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STEPHENIE MEYER L'OSPITE (The Host, 2008) A mia madre Candy, per avermi insegnato che l'amore è la parte migliore di ogni storia Domanda Corpo mia casa mio cavallo mio segugio cosa farò quando sarai caduto Dove dormirò Come cavalcherò Cosa caccerò Dove andrò senza la mia monta impaziente e veloce Come saprò se nel folto degli alberi c'è pericolo o tesoro Quando il Corpo il mio buon cane ingegnoso morirà Come sarà giacere in cielo senza soffitto né porta e il vento per occhio con una veste di nuvole come mi nasconderò? (May Swenson)
Prologo L'inserzione Il nome del Guaritore era Acque Profonde. Era un'anima, buona per natura: compassionevole, paziente, onesta, virtuosa e piena d'amore. L'ansia era un'emozione insolita, per lui. Ancor più lo era l'irritazione. Tuttavia, Acque Profonde abitava un corpo umano, perciò l'irritazione a volte era inevitabile. Tra i bisbigli e il brusio degli studenti di Guarigione all'altro capo della sala operatoria, si fece serio. Un'espressione che stonava, su labbra abituate a sorridere. Darren, il suo fedele assistente, se ne accorse e gli diede un colpetto sulla spalla. «Sono soltanto curiosi, Guaritore» disse a bassa voce. «L'inserzione è un intervento tutt'altro che interessante o difficile. Qualsiasi anima è in grado di compierlo, in caso di emergenza. Per quanto osservino, oggi non impareranno niente.» Fu sorpreso di sentire la propria voce, di solito suadente, viziata da un accento severo. «Non hanno mai visto un umano adulto» disse Darren. Acque Profonde alzò un sopracciglio. «Dimenticano come sono fatti? Non sanno cos'è uno specchio?» «Sai cosa intendo: un umano selvatico. Senz'anima. Un ribelle». Il Guaritore osservò il corpo privo di sensi della ragazza, prona sul tavolo operatorio. Mentre ripensava alle condizioni in cui si trovava quel povero corpo malconcio quando i Cercatori lo avevano consegnato ai laboratori di Guarigione, sentì un'ondata di compassione. Quanto dolore aveva sopportato. Ovviamente, a quel punto era perfetta: totalmente guarita. Se n'era occupato di persona. «È identica a noi» mormorò a Darren. «Abbiamo tutti un volto umano. E quando si sveglierà, diventerà una di noi.» «Gli allievi sono un po' su di giri, tutto qui.» «L'anima che stiamo per impiantare non merita che il corpo ospite venga sbeffeggiato così. Come se non bastassero i problemi del periodo di acclimatazione. Non è giusto infliggerle tutto questo.» Acque Profonde non alludeva alle beffe degli studenti. Sentì l'irritazione riaffiorare. Darren gli diede un'altra pacca amichevole. «Andrà tutto bene. La Cercatrice ha bisogno di informazioni e...»
Alla parola «Cercatrice», il Guaritore lanciò un'occhiataccia al suo assistente. Darren trasalì, stupito. «Scusa» si affrettò ad aggiungere Acque Profonde. «Scusa la reazione. Il fatto è che temo per il destino di quest'anima.» Il suo sguardo si spostò verso il crioserbatoio issato su un piedistallo accanto al tavolo. Il led acceso, rosso opaco, indicava che era in modalità di ibernazione. «Quest'anima è stata scelta appositamente per la missione» lo blandì Darren. «È un soggetto eccezionale, più coraggioso della media. Le sue vite parlano chiaro. Scommetto che se fosse stato possibile chiederglielo, si sarebbe offerta volontaria.» «Chi di noi non si offrirebbe, se gli chiedessero di fare qualcosa per il bene comune? Ma in questo caso? Stiamo davvero agendo per il bene comune? Non metto in dubbio la sua disponibilità, ma è lecito chiederle di sopportare tanto?» Anche gli studenti di Guarigione discutevano dell'anima ibernata. Acque Profonde li sentiva parlottare; voci sempre più alte e chiassose con il crescere del fermento. «Ha vissuto su sei pianeti.» «Io ho sentito sette.» «Mi hanno detto che non ha mai vissuto due volte di fila nella stessa specie ospite.» «Possibile?» «È stata quasi tutto. Un Fiore, un Orso, un Ragno...» «Un'Alga, un Pipistrello...» «Persino un Drago!» «Non ci credo... sette pianeti no.» «Come minimo sette. Ha iniziato sull'Origine.» «Sull'Origine? Davvero?» «Silenzio, per cortesia!» proruppe il Guaritore. «Se non siete in grado di osservare in silenzio e con professionalità, sarò costretto a chiedervi di andarvene.» I sei studenti tacquero imbarazzati e si scostarono uno dall'altro. «Iniziamo pure, Darren.» Era tutto pronto. I farmaci necessari erano disposti accanto all'umana. I suoi capelli scuri e lunghi erano raccolti sotto una cuffia che lasciava scoperto il collo slanciato. Sotto l'effetto di sedativi pesanti, respirava lentamente. La pelle abbronzata dal sole mostrava appena i segni dell'incidente.
«Inizia la sequenza di scongelamento, Darren.» L'assistente si era già portato a fianco del crioserbatoio. Tolse la sicura e girò la manopola verso il basso. Il led iniziò a pulsare, e con il passare dei secondi a lampeggiare sempre più veloce, cambiando colore. Il Guaritore si concentrò sul corpo privo di sensi; affondò il bisturi alla base del cranio con movimenti precisi, poi, prima di allargare la fessura, spruzzò un emostatico. Incise con delicatezza i muscoli del collo, attento a non danneggiarli, e scoprì le ossa pallide in cima alla colonna vertebrale. «L'anima è pronta» lo avvertì Darren. «Anch'io. Portala pure.» Il Guaritore avvertì Darren al proprio fianco e senza nemmeno guardare capì che l'assistente era pronto, la mano aperta e in attesa; lavoravano insieme da anni, ormai. Acque Profonde divaricò l'incisione. «Mettila nella sua casa» sussurrò. Sul palmo della mano di Darren apparve la scintilla argentea di un'anima che si risveglia. Acque Profonde non riusciva mai a guardare un'anima nuda senza restare colpito dalla sua bellezza. L'anima spiccava sotto le luci della sala operatoria, più luminosa dei riflessi metallici irradiati dal bisturi. Si torceva, si increspava e allungava come un nastro vivo, felice di uscire dal crioserbatoio. I suoi filamenti sottili e morbidi ondeggiavano delicati come fibre argentee. Ogni anima era bella, ma agli occhi di Acque Profonde questa sembrava particolarmente aggraziata. Non fu l'unico a reagire così. Sentì il sospiro trattenuto di Darren e il mormorio di approvazione degli studenti. Con delicatezza l'assistente collocò la creatura piccola e scintillante dentro la fessura aperta nella nuca dell'umana. L'anima scivolò agile dentro il varco, adattandosi all'anatomia aliena. Acque Profonde ammirò la perizia con cui prendeva possesso della sua nuova casa. Le propaggini si avviluppavano attorno ai centri nervosi, alcune si allungavano con movimenti veloci e decisi fino a raggiungere luoghi nascosti e invisibili, sotto e sopra il cervello, i nervi ottici, i condotti uditivi. Di lì a poco, soltanto un piccolo segmento di quel corpo scintillante fu visibile. «Ben fatto» le sussurrò il Guaritore, pur sapendo che l'anima non poteva sentirlo. Le orecchie appartenevano alla ragazza, che dormiva ancora profondamente.
Completare l'opera era questione di routine. Pulì e suturò l'incisione, applicò l'unguento cicatrizzante, e infine strofinò il collo con un preparato per cancellare il segno della ferita. «Perfetto, come al solito» disse l'assistente, il quale, per ragioni che Acque Profonde non era mai riuscito a intuire, aveva mantenuto il nome del proprio ospite umano, Darren. Il Guaritore sospirò. «Non sono fiero del lavoro di oggi.» «Hai soltanto fatto il tuo dovere.» «Questa è una delle rare occasioni in cui la guarigione apre una nuova ferita.» Darren iniziò a pulire la sala operatoria. Non sapeva cosa rispondere. Il Guaritore aveva eseguito il proprio compito. E tanto gli bastava. Non ad Acque Profonde, però, fedele in tutto e per tutto alla propria indole di Guaritore. Osservò inquieto il corpo dell'umana che dormiva calma, in una tranquillità pronta a dissolversi con il risveglio. L'orrore patito negli ultimi istanti di vita dalla giovane umana stava per essere risvegliato dall'anima innocente che era appena stata inserita in lei. Si chinò sulla ragazza e le sussurrò qualcosa all'orecchio, pregando con tutto se stesso che l'anima potesse sentirlo. «Buona fortuna, piccola Viandante, buona fortuna. Vorrei proprio che non ne avessi bisogno.» 1 Il ricordo L'inizio cominciava dalla fine, lo sapevo: e la fine per quegli occhi somigliava alla morte. Mi avevano avvertita. Non quegli occhi. I miei occhi. Miei. Quella ormai ero io. Il linguaggio che mi ritrovai a usare era strano ma logico. Spezzato, squadrato e lineare. Decisamente semplice rispetto ai tanti che già conoscevo, e tuttavia capace di farsi fluido, espressivo. Persino bello. Il mio linguaggio, adesso. La mia lingua madre. Grazie all'istinto infallibile della mia specie, mi ero saldata ai centri di pensiero del corpo, fatalmente intrecciata a ogni suo respiro e riflesso, fino a non sentirlo più un'entità estranea. Ero io. Non il corpo. Il mio corpo. Sentii svanire l'effetto degli anestetici, e la lucidità tornare. Attesi l'impatto devastante del primo ricordo, ovvero l'ultimo, gli ultimi momenti, la
fine. Mi avevano spiegato in dettaglio cosa stava per accadere. Le emozioni umane erano più forti, più vitali di quelle di ogni altra specie. Avevo cercato di prepararmi. Il ricordo arrivò. E come temevo, fu qualcosa che mai e poi mai avrei potuto prevedere. Bruciava di colori accesi e suoni squillanti. Il freddo sulla pelle, il dolore urticante agli arti. Il sapore in bocca era intenso e metallico. E poi c'era un senso nuovo, il quinto, che non avevo mai posseduto, che attraeva particelle dall'aria e le trasformava in strani messaggi, piaceri e avvertimenti: gli odori. Creavano confusione, distrazione in me, ma non nei suoi ricordi. I ricordi non lasciarono nessuno spazio all'olfatto. Nei ricordi c'era soltanto paura. Paura che la stringeva in una morsa, spronava i suoi arti goffi e impacciati a muoversi, ma al tempo stesso li immobilizzava. Fuggire, correre non aveva altra scelta. Ho fallito. Il ricordo fu spaventoso, così forte e chiaro da sfuggire al controllo: cancellò il distacco, la consapevolezza che venisse non da me, ma da un'altra memoria. Risucchiata nell'ultimo infernale minuto della sua vita, io ero lei, ed eravamo in fuga. È buio. Non vedo niente. Non vedo i miei piedi. Non vedo le mani protese in avanti. Corro alla cieca, mi sforzo di ascoltare i passi di chi mi insegue, sento il cuore rimbombare nelle orecchie. Fa freddo. Conta poco, ormai, ma sto male. Ho tanto freddo. L'aria nel suo naso era sgradevole. Un cattivo odore. Il fastidio mi liberò momentaneamente dal ricordo. Ma dopo un solo istante fu il ricordo a trascinarmi a sé, e lacrime di terrore gonfiarono i miei occhi. Mi sono persa... ci siamo persi. È finita. Sono alle mie spalle, vicini e rumorosi. Quanti passi sento! Sono sola. Ho fallito. I Cercatori mi chiamano. Il suono delle loro voci mi stringe lo stomaco. Sto per vomitare. «Va tutto bene, tutto bene» dice una di loro, mentendo, cercando di cal-
marmi, di farmi rallentare. Il respiro affannoso le spezza la voce. «Stai attenta!» le urla un compagno. «Non farti male» raccomanda un terzo. Una voce profonda, piena di premura. Premura! Sentii il calore diffondersi nelle vene, quasi soffocata da un odio violento. Non avevo provato un'emozione simile in nessun'altra vita. Di nuovo il disgusto allontanò i ricordi. Un gemito acuto e stridulo lacerò le mie orecchie e mi risuonò nella testa. In gola sentivo un lieve dolore. "Urlando" spiegò il mio corpo. "Stai urlando." La sorpresa mi lasciò impietrita, e il rumore si interruppe di colpo. Non era un ricordo. Il mio corpo... pensava! Mi stava parlando! Ma in quel momento il ricordo fu più forte dello sconcerto. «Per favore» urlano. «Lì davanti è pericoloso!» Il pencolo è dietro! grido dentro di me. Ma capisco cosa intendono. Un debole rivolo di luce, che arriva da chissà dove, splende in fondo al corridoio. Non c'è una parete né una porta chiusa, o il vicolo cieco che mi aspetto e temo. È un buco nero. Il vano di un ascensore. Abbandonato, vuoto e inagibile, come questo palazzo. Un tempo rifugio, oggi tomba. Mi sento inondare dal sollievo, mentre corro in avanti. Non riuscirò a sopravvivere, ma a vincere forse sì. No, no, no! Pensai, e il pensiero era tutto mio, mentre mi sforzavo di staccarmi da lei. Ormai, però, eravamo inseparabili. E correvamo svelte incontro alla morte. «Per favore!» Le urla sono più disperate. Mi viene da ridere, quando capisco di essere troppo veloce per loro. Li immagino allungare le mani, che per pochi centimetri non riescono ad afferrarmi. Sono veloce quanto basta. Non mi fermo nemmeno sull'orlo del pavimento. Il buco mi si fa incontro a metà del passo. Il vuoto mi ingoia. Le gambe si agitano inutilmente. Le mani afferrano l'aria, la stringono in cerca di un appiglio. Il freddo mi soffia addosso come
un tornado. Prima arriva il rumore, poi la sensazione del tonfo. Il vento è svanito. E il dolore è ovunque. Il dolore è tutto. Fermatelo. Non era alto abbastanza, bisbiglio a me stessa, nel dolore. Quando cesserà il dolore? Quando...? Il buio inghiottì il tormento, i ricordi erano giunti alla più inesorabile delle conclusioni. Il buio aveva cancellato tutto, ero libera. Respirai a fondo per calmarmi, com'era abitudine del corpo. Del mio corpo. Ma poi il colore si riaccese, i ricordi si risvegliarono e tornarono a invadermi. No! Andai nel panico, spaventata dal freddo, dal dolore e dalla paura stessa. Ma non si trattava del ricordo di poco prima. Era un ricordo dentro il ricordo... forse l'ultimo, ma, chissà perché, molto più forte del precedente. Il buio si era preso tutto: tranne un viso. Un viso che sentivo estraneo, che somigliava alle immagini con cui mi avevano preparata a questo mondo. Difficile distinguerle, individuare le microscopiche varianti di colore e forma che caratterizzavano ogni individuo. Si somigliavano tutti. Il naso al centro della sfera, gli occhi sopra e la bocca sotto, le orecchie ai lati. Tutti i sensi, escluso il tatto, concentrati nella stessa regione. Pelle sopra le ossa, capelli che crescevano sulla parte superiore, strane curve di peluria sopra gli occhi. Alcuni, i maschi, avevano pelo anche sul mento. I colori rientravano nella gamma del marrone, da una tonalità panna a un nero intenso. A parte questi dettagli, come si faceva a distinguerli? Quel viso l'avrei riconosciuto tra milioni. Era un rettangolo spigoloso, la sagoma delle ossa in evidenza sotto la pelle. Il colore era marrone chiaro, dorato. I capelli erano poco più scuri della pelle, accesi da qualche ciocca paglierina, e coprivano soltanto la testa e le strane linee sopra gli occhi. Le iridi circolari, nel bianco dei bulbi oculari, erano più scure dei capelli, ma altrettanto luminose. Sul contorno degli occhi c'erano piccole rughe, e i ricordi di lei mi dissero che nascevano dal sorriso e dalla luce forte del sole. Non conoscevo i canoni di bellezza di questi sconosciuti, eppure sentivo che quel volto era bellissimo. Non appena mi accorsi che sentivo il desiderio di guardarlo, svanì.
"È mio" disse il pensiero estraneo che non avrebbe dovuto esistere. Di nuovo restai impietrita, sconvolta. Mi aspettavo di essere sola. Eppure quel pensiero era così forte e presente! Ancora lei? Impossibile. Ormai io ero lei. "È mio" replicai, sottolineando la parola con il potere e l'autorità di cui disponevo. "Tutto mio." Ma allora perché le rispondo? mi domandai, prima che le voci interrompessero i miei pensieri. 2 La conversazione Le voci erano vicine, e malgrado me ne fossi appena accorta, sembravano nel pieno di una conversazione sussurrata. «Temo che sia troppo per lei» disse la prima. Era bassa ma profonda, mascolina. «E per chiunque. Quanta violenza!» C'era disgusto in quelle parole. «Ha strillato soltanto una volta» disse una voce acuta, esile, femminile, e il suo commento mostrava un certo compiacimento, come se i fatti le dessero ragione. «Lo so» ammise l'uomo. «È davvero forte. Altri hanno patito traumi peggiori, per cause molto più futili.» «Sono certa che starà bene, te l'ho detto.» «Forse hai sbagliato Vocazione.» C'era un filo di eccitazione nella voce maschile. La mia banca dati linguistica mi informò che si chiamava «sarcasmo». «Forse dovevi diventare una Guaritrice, come me.» La donna rise, divertita. «Ne dubito. Noi Cercatori prediligiamo un tipo diverso di diagnosi.» Il mio corpo conosceva quella parola: Cercatori. Sentii un brivido lungo la schiena. Il residuo di una reazione. Io non avevo nessuna ragione per temere i Cercatori, ovviamente. «A volte penso che tu e i tuoi colleghi siate state contagiate dal morbo dell'umanità» commentò l'uomo, la voce sempre acida e infastidita. «La violenza è congenita, nel vostro stile di vita. Conservate quel poco di indole umana che vi basta a compiacervi dell'orrore?» Restai sorpresa dal tono della sua accusa. La discussione somigliava molto a... un litigio. Qualcosa di familiare per la mia ospite, ma di cui io ero all'oscuro.
La donna restò sulla difensiva. «Non siamo noi a scegliere la violenza. La affrontiamo quando dobbiamo. E per voialtri è una fortuna che alcuni di noi siano tanto forti da sopportarla. Senza il nostro lavoro, la vostra pace andrebbe in pezzi.» «Una volta era così. Credo che presto la vostra Vocazione diventerà obsoleta.» «Ti sbagli, e questo letto ne è la prova.» «Una giovane umana, sola e disarmata! Davvero una bella minaccia alla nostra pace.» La donna respirò a fondo. Sbuffò. «Sì, ma da dove viene? Come ha potuto spuntare nel cuore di Chicago, una città civilizzata da un pezzo, a centinaia di chilometri da una qualsiasi traccia di attività dei ribelli? Ce l'ha fatta da sola?» Poneva domande a raffica come se non pretendesse una risposta, dopo averle ripetute molte volte. «Questo è un problema tuo» disse l'uomo. «Il mio compito è aiutare questa anima ad ambientarsi nella nuova ospite senza traumi né dolore inutile. E tu stai interferendo con il mio lavoro.» Ancora impegnata a riprendere coscienza, a orientarmi in un mondo di sensi nuovi, capii che discutevano di me. Ero io l'anima di cui parlavano. Una parola nuova, una parola che per la mia ospite aveva avuto tanti altri significati. Il nostro nome cambiava a seconda del pianeta. Anima. Immagino che fosse la definizione più opportuna. La forza invisibile che guida il corpo. «Rispondere alle mie domande è importante quanto le tue responsabilità nei confronti di questa anima.» «Questo è da vedere.» Percepii un movimento. E la voce femminile diventò un sussurro. «Quando diventerà reattiva? L'effetto dell'anestesia è quasi svanito.» «Quando sarà pronta. Lasciala stare. Ha diritto di affrontare la situazione nel modo che ritiene più semplice. Immagina la sorpresa di svegliarsi nel corpo di una ribelle, ferita a morte mentre tentava di fuggire! Un trauma simile non dovrebbe toccare a nessuno, in tempi di pace!» La voce maschile si fece più intensa, vinta dall'emozione. «È forte» lo rassicurò la voce femminile. «Guarda come ha affrontato bene il primo ricordo, il peggiore. Qualunque cosa si aspettasse, se l'è cavata.» «In nome di cosa?» borbottò l'uomo, ma non sembrava attendersi una ri-
sposta. La donna ribatté comunque: «Per ottenere le risposte di cui abbiamo bisogno...». «Abbiamo bisogno lo dici tu. Fossi in te, direi pretendiamo.» «Qualcuno deve farsi carico delle cose più spiacevoli» proseguì lei ignorando l'interruzione. «E per quanto ne so, quest'anima avrebbe accettato l'incarico, se ci fosse stato un modo di proporglielo. Che nome le hai dato?» L'uomo sprofondò in un lungo silenzio. La donna attese. «Viandante» disse lui infine, suo malgrado. «Le si addice» commentò lei. «Non ho statistiche ufficiali, ma deve essere una delle pochissime, se non l'unica, a essersi spinta così lontano. Sì, Viandante le starà benissimo, finché non si sceglierà da sola un nome nuovo.» Lui restò in silenzio. «Ovviamente, può assumere il nome dell'ospite. Negli archivi non abbiamo trovato nominativi corrispondenti alle impronte digitali né alla scansione della retina. Non so dirti come si chiamasse.» «Non riprenderà il nome umano» borbottò l'uomo. «Ognuno trova conforto a modo suo» rispose lei, conciliante. «Alla Viandante ne servirà parecchio, grazie al tuo stile di Ricerca.» Sentii una serie di rumori secchi, il martellare dei passi su un pavimento duro. Quando riprese a parlare, la donna si trovava all'altro capo della stanza rispetto all'uomo. «Se avessi partecipato all'inizio dell'occupazione, avresti reagito davvero male.» «Forse tu reagisci male alla pace.» La donna rise, ma in modo falso. La mia mente sembrava già in grado di intuire i significati nascosti nel tono e nelle inflessioni di voce. «Non ti è del tutto chiaro cosa comporta la mia Vocazione. Ore e ore china su archivi e mappe. Più che altro, lavoro d'ufficio. Non è sempre lo scontro o la violenza che forse immagini.» «Quando dieci giorni fa hai scovato questo corpo, eri armata fino ai denti.» «È l'eccezione, stanne sicuro, non la regola. Non dimenticarlo, le armi che tanto ti disgustano sono state usate contro la nostra specie ogni volta che noi Cercatori abbiamo abbassato la guardia. Gli umani sono felici di ammazzarci, se ne hanno modo. Chi è stato colpito dalla loro ostilità ci
considera eroi.» «Parli come se fossimo nel pieno di una guerra.» «Sì, quella contro i resti della specie umana.» Queste parole mi rimbombarono nelle orecchie. Il mio corpo reagì; sentii il respiro accelerare, il battito del cuore che pompava più forte del normale. Accanto al letto su cui giacevo, una macchina registrò l'aumento del ritmo con un bip soffocato. Il Guaritore e la Cercatrice erano troppo impegnati nella discussione per accorgersene. «Guerra che loro stessi sanno di avere già perso. Sono in inferiorità... di quanto? Un milione contro uno? Immagino che tu lo sappia.» «Secondo le nostre stime, direi che i favoriti siamo noi» ammise lei a denti stretti. Il Guaritore parve accontentarsi di chiudere il discorso con quella precisazione. Per qualche istante rimase in silenzio. Ne approfittai per riflettere sulla mia situazione. Molto risultava ovvio. Mi trovavo in un laboratorio di Guarigione, convalescente dopo un'inserzione piuttosto traumatica. Ero certa che il corpo che mi ospitava fosse completamente guarito, prima che me lo affidassero. Di solito si sbarazzavano degli ospiti danneggiati. Considerai le opinioni divergenti del Guaritore e della Cercatrice. Secondo le informazioni che mi avevano dato il Guaritore aveva ragione. Le ostilità contro le ultime sacche di resistenza umana erano terminate. Il pianeta chiamato Terra era pacifico e sereno come appariva dallo spazio, una sfera invitante verde e blu circondata da vapori bianchi e innocui. Come sempre, dopo la venuta delle anime l'armonia regnava ovunque. Lo scontro verbale tra Guaritore e Cercatrice era inconsueto. Stranamente aggressivo per la nostra razza. Mi lasciò perplessa. Erano forse vere, le voci sussurrate che si erano diffuse come onde tra i pensieri dei... dei... Mi persi alla ricerca del nome della mia ultima specie. Avevamo un nome, lo sapevo. Lontana dall'ospite, però, non lo ricordavo. Il linguaggio che avevo usato era molto più semplice di questo, un linguaggio muto di pensieri che ci univa tutti in una sola grande niente. Accorgimento necessario, per chi vive radicato in un terreno umido e nero. Potevo descrivere quella specie con il mio nuovo linguaggio umano. Vivevamo sul fondo del grande oceano che copriva l'intera superficie del pianeta... del quale non ricordavo il nome. Avevamo cento braccia, e per ogni braccio mille occhi, così che, nell'unione dei nostri pensieri, niente di quanto accadeva nella vastità delle acque passava inosservato. Non c'era
bisogno di suoni, perciò eravamo prive di udito. Sentivamo il sapore dell'acqua, che insieme alla vista diceva tutto ciò che dovevamo sapere. E quello del sole, lontano leghe e leghe sopra l'oceano, che si trasformava nel nostro nutrimento. Ero in grado di descriverci, ma non di darci un nome. Sospirai triste per quella conoscenza perduta, e tornai a meditare sulla conversazione che avevo ascoltato. Di regola, le anime dicevano solo la verità. I Cercatori, ovviamente, dovevano seguire le norme della loro Vocazione, ma tra anime non c'era motivo di mentire. Il linguaggio mentale della mia ultima specie avrebbe reso vano qualsiasi tentativo di dire bugie. Ancorate al suolo com'eravamo, combattevamo la noia raccontandoci storie. Saper raccontare una storia era il più apprezzato dei talenti, perché tutti ne godevano. A volte la realtà si mescolava con l'invenzione al punto da farci dubitare, malgrado l'assenza di bugie, cosa fosse vero e cosa no. Quando pensavamo al nuovo pianeta - la Terra, così asciutta, così eterogenea, colma di un numero di abitanti violenti e distruttivi che a malapena riuscivamo a immaginare -, l'orrore iniziale veniva cancellato dall'entusiasmo. Nascevano subito storie legate al nuovo e appassionante argomento. Le guerre - le guerre! la nostra razza costretta a combattere! - prima venivano descritte nei dettagli, poi abbellite e trasformate in racconti. Quando i racconti avevano iniziato a divergere dalle informazioni ufficiali che avevo cercato, mi ero attenuta ai resoconti di prima mano. Ma sottovoce si parlava anche d'altro: di ospiti umani talmente forti da costringere le anime ad abbandonarli. Ospiti dalla mente indomabile. Anime che assumevano la personalità del corpo, anziché imporre la propria. Storie. Voci incontrollate. Pazzia. Somigliava all'accusa del Guaritore... Non diedi peso a quel sospetto. Le proteste del Guaritore, probabilmente, erano soltanto un riflesso dell'antipatia diffusa tra tutte le anime per la Vocazione dei Cercatori. D'altronde, com'era possibile desiderare una vita di scontri e inseguimenti? Essere affascinati dal compito di individuare e catturare gli ospiti refrattari? Avere il fegato di affrontare la violenza di questa specie ostile, gli umani, che uccideva con tanta facilità e a cuor leggero? Su questo pianeta i Cercatori erano diventati un vero... esercito: il mio nuovo cervello suggerì la definizione migliore per un concetto a me sconosciuto. Era opinione diffusa che soltanto le anime meno civilizzate, meno evolute, inferiori, intraprendessero il cammino dei Cercatori.
Tuttavia, sulla Terra essi godevano di un nuovo status. Mai era accaduto che un'occupazione andasse male. Mai si era trasformata in una battaglia crudele e sanguinosa. I Cercatori facevano da potente scudo, e le anime di questo mondo erano tre volte loro debitrici: perché avevano trasformato il caos in sicurezza, perché ogni giorno rischiavano volontariamente la vita, e perché provvedevano al rifornimento costante di nuovi corpi. Ora che il pericolo era passato, il senso di gratitudine andava scemando. E, almeno per questa Cercatrice, il cambiamento non era piacevole. Facile immaginare cosa mi avrebbe domandato. Malgrado gli sforzi del Guaritore di concedermi altro tempo per abituarmi al nuovo corpo, sapevo che avrei fatto del mio meglio per aiutare la Cercatrice. Il senso civico era un requisito indispensabile di ogni anima. Così respirai a fondo per prepararmi. Il monitor segnalò il mio movimento. Mi sentivo un po' indecisa. Odiavo ammetterlo, ma avevo paura. Per recuperare le informazioni di cui la Cercatrice aveva bisogno avrei dovuto esplorare i ricordi violenti che mi avevano fatto urlare di terrore. Ma, soprattutto, avevo paura della voce che avevo sentito forte nella testa. In quel momento, com'era giusto, taceva. Anche lei era soltanto un ricordo. Non dovevo avere paura. Dopotutto, il mio nuovo nome era Viandante. Me l'ero guadagnato. Con un altro respiro profondo affrontai i ricordi che mi spaventavano, e mi ci tuffai stringendo forte i denti. Ero in grado di andare oltre il momento della fine, poiché aveva smesso di sconvolgermi. Avanti veloce, tornai con un fremito alla corsa nel buio, cercando di zittire le sensazioni. Ne uscii in fretta. Superata la barriera, non fu difficile fluttuare tra cose e luoghi meno allarmanti, in cerca di informazioni. Vidi com'era arrivata in quella città fredda, di notte, al volante di un'auto rubata, scelta per il suo aspetto anonimo. Aveva camminato per le vie di Chicago al buio, tremante e avvolta in un cappotto. Anche lei stava cercando. C'era qualcun altro dei suoi, almeno così sperava. Una in particolare. Un'amica... no, una parente. Non una sorella... una cugina. Le parole sgorgavano sempre più lente, e sulle prime non capii perché. Era un particolare dimenticato? Perso nel trauma di una morte sfiorata? Ero ancora intontita dalla perdita di conoscenza? Mi sforzai di ragionare. Che sensazione poco familiare. I sedativi erano ancora in circolo? Mi sentivo lucida, ma la mente si affannava a cercare le risposte che volevo e non
trovavo. Provai con un altro percorso mentale, nella speranza di avere una visione più chiara. Qual era il suo obiettivo? Doveva trovare... Sharon - pescai il nome da chissà dove - e con lei avrebbe... Sbattei contro un muro. Era un vuoto, un nulla. Cercai di aggirarlo, ma non riuscivo a trovarne i confini. Come se l'informazione che cercavo fosse stata cancellata. Come se il cervello fosse stato danneggiato. Mi sentii invadere da una rabbia ardente e selvaggia. Una reazione inaspettata, che mi tolse il fiato. Avevo sentito parlare dell'instabilità emotiva dei corpi umani, ma questo andava oltre le mie capacità di previsione. In otto vite, nessun'altra emozione mi aveva presa con tanta forza. Sentii il sangue pulsare nel collo, rimbombare nelle orecchie. Strinsi i pugni. Il monitor al mio fianco registrò l'accelerazione del battito cardiaco. Nella stanza qualcuno si mosse: il tacchettio delle scarpe della Cercatrice si avvicinò, assieme all'incedere più posato che doveva appartenere al Guaritore. «Benvenuta sulla Terra, Viandante» disse lei. 3 La resistenza «Non identifica ancora il suo nome» mormorò il Guaritore. Una nuova sensazione mi distrasse. Qualcosa di piacevole, un cambiamento nell'aria, quando la Cercatrice mi si avvicinò. Un aroma diverso da quello della stanza sterile e inodore. Profumo, disse la mia nuova mente. Floreale, ricco... «Mi senti?» domandò la Cercatrice, interrompendo la mia analisi. «Sei vigile?» «Fa' con comodo» aggiunse il Guaritore, con voce più pacata. Non aprii gli occhi. Non volevo lasciarmi distrarre. La mia mente mi diede le parole necessarie e l'intonazione giusta per suggerire ciò che non potevo dire senza parlare troppo. «Sono stata inserita in un ospite danneggiato per ottenere le informazioni di cui hai bisogno, Cercatrice?» Qualcuno sussultò - di sorpresa e stupore -, e qualcosa di caldo sfiorò la mia pelle e mi coprì la mano.
«Certo che no, Viandante» disse l'uomo, rassicurante. «Nemmeno una Cercatrice oserebbe tanto.» La Cercatrice sussultò ancora. Anzi, sibilò, corresse la mia mente. «E allora perché questo cervello non funziona correttamente?» Restarono in silenzio. «Le analisi erano perfette» disse la Cercatrice, non per rassicurarmi ma per giustificarsi. Voleva litigare anche con me? «Il corpo era totalmente guarito.» «Da un tentato suicidio che è andato pericolosamente vicino all'obiettivo.» Il mio tono di voce era duro, ancora arrabbiato. Non avevo familiarità con la rabbia. Difficile trattenerla. «Tutto era in perfetto ordine...» Il Guaritore la zittì. «Cosa manca?» domandò. «Chiaramente tu sei in grado di parlare.» «I ricordi. Ho tentato di trovare ciò che vuole la Cercatrice.» Malgrado il silenzio, colsi un cambiamento. La tensione che era seguita alla mia prima accusa si allentò. Chissà come avevo fatto ad accorgermene. Avevo la strana sensazione di capire più di quanto mi consentivano i cinque sensi... quasi ce ne fosse un sesto, nascosto ai margini, non del tutto imbrigliato. Intuito? Era quasi la parola giusta. Come se fosse necessario avere più di cinque sensi. La Cercatrice si schiarì la voce, ma fu il Guaritore a rispondere. «Ah» esclamò. «Non innervosirti se incontri qualche... parziale difficoltà mnemonica. Non dico che, ehm, ce lo aspettassimo, ma, vista la situazione, non è una sorpresa.» «Non capisco cosa intendi.» «Questa ospite faceva parte della resistenza.» C'era un che di agitato nella voce della Cercatrice. «Gli umani che si accorgono della nostra presenza prima dell'inserzione sono più difficili da sottomettere. Questa resiste ancora.» Rimasero in silenzio, in attesa della mia risposta. Era l'ospite a resistere, a sbarrarmi la strada? L'intensità della mia rabbia mi sorprese di nuovo. «Sono stata impiantata correttamente?» domandai, con voce distorta dai denti digrignati. «Sì» rispose il Guaritore. «Gli ottocentoventisette punti sono ben saldi, in posizione ottimale.» Non c'era confronto tra le immense facoltà del mio nuovo cervello e
quelle dei miei ospiti precedenti: rimanevano libere soltanto centoottantuno propaggini. Forse erano tutti quei collegamenti a rendere le emozioni tanto vivide. Decisi di aprire gli occhi. Avevo bisogno di verificare le certezze del Guaritore, e assicurarmi che il resto di me funzionasse. Luce. Forte, fastidiosa. Richiusi gli occhi. L'ultima luce che avevo visto era filtrata da centinaia di metri di oceano. Ma i miei nuovi occhi erano abituati a luminosità più intense, potevano sopportare. Li schiusi piano, schermandoli con le lunghe ciglia. «Vuoi che abbassi le luci?» «No, Guaritore, i miei occhi si abitueranno.» «Molto bene» rispose, e capii che a soddisfarlo era stato quel «miei» spontaneo. I due aspettavano in silenzio, mentre aprivo lentamente gli occhi. La mia mente si rese conto di trovarsi nella stanza di una struttura medica. Un ospedale. Le formelle del soffitto erano bianche, con macchie scure. Le lampade erano rettangolari, grosse come le formelle, con le quali si alternavano a intervalli regolari. Le pareti erano verde chiaro: un colore rilassante, ma anche il colore della malattia. Intuii subito che come scelta non era granché. Più della stanza, a incuriosirmi furono gli individui che mi stavano di fronte. Non appena mi concentrai sul Guaritore, nella mia mente risuonò la parola «dottore». Indossava un abito verde acqua che lasciava scoperte solo le braccia. Un camice. Aveva peli anche sul viso, di uno strano colore che la mia memoria chiamava «rosso». Rosso! Erano passati tre mondi dall'ultima volta che avevo visto un colore. Quella tinta fulva e dorata mi riempì di nostalgia. Il suo volto mi apparve genericamente umano, ma le cognizioni della mia memoria vi associarono la parola «gentile». Uno sbuffo impaziente dirottò la mia attenzione verso la Cercatrice. Era molto minuta. Se fosse rimasta immobile a fianco del Guaritore, chissà quando mi sarei accorta di lei. Non attirava l'attenzione, come un'ombra nella luce della stanza. Era vestita di nero, dal mento ai polsi: giacca di taglio classico sopra un dolcevita nero. Anche i capelli erano neri. Dovevano arrivarle al mento, ma li teneva raccolti dietro le orecchie. La sua pelle era più scura di quella del Guaritore. Olivastra. I cambiamenti nelle espressioni umane erano così impercettibili che faticavo a leggerli. Tuttavia, la mia memoria riuscì a dare un nome all'aspetto
di quel viso femminile. Le sopracciglia nere, basse sugli occhi leggermente sporgenti, disegnavano un'espressione familiare. Non proprio rabbia. Concentrazione. Irritazione. «Situazioni come la mia sono frequenti?» domandai al Guaritore. «No» confessò lui. «Gli ospiti adulti a nostra disposizione, ormai, sono pochissimi. Quelli più immaturi sono duttili e malleabili. Ma tu stessa hai specificato di voler cominciare da adulta...» «Sì.» «Di solito è il contrario. La vita umana dura molto meno, rispetto a quanto siete abituate.» «Conosco bene i dati, Guaritore. Hai già avuto a che fare di persona con questa... resistenza?» «Di persona, soltanto una volta.» «Spiegami bene.» Feci una pausa. «Per favore» aggiunsi, quando mi accorsi della mancanza di gentilezza nella mia richiesta. Il Guaritore fece un sospiro. La Cercatrice iniziò a tamburellare con le dita su un braccio. Segno d'impazienza. Non le andava di aspettare oltre. «Accadde quattro anni fa» disse il Guaritore. «L'anima che assistevo aveva chiesto un ospite maschio adulto. Il primo disponibile fu un essere umano vissuto in una sacca di resistenza nei primi anni dell'occupazione. L'umano... sapeva cosa gli sarebbe accaduto, se lo avessimo preso.» «Proprio come la mia ospite.» «Ehm, sì.» Il Guaritore si schiarì la voce. «L'anima era soltanto alla sua seconda vita. Veniva dal Mondo Cieco.» «Il Mondo Cieco?» domandai, e istintivamente inclinai la testa come per riflettere. «Ah, scusa, non conosci la nostra terminologia. Ci sei stata, però, no?» Estrasse un apparecchio dalla tasca, un computer, e controllò svelto. «Sì, il tuo settimo pianeta. Nel settore ottantuno.» «Il Mondo Cieco?» ripetei, con chiara disapprovazione. «Sì, be', chi lo ha abitato lo chiama anche "Mondo che Canta".» Annuii lentamente. Così andava meglio. «E spesso chi non ci è mai stato lo chiama "Pianeta dei Pipistrelli"» mormorò la Cercatrice. Mi voltai verso di lei e la trafissi con uno sguardo, mentre il mio cervello ricostruiva l'immagine del brutto animale volante che aveva nominato. «Suppongo che tu appartenga al secondo gruppo, Cercatrice» disse il
Guaritore, senza scomporsi. «Sulle prime battezzammo l'anima "Canzone che Corre", una traduzione libera del nome che aveva nel... Mondo che Canta. Ma di lì a poco scelse di prendere il nome del suo ospite, Kevin. Malgrado fosse un'ovvia candidata alla Vocazione di Esecutore Musicale, data la sua provenienza, disse che si sarebbe sentita a proprio agio con la vecchia professione del suo ospite, nel campo della meccanica. «Il Consolatore che gli era stato assegnato lo interpretò come un sintomo preoccupante, anche se si trattava di una scelta legittima. «Poi Kevin iniziò ad accusare vuoti di memoria. Me lo riconsegnarono, effettuammo tutti i test per assicurarci che il cervello dell'ospite non nascondesse difetti. Durante le analisi, molti Guaritori notarono differenze significative nel comportamento e nella personalità del paziente. Quando gliene chiedemmo conto, dichiarò di non ricordare più certe sue affermazioni e azioni. Assieme al Consolatore, lo tenemmo sotto controllo e scoprimmo che l'ospite, a intervalli regolari, riprendeva il controllo del corpo di Kevin.» «Il controllo?» Strabuzzai gli occhi. «Senza che l'anima se ne accorgesse? L'ospite si riprendeva il corpo?» «Purtroppo sì. Kevin non era abbastanza forte da sopprimerlo.» Non era abbastanza forte. Pensavano che anch'io fossi debole? Così debole da non saper costringere questa mente a rispondere alle mie domande? Da lasciare che i suoi pensieri contaminassero un cervello che avrebbe dovuto custodire soltanto ricordi? Mi ero sempre considerata forte. L'idea della debolezza mi fece trasalire. Vergognare. Il Guaritore proseguì: «Dopo un certo episodio, decidemmo di...». «Quale episodio?» Il Guaritore abbassò lo sguardo, senza rispondere. «Quale episodio?» ripetei. «Credo di avere il diritto di saperlo.» Il Guaritore sospirò. «Certo. Kevin... perse il controllo e aggredì una Guaritrice» disse, e trasalì. «Con un pugno le fece perdere conoscenza, poi le rubò un bisturi. Lo trovammo privo di sensi. L'ospite aveva tentato di rimuovere l'anima dal proprio corpo.» Riuscii a parlare soltanto dopo qualche istante. E la mia voce fu un sussurro. «Come andò a finire?» «Per fortuna l'ospite non riuscì a infliggere danni pesanti, non ne aveva avuto il tempo. Kevin venne reinnestato in un ospite non maturo. Quello precedente era in cattive condizioni, e decidemmo che salvarlo non aveva
molto senso. «Oggi Kevin ha sette anni umani, ed è perfettamente normale... a parte il fatto che ha mantenuto il vecchio nome. I suoi custodi badano a esporlo costantemente alla musica, e ciò sta iniziando a dare qualche frutto...» La annunciò come una buona notizia, sufficiente a cancellare tutto il resto. «Perché?» Mi schiarii la gola, per dare un po' di tono alla mia voce. «Perché non mi avete messa al corrente di questi rischi?» «A dire la verità» interloquì la Cercatrice, «la propaganda delle campagne di reclutamento dice chiaro e tondo che assimilare i pochi ospiti umani adulti che restano è molto più impegnativo che assimilare un bambino. È sempre meglio iniziare con un ospite non maturo.» «Il termine "impegnativo" non si addice granché alla storia di Kevin» sussurrai. «Sì, certo, ma sei tu che hai preferito ignorare le raccomandazioni.» Alzò le mani in un gesto pacificatore e il mio corpo si tese, sfregando il lenzuolo ruvido del lettino. «Non te ne faccio una colpa. L'infanzia è una noia insopportabile. E tu non sei un'anima qualsiasi, è evidente. Sono più che convinta che con le tue capacità saprai cavartela. Per te è un ospite come un altro. In breve tempo otterrai il controllo totale.» Fui sorpresa di vedere la Cercatrice paziente e disposta a sopportare qualsiasi ritardo, persino la mia acclimatazione. Il timore che fosse delusa perché non le avevo fornito alcuna informazione riportò a galla la sensazione poco familiare di rabbia. «Non hai pensato di farti inserire in questo corpo, per ottenere le risposte che cerchi?» domandai. Lei si irrigidì. «Non sono una che se la squaglia.» Alzai immediatamente le sopracciglia. «È un altro modo di dire terrestre» spiegò il Guaritore. «Si riferisce a chi non completa il periodo di vita del proprio ospite.» Annuii. Anche nei miei vecchi mondi avevamo una definizione simile. E nessuno la considerava ridicola. Perciò smisi di interrogare la Cercatrice e le diedi le informazioni che potevo. «Si chiamava Melanie Stryder. È nata ad Albuquerque, nel New Mexico. Quando venne a sapere dell'occupazione si trovava a Los Angeles; rimase nascosta nel deserto per qualche anno prima di trovare... Hmmm. Scusa, ci riprovo più tardi. Il corpo è vissuto vent'anni. È arrivata a Chicago da...» Scossi la testa. «Dopo varie tappe, non tutte in solitudine. Il veicolo era rubato. Stava cercando una cugina di nome Sharon, aveva motivo
di sperare che fosse ancora umana. Non ha trovato né contattato nessuno, prima di essere individuata. Ma...» mi sforzai di combattere contro l'ennesimo muro vuoto «penso... non sono sicura... penso abbia lasciato un appunto... da qualche parte.» «Quindi si aspettava che qualcuno andasse a cercarla?» domandò la Cercatrice, impaziente. «Sì. E la considererà... dispersa. Se non si presenta all'appuntamento con...» Digrignai i denti con uno sforzo violentissimo. Il muro era nero, e non capivo quanto fosse spesso. Mi ci scagliai contro, la fronte imperlata di sudore. La Cercatrice e il Guaritore restarono in silenzio per lasciarmi concentrare. Cercai di pensare ad altro: i rumori fastidiosi e poco familiari dell'automobile, le ondate di adrenalina e i brividi ogni volta che si avvicinavano le luci di un altro veicolo. Fin là ero arrivata senza incontrare ostacoli. Mi lasciai trasportare dal ricordo, oltre l'attraversamento della città fredda, protetta dal buio della notte, fino al percorso che portava al palazzo in cui mi avevano trovata. Non me, lei. Rabbrividii. Il Guaritore intervenne: «Non esagerare con...». La Cercatrice lo zittì. Lasciai che la mia mente indugiasse nell'orrore della scoperta, nell'odio cieco contro i Cercatori che aveva la meglio su ogni altra sensazione. L'odio era cattivo, doloroso. Lo sopportavo a stento. Ma lasciai che facesse il suo corso, nella speranza di aggirare la resistenza e indebolire le difese. La seguii con attenzione mentre cercava di nascondersi e capiva di non potercela fare. Un appunto, scarabocchiato su un brandello di carta con una matita spuntata. Infilato in fretta sotto una porta. Non una porta qualsiasi. «L'obiettivo è la quinta porta del quinto corridoio al quinto piano. Il suo messaggio è là.» La Cercatrice aveva con sé un cellulare, in cui mormorò qualche parola rapida. «Pensavano che il palazzo fosse al sicuro» continuai. «Per quanto ne sapevano, era destinato alla demolizione. Lei non immaginava di essere stata scoperta. Hanno trovato anche Sharon?» Un brivido di terrore mi fece venire la pelle d'oca. La domanda non veniva da me, ma uscì con naturalezza dalle mie labbra. La Cercatrice non notò alcuna stranezza. «La cugina? No, non hanno trovato altri umani» rispose, e il mio corpo
si rilassò. «Questa ospite è stata intercettata mentre entrava nel palazzo. L'edificio era destinato alla demolizione, perciò il cittadino che la teneva d'occhio ha drizzato le antenne. Ci ha avvertiti, e abbiamo tenuto sotto controllo la situazione nella speranza di prenderne altri, ma quando abbiamo capito che sarebbe stato improbabile siamo entrati. Riesci a trovare il luogo dell'incontro?» Ci provai. Quanti ricordi, colorati e nitidi. Vidi centinaia di posti in cui non ero mai stata, ne sentii per la prima volta il nome. Una casa a Los Angeles, circondata dalle fronde di alberi alti. Una radura nella foresta, con una tenda e un falò, nei dintorni di Winslow, in Arizona. Una spiaggia rocciosa e deserta in Messico. Una grotta, l'uscita bloccata dalla pioggia fitta, da qualche parte nell'Oregon. Tende, capanne, rifugi improvvisati. Con l'andare del tempo i nomi erano sempre meno precisi. Il mio nuovo nome era Viandante, eppure i suoi ricordi calzavano come fossero miei. Con una differenza: il mio vagabondare aveva una ragione precisa. I lampi di memoria, invece, erano viziati dalla paura della preda. Che non viaggia, ma fugge. Cercai di non impietosirmi. Anzi, mi sforzai di mettere a fuoco i ricordi. Non mi occorreva sapere dove fosse stata, ma dove volesse andare. Passai in rassegna le immagini legate alla parola «Chicago», ma sembravano poco più che apparizioni casuali. Allargai il raggio. Cosa c'era fuori da Chicago? Il freddo, pensai. Faceva freddo, e la cosa era preoccupante. Dove? Un'ultima spinta, e il muro crollò. Le parole sgorgarono di colpo. «Fuori città, nel deserto... un parco nazionale, lontano dalle abitazioni. Non ci è mai stata, ma sapeva come arrivarci.» «Quando?» domandò la Cercatrice. «Presto.» La risposta giunse spontanea. «Da quanto tempo mi trovo qui?» «La guarigione dell'ospite è durata nove giorni, volevamo essere matematicamente sicuri che si riprendesse» rispose il Guaritore. «L'inserzione è avvenuta oggi, nel decimo giorno.» Dieci giorni. Il mio corpo si sentì sopraffatto dal sollievo. «Troppo tardi» dissi. «Per l'incontro... e anche per il biglietto.» Sentivo la reazione dell'ospite, fin troppo intensa. L'ospite era quasi... compiaciuta. Mi abbandonai alle parole che avrebbe voluto pronunciare, così da poter scoprire qualcos'altro. «Non lo troverete.»
La Cercatrice non si lasciò sfuggire il dettaglio. «Chi?» Il muro nero si richiuse con forza. Ma era in ritardo, di una minuscola frazione di secondo. Di nuovo, il volto riempì la mia mente. Il viso bellissimo con la pelle dorata e scura, gli occhi scintillanti. Il volto che suscitava un piacere strano e profondo, mentre lo visualizzavo in ogni dettaglio. Malgrado il muro fosse tornato eretto all'istante, accompagnato da una sensazione cattiva e risentita, non era stato abbastanza rapido. «Jared» risposi. Veloce come se fossi stata io a produrlo, un pensiero che non mi apparteneva uscì fulmineo dalle mie labbra. «Jared è salvo.» 4 Il sogno Non può essere così buio con questo caldo, o forse non può esserci così caldo con questo buio. Delle due, l'una. Mi rannicchio nell'oscurità dietro l'esile schermo di un cespuglio nano di creosoto, e sudo tutti i liquidi che mi restano in corpo. L'auto ha lasciato il garage quindici minuti fa. Nessuna luce si è accesa. La porta finestra è aperta di pochi centimetri, per far funzionare il deumidificatore. Immagino la sensazione dell'aria densa e fresca che soffia dalla vetrata. Vorrei che sfiorasse anche me. Il mio stomaco borbotta, contraggo gli addominali per attutirne il rumore. C'è un tale silenzio che lo si sente rimbombare. Ho tanta fame. C'è un altro e più forte desiderio... un altro stomaco affamato lontano da qui, nascosto al sicuro e al buio, in attesa solitaria dentro la grotta primitiva che è la nostra casa provvisoria. Una casa angusta, di roccia vulcanica. Come farà se non torno? Provo tutta l'angoscia della maternità, senza averne nessuna esperienza. Mi sento orribilmente inerme. Jamie ha fame. La casa è isolata. La tengo d'occhio da quando il sole era ancora alto e accecante, e penso che non ci sia neanche un cane. Mi distendo dalla posizione rannicchiata, e le mie caviglie protestano urlando, ma rimango china per non sporgermi dal cespuglio. Il torrente in secca è sabbia liscia, un sentiero pallido sotto la luce delle stelle. Non sento rumori di automobili sulla strada. So di cosa si accorgeranno una volta rientrati, i mostri che sembrano una coppia di brave persone poco più che cinquantenni. Capiranno esattamente
cosa sono, e la ricerca inizierà subito. Devo scappare. Spero che siano andati a trascorrere la serata in città. Se non sbaglio è venerdì. Mantengono perfettamente le nostre abitudini, è difficile notare le differenze. Ecco perché hanno vinto. La recinzione che circonda il cortile mi arriva ai fianchi. La scavalco con facilità, senza far rumore. Però il cortile è di ghiaia, devo stare attenta a camminare senza lasciare tracce. Arrivo fino al patio di cemento. Le persiane sono aperte. La luce delle stelle è sufficiente a farmi capire che nelle stanze tutto è immobile. Sono contenta che la coppia abbia scelto un arredo spartano. Così è più difficile nascondersi. Certo, lo è anche per me, ma in ogni caso se devo nascondermi io vuol dire che è troppo tardi. Faccio scorrere prima la porta esterna, poi la porta a vetri. Entrambe scivolano in silenzio. Misuro i passi sulle piastrelle, ma è solo un riflesso automatico. Nessuno mi aspetta, qui. L'aria fresca è quasi il paradiso. La cucina è alla mia sinistra. Vedo il riflesso del bancone di granito. Sfilo la borsa di tela dalla spalla e inizio dal frigorifero. Un momento d'ansia quando lo apro e si accende la luce, ma trovo subito il pulsante e lo tengo premuto. Mi ha accecato. Non ho tempo di lasciare che gli occhi si abituino. Vado d'istinto. Latte, formaggio a fette, avanzi dentro una ciotola di plastica. Spero che sia quella cosa con pollo e riso che li ho visti cucinare a cena. La mangeremo stanotte. Succo di frutta, una borsa di mele. Carotine. Queste dureranno fino alla mattina. Vado alla ricerca della dispensa. Ho bisogno di qualcosa che resista più a lungo. Mentre afferro tutto ciò che posso, la vista migliora. Mmm, biscotti al cioccolato. Muoio dalla voglia di aprire la borsa, ma stringo i denti e ignoro la tensione nel mio stomaco vuoto. La borsa si appesantisce in fretta. Ci basterà per una settimana, anche se staremo attenti. E non ho voglia di stare attenta; ho voglia di ingozzarmi. Mi infilo in tasca le barrette di cereali. Una cosa ancora. Corro verso il lavandino e riempio la borraccia. Poi infilo la testa sotto l'acqua corrente e bevo direttamente dal rubinetto. L'acqua fa strani rumori quando raggiunge lo stomaco vuoto. Ora che il lavoro è fatto, inizio a sentire il panico. Voglio uscire di qui. La civiltà è un'arma mortale.
Cammino verso l'uscita con gli occhi sul pavimento, attenta a non inciampare nella borsa pesante, e mi accorgo della sagoma nera nel patio soltanto quando sto per aprire la porta. Sento la sua imprecazione soffocata nel preciso istante in cui uno stupido squittio di paura mi esce dalla bocca. Mi volto e scatto verso la porta principale, sperando che la serratura non sia chiusa o difficile da aprire. Dopo nemmeno due passi, mani ruvide e pesanti mi afferrano le spalle e mi stringono a un corpo troppo grosso e forte per essere una donna. E la voce cupa mi dà ragione. «Fai un rumore e sei morta» minaccia, goffo. Resto sorpresa dalla lama sottile e affilata che sento premere sulla pelle, sotto il mento. Non capisco. È strano che mi conceda una scelta. Chi è questo mostro? Per quanto ne so, nessuno di loro ha mai infranto le regole. Rispondo nell'unico modo possibile. «Fallo» esclamo a denti serrati. «Fallo e basta. Non voglio essere un parassita schifoso.» Aspetto il coltello, con il cuore a pezzi. Ogni battito ha un nome. Jamie, Jamie, Jamie. Cosa sarà di te adesso? «Furba» mormora l'uomo, e sembra quasi che non parli con me. «Devi essere una Cercatrice.» Il che significa che sono in trappola. Come facevano a saperlo? L'acciaio si allontana dalla mia gola, sostituito da una stretta dura come il ferro. Respiro a malapena. «Dove sono gli altri?» domanda, e stringe. «Sono sola!» rispondo, stridula. Devo evitare che scopra Jamie. Cosa farà quando non mi vedrà tornare? Jamie ha fame! Gli tiro una gomitata nello stomaco, e mi faccio male. I suoi addominali sono potenti come le mani. Molto strano. Muscoli come questi sono il risultato di una vita dura o dell'ossessione, cose da cui i parassiti stanno lontani. Il mio colpo è andato a vuoto. Disperata, affondo il tallone sul collo del suo piede. Colto di sorpresa, vacilla. Mi sciolgo dalla presa, ma lui afferra la mia borsa e mi riavvicina a sé. Con la mano torna a stringermi la gola. «La nostra pacifica ladra di cadaveri è aggressiva, eh?» Le sue parole non hanno senso. Pensavo che gli alieni fossero tutti uguali. Forse anche tra loro c'è qualche pazzo. Mi dibatto cercando di spezzare la morsa. Affondo le unghie nel suo braccio, ma questo non fa che rafforzarne la presa.
«Certo che ti ucciderò, spregevole ladra di corpi. Non sto scherzando.» «E allora fallo!» All'improvviso sbuffa, forse qualcuno dei miei gesti scomposti ha raggiunto l'obiettivo. Poi molla il mio braccio e mi prende per i capelli. Ci siamo. Sta per tagliarmi la gola. Mi preparo al contatto con la lama. Invece, la mano che mi stringeva la gola si rilassa, poi con le dita ruvide e calde inizia a tastarmi la nuca. «Impossibile» sussurra. Sento il tonfo di un oggetto sul pavimento. Ha lasciato cadere il coltello? Penso a come afferrarlo. Magari buttandomi a terra. La mano che mi stringe i capelli non è salda abbastanza da impedirmi il movimento. Forse ho sentito dov'è caduta la lama. All'improvviso mi volta. Sento uno scatto, e una luce mi acceca l'occhio sinistro. Mi si mozza il fiato, cerco immediatamente di allontanarmi. La morsa si stringe. La luce si accende sul mio occhio destro. «Non ci credo» sussurra lui. «Sei ancora umana.» Con le mani mi afferra le guance, e prima che riesca a liberarmi sento le sue labbra assalire le mie. Per mezzo secondo resto impietrita. Nessuno mi ha mai dato un bacio in vita mia. Un bacio vero. A parte quelli dei miei genitori, leggeri, sulle guance o sulla fronte, tanti anni fa. Questa è una cosa che pensavo di non poter sentire mai. Eppure è una sensazione sfocata. Troppo panico, troppo terrore, troppa adrenalina. Alzo il ginocchio e gli do una spinta decisa. Lui tossisce, senza fiato, e sono libera. Anziché lanciarmi di nuovo verso l'ingresso principale recupero la borsa e prendo la direzione meno prevedibile, passo cioè sotto il suo braccio e schizzo fuori dalla porta finestra. Sono certa di poterlo seminare, malgrado il mio carico. Sono partita prima, e lui è ancora lì che tossisce. So dove andare, non lascerò tracce visibili nel buio. Non ho perso del cibo, per fortuna. Però temo che le barrette di cereali siano andate. «Aspetta!» grida lui. Sta' zitto, penso, ma non gli rispondo. Mi sta inseguendo. Sento la sua voce sempre più vicina. «Non sono uno di loro!» E come no. Con gli occhi fissi sulla sabbia, accelero. Mio padre diceva che corro come un ghepardo. Ero la più veloce della squadra di atletica, campionessa nazionale, una volta, prima che il mondo finisse.
«Ascoltami!» urla ancora a tutto volume. «Senti! Te lo dimostro. Fermati e guardami!» Mi sa proprio di no. Attraverso il torrente in secca e fuggo tra i mesquites. «Pensavo di essere rimasto solo! Per favore, devo parlare con te!» La sua voce mi sorprende. È troppo vicina. «Scusa se ti ho baciata! Sono stato uno stupido. È che sono solo da troppo tempo!» «Stai zitto!» Non lo dico ad alta voce, ma so che mi sentirà. È ancora più vicino. Nessuno mi ha mai superato in velocità. Accelero. Con un grugnito, anche lui accelera. Qualcosa di grosso mi colpisce alla schiena e mi fa crollare. Sento la terra in bocca, la cosa che mi schiaccia è troppo pesante, non riesco a respirare. «Aspetta. Un minuto» ansima. Si sposta e mi gira a pancia in su. Mi si siede addosso e con le gambe mi intrappola le mani. Sta schiacciando il mio cibo. Con un ringhio cerco di sgusciare via. «Guarda, guarda, guarda!» esclama. Estrae un piccolo cilindro dalla tasca posteriore e ne ruota la punta. Un fascio di luce si accende. Con la torcia si illumina il viso. La luce dà alla sua pelle un colorito giallastro. Mostra zigomi prominenti, un naso lungo e sottile, un mento deciso e squadrato. Le labbra sono tese in un ghigno, ma intuisco che sono piene, per un uomo. Ciglia e sopracciglia sono schiarite dal sole. Ma ciò che vuole mostrarmi è altro. Nei suoi occhi, che alla luce prendono un color terracotta chiaro, brilla soltanto il riflesso umano. Con la torcia alterna sinistro e destro. «Visto? Sono come te.» «Fammi vedere il collo.» La mia voce gronda sospetto. Voglio credere che questo sia l'ennesimo trucco. Non ne capisco il senso, ma sono sicura che un trucco ci sia. Non ho più speranze. Increspa le labbra. «Be'... Non servirà a granché. Gli occhi non sono abbastanza? Hai visto, non sono uno di loro.» «Perché non mi fai vedere il collo?» «Perché ho una cicatrice.» Faccio un altro tentativo di sgusciare via, ma con le mani lui mi blocca le spalle.
«Me la sono fatta da solo» spiega. «Un buon lavoro, tra l'altro, anche se ho sofferto un male cane. Io non ho tutti quei bei capelli con cui nascondere il collo. La cicatrice serve a mascherarmi.» «Togliti di dosso.» Ci pensa su, poi si alza con una mossa agile, senza usare le mani. Me ne offre una, a palmo aperto. «Per favore, non scappare. E, ehm, per favore, non scalciare più.» Non mi muovo. So che se provo a fuggire mi prenderà. «Chi sei?» sussurro. Sfodera un gran sorriso. «Mi chiamo Jared Howe. Non parlo con un altro essere umano da più di due anni, forse ti sembrerò un po'... matto. Perciò scusami, e dimmi come ti chiami.» «Melanie» sussurro. «Melanie» ripete lui. «Non sai che gioia sia conoscerti.» Stringo forte la borsa, senza staccare gli occhi da lui. Avvicina la sua mano lentamente. E io l'afferro. Soltanto quando vedo la mia mano nella sua mi rendo conto che mi fido di lui. Mi aiuta ad alzarmi, e non molla la presa nemmeno quando sono in piedi. «E adesso?» domando, sulla difensiva. «Be', non possiamo trattenerci qui. Torniamo nella casa? Ho lasciato là la borsa. Sei arrivata al frigo prima di me.» Scuoto la testa. Sembra capire quanto io sia fragile, vicina a crollare. «Mi aspetti qui, allora?» domanda gentile. «Arrivo subito. Abbiamo bisogno di altro cibo.» «Abbiamo?» «Pensi che voglia lasciarti sparire così? Ti seguirò anche se non vorrai.» Non voglio sparire così. «Io...» Come faccio a non fidarmi di un altro essere umano? Siamo della stessa famiglia, membri della fratellanza in estinzione. «... Non ho tempo. Devo fare tanta strada e... Jamie mi aspetta.» «Ah, non sei sola.» Per la prima volta la sua espressione è dubbiosa. «È mio fratello. Ha soltanto nove anni, e quando non ci sono ha paura. Mi ci vorrà metà nottata per tornare da lui. Non può sapere se sono salva o no. Ha fame.» Come per darmi ragione, il mio stomaco brontola.
A Jared torna il sorriso, più luminoso di prima. «Può esserti utile avere un passaggio?» «Un passaggio?» «Senti la mia proposta. Tu aspetti qui mentre raccolgo altro cibo, poi ti porto dove vuoi con la mia jeep. È più veloce che correre... persino più veloce di te.» «Hai un'auto?» «Certo. Credi che sia venuto a piedi?» Penso alle sei ore che ho impiegato per arrivare qui, e corrugo la fronte. «Torneremo da tuo fratello in un batter d'occhio» promette Jared. «Non muoverti, okay?» Annuisco. «E per favore, mangia qualcosa. Non voglio che ci stanino per colpa del tuo stomaco.» Il suo sorriso disegna piccole rughe ai lati degli occhi. Il mio cuore sobbalza, e capisco che lo aspetterò qui, dovesse metterci tutta la notte. Stringe ancora la mia mano. La lascia andare lentamente, mentre i suoi occhi non abbandonano i miei. Fa un passo indietro e si ferma. «Per favore, non prendermi a calci» implora, chinandosi verso di me e afferrandomi il mento. Mi bacia ancora, e stavolta lo sento. Le sue labbra sono più delicate delle mani, e calde, persino nella notte rovente del deserto. Sono senza respiro. Con le mani, istintivamente, lo cerco. Tocco la pelle calda delle sue guance, la barba ruvida sul collo. Con le dita sfioro un tratto di pelle raggrinzita, un leggero rigonfiamento sotto la nuca. Lancio un urlo. Mi svegliai coperta di sudore. Prima ancora di ritrovare lucidità, percorsi con le dita, sulla nuca, la piccola cicatrice rimasta dopo l'inserzione. A stento individuai il lieve segno rosa con le dita. Le medicine del Guaritore avevano fatto il proprio dovere. La cicatrice mal rimarginata di Jared non era mai stata granché, come travestimento. Accesi la lampada accanto al letto in preda a un'agitazione incontrollabile per quel sogno così realistico, e attesi che il respiro rallentasse. Un sogno nuovo, ma in sostanza identico ai tanti che mi perseguitavano da mesi. No, non era un sogno. Era senz'altro un ricordo. Sentivo ancora il calore delle labbra di Jared sulle mie. Senza volerlo, le
mie mani si allungarono verso il lenzuolo stropicciato in cerca di qualcosa che non trovarono. Quando si arresero e caddero sul letto, inermi e vuote, fui presa dal dolore. Sbattei le ciglia per liberare gli occhi dalle lacrime. Non sapevo quanto avrei resistito ancora. Com'era possibile sopravvivere in un mondo di corpi incapaci di confinare i ricordi nel passato? Di emozioni così forti che non capivo più quali appartenessero a me? Sapevo che l'indomani sarei stata già stremata, ma mi sentivo troppo agitata, ci sarebbero volute ore per rilassarmi. A quel punto, meglio fare il mio dovere e lasciar perdere. Magari mi avrebbe aiutato a distrarmi da cose a cui era meglio non pensare. Scesi dal letto e caracollai fino alla scrivania, occupata soltanto dal computer. Una manciata di secondi per accendere lo schermo, un'altra per aprire la posta elettronica. Non fu difficile trovare l'indirizzo della Cercatrice; in rubrica avevo solo quattro contatti: lei, il Guaritore, il mio nuovo principale e sua moglie, la mia Consolatrice. Insieme alla mia ospite, Melanie Stryder, c'era un altro essere umano. Non mi preoccupai nemmeno di scrivere un saluto. Si chiama Jamie Stryder; è suo fratello. Per un momento fui presa dal panico, al pensiero di quanto lei mi controllasse. In tutto quel tempo non avevo mai avuto indizi dell'esistenza del ragazzino: non perché non gli volesse bene, ma perché lo aveva protetto più scrupolosamente di altri segreti che le avevo carpito. Ne aveva altri così importanti? Così sacri da vietarmi persino di sognarli? Lei era così forte? Con dita tremanti, digitai il resto delle informazioni. Penso che ormai sia un giovane adolescente. Vivevano in un accampamento temporaneo, credo a nord della città di Cave Creek, in Arizona. Però si tratta di parecchi anni fa. Tuttavia, potresti costruire con una mappa le linee che sono riuscita a ricordare. Come al solito, mi farò viva quando scoprirò qualcos'altro. Non appena spedii il messaggio, fui assalita dal terrore. "Jamie no!"
La voce nella mia testa era nitida e forte quanto la mia. Trasalii, spaventata. In preda alla paura per ciò che stava accadendo, fui persino presa dal folle desiderio di scrivere un'altra e-mail alla Cercatrice, e di scusarmi con lei per averle descritto un sogno assurdo. Di dirle che ero mezza addormentata, e di non far caso allo stupido messaggio che le avevo appena spedito. Il desiderio non era mio. Spensi il computer. "Ti odio" ringhiò la voce nella mia testa. «Allora vattene» sbottai. Il suono della mia risposta ad alta voce mi fece trasalire di nuovo. Non l'avevo più sentita parlare, dopo quei primi istanti. Non avevo dubbi, si stava rafforzando. Come i sogni. Un'altra cosa era indispensabile: dovevo andare a trovare la mia Consolatrice. Al pensiero, lacrime di delusione e umiliazione mi riempirono gli occhi. Tornai a letto. Mi coprii la faccia con il cuscino e cercai di non pensare a nulla. 5 Lo sconforto «Ehi, ciao, Viandante! Siediti, fai come fossi a casa tua!» Esitai sulla soglia dell'ufficio della Consolatrice, un piede dentro e uno fuori. Un sorriso impercettibile piegò gli angoli della sua bocca. Leggere le espressioni del viso era diventato molto più facile; i piccoli scatti e le mosse dei muscoli mi erano familiari, dopo mesi di pratica. Capii che la Consolatrice trovava divertente la mia indecisione. E nello stesso tempo la sentivo frustrata dalla poca confidenza con cui mi avvicinavo. Con un sospiro rassegnato entrai nella piccola stanza, dai colori accesi, e mi accomodai al solito posto, la poltroncina imbottita rossa, la più lontana da lei. Increspò le labbra. Per evitare il suo sguardo mi concentrai sulle nuvole inseguite dal sole, fuori dalla finestra aperta. Un lieve odore di salsedine soffiò nella stanza. «Dimmi, Viandante. È da un po' che non ci vediamo.» Incrociai il suo sguardo e mi sentii in colpa. «Ho lasciato un messaggio, a proposito dell'ultimo appuntamento. Ho dovuto ricevere fuori orario uno studente...»
«Sì, lo so.» Abbozzò di nuovo un sorriso. «L'ho ricevuto.» Malgrado l'età era ancora una bella donna, secondo i parametri umani. Non si tingeva i capelli - di un grigio naturale, chiaro, che tendeva al bianco più che all'argento - e li portava lunghi, raccolti in una coda morbida. I suoi occhi erano di un verde singolare, unico. «Mi dispiace» dissi, dal momento che sembrava in attesa di una risposta. «Non preoccuparti. Ti capisco. È difficile per te venire qui. Vorresti tanto che non fosse necessario. Non ti è mai stato necessario prima. E ti fa paura.» Abbassai lo sguardo sul pavimento di legno. «Sì, Consolatrice.» «Ti ho chiesto di chiamarmi Kathy, lo sai.» «Sì... Kathy.» Fece una risatina. «Non sei ancora a tuo agio con i nomi umani, eh, Viandante?» «No. Sinceramente, la considero come... una resa.» Alzai lo sguardo e la vidi annuire lentamente. «Be', vista la tua situazione, me ne rendo conto.» A quelle parole deglutii e tornai a fissare il pavimento. «Ma parliamo di cose più leggere» suggerì Kathy. «Ti trovi sempre bene con la tua Vocazione?» «Sì.» Cose più leggere. «Ho iniziato un nuovo semestre. Temevo di stancarmi, a furia di ripetere le stesse lezioni, ma non è ancora successo. Raccontate a orecchie nuove, anche le storie tornano nuove.» «Curt mi parla molto bene di te. Dice che le tue lezioni sono tra le più seguite, all'Università.» Mi sentii ardere le guance. «È bello saperlo. Come sta il tuo compagno?» «Curt è meraviglioso, grazie. I nostri ospiti godono di perfetta salute, malgrado l'età. Penso che abbiamo ancora molti anni davanti a noi.» Chissà se, giunto il momento, sarebbe rimasta in questo mondo, passando a un altro ospite umano, o se avrebbe deciso di andarsene. Meglio però non fare domande che ci avrebbero trascinate verso argomenti più complicati. «Mi piace insegnare» dissi invece. «Devo a Curt il merito di avermi dato il consiglio giusto.» «È una fortuna per noi averti.» Kathy sorrise affettuosa. «Per un professore di Storia, due pianeti nel proprio curriculum sono già tanti, lo sai? Tu invece hai vissuto almeno una vita su tutti. Persino sull'Origine! Le scuole
di tutto il pianeta farebbero carte false per te. Curt farà in modo di tenerti occupata, così non avrai tempo di pensare ad andartene.» «Professore onorario» precisai. Kathy sorrise e con un respiro profondo tornò seria. «Non mi sei più venuta a trovare, pensavo che i tuoi problemi si stessero risolvendo. Poi ho iniziato a temere che dietro la tua assenza ci fosse un peggioramento.» Mi guardai le mani, senza dire nulla. Erano marrone chiaro, di un colorito che non svaniva mai, che stessi al sole o no. Un neo scuro mi segnava la pelle all'altezza del polso sinistro. Le unghie erano corte. Lunghe non mi piacevano. Era un fastidio, quando senza volerlo mi grattavano la pelle. E le dita erano così lunghe e sottili... portare le unghie lunghe conferiva loro un aspetto strano. Persino per un essere umano. Dopo qualche istante lei si schiarì la voce. «Immagino che il mio timore fosse fondato.» «Kathy.» Pronunciai il suo nome lentamente. Incerta. «Perché hai conservato il tuo nome umano? Ti faceva sentire più... in comunione? Con la tua ospite, intendo.» Mi sarebbe piaciuto parlare anche della scelta di Curt, ma era una domanda troppo personale. Non era giusto parlarne con qualcun altro, nemmeno con la sua compagna. Temevo di essere già stata troppo sfacciata, ma lei rise. «Ma certo che no, Viandante. Non te l'ho mai detto? Forse no, visto che il mio compito è ascoltare, non parlare. La maggior parte delle anime con cui parlo non ha bisogno di essere stimolata come te. Sai che io sono giunta sulla terra con uno dei primissimi insediamenti, prima ancora che gli umani si rendessero conto che eravamo qui? Ero circondata da vicini di casa umani. Per anni io e Curt abbiamo finto di essere i nostri ospiti. E anche dopo la conquista di tutta la zona, non potevamo essere sicuri che non ci fossero umani nei dintorni. Così "Kathy" divenne la mia identità. Inoltre, la traduzione del mio nome precedente era lunga quattordici lettere, e l'abbreviazione non era per niente carina.» Sorrise. Il sole che filtrava dalla finestra colpì i suoi occhi, che gettarono riflessi verdi e argento sulla parete. Per un istante le pupille smeraldo brillarono, iridescenti. Non immaginavo che questa donna delicata, rassicurante, avesse fatto parte dell'avanguardia. Mi occorse qualche minuto per far tornare i conti. La guardai con sorpresa e con una nuova deferenza. Non avevo mai preso tanto seriamente i Consolatori, non avevo mai avuto bisogno di loro. Si
occupavano dei più deboli e insicuri, per me era una vergogna. Conoscere la storia di Kathy mi fece sentire un poco più a mio agio. Lei comprendeva la forza. «È stato difficile» domandai, «fingere di essere una di loro?» «No, non proprio. Vedi, in questa ospite ho dovuto adattarmi a parecchie cose... parecchie novità. Il sovraccarico sensoriale. Sulle prime è stato difficile abbandonare le abitudini di una vita.» «E Curt... hai scelto di restare con il marito della tua ospite? Anche dopo che la missione è finita?» La domanda era più personale, e Kathy lo intuì subito. Si accomodò sulla poltrona, alzando le gambe e stringendole al petto. Fissò pensierosa un punto al di sopra della mia testa e rispose. «Sì, ho scelto Curt... e lui ha scelto me. Sulle prime, ovviamente, è stato il caso, il compito da svolgere. Il legame è nato spontaneamente, dopo tutto il tempo passato a portare a termine insieme una missione pericolosa. Come rettore dell'università, Curt aveva molte conoscenze, capisci. La nostra casa, ovviamente, nascondeva una struttura d'inserzione. Ricevevamo spesso. Gli umani entravano, la nostra specie usciva. Dovevamo fare in fretta e in silenzio... sai quanto inclini alla violenza siano questi ospiti. Vivevamo con l'eterna consapevolezza che tutto potesse finire da un momento all'altro. Tra fermento incessante e paure frequenti. «Così tra me e Curt si è instaurato un legame forte, e abbiamo deciso di restare insieme anche quando nasconderci era diventato superfluo. Potrei anche continuare a mentirti e confortarti, dicendoti che non c'erano altre ragioni. Tuttavia...» Scosse la testa, e sembrò sprofondare nella poltrona, mentre mi trafiggeva con lo sguardo. «Sono passati millenni, ma gli umani non sono mai riusciti a capire l'amore. Quanto dipende dal corpo e quanto dalla niente? Quanto dal caso e quanto dal destino? Perché certe coppie perfette falliscono, e altri abbinamenti per quanto improbabili prosperano? Non ne so più di quanto ne sapessero loro. L'amore, semplicemente, è dove è. La mia ospite amava l'ospite di Curt, e l'amore non è morto nemmeno dopo che la mente ha cambiato proprietario.» Mi osservò con attenzione, accigliata, mentre mi lasciavo andare sulla poltrona. «Melanie soffre ancora per Jared» commentò. Mi sentii annuire senza volerlo. «Tu soffri ancora per lui.» Chiusi gli occhi.
«I sogni continuano?» «Tutte le notti» mormorai. «Parlamene.» La sua voce era dolce e persuasiva. «Non mi piace.» «Lo so. Ma provaci. Magari aiuta.» «Come? Come può aiutarmi, se ti dico che vedo il suo volto ogni volta che chiudo gli occhi? E che al risveglio piango, quando non lo vedo accanto a me? Se ti dico che i suoi ricordi sono talmente forti che non riesco più a separarli dai miei?» All'improvviso strinsi i denti, in silenzio. Kathy estrasse un fazzoletto bianco dalla tasca e me lo porse. Quando vide che non reagivo, si alzò, mi venne vicino e me lo gettò in grembo. Si sedette sul bracciolo della mia poltrona ad aspettare. Mi intestardii ancora per un po'. Poi afferrai con rabbia il quadratino di tessuto e mi asciugai gli occhi. «È insopportabile.» «Il primo anno piangono tutti. Emozioni come queste sono davvero intollerabili. Siamo tutti un po' bambini, volenti o nolenti. Una volta a me bastava vedere un bel tramonto per crollare. Anche con il sapore del burro di arachidi succedeva, ogni tanto.» Mi accarezzò la testa, poi fece scorrere con delicatezza le dita sulla ciocca che tenevo sempre dietro l'orecchio. «Che bei capelli luminosi» commentò. «Ogni volta che ti vedo sono più corti. Perché li tieni così?» Ormai ero in lacrime, non mi restava molta dignità da difendere. Perché ostinarmi a fingere che così erano più pratici? Dopotutto, ero andata a confessarmi e a cercare aiuto... tanto valeva lasciarmi andare. «Per fare un dispetto a lei. Le piacciono lunghi.» Non trasalì come mi aspettavo. Kathy faceva bene il proprio lavoro. La risposta, un po' incoerente, arrivò con qualche istante di ritardo. «Tu... lei... è ancora così... presente?» La verità sconcertante sgorgò dalle mie labbra. «Soltanto quando vuole. La nostra storia l'annoia. Quando lavoro è meno sveglia. Ma c'è, sempre. A volte la sento presente quanto me stessa.» Terminata la frase, la mia voce era un semplice respiro. «Viandante!» esclamò Kathy, terrorizzata. «Perché non mi hai detto che stavi così male? Da quanto tempo è così?» «Peggiora. Anziché svanire, pare che diventi sempre più forte. Non è un caso estremo come quello di cui mi ha parlato il Guaritore... Kevin, ricor-
di? Non ha mai preso il controllo. Non lo farà. Non glielo permetterò!» Il tono della mia voce iniziò a salire. «Certo che no» mi rassicurò lei. «Certo che no. Ma se eri così... infelice, avresti dovuto dirmelo prima. Dobbiamo portarti da un Guaritore.» Mi ci volle qualche secondo, stravolta com'ero, per capire. «Un Guaritore? Vuoi che me la squagli?» «Nessuno penserebbe male della tua scelta, Viandante. È comprensibile, se l'ospite è difettoso...» «Difettoso? Lei non è difettosa. Io sì. Sono troppo debole per questo mondo!» Presi la testa tra le mani e mi sentii invadere dall'umiliazione. Nuove lacrime mi gonfiarono gli occhi. Il braccio di Kathy mi cinse le spalle. Alle prese con lo sforzo di controllare la tempesta delle mie emozioni, la lasciai fare, anche se mi sembrava un gesto troppo intimo. Anche Melanie ne era infastidita. Non le andava di farsi abbracciare da un alieno. In quell'istante Melanie era ovviamente più presente che mai, insopportabile e fiera di sé dopo che ne avevo riconosciuto il potere. E allegra. Era sempre più difficile tenerla a bada, quando emozioni come quella mi distraevano. Cercai di calmarmi, così da rimetterla al suo posto. "Tu sei al mio posto." Il suo pensiero era debole ma intelligibile. Stavo davvero peggiorando: ormai riusciva a parlarmi ogni volta che desiderava. Mi sentii male come durante quel primo momento di lucidità. "Vattene. È casa mia adesso." "Mai." «Viandante, cara, no. Non sei debole, lo sappiamo entrambe.» Abbozzai. «Ascoltami. Tu sei forte. Sorprendentemente forte. I membri della nostra specie si somigliano molto, ma tu sei al di sopra della media. Sono sbalordita dal tuo coraggio. Le tue vite passate ne sono la prova.» Forse le mie vite passate sì, ma questa? Dov'era finita la mia forza? «Gli umani hanno personalità più forti delle nostre» proseguì Kathy. «Ce ne sono molte, forti e deboli. Sono convinta che chiunque altro, inserito nella tua ospite, sarebbe stato distrutto da Melanie in pochi giorni. Forse è una coincidenza, forse è il destino, ma ho il sospetto che la più forte dei nostri sia ospitata dalla più forte dei loro.» «Non è un gran merito per la nostra specie, no?»
Lei intuì il sottinteso. «Non sta vincendo lei, Viandante. La graziosa persona al mio fianco sei tu. Lei è soltanto un'ombra, in un angolo della tua mente.» «Mi parla, Kathy. Produce pensieri suoi. Custodisce dei segreti.» «Ma non parla al posto tuo, no? Dubito che io sarei in grado di dire tutto questo, se fossi nella tua situazione.» Non reagii. Ero troppo depressa. «Secondo me dovresti valutare l'eventualità di un'altra inserzione.» «Kathy, hai appena detto che un'altra anima ne sarebbe annientata. Non so se ci credo: forse stai soltanto cercando di fare il tuo lavoro e di consolarmi. Ma se lei è davvero forte, forse sarebbe giusto passarla a qualcun altro perché io non sono capace di sottometterla. Chi sceglieresti, al mio posto?» «Non l'ho detto per consolarti, cara.» «E perché, allora?» «Non penso che questa ospite possa essere riutilizzata.» «Ah!» Sentii un brivido di terrore corrermi lungo la schiena. Non ero l'unica a essere scossa dall'idea. Provai un disgusto immediato. Non era da me squagliarmela. Durante le lunghe rivoluzioni attorno ai soli del mio pianeta precedente - il Mondo delle Alghe, come lo chiamavano sulla Terra - avevo atteso. Malgrado l'avere radici avesse iniziato a stancarmi molto prima di quanto pensassi, e malgrado la vita delle Alghe durasse secoli terrestri, non avevo abbandonato il mio ospite prima del termine della sua vita. Sarebbe stato uno spreco, un errore, un'ingratitudine. Un affronto alla mia stessa essenza di anima. Trasformavamo i nostri mondi in luoghi migliori; se così non fosse stato, non li avremmo meritati. Ma noi non sprecavamo nulla. Tutto ciò di cui ci impossessavamo diventava migliore, più bello e pacifico. Gli umani, invece, erano bestiali e ingovernabili. Talmente abituati a uccidersi l'un l'altro da considerare l'omicidio un gesto comune. Le torture che avevano escogitato in pochi millenni di storia erano troppo, per me; non ero riuscita a sopportare nemmeno la visione degli aridi resoconti ufficiali. La guerra aveva infuriato su quasi tutti i continenti. L'assassinio era approvato, ordinato e applicato con cattiveria. Gli abitanti delle Nazioni pacifiche fingevano di non vedere, mentre altri membri della specie morivano di fame sotto il loro naso. Non c'era uguaglianza nella distribuzione delle abbondanti risorse del pianeta.
La cosa più vile era che i loro discendenti - le nuove generazioni, le promesse che la mia specie considerava quasi sacre - erano state troppo spesso vittime di crimini atroci. Per mano non soltanto di sconosciuti, ma anche di chi avrebbe dovuto crescerle. L'incuria e l'avidità avevano messo in pericolo l'intero globo. Se qualcuno avesse paragonato il presente della Terra al suo passato, non avrebbe potuto negare che, grazie a noi, era diventata un posto migliore. "Sterminate una specie intera e avete anche il coraggio di vantarvene." Strinsi i pugni. "Potrei farti eliminare" le ricordai. "Fallo. Ufficializza il mio assassinio." Stavo bluffando, ma non ero l'unica. Così pensava di voler morire. In fin dei conti, si era lanciata nel vano dell'ascensore. Ma era stato un momento di panico e delusione. Pensarci a mente fredda nella comodità di una poltrona era un altro paio di maniche. Mentre ero presa dall'agitazione, valutai la possibilità di trasferirmi in un corpo più malleabile. Mi sarebbe piaciuto ritrovare la solitudine. Avere una mente tutta per me. Questo mondo era molto piacevole, sotto molti nuovi punti di vista, e sarebbe stato meraviglioso poterlo apprezzare senza le incursioni di una non-entità arrabbiata e senza casa che si intestardiva a inquinare i miei pensieri. Melanie si dimenò, per così dire, nei recessi della mia testa, mentre cercavo di pensare con razionalità. Forse era il caso di rinunciare... La parola bastò a farmi trasalire. Io, Viandante, rinunciare? Squagliarmela? Ammettere la sconfitta e riprovare con un ospite debole, senza nerbo, che non avrebbe creato problemi? Scossi la testa. Non riuscivo neanche a pensarci. E poi... quel corpo era mio. Ormai mi ero abituata alla sensazione. Mi piaceva il modo in cui i muscoli si muovevano sulle ossa, il piegarsi delle articolazioni e le contrazioni dei tendini. Conoscevo l'immagine riflessa nello specchio. La pelle abbronzata dal sole, le ossa appuntite del viso, i lineamenti marcati del viso, gli zigomi alti, i capelli castani corti e setosi, il colore cangiante tra verde e marrone dei miei occhi... quella ero io. Volevo me stessa. Non avrei lasciato che ciò che era mio venisse distrutto. 6
La sorveglianza Alla fine la luce svanì dalle finestre. Sembrava che quell'interminabile giornata calda, per essere marzo, si rifiutasse di finire e di lasciarmi libera. Tirai su con il naso e feci l'ennesimo nodo al fazzoletto umido. «Kathy, avrai altri impegni. Curt si starà chiedendo dove sei.» «Capirà.» «Non posso restare qui per sempre. E non mi pare che abbiamo ancora trovato una risposta.» «Mettere le toppe non è la mia specialità. Sei decisa a non trasferirti in un nuovo ospite...» «Sì.» «Quindi per cavartela con questo ti occorrerà del tempo.» Digrignai i denti, frustrata. «Ma se ti lasci aiutare farai più in fretta e avrai meno difficoltà.» «Rispetterò i prossimi appuntamenti, te lo prometto.» «Non è questo che intendevo.» «Nel senso... che devo farmi aiutare da qualcun altro?» Sentii un fremito, al pensiero di dover rivivere la tragedia di quel giorno con uno sconosciuto. «Secondo me come Consolatrice vai benissimo tu... altroché.» «Non intendo un'altra Consolatrice.» Cambiò posizione sulla poltrona, e si drizzò con uno scatto. «Quanti amici hai, Viandante?» «Parli dei miei colleghi? Tutti i giorni incontro qualche altro insegnante. Ci sono parecchi studenti con cui parlo, nei corridoi...» «Fuori da scuola?» Restai a fissarla, ammutolita. «Gli ospiti umani hanno bisogno di socializzare. Non sei abituata alla solitudine, cara. Hai condiviso i pensieri di un intero pianeta...» «Sì, ma non uscivo granché.» Il mio tentativo di ironia non andò a segno. Lei abbozzò un sorriso e proseguì. «Sei talmente impegnata a risolvere il tuo problema da concentrarti solo su quello. Forse una soluzione è distrarti. Hai detto che quando lavori Melanie si annoia... che non è così sveglia. Magari, se sviluppassi qualche relazione sociale troveresti un altro modo di annoiarla.» Increspai le labbra, pensierosa. Melanie, indolente dopo una lunga giornata di Consolazione, sembrava poco entusiasta dell'idea. Kathy annuì. «Lasciati coinvolgere dalla vita anziché da lei.»
«Hai ragione.» «E poi ci sono gli istinti di questi corpi. Non ho mai visto né sentito parlare di cose simili altrove. Uno dei più difficili da acquisire, per noi della prima ondata, è stato l'istinto di accoppiamento. Credimi, gli umani si accorgevano di chi non lo aveva.» Sorrise e alzò gli occhi al cielo, persa in chissà quale ricordo. Quando vide che non reagivo come sperava, fece un sospiro e incrociò le braccia, impaziente. «E dai, Viandante. Te ne sarai accorta anche tu.» «Be', certo» mormorai. Melanie, irrequieta, ebbe un sussulto. «Ovvio. Ti ho detto cosa ho sognato.» «No, non mi riferisco ai ricordi. Nel presente non hai ancora incontrato nessuno a cui il tuo corpo ha reagito... a livello strettamente istintivo?» Riflettei a lungo sulla sua domanda. «Non mi pare. Non tanto da accorgermene.» «Credimi» disse Kathy impassibile, «te ne accorgeresti.» Scosse la testa. «Forse è meglio che tu apra gli occhi e inizi a farci caso. Potrebbe essere davvero un bene.» Il mio corpo rifuggiva quel pensiero. Sentii il disgusto di Melanie, raddoppiato dal mio. Kathy notò la mia espressione. «Non lasciare che sia lei a controllare le tue relazioni, Viandante. Non lasciare che sia lei a controllarti.» Respirai a fondo. Prima di rispondere attesi un momento, per imbrigliare la rabbia a cui non mi ero ancora abituata. «Non è lei a controllarmi.» Kathy mi guardò perplessa. L'ira mi strinse la gola. «Tu non ti sei guardata molto intorno prima di trovare il tuo compagno attuale. Qualcuno ha controllato la tua scelta?» Ignorò la mia rabbia e meditò sulla domanda. «Può darsi» rispose dopo qualche istante. «Difficile dirlo. Ma hai fatto centro.» Si strappò un filo dall'orlo della camicia e poi, forse convinta che non la stessi guardando, congiunse le mani e drizzò le spalle. «Chi sa quanto prendiamo da ospiti diversi su pianeti diversi? Come ti ho già detto, penso che la risposta alle tue domande verrà con il tempo. Se Melanie diventerà sempre più apatica e silenziosa, avrai modo di scegliere qualcun altro a parte questo Jared, se no... be', i Cercatori ci sanno fare. Sono già sulle sue tracce, e probabilmente tra i tuoi ricordi c'è qualcosa che li potrà aiutare.» Ascoltai senza muovermi. Non parve accorgersi che ero rimasta impie-
trita. «Magari troveranno l'innamorato di Melanie e potrete tornare insieme. Se lui la desidera con altrettanta intensità, può darsi che la nuova anima vi si adatti.» «No!» Non sapevo chi avesse urlato. Forse ero stata io. Anch'io ero terrorizzata. Mi alzai, tremante. Le lacrime per una volta non sgorgarono e strinsi i pugni. «Viandante?» Mi voltai e corsi alla porta, combattendo contro le parole che non potevano uscirmi di bocca. Parole che non potevano essere mie. Parole che avrebbero avuto senso soltanto in bocca a lei, ma sembravano mie. Non potevano esserlo. Non potevo pronunciarle. "Ma è come ucciderlo! Come terminare la sua esistenza! Non voglio un altro. Voglio Jared, non uno sconosciuto nel suo corpo! Il suo corpo non significa niente senza di lui." Sentii Kathy urlare il mio nome, dietro di me, mentre correvo in strada. Casa mia non era lontana dall'ufficio della Consolatrice, ma l'oscurità della via mi disorientò. Attraversai due isolati prima di accorgermi che avevo sbagliato direzione. Tutti mi notavano. Non ero in tenuta da allenamento, non stavo facendo jogging: stavo scappando. Ma nessuno mi infastidì; guardavano educatamente altrove. Di sicuro credevano che fossi appena entrata nella mia ospite. E che avessi reagito come una bambina. Rallentai il passo e tornai indietro. La mia camminata era appena più lenta della corsa. Sentivo i passi colpire il marciapiede velocemente, quasi come in una danza. Scorsi la lampada accesa sopra la porta del mio appartamento. Non mi ci era voluto molto per coprire la distanza. Tuttavia non attraversai la strada. Avevo la nausea. Conoscevo la sensazione del vomito senza averla mai provata. Sudai freddo. Ero quasi sicura che l'avrei sperimentata di persona. Accanto al marciapiede c'era uno spiazzo erboso. Un lampioncino, circondato da un prato ben curato. Non avevo tempo di cercare un luogo migliore. Zoppicai fino alla luce e afferrai il palo per sorreggermi. La nausea mi faceva girare la testa. Sì, stavo proprio per scoprire cosa volesse dire vomitare. «Viandante, sei tu? Viandante, sei malata?» Impossibile concentrarmi sulla voce, vagamente familiare. Ma sapere
che qualcuno mi guardava rese tutto più difficile, mentre avvicinavo la testa ai cespugli e rigettavo il mio pasto più recente. «Chi è il tuo Guaritore qui?» domandò la voce. Sembrava lontana, nascosta dal ronzio delle orecchie. Una mano sfiorò la mia schiena piegata. «Ti chiamo un'ambulanza?» Tossii due volte e scossi la testa. Ero sicura che fosse finita: sentivo lo stomaco vuoto. «Non sono malata» risposi mentre mi alzavo appoggiandomi al lampioncino. Sollevai lo sguardo per capire chi avesse assistito alla mia umiliazione. La Cercatrice di Chicago stringeva in mano il telefono cellulare, indecisa su quale autorità contattare. Le lanciai un'occhiata e mi piegai di nuovo sulle foglie. Pancia vuota o no, era l'ultima persona che desideravo vedere. Ma mentre il mio stomaco si accaniva in sforzi inutili, capii che la sua presenza aveva un motivo preciso. «Perché?» esclamai, con voce affievolita dal panico e dalla nausea. «Perché sei qui? Che è successo?» Fissai le mani che stringevano il colletto della giacca nera della Cercatrice per due secondi, prima di accorgermi che erano le mie. «Basta!» esclamò lei, indignata. Anche la sua voce era nervosa. La stavo scrollando. Le mie mani si aprirono di scatto. «Scusami! Mi dispiace. Non so cosa mi è successo.» La Cercatrice mi lanciò un'occhiataccia e si sistemò il bavero. «Non stai bene, immagino di averti spaventata.» «Non pensavo di rivederti» sussurrai. «Perché sei qui?» «Prima di parlare cerchiamo un laboratorio di Guarigione. Se hai l'influenza, meglio curarti. Non ha senso lasciare che indebolisca il tuo corpo.» «Non ho l'influenza. Non sono malata.» «Hai mangiato cibo avariato? Devi denunciare dove l'hai preso.» La sua curiosità era davvero fastidiosa. «No, non ho mangiato cibo guasto. Sto bene.» «Perché non ti fai vedere da un Guaritore? Un controllo veloce... non va bene trascurare la tua ospite. È da irresponsabili. Soprattutto quando l'assistenza sanitaria è rapida ed efficiente.» Respirai a fondo e resistetti all'istinto di darle un'altra scrollata. Era una spanna più bassa di me. In caso di scontro, avrei vinto io. Scontro? Le voltai le spalle e camminai svelta verso casa. La mia emoti-
vità era pericolosa. Dovevo calmarmi, prima di combinare qualcosa di irreparabile. «Viandante? Aspetta! Il Guaritore...» «Non ho bisogno di Guaritori» dissi, senza voltarmi. «È stato soltanto uno... squilibrio emotivo. Ora sto bene.» La Cercatrice non rispose. Chissà come aveva interpretato la mia reazione. Sentivo il rumore dei suoi passi - scarpe con il tacco alto - alle mie spalle, perciò lasciai la porta aperta, sapendo che mi avrebbe seguito. Raggiunsi il lavandino e riempii un bicchiere d'acqua. Lei restò in silenzio ad aspettare che mi ci sciacquassi la bocca e la sputassi. Finita l'operazione mi appoggiai al banco, con gli occhi fissi sul lavello. Lei si spazientì subito. «Dimmi, Viandante... ti fai chiamare ancora così? Non vorrei sembrare maleducata.» Non la guardai. «Mi chiamano ancora Viandante.» «Interessante. Ero convinta che avresti scelto un nome tutto tuo.» «Infatti. È "Viandante".» Avevo capito subito che il piccolo litigio che avevo ascoltato il giorno del mio risveglio nel laboratorio di Guarigione era colpa della Cercatrice. In otto vite non avevo mai incontrato un'anima più incline allo scontro. Il mio primo Guaritore, Acque Profonde, era più calmo, gentile e saggio di tante altre anime. Tuttavia non era riuscito a non lasciarsi innervosire. Tutto sommato la mia non era una reazione così strana. Mi voltai verso di lei. Era rannicchiata sul divano, e non sembrava intenzionata ad andarsene. Aveva un'espressione compiaciuta, lo sguardo degli occhi sporgenti divertito. Controllai il desiderio di guardarla in cagnesco. «Perché sei qui?» domandai di nuovo, con voce neutra. Trattenuta. Non ero disposta a perdere di nuovo il controllo davanti a quella donna. «Non ho più avuto tue notizie, perciò ho pensato di venire a controllare di persona. Non ci sono stati progressi nelle indagini.» Le mie mani afferrarono il bordo del piano cucina dietro di me, ma riuscii a non far trapelare una sensazione di vago sollievo. «Sei stata fin troppo... zelante. E poi, ti ho mandato un messaggio ieri sera.» Aggrottò le ciglia in una maniera tutta sua, che la faceva sembrare arrabbiata e al tempo stesso infastidita, come se il responsabile della sua collera fosse qualcun altro, non lei. Estrasse il palmare e ne sfiorò lo schermo.
«Oh» disse, rigida. «Non ho controllato la posta, oggi.» In silenzio lesse attentamente ciò che le avevo scritto. «L'ho spedito stamattina presto» dissi. «Ero mezza addormentata. Non so se quanto ho scritto fosse un ricordo o un sogno, forse ero addirittura sonnambula.» Lasciai che le parole - parole di Melanie - sorgessero spontanee dalle mie labbra; aggiunsi persino una risata di sollievo. Fu un comportamento disonesto. Vergognoso. Ma la Cercatrice non doveva sapere che ero più debole della mia ospite. Per una volta, Melanie non fu compiaciuta di aver avuto la meglio. Era troppo sollevata che per le mie futili ragioni non l'avessi smascherata. «Interessante» mormorò la Cercatrice. «Un altro ribelle a piede libero.» Scosse la testa. «La pace continua a sfuggirci.» Non sembrava amareggiata dalla fragilità della pace, anzi, pareva che ne fosse contenta. Mi sforzai di non parlare. Melanie voleva insistere, continuare a negare, ripetere che il ragazzo era un sogno qualsiasi. "Non essere sciocca" le dissi. "Sarebbe un'ingenuità." Il fatto che la Cercatrice fosse quasi riuscita a farmi alleare con Melanie la diceva lunga su quanto fosse repellente. "La odio." "Lo so, lo so." Avrei voluto negare che ero... d'accordo con lei. L'odio era un'emozione imperdonabile. Ma voler bene alla Cercatrice era molto difficile. Impossibile. La donna interruppe il mio colloquio interiore. «Dimmi, a parte le nuove località da perlustrare, hai altri percorsi da indicarmi?» Sentii la reazione del mio corpo a quel tono di voce perplesso. «Non ho mai parlato di percorsi. È una tua supposizione. Comunque, no, non ci sono novità.» Schioccò veloce la lingua, tre volte. «Ma hai parlato di direzioni.» «Penso che ce ne siano. Ma non riesco a vedere oltre.» «Perché no? Non hai ancora sottomesso l'umana?» Rise, sguaiata. Di me. Le diedi le spalle e mi concentrai per calmarmi. Provai a fingere che lei non ci fosse. Di essere sola nella mia cucina spoglia, affacciata alla finestra a guardare il fazzoletto di cielo notturno, le tre stelle luminose che vi spiccavano. Be', sola come sempre. Mentre fissavo i minuscoli punti luminosi nell'oscurità, le linee che vedevo di continuo - irrompevano nei sogni e nei frammenti di ricordo, nei
momenti più strani e imprevedibili - apparvero tra i miei pensieri. La prima: una curva lenta, morbida, poi una deviazione netta verso nord, una a sud e poi di nuovo a nord, lungo un tratto più lungo e serpeggiante; infine una discesa che verso sud declinava in un'altra curva larga. La seconda: uno zig-zag frastagliato, quattro tornanti stretti, il quinto stranamente morbido, come spezzato... La terza: un'onda regolare, interrotta da uno sperone che si protendeva come un dito lungo e magro verso nord. Incomprensibili, apparentemente insensate. Ma sapevo che per Melanie erano importanti. Ne ero stata certa sin dall'inizio. Lei proteggeva quel segreto più gelosamente di qualsiasi altra cosa, insieme al ragazzo, il fratello. Io stessa avevo scoperto la sua esistenza soltanto la notte precedente. Chissà cos'era stato a vincerla. Forse se la sua voce nella mia testa si fosse rafforzata, le sarebbero sfuggiti altri segreti. Si sarebbe tradita, e io avrei colto il significato di quelle strane linee. Sapevo che significavano qualcosa. Che conducevano verso una meta. In quel momento, mentre l'eco della risata della Cercatrice risuonava ancora nell'aria, capii perché fossero così importanti. Conducevano a Jared, ovvio. A entrambi, Jared e Jamie. E dove, se no? Quale altra località poteva essere tanto importante per lei? Solo in quel momento, però, compresi che non era il luogo da cui Melanie era partita, e che né lei né gli altri avevano mai seguito quel tracciato. Le linee erano rimaste un mistero sia per lei che per me, fino a quando... Il muro fu lento a bloccarmi. Lei era distratta, prestava più attenzione di me alla Cercatrice. Ebbe un sussulto quando alle mie spalle sentì un rumore, il primo segno che la Cercatrice si avvicinava. La donna sospirò. «Mi aspettavo di più da te. Il tuo curriculum sembrava davvero promettente.» «Peccato che non ti sia offerta tu per questa missione. Sono sicura che confrontarti con un ospite refrattario sarebbe stato un gioco da ragazzi.» Non mi voltai verso di lei. La mia voce rimase neutra. Tirò su con il naso. «Le prime ondate sono state una bella sfida, anche in assenza di ospiti refrattari.» «Lo so. Anch'io ho partecipato a qualche invasione.» La Cercatrice ridacchiò. «È stato difficile addomesticare le Alghe? Scappavano?» La mia voce restò calma. «Al Polo Sud non ci fu alcun problema. Ovviamente, al Nord non andò così. L'operazione fu gestita male. Perdemmo
l'intera foresta.» La tristezza di quei giorni riecheggiò nelle mie parole. Un migliaio di esseri senzienti aveva deciso di chiudere gli occhi per sempre, piuttosto che accettare noi. Ritrassero le loro foglie dal sole e morirono di fame. "Buon per loro" sussurrò Melanie. Non c'era niente di velenoso nel suo pensiero, soltanto approvazione di fronte alla tragedia vista nella mia memoria. "Che spreco." Lasciai che l'agonia della consapevolezza, la sensazione dei pensieri morenti che ci aveva tormentato insieme al dolore della foresta sorella, inondasse la mia mente. "In un modo o nell'altro, erano destinate a morire." La Cercatrice parlò, e cercai di concentrarmi su una sola conversazione. «Sì» disse a disagio. «Ci furono parecchie mancanze.» «La cautela non è mai troppa, quando si tratta di distribuire il potere. Alcuni non usano quella che dovrebbero.» Non rispose, la sentii arretrare di qualche passo. Tutti sapevano che erano stati i Cercatori a commettere l'errore che innescò il suicidio di massa, sottovalutando le capacità delle Alghe: il fatto che non potessero scappare non implicava che non fossero in grado di sfuggire. Avevano condotto una campagna scriteriata, fondando gli insediamenti prima ancora che il nostro numero fosse adeguato a un'assimilazione su larga scala. Quando capirono di cosa fossero capaci e cosa intendessero fare le Alghe, era troppo tardi. Il primo carico di anime ibernate doveva ancora arrivare, ma quando giunse, la foresta settentrionale era perduta. Mi voltai verso la Cercatrice per cogliere l'effetto delle mie parole. La trovai impassibile, lo sguardo fisso nel vuoto della parete spoglia e bianca della cucina. «Mi dispiace, ma più di così non posso aiutarti.» Parlai con voce ferma, per mettere in chiaro che doveva andarsene. Ero pronta a riprendermi casa mia. "Casa nostra" precisò Melanie, sfacciata. Feci un sospiro. Era proprio piena di sé. «Davvero, non dovevi disturbarti a venire fin qui.» «Colpa del lavoro» disse la Cercatrice, e si strinse nelle spalle. «Sei la mia unica missione. Finché non trovo gli altri, è meglio restarti appiccicata e sperare in un colpo di fortuna.» 7 L'attacco
«Sì, Rivolto al Sole?» domandai, lieta che quella mano alzata interrompesse la lezione. In cattedra non mi sentivo a mio agio come al solito. La mia forza più grande, l'unica vera credenziale che avessi - la mia ospite, fuggiasca dagli anni della prima adolescenza, era piuttosto scarsa, quanto a educazione - era l'esperienza personale, da cui traevo i miei insegnamenti. Ma quella di cui parlavo nel nuovo semestre era la prima storia della quale non avessi ricordi diretti. E i miei studenti se n'erano accorti. «Mi scusi se la interrompo, ma...» L'uomo dai capelli bianchi fece una pausa, in cerca delle parole giuste. «Credo di non aver capito. Gli Assaggia-fuoco... ingeriscono davvero il fumo, dopo che hanno bruciato i Fiori Mobili? Come fosse cibo?» Cercava di nascondere l'angoscia della sua voce. Non stava alle anime giudicare le altre anime. Ma non ne fui sorpresa: aveva vissuto sul Pianeta dei Fiori, ed era logico che reagisse così di fronte al destino di una forma di vita simile, su un altro mondo. Trovavo sempre stupefacente che certe anime si immergessero negli affari del mondo in cui abitavano e ignorassero il resto dell'universo. Detto questo, poteva anche darsi che Rivolto al Sole fosse in ibernazione, negli anni in cui il Mondo di Fuoco era sulla bocca di tutti. «Sì, dal fumo ricavano le sostanze nutritive indispensabili. Questo è il dilemma, la controversia fondamentale che riguarda il Mondo di Fuoco, nonché il motivo per cui il pianeta non è stato chiuso, malgrado la colonizzazione sia iniziata da tempo. La percentuale di trasferimenti è ancora alta. «Quando scoprimmo il Mondo di Fuoco, ipotizzammo che gli assaggiafuoco, la specie dominante, fossero l'unica forma di vita intelligente sul pianeta. Gli Assaggia-fuoco non ritenevano i Fiori Mobili loro pari - un pregiudizio culturale -, perciò fu soltanto in seguito, dopo la prima ondata di insediamenti, che le anime si resero conto di avere assassinato creature senzienti. Da quel momento gli scienziati del Mondo di Fuoco si sono concentrati sulla ricerca di un surrogato, nella dieta degli Assaggia-fuoco. A questo scopo hanno richiesto l'importazione di un certo numero di Ragni, ma il pianeta di questi ultimi e il Mondo di Fuoco distano centinaia di anni luce. Quando avremo superato tale ostacolo, e sono sicura che ciò avverrà presto, la speranza è di assimilare anche i Fiori Mobili. Nel frattempo abbiamo diminuito il tasso generale di violenza. Il... bruciare vive le vittime, per esempio, e altri comportamenti simili.» «Ma come si permettono...» La voce di Rivolto al Sole, incapace di terminare la frase, si affievolì. Un altro studente completò i suoi pensieri: «È un ecosistema molto cru-
dele, direi. Perché il pianeta non è stato abbandonato?». «Ovviamente anche di questo si è discusso molto, Robert. Ma noi non abbandoniamo tanto facilmente i pianeti. Moltissime anime considerano il Mondo di Fuoco la propria casa. Non si lasceranno sradicare contro la loro volontà.» Tornai con lo sguardo agli appunti, nella speranza che la parentesi si chiudesse. «Ma è una barbarie!» Fisicamente, Robert era più giovane di quasi tutti gli altri studenti, il più vicino alla mia età. E sotto parecchi punti di vista, ancora un bambino. La Terra era il suo primo mondo - anche sua Madre aveva abitato la Terra, prima di sacrificarsi - e la sua prospettiva più limitata di chi aveva più anni e viaggi sulle spalle. Doveva essere nato con le sensazioni e le emozioni opprimenti di questi ospiti senza nessun'altra esperienza che dia equilibrio. Di certo era più difficile essere obiettivi. Cercai di tenerne conto e di portare pazienza, mentre gli rispondevo. «Ogni mondo è un'esperienza unica. Finché non ci si vive di persona, è impossibile capire davvero...» «Ma tu non hai mai vissuto sul Mondo di Fuoco» mi interruppe. «Secondo me anche tu la pensavi come me... se no, perché evitare quel pianeta, visto che sei stata quasi ovunque?» «Scegliere un pianeta è una decisione molto intima e privata, Robert, forse un giorno te ne renderai conto anche tu.» Il tono della mia voce chiuse definitivamente la discussione. "Perché non glielo dici? Anche tu pensi che sia una barbarie, una crudeltà inutile. Il che suona piuttosto ironico, se vuoi saperlo... ma credo tu non voglia. Che problema c'è? Ti vergogni a essere d'accordo con Robert? Perché è più umano degli altri?" Melanie, trovata la propria voce, stava diventando insopportabile. Come facevo a concentrarmi sul mio lavoro con il sottofondo continuo delle sue opinioni? Dietro Robert, un'ombra scura si mosse. La Cercatrice, nel suo solito abito nero, si sporse in avanti, per la prima volta incuriosita dal tema della discussione. Soffocai l'istinto di guardarla in cagnesco. Non volevo che Robert, già in imbarazzo, pensasse che ce l'avevo con lui. Melanie borbottò qualcosa. Lei desiderava che non mi trattenessi. Aveva capito una cosa, da quando la Cercatrice ci pedinava giorno e notte: non ero io che odiava più di ogni altra cosa al mondo.
«La lezione è quasi terminata» annunciai con sollievo. «Ho il piacere di comunicarvi che martedì interverrà un relatore particolare, che rimedierà alla mia ignoranza della materia. Guardiano di Fiamme, nuovo arrivato sul nostro pianeta, ci fornirà un racconto di prima mano dell'insediamento sul Mondo di Fuoco. Sono certa che lo accoglierete con la stessa gentilezza che dimostrate nei miei confronti, e che lo tratterete con rispetto malgrado la giovanissima età del suo ospite. Grazie dell'attenzione.» Gli alunni uscirono lenti in fila, perdendosi in chiacchiere mentre raccoglievano le proprie cose. Ripensai al discorso di Kathy sull'amicizia, ma non sentii il desiderio di attaccare bottone con nessuno. Erano degli sconosciuti. Di chi era la colpa? Mia o di Melanie? Difficile stabilirlo. Forse la mia asocialità era innata. E la mia storia personale ne era la prova. Non avevo mai intrecciato un legame abbastanza forte da trattenermi su un pianeta per più di una vita. Notai Robert e Rivolto al Sole fermi sulla porta dell'aula, presi da una discussione vivace. Facile intuirne l'argomento. «Le storie del Mondo di Fuoco fanno rizzare i capelli.» Scattai, sorpresa. La Cercatrice era in piedi al mio fianco. Di solito annunciava la sua comparsa con il rapido battere dei tacchi. Abbassai lo sguardo e notai che, per una volta, indossava scarpe sportive... nere, ovviamente. Senza i centimetri extra era ancora più minuta. «Non è la mia materia preferita» affermai, disinvolta. «Preferisco condividere le esperienze di prima mano.» «Certi studenti ne sono rimasti colpiti.» «Già.» Mi guardò impaziente, come se aspettasse un ulteriore commento. Raccolsi gli appunti e mi voltai per infilarli nello zaino. «Anche tu, mi sembra.» Riposi le carte nello zaino con cura, senza girarmi. «Chissà come mai ti sei rifiutata di rispondere alla domanda.» In silenzio, attese la mia reazione. Che non arrivò. «Dimmi... perché non hai risposto?» Mi voltai, senza nascondere la mia espressione irritata. «Perché non era materia di lezione, perché Robert deve imparare le buone maniere, e, se permetti, perché sono affari miei.» Zaino in spalla, puntai dritta verso la porta. Lei mi seguì di corsa per sta-
re al mio passo. Percorremmo il corridoio in silenzio. Soltanto all'esterno, nella luce pomeridiana che accendeva il pulviscolo nell'aria, riprese a parlare. «Pensi che riuscirai mai a fermarti, Viandante? Magari su questo pianeta? Sembra che tu abbia una certa affinità con i loro... sentimenti.» L'insulto nascosto tra le righe mi fece adombrare. Per vaga che fosse, era un'offesa intenzionale. Melanie ebbe un moto di disgusto. «Non ti seguo.» «Parliamoci chiaro, Viandante. Provi compassione per loro?» «Per chi?» domandai, impassibile. «I Fiori Mobili?» «No, gli umani.» Restai immobile, e rapidamente lei mi si affiancò. Eravamo a pochi isolati dal mio appartamento, avevo camminato di fretta nella speranza di liberarmi della Cercatrice, che molto probabilmente era decisa ad autoinvitarsi. Ma la domanda mi colse in contropiede. «Gli umani?» «Sì. Ti fanno compassione?» «A te no?» «No. Erano una specie brutale e niente più. Solo la fortuna gli ha concesso di sopravvivere tanto a lungo a loro stessi.» «Non erano tutti cattivi.» «Era una predisposizione genetica. La brutalità faceva parte della specie. Ma pare proprio che a te facciano compassione.» «È brutto perdere tutto questo, non credi?» Allargai le braccia. Ci trovavamo in una specie di parco, un giardinetto tra due dormitori invasi dall'edera. Il verde scuro delle foglie era un piacere per gli occhi, soprattutto per il contrasto con il rosso sbiadito dei vecchi mattoni. L'aria era luminosa e leggera, il profumo dell'oceano aggiungeva un che di salato alla fragranza dolce e mielosa dei fiori tra i cespugli. Una brezza leggera carezzava le mie braccia nude. «Nelle tue vite precedenti non puoi aver sentito nulla di così vitale. Non riesci a provare compassione per chi è stato privato di tutto questo?» Lei, imperturbabile, non batté ciglio. Cercai di coinvolgerla, di farle considerare un altro punto di vista. «Su quali altri mondi hai vissuto?» Incerta, drizzò le spalle. «Nessuno. Vivo da sempre sulla Terra.» Restai sorpresa. Era una bambina, come Robert. «Solo un pianeta? E hai scelto subito di essere una Cercatrice?» Annuì, a testa bassa.
«Ah. Be', sono affari tuoi.» Ripresi a camminare. Forse se avessi rispettato la sua privacy mi avrebbe restituito il favore. «Ho parlato con la tua Consolatrice.» "O forse no" pensò Melanie, acida. «Cosa?» esclamai. «Ne ho dedotto che il tuo problema non è la semplice incapacità di accedere alle informazioni di cui ho bisogno. Hai valutato la possibilità di provare con un altro ospite, magari più malleabile? Te l'ha consigliato lei, no?» «Kathy non è una spia.» La Cercatrice rispose compiaciuta. «Non ho nemmeno aspettato che rispondesse. Sono molto brava a leggere le espressioni degli umani. Mi accorgo di quando le mie domande sfiorano un nervo scoperto.» «Come hai osato? La relazione tra un'anima e la sua Consolatrice...» «È sacrosanta, certo; conosco la regola. Ma nel tuo caso sembra che i metodi di indagine ortodossi non funzionino. Devo essere creativa.» «Credi che ti stia nascondendo qualcosa?» domandai, troppo infuriata per mascherare il disgusto. «Credi che ne abbia parlato con la mia Consolatrice?» La mia rabbia non la scalfì. Forse era abituata a reazioni del genere. «No, penso che tu mi stia riferendo ciò che sai... Ma secondo me non cerchi abbastanza a fondo. So come funziona. Stai entrando in sintonia con la tua ospite. Lasci che, inconsapevolmente, siano i suoi ricordi a guidare i tuoi desideri. Temo che ormai sia troppo tardi. E che per te sia meglio lasciar perdere e cedere il compito a qualcuno che abbia più fortuna.» «Figuriamoci!» strillai. «Melanie se lo mangerebbe vivo!» Restò impietrita. Malgrado fosse riuscita a strappare qualcosa a Kathy, non aveva capito nulla. Pensava che l'influenza di Melanie venisse dai ricordi, che fosse inconscia. «Trovo molto interessante il fatto che parli di lei al presente.» La ignorai e finsi di non aver notato il lapsus. «Se pensi che penetrare nei suoi segreti sia una questione di fortuna, ti sbagli.» «C'è solo un modo di scoprirlo.» «Hai già un candidato?» domandai, con voce gelida e ostile. Sorrise. «Io ho avuto il permesso di fare un tentativo. Non mi ci vorrà molto. Conserveranno la mia ospite.» Sentii di dover respirare a fondo. Tremavo, e Melanie era talmente piena
d'odio da non saper cosa dire. L'idea che la Cercatrice prendesse il mio posto fu così ripugnante che mi sentii addosso la stessa nausea della settimana prima. «Mi dispiace per le tue indagini, ma non sono una che se la squaglia.» La Cercatrice strabuzzò gli occhi. «Be', in questo modo non farai altro che prolungare all'infinito la mia missione. La storia come materia non mi è mai piaciuta granché, ma temo che dovrò seguire l'intero corso.» «Hai appena detto che forse è troppo tardi per scoprire altro nei suoi ricordi» commentai, sforzandomi di restare calma. «Perché non torni da dove sei venuta?» Scrollò le spalle e abbozzò un sorriso. «Sono sicura che sia troppo tardi... per le informazioni volontarie. Ma se tu non collabori, potrebbe essere lei a darmi qualche indizio.» «In che modo?» «Quando lei prende il controllo, quando tu non sei tanto diversa da quel codardo, un tempo Canzone che Corre, oggi Kevin. Te lo ricordi? Quello che aggredì la Guaritrice.» La fissai a occhi sbarrati. «Probabilmente è soltanto questione di tempo. La tua Consolatrice non ti ha parlato di statistiche, eh? Be', anche se l'avesse fatto, non avrebbe potuto darti informazioni aggiornate quanto le nostre. Meno del venti per cento dei casi simili al tuo - quelli in cui l'ospite umano è refrattario - si risolve bene, a lungo termine. Ti aspettavi una percentuale così bassa? Stanno modificando le informazioni riservate ai potenziali colonizzatori. Non offriranno più nessun ospite adulto. Il rischio è troppo alto. Stiamo perdendo anime. Tra poco lei inizierà a parlare con te e, attraverso te, a controllare le tue decisioni.» Non mi ero mossa di un centimetro. La Cercatrice si avvicinò, alzandosi sulle punte per guardarmi negli occhi. La sua voce si fece bassa e vellutata, nel tentativo di risultare suadente. «È questo ciò che vuoi, Viandante? Perdere? Svanire, cancellata da un'altra coscienza? Diventare un banale corpo ospite?» Ero senza fiato. «Non farà che peggiorare. Non sarai mai più te stessa. Lei vincerà, tu scomparirai. Magari qualcuno interverrà... e ti trasferiranno, come Kevin. E diventerai una bambina di nome Melanie, a cui piace trastullarsi con le auto anziché comporre musica. O qualsiasi cosa faccia.» «Il tasso di successi è meno del venti per cento?» sussurrai.
Lei annuì, sforzandosi di non sorridere. «Ti stai smarrendo, Viandante. Tutti i mondi che hai visto, le esperienze che hai collezionato... non serviranno a nulla. Nella tua cartella ho visto che sei idonea alla Maternità. Se scegliessi di diventare una Madre, perlomeno, tutto questo non andrebbe sprecato. Perché vuoi buttarti via? Hai mai considerato la Maternità?» La allontanai bruscamente, rossa in viso. «Mi dispiace» farfugliò, rabbuiandosi a sua volta. «Sono stata maleducata. Come non detto.» «Vado a casa. Non seguirmi.» «Devo, Viandante. È il mio lavoro.» «Perché vi importa così tanto dei pochi umani rimasti? Perché? Come giustificate il vostro lavoro adesso? Abbiamo vinto! È ora che rientriate nella società e facciate qualcosa di produttivo!» Le mie domande, le accuse implicite, non la scalfirono. «Ovunque i confini del loro mondo tocchino i nostri, c'è morte.» Parlò con grande tranquillità, e per un istante sul suo viso colsi il riflesso di una persona diversa. Capii con sorpresa che credeva profondamente in ciò che faceva. Una parte di me ipotizzava che avesse scelto di cercare perché assetata di violenza. «Se per colpa del tuo Jared o del tuo Jamie perdiamo anche soltanto un'anima, è già troppo. Finché su questo pianeta non regnerà la pace totale, il mio lavoro sarà legittimato. C'è bisogno di me, per proteggere la nostra gente dai Jared sopravvissuti. Dalle Melanie che rubano anime sotto il nostro naso...» Mi voltai e puntai verso l'appartamento, a passi lunghi; se voleva seguirmi, doveva mettersi a correre. «Non smarrirti, Viandante!» strillò. «Il tuo tempo sta per scadere!» Una pausa, e urlò ancora più forte. «Avvertimi quando inizierai a farti chiamare Melanie!» La sua voce svanì con l'aumentare della distanza. Sapevo che mi avrebbe seguita. I fastidi della settimana precedente - vedere il suo volto nelle ultime file a ogni lezione, sentirla sgambettare alle mie spalle sul marciapiede ogni giorno - non erano niente a confronto di ciò che aveva in serbo. Era decisa a rovinarmi la vita. Avevo la sensazione che Melanie rimbalzasse con violenza contro le pareti interne del mio cranio. "Incastriamola. Di' ai suoi superiori che ha compiuto un gesto inaccettabile. Che ci ha aggredite. La nostra parola contro la sua." "Non siamo nel mondo degli umani" le ricordai, quasi rattristata dall'im-
possibilità di non poter fare una simile denuncia. "Non esistono superiori come li intendi tu. Tutti lavorano insieme, alla pari. Ci sono quelli a cui bisogna rendere conto, che tengono in ordine le informazioni, e assemblee che decidono in base a tali informazioni, ma nessuno le revocherà la missione, se è lei a desiderarla. Vedi, funziona come..." "Cosa importa come funziona, se non ci serve a niente? Lo so... uccidiamola!" E l'immagine delle mie mani che stringevano la Cercatrice alla gola mi riempì la testa. "Ecco, è proprio il motivo per cui è meglio che sia la mia gente a controllare questo posto." "Abbassa la cresta. Ti divertiresti quanto me." Riecco l'immagine del volto della Cercatrice, paonazzo, accompagnato da un'ondata di piacere e soddisfazione. "Quella sei tu, non io." Era la verità; quell'immagine mi dava la nausea. Ma era anche una bugia: avrei molto gradito che la Cercatrice sparisse per sempre. "E ora che facciamo? Io non mi arrendo. Tu non ti arrendi. E quella schifosa Cercatrice non si arrenderà mai, maledetta!" Non le risposi. Non avevo una risposta pronta. Per un po' la mia mente tacque. Che bella sensazione. Desiderai che potesse durare. Ma c'era un solo modo di comprare un po' di pace. Ero disposta a pagarne il prezzo? Mi era rimasta altra scelta? Melanie, lentamente, si calmò. Entrai in casa, chiudendo anche con le serrature che non avevo mai usato - manufatti umani inutili, in un mondo pacifico - e la sentii persa in chissà quale meditazione. "Non avevo mai pensato a come propagate la vostra specie. Non sapevo fosse così." "Come puoi immaginare, prendiamo la cosa molto seriamente. Grazie per l'interessamento." L'ironia dei miei pensieri non la sfiorò neppure. Era ancora occupata a riflettere sulla propria scoperta, quando accesi il computer e iniziai a cercare un volo. Dopo pochi istanti lei si accorse di me. "Dove andiamo?" Il pensiero portò con sé un fremito di panico. Sentii la sua coscienza sorgere tra i miei pensieri, una presenza che mi sfiorava con la morbidezza di una piuma, in cerca di ciò che immaginava le nascondessi. Decisi di risparmiarle la fatica. "Vado a Chicago." Il panico divenne più che un presentimento. "Perché?"
"Vado a trovare il Guaritore. Non mi fido di lei. Voglio parlargli prima di prendere una decisione." Attese qualche istante prima di parlare. "La decisione di uccidermi?" "Sì, quella." 8 L'amore «Hai paura di volare?» La voce della Cercatrice era incredula e quasi irridente. «Hai viaggiato otto volte nello spazio profondo e adesso hai paura di un volo interno per Tucson, in Arizona?» «Prima di tutto, non ho paura. Secondo, quando ho viaggiato nello spazio non ero esattamente conscia di dove mi trovassi, conservata com'ero in una camera di ibernazione. Terzo, questa ospite soffre di mal d'aria.» La Cercatrice alzò gli occhi al cielo, disgustata. «Allora prendi un tranquillante! Cosa avresti fatto se il tuo Guaritore non avesse traslocato al Saint Mary? Saresti andata in macchina fino a Chicago?» «No. Ma siccome ora guidare è un'opzione praticabile, lo farò. Mi divertirò a esplorare un po' di questo mondo. A volte il deserto è magnifico...» «Il deserto è una noia mortale.» «... E non ho nessuna fretta. Ho parecchi pensieri per la testa, e per un po' mi piacerebbe restare sola.» Le lanciai un'occhiataccia, sottolineando l'ultima parola. «Non capisco che senso abbia visitare il tuo vecchio Guaritore, comunque. Qui ce ne sono tanti, tutti competenti.» «Con lui mi sento a mio agio. Ha esperienza in questo campo, e sento di non avere tutte le informazioni che mi occorrono.» Le lanciai un altro sguardo esplicito. «Tu non puoi permetterti di prendertela comoda, Viandante. Riconosco i segnali.» «Scusami se non considero obiettive le tue informazioni. Anch'io conosco abbastanza il comportamento umano da percepire i segni della manipolazione.» Mi guardò in cagnesco. Stavo caricando sull'auto presa a noleggio le poche cose che intendevo portare con me. Avevo vestiti a sufficienza per resistere una settimana senza lavanderia, e l'indispensabile per l'igiene personale. Poco, ma sempre
più di quanto avrei lasciato a casa. Avevo accumulato ben pochi oggetti personali. Mesi e mesi in quel piccolo appartamento, e le pareti erano ancora nude, le mensole vuote. Forse non ero fatta per questo posto. La Cercatrice era impalata sul marciapiede, accanto al baule aperto, e mi aggrediva con domande e commenti maliziosi ogni volta che ero a tiro. A confortarmi, se non altro, c'era il fatto che fosse troppo agitata per mettersi in viaggio con me. Sarebbe venuta a Tucson con un volo interno, come aveva consigliato di fare a me. Quello era un gran sollievo. La immaginavo avvicinarsi a ogni pausa per mangiare, incombere davanti ai bagni delle stazioni di servizio, pronta a infliggermi le sue domande a ogni sosta. A quel pensiero rabbrividii. Se avere un nuovo corpo significava liberarmi della Cercatrice... be', l'idea era allettante. Avevo un'alternativa. Dichiarare fallimento, abbandonare questo mondo e traslocare su un nono pianeta. Sforzandomi di dimenticare la brutta esperienza. La Terra sarebbe stata una macchia microscopica sul mio curriculum altrimenti immacolato. Ma dove potevo andare? Su un pianeta che già conoscevo? Il Mondo che Canta era uno dei miei preferiti, ma valeva la pena di rinunciare alla vista? Il Pianeta dei Fiori era grazioso... Ma la gamma emotiva delle forme di vita basate sulla clorofilla era ridottissima. Ne avrei trovato insopportabile la lentezza, dopo il ritmo della dimora degli umani. Un nuovo pianeta? In effetti c'era un'acquisizione recente: sulla Terra chiamavano i nuovi ospiti "Delfini", in assenza di definizioni migliori, ma più che a mammiferi marini somigliavano a libellule. Una specie molto evoluta, certamente mobile, ma dopo il lungo soggiorno presso le Alghe, il pensiero di un altro pianeta acqueo mi ripugnava. No, c'erano ancora tante cose sconosciute su questo pianeta. Nessun'altro luogo dell'universo noto mi attirava quanto il giardinetto ombreggiato nella pacifica strada in cui vivevo, serbava il fascino del cielo vuoto del deserto, che avevo visto soltanto nei ricordi di Melanie. Melanie non mi disse cosa pensava delle mie alternative. Era diventata molto silenziosa dopo la mia decisione di trovare Acque profonde. Non sapevo interpretarne il distacco. Stava cercando di apparirmi meno pericolosa, un fardello meno pesante? Si stava preparando all'invasione della Cercatrice? Alla morte? O ad attaccare me, per cercare di prendere il controllo? Qualunque fosse il suo piano, si teneva a distanza; era una presenza debole e vigile, in un angolo della mia mente.
Feci l'ultimo giro in casa, per controllare se avevo preso tutto. L'appartamento sembrava vuoto. C'era soltanto la mobilia essenziale, eredità dell'ultimo inquilino. Gli stessi piatti nella credenza, i cuscini sul letto, le lampade sui tavoli. Se non fossi tornata, il prossimo abitante avrebbe avuto ben poco di che liberarsi. Mentre ero sulla porta, pronta a uscire, suonò il telefono; mi voltai per andare a rispondere ma era troppo tardi. Avevo già regolato la risposta automatica della segreteria dopo un solo squillo. Sapevo cos'avrebbe ascoltato chi chiamava: il vago annuncio della mia assenza per il resto del semestre, e la cancellazione dei corsi fino all'arrivo di un sostituto. Senza dare spiegazioni. Guardai l'orologio sopra il televisore. Erano appena passate le otto del mattino. Di sicuro al telefono c'era Curt, che aveva ricevuto da me una e-mail appena più dettagliata, la sera prima. Mi sentivo in colpa per non aver saputo rispettare il mio impegno con lui, come se me la fossi già squagliata. Forse quel passo, quella rinuncia, era preludio di un'altra decisione, della mia vergogna più grande. Questo pensiero ingombrante mi tolse la voglia di ascoltare il messaggio, malgrado non avessi alcuna fretta di partire. Controllai per l'ultima volta l'appartamento vuoto. Sentivo di non lasciarmi niente alle spalle, in quelle stanze non c'era nulla di me. Avevo la strana sensazione che questo mondo - non soltanto Melanie, ma l'intero globo - non mi volesse, in barba a quanto io lo desiderassi. Non riuscivo a mettere radici. Questo pensiero mi fece sorridere amaramente. Erano soltanto sciocche superstizioni. Non ero mai stata dentro un ospite capace di superstizioni. Era una sensazione interessante. Come sapere di essere osservati, senza capire da chi. Mi faceva venire la pelle d'oca. Chiusi la porta alle mie spalle con decisione. Nessuno avrebbe disturbato quel luogo finché non fossi tornata, o finché non lo avessero assegnato a un nuovo inquilino. Senza guardare la Cercatrice, salii sull'auto. Non avevo mai guidato granché, e nemmeno Melanie, perciò ero un po' nervosa. Ma anche sicura che mi ci sarei abituata in fretta. «Ti aspetto a Tucson» disse la Cercatrice, sporgendosi al finestrino aperto del passeggero, mentre accendevo il motore. «Non ne dubito» mormorai. Trovai il pulsante sulla portiera. Cercando di trattenere un sorriso, lo schiacciai per alzare il finestrino, e la vidi sobbalzare.
«Forse...» disse, alzando la voce fino quasi a urlare, per superare il rombo del motore e i finestrini chiusi, «... forse proverò a seguirti. Magari ci vediamo sulla strada.» Sorrise e si strinse nelle spalle. Lo diceva soltanto per irritarmi. Cercai di non mostrarle che ci era riuscita. Puntai lo sguardo sull'asfalto e mi allontanai piano dal ciglio della strada. Trovare l'autostrada fu facile, come seguire i cartelli per uscire da San Diego. Di lì a poco non avrei avuto più indicazioni né occasioni di sbagliare strada. Otto ore e avrei raggiunto Tucson. Non erano abbastanza. Magari potevo pernottare in qualche cittadina lungo il percorso. Se fossi stata certa di essere preceduta, anziché seguita dalla Cercatrice, una sosta sarebbe stato un diversivo piacevole. Mi ritrovai a sbirciare spesso nel retrovisore, in cerca di indizi del pedinamento. Guidavo più lenta di tutti, restia a raggiungere la mia destinazione, e le altre auto mi sorpassavano di continuo. Non riconoscevo nessuno dei volti che mi sfilavano davanti. Non avrei dovuto lasciarmi turbare dalle chiacchiere della Cercatrice; era palese che non fosse nel suo temperamento viaggiare con lentezza. Eppure... continuavo a cercarla. Ero stata sull'oceano, a ovest, a nord e a sud, su e giù per le belle coste californiane, ma non mi ero mai spinta verso est. Mi lasciai in fretta alle spalle la civiltà, e mi ritrovai circondata dalle colline e dalle rocce brulle che annunciavano la desolazione e il vuoto del deserto. Era molto rilassante allontanarsi dalla civiltà, ma il pensiero mi turbava. Non avrei dovuto sentirmi così a mio agio in solitudine. Le anime erano socievoli. Vivevamo, lavoravamo e crescevamo insieme in armonia. Eravamo tutte uguali: pacifiche, benevole, oneste. Perché mi sentivo meglio lontana dalla mia gente? Colpa di Melanie? La cercai, ma la sentii irraggiungibile; sognava in un angolo della mia mente. Non ero mai stata meglio, da quando aveva ricominciato a parlare. I chilometri passarono in fretta. Le rocce grezze e scure e le pianure sabbiose coperte di sassi scorrevano uniformi e monotone. Capii che stavo viaggiando più veloce del previsto. Non c'era niente a tenere la mia mente occupata, era facile distrarmi. Sovrappensiero mi domandai perché il deserto fosse molto più colorato nei ricordi di Melanie, molto più attraente. Lasciai che la mia mente seguisse la sua, nel tentativo di capire cosa fosse a rendere speciale quell'ambiente vuoto.
Ma lei non vedeva la terra brulla, morta, che ci circondava. Sognava un altro deserto, rosso, con i canyon, un luogo magico. Non fece nulla per sbarrarmi la strada. Anzi, sembrava quasi ignara della mia presenza. Mi domandai di nuovo che senso avesse quel distacco. Non percepii alcun pensiero aggressivo. Sembrava quasi rassegnata alla fine. Nei suoi ricordi viveva in una casa felice a cui forse voleva dare l'ultimo addio. Una casa che non mi aveva mai permesso di vedere. C'era un'abitazione nascosta in un anfratto di arenaria rossa, pericolosamente vicina alla linea di esondazione. Era una casa improbabile, lontana da strade e sentieri, costruita in un luogo a prima vista assurdo. Spartana, senza le comodità della tecnologia moderna. Melanie ricordava le risate di fronte alla pompa del lavandino che pescava acqua direttamente dal profondo della terra. «Meglio delle tubature» dice Jared, e le sue sopracciglia aggrottate mettono in bella mostra la ruga che gli corre sulla fronte. Sembra preoccupato dalla mia risata. Ha paura che la casa non mi piaccia? «Nessuna traccia, nessun indizio che siamo qui.» «Splendido» rispondo svelta. «Sembra un vecchio film. È perfetto.» Il sorriso che non abbandona mai del tutto la sua espressione -neanche nel sonno - si allarga. «Nei film non mostrano mai la parte brutta. Vieni, ti faccio vedere dov'è la latrina.» Sento l'eco delle risate di Jamie che ci corre incontro nel canyon stretto. I suoi capelli neri sobbalzano insieme al suo corpo. Non sta più fermo un attimo, questo ragazzo magro con la pelle scurita dal sole. Non mi ero mai resa conto di quale peso sopportassero le sue spalle strette. Da quando c'è Jared è brioso e allegro. Al posto dell'espressione ansiosa, soltanto sorrisi. Siamo entrambi più resistenti di quanto avessi immaginato. «Chi ha costruito questa casa?» «Mio padre e i miei fratelli maggiori. Io ho dato una mano, o meglio, mi sono impicciato. A mio padre piaceva starsene lontano da tutto. E non gli importava granché delle convenzioni. Non si è mai preoccupato di scoprire chi fosse il vero proprietario del terreno, di chiedere permessi o di altre scocciature.» Jared ride e alza la testa. Il sole danza sulle chiazze bionde dei suoi capelli. «Ufficialmente questa casa non esiste. Utile, no?» Quasi senza pensarci, mi cerca e mi prende per mano. La mia pelle brucia al contatto con la sua. Meglio di così non potrei stare, ma sento anche uno strano peso nel petto. Jared mi sfiora di continuo, sembra sempre in cerca della conferma che
ci sono. Si rende conto di cosa scatena in me la semplice pressione del suo palmo contro il mio? Anche lui sente il cuore galoppare? O è soltanto felice di non essere più solo? Mi tiene la mano e dondola il braccio con il mio, mentre camminiamo sotto una piccola schiera di pioppi verde lucido, che sullo sfondo rosso gioca scherzi alla mia vista. Qui è felice, più felice che altrove. Anch'io lo sono. Ma è una sensazione ancora poco familiare. Non mi ha più baciato dopo la prima notte, quando ho urlato dopo aver scoperto la cicatrice sul suo collo. Non vuole farlo più? Dovrei farmi avanti io? E se non gli piace? Mi guarda e sorride, le rughe agli angoli degli occhi si increspano in piccole ragnatele. Chissà se è davvero bello come penso che sia, o se dipende soltanto dal fatto che è l'ultima persona rimasta al mondo, a parte Jamie e me. No, non credo che sia così. È davvero bello. «Cosa pensi, Mel?» chiede. «Sembri concentrata su qualcosa di molto importante.» Ride. Mi stringo nelle spalle emozionata. «È bello, qui.» Si guarda attorno. «Sì. D'altronde, essere a casa è sempre bello, no?» «Casa.» Ripeto la parola a bassa voce. «Casa.» «È anche casa tua, se vuoi.» «Lo voglio.» Sento che ogni chilometro percorso negli ultimi tre anni doveva portarmi qui. Non vorrei andarmene mai, anche se so che prima o poi saremo costretti. Il cibo non cresce sugli alberi. Perlomeno, non su quelli del deserto. Mi stringe la mano, e sento il cuore battere nel petto. È come un dolore, questo piacere. Provai una sensazione confusa mentre Melanie mi sfrecciò avanti, e i suoi pensieri danzarono lungo quella giornata calda, finché il sole non fu tramontato dietro le pareti rosse del canyon. La seguii, quasi ipnotizzata dalla strada infinita che mi si srotolava davanti, dagli scheletri dei cespugli che sfilavano, uguali e ipnotici. Sbircio nell'unica e piccola stanza da letto. Il materasso a due piazze arriva a pochi centimetri dalle pareti di pietra grezza. Provo un sentimento di gioia profonda nel vedere Jamie addormentato su un letto vero, con la testa sopra il cuscino morbido. Braccia e gambe
magre invadono lo spazio su cui dovrei sdraiarmi. Nella realtà è molto più grosso di come lo vedo. Ha quasi undici anni: presto non sarà più un bambino. Ma per me lo resterà sempre. Il suo respiro è regolare, dorme sodo. Non c'è paura nei suoi sogni, almeno per ora. Chiudo la porta in silenzio e torno al divanetto su cui mi aspetta Jared. «Grazie» sussurro, pur sapendo che nemmeno urlando riuscirei a svegliare Jamie. «Mi dispiace, però. Questo divano è troppo corto per te. Forse è meglio che divida tu il letto con Jamie.» Jared soffoca una risata. «Mel, sei pochi centimetri più bassa di me. Dormi comoda, per una volta. La prossima volta che esco, rubo una branda o qualcosa del genere.» La cosa non mi piace, per molte ragioni. Se ne andrà presto? Ci porterà con sé? La spartizione delle stanze è definitiva? Mi avvolge le spalle con un braccio e mi stringe al suo fianco. Mi rannicchio contro di lui, malgrado il calore del contatto sia l'ennesima fitta al cuore. «Perché quel broncio?» chiede. «Quando tu... noi ce ne andremo?» Si stringe nelle spalle. «Durante il viaggio abbiamo raccattato abbastanza per resistere un paio di mesi. Posso fare qualche incursione rapida, se vuoi restare nella stessa casa per un po'. Scommetto che sei stanca di scappare.» «Sì, lo sono.» Respiro a fondo per prendere coraggio. «Ma dove vai tu, vado io.» Rafforza la stretta. «Ti confesso che preferisco che sia così. Il pensiero di starti lontano...» Ride a bassa voce. «Ti sembro matto se ti dico che preferirei morire? Troppo melodrammatico?» «No, ti capisco.» Deve provare ciò che provo io. Parlerebbe così se mi ritenesse soltanto un altro essere umano e non una donna? Mi rendo conto che questi sono i nostri primi veri momenti di intimità da quando ci conosciamo, la prima volta che una porta ci separa da Jamie addormentato. Quante notti abbiamo passato svegli, a sussurrarci le nostre storie, storie felici e storie inquietanti, con la testa di Jamie posata sul mio grembo. Una semplice porta chiusa basta ad accelerare il mio respiro. «Non penso sia necessario trovare una branda, per ora.» Sento i suoi occhi, dubbiosi, su di me, ma non riesco a incrociarli. Sono imbarazzata, a-
desso, però è troppo tardi. Le parole mi sono uscite. «Resteremo qui finché abbiamo scorte, non preoccuparti. Ho dormito in letti peggiori di questo divano.» «Non hai capito» dico, senza alzare lo sguardo. «Il letto è tuo, Mel. Non voglio discutere.» «Continui a non capire.» È a malapena un sussurro. «Volevo dire che il divano è grosso abbastanza per Jamie. Passerà del tempo prima che cresca. Potrei dividere il letto con... te.» Silenzio. Vorrei alzare gli occhi, leggere l'espressione sul suo viso, ma sono mortificata. È disgustato? Come farò a sopportarlo? Mi manderà via? Le sue dita calde e callose mi sollevano il mento. Quando i nostri sguardi si incrociano ho il cuore in gola. «Mel, io...» Sul suo volto, per la prima volta, non vedo sorrisi. Cerco di guardare altrove, ma lui mi stringe forte il mento, i miei occhi non possono sfuggire ai suoi. Non sente il fuoco che arde tra i nostri corpi? Lo avverto soltanto io? Possibile? È un sole piatto, intrappolato tra noi, schiacciato come un fiore tra le pagine di un grosso libro, che ne brucia la carta. Che altre sensazioni prova lui? Qualcosa di sgradevole? Dopo un istante volta la testa; è lui adesso a guardare altrove, senza mollare la presa sul mio mento. Parla con voce tranquilla. «Non sei costretta, Melanie. Non devi sentirti in debito per nulla.» Mi è difficile deglutire. «Non sto dicendo... Non è perché mi sento obbligate. E... nemmeno tu. Come non detto.» «Lasciamo perdere, Mel.» Fa un sospiro, e vorrei sparire. Arrendermi... cedere agli invasori, se è ciò che serve a cancellare questo errore madornale. Tutto il futuro in cambio degli ultimi due minuti di passato. Qualsiasi cosa. Jared respira a fondo. Accigliato, fissa il pavimento. «Mel, non dev'essere per forza così. Soltanto perché siamo insieme, l'ultimo uomo e l'ultima donna sulla Terra...» È senza parole, forse è la prima volta che lo vedo così. «Questo non significa che tu debba fare cose che non vuoi fare. Non sono il genere di uomo che si aspetta... Non sei obbligata...» Sembra così agitato, con lo sguardo cupo e lontano, che mi ritrovo a parlare, anche se so dal primo istante che è un errore. «Non è così» mormoro. «Non sto parlando di "obblighi", e non penso che tu sia "quel genere" di uomo. Certo che no. È solo...» ... solo che lo amo. Stringo i denti per non infliggermi un'altra umiliazione. Dovrei mozzarmi la lingua seduta stante, prima di rovinare anche il
resto. «Solo...?» Cerco di scuotere la testa, ma il mento è ancora saldo tra le sue dita. «Mel?» Mi libero dalla presa e scuoto la testa con decisione. Lui si china verso di me, e all'istante la sua espressione cambia. Mostra un conflitto interiore che non comprendo, ma comunque cancella la sensazione di rifiuto che mi punge gli occhi. «Mi vuoi parlare? Dire cosa pensi? Per favore» mormora. Sento il suo respiro sulla guancia, e prima di aprire bocca aspetto qualche secondo. I suoi occhi mi fanno dimenticare che sono mortificata, che non volevo aggiungere altro. «Se dovessi scegliere una persona con cui vagare su un pianeta disabitato, questa saresti tu» sussurro. Il sole tra di noi arde più forte. «Voglio stare sempre con te. Non soltanto per... per parlare. Quando mi tocchi...» Lascio che le mie dita leggere sfiorino la pelle calda del suo braccio, e il contatto le ustiona. Lui mi stringe. Sente il calore? «Non fermarti.» Vorrei essere più precisa, ma non trovo le parole. Pazienza. Già è stata dura arrivare fin qui. «Se non provi ciò che provo io, me ne farò una ragione. Magari non è la stessa cosa, per te. Non c'è problema.» Bugie. «Oh, Mel» sussurra al mio orecchio, e avvicina il mio viso al suo. Altre fiamme sulle sue labbra, sempre più ardenti, arroventate. Non so cosa sto facendo, ma forse non importa. Le sue mani sono tra i miei capelli, il mio cuore sta per bruciare. Non respiro. Non voglio respirare. Ma le sue labbra passano al mio orecchio, e quando le cerco mi tiene ferma la testa. «È stato un miracolo, più che un miracolo, trovarti, Melanie. Oggi, se la scelta fosse tra riavere il mondo e avere te, non riuscirei a rinunciare a te. Nemmeno per salvare cinque miliardi di vite.» «È sbagliato.» «Sbagliatissimo, ma vero.» «Jared» sussurro. Cerco di nuovo le sue labbra. Si allontana, come per dire qualcosa. Ma cos'altro c'è, ancora? «Ma...» Ma? Come può esserci un ma? Com'è possibile che dopo queste fiamme arrivi un ma? «Ma tu hai diciassette anni, Melanie. E io ventisei.» «E questo cosa c'entra?»
