeda Foreign Legion in Iraq, «The Sunday Times», 4 giugno 2006. Per il Belgio: www.stratfor.com, 29 dicembre 2005. 39 Questo resoconto su Hanif e Sharif è tratto da Christopher Caldwell, Treason Returns to Smoke out the Enemy Within, «The Financial Times», 17 maggio 2003, p. 13. 40 Damien McElroy, The British Would-be Suicide Bombers Stood out, «The Sunday Telegraph» (London), 11 maggio 2003, p. 4. 41 Martin Bright, FareenaAlam, Making of a Martyr, «The Observer», 4 maggio 2003, p. 18. 31
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McElroy, The British would-be suicide..., cit. Daniel Johnson, Allah's England?, «Commentary», novembre 2006, p. 46. 44 Johnson (con Carreyrou), Islam and Europe..., cit. 45 Caldwell, Islam on the Outskirts..., cit. 4(> Zeyno Baran, Fighting the War of Ideas, «Foreign Affairs», 84 (novembre-dicembre 2005), 6, pp. 68-78. 47 Comunicazione privata con Janny Groen, coautrice (insieme con Annieke Kranenherg) di Strijdsters van Allah, un libro sulle donne del gruppo Hofstad, Volkskrant-Meulenhoff, Amsterdam 2006. 48 Ian Johnson (con David Crawford), Saudi Funds Tied to Extremism in Europe, «The Wall Street Journal», 30 dicembre 2003, p. A8. 49 Ian Buruma, Murder in Amsterdam: The Death of Theo Van Gogh and The Limits of Tolerance, Penguin, New York 2006, pp. 165, 167, 171 (tr. it., Assassinio a Amsterdam: i limiti della tolleranza e il caso Theo Van Gogh, Einaudi, Torino 2007). 50 Ivi, p. 168. 51 Intervista dell'autore a Massoud Ramali, Stoccolma, 28 febbraio 2005. 52 Hans Magnus Enzensberger, Der radikale Verlierer, «Der Spiegel», 7 novembre 2005, p. 174 (ripubblicato in volume con il titolo Schreckens Männer, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2006; tr. it., Il perdente radicale, Einaudi, Torino 2007). Enzensberger usa la parola Enttäuschbarkeit, «delu- dibilità». 53 Alberto Bisin, Eleonora Patacchini, Thierry Verdier, Yves Zenou, Are Muslim Immigrants Different in Terms of Cultural Integration?, Bonn, Forschungsinstitut zur Zukunft der Arbeit, Discussion Paper n. 3006, agosto 2007, p. 6. Poiché lo studio si basa su dati britannici, è doveroso aggiungere che non si tratta di una risentita reazione politica per la corresponsabilità della Gran Bretagna nella guerra in Iraq. I dati utilizzati provengono dalla Fourth National Survey of Ethnic Minorities svolta nel Regno Unito in tempi che precedono non solo la guerra in Iraq, bensì anche gli attentati dell'I 1 settembre 2001. 54 Jean-Pierre Obin, Les Signes et manifestations d'appartenance religieuse dans les etablissements scolaires (Rapporto per il ministero della Pubblica i- struzione), Paris 2004, p. 23. 55 Si veda Lionel Trilling, Beyond Culture: Essays on Literature and learning, Viking, New York 1968, pp. III-VI (tr. it., Al di là della cultura. Saggi su Austen, Wordsworth, Keats, Freud, Babel, Leavis, Snow, Hawthorne eJoyce, La Nuova Italia, Firenze 1980). Trilling usava l'espressione in un contesto differente: la applicava a una forma mentis comune tra gli intellettuali americani degli anni Sessanta. 43
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Intervista dell'autore al rapper Killa Hakan, Kreuzberg, 20 ottobre 2005 (in compagnia di Taner, «Balina» [Tuncay] e Tarkan). 57 David Brooks, Gangsta, in French, «The New York Times», 10 novembre 2005. 58 Si veda Khosrokhavar, L'islam dans ks prisons, cit., pp. 219-224. 59 Si veda Nidra Poller, The Murder of Ilan Halimi, «The Wall Street Journal», 26 febbraio 2006.
7. La crisi della fede in Europa Intervista dell'autore ad Anders Jerichow, Copenaghen, 13 dicembre 2005. Geisser, Mohsen-Finan, L'islam à l'école, cit., citato da Laurence, Vais- se, Integrating Islam..., cit., p. 95. Olivier Hoischen, Deutsche Jugend ohne Gott, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 17 dicembre 2006, p. 1. Hoischen cita uno studio di Hans- Georg Ziebertz, docente dell'Università di Würzburg. Ramadan, Dar ash-shahada, cit., p. 15. Shiv Malik, My Brother the Bomber, «Prospect», giugno 2007. Lamin Sanneh, Disciples of All Nations, Yale University Press, New Haven 2008, p. XX. Intervista dell'autore a Pleun Reedijk, Rotterdam-Zuid, 14 novembre 2005. Europe's Muslims..., cit. Schäuble wünscht sich «deutsche Muslime», «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 27 settembre 2006. Georg Paul Hefty, Was ist ein deutscher Muslim"?, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 28 settembre 2006. In tedesco, Zentralrat der Muslime. Evangelische Kirche in Deutschland (EKD), Klarheit und gute Nachbarschaft: Christen und Muslime in Deutschland, Kirchenamt der EKD, Hannover 2006, p. 69. Johnson, Mollenkamp, Simpson, Whalen, Close Quarters, cit. Leo Wieland, Jeder in seinem Ham - und Gott in allen, «Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung», 11 marzo 2007, p. 10. Ibidem. "' Intervista al cardinale Mario Pompedda pubblicata su «La Repubblica»,^ marzo 2006. 17 Hans Jansen, Een Hoorcollege over de islamistiche godsdienst en cutuur, Home Academy, Den Haag 2005. 18 Tu n'ignoreraspoint!, «Le Figaro Magazine», 27 dicembre 2003.
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II nome del pastore è Thorkild Grosb0ll, della cittadina di Taarbsek. Perniile Stensgaard, Prcesten tror ihke p& Gud, «Weekendavisen», 23-27 maggio 2003, p. 12 20 Bente Clausen, Start prcesterflertal d0mmer Grosb0ll ude, «Kristelig Dag- blad», 10 luglio 2004. Ringrazio T0ger Seidenfaden, redattore di «Politiken», per avermi indicato e spiegato l'articolo. 21 Handlin, Boston's Immigrants..., cit., pp. 177, 222. 22 Ivi, p. 131. 23 Ivi, p. 21. 24 Marcello Pera, Joseph Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, Islam, Mondadori, Milano 2004, p. 16. 25 Si veda Maijoleine de Vos, Ietsisten voruit, «NRC Handelsblad», 30 giugno 2003, p. 7. 26 II titolo, Schluß mit lustig, è quasi intraducibile. Il titolo della canzone di Elvis Costello Clown time is Overt una buona approssimazione. 27 Questi dati e osservazioni sono persi da Joshua Livestro, Holland's Post-Secular Future, «The Weekly Standard», Io gennaio 2007, pp. 25- 28. Per le sue statistiche sul revival e il ritorno all'«ortodossia», cita Adjiedj Bakas, Minne Buwalda, De Toekomst van God, Scriptum, Schiedam 2006. 28 Kaufmann, Breeding for God, cit. Kaufmann cita uno studio di David Voas e Steve Bruce sul censimento britannico del 2001. 29 Stephen Fidler, Christian Soldier Known for His Honesty and Directness, «The Financial Times», 14-15 ottobre 2005, p. 2. 30 Quel che segue è adattato da affermazioni già pubblicate in Christopher Caldwell, Faith in Power of Reason, «The Financial Times», 22 settembre 2006. 31 Pera, Ratzinger, Senza radici..., cit., pp. 110-111. 32 Christa Case, Germans Reconsider Religion, «Christian Science Monitor», 15 settembre 2006. 33 Pera, Ratzinger, Senza radici..., cit., p. 58. 34 Juan G. Bedoya, Alá te ama, hermano Benidicto, «El País», 20 settembre 2006, p. 210. 35 Questi dati sono stati tratti dai documenti forniti alla stampa dalle Nazioni Unite che a loro volta riassumono: United Nations Development Programme, Arab Human Development Report 2002, Oxford University Press, New York 2003. 36 Bernard Lewis, What Went Wrong?, Oxford University Press, Oxford 2001, p. 47 (tr. it., Il suicidio dell'Islam: in che cosa ha sbagliato la civiltà mediorientale, Mondadori, Milano 2002). 37 Sondaggio IFOP - Le Monde/Le Point/Europe, 15 ottobre 2001.
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Intervista dell'autore ad Andreas Kinneging, 17 febbraio 2005, in Caldwell, Daughter of the Enlightenment, cit., p. 30. 39 Schäuble wünscht sich..., cit. 4(1 Intervista dell'autore a Francesca Paci, Torino, 22 marzo 2006. 41 Caldwell, Counterterrorism in the uk..., cit., p. 75. 42 Anne-Charlotte De Langhe, Lionel Dumont, islamiste français en jugement, «Le Figaro», 5 dicembre 2005, p. 10. 43 Craig S. Smith, Raised as Catholic in Belgium, She Died as a Muslim Bomber, «The New York Times», 6 dicembre 2005, p. 10. 44 Nel rapporto del ministero degli Interni - Report of the Official Account of the Bombings in London on 7th July 2005 (pubblicato I'll maggio 2006), p. 21 - si allude alle qualità di Lindsay: «Nella moschea che frequentava e nei gruppi islamici intorno a Huddersfield e Dewsbury era ammirato per la rapidità con cui aveva appreso l'arabo e memorizzato lunghi brani del Corano, dando prova di straordinaria maturità e serietà». 45 Thomas Carlyle, On Heroes, Hero-Worship and the Heroic in History, U- niversity of California Press, Berkeley 1993, p. 58 (tr. it., Gli eroi il culto degli eroi e l'eroico nella storia, BUR, Milano 1992). 4fi Alain Besançon, Trois tentations dans l'église, Perrin, Paris 2002, p. 167. 47 Richard Garnett, Life of Thomas Carlyle, London 1887, p. 171, citato in Carlyle, On Heroes..., cit., p. 278. 48 Carlyle, On Heroes..., cit. p. 65. 49 Ian Johnson (con John Carreyrou), French Muslims Face More Controls, «The Wall Street Journal, 9 dicembre 2004, p. A15. Il lavoro svolto dal «Wall Street Journal», e in particolare da Ian Johnson, è stato esemplare per profondità, originalità e ampiezza. Se talvolta gli autori pongono l'accento sull'argomento sbagliato non fanno che commettere un errore in cui il sottoscritto è incorso spesso. Si veda Christopher Caldwell, The Crescent and the Tricolor: Muslims in France, «The Atlantic Monthly», Io novembre 2000, p. 20, in riferimento a «imam poco preparati, incendiari e autodesignati». Madeleine Bunting, A Noble, Reckless Rebellion, «The Guardian», 9 febbraio 2008. 51 Gaetano Quagliarello, «Il Foglio», 14 marzo 2006. 12 Leon De Winter, Tolerating a Time Bomb, «New York Times», lunedì 16 luglio 2005. '3 Rémi Brague, Europe: La voie romaine, Gallimard (Folio), Paris 1992 (tr. it., Il futuro dell'Occidente: nel modello romano la salvezza dell'Europa, Bompiani, Milano 2005). :>4 L'informazione seguente è tratta da Ezequiel Molto, «La mahoma» se cae de las fiestas de Moros y Cristianos, «El País», 7 ottobre 2006. : r> ' Roy, I.a Laïcité..., cit., p. 33.
