K.W. JETER L'OSPITE (Dark Seeker, 1987) Prologo Le ore notturne venivano associate con l'Ospite, le cui apparizioni si m...
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K.W. JETER L'OSPITE (Dark Seeker, 1987) Prologo Le ore notturne venivano associate con l'Ospite, le cui apparizioni si manifestavano generalmente come una distorsione del campo visivo innescata dall'assenza di luce... Tyler chiuse il libro sui processi per omicidio. Non aveva più alcun bisogno, finché durava la memoria, di guardare le foto o leggere le parole che le attorniavano. Le medicine che prendeva servivano tanto a tenere alla larga il passato, quanto a impedire ai sintomi della droga... il gusto amaro in bocca, la luce blu che contornava gli oggetti nella notte, l'eccitazione che gli faceva pulsare più rapido il sangue nelle vene... dal rifarsi vivi... E a trattenere il sintomo finale, la visione che significava che era stato attirato in quell'altro mondo. L'Ospite. Innescata dall'assenza di luce... 1 Mezzanotte, ed era tardi. Tyler girò la mano che impugnava lo sterzo per poter vedere il quadrante dell'orologio. La luce azzurra saettava su e giù dalla sua auto mentre scivolava sotto i lampioni dell'autostrada. Le dodici e un quarto, più tardi di quanto pensasse. Aghi invisibili gli punzecchiarono la pelle delle braccia. Deviò la macchina verso la rampa d'uscita di Melrose Avenue, via dal torrente di fari che pulsava attraverso Los Angeles di notte. Le lancette dell'orologio strisciarono su un altro sottile segmento di tempo. C'era ancora il reticolo di strade fra cui districarsi, prima di trovarsi dentro il suo appartamento e svitare i tappi dei flaconi di plastica arancione pieni di farmaci. Immaginò pillole e capsule risuonare come piccoli gusci d'insetti rinsecchiti mentre scuoteva la sua dose delle dieci, presa in ritardo, nel palmo... Il semaforo in fondo alla rampa lampeggiò e cangiò in rosso, troppo lontano perché lui attraversasse subito. Frenò e si fermò. "Sei un topo addomesticato adesso" pensò tristemente divertito. "Forse stai andando dritto verso la pazzia, ma ancora non sai disobbedire a una luce."
Era più scuro fuori dall'autostrada... l'unica luce era quella che si spandeva dal bordo di cemento soprastante, e la bianca luminescenza ghiacciata di una stazione di servizio aperta non-stop, a pochi isolati di distanza. La radio dell'auto, non più mascherata dal rombo del traffico e dal motore della Chevy che si sforzava di tenersi al passo, sussurrò una musica lontana. Tyler la spense, lasciando che il silenzio colmasse l'auto insieme all'oscurità. Sentì, o immaginò, un acre sapore medicinale filtrargli nella saliva sotto la lingua. Ogni secondo che passava era come se un coltellino tagliasse via un altro frammento della torpida foschia sollevata dal farmaco. La luce cambiò in verde. Voltò a sinistra sulla Melrose. Il Santa Monica Boulevard sarebbe stato la scorciatoia più breve per il suo appartamento, ma non voleva trovarsi preso nel traffico che affollava quella via anche a quell'ora, con le auto che rallentavano per dare un'occhiata ai prostituti dagli occhi infossati che ciondolavano attorno ai posti illuminati. Meglio, e più rapido, uscire dal percorso, andare dove c'erano solo poche auto per strada. La parte oscura della città. Continuò a guidare, cambiando le marce e frenando, prendendo due semafori verdi, poi uno rosso. Il caldo vento del deserto che alitava dal finestrino abbassato dell'auto gli fece fremere la pelle, rendendo più acute le punture di spillo sottostanti. Nulla di tutto ciò... la corsa frettolosa, i primi fuggevoli sintomi del cessato effetto del farmaco... sarebbe accaduto, pensava Tyler, se avesse avuto il mucchietto di