Non risponde. Carezza lentamente le mie braccia e le colora di fuoco. «Stai scherzando.» Mi allungo, in cerca del suo viso. «Ti preoccupi delle convenzioni anche ora che il mondo è finito?» Deglutisce rumorosamente, prima di parlare. «La maggior parte delle convenzioni ha una ragione precisa, Mel. Mi sentirei male, come se approfittassi di te. Sei giovanissima.» «Nessuno è giovanissimo, ormai. Chiunque sia sopravvissuto fino a oggi è un veterano.» Dall'angolo della sua bocca spunta un sorriso. «Forse hai ragione. Ma non dobbiamo avere fretta.» «Cosa dobbiamo aspettare?» chiedo. Per qualche istante interminabile tace, pensieroso. «Be', prima di tutto dobbiamo prendere in considerazione alcune questioni... pratiche.» Chissà, forse sta cercando un modo per distrarmi, per prendere tempo. Sembra proprio di sì. Alzo un sopracciglio. Non posso credere che la discussione abbia preso questa piega. Se davvero mi desidera, tutto questo non ha senso. «Vedi» aggiunge, incerto. La pelle dorata dal sole sembra quasi avvampare. «Quando ho rimesso in sesto la casa, non immaginavo che ci sarebbero stati... ospiti. Voglio dire...» Il resto arriva tutto d'un fiato. «L'ultima cosa a cui potessi pensare era la pianificazione familiare.» Sento la mia fronte corrugarsi. «Ah.» Lui non sorride più, e per una frazione di secondo sul suo viso appare un lampo di rabbia che non ho mai visto prima. Ha un'aria pericolosa che non pensavo gli appartenesse. «Non voglio far nascere un figlio in un mondo come questo.» Rifletto sulle sue parole, e sento un fremito al pensiero che un bambino piccolo e innocente apra gli occhi in un posto come questo. Già è dura vedere gli occhi di Jamie, sapere cos'ha in serbo la vita per lui, anche nelle migliori circostanze possibili. Jared torna improvvisamente in sé. Le rughe all'angolo degli occhi si increspano. «Comunque, abbiamo parecchio tempo per... pensarci su.» Altro tentativo di stallo, suppongo. «Ti rendi conto che siamo insieme da poco, pochissimo tempo? Ci siamo trovati soltanto quattro settimane fa.» Mi mette al tappeto. «Non può essere.» «Ventinove giorni. Sto tenendo il conto.» Ci ripenso. Non è possibile che siano passati solo ventinove giorni da
quando Jared ci ha cambiato la vita. La sensazione è che io e Jamie abbiamo passato con lui ogni istante, da quando ce ne siamo andati. Due o tre anni, più o meno. «Abbiamo tempo» ripete Jared. Un panico improvviso, quasi un presagio, blocca le mie parole. Lui osserva preoccupato il cambiamento nella mia espressione. «Non puoi saperlo.» L'angoscia che l'arrivo di Jared ha placato mi colpisce di nuovo come una frusta. «Non puoi sapere quanto tempo rimane. Non possiamo calcolarlo in mesi, giorni o ore.» Ride di gusto, sfiora con le labbra le mie sopracciglia corrugate. «Non preoccuparti, Mel. I miracoli non finiscono così. Non ti perderò mai. Non lo permetterò.» Lei mi riportò al presente e all'autostrada - il nastro sottile che si snodava nell'Arizona desolata, cotta dal sole ardente di mezzogiorno - contro la mia volontà. Fissavo il vuoto davanti a me, sentivo il vuoto dentro. Il suo pensiero sussurrò debole nella mia mente: "Non puoi sapere quanto tempo rimane". Le lacrime che piangevo appartenevano a entrambe. 9 La scoperta Attraversai svelta lo svincolo I-10, mentre il sole tramontava alle mie spalle. Non vedevo granché, a parte le righe bianche e gialle sull'asfalto, e di tanto in tanto i cartelli verdi che mi guidavano verso ovest. Ormai avevo fretta. Però non ero sicura del perché. Per uscire da quella situazione, probabilmente. Dal dolore, dalla tristezza e dalla nostalgia di amori perduti e impossibili. Anche dal mio corpo? Non riuscivo a pensare ad altre risposte. Ero decisa a porre le mie domande al Guaritore, ma sentivo che forse la decisione era presa. Squagliarmela. Rinunciare. Non mi ripetevo altro, cercando di venire a patti con quelle parole. Se solo avessi trovato il modo di tenere Melanie lontana dalle grinfie della Cercatrice. Era molto difficile. No, impossibile. Ma volevo provarci. Glielo promisi, ma non mi stava ascoltando. Sognava ancora. Forse si era arresa, ora che arrendersi non serviva più a nulla.
Cercai di stare alla larga dal canyon rosso dei suoi pensieri, ma ero là con lei. Malgrado i miei tentativi di concentrarmi sulle automobili che mi sfrecciavano a fianco, gli aerei che fluttuavano verso la pista d'atterraggio, le poche nuvole sottili che passavano sopra la mia testa, non riuscivo a liberarmi dai suoi sogni. Memorizzai il volto di Jared da migliaia di angolazioni diverse. Vidi Jamie allungarsi in un impeto di crescita improvvisa, sempre pelle e ossa. Le mie braccia sentivano nostalgia di loro... no, era peggio che nostalgia, era un dolore affilato e violento. Intollerabile. Dovevo uscirne. Guidavo meccanicamente lungo la statale a due corsie. Il deserto era persino più monotono e morto di prima. Piatto e privo di colore. Sarei arrivata a Tucson intorno all'ora di cena. Cena. Non avevo ancora mangiato, e quando me ne resi conto il mio stomaco brontolò. La Cercatrice mi aspettava là. Sussultai, e per un istante la nausea prese il posto della fame. Automaticamente il piede si alzò dall'acceleratore. Controllai la cartina sul sedile del passeggero. Ero nei dintorni di una piccola stazione di servizio, in un posto chiamato Picacho Peak. Forse era il caso di fermarmi a mangiare. Smettere, per qualche prezioso istante, di essere tormentata dall'immagine della Cercatrice. Quando pensai a quel nome a me sconosciuto - Picacho Peak - da Melanie giunse una reazione strana, indispettita. Non capivo. Ci era già stata? Cercai un ricordo, un'immagine o un odore che corrispondesse, senza trovare nulla. Picacho Peak. Di nuovo, una punta di interesse repressa da Melanie. Che senso aveva per lei quel nome? Fuggì da me ritirandosi nei ricordi lontani. Una cima montana solitaria, che dominava le colline basse e scabre dei dintorni, faceva capolino all'orizzonte. Aveva una sagoma inusuale, originale. Melanie la vide avvicinarsi mentre procedevamo, ostentando indifferenza. Perché si sforzava di comportarsi come se non le importasse nulla? Quando cercai di capirlo, fui disturbata dalla sua caparbietà. Non vedevo nulla al di là del solito muro. Sembrava più spesso del solito; e dire che pensavo fosse sparito. Cercai di ignorarla... non volevo pensare che si stesse rafforzando. Mi concentrai sull'altura, ne seguii il contorno sullo sfondo del cielo caldo e pallido. Aveva un che di familiare. Qualcosa che ero sicura di riconoscere, malgrado fossi più che certa che né io né lei ci fossimo mai state. Forse per tentare di distrarmi, Melanie si tuffò in un ricordo vivido di Ja-
red, e mi colse di sorpresa. Tremo nel giubbotto, costringo i miei occhi a fissare la luce abbagliante del sole che muore dietro le chiome rinsecchite degli alberi. Dico a me stessa che non fa freddo come sembra. È il mio corpo a non esserci abituato. Le mani che sento all'improvviso sulle spalle non mi spaventano. Il loro peso mi è troppo familiare. «È facile coglierti di sorpresa.» Persino ora sento il sorriso nella sua voce. «Ti ho visto arrivare ancora prima che facessi un passo» dico senza voltarmi. «Ho gli occhi anche dietro la testa.» Dita calde mi accarezzano il viso dalla tempia al mento, e una scia infuocata mi sfiora la pelle. «Somigli a una driade, nascosta tra gli alberi» mi sussurra all'orecchio. «Una di loro. Così bella che sembri irreale.» «Allora dovremo piantare qualche altro albero intorno alla casa.» Ridacchia, e a quel suono chiudo gli occhi e lascio che un sorriso mi spunti sulle labbra. «Non è necessario» risponde. «Sei sempre così bella.» «Così disse l'ultimo uomo sulla Terra all'ultima donna sulla Terra, alla vigilia della loro separazione.» Mentre parlo il mio sorriso scompare. Oggi non è proprio giorno di sorrisi. Lui fa un sospiro. Lo sento sulla guancia, è fresco, in confronto all'aria rovente del deserto. «Jamie potrebbe offendersi, per questa affermazione.» «Jamie è ancora un ragazzo. Per favore, proteggilo.» «Facciamo un patto» propone Jared. «Tu proteggi te stessa e io farò del mio meglio. O così, o niente.» È una battuta, ma non riesco a prenderla alla leggera. Dopo la separazione, nessuno potrà garantire. «Vada come vada» aggiungo. «Non succederà nulla. Non preoccuparti.» Le sue parole non significano niente. Sono uno sforzo inutile. Ma vale sempre la pena di sentire la sua voce, qualunque messaggio essa porti. «Okay.» Mi aiuta a voltarmi verso di lui, e poso la testa sul suo petto. Non so cosa mi ricordi il suo odore. È tutto suo, come il profumo di ginepro o della
pioggia nel deserto. «Io e te non ci perderemo» promette. «Ti ritroverò sempre.» Fedele a se stesso, non può restare serio per più di un batter di ciglia. «Puoi scappare dove vuoi, ma sappi che a nascondino non mi batte nessuno.» «Conterai fino a dieci?» «Senza sbirciare.» «Allora tocca a te» mormoro, cercando di non fargli capire che sto per piangere. «Non avere paura. Andrà tutto bene. Sei forte, veloce e furba.» Sta tentando di autoconvincersi. Perché me ne sto andando? È un azzardo pensare che Sharon sia ancora umana. Ma quando ho visto il suo volto al telegiornale, ne ho avuto la certezza. Una perquisizione come migliaia di altre. Come al solito - quando ci sentivamo isolati e sicuri a sufficienza - abbiamo pulito la cucina e il frigo con la TV accesa. Soltanto per sentire le previsioni del tempo; non era così interessante ascoltare la noia mortale delle storielle alla «tutto fila liscio» che i parassiti spacciano per notizie. Sono stati i capelli ad attirare la mia attenzione... il lampo di rosso acceso, quasi roseo, che non ho mai visto in nessun altro. Vedo ancora il suo sguardo, mentre sbircia nella telecamera con la coda dell'occhio. Lo sguardo che dice Sto cercando di essere invisibile; non vedetemi. Non camminava abbastanza lenta, era troppo impegnata a fingere disinvoltura. A tentare disperatamente di confondersi. Nessun ladro di corpi si comporterebbe così. Cosa fa Sharon, ancora umana, per le strade di una città enorme come Chicago? Ce ne sono altri? In fondo non ho scelta. Se c'è una sola possibilità di trovare altri umani laggiù, li cercherò. E devo andarci da sola. Sharon scapperebbe da chiunque, ma non da me... be', forse anche da me, ma se non altro mi lascerebbe il tempo di spiegare. Sono certa di conoscere il suo nascondiglio segreto. «E tu?» chiedo, con voce rotta. Non sono certa di poter sopportare l'imminente addio. «Sarai al sicuro?» «Non esiste paradiso o inferno che mi possa separare da te, Melanie.» Senza lasciarmi il tempo di riprendere fiato, o di asciugare le lacrime, lei mi gettò addosso un altro ricordo.
Jamie mi si rannicchia sotto il braccio, e trovare la posizione giusta è più difficile, adesso. Deve piegarsi, le sue braccia lunghe e goffe sgusciano da tutte le parti. Sta diventando forte e muscoloso, ma in questo momento è un bambino che trema, come rimpicciolito dalla paura. Jared sta caricando la jeep. Se fosse qui, Jamie reagirebbe diversamente. Vuole essere coraggioso come lui. «Ho paura» sussurra. Bacio i suoi capelli neri come la notte. Persino qui, nel cuore degli alberi aguzzi e resinosi, odorano di polvere e sole. Sento che fa parte di me, che dividerci è come spezzare il legame che ci unisce. «Con Jared te la caverai.» Devo mostrare coraggio, che ne abbia o no. «Lo so. Ho paura per te. Ho paura che non torni. Come papà.» Trasalgo. Il giorno in cui papà non tornò a casa - rivedemmo quello che era soltanto il suo corpo, mentre tentava di mettere i Cercatori sulle nostre tracce - provai l'orrore, la paura e il dolore più intensi della mia vita. Li infliggerò di nuovo a Jamie? «Tornerò. Io ritorno sempre.» «Ho paura» ripete. Devo essere coraggiosa. «Ti prometto che andrà tutto bene. Tornerò. Te lo prometto. Sai che io non mi rimangio le promesse, Jamie. Non quelle che faccio a te.» Il tremore si placa. Mi crede. Si fida. E un altro. Li sento al piano di sotto. Mi troveranno tra pochi minuti, oppure secondi. Scarabocchio il messaggio su un brandello di giornale sporco. È quasi illeggibile, ma se lo trova, capirà: "Troppo tardi. Vi voglio bene. Non tornare a casa.". Non solo sto spezzando i loro cuori, ma li privo anche di un nascondiglio. Immagino la nostra casetta nel canyon, che dovranno abbandonare per sempre. Diventerà una tomba. Vedo il mio corpo che vi accompagna i Cercatori. Il mio volto sorride mentre li troviamo... «Basta» esclamai, sfuggendo alle sferzate di dolore. «Basta! Ti sei spiegata! Ormai neanch'io riesco a vivere senza di loro. Sei contenta? A questo punto non mi rimangono molte scelte, sai? Soltanto una: sbarazzarmi di te. Vuoi davvero che la Cercatrice entri in te? Ah!» Mi sentii nauseata, come
se dovesse toccare a me ospitarla. "C'è un'altra possibilità, credimi" pensò Melanie piano. "Davvero?" chiesi, carica di sarcasmo. "Mostramela." "Stai a vedere." Guardavo ancora la montagna. Dominava il panorama, sbucava repentina dalle altre rocce, circondata dalla boscaglia bassa. Melanie mi costrinse a concentrarmi sul profilo delle due punte irregolari della vetta. Una curva lenta, morbida, poi una deviazione netta verso nord, una a sud e poi di nuovo a nord, lungo un tratto più lungo e serpeggiante; infine una discesa che verso sud declinava in un'altra curva larga. Non erano nord e sud, come avevo visto nei suoi ricordi frammentati, ma «su» e «giù». Il profilo di una montagna. Le linee che portavano a Jared e Jamie. Questa era la prima, il punto di partenza. Potevo trovarli. "Potremmo trovarli" mi corresse. "Non conosci tutte le indicazioni. Come per la capanna: non ti ho mai fatto sapere tutto." «Non capisco. Dove ci porta? Come può guidarci la cima di un monte?» Il mio cuore correva più di quanto pensassi: Jared era vicino. Jamie a portata di mano. Melanie mi mostrò la risposta. «Sono soltanto linee. E lo zio Jeb è un vecchio lunatico. Un rintronato, come tutti i parenti di mio padre.» Cerco di strappare il libro dalle mani di Jared, che a malapena si accorge del mio sforzo. «Un rintronato, come la mamma di Sharon?» ribatte lui, studiando i segni scuri di matita che imbrattano il retro della copertina del vecchio album di foto. È l'unico oggetto che non ho perso, in tutto il mio fuggire. Persino i segni che vi ha lasciato lo zio Jeb durante la sua ultima visita hanno assunto un valore affettivo. «Te lo concedo.» Se Sharon sarà ancora viva, dovremo ringraziare sua madre, la matta zia Maggie, degna di contendere allo svitato zio Jeb il titolo di Re dei Pazzi Fratelli Stryder. Mio padre è stato solo scalfito dalla follia di famiglia: non nascondeva rifugi segreti in cortile, o cose del genere. Gli altri, la zia Maggie, lo zio Jeb e lo zio Guy, erano devoti in tutto e per tutto alle teorie della cospirazione. Lo zio Guy è morto prima che l'invasione cancellasse gli altri, in un incidente stradale talmente banale che
nemmeno Maggie e Jeb sono riusciti a costruirci una teoria. Mio padre aveva affibbiato loro un nomignolo affettuoso, i pazzi. «Andiamo a trovare i pazzi» annunciava, scatenando le lamentele della mamma, motivo per il quale certe visite avvenivano raramente. Durante una di quelle rare occasioni, a Chicago, io e Sharon ci eravamo intrufolate nel nascondiglio di sua madre. Ci scoprì: la donna aveva sistemato trappole dappertutto. Sharon si prese una bella strigliata; io, malgrado avessi giurato di custodire il segreto, sapevo che zia Maggie avrebbe costruito un nuovo rifugio. Ma ricordo ancora dov'è il primo. Mi ci immagino Sharon, che vive come Anna Frank nel cuore di una città nemica. Dobbiamo trovarla e portarla a casa. Jared interrompe la rievocazione. «Sono proprio gli svitati a essere sopravvissuti. Quelli che vedevano il Grande Fratello dappertutto. Quelli che sospettavano della razza umana prima che la razza umana diventasse pericolosa. Quelli che avevano un nascondiglio pronto.» Jared sorride, senza staccare gli occhi dalle linee. Poi la sua voce si fa più seria. «Quelli come mio padre. Se lui e i miei fratelli si fossero nascosti, anziché combattere... Be', sarebbero ancora tra noi.» Intuisco il suo dolore e rispondo con delicatezza. «Okay, la teoria è fondata. Ma queste linee non vogliono dire niente.» «Ripetimi cosa ti disse quando le disegnò.» Sospiro. «Stavano discutendo... zio Jeb e papà. Lo zio cercava di convincerlo che c'era qualcosa di strano, che non doveva fidarsi di nessuno. Papà gli rise in faccia. Jeb afferrò l'album di foto dal tavolino e iniziò a... tracciare le linee sul retro di copertina con la matita. A papà saltarono i nervi, disse che mia madre si sarebbe arrabbiata. Jeb rispose: "La madre di Linda vi ha chiesto di andarla a trovare, vero? Strano, così all'improvviso? E si è arrabbiata, vedendo arrivare Linda sola? Se vuoi la verità, Trev, non credo che Linda baderà molto a certi particolari quando torna. Oh, sì, magari farà finta, ma noterai la differenza". All'epoca erano frasi senza senso, ma mio padre ci rimase davvero male. Gli ordinò di uscire da casa nostra. Sulle prime Jeb si rifiutò. Continuava a ripeterci di non aspettare che fosse troppo tardi. Mi afferrò una spalla e mi strinse a sé. "Non lasciarti catturare, piccola" sussurrò. "Segui le linee. Inizia dalla prima e segui le linee. Lo zio Jeb ti terrà un posto sicuro." A quel punto papà lo sbatté fuori dalla porta.» Jared annuisce distrattamente, e studia la pagina. «L'inizio... l'inizio...
deve avere un senso.» «Dici? Sono scarabocchi, Jared. Non è una mappa. Non sono neanche collegati.» «Il primo mi ricorda qualcosa, però. Qualcosa di noto. Giuro di averlo già visto da qualche parte.» Sospiro. «Forse ha detto qualcosa a zia Maggie. Forse le ha dato indicazioni migliori.» «Forse» risponde, e continua a fissare gli scarabocchi di zio Jeb. Mi trascinò indietro nel tempo, fino a un ricordo molto, molto più vecchio, che anche a lei sfuggiva da tanto. Fui sorpresa di scoprire che soltanto da poco aveva collegato indizi recenti e lontani. Dopo il mio arrivo. Ecco perché le linee erano sfuggite al suo controllo meticoloso, malgrado fossero tra i segreti più importanti: per il suo bisogno di capire. In quel ricordo primitivo e sfocato, Melanie era seduta in braccio a suo padre, con l'album di foto - non ancora rovinato - tra le mani. Le mani erano minuscole, le dita corte. Era molto strano ricordare di essere stata una bambina in quel corpo. Erano sulla prima pagina. «Ricordi che posto è questo?» chiede papà, e indica la vecchia foto ingrigita in cima alla pagina. La carta è più sottile di quella delle altre fotografie, come se si fosse consumata - appiattendosi sempre di più - dopo che chissà quale bis-bis-bisnonno l'ebbe scattata. «È il posto da cui vengono gli Stryder» dico, ripetendo la risposta a memoria. «Giusto. È il vecchio ranch degli Stryder. Una volta ci sei stata, ma scommetto che non te lo ricordi. Avevi un anno e mezzo, più o meno.» Papà ride. «È sempre stata terra degli Stryder...» Poi arriva il ricordo della foto. Guardata migliaia di volte senza davvero vederla. Era in bianco e nero, sbiadita e ingrigita. Una piccola casa di campagna, di legno, in lontananza, all'altro capo di uno spiazzo deserto; in primo piano una staccionata di assi; alcune sagome equine tra la staccionata e la casa. E sullo sfondo, il profilo aguzzo e noto... C'era qualcosa, una didascalia, scribacchiata a matita sul bordo superiore: "Ranch Stryder, 1904, mattina, all'ombra di...".
«Picacho Peak» commentai a bassa voce. Scommetto che l'ha capito anche senza trovare Sharon. So che Jared ha risolto il rompicapo. È più sveglio di me, e ha la foto; probabilmente ha già visto la soluzione. Potrebbe essere vicino..." Il pensiero che la riempì di smania ed entusiasmo fece crollare il muro nei miei pensieri. Vidi tutto il viaggio, vidi lei, Jared e Jamie attraversare la nazione, sempre di notte, attenti a non farsi notare, sulla loro anonima auto rubata. Durò settimane. Vidi il luogo in cui si erano separati, una riserva boschiva ai margini della città, tanto diversa dal deserto a cui erano abituati. La foresta fredda in cui Jared e Jamie si sarebbero nascosti sembrava più sicura - i rami fitti erano un buon rifugio, migliore della vegetazione rada del deserto - ma anche più pericolosa, con i suoi odori e rumori sconosciuti. Poi la separazione, un ricordo talmente doloroso che fummo costrette a evitarlo, tremanti. Quindi comparve il palazzo abbandonato in cui lei si era nascosta per tenere d'occhio, in attesa dell'occasione buona, la casa sull'altro lato della strada. Là, nascosta in un'intercapedine o dentro un sotterraneo segreto, Melanie sperava di trovare Sharon. "Non avrei dovuto mostrarti queste cose" pensò. La debolezza della sua voce tradiva la stanchezza. L'assalto dei ricordi, la persuasione e il senso di oppressione l'avevano svuotata. "Dirai loro dov'è nascosta. Ucciderai anche lei." «Sì» commentai ad alta voce. «Devo fare il mio dovere.» "Perché?" Mormorò, quasi sonnolenta. "Ti renderà davvero felice?" Non volevo discutere, perciò restai in silenzio. La montagna incombeva su di noi, più grande. Pochi minuti e ci saremmo trovate ai suoi piedi. Notai una piccola stazione di servizio, con un chiosco e un fast-food, a margine di uno spiazzo di cemento, un parcheggio per camper e roulotte semideserto, perché il calore dell'estate in arrivo già era poco sopportabile. Non sapevo che fare. Fermarmi a mangiare? Fare il pieno e proseguire fino a Tucson per rivelare le mie ultime scoperte alla Cercatrice? Il pensiero mi nauseò al punto da farmi digrignare i denti, mentre il mio stomaco vuoto sussultava. Di scatto affondai il piede sul freno, inchiodando. Per fortuna nessuno mi tamponò. Non trovai neanche qualcuno disposto a fermarsi per prestarmi aiuto o ascolto. In quel momento l'autostrada era vuota. Il sole batteva sull'asfalto e lo faceva brillare, quasi cancellandolo.
Era sbagliato considerare tradimento l'idea di proseguire lungo il mio percorso giusto e opportuno. Il mio primo linguaggio, il vero linguaggio delle anime, parlato soltanto sul nostro pianeta d'origine, non ha equivalenti per le parole «tradimento» e «traditore». E nemmeno per «lealtà»: concetto insensato, poiché il suo contrario non esiste. Tuttavia al pensiero della Cercatrice mi sentii sprofondare nel senso di colpa. Non avrei dovuto raccontarle ciò che sapevo. "No, perché?" Risposi al mio pensiero con cattiveria. Se mi fossi fermata ad ascoltare le proposte seducenti della mia ospite, sarei diventata una traditrice. Impossibile. Ero un'anima. Eppure conoscevo i miei desideri, più potenti e vividi che nelle otto vite precedenti. L'immagine del viso di Jared danzava nei miei occhi chiusi davanti alla luce del sole, non come lo ricordava Melanie, ma come io lo ricordavo nei suoi pensieri. Non era più una visione imposta da Melanie, la sua presenza era quasi impercettibile - immaginai che trattenesse il respiro, come fosse davvero possibile - mentre attendeva che prendessi una decisione. Non riuscivo a separarmi dai desideri del mio corpo. Erano più miei di quanto li avessi mai percepiti. Chi era a evocarli, io o lui? Era una differenza che aveva ancora senso? Il sole riflesso nel retrovisore catturò la mia attenzione. Spostai il piede sull'acceleratore e mi avvicinai lentamente al chiosco ai piedi dell'altura. La scelta da fare era soltanto una. 10 La trasformazione Il campanello che annunciava l'entrata di un altro cliente squillò. Allarmata, chinai la testa per nascondermi dietro uno scaffale. "Smettila di comportarti da ladra" suggerì Melanie. "Ma che ladra!" replicai svelta. Avevo le mani sudate ma fredde, malgrado il caldo del locale. Dalle vetrate entrava troppo sole, e l'aria condizionata faticava a stare al passo. "Quale?" domandai. "Quella più grossa" rispose. Afferrai una borsa di tela che sembrava in grado di contenere molto più di quanto fossi in grado di trasportare. Poi girai l'angolo, diretta allo scaffale delle bottiglie d'acqua.
"Possiamo prenderne una decina di litri. Così avremo tre giorni a disposizione per trovarli." Feci un gran respiro, cercando di convincermi che non sarei andata fino in fondo. Ciò che volevo era soltanto strapparle altre informazioni, tutto qui. Ricostruita la storia, avrei rintracciato qualcuno - magari una Cercatrice diversa, meno ripugnante di quella che mi era stata assegnata - a cui riferirla. Era un semplice eccesso di zelo. Il goffo tentativo di autoingannarmi fu così patetico che Melanie non se ne preoccupò nemmeno. Probabilmente, come aveva detto la Cercatrice, per me era troppo tardi. Forse avevo sbagliato a non prendere l'aereo per Tucson. "Troppo tardi? Magari!" borbottò Melanie. "Non riesco a farti fare niente che tu non voglia. Neanche alzare una mano!" aggiunse frustrata. Abbassai lo sguardo sulla mia mano, che restava inerte sul fianco anziché allungarsi a prendere l'acqua, come desiderava lei. Sentivo la sua impazienza, il desiderio quasi disperato di mettersi in moto. Ancora in fuga, come se la mia esistenza fosse niente più che una breve interruzione, tempo sprecato che si era finalmente lasciata alle spalle. Percepii il suo moto di irritazione, poi lei ricominciò. "Sbrighiamoci! Tra poco sarà buio." Con un sospiro tirai verso di me l'ultima confezione di bottiglie rimasta. Rischiai di farla cadere dallo scaffale. Avevo la sensazione che le braccia mi si fossero staccate dalle spalle. «Stai scherzando!» esclamai ad alta voce. "Zitta!" «Scusi?» disse un uomo tozzo e basso, l'altro cliente, dall'altro capo del corridoio. «Ehm... niente» mormorai, senza incrociare il suo sguardo. «Pesa più di quanto credessi.» «Ha bisogno d'aiuto?» propose lui. «No, no» replicai in fretta. «Ne prenderò una più piccola.» L'uomo tornò a concentrarsi sulle patatine. "Invece no. Ho trasportato carichi più pesanti di questo" mi garantì Melanie. "Ci hai rammollite, Viandante" aggiunse irritata. "Scusa" le risposi, stupita che per la prima volta mi avesse chiamata per nome. "Aiutati con le gambe." Lottai con la confezione d'acqua, certa di non riuscire a reggerla a lungo.
Alla fine riuscii a portarla fino alla cassa e con gran sollievo la sistemai sul banco. Sopra le bottiglie posai la borsa e aggiunsi anche una scatola di barrette di cereali, una di ciambelle e un pacchetto di patatine prese dall'espositore più vicino. "L'acqua è molto più importante del cibo, nel deserto, e non possiamo trasportare più di tanto..." "Ho fame" la interruppi. "E queste sono leggere." "La schiena è tua" disse lei controvoglia, poi ordinò: "Prendi una cartina". Piazzai sul bancone una mappa topografica della contea. Il cassiere, un uomo dai capelli bianchi e dal sorriso pronto, registrava i codici a barre. «Ci diamo al trekking, eh?» domandò, educato. «La montagna è bellissima.» «Il sentiero inizia proprio là...» disse, e fece per indicarmelo. «Lo troverò» risposi svelta, spostando il carico pesante e in equilibrio precario dal banco. «Torna giù prima che faccia buio, cara. Se no ti perderai.» «Certo.» I pensieri di Melanie a proposito del commesso erano di fuoco. "È stato solo gentile. È sinceramente preoccupato per il mio bene" le ricordai. "Siete tutti così inquietanti" ribatté acida. "Nessuno ti ha mai detto di non parlare con gli sconosciuti?" Risposi, presa da un improvviso senso di colpa. "Non ci sono sconosciuti tra la mia gente." "Ancora non mi sono abituata al fatto che le cose non si paghino" disse per cambiare argomento. "Che senso ha leggere il codice a barre?" "Per l'inventario, ovviamente. Vuoi costringerlo a tenere tutto a mente fino a quando dovrà ordinare nuove scorte? E poi, che senso hanno i soldi in un mondo nel quale tutti sono onesti?" Mi interruppi, e sentii di nuovo il senso di colpa, così forte da trasformarsi in dolore vero. "Tutti tranne me, certo." Melanie rifuggì i miei sentimenti, preoccupata dalla loro intensità, nel timore che potessi cambiare idea. Si concentrò sul proprio desiderio impellente di andarsene, di viaggiare verso la meta. La sua ansia trapelò fino a me, facendomi accelerare il passo. Portai l'acqua fino all'automobile e la posai per terra accanto alla portiera
del passeggero. «Lasci che l'aiuti.» Mi alzai di scatto e vidi l'altro cliente del negozio, fermo accanto a me con una borsa di plastica in mano. «Ah... grazie» riuscii a rispondere, mentre il cuore mi rimbombava nelle orecchie. Restammo in attesa, Melanie in tensione, pronta a scattare, mentre l'uomo caricava sull'auto i nostri acquisti. "Non temere. Ci sta solo facendo un favore." Lei continuò a osservarlo, diffidente. «Grazie» ripetei, mentre chiudeva la portiera. «Di niente.» Si voltò e tornò al suo veicolo senza più badare a noi. Salii in auto e afferrai il pacchetto di patatine. "Guarda la cartina" disse lei. "Aspetta che se ne vada." "Nessuno ci sta spiando" le garantii. Sospirando spiegai la mappa, mentre con una mano mangiavo. Tutto sommato era una buona idea rendermi conto di dove stessimo per dirigerci. "Dove stiamo andando?" le domandai. "Abbiamo trovato il punto di partenza. E adesso?" "Guardati in giro" ordinò. "Se non la troviamo qui, cercheremo dall'altro lato della montagna." "Troviamo cosa?" Fece apparire l'immagine che aveva memorizzato: uno zig zag frastagliato, quattro tornanti stretti, il quinto stranamente morbido, come spezzato. Capii cosa doveva essere in realtà: una catena di quattro vette appuntite, più una quinta che sembrava spezzata... Controllai il profilo dell'orizzonte da est a ovest. Fu incredibilmente facile, come se avessi visualizzato l'immagine dopo aver visto le sagome delle alture che si stagliavano a nordest. "Eccola." Melanie quasi cantava per l'entusiasmo. "Andiamo!" Voleva che scendessi dall'auto, che mi muovessi subito. Scossi la testa e mi chinai sulla mappa. La catena montuosa era così lontana che non capivo quanti chilometri la separassero da noi. Non ero intenzionata a uscire da quel parcheggio e camminare nel deserto, a meno che non fosse l'unica possibilità. "Siamo razionali" suggerii, e seguii con il dito un nastro sottile sulla mappa, un sentiero senza nome che incrociava la statale pochi chilometri a
est, e continuava in direzione delle montagne. "D'accordo" ammise. "Ma prima è, meglio è." Trovammo il sentiero sterrato senza difficoltà. Somigliava a una cicatrice pallida di sabbia che attraversava cespugli bassi e radi, larga a malapena quanto un'auto. A chiuderne l'accesso c'era una catena arrugginita, avvitata a un palo di legno e annodata alla bell'e meglio all'altro palo. Con gesti rapidi sciolsi il nodo e gettai la catena ai piedi del primo palo, scattando verso l'auto accesa, nella speranza che nessuno si fermasse ad aiutarmi. La statale era vuota, allorché deviai sullo sterrato e scesi per rimettere la catena. Quando l'asfalto si perse alle nostre spalle, ci rilassammo entrambe. Ero lieta di non dover più mentire a nessuno, con le parole o con il silenzio. In solitudine, il tradimento pesava meno. Melanie si trovava perfettamente a proprio agio in mezzo al nulla. Conosceva i nomi di tutte le piante spinose che incontravamo. Ne canticchiava i nomi, salutandole come vecchie amiche. "Creosoto, ocotillo, cholla, fico d'India, mesquite..." Lontano dalla statale, dalle trappole della civiltà, sembrava che il deserto desse nuova vita a Melanie. Gradiva il lento procedere dell'auto traballante - ogni buca del terreno mi ricordava che le sospensioni non erano adatte a quella deviazione - ma soprattutto moriva dalla voglia di camminare, di immergersi nel rifugio ardente del deserto. Sapevo che presto ci sarebbe toccato andare a piedi, ma quando fu il momento, dubitai che le fosse bastato. Capii qual era il suo vero desiderio. La libertà. Muoversi alla velocità familiare del suo passo svelto, guidata soltanto dall'istinto. Per un istante mi resi conto che vivere senza il proprio corpo poteva essere una condanna. Trasportata da esso ma incapace di influenzarlo. Intrappolata. Senza facoltà di scelta. Ebbi un sussulto e tornai a concentrarmi sulla strada dissestata, nel tentativo di scrollarmi di dosso il misto di compassione e terrore. Nessun ospite mi aveva mai fatto sentire così in colpa per ciò che ero. Ma d'altronde, nessun altro ospite si era trattenuto per lamentarsi della situazione. Il sole aveva quasi raggiunto la cima delle colline occidentali, quando scoppiò il nostro primo litigio. Le ombre lunghe disegnavano strane sagome, ed era più difficile evitare le rocce e le buche. "Eccola!" Fu il grido di vittoria di Melanie, quando ci accorgemmo di un altro ammasso montuoso a est: un'onda regolare di roccia, interrotta da uno sperone che si protendeva come un dito lungo e magro verso il cielo.
Fosse stato per lei, avremmo deviato istantaneamente tra i cespugli, con tanti saluti all'auto. "Forse prima dovremmo raggiungere il secondo punto di riferimento" osservai. Lo sterrato serpeggiava più o meno sempre nella stessa direzione, ed ero terrorizzata di doverlo abbandonare. In che modo sarei tornata alla civiltà, altrimenti? Sarei mai tornata? In quel momento, mentre a occidente il sole toccava il profilo a zig zag dell'orizzonte, immaginai la Cercatrice. Cos'avrebbe pensato, non vedendomi arrivare a Tucson? Un accesso di gioia scatenò la mia risata. Anche Melanie gradì l'immagine della Cercatrice irritata e furiosa. Quanto avrebbe aspettato prima di tornare a San Diego e verificare che il mio non fosse stato che uno stratagemma per allontanarla? E che strada avrebbe preso, non trovandomi là e da nessun'altra parte? L'unica immagine chiara era il luogo in cui io mi sarei trovata, a quel punto. "Guarda, un fiume in secca. È largo abbastanza per la macchina: seguiamolo" insistette Melanie. "Secondo me non dobbiamo andare subito in quella direzione." "Tra poco farà buio e dovremo fermarci. È tempo sprecato!" strillò in silenzio, frustrata. "Oppure risparmiato, se ho ragione io. E poi, è mio il tempo, no?" Non rispose. La sentii quasi allungarsi, sporgersi verso il letto del fiume. "La decisione è stata mia, perciò si fa a modo mio." Melanie replicò con un moto di collera silenziosa. "Perché non mi mostri le altre linee?" suggerii. "Potremmo controllare se ce n'è qualcuna nei dintorni, prima di sera." "No" sbottò. "Con quelle si fa a modo mio." "Sei infantile." Evitò di rispondere. E tenne il muso, mentre proseguivo verso le quattro cime aguzze. Quando il sole scomparve dietro le cime, la notte inondò il panorama all'improvviso; nel giro di un minuto il deserto passò dall'arancio del tramonto al nero. Rallentai, armeggiando con i comandi del cruscotto, in cerca del pulsante dei fari. "Sei impazzita?" sibilò Melanie. "Ti rendi conto che i fari si vedranno dappertutto? Prima o poi qualcuno si accorgerà di noi." "E allora che facciamo?" "Augurati che il sedile sia reclinabile."
Mi fermai con il motore acceso, in cerca di alternative al dormire in auto, circondata dal vuoto buio del deserto di notte. Melanie aspettava paziente, certa che non ne avrei trovate. "È una pazzia, lo sai" dissi, spegnendo il motore ed estraendo le chiavi dal quadro. "Tutta questa faccenda è una pazzia. Non c'è nessuno quaggiù. Non troveremo nulla. E se proseguiamo, ci perderemo senza scampo." Avevo la vaga percezione dei pericoli concreti a cui ci esponevamo vagando sotto il sole senza una soluzione alternativa né la certezza di poter tornare indietro. Sapevo che Melanie vedeva il pericolo ancora più chiaramente, ma mi risparmiò i dettagli. Non reagì alle mie accuse. Nessuno di quei problemi la preoccupava. Ovvio, preferiva vagabondare da sola nel deserto per il resto dei suoi giorni, piuttosto che tornare alla vita che io avevo vissuto. Era meglio così, anche senza la minaccia della Cercatrice. Reclinai il sedile al massimo. Era tutt'altro che comodo. Dubitavo di riuscire a dormire, ma con tutti i limiti che imponevo ai pensieri, la mia mente era ormai vuota. Anche Melanie taceva. Chiusi gli occhi e sprofondai nell'incoscienza con facilità inaspettata. 11 La disidratazione «Va bene! Avevi ragione, avevi ragione!» Parlavo ad alta voce, tanto nessuno poteva sentirmi. Melanie non aveva commentato. Ma, nonostante il suo silenzio, mi sentii rimproverata. Continuavo a non voler scendere dall'auto, malgrado ormai fosse inutile. Finita la benzina, l'avevo lasciata correre per inerzia, sino a quando non era finita dritta dentro al letto di un torrente scavato dalle ultime piogge. Al di là del parabrezza, guardavo la pianura immensa e vuota, e sentii un sussulto di panico nello stomaco. "Dobbiamo muoverci, Viandante. Sta per arrivare il caldo." Se non avessi sprecato più di un quarto di serbatoio per raggiungere a tutti i costi la base del secondo punto di riferimento - e scoprire che il terzo da lì non era visibile, che bisognava invertire la marcia e tornare indietro -, saremmo state già lontane da quel fiume di sabbia e molto più vicine al traguardo. Grazie a me, da quel momento eravamo obbligate a procedere a piedi.
Misi l'acqua nella borsa, con movimenti inutilmente accurati; con altrettanta lentezza aggiunsi le barrette di cereali. Nel frattempo, Melanie mi tormentava perché mi sbrigassi. La sua impazienza mi impediva di pensare, di concentrarmi sulla fine che stavamo per fare. "Dai, dai, dai" intonò, finché, rigida e goffa, non scesi barcollando dall'auto. Quando mi rizzai in piedi sentii una fitta alla schiena. Colpa della posizione scomoda in cui avevo dormito, non del peso: tenendolo sulle spalle, non era così difficile da trasportare. "Adesso nascondi la macchina" mi ordinò, evocando immagini di me che strappavo rami spinosi di creosoto e palo verde, e li usavo per coprire il tetto argentato dell'auto. «Perché?» Il tono con cui rispose sottintendeva che soltanto una stupida non avrebbe capito. "Così nessuno ci troverà." "E se volessi essere trovata? Se qui non c'è nient'altro che caldo e terra? Non sappiamo come tornare a casa!" "Casa?" domandò, tormentandomi con immagini malinconiche: l'appartamento vuoto di San Diego, l'espressione odiosa della Cercatrice, il punto che indicava Tucson sulla mappa... Per sbaglio aggiunse anche un lampo breve e più felice del canyon rosso. "Dove sarebbe?" Voltai le spalle all'auto, ignorando il suo parere. Ero già andata troppo oltre e non volevo rinunciare a ogni speranza di tornare. Forse qualcuno avrebbe trovato la macchina e poi me. Potevo spiegare facilmente a un eventuale soccorritore cosa facessi là: mi ero persa. Era la verità. Avevo perso la strada... il controllo... la testa. Sulle prime seguii il letto del torrente, lasciando che il corpo prendesse la propria andatura. «Ma... se non fossi venuta da queste parti?» domandai a voce alta, mentre procedevo nella desolazione del deserto. «Se il mio Guaritore fosse rimasto a Chicago? Se la strada che seguivo non ci avesse portato così vicino a loro?» Era stata la sua impazienza - il miraggio, il pensiero che Jared e Jamie potessero trovarsi proprio là, in chissà quale angolo di quel luogo disabitato - a impedirmi di resistere a un piano tanto insensato. "Non lo so" ammise Melanie. "Forse ci avrei provato lo stesso, ma con te circondata dalle altre anime il rischio restava alto. Ho ancora paura. Fidarmi di te potrebbe ucciderli entrambi." A quel pensiero, trasalimmo.
"Ma giunte qui, così vicino... ho sentito di doverci provare. Ti prego..." la sentii implorare all'improvviso, senza un briciolo di ostilità. "Ti prego, non approfittarne per fare loro del male. Ti prego." «Ma io non voglio... Non so se posso far loro del male. Preferisco...» Cosa? Morire? Piuttosto che consegnare ai Cercatori un paio di umani dispersi? Trasalimmo di nuovo, ma il mio disgusto la confortò. Tuttavia la mia paura era più intensa del suo sollievo. Quando il letto del torrente iniziò a curvare troppo a nord, Melanie suggerì di lasciar perdere il sentiero piatto e cinerino, per puntare dritto verso il terzo segnale, lo sperone roccioso orientale che sembrava teso verso il cielo senza nuvole. Ero restia ad abbandonare il torrente, come prima mi ero rifiutata di scendere dall'auto. Era l'unica maniera per tornare al sentiero, e dal sentiero alla statale. "Abbi fede, Viandante. Troveremo lo zio Jeb, oppure sarà lui a trovare noi." "Se è ancora vivo" aggiunsi con un sospiro, e cambiai direzione addentrandomi nella boscaglia, che si estendeva uniforme a perdita d'occhio. "L'idea della fede non mi è familiare. Non mi attrae granché." "Chiamala fiducia, allora." "Di chi mi devo fidare, di te?" Scoppiai a ridere. Sentii la gola cotta dall'aria calda, quando aprii bocca. "Pensa" disse lei, cambiando discorso, "magari prima di sera li incontreremo." Condividevamo lo stesso desiderio: l'immagine di due volti, un uomo, un ragazzino, emerse dai nostri ricordi. Iniziai a camminare più svelta, ma non ero sicura di avere il pieno controllo dei movimenti. Iniziò a fare caldo... e poi più caldo, e più caldo ancora. Il sudore mi impregnava i capelli, e la mia camicia giallo chiaro era appiccicata alla pelle. Nel pomeriggio si alzarono folate di vento urticante, che mi soffiava sabbia in faccia. L'aria secca asciugava il sudore, incrostava i capelli e mi faceva sventolare la camicia, che sbatteva rigida come un foglio di cartone. Proseguii il cammino. Bevevo più spesso di quanto Melanie mi consigliasse. Mi rimproverava a ogni sorsata dicendo che l'indomani ce ne sarebbe servita ancora di più. Ma sentivo di averle già concesso abbastanza per quel giorno, e non ero più disposta ad ascoltare. Bevevo quando avevo sete, cioè quasi sempre.
Le gambe mi spingevano avanti meccanicamente. Il macinare dei piedi era musica di sottofondo, bassa e noiosa. Non c'era niente da vedere: i cespugli bassi, storti e spogli erano uno uguale all'altro. L'omogeneità vuota mi cullò quasi fino allo stordimento: l'unica costante era il profilo delle montagne, con lo sfondo del cielo pallido e sbiadito. L'orizzonte sembrava pietrificato. Non facevo che guardarmi in giro in cerca del quarto punto di riferimento - una grossa altura a forma di cupola a cui mancava un pezzo, un tassello curvo come strappato da un morso sul fianco, che Melanie mi aveva mostrato soltanto quel mattino - come se tra un passo e l'altro il panorama potesse cambiare. Sperai che fosse l'ultima tappa, perché procedere oltre sarebbe stata un'impresa. Ma avevo la sensazione che Melanie mi nascondesse altro, e che la fine del nostro viaggio fosse lontana e inaccessibile. Sgranocchiai barrette di cereali per tutto il pomeriggio, e mi accorsi troppo tardi di aver mangiato l'ultima. Quando il sole tramontò, la notte giunse con la stessa rapidità del giorno precedente. Melanie era pronta, già in cerca del luogo in cui sostare. "Qui" mi disse. "Meglio stare il più lontano possibile dai chollas. Nel sonno ti agiti." Lanciai un'occhiata al cactus lanuginoso sfiorato dalla luce fioca, coperto da pallidi aghi così fitti da somigliare a peluria, e rabbrividii. "Vuoi che dorma per terra? Qui?" "Vedi alternative?" Si accorse che ero nel panico, e addolcì il tono della voce, come per pietà. "Senti... è meglio che in macchina. È piatto, se non altro. Fa troppo caldo, perciò nessuna bestia sarà attratta dal calore del tuo corpo, e..." «Bestia?» domandai ad alta voce. «Bestia?» Nei suoi ricordi apparvero un lampo breve e molto fastidioso di insetti dall'aria letale e serpenti attorcigliati. "Non preoccuparti." Cercò di tranquillizzarmi, mentre mi piegavo sulle ginocchia, lontana da qualsiasi cosa potesse nascondersi tra la sabbia sotto di me, in cerca di una via di fuga nell'oscurità. "Niente ti darà fastidio, a patto che non sia tu a dargli fastidio per prima. Dopotutto, da queste parti la più grossa sei tu." Un altro lampo di memoria, stavolta un coyote in cerca di avanzi, sfilò nei nostri pensieri. «Perfetto» biascicai, rannicchiata sulla terra che nell'oscurità continuava a farmi paura. «Uccisa da un coyote. Chi avrebbe mai detto che mi sarebbe
toccata una fine così... banale? Come la bestia dalle grandi chele sul Pianeta delle Nebbie. Almeno, farsi eliminare da quella sarebbe dignitoso.» Il tono con cui Melanie rispose me la fece immaginare mentre alzava gli occhi al cielo, snervata. "Smettila di comportarti da bambina. Nessuno ti verrà a mangiare. Adesso sdraiati e riposa. Domani sarà più dura di oggi. " «Grazie per le buone notizie» borbottai. Si stava trasformando in un tiranno. Ripensai a quel modo di dire umano: «Dalle un dito e si prenderà la mano». Ma ero molto più stanca di quanto pensassi, e mi fu impossibile non accasciarmi sulla terra ruvida e ghiaiosa e chiudere gli occhi. La notte parve durare pochi minuti, e subito sorse l'alba, luminosa, accecante e già calda abbastanza da farmi sudare. Mi alzai incrostata di terra e sassi; avevo dormito sopra il braccio destro, che si era indolenzito. Lo agitai per togliermi il formicolio e cercai un po' d'acqua nella borsa. Melanie era contraria, ma la ignorai. Cercai la mezza bottiglia da cui avevo bevuto, rovistando tra i pieni e i vuoti, e all'istante mi resi conto della situazione. Sempre più allarmata, iniziai a contare. Contai due volte. Le bottiglie vuote erano due in più, rispetto a quelle piene. Avevo già consumato più di metà della scorta d'acqua. "Te l'ho detto che bevevi troppo." Non le risposi, ma a quel punto presi in spalla la borsa senza bere. In bocca sentivo un sapore tremendo, sabbioso e impastato di bile. Cercai di far finta di nulla - di impedire alla lingua di carta vetrata di strofinarsi contro i denti - e iniziai a camminare. Investita dal sole sempre più alto e cocente, ignorare lo stomaco era molto più difficile che ignorare la bocca. Si contraeva a intervalli regolari, impaziente di consumare pasti che non arrivavano. Giunto il pomeriggio, la fame era diventata una sofferenza. "Questo è niente" puntualizzò Melanie ironica. "Ne abbiamo passate anche di peggio." "Parla per te" ribattei. Non mi andava di stare a sentire i suoi aneddoti. La buona notizia giunse quando avevo perso ormai ogni speranza. Mentre scrutavo l'orizzonte, la sagoma rigonfia somigliante a una cupola spuntò all'improvviso dietro una catena di vette basse. La parte mancante, da dove la vedevo io, era una semplice sbeccatura. "Ci siamo quasi" dichiarò Melanie, entusiasta quanto me di essere finalmente giunta a una meta. Mi diressi a nord, allungando il passo. "Tieni d'occhio la prossima." Richiamò alla memoria un'altra montagna, e quando
la vidi iniziai a sbirciarmi attorno, benché sapessi che era ancora troppo presto per cercarla. L'avrei trovata a est. Nord, est e ancora nord. Questo era lo schema. Quel nuovo punto di riferimento mi fece continuare, malgrado la crescente stanchezza delle gambe. Melanie mi spronava, mi incitava quando rallentavo, pensava a Jared e Jamie quando mi facevo apatica. La mia marcia era regolare, e prima di bere aspettavo il consenso di Melanie. Tutto sommato ero orgogliosa di essere così forte. Quando apparve il sentiero, fu come una ricompensa. Serpeggiava verso nord, la stessa direzione in cui andavo io, ma Melanie era inquieta. "Ha un'aria che non mi piace" commentò. Il sentiero non era che una linea giallastra tra gli arbusti, definita soltanto da una trama più rada e dall'assenza di vegetazione. Antichi segni di pneumatici avevano scavato un doppio solco al centro dell'unica corsia. "Quando prenderà un'altra direzione, lo abbandoneremo." La stavo già percorrendo. "È più facile che strisciare tra il creosoto e stare attenta ai chollas." Non rispose, ma con la sua inquietudine riuscì a trasmettermi un po' di paranoia. Continuai a cercare la catena successiva - una M perfetta, due cime vulcaniche gemelle - prestando ancora più attenzione al deserto che mi circondava. Fu così che mi accorsi della macchia grigia in lontananza, e nel timore che fosse uno scherzo dei miei occhi, sbattei le palpebre nella nuvola di polvere. A giudicare dal colore non era una roccia, e la sua forma era troppo tozza perché fosse un albero. Aguzzai lo sguardo, curiosa, e la macchia si trasformò improvvisamente in una sagoma strutturata, più vicina di quanto pensassi. Era una specie di casa, di edificio, piccolo e dipinto di un grigio anonimo. La fitta del panico di Melanie mi fece schizzare via dal sentiero stretto, verso il riparo degli arbusti spogli. "Aspetta" le dissi. "È abbandonata, ne sono sicura." "Come fai a saperlo?" Mi tratteneva con tanta forza da dovermi concentrare sui piedi per spostarli. "Chi potrebbe vivere quaggiù? Noi anime siamo esseri sociali." Mi accorsi del velo di amarezza nelle mie parole, e capii che il morivo era la situazione in cui mi trovavo, concretamente e metaforicamente: in mezzo al nulla. Perché non facevo più parte della società delle anime? Perché sentivo di... non volerne fare parte? Ero mai riuscita a fondermi davvero nella
comunità che doveva essere mia, oppure le tante vite trascorse in perpetuo movimento avevano una ragione precisa? Ero sempre stata diversa dalla media, o si trattava di un'eccezione scatenata da Melanie? Questo pianeta mi aveva trasformata, oppure mi aveva rivelato la mia vera essenza? Melanie non volle sapere nulla della mia crisi personale, voleva che mi allontanassi quanto prima da quell'edificio. I suoi pensieri assalirono e scossero i miei, negandomi quel momento di introspezione. "Calmati" ordinai, cercando di mettere a fuoco i miei pensieri e di separarli dai suoi. "Se c'è qualcosa o qualcuno che vive qui, è un essere umano. Fidati: non esistono eremiti tra le anime. Magari è tuo zio Jeb." Si oppose duramente all'idea. "Nessuno può sopravvivere così alla luce del sole. Immagino che i tuoi abbiano perquisito con cura tutte le case. Chiunque vivesse qui, è scappato o diventato uno di voi. Zio Jeb ha un nascondiglio migliore." "E se chi viveva qui è diventato uno di noi" la rassicurai, "se n'è andato. Soltanto un essere umano potrebbe vivere così..." Mi interruppi: all'improvviso anch'io avevo paura. "Cosa?" Reagì con forza al mio timore, e restammo impietrite. Vagliò i miei pensieri, in cerca di ciò che mi aveva turbata, ma erano le solite immagini. "Melanie, e se ci fossero degli umani, qui... ma non lo zio Jeb, Jared e Jamie? Se fosse qualcun altro a scoprirci?" Lei valutò l'idea con calma, ci pensò su. "Hai ragione. Ci ucciderebbero immediatamente. Sicuro." Cercai di deglutire, per scacciare il gusto del terrore dalla bocca secca. Non può esserci nessun altro. Non è possibile" commentò. "I tuoi sono fin troppo scrupolosi. Soltanto chi già si nascondeva ha avuto una possibilità. Perciò, andiamo a controllare. Tu sei sicura che non c'è nessuno dei tuoi, io che non c'è nessuno dei miei. Forse possiamo trovare qualcosa di utile, qualcosa da utilizzare come arma." Rabbrividii quando lei pensò a coltelli affilati e oggetti che si potevano trasformare in mazze. "Niente armi." "Uffa. Ma come hanno fatto a batterci creature così rammollite?" "Con la segretezza e la superiorità numerica. Voi tutti, dal primo all'ultimo, giovani compresi, siete centinaia di volte più pericolosi di noi. Ma siete una termite dentro un nido di formiche. Noi siamo milioni, e lavoriamo in perfetta armonia per realizzare il nostro obiettivo." Mentre le parlavo, sentii di nuovo il peso del panico e del disorienta-
mento. Chi ero io? Ci avvicinammo alla casetta nascosta tra i cespugli di creosoto. Sembrava una minuscola capanna affacciata sul sentiero, della quale era impossibile intuire l'utilizzo. Anche la posizione era un mistero: in quel posto c'erano soltanto vuoto e calore. Nessun segno di presenze recenti. L'ingresso era privo di porta, agli infissi era rimasta attaccata qualche scheggia di vetro. La sabbia si era ammassata sulla soglia ed era penetrata all'interno. Le mura grigie e spioventi sembravano volersi allontanare dal vento, come se soffiasse da sempre nella stessa direzione. Riuscii a contenere l'ansia, e attraversai incerta la soglia; probabilmente eravamo ancora sole, come negli ultimi due giorni. L'ombra promessa dall'entrata buia mi attirò, e con il suo richiamo smorzò le mie paure. Mi concentravo su ogni rumore, ma i miei piedi procedevano a passo veloce e sicuro. Sfrecciai attraverso l'entrata e mi spostai subito di lato per coprirmi le spalle. Un gesto istintivo, figlio dei giorni da ladra di Melanie. Restai lì snervata dalla cecità, in attesa che gli occhi si abituassero al buio. La casetta era vuota, come ci aspettavamo. Rimanevano ben pochi segni di una presenza. Un tavolo rotto, inclinato e zoppo su due gambe era al centro della stanza, e accanto una sedia di ferro arrugginita. Gli squarci del tappeto consunto e lercio si aprivano sul pavimento di cemento. Lungo la parete c'era un cucinotto con un lavello arrugginito, una fila di armadietti alcuni senza ante - e un frigorifero basso, il cui sportello penzolava aperto e ne mostrava l'interno nero e antiquato. In fondo alla stanza, lo scheletro di un divano, senza cuscini. Incorniciata alla parete una stampa, soltanto un po' deformata, con dei cani che giocavano a poker. "Accogliente" pensò Melanie, tanto sollevata da diventare sarcastica. "È arredata meglio del tuo appartamento." Mi avvicinai subito al lavandino. "Ti piacerebbe" commentò Melanie, comprensiva. Ovviamente era assurdo che in quel posto isolato ci fosse acqua corrente; le anime, sempre attente a correggere difetti come quello, non avrebbero trascurato un'anomalia del genere. Tuttavia, provai a girare i pomelli decrepiti. Uno mi si spezzò in mano, corroso dalla ruggine. Poi passai agli armadietti, inginocchiandomi sul lerciume del tappeto per sbirciare meglio. Aprivo le ante facendomi subito da parte, nel timore di disturbare chissà quale animale velenoso nascosto.
Il primo era vuoto, bucato, vi si vedevano le assi di legno della parete esterna. Il secondo era senza anta, ma conteneva una pila di vecchi quotidiani coperti di polvere. Ne sfilai uno, curiosa, e controllai la data. "Di epoca umana" commentai. Non che occorresse la data, per capirlo. DÀ FUOCO ALLA FIGLIA DI TRE ANNI strillava il titolo, accompagnato dall'immagine angelica di una bambina bionda. Non era la prima pagina. La tragedia di cui si raccontava non era così disgustosa da meritarsi i riflettori. Sotto l'articolo, il volto di un uomo ricercato dopo aver ucciso la propria moglie e due figli, due anni prima della pubblicazione del quotidiano; l'articolo parlava del probabile avvistamento dell'assassino in Messico. Due morti e tre feriti in un incidente stradale. Ipotesi di frode e assassinio nelle indagini sul presunto suicidio di un importante banchiere locale. Per assenza di testimoni, un molestatore di bambini, reo confesso, torna in libertà. Animali domestici macellati scoperti in un bidone della spazzatura. Trasalii e gettai via il giornale, che tornò nel buio del secondo armadietto. "Erano le eccezioni, non la regola" pensò Melanie tranquilla, cercando di impedire che il terrore della mia reazione si infiltrasse fra i suoi ricordi di quegli anni e li corrompesse. "Capisci perché abbiamo pensato di poter fare meglio di voi, quindi? E come ci siamo potuti convincere che non meritaste questo mondo bellissimo?" La sua risposta fu acida. "Se vi andava di ripulire il pianeta, potevate farlo saltare in aria." "Mi dispiace per i sogni dei vostri scrittori di fantascienza, ma la nostra tecnologia non ne è in grado." Non trovò divertente la battuta. "Inoltre" aggiunsi, "sarebbe stato un vero spreco. È un pianeta adorabile. A parte questo deserto, ovviamente." "È così che ci siamo accorti di voi, sai" disse, ripensando alla rassegna di notizie nauseanti. "Quando i telegiornali si sono riempiti di racconti edificanti, quando i pedofili e i tossici hanno iniziato a presentarsi spontaneamente agli ospedali, quando tutto si è trasformato nel paese dei balocchi, abbiamo capito che c'era il vostro zampino." «Che orribile cambiamento, eh!» risposi secca, e passai all'armadietto successivo. Aprii l'anta dura con uno strattone, e trovai il tesoro. «Cracker!» urlai, e afferrai la scatola scolorita e mezza rotta. Dietro ce
n'era un'altra, sembrava che qualcuno l'avesse calpestata. «Tortine!» esclamai, esultante. "Guarda!" Esclamò Melanie, e fu come se indicasse con il dito tre bottiglie di candeggina allineate sul fondo della credenza. "Cosa ci vuoi fare?" domandai, mentre già attaccavo la scatola di cracker. "Spruzzarla negli occhi a qualcuno? O stordirlo a colpi di bottiglia?" Con grande gioia scoprii che i cracker, seppur sbriciolati, si erano conservati nelle loro buste di plastica. Ne aprii una e me la rovesciai in bocca, ingoiandone il contenuto quasi senza masticare. "Apri una bottiglia e annusala" ordinò Melanie, ignorando i miei commenti. "Mio padre conservava l'acqua in bottiglie come quelle, nel garage. I residui di candeggina impedivano che il contenuto andasse a male." "Un minuto." Finii una busta di briciole e passai alla successiva. Erano più che rafferme, ma a confronto con il sapore che avevo in bocca, sembravano ambrosia. Quando finii la terza mi resi conto che il sale mi bruciava le labbra screpolate. Presi una bottiglia, nella speranza che Melanie avesse ragione. Sentivo le braccia deboli e contratte, capaci a malapena di alzarla. Ci preoccupammo entrambe. Quanto si era indebolito il nostro fisico? Quanta strada ancora potevamo percorrere? Il tappo della bottiglia era così stretto che pensai fosse fuso. Ma alla fine riuscii a svitarlo con i denti. Annusai con cautela, non mi andava granché di stordirmi con i fumi della candeggina. L'odore di cloro era debolissimo. Annusai più a fondo. Era acqua, senza dubbio. Stagnante, puzzolente di muffa, ma pur sempre acqua. Azzardai un sorso. Non valeva una sorgente di montagna, ma era acqua. Iniziai a tracannarla. "Vacci piano" mi avvertì Melanie, e fui costretta a darle ragione. La fortuna ci aveva fatto scoprire quella riserva, non aveva senso sprecarla. E poi avevo voglia di qualcosa di solido, dopo aver placato il bruciore da sale. Aprii la scatola di tortine, e divorai tre di quei dolci ammuffiti fino a leccarne le briciole dalla busta. L'ultimo armadietto era vuoto. Quando i morsi della fame iniziarono a calmarsi, sentii filtrare tra i miei pensieri l'impazienza di Melanie. Senza alcuna voglia di opporre resistenza, caricai subito il bottino nella borsa. Le taniche della candeggina pesavano, ma di un peso confortante. Grazie a loro, quella sera non mi sarei sdraiata a dormire sulla sabbia del deserto affamata e assetata. Mentre l'energia dello zucchero iniziava a vibrarmi nelle vene, mi avventurai fuori,
nella luce del pomeriggio. 12 Il fallimento «È impossibile! Hai capito male! Nell'ordine sbagliato! Non può essere quello!» Guardavo l'orizzonte, nauseata da un'incredulità in procinto di trasformarsi in orrore. Il mattino precedente, a colazione, avevo mangiato l'ultima tortina sbriciolata. Nel pomeriggio avevo individuato la doppia cima, e mi ero diretta a est. Melanie mi aveva dato un'altra informazione, con la promessa che fosse l'ultima. La notizia mi aveva riempito di una gioia quasi isterica. La sera prima avevo finito la scorta d'acqua. Eravamo al quarto giorno. La mattinata era un ricordo annebbiato di sole accecante e speranze inutili. Non avevo più tempo, scrutavo l'orizzonte in cerca dell'ultimo punto di riferimento, sempre più in preda al panico. Non vedevo niente che corrispondesse alla descrizione: il profilo lungo e piatto di una mesa affiancata da due cime sbozzate, come due sentinelle. Una cosa del genere doveva occupare spazio, ma le montagne orientali e settentrionali erano fitte di cime appuntite. Era impossibile capire dove nascondessero la mesa piatta. A metà mattina mi fermai a riposare. Fui spaventata da quanto mi sentivo debole. Ogni muscolo del corpo mi faceva male; sentivo pesare lo sforzo, le notti passate a dormire per terra, ma tra questi dolori ne avvertivo uno nuovo, diverso. Il mio corpo si stava disidratando: ecco la tortura contro cui protestavano i muscoli. Sapevo di non poter proseguire a lungo. Mi voltai verso ovest in cerca di sollievo dai raggi del sole. In quel momento lo vidi. Il profilo piatto e lungo della mesa, inconfondibile come le vette gemelle. Eccola, così lontana all'orizzonte che sembrava luccicare al di sopra di un miraggio, fluttuare e incombere sul deserto come una nuvola scura. Chissà da quanto camminavamo nella direzione sbagliata. L'ultimo traguardo era il punto più occidentale del nostro viaggio. «Impossibile» ripetei con un sussurro. Nella mia mente Melanie restò impietrita, incapace di pensare, allibita e concentrata sul tentativo disperato di rifiutare quella nuova certezza. Restai ad aspettarla seguendo con gli occhi le sagome familiari e inconfondibili, finché il peso della consapevolezza e dell'angoscia non mi fece crollare in
ginocchio. Il suo lamento sconfitto e soffocato riecheggiò nella mia testa e aggiunse un ulteriore strato al dolore. Il mio respiro iniziò a cedere: era un singhiozzo muto, senza lacrime. Il sole mi strisciava sulle spalle; i miei capelli erano impregnati dal calore. Quando ripresi il controllo, la mia ombra era un cerchio stretto. Non mi rassegnai e cercai di rialzarmi. Sentivo le punte dei sassolini incastonati tra la pelle delle ginocchia. Non mi diedi nemmeno la pena di pulirle. Rimasi a fissare, a lungo e al caldo, la mesa galleggiante che mi sbeffeggiava all'orizzonte. E alla fine, senza sapere bene perché, ricominciai a camminare. Di una cosa ero certa: che a guidare ero io, e nessun altro. Melanie si era rimpicciolita, una minuscola capsula di dolore richiusa ermeticamente su se stessa. Non mi dava alcun aiuto. I miei passi erano un crac crac lento sulla terra friabile. «In fin dei conti, era un vecchio pazzo illuso» mormorai. Uno strano sussulto scosse il mio petto, e sentii in gola lo strappo di un colpo di tosse secca. Fu una vera scarica, rauca e stridula, ma soltanto quando mi sentii pungere gli occhi e mi accorsi che non c'erano lacrime capii che stavo ridendo. «Non c'è mai... mai... mai stato niente quaggiù!» esclamai, in preda a una crisi isterica. Barcollavo in avanti come fossi ubriaca, lasciandomi alle spalle un sentiero di impronte irregolari. "No." Melanie uscì dal suo torpore disperato per difendere la tede a cui ancora era avvinghiata. "Ho capito male, o qualcosa del genere. Colpa mia." Ridevo di lei, ma il vento torrido cancellava la mia voce. "Aspetta, aspetta" pensò, cercando di distrarmi da quella situazione assurda. "Secondo te è impossibile... cioè, pensi che anche loro ci abbiano provato?" La sua paura imprevista mi colse nel pieno di una risata, e restai a corto d'aria. Quando ripresi a respirare, non c'era più traccia del mio humor nero. Istintivamente, lo sguardo abbracciò il vuoto del deserto, in cerca di una prova che non fossi l'unica a sprecare la propria vita in quel modo. Nell'ampiezza smisurata della pianura non riuscivo a interrompere la mia ricerca frenetica di... resti. "No, certo che no." Melanie già cercava di consolarsi. "Jared è troppo furbo. Non sarebbe mai giunto fin qui come noi, senza la preparazione adatta. Non avrebbe mai esposto Jamie al pericolo."
"Secondo me hai proprio ragione" dissi, desiderosa di crederci quanto lei. "Sono certa che nessuno in tutto l'universo potrebbe essere così stupido. E poi, secondo me non è neanche mai venuto a controllare. Probabilmente non ha mai capito. Quanto vorrei che nemmeno tu ci fossi riuscita." I miei piedi continuavano a muoversi. A malapena me ne accorgevo. Di fronte alla distanza che ci aspettava, era un gesto poco sensato. E anche se fossimo state trasportate per magia ai piedi della mesa? Non avevo alcun dubbio che non avremmo trovato nulla. Nessuno ci aspettava, pronto a salvarci. «Moriremo» dissi. Restai sorpresa di non provare alcun timore. Era un dato di fatto come un altro. Il sole è caldo. Il deserto è arido. Moriremo. "Sì." Anche lei era calma. In fondo era più facile accettare la morte piuttosto che la consapevolezza che a guidare i nostri gesti fosse stata la follia. «La cosa non ti sconvolge?» Restò per qualche istante a pensare, prima di rispondere. "Se non altro, non morirò da vigliacca. Ho vinto io. Non li ho mai traditi. Non li ho mai esposti al pericolo. Ho fatto del mio meglio per ritrovarli. Ho cercato di mantenere la promessa... Muoio per loro." Contai diciannove passi prima di riuscire a rispondere. Diciannove futili affondi strascicati nella sabbia. «E io, allora, perché muoio?» domandai, mentre gli occhi disidratati ricominciavano a pungere. «Immagino che sia perché ho perso, vero? È questa la ragione?» Contai trentaquattro passi strascicati prima che riuscisse a rispondere. "No" pensò, lentamente. "A me non sembra. Secondo me... ecco credo che tu... muoia dalla voglia di diventare umana." Sentii l'ombra di un sorriso nei suoi pensieri, quando si accorse dell'ironia di quelle parole. "Dopo esserti lasciata alle spalle così tanti pianeti e ospiti, finalmente hai trovato il luogo e il corpo per cui sei disposta a morire. Secondo me hai trovato una casa, Viandante." Dieci passi strascicati. Non avevo più neanche la forza di muovere le labbra. "Peccato che non sia rimasta più a lungo, allora." Non sapevo come prendere la sua risposta. Forse era un tentativo di consolarmi. Un contentino per averla trascinata a morire laggiù. Aveva vinto: non si era lasciata cancellare. I miei passi iniziarono a cedere. I muscoli imploravano pietà, come se fossi in grado di placarli. Fosse stato per me mi sarei fermata subito, ma
Melanie, come sempre, era più tosta di me. A quel punto, oltre che nella mente la sentivo nelle braccia e nelle gambe. Con la sola forza di volontà trascinava la mia carcassa mezzo morta verso un traguardo impossibile. Quella lotta senza senso mi diede una gioia inaspettata. Come io sentivo lei, così lei sentiva il mio corpo. Un corpo nostro, ormai: la mia debolezza le consentì di prendere il controllo. Si beava della libertà di spostare in avanti braccia e gambe, malgrado la totale inutilità di quei gesti. Ma la sola possibilità di farlo ancora una volta era una benedizione. Che eclissò persino la consapevolezza dolorosa della nostra morte lenta. "Secondo te cosa c'è dopo?" mi domandò, mentre marciavamo verso la fine. "Cosa vedrai, quando saremo morte?" "Niente." La mia risposta fu secca e sicura. "Non per niente la chiamiamo 'morte finale'." "Le anime non credono nell'aldilà?" "Abbiamo già tante vite. Aspettarsi qualcosa in più sarebbe... troppo. Moriamo un po' ogni volta che abbandoniamo un ospite. E torniamo a vivere nel successivo. Morire qui, per me, sarà la fine." Restammo in silenzio, trascinando i piedi sempre più lentamente. "E tu?" domandai, infine. "Credi ancora che ci sia dell'altro, malgrado tutto ciò che è accaduto?" Frugai con i pensieri tra i suoi ricordi della fine del mondo umano. "Tutto sommato ci sono cose che non possono morire." I loro volti erano vicini e bene distinguibili. L'amore che provavamo per Jared e Jamie sembrava davvero destinato a rimanere. In quel momento mi domandai se la morte fosse tanto forte da dissolvere qualcosa di così vitale e intenso. Forse questo amore sarebbe sopravvissuto insieme a lei, dietro le porte celesti di chissà quale mondo fatato. Non insieme a me. Mi sarei liberata di un peso? Chissà. Ormai la sentivo una parte di me. Resistemmo poco più di qualche ora. Nemmeno la tremenda energia nervosa di Melanie riuscì a chiedere di più al nostro corpo indebolito. Quasi non ci vedevamo. L'aria secca che risucchiavamo e sputavamo non ci dava ossigeno. "Non ti è mai andata così male" fu la mia debole provocazione, mentre barcollavamo verso un albero che sembrava un bastone rinsecchito, poche decine di centimetri più alto dei cespugli. Prima di cadere, volevamo raggiungere la sua ombra stretta. "No" rispose, "così male no."
Riuscimmo nel nostro intento. Giunte sotto la rada ombra dell'albero, le nostre gambe cedettero. Ci lasciammo cadere a pancia in giù, non volevamo più sentire il sole sul viso. Restammo a guardare la sabbia, a pochi centimetri dal nostro naso, e ad ascoltare il nostro respiro ansimante. Dopo chissà quanto tempo, chiudemmo gli occhi. L'interno delle palpebre era rosso e acceso. L'ombra sottile era impercettibile; forse ci aveva abbandonato. "Quanto ci vorrà?" le domandai. "Non so, non sono mai morta." "Un'ora? Di più?" "Ne so quanto te." "Ma dove sono i coyote quando servono?" "Magari saremo fortunate... una bestia dalle grandi chele a piede libero, o qualcosa del genere..." I suoi pensieri si persero nell'incoerenza. Quello fu il nostro ultimo dialogo. Cercare le parole richiedeva troppa concentrazione. Il dolore era più intenso di quanto ci aspettassimo. Tutti i muscoli del corpo erano presi da crampi e spasmi, mentre lottavano contro la morte. Poi rinunciammo a lottare. Restammo in attesa, abbandonate, mentre i pensieri entravano e uscivano da ricordi sconnessi. Nei momenti di lucidità mormorammo una ninna nanna. Era quella che cantavamo a Jamie per tranquillizzarlo quando la terra era troppo dura, l'aria troppo fredda, o la paura troppo grande per dormire. Sentimmo la sua testa posata nell'incavo della spalla, e il profilo della sua schiena sotto il braccio. Poi sentimmo la nostra testa posata contro una spalla più robusta, e fu una nuova ninna nanna a tranquillizzare noi. Nei nostri occhi entrò il buio, ma non era la morte. Era scesa la notte, purtroppo: senza il calore del giorno, l'agonia si sarebbe prolungata. Per un tempo infinito restammo al buio e in silenzio. Poi sentimmo un rumore. Quasi non reagimmo. Forse lo avevamo immaginato. Forse, dopotutto, era un coyote. Lo desideravamo? Chissà. Perdemmo il filo dei pensieri e lo dimenticammo. Qualcosa ci diede uno scossone, ci prese le braccia intorpidite, le trascinò. Non riuscimmo a trovare le parole per chiedergli di fare in fretta, ma ci speravamo. Aspettavamo che i denti ci sbranassero. Invece, lo strascico divenne una spinta, e sentimmo il nostro viso voltarsi verso il cielo. Colava sul nostro viso umida, fresca e impossibile. Gocciolava sulle
palpebre incrostate di polvere e le ripuliva. Sbattemmo gli occhi, infastidite dagli schizzi. Non ci importava nulla degli occhi incrostati. Alzammo il mento con un gesto disperato, aprendo e chiudendo la bocca, cieche, deboli e patetiche come un uccellino appena nato. Ci parve di sentire un sospiro. E poi l'acqua iniziò a scorrere nella nostra bocca, la trangugiammo, ci ingozzammo. Ma dopo qualche colpo di tosse svanì, e la cercammo con mano debole. Colpi secchi e potenti sulla schiena ci aiutarono a respirare. Abbrancavamo l'aria, in cerca di acqua. Quello che sentimmo era senz'altro un sospiro. Qualcosa premette le nostre labbra screpolate, e l'acqua ricominciò a scorrere. La tracannammo, attente a non soffocarci. Ci riempimmo la pancia fino a sentir male. Quando lo zampillo si affievolì lanciammo un urlo rauco di protesta. Sentimmo un altro bordo premere sulle nostre labbra, e a sorsi frenetici bevemmo tutta l'acqua. Lo stomaco era prossimo a scoppiare, ma ci sforzammo di aprire gli occhi per vedere se ce ne fosse ancora. Faceva troppo buio, non brillava nemmeno una stella. Sbattemmo ancora gli occhi e capimmo che l'oscurità era molto più vicina del cielo. Una sagoma incombeva su di noi, più nera della notte. Sentimmo il rumore soffocato della sabbia che si spostava sotto la pressione di un piede. La sagoma si allontanò, e l'immobilità assoluta della notte fu spezzata da uno strappo: il rumore di una cerniera. La luce ci sfregiò come una lama. Reagimmo con un gemito, e di scatto ci riparammo con la mano gli occhi chiusi. Ma la luce restava troppo forte. Poi sparì, e sentimmo l'ennesimo sospiro sfiorarci il viso. Aprimmo gli occhi con cautela, più cieche di prima. Chiunque fosse, chi ci stava davanti era immobile e muto. Un po' di tensione ci assalì, ma sembrava lontana. Difficile distrarci dall'idea dell'acqua che ci riempiva la pancia, e dal proposito di trovarne ancora. Cercammo di concentrarci, per vedere chi ci avesse salvate. La prima cosa che distinguemmo, fu l'alone bianco riflesso dal volto scuro, un milione di schegge pallide nella notte. Quando capimmo che era una barba - come quella di Babbo Natale, fu il primo pensiero caotico - la nostra memoria aggiunse all'istante gli altri elementi del viso. Ogni particolare calzava a perfezione: il naso grosso, le guance ampie, le sopracciglia folte e bianche, gli occhi infossati nell'intreccio rugoso della pelle.
Tratti soltanto intuiti, che la luce avrebbe rivelato del tutto. «Zio Jeb» esclamammo, sorprese. «Ci hai trovate.» Lo zio, rannicchiato accanto a noi, dondolò sui talloni quando lo chiamammo per nome. «Bene, bene» commentò, e la sua voce burbera riportò a galla centinaia di ricordi. «Bene, proprio un bel pasticcio.» 13 La condanna «Sono qui?» Tossimmo le parole, che sgorgarono come l'acqua che avevamo sputato dai polmoni. Dopo l'acqua, la nostra preoccupazione più urgente era: «Ce l'hanno fatta?». Al buio era impossibile leggere l'espressione dello zio Jeb. «Chi?» domandò. «Jamie, Jared!» Il nostro sospiro bruciava come un urlo. «Jared era con Jamie. Nostro fratello! Sono qui? Sono arrivati? Hai trovato anche loro?» domandammo, senza pause. «No.» La risposta fu secca, senza un briciolo di compassione né di preoccupazione. «No» sussurrammo. Non in risposta a lui, ma perché non rivolevamo la nostra vita. A cosa serviva? Chiudemmo di nuovo gli occhi e ci concentrammo sul nostro corpo dolorante. Lasciammo che soffocasse la sofferenza della mente. «Senti» disse lo zio Jeb pochi istanti dopo. «Io, ehm, devo occuparmi di una cosa. Tu riposa un po', dopo torno a prenderti.» Delle sue parole non cogliemmo il significato ma soltanto il suono. I nostri occhi restarono chiusi. Sentimmo i suoi passi strisciare via, senza capire in che direzione andassero. Ma non ci importava. Non c'erano. E non c'era alcuna maniera o speranza di ritrovarli. Jared e Jamie erano scomparsi, specialità in cui eccellevano, e non li avremmo mai più rivisti. L'acqua e l'aria fresca della notte ci diedero un po' di lucidità indesiderata. Ci voltammo ad affondare il viso nella sabbia. Eravamo stanchissime, oltre qualsiasi sopportazione. Potevamo dormire, certo. Bastava non pensare. Potevamo provarci. Ce la facemmo. Ci risvegliammo che era ancora notte, ma la minaccia dell'alba incom-
beva da oriente. Sentivamo in bocca il sapore della ruggine, e sulle prime ci convincemmo che la comparsa dello zio Jeb fosse stata un sogno. I nostri pensieri erano più lucidi, ci accorgemmo subito della strana sagoma che giaceva a fianco della nostra guancia. Non era una roccia né un cactus. La sfiorammo, era dura e liscia. La scuotemmo, e dal suo interno giunse il rumore delizioso di acqua gorgogliante. Lo zio Jeb non era un sogno, e ci aveva lasciato una borraccia. Ci sedemmo con cautela, sorprese di non spezzarci in due come un ramo secco. Ci sentivamo davvero meglio. Probabilmente l'acqua aveva avuto tempo di penetrare in tutto il corpo. Il dolore era più sordo e, per la prima volta da chissà quanto tempo, ci venne fame. Svitammo il tappo della borraccia con dita rigide e goffe. Non era piena, ma conteneva quanto bastava a riempirci di nuovo lo stomaco. La bevemmo tutta: non ne potevamo più di razionarla. Lasciammo cadere la borraccia metallica sulla sabbia; atterrò con un rumore sordo, nel silenzio che precedeva l'alba. A quel punto ci sentivamo sveglie. Sospirammo, decise a tornare nell'incoscienza, e ci prendemmo la testa tra le mani. E adesso? «Perché le hai dato l'acqua, Jeb?» domandò una voce irosa e vicina, dietro di noi. Ci voltammo, strisciando sulle ginocchia. Ciò che vedemmo ci diede un colpo al cuore, e sbriciolò la nostra consapevolezza. C'erano otto umani disposti a semicerchio attorno all'albero sotto cui mi trovavo. Erano umani, tutti, senza dubbio. Non avevo mai visto espressioni corrucciate come quelle... non nei miei simili. Le loro labbra erano increspate d'odio, e scoprivano denti digrignati come quelli di animali selvaggi. Le sopracciglia erano abbassate su occhi ardenti di furia. Due donne e sei uomini, alcuni dei quali erano grossi, molto più di me. Mi sentii impallidire, quando capii cosa stringessero con forza tra le mani: armi. Alcuni avevano coltelli, corti come quelli da cucina, oppure lunghi, uno addirittura enorme e minaccioso. Melanie mi suggerì il nome, era un «machete». Altri stringevano lunghe sbarre, di ferro o di legno. Mazze. Tra loro riconobbi lo zio Jeb. Stringeva con disinvoltura un oggetto che non avevo mai visto di persona, ma soltanto nei pensieri di Melanie, come il machete. Era un fucile. Io vedevo soltanto orrore, Melanie invece restò sorpresa, incredula di fronte a un gruppo così folto. Otto sopravvissuti umani, pensava che Jeb
fosse solo, o che nella migliore delle ipotesi avesse due compagni. Vedere vivi così tanti dei suoi la riempì di gioia. "Sei una stupida" le dissi. "Guardali. Osservali." La costrinsi a vederli dalla mia prospettiva: sagome minacciose dentro jeans sporchi e camicie leggere di cotone, marroni di sabbia. Forse un tempo erano stati umani - come li intendeva lei -, ma in quel momento erano altro. Barbari, mostri. Incombevano su di noi, assetati di sangue. Ogni paio d'occhi era una sentenza di morte. Melanie se ne rese conto, e suo malgrado dovette darmi ragione. In quel momento, i suoi amati umani erano al loro peggio, come sul giornale che avevamo trovato nella casa abbandonata. Eravamo di fronte a degli assassini. Che ingenue: avremmo dovuto morire il giorno prima. Perché lo zio Jeb si era intestardito a farci sopravvivere? A quel pensiero sentii un brivido. Non avevo mai approfondito la storia delle atrocità umane. Il mio stomaco non era abbastanza forte. Forse avrei dovuto dedicare loro più tempo. Sapevo che in certi casi gli umani concedevano ai propri nemici di sopravvivere. Perché volevano qualcosa, dalle loro menti o dai loro corpi... Capii subito che c'era un segreto che volevano strapparmi. L'unico che non avrei rivelato mai e poi mai. Ero pronta a sopportare qualsiasi tortura. Avrei dovuto suicidarmi prima. Non avevo permesso che Melanie vedesse il segreto che custodivo. Avevo utilizzato le sue stesse difese contro di lei, eretto un muro mentale dietro il quale nascondermi, mentre tornavo a quel pensiero per la prima volta da quando mi avevano impiantata. Prima, non c'era mai stato motivo di rievocarlo. Melanie, dall'altra parte del muro, non era nemmeno curiosa; non si sforzò neanche di fare breccia nella barriera. Aveva preoccupazioni molto più pressanti. Cosa importava che proteggessi il mio segreto da lei? Non ero forte come Melanie; di sicuro lei avrebbe sopportato qualsiasi tortura. Quanto dolore potevo reggere, prima di rispondere alle loro domande? Il mio stomaco sobbalzò. Il suicidio era un'opzione ripugnante; peggio ancora, sarebbe stato un omicidio. Melanie avrebbe condiviso la tortura o la morte. Io ero decisa ad aspettare finché non avessi avuto altra scelta. "No, non possono. Lo zio Jeb non permetterà che mi facciano del male." "Lo zio Jeb non sa che sei qui."
"Diglielo!" Mi concentrai sul viso del vecchio. La barba bianca e folta mi impediva di scorgere l'espressione della bocca, ma i suoi occhi non sembravano ardere come gli altri. Con la coda dell'occhio notai lo sguardo di alcuni uomini spostarsi da me a lui. Aspettavano che rispondesse alla loro. Lo zio Jeb mi fissava, impassibile. "Non posso dirglielo, Melanie. Non mi crederà. E se pensano che sto mentendo, crederanno che io sia una Cercatrice. Lo sento, sono abbastanza esperti da sapere che soltanto una Cercatrice si spingerebbe fin qui con una bugia, una storia inventata per potersi infiltrare." Melanie capì subito che dicevo la verità. La parola «Cercatrice» fece scattare il suo odio, e capì che questi sconosciuti avrebbero reagito allo stesso modo. "E comunque, non importa. Sono un'anima... e tanto basta." Quello con il machete - il più grosso, con i capelli neri, carnagione stranamente pallida e vividi occhi azzurri - grugnì di disgusto e sputò per terra. Fece un passo avanti e alzò lentamente la lunga lama. Meglio che facesse in fretta. Meglio essere uccise da quel bruto, e non per mano mia. Meglio non morire da creatura violenta, colpevole della mia fine e di quella di Melanie. «Aspetta, Kyle.» Jeb parlò senza fretta, tranquillo, ma l'omaccione gli obbedì. Con una smorfia si voltò verso lo zio di Melanie. «Perché? Hai detto che eri sicuro. È una di loro.» Riconobbi la voce, la stessa che aveva chiesto a Jeb perché mi avesse dato l'acqua. «Sì, lo è, senz'altro. Ma è una cosa complicata.» «In che senso?» Fu un altro uomo a parlare. Stava accanto a Kyle, e gli somigliava parecchio. Doveva essere suo fratello. «Be', questa è anche mia nipote.» «No che non lo è, non più» rispose Kyle impassibile. Sputò di nuovo e fece un altro passo verso di me, coltello alla mano. Da come preparava il colpo capii che nessuna parola l'avrebbe più fermato. Chiusi gli occhi. Sentii due scatti metallici e secchi, e qualcuno sospirò. Riaprii improvvisamente gli occhi. «Ho detto "aspetta", Kyle.» La voce dello zio Jeb era ancora rilassata, ma il fucile, ben stretto fra le sue mani, era puntato alla schiena di Kyle. Kyle restò impietrito a pochi passi da me, con il machete fermo a mezz'aria.
«Jeb» disse il fratello, terrorizzato. «Che fai?» «Allontanati dalla ragazza, Kyle.» Kyle si voltò furioso verso Jeb. «Non è una ragazza, Jeb!» Jeb fece spallucce; l'arma rimase salda tra le sue mani, puntata verso Kyle. «C'è ancora qualcosa di cui discutere.» «Forse il dottore potrebbe scoprire qualcosa» suggerì burbera una voce femminile. Quelle parole confermarono le mie peggiori paure e mi fecero trasalire. Dopo che Jeb mi aveva chiamata «nipote», avevo scioccamente lasciato che una scintilla di speranza si accendesse, forse un barlume di pietà. Che stupidaggine averci pensato, anche soltanto per un secondo. L'unica forma di pietà che potevo aspettarmi da quelle creature era la morte. Guardai la donna che aveva parlato, sorpresa che fosse vecchia quanto Jeb, forse di più. Aveva i capelli grigi anziché bianchi. Il suo viso era un intrico di rughe, contratte da un'espressione di rabbia, ma aveva un che di familiare. Melanie collegò quel viso anziano a un altro, più levigato, nei suoi ricordi. «Zia Maggie? Sei qui? Come hai fatto? E Sharon è...» Le parole venivano da Melanie, ma sgorgarono dalla mia bocca e fui incapace di fermarle. Dopo aver condiviso tutto quel deserto, era diventata più forte, oppure io più debole. O forse mi ero soltanto concentrata troppo sulla direzione dalla quale sarebbe giunto il colpo mortale. Mentre mi preparavo a morire, lei organizzava una riunione di famiglia. Melanie giunse soltanto a metà della propria esclamazione di sorpresa. L'anziana di nome Maggie schizzò in avanti, di corsa, con una velocità sorprendente, tanto fragile era il suo aspetto. Non alzò la mano che stringeva il piede di porco nero. La tenevo d'occhio, perciò non mi accorsi che l'altra mano, libera, preparava uno schiaffo che mi colpì secco il viso. La mia testa dondolò all'indietro e in avanti. Poi arrivò un altro schiaffo. «Non tentare di fregarci, parassita. Sappiamo come lavorate. Sappiamo quanto siete capaci di imitarci.» Sentii il sapore del sangue in bocca. "Non provarci più" minacciai Melanie. "Te l'ho detto che avrebbero reagito così." Melanie era troppo sorpresa per rispondere. «Basta, Maggie» commentò Jeb, conciliante. «Macché "basta, Maggie", vecchio scemo! Come minimo se ne sta por-
tando dietro un esercito.» Si allontanò da me senza staccarmi gli occhi di dosso, come fossi un serpente immobile e aggrovigliato. Si fermò accanto al fratello. «Non vedo nessuno» protestò Jeb. «Ehi» strillò, e scattai di sorpresa. Non fui la sola. Jeb iniziò a fare cenni sollevando il braccio sinistro, mentre il destro stringeva ancora saldo il fucile. «Siamo qui!» «Sta' zitto» borbottò Maggie, e gli diede uno strattone. Era forte, lo avevo capito a mie spese, ma Jeb non vacillò. «È sola, Mag. L'ho trovata che era mezza morta, e non è in gran forma neanche adesso. I centopiedi non tollerano sacrifici del genere. Sarebbero venuti a prenderla molto prima di me. Qualunque cosa sia, è sola.» Visualizzai l'immagine di un insetto lungo e con tante zampe, ma non trovai il nesso. "Ce l'ha con te" tradusse Melanie. Tra l'immagine del brutto animaletto e il mio ricordo di un'anima lucente e argentea non vidi somiglianze. "Chissà come fa a sapere che aspetto avete" meditò Melanie. I miei primi ricordi del vero aspetto delle anime erano stati una novità, per lei. Non avevo tempo di assecondarla. Jeb mi si avvicinava, seguito a breve distanza dagli altri. Kyle gli aveva posato una mano sulla spalla, pronto a trattenerlo o forse a strattonarlo via. Jeb passò il fucile nella mano sinistra, e mi porse la destra. La fissai, spaventata, in attesa che mi colpisse. «Alzati» ordinò, con delicatezza. «Se ce l'avessi fatta, ti avrei portata a casa ieri sera. Ti toccherà camminare un altro po'.» «No!» grugnì Kyle. «La riporto a casa» disse Jeb, e per la prima volta notai nella sua voce una certa fermezza. Nascosta dalla barba, la linea delle sue labbra si tese. «Jeb!» protestò Maggie. «È casa mia, Mag. Faccio quello che voglio.» «Vecchio scemo!» ribatté. Jeb si chinò e prese la mano che tenevo chiusa a pugno contro il fianco. Mi fece alzare con uno strattone, non per crudeltà, ma perché aveva fretta. Ma non era forse la peggior crudeltà, prolungare la mia vita per i suoi propositi? Traballai, malferma. Le gambe mi pizzicavano, punte da aghi immaginari, mentre il sangue ricominciava a scorrere. Dietro di lui sentii sibili di disapprovazione. «Okay, chiunque tu sia» disse, sempre gentile, «andiamocene da qui
prima che si riscaldi troppo.» Quello che doveva essere il fratello di Kyle lo afferrò per un braccio. «Non puoi mostrarle dove viviamo, Jeb.» «Non è un problema» disse Maggie arcigna. «Non avrà occasione di raccontarlo a nessuno.» Jeb sospirò e si sfilò una bandana dal collo. «Che sciocchezza» mormorò, e usò il fazzoletto sporco di sudore per coprirmi gli occhi. Non vidi più nulla, ma capii che era stato Jeb a posarmi una mano sulla schiena e a spingermi in avanti; nessuno degli altri sarebbe mai stato così delicato. Iniziammo a muoverci verso quello che mi sembrava il nord. Sulle prime, nessuno parlò: si sentiva soltanto il rumore di tanti passi che calpestavano la sabbia. Il terreno era regolare, ma non facevo che inciampare. Jeb era paziente, mi guidava con la mano. Durante il cammino sentii sorgere il sole. Alcuni passi erano più veloci di altri. Ci superarono e si allontanarono tanto da sentirli a fatica. Quelli che accompagnavano Jeb e me erano la minoranza. Probabilmente era palese che non avessi bisogno di molte guardie: ero infiacchita dalla fame, dondolavo a ogni passo; avevo le vertigini e sentivo la testa vuota. «Non avrai intenzione di dirglielo, vero?» Era la voce di Maggie alle mie spalle; il tono sembrava accusatorio. «Ha il diritto di sapere» rispose Jeb. «La tua è una crudeltà, Jebediah.» «La vita è crudele, Magnolia.» Difficile stabilire chi dei due fosse il più terrificante. Era Jeb, che sembrava così deciso a salvarmi la vita? O Maggie, che per prima aveva parlato del dottore - titolo che mi riempì di terrore e nausea istintiva -, ma che sembrava più affascinata del fratello dalla crudeltà? Procedemmo in silenzio per qualche ora. Quando le mie gambe cedettero, Jeb mi avvicinò la borraccia alle labbra, come aveva fatto durante la notte. «Fammi sapere quando sei pronta» disse. La sua voce sembrava gentile, ma sapevo che era una falsa impressione. Qualcuno sbuffò, impaziente. «Perché lo fai, Jeb?» domandò un uomo. Avevo già sentito la voce, era uno dei fratelli. «Per Doc? Potevi anche dirlo a Kyle. Senza puntargli il fucile addosso.»
«Kyle ha bisogno di sentirsi un fucile addosso, ogni tanto» borbottò Jeb. «Dimmi che non lo fai per pietà» aggiunse l'uomo. «Dopo tutto quello che hai visto...» «Tutto quello che ho visto, se non avessi capito cos'è la compassione, non servirebbe a nulla. E comunque no, non è questione di pietà. Se avessi avuto pietà di questa povera creatura l'avrei lasciata morire.» Rabbrividii, nell'aria calda come un forno. «E allora perché?» domandò il fratello di Kyle. Nel silenzio, la mano di Jeb sfiorò la mia. La afferrai, per rialzarmi avevo bisogno del suo aiuto. Mi posò l'altra mano sulla schiena e ripresi a marciare. «Curiosità» rispose Jeb a bassa voce. Nessuno rispose. Durante il cammino, riflettei. Primo, avevano già catturato altre anime. Era un qualcosa che si ripeteva. Questo «dottore» aveva cercato risposte in altri prima di me. Secondo, i tentativi precedenti erano andati a vuoto. Se qualcuno prima di me avesse rinunciato al suicidio e poi ceduto alle torture degli umani, non ci sarebbe stato bisogno di catturarmi. Mi avrebbero graziata con una morte più veloce. Tuttavia, non riuscivo più ad augurarmi che la fine giungesse presto, né a cercare un modo di accelerarla. Avrei potuto farcela, anche senza compiere il gesto autonomamente. Mi sarebbe bastato raccontare una bugia, inventarmi che ero una Cercatrice e che i miei colleghi mi avrebbero rintracciata, aggiungere minacce e provocazioni. Oppure, dire la verità: che Melanie viveva dentro di me, e che era stata lei a guidarmi. L'avrebbero presa come l'ennesima bugia, così sfacciata - il pensiero che un umano potesse sopravvivere all'inserzione era affascinante e insidioso, visto dalla loro prospettiva - da convincerli, più di ogni altro tentativo, che ero una Cercatrice. L'avrebbero considerata una trappola, si sarebbero sbarazzati in fretta di me e avrebbero cercato un nuovo nascondiglio. "Forse hai ragione" disse Melanie. "È ciò che farei anch'io." Ma il dolore non mi aveva ancora sopraffatta, perciò era dura scegliere come suicidarmi; l'istinto di sopravvivenza mi cuciva le labbra. Il ricordo della mia ultima seduta dalla Consolatrice - un momento così civile che sembrava appartenere a un pianeta lontano - baluginò tra i miei pensieri. Melanie che mi sfidava a farsi rimuovere, un impulso apparentemente suicida, in fin dei conti soltanto un bluff. Ricordai quanto fosse difficile con-
templare la morte da una poltrona comoda. La notte prima io e Melanie avevamo desiderato morire, avevamo mancato la morte di poco. Ora che camminavo di nuovo con le mie gambe, era diverso. "Neanch'io voglio morire" sussurrò Melanie. "Ma forse ti sbagli. Forse non è per questo che ci risparmiano la vita. Non capisco perché dovrebbero..." Non volle immaginare ciò che avremmo potuto subire, temeva di partorire pensieri peggiori dei miei. "Cosa vogliono da te di così importante?" "Non lo dirò mai. Né a te, né a qualsiasi altro umano." Dichiarazione temeraria. D'altronde, ancora non sentivo dolore... Trascorsa un'altra ora il rumore cambiò. Il passo di Jeb scrocchiava nella sabbia come il mio, ma qualcuno di fronte a noi aveva raggiunto un terreno diverso. «Adesso stai attenta alla testa» mi avvertì Jeb. Non sapevo a cos'avrei dovuto stare attenta, incapace com'ero di vedere. La sua mano lasciò la mia schiena e toccandomi la testa mi suggerì di chinarmi. Mi piegai. Mi condusse di nuovo in avanti, e anche i nostri passi generarono l'eco che avevo sentito poco prima. Il terreno non era cedevole come la sabbia, né sembrava irregolare come la roccia. Era piatto e duro. Non c'era più il sole, non lo sentivo bruciare sulla pelle né arroventarmi i capelli. Feci un altro passo, e aria nuova mi sfiorò il viso. Non era vento, ero io che le andavo incontro. La brezza secca del deserto era sparita. Quest'aria era ferma e più fresca, anche se umida e muffosa. «Okay, puoi raddrizzarti» disse Jeb. Lentamente alzai la testa. Malgrado la benda, capii che eravamo al chiuso. Alle mie spalle sentivo gli altri, impazienti di proseguire, in attesa che ci muovessimo. «Da questa parte» disse Jeb, e tornò a guidarmi. L'eco dei nostri passi giungeva da vicino - proiettata dentro uno spazio angusto. Istintivamente, chinai la testa. Pochi passi ancora, e imboccammo una curva stretta che parve riportarci indietro. Il pavimento iniziò a digradare. A ogni passo era più ripido, Jeb mi offrì la sua mano tozza per aiutarmi a non cadere. Procedetti a tentoni nel buio per chissà quanto tempo. Meno di quanto immaginassi, probabilmente: il terrore prolungava ogni istante.
Una seconda curva, e la strada iniziò a salire. Le mie gambe erano talmente intorpidite e rigide che quando il percorso si fece più ripido Jeb fu costretto a spingermi. Più procedevamo, più l'aria sapeva di umidità e muffa, senza che l'oscurità cambiasse. Gli unici rumori erano quelli dei passi e della loro eco. Il sentiero si fece pianeggiante e sinuoso come un serpente. Finalmente notai un bagliore filtrare dall'orlo della benda. Speravo che cadesse da sé, perché ero troppo terrorizzata per togliermela. Forse la paura si sarebbe placata se avessi visto dov'ero e chi mi accompagnava. Con la luce giunsero dei rumori. Uno strano mormorio smorzato. Somigliava a una specie di cascata sotterranea. Mentre avanzavamo, il mormorio si fece più intenso, e più si avvicinava, meno somigliava ad acqua. Era troppo vario, un misto di tonalità alte e basse. Se non fosse stato così dissonante, lo avrei scambiato per una versione più brutta della musica perpetua che avevo ascoltato e intonato sul Mondo che Canta. La benda si addiceva a quel ricordo, il ricordo della cecità. Melanie decifrò la cacofonia prima di me. Non ne avevo mai sentito il rumore perché non ero mai stata in mezzo agli umani. "È una discussione. Sembrano... tante persone che discutono." Restò affascinata da quel suono. C'erano altre persone, quindi? Otto erano state una bella sorpresa. Dove ci trovavamo? Il contatto di due mani sul collo mi fece scattare. «Tranquilla» disse Jeb. Mi levò la benda. Sbattei gli occhi, lentamente, e le ombre che mi circondavano si trasformarono in sagome familiari: pareti scabre, irregolari; soffitto a buchi; pavimento guasto e polveroso. Eravamo sottoterra, dentro chissà quale caverna. Non doveva essere così profonda. Mi sembrava di aver camminato più in salita che in discesa. Le pareti e il soffitto erano di un marrone scuro con sfumature violacee, bucherellate come gruviera. I margini delle aperture più basse erano erosi, ma sopra la mia testa vedevo fori più definiti e netti. La luce giungeva da un'apertura non molto diversa dagli altri buchi della caverna, ma più grande. Era un'entrata, l'accesso a un locale più luminoso. Melanie era agitata, entusiasta di aver trovato così tanti umani. Io restavo sulla difensiva, forse avrei preferito continuare a non vedere. Jeb fece un sospiro. «Scusa» mormorò a voce bassissima, per non farsi sentire.
Cercai di deglutire. Mi girava la testa, forse per la fame. Le mie mani tremavano come foglie frustate dal vento, mentre Jeb mi spingeva verso la grossa apertura. Restai incredula quando vidi il tunnel sbucare in un locale enorme. Il soffitto era troppo luminoso e troppo alto. Sembrava un cielo artificiale. Cercai di capire cosa lo accendesse, ma i fendenti di luce mi irritavano gli occhi. Mi aspettavo che il vociare aumentasse, ma nella grande caverna cadde un silenzio profondo. Il pavimento era molto meno luminoso del soffitto scintillante. Mi ci volle qualche istante per dare un senso a tutte le forme. Una folla di esseri umani immobili e muti mi fissava con la stessa espressione furiosa e piena d'odio che avevo conosciuto all'alba. Melanie era così sconvolta da non riuscire a fare altro che contare. Dieci, quindici, venti... venticinque, ventisei... A me non importava quanti fossero. Cercai di farlo capire anche a lei. Non ne occorrevano venti per uccidermi. Per ucciderci. Cercai di mostrarle quanto fosse precaria la nostra posizione, ma in quel momento non badava ai miei richiami, persa com'era in un mondo umano di cui non aveva mai sospettato l'esistenza. Un uomo spuntò dalla folla, e il mio sguardo saettò verso le sue mani, in cerca di armi. Stringeva i pugni ma non recava altre minacce. I miei occhi, mentre si abituavano alla luce accecante, notarono la sua pelle scura e dorata, e la riconobbero. Soffocata e stordita da una speranza improvvisa, alzai lo sguardo sul suo volto. 14 La disputa Fu insopportabile rivederlo, dopo aver accettato che non lo avremmo incontrato mai più ed esserci convinte di averlo perso per sempre. Restai impietrita, incapace di reagire. Avrei voluto lanciare uno sguardo allo zio Jeb, capire il perché della sua risposta straziante nel deserto, ma non riuscivo a distogliere gli occhi. Incredula, fissavo il viso di Jared. La reazione di Melanie fu diversa. «Jared» urlò, ma dalla mia gola arida uscì una specie di gracidio. Mi sospinse in avanti, come quando aveva preso il controllo del mio
corpo immobile nel deserto. Non riuscii a fermarla in tempo. Mi trascinò verso di lui gettandogli le braccia al collo. La richiamai mentalmente, ma non mi ascoltava. Si accorgeva a malapena della mia presenza. Nessuno cercò di bloccarla, mentre barcollava verso Jared. Nessuno tranne me. Con le braccia tese a pochi centimetri da lui, non vide ciò di cui io mi ero accorta. Non capì che l'espressione di Jared, nei lunghi mesi di lontananza, si era indurita, che i tratti del suo viso erano mutati. Il sorriso che non lo abbandonava mai non si addiceva più a quel volto. Soltanto una volta l'aveva visto farsi cupo e pericoloso, e quell'espressione era niente in confronto a ciò che era diventato. Melanie non capiva, o forse non le interessava. Le braccia di Jared erano più lunghe delle mie. Prima che Melanie potesse sfiorargli le dita, con un gesto improvviso mi schiaffeggiò la guancia. Il dorso della sua mano mi colpì così forte da sollevarmi da terra e farmi cadere sbattendo la testa sul pavimento roccioso. Ascoltai il rumore sordo del mio corpo che cadeva a peso morto, ma non sentii l'impatto. Mi si annebbiò la vista, e un ronzio mi riempì le orecchie. Combattei contro la vertigine che stava per sopraffarmi. "Stupida, stupida" piagnucolai. "Ti avevo detto di non farlo!" "Jared è qui, Jared è vivo, Jared è qui." Ripeteva la cantilena insensata come fosse il testo di una canzone. Cercai di rimettere a fuoco la scena, ma lo strano soffitto mi accecava. Voltai la testa, e soffocai un gemito quando sentii l'agonia del movimento pungermi la guancia. Sopportavo a malapena il dolore di quel singolo colpo, vibrato d'impulso. Che speranza avevo di sopravvivere a un assalto continuo e determinato? Sentii un rumore di passi al mio fianco; d'istinto alzai lo sguardo verso la minaccia, e vidi lo zio Jeb. Sembrava che mi offrisse una mano, incerto, lo sguardo altrove. Alzai la testa di un centimetro, con un altro gemito, per capire cosa guardasse. Jared veniva verso di noi con la stessa espressione dei barbari che avevo incontrato nel deserto, ma nella sua furia era bello, anziché spaventoso. Mi sentivo ridicola, con il cuore in gola e il battito irregolare. Che importanza aveva che fosse bello e che lo amassi, ora che stava per uccidermi? Gli sguardi di Jeb e Jared si incrociarono per alcuni istanti. Jared digri-
gnava i denti, l'espressione di Jeb invece era calma. Il confronto silenzioso terminò quando Jared sbuffò di rabbia e fece un passo indietro. Jeb mi offrì una mano e con l'altra mi aiutò a sollevarmi cingendomi la schiena. La testa mi girava e faceva male; lo stomaco era tutto un sobbalzo. Se non fosse stato vuoto da giorni, probabilmente avrei vomitato. Mi sembrava di non toccare nemmeno terra. Dondolai e mi sbilanciai in avanti. Jeb mi tenne ferma, poi mi afferrò un gomito per aiutarmi a stare in piedi. Jared osservava la scena con rabbia. Come una sciocca, Melanie insisteva per riavvicinarsi a lui. Ma ormai avevo superato lo shock della sua ricomparsa, ed ero meno instupidita di lei. Non ce l'avrebbe fatta, a sfuggirmi di nuovo. La isolai dietro tutte le barriere mentali che potevo. "Stai zitta. Non vedi quanto mi disprezza? Qualsiasi cosa tu dica, peggiorerai la situazione. Siamo morte." "Ma Jared è vivo, Jared è qui" intonò a voce bassa. Il silenzio nella grotta svanì; da ogni angolo si levò un brusio innescato da chissà quale segnale segreto. Non riuscivo a cogliere il significato di quel mormorio sibilante. Lanciavo occhiate alla folla di umani, tutti adulti; tra loro non spiccava nessuna sagoma più minuta o giovane. Quell'assenza mi spezzò il cuore, mentre Melanie insisteva per pronunciare la domanda. La misi a tacere con fermezza. In quel luogo non c'era niente da vedere, nient'altro che rabbia e odio sui volti sconosciuti e su quello di Jared. Un altro uomo si fece strada nella calca. Era alto e slanciato, con le ossa sporgenti. Il colore dei capelli era slavato, tra il marrone chiaro e un biondo scuro indefinibile. I suoi lineamenti erano secchi e scarni, come il corpo. La sua espressione catturò il mio sguardo: non vi era traccia d'ira. Gli altri lasciarono passare quell'uomo all'apparenza comune come se detenesse chissà quale potere. Soltanto Jared non mostrò deferenza; restò dov'era, inchiodandomi con lo sguardo. L'uomo alto e magro gli girò attorno senza badargli, come se sul suo cammino avesse incontrato un tumulo di pietre. «Okay, okay» disse, con tono stranamente allegro, mentre mi si avvicinava lasciandosi Jared alle spalle. «Sono qui. Cos'abbiamo?» Fu la zia Maggie a rispondere, spuntandogli al fianco. «Jeb l'ha trovata nel deserto. Una volta era Melanie, nostra nipote. A quanto pare ha seguito le indicazioni che le ha dato lui.» Lanciò un'occhiataccia a Jeb.
L'uomo alto e ossuto mormorò qualcosa, e mi studiò con curiosità. C'era un che di strano nel modo in cui mi scrutava. Sembrava contento di vedermi. Le sue ragioni mi erano oscure. Il mio sguardo si spostò da lui e individuò un'altra donna, una ragazza che sbirciava da dietro la sua spalla, posandogli una mano sul braccio. Ad attirare la mia attenzione era stata la tinta vivace dei capelli. Sharon! urlò Melanie. La cugina capì che l'avevo riconosciuta, e la sua espressione si irrigidì. Senza pensarci troppo ricacciai Melanie in un angolo della mia mente. "Zitta!" Lo spilungone annuì e rimuginò qualcos'altro. Allungò una mano verso il mio viso, e parve sorpreso di vedermi ritrarre, per rifugiarmi verso Jeb. «Stai tranquilla» disse, con un mezzo sorriso di incoraggiamento. «Non ti farò del male.» La sua mano tornò ad avvicinarsi. Cercai di usare Jeb come riparo, ma lui mi spinse in avanti. Lo spilungone mi afferrò per il collo, sotto le orecchie, e con dita più delicate di quanto mi aspettassi mi fece voltare la testa. Sentii le sue dita percorrere il solco sulla nuca, e capii che stava esaminando la cicatrice della mia inserzione. Con la coda dell'occhio vidi l'espressione di Jared. Era ovviamente scosso dai gesti dell'uomo, e la ragione mi era chiara: chissà quanto odiava quella riga dritta e rosea alla base della mia testa. Mi guardava accigliato. Appariva confuso. Lo spilungone mi lasciò andare e si allontanò, le labbra tese e gli occhi accesi da chissà quale sfida. «Mi sembra in discreta salute, a parte l'esaurimento fisico, la disidratazione e la cattiva nutrizione degli ultimi giorni. Con tutta l'acqua che le avete dato, la disidratazione non darà problemi. D'accordo.» Con le mani fece un gesto strano, come se le stesse lavando. «Iniziamo.» Poi capii il senso delle sue parole e degli sguardi: quell'uomo dall'aria gentile, che aveva appena giurato di non volermi fare del male, era il dottore. Lo zio Jeb fece un gran sospiro e chiuse gli occhi. Il dottore mi offrì una mano e mi invitò ad afferrarla. Io strinsi i pugni e li nascosi dietro la schiena. Mi diede un'altra occhiata scrupolosa, misurando il terrore nei miei occhi. La bocca era contratta, ma non sembrava arrabbiato. Stava valutando come procedere. «Kyle? Ian?» disse, e allungò il collo per cercare tra la folla i due che
aveva chiamato. Sentii le ginocchia cedere, quando vidi spuntare i due fratelli grossi, dai capelli scuri. «Mi servirà un po' d'aiuto. Dovreste trasportare...» iniziò il dottore, che non sembrava più così alto accanto a Kyle. «No.» Tutti si voltarono a guardare da dove venisse quel rifiuto. Io non ne ebbi bisogno, conoscevo la voce. Le sopracciglia di Jared erano basse sui suoi occhi; la bocca contorta in una strana smorfia. Tante emozioni gli attraversavano il viso. Rabbia, insolenza, confusione, odio, paura... dolore. Il dottore lo guardò, stupito e incredulo. «Jared? C'è qualche problema?» «Sì.» Tutti restarono in attesa. Accanto a me Jeb sembrava sforzarsi di trattenere un ghigno. Aveva un senso dell'umorismo davvero strambo. «E sarebbe?» domandò il dottore. Jared rispose a denti stretti. «Ecco qual è il problema, Doc: che differenza c'è tra lasciarla in custodia a te o farle sparare un proiettile in testa da Jeb?» Tremai. Jeb mi carezzò il braccio. Il dottore sbarrò di nuovo gli occhi. «Be'...» fu la sua unica risposta. Jared continuò. «La differenza è che se non altro, se ci pensa Jeb, sarà una morte pulita.» «Jared.» La voce del dottore era suadente, con lo stesso tono che aveva usato con me. «Ogni volta impariamo qualcosa di nuovo. Magari questa è quella buona...» Jared gli rise in faccia. «Non vedo tutti questi progressi, Doc.» "Jared ci proteggerà" fu il pensiero fievole di Melanie. Difficile trovare la concentrazione sufficiente per pensare qualche parola. "No, proteggerà soltanto il tuo corpo." "È così vicino..." La sua voce sembrava giungere da chissà dove, fuori dalla mia testa pulsante. Sharon fece un passo avanti, a nascondere parzialmente il dottore. Una posizione stranamente protettiva. «Non ha senso sprecare un'occasione» disse fiera. «Ci rendiamo tutti conto che per te è difficile, Jared, ma in fin dei conti non sei tu a dover decidere. Bisogna pensare a ciò che è più utile alla maggioranza.» Jared le lanciò un'occhiataccia. «No» ringhiò. Malgrado fosse tutt'altro che un sussurro, quella parola risuonò debole
nelle mie orecchie. All'istante, tutti i rumori si smorzarono. Le labbra di Sharon si muovevano, il suo dito puntava cattivo contro Jared, ma non sentivo altro che un fruscio basso. Vidi i due fratelli dai capelli scuri avvicinarsi a Jared, infuriati. La mia mano cercò di alzarsi in segno di protesta, ma fu soltanto un breve spasmo. Il volto di Jared si accese, le sue labbra si aprirono e gli si gonfiò il collo, come se stesse urlando, ma io non sentii nulla. Jeb mi lasciò il braccio, e vidi il grigio opaco della canna del fucile oscillare al mio fianco. Mi allontanai dall'arma, benché non fosse puntata contro di me. Così persi l'equilibrio, e vidi la sala inclinarsi molto lentamente. «Jamie» sussurrai, mentre la luce roteava via dai miei occhi. Improvvisamente il volto di Jared mi fu vicinissimo, era chino su di me e mi guardava sprezzante. «Jamie?» sibilai di nuovo. «Jamie?» La voce burbera di Jeb rispose da lontano. «Il ragazzo sta bene. Jared l'ha portato qui.» Guardai l'espressione tormentata di Jared sparire in fretta nella nebbia scura che mi riempiva gli occhi. «Grazie» sussurrai. E poi sprofondai nel buio. 15 La prigione Quando ripresi i sensi, non ero disorientata. Sapevo con certezza dove mi trovavo, più o meno; tenevo gli occhi chiusi e respiravo con regolarità. Volevo scoprire il più possibile sulla mia situazione, senza svelare che ero di nuovo cosciente. Avevo fame. Il mio stomaco rumoreggiava di rabbia, ma sapevo che non mi avrebbe tradito, di certo si era lamentato anche nel sonno. Sentivo un tremendo mal di testa. Impossibile capire quanto dipendesse dalla stanchezza e quanto dai colpi che avevo preso. Ero sdraiata su una superficie dura. Era scabra e... bucherellata. Non era piatta, ma leggermente ricurva, come il fondo di una grossa tazza. Era scomoda. Rannicchiata com'ero, sentivo pulsare la schiena e i fianchi. Forse era stato il dolore a svegliarmi: mi sentivo tutt'altro che riposata. C'era buio, me ne accorsi senza aprire gli occhi. L'aria era persino più muffosa di prima, umida e con un sapore acre che
restava appiccicato in gola. La temperatura era più fresca di quanto fosse stata nel deserto, ma l'umidità la rendeva fastidiosa. Avevo ricominciato a sudare, grazie all'acqua ricevuta da Jeb. Sentivo l'eco dei miei respiri a meno di un metro di distanza. Forse ero vicina a una parete, ma sospettavo di trovarmi in uno spazio molto angusto. Mi sforzai di ascoltare, e percepii l'eco del respiro provenire anche dalla parte opposta del locale. Certa di trovarmi in un punto del sistema di caverne in cui mi aveva portato Jeb, sapevo cos'avrei visto aprendo gli occhi. Doveva essere un piccolo buco nella roccia, di quel marrone scuro violaceo e punteggiato di fori di groviera. Nella quiete si sentiva soltanto il mio respiro. Timorosa di aprire gli occhi, mi affidai alle orecchie, sforzandomi di penetrare il silenzio. Cosa strana, non sentivo altre persone. Impossibile che mi avessero lasciata senza un guardiano. Lo zio Jeb e il suo inseparabile fucile, oppure qualcuno di meno compassionevole. Lasciarmi sola non si addiceva alla loro brutalità, alla paura e all'odio che istintivamente provavano per ciò che ero. A meno che... Cercai di deglutire, ma il terrore mi serrò la gola. Impossibile che mi avessero lasciata sola, a meno che non mi credessero morta, o ne fossero certi. A meno che non esistessero, nelle caverne, luoghi da cui nessuno poteva tornare. L'immagine mentale del posto in cui mi trovavo iniziò a cambiare. Mi vidi sul fondo di un crepaccio, o murata viva dentro una tomba stretta. Il ritmo dei respiri aumentò, assaggiavo il vuoto in cerca di aria stagnante o di altri indizi che l'ossigeno stava per finire. I muscoli riempirono d'aria i polmoni, pronti all'urlo che stava per arrivare. Strinsi i denti per impedirgli di sfuggire. Qualcosa di aguzzo grattò la terra accanto alla mia testa. Strillai, quando sentii quel rumore stridente nello spazio angusto. Aprii gli occhi di scatto e feci per allontanarmi dal rumore sinistro, ma andai a sbattere contro una parete irregolare di roccia. Alzai le mani per proteggermi il viso, mentre con la testa battevo contro il soffitto basso. Una luce debole rischiarava l'uscita perfettamente circolare della minuscola cavità di pietra in cui ero rannicchiata. Jared, il viso mezzo illuminato, si era piegato verso l'apertura, e allungava un braccio verso di me. Le sue labbra erano tese di rabbia. Una vena gli pulsava sulla fronte mentre osservava la mia reazione spaventata.
Non si mosse; restò a guardarmi furioso in attesa che il mio cuore ripartisse e il respiro si calmasse. Incontrai la sua occhiata e ricordai quanto fosse capace di stare in silenzio - come uno spettro, quando voleva. C'era poco da meravigliarsi che non lo avessi sentito, mentre faceva la guardia alla mia cella. Ma avevo sentito qualcosa. Mentre me ne ricordavo, Jared avvicinò ancora un poco il braccio, e il rumore di sfregamento ricominciò. Abbassai lo sguardo. Ai miei piedi c'era un foglio di plastica rotto, che faceva da vassoio. E sul vassoio... Mi allungai di scatto verso la bottiglia d'acqua. Mi accorsi a stento dell'espressione disgustata sulla bocca di Jared, mentre premevo la bottiglia contro le mie labbra. Di sicuro mi avrebbe causato qualche problema, ma in quel momento per me non esisteva che l'acqua. Jared era uscito dall'accesso circolare. Vedevo una sua manica e nient'altro. La luce smorzata nasceva chissà dove, accanto a lui. Era azzurrognola, artificiale. Dopo aver trangugiato metà dell'acqua, un profumo nuovo catturò la mia attenzione. Abbassai di nuovo lo sguardo sul vassoio. Cibo. Mi davano da mangiare? Per primo sentii l'odore del pane - una pagnotta scura, dalla forma irregolare -, ma c'era anche una tazza di liquido trasparente dall'aroma di cipolla. Mi chinai a osservare tre bocconi scuri inzuppati sul fondo. Accanto alla tazza, tre pezzi somiglianti a tubetti bianchi e tozzi, probabilmente verdura di cui non riconobbi la varietà. Feci queste scoperte nel giro di pochi secondi, durante i quali sentii lo stomaco sobbalzare in cerca di cibo. Mi buttai sul pane. Era pieno di semi di grano che si infilavano fra i denti, e la sua consistenza era sabbiosa, ma il sapore ricco e meraviglioso. Non ricordavo di aver mai mangiato niente di più delizioso, nemmeno le mie tortine sbriciolate. Ingoiavo con ingordigia i bocconi mezzi masticati. Li sentivo scendere nello stomaco gorgogliante uno a uno. Ma non mi sentii bene come speravo: lo stomaco era rimasto vuoto troppo a lungo, e reagì al cibo con fastidio. Lo ignorai e passai al liquido: era zuppa. La mandai giù più facilmente. A parte le cipolle di cui avevo sentito l'odore, il gusto era dolce. I tre bocconi erano morbidi e spugnosi. Bevvi direttamente dalla tazza, desiderando che fosse più capiente. Le verdure bianche erano croccanti, ma sapevano di legno. Dovevano
essere una specie di radice. Non erano sostanziose come la zuppa né gustose come il pane, ma fui grata di sentirle nella pancia. Non ero piena nemmeno un po' - e probabilmente avrei addentato anche il vassoio, se avessi pensato di poterlo masticare. Soltanto quando finii di mangiare riflettei sul fatto che non avrebbero dovuto nutrirmi. A meno che Jared non avesse perso la sfida con il dottore. Ma in tal caso, perché mettere proprio lui a farmi la guardia? Allontanai il vassoio e restai accoccolata contro la parete nera della mia cavità, mentre Jared infilava un braccio per riprenderlo. Senza guardarmi, stavolta. «Grazie» sussurrai, mentre spariva. Non rispose; la sua espressione non cambiò. Nemmeno il brandello di manica che avevo visto prima ricomparve, ma ero sicura che non se ne fosse andato. "Non posso credere che mi abbia picchiata" mormorò Melanie, più incredula che offesa. Non aveva ancora smaltito la sorpresa. Io non ero rimasta affatto sorpresa. Certo che mi aveva picchiata. "Mi chiedevo dove fossi finita" le risposi. "Non è buona educazione cacciarmi in questo casino e abbandonarmi a me stessa." Ignorò il mio tono acido. "Non avrei mai pensato che fosse capace di farlo, per nessuna ragione. Io non potrei mai picchiarlo." "Certo che sì, invece. Se ti si fosse avvicinato con uno strano riflesso negli occhi, avresti fatto lo stesso. Per voi la violenza è naturale." Ricordai il sogno a occhi aperti in cui strangolava la Cercatrice. Era stato pochi giorni prima, ma mi sembravano passati mesi. Davvero strano. Ci voleva del tempo per infilarsi in una situazione disastrosa come quella in cui mi trovavo. Melanie si sforzò di pensarci in modo imparziale. "E invece no. Né Jared... né Jamie, non farei mai del male a Jamie, nemmeno se fosse..." Lasciò cadere la frase, nauseata dalla possibilità. Ci pensai, e capii che aveva ragione. Anche se il ragazzo fosse diventato qualcosa o qualcun altro, né io né lei l'avremmo sfiorato. "È diverso. Sei quasi una... madre. Le madri qui sono irrazionali. Troppe emozioni in gioco." "La maternità è sempre una questione emotiva, anche per voi anime." Non risposi. "Secondo te ora che succede?" "Sei tu l'esperta di umani" commentai. "Il fatto che mi diano da mangiare non mi sembra un buon segno. Riesco a pensare a un solo motivo per
cui dovrei rimettermi in forze." I pochi particolari delle brutalità umane che ricordavo si intrecciarono ai vecchi articoli letti qualche giorno prima. Il fuoco... quello faceva male. Una volta Melanie, in uno stupido incidente domestico, si era scottata le dita della mano destra, afferrando per sbaglio una pentola ancora calda. Ricordai la sorpresa con cui l'assalì un dolore del tutto inaspettato e violento. Però fu soltanto un incidente. Risolto in fretta con ghiaccio, unguenti, medicinali. Nessuno l'aveva fatto di proposito, e aveva insistito dopo la prima fitta di dolore, per proseguire all'infinito, senza sosta... Non avevo mai vissuto su un pianeta dove prima dell'arrivo delle anime erano accadute certe atrocità. Questo era senza dubbio il più eccelso e infimo di tutti i mondi: i sensi migliori, le emozioni più squisite... i desideri più maligni, le imprese più cattive. Forse doveva essere così. Forse, senza l'abisso, non potevano esserci le vette. Le anime facevano eccezione? Potevano cavare luce da questo mondo senza cadere nel buio? "Ho... sentito qualcosa, quando ti ha colpita" mi interruppe Melanie. Le parole giunsero lente, una alla volta, come se le pensasse controvoglia. "Anch'io." Era assurdo come, dopo tanto tempo passato con lei, avessi imparato a usare il sarcasmo. "Ha un bel manrovescio, no?" "Non è questo che intendevo. Voglio dire..." Per alcuni istanti restò in silenzio, ma il resto della frase arrivò tutto d'un colpo. "Pensavo fosse tutta mia... la sensazione che proviamo per lui. Pensavo di essere io a... controllarla." I pensieri che muovevano le sue parole erano più chiari delle parole stesse. "Pensavi di potermi guidare fin qui perché eri tu a desiderarlo tanto. Di essere tu a controllarmi, e non viceversa." Cercai di non sembrare infastidita. "Eri convinta di potermi manipolare." "Sì." La delusione nel suo tono non nasceva dal mio fastidio, ma dalla constatazione di avere avuto torto. "Ma..." Restai in attesa. Tornò come un'ondata. "Anche tu sei innamorata di lui, e non dipende da me. È una sensazione diversa da quella che provo io. Altra. Non l'ho capito finché non l'abbiamo ritrovato, finché non l'hai visto per la prima volta. Com'è successo? Come fa un verme lungo tre centimetri a innamorarsi di un essere umano?" "Verme?"
"Scusa. Immagino che voi abbiate una specie di... arti." "Non proprio. Sono più simili ad antenne. E quando le distendo sono lunga molto più di tre centimetri." "Il punto è che non siete della stessa specie." "Il mio corpo è umano" risposi. "Finché vi sono attaccata, sono umana anch'io. E il modo in cui vedi Jared nei tuoi ricordi... be', è tutta colpa tua." Ci pensò per qualche istante. Non le piacque granché. "Quindi se fossi andata a Tucson a prenderti un corpo nuovo, ora non lo ameresti più?" "Spero proprio che sia così, davvero." La risposta non convinse nessuna delle due. Posai la testa sulle ginocchia. Melanie cambiò discorso. "Se non altro Jamie è salvo. Sapevo che Jared lo avrebbe protetto. Quando l'ho lasciato, non avrei potuto affidarlo a mani migliori... quanto vorrei poterlo rivedere." "Non sarò io a chiederlo!" Rabbrividii pensando a quale risposta avrebbe ricevuto quella domanda. Allo stesso tempo, anch'io desideravo guardare in faccia il ragazzo. Volevo rassicurarmi che fosse davvero là, al sicuro, che gli dessero da mangiare e si occupassero di lui come Melanie non avrebbe più potuto fare. Come io, madre di nessuno, avrei voluto fare. C'era qualcuno che gli cantava la ninna nanna? Che gli raccontava una storia? Il nuovo e furioso Jared aveva pensato a certi dettagli? C'era qualcuno contro cui rannicchiarsi quando aveva paura? "Pensi che gli diranno che sono qui?" domandò Melanie. "Si sentirebbe confortato o ferito?" ribattei. Il suo pensiero fu un sussurro. "Non so... vorrei potergli dire che ho mantenuto la promessa." "Certo che sì." Scossi la testa, stupita. "Nessuno potrà dire che non sei tornata, come sempre." "Grazie." La sua voce era debole. Non capii se mi ringraziava per quelle parole, o più in generale per averla riportata là. All'improvviso mi sentii esausta, e lo era anche lei. Ora che lo stomaco si era calmato, il resto dei miei dolori non bruciava tanto da tenermi sveglia. Esitai prima di muovermi, per paura di fare rumore, ma il mio corpo voleva allungarsi e stiracchiarsi. Alla fine fui quasi costretta a infilare i piedi fuori dall'apertura rotonda. Non mi andava di farlo, temevo che Jared si potesse accorgere del movimento e pensasse che volevo fuggire, ma lui
non reagì. Come cuscino usai un braccio in cui affondai il viso, cercai di non badare al pavimento curvo che mi bloccava la schiena e chiusi gli occhi. Ammesso che fossi riuscita a dormire, non fu un sonno profondo. Il rumore dei passi era ancora lontano quando mi svegliai del tutto. Stavolta aprii subito gli occhi. Non era cambiato niente, vedevo ancora la luce azzurra e smorta al di là dell'oblò di pietra; senza capire se Jared fosse ancora di guardia. Qualcuno veniva verso di me, facile accorgersi dei passi in avvicinamento. Sfilai le gambe dall'apertura, e tornai a rannicchiarmi contro la parete più lontana. Avrei preferito potermi alzare in piedi; mi avrebbe fatta sentire meno vulnerabile, più pronta ad affrontare ogni evenienza. Il soffitto basso della cavità di pietra mi permetteva a malapena di inginocchiarmi. Ci fu un trambusto improvviso fuori dalla cella. Mentre Jared si alzava in silenzio intravidi il suo piede. «Ah. Eccoti» disse un uomo. Dopo tutto quel silenzio, la sua voce fu così tonante da farmi sobbalzare. Lo riconobbi. Era uno dei fratelli che avevo incontrato nel deserto: Kyle, quello con il machete. Jared restò in silenzio. «Non lo permetteremo, Jared.» A parlare fu qualcun altro, in tono più posato. Probabilmente Ian, che doveva essere il più giovane dei fratelli. Le loro voci si somigliavano molto, con la differenza che Kyle aveva il vizio di urlare sempre, in preda alla rabbia. «Ognuno di noi ha perso qualcuno... maledizione, abbiamo perso tutti. Ma questo è ridicolo.» «Se non vuoi che la prenda Doc, allora deve morire» aggiunse Kyle, con un grugnito. «Non puoi tenerla prigioniera» continuò Ian. «Prima o poi fuggirà e ci segnalerà.» Anziché rispondere, Jared fece un passo di traverso e si fermò esattamente di fronte all'entrata della cella. Il mio cuore iniziò a galoppare, quando capii cosa intendevano i fratelli. Jared aveva vinto. Non mi avrebbero torturata. Non mi avrebbero uccisa, perlomeno non subito. Jared mi aveva fatta prigioniera. «Prigioniera» in quelle circostanze era una parola bellissima. Te l'avevo detto che ci avrebbe difeso. «Non complicare le cose, Jared» disse un'altra voce maschile che non riconobbi. «Dobbiamo farlo.» Jared tacque.
«Non vogliamo fare del male a te, Jared. Qui siamo tutti fratelli. Ma se ci costringerai, dovremo...» Kyle non stava bluffando. «Spostati.» Jared restò saldo come una roccia. Il mio cuore premeva contro il petto così forte da spezzare il ritmo dei polmoni e impedirmi di respirare. Melanie era bloccata dalla paura, incapace di pensieri coerenti. Stavano per fargli del male. Quei pazzi umani stavano per aggredire uno dei loro. «Jared... per favore» disse Ian. Jared non rispose. Un passo greve - un affondo - e il rumore di qualcosa di pesante contro qualcosa di solido. Un colpo di tosse e un gorgoglio soffocato... «No!» strillai, e mi lanciai fuori dall'oblò di pietra. 16 L'attribuzione La cornice dell'oblò di roccia sembrava levigata, ma sforzandomi di uscire mi graffiai il palmo delle mani e le nocche. Rigida com'ero, raddrizzarmi fu uno sforzo che mi tolse il fiato. Badai a un solo dettaglio: la posizione di Jared, in modo da potermi mettere tra lui e gli aggressori. Restarono tutti impietriti a guardarmi. Jared era spalle al muro, pugni stretti e guardia abbassata. Davanti a lui c'era Kyle, piegato su se stesso, con le mani sullo stomaco. Ian e lo sconosciuto lo affiancavano, a poca distanza, esterrefatti. Ne approfittai e mi inserii tra Kyle e Jared. Kyle fu il primo a reagire. Ero a meno di trenta centimetri da lui, e il suo primo istinto fu di spingermi via. Mi prese per una spalla e mi gettò a terra. Prima che cadessi, qualcuno mi strinse il polso e con uno scrollone mi fece rialzare. Non appena si accorse di ciò che aveva fatto, Jared mi lasciò andare come se avesse toccato dell'acido. «Torna dentro» ruggì. Anche lui mi diede uno strattone e mi fece arretrare di mezzo metro, verso l'oblò nella roccia. Il buco era un cerchio nero nel corridoio stretto. La grotta che le faceva da anticamera era identica alla prigione, soltanto più lunga e alta. Una piccola lampada - alimentata da chissà cosa - posata per terra illuminava il corridoio. Gettava strane ombre dei profili umani, e li trasformava in volti
mostruosi. Feci un altro passo verso di loro, dando le spalle a Jared. «È me che volete» dissi in faccia a Kyle. «Lasciatelo stare.» Per un tempo interminabile nessuno aprì bocca. «Imbrogliona schifosa» mormorò finalmente Ian, gli occhi spalancati dal terrore. «Ho detto torna dentro» sibilò Jared alle mie spalle. Mi voltai quanto bastava a non perdere di vista Kyle. «Non siete obbligati a proteggermi a vostre spese .» Jared fece una smorfia e alzò una mano per spingermi di nuovo verso la cella. Mi spostai per evitarla, e il movimento mi portò verso quelli che volevano uccidermi. Ian mi prese le braccia e me le strinse dietro la schiena. D'istinto cercai di divincolarmi, ma lui era troppo forte. Mi piegò le articolazioni all'indietro, mozzandomi il fiato. «Giù le mani!» urlò Jared e gli si avventò addosso. Kyle lo bloccò e lo agganciò con una presa da lottatore, piegandogli la testa in avanti. L'altro uomo afferrò Jared per un braccio e gli impedì di muoversi. «Non fategli male» urlai mentre mi dibattevo. Il gomito libero di Jared colpì allo stomaco Kyle, che tossì e mollò la presa. Jared si sciolse dalla presa degli aggressori e tornò alla carica con un pugno dritto sul naso di Kyle. Sangue rosso cupo imbrattò la parete e la lampada. «Uccidila, Ian» urlò Kyle. A testa bassa caricò Jared e lo gettò verso lo sconosciuto. «No!» gridammo io e Jared contemporaneamente. Ian mollò le mie braccia e mi prese per la gola, soffocandomi. Tentai di graffiargli le mani, ma le mie unghie erano corte. Lui strinse la morsa fino a sollevarmi da terra. Che dolore... la stretta delle mani, il bruciore improvviso ai polmoni. Un'agonia. Le mie convulsioni erano un tentativo di sfuggire al dolore, più che alle mani assassine. Click, click. Avevo sentito soltanto una volta quel suono, ma lo riconobbi subito. Come tutti. Restarono impietriti, Ian senza togliermi le mani di dosso. «Kyle, Ian, Brandt... allontanatevi!» abbaiò Jeb.
Tutto restò immobile, a parte le mie mani, che ancora si agitavano, e i miei piedi penzoloni a mezz'aria. Jared si ritrasse di scatto dalle braccia di Kyle e saltò verso di me. Vidi il suo pugno volare verso il mio viso, e chiusi gli occhi. Un suono sordo e potente risuonò a pochi centimetri dalla mia testa. Ian ululò e mi lasciò cadere. Crollai ai suoi piedi, senza fiato. Jared si ritirò dopo avermi lanciato un'occhiata rabbiosa, e andò ad affiancare Jeb. «Ragazzi, voi qui siete ospiti, non dimenticatelo» ruggì Jeb. «Ve l'avevo detto, di non andare a cercare la ragazza. Per il momento anche lei è mia ospite, e non gradisco che i miei ospiti si uccidano l'uno con l'altro.» «Jeb» gemette Ian sopra di me, la voce smorzata dalla mano con cui si copriva la bocca. «Jeb. È una follia.» «Qual è il tuo piano?» chiese Kyle. Il suo volto era chiazzato di sangue, un'immagine violenta e macabra. Nella sua voce non c'erano tracce di dolore, ma soltanto rabbia. «Abbiamo il diritto di sapere. Dobbiamo decidere se questo posto è sicuro o se è ora di andarcene. Perciò... per quanto vuoi tenere questa specie di animale domestico? Cosa farai quando avrai finito di giocare a fare Dio? Devi una risposta a tutti noi.» Le parole di Kyle riecheggiarono oltre il muro di pulsazioni che mi riempiva la testa. Ero un animale domestico? Jeb mi aveva chiamata «ospite»... era sinonimo di «prigioniera»? Possibile che esistessero almeno due umani che non desiderassero uccidermi o estorcermi chissà quale confessione con la tortura? Se sì, era un vero miracolo. «Non so che dirti, Kyle» disse Jeb. «Non sta a me decidere.» Più ambigua di così, la sua risposta non avrebbe potuto essere. I quattro - Kyle, Ian, lo sconosciuto e Jared - lo guardarono stupefatti. Io ero ancora rannicchiata ai piedi di Ian, desiderosa di poter tornare nel buco senza farmi notare. «Non sta a te?» ribatté infine Kyle, ancora incredulo. «E a chi, allora? Se pensi di metterla ai voti, sappi che ci siamo già passati. E gli esecutori designati siamo io, Ian e Brandt.» Jeb scosse la testa con un movimento secco, senza staccare lo sguardo dall'uomo che gli stava davanti. «Non la metterò ai voti. Questa è ancora casa mia.» «E chi decide, allora?» urlò Kyle. Gli occhi di Jeb si accesero; fissarono un altro volto, poi tornarono a Kyle. «La decisione spetta a Jared.» Tutti, me compresa, lo guardammo.
Jared restò a bocca aperta di fronte a Jeb, sbalordito, poi serrò i denti di scatto. Mi lanciò un'occhiata di odio puro. «Jared?» domandò Kyle, rivolgendosi a Jeb. «Ma non ha senso!» Non si controllava più, quasi sbavava di rabbia. «È di parte, più di chiunque altro! Perché? Credi che si comporterà in modo razionale?» «Jeb, io non...» mormorò Jared. «Jared, è a te che spetta badare a lei» disse Jeb, severo. «Io ti aiuterò, ovviamente, se nasceranno altri problemi o se dovrai tenerla d'occhio e tutto il resto. Ma quando si tratta di prendere una decisione, sta a te.» Alzò una mano per mettere a tacere le proteste di Kyle. «Vedila così, Kyle: se qualcuno trovasse la tua Jodi durante una perlustrazione e la portasse qui, accetteresti che fossimo io, Doc o una votazione a decidere cosa fare di lei?» «Jodi è morta» sibilò Kyle, sputando sangue. Mi inchiodò con lo stesso sguardo che avevo appena visto in Jared. «Be', se il suo corpo si spingesse fin qui, sarebbe comunque affare tuo. O la vedresti diversamente?» «La maggioranza...» «Casa mia, comando io» lo interruppe brusco Jeb. «Fine della discussione. Niente votazioni. Niente tentativi omicidi. Diffondete la notizia: d'ora in poi è così. Nuova regola.» «Un'altra?» mormorò Ian a mezza voce. Jeb lo ignorò. «So che è un'occasione unica, ma se avremo altri casi come questo la decisione spetterà a chi ha dei legami con il corpo.» Jeb puntò la canna del fucile contro Kyle, poi la spostò di qualche centimetro verso il corridoio alle sue spalle. «Fuori. Non voglio più vedervi da queste parti. Dite a tutti che questo corridoio è off limits. Nessuno ha motivo di starci, eccetto Jared, e se becco qualcuno a imboscarsi qui, le domande le farò dopo. Capito? Muoversi. Subito.» Puntò di nuovo il fucile contro Kyle. Fui sorpresa di vedere i tre assassini imboccare subito l'uscita, senza degnarci di un'occhiata. Volevo poter credere che il fucile tra le braccia di Jeb fosse un bluff. Da quando lo avevo incontrato, Jeb si era sempre dimostrato una persona gentile. Non aveva mai usato la violenza con me; non mi aveva neanche mai guardato con aria ostile. Sembrava uno degli unici due abitanti della caverna a non volermi fare del male. Certo, Jared aveva combattuto per salvarmi la vita, ma chiaramente era stata una decisione più che sofferta.