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56
Laurence, Vaisse, Integrating Islam..., cit., p. 173. ',7 Christopher Caldwell, In Europe, «Secular» Doesn't Quite Translate, «The New York Times», 21 dicembre 2003, p. 10; Id., Veiled Threat, «The Weekly Standard», 19 gennaio 2004, pp. 22-25. 58 Questione trattata in Id., Counterterrorism in the UK..., cit., p. 45 59 Jean-Marc Ayrault, Les cites, c'est la France!, «Le Figaro», 7 novembre 2005. B0 Johnson (con Carreyrou), Islam and Europe..., cit. 61 Thomas Nagel scrivendo su Catharine MacKinnon, Legal Violations, «The Times Literary Supplement», 20 maggio 2005, p. 8. 62 Questa discussione si riallaccia ad alcune questioni affrontate in Caldwell, A Bad Sense of Community, cit.; e Id., Counterterrorism in the UK, cit., p. 46. 63 Racial and Religious Hatred Act 2006 (CI), Part in, 29J. 64 Mak, Nagekomen flessenpost, cit., p. 26. Cita Jessica Stern sulle cause del terrorismo. 65 Ben Hoyle, Artists too Frightened to Tackle Radical islam, «The Times», 19 novembre 2007. 66 II seguente resoconto sulla crisi delle vignette è tratto da Christopher Caldwell, The Reality of Cartoon Violence, «The Financial Times», 3- 4 febbraio 2006. 67 Peter Popham, Three Arrested for Plot to Kill Mohamed Cartoonist, «The Independent», 13 gennaio 2008, p. 18. h8 Europe's Muslims..., cit., p. 21. 69 Flemming Rose, Wir waren vollkommen unschuldig (intervista a Henryk Broder), «Der Spiegel Online», 15 dicembre 2006. 70 Edgar M. Bronfman, A Free Society Must Respect All Its Religions (lettera all'editore), «The Times», London, 1° febbraio 2006, p. 16. 71 Jytte Klausen, Rotten Judgment in the State of Denmark, «Salon», 8 febbraio 2006. 72 Christopher Boltanski, «Libération», 23 marzo 2006, p. 13. 73 Intervista dell'autore a Flemming Rose, Copenaghen, 13 dicembre 2005.
8. Regole sessuali 1
Esther van Kralingen, Niet-westerse allochtonen in het voltijd hoger ondertvijs, «Bevolkingstrends», aprile-giugno, Centraal Bureau voor de statistiek, 2003. 2 Nina Bjòrk, Det àrbamen, «Dagens Nyheter», 30 ottobre 2005, p. C5. Questo paragrafo attinge alle argomentazioni esposte in Caldwell, What Will Become of Europe, cit.
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3
Citato in Eric Fassin, Going Dutch, «Bidoun», primavera 2007. I dati di questo paragrafo sono tratti da Europe's Muslims..., cit., p. 2, così come il mio giudizio sul fatto, che, tra tutti gli europei, sono gli inglesi ad avere l'atteggiamento nei confronti delle donne più simile agli immigrati musulmani. Nahed Selim, «De Trouw» (Letter & Geest), 19 febbraio 2005. f ' Michèle Tribalat, Faire France, La Découverte, Paris 1995, pp. 93-94, 104. 7 Anke van der Kwaak, Edien Bartels, Femke de Vries, Stan Meuwese, Strategieën ter voorkoming van besnijdenis bij meisjes {Strategie per prevenire la circoncisione delle ragazze), Vrije Universiteit Medisch Centrum, Amsterdam 2003, p. v. 8 Keel, In der Getvalt der Tradition, cit., p. 25. 9 Si veda Johnson (con Carreyrou), Islam and Europe..., cit., p. Al. 10 Caldwell, Daughter of the Enlightenment, cit., p. 30. 11 James Chapman, Women Get «Virginity Fix» nhs Operations in Muslim- driven Trend, «The Daily Mail», 15 novembre 2007. 12 Un giovane musicista rap turco in procinto di sposarsi, incontrato dall'autore all'inizio del 2007 al Comenius-Garten di Neukölln, a Berlino, utilizzò il termine Schlampen («sgualdrine») per spiegare perché non avrebbe mai sposato una donna cresciuta in Germania. 13 Charlotte Rotman ,Jepensais que si le feu allait partir je pourrais l'éteindre, «Libération», 4 aprile 2006. 14 Pascal Ceaux, Jamal a été condamné à vingt-cinq ans de réclusion criminelle pour avoir brûlé Sohane, «Le Monde», 9 aprile 2006. 15 Si veda Caldwell, Where Every Generation..., cit., p. 44. «Polizia investigativa federale» è la traduzione di Bundeskriminalamt. 16 Dal sito web del Fadimes Minnesfond (Fondazione in memoria di Fadime): www.fadimesminne.nu 17 Roger Cohen, How to Reconcile Islam, Sexuality and Liberty"?, «International Herald Tribune», 22 ottobre 2005, p. 2. 18 Annika Hamrud, Könsstympning enar religiosa ledare, «Dagens Nyhe- ter», 5 dicembre 2005, p. 1. 19 Caldwell, Where Every Generation..., cit. 20 Comunicazione privata, Janny Groen, 7 novembre 2006. Il libro è di Groen, Kranenberg, Strijdslers van Allah, cit. 21 Malik, My brother the bomber, cit. 22 Roy, La Laïcité..., cit., p. 66. 23 Rosenkranz, Die deutschen Gesichter des Islam, cit., p. 44. 24 Deborah Brewster, Amana stays ahead of faith-based funds, «Financial Times», 27-28 dicembre 2008. 4
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25
Rowan Williams, intervista rilasciata a Christopher Landau, BBC Radio 4 («World at One»), 7 febbraio 2008. 26 Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury, Civil and Religious Law in England: A Religious Perspective, lezione inaugurale, Royal Courts of Justice, 7 febbraio 2008. 27 Pubblicati rispettivamente l'8, il 9 e il 12 febbraio 2008. 28 Informazioni sulla storia del Beth Din di Londra sono disponibili sul sito web della United Synagogue (www.theus.org.uk). 29 Fu la giornalista Madeleine Bunting a sottolineare questo punto in un articolo sostanzialmente solidale con l'arcivescovo (A Noble, Reckless Rebellion, «The Guardian», 9 febbraio 2008). 30 Mirza, Senthikumaran,Ja'far, LivingAparl Together, cit., p. 5. 31 Indagine irlandese per «Irish Independent» e il network RTE citata da Efraim Karsh, Rory Miller, Europe's Persecuted Muslims?, «Commen- tary», aprile 2007, pp. 49-53. 32 Donner waarschuwt cda tegen islamofobie, «Vrij Nederland», 12 settembre 2006. 33 Paul Lucardie, Ida Noomen, Gerrit Voerman, Kroniek 1992. Overzi- cht van de partijpolitieke geberutenissen van hetjaar 1992, in Jaarboek 1992, a cura di Gerrit Voerman Documentatiecentrum Nederlandse Politieke Partijen, Groningen 1993, p. 51. 34 Jonathan Wynne-Jones, Multiple Wives Will Mean Multiple Benefits, «The Sunday Telegraph», 3 febbraio 2008, p. 1. 35 Le stime variano tra 10-20.000 famiglie (Axel Veiel, Atemberaubende Krawalltheorien, «Neue Zürcher Zeitung», 20 novembre 2005) e 15-30.000 («Le Figaro», 16 dicembre 2005). L'antropologo americano Stanley Kurtz (Polygamy VersusDemocracy, «The Weekly Standard», 5 giugno 2006, p. 23) calcola che in Francia ci siano 200-400.000 persone che vivono in famiglie poligame. 36 Veiel, Atemberaubende..., cit. Un'interessante spiegazione alternativa fu fornita dal sito web www.strafor.com il 18 novembre 2005. Qui si affermava che i matrimoni poligami avrebbero potuto fornire un motivo per la denazionalizzazione di certi nuovi cittadini francesi: «Si ritiene che i ribelli siano perlopiù cittadini francesi, condizione legale che li protegge dall'espulsione, a meno che, naturalmente, non si scopra che abbiano violato la legge francese per ottenere la cittadinanza stessa. Se le leggi che bandiscono la poligamia venissero fatte rispettare, forse le autorità potrebbero espellere non solo la singola persona coinvolta nelle rivolte, bensì qualsiasi membro della famiglia sia stato ammesso nel paese grazie ai suoi legami di parentela con il capofamiglia. Questo includerebbe o- gni persona a carico o ex persone a carico nate da matrimoni poligami o entrate in Francia sulla base di un qualunque legame di parentela».