pillole e capsule avvolte nella stagnola che portava abitualmente in tasca. Avrebbe potuto fermarsi a qualunque stazione di servizio o negozio di liquori lungo la strada, comprare una lattina di Coca, e tracannarle avidamente fra i denti e poi in gola. Fin dove le pillole potessero richiudere tutte le piccole porte alla base della spina dorsale, per tener fuori la notte. Ma il pacchettino era là sul tavolo di cucina dove l'aveva lasciato. "Perché pensavi di avere un sacco di tempo" si disse, col piede sul freno, aspettando il segnale. Il vecchio cinema che gestiva giù all'altro capo di Wilshire aveva finalmente messo in cartellone qualcosa di decente. Il Macbeth di Welles e l'altra versione di Polanski. Era uscito dal suo ufficio dietro la vetrata del cassiere e si era messo a vedere entrambi i film, in fondo, dietro la sparuta folla di cinefili maniaci del giovedì sera. Non era rimasto nessuno per il secondo spettacolo di Welles, così era salito nella cabina del proiezionista a dirgli di fare i bagagli e tornarsene a casa. Si era gingillato con del pollo untuoso e flaccida insalata di cavoli al caf-
fè più vicino. E quand'era arrivata l'ora magica, le undici, e l'estremo limite del margine di sicurezza che si era concesso, aveva infilato la mano in tasca, l'aveva trovata vuota... e aveva sorriso della piccola cospirazione fra il suo subconscio e il suo corpo contro di lui. "Forse non c'entra neanche tanto il subconscio" pensò. Dall'altra parte dell'incrocio, una fila di prostitute si tenevano attentamente spaziate lungo il marciapiede buio. Quelle più vicine all'angolo si stagliavano contro la fioca luce che filtrava da qualche parte, dentro la vetrina smerigliata di un drugstore. Tyler le guardò aspettare, mentre attendeva il semaforo. Nessun'altra auto passò fra loro. Quand'era uscito la prima volta, dopo essere venuto a vivere in quella parte di L.A., aveva visto le donne in quell'angolo, chiedendosi perché non esercitassero il mestiere più su, sull'Hollywood Boulevard o sul Sunset, con le altre ragazze che lavoravano lì. Avevano tutte la stessa uniforme: tuta aderente, cintura e tacchi alti, con minuscole borse che pendevano loro dalle spalle. Ma guidare lì accanto un paio di volte, a tarda notte, era stato sufficiente a mostrargli che erano quelle che il tempo e la professione avevano invecchiato troppo precocemente per affrontare il neon brillante delle maggiori arterie d'abbordaggio e dragaggio. Avevano cambiato posto, un isolato dopo l'altro, mentre i loro visi si raggrinzivano e indurivano, fin laggiù, per incontrare clienti di minori pretese. La ragazza all'angolo fece scorrere lo sguardo per la strada e incrociò il parabrezza di Tyler. Una faccia che sembrava cadaverica, sotto una parrucca rigida di nylon, del colore delle suture chirurgiche disfatte. Un osso iliaco così sporgente che avrebbe potuto lasciare il segno sul palmo di una mano come il duro bordo di un tavolo da autopsia. Un gelido radar si fissò sul suo volto per un secondo, poi continuò a scrutare in un piatto arco la vuota superficie della terra, in cerca di clienti. Lui poté notare, come se la propria vista si fosse amplificata, i due occhi di vetro colorato della testa di serpente che le pendeva dalla scagliosa cinta metallica portata attorno alla corta gonnella. Il sapore medicinale era adesso più forte nella sua bocca, e gli fece arricciare la lingua. Una luce azzurra delineò i bordi dei negozi lungo la strada. Si domandò con quanta precisione la ragazza avrebbe calcolato la tariffa se fosse riuscita a riconoscerlo... una faccia uscita da giornali ingialliti di cinque anni prima. O se avesse pensato di correre un rischio maggiore che con la sua clientela usuale.