Sospettavo che potesse cambiare idea in qualsiasi momento. Lo capivo dalla sua espressione: una parte di lui voleva farla finita, soprattutto ora che Jeb lo aveva caricato di responsabilità. Mentre riflettevo, Jared mi osservava con un'espressione che grondava disgusto. Tuttavia, malgrado volessi convincermi che Jeb stesse bluffando, vedere i tre uomini scomparire nell'oscurità mi fece ricredere. Era ovvio: dietro le apparenze gentili, Jeb doveva essere letale e crudele come tutti gli altri. Se non avesse usato quel fucile in passato - per uccidere, non soltanto per minacciare - nessuno gli avrebbe obbedito. "È un'epoca disperata" sussurrò Melanie. "Non possiamo permetterci la gentilezza, nel mondo che avete creato. Siamo fuggitivi, una specie in pericolo. Ogni scelta è questione di vita o di morte." "Zitta. Non ho tempo di discutere. Devo concentrarmi." Jared si era piazzato di fronte a Jeb, una mano protesa in avanti a palmo in su, le dita piegate. Ora che gli altri se n'erano andati, i due sembravano meno tesi. Jeb addirittura rideva, sotto la barba folta, quasi divertito dal risultato delle sue minacce armate. Che strambo essere umano. «Per favore, non scaricarmi la responsabilità» disse Jared. «Su una cosa Kyle ha ragione: non posso prendere una decisione razionale.» «Mica sei costretto a decidere ora. Lei non va da nessuna parte.» Jeb mi guardò, sorridente e di nascosto a Jared mi strizzò un occhio. L'aveva strizzato. «Non dopo quello che ha passato per arrivare fin qui. Avrai un sacco di tempo per ragionare.» «Non c'è niente su cui ragionare. Melanie è morta. Ma non posso... non posso, Jeb... io non posso...» Sembrava incapace di terminare la frase. "Diglielo." "Non voglio morire nel giro di un secondo." «E allora non pensarci» rispose Jeb. «Magari più tardi ti verrà in mente qualcosa. Prenditi un po' di tempo.» «E con lei cosa facciamo? Non possiamo tenerla d'occhio ventiquattr'ore al giorno.» Jeb scosse la testa. «Invece è proprio ciò che faremo, per un po'. La situazione si calmerà. Nemmeno la rabbia omicida di Kyle può durare più di qualche settimana.» «Qualche settimana? Non possiamo permetterci di giocare alle guardie per qualche settimana. Abbiamo altro...» «Lo so, lo so.» Jeb fece un sospiro. «Mi inventerò qualcosa.» «E non è tutto.» Jared mi lanciò un'altra occhiata; la vena sulla sua fron-
te pulsò. «Dove la teniamo? Non abbiamo una vera prigione.» Jeb mi sorrise. «Scommetto che non ci creerai problemi, vero?» Lo guardai in silenzio. «Jeb» mormorò Jared, nervoso. «Non preoccuparti per lei. Per prima cosa, la terremo d'occhio. Secondo, non riuscirà mai a trovare l'uscita; girerà alla cieca e finirà per imbattersi in qualcuno. Terzo, e non meno importante: non è così stupida.» Alzò un sopracciglio bianco e folto. «Non andrai a cercare Kyle e gli altri, vero? Non mi pare che siano stati molto affettuosi con te.» Restai a guardarlo, intimorita dalla voce disinvolta e affabile. «Vorrei che non parlassi così» borbottò Jared. «Sono cresciuto in un'epoca più educata. Mi viene spontaneo.» Jeb posò una mano sul braccio di Jared e gli diede un colpetto. «Senti, hai avuto una nottata pesante. Lascia che stia io di guardia. Vai a dormire.» Jared sembrava sul punto di protestare, ma poi mi lanciò un'altra occhiata e la sua espressione si irrigidì. «Come vuoi tu, Jeb. Ma io... io non... non intendo prendermi nessuna responsabilità per questa creatura. Uccidila, se ti sembra la scelta migliore.» Trasalii. Jared reagì guardandomi in cagnesco, poi voltò le spalle di scatto e se ne andò anche lui. Jeb lo seguì con lo sguardo. Approfittai della distrazione per strisciare nel buco. Sentii Jeb sedersi piano per terra, davanti all'apertura. Sospirò e si stirò facendo schioccare le articolazioni. Dopo qualche minuto iniziò a fischiettare tranquillo. Una melodia allegra. Mi rannicchiai con le ginocchia al petto e le spalle contro l'angolo più lontano della minuscola cella. Sentivo degli spasmi su e giù per la schiena. Mi tremavano le mani, e battevo piano i denti, malgrado il caldo. «Meglio sdraiarsi e dormire un po'» disse Jeb, non so se a me oppure a se stesso. «Domani sarà una giornata dura.» Dopo un po', forse mezz'ora, gli spasmi cessarono. Decisi di seguire il consiglio di Jeb. Il suolo sembrava ancora più scomodo di prima, ma persi conoscenza dopo pochi secondi. Il profumo del cibo mi svegliò. Aprii gli occhi intorpidita e disorientata. Una sensazione istintiva di panico mi fece tremare le mani prima ancora che riprendessi lucidità. Per terra, vicino a me, c'era il solito vassoio, con il solito contenuto. Po-
tevo vedere e sentire Jeb. Era seduto di profilo davanti alla grotta, guardava dritto verso il corridoio e fischiettava piano. Guidata dalla sete, mi sedetti e afferrai la bottiglia d'acqua. «'giorno» disse Jeb, e mi salutò con un cenno. Restai impietrita, la mano sulla bottiglia, finché lui non si girò dall'altra parte e ricominciò a fischiettare. Mangiai in fretta, tenendo la zuppa per ultima. Ma il mio corpo aveva altri bisogni, ora che i più urgenti erano stati placati. Scrutai gli angoli dell'anfratto scuro e angusto. Le opzioni visibili erano poche. Ma non riuscivo a trattenere la paura, al pensiero di aprire bocca e fare una richiesta, persino al bizzarro ma amichevole Jeb. Mi dondolavo avanti e indietro, incerta. Sentivo male ai fianchi, costretta a chinarmi tra le pareti curve della grotta. «Ehm» disse Jeb. Si era voltato verso di me e mi guardava. «È un bel po' che sei chiusa lì dentro» disse. «Hai bisogno di... uscire?» Annuii. «Anch'io faccio volentieri due passi.» Sembrava di buonumore. Scattò in piedi con agilità sorprendente. Sbirciai con cautela fuori dalla mia tana. «Ti faccio vedere il nostro bagnetto» aggiunse lui. «Ora, meglio che tu sappia che ci toccherà attraversare la... piazza del paese, per così dire. Stai tranquilla. Penso che a questo punto tutti avranno ricevuto il messaggio.» Involontariamente, diede una carezza al fucile. Cercai di deglutire. Il dolore da vescica gonfia era costante, impossibile ignorarlo. Ma perché sfilare nel cuore di un alveare di assassini infuriati? Non poteva portarmi un secchio? Valutò il panico nei miei occhi e increspò le labbra, concentrato. Poi si voltò e iniziò a camminare lungo il corridoio buio. «Seguimi» disse ad alta voce, senza controllare che obbedissi. Evocai l'immagine vivida di Kyle che tornava a cercarmi, e dopo meno di un secondo partii all'inseguimento di Jeb, sgusciando goffa dall'apertura e avanzando a tutta velocità con le gambe rigide per raggiungerlo. Fu meraviglioso e orribile tornare in posizione eretta: il dolore era intenso, ma il sollievo di più. Fui alle sue spalle al termine del corridoio; il buio incombeva oltre l'ovale alto dell'uscita. Incerta, mi voltai verso la piccola lampada che aveva lasciato per terra. Era l'unica luce nella caverna scura. Dovevo portarla io? Si accorse che mi ero fermata e si girò a guardarmi di sottecchi. Feci un
cenno verso la luce e incrociai lo sguardo con il suo. «Lascia stare. Conosco la strada.» Mi offrì la mano. «Ti guiderò io.» Per alcuni secondi fissai la sua mano, ma quando sentii l'urgenza della vescica avvicinai il palmo al suo, sfiorandolo appena... come avrei fatto con un serpente se, per chissà quale motivo, fossi stata costretta a maneggiarlo. Jeb mi guidava nel buio a passo sicuro e veloce. La lunga galleria proseguiva in una serie di curve tortuose, in tutte le direzioni. All'ennesima svolta del percorso, capii di aver perso del tutto l'orientamento. Era senz'altro l'intento di Jeb, lo stesso motivo per cui aveva rinunciato alla lanterna. Non voleva concedermi la possibilità di scoprire una via d'uscita da quel labirinto. Ero curiosa di conoscere l'origine del luogo, come Jeb l'avesse trovato, come vi fossero giunti gli altri. Ma serrai strette le labbra. Il silenzio mi sembrava la scommessa vincente, in quel momento. Non sapevo bene cosa aspettarmi. Qualche giorno di vita in più? Una semplice tregua al dolore? Quale margine mi restava? Di certo non ero pronta a morire, come avevo detto a Melanie; il mio istinto di sopravvivenza ormai era sviluppato come quello di un normale essere umano. Dietro l'ennesimo angolo intravidi le prime luci. Di fronte a noi, una fenditura alta e stretta era accesa dai bagliori di un'altra stanza. Non era luce artificiale, come la lampada della mia grotta. Era troppo bianca, troppo pura. Fianco a fianco era impossibile attraversare la frattura nella roccia. Jeb andò avanti, trascinandomi con sé. Oltrepassato il varco, e abituatami alla luce, sfilai la mano dalla presa leggera di Jeb. La sua unica reazione fu quella di tornare a stringere il fucile. Ci trovavamo in una galleria corta, al cui ingresso scabro e circolare splendeva una luce scintillante. Le pareti erano della solita pietra violacea e bucherellata. Sentivo delle voci. Erano basse, meno intense dell'ultima volta in cui avevo sentito il chiacchiericcio della folla. Nessuno si aspettava di vederci. A stento immaginavo come potessero reagire all'apparizione mia e di Jeb. Avevo le mani fredde e sudate; il mio respiro era affannoso. Mi avvicinai a Jeb il più possibile, evitando di toccarlo. «Tranquilla» mormorò senza voltarsi. «Hanno più paura di te di quanta tu ne abbia di loro.» Difficile crederci. E anche se fosse stato così, sapevo che nel cuore u-
mano la paura si trasformava in odio e violenza. «Baderò che non ti facciano del male» mormorò Jeb, vicino all'uscita. «E comunque, meglio che ti ci abitui.» Avrei voluto chiedergli che senso avessero le sue parole, ma lo vidi sparire oltre la porta. Gli strisciai accanto, a mezzo passo di distanza, cercando di nascondermi il più possibile dietro il suo corpo. L'unica cosa realmente insopportabile dell'attraversamento del locale era il pensiero di perdere di vista Jeb e restare sola e isolata. Un silenzio improvviso accolse il nostro ingresso. Eravamo di nuovo nella caverna luminosa e gigante, la prima in cui mi avevano portata. Quanto tempo era passato? Non ne avevo idea. Il soffitto era ancora troppo scintillante per capire da cosa fosse illuminato. Non me ne ero ancora accorta, ma le pareti non erano compatte: vi si aprivano dozzine di varchi irregolari, accessi ad altre gallerie. Alcuni erano enormi, in altri passava a malapena un uomo; alcuni erano fenditure naturali, altri, se non proprio opera dell'uomo, erano stati perfezionati a mano. In molti ci fissavano impietriti, dai recessi nascosti tra le spaccature. Altri erano all'aperto, immobilizzati nel bel mezzo di un gesto. Una donna era piegata su se stessa, si allacciava le scarpe. Le braccia di un uomo che parlava gesticolando penzolavano a mezz'aria. Un altro uomo dondolava su un piede, sbilanciato dall'arresto improvviso. Atterrò con forza, cercando di restare dritto; il colpo della caduta fu l'unico rumore nello spazio così vasto. La sua eco riempì la sala. Non era giusto sentirmi grata che Jeb stringesse tra le mani quell'arma disgustosa... ma ne fui felice. Sapevo che era l'unica difesa contro un'aggressione sicura. Questi umani non si sarebbero fatti alcuno scrupolo di fronte a Jeb, pur di arrivare a me. Tuttavia, il rischio che ci aggredissero non era scongiurato. Jeb poteva sparare solo un colpo alla volta. L'immagine nella mia mente si fece minacciosa, insopportabile. Cercai di concentrarmi sull'ambiente circostante, che già di per sé faceva paura. Jeb si fermò per un momento, stringendo il fucile al fianco e puntandolo verso l'esterno. Si guardò intorno, come se volesse catturare lo sguardo di tutti i presenti, uno alla volta. Erano meno di venti, e non impiegò molto. Soddisfatto dell'analisi, puntò verso il lato sinistro della caverna. Con il cuore a mille seguii la sua ombra. Non attraversò la caverna in linea retta, ma restò accanto al muro curvo. Restai perplessa finché non notai un grosso riquadro di terra più scura che occupava il centro del suolo. Tutti ne rimanevano lontani. Avevo troppa
paura per chiedermi il perché di quell'anomalia. Mentre seguivamo il contorno della stanza, notai piccoli movimenti. La donna china sulle scarpe si raddrizzò e si voltò per seguirci con lo sguardo. L'uomo che gesticolava incrociò le braccia al petto. Tutti gli sguardi si fecero accigliati, su tutti i volti spuntarono espressioni arrabbiate. Tuttavia, nessuno si avvicinò a noi né aprì bocca. Qualunque cosa Kyle e gli altri avessero raccontato a proposito della discussione con Jeb, l'effetto era quello desiderato dallo zio. Mentre sfilavamo nel bosco di statue umane, riconobbi Sharon e Maggie, che sbirciavano dall'imboccatura ampia di una grotta con espressione impassibile e sguardo freddo. Non guardavano me, ma soltanto Jeb. Lui fece finta di non vederle. Impiegammo parecchio per raggiungere il lato opposto della caverna. Jeb si diresse verso un'uscita di dimensioni medie, nera a contrasto con la parete illuminata. Sentirmi osservata mi fece venire la pelle d'oca, ma non osai guardarmi alle spalle: gli umani erano ancora zitti, ma non sapevo per quanto. Fu un sollievo scivolare nell'oscurità del nuovo passaggio. La mano di Jeb si posò sulla mia spalla per guidarmi, e non la rifiutai. Dietro di noi, il chiacchiericcio non riprese. «È andata meglio di quanto pensassi» mormorò Jeb mentre mi guidava nella grotta. Le sue parole mi sorpresero, e fui lieta di non sapere cosa avesse pensato. Sotto i miei piedi, il suolo iniziò a digradare. Davanti a me, una luce fioca era l'unico rimedio all'oscurità totale. «Scommetto che non hai mai visto niente di simile alla mia casetta.» La voce di Jeb adesso era più alta, ed era tornata affabile. «Niente male, eh?» Fece una breve pausa in attesa della mia risposta, e proseguì. «L'ho trovata negli anni Settanta. Be', è stata lei a trovare me. Caddi dal tetto della stanza grande... probabilmente avrei dovuto morire schiantato, ma sono troppo resistente. Mi ci volle un po' per uscire. Quando ci riuscii ero talmente affamato che quasi addentai una roccia. «All'epoca ero l'unico rimasto al ranch, perciò non l'ho mai mostrata a nessuno. L'ho esplorata tutta, ogni angolo e nicchia, e ne ho intuito il potenziale. Ho deciso che era un bell'asso nella manica, nel caso. Noi Stryder siamo fatti così: mai lasciarci cogliere di sorpresa.» Passammo oltre la luce fioca, che proveniva da un foro grosso come un pugno sul soffitto e disegnava un cerchietto luminoso per terra. Quando ci fu alle spalle, notai un altro punto luminoso in lontananza.
«Sarai curiosa di capire com'è nato tutto questo.» Altra pausa, più breve della precedente. «Io lo ero. Ho fatto un po' di ricerche. Queste gallerie le ha scavate la lava... ci credi? Una volta era un vulcano. Be', immagino che lo sia ancora. Non del tutto spento, come vedrai tra poco. Le caverne e i buchi sono bolle d'aria imprigionate nella lava, che poi si è raffreddata. Ci ho speso un bel po' di lavoro, negli ultimi decenni. In certi casi è stato facile: per scavare le gallerie è bastato un po' di olio di gomito. Altre parti hanno richiesto tanta fantasia. Hai visto il soffitto della stanza grande? Per sistemarlo mi ci sono voluti anni.» Avrei voluto chiedergli perché, ma non riuscivo ad aprire bocca. Il silenzio restava l'opzione più sicura. Il terreno iniziò a digradare ripido. Era scavato a gradini grezzi, ma apparentemente stabili. Jeb mi guidò senza paura. Più scendevamo, più aumentavano calore e umidità. Quando sentii il chiacchiericcio a cui andavamo incontro, mi irrigidii. Jeb mi diede un colpetto sulla mano. «Questa parte ti piacerà. È la preferita di tutti, vedrai.» Un arco ampio, aperto, brillava di luci in movimento. Era dello stesso colore della stanza grande, immacolato, ma scintillava con un ritmo strano, di danza. Come tutto ciò che non riuscivo a capire della caverna, la luce mi spaventò. «Eccoci» disse Jeb con entusiasmo, trascinandomi oltre l'arcata. «Che te ne pare?» 17 La visita Per primo mi colpì il calore. Come un muro di vapore, l'aria umida e spessa mi assalì e si condensò sulla mia pelle. Automaticamente aprii la bocca, nel tentativo di respirare. L'odore era più forte di prima: l'acqua sprigionava quel gusto metallico che sentivo sempre in gola. Il chiacchiericcio e il mormorio di voci sembrava sbucare da ogni angolo e rimbalzare sulle pareti. Aguzzai la vista, nell'ansia di scoprire qualcosa al di là della nuvola ballerina di umidità, di capire da dove venissero le voci. La luce era forte e danzava sul vapore, creando un sipario scintillante che quasi mi accecava. I miei occhi si sforzarono di adattarsi, mentre nel panico stringevo forte la mano di Jeb. Fui sorpresa di non notare alcuna reazione alla nostra comparsa. Forse
nemmeno loro riuscivano a vederci. «È un po' afoso, qui» si giustificò Jeb, facendosi aria con la mano. Parlò con voce rilassata e affabile, come se fossimo soli. E il chiacchiericcio continuò, ignaro. «Non per lamentarmi» aggiunse, «ma sarei morto e stramorto, se non fosse stato per questo posto. La prima volta mi ci sono addirittura perso. Però, se non ci fossero le grotte, non potremmo nasconderci. E senza nascondiglio saremmo tutti morti, no?» Con il gomito fece un gesto ammiccante, complice. «Per com'è strutturato, è il massimo dell'utilità. Non avrei saputo fare di meglio nemmeno se l'avessi progettato e scolpito nel pongo.» La sua risata spazzò via una nuvola di nebbia, e per la prima volta vidi la stanza. Sotto una cupola alta e umida scorrevano due fiumi. Ecco cos'era il chiacchiericcio che mi riempiva le orecchie: acqua che scorreva sopra e sotto la roccia vulcanica. Jeb parlava come se fossimo soli perché lo eravamo. In realtà si trattava di un fiume affiancato da un ruscello. Il ruscello era il più vicino; un nastro argentato sottile e tortuoso, illuminato dall'alto, che sembrava sul punto di inondare le sponde di pietra bassa tra cui fluiva. Dalle sue increspature delicate nasceva un mormorio femminile, acuto. Il gorgoglio maschile, basso, giungeva dal fiume, come le nuvole di vapore denso che affioravano in corrispondenza della parete più lontana. Il fiume era nero e sommerso nel sottosuolo della caverna, rivelato da ampie erosioni arrotondate che punteggiavano la stanza. Le buche erano scure e pericolose, il fiume appena visibile, nella sua corsa vigorosa verso una destinazione invisibile e inimmaginabile. Era rumoroso, caldo e vaporoso come una cascata d'acqua bollente. Dal soffitto incombevano stalattiti lunghe e strette da cui colavano gocce d'acqua che cadevano tra le stalagmiti. Tre di esse si erano unite, formando pilastri neri e sottili tra le due masse d'acqua in movimento. «Devi stare attenta qui» disse Jeb. «La corrente delle sorgenti calde è forte. Se ci cadi dentro, sei andata. Una volta è successo.» Chinò la testa e si fece serio. I turbini neri e veloci del fiume sotterraneo mi apparvero subito orribili. Immaginai di venire risucchiata da quella corrente infuocata, e rabbrividii. Jeb posò con delicatezza una mano sulla mia spalla. «Tranquilla. Guarda dove metti i piedi e andrà tutto bene. Dunque» disse, «la prima grotta là in
fondo è la stanza da bagno. Abbiamo scavato il fondo per ricavarne una bella vasca. Di solito i bagni vanno prenotati, ma nessuno si preoccupa della privacy: là dentro è buio pesto. La stanza è calda, ma l'acqua non scotta come quella delle sorgenti. Vicino alla grotta ce n'è un'altra, collegata da una fenditura che abbiamo allargato quanto basta. Quella è l'ultima stanza lungo il corso del fiume, che poi sparisce sottoterra. Perciò abbiamo deciso di utilizzarla come latrina. Comoda e igienica.» Parlava in tono compiaciuto, come se le creazioni della natura fossero merito suo. Del resto, aveva scoperto e migliorato quel luogo, perciò un briciolo d'orgoglio era più che giustificato. «Non ci piace sprecare le batterie, e quasi tutti conosciamo le strade a memoria, ma visto che per te è la prima volta, puoi farti luce con questa.» Estrasse una torcia dalla tasca e me la offrì. Quando la vidi ripensai all'attimo in cui mi aveva trovata morente nel deserto, quando aveva controllato i miei occhi e capito cosa fossi. Chissà perché, quel ricordo mi intristì. «Non farti venire strane idee, tipo chissà dove porta il fiume o cose del genere. L'acqua si infila sottoterra e ci rimane» mi ammonì. Sembrava in attesa di una risposta all'avvertimento, perciò annuii in segno di conferma. Sfilai lentamente la torcia dalla sua mano, attenta a non fare movimenti bruschi che potessero spaventarlo. Rispose con un sorriso. Seguii le sue indicazioni in fretta: il rumore dell'acqua che scorreva rendeva ancora meno sopportabile la sensazione di disagio. Era strano sentire Jeb così lontano. E se qualcuno si fosse nascosto nelle caverne, sicuro che prima o poi mi ci avrebbe trovata? Jeb avrebbe sentito il rumore dello scontro nella cacofonia fluviale? Con la torcia illuminai tutti gli angoli della stanza da bagno, in cerca degli indizi di un'imboscata. Le ombre strane e tremolanti che proiettava non mi confortavano, ma non trovai alcuna conferma alle mie paure. La vasca da bagno somigliava a una piccola piscina, nera come l'inchiostro. Per rendersi invisibili bastava rimanere sott'acqua trattenendo il respiro... Corsi verso la fenditura lunga e sottile in fondo alla stanza, per sfuggire alle mie visioni. Lontana da Jeb, ero quasi sopraffatta dal panico, non riuscivo a respirare normalmente; non sentivo quasi nulla, con le orecchie soffocate dal battito del mio cuore. Infine, tornai alla stanza dei fiumi a passo svelto, quasi di corsa. Ritrovare Jeb nella stessa posa solitaria di poco prima fu un balsamo
guaritore per i miei nervi a pezzi. Il battito del cuore e il respiro rallentarono. Non capivo perché quel pazzo umano riuscisse a confortarmi tanto. Forse, come aveva detto Melanie, era colpa di quell'epoca disperata. «Non è poi così squallido, no?» chiese, con un sorriso fiero. Risposi con un altro cenno del capo e gli restituii la torcia. «Queste caverne sono un dono prezioso» disse mentre tornavamo verso la galleria buia. «Senza, un gruppo numeroso come il nostro non potrebbe sopravvivere. Magnolia e Sharon sono riuscite a cavarsela molto bene a Chicago, ma nascondersi in due è già un bell'azzardo. È proprio bello vivere di nuovo in comunità. Mi fa sentire umano dalla testa ai piedi.» Mentre salivamo la scala grezza, verso l'uscita, mi prese di nuovo per il gomito. «Scusa per, ehm, l'alloggio che ti abbiamo assegnato. È il luogo più sicuro che mi sia venuto in mente. Strano che i ragazzi ti abbiano trovato così in fretta.» Sospirò. «Be', Kyle è molto... motivato. Ma sono sicuro che andrà tutto liscio. Magari ti troveremo un posto più ospitale. Ci penserò... quando ci sono io non sentirti in dovere di stare schiacciata in quel buco. Puoi sederti in corridoio con me, se preferisci. Con Jared, invece...» Lasciò cadere il discorso. Ascoltavo le sue scuse, meravigliata; mai avrei sperato in tanta gentilezza, in una compassione per il nemico che mai avrei associato alla sua specie. Sfiorai la mano che mi stringeva il gomito, timida, per suggerirgli che avevo capito e che non avrei creato problemi. Sapevo che Jared avrebbe di gran lunga preferito non avermi tra i piedi. Jeb tradusse subito la mia comunicazione muta. «Brava ragazza» disse. «In un modo o nell'altro, ce la caveremo. Doc potrà dedicarsi a guarire gli umani. Sei molto più interessante da viva, secondo me.» I nostri corpi erano così vicini che si accorse subito del mio tremore. «Non preoccuparti. Per adesso Doc non ti infastidirà.» Non smettevo di tremare. Jeb poteva offrirmi soltanto il presente. Niente mi garantiva che Jared non avrebbe deciso che carpire il mio segreto fosse più importante che salvare il corpo di Melanie. Certo, una fine come quella mi avrebbe fatto rimpiangere di non essere rimasta fra le mani di Ian. Non puoi sapere quanto tempo rimane, aveva detto Melanie, giorni prima, quando il mio mondo era ancora sotto controllo. Con l'eco delle sue parole ancora in mente, rientrai nella sala grande, la piazza centrale della comunità umana di Jeb. Era affollata come la prima sera; tutti ci osservavano con odio, squadravano Jeb come fosse un tradito-
re, e me come un'assassina. Tenevo lo sguardo basso sul suolo roccioso. Con la coda dell'occhio notai che Jeb aveva ripreso a stringere il fucile. Era soltanto questione di tempo. Lo sentivo nell'atmosfera di odio e paura: Jeb non poteva proteggermi ancora per molto. Fu un sollievo infilarmi nella fenditura stretta, impaziente di tornare al labirinto nero e tortuoso, al mio nascondiglio angusto. Almeno là avevo una speranza di restare sola. Alle mie spalle riecheggiò un sibilo furioso, come in un nido di serpenti infastiditi. Sperai che Jeb potesse condurmi lungo il labirinto a passo più veloce. Lui ghignò a mezza voce. Più gli stavo accanto, più mi sembrava strano. Il suo senso dell'umorismo mi lasciava perplessa almeno quanto le sue intenzioni. «Ogni tanto ci si annoia qui, sai com'è» mormorò, rivolto forse a me, forse a se stesso. Difficile capirlo. «Forse quando la pianteranno di sentirsi scocciati, si renderanno conto che è al loro divertimento che sto pensando.» Il nostro sentiero serpeggiava nel buio. Non lo trovai affatto familiare. Forse Jeb aveva preso una strada diversa per confondermi. Mi parve di impiegare più tempo rispetto all'andata, ma alla fine intravidi la luce fioca blu della torcia spuntare dietro l'ultima curva. Mi preparai al peggio, nel timore di ritrovare Jared. Se c'era, era arrabbiato. Necessaria o no, non avrebbe affatto gradito la mia gitarella con Jeb. Girato l'angolo, vidi una sagoma che, accasciata contro la parete accanto alla torcia, gettava un'ombra lunga verso di noi, ma non era Jared. Strinsi forte il braccio di Jeb, in uno spasmo automatico di paura. Poi osservai per bene la sagoma. Era più piccola di me e magra. Malgrado la luce fioca della lanterna, capii che aveva la pelle abbronzata dal sole, e che i capelli lunghi e trascurati gli coprivano il viso. Mi tremarono le ginocchia. Cercai di rimanere in equilibrio aggrappandomi al braccio di Jeb. «Be', che diamine!» esclamò lui, palesemente irritato. «Meno di ventiquattr'ore dura un segreto, quaggiù? Sant'Iddio, adesso mi arrabbio! Branco di suocere...» Le parole si persero in un brontolio. Non cercai nemmeno di comprenderle: ero impegnata nella battaglia più cruenta della mia vita, di tutte le vite che avevo vissuto. Sentivo Melanie in ogni cellula del corpo. Le mie terminazioni nervose pizzicavano, a contatto con la sua presenza familiare. Le labbra tremavano,
cercando di aprirsi. Mi sporsi con il busto verso la sagoma nel corridoio, perché le mie braccia si rifiutavano. Melanie aveva imparato parecchio, nelle poche occasioni in cui le avevo ceduto o avevo perso il controllo di me stessa, e fui costretta a una vera e propria lotta, così dura da imperlarmi la fronte di sudore. Ma non stavo più morendo nel deserto. Né mi sentivo debole, frastornata e presa in contropiede dall'apparizione di qualcuno che credevo di aver perso; sapevo che un momento come quello sarebbe potuto arrivare. Il mio corpo era teso, quasi guarito: avevo ripreso le forze. Il vigore fisico rafforzava anche il controllo, la determinazione. La respinsi dal mio corpo, la privai di ogni appiglio, la ricacciai nei recessi della mente e ve la incatenai. La sua resa fu immediata e totale. Reagì con un sospiro, quasi un gemito di dolore. La vittoria scatenò in me uno strano senso di colpa. Ormai avevo capito che Melanie era molto più che una semplice ospite refrattaria, capace soltanto di complicarmi inutilmente la vita. Eravamo diventate compagne, persino confidenti, nelle ultime settimane, da quando la Cercatrice ci aveva fatto alleare contro un nemico comune. Nel deserto, minacciata dal coltello di Kyle, era stato un sollievo - se proprio dovevo morire - pensare che Melanie non sarebbe morta per mano mia; in quegli attimi era già diventata più di un corpo, per me. Ma ora la situazione era precipitata. Mi pentii di averle fatto del male. Ma era necessario, e lei non sembrava rendersene conto. Una parola sbagliata, un gesto azzardato, e ci avrebbero giustiziate senza perdere tempo. Le sue reazioni erano troppo esagerate ed emotive. Ci avrebbe cacciato nei guai. "Devi fidarti di me" le dissi. "Sto soltanto cercando di salvarci la vita. So che non vuoi credere che i tuoi umani ci possano fare del male..." "Ma è Jamie" sussurrò lei. Il sentimento irresistibile che la legava a quel ragazzo mi tagliò di nuovo le gambe. Cercai di guardare con distacco l'adolescente imbronciato appoggiato alla parete, a braccia conserte. Cercai di considerarlo uno sconosciuto e di calibrare la mia reazione, o l'assenza di reazione. Tentativo inutile. Era Jamie, era bello, e le mie braccia - le mie, non quelle di Melanie - non desideravano altro che stringerlo. Le lacrime mi gonfiarono gli occhi e scesero sulle guance. Sperai che almeno alla luce fioca fossero invisibili.
«Jeb» disse Jamie. Un saluto burbero. Mi concesse uno sguardo sfuggente. Che vocione! Davvero era cresciuto così tanto? Mi resi conto, con un doppio senso di colpa, di essermi persa il suo quattordicesimo compleanno. Melanie mi mostrò in quale giorno cadeva: lo stesso in cui per la prima volta avevo sognato Jamie. Durante la veglia Melanie aveva fatto il possibile per custodire il proprio dolore e annebbiare i ricordi, così da proteggere il ragazzo, ma i sogni l'avevano smascherata. E io avevo scritto quella email alla Cercatrice. Rabbrividii incredula di fronte al mio cinismo. «Che fai qui, ragazzo?» domandò Jeb. «Perché non me l'hai detto?» ribatté Jamie. Jeb restò in silenzio. «È un'idea di Jared?» insistette il ragazzo. Jeb fece un sospiro. «Okay, adesso sai tutto. Cosa ci hai guadagnato? Volevamo solo...» «Proteggermi?» Da quando era così brusco? Colpa mia? Certo che sì. Nella mia mente, Melanie iniziò a singhiozzare. La sua voce mi distraeva... si sovrapponeva a quelle di Jeb e Jamie. «Bene, Jamie. Niente protezione per te, allora. Cosa vuoi?» Il ragazzo parve disorientato da una resa così fulminea. Il suo sguardo saettò verso Jeb, poi su di me, mentre si sforzava di trovare le parole giuste. «Voglio... parlare con lei, con... la creatura» disse infine. L'incertezza inasprì la sua voce. «Non è una chiacchierona» rispose Jeb, «ma se vuoi provare sei il benvenuto, ragazzo.» Jeb si liberò dal mio braccio e, dando le spalle alla parete più vicina, vi si appoggiò e si lasciò andare sul pavimento. Armeggiò fino a trovare una posizione comoda, con il fucile ben saldo in grembo. Chinò la testa all'indietro e chiuse gli occhi. Pochi secondi, e parve addormentarsi. Io restai dove mi aveva lasciato, cercando inutilmente di non guardare Jamie in faccia. Il modo in cui mi fissava - con rabbia, desideroso di mostrarsi coraggioso e maturo, ma anche pieno di paura e dolore che illuminavano i suoi occhi scuri - scatenò il pianto di Melanie e un fremito nelle mie ginocchia. Non volevo rischiare nuovamente di crollare, così mi avvicinai lenta alla
parete opposta a quella dove si trovava Jeb e mi lasciai scivolare a terra, rannicchiandomi con le ginocchia al petto e cercando di farmi il più piccola possibile. Jamie mi guardò con cautela, poi fece quattro passi lenti in avanti, per avvicinarsi. Un'occhiata furtiva a Jeb, che ancora non si era mosso, né aveva aperto gli occhi, e si inginocchiò al mio fianco. All'istante la sua espressione si fece intensa, sembrava più maturo che mai. Il mio cuore batteva per l'uomo triste nel volto del ragazzino. «Tu non sei Melanie» disse a voce bassa. Era più difficile non parlare con lui, perché ero io a desiderarlo. Dopo una breve pausa, feci cenno di no. «Però sei dentro il suo corpo.» Altra pausa, e annuii. «Cos'è successo alla tua... alla sua faccia?» Scrollai le spalle. Non ne avevo idea, ma potevo immaginarlo. «Chi è stato?» insistette. Incerto, avvicinò un dito fino quasi a toccarmi il collo, sotto la guancia. Restai immobile, non sentivo nessun bisogno di ritrarmi da quella mano. «La zia Maggie, Jared e Ian» elencò Jeb, annoiato. Entrambi scattammo spaventati. Jeb non si era mosso, gli occhi chiusi. Tranquillo com'era, sembrava aver risposto alla domanda nel sonno. Jamie attese pochi istanti, e tornò a fissarmi con la stessa espressione intensa. «Non sei Melanie, ma conosci i suoi ricordi e tutto il resto, vero?» Annuii di nuovo. «Sai chi sono io?» Cercai di ricacciare le parole in gola, ma mi sgusciarono dalle labbra. «Sei Jamie.» Non potei fare a meno di pronunciare il suo nome come se lo stessi accarezzando. Sobbalzò, stupito che avessi spezzato il mio silenzio. Poi annuì. «Bene» rispose, sussurrando. I nostri sguardi si spostarono su Jeb, ancora immobile, e tornarono a incrociarsi. «Allora sai cosa le è successo?» domandò. Trasalii e annuii lentamente. «Voglio saperlo» bisbigliò. Scossi la testa. «Voglio saperlo» ribadì. Gli tremavano le labbra. «Non sono un bambi-
no. Dimmelo.» «Non è... piacevole» sussurrai, incapace di tacere. Era davvero difficile negare al ragazzo ciò che voleva. Le sue sopracciglia dritte e nere si contrassero e si alzarono sugli occhi sbarrati. «Per favore» sussurrò. Diedi un'occhiata a Jeb. Forse sbirciava verso di noi, ma non riuscii a capirlo. La mia voce fu lieve come un respiro. «Qualcuno l'ha vista entrare in un luogo vietato. Sapevano che c'era qualcosa di strano. Hanno chiamato i Cercatori.» A quel nome, ebbe un sussulto. «I Cercatori hanno tentato di convincerla ad arrendersi. Lei è scappata. Quando l'hanno intrappolata, si è gettata dentro il vano di un ascensore.» Rifuggii da quel pensiero doloroso, e il viso abbronzato di Jamie impallidì. «Non è morta?» sussurrò. «No. I nostri Guaritori sono molto bravi. L'hanno salvata in fretta. Poi mi hanno inserita dentro di lei. Speravano che venissi a sapere come era potuta sopravvivere tanto a lungo.» Non era mia intenzione parlare così tanto; la mia bocca si chiuse all'istante. Forse Jamie non badò al lapsus, ma gli occhi di Jeb si aprirono lentamente e mi fissarono. Il resto del suo corpo restò immobile, e Jamie non notò il cambiamento. «Perché non l'hai lasciata morire?» domandò. Deglutì con forza; un singhiozzo minacciava di spezzargli la voce. Ascoltarlo fu un dolore tremendo, perché non era la reazione di un bambino spaventato dall'ignoto, ma l'agonia piena e consapevole di un adulto. Difficile trattenermi dall'accarezzarlo. Avrei voluto abbracciarlo e scongiurarlo di non intristirsi. Serrai i pugni e cercai di concentrarmi sulla sua domanda. Gli occhi di Jeb saettarono sulle mie mani e sul mio viso. «La decisione non è stata mia» mormorai. «Quando è accaduto mi trovavo ancora nello spazio, dentro una cella di ibernazione.» Jamie ebbe un altro moto di sorpresa. Non si aspettava una risposta simile, lo vedevo alle prese con un'emozione nuova. Lanciai uno sguardo a Jeb; i suoi occhi erano accesi di curiosità. La stessa curiosità che, mitigata da un filo di prudenza, ebbe la meglio anche in Jamie. «Da dove vieni?» domandò. Non riuscii a non sorridere della sua curiosità involontaria. «Da lontano. Da un altro pianeta.»
«Quale...» stava per chiedere, ma venne interrotto da un'altra domanda. «Che diamine succede?» urlò Jared, impietrito dalla furia non appena imboccò l'ultima curva del tunnel. «Maledizione, Jeb! Avevamo detto che...» Jamie si drizzò di scatto. «Non è stato Jeb a portarmi qui. Sei tu che avresti dovuto.» Jeb fece un sospiro e si alzò lentamente. Il fucile gli cadde dal grembo e rotolò per terra, fermandosi a pochi centimetri da me. Me ne allontanai, spaventata. Jared reagì diversamente. Balzò verso di me, percorrendo il corridoio in pochi passi. Mi rannicchiai contro il muro, coprendomi il viso con le braccia. Sbirciai da dietro il gomito e lo vidi sollevare l'arma da terra. «Vuoi farci ammazzare tutti?» urlò a Jeb, ricacciandogli il fucile in grembo. «Calmati, Jared» rispose Jeb stanco. Afferrò l'arma con una mano. «Non toccherebbe questo arnese nemmeno se glielo lasciassi a disposizione per una notte intera. Non capisci?» Puntò la canna del fucile contro di me, spaventandomi. «Questa qui non è una Cercatrice.» «Stai zitto, Jeb, stai zitto!» «Lascialo stare» strillò Jamie infuriato. «Non ha fatto niente di male.» «Tu!» ribatté Jared urlando. «Vattene di qui immediatamente, oppure aiutami!» Jamie strinse i pugni e restò dov'era. Anche Jared chiuse i pugni. Io restai immobile e sconvolta. Da quando si urlavano contro in quel modo? Tra loro c'era un legame più forte di qualsiasi parentela di sangue. Jared non avrebbe mai colpito Jamie... impossibile! Avrei voluto fare qualcosa, ma non sapevo cosa. Attirare la loro attenzione significava scatenare altra rabbia. per una volta, Melanie fu più calma di me. "Non farà mai del male a Jamie" osservò fiduciosa. "Non è possibile." Li guardai, uno di fronte all'altro come nemici, e fui presa dal panico. "Non avremmo mai dovuto venire qui. Guarda quanto li abbiamo resi infelici" dissi triste. «Non dovevi nascondermelo» disse Jamie a denti stretti. «E non dovevi farle del male.» Aprì una mano e indicò il mio volto. Jared sputò per terra. «Non è Melanie. Se n'è andata per sempre, Jamie.» «Quella è la sua faccia» insistette Jamie. «E il suo collo. Non ti importa
proprio niente dei lividi?» Jared lasciò cadere le braccia. Chiuse gli occhi e inspirò a fondo. «Jamie, o te ne vai subito e mi lasci un po' di spazio, oppure ti costringerò io ad andartene. Non scherzo. Più di così non posso, okay? Sono al limite. Perciò, potremmo continuare la conversazione in un altro momento?» Riaprì gli occhi: erano pieni di dolore. Jamie lo guardò, e la rabbia svanì pian piano dal suo viso. «Scusa» mormorò dopo qualche istante. «Me ne vado... ma non ti prometto che non tornerò.» «Non ho la forza di pensarci adesso. Vattene. Per favore.» Jamie scrollò le spalle. Mi lanciò un'ultima occhiata inquisitoria e se ne andò con il suo passo lungo e svelto, di cui sentii subito la nostalgia. Jared guardò Jeb. «Anche tu» disse, senza scomporsi. Jeb alzò gli occhi al cielo. «Secondo me ti sei preso una pausa troppo breve, sinceramente. La terrò d'occhio...» «Vai.» Jeb si rabbuiò, pensieroso. «Okay. Certo.» Imboccò il corridoio. «Jeb?» chiamò Jared. «Sì?» «Se ti chiedessi di spararle adesso, lo faresti?» Jeb camminava piano, non si voltò, ma le sue parole giunsero nitide. «Sarei costretto. Io rispetto le mie regole. Perciò non chiedermelo, a meno che tu non ne sia convinto.» Sparì nel buio oltre la curva. Jared lo vide andarsene. Prima che potesse inchiodarmi con lo sguardo, mi infilai nel mio rifugio scomodo e mi rannicchiai nell'angolo più lontano. 18 La noia Passai il resto della giornata, con una breve eccezione, nel silenzio assoluto. L'eccezione arrivò dopo qualche ora, quando Jeb portò da mangiare a me e a Jared. Mentre faceva scivolare il vassoio nella piccola grotta, mi sorrise come per scusarsi. «Grazie» sussurrai. «Prego.»
Sentii il grugnito di Jared, irritato dal breve scambio. Quella fu la sua unica reazione in tutta la giornata. Sapevo che c'era, ma nemmeno un sospiro giunse a darmi una conferma. Fu una giornata molto lunga, scomoda e noiosa. Provai tutte le posizioni possibili, ma non riuscii mai a stiracchiarmi per bene. La base della schiena iniziava a intorpidirsi. Io e Melanie pensammo parecchio a Jamie. Più che altro temevamo che il nostro arrivo lo avesse rovinato, che fosse per lui una vera ferita. Cos'era al confronto una promessa mantenuta? Il tempo perse significato. Poteva essere l'alba come il tramonto... non avevo riferimenti, sepolta nel cuore della terra. Io e Melanie esaurimmo gli argomenti di discussione. Facevamo scorrere apatiche i nostri ricordi comuni, come fossimo davanti alla TV senza voglia di guardare niente di preciso. Feci un sonnellino ma non sprofondai nel sonno, per via della scomodità. Quando finalmente vidi tornare Jeb, avrei voluto baciare le sue guance. Si chinò verso l'entrata con il sorriso sulle labbra. «Pronta per un'altra passeggiata?» domandò. Annuii, impaziente. «Ci vado io» ruggì Jared. «Dammi il fucile.» Jeb annuì. «Vai avanti» disse. Uscii, rigida e malferma, e per restare in equilibrio presi la mano che Jeb mi offriva. Con un moto di disgusto, Jared guardò altrove. Stringeva forte il fucile, le nocche bianche sulla canna. Vederlo tra le sue mani non mi rincuorava. Mi metteva più a disagio rispetto a quando lo teneva Jeb. Jared non mi fece alcuna concessione. Scattò verso la galleria buia senza aspettare che lo raggiungessi. Camminava in silenzio, senza guidarmi, perciò ero costretta a procedere con una mano a ripararmi il viso e l'altra a sfiorare le pareti, per non scontrarmi con le rocce. Caddi due volte sul fondo irregolare. Malgrado non volesse aiutarmi, prima di continuare aspettò che fossi di nuovo in piedi e pronta a ripartire. A un certo punto, lungo una sezione dritta del tunnel, mi avvicinai troppo, e con la mano che tastava il buio gli sfiorai la schiena, seguii il profilo delle sue spalle, senza accorgermi che non era una parete di roccia. Saltò in avanti, ritraendosi dalle mie dita con un sibilo di rabbia. «Scusa» sussurrai, sentendomi avvampare nel buio. Non rispose, ma in compenso accelerò il passo, e seguirlo divenne ancora più arduo. Restai perplessa quando, infine, vidi apparire un po' di luce davanti a
me. Avevamo preso una strada diversa? Questo non era il bagliore della caverna principale. Era più smorzato, pallido e argenteo. Ma la fenditura da cui vi si accedeva sembrava la stessa... soltanto quando penetrai nello spazio enorme e riecheggiante capii a cosa fosse dovuta la differenza. Era notte: la luce che brillava fioca dall'alto replicava quella della luna, anziché del sole. Sfruttai l'illuminazione non più accecante per osservare il soffitto, nel tentativo di carpirne il segreto. Dall'alto, a grandissima distanza, un centinaio di piccole lune stemperava la propria luce fievole verso il suolo lontano. Le piccole lune erano sparpagliate a gruppi irregolari, vicini e lontani. Scossi la testa. Malgrado potessi guardare direttamente la luce, continuavo a non capirla. «Andiamo» ordinò Jared arrabbiato, qualche metro più avanti. Trasalii, e scattai subito. Ero dispiaciuta di essermi distratta. Sentivo che parlarmi era un enorme fastidio per lui. Nella stanza dei fiumi la luce era bassa, come nella caverna grande, ma con soltanto una ventina di lune in miniatura. Jared serrò la mascella e fissò il soffitto, mentre camminavo incerta verso la stanza con la piscina d'inchiostro. Probabilmente, se fossi inciampata e caduta tra le correnti del fiume caldo, scomparendo per sempre, lui l'avrebbe interpretato come un generoso intervento del destino. "Forse ci rimarrebbe male" commentò Melanie, "se cadessimo." "Non credo. Forse ripenserebbe a quanto ha sofferto la prima volta che ti ha persa, ma se fossi io a sparire ne sarebbe felice." "Perché non ti conosce" sussurrò Melanie, e poi svanì come avesse perso le forze. Restai impietrita e sorpresa. Non ne ero certa, ma avevo la sensazione che mi avesse appena fatto un complimento. «Sbrigati» abbaiò Jared nell'altra stanza. Cercai di obbedire, per quanto mi concedevano l'oscurità e la mia paura. Quando tornammo, Jeb ci aspettava accanto alla lanterna blu; ai suoi piedi c'erano due cilindri tozzi e due rettangoli irregolari. Non li avevo notati, prima. Forse era andato a prenderli durante la nostra assenza. «Stanotte ci dormi tu qui, o io?» chiese a Jared, pacifico. Jared osservò le sagome ai piedi di Jeb. «Io» rispose, secco. «E mi basta un tappetino.» Un sopracciglio folto di Jeb si alzò. «Non è una di noi, Jeb. Me l'hai sbolognata tu... perciò, smamma.» «Non è neanche un animale, ragazzo mio. Non tratteresti così neanche
un cane.» Jared non rispose. Serrò la mascella. «Non avrei mai immaginato che fossi così crudele» disse piano Jeb. Ma poi sollevò un cilindro, infilò un braccio nella tracolla e lo prese in spalla; poi si cacciò sottobraccio un rettangolo: il cuscino. «Scusa, piccola» disse passandomi davanti e dandomi un colpetto sulla spalla. «Piantala!» ringhiò Jared. Jeb fece spallucce e filò via. Prima che sparisse, fui lesta a tornare dentro la cella. Mi nascosi nel cuore dell'oscurità, raggomitolandomi stretta nella speranza che Jared non potesse vedermi. Anziché celarsi, silenzioso e invisibile, nel corridoio esterno, lui stese il tappetino davanti all'imboccatura della mia prigione. Sistemò il cuscino più volte, forse per mostrarmi di averne uno. Si sdraiò e incrociò le braccia al petto. Era l'unica parte di lui che riuscivo a vedere: le braccia incrociate e mezza pancia. La sua pelle era la stessa, scura e dorata, che da sei mesi popolava i miei sogni. Che stranezza, vedere un sogno realizzarsi a due passi da me. Surreale. «Così non mi sfuggirai» mi ammonì. La sua voce si era fatta più morbida, sonnolenta. «Se ci provi...» sbadigliò, «ti uccido.» Non reagii. L'avvertimento sembrava un insulto. Perché avrei dovuto sfuggirgli? Dove potevo andare? Tra le braccia dei barbari che mi aspettavano, e non chiedevano altro che un gesto stupido da parte mia? Oppure, ammesso che riuscissi a fuggire, nello stesso deserto che mi aveva quasi cotta a puntino, l'ultima volta che avevo tentato di attraversarlo? Chissà di cosa mi pensava capace. Quale piano pensava avessi in serbo, per demolire il loro piccolo mondo? Sembravo davvero così potente? Non aveva intuito quanto fossi patetica e indifesa? Capii che dormiva sodo quando iniziò ad avere certi piccoli sussulti che Melanie ricordava. Si agitava nel sonno soltanto quando era nervoso. Guardai le sue dita stringersi e rilassarsi, e pensai che forse sognava di stringermele intorno al collo. I giorni seguenti - forse una settimana intera: impossibile conteggiarli furono molto tranquilli. Jared era un muro di silenzio tra me e il resto del mondo, buono o cattivo che fosse. L'unico rumore era quello del mio respiro, dei miei movimenti; l'unico panorama era la grotta nera che mi circon-
dava, il cerchio di luce smorzata, il solito vassoio con le stesse razioni, le apparizioni fugaci e rubate di Jared; l'unico contatto era con le pietre bucherellate contro la mia pelle; gli unici sapori erano l'acqua amarognola, il pane duro, la zuppa sciapa, le radici legnose. Era una combinazione molto strana di terrore costante, scomodità dolorosa e monotonia esasperante. Delle tre, la più difficile da sopportare era la noia assassina. La mia prigione era una cella di soppressione dei sensi. Io e Melanie, insieme, temevamo di impazzire. "Entrambe ci sentiamo una voce in testa" commentò. "Non è mai un buon segno." "Finiremo per dimenticarci come si parla" risposi preoccupata. "Quanto tempo è passato dall'ultima volta?" "Quattro giorni fa hai ringraziato Jeb, quando ci ha portato da mangiare, e lui ha risposto 'prego'. Be', mi sembra che fosse quattro giorni fa. Quattro sonni fa, questo è certo." Abbozzò un sospiro. "Smetti di mangiarti le unghie... ci ho messo anni a perdere il vizio." Ma le unghie lunghe e affilate erano un fastidio. "Non penso che valga la pena di preoccuparci dei brutti vizi." Jared impedì a Jeb di portarci da mangiare. Qualcuno lo depositava in fondo al corridoio e Jared andava a prenderlo. Erano le solite razioni - pane, zuppa e verdura - due volte al giorno. Di tanto in tanto c'era qualcosa in più per Jared, cibo in scatola di marche che conoscevo. Chissà come avevano fatto gli umani a mettere le mani su quelle prelibatezze. Non mi aspettavo che me ne offrisse un po', figuriamoci, ma a volte sospettavo che mi stuzzicasse di proposito. Una delle mie rare distrazioni era vederlo ingozzarsi di dolcetti, che divorava in maniera sempre ostentata, come quando, la prima notte, aveva sistemato il cuscino. Una volta Jared aprì un pacchetto di patatine al formaggio - lo sbandierò, come al solito - e un profumo intenso inondò la mia grotta... delizioso, irresistibile. Ne mangiò una lentamente, per farmi sentire ogni singolo morso. Il mio stomaco rispose con un ruggito, e risi di me stessa. Non ridevo da tanto; cercai inutilmente di ricordare da quanto: lo strano attacco di isteria macabra che mi aveva colta nel deserto non era affatto una «risata». Nemmeno prima di naufragare nella caverna c'era stato granché di divertente. Ma per chissà quale motivo, sentire il mio stomaco contorcersi per una patatina al formaggio mi sembrò ridicolo, e ricominciai a ridere. Stavo per impazzire, ne ero certa.
Forse offeso dalla mia reazione, Jared si alzò e scomparve. Dopo qualche istante sentii che aveva ricominciato a mangiare le patatine. Sbirciai fuori dal buco e lo vidi seduto nell'ombra, all'altro capo del corridoio, di spalle. Tornai all'interno, per paura che si accorgesse di essere spiato. Da quel momento si installò all'altro capo della stanza. Tornava a sdraiarsi di fronte alla prigione soltanto per dormire. Due volte al giorno - o due volte a notte, perché mi ci portava sempre quando non c'era nessuno in giro - andavo nella stanza dei fiumi; era il momento migliore, malgrado la paura, perché in quell'unica occasione non ero costretta alla scomodità e alle sofferenze che la mia caverna angusta mi imponeva. Ogni volta che vi tornavo, strisciando, le sentivo peggiorare. In quella settimana, durante le ore del sonno, ricevemmo quattro visite. La prima fu di Kyle. Lo scatto improvviso con cui Jared si alzò in piedi mi svegliò. «Fuori di qui» sbottò, puntando il fucile. «Sto solo controllando» disse Kyle. La sua voce, pur lontana, era potente e grezza quanto bastava a non scambiarlo per il fratello. «Temevo che non ci fossi. O che dormissi troppo sodo.» Jared rispose alzando il fucile. Kyle se ne andò, seguito dalla sua risata. In due occasioni non capii chi fosse. Ancora Kyle, forse Ian, o qualcuno di cui non conoscevo il nome. L'unica costante era lo scatto di Jared, fucile alla mano contro l'intruso, che mi risvegliava. Non sentii alcuna parola. Chiunque venisse a «controllare», non badò a fare conversazione. E dopo le intrusioni, Jared tornava a dormire svelto. A me occorreva più tempo per calmarmi. La quarta visita fu una novità. Ancora non dormivo, quando sentii Jared svegliarsi e drizzarsi sulle ginocchia con un gesto agile. Si issò con il fucile tra le mani e un insulto fra le labbra. «Tranquillo» mormorò qualcuno da lontano. «Vengo in pace.» «Non ho bisogno di niente, grazie» ribatté Jared con un ruggito. «Voglio soltanto parlare.» La voce si avvicinò. «Sei sempre sepolto qui, ti perdi tutte le discussioni importanti... il tuo punto di vista ci manca.» «Come no» disse Jared, sarcastico. «E dai, abbassa il fucile. Se avessi deciso di assalirti, mi sarei portato quattro aiutanti, stavolta.» Dopo un breve silenzio fu Jared a parlare, con una sfumatura di humour
nero. «Come sta tuo fratello?» domandò, quasi allegro. Provocare il visitatore lo rilassava. Si sedette, adagiandosi contro la parete a metà strada tra la prigione e il termine del corridoio, ma senza mollare il fucile. Sentivo male al collo, come se intuissi la vicinanza delle mani che mi avevano strangolata e segnata. «È ancora arrabbiato per via del naso» disse Ian. «... Be', non è la prima volta che glielo rompono. Gli dirò che ti dispiace.» «Invece no.» «Lo so. A nessuno dispiace picchiare Kyle.» Risero entrambi, a mezza voce; tra loro c'era un cameratismo che mi sembrava fuori luogo, dal momento che Jared aveva un fucile puntato più o meno contro Ian. Ma dopotutto, i legami che si stringevano in quel luogo disperato dovevano essere fortissimi. Più forti del sangue. Ian si sedette sul tappetino, accanto a Jared. Vedevo la sagoma del suo profilo, nera sullo sfondo della luce blu. Notai il suo naso perfetto, dritto, aquilino, degno di una scultura. Era il segno che gli altri lo tolleravano più del fratello il cui naso era sempre rotto? O che era più bravo a schivare i colpi? «E allora che vuoi, Ian? Non le mie scuse a nome di Kyle, immagino.» «Jeb te l'ha detto?» «Non so di che parli.» «Hanno sospeso la caccia. Persino i Cercatori.» Jared non fece commenti, ma sentii la tensione improvvisa nell'atmosfera. «Li abbiamo tenuti d'occhio, ci aspettavamo qualche novità, ma non ci sono mai sembrati particolarmente ansiosi. La ricerca non si è mai allontanata dalla zona in cui abbiamo abbandonato la macchina, e negli ultimi giorni era ovvio che cercassero un cadavere, non un sopravvissuto. Poi, due sere fa, un colpo di fortuna: la pattuglia in ricognizione ha lasciato della spazzatura all'aperto e un branco di coyote ha invaso il loro campo base. Uno di loro è arrivato in ritardo e ha colto gli animali di sorpresa. I coyote lo hanno attaccato e spinto per qualche centinaio di metri nel cuore del deserto, poi gli altri lo hanno sentito urlare e sono andati a salvarlo. Ovviamente, i Cercatori erano armati. Ci hanno messo poco a spaventare i coyote, la vittima non aveva ferite gravi, ma a quanto pare l'incidente ha schiarito loro le idee sul possibile destino della nostra ospite.» Chissà come facevano a spiare i Cercatori sulle mie tracce... e a vederli così bene. L'idea mi fece sentire stranamente vulnerabile. Era un'immagine
fastidiosa: lo sguardo invisibile degli umani sulle odiate anime. Sentii un brivido lungo la schiena. «Così hanno preso armi e bagagli e se ne sono andati. I Cercatori hanno rinunciato a cercare. Tutti sono tornati a casa. Nessuno la cerca più.» Il suo profilo si voltò verso di me, e io mi raggomitolai a terra, sperando di nascondermi nel buio. «Immagino che l'abbiano dichiarata ufficialmente morta, se gestiscono queste faccende come facevamo noi. Jeb non fa altro che ripetere "te l'avevo detto" a chiunque sopporti di stargli vicino.» Jared borbottò qualcosa di incoerente; l'unica parola che colsi fu il nome di Jeb. Poi fece un sospiro profondo, sbuffò e disse: «Va bene, allora. Fine della storia.» «Pare proprio di sì.» Ian tacque per qualche istante, poi aggiunse: «A parte... be', forse è un dettaglio da poco». Jared scattò di nuovo; non gli andava di ricevere le informazioni un po' alla volta. «Va' avanti.» «L'unico che ci sta rimuginando sopra è Kyle, sai anche tu com'è fatto.» Jared grugnì il proprio assenso. «Sei tu ad avere l'istinto più fine per questo genere di cose; volevo il tuo parere. Ecco perché sono venuto a rischiare la vita nella zona ad accesso limitato» disse Ian laconico, e la sua voce tornò seria. «Ecco, ce n'è una... una Cercatrice, senza dubbio... che si porta in giro una Glock.» Impiegai un secondo per intuire il significato di quella parola così poco familiare a Melanie. Quando capii che Ian si riferiva a un'arma da fuoco, e ne parlava con una certa nostalgia e invidia, mi sentii leggermente nauseata. «Kyle è stato il primo ad accorgersi che aveva qualcosa di strano. Non era più importante delle altre: di sicuro non era tra quelle che prendevano le decisioni. Be', dava consigli a destra e a manca, ma nessuno la considerava. Peccato non poterla sentire...» Sentii un altro brivido sulla pelle. «Comunque» proseguì Ian, «quando hanno interrotto le ricerche, la cosa non le è andata giù. Hai presente come sono sempre... gentili i parassiti? Questa era strana... è stata la cosa più simile a un litigio che abbia mai visto. Non un litigio vero, perché l'unica ad avere qualcosa da ridire era lei, ma sono sicuro che l'insoddisfatta ce l'avesse con loro. Il gruppo di comando dei Cercatori non se l'è filata, e se n'è andato.» «E l'insoddisfatta?» domandò Jared. «Ha preso una macchina, è andata verso Phoenix, ma si è fermata a metà
strada. Poi è tornata a Tucson. Poi è ripartita per l'ovest.» «Sempre in cerca.» «Oppure, molto confusa. Si è fermata in quel chiosco, ai piedi del Picacho. Ha parlato con il parassita che ci lavora, anche se l'avevano già interrogato.» Jared grugnì qualcosa. Era interessato, concentrato sul mistero da risolvere. «A quel punto ha deciso di andare in escursione sulla montagna... la piccola stupida. Dev'essere bruciata viva, vestita di nero dalla testa ai piedi.» Uno spasmo agitò il mio corpo e mi spinse ancora più vicina alla pietra. Le mie mani si alzarono d'istinto a proteggermi il viso. Sentii un sibilo echeggiare nello spazio angusto, e solo quando svanì capii che ero stata io a emetterlo. «E quello cos'era?» domandò Ian, stupito. Sbirciai tra le dita e li vidi entrambi chinarsi nel buco, verso di me. Il volto di Ian era scuro, quello di Jared illuminato in parte, i suoi tratti duri come la pietra. Volevo essere immobile, invisibile, ma il mio corpo era scosso da fremiti violenti e incontrollabili. Jared si chinò ad afferrare la lampada ai suoi piedi. «Guardala negli occhi» mormorò Ian. «Ha paura.» Potevo vedere entrambi i loro volti, ma osservavo soltanto Jared. Mi guardava arcigno, concentrato. Probabilmente stava riflettendo sulla frase di Ian, in cerca di ciò che aveva innescato la mia reazione. Il mio corpo non smetteva di tremare. "Non rinuncerà mai" disse Melanie, triste. "Lo so, lo so" risposi nello stesso tono. Da quando il nostro disgusto si era trasformato in paura? Il mio stomaco annodato sussultava. Perché non voleva considerarmi morta, come tutti gli altri? Avrebbe continuato a cercarmi anche dopo la mia vera morte? «Chi è la Cercatrice in nero?» Jared mi abbaiò contro all'improvviso. Mi tremavano le labbra, ma non risposi. Il silenzio era la scelta più sicura. «Sai parlare, lo so» ruggì Jared. «Con Jeb e Jamie parli. E adesso anche con me.» Entrò nella bocca della caverna, sbuffando di sorpresa di fronte allo sforzo necessario per non cadere. Suo malgrado, fu costretto a inginocchiarsi sotto il soffitto basso. Si sentiva meglio dominandomi dall'alto.
Non avevo vie di fuga. Ero già nascosta nell'angolo più lontano. Nella grotta c'era spazio a malapena per tutti e due. Sentivo il suo respiro sulla pelle. «Dimmi quello che sai» ordinò. 19 L'abbandono «Chi è la Cercatrice in nero? Perché non ha abbandonato la ricerca?» L'urlo di Jared era assordante, e mi circondò con la sua eco. Mi coprii la testa con le mani, in attesa che mi colpisse. «Ehm... Jared?» mormorò Ian. «Forse è meglio che mi lasci...» «Non t'impicciare!» La voce di Ian si fece improvvisamente vicina, lo sentii sfregare la roccia mentre tentava di seguire Jared nello spazio ristretto. «Non vedi che è troppo spaventata per parlare? Lasciala stare per un sec...» Sentii qualcosa grattare per terra quando Jared si mosse, e poi un tonfo. Ian imprecò. Sbirciai tra le dita e vidi che Ian era sparito, e Jared mi dava le spalle. Ian sputò per terra, lamentandosi. «Con questo sono due» grugnì, e capii che il colpo diretto a me era stato deviato dalla sua intrusione. «Il terzo è già pronto» borbottò Jared, e si voltò verso di me prendendo con sé la lanterna; l'aveva afferrata e usata per colpire Ian. Dopo tanto buio, la caverna parve quasi accendersi. Jared riprese a parlare, guardandomi bene in faccia grazie alla nuova illuminazione, scandendo per bene ogni parola. «Chi è la Cercatrice.» Lasciai cadere le mani e incrociai il suo sguardo spietato. Non volevo far soffrire qualcun altro a causa del mio silenzio, nemmeno colui che già aveva cercato di uccidermi. Non era così che funzionava la tortura. L'espressione di Jared cambiò quando si accorse della mia. «Non voglio farti del male» disse piano, poco sicuro di sé. «Ma esigo una risposta.» Non era la domanda giusta... né un segreto che dovevo proteggere a tutti i costi. «Parla» insistette, lo sguardo cupo di frustrazione e sconforto. Ero così codarda? Mi sarebbe piaciuto crederci, credere che la mia paura del dolore fosse più forte di tutto. La vera ragione che mi spinse ad aprire bocca era molto più patetica.
Volevo fare contento l'essere umano che tanto mi odiava. «La Cercatrice» dissi, con voce secca e rauca. Lui mi interruppe, impaziente. «Sappiamo già che è una Cercatrice.» «No, non è una qualsiasi» sussurrai. «È la mia Cercatrice.» «In che senso tua?» «È assegnata a me, segue me. È il motivo della...» riuscii a interrompermi prima di pronunciare la parola che avrebbe potuto condannarmi a morte. Prima di poter dire «nostra». La verità definitiva, che lui avrebbe scambiato per la bugia definitiva... un colpo basso ai suoi desideri più oscuri, al suo dolore più intimo. Non avrebbe mai capito che il suo desiderio poteva avverarsi. Mi avrebbe considerata una bugiarda pericolosa, che lo guardava con gli occhi che un tempo lui stesso aveva amato. «Di cosa?» insistette. «Il motivo della mia fuga» sospirai. «Il motivo per cui sono venuta qui.» Non era la verità, ma nemmeno una bugia. Jared mi fissò a bocca mezza aperta, mentre cercava di dare un senso alle mie parole. Con la coda dell'occhio vidi Ian sbirciare di nuovo dall'apertura, gli occhi azzurri accesi e sbarrati dalla sorpresa. Sulle sue labbra pallide c'era una macchia di sangue scuro. «Sei scappata da una Cercatrice? Ma se sei una di loro!» Jared cercò di ricomporsi e di tornare all'interrogatorio. «Perché ti avrebbe inseguita? Cosa voleva?» Deglutii in modo innaturale e rumoroso. «Voleva te. Te e Jamie.» La sua espressione si irrigidì. «E tu hai cercato di portarla qui?» Scossi la testa. «No... io...» Come potevo spiegarglielo? Non avrebbe mai accettato la verità. «Cosa?» «Io... non volevo dirglielo. Non mi piace.» Sbatté gli occhi, confuso. «Sbaglio o voi dovreste andare tutte d'accordo?» «In teoria sì» confessai, e arrossii di vergogna. «Chi ti ha guidata fin qui?» domandò Ian, dietro la spalla di Jared. Jared aggrottò le ciglia, ma continuò a guardare me. «Nessuno; non sapevo... ho soltanto seguito le linee. Le linee sull'album. Le ho disegnate alla Cercatrice... ma non sapevamo cosa fossero. Secondo lei sono strade, percorsi.» Non riuscivo a smettere di parlare. Cercai di rallentare il discorso, per evitare lapsus. «Cosa vuol dire che non sapevate cosa fossero? Ora sei qui.» La mano di
Jared mi si avvicinò, ma cadde prima di percorrere la breve distanza. «Io... ero in difficoltà con i miei... con i... suoi ricordi. Non capivo... c'erano cose a cui non potevo accedere. C'erano dei muri. Perciò mi hanno assegnato la Cercatrice, in attesa che sbloccassi ciò che mancava.» Troppo, troppo. Mi maledissi per aver parlato tanto. Ian e Jared si scambiarono uno sguardo. Quel che stavo raccontando non aveva precedenti. Non si fidavano, ma volevano credere che fosse possibile. Lo desideravano troppo. E ciò li impauriva. La voce di Jared fu una sferzata improvvisa e feroce. «Sei riuscita ad accedere alla mia casetta?» «Mi ci è voluto parecchio.» «E l'hai detto alla Cercatrice.» «No.» «No? Perché?» «Perché... quando me ne sono ricordata... non ho voluto dirglielo.» Lo sguardo di Ian era impietrito. La voce di Jared cambiò e si fece bassa, quasi tenera. Molto più pericolosa di quando aveva urlato. «Perché non hai voluto dirglielo?» Serrai forte la mascella. Non era il segreto, ma per lui restava un segreto importante. In quel momento, più che con l'istinto di sopravvivenza, la mia determinazione a tapparmi la bocca aveva a che fare con uno stupido e involontario senso d'orgoglio. Non ero disposta a confessare il mio amore all'uomo che mi disprezzava. Vide lo sguardo di sfida lampeggiarmi negli occhi, e forse capì cosa gli occorreva per ottenere una risposta. Decise di lasciar perdere, o forse di risparmiarsi per un altro momento, conservare il tentativo nel caso non potessi aggiungere ulteriori risposte all'interrogatorio. «Perché non sei riuscita ad accedere a tutto? È... normale?» Altra domanda pericolosa. Per la prima volta raccontai una bugia spudorata. «È stata una brutta caduta. Il corpo era danneggiato.» Per me non era facile mentire, e il tentativo non andò a segno. Sia Jared che Ian furono insospettiti dalla mia voce. Jared chinò la testa di lato; Ian alzò un sopracciglio, nero come l'inchiostro. «Perché la Cercatrice non ha rinunciato come gli altri?» domandò Ian. All'improvviso mi sentii esausta. Sapevo che avrebbero potuto resistere per tutta la notte, che volevano farlo, a patto che continuassi a rispondere, e che prima o poi avrei commesso un errore. Mi accasciai contro il muro e
chiusi gli occhi. «Non lo so» mormorai. «Non è come le altre anime. È... fastidiosa.» Ian fece una risata... che mi sorprese. «E tu? Tu sei come le altre... anime?» domandò Jared. Aprii gli occhi e lo guardai, stanca, per qualche istante. Che domanda stupida, pensai. Poi strinsi forte gli occhi, posai la testa tra le ginocchia e la coprii con le braccia. Forse Jared capì che ne avevo abbastanza di parlare. Grugnì qualcosa, si allungò verso l'uscita della caverna prendendo con sé la lampada, e poi si stiracchiò sbadigliando piano. «Non l'avrei mai detto» sussurrò Ian. «Bugie, dalla prima all'ultima» rispose Jared a mezza voce. Sforzandomi riuscivo a sentirli. Probabilmente non si rendevano conto di quanto l'eco risuonasse nella mia grotta. «Però non riesco ancora a capire cosa voglia farci credere... dove voglia portarci.» «Secondo me non ha mentito. Be', a parte una cosa. Te ne sei accorto?» «Fa parte del numero.» «Jared, hai mai incontrato un parassita capace di mentire? Esclusi i Cercatori, ovviamente.» «E lei è una di loro.» «Dici sul serio?» «È la spiegazione più logica.» «Questa ragazza... questa creatura non somiglia a nessuno dei Cercatori che conosco io. Se un Cercatore sapesse come trovarci, verrebbe qui con un esercito.» «E non troverebbe niente. Invece lei... la creatura, ce l'ha fatta, no?» «Ha rischiato la vita già una dozzina...» «Però respira ancora, no?» Calò un lungo silenzio. Talmente lungo che iniziai a pensare di allungarmi, ma non volevo fare rumore. Ero esausta e desideravo che Ian se ne andasse, per poter dormire. «Penso che ne parlerò con Jeb» sussurrò infine Ian. «Oh, idea grandiosa.» La voce di Jared era gonfia di sarcasmo. «Ti ricordi la prima notte? Quando si è messa tra te e Kyle? Assurdo, eh?» «Cercava soltanto di sopravvivere, di scappare.» «Permettendo a Kyle di ucciderla? Bel piano.» «Ha funzionato.»
«Il fucile di Jeb ha funzionato. Dici che lo ha sentito arrivare?» «Ci stai pensando troppo, Ian. Così fai il suo gioco.» «Secondo me ti sbagli. Non so perché... ma secondo me in fondo vuole che la ignoriamo.» Sentii Ian alzarsi. «Sai qual è la cosa davvero assurda?» domandò. «Cosa?» «Mi sento in colpa - da morire - quando vedo che cerca di difendersi da noi. Con quei segni neri sul collo.» «Non puoi lasciarti influenzare.» A un tratto, Jared sembrava irritato. «Non è umana. Non dimenticarlo.» «Non sarà umana, ma ciò non significa che non sente il dolore» commentò Ian mentre la sua voce si perdeva in lontananza. «Che non soffra come una ragazza dopo che qualcuno - noi - l'ha picchiata.» «Datti una calmata» sibilò Jared alle sue spalle. «Ci vediamo, Jared.» Dopo che Ian se ne fu andato, a Jared occorse parecchio per rilassarsi; per un po' passeggiò in circolo davanti alla grotta, poi si sedette tra me e la luce, mormorando qualcosa di incomprensibile. Rinunciai ad attendere che prendesse sonno e mi stiracchiai quanto potevo sul fondo circolare della cella. Il rumore lo fece scattare, e riprese a borbottare in solitudine. «In colpa» mormorò, con aria di disprezzo. «Si sta facendo influenzare. Come Jeb, come Jamie. Non può andare avanti così. Che stupidaggine lasciarla vivere.» Sentii la pelle d'oca sulle braccia, ma cercai di ignorarla. Lasciarmi prendere dal panico ogni volta che lui meditava di uccidermi mi toglieva qualsiasi briciolo di tranquillità. Mi sdraiai prona per piegare la schiena all'insù, lui fece un altro scatto, poi sprofondò nel silenzio. Ero certa di sentirlo ancora brontolare, quando finalmente cedetti al sonno. Al mio risveglio vidi Jared seduto sul tappetino, con la testa appoggiata alle ginocchia. Avevo la sensazione di non aver dormito per più di un paio d'ore, ma ero troppo indolenzita per riprendere sonno. E poi ero crucciata per la visita di Ian, preoccupata che Jared si adoperasse ancora di più per isolarmi, dopo la strana reazione dell'amico. Perché mai sprecare quelle parole sul senso di colpa? Se era capace di un sentimento simile, perché andava in giro a strangolare le persone? Anche Melanie era arrabbiata con Ian, e incerta sulle conseguenze dei suoi scrupoli.
Pochi minuti dopo, il nostro tormento ebbe fine. «Sono io» annunciò la voce di Jeb. «Non agitarti.» Jared puntò il fucile. «Dai, ragazzo, uccidimi pure. Dai.» Di parola in parola, la voce si avvicinava. Con un sospiro, Jared abbassò l'arma. «Per favore, vattene.» «Devo parlarti» disse Jeb, sedendosi e sbuffando di fronte a Jared. «Ehilà» disse, con un cenno verso di me. «Sai che non ti sopporto quando fai così» borbottò Jared. «Già.» «Ian mi ha detto dei Cercatori...» «Lo so. Ne ho appena parlato con lui.» «Bene. Cosa vuoi, allora?» «Non è questione di cosa voglio io. Ma delle necessità di tutti. Siamo quasi a corto di provviste. C'è bisogno che qualcuno vada a fare scorta.» «Ah» borbottò Jared; si aspettava una discussione diversa. Dopo una breve pausa, rispose: «Manda Kyle». «Okay» rispose Jeb tranquillo e si appoggiò al muro, pronto a rialzarsi in piedi. Jared fece un sospiro. Forse il suo consiglio era stato un bluff. Quando vide che Jeb lo aveva preso sul serio, si rimangiò le parole. «No. Kyle no. È troppo...» Jeb ridacchiò. «Ha rischiato di combinare un bel guaio l'ultima volta che è uscito da solo, eh? Non è il massimo della prudenza. Che ne dici di Ian?» «Ian è fin troppo prudente.» «Brandt?» «Non è adatto ai viaggi lunghi. Poche settimane, e gli viene il panico. Fa troppi errori.» «Okay, allora dimmi tu chi.» I secondi passavano; di tanto in tanto sentivo Jared prendere fiato, come fosse sul punto di rispondere, e ogni volta sbuffava e stava zitto. «Ian e Kyle assieme?» propose Jeb. «Potrebbero compensarsi a vicenda.» Jared grugnì. «Come l'ultima volta? Va bene, ho capito, tocca a me.» «Sei il migliore» commentò Jeb. «Il tuo arrivo qui ci ha cambiato la vita.» Io e Melanie annuimmo; la cosa non ci sorprendeva. "Jared è un mago. Io e lui siamo stati perfettamente al sicuro, finché ci
siamo lasciati guidare dal suo istinto; non abbiamo mai rischiato che ci prendessero. Se fosse andato lui a Chicago sono sicura che avrebbe annusato la trappola." Jared mi indicò con un gesto della spalla. «E di lei...?» «La terrò d'occhio io appena posso. E suppongo che porterai Kyle con te. Per facilitare le cose.» «Allontanare Kyle e tenerla d'occhio quando puoi non basterà. Prima o poi questa... creatura scapperà.» Jeb scrollò le spalle. «Farò del mio meglio. Più di così non posso.» Jared annuì lentamente. Calò il silenzio. Dopo qualche minuto, Jeb iniziò a fischiettare qualcosa a mezza voce. Infine, Jared sbuffò con tutto il fiato che aveva. «Parto stasera.» Parlò con lentezza e sollievo. La sua voce cambiò, non sembrava più sulla difensiva. Forse stava tornando a ciò che era prima di rivedermi. Pronto a togliersi il peso di una responsabilità per accoglierne un'altra, più gradita. Rinunciava a salvarmi la vita, lasciava che la natura - o forse la giustizia sommaria - facesse il proprio corso. Tornato lui, e morta io, non avrebbe accusato nessuno. Non avrebbe portato alcun lutto. Questo significavano le sue parole. Conoscevo la metafora sproporzionata con cui gli umani descrivevano la tristezza: «cuore spezzato». Melanie stessa ricordava di averla usata. L'avevo sempre ritenuta un'iperbole, una convenzione. Perciò non mi aspettavo di provare dolore al petto. La nausea sì, il respiro mozzato in gola sì, e anche le lacrime che mi bruciavano gli occhi. Ma cos'era lo squarcio che sentivo all'altezza del petto? Una reazione insensata e irrazionale. Non solo mi sentivo squarciata, ma anche strapazzata, sballottata in tutte le direzioni. Perché anche il cuore di Melanie si spezzò, e fu una sensazione distinta dalla mia, come se un organo in più fosse spuntato a compensare la nostra doppia consapevolezza. A doppia mente, doppio cuore. E doppio dolore. "Se ne va" singhiozzò. "Non lo rivedremo mai più." Nemmeno lei lo dubitava: stavamo per morire. Avrei voluto piangere con lei, ma qualcuno doveva pur mantenere un po' di lucidità. Mi morsi una mano per stroncare i singhiozzi. «Penso sia la cosa migliore» disse Jeb. «Ho bisogno di organizzarmi...» La mente di Jared era già lontana, lon-
tanissima da quel corridoio claustrofobico. «Qui ci penso io. Fai buon viaggio, e stai attento.» «Grazie. Ci vedremo quando ci vedremo, Jeb.» «Già.» Jared restituì il fucile a Jeb, si alzò, si spolverò i vestiti, distratto. Poi se ne andò, percorrendo il corridoio con il suo solito passo svelto, distratto da chissà cosa. Nessuno sguardo verso di me, nessun pensiero al mio destino. Restai ad ascoltare il rumore dei suoi passi finché non svanirono. Poi, senza badare alla presenza di Jeb, mi coprii la faccia con le mani e scoppiai a piangere. 20 La liberazione Jeb mi lasciò singhiozzare senza interrompermi. Ascoltò i miei gemiti ma non fece commenti. Fu solo quando mi calmai, e rimasi in silenzio per mezz'ora buona, che aprì bocca. «Siamo ancora sveglie?» Non risposi. Ormai mi ero abituata al mutismo. «Hai voglia di uscire a stiracchiarti?» propose. «Mi fa male la schiena solo a pensare a quello stupido buco.» Stranamente, malgrado la settimana intera di silenzio esasperante, non avevo voglia di compagnia. Ma non potevo rifiutare un'offerta come quella. Prima che me ne rendessi conto, le mie mani mi trascinarono verso l'uscita. Jeb era seduto a gambe incrociate sul tappetino. Mi aspettavo una reazione, mentre mi sgranchivo braccia e gambe, ma teneva gli occhi chiusi. Come quando Jamie era venuto a trovarmi, sembrava addormentato. Quanto tempo era passato dalla visita di Jamie? Come stava? Il mio cuore, già indolenzito, palpitò di dolore. «Va meglio?» domandò Jeb aprendo gli occhi. Scrollai le spalle. «Andrà tutto bene, stai tranquilla.» Un gran sorriso spuntò sul suo volto. «A proposito di quello che ho detto a Jared... be', non è stata proprio una bugia, perché se la vedi da una certa angolazione è la verità, ma da un'altra angolazione, ecco, più che la verità gli ho detto quello che voleva sentirsi dire.» Lo guardai perplessa; non avevo capito una parola.
«Comunque sia, Jared ha bisogno di prendersi una pausa. Non da te, piccola» aggiunse svelto, «ma dalla situazione. La lontananza gli darà una nuova prospettiva.» Chissà come faceva a scegliere sempre le parole e le frasi più giuste, con me. Ma soprattutto, perché si preoccupava di non ferirmi con le parole, o di placare il mio mal di schiena? La sua gentilezza, malgrado tutto, riusciva a spaventarmi, perché era incomprensibile. Se non altro le azioni di Jared erano coerenti. Anche i tentativi di omicidio di Kyle e Ian, la bonaria impazienza del dottore di farmi del male erano reazioni logiche. La gentilezza no. Cosa voleva da me Jeb? «Non abbatterti» mi incoraggiò. «Guarda il lato positivo. Jared la stava mettendo giù troppo dura, e ora che per un po' sarà fuori dai giochi, per te sarà più sopportabile.» Corrugai le sopracciglia, mentre cercavo di capire dove volesse arrivare. «Ti faccio un esempio» proseguì. «Di solito usiamo questo spazio come deposito. Quando Jared e i ragazzi torneranno, avranno bisogno di un posto in cui collocare la merce. Quindi, penso che sia il caso di trovarti un nuovo alloggio. Un po' più grande, magari? Con un letto?» Fece un altro sorriso, mentre cercava di lusingarmi. Restai ad aspettare che nascondesse la carota immaginaria e mi dicesse che era uno scherzo. Invece i suoi occhi - color jeans scolorito - si riempirono di uno sguardo delicatissimo. Qualcosa, nella sua espressione, mi fece tornare il nodo in gola. «Non sei obbligata a tornare dentro il buco, piccola. Il peggio è passato.» Capii di non poter dubitare di quello sguardo compassionevole. Per la seconda volta in un'ora, presi la testa tra le mani e scoppiai in lacrime. Jeb si alzò e mi accarezzò la spalla, goffo. Vedermi piangere sembrava metterlo a disagio. «Tranquilla, tranquilla» mormorò. Riuscii a controllarmi. Quando mi asciugai gli occhi e abbozzai un sorriso, fece un cenno di approvazione. «Brava ragazza» disse, e mi diede un'altra carezza. «Ora dobbiamo resistere fino a quando saremo sicuri che Jared è lontano e non ci possa vedere.» Fece un sorriso complice. «E poi ci divertiamo!» Ricordai che la sua idea di divertimento, di solito, somigliava a quella di «scontro armato». Ridacchiò della mia espressione. «Non preoccuparti. Mentre aspettiamo,
è meglio che ti riposi un po'. Scommetto che persino quel tappetino striminzito ti sembrerà comodo.» Il mio sguardo indugiò tra il suo viso e il materassino. «Fai pure» disse. «Hai l'aria di una che ha bisogno di una bella dormita. Ti farò io la guardia.» Commossa, con gli occhi ancora umidi, mi abbandonai a terra e posai la testa sul cuscino. Non era un letto di piume, ma mi sentii in paradiso. Mi stiracchiai per bene, puntando i piedi e stendendo le dita delle mani. Sentii scrocchiare tutte le articolazioni. Poi mi abbandonai sul tappetino. Quasi lo sentivo abbracciarmi, cancellare ogni indolenzimento. Feci un sospiro. «Sono contento» mormorò Jeb. «Sapere che in casa tua c'è qualcuno che sta male è come avere il prurito e non riuscire a grattarsi.» Si accomodò per terra a pochi metri da me e iniziò a canticchiare qualcosa. Poche note, e sprofondai nel sonno. Quando mi svegliai sapevo di aver dormito a lungo, più di quanto fossi mai riuscita, da quando ero laggiù. Senza spasmi né spaventi a interrompermi. Mi sarei sentita bene, se il cuscino non mi avesse ricordato che Jared era partito. Aveva ancora il suo odore. Ed era buono, diverso dal mio. "Torniamo a sognare" sospirò Melanie, desolata. Ricordavo il sogno a malapena, ma sapevo che vi era apparso Jared, come ogni volta che riuscivo a dormire abbastanza sodo da sognare. «Buongiorno, piccola» disse Jeb, che sembrava su di giri. Sollevai le palpebre pesanti per guardarlo. Era rimasto seduto contro la parete tutta la notte? Non sembrava stanco, ma all'improvviso mi sentii in colpa per aver occupato la posizione migliore. «Pare che i ragazzi siano lontani» disse entusiasta. «Ti va di fare un giro?» Con un gesto automatico accarezzò il fucile che gli penzolava dalla spalla. Sbarrai gli occhi e lo fissai incredula. Un giro? «E dai, fifona. Nessuno ti darà fastidio. Prima o poi dovrai imparare la strada, no?» Mi offrì una mano per sollevarmi. La afferrai con un gesto automatico, frastornata mentre cercavo di capire il senso delle sue parole. Imparare la strada? Perché? E cosa voleva dire «prima o poi»? Quanto si aspettava che resistessi? Mi fece alzare in piedi e mi indicò di procedere. Avevo dimenticato la sensazione di percorrere le gallerie buie guidata da una mano. Era facile, quasi non dovevo concentrarmi per camminare.
«Vediamo» mormorò Jeb. «Forse è meglio l'ala destra. Ti sistemiamo in un alloggio dignitoso. Poi le cucine...» Continuò a progettare le tappe del giro, fino a quando non oltrepassammo la fenditura stretta che si apriva sulla galleria illuminata, la quale sfociava nell'ancora più luminosa stanza centrale. Quando il rumore delle voci ci raggiunse, mi sentii la gola secca. Jeb non smetteva di chiacchierare, senza rilevare, forse di proposito, il mio terrore. «Scommetto che oggi sono spuntate le carote» disse, mentre mi guidava nella piazza principale. La luce mi accecava, non vedevo nessuno ma sentivo tanti sguardi addosso. Il silenzio improvviso fu minaccioso come sempre. «Già» rispose Jeb a se stesso. «Per me è sempre un bel vedere. Un verde come questo è una delizia per gli occhi.» Si fermò e mi invitò a osservare. Mi sforzai di scrutare dove indicava, e vidi che oltre a noi c'era un manipolo di persone che ci fissava con sguardo ostile. Per fortuna erano impegnate. Il quadrato ampio e scuro che occupava il centro della grossa caverna non era più scuro. Metà si era acceso di verde, come aveva detto Jeb. Sì, era bello. E straordinario. Ecco perché nessuno attraversava mai quello spazio. Era un orto. «Carote?» sussurrai. «La metà che è appena spuntata. Nell'altra ci sono gli spinaci. Tra qualche giorno dovrebbero spuntare.» Tutti i presenti erano tornati al lavoro sbirciando verso di me di tanto in tanto, ma perlopiù concentrati sul proprio compito. Ora che avevo riconosciuto l'orto, era più facile comprendere il senso dei loro gesti, e della grande botte con le ruote, o dei tubi di gomma. «State irrigando?» sussurrai di nuovo. «Esatto. Con questo caldo, secca subito.» Annuii. Immaginavo che fosse ancora presto, ma già sudavo. Il calore che gravava su di noi rendeva l'atmosfera soffocante. Cercai di osservare ancora una volta il soffitto, ma era troppo luminoso per guardarlo. Tirai una manica a Jeb e sbarrai gli occhi di fronte alla luce incandescente. «Cos'è?» Jeb sorrise, entusiasta della mia curiosità. «Un trucco di quelli che fanno i maghi... con gli specchi. Sono centinaia. Mi ci è voluto un bel po' per portarli lassù. Vedi, nel soffitto ci sono soltanto quattro aperture, ma a me serviva più luce di quanta ne arrivava. Che te ne pare?»
Mi guardò, impettito e fiero. «Geniale» sussurrai. «Stupefacente.» Jeb sorrise e annuì, lieto della mia reazione. «Andiamo avanti» suggerì. «C'è un sacco da fare, oggi.» Mi guidò verso un'altra galleria, un tunnel ampio, naturale, che partiva dalla caverna grande. Era territorio nuovo, per me. Sentii i muscoli bloccarsi; procedevo rigida, e piegavo le ginocchia a fatica. A parte il colpetto con cui mi sfiorò la mano, Jeb non badò al mio nervosismo. «Da questa parte ci sono più che altro alloggi e qualche magazzino. Le gallerie sono vicine alla superficie, perciò è stato facile illuminarle.» Indicò una fenditura stretta e luminosa sul soffitto del tunnel. Irradiava una macchia bianca, grossa quanto una mano. Raggiungemmo un ampio bivio... peggio che un bivio, perché le ramificazioni erano troppe. Un groviglio tentacolare di strettoie. «Terzo da sinistra» disse, e mi guardò ansioso. «Terzo da sinistra?» «Sì. Non dimenticarlo. Quaggiù e facile perdersi, non saresti al sicuro se accadesse. Ti accoltellerebbero, piuttosto che darti l'indicazione giusta.» Rabbrividii. «Grazie» mormorai sarcastica. Rise, come divertito dalla mia risposta. «Inutile ignorare la realtà. Dirlo ad alta voce non peggiora le cose.» Nemmeno le migliorava, ma evitai di commentare. Iniziavo quasi a divertirmi, ed era bello poter fare conversazione. Tutto sommato, la compagnia di Jeb mi incuriosiva. «Uno, due, tre» contò, e poi mi portò verso il terzo corridoio da sinistra. Passammo davanti a entrate tondeggianti, protette da una varietà di porte improvvisate. Alcune erano coperte da lembi di tessuto fantasia; altre da fogli di cartone tenuti assieme con del nastro isolante. Un buco aveva due porte vere - una di legno rosso, l'altra di metallo grigio - appoggiate sulla soglia. «Sette» contò Jeb, e si fermò davanti a un passaggio non troppo grande, alto poco più della mia testa. La sua privacy era protetta da un paravento verde giada: bello, una specie di divisorio di lusso. Sulla seta spiccava un motivo ricamato a fiori di ciliegio. «Per adesso è l'unico posto che mi viene in mente. L'unico abbastanza decente da poterci abitare. Per qualche settimana resterà vuoto, e quando dovremo restituirlo ci inventeremo qualcos'altro.» Spostò il paravento, e una luce più intensa di quella del corridoio ci ac-
colse. La stanza che mi si aprì davanti mi diede una strana sensazione di vertigine, forse perché era molto più alta che larga. Era come entrare in una torre o in un silo, non che vi fossi mai stata, ma quello fu il paragone di Melanie. Il soffitto era un labirinto di crepe. Come edere di luce, le fenditure giravano in cerchio fino quasi a incontrarsi. Il che mi sembrava pericoloso, instabile. Ma Jeb non mostrò alcun timore delle grotte, mentre mi accompagnava. Per terra c'era un materasso matrimoniale, e quasi un metro di distanza fra tre dei suoi lati e la parete. A giudicare dai due cuscini e dalle due lenzuola, stropicciati in forme diverse, la stanza era abitata da una coppia. Una grossa asta di legno - simile al manico di un rastrello - era fissata in orizzontale, sulla parete più lontana, ad altezza spalle, infilata in due buchi del groviera roccioso. Qualcuno vi aveva appeso una manciata di magliette e due paia di jeans. Accanto all'attaccapanni improvvisato c'era uno sgabello di legno, ai piedi del quale stavano ammassati dei tascabili sciupati. «Di chi è?» domandai a Jeb, sottovoce. Era ovvio che quella stanza apparteneva a qualcun altro. «Uno dei ragazzi in escursione. Per un po' staranno lontani. Prima che tornino ti troveremo un posto.» Non mi andava: non la stanza, ma l'idea di viverci. La presenza del proprietario era forte, malgrado i suoi pochi beni personali. Chiunque fosse, di certo non sarebbe stato lieto di ospitarmi. Fu come se Jeb mi avesse letto nel pensiero, o forse la mia espressione fu fin troppo eloquente. «Calma, calma» disse. «Non preoccuparti. Siamo a casa mia, e questa è solo una delle tante stanze degli ospiti. Decido io chi lo è e chi no. In questo momento, sei mia ospite e ti offro questa stanza.» Continuavo a non esserne entusiasta, ma non volevo offendere Jeb. Giurai di non toccare nulla, a costo di dormire sul pavimento. «Be', andiamo avanti. Non dimenticare: terzo da sinistra, settima entrata.» «Paravento verde» aggiunsi. «Brava.» Assieme a Jeb tornai indietro, verso la caverna grande con l'orto, e percorrendone il perimetro raggiungemmo la galleria più ampia. Quando passammo oltre gli addetti all'irrigazione, quelli si irrigidirono e si voltarono, timorosi di avermi alle spalle.
La galleria era molto luminosa, la luce arrivava a intervalli troppo regolari per non essere artificiale. «Qui si arriva ancora più vicini alla superficie. È più secco, ma anche più caldo.» Me ne accorsi quasi immediatamente. Anziché al vapore, mi sentivo cotta al forno. L'aria però era meno pesante e odorosa di chiuso. Sentivo il profumo della sabbia del deserto. In lontananza udivo altre voci. Cercai di proteggermi dall'inevitabile reazione. Se Jeb era deciso a trattarmi come... come un'umana, come un visitatore gradito, mi ci dovevo abituare. Non c'era motivo di lasciarmi prendere di continuo dalla nausea. Tuttavia, il mio stomaco iniziò a sussultare di infelicità. «Da questa parte c'è la cucina» mi disse Jeb. Sulle prime pensai che ci trovassimo nell'ennesima galleria affollata di persone. Mi strinsi contro il muro, cercando di restare a distanza. La cucina era un corridoio lungo, molto più alto che largo, come la mia nuova stanza. La luce era intensa e calda, proveniente da buchi di grandi dimensioni. «Ovviamente, di giorno non si può cucinare. Sai com'è, il fumo... Perciò, fino al tramonto la usiamo come mensa.» Ogni conversazione cessò all'istante, e tutti ascoltarono le parole di Jeb. Cercai di nascondermi dietro di lui, che non smetteva di camminare. Avevamo disturbato la colazione, o forse il pranzo. Gli umani - a occhio e croce una ventina - erano molto vicini. Non come nella caverna grande. Avrei voluto tenere lo sguardo basso, ma non potevo fare a meno di lanciare occhiate nella stanza. Pronta a tutto. Sentivo il mio corpo prepararsi alla fuga, ma dove sarei scappata non lo sapevo. Addossati alle pareti del corridoio c'erano alti blocchi rocciosi, perlopiù massi di pietra vulcanica, grezza e violacea, saldati assieme da una sostanza di colore più chiaro, forse cemento. Lo strato più alto dei blocchi era fatto di pietra diversa, di colore più simile al marrone, e piatta. Anch'essa era saldata dalla malta grigia. Il prodotto finale era una superficie relativamente regolare, un piano d'appoggio o un tavolo. Gli umani ci si sedevano o lo utilizzavano come punto d'appoggio. Riconobbi le pagnotte, sospese a metà strada fra il tavolo e le loro bocche impietrite, incredule di fronte a Jeb e alla sua compagna di esplorazione. Alcuni li conoscevo. Sharon, Maggie e il dottore formavano il gruppo più vicino. La cugina e la zia di Melanie lanciarono un'occhiata furiosa a
Jeb, mentre il dottore mi fissò con uno sguardo curioso, quasi amichevole, che mi fece rabbrividire. All'altro capo della stanza riconobbi l'energumeno con i capelli nero corvino, e sentii il cuore palpitare. Pensavo che Jared avesse preso con sé entrambi i fratelli che mi erano ostili, per facilitare il tentativo di Jeb di salvarmi la vita. Per fortuna, dei due era rimasto Ian, quello che aveva dimostrato una tardiva sensibilità; peggio sarebbe stato incontrare Kyle. «Siete già sazi?» chiese Jeb ad alta voce e con un filo di sarcasmo. «Perso l'appetito» borbottò Maggie. «E tu?» disse lui, rivolgendosi a me. «Hai fame?» Dal pubblico si levò un brontolio smorzato. Scossi la testa. Non sapevo nemmeno se avessi fame o no, ma di certo non potevo mangiare di fronte a un pubblico che sarebbe stato ben felice di mangiare me. «Be', io sì» brontolò Jeb. Percorse il corridoio, tra un bancone e l'altro, ma non lo seguii. Non sopportavo il pensiero di trovarmi a portata degli altri. Restai appiccicata alla parete. Soltanto Sharon e Maggie lo seguirono con lo sguardo mentre si avvicinava a un grosso bidone di plastica e afferrava un panino. Gli altri guardavano me. Ero sicura che se mi fossi mossa di un centimetro, sarebbero scattati. Cercai di non respirare. «Be', andiamo avanti» consigliò Jeb morsicando il panino, mentre tornava a grandi passi verso di me. «A quanto pare nessuno riesce a concentrarsi sul pranzo. Si distraggono come niente, questi qui.» Dopo aver riconosciuto i pochi umani a cui sapevo dare un nome, avevo smesso di concentrarmi sui loro lineamenti, spaventata com'ero dal rischio di reazioni improvvise. Perciò mi accorsi di Jamie soltanto quando si alzò. Era una spanna più basso degli adulti che lo affiancavano, ma più alto dei due ragazzini più giovani appollaiati sul bancone di fronte a lui. Balzò in piedi e seguì Jeb. La sua espressione era contratta, compressa, come se cercasse di risolvere a mente un'equazione difficile. Mi scrutò aggrottando le sopracciglia mentre si avvicinava, a un passo da Jeb. A quel punto non ero l'unica a trattenere il respiro. Tutti gli sguardi oscillavano inquieti tra il fratello di Melanie e me. Oh, Jamie, pensò Melanie. Come me non sopportava quell'espressione triste, adulta. Ma non si sentiva colpevole quanto me, per averla provocata. "Se solo potessimo cancellarla" sospirò. "Troppo tardi. Cosa possiamo fare adesso?" La mia era una domanda retorica, ma mi ritrovai a cercare una risposta,
imitata da Melanie. Nei pochi secondi a disposizione non ne trovammo: non ce n'erano, lo sapevo. Ma entrambe sapevamo che terminato il giro di esplorazione al guinzaglio di Jeb avremmo avuto tempo per riflettere, un'occasione per pensare. A patto di sopravvivere. «Che vuoi, ragazzo?» domandò Jeb, senza degnarlo di uno sguardo. «Sapere cosa stai combinando» rispose Jamie, ostentando disinvoltura. Jeb si fermò accanto a me e si voltò verso Jamie. «La porto in giro per mostrarle il posto. Come faccio con tutti i nuovi arrivati.» Un altro brontolio smorzato. «Posso venire?» domandò Jamie. Vidi Sharon scuotere la testa, scandalizzata. Jeb non le badò. «Per me non c'è problema... basta che ti ricordi le buone maniere.» Jamie scrollò le spalle. «Tranquillo.» A quel punto mi affrettai a intrecciare le dita davanti a me. Sentivo il bisogno disperato di spostare un ciuffo disordinato di capelli dagli occhi di Jamie, e di prenderlo sottobraccio. L'avessi fatto, non l'avrebbero presa bene. «Andiamo» disse Jeb. Ci guidò lungo la strada da cui eravamo venuti. Lui e Jamie procedevano ai miei fianchi. Il ragazzo fingeva di guardare in basso, ma mi lanciava rapide occhiate alle quali non potevo fare a meno di rispondere, un continuo incrociare e distogliere lo sguardo. Circa a metà del corridoio sentii dei passi silenziosi alle nostre spalle. La mia reazione fu istantanea, automatica. Mi lanciai verso una parete della galleria, allontanando Jamie con un braccio così da pormi tra lui e ciò che mi veniva incontro. «Ehi!» protestò, senza allontanare il braccio. Jeb fu altrettanto lesto. Mulinò il fucile a velocità strabiliante. Ian e il dottore alzarono le mani. «Anche noi conosciamo le buone maniere» disse il dottore. Difficile credere che quell'uomo dalla voce educata e dall'espressione amichevole fosse il torturatore ufficiale; tanto benevolo era il suo aspetto quanto tremendo il terrore che mi incuteva. In una notte tetra e minacciosa sarebbe stato facile alzare la guardia, stare pronta. Ma in un luminoso giorno di sole? Come fuggire da un pericolo che poteva annidarsi ovunque? Jeb puntò su Ian il proprio sguardo affilato e la canna del fucile. «Non creerò fastidi, Jeb. Sarò educato come Doc.» «D'accordo» tagliò corto Jeb, e ripose il fucile. «Ma non tirare la corda. È tanto che non sparo a qualcuno, e un po' ne sento la mancanza.»
Trasalii. Gli altri se ne accorsero e si voltarono a osservare la mia espressione terrorizzata. Il dottore fu il primo a sghignazzare, e persino Jamie si unì per qualche istante alle risate generali. «È una battuta» mi sussurrò. Allontanò una mano dal fianco, quasi cercasse la mia, ma la infilò subito nella tasca dei bermuda. «Be', non perdiamo tempo» disse Jeb, ancora imbronciato. «State al passo, perché io non vi aspetto.» Scattò in avanti prima ancora di terminare la frase. 21 Il nuovo nome Affiancavo Jeb precedendolo di un passo. Volevo mantenere tutta la distanza possibile dai due uomini che ci seguivano. Jamie camminava più o meno a metà strada, senza decidere a quale coppia unirsi. Non fui in grado di concentrami granché sul resto dell'esplorazione. La mia attenzione non andò alla seconda serie di orti - uno dei quali era coltivato a granturco, che cresceva alto sotto la luce accecante degli specchi né alla caverna ampia e dal soffitto basso che chiamò «stanza della ricreazione». Era buio pesto, nel cuore della terra, ma mi disse che quando ci andavano a giocare portavano le luci. Il verbo «giocare» mi sembrava insensato, all'interno di una comunità di sopravvissuti nervosi e arrabbiati, ma non chiesi spiegazioni. Nel locale c'era un'altra sorgente, un rivolo dal fastidioso odore di zolfo; Jeb disse che la usavano come seconda latrina, perché l'acqua non era potabile. La mia attenzione era divisa tra gli uomini che camminavano alle nostre spalle e Jamie, che mi aveva raggiunto. Ian e il dottore mantennero un autocontrollo straordinario. Non ci sorpresero con attacchi alle spalle, ma si limitarono a seguirci in silenzio, scambiando qualche chiacchiera a bassa voce. Nei loro commenti citavano nomi che non conoscevo, e soprannomi di luoghi e cose che forse si trovavano all'interno del sistema di caverne. Non ci capivo nulla. Jamie, in silenzio, mi lanciò parecchi sguardi. Quando non tenevo d'occhio gli altri, anch'io sbirciavo verso di lui. Perciò ebbi poco tempo di ammirare le meraviglie descritte da Jeb, che non sembrava intuire le mie preoccupazioni. Certe gallerie erano molto lunghe: le distanze percorribili sottoterra erano sorprendenti. Spesso c'era buio pesto, ma Jeb e gli altri non si fermava-
no, esperti com'erano dei dintorni e ormai abituati a spostarsi nell'oscurità. Per me era più difficile, rispetto a quando camminavo in compagnia del solo Jeb. Ogni rumore somigliava a un assalto. Persino le chiacchiere rilassate di Ian e del dottore sembravano la copertura di chissà quale mossa nefasta. "Paranoica" commentò Melanie. "Se può salvarci la vita, lascia che lo sia." "Vorrei che prestassi più attenzione allo zio Jeb. Questo posto è straordinario." "Il tempo è tuo, fanne ciò che vuoi." "Viandante, io vedo e sento ciò che vedi e senti tu" disse. Poi cambiò argomento. "Jamie sta bene, non ti pare? Non è così triste. "Mi sembra... diffidente." Stavamo per raggiungere una luce, dopo la più lunga delle traversate al buio. «Questa è l'estremità meridionale del sistema di gallerie» spiegò Jeb mentre camminavamo. «Non è il massimo della comodità, ma è ben illuminata, tutto il giorno. Perciò la sfruttiamo come ambulatorio. È qui che lavora Doc.» Quando Jeb chiarì dove ci trovavamo, mi bloccai di colpo. I miei occhi, spalancati dal terrore, oscillavano tra il volto di Jeb e quello del dottore. Mi avevano imbrogliata? Avevano atteso che il testardo Jared uscisse di scena per trascinarmi fin là? Non potevo credere di averli seguiti di mia spontanea volontà. Quanto ero stupida! Melanie fu altrettanto sconvolta. "Bel regalo gli abbiamo fatto, ci manca solo il fiocco!" Una mano familiare mi si posò sul braccio. «No» disse Jamie, sfiorandomi incerto appena sotto il gomito. «No, è tutto okay. Sul serio. Vero, zio?» aggiunse con uno sguardo fiducioso all'anziano. «Tutto okay, vero?» «Ma certo.» Gli occhi azzurro stinto di Jeb erano tranquilli e limpidi. «Ti sto solo mostrando casa mia, piccola, tutto qui.» «In che senso?» borbottò Ian alle nostre spalle, infastidito da quella frase incomprensibile. «Pensi che ti abbiamo portata qui apposta, per Doc?» mi disse Jamie, anziché rispondere a Ian. «Non lo faremo. L'abbiamo promesso a Jared.» Guardai la sua espressione sincera, tentando di credergli. «Ah!» disse Ian quando capì, e scoppiò a ridere. «Non era male, come
piano. Come ho fatto a non pensarci?» Jamie guardò in cagnesco l'uomo corpulento, e mi diede una carezza sul braccio. «Non avere paura» disse. Jeb riprese da dov'era rimasto. «Perciò, questo stanzone è equipaggiato con qualche branda, nel caso qualcuno si ammali o si faccia male. Per ora siamo stati abbastanza fortunati. Il dottore non ha molto con cui operare, in caso di emergenza.» Sorrise. «I tuoi si sono liberati di tutte le nostre medicine quando hanno preso il controllo. Difficile mettere le mani su quello che ci serve.» Annuii lentamente. Ero ancora scossa, cercavo di riprendere lucidità. La stanza sembrava innocente, come se la utilizzassero soltanto per guarire, ma da quando vi ero entrata sentivo lo stomaco contratto. «Tu che ne sai delle medicine aliene?» domandò il dottore, la testa piegata di lato. Mi guardava in faccia, curioso e impaziente. Lo fissai senza parole. «Oh, con Doc puoi parlare» mi incoraggiò Jeb. «Tutto sommato, è un tipo molto educato.» Scossi la testa. La mia era una risposta, volevo dire loro che non sapevo nulla, ma mi fraintesero. «Non ci rivelerà nessun segreto del mestiere» disse Ian acido. «Vero, dolcezza?» «Ricordati le buone maniere, Ian» abbaiò Jeb. «È un segreto?» domandò Jamie, diffidente ma di certo curioso. Scossi di nuovo la testa. Tutti mi osservarono confusi. Anche Doc scosse la testa, dubbioso. Respirai a fondo, poi sussurrai: «Non sono una Guaritrice. Non so come funzionano le medicine. So soltanto che funzionano... guariscono, non si limitano a combattere i sintomi. Senza fare tentativi inutili. Ecco perché le medicine umane sono state abbandonate». I quattro mi guardavano con espressioni neutre. Con sorpresa avevano reagito al mio silenzio, con sorpresa accolsero le mie parole. Gli uomini non si accontentavano mai. «I tuoi non hanno cambiato molto di ciò che abbiamo lasciato» osservò Jeb pensieroso. «Soltanto le strutture mediche, e le astronavi al posto degli aerei. A parte quello, la vita sembra continuare come sempre... in apparenza.» «Veniamo per fare esperienza, non per cambiare» sussurrai. «Ma la salute ha la priorità su questa filosofia, suppongo.»
Serrai i denti. Dovevo stare più attenta. Agli umani non interessavano le mie lezioni di filosofia. Bastava poco a farli infuriare, o a spezzare la loro fragile pazienza. Jeb annuì, pensieroso, e ci fece segno di proseguire. Durante l'esplorazione delle poche grotte collegate all'ala dell'ambulatorio non fu più così entusiasta né coinvolto. Quando invertimmo la marcia e tornammo nella galleria buia, sprofondò nel silenzio. Fu una traversata lunga e taciturna. Ripensai alle mie parole, chiedendomi cosa potesse averlo offeso. Jeb, strambo com'era, non lo dava a intendere. Gli altri umani, ostili e superstiziosi, erano più prevedibili. Ma come potevo sperare di inquadrare Jeb? L'escursione terminò all'improvviso, quando rientrammo nella caverna più grande, colorata di verde dalle carote spuntate nell'orto. «Fine dello spettacolo» disse Jeb torvo, guardando Ian e il dottore. «Andate a fare qualcosa di utile.» Ian lanciò un'occhiata maliziosa al dottore, ma entrambi risposero con sufficiente gentilezza e si diressero verso l'uscita più grande, quella che portava alla cucina. Jamie restò indeciso, guardandoli senza muoversi. «Tu vieni con me» gli disse Jeb, in tono meno scorbutico. «Ho un compito per te.» «Okay» rispose lui. Sembrava entusiasta di essere stato scelto. Jamie tornò a camminare al mio fianco, mentre tornavamo nella zona del dormitorio. Fui sorpresa di notare, quando imboccammo il terzo tunnel da sinistra, che lui sembrava conoscere con esattezza la nostra meta. Jeb ci seguiva da vicino, ma il ragazzo si arrestò quando raggiungemmo il paravento verde che proteggeva il settimo alloggio. Lo spostò per farmi entrare, ma rimase in corridoio. «Ti va di startene al coperto per un po'?» mi domandò Jeb. Annuii con gratitudine, al pensiero di potermi nascondere ancora. Mi infilai nel varco e rimasi immobile a meno di un metro dall'entrata, incerta su cosa fare. A Melanie, che ricordava di avere visto dei libri, ribadii il mio giuramento di non toccare nulla. «Ho da fare, ragazzo» disse Jeb a Jamie. «Sai com'è, il cibo non si prepara da solo. Ti senti di fare la guardia?» «Certo» disse Jamie con un sorriso radioso. Il suo petto magro si gonfiò in un respiro profondo. Strabuzzai gli occhi, incredula, quando vidi Jeb consegnare il fucile alle mani impazienti di Jamie. «Sei pazzo?» strillai. La mia voce fu così acuta che sulle prime nemme-
no la riconobbi. Mi sembrava di aver passato la vita a sussurrare. Jeb e Jamie restarono a guardarmi stupiti. Nel giro di un secondo uscii in corridoio accanto a loro. Quasi allungai una mano verso il metallo duro della canna, quasi la strappai dalle mani del ragazzo. Ad arrestarmi non fu la consapevolezza che con un gesto del genere li avrei convinti a uccidermi. A prevalere fu la mia debolezza, in quel campo, rispetto agli umani; nemmeno per salvare il ragazzo ero disposta a toccare un'arma. Mi rivolsi a Jeb, invece. «Ma cosa ti viene in mente? Dare il fucile a un bambino? Rischia di uccidersi!» «Jamie ne ha viste abbastanza per essere considerato un uomo, secondo me. Sa come comportarsi, se c'è un fucile nei paraggi.» All'elogio di Jeb, Jamie drizzò le spalle, e strinse l'arma ancor più contro il petto. Restai sbalordita di fronte alla stupidità del vecchio. «E se vengono a cercarmi mentre lui è qui? Non pensi a cosa potrebbe succedere? Questo non è uno scherzo! Colpiranno lui pur di prendere me!» Jeb restò calmo, l'espressione placida. «Non credo che ci saranno problemi, oggi. Sono pronto a scommetterci.» «Be', io no!» Avevo ricominciato a urlare. La mia voce riecheggiò tra le pareti della galleria; di sicuro qualcuno ci stava ascoltando, ma non mi importava. Se volevano venire, meglio che lo facessero in presenza di Jeb. «Se ne sei così sicuro, lasciami sola. Lascia che vada come vada. Ma non mettere Jamie in pericolo!» «Sei davvero preoccupata per il ragazzo, o hai soltanto paura che punti il fucile contro di te?» domandò Jeb, con voce quasi dolce. Sbattei gli occhi: quel pensiero non mi aveva mai neanche sfiorato. Lanciai uno sguardo a Jamie, incontrai la sua occhiata sorpresa, e capii che l'idea era sconvolgente anche per lui. Impiegai un minuto a riprendere il filo del discorso, e quando ci riuscii l'espressione di Jeb era cambiata. I suoi occhi erano concentrati, la bocca contratta come fosse sul punto di inserire l'ultima tessera in un puzzle difficile. «Dai il fucile a Ian o a uno degli altri. Non mi importa» dissi lentamente e in tono neutro. «Ma non coinvolgere il ragazzo.» Il sorriso ampio e istantaneo di Jeb mi ricordò, stranamente, quello di un gatto pronto a balzare sulla preda.
«Questa è casa mia, piccola, e faccio quel che voglio. Sempre.» Voltò le spalle e se ne andò a grandi passi nel corridoio, fischiettando. Restai a guardarlo a bocca aperta. Quando sparì, mi rivolsi a Jamie, che mi guardava accigliato. «Non sono un bambino» mormorò in tono più cupo del solito, alzando la testa con aria bellicosa. «Adesso, è meglio... meglio per te se torni nella stanza.» L'ordine fu tutt'altro che severo, ma non c'erano alternative. Aveva vinto lui, e con un certo margine. Mi sedetti contro la soglia rocciosa dell'entrata, sul lato da cui potevo tenere d'occhio Jamie, al di là del paravento mezzo aperto. Strinsi le ginocchia al petto e iniziai a fare ciò che mi pareva necessario: preoccuparmi. Drizzai anche le orecchie e aguzzai la vista, per stare pronta nel caso qualcuno si fosse avvicinato. Jeb poteva pensarla come voleva, ma avrei impedito a chiunque di sfidare la protezione di Jamie. Ero pronta ad arrendermi senza che nemmeno me lo chiedessero. "Sì" confermò Melanie. Jamie restò impalato in corridoio per qualche minuto, il fucile stretto tra le mani, senza sapere come svolgere il proprio compito. A un certo punto iniziò a camminare avanti e indietro di fronte al paravento, ma dopo pochi passi, forse, si sentì uno stupido. Allora si sedette per terra, accanto all'entrata. Finì per posare il fucile sulle gambe incrociate, con il mento tra le mani. Dopo un bel po', fece un sospiro. Fare la guardia non era entusiasmante come aveva sperato. Guardarlo non mi annoiava. Dopo un'ora, o forse due, anche lui iniziò a guardare me, con occhiate rapide. Schiudeva le labbra, ma subito si rimangiava ciò che era sul punto di dire. «Il pianeta su cui stavi prima di entrare dentro Melanie» domandò infine, «com'era? Come questo?» La sua curiosità mi prese in contropiede. «No» risposi. In presenza del solo Jamie, mi sembrava giusto parlare a voce normale anziché sussurrare. «No, era molto diverso.» «Mi racconti com'era?» chiese, inclinando la testa come faceva quando si lasciava catturare dalle favole della buonanotte di Melanie. Perciò glielo spiegai. Gli raccontai del Pianeta delle Alghe, ricoperto d'acqua. Gli raccontai dei due soli, dell'orbita ellittica, delle acque grigie, delle radici permanenti
e immobili, delle straordinarie visioni di mille occhi, delle conversazioni senza fine di un milione di voci silenziose che tutti riuscivano a sentire. Mi ascoltò con gli occhi spalancati e un sorriso ammaliato. «È l'unico posto che conosci, quello?» domandò durante una pausa in cui cercai di pensare a quali dettagli potessi aver tralasciato. «Le Alghe occhiute» disse ridendo, «sono gli unici altri alieni?» Risi anch'io. «Niente affatto. Come io non sono l'unico alieno su questo mondo.» «Racconta.» Così gli spiegai dei Pipistrelli del Mondo che Canta - com'era vivere immersi nella cecità musicale, com'era volare. Gli raccontai del Pianeta delle Nebbie, di come ci si sentiva con una pelliccia bianca e spessa e quattro cuori con cui scaldarsi, o quando davamo una bella lezione alle bestie dalle grandi chele. Stavo per parlargli del Pianeta dei Fiori, colorato e luminoso, quando mi interruppe con un'altra domanda. «E gli ometti verdi con le teste a triangolo e gli occhioni neri? Quelli che sono precipitati a Roswell, e tutto il resto. Erano dei vostri?» «Direi di no.» «Tutta una finta?» «Non so. Forse, o forse no. L'universo è grande, là fuori c'è un sacco di compagnia.» «Come siete arrivati qui, allora? Se non siete gli ometti verdi, chi siete? Avrete un corpo per muovervi, no?» «Già» confermai, sorpresa della velocità con cui aveva inquadrato la situazione. C'era poco da stupirsi: sapevo quanto fosse intelligente, e dotato di un cervello che era una spugna assetata di informazioni. «La prima identità che abbiamo sfruttato, per cominciare, fu quella dei Ragni.» «I Ragni?» Gli raccontai dei Ragni... una specie affascinante. Geniali, i cervelli più incredibili che avessimo mai incontrato: ogni Ragno ne possedeva tre. Tre cervelli, uno per ogni segmento del corpo. Ancora non avevamo trovato un problema che non fossero capaci di risolvere. Di tutti i nostri ospiti, i Ragni erano stati quelli che meglio avevano accolto l'invasione. Colsero a malapena la differenza, e quando capirono parvero apprezzare la direzione che offrivamo loro. Le poche anime aliene che avevano visitato la superficie del Pianeta dei Ragni prima che vi fossimo impiantati ci raccontarono che era freddo e grigio, quindi non c'era da stupirsi che i Ragni vedessero
in bianco e nero e percepissero a stento i cambiamenti di temperatura. La loro vita era breve, ma i nuovi nati ereditavano le conoscenze dei genitori, che così non andavano mai perse. Dopo aver vissuto una di quelle vite fugaci, me ne andai dal pianeta, decisa a non tornarvi. La razionalità straordinaria dei miei pensieri, le risposte facili che giungevano quasi senza sforzo alle domande, la marcia e la danza dei numeri non potevano rimpiazzare l'emozione e il colore, che percepivo a malapena, confinata in quel corpo. Mi meravigliai che un'anima potesse trovarsi a proprio agio in quel mondo, eppure il pianeta era autosufficiente da migliaia di anni terrestri. Ci si poteva ancora trasferire soltanto perché i Ragni si riproducevano in fretta, covando grandi nidiate di uova. Iniziai a raccontare a Jamie come avevamo lanciato la nostra offensiva verso la Terra. I Ragni erano i nostri migliori ingegneri: le astronavi che ci avevano fabbricato danzavano agili e invisibili tra le stelle. I corpi dei Ragni erano efficienti quasi come i loro cervelli: quattro lunghe zampe per ogni segmento - ecco da cosa derivava il loro soprannome terrestre - e dodici dita per zampa. Le dita, ognuna dotata di sei articolazioni, erano lunghe e forti come cavi d'acciaio, capaci delle operazioni più delicate. Delle dimensioni di una mucca, ma più tozzi e agili, i Ragni non ebbero nessun problema con le prime inserzioni. Erano più forti degli umani, più furbi degli umani, e pronti, cosa che gli umani non erano... Lasciai cadere la frase a metà, quando vidi il riflesso cristallino sulla guancia di Jamie. Fissava il vuoto davanti a sé, le labbra tese e dritte. Una goccia pesante di acqua salata scese piano sulla guancia rivolta verso di me. "Idiota" mi sgridò Melanie. "Non hai pensato cos'è per lui la tua storiella?" "E tu non potevi avvertirmi prima?" Non rispose. Di sicuro anche lei si era lasciata prendere dal racconto. «Jamie» sussurrai, con voce rotta. La vista della sua lacrima mi aveva commosso. «Jamie, ti chiedo scusa. Ero sovrappensiero.» Jamie si asciugò la lacrima. «Tranquilla. Ero curioso. Volevo sapere com'è successo» rispose burbero, per nascondere il dolore. Il desiderio di sporgermi all'esterno e asciugargli la lacrima fu istintivo. Sulle prime cercai di non farci caso; io non ero Melanie. Ma la lacrima restava lì, immobile, come se non potesse mai cadere. Gli occhi di Jamie rimasero fissi sulla parete spoglia, e gli tremavano le labbra.
Non era lontano da me. Allungai un braccio per sfiorargli la guancia con le dita; la lacrima scese, sempre più sottile, e sparì sulla sua pelle. Con un altro gesto istintivo, posai la mano sulla sua guancia calda, per accarezzargli il viso. Per qualche istante si sforzò di non badarmi. Poi si voltò verso di me, gli occhi chiusi, le braccia tese a cercarmi. Si rannicchiò accanto a me, la guancia contro l'incavo della spalla che un tempo aveva saputo accoglierla, e scoppiò in un singhiozzo. Non erano le lacrime di un bambino, e ciò le rendeva ancora più intense. Piangerle di fronte a me, poi, le trasformava in qualcosa di ancor più sacro e doloroso. Era il lutto di un uomo al funerale di tutta la sua famiglia. Lo cinsi con le braccia, che non lo contenevano più con la facilità di un tempo, e anch'io scoppiai a piangere. «Mi dispiace» ripetevo. Con quelle due parole cercavo di chiedergli scusa. Per aver trovato quel luogo. Per averlo invaso. Per essere stata io a prendere sua sorella. Per averla riportata a lui, facendolo soffrire una seconda volta. Per averlo fatto piangere con i miei racconti privi di tatto. Quando il suo tormento cessò non sciolsi la stretta; non avevo fretta di lasciarlo andare. Sentivo che il mio corpo era affamato da sempre di momenti come quello, e capii di non aver mai compreso cosa potesse placare la sua fame. Il legame misterioso tra madre e figlio - così forte su quel pianeta - non era più un mistero per me. Non c'era legame più grande di quello che ti spingeva a sacrificare la tua vita per quella altrui. Avevo già colto quella verità, ma mi mancava di scoprirne il perché. Ora sapevo perché una madre era disposta a sacrificare la propria vita per un figlio, e quella certezza avrebbe condizionato per sempre la mia visione dell'universo. «Non ti ho insegnato niente, ragazzo?» Un balzo, e sciogliemmo l'abbraccio. Jamie si raddrizzò goffo, io mi raggomitolai a terra, eclissandomi contro il muro. Jeb si chinò e raccolse l'arma di cui entrambi ci eravamo dimenticati. «Non si tratta così un fucile, Jamie.» Il suo tono era molto gentile, un mezzo rimprovero. Allungò una mano e spettinò i capelli arruffati di Jamie. Jamie chinò la testa, paonazzo di vergogna. «Scusa» mormorò, e fece per andarsene. Ma dopo un passo si arrestò e ruotò su se stesso per guardarmi. «Non so come ti chiami» disse. «Qui mi chiamano Viandante» sussurrai. «Viandante?» Annuii.
Anche lui annuì, e se ne andò di corsa. Era ancora paonazzo, persino sulla nuca. Quando fu lontano, Jeb appoggiò la schiena alla roccia e si lasciò scivolare a terra, dove si era seduto il ragazzo. Come Jamie, cullava il fucile tra le gambe. «Hai un nome davvero strambo» disse. Sembrava tornato al suo umore affabile. «Magari una volta mi racconti com'è che te l'hanno affibbiato. Scommetto che è una bella storia. Ma, non ti sembra un po' difficile, "Viandante"?» Lo guardai perplessa. «Secondo me ci vorrebbe un diminutivo, qualcosa come "Vianda"... Anzi, molto meglio: "Wanda". Quello sì che mi piace.» Restò in attesa della mia risposta. Mi strinsi nelle spalle. Non mi importava granché che mi chiamasse «piccola», o con qualche altro buffo soprannome umano. Probabilmente lo faceva per gentilezza. «D'accordo, allora è Wanda.» Sorrise, fiero della propria invenzione. «È bello sapere che hai un nome. Sembra quasi che siamo amici da sempre.» Sfoderò un ghigno, e io non riuscii a non restituirgli un sorriso, più mesto che allegro. In teoria, lui era mio nemico. Forse era pazzo. Ed era mio amico. Certo, mi avrebbe uccisa, se fosse stato necessario, ma non gli andava di farlo. Tra gli umani, cosa chiedere di più a un amico? 22 Il crollo Jeb, pensieroso, si accomodò con le mani dietro la nuca e alzò lo sguardo verso il buio del soffitto. Non aveva perso la voglia di chiacchierare. «Mi sono chiesto spesso com'è... quando ti prendono, voglio dire. L'ho visto di persona più di una volta, ho rischiato io stesso di cascarci. E mi chiedo, chissà come ci si sente. Fa male, quando ti infilano qualcosa nella testa? L'ho visto fare, sai.» Sbarrai gli occhi, sorpresa, ma notai che non mi stava guardando. «A quanto pare usate una specie di anestetico, ma questa è una mia ipotesi. Nessuno urla di dolore, perciò non dev'essere una tortura così tremenda.» Arricciai il naso. Tortura. No, quella era la specialità degli umani. «Le storie che hai raccontato al ragazzo erano davvero interessanti.» Mi irrigidii, e lui fece un risolino. «Sì, ho origliato, lo ammetto. Non te
la prendere... mi è piaciuto un sacco, e con me non parli come fai con Jamie. Mi hai davvero fatto divertire, con quei pipistrelli, e le piante, e i ragni. Un sacco di cose su cui riflettere. Mi è sempre piaciuto leggere roba pazza, fuori di testa, fantascienza e tutto il resto. Me li mangiavo, quei libri. E il ragazzo è come me: ha letto tutta la mia biblioteca, due, tre volte. Dev'essere una gioia per lui ascoltare storie nuove. Per me lo è. Sei brava a raccontarle.» Non alzai lo sguardo, ma mi sentii rilassare e abbassai un poco la guardia. Come chiunque abitasse quei corpi così emotivi, le lusinghe mi mandavano al tappeto. «Qui tutti sono convinti che tu ci abbia scovati per consegnarci ai Cercatori.» A quella parola ebbi un sussulto improvviso. Serrai forte la mascella e mi tagliai la lingua con i denti. Sentii il sapore del sangue. «E per quale altro motivo, se no?» proseguì, distratto o indifferente alla mia reazione. «Ma temo che siamo prigionieri dei luoghi comuni. Io sono l'unico che fa domande... Voglio dire, che razza di piano è perdersi nel deserto senza possibilità di tornare indietro?» Ridacchiò. «Vagabondare... scommetto che è la tua specialità, eh, Wanda?» Si chinò verso di me e mi diede un colpetto con il gomito. Spalancati e dubbiosi, i miei occhi saettarono al suolo, poi sul suo viso, poi di nuovo a terra. Lui fece un'altra risata. «Con quel viaggio sei arrivata a pochi passi dal suicidio, lasciatelo dire. Non so se mi spiego, ma non è affatto il modus operandi dei Cercatori. Ho cercato di ragionarci su. Con la logica, giusto? Non avevi assistenza, e non ne ho trovato segno, e non sapevi come tornare indietro, perciò il tuo obiettivo doveva essere un altro. Non hai parlato granché da quando sei arrivata, a parte poco fa, con il ragazzo, ma quando apri bocca, io sono tutto orecchi. Mi sa tanto che ti sei quasi suicidata per la testardaggine di voler ritrovare il ragazzo e Jared.» Chiusi gli occhi. «Ma perché mai dovresti preoccuparti di loro?» domandò Jeb, senza aspettarsi una risposta. «Ecco come la vedo io: o sei una brava attrice - una specie di super-Cercatrice, una razza nuova, più subdola della prima - e hai un piano che ancora non ho scoperto, oppure non stai recitando. La prima spiegazione mi pare piuttosto complicata, tutto sommato, e non ci credo. Ma se non stai recitando...» Fece una breve pausa.
«Ho passato parecchio tempo a osservare quelli come te. Mi sono sempre aspettato di vederli cambiare, hai presente, una volta finito di comportarsi come noi, ed eliminati quelli che li costringevano a recitare. Ho osservato e aspettato, ma continuavano a comportarsi da umani. Restavano con le famiglie dei propri corpi, andavano in gita nelle belle giornate, piantavano fiori, dipingevano quadri e tutto il resto. Chissà, forse vi state trasformando in esseri umani. A meno che, tutto sommato, noi non esercitiamo una qualche influenza.» Restò in silenzio per darmi la possibilità di rispondere. Non lo feci. «Qualche anno fa ho visto una cosa che mi è rimasta impressa. Una coppia di anziani, anzi, i corpi di una coppia di anziani. Erano insieme da così tanto tempo che le fedi nuziali erano nascoste tra le rughe delle dita. Si tenevano la mano, lui baciò lei sulla guancia, e lei arrossì sotto tutte quelle rughe. Ho pensato che provate i nostri stessi sentimenti perché siete davvero noi, non ci manovrate soltanto, come dei burattini.» «Sì» sussurrai. «Proviamo gli stessi sentimenti. Sentimenti umani. La speranza, il dolore, l'amore.» «Perciò, se non stai recitando... be', sono pronto a giurare che vuoi bene a entrambi. Tu, Wanda. Non il corpo di Mel.» Chinai la testa sulle braccia. Il gesto equivaleva a una confessione, ma poco importava. Non potevo più tenermelo dentro. «E questa sei tu. Ma penso anche a mia nipote. Come si è sentita, come mi sentirei io. Quando ti infilano qualcuno nella testa, che fai... sparisci? Ti cancellano? È come morire? O come addormentarsi? Ti accorgi del controllo esterno? E il controllore si accorge di te? Sei intrappolato, e urli da dentro?» Impassibile, cercavo di non tradire alcuna emozione. «È ovvio che i ricordi e il comportamento non ti appartengono più. Ma la coscienza... Secondo me certa gente non si arrende senza prima combattere. Diamine, io cercherei di resistere: ho sempre avuto la schiena dritta, io. Sono un combattente. Tutti noi sopravvissuti siamo combattenti. E sai una cosa, mi sa che anche Mel lo era.» Non levò gli occhi dal soffitto; io guardavo in giù, fissavo il suolo e memorizzavo le venature della sabbia grigio-porpora. «Già, ci ho pensato parecchio.» Sentivo i suoi occhi su di me, ma osai alzare la testa. Senza muovermi, respiravo lenta. Mi ci volle un bello sforzo per mantenere il ritmo regolare. Quando fui costretta a deglutire, sentii di nuovo il sangue in bocca.
"Come abbiamo potuto credere che fosse pazzo?" commentò Melanie. "Vede tutto. È un genio." "È l'uno e l'altro." "Be', forse questo vuol dire che non saremo più costrette a tacere. Sa tutto." Da qualche tempo era rimasta molto silenziosa, quasi sempre assente, ma ora la speranza era tornata. Quando Melanie era relativamente felice, non era facile concentrarmi. Aveva vinto la sua battaglia. Ci aveva condotte in quel luogo. I suoi segreti non erano più a repentaglio; Jared e Jamie non sarebbero stati traditi dai suoi ricordi. Smarrito l'istinto di combattente, parlare con me era diventato più difficile. Capii che a rinvigorirla era stata l'idea della scoperta e la possibilità che altri umani si accorgessero che era sopravvissuta. "Jeb sa tutto, sì. Credi che questo cambi le carte in tavola?" Ripensò alla considerazione che gli altri umani avevano di lui. "No," sospirò. "Ma secondo me, Jamie... be', non sa né immagina niente, ma secondo me sente la verità." "Forse hai ragione. Vedremo se la cosa sarà utile a lui o a noi, alla fine." Jeb riuscì a tacere per pochi secondi, e poi ricominciò, interrompendoci. «Roba proprio interessante. Senza sparatorie né guerre, come nei film che mi piacevano. Ma proprio interessante. Mi piacerebbe sapere qualcosa in più di quella specie di Ragni. Sono davvero curioso... davvero curioso, sì.» «Cosa vuoi sapere?» Mi sorrise con affetto, gli occhi raggrinziti come mezze lune. «Tre cervelli, hai detto?» Annuii. «Quanti occhi?» «Dodici, uno per ogni giuntura tra zampe e corpo. Non avevamo palpebre, ma un sacco di filamenti - come ciglia di lana d'acciaio - a proteggerli.» Annuì, lo sguardo acceso. «Erano pelosi, come le tarantole?» «No, anzi... quasi corazzati, con le squame, come i rettili o i pesci.» Mi rannicchiai contro il muro, pronta a una lunga conversazione. Jeb non deluse la mia aspettativa. Persi il conto delle domande che mi rivolse. Voleva tutti i dettagli: sui Ragni, sul loro aspetto, sul comportamento, su come avevano trattato la Terra. Non si lasciò intimorire dai dettagli sull'invasione, anzi, parve quasi divertirsi più che con il resto dei miei racconti. A ogni risposta seguiva svelta una domanda, spesso una risata.
Quando, ore dopo, fu soddisfatto dei Ragni, volle sapere qualcosa in più sui Fiori. «Di quelli non hai spiegato quasi niente.» Così gli parlai del più bello e pacifico tra i pianeti. Ogni volta che prendevo fiato, mi interrompeva con una domanda nuova. Gli piaceva prevedere le risposte prima di conoscerle, e sbagliare non gli dava il minimo fastidio. «Perciò mangiavate mosche come le piante carnivore? Scommetto di sì... oppure animali più grossi, tipo gli uccelli o gli pterodattili!» «No, per nutrirci sfruttavamo la luce del sole, come quasi tutte le vostre piante.» «Be', la mia idea era più divertente.» Di tanto in tanto mi sorprendevo a ridere con lui. Stavamo per approfondire l'argomento Draghi, quando Jamie spuntò con la cena per tre. «Ciao, Viandante» disse, un po' imbarazzato. «Ciao, Jamie» risposi, un po' timida; non capivo se si vergognasse dell'intimità a cui ci eravamo lasciati andare. Dopotutto, io ero il nemico. Tuttavia si sedette tra me e Jeb, incrociò le gambe e sistemò il vassoio al centro del nostro piccolo conclave. Morivo di fame, con la gola secca dopo tanto parlare. Presi una scodella di zuppa e la prosciugai in pochi sorsi. «Lo sapevo che oggi, in sala mensa, hai esagerato con la cortesia. Devi aprire bocca quando hai fame, Wanda. Non so leggerti nel pensiero.» Non ero del tutto d'accordo, ma ero troppo impegnata a masticare un morso di pane per rispondere. «Wanda?» chiese Jamie, perplesso. Annuii, per fargli capire che la cosa non mi infastidiva. «Le sta bene, non credi?» Jeb era proprio fiero di sé, sembrava sul punto di alzarsi e darsi una pacca sulla spalla. «Più o meno, sì» disse Jamie. «Stavate parlando di draghi?» «Sì» rispose Jeb con entusiasmo, «ma non nel senso dei lucertoloni. Sono fatti di gelatina. E sanno volare... più o meno. Anche l'aria è più densa, quasi gelatinosa. Perciò è come nuotare. E sputano acido... che più o meno vale quanto il fuoco, l'avresti mai detto?» Lasciai che Jeb chiarisse i dettagli a Jamie e mangiai più della mia razione di cibo, prosciugando una bottiglia intera d'acqua. Quando mi svuotai la bocca, Jeb ricominciò con le domande. «Ma dimmi, questo acido...»
A differenza di Jeb, Jamie non faceva domande, e in sua presenza iniziai a parlare con più prudenza. Tuttavia, fu Jeb stesso a non chiedere nulla che potesse innescare discorsi delicati, perciò la mia cautela non fu necessaria. La luce svanì lenta finché in corridoio calò l'oscurità. Poi giunse il chiarore argenteo, minuscolo e debole della luna, che, quando i miei occhi vi si abituarono, mi consentì di vedere l'uomo e il ragazzo al mio fianco. Jamie, con il passare della notte, mi si avvicinò. Presa dal discorso, mi accorsi che gli stavo carezzando i capelli soltanto quando notai che Jeb fissava la mia mano. Incrociai le braccia al petto. Infine, Jeb fece un lungo sbadiglio, subito imitato da me e Jamie. «Ci sai fare con le storie, Wanda» disse, finito di stiracchiarsi. «È ciò che facevo... prima. Insegnavo all'università di San Diego. Storia.» «Un'insegnante!» esclamò Jeb, entusiasta. «Be', non è straordinario? Potresti tornarci utile. Sharon, la figlia di Meg, fa da maestra ai tre bambini, ma non se la cava bene con tutto. Con matematica e cose del genere, sì. Ma storia...» «Insegnavo soltanto la nostra storia» lo interruppi. Inutile aspettare che riprendesse fiato. «Non servirei a granché come insegnante, qui. Non ho nessuna preparazione.» «Meglio la vostra storia che niente. Sono cose che noi umani dovremmo sapere, visto che viviamo in un universo più popolato di quanto pensassimo.» «Ma io non ero una vera insegnante» ribadii disperata. Pensava davvero che qualcuno desiderasse sentire la mia voce, ancor prima di ascoltare le mie storie? «Ero una specie di professoressa onoraria, una consulente speciale. Mi hanno presa soltanto per via... be', per via della storia che mi ha dato il nome.» «Stavo giusto per chiedertelo» disse Jeb compiaciuto. «Delle tue esperienze di insegnamento parleremo più tardi. Ora dimmi... perché ti hanno chiamata Viandante? Ne ho sentiti di nomi strani, Acque Secche, Dita nel Cielo, Casca all'Insù... ovviamente mescolati ai vari Pamela e Robert. Lascia che te lo dica, è il genere di mistero che mi fa impazzire di curiosità.» Prima di parlare mi assicurai che non avesse nulla da aggiungere. «Be', di solito un'anima prova un pianeta o due - due è la media - prima di decidere dove stabilirsi. Quando il corpo che abita si avvicina alla morte, entra in un nuovo ospite, della stessa specie, sullo stesso pianeta. Ci si sente
molto disorientati a passare da una specie all'altra. La maggior parte delle anime non lo sopporta. Alcune non escono mai dal pianeta su cui sono nate. Di tanto in tanto capita che qualcuno fatichi a trovare le sembianze giuste. E magari prova su un terzo pianeta. Una volta ho conosciuto un'anima che era stata su cinque pianeti, prima di stabilirsi tra i Pipistrelli. Anche a me piacevano, e penso sia stata la volta in cui sono andata più vicina a scegliere un pianeta. Se non fosse stato per la cecità...» «Su quanti pianeti hai vissuto?» domandò Jamie con un sussurro. Chissà come, mentre parlavo la sua mano si era fatta strada verso la mia. «Questo è il nono» risposi, stringendogli piano le dita. «Wow, nove!» esclamò. «Per questo hanno voluto che insegnassi. Le statistiche sono accessibili a chiunque, ma io sono stata di persona su quasi tutti i pianeti che abbiamo... preso.» Non sapevo se pronunciare quella parola, ma Jamie non mi parve preoccupato. «Ce ne sono soltanto tre su cui non sono mai stata... be', quattro, adesso. Hanno appena aperto un mondo nuovo...» Immaginavo che Jeb partisse in quarta con le domande sul nuovo mondo, o sui mondi di cui non avevo parlato; invece restò a giocare, distratto, con la punta della barba. «Perché non ti sei mai stabilita da nessuna parte?» domandò Jamie. «Non ho mai trovato un luogo che mi piacesse abbastanza.» «Che te ne pare della Terra? Pensi che resterai?» Avrei voluto sorridere della sua sicurezza... come se avessi ancora la possibilità di trasferirmi in un altro ospite. Come se mi restasse più di un mese da vivere dentro quello che occupavo. «La Terra è molto... interessante» mormorai. «Vivere qui è più difficile che su ogni altro luogo in cui sono stata.» «Più difficile che nell'atmosfera di ghiaccio, assieme alle bestie dalle grandi chele?» domandò. «A suo modo, sì.» Come facevo a spiegargli che i pericoli del Pianeta delle Nebbie venivano soltanto da fuori, e che era molto più dura sentirsi assalire da dentro? "Assalire, certo" sbuffò Melanie. Feci una smorfia. "Non è con te che ce l'ho" le risposi. "Pensavo alle emozioni instabili che mi tradiscono di continuo. E comunque anche tu mi hai assalita infliggendomi i tuoi ricordi." "Ho imparato la lezione" ribatté secca. Sentivo l'intensità con cui si era accorta della mano di Jeb nella mia. Dentro di lei cresceva piano un'emo-
zione che non riconobbi. Qualcosa di simile al pericolo, con un briciolo di desiderio e una porzione di sconforto. "Gelosia" mi chiarì. Jeb fece un altro sbadiglio. «Mi sa che me ne sto approfittando. Sarai a pezzi: oggi hai camminato tutto il giorno, e con le mie domande non ti lascio dormire neanche un minuto. Meglio che mi comporti da bravo ospite. Dai, Jamie, andiamo e lasciamo che Wanda si riposi un po'.» Ero esausta. Era stata davvero una giornata lunga, e a giudicare dalle parole di Jeb non ero l'unica a pensarlo. «Okay, zio.» Jamie balzò in piedi e offrì la mano al vecchio. «Grazie, ragazzo.» Jeb borbottò qualcosa mentre si alzava. «E grazie anche a te» aggiunse, guardandomi. «La conversazione più interessante dai tempi... be', forse di sempre. Riposati la voce, Wanda, perché la mia curiosità è potente. Ah, eccolo! Era ora.» Soltanto in quel momento mi accorsi del rumore di passi in avvicinamento. Automaticamente mi rimpicciolii contro la parete e sgattaiolai verso la stanza-caverna, in cui mi sentii ancora più visibile, a causa della luce lunare che vi si rifletteva. Fui sorpresa che quella fosse la prima persona a rientrare per la notte; sul corridoio sembravano affacciarsi molti alloggi. «Scusa, Jeb. Mi sono fermato a parlare con Sharon, e poi mi ha preso un po' di sonno...» Impossibile non riconoscere quella voce affabile, gentile. Il mio stomaco ebbe un sussulto, e desiderai di non averlo riempito. «Non ce ne siamo neanche accorti, Doc» disse Jeb. «Qui ci siamo divertiti alla grande. Prima o poi dovrai chiederle di raccontarti qualcuna delle sue storie... roba incredibile. Ma non stasera, eh. Mi sa che ormai è esausta. Ci vediamo domattina.» Il dottore stese un tappetino davanti all'entrata della grotta, come aveva fatto Jared. «Tieni d'occhio questo» disse Jeb, posando il fucile accanto al tappetino. «Stai bene, Wanda?» domandò Jamie all'improvviso. «Stai tremando.» Non me n'ero accorta, ma il mio corpo era tutto un sussulto. Non gli risposi. Sentivo la gola gonfia e chiusa. «Calma, calma» disse Jeb rassicurante. «Ho chiesto a Doc se gli andava di fare un turno. Non devi preoccuparti. Lui è uomo d'onore.» Il dottore abbozzò un sorriso sonnolento. «Non ti farò del male... Wanda, così ti chiami? Te lo prometto. Farò la guardia mentre dormi.»
Mi morsi un labbro, ma i fremiti non cessarono. Jeb, tuttavia, sembrava sicuro che fosse tutto a posto. «'Notte, Wanda. 'Notte, dottore» disse, e se ne andò lungo il corridoio. Jamie, incerto, mi diede uno sguardo preoccupato. «Doc è okay» sussurrò. «Dai, ragazzo, è tardi!» Jamie rincorse Jeb. Dopo che se ne furono andati guardai il dottore, in attesa di un cambiamento. La sua espressione rilassata, però, non mutò, e lui non toccò il fucile. Si stiracchiò in tutta la sua lunghezza, con i polpacci e i piedi che uscivano dal tappeto. Sdraiato, era talmente magro da non sembrare così alto. «Buonanotte» mormorò, assonnato. Ovviamente non risposi. Lo guardai sotto la luce tenue della luna, confrontando il ritmo con cui gonfiava e rilassava il petto con quello delle pulsazioni che sentivo rimbombare nelle orecchie. Il suo respiro rallentò e si fece più profondo, e a un certo punto iniziò a russare piano. Forse fingeva, ma non potevo farci granché. In silenzio strisciai verso il fondo della stanza, finché non sentii il bordo del materasso sfiorarmi la schiena. Mi ero ripromessa di non toccare niente, ma se mi fossi raggomitolata ai piedi del materasso non avrei fatto male a nessuno. Il suolo era scabro e duro. Il russare delicato del dottore mi tranquillizzò; forse era una messinscena per calmarmi, ma, se non altro, al buio potevo localizzarlo con sicurezza. Tanto valeva andare fino in fondo e dormire. Ero stanca morta, come avrebbe detto Melanie. Lasciai che gli occhi si chiudessero. Da quando ero arrivata non avevo dormito sopra niente di così morbido come quel materasso. Mi rilassai e mi lasciai andare... Mi accorsi di un rumore strascicato dentro la stanza, accanto a me. Spalancai gli occhi e vidi una sagoma porsi tra me e il soffitto illuminato dalla luna. All'esterno, il dottore continuava a russare imperterrito. 23 La confessione L'ombra era enorme, dai contorni vaghi. Incombeva su di me, sbilanciata, penzolando vicino al mio volto. Forse cercai di urlare, ma il suono mi restò intrappolato in gola. «Zitta, sono io» sussurrò Jamie. Qualcosa di ingombrante si srotolò dalle
sue spalle e con un tonfo sordo cadde a terra. Quando se ne liberò riconobbi la sua ombra sottile disegnata dalla luna. Cercai di respirare, stringendomi la gola con la mano. «Scusa» sussurrò, sedendosi sul bordo del materasso. «Temo di aver fatto una stupidaggine. Non volevo svegliare Doc... non ho pensato che rischiavo di spaventarti. Tutto bene?» Mi diede un colpetto sulla caviglia, la parte di me più vicina a lui. «Certo» rantolai, ancora senza fiato. «Scusa, davvero.» «Che ci fai qui, Jamie? Non dovresti dormire?» «Sono qui apposta. Non hai idea di quanto russi lo zio Jeb. Non lo sopportavo più.» Il senso della risposta mi sfuggiva. «Di solito non dormi con lui?» Jamie sbadigliò e si chinò a spiegare il sacco a pelo pesante che aveva gettato per terra. «No, di solito dormo con Jared. Lui non russa. Ma questo tu lo sai.» Sì, lo sapevo. «Perché non vai a dormire nella stanza di Jared, allora? Hai paura di dormire solo?» Non gliene facevo un torto. Io per prima vivevo nella paura costante. «Paura» borbottò offeso. «No. Questa è la stanza di Jared. E mia.» «Cosa?» esclamai. «Jeb mi ha messa nella stanza di Jared?» Non potevo crederci. Jared mi avrebbe uccisa. No, prima avrebbe ucciso Jeb, poi me. «È anche mia. E ho detto a Jeb che potevi starci.» «Jared andrà su tutte le furie» sussurrai. «Della mia stanza posso fare quel che voglio» mormorò Jamie protestando, ma si zittì all'improvviso. «Non glielo diremo. Non è obbligato a saperlo.» Annuii. «Buona idea.» «Non ti da fastidio se dormo qui, vero? Lo zio è davvero rumoroso.» «No, a me non dà fastidio. Però non penso sia il caso, Jamie.» Si rabbuiò, cercando di mascherare il dispiacere con l'aria da duro. «Perché no?» «Perché non sei al sicuro. Può darsi che qualcuno venga a cercarmi, di notte.» Strabuzzò gli occhi. «Davvero?» «Jared teneva sempre il fucile con sé... e scappavano.»