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La seguente analisi è tratta da Caldwell, Where Every Generation..., cit. Rapporto inedito di Zehra Yilmaz, Soziale und sprachliche Situation von türkischen Heiratsmigrantinnen. L'autrice cita come fonte (a pie di pagina) il BMI (Bundesministerium des Innern, ministero degli Interni tedesco), Zuwanderungsbericht 2004, p. 28. Si parla di 21-27.000 migranti o- gni anno. 39 Laetitia van Eeckhout, Immigration familiale: tesfaits, «Le Monde», 5 gennaio, 2006, citato in Laurence, Vaisse, Integrating Islam..., cit., p. 17. 40 Coleman, Partner Choice..., cit., pp. 2, 7-34 (dove si cita uno studio dell'OCSE del 2003.) 41 Sir Herman (ora lord) Ouseley, The Bradford District Race Review, 2001, p- Il42 Migration Watch UK, The Impact of Chain Migration on English Cities, Briefing paper 9.13: «Circa il 50%» significa, per quelle tre città, tassi di crescita tra il 45,8 e il 52,8%. 43 Id., Transnational Marriage and the Formation of Ghettoes, Briefing paper 10.12, 22 settembre 2005. Per le statistiche viene citato lord Ouseley, Race Relations in Bradford. Negli anni Novanta, forse a causa delle proteste suscitate da tali sviluppi, il Regno Unito ha cominciato a redigere statistiche meno precise. 44 Coleman, Scherbov, Immigration and Ethnic Change..., cit. 45 Entrambi i dati relativi alla Germania sono di Caldwell, Where Every Generation..., cit. 46 Tariq Modood, Richard Berthoud et al., Ethnic Minorities in Britain. Diversity and Disadvantage, Policy Studies Institute, London 1997, citato in Lewis, Islamic Britain, cit., p. 220n. 47 Caldwell, Where Every Generation..., cit. 48 Sally Cope, «Yorkshire Post», 7 dicembre 2004. 49 Intervista dell'autore a Wolfgang Schäuble, ministro degli Interni tedesco, Berlino, 5 febbraio 2007, citata in Caldwell, Where Every Generation..., cit. : 0 ' Keel, In Der Geiualt der Tradition, cit., p. 25. Si veda anche Migration Watch UK, Transnational Marriage..., cit., Briefing paper 10.12, 22 settembre 2005; in cui vengono riportati dati dello Yearbook of Foreigners in Denmark 2004, un'edizione che precede quella a cui Keel ha probabilmente attinto. M Intervista dell'autore a T0ger Seidenfaden, Copenaghen, 13 dicembre 2005. 52 Intervista dell'autore a Rikke Hvilsh0j, Copenaghen, 10 dicembre 2005. 53 Ibidem. 38
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Questa discussione attinge, in parte, a due articoli: Caldwell, Veiled Threat, cit.; Id., In Euroj>e, «Secular»..., «The New York Times», cit. :>5 Bel Mooney, How can I turn a deep friendship with a fellow Muslim into marriage?, «The Times», 25 ottobre 2006, Times2, p. 6. Emmanuel Brenner, Les territoires perdus de la République, Mille-et- une nuits, Paris 2002. Intervista dell'autore a Ugo Cantone, ministero degli Interni, Roma, 16 marzo 2006. Editoriale del quotidiano «La Vanguardia» (Barcellona), 21 ottobre 2006, p. 28. 69 Andrew Norfolk, Police Killer Suspect Fled Britain in a Veil, «The Times», 20 dicembre 2006. 60 Mirza, Senthikumaran,Ja'far, Living Apart Together, cit., p. 40. Citato in Caldwell, Graphic Images..., cit. 61 Ibidem. 62 Matthew Tempest, Blair Backs School in Veil Row, «The Guardian», 17 ottobre 2006. 63 Ibidem. 64 Dan Bilefsky, Ian Fisher, Doubts on Muslim Integration Rise in Europe, «International Herald Tribune», 12 ottobre 2006, p. 2 65 Walden, Time to Emigrate?, cit., p. 120. 66 British Official Warns of Riots Over Veils, «International Herald Tribune», 23 ottobre 2006, p. 3. 67 Farhad Khosrokhavar, Une laïcité frileuse, «Le Monde», 20 novembre 2003. 68 Da un'indagine condotta per conto del tabloid «Le Parisien» emerse che il 69% degli intervistati era favorevole alla messa al bando dei simboli religiosi. Dominique de Montvalon, Un sondage choc, «Le Parisien», 17 dicembre 2003. B9 Laurence, Vaïsse, Integrating Islam..., cit., p. 171. 70 Michael Jeismann, Neuntausend, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 26 ottobre 2005, p. 37. 71 David Coleman, discorso pronunciato all'Hudson Institute, Washington (DC), 25 settembre 2007. 72 Les principaux extraits du discourse de Jacques Chirac, «Libération», 17 dicembre 2003. 73 Disponibile su http://www.naarnederland.nl/documtenservice/ pagina.asp?pagkey=52133. 74 «La Repubblica», 18 marzo 2006, p. 11. «La Repubblica» cita il tabloid tedesco «Bild». 75 Tahar Ben Jelloun, Marruecos y las razones del velo, «La Vanguardia», 21 ottobre 2006, p. 31.
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76
Intervista dell'autore a Zacarias Sayar, scuola al-Quds, Copenaghen, 11 dicembre
2005. 77
Ian Buruma, Tariq Ramadan Has an Identity Issue, «The New York Times Magazine», 4 febbraio 2007, p. 36. 78 Fallaci, La rabbia..., cit. pp. 34-35. 79 Henryk M. Broder, Hurra, wir kapitulieren! Von der Lust am Einknicken, Siedler, Berlin 2006, pp. 30-35 (tr. it., Evviva! Ci arrendiamo. La dolce resa dell'Europa di fronte all'Islam, Lindau, Torino 2007). 80 David Coleman, Why We Don ì Have to Believe Without Doubting in the «Second Demographic Transition» - Some Agnostic Comments, in Vienna Yearbook of Population Research, 2004, pp. 11-24. (Intervento al convegno The Second Demographic Transition, European Population Conference, Varsavia, agosto 2003.) 81 Marlise Simons, Muslim Women in Europe Claim Rights and Keep Faith, «The New York Times», 30 dicembre 2005, p. 3. 82 Intervista dell'autore a Oguz Ucüncü, Colonia, 25 ottobre 2005. 83 Nicholas Kulish, Gay Muslims Pack a. Dance Floor of Their Own, «The New York Times», 1° gennaio 2008, p. A4. 84 Caldwell, The Man Who Would Be..., cit. Si tratta di uno studio condotto da un Centro di ricerca politica (Cevipof) nel dicembre del 2005 da cui emerge che il 39% dei francesi musulmani disapprovava l'omosessualità contro il 21% dei francesi non musulmani.
9. Tolleranza e impunità 1
Caldwell, Veiled Threat, cit., p. 22. La lettera di Fadlallah fu citata sul sito francese non più esistente www.proche-orient.info. 2 Handlin, Boston's Immigrants..., cit., p. 55. 3 Questa è un'opinione mia, non di Handlin. 4 Handlin, Boston's Immigrants..., cit., p. 190. 5/vi,pp. 117,192. 6 Christopher Caldwell, Migration Debate out of Control, «The Financial Times», 31 marzo - 1° aprile 2006. Sull'incidenza delle questioni politiche sul mutare dell'atteggiamento dei governi tedesco e francese in materia di immigrazione, si veda Martin, Abella, Kuptsch, Managing Labor Migration..., cit., p. 90. 7 Caldwell, Counterterrorism in the uk..., cit., p. 47 8 Intervista a Ozcan Mutlu, Berlino, 19 ottobre 2005. 9 Christophe Jakubyszyn, L'inscription sur les listes électorales séduit les «quartiers», «Le Monde», 29 dicembre 2005. Citato in Laurence, Vaisse, IntegratingIslam..., cit., p. 197.
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Mirza, Senthikumaran, Ja'far. Living Apart Together, cit., pp. 5, 47. Livestro, Holland's Post-Secular Future, cit., p. 28. 12 Magdi Allam, «Corriere della Sera», 22 marzo 2006. Allam alludeva a un libro di Giorgio Paolucci, Camille Eid, I cristiani venuti dall'Islam. Storie di musulmani convertiti, Piemme, Milano 2005. 13 Olga van Ditzhuijzen, Derk Stokmans, Ik kan niet anders dan bezwijken onderde druk, «NRC Handelsblad», 3 ottobre 2005. 14 Irene Hernández Velasco, Italia pone escolta a una diputata tras las a- menazas de un imam, «El Mundo», 25 ottobre 2006, p. 25. 15 Intervista a un professore europeo di arabo, 2005. 16 John Lloyd, Poor whites, «Prospect», 23 maggio 2002. 17 Buruma, Murder in Amsterdam..., cit., pp. 115, 134. 18 Christopher Caldwell, Holland Daze, «The Weekly Standard», 27 dicembre 2004. 19 «Le Monde», 5 ottobre 2001, L'islam en France et les réactions aux attentats du 11 septembre 2001, sondaggio effettuato da IFOP e citato in Laurence, Vaïsse, Integrating Islam..., cit., p. 210. 20 Caldwell, Counterterrorism in the UK..., cit. 21 Ibidem. 22 Aatish Taseer, A British Jihadist, «Prospect», agosto 2005. 23 Mirza, Senthikumaran, Ja'far, Living Apart Together, cit. 24 Europe's Muslims More Moderate, cit., p. 13. 25 Caldwell, Counterterrorism in the UK..., cit. 26 Conversazione dell'autore con Omid Nouripour del Partito dei verdi, Lipsia, 15 settembre 2005. 27 Intervista dell'autore a Francesca Paci, Torino, 22 marzo 2006. 28 Bernard Guetta, Pourquoi est-ce aux Juifs de France de payer pour les é- checs de l'intégration des immigrés?, «Le Temps», 7 agosto 2004. Si veda anche Obin, Les Signes..., cit., p. 22. 29 Ivi, p. 22. 30 Robert S. Wistrich, Cruel Britannia: Anti-Semitism Among the RulingE- lites, «Azure», 21, estate 2005, pp. 113-116. Si veda anche Richard Alley- ne, Jewish MP Pelted with Eggs at War Memorial, «The Daily Telegraph», 11 aprile 2005. 31 Karsh, Miller, Europe's Persecuted Muslims?, cit., p. 51. 32 Keel, In der Gavait der Tradition, cit., p. 25. 33 Karsh, Miller, Europe's Persecuted Muslims?, cit., p. 52. 34 II rapporto del 2003 è stato passato sottobanco al «Jerusalem Post» dal Consiglio francese delle istituzioni ebraiche (Conseil Représentatif des Institutions juives de France) e, al momento della stesura di questo libro, era accessibile all'indirizzo http://haganah.us/hmedia/euasr-00. html. 35 Broder, Hurra, wir kaputilieren!..., cit. 11
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David Cesarani, Community and Disunity, «Jewish Chronicle», 24 ottobre 2003. Citato in Jenny Bourne, Anti-Semitism or Anti-criticism?, «Race and Class», 1° luglio 2004. 37 Caldwell, The Reality of Cartoon Violence, cit. 38 Broder, Hurra, wir kaputilieren!..., cit., p. 60. 39 Si veda Paul Berman, Terror and Liberalism, W.W. Norton & Co, New York 2003, p. 143 (tr. it., Terrore e liberalismo: perché la guerra al fondamentalismo è una guerra antifascista, Einaudi, Torino 2004). Citato in Christopher Caldwell, Why Israel is Gaining Friends, «The Financial Times», 5 a- gosto 2005. 40 Peter Oborne, «The Spectator», 25 settembre 2005, p. 14. 41 Paul Berman, Who's Afraid of Tariq Ramadan ?, «The New Republic», 4 giugno 2007. 42 In francese: hypermnésie. Pierre-André Taguieff, La criminalisation des «déclinologues», «Le Figaro», 3 luglio 2006, p. 12. Taguieff segnalava una corrispondente amnesia nei confronti del comunismo, ma ciò non rientra nelle tematiche qui trattate. 43 Gli esempi su Sardar e Livingstone sono tratti da Karsh, Miller, Europe's Persecuted Muslims?, cit., p. 50. 44 Nello spettacolo Afa Excuses alla fine del 2004. 45 Mustapha Dessous, Le conseil des ministres a décide la dissolution du groupe extrémiste la Tribù Ka, «Le Monde», 28 luglio 2006. 46 Caldwell, What Will Become of Europe, cit. 47 Mishani, Smotriez, What sort of Frenchmen..., cit.