Si domandò in che valuta mercanteggiassero, che parole fossero impresse su quel denaro lurido, e quanto gli uomini pagassero per farsi fare certe cose. "È un pensare da pazzi." Un altro po' di medicamento doveva aver lasciato il circolo sanguigno. Ricominciavano i vecchi sintomi familiari, il gusto amaro che gli filtrava sotto la lìngua, il barlume blu elettrico attorno a oggetti scuri. "Toglitelo di testa" si disse, e concentrò con forza lo sguardo sul semaforo. Spostò le mani sudate sul volante. Appena prima che la luce cambiasse, una Mercedes spuntò dall'angolo davanti. Lustra e tirata a nuovo... il guidatore era ovviamente in grado di permettersi qualunque cosa desiderasse. Tyler lo guardò mentre rallentava e si fermava. La puttana all'angolo sbirciò nel finestrino della Mercedes, che scivolò giù. Salì a bordo mentre Tyler dava gas e attraversava l'incrocio. La Mercedes si allontanò da lui e fece una rapida svolta, tornando indietro dritto verso le Hollywood Hills. Poi la strada fu tutta dritta e buia davanti a lui, con le insegne luminose di ristoranti e teatri che sembravano solo rettangoli di colore inchiodati sul nero. Gli sembrò di poter allungare una mano e staccarli dallo sfondo, se avesse voluto. Il battito ai polsi e alle tempie continuò a scandire il tempo, incupendo la notte. Continuò a guidare, lasciando che l'impulso di immergersi sempre più nelle tenebre avesse il sopravvento. La lama sottile dello squillo del telefono le affondò nell'orecchio. Premette più a fondo finché il guscio nero del sonno non si aprì di colpo. Lei roteò il capo sul cuscino, assaggiando i propri capelli aggrovigliati sopra la bocca secca. Gli occhi le si spalancarono quando il telefono trillò ancora, con un frastuono idiota, dal pavimento accanto al letto. I contorni familiari della stanza... porta, armadio, cassettone... si confusero nell'oscurità quando lei si drizzò su un gomito. Le luminose lancette verdi della sveglia accanto al telefono formavano un angolo prossimo all'una del mattino. Un altro squillo fu mozzato in due quando tese il braccio e annaspò per afferrare la cornetta. Sperò che non avesse suonato tanto a lungo da svegliare suo figlio nell'altra stanza da letto. — Pronto? — Ancora mezza addormentata, con la lingua impastata ai denti, riaffondò nel cuscino, col telefono contro la guancia. Niente, all'altro capo... i secondi passarono ticchettando senza alcuna ri-
sposta. Stava per parlare di nuovo quando la voce le giunse all'orecchio. — Ciao, Linda. — Una voce d'uomo, che sembrava sorridere pronunciando quelle parole. Lei si irrigidì, alzando la testa nel totale silenzio della stanza. Gli ultimi refoli di sonno le scomparvero da dietro gli occhi. Nessuno !'aveva chiamata in quel modo, col suo vero nome, da cinque anni. Nessuno sapeva. C'era ancora la possibilità che fosse una coincidenza, qualche ubriaco che aveva fatto il numero sbagliato, cercando di attaccar bottone con qualcun'altra chiamata Linda. Il sangue le pulsò più forte in gola mentre avvolgeva entrambe le mani attorno al telefono e se lo portava più vicino alla bocca. — Mi spiace, ma... — Lascia perdere le stronzate, Linda. — Il sorriso era scomparso dalla voce. — So chi sei. — Poi tornò, con un tono sottile e tagliente. — E tu sai chi sono io. Anche con tutti gli anni trascorsi dall'ultima volta che aveva sentito quella voce, la riconobbe. I legami col passato si intrecciarono e si tesero, mentre una scarica di terrore le fece accapponare la pelle. — Slide — bisbigliò. — Giusto — la canzonò la voce. — Non bisognerebbe mai scordarsi degli amici, vero? Lei poté vederlo, come una forma notturna proiettata sullo schermo dei propri vacui pensieri. Da qualche parte, fuori dalla piccola casa, c'era la sua faccia scarna all'estremità di un altro apparecchio, coi fili ritorti che correvano come serpenti attraverso le centraline sepolte sotto L.A. fino al suo orecchio. Si tirò di più il lenzuolo sui seni, mentre i caldi venti di Santa Ana le sembravano ora freddi sulla