«Chi?» «Non so... a volte Kyle. Ma c'è anche qualcun altro, lo so.» Annuì. «Una ragione in più per restare. Magari Doc ha bisogno d'aiuto.» «Jamie...» «Non sono un bambino, Wanda. So badare a me stesso.» Ovviamente, discutere con lui non faceva che aumentarne la testardaggine. «Almeno tieniti il letto» fu la mia resa. «Io dormo per terra. La stanza è tua.» «Non è giusto. L'ospite sei tu.» Risposi con una smorfia. «Ah no, il letto è tuo.» «Neanche per idea.» Si sdraiò sul tappetino a braccia conserte. Fu la conferma che discutere non era l'approccio migliore, con lui. Be', avrei rimediato non appena avesse preso sonno. Quando Jamie dormiva sembrava in coma. Una volta partito, Melanie riusciva a spostarlo dove le pareva. «Puoi usare il mio cuscino» mi disse, e ne indicò uno vicino a sé. «Non è obbligatorio che ti raggomitoli lì in fondo.» Con un sospiro, mi allungai strisciando sul letto. «Perfetto. Per favore, mi dai quello di Jared?» domandò. Restai indecisa se afferrare o no il cuscino che avevo sotto la testa; lui scattò in piedi, mi scavalcò e afferrò l'altro. Sospirai di nuovo. Per un po' restammo ad ascoltare il fischio smorzato del dottore che russava. «Fa un bel rumore, vero?» sussurrò Jamie. «Non dà fastidio.» «Sei stanca?» «Sì.» «Ah.» Mi aspettavo che aggiungesse qualcosa, ma restò in silenzio. «C'era qualcosa che volevi dirmi?» Non rispose subito, ma sentivo che era pronto a parlare. «Prometti di dirmi la verità, se ti faccio una domanda?» L'incertezza divenne mia. «Non è detto che sappia rispondere» abbozzai. «Questo lo sai. Mentre tornavamo... io e Jeb... mi ha parlato di certe sue idee. Ma non so se ha ragione.» All'improvviso sentii Melanie molto presente. Difficile cogliere il sussurro di Jamie, più delicato del mio respiro. «Secondo lo zio, può darsi che Melanie sia ancora viva. Cioè, dentro, assieme
a te.» "Il mio Jamie" sospirò Melanie. Non risposi, né a lei né al ragazzo. «Non so se è possibile. Succede?» La sua voce si ruppe, lo sentivo lottare contro le lacrime. Non era da lui piangere, ma per la seconda volta in un solo giorno gli avevo inflitto una tale pena. Sentii una fitta all'altezza del petto. «Succede, Wanda?» "Diglielo. Per favore, digli quanto gli voglio bene." «Perché non rispondi?» Jamie era in lacrime, ma cercava di soffocare i singhiozzi. Scesi dal letto, mi raggomitolai nello spazio angusto tra materasso e tappeto e cinsi con il braccio il suo petto tremante. Chinai la testa contro la sua, e sentii il calore delle lacrime sul collo. «Melanie è ancora viva? Dimmelo, Wanda, ti prego.» Probabilmente era uno strumento nelle mani del vecchio. Un suo emissario; scaltro com'era, Jeb aveva capito che Jamie poteva eludere facilmente le mie difese. Forse cercava una conferma alle sue teorie, e non gli pareva sbagliato sfruttare il ragazzo per averla. Come avrebbe reagito, quando si fosse reso conto della pericolosa verità? Come avrebbe usato le informazioni? Dovevo fidarmi dell'istinto che mi diceva di stare tranquilla? Gli umani erano creature ingannatrici, false. Non potevo intuire la parte oscura della loro logica, per la mia specie era uno sforzo impossibile. Il corpo di Jamie tremava, accanto a me. "Senti come soffre" strillò Melanie. Cercava di liberarsi del mio controllo con la forza, senza riuscirci. Ma il rischio era di commettere un errore enorme, e non potevo scaricare la colpa su di lei. Sapevo da dove venivano le mie parole. «Ti ha promesso che sarebbe tornata, vero?» mormorai. «Secondo te Melanie infrangerebbe mai una promessa?» Le braccia di Jamie scivolarono sui miei fianchi, e mi strinsero a lungo. Dopo qualche minuto, sussurrò: «Ti voglio bene, Mel». «Anche lei. È davvero felice che tu sia qui, sano e salvo.» Restò in silenzio abbastanza a lungo da permettere alle mie lacrime di asciugarsi, e di lasciare sulla pelle un sottile cammino salato. «Sono tutti così?» sussurrò Jamie quando ormai pensavo si fosse addormentato. «Restano tutti?» «No. Melanie è speciale» risposi, triste.
«È forte e coraggiosa.» «Molto.» «Secondo te...» Un singhiozzo lo interruppe. «Secondo te può darsi che anche papà sia rimasto?» Deglutii, nel tentativo di sciogliere il grumo che mi soffocava. Non ci riuscii. «No, Jamie. Non credo. Non come Melanie.» «Perché?» «Perché è stato lui a mettere i Cercatori sulle vostre tracce. O meglio, l'anima dentro di lui. Tuo padre non l'avrebbe permesso, se fosse stato ancora presente. Tua sorella non mi ha mai concesso di individuare il vostro rifugio, e ha resistito a lungo prima di lasciarmi scoprire te e Jared. Ha deciso di condurmi qui soltanto quando ha capito che non vi avrei fatto alcun male.» Troppe informazioni. Soltanto quando cessai di parlare mi accorsi che il dottore non russava più. Il suo respiro era silenzioso. Mi diedi della stupida. «Caspita» disse Jamie. Sussurrai al suo orecchio, vicino quanto bastava a non farmi sentire. «Sì, è molto forte.» Jamie si sforzò di ascoltarmi, accigliato, e gettò un rapido sguardo verso il corridoio buio. Probabilmente si era accorto anche lui che qualcosa non andava, perché quando si voltò verso di me rispose con un sussurro ancora più impercettibile. «Perché non ce l'hai con noi? Non è ciò che vuoi?» «No. Non ce l'ho con voi.» «Perché?» «Io e tua sorella abbiamo... passato parecchio tempo insieme. Ti ha condiviso con me. E... anch'io ho iniziato a... volerti bene.» «Anche a Jared?» Serrai i denti per un secondo, amareggiata dalla velocità della sua logica. «Certo che sì. Non voglio mettere Jared in pericolo.» «Lui ti odia» constatò Jamie, triste. «Sì. Come tutti» sospirai. «Ma non è colpa loro.» «Jeb non ti odia. E nemmeno io.» «Magari ci penserai meglio e deciderai di sì.» «Ma se tu non eri nemmeno qui, quando ci hanno invasi. Non hai scelto tu mio padre, mia madre o Melanie. Eri nello spazio, no?» «Sì, ma io sono ciò che sono, Jamie. Ho fatto il mio dovere di anima. Ho avuto tanti ospiti prima di Melanie, e niente mi ha mai impedito di... pren-
dere le loro vite. Una dopo l'altra. È la mia vita.» «Melanie ti odia?» Ci pensai per qualche istante. «All'inizio sì.» "No. Non ti odio. Non più." «Dice che non mi odia più» mormorai con un filo di voce. «Come... come sta?» «È contenta di essere qui. Felice di poterti rivedere. Non è nemmeno preoccupata all'idea di venire uccisa insieme a me.» Jamie si irrigidì. «Non possono! Non se Mel è ancora viva!» "Lo hai sconvolto" commentò Melanie. "Non dovevi dirglielo." "Tenerlo all'oscuro non gli renderebbe la vita più facile." «Non ci crederanno, Jamie. Penseranno che è un imbroglio. Confessare aumenterebbe la loro voglia di uccidermi. Soltanto i Cercatori mentono.» A quella parola, ebbe un sussulto. «Ma tu non menti, lo so» disse dopo qualche istante. Mi strinsi nelle spalle. «Non lascerò che la uccidano.» La sua voce era esile come un respiro, ma anche piena di determinazione. Il pensiero di vedere Jamie ancora più coinvolto nella crisi, nella mia situazione, mi paralizzò. La sua età sarebbe bastata a proteggerlo, se avesse cercato di salvarmi da loro? Ne dubitavo. Nei miei pensieri disordinati cercai un modo di dissuaderlo senza stuzzicare la sua testardaggine. Jamie anticipò le mie parole; si era improvvisamente calmato, come se la situazione fosse chiara. «Jared troverà una soluzione. Come sempre.» «Jared non crederà neanche a te... si arrabbierà più di tutti.» «Anche se non mi crederà, la proteggerà. Non può correre il rischio.» «Vedremo» borbottai. Prima o poi avrei trovato le parole giuste: un rimprovero che non somigliasse a un rimprovero. Jamie restò in silenzio, pensieroso. Pian piano il suo respiro rallentò e le sue labbra si schiusero. Attesi che dormisse sodo, poi lo scavalcai e con cautela lo trascinai dal pavimento al letto. Era diventato più pesante, ma ci riuscii, senza svegliarlo. Rimisi il cuscino di Jared al suo posto, e mi allungai sul tappetino. Be', pensai tra me, dalla padella sono uscita. Ma ero troppo stanca di pensare al giorno dopo e alle conseguenze. Pochi secondi e persi conoscenza. Quando mi svegliai, le fenditure sul soffitto erano accese dai riverberi del sole, e qualcuno fischiettava.
«Finalmente» mormorò Jeb mentre mi sforzavo di aprire gli occhi. Mi voltai sul fianco per guardarlo; nello stesso momento sentii la mano di Jamie sfilare dal mio braccio. Durante la notte doveva avermi cercata, o forse aveva cercato sua sorella. Jeb era appoggiato all'imboccatura della caverna, con le braccia incrociate. «'giorno» disse. «Dormito abbastanza?» Mi stiracchiai, decisi che mi sentivo riposata a sufficienza e annuii. «Oh, non ricominciare a fare quella che non parla» commentò, guardandomi di sottecchi. «Scusa» mormorai. «Ho dormito bene, grazie.» Jamie ebbe un sussulto quando mi sentì parlare. «Wanda?» domandò insonnolito. Sentirlo biasciare il mio stupido nomignolo scatenò un'assurda commozione. «Sì?» Jamie sbatté le ciglia e si tolse i capelli arruffati dagli occhi. «Ah, ciao, zio Jeb.» «La mia stanza non ti piace, ragazzo?» «Russi troppo forte» disse Jamie, e sbadigliò. «Non ti ho insegnato niente?» gli domandò Jeb. «Com'è che hai un ospite, una donna per di più, e lo fai dormire per terra?» Jamie si sedette di scatto e si guardò attorno, disorientato. Aggrottò le ciglia. «Non prendertela con lui» dissi a Jeb. «Ha insistito per prendersi il tappetino, sono stata io a spostarlo quando si è addormentato.» Jamie sbuffò. «Come faceva sempre Melanie.» Cercai di inchiodarlo con lo sguardo, come per dargli un avvertimento. Jeb ridacchiò. Lo fissai e notai la stessa espressione da gatto in agguato che aveva sfoggiato il giorno prima. L'espressione da ultima tessera del puzzle. Mi si avvicinò e spostò con un piede il bordo del materasso. «Ti sei perso la lezione del mattino. Sharon finirà per prendersela, perciò sbrigati.» «Sharon se la prende sempre» commentò Jamie, ma si alzò in un baleno. «In marcia, ragazzo.» Jamie mi diede un'altra occhiata, poi si voltò e sparì nel corridoio. «Bene» disse Jeb quando fummo soli. «Penso di averne abbastanza di queste sciocchezze da babysitter. Sono un uomo impegnato. Tutti lo siamo, qui, troppo occupati per giocare a far la guardia e sprecare tempo. Per-
ciò oggi starai con me mentre bado alle mie mansioni.» Restai a bocca aperta. Lui mi guardò senza sorridere. «Non è il caso di spaventarsi» mormorò. «Andrà tutto bene.» Sfiorò il fucile. «In casa mia ci si comporta da adulti.» Non potevo metterlo in dubbio. Respirai a fondo tre volte nel tentativo di rilassarmi. La sua voce fu quasi coperta dal battito rumoroso del mio cuore. «Forza, Wanda. Non sprechiamo tempo.» Si voltò e si allontanò a grandi passi. Per qualche istante rimasi impietrita, poi mi sforzai di seguirlo Non scherzava: era già scomparso dietro la prima curva. Lo rincorsi, terrorizzata dal rischio di imbattermi in qualcuno. «È ora e tempo di seminare l'orto a nordest. Prima va preparato. Spero che tu non abbia paura di sporcarti le mani. Poi farò in modo che ti possa lavare. Ne hai bisogno» disse. Mi sentii avvampare, ma feci finta di niente. «Non mi dispiace sporcarmi le mani» mormorai. Se non ricordavo male, l'orto vuoto di nordest era piuttosto isolato. Forse avremmo lavorato in solitudine. Giunti alla grande caverna principale, iniziammo a incrociare altri umani. Ci guardavano con rabbia, come sempre. Iniziavo a riconoscerli quasi tutti: la donna di mezza età con la chioma lunga, sale e pepe, che avevo visto il giorno prima nella squadra di irrigazione, insieme all'uomo basso con la pancia rotonda, i capelli biondicci e radi e le guance rubizze. La donna dall'aspetto atletico con la pelle abbronzata, color caramello, era quella che avevo visto allacciarsi la scarpa durante la mia prima escursione diurna. Un'altra donna di carnagione scura, con le labbra grosse e lo sguardo assonnato l'avevo vista in cucina, accanto a due bambini dai capelli neri... madre e figli? Passammo anche davanti a Maggie; guardò di traverso Jeb e finse di non vedermi. Poi incontrammo un uomo pallido, dall'aria malata, con i capelli bianchi, che ero certa di non avere mai visto. Infine incrociammo Ian. «Ciao, Jeb» disse, allegro. «Che fai di bello?» «Vado a zappare» grugnì Jeb, «Serve una mano?» «Sarebbe ora e tempo» borbottò Jeb. Ian la prese come una risposta positiva e si mise in marcia alle mie spalle. Avevo la pelle d'oca, grazie al suo sguardo sulla schiena.
Incrociammo un giovane uomo che non doveva essere tanto più vecchio di Jamie. I suoi capelli neri schizzavano dalla nuca olivastra come lana d'acciaio. «Ciao, Wes» lo salutò Ian. Wes ci guardò sfilare in silenzio. Ian rise della sua espressione. Incrociammo Doc. «Ciao, Doc» disse Ian. «Ian» annuì Doc. Tra le mani aveva una grossa pagnotta. La sua camicia era sporca di farina scura e grossa. «'Giorno, Jeb. 'Giorno, Wanda.» Jeb contraccambiò il saluto. Io annuii indecisa. «Ci si vede» disse Doc, e se ne andò con il suo fardello. «Ti chiami Wanda, eh?» disse Ian. «Idea mia» affermò Jeb. «Secondo me le sta bene.» «Interessante» fu l'unica risposta di Ian. Finalmente raggiungemmo l'orto, dove le mie speranze crollarono. C'erano molte più persone di quante ne avessimo incrociate nelle gallerie: cinque donne e nove uomini. Tutti interruppero ciò che stavano facendo e, spontaneamente, mi guardarono in cagnesco. «Non ci badare» mormorò Jeb. Il primo a seguire il consiglio fu proprio lui; si avvicinò a un mucchio di attrezzi appoggiati alla parete più vicina, infilò il fucile nella tracolla che gli penzolava sul fianco e afferrò un piccone e due vanghe. Mi sentivo sotto tiro, così lontana da lui. Ian era un passo indietro, lo sentivo respirare. Il resto dei presenti, attrezzi alla mano, continuava a fissarmi. Non mi sfuggì il fatto che avrebbero potuto usare i picconi e le zappe con cui frantumavano il terreno per frantumare me. A giudicare dalle loro espressioni, non ero l'unica ad averci pensato. Jeb tornò e mi offrì una vanga. Ne afferrai il manico di legno, liscio e consunto, per valutarne il peso. Visti gli sguardi assetati di sangue degli umani, era difficile non considerarla un'arma. Cattiva idea. Dubitai di poterla utilizzare in quel modo, anche solo per parare un colpo. Jeb diede a Ian il piccone. Nelle sue mani, la punta di metallo affilata e annerita aveva un che di letale. Solo con un grande sforzo riuscii a non arretrare. «Prendiamoci l'angolo più lontano.» Se non altro, Jeb mi portò nella parte meno affollata della caverna. A Ian toccava frantumare la terra secca e dura davanti a noi, io passavo a rove-
sciare le zolle e Jeb chiudeva la fila sminuzzandole con il bordo della vanga per trasformarle in suolo utile. Quando vidi il sudore imperlare la pelle chiara di Ian - pochi secondi alla luce secca e rovente degli specchi luminosi erano bastati a fargli levare la maglietta - e sentii il respiro pesante di Jeb alle mie spalle, capii che mi avevano affidato il compito più semplice. Mi sarebbe piaciuto avere qualcosa di più duro da fare, qualcosa che riuscisse a distrarmi dai movimenti altrui. Ogni minimo gesto degli umani mi spaventava, mi levava il fiato. Non potevo sostituire Ian: non avevo abbastanza muscoli sulla schiena né sulle braccia, per triturare a dovere la terra dura. Tuttavia decisi di fare il possibile per aiutare Jeb, sbriciolando almeno un po' le zolle prima che ci arrivasse lui. Così riuscii a distogliere lo sguardo, tanto stanca da dovermi concentrare su ogni mio gesto. Di tanto in tanto Ian ci portava dell'acqua. C'era una donna -minuta, di carnagione chiara, l'avevo vista in cucina il giorno prima - che sembrava incaricata di portare l'acqua, ma ci ignorò. Ian, ogni volta, ne portava quanta bastava per tre. Il suo voltafaccia nei miei confronti mi aveva spiazzata. Davvero non pensava più a uccidermi? Oppure aspettava soltanto l'occasione buona? L'acqua aveva sempre uno strano sapore - sulfureo e stagnante -, e iniziai a sospettarne. Ma non era il caso di lasciarmi prendere dalla paranoia. Lavoravo quanto bastava ad annebbiare la vista e i pensieri; non mi accorsi di essere giunta alla fine dell'ultimo solco. Mi fermai soltanto quando vidi Ian arrestarsi. Si stiracchiò, sollevò il piccone sopra la testa e fece schioccare le articolazioni. Mi allontanai dall'attrezzo sospeso, ma lui non se ne accorse. Notai che tutti si erano fermati. Osservai la terra appena rivoltata, il fondo regolare dell'orto, e mi resi conto che l'opera era completa. «Bel lavoro» annunciò Jeb, ad alta voce, ai presenti. «Domani si semina e si innaffia.» La stanza si riempì di chiacchiere smorzate e dello sferragliare di attrezzi impilati contro la parete. Certe conversazioni erano rilassate; altre nervose, per via della mia presenza. Ian tese la mano per prendere la vanga che gli restituii, mentre il mio umore già cattivo precipitava. Di sicuro l'annuncio di Jeb riguardava anche me. Dovevo aspettarmi un'altra giornata dura. Afflitta, incrociai lo sguardo di Jeb e lo vidi sorridere. A giudicare da quel suo ghigno sfacciato, sapeva leggermi nel pensiero... sembrava quasi fiero di avere intuito il mio disagio. Mi strizzò l'occhio, quel mio amico pazzo. Per l'ennesima volta mi resi
conto che non potevo pretendere di più, dall'amicizia degli umani. «A domani, Wanda» gridò Ian, all'altro capo della stanza, e rise tra sé. Tutti restarono a guardarlo. 24 La sopportazione In effetti non avevo un buon odore. Da quando vivevo là sotto - più di una settimana, ormai? o forse due? avevo perso il conto - portavo gli stessi vestiti della disastrosa traversata del deserto. Con tutto il sale che vi si era seccato, la camicia di cotone si era riempita di grinze, sembrava una fisarmonica. Il tessuto giallo pallido era ricoperto da macchie violacee come la roccia delle caverne. I miei capelli erano sfibrati e rinsecchiti; avevo una corona di ciocche sparate e ingovernabili, una cresta dura che sembrava quella di un pappagallo. Non mi guardavo allo specchio da tempo, ma immaginai che sul mio viso ci fossero due sfumature di viola: quello della caverna e quello dei lividi in via di guarigione. Sì, avevo bisogno di un bagno. E di un cambio di vestiti, perché valesse la pena di lavarmi. Jeb mi propose di indossare quelli di Jamie, mentre i miei si asciugavano, ma non volevo rovinarli. Per fortuna non mi propose niente che appartenesse a Jared. Alla fine rimediai una camicia di flanella, vecchia ma pulita, di Jeb, con le maniche strappate, e un paio di pantaloni della tuta tagliati al ginocchio, scoloriti e bucherellati, che qualcuno aveva perso senza più rivendicarli. Seguii Jeb verso la stanza dei due fiumi con quegli indumenti sottobraccio e un tozzo irregolare di materia puzzolente e pressata, che secondo Jeb era sapone di cactus fatto in casa. Ancora una volta non eravamo soli, e ancora una volta ciò scatenò la mia inquietudine. Tre uomini e una donna - la treccia sale e pepe - riempivano i loro secchi con l'acqua del torrente. Dalla stanza da bagno rimbombava il suono di schizzi d'acqua e risate. «Aspetteremo il nostro turno» disse Jeb. Si appoggiò alla parete. Io restai rigida al suo fianco, inquieta e consapevole delle quattro paia di occhi alle mie spalle, senza staccare lo sguardo dal corso d'acqua scuro e caldo che nasceva dal suolo poroso. Dopo una breve attesa, tre persone uscirono dalla stanza da bagno con i capelli gocciolanti: erano la donna atletica dalla pelle caramello, una giovane bionda che non ricordavo di aver mai visto e Sharon, la cugina di
Melanie. Le risate si interruppero non appena si accorsero di noi. «Buon pomeriggio, signore» disse Jeb, sfiorandosi la fronte come fosse la tesa di un cappello. «Jeb» fu l'unica risposta della donna caramello. Sharon e l'altra ci ignorarono. «Perfetto, Wanda» disse Jeb quando passarono oltre. «È tutto tuo.» Cercai di ricordare la conformazione del fondo: ero certa che tra me e l'orlo della vasca ci fosse poco più di un metro. Mi levai le scarpe, per tastare con i piedi il calore dell'acqua. Non c'era che buio. Ricordavo la superficie plumbea e opaca della vasca - densa di presenze immaginarie ma inquietanti - e rabbrividii. Tuttavia, indugiare significava soltanto prolungare la sofferenza, perciò posai i vestiti puliti accanto alle scarpe, presi con me il sapone puzzolente e avanzai con cautela fino a trovare il bordo della piscina. L'acqua era fresca, in confronto all'aria densa di vapori della caverna. Piacevole. Cercai di godermi la sensazione, malgrado il terrore che non se ne andava. Da tempo immemore non mi sentivo più al fresco. Ancora vestita degli abiti sporchi, mi immersi fino ai fianchi. Sentivo la corrente del fiume mulinare attorno alle caviglie e premere contro la roccia. Per fortuna non era acqua stagnante; sarebbe stato sgradevole insozzarla, sporca com'ero. Mi inginocchiai nell'inchiostro fino a immergere le spalle. Passai il sapone ruvido sui vestiti, certa di poterli pulire a dovere. La mia pelle bruciava leggermente, a contatto con il sapone. Mi sfilai gli abiti insaponati e li strofinai sott'acqua. Poi li risciacquai fino a cancellare i segni del sudore e delle lacrime; li strizzai e li posai a terra accanto a dove ricordavo di aver lasciato le scarpe. Il sapone bruciava ancora più forte sulla pelle nuda, specialmente in corrispondenza delle ferite, ma era un fastidio sopportabile Fui felice di posare il sapone acido sul pavimento di roccia e di sciacquarmi a fondo, come avevo fatto con i vestiti. Fu con uno strano misto di sollievo e nostalgia che uscii gocciolante dalla vasca. La sensazione dell'acqua e quella di pulito sulla pelle, che ancora pizzicava, erano una gioia. Ma ne avevo abbastanza di vagare alla cieca tra i pericoli che continuavo a immaginare. Tastai la roccia fino a trovare i vestiti asciutti, che indossai svelta, e infilai nelle scarpe i piedi cotti dall'acqua. Quando uscii, Jeb rise notando la cautela con cui stringevo il sapone.
«Pizzica un po', eh? Stiamo cercando di rimediare.» Mi offrì la mano, protetta dalla manica della camicia, e gli restituii la saponetta. Non risposi alla domanda, perché non eravamo soli; dietro di lui c'era una fila di persone in attesa: erano in cinque, e venivano tutti dal campo arato. Ian era il primo. «Così stai meglio» mi disse, ma non riuscii a capire se il suo tono fosse sorpreso o scocciato. Alzò un braccio e con le dita lunghe e pallide arrivò quasi a sfiorarmi il collo. Arretrai, e lui ritrasse la mano, svelto. «Ti chiedo scusa» mormorò. Per avermi spaventata, o per avermi lasciato un segno sul collo? Non potevo immaginare che chiedesse scusa per aver cercato di uccidermi. Di certo mi voleva ancora morta. Ma non era il caso di domandarglielo. Iniziai a camminare e Jeb si mise al mio passo. «E allora, la giornata non è andata così male» disse mentre percorrevamo il corridoio buio. «No, non male» mormorai. Dopotutto, non mi avevano ancora assassinata. Era sempre un aspetto positivo. «Domani andrà ancora meglio» promise. «Mi diverto sempre, quando si semina: adoro osservare il miracolo dei semi piccoli, che sembrano morti ma custodiscono così tanta vita. Mi fa sentire un vecchio rinsecchito che a qualcosa serve ancora. Come fertilizzante, magari.» Rise della sua battuta. Giunti alla caverna grande, mi prese per un gomito e mi guidò a destra anziché a sinistra. «Non dirmi che non hai fame, dopo tutto il nostro scavare» disse. «Il servizio in camera non fa parte delle mie mansioni. Ti toccherà mangiare dove mangiano tutti.» Feci una smorfia e abbassai lo sguardo, ma mi lasciai portare in cucina. Per fortuna il cibo era sempre il solito, perché se per miracolo si fossero materializzati un filetto o un pacchetto di patatine, non sarei stata capace di assaggiarli. Mi occorreva tutta la concentrazione di cui ero capace, per deglutire. La cucina non era affollata, erano soltanto in dieci a mangiare pane e sorseggiare zuppa annacquata, appoggiati ai ripiani. Ma per l'ennesima volta, uccisi ogni conversazione. Chissà per quanto tempo ancora sarebbe andata così. La risposta fu: esattamente quattro giorni. In quello stesso arco di tempo capii dove volesse arrivare Jeb, cosa aves-
se scatenato la sua metamorfosi da padrone di casa gentile a tiranno bisbetico. Dopo l'aratura, passai una giornata a seminare e irrigare con un gruppo di persone diverso rispetto al giorno prima; probabilmente c'era un sistema di rotazione dei compiti. Maggie era in quel gruppo, e anche la donna dalla pelle color caramello, di cui non conoscevo il nome. Quasi tutti lavoravano in silenzio. Un silenzio innaturale, una protesta contro la mia presenza. Ian lavorava con noi malgrado non fosse il suo turno, e ciò mi infastidì. Fui costretta a mangiare di nuovo in cucina. Ritrovai Jamie, il solo a scongiurare che cadesse di nuovo il silenzio. Sapevo che era troppo sensibile per non notare quella pausa imbarazzata, ma la ignorò bellamente, e quasi finse che lui e Ian fossero gli unici presenti. Chiacchierò della sua lezione con Sharon, si lamentò un po' di una sgridata presa perché aveva parlato senza averne il permesso, e del castigo subito. Jeb lo rimproverò senza convinzione. Entrambi se la cavavano, nel tentativo di sembrare normali. Io non ero capace di recitare. Quando Jamie mi domandò com'era andata, i miei sforzi produssero soltanto uno sguardo fisso sul cibo e qualche risposta biascicata. Un po' ci rimase male, ma non si accanì. Di notte era un altro paio di maniche. Mi spronava a parlare finché non lo supplicavo di lasciarmi dormire. Jamie si era ripreso la stanza occupando il lato del letto di Jared e implorandomi di prendere io il suo. Come nei ricordi di Melanie, che approvò la novità. E così Jeb. «In questo modo non dobbiamo cercare nessuno che finga di fare la guardia. Tieniti il fucile accanto e non dimenticartene» disse a Jamie. Protestai, ma sia l'uomo sia il ragazzo rifiutarono di ascoltarmi. Così Jamie si addormentava con il fucile al suo fianco, mentre io, inquieta, lo immaginavo nei miei incubi. Il terzo giorno di lavoro lo trascorsi in cucina. Jeb mi insegnò a impastare quel pane grezzo, a plasmarlo e a farlo lievitare, prima di accendere il fuoco nel grande forno di pietra, quando fuori era abbastanza buio. A metà pomeriggio, si allontanò. «Vado a prendere dell'altra farina» borbottò, giocherellando con la tracolla da cui penzolava il fucile. Le tre donne silenziose che impastavano con noi non alzarono lo sguardo. Io ero sprofondata fino ai gomiti nella pagnotta appiccicosa, ma cercai di darmi una pulita per poter seguire Jeb. Lui sorrise, lanciò un'occhiata alle donne e scosse la testa. Poi si voltò e
schizzò fuori dalla stanza prima che potessi liberarmi. Restai impietrita, senza fiato. Guardai le tre donne - la giovane bionda del bagno, la treccia sale e pepe, e la madre con le borse sotto gli occhi nell'attesa che capissero di potermi uccidere seduta stante. Niente Jeb, niente fucile, le mie mani intrappolate nell'impasto colloso: niente ostacoli. Ma le donne continuavano a mescolare e impastare, senza rendersi conto di quella verità evidente. Dopo qualche istante di terrore, anch'io tornai all'opera. Restare immobile aumentava il rischio di stuzzicarle. Jeb non tornava più. Forse era andato a macinare dell'altra farina. Era l'unica spiegazione logica. «Ci hai messo un bel po', eh?» disse la treccia sale e pepe quando lo vide tornare, e capii che non me l'ero soltanto immaginato. Jeb posò a terra un pesante sacco di juta, che cadde rumoroso. «Non è un carico da niente. Prova tu a portarlo, Trudy.» La donna sbuffò. «Chissà quante soste hai fatto per riposarti.» «Altroché» sorrise Jeb. Il mio cuore, che fino a quell'istante aveva battuto veloce come le ali di un uccellino, prese un ritmo meno frenetico. Il giorno dopo, eccoci a pulire gli specchi della grotta occupata dal campo di granturco. Jeb mi disse che era un'operazione necessaria, perché la combinazione di umidità e polvere incrostava gli specchi e riduceva la luce che arrivava alle piante. Fu Ian, che di nuovo lavorava con noi, a salire sulla scala traballante di legno che io e Jeb tenevamo ferma. Era un compito difficile, dato il peso di Ian e lo scarso equilibrio di quell'utensile fatto in casa. A fine giornata avevo le braccia indolenzite e malandate. Soltanto a lavoro terminato, mentre ci dirigevamo in cucina, notai che la fondina improvvisata di Jeb era vuota. Mi sfuggì un singulto, e le ginocchia si irrigidirono come le zampe di un pulcino spaventato. Con un fremito, il mio corpo si fermò dov'era. «Che c'è, Wanda?» domandò Jeb, in tono troppo innocente. Avrei risposto, se Ian non fosse stato al suo fianco a scrutare la mia strana reazione, con gli occhi azzurri accesi di curiosità. Mi limitai a lanciare a Jeb un'occhiataccia che mescolava incredulità e rimprovero, e iniziai lentamente a camminargli accanto, scuotendo la testa. Jeb ridacchiò. «Che succede?» mormorò Ian a Jeb, come se non potessi sentirlo. «Non saprei» rispose lui; mentiva come soltanto un umano poteva, con disinvoltura e semplicità.
Visto che era così bravo a mentire, mi venne il dubbio che dimenticarsi il fucile, oppure lasciarmi sola, come il giorno prima, oltre agli sforzi con cui mi costringeva a subire la compagnia degli umani, fossero soltanto espedienti per farmi uccidere senza doversene occupare di persona. Mi ero illusa, giudicandolo un amico? Era l'ennesima bugia? Per il quarto giorno mangiai in cucina. Insieme a Jeb e Ian entrai nella stanza calda - affollata da un gruppo di umani che parlottavano delle faccende quotidiane - e non accadde nulla. Niente silenzi improvvisi. Nessuno si voltò a fulminarmi con lo sguardo. Nessuno parve accorgersi di noi. Jeb mi guidò verso un posto libero sul bancone e andò a prendere pane per tre. Ian si sedette vicino a me e si voltò tranquillo verso la ragazza che gli stava a fianco. Era la giovane bionda, e la chiamò per nome: Paige. «Come va? Te la cavi bene senza Andy?» le domandò. «Starei meglio se non fossi così preoccupata» rispose lei incerta. «Tornerà presto» la rassicurò Ian. «Jared porta sempre tutti a casa. Ha un vero talento. Da quando è arrivato non abbiamo più avuto problemi né incidenti. Andy ce la farà.» Sentire il nome di Jared innescò il mio interesse - anche Melanie, dopo giorni di sonnolenza, ebbe un sussulto - ma Ian non aggiunse altro. Sfiorò la spalla di Paige e si voltò verso Jeb per prendere da mangiare. Jeb si accomodò accanto a me e ispezionò la stanza con uno sguardo pieno di soddisfazione. Anch'io mi guardai intorno, incuriosita. Evidentemente era così che andava prima del mio arrivo. Quel giorno la mia presenza non sembrava disturbarli. Forse erano stufi che interrompessi le loro vite. «Torna la tranquillità» commentò Ian. «Ne ero certo. Siamo gente di buon senso, noi.» Mi rabbuiai. «È vero, per il momento» disse Ian ridendo. «Visto che mio fratello non è nei paraggi.» «Già» commentò Jeb. Curioso che Ian si fosse annoverato tra le persone «di buon senso»! Aveva notato che Jeb non portava armi? Bruciavo di curiosità, ma non potevo correre il rischio di farglielo notare. Il pasto continuò com'era iniziato. A quanto pareva, non ero più una novità. Dopo mangiato, Jeb disse che meritavo una pausa. Da bravo gentiluomo, mi accompagnò fino alla stanza.
«Buon pomeriggio, Wanda» disse, sfiorando il suo cappello immaginario. Per trovare coraggio, respirai a fondo. «Aspetta, Jeb...» «Sì?» «Jeb...» non trovavo una maniera educata di dirlo. «Io... be', forse è una stupidaggine, ma, ecco, pensavo che fossimo amici.» Osservai la sua espressione in cerca di un indizio che smascherasse le bugie che stava per raccontarmi. Mi sembrava un uomo gentile, ma che ne sapevo di come si smaschera un bugiardo? «Certo che lo siamo, Wanda.» «E allora perché permetti che mi uccidano?» Sorpreso, aggrottò le sopracciglia folte. «Ma che ti viene in mente, piccola?» Elencai i miei sospetti. «Oggi non hai preso il fucile. E ieri mi hai lasciata sola.» Jeb sorrise. «Ma se sei la prima a odiarlo, quel fucile.» Pretendevo una risposta. «Wanda, se avessi voluto ucciderti, non saresti sopravvissuta un solo giorno.» «Lo so» mormorai, imbarazzata senza sapere perché. «Per questo è tutto così confuso.» Jeb rise di gusto. «No, non ti voglio morta! Questo è il punto, ragazza. Li ho abituati alla tua compagnia, li ho costretti ad accettare la situazione senza rendersene conto. È come bollire una rana.» Corrugai la fronte, perplessa dalla metafora eccentrica. «Se butti una rana viva dentro una pentola d'acqua bollente, lei salta fuori. Ma se la ficchi dentro una pentola d'acqua tiepida e la scaldi pian piano, quando la rana capisce che cosa le sta succedendo è troppo tardi. Rana bollita. Tutta questione di lavorare per gradi, lentamente.» Ci pensai per qualche secondo, ripensai a come gli umani mi avevano ignorata, quel giorno a pranzo. Jeb li aveva abituati a me. Quella certezza mi diede una speranza su cui non avrei scommesso. In una situazione come la mia affidarsi alla speranza era sciocco, ma tuttavia la sentii penetrare e colorare le mie percezioni come non mai. «Jeb?» «Dimmi.» «Io sono la rana o l'acqua?» Scoppiò a ridere. «Il rompicapo risolvilo tu. L'autoanalisi fa bene all'a-
nima.» Rise ancora, più forte, e fece per andarsene. «Niente doppi sensi, eh.» «Aspetta. Posso farti un'altra domanda?» «Certo. Direi che tocca a te, dopo tutto quello che ti ho chiesto io.» «Perché sei mio amico, Jeb?» Corrugò le labbra e per qualche istante meditò sulla risposta. «Avrai capito che sono un tipo curioso» commentò, e io annuii. «Be', mi capita spesso di osservare le anime, ma non parlo mai con nessuna di voi. Ho accumulato una montagna di domande, sempre più alta... In più, sono convinto che se una persona ci tiene, può andare d'accordo con chiunque. Mi piace mettere in pratica le mie teorie. E, vedi, tu sei una delle ragazze più amabili che abbia mai conosciuto. È davvero interessante avere un'anima per amica, ed essere riuscito a farcela mi fa sentire superspeciale.» Strizzò l'occhio, fece un bell'inchino e se ne andò. Malgrado il piano di Jeb mi fosse ormai chiaro, vederlo messo in pratica non mi tranquillizzava. Non portava più il fucile. Non sapevo dove lo avesse lasciato, e tutto sommato ero lieta che Jamie non lo avesse più quando dormiva. La presenza di Jamie disarmato, al mio fianco, mi innervosiva un po', ma in fondo senza armi correva meno rischi. Nessuno avrebbe sentito il bisogno di fargli del male, perché non era più una minaccia. Ma soprattutto nessuno veniva più a cercarmi. Jeb iniziò ad affidarmi piccole commissioni. Di corsa in cucina a prendere un altro panino, se aveva fame. O a recuperare un secchio d'acqua, perché un angolo del campo era secco. Va' a prendere Jamie a lezione, perché ho bisogno di parlare con lui. Sono spuntati gli spinaci? Va' a controllare. Ti ricordi la strada per le grotte meridionali? Ho un messaggio per Doc. Ogni volta che dovevo eseguire uno di quei semplici ordini, sudavo freddo per la paura. Mi sforzavo di essere invisibile, camminavo più veloce che potevo senza correre attraverso le grandi stanze e lungo i corridoi scuri. Strisciavo contro le pareti e tenevo lo sguardo basso. Di tanto in tanto mi capitava di spegnere una conversazione, come i primi giorni, ma perlopiù venivo ignorata. L'unica occasione in cui mi sentii in pericolo immediato di morte fu quando interruppi la lezione di Sharon per andare a prendere Jamie. Lo sguardo che lei mi riservò sembrava carico di intenzioni ostili. Ma lasciò andare Jamie con un cenno, dopo la mia richiesta soffocata;
quando fummo soli, il ragazzo mi prese la mano tremante e spiegò che Sharon inchiodava in quel modo chiunque interrompesse le lezioni. L'episodio peggiore in assoluto accadde quando Ian insistette ad accompagnarmi da Doc. Avrei potuto rifiutare, forse, ma Jeb acconsentì alla proposta di Ian, del quale, evidentemente, si fidava. Per me fu tutt'altro che una passeggiata mettere alla prova anche quella teoria, ma ormai era inevitabile. Se Jeb si sbagliava, Ian avrebbe avuto a portata di mano l'opportunità di uccidermi. Così, entrai assieme a lui nel lungo e buio tunnel meridionale, come verso una vera prova del fuoco. Sopravvissi alla prima metà del viaggio. Doc ricevette il messaggio. Non pareva sorpreso di vedere Ian al mio fianco. Forse me l'ero immaginato, ma sembrava che si fossero scambiati uno sguardo d'intesa. A quel punto mi aspettavo che mi legassero a uno dei lettini di Doc. Quei locali mi davano ancora la nausea. Invece lui mi ringraziò e mi lasciò andare, come fosse troppo occupato. Non capii da che genere di incombenze: sul tavolo c'erano parecchi libri aperti, e risme su risme di fogli, pieni di quelli che sembravano schizzi. Sulla strada del ritorno, la curiosità ebbe la meglio sulla paura. «Ian?» domandai, e fu difficile pronunciare il suo nome per la prima volta. «Sì?» rispose, forse sorpreso che lo avessi interpellato. «Perché non mi hai ancora uccisa?» Soffocò una risata. «Che domanda sfacciata.» «Lo sai che potresti. Jeb non la prenderebbe bene, ma non credo che ti sparerebbe.» Cosa stavo dicendo? Sembrava che volessi convincerlo. Mi morsi la lingua. «Lo so» disse compiaciuto. Per qualche istante rimanemmo in silenzio, ad accompagnarci solo il rumore dei passi che riecheggiava, cupo e smorzato, sulle pareti della galleria. «Però non mi sembra giusto» disse finalmente Ian. «Ci ho pensato parecchio, e ho capito che ucciderti non risolverebbe niente. Sarebbe come giustiziare un soldato semplice per i crimini di guerra commessi dal suo generale. Certo, non mi bevo le teorie folli di Jeb: mi piacerebbe crederci, ma non basta credere in una cosa perché si realizzi. L'importante, che lui abbia ragione o no, è che non sembri affatto pericolosa. Devo ammetterlo, si vede che vuoi davvero bene al ragazzino. È una strana cosa da vedere. Comunque, dal momento che non rappresenti un pericolo, sarebbe... cru-
dele ucciderti. Cosa cambia che tra noi ci sia un'asociale in più?» Meditai sulla parola «asociale»: nessuno mi aveva mai descritta con tanta efficacia. Esisteva un luogo dove mi fossi sentita davvero a casa? Strano che proprio Ian, di tutti gli umani, si mostrasse così sensibile e gentile. Non avevo afferrato che per lui la crudeltà era qualcosa di negativo. Mentre meditavo restò in silenzio. «Se non vuoi uccidermi, perché mi hai seguita, oggi?» domandai. Il suo silenzio proseguì per qualche altro istante. «Non saprei... Secondo Jeb la situazione si è calmata, ma io non ne sono del tutto certo. C'è ancora qualcuno... Be', io e Doc abbiamo cercato di tenerti d'occhio il più possibile. Non si sa mai. Lasciarti attraversare la galleria meridionale mi sembrava un azzardo. Ma è ciò che riesce meglio a Jeb... giocare d'azzardo finché può.» «Tu... tu e Doc state cercando di proteggermi?» «È un mondo strano, eh?» Riuscii a rispondere soltanto dopo qualche secondo. «Sì, il più strano di tutti.» 25 L'obbligo Passò un'altra settimana, forse due - ormai era irrilevante tenere conto del tempo -, e la mia situazione si fece sempre più strana. Lavoravo insieme agli umani tutti i giorni, ma non sempre con Jeb. A volte mi accompagnava Ian, oppure Doc, in certi giorni soltanto Jamie. Sarchiavo i campi, impastavo il pane, pulivo la cucina. Trasportavo l'acqua, cucinavo zuppa di cipolle, lavavo i vestiti e mi bruciavo le mani per fabbricare quel sapone acido. Ognuno faceva la sua parte, e siccome non avevo alcun diritto di trovarmi là, cercavo di lavorare il doppio degli altri. Ascoltando le loro conversazioni, iniziai a scoprire qualcosa degli umani che mi circondavano. Finalmente imparai qualche nome. La donna dalla pelle color caramello si chiamava Lily, e veniva da Philadelphia. Non aveva un gran senso dell'umorismo, e andava d'accordo con tutti perché non si innervosiva mai. Wes, il giovane con i capelli neri ispidi, la seguiva di continuo con lo sguardo, ma lei quasi non se ne accorgeva. Wes aveva soltanto diciannove anni ed era fuggito da Eureka, nel Montana. La madre dallo sguardo assonnato si chiamava Lucina, i suoi figli Isaiah e Freedom.
Il minore era nato nelle caverne, messo al mondo da Doc. Non mi capitava spesso di incrociare i bambini; sembrava che la madre li volesse tenere il più lontano possibile da me. L'uomo semicalvo, con le guance rosse, era il marito di Trudy: si chiamava Geoffrey. Li si vedeva spesso insieme a un altro anziano, Heath, amico d'infanzia di Geoffrey; i tre erano sfuggiti all'invasione insieme. L'uomo pallido dai capelli bianchi si chiamava Walter, era malato, ma Doc non aveva ancora scoperto di cosa: impossibile, senza strutture mediche né attrezzatura, e anche se fosse riuscito a fare una diagnosi, non avrebbe avuto farmaci adeguati. Con il progredire dei sintomi, Doc aveva ipotizzato che si trattasse di cancro. Per me fu una sofferenza vedere qualcuno morire davvero a causa di un morbo così facile da curare. Walter si stancava in fretta ma era sempre di buonumore. La donna dai capelli biondo-grigi - un bel contrasto con gli occhi neri - che avevo visto distribuire l'acqua il primo giorno nel campo si chiamava Heidi. Travis, John, Stanley, Reid, Carol, Violetta, Ruth Ann.., finalmente conoscevo i loro nomi. La colonia contava trentacinque membri, sei dei quali erano in missione con Jared. Perciò erano rimasti in ventinove, più un alieno indesiderato. Scoprii anche qualcosa sui miei vicini. Ian e Kyle condividevano un alloggio nel mio corridoio, quello con le due porte vere appoggiate all'entrata. In segno di protesta per la mia presenza, all'inizio, Ian si era fatto ospitare da Wes in un'altra galleria, ma dopo due sole notti era tornato. Anche le altre caverne vicine erano rimaste vuote per un po'. Jeb mi disse che i loro occupanti avevano paura di me, e scoppiai a ridere. Ventinove serpenti a sonagli spaventati da un solo topolino? Paige era tornata nella stanza accanto alla mia, che divideva con Andy, il compagno di cui lamentava l'assenza. Lily e Heidi occupavano la prima grotta, quella con le tende a fiori; Heath la seconda, quella con il cartone tenuto insieme dal nastro adesivo; Trudy e Geoffrey la terza, con un plaid a strisce. Reid e Violetta occupavano l'ultima stanza del corridoio, oltre la mia, e proteggevano la propria intimità con un tappeto orientale macchiato e liso. Nella quarta grotta del corridoio vivevano Doc e Sharon, nella quinta Maggie. Doc e Sharon stavano insieme, e Maggie, nei suoi rari momenti di sarcasmo, prendeva in giro la ragazza, dicendole che c'era voluta la fine del mondo perché trovasse l'uomo perfetto: ogni madre desidera che la propria
figlia sposi un medico. Sharon non era più quella dei ricordi di Melanie. Erano stati gli anni di convivenza forzata con l'austera Maggie a trasformarla in una versione soltanto un po' più colorata di sua madre? Stava con Doc da poco, ma il nuovo amore non sembrava averne ammorbidito il carattere. Fu Jamie a parlarmi di loro; Sharon e Maggie non dimenticavano mai la mia presenza e badavano a nascondere le proprie conversazioni. Restavano le mie oppositrici più fiere, le uniche che, non contente di ignorarmi, mi erano ancora apertamente ostili. Avevo chiesto a Jamie come fossero riuscite a salvarsi. Avevano trovato Jeb da sole, anticipando Jared e Jamie? Il ragazzo parve intuire la vera domanda: Melanie aveva compiuto un sacrificio inutile, andandole a cercare? Jamie rispose di no. Dopo che Jared gli aveva mostrato l'ultimo biglietto d'addio di Melanie - dopo la parola «addio» fece una pausa, e in quell'incertezza percepii tutte le conseguenze di un momento decisivo per lui e per Jared - decisero di andare loro stessi alla ricerca di Sharon. Per Jared fu difficile: dovette cercare di spiegare la situazione a Maggie mentre lei lo minacciava con un'antica spada. Maggie e Jared insieme non impiegarono molto a decifrare l'enigma di Jeb. I quattro raggiunsero le caverne prima che io venissi trasferita da Chicago a San Diego. Parlare di Melanie con Jamie non era difficile come temevo. Lei era sempre presente nelle nostre conversazioni e malgrado avesse poco da dire, alleviava il dolore del ragazzo e mi rendeva meno impacciata. Ormai non mi parlava quasi più, e quando ci provava sembrava lontana; talvolta scambiavo i miei stessi pensieri con l'eco di ciò che poteva aver detto. In presenza di Jamie, però, si sforzava. Vicino a lui, la sentivo, e, anche se taceva, avvertivamo entrambi la sua presenza. «Perché Melanie è diventata così silenziosa?» mi domandò Jamie una sera. Per una volta, non mi tormentava con le domande a proposito di Ragni o Assaggia-fuoco. Entrambi eravamo stanchi, era stata una giornata pesante, trascorsa a raccogliere carote. La mia schiena era rigida. «Per lei è difficile parlare, le occorre un certo sforzo. Forse non ha niente di così importante da dire.» «Ma cosa fa tutto il tempo?» «Ascolta, credo. Ma di preciso non lo so.» «Adesso la senti?»
«No.» Sbadigliai, e Jamie tacque. Forse si era addormentato. Ero pronta a seguire il suo esempio. «Pensi che scomparirà? Per sempre?» sussurrò a un tratto, incespicando sull'ultima parola. Non ero una bugiarda, ma anche lo fossi stata, non avrei potuto mentire proprio a Jamie. Cercai di non pensare alle implicazioni dei miei sentimenti per lui. Perché l'amore più intenso che avessi mai provato in nove vite, la prima vera sensazione di familiarità, di istinto materno, aveva come oggetto una forma di vita per me aliena? Allontanai quel pensiero. «Non lo so» risposi. Poi, in tutta sincerità, aggiunsi: «Spero di no». «Le vuoi bene come a me? Una volta la odiavi anche tu?» «È diverso dal bene che voglio a te. E non l'ho mai odiata davvero, neanche all'inizio. Avevo molta paura di lei, mi faceva rabbia non poter essere come gli altri per causa sua. Ma ho sempre, sempre ammirato la forza, e Melanie è la persona più forte che abbia mai conosciuto.» Jamie scoppiò a ridere. «Tu avevi paura di lei?» «Non pensi che tua sorella possa fare paura? Ricordi di quando ti sei spinto troppo in là nel cuore del canyon, e dopo che sei tornato tardi lei ti ha "fatto una scenata di rabbia velenosa", come disse Jared?» Quel ricordo lo fece ridere. Fui lieta di averlo distratto da una domanda difficile. Ero pronta a fare di tutto per vivere in pace con i miei nuovi compagni, pensavo di essere disposta a qualsiasi sforzo, faticoso o disgustoso che fosse, ma scoprii che mi sbagliavo. «Stavo pensando...» mi disse Jeb un giorno, circa due settimane dopo che tutti si erano «calmati». Iniziavo a odiare quel suo modo di esprimersi. «Ricordi quando ti ho detto che magari potevi insegnare qualcosa?» «Sì.» «Be', che ne pensi?» La risposta fu immediata. «No.» Ma così non feci che scatenare il mio senso di colpa. Non avevo mai ignorato la mia Vocazione, prima: l'avrei considerato un atto di egoismo. Ovviamente, in quel caso non era la stessa cosa. Le anime non mi avrebbero mai chiesto di compiere un gesto così autolesionista. Mi guardò cupo, aggrottando le sopracciglia cespugliose. «Perché no?» «Come pensi che la prenderebbe Sharon?» domandai, senza tradire e-
mozioni. Era soltanto un esempio, forse il più efficace. Jeb annuì, imbronciato. «È per il bene comune» borbottò. Soffocai un ghigno. «Il bene comune? Allora sarebbe meglio uccidermi, no?» «Wanda, non essere miope» disse, criticandomi come se la mia risposta fosse un tentativo serio di convincerlo. «Abbiamo un'opportunità insperata di imparare qualcosa. Sarebbe uno spreco gettarla al vento.» «Non so in quanti vorrebbero imparare da me. Parlare con te o con Jamie non è un problema, ma...» «Non mi importa cosa vogliono» insistette Jeb. «Gli farà bene. Come scegliere tra cioccolato e broccoli. Dovrebbero sapere qualcosa in più dell'universo... oltre che dei nuovi inquilini del pianeta.» «Ma a cosa servirà? Pensi che grazie alle mie conoscenze potrete distruggere le anime? O cambiare il corso delle cose? Jeb, è finita.» «Finché ci siamo noi, non è finita» replicò con un sorriso, per farmi intendere che mi stava stuzzicando. «Non mi aspetto che tu tradisca i tuoi per fornire a noi chissà quale superarma. Penso soltanto che dovremmo conoscere più a fondo il pianeta su cui viviamo.» Trasalii al pensiero del tradimento. «Non potrei fornirvi un'arma nemmeno se volessi, Jeb. Non abbiamo punti deboli né talloni d'Achille. Non c'è nessun arcinemico spaziale disposto ad aiutarvi, né virus innocui per la vostra specie ma letali per noi. Mi dispiace.» «Non prendertela così.» Strinse un pugno e mi diede un colpetto scherzoso sul braccio. «Potresti rimanere sorpresa. Te l'ho detto, qui ci si annoia. La comunità potrebbe avere bisogno delle tue storie, più di quanto immagini.» Sapevo che non avrebbe mollato. Non credo fosse mai stato capace di accettare una sconfitta. A pranzo mangiavo con Jeb e Jamie, se non era a scuola od occupato altrove. Ian si sedeva nei dintorni, a volte proprio accanto a noi. Non riuscivo ad accettare del tutto il ruolo di guardia del corpo che si era autoimposto. Sembrava troppo bello per essere vero; perciò, secondo i canoni della filosofia umana, falso. Pochi giorni dopo il mio rifiuto di fare da insegnante agli umani «per il bene comune», Doc venne a sedersi accanto a me, durante il pasto della sera. Sharon restò al proprio posto, nell'angolo più lontano rispetto a dove di
solito mi sedevo. Era sola, senza sua madre. Non si voltò nemmeno a guardare Doc mentre avanzava verso di me. I suoi capelli fiammeggianti erano raccolti in una crocchia alta, che ne evidenziava il collo rigido e le spalle piegate, tese in una posa inquieta. Sentii il bisogno di andarmene subito, prima ancora che Doc aprisse bocca. Ma con me c'era Jamie, che mi prese per mano quando notò il mio sguardo di panico. Aveva sviluppato la capacità straordinaria di intuire i miei cambiamenti d'umore. Sospirai e restai ferma. Forse avrei dovuto preoccuparmi del fatto che ormai ero schiava dei capricci di un ragazzino. «Come va?» chiese Doc disinvolto, sedendosi sulla panca accanto a me. Ian, a meno di un metro da noi, si voltò in modo da sembrare uno del nostro gruppo. Scrollai le spalle. «Oggi abbiamo preparato noi la zuppa» annunciò Jamie. «Mi bruciano ancora gli occhi.» Doc alzò le mani, rosse e lucide. «Io ho preparato il sapone.» Jamie rise. «Vinci tu.» Doc fece un inchino scherzoso, poi si rivolse a me. «Wanda, volevo chiederti...» E lasciò cadere la frase. Alzai le sopracciglia. «Be', mi chiedevo... Tra i pianeti con cui hai familiarità, qual è la specie fisicamente più simile agli umani?» Lo guardai perplessa. «Perché?» «Sana curiosità biologica, sai com'è. Ho riflettuto su ciò che fanno i vostri Guaritori... Dove imparano a curare, anziché limitarsi a combattere i sintomi, come hai detto tu?» Doc parlava a voce più alta del necessario, insisteva sulle parole più del solito. In tanti alzarono gli occhi: Trudy e Geoffrey, Lily, Walter... Strinsi le braccia al petto, come per occupare meno spazio. «Sono due domande ben distinte» mormorai. Doc sorrise e mi invitò a continuare. Jamie strinse la mia mano. Sospirai. «Gli Orsi, sul Pianeta delle Nebbie, direi.» «Quello delle bestie con le chele?» sussurrò Jamie. Annuii. «In che senso ci somigliano?» insistette Doc. Pur infastidita dal sospetto che ci fosse lo zampino di Jeb, continuai. «Hanno molti tratti in comune con i mammiferi. Pelliccia, sangue caldo. Il
sangue è diverso dal vostro, ma svolge quasi le stesse funzioni. Provano emozioni simili a quelle umane, e come voi hanno bisogno di interazioni sociali e sfoghi creativi...» «Creativi?» Doc si chinò in avanti incuriosito, o immedesimato nella parte del curioso. «In che senso?» Diedi un'occhiata a Jamie. «Tu lo sai. Perché non glielo spieghi?» «Magari sbaglio.» «No.» Il ragazzo guardò Doc, che annuì. «Be', ecco, hanno queste mani straordinarie.» Jamie si riempì subito di entusiasmo. «Con una specie di doppia articolazione, le curvano anche al contrario.» Inarcò le dita come per piegarle all'indietro. «Un lato è liscio, come il palmo della mia mano, ma l'altro sembra fatto di lame! Tagliano il ghiaccio... come scultori. Costruiscono edifici simili a castelli di cristallo che non si sciolgono mai! È bellissimo, vero Wanda?» Annuii. «Percepiscono gamme diverse di colori; per loro il ghiaccio è pieno di arcobaleni. Sono orgogliosi delle loro città, e si sforzano di continuo di abbellirle. Conoscevo un Orso che chiamavamo... qualcosa di simile a "Tessitore di riflessi" (ma in quel linguaggio suonava meglio), perché il ghiaccio sembrava piegarsi a ogni suo desiderio. Ho visto le sue creazioni. Resta uno dei miei ricordi più belli.» «Fanno sogni?» domandò Ian a bassa voce. Abbozzai un sorriso. «Non vividi come quelli degli umani.» «I vostri Guaritori, dove trovano le informazioni sulla fisiologia di una specie nuova? Quando sono arrivati su questo pianeta sapevano già tutto. Me ne accorsi subito quando vidi certi malati terminali uscire con le proprie gambe dall'ospedale...» Sulla fronte increspata del dottore comparve una ruga profonda. Come gli altri odiava gli invasori, ma era anche l'unico a invidiarli. Non volevo rispondere. A quel punto, tutti erano in ascolto, e non si trattava della favoletta degli Orsi che scolpiscono il ghiaccio. Era la storia della loro sconfitta. Doc restò in attesa, accigliato. «Ecco... prendono dei campioni» mormorai. Ian sorrise. «Ah, capito: i rapimenti alieni.» Lo ignorai. Le labbra di Doc si incresparono. «Logico.» Il silenzio nella stanza mi fece ripensare al primo giorno tra gli umani.
«Da dove viene la tua razza?» domandò all'improvviso Doc. «Ve lo ricordate? Voglio dire, come specie, conoscete la vostra evoluzione?» «Viene dall'Origine» risposi annuendo. «Ci viviamo ancora. È dove sono... nata.» «È qualcosa di speciale» aggiunse Jamie. «È raro conoscere qualcuno che arriva dall'Origine, vero? La maggior parte delle anime non si sposta da lì, vero, Wanda?» Non attese nemmeno la mia reazione. Iniziai a pentirmi di avere risposto così dettagliatamente alle sue domande, notte dopo notte. «Così, chi passa a un altro pianeta diventa quasi... una celebrità? O come il membro di una famiglia reale?» Sentii le guance avvampare. «È un posto straordinario» continuò Jamie. «Un sacco di nuvole, con parecchi strati di colori diversi. È l'unico pianeta su cui le anime riescono a vivere a lungo senza entrare in un ospite. Anche sul Pianeta dell'Origine sono molto carini, con una specie di ali, parecchi tentacoli e grandi occhi d'argento.» Doc era chino in avanti, con la testa tra le mani. «Vi ricordate di come è nata la relazione ospite-parassita? Di com'è iniziata la colonizzazione?» Jamie mi guardò e si strinse nelle spalle. «È sempre stato così» risposi lentamente, controvoglia. «Almeno da quando la nostra intelligenza ci ha consentito di studiare noi stessi. A scoprirci fu un'altra specie: li chiamiamo Avvoltoi, più per via della loro personalità che dell'aspetto. Erano... crudeli. A un certo punto scoprimmo che potevamo legarci a loro nello stesso modo in cui vivevamo dentro i nostri ospiti primordiali. Controllati gli Avvoltoi, ne sfruttammo la tecnologia. Prima occupammo il loro pianeta, poi ne seguimmo la strada sul Pianeta dei Draghi e sul Mondo d'Estate: luoghi adorabili che avevano rovinato. Cominciammo a colonizzarli, ma i nostri ospiti si riproducevano molto più lentamente di noi, e le loro vite erano più corte delle nostre. Così iniziammo a esplorare altri angoli di universo...» Lasciai cadere la frase, consapevole dei tanti occhi puntati sul mio viso. Sharon era l'unica a guardare altrove. «Ne parli quasi come se ci fossi stata» commentò Ian tranquillo. «Quanto tempo fa è successo?» «Dopo la scomparsa dei dinosauri sulla Terra, ma prima che arrivaste voi. Io non c'ero, ma ricordo un po' di quanto ne ricordava la madre della madre di mia madre.» «Ma tu quanti anni hai?» domandò Ian chinandosi verso di me, con il
suo sguardo azzurro e penetrante. «In anni terrestri, non saprei.» «Più o meno?» «Forse qualche migliaio.» Mi strinsi nelle spalle. «Ho perso il conto degli anni passati in ibernazione.» Ian arretrò, meravigliato. «Wow, sono proprio tanti» sussurrò Jamie. «Ma per molti versi sono più giovane di te» gli risposi. «Non ho neanche un anno di vita. Mi sento davvero una bambina.» Sulle labbra di Jamie comparve l'ombra di un sorriso. Gradiva l'idea di essere più maturo di me. «Come funziona il processo di invecchiamento della tua specie?» chiese Doc. «Qual è l'aspettativa di vita media?» «Non c'è vecchiaia» risposi. «Possiamo vivere per sempre, a patto di trovare ospiti sani.» Un mormorio cupo - di rabbia? paura? disgusto? - percorse la grotta. La mia uscita non era stata saggia; intuii quale significato avesse avuto per loro. «Fantastico.» L'esclamazione, cupa e furiosa, venne dall'angolo di Sharon, che tuttavia non si era voltata. Jamie mi strinse la mano, quando lesse nei miei occhi il desiderio di svignarmela. Ma io abbandonai la presa con delicatezza. «Non ho più fame» sussurrai, malgrado il mio pane giacesse intatto sul bancone accanto a me. Saltai giù e, stretta contro la parete, fuggii. Jamie mi seguì e mi raggiunse nella grande piazza coltivata. Mi aveva portato del pane. «Era interessante, sul serio» disse. «Secondo me non si sono arrabbiati.» «È stato Jeb a suggerire tutto a Doc, vero?» «Racconti belle storie. Quando tutti lo sapranno, vorranno ascoltarle. Come me e Jeb.» «E se io non volessi raccontarle?» Jamie si rabbuiò. «Be', allora... non farlo. Ma mi sembra che non ti dispiaccia, raccontarle a me.» «È diverso. Io ti piaccio.» Avrei potuto dire «tu non vuoi uccidermi», ma il sottinteso lo avrebbe infastidito. «Quando tutti ti conosceranno, piacerai anche a loro. Come a Ian e Doc.» «Io non piaccio né a Ian né a Doc, Jamie. È soltanto curiosità morbosa.»
«Fai come vuoi.» Brontolai qualcosa. Avevamo raggiunto la stanza. Spostai il paravento e mi buttai sul materasso. Jamie si sedette con meno violenza accanto a me, stringendo le ginocchia al petto. «Non arrabbiarti, ti prego. Jeb è in buona fede.» Brontolai di nuovo. «Non andrà così male.» «Doc ripeterà la scenetta ogni volta che entrerò in cucina, vero?» Jamie annuì, rassegnato. «Lui, Ian, oppure Jeb.» «Oppure tu.» «Tutti vogliamo sapere.» Sospirai e mi voltai a pancia in giù. «Possibile che Jeb riesca sempre a fare a modo suo?» Jamie ci pensò per qualche istante, poi annuì. «Sì, direi che è possibile.» Strappai un gran morso di pane. Finito di masticarlo, dissi: «Io mangio qui». «Ian ti farà altre domande domani, durante la sarchiatura degli spinaci. Non è Jeb a costringerlo: è una sua iniziativa personale.» «Bene, che meraviglia!» «Te la cavi bene con il sarcasmo. Credevo che i parassiti - cioè, le anime - non gradissero le battute che feriscono, solo quelle allegre.» «Quaggiù si impara in fretta, ragazzo.» Jamie rise e mi prese per mano. «Non stai male qui, vero? Non ti senti triste?» A un tratto nei suoi occhi grandi, color nocciola, comparve un'espressione ansiosa. Avvicinai la sua mano al mio viso. «Sto bene» dissi, e in quel momento non era altro che la verità. 26 Il ritorno Senza mai dare il mio assenso, finii per diventare un'insegnante, come voleva Jeb. Le mie «lezioni» erano informali. Rispondevo alle domande ogni sera dopo cena. Scoprii che era l'unico modo per potermi concentrare sui miei doveri durante il giorno, senza che Ian, Doc e Jeb mi disturbassero. Ci ritrovavamo sempre in cucina; mi piaceva dare una mano a impastare il pa-
ne, mentre parlavo. Era una buona scusa per fare una pausa prima di rispondere alle domande difficili, e un modo per distogliere lo sguardo quando non volevo incrociare occhiate inopportune. Sembrava un buon compromesso; talvolta li disturbavo con le parole, ma con le azioni li aiutavo. Non volevo ammetterlo, ma Jamie aveva ragione. Ovviamente non piacevo a nessuno. Impossibile: non ero una di loro. Jamie mi voleva bene, ma dietro c'era una specie di alchimia tutt'altro che razionale. Anche Jeb mi voleva bene, ma lui era matto. Gli altri non avevano alcun motivo di apprezzarmi. No, non piacevo a nessuno. Ma le cose cambiarono dopo che iniziai a parlare. La prima occasione in cui me ne accorsi fu dopo aver risposto alle domande di Doc, a cena; ero nella vasca buia a lavare i vestiti con Trudy, Lily e Jamie. «Per favore, Wanda, mi passi il sapone?» domandò Trudy alla mia sinistra. Una scossa percorse il mio corpo quando sentii una voce femminile pronunciare il mio nome. Intontita, le passai il sapone e mi sciacquai la mano per alleviare il bruciore. «Grazie» aggiunse. «Prego» mormorai. La mia voce si spezzò sull'ultima sillaba. Il giorno dopo, mentre andavo a prendere Jamie prima di cena, incrociai Lily, in corridoio. «Wanda» disse, con un cenno del capo. «Lily» risposi, con la gola secca. Di lì a poco, non furono più soltanto Doc e Ian a farmi le domande, di sera. Fui sorpresa di scoprire chi fossero i più coinvolti: lo stanco Walter, il viso coperto da un'inquietante ombra grigia, si innamorò dei Pipistrelli del Mondo che Canta. Heath, che di solito taceva e lasciava che fossero Trudy e Geoffrey a parlare per lui, era restato affascinato dal Mondo di Fuoco, e malgrado fosse una delle storie che amassi di meno, mi fece una valanga di domande, finché non ebbi chiarito ogni dettaglio che conoscevo. Lily era curiosa di meccanica e volle sapere delle astronavi che ci trasportavano di pianeta in pianeta, dei loro piloti, del carburante. Fu a lei che spiegai l'utilizzo dei crioserbatoi, oggetti che tutti avevano visto ma di cui non conoscevano l'utilizzo. Il timido Wes, che di solito si sedeva accanto a Lily, non domandò nulla degli altri pianeti, ma soltanto del suo. Come fun-
zionava? Non c'erano più soldi né ricompense per il lavoro: come faceva la società delle anime a non crollare? Cercai di spiegargli che non era molto diverso dalla vita nella caverna. Non lavoravamo anche noi senza soldi, dividendoci equamente il frutto delle nostre fatiche? «Sì» mi interruppe scuotendo la testa. «Ma qui è diverso: Jeb usa il fucile con chi batte la fiacca.» Tutti guardarono Jeb, che fece l'occhiolino, e scoppiarono a ridere. Jeb presenziava a quasi tutte le discussioni serali. Senza partecipare: si sedeva pensieroso in fondo alla stanza, e sorrideva di tanto in tanto. Quanto al piacere dell'intrattenimento, aveva visto giusto: per certi aspetti, la situazione mi faceva pensare a quando ero tra le Alghe. Sul quel pianeta avevo ricevuto un titolo simile a quello di «Guaritore», «Consolatore» o «Cercatore»: ero una «Narratrice», e ciò mi aveva facilitato la transizione verso il ruolo di insegnante sulla Terra. In cucina, scesa l'oscurità, tra l'odore del fumo e del pane in forno, era quasi la stessa cosa. Tutti stavano immobili, quasi avessero le radici. Le mie storie erano una novità, qualcosa in più a cui pensare, rispetto al solito... le solite mansioni, uguali e cicliche, le solite trentacinque facce, gli stessi ricordi di altre facce che portavano con sé sempre lo stesso dolore, la paura e la disperazione che ormai erano compagne familiari. Così, la cucina divenne la sede delle mie lezioni improvvisate. Soltanto Sharon e Maggie si facevano notare per la propria testarda assenza. Durante la mia quarta settimana da insegnante informale, la vita nelle caverne cambiò per l'ennesima volta. La cucina era affollata come sempre. Jeb e Doc erano gli unici assenti, oltre alle solite due. Sul bancone, vicino a me, c'era una teglia di pagnotte lievitate. Erano pronte per il forno, occupato da un'altra teglia. Ogni cinque minuti Trudy controllava la cottura. Spesso, quando capitava una delle storie che Jamie conosceva bene, cercavo di farlo parlare al mio posto. Adoravo guardare la sua espressione entusiasta, e il modo in cui gesticolava disegnando immagini nell'aria. Quella sera Heidi chiese di sapere qualcos'altro sui Delfini, perciò domandai a Jamie di rispondere alle domande, se se la sentiva. C'era sempre un che di triste nei discorsi degli umani a proposito della nostra acquisizione più recente. Nei Delfini rivedevano le loro vicende durante i primi anni di occupazione. Gli occhi scuri di Heidi, affascinanti sotto la frangia di capelli biondo paglierino, si riempirono di compassione, quando fece le proprie domande.
«Più che a dei pesci somigliano a enormi lucciole, vero Wanda?» Jamie chiese subito conferma, ma non aspettò nemmeno che rispondessi. «Però la loro carne è coriacea, con tre, quattro, cinque paia di ali, a seconda dell'età, vero? Quindi, più o meno, è come se volassero nell'acqua: è acqua più leggera della nostra, meno densa. Hanno cinque, sette o nove zampe, a seconda del sesso, vero Wanda? Sono di tre sessi diversi. Hanno mani lunghissime con dita solide, forti, capaci di costruire qualsiasi cosa. Fabbricano città subacquee sfruttando certe piante dure, simili ad alberi. Ma non sono ancora al nostro livello, vero, Wanda? Non hanno mai fabbricato navi spaziali, o cose tipo i telefoni, per le comunicazioni. Gli umani erano più progrediti.» Trudy estrasse la teglia di pagnotte cotte, e io mi chinai per infilare quelle lievitate nel buco caldo e fumoso. Mi occorse una piccola acrobazia per restare in equilibrio. Mentre sudavo, davanti al forno, sentii l'eco di un trambusto proveniente da un altro punto delle caverne che riecheggiò in cucina e lungo il corridoio. «Ehi!» urlò Jamie alle mie spalle, e mi voltai appena in tempo per vederlo correre fuori dalla porta. Mi raddrizzai e feci per seguirlo, come mi suggeriva l'istinto. «Aspetta» disse Ian. «Tornerà. Raccontaci dei Delfini.» Ian era seduto sul ripiano accanto al forno e da quella posizione poté chinarsi e sfiorarmi. Ritrassi la mano da quel contatto inaspettato, ma restai dov'ero. «Che succede là fuori?» domandai. Sentivo ancora del chiacchiericcio e mi sembrava di riconoscere anche la voce agitata di Jamie. Ian fece spallucce. «Chi lo sa? Magari Jeb...» e aggiunse una seconda scrollata di spalle, come se non gli interessasse granché scoprire il mistero. Ostentava tranquillità, ma nei suoi occhi c'era una tensione che non comprendevo. Prima o poi avrei capito, perciò anch'io scrollai le spalle e iniziai a spiegare l'incredibile complessità dei rapporti familiari dei Delfini, mentre aiutavo Trudy a riempire di pane caldo i contenitori. «Secondo la tradizione, sei dei nove... nonni, per così dire, restano accanto alle larve durante le prime fasi dello sviluppo, mentre i tre genitori lavorano insieme a sei dei propri nonni alla costruzione di una nuova ala dell'insediamento di famiglia, che i giovani occupano quando sono in grado di muoversi» risposi, quando sentii un'esclamazione all'altro capo della
stanza. Continuai con la frase successiva, mentre osservavo i presenti. «E di solito, i tre nonni che restano vengono impiegati...» Tutte le teste erano voltate verso l'uscita buia. La prima cosa che vidi fu la sagoma slanciata di Jamie, stretto al braccio di qualcuno. Qualcuno ricoperto di fango dalla testa ai piedi, tanto che quasi si confondeva con la parete della grotta. Qualcuno di troppo alto per essere Jeb; e d'altronde, alle spalle di Jamie c'era proprio Jeb. Malgrado la distanza, vidi Jeb torvo, una smorfia sul viso, come in preda all'ansia, emozione rara, per lui. Allo stesso modo, notai sul viso di Jamie un'espressione di gioia pura. «È arrivato il momento» mormorò Ian accanto a me, la sua voce appena udibile nel crepitio delle fiamme. L'uomo a cui Jamie era ancora stretto fece un passo avanti. Alzò lentamente una mano, come fosse un riflesso involontario, e strinse il pugno. Dalla sagoma sporca uscì la voce di Jared, impassibile, priva di qualsiasi inflessione. «E questo che significa, Jeb?» Mi si chiuse la gola. Cercai di respirare senza risultato. Il mio cuore martellava irregolare. "Jared!" L'esultanza di Melanie esplose in un grido silenzioso di soddisfazione. Riprese a pulsare nella mia mente. "Jared è tornato!" «Wanda ci sta spiegando com'è l'universo» balbettò Jamie impaziente, forse inconsapevole della furia di Jared, o forse troppo entusiasta per prestare attenzione. «Wanda?» ripeté Jared con una voce bassa che era quasi un ringhio. Altre sagome sporche gli si affiancarono in corridoio mormorando di disapprovazione. Una testa bionda spuntò dalla folla impietrita. Paige si alzò in piedi. «Andy!» gridò e si fece strada, malsicura, tra chi le era seduto accanto. Uno degli uomini sporchi passò davanti a Jared e la prese al volo mentre quasi cadeva addosso a Wes. «Oh, Andy» singhiozzò, e il tono della sua voce mi ricordò quello di Melanie. Lo scatto di Paige cambiò l'atmosfera per qualche istante. La folla silenziosa iniziò a mormorare e quasi tutti si alzarono in piedi. Era il brusio di benvenuto dei presenti che andavano a salutare i viaggiatori di ritorno a casa. Cercai di leggere le loro strane espressioni, mentre si sforzavano di sorridere e mi lanciavano occhiate furtive. Dopo pochi ma interminabili istanti capii che quelle strane espressioni erano di colpa. «Andrà tutto liscio, Wanda» mormorò Ian sottovoce.
Gli lanciai uno sguardo inquieto e vidi la tensione nei suoi occhi accesi, mentre fissava i nuovi arrivati. «Che diamine succede, gente?» tuonò un'altra voce. Kyle - facilmente riconoscibile, malgrado il fango, per via della stazza si fece strada sgomitando, passò davanti a Jared e venne verso... di me. «Vi siete lasciati abbindolare dalle sue bugie? Siete impazziti? Oppure ha portato qui i Cercatori e adesso siete tutti parassiti?» Tante teste si abbassarono, impaurite. In pochi ebbero il coraggio di sostenere lo sguardo: Lily, Trudy, Heath... e persino il fragile Walter. «Calma, Kyle» disse quest'ultimo con la sua voce debole. Kyle lo ignorò. Mi venne incontro a passi decisi, gli occhi cobalto luminosi come quelli del fratello e accesi di rabbia. Non riuscivo a guardarli, però, tornavo di continuo alla sagoma scura di Jared, cercando di leggerne l'espressione. L'amore di Melanie mi invase come un lago che sfonda una diga mentre il barbaro infuriato si avvicinava. Ian mi scivolò accanto per proteggermi. Allungai il collo per non perdere di vista Jared. «Le cose sono cambiate durante la vostra assenza, fratello.» Kyle si bloccò, incredulo. «Sono arrivati i Cercatori, Ian?» «Non è pericolosa.» Kyle serrò i denti, e con la coda dell'occhio lo vidi frugarsi in tasca. Trasalii, nel timore che estraesse un'arma. «Non metterti in mezzo, Ian» dissi. Ian non batté ciglio. Fui sorpresa di sentirmi così in ansia. Non era lo stesso istinto che mi faceva desiderare di proteggere Jamie o Jared, ma sentivo che Ian non doveva farsi male nel tentativo di salvarmi. Kyle sparò un fascio di luce sul viso di Ian per qualche istante. Ian non si spostò di un centimetro. «E allora?» domandò Kyle, riponendo la torcia nella tasca. «Non sei un parassita. Cosa vi è successo?» «Calmati e te lo spiegheremo.» «No.» Non era stato Kyle a parlare, ma qualcuno alle sue spalle. Vidi Jared camminare lento verso di noi, in mezzo agli spettatori muti. A mano a mano che si avvicinava, con Jamie ancora aggrappato al suo braccio e sbalordito, ne percepii l'espressione nascosta dalla maschera di fango. Neanche a Melanie, malgrado il delirio di felicità di poco prima, sfuggì il suo sguardo
disgustato. Jeb aveva sprecato tempo concentrandosi sulle persone sbagliate. Non importava nulla che Trudy o Lily mi parlassero, che Ian fosse disposto a difendermi da Kyle, che Sharon e Maggie non azzardassero gesti ostili nei miei confronti. L'unico che andava convinto aveva ormai fatto la sua scelta. «Non credo che sia il caso di calmarsi» disse Jared a denti stretti. «Jeb» aggiunse, «dammi il fucile.» Il silenzio che seguì le sue parole fu carico di tensione. Nel momento in cui decifrai la sua espressione, capii che era finita. Sapevo quale fosse il mio dovere, ormai; Melanie era d'accordo con me. In silenzio, mi allontanai da Ian quanto bastava. Poi chiusi gli occhi. «Adesso non ce l'ho con me» biascicò Jeb. Sbirciai Jared mentre si voltava di scatto a controllare che Jeb non mentisse. Era furioso. «Bene» mormorò. Fece un altro passo verso di me. «Così sarà più lento, però. Sarebbe più umano se trovassi in fretta quel fucile.» «Per favore, Jared, parliamone» disse Ian, impalato e deciso a non muoversi, malgrado conoscesse già la risposta. «Abbiamo già parlato abbastanza» ruggì Jared. «Jeb mi ha lasciato la responsabilità, e ho deciso.» Jeb si schiarì la gola rumorosamente. Jared si voltò di nuovo verso di lui guardandolo di sottecchi. «Che c'è?» domandò. «La regola l'hai stabilita tu, Jeb.» «Be', sì, è vero.» Jared tornò a me. «Ian, spostati.» «Alt, alt, aspetta un secondo» aggiunse Jeb. «Se non ti ricordi male, la regola dice che è chi ha dei legami con il corpo ospite a prendere la decisione.» «E allora?» La vena sulla fronte di Jared pulsava. «Penso che tra noi ci sia qualcuno che gode dei tuoi stessi diritti. Se non di più.» Jared fissò il vuoto davanti a sé, pensieroso. Dopo alcuni istanti, capì e aggrottò le sopracciglia. Abbassò lo sguardo verso il ragazzo che ancora gli stringeva il braccio. La gioia svanì dal volto di Jamie, che restò pallido e terrorizzato. «Non puoi, Jared» esclamò. «Non è giusto. Wanda è buona. È amica mia! E Mel! Che ne sarà di Mel! Non puoi ucciderla! Ti prego! Devi...» Si
interruppe, disperato. Chiusi di nuovo gli occhi nel tentativo di cancellare dalla mente l'immagine del ragazzo che soffriva. Era quasi impossibile non corrergli incontro, ma non sarebbe servito. «Perciò» disse Jeb, fin troppo disinvolto in un momento come quello, «vedi anche tu che Jamie non è d'accordo. Penso che abbia motivi validi quanto i tuoi.» La risposta tardò ad arrivare. Jared osservava l'espressione preoccupata e impaurita di Jamie. «Come hai potuto lasciare che accadesse, Jeb?» sussurrò. «C'è proprio bisogno di discutere» rispose Jeb. «Perché non ti fai una pausa, prima? Forse dopo un bagno ti sentirai più in vena di conversazioni.» Con uno sguardo Jared trafisse il vecchio, con gli occhi pieni della sorpresa e dello sbalordimento di chi si sente tradito. Quello sguardo aveva eguali soltanto tra gli umani: Cesare e Bruto, Gesù e Giuda. La tensione insopportabile proseguì per un altro minuto, finché Jared non scrollò via la stretta di Jamie. «Kyle» abbaiò, dopodiché si voltò e uscì a grandi passi dalla stanza. Kyle salutò il fratello con una smorfia e seguì Jared. Gli altri membri della spedizione se ne andarono con loro in silenzio; soltanto Paige rimase a braccetto di Andy. Quasi tutti gli altri umani, quelli che avevano chinato la testa vergognandosi di avermi ammessa in loro compagnia, uscirono alla spicciolata. Restarono soltanto Jamie, Jeb e Ian accanto a me, e poi Trudy, Geoffrey, Heath, Lily, Wes e Walter. Nessuno aprì bocca finché l'eco dei passi non svanì nel silenzio. Ian sospirò di sollievo. «Che rischio. Bella pensata, Jeb.» «Ispirata dalla disperazione. Ma non siamo ancora fuori pericolo.» «Vuoi che non lo sappia? Spero che tu non abbia lasciato il fucile in un posto scontato.» «Certo che no. Sapevo che prima o poi sarebbe andata così.» «È già qualcosa.» Jamie tremava. Circondata da quelli che potevo considerare amici, mi sentii autorizzata ad avvicinarmi a lui. Mi cinse i fianchi con un abbraccio, e sfiorai la sua schiena con mano tremante. «Va tutto bene» mentii, sospirando. «Va tutto bene.» Anche uno stupido si sarebbe accorto di quanto fosse falsa la mia voce, e Jamie non era stupi-
do. «Non ti farà del male» disse con voce rotta e lottando contro le lacrime. «Non glielo permetterò.» «Stai tranquillo» mormorai. Ero sconvolta. Jared aveva ragione: com'era possibile che Jeb avesse permesso tutto ciò? Se mi avessero uccisa il primo giorno, prima che Jamie mi vedesse... Oppure quando Jared mi teneva isolata da tutti, prima che io e Jamie diventassimo amici... O se avessi tenuto chiuso il becco a proposito di Melanie... Ormai era troppo tardi. Strinsi forte a me il ragazzo. Melanie era altrettanto turbata. "Povero piccolo." "Te l'ho detto che era una cattiva idea rivelargli tutto" le ricordai. "Come la prenderà, quando moriremo?" "Sarà terribile. Resterà traumatizzato, ferito, devastato..." Melanie mi interruppe. "Basta. Lo so, lo so. Ma noi, cosa possiamo fare?" "Evitare di morire, direi." Pensammo alle possibilità di sopravvivenza, disperate. Ian diede una pacca sulle spalle a Jamie. «Non crucciarti troppo, ragazzo» disse. «Non sei solo.» «Sono soltanto spaventati.» Riconobbi il contralto della voce di Trudy. «Quando riusciremo a spiegare, capiranno le nostre ragioni.» «Ma quali ragioni? A uno come Kyle?» sibilò qualcuno. «Sapevamo che sarebbe accaduto» mormorò Jeb. «Dobbiamo sopportare. Passerà la tempesta.» «Forse è meglio che tu recuperi il fucile» suggerì calma Lily. «Può darsi che sia una lunga notte. Wanda può stare con me e Heidi.» «Secondo me è meglio nasconderla da un'altra parte» commentò Ian. «Che ne dite dei tunnel meridionali? La terrò d'occhio io. Jeb, mi dai una mano?» «Laggiù non la cercheranno.» La frase di Walter fu un lieve sospiro. Wes si sovrappose all'ultima parola di Walter. «Vengo anch'io con te, Ian. Sono in sei.» «No» riuscii finalmente a dire. «No. Non è giusto. Non dovete combattere fra di voi. Questa è casa vostra, Vivete assieme. Non dovete litigare per colpa mia.» Mi sciolsi dall'abbraccio di Jamie, stringendogli i polsi quando fece per fermarmi.
«Ho bisogno di stare un po' da sola» dissi, ignorando gli sguardi che sentivo addosso. Mi voltai verso Jeb. «E per voi è meglio discutere senza che vi ascolti. Non è giusto parlare di strategia davanti al nemico.» «Non fare così» disse Jeb. «Ho bisogno di riflettere.» Mi allontanai da Jamie. Qualcuno mi strinse una spalla, spaventandomi. Era soltanto Ian. «Non è una buona idea vagabondare tutta sola.» Mi chinai verso di lui, cercando di parlare a bassa voce per non farmi sentire da Jamie. «Perché posticipare l'inevitabile? Sarà più dura o più facile per lui?» La risposta pensavo di conoscerla. Sfuggii alla presa di Ian e iniziai a correre verso l'uscita. «Wanda!» urlò Jamie alle mie spalle Qualcuno lo zittì all'istante. Non sentivo passi dietro di me. Forse avevano avuto il buon senso di lasciarmi andare. Il corridoio era buio e deserto. Con un po' di fortuna e con l'aiuto dell'oscurità sarei riuscita a tagliare lungo il bordo della grande piazza coltivata senza farmi vedere. In tutto il tempo trascorso là sotto, l'unica cosa che non avevo mai scoperto era l'uscita. Avevo la sensazione di avere percorso ogni galleria, di aver esplorato ogni fenditura, spinta dalla curiosità. Ci ripensai, mentre strisciavo negli angoli più profondi della caverna più grande. Dov'era l'uscita? Se l'avessi scoperta, sarei riuscita ad andarmene? Non trovai nulla per cui valesse la pena di scappare, di sicuro non il deserto, ma nemmeno la Cercatrice, il Guaritore, né la Consolatrice o un'esistenza che ricordavo così vuota. Tutto ciò di cui mi importava davvero era a portata di mano. Jamie. Persino Jared, lo stesso che voleva uccidermi. Non riuscivo a immaginare di abbandonarli. E poi Jeb, e Ian. Ormai avevo degli amici. Doc, Trudy, Lily, Wes, Walter, Heath. Strani esseri umani capaci di vedere oltre ciò che ero, e di capire che nessuno li obbligava a uccidermi. Forse erano soltanto curiosi, e tuttavia decisi a difendermi dal resto della famiglia di sopravvissuti a cui appartenevano. Scossi la testa, incredula, mentre sfioravo la roccia nuda con le mani. All'altro capo della caverna sentivo gli altri. Non mi fermai; non potevano vedermi, e avevo trovato la fenditura che cercavo. Dopotutto, mi restava soltanto un luogo in cui rifugiarmi. Mi ci sarei nascosta anche se avessi azzeccato la via d'uscita. Strisciai nell'oscurità più
profonda che potevo immaginare, sempre più svelta. 27 L'indecisione A tentoni ritrovai la strada per la prigione. Per settimane ero rimasta lontana da quel corridoio; non ci tornavo da quando Jared se n'era andato e Jeb mi aveva lasciato libera. Avevo la sensazione che la mia casa dovesse essere quella. Non c'era nessuna luce ad accogliermi. Ero sicura di trovarmi nell'ultimo tratto della galleria: le curve e gli snodi mi erano vagamente familiari. Camminavo passando la mano sinistra sulla parete, alla ricerca dell'entrata. Non avevo intenzione di strisciare dentro l'anfratto, ma avevo bisogno di un punto di riferimento. Quando lo trovai, capii di non poter più rientrare in cella. Nel momento in cui le mie dita sfiorarono il bordo scabro dell'ingresso, inciampai in un ostacolo e capitombolai a terra. Allungai le mani per proteggermi, ma le sentii affondare in qualcosa che cedette e si schiantò con un rumore che non era di roccia, e non aveva niente a che fare con quel luogo. Restai meravigliata, spaventata dalla presenza imprevista. Forse avevo imboccato la direzione sbagliata ed ero finita da tutt'altra parte. Forse ero nella casa di qualcuno. Ripercorsi a mente l'itinerario chiedendomi dove avessi sbagliato. Nel frattempo aspettavo immobile. Non ci furono reazioni, né rumori. Soltanto buio, puzza di chiuso e umidità, come sempre; e un silenzio totale, che confermò la mia solitudine. Con cautela, cercando di ridurre al minimo il rumore, feci l'inventario di ciò che mi circondava. Le mie mani si erano infilate dentro qualcosa. Le liberai e palpai il contorno di quello che sembrava uno scatolone, chiuso da una pellicola di plastica sottile e frusciante, che avevo bucato cadendo. Frugai dentro e trovai un altro strato di plastica ancora più frusciante: piccoli rettangoli che, smossi, facevano parecchio rumore. Ritrassi le mani nel timore di attirare l'attenzione. Ricordai che forse avevo trovato l'ingresso della caverna. Cercai alla mia sinistra e trovai altri cubi di cartone impilati. Ne seguii la sagoma per capire quanto fossero alti: mi arrivavano alla testa. Cercai fino a individuare la parete e poi il buco, esattamente dove pensavo che fossero. Provai a infi-
larmici, per verificare che il posto fosse quello - un secondo su quel pavimento circolare, e l'avrei riconosciuto al volo -, ma non riuscii ad andare oltre l'imboccatura. Anche la grotta era piena di scatole. Esplorai con le mani gli ostacoli che ingombravano il corridoio. Scoprii di non poter proseguire oltre la galleria: era occupata da quei misteriosi cubi. Mentre controllavo palmo a palmo il suolo mi imbattei in un tessuto grezzo, simile a juta, un sacco pesante che si spostò con un sibilo smorzato. A un tratto capii, grazie a un odore che mi riportò alla mia cucina spoglia di San Diego, all'armadietto in basso, a sinistra del lavandino. Visualizzai chiaramente il sacchetto del riso crudo e il misurino di plastica che usavo per dosarlo, e poi le file di cibo in scatola... Quando capii di essere alle prese con un sacco di riso, fu chiaro. Ero nel posto giusto. Jeb non aveva forse detto che lo usavano anche come magazzino? E Jared non era appena tornato da una missione? Tutto ciò che gli esploratori avevano rubato era ammassato in quel luogo. Mi misi a pensare. Per prima cosa mi resi conto di essere circondata da cibo. Non soltanto pane grezzo e zuppa sciapa. Magari, da qualche parte, c'era anche del burro di arachidi. Biscotti al cioccolato. Patatine al formaggio. Immaginai di trovare quel ben di Dio, assaggiarlo, saziarmi per la prima volta da quando avevo abbandonato la civiltà, ma mi sentii subito in colpa. Jared non aveva rischiato la vita né trascorso settimane a nascondersi e rubare per dar da mangiare a me. Il cibo era per gli altri. Mi preoccupai anche che la scorta non fosse tutta là. E se c'erano altre scatole da immagazzinare? Sarebbero venuti Jared e Kyle a prenderle? Non occorreva un grande sforzo per immaginare cosa sarebbe accaduto se mi avessero trovata. Ma non era quello il motivo per cui ero fuggita, per cui avevo sentito il bisogno di stare da sola a pensare? Mi accasciai contro il muro. Il sacco di riso andava bene, come cuscino. Chiusi gli occhi - superfluo, nel buio pesto - e mi preparai alla discussione. "Okay, Mel. E ora?" Fui lieta di ritrovarla sveglia e lucida. Gli ostacoli le ridavano forza. Soltanto quando tutto filava liscio mi abbandonava. "Priorità" proclamò. "Cos'è più importante per noi? Sopravvivere? Oppure Jamie?"
Conosceva la risposta. "Jamie" affermai. Il suono del mio sospiro scivolò sulle pareti nere. "Sono d'accordo. Probabilmente resisteremo di più se lasciamo che Jeb e Ian ci proteggano. Sarà un aiuto per lui?" "Forse. Sarebbe peggio se rinunciassimo ora? O se spingessimo tutto verso una fine brutta e, a quanto sembra, inevitabile?" Il mio commento non le piacque. La sentivo cercare freneticamente un'alternativa. "Improbabile" dichiarò. "D'altronde, cosa faremmo là fuori? Cosa racconteremmo a quelli?" Lo immaginammo insieme: come avrei giustificato mesi di assenza? Avrei potuto mentire, costruirmi una storia diversa, oppure dire che non ricordavo. Ma ripensai all'espressione scettica della Cercatrice, ai suoi occhi sporgenti accesi di sospetto, e capii che il mio tentativo goffo di imbrogliarla sarebbe fallito. "Sì, penserebbero che io abbia preso il controllo" commentò Melanie. "Poi toglierebbero te e inserirebbero lei." Mi mossi, come se cambiare posizione potesse allontanare quel pensiero, e rabbrividii. Poi sviluppai l'ipotesi fino alla conclusione. "Racconterebbe loro di questo posto, e arriverebbero i Cercatori." L'orrore ci inondò. "Giusto" continuai. "Perciò, niente fuga." "Giusto" sussurrò lei, i suoi pensieri sconvolti dalle emozioni. "Perciò la decisione è... presto oppure tardi. Quale la scelta meno dolorosa per lui?" Finché mi concentravo sugli aspetti pratici del problema riuscivo a gestire la discussione. Melanie cercò di imitare il mio sforzo. "Non lo so. Da una parte, secondo logica, più noi tre restiamo insieme, più dura sarà la... separazione. D'altro canto, se non combattessimo, se rinunciassimo subito... non ne sarebbe felice. Si sentirebbe tradito." Valutai le due alternative. "Perciò... presto, ma facendo del nostro meglio per non morire?" "Muori combattendo" dichiarò decisa. "Combattendo. Favoloso." Cercai di immaginare come fosse contrastare la violenza con la violenza. Alzare la mano per colpire qualcuno. Ma non ci riuscivo. "Puoi farcela" mi incoraggiò Melanie. "Ti aiuterò io." "No grazie, molto gentile. Dev'esserci un'altra maniera."
"Non ti capisco, Wanda. Hai abbandonato per sempre la tua specie, sei pronta a morire per mio fratello, sei innamorata dell'uomo che amo e che intende ucciderci, eppure non riesci a rinunciare ad abitudini che quaggiù sono totalmente inutili." "Sono ciò che sono, Mel. Non posso cambiare, anche se tutto il resto cambia. Tu per prima resti fedele a te stessa; permettimi di fare altrettanto." "Ma se vogliamo..." Avrebbe voluto continuare la discussione, ma qualcosa ci interruppe. Un rumore sordo, una suola contro la roccia, riecheggiò dal fondo del corridoio. Restai impietrita ad ascoltare. Pochi secondi, e sentii altri passi smorzati avvicinarsi. Melanie mantenne la calma, mentre io ero in preda al panico. "Alzati in piedi" ordinò. "Perché?" "Non vorrai combattere, ma puoi sempre correre. Provaci, almeno... fallo per Jamie." Ricominciai a respirare con un ritmo regolare. Lentamente mi chinai in avanti fino a restare rannicchiata, in equilibrio sui piedi. I muscoli erano reattivi e tesi. Ero più veloce di molti possibili inseguitori, ma dove sarei fuggita? «Wanda?» sussurrò qualcuno. «Wanda? Ci sei? Sono io.» La sua voce si spezzò, e lo riconobbi. «Jamie!» mormorai. «Che ci fai qui? Ti ho detto che volevo stare sola.» La sua voce parve sollevata. «Ti stanno cercando tutti. Be', Trudy, Lily e Wes non sono "tutti", ma fa lo stesso. Però nessuno deve scoprire cosa stiamo facendo. Nessuno deve sospettare che tu sia sparita. Jeb ha ripreso il fucile. Ian è con Doc. Appena Doc si libera, parlerà con Jared e Kyle. Lui sa mediare con tutti, perciò non devi nasconderti. Sono tutti occupati, e anche tu sarai stanca...» Mentre si spiegava, Jamie avanzò fino a trovare con le dita il mio braccio e poi la mano. «Non mi sto nascondendo, Jamie. Te l'ho detto, dovevo riflettere.» «Potresti farlo anche in presenza di Jeb, vero?» «Dove vuoi cha vada? Di nuovo nella stanza di Jared? È dove dovrei stare.» «Non più.» Riecco la testardaggine che conoscevo bene.
«Perché sono tutti occupati?» domandai per distrarlo. «Cosa sta facendo Doc?» Il mio tentativo fu inutile; non rispose. Dopo un minuto di silenzio, gli sfiorai la guancia. «Ascolta, è meglio che tu stia con Jeb. Di' agli altri di smettere di cercarmi. Io resterò qui ancora un po'.» «Non puoi dormire qui.» «Non sarebbe la prima volta.» Sentii il fremito della sua guancia. «Almeno lascia che vada a prendere materassi e cuscini.» «Me ne basta uno solo.» «Io non sto con Jared, se si comporta da imbecille.» Dentro di me sospirai. «Allora resta con Jeb e le sue russate. Quella è la tua casa.» «La mia casa è dove dico io.» Il rischio che Kyle trovasse il mio nascondiglio era un pensiero che mi tormentava. Ma se gliene avessi parlato, Jamie si sarebbe sentito ancora più responsabile della mia sopravvivenza. «Va bene, ma prima fatti dare il permesso da Jeb.» «Dopo. Stasera non mi va di disturbarlo.» «Che sta facendo?» Jamie non rispose. Solo in quel momento capii perché non avesse risposto a quella domanda nemmeno la prima volta. Mi teneva nascosto qualcosa. Forse anche gli altri mi stavano cercando. Forse il ritorno di Jared li aveva riportati all'opinione che avevano avuto di me i primi giorni. Come quando in cucina avevano abbassato le teste, presi dal senso di colpa. «Che succede, Jamie?» protestai. «Non posso dirtelo» mormorò. «E non te lo dirò.» Mi strinse forte la vita, affondò la testa sotto la mia spalla. «Andrà tutto bene» promise con la voce rotta. Gli accarezzai la schiena e feci scorrere le dita tra la sua chioma arruffata. «Okay» dissi, e accettai il suo silenzio. Dopotutto, anch'io avevo i miei segreti, no? «Non essere triste, Jamie. Comunque finisca, tutto andrà per il meglio. Te la caverai.» Desiderai che fosse vero. «Non so cosa sperare» sussurrò lui. Mentre fissavo il buio, cercando di capire cosa non volesse dirmi, un debole bagliore spuntò dal fondo del corridoio: era una luce fioca, ma spiccava nella caverna buia.
«Silenzio» sussurrai. «Arriva qualcuno. Svelto, nasconditi dietro le scatole.» La testa di Jamie scattò verso la luce gialla sempre più intensa. Attesi il rumore dei passi, ma non sentii nulla. «Non intendo nascondermi» disse. «Stammi dietro, Wanda.» «No!» «Jamie!» urlò Jared. «So che sei qui!» Sentivo le gambe vuote, inerti. Perché proprio Jared? Sarebbe stato molto meglio per Jamie se fosse venuto Kyle a uccidermi. «Vattene!» gridò Jamie. La luce gialla accelerò, e diventò un cerchio sul muro più lontano. Jared sbucò da dietro l'angolo, mentre la torcia che stringeva in mano perlustrava il suolo roccioso. Si era ripulito, indossava una camicia rossa stinta che riconobbi, era rimasta appesa per settimane nella mia stanza, era una vista familiare. Come il suo volto, su cui spiccava la stessa espressione che avevo visto un istante dopo il mio arrivo. Il fascio di luce mi colpì il viso e mi accecò; capii che dai miei occhi si irradiava un riflesso argenteo, perché sentii Jamie sussultare e, dopo un breve indugio, prepararsi allo scontro con decisione ancora maggiore. «Stalle lontano!» ruggì Jared. «Zitto!» urlò Jamie. «Tu non le vuoi bene! Lasciala stare!» Cercai di sfuggire alla presa delle sue mani. Jared ci venne incontro come un toro in carica. Afferrò il colletto della camicia di Jamie con una mano e lo allontanò con uno strattone. Senza mollarlo iniziò a urlare e a scrollarlo. «Ti stai comportando da idiota! Non capisci che ti sta usando?» D'istinto mi infilai nello spazio tra i due. Come mi aspettavo, la mia azione lo convinse a mollare Jamie. Non volevo né desideravo ciò che accadde dopo, quando sentii il suo profumo familiare assalire i miei sensi e il profilo del suo petto tra le mani. «Lascia stare Jamie» dissi, desiderando essere almeno una volta come Melanie voleva che fossi, con mani più decise e voce più forte. Jared mi afferrò i polsi con una mano sola e mi allontanò da lui, scagliandomi contro la parete. L'impatto mi colse di sorpresa togliendomi il respiro. Rimbalzai sulla parete e atterrai di nuovo tra le scatole, con un altro schianto che fece a pezzi il cellophane. Mi sentivo battere il cuore in testa, goffamente piegata tra gli scatoloni, e per un istante vidi strane luci passarmi davanti agli occhi.
«Codardo!» urlò Jamie a Jared. «Non ti farebbe mai del male per salvarsi la vita! Perché non la lasci stare?» Sentii che le scatole venivano spostate e la mano di Jamie che si posò sul mio braccio. «Wanda? Stai bene, Wanda?» «Sì» biascicai, ignorando il giramento di testa. Vedevo la sua espressione ansiosa sopra di me, illuminata dalla torcia che Jared doveva aver perso. «Meglio che tu vada, Jamie» sussurrai. «Scappa.» Lui scosse la testa con decisione. Vidi Jared afferrare Jamie per le spalle e costringerlo ad alzarsi. Restai sepolta sotto una piccola valanga di scatoloni. Rotolai via proteggendomi la testa con le braccia. Quando un contenitore pesante mi colpì tra le scapole lanciai un urlo di dolore. «Smettila di farle male!» urlò Jamie. Sentii un rumore secco e un gemito. Mi sforzai di sgusciar fuori dai cartoni facendo forza sui gomiti, stordita. Jared si teneva il naso con la mano, e il sangue gli colava sulle labbra. Aveva gli occhi spalancati per la sorpresa. Davanti a lui c'era Jamie, i pugni stretti, una smorfia furiosa sul viso. Mentre Jared lo guardava sbalordito, l'espressione di Jamie cambiò. Fu rimpiazzata da un dolore e da una sensazione di tradimento così profonda da rivaleggiare con quella di Jared in cucina. «Non sei l'uomo che credevo» sussurrò Jamie. Guardò Jared come fosse lontanissimo, come se un muro li separasse uno dall'altro. Gli occhi di Jamie si gonfiarono, e il ragazzo voltò la testa per non mostrare la propria debolezza di fronte a Jared. Poi si allontanò con movimenti veloci e goffi. "Ci abbiamo provato" pensò Melanie, triste. Era in pena per il fratello, malgrado mi implorasse di tornare con lo sguardo al suo avversario. Feci come voleva. Jared non mi guardava. Fissava il vuoto nel quale Jamie era sparito, senza togliersi la mano dal naso. «Oh, maledetto!» urlò all'improvviso. «Jamie! Torna qui!» Nessuno rispose. Jared mi lanciò uno sguardo torvo. Mi preparai a un nuovo assalto, ma poi lo vidi raccogliere la torcia e correre verso Jamie. «Mi dispiace, okay? Non piangere, ragazzo!» Girò l'angolo urlando altre scuse e mi lasciò sola al buio. Per qualche istante riuscii solo a respirare. Mi concentrai sull'aria che
entrava, usciva, rientrava. Padrona di quel movimento, mi sforzai di alzarmi da terra. Ma le gambe tremavano e minacciavano di cedere sotto il mio peso, così mi lasciai cadere di nuovo contro il muro, scivolandovi addosso fino a ritrovare il mio cuscino imbottito di riso. Mi accasciai e passai in rassegna i miei malanni. Niente di rotto, a parte, forse, il naso di Jared. Scossi la testa lentamente. Jamie e Jared non dovevano litigare. Sentivo un gran dolore al centro della schiena e la guancia strisciata contro il muro era sbucciata e umida, e mi lasciò del liquido caldo sulle dita. Quella era la ferita peggiore. Le altre, per fortuna, erano cosa da poco. Quando me ne resi conto fui invasa da uno strano sollievo. Ero viva. Jared aveva avuto un'occasione per uccidermi, ma aveva rinunciato, per inseguire Jamie e sistemare le cose con lui. Perciò, qualunque danno avessi fatto alla loro relazione, probabilmente non era irreparabile. Era stata una giornata intensa già prima del ritorno di Jared e degli altri, che a quel punto sembrava lontano secoli. Chiusi gli occhi dov'ero e mi addormentai sul riso. 28 All'oscuro Il risveglio nel buio totale mi disorientò. Sulle prime pensai che fosse ancora notte, ma quando avvertii la fitta sul viso e il dolore alla schiena ricordai dov'ero. Accanto a me sentivo un respiro silenzioso e regolare; non mi spaventò, perché mi era molto familiare. Non fui sorpresa di scoprire che Jamie era tornato indietro di nascosto, per dormire vicino a me. Forse fu il cambiamento nel mio respiro a svegliarlo; forse fu soltanto perché i nostri ritmi si erano ormai sincronizzati. Ma pochi secondi dopo lo sentii sussultare. «Wanda?» bisbigliò. «Sono qui.» Sospirò di sollievo. «Che buio» disse. «Sì.» «Pensi che sia già ora di colazione?» «Non so.»
«Ho fame. Andiamo a vedere.» Non risposi. Capì perché esitavo. «Non sei costretta a nasconderti, Wanda» disse serio. «Ieri sera ho parlato con Jared. Ha promesso che smetterà di darti fastidio.» Abbozzai un sorriso. Darmi fastidio. «Vieni con me?» insistette Jamie. La sua mano trovò la mia. «Vuoi davvero?» chiesi a voce bassa. «Sì. Tutto deve tornare come prima.» "Mel? È la scelta migliore?" "Non lo so." Era tormentata. Sapeva di non poter essere razionale: voleva vedere Jared. "È una follia, lo sai." "Almeno quanto il tuo desiderio di rivederlo." «Va bene, Jamie. Ma non arrabbiarti se non sarà come prima, okay? Se le cose volgono al peggio... Be', non sorprenderti.» «Andrà tutto bene. Vedrai.» Lasciai che mi conducesse per mano fuori dall'oscurità. Mi preparai all'impatto della grande caverna coltivata; non potevo fidarmi delle reazioni di nessuno. Chissà cos'avevano detto, mentre dormivo. Ma l'orto era deserto, malgrado il sole brillasse nel cielo del mattino. Si rifletteva sulle centinaia di specchi, e mi accecò per pochi istanti. A Jamie non interessava la caverna vuota. I suoi occhi erano sul mio viso, e fece un sospiro quando la luce colpì la mia guancia sinistra. «Ah» esclamò. «Tutto a posto? Ti fa male?» Mi toccai delicatamente il viso. Sentivo la pelle sbucciata e incrostata di sangue. «Sto bene» sussurrai; la grotta vuota mi inquietava: non volevo parlare a voce troppo alta. «Dove sono tutti?» Jamie scrollò le spalle, scrutandomi il viso con attenzione. «Avranno da fare.» Parlò senza abbassare la voce. Ciò mi fece pensare alla sera prima e al segreto che non voleva rivelarmi. Aggrottai le sopracciglia. "Secondo te cosa ci tiene nascosto?" "Tu ne sai quanto me, Wanda." "Sei umana. Non dovresti essere provvista di intuito o qualcosa del genere?" "Intuito? L'intuito mi dice che non conosciamo questo posto bene quanto
credevamo" disse Melanie. Fu quasi un sollievo sentire i rumori familiari che giungevano dal corridoio della cucina. Non avevo particolare voglia di vedere nessuno - al di là del desiderio assurdo di ritrovare Jared, ovviamente, ma le gallerie deserte e la consapevolezza che qualcuno mi nascondesse un segreto mi innervosivano. La cucina non era piena nemmeno per metà... strano, a quell'ora del mattino. Ma quasi non me ne accorsi, perché il profumo che arrivava dal forno assorbì ogni altro pensiero. «Oh!» mugolò Jamie. «Uova!» Iniziò a strattonarmi con più forza, e io fui ben lieta di accelerare il passo. Con lo stomaco che brontolava corremmo verso il bancone accanto al forno, dove trovammo Lucina, la madre, con un mestolo di plastica in mano. Di solito la colazione era self-service, ma di solito era anche un semplice tozzo di pane duro. Lucina parlò guardando il ragazzo. «Un'ora fa erano più saporite.» «Andranno bene anche adesso» ribatté Jamie entusiasta. «Hanno mangiato già tutti?» «Più o meno. Mi sembra che abbiano portato una teglia a Doc e agli altri...» Lucina si interruppe, e per la prima volta mi lanciò un'occhiata, e Jamie la imitò. Non afferrai l'espressione sul volto della donna: sparì all'istante, cancellata dalla curiosità per i segni che portavo in faccia. «Quante ne sono rimaste?» domandò Jamie. Il suo entusiasmo sembrava un po' forzato. Lucina si voltò e si chinò a controllare. «Quante ne vuoi, Jamie? Ce ne sono parecchie» rispose senza girarsi. «Fai finta che sia Kyle» disse, ridendo. «Ecco una porzione da Kyle, allora» rispose Lucina, e malgrado cercasse di sorridere il suo fu uno sguardo triste. Riempì fino all'orlo una ciotola di uova sbattute, vagamente gommose, si alzò e la porse a Jamie. Mi gettò un'altra occhiata di cui colsi subito il significato. «Sediamoci là, Jamie» dissi, allontanandolo dal bancone. Lui mi fissò, stupito. «Tu non mangi?» «No, io...» Stavo per dire «sto bene», quando il mio stomaco brontolò, disobbediente. «Wanda?» Guardò me e poi Lucina, ferma a braccia conserte. «Prendo solo un po' di pane» mormorai, cercando di allontanare Jamie.
«No. Lucina, che problema c'è?» La guardò speranzoso. Lei non si mosse. «Se hai finito qui, me ne occupo io» suggerì, con uno sguardo affilato e le labbra tese. La donna scrollò le spalle. Se ne andò lentamente, senza degnarmi di uno sguardo. «Jamie» mormorai inquieta. «Questo cibo non è per me. Jared e gli altri non hanno rischiato la vita perché io mangiassi uova a colazione. Mi basta il pane.» «Non essere stupida, Wanda» disse Jamie. «Ora vivi qui, come tutti noi. Nessuno si fa problemi se lavi i vestiti altrui o aiuti a cuocere il pane. E poi, queste uova non resisteranno molto. Se non le mangi, toccherà buttarle.» Sentii tutti gli occhi dei presenti trafiggermi alle spalle. «Forse qualcuno preferisce che sia così» dissi, a voce ancora più bassa. Soltanto Jamie poté sentirmi. «Ma per piacere» ruggì il ragazzo. Saltò sul bancone, riempì di uova un'altra ciotola e la spinse verso di me. «E adesso svuotala» mi disse, deciso. Guardai la scodella con l'acquolina in bocca. Allontanai le uova di qualche centimetro e incrociai le braccia. Jamie si rabbuiò. «Perfetto» disse, e spinse anche la propria ciotola all'altro capo del bancone. «Non mangi tu, non mangio neanch'io.» Anche lui incrociò le braccia. Restammo a fissarci per due interminabili minuti, mentre il profumo delle uova ci solleticava l'appetito. Di tanto in tanto, Jamie sbirciava verso il cibo con la coda dell'occhio. Quello sguardo bramoso mi costrinse a cedere. «Va bene» sbuffai. Feci scivolare una ciotola verso di lui e ripresi la mia. Non iniziò a mangiare finché non mi vide ingoiare il primo boccone. Le uova ormai fredde e gommose non erano il piatto migliore che avessi mai assaggiato, ma non potevo lamentarmi. Meglio godermi il momento. Jamie ebbe una reazione simile. Iniziò a ingozzarsi di cibo così velocemente da non aver neanche il tempo di respirare. Controllai che non si strozzasse. Io mangiavo più lentamente, nella speranza di convincerlo ad approfittare un po' anche della mia razione quando avesse finito. A quel punto mi resi conto dell'atmosfera che regnava in cucina. Mi sarei aspettata, con l'arrivo delle uova dopo mesi di monotonia, qual-
cosa di più allegro e festante. Ma il clima era dimesso, le conversazioni un sussurro. Era la conseguenza di ciò che era accaduto la sera precedente? Osservai la stanza cercando di capire. Nessuno mostrava rabbia, dispiacere, tensione né alcuna delle emozioni che mi aspettavo. Erano tristi. L'angoscia trapelava da ogni viso. Sharon fu l'ultima di cui mi accorsi; mangiava all'altro capo del locale, sola come sempre. I suoi gesti erano così composti e meccanici che sulle prime non notai le lacrime che le rigavano il viso. Le cadevano nel piatto, ma continuava a mangiare come se niente fosse. «È successo qualcosa a Doc?» sussurrai a Jamie, inquieta. Forse ero troppo paranoica, forse non erano affari miei. La tristezza dei presenti sembrava sorgere da chissà quale tragedia umana da cui ero stata esclusa. Era questo a tenere tutti così impegnati? C'era stato un incidente? Jamie guardò Sharon e prima di rispondere fece un sospiro. «No, Doc sta bene.» «La zia Maggie? Si è fatta male?» Scosse la testa. «Dov'è Walter?» domandai, con un sussurro. Mi sentivo consumare dall'ansia al pensiero che uno dei miei compagni, persino di quelli che mi odiavano, stesse soffrendo. «Non lo so. Ma sono sicuro che sta bene.» In quell'istante capii che Jamie era angosciato quanto gli altri. «Cosa c'è che non va, Jamie? Perché sei triste?» Jamie abbassò gli occhi sulle uova, le mangiò con lentezza e contegno, e non mi rispose. Le terminò in silenzio. Cercai di passargli ciò che restava nella mia ciotola, ma mi lanciò un'occhiata così rabbiosa che le ripresi e le finii senza opporre resistenza. Aggiungemmo le nostre scodelle al mucchio di stoviglie sporche nel bidone di plastica. Era pieno, perciò lo presi con me. Non avevo idea di cosa stesse accadendo nelle grotte, perciò lavare i piatti mi sembrava un'occupazione più sicura. Jamie mi seguì, lo sguardo attento. Brutto segno. Non avevo intenzione di sfruttarlo come guardia del corpo, se ne avessi avuto bisogno. Quando fummo nei pressi del grande orto la mia guardia del corpo ufficiale mi trovò. Ian era sporco, coperto di sabbia marrone chiaro che prendeva sfumature
più cupe dove si mescolava al sudore. Aveva un'aria esausta. Non fui sorpresa di trovarlo giù di morale come tutti gli altri. Ma la sabbia mi incuriosì. Non era quella violacea dell'interno delle grotte. Quel mattino Ian era uscito. «Eccoti» mormorò quando ci vide. Camminava svelto e nervoso a passi lunghi. Quando ci raggiunse non rallentò, ma mi prese a braccetto e mi portò con sé. «Nascondiamoci qui per un attimo.» Ci infilammo nella galleria stretta che portava al campo orientale, dove il granturco era quasi maturo. Ma ci fermammo prima, nascosti nel buio, invisibili. Dopo mezzo minuto, voci profonde echeggiarono nella grande caverna. Non erano vigorose ma dimesse come i volti che avevo incrociato quel mattino. Passarono davanti alla fenditura che ci nascondeva, e la mano di Ian strinse la presa sul mio gomito, affondando le dita nella carne. Riconobbi la voce di Jared e quella di Kyle. Melanie si sforzava di sfuggire al mio controllo, peraltro già debole. Entrambe volevamo vedere Jared in faccia. Per fortuna c'era Ian a trattenerci. «... Non so perché gli concediamo sempre un tentativo. Quando è finita, è finita» diceva Jared. «Stavolta pensava proprio di esserci. Era sicuro... Be', se un giorno capirà, ne sarà valsa la pena» ribatté Kyle. «Se» sbottò Jared. «Per fortuna abbiamo trovato quel brandy. Se Doc continua così, entro sera prosciugherà tutta la cassa.» «Prima o poi perderà i sensi» disse Kyle, mentre la sua voce iniziava a perdersi in lontananza. «Magari Sharon...» Ma a quel punto non riuscii a decifrare più le parole. Ian attese che le voci svanissero, e dopo qualche minuto mollò la presa. «Jared ha promesso» mormorò Jamie. «Kyle invece no» rispose Ian. Tornarono alla luce. Li seguii lenta, incerta sulle mie sensazioni. In quel momento Ian si accorse del carico che portavo. «Niente piatti adesso» mi disse. «Non prima che si siano lavati e allontanati.» Stavo per chiedergli di cosa fosse sporco, ma pensai che, come Jamie, si sarebbe rifiutato di rispondere. Mi voltai a guardare la galleria che portava ai fiumi, pensierosa. Ian grugnì di rabbia. Lo guardai spaventata, e capii perché: mi aveva fissato bene in faccia. Fece per sollevarmi il mento, ma mi ritrassi di scatto.
«Mi viene quasi da vomitare» disse, e sembrava davvero nauseato. «Quel che è peggio è la consapevolezza che se non fossi rimasto qui, avrei potuto essere io il responsabile...» Scossi la testa. «Non è niente, Ian.» «Non sono affatto d'accordo» mormorò, poi si rivolse a Jamie. «Forse è il caso che tu vada a lezione. Meglio riportare tutto alla normalità il più presto possibile.» Jamie mugolò qualcosa. «Sharon sarà un incubo oggi.» Ian sorrise. «È ora di fare un sacrificio, ragazzo. Non ti invidio.» Jamie sospirò e strisciò un piede per terra. «Tieni d'occhio Wanda.» «Certo.» Jamie sgattaiolò via, lanciando di tanto in tanto un'occhiata verso di noi, finché non sparì dentro un altro tunnel. «Ehi, quelli li porto io» disse Ian, strappandomi il bidone dei piatti prima che potessi reagire. «Non erano pesanti.» Fece un altro sorriso. «Mi sento uno scemo a star qui a mani vuote mentre li trascini in giro. Non è cavalleresco. Avanti... andiamo a rilassarci in un posto appartato finché le acque non si calmano.» Lo seguii in silenzio, perplessa. Camminò dritto verso il campo di grano, e poi dentro il campo stesso, seguendo i solchi dell'aratura, tra una fila e l'altra di piante. Lo seguii finché non si fermò in mezzo al campo e si sedette per terra. «Be', qui è abbastanza appartato» dissi, mentre mi accomodavo accanto a lui a gambe incrociate. «Ma non credi che dovremmo lavorare?» «Tu lavori troppo, Wanda. Sei l'unica che non si prende mai un giorno di pausa.» «Almeno ho qualcosa da fare» mormorai. «Oggi sono tutti in pausa, perciò è meglio sfruttare l'occasione.» Lo guardai con curiosità. La luce degli specchi gettava sui gambi del frumento ombre doppie, che si incrociavano come strisce sulla sua testa. Sotto le rughe e lo sporco, il suo volto era pallido e stanco. «Tu invece hai lavorato, mi pare.» Affilò lo sguardo. «Ma ora mi riposo.» «Jamie non vuole dirmi che succede» mormorai. «No. E nemmeno io» sospirò. «Non è davvero il caso che tu lo sappia.» Abbassai lo sguardo verso la terra scura e violacea, mentre qualcosa mi faceva contrarre lo stomaco. Non sapere mi sembrava la cosa peggiore, ma
forse era soltanto mancanza di immaginazione da parte mia. «So che non è giusto» disse Ian dopo qualche istante di silenzio, «visto che io non voglio rispondere, ma posso farti una domanda?» Fu una novità gradita. «Fai pure.» Non parlò subito, per chissà quale esitazione. Il suo sguardo basso era rivolto verso la stessa terra che gli incrostava il dorso delle mani. «So che non sei una bugiarda. Ora lo so» disse piano. «E ti crederò, qualunque cosa tu mi risponda. All'inizio non credevo alla storia di Jeb, ma sia lui che Doc sembrano convinti... Wanda?» domandò, alzando improvvisamente lo sguardo. «La ragazza di cui hai preso il corpo... è ancora dentro di te?» Ormai non era più il mio segreto: Jamie e Jeb sapevano la verità. E non era quello il segreto più importante. Se non altro, sapevo che Ian non lo avrebbe spifferato a chi non cercava che un pretesto per uccidermi. «Sì» risposi. «Melanie c'è ancora.» Annuì lentamente. «E tu, lei, come vi sentite?» «È... una frustrazione per entrambe. All'inizio avrei dato qualsiasi cosa pur di cancellarla. Ma ormai... mi ci sono abituata.» Accennai un sorriso. «A volte è bello avere compagnia. Ma per lei è più difficile. Per molti versi, è prigioniera. Rinchiusa nella mia testa. E tuttavia, accetta la galera pur di non sparire.» «Non credevo che si potesse scegliere.» «All'inizio no. Ma da quando la tua specie ha scoperto cosa stava accadendo, qualcuno riesce a opporre resistenza. Pare che la chiave di tutto sia proprio la consapevolezza. Chi viene colto di sorpresa non si ribella.» «Perciò, se prendessero me?» Valutai la sua espressione, il fuoco negli occhi scintillanti. «Dubito che verresti cancellato. Oggi però le cose sono cambiate. Quando catturano esseri umani adulti, non li offrono come ospiti. Troppi problemi.» Abbozzai un altro sorriso. «Problemi come me. Troppo debole, in sintonia con la mia ospite, disorientata...» Rifletté a lungo, lo sguardo indeciso sul mio volto, sul grano, o su nulla in particolare. «Cosa farebbero di me, allora, se mi prendessero?» domandò, infine. «Tenterebbero comunque un'inserzione, penso. Per ricavarne informazioni. Probabilmente impianterebbero dentro di te un Cercatore.» Rabbrividì. «Ma non ti userebbero come ospite. Trovate o no le informazioni, ti...
scarterebbero.» Difficile pronunciare la parola giusta. Solo il pensiero mi dava la nausea. Che strano, di solito erano le questioni umane a nausearmi. Ma non avevo mai considerato il punto di vista del mio corpo, prima; non vi ero stata costretta, sugli altri pianeti. Dei corpi che non funzionavano bene ci si sbarazzava in fretta e senza dispiacere; erano inutili come rottami. Che senso aveva conservarli? Anche le malattie mentali rendevano i corpi inutilizzabili; ossessioni pericolose, istinti violenti, difetti che non si potevano guarire. Oppure, ovviamente, volontà troppo forti per cancellarle. Anomalia tipica del pianeta in cui mi trovavo. Mai come in quel momento, i miei occhi in quelli di Ian, avevo compreso che considerare difettoso uno spirito indomabile era assurdo. «E se prendessero te?» domandò. «Se capissero chi sono... se qualcuno fosse ancora sulle mie tracce...» Ripensai alla Cercatrice e rabbrividii anch'io. «Mi estrarrebbero da qui per inserirmi in un altro ospite. Qualcuno di più giovane e malleabile. Nella speranza di vedermi tornare in me stessa. Forse mi spedirebbero su un altro pianeta... per allontanarmi dalle cattive influenze.» «Torneresti te stessa?» Incrociai il suo sguardo. «Io sono me stessa. Non mi sono arresa a Melanie. Anche in forma di Orso o Fiore, mi sentirei esattamente come ora.» «Non verresti scartata, tu?» «Non dalle anime. La nostra specie non concepisce la pena di morte. Né, più in generale, la punizione. Tenterebbero di salvarmi. Ma forse sarebbe più giusto che mi eliminassero. In fondo sono una traditrice, no?» Ian increspò le labbra. «Un'esule, direi. Non ti sei ribellata; hai abbandonato la società.» Restammo in silenzio. Mi sforzai di credergli. Ripensai alla parola «esule», tentando di convincermi che ci fosse di peggio. Ian sospirò con tale forza da spaventarmi. «Quando Doc tornerà sobrio, gli faremo dare un'occhiata alla tua faccia.» Allungò una mano e mi sollevò il mento, e lo lasciai fare. Mi voltò la testa per esaminare la ferita. «Non è grave. Sembra peggio di quello che è.» «Lo spero proprio, è orribile. A questo punto penso che Kyle si sia pulito e addormentato. Ti serve una mano, con i piatti?» Ian non mi lasciò lavare i piatti nel fiume come facevo sempre. Insistette per usare la vasca buia, dove nessuno ci avrebbe visti. Strofinavo le stoviglie dove la piscina era più bassa, mentre lui si ripuliva dello sporco che aveva accumulato durante il suo lavoro misterioso. Poi mi aiutò con le ul-
time ciotole. Mi scortò fino alla cucina, che iniziava a riempirsi in vista del pranzo. Il menu si era arricchito di fette di pane morbido e di formaggio dal profumo pungente, pancetta succulenta e rosea. Tutti si ingozzavano di tali prelibatezze con abbandono, malgrado l'angoscia, evidente nel modo in cui curvavano le spalle, senza sorrisi né allegria. Jamie mi aspettava al solito posto. Davanti a lui c'erano due doppie pile di sandwich, ma non le toccava nemmeno. Attendeva, a braccia conserte. Ian lo osservò con curiosità, ma andò a prendere da mangiare senza fare domande. Infastidita dalla testardaggine di Jamie, assaggiai un panino. Jamie vi si buttò non appena iniziai a masticare. Ian tornò subito e tutti e tre iniziammo a mangiare in silenzio. Il cibo era talmente buono da toglierci la voglia di parlare. Al secondo sandwich mi fermai; Jamie e Ian invece si ingozzarono fino a scoppiare. Ian sembrava sul punto di svenire. Si sforzava di tenere gli occhi aperti. «Torna a scuola, ragazzo» disse a Jamie. Jamie lo squadrò. «Forse è meglio che mi occupi io...» «Vai a scuola» aggiunsi subito. Volevo che rimanesse a distanza, almeno quel giorno. «Ci vediamo dopo, okay? Non preoccuparti... di nulla.» «Certo.» Una bugia di una parola sola non era così evidente. O forse era il mio solito sarcasmo. Mi rivolsi a uno Ian sonnolento. «Vai a riposarti. Io me la caverò, vado a nascondermi da qualche parte. In mezzo al grano, o qualcosa del genere.» «Dove hai dormito stanotte?» domandò, gli occhi stranamente attenti sotto le palpebre abbassate. «Perché?» «Posso venirci anch'io, così ti nascondi accanto a me.» Il nostro era un mormorio appena udibile. Nessuno badava a noi. «Non puoi tenermi d'occhio ogni secondo.» «Scommettiamo?» Scrollai le spalle in segno di resa. «Sono tornata... nel buco. Dove mi tenevate all'inizio.» Ian si rabbuiò; l'idea non gli piaceva. Tuttavia si alzò e mi guidò verso il corridoio che faceva da magazzino. La piazza si era riempita di gente che camminava ai lati dell'orto, un gruppo di persone tristi e abbacchiate.
Nascosti nel buio della galleria, cercai di ragionare con lui. «Ian, che senso ha? Costringermi a sopravvivere non diventa un peso per Jamie? Alla fin fine, non sarebbe meglio per lui se...» «Non pensarci neanche, Wanda. Non siamo animali. La tua morte non è inevitabile.» «Non vi considero degli animali» commentai a bassa voce. «Grazie. Ma la mia non era un'accusa. Non ti biasimerei se la pensassi così.» La conversazione terminò in quel momento, quando entrambi ci accorgemmo della luce azzurro pallido che si rifletteva fioca dietro l'angolo del tunnel. «Zitta» sussurrò Ian. «Aspettami qui.» Premette delicatamente sulla mia spalla per convincermi a fermarmi dov'ero. Poi schizzò in avanti, senza badare al rumore dei propri passi. Sparì dietro l'angolo. «Jared?» lo sentii chiamare, fingendosi sorpreso. Mi sentii il cuore pesare dentro il petto; provavo più dolore che paura. «So che siete voi» rispose Jared. Alzò la voce, così che chiunque potesse sentirlo, fino alla piazza principale. «Uscite, uscite, dovunque voi siate» intimò, in tono duro e beffardo. 29 Il tradimento Forse avrei dovuto girare i tacchi e scappare. Ma non c'era nessuno a frenarmi, e malgrado la sua voce fosse fredda e piena di risentimento, era Jared a chiamarmi. Melanie era ancora più impaziente di me, mentre giravo l'angolo con cautela e mi avvicinavo alla luce azzurra; a quel punto indugiai, immobile. Ian si trovava a pochi metri, rannicchiato, pronto a opporsi a qualsiasi movimento ostile di Jared. Jared era seduto a terra, sopra un tappetino. Sembrava stanco quanto Ian, ma come lui conservava uno sguardo molto vigile. «Tranquillo» disse Jared a Ian. «Voglio solo parlare con la creatura. L'ho promesso al ragazzino, e manterrò la promessa.» «Dov'è Kyle?» domandò Ian. «Russa. In camera vostra sembra che ci sia un terremoto.» Ian non si mosse.
«Non sto mentendo, Ian. E non voglio ucciderla. Jeb ha ragione: questa stupida faccenda sarà anche un casino, ma il parere di Jamie conta quanto il mio. E dal momento che si è lasciato abbindolare, dubito che darà il via libera a breve.» «Non si è lasciato abbindolare» ruggì Ian. Con un cenno della mano, Jared chiuse la discussione sulla terminologia. «Ciò che conta è che al momento non corre rischi, per quanto mi riguarda.» E per la prima volta si girò verso di me, valutando il modo in cui mi stringevo al muro, osservando le mie mani che tremavano. «Non ti farò del male» disse. Feci mezzo passo avanti. «Non sei obbligata a parlare con lui, Wanda» sbottò Ian. «Non è un dovere né una missione. Nessuno te lo ordina. Puoi scegliere.» «No» sussurrai. «Parlerò.» Feci un altro piccolo passo. Jared mi fece segno di avanzare. Mi fermai a un metro da lui. Ian era la mia ombra. «Vorrei parlare da solo con la creatura, se non ti dispiace» disse Jared. Ian non batté ciglio. «Mi dispiace.» «No, Ian, stai tranquillo. Vai a dormire. Me la caverò.» Gli sfiorai il braccio. Ian mi guardò dubbioso. «Non stai andando a suicidarti all'insaputa del ragazzino, vero?» «No. Jared non mentirebbe mai a Jamie.» Jared mi trafisse con lo sguardo quando nominai il ragazzo con tanta leggerezza. «Per favore, Ian. Voglio parlare con lui.» Ian mi guardò per qualche istante, poi lanciò un'occhiataccia a Jared. Scandì ogni frase come fosse un ordine. «La "creatura" si chiama Wanda. E tu non le torcerai un capello. Falle del male, e io raddoppierò la dose sulla tua pellaccia inutile.» Trasalii. Ian si voltò di scatto e avanzò a grandi passi nell'oscurità. In silenzio percepimmo il vuoto lasciato dalla sua partenza. Alzai per prima gli occhi sul viso di Jared, ancora concentrato sulle parole di Ian. Quando incrociò il mio sguardo, lo abbassai. «Caspita. Non scherza, eh?» disse Jared. La presi come una domanda ironica. «Perché non ti siedi?» domandò, tamburellando sul tappetino accanto a
sé. Decisi di sedermi contro la solita parete, la più vicina al buco, all'altro capo del materassino rispetto a Jared. Melanie non gradì; voleva restargli accanto, così da sentire il profumo e il calore del suo corpo. Glielo impedii, ma non perché temessi la sua violenza: più che arrabbiato, sembrava stanco e diffidente. Non volevo accostarmi troppo. La sua vicinanza scatenava un dolore nel mio petto, e non sopportavo il suo odio da così breve distanza. Mi guardò e piegò la testa di lato; incrociai i suoi occhi per un istante. «Scusa per ieri sera... per la tua faccia. Non avrei dovuto.» Fissavo le mie mani intrecciate. «Non devi avere paura di me.» Annuii senza guardarlo. Grugnì. «Hai detto di voler parlare, o sbaglio?» Scrollai le spalle. Lo sentii muoversi. Strisciò sul tappetino fino a sedersi accanto a me, come sperava Melanie. Troppo vicino... difficile pensare con lucidità, respirare normalmente, ma non riuscivo a sfuggirgli. Stranamente, malgrado il desiderio di pochi istanti prima, Melanie si irritò all'istante. "Che c'è?" le domandai, sorpresa dall'intensità dell'emozione. "Non mi va che stia seduto accanto a te. Non è giusto. Non mi va che tu lo desideri." Per la prima volta da quando avevamo abbandonato la civiltà, sentii in lei una palese ostilità. Restai sbalordita. «Ho soltanto una domanda» disse Jared, interrompendoci. «Forse sai già di che genere. Stanotte Jeb e Jamie mi hanno riempito la testa di...» Attesi, fissando il sacco di riso all'altro capo del corridoio scuro. Con la coda dell'occhio vidi la mano di Jared alzarsi e mi raggomitolai contro la parete. «Non voglio farti male» ribadì impaziente, e con la mano mi afferrò il mento per costringermi a voltarmi verso di lui. Quando mi sentii toccare il mio cuore palpitò, e gli occhi si inumidirono. Sbattei le ciglia nel tentativo di asciugarli. «Wanda.» Pronunciò il mio nome lentamente, controvoglia, malgrado il tono di voce regolare e impassibile. «Melanie è ancora viva dentro di te? Dimmi la verità.» Melanie attaccò, violenta e ostinata come un martello pneumatico. Era una vera sofferenza fisica, una fitta di emicrania nel punto da cui tentava di
uscire. "Basta! Non vedi?" Lo capivo dalle labbra tese e dallo sguardo accigliato di Jared: non importava cos'avessimo detto io o Melanie. "Lui mi considera una bugiarda" le dissi. "Non cerca la verità, vuole soltanto un indizio, una scusa per dimostrare anche a Jeb e Jamie che sono una bugiarda o una Cercatrice, così avrà il permesso di uccidermi." Melanie rifiutava ostinatamente di sottomettersi. Jared notò il sudore che mi imperlava la fronte, lo strano brivido che corse lungo la mia schiena, e affilò lo sguardo. Mi afferrò il mento per impedirmi di voltare la testa. "Jared, ti amo" cercava di urlare Melanie. "Sono qui." Le mie labbra restarono immobili, ma con mia sorpresa Jared non capì che i miei occhi esprimevano quel sentimento. I minuti passavano lenti, e Jared aspettava una risposta. Fu una pena essere costretta a fissare i suoi occhi pieni di disgusto. Come se non bastasse, la rabbia di Melanie mi tormentava da dentro. La sua gelosia era un'alluvione di amarezza che inondava il mio corpo. Passarono altri minuti, e le lacrime mi gonfiarono gli occhi fino a non poterle più trattenere. Mi rigarono le guance e caddero mute sul palmo della mano di Jared. La sua espressione non cambiò. Non ne potevo più. Chiusi gli occhi e abbassai la testa con violenza. Anziché colpirmi, lasciò cadere la mano. Sospirò di frustrazione. Immaginavo che stesse per andarsene. Attesi che lo facesse, senza alzare lo sguardo. Jared non batté ciglio. Io nemmeno. Sembrava una statua di pietra al mio fianco. L'immobilità della pietra ben si addiceva alla sua espressione, a quello sguardo duro e freddo. Chissà se io e Melanie lo avremmo amato comunque se fosse stato sempre così, anziché il Jared sorridente dei nostri ricordi, quello che era entrato nella vita di Melanie portandole speranza e miracoli. Lo avrebbe seguito lo stesso, se lo avesse saputo così cinico e duro? Se la scomparsa del padre sorridente e dei fratelli indomabili lo avesse già raggelato come soltanto la sparizione di Melanie era riuscita a fare? "Ma certo" sospirò piano Melanie. "Amerei Jared comunque. Anche così, il suo posto è accanto a me." Di punto in bianco Jared sbottò come fosse nel mezzo di una conversazione viva.
«Il fatto è che per colpa tua Jeb e Jamie sono convinti che sia possibile restare coscienti anche dopo la... cattura. Entrambi sono pronti a giurare che da qualche parte, dentro di te, Melanie sia ancora viva.» Tamburellò con le dita sulla mia testa. Quando mi vide scattare all'indietro, incrociò le braccia. «Jamie è convinto che lei gli parli.» Alzò gli occhi al cielo. «Non è giusto prenderlo in giro in questo modo, ma del resto, non puoi certo capire un'etica che non ti appartiene.» Strinsi le ginocchia al petto. «Ma su una cosa Jeb ha ragione: e mi sta facendo ammattire! Qual è il tuo obiettivo? Il sopralluogo dei Cercatori è stato approssimativo, poco... convinto. Come se cercassero solo te, senza badare a noi. Forse non conoscevano la tua meta. Lavori da sola, come una specie di infiltrata? Oppure...» Quando si lanciava in queste speculazioni era più facile ignorarlo. Mi concentrai sulle mie ginocchia. Erano sporche come al solito, violacee e nere. «Forse, in fondo hanno ragione loro a non volerti uccidere.» All'improvviso, con le dita sfiorò lieve la pelle d'oca che le sue parole avevano provocato sul mio braccio. Riprese a parlare con voce più morbida. «Nessuno ti farà più del male. A patto che tu non dia problemi...» Si strinse nelle spalle. «Capisco le loro ragioni, e forse, per assurdo che sia, sarebbe sbagliato. Forse non ci sono ragioni logiche per... a meno che Jamie...» Alzai la testa. Il suo sguardo era concentrato, in attesa di una reazione. Mi pentii di aver mostrato interesse e tornai a meditare. «Il suo legame con te mi spaventa» mormorò Jared. «Non avrei dovuto lasciarlo qui. Non potevo immaginare... E ora non so che farci. Crede che Mel sia viva lì dentro. Come reagirà quando...» Disse «quando», non «se». Malgrado le sue promesse, sapeva che non sarei durata a lungo. «Quello che mi sorprende è Jeb» commentò, cambiando discorso. «È vecchio e saggio. Ha sempre avuto un sesto senso per le trappole. Invece stavolta ci è cascato.» Meditò in silenzio per qualche minuto. «Sei una di poche parole, eh?» Dopo un'altra lunga pausa, sbottò: «C'è una cosa che mi tormenta, ed è il dubbio che abbiano ragione. Come diavolo faccio a saperlo?».
Melanie si sforzò di nuovo di parlare, senza la cattiveria di poco prima né la speranza di farcela. Le mie braccia e le mie labbra restarono immobili. Jared si voltò in modo da starmi esattamente davanti. «Perché sei qui?» sussurrò. Sbirciai la sua espressione gentile, cordiale, quasi come la ricordava Melanie. Sentii che stavo perdendo il controllo; mi tremava il labbro. Trattenere le braccia mi costava tutta la forza che avevo. Volevo toccare il suo viso. Io lo desideravo. A Melanie la cosa non piacque. "Se non vuoi lasciarmi parlare, perlomeno tieni le mani a posto" sibilò. "Ci provo. Scusa." L'avevo ferita. Ma anch'io, come lei, soffrivo. Jared mi guardò con curiosità, mentre i miei occhi ricominciavano a gonfiarsi. «Perché?» domandò delicato. «Vedi, secondo quel folle di Jeb tu sei venuta a cercare me e Jamie. Dimmi se non è una pazzia.» La mia bocca stava per aprirsi; la serrai mordendomi il labbro. Jared si chinò in avanti, lentamente, e prese il mio viso tra le mani. I miei occhi si chiusero. «Non me lo vuoi dire?» Scossi la testa, di scatto. Non so chi decise quel gesto. Ero io a dire «no» o Melanie che diceva "non posso"? Mi strinse il mento. Riaprii gli occhi, e vidi il suo volto a pochi centimetri dal mio. Il mio cuore sussultò, lo stomaco si chiuse; cercai di respirare, ma senza risultato. Da come mi guardava intuii le sue intenzioni; sapevo che gesti avrebbe fatto, come avrei trovato le sue labbra. Eppure fu una novità, una prima volta più sconvolgente di qualsiasi altra, quando sentii la sua bocca sulla mia. Sulle prime pensai che volesse soltanto sfiorarmi con delicatezza, ma le cose cambiarono quando la mia pelle toccò la sua. La bocca di Jared si fece improvvisamente tesa e dura, le sue mani mi intrappolarono il viso mentre con le labbra mi costringeva a movimenti poco familiari. Era molto diverso da ciò che ricordavo, molto più intenso. La testa si riempì di pensieri sconnessi. Il corpo si ribellò. A quel punto era lui a controllare me e Melanie, più forte di entrambe. Le braccia sfuggirono al controllo. La mano sinistra sfiorò il volto di Jared, i suoi capelli, che feci scorrere fra le dita.