10. Resistenza e jihad 1
In francese: Groupe Islamique Armé (GIÀ). Caldwell, Liberie, Egalité, Judéophobie, cit. 3 Conversazione non registrata. 4 Lawrence Wright, The Looming Tower: Al-Qaeda's Road to 9/11, Vintage, New York 2006, p. 344 (tr. it., Le altissime torri: come AI-Qaeda giunse all'11 settembre, Adelphi, Milano 2007). Si veda Intelligence and Security Committee (presieduto dal deputato Paul Murphy, MP), Report into the London Terrorist Attacks on 7 July 2005, HMSO, Londra, maggio 2006, p. 12. 6 Intervista telefonica dell'autore a Benno Koepfer, Verfassungsschutz, Landesamt Baden-Württemberg (Forschungsgruppe islamistische Terrorismus und Extremismus), 7 settembre 2007. 7 David Leppard, Nick Fielding, The Hate, «The Sunday Times» (London), 10 luglio 2005. 2
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Laurence, Vaïsse, Integrating Islam..., cit., p. 40. Heinsohn, Söhne und Weltmacht..., cit. Le tesi qui esposte sono tratte da un'analisi più approfondita delle idee di Heinsohn presentata in Christopher Caldwell, Youth and war, a deadly duo, «The Financial Times», 6 gennaio 2007. 10 Gunnar Heinsohn, Wo es zu viele junge Männer gibt, wird getötet, «Neue Zürcher Zeitung», domenica 19 novembre 2006. 11 Ahmed Rashid, filladi Suicide Bombers: The New Wave, «The New York Review of Books», 12 giugno 2008, p. 17. 12 Si veda, per esempio, Steve Coli, The Bin Ladens, Penguin, New York 2008, pp. 138, 144-146 (tr. it. Il clan Bin Laden. Una famiglia alla conquista di due mandi, Rizzoli, Milano 2008). 13 Nel novembre del 2007, i servizi segreti britannici sapevano di almeno 2000 persone coinvolte nel terrorismo, stando alle dichiarazioni di Jonathan Evans, direttore generale dell'Ml5. Si veda Stephen Fidler, Down but dangerous, «The Financial Times», 10 giugno 2008. 14 Theo Hobson, War and Peace and Islam, «The Spectator», 23 luglio 2005. 15 Agence France-Presse, 18 gennaio 2006. Le frasi citate sembrerebbero una ritraduzione in inglese di osservazioni pubblicate in tedesco sotto il titolo Sexuelle Angst der Männer vor Frauen, ist eine Ursache für islamistischen Terror (intervista a Salman Rushdie), 17 gennaio 2006. Citato in Broder, Hurra, wir kapitulieren!..., cit., 152. 16 Mordechay Lewy, Nimm meine Schuld auf dich, «Die Zeit», 4, gennaio 2003. 17 Si veda Abdelwahab Meddeb, La Maladie de l'Islam, Paris, Seuil, 2002, pp. 24-30 (tr. it., La malattia dell'Islam, Bollati Boringhieri, Torino 2003); Malek Chebel, L'Islam et la raison, Perrin, Paris 2006, pp. 36-58. 18 Wilfred Thesiger, Arabian Sands, Penguin, London 2007, p. 94 (tr. it., Sabbie arabe, Neri Pozza, Vicenza 2002). 19 Nicolas Sarkozy justifie, au nom de la sécurité, le mesures contre des bagagistes musulmans de Roissy, «Le Monde», 21 ottobre 2006. Sarkozy disse, testualmente: «Il n'y avait là aucun délit de sale gueule». Délit de sale gueule si può forse tradurre con «delitto di avere una faccia sgradita». 20 Nicolas Sarkozy, La République, les religions, l'espérance, Editions du Cerf, Paris 2004, p. 93 (tr. it., La repubblica, le religioni, la speranza, Nuove Idee, Roma 2005). 21 Christopher Caldwell, Sacred Cow of Religious Rights, «The Financial Times», 15 luglio 2005. 22 Johnson, Allah's England?, cit., p. 45. 23 Roy, La Laïcité..., cit., p. 153. 24 Jules Monnerot, Sociologie du Communisme, Gallimard, Paris 1949, 9
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pp. 9-25, soprattutto pp. 20-25 (tr. it. Sociologia del comunismo, Giuffrè, Milano 1970). 23 Ivi, p. 21. 26 Ibidem. 2/ Ibidem. 28 Ivi, p. 23. 29 Leppard, Fielding, The Hate, cit. 30 Bassam Tibi, Grenzen der Toleranz, «Die Welt am Sonntag», 5 settembre 2004. 31 L'argomentazione è tratta da Caldwell, Counlerterrorism in the UK..., cit., p, 52. 32 Conversazione con Hassan Moussa, Stoccolma, dicembre 2005, in Caldwell, Islam on the Outskirts..., cit., p. 58. 33 Pew Research Center, Islamic Extremism..., cit., p. 1. 34 Citato in un opuscolo pubblicato dall'Islamic Forum Europe intitolato Muslims in Europe. 35 Smith, At Mosque That..., cit., p. A6. 3f) Kevin Cullen, Britain Muslims Take Stock of a Post-bombing Backlash, «The Boston Globe», giovedì 11 agosto 2005, p. AIO. 37 Caldwell, Counterterrorism in the UK..., cit., p. 46. 38 Alan Cowell, Britain Planning Tighter Laws to Fight Terrorism, «International Herald Tribune», 18 luglio 2005. 39 Caldwell, Counterterrorism in the UK..., cit., p. 46. 40 Three are Charged overJuly 7Bombings, «Times Online», 5 aprile 2007. 41 Discorso tenuto al Congresso degli Stati Uniti in seduta plenaria, 20 settembre 2008. 42 Intervista dell'autore ad Ahmad Abu Laban, Norrebr0, Copenaghen, 11 dicembre 2005. 43 Fanatismi incendiari contro ordinarie viltà, «Il Foglio», 7 febbraio 2006. 44 Ibidem. 45 Andrew Hussey, Not a fanatic after ali?, «New Statesman», 12 settembre 2005. 46 Nel 2007 ci fu un dibattito pubblico - una vera e propria battaglia, si potrebbe dire - tra gli scrittori Ian Buruma e Paul Berman intorno al vero orientamento politico di Ramadan. Si veda Buruma, Tariq Ramadan..., cit.; e Berman, Who's Afraid..., cit. 47 Johnson, Islam and Europe..., cit., p. Al. 48 Berman, Who's Afraid..., cit. 49 Gresh, Ramadan, L'Islam en questions, cit., p. 139. 50 Ivi, p. 144. 31 Ivi, p. 151. 52 Christopher Caldwell, At the Border of Free Speech, «The Financial Times», 30 settembre - 1° ottobre 2007. Ramadan stesso scrisse un reso
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conto della sua espulsione dagli Stati Uniti. Si veda Tariq Ramadan, Why I'm Banned in the USA, «The Washington Post», 1° ottobre 2006, p. Bl. '3 Ramadan, Dar ash-shahada, cit., pp. 21-23. 54 Ivi, pp. 29, 41. Una shahada è una professione di fede. L'espressione e il concetto sono spiegate nell'opera di Tariq Ramadan dal titolo Dar ash-shahada, cit.; in Id., La Foi, la Voie et la résistance, Tawhid, Lyon 2002, p. 14; e in Id., Les Musulmans de l'Occident et l'avenir de l'islam, pp. 131-138 (tr. it., L'islam in occidente. La costruzione di una nuova identità musulmana, Rizzoli, Milano 2006). 56 Id., Les altermondialistes face aux défis du pluralisme, in Quelles résistances pour une justice globale?, Tawhid, Lyon 2003, pp. 75-76. 57 Buruma, Tariq Ramadan..., cit., p. 36. 58 Gresh, Ramadan, L'Islam en questions, cit., p. 156. 59 Ivi, p. 178. Le Sue posizioni politiche sono fondamentalmente no global. 60 Buruma, Tariq Ramadan..., cit., p. 36. 61 Ibidem. 62 Ivi, p. 155. 68 Ramadan, La Foi, la Voie..., cit., pp. 68-69. 64 Gresh, Ramadan, L'Islam en questions, cit., p. 162. 65 Tariq Ramadan, Aux sources du renouveau musulman, Tawhid, Lyon 2002, p. 360-361 (tr. it., Il riformismo islamico: un secolo di rinnovamento musulmano, Città aperta, Troina 2004). 66 Ivi, p. 358. 67 Ivi, p. 369. 68 Ivi, p. 368. fi9 Ivi, p. 372. La citazione è tratta dal Corano 5,54. 70 Ramadan, Aux sources..., cit., p. 364. 71 Ivi, pp. 367, 373. 72 Gresh, Ramadan, L'Islam en questions, cit., p. 327. 73 Ivi, p. 156. 74 Ivi, p. 181. 75 Buruma, Tariq Ramadan..., cit., p. 36. Ramadan descrive in modo e- splicito i modi in cui gli anticolonialisti si appropriarono delle conoscenze dei colonizzatori in Aux sources..., cit., p. 454. 76 Ramadan, La Foi, la Voie..., cit., pp. 68-70.
11. Liberalismo e diversità 1
Christopher Caldwell, Why Did French and Dutch Vote No?, «The Weekly Standard», 13 giugno 2005, p. 27.