pelle. — Che cosa vuoi? — disse. — Ah, non c'entra cosa voglio io. È quello che vuoi tu, Linda. Che cosa vuoi, Linda? — Ti prego. Slide... Non so cosa tu... Non... — Che cosa vuoi, Linda? — La voce continuò a tamburellarle all'orecchio. — Vuoi il tuo ragazzino? Lo vuoi il tuo ragazzino, Linda? — Slide... — Il gelo le affondò nelle carni. — Dov'è il tuo ragazzino, Linda? Dov'è il tuo ragazzino? Il lenzuolo cadde giù mentre si tirava fuori dal letto. Il telefono cadde con un botto sul pavimento, la voce, lontana e metallica, la seguì mentre usciva correndo nel salotto. — Dov'è, Linda? Dov'è il tuo ragazzino? La lampada illuminò di botto le pareti della camera da letto di suo figlio. Lei rimase impietrita sulla soglia, con la mano sull'interruttore, guardando
il letto vuoto, le lenzuola spiegazzate e ammassate ai piedi. Una fila di pupazzi in cima alla credenza, piccoli gnomi blu di un cartone animato del sabato mattina, le sorrìse dall'altra parte della stanza. Un aereo appeso a un filo roteava nel dolce filo d'aria che veniva dalla finestra aperta, mentre attraverso gli strati di vernice del davanzale apparivano i segni di qualcosa di simile a un cacciavite, fino al nudo legno sottostante. — Oh, Gesù. — Scosse la testa con una lenta torsione, mentre la morsa pulsante le serrava la gola. — No... — Fece qualche passo indietro, incapace di distogliere lo sguardo dalla stanza vuota. Poi si trovò a correre di nuovo per il salone, e nel buio sbatté una spalla al muro. Si inginocchiò a lato del letto, premendo il telefono contro la bocca. — Dov'è? Dov'è Bryan? Cinque anni prima, lei e gli altri del gruppo l'avevano chiamato martellamento... trovare la domanda giusta, la più crudele, e ripeterla senza posa, come un colpo dopo l'altro. — Dov'è il tuo ragazzino, Linda? — Il tono sardonico poteva mutarsi in risata da un momento all'altro. — Slide... ti prego... — Dov'è il tuo ragazzino, Linda? Lei si afflosciò sotto i colpi, raggomitolandosi a palla mentre si inginocchiava per terra, col telefono stretto spasmodicamente tra le mani. La linea era come un tubo cavo fino alle tenebre da cui usciva la voce. — Dov'è il tuo ragazzino, Linda? — Ti prego... — Quel sospiro interruppe i singhiozzi che le scoppiavano in gola. Un gusto umido e salato le strisciò sull'angolo della bocca. — Dov'è? Il martellamento cessò, il suo compito era finito. — È una domanda stupida, Linda. Ce l'ho io, è ovvio. Non preoccuparti. Mi prenderò cura proprio bene di lui. Proprio bene. — No... — I capelli le ricaddero sul viso, e le estremità sfiorarono il pavimento. — Non... Qualunque cosa tu voglia... Posso pagarti... La voce al suo orecchio cambiò, fingendo gentilezza. — Ma tu non hai niente che voglio, Linda. Non più. — Ti prego, Slide... — Non saresti dovuta fuggire via, Linda. — Di nuovo durezza. — Mi c'è voluto un lungo tempo per trovarti. Ma ci sono riuscito. E adesso sei tagliata fuori, Linda. Fino in fondo. E non tornerai più dentro di nuovo. Poi la voce se ne andò, il telefono divenne un oggetto morto di plastica e
cavi tra le sue mani. Uno stolido segnale di libero ruppe quel silenzio. — No — gemette lei, lasciandolo cadere. Il telefono le colpì il ginocchio e scivolò per terra, con quel suono da insetto che usciva dal gruppo di minuscoli forellini neri. Lei si afferrò le gambe e strinse, affondandosi le unghie nella carne. Il dolore le rimise in sesto i pensieri. Il respiro ansimante era come un bruciore freddo tra i denti. Si alzò e si scostò dalla faccia umida i capelli aggrovigliati. Altre persone, altre donne i cui figli venivano rapiti, potevano chiamare la polizia; lei no. Restò a fissare il telefono accanto ai piedi scalzi. Anche se la polizia avesse trovato Slide... e non c'era riuscita in cinque anni... e preso suo figlio, non le avrebbero più riportato Bryan. Non nel genere di posto dove l'avevano messa. Avrebbe perso suo figlio in ogni caso. Si abbassò fino al bordo del letto, poi tese la mano verso il telefono e se lo accomodò in grembo. Il silenzio la