La destra fu più veloce. Non era mia. Il pugno di Melanie lo colpì al mento, allontanandolo con un rumore smorzato e sordo. Carne contro carne, dura e infuriata. Non ero abbastanza forte da spostarlo granché, ma Jared si ritrasse non appena il contatto con le mie labbra cessò, incredulo e inebetito di fronte alla mia espressione terrorizzata. Abbassai lo sguardo verso il pugno ancora stretto, disgustata, come se al posto del braccio avessi avuto la coda di uno scorpione. Un gemito di orrore mi sfuggì. Afferrai il polso destro con la mano sinistra, nel tentativo disperato di impedire a Melanie di commettere altri gesti violenti. Alzai gli occhi verso Jared. Anche lui fissava il pugno, mentre l'orrore cedeva il posto alla sorpresa. In quell'istante lo vidi totalmente indifeso. Sapevo benissimo cosa pensava, glielo leggevo in faccia. Non era ciò che si aspettava, ovviamente. Mi aveva messa alla prova. Una prova con cui pensava di potermi giudicare. Una prova i cui risultati era sicuro di conoscere. Invece, ne restò sorpreso. Esame passato o fallito? Il dolore al petto non fu una sorpresa, per me. Sapevo già che «cuore infranto» non era una metafora esagerata. Se la scelta era tra combattere o scappare, sapevo che cosa scegliere: la fuga. Ma Jared stava tra me e l'uscita buia della galleria, perciò mi voltai di scatto e mi lanciai dentro la cavità piena di scatole. I pacchi crepitarono mentre il mio peso li schiacciava a terra e contro il muro. Mi dimenai per entrare in quello spazio impossibile, sgusciando accanto ai cubi più pesanti e comprimendo gli altri. Sentii le sue dita afferrarmi il piede in cerca della caviglia, e scalciai una delle scatole più grevi a dividerci. Lui grugnì qualcosa, e nella disperazione mi afferrò il collo e strinse. Sentii i miei singhiozzi soltanto quando i tonfi delle scatole cessarono, e mi ritrovai nel cuore della caverna ostruita. Mortificata e umiliata. Provavo orrore per me stessa per la violenza a cui avevo concesso, consciamente o no, di prendere possesso del mio corpo, ma quello non era l'unico motivo per cui piangevo. Piangevo perché era stata una prova, e da creatura stupida, stupida, stupida ed emotiva, rimpiangevo che non fosse stato un gesto sincero. Io mi sentivo morire perché lo consideravo un gesto falso; lei si sentiva morire perché ne sentiva la sincerità. Aveva perso tutto, il suo mondo era finito, ma non si era mai sentita così tradita. Quando suo padre aveva con-
dotto i Cercatori a casa della propria famiglia, non lo aveva ritenuto colpevole. Non era stato un tradimento, ma un lutto. Suo padre era morto. Jared, invece, era vivo e lucido. "Nessuno ti ha tradita, stupida" commentai. Doveva smettere di soffrire. Il fardello supplementare della sua agonia era troppo, bastava la mia. "Come ha potuto? Come?" delirò, ignorandomi. Ero a un passo da una crisi isterica, quando dall'imboccatura della caverna giunse la voce bassa e rauca di Jared - rotta e stranamente infantile che disse: «Mel?». 30 Lo svilimento «Mel?» lo sentii chiamare di nuovo, il tono scaldato da una speranza che non voleva accettare. Il mio respiro fu mozzato da un altro singhiozzo. «Lo sai che era per te, Mel. Lo sai. Non per... la creatura. Lo sai, che non stavo baciando lei.» Il gemito che seguì fu più alto, un vero lamento. Perché non riuscivo a tacere? Cercai di trattenere il respiro. «Se sei lì dentro, Mel...» Melanie non sopportava il «se». L'ennesimo singhiozzo mi scoppiò nei polmoni e mi tolse il fiato. «Ti amo» disse Jared. «Anche se non ci sei, se non puoi sentirmi. Ti amo.» Trattenni il respiro mordendomi il labbro fino a farlo sanguinare. Fuori dalla grotta c'era silenzio, e anche dentro, mentre il dolore mi assaliva. Drizzai le orecchie, concentrandomi soltanto su ciò che riuscivo a sentire. Senza pensare a nulla. Ero accovacciata in una posizione impossibile. In diagonale, a testa in giù con la guancia destra premuta contro la roccia. Le spalle contro il bordo accartocciato di una scatola, la destra più in alto della sinistra. Mi sentivo pungere le gambe e i piedi. L'impatto con gli scatoloni mi era costato qualche sbucciatura. Sapevo di dover spiegare a Ian e Jamie che me le ero procurate da sola, ma come? Come potevo raccontare che Jared mi aveva baciata per mettermi alla prova, neanche fossi una cavia da laboratorio da sottoporre a elettroshock? E quanto a lungo potevo restare in quella posizione? Non volevo fare
rumore, ma temevo che la schiena si potesse spezzare. Il dolore divenne sempre più difficile da sopportare in silenzio. Melanie non aveva niente da dirmi. Elaborava in silenzio il sollievo e la furia. Jared le aveva parlato, finalmente aveva accettato la sua esistenza. Aveva detto che l'amava. Ma aveva baciato me. Mel cercava inutilmente di convincersi che non aveva senso sentirsi ferita. La sentivo, ma era un tormento tutto suo. Mi ignorava in modo plateale e infantile. Provai una rabbia inconsueta nei suoi confronti. Diversa da quando avevo paura di lei e mi auguravo di poterla cancellare dai miei pensieri. No, ora anch'io mi sentivo tradita. Come poteva essere arrabbiata con me dopo ciò che era accaduto? Come poteva essere colpa mia se prima mi aveva fatta innamorare costringendomi a subire i suoi ricordi, e poi il corpo ribelle che abitavamo mi aveva sopraffatta? Mi dispiaceva sentirla soffrire, ma, al contrario il mio dolore non significava nulla per lei. Anzi, ne godeva. Cattiva come tutti gli umani. Nuove lacrime scesero silenziose sulle mie guance. La sua ostilità penetrò anche nei miei pensieri. All'improvviso il dolore alla schiena, sbucciata e contorta, fu eccessivo. La goccia che trabocca dal vaso. Con un gemito mi appoggiai alla roccia e al cartone per spingermi all'indietro. Ormai non badavo più a non fare rumore, volevo soltanto andarmene. Giurai a me stessa che non avrei mai più oltrepassato la soglia di quella disgraziata cavità... piuttosto la morte. Mi dimenai, trascinandomi finché non capii che stavo solo peggiorando le cose, attorcigliata come una specie di fiocco capovolto. Ricominciai a piangere come una bambina, per paura di non riuscire a liberarmi. Melanie sospirò. "Aggancia con un piede l'orlo della buca e tirati fuori" suggerì. La ignorai, mentre mi sforzavo di superare con il busto uno spigolo particolarmente aguzzo. Mi colpì proprio al di sotto delle costole. "Non essere testarda" mormorò. "Senti chi parla." "Lo so." Una pausa, poi crollò. "Okay. Mi dispiace. Senti, sono umana. A volte è difficile essere giusti. Noi non siamo infallibili, nei sentimenti e nelle decisioni." Era ancora risentita, ma cercava di perdonarmi e dimenticare di avermi vista scambiare effusioni con il suo unico amore... perlomeno, così si spiegò.
Agganciai con il piede il bordo della buca e mi sollevai. Il mio ginocchio si scontrò con il pavimento, e lo sfruttai come leva per alzare il busto. Infine trovai il suolo con le mani e mi infilai nella breccia, carambolando sul tappetino verde scuro. Rimasi a respirare immobile per qualche istante, a pancia in giù. A quel punto ero certa che Jared se ne fosse andato, ma non controllai finché non mi sentii pronta ad alzare la testa. Ero sola. Meglio stare sola. Meno umiliante. Mi raggomitolai sul tappetino, la faccia premuta contro il tessuto umidiccio. Ero distrutta. Il peso schiacciante del rifiuto di Jared mi stravolgeva. E Jamie, che stava facendo? Sapeva dov'ero, o mi cercava? Ian era sembrato così stanco da poter dormire a lungo. Kyle si sarebbe svegliato di lì a poco? Dov'era Jeb? Quel giorno non l'avevo ancora visto. E Doc, stava davvero annegando nell'alcol? Mi svegliai lentamente, pungolata dalla fame. Restai immobile, al buio e nel silenzio, per qualche minuto, cercando di orientarmi. Era giorno o notte? Quanto tempo avevo dormito lì da sola? Pensai di mangiare qualcosa dalle scorte del magazzino, dopotutto ne avevo danneggiate, forse anche distrutte, parecchie. Ma l'idea di approfittarne aumentò il senso di colpa. Meglio andare a raccattare qualche pagnotta in cucina. Provavo anche una certa sofferenza, perché nessuno era venuto a cercarmi durante la mia lunga assenza - perché avrebbero dovuto preoccuparsi? - e fu un sollievo e un conforto ritrovare Jamie seduto sulla soglia del grande giardino, le spalle voltate al mondo degli umani, ad aspettare proprio me. I miei occhi, e i suoi, si accesero. Si alzò di scatto con un'espressione di sollievo sul viso. «Stai bene» disse, e sperai che avesse ragione. Iniziò a straparlare. «Ecco, non credevo che Jared mentisse, ma ha detto che forse volevi stare sola, e Jeb ha detto che non potevo venire a controllare e che dovevo stare con lui, così era sicuro che non sarei scappato di nascosto, ma anche se credevo che non ti fossi fatta male o cose del genere, è stato difficile non saperlo per certo, capisci?» «Sto bene» risposi. Ma aprii le braccia in cerca di conforto. Lui mi cinse i fianchi, e mi sorpresi nel notare che, in piedi, la sua testa mi arrivava alle spalle. «Hai gli occhi rossi» sussurrò. «Ti ha trattata male?»
«No.» Dopotutto, nemmeno gli scienziati sono crudeli di proposito con le cavie da laboratorio, cercano solo qualche informazione. «Non so cosa gli hai detto, ma secondo me adesso ci crede. Alla storia di Mel, cioè. Come sta lei?» «Ne è contenta.» Annuì, compiaciuto. «E tu?» Indecisa, cercai una risposta ragionevole. «Dire la verità mi è più facile che cercare di nasconderla.» Fui evasiva, ma lui intuì lo stesso il senso delle mie parole. «Ho fame» dissi, e mi sciolsi dall'abbraccio. «Lo immaginavo. Ti ho tenuto via qualcosa di buono.» Feci un sospiro. «Anche il pane va bene.» «Rilassati, Wanda. Ian dice che ti stai sacrificando troppo.» «Secondo me ha ragione» continuò Jamie. «Anche se tutti ti volessimo con noi, devi essere tu a decidere se questa è casa tua.» «Non potrà mai esserlo. E nessuno mi vorrà mai con sé, Jamie.» «Io sì.» Evitai di fargli notare che si sbagliava. Ci credeva davvero. Ma quella che voleva accanto era Melanie. Non distingueva tra noi due, come avrebbe dovuto. Trudy e Heidi stavano infornando in cucina, dividendosi una mela succosa, lucida e verde. Davano un morso a testa. «Bello rivederti, Wanda» disse Trudy sincera, coprendosi la bocca mentre parlava e masticava. Heidi mi salutò con un cenno e affondò i denti nella mela. Jamie mi diede di gomito per dimostrarmi quanto fossero ben disposte. Guai a pensare che fosse una cortesia dovuta. «Le avete tenuto da parte la cena?» domandò impaziente. «Sì» rispose Trudy. Si chinò accanto al forno a prendere un vassoio di metallo. «L'ho lasciata in caldo. Ormai sarà dura e secca, ma è sempre meglio del solito.» Sul vassoio c'era una grossa fetta di carne rossa. Sentii l'acquolina in bocca. «È troppa.» «Il cibo deperibile va mangiato subito» mi incoraggiò Jamie. «Tutti si ingozzano fino a star male: è l'abitudine.» «Hai bisogno di proteine» aggiunse Trudy. «Siamo andati avanti fin troppo con le razioni della caverna. Strano che nessuno sia stato male.» Assunsi la mia dose di proteine mentre Jamie controllava che mangiassi
tutto. La cucina iniziò a riempirsi. Qualcuno divideva una mela con il vicino. Occhi curiosi esaminarono la mia guancia. «Perché arrivano tutti adesso?» mormorai a Jamie. Fuori era scuro, l'ora di cena era passata da tempo. Jamie mi guardò incerto per qualche istante. «Per ascoltare la tua lezione.» Nel suo tono era sottinteso un «ovviamente». «Stai scherzando?» «Te l'ho detto, non è cambiato niente.» Mi guardai attorno. La stanza stretta non era piena. Non c'erano Doc né i razziatori, perciò neanche Paige. Niente Jeb, né Ian, né Walter. Anche qualcun altro era assente: Travis, Carol, Ruth Ann. Ma più persone di quante pensassi erano qui per rispettare la solita routine dopo una giornata così anormale. «Possiamo ricominciare dai Delfini?» domandò Wes, interrompendo la mia riflessione sui presenti. Lo faceva più per volontà di ricucire lo strappo che per un vero interesse nei rapporti di parentela di un pianeta lontano. Tutti mi guardarono ansiosi. Presi una teglia di pagnotte dalle mani di Heidi e mi voltai per infilarle nel forno di pietra. Iniziai a parlare mentre ero ancora girata. «Be'... ehm... ecco... la terza schiera di nonni... di solito si mettono al servizio di quella che considerano la comunità. Sulla Terra li chiamereste razziatori, quelli che abbandonano la casa e vanno in cerca di mezzi di sostentamento. Vivono perlopiù di agricoltura. Coltivano un organismo simile a un albero da cui mungono la linfa...» E la vita ricominciò. Jamie cercò di convincermi a non dormire nel corridoio del magazzino. Non c'era un altro posto per me. Testardo come sempre, insistette per dividere il giaciglio. Probabilmente Jared non era d'accordo, ma siccome non lo vidi né quella sera né il giorno successivo, non potei verificarlo. Era strano compiere il mio dovere quotidiano in presenza dei sei razziatori. Sguardi ostili, silenzi rabbiosi. Per loro era più difficile che per me, però: io ormai ci ero abituata. D'altro canto, per i razziatori il modo con cui venivo trattata dal resto dei presenti era una novità. Mentre aiutavo a raccogliere il granturco, per esempio, porsi un cesto nuovo a Lily, che mi ringraziò con un sorriso, lasciando Andy a bocca aperta. Oppure, mentre facevo la fila per la vasca insieme a Trudy e Heidi, quest'ultima iniziò a giocare con i miei capelli. Erano cresciuti, ormai mi coprivano gli occhi e a-
vevo deciso di accorciarli. Heidi cercava una nuova pettinatura per me, e spostava le ciocche da una parte e dall'altra. Brandt e Aaron - Aaron era il più anziano tra i membri della spedizione, un uomo che non ricordavo di avere mai visto, prima - uscirono e ci videro: Trudy rideva dell'assurda zazzera che Heidi cercava di acconciare sulla mia testa, ed entrambi gli uomini passarono oltre silenziosi e verdi di rabbia. Ma queste erano inezie. Kyle era tornato ad animare le caverne, e malgrado lo avessero obbligato a lasciarmi in pace, gli si leggeva il disgusto in faccia. Quando mi capitava di incrociarlo ero sempre accompagnata, e forse era questo l'unico motivo che limitava la sua reazione a un'occhiataccia. Il pensiero delle mie prime settimane nelle grotte tornò a incombere, ma la seconda sera qualcosa di più importante degli sguardi assassini catturò la mia attenzione. La cucina si riempì di nuovo... non so se a suscitare l'interesse fossero le mie storie o le barrette al cioccolato distribuite da Jeb. Rifiutai la mia, spiegando a un Jamie irritato che non potevo masticare e parlare contemporaneamente; ostinato com'era, me ne avrebbe di sicuro tenuta da parte una. Ian era tornato al suo solito posto accanto al fuoco, e vicino a Paige c'era anche Andy, che mi squadrava con diffidenza. Nessuno degli altri razziatori era tra il pubblico. Non c'era neanche Doc, forse ancora ubriaco o preso dai postumi della sbornia. Walter era assente. Geoffrey, il marito di Trudy, fu il primo a fare una domanda. Cercai di non darlo a vedere, ma ero felice che si fosse unito alla schiera degli umani che mi tolleravano. Purtroppo non riuscii a rispondere con altrettanto slancio, perché la sua curiosità, come quella di Doc, era troppo specifica. «Non so niente di preciso delle tecniche di guarigione» confessai. «Non sono mai stata da un Guaritore dopo... il mio arrivo qui. Non mi sono mai ammalata. L'unica cosa che so è che prima di scegliere un pianeta verifichiamo di poter mantenere i nostri ospiti in condizioni perfette. Non c'è niente che non si possa guarire, un semplice graffio, un osso rotto, un'epidemia. Ormai si muore soltanto di vecchiaia. Di fronte a quella nemmeno un corpo sano può nulla. Ovviamente ci sono anche gli incidenti, ma non si verificano spesso tra le anime. Stiamo molto attente.» «Gli umani armati non sono un semplice incidente» borbottò qualcuno. Io ero alle prese con le pagnotte nel forno; non vidi chi era, né riconobbi la voce. «Proprio così» confermai impassibile. «Perciò non sai cosa usano per curare le malattie, eh?» insistette Geof-
frey. «O che genere di medicine hanno?» Scossi la testa. «No, mi dispiace. Non ho mai approfondito la questione, nemmeno quando potevo accedere a queste informazioni. Purtroppo davo tutto per scontato. La buona salute è un dato di fatto, su tutti i pianeti che ho abitato.» Le guance rosse di Geoffrey si accesero ancora più del solito. Abbassò lo sguardo, le labbra serrate in un'espressione furiosa. Cos'avevo detto di male? La stanza si riempì di un silenzio pesante. «Ehm... tornando agli Avvoltoi...» disse Ian. Parole forzate, un palese tentativo di cambiare discorso. «Forse non c'ero quando l'hai raccontato, ma non ricordo se hai spiegato perché li consideravate "crudeli"...» La prima domanda che gli passava per la testa. La lezione terminò prima del solito. I quesiti di Geoffrey avevano scatenato la preoccupazione generale. «Be', domani ci si alza presto, c'è il grano da mietere...» commentò Jeb dopo l'ennesimo silenzio imbarazzato, e tolse la seduta. Tutti si alzarono stiracchiandosi e parlottando in modo impacciato. «Cos'ho detto?» sussurrai a Ian. «Niente. Riflettono sulla mortalità.» Fece un sospiro. Il mio cervello umano ebbe uno di quegli scatti di lucidità che chiamavano «intuizioni». «Dov'è Walter?» domandai. Ian fece un altro sospiro. «Nell'ala meridionale. Non... se la passa granché bene.» «Perché non me l'avete detto?» «Di recente la vita è stata... difficile per te, perciò...» Scossi la testa, irrequieta. «Cos'ha Walter?» Jamie, che mi si era avvicinato, mi prese per mano. «Certe sue ossa sono troppo fragili, e si sono sbriciolate» disse a mezza voce. «Doc è certo che sia un tumore in fase terminale.» «Chissà per quanto tempo si è tenuto dentro il dolore» Ian aggiunse, cupo. Trasalii. «E non ci si può fare nulla? Proprio nulla?» Ian scosse la testa, fissandomi con i suoi occhi luminosi. «Impossibile. Nemmeno se non ci trovassimo imprigionati qui. Per noi è una malattia incurabile.» Mi morsi la lingua per non commentare. Ovvio che non si potesse fare
più nulla. Questi umani erano disposti a una morte lenta e dolorosa, pur di non cedere la propria mente in cambio di una cura. Ormai... lo avevo capito. «Ha chiesto di te» proseguì Ian. «Be', ogni tanto ti nomina; difficile capire cosa voglia. Doc lo ubriaca di continuo per alleviare il dolore.» «E non riesce a darsi pace dopo avere sprecato tutto quell'alcol per sé» aggiunse Jamie. «Posso vederlo?» domandai. «O pensate che infastidirei gli altri?» Ian scosse la testa. «Certa gente sarebbe capace di indignarsi anche per un gesto simile. Ma chi se ne importa? Se è l'ultimo desiderio di Walt...» «Giusto» commentai. Alla parola «ultimo» sentii bruciare gli occhi. «Se desidera vedermi, immagino che il parere o la rabbia degli altri conti poco...» «Non preoccupartene, non permetterò a nessuno di darti noia.» Le labbra bianche di Ian si tesero. Mi prese l'ansia, il bisogno di controllare che ora fosse. Il tempo non significava più nulla per me, ma all'improvviso avvertii il peso di una scadenza. «È troppo tardi se andiamo stasera? Lo disturbiamo?» «Non dorme a ritmo regolare. Possiamo provarci.» Mi incamminai subito, trascinando Jamie ancora stretto alla mia mano. Era il senso del tempo che passa, della fine inesorabile, a spingermi. Ian mi fu subito alle spalle, con il suo passo lungo. Nella grande caverna coltivata, illuminata dalla luna, incrociammo due persone, che non badarono a noi. Ormai erano abituate a vedermi in compagnia di Jamie e Ian, e la nostra direzione inusuale non le incuriosì. L'unica eccezione fu Kyle. Restò di sasso quando vide suo fratello accanto a me. Lo sguardo corse alla mano di Jamie nella mia, e le sue labbra si piegarono in un ringhio. Ian drizzò le spalle di fronte alla posa del fratello - sulle sue labbra un'espressione identica - e mi prese spontaneamente per mano. Kyle mostrò un profondo disgusto e ci voltò le spalle. Entrati nell'oscurità della lunga galleria meridionale cercai di liberarmi dalla mano di Ian, che invece aumentò la presa. «Spero che tu non lo abbia fatto arrabbiare troppo» mormorai. «Kyle sbaglia. Ormai è un'abitudine, per lui, sbagliare. Impiegherà più di chiunque altro per farsene una ragione, ma ciò non significa che dobbiamo scendere a compromessi.» «Mi spaventa» confessai, a bassa voce. «Non voglio dargli altre ragioni
per odiarmi.» Ian e Jamie mi strinsero le mani. Parlavano contemporaneamente. «Non avere paura» disse Jamie. «Jeb ha chiarito per bene la sua opinione» disse Ian. «In che senso?» domandai. «Se Kyle non accetta le regole, non sarà più il benvenuto quaggiù.» «Ma non è giusto. Questa è casa sua.» Ian grugnì. «Ha deciso di restare... perciò dovrà imparare ad adattarsi.» Tacemmo per il resto del cammino. Mi sentivo sempre più in colpa, ormai era una costante: senso di colpa, paura e cuore a pezzi. Perché mi ero spinta fin là? "Perché, che tu ci creda o no, sei una di loro" sussurrò Melanie. Era consapevole del calore delle mani di Ian e Jamie, intrecciate alle mie. "Ti è mai capitata una cosa del genere?" "No, mai" confessai, ma ciò non fece che aumentare la mia depressione. "Ma non basta a considerarmi una di loro. Non come lo sei tu." "Due al prezzo di una, Wanda." "Grazie per avermelo ricordato..." Fu una sorpresa sentirla così chiaramente. Da due giorni Melanie taceva e aspettava, inquieta ma speranzosa di rivedere Jared. "Magari è da Walter. È sempre stato con lui" pensò fiduciosa. "Non è per questo motivo che andiamo a trovare Walter." "No. Certo che no." Sembrava contrita, ma capii che per lei Walter non era importante come per me. Certo, le dispiaceva vederlo morire, ma l'aveva sempre considerato un evento ineluttabile. Io, invece, non riuscivo ad accettarlo. Walter era amico mio, non suo. Era me che aveva difeso. Una delle solite lampade fioche e azzurre ci accolse mentre raggiungevamo l'ambulatorio. (Avevo scoperto che le lanterne erano alimentate a energia solare, e venivano lasciate a caricarsi di giorno, negli angoli più luminosi.) Odiavo quel locale. Il buio e le strane ombre gettate dal bagliore debole lo rendevano ancor meno accessibile. Sentii un odore nuovo: puzza di marcio, odore acre di alcol e bile. Due barelle erano occupate. Da una penzolavano i piedi di Doc; riconobbi la sua russata leggera. Sull'altra, rinsecchito, quasi irriconoscibile, c'era Walter, che ci guardò avanzare. «Sei in vena di visite?» sussurrò Ian, quando si vide lo sguardo di Walter addosso.
Walter biascicò qualcosa. Le labbra sporgevano dal viso flaccido, sulla pelle sudata il riflesso della luce bassa. «Ti serve qualcosa?» mormorai. Il suo sguardo debole e perso cercò l'oscurità. Feci un passo avanti. «Possiamo fare qualcosa per te? Qualsiasi cosa?» Si sforzò di guardarmi in faccia. All'improvviso, mi mise a fuoco, tra lo stordimento dell'alcol e il dolore. «Finalmente» rantolò. Il suo respiro era un fischio sottile. «Lo sapevo che bastava aspettare e ti avrei rivista. Oh, Gladys, ho tante cose da dirti.» 31 L'agonia Restai impietrita e controllai che non ci fosse nessuno alle mie spalle. «Gladys era sua moglie» fu il sussurro appena percettibile di Jamie. «Non è riuscita a fuggire.» «Gladys» disse Walter, ignorando la mia reazione. «Ci credi che mi è venuto il cancro? Non l'avresti mai detto, eh? Mai preso un giorno di malattia in tutta la vita...» La sua voce svanì, ma le labbra continuavano a muoversi. Era troppo debole per alzare la mano; mosse faticosamente le dita verso il bordo del lettino, verso di me. Ian mi diede una spintarella. «Cosa devo fare?» sussurrai. Il sudore mi imperlava la fronte. «... Il nonno è morto a centouno anni» sibilò Walter. «Nessun mio parente ha mai avuto il cancro, nemmeno i cugini. Era tua zia Regan quella con il tumore alla pelle?» Sperava in una mia risposta. Ian mi pizzicò la schiena. Farfugliai qualcosa. «Forse era la zia di Bill» commentò Walter. Lanciai uno sguardo spaventato a Ian, che scrollò le spalle. «Aiuto» bisbigliai. Mi indicò di prendere la mano di Walter. La sua pelle era bianca e trasparente. Riuscivo a cogliere le pulsazioni deboli del sangue, sul dorso delle mani. Ne sollevai una con cautela, preoccupata delle ossa sottili che secondo Jamie erano tanto fragili. Sembrava troppo leggera, persino vuota. «Ah, Gladdie, è stata dura senza di te. Qui si sta bene; ti piacerà, anche senza di me. Un sacco di persone con cui parlare... so che ti piace chiac-
chierare...» La sua voce si affievolì fino a perdersi, ma con le labbra sillabava le parole che voleva affidare a sua moglie. La bocca continuò a muoversi anche quando Walter chiuse gli occhi e chinò la testa di lato. Ian afferrò un panno umido e lo strofinò sul suo volto sudato. «Non sono brava a... fingere» sussurrai, senza farmi sentire da Walter. «Non voglio deluderlo.» «Non devi dire niente» mi rassicurò Ian. «Non è abbastanza lucido per capire.» «Le somiglio?» «Neanche un po', ho visto la foto. Rossa e tarchiata.» «Dai, lascia fare a me.» Ian mi passò il panno, e iniziai a detergere il sudore dal collo di Walter. Tenermi impegnata mi aiutava a rilassarmi. Walter continuò a borbottare. Mi parve di sentirlo dire: «Grazie, Gladdie, così va meglio». Non mi accorsi che Doc aveva smesso di russare. All'improvviso sentii la sua voce familiare alle spalle, troppo delicata per spaventarmi. «Come va?» «Sta delirando» sussurrò Ian. «Colpa del brandy o del dolore?» «Più del dolore, temo. Darei un braccio per avere della morfina.» «Magari Jared sfodera un altro miracolo» suggerì Ian. «Magari» sospirò Doc. Accarezzai il volto pallido di Walter, attenta alla conversazione, ma di Jared non parlarono più. "Non è qui" sussurrò Melanie. "Cerca aiuto per Walter" confermai. "Da solo" concluse. Ripensai al nostro ultimo incontro, al bacio, alla convinzione... "Forse voleva stare un po' da solo." "Spero che non si sia nascosto chissà dove a convincersi che sei soltanto una superba Cerca-attrice..." "Anche questo è possibile." Ian e Doc parlavano a bassa voce senza un filo logico; più che altro Ian aggiornava il dottore sulla vita quotidiana nelle caverne. «Cosa è successo alla faccia di Wanda?» sussurrò Doc. «Il solito» rispose Ian circospetto. Doc schioccò la lingua infastidito. Ian gli raccontò della mia ultima, goffa lezione, e delle domande di Geoffrey.
«Se Melanie fosse stata posseduta da un Guaritore avremmo potuto cavarcela» commentò Doc. Trasalii, ma erano alle mie spalle e probabilmente non se ne accorsero. «È già una fortuna averla con noi» mormorò Ian per difendermi. «Nessun altro...» «Lo so» lo interruppe Doc, bonario come sempre. «Forse avrei dovuto dire che è un peccato, che Wanda non si sia mai interessata di medicina.» «Mi dispiace» mormorai. In effetti, era stata una leggerezza godere di una salute perfetta senza mai cercare di capirne le cause. Una mano mi sfiorò la spalla. «Non devi dispiacerti di nulla» disse Ian. Jamie non apriva bocca. Lo cercai con lo sguardo e lo vidi raggomitolato sulla barella dove Doc si era riposato. «È tardi» commentò il dottore. «Walter continuerà così fino a mattina. Fossi in voi andrei a dormire.» «Torneremo» promise Ian. «Facci sapere se vi serve qualcosa.» Posai la mano di Walter e la carezzai con cautela. Spalancò gli occhi, mettendomi a fuoco con un filo di lucidità. «Te ne vai?» sibilò. «Già devi andare?» Ripresi la sua mano. «No, non devo.» Sorrise e chiuse gli occhi. Strinse debolmente le sue dita intorno alle mie. Ian sospirò. «Puoi andare» gli dissi. «Non è un problema. Accompagna Jamie a letto.» Ian si guardò attorno. «Aspetta un attimo» disse, e afferrò la branda più vicina. Non era pesante: la sollevò facilmente e la sistemò accanto a quella di Walter. Mi inarcai più che potevo per consentirgli di farla scorrere sotto di me senza abbandonare la mano del malato. Poi Ian mi afferrò con altrettanta scioltezza e mi fece accomodare sul lettino. Lo sguardo di Walter rimase assente. Io boccheggiavo, presa in contropiede dal gesto spontaneo di Ian che mi aveva afferrata come fossi umana. Ian osservò la mano di Walter intrecciata con la mia. «Pensi di poter dormire così?» «Sì, certo...» «Allora buonanotte.» Sorrise, si voltò e sollevò Jamie dalla branda. «Andiamo, ragazzo» mormorò, trasportando il giovane come fosse un bambinetto. I suoi passi silenziosi svanirono in lontananza. Doc sbadigliò e andò a sedersi a una scrivania improvvisata, fatta di cas-
se di legno e di una porta di alluminio, portando con sé la lampada. Non c'era abbastanza luce per vedere il viso di Walter, e la cosa mi innervosì. Come se fosse sparito davvero. Doc iniziò a frugare tra certi documenti, canticchiando tra sé. Mi abbandonai al fruscio delicato dei fogli. Walter mi riconobbe il mattino dopo. Si svegliò soltanto quando Ian tornò a prendermi; bisognava strappare le piante vecchie dal campo di grano. Promisi a Doc che, prima di andare a lavorare gli avrei portato la colazione. L'ultima cosa che feci fu sciogliere le dita, ormai indolenzite, dalla presa di Walter. Lui aprì gli occhi e sussurrò: «Wanda». «Walter?» Non sapevo quanto a lungo mi avrebbe riconosciuta, o se ricordasse qualcosa della sera precedente. Afferrò il vuoto, perciò gli offrii la mia mano sinistra, quella ancora reattiva. «Sei venuta a trovarmi. Che gentile. Certo che... tornati gli altri... dev'essere difficile... per te... Il tuo viso...» Sembrava in difficoltà nel pronunciare le parole, e i suoi occhi perdevano e ritrovavano lucidità di continuo. Era tipico di lui mostrarsi così preoccupato. «Va tutto bene, Walter. Tu come stai?» «Ah...» mugolò piano. «Non tanto... Doc?» «Sono qui» mormorò il dottore accanto a me. «C'è dell'altro liquore?» ansimò. «Certo.» Doc era già pronto. Avvicinò il collo di una bottiglia di vetro spesso alle labbra smorte di Walter, e con cautela, lentamente, versò il liquido marrone scuro. Ogni sorsata che gli bruciava la gola lo faceva sussultare. Se ne rovesciò qualche goccia sulle guance e sul cuscino. L'odore mi pizzicava il naso. «Meglio?» domandò il dottore dopo pochi sorsi lenti. Walter grugnì. Non sembrava un assenso. I suoi occhi si chiusero. «Ancora?» chiese Doc. Walter gemette. Doc imprecò sottovoce. «Dov'è Jared?» mormorò. Mi irrigidii. Melanie ebbe un sussulto e tornò al suo silenzio. Le guance di Walter si afflosciarono. Chinò la testa sul petto. «Walter?» bisbigliai. «Il dolore gli leva lucidità. Lascialo stare» disse Doc.
Sentii un nodo in gola. «Cosa posso fare?» Doc rispose desolato. «Quel che posso fare io. Cioè niente. Non servo a niente.» «Non fare così, Doc» sentii mormorare Ian. «Non è colpa tua. Il mondo è cambiato. Nessuno si aspetta di più, da te.» Mi strinsi nelle spalle. Sì, il loro mondo era cambiato per sempre. Un dito mi tamburellò sul braccio. «Andiamo» sussurrò Ian. Annuii e feci per ritrarre la mano. Walter aprì gli occhi di scatto, senza vedere nulla. «Gladdie? Sei tu?» implorò. «Ehm... sì» abbozzai, lasciando che intrecciasse le sue dita alle mie. Ian scrollò le spalle. «Vado a prendervi da mangiare» sussurrò e sparì. Aspettai con ansia che tornasse, snervata dalle allucinazioni di Walter. Continuava a bisbigliare il nome di Gladys, ma non sembrava voler niente da me. Dopo un po', forse mezz'ora, iniziai a chiedermi perché Ian impiegasse tanto a tornare. Doc restò tutto il tempo alla scrivania a fissare il vuoto, le spalle cadenti. Era facile intuire quanto si sentisse inutile. A un certo punto sentii qualcosa, ma non erano passi. «Che succede?» domandai a Doc sottovoce; Walter si era calmato, forse aveva perso conoscenza. Non volevo disturbarlo. Doc si voltò a guardarmi, chinando il capo per ascoltare. Il rumore era un tamburellare strano, veloce e sordo, a un volume che pareva aumentare e poi diminuire. «Curioso» disse Doc. «Sembra quasi...» Tacque, la fronte corrugata dalla concentrazione, mentre il rumore svaniva. Attenti com'eravamo, ci accorgemmo dei passi quando erano ancora lontani. Non somigliavano al ritmo regolare del ritorno di Ian, che attendevamo. Era una specie di trotto, anzi, una vera corsa. Doc scattò immediatamente: quel rumore significava guai. Andò svelto incontro a Ian. Anch'io avrei voluto controllare cosa succedeva, ma non volevo spaventare Walter abbandonandolo. Tesi le orecchie. «Brandt?» sentii esclamare Doc, sorpreso. «Dov'è? Dov'è?» chiese l'altro, senza fiato. I passi di corsa si fermarono per un secondo, e ripresero più lenti. «Ma chi?» chiese Doc, che stava tornando indietro. «La parassita!» sibilò Brandt impaziente, ansioso, mentre sfrecciava sotto l'arco dell'entrata.
Brandt non era corpulento come Ian o Kyle; era qualche centimetro più basso di me, tarchiato e coriaceo come un rinoceronte. Il suo sguardo saettò per la stanza; per meno di un secondo trafisse il mio volto, poi passò alla sagoma ignara di Walter, di nuovo alla stanza e infine tornò a me. A quel punto Doc lo raggiunse, e le sue lunghe dita lo afferrarono mentre stava per avvicinarsi. «Che ci fai qui?» chiese Doc, mai così vicino a ruggire come in quel momento. Prima che Brandt potesse rispondere, tornò lo strano rumore, che da smorzato passò a roboante e di nuovo a impercettibile, con una velocità che ci lasciò impietriti. I battiti si susseguivano velocissimi, talvolta così forti da far tremare l'aria. «È... un elicottero?» sussurrò Doc. «Sì» rispose Brandt. «È la Cercatrice, la stessa che avevamo visto cercare quella.» Con un cenno mi indicò. All'improvviso sentii un nodo alla gola. Avevo le vertigini. "No. Non ora. Per favore." "Ma che problema ha?" ringhiò Mel nella mia mente. "Perché non ci lascia stare?" "Dobbiamo fermarla!" "Ma come facciamo?" "Non lo so. È tutta colpa mia!" "Anche mia, Wanda. Nostra." «Sei sicuro?» chiese Doc. «Kyle l'ha osservata bene con il binocolo mentre planava. E l'ha riconosciuta.» «E vuole venire qui?» La voce di Doc si riempì di orrore. Si voltò e lanciò un'occhiata verso l'uscita. «Dov'è Sharon?» Brandt scosse la testa. «È in perlustrazione. Fa avanti e indietro da Picacho. Non sembra concentrata su un obiettivo preciso. Ha girato un po' attorno a dove abbiamo lasciato la macchina.» «Sharon?» chiese di nuovo Doc. «È con i piccoli e Lucina. Stanno bene. I ragazzi stanno facendo le valigie nel caso tocchi andarcene stanotte, ma secondo Jeb è improbabile...» Doc fece un sospiro di sollievo e tornò alla scrivania, dove si lasciò cadere, esausto come un maratoneta. «Niente di nuovo, quindi» mormorò. «No. Dovremmo stare tranquilli per un paio di giorni» lo rassicurò Brandt. Il suo sguardo corse di nuovo per la stanza, soffermandosi di con-
tinuo su di me. «Hai della corda a portata di mano?» chiese. Alzò l'orlo del lenzuolo di una branda vuota, per esaminarlo. «Corda?» ripeté Doc perplesso. «Per la parassita. Kyle mi ha ordinato di tenerla d'occhio.» I miei muscoli si irrigidirono e la mia mano strinse quella di Walter troppo forte, e lui emise un gemito. Mi sforzai di rilassarmi, mentre fissavo l'espressione dura di Brandt. Impaziente, aspettava la risposta di Doc. «Sei qui per tenere d'occhio Wanda?» disse Doc, aspro come poco prima. «E cosa vi fa pensare che sia necessario?» «Su, Doc, non scherzare. Qui è pieno di fessure, e di metallo che riflette la luce.» Brandt indicò uno schedario lungo la parete. «Basta la minima distrazione, e questa può mandare un segnale alla Cercatrice.» La sorpresa mi mozzò il respiro; nella quiete della stanza, entrambi se ne accorsero. «Visto?» disse Brandt. «Ci ho azzeccato in pieno.» Ero disposta a farmi seppellire sotto a un masso, pur di sfuggire agli occhi sporgenti e invadenti della mia Cercatrice, e lui credeva che volessi attirarla. Condurla a uccidere Jamie, Jared, Jeb, Ian... Mi veniva il vomito. «Vattene pure, Brandt» disse Doc, gelido. «Wanda la tengo d'occhio io.» Brandt alzò un sopracciglio. «Che vi è successo? A te, Ian, Trudy e gli altri? Sembrate tutti ipnotizzati. Se i vostri occhi non fossero a posto, direi che...» «Di' pure quello che ti pare, Brandt. Ma vattene.» Brandt scosse la testa. «Ho un compito da svolgere.» Doc si avvicinò a Brandt, e si fermò tra lui e me. Incrociò le braccia. «Tu non la tocchi.» Le pale dell'elicottero ricominciarono a sussultare in lontananza. Restammo immobili, trattenemmo il respiro sino a che non scemarono. Tornato il silenzio, Brandt scosse di nuovo la testa. Non aprì bocca; si avvicinò alla scrivania e afferrò la sedia di Doc. La avvicinò alla parete dove stava lo schedario, la sbatté a terra con violenza e la occupò con un gesto deciso. Si chinò in avanti, le mani sulle ginocchia, e iniziò a fissarmi. Come un avvoltoio in attesa che la lepre morente cessi di muoversi. Doc serrò i denti. «Gladys» borbottò Walter, riaffiorando dal sonno allucinato. «Sei qui.» Troppo nervosa per parlare, risposi sfiorandogli la mano. Con gli occhi annebbiati cercò il mio viso, e i lineamenti che solo lui vedeva. «Fa male, Gladdie. Fa tanto male.»
«Lo so» sussurrai. «Doc?» Mi era già accanto. «Apri, Walter.» Il suono dell'elicottero rimbombò sordo, ma non abbastanza lontano. Doc ebbe un sussulto e mi rovesciò qualche goccia di brandy sul braccio. Fu una giornata orribile. La peggiore da quando vivevo sulla Terra, peggio anche del primo giorno nelle caverne e dell'ultima, calda e secca giornata nel deserto, a poche ore dalla morte. L'elicottero non smetteva di girare. A volte, tra un passaggio e l'altro trascorreva più di un'ora, e pensavo che fosse finita. Ma poi tornava, e rivedevo l'espressione testarda della Cercatrice, i suoi occhi sporgenti che setacciavano il deserto in cerca di segni umani. Cercai di non pensarci, concentrandomi sui ricordi della piana anonima e incolore del deserto, nel tentativo di rassicurarmi del fatto che nemmeno lei potesse vederci altro. Brandt non staccò mai il suo sguardo diffidente da me. Le cose migliorarono un poco quando Ian tornò con colazione e cena. Era coperto di terra, dopo aver partecipato ai preparativi per la possibile evacuazione. Quando Brandt gli spiegò il motivo della sua presenza, Ian gli lanciò un'occhiataccia degna di Kyle. Poi spostò un'altra branda vuota accanto alla mia, così da coprirgli la visuale. L'elicottero e la guardia diffidente di Brandt non erano poi grossi problemi. In una giornata normale - ammesso di poterla ancora vivere - mi avrebbero mandata in crisi. Quel giorno, non significavano nulla. A pranzo Doc diede a Walter l'ultima goccia di brandy. Pochi minuti dopo lui iniziò a contorcersi, gemere e cercare aria. Le sue dita graffiavano e tiravano, ma se mollavo la presa i gemiti si trasformavano in urla. Fui costretta ad allontanarmi una volta sola, per usare la latrina; Brandt mi seguì, Ian sentì il bisogno di fare altrettanto. Quando tornai - dopo aver corso per quasi tutto il tragitto - le grida di Walter erano disumane. Il volto di Doc, spento, ne rifletteva l'agonia. Walter si calmò soltanto quando riuscii a convincerlo che sua moglie gli era accanto. Fu una bugia facile, una gentilezza. Brandt grugnì qualcosa, irritato, ma sapevo che non aveva il diritto di irritarsi. Niente importava di fronte al dolore di Walter. Al tramonto Jamie venne a cercarmi, portando cibo per quattro. Non gli permisi di restare; ordinai a Ian di tornare in cucina a mangiare con lui e gli feci promettere di tenerlo d'occhio per tutta la notte, così che non sgattaiolasse a raggiungermi. Walter non riuscì a non urlare quando, a furia di agitarsi, spostò la gamba rotta; il suono della sua voce fu quasi insopporta-
bile. Jamie non meritava che quella notte gli restasse impressa nella memoria, come sarebbe accaduto a me e a Doc. Forse anche a Brandt, per quanto si sforzasse di ignorare Walter tappandosi le orecchie e intonando una melodia stonata. Doc non prese le distanze dalla tremenda sofferenza di Walter: al contrario, soffrì con lui. Le urla del malato gli scavavano rughe profonde sul volto. Era strano vedere Doc, un essere umano, provare una compassione tanto profonda. Fui costretta a cambiare l'opinione che avevo di lui. La sua compassione era così grande che sembrava lacerarlo. Era impossibile credere che fosse una persona crudele; quell'uomo non poteva essere un torturatore. Cercai di ricordare perché lo avessi temuto tanto: qualcuno l'aveva accusato chiaramente? Non mi pareva. Forse era stato il terrore a farmi giungere a conclusioni sbagliate. Dopo quella giornata da incubo fui certa di potermi fidare di lui. Tuttavia, l'ambulatorio continuava a sembrarmi un posto orribile. Quando le ultime luci del giorno svanirono, se ne andò anche l'elicottero. Restammo al buio, senza osare accendere nemmeno la torcia azzurra. Soltanto dopo qualche ora ci convincemmo che forse la battuta di caccia era finita. «Logico che se ne sia andata» mormorò Brandt, sgattaiolando verso l'uscita. «Di notte non c'è niente da vedere. Prendo la tua torcia, Doc, così la parassita domestica di Jeb non può combinare niente, e me ne vado.» Doc non reagì, non degnò di uno sguardo quell'uomo così astioso. «Fallo smettere, Gladdie, fallo smettere!» mi implorò Walter. Gli asciugai il sudore dalla fronte mentre mi stritolava la mano. Il tempo parve rallentare fino a fermarsi; scese una notte buia e interminabile. Le urla di Walter si fecero sempre più frequenti e strazianti. Melanie era lontana, conscia di non potersi rendere utile. Anch'io mi sarei nascosta volentieri, se Walter non avesse avuto bisogno di me. Ero tutta sola con i miei pensieri, esattamente ciò che un tempo avevo desiderato. Mi sentii smarrita. Alla fine, una luce fioca e grigia filtrò dalle fenditure del soffitto. Ero a un passo dall'addormentarmi, sentivo Doc russare alle mie spalle. Ero lieta che fosse riuscito a prendersi almeno una pausa. Non mi accorsi quando Jared entrò. Mormoravo deboli parole di conforto cercando di calmare Walter. «Sono qui, sono qui» bisbigliavo, mentre chiamava sua moglie. «Shh,
tutto bene.» Parole senza senso. Non so quanto tempo Jared restò a guardare me e Walter. Ero sicura di aver scatenato la sua rabbia, ma quando parlò, la sua voce era calma. «Doc» disse, e sentii spostare la branda dietro la mia. «Doc, svegliati.» Liberai la mano, impaurita, disorientata, per guardare il viso della persona cui apparteneva quella voce inconfondibile. Jared scuoteva le spalle di Doc addormentato e mi guardava. Impossibile leggere nei suoi occhi alla luce fioca. Sul suo volto, nessuna espressione. Melanie riprese conoscenza di scatto. «Gladdie! Non andartene! No!» Lo strillo di Walter fece sobbalzare Doc, che quasi cadde a terra assieme alla branda. Tornai da Walter, e restituii la mia mano indolenzita alle sue dita bramose. «Shh! Shh! Walter, sono qui. Non me ne vado. Non vado, te lo prometto.» Si tranquillizzò, gemendo come un neonato. «E lei che c'entra?» mormorò Jared dietro di me. «È il miglior sedativo che sono riuscito a trovare» disse Doc stanco. «Be', ti ho trovato qualcosa di meglio di una Cercatrice addomesticata.» Mi si chiuse lo stomaco, e Melanie sbottò nella mia testa. "Stupido, cieco e testardo!" ruggì. "Non ti crederebbe nemmeno se gli dicessi che il sole tramonta a est." Ma Doc non badò a come mi aveva definita. «Hai trovato qualcosa!» «Morfina. Non è tanta. Sarei tornato prima, se non avessi avuto la Cercatrice alle costole.» Doc si mise subito all'opera. Lo sentii armeggiare con qualcosa di cartaceo ed esultare. «Jared, sei l'uomo dei miracoli!» «Doc, aspetta un...» Ma il dottore era già al mio fianco, il viso smunto acceso d'impazienza. Prese una piccola siringa. Infilò l'ago nel braccio di Walter all'altezza del gomito. Mi voltai. Mi pareva un'orrenda intrusione pungere qualcuno così. Ma non potei contestare il risultato. Nel giro di mezzo minuto il corpo di Walter si rilassò, trasformandosi in una massa di carne molle adagiata sul materasso sottile. Il respiro si fece da rauco e veloce a un sussurro regolare. La sua mano si rilassò e mi lasciò libera. Mi massaggiai la mano sinistra con la destra, cercando di riattivarne la circolazione. «Ehm, Doc, in realtà non ne abbiamo abbastanza» mormorò Jared.
Distolsi lo sguardo dal volto di Walter, finalmente in pace. Jared mi dava le spalle, ma riuscii a vedere l'espressione sorpresa del dottore. «Abbastanza per cosa? Non ho intenzione di conservarla per momenti peggiori, Jared. Certo, rimpiangeremo di non averla, e presto, ma non ho intenzione di lasciare che Walter agonizzi urlando mentre cerco di aiutarlo!» «Non è ciò che intendevo» rispose Jared. Aveva il tono di quando usciva da meditazioni lunghe e profonde. Parole lente e regolari, come il respiro di Walter. Doc aggrottò le sopracciglia, confuso. «Ne abbiamo abbastanza per tamponare il dolore per tre o quattro giorni, non di più» disse Jared. «Se la dosi.» Non capii il suo discorso, a differenza di Doc. «Ah» sospirò. Si voltò a guardare Walter e vidi i suoi occhi gonfiarsi di lacrime. Avrei voluto chiedere di cosa parlavano, ma la presenza di Jared bastava a zittirmi. «Non puoi salvarlo, ma puoi risparmiargli di soffrire, Doc.» «Lo so» rispose l'altro. La sua voce si spezzò, come per soffocare un singhiozzo. «Hai ragione.» "Che succede?" domandai. Visto che Melanie si era ripresentata, tanto valeva approfittarne. "Vogliono uccidere Walter" mi disse brutalmente. "Hanno abbastanza morfina per provocare un'overdose." Il mio singhiozzo risuonò nella stanza silenziosa, ma era poco più che un sospiro. Con gli occhi gonfi di lacrime mi chinai sul cuscino di Walter. "No" pensai. "No. Non ora, no." "Preferisci vederlo morire urlando?" "Non riesco... a sopportare... l'inevitabile. L'assoluto. Non rivedrò mai più un mio amico." "Quanti altri tuoi amici sei tornata a trovare, Viandante?" "Non ho mai avuto amici come questi." I miei amici sugli altri pianeti erano solo un pallido ricordo; le anime si somigliavano tutte, erano quasi intercambiabili. Walter era solamente se stesso. Sparito lui, nessuno lo avrebbe rimpiazzato. Cullai la sua testa fra le mani e lasciai che le lacrime cadessero sulla sua pelle. Cercai inutilmente di soffocare il pianto. "Lo so. È un'altra prima volta" sussurrò Melanie, e c'era un che di com-
passionevole nella sua voce. Era anche la prima volta che qualcuno provava compassione per me. «Wanda?» disse Doc. Scossi la testa, incapace di rispondere. «Penso che tu sia rimasta anche troppo» disse. Sentii la sua mano, leggera e calda, sulla spalla. «Fai una pausa.» Scossi di nuovo la testa, affranta. «Sei esausta» disse. «Vai a darti una pulita, a sgranchirti le gambe. Mangia qualcosa.» Gli lanciai un'occhiataccia. «Quando torno Walter sarà ancora qui?» mormorai tra le lacrime. Affilò lo sguardo, ansioso. «È ciò che vuoi?» «Vorrei poterlo almeno salutare. È un mio amico.» Mi fece una carezza. «Lo so, Wanda, lo so. Anche mio. Non ho fretta. Vai a prendere un po' d'aria, e torna qui. Per un po' Walter dormirà.» Scrutai il suo volto esausto, e capii che era sincero. Annuii e posai con cautela la testa di Walter sul cuscino. Forse, allontanandomi per un po', sarei riuscita a trovare un modo di affrontare la situazione. Non sapevo come, non avevo nessuna esperienza nel campo degli addii definitivi. Siccome ero innamorata di Jared, che lo volessi o no, prima di uscire sentii di dovergli gettare uno sguardo. Anche Mel lo desiderava, ma le sarebbe piaciuto potermi escludere. Incrociai i suoi occhi. Ebbi la sensazione che lui mi stesse guardando da parecchio. La sua espressione era controllata, ma erano tornati la sorpresa e il sospetto. Non ne potevo più. Che senso aveva a quel punto continuare a fingere, anche fossi stata una brava bugiarda? Walter non mi avrebbe mai più difesa. Non lo avrei ingannato mai più. Incrociai lo sguardo di Jared per alcuni istanti, poi mi voltai, pronta a imboccare il tunnel buio. 32 L'aggressione Le grotte erano silenziose; il sole non era ancora sorto. Nella grande piazza gli specchi riflettevano il chiarore dell'alba imminente. I miei pochi vestiti erano rimasti nella stanza di Jared e Jamie. Mi ci infilai, lieta che Jared fosse lontano.
Jamie dormiva sodo, sul materasso, raggomitolato nell'angolo più lontano. Ian occupava il resto dello spazio, con i piedi che penzolavano dai bordi del letto. Per chissà quale ragione reagii da isterica. Fui costretta a infilarmi una mano in bocca per soffocare le risate, mentre in silenzio afferravo le mie vecchie magliette e i pantaloncini sporchi di terra. "Sei suonata" disse Melanie. "Hai bisogno di dormire." "Dormirò dopo. Quando..." Non riuscii a finire la frase. Tornai subito con i piedi per terra, nel silenzio. Ero ancora agitata, mentre mi dirigevo verso la vasca. Di Doc mi fidavo, ma... magari aveva cambiato idea. Quando giunsi alla diramazione da cui si irradiavano i corridoi delle stanze mi parve di sentire qualcosa alle mie spalle. Mi voltai, ma non vidi nessuno. Era quasi l'ora del risveglio. Di lì a poco ci sarebbe stata la colazione, quindi un'altra giornata di lavoro. Se avevano finito con il granturco, la terra del campo orientale andava rivoltata. Magari avrei potuto aiutarli... più tardi... Seguii il percorso ormai familiare verso i fiumi sotterranei, la mente persa in un milione di altri posti. Non riuscivo a concentrarmi su nulla. Ogni volta che cercavo di mettere a fuoco qualcosa - Walter, Jared, la colazione, il lavoro, il bagno - arrivava un altro pensiero a distrarmi. Aveva ragione Melanie: dovevo dormire. Lei era confusa quanto me. I suoi pensieri gravitavano attorno a Jared, ma non riusciva a tirarne fuori nulla di coerente. Mi ero abituata alla stanza da bagno. L'oscurità non mi preoccupava più. Quasi ovunque era buio, nelle caverne. Però sapevo di non avere il tempo di godermi il bagno. Presto sarebbero arrivati gli altri, a cui piaceva iniziare la giornata puliti. Di buona lena, prima lavai me stessa, poi i vestiti. Strofinai con vigore la camicia, come se potessi ripulirla dai ricordi delle due nottate precedenti. Quando ebbi finito, mi pungevano le mani; a bruciare erano soprattutto le sbucciature che avevo sulle nocche. Le immersi nell'acqua, senza sentire gran sollievo. Sospirai e uscii, pronta a rivestirmi. Stavo infilando i piedi nelle mie scarpe da tennis sdrucite, quando capii che il mio turno era finito. «Toc toc» disse una voce familiare dall'entrata buia. «Buongiorno, Ian» dissi. «Ho quasi finito. Dormito bene?» «Ian dorme ancora» rispose la voce. «Immagino che non durerà per sempre, perciò sarà meglio che ci sbrighiamo.»
Schegge ghiacciate mi inchiodarono. Non riuscivo a muovermi né a respirare. Lo sapevo, ma me ne ero dimenticata durante le lunghe settimane della sua assenza: non soltanto Kyle somigliava molto a Ian, ma quando parlava in tono normale, cosa che accadeva di rado, aveva esattamente la sua voce. Mi sentii soffocare. Ero intrappolata in quel buco nero, con Kyle all'ingresso. Non c'era via d'uscita. "Zitta!" strillò Melanie nella mia testa. Facile. Non avevo aria per urlare. "Ascolta!" Obbedii e tentai di concentrarmi malgrado la paura, che mi paralizzava. Non sentivo niente. Kyle si aspettava una risposta? Stava sgattaiolando nella stanza in silenzio? Drizzai le orecchie, ma la corrente del fiume copriva ogni altro suono. "Svelta, prendi un sasso!" ordinò Melanie. "Perché?" Mi vidi scagliare una roccia contro la testa di Kyle. "Non posso!" "Allora moriremo!" mi urlò. "Io posso! Lascia fare a me!" "Dev'esserci un'altra maniera" mugolai, ma costrinsi le mie ginocchia a piegarsi. Frugai nell'oscurità e trovai una pietra grossa, appuntita, e una manciata di sassolini. Combattere o fuggire. Disperata, cercai di liberare Melanie, di farla uscire. Non trovavo la via, le mani erano ancora le mie, inutilmente avvinghiate agli oggetti che mai avrei saputo trasformare in armi. Un rumore. Un gorgoglio leggero, quando qualcosa entrò nel torrente che portava l'acqua della vasca verso la latrina. A pochi metri da me. "Dammi le mie mani!" "Non so come fare! Prendile!" Feci per sgusciare via, stretta contro la parete, verso l'uscita. Melanie si sforzava di uscire dalla mia testa, ma neanche lei sapeva trovare la via. Un altro rumore. Non dal torrente lontano. Un sospiro, sulla porta. Restai impietrita. "Dov'è?" "Non lo so!" L'unico rumore fu quello del fiume, di nuovo. Kyle era solo? C'era qualcuno ad attendermi sulla porta, mentre lui mi metteva in fuga dalla vasca?
Quanto mi era vicino? Sentii la pelle d'oca sulle braccia e sulle gambe. C'era una specie di pressione nell'aria, che quasi mi faceva cogliere i suoi movimenti silenziosi. La porta. Feci un mezzo giro su me stessa, pronta a tornare indietro, lontana dal respiro che avevo sentito. Non poteva aspettare a lungo. A giudicare dalle sue parole, aveva fretta. Da un momento all'altro poteva arrivare qualcuno. Ma le circostanze gli erano favorevoli. Quelli che avrebbero tentato di fermarlo erano numericamente inferiori ai suoi sostenitori. E non so quanti dei suoi oppositori sarebbero riusciti a fermarlo. Soltanto Jeb e il suo fucile avrebbero fatto la differenza. Forse solo Jared era forte quanto Kyle, ma Kyle era più convinto. Un altro rumore. Era un passo quello che avevo sentito sulla porta? O l'avevo immaginato? "Stai pronta." Melanie mi ordinò di stringere la pietra con più forza. Prima volevo concedermi la possibilità di fuggire. Non sarei stata una buona combattente nemmeno se avessi accettato di provare. Kyle pesava quasi il doppio di me, le sue braccia erano molto più lunghe delle mie. Alzai la mano in cui tenevo i sassolini e mirai verso il canale che entrava nella latrina. Forse potevo fargli credere di essermici nascosta, in attesa di soccorsi. Lanciai la ghiaia e mi allontanai dal rumore che fecero contro la parete rocciosa. Riecco il sospiro, sulla porta, il suono di un passo leggero che si spostava verso il mio falso nascondiglio. Proseguii lungo la parete, con la stessa leggerezza. "E se fossero in due?" "Non so." Ero quasi arrivata all'uscita. Raggiunto il tunnel, avrei potuto scappare. Ero più leggera e veloce... Sentii chiaramente il rumore di un passo che entrava nel torrente all'altro capo della stanza. Sgusciai ancora più veloce. Un tuffo violento spezzò la tensione. Sentii uno scroscio d'acqua sulla pelle, che mi mozzò il respiro. L'onda si abbatté fragorosamente contro la parete. "Viene dalla vasca! Corri!" Aspettai un secondo di troppo. Grosse dita mi afferrarono il polpaccio e la caviglia. Con uno strattone cercai di liberarmi. Inciampai, e lo slancio con cui caddi gli fece mollare la presa.
Ero a terra, come lui. Riuscii a buttarmi in avanti, strisciando le ginocchia contro la pietra scabra. Kyle grugnì e allungò una mano verso il mio piede. Non trovò nulla da stringere; di nuovo sfuggii alla presa. Scattai in avanti rialzandomi, a testa bassa, a rischio di cadere ancora, con il busto quasi parallelo al terreno. Mantenni l'equilibrio soltanto grazie a uno sforzo di volontà. Non c'era nessun altro. Nessuno sulla soglia della stanza. Scattai in avanti, speranza e adrenalina mi inondarono le vene. Sfrecciai a tutta velocità nella stanza dei fiumi, il mio unico pensiero era quello di raggiungere il tunnel. Percepivo il fiatone di Kyle a poca distanza. All'improvviso sentii un dolore straziante alla gamba, mentre due pietre, quella che stringevo in mano e quella che Kyle mi aveva lanciato contro per azzopparmi, rotolavano a terra. La mia gamba si piegò e mi fece cadere all'indietro; un secondo dopo, lui mi piombò addosso. Con il suo peso mi premette la testa contro la roccia e mi inchiodò a terra. Senza punti d'appoggio. "Urla!" L'aria mi uscì dai polmoni con una violenza che sorprese entrambe. Non pensavo di poter strillare così tanto: di certo qualcuno aveva sentito. "Fai che quel qualcuno sia Jeb. Fai che abbia il fucile con sé." Kyle protestò. La sua mano era grande abbastanza da coprirmi il viso soffocando le mie urla. Poi si voltò, e il movimento mi colse così di sorpresa che non riuscii ad approfittarne. Iniziò a rotolare, costringendomi ad assecondare i suoi movimenti. Ero disorientata, confusa, mi girava la testa, ma capii le sue intenzioni non appena il mio viso sfiorò l'acqua. Una mano infilò la mia testa nel rivolo d'acqua bassa e più fresca che andava ad alimentare la piscina. Era troppo tardi per trattenere il respiro. Quando l'acqua mi riempì i polmoni, fui presa dal panico e iniziai a dibattermi più di quanto Kyle si aspettasse. Braccia e gambe strattonavano e sbattevano in tutte le direzioni, tanto da fargli perdere la presa. Cercò di afferrarmi meglio, ma d'istinto mi lanciai addosso a lui anziché scappare. Avanzai di una spanna o poco meno, ma tanto bastò per poter riprendere fiato e sputare fuori un po' d'acqua. Cercò di ricacciarmi nel torrente, ma sgusciai in modo da ostacolarlo con il suo stesso peso. L'acqua nei polmoni provocava spasmi e colpi di tosse incontrollabili. «Basta!» ruggì Kyle.
Mi lasciò andare e cercai di alzarmi in piedi. «Eh no!» sbottò digrignando i denti. Era finita, lo sapevo. Qualcosa non andava, nella mia gamba. La sentivo indolenzita, la muovevo a stento. Potevo solo trascinarmi a terra con le braccia e la gamba buona. Ma la tosse mi impediva di coordinarmi. E di urlare. Kyle mi afferrò per un polso e mi sollevò da terra. La gamba dolente non riuscì a sostenermi e gli crollai addosso. Con una mano sola mi afferrò i polsi e con il braccio libero mi cinse i fianchi. Mi sollevò da terra come un sacco di patate. Tentai di girarmi, scalciando nel vuoto. «Facciamola finita.» Saltò il torrente più stretto con un balzo e mi portò fino al pozzo più vicino. Il vapore dell'acqua calda mi coprì il viso. Stava per gettarmi nel buco scuro e caldo, dentro il fiume pronto a bruciarmi e trascinarmi nel cuore della terra. «No, no!» strillai, con voce rauca e troppo debole. Anziché tentare di liberarmi, mi avvinghiai a lui con le gambe, accavallando quella buona a quella ferita, e cercando di ignorare il dolore per restare salda. «Scendimi di dosso, brutta...» Si dibatté per liberarsi e mi consentì di sciogliere un polso dalla sua presa. Gli passai un braccio intorno al collo e iniziai a tirargli i capelli. Se proprio dovevo finire dentro il fiume nero, lo avrei portato con me. Con un sibilo Kyle mi diede un pugno nel fianco. Tossii di dolore, ma affondai anche l'altra mano nei suoi capelli. Mi strinse con entrambe le braccia, come se, anziché combattere, ci stessimo scambiando un'effusione. Poi mi afferrò per i fianchi, e lottò con tutte le forze contro la mia stretta. Malgrado gli avessi quasi strappato i capelli, aumentò la pressione. Sentivo l'acqua scorrere sempre più vicina, sotto di me. Il vapore si alzava in una nuvola spessa, e per qualche istante nascose Kyle. Sentii cedere la gamba ferita. Cercai di stringermi ancora di più a lui, ma la sua forza bruta stava per avere la meglio sulla mia disperazione. Pochi istanti e si sarebbe liberato, gettandomi tra gli sbuffi di vapore che mi avrebbero cancellata per sempre. "Jared! Jamie!" Pensieri e dolore che appartenevano sia a me sia a Melanie. Non avrebbero mai scoperto ciò che stava per accadere. Ian. Jeb.
Doc. Walter. Nessun ultimo addio. Di punto in bianco Kyle fece un balzo e piombò a terra con un tonfo. Ci fu un crepitio assordante. Mi sembrò che l'intera caverna stesse per crollare. La terra tremava. Con il nostro peso avevamo rotto una lingua di roccia friabile sull'orlo della buca. Kyle si affannò in cerca di salvezza, ma le crepe si aprivano più veloci dei suoi passi. Un lembo di terra gli si sbriciolò sotto i piedi, e con un tonfo cadde in avanti. Sotto il mio peso sbatté la testa contro una colonna di pietra. Le sue braccia persero forza e caddero inerti. Il crepitio della terra si trasformò in un rombo sostenuto. La sentivo tremare sotto il corpo di Kyle. Gli ero addosso. Le nostre gambe penzolavano nel vuoto, il vapore si condensava in milioni di gocce sulla pelle. Avevo paura di muovermi. "Scendigli di dosso. Siete troppo pesanti, assieme. Attenta, sfrutta la colonna. Allontanati dal buco." Paralizzata dalla paura, obbedii all'ordine di Melanie. Mi arrampicai incerta sul corpo di Kyle privo di sensi, sfruttando il pilastro roccioso come appoggio. Mi sembrava solido, ma la terra continuava a rombare, sotto di noi. Mi lanciai oltre la colonna, su una porzione di suolo che al contatto con mani e ginocchia sembrava più solida, ma che abbandonai svelta per correre verso la galleria. All'ennesimo crepitio, mi voltai indietro. Vidi una gamba di Kyle sbalzata ancora più in basso, dopo che un altro frammento di roccia aveva ceduto. Sentii il tuffo fragoroso della pietra nel fiume. Capii che stava per cadere. "Bene" ghignò Melanie. "Ma..." "Se cade, non ci ucciderà, Wanda. Se non cade, invece sì." "Ma io non posso..." "Sì che puoi. Vattene. Non vuoi vivere?" Sì. Volevo vivere. Kyle poteva anche sparire. Così, nessuno mi avrebbe più fatto del male. Nessun abitante delle grotte, certo. Restava la Cercatrice, ma forse, un giorno, anche lei avrebbe rinunciato, e a quel punto avrei potuto restare per sempre con gli umani.
La mia gamba pulsava, il dolore prese il posto dell'indolenzimento. Sentii qualcosa di caldo e umido colarmi sulle labbra. Lo assaggiai senza pensarci, e capii che era il mio sangue. "Lascialo perdere, Viandante. Io voglio vivere. La scelta è anche mia." Da dove mi trovavo, sentivo la terra vibrare. Un'altra porzione di roccia crollò nel fiume. Kyle si sbilanciò e scivolò di qualche centimetro verso la buca. "Lascialo perdere." Melanie era molto più determinata di me. Era il suo mondo. Le sue regole. Fissai il volto dell'uomo che stava per morire, dell'uomo che mi voleva morta. Privo di sensi, non somigliava più a un animale infuriato. La sua espressione era rilassata, serafica. La somiglianza con il fratello era evidente. "No!" protestò Melanie. Strisciai carponi verso di lui, tastando con cura il terreno centimetro per centimetro. Avevo troppa paura per andare oltre la colonna, perciò la strinsi con la gamba sana e mi chinai a infilare le mani sotto le braccia e il petto di Kyle. Tirai così forte da sentirmi strappare le braccia, ma non riuscii a spostarlo. Il terreno continuava a sbriciolarsi con un rumore simile a quello della sabbia dentro una clessidra. Diedi un altro strattone, con l'unico risultato di accelerare lo sbriciolamento. Spostare tutto quel peso aumentava la pressione sulla roccia. In quel preciso istante un grosso lembo di pietra precipitò nel fiume e compromise l'equilibrio già precario di Kyle. Stava per cadere. «No!» gridai. Premuta contro la colonna, cercai di stringerlo all'altro lato della roccia abbracciandolo stretto ai fianchi. Mi facevano male le braccia. «Aiuto!» strillai. «Qualcuno mi aiuti!» 33 Il sospetto Un altro tuffo. Il peso di Kyle mi torturava le braccia. «Wanda? Wanda?» «Aiuto! Kyle! Le rocce! Aiuto!» Tenevo il viso schiacciato contro la pietra, gli occhi rivolti all'entrata della grotta. La luce si faceva sempre più intensa, ormai era l'alba. Tratte-
nevo il respiro. Le braccia urlavano di dolore. «Wanda! Dove sei?» Ian si precipitò nella grotta, il fucile tra le mani, puntato e pronto a sparare. Sul suo volto, la maschera di rabbia che fino a poco prima era stata del fratello. «Attento!» gli urlai. «La roccia si sta sbriciolando! Non posso resistere a lungo!» Gli occorsero pochi e interminabili secondi per mettere a fuoco la scena, così diversa da ciò che si aspettava. Gettò il fucile a terra e si lanciò verso di me a passi lunghi. «Abbassati, distribuisci il peso!» A quattro zampe venne a prendermi. «Non mollare» disse. Lanciai un gemito. Rifletté per un altro secondo e mi scivolò accanto, premendomi contro la roccia. Malgrado la mia presenza, riuscì a cingere il fratello. «Uno, due, tre» grugnì. Assicurò Kyle al pilastro di pietra, con molta più forza di me. «Cercherò di tirarlo da questa parte. Riesci a sgusciare via?» «Ci provo.» Allentai la presa su Kyle, le spalle rilassate ma doloranti, poi sgusciai tra Ian e la pietra, attenta a non calpestare parti pericolanti di terreno. Strisciai qualche metro verso la porta, all'indietro, pronta a lanciarmi incontro a Ian se anche lui avesse rischiato di scivolare. Ian issò il fratello inerte contro un lato della colonna, spostandolo a strattoni, una spanna alla volta. Il pavimento cedette ancora, ma la base della colonna rimase intatta. Ian strisciò all'indietro trascinando il fratello grazie ai muscoli e alla forza di volontà. Nel giro di un minuto fummo tutti e tre all'imbocco del corridoio; io e Ian avevamo il fiatone. «Che... diamine... è successo?» «Pesavamo... troppo... La terra ha ceduto.» «Che facevi... sull'orlo della buca? Con Kyle?» Abbassai lo sguardo e cercai di prendere fiato. "Be', diglielo." "E che succederà, poi?" "Lo sai bene. Kyle ha infranto le regole. Jeb gli sparerà, oppure lo cacceranno via. Ma forse prima Ian gli spaccherà la faccia. Ci sarà da divertirsi."
Melanie non diceva sul serio: così speravo. Era soltanto infuriata con me, dopo che avevamo rischiato la vita per salvare il nostro assassino. "Esatto" le risposi. "E se cacciano Kyle a causa mia... o lo uccidono..." Rabbrividii. "Be', non ti pare insensato? È uno di voi." "Non mettere in secondo piano la nostra vita." "È anche la mia vita. E io... be', sono quel che sono." Melanie mugugnò disgustata. «Wanda?» domandò Ian. «Niente» mormorai. «Sei una maledetta bugiarda. Lo sai, vero?» Sospirai, a testa bassa. «Cos'ha fatto?» «Niente» mentii, senza riuscirci. Ian mi sollevò il mento con una mano. «Ti sanguina il naso.» Mi voltò la testa. «E hai altro sangue tra i capelli.» «Ho... battuto la testa quando la roccia ha ceduto.» «Da tutte e due le parti?» Mi strinsi nelle spalle. Ian mi lanciò un'occhiata indagatrice. «Meglio che portiamo Kyle da Doc, si è quasi rotto la testa, nella caduta.» «Perché lo proteggi? Ha cercato di ucciderti.» Era una constatazione, non una domanda. La sua espressione passò lentamente dalla rabbia all'orrore. Immaginò ciò che era successo, glielo leggevo negli occhi. Di fronte al mio silenzio aggiunse sottovoce: «Voleva buttarti nel fiume...». Uno strano fremito percosse il suo corpo. Ian stringeva Kyle con un braccio; era crollato con lui addosso, troppo stanco per muoversi. Con uno strattone allontanò il fratello, da cui si scostò nauseato, e mi si fece accanto, abbracciandomi. Lo sentivo respirare ritmicamente, più veloce del normale. Che cosa strana. «Dovrei riportarlo laggiù e cacciarlo nel buco con le mie mani.» Con un gesto frenetico scossi la testa, che iniziò a pulsare di dolore. «No.» «Risparmierei tempo. Le regole di Jeb sono chiare. Per chi tenta di fare del male a qualcuno, qui, ci sono punizioni precise. Ci sarà un processo...» Quando cercai di ritrarmi strinse la presa. Non mi sentivo spaventata come quando mi aveva afferrata Kyle. Ma ero a disagio. «No, non puoi
farlo, perché nessuno ha infranto le regole. Si è aperta una crepa, tutto qui.» «Wanda...» «Ma è tuo fratello.» «Sapeva ciò che stava facendo. È mio fratello, ma è anche colpevole, e tu... tu sei... mia amica.» «È umano» sussurrai. «Questa è casa sua, non mia.» «Non voglio più tornare sull'argomento. La tua definizione di "umano" è diversa dalla mia. Per te è... negativa. Io la considero un complimento. E stando alla mia definizione, tu sei umana, lui no. Non dopo ciò che è successo.» «"Umano" non è un insulto per me. Lo sai anche tu. Ian, è tuo fratello.» «Sì, e me ne vergogno.» Con un sospiro cercai di allontanarmi. Mi lasciò fare, forse convinto dal mugolio di dolore che mi sfuggì quando spostai la gamba. «Stai bene?» «Penso di sì. Dobbiamo trovare Doc, ma non so se riesco a camminare. Cadendo ho battuto anche la gamba.» «Quale? Fammi vedere.» Cercai di allungare la gamba ferita - la destra - e lui iniziò a tastarmi la caviglia, le ossa, le articolazioni. La fece ruotare con cautela. «Più in alto. Qui.» Spostai la sua mano dietro la coscia, poco più in alto del ginocchio. Un altro gemito mi sfuggì quando premette la ferita. «Non credo di essermi rotta niente. È soltanto una botta.» «Come minimo una ferita profonda, direi» mormorò. «Come hai fatto?» «Devo avere... urtato una pietra, cadendo.» «Va bene, andiamo da Doc.» «Meglio che prima ci vada Kyle.» «Devo comunque andare da Doc, o a chiedere aiuto. Non posso trascinare Kyle fin là, ma posso portare te. Ops... aspetta un attimo.» Si voltò di scatto e tornò rapido nella stanza dei fiumi. Decisi di non discutere più. Volevo tornare da Walter prima di... Doc aveva promesso che mi avrebbe aspettata. Quanto sarebbe durata la prima dose di sedativo? Avevo troppi pensieri nella testa e grande stanchezza addosso. Ian tornò con il fucile. Mi rattristai, quando ricordai che era proprio ciò che avevo desiderato fino a poco prima. Non ne ero fiera. «Andiamo.» Senza pensarci mi diede il fucile. Lo lasciai cadere tra le mie mani aper-
te, senza il coraggio di stringerlo. Decisi che trasportare quell'oggetto era la giusta punizione. Ian ridacchiò. «Come si fa ad avere paura di te...» disse a mezza voce. Mi sollevò senza sforzo e si mise in movimento senza attendere che mi mettessi comoda. Cercai di non appoggiarmi a lui con le mie parti più doloranti, la nuca, la gamba ferita. «Sono... molto contento che non ti sia fatta male, Wanda. Cioè, che non sia andata peggio.» Non risposi. Temevo che potesse usare le mie parole contro Kyle. Jeb ci trovò prima che raggiungessimo la caverna principale. La luce era sufficiente a cogliere la scintilla di curiosità nei suoi occhi, quando mi vide tra le braccia di Ian, il volto insanguinato, il fucile posato con cautela sulle mie mani aperte. «Avevi ragione, allora» commentò Jeb. La curiosità era forte, la freddezza della sua voce anche di più. Inquieto, serrava la mandibola nascosta dalla barba. «Non ho sentito spari. Kyle?» «Ha perso i sensi» risposi svelta. «Devi avvertire tutti... una parte del fondo della stanza dei fiumi è crollata. Non so quanto sia stabile, adesso. Kyle ha battuto la testa cercando di scappare. Ha bisogno di Doc.» Il sopracciglio di Jeb si alzò fino quasi a toccare la bandana scolorita che gli copriva i capelli. «Questa è la sua versione» disse Ian, senza sforzarsi di nascondere i propri dubbi. «E a quanto pare non ha intenzione di ritrattarla.» Jeb rise. «Questo dallo a me» mi disse. Fui ben lieta di cedergli il fucile. Rise di nuovo della mia espressione. «Chiamo Andy e Brandt per farmi aiutare con Kyle. Arriviamo subito.» «Tienilo bene d'occhio, quando si sveglierà» disse Ian, duro. «Certo.» Jeb se ne andò in cerca d'aiuto e Ian mi portò in fretta verso la grottaambulatorio. «Kyle si è fatto davvero male... Jeb dovrebbe sbrigarsi.» «La testa di Kyle è più dura di qualsiasi roccia.» La lunga galleria sembrava interminabile. E se Kyle fosse morto, malgrado i miei sforzi? E Walter? Si era addormentato o... spento? La Cercatrice aveva interrotto la propria caccia o stava per tornare, ora che si faceva giorno? "Jared è ancora da Doc?" domandò Mel, "Si arrabbierà vedendoti?" Nella grotta meridionale, illuminata dal sole, Jared e Doc non sembrava-
no essersi mossi di un centimetro. Uno accanto all'altro, erano appoggiati sulla scrivania improvvisata di Doc. In silenzio guardavano Walter dormire. Alzarono gli occhi di scatto quando Ian entrò nella stanza e mi depositò sulla branda accanto a Walter. Stese la mia gamba destra con cautela. Walter russava. Quel rumore cancellò un po' della mia tensione. «Cos'altro è successo?» chiese Doc arrabbiato. Lo vidi chinarsi su di me prima ancora di terminare la frase, intento ad asciugarmi il sangue sulla guancia. Il viso di Jared fu paralizzato dalla sorpresa. Circospetto, non voleva che quell'espressione lasciasse trapelare altro. «Kyle» rispose Ian nello stesso momento in cui feci per dire «La roccia...» Lo sguardo di Doc oscillò tra me e Ian, confuso. Ian emise un sospiro e alzò gli occhi al cielo. Distratto, mi posò con delicatezza una mano sulla fronte. «L'orlo della buca del primo fiume è crollato. Kyle vi è caduto, sbattendo la testa contro una pietra. Wanda gli ha salvato la vita. Dice di essere caduta anche lei, durante la frana.» Ian gettò a Doc uno sguardo eloquente. «Qualcosa» disse sarcastico, «le ha tirato una gran botta sulla nuca.» Iniziò l'elenco: «Il naso sanguina, ma non sembra rotto. Si è fatta male al muscolo, qui». Sfiorò la mia coscia dolorante. «Le ginocchia sono parecchio sbucciate, ha strisciato di nuovo la faccia, ma forse quello è colpa del mio tentativo di allontanare Kyle dal buco. Forse non avrei dovuto» mormorò. «Altro?» chiese Doc. In quel momento le dita con cui mi palpava il fianco raggiunsero il punto in cui Kyle mi aveva tirato il pugno. Tossii. Doc mi alzò l'orlo della camicia, e sentii le esclamazioni di Ian e Jared quando videro cosa nascondeva. «Lasciami indovinare» disse Ian imperturbabile. «Sei caduta su una roccia.» «Giusto» risposi. Doc era ancora alle prese con il fianco, mentre cercavo di non dimenarmi. «Può darsi che ci sia una costola rotta, ma non ci giurerei» mormorò Doc. «Mi piacerebbe poterti dare un sedativo...» «Non preoccuparti, Doc» ansimai. «Sto bene. Walter? Si è svegliato, poi?» «No, gli ci vorrà un po' per smaltire la dose» disse. Mi prese la mano e iniziò a piegarmi il polso e il gomito.
«Sto bene.» I suoi occhi gentili e dolci incrociarono i miei. «Ti riprenderai. Hai bisogno di riposare. Ti terrò d'occhio. Forza, volta la testa.» Obbedii, ma trasalii quando passò a esaminare la ferita. «Non qui» borbottò Ian. Non vedevo Doc, ma mi accorsi dell'occhiata di Jared a Ian. «Stanno portando qui Kyle. Non voglio che stiano nella stessa stanza. Doc annuì. «Saggio consiglio.» «Vado a prepararle un posto. Tu tieni qui Kyle finché non... finché non decideremo che fare di lui.» Fui sul punto di dire qualcosa, ma Ian mi chiuse la bocca con le dita. «D'accordo» disse Doc. «Se vuoi, lo terrò legato.» «Sì, se sarà il caso. Lei si può spostare?» Ian, ansioso, lanciò uno sguardo verso la galleria. Doc tacque. «No» sussurrai, ribellandomi alle dita di Ian sulle labbra. «Walter. Voglio restare qui con Walter.» «Hai già salvato abbastanza vite per oggi, Wanda» disse Ian, gentile e triste. «Voglio restare... per dargli... l'ultimo addio.» Ian annuì. Poi guardò Jared. «Posso fidarmi di te?» Il volto di Jared si accese di rabbia. Ian alzò una mano. «Non voglio che resti senza protezione, finché non le avrò trovato un alloggio sicuro» disse Ian. «Non so se, quando arriverà, Kyle sarà lucido o no. Se Jeb gli spara, Wanda ci soffrirà. Tu e Doc dovete riuscire a tenerlo a bada. Non voglio che Doc resti solo e costringa Jeb a intervenire.» Jared rispose a denti stretti. «Doc non resterà solo.» Dopo qualche istante, Ian parlò: «Gli ultimi due giorni sono stati un inferno per lei. Ricordalo bene». Jared annuì, teso. «Io resto qui» aggiunse Doc. Ian incrociò il suo sguardo. «Okay.» Si chinò su di me, gli occhi luminosi nei miei. «Torno presto. Non temere.» «No.» Mi si avvicinò, sfiorandomi la fronte con le labbra. Nessuno fu più sorpreso di me, anche se mi parve di sentire un'esclamazione trattenuta venire da Jared. Restai a bocca aperta, mentre Ian si voltava e usciva dalla stanza, quasi di corsa.
Sentii Doc inspirare a denti stretti. Lui e Jared mi fissarono per qualche istante. Stanca e intorpidita com'ero, non mi importava granché dei loro pensieri. «Doc...» Jared stava per dire qualcosa, nervoso, ma venne interrotto dai rumori nel tunnel. Cinque uomini entrarono a fatica dalla porta. Jeb, primo del gruppo, stringeva fra le braccia la gamba sinistra di Kyle. Wes la destra, e alle loro spalle Andy e Aaron gli tenevano sollevato il torso. La testa di Kyle era china sulla spalla di Andy. «Santo cielo se pesa» brontolò Jeb. Jared e Doc scattarono in loro aiuto. Dopo qualche minuto di improperi e grugniti, posarono Kyle su una branda a meno di un metro dalla mia. «Da quanto è svenuto, Wanda?» chiese Doc. Sollevò una palpebra a Kyle, lasciando che il sole gli illuminasse la pupilla. Riflettei. «Dunque... il tempo che sono stata qui, i dieci minuti che ha impiegato Ian per portarmi in ambulatorio, e forse altri cinque minuti?» «Almeno venti minuti, quindi?» «Sì, direi di sì.» Mentre ci consultavamo, Jeb fece una sua diagnosi. Nessuno gli badò, finché non si avvicinò alla testa di Kyle. Nessuno gli badò, finché non versò il contenuto di una bottiglia d'acqua in faccia a Kyle. «Jeb» esclamò Doc, allontanandone la mano. Ma Kyle sputacchiò, sbatté gli occhi e farfugliò: «Che succede? Dov'è andata?». Fece per sollevarsi e guardarsi in giro. «La terra... si muove...» Strinsi con le dita il bordo della branda, nel panico. Mi faceva male la gamba. Potevo fuggire? Zoppicando lentamente, magari... «Tutto bene» mormorò qualcuno. Non uno qualsiasi. Una voce inconfondibile. Jared si piazzò accanto alla mia branda, di spalle, lo sguardo fisso sul corpulento Kyle che dondolava la testa avanti e indietro. «Sei al sicuro» disse Jared a bassa voce senza guardarmi. «Non avere paura.» Respirai a fondo. Melanie voleva toccarlo. La sua mano era vicina alla mia, sul bordo della branda. "No, per favore" le dissi. "La mia faccia è già conciata male abbastanza." "Non ti farà niente."
"Questo lo pensi tu. Non ho intenzione di rischiare." Melanie desiderava muoversi verso di lui. Non sarebbe stato difficile sopportarla, se io stessa non avessi provato quel desiderio. "Lasciagli tempo" la supplicai. "Lascia che si abitui a noi. Aspetta fino a quando ci crederà davvero." «Oh, maledetta!» ringhiò Kyle. Il mio sguardo andò dritto verso di lui. Incrociai i suoi occhi infuriati dietro il gomito di Jared, puntati sui miei. «Non è caduta!» protestò. 34 La sepoltura Jared si chinò in avanti. Con un colpo rumoroso e secco il suo pugno colpì Kyle al volto. Gli occhi di Kyle si rovesciarono, e la bocca restò semiaperta. Per qualche secondo la stanza rimase in silenzio. «Ehm» disse Doc senza scomporsi. «Parlando da medico, non credo che sia la terapia più corretta.» «Ma io mi sento meglio» rispose Jared, impassibile. Doc abbozzò un sorriso. «Be', forse qualche minuto in più di incoscienza non lo ucciderà.» Doc sollevò di nuovo la palpebra di Kyle, gli controllò le pulsazioni. «Che è successo?» mormorò Wes, accanto a me. «Kyle ha tentato di uccidere il parassita» rispose Jared, anticipandomi. «La cosa ci sorprende?» «Non è vero» farfugliai. Wes guardò Jared. «A quanto pare il parassita è più portato per l'altruismo che per le bugie» commentò quest'ultimo. «Stai cercando di farmi arrabbiare?» domandai. La mia pazienza era terminata. Da quanto tempo non dormivo? L'unica cosa che mi doleva più della gamba era la testa. Ogni respiro era una fitta al fianco. «Se è così, sappi che ci sei riuscito.» Jared e Wes mi guardarono stupiti. Di sicuro anche gli altri, che non riuscivo a vedere. A parte Jeb, forse. La sua faccia da giocatore di poker era impenetrabile. «Io sono una donna» mi lamentai. «Questa storia del "parassita inizia a darmi sui nervi.»
Jared restò sorpreso. Poi la sua espressione si indurì. «Lo dici perché sei dentro un corpo di donna?» Wes gli lanciò un'occhiataccia. «Perché io sono così» sibilai. «Secondo quali canoni?» «Che ne dici dei tuoi? All'interno della mia specie, sono io quella che genera i figli. Non ti pare abbastanza femminile?» Lo zittii. Ero quasi fiera di me. "Ben detto" approvò Melanie. "Ha torto, ed è pure testardo come un mulo." "Grazie." "Tra ragazze ci si deve aiutare." «Questa storia non ce l'hai mai raccontata» mormorò Wes, mentre Jared si sforzava di ribattere. «Come funziona?» Il viso olivastro di Wes si accese, come intimorito dal tono delle sue stesse parole. «Cioè, non sei obbligata a rispondere, se ti sembro maleducato.» Scoppiai a ridere. Ormai il mio umore era un'altalena, fuori controllo. Mi sentivo «suonata», come aveva detto Melanie. «No, la domanda non è... inopportuna. Diciamo che il nostro... sistema non è complicato... come il vostro.» Feci un'altra risata e mi sentii avvampare. Ricordavo bene quanto potesse essere complicato. "Niente pensieri sconci" commentò Melanie. "Sono tutti tuoi, sai?" «Quindi...?» domandò Wes. Sospirai. «Poche tra noi sono... Madri. Ma forse non è la definizione giusta. Ci chiamano Madri, ma in realtà siamo soltanto individui con un potenziale...» Non esistevano Madri, le Madri sopravvivevano soltanto nel ricordo. «Che potenziale?» domandò Jared, rigido. Sapevo che gli altri erano in ascolto. Persino Doc si era fermato, con l'orecchio a un palmo dal petto di Kyle. Non risposi alla domanda. «È quasi come... tra le vostre api, o le formiche. Una famiglia composta da tanti, tantissimi membri asessuati, e la regina...» «Regina?» ripeté Wes, guardandomi con un'espressione strana. «Non ce n'è una sola, però. Di solito la proporzione è di una Madre ogni cinque-diecimila individui. Anche meno, a volte. Non è una regola ferrea.»
«E i fuchi quanti sono?» domandò Wes. «Ah, no... non ci sono fuchi. Te l'ho detto, è molto più semplice.» Attendevano che spiegassi. Deglutii. Non avrei dovuto lanciarmi in quel discorso. Non ne volevo più parlare. Era davvero così grave che Jared mi chiamasse «parassita»? L'attesa continuava. Accigliata, mi decisi a parlare. In fondo avevo cominciato io. «Le Madri si... scindono. Ogni loro... cellula, immagino le chiamiate così, anche se la nostra struttura è diversa dalla vostra, diventa una nuova anima. E ogni nuova anima conserva un briciolo della memoria materna, un frammento di essa che sopravvive.» «Quante cellule?» chiese Doc, curioso. «Quanti neonati?» Scrollai le spalle. «Un milione, circa.» Gli sguardi che riuscii a incrociare erano increduli. Cercai di non sentirmi ferita, quando vidi Wes arretrare spaventato. Doc emise un fischio. Era l'unico ancora interessato alla discussione. Sui volti di Aaron e Andy c'era un'espressione turbata. Era la prima volta che ascoltavano i miei racconti. Non mi avevano mai sentita parlare tanto. «Come succede? C'è un catalizzatore?» chiese Doc. «È una scelta. Una scelta volontaria» risposi. «L'unica maniera lecita di morire volontariamente. Uno scambio, che dà vita a una nuova generazione.» «Potresti scegliere in qualsiasi momento di scindere tutte le tue cellule, all'istante?» «Non proprio all'istante, ma... sì.» «È un'operazione complessa?» «La decisione sì. Il processo è... doloroso.» «Doloroso?» Possibile che fosse sorpreso? Non era così anche per la sua specie? "Uomini" sbuffò Mel. «Una tortura» risposi. «Tutte ricordiamo cosa fu per le nostre Madri.» Doc si grattava il mento, ipnotizzato. «Chissà qual è la strada evoluzionistica... che porta a una società-alveare retta da regine suicide...» Si era perso in un ragionamento tutto suo. «Altruismo» bisbigliò Wes. Doc mormorò qualcosa e annuì. Chiusi gli occhi, pentita di avere aperto bocca. Avevo le vertigini. «Oh» borbottò Doc. «Hai dormito meno di me, vero, Wanda? Forse è meglio che ti lasciamo riposare.»
«Sto bene» farfugliai, ma non riuscii a riaprire gli occhi. «Grandioso» disse qualcuno sottovoce. «Abbiamo una maledetta regina madre aliena in mezzo a noi. Potrebbe esplodere in un milione di nuovi bastardi in qualsiasi momento.» «Zitto.» «Sarebbero innocui» risposi alla voce sconosciuta, senza aprire gli occhi. «Senza un corpo, morirebbero in fretta.» Trasalii, al pensiero di quel dolore inimmaginabile. Un milione di anime minuscole e indifese, minuscoli figli argentei e tremanti... Nessuno rispose, ma percepii il sollievo generale. Ero stanchissima. Non mi importava nemmeno che Kyle fosse a un metro da me. Non mi importava che due dei presenti si sarebbero alleati con lui, se avesse ripreso conoscenza. Volevo solo dormire. Ovviamente, in quell'istante Walter si svegliò. Gemette. «Gladdie?» Mi voltai verso di lui e cercai la sua mano. «Eccomi» sussurrai. Walter sospirò di sollievo. Doc zittì l'accenno di protesta dei presenti. «Wanda ha rinunciato al sonno e alla tranquillità per alleviare la sua sofferenza. Ha le mani arrossate, a furia di stringere quelle di Walter. Voi cos'avete fatto per lui?» Il gemito di Walter, da basso e gutturale, si trasformò presto in un lamento stridulo. Doc sobbalzò. «Aaron, Andy, Wes, andreste a... chiamarmi Sharon, per favore?» «Tutti?» «Fuori dai piedi» tradusse Jeb. L'immediata risposta fu un rumore di passi. «Wanda» sussurrò Doc al mio orecchio. «Sta soffrendo. Non è giusto fargli riprendere conoscenza.» Cercai di respirare normalmente. «Meglio se non mi riconosce. Meglio se pensa che accanto a lui ci sia Gladys.» Aprii gli occhi di scatto. Jeb era accanto a Walter, che sembrava ancora addormentato. «Addio Walt» disse Jeb. «Ci vediamo dall'altra parte.» E fece un passo indietro. «Sei una brava persona. Ci mancherai» mormorò Jared. Doc tornò ad armeggiare con la morfina.
«Gladdie?» singhiozzò Walt. «Fa male.» «Su, resisti. Doc ti farà passare il dolore.» «Gladdie?» «Sì?» «Ti amo, Gladdie. Ti ho amata per tutta la vita.» «Lo so, Walter. Anch'io ti amo. Lo sai che ti amo.» Chiusi gli occhi, quando Doc si chinò su Walter con la siringa. «Dormi bene, amico mio» mormorò. Le dita di Walter si rilassarono e sciolsero la presa. Ero io, a quel punto, a volerle stringere. I minuti passavano, e tutto era tranquillo eccetto i miei respiri, spezzati e incerti, simili a singhiozzi soffocati. Qualcuno mi sfiorò la spalla. «È andato, Wanda» disse Doc, la voce roca. «Non soffre più.» Sciolse la mia mano e mi aiutò con cautela a riprendere una posizione più comoda. Ora che Walter non li sentiva più, i miei singhiozzi si fecero più forti. Strinsi il fianco che sentivo pulsare. «Ah, bravo, fai pure. Così sarai contento» borbottò Jared, a denti stretti. Cercai inutilmente di aprire gli occhi. Mi sentii pizzicare il braccio, in una posizione strana, all'interno del gomito... "Morfina" sussurrò Melanie. Eravamo già perse. Cercai di reagire, ma era impossibile scuotersi dal torpore. "Nessuno mi ha dato l'ultimo addio" pensai triste. Non potevo aspettarmelo da Jared... ma da Jeb... Doc... Ian non c'era... "Non sta morendo nessuno" mi rassicurò Melanie. "Stavolta dormiamo." Al risveglio, il soffitto era illuminato dalla luce fioca delle stelle. Non vedevo il soffitto. Soltanto stelle, stelle e stelle... Il vento mi carezzava il viso. Sapeva di... sabbia e... qualcosa che non riconobbi. Un'assenza. L'odore di muffa non c'era più. Neanche quello di zolfo, l'aria era secca. «Wanda?» sussurrò qualcuno, sfiorandomi la guancia sana. I miei occhi trovarono il volto di Ian chino su di me. La sua mano era più fresca del vento, ma in quell'aria secca non mi infastidì. Dov'ero? «Wanda? Sei sveglia? Non possono aspettare oltre» sussurrò. «Cosa?»
«Stanno per iniziare. So che ci tieni.» «Ha ripreso conoscenza?» domandò la voce di Jeb. «Cosa stanno per iniziare?» chiesi. «Il funerale di Walter.» Cercai di sedermi, ma il mio corpo era indolenzito. Ian mi posò una mano sulla fronte, per trattenermi. Voltai la testa, sforzandomi di guardare... Ero all'aperto. Fuori. Alla mia sinistra, una pila disordinata di massi formava una montagna in miniatura, con tanto di sterpaglie. Alla mia destra si apriva la piana desertica, che si perdeva all'orizzonte. Guardai oltre i miei piedi e vidi il capannello di umani, in difficoltà allo scoperto. Sapevo come si sentivano. Minacciati. Mi sforzai di alzarmi, di nuovo. Volevo avvicinarmi, vedere. La mano di Ian mi trattenne. «Calma» disse. «Non cercare di alzarti.» «Aiutami» implorai. «Wanda?» Prima sentii la voce di Jamie, poi lo vidi correre verso di me, i capelli al vento. Con le dita seguii l'orlo del materassino su cui ero sdraiata. «Non hanno aspettato» disse Jamie a Ian. «Tra poco finirà.» «Aiutami ad alzarmi» dissi. Jamie cercò la mia mano, ma Ian scosse la testa. «La prendo io.» Ian fece scivolare le braccia sotto di me, attento a evitare le lesioni più gravi. Quando mi sollevò da terra iniziò a girarmi la testa, come sopra una nave sul punto di capovolgersi. «Cosa mi ha fatto Doc?» «Ti ha dato un po' della morfina rimasta, per visitarti senza farti male. E poi avevi bisogno di dormire.» Mi adombrai. «Non era meglio conservarla per qualcun altro?» «Shh» disse, mentre in lontananza sentivo una voce bassa. Tornai a osservare il gruppo di umani. Erano fermi sull'orlo di una cavità bassa, scura, scavata dal vento alla base del tumulo di massi. Formavano una fila irregolare di fronte alla grotta. Riconobbi la voce di Trudy. «Walter diceva sempre di guardare il lato positivo delle cose. Trovava la
luce anche dentro un buco nero. Questo mi mancherà, di lui.» Una sagoma avanzò, la treccia nero-grigia dondolante, e vidi Trudy gettare qualcosa. La sabbia dispersa dalle dita cadde a terra con un sibilo tenue. Tornò accanto a suo marito. Geoffrey si allontanò da lei e si diresse verso lo spazio nero. «Troverà la sua Gladys. Finalmente è felice» disse e gettò la propria manciata di sabbia. Ian mi portò fino all'estremità destra della fila, abbastanza vicino per poter sbirciare dentro la grotta. Ai nostri piedi si apriva uno spazio ancora più buio, una cavità grossa e oblunga attorno alla quale stava tutta la comunità umana, disposta a semicerchio. C'erano tutti. Kyle fece un passo avanti. Tremai, ma Ian mi strinse con dolcezza. Kyle non guardò verso di noi. Lo vidi di profilo. L'occhio destro era gonfio, semichiuso. «Walter è morto da umano» disse. «Nessuno di noi può chiedere di più.» Lasciò cadere un pugno di sabbia verso la sagoma scura. Jared era alle sue spalle. Fece il percorso più breve e si fermò sull'orlo della tomba di Walter. «Walter è stato buono fino all'ultimo. Non siamo degni di lui.» E gettò la sabbia. Jamie avanzò e ricevette una pacca sulla spalla da Jared quando lo incrociò. «Walter è stato coraggioso» disse Jamie. «Non ha avuto paura di morire, non ha avuto paura di vivere, e neanche... di credere. Ha sempre pensato con la propria testa, e agito con buon senso.» Jamie gettò la propria manciata. Si voltò e tornò indietro, senza staccare gli occhi dai miei. «Tocca a te» sussurrò quando fu al mio fianco. Andy era pronto a procedere, la vanga stretta tra le mani. «Aspetta» disse Jamie a voce bassa, amplificata dal silenzio. «Wanda e Ian non hanno ancora detto nulla.» Sentii un brontolio infastidito intorno a me. «Un po' di rispetto» disse Jeb, a voce più alta di quella di Jamie. Troppo alta, per le mie orecchie. Il primo istinto fu quello di far segno a Andy che poteva continuare: quel lutto apparteneva agli umani, non a me.
Ma ero in lutto anch'io. E avevo qualcosa da dire. «Ian, aiutami a prendere un po' di sabbia.» Ian si inginocchiò, così da permettermi di raccogliere una manciata di terra. Mi tenne in equilibrio sul ginocchio per prenderne un po' anche lui. Poi si raddrizzò e mi condusse sull'orlo della sepoltura. Dentro la buca non vedevo niente. Sotto la sporgenza rocciosa il buio era fitto, e la tomba sembrava molto profonda. Ian parlò prima di me. «Walter incarnava il meglio di ciò che è umano» disse, e rovesciò la sabbia nella buca. Impiegò molto a cadere e a toccare il fondo con un sibilo. Ian abbassò lo sguardo su di me. Sotto le stelle, il silenzio era assoluto. Persino il vento si era calmato. Parlai sottovoce, ma tutti riuscirono a sentirmi. «Non c'era odio nel tuo cuore» sussurrai. «La tua esistenza dimostra il nostro errore. Non avevamo alcun diritto di prenderci il tuo mondo, Walter. Spero che le tue favole si avverino. Spero che trovi la tua Gladdie.» Lasciai scorrere i sassolini tra le dita e attesi che cadessero sul corpo di Walter. Non appena vide Ian arretrare, Andy si mise all'opera, e affondò la vanga in un cumulo di terra raccolto a meno di un metro dalla grotta. Le prime palate caddero pesanti. A quel suono, trasalii. Arrivò anche Aaron con un'altra vanga. Ian si voltò piano e mi portò via per farlo passare. Voci sommesse iniziarono a mormorare. Sentivo i passi della gente che ci girava attorno e si radunava parlando del funerale. Vidi Ian con lucidità soltanto quando mi riportò sul tappetino sopra il quale avevo dormito all'aperto. Il suo volto era sporco di sabbia, l'espressione stanca. L'avevo già visto in quelle condizioni. Prima che riuscissi a ricordare con certezza quando, mi posò a terra e persi il filo dei pensieri. Che ci facevo, all'aperto? Doc era dietro di me; assieme a Ian mi si inginocchiò accanto. «Come stai?» chiese mentre mi tastava il fianco. Volevo sedermi, ma Ian mi trattenne per una spalla. «Sto bene. Forse riesco a camminare...» «Non sforzarti. Concediamo qualche giorno alla gamba, okay?» Doc mi sollevò la palpebra sinistra e vi puntò un sottile raggio luminoso. Il mio occhio destro vide il riflesso acceso che ne uscì. Lui strabuzzò gli occhi, arretrando di qualche centimetro. La mano di Ian sulla mia spalla non si spostò. Ne fui sorpresa.
«Hmm, Difficile fare una diagnosi, così. Come va la testa?» chiese Doc. «Mi gira un po'. Penso sia la droga che mi hai dato, non la ferita. Non dovevi... preferisco sopportare il dolore, forse.» Doc fece una smorfia. Come Ian. «Che c'è?» domandai. «Sono costretto a dartene dell'altra, Wanda. Scusami.» «Ma... perché?» sussurrai. «Non sto così male. Non voglio...» «Dobbiamo riportarti dentro» mi interruppe a bassa voce, per non farsi sentire dagli altri. Sentivo l'eco smorzata delle voci sulla roccia alle nostre spalle. «Abbiamo promesso... che non saresti stata cosciente.» «Bendatemi ancora.» Doc estrasse dal taschino la piccola siringa. Era già pronta all'uso, restava solo un quarto di dose. Mi ritrassi dall'ago, verso Ian, ma la sua mano sulla mia spalla divenne una zavorra. «Conosci le grotte troppo bene» mormorò Doc. «Non vogliono che indovini...» «Ma dove pensate che potrei andare?» sussurrai, presa dall'ansia. «Se anche trovassi l'uscita? Perché scappare ora?» «Sono tutti più tranquilli...» disse Ian. Doc mi prese il polso, e io non reagii. Mentre l'ago mi pungeva la pelle, guardai Ian. I suoi occhi erano il buio di mezzanotte. Li serrò di fronte al mio sguardo tradito. «Scusa» mormorò. Fu l'ultima parola che sentii. 35 Il processo Mi lamentavo. Sentivo la testa leggera e sconnessa. Lo stomaco era rivoltato dalla nausea. «Finalmente» mormorò qualcuno. Ian, ovviamente. «Fame?» Mentre ci pensavo, fui presa da un conato. «Oh. Come non detto. Scusa. Dovevamo. Sono diventati tutti... paranoici quando ti abbiamo portata fuori.» «Non c'è problema» sospirai. «Vuoi un po' d'acqua?» «No.» Aprii gli occhi, cercando di aguzzare la vista al buio. Vedevo due stelle al di là delle fenditure sul soffitto. Era ancora notte. Ma quale notte era?
«Dove sono?» domandai. Le sagome delle fenditure non erano familiari. Ero certa di non avere mai visto quella parete. «Nella tua stanza» rispose Ian, Cercai il suo viso al buio, ma individuai soltanto la sagoma nera della testa. Con le dita tastai la superficie su cui ero sdraiata; un materasso vero. Sotto la testa avevo un cuscino. La mia mano toccò la sua, che mi strinse le dita prima che potessi ritrarle. «Di chi è questa stanza?» «Tua.» «Ian...» «Era nostra... mia e di Kyle. Lui resterà in ambulatorio finche non prenderemo una decisione. Io mi trasferisco da Wes.» «Non prenderò la vostra stanza. E che vuol dire "prenderemo una decisione"?» «Te l'ho detto, ci sarà un processo.» «Quando?» «Perché vuoi saperlo?» «Siccome lo farete davvero, voglio essere presente. Per spiegare.» «Per mentire.» «Dimmi quando.» «Alle prime luci. Io non ti ci porto.» «Allora ci verrò da sola. Appena smette di girarmi la testa vedrai che riuscirò a camminare.» «Ne saresti davvero capace, eh?» «Sì. Non è giusto che non mi lasciate parlare.» Ian sospirò. Lasciò cadere la mia mano e si alzò lentamente. Sentii scrocchiare le sue ginocchia. Quanto tempo era rimasto immobile al buio, in attesa che mi svegliassi? «Torno presto. Io sì, che sto morendo di fame.» «Hai avuto una nottata intensa.» «Sì.» «Se mi passa, non resterò ad aspettarti.» Ridacchiò senza allegria. «Immagino. Perciò tornerò prima che ti passi e ti aiuterò ad andare dove vuoi.» Ian tornò prima dell'alba, come aveva promesso. «Va meglio?» chiese, sulla soglia. «Penso di sì. Non ho ancora mosso la testa.» «Sei tu che reagisci male alla morfina, o il corpo di Melanie?» «È Mel. Fatica a sopportare quasi tutti i sedativi. L'ha scoperto dieci anni
fa, quando si è rotta il polso.» Ci pensò per qualche istante. «È... strano avere a che fare con due persone contemporaneamente.» «Sì, strano.» «Ti è venuta fame?» Sorrisi. «Mi sembra di aver sentito profumo di pane. Sì. Penso che per lo stomaco il peggio sia passato.» «Speravo di sentirtelo dire.» La sua ombra si allungò al mio fianco. Cercò la mia mano, mi aprì le dita e vi posò qualcosa di rotondo, dalla sagoma familiare. «Mi aiuti ad alzarmi?» domandai. Con cautela mi cinse le spalle e mi aiutò a piegarmi con un solo movimento secco, per attenuare il dolore che sentivo al fianco. Sulla pelle, all'altezza della lesione, sentivo qualcosa di estraneo, stretto e rigido. «Grazie» dissi piano. La testa mi girava ancora. Mi toccai il fianco e sentii una specie di fasciatura sotto la camicia. «Mi sono rotta le costole, allora?» «Doc non ne è sicuro. Fa quel che può.» «Non si tira mai indietro.» «Già.» «Mi dispiace... di non essermi fidata di lui, all'inizio» confessai. Ian rise. «Ci mancherebbe. Mi stupisco che ti fidi così tanto di noi.» «Non capovolgere la realtà» mormorai e affondai i denti nella pagnotta dura. «So che non è molto appetitosa» disse Ian. Mi strinsi nelle spalle. «È solo una prova, per vedere se la nausea è passata.» «Magari con qualcosa di più stuzzicante...» Lo guardai incuriosita, ma non riuscivo a vederlo in faccia. Sentii un crepitio secco e uno strappo... poi il profumo, e capii. «Patatine!» urlai. «Davvero? Per me?» Qualcosa mi sfiorò il labbro, e sgranocchiai la prelibatezza che mi veniva offerta. «Le ho sognate, queste» sospirai, mentre masticavo. Ian scoppiò a ridere. Mi porse il sacchetto. Lo svuotai immediatamente, poi finii la pagnotta, condita dal sapore di formaggio che mi era rimasto in bocca. Prima che potessi chiederla, Ian mi offrì una bottiglia d'acqua.
«Grazie. Non solo per le patatine. Per tutto.» «Fosse solo questo, Wanda.» Fissai i suoi occhi azzurri, cercando di interpretare il senso delle parole, che sembravano molto più che gentili. Poi mi accorsi di poter cogliere il colore dei suoi occhi; diedi uno sguardo alle fenditure sul soffitto. Le stelle erano sparite, e stava per albeggiare. «Sicura di doverlo fare?» domandò Ian, già pronto ad alzarmi dal materasso. Annuii. «Non sei obbligato a trasportarmi. La gamba va meglio.» «Vediamo.» Mi aiutò ad alzarmi, cingendomi i fianchi e afferrandomi per un braccio. «Attenta, ora. Come va?» Azzardai un passo in avanti. Faceva male, ma era sopportabile. «Ottimo. Andiamo.» "Secondo me piaci un po' troppo a Ian." "Troppo?" Fu una sorpresa sentire la voce di Melanie così distinta. Negli ultimi giorni aveva parlato soltanto in presenza di Jared. "Ci sono anch'io, qui. Ti pare che gliene importi?" "Certo che sì. A parte Jamie e Jeb, nessuno si fida di noi come Ian." "Non è quello il senso." "E quale sarebbe?" Ma ormai era andata. Impiegammo parecchio tempo. Fui sorpresa da quanto fosse lontana la meta. Immaginavo che andassimo verso la grotta centrale o in cucina: i luoghi di riunione abituali. Invece attraversammo il campo di granturco e proseguimmo fino a raggiungere la caverna grossa e buia che Jeb aveva chiamato «la stanza dei giochi». Non ci ero più tornata, dopo la prima visita. L'odore pungente della fonte sulfurea mi accolse. A differenza delle altre caverne, la «stanza dei giochi» era più larga che alta. Me ne accorsi perché le luci fioche pendevano dal soffitto, anziché sporgere dal pavimento. Il soffitto incombeva a poca distanza dalla mia testa, come fossimo dentro una normale casa. Ma le pareti, così distanti dalle lampade, non erano visibili. Non riuscivo a scorgere la sorgente mefitica, nascosta in chissà quale angolo lontano, malgrado la sentissi sprizzare e sciabordare. Kyle era seduto nel cerchio di luce più brillante. Stringeva le ginocchia tra le lunghe braccia. Sul suo viso, una maschera rigida. Non alzò nemmeno gli occhi quando feci il mio ingresso, zoppicante, assieme a Ian.
Davanti a lui, all'altro capo della stanza, c'erano Jared e Doc, in piedi, le braccia dritte lungo i fianchi. Come... due guardie. Jeb affiancava Jared, il fucile poggiato a una spalla. Sembrava rilassato, ma lo sapevo capace di cambiare umore all'improvviso. Jamie teneva la mano... no, era Jeb a stringergli il polso, e il ragazzo sembrava tutt'altro che felice. Quando mi vide entrare, sorrise e salutò. Poi lanciò un'occhiataccia a Jeb, che sciolse la presa. Sharon era vicina a Doc, affiancata dalla zia Maggie. Ian mi trascinò fino al margine dell'oscurità che circondava il quadretto. Non eravamo soli. Intuii la presenza di tante altre figure, ma non individuavo i loro volti. Che strano: durante il viaggio Ian aveva sopportato il mio peso senza difficoltà. Ora sembrava essersi stancato. Il braccio che mi stringeva i fianchi era debole. Mi trascinai saltellando finché non trovò il posto desiderato. Mi fece accomodare per terra e mi si sedette accanto. «Ahi» sentii mormorare. Mi voltai e riconobbi Trudy. Strisciò più vicina a noi, e con lei Geoffrey e Heath. «Stai da schifo» mi disse. «Ti sei fatta tanto male?» Mi strinsi nelle spalle. «Sto bene.» Forse Ian mi aveva lasciata fare per mostrare a tutti il mio stato, perché offrissi una testimonianza silenziosa contro Kyle. Lanciai un'occhiataccia al suo viso innocente. A quel punto anche Wes e Lily si unirono al gruppetto dei miei alleati. Brandt entrò pochi secondi dopo, e poi Heidi, Andy e Paige. Aaron fu l'ultimo. «Ci siamo tutti» disse. «Lucina è rimasta con i bambini. Non vuole portarli qui, dice di iniziare senza di lei.» Aaron si sedette accanto ad Andy, e per qualche istante ci fu il silenzio. «Okay, allora» disse Jeb ad alta voce, per farsi sentire da tutti. «Funziona così: si vota, e la maggioranza vince. Come al solito, prenderò la decisione che mi pare se non sono d'accordo con la maggioranza, perché questa...» «È casa mia» concluse un piccolo coro. Qualcuno azzardò una risata. Ma non c'era niente da ridere. Un essere umano stava per essere processato per tentata uccisione di un'aliena. Doveva essere una giornata terribile per ognuno di loro. «Chi prende la parola contro Kyle?» disse Jeb. Ian fece per alzarsi.
«No!» sussurrai, tirandolo per il gomito. «La questione è semplice» disse. Avrei voluto scattare e tappargli la bocca, ma non ero sicura di potermi alzare senza aiuto. «Mio fratello era stato avvisato. Conosceva le regole di Jeb, non c'è alcun dubbio. Wanda fa parte della nostra comunità: le regole e i diritti che ci tutelano valgono anche per lei. Jeb ha detto a Kyle, chiaro e tondo, che se non tollerava la presenza di Wanda, poteva anche andarsene. Kyle ha deciso di restare. Sapeva e sa qual è la punizione per un omicidio, qui.» «La parassita è ancora viva» grugnì Kyle. «Ed è per questo che non chiedo che tu sia condannato a morte» sbottò Ian. «Ma non puoi più vivere qui. Non da potenziale assassino.» Ian fissò il fratello per qualche istante, poi tornò a sedersi accanto a me. «Ma potrebbero prenderlo in qualsiasi momento» protestò Brandt, alzandosi. «Li guiderebbe qui, senza preavviso...» Dal pubblico si alzò un brusio. Kyle inchiodò Brandt con lo sguardo. «Non mi prenderanno mai vivo.» «Quindi, è una specie di sentenza di morte» mormorò qualcuno, nello stesso momento in cui Andy disse: «Non puoi garantirlo». «Uno alla volta» esclamò Jeb. «Ho sempre saputo cavarmela, là fuori» disse Kyle rabbioso. Un'altra voce uscì dall'oscurità. «È un rischio.» Non riuscivo a riconoscere chi parlava, erano tutti bisbigli e mormorii. E un altro: «Che ha fatto Kyle di male? Niente». Jeb fece un passo verso la voce, guardando minaccioso. «Le mie regole.» «Non è una di noi» protestò qualcun altro. Ian fece per alzarsi di nuovo. «Ehi!» esplose Jared. La sua voce tuonò e mise tutti a tacere. «Non è Wanda l'imputata! Qualcuno intende lamentarsi di lei, di Wanda? Allora chiedete un altro processo. Sappiamo che non ha fatto male a nessuno. La verità è che gli ha salvato la vita» e puntò un dito verso la schiena di Kyle. Quello strinse le spalle come se lo avesse accoltellato. «Pochi secondi dopo che Kyle ha cercato di gettarla nel fiume, ha rischiato la vita per evitargli una morte dolorosa. Sapeva benissimo che lasciarlo cadere significava correre un rischio in meno, qui. Eppure l'ha salvato. Chi di voi avrebbe agito allo stesso modo per salvare un nemico? Ha cercato di ucciderla, ma vi pare che lei si sia permessa di accusarlo?» Sentii tutti gli sguardi della stanza puntati sul mio viso, quando Jared al-
zò la mano verso di me. «Vuoi accusarlo tu, Wanda?» Lo guardai incredula, sbigottita dopo averlo sentito parlare a mio nome, usare il mio nome e rivolgersi a me. Anche Melanie era scioccata, indecisa. Si riempì di gioia rivedendo nel volto e negli occhi di Jared la dolcezza e la gentilezza che conosceva. Ma era il mio nome che aveva pronunciato. Impiegai qualche secondo a ritrovare la voce. «C'è stato un fraintendimento» sussurrai. «La frana ci ha fatto cadere entrambi. Non è successo nient'altro.» Speravo che parlare a voce bassa potesse mascherare la bugia, ma non appena chiusi la bocca Ian scoppiò a ridere. Gli diedi una gomitata, che non bastò a farlo tacere. Jared abbozzò un sorriso. «Visto? Cerca persino di mentire per difenderlo.» «"Cerca" è il termine tecnico» aggiunse Ian. «Chi l'ha detto che mente? Chi può provarlo?» sbottò Maggie, facendosi avanti nello spazio vuoto accanto a Kyle. «Chi può provare che non sia lei a far apparire falsa anche la verità?» «Mag...» disse Jeb. «Sta' zitto, Jebediah, sto parlando. Questo processo non ha senso. Nessun umano è stato aggredito. L'infida intrusa non ha accusato nessuno. Stiamo solo sprecando tempo.» «Sono d'accordo» aggiunse Sharon con decisione. Doc le lanciò uno sguardo ferito. Trudy balzò in piedi. «Non possiamo tenere con noi un assassino, e aspettare che prima o poi riesca nel suo intento.» «"Assassino" è una definizione soggettiva» sibilò Maggie. «Io considero assassino soltanto chi uccide un essere umano.» Sentii il braccio di Ian stringermi le spalle. Mi accorsi di tremare. «Anche "umano" è una definizione soggettiva, Magnolia» disse Jared guardandola in cagnesco. «E mi sembrava che includesse almeno un po' di compassione e un briciolo di pietà.» «Al voto» disse Sharon prima che sua madre potesse rispondere. «Alzi la mano chi vuole che Kyle resti qui, senza che il... fraintendimento venga punito.» Lanciò un'occhiata, non a me ma a Ian, al mio fianco, quando pronunciò la parola che io avevo usato. Le mani iniziarono ad alzarsi. Osservai l'espressione di Jared farsi sempre più accigliata. Mi sforzai di alzare la mano anch'io, ma Ian mi teneva stretta. Sollevai il
palmo più che potevo, ma alla fine il mio voto fu superfluo. Jeb contava ad alta voce. «Dieci... quindici... venti... ventitré. Okay, maggioranza netta.» Non guardai chi aveva votato. Mi bastava sapere che nel mio angolino tutte le braccia erano rimaste conserte, mentre tutti gli occhi fissavano ansiosi Jeb. Jamie venne a sedersi tra Trudy e me. Mi abbracciò, come Ian. «Forse in questo avevate ragione voi anime» disse a voce alta e con durezza, badando che tutti lo sentissero. «La maggioranza è capace soltanto...» «Zitto!» sibilai. «Okay» disse Jeb. Calò il silenzio. Jeb lanciò un'occhiata a Kyle, poi a me e a Jared. «D'accordo, mi va bene ciò che vuole la maggioranza.» «Jeb» sbottarono Jared e Ian nello stesso momento. «Casa mia, comando io» ribadì Jeb. «Non dimenticatelo mai. Perciò, ascoltami bene, Kyle. E anche tu, Magnolia. Da questo momento, chiunque provi a fare del male a Wanda non verrà processato, ma interrato.» Sottolineò la frase dando una pacca al calcio del fucile. Magnolia lo trafisse con uno sguardo. Kyle annuì. «Seduta tolta» annunciò Jeb. «A chi va una partita?» 36 La fiducia L'atmosfera si rilassò e un mormorio di entusiasmo percorse il semicerchio. Guardai Jamie. Increspò le labbra e si strinse nelle spalle. «Jeb vuole riportare un po' di normalità. Gli ultimi due giorni sono stati pesanti. Il funerale di Walter...» Jeb sorrise a Jared il quale, dopo un istante di indecisione, sospirò alzando gli occhi al cielo. Si voltò e uscì rapido dalla caverna. «Jared ha una palla nuova?» domandò qualcuno. «Fantastico» esclamò Wes accanto a me. «Giochi da bambini» borbottò Trudy, scuotendo la testa. «Se serve ad allentare la tensione...» rispose Lily tranquilla. Le loro voci erano basse, ma ne sentivo altre, più forti. «Piano con la palla, stavolta» disse Aaron a Kyle. Gli si avvicinò e gli
offrì la mano. Kyle la accettò e si alzò lentamente. In piedi, sfiorava quasi le luci con la testa. «L'ultima palla era troppo fragile» disse, sorridendo al vecchio. «Strutturalmente difettosa.» «Nomino Andy capitano» gridò qualcuno. «Io nomino Lily» rispose Wes, alzandosi e stiracchiandosi. «Andy e Lily.» «Va bene, Andy e Lily.» «Io prendo Kyle» disse prontamente Andy. «Allora io prendo Ian» ribatté Lily. «Jared.» «Brandt.» Jamie si alzò in punta di piedi per sembrare più alto. «Paige.» «Heidi.» «Aaron.» «Wes.» L'appello proseguì. Jamie si illuminò quando Lily lo chiamò prima di parecchi altri adulti. Persino Maggie e Jeb furono arruolati. Le squadre erano pari, finché non tornò Jared, e con lui Lucina e i suoi figli piccoli, che fremevano di entusiasmo. Jared stringeva tra le mani un pallone da calcio nuovo di pacca; lo mostrò a tutti mentre Isaiah, il bambino più grande, gli saltellava attorno. «Wanda?» chiese Lily. Scossi la testa e indicai la gamba. «Già. Scusa.» "Gioco bene a calcio" protestò Mel. "Be', giocavo." "Ricorda che non mi reggo in piedi." «Preferisco stare a guardare» disse Ian. «Ma no» protestò Wes. «Loro hanno Kyle e Jared. Senza di te siamo spacciati.» «Gioca» gli dissi. «Io... terrò i punti.» Mi guardò, le labbra tese in una linea sottile. «Non sono dell'umore giusto per giocare.» «Hanno bisogno di te.» Brontolò. «E dai, Ian» insistette Jamie.
«Io vi faccio da spettatrice» dissi. «Ma sarà... una noia, se c'è una squadra svantaggiata.» «Wanda» sospirò Ian. «Sei davvero la peggiore bugiarda che abbia mai conosciuto.» Poi si alzò e andò a scaldarsi con Wes. Paige sistemò quattro torce come pali. Cercai di alzarmi in piedi: ero al centro del campo. Nessuno mi notò sotto quella luce debole. Attorno a me l'atmosfera si fece subito accesa e carica di attese. Jeb aveva ragione. Per quanto mi paresse strano, avevano bisogno di un momento come quello. Procedendo carponi riuscii a trascinare in avanti la gamba ferita, appoggiandomi a quella sana. Da li tentai di fare un saltello ma prima che potessi cadere di faccia, due mani forti mi afferrarono. Alzai gli occhi, un po' indispettita, per ringraziare Ian. Le parole mi si bloccarono in gola quando mi accorsi che si trattava di Jared. «Bastava chiedere aiuto» disse disinvolto. «Io...» Mi schiarii la gola. «Avrei dovuto. Non volevo...» «... attirare l'attenzione?» Pronunciò la frase con sincera curiosità, non per accusarmi. Mi aiutò a saltellare fin verso l'entrata della grotta. Scossi la testa. «Non volevo... costringere nessuno a essere cortese.» Non era la spiegazione migliore, ma Jared parve capire. «Non credo che Jamie o Ian si sarebbero rifiutati di darti una mano.» Li osservai, alle mie spalle. Sotto la luce bassa, nessuno si era ancora accorto che me n'ero andata. Si passavano la palla di testa, e risero quando Wes la prese in faccia. «Ma si stanno divertendo. Non volevo interromperli.» Jared osservò la mia espressione. Mi accorsi che stavo sorridendo, affettuosa. «Ci tieni parecchio, al ragazzo» disse. «Sì.» Annuì. «E al tuo amico?» «Ian è... Ian mi crede. Mi protegge. Riesce a essere gentile... malgrado sia umano.» «Somiglia a un'anima», avrei voluto dire. Ma non era il complimento migliore. «Malgrado sia umano. Precisazione molto più importante di quanto pensassi» ribatté Jared. Mi aiutò a sedermi sulla soglia, su uno scalino che faceva da panca.
«Grazie» gli dissi. «Jeb ha preso la decisione più giusta, sai.» «Non sono d'accordo.» Il tono della voce era assai meno deciso delle sue parole. «Grazie anche a te... per poco fa. Non dovevi difendermi.» «Ho soltanto detto la verità.» Abbassai lo sguardo. «La verità è che non oserei mai fare del male a nessuno, qui. Mi dispiace di averti ferito, con il mio ritorno. E mi dispiace, tanto, anche per Jamie.» Si sedette accanto a me, pensieroso. «Sinceramente...» indugiò. «Il ragazzo sta meglio, da quando ci sei tu. Mi ero quasi dimenticato cosa significa sentirlo ridere.» «Grazie per avermelo detto. È sempre stata la mia... preoccupazione più grande. Temevo di aver causato dei danni.» «Perché?» Lo guardai confusa. «Perché gli vuoi bene?» domandò, sempre curioso, ma non insistente. Mi morsi la lingua. «Puoi dirmelo, sai. Io sono... ho...» non trovava le parole. «Be', a me puoi dirlo.» Risposi guardandomi i piedi. «In parte perché Melanie gli vuole bene.» Non so come reagì a quel nome. «Ricordarlo in maniera così appassionata... era qualcosa già di per sé potente. Poi, quando l'ho conosciuto di persona non ho potuto non volergli bene. L'affetto per lui fa parte del... della mia essenza. Non mi ero mai resa conto di quanta influenza potesse avere un ospite su di me. Forse vale soltanto per i corpi umani. O soltanto per Melanie.» «E lei ti parla?» Si sforzava di controllare la voce, ma la tensione era palpabile. «Sì.» «Spesso?» «Quando vuole. Quando è curiosa.» «Anche oggi?» «Oggi poco. È... arrabbiata, direi, con me.» Scoppiò in una risata piena di sorpresa. «Arrabbiata? Perché?» «Perché...» Ero di fronte a un doppio azzardo? «Per niente.» Intuì la bugia, e capì. «Ah. Per Kyle. Vorrebbe farlo secco.» Rise, di nuovo. «Tipico di Mel.» «A volte è... violenta» commentai. Sorrisi per ammorbidire l'affermazio-
ne. Ma Jared la prese bene. «Ah sì? In che senso?» «Vuole che reagisca. Ma io... non posso. Non sono una che combatte.» «Ho visto.» Sfiorò la mia guancia contusa. «Scusa.» «No. Chiunque si sarebbe comportato allo stesso modo. So come devi esserti sentito.» «Non avrei...» «Io sì, fossi stata umana. Ma è ad altro che mi riferisco. Ripensavo alla... Cercatrice.» Si irrigidì. Abbozzai un altro sorriso, e Jared si rilassò un poco. «Mel voleva che la strangolassi. La odia, sul serio. E io... non riesco a darle torto, in fondo.» «Ti sta ancora cercando. Se non altro, pare che abbia dovuto restituire l'elicottero.» Chiusi gli occhi, strinsi i pugni e per qualche secondo mi concentrai. «Una volta non avevo paura di lei» sussurrai. «Non so perché, ma ora mi spaventa tantissimo. Dov'è?» «Non lo so. Ieri è andata su e giù per l'autostrada. Non ti troverà.» Annuii, sforzandomi di credergli. «E adesso... riesci a sentire Mel?» mormorò. «Sento... la sua presenza. Ascolta con molta attenzione.» «Cosa pensa?» La voce di Jared era un sussurro. Ecco la tua occasione, le dissi. Cosa vuoi che gli dica? Per una volta lei fu diffidente. L'invito la colse di sorpresa. "Perché? Perché adesso ti crede?" Aprii gli occhi, e trovai Jared che mi guardava fisso, trattenendo il respiro. «Vuole sapere cos'è stato a... cambiare il tuo atteggiamento. Perché adesso ti fidi di noi?» Ci pensò per qualche istante. «Un... insieme di particolari. La tua... gentilezza nei confronti di Walter. Non ho visto mai nessuno, a parte Doc, capace di tanta compassione. E poi hai salvato la vita a Kyle, quando la maggior parte di noi lo avrebbe lasciato cadere pur di salvarsi la pelle, a parte il tentativo di ucciderti. E poi sei una delusione, come bugiarda.» Fece una risata. «Mi sono intestardito a considerarli tutti indizi di un piano più complesso. Magari domattina quando mi sveglio la penserò ancora così.» Io e Mel trasalimmo.
«Ma oggi, quando hanno iniziato ad aggredirti... be', sono crollato. Ho visto in loro tutto ciò che non vorrei vedere in me stesso. Ho capito che già mi fidavo, e che la mia era semplice ostinazione. Crudeltà. Forse ho iniziato a fidarmi già... ecco, un po' già da quella volta in cui ti sei messa davanti a me per proteggermi da Kyle.» Rise, quasi convinto che Kyle non fosse un pericolo. «Ma sono più bravo di te, a mentire. Riesco a farlo anche con me stesso.» «Lei spera che tu non cambi idea. Ne ha paura.» Jared chiuse gli occhi. «Mel.» Il mio cuore accelerò il battito. Fu la gioia di Mel a eccitarlo, non la mia. Probabilmente Jared aveva capito che lo amavo, dopo le domande su Jamie. «Dille... che non accadrà.» «Ti ascolta.» «Quanto... diretto è il collegamento?» «Sente ciò che sento, vede ciò che vedo.» «Prova anche le tue sensazioni?» «Sì.» Mi sfiorò di nuovo la guancia, con una carezza. «Non sai quanto mi dispiace.» Sentivo la pelle più calda sotto le sue dita; era un calore piacevole, ma furono le sue parole a bruciare. Era ovvio che gli dispiacesse di aver fatto del male a Melanie. Ovvio. La cosa non riguardava me. «Avanti, Jared! Andiamo!» Alzammo gli occhi. Era stato Kyle a chiamarlo. Sembrava totalmente a proprio agio, come se quel giorno nessuno avesse deciso della sua vita. Forse sapeva dall'inizio che sarebbe andata così. Forse era capace di smaltire in fretta. Non parve nemmeno accorgersi di me. Vidi che qualcun altro ci osservava. Jamie sorrideva soddisfatto. Probabilmente era contento. O no? "In che senso?" "Cosa vede quando ci guarda? Una famiglia riunita?" "Non è così, più o meno?" "Con un'aggiunta indesiderata." "Meglio di ieri, però." "Forse..." "Lo so" ammise. "Mi fa piacere che Jared sappia che sono qui... ma continua a non andarmi giù che ti tocchi."
"E a me piace troppo. Scusa." "Non te ne faccio una colpa. O meglio, so che non dovrei." "Grazie." Jamie non era l'unico a osservarci. Jeb era curioso, quel suo sorrisetto spuntava agli angoli della barba. Sharon e Maggie ci fissavano con sguardi ostili, con un'espressione così simile che malgrado la pelle più giovane e i capelli luminosi, Sharon non sembrava più giovane di sua madre. Ian era preoccupato. Guardava di sottecchi, sembrava pronto a correre in mio aiuto. A garantire che Jared non mi infastidisse. Gli sorrisi per rassicurarlo. Rispose con un sospiro, senza sorridere. "Secondo me è preoccupato per qualcos'altro" disse Mel. «La stai ascoltando, ora?» Jared, in piedi, non staccava gli occhi dai miei. La sua domanda mi distrasse e non riuscii a chiedere un chiarimento a Melanie. «Sì.» «Che dice?» «Stiamo considerando le reazioni degli altri al tuo... cambiamento d'umore.» Feci un cenno verso la zia e la cugina di Melanie. Mi voltarono le spalle nello stesso istante. «Teste dure» commentò Jared. «D'accordo» tuonò Kyle, voltandosi verso la palla, ferma sotto il cerchio di luce più accesa. «Vinceremo anche senza di te.» «Arrivo!» Jared lanciò un ultimo sguardo malinconico verso di me - verso di noi - e corse a iniziare la partita. Non ero granché come segnapunti. Faceva troppo buio per vedere il pallone, e persino i giocatori, se si allontanavano dalle torce, restavano confusi nell'ombra. Iniziai a contare basandomi sulle reazioni di Jamie. Le grida vittoriose quando la sua squadra segnava, le proteste quando subiva. Tutti giocavano. Maggie stava in porta per la squadra di Andy, Jeb per quella di Lily. Entrambi erano bravi, da non crederci. Vedevo le loro sagome muoversi leggere come fossero ringiovaniti di decenni. Jeb non temeva di tuffarsi a terra per parare, Maggie era ancora più efficace senza lanciarsi in acrobazie. Attirava il pallone invisibile come una calamita. Ogni volta che Ian o Wes facevano un tiro... eccolo terminare tra le sue mani. Trudy e Paige abbandonarono dopo circa mezz'ora, e mentre uscivano mi passarono davanti chiacchierando concitate. La giornata si era aperta
con un processo, ma era un sollievo notare che le cose erano mutate in maniera tanto drastica. Le due donne tornarono poco dopo, portando un carico di barrette di cereali. La partita si interruppe all'istante. Jeb fischiò la fine del primo tempo, e tutti corsero a consumare la colazione. Il bottino fu spartito a centrocampo. Fu una gran ressa, all'inizio. «Tieni, Wanda» disse Jamie, sbucando tra la folla. Aveva raccolto una manciata di barrette e due bottiglie d'acqua. «Grazie. Ti stai divertendo?» «Sì! Peccato che non puoi giocare.» «La prossima volta» dissi. «Ecco...» Spuntò Ian con le mani piene di barrette. «Ti ho battuto» disse Jamie. «Oh» esclamò Jared, spuntando all'altro fianco di Jamie. Anche lui aveva preso più barrette del necessario. Ian e Jared si scambiarono una lunga occhiata. «Chi si è portato via tutto?» domandò Kyle. Salì in piedi su una cassa vuota, perlustrando la grotta in cerca del colpevole. «Prendi» disse Jared, lanciando le barrette, una alla volta, come coltelli. Kyle le prese al volo, senza sforzo, poi andò incontro a Jared per controllare che non ne avesse nascoste altre. «Ecco» disse Ian, gettando metà del proprio carico al fratello senza guardarlo. «Ora vattene.» Kyle lo ignorò. Per la prima volta da quella mattina mi guardò fisso. La luce alle sue spalle gli incupiva lo sguardo e non riuscivo a decifrarne l'espressione. Feci per indietreggiare, ma le mie costole me lo impedirono mozzandomi il respiro. Jared e Ian mi chiusero la visuale come un sipario. «L'hai sentito!» disse Jared. «Prima posso dire una cosa?» domandò Kyle, sbirciando nello spazio stretto fra i due, che non risposero. «Non sono dispiaciuto» mi disse Kyle. «Resto convinto che fosse la scelta migliore.» Ian gli diede uno spintone. Kyle arretrò ma tornò subito alla carica. «Aspetta, non ho finito.» «Invece sì» disse Jared. Stringeva i pugni, la pelle delle nocche impallidita per la tensione.
Tutti si accorsero di noi. Calò il silenzio e tutto l'entusiasmo della partita svanì. «Invece no.» Kyle alzò le mani in segno di resa e si rivolse di nuovo a me: «Non penso di avere sbagliato, ma so che mi hai salvato la vita. Non so perché, ma è così. Perciò, pareggiamo i conti, la mia vita contro la tua. Non ti ucciderò. Salderò il debito così». «Stupido somaro» disse Ian. «Chi è che ha una cotta per il verme, fratellino? Tu dai dello stupido a me?» Ian alzò i pugni e si fece avanti. «Te lo dico io perché» dissi, gridando più di quanto volessi. Ma raggiunsi l'effetto desiderato. Ian, Jared e Kyle si voltarono verso di me. Nervosa, mi schiarii la voce. «Non ti ho lasciato cadere perché... perché io non sono come te. Non che io sia così diversa dagli... umani. Perché in tanti, qui, avrebbero fatto la stessa cosa. Qui ci sono persone gentili e buone. Come tuo fratello, e Jeb e Doc. Quel che voglio dire è che io e te siamo diversi.» Kyle mi fissò per un minuto, poi soffocò una risata. «Perbacco» disse, allegro. Poi, trasmesso il suo messaggio, ci voltò le spalle e tornò a prendere un po' d'acqua. «La mia vita contro la tua» ribadì, senza voltarsi. Non ero sicura di crederci. Gli umani erano bravi a mentire. 37 La competizione I risultati delle partite erano prevedibili. Se Jared e Kyle giocavano insieme, la loro squadra vinceva, e lo stesso accadeva se Jared si schierava con Ian. Ne dedussi che Jared fosse imbattibile, almeno finché non vidi i due fratelli giocare insieme. Sulle prime pensai che per Ian fosse uno sforzo accettare Kyle nella propria squadra. Ma, dopo pochi minuti di corse al buio, si era già ristabilito una sorta di automatismo. Kyle intuiva ogni mossa di Ian, e viceversa. Senza parlarsi, comunicavano alla perfezione. Persino quando Jared riunì nella propria squadra i giocatori migliori - Brandt, Andy, Wes, Aaron, Lily, e Maggie in porta - Kyle e Ian riuscirono a vincere. «Okay, okay» disse Jeb, parando l'ultimo tiro di Aaron con una mano e stringendo il pallone sottobraccio. «Penso che sappiamo chi è il vincitore.
Sapete che non mi piace rovinare le feste, ma il lavoro ci attende... e francamente, sono distrutto.» Qualcuno abbozzò una timida protesta, ma quasi tutti scoppiarono a ridere. A giudicare da come certi giocatori si sedettero subito a terra a respirare profondamente, con la testa tra le ginocchia, era evidente che Jeb non era l'unico a essere stanco. Uscirono tutti, due o tre alla volta. Strisciai verso l'imboccatura del corridoio per lasciare spazio al gruppo, diretto probabilmente in cucina. L'ora di pranzo doveva essere già passata. Al di là della fila di umani, scorsi Kyle e Ian. Al termine della partita, Kyle aveva alzato la mano per farsi battere il cinque, ma Ian gli era passato davanti senza badargli. Allora Kyle aveva costretto Ian a voltarsi, afferrandolo per una spalla. Temevo che si preparassero a un litigio: Kyle diede un pugno in pancia a Ian. A giudicare dalla facilità con cui quest'ultimo schivò il colpo, però, capii che era una finta. Kyle rise e fregò le nocche sulla testa di Ian. Ian lo cacciò via, ma con un mezzo sorriso. «Bella partita, fratellino» esclamò Kyle. «Ci sai ancora fare.» «Sei proprio un idiota, Kyle» rispose Ian. «Tu sei quello intelligente, io quello bello. Mi pare giusto.» Kyle finse di tirare un altro pugno. Stavolta Ian lo afferrò e lo bloccò in una stretta. Sorrideva convinto, mentre Kyle sghignazzava e imprecava. Mi sembrava tutto molto violento; abbassai gli occhi, pesanti e stanchi di guardare. Allo stesso tempo, però, riaffiorò un ricordo di Melanie: tre cagnolini che si rotolavano sull'erba, abbaiavano furiosi e mostravano i denti come se il loro unico desiderio fosse quello di azzannarsi a vicenda. "Sì, giocano" confermò Melanie. "Il legame tra fratelli è profondo." "Com'è giusto che sia. Meno male. Se Kyle non ci uccide, sarà una buona cosa." Se, ribadì imbronciata. «Fame?» Alzai gli occhi, e il mio cuore cessò di battere: a quanto pare, Jared credeva ancora in me. Scossi la testa. Era l'occasione che aspettavo per parlargli. «Non so perché, visto che non ho mosso un dito, ma mi sento stanca.» Jared mi diede la mano. "Controllati" mi avvertì Melanie. "È solo un gesto educato." "Pensi che non lo sappia?"
Cercai la sua mano, sforzandomi di non tremare. Con gentilezza mi aiutò ad alzarmi in piedi... su un piede, in verità. In equilibrio sulla gamba sana, non sapevo da che parte andare. Anche lui era confuso. Pensai a quanto fosse ridicolo saltellare per le grotte. Intrecciai le dita alle sue, senza aggrapparmi a lui. «Da che parte?» «Ehm...» mi rabbuiai. «Non saprei. Forse c'è ancora un tappetino nella prig... nella zona del magazzino...» Mi guardò accigliato, come me poco entusiasta dell'idea. A un tratto un braccio mi cinse con forza e mi sollevò. «La porto io dove vuole» disse Ian. L'espressione di Jared era concentrata, come quando non voleva lasciarmi intendere il suo pensiero. E guardava Ian. «Ne stavamo giusto discutendo. È stanca. Magari in ambulatorio...?» Scossi la testa assieme a Ian. Dopo gli ultimi, orribili giorni passati là dentro, non avrei sopportato di tornare in quella stanza. Men che meno nel letto vuoto di Walter. «Io ho un posto migliore» disse Ian. «I lettini sono duri come la pietra, e lei è troppo ammaccata.» Jared non mollava la mia mano. Si rendeva conto di quanto la stesse stringendo? La pressione iniziava a turbarmi, ma lui non faceva una piega. Lungi da me, poi, l'idea di protestare. «Perché non vai a mangiare?» suggerì Jared a Ian. «Sembri affamato. La accompagno io al posto tuo...?» Ian soffocò una risata cupa, inquieta. «Sto bene. E, sinceramente, Jared, a Wanda serve più che una semplice mano. Non so se ti trovi abbastanza... a tuo agio da potergliela dare. Vedi...» Ian fece una pausa, si chinò e mi prese svelto tra le braccia. Trasalii, sentendomi strattonare. Jared non mollava la presa. Le mie dita iniziavano ad arrossarsi. «... Per oggi ha fatto già abbastanza esercizio, direi. Aspettaci pure in cucina.» I due si guardarono. «Sono capacissimo di accompagnarla» disse Jared infine, a voce bassa. «Ah sì?» lo sfidò Ian, e mi allontanò da sé. Un'offerta. Jared mi guardò in faccia per qualche istante. Poi sospirò e lasciò la mia mano.
"Ahi, che male!" protestò Melanie. Si riferiva a un'improvvisa fitta di dolore al petto, non al ritorno del sangue nelle dita. "Scusa. Cosa posso farci?" "Non è tuo." "Sì. Lo so." "Ahi." "Scusa." «Vi aspetto» disse Jared mentre Ian, l'ombra di un sorriso trionfante agli angoli delle labbra, si voltava e procedeva verso l'uscita. «C'è una cosa di cui vorrei discutere con voi.» «Accomodati.» Jared non aprì bocca, mentre camminavamo lungo la galleria buia. Era così tranquillo che sembrava quasi di non averlo a fianco Parlò soltanto quando fu sicuro che nessuno ci seguisse. «Che pensi di Kyle?» chiese a Ian. Ian sbuffò. «Si vanta di essere un uomo di parola. Di solito mi fido delle sue promesse. In questa situazione... non sono disposto a perderla di vista.» «Bene.» «Andrà tutto bene, Ian» dissi. «Non ho paura.» «Non devi averne. Te lo prometto, nessuno ti tratterà mai più così. Vivrai al sicuro qui.» Difficile non guardarlo dritto negli occhi, quando erano così vividi. Difficile dubitare delle sue parole. «Sì» aggiunse Jared. «Vedrai.» Camminava a un passo da Ian. Non riuscivo a vederlo in faccia. «Grazie» sussurrai. Restammo in silenzio finché Ian non si fermò davanti alle porte, rossa e grigia, inclinate sull'entrata della sua grotta. «Ti dispiace occuparti di quella?» disse a Jared, indicando una porta con un cenno. Jared restò immobile. Ian si voltò di fronte a lui: la sua espressione era profonda come poco prima. «La tua stanza? Ti pare un buon posto?» La voce di Jared era carica di scetticismo. «Adesso è sua.» Non sapevo che dire. Avrei voluto protestare, ma fui anticipata dalla domanda di Jared.
«E Kyle dove dorme?» «Con Wes, per ora.» «E tu?» «Ancora non so.» I loro sguardi assorti si incrociarono a lungo. «Ian, questa è...» iniziai a dire. «Ah» mi interruppe, come se fino a un istante prima si fosse dimenticato di me e del peso che portava sulle spalle. «Sei esausta, vero? Jared, apriresti la porta, per piacere?» Senza parole, Jared spostò la porta rossa con un po' troppa forza, e la appoggiò sopra a quella grigia. Per la prima volta vidi la stanza di Ian alla luce di mezzogiorno, che filtrava dalle crepe sottili del soffitto. Non era luminosa come quella di Jamie e Jared, né altrettanto alta. Era più piccola e proporzionata. Quasi rotonda, un po' come la mia cella, ma molto più ampia. Per terra c'erano due materassi gemelli, addossati alle pareti e divisi da uno stretto corridoio. La parete più lontana era occupata da una cassettiera di legno lunga e bassa, coperta sul lato sinistro da una pila di vestiti, due libri, un mazzo di carte. Il lato destro era totalmente vuoto, ma nella polvere spiccavano le tracce di un trasloco recente. Ian mi posò con cautela sul materasso destro, sistemando bene la gamba e appiattendo il cuscino che mi reggeva la testa. Jared restò sulla soglia, voltato verso il corridoio. «Tutto a posto?» mi chiese Ian. «Sì.» «Sembri stanca.» «Non dovrei esserlo, ultimamente non ho fatto altro che dormire.» «Hai bisogno di sonno per guarire.» Annuii. «Più tardi ti porto da mangiare, non preoccuparti di nulla.» «Grazie. Ian?» «Sì?» «Questa è la tua stanza. Devi dormire qui.» «Non è un fastidio, per te?» «E perché mai?» «Forse è una buona idea, la migliore per tenerti d'occhio. Ora dormi.» «Okay.» Avevo già chiuso gli occhi. Sfiorò la mia mano, e lo sentii alzarsi in pie-
di. Pochi secondi dopo, giunse il rumore smorzato della porta di legno appoggiata alla pietra. "Cosa credi di fare?" chiese Melanie. "Cosa? Cos'altro ho combinato?" "Wanda, tu sei... quasi del tutto umana. Renditi conto di cosa può pensare Ian del tuo invito." "Invito?" Capii dove voleva arrivare. "Non è come pensi. Questa è la sua stanza. Qui ci sono due letti. Nelle grotte non c'è abbastanza spazio per trovarmi una stanza tutta mia. È logico che le condividiamo. Ian lo sa." "Davvero? Wanda, apri gli occhi. Sta iniziando a... come faccio a spiegartelo? A provare qualcosa per te... ciò che tu provi per Tared. Non capisci?" Per un istante non seppi cosa rispondere. "Impossibile" conclusi. «Pensi che ciò che è successo stamattina incoraggerà Aaron o Brandt?» domandò Ian a bassa voce, al di là della porta. «Il fatto che Kyle l'abbia scampata?» «Sì. Non sono mai stati costretti a... fare niente, finché sembrava chiaro che ci avrebbe pensato Kyle.» «Capisco cosa intendi. Parlerò con loro.» «Pensi che possa bastare?» domandò Ian. «Ho salvato la vita a entrambi più di una volta. Sono in debito con me. Se chiedo loro un favore, me lo faranno.» «Saresti disposto a scommetterci la sua vita?» Dopo una lunga pausa, Jared concluse: «La terremo d'occhio». I due restarono in silenzio. «Non vai a mangiare?» domandò Jared. «Penso che me ne starò un po' qui... E tu?» Jared non rispose. «Che c'è?» chiese Ian. «Devi dirmi qualcosa, Jared?» «La ragazza, lì dentro...» scandì piano Jared. «Sì?» «Quel corpo non le appartiene.» «Quindi?» La voce di Jared si fece più decisa. «Quindi, giù le mani.» Ian soffocò un ghigno. «Sei geloso, Howe?» «Non è affatto questo il punto.» «Eh, no» rispose Ian sarcastico.