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Id., A Partnership, if Only in Spirit, «The Financial Times», 2-3 dicembre 2006. Pew Research Center, Islamic Extremism..., cit., p. 27: per il 43% è «molto importante»; per il 32% è «abbastanza importante». Christopher Caldwell, The East in the West, «The New York Times Magazine», 25 settembre 2005, p. 48: un'indagine dell'Eurobarometro svolta nel 2005 rilevava un 35% di opinioni favorevoli. Intervista dell'autore a Oguz Ücüncü, Colonia, 25 novembre 2005. Christopher Caldwell, A Swedish Dilemma, «The Weekly Standard», 28 febbraio 2005. Abul Taher, Minorities Eeel More British than Whites, «The Times», 18 dicembre 2006. Pim Fortuyn, De verweesde samenleving, Karakter Uitgevers, Rotterdam 2002, p. 198 (tr. it., La società orfana. Trattato sociologico-ìeligioso, Associazione culturale «Carlo Cattaneo», Pordenone 2007). ivi, pp. 184-185. Ivi, p. 191. Grens dicht voor islamiet (intervista a Pim Fortuyn), «De Volkskrant», 9 febbraio 2002, p. 1 ; citato in Hans Wansink, De Erfenis von Fortuyn, Meu- lenhoff, Amsterdam 2004, p. 289. Fortuyn, De verweesde samenleving, cit., p. 193. Grens dicht voor islamiet, cit., In Wansink, De Erfenis von Fortuyn, cit., p. 288. Ivi, pp. 285, 290. Fortuyn, De verweesde samenleving, cit., p. 186. Per l'elogio, si veda ivi, p. 181. Per il disprezzo, si veda Grens dicht voor islamiet, cit. Fortuyn, De verweeste samenleving, cit., p. 183. Ivi, p. 191. Christopher Caldwell, Sensible Extension of Rights, «Financial Times», pp. 22-23, novembre 2003. 20 1 resoconti dei fatti di teppismo da stadio sono tratti da Christopher Caldwell, No Half Measures for Hooliganism, «The Financial Times», 8 dicembre 2006. 21 Christopher Forcari, Dieudonné vante les morite de Jany Le Pen, «Libé- ration», 16 marzo 2007. 22 Michael Leidig, Gaddafi Backs «Friend» Haider, «The Daily Telegraph», 19 giugno 2001. 23 Katrin Bennehold, In egalitarian Europe, a not-so-hidden world of squalor, «International Herald Tribune», 18 ottobre 2005, p. 1. 24 Ringrazio Toralf Staud, giornalista di «Die Zeit» e autore di uno studio sull'NPD ( Moderne Nazis: Die Neuen Rechten und der Aufstieg del NPD, Kie-
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penheuer und Witsch, Kóln 2006), per avermi spiegato l'NPD in una serie di e-mail e conversazioni nell'autunno del 2005. 25 Intervista dell'autore a Karl Richter, Dresda, 16 settembre 2005. 26 Intervista dell'autore ad Antje Hermenau, capo della delegazione verde al parlamento sassone, Lipsia, 15 settembre 2005. 27 Ibidem. 28 Intervista dell'autore a Karl Richter, Dresda, 16 settembre 2005. 29 Intevista dell'autore ajesper Langballe, Copenaghen, 12 dicembre 2005. 30 Questa è la formula utilizzata da un importante consulente sui temi della diversità intervistato a Copenaghen nel dicembre 2005. 31 Intervista dell'autore a T0ger Seidenfaden, Copenaghen, 13 dicembre 2005. 32 Come spiega lo stesso Fortuyn nel suo libro De Puinhopen van acht jaarPaars, Karakter Uitgevers, Rotterdam 2002. 33 Zoé Cadiot, Villiers-le-Bel reste sous haute tension, «L'Independant», 28 novembre 2007. 34 Jean de Maillard, La pire reste à venir, www.rue89.com (scaricato il 28 novembre 2007). 35 Intervista telefonica a Xavier Le Moine, sindaco di Montfermeil, 26 marzo 2007. 36 Sarkozy, La République..., cit., p. 88. 37 Ibidem. 38 Nicolas Sarkozy veut stopper la «voyoucratie», «L'Express», 19 novembre 2007. 39 Didier Pourquery, En touché, «Libération», 29 novembre 2007, p. 2. 40 Philippe Ridet, La banlieue et ses électeurs, vus par Nicolas Sarkozy, «Le Monde, 7 ottobre 2005. 41 Associated Press, Sarkozy Calls for Creation of International Treaty on Migration, «International Herald Tribune», 11 dicembre 2006. 42 Intervista dell'autore a Nicolas Sarkozy, ministero degli Interni, Paris, 20 gennaio 2006, citata in Caldwell, The Man Who WouldBe..., cit., p. 26. 43 II paragone tra Sarkozy e Nixon è approfondito in Caldwell, Harsh Policing..., cit. 44 Pascale Robert-Diard, Les incidents de la Gare du Nord relancent le duel Sarkozy-Royal, «Le Monde», 30 marzo 2007. 45 Sarkozy, La République..., cit., p. 75. 46 Ivi, p. 109. 47 Ivi, p. 78. 48 Ivi, p. 107. 49 Questo programma è descritto più nel dettaglio in Christopher Caldwell, France takes a chance on a new ideal of equality, «The Financial Times», 15-16 novembre 2003, p. 15.
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Si veda Jeremy Harding, Color Bind, «Columbia Journalism Review», luglio-agosto 2006. 51 Jonathan Moules, Benefits of Ethnic Diversity Doubted, «The Financial Times», 20 febbraio 2007, p. 4. 52 Putnam, «EPlurìbus Unum»..., cit., pp. 137-174. 53 Caroline Fourest, La diversità contre l'égalité, «Le Monde», 18 gennaio 2008. 54 Intervista dell'autore a Nicolas Sarkozy, ministero degli Interni, Parigi, 20 gennaio 2006, citata in Caldwell, The Man Who Would Be..., cit. 55 The Home Office Departmental Report 2006, p. 56. 56 Le osservazioni di Birnbaum e le citazioni di Etienne Balibar e Robert Castel sono tratte da Jean Birnbaum, Le spectre des orìgines, «Le Monde», 5 ottobre 2007.
12. Sopravvivenza e cultura ' David Singh Grewal, Network Power, Yale University Press, New Haven 2008. 2 David Rieff, Migrant Worry, «The New York Times Magazine», 6 novembre 2005, pp. 15-16. 3 Christopher Caldwell, Bordering on What?, «The New York Times Magazine», 25 settembre 2005, p. 46. 4 Conversazione non registrata. 5 Mulligan, Minder, Spain and Morocco..., cit., p. 3. 6 Caldwell, Europe's Future, cit. 7 Hamid Dabashi, Native Informers and the Making of the American Empire, «Al-Ahram Weekly», 1-7 giugno 2006. 8 Stephen Sestanovich, American Maximalism, «The National Interest», primavera 2005. 9 Tony Benn, More Time for Politics, Hutchinson, London 2007, p. 5. 10 Luuk van Middelaar, Et viola, de moderniteit, «De Trouw» (Letter & Geest), 1° dicembre 2001. 11 Seumas Milne, They Can't See Why They Are Hated, «The Guardian», 13 settembre 2001. 12 Politycki, Weifier Mann - was nun?, cit. 13 Houellebecq, Les Particules élémentaires, cit., p. 93. 14 Enoch Powell, discorso tenuto al convegno annuale del Rotary Club di Londra, Eastbourne, 16 novembre 1968, in Powell, Reflections..., cit., p. 393. 15 Stille, No Blacks Need Apply..., cit., p. 28.
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The State of American Public Opinion on Immigrant on Spring 2006, Pew Hispanic Center, 17 maggio 2006. 17 Geneive Abdo, American Muslims Aren't Assimilated as You Think, «The Washington Post», 27 agosto 2006, p. B3. 18 Mark Lilla, The Politics of God, «The New York Times Magazine», 19 agosto 2007, p. 50. 19 Elie Barnavi, «La Tribune Juive», citato in John Thornhill, Europe's Solida from its own History, «The Financial Times», 19 febbraio 2007, p. 16. 20 Max Hastings, I Confess, I have never had a Muslim to dinner in my house, «The Weekly Telegraph», 732, 3-9 agosto 2005. 21 Caldwell, Counterterrorism in the, uk..., cit. 22 Id. The Post-8/10 World, «The New York Times Magazine», 20 agosto 2006, p. 18. 2S Alcune delle vicende di Sbai sono esposte in Cristina Giudici, Gruppo di famiglia con Allah, «Il Foglio», 30 ottobre 2004 e in Id., L'Italia di Allah: storie di musulmani fra autoesclusione e desiderio di integrazione, Bruno Mondadori, Milano 2005. 24 di Fabio, Die Kultur der Freiheit, cit., pp. 50-51. 25 La mia discussione della teoria di Pareto si fonda su questo e su altri passaggi di James Burnham, The Machiavellians, John Day, New York 1941, pp. 199-200 (tr. it., I machiavelliani: critica della mentalità ideologica, Masson, Milano 1997).