avvolgeva tutta quando premette il bottone per interrompere il ronzio dell'apparecchio. Sapeva a memoria il numero del suo ex marito, sebbene non l'avesse mai chiamato prima; l'aveva trovato, con quel nome che un tempo faceva parte del suo, nel libro, e aveva lasciato che le si incidesse nella memoria. Ora lentamente prese a schiacciare i tasti. Prima che le dita tremolanti facessero in tempo a comporre le prime due cifre, udì le voci sulla porta anteriore. Restò paralizzata ad ascoltare. Poi il suono del sottile legno attorno ai cardini che si spaccava. Infine le voci furono più forti, e dentro. Lasciò cadere il telefono, corse in corridoio, e vide, mentre le luci divampavano, le uniformi della polizia che stavano nella stanza anteriore. Le facce soprastanti la guardarono di rimando. — Linda Tyler? — disse l'uomo più vicino. La porta della cucina era bloccata da un altro agente arrivato dal retro. Si appoggiò allo stipite, riempiendo il vano mentre la osservava a braccia conserte. Lei si girò di nuovo verso la porta d'ingresso, poi annuì senza una parola. Slide aveva loro detto dov'era... lo immaginava. Prima le misero le manette, poi le drappeggiarono sulle spalle la veste trovata appesa all'interno della porta della stanza da letto, e lei riconobbe il volto del più anziano presente nella stanza. Non aveva indosso un'uniforme di polizia blu cupo, ma lo stesso frusto abito scuro che ricordava da cinque anni prima. Tutti i pezzi del passato stavano fuoriuscendo dalla memoria, per formarle intorno un solido muro infrangibile.
— Ciao, Linda — disse. — Un bel po' di tempo. — La sua faccia era solcata da rughe più profonde, ma era ancora larga, e senza sorriso. Anche il suo nome le tornò in mente. — Kinross — disse lei. Si tese verso di lui, con le mani legate dietro la schiena, mentre uno degli agenti le teneva facilmente le manette per una catenella. — Ha preso lui il mio bambino. L'ha preso Slide. Lui la scrutò di rimando per un momento, poi si voltò e spintonò gli altri per passare dalla porta. Le lacrime di Linda proruppero e scorsero via mentre la spingevano, il più gentilmente possibile, fuori nell'oscurità. Coi gemiti di terrore della donna che gli echeggiavano ancora nell'orecchio, lui sorrise e riappese il telefono pubblico al suo gancio cromato. Era stato divertente, decise. Non necessario, ma divertente. Aprì con uno strattone la porta di vetro della cabina e uscì fuori, nella calda aria notturna. Il bambino sull'auto lo osservò attraversare quei pochi metri d'asfalto, in una stazione di servizio deserta. Scivolò dietro il volante e il sorriso gli si allargò mentre allungava la mano per accarezzare i capelli del piccolo. — Voglio andare a casa. — Il bambino si fece piccino per ritrarsi da quella mano, con gli occhi sgranati e fissi sul volto dell'uomo. — Certo — disse lui, sfiorando le soffici ciocche sulla fronte del bimbo. Gli occhi dei bambini sembravano sempre così grandi, con ciglia simili a minuscole setole morbide. Infilò la chiave nell'accensione e la girò. — Ti porterò in un bel posto simpatico. Un posto simpatico dove starai al sicuro. Va bene? Il ragazzino non disse nulla, continuò solo a fissarlo mentre sterzava per uscire dal parcheggio buio e tornare sulla strada. Circa all'una del mattino Tyler giunse a casa. Trovò un posteggio abbastanza largo per infilarci la Chevy a mezza strada dall'isolato. Fatta scivolare la chiave in tasca camminò verso il blocco d'appartamenti all'angolo. Oltre Fountain poté ammirare senza ostacoli le luci brillanti e il lento traffico del Sunset. Pochi isolati dietro di lui i gay-bar di Santa Monica continuavano l'attività fino alle due, l'ora di chiusura, e la musica talmente forte da far sobbalzare, in chiave di basso, filtrava fuori sul marciapiede ogni volta che le spesse porte imbottite si aprivano e chiudevano. Nella stretta zona di vecchi appartamenti fra le due strade rilucenti di neon, era tutto buio e quieto. Le fronde secche di alberi affusolati frusciavano nel vento del deserto.