«Sembra che Wanda, più o meno, stia collaborando con Melanie. A quanto pare sono diventate... quasi amiche. Ovviamente, però, è Wanda a prendere le decisioni. Dimmi, come reagiresti se fossi tu al posto di Melanie? Se avessero... invaso te a quel modo, e fossi intrappolato in un corpo di cui è qualcun altro a decidere? Se non potessi parlare liberamente? Ammesso che riuscissi a esprimerli, non vorresti che i tuoi desideri fossero rispettati, perlomeno dagli altri umani?» «Okay, okay. Te la concedo. Me ne ricorderò.» «Cosa vuol dire "me ne ricorderò"?» domandò Jared. «Vuol dire che ci penserò.» «Non c'è un bel niente a cui pensare» obiettò Jared. Immaginai la sua espressione: denti stretti e mascella tesa. «Quel corpo e la persona che vi è prigioniera appartengono a me.» «Sei sicuro che Melanie sia ancora...» «Melanie sarà mia per sempre. E io sarò per sempre suo.» "Per sempre." Io e Melanie ci ritrovammo improvvisamente l'una agli antipodi dell'altra. Lei volava, felice. Io... no. Aspettavamo ansiose che qualcuno parlasse. «E se capitasse a te?» chiese Ian, con un sussurro quasi impercettibile. «Se capitasse a te di venire infilato dentro un corpo umano e mandato allo sbaraglio su questo pianeta, per poi ritrovarti isolato dai membri della tua stessa razza? Se fossi una... persona talmente buona da cercare di salvare la vita di cui ti sei appropriato, da rischiare la vita per riportarla a casa? E se a quel punto ti ritrovassi circondato da umani violenti che ti odiano, ti feriscono e cercano di ucciderti, senza nessuna, nessuna pietà?» Per un istante la sua voce si incrinò. «E se malgrado tutto continuassi a fare del tuo meglio per salvare e guarire quegli sconosciuti? Non meriteresti anche tu una vita? Non penseresti di essertela guadagnata?» Jared non rispose. Sentii gli occhi gonfiarsi di lacrime. Davvero Ian aveva un'opinione così alta di me? Pensava davvero che mi fossi guadagnata il diritto di vivere laggiù? «Me lo concedi?» insistette. «Forse... dovrò pensarci sopra.» «Fallo.» «Però...» Ian lo interruppe. «Non complicarti la vita. Wanda non è esattamente umana, malgrado il suo corpo. Non mi pare che reagisca al... contatto fisi-
co come noi.» A quel punto fu Jared a ridere. «Questa è la tua teoria?» «La trovi divertente?» «Certo che reagisce al contatto fisico» lo informò Jared, fattosi di colpo serio. «È umana quanto basta. Perlomeno, il suo corpo lo è.» Mi sentii turbata. Ian taceva. «Geloso, O'Shea?» «A dirla tutta... sì. Che sorpresa» fu la risposta sforzata di Ian. «Come fai a saperlo?» Jared tentennò. «Ho fatto... una specie di esperimento.» «In che senso?» «Non è andato come mi aspettavo. Mel mi ha dato un pugno.» Sicuramente sorrise di quel ricordo, e immaginai le rughe d'espressione che dovevano essere apparse sul bordo dei suoi occhi. «Melanie... ti ha... dato un pugno?» «Di sicuro non Wanda. Avresti dovuto vederla... ma... ehi, Ian, vacci piano!» «Ti sei almeno reso conto di ciò che le hai fatto?» sibilò Ian. «A Mel?» «No, stupido, a Wanda!» «A Wanda?» domandò Jared, sbalordito. «Oh, vattene. Vai a mangiare. Stammi lontano per un po'.» Ian non gli lasciò neanche il tempo di rispondere. Spostò la porta con un movimento brusco e silenzioso, sgusciò in camera e la richiuse. Si voltò e incrociò il mio sguardo. A giudicare dalla sua espressione, fu sorpreso di vedermi sveglia. Sorpreso e addolorato. Il fuoco che ardeva nei suoi occhi si spense a poco a poco. Chinò la testa di lato, tendendo l'orecchio. Anch'io restai in ascolto, ma Jared se ne andò senza fare rumore. Ian attese un altro minuto, poi fece un sospiro e si lasciò cadere sul bordo del materasso, all'altro capo della stanza. «Abbiamo parlato troppo, eh?» disse. «Nelle grotte c'è parecchia eco.» Annuì. «Quindi...» disse infine, «tu cosa ne pensi?» 38 L'intimità
«Cosa penso di cosa?» «Della... discussione di poco fa» chiarì Ian. Non lo sapevo. Chissà come Ian era riuscito a vedere le cose dalla mia prospettiva, una prospettiva aliena. Pensava che mi fossi guadagnata una vita tutta mia. Ma era... geloso? Di Jared? Sapeva cos'ero. Sapeva che ero soltanto una creaturina fusa con la mente di Melanie. Un verme, come mi aveva chiamata Kyle. Eppure, persino Kyle pensava che Ian avesse una «cotta» per me. Per me? Impossibile. Oppure voleva sapere cosa pensassi di Jared? Dell'esperimento? Altri dettagli sulla mia reazione al contatto fisico? Rabbrividii. Gli interessava il mio parere su Melanie? Il parere di Melanie sulla loro conversazione? Sapere se ero d'accordo o no con Jared a proposito dei suoi diritti? «Non lo so, davvero» dissi. Annuì. «È comprensibile.» «Solo perché tu sei molto comprensivo.» Mi sorrise. I suoi occhi, malgrado il loro colore molto simile a quello del ghiaccio, sapevano anche trasmettere calore. «Tu mi piaci molto, Wanda.» «Me ne sto accorgendo. Temo di essere un po' lenta.» «Anche per me è una scoperta.» Entrambi rimanemmo in silenzio. Ian riprese: «E... immagino... che quella sia una delle cose su cui sei ancora incerta». «No. Cioè, sì, io... non so. Io...» «Tranquilla. Non hai avuto la possibilità di pensarci. Deve sembrarti... strano.» Annuii. «Sì. Peggio che strano. Impossibile.» «Dimmi una cosa» disse Ian dopo qualche istante. «Se riesco.» «Non è una domanda difficile.» Non la pose subito. Prima si allungò verso lo spazio stretto fra i materassi e cercò la mia mano. La strinse tra le sue e fece scorrere lentamente le dita della mano sinistra lungo il mio braccio, dal polso alla spalla. Con altrettanta lentezza, ripercorse la strada al contrario. Anziché sul mio viso si concentrò sulla sensazione suscitata dal contatto.
«Questo ti fa sentire bene o male?» domandò. "Male" obiettò Melanie. "Io non sento dolore" protestai. "Non è questo che vuol sapere. Quando dice 'bene'... uffa, sembra di parlare con una bambina!" "Non ho ancora compiuto un anno, sai. O forse sì?" Mi distrassi, cercando di ricordare la data. Melanie non si lasciò deconcentrare. "'Bene', per lui, è la sensazione di quando Jared ci sfiora." Il ricordo che evocò non apparteneva alla vita nelle caverne, ma al canyon magico, al tramonto. Jared le era alle spalle e seguiva con le dita il profilo delle sue braccia, dalle spalle ai polsi. Trasalii nel rivivere il piacere di quel contatto così semplice. "Così." "Ah." «Wanda?» «Melanie dice "male"» sussurrai. «E tu cosa dici?» «Io dico che... non lo so.» Non mi aspettavo che il suo sguardo fosse così caldo. «Non riesco nemmeno a immaginare quanto tu sia disorientata.» Fu un gran sollievo comprendere che capiva. «Sì. Sono disorientata.» Con la mano seguì di nuovo il profilo del mio braccio. «Vuoi che mi fermi?» Non sapevo cosa rispondere. «Sì» decisi alla fine. «Se... continui, per me è più difficile pensare. E Melanie è... arrabbiata.» "Non sono arrabbiata con te. Digli di andarsene." "Ian è mio amico. Non voglio che se ne vada." Ian si ritrasse. «Quindi immagino che non le vada di lasciarci soli.» Scoppiai a ridere. «Ne dubito.» Ian chinò la testa di lato, pensieroso. «Melanie Stryder?» disse rivolgendosi a lei. Entrambe scattammo, a quel nome. Ian proseguì. «Vorrei il permesso di parlare con Wanda in privato, se non ti dispiace. C'è una maniera in cui potremmo farlo?» "Ma quant'è sfacciato! Digli chiaro e tondo che non mi passa neanche per la testa. Quest'uomo non mi piace." Arricciai il naso. «Che dice?»
«Dice di no.» Cercai il tono di voce più gentile possibile. «E che... non le piaci.» Ian rise. «Rispetto la sua opinione. Rispetto lei. Be', valeva la pena di provarci.» Sospirò. «Parlare davanti a un pubblico rovina un po' la festa.» "Quale festa?" ruggì Mel. Feci una smorfia. Non mi andava di sentire la sua rabbia. Era molto più perfida della mia. "Ti ci devi abituare." Ian mi sfiorò il viso. «Ti lascio un po' di tempo per riflettere, okay? Per capire come ti senti.» Cercai di valutare la sua carezza con obiettività. Mi toccava con delicatezza. Era... una bella sensazione. Non come quando mi toccava Jared. E nemmeno come gli abbracci di Jamie. Diversa. «Non so quanto mi ci vorrà. Sai com'è, per me niente di tutto questo ha senso» risposi. Sorrise. «Lo so.» E in quel momento capii di gradire le sue attenzioni. Quanto al resto - la mano sul mio viso, le dita sul braccio - non ero ancora certa. Ma mi piacevano le sue attenzioni e i suoi pensieri gentili. «Non è per me che provi tutto questo» sussurrai. «È per il mio corpo... La trovi carina, vero?» Annuì. «Sì, lo è. Melanie è carina. Anzi, proprio una bella ragazza.» Passò la mano sulla mia guancia ferita, accarezzando con delicatezza la pelle segnata e scabra. «Malgrado quel che ho fatto al suo viso.» Fossi stata in me, gli avrei ricordato che le ferite non erano colpa sua. Ma ero talmente confusa da non riuscire a mettere insieme una frase coerente. Perché il pensiero che giudicasse bella Melanie mi metteva in difficoltà? Non ne ho idea. Nemmeno lei riusciva a vedere chiaro nei miei sentimenti. Ian mi spostò una ciocca di capelli dalla fronte. «Ma per bella che sia, non la conosco. Non è di lei che... mi importa.» La cosa mi fece sentire meglio. E ancora più confusa. «Ian, tu... nessuno qui ci separa come dovrebbe. Né tu, né Jamie, né Jeb.» La verità emerse all'improvviso, con più vigore di quanto desiderassi. «Tu non puoi affezionarti a me. Se potessi stringere tra le mani me, ne saresti disgustato. Mi butteresti a terra per schiacciarmi con un piede.» Corrugò la fronte pallida, aggrottando le sopracciglia nere. «Io... no, non
se sapessi che sei tu.» Abbozzai una risata. «E come mi riconosceresti? Siamo tutte uguali.» Smarrì il sorriso. «È il suo corpo che conta» ribadii. «Non è affatto vero. Non è il volto, ma le sue espressioni. Non è la voce, ma il modo di parlare. Non è come ti sta quel corpo, ma le cose che ci fai. Tu sei bella.» Mentre parlava avanzò fino a inginocchiarsi ai piedi del mio letto, e riprese le mie mani tra le sue. «Non ho mai incontrato nessuna come te.» Sospirai. «Ian, e se fossi venuta qui dentro il corpo di Maggie?» Fece una smorfia e rise. «Okay, bella domanda. Non lo so.» «Oppure in quello di Wes?» «Ma tu stessa sei femmina.» «E ho sempre chiesto di entrare nel corpo equivalente a quello femminile, su ogni pianeta. Mi sembra più... giusto. Però me la caverei altrettanto bene anche se a ospitarmi fosse un uomo.» «Ma ora non sei dentro un corpo maschile.» «Vedi? È questo che intendo. Corpo e anima. Due cose diverse, nel mio caso.» «Non mi piacerebbe, senza te.» «Non ti piacerei, senza questo corpo.» Sfiorò di nuovo la mia guancia. «Ma questo corpo fa parte di te, di ciò che sei. E a meno che non cambi idea e decida di tradirci, è ciò che sarai per sempre.» Ah, l'inesorabilità di quel pensiero. Sì, sarei morta dentro quel corpo. La morte definitiva. "E io non ci vivrò mai più" gemette Melanie. "Non è così che avevamo pianificato il nostro futuro, vero?" "No. Non mi pare avessimo deciso di non averne uno." «Altra conversazione interiore?» azzardò Ian. «Stiamo parlando della nostra mortalità.» «Potresti vivere per sempre, se te ne andassi.» «Sì, certo» sospirai. «Sai, l'aspettativa di vita degli umani è la più breve tra tutte le specie che conosco, esclusi i Ragni. Avete davvero poco tempo.» «E allora, non ti pare... che sia il caso di goderti il tempo che ti rimane? Di vivere finché sei viva?»
Non riuscii a prevederlo, come con Jared. Ian non mi era altrettanto familiare. Melanie ne anticipò le intenzioni un istante prima che le sue labbra toccassero le mie. "No!" Non fu come baciare Jared. Con lui non c'erano stati pensieri, ma soltanto desiderio. Senza controllo. Una fiammata inevitabile. Con Ian, non sapevo come sentirmi. Tutto era sfuocato e confuso. Le sue labbra erano morbide e calde. Le posò con delicatezza sulle mie, sfiorandole piano. «Bene o male?» sussurrò. "Male! Male, male!" «Non... riesco a pensare.» Non staccò le labbra dalle mie nemmeno quando le aprii per parlare. «Direi... bene.» La pressione della sua bocca si fece più intensa. Arrivò a mordicchiarmi il labbro inferiore. Melanie voleva picchiarlo, ancora più di quanto avesse voluto prendere a pugni Jared. Voleva spingerlo via e dargli un calcio in faccia. L'immagine era orribile. Strideva con la sensazione del bacio di Ian. «Per favore, smettila. Non riesco a pensare.» Si sedette di scatto, intrecciando le mani. «Okay» disse, prudente. Presi il suo volto tra le mani, sforzandomi di allontanare la rabbia di Melanie. «Be', se non altro non è partito un pugno» sorrise Ian. «Hai rischiato di peggio, sai? Non mi piace quando si arrabbia. Mi fa male alla testa. La rabbia è... brutta.» «Perché non mi ha picchiato?» «Perché non ho perso il controllo. Riesce a liberarsi soltanto quando vengo... travolta.» Mi guardò mentre mi massaggiavo la testa. "Calmati" la implorai. "Ha smesso di toccarmi." "Si è dimenticato che ci sono anch'io? Non gli importa? Questa sono io, sono io!" "Ho cercato di spiegarglielo." "E tu? Hai già dimenticato Jared?" Mi scagliò contro i suoi ricordi, come faceva all'inizio, ma fu una grandine di colpi. Mille pugni fatti del suo sorriso, dei suoi occhi, delle sue labbra sulle mie, delle sue mani sulla mia pelle...
"Certo che no. Ma ti ricordi che non vuoi che io lo ami?" «Ti sta parlando.» «Più che altro, strilla.» «Ho imparato ad accorgermene. Ti vedo concentrata sulla conversazione. Non ci avevo mai fatto caso.» «Non sempre è così decisa.» «Mi dispiace davvero, Melanie» disse. «Immagino che sia insopportabile.» Di nuovo, Melanie ebbe l'istinto di spaccargli il naso con un calcio, e di ridurlo come quello di Kyle. "Digli che delle sue scuse non so che farmene." Trasalii. L'espressione di Ian era sospesa tra il sorriso e il disgusto. «Scommetto che non accetta le mie scuse.» Scossi la testa. «Quindi, se tu perdi il controllo lei riesce a liberarsi?» «A volte sì, se mi coglie di sorpresa e sono troppo... emotiva. Le emozioni mi impediscono di concentrarmi. Ma negli ultimi tempi non le riesce così spesso. Come se la porta che ci divide fosse chiusa a chiave. Non so perché. Ho cercato di farla uscire quando Kyle...» Mi interruppi all'istante, serrando i denti. «Quando Kyle ha cercato di ucciderti» concluse Ian impassibile. «Volevi liberarla? Perché?» Restai in silenzio. «Per ribellarti?» Non risposi. Sospirò. «Okay. Non dirmelo. Secondo te, perché la... porta è chiusa?» Abbassai lo sguardo. «Non lo so. Forse il tempo che passa... È preoccupante.» «Però quando ha dato il pugno a Jared è sfuggita al controllo.» «Sì.» Rabbrividii al pensiero del primo colpo sferrato al mento. «Perché eri sopraffatta dalle emozioni?» «Sì.» «Ma lui che ha fatto? Ti ha baciata e basta?» Annuii. «Quando Jared ti bacia, resti... travolta dalle emozioni.» Restai a guardarlo, preoccupata dalla sua espressione. Melanie era contenta. Perfetto!
Ian sospirò ancora. «Mentre quando ti bacio io... non sei sicura che ti piaccia. Non ti... travolgo.» Era geloso. Che mondo strano. «Mi dispiace» dissi. «Non è il caso. Te l'ho detto, hai bisogno di tempo, e per me non è un problema aspettare. Niente affatto.» «Qual è il problema, allora?» Doveva essercene uno, e grave. Inspirò a fondo. «Mi sono accorto subito dell'affetto che provi per Jamie. Era evidente. Immaginavo che sarebbe andata così anche fra te e Jared. Anche se forse non lo desideravo. È logico. È per loro che sei tornata qui. Vuoi bene a loro esattamente come Melanie. A Jamie, come a un fratello. E a Jared...» Il suo sguardo era perso sulla parete alle mie spalle. Anch'io cercai di guardare altrove. «Quanto di tutto questo appartiene a Melanie?» «Non lo so. È importante?» «Per me, sì.» Senza guardarmi mi strinse di nuovo la mano. Per un po' restammo nel silenzio più assoluto. Neanche Melanie batté ciglio, per fortuna. Poi, come se qualcuno avesse acceso un interruttore, Ian tornò in sé. E rise. «Il tempo è dalla mia parte» disse, allegro. «Abbiamo tutta la vita davanti. Un giorno ti chiederai che cosa ci fosse di così speciale in Jared.» "Ti piacerebbe." Risi con lui, contenta che fosse tornato a scherzare. «Wanda? Wanda, posso entrare?» La voce di Jamie giunse dal corridoio e, accompagnata dai suoi passi veloci, si fermò davanti alla porta. «Certo, Jamie.» Prima ancora che spostasse la porta, mi preparai a festeggiarlo. Non ci eravamo visti molto negli ultimi giorni. Azzoppata o incosciente, gli ero rimasta lontana. «Ciao Wanda! Ciao Ian!» Jamie era tutto un sorriso, i capelli spettinati saltellavano assieme a lui. Puntò dritto verso la mano che gli stavo tendendo, ma Ian era davanti a lui. Così decise di accomodarsi sul bordo del mio materasso e di stringermi una caviglia. «Come stai?» «Meglio.» «Hai fame? Abbiamo carne essiccata e pannocchie arrosto! Se vuoi te ne prendo un po'.»
«Per ora sto bene. E tu? È un po' che non ci vediamo.» «Sharon mi ha messo in castigo.» Sorrisi. «Cos'hai combinato?» «Niente. Mi ha letteralmente incastrato.» La sua espressione innocente era un po' esagerata, perciò cambiò rapidamente argomento. «Indovina un po'? Jared ha passato il pranzo a ripetere che secondo lui non è giusto che tu abbandoni la stanza a cui eri abituata. E che non è il modo di trattare gli ospiti. Dice che tu dovresti tornare in camera con me! Non è grandioso? Gli ho chiesto se potevo dirtelo subito, e ha risposto che era una buona idea. Mi ha detto che ti avrei trovata qui.» «Ci avrei scommesso» mormorò Ian. «Che ne pensi, Wanda? Saremo di nuovo compagni di stanza!» «Ma, Jamie, dove andrà Jared?» «Aspetta, lasciami indovinare» lo anticipò Ian. «Non avrà detto anche che la vostra camera è abbastanza grande per tre?» «Sì. Come fai a saperlo?» «Ho tirato a indovinare.» «Buone notizie, no, Wanda? Sarà come prima che venissimo qui?» La sua frase fu come una pugnalata, un dolore troppo netto e preciso per confrontarlo con un pugno. Jamie scrutò allarmato la mia espressione afflitta. «Ops. Scusa, mi riferivo a tutte e due. Sarà bello. In quattro, no?» Cercai di ridere malgrado la sofferenza. Ian mi strinse la mano. «Tutti e quattro» mormorai. «Bene.» Jamie sgattaiolò sul materasso sgusciando alle spalle di Ian, per abbracciarmi. «Scusa. Non essere triste.» «Non preoccuparti.» «Lo sai che voglio bene anche a te.» "Sono così nette, così profonde, le emozioni su questo pianeta. Jamie finora non mi aveva mai detto una cosa del genere." Così nette, ribadì Melanie, scossa dal dolore. «Torni con noi?» implorò Jamie, chino sulla mia spalla. Non riuscii a rispondere subito. «Mel cosa vuole?» domandò. «Vuole vivere con voi» sussurrai, senza bisogno di conferme. «E tu cosa vuoi?»
«Tu vuoi che venga a vivere con voi?» «Sì, lo sai anche tu, Wanda. Per favore.» Restai incerta. «Se è quello che vuoi, Jamie, va bene.» «Evviva!» esultò Jamie al mio orecchio. «Vado subito a dirlo a Jared! E ti prendo qualcosa da mangiare, okay?» «Okay.» «Tu vuoi qualcosa, Ian?» «Certo, ragazzo. Voglio che tu dica a Jared che è davvero uno spudorato.» «Eh?» «Niente. Vai a prendere il pranzo per Wanda.» «Certo. E chiederò a Wes il suo letto in più. Kyle tornerà qui, e tutto sarà normale!» «Perfetto» commentò Ian, e pur senza vederlo in faccia, ne intuii l'espressione rassegnata. «Perfetto» sussurrai, e sentii di nuovo il pugnale. 39 La preoccupazione "Perfetto" brontolai. "Davvero perfetto." Ian mi stava raggiungendo a pranzo, un gran sorriso sulle labbra. Cercava di tenermi su di morale... come sempre. "Secondo me stai esagerando con il sarcasmo" disse Melanie. Me ne ricorderò. Si era fatta viva di rado, nella settimana precedente. Né io né lei eravamo molto di compagnia. Era meglio evitare qualsiasi relazione, comprese quelle reciproche. «Ciao, Wanda» disse Ian, e con un balzo si sedette sul bancone accanto a me. Tra le mani aveva una ciotola di minestra di pomodoro ancora fumante. La mia era accanto a me, mezza piena e ormai fredda. Giocavo con un pezzo di pane, facendolo a pezzettini. Non gli risposi. «E dai» disse posandomi una mano sul ginocchio. La reazione di Mel fu contenuta. Ormai era troppo abituata a certi gesti per infuriarsi sul serio. «Torneranno prima dell'alba, vedrai.» «L'hai detto anche tre giorni fa, e ieri.»
«Oggi sento che è il giorno giusto. Non tenere il broncio, è una reazione da umani» mi stuzzicò. «Non ho il broncio.» Preoccupata com'ero, non riuscivo a essere lucida. Non mi restava più un briciolo di energia. «Non è la prima volta che Jamie esce in missione.» «Ah, allora posso stare tranquilla.» Di nuovo il sarcasmo. Melanie aveva ragione, ne stavo approfittando un po' troppo. «Con lui ci sono Jared, Geoffrey e Trudy. Kyle invece è rimasto qui» rise Ian. «Perciò possiamo essere sicuri che niente andrà storto.» «Non ho voglia di parlarne.» «Okay.» Si dedicò al pasto e mi lasciò sbollire. Ian era sensibile, sempre attento a esaudire i miei desideri, persino quando questi erano indefiniti sia per me che per lui. Era passato un mese dal mio trasloco nella stanza di Jared e Jamie. Avevamo vissuto insieme per tre settimane. Jared dormiva su un materasso incastrato oltre la testata del letto mio e di Jamie. Mi ci ero abituata, alle notti, perlomeno; tanto che mi era difficile dormire da sola. Mi mancava il respiro degli altri corpi. Ma non mi ero abituata a svegliarmi ogni giorno con Jared. Impiegavo sempre un secondo di troppo a rispondere al suo saluto. Nemmeno lui era a proprio agio, ma conservava le buone maniere. Entrambi eravamo molto educati. «Buongiorno, Wanda. Dormito bene?» «Sì, grazie, e tu?» «Sì, grazie. E... Mel?» «Anche lei bene, grazie.» Lo stato di euforia costante di Jamie e le sue chiacchiere allegre scongiuravano che l'atmosfera si facesse opprimente. Parlava spesso di - e con Melanie, tanto che il nome della ragazza cessò di essere, in presenza di Jared, fonte di inquietudine. Ogni giorno mi ci abituavo un po', e il ritmo della mia vita si faceva più sopportabile. Eravamo... quasi felici. Sia io che Melanie. Poi, una settimana prima, Jared era uscito per un'altra breve missione in cerca di nuovi utensili - portando con sé Jamie. «Stanca?» domandò Ian. Mi accorsi che mi stavo strofinando gli occhi. «Non proprio.» «Continui a dormire male?»
«C'è troppo silenzio.» «Potrei dormire io con te... Oh, calmati, Melanie. Sai cosa intendo.» Ian si accorgeva sempre quando l'opposizione di Melanie mi faceva irrigidire. «Sbaglio o hai detto che torneranno entro oggi?» «Giusto. Quindi non c'è bisogno di riorganizzarci, immagino.» Sospirai. «Forse è il caso che ti prenda una pausa, oggi pomeriggio.» «Non essere sciocco» risposi. «Sono piena di energia e pronta a lavorare.» Sorrise, come se gli avessi fatto un complimento. «Bene. Allora potrei aver bisogno del tuo aiuto. Ho un progetto.» «Che progetto?» «Vedrai. Hai finito?» Annuii. Mi prese per mano e mi portò fuori dalla cucina. Altro gesto ovvio, di fronte al quale Melanie a malapena protestò. «Perché andiamo da questa parte?» Il campo di grano non aveva bisogno di cure. Noi stessi avevamo aiutato a irrigarlo, quel mattino. Ian non rispose, ma continuò a sorridere. Mi condusse lungo la galleria orientale, al di là del campo e dentro il corridoio che portava a un posto ben preciso. Quando lo imboccammo, sentii delle voci e dei tonfi sporadici, che non riconobbi da subito. L'odore di chiuso e la puzza di zolfo mi fecero riaffiorare dei ricordi. «Ian, non sono dell'umore.» «L'hai detto tu che sei piena di energia.» «Per lavorare. Non per giocare a calcio.» «Ma Lily e Wes ci resteranno male. Ho promesso loro una sfida due contro due. Stamattina hanno lavorato abbastanza per potersi prendere il pomeriggio libero...» «Non provare a farmi sentire in colpa» dissi mentre sbucavamo dall'ultima curva. «Non funziona?» disse malizioso. «Su, Wanda. Ti farà bene.» Mi trascinò nella stanza dei giochi, dove Lily e Wes erano impegnati a passarsi la palla, avanti e indietro, ai due lati del campo. «Ciao Wanda, ciao Ian» disse Lily. «Questa la vinco io, O'Shea» lo apostrofò Wes. «Non vorrai farmi perdere contro Wes, vero?» mormorò Ian.
«Ce la farai anche da solo.» «Partirei con l'handicap. Non potrei sopportarlo.» Sospirai. «Va bene. Va bene. E sia.» Ian mi abbracciò con un entusiasmo che Melanie giudicò superfluo. «Sei la mia persona preferita, in tutto l'universo conosciuto.» «Grazie» mormorai impassibile. «Pronta all'umiliazione, Wanda?» mi sfidò Wes. «Avrete anche preso il pianeta, ma perderete la partita.» Ian rise, io non reagii. La battuta mi fece sentire a disagio. Copie poteva scherzare su una cosa del genere? Gli umani erano una continua sorpresa. Compresa Melanie. Il suo umore, fino a pochi momenti prima, era abbattuto quanto il mio, ma d'un tratto la sentii entusiasmarsi. L'altra volta non abbiamo potuto giocare, spiegò. Sentivo il suo bisogno di correre, correre di piacere, anziché per paura. Restare inerte non servirà a farli tornare in fretta. Vale la pena di distrarsi. Stava già pensando a una tattica, soppesando la bravura degli avversari. «Conosci le regole?» mi chiese Lily. Annuii. «Le ricordo.» Distratta, piegai un ginocchio afferrandomi la caviglia per stirarmi i muscoli. Era una posizione familiare. Riscaldai anche l'altra gamba, lieta di sentirmi in forma. La ferita sul retro della coscia era quasi scomparsa, e al fianco non sentivo più dolore. Due settimane prima, durante la pulizia degli specchi, mi ero vista in faccia. La ferita che avevo sulla guancia era rosso scuro, ampia e irregolare. Melanie se ne preoccupò più di me. «Io sto in difesa» disse Ian, mentre Lily arretrava e Wes camminava palla al piede. Un incontro impari. Melanie ne fu felice. Le piacevano le sfide. Non appena iniziò la partita - con un passaggio all'indietro di Wes, che scattò per ricevere la palla da Lily dopo avermi superata - ci fu poco tempo per pensare. Dovevo agire in fretta e d'istinto. Osservare lo spostamento di Lily, capire in che direzione avrebbe passato la palla. Anticipare Wes - ah, quanto restò sorpreso dalla mia velocità - dare la palla a Ian e correre in attacco. Lily si era sbilanciata troppo. In velocità la superavo. Ian effettuò un passaggio perfetto, e io segnai il primo gol. Fu una bella sensazione, fatta di muscoli in tensione, sudore, gioco di squadra con Ian. Facevamo una bella coppia. Io ero veloce, lui un tiratore infallibile. Wes rimase a corto di improperi prima ancora che Ian segnasse il terzo gol.
Arrivati a ventuno, Lily dichiarò la fine della partita. Aveva il fiatone. Io no: mi sentivo bene, i muscoli caldi e sciolti. Wes voleva la rivincita, ma Lily non ne poteva più. «Accettalo, sono più forti.» «Ci hanno imbrogliati.» «Nessuno ha mai detto che lei non sapesse giocare.» «Ma neanche che fosse una professionista.» Sorrisi. «Impara a perdere» disse Lily, pizzicando divertita la pancia a Wes. Lui le afferrò la mano e la tirò verso di sé. Lei rise, liberandosi dalla presa, ma Wes la riprese e schioccò un bel bacio sulla sua bocca sorridente. Io e Ian ci scambiammo un'occhiata sorpresa. «Perderò con grazia, per te» le disse Wes, e mollò la presa. Lily guardò di sottecchi me e Ian, per controllare la nostra reazione. «E ora» aggiunse Wes, «vado a cercare rinforzi. Vediamo come se la cava la tua campionessa contro Kyle, Ian.» Lanciò la palla nell'angolo più lontano della grotta, e la sentii atterrare nell'acqua della sorgente. Ian andò a riprenderla, mentre io guardavo Lily incuriosita. Rise della mia espressione, con un imbarazzo che non le apparteneva. «Lo so, lo so.» «Da quando... va avanti?» domandai. Lei rispose con una linguaccia. «Scusami, non sono affari miei.» «Non preoccuparti. Non è un segreto: com'è possibile nascondere un segreto quaggiù? È soltanto una... novità. Più o meno è colpa tua» aggiunse, sorridendo per mostrare che scherzava. Tuttavia mi sentii un po' in colpa. E confusa. «Cosa avrei fatto?» «Niente» mi rassicurò. «È stata la... reazione di Wes al tuo arrivo, a sorprendermi. Non sapevo che fosse tanto sensibile. Non mi ero quasi neanche accorta di lui. Be'. È troppo giovane per me, ma importa qualcosa, qui?» Fece un'altra risata. «È strano vedere che la vita e l'amore continuano. Non l'avrei mai detto.» «Già. Davvero curioso» aggiunse Ian. Non l'avevo sentito tornare. Mi cinse le spalle. «Però è bello. Ora sai che Wes ha preso una cotta per te appena ti ha vista, vero?» «Così dice. Non me n'ero accorta.» Ian rise. «Sei l'unica. Allora, Wanda, che ne dici di una sfida uno contro uno, mentre aspettiamo?»
Sentii l'entusiasmo muto di Melanie. «Okay.» Lasciò a me la prima palla, arretrando per proteggere l'area di porta. Il mio primo tiro andò diritto in rete. Quando fece per calciare, lo pressai e ripresi la palla. Poi segnai un altro gol. "Ci sta lasciando vincere" insinuò Mel. «E dai, Ian. Gioca.» «Lo sto facendo.» "Digli che sta giocando da femmina." «Come una femminuccia.» Rise, e gli rubai di nuovo la palla. Non mi accontentai dello sfottò. Ebbi un'ispirazione, e calciai dritto in porta immaginando che l'occasione non si sarebbe più ripresentata. Mel si oppose. "Non è una buona idea." "Invece scommetto che funziona." Piazzai la palla a centrocampo. «Se vinci, ti lascio dormire in camera mia finché non tornano.» Avevo bisogno di una notte di sonno. «Al dieci.» Con un grugnito, calciò la palla così forte che dopo essermi passata davanti rimbalzò sulla parete dietro la mia porta e tornò indietro. Guardai Lily. «Era fuori?» «No, a me sembrava esattamente al centro.» «Uno a tre» annunciò Ian. Gli occorsero quindici minuti per vincere, ma se non altro fui costretta a impegnarmi sul serio. Riuscii addirittura a segnare un altro gol, di cui andai molto fiera. Quando mi rubò la palla per andare a segnare l'ultima rete, ero senza fiato. Lui invece no. «Dieci a quattro, vittoria.» «Bella partita» ansimai. «Stanca?» chiese, forse con eccessiva ingenuità. Stava scherzando. Si stiracchiò. «Penso di essere pronto per andare a letto.» Mi guardò di sottecchi con aria maliziosa. Trasalii. «Oh, Mel, lo sai che scherzo. Sii gentile.» Lily restò perplessa. «La Melanie di Jared ce l'ha con me» le disse Ian, e strizzò l'occhio. Lei lo guardò curiosa. «Davvero... interessante.» «Ma Wes non torna più?» mormorò Ian, senza badare alla sua reazione. «Andiamo a cercarlo? Ho bisogno di bere un po' d'acqua.» «Anch'io» commentai.
«Portatene anche a me.» Lily restò mezza accasciata a terra. Entrati nella galleria stretta, Ian mi cinse con dolcezza i fianchi. «Sai» disse, «è davvero ingiusto che Melanie ti faccia soffrire perché è arrabbiata con me.» «Da quando gli umani sono giusti?» «Hai ragione.» «Inoltre, sarebbe molto lieta di farti soffrire, se io glielo concedessi.» Ian rise. «Sono carini Wes e Lily, non credi?» disse. «Sì. Sembrano molto felici. Mi fa piacere.» «Anche a me. Alla fine Wes ce l'ha fatta. Forse anch'io ho qualche speranza.» Mi strizzò l'occhio. «Secondo te Melanie ti infastidirebbe molto, se ti baciassi qui e ora?» Mi irrigidii per un istante. «Penso di sì.» "Certo che sì." Ian si rattristò. In quel momento, sentimmo le grida di Wes. La sua voce giungeva dall'altro capo della galleria, a ogni parola sempre più vicina. «Sono tornati! Wanda, sono tornati!» Impiegai meno di un secondo per rendermene conto e scattare. Alle mie spalle, Ian mormorò qualcosa a proposito di uno sforzo inutile. Quasi buttai Wes a terra. «Dove?» ansimai. «In piazza.» E ripartii. Sfrecciai verso la grande grotta-giardino scrutando in ogni angolo. Non fu difficile trovarli. Jamie era davanti a un drappello di persone accanto all'entrata del tunnel meridionale. «Ehi, Wanda!» gridò salutandomi. Mentre correvo lungo il confine del campo, Trudy gli strinse un braccio come per impedirgli di corrermi incontro. Lo afferrai per le spalle e lo strinsi a me. «Oh, Jamie!» «Ti sono mancato?» «Un pochino. Dove sono tutti? Sono tornati? Stanno bene?» Escluso Jamie, fra i presenti Trudy era l'unica reduce dalla missione. Gli altri - Lucina, Ruth Ann, Kyle, Travis, Violetta, Reid - stavano dando il bentornato ai razziatori. «Stanno tutti bene» mi rassicurò Trudy. Perlustrai la grande caverna. «Dove sono?» «Ehm... a darsi una ripulita, o a scaricare...»
Avrei voluto dare una mano - qualsiasi cosa pur di accertarmi di persona che Jared fosse sano e salvo -, ma sapevo che non mi avrebbero concesso di vedere da dove venisse il carico. «Hai bisogno di un bel bagno, a quanto pare» dissi a Jamie scompigliando i suoi capelli sporchi e intricati, senza lasciarlo andare. «Ha bisogno di andare a sdraiarsi» disse Trudy. «Trudy» borbottò lui, dandole un'occhiataccia. Trudy mi rivolse uno sguardo fugace. «Sdraiarti...?» fissai Jamie, allontanandomi di un passo per osservarlo meglio. Non sembrava stanco, i suoi occhi brillavano e le guance si accesero all'improvviso sotto il velo di abbronzatura. Il mio sguardo lo passò al setaccio e si fermò all'altezza della gamba destra. Aveva uno squarcio nei pantaloni, pochi centimetri sopra il ginocchio. L'orlo era sporco di una macchia marrone e rossastra, che si allungava fino alla caviglia. Sangue commentò Melanie disgustata. «Jamie! Che è successo?» «Grazie, Trudy.» «Prima o poi se ne sarebbe accorta. Andiamo, parleremo mentre ti accompagno.» Trudy lo prese sottobraccio, e lo aiutò ad avanzare saltellando sul piede sinistro. «Jamie, dimmi che è successo!» Lo presi anch'io sottobraccio, cercando di sorreggerlo quanto potevo. «Una stupidaggine. Colpa mia. Avrebbe potuto succedere anche qui.» «Racconta.» Fece un sospiro. «Sono inciampato con un coltello in mano.» Rabbrividii. «Non è meglio farti vedere da Doc?» «Ci sono appena stato.» «E lui che dice?» «Tutto a posto. Ha pulito il taglio, l'ha bendato, e mi ha detto di stare a riposo.» «A piedi, così? Perché non sei rimasto in ambulatorio?» Jamie si rabbuiò e guardò Trudy, come in cerca di una risposta. «Starà più comodo nel suo letto» suggerì lei. «Già. Perché stare scomodo su una di quelle orribili brande?» Guardai prima loro e poi dietro di me. La folla si era dileguata. Ne sentivo le voci echeggiare dentro il tunnel meridionale. "Ma che è successo?" si chiese Mel preoccupata.
Capii all'istante che Trudy non era brava a mentire. C'era un che di falso nel tono con cui mi aveva detto che gli altri razziatori stavano scaricando la merce. Mi sembrava di averla vista lanciare un'occhiata furtiva alla sua destra, verso la galleria che andava a sud. «Ciao ragazzo! Ciao Trudy!» Ian ci aveva raggiunti. «Ciao Ian» i due lo salutarono in contemporanea. «Che ti è successo?» «Sbucciato con un coltello» rispose Jamie, chinando il capo. Ian rise. «Non è divertente» risposi seccamente. «Dove sono tutti?» Osservai Trudy con la coda dell'occhio, mentre rispondeva. «Dovevano, ehm, finire di scaricare della merce.» Stavolta i suoi occhi ammiccarono verso il tunnel meridionale, l'espressione di Ian si irrigidì, e vi fece capolino la rabbia. Poi Trudy si accorse che la stavo guardando. Distraili, sussurrò Melanie. Mi rivolsi subito a Jamie. «Hai fame?» gli domandai. «Sì.» «E quando non hai fame?» lo stuzzicò Ian. Sembrava rilassato. Come attore era meglio di Trudy. Raggiunta la nostra stanza, Jamie fu lieto di poter crollare sul materasso. «Sicuro di star bene?» dissi. «Non è niente. Davvero. Doc dice che mi rimetterò in pochi giorni.» «Vado a lavarmi» mormorò Trudy, e uscì. «Ian?» dissi, concentrata sulla gamba insanguinata di Jamie. «Ti dispiace andarci a prendere qualcosa da mangiare? Ho fame anch'io.» «Sì, portaci qualcosa di buono.» «D'accordo» rispose. «Torno fra un secondo.» Restai a scrutare la ferita finché non sentii svanire i suoi passi. «Non sei arrabbiata con me?» domandò Jamie. «Certo che no.» «So che non volevi che andassi.» «Ora sei al sicuro; è tutto ciò che conta.» Gli sfiorai distratta il braccio. Poi mi alzai in piedi e lasciai che i capelli, ormai lunghi fino al mento, mi nascondessero il viso. «Torno subito: ho dimenticato di chiedere una cosa a Ian.» «Cosa?» domandò, confuso dal mio tono di voce.
«Te la caverai, qui da solo?» «Ma certo» ribatté perplesso. Sgusciai fuori prima che potesse fare altre domande. Il corridoio era deserto, Ian lontano. Dovevo sbrigarmi. Sapevo di averlo insospettito perché mi ero accorta di quanto fosse goffa la spiegazione di Trudy. Sarebbe tornato subito. Giunsi alla piazza camminando in fretta, ma senza correre; concentrata, come se avessi una commissione da sbrigare. Incrociai poche persone ma nessuno mi prestò attenzione. Guardavo dritto davanti a me come se la mia meta non fosse la galleria meridionale, nella quale sgattaiolai all'ultimo secondo. Non appena sprofondai nel buio pesto del corridoio accelerai il passo, correndo lungo il tracciato familiare. L'istinto mi diceva che si trattava di una scena già vista, una replica di quando Jared e gli altri erano tornati dalla missione, tutti erano tristi, Doc si era ubriacato, e nessuno rispondeva alle mie domande. Ciò che non dovevo sapere, ciò che secondo Ian non avrei voluto sapere, stava accadendo di nuovo. Sentii un brivido lungo la schiena. Forse non volevo saperlo. "Invece lo vogliamo entrambe." "Ho paura." "Anch'io." Corsi, più silenziosa che potevo, lungo la galleria buia. 40 Il disgusto Rallentai quando sentii le prime voci. Ero troppo lontana dall'ambulatorio per riconoscere Doc. Gli altri stavano per venirmi incontro. Mi appiattii contro la parete di roccia e strisciai in avanti più silenziosa che potevo. Dopo la corsa avevo il respiro affannoso, perciò mi coprii la bocca con le mani per attenuare il rumore. «... Perché ci ostiniamo a insistere» si lamentava qualcuno. Non ero certa di riconoscere la voce. Forse Violetta? Il tono depresso fugò ogni dubbio, non mi ero inventata niente. «Doc non voleva. Stavolta l'idea è stata di Jared.» A parlare era stato Geoffrey, la voce gravata da un malcelato fastidio. Era uscito in missione con Trudy. «Pensavo fosse l'oppositore più deciso verso questo genere di cose, no?»
Si trattava di Travis, forse. «Ora è più... motivato» rispose Geoffrey con tono irato. Passarono a meno di una spanna dall'angolo in cui mi ero rannicchiata. Immobile, trattenni il respiro. «Per me è roba da pazzi» borbottò Violetta. «Disgustoso. Non funzionerà mai.» Camminavano lenti, i passi appesantiti dallo sconforto. Aspettai che il rumore dei passi si affievolisse, ma non potevo permettermi di ritrovarmi Ian alle spalle. Strisciai in avanti più veloce che potevo, e ripresi a correre finché non sentii il rumore di singhiozzi soffocati e mi fermai ad ascoltare. I singhiozzi non cessavano. Andavano quasi a tempo con un altro rumore ritmico e smorzato. «Dai, calmati.» Era la voce di Jeb, gonfia di emozione. «È tutto a posto, a posto, Doc. Non prendertela così.» Nella stanza qualcuno camminava in silenzio, più di una persona. Fruscio di lenzuola. Come se stessero facendo le pulizie. C'era un odore che non avevo mai sentito, là. Strano... non esattamente metallico, ma diverso da ogni altro. Non mi era familiare e tuttavia avevo la strana sensazione che dovesse esserlo. Avevo paura di girare l'angolo. Cosa possono farci di male? commentò Mel. Mandarci via? Hai ragione. Le cose erano senz'altro cambiate, se non potevo aspettarmi di peggio, dagli umani. Respirai a fondo - percependo di nuovo quell'odore strano, sbagliato - e passai oltre la soglia rocciosa che portava all'ambulatorio. Nessuno si accorse di me. Doc era inginocchiato a terra, il viso nascosto tra le mani, le spalle tremanti. Jeb, chino su di lui, gli dava pacche sulla schiena. Jared e Kyle stavano posando una barella improvvisata accanto a una delle due brande al centro della stanza. L'espressione di Jared era irrigidita; durante la lontananza, la vecchia maschera era tornata. Le brande non erano vuote: qualcosa, nascosto sotto lenzuola verde scuro, le occupava entrambe, in tutta la lunghezza. Qualcosa di lungo e irregolare, curve e sagome familiari... Il tavolo improvvisato di Doc era stato spostato a un capo delle brande e scintillava di argento - bisturi lucenti e un repertorio di vecchi strumenti
chirurgici a cui non sapevo dare un nome. E accanto a essi, frammenti di argento luminoso disposti sul tavolo, piegati in spirali contorte... strisce sottili d'argento, nude, strappate e sparpagliate... macchie di liquido argenteo sul tavolo, sulle lenzuola, sulle pareti... Il silenzio fu infranto dal mio urlo. La stanza intera iniziò a girarmi attorno rendendomi impossibile la fuga. Le pareti macchiate d'argento si alzavano a sbarrarmi la strada, dovunque mi voltassi. Qualcuno gridò il mio nome, ma non riconobbi chi era. Il mio urlo era troppo forte. Mani pesanti mi tennero ferma. «Doc, aiuto!» «Che le è successo?» «Ha perso i sensi?» «Cos'ha visto?» «Niente, niente. I corpi sono coperti!» Che bugia! I corpi erano orrendamente esposti, costretti a contorsioni impressionanti. Mutilati, smembrati, torturati, divisi in brandelli grotteschi... Avevo visto con chiarezza le vibrisse vestigiali ancora attaccate alla sezione anteriore strappata dal corpo di un piccolo. Un piccolo! Un bambino! Un bambino fatto a pezzi e sparpagliato sul tavolo macchiato del suo sangue... Il mio stomaco si capovolse, come le pareti poco prima, e sentii qualcosa di acido invadermi la gola. «Wanda? Mi senti?» «È lucida?» «Temo che stia per vomitare.» L'ultima voce aveva ragione. Qualcuno mi bloccò la testa, mentre l'ondata di acido saliva violenta dallo stomaco. «Che facciamo, Doc?» «Tenetela ferma, impeditele di farsi del male.» Tossii e sputai, cercando di sfuggire alla presa. «Lasciatemi!» riuscii finalmente a biascicare, tra un colpo di tosse e l'altro. «Statemi lontani! Via, mostri! Torturatori!» Strillai ancora, senza parole, dimenandomi tra le braccia che mi bloccavano. «Calmati, Wanda! Calma! È tutto a posto.» La voce di Jared. Per una volta, non contava nulla che fosse lui.
«Mostro!» gli urlai. «È isterica» disse Doc. «Tenetela stretta.» Un colpo secco e pungente mi colpì al viso. Sentii un respiro affannoso, lontano dal caos che mi circondava. «Cosa state facendo?» ruggì Ian. «Le è venuto un colpo, o qualcosa del genere, Ian. Doc sta cercando di farle riprendere coscienza.» Mi fischiavano le orecchie, ma non per colpa dello schiaffo. Era l'odore l'odore del sangue argenteo che colava dalle pareti - l'odore del sangue delle anime. La stanza mi girava attorno come fosse viva. La luce si piegava in sagome strane... curva nelle sagome di mostri che appartenevano al mio passato. Un Avvoltoio aprì le ali... un mostro dalle grandi chele sventolò le sue pinze pesanti verso il mio volto... Doc sorrise e mi venne incontro, le mani gocciolanti d'argento... La stanza girò ancora una volta, lentamente, e tutto sprofondò nel buio. Non rimasi a lungo priva di sensi. Impiegai forse pochi secondi per riprendere coscienza ma desiderai poter tornare ancora un po' nell'oblio. Mi muovevo, dondolavo avanti e indietro, e c'era buio pesto. Grazie al cielo l'orribile odore se n'era andato. L'aria muffosa e umida delle grotte era quasi un profumo. La sensazione di essere trasportata e cullata era familiare. Dopo che Kyle mi aveva ferita, avevo viaggiato così per settimane, tra le braccia di Ian. «... pensato che avrebbe intuito le nostre intenzioni. Evidentemente mi sbagliavo» mormorò Jared. «Pensi che sia andata così?» La voce di Ian irruppe nel silenzio della galleria. «Che si sia spaventata vedendo le anime estratte da Doc? Che temesse per la propria incolumità?» Jared restò in silenzio. «Tu no?» Ian si schiarì la voce. «No. Disgustato come sono, dopo che avete portato a casa altre... vittime per Doc, e proprio adesso! Per quanto mi venga la nausea solo a pensarci, non è ciò che dici ad averla sconvolta. Come puoi essere così cieco? Non ti rendi conto di cosa può aver visto là dentro?» «Sono sicuro di avere coperto i corpi, prima...» «Erano i corpi sbagliati, Jared. Ah, sono sicuro che Wanda si lascerebbe sconvolgere anche da un cadavere umano, è troppo dolce; la violenza e la morte non fanno parte di lei. Ma penso al significato di ciò che ha visto sul
tavolo.» Jared rimase ammutolito. «Ah.» «Sì. Se io o te avessimo assistito a una vivisezione umana, con arti strappati e sangue schizzato ovunque, non avremmo reagito alla stessa maniera. Sono cose che abbiamo già visto, persino prima dell'invasione, nei film dell'orrore. Ma scommetto che in tutte le sue vite lei non si è mai trovata di fronte a una scena del genere.» Mi stava tornando la nausea per colpa delle sue parole. La scena. L'odore. «Lasciami andare» sussurrai. «Mettimi giù.» «Non volevo svegliarti. Mi dispiace!» Fu un'esclamazione sincera, una scusa che riguardava ben altro. «Lasciami andare.» «Non ti senti bene. Ti porto in stanza.» «No. Mettimi giù subito.» «Wanda...» «Subito!» gridai. Mi strinsi al suo petto e contemporaneamente scalciai per liberare le gambe. La violenza della mia ribellione lo sorprese. Mollò la presa, e io mi lasciai andare, rannicchiandomi a terra. Balzai in piedi e iniziai a correre. «Wanda!» «Lasciala andare.» «Non toccarmi. Wanda, torna qui!» Sembrava stessero lottando alle mie spalle, ma non rallentai. Ma certo che stavano lottando. Erano umani, per loro la violenza era un piacere. Quando sbucai alla luce non mi fermai. Attraversai di corsa la caverna grande senza degnare di uno sguardo nessuno dei mostri che vi trovai. Sentivo i loro occhi addosso, ma non mi importava. Non mi importava nemmeno di sapere dove stessi andando. Qualsiasi meta, pur di restare sola. Evitai le gallerie occupate da umani, e mi infilai nella prima che vidi vuota. Era il tunnel orientale. Quel giorno vi ero entrata due volte. Prima felice, poi terrorizzata. Difficile rievocare la felicità nata dopo il ritorno dei razziatori. Tutto era cupo e minaccioso, ormai, compreso il loro ritorno. Ma quella era la scelta migliore. Nessuno aveva motivo di seguirmi nella galleria deserta. La percorsi tutta, fino a sbucare nella notte fonda della stanza dei giochi, vuota. Possibile che fino a poco prima avessi giocato con loro proprio lì? E
avessi creduto ai loro sorrisi, senza accorgermi di quali bestie fossero... Continuai fino a sprofondare i piedi nelle acque oleose della sorgente buia. Cercai di allontanarmene, tastando le pareti con la mano. Quando trovai una parete di roccia scabra - ruvida, al contatto con le dita - mi infilai nella conca al di là della sporgenza, raggomitolandomi a terra. "Non è come pensavamo. Doc non stava facendo male a nessuno di proposito; stava solo cercando di salvare..." "Esci dalla mia testa!" strillai. Nel momento in cui la allontanai - imbavagliandola, così da non doverne ascoltare le giustificazioni - mi resi conto di quanto si fosse indebolita in tutti quei mesi di amicizia. Di quanto l'avessi tollerata e incoraggiata. Zittirla era diventato fin troppo facile. Facile come avrebbe dovuto essere sin dall'inizio. Ero soltanto io. E soltanto miei erano lo spavento e l'orrore a cui sapevo di non poter sfuggire. Non avrei mai più rimosso quell'immagine. Non sapevo come piangere quelle anime. Quei piccoli, fatti a pezzi sul tavolo. Sull'Origine non avevo mai pianto nessuno. Non sapevo come si facesse, nella vera casa della mia specie. Perciò optai per il lutto dei Pipistrelli. Mi sembrava il più appropriato, laggiù dove tutto era buio e cieco. Il lutto dei Pipistrelli era silenzioso: cessavano di cantare per settimane, finché il vuoto creato dall'assenza di musica non pesava più del dolore della perdita di un'anima. Tra loro avevo imparato cos'è la perdita. Un amico colpito da un albero caduto di notte, e scoperto troppo tardi per salvarlo dal corpo stritolato del suo ospite. "Ascesa... Spirale... Armonia": questa era la traduzione del suo nome nella lingua degli umani. Non ci fu alcun orrore nella sua morte, soltanto dispiacere. Fu un incidente. Incrociai le braccia sul petto e piansi il piccolo, e l'altra anima morta con lui. Fratelli. Membri della mia famiglia. Se avessi trovato una via d'uscita da quel luogo, se avessi avvertito i Cercatori, i loro resti non sarebbero rimasti sparpagliati in quella stanza zuppa di sangue. Volevo piangere, levare il mio lamento funebre e addolorato. Ma era una reazione da umani. Perciò serrai le labbra e mi rannicchiai nell'oscurità. Ma il mio silenzio fu violato. Li sentii cercare, sentii le loro voci riecheggiare nelle lunghe gallerie. Mi chiamavano, sperando in una risposta. Perché non mi lasciavano sola con il mio lutto? Sentii un sospiro di sollievo quando il fascio luminoso di una torcia elet-
trica mi scovò. «L'ho trovata! Dite agli altri di tornare dentro! Alla fine è rimasta qui!» Riconobbi la voce, ma non le diedi un nome. Era solo un mostro come gli altri. «Wanda? Wanda? Stai bene?» Non alzai la testa né aprii gli occhi. Ero in lutto. «Dov'è Ian?» «Meglio chiamare Jamie, no?» «Non è il caso di coinvolgerlo.» Rabbrividii al nome di Jamie. Il mio Jamie. Anche lui era un mostro come tutti gli altri. Il mio Jamie. Pensare a lui era una sofferenza. «Dov'è?» «Qui, Jared. Non... reagisce.» «Non l'abbiamo toccata.» «Dammi la torcia» disse Jared. «Ora, voialtri, andatevene subito. Fine dell'emergenza. Lasciatela respirare, okay?» Il rumore di passi strascicati non andò lontano. «Dico sul serio, gente. Così non servite a nulla. Via. Andate.» Jared attese che tornasse il silenzio. «Bene, Wanda, siamo solo io e te.» Attendeva una risposta. «Senti, immagino che sia stato... brutto, davvero. Mai avremmo voluto mostrarti una cosa del genere. Scusa.» Scusa? Geoffrey aveva detto che l'idea era stata sua. Voleva tagliuzzarmi, farmi a pezzettini, far schizzare il mio sangue sulle pareti. Era disposto a smembrarci una per una, pur di riprendersi il suo mostro preferito. Restò in silenzio, in attesa di una mia reazione. «Forse vuoi stare sola. D'accordo. Posso tenerli lontani, se è ciò che vuoi» disse. Restai immobile. Qualcosa mi sfiorò la spalla. Mi ritrassi, urtando contro le rocce affilate. «Scusa» mormorò. Lo sentii alzarsi, e la luce - rossa dietro le mie palpebre chiuse - iniziò ad affievolirsi mano a mano che si allontanava. Sulla soglia della stanza incontrò qualcuno. «Dov'è?» «Non vuole vedere nessuno. Lasciala stare.» «Non impicciarti mai più, Howe.»
«Credi che voglia farsi consolare da te? Da un umano?» «Io non ho partecipato...» Jared rispose a mezza voce, ma sentii l'eco delle sue parole. «Non ricominciare. Sei uno di noi, Ian. Suo nemico. Hai sentito cos'ha detto, in ambulatorio? Ha urlato "Mostri". È così che ci vede. Non se ne fa niente della tua compassione.» «Dammi la torcia.» Calò il silenzio. Trascorso un minuto, sentii passi lenti percorrere il perimetro della stanza. All'improvviso, una sventagliata di luce riempì di rosso le mie pupille. Mi raggomitolai ancora di più, nel timore che mi toccasse. Sentii un sospiro smorzato, e poi il rumore di qualcuno che si sedeva sulla pietra. Uno scatto, e la luce svanì. A lungo, in silenzio, attesi di sentirlo parlare, ma restò muto come me. Rinunciai ad aspettare e tornai al mio lutto. Ian non mi interruppe. Immobile, nel cuore di quell'anfratto buio, piangevo le anime perdute con un essere umano al mio fianco. 41 La scomparsa Ian restò con me per tre giorni, al buio. A volte si allontanava per recuperare cibo e acqua. All'inizio lui mangiava e io no. Poi, quando capì che non era per mancanza d'appetito che rinunciavo ai pasti, anche lui cominciò a digiunare. Sfruttavo le sue brevi assenze per occuparmi dei bisogni fisici che non potevo ignorare, lieta della presenza del ruscello puzzolente. Con l'andare del digiuno, tali bisogni scomparvero. Rinunciare anche a dormire era impossibile. Il primo giorno mi svegliai con la testa e le spalle rannicchiate in grembo a Ian. Mi ritrassi di scatto, con un gesto così violento da dissuaderlo a riprovarci. Da quel momento dormii accasciata contro le rocce, e quando mi svegliavo tornavo a raggomitolarmi stretta. «Per favore» sussurrò Ian forse al terzo giorno. Fu la prima cosa che disse. Sapevo che davanti a me c'era un vassoio di cibo. Lo avvicinò fino a sfiorarmi una gamba. Mi allontanai, disgustata.
«Per favore, Wanda. Mangia qualcosa.» Mi afferrò un braccio, ma mollò subito la presa quando mi sentì scattare. «Ti prego, non odiarmi. Mi dispiace tanto. Se avessi saputo... li avrei fermati. Non lascerò che accada di nuovo.» Non li avrebbe mai fermati. Era solo uno dei tanti. E, come aveva detto Jared, non aveva mai posto obiezioni. Io ero il nemico. Per quanto fossero capaci di compassione, gli umani riservavano soltanto ai propri simili la poca pietà di cui disponevano. Doc non era capace di fare volontariamente del male a un'altra persona. Dubitavo persino che fosse in grado di assistere a un'operazione tanto cruenta, sensibile com'era. Ma a un verme, a un centopiedi? Perché preoccuparsi dell'agonia di una strana creatura aliena? Perché preoccuparsi di uccidere un piccolo - lentamente, sezionandolo pezzo per pezzo - privo di una bocca umana con cui gridare? «Avrei dovuto dirtelo» sussurrò Ian. Sarebbe cambiato qualcosa se lo avessi saputo, anziché vedere con i miei occhi i resti torturati? Avrei sofferto di meno? «Ti prego, mangia.» Tornò il silenzio. Restammo immobili per un po', forse per un'altra ora. Ian si alzò e se ne andò senza far rumore. Non riuscivo a dare un senso alle mie emozioni. In quel momento odiavo il corpo a cui ero legata. Perché mi sentivo oppressa da ciò che provava lui? Perché soffrivo, circondata dalla solitudine tanto desiderata? Desideravo che il mostro tornasse: che assurdità. Non restai sola a lungo. Forse Ian era andato a cercarlo, forse aveva approfittato proprio della sua assenza, ma il fischio meditabondo che riconobbi, mentre si avvicinava nel buio, apparteneva senz'altro a Jeb. Il fischio si interruppe a meno di un metro da me, accompagnato da uno scatto secco. Un fascio di luce gialla mi bruciò gli occhi. Sbattei le ciglia per ripararli. Jeb posò la torcia a terra e si accovacciò contro la parete accanto alla mia. «Vuoi morire di fame, eh? È questo il piano?» Abbassai gli occhi sul fondo roccioso. Fossi stata sincera con me stessa, avrei dovuto ammettere che il lutto era finito. Avevo superato il dolore. Non conoscevo il piccolo né l'altra anima, non potevo continuare a piangere due estranei per sempre. No, a quel punto ero infuriata.
«Se vuoi morire, ci sono maniere più semplici e veloci.» Come se non l'avessi capito. «Allora portami da Doc» sibilai. Jeb non fu sorpreso di sentirmi parlare. Annuì tra sé, come prevedesse proprio quella risposta. «Pensavi che ci fossimo arresi, Viandante?» La voce di Jeb era fiera e seria come non l'avevo mai sentita. «Il nostro istinto di sopravvivenza non è così debole. È ovvio che vogliamo scoprire il modo di riprenderci le nostre menti. Potrebbe toccare a chiunque tra noi, in qualsiasi momento. Abbiamo perso già troppe persone care. E non è facile. Ogni volta che Doc fallisce è uno strazio, l'hai visto anche tu. Ma questa è la nostra realtà, Wanda. Abbiamo perso una guerra. Stiamo per estinguerci e cerchiamo un modo per salvarci.» Per la prima volta, Jeb si era rivolto a me considerandomi un'anima anziché un essere umano. In realtà avevo avuto il sospetto che la differenza gli fosse stata chiara fin dall'inizio. Era soltanto un mostro più garbato degli altri. Non potevo mettere in dubbio la verità né la logica di ciò che disse. Lo shock si era affievolito, ed ero tornata in me. La sincerità era una mia dote connaturata. Qualcuno, tra gli umani, riusciva a mettersi nei miei panni; Ian, per esempio. Perciò anch'io potevo tentare di considerare le cose secondo il loro punto di vista. Non c'era da stupirsi che cercassero una soluzione nella violenza. Per natura erano incapaci di immaginare altre vie d'uscita. Mi schiarii la voce, rauca dopo giorni di inattività. «Segare un piccolo non salva nessuno, Jeb. Adesso sono tutti morti.» Attese qualche istante. «Non sappiamo distinguere i piccoli dagli adulti.» «No, lo so.» «Nemmeno voi risparmiate i nostri bambini.» «Noi non li torturiamo. Non infliggiamo consapevolmente dolore a nessuno.» «Peggio ancora. Li cancellate.» «Anche voi.» «Certo, anche noi, perché dobbiamo provare. Dobbiamo continuare a combattere. È l'unica arma che abbiamo. L'alternativa è aspettare la morte.» Mi guardò sottecchi.
Sospirai e afferrai la bottiglia d'acqua che Ian aveva posato accanto al mio piede. Bevvi una lunga sorsata, e mi schiarii di nuovo la voce. «Non funzionerà mai, Jeb. Potete continuare a mutilarci, ma non farete altro che uccidere altre creature, di entrambe le specie, Noi non siamo torturatori, non uccidiamo volontariamente, ma i nostri corpi non sono così deboli. Le propaggini che sembrano capelli soffici e d'argento sono più solide dei vostri organi. È così che funziona, vero? Doc fa a fette la mia famiglia, le cui propaggini riducono in poltiglia i cervelli della vostra.» «Sembrano fiocchi di latte.» L'immagine mi provocò un brivido e un conato. «Anche a me viene la nausea, se ci penso» ammise Jeb. «Doc ci perde davvero la testa. Ogni volta che pensa di aver trovato la chiave, succede un disastro. Le ha provate tutte, ma non riesce a impedire che si trasformino in pappa. Le vostre anime non reagiscono né ai sedativi... né al veleno.» La mia voce si riempì di ulteriore disgusto. «Certo che no. La nostra struttura molecolare è completamente diversa.» «Una volta, uno dei vostri si è come accorto di ciò che stava per succedergli. Prima ancora che Doc narcotizzasse il corpo, quella cosina argentea gli ha stritolato il cervello da dentro. Ovviamente ce ne siamo accorti soltanto quando Doc l'ha aperto. Ci è rimasto secco.» Rimasi stranamente impressionata. Che anima temeraria. Io stessa non avevo avuto il coraggio di fare un atto come quello, nemmeno all'inizio, quando pensavo che volessero estorcermi informazioni con la tortura. Non immaginavo che le stessero già cercando a colpi di bisturi. «Jeb, noi siamo creature relativamente piccole, dipendiamo in tutto e per tutto da ospiti che non collaborano. Non avremmo resistito a lungo, senza meccanismi di difesa.» «Non nego che la tua razza non abbia il diritto di difendersi. Ti sto solo dicendo che noi ci ribelleremo in tutti i modi che conosciamo. Non vogliamo far soffrire nessuno. Stiamo imparando, un passo alla volta. Ma sappi che continueremo a combattere.» Ci scambiammo uno sguardo. «Forse allora è davvero il caso di farmi affettare da Doc. A cos'altro vi servo?» «Calma, calma. Non essere sciocca, Wanda. Noi umani non siamo così freddamente razionali. Siamo capaci di una gamma di emozioni molto più ampia della vostra. Sì, forse sono più quelle negative...» Annuii, ma lui non vi fece caso e proseguì il monologo.
«Noi privilegiamo l'individuo. Forse, a ben vedere, mettiamo troppa enfasi sull'individuo. Quante persone, in astratto... anzi, facciamo un esempio, prendiamo Paige... quante persone sacrificherebbe pur di salvare la vita al suo Andy? La risposta non ha senso, se consideri tutti uguali gli esseri umani. «La considerazione di cui godi... be', nemmeno quella ha senso, se la vedi da una prospettiva umana. Ma per qualcuno, tu vali più di un qualsiasi essere umano. Devo ammetterlo, io sono tra quelli. Ti considero un'amica, Wanda. Certo, se tu mi odi, non servirà a niente.» «Io non ti odio, Jeb. Però...» «Però?» «Non penso di poter più vivere qui, Jeb. Non se di nascosto massacrate la mia famiglia. E ovviamente, non posso neanche andarmene. Capisci cosa intendo? Ho altra scelta, a parte il bisturi inutile di Doc?» Rabbrividii. Jeb annuì serio. «Sì, hai ragione. Non è giusto chiederti di sopportare.» «Se posso scegliere, però, preferisco che sia tu a spararmi» sussurrai. Jeb rise. «Rallenta, piccola. Nessuno può sparare né affettare una mia amica. So che dici la verità, Wanda. Se sei convinta che i nostri tentativi siano inutili, allora dovremo ripensarci. Dirò ai ragazzi di sospendere la cattura di ostaggi. E poi, temo che i nervi di Doc siano a pezzi. Più di così non può reggere.» «Ma se fossi tu a mentire» commentai «probabilmente non me ne accorgerei.» «Devi fidarti. Perché io non ti sparerò. E non ti lascerò neanche morire di fame. Mangia qualcosa, ragazza. È un ordine.» Mi sforzai di pensare. Non ero certa che fossimo scesi a un compromesso. Niente, per quel corpo, aveva più senso. La gente che conoscevo mi piaceva, erano miei amici. Amici mostruosi che non riuscivo a mettere nella prospettiva giusta, dominata com'ero dalle emozioni. Jeb afferrò una fetta di pane, la spalmò di miele razziato e me la ficcò in mano. La fetta si sbriciolò in frammenti collosi che mi si appiccicarono alle dita. Sospirai e iniziai a succhiarle. «Brava ragazza! Vedrai che ce la caveremo. Tutto filerà liscio, vedrai. Cerca di pensare in positivo.» «Positivo» mormorai scuotendo la testa incredula. Soltanto Jeb... A quel punto tornò Ian. La sua espressione al vedermi mi riempì di senso di colpa. Era uno sguardo di sollievo e di gioia.
No, non volevo fare del male a nessuno, ma con il dolore che mi ero inflitta avevo ferito anche Ian. Le vite umane erano ingarbugliate da legami assurdi. Che disastro. «Eccoti, Jeb» disse Ian a mezza voce, mentre si sedeva in mezzo a noi. «Jared aveva immaginato che fossi qui.» Mi spinsi verso di lui, con le braccia doloranti dopo la lunga immobilità e cercai la sua mano. «Mi dispiace» sussurrai. Lui strinse le dita sulle mie. «Non devi scusarti.» «Dovevo immaginarlo. Jeb ha ragione. È ovvio che vi ribelliate. Come posso farvene una colpa?» «Da quando ci sei tu, è diverso. Avremmo dovuto smettere.» Ma la mia presenza non aveva fatto altro che rendere ancora più necessario trovare una soluzione. Come fare a strapparmi via senza perdere Melanie? Come cancellarmi, per riportarla indietro? «In guerra tutto è permesso» mormorai, sforzandomi di sorridere. Ian abbozzò un sorriso. «Anche in amore, ricordalo.» «Okay, smettetela» borbottò Jeb. «Non ho ancora finito.» Lo guardai, curiosa. Che altro c'era? «Dunque.» Respirò a fondo. «Cerca di non perdere di nuovo la testa, okay?» disse, rivolgendosi a me. Restai immobile, stringendo forte la mano di Ian. Ian lanciò uno sguardo ansioso a Jeb. «Vuoi dirglielo?» domandò. «Che c'è?» ansimai. «Che altro c'è?» L'espressione di Jeb era impassibile. «Jamie.» Sentire il suo nome capovolse per l'ennesima volta la mia identità. Per tre lunghi giorni ero stata la Viandante, un'anima perduta tra gli umani. All'improvviso, eccomi ridiventare Wanda, un'anima in preda alla confusione, a emozioni umane troppo potenti per poterle controllare. Scattai in piedi trascinando Ian e traballai. Mi girava la testa. «Tranquilla. Ti ho detto di non perdere le staffe, Wanda. Jamie sta bene, ma è molto in ansia. Ha saputo cos'è successo, continua a chiedere di te - è preoccupato da morire, quel ragazzino - e non penso che la cosa gli faccia bene. Sono venuto a chiederti di andare a trovarlo. Ma non puoi, in questo stato, hai un aspetto orribile. Lo sconvolgeresti. Resta qui e mangia qualcosa.» «La gamba?» domandai.
«Ha una leggera infezione» mormorò Ian. «Doc lo ha obbligato al riposo, se no sarebbe venuto a cercarti già da tempo. Anzi, per fermarlo Jared lo ha praticamente legato al letto.» Jeb annuì. «Jared è stato sul punto di venire a prenderti con la forza, ma prima gli ho chiesto di poterti parlare. Sarebbe stato inutile per Jamie, vederti in stato catatonico.» «Lo stanno curando?» Jeb si strinse nelle spalle. «Non c'è niente da curare. Il ragazzo è forte, se la caverà.» «Niente da curare? In che senso?» «È un'infezione batterica» disse Ian. «E non abbiamo più antibiotici.» «Perché non fanno effetto, i batteri sono più furbi delle vostre medicine. Dev'esserci qualcosa di meglio, qualcos'altro.» «No, non abbiamo nient'altro» ribadì Jeb. «Il ragazzo è forte. Deve solo aspettare che la malattia faccia il proprio corso.» «Il... proprio... corso.» Scandii le parole, sbigottita. «Mangia qualcosa» insistette Ian. «Lo spaventerai, se ti vede così.» Mi stropicciai gli occhi cercando di riprendere lucidità. Jamie stava male. Non c'erano medicine con cui curarlo. L'unica possibilità era quella di aspettare che il suo corpo guarisse da sé. E in caso contrario... «No» ansimai. Vidi me stessa sull'orlo della sepoltura di Walter, ad ascoltare il rumore della sabbia che cade nel buio. Mi ribellavo al ricordo. Mi voltai di scatto e iniziai a camminare verso l'uscita. «Aspetta» disse Ian, stringendomi la mano. Seguì il mio passo. «Sapevo che l'avrebbe presa così» brontolò Jeb. «E allora perché gliel'hai detto?» domandò Ian, frustrato. Jeb non rispose. Chissà perché. Era peggio di quanto immaginassi? «È in ambulatorio?» chiesi senza mostrare emozioni. «No, no» mi rassicurò pronto Ian. «È in camera vostra.» Non riuscì a risollevarmi. Ero troppo frastornata. Per Jamie ero disposta anche a tornare nell'ambulatorio puzzolente di sangue. In corridoio, di fronte alla settima grotta, c'era un manipolo di persone. Avevano spostato il paravento e si sporgevano all'interno. Erano presenze familiari, quelli che consideravo amici. E amici di Jamie. Che ci facevano
là? Le condizioni di Jamie erano talmente problematiche da doverle controllare di continuo? «Wanda» disse qualcuno. Era Heidi. «C'è Wanda.» «Lasciatela passare» disse Wes. Mi feci largo tra i presenti senza neanche guardarli. L'unica cosa su cui riuscivo a concentrarmi erano i miei passi. La stanza dal soffitto alto era luminosa. Mi accorsi a stento di Jared, appoggiato alla parete più lontana con le mani raccolte dietro la schiena, posizione che assumeva soltanto quando era davvero preoccupato. Doc era in ginocchio accanto al letto in cui avevo lasciato Jamie. Perché lo avevo lasciato? Il volto di Jamie era rosso e sudato. Gli avevano sfilato il pantalone destro tagliandolo, e strappato la bendatura. Non era estesa come temevo. Né orribile come immaginavo. Era un taglio lungo due centimetri, dal contorno netto. A preoccupare era la tonalità rossa della pelle che lo circondava, gonfia e lucente. «Wanda» ansimò Jamie quando mi vide. «Ah, stai bene. Ah.» Inspirò a fondo. Inciampai e caddi vicino a lui, trascinando Ian con me. Sfiorai la guancia di Jamie e sentii la sua pelle bruciare. Con il gomito toccai appena quello di Doc, quasi senza accorgermene. Lui si allontanò, ma non saprei se per avversione o senso di colpa. «Jamie, piccolo, come stai?» «Che stupido» disse sorridendo. «Davvero uno stupido. Roba da non crederci.» Indicò la gamba. «Che razza di sfortuna.» Trovai una pezza umida sopra il cuscino e gliela passai sulla fronte. «Ti riprenderai, ne sono sicura.» Fui sorpresa di sentire tanto vigore nella mia voce. «Ma certo. Non è niente. Però Jared non mi ha permesso di venire a parlarti.» La sua espressione si fece all'improvviso ansiosa. «Ho saputo che... e, Wanda, tu sai che io...» «Shh. Non pensarci neanche. Se avessi saputo che stavi male sarei tornata prima.» «Non sto male. È soltanto una stupida infezione. Sono contento che tu sia qui, però.» Non riuscivo a sciogliere il nodo in gola. Un mostro? Il mio Jamie? Mai. «Ho sentito che avete dato una lezione a Wes, il giorno che siamo tornati» disse Jamie, cambiando argomento con un gran sorriso. «Avrei voluto
esserci! Scommetto che Melanie si è divertita.» «Sì.» «Sta bene? Non è preoccupata?» «Certo che sì» mormorai, concentrandomi sulla pezza che gli sfiorava la fronte. Melanie. Dov'era? Cercai la sua voce familiare tra i pensieri. Trovai soltanto silenzio. Perché non c'era? La pelle di Jamie bruciava al contatto con le mie dita. Quella sensazione - quel calore anomalo - sarebbe bastata a gettarla nello stesso panico che sentivo io. «Tutto bene?» chiese Jamie. «Wanda?» «Sono... stanca. Scusa, Jamie. Sono... un po' assente.» Mi scrutò con attenzione. «Non mi sembri tanto in forma.» Com'ero ridotta? «È... un po' che non mi lavo.» «Io sto bene. Meglio che tu vada a mangiare, o a riposarti. Sei pallida.» «Non preoccuparti per me.» «Ti porto io da mangiare» disse Ian. «Tu hai fame, ragazzo?» «Ehm... no, non direi.» Lanciai un'occhiata a Jamie. Jamie aveva sempre fame. «Manda qualcun altro» dissi a Ian, stringendogli ancora più forte la mano. «Va bene.» La sua espressione rimase composta, ma era sorpreso e preoccupato. «Wes, andresti a prendere qualcosa da mangiare? Anche per Jamie. Prima che torni ritroverà l'appetito, ci scommetto.» Controllai il viso di Jamie. Malgrado il rossore delle guance, i suoi occhi erano vigili. Potevo concedermi qualche minuto di lontananza da lui. «Jamie, ti dispiace se vado a lavarmi la faccia? Mi sento un po'... impataccata.» Il tono falso della mia voce lo insospettì. «Certo che no.» Mi rialzai, portando Ian con me. «Torno subito. Stavolta dico sul serio.» Sorrise della mia battuta fiacca. In corridoio era rimasto soltanto Jeb; gli altri se n'erano andati, forse rassicurati dal presunto miglioramento di Jamie. Jeb chinò la testa di lato, curioso, mentre cercava di capire che intenzioni avessi. Era sorpreso di vedermi abbandonare Jamie così presto, e così all'improvviso. In compagnia di Ian, passai oltre il suo sguardo inquisitorio.
Tornammo indietro, fino alla grotta su cui si affacciava il groviglio di gallerie che portavano alle stanze. Anziché proseguire verso la piazza principale, scelsi un corridoio a caso e mi ci infilai, con Ian. Era deserto. «Wanda, cosa...» «Ho bisogno del tuo aiuto, Ian.» La mia voce era ansiosa, frenetica. «Tutto ciò che vuoi. Lo sai.» Presi il suo viso tra le mani e lo guardai negli occhi. L'oscurità ne celava quasi del tutto l'azzurro. «Ho bisogno che mi baci, Ian. Subito. Per favore.» 42 La costrizione Ian restò a bocca aperta. «Tu... cosa?» «Poi ti spiego. Non è giusto nei tuoi confronti, ma... per favore, baciami.» «Ma così rischio di sconvolgerti, di fare arrabbiare Melanie...» «Ian!» ribattei. «Per favore!» Ancora confuso, mi prese per i fianchi e mi attirò a sé. Era talmente preoccupato che dubitavo potesse funzionare. Io dell'atmosfera romantica non sapevo che farmene, ma forse a lui serviva. Chiuse gli occhi e si chinò su di me, con un gesto meccanico. Le sue labbra sfiorarono con delicatezza le mie, poi si ritrasse e mi osservò con la stessa preoccupazione di prima. Niente. «No, Ian. Baciami sul serio. Come... come se volessi prenderti uno schiaffo. Capisci?» «No. Cosa succede? Prima spiegamelo.» Gli gettai le braccia al collo. Che strano: non sapevo affatto come comportarmi. Mi sollevai sulle punte e lo tirai verso di me, fino a portare la bocca all'altezza della sua. Fossimo stati un'altra specie, non avrebbe funzionato. Un'altra mente non si sarebbe lasciata sopraffare così facilmente dal corpo. Le priorità delle altre specie erano più chiare. Ma Ian era umano, e il suo corpo reagì. Premetti la bocca contro la sua, stringendolo forte quando sentii che la sua prima reazione fu quella di spingermi via. Ricordai come aveva usato le labbra sulle mie, e cercai di imitarlo. La sua bocca si aprì, e mi sentii stranamente fiera del mio successo. Presi il suo labbro inferiore fra i denti,
e sentii un gemito di sorpresa. A quel punto non dovevo più sforzarmi. Con una mano Ian intrappolò il mio viso, con l'altra scese alla base della mia schiena, stringendomi così stretta da impedirmi quasi di respirare. Anche a lui però mancava l'aria. Il suo respiro si mescolò al mio. Sentii la parete di roccia toccarmi la schiena. La sfruttò per avvicinarmi ancora di più a sé. Non c'era parte di me che non fosse in contatto con una parte di lui. Eravamo soltanto noi due, talmente vicini da poterci confondere. Soltanto noi. Soli. Ian capì subito quando rinunciai. Probabilmente se lo aspettava, non era poi così schiavo del proprio corpo. Si rilassò non appena allentai la presa, ma senza allontanare il viso dal mio. Lasciai cadere le braccia, e lui lentamente si staccò da me e posò con delicatezza le mani sulle mie spalle. «Spiega» disse. «Non c'è più» sussurrai, con il fiatone. «Non la trovo. Neanche adesso.» «Chi, Melanie?» «Non la sento! Ian, come posso tornare da Jamie? Capirà che sto mentendo! Come posso dirgli adesso che ho perso sua sorella? Sta male! Non posso dirglielo! Non guarirà più! Io...» Ian mi chiuse le labbra con le dita. «Shh. Shh. Okay. Riflettiamo. Quand'è stata l'ultima volta che l'hai sentita?» «Oh, Ian! È stato subito dopo... l'ambulatorio. Ha cercato di giustificarli... e le ho urlato contro, e... l'ho cacciata via! Da quel momento ho smesso di sentirla. Non la trovo più!» «Shh» ripeté. «Con calma. Okay. Ma cosa vuoi davvero? So che non ti va di mandare in crisi Jamie, ma comunque vada lui si riprenderà. Perciò, pensaci, non sarebbe meglio per te, se...» «No! Non posso cancellare Melanie! Non posso! È sbagliato! Diventerei un mostro anch'io!» «Okay, okay! Okay. Calma. Quindi dobbiamo trovarla?» Annuii con decisione. Lui fece un altro respiro profondo. «Allora hai bisogno di... perdere davvero il controllo, no?» «In che senso?» Temevo di conoscere la risposta. Baciare Ian era una cosa - persino piacevole, a ben vedere, se non fossi
stata così preoccupata - ma potevo arrivare a qualcosa di più... complicato? Mel si sarebbe infuriata vedendomi usare il suo corpo in quella maniera. Dovevo farlo, per ritrovarla? Era giusto, nei confronti di Ian? Decisamente no. «Torno subito» mi promise lui. «Resta qui.» Avrei voluto seguirlo, vedere dove andava e cosa faceva. Ma non avevo tempo. Jamie mi aspettava, pieno di domande a cui non potevo rispondere mentendo. In fin dei conti stava aspettando Melanie, non me. Come potevo aver fatto una cosa del genere? E se fosse sparita davvero? "Mel, Mel, Mel, torna! Melanie, Jamie ha bisogno di te. Non di me: di te. Sta male, Mel. Mel, mi senti? Jamie sta male!" Parlavo da sola. Nessuno mi ascoltava. Mi tremavano le mani, di paura e di stanchezza. Sentivo che l'ansia stava per farmi esplodere. Finalmente sentii dei passi. E delle voci. Ian non era solo. Sprofondai nella confusione. «Vedilo come... un esperimento» disse Ian. «Sei pazzo?» rispose Jared. «È una specie di scherzo di pessimo gusto?» Ecco come voleva farmi perdere il controllo. Mi sentii avvampare di calore come Jamie. Cos'aveva intenzione di fare Ian? Volevo scappare, trovare un nascondiglio ancora più inaccessibile dell'ultimo, un luogo in cui nessuno mai potesse trovarmi, ma le gambe mi tremavano, ero bloccata. Ian e Jared apparvero nella stanza in cui si incontravano le gallerie. Il volto di Ian era impassibile; teneva una mano sulla spalla di Jared e lo guidava, quasi spingendolo. Jared fissava Ian irritato e perplesso. «Di qui» lo incoraggiò, costringendolo a venirmi incontro. Jared vide me e la mia espressione mortificata, e restò immobile. «Wanda, che succede?» Trapassai Ian con un'occhiata di rimprovero, poi cercai di guardare in faccia Jared. Non riuscii ad affrontarlo, e abbassai lo sguardo. «Ho perso Melanie» sussurrai. «L'hai persa?» Annuii, in preda allo sconforto. Rispose con rabbia e cattiveria. «Come?» «Non so. L'ho costretta a tacere... ma lei torna sempre... è sempre tornata... ora non la sento... e Jamie...»
«È sparita?» chiese con tono angosciato. «Non lo so. Non la trovo più.» Respiro profondo. «Perché Ian dice che devo baciarti?» «Non devi baciare me» risposi, con un filo di voce, che io stessa sentii per miracolo. «Bacia lei. Niente l'ha sconvolta più di quando ci hai... baciate. Niente l'ha fatta più tornare in superficie in quel modo. Forse... No. Non sei obbligato. Cercherò di raggiungerla io.» A testa bassa, vidi i suoi piedi avanzare verso di me. «Secondo te, se la bacio...?» Non riuscii nemmeno ad annuire. Cercai di sciogliere il groppo in gola. Mani familiari mi accarezzarono il collo, seguendone il profilo fino alle spalle. Il mio cuore batteva, così forte che temevo potesse sentirlo anche Jared. Era davvero imbarazzante costringerlo a toccarmi così. E se si fosse convinto che era un trucco, che l'idea era mia e non di Ian? Chissà se Ian era rimasto a guardare. Quanto avrebbe sofferto? Come mi aspettavo, una mano percorse il mio braccio fino al polso, lasciando dietro di sé un sentiero di fuoco. L'altra si chiuse sul mio mento, e mi alzò la testa. La sua guancia premette contro la mia, rovente al contatto, e Jared sussurrò al mio orecchio. «Melanie. So che ci sei. Torna da me.» Ritrasse lentamente la guancia, e inclinò la testa così da portare la bocca al di sopra della mia. Cercò di baciarmi con delicatezza. Sentivo che ci provava. Ma le sue intenzioni, per l'ennesima volta, andarono in fumo. C'era fuoco ovunque, perché lui era ovunque. Le mani percorrevano la mia pelle. Le labbra assaggiarono ogni centimetro del mio viso. Sbattei con la schiena contro la parete di roccia, ma non sentii dolore. L'unica sensazione era il calore rovente. Intrecciai le dita ai suoi capelli e lo strinsi forte. Facendo leva sulla parete, gli misi le gambe attorno alla vita. La sua lingua era stretta alla mia, e non c'era uno solo dei miei pensieri che non fosse invaso da un'ondata di desiderio. Allontanò le labbra e tornò al mio orecchio. «Melanie Stryder!» A quella distanza fu un ruggito, quasi un urlo. «Tu non mi lascerai. Mi ami o no? Dimostralo! Dimostralo! Dannazione, Mel! Torna qui!»
Le sue labbra si avventarono di nuovo sulle mie. "Ahhh." Un tenue sbadiglio, nella mia testa. Non badai nemmeno a salutarla. Ero in fiamme. Il fuoco giunse fino a lei, fino all'angolino in cui sonnecchiava, quasi senza vita. Strinsi la maglietta di Jared e l'alzai. L'iniziativa veniva dal mio corpo, non da me. Le mani di Jared, intanto, ardevano sulla mia schiena. "Jared?" sussurrò Melanie. Cercò di orientarsi, ma la mente che condividevamo era troppo disorientata. Sentii gli addominali di Jared sotto il palmo delle mie mani. "Cosa? Dove..." abbozzò Melanie. Liberai la bocca per prendere fiato, e sentii le labbra di Jared ustionarmi il collo. Affondai il viso tra i suoi capelli per sentirne il profumo. Jared! Jared! no! Lasciai che scorresse nelle mie braccia, sentivo che doveva farlo. Le mie mani si fecero più frenetiche. Le dita affondarono nella pelle, e spinsero contro Jared con tutta la forza che potevano. «No!» urlò Melanie con le mie labbra. Jared le prese le mani, poi mi afferrò prima che cadessi. Avevo le vertigini, confusa dai segnali contrastanti che il corpo mi dava. «Mel? Mel!» «Che diamine stai facendo?» Jared sospirò di sollievo. «Sapevo che ce l'avresti fatta! Ah, Mel!» La baciò di nuovo, baciò le labbra che era lei a controllare, ed entrambe sentimmo il sapore delle lacrime che gli rigavano il volto. Lei lo morse. Jared fece un salto, e io scivolai a terra, accasciandomi su me stessa. Lui scoppiò a ridere. «Eccola, la mia ragazza. È ancora lì, Wanda?» «Sì» ansimai. "Che diamine succede, Wanda?" strillò Melanie dentro di me. "Dove ti eri cacciata? Ti rendi conto di cosa ho passato per trovarti?" "Sì, ho visto, stavi proprio soffrendo." "Sarà una vera sofferenza" commentai. Già la sentivo tornare. Come un tempo... Più veloce che poteva, passò in rassegna i miei pensieri. "Jamie?" "Ho cercato di dirtelo in tutti i modi. Ha bisogno di te." "Perché non siamo da lui?" "Perché forse è un po' troppo giovane per assistere a certe scene."
Continuò a osservare. "Wow. Anche Ian. Per fortuna me lo sono perso." "Ero davvero preoccupata. Non sapevo che fare." "Be', dai. Andiamo." «Mel?» domandò Jared. «È qui. Furiosa. Vuole vedere Jamie.» Jared mi cinse i fianchi e mi aiutò ad alzarmi. «Puoi arrabbiarti quanto ti pare, Mel. L'importante è che resti fra noi.» "Per quanto tempo sono sparita?" "Tre giorni." La sua voce si fece tenue all'improvviso. "Dove sono stata?" "Non lo sai?" "Non ricordo... niente." Rabbrividimmo. «Stai bene?» domandò Jared. «Più o meno.» «È stata lei, prima, a parlare con me - ad alta voce?» «Sì.» «Può... puoi rifarlo?» Sospirai. Ero esausta. «Posso provarci.» Chiusi gli occhi. "Riesci a scavalcarmi?" le chiesi. "Riesci a parlare con lui?" "Io... Come? Dove?" Cercai di farmi piccola piccola. «Avanti» mormorai. «Da questa parte.» Malgrado gli sforzi, Melanie non trovava l'uscita. Le labbra di Jared calarono di nuovo con forza sulle mie. Aprii gli occhi, sbalordita. Trovai i suoi, scintillanti d'oro, a mezzo centimetro. Melanie arretrò con un gesto secco. «E piantala! Non toccarla!» Con il sorriso di Jared spuntarono anche le rughe al margine degli occhi. «Ehi, piccola.» "Non c'è niente da ridere." Cercai di riprendere fiato. «Non sta ridendo.» Non smise di abbracciarmi. Di abbracciarci. Sbucammo nel punto di incontro delle gallerie, ma non c'era nessuno. «Questo è un avvertimento, Mel» disse Jared, con un gran sorriso. Provocante. «Meglio che tu stia dove sei. Sappi che potrei fare davvero qualsiasi cosa pur di riaverti.» "Digli che se ti tocca ancora in quel modo lo strangolo" rispose con una minaccia altrettanto ironica. «Sta minacciando di ucciderti» risposi. «Ma penso dica per scherzo.»
Jared scoppiò a ridere, stordito dalla gioia. «Tu sei sempre così seria, Wanda.» «Le tue battute non fanno ridere» mormorai. Non me. Jared continuò a ridere. "Ah" disse Melanie. "Stai soffrendo." "Cercherò di non darlo a vedere a Jamie." "Grazie per avermi ritrovata." "Non ti cancellerò, Melanie. Scusa se più di così non posso fare, per te." "Grazie." «Che dice?» «Stiamo... facendo la pace, tutto qui.» «Perché, prima, quando le hai dato il permesso, non è riuscita a parlare?» «Non lo so, Jared. Non c'è spazio a sufficienza per entrambe, davvero. Non sono in grado di farmi da parte. È come... non come trattenere il respiro. È come cercare di fermare il battito del cuore. Non posso impedire a me stessa di esistere.» Jared non rispose, e il mio petto sobbalzò di dolore. Che gioia per lui, se fossi riuscita a capire come cancellarmi! Melanie desiderava... no, non contraddirmi, ma farmi sentire meglio; cercava le parole giuste per alleviare la mia sofferenza. Ma non riusciva a trovarle. "Ma Ian resterebbe sconvolto. Anche Jamie. Jeb sentirebbe la tua mancanza. Hai tanti amici qui..." "Grazie." Ero lieta di tornare nella nostra stanza. Avevo bisogno di distrarmi, prima di scoppiare in lacrime. Non era il momento per l'autocommiserazione. Dovevo affrontare problemi più importanti. 43 L'agitazione Ero immobile come una statua. Le mani in grembo, il volto inespressivo, il respiro troppo debole per sollevarmi il petto. Ma dentro di me un ciclone mi stava facendo a pezzi. Riportare indietro Melanie non era servito a salvare Jamie. I miei sforzi non erano bastati. L'anticamera era affollata. Jared, Kyle e Ian erano tornati a mani vuote
dalla loro disperata missione. Tutto ciò che erano riusciti a scovare, rischiando la vita per tre giorni, era un frigo portatile con del ghiaccio. Trudy spezzava i cubetti e li posava sulla fronte e sul petto di Jamie. Ma anche se il ghiaccio abbassava una febbre ormai fuori controllo, quanto sarebbe durato, prima di sciogliersi tutto? Un'ora? Di più? Di meno? Quanto, prima che Jamie ricominciasse a morire? Avrei dovuto occuparmi io del ghiaccio, ma non riuscivo a muovermi. «Niente?» mormorò Doc. «Avete controllato...» «Palmo a palmo» lo interruppe Kyle. «Non è come i sedativi, le droghe: parecchia gente aveva buoni motivi per tenerli nascosti. Gli antibiotici erano sempre a portata di mano. Non ce ne sono più, Doc.» Jared fissava muto il ragazzino dal viso rovente, sdraiato a letto. Ian comparve al mio fianco. «Non prendertela così» sussurrò. «Se la caverà. È un duro.» Non riuscivo a reagire. Quasi non sentii neanche le sue parole. Doc si inginocchiò accanto a Trudy e abbassò il mento a Jamie. Con una ciotola prelevò un po' d'acqua ghiacciata dal frigo, e la lasciò colare nella bocca del ragazzo. Lo sentimmo deglutire con un rumore greve, ma i suoi occhi restarono chiusi. "Così non basta" gridò Melanie. Se io ero disperata, lei era piena di rabbia. "Ci hanno provato." "Provarci non cambia nulla. Jamie non morirà. Devono uscire." "A che pro? Anche se trovassero i vostri vecchi antibiotici, quante probabilità ci sono che facciano al caso suo? Già funzionavano solo nella metà dei casi. Jamie non ha bisogno delle vostre medicine, gli serve qualcosa di più potente. Qualcosa che funzioni davvero..." Il mio respiro accelerò. "Ha bisogno delle mie medicine." Restammo entrambe stupite di fronte a un'idea così ovvia. Così semplice. Una crepa schiuse le mie labbra di pietra. «Jamie ha bisogno di medicine vere. Quelle che solo le anime possiedono. Dobbiamo procurargliene.» Doc mi guardò accigliato. «Non ne conosciamo gli effetti, né come funzionano.» «Importa qualcosa?» Un po' della rabbia di Melanie traspariva dalla mia voce. «Funzionano. Possono salvarlo.» Jared restò a fissarmi. Sentivo addosso anche gli occhi di Ian, quelli di
Kyle e degli altri presenti. Ma vedevo soltanto Jared. «Non possiamo prenderle, Wanda» disse Jeb, in tono sconfitto. Si era arreso. «Possiamo entrare soltanto in luoghi deserti. I vostri ospedali sono sempre pieni. Ventiquattr'ore al giorno. Troppi occhi. Sarebbe un danno per Jamie, se catturassero qualcuno di noi.» «Ovvio» aggiunse Kyle, duro. «I centopiedi saranno ben contenti di guarirlo, quando scopriranno che siamo qui. E di trasformarlo in uno di loro. È questo che vuoi?» Mi voltai a guardarlo in cagnesco. Ian posò una mano sulla mia spalla, come a trattenermi. Forse non ero pronta ad aggredire Kyle, chissà. Ero veramente fuori di me. Quando parlai, la mia voce suonò distaccata. «Deve esserci un modo.» Jared annuì. «Magari un posto piccolo. Il fucile farebbe troppo rumore, ma se fossimo in superiorità numerica, potremmo usare i coltelli...» «No.» Allargai le braccia, colta di sorpresa. «Non è ciò che intendevo. Senza uccidere...» Non mi ascoltarono nemmeno. Jeb replicò a Jared. «Non c'è modo, ragazzo. Chiamerebbero i Cercatori. Anche se fosse un'azione fulminea, un gesto del genere basterebbe a mobilitarli. Sarebbe un miracolo farcela in poco tempo. E ci seguirebbero...» «Aspetta. Non potreste...» Ma continuarono a ignorarmi. «Neanch'io voglio che il ragazzo muoia, ma non possiamo mettere a repentaglio la vita di tutti per una persona sola» disse Kyle. «La gente muore: succede. Non possiamo impazzire per salvare un ragazzino.» Avrei voluto strozzarlo. Io, non Melanie. Io desideravo vedere diventare cianotico il suo volto. Melanie era d'accordo, ma sentivo che gran parte della violenza questa volta proveniva da me. «Dobbiamo salvarlo» ribadii, a voce più alta. Jeb mi guardò. «Non possiamo andare da loro e chiedere "per favore", piccola.» In quel momento ebbi un'altra idea, semplice e ovvia. «Voi non potete, ma io sì.» Nella stanza calò un silenzio di tomba. Fui affascinata dal piano che avevo in testa. Era perfetto. Ne parlai tra me e con Melanie. Che restò impressionata. Poteva funzionare. Potevamo salvare Jamie. «Non sospetteranno mai di me. Niente affatto. Persino se fossi una ma-
ledetta bugiarda, non avrebbero alcun sospetto. Né alcuna ragione per diffidare. Sono una di loro. Farebbero qualsiasi cosa pur di aiutarmi. Dirò che mi sono fatta male durante un'escursione, o qualcosa del genere... poi troverò il modo di restare da sola e prenderò tutte le medicine che riesco a nascondere. Pensateci! Medicine per curarvi tutti. Per anni. E Jamie si salverebbe!» Perché non ci avevo pensato prima? Forse persino Walter avrebbe potuto farcela... Alzai lo sguardo, piena d'entusiasmo. Era un piano perfetto! Talmente perfetto, talmente ovvio per me che impiegai del tempo a decifrare le loro espressioni. Odio. Sospetto. Paura. Persino Jeb mi guardava con diffidenza. Ogni volto diceva no. "Sono pazzi? Non capiscono che così faremmo il bene di tutti?" "Non mi credono. Temono che crei problemi a loro e a Jamie!" «Vi prego» sussurrai. «È l'unico modo per salvarlo.» «È impaziente, vero?» accusò Kyle. «Ne ha passato di tempo ad aspettare, non pensate?» Combattei di nuovo contro il desiderio di strozzarlo. «Doc?» implorai. Lui evitò di guardarmi negli occhi. «Anche se ci fosse un modo, Wanda... non potrei fidarmi di medicine che non so usare. La scorza di Jamie è dura. Il suo organismo ce la farà.» «Usciremo ancora, Wanda» mormorò Ian. «Troveremo qualcosa. E non torneremo finché non ci saremo riusciti.» «Non basta.» I miei occhi erano gonfi di lacrime. Cercai l'unica persona che forse provava un dolore intenso quanto il mio. «Jared. Tu lo sai, tu sai che non permetterei a nessuno di fare del male a Jamie. Tu sai che posso farcela. Ti prego.» Per qualche istante incrociò il mio sguardo. Poi scrutò, uno per uno, i volti di tutti i presenti e poi, sulla soglia, quelli del pubblico silenzioso e diffidente come Kyle. I miei amici mescolati ai nemici, tutti con la stessa espressione di Kyle. Jared osservò la seconda fila, per me invisibile. Poi abbassò lo sguardo su Jamie. Nella stanza non volava una mosca. «No, Wanda» disse sottovoce. «No.» Ci fu un sospiro di sollievo generale. Mi tremarono le ginocchia. Caddi in avanti e mi liberai dalla presa di Ian. Strisciai fino a Jamie e con una gomitata spinsi via Trudy. Presi l'im-
pacco dalla sua fronte e aggiunsi altro ghiaccio. Non incrociai nessuno degli sguardi che mi sentivo addosso. E poi, ero accecata dalle lacrime. «Jamie, Jamie, Jamie» singhiozzai. «Jamie, Jamie, Jamie.» Non riuscivo a fare altro che pronunciare il suo nome e armeggiare con i cubetti di ghiaccio, senza sosta, finché non veniva il momento di cambiarli. Li sentii uscire, pochi alla volta. Sentii le loro voci, perlopiù arrabbiate, svanire lungo il corridoio. Le parole erano incomprensibili. "Jamie, Jamie, Jamie..." «Jamie, Jamie, Jamie...» Ian mi si inginocchiò accanto quando la stanza fu semivuota. «Lo so che tu non... però, Wanda, se ci provi ti uccidono» sussurrò. «Dopo ciò che è successo... in ambulatorio. Temono che tu abbia deciso di distruggerti... Comunque, Jamie guarirà. Devi crederci.» Gli diedi le spalle, e se ne andò. «Scusa, ragazza mia» mormorò Jeb prima di uscire. Anche Jared se ne andò. Non lo sentii uscire, ma avvertii la sua assenza. Non voleva bene a Jamie quanto noi, e l'aveva dimostrato. Era giusto che se ne andasse. Doc restò a guardare inerme. Lo ignorai. La luce del giorno svanì lenta, divenne prima arancione e poi grigia. Il ghiaccio si sciolse e finì. Jamie iniziò a bruciare tra le mie mani. «Jamie, Jamie, Jamie.» La mia voce era rauca e spezzata, ma non riuscivo a fermarmi. «Jamie, Jamie, Jamie...» La stanza diventò scura. Non vedevo più il volto di Jamie. Stava per lasciarmi, di notte? Il ricordo che avevo del suo viso era l'ultimo da vivo? Il suo nome si era trasformato in un sussurro, tanto lieve che potevo sentire Doc che russava piano. Passavo il panno umido sul suo corpo senza sosta. Sentii la febbre calare. Iniziai a pensare che non sarebbe morto quella notte. Tuttavia, sapevo che l'avrei perso nel giro di uno, due giorni. E poi, sarei morta anch'io. Non avrei tollerato di vivere senza Jamie. "Jamie, Jamie, Jamie..." gemeva Melanie. "Jared non si è fidato di noi." Il lamento proveniva da entrambe. All'improvviso Doc urlò qualcosa. Ma fu un urlo strano, come soffocato da un cuscino. Non riuscii a mettere subito a fuoco le sagome che si muovevano nel buio. Doc si dimenava in modo strano e sembrava troppo grosso, come aves-
se troppe braccia. Era terrificante. Mi chinai sul corpo inerte di Jamie per proteggerlo. Non potevo scappare lasciandolo indifeso. Poi le braccia cessarono di agitarsi. Doc si accasciò a terra, poi riprese a russare in modo più forte di prima. La sagoma si divise e una seconda figura si alzò, al buio. «Andiamo» sussurrò Jared. «Non c'è tempo da perdere.» Il mio cuore stava per esplodere. "Si fida." Balzai in piedi, costringendo le ginocchia irrigidite a raddrizzarsi. «Che hai fatto a Doc?» «Cloroformio. Non durerà a lungo.» Di scatto mi voltai a versare dell'acqua tiepida addosso a Jamie, inzuppando vestiti e materasso. Non fece una piega. Così sarebbe rimasto al fresco, forse, fino al risveglio di Doc. «Seguimi.» Fui la sua ombra. Ci muovevamo in silenzio. Jared camminava a filo delle pareti, io lo imitavo. Si fermò quando giungemmo sotto la luce della grotta principale illuminata dalla luna. Era deserta e immobile. A quel punto riuscii a vedere Jared. Portava il fucile a tracolla e la fodera di un coltello alla cintura. Mi mostrò le mani, stringeva un brandello di tessuto nero. Capii subito. Il sussurro uscì di corsa dalle mie labbra: «Sì, bendami». Annuì, e io chiusi gli occhi mentre li copriva con il panno. Li avrei chiusi comunque. Il nodo era semplice e stretto. Quando finì, iniziai a ruotare su me stessa, una, due volte... Mi fermò. «Così va bene» disse. Poi mi afferrò e mi sollevò da terra. Restai senza fiato, quando mi prese in spalla. Con le braccia mi stringeva le gambe al petto e aveva già iniziato a camminare. Rimbalzavo a ogni passo, strisciando il viso contro la sua camicia. Non capivo dove stessimo andando; non provai nemmeno a indovinare. Mi concentrai soltanto sui rimbalzi della sua andatura, contando i passi. Venti, ventuno, ventidue, ventitré... Lo sentii piegare il busto in corrispondenza di una discesa e di una salita. Mi sforzai di non pensarci. Quattrocentododici, -tredici, -quattordici... Capii subito quando giungemmo all'uscita. Fui investita dall'odore secco
e pulito dell'aria del deserto. Era calda, malgrado fosse all'incirca mezzanotte. Mi aiutò a scendere e a rimettermi in equilibrio. «Il terreno è piatto. Pensi di riuscire a correre bendata?» «Sì.» Mi prese un gomito con delicatezza e si mise in movimento. Corremmo fino a perdere il fiato. «Se... riusciamo a raggiungere... la jeep... saremo... al sicuro.» La jeep? Sentii una strana ondata di nostalgia. L'ultima volta che Mel aveva visto la jeep, era stato prima del disastroso viaggio verso Chicago, non immaginava che esistesse ancora. «E se... non ci riusciamo?» domandai. «Ci prenderanno... e ti uccideranno. Ian ha... ragione.» Cercai di correre più forte. Non per salvarmi la vita, ma perché ero l'unica in grado di salvarla a Jamie. Inciampai per l'ennesima volta. «Meglio togliere la benda. Andrai... più veloce.» «Sicuro?» «Non... guardarti attorno, okay?» «Promesso.» Mi sciolse il nodo sulla nuca. Quando il panno cadde dagli occhi, lo vidi ai miei piedi. Era un altro mondo. La luna splendeva, la sabbia era morbida e pallida. Jared si diede lo slancio con le braccia e scattò più veloce. Per me fu più facile seguirlo. Il mio corpo era abituato alle corse lunghe. Ritrovai il mio passo preferito, da mezzofondista. Difficile mantenerlo regolare, ma ero disposta a crollare nel tentativo. «Senti... qualcosa?» domandò Jared. Tesi le orecchie. Soltanto due coppie di piedi che correvano sulla sabbia. «No.» Grugnì d'approvazione. Ecco perché aveva rubato il fucile. Senza, non potevano fermarci da lontano. Impiegammo un'altra ora. A quel punto avevamo rallentato entrambi. La mia bocca ardeva di sete. Non avevo ancora alzato lo sguardo da terra, perciò mi stupii quando una mano di Jared mi coprì gli occhi. Incespicai e rallentai insieme a lui. «Ci siamo quasi. Ancora qualche passo...» Senza scoprirmi gli occhi mi spinse in avanti. Sentivo l'eco dei nostri
passi. Il deserto non era piatto. «Sali.» Le sue mani sparirono. Mi ritrovai comunque al buio. Un'altra grotta. Non tanto profonda. Se mi fossi voltata, sarei riuscita a vederne l'ingresso. Ma non lo feci. La jeep era rivolta verso il buio. Era identica a come la ricordavo, malgrado non l'avessi mai vista. Aggrappandomi alla portiera salii sul sedile. Jared era già in posizione. Si chinò verso di me e mi bendò di nuovo. Restai immobile per aiutarlo. Il rombo del motore mi spaventò. Sembrava pericoloso. Erano in troppi, a quel punto, a non doverci scoprire. Una breve retromarcia, e sentii il vento schiaffeggiarmi. Dal retro della jeep veniva un rumore strano, che Melanie non ricordava. «Destinazione Tucson» disse Jared. «Non ci andiamo mai, è troppo vicina. Ma non abbiamo tempo per cercare altrove. Conosco un piccolo ospedale, non troppo in centro.» «Non è il Saint Mary?» Percepì il nervosismo nella mia voce. «No, perché?» «Conosco qualcuno che ci lavora.» Restò in silenzio per qualche istante. «Ti riconosceranno?» «No. Nessuno sa chi sono. Tra noi non esistono i... ricercati. Non nel senso che intendete voi.» «Okay.» Ma ciò mi costrinse a pensare al mio aspetto. Prima che potessi dar voce alle preoccupazioni, mi prese la mano e la strinse attorno a un piccolissimo oggetto. «Questo tienilo con te.» «Cos'è?» «Se scoprono che sei... con noi, è probabile che... inseriscano qualcun altro nel corpo di Mel. A quel punto mettiti in bocca questo e mordilo forte.» «È veleno?» «Sì.» Ci pensai per un momento. E poi non potei fare a meno di ridere. I miei nervi erano a pezzi per la preoccupazione. «Non è una battuta, Wanda» disse Jared arrabbiato. «Se non ce la fai, ti riporto indietro.» «No, no, ce la faccio.» Cercai di ricompormi. «So di potercela fare. Per questo rido.»
Rispose brusco. «Continuo a non capire.» «Non vedi? Non sarei disposta a sacrificarmi per milioni di miei fratelli. Nemmeno per i miei... figli. Ho sempre avuto troppa paura di morire per sempre. Ma, per un ragazzino alieno, so di poterlo fare...» Scoppiai di nuovo a ridere. «Non ha senso. Ma tu non preoccuparti. Sono disposta a morire pur di proteggere Jamie.» «E sono sicuro che ce la farai.» Ripensai al mio aspetto fisico. «Jared, in questo stato non so se riuscirò a entrare in un ospedale.» «Ci sono vestiti migliori nascosti assieme a... veicoli meno appariscenti. Stiamo andando a prenderli. Aspetta cinque minuti.» Non era ciò che intendevo, ma aveva ragione. I vestiti che indossavo non erano certo un aiuto. Evitai di insistere. Prima dovevo guardarmi allo specchio. La jeep si fermò, e Jared mi tolse la benda. «Non sei obbligata ad abbassare lo sguardo» mi disse, quando chinai automaticamente la testa. «Non c'è niente qui che ci possa smascherare, nel caso scoprano il nascondiglio.» Non era una grotta, ma quel che risultava da una grossa frana. Tra i massi più grandi qualcuno aveva scavato con cura interstizi invisibili che a prima vista non celavano altro che terra e pietre. La jeep era parcheggiata a filo della roccia. Così vicina che per scendere fui costretta a passare dal retro. C'era qualcosa di strano attaccato al paraurti, catene, e due teloni sporchissimi e sbrindellati. «Vieni» disse Jared, e mi fece strada attraverso una fenditura buia, poco più bassa di lui. Rimosse un telo coperto di sabbia, color terra, e frugò nel mucchio di vestiti che vi era nascosto. Ne estrasse una maglietta, morbida e pulita, con le etichette ancora attaccate. Le strappò e me la offrì. Poi andò alla ricerca di un paio di pantaloni color cachi. Controllò la taglia, e mi diede anche quelli. «Mettiteli.» Per qualche istante non seppi che fare, mentre Jared, impaziente, si chiedeva quale fosse il problema. Arrossii e gli diedi le spalle. Mi sfilai la maglietta sporca e la sostituii più in fretta che potevo. Lo sentii schiarirsi la voce. «Ah. Vado, ehm, a prendere la macchina.» E si allontanò. Mi levai anche i pantaloni da ginnastica, tagliati e rattoppati, per infilarmi quelli nuovi e puliti. Le mie scarpe non erano in buono stato, ma nean-
che troppo appariscenti. Tutto sommato non era facile trovare un paio di scarpe comode. Potevo fingere di esserci affezionata. Un altro motore - più silenzioso di quello della jeep - prese vita. Mi voltai e vidi una berlina modesta e anonima spuntare da un varco buio, sotto un masso. Jared scese dall'auto e con le catene agganciò al paraurti i teloni della jeep. Poi venne verso di me, e quando vidi che il peso dei teli cancellava le impronte delle gomme sulla terra, capii a cosa servissero. Jared si allungò ad aprirmi la portiera. Sul sedile del passeggero c'era uno zaino. Era appiattito e vuoto. Mi sarebbe stato utile. «Andiamo.» «Aspetta» dissi. Mi chinai a guardarmi nello specchietto. Cattive notizie. Cercai di nascondere la guancia con una ciocca di capelli, ma non fu sufficiente. Mi sfiorai il volto, irritata. «Jared. Non posso entrare con la faccia ridotta così.» Indicai la lunga cicatrice spezzata sulla pelle. «Cosa?» «È impossibile che un'anima si tenga una cicatrice del genere senza curarsela. Si chiederanno da dove vengo. Mi faranno domande.» Prima strabuzzò gli occhi, poi si rabbuiò. «Forse dovevi pensarci prima che ti aiutassi a uscire. Se torniamo a casa ora, penseranno che fosse un tuo trucco per scoprire l'uscita.» «Non torneremo senza medicine per Jamie» risposi, in tono più perentorio del suo. E lui ribatté con vigore: «Qual è la tua proposta, allora, Wanda?». «Mi serve una pietra» sospirai. «Dovrai colpirmi.» 44 La guarigione «Wanda...» «Non abbiamo tempo. Lo farei da sola, ma non trovo l'angolazione giusta. Non c'è altro modo.» «Non so se... ci riesco.» «Neanche per Jamie?» Premetti con tutte le mie forze la guancia sana contro il poggiatesta, e chiusi gli occhi. Jared stringeva la pietra che avevo trovato, grossa come un pugno. La soppesava da cinque minuti.
«Devi soltanto levarmi il primo strato di pelle. Per nascondere la cicatrice, tutto qui. Dai, Jared, siamo di fretta. Jamie...» Digli che deve farlo, ora. E farlo per bene. «Mel dice di sbrigarti. E di metterci un po' di forza. In un colpo solo.» Silenzio. «Avanti, Jared!» Sentii l'aria muoversi e serrai gli occhi. La prima cosa di cui mi accorsi fu il rumore di qualcosa che si spiaccicava, poi l'effetto sorpresa cessò e oltre al colpo sentii anche il dolore. Lanciai un gemito. Non volevo far rumore. Sapevo che così avrei peggiorato la situazione. Ma era una delle tante reazioni involontarie del mio corpo. I miei occhi si riempirono di lacrime e la testa si mise a vibrare per il contraccolpo. «Wanda? Mel? Mi dispiace.» Le sue braccia ci avvolsero e ci strinsero al petto. «Tutto a posto» farfugliai. «Stiamo bene. Ce l'hai fatta?» Mi carezzò il mento per farmi voltare. «Ah» sospirò, nauseato. «Ti ho strappato mezza faccia. Scusami.» «No, no, va bene così. Andiamo.» «Giusto.» La sua voce era ancora debole, ma mi aiutò ad accomodarmi sul sedile, con cautela, e il motore iniziò a salire di giri. Il refolo freddo che mi sfiorava il viso pungeva sulla carne viva. Avevo dimenticato la sensazione dell'aria condizionata. Aprii gli occhi. Procedevamo sul fondo piatto di un torrente in secca, più piatto di quanto avrebbe dovuto essere, appositamente modificato per usarlo come strada. Serpeggiava all'orizzonte, inarcandosi tra le sterpaglie. Abbassai il parasole e aprii lo specchietto interno. Sotto la luce tenue della luna, il mio volto era bianco e nero. Nero sul lato destro, macchiato da gocce che colavano fino al mento, alla gola, al colletto della maglietta immacolata. Il mio stomaco sussultò. «Bel lavoro» sussurrai. «Ti fa tanto male?» «No, non tanto» mentii. «Comunque, non durerà a lungo. Quanto manca a Tucson?» In quel momento trovammo l'asfalto. Strano, come la vista della strada riuscisse a scatenare panico e batticuore. Jared si fermò, badando che l'auto restasse nascosta tra i cespugli. Uscì, staccò i teloni e le catene dal paraurti,
e infilò tutto nel baule. Tornò al volante e ingranò la prima, controllando per bene che l'autostrada fosse deserta. Fece per accendere i fari. «Aspetta» sussurrai. Non riuscivo a parlare più forte, mi sentivo troppo vulnerabile. «Fai guidare me.» Mi guardò. «Non posso fingere di essere arrivata a piedi all'ospedale, conciata così. Troppe domande. Devo guidare. Tu ti nascondi dietro e mi dici dove andare. C'è qualcosa che puoi usare per coprirti?» «D'accordo» rispose a malincuore. Innestò la retromarcia e tornò tra gli arbusti. «D'accordo. Mi nascondo. Ma se non segui le indicazioni...» Ehi! Melanie reagì piccata, come me. «... mi spari» risposi impassibile. Jared non aggiunse altro. Scese senza spegnere il motore. Io passai sul suo sedile e sentii il bagagliaio chiudersi. Jared si accomodò sul sedile posteriore, con una coperta spessa sottobraccio. «Gira a destra» disse. La macchina aveva il cambio automatico, ma era passato parecchio tempo, e mi sentivo insicura al volante. Partii lentamente, lieta di ritrovare gli automatismi della guida. La statale era ancora vuota. La imboccai, di nuovo spaventata dallo spazio aperto. «Fari» disse Jared. La sua voce giungeva dalla parte bassa del sedile. Cercai l'interruttore e accesi le luci. Erano fortissime, un fastidio orribile. Non eravamo lontani da Tucson, scorgevo un bagliore giallastro stagliarsi all'orizzonte. Le luci della città. «Potresti anche accelerare.» «Sono al limite» protestai. Jared restò perplesso. «Le anime non vanno veloci?» Scoppiai a ridere. Con una punta di isteria. «Obbediamo a tutte le leggi, compreso il codice della strada.» Il bagliore si fece più intenso, distinguevo le luci una a una. I cartelli verdi indicavano le prime uscite. «Prendi Ina Road.» Seguii le sue istruzioni. Parlava a voce bassa, malgrado al chiuso dell'abitacolo potessimo permetterci di urlare. Difficile entrare in una città sconosciuta. Vedere case, appartamenti e negozi con le insegne accese. Sapere che ero circondata, isolata. Chissà
come si sentiva Jared. La sua voce restò straordinariamente calma. Ma per lui non era la prima volta. Incontrammo altre auto. Ogni fascio di luce sul parabrezza era un fremito di spavento. "Non cedere proprio adesso, Wanda. Devi essere forte, fallo per Jamie. Se no, sarà tutto inutile." "Sì. Posso farcela." Mi concentrai su Jamie, e strinsi il volante con decisione. Jared mi guidò per la città ancora semiaddormentata. La struttura sanitaria era piccola. Un tempo doveva essere stata sede di uffici e ambulatori, più che di un vero ospedale. Le luci di quasi tutte le finestre della facciata erano accese. Vidi una donna all'accettazione. Non si accorse dei miei fari. Mi fermai nell'angolo più buio del parcheggio. Infilai lo zaino in spalla. Non era nuovo, ma in buone condizioni. Perfetto. Restava soltanto una cosa da fare. «Svelto, dammi il coltello.» «Wanda... sai quanto bene voglio a Jamie, ma non penso che tu sia capace di usarlo. Non sei una combattente.» «Non mi serve contro di loro, Jared. Ho bisogno di una ferita.» Trasalì. «Ne hai già una. Non ti basta?» «Devo farmene una come quella di Jamie. Non me ne intendo abbastanza di guarigione. Devo capire esattamente cosa fare. Ci avevo già pensato, ma non ero sicura di poter guidare e...» «No. Ora basta.» «Ci penso io. Mi noteranno, se non entro alla svelta.» Jared meditò in pochi istanti. Era il migliore, come aveva detto Jeb, perché sapeva sempre cosa fare, e lo faceva in fretta. Sentii il suono metallico della lama che usciva dal fodero. «Stai molto attenta. Non troppo profonda.» «Vuoi farlo tu?» Fece un sospiro secco. «No.» «Okay.» Afferrai il coltellaccio. Il manico era pesante, la lama molto affilata; verso l'estremità si assottigliava. Mi sforzai di non pensarci. Il braccio, non la gamba, quella fu la mia unica decisione razionale. Sulle gambe avevo troppe cicatrici da nascondere. Allungai il braccio sinistro; mi tremava la mano. Lo appoggiai alla por-
tiera e mi voltai a mordere il poggiatesta. Stringevo il coltello, goffa ma decisa, nella mano destra. Ne premetti la punta sulla pelle dell'avambraccio, per non sbagliare la mira. Poi chiusi gli occhi. "Fai finta di scavare la terra con una vanga" dissi a me stessa. E affondai il coltello. Il poggiatesta soffocò il mio urlo, che fu comunque troppo forte. Il coltello mi sfuggì di mano - spinto dalla contrazione del muscolo, una vista nauseante - e cadde sul fondo dell'abitacolo. «Wanda!» disse Jared con voce rauca. Non riuscivo ancora a parlare. Avevo fatto bene a non provarci prima di guidare. «Fammi vedere!» «Resta qui» esclamai. «Non muoverti.» Sentii la coperta frusciare alle mie spalle, malgrado l'avvertimento. Strinsi il braccio sinistro al corpo e con la mano destra aprii la portiera. La mano di Jared mi sfiorò la schiena mentre mi lanciavo fuori dall'auto. Non per trattenermi, ma per rincuorarmi. «Torno subito» tossii, e richiusi la portiera con un calcio. Attraversai il parcheggio zoppicando, combattendo nausea e panico. Nessuno dei due sembrava avere la meglio sul mio corpo, si equilibravano. Il dolore non era così tremendo, o meglio, non lo sentivo più così forte. Stavo per svenire. Troppi dolori diversi, tutti insieme. Il liquido caldo gocciolò dalle dita e sporcò l'asfalto. Chissà se ero in grado di muoverle. Avevo paura di provarci. La donna all'accettazione - di mezza età, con pelle cioccolato e qualche ciocca bianca nei capelli neri - sobbalzò quando mi vide barcollare all'entrata. «Oh, no! Santo cielo!» Afferrò un microfono, e le sue parole riecheggiarono, moltiplicate, dal soffitto. «Guaritrice desiderata all'accettazione! È un'emergenza!» «No.» Cercai di parlare con calma, ma non riuscivo a mantenere l'equilibrio. «Sto bene. È un piccolo incidente.» Posò il microfono e mi raggiunse svelta. Mi cinse i fianchi per impedirmi di barcollare. «Ehi, piccola, che ti è successo?» «Che sbadata» mormorai. «Stavo facendo trekking... sono caduta dalle rocce. Stavo... pulendo i resti della cena. Avevo un coltello in mano...» Ai suoi occhi, la mia confusione faceva parte dello shock. Non mi guar-
dava con sospetto né con ironia, come Ian, talvolta, quando mentivo. Era davvero preoccupata. «Povera cara! Come ti chiami?» «Guglie di Vetro» risposi, sfruttando il nome piuttosto generico di un membro del mio branco quando vivevo tra gli Orsi. «Okay, Guglie di Vetro. Arriva la Guaritrice. Un minuto e starai meglio.» Il panico era svanito. La Guaritrice era una ragazza. I suoi capelli, gli occhi e la pelle erano tutti dello stesso colore, marrone chiaro. Aveva uno strano aspetto monocromatico. Il camice beige che indossava non faceva che rafforzare quell'impressione. «Caspita» disse. «Mi chiamo Intreccia il Fuoco, sono una Guaritrice. Ti curerò subito. Cos'è successo?» Rispiegai la mia storia, mentre le due donne mi conducevano per un corridoio, e poi al di là della primissima porta che incontrammo. Mi fecero sdraiare sul lettino coperto da un lenzuolo di carta. La stanza aveva un aspetto familiare. Io ero stata in un luogo simile soltanto una volta, ma l'infanzia di Melanie era piena di ricordi del genere. La fila corta di armadietti doppi, il lavandino in cui la Guaritrice si stava lavando le mani, le pareti luminose, pulite... «Una cosa alla volta» disse Intreccia il Fuoco, allegra. Aprì un armadietto. Cercai di aguzzare la vista su quel particolare così importante. L'armadietto era zeppo di cilindri bianchi disposti in file regolari. Ne afferrò uno senza nemmeno guardare; sapeva già dove trovarlo. Il piccolo contenitore aveva un'etichetta, ma non riuscii a leggerla. «Un po' di Anti-dolore dovrebbe fare al caso nostro, non pensi?» Diedi un'altra occhiata all'etichetta. Due parole separate da un trattino. Anti-dolore? Era il nome della medicina? «Apri la bocca, Guglie di Vetro.» Obbedii. Prese un quadratino sottile - sembrava strappato da un fazzoletto di carta - e me lo posò sulla lingua. Si sciolse in un attimo. Non aveva sapore. Deglutii automaticamente. «Va meglio?» domandò la Guaritrice. «Sì.» Altroché. La mia voce e i miei pensieri si schiarirono. Riuscii a concentrarmi senza difficoltà. Il dolore si era dissolto assieme al quadratino. Era sparito. Mi lasciò di sasso.
«So che ora ti senti meglio, ma non muoverti, per favore. Devo curare anche le ferite.» «Certo.» «Cerulea, andresti a prendere dell'acqua? Ha la gola secca.» «Subito, Guaritrice.» La donna lasciò la stanza. La Guaritrice tornò agli armadietti, e ne aprì un altro. Anche quello era zeppo di cilindri bianchi. Ne estrasse uno dall'alto, e un secondo dalla parte opposta. Quasi come se cercasse di aiutarmi nella mia missione, mentre cercava le medicine ne elencava i nomi. «Pulisci interno ed esterno... Guarisci, Cicatrizza... e dov'è... eccola, Leviga. Non la vogliamo più quella brutta cicatrice, vero?» «Ehm... no.» «Non preoccuparti. Tornerai perfetta.» «Grazie.» «Non c'è di che.» Si chinò su di me con un altro cilindro bianco. Con uno scatto ne rimosse il tappo, che nascondeva il beccuccio di uno spray. Me lo spruzzò sull'avambraccio, avvolgendo la ferita in una nebbia trasparente e senza odore. «Guarire dev'essere un'occupazione gratificante.» Il mio tono di voce era quello giusto. Interessato, ma non petulante. «Dopo l'inserzione, non sono mai stata in un laboratorio di Guarigione. Molto interessante.» «Sì, mi piace.» Iniziò a passarmi lo spray sul viso. «Cosa fai ora?» Sorrise. Evidentemente non ero la prima curiosa, tra i suoi pazienti. «Questo è Pulisci. Elimina ogni corpo estraneo dalla ferita. Uccide i microbi che potrebbero scatenare un'infezione.» «Pulisci» ripetei, tra me. «E poi c'è il Pulisci Interno, in caso di contaminazioni indesiderate nell'organismo... inala qui, per favore.» In mano stringeva un cilindro bianco diverso dal primo, una bottiglia più stretta con una piccola pompa al posto del diffusore spray. Spruzzò una nuvoletta nell'aria, al di sopra del mio viso. Respirai a fondo. La nuvola sapeva di menta. «E questo è Guarisci» aggiunse Intreccia il Fuoco, svitando il tappo del terzo contenitore, che rivelò un beccuccio sporgente. «Aiuta i tessuti a rin-
saldarsi e a ricrescere come dovrebbero.» Versò un goccio di liquido trasparente sul taglio profondo del braccio, poi accostò i lembi della ferita. Mi sentivo toccare, ma il dolore era assente. «Prima di continuare, sigillo questa.» Aprì un altro contenitore, un tubo flessibile, e spremette un filo di gelatina trasparente e densa sul proprio dito. «Somiglia a colla» disse. «Tiene tutto assieme e permette a Guarisci di agire.» Me la spalmò sul braccio con un gesto rapido e veloce. «Bene, ora puoi muoverlo. È a posto.» Alzai il braccio per controllare. Sotto la gelatina luminosa restava visibile una linea rosa sbiadita. Mentre osservavo, la Guaritrice passò lesta una pezza umida per pulire la pelle. «Voltati da questa parte, per favore. Mmm. Peggio di così non potevi scontrarti con la roccia. Che disastro.» «Sì. È stata una brutta caduta.» «Be', grazie al cielo sei riuscita a guidare fino a qui.» Mi versava piccole gocce di Guarisci sulla guancia, massaggiandola con la punta delle dita. «Ah, adoro vederlo in azione. Già va meglio. Bene... ora i margini.» Sorrise tra sé. «Un altro strato, magari. Voglio cancellarla del tutto.» Dedicò un altro minuto alla ferita. «Molto bene.» «Ecco l'acqua» disse la donna della reception, rientrando in ambulatorio. «Grazie, Cerulea.» «Fammi sapere se ti serve altro. Torno di là.» «Grazie.» Cerulea se ne andò. Chissà se veniva dal Pianeta dei Fiori. I fiori blu erano rari, tanto da potersi trasformare in nomi... «Ora puoi sederti. Come ti senti?» Mi raddrizzai. «Perfettamente.» Era la verità. Non mi sentivo così in forma da una vita. E il passaggio brusco dalla sofferenza al benessere non faceva che intensificare le mie sensazioni. «Com'è giusto che sia. Okay, adesso spruzziamo un po' di Leviga...» Svitò il tappo dell'ultimo cilindro, e si cosparse le mani di una polvere iridescente. Me ne passò una dose prima sulle guance, poi sul braccio. «Ti resterà una piccola riga sul braccio» disse, a mo' di scusa. «E anche sul collo. Era una ferita profonda...» Si strinse nelle spalle. Distrattamente, spostò una ciocca di capelli dal mio collo ed esaminò la cicatrice. «Gran bel lavoro. Chi è il Guaritore che se n'è occupato?» «Ehm... Rivolta al Sole» dissi, rubando il nome a uno dei miei vecchi
studenti. «Di... Eureka, nel Montana. Vivevo là ma non sopportavo il freddo. Così ho traslocato a sud.» Quante bugie. L'ansia mi serrò lo stomaco. «Io sono partita dal Maine» disse lei, senza notare alcun cambiamento nella mia voce. Parlava e mi puliva il sangue sul collo. «Anche per me faceva troppo freddo. Qual è la tua Vocazione?» «Ehm... servo da mangiare. In un ristorante messicano di... Phoenix. Mi piace il cibo piccante.» «Anche a me.» Non mi lanciò nessuna occhiata perplessa. Era passata a pulire la guancia. «Molto bene. Non ti devi preoccupare, Guglie di Vetro. Il tuo viso ha un aspetto splendido.» «Grazie, Guaritrice.» «Certo. Vuoi un po' d'acqua?» «Sì, grazie.» Cercai di trattenermi. Non aveva senso svuotare d'un fiato il bicchiere come desideravo. Tuttavia non riuscii a impedire a me stessa di finirlo. Aveva un sapore troppo buono. «Ne vuoi ancora?» «Io... sì, molto gentile. Grazie.» «Torno subito.» Non appena uscì dalla stanza, scesi dal lettino. Il crepitio della carta mi immobilizzò. Ma la Guaritrice non se ne accorse. Avevo pochi secondi. Cerulea ci aveva messo qualche minuto per prendere l'acqua. Forse la Guaritrice ne avrebbe impiegati altrettanti. Forse l'acqua pura e fresca era lontana dall'ambulatorio. Forse. Sfilai lo zainetto dalle spalle e ne sciolsi i lacci per aprirlo. Iniziai dal secondo armadietto. Quello che conteneva una catasta di Guarisci. La feci crollare tutta, in silenzio, sul fondo dello zaino. Come avrei reagito se mi avesse scoperta? Che bugia avrei raccontato? Dal primo armadietto presi i due tipi di Pulisci. Dietro la prima fila di cilindri ce n'era un'altra, così presi anche metà di quella. Poi l'Anti-dolore, entrambe le cataste. Stavo per dirigermi verso il Cicatrizza, quando l'etichetta della serie di cilindri più vicina catturò la mia attenzione. Raffredda. Per la febbre? Non c'erano istruzioni, soltanto l'etichetta. Ne presi un mucchio. Nessuno di quei medicinali poteva fare del male a un corpo umano. Ne ero certa. Afferrai tutto il Cicatrizza e due contenitori di Leviga. Più di così non potevo sfidare la sorte. Chiusi gli armadietti in silenzio e infilai le braccia
negli spallacci dello zaino. Tornai a sedermi, con un altro crepitio, sul lettino. Cercai di assumere un'aria rilassata. La Guaritrice non tornava. Controllai l'orologio. Era passato un minuto. Quant'era lontana l'acqua? Due minuti. Tre minuti. Avevano scoperto le mie bugie con la stessa facilità con cui le avevo snocciolate? Il sudore iniziò a inumidirmi la fronte. Lo asciugai svelta con la mano. E se fosse tornata con un Cercatore? Ripensai alla pillola che tenevo in tasca, e mi tremarono le mani. Potevo farcela, però. Per Jamie. Sentii dei passi felpati nel corridoio. 45 Il successo Intreccia il Fuoco e Cerulea entrarono insieme. La Guaritrice mi offrì un bicchierone d'acqua. Non era freddo come il precedente, ma le mie dita erano ghiacciate per la paura. Anche la donna dalla pelle scura aveva qualcosa per me. Mi offrì un oggetto rettangolare piatto, con un'impugnatura. «Ho pensato che volessi dare un'occhiata» disse Intreccia il Fuoco con un sorriso affettuoso. La tensione svanì all'istante. Non avevano alcun sospetto né paura. Era solo un'altra dose di gentilezza, da anime che avevano dedicato la propria vita al guarire. Cerulea mi aveva portato uno specchio. Lo alzai, sforzandomi di non trasalire. Il mio volto era simile a come lo avevo visto a San Diego. Il volto che un tempo davo per scontato. La pelle della guancia destra era liscia e vellutata. A ben vedere, soltanto un po' più pallida e rosea rispetto alla sinistra. Quel volto apparteneva alla Viandante, all'anima. E a quel luogo civilizzato, in cui non c'erano violenza né orrore. Capii perché fosse così facile mentire a quelle creature gentili. Perché mi sentivo a mio agio parlando con loro e capivo le regole della loro comunicazione. Forse... anzi, di sicuro avevo detto la verità. Era ovvio, per loro, che adempissi alla mia Vocazione da qualche parte, fosse un incarico da docente universitaria o da cameriera. Una vita pacifica e semplice, dedica-
ta al bene comune. «Cosa ne pensi?» chiese la Guaritrice. «Direi che è perfetto. Grazie.» «È stato un piacere guarirti.» Mi diedi un altro sguardo. I capelli erano sporchi e sfibrati. Avevano perso lucentezza a causa del sapone fatto in casa e dell'alimentazione povera. Malgrado la Guaritrice avesse pulito il sangue, il mio collo era ancora chiazzato di sabbia violacea. «Forse è meglio che dia un taglio alle escursioni. Ho bisogno di darmi una pulita» mormorai. «Vai spesso in campeggio?» «Ogni volta che posso, da qualche tempo. Non... riesco a stare lontana dal deserto.» «Che coraggiosa. Io trovo che la città sia molto più confortevole.» «Non sono coraggiosa, soltanto diversa.» Nello specchio vidi i miei occhi color nocciola che conoscevo bene. Grigio scuro all'esterno, poi un cerchio di verde muschio e uno di marrone caramello attorno alla pupilla. A sottolineare il tutto, un debole bagliore argenteo che rifletteva e amplificava la luce. "E Jamie?" domandò all'improvviso Mel, che iniziava a innervosirsi. Ero troppo a mio agio, in quel luogo. Intuì la logica della strada alternativa che potevo imboccare, e ne fu spaventata. "Ricordo bene chi sono" le risposi. Poi tornai ai volti amichevoli accanto a me. «Grazie» dissi di nuovo alla Guaritrice. «Forse è meglio che mi rimetta in marcia.» «È tardi. Se ti va puoi restare a dormire qui.» «Non mi sento stanca. Sono... perfetta.» La Guaritrice sorrise. «Merito dell'Anti-dolore.» Cerulea mi accompagnò all'accettazione. Quando fui sulla porta mi posò una mano sulla spalla. Il mio cuore iniziò a galoppare. Aveva notato che lo zaino, vuoto fino a poco prima, ora era gonfio? «Stai più attenta, cara» mi disse dandomi un colpetto sul braccio. «Lo farò. Basta escursioni notturne.» Lei sorrise e tornò al bancone. Attraversai il parcheggio senza accelerare il passo. Avrei voluto correre. E se la Guaritrice avesse controllato subito gli armadietti? Quando si sa-
rebbe resa conto che erano mezzi vuoti? L'auto era ancora lì, in un cono di oscurità tra due lampioni distanti. Sembrava vuota. Il mio respiro era veloce e irregolare. Non c'era niente di strano nel vederla vuota. Ma mi calmai soltanto quando intravidi una sagoma sotto la coperta che occupava il sedile posteriore. Aprii la portiera e posai lo zaino sul sedile del passeggero, poi mi accomodai al posto di guida e chiusi con forza la portiera. Mi convinsi a non far scattare anche la sicura, non ce n'era bisogno. «Tutto bene?» sussurrò Jared. La sua voce era un raschio sforzato e ansioso. «Zitto» dissi, a labbra strettissime. «Dopo.» Passai davanti all'entrata illuminata e risposi con la mano al saluto di Cerulea. «Avete fatto amicizia?» Imboccammo la strada buia. Non sentivo più nessuno sguardo addosso. Mi lasciai andare sul sedile, e le mie mani iniziarono a tremare. Potevo permettermelo, ormai era finita. Ce l'avevo fatta. «Tutte le anime sono amiche» dissi, a volume normale. «Tutto bene?» ripeté. «Mi ha guarita.» «Fammi vedere.» Allungai un braccio all'indietro, così da mostrargli la sottile linea rosa. Restò senza fiato, sorpreso. Poi si raddrizzò e si sporse tra i sedili anteriori. Spostò lo zaino e lo tirò verso di sé per vagliarne il peso. Quando passammo sotto un lampione, mi guardò e fu sbalordito. «La tua faccia!» «Guarita anche quella. Ovviamente.» Alzò incerto una mano, che restò ferma a mezz'aria, accanto alla mia guancia. «Ti fa male?» «Certo che no. Come se niente fosse.» Le sue dita sfiorarono la pelle nuova. Pizzicava soltanto perché era lui a toccarmi. Poi Jared tornò all'opera. «Pensi che sospettino qualcosa? Che chiameranno i Cercatori?» «No. Te l'ho già detto, non dovrebbero aver dubbi. Non mi hanno nemmeno controllato gli occhi. Stavo male, mi hanno guarita.» Scrollai le spalle. «Cos'hai preso?» domandò, sciogliendo i lacci dello zaino.
«Le cose giuste per Jamie... se torniamo in tempo... E una scorta per il futuro. Ho preso soltanto ciò di cui ho capito l'utilizzo.» «Torneremo in tempo, vedrai.» Esaminò le capsule bianche. «Leviga?» «Non è indispensabile. Ma so a cosa serve, perciò...» Annuì e continuò a frugare. Mormorava tra sé i nomi dei medicinali. «Anti-dolore? Funziona?» Feci una risata. «È straordinario. Se ti accoltelli, prometto di dimostrartelo... Scherzo.» «Lo so.» Mi fissava con un'espressione che non capivo. I suoi occhi erano spalancati, come se qualcosa lo avesse sorpreso profondamente. «Che c'è?» In fondo la battuta non era così orribile. «Ce l'hai fatta.» La sua voce traboccava incredulità. «Non era questa l'idea?» «Sì, ma... forse, in fondo, non pensavo che ci saremmo riusciti.» «Ah, no? E allora perché... perché mi hai concesso di provarci?» Rispose quasi sussurrando. «Ho pensato che morire provandoci sarebbe stato meglio che sopravvivere senza il ragazzino.» Per un istante, l'emozione mi soffocò. Anche Mel era troppo sconvolta per parlare. In quell'istante sentii che eravamo una famiglia. Tutti. Mi schiarii la voce. Inutile perdermi in sensazioni superflue. «È stato molto facile. Forse anche uno dei vostri avrebbe potuto farcela, basta essere naturali. La Guaritrice mi ha controllato il collo.» Con un gesto automatico lo sfiorai. «La tua cicatrice è fatta in casa, e si vede, ma con le medicine che ho rubato Doc potrà sistemarla.» «Dubito che uno di noi riuscirebbe a essere naturale.» Annuii. «Già. Per me è facile. So cosa si aspettano.» Feci una risatina, tra me. «Sono una di loro. Se tu ti fidassi, potrei procurarti qualsiasi cosa.» E aggiunsi un'altra risata. Era lo stress a tenermi su di giri. Ma trovavo la situazione divertente. Si rendeva conto che ero davvero disposta a fare tutto ciò per lui? Qualsiasi cosa al mondo. «Io mi fido di te» sussurrò. «E ti ho affidato le nostre vite, tutte.» Sì, tutte. La sua, quella di Jamie e del resto della comunità. «Grazie» sussurrai. «Ce l'hai fatta» ribadì, meravigliato. «Lo salveremo.» "Jamie sopravvivrà" esultò Mel. "Grazie, Wanda." "Qualsiasi cosa, per loro" risposi, ed era la verità.
Dopo aver riattaccato i teloni, raggiungemmo il letto del torrente. Jared riprese il volante. Conosceva la strada e guidava più veloce di me. Mi fece scendere prima di nascondere l'auto nella cavità strettissima tra le rocce franate. Mi aspettavo che strisciasse contro la pietra, ma vi si infilò senza danni. E poco dopo, rieccoci sulla jeep che volava nella notte. Jared sorrideva trionfante mentre sfrecciavamo nel cuore del deserto, e il vento portava via la sua voce. «Dov'è la benda?» chiesi. «Perché?» Il mio sguardo fu eloquente. «Wanda, hai avuto un'occasione imperdibile per tradirci. Nessuno può più dubitare che sei una di noi.» Ci pensai su. «Qualcuno sì, secondo me. Sarebbero più tranquilli, se...» «Quel qualcuno si deve dare una regolata.» Scossi la testa, immaginando l'accoglienza che ci attendeva. «Non sarà facile rientrare. Immagina cosa stanno pensando ora. Cosa si aspettano...» Non rispose. Affilò lo sguardo. «Jared... se loro non ci... ascoltano... se non aspettano...» Le parole mi uscirono sempre più veloci, nello sforzo di dirgli tutto prima che fosse troppo tardi. «Prima dai a Jamie l'Anti-dolore: scioglilo sulla lingua. Poi lo spray Pulisci Interno: deve respirarlo. Dovrai chiedere a Doc di...» «Ehi, ehi! Tocca a te dare le istruzioni.» «Lascia che ti spieghi...» «No, Wanda. Non finirà così. Sono pronto a sparare, se osano toccarti.» «Jared...» «Niente panico. Mirerò alle gambe, e con le medicine che hai preso potremo guarirli.» «Se è una battuta, non fa ridere.» «Dico sul serio, Wanda.» «Dov'è la benda?» Mi guardò, nervoso. Avevo con me la mia vecchia camicia, il cencio che mi aveva prestato Jeb. Potevo sfruttare quella. «Così avranno meno problemi a farci entrare» dissi mentre la piegavo in una fascia spessa. «Il che significa guarire Jamie più in fretta.» La legai sugli occhi. Per un po' restammo in silenzio. La jeep saltellava sul terreno irregolare.