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INDICE DEI NOMI
Abdo, Geneive, 364, 415 Abdul, Muhammad, 320 Abdullah, Omar, 178 Abella, Manolo, 379, 381, 385, 406 Aboujahjah, Dyab, 286, Abu Laban, Ahmad, 85, 311, 410 Accoyer, Bernard, 241 Adami, Zanyar, 115 Ahmadinejad, Mahmoud, 260 Alani, Fareena, 396 al-Banna, Hassan, 312, 318, 319, 320 Alden, Edward, 376, 382 ai-Din ai-Afghani, Jamal, 320 Alesina, Alberto, 70, 383 Ali, Monica, 359 Alighieri, Dante, 259 Allah, 155, 289, 307, 319 Allam, Abeer, 386 Allam, Magdi, 271, 407 Alleyne, Richard, 407 Allievi, Stefano, 170, 395 Almajid, Fahmy, 385, 396 Alonso, José Antonio, 82, 385 Amara, Fadela, 234, 347 Amis, Kingsley, 116, 389 Andersen, Torben Magnus, 61, 381 Anderson, Perry, 386 Arafat, Yasser, 27 Ari, Muhlis, detto «Mehmet», 163 Aristotele, 70, 383 Aron, Raymond, 32, 95, 378, 386 Atatürk, Kemal, 299, 327, 365 Aubry, Martine, 147 Auffray, Alain, 377 Ayrault, Jean-Marc, 215, 401 Azmi, Aishah, 253 Aznar, José Maria, 291, 324 Bakas, Adjiedj, 399 Bakri, Omar, 108, 388 Balibar, Étienne, 349, 414
Bancel, Nicolas, 378 Baran, Zeyno, 397 Barbe ta, Jordi, 387 Barnavi, Élie, 368, 415 Bartels, Edien, 402 Bauer, Thomas, 379, 381 Beaugrand, Véronique, 392 Bedoya,Juan Gabriel, 399 Beethoven, Ludwig van, 119 Begag, Azouz, 99 Belili, Samira, 233 Belloc, Hilaire, 126, 128, 390 Benjelloun, Tahar, 258 Benedetto XVI, 189, 200, 201, 202, 203, 211,326, 399 Benn, Tony, 358, 414 Benna, Zyed, 150, 151 Bennehold, Katrin, 387, 412 Benoît, Bertrand, 377 Bente, Clausen, 399 Bentham, Jeremy, 208 Benziane, Sohane, 233, 235 Berlusconi, Silvio, 370 Berman, Paul, 282, 408, 410 Berque, Jacques, 170, 395 Berthoud, Richard, 244, 404 Besançon, Alain, 207, 400 Bghouia, Safir, 289 Bilefsky, Dan, 384, 405 Bin Laden, Osama, 108, 204, 277, 292, 295, 296, 297 Binet, Stéphanie Binet, 388 Birnbaum, Jean, 349, 414 Bisin, Alberto, 397 Björk, Nina, 228, 401
425
Blair, Tony, 93, 214, 218, 253, 274, 283,293,301,314,369, 370 Blanchard, Pascal, 378 Blunkett, David, 92, 219 Boeri, Tito, 384 Bolkestein, Frits, 241, 329, 387 Boltanski, Christopher 401 Bordenave, Yves, 394 Botjas, George J., 380 Born, Hanspeter, 391 Boubacar, Boris Diop, 384 Boubakeur, Dalil, 216 Bouchta, Bouriki, 277 Bourne, Jenny, 408 Bousakla, Mimount, 231 Boutih, Malek , 159 Boutin, Christine, 257 Bouyeri, Mohammed, 181, 289 Bouzar, Dounia, 169, 395 Bradley, Daniel G„ 379 Bragg, Billy, 99 Brague, Rémi, 211, 400 Brauman, Rony, 388 Brenner, Emmanuel (pseud, di George Bensoussan), 251, 405 Brewster, Deborah, 402 Bright, Martin, 396 Broder, Henryk M., 260, 401, 406, 407, 408, 409 Brogan, Benedict, 386 Bronfman, Edgar M„ 225, 401 Brooks, David, 398 Brown, Gordon, 93, 120 Browne, Anthony, 376 Brubaker, Rogers, 71, 383, 394 Bruce, Steve, 399 Brûcker, Herbert, 384 Brugman.Jan, 250 Buck, Christiane, 382 Buddha, 221 Buffa, Pietro, 393 Bunglawala, Inayat, 173,174, 396 Bunting. Madeleine, 93, 386, 395, 400, 403 Burnham, James, 373, 415 Buruma. Ian, 182, 315, 320, 397, 406, 407,410,411 Bush, George W., 208, 260, 301, 310, 358, 370 Butt, Hassan, 275 Buttiglione, Rocco, 213 Buwalda, Minne, 399 Byron, George, 178, 179 Cadiot, Zoe, 413 Caldwell, Christopher, 376, 377, 379, 380, 382, 383, 385, 387, 388, 389, 390, 391, 392, 393, 394, 395, 396, 397, 399, 400, 401, 402, 404, 405, 406, 407, 408, 409, 410, 411, 412, 413, 414, 415 Callaghan, James, 367 Calvino, Giovanni, 211 Calzecchi Onesti, Rosa, 375 Cameron, David, 301 Cantone, Ugo, 405 Card, David, 380 Cardilli, Torquato, 205 Cardo, Pierre, 139, 391, 392 Carlo Magno imperatore, 127 Carlyle, Thomas, 127, 207, 208, 400 Carrère
426
d'Encausse, Hélène, 110 Carreyrou, John, 392, 397, 400, 401, 402 Carter, Jimmy, 367 Casanova, Maria, 384 Case, Christa, 399 Castel, Robert, 349, 414 Castro, Fidel, 396 Ceaux, Pascal, 402 Cembrero, Ignacio, 384 Ceric, Mustafa, 307 Cesarani, David, 281, 408 Ceylan, Rauf, 147, 148, 150, 181, 392 Chapman, James, 402 Chebel, Malek, 409 Cherribi, Oussama, 383 Chirac, Jacques, 214, 251, 255, 256, 257, 265, 266, 278, 339 Churchill, Winston, 99 50 Cent, 187 Clarke, Charles, 309 Clarke, Peter, 310 Clarke, Steve, 375
Clinton, Bill, 225, 357, 396 Cobain, Ian, 388 Cohen, Roger, 235, 394, 402 Coleman, David A., 25, 49, 243, 260, 376, 377, 380, 381, 391, 404, 405, 406 Coll, Steve, 409 Collings, Rex, 375, 422 Conget, Audalla, 203, 204 Constant, Julien, 392 Cook, James, 85 Cope, Sally, 404 Corti, Ilda, 261 Costello, Elvis, 399 Cowell, Alan, 410 Crawford, David, 397 Cric, Bernard, 328 Crow, Jim, 349 Cullen, Kevin, 308, 410 Curtí, Ilda, 391 Dabashi, Hamid, 356, 414 Dahms, Martin, 384 Daneshku, Scheherezade, 380 Dannat, Richard, 199, 200 Dati, Rachida, 347 Daun, Äke, 18, 376 Dawkins, Richard, 218 De Gaulle, Charles, 38, 300 Degauque, Muriel, 206, 207 De Langhe, Anne-Charlotte, 400 Dench, Geoff, 111 Denham, John, 283 DeParle, Jason, 383 Derrar, Jamal, 233 Descoings, Richard, 346 Dessous, Mustapha, 408 De Villepin, Dominique, 67 Dieudonné, comico francese, 336 Di Fabio, Udo, 119, 372, 389, 415 Di Lorenzo, Giovanni, 143, 380, 392 Dombey, Daniel, 376, 382 Donner, Piet-Hein, 240 Dorling, Danny, 383, 391 Dr. Dre, 187 Dreyfus, Alfred, 255, 278 Dubois, Christophe, 396 Duisenberg, Gretta, 281 Duisenberg, Wim, 281 Dumont, Lionel, 206, 207 Dustmann, Christian, 384 Eberstadt, Nicholas, 377, 391 Eid, Camille, 407 El Maroudi, Hasna, 272 Eminem, 187 Enzensberger, Hans Magnus, 16, 61, 84, 87, 118, 182, 375, 379, 381, 385, 389, 397 Erasmo da Rotterdam, 259 Erdrich, Louise, 359 Esquivel, Laura, 359 Evans, Jonathan, 409 Eweida, Nadia, 118 Fadlallah, Mohamed Hussein, 265, 406 Falcioni, Rinaldo, 378 Fallaci, Oriana, 22, 63,107,108,109, 259, 381,388,406 Fallad, Hans, 389 Farrakhan, Louis, 105 Fassin, Eric, 402 Federico il Grande, 193 Feldstein, Martin, 59, 381 Ferretti, Silva, 385 Fertig, Michael, 384 Fidler, Stephen, 399, 409 Fielding,
427
Nick, 408, 410 Fini, Gianfranco, 335 Finkenzeller, Karin, 384 Finkielkraut, Alain, 109, 110, 156, 157, 287, 388, 389, 393 Fisher, Ian, 405 Fleishman, Jeffrey, 377, 385 Fliegenschnee, Katrin, 391 Flores d'Arcais, Paolo, 201 Florida, Richard, 382 Ford, Richard, 384 Fortuyn, Pim, 321, 328, 329, 330, 331, 332, 333, 334, 340, 341, 344, 345, 412,413 Fourest, Caroline, 414 Franco, Francisco, 195, 335 Frank, Anna, 286
Frattini, Franco, 80 Freedland, Jonathan, 387 French, Simon, 380 Freund, Michael, 391 Frevert, Louise, 339 Friedan, Betty, 220 Fryer, Peter, 378 Galilei, Galileo, 259 Ganji, Akbar, 306 Garnett, Richard, 400 Garzón, Baltasar, 314 Gayssot, Jean-Claude, 103, 104, 105, 106, 388 Geisser, Vincent, 395, 398 Gesù Cristo, 126, 201, 211, 221, 225 Gheddafi, Muhammar, 336 Gibbons, Gillian, 100 Gilbert, William Schwenck, 100 Giles, Chris, 376, 380, 382 Giovanni Paolo II, 75, 200, 203 Giscard d'Estaing, Valéry, 139 Giudici, Cristina, 378, 415 Glaeser, Edward, 70, 383 Goethe, Johann Wolfgang, 28, 127 Gollancz, Victor, 389 González Enriquez, Carmen, 378 González, Miguel, 385 Goody,Jack, 127,128, 390 Goujon, Anne, 391 Gresh, Alain, 170, 395, 410, 411 Grewal Singh, David, 351, 414 Griffiths, David, 385 Groen, Janny, 236, 397 Grosb0Ìl, Thorkild, 399 Grosjean, Blandine, 388 Guetta, Bernard, 407 Habermas,Jürgen, 111, 201, 202 Haerke, Heinrich, 379 Haget, Henri, 394 Hahne, Peter, 198 Haley, Alex, 395, 421 Halimi, Ilan, 188, 286, 398 Hall, Peter, 391 Hamrud, Annika, 402 Handlin, Oscar, 43, 72,197, 266, 267, 379, 383, 399, 406 Harding, Jeremy, 414 Hastings, Max, 369, 415 Hayder,Jörg, 336 Hayrettin, Aydin, 395 Heat, Ted, 14 Hefty, Georg-Paul, 193, 398 Heinsohn, Gunnar, 31, 65, 294, 295, 304, 378, 382, 409 Hermenau, Antje, 413 Hernández Velasco, Irene, 407 Higgins, Andrew, 396 Hirschman, Albert O., 92, 386 Hirsi Ali, Ayaan, 30, 73, 220, 257 Hitchens, Christopher, 218 Hider, Adolph, 278, 286,
428
340, 361 Hobson, Theo, 409 Hodgson, Marshall G.S., 108, 388 Hoekelet, Angelo, 157 Hofmann, Corinne, 116, 389 Hoischen, Olivier, 398 Hönekopp, Elmar, 379 Honeyford, Ray, 103 Houellebecq, Michel, 116, 117, 259, 360, 389, 414, Hoyle, Ben, 401 Huntington, Samuel P., 32, 177, 183, 396 Huret, Marie, 394 Hussein, Saddam, 195, 299, 336 Hussey, Andrew, 312, 410 Hvilsh0j, Rikke, 168, 248, 249, 395 404 Irving, David, 104 Islam, Yusuf (Cat Stevens), 206 Ja'far, Zein, 383, 387, 388, 395, 403, 405, 407 Jakubyszyn, Christophe, 406 Jama, Mustaf, 252 Jammeh, Yahya, 68, 382 Janmaat, Hans, 329, 331 Jansen, Hans, 196, 398 Jaurès, Jean, 104 Jeismann, Michael, 393, 405
Jerichow, Anders, 189, 398 Jha, Alok, 379 Jneid, Fawaz, 181 Johansson, Göran, 166, 394 Johnson, Daniel, 397, 409 Johnson, Ian, 392, 396, 397, 398, 400, 401, 402, 409 Johnson, Lindon, 344 Johnston, Sheila, 392 Jospin, Lionel, 305 Juppé, Alain, 140 Kagan, Robert, 386 Kamali, Massoud, 182, 328, 397 Karsh, Efraim, 403, 407, 408 Kassovitz, Matthieu, 140 Kaufmann, Eric, 132, 199, 391, 399 Kay, John, 384 Keel, Aldo, 377, 402, 404, 407 Kelkal, Khaled, 154, 289 Kemal, Atatürk, 171 Kepel, Gilles, 315 Khan Sharif, Omar, 177, 178 Khomeini, ayatollah, 174, 218, 270 Khosrokhavar, Farhad, 150, 256, 393, 398 Khosrokhavar, Farhad, 150, 256, 393, 405 Killa Hakan, 398 Rilroy-Silk, Robert, 93 King, Martin Luther, 12 King, Oona, 279 King, Rodney, 347 Kinneging, Andreas, 204, 205, 400 Kjaersgaard, Pia, 93, 338 Klausen, Jytte, 225, 401 Kovacs, Stéphane, 387, 392 Kranenberg, Groen, 402 Kranenherg, Annieke, 419 Krarup, S0ren, 338, 340 Kücük, Mustafa, 392 Kulish, Nicholas, 406 Kuper, Simon, 390 Kuptsch, Cristiane, 379, 381, 385,406 Kurtz, Stanley, 403 Laban, Abu, 311 Lacroix, Alexis, 393 Lafontaine, Oskar, 337 Laitner, Sarah, 376, 381, 382 Landau, Christopher, 403 Landler, Mark, 383 Langballe, Jesper, 168, 338, 339, 386, 395, 413 Larcher, Gérard, 241 Larkin, Philip, 76 Lars Haagen Pedersen, 381 Larsen, Claus, 379, 381 Larson, Nina, 388
429
Latrèche, Mohammed Ennacer, 256 Lau, Jörg, 171, 395 Laurence, Jonathan, 294, 377, 383, 391, 392, 395, 398, 401, 404, 405, 406, 407, 409 Lawrence, Stephen, 102 Leapman, Ben, 385 Lebrot, Jacques, 300 Leclerc, Jean-Marc, 393 Le Corbusier, 135, 391 Legrain, Philippe, 48, 380 Legros, François, 377 Leidig, Michael, 412 Lemaire, Sandrine, 378, 417 Lemann, Nicholas, 46, 380 Le Moine, Xavier, 341, 413 Leonard, Mark, 97, 387 Le Pen,Jany, 336 Le Pen, Jean-Marie, 110, 138, 153, 336, 339, 343 Leppard, David, 396, 408, 410 Lerner, Michel, 312 Levi, Primo, 44 Lewi, Mordechay, 298 Lewis, Bernard, 22, 104, 190, 304, 399, 404 Lewis, Philip, 378 Lewy, Mordechay, 298, 409 Liddle, Rod, 146, 392 Lilla, Mark, 187, 366, 367, 415 Linares, Jacqueline de, 381 Lindbeck, Assar, 137 Lindsay, Germaine, 206, 207, 400 Livestro, Joshua, 199, 399, 407 Livingstone, Ken, 141, 285, 392, 408
Lloyd john, 407 López-Garcia, Bernabé, 74, 383 Lucardie, Paul, 403 Lucassen, Jan, 390 Luft, Stefan, 379 Lutz, Wolfgang, 24, 377 Luxenberg, Christoph, 273 Macaulay, Thomas, 356 McElroy, Damien, 396, 397 MacKinnon, Catharine, 401 Macpherson, William, 102, 387 MacShane, Denis, 259 McVeigh, Timothy, 309 Mahmood, Khalid, 218 Maillard Jean de, 152, 393, 413 Mak, Geert, 30, 220, 378, 401 Malcolm X, 173,174, 395 Malick, Ndiaye, 385 Malik, Kenan, 385 Malik, Shiv, 237, 398 Mamoun, califfo, 204 Manent, Pierre, 120, 389, 421 Mann, Thomas, 116, 119 Manuele II di Bisanzio, il Paleologo Manzoor, Sarfraz, 166, 375, 394 Maometto, 33, 207, 208, 212, 218, 220, 221,222, 224,311,366 Maraniss, David 396 Marcelle, Pierre, 394 Maria, madre di Gesù Cristo, 221 Marquand, Robert, 391 Marshall, German, 395 Martin, David, 297, Martin, Philip, 52, 379, 381, 385, 406 Marx, Karl, 315 Matteo, evangelista, 84 Matthiessen, Poul, Chr. 377, 379, 381 Maududi, AbuA'la, 276 Mbala-Mbala, Dieudonné, 106, 286 Mboyo Ey'ekula, Mohamed, 382 Meddeb, Abdelwahab, 409 Meisner Joachim, 260 Merkel, Angela, 260 Merz, Friedrich, 120 Meuwese, Stan, 402 Mielke, Michael, 394 Mill John Stuart, 207 Miller, Rory, 403, 407, 408 Milne, Seumas, 359, 414 Milton John, 44, 379 Minder, Raphael, 384, 414 Mirza, Munira, 383, 387, 388, 395, 403, 405, 407 Mishani, Dror, 389, 393, 408 Missika Jean-Louis, 386, 417 Mitterand, François, 266 Modood, Tariq, 244, 404 Mohammed, Hanif, Asif, 177 Mohapatra, Sänket, 382 Mohsen-Finan, Khadija, 395, 398 Mollenkamp, Carrick, 396, 398 Moltö, Ezequiel, 400 Monnerot, Jules, 302, 303, 409 Montaigne, Michel Eyquem de, 28 Montvalon, Dominique de, 405 Montvalonjean-Baptiste de, 388 Mooney, Bei, 250, 251, 405 Morales, Evo, 67 Moro, Aldo, 301 Moulesjonathan, 414
430
Moussa, Hassan, 236, 306, 410 Moynihan, Patrick, 103 Mucchielli, Laurent, 393 Mulligan, Mark, 384, 414 Murphy, Paul, 408 Mustafa, Taji, 275 Mutfu, Özcan 406 Nafisi, Azar, 356 Nagel, Thomas, 217,401 Nasser, Gamal Abdel, 129 Nicola di Bari, 99 Nixon, Richard, 343, 344, 363, 413 Noelle, Elisabeth, 390 Noomen, Ida, 403 Nora, Pierre, 388 Norfolk, Andrew, 405 Nouripour, Omid, 382, 407 Nung, Françoise, 392 Nyri, Pal, 378 Obama, Barack, 357 Obin Jean-Pierre, 397, 407
Oborne, Peter, 408 Olivero, don Fredo, 377 Onfray, Michael, 218 Oppenheimer, Stephen, 379 Ouseley, Herman, 243 Ozouf, Mona, 388 Paci, Francesca, 205, 277, 400, 407 Paley, William, 208 Panebianco, Angelo, 378, 417 Paolucci, Giorgio, 407 Pardellas.Juan Manuel, 385 Pareto, Vilfredo, 372, 415 Patacchini, Eleonora, 397 Pearl, Martyn, 385 Penninx, Rinus, 390, 421 Pera, Marcello, 198, 247, 399 Perromat, Prune, 377 Perry, Grayson, 221 Persson, Torsten, 88 Pétré-Grenouilleau, Olivier, 105 Phillips, Melanie, 101, 387 Phillips, Trevor, 141, 142, 254, 392 Piccardo, Hamza, 205 Piet, Zwarte, 99 Pirenne, Henri, 126, 127, 321, 385, 390 Politycki, Matthias, 117, 118, 360, 389, 414 Poller, Nidra, 398 Pompedda, Mario, 195, 398 Pontaut, Jean-Marie, 393 Popham, Peter, 401 Portes jonathan, 380 Portes, Thierry, 385 Pourquery, Didier, 413 Powell, Enoch, 11,12, 13,14,15, 16, 101, 161, 162, 361, 375, 387, 394, 414 Praz, Mario, 379 Preston, Ian, 384 Prodi, Romano, 96 Proust, Marcel, 116 Puskin, Aleksandr, 43 Putnam, Robert D., 70, 347, 383, 414 Qaradawi, Yusuf, 175, 204 Quagliarello, Gaetano, 400 Qutb, Said, 312, 313 Rajoy, Mariano, 291 Ramadan, Said, 312 Ramadan, Tariq, 256, 259, 289, 312, 313, 315, 316, 317, 318, 319, 320, 333, 376, 390, 395, 410, 411 Rashid, Ahmed, 296, 409 Raspai),Jean, 15, 16 Ratha, Dilip, 382 Ratzinger,Joseph, vedi Benedetto XVI Rayner, Jay, 375 Reagan, Ronald, 56 Rebérioux, Madelein, 104, 105, 388 Redeker, Robert, 220 Reedijk, Pleun, 192,193, 398 Reid, John, 89, 93 Renan, Ernest, 127, 128, 173, 174,
431
390, 395 Rennie, David, 386 Rice, Condoleezza, 253 Richter, Karl, 337, 413 Ridet, Philippe, 413 Ridley, Yvonne, 206 Rieff, David, 414 Rifkin, Jeremy, 96, 386 Rioufol, Ivan, 393 Robertson, Pat, 312 Roosevelt, Franklin Delano, 344 Rose, Flemming, 222, 224, 225, 226, 401 Rosenkranz, Stefanie, 381, 395, 402 Rothstein, Klaus, 379 Rotman, Charlotte, 402 Roy, Olivier, 213, 237, 301, 392, 400, 402, 409 Ruiz-Gallardón, Alberto, 22 Rushdie, Salman, 174, 218, 219, 220, 270, 271,272,297,409 Rüttgers, Jürgen, 66, 167, 395 Rynja, Martin, 221 Sabuni, Nyamko, 228, 231 Sahindal, Fadime, 234, 235 Samoura, Larami, 159, 160 Sanneh, Lamin, 398