Ricordai altre notti in cui Melanie era stata su quel sedile... «Vado dritto alle caverne. C'è un posto in cui riparare la jeep per un giorno o due. Risparmieremo tempo.» Annuii. Ormai il tempo era tutto. «Quasi arrivati» disse dopo un minuto. Ci aspettano.» Lo sentii armeggiare con qualcosa, sentii un rumore metallico mentre recuperava il fucile sul sedile posteriore. «Non sparare.» «Non te lo prometto.» «Fermi!» urlò qualcuno. Il suono riecheggiò nell'aria vuota del deserto. La jeep si fermò. «Siamo noi» disse Jared. «Sì, sì, guardate. Visto? Sono ancora io.» Dall'altra parte, la reazione fu incerta. «Statemi a sentire: vado a nascondere la jeep, okay? Abbiamo le medicine per Jamie, e c'è urgenza. Non mi importa il vostro parere, non voglio avervi tra i piedi, stanotte.» La jeep si rimise in moto. Il rumore cambiò e riecheggiò sulle pareti del nascondiglio. «Okay, Wanda, tutto a posto. Andiamo.» Avevo già infilato lo zaino in spalla. Scesi dalla jeep con cautela, non sapevo dove fosse la parete. Jared afferrò la mia mano e mi guidò. «Avanti» disse, e mi prese in spalla. Non mi sentivo stabile come prima. Usava un solo braccio per stringermi. Nell'altro, probabilmente, teneva il fucile. L'idea non mi piaceva. Ma ero preoccupatissima, e fui lieta che fossimo armati, quando sentii avvicinarsi qualcuno di corsa. «Jared, idiota» urlò Kyle. «Cosa credi di fare?» «Tranquillo, Kyle» disse Jeb. «È ferita?» chiese Ian. «Fuori dai piedi» disse Jared, calmo. «Ho fretta. Wanda è in perfetta forma, ma ha chiesto di essere bendata. Come sta Jamie?» «È caldo» disse Jeb. «Wanda ha preso quel che ci occorre.» Prese a camminare svelto, in discesa. «Se vuoi la porto io» propose Ian. «Lasciala dov'è.» «Sto bene, davvero» dissi a Ian, rimbalzando a ogni passo di Jared. Di nuovo in salita, a passo svelto malgrado il mio peso. Sentivo gli altri
correre con noi. Poi sbucammo nella grotta principale; lo capii perché il sibilo di rabbia e violenza ci attorniò e si trasformò in un boato. «Fuori dai piedi» ruggì Jared. «Doc è con Jamie?» Non capii la risposta. Jared avrebbe potuto farmi scendere dalle sue spalle, ma era troppo di fretta per fermarsi. Le voci infuriate riecheggiarono alle nostre spalle, ma il suono si smorzò non appena ci infilammo nella galleria. Sapevo dove ci trovavamo, ne seguivo le curve mentre raggiungevamo lo snodo che portava alle stanze del terzo corridoio. Quasi riuscivo a contare le porte che sfilavano invisibili. Jared si fermò bruscamente, e grazie al contraccolpo scivolai giù dalle sue spalle. Caddi in piedi. Poi mi tolse la benda dagli occhi. La nostra stanza era illuminata da parecchie lanterne azzurre. Doc era immobile, rigido, come se si fosse appena alzato in piedi. In ginocchio, accanto a lui, c'era Sharon, che passava la pezza umida sulla fronte di Jamie. Il volto della donna era quasi irriconoscibile, distorto dalla rabbia. Jamie era ancora inerte, rosso, con gli occhi chiusi e il respiro leggero. «Tu!» sbottò Sharon, che si alzò di scatto e con un balzo felino si lanciò contro Jared, pronta a graffiarlo in faccia. Jared le afferrò le mani e la costrinse a voltarsi, le braccia dietro la schiena. Maggie sembrava pronta a imitare la figlia, ma Jeb si portò davanti a Sharon e Jared, e le sbarrò la strada. «Lasciala andare!» urlò Doc. Jared lo ignorò. «Wanda, guariscilo!» Doc si spostò tra me e Jamie. «Doc» ansimai. La violenza che riempiva la stanza e turbinava attorno alla sagoma di Jamie mi spaventava. «Mi serve il tuo aiuto. Ti prego. Fallo per Jamie.» Doc non batté ciglio, i suoi occhi fissi su Sharon e Jared. «Avanti, Doc» disse Ian. La stanzetta si fece affollata, claustrofobica, quando Ian mi si avvicinò e mi posò una mano sulla spalla. «Vuoi lasciar morire il ragazzo per una questione di orgoglio?» «L'orgoglio non c'entra. Non sapete che effetto avranno queste sostanze aliene!» «Peggio di così non può stare, no?» «Doc» dissi. «Guardami in faccia.» Doc non fu l'unico a reagire alla mia richiesta. Jeb, Ian, persino Maggie
furono costretti a una seconda occhiata per capire. Maggie distolse subito lo sguardo, pentita di essersi mostrata tanto curiosa. «Come hai fatto?» «Ti farò vedere. Ti prego. Non ha senso che Jamie soffra ancora.» Doc mi guardò, indeciso, e poi fece un gran sospiro. «Ian ha ragione, peggio di così non può stare. Se anche dovesse morire...» Scrollò le spalle, rassegnato. Fece un passo indietro. «No» strillò Sharon. Nessuno le prestò attenzione. Mi inginocchiai accanto a Jamie, sfilandomi lo zaino dalle spalle e aprendolo di scatto. Vi frugai in cerca dell'Anti-dolore. Una luce brillante si accese al mio fianco, puntata sul volto di Jamie. «Acqua, Ian?» Svitai il tappo e sfilai un quadratino sottile. Poi abbassai il mento di Jamie; la sua pelle era rovente. Gli posai il quadratino sulla lingua, e allungai una mano senza guardare. Ian mi porse una brocca d'acqua. Con cautela, ne versai quanto bastava a sciogliere la medicina sulla lingua di Jamie. Deglutì rumorosamente e in modo poco naturale. Andai alla ricerca del flacone di spray. Quando lo trovai lo aprii e lo spruzzai verso di lui con un solo movimento deciso. Restai in attesa che respirasse, gli occhi fissi sul suo petto. Sfiorai il viso di Jamie, caldissimo. Armeggiai con il Raffredda, pregando che fosse facile da usare. Svitai il tappo e scoprii che il cilindro conteneva altri quadratini sottili e azzurri. Sospirai di sollievo e ne posai uno sulla lingua di Jamie. Ripresi la brocca e versai un altro sorso d'acqua sulle sue labbra screpolate. Deglutì più in fretta, con meno sforzo. Un'altra mano sfiorò il volto di Jamie. Riconobbi le dita lunghe e ossute di Doc. «Doc, hai un coltello affilato?» «Ho un bisturi. Vuoi che apra la ferita?» «Sì, devo pulirla.» «Ci avevo già pensato... per asciugarla, ma avrebbe sofferto...» «Non sentirà nulla.» «Guardatelo in faccia» sussurrò Ian, chino al mio fianco. Non era più rosso. Aveva un colorito naturale, sano. Era rimasto soltanto un velo di sudore a imperlare la fronte. Io e Doc gli toccammo la fronte nello stesso momento.
Funziona. Sì! Mel, come me, si riempì di entusiasmo. «Straordinario» sussurrò Doc. «La febbre è scesa, ma forse l'infezione c'è ancora. Aiutami con la ferita, Doc.» «Sharon, mi passeresti...» disse, distratto. Poi alzò gli occhi. «Ah. Ehm, Kyle, ti dispiace passarmi la borsa, lì accanto al tuo piede?» Mi spostai all'altezza della ferita rossa e gonfia. Ian la illuminò con la torcia. Io e Doc, nello stesso momento, frugammo nelle nostre borse. Lui estrasse il bisturi argenteo, la cui vista mi fece rabbrividire. Cercai di ignorarlo e preparai il flacone più grande di Pulisci. «Non sentirà dolore?» controllò Doc, indeciso. «Ehi» disse Jamie, giulivo. A occhi ben aperti, si guardò attorno in cerca del mio volto. «Ciao Wanda, Che succede? Che ci fate tutti qui?» 46 L'abbraccio Jamie fece per alzarsi. «Fermo lì, ragazzo. Come stai?» Ian bloccò le spalle di Jamie sul materasso. «Direi... molto bene. Perché siete tutti qui? Non ricordo...» «Eri malato. Stai fermo, così finiamo di curarti.» «Posso avere un po' d'acqua?» «E come no. Eccola.» Doc guardava Jamie incredulo. Io riuscivo a malapena a parlare, soffocavo di gioia. «È l'Anti-dolore» mormorai. «Una sensazione fantastica.» «Perché Jared sta tenendo Sharon in quel modo?» sussurrò Jamie a Ian. «Sharon è di pessimo umore» rispose Ian senza farsi sentire. «Resta immobile, Jamie» ordinò Doc. «Dobbiamo... pulire la ferita. Okay?» «Okay» rispose Jamie a mezza voce. Aveva notato il bisturi tra le dita di Doc, lo guardava timoroso. «Dimmi se senti qualcosa» disse Doc. «Se ti fa male» lo corressi. Con mano sicura, Doc affondò la lama nell'ascesso con un movimento deciso. Entrambi lanciammo un'occhiata a Jamie, che guardava il soffitto. «Vi sembrerà assurdo» disse il ragazzo, «ma non mi fa male.»
Doc annuì, assorto, e praticò un'altra incisione perpendicolare alla prima, dalla quale iniziarono a scorrere sangue rosso e pus giallo scuro. Quando Doc allontanò la mano iniziai a spruzzare lo spray sulla X insanguinata. Il Pulisci venne a contatto con il pus viscido, che iniziò come a sfrigolare. E pian piano... arretrò. Come schiuma con l'acqua. Si sciolse. Accanto a me Doc era senza fiato. «Guarda che roba.» Per sicurezza diedi una doppia passata alla ferita. Il rosso più scuro era già svanito. Restava soltanto il rosso vivo del sangue umano che scorreva. «Bene, ora Guarisci» mormorai. Trovai il cilindro giusto e rivolsi il beccuccio sulla pelle lacerata. Il liquido trasparente e luccicante penetrò nella carne e andò a risanarla, bloccando la perdita di sangue. Ne versai mezzo contenitore, il doppio del necessario, sicuramente. «Bene, adesso tienila chiusa, Doc.» Doc, a bocca aperta, era senza parole. Obbedì alla mia richiesta, serrando i due tagli con entrambe le mani. Jamie rise. «Mi pizzica.» Versai il Cicatrizza sulla X, profondamente soddisfatta di vedere i margini della ferita rinsaldarsi. «Posso guardare?» domandò Jamie. «Lascia che si tiri su, Ian. Abbiamo quasi finito.» Jamie si issò sui gomiti, con sguardo acceso di curiosità. Aveva i capelli appiccicati alla fronte, sporchi e sudati. Il contrasto con la pelle luminosa e sana era stridente. «Vedi, ho messo questo» dissi, spalmando un po' di unguento luminoso sul taglio, «che quasi cancella la cicatrice. Così.» Gli mostrai il mio braccio. Jamie rise. «Ma di solito le ragazze si spaventano davanti alle cicatrici! Dove hai preso questa roba, Wanda? È una magia.» «Sono uscita in missione con Jared.» «Sul serio? È grandioso.» Doc sfiorò il residuo di unguento sulla mia mano, poi lo avvicinò al naso. «Avresti dovuto vederla» disse Jared. «È stata incredibile.» Fui sorpresa di sentirne la voce così vicina. Mi guardai attorno in cerca di Sharon, e con la coda dell'occhio vidi i suoi capelli fiammeggianti uscire dalla stanza. Maggie era alle sue spalle. Che tristezza. Come facevano a essere così piene d'odio da non sapere
neanche esultare per la guarigione di un ragazzino? Com'era possibile scendere così in basso? «È entrata in un ospedale, ha parlato con gli alieni, ha chiesto loro di curarla, come se niente fosse. Poi, appena le hanno voltato le spalle, ha razziato tutto!» Jared lo raccontava come fosse un'avventura entusiasmante. Jamie ne fu entusiasta. «Ha fatto una scorta di medicine che ci basterà per parecchio tempo. Pensa che mentre venivamo via ha persino salutato la parassita che stava all'accettazione!» concluse Jared ridendo. "Io non avrei mai potuto farcela" disse Melanie, angustiata. "Tu sei molto più utile a loro di quanto non lo sarei io." "Zitta" dissi. Non era il momento di essere tristi né gelose. Dovevamo festeggiare. "Se non fosse stato per te, non avrei potuto aiutarli. Anche tu l'hai salvato." Jamie mi guardava estatico. «Non è stato così entusiasmante, in realtà» dissi. Strinsi forte la mano che mi offrì, il cuore rigonfio di gratitudine e amore. «È stato molto facile. In fin dei conti, sono anch'io una parassita.» «Non volevo...» cercò di scusarsi Jared. Lo misi a tacere con un sorriso e un cenno della mano. «Come hai spiegato la cicatrice sulla guancia?» chiese Doc. «Non ti hanno chiesto perché...» «Ovviamente mi sono presentata con ferite fresche. Ho badato a non destare alcun sospetto. Ho finto di essere caduta con un coltello in mano.» Diedi di gomito a Jamie. «Potrebbe succedere a chiunque, no?» Ero al settimo cielo. Tutto sembrava brillare di luce propria: le lenzuola, i volti, persino le pareti. La folla, dentro e fuori della stanza, aveva iniziato a borbottare e a fare domande, ma quello era solo un ronzio nelle mie orecchie, come l'eco dopo il suono di una campana. La mia unica realtà era l'abbraccio delle persone a cui volevo bene. Jamie, Jared, Ian e Jeb. Persino Doc faceva parte di quel momento perfetto. «Ferite fresche?» domandò Ian, impassibile. Lo fissai, sorpresa di vederlo turbato. «Ho dovuto. Per nascondere la cicatrice. E imparare a guarire Jamie.» Jared mi alzò il polso sinistro e indicò con un dito la linea rosa pallido. «È stato orribile» disse improvvisamente serio. «Ha rischiato di segarsi una mano. Temevo che non riuscisse più a usarla.» Jamie mi guardò sbigottito. «Ti sei tagliata il braccio?» Strinsi la sua mano. «Non preoccuparti, non è stato così terribile. Sapevo
che mi avrebbero guarita in fretta.» «Avresti dovuto vederla» ripeté Jared a voce bassa, mentre mi accarezzava il braccio. Le dita di Ian mi sfiorarono la guancia. Ero lieta di sentirne il contatto. Forse era merito dell'Anti-dolore, o semplicemente della gioia di aver salvato Jamie, ma vedevo tutto allegro e luminoso. «È l'ultima volta che esci in missione» mormorò Ian. «Invece no, che non è l'ultima» esclamò Jared, sorpreso. «Ian, è stata assolutamente fenomenale. Avresti dovuto vederla, per capire. Ho solo una vaga idea delle possibilità...» «Quali possibilità?» La mano di Ian mi scivolò sul collo e poi sulla spalla. Mi avvicinò a sé, portandomi via da Jared. «A quale rischio, per lei? Tu hai lasciato che quasi si mozzasse una mano?» Ogni accento era una stretta delle sue dita. «No, Ian, non è andata così» dissi. «È stata un'idea mia. Ero costretta.» «Ma certo che è stata tua» ruggì Ian. «Faresti qualsiasi cosa... non hai alcun limite, quando si tratta di questi due. Ma Jared non avrebbe dovuto permetterti...» «Secondo te c'erano alternative, Ian?» commentò Jared. «Avresti pensato a un piano migliore? Pensi che le sarebbe convenuto restare illesa e perdere Jamie?» Trasalii nauseata. La risposta di Ian fu meno ostile. «No. Ma non capisco come tu abbia fatto a stare a guardarla senza battere ciglio.» Ian scosse la testa, disgustato, e in risposta Jared si strinse nelle spalle. «Che razza di uomo...» «Un uomo concreto» lo interruppe Jeb. Alzammo gli occhi. Jeb incombeva su di noi con una grossa scatola di cartone tra le mani. «È il motivo per cui nessuno meglio di Jared sa occuparsi delle nostre necessità. Perché sa fare ciò che va fatto. O stare a guardare, se è il caso. Persino quando guardare è più difficile che agire. «È quasi ora di cena più che di pranzo, ma immagino che qualcuno qui non mangi da un po'» aggiunse Jeb cambiando discorso senza troppi complimenti. «Hai fame, ragazzo?» «Ehm... non saprei» confessò Jamie. «Mi sento molto vuoto, ma non è... un male.» «È l'effetto dell'Anti-dolore» dissi. «Mangia qualcosa.» «E bevi» aggiunse Doc. «Hai bisogno di liquidi.»
Jeb lasciò cadere la scatola pesante sul materasso. «Forse è il caso di fare un piccolo festeggiamento. Abbuffatevi.» «Ehi, gnam!» esclamò Jamie, frugando nello scatolone pieno di razioni di cibo, quelle che usavano gli escursionisti. «Spaghetti. Ottimo.» «Il pollo all'aglio è mio» disse Jeb. «Sento la mancanza dell'aglio, anche se immagino che nessuno senta la mancanza del mio alito!» ridacchiò. Jeb aveva già preparato bottiglie d'acqua e pentole da campo. La piccola stanza iniziò a riempirsi. Mi ritrovai schiacciata tra Jared e Ian, con Jamie sulle mie ginocchia. Malgrado fosse già troppo grande per tenerlo in quel modo, non protestò. Forse intuiva quanto entrambe ne avessimo bisogno, io e Mel dovevamo sentirlo, vivo e in salute, fra le nostre braccia. L'abbraccio luminoso sembrava espandersi, avvolse tutti i partecipanti a quella cena di festeggiamento notturna e incluse anche loro nella famiglia. Tutti, senza fretta, aspettavano beati che Jeb preparasse il regalo inaspettato. La paura aveva ceduto il passo al sollievo e alle buone notizie. Persino Kyle, compresso in poco spazio davanti al fratello, era il benvenuto. Melanie sospirò di soddisfazione. Percepiva con tutta se stessa il calore del ragazzino e il contatto con l'uomo che mi accarezzava il braccio. Non era neanche innervosita dal modo in cui Ian mi cingeva le spalle. "Anche tu senti l'effetto dell'Anti-dolore" scherzai. "Non credo sia quello. E lo sai anche tu." "No, hai ragione. Non ho mai avuto così tanto." "È quasi tutto ciò che ho perso." Cosa mi faceva preferire l'amore degli umani a quello della mia specie? La sua essenza esclusiva e capricciosa? Le anime offrivano amore e comprensione a qualunque altra. Avevo bisogno di una sfida più difficile? Questo amore era complicato, privo di regole fisse: lo si poteva offrire in cambio di nulla, come nel caso di Jamie, o conquistare con il tempo e la fatica, come per Ian; oppure era così inaccessibile da spezzarti il cuore, come nel caso di Jared. O forse, molto semplicemente, era migliore? Era una gamma di emozioni più ampia che consentiva agli umani di odiare con tanta furia, ma anche di amare con più passione, zelo e ardore? Non sapevo perché lo avessi desiderato così disperatamente. Sapevo soltanto che, ora che lo possedevo, valeva tutti i rischi e la sofferenza che avevo affrontato. Era meglio di quanto immaginassi. Era tutto. Preparata e consumata la cena, il sonno ebbe la meglio su tutti. I presenti uscirono barcollando dalla stanza affollata e andarono a dormire.
I pochi rimasti si accomodarono occupando tutto lo spazio a disposizione. La mia testa finì sulla pancia di Jared, che di tanto in tanto mi accarezzava i capelli. Il volto di Jamie era posato sul mio petto, e le sue braccia mi stringevano mentre cingevo le sue spalle con il braccio. Ian sfruttò la mia pancia come cuscino, coprendosi il volto con la mia mano libera. Sentivo le gambe lunghe di Doc stiracchiate accanto alle mie, i piedi all'altezza dei miei fianchi. Dormiva e russava già. Forse anche Kyle, in qualche maniera, mi era vicino. Jeb occupava da solo il letto. Fece un rutto, e Kyle sghignazzò. «Molto meglio della nottata che mi aspettavo. Mi piace quando il pessimismo fa un buco nell'acqua» commentò Jeb. «Grazie, Wanda.» Biascicai qualcosa, mezzo addormentata. «La prossima volta che esce in missione...» disse Kyle, da un punto imprecisato accanto al corpo di Jared. Uno sbadiglio ne troncò la frase. «La prossima volta che esce in missione, vengo anch'io.» «Lei non esce di qui» rispose Ian, e si irrigidì. Gli sfiorai una guancia per tranquillizzarlo. «Certo che no» mormorai. «Non vado da nessuna parte, a meno che non sia strettamente necessario. Desidero rimanere...» «Non dico che devi restare prigioniera, Wanda» spiegò Ian irritato. «Puoi andare dove vuoi, per quanto mi riguarda. Anche a correre sulla statale, se ti va. Ma in missione, no. Lo dico per la tua sicurezza.» «Abbiamo bisogno di lei» disse Jared in tono più deciso persino di quanto mi augurassi. «Ne abbiamo sempre fatto a meno.» «Ah, sì? Jamie sarebbe morto, senza di lei. Può arrivare dove nessuno di noi è in grado.» «È una persona, Jared, non una macchina.» «Lo so. Non ho detto che...» «Sono fatti suoi, no?» Jeb interruppe la discussione, anticipando le mie obiezioni. «Non puoi lasciarla decidere» protestò Ian. «Perché no? È capace di ragionare da sola. È compito tuo decidere per lei?» «Adesso ti faccio vedere» brontolò Ian. «Wanda?» «Dimmi, Ian.» «Desideri davvero uscire in missione?» «Se posso essere utile, certo.»
«Non è ciò che ti ho chiesto, Wanda.» Per un istante rimasi perplessa, cercando di capire cosa mi fosse sfuggito in una domanda tanto semplice. «Visto, Jeb? Non considera mai i suoi desideri, la sua felicità, neanche la sua salute. È disposta a fare tutto ciò che le chiediamo, anche a costo della vita. Non è giusto chiederle favori come li chiederemmo a qualcuno di noi. A differenza nostra, lei non mette se stessa davanti al resto.» Calò il silenzio. Nessuno rispose a Ian. «Non è vero» dissi. «Io penso continuamente a me stessa. E... voglio aiutarvi. Non conta niente? Aiutare Jamie stanotte mi ha resa felice. Non sono libera di cercare la felicità come desidero?» Ian sbuffò. «Capito cosa intendevo?» «Be', io non me la sento di impedirle di andare, se vuole» disse Jeb. «Ormai non è più nostra prigioniera.» «Ma non dobbiamo chiederglielo.» Jared assistette alla conversazione in silenzio. Anche Jamie taceva, ma ero sicura che fosse addormentato. Jared no: la sua mano disegnava intrecci casuali sulla mia guancia. Intrecci luminosi, ardenti. «Non c'è bisogno di chiedere» dissi. «Mi offro volontaria. Non mi sono affatto... spaventata. Proprio no. Le altre anime sono gentilissime. Non ho paura di loro. È stato fin troppo facile.» «Facile? Ma se ti sei ferita...» Interruppi Ian immediatamente. «È stata un'emergenza. Non capiterà più. D'accordo?» Ian sbadigliò. «Se lei esce, esco anch'io» disse, impassibile. «Qualcuno dovrà pur proteggerla da sé stessa.» «E io verrò a proteggere noi da lei» disse Kyle ridacchiando. Poi fece un grugnito e disse: «Ahi». Ero troppo stanca per alzare la testa e controllare chi l'avesse colpito. «E io verrò a riportarvi tutti a casa, vivi» mormorò Jared. 47 Lo sfruttamento «È troppo facile. Non mi diverto neanche più» si lamentò Kyle. «Sei tu che hai voluto venire» commentò Ian. I due fratelli, nel retro chiuso del furgone, stavano dividendo la merce articoli di drogheria e da toeletta - che avevo appena ritirato in negozio.
Era pieno giorno, e il sole splendeva su Wichita. Non era caldo come nel deserto dell'Arizona, ma più umido sì. L'aria era infestata da minuscoli moscerini. Jared si diresse verso la statale, fuori città, attento a non superare il limite di velocità. Una costrizione che continuava a irritarlo. «Non ti sei ancora stancata dello shopping, Wanda?» domandò Ian. «No. Non mi dispiace.» «Dici sempre così. Esiste qualcosa che ti dispiaccia fare?» «Mi dispiace... essere lontana da Jamie. E anche vivere così allo scoperto. Soprattutto di giorno. Gli spazi sono troppo sconfinati. Per voi non è un problema?» «A volte. Non usciamo granché, di giorno.» «Se non altro lei le gambe se le sgranchisce» borbottò Kyle. «È l'ultima che dovrebbe lamentarsi.» «Però non capita mai. E poi sarebbe bello, per una volta, non sentire te che ti lamenti.» Li lasciai perdere. Quando Ian e Kyle iniziavano, era difficile farli smettere. Consultai la mappa. «La prossima è Oklahoma City?» domandai a Jared. «E qualche altra cittadina come tappa intermedia, se ti va» rispose, gli occhi sulla strada. «Sì.» Jared era sempre concentratissimo. Non si rilassava perdendosi in chiacchiere, come Ian e Kyle, tra una missione e l'altra. Sorridevo quando li sentivo usare la parola «missione». Sembrava qualcosa di formidabile. In realtà, era una semplice gita per negozi. Come avevo fatto centinaia di volte durante la mia normalissima vita a San Diego. Kyle aveva ragione, era fin troppo facile, per essere anche divertente. Spingevo il carrello lungo i corridoi, sorridendo a chi mi sorrideva, e lo riempivo di prodotti a lunga scadenza. Di tanto in tanto prendevo anche qualcosa di fresco, per i ragazzi nascosti nel retro del furgone. Panini già pronti nel negozio di gastronomia, o cose del genere. E magari qualche dolcetto. Ian aveva una passione per il gelato alla stracciatella. Kyle impazziva per i dolci al caramello. Jared mangiava qualsiasi cosa; si era abituato ad accontentarsi, e negli anni aveva adottato uno stile di vita in cui i capricci erano un fastidio, e le necessità un fardello da sopportare. Ecco perché era così bravo: non piegava le priorità al proprio egoismo. Di tanto in tanto, nelle cittadine più piccole, qualcuno si accorgeva di me
e attaccava bottone. Ormai avevo imparato le battute così bene che forse persino un umano ci sarebbe cascato. «Ehi, ciao. Sei nuova di qui?» «Sì. Nuovissima.» «Come mai proprio a Byers?» Stavo sempre attenta a studiare la mappa prima di scendere dal furgone, per familiarizzare con il nome della città. «Il mio compagno viaggia molto. Fa il fotografo.» «Splendido! Un artista. Be', ci sono parecchi scorci incantevoli da queste parti...» All'inizio, io stessa mi ero spacciata per Artista. Ma avevo imparato che paventare subito la presenza di un compagno mi faceva risparmiare tempo, quando parlavo con i maschi. «Molte grazie per l'aiuto.» «Prego. Torna quando vuoi.» Una sola volta avevo dovuto chiedere informazioni a un farmacista, a Salt Lake City. Poi seppi cosa chiedere. Avevo sorriso, ingenua. «Non sono sicura che la mia alimentazione sia corretta. Non riesco a evitare di mangiare robaccia. Questo corpo ha un debole per i dolci...» «Devi controllarti, Mille Petali. So che è facile cedere alla brama, ma cerca di pensare a ciò che mangi. Nel frattempo, potresti prendere un integratore.» Salute. Con un nome tanto banale sull'etichetta, mi sentivo stupida a chiederlo. «Lo preferisci al sapore di fragola o di cioccolato?» «Posso provarli entrambi?» E l'anima gentile, di nome Nato sulla Terra, mi diede due belle bottiglie. Niente di che, come rischio. Il pericolo o la paura mi sfioravano soltanto quando pensavo alla capsula di cianuro che tenevo sempre in tasca, a portata di mano. Per ogni eventualità. «Nella prossima città è meglio che ti prenda dei vestiti nuovi» disse Jared. «Ancora?» «Questi iniziano a essere un po' sciupati.» «Okay.» Non mi piacevano gli eccessi, ma sapevo anche che la pila di panni sporchi, in continua crescita, non sarebbe andata sprecata. Lily, Heidi e Paige avevano più o meno la mia stessa taglia, e sarebbero state con-
tente di poter indossare qualcosa di nuovo. Gli uomini non si preoccupavano granché dei vestiti, quando uscivano in missione. Rischiavano la vita, perciò le priorità erano altre. E non consideravano neppure le saponette e lo shampoo delicato di cui avevo fatto incetta in ogni negozio. «E poi faresti meglio a lavarti» disse Jared, con un sospiro. «Il che significa, stasera albergo.» Fino a quel momento non si erano mai preoccupati di curare le apparenze. Ovviamente, l'unica che vista da vicino doveva risultare perfettamente integrata nella civiltà ero io. Gli uomini invece indossavano jeans e magliette nere, capi difficili da sporcare e poco appariscenti, nel raro caso che qualcuno li notasse. Odiavano dormire nei motel lungo la strada, cedere al sonno proprio nella tana del lupo. Li spaventava più di qualsiasi altra cosa. Secondo Ian, era meglio scontrarsi con un Cercatore armato. Kyle si rifiutava. Di giorno dormiva quasi sempre sul furgone, e di notte stava sveglio, per fare da sentinella. Per me, era facile quanto andare per negozi. Chiedevo una stanza, facevo conversazione con il portiere. Raccontavo la storia del mio compagno fotografo e dell'amico che viaggiava con noi (nel caso qualcuno ci vedesse entrare tutti e tre). Utilizzavo nomi generici, presi da pianeti anonimi. A volte eravamo Pipistrelli: Custode di Parole, Canta la Canzone dell'Uovo e Trespolo in Cielo. A volte, Alghe: Sguardo Sinuoso, Vede in Superficie e Seconda Alba. Ogni volta cambiavo nome. Io non temevo di essere pedinata, ma Melanie si sentiva più sicura così. Immaginava di essere la protagonista di un film di spionaggio. La parte più difficile, quella che mi pesava davvero - non l'avrei mai detto di fronte a Kyle, sempre pronto a dubitare delle mie intenzioni - era prendere così tanto senza mai dare niente in cambio. A San Diego non mi ero mai preoccupata dei miei acquisti. Prendevo soltanto l'indispensabile. Poi passavo le giornate all'università, a restituire la mia parte alla comunità in forma di conoscenza. Non era un compito gravoso, ma lo prendevo sul serio. E, quando era necessario, svolgevo anche mansioni meno piacevoli. Facevo la mia parte nella raccolta della spazzatura e nella pulizia delle strade. Come tutti. Ma a quel punto, prendevo molto di più senza restituire nulla. Mi sentivo egoista e in torto. "Non è per te, è per gli altri" mi ricordava Melanie quando mi incupivo. "Eppure mi sembra sbagliato. Persino tu te ne accorgi, no?"
"Non pensarci." Ecco la sua soluzione. Ero lieta che ci trovassimo sulla via del ritorno. L'indomani avremmo fatto visita al nostro deposito - un camion che tenevamo nascosto a un giorno di viaggio dalla nostra rotta - e svuotato per l'ultima volta il furgone. Ancora poche città, qualche giorno, giù verso l'Oklahoma, poi il New Mexico, e infine dritto verso l'Arizona senza fermate. A casa. Finalmente. Quando dormivamo in albergo, anziché sul furgone carico, arrivavamo dopo il tramonto e ripartivamo prima dell'alba per non far nascere sospetti. Quella notte, invece, dopo una giornata particolarmente fruttuosa - il furgone era pieno fino all'orlo e a Kyle restava poco spazio - e dal momento che Ian mi vedeva troppo stanca, ci fermammo prima del solito. Il sole non era ancora tramontato, quando tornai al furgone con la tessera magnetica della stanza fra le dita. Il motel non era affollato. Parcheggiammo nei pressi della stanza, verso la quale Jared e Ian si diressero rapidi e a capo chino. Sul collo, una cicatrice rosa sbiadita a mimetizzarli. Jared reggeva una valigia semivuota. Nessuno badò a loro né a me. Una volta entrati, i due uomini tirarono le tende e si rilassarono. Ian si accomodò sul letto in cui avrebbe dormito assieme a Jared, e accese la TV. Jared posò la valigia sul tavolo, ne estrasse la cena - bocconcini di pollo impanati, freddi e unti, che avevo ordinato alla gastronomia dell'ultimo centro commerciale - e ce la offrì. Io mi sedetti a sbirciare il tramonto da un angolo della finestra, mentre mangiavo. «Wanda, i nostri programmi erano più divertenti, devi ammetterlo.» Sullo schermo televisivo, due anime declamavano le proprie battute con dizione e postura perfette. Non era difficile capire la trama, perché le sceneggiature si somigliavano tutte. Quella raccontava di due anime che si ritrovavano dopo una lunga separazione. Reduce dal Pianeta delle Alghe, il maschio aveva scelto di vivere da umano, certo che la sua compagna del Pianeta delle Nebbie fosse stata attratta dai nuovi ospiti a sangue caldo. E miracolo dei miracoli, l'aveva ritrovata... C'era sempre un lieto fine. «Pensa a quale pubblico si rivolgono.» «Già. Magari trasmettessero i vecchi telefilm.» Diede una scorsa veloce ai canali e si rabbuiò. «Una volta ce n'era qualcuno.» «Sì, ma il pubblico ne restava sconvolto. Hanno dovuto sostituirli con qualcosa di meno... violento.»
«Parli della Famiglia Brady?» Scoppiai in una risata. Avevo visto quel telefilm a San Diego, anche Melanie ne aveva qualche ricordo d'infanzia. «Sì, quello che incitava alla violenza. Ricordo la puntata in cui il maschio più piccolo dava un pugno al bullo della scuola, e sembrava che quella fosse la cosa più giusta da fare. Si vedeva il sangue...» Ian scosse la testa, incredulo, ma tornò alla trasmissione con protagonista l'ex-Alga. Rideva delle battute assurde, quelle che avrebbero voluto essere commoventi. Guardai fuori dalla finestra, incuriosita da qualcosa di molto più interessante. Al di là della strada a due corsie su cui si affacciava il motel c'era un minuscolo giardino pubblico, tra una scuola e un pascolo di mucche. Tra i giovani alberi spiccava un vecchio parco giochi, con una buca di sabbia, lo scivolo, un castello di tubi, e una giostra manuale di ferro. Ovviamente c'era anche l'altalena, unico gioco utilizzato in quel momento. Una famigliola si godeva l'aria fresca della sera. Il padre aveva ciocche di capelli grigi sulle tempie; la madre sembrava molto più giovane. I suoi capelli ramati erano raccolti in una lunga coda, che ondeggiava a ogni suo movimento. Il figlio non doveva avere più di un anno. Il padre spingeva l'altalena, da dietro, verso la madre che si chinava a baciare la fronte del bambino quando le dondolava davanti, scatenando risate con cui lo faceva arrossire di gioia. Anche lei rideva: vedevo i fremiti del suo corpo, la danza dei capelli. «Cosa guardi, Wanda?» Jared non si scompose, perché avevo reagito a quell'apparizione imprevista abbozzando un sorriso. «Una cosa che non ho mai visto in tutte le mie vite. Sto guardando... la speranza.» Jared mi si avvicinò e sbirciò da dietro la mia spalla. «In che senso?» Perlustrò con lo sguardo gli edifici e la strada, senza soffermarsi sulla famiglia che giocava. Lo presi per il mento e lo costrinsi a voltarsi dalla parte giusta. Reagì al contatto con un breve sussulto, che accese in me uno strano calore. «Guarda» dissi. «Guarda cosa?» «L'unica speranza di sopravvivenza che abbia mai visto, in una specie ospite.»
«Dove?» chiese, perplesso. Mi accorsi che anche Ian si era avvicinato, e ci ascoltava in silenzio. «Vedi?» Indicai la madre sorridente. «Vedi quanto bene vuole al proprio figlio umano?» In quel momento la donna sfilò il bambino dall'altalena e lo strinse forte, coprendolo di baci. Lui era tutto risolini e mossette, un vero bambino. Non l'adulto in miniatura che sarebbe diventato se a dirigerlo fosse stato un membro della mia specie. Jared restò basito. «Il bambino è umano? Ma come? Perché? Fino a quando?» Mi strinsi nelle spalle. «Non lo so, è la prima volta che assisto a una scena del genere. La madre non lo ha ancora offerto come ospite. Stento a credere che la possano... costringere. La maternità è pressoché sacra per la mia specie. Se lei rifiutasse di cederlo...» Scossi la testa. «Non so dirti come andrà. Succede soltanto qui. Le emozioni di questi corpi vanno oltre qualsiasi logica.» Alzai lo sguardo verso Jared e Ian. Entrambi fissavano sbalorditi la famiglia interspecie del parco giochi. «No» mormorai, tra me. «Nessuno proibirà ai genitori di tenere il bambino. Guardate come sono felici.» Il padre era corso ad abbracciare la madre e il figlio. Guardava il figlio biologico del proprio corpo-ospite con gli occhi pieni di una tenerezza indicibile. «A parte il nostro, questo è l'unico pianeta popolato da mammiferi che abbiamo scoperto. Il vostro sistema di riproduzione non è affatto il più semplice né il più prolifico. Chissà se è colpa della differenza... o della debolezza dei vostri piccoli. Altrove, la riproduzione avviene attraverso uova, semi o cose del genere. Capita spesso che i figli siano degli estranei, per i genitori...» La mia voce si perse, densa di congetture. La madre alzò la testa verso il padre, che la baciò sulle labbra. «Mmm. Forse, un giorno, una parte della mia gente e una parte della vostra vivranno assieme. Sarebbe... curioso, no?» Nessuno dei due riusciva a distogliere lo sguardo da quel miracolo. La famiglia stava per andarsene. La madre era intenta a scrollarsi la sabbia dai jeans, mentre il padre si occupava del bambino. Poi, facendo dondolare le mani intrecciate, le anime andarono a piedi verso gli appartamenti, insieme al loro figlio umano. Ian deglutì rumorosamente.
Passammo il resto della serata in silenzio, a meditare su ciò che avevamo visto. Andammo a dormire presto, per poterci alzare di buon'ora e rimetterci all'opera. Io dormivo sola, nel letto più lontano dalla porta. E mi sentivo un po' in colpa. I due uomini, grossi com'erano, erano scomodi nell'altro letto. Quando dormiva profondamente, Ian tendeva a occupare tutto il materasso, e Jared non disdegnava di allontanarlo con un pugno. Ognuno dei due sarebbe stato più comodo con me, che avevo preso l'abitudine di dormire rannicchiata; forse mi raggomitolavo per reagire alla vastità degli spazi che mi circondavano di giorno, oppure mi ero talmente abituata a sonnecchiare nello spazio microscopico tra i sedili anteriori e il retro del furgone, da aver disimparato a sdraiarmi. Ma sapevo anche perché nessuno dei due mi avesse chiesto di dormire con sé. La prima sera in cui gli uomini si erano resi conto che avevo bisogno di una doccia e di un letto, avevo origliato una conversazione tra Ian e Jared, coperta dal ronzio della ventola in bagno. «... Non è giusto costringerla a scegliere» disse Ian. Parlava a voce bassa, ma la ventola non faceva abbastanza rumore da mascherarne la voce. La stanza era troppo piccola. «Perché no? È più corretto ordinarle dove dormire? Non pensi che sia più educato...» «Fosse qualcun altro, sì. Ma Wanda ci resterebbe troppo male. Si strazierà, pur di farci contenti entrambi.» «Sei ancora geloso?» «Non stavolta. Ho solo capito come pensa.» Calò il silenzio. Ian aveva ragione. Sapeva come ragionavo. Probabilmente aveva già previsto che mi sarei lasciata influenzare dal parere di Jared e avrei deciso di dormire accanto a lui, senza chiudere occhio, preoccupata di non metterlo in imbarazzo e allo stesso tempo di tradire i sentimenti di Ian. «Bene» sbottò Jared. «Ma non cercare di coccolarmi, stanotte... collabora, O'Shea.» Ian ridacchiò. «Non per essere arrogante, ma in tutta onestà, Jared, se volessi potrei fare anche di meglio.» In seguito non fummo più costretti a dormire in albergo. I giorni iniziarono a scorrere più veloci, come se il tempo stesso desiderasse correre a casa. Sentivo una strana forza che attirava il mio corpo verso ovest. Eravamo impazienti di tornare al nostro rifugio buio e popolato.
Persino Jared iniziò a rilassarsi. Era tardi, al di là dell'orizzonte non c'erano più riflessi del tramonto. Dietro di noi, Ian e Kyle si davano il cambio alla guida del grosso camion carico di bottino, come facevamo io e Jared con il furgone. Vidi i loro fari svanire lentamente in lontananza, e sparire del tutto dietro un'ampia curva. Era l'ultimo tratto del viaggio. Ci eravamo lasciati Tucson alle spalle. Poche ore, e avrei rivisto Jamie. Avremmo scaricato le provviste tanto desiderate, circondati da volti sorridenti. Un vero benvenuto. Il primo, per me. Per una volta, avremmo portato con noi soltanto gioia. Senza ostaggi destinati a una brutta fine. L'impazienza cancellò ogni altra preoccupazione. Non mi accorsi di quanto veloce sfilasse la strada; non abbastanza, per quanto mi riguardava. I fari del camion riapparvero alle nostre spalle. «Dev'esserci Kyle alla guida» mormorai. «Ci stanno riprendendo.» E all'improvviso la notte scura si illuminò di luci rosse e blu. Gli specchietti le riflettevano e irradiavano una danza di macchie colorate sul tetto, sui sedili, sui nostri volti smarriti e sul cruscotto, dove la lancetta del tachimetro indicava che stavamo oltrepassando di quaranta chilometri all'ora il limite di velocità. Il suono di una sirena squarciò la calma del deserto. 48 Il controllo Le luci rosse e blu giravano in sincrono con la sirena. Prima dell'arrivo delle anime, quelle luci e quei suoni avevano avuto un solo significato. La legge, i custodi dell'ordine, l'incubo dei trasgressori. E ora quei colori vivaci e la sirena avevano un solo significato. Molto simile al vecchio. Erano sempre i custodi dell'ordine, della legge. I Cercatori. Vederli o sentirli non capitava così spesso come un tempo. Le forze di polizia entravano in azione soltanto in caso di incidenti o altre emergenze, non per far applicare la legge. Quasi tutti i veicoli di servizio erano privi di sirene, a meno che non si trattasse di ambulanze o camion dei pompieri. Non era stato un incidente a mettere in azione l'automobile bassa e slanciata che ci seguiva. Sembrava fatta apposta per gli inseguimenti. Non ne avevo mai vista una di simile, ma capii subito cosa stava per accadere.
Jared, impietrito, non mollava l'acceleratore. Lo vedevo sforzarsi in cerca di una soluzione, di una maniera per seminarli con quel furgone decrepito o perlomeno fuggire a piedi - nascondendo le nostre sagome sgraziate fra gli arbusti del deserto - per tenerli lontani dal camion e impedire che smascherassero i nostri compagni. Eravamo vicinissimi a loro. Dormivano, ignari... Dopo due secondi di riflessioni frenetiche, Jared rinunciò sospirando. «Scusa, Wanda» sussurrò. «Ho rovinato tutto.» «Jared?» Cercò la mia mano e il motore scese di giri. Il furgone iniziò a rallentare. «Hai la pasticca?» tossì. «Sì» bisbigliai. «Mel mi sente?» Si. «Sì» ribadii, sforzandomi di non imitarne il tono singhiozzante. «Ti amo, Mel. Scusa.» «Anche lei ti ama. Sopra ogni cosa.» Calò un silenzio breve e doloroso. «Wanda, io... ti sono affezionato, ormai. Tu sei buona, Wanda. Meriti più di ciò che ti ho dato. Più di questa.» C'era qualcosa di piccolo, troppo piccolo per essere mortale, tra le sue dita. «Aspetta» ansimai. Non poteva morire. «Wanda, non possiamo rischiare. Seminarli è impossibile, con questo coso. E se cerchiamo di scappare, ci inseguiranno a migliaia. Pensa a Jamie.» Il furgone iniziò ad accostare, sempre più lento. «Lasciami provare» lo implorai. Cercai subito la pasticca, in tasca. La presi tra pollice e indice e gliela mostrai. «Fammi provare a mentire. Se qualcosa va storto la mordo immediatamente.» «Non puoi mentire a un Cercatore!» «Fammi provare. Svelto!» Sganciai la mia cintura di sicurezza e mi rannicchiai accanto a lui per sbloccare anche la sua. «Facciamo cambio. Svelto, prima che se ne accorgano!» «Wanda...» «Un tentativo. Sbrigati!» Prendere decisioni all'ultimo momento era la sua specialità. Con un ge-
sto fluido e veloce abbandonò il sedile del guidatore e scavalcò il mio corpo raggomitolato. Mentre occupava il mio posto sgusciai verso il suo. «Cintura di sicurezza» ordinai, secca. «Chiudi gli occhi. Voltati.» Obbedì. Malgrado il buio fitto, la sua nuova cicatrice rosa sbiadita era ben visibile. Allacciai la cintura e chinai il capo all'indietro. Mentire con il corpo, ecco la chiave. Era solo questione di gesti. Di imitazione. Come gli attori del programma televisivo, anzi meglio. Come un essere umano. «Aiutami, Mel» mormorai. "Non posso aiutarti a recitare meglio la parte dell'anima. Ma tu puoi farcela a salvarlo. So che puoi." Non dovevo recitare. Bastava essere me stessa. Era tardi. Ero stanca. Anche senza fingere. Sentii le palpebre appesantirsi, abbandonai il mio corpo contro lo schienale. Imbarazzo. L'imbarazzo lo conoscevo. Lo sentivo. La mia bocca si curvò all'ingiù in un'espressione dispiaciuta. L'auto dei Cercatori non parcheggiò dietro di noi, come si aspettava Mel. Deviò fermandosi sul ciglio della corsia opposta alla nostra. Da un finestrino esplose una luce accecante. Mi colpì mentre cercavo di alzare la mano, con lentezza studiata, per coprirli. Al di là del fascio di luce intravidi il riflesso dei miei occhi colpire la strada. Sentii sbattere la portiera dell'auto. I passi di una persona che attraversava la carreggiata scandirono un ritmo regolare e cupo. Non avevo percepito rumore di sabbia o sassi, perciò il Cercatore doveva essere sceso dal lato del passeggero. Erano come minimo in due, di cui uno soltanto stava venendo a interrogarmi. Buon segno, indice di fiducia e serenità. I miei occhi luccicanti erano un talismano. Una bussola che non poteva fallire, come la Stella Polare, inconfondibile. Mentire con il corpo non era la chiave. Dire la verità era più che sufficiente. Avevo qualcosa in comune con il piccolo umano del parco: niente come me era mai esistito prima. La sagoma del Cercatore coprì la luce e mi consentì di guardarlo meglio. Era un uomo. Probabilmente di mezza età; i capelli erano bianchi, ma il volto liscio e senza rughe. Indossava una maglietta e dei bermuda, con una pistola immobilizzatrice in bella evidenza appesa alla cintura. Una mano stringeva il calcio dell'arma, l'altra stringeva una torcia spenta. Non l'acce-
se. «Problemi, signorina?» disse quando fu a meno di un metro. «Procedere a quella velocità è un rischio per la sicurezza.» Il suo sguardo era inquieto. Valutò in un istante la mia espressione, che speravo insonnolita, poi il suo sguardo seguì il profilo del furgone, saettò verso l'oscurità dietro di noi, percorse il tratto di statale illuminato dai fari, e tornò al mio viso. Eseguì la ricognizione due volte. Era nervoso. Lo avvertivo e ne ero spaventata, ma cercai di parlare senza cadere nel panico. «Mi dispiace davvero» dissi a bassa voce. Diedi un'occhiata a Jared, come a premurarmi di non averlo svegliato. «Temo... ecco, temo di essermi addormentata. Non mi sono resa conto di essere così stanca.» Abbozzai un sorriso mortificato. Sentivo la mia voce ingessata, come quella degli attori della TV. Gli occhi del Cercatore ripresero a scrutarci, soffermandosi su Jared. Sentivo il cuore galopparmi nel petto. Strinsi la pasticca più forte. «È stata una decisione irresponsabile guidare così a lungo senza dormire» aggiunsi svelta. «Pensavo di poter resistere sino a Phoenix. Mi dispiace molto.» «Qual è il suo nome, signorina?» La voce del Cercatore non era né brusca né calda. Tuttavia si sforzò come me di non svegliare Jared. «Foglie in Alto» dissi, riciclando il nome utilizzato in albergo. Nel caso avesse voluto approfondire, avrei saputo dove indirizzarlo. «Ex Fiore Capovolto?» domandò, mentre i suoi occhi continuavano la solita ispezione. «Sì, lo ero.» «Anche la mia compagna. Lei viveva sull'isola?» «No» risposi lesta. «All'interno. In mezzo ai grandi fiumi.» Annuì, con un filo di dispiacere. «Meglio che torni a Tucson?» domandai. «Mi sento piuttosto sveglia, ora. O forse è meglio che faccia un sonnellino qui, prima...» «No!» mi interruppe in tono inaspettatamente aspro. Sobbalzai per lo spavento, e la pasticca scivolò dalle mie dita. Cadde sul fondo di metallo con un clac debole. Mi sentii sbiancare. «Non volevo spaventarla» si scusò subito il Cercatore, il cui sguardo preoccupato riprese subito la propria ispezione. «Ma non credo sia il caso di trattenersi qui.»
«Perché?» riuscii a sussurrare. Le mie dita pizzicavano nervose il vuoto. «C'è stata una sparizione, di recente.» «In che senso, una sparizione?» «Potrebbe trattarsi di un incidente... ma anche dell'opera di umani presenti in questa zona.» «Umani?» strillai, a voce fin troppo alta. Percepì la mia paura, e la interpretò come poteva. «Non ne abbiamo prove certe, Foglie in Alto. Nessun avvistamento o cose del genere. Non si faccia prendere dal panico. Ma forse è meglio che lei parta subito per Phoenix senza trattenersi oltre.» «Certo. Va bene anche Tucson? È più vicina.» «Non c'è pericolo. Può continuare sulla sua strada.» «Se lo dice lei, Cercatore...» «Ne sono certo. L'importante è che lei non faccia deviazioni nel deserto, Fiore.» Sorrise. L'espressione riempì il suo volto d'affetto e gentilezza. La stessa di ogni altra anima che avevo incontrato. Non ero io a preoccuparlo, era preoccupato per me. Non cercava bugie da smascherare, e probabilmente non le avrebbe mai riconosciute. Era un'anima come un'altra. «Non ne prevedevo.» Anch'io sorrisi. «Starò più attenta. Ormai è difficile che mi addormenti.» Lanciai uno sguardo preoccupato al deserto, fuori dal finestrino di Jared, per convincere il Cercatore che era la paura a rendermi vigile. La mia espressione si irrigidì in una maschera inquieta, quando notai un paio di fari riflessi nello specchietto. Senza scomporsi, anche Jared si irrigidì, nervoso. Il mio sguardo tornò fulmineo al viso del Cercatore. «Posso aiutarla con questo» disse, sempre sorridente, mentre armeggiava con una tasca per estrarne qualcosa. Non aveva visto la mia espressione cambiare. Cercavo di controllare i muscoli delle guance, di rilassarli, ma non trovavo la concentrazione necessaria. Il retrovisore mostrava i fari sempre più vicini. «Meglio non abusarne» aggiunse il Cercatore, frugando in un'altra tasca. «Non fa male, ovviamente, se no i Guaritori non ne consentirebbero la distribuzione. Ma se lo usa troppo spesso finirà per alterare il ciclo del sonno... ah, eccolo. Sveglia.» Le luci in avvicinamento rallentarono. Passate oltre, li implorai tra me. Non fermatevi, no, no, non fermatevi. "Speriamo che ci sia Kyle al volante" aggiunse Melanie, che scandì le
parole come una preghiera. Non fermatevi. Proseguite. Non fermatevi. «Signorina?» Trasalii, e cercai di concentrarmi. «Ehm, Sveglia?» «Prego, respiri questo, Foglie in Alto.» Il Cercatore stringeva una sottile bomboletta bianca. Spruzzò una nuvoletta di spray davanti al mio viso. Mi chinai in avanti, obbediente, e ne inspirai un po', lanciando un'occhiata al retrovisore. «È aromatizzato al pompelmo» disse il Cercatore. «Buono, vero?» «Molto buono.» All'istante recuperai lucidità e concentrazione. Il camion rallentò e fece per accostare sul ciglio della strada dietro di noi. "No!" Urlammo io e Mel insieme. Per mezzo secondo perlustrai il fondo dell'abitacolo, sperando mio malgrado che la pasticca fosse ben visibile. Non riconobbi nemmeno i miei piedi. Il Cercatore diede un'occhiata distratta al camion e fece cenno all'autista di proseguire. Anch'io cercai di guardare il camion, un sorriso forzato sulle labbra. Non capii chi guidava. I miei occhi riflettevano il fascio di luce dei fari irradiandone uno più debole. Il camion non si mosse. Il Cercatore fece un altro cenno, più ampio. «E andate» mormorò tra sé. Riparti! Riparti! Riparti! Accanto a me, Jared strinse il pugno. Lentamente, il camion innestò la prima e rientrò in carreggiata, inserendosi tra il veicolo dei Cercatori e il nostro. La torcia del Cercatore illuminò due profili, due sagome nere, entrambe rivolte verso il parabrezza. Quella che guidava aveva il naso storto. Io e Mel sospirammo di sollievo. «Come si sente?» «Vigile» dissi al Cercatore. «L'effetto dura quattro ore circa.» «Grazie.» Il Cercatore ridacchiò. «Grazie a lei, Foglie in Alto. Quando vi abbiamo visti correre a quella velocità, pensavamo di avere intercettato degli umani. Ho iniziato a sudare, ma non per il caldo!» Rabbrividii. «Non si preoccupi. Andrà benissimo. Se vuole, la possiamo scortare sino
a Phoenix.» «Grazie, ma sto bene. Non disturbatevi.» «È stato un piacere conoscerla. A fine turno sarò lieto di tornare dalla mia compagna e dirle che ho conosciuto un altro Fiore dalle foglie capovolte. Ne sarà entusiasta.» «Ehm... le auguri "sole splendente e lunga giornata" da parte mia» dissi, traducendo in lingua terrestre il commiato più diffuso sul Pianeta dei Fiori. «Senz'altro. E voi fate buon viaggio.» Arretrò, e il fascio luminoso colpì di nuovo i miei occhi. Li sbattei con decisione. «Spegni, Hank» disse il Cercatore, procedendo verso l'auto con una mano a coprirsi gli occhi. La notte ridiventò nera, e io mi sforzai di sorridere anche al Cercatore invisibile chiamato Hank. Accesi il motore con mano tremante. I Cercatori furono più veloci. La piccola auto nera con la strana barra luminosa sul tetto fece una rapida inversione a U e nel giro di pochi istanti i suoi fari posteriori sparirono nella notte. A quel punto ripartii. Il mio cuore batteva all'impazzata. Ne sentivo le pulsazioni persino sulla punta delle dita. «Sono andati» sussurrai tra i denti che ancora battevano. Sentii Jared deglutire. «Che rischio» disse. «Temevo che Kyle si fermasse.» «Anch'io.» Parlavamo a sussurri, non osavamo alzare la voce. «Il Cercatore l'ha bevuta.» «Sì.» «Io non ci sarei cascato. Non sei migliorata granché, come attrice.» Scrollai le spalle. Il mio corpo era talmente rigido che si rilassò di colpo. «Non possono non credermi. Ciò che sono... be', è qualcosa di impossibile. Qualcosa che non dovrebbe esistere.» «Qualcosa di incredibile» commentò. «E meraviglioso.» I suoi complimenti sciolsero un po' la morsa che mi stringeva lo stomaco. «I Cercatori non sono poi diversi dagli altri» mormorai, tra me. «Non fanno poi così paura.» Annuì con gesti lenti. «Proprio non puoi farci niente, eh?» Non sapevo cosa rispondere.
«La tua presenza ci cambierà la vita» aggiunse sottovoce, assorto. Sentii Melanie farsi più triste, ma non era arrabbiata. Rassegnata, piuttosto. Tu puoi aiutarli. Puoi proteggerli più di me. E sospirò. I fari del veicolo che procedeva lento davanti a noi non mi spaventarono, quando li vidi comparire. Li conoscevo, mi rincuorarono. Accelerai un poco - senza oltrepassare il limite - per sorpassarli. Jared estrasse una torcia dal vano del cruscotto. Capii cosa voleva fare: rassicurarli. Mentre sorpassavamo il camion fece luce sul suo viso. Io cercai di guardare al di là del suo finestrino. Kyle annuì e fece un gran sospiro. Ian si sporse alle sue spalle, gli occhi fissi su di me. Lo salutai, e lui sorrise. Ci stavamo avvicinando all'entrata nascosta. «Pensi che sia il caso di proseguire sino a Phoenix?» Jared ci pensò. «No. Rischiamo di incrociarli e di venire fermati di nuovo. Non credo che ci stiano seguendo. Sono concentrati sulla strada.» «No, non ci seguiranno.» Ne ero certa. «Allora torniamo a casa.» «Sì, casa» aggiunsi di cuore. Spegnemmo i fari, e Kyle alle nostre spalle fece altrettanto. Kyle e Ian avrebbero pensato a condurre i veicoli fino alle caverne, e a scaricare in fretta, così da nasconderli prima del mattino. La piccola sporgenza all'entrata non sarebbe bastata a proteggerli da sguardi indiscreti. Mi sentii una sprovveduta ripensando alla strada che portava alle caverne. Il grande mistero dell'uscita che non ero mai riuscita a risolvere da sola. Jeb era davvero contorto. Come le indicazioni che aveva lasciato a Mel, le righe incise nella copertina dell'album di foto. Non portavano affatto al rifugio. No: costringevano chi le seguiva a trascinarsi avanti e indietro davanti al nascondiglio segreto, lasciando a Jeb tutto il tempo di decidere se estendere o no il suo invito. «Secondo te cosa è successo?» domandò Jared, e interruppe i miei pensieri. «In che senso?» «La recente sparizione di cui parlava il Cercatore.» Fissai il vuoto, impassibile. «Non parlava di me?» «Non penso proprio che ti potrebbero considerare recente, Wanda. E soprattutto, durante il viaggio d'andata non abbiamo incontrato pattuglie stradali. È una novità. Stanno cercando noi. Qui.»
Il suo sguardo si fece tagliente, il mio spaventato. «Cos'hanno combinato?» Jared esplose all'improvviso, schiaffeggiando forte il cruscotto. Sobbalzai. «Credi che sia colpa di Jeb e degli altri?» Non rispose, ma scrutò il deserto stellato con occhi furiosi. Non capivo. I Cercatori andavano a caccia di umani dopo che qualcuno era scomparso nel deserto: perché? Poteva succedere. Com'erano giunti a conclusioni tanto precise? E perché Jared era arrabbiato? I nostri fratelli, nelle caverne, non facevano mai niente per attirare l'attenzione. Non erano così sciocchi. Uscivano soltanto in caso di emergenza. Oppure se pensavano che fosse indispensabile. Avevano forse sfruttato la mia assenza? Jeb aveva dichiarato di non voler più macellare persone e anime, finché mi fossi trovata sotto il loro tetto. Aveva scoperto un compromesso? «Tutto bene?» domandò Jared. Il nodo che avevo in gola mi impedì di rispondere. Scossi la testa. Le mie guance si rigarono di lacrime, che cadevano dal mento sul mio grembo. «Lascia guidare me.» Scossi di nuovo la testa. Ci vedevo ancora. Non insistette. Mentre piangevo in silenzio, raggiungemmo la montagna bassa che nascondeva il reticolo delle nostre caverne. In realtà si trattava di una collinetta insignificante di roccia vulcanica, simile a tante altre, decorata qua e là da infiorescenze di creosoto affusolato e fichi d'india dalle foglie piatte e pungenti. Le migliaia di piccole grate erano invisibili, perse nell'amalgama di rocce violacee. Da qualche parte usciva del fumo, nero su nero. Uscii dal furgone e mi appoggiai alla portiera, asciugandomi gli occhi. Jared mi si avvicinò. Indeciso, appoggiò una mano sulla mia spalla. «Scusa. Non potevo immaginarlo. Non credevo che l'avrebbero fatto. Non dovevano...» Lo diceva soltanto perché ormai li avevo smascherati. Il camion frenò di colpo alle nostre spalle. Sentimmo il rumore di portiere che sbattevano e poi di passi. «Che è successo?» domandò Kyle, giunto per primo. Ian era alle sue spalle. Vide la mia espressione, le lacrime che ancora mi rigavano le guance, la mano di Jared sulla mia spalla, poi mi corse incon-
tro per abbracciarmi. Mi strinse al petto. Non so perché, ma piansi ancora più forte. Avvinta a lui, bagnavo di lacrime la sua camicia. «È tutto a posto. Sei stata grande. È finita.» «Il problema non è il Cercatore, Ian» disse Jared inquieto, mentre si sporgeva in avanti per non perdere il contatto con me. «Che?» «Non stavano pattugliando la strada per caso. A quanto pare Doc ha ricominciato a... lavorare, in nostra assenza.» Rabbrividii, e per un istante mi parve di sentire in gola il sapore di sangue argenteo. «Ma come, quei...» La furia lasciò Ian senza parole. Non terminò la frase. «Bravi» disse Kyle, disgustato. «Idioti. Stiamo via per qualche settimana, e quelli scatenano i Cercatori. Avrebbero potuto almeno chiedere a noi...» «Taci, Kyle» disse Jared aspro. «Non siamo ancora arrivati. Dobbiamo scaricare tutto e in fretta. Chissà in quanti ci stanno cercando? Prendiamo un carico, e poi cerchiamo aiuto.» Mi scrollai di dosso Ian, per dare una mano. Le lacrime non si fermavano. Ian mi restò accanto, sostituendo lo scatolone pesante di zuppa in lattina che avevo sollevato con una confezione di pasta, più grossa ma più leggera. Imboccammo il sentiero ripido che portava all'interno, guidati da Jared. Il buio pesto non mi disturbava. Non conoscevo ancora bene la strada, ma non era difficile. Sempre dritto in discesa, sempre dritto in salita. A metà percorso, una voce familiare spuntò da lontano. Riecheggiò, spezzata, nella galleria. «Sono tornati... ati... ati» urlava Jamie. Cercai di asciugarmi le lacrime con una spalla, ma non ci riuscii del tutto. Una luce azzurra si avvicinò, rimbalzando assieme alla corsa di chi la portava. Poi apparve Jamie. Rivederlo fu sconcertante. Credendolo allegro come al solito, mi ero sforzata di ricompormi per salutare senza intristirlo. Ma Jamie era già triste. Il suo volto era pallido e teso, gli occhi cerchiati di rosso. La sabbia sulle guance era rigata dalle lacrime che aveva versato. «Jamie?» esclamai assieme a Jared, lasciando cadere la scatola a terra.
Jamie mi corse incontro e mi abbracciò. «Oh, Wanda! Oh, Jared!» singhiozzò. «Wes è morto! Morto! La Cercatrice l'ha ucciso!» 49 L'interrogatorio Avevo ucciso Wes. Le mie mani, oltre che graffiate, screpolate e macchiate di sabbia dopo le operazioni frenetiche di scarico, erano sporche del suo sangue. Era morto, e la colpa era tanto mia quanto di chi aveva premuto il grilletto. Scaricato il camion ci riunimmo tutti, meno cinque, in cucina a mangiare un po' del cibo fresco raccolto durante l'ultima parte della spedizione - latte, pane e formaggio - e ad ascoltare il resoconto di Jeb e Doc. Sedevo in disparte, la testa fra le mani, ottenebrata dal dolore e dal senso di colpa per fare domande. Jamie mi era vicino. Di tanto in tanto mi dava un colpetto sulle spalle. Wes era già sepolto nella grotta scura, accanto a Walter. Era morto quattro notti prima, mentre io, Jared e Ian ammiravamo la famiglia nel parco. Non avrei mai più rivisto il mio amico, né sentito la sua voce... Andy e Paige non c'erano. Erano andati a riportare il camion e il furgone al nascondiglio. Di lì avrebbero ricondotto la jeep al solito garage improvvisato, per poi tornare a piedi, prima dell'alba. Lily non c'era. «Non... si sente granché bene» aveva mormorato Jamie dopo avermi sorpresa a cercarla nella stanza. Non volli sapere altro, potevo immaginarlo. Aaron e Brandt non c'erano. Brandt aveva una nuova cicatrice, liscia, rosa e circolare all'altezza della clavicola sinistra. Il proiettile aveva mancato il suo cuore e il polmone di un soffio. Doc aveva dovuto usare quasi tutto il Guarisci per estrarlo. Ma ora Brandt stava bene. Il proiettile di Wes aveva avuto maggior successo. Gli aveva perforato la fronte alta e olivastra, per uscire dalla nuca. Nemmeno una tanica di Guarisci sarebbe bastata a Doc. Brandt, che dentro un fodero che gli penzolava dalla cinta portava il tro-
feo, pesante e compatto, del suo scontro, era in compagnia di Aaron. Si trovavano nel tunnel che avrebbe dovuto fare da magazzino, se non fosse stato occupato. Se non fosse tornato a essere una prigione. Come se perdere Wes non fosse stato abbastanza. Era terribile pensare che il numero dei presenti non fosse cambiato. Trentacinque corpi viventi, come prima del mio arrivo nelle grotte. Wes e Walter se n'erano andati, ma c'ero io. E ora anche la Cercatrice. La mia Cercatrice. Se fossi andata a Tucson senza deviazioni. Se fossi rimasta a San Diego. Se avessi evitato questo pianeta scegliendone un altro. Se mi fossi offerta come Madre, come chiunque avrebbe fatto dopo cinque o sei pianeti. Se, se, se... se non fossi arrivata laggiù, se non avessi fornito alla Cercatrice gli indizi giusti, Wes sarebbe sopravvissuto. Le ci era voluto più tempo che a me per interpretare le tracce, ma, trovata la soluzione, nessuno l'aveva costretta a seguirle con cautela. Aveva iniziato a sfrecciare sul suo fuoristrada, lasciando ogni volta una ferita fresca nel panorama del deserto, a ogni passaggio sempre più vicina. Avevano dovuto intervenire per fermarla. Avevo ucciso Wes. "Avrebbero dovuto prendere me, prima di tutto. Sono stata io a guidarli, non tu." Ero troppo disperata per rispondere. "E poi, se non fossimo arrivate noi, Jamie sarebbe morto. Forse anche Jared. Sarebbe morto stanotte, senza te." Morte in ogni angolo. Morte ovunque guardassi. "Perché mi ha seguita?" sospiravo, tra me. "Non sto facendo alcun danno alle altre anime. Ad alcune di loro sto persino salvando la vita, visto che la mia presenza qui impedisce a Doc di continuare con gli esperimenti. Perché mi ha seguita?" "Perché l'hanno imprigionata?" ringhiò Mel. "Perché non l'hanno uccisa subito? O anche lentamente, non mi importa come! Perché è ancora viva?" Ero in preda alla paura. La Cercatrice era viva; la Cercatrice era tra noi. Non era lei che dovevo temere. Era legittimo temere che la sua sparizione potesse scatenare l'intervento di altri Cercatori. Tutti ne erano spaventati. Spiandola mentre cercava il mio corpo, gli umani avevano notato la determinazione di quella donna. Aveva provato a convincere i propri colleghi che c'erano esseri umani na-
scosti nella desolazione del deserto. Nessuno l'aveva presa sul serio. Se n'erano andati, lasciandola sola. Ma ora tutto era cambiato. La Cercatrice era scomparsa nel bel mezzo di una missione. Il suo veicolo era stato rimosso e abbandonato nel tratto desertico fra le grotte e Tucson. Sembrava sparita in circostanze identiche alle mie: brandelli di zaino sparpagliati nei dintorni, pacchetti di cibo strappati e sminuzzati a morsi. Sarebbe bastato a convincere le altre anime che si trattava di una coincidenza? Sapevamo già che la risposta era no. Non del tutto. La stavano cercando. E la ricerca si sarebbe intensificata? Ma avere paura della Cercatrice... aveva poco senso. Fisicamente non metteva paura, era più bassa persino di Jamie. Io ero più forte e veloce di lei. Ed ero circondata da amici e alleati, mentre lei, prigioniera nelle caverne, era sola. Due armi, il fucile e la sua Glock - la pistola che Ian le aveva invidiato, quella che aveva ucciso il mio amico Wes - erano puntate su di lei in quell'esatto istante. La sua vita era appesa a un filo, che presto si sarebbe spezzato. Jeb pensava che forse volessi dirle qualcosa. Ecco perché era prigioniera. Al mio ritorno, che le avessi parlato o no, era condannata a morire. Ma allora perché mi sentivo in soggezione? Perché lo strano presagio che lei sarebbe uscita vincitrice da un confronto? Non avevo deciso se parlarle o no. Così dissi a Jeb. In realtà ero certa di non volerlo. E spaventata alla sola idea di rivedere il suo viso: un viso sul quale non potevo immaginare un'espressione di paura. Ma se avessi detto chiaro e tondo che non desideravo parlare con lei, Aaron le avrebbe sparato. Come se fossi stata io stessa a dargli l'ordine o a premere il grilletto. E Doc avrebbe cercato di strapparla al suo corpo umano. Trasalii, al ricordo del sangue argenteo che macchiava le mani del mio amico. Melanie ebbe un moto di fastidio, cercando di evitare il tormento che mi dava alla testa. "Wanda? Le spareranno, e basta. Non cadere nel panico." Ero tormentata dalla scena in cui vedevo Aaron stringere la pistola della Cercatrice; il corpo di lei accasciarsi lentamente sulla pietra, dentro una pozza di sangue...
"Non sarai costretta a guardare." I pensieri di Melanie iniziarono a turbinare. "Ma vogliamo che muoia, no? Ha ucciso Wes. E, in fondo, non può sopravvivere. Comunque vada." Aveva ragione: la Cercatrice non aveva speranza di sopravvivere. Imprigionata, si sarebbe fatta in quattro pur di scappare. Libera, avrebbe causato la morte della mia famiglia. E aveva ucciso Wes. Tanto giovane, tanto amato. Il lutto aveva scatenato una sofferenza profonda. Era comprensibile che la giustizia umana pretendesse in cambio la vita della Cercatrice. E poi, desideravo davvero la sua morte. «Wanda? Wanda?» Jamie mi scrollò il braccio. Impiegai qualche istante per capire che qualcuno mi aveva chiamata per nome. «Wanda?» ribadì Jeb. Alzai lo sguardo. Vedevo incombere su di me il suo volto inespressivo, e la maschera impassibile che lo copriva era segno che covava un'emozione forte. La sua faccia da giocatore di poker. «I ragazzi vogliono sapere se hai qualche domanda per la Cercatrice.» Con una mano sulla fronte tentai di mettere un freno all'immaginazione. «Se rispondessi di no?» «Non vedono l'ora di abbandonare il turno di guardia. È un brutto momento. Preferirebbero restare con i loro amici.» Annuii. «Okay. Allora è meglio che... vada subito a trovarla.» Mi staccai dalla parete e mi alzai. Strinsi i pugni per fermare il tremore alle mani. "Non hai domande da farle." "Ci penserò." "Perché posticipare l'inevitabile?" "Non so." "Stai cercando di salvarla" mi accusò Melanie indignata. "Impossibile." "Esatto. Sei la prima a volerla morta. Perciò lascia che la uccidano." «Stai bene?» domandò Jamie. Annuii, perché temevo di aver perso la voce. «Non sei obbligata» disse Jeb, trapassandomi con lo sguardo. «Tutto okay» sussurrai. Jamie fece per prendermi sottobraccio, ma lo allontanai. «Resta qui.» «Vengo con te.» La mia voce si alzò. «Ah, no. Tu non vieni.»
Per qualche istante incrociammo i nostri sguardi, e una volta tanto me la diede vinta. Mi guardò fiero, e tornò ad appoggiarsi alla parete. Anche Ian sembrava intenzionato a seguirmi, ma bastò un'occhiata per immobilizzarlo. Jared mi seguì con lo sguardo e un'espressione indecifrabile sul viso. «Continua a lamentarsi» disse Jeb a bassa voce mentre camminavamo verso la galera. «Non come te che stavi in silenzio. Continua a chiedere altro cibo, altra acqua, cuscini... E minaccia. "I Cercatori vi troveranno tutti!", cose del genere. Per Brandt è dura. Non ne può più, davvero.» Annuii. Non ne ero affatto sorpresa. «Però non ha cercato di scappare. Tante parole e niente fatti. Basta alzare il fucile, e lei abbassa le arie.» «Secondo me vuole sopravvivere, altroché» mormorò Jeb assorto. «Sei convinto che questo sia il... posto più sicuro in cui tenerla?» domandai, mentre imboccavamo la galleria scura e tortuosa. Jeb ridacchiò. «Ma se tu non hai mai trovato l'uscita... A volte il nascondiglio più efficace è anche quello più ovvio.» «Lei però è più motivata di me» risposi impassibile. «I ragazzi la tengono d'occhio. Non c'è niente di cui preoccuparsi.» C'eravamo quasi. Il tunnel si piegò in una V stretta. Quando mi avevano spiegato che la V in realtà era una Y - due rami che si dividevano a partire da una galleria, la galleria - mi ero sentita una stupida. Come aveva detto Jeb, talvolta l'evidenza cela il nascondiglio più intelligente. Nelle poche occasioni in cui la disperazione mi aveva spinto a cercare una via di fuga, avevo sempre scartato a priori il buco, la prigione. Lo immaginavo come il luogo più buio e profondo delle caverne. Era dove mi avevano sepolta. Persino Mel, più scaltra di me, stentava a credere che mi avessero tenuta prigioniera a pochi passi dall'uscita. E non era nemmeno l'unico accesso. Ce n'era un altro, più piccolo e stretto, un'intercapedine. Non l'avevo mai scoperto perché ero abituata a camminare eretta, nelle gallerie. Non avevo mai cercato un tunnel come quello. E non avevo mai esplorato i confini dell'ambulatorio di Doc. Ne ero rimasta lontana, dal primo istante. La voce, familiare malgrado sembrasse sbucare da un'altra vita, interruppe i miei pensieri. «Mi chiedo come facciate a sopravvivere mangiando questa roba. Bleah!»
Un oggetto di plastica si schiantò contro le rocce. Dietro l'angolo spuntò la luce azzurra. «Non pensavo che gli esseri umani fossero tanto pazienti da uccidere con la fame. Mi sembra un piano troppo complesso, per creature miopi come voi.» Jeb ridacchiò. «Devo dire che i ragazzi mi hanno stupito. Strano che abbiano resistito così a lungo.» Imboccammo il vicolo cieco illuminato della galleria. Brandt e Aaron, entrambi armati e seduti il più lontano possibile dalla zona in cui camminava la Cercatrice sospirarono di sollievo quando ci videro arrivare. «Finalmente» mormorò Brandt. Il suo volto era segnato da profonde rughe di sofferenza. La Cercatrice restò immobile. Fui sorpresa di vedere in che condizioni la tenevano prigioniera. Non era infilata nella buca stretta e minuscola, ma relativamente libera di percorrere il breve tratto di galleria avanti e indietro. Appoggiato alla parete c'era un vassoio di plastica rovesciato; accanto a esso, alcune radici di jicana, e una ciotola da cui era stata rovesciata della zuppa. Ecco cos'era il rumore di pochi istanti prima: aveva gettato via il cibo. Non prima di averlo mangiato quasi tutto, a quanto pareva. Restai a guardare quella situazione relativamente umana, e sentii uno strano dolore allo stomaco. Noi non avevamo ucciso nessuno, bisbigliò Melanie. Anche lei ci era rimasta male. «Vuoi restare un po' sola con lei?» mi chiese Brandt, e fu un'altra pugnalata. Brandt aveva mai parlato di me senza darmi della parassita o dell'aliena? Lo avesse detto Jeb, non mi avrebbe sorpresa, ma gli altri? «Sì» sussurrai. «Attenta» disse. «È arrabbiatissima.» Annuii. Percorsi la galleria, da sola, mentre gli altri restavano dov'erano. Difficile alzare gli occhi e incrociare lo sguardo che sentivo affondare nel mio volto. La Cercatrice mi guardava in cagnesco, un ghigno perfido le alterava i lineamenti. Non avevo mai visto un'espressione simile sul volto di un'anima. «Ehi, ciao, Melanie» disse, ironica. «Come mai ci hai messo così tanto a venire a trovarmi?»
Non risposi. Le andai incontro lentamente, sforzandomi di credere che l'odio che sentivo scorrere nel mio corpo non provenisse da me. «I tuoi amichetti pensavano che ti avrei parlato? Che avrei spifferato i miei segreti soltanto perché nel cervello ti è rimasta un'anima imbavagliata e lobotomizzata, che si riflette nei tuoi occhi?» Fece un ghigno graffiante. Mi fermai a due passi da lei, pronta a scattare. Malgrado non mi aspettassi reazioni aggressive, il mio corpo non riusciva a rilassarsi. Era un incontro diverso da quello con il Cercatore sulla statale - non provavo la sensazione di sicurezza che mi davano le altre anime. Di nuovo, la strana certezza che lei mi sarebbe sopravvissuta ebbe la meglio. "Non essere ridicola. Chiedile ciò che devi. Hai pensato a qualche domanda?" «Dimmi, che vuoi? Hai chiesto il permesso di uccidermi di persona, Melanie?» sibilò la Cercatrice. «Qui il mio nome è Wanda» risposi. Quando aprii bocca ebbe un sussulto impercettibile, pronta a sentirmi urlare. Ma la mia voce bassa, regolare, la colpì più delle grida che si aspettava. Esaminai il suo volto, mentre mi guardava in cagnesco. Era sporco, macchiato di polvere violacea e sudore secco. Ma non aveva un graffio. Un'ulteriore sofferenza per me. «Wanda» ripeté, imperturbabile. «Be', cosa aspetti? Non ti hanno ancora dato il via? Vuoi farlo a mani nude o con la mia pistola?» «Non sono venuta a ucciderti.» Sorrise, acida. «A interrogarmi, allora? Dove sono i tuoi strumenti di tortura, donna?» «Non ho intenzione di torturarti.» Il dubbio apparve per un istante sul suo viso, ma svanì subito in un sogghigno. «E allora perché mi tengono prigioniera? Pensano di addomesticarmi come l'anima che tieni al guinzaglio tu?» «No. Prima di... ucciderti volevano... consultarsi con me. Aspettare che parlassimo.» Abbassò le palpebre e socchiuse gli occhi sporgenti. «Hai qualcosa da dirmi?» Deglutii. «Mi chiedevo...» Mi restava l'unica domanda a cui non ero ancora riuscita a dare una risposta. «Perché? Perché non mi hai considerata morta, come tutti gli altri? Perché ti sei intestardita a darmi la caccia? Non volevo fare del male a nessuno. Volevo soltanto... prendere la mia strada.»
Di scatto, si issò in punta di piedi per guardarmi dritta negli occhi. Qualcuno alle mie spalle si mosse e la Cercatrice iniziò a gridarmi in faccia. «Perché avevo ragione!» strillò. «Ragione da vendere! Guardali! Uno sporco nido di assassini, che tramano nell'ombra. Come pensavo, anzi molto peggio! Sapevo che eri qui con loro! Sei una di loro! L'avevo detto, io, che era un rischio! L'avevo detto!» Si interruppe, senza fiato, e fece un passo indietro guardando al di là delle mie spalle. Non mi voltai a controllare cosa. Probabilmente aveva a che fare con certe considerazioni di Jeb: basta alzare il fucile, e lei abbassa le arie. Per un istante scrutai la sua espressione, mentre il respiro si calmava. «Ma nessuno ti ha dato retta. Perciò sei tornata da sola.» La Cercatrice non rispose. Fece un altro passo svelto all'indietro, sembrava in preda al dubbio. Per un istante mi parve stranamente vulnerabile, come se le mie parole le avessero strappato lo scudo che la riparava. «Dici che verranno a cercarti, ma in realtà nessuno ti ha creduto, vero?» dissi, e vidi ogni mia parola confermata dal suo sguardo disperato. Mi sentii rinfrancata. «Perciò, le ricerche non andranno oltre. Quando capiranno di non poterti ritrovare, l'interesse svanirà. E noi staremo attenti, come sempre. Non ci troveranno.» Per la prima volta, finalmente, vidi la paura nei suoi occhi. La consapevolezza terribile che avevo ragione. E sentii che il mio piccolo nido umano, la mia famigliola, era al sicuro. Avevo davvero ragione. Tuttavia, stranamente, ero io a non sentirmi al sicuro. Non avevo più domande per la Cercatrice. Stavo per abbandonarla alla morte. Avrebbero aspettato che mi allontanassi, per non farmi sentire lo sparo? C'era, in tutte le caverne, un luogo tanto isolato? Fissai il suo volto furioso e insieme impaurito, e capii quanto fossero radicati in me l'odio e il desiderio di non rivederla mai più per il resto delle mie vite. Lo stesso odio che mi impediva di lasciarla morire. «Non so come fare a salvarti» sussurrai, lontana da orecchie umane. Perché mi sembrava di mentire? «Non mi viene in mente nulla...» «E perché dovresti? Sei una di loro!» Ma uno spasmo di speranza si accese nei suoi occhi. Jeb aveva ragione. Malgrado l'insolenza e le minacce... Voleva vivere. Annuii di fronte alla sua accusa, con aria un po' assente, concentrata com'ero su altri pensieri. «Ma sono sempre la stessa» mormorai. «Non voglio... non voglio...»
Come terminare la frase? Non volevo... che la Cercatrice morisse? No. Non era vero. Non volevo... odiarla? Non volevo odiarla tanto da desiderare la sua morte. Che fosse anche il mio odio a ucciderla. Se proprio non volevo che morisse, sarei stata capace di salvarla? Sarebbe stata anche colpa mia, se fosse morta? Sei pazza? Protestò Melanie. Aveva ucciso un mio amico nel deserto e spezzato il cuore a Lily. Aveva messo in pericolo la mia famiglia. La sua esistenza era un pericolo. Per Ian, per Jamie, per Jared. Avrebbe fatto tutto il possibile per vederli morti. "Così va meglio." Melanie approvò le mie considerazioni. "Ma se potendo e volendo salvarla lascio che muoia... chi sono io? "Sii concreta, Wanda. Siamo in guerra. Da che parte stai?" "Non conosci neanche tu la risposta." "Invece sì. Ed è ciò che sei, Wanda." "Ma... se potessi avere entrambe le cose? Se potessi salvarle la vita e proteggere la nostra gente?" Una pesante ondata di nausea invase il mio stomaco, quando capii che la risposta a cui mi sforzavo di credere non esisteva. L'unico muro che avessi costruito tra me e Melanie si sgretolò. "No!" esclamò Mel. E poi urlò: "No!". Ma la soluzione stava per giungere. La soluzione che spiegava le mie strane premonizioni. Sì, potevo salvare la Cercatrice. Certo che sì. Ma mi sarebbe costato caro. Uno scambio. Come aveva detto Kyle? La mia vita contro la sua. La Cercatrice mi fissò con gli occhi scuri densi di veleno. 50 Il sacrificio La Cercatrice scrutò il mio volto, mentre litigavo con Mel. "No, Wanda, no!" "Non essere stupida, Mel. Tu per prima dovresti capire il potenziale di questa scelta. Non è ciò che vuoi?" Malgrado mi sforzassi di vedere un lieto fine, non potevo sfuggire all'orrore di una simile scelta. Ecco il segreto che dovevo proteggere a costo della vita. Le informazioni per cui ero stata predisposta a sopportare le sofferenze più terribili.
Mai avrei pensato a una tortura come quella, però: una crisi di coscienza personale, complicata e confusa dall'amore per la mia famiglia umana. Nondimeno, dolorosissima. Non mi sarei potuta considerare un'esule, se avessi lasciato correre. No, sarei diventata una traditrice qualsiasi. "Non per lei, Wanda! Non per lei!" gridò Melanie. "Dovrei aspettare? Attendere finché non cattureranno un'altra anima? Un'anima innocente che non ho motivo di odiare? È una decisione che prima o poi mi toccherà prendere." "Aspetta! Pensaci!" Il mio stomaco ebbe un altro sobbalzo, tanto che fui costretta a piegarmi per respirare. «Wanda?» disse Jeb preoccupato. "Potrei, Mel. Potrei giustificare la sua morte anche se fosse un'anima innocente. Potrei lasciare che la uccidano. Potrei confidare nell'obiettività delle mie decisioni." "Ma è orribile, Wanda! Noi la odiamo!" "Esatto. E io non confido nelle mie decisioni. Quasi mi lasciavo sfuggire la soluzione..." «Wanda, tutto bene?» La Cercatrice lanciò un'occhiata alle mie spalle, in direzione della voce di Jeb. «Sì» risposi a fatica. Gli occhi scuri della Cercatrice saettavano tra di noi, incerti. Poi si allontanò da me, rannicchiandosi contro la parete. Riconobbi la postura e ricordai esattamente quali sensazioni dava. Una mano delicata scese sulla mia spalla e mi voltò. «Che succede, piccola?» domandò Jeb. «Ho bisogno di pensare» risposi senza fiato. Guardai dritto nei suoi occhi e gli dissi quella che non poteva essere una bugia. «Ho ancora una domanda. Ma ho davvero bisogno di restare sola per un po'. Potete... aspettarmi?» «Certo che possiamo aspettare ancora. Prenditi una pausa.» Annuii e mi allontanai dalla prigione il più velocemente possibile. Sulle prime sentii le gambe irrigidite dalla paura, ma con il movimento recuperai il mio passo. Giunta davanti ad Aaron e Brandt, andavo quasi di corsa. «Che è successo?» sentii sussurrare Aaron, sbalordito, verso Brandt. Non sapevo dove nascondermi a pensare. I piedi quasi istintivamente mi portarono lungo il corridoio su cui si affacciava la mia stanza. Speravo di
trovarla. C'era buio, dalle fenditure del soffitto giungeva a malapena il bagliore delle stelle. Mi accorsi di Lily soltanto quando inciampai in lei. Quasi non riconobbi il suo viso gonfio di pianto. Era raggomitolata al centro del corridoio per terra. Mi guardò perplessa, senza ben capire chi fossi. «Perché?» domandò. Restai a fissarla senza parole. «Avevo detto che l'amore e la vita continuano. Ma perché? Non è giusto. Non più. Che senso ha?» «Non so, Lily. Forse non so che senso abbia.» «Perché?» ribadì. I suoi occhi vitrei mi trapassarono, come fossi invisibile. Mi affrettai a tornare nella stanza. Anch'io avevo una domanda che attendeva una risposta. Con mio gran sollievo, trovai la stanza deserta. Mi buttai a pancia in giù sul materasso dove dormivamo io e Jamie. Avevo detto a Jeb che mi restava una domanda. Ma la domanda non era per la Cercatrice. La domanda era per me. La domanda era: volevo - non «potevo» - farlo? Potevo salvare la vita alla Cercatrice, e sapevo come. Senza sacrificare quella di nessuno. Esclusa la mia. Che avrei dovuto dare in cambio. "No." Nel panico, Melanie cercò di restare salda. "Per favore, lasciami pensare." "No." "Ormai è deciso, Mel. Inevitabile. Ora lo capisco. Avrei dovuto arrivarci da tempo, talmente è ovvio." "Invece no." Ripensai alla nostra conversazione, durante la malattia di Jamie. Quando avevamo fatto la pace, le avevo promesso di non cancellarla, aggiungendo che mi dispiaceva di non poterle concedere di più. Più che una bugia, era una frase a metà. Non potevo concederle di più, senza rinunciare alla mia vita. La vera bugia l'avevo raccontata a Jared, subito dopo, quando gli avevo detto di non sapere come fare a cancellare me stessa. Nel contesto della discussione, era la verità. Non sapevo come svanire dentro Melanie. Ma mi sorpresi di non aver percepito in quell'istante la falsità delle mie parole, di non aver capito subito ciò che ormai mi era chiaro. Sì che sapevo come fa-
re a cancellarmi. Tuttavia non l'avevo mai considerata un'opzione praticabile: sarebbe stato come tradire tutte le anime che abitavano il pianeta. Se gli umani avessero scoperto la soluzione, la stessa per cui avevano ucciso senza requie, mi sarebbe costata cara. "No, Wanda!" "Non vuoi essere libera?" Una lunga pausa. "Non sarò io a chiedertelo" rispose infine. "Io non lo farei mai, per te. E nemmeno per la Cercatrice, certo che no!" "Non devi chiedere. Penso che prima o poi... mi sarei offerta volontaria." "Perché?" domandò, sul punto di scoppiare a piangere. Mi commosse. Pensavo che ne sarebbe stata entusiasta. "In parte per Jared e Jamie. Riavranno il loro mondo, tutto ciò che desiderano. Riavranno te. Forse prima o poi me ne sarei accorta da sola. Chissà. Magari Jared stesso me l'avrebbe chiesto. Sai bene che non avrei detto di no." "Ian ha ragione. Sacrifichi troppo te stessa. Hai bisogno di limiti, Wanda!" "Ah, Ian" esclamai. Mi sentii avvolgere da un dolore nuovo. "Distruggerai il suo mondo. Tutto ciò che desidera." "Non può funzionare con Ian. Non in questo corpo. Ian lo ama, certo. Ma non è ricambiato." "Non è un corpo, è una persona." "E quella persona non lo ama." "Wanda, io..." Melanie non trovava le parole. La gioia che mi aspettavo da lei non arrivava. Ne fui commossa, di nuovo. "Non credo di potertelo concedere. Sei più importante di quanto pensi. A ben vedere, sei molto più utile di me alla comunità. Puoi aiutarli; puoi salvarli. Io no. Devi restare." "Non vedo alternative, Mel. Chissà perché non ci sono arrivata prima. Devo andare, per forza. Devo restituirti. Ho sempre saputo che la presenza di un'anima qui non aveva senso. Perciò, ora, l'unica scelta è andarmene. Voi tutti avete saputo cavarvela senza di me; ci riuscirete ancora. Tu hai imparato tanto da me sulle anime... tu li aiuterai. Non capisci? Questo è il lieto fine. È così che deve andare, lo desiderano tutti. Io posso dare loro una speranza. Io posso dare loro... forse un futuro. È quello che posso, tutto ciò che posso, sì." "No, Wanda, no."
La sua sofferenza fece gonfiare i miei occhi di lacrime. Non immaginavo che mi fosse tanto affezionata. Quasi quanto io lo ero a lei. Persino se Jared non mi avesse mai chiesto di farlo, persino se Jared non fosse mai esistito... Individuata la strada, dovevo percorrerla fino in fondo. In nome del mio legame con Melanie. Non c'era da meravigliarsi che la percentuale dei successi con gli ospiti refrattari fosse tanto bassa, sulla Terra. Dopo aver imparato ad amare il nostro ospite, quale speranza ci restava? Impossibile esistere a spese di un nostro caro. Non era da noi. Un'anima non poteva sopravvivere così. Mi voltai a pancia in su e osservai il mio corpo. Le mani erano sporche e graffiate, ma, a parte questo, bellissime. Come la carnagione dorata dal sole, che spiccava persino alla luce pallida della notte. Le unghie rosicchiate erano corte, ma nonostante tutto forti e lisce. Ammirai i movimenti delle dita, l'azione fluida ed elegante dei muscoli sulle ossa. Le feci danzare davanti ai miei occhi, dove si trasformavano in sagome nere sullo sfondo stellato. Le passai tra i capelli, che ormai mi arrivavano quasi alle spalle. A Mel sarebbero piaciuti. Poche settimane di shampoo nelle docce degli alberghi e di vitamine Salute li avevano resi morbidi e lucenti. Allungai le braccia più che potevo: erano forti, capaci di trascinarmi su una parete rocciosa, trasportare un carico pesante, arare un campo. Ma erano anche delicate. Sapevano cullare un bambino, rassicurare un amico, amare... ma ciò non mi riguardava. Contrassi i muscoli delle gambe, ne sentii la forza, la prontezza e la velocità. Provai il desiderio di correre in un campo aperto in cui sfrecciare il più velocemente possibile. Avrei voluto farlo a piedi nudi, per sentire la terra nuda. Avrei voluto sentire il vento soffiarmi tra i capelli. E avrei voluto la pioggia, per annusarne il profumo. Seguii il profilo del viso con le dita. Erano calde a contatto con la pelle, pelle morbida e bella. Ero lieta di aver restituito a Melanie il suo volto. Chiusi gli occhi e carezzai le palpebre. Ero vissuta in tanti corpi, ma non ne avevo mai amato nessuno come quello. Per ironia della sorte, era l'unico che dovevo restituire. Scoppiai in una risata isterica. Ridere era come respirare aria fresca che entrava nel corpo, lo depurava e lo rinvigoriva. Esisteva un'altra specie capace di risollevarsi con così poco? Non lo ricordavo. Toccai le labbra, ricordai il bacio di Jared e quello di Ian. Non capitava a tutti di baciare dei corpi così belli. A me ne era toccato più di uno, malgra-
do una vita breve. Brevissima! Forse era passato un anno, ma non ne ero certa. La semplice rivoluzione di un pianeta verde e blu attorno a una qualsiasi stella gialla. La vita più breve tra quelle che avevo vissuto. La più breve, la più importante, la più straziante per il mio cuore. La vita che mi avrebbe definita per sempre. La vita che era riuscita a legarmi a una stella, a un pianeta, a una piccola famiglia di sconosciuti. Ancora un po' di tempo... che c'era di male? "Niente" sussurrò Mel. "Prenditi ancora un po' di tempo." "Non puoi sapere quanto ne rimane" risposi sussurrando. Io però lo sapevo. Sapevo esattamente quanto tempo rimaneva. Non potevo sprecarne più. Il mio tempo era scaduto. Ormai avevo deciso. Dovevo fare la scelta più giusta, restare fedele a me stessa, nel poco tempo che mi restava. Mi alzai. Aaron e Brandt non potevano aspettarmi per sempre. E a quel punto avevo bisogno di risposte ad altre domande. Domande da rivolgere a Doc. Le grotte erano popolate da occhi bassi e tristi. Fu abbastanza facile non farmi notare. A nessuno ormai importava cosa facessi, esclusi forse Jeb, Brandt e Aaron, che non erano nei paraggi. Non avevo un campo aperto e bagnato dalla pioggia, ma se non altro c'era il lungo tunnel meridionale. Era troppo buio per correre a perdifiato come avrei voluto, ma riuscii comunque a mantenere un passo rapido. Era bello sentire i muscoli che si riscaldavano. Sapevo che Doc sarebbe stato solo, come accadeva da tempo. Dormiva in ambulatorio dalla notte in cui avevamo salvato la vita a Jamie. Sharon aveva fatto le valigie e abbandonato l'alloggio che condividevano, per tornare dalla madre; Doc non riusciva a dormire nella stanza vuota. Quanto odio cieco. Sharon era arrivata ad annullare la propria felicità e quella di Doc, piuttosto che perdonarlo per avermi aiutato a guarire Jamie. Sharon e Maggie, ormai, erano una presenza quasi impercettibile nelle grotte. Ignoravano tutti, come un tempo avevano ignorato soltanto me. Che maniera profondamente stupida di sprecare il proprio tempo. Per la prima volta in assoluto, il tunnel mi sembrò corto. Pensavo di non averne percorso neanche la metà, quando vidi la luce di Doc che brillava fioca dietro l'arcata di pietra grezza. Rallentai fino a camminare, prima di disturbarlo. Non volevo spaventar-
lo, facendogli credere a un'emergenza. Fu stupito di vedermi apparire, con il fiato corto, sulla soglia rocciosa. Sobbalzò, e il libro che stava leggendo gli cadde di mano. «Wanda? C'è qualcosa che non va?» «No, Doc, non preoccuparti. Tutto bene.» «Qualcuno ha bisogno di me?» «Soltanto io.» Abbozzai un sorriso. Si alzò dalla scrivania per venirmi incontro, stupito. Si fermò a mezzo passo di distanza e alzò un sopracciglio. Il suo viso smilzo era gentile. Difficile ricordare che un tempo lo consideravo un mostro. «Tu sei un uomo di parola» iniziai. Lui annuì e fece per parlare, ma lo zittii con un gesto della mano. «E nessuno ti metterà alla prova più di me, ora» lo avvertii. Lui mi guardò perplesso e inquieto. Respirai a fondo. «So come fare ciò per cui hai sacrificato tante vite. So come estrarre un'anima dal corpo senza dolore né per l'una né per l'altro. Lo so da sempre. Tutte dobbiamo saperlo, in caso di emergenza. Ho anche già messo in pratica la procedura, una volta, quand'ero un Orso.» Lo fissai in attesa di una risposta. Gli occorsero alcuni istanti, e poi il suo sguardo si fece sempre più adirato. «Perché me lo dici adesso?» esplose. «Perché... voglio darti le informazioni di cui hai bisogno.» Alzai di nuovo la mano. «Ma solo se in cambio mi darai ciò che voglio. Ti avverto da subito che non sarà facile, come per me non è facile darti ciò che vuoi.» Di colpo la sua espressione si fece più decisa che mai. «Dimmi a quali condizioni.» «Non devi uccidere le anime che rimuoverai. Devi darmi la tua parola, giurare che permetterai loro di accedere a una nuova vita. Questo implica un certo rischio: dovrete procurarvi dei crioserbatoi, e fare in modo che le anime escano dal pianeta. Le spedirete in altri mondi. Non potranno farvi del male. Giunte sul pianeta più vicino, i vostri nipoti saranno già morti.» Le mie condizioni bastavano ad attenuare il senso di colpa? Solo se Doc avesse mantenuto la promessa. Ascoltava pensieroso. Lo scrutai per valutarne la reazione. Non sembrava arrabbiato, ma il suo sguardo era ancora nervoso. «Non vuoi che uccidiamo la Cercatrice?» domandò.
Non risposi, perché non avrebbe capito; sì, desideravo che la uccidessero. Quello era il problema. Proseguii con le spiegazioni. «Lei sarà la prima, il test. Voglio accertarmi, finché sono qui, che tu assista al procedimento. Io stessa mi occuperò della separazione. E quando l'avrò eseguita, ti insegnerò come si fa.» «Con quali anime?» «Con quelle sequestrate. Come avete sempre fatto. Non posso garantirti di salvare le personalità umane. Non so se chi è stato cancellato ritorni. Vedremo con la Cercatrice.» Doc sbatté gli occhi, assorto nel ragionamento. «In che senso, finché sarai qui? Vuoi andartene?» Lo fissai, in attesa che capisse. Lui ricambiò lo sguardo, perplesso. «Non capisci che regalo sto per farti?» sussurrai. Allora la consapevolezza lo pervase. Glielo si leggeva in faccia. Lo anticipai. «C'è un'altra cosa che ti chiedo, Doc. Non voglio... non permetterò di venire spedita su un altro pianeta. Questo è il mio pianeta, lo sento. Eppure, non esiste una casa che mi possa accogliere. Perciò... so che qualcuno potrà... soffrirne. Non dire nulla, se pensi che non lo permetteranno. Menti pure, se è il caso. Ma sappi che voglio essere sepolta con Walt e Wes. Puoi farlo, per me? Non occuperò troppo spazio.» Abbozzai un altro sorriso. No! Melanie iniziò a urlare. No, no, no, no... «No, Wanda» obiettò Doc, sbalordito quanto lei. «Per favore» sussurrai, lottando contro le proteste, sempre più insistenti, nella mia testa. «A Wes e a Walt non darò fastidio.» «Non è ciò che intendevo! Non posso ucciderti, Wanda. Ah! Non ne posso più della morte, del dover uccidere i miei amici...» La voce di Doc si ruppe in un singhiozzo. Posai una mano sul suo braccio e lo accarezzai. «La gente muore, qui. Succede.» Kyle aveva detto qualcosa del genere. Curioso che fra tutti, mi ritrovassi a citare proprio lui per la seconda volta in una notte. «Che ne sarà di Jared e Jamie?» chiese Doc con voce strozzata. «Avranno Melanie. Se la caveranno.» «Ian?» A denti stretti. «Starà meglio senza di me.» Doc scosse la testa, asciugandosi gli occhi. «Devo pensarci, Wanda.» «Non ci resta molto tempo. Prima o poi uccideranno la Cercatrice, non possono aspettare in eterno.»
«Non è ciò che intendevo. Per quanto riguarda lei, sono d'accordo. Ma non credo di poter uccidere te.» «Tutto o niente, Doc. Devi decidere ora. E...» capii di avere un'ultima richiesta, «... non parlare con nessuno dell'ultima parte del nostro accordo. Con nessuno. Queste sono le mie condizioni, prendere o lasciare. Vuoi sapere come si fa a estrarre un'anima dal corpo di un essere umano?» Scosse di nuovo la testa. «Lasciami pensare.» «Conosci già la risposta, Doc. È ciò che hai sempre desiderato.» Non faceva che scuotere la testa. Ignorai quel rifiuto, perché entrambi sapevamo che la decisione era presa. «Uscirò con Jared» dissi. «Faremo un'incursione rapida in cerca di crioserbatoi. Tu tieni a bada gli altri. Di' loro... la verità. Di' loro che ti aiuterò a estrarre la Cercatrice da quel corpo.» 51 La preparazione Trovai Jared e Jamie nella nostra stanza, mi aspettavano preoccupati. Jared doveva aver parlato con Jeb. «Stai bene?» domandò Jared, mentre Jamie balzava in piedi e veniva ad abbracciarmi. Non sapevo come rispondere. Non conoscevo la risposta. «Jared, mi serve il tuo aiuto.» Jared si alzò non appena finii di parlare. Jamie si avvicinò per fissarmi negli occhi. Evitai il suo sguardo. Non ero sicura di poterlo sopportare. «Cosa vuoi che faccia?» domandò Jared. «Voglio uscire in missione. Ho bisogno di... muscoli.» «Cos'andiamo a prendere?» Il suo sguardo si fece intenso, come prima di ogni missione. «Te lo spiegherò strada facendo. Non ci resta molto tempo.» «Posso venire?» disse Jamie. «No!» rispondemmo io e Jared in coro. Jamie si rabbuiò e mise il broncio. Riuscii a guardarlo soltanto quando sgattaiolai fuori dalla stanza. Sentivo il desiderio di stargli vicino, di stringerlo forte e dimenticare quella situazione assurda. Jared mi seguì mentre ripercorrevo il tunnel meridionale. «Perché di qui?» domandò.
«Io...» Se avessi mentito o sviato la domanda se ne sarebbe accorto. «Non voglio incrociare nessuno. In particolare Jeb, Aaron e Brandt.» «Perché?» «Non voglio che mi costringano a spiegare. Non ora.» Cercava di dare un senso alla mia risposta. Cambiai discorso. «Sai dove Lily? Non va lasciata sola. Sembra...» «C'è Ian con lei.» «Bene. Lui è il più gentile.» L'aiuto di Ian era proprio ciò di cui Lily aveva bisogno. E chi avrebbe aiutato Ian quando...? Scossi la testa per scacciare quel pensiero. «Tutta questa fretta per prendere che cosa?» domandò Jared. Respirai a fondo prima di rispondere. «Crioserbatoi.» La galleria meridionale era buia. Il suo volto, invisibile. Quando Jared riprese a parlare, capii che era concentrato sulla missione, risoluto, capace di mettere da parte ogni curiosità finché la missione non fosse andata a buon fine. «E dove li troviamo?» «I crioserbatoi inutilizzati vengono stoccati all'esterno dei laboratori di Guarigione. Le anime in arrivo sulla Terra sono più di quelle in partenza, perciò ce ne sono in abbondanza. Nessuno si accorgerà se ne manca qualcuno.» «Sicura? Come fai a saperlo?» «Ne ho visti a Chicago, pile immense. Persino il piccolo laboratorio di Tucson in cui siamo stati ne aveva una riserva nella zona di carico e scarico.» «Se erano inscatolati, come fai a sapere...» «Non hai notato la nostra passione per le etichette?» «Non volevo contraddirti» ribatté. «Volevo soltanto assicurarmi che fossi sicura di ciò che fai.» «Sì.» «Allora mettiamoci all'opera.» Doc aveva raggiunto Jeb senza che riuscissimo a incrociarlo. Probabilmente mi aveva seguita. Chissà come avevano preso la notizia, gli altri. Speravo che non fossero tanto stupidi da parlarne di fronte alla Cercatrice. Avrebbe fatto a pezzi il cervello della sua ospite umana, se avesse intuito le mie intenzioni? Mi avrebbe considerata in tutto e per tutto una traditrice, capace di offrire agli umani tutto ciò che desideravano senza avere nulla in cambio?
Non era proprio ciò che stavo per fare? Scomparsa io, Doc avrebbe mantenuto la parola? Sì, ci avrebbe provato. Ne ero convinta. Ma non poteva farcela da solo. Chi l'avrebbe aiutato? Strisciammo attraverso la feritoia stretta e buia che si apriva sul lato meridionale della collina rocciosa, quasi a metà strada fra la base e la cima bassa. Scendevo senza staccare gli occhi dai piedi. Era indispensabile: non c'era sentiero, e le pietre instabili rischiavano di cedere sotto i miei passi. Traditrice. Né esule né vagabonda. Una semplice traditrice. Stavo per mettere le vite dei miei fratelli e delle mie sorelle gentili nelle mani furiose e risolute della famiglia umana che avevo adottato. I miei umani avevano tutto il diritto di odiare le anime. Loro erano in guerra; e quella che stavo per dare loro era un'arma. Una maniera di uccidere e restare impuniti. Forse sacrificarmi per la Cercatrice e al tempo stesso armare gli umani era sbagliato. Se davvero il mio unico obiettivo era quello di salvarle la vita, meglio cambiare idea e tornare indietro. Non potevo sacrificare tutti gli altri in nome suo. Persino lei sarebbe stata d'accordo. O no? Tutto sommato, la Cercatrice non sembrava... qual era il termine che aveva usato Jared? Altruista. Non sembrava altruista come tutti noi. Ma era troppo tardi per cambiare idea. Ero già andata troppo oltre. Gli umani avrebbero ucciso qualsiasi anima si fosse imbattuta in loro, se non li avessi dotati di un'alternativa. Ma, soprattutto, volevo salvare Melanie, e ciò valeva il sacrificio. Avrei salvato anche Jared e Jamie. Già che c'ero, tanto valeva salvare la ripugnante Cercatrice. Le anime avevano sbagliato a invadere la Terra. I miei umani meritavano il proprio mondo. Non potevo restituirglielo, ma potevo dar loro tutto questo. Se solo avessi avuto la certezza di vedere terminare le crudeltà. Dovevo fidarmi di Doc, e sperare. Sospirai preoccupata. Jared se ne accorse malgrado il fiatone. Con la coda dell'occhio lo vidi voltarsi, trafiggermi con lo sguardo, ma non mi girai a incontrare i suoi occhi. Raggiungemmo il nascondiglio della jeep prima che il sole iniziasse a scalare le cime orientali, mentre il cielo era già azzurro chiaro. Sgattaiolammo nella caverna stretta quando i primi raggi dipingevano d'oro la sabbia del deserto. Jared afferrò due bottiglie d'acqua dal sedile posteriore, me ne lanciò u-
na, e si appoggiò alla parete. Tracannò mezza bottiglia in un sorso e prima di parlare si pulì la bocca con il dorso della mano. «Sapevo che avevi fretta di uscire, ma dovremo aspettare fino a sera, se hai in programma una toccata e fuga.» Presi una sorsata d'acqua. «D'accordo. A questo punto, credo che ci aspetteranno.» Scrutò il mio viso. «Ho visto la tua Cercatrice» disse, controllando la mia reazione. «È... determinata.» Annuii. «E petulante.» Sorrise e alzò gli occhi. «A quanto pare l'alloggio che le abbiamo riservato non le piace.» Il mio sguardo si abbassò verso terra. «Poteva andarle peggio» mormorai. La strana e fastidiosa gelosia che avevo provato trapelò, indesiderata, nella mia voce. «È vero» rispose Jared in tono dimesso. «Perché sono così gentili con lei?» sussurrai. «Ha ucciso Wes.» «Be', è colpa tua.» Alzai gli occhi, sorpresa di vedere l'ombra di un sorriso sulle sue labbra; mi stava prendendo in giro. «Mia?» Il sorriso si fece incerto. «Non volevano più sentirsi dei mostri. Stanno cercando di rimediare, anche se forse è troppo tardi, e l'anima è quella sbagliata. Non immaginavo che potessero... ferirti. Ero sicuro che anche per te fosse meglio così.» «Lo è.» Non volevo che facessero male a nessuno. «È sempre meglio essere onesti. Io...» respirai a fondo, «sono contenta di sapere il perché.» Lo facevano per me, non per lei. Sentii le spalle più leggere. «Non è una bella sensazione sapere che meriti in tutto e per tutto la definizione di "mostro". Meglio gentili che colpevoli.» Fece un altro sorriso e sbadigliò. «È stata una lunga notte» commentò. «E la prossima lo sarà altrettanto. Meglio dormire.» Il suggerimento fu ben accetto. Sapevo che mi avrebbe tempestata di domande sul significato della missione. E sentivo che già aveva tratto le sue conclusioni. Mi allungai sulla sabbia morbida, accanto alla jeep. Con mia sorpresa, Jared venne a sdraiarsi al mio fianco, vicino a me. Si rannicchiò contro la
mia schiena. «Vieni» disse, e mi alzò la testa allungando il braccio libero per farmi da cuscino. Poi l'altro andò a cingermi i fianchi. Impiegai qualche secondo prima di reagire. «Grazie.» Sbadigliò. Sentii il suo respiro caldo sulla nuca. «Ora riposati, Wanda.» Stretto in quello che non potevo non considerare un abbraccio, Jared si addormentò subito, com'era abituato a fare. Cercai di rilassarmi, circondata dal suo calore, ma fu difficile. I miei pensieri stanchi erano confusi e sfocati. Jared aveva ragione: era stata una notte lunghissima. Ma non lunga abbastanza. Il resto dei miei giorni e delle mie notti stavano per volare, come minuti. Un istante dopo sentii Jared svegliarmi. La luce nella piccola caverna era fioca e arancione. Il tramonto. Jared mi aiutò ad alzarmi e mi diede un pasto preconfezionato, razioni che tenevano nella jeep. Mangiammo, e bevemmo ciò che restava dell'acqua in silenzio. L'espressione di Jared era seria e concentrata. «Hai sempre fretta?» domandò, mentre salivamo sulla jeep. No. Desideravo che il tempo rallentasse fino a fermarsi... «Sì.» Che senso aveva rimandare? La Cercatrice e il suo corpo sarebbero morti, se avessimo atteso troppo, e prima o poi io mi sarei ritrovata di fronte allo stesso dilemma. «Allora andiamo a Phoenix. Non possono aspettarsi un furto di questo genere. Non ha senso che degli umani vi rubino le celle frigorifere. Cosa ce ne faremmo?» La domanda non suonò affatto retorica, e sentii di nuovo i suoi occhi addosso. Ma restai in silenzio, senza staccare lo sguardo dalla roccia. Calato finalmente il buio, passammo all'altro veicolo e raggiungemmo la statale. Jared attese con cautela per qualche minuto, i fari dell'anonima berlina spenti. Contai il passaggio di dieci auto. Poi la distanza tra un veicolo e l'altro iniziò ad aumentare, e Jared imboccò la corsia. Il viaggio verso Phoenix durò molto poco, malgrado lo scrupoloso Jared marciasse ben al di sotto del limite. Il tempo stava accelerando, come se la Terra girasse più veloce. Ci inserimmo nel flusso regolare del traffico che accerchiava la città piatta e tentacolare. Dalla strada si vedeva l'ospedale. Seguimmo un'auto sulla rampa d'uscita, spostandoci tranquilli, senza fretta. Jared entrò nel parcheggio principale. «Dove?» domandò, teso.
«Vediamo se questa strada conduce sul retro. I serbatoi devono essere in una zona di smistamento.» Jared procedeva lentamente. La struttura era affollata di anime che entravano e uscivano. Alcune portavano il camice. Erano Guaritori. Nessuno badava a noi. «Guarda. Camion. Vai da quella parte.» Passammo tra un'ala di palazzi bassi e un parcheggio coperto. C'era una fila di camion, che di sicuro trasportavano medicinali, parcheggiati in corrispondenza dei portelloni di carico. Osservai le etichette sugli scatoloni che vi entravano. «Non fermarti... se facciamo in tempo dovremmo procurarci anche un po' di quelle. Vediamo... Guarisci... Raffredda... Immobilizza? Chissà a cosa serve.» Per fortuna, le scorte erano etichettate e incustodite in bella mostra. La mia famiglia avrebbe potuto fare altre scorte, anche dopo la mia assenza. La mia assenza; ormai era un pensiero costante. Girammo attorno a un altro edificio. Jared aumentò la velocità guardando dritto davanti a sé; c'era gente, quattro persone che scaricavano un camion. Fu lo scrupolo con cui trattavano quei piccoli contenitori a catturare la mia attenzione. Anziché maneggiarli con noncuranza, li posavano con la massima cura sulla sporgenza di cemento alta quanto i loro fianchi. Non c'era bisogno di un'etichetta che lo confermasse, ma a un certo punto uno scaricatore si voltò in modo da mostrarmi la scritta a lettere nere. «Questo è il posto che cerchiamo. Al momento stanno scaricando crioserbatoi pieni. Quelli vuoti non devono essere lontani... eccoli! Là, dall'altra parte. Quel capannone è mezzo pieno. Scommetto che i capannoni chiusi sono quelli già riempiti.» Jared continuava a guidare con cautela, e girò l'angolo seguendo il profilo dell'edificio. Sospirò. «Che c'è?» domandai. «È logico. Vedi?» Con la testa fece un cenno in direzione dell'insegna sull'edificio. Era il reparto maternità. «Ah» dissi. «Be', tu sai sempre dove cercare, no?» Mi trafisse con un'occhiata, e poi tornò a guardare la strada. «Dovremo aspettare un po'. A quanto pare avevano quasi finito.»
Jared fece un altro giro dell'ospedale, poi si fermò in fondo al parcheggio principale, lontano dalle luci. Spense il motore e si lasciò andare sul sedile. Si voltò verso di me e mi prese la mano. Sapevo cosa stava per chiedere, e cercai di prepararmi. «Wanda?» «Sì?» «Vuoi salvare la Cercatrice, vero?» «Sì.» «Perché è la cosa più giusta, vero?» «Anche.» Jared tacque per qualche istante. «Sai come si fa a estrarre un'anima senza danneggiare il corpo?» Il mio cuore sobbalzò, e prima di rispondere fui costretta a deglutire. «Sì. L'ho già fatto. In condizioni di emergenza. Non qui.» «Dove? Che genere di emergenza?» Era una storia che per ovvie ragioni non avevo mai raccontato. Una delle migliori. Piena di azione. Jamie ne sarebbe andato matto. Risposi a bassa voce. «Sul Pianeta delle Nebbie. Ero assieme al mio amico Imbriglia la Luce e a una guida... non ricordo il suo nome. Su quel pianeta mi chiamavano Vive tra le Stelle. Avevo già una certa reputazione.» Jared ridacchiò. «Attraversavamo il quarto grande ghiacciaio, in pellegrinaggio verso una delle più celebrate città di cristallo. In teoria era un sentiero sicuro - ecco perché viaggiavamo soltanto in tre. «Le bestie dalle grandi chele scavano buche nella neve, e le usano per nascondersi. Per mimetizzarsi e tendere trappole. «A un certo punto, non si vedeva altro che neve, a perdita d'occhio. Un secondo dopo, parve quasi che tutto quel bianco fosse esploso nel cielo. «Un Orso adulto medio ha all'incirca la massa corporea di un bufalo. Una bestia dalle grandi chele può raggiungere quella di una balena blu. E questa era più grossa della media. «Non vedevo più la guida. La bestia ci aveva divisi, balzando davanti a me e Imbriglia la Luce. Gli Orsi sono più veloci delle bestie dalle grandi chele, ma questa ci aveva teso un'imboscata. Le sue tenaglie, simili a pietra, calarono a falciare Imbriglia la Luce in due prima che me ne accorgessi.» Un'auto attraversò lentamente il parcheggio. In silenzio, aspettammo di
vederla passare. «Non sapevo cosa fare. Avrei dovuto mettermi a correre, ma... il mio amico stava morendo, sul ghiaccio. Avrei potuto morire a causa di quella indecisione, se la bestia non fosse stata distratta. Scoprii soltanto in seguito che la nostra guida - quanto vorrei ricordarne il nome! - l'aveva attaccata alle spalle, per darci la possibilità di fuggire. La bestia aveva scatenato una vera tempesta di neve. La scarsa visibilità poteva facilitare la fuga. Ma la guida non sapeva che per Imbriglia la Luce era troppo tardi. «La bestia dalle grandi chele si voltò verso la guida, e con la seconda zampa sinistra mi colpì, sbalzandomi in aria. La parte superiore del corpo di Imbriglia la Luce cadde al mio fianco. Il suo sangue sciolse la neve...» Rabbrividii. «La mia reazione fu insensata, perché non avevo un corpo in cui inserire Imbriglia la Luce. Eravamo a metà del cammino tra una città e l'altra, troppo lontani da entrambe. E probabilmente sarebbe stata una crudeltà estrarlo dal corpo senza antidolorifici. Ma non potevo sopportare che morisse dentro la metà spezzata dell'Orso che lo ospitava. «Sfruttai il retro della mano, quello che tagliava il ghiaccio. La lama era troppo spessa... combinò parecchi danni. Dovevo sperare che Imbriglia la Luce fosse tanto tramortito da poter sopportare il dolore. «Con le dita interne e più delicate, estrassi Imbriglia la Luce dal cervello dell'Orso. «Era ancora vivo. Quasi non mi fermai neanche a controllare. Lo conservai nel marsupio delle uova, al centro del mio corpo, tra i cuori più caldi. Così avrebbe potuto combattere il freddo, ma senza un corpo rischiava di resistere soltanto pochi minuti. E dove trovare un corpo ospite in quella desolazione vuota? «Pensai a un modo per condividere il mio ospite, ma dubitavo di poter restare lucida quanto bastava a inserirlo nella mia testa. E poi, senza medicine, sarei morta in fretta. Con tutti quei cuori, il sangue degli Orsi scorreva velocissimo. «La bestia dalle grandi chele ruggì, e sentii la terra tremare, scossa dalle sue enormi zampe. Non sapevo dove fosse la nostra guida, né se fosse ancora viva. Non sapevo quanto avrebbe impiegato la bestia per trovarci, mezzo sepolti sotto la neve. A pochi passi da me c'era l'Orso segato in due. Il sangue rutilante avrebbe attirato lo sguardo del mostro. «A quel punto ebbi un'idea folle.» Feci una pausa e risi tra me.
«Non avevo un Orso in cui ospitare Imbriglia la Luce. Non potevo sfruttare il mio corpo. La guida era morta, oppure fuggita. Ma sul ghiacciaio un altro corpo c'era. «Era una follia, ma non potevo fare a meno di pensare a Imbriglia la Luce. Non eravamo amici intimi, ma sapevo che, tra i miei cuori, stava morendo lentamente. Non potevo sopportarlo. «Sentii il ruggito della bestia infuriata e corsi verso di lei. Notai subito il suo pelo fitto e bianco. Balzai dritta verso la sua terza zampa sinistra e mi lanciai su di essa più in alto che potevo. Ero una brava saltatrice. Usai tutte e sei le mani, dalla parte della lama, per arrampicarmi sul fianco della bestia. Quella ruggiva e si agitava inutilmente. Le bestie come quella hanno il cervello piccolo e un'intelligenza limitata. «Riuscii a scalare il dorso della bestia, a salire sulla sua doppia spina dorsale, affondando le lame per restarle attaccata. «Impiegai pochi secondi per salire fino alla testa. Ma era lì che la difficoltà più grande mi attendeva. Le mie lame erano lunghe... più o meno come un tuo avambraccio. La pelliccia dell'animale era spessa il doppio. Affondai il colpo con tutta la forza che avevo, trapassando il primo strato di pelo e pelle sottostante. La bestia dalle grandi chele urlò e si rizzò sulle zampe posteriori. Rischiai di cadere. «Affondai quattro mani nella sua carne, mentre le altre due si occupavano del taglio. La pelle era spessa e dura, temevo di non riuscire a penetrarla... «La bestia si scrollò con tale vigore da costringermi a tenermi saldamente a lei. Ma il tempo di Imbriglia la Luce stava per scadere. Infilai le mani nel taglio e cercai di divaricarlo. «A quel punto la bestia si gettò all'indietro, nella neve. «Se non ci fossimo trovati accanto al suo rifugio, alla buca che aveva scavato per nascondersi, mi avrebbe schiacciata. Invece, malgrado l'impatto tremendo, la caduta mi fu utile. I miei coltelli erano già nel collo della bestia. Quando atterrai il suo peso li aiutò ad affondare. Persino più di quanto mi occorresse. «Restammo entrambi disorientati; io, mezza soffocata, sapevo di dover fare subito qualcosa, ma non ricordavo cosa. La bestia iniziò a rotolare, nel panico. L'aria fresca mi schiarì le idee, e mi ricordai di Imbriglia la Luce. «Proteggendolo dal freddo quanto potevo, con il lato liscio delle mani, lo trasferii dal marsupio delle uova al collo della bestia. «La bestia infuriata si rialzò e riuscì a scrollarmi via. Avevo mollato la
presa per inserire Imbriglia la Luce. «La tempesta di neve si era calmata, e io ero allo scoperto. Vidi che alzava le chele verso di me. Pensai che fosse la fine, ma mi sentivo rincuorata: se non altro, ci avevo provato. «Ma le chele si infilarono nella neve, mancandomi. Non potevo crederci! Alzai gli occhi verso quel muso enorme, orribile, e quasi... be', non scoppiai a ridere. Gli Orsi non ridono. Ma la sensazione era quella. Perché il brutto muso era preda di confusione, sorpresa e preoccupazione. Nessuna bestia dalle grandi chele aveva mai avuto un'espressione simile. «In pochi minuti Imbriglia la Luce si era collegato al corpo della bestia; era talmente grosso che dovette fare uno sforzo notevole per controllarlo tutto. Ma alla fine ci riuscì. Era confuso e lento; il cervello non era granché, ma mi bastava sapere che mi considerava sua amica. «Lo cavalcai fino alla città di cristallo per tenere chiusa la ferita sul collo, finché non avessimo trovato un Guaritore. Feci un certo scalpore. Per un po' fui ribattezzata Cavalca la Bestia. Non mi piaceva. Li costrinsi a tornare al mio vecchio nome.» Avevo raccontato la storia con lo sguardo fisso verso le luci dell'ospedale e le sagome delle anime che vi passavano accanto. Mi voltai e guardai Jared, incredulo, occhi sbarrati e bocca aperta. Era davvero una delle mie storie migliori. Melanie doveva promettermi di raccontarla a Jamie, dopo che... «Secondo me hanno finito di scaricare, che ne dici?» dissi. «Facciamola breve e torniamo a casa.» Jared mi guardò per qualche istante, poi scosse la testa, lentamente. «Sì, facciamola breve, Viandante, Vive nelle Stelle, Cavalca la Bestia. Rubare qualche scatolone incustodito sarà un compito tutt'altro che difficile per te, no?» 52 La separazione Entrammo con il bottino dal varco meridionale, anche se ciò significava dover spostare la jeep prima dell'alba. Non volevo utilizzare l'entrata principale, temendo che la Cercatrice potesse accorgersi del caos che il nostro arrivo avrebbe senz'altro suscitato. Non sapevo se avesse idea di ciò che stavo per fare, e non volevo fornirle una scusa per uccidere se stessa e la sua ospite. La storia che mi aveva raccontato Jeb - quella dell'ostaggio
crollato al suolo senza dare segni premonitori del disastro avvenuto nel cervello - mi tormentava. L'ambulatorio non era vuoto: Doc si stava preparando all'operazione. Sulla scrivania vuota, una lanterna al propano - la sorgente di luce più potente di cui disponessimo - attendeva di essere accesa. I bisturi luccicavano sotto il bagliore azzurro della torcia solare. Sapevo che Doc avrebbe accettato le mie condizioni, ma vederlo così assorto scatenò un'ondata di nausea dentro di me. O forse era soltanto il ricordo di un altro giorno a sconvolgermi: il giorno in cui avevo visto le sue mani sporche di sangue. «Sei tornata» disse sollevato. Mi resi conto che era preoccupato per noi, come tutti del resto quando qualcuno abbandonava la sicurezza delle grotte. «Abbiamo un regalo per te» disse Jared sbucando dietro di me. Si allungò a prendere la prima delle scatole e la mostrò a Doc, con l'etichetta in bella evidenza. «Guarisci!» esultò Doc. «Quanto ne avete preso?» «Due scatoloni. E abbiamo anche trovato il modo di fare scorta senza costringere Wanda ad accoltellarsi.» Doc non rise della battuta di Jared; si voltò e mi lanciò un'occhiata. Probabilmente avevamo pensato la stessa cosa: ci sarà utile, in assenza di Wanda. «Avete anche i crioserbatoi?» domandò mogio. Jared notò il suo sguardo teso. Si voltò verso di me, la sua espressione indecifrabile. «Sì» risposi. «Dieci. Di più la macchina non poteva portarne.» Doc sollevò una scatola e se la rigirò tra le mani. «Dieci?» Sembrava sorpreso. Temeva che ne avessimo prese troppe? O troppo poche? «È difficile usarle?» «No, facilissimo. Poi ti mostrerò come.» Doc annuì, esaminando quegli oggetti alieni. Sentivo lo sguardo di Jared addosso, ma continuai a fissare Doc. «Che ne pensano Jeb, Brandt e Aaron?» domandai. Gli occhi di Doc mi fissarono. «Sono... d'accordo con le tue condizioni.» Annuii, poco convinta. «Non ti mostrerò nulla finché non ne sarò certa.» «Giusto.» Jared ci lanciò un'occhiata confusa e frustrata. «Cosa gli hai detto?» mi chiese Doc circospetto.
«Soltanto che voglio salvare la Cercatrice.» Mi voltai verso Jared senza incrociarne lo sguardo. «Doc mi ha promesso che, se gli insegno a compiere la separazione, concederete alle anime di migrare su un altro pianeta. Senza ucciderle.» Jared annuì pensieroso e il suo sguardo saettò verso Doc. «Sono d'accordo. E posso accertarmi che anche gli altri rispettino la decisione. Immagino che tu sappia come farle uscire dal pianeta, no?» «Non è più pericoloso di ciò che abbiamo fatto stanotte. È esattamente il contrario, aggiungere carico anziché rubarlo.» «Okay.» «Hai pensato a una... scaletta?» chiese Doc. Cercava di ostentare indifferenza, ma la sua voce mostrava quanto fosse impaziente. Voleva soltanto la risposta che gli era sempre sfuggita, lo sapevo e continuavo a ripetermelo. Non aveva certo fretta di uccidermi. «Devo portare via la jeep. Potete aspettare? Mi piacerebbe assistere.» «Certo, Jared» rispose Doc. «Non mi ci vorrà molto» promise Jared, e sgusciò nella fenditura. Ne ero sicura. Non ci sarebbe voluto molto. «Non gli hai detto di... Melanie?» bisbigliò Doc. Scossi la testa. «Secondo me ha già intuito tutto.» «Non tutto. Non lascerà che...» «Non avrà voce in capitolo» lo interruppi brusca. «Tutto o niente, Doc.» Doc emise un sospiro. Dopo un istante di silenzio si diresse verso l'uscita principale. «Vado a parlare con Jeb e a preparare le cose.» Afferrò una bottiglia sul tavolo. Cloroformio. Di sicuro le anime avevano qualcosa di meglio a disposizione. Dovevo trovarlo e portarlo a Doc prima di andarmene. «Chi di voi sa?» «Soltanto Jeb, Aaron e Brandt. Tutti vogliono assistere.» Non ne fui sorpresa; Aaron e Brandt non si fidavano. «Non dirlo a nessuno. Non stanotte.» Doc annuì, poi scomparve nel corridoio buio. Andai a sedermi contro il muro, il più lontana possibile dalla barella pronta per l'operazione. Presto sarebbe toccato a me occuparla. In cerca di qualche altro pensiero, oltre a quella tetra certezza, mi resi conto che non sentivo Melanie da... da quanto non mi parlava? Quando avevo stretto il patto con Doc? Mi accorsi troppo in ritardo che ciò che era successo nel nascondiglio della jeep aveva scatenato una sua reazione.
"Mel?" Nessuna risposta. Malgrado tutto, non fui presa dal panico come già mi era accaduto. La sentivo ben presente nella mia testa, ma... perché mi ignorava? Che intenzioni aveva? "Mel? Che succede?" Nessuna risposta. "Ce l'hai con me? Scusa per prima, alla jeep. Non ho fatto niente, lo sai, e non è giusto che..." Mi interruppe, esasperata. "Smettila. Non ce l'ho con te. Lasciami stare." "Perché non mi parli?" Nessuna risposta. Provai a insistere, a intercettare i suoi pensieri. Lei cercava di allontanarmi, di alzare il muro che il tempo aveva ormai indebolito. Intuii il suo piano. Cercai di mantenere la calma. "Hai perso la testa?" "In un certo senso" scherzò senza convinzione. "Pensi che se riuscirai a sparire mi fermerò?" "Cos'altro posso fare? Se hai un'idea migliore, parliamone." "Non ti seguo, Melanie. Non li rivuoi? Non vuoi tornare accanto a Jared? A Jamie?" Era dibattuta. "Sì, ma... non posso..." Una pausa, e cercò di ricomporsi. "Mi rifiuto di essere la causa della tua morte, Wanda. Non posso sopportarlo." Intuii l'intensità del suo dolore, e nei miei occhi spuntò una lacrima. "Anch'io ti voglio bene, Mel. Ma non c'è spazio per entrambe, qui. In questo corpo, in queste grotte, nelle loro vite..." "Non sono d'accordo." "Senti, smettila di cercare di annullarti, okay? Se me ne accorgo, chiederò a Doc di estrarmi oggi stesso. Oppure lo dirò a Jared. Pensa a come reagirebbe." Abbozzai un sorriso tra le lacrime. "Ricordi? Ha detto che era disposto a fare qualsiasi cosa pur di tenerti qui." Ripensai ai baci ardenti nel corridoio... ripescai altri baci e altre notti nei suoi ricordi. Sentii il mio viso avvampare e arrossire. "Giochi sporco." "Puoi scommetterci." "Non mi arrendo."
"Ti ho avvertito. Niente proteste silenziose." Poi pensammo ad altro, a qualcosa che non facesse soffrire. Per esempio, a dove avremmo spedito la Cercatrice. Mel, dopo il mio racconto, propose il Pianeta delle Nebbie, ma da parte mia pensavo che il pianeta più adatto fosse quello dei Fiori. Era il più rilassante di tutto l'universo. La Cercatrice aveva bisogno di passare una lunga vita a nutrirsi di sole. Ripensammo ai miei ricordi, quelli piacevoli. I castelli di ghiaccio, la musica notturna e i soli colorati. Per lei erano favole. Mi raccontò le sue. Scarpette di vetro, mele avvelenate, sirene in cerca di un'anima... Ma non avevamo tanto tempo a disposizione per le storie. Tornarono insieme. Jared rientrò dall'accesso principale. Gli ci era voluto molto poco, forse aveva nascosto la jeep sotto la sporgenza della parete settentrionale. In fretta. Sentii le loro voci arrivare, mogie, serie, basse, e capii che la Cercatrice era con loro. Capii che la prima fase della mia morte stava per iniziare. "No." "Stai attenta. Toccherà a te aiutarli, in mia..." "No!" Non voleva zittire le mie spiegazioni, ma solo la conclusione della frase. Fu Jared a trasportare la Cercatrice nella stanza. Prima entrò lui, e alle sue spalle gli altri. Aaron e Brandt tenevano le armi pronte nel caso la prigioniera avesse finto di aver perso conoscenza e fosse stata rapida ad attaccarli con le sue piccole mani. Jeb e Doc entrarono per ultimi, e sapevo che da quel momento avrei sentito lo sguardo circospetto di Jeb sul mio viso. Quanto aveva capito, con la sua folle e profonda sagacia? Restai concentrata sul compito che mi attendeva. Con delicatezza eccezionale Jared posò il corpo inerte della Cercatrice sulla branda. Anziché infastidirmi, riuscì quasi a commuovermi. Capii che lo faceva per me, pentendosi di non avermi potuto trattare così sin dall'inizio. «Doc, dov'è l'Anti-dolore?» «Vado a prenderlo» mormorò. Mentre attendevo, osservai il viso della Cercatrice e mi chiesi che ne sarebbe stato della sua ospite, una volta libero. Cosa sarebbe rimasto? Un guscio vuoto, o un corpo con un'identità definita? Quello sguardo mi sarebbe apparso meno ripugnante, se ad accenderlo fosse stata una presenza diversa? «Eccolo.» Doc mi porse il cilindro.
«Grazie.» Ne estrassi un quadratino sottile e gliela restituii. Malgrado la mia riluttanza a toccare la Cercatrice, costrinsi le mie mani ad abbassarle il mento e a posarle l'Anti-dolore sulla lingua. Le richiusi la bocca. La medicina si sarebbe sciolta in fretta. «Jared, ti dispiacerebbe voltarla a pancia in giù?» domandai. In quell'istante, la lanterna al propano prese vita. La grotta si illuminò all'improvviso, quasi a giorno. Alzai gli occhi, d'istinto, e mi accorsi che Doc aveva sigillato con dei teloni le fenditure del soffitto per impedire alla luce di uscire. Durante la nostra assenza aveva curato ogni dettaglio. Tutto tacque. Sentivo il respiro regolare della Cercatrice. E quello più veloce e teso degli uomini che mi circondavano. Sentivo il peso dei loro sguardi. Deglutii, sperando di controllare la voce. «Doc, mi servono Guarisci, Pulisci, Cicatrizza e Leviga.» «Eccoli.» Scostai i capelli crespi e neri della Cercatrice per scoprire la piccola linea rosa alla base del cranio. Indecisa, fissai la pelle olivastra. «Potresti incidere tu, Doc? Io non... non voglio.» «Senz'altro, Wanda.» Mi si avvicinò, ma vidi soltanto le sue mani. Sistemò una piccola schiera di cilindri bianchi sul lettino, accanto alla spalla della Cercatrice. La scintilla del riflesso irradiato dal bisturi mi colpì il volto per un istante. «Vorrei poterla disinfettare» mormorò Doc, assorto, nell'ovvio timore di non avere abbastanza mezzi. «Non serve. Abbiamo il Pulisci.» «Lo so.» Fece un sospiro. Ciò che desiderava era la routine, la lucidità che le vecchie abitudini sapevano restituirgli. «Quanto spazio ti serve?» domandò, arrestando la punta della lama a un centimetro dalla pelle. Sentivo il calore degli altri corpi premuti in cerca di un buon punto di osservazione. Badavano a non sfiorare né me né il dottore. «Quanto ne occupa la cicatrice.» Non gli sembrava abbastanza. «Sicura?» «Sì. Ah, aspetta!» Doc si ritrasse. Mi resi conto che stavo facendo tutto al contrario. Non ero una Guaritrice. Non avevo la stoffa per certe operazioni, mi tremavano le mani. Non
riuscivo a staccare gli occhi dal corpo della Cercatrice. «Jared, prendi un serbatoio, per favore.» «Certo.» Lo sentii percorrere pochi passi, sentii il tonfo sordo e metallico del fusto che sbatteva contro gli altri. «E poi?» «Sul coperchio c'è un cerchio. Premilo.» Sentii il ronzio cupo del crioserbatoio che si accendeva. Gli uomini borbottarono e si allontanarono strisciando i piedi. «Okay, sul lato dovrebbe esserci un altro interruttore... una specie di manopola. La vedi?» «Sì.» «Girala tutta verso il basso.» «Okay.» «Di che colore è la luce sul coperchio?» «È... sta cambiando, da rossastra a... blu. Ora è azzurra.» Sospirai di sollievo. Per fortuna i serbatoi erano funzionanti. «Ottimo. Apri il coperchio, e aspettami.» «Come?» «C'è una serratura a scatto.» «Trovata.» Sentii il clic del coperchio e il ronzio del meccanismo. «È gelido!» «L'hai detto.» «Come funziona? Cosa lo alimenta?» «Lo sapevo quand'ero un Ragno. Ora non ne ho idea. Doc, puoi continuare, sono pronta.» «Eccoci» sussurrò Doc, mentre con destrezza, quasi con grazia, faceva scorrere la lama del bisturi sulla pelle. Il profilo del collo si macchiò di sangue, che si addensava sulla salvietta a cui era appoggiata la testa. «Un millimetro più a fondo. Appena al di sotto dell'attacco...» «Sì, vedo.» Rispose Doc infervorato. Un riflesso argenteo brillò nel rosso. «Bene. Adesso tienile i capelli.» Doc prese il mio posto con un movimento svelto e fluido. Ci sapeva fare. Sarebbe stato un ottimo Guaritore. Non cercai nemmeno di nascondergli ciò che facevo. Erano movimenti troppo impercettibili perché potesse osservarli. Solo spiegandoglieli uno alla volta avrebbe potuto ripeterli.
Con cautela, feci scorrere un dito sul dorso della creaturina argentea, affondandolo nell'apertura alla base del collo. Mi feci strada fino alle antenne anteriori, sfiorando il profilo delle propaggini tese come corde d'arpa e legate ai recessi più profondi del cervello. Curvai il dito sotto il corpo dell'anima, carezzandone il primo segmento fino a una nuova serie di propaggini, rigide e tese come le setole di una spazzola. Frugai con la massima attenzione tra le giunture di quelle corde, tra le articolazioni minuscole, non più grandi della capocchia di uno spillo. Le sfiorai fino a circa un terzo della loro lunghezza. Avrei potuto contare, ma rischiavo di perdere troppo tempo. Era la duecentodiciassettesima propaggine, ma c'era un altro modo di trovarla. Ed eccola, la cresta minuscola che ne rendeva le articolazioni leggermente più grandi delle altre: una perlina, anziché una capocchia. La sentii, liscia, sotto il polpastrello. Vi applicai una pressione delicata, massaggiandola dolcemente. Con le anime, la gentilezza era la chiave. Mai la violenza. «Rilassati» bisbigliai. E malgrado l'anima non potesse sentirmi, obbedì. Le corde d'arpa si allentarono fino a sciogliersi mentre il corpo che le riassorbiva si gonfiava impercettibilmente. Trattenni il respiro finché non avvertii l'anima dondolare a contatto con il dito. Si dibatteva libera. Lasciai che si trascinasse verso l'esterno, poi chiusi le dita con delicatezza attorno al suo corpo minuscolo e fragile. La sollevai, argentea e luminosa, umida del sangue che colava lesto dall'incisione, e la cullai sul palmo della mano. Era bellissima. L'anima il cui nome non avevo mai conosciuto era una piccola onda argentata che splendeva nella mia mano... un bellissimo nastro piumato. Non potevo odiarla. Mi sentii inondare di un amore quasi materno. «Dormi bene, piccola» le sussurrai. Mi voltai verso il debole ronzio del crioserbatoio, alla mia sinistra. Jared lo teneva basso e inclinato, e fu semplice trasferire l'anima nel freddo impossibile che filtrava dall'apertura. La feci scivolare nella fessura stretta e con cautela serrai il coperchio. Presi il crioserbatoio da Jared, lo girai con attenzione fino a metterlo in verticale e lo strinsi al petto cullandolo protettiva come una madre. Mi voltai verso la sconosciuta sul tavolo. Doc stava già spalmando il Leviga sulla ferita chiusa. Eravamo una bella squadra: una si occupava
dell'anima, l'altro del corpo. Doc alzò lo sguardo, pieno di entusiasmo e meraviglia. «Straordinario» mormorò. «Incredibile.» «Bel lavoro» bisbigliai. «Quando pensi che si sveglierà?» chiese lui. «Dipende da quanto cloroformio ha inalato.» «Non molto.» «E poi bisogna vedere se è ancora presente.» Senza che glielo chiedessi, Jared sollevò con dolcezza la donna che non aveva un nome dalla branda, e la fece accomodare a pancia in su sopra un lettino pulito. La sua tenerezza non mi sfiorò. Era una tenerezza da umani, come Melanie... Doc lo seguì, controllando il polso della donna e sollevandole le palpebre. Puntò una torcia verso i suoi occhi incoscienti, e vide le pupille contrarsi. Nessuna luce riflessa lo colpì. Lui e Jared si scambiarono un'occhiata eloquente. «Ce l'ha fatta davvero» disse Jared a bassa voce. «Sì» commentò Doc. Non mi accorsi che Jeb mi si era avvicinato. «Notevole, ragazza mia» mormorò. Mi strinsi nelle spalle. «Ti senti un po' combattuta?» Non risposi. «Già. Anch'io, piccola, anch'io.» Aaron e Brandt parlavano alle mie spalle, incapaci di trattenere l'entusiasmo, prevenendo l'uno i pensieri e le domande dell'altro. «Aspetta che gli altri lo sappiano!» «Pensa a...» «Dovremo andare a prendere...» «Sono già pronto...» «Basta» li interruppe Jeb. «Niente rapimenti, finché questo serbatoio non sarà in viaggio nello spazio. Giusto, Wanda?» «Giusto» risposi, con voce ferma e stringendo il contenitore al petto. Brandt e Aaron si scambiarono uno sguardo deluso. Avevo bisogno di altri alleati. Jared, Jeb e Doc, per quanto fossero influenti, erano soltanto in tre. Anche a loro servivano supporti. Il che significava una cosa: dovevo parlare con Ian. Anche con gli altri, certo, ma Ian doveva sapere. Sentii il cuore acca-
sciarsi in fondo al petto, raggomitolarsi inerte. Da quando mi ero unita agli umani avevo fatto tante cose contro la mia volontà, ma non ricordavo fitte di dolore così profonde. Nemmeno la decisione di sacrificarmi per salvare la Cercatrice: una ferita enorme, vasta, un mare di dolore che, però, giustificato da un bene più grande, era quasi sopportabile. Dire addio a Ian era come una ferita infetta da una lama affilata. Avrei voluto trovare un modo, uno qualsiasi, per salvarlo da quello stesso dolore. Non c'era. Ancora peggio sarebbe stato dire addio per sempre a Jared. La più avvelenata tra le ferite. Perché lui non avrebbe sofferto. La gioia avrebbe soffocato qualsiasi piccola nostalgia di me. Quanto a Jamie, be', non avevo affatto in programma di dirgli addio per sempre. «Wanda!» mi chiamò Doc. Mi affrettai a raggiungere il letto su cui era chino. Prima di arrivarci, vidi la piccola mano olivastra stringersi e rilassarsi, mentre penzolava dal bordo della branda. «Ah» mugolò la voce familiare della Cercatrice. «Ahi.» Nella stanza calò il silenzio. Tutti mi fissarono, come se l'esperta di umani fossi io. Diedi di gomito a Doc, senza smettere di stringere il serbatoio. «Parlale» sussurrai. «Uhm... ehi? Mi senti... signorina? Sei al sicuro, ora. Capisci ciò che dico?» «Ah» gemette lei. Un battito di ciglia e i suoi occhi si aprirono, mettendo a fuoco il volto di Doc. Grazie all'Anti-dolore, nella sua espressione non c'era ombra di sofferenza. I suoi occhi erano nero onice. Saettarono per la stanza finché non mi individuarono, per dedicarmi un'occhiataccia. Poi tornò a rivolgersi a Doc. «Ehi, è bello riavere una testa» disse a voce alta. «Grazie.» 53 La sentenza La donna che aveva ospitato la Cercatrice si chiamava Lacey; un nome dal suono delicato, morbido, femminile. Inadeguato, come le sue proporzioni, secondo me. Come battezzare un pitbull «zucchero». Lacey era chiassosa quanto la Cercatrice, e, come lei, era una lagna continua.
«Perdonatemi ma ho bisogno di sfogarmi» insistette, senza concederci alternative. «Sono anni che urlo da qui dentro, senza mai riuscire a parlare. Ho un sacco di cose da dire.» Ero quasi contenta di andarmene. Che fortuna. La sua espressione non era meno ripugnante della precedente. Perché ad accenderla era una personalità non molto diversa, tutto sommato. «È il motivo per cui non ci vai a genio» mi disse quella prima notte, continuando a usare il presente e il plurale. «Quando ha capito che sentivi la presenza di Melanie come lei sentiva la mia, si è spaventata. Temeva che potessi scoprirla. Era il suo tremendo segreto nascosto.» Fece una risata isterica. «Non era capace di farmi tacere. Per questo è diventata una Cercatrice: perché sperava di scoprire il modo per opporsi agli ospiti refrattari. E poi ha chiesto di venire assegnata a te per studiare il tuo comportamento. Era gelosa: patetica, eh? Voleva essere forte come te. Quando ci è sembrato che Melanie avesse vinto abbiamo fatto i salti di gioia. Ma immagino che non sia andata così. Hai vinto tu. Ma allora perché sei venuta qui? Perché aiuti i ribelli?» Controvoglia le spiegai che io e Melanie eravamo amiche. Non la prese bene. «Perché?» domandò. «È una brava persona.» «Ma perché tu piaci a lei?» "Per lo stesso motivo." «Per lo stesso motivo, dice.» Lacey fece una smorfia. «Cosa le hai fatto, il lavaggio del cervello?» "Caspita, è peggio della prima." Sì commentai. "Ecco perché la Cercatrice era tanto odiosa. Prova tu ad avere questa nel cervello tutto il tempo." Non fu l'unica obiezione di Lacey. «Non avete un rifugio migliore di queste grotte? È proprio sporco, quaggiù. Non c'è una casa da qualche parte, magari...? In che senso, dobbiamo condividere le stanze? Mansioni quotidiane? Non capisco. Devo lavorare? No, voi non capite...» Il giorno successivo Jeb le aveva fatto fare il solito giro, cercando di spiegarle come viveva la nostra comunità. Quando mi passarono davanti in cucina, mentre mangiavo con Jamie e Ian - con un'occhiata eloquente Jeb si rammaricò che forse non era stata una buona idea impedire ad Aaron di spararle.