Santoro, Andrea, 223 Sardar, Ziauddin, 285, 408 Sarkozy, Nicolas, 63, 64, 69, 143, 151, 153, 154, 155, 215, 216, 265, 300, 301, 321, 340, 341, 342, 343, 344, 345, 347, 348, 351, 381, 382, 409, 413, 414 Satana, 297 Sayad, Abdelmakek, 94, 386, 422 Sayar, Zacarias, 406 Sbai, Souad, 370, 415 Schäuble, Wolfgang, 65, 170, 193, 204, 205, 245, 246, 258, 382, 404 Scheffer, Paul, 387 Scherbov, Sergei, 243, 377, 391, 404 Schily, Otto, 167, 395 Schmidt, Christoph M„ 384 Schröder, Gerhard, 66, 164, 269 Schwanitz, Wolfgang, 377 Scialoja, Mario, 205 Seidenfaden, T0ger, 248, 339, 399, 404, 413 Selim, Nahed, 228, 402 Sen, Faruk, 395 Senthikumaran, Abi, 383, 387, 388, 395, 403, 405, 407 Sestanovich, Stephen, 414 Setter, Roger, 385 Shadjareh, Massoud, 307, 308 Shelby Spong, John, 312 Shipman, Harold, 309 Siddiqui, Ghayasuddin, 71 Sidique Khan, Mohammed, 185,190, 191,289, 293 Simons, Marlise, 381, 383, 406 Simpson, Glenn, 396, 398 Simpson, Ludi, 392 Simpson, O J. (Orenthal James), 224, 347 Sinn, Hans-Werner, 75, 384 Sir Ouseley, Herman, 404 Skirbekk, Vegard, 377, 391 Slackman, Michael, 386 Sloane Coffin, William, 312 Smith, Craig S., 396, 400, 410 Smith, Jacqui, 100 Smith, Zadie, 99, 359, 387 Smotriez, Aurelia, 389, 393, 408 Soroush, Abdolkarim, 306 Souhelli, Moushin, 159 Stalin, Iosif, 302, 361 Stasi, Bernard, 255 Staud, Toralf, 412 Stensgaard, Perniile, 399 Stern, Jessica, 401 Stevens, Cat (Yusuf Islam), 206 Stewart, Potter, 310 Steyn, Mark, 387 Stille, Alexander 378, 381, 414 Stokmans, Derk, 407 Straw, Jack, 253, 257 Strzelcki, Pawel, 391 Sullivan, Arthur, 100 Surucù, Hatun, 234, 235 Siissmuth, Rita, 31 Sykes, Bryan, 379 Taghza, Ahmed, 392 Taguieff, Pierre-André, 102,113, 284,
432
389, 408 Tahar, Benjelloun, 405 Taher, Abul, 412 Tantawi, Mohamed Sayyed, 265 Taseer, Aatish, 407 Tawfik, Younis, 134 Taylor, Robert, 135 Tebbit, Norman, 161, 162 Tempest, Matthew, 405 Tesón, Nuria Martin, 384 Testa, Maria Rita, 377 Teyhani, Gulgun, 244 Thatcher, Margaret, 56, 268 Thesiger, Wilfred, 299, 409 Thibaud, Paul, 388 Thomann,Jorg, 378 Thomas, Bethan, 383 Thomas, Dominique, 378 Thomas, Gina, 389 Thornhill,John, 415 Tibi, Bassam, 119, 127, 128, 304, 390, 410 Tocqueville, Alexis de, 101, 387 Tornasi di Lampedusa, 55 Tranaes, Torben, 379
Traoré, Bouna, 150, 151 Travis, Alan, 382 Tribalat, Michèle, 131, 390, 402 Trilling, Lionel, 397 Ûçûncû, Oguz, 327, 406 Uebel, Cornelia, 392 Ulisse, 83 Vaïsse, Justin, 294, 377, 383, 391, 392, 395, 398, 401, 404, 405, 406, 407, 409 Valbay, Jean, 388 Van der Horst, Pieter W., 280 Van der Kwaak, Anke, 402 Van Ditzhuijzen, Olga, 407 Van Eeckhout, Laetitia, 404 Van Gogh, Theo, 53, 72, 73,167,181, 193, 210, 220, 236, 247 Van Kralingen, Esther, 401 Van Middelaar, Luuk, 414 Van Os, Pieter, 383 Vanneste, Christian, 103 Védrine, Hubert, 278 Veiel, Axel, 403 Venturini, Franco, 393 Verdaguer,Jacint, 98 Verdier, Thierry, 397 Verdonk, Rita, 167, 395 Vergine, vd. Maria Vidal, Dominique, 390 Vijayalakshmi, K.M., 382 Virgilio, 375 Voas, David, 399 Voerman, Gerrit, 403 Voltaire, pseud. di François Marie Arouet, 217 Vos, Marjoleine de, 399 Vries, Femke de, 402 Wacquant, Loïc, 393 Wade, Nicholas, 379 Wagstyl, Stefan, 380 Waheed, Imran, 176 Walden, George, 73, 150, 254, 377, 383, 393, 405 Wallstròm, Margot, 96 Wansink, Hans, 412 Waugh, Auberon, 87 Weil, Patrick, 378 West, Patrick, 388 Westergaard, Kurt, 223 Whalen, Jeanne, 396, 398 Widdecombe, Ann, 257 Wieland, Leo, 398 Wilders, Geert, 218, 220, 300, 301 Williams, Rowan, 238, 239, 297, 403 Winder, Robert, 379 Winnie the Pooh, 100 Winock, Michel, 388 Winter, Leon de, 210, 211, 400 Wistrich, Robert S., 407 Wolf, Martin, 384 Wolfram, Herwig, 385 Wolton, Dominique, 386 Wright, Jeremiah, 312 Wright, Lawrence, 290, 408 Wynnejones, Jonathan, 403 Xu, Zhimei, 382
433
Yadigaroglu, Yasemin, 236 Yilmaz, Zehra, 392, 404 Zapatero, José Luis Rodriguez, 82, 164, 291,292, 324, 325 Zèdess, 63, 64, 69, Zenou, Wes, 397 Ziebertz, Hans-Georg, 398 Zimmerman, Klaus, 379 Zola, Émile, 69
INDICE
Prima parte L'IMMIGRAZIONE
1. Fiumi di sangue
11
Le ragioni e i torti di Enoch Powell, 12; Quanti sono gli immigrati in Europa?, 17; L'immigrazione musulmana, 19; Il problema demografico europeo, 23; Civiltà e declino, 27; Il principio tklla diversità è sopravvalutato, 29; Può l'Europa rimanere sé stessa con una popolazione diversa ?, 33
2. L'economia dell'immigrazione
37
Com'è cominciata la migrazione postbellica, 37; I livelli record dell'immigrazione recente, 42; L'argomentazione capitalista: salvare le industrie moribonde, 47; I lavori che nessuno vuole fare, 51; L'argomentazione socialista: salvare lo stato sociale, 55
3. A chi giova l'immigrazione?
63
Immigrati buoni e immigrati cattivi, 64; L'immigrazione giova ai nativi o agli immigrati ?, 67; Il welfare e la fuga dei bianchi, 70; Idraulici polacchi, 74; Barcellona o morte, 77; Il dovere dell'ospitalità, 83; Asilo politico e diritti umani, 87; Asilo politico e democrazia, 91
4. La paura mascherata da tolleranza
95
Neutralità e correttezza politica, 97; Criminalizzazione dell'opinione, 102; Gruppi di pressione, 106; Diversità e disprezzo di sé, 112; Cittadini di serie
fi, 115
Seconda parte L'ISLAM
5. Colonie etniche
125
Storia dell'atteggiamento europeo nei confronti dell'islam, 125; Popolazioni musulmane, attuali e future, 130; Riqualificazione dei quartieri degradati, 133; Architettura e segregazione, 135; Aree di illegalità, 138; Segregazione o autosegregazione?, 141; Spazi della sharia, 146; Violenza, criminalità e rivolte, 149; Le rivolte delle banlieues e l'islam, 154; Tribalismo, ideologia ed escalation, 157
6. Una cultura antagonista
161 Jus soli ej us sanguinis, assimilazione e integrazione, 162; L'illusione della diversità, 168; L'islam, come iperidentità, 173; Doppia lealtà, 176; Umiliazione e islamofobia, 181; Musulmani e afroamericani, 186 7. La crisi della fede in Europa
189
Rinascita religiosa, 190; L'islam e i credenti europei, 192; L'islam e i non credenti europei, 196; Benedetto XVI: nuove idee su fede e ateismo, 200; Simpatie occidentali per l'islam e conversioni, 203; L'Europa e U s u o rapporto con la religione, 208; Organizzazione delle istituzioni religiose, 213; Libertà religiosa = libertà dell'islam, 216; La crisi delle vignette danesi, 221
8. Regole sessuali
227
Libertà sessuale: un punto non negoziabile per l'Europa, 228; Verginità e violenza, 230; Islam o consuetudine?, 235; Il fascino della sharia, 237; Matrimoni combinati, 241 ; La legge danese sul matrimonio, 246; Controversie sul velo, 249; La legge francese sul velo, 255; Liberazione obbligatoria, 257
Terza parte L'OCCIDENTE
9. Tolleranza e impunità
265
Autoaffermazione politica come punto di svolta, 266; Intimidazione e, autodifesa, 270; La politica del terrore, 274; Antisemitismo e antisionismo, 277; «Il comunismo del XXI secolo», 284
10. Resistenza ejihad
289
Povertà, occupazione, grandeur perduta e altri motivi di malcontento, 290; Islam e violenza, 296; «L'islam è pace», 299; Musulmani moderati, 304; Tariq Ramadan e il «linguaggio doppio», 310; Resistenza ejihad, 317
11. Liberalismo e diversità
321
Immigrazione, islam e Unione Europea, 322; Il progetto di portare la Turchia in Europa, 326; Pim Fortuyn e la debolezza dell'Occidente, 329; «Destra» e «fascismo» nel contesto dell'immigrazione e dell'islam, 334; Il Partito popolare danese, 338; Nicolas Sarkozy e la forza della repubblica, 340; L'affìrmative action (o discriminazione positiva), 345
12. Sopravvivenza e cultura
351
Il dovere dell'Europa nei confronti del mondo, 353; L'emancipazione dell'Europa dall'America, 357; I modelli americano e ottomano di società multiculturale, 360; Da «l'islam è pace» a «prendere o lasciare», 366; Due tipi di utilità, 371
Note
375
Bibliografia
417
Indice dei nomi
425