Il giro ebbe parecchi spettatori. Tutti volevano vedere il miracolo con i propri occhi. Quasi non importava che Lacey fosse così... difficile. Era la benvenuta. Più che benvenuta. Provai di nuovo una punta di gelosia. Ma era una sciocchezza. Lei era umana. Rappresentava la speranza. Era una di loro. E sarebbe rimasta, anche dopo la mia partenza. "Fortunata te" sussurrò Mel sarcastica. Spiegare a Ian e Jamie cosa fosse accaduto non fu difficile né doloroso come avevo immaginato. Perché entrambi, per motivi diversi, rimasero all'oscuro di tutto e non intuirono che la nuova scoperta mi avrebbe costretta a sparire. Le ragioni di Jamie erano comprensibili. Più di chiunque altro, aveva accettato me e Melanie per ciò che eravamo. La sua mente giovane e aperta gli aveva permesso di accettare la nostra doppia personalità come un dato di fatto. E ci trattava come due persone, anziché una. Per lui Mel era reale e presente, quanto lo era per me. La reazione di Ian invece mi lasciò perplessa. Era troppo occupato a pensare alle conseguenze dell'accaduto? Ai cambiamenti nella società degli umani? Erano tutti sbalorditi dall'idea che essere catturati - la fine - non fosse più una condanna. C'era modo di tornare. Ai suoi occhi il mio tentativo di salvare la Cercatrice era coerente con l'idea che si era fatto della mia personalità. E forse questo gli bastava. Ma poteva anche darsi che Ian non avesse avuto nemmeno la possibilità di rifletterci, perché qualcosa l'aveva distratto. E fatto arrabbiare. «Avrei dovuto ucciderlo anni fa» brontolava mentre preparavamo il necessario per la nostra missione. La mia ultima missione; cercai di non pensarci troppo. «Anzi, la mamma avrebbe dovuto annegarlo dopo la nascita!» «È tuo fratello.» «Piantala di ripeterlo. Stai cercando di farmi sentire peggio?» Tutti erano furiosi con Kyle. La rabbia aveva reso Jared taciturno, Jeb accarezzava il fucile più del dovuto. Jeb, pieno di entusiasmo, aveva progettato di unirsi a quella missione storica, per lui la prima da quando viveva nelle grotte. In particolare, non vedeva l'ora di guardare da vicino le piste di lancio delle astronavi. Ma, dopo che Kyle ci aveva esposti tutti al pericolo, aveva deciso di restare a casa, pronto a ogni evenienza. Il che lo rendeva di pessimo umore. «Chiuso qui con quella creatura» mormorava, strofinando la canna del fucile. «Mi perderò tutto il divertimento.» Sputò per terra. Sapevamo tutti dove fosse andato Kyle. Appena scoperto che era bastata
una notte per trasformare magicamente il verme-Cercatrice nella Laceyumana, se l'era svignata. L'avevo immaginato a capo della fazione che chiedeva la morte della Cercatrice (portavo sempre con me il crioserbatoio; nel sonno leggero, la mia mano ne sfiorava la superficie liscia), ma Kyle era introvabile, e in sua assenza Jeb soffocò facilmente le proteste. Fu Jared ad accorgersi che anche la jeep era sparita, e Ian collegò i due fatti. «È andato a cercare Jodi» grugnì. «E dove, se no?» Speranza e inquietudine. La prima era merito mio, la seconda colpa di Kyle. Rischiava di tradirli tutti prima che potessero approfittare della mia speranza: ci sarebbe riuscito? Jared e Jeb avrebbero voluto rimandare la missione fino al ritorno di Kyle; nella migliore delle ipotesi, gli sarebbero occorsi almeno tre giorni, ammesso che la sua Jodi vivesse ancora nell'Oregon. C'era un altro luogo, un'altra caverna in cui potevamo traslocare. Un luogo più piccolo, senz'acqua, un nascondiglio temporaneo. Discussero se fosse il caso di evacuare tutti subito o aspettare. Io avevo fretta. Avevo visto come gli altri guardavano il serbatoio argenteo che stringevo. Avevo sentito i bisbigli. Più trattenevo con me la Cercatrice, più aumentavano le probabilità che qualcuno la uccidesse. Dopo aver conosciuto Lacey, provavo compassione della Cercatrice: meritava una vita nuova e più piacevole, tra i Fiori. Ironia della sorte, fu Ian a sostenermi e ad accelerare la partenza della missione. Ancora non ne coglieva le conseguenze. Tuttavia gli ero grata di avermi aiutato a convincere Jared a iniziare la missione prima di prendere una decisione in merito a Kyle. E grata che avesse ricominciato a giocare alla guardia del corpo. Sapevo che potevo fidarmi di lui come custode del crioserbatoio, più che di chiunque altro. Era l'unico che, nella sagoma di quel piccolo contenitore, vedeva una vita da proteggere. La considerava qualcosa che si poteva amare. Era il migliore alleato possibile. Grazie al cielo avevo Ian, e grazie al cielo la sua incoscienza lo proteggeva, almeno per il momento, dal dolore. Dovevamo agire con rapidità, per evitare che Kyle rovinasse tutto. Tornammo a Phoenix, presso una delle tante comunità residenti attorno allo hub. C'era una grande pista di atterraggio per shuttle nei dintorni di una cittadina chiamata Mesa, nel sudest, attorno alla quale erano sorti parecchi laboratori di Guarigione. Era quello che cercavo: se avessimo preso un Guaritore, saremmo stati in grado di preservarne la memoria nel corpo o-
spite. Un essere umano capace di utilizzare le nuove medicine. Doc ne sarebbe stato entusiasta. Chissà quante domande gli avrebbe fatto. Ma per prima cosa la pista di atterraggio. Era un peccato che Jeb si perdesse la missione, ma sapevo anche che in futuro l'occasione si sarebbe ripresentata. Malgrado il buio, una lunga fila di piccoli shuttle dal muso tozzo atterrava dolcemente, mentre un'altra decollava, in un flusso continuo. Io ero al volante del vecchio furgone, gli altri nascosti nel retro. Aggirai la pista, mantenendomi a distanza dal terminal affollato. Non fu difficile individuare le grandi navicelle bianche e affusolate che abbandonavano il pianeta. Non partivano con la stessa frequenza dei veicoli più piccoli. Al momento nessuna era in procinto di decollare. «È tutto etichettato» ricordai agli altri. «Questo è importante: evitate navi dirette ai Pipistrelli, e soprattutto alle Alghe. Le Alghe distano un solo sistema, in dieci anni ci si va e si torna. È un viaggio troppo breve. I Fiori sono i più lontani, e per raggiungere i Delfini, gli Orsi e i Ragni ci vuole almeno un secolo. È lì che dovete spedire i crioserbatoi.» Guidavo piano, vicina alle astronavi. «Sarà facile. Qui è pieno di veicoli per il trasporto, basta mescolarsi a loro. Ehi! C'è un furgone con i serbatoi, di quelli che abbiamo visto all'ospedale, Jared. E un uomo che controlla il carico. Li sta posando su un carrello elevatore. Per stivarli...» Rallentai ancora, aguzzando la vista. «Sì, su questa nave. Dritto verso il portellone aperto. Gli giro attorno e farò la mia mossa quando lo vedrò entrare.» Passai oltre ed esaminai la scena nel retrovisore. C'era un'insegna luminosa accanto al tubo che connetteva il muso della nave al cancello di partenza. Sorrisi, leggendolo al contrario. La nave era diretta verso il Pianeta dei Fiori. Invertii lentamente la marcia, quando l'uomo sparì nella stiva. «State pronti» sussurrai, infilandomi nell'ombra disegnata dall'ala di un'enorme astronave ferma lì accanto. Ero a pochi metri dal furgone. Spensi il motore e balzai giù dal sedile ostentando tranquillità, come se stessi facendo il mio dovere. Mi diressi verso il retro del furgone e aprii appena il portellone. Trovai subito il crioserbatoio, il cui led rosso indicava che era occupato. Lo presi con cautela. Mi diressi verso il camion aperto con passo sicuro. Ma mi sentii mancare il fiato. Era molto più pericoloso che rubare all'ospedale. Potevo pretendere che i miei umani si assumessero un simile rischio? "Io ci sarò. Lo farò io al tuo posto. Casomai tu decida di andare, ecco."
"Grazie, Mel." Mi sforzai di non lanciare occhiate alle mie spalle, verso la stiva aperta. Posai con delicatezza il serbatoio all'interno del camion, in cima alla colonna più vicina. «Addio» sussurrai. «Buona fortuna con il tuo prossimo ospite.» Tornai sui miei passi con la massima lentezza. Nel silenzio dell'abitacolo ingranai la retromarcia e mi allontanai dalla grande astronave. Ripercorsi la strada da cui ero venuta, con il cuore in gola. Ian sgusciò sul sedile del passeggero. «Non sembra tanto difficile.» «Questione di fortuna e tempismo. Non sempre l'occasione buona arriva subito.» Ian mi sfiorò una mano. «Tu sei il nostro portafortuna.» Non risposi. «Ti senti meglio, ora che è salva?» «Sì.» Vidi la sua testa voltarsi di scatto, allarmato dal tono di voce con cui avevo mentito. Badai a non guardarlo negli occhi. «Andiamo a prendere qualche Guaritore» mormorai. Durante il breve tragitto verso la piccola struttura di Guarigione, Ian restò zitto e pensieroso. Immaginavo che la seconda missione rappresentasse il vero pericolo. Secondo il piano - ammesso che le condizioni fossero favorevoli - dovevo cercare di attirare uno o due Guaritori fuori dalla struttura, con il falso pretesto di un amico ferito sul furgone. Un vecchio trucco, che avrebbe sicuramente funzionato con gli ignari e fiduciosi Guaritori. Non fui nemmeno costretta ad entrare. Parcheggiai proprio mentre due Guaritori di mezza età, un uomo e una donna che indossavano camici viola, stavano salendo sulla propria auto. Nei paraggi non c'era nessuno. Ian annuì, teso. Accostai vicino alla loro auto. I due alzarono gli occhi, sorpresi. Aprii la portiera e scesi. Con la voce strozzata dal pianto e il viso sfigurato dalla preoccupazione, non fu difficile imbrogliarli. «Il mio amico, sul furgone - non so cosa gli sia successo.» Reagirono all'istante, con la dedizione che mi aspettavo. Corsi ad aprire il portellone, e i due mi seguirono. Ian scese dall'altro lato del mezzo. Jared era pronto con il cloroformio. Non guardai.
Il tutto durò pochi secondi. Jared sistemò i corpi privi di sensi nel retro, e Ian serrò il portellone. Si soffermò a guardare i miei occhi gonfi di lacrime, poi saltò sul sedile del guidatore. Partì di gran fretta. E tornò a stringermi la mano. «Scusa, Wanda. So che per te è difficile.» «Sì.» Non aveva idea di quanto lo fosse, e per ragioni certo a lui incomprensibili. Mi strinse la mano. «Ma alla fine è andato tutto liscio. Sei un portafortuna eccellente.» Fin troppo liscio. Due missioni portate a termine senza il minimo intoppo. Il mio destino era segnato. Stavamo per raggiungere l'autostrada. Dopo pochi minuti, all'orizzonte vidi un'insegna luminosa e familiare. Feci un gran sospiro e mi asciugai gli occhi. «Ian, mi faresti un favore?» «Tutto ciò che vuoi.» «Fermati al fast food.» Scoppiò a ridere. «Certo.» Nel parcheggio ci scambiammo di posto, e guidai fino allo sportello delle ordinazioni. «Cosa vuoi, Ian?» domandai. «Niente. Mi godo la scena in cui finalmente fai qualcosa per te stessa. Dev'essere la prima volta.» Non risi della sua battuta. Per me, era una sorta di ultima concessione al condannato. Sarei tornata alle grotte per non uscirne mai più. «Per te, Jared?» «Due di quello che prendi tu.» Così ordinai tre cheeseburger, tre patatine, e tre milk-shake alla fragola. Dopo aver ritirato il cibo, Ian tornò alla guida affinché io potessi mangiare. «Ehm» esclamò, quando mi vide inzuppare una patatina nel milk-shake. «Prova anche tu. È buono.» E gli offrii una patatina. Scrollò le spalle e la inghiottì dicendo: «Interessante». Feci una risata. «Anche per Melanie è una schifezza.» E pensare che all'inizio l'avevo presa come abitudine. Era buffo pensare che fossi arrivata a tanto pur di infastidirla. In realtà non avevo fame. Volevo soltanto godermi per l'ultima volta uno dei sapori che ricordavo meglio.
Tornammo a casa senza intoppi. Non ci imbattemmo in nessuna pattuglia di Cercatori. Forse avevano creduto nella coincidenza e ritenevano inevitabile che, a furia di vagare in solitudine nel deserto, qualcosa potesse andare storto. Un folto drappello di amici ci aspettava. Abbozzai un sorriso a Trudy, Geoffrey, Heath e Heidi. I miei amici veri erano sempre meno. Walter e Wes non c'erano più. Lily, non sapevo dove fosse. Ne presi atto con tristezza. Forse, tutto sommato, non mi andava di vivere su un pianeta così pieno di morte. Forse era meglio il nulla. Un altro motivo di tristezza, per sciocco che fosse, fu vedere Lucina accanto a Lacey, attorniata da Reid e Violetta. Discutevano animatamente, prese da chissà quali argomenti. Lacey teneva in braccio Freedom. Il bambino non sembrava particolarmente entusiasta, ma partecipare alla conversazione degli adulti bastava a trattenerlo. Io non avevo mai avuto il permesso di avvicinarlo; Lacey, invece, era già una di loro. Degna di fiducia. Ci infilammo subito nel tunnel meridionale, Jared e Ian affannati sotto il peso dei Guaritori. Ian portava l'uomo e sudava per la fatica. Jeb scacciò i presenti dall'entrata della galleria e ci seguì. Doc ci aspettava in ambulatorio, sfregandosi le mani con aria assente, come se le stesse lavando. Somministrarono l'Anti-dolore ai Guaritori e li fecero sdraiare, a pancia in giù, sulle brande. Jared mostrò a Ian come accendere i serbatoi. Li tennero pronti, con Ian che batteva i denti scosso dallo spiffero di freddo insopportabile. Doc si chinò sulla donna, bisturi in mano e medicine pronte all'uso. «Wanda?» chiese. Il mio cuore ebbe una fitta di dolore. «Lo giuri, Doc? Tutte le mie condizioni? Lo giuri sulla tua stessa vita?» «Sì. Accetto tutte le tue condizioni, Wanda. Lo giuro.» «Jared?» «Sì. Nessuna uccisione, mai.» «Ian?» «Le proteggerò a costo della vita, Wanda.» «Jeb?» «È casa mia. Chi non rispetta gli accordi se ne dovrà andare.» Annuii in lacrime. «Okay, allora. Mettiamoci all'opera.» Doc, di nuovo eccitato, affondò la lama fino a intravedere lo scintillio
argenteo. Abbandonò il bisturi all'istante. «E adesso?» Strinsi la sua mano nella mia. «Segui la cresta posteriore. Trovata? Segui il profilo dei segmenti. Diventano più piccoli, verso la zona anteriore. Okay, in cima dovresti trovare tre piccole... cose ispide. Le senti?» «Sì» sussurrò. «Bene. Sono le antenne anteriori. Inizia da lì. Con delicatezza, fai passare il dito sotto il corpo. Trova le propaggini. Sono tese come fil di ferro.» Lo guidai fino a un terzo della lunghezza del corpo, gli dissi di contare, in caso di dubbio. Ma non c'era tempo, con tutto il sangue che scorreva. Ero certa che il corpo della Guaritrice, se avesse ripreso conoscenza, ci avrebbe aiutati. Lo aiutai a trovare il nodulo più grosso. «Ora, accarezza piano il corpo. Massaggialo con delicatezza.» Il tono della voce di Doc si fece più stridulo, quasi nel panico. «Si muove.» «Bene; vuol dire che ci stai riuscendo. Lasciale il tempo di ritrarsi. Quando la vedi spostarsi, prendila in mano.» «Okay.» Gli tremava la voce. «Dammi la mano, Ian» dissi. Sentii la mano di Ian intrecciarsi alla mia. La voltai, ne chiusi il palmo, e la avvicinai al punto in cui Doc stava operando. «Dai quell'anima a Ian, con delicatezza, per favore.» Ian era l'assistente perfetto. In mia assenza, chi altro si sarebbe occupato con tanta cura delle mie minuscole parenti? Doc trasferì l'anima nella mano pronta di Ian e si affrettò a risanare la ferita. Ian fissò il nastro argentato sulla sua mano, pieno di meraviglia anziché di disgusto. La sua reazione mi riempì di calore. «È bella» sussurrò sorpreso. Per quanto bene volesse a me, si aspettava un parassita, un centopiedi, un mostro. Non era preparato a tanta bellezza. «Lo penso anch'io. Falla scivolare nel serbatoio.» Ian trattenne l'anima sul palmo della mano per un altro secondo e poi, con estrema delicatezza, la depositò al freddo. Jared gli mostrò come chiudere il coperchio. Mi sentii libera da un peso. Era fatta. Troppo tardi per cambiare idea. Non era una sensazione terribile come temevo, perché ero certa che quei quattro umani si sarebbero presi cura delle anime come avrei fatto io.
«Attenti!» gridò Jeb all'improvviso. Il fucile comparve fra le sue mani, puntato dietro di noi. Ci voltammo verso il pericolo, e Jared lasciò cadere a terra il serbatoio per slanciarsi verso il Guaritore, che inginocchiato sulla branda ci guardava sbalordito. Ian ebbe la presenza di spirito di tenere stretto il suo contenitore. «Cloroformio» urlò Jared mentre agguantava il Guaritore e lo inchiodava alla branda. Ma era troppo tardi. Il Guaritore mi guardò con espressione sbalordita, quasi infantile. Capii il perché di quello sguardo: i raggi della lanterna oscillavano tra i suoi occhi e i miei, disegnando intrecci di diamante sulle pareti. «Perché?» mi domandò. Poi la luce nei suoi occhi si spense e il corpo si lasciò crollare sulla branda. Due rivoli di sangue sgorgarono lenti dalle narici. «No!» gridai, chinandomi sul corpo inerte: ormai era troppo tardi. «No!» 54 L'oblio «Elizabeth?» domandai. «Anne? Karen? Come ti chiami? Coraggio. So che lo sai.» Il corpo della Guaritrice era ancora immobile sulla branda. Non sapevo più da quanto tempo. Non avevo ancora dormito, malgrado il sole fosse alto nel cielo. Doc aveva scalato la montagna per rimuovere i teloni, e il sole splendeva radioso dalle fenditure del soffitto, caldo sulla mia pelle. Avevo spostato la donna senza nome dal bagliore. Le sfiorai la guancia con delicatezza e accarezzai i morbidi capelli castani per scoprirle il viso. «Julie? Brittany? Angela? Patricia? Ci sto andando vicina? Parlami. Ti prego.» Tranne Doc - che russava tranquillo su una branda nell'angolo più buio dell'ambulatorio - tutti gli altri se n'erano andati da ore. Alcuni a seppellire l'ospite che avevamo perso. Rabbrividii ripensando alla sua domanda stupefatta, e all'istante in cui il suo sguardo si era spento. «Perché?» aveva chiesto. Se solo avesse atteso una risposta, avrei potuto cercare di spiegargli. Magari mi avrebbe capita. Dopotutto, cosa c'era di più importante dell'amore? Non era la chiave di tutto per un'anima? E con l'amore ero pronta a
rispondere. Magari avrebbe compreso la verità e avrebbe concesso al corpo umano di sopravvivere. Tuttavia, una richiesta del genere gli sarebbe parsa priva di senso. Il corpo era suo, non un'entità distinta. La fine che aveva scelto era un suicidio, non un omicidio. Si era interrotta soltanto una vita. Forse era proprio così. Se non altro, le due anime erano sopravvissute. Il led rosso del suo serbatoio lampeggiava accanto a quello della Guaritrice; non c'era segno più grande della magnanimità dei miei umani, che gli avevano risparmiato la vita. «Mary? Margaret? Susan? Jill?» Malgrado Doc si fosse addormentato lasciandomi sola, avvertivo ancora nell'aria una forte tensione. La donna non si era svegliata, malgrado l'effetto del cloroformio fosse svanito. Non si era ancora mossa. Respirava, il cuore batteva, ma non aveva risposto a nessuno dei tentativi di rianimazione di Doc. Era troppo tardi? L'avevamo persa? Era stata cancellata? Era morta, come il corpo del maschio? Finiva sempre così? Ce n'erano pochi che, come Lacey e Melanie, capaci di gridare e di resistere, avremmo potuto salvare? Gli altri erano scomparsi? Lacey era un'anomalia? E Melanie, sarebbe tornata com'era... o persino lei era in dubbio? "Non mi avete persa. Sono qui." Ma, a giudicare dal tono, stava sulla difensiva. Anche lei era preoccupata. "Sì. E ci rimarrai." Con un sospiro tornai ai miei tentativi. «So che hai un nome» dissi alla donna. «È Rebecca? Alexandra? Olivia? Magari qualcosa di più semplice... Jane? Jean? Joan?» Sempre meglio che niente, pensai mogia. Se non altro avevano imparato a difendersi, se li avessero catturati. Avevo aiutato i refrattari, tutto sommato. Ma non mi sembrava abbastanza. «Non mi dai molta soddisfazione» mormorai. Presi la sua mano tra le mie. «Sarebbe carino se facessi almeno uno sforzo. I miei amici sono già abbastanza depressi. Una buona notizia farebbe comodo. E poi, finché Kyle è lontano... evacuare sarà difficile anche senza doverti trascinare. So che vuoi aiutarci. Questa è la tua famiglia, sai. Questa è la tua gente. Ti
piaceranno.» Il volto dai lineamenti fragili era spento e privo di espressione. Era una bellezza poco appariscente: viso ovale, tratti simmetrici. Quarantacinque anni, forse più, forse meno. Difficile stabilirlo, finché restava inanimata. «Hanno bisogno di te» aggiunsi, supplicandola. «Tu puoi aiutarli. Sai tante cose che io non ho mai saputo. Doc ci mette tutto se stesso. Ma ha bisogno di aiuto. È una brava persona. Tu sei stata una Guaritrice; deve esserti rimasta un po' di dedizione alla salute degli altri. Secondo me Doc ti piacerà.» Carezzai la sua guancia morbida, ma non reagì, perciò tornai a stringere la mano inerte. Alzai lo sguardo verso il cielo blu, al di là delle fenditure del soffitto alto. Lasciai vagabondare i pensieri. "Chissà cosa faranno se Kyle non torna? Quanto tempo rimarranno nascosti? Andranno a cercare un'altra casa? Sono in tanti... non sarà facile. Vorrei poterli aiutare, ma anche se rimanessi con loro, non saprei come. "Magari riusciranno a restare qui... in qualche modo. Forse Kyle riuscirà a non rovinare tutto." Feci una risata amara, pensando alle probabilità. Kyle non era un uomo prudente. Tuttavia, finché la situazione non si fosse risolta, c'era bisogno di me. Se i Cercatori erano sulle nostre tracce, i miei occhi infallibili sarebbero tornati utili. Al pensiero che forse ci sarebbe voluto ancora del tempo, mi sentii avvampare. Ero grata all'irrequieto ed egoista Kyle. Quanto tempo, prima di sentirci di nuovo al sicuro? «Chissà com'è il freddo, qui? Ricordo a malapena di averlo sentito. E la pioggia? Pioverà prima o poi, no? Con tutti questi buchi nel soffitto, chissà che pozzanghere. Dove dormono quando piove?» sospirai. «Magari lo scoprirò. Tu non sei curiosa? Se ti svegliassi, potresti saperlo. Magari lo chiedo a Ian. Difficile immaginare un cambiamento, qui... giorni tutti uguali, dall'alba al tramonto.» Per un istante mi parve di sentire le sue dita fremere. Mi colse di sorpresa, perché mi ero distratta ed ero sprofondata nella malinconia che da giorni non mi abbandonava. La guardai: la mano era tornata inerte, l'espressione assente. Forse mi ero immaginata tutto. «Ho detto qualcosa di interessante?» Riflettei svelta, guardandola in faccia. «È stata la pioggia? O il pensiero che cambi qualcosa? Ne dovrai affrontare di cambiamenti, tu, non credi? Però, prima devi svegliarti.» Il suo viso rimase inespressivo. «Quindi non ti importa dei cambiamenti. Be', non posso darti torto. Ne-
anch'io desidero che le cose cambino. Sei come me? Vorresti che fosse sempre l'alba dello stesso giorno?» Se non avessi guardato così da vicino il suo volto, non mi sarei accorta del battito impercettibile delle palpebre. «Ti piace l'alba, eh?» chiesi, speranzosa. Le sue labbra sussultarono. «Alba?» La mano tremò. «È così che ti chiamavi? Alba? Alba? È un bel nome.» La mano si strinse, e le labbra si schiusero. «Torna, Alba. So che puoi farcela. Alba? Ascoltami, Alba. Apri gli occhi.» Sbatté le palpebre. «Doc» gridai, alle mie spalle. «Doc, svegliati!» «Eh?» «Sta riprendendo conoscenza!» Mi voltai verso la donna. «Resisti. Puoi farcela. So che è difficile. Alba, Alba, Alba. Apri gli occhi.» Fece una smorfia, forse di sofferenza. «Prendi l'Anti-dolore, Doc. Svelto.» La donna mi strinse forte la mano e aprì gli occhi. Il suo sguardo sfocato saettò nella grotta illuminata. «Andrà tutto bene, Alba. Te la caverai. Riesci a sentirmi?» Le sue pupille contratte mi scrutarono. Mi fissava, concentrata sui miei lineamenti. Poi si ritrasse, dimenandosi per sfuggire. Un urlo cupo e rauco le uscì dalle labbra. «No, no, no» strillò. «Basta.» «Doc!» Ricomparve a fianco del lettino, come quando avevamo operato. «Tutto a posto» la rassicurò. «Nessuno ti farà del male.» La donna serrò gli occhi e si raggomitolò sul materasso sottile. «Secondo me si chiama Estate, o qualcosa del genere.» Doc mi trafisse con lo sguardo. «Gli occhi, Wanda» sussurrò. Solo in quel momento mi accorsi di avere il sole in faccia. «Ah.» Liberai la mano della donna. «No, vi prego» implorò lei. «Basta.» «Calma» mormorò Doc. «Alba? Qui mi chiamano Doc. Nessuno ti farà del male. Non c'è pericolo.» Mi allontanai, nascondendomi nell'ombra.
«Non chiamarmi così!» singhiozzò la donna. «Non è il mio nome! È il suo, il suo! Non ripeterlo più!» Avevo trovato il nome sbagliato. "Non è colpa tua. Alba è anche un nome da umani." «Certo che no» giurò Doc. «Come ti chiami tu?» «Io... io... non lo so!» urlò. «Cos'è successo? Chi ero? Non trasformatemi di nuovo in qualcun altro.» Si contorceva e rigirava sul lettino. «Calmati; andrà tutto bene, te lo prometto. Nessuno ti costringerà a diventare qualcun altro, e vedrai che il tuo vero nome tornerà a galla, prima o poi.» «E tu chi sei?» chiese la donna. «Lei chi è? Lei è... com'ero io. L'ho capito dagli occhi.» «Io sono Doc. E sono un umano come te. Visto?» Le mostrò gli occhi illuminati dal sole. «Siamo noi stessi e nient'altro. Ci sono parecchi umani, qui, saranno felici di fare la tua conoscenza.» Si ritrasse di nuovo. «Umani! Ho paura degli umani.» «Invece no. La... persona che occupava il tuo corpo ne aveva paura. Era un'anima, te la ricordi? E ricordi qualcosa, prima che arrivasse lei? Prima tu eri umana, e lo sei rimasta.» «Non ricordo il mio nome» rispose in preda al panico. «Lo so. Tornerà, prima o poi.» «Sei un dottore?» «Sì.» «Anch'io... anche lei. Era una... Guaritrice. Una specie di dottore. Lei era Alba Melodiosa. E io chi sono?» «Lo scopriremo. Te lo prometto.» Mi avvicinai all'uscita. Trudy sarebbe stata una buona aiutante per Doc, oppure Heidi. Una persona con un'espressione rassicurante. «Non è umana!» sussurrò la donna, nervosa, a Doc, seguendo con gli occhi i miei movimenti. «È un'amica; non temere. Mi ha aiutato a riportarti qui.» «Dov'è Alba Melodiosa? Era spaventata. C'erano degli umani...» Approfittai di un suo momento di distrazione per filarmela. Alle mie spalle udii la risposta di Doc. «Sta per traslocare su un altro pianeta. Ricordi dove fosse, prima di venire qui?» A giudicare dal nome, la risposta non poteva essere che una. «Era un... Pipistrello? Sapeva volare... e cantava... Lo ricordo... ma non
c'ero. Dove sono?» Sfrecciai lungo la galleria in cerca d'aiuto. Fui sorpresa di vedere la luce della grotta principale davanti a me, sorpresa perché c'era silenzio. Di solito le voci arrivavano prima della luce. Sbucai alla luce intensa di mezzogiorno, e trovai quello spazio gigantesco vuoto. I giovani viticci del cantalupo erano verde scuro, più scuri della terra da cui spuntavano. Il suolo era troppo secco, la botte dell'acqua era pronta, le canne già disposte lungo i solchi del campo. Ma nessuno maneggiava quella macchina rudimentale. L'avevano abbandonata al margine del campo. Restai immobile. L'enorme caverna taceva, e il silenzio era inquietante. Dov'erano tutti? Erano fuggiti senza di me? Una fitta di paura e dolore mi trapassò. Impossibile, però, che se ne fossero andati senza Doc. Non potevano permettersi di abbandonarlo. Fui tentata di tornare indietro per assicurarmi che non fosse sparito. "Non possono permettersi di abbandonare neanche noi, sciocca. Jared, Jamie e Ian non ci lascerebbero mai." "Hai ragione. Hai ragione. Andiamo a controllare in cucina?" Corsi lungo il corridoio silenzioso, mentre l'ansia montava. Quando giunsi in cucina, la trovai vuota. Sui tavoli c'erano avanzi del pranzo abbandonato. Burro di noccioline sull'ultima scorta di pane bianco. Mele e lattine di bibite calde. Il mio stomaco mi ricordò che non avevo ancora mangiato, ma per l'agitazione quasi non reagii ai morsi della fame. "E se... se non avessero fatto in tempo a scappare?" "No!" esclamò Mel. "No, avremmo sentito! Qualcuno ci avrebbe... oppure... sarebbero ancora qui, in cerca di noi. Non avrebbero rinunciato a frugare dappertutto. Non può essere." "A meno che non ci stiano cercando adesso..." Dovevo avvertire Doc. Dovevamo andarcene, se eravamo gli ultimi rimasti. "No! Non possono essersene andati!" Jamie, Jared... i loro volti erano impressi sul fondo dei miei occhi. E il volto di Ian, quando aggiunsi le mie immagini a quelle di Mel. Jeb, Trudy, Lily, Heath, Geoffrey. "Li ritroveremo, te lo giuro. Andremo a prenderli uno per uno e li riporteremo a casa! Non lascerò che rapiscano la mia famiglia!"
In quel momento capii da che parte stavo senza alcun dubbio. Non mi ero mai sentita così determinata in tutte le mie vite. Serrai i denti. E poi il chiacchiericcio che tanto mi ero sforzata di sentire riecheggiò lungo il corridoio e mi ridiede fiato. Mi strinsi in silenzio contro la parete, nascosta nell'ombra, ad ascoltare. "L'orto. Si capisce dall'eco." "Sembra un gruppo numeroso." "Sì. Ma dei tuoi o dei miei?" "Dei nostri o dei loro" precisò Mel. Attraversai furtiva la galleria, senza uscire dall'ombra più cupa. Le voci erano più chiare, alcune decisamente familiari. Che senso aveva? Quanto tempo impiegava un Cercatore ben addestrato a praticare un'inserzione? Quando raggiunsi l'imbocco della caverna principale, i suoni divennero ancora più nitidi e una sensazione di sollievo si impossessò di me: il vociare era identico a quello che aveva accolto il mio arrivo. Infuriato e assassino. Dovevano essere voci umane. Kyle era tornato, lo sentivo. Combattuta tra sollievo e tormento, mi affacciai alla luce del sole per controllare. Sollievo, perché i miei umani erano salvi. E tormento, perché se Kyle era già tornato, allora... "C'è ancora bisogno di te, Wanda. Molto più che di me." "Se volessi troverei una scusa al giorno, Mel. Ci sarà sempre un motivo." "Allora resta." "Con te prigioniera?" La discussione terminò quando la baraonda della caverna ci si presentò davanti. Sì, Kyle era tornato. La folla lo aveva messo spalle al muro all'altro capo della grotta, ma non ce l'aveva con lui. La sua espressione era conciliante e supplichevole. A braccia aperte, sembrava proteggere qualcuno alle proprie spalle. «Ehi, calmatevi, okay? Stai lontano, Jared, così la spaventi!» Un lampo di capelli neri dietro il suo gomito, un volto sconosciuto, con occhi neri, grandi e terrorizzati, sbirciò verso la folla. Jared era il più vicino a Kyle. Ne vedevo la nuca, rossa di rabbia. Jamie gli si era appeso a un braccio per trattenerlo. Anche Ian lo affiancava, a braccia conserte, i muscoli delle spalle tesi. Dietro di lui, la calca degli
umani, esclusi Doc e Jeb, fremente di rabbia. «Cosa ti è saltato in mente?» «Come hai osato?» «Perché sei tornato?» Jeb era rimasto nell'angolo più lontano a guardare. I capelli luminosi di Sharon catturarono la mia attenzione. Fui sorpresa di vederla, assieme a Maggie, al centro della calca. Erano quasi uscite di scena, dopo che io e Doc avevamo guarito Jamie. Erano rimaste in disparte. "Merito della violenza" commentò Mel. "Non erano a proprio agio con la felicità, la rabbia le fa sentire a casa." Forse aveva ragione. Sentii una voce stridula tra le tante che si lamentavano, e mi resi conto che tra la folla c'era anche Lacey. «Wanda?» La voce di Kyle riuscì a farsi largo nel chiasso, e quando incrociai i suoi occhi blu, fissi su di me esclamò: «Eccoti! Ti dispiacerebbe darmi una mano, per favore?». 55 La benevolenza Jeb mi aprì un varco, allontanando le persone con il fucile quasi fossero pecore. «Ne ho abbastanza» ruggì contro chi si lamentava. «Più tardi avrete tempo di dargli addosso. Ne avremo, tutti. Prima risolviamo questa, okay? Fatemi passare.» Con la coda dell'occhio vidi Sharon e Maggie nascondersi tra le ultime file, scoraggiate dal prevalere del buon senso. Lontane dalla mia presenza, più che altro. A denti stretti, lanciavano occhiate furiose verso Kyle. Jared e Ian furono gli ultimi due tra cui Jeb si fece largo. Quando passai davanti a loro li sfiorai con una carezza, sperando di calmarli. «D'accordo, Kyle» disse Jeb, battendosi il palmo con la canna del fucile. «Non cercare scuse, perché non ce ne sono. Sono davvero indeciso se cacciarti via o spararti subito.» Il viso minuto, abbronzato ma pallido di paura, sbirciò di nuovo da dietro Kyle. La bocca della giovane era spalancata dall'orrore, gli occhi sgranati. Mi parve di cogliere una sfumatura argentea sul fondo delle pupille. «Ma ora, calmiamoci tutti.» Jeb si voltò, la canna del fucile puntata ver-
so terra, e all'improvviso parve trasformarsi nel guardiano di Kyle e del viso nascosto dietro di lui. Lanciò un'occhiata alla folla. «Kyle ha un'ospite, e voi la state ammazzando di paura, gente. So che uno straccio di buone maniere le conoscete. Perciò, ora, fuori dai piedi e vedete di combinare qualcosa di utile. I miei cantalupi stanno morendo di sete. Qualcuno veda di provvedere, capito?» Attese finché la folla contrariata non fu dispersa. Guardandoli bene in faccia capii che quasi tutti se ne stavano facendo una ragione. Non era poi andata così male, visti i timori degli ultimi giorni. Sì, Kyle era un idiota pieno di sé, sottintendevano le loro espressioni, ma se non altro era tornato a casa senza combinare guai. Niente fuga, nessun Cercatore nei paraggi. Aveva portato con sé un altro verme, certo, ma le caverne ne erano piene, no? In tanti tornarono al pranzo interrotto, altri a irrigare il campo, altri ancora alle proprie stanze. Pochi istanti, e al mio fianco rimasero soltanto Jared, Ian e Jamie. Jeb li guardò, arrabbiato; fece per dire qualcosa, ma prima che potesse scacciarli, Ian mi prese una mano, e Jamie l'altra. Accanto alla sua, all'altezza del polso, ne sentii una terza. Jared. Jeb, esasperato dalla testardaggine con cui si erano appiccicati a me pur di non andarsene, ci voltò le spalle. «Grazie, Jeb» disse Kyle. «Chiudi il becco. Tieni quella boccaccia chiusa. Non scherzo affatto quando dico che dovrei spararti, stupida canaglia che non sei altro.» Sentii un debole lamento alle spalle di Kyle. «Va bene, Jeb. Potresti rimandare le minacce di morte a quando saremo soli? È già abbastanza terrorizzata. Lo sai che questo genere di cose fa saltare i nervi anche a Wanda.» Kyle mi sorrise -la mia reazione fu di estrema sorpresa - e si rivolse alla giovane dietro di sé con l'espressione più gentile che avessi mai visto sul suo volto. «Visto, Sole? Questa è Wanda, quella di cui ti ho parlato. Ci aiuterà, non lascerà che ti facciano del male, proprio come me.» La giovane - o era una donna? Era minuta, con curve appena accennate mi fissò, gli occhi sbarrati e spaventati. Kyle le cinse i fianchi, e lei si lasciò trascinare al suo fianco. Gli si strinse come fosse un'ancora di salvataggio. «Kyle ha ragione.» Non avrei mai immaginato di poterlo dire. «Nessuno ti farà del male, parola mia. Ti chiami Sole?» domandai gentile. Lo sguardo della giovane saettò verso il viso di Kyle.
«Va tutto bene. Non avere paura di Wanda. È come te.» Si voltò a guardarmi. «Il suo nome è più lungo, c'entra qualcosa con il ghiaccio.» «Sole che Filtra nel Ghiaccio» bisbigliò lei. Lo sguardo di Jeb si illuminò di curiosità insaziabile. «Però non le dispiace se la chiamiamo Sole. Dice che va bene lo stesso» mi rassicurò Kyle. Sole annuì. Lanciò un'occhiata a me e a Kyle, poi di nuovo a me. Gli altri uomini rimasero immobili e silenziosi. La calma di quella piccola cerchia era riuscita a tranquillizzarla. Non c'era più ostilità nei suoi confronti. «Anch'io ero un Orso, Sole» le dissi per metterla a proprio agio. «All'epoca mi chiamavano Vive tra le Stelle. Qui, mi chiamano Viandante.» «Vive tra le Stelle» sussurrò, sbarrando impercettibilmente gli occhi. «Cavalca la Bestia.» Soffocai un gemito. «Immagino che tu vivessi nella Seconda Città di cristallo.» «Sì. Ho sentito raccontare tante volte la tua storia...» «Ti piaceva essere un Orso?» domandai svelta. Non volevo approfondire la mia storia in quel momento. «Eri felice tra loro?» Il suo viso si irrigidì in una smorfia, i suoi occhi cercarono quelli di Kyle e si riempirono di lacrime. «Scusa» aggiunsi subito, e anch'io guardai Kyle in cerca di spiegazioni. Lui le accarezzò il braccio. «Non temere. Non ti faremo del male. Te lo prometto.» Sentii a malapena la sua risposta. «Ma qui mi piace. Voglio restare.» Un nodo mi serrò la gola all'istante. «Lo so, Sole. Lo so.» Kyle le posò una mano sulla nuca e, con un gesto tenero, la strinse forte al petto. Quando Jeb si schiarì la gola, Sole ebbe un sussulto e si separò da Kyle. Era facile immaginare quanto fossero a pezzi i suoi nervi. Le anime non erano fatte per sopportare la violenza. Ricordai di quando, tanto tempo prima, Jared mi aveva chiesto se tutte le anime fossero come me. No, e nemmeno come l'altra con cui avevano avuto a che fare, la Cercatrice. Sole sembrava incarnare l'essenza della mia specie timida e gentile; soltanto in massa eravamo davvero forti. «Scusa, Sole» disse Jeb. «Non volevo spaventarti. Forse è meglio uscire di qui, però.» Con lo sguardo indicò la grotta, dove qualche curioso era rimasto a guardarci da lontano. Lanciò un'occhiataccia a Lucina e a Reid, che si infilarono nel corridoio che portava alla cucina. «Forse va portata da
Doc» aggiunse Jeb con un sospiro. Sembrava dispiaciuto di non poter ascoltare qualche storia nuova. «Già» disse Kyle. Strinse con forza i fianchi snelli di Sole e la trascinò con sé verso il tunnel meridionale. Li seguii insieme agli altri. Jeb si fermò, e noi con lui. Diede un colpetto al fianco di Jamie con il calcio del fucile. «Non hai scuola, ragazzo?» «Oh, zio Jeb, per favore? Ti prego? Non voglio perdermi...» «Porta il tuo sedere in classe.» Jamie mi rivolse uno sguardo afflitto, ma Jeb aveva assolutamente ragione. Il ragazzo non doveva assistere. «Puoi dire a Trudy di venire qui?» gli domandai. «Doc ha bisogno di lei.» Jamie lasciò la mia mano, rassegnato. Quella di Jared la sostituì rapida. «Mi perdo sempre tutto» si lamentò. «Grazie, Jeb» sussurrai, quando il ragazzo fu lontano. La paura irradiata dalla donna che mi precedeva faceva apparire il tunnel più buio del solito. «Tutto okay» le mormorò Kyle. «Nessuno ti farà del male, ci sono qui io.» Chissà chi era l'individuo che era tornato al posto di Kyle. Gli avevano controllato gli occhi? Non riuscivo a credere che dentro quel corpo grosso e brutale albergasse una simile gentilezza. Forse era la presenza di Jodi, la sensazione di essere a un passo da ciò che desiderava. La semplice certezza che quello fosse il corpo della sua Jodi. Fui sorpresa di vederlo prodigarsi in gentilezze per l'anima che lo abitava. Non lo credevo capace di tanta compassione. «Come sta la Guaritrice?» mi domandò Jared. «Si è svegliata poco prima che vi venissi a cercare» risposi. Sentii più di un sospiro di sollievo nel buio. «Però è disorientata, spaventatissima» li avvertii. «Non ricorda come si chiama. Doc ci sta lavorando. Si spaventerà ancora di più quando vi vedrà. Cercate di fare silenzio e di muovervi piano, okay?» «Sì, sì» bisbigliarono le voci nel buio. «E, Jeb, pensi di poter abbandonare il fucile? Ha ancora un po' paura degli umani.» «... Okay» rispose.
«Paura degli umani?» mormorò Kyle. «Siamo noi i cattivi» commentò Ian, stringendo la mia mano. Restituii la stretta, lieta di sentire il calore e la pressione delle sue dita. Per quanto avrei provato sensazioni simili? Quando avrei percorso per l'ultima volta la galleria? Era questa, l'ultima volta? No, non ancora, sussurrò Mel. All'improvviso iniziai a tremare. La mano di Ian aumentò la stretta, così come quella di Jared. Per qualche istante proseguimmo in silenzio. «Kyle?» domandò la voce timida di Sole. «Sì?» «Non voglio tornare dagli Orsi.» «Non sei obbligata. Puoi andare da un'altra parte.» «Ma non posso restare qui?» «No. Mi dispiace, Sole.» Il suo respiro si arrestò per un istante. Per fortuna c'era buio. Nessuno si accorse delle lacrime che mi rigavano il viso. Non potevo asciugarle con le mani, perciò le lasciai cadere sulla camicia. Al termine della galleria sentii Doc mormorare qualcosa. «Molto bene» diceva. «Continua a pensare ai dettagli. Se ti ricordi il tuo vecchio indirizzo e il tuo nome... Che sensazioni hai?» «Attenti» sussurrai. Kyle si fermò sulla soglia, Sole ancora aggrappata al suo fianco, e mi indicò di entrare per prima. Azzardai un passo dentro l'ambulatorio annunciando la mia presenza con voce bassa e regolare. «Ciao.» L'ospite della Guaritrice sobbalzò. «Sono ancora io» dissi per rassicurarla. «È Wanda» ribadì Doc. La donna era seduta, e Doc, accanto a lei, le sfiorava il braccio con una mano. «È l'anima» bisbigliò la donna, ansiosa, a Doc. «Sì, ma è un'amica.» La donna mi lanciò un'occhiata perplessa. «Doc? Ci sono altri visitatori. È un problema?» Doc guardò la donna. «Sono tutti amici, d'accordo? Altri umani, che vivono qui con me. Nessuno di loro si sognerebbe mai di farti del male. Possono entrare?»
La donna annuì circospetta. «Okay» sussurrò. «Questo è Ian» dissi, facendo loro cenno di entrare. «Questi sono Jared e Jeb. E questi invece sono Kyle e... Sole.» Doc, incredulo, seguì con lo sguardo Kyle e la sua compagna, che entravano nella stanza. «Ce ne sono altri?» sussurrò la donna. Doc si schiarì la voce, tentando di ricomporsi. «Sì. Qui vivono tante persone. Tutti... quasi tutti esseri umani» aggiunse, guardando Sole. «Sta arrivando Trudy» dissi a Doc. «Forse può...» lanciai un'occhiata a Sole e Kyle, «... trovare una stanza per... lei?» Doc annuì, a occhi sbarrati. «Potrebbe essere una buona idea.» «Chi è Trudy?» sussurrò la donna. «È molto gentile. Si prenderà cura di te.» «È umana, o è come quella?» Fece un cenno verso di me. «Umana.» Accolse la notizia con sollievo. «Oh» esclamò Sole alle mie spalle. Mi voltai e la vidi esterrefatta di fronte ai crioserbatoi che custodivano i Guaritori. Si trovavano al centro della scrivania di Doc, i led rossi accesi. A terra, davanti alla scrivania, erano ammucchiati gli altri contenitori vuoti. Gli occhi di Sole si riempirono di lacrime, e lei affondò il viso nel petto di Kyle. «Non voglio andarmene; voglio restare con te» gemette, verso l'uomo di cui sembrava fidarsi ciecamente. «Lo so. Mi dispiace.» Sole crollò tra i singhiozzi. Sbattei le palpebre per impedirmi di piangere. Mi avvicinai a Sole, e le accarezzai i capelli. «Ho bisogno di un minuto per parlare con lei, Kyle» mormorai. Lui annuì, con espressione tormentata, e allontanò la ragazza che si stringeva al suo fianco. «No, no» implorò lei. «Non preoccuparti. Ti prometto che non si allontanerà. Voglio solo farti qualche domanda.» Kyle la fece voltare verso di me, e la giovane venne ad abbracciarmi. La trascinai dall'altra parte della stanza, il più lontano possibile dalla donna senza nome. Non volevo turbare né spaventare di nuovo, con la nostra
conversazione, l'ospite della Guaritrice. Kyle mi seguì a breve distanza. Ci sedemmo per terra, rivolti verso la parete. «Santo cielo» mormorò Kyle. «Non pensavo che sarebbe andata così. È davvero uno schifo.» «Come hai fatto a trovarla? E a prenderla?» domandai. La giovane non reagì, ma continuò a piangere sulla mia spalla. «Cos'è successo? Perché è così?» «Be', prima l'ho cercata a Las Vegas... ma poi sono andato a Portland. Jodi era molto affezionata a sua madre Doris, che viveva là. Visto come ti sei comportata tu con Jared e il ragazzino, ho pensato che potesse essere tornata da Doris anche se non era più Jodi. E ho indovinato. Erano tutti nella vecchia casa: Doris, suo marito Warren - avevano cambiato nomi, ma non li ho capiti bene - e Sole. Li ho tenuti d'occhio per un giorno intero, fino a sera. Sole occupava la vecchia stanza di Jodi, da sola. Mi ci sono infilato nel cuore della notte, mentre tutti dormivano. L'ho rapita, l'ho caricata in spalla e sono saltato giù dalla finestra. Pensavo che avrebbe iniziato a strillare, così me la sono data a gambe, verso la jeep. Poi mi è venuta paura, perché non ha iniziato a strillare. Non diceva una parola! Ho temuto che avesse... hai capito. Come il tizio che abbiamo catturato, quella volta.» Rabbrividii: avevo un ricordo molto più fresco del suo. «Così l'ho fatta scendere, era ancora viva, non faceva che guardarmi, con gli occhi sbarrati. E non strillava. L'ho portata alla jeep. Pensavo di doverla legare, ma... non sembrava così sconvolta. Perlomeno, non ha cercato di scappare. Così le ho allacciato la cintura e sono partito. «Lei è rimasta a guardarmi per un po', e a un certo punto, ha detto: "tu sei Kyle". E io ho risposto: "sì, e tu chi sei?" e mi ha detto come si chiama. Come hai detto che ti chiami?» «Sole che Filtra nel Ghiaccio» rispose a stento lei. «Sole e basta mi piace, però. È carino.» Kyle continuò dopo essersi schiarito la voce. «Ha parlato con me senza problemi, non era impaurita come immaginavo. Così, abbiamo parlato.» Tacque per un istante. «Era contenta di vedermi.» «Continuavo a sognarlo» sussurrò la giovane. «Tutte le notti. Ho sempre sperato che i Cercatori lo trovassero. Mi mancava tanto... quando l'ho visto, pensavo fosse il solito sogno.» Kyle si sporse ad accarezzarle una guancia. «È una brava ragazza, Wanda. Non possiamo spedirla in un bel posto?» «Stavo per chiederglielo. Dove hai vissuto, Sole?»
Mi accorsi a stento delle voci smorzate degli altri che salutavano Trudy. Erano alle nostre spalle. Avrei voluto controllare, ma ero anche lieta di riuscire a non distrarmi. Cercai di concentrarmi sull'anima singhiozzante. «Soltanto qui, e tra gli Orsi. Cinque volte, con loro. Ma qui mi piace di più. Non sono nemmeno a un quarto della mia vita!» «Lo so. Credimi, ti capisco. Non c'è un altro luogo dove ti piacerebbe andare? Tra i Fiori, magari? È bello; io ci sono stata.» «Non voglio diventare una pianta» mormorò sulla mia spalla. «I Ragni...» La mia voce si spezzò. I Ragni non le si addicevano. «Sono stufa del freddo. E mi piacciono i colori.» «Lo so» sospirai. «Non sono mai stata un Delfino, ma mi dicono che tra loro si sta bene. Colori, vivacità, famiglia...» «Sono tutti lontani. Quando sarò arrivata, Kyle sarà già... sarà...» Riprese a piangere. «Non avete altre possibilità?» domandò Kyle ansioso. «Non ci sono altri posti là fuori?» Sentivo Trudy parlare con l'ospite della Guaritrice, ma non mi lasciai distrarre. Meglio che degli umani si occupassero gli umani, per il momento. «Le destinazioni delle astronavi non sono tante» risposi scuotendo la testa. «I mondi sono tanti, ma pochi di essi, più che altro quelli nuovi, sono ancora aperti alla colonizzazione. Mi dispiace, Sole, ma saremo costretti a mandarti lontano. I Cercatori sono sulle tracce dei miei amici, e se potessero tornerebbero qui assieme a te.» «Ma se non conosco neanche la strada» singhiozzò. «Mi ha bendata.» Kyle mi guardò, come se fossi in grado di compiere il miracolo che avrebbe risolto ogni problema. Una specie di magia, come le medicine che avevo scoperto. Ma sapevo di essere a corto di magie, a corto di lieto fine, almeno per quanto riguardava l'anima. Restituii a Kyle uno sguardo disperato. «Ci sono soltanto gli Orsi, i Fiori, e i Delfini» risposi. «Non intendo spedirla sul Pianeta del Fuoco.» La giovane trasalì. «Non preoccuparti, Sole. I Delfini ti piaceranno. Saranno gentili. Certo che sì.» Singhiozzò più forte. Passai oltre. «Sole, devo chiederti una cosa riguardo a Jodi.» Kyle, al mio fianco, si irrigidì. «Che c'entra lei?» mormorò Sole.
«È ancora... ancora dentro di te? Riesci a sentirla?» Sole tirò su con il naso, poi mi guardò. «Non capisco che cosa intendi.» «Ti parla mai? Ti capita mai di sentire i suoi pensieri?» «I pensieri del mio... corpo? Non ne ha. Ora ci sono io.» Annuii. «È un problema?» sussurrò Kyle. «Non ne so ancora abbastanza per capirlo. Però immagino che non sia una buona notizia.» Kyle affilò lo sguardo. «Da quanto tempo sei qui, Sole?» Aggrottò la fronte, pensierosa. «Quanto tempo, Kyle? Cinque anni? Di più? Tu sei sparito prima che tornassi a casa.» «Sei» rispose lui. «E quanti anni hai?» le chiesi. «Ventisette.» Ne fui sorpresa: così minuta, sembrava più giovane. Non potevo credere che avesse sei anni più di Melanie. «Cosa importa?» domandò Kyle. «Non ne sono sicura. Ma può darsi che maggiore è il numero di anni trascorsi da umani, prima della trasformazione, maggiori siano le possibilità di... riprendersi. Più la percentuale di vita umana è alta, più si creano ricordi, collegamenti, sensazioni legate al proprio vecchio nome... non saprei.» «Ventuno anni non bastano?» domandò lui disperato. «Penso che lo scopriremo.» «Non è giusto!» strillò Sole. «Perché tu hai diritto di restare? Perché io non posso restare e tu sì?» Deglutii. «Non sarebbe giusto, non credi? Io non resterò, Sole. Anch'io devo andarmene. Presto. Può darsi che partiremo assieme.» Forse l'avrebbe tranquillizzata sapere che avrei vissuto fra i Delfini assieme a lei. Giunto quel momento, Sole si sarebbe trovata un ospite diverso, con emozioni diverse e nessun legame con l'essere umano che mi stava accanto. In ogni caso, sarebbe stato troppo tardi. «Devo andare, Sole, proprio come te. Anch'io devo restituire il mio corpo.» A quel punto, secca e decisa, giunse la voce di Ian, che alle nostre spalle spezzò il silenzio come uno schiocco di frusta. «Cosa?» 56
L'amalgama Lo sguardo che Ian ci riservò fu così furioso da far tremare Sole. Fu davvero bizzarro, come se Kyle e Ian si fossero scambiati. Il viso di Ian, però, era ancora perfetto, bello, persino nella rabbia. «Ian?» domandò Kyle, sbalordito. «Qual è il problema?» Ian rispose serrando i denti. «Wanda» ruggì, e allungò una mano. Sembrava incapace di tenerla aperta, di non stringere il pugno. Oh oh, pensò Mel. La tristezza mi travolse. Non volevo dire la verità a Ian, ma ora vi ero obbligata. Era sbagliato sgattaiolare nella notte come una ladra e lasciare l'incombenza degli addii a Melanie. Ian, stanco di aspettare, mi afferrò per un braccio e mi costrinse ad alzarmi da terra. Quando Sole fece per seguirmi, ancora stretta al mio fianco, Ian mi scrollò fino a liberarmi. «Ma che ti prende?» domandò Kyle. Ian scagliò un calcio in faccia a Kyle. «Ian!» protestai. Sole si lanciò verso Kyle - che cercava di alzarsi in piedi tenendosi il naso - e gli fece scudo con il suo corpo minuto. Ma lui perse l'equilibrio e cadde a terra con un gemito. «Andiamo» ringhiò Ian, trascinandomi via senza degnarli di uno sguardo. «Ian...» Con uno strattone mi mise a tacere. Vidi i volti sbalorditi dei presenti. Temevo che potesse spaventare la donna senza nome. Non era abituata alla rabbia e alla violenza. Poi, all'improvviso, ci fermammo. Jared bloccava l'uscita. «Sei impazzito, Ian?» domandò, stupito e indignato. «Cosa le vuoi fare?» «Tu lo sapevi?» urlò Ian, spingendomi verso Jared e scrollandomi con forza. «Così le fai male!» «Sapevi del suo piano?» gridò Ian. Jared lo fissò con uno sguardo impenetrabile. Ian la considerò una risposta. Il pugno con cui colpì Jared fu così veloce che non me ne accorsi. Vidi Jared piegarsi su se stesso e arretrare nel corridoio scuro. «Ian, smettila» lo implorai.
«Smettila tu» ruggì. Mi strattonò fino al tunnel, poi mi costrinse a seguirlo in direzione nord. Fui quasi costretta a correre per mantenere il suo passo lungo. «O'Shea!» urlò Jared alle nostre spalle. «Io le faccio del male?» urlò Ian verso di lui, senza perdere il ritmo. «Io, eh? Brutto maiale ipocrita!» A quel punto, dietro di noi c'erano soltanto silenzio e oscurità. Barcollavo, nel buio, cercando di mantenere il passo. Ian iniziò a trascinarmi con più forza, e il mio respiro esplose in un lamento, quasi un grido di dolore. Lui fu costretto a fermarsi di colpo. «Ian, Ian, io...» tossii, incapace di terminare la frase. Non sapevo cosa dire, immaginavo la sua espressione furiosa. Le sue braccia mi strinsero di colpo levandomi la terra da sotto i piedi, e prima che potessi cadere mi issò sulle spalle. Iniziò a correre. Le sue mani non erano più grevi e furiose come prima; mi cullava sul suo petto. Attraversò di corsa la grande piazza, ignorando i volti sorpresi o sospettosi. Troppi accadimenti incomprensibili e minacciosi stavano tormentando la vita nelle caverne. L'umore degli esseri umani - Violetta, Geoffrey, Andy, Paige, Aaron, Brandt e altri che incrociammo, ma che nella fretta non riuscii a riconoscere - era incostante. Restarono turbati dalla visione di Ian che correva a testa bassa in mezzo a loro, in preda alla furia, con me fra le braccia. Passammo oltre. Ian si fermò soltanto quando raggiunse la stanza sua e di Kyle. Scalciò via la porta rossa - il tonfo con cui piombò a terra riecheggiò nel corridoio - e mi gettò sul materasso. Ian incombeva su di me, il petto ansante per lo sforzo e la furia. In un secondo si voltò a rimettere a posto la porta, con uno strattone secco. Poi tornò a guardarmi in cagnesco. Respirai a fondo, mi alzai sulle ginocchia, allungando le braccia e aprendo le mani, nella speranza di compiere chissà quale magia. Di poter dire, o dargli, qualcosa. «Tu. Non Mi Lascerai.» Non avevo mai visto i suoi occhi ardere in quel modo, come fiamme blu. «Ian» sussurrai. «Devi capire che... non posso restare. Sei obbligato a capire.» «No!» urlò. Mi ritrassi, e all'improvviso lui balzò in avanti, cadendo sulle ginocchia
addosso a me. Affondò il viso nel mio grembo e mi cinse con un abbraccio. Tremava forte, il petto squarciato da singhiozzi disperati. «No, Ian, no, ti prego.» Era molto peggio che vederlo arrabbiato. «No, per favore. Per favore, no.» «Wanda» implorò. «Ian, per favore. Non reagire così. Non farlo. Non sai quanto mi dispiace. Per favore.» «Non puoi andartene.» «Devo, devo» singhiozzai. Piangemmo a lungo, senza aggiungere altre parole. Alla fine si raddrizzò e mi prese fra le braccia. Attese che fossi in grado di parlare. «Scusa» sospirò. «Sono stato cattivo.» «No, no. Sono io a dovermi scusare. Avrei dovuto dirtelo, quando ho visto che non capivi. Solo che... non ci sono riuscita. Non volevo dirtelo - né farti del male - né far del male a me stessa. Sono stata egoista.» «Dobbiamo parlarne, Wanda. Non è una decisione irrevocabile. Non può esserlo.» «Lo è.» Scosse la testa e serrò i denti. «Da quanto? Da quanto tempo hai deciso?» «Dall'arrivo della Cercatrice.» Annuì, come se si aspettasse quella risposta. «E hai pensato di rinunciare al tuo segreto pur di salvarla. Comprensibile. Ma questo non significa che tu debba andartene. Il fatto che Doc ora sappia non significa niente. Se avessi capito subito che un'azione compensa l'altra, non sarei rimasto a guardare mentre lo addestravi. Nessuno ti costringerà a sdraiarti su quella maledetta barella! Gli spacco le mani se prova a toccarti!» «Ian, per favore.» «Non possono costringerti, Wanda! Mi ascolti?» aveva ripreso a urlare. «Nessuno mi costringe. Non ho insegnato a Doc a compiere la separazione per salvare la Cercatrice» sussurrai. «La sua presenza ha soltanto... accelerato la decisione. L'ho presa per salvare Mel. È intrappolata, Ian. Come in prigione... anzi, peggio; non saprei neanche come descriverla. È una specie di fantasma. E io posso liberarla. Posso restituirla a se stessa.» «Anche tu meriti una vita, Wanda. Meriti di restare.» «Ma lo faccio per lei, Ian, per il suo amore.» Chiuse gli occhi, e le sue labbra già pallide sbiancarono.
«E il mio amore» sussurrò, «non conta niente?» «Certo che conta. Tanto. Non vedi? Non fa che rendere la decisione ancora più... necessaria.» Sbarrò gli occhi. «Io ti amo: è così insopportabile saperlo? Lo è? Posso tacere per sempre, Wanda. Non lo dirò più. Puoi stare con Jared, se vuoi. Però rimani.» «No, Ian!» Presi il suo viso tra le mani. «No. Anch'io... ti amo. Io, il piccolo verme argenteo nella sua testa. Ma il mio corpo non ti ama. Non posso amarti. Non potrò mai amarti, dentro questo corpo, Ian. Mi sento spezzata in due. È insopportabile.» Forse avrei potuto sopportare. Ma vedere la sua sofferenza, scatenata dal non poter disporre del mio corpo. No. Richiuse gli occhi. Le sue ciglia folte e nere erano umide di lacrime. Le vidi scintillare. "D'accordo, vai avanti" sospirò Mel. "Fai ciò che devi. Io... mi chiudo nell'altra stanza" aggiunse seccamente. "Grazie." Cinsi le sue spalle e mi avvicinai a lui, fino a sfiorargli la bocca. Lui mi prese fra le braccia, stringendomi al petto. Le nostre labbra si congiunsero e si fusero come se non dovessero mai più dividersi, come se la separazione non fosse la cosa inevitabile che era, e sentii il sapore delle lacrime. Le sue e le mie. Qualcosa iniziò a cambiare. Quando il corpo di Melanie toccava quello di Jared, c'era come una vampata di calore, una fiammata che correva sulla superficie del deserto e consumava tutto ciò che le si parava di fronte. Con Ian era diverso, molto diverso, perché Melanie certo non lo amava come me. Perciò, quando Ian mi toccava, era qualcosa di più profondo e lento del fuoco indomabile, più simile a una colata di lava. Troppo profonda per scaldarmi, ma inesorabile nel suo procedere e nello scuotere le fondamenta del mondo. Il mio corpo refrattario era una nebbia che ci divideva, un sipario al di là del quale era possibile guardare. Il cambiamento riguardò me, non lei. Fu come un processo metallurgico nel nucleo profondo di ciò che ero, in corso da tempo e finalmente pronto a forgiare qualcosa di nuovo. Fu quel bacio lungo e ininterrotto a ultimare la nuova creazione, ardente e affilata, e a gettarla con un gran sibilo nell'acqua fredda che la rese dura e definitiva. Indistruttibile.
Scoppiai a piangere, conscia che qualcosa era cambiato anche in lui, in quell'uomo tanto gentile da poterlo scambiare per un'anima, ma forte come soltanto un umano poteva essere. Avvicinò le labbra ai miei occhi, ma era troppo tardi. Era finita. «Non piangere, Wanda. Resterai con me.» «Otto vite» sussurrai stretta a lui, con voce spezzata. «In otto vite non ho mai trovato nessuno in grado di trattenermi su un pianeta, nessuno da seguire fra i pianeti. Non ho mai trovato un compagno. Perché proprio adesso? Perché proprio tu? Appartieni a un'altra specie. Come puoi tu essere il mio compagno?» «Che strano universo» mormorò. «Non è giusto» protestai, ripetendo le parole di Sole. Non era giusto. Com'era possibile che avessi finalmente trovato l'amore e fossi costretta ad abbandonarlo, a un passo dalla fine? Era giusto che la mia anima e il mio corpo non sapessero riconciliarsi? Era giusto che dovessi voler bene anche a Melanie? Era giusto che Ian dovesse soffrire? Meritava la felicità più di chiunque altro. Non era giusto, e nemmeno... logico. Come potevo infliggergli tanto dolore? «Ti amo» sussurrai. «Non dirlo come fosse un addio.» Invece dovevo. «Io, l'anima che chiamano Viandante, ti amo, Ian, anche se sei umano. E ciò non cambierà mai, qualsiasi cosa io diventi.» Scandii ogni parola per fargli capire che non mentivo. «Se anche fossi un Delfino, un Orso o un Fiore, non mi importerebbe. Ti amerò per sempre, per sempre ti ricorderò. Tu sarai il mio unico compagno.» Le sue braccia si irrigidirono, mi cinsero ancora più forte, e sentii la furia scorrere dentro di loro. Era difficile respirare. «Tu non vai da nessuna parte, Viandante. Tu resti qui.» «Ian...» La sua voce era aspra, furiosa, ma anche risoluta. «Non è soltanto per me. Fai parte di questa comunità, e non ti farai cacciare senza prima discuterne con tutti. Sei troppo importante per noi, persino per quelli che non lo ammetterebbero mai. Abbiamo bisogno di te.» «Nessuno vuole cacciarmi, Ian.» «No. Nemmeno tu lo vuoi, Viandante.» Mi diede un altro bacio, più impetuoso e acceso di rabbia. La mano che mi teneva i capelli li strinse forte e distanziò il mio viso di qualche centi-
metro dal suo. «Bene o male?» domandò. «Bene.» «Sono d'accordo.» Mi baciò di nuovo. Le sue braccia mi stringevano così forte, e la sua bocca era così decisa, da mozzarmi il fiato e darmi le vertigini. A quel punto allentò la presa e mi avvicinò le labbra a un orecchio. «Andiamo.» «Dove? Dove andiamo?» Non sarei andata da nessuna parte, lo sapevo. Tuttavia, il cuore mi batteva forte al pensiero di fuggire, chissà dove, con Ian. Il mio Ian. Era mio, come Jared non lo sarebbe mai stato. Come questo corpo non sarebbe mai potuto essere suo. «Non impicciarti, Viandante, sono sul punto di impazzire.» Si alzò assieme a me. «Dove?» ribadii. «Attraversa la galleria orientale, oltre il campo, fino alla fine.» «La stanza dei giochi?» «Sì. Aspettami là, mentre io vado a prendere gli altri.» «Perché?» Forse era impazzito davvero. Voleva organizzare una partita per allentare la tensione? «Perché ne discuteremo. Chiamo a raccolta il tribunale, Viandante, e tu rispetterai la nostra decisione.» 57 Il perferzionamento Era un'assemblea ristretta, non come durante il processo a Kyle. Ian convocò soltanto Jeb, Doc e Jared. Sapeva che Jamie non avrebbe dovuto essere coinvolto per nessun motivo. Avrei chiesto a Melanie di dirgli addio da parte mia. Non potevo farcela, non con Jamie. Non mi interessava se era un gesto da codarda. Non l'avrei fatto. Soltanto una lampada azzurra, un cerchio di luce fioca sul pavimento di pietra. Ci sedemmo sul bordo dell'anello di luce; ero sola di fronte ai quattro uomini. Jeb aveva con sé il fucile. L'odore di zolfo mi riportò alla mente i giorni tormentati del lutto; c'erano ricordi che non avrei rimpianto, dopo la mia partenza. «Come sta?» chiesi a Doc, impaziente, quando si accomodarono, prima
che iniziassero a discutere. Quell'assemblea era uno spreco di tempo, e me ne restava poco. Avevo preoccupazioni più importanti. «Quale?» rispose stanco. Lo fissai per qualche istante e sbarrai gli occhi. «Sole è andata? Già?» «Secondo Kyle era una crudeltà prolungarne la sofferenza. Era... infelice.» «Almeno avrei voluto salutarla» mormorai. «E augurarle buona fortuna. Come sta Jodi?» «Nessuna reazione ancora.» «Il corpo della Guaritrice?» «Trudy l'ha portata via. Penso siano andate a mangiare qualcosa. Stanno cercando di trovarle un nome provvisorio che le piaccia, così potremo chiamarla in un altro modo, oltre a il corpo.» Fece un sorriso amaro. «Se la caverà. Ne sono convinta» dissi cercando di crederci. «Anche Jodi. Tutto filerà liscio.» Nessuno contestò le mie bugie. Sentivano che mentivo a me stessa. Doc trasse un sospiro. «Non voglio stare lontano da Jodi troppo a lungo... potrebbe aver bisogno di qualcosa.» «Giusto» risposi. «Facciamola breve.» Prima era, meglio era. Discutere sarebbe servito a poco: Doc aveva promesso di rispettare i patti. Tuttavia, c'era una stupida parte di me che sperava... sperava in una soluzione, capace di appianare ogni difficoltà e di consentire a me di vivere con Ian e a Mel con Jared, senza far soffrire nessuno. Meglio distruggere quell'illusione in fretta. «Okay» disse Jeb. «Wanda, qual è la tua posizione?» «Restituirò Melanie.» Secca, decisa, incontestabile. «Ian, qual è la tua?» «Abbiamo bisogno di Wanda.» Secco, deciso: mi aveva copiata. Jeb annuì assorto. «È una questione spinosa. Wanda, perché dovrei essere d'accordo con te?» «Se fossi Melanie, rivorresti il tuo corpo. Non puoi negarglielo.» «Ian?» «Dobbiamo considerare il bene comune, Jeb. Wanda ci ha portato più salute e sicurezza che mai. È indispensabile per la sopravvivenza della comunità, dell'intera razza umana. Non possiamo sacrificare tutto questo per una sola persona.» "Ha ragione." "Nessuno ti ha interpellata."
Jared intervenne. «Wanda, che ne dice Mel?» "To'" disse Mel. Guardai Jared negli occhi, e provai la più strana delle sensazioni. Il processo di fusione e amalgama che avevo attraversato restò confinato in quella microscopica parte del mio corpo che occupavo fisicamente. Il resto di me lo desiderava con la stessa brama disperata che avevo sentito vedendolo per la prima volta. Il nostro corpo non apparteneva né a me né a Melanie: apparteneva a lui. Era davvero troppo piccolo per contenere entrambe. «Melanie rivuole il suo corpo. La sua vita.» "Bugiarda. Di' la verità." "No." «Bugiarda» disse Ian. «Lo vedo, che stai discutendo con lei. Scommetto che è d'accordo con me. Melanie è una brava persona. Sa quanto abbiamo bisogno di te.» «Mel sa tutto ciò che so io. Saprà aiutarvi. Anche l'ospite della Guaritrice. Sa molte più cose di me. Ve la caverete. Ve la siete cavata anche senza di me. E continuerete a farlo.» «Non so, Wanda. Ian non ha tutti i torti» disse Jeb accigliato. Gli lanciai un'occhiataccia, e mi accorsi che Jared fece altrettanto. Rivolsi quindi uno sguardo truce a Doc. Doc incrociò i miei occhi e la sua espressione si riempì di dolore. Capì che lo stavo mettendo in guardia. Aveva promesso. L'assemblea non poteva farci niente. Ian guardava Jared, e non si accorse del nostro scambio silenzioso. «Jeb» protestò Jared. «La decisione da prendere è una sola. Lo sai.» «Davvero, ragazzo? Secondo me ce n'è una valanga!» «Ma il corpo appartiene a Melanie!» «Anche a Wanda, se è per questo.» Jared soffocò una risposta e ricominciò da capo. «Non puoi permettere che Mel resti intrappolata, è come ucciderla, Jeb.» Ian si chinò verso il cerchio di luce, la sua espressione di nuovo furiosa. «Non è la stessa fine a cui condanneresti Wanda, Jared? E tutti noi, se la porti via?» «Ma quale "tutti noi"! Tu vuoi salvare Wanda a spese di Melanie... è l'unica cosa che ti importa.» «Tu invece vuoi avere Melanie, a spese di Wanda, è l'unica cosa che importa a te! Perciò, visto che siamo pari, tocca decidere cos'è meglio per la
comunità.» «No! Tocca decidere cos'è meglio per Melanie! Il corpo è suo!» Entrambi erano rannicchiati ma pronti ad alzarsi, con i pugni stretti e l'espressione contratta. «Piantatela, ragazzi! Piantatela subito» ordinò Jeb. «Questa è un'assemblea, dobbiamo mantenere calma e lucidità. Dobbiamo pensare a tutti i pro e i contro.» «Jeb...» disse Jared. «Sta' zitto.» Jeb si succhiò il labbro per qualche istante. «Bene. Ecco come la vedo. Wanda ha ragione...» Ian scattò in piedi. «Fermo là! Siediti e lasciami finire.» Jeb attese che Ian tornasse suo malgrado a sedersi. «Wanda ha ragione» disse Jeb. «Mel deve riprendersi il suo corpo. Ma» aggiunse svelto, quando vide Ian pronto a scattare «non sono d'accordo con il resto, Wanda. Abbiamo un maledetto bisogno di te, piccola. Là fuori ci sono i Cercatori, sono sulle nostre tracce, e tu puoi parlare con loro. Noi non possiamo farcela. Tu puoi salvare tante vite. Devo pur pensare alla salute della mia famiglia.» Jared parlò a denti stretti. «Quindi andiamo a prendere un altro corpo. È logico.» Le rughe sul viso di Doc si spianarono. Le sopracciglia bianche, da bruco, di Jeb si alzarono fino all'attaccatura dei capelli. Ian, occhi sbarrati e labbra tese, mi fissò pensieroso... «No! No!» Scossi la testa, disperata. «Perché no, Wanda?» domandò Jeb. «Non mi sembra affatto una cattiva idea.» Deglutii e respirai a fondo. «Jeb. Ascoltami bene, Jeb. Sono stanca di essere una parassita. Mi capisci? Pensi che abbia voglia di entrare in un nuovo corpo per ricominciare tutto da capo? Di sentirmi di nuovo in colpa per aver rubato la vita a chissà chi? Dovrò costringere qualcun altro a odiarmi? Ormai non sono più neanche un'anima, vi amo troppo, rozzi umani. Non è giusto che io sia qui, ed è odioso rendermene conto.» Un altro respiro, e proseguii il discorso in lacrime. «E se la situazione cambiasse? Se mi metteste in un altro corpo e qualcosa andasse storto? Che accadrebbe se il mio corpo mi attirasse verso un altro amore, riportandomi tra le anime? Se fosse impossibile, per voi, fidarvi ancora di me? Se fossi io a tradirvi? Non voglio farvi del male!»
La prima parte era la verità nuda e cruda, la seconda una sfacciata bugia. Sperai che non lo notassero. Non ero in grado di nuocere a nessuno di loro. Ciò che mi era accaduto era definitivo, una trasformazione nel profondo degli atomi che componevano il mio piccolo corpo. Ma forse, se avessi dato loro un motivo per temermi, avrebbero accettato l'inevitabile con meno dolore. Per una volta, le mie bugie funzionarono. Colsi lo sguardo preoccupato che si scambiarono Jared e Jeb. Non avevano mai pensato che potessi diventare inaffidabile e pericolosa. Ian si avvicinò ad abbracciarmi. «Tutto a posto, piccola. Non dovrai essere nessun altro. Niente cambierà.» «Aspetta, Wanda» disse Jeb, lo sguardo curioso e vivo. «Cosa cambia se vai a stare su un altro pianeta? Rimarrai comunque una parassita.» Ian trasalì per l'asprezza di quella parola. Anch'io, perché Jeb era troppo perspicace, come sempre. Attesero una risposta, tutti tranne Doc, che già sapeva la verità. La risposta che non avrei mai dato. Cercai di dire soltanto la verità. «Sugli altri pianeti è diverso, Jeb. Non c'è resistenza. Gli ospiti sono diversi. Non hanno individualità forti come quelle umane, le loro emozioni sono molto più vaghe. Non sembra di rubare loro la vita. Non è come quaggiù. Nessuno mi odierà. E sarò troppo lontana per nuocervi. Sarete al sicuro...» Distolsi lo sguardo da Jeb, che mi osservava rapito. Cercai di non guardare Doc, ma non potei non rivolgergli una rapida occhiata per accertarmi che capisse. La conferma giunse dalla tristezza che gonfiava i suoi occhi. Nello stesso istante notai che anche Jared guardava Doc. Si era accorto del nostro dialogo muto? Jeb fece un sospiro. «Proprio un bel... pasticcio.» Accigliato, tornò a concentrarsi sul dilemma. «Jeb...» dissero in contemporanea Ian e Jared. Entrambi si interruppero e si guardarono in cagnesco. «Jeb» bisbigliai, la mia voce appena udibile tra il mormorio e gli scrosci della sorgente, e tutti si voltarono verso di me. «Non sei costretto a decidere subito. Doc deve controllare Jodi, e anch'io vorrei andare a trovarla. In più, oggi non ho ancora mangiato. Perché non ci dormi su? Ne riparleremo domani. Abbiamo un sacco di tempo per pensarci.» Bugie. Se n'erano accorti?
«Buona idea, Wanda. Una bella pausa fa bene a tutti. Vai a prenderti da mangiare, e noi andiamo a dormirci su.» Badai a non incrociare lo sguardo di Doc, nemmeno quando gli parlai. «Vengo a darti una mano con Jodi dopo mangiato, Doc. Ci vediamo.» «Okay» disse Doc cauto. Perché non era più disinvolto? Era un essere umano, sapeva come mentire. «Hai fame?» mormorò Ian, e io annuii. Lasciai che mi aiutasse ad alzarmi. Mi strinse la mano, e capii che non intendeva mollarmi. Non mi preoccupai. Dormiva sodo quanto Jamie. Mentre uscivamo dalla stanza buia, sentivo sguardi sulla schiena, ma non sapevo di chi fossero. Ancora poche cose da fare. Tre, per la precisione. Tre ultime imprese da completare. Primo, mangiare. Non sarebbe stato carino abbandonare Mel ai morsi della fame. E poi, da quando mi ero unita alle missioni, la qualità del cibo era migliorata. I pranzi erano una gioia anziché un fardello da sopportare. Lasciai che Ian prendesse il cibo e me lo portasse, mentre andavo a nascondermi nel campo in cui giovani ciuffi di frumento avevano sostituito il granturco. Dissi a Ian la verità, perché mi potesse aiutare: non dovevo imbattermi in Jamie. Non volevo spaventarlo con la mia decisione. L'avrebbe presa peggio di Jared o di Ian, a loro interessava soltanto una metà di me. Jamie ci amava entrambe; lo strazio sarebbe stato completo. Ian accettò senza discutere. Mangiammo in silenzio, mentre mi cingeva i fianchi. Secondo, dovevo andare a trovare Sole e Jodi. Mi aspettavo di vedere tre crioserbatoi accesi sulla scrivania di Doc, e fui sorpresa di trovarvi soltanto i due Guaritori. Doc e Kyle erano accanto alla branda su cui stava Jodi, inerte. Li raggiunsi per domandare dove fosse Sole, ma notai che Kyle stringeva sottobraccio un crioserbatoio occupato. «Trattalo con delicatezza» mormorai. Doc, il polso di Jodi tra le dita, contava. Quando sentì la mia voce ebbe un moto di stizza e riprese il conto da capo. «Sì, Doc me l'ha detto» rispose Kyle, senza staccare gli occhi dal viso di Jodi. Sotto i suoi occhi stava spuntando l'ennesimo livido nero. Si era rotto un'altra volta il naso? «Ci sto attento. È soltanto che... non volevo lasciarla sola. Era tanto triste e tanto... dolce.»
«Sono certa che, se lo sapesse, apprezzerebbe.» Annuì, concentrato su Jodi. «Ha senso che io resti qui? Posso aiutarvi in qualche modo?» «Parla, di' il suo nome, raccontale cose di cui si ricorda. Parlale anche di Sole. Con l'ospite della Guaritrice ha funzionato.» «Si chiama Mandy» precisò Doc. «Dice che non è proprio quello, ma ci somiglia.» «Mandy.» Non che avessi bisogno di ricordarlo. «Dov'è?» «Con Trudy... è stata un'ottima scelta. Trudy è la persona giusta. Penso che l'abbia portata a dormire.» «Bene. Mandy se la caverà.» «Lo spero.» Doc sorrise, ma il suo sguardo rimase inespressivo. «Ho un sacco di domande per lei.» Guardai la donna minuta, impossibile crederla più vecchia del corpo che occupavo. L'espressione era vuota e spenta. Ne fui spaventata: aveva perso la vitalità di Sole. Anche Mel...? "Sono sempre qui." "Lo so. Te la caverai." "Come Lacey." Trasalimmo. "Mai come Lacey." Sfiorai il braccio di Jodi. Somigliava un po' a Lacey. Minuta, capelli neri e carnagione olivastra, anche se il volto dolce e smunto di Jodi non avrebbe mai potuto essere altrettanto repellente. Kyle, muto, le teneva la mano. «Così, Kyle» dissi. Le sfiorai di nuovo il braccio. «Jodi? Jodi, mi senti? Kyle ti aspetta, Jodi. Ha rischiato tanto per portarti qui, tutti i suoi amici vorrebbero ammazzarlo di botte.» «Non che la cosa sia sorprendente» aggiunse Ian al mio fianco. «Non sarebbe la prima volta, eh, Jodi? È bello rivederti, dolcezza. Chissà se la pensi così anche tu. Dev'essere stato un sollievo liberarti di questo idiota così a lungo.» Kyle si accorse del fratello solo quando lo sentì parlare. «Scommetto che ti ricordi di Ian. Non è mai riuscito a eguagliarmi in niente, ma continua a provarci. Ehi, Ian» aggiunse Kyle, senza degnarlo di uno sguardo, «hai qualcosa da dirmi?» «Credo di no.» «Aspetto le tue scuse.» «Aspetta e spera.»
«Ma ci credi? Mi ha dato un calcio in faccia, Jodi. Senza motivo.» «Come se ce ne fosse bisogno, eh, Jodi?» Fu uno strano piacere sentire le chiacchiere dei fratelli. La presenza di Jodi le rendeva leggere e scherzose. Gentili e ironiche. Degne di un risveglio. Fossi stata in lei, avrei già sorriso. «Continua, Kyle» mormorai. «Va bene così. Riprenderà conoscenza.» Mi sarebbe piaciuto conoscerla, scoprire com'era. Riuscivo a visualizzare soltanto le espressioni di Sole. E gli altri, come avrebbero reagito di fronte alla vera Melanie? Sarebbe cambiato qualcosa, oppure no? Si sarebbero resi conto che non c'ero più, oppure Melanie avrebbe occupato il mio ruolo? Chissà, forse l'avrebbero trovata completamente diversa. Sarebbero stati costretti ad abituarsi a lei. Magari si sarebbe adattata, come io non ero mai riuscita a fare. Me la immaginai, cioè immaginai il mio corpo, al centro di un gruppo di visi amichevoli. Con Freedom tra le braccia e un sorriso di benvenuto sui volti degli umani che non si erano mai fidati di me. Perché sentivo le lacrime agli occhi? Ero tanto meschina? "No" mi rassicurò Mel. "Sentiranno la tua mancanza, puoi scommetterci. I migliori tra noi sentiranno tutti la tua assenza." Forse, finalmente, aveva accettato la mia decisione. "Non l'ho accettata. Purtroppo non so proprio come fermarti. E sento che il momento è vicino. Ho paura anch'io. Curioso, eh? Sto morendo di paura." "Siamo in due." «Wanda?» disse Kyle. «Sì?» «Scusa.» «Ehm... per cosa?» «Per avere cercato di ucciderti» rispose distaccato. «Ora lo so, ho sbagliato.» Ian restò incredulo. «Ti prego, dimmi che hai un registratore a portata di mano, Doc.» «Purtroppo no, Ian.» Ian scosse la testa. «Questo momento andrebbe immortalato. Non pensavo di poter vivere abbastanza a lungo da sentire Kyle O'Shea ammettere di avere sbagliato. E dai, Jodi. Se non ti scuote un evento come questo...» «Jodi, piccola, non mi difendi? Di' a Ian che non ho mai sbagliato in vita mia» ridacchiò.
Ero contenta. Contenta di essermi guadagnata il rispetto di Kyle prima di andarmene. Non l'avrei mai immaginato. Non potevo fare più niente, né aveva senso rimanere. Che Jodi riprendesse conoscenza o no, il mio destino era segnato. Perciò passai alla terza e ultima fatica: mentire. «Sono stanca, Ian» dissi. Era una bugia? Suonava così falsa. Quel giorno, il mio ultimo giorno, era stato lunghissimo. Mi resi conto di aver passato la notte insonne. Non dormivo dall'ultima missione; dovevo essere esausta. Ian annuì. «Ci scommetto. Hai passato la notte con il... con Mandy?» «Sì.» Sbadigliai. «Passa una buona notte, Doc» disse Ian, trascinandomi verso l'uscita. «Buona fortuna Kyle. Ci vediamo domattina.» «'notte, Kyle» mormorai. «Ci vediamo, Doc.» Ian percorse la galleria buia senza parlare. Ero lieta che non gli andasse di fare conversazione. Non sarei riuscita a concentrarmi. Il mio stomaco era stretto. Avevo finito, fatto il mio dovere fino in fondo. A quel punto dovevo soltanto aspettare, senza addormentarmi. Malgrado la stanchezza, sapevo che non sarebbe stato un problema. I battiti del cuore rimbombavano nel torace. Basta attese. Doveva essere quella notte, anche Mel lo sapeva. Ciò che era accaduto con Ian poche ore prima l'aveva confermato. Più restavo, più lacrime, discussioni e litigi avrei causato, più aumentavano le possibilità che Jamie scoprisse la verità. Meglio che fosse Mel a spiegarglielo, dopo. Sì, meglio così. "Grazie mille" pensò Mel; le sue parole saettarono svelte, in un misto di paura e sarcasmo. "Scusa. Ti peserà molto?" Sospirò. "Come potrebbe pesarmi? Farò tutto ciò che mi chiederai, Wanda." "Prenditi cura di loro, per me." "L'avrei fatto comunque." "Anche di Ian." "Se me lo concederà. Non sono sicura che gli piacerò." "Anche se non te lo concederà." "Farò tutto ciò che posso per lui, Wanda. Te lo prometto." Ian si fermò davanti alla porta della sua stanza. Alzò le sopracciglia, e io
annuii. Meglio lasciarlo pensare che volessi nascondermi da Jamie. In fondo, era la verità. Ian scostò la porta, e io mi buttai dritta sul materasso a destra. Mi raggomitolai, intrecciando le dita sul cuore che martellava. Ian si rannicchiò contro di me, stringendomi al petto. Non era un problema - sapevo che avrebbe finito per invadere il resto del letto, quando si fosse addormentato - se non altro per il fatto che così poteva sentirmi tremare. «Andrà tutto bene, Wanda. So che troveremo una soluzione.» «Ti amo davvero, Ian.» Solo così potevo dirgli addio. L'unico addio che avrebbe accettato, ricordato e capito. «Con tutta l'anima, ti amo.» «Anch'io ti amo davvero, piccola Viandante.» Strofinò il naso contro il mio, fino a trovare le mie labbra, poi mi baciò, lento e delicato. «Dormi, Wanda. Risparmiati per domani. Fermati, almeno stanotte.» Annuii, sfiorandogli il viso con il mio, e sospirai. Anche Ian era stanco. Non dovetti aspettare troppo. Fissavo il soffitto, le stelle si erano spostate, al di là delle fenditure. Dove prima ne spuntavano due, ne vedevo tre. Le guardavo lampeggiare e ammiccare nell'oscurità dello spazio. Non sembrava un richiamo. Non sentivo alcun desiderio di raggiungerle. Le braccia di Ian mollarono la presa. Si accasciò supino, borbottando nel sonno. Non osai aspettare oltre; morivo dalla voglia di restare, di addormentarmi con lui e strappare un giorno in più. Sapevo che non lo avrei svegliato, ma mi spostai in silenzio. Il suo respiro era profondo e regolare. Non avrebbe aperto gli occhi fino al mattino. Sfiorai con le labbra la sua fronte liscia, poi mi alzai e sgusciai fuori. Non era tardi, le grotte non erano vuote. Sentivo le voci rimbalzare in echi strani. Non incontrai nessuno finché non fui nella caverna più grande. Geoffrey, Heath e Lily tornavano dalla cucina. Abbassai lo sguardo, malgrado la felicità di rivedere Lily. Nella breve occhiata che mi concessi, la vidi finalmente fiera, con le spalle diritte. Lily era tosta. Come Mel. Anche lei ce l'avrebbe fatta. Mi affrettai a raggiungere la galleria meridionale, felice di potermi nascondere al buio. Felice e terrorizzata. Era davvero finita. "Ho tanta paura" gemetti. Prima che Mel potesse rispondere, una mano pesante si posò sulla mia spalla sbucando dal buio.
«Dove vai?» 58 La fine Ero così tesa che gridai per lo spavento. «Scusa!» Jared mi cinse le spalle per tranquillizzarmi. «Scusami. Non volevo spaventarti.» «Che ci fai qui?» domandai, ancora senza fiato. «Ti seguo. È tutta la sera che ti seguo.» «Be', ora smettila.» Un momento di incertezza nel buio, in cui il suo braccio restò immobile. Lo scrollai via, ma mi catturò il polso. La sua presa era forte; non sarei riuscita a liberarmi facilmente. «Vai a trovare Doc?» chiese, e non c'era la minima incertezza nella sua voce. Era ovvio che non stesse parlando di una visita di cortesia. «Certo che sì.» Risposi a denti stretti, per non lasciar trapelare il mio turbamento. «Cos'altro mi resta da fare, dopo una giornata come questa? Le cose non miglioreranno. E non sta a Jeb decidere.» Reagii con rabbia alle mie stesse parole, che riuscirono a ferirmi e riempirmi gli occhi di lacrime. Cercai di aggrapparmi al pensiero di Ian - lui era l'ancora di salvezza che, in qualche modo, Kyle era stato per Sole - ma era difficile, con Jared che mi toccava, con il suo profumo nelle narici. «Allora lasciami andare, Jared. Vattene. Voglio stare da sola.» Le parole sgorgarono veloci, decise e secche. Impossibile scambiarle per menzogne. «Meglio che venga con te.» «Presto riavrai Melanie» sbottai. «Ti chiedo soltanto qualche minuto, Jared. Concedimelo.» Un'altra pausa, senza mollare la presa. «Wanda, voglio venire per starti accanto.» «Non è il caso» sussurrai. «Non ha senso.» Non potevo permettergli di assistere. Mi fidavo soltanto di Doc. Soltanto lui aveva promesso. Non volevo abbandonare il pianeta. Non sarei andata a vivere tra i Delfini o tra i Fiori, eternamente in lutto per amori che mi ero lasciata alle spalle secoli prima che riaprissi gli occhi - sempre che avessi degli occhi. Questo era il mio pianeta, e nessuno mi avrebbe convinta ad abbandonarlo. Sarei rimasta, nella terra, nella grotta scura, assieme ai miei amici. Una tomba umana, per l'essere umano che ero divenuta.
«Ma, Wanda, io... ho ancora tante cose da dirti.» «Non mi serve la tua gratitudine, Jared. Credimi.» «E cosa vuoi, allora?» sussurrò, la voce soffocata. «Sono pronto a darti tutto.» «Prenditi cura della mia famiglia. Impedisci agli altri di ucciderli.» «Certo che lo farò.» Rispose brusco e impaziente. «Parlavo di te. Cosa posso darti?» «Non posso portare nulla con me, Jared.» «Neanche un ricordo, Wanda? Cosa vuoi?» Asciugai le lacrime con la mano libera, ma ne sgorgarono subito altre. No, non avrei portato con me neanche un ricordo. «Cosa posso darti, Wanda?» insistette. Respirai a fondo, cercando di controllare la voce. «Una bugia, Jared. Dimmi che vuoi che io resti.» Non ci furono esitazioni, stavolta. Mi strinse forte al petto, avvolgendomi nell'oscurità. Posò le labbra sulla mia fronte, e il suo respiro mi scompigliò i capelli. Melanie, nella mia testa, tratteneva il respiro. Cercava di nascondersi ancora, di concedere a me un po' di libertà in quegli ultimi minuti. Forse quelle bugie la spaventavano. Non desiderava che le lasciassi quel ricordo, prima di andarmene. «Resta qui, Wanda. Con noi. Con me. Non voglio che tu te ne vada. Per favore. Non riesco a immaginarti lontana. Non ti ci vedo. Non so come... come...» La sua voce si spezzò. Sapeva mentire molto bene. E doveva essere molto sicuro delle mie intenzioni per dire certe cose. Restai appoggiata a lui per un istante, ma ormai mi sentivo portare via dal tempo. Il tempo era scaduto. «Grazie» bisbigliai cercando di districarmi. Strinse la presa. «Non ho finito.» Tra i nostri volti c'erano pochi centimetri. Mi si accostò, e nemmeno in quel momento, prima di esalare l'ultimo respiro sul pianeta, riuscii a oppormi. Fuoco e fiamme esplosero di nuovo. Ma era diverso, lo sentivo. Era per me. Fu il mio nome che sospirò mentre stringeva il mio corpo, che nei suoi pensieri era davvero mio, parte di me. Sentivo la differenza. Per un momento fummo soltanto noi, la Viandante e Jared, in fiamme. Nessuno aveva mai mentito come Jared mentì con il corpo, in quegli ul-
timi minuti, e gliene fui grata. Non potevo portarli con me, perché non stavo andando da nessuna parte, ma riuscirono a smorzare un po' della sofferenza dell'abbandono. Era una bugia credibile. Potevo credere che gli sarei mancata tanto da poter rovinare un briciolo della sua gioia. Non avrei dovuto, ma ero contenta di pensarlo. Non potevo ignorare il tempo, i secondi che scorrevano come in un conto alla rovescia. Persino nel cuore dell'incendio mi sentivo trascinare, risucchiare lungo il corridoio scuro. Via da quel calore e da quei sentimenti. Riuscii ad allontanare le labbra da quelle di Jared. Restammo lì, nella nuvola calda dei nostri respiri affannosi. «Grazie» dissi. «Aspetta...» «Non posso. Non posso... più sopportare. Okay?» «Okay» sussurrò. «Concedimi soltanto di fare da sola. Per favore.» «Se... è ciò che vuoi...» Lasciò cadere la frase, incerto. «Ne ho bisogno, Jared.» «Allora io resto qui» disse, con voce rauca. «Manderò Doc a chiamarti, quando sarà finita.» Il suo abbraccio mi imprigionava ancora. «Sai che Ian mi ucciderà per averti lasciato fare? Forse dovrei concederglielo. E Jamie. Non ci perdonerà mai.» «Non posso pensarci adesso. Lasciami andare.» Lentamente, con una riluttanza palpabile, che scaldò il vuoto freddo al centro del mio corpo, le braccia di Jared scivolarono via. «Ti amo, Wanda.» Sospirai. «Grazie, Jared. Anch'io ti voglio bene, lo sai, dal profondo del cuore.» Cuore e anima. Non erano la stessa cosa, per quanto mi riguardava. Da troppo tempo ero divisa. Era il momento di ricomporre, di completare una persona. A costo di escludere me stessa. Il ticchettio dei secondi mi trascinava verso la fine. Quando il suo abbraccio mi abbandonò, sentii freddo. E il freddo aumentava a ogni passo. Era solo la mia immaginazione, certo. Nelle grotte era ancora estate. Un'estate eterna, quella che mi attendeva. «Cosa succede qui quando piove, Jared?» sussurrai. «Dove vanno tutti a dormire?» Rispose dopo qualche istante, sentii le lacrime nella sua voce. «Andia-
mo...» singhiozzò, «... andiamo nella stanza dei giochi. Dormiamo tutti assieme.» Annuii. Chissà che atmosfera. Imbarazzata, con tutte quelle personalità stridenti? O divertente? Un diversivo? Come un pigiama party? «Perché?» sussurrò. «Volevo soltanto... immaginare come sarà.» La vita e l'amore continuavano. Anche senza di me, ma l'idea mi riempì di gioia. «Addio, Jared. Mel dice "ci vediamo presto".» Bugiarda. «Aspetta... Wanda...» Sfrecciai per la galleria, in fuga dalla possibilità che con le bugie e le lusinghe potesse convincermi a non procedere. Alle mie spalle, il silenzio. La sua sofferenza non mi ferì come quella di Ian. Il dolore di Jared sarebbe terminato presto. La gioia - il lieto fine - distava soltanto poco tempo. Fu come se il tunnel meridionale fosse lungo pochi metri. Vidi subito la lanterna luminosa, e capii che Doc mi stava aspettando. Entrai a spalle dritte nella stanza che mi aveva sempre terrorizzata. Doc aveva preparato tutto. Nell'angolo più buio vidi due brande una accanto all'altra, su cui Kyle russava con un braccio attorno alla sagoma immobile di Jodi. Con l'altro stringeva il contenitore che custodiva Sole. Avrebbe gradito. Peccato non poterglielo dire. «Ciao, Doc» sussurrai. Alzò gli occhi dal tavolo su cui stava disponendo i medicinali. Il suo volto era già rigato di lacrime. Presi coraggio all'istante. Il battito del mio cuore rallentò. Il respiro si fece più rilassato e profondo. La parte più difficile era andata. Ci ero già passata. Tante volte. Bastava chiudere gli occhi: avevo sempre avuto la consapevolezza che prima o poi si sarebbero riaperti, certo. Ma restava una situazione familiare. Niente da temere. Mi avvicinai alla branda sulla quale mi sedetti con un balzo. Afferrai l'Anti-dolore con mano sicura e svitai il coperchio. Presi un quadratino e lo sciolsi sulla lingua. Nessun cambiamento. Il dolore, stavolta, non era fisico. «Dimmi una cosa, Doc. Qual è il tuo vero nome?» Volevo completare il puzzle, prima della fine. Doc tirò su con il naso e si strofinò le mani sulle guance. «Eustace. È il nome di un mio antenato, e i miei genitori erano persone
crudeli.» Feci una risata. Poi sospirai. «Jared ti aspetta, all'imbocco della grotta principale. Gli ho promesso che gli dirai quando tutto sarà finito. Aspetta finché non... non... avrò cessato di muovermi, okay? Sarà troppo tardi per cercare un rimedio, a quel punto.» «Non voglio farlo, Wanda.» «Lo so. E ti ringrazio, Doc. Ma devi mantenere la promessa.» «Ti prego.» «No. Mi hai dato la tua parola. Io ho fatto la mia parte, no?» «Sì.» «Allora, tu fai la tua. Lasciami riposare con Walt e Wes.» Assorto, il suo viso sottile cercò di trattenere un singhiozzo. «Soffrirai?» «No, Doc.» Mentii. «Non sentirò nulla.» Attesi l'arrivo dell'euforia, dell'ondata di Anti-dolore pronta a far brillare tutto come la volta precedente. Ma ancora non sentivo differenze. Forse non era stato l'Anti-dolore, ma la sensazione di sentirmi amata. Feci un altro sospiro. Mi sdraiai sul lettino, a pancia in giù, e voltai la testa verso di lui. «Addormentami, Doc.» Aprì il flacone. Lo agitò e inzuppò il panno che teneva in mano. «Sei l'essere più nobile e puro che abbia mai conosciuto. L'universo sarà un luogo più buio, senza te» mormorò. Quelle parole furono il mio necrologio, il mio epitaffio, e fui lieta di poterle sentire. "Grazie, Wanda. Sorella mia. Non ti dimenticherò mai." "Sii felice, Mel. Goditi tutto. Gioiscine anche per me." "Te lo prometto." "Addio" sussurrammo insieme. La mano di Doc premette con delicatezza il panno sul mio viso. Respirai a fondo, ignorandone l'odore greve e fastidioso. Al secondo respiro, rividi le tre stelle. Non mi chiamavano a sé: mi concedevano di andare, mi offrivano all'universo nero in cui per tante vite avevo vagabondato. Sprofondai nel buio, che divenne sempre più luminoso. Da nero si fece blu. Un blu acceso, vibrante, caldo... verso cui mi librai senza alcuna paura. 59 Il ricordo
L'inizio somigliava alla fine. Mi avevano avvertita. Ma nessuna fine mi aveva mai sorpresa più di questa. Otto vite, e non ne ricordavo di così sconvolgenti. Niente a che vedere con un tuffo nel vano dell'ascensore. Mi aspettavo di non avere più ricordi né pensieri. Che razza di fine era questa? Il sole tramonta, i colori virano verso il rosa, e mi fanno pensare alla mia amica... come si chiamerebbe, qui? Qualcosa a che vedere con le... Piume? Piume Scompigliate. Era un bellissimo Fiore. I fiori qui sono inanimati e noiosi. Però hanno un profumo meraviglioso. I profumi sono la cosa migliore di questo posto. Passi alle mie spalle. Tessitrice di Nuvole mi ha seguito ancora? Non mi serve il giubbotto. Qui fa caldo - finalmente - e voglio sentire l'aria sulla pelle. La ignorerò. Così magari pensa che non la sento, e se ne va a casa. È tanto protettiva, con me, ma ormai sono quasi adulta. Non può farmi da madre per sempre. «Scusa?» dice qualcuno, di cui non riconosco la voce. Mi volto a guardarla, ma non riconosco neanche il suo viso. È carina. Quel ricordo mi fece tornare in me. Era il mio! Ma non ricordavo che... «Ciao» dico. «Ciao. Mi chiamo Melanie.» Mi sorride. «Sono nuova di qui e... temo di essermi persa.» «Oh! E dove stavi andando? Ti accompagno. La nostra auto è qui dietro...» «No, non è lontano. Stavo facendo una passeggiata, e ora non riesco a tornare a Becker Street.» È una nuova vicina di casa. Adoro le nuove amicizie. «Ci sei quasi» rispondo. «È dopo la seconda traversa, da quella parte, ma puoi anche tagliare per questo vicolo. Ti ci porta dritto.» «Mi accompagni? Ah, scusa, tu come ti chiami?» «Ma certo! Vieni con me. lo mi chiamo Petali Aperti alla Luna, ma i miei mi chiamano soltanto Luna. Di dove sei, Melanie?» Ride. «Di San Diego, o del Mondo che Canta, se preferisci.» «Mi vanno bene entrambi.» Anch'io rido. Mi piace il suo sorriso. «In questa via ci sono due Pipistrelli. Vivono nella casa gialla, quella con i pi-
ni.» «Passerò a salutarli» mormora, ma la sua voce è cambiata, sembra nervosa. Si guarda attorno come se cercasse qualcosa, nel vicolo ombroso. E qualcosa c'è. Due persone, un uomo e un ragazzo. Il ragazzo si sistema i capelli lunghi e neri con un gesto nervoso. Forse è preoccupato perché anche lui si è perso. I suoi begli occhi sono spalancati e agitati. L'uomo è immobile. Jamie. Jared. Il mio cuore batteva forte, ma era una sensazione strana, irriconoscibile. Lo sentivo troppo piccolo e... confuso. «Questi sono i miei amici, Luna» dice Melanie. «Oh! Oh, ciao.» Allungo una mano verso l'uomo, il più vicino. Lui la stringe forte. Mi strattona verso di sé. Non capisco. C'è qualcosa che non va. Non mi piace. Il battito del mio cuore accelera, ho paura. Non mi sono mai sentita così spaventata. Non capisco. La sua mano sguscia verso il mio volto, e mi mozza il respiro. Annuso il profumo della sua mano. Una nuvola argentea che sa di lampone. «Cosa...» vorrei chiedere, ma non li vedo più. Non vedo più niente... Nient'altro. «Wanda? Mi senti, Wanda?» domandò una voce familiare. Non era il nome giusto... o sì? Le mie orecchie non reagirono, qualcos'altro sì. Non mi chiamavo Petali Aperti alla Luna? Soltanto Luna? O no? C'era qualcosa che non andava neanche lì. Il mio cuore iniziò a galoppare, un'eco della paura che ricordavo. L'immagine di una donna dai capelli a ciocche bianche e rosse, e dagli occhi verdi, mi riempì la testa. Dov'era mia madre? Ma... lei non era mia madre, no? Un suono, una voce bassa riecheggiò attorno a me. «Wanda. Ritorna. Non ti lasceremo andare.» La voce era familiare, e allo stesso tempo non lo era. Somigliava... alla mia? Dov'era Petali Aperti alla Luna? Non la trovavo più. C'erano soltanto migliaia di ricordi vuoti. Una casa disabitata, ma piena di foto. «Usa il Risveglia» disse una voce. Non la riconobbi. Qualcosa sfiorò il mio volto, leggero come nebbia. Conoscevo quel pro-
fumo. Sapeva di pompelmo. Un respiro profondo, e all'istante ritrovai lucidità. Capii che ero sdraiata... ma qualcosa continuava a non quadrare. Mi... mancava un pezzo? Mi sentivo ristretta. Le mie mani erano più calde del resto del corpo, perché qualcuno le stringeva. Con mani grandi, che le avvolgevano completamente. C'era uno strano odore, di umidità e muffa. Lo ricordavo... ma ero certa di non averlo mai sentito prima. Vedevo soltanto una luce rossa e cupa, l'interno delle mie palpebre. Decisi di aprirle, e andai in cerca dei muscoli giusti per farlo. «Viandante? Ti stiamo aspettando tutti, piccola. Apri gli occhi.» Questa voce, il respiro caldo che mi sfiorava l'orecchio, era ancora più familiare. Percepii una strana sensazione quando la sentii. Una sensazione mai provata prima. Mi mozzò il respiro e mi fece tremare le dita. Volevo vedere quel viso, quella voce. Un'ondata di colore invase la mia mente - un colore che mi chiamava da una vita lontana - un blu acceso, brillante. L'universo era blu e acceso. E infine, seppi il mio nome. Era quello. Viandante. Ero la Viandante. Ma anche Wanda. Lo ricordavo. Una carezza leggera sul mio viso, una pressione calda sulle labbra, sulle palpebre. Ah, ecco dov'erano. Ora che le avevo trovate, potevo sbatterle. «Si sta svegliando!» esultò qualcuno. Jamie. C'era Jamie. Il mio cuore ebbe un altro sobbalzo. Mi occorse qualche istante per mettere a fuoco la scena. L'azzurro che affondava nei miei occhi non era quello giusto, troppo pallido, troppo sbiadito. Non era il blu che desideravo. Una mano sfiorò il mio volto. «Viandante?» Mi girai verso la voce. Il movimento della testa sul collo mi parve strano. Non mi ci sentivo abituata, ma allo stesso tempo, era una sensazione banalissima. I miei occhi trovarono il blu che cercavo. Zaffiro, neve e mezzanotte. «Ian? Ian, dove sono?» Il suono della voce che mi uscì dalle labbra mi spaventò. Acuto e stridulo. Familiare, ma non mio. «Chi sono?» «Tu sei tu» rispose Ian. «E sei di nuovo a casa.» Liberai una mano dalle dita di gigante che la trattenevano. Feci per sfiorarmi il viso, ma qualcuno allungò una mano verso di me, e mi lasciò impietrita. Anche la mano restò ferma sopra di me.
Cercai di proteggermi, ma la mano si avvicinò. Iniziai a tremare, e così la mano che mi minacciava. Oh. La aprii e la chiusi, osservandola da vicino. Quella mano così piccola era mia? Era una mano da bambina, eccetto per le unghie ben limate, bianche e rosa, perfette. La pelle era pallida, con una strana sfumatura argentea e macchie di lentiggini dorate, totalmente fuori posto. Fu la strana combinazione di oro e argento a rievocare l'immagine: nei miei pensieri rievocai un volto, riflesso allo specchio. L'apparizione del ricordo mi lasciò disorientata: non ero abituata a tutta quella civilizzazione, ma allo stesso tempo, la conoscevo perfettamente. Una graziosa toeletta adorna di oggetti infiocchettati e squisiti. Una profusione di raffinate bottiglie di vetro, che contenevano i miei profumi preferiti. Miei? O suoi? Un'orchidea nel vaso. Un assortimento di pettini argentati. Lo specchio grande e rotondo era incorniciato da una ghirlanda di rose in ferro battuto. Anche il volto al centro dello specchio era arrotondato, non proprio ovale. Piccolo. La pelle del viso aveva la stessa sfumatura argentea della mano, con un'altra manciata di lentiggini dorate sui lati del naso. Occhi grandi e grigi, l'argento dell'anima a luccicare debole nelle pupille chiare, incorniciate da ciglia dorate e folte. Labbra rosa pallido, piene e quasi rotonde, da bambina. Denti piccoli, regolari e bianchi. Un neo sul mento. E ovunque, ovunque, capelli dorati e mossi che circondavano il mio viso come un'aureola di luce e cadevano oltre i confini dello specchio. Il mio viso, o il suo? Era il volto perfetto, per un Fiore Notturno. L'esatta traslazione da Fiore a essere umano. «Dov'è?» domandò la mia voce acuta ed esile. «Dov'è Luna?» La sua assenza mi impauriva. Non avevo mai visto una creatura più inerme di quella bambina cresciuta, dal volto di luna e dai capelli di sole. «È qui» mi rassicurò Doc. «Inscatolata e pronta a partire. Pensavamo di chiedere a te qual è la destinazione migliore.» Guardai verso la sua voce. Quando lo vidi, illuminato dal sole, un crioserbatoio acceso tra le mani, fui sommersa da un'ondata di ricordi della mia vita precedente. «Doc!» esclamai, con la mia voce minuscola e fragile. «Doc, avevi promesso! Hai giurato, Eustace! Perché? Perché non sei stato di parola?»
Un vago ricordo di tristezza e dolore mi sfiorò. Il mio corpo non aveva mai provato una simile agonia. Rifiutò di lasciarsi coinvolgere. «Anche gli uomini più onesti, a volte, devono arrendersi di fronte alla prepotenza, Wanda.» «Prepotenza» sbuffò un'altra voce, terribilmente familiare. «Direi che un coltello puntato alla gola si può definire "prepotenza", Jared.» «Sapevi che non l'avrei mai usato.» «Invece no. Sei stato piuttosto convincente.» «Un coltello?» Il mio corpo tremò. «Shh, va tutto bene» mormorò Ian. Il suo respiro soffiò sul mio viso una ciocca di capelli dorati, che spostai con un gesto automatico. «Credevi davvero di poterci lasciare così? Wanda!» sospirò, ma era un sospiro di gioia. Ian era felice. Tale certezza alleggerì le mie preoccupazioni, le rese sopportabili. «Vi avevo detto che non volevo essere una parassita» sospirai. «Fatemi passare» ordinò la mia vecchia voce. E rividi la mia faccia, quella decisa, con la pelle scurita dal sole, le sopracciglia dritte sugli occhi a mandorla, color nocciola, gli zigomi alti... La vidi al contrario, non più riflessa in uno specchio, come l'avevo sempre guardata. «Ascolta bene, Wanda. So esattamente ciò che non vuoi essere. Ma noi siamo umani, ed egoisti, e non facciamo sempre la cosa giusta! Non ti lasceremo andare. Fattene una ragione.» La cadenza e il tono delle sue parole, non la voce, riportarono in vita tutte le conversazioni mute, la voce nella mia mente, mia sorella. «Mel? Mel, tu stai bene!» Sorrise e si chinò ad abbracciarmi. Era più grossa di quanto ricordavo di essere stata. «Certo che sì. Non è a questo che doveva servire la tua scenata? Anche tu starai bene. Non siamo stupidi, sai. Non abbiamo scelto il primo corpo che ci è passato davanti.» «Lascia raccontare a me, ti prego!» Jamie sgusciò davanti a lei. Una piccola folla si stava radunando attorno alla branda. Traballava, instabile. Presi la sua mano e la strinsi. Mi sentivo così debole. Chissà se sentiva la pressione. «Jamie!» «Ehi, Wanda! Adesso sei più piccola di me!» Sorrise, trionfante.
«Ma rimango più vecchia. Ho quasi...» una pausa, e cambiai discorso di punto in bianco. «Tra due settimane è il mio compleanno.» Ero disorientata e confusa, certo, ma non ingenua. Le esperienze di Melanie non erano andate perse; mi avevano insegnato molto. Visto che Ian era pignolo e onesto quanto Jared, non intendevo subire le stesse frustrazioni di Mel. «Il diciottesimo!» Avevo mentito, aggiungendo un anno. Con la coda dell'occhio, vidi Melanie e Ian sobbalzare di sorpresa. Il mio corpo non dimostrava affatto i suoi quasi diciassette anni. Fu quel piccolo imbroglio, quella rivendicazione preventiva del mio compagno, a farmi capire che sarei rimasta con loro. Con Ian e il resto della mia famiglia. Sentii un gonfiore strano chiudermi la gola. Jamie mi diede un buffetto sulla guancia, per richiamarmi all'attenzione. Fui sorpresa di sentire la sua mano così grande. «Mi hanno dato il permesso di accompagnarli, quando siamo usciti a prenderti.» «Lo so» mormorai. «Ricordo... be', Luna ricorda di avervi visti.» Lanciai un'occhiata a Mel, che si strinse nelle spalle. «Abbiamo cercato di non spaventarla» disse Jamie. «Era così... fragile, sai? E anche carina. L'abbiamo scelta assieme, ma la decisione è stata mia! Ecco, Mel diceva che dovevamo prendere qualcuno di giovane, con un'alta percentuale di vita da anima, o qualcosa del genere. Ma non troppo giovane, perché sapeva che non volevi essere una bambina. A Jared poi piaceva il suo volto, perché secondo lui ispirava... fiducia. Non sembri affatto pericolosa. Anzi. Jared diceva che bastava guardarti per sentire il desiderio di proteggerti, vero Jared? Ma la decisione finale è stata mia, perché volevo qualcuno che somigliasse a te. E secondo me lei ti somigliava. Perché sembra una specie di angelo, e tu sei buona come un angelo. E molto carina. Lo sapevo che eri carina.» Jamie fece un gran sorriso. «Ian non è venuto. È rimasto qui con te - diceva che non gli importava nulla del tuo aspetto. Non ha permesso a nessuno, neanche a me o a Melanie, di toccare il crioserbatoio. Però Doc, stavolta, mi ha lasciato guardare. È stato fantastico, Wanda. Non so perché non mi hai mai lasciato guardare. Però non hanno voluto che li aiutassi. Ian pretendeva di essere l'unico a toccarti.» Ian mi strinse la mano, e si chinò a mormorarmi qualcosa tra i capelli. La sua voce era così bassa che soltanto io riuscii a sentirla. «Ti ho tenuta in mano, Viandante. Ed eri bellissima.» Fui costretta a soffiarmi il naso, sentivo gli occhi gonfi. «Ti piace, vero?» domandò Jamie, preoccupato. «Non ti sei arrabbiata?
Non c'è nessuno dentro di te, vero?» «No, non sono arrabbiata» sussurrai. «E... non trovo nessuno. Soltanto i ricordi di Luna. Ha abitato questo corpo per... non ricordo un istante di assenza. Non ricordo altri nomi.» «Non sei una parassita» disse Melanie secca, toccandomi i capelli, sollevando una ciocca e lasciando scorrere l'oro fra le sue dita. «Questo corpo non apparteneva a Luna, e nessuno lo rivendica. Abbiamo aspettato e controllato, Wanda. Abbiamo cercato di svegliarla, insistendo come con Jodi.» «Jodi? Come sta Jodi?» cinguettai, la voce ansiosa e stridula come quella di un uccellino. Quando vide che cercavo di alzarmi, Ian mi sollevò maneggiò il mio nuovo corpo minuto senza sforzo né fatica - e mi aiutò a sedermi, sostenendomi con le braccia. In quel momento vidi tutti i loro volti. Doc aveva smesso di piangere. Jeb, alle sue spalle, sbirciava soddisfatto e ardente di curiosità. Accanto a lui, una donna che non riconobbi subito, perché la sua espressione era molto più intensa di quanto ricordassi, e perché non l'avevo vista granché: Mandy, l'ex Guaritrice. Vicino a me, Jamie con il suo sorriso luminoso ed entusiasta, poi Melanie e accanto a lei Jared, che le cingeva i fianchi con un braccio. Sapevo che quelle mani avrebbero trovato la pace soltanto a contatto con il suo corpo, il mio corpo. Che l'avrebbe tenuta con sé, più vicina che poteva, per sempre, lottando contro tutto ciò che poteva separarli. Ciò scatenò una fitta di dolore straziante. Il cuore delicato che batteva nel mio petto tremò. Nessuno l'aveva mai spezzato, e non capiva quel ricordo. Non fu piacevole rendermi conto che amavo ancora Jared. Non mi sarei liberata dell'affetto che provavo per lui, né della gelosia per il corpo che lui amava. Lanciai un'occhiata a Mel. Vidi l'espressione afflitta sulle labbra che erano state mie, e seppi che aveva capito. Continuai svelta la rassegna dei volti che circondavano la mia branda in gruppo, mentre Doc, dopo una pausa, rispondeva alla mia domanda. Trudy e Geoffrey, Heath, Paige e Andy. Persino Brandt... «Jodi non ha reagito. Ci abbiamo provato finché è stato possibile.» Ma allora non c'era più? Il mio cuore ingenuo impazzì. Stavo infliggendo un risveglio davvero brusco a quella povera e fragile creatura. Heidi e Lily; Lily sorridente e afflitta, ma sincera nel mostrare il proprio dolore... «Siamo riusciti a mantenerla idratata, ma non c'era modo di darle da mangiare. Io e Mandy eravamo preoccupati che i muscoli o il cervello si
atrofizzassero...» Mentre il mio nuovo cuore pativa un dolore mai sentito prima - soffriva per una persona che non avevo mai conosciuto - i miei occhi continuarono la rassegna, e restarono sbalorditi. Jodi, abbracciata a Kyle, mi fissava. Abbozzò un sorriso, e all'istante la riconobbi. «Sole!» «Sono riuscita a restare» disse con un certo compiacimento. «Come te.» Scambiò uno sguardo con Kyle - più stoico di quanto fossi abituata a vedere - e la sua voce divenne triste. «Ci sto provando, però. La sto cercando. Continuerò a cercare.» «Quando stavamo per perdere Jodi, Kyle ci ha chiesto di rimettere Sole al suo posto» continuò Doc pacato. Fissai Sole e Kyle per un istante, sbalordita. Ian mi guardava con una strana combinazione di gioia e nervosismo. La sua testa era più in alto del normale, più grossa del solito. Ma nei suoi occhi c'era l'azzurro che ricordavo. L'ancora che mi aveva trattenuta su quel pianeta. «Tutto bene lì dentro?» disse. «Be'... non so» confessai. «È davvero... bizzarro. Quasi come passare da una specie all'altra. Molto più bizzarro di quanto pensassi. Davvero, non so.» Il mio cuore palpitò di nuovo quando lo guardai negli occhi, ma stavolta non a causa dell'amore di una vita passata. Sentii la bocca asciutta e un sobbalzo nello stomaco. Il punto in cui con il braccio mi sfiorava la schiena sembrava più vivo del resto del corpo. «Non sei troppo dispiaciuta di restare qui, vero Wanda? Pensi che ce la farai, a sopportare?» mormorò. Jamie strinse la mia mano. Melanie posò la propria sulla sua, e sorrise quando anche Jared le si unì. Trudy mi accarezzò un piede. Geoffrey, Heath, Heidi, Andy, Paige, Brandt e persino Lily mi guardavano radiosi. Kyle si era avvicinato, un gran sorriso sulle labbra. Quello di Sole era il sorriso di una complice. Quanto Anti-dolore mi aveva somministrato Doc? Tutto brillava. Ian spostò una nuvola di capelli dorati dal mio viso, e mi posò una mano sulla guancia. Era talmente grossa che il solo palmo andava dal mento alla fronte; il contatto scatenò una scossa di elettricità sulla mia pelle luminosa. Sentii un'ondata di calore avvampare sulle mie guance. Nessuno mi ave-
va mai spezzato il cuore, e nessuno l'aveva mai rapito. Mi sentivo timida; fu difficile trovare la voce. «Penso di sì» bisbigliai. «Se a te fa piacere.» «Così non va bene, però» ribatté Ian. «Deve far piacere anche a te.» Riuscivo a incrociare il suo sguardo pochi secondi per volta; turbata dalla mia nuova timidezza, non facevo che abbassare gli occhi. «Forse... forse sì» risposi. «Penso che mi farà molto, molto piacere.» Felice e triste, euforica e afflitta, decisa e insicura, amata e rinnegata, paziente e rabbiosa, tranquilla e irrequieta, integra e vuota... ero io. Erano sensazioni mie, dalla prima all'ultima. Ian mi costrinse con delicatezza a guardarlo negli occhi, mentre le mie guance avvampavano. «Allora resterai.» Mi baciò, di fronte a tutti, ma dimenticai presto gli altri. Fu facile e spontaneo, senza divisioni, senza confusione né obiezioni, soltanto Ian e me, mentre la roccia liquefatta inondava il mio nuovo corpo e sigillava il nostro patto. «Sì, resterò.» Così iniziò la mia decima vita. Epilogo Il nuovo inizio La vita e l'amore continuarono, nell'ultimo avamposto umano sul pianeta Terra, ma qualcosa era cambiato. Io per prima. Non ero mai nata due volte nella stessa specie. Il cambiamento mi risultò molto più difficile della transizione fra pianeti, perché nutrivo già certe aspettative nei confronti dell'esistenza umana. Inoltre avevo ereditato parecchi tratti da Petali Aperti alla Luna, e non tutti erano pregi. Avevo ereditato un dolore sconfinato per Tessitrice di Nuvole. Sentivo la mancanza di una madre che non avevo mai conosciuto, e compiangevo la sua sofferenza. Forse era impossibile ottenere la gioia, su questo pianeta, senza provocare un dolore che andasse a compensare qualcos'altro. Ereditai limitazioni impreviste. Ero abituata a un corpo forte, veloce e alto, capace di correre per chilometri, fare a meno di cibo e acqua, sollevare carichi, e raggiungere i ripiani più distanti. Il mio nuovo corpo era più delicato, non soltanto fisicamente. Provava fitte di timidezza paralizzante
ogni volta che mi veniva un dubbio, il che avveniva con una certa frequenza. Ereditai un ruolo diverso nella comunità degli umani. Ora gli altri trasportavano i carichi al posto mio e mi lasciavano entrare per prima nelle stanze. Mi affidavano i compiti più leggeri, e finivano quasi sempre per occuparsene di persona. E peggio ancora, avevo bisogno del loro aiuto. I miei muscoli erano deboli, disabituati al lavoro manuale. Mi stancavo in fretta, nessuno prestava fede ai miei tentativi di nasconderlo. Probabilmente non sarei riuscita a correre per più di due chilometri senza fermarmi. Non era soltanto la mia debolezza fisica a garantirmi un trattamento di riguardo, però. Ero abituata a un viso bello, ma capace di scatenare paura, sfiducia, persino odio in chi lo guardava. Il mio nuovo volto annullava simili emozioni. Tutti mi sfioravano spesso le guance, o mi alzavano il mento con un dito per guardarmi meglio. Ricevevo un sacco di carezze sulla testa (a portata di mano, perché ero la più bassa, esclusi i bambini), e mi sentivo accarezzare i capelli così spesso che finii per non accorgermene più. In questo non c'era differenza tra i miei amici e chi non mi aveva mai accettata. La stessa Lucina abbozzò solo una debole protesta quando i suoi figli iniziarono a seguirmi come due cuccioli adoranti. Freedom in particolare mi saltava in braccio ogni volta che poteva, e affondava il viso tra i miei capelli. Isaiah era troppo grande per certe dimostrazioni d'affetto, ma gli piaceva tenermi per mano - grande come la sua - mentre chiacchierava entusiasta di Ragni, Draghi, calcio e missioni. I bambini non osavano ancora avvicinarsi a Melanie; a suo tempo, la madre li aveva spaventati a dovere, e le sue rassicurazioni non valsero più nulla. Persino Maggie e Sharon, malgrado cercassero di non rivolgermi mai la parola, non riuscivano a restare rigide come un tempo, in mia presenza. Il mio corpo non fu l'unico cambiamento. Il monsone, in ritardo, raggiunse il deserto, per la mia felicità. Non avevo mai sentito l'odore della pioggia e del creosoto - avevo un vago ricordo, ereditato da Melanie, un barlume debolissimo - e ora quel profumo inondava le grotte umide, riempiendole di una fragranza fresca e quasi speziata. Mi si appiccicava ai capelli e mi seguiva ovunque. Lo sentivo anche in sogno. Inoltre, Petali Aperti alla Luna era cresciuta a Seattle, perciò le distese di azzurro ininterrotto del cielo e il calore soffocante pesavano sul mio organismo - quasi lo tramortivano - come i cieli nuvolosi e gonfi di pioggia su-
gli abitanti del deserto. Le nuvole erano divertenti, un bel cambiamento rispetto al celeste banale e anonimo. Avevano profondità e movimento. Disegnavano immagini nel cielo. Le grotte di Jeb andavano riorganizzate dalla prima all'ultima, e il trasferimento nella grande stanza dei giochi - trasformata in dormitorio comune - fu un preludio ben accetto ai cambiamenti definitivi in arrivo. C'era bisogno di tutti gli alloggi, nessuna stanza poteva rimanere vuota. Tuttavia, soltanto le nuove arrivate, Candy - che aveva finalmente ricordato il proprio nome - e Lacey, accettarono di occupare il vecchio alloggio di Wes. Provai compassione per Candy, vista la coinquilina che si ritrovava, ma la Guaritrice non mostrò alcun dispiacere. Terminate le piogge, Jamie si sarebbe trasferito in un angolo libero nella grotta di Brandt e Aaron. Melanie e Jared l'avevano cacciato e costretto a trasferirsi da Ian prima della mia rinascita; Jamie non era più così piccolo da godere di attenuanti. Kyle stava cercando di ampliare la stretta fenditura che aveva fatto da stanza a Walter, in tempo per il ritorno della stagione secca. Poteva contenere una persona, ma Kyle non era intenzionato a viverci da solo. Di notte, nella stanza dei giochi, Sole si raggomitolava contro il petto di Kyle, come un gatto amico di un cagnone, un rottweiler di cui si fidava ciecamente. Sole era sempre assieme a Kyle. Non ricordavo di averli visti lontani, da quando avevo aperto per la prima volta i miei occhi d'argento. Kyle sembrava sempre sulle nuvole, troppo distratto dalla sua relazione impossibile per concentrarsi o prestare attenzione a qualcos'altro. Non intendeva rinunciare a Jodi, ma quando Sole gli si faceva accanto, la teneva stretta con il più delicato degli abbracci. Prima delle piogge, ogni spazio era occupato, perciò rimasi con Doc nell'ambulatorio di cui non avevo più paura. Le brande non erano comode, ma era un luogo molto interessante. Candy ricordava i particolari della vita di Alba Melodiosa meglio della propria; l'ambulatorio era diventato un luogo di miracoli. Dopo le piogge, Doc avrebbe smesso di dormire in ambulatorio. La prima notte nella stanza dei giochi, Sharon aveva avvicinato il proprio materasso a quello di Doc senza proferire parola. Forse era stato il fascino che la Guaritrice esercitava su Doc a farla decidere, ma dubito che Doc si fosse mai accorto di quanto fosse carina quella donna già matura; ad affascinarlo erano le sue fenomenali conoscenze. O forse, Sharon era semplicemente pronta a perdonare e dimenticare. Speravo che fosse così. Era bello pensa-
re che persino Sharon e Maggie potessero ammorbidirsi, con il tempo. Neanch'io sarei tornata in ambulatorio. La conversazione cruciale con Ian non sarebbe mai avvenuta, non fosse stato per Jamie. Ogni volta, mi bastava pensare di affrontarla per sentirmi seccare la bocca e sudare le mani. E se i miei sentimenti, in ambulatorio, quei brevi momenti di certezza che avevano seguito il mio risveglio, fossero stati una semplice illusione? Se i miei ricordi fossero stati sbagliati? Sapevo che per me non era cambiato niente, ma come potevo essere certa che anche per Ian fosse così? Il corpo di cui era stato innamorato era ancora presente! Mi aspettavo che fosse disorientato, come tutti. Se era difficile per me, un'anima abituata a simili cambiamenti, quanto poteva esserlo per gli umani? Mi sforzavo di mettere da parte ciò che restava della gelosia che ancora provavo per Jared. Ian era il compagno giusto per me, ma talvolta mi sorprendevo a fissare Jared, e mi sentivo confusa. Avevo anche visto Melanie sfiorare il braccio o la mano di Ian e poi ritrarsi come ricordandosi chi fosse all'improvviso. Persino Jared, che aveva minor margine di dubbio, a volte incrociava il mio sguardo confuso con le sue occhiate curiose. E Ian... ma certo per lui era difficile. Lo capivo bene. Eravamo sempre assieme, quasi come Kyle e Sole. Ian mi sfiorava di continuo le guance e i capelli, mi teneva per mano. Agli altri sembrava un semplice rapporto platonico: non mi aveva più baciata come il primo giorno. Forse non riusciva ad amarmi, nel mio nuovo corpo, malgrado il fascino che sembravo esercitare su tutti gli altri umani. Sentivo quella preoccupazione pesarmi sul cuore, la notte in cui Ian trasportò la mia branda - era troppo pesante per me - nella grande e buia stanza dei giochi. Era la prima pioggia dopo più di sei mesi. Tra risate e lamentele, tutti sbattevano i propri materassi umidi e si preparavano al sonno. Vidi Sharon accanto a Doc, e sorrisi. «Quaggiù, Wanda» esclamò Jamie, e con un cenno indicò il luogo in cui aveva appena depositato il proprio materasso, accanto a quello di Ian. «C'è spazio per tutti e tre, ora.» Jamie era l'unico che mi trattava quasi come prima. Si mostrava comprensivo con il mio fisico esile, ma non sembrava mai sorpreso di vedermi
entrare in una stanza, o stupito che le parole di Viandante uscissero dalle mie labbra. «Non dirmi che vuoi restare su quella branda, eh? Scommetto che se uniamo i materassi possiamo starci tutti e tre.» Jamie mi sorrise e scalciò un materasso contro l'altro senza aspettare il mio consenso. «Tu non occupi tanto spazio.» Prese la branda da Ian e la allontanò. Poi si allungò sul bordo del materasso più lontano da noi e ci voltò le spalle. «Oh, dimenticavo, Ian» aggiunse senza girarsi. «Ho parlato con Brandt e Aaron, penso che mi trasferirò da loro. Be', io sono esausto. 'Notte, ragazzi.» Fissai la sagoma immobile di Jamie per qualche istante. Ian era altrettanto immobile. Cercava una maniera di districarsi da quella situazione? «Spegnere le luci» tuonò Jeb dall'altro capo della stanza. «Chiudete la ciabatta, che ho bisogno di fare un pisolino.» Tutti risero, ma come sempre lo presero sul serio. Una dopo l'altra, le quattro lampade si spensero, e nella stanza calò il buio. La mano di Ian trovò la mia; era calda. Aveva notato quanto fosse fredda e sudata la mia pelle? Si lasciò cadere in ginocchio sul materasso, attirandomi a sé con delicatezza. Lo seguii, e mi allungai tra un materasso e l'altro. La mia mano nella sua. «Tutto bene?» sussurrò Ian. «Sì, grazie» risposi. Ian era più vicino di quanto immaginassi. Con un sussulto impercettibile lo sfiorai, poi cercai di fargli spazio. All'istante mi circondò con un braccio e mi strinse a sé. Era la più strana delle sensazioni; sentirmi abbracciare da Ian in quel modo sensuale mi ricordò della mia prima esperienza con l'Anti-dolore. Soffrivo senza rendermene conto, e il contatto con lui cancellò ogni patimento. E con esso, la mia timidezza. Mi voltai in modo da averlo di fronte a me, e lui aumentò la stretta. «Tutto bene?» sussurrai. Mi baciò la fronte. «Più che bene.» Per qualche minuto restammo in silenzio. Quasi tutte le altre conversazioni si erano spente. Avvicinò le labbra al mio orecchio sussurrando più
piano di prima. «Wanda, pensi che...?» Si interruppe. «Cosa?» «Be', a quanto pare ho una stanza tutta per me. Non è giusto.» «No. È grossa abbastanza solo per te.» «Non voglio restare solo. Però...» Perché non me lo chiedeva? «Però cosa?» «Sei riuscita a pensarci un po' su? Non voglio metterti fretta. So che sei confusa... a proposito di Jared...» Impiegai un istante a capire cosa voleva dirmi, e reagii con un risolino soffocato. In genere, Melanie non si lasciava andare, Luna invece sì, e il suo corpo mi tradiva nei momenti meno opportuni. «Che c'è?» domandò Ian. «Ero io ad aspettare che ci pensassi su» bisbigliai. «Non volevo metterti fretta, perché so che sei confuso. A proposito di Melanie.» Un sobbalzo impercettibile, di sorpresa. «Pensavi...? Ma Melanie non sei tu, non mi sono mai sentito confuso.» Sorridevo nel buio. «E tu non sei Jared.» Rispose circospetto. «Resta pur sempre Jared. E tu lo ami.» Era ancora geloso? Non avrei dovuto lasciarmi lusingare da un'emozione negativa, ma dovevo ammettere che mi gratificava. «Jared è il passato, un'altra vita. Tu sei il mio presente.» Tacque per un momento. Quando riprese a parlare, la sua voce era gonfia di emozione. «E il tuo futuro, se lo vuoi.» «Sì, te ne prego.» Mi baciò nella maniera meno platonica possibile, in mezzo alla calca, mentre ripensavo con eccitazione alla mossa smaliziata e spontanea con cui avevo aggiunto un anno alla mia età. Terminata la stagione delle piogge, Ian sarebbe diventato il mio compagno, nel vero senso della parola. Era una promessa, un impegno al quale non mi ero mai sottoposta, in tutte le mie vite. Ripensarci mi riempiva di gioia, di ansia, di timidezza e di impazienza... mi faceva sentire umana. Presa quella decisione, io e Ian diventammo più inseparabili che mai. Perciò, quando venne il giorno di mettere alla prova il mio nuovo viso tra le anime, ovviamente mi seguì. La missione fu un sollievo, dopo settimane interminabili e frustranti. Oltretutto, il mio nuovo corpo era debole e pressoché inutile nelle caverne; non potevo credere che gli altri non volessero lasciarmelo sfruttare nell'u-
nica attività per cui era tagliato. Jared aveva approvato la scelta di Jamie proprio grazie a quel volto ingenuo e vulnerabile di cui nessuno poteva dubitare, a una costituzione delicata che tutti avrebbero voluto proteggere, ma persino lui dovette sforzarsi per mettere in pratica le sue teorie. Ero certa che uscire in missione, per me, sarebbe stato facile come sempre, ma Jared, Jeb, Ian e gli altri - tutti tranne Jamie e Mel - ne discussero per giorni, in cerca di un'alternativa al mio impiego. Fu ridicolo. Li vidi adocchiare Sole, che però era un'incognita di cui non ci si poteva fidare. Soprattutto, la ragazza non aveva la minima intenzione di mettere il naso all'esterno. La parola «missione» la riempiva di terrore. Kyle non ci avrebbe accompagnati; quando gliene aveva parlato, Sole aveva avuto una reazione isterica. Alla fine, il buon senso la ebbe vinta. C'era bisogno di me. Era bello sentirsi desiderati. Le scorte stavano diminuendo; il viaggio sarebbe stato lungo e difficoltoso. Jared guidava la pattuglia, come sempre, il che implicava la presenza di Melanie. Aaron e Brandt si offrirono volontari; non che avessimo davvero bisogno di muscoli, ma non ne potevano più di restare al chiuso. Partivamo per il nord: non vedevo l'ora di conoscere posti nuovi, e di sentire il freddo. Nel nuovo corpo, l'entusiasmo spesso mi sopraffaceva. Mentre di notte raggiungevamo la frana che nascondeva il furgone e il camion mi sentivo agitata e su di giri. Ian rise di me perché non riuscivo a stare ferma, mentre caricavamo i vestiti e il resto delle provviste. Disse che se non mi avesse tenuta per mano sarei volata via. Improvvisamente, accadde qualcosa. Ero stata troppo rumorosa? Troppo distratta? No, certo che no. Non era colpa mia, e non potevo farci niente. Era una trappola, e quando vi entrammo era già troppo tardi. Restammo impietriti di fronte ai fasci di luce sottili che sbucarono dall'oscurità, puntati sul volto di Jared e Melanie. Il mio volto, i miei occhi, quelli che avrebbero potuto aiutarci, rimasero al buio, nascosti nell'ombra delle spalle larghe di Ian. Non fui accecata dalle torce, e al chiaro di luna si vedeva distintamente che i Cercatori erano più numerosi di noi, otto contro sei. Percepii lo scintillio delle armi che stringevano, alzate e puntate contro di noi. Contro Jared e Mel, Brandt e Aaron - il nostro unico fucile non ancora sfoderato -
più una proprio al centro del petto di Ian. Perché avevo lasciato che venisse con me? Perché doveva morire anche lui? Le domande disperate di Lily riecheggiarono nella mia testa: Perché l'amore e la vita continuano? Che senso ha? Il mio cuore piccolo e delicato si infranse in un milione di pezzi, e cercai svelta la capsula che tenevo in tasca. «Fermi tutti, e restate calmi» disse l'uomo al centro del gruppo dei Cercatori. «Aspetta, aspetta, non ingoiare niente! Santo cielo, datevi una calmata! No, guardate!» L'uomo puntò la torcia verso i propri occhi. Il suo volto era abbronzato dal sole e segnato come una pietra erosa dal vento. I capelli neri, con ciocche bianche sulle tempie, formavano un cespuglio di riccioli spettinati. E i suoi occhi erano marrone scuro. Soltanto marrone scuro, niente di più. «Visto?» disse. «Okay, voi non sparate a noi, noi non spariamo a voi. Visto?» Puntò il fucile verso terra. «Forza, ragazzi» disse, e i suoi compagni infilarono le armi nelle fondine, sui fianchi, sulla schiena, sulla caviglia... erano armati fino ai denti. «Abbiamo trovato il nascondiglio - molto intelligente, è stato un colpo di fortuna - e deciso di aspettarvi, per fare la vostra conoscenza. Non capita tutti i giorni di scoprire un altro gruppo di ribelli.» Rise di gusto, soddisfatto. «Ma guarda che facce! Che? Pensavate di essere gli unici rimasti a darci dentro?» esplose in un'altra risata. Non ci eravamo spostati di un millimetro. «Mi sa che sono sotto shock, Nate» disse un altro uomo. «Li abbiamo quasi ammazzati di spavento» aggiunse una donna. «Cosa ti aspettavi?» Attesero impazienti una nostra reazione. Jared fu il primo a riprendersi. «E voi chi siete?» sussurrò. Il capogruppo rise di nuovo. «Io sono Nate, felice di conoscerti, e scusa se ti abbiamo spaventato. Questi sono Rob, Evan, Blake, Tom, Kim e Rachel, accanto a me.» Indicò i componenti del gruppo, e gli umani annuirono man mano che li presentava. Notai un uomo, in disparte, su cui Nate non si soffermò. Aveva capelli crespi di un rosso brillante, che spiccavano anche perché era il più alto del gruppo. Sembrava l'unico disarmato. Per di più, mi fissava curioso, e fui costretta a distogliere lo sguardo. «Ma in tutto siamo ventidue» aggiunse Nate. E allungò una mano. Jared trasse un lungo respiro e fece un passo avanti. Quando lo vedem-
mo muoversi, ci rilassammo tutti. «Io sono Jared.» Strinse la mano a Nate, e abbozzò un sorriso. «Questi sono Melanie, Aaron, Brandt, Ian e Wanda. In tutto siamo trentasette.» Quando Jared pronunciò il mio nome, Ian si spostò in modo da nascondermi alla vista degli altri umani. Solo in quel momento mi resi conto di trovarmi nello stesso pericolo, in cui sarebbero stati loro davanti ai Cercatori. Come pochi istanti prima. Cercai di restare perfettamente immobile. Nate fu stupito dalla rivelazione di Jared e sbarrò gli occhi. «Caspita, è la prima volta che qualcuno mi batte.» Toccò a Jared rimanere stupito. «Ne avete trovati altri?» «Per quanto ne sappiamo ci sono altre tre cellule, oltre alla nostra. Gli undici di Gail, i sette di Russel e i diciotto di Max. Siamo in contatto. Di tanto in tanto riusciamo persino a fare qualche scambio.» Di nuovo la risata. «La piccola Ellen, di Gail, ha deciso che voleva fare compagnia al mio Evan, e Carlos è andato con Cindy, che sta da Russell. E ovviamente, tutti hanno bisogno di Burns, quando capita...» Si interruppe di scatto e lanciò uno sguardo imbarazzato, come se avesse detto una parola di troppo. Il suo sguardo corse all'uomo dai capelli rossi nelle retrovie, che non staccava gli occhi da me. «Tanto vale che ne parliamo subito» disse l'uomo minuto e scuro accanto a Nate. Nate diede uno sguardo sospettoso al nostro piccolo schieramento. «Okay. Ha ragione Rob. Affrontiamo la questione.» Respirò a fondo. «Ora, rilassatevi e stateci a sentire. Con calma, per favore. Qualcuno potrebbe restarci male.» «Come sempre» mormorò l'uomo di nome Rob. La sua mano corse alla fondina all'altezza della caviglia. «Cosa?» domandò Jared imperturbabile. Nate sospirò e fece un cenno all'uomo dai capelli rossi. Quello avanzò, con un sorriso imbarazzato sulle labbra. Aveva le lentiggini, come me, ma erano migliaia. Talmente fitte che la sua pelle diafana sembrava più scura. I suoi occhi erano neri, o forse blu profondo. «Questo è Burns. È uno dei nostri, quindi non perdete la testa. È il mio migliore amico, mi ha salvato la vita un centinaio di volte. È uno di famiglia, e non ci piace che si tenti di ucciderlo.» Una delle donne estrasse lentamente un fucile dalla custodia e lo puntò verso la sabbia. Il rosso aprì bocca e per la prima volta parlò, con una voce tenorile, edu-
cata e distinta. «No, Nate, non preoccuparti. Vedi? Ne hanno una anche loro.» Indicò deciso me, e Ian si irrigidì. «A quanto pare non sono l'unico a essersi trasformato in un indigeno.» Burns mi sorrise, attraversò lo spazio vuoto, la terra di nessuno fra le due tribù, e mi offrì una stretta di mano. Io passai oltre Ian, e nella mia improvvisa sicurezza ignorai l'avvertimento che cercò di trasmettermi. Mi piaceva la definizione. Ero un'indigena. Burns si fermò davanti a me, chinandosi quanto bastava a compensare la notevole differenza di altezza. Presi la sua mano - dura e callosa, in confronto alla mia - e la strinsi. «Brucia Fiori Viventi» si presentò. Sbarrai gli occhi. Veniva dal Mondo di Fuoco... che sorpresa. «Viandante» risposi. «È... straordinario fare la tua conoscenza, Viandante. E dire che pensavo di essere l'unico.» «Ti sbagli» risposi, pensando a Sole, giù nelle caverne. Forse eravamo più numerosi di quanto pensassimo. Alzò un sopracciglio, incuriosito dalla risposta. «Davvero?» disse. «Be', vuol dire che c'è ancora speranza per questo pianeta.» «Che mondo strano» mormorai, più a me stessa che all'altra anima indigena. «Sì, il più strano di tutti.» FINE