Guardò in alto e vide il luminoso profilo blu attorno agli edifici. Il sapore medicinale era più forte e più acre nella sua bocca; poteva spingersi sempre più nell'oscurità se avesse voluto, e non sarebbe mai giunto alla fine. Le strade buie avrebbero continuato a biforcarsi l'una dall'altra, con donne dagli occhi spenti a sorvegliare ogni angolo oltrepassato. Poteva ignorare la notte adesso. Il peggior pericolo era passato mentre era sull'auto... la tentazione, l'istinto di girare lo sterzo e seguire le tenebre ovunque lo portassero, oltre gli angoli più bui e le puttane e i loro clienti, spingendosi ancor più lontano dalla luce di quelle viste laggiù. Mosse un passo fuori dal marciapiede, su un sentiero che si dipanava tra filari d'edera troppo cresciuti. Qualcosa di piccolo, con occhi simili a puntini rossi, se la svignò tra il fogliame morto del cortile. Stephanie lo stava aspettando sopra, nell'appartamento. Poté vedere la luce del soggiorno riversarsi in corridoio quando chiuse la porta. Il grembiule da cameriera giaceva sul tavolo da caffè, con le profonde tasche appesantite dalle monete e dai biglietti da un dollaro delle mance. I suoi piedi erano appoggiati sull'orlo del tavolo, e il grosso testo d'anatomia di una delle sue classi le stava in grembo. Una Corvette rossa in miniatura, che aveva montato per il figlio di lei, Eddie, di quattro anni, aveva corso fino a fermarsi sul bordo del divano. — Ehi — disse lei. — Mi stavo preoccupando per te. Lui la oltrepassò. — Lo so. L'ho lasciato sul tavolo. Lei rimase sulla soglia della cucina e lo osservò mentre faceva scorrere un bicchier d'acqua, poi dispiegava il quadratino di carta stagnola che conteneva pillole e capsule. Una specie di battuta: — È l'ora della medicina, Mike — disse, sorridendo. Forse solo per il sollievo. — No, piccola. — Fra indice e pollice tenne una delle capsule, blu a un'estremità, bianca all'altra. — Non è una medicina. La medicina ti fa star bene. — Si posò la capsula sulla lingua e sentì il rivestimento cominciare a dissolversi. Steff lo osservò inghiottirla, e poi tutte le altre, in una sola manciata. Spaparanzato sul letto, Mike sentì le droghe penetrare lentamente nel suo flusso sanguigno, mentre la notte si mutava in semplice assenza di luce. Di profilo sulla soglia del bagno, Steff si aprì i bottoni della blusa. Le sostanze chimiche dissolsero la sua stanchezza. Girò la testa sul cuscino, chiudendo gli occhi, e attese che l'assenza di luce diventasse assenza di sogni.
2 Il traffico dell'ora di punta che al mattino gli risuonò nella testa, un gran vento metallico che vibrava lungo i piloni di cemento fin nella nuda terra del suo rifugio, lo risvegliò dal sonno in cui si era strettamente raggomitolato. Brutti sogni: il rombo delle auto e dei camion si era lentamente accresciuto nella prima luce, come proiettili d'artiglieria che cadessero sempre più vicini sui campi rischiarati dai traccianti. Aprì un occhio e vide, alle sue spalle curve, il sole scivolare come una lama attraverso il sottopassaggio, con una luce rossa sufficiente a destarlo di colpo. Il retro del suo vestito strisciò sul ruvido fondo di cemento sopra di lui mentre si affannava a rizzarsi sulle mani e sulle ginocchia, fissando il bagliore riflesso dai parabrezza allineati che si inerpicavano su per una rampa lontana. Per un momento gli si mozzò il fiato, poi ricordò dove fosse. Si rotolò sul dorso, grato per il buchette che si era scavato in cima al cumulo di terriccio che formava un pendìo sotto «il viadotto dell'autostrada; grato per il mucchio di stracci odorosi del proprio sudore; grato per quella piccola casa, non più ampia delle sue braccia allargate, vicino al cuore della città. Alzò un dito e seguì le bianche lettere irregolari del nome scarabocchiato sul soffitto di cemento: JIMMY. L'aveva scritto lui stesso, steso sul dorso, con un polveroso pezzo di gesso che aveva trovato fuori dal cancello del cantiere di manutenzione sotto l'autostrada. Attraverso il polpastrello, fermo alla fine della Y, poté sentir vibrare il peso della marea di traffico che attraversava la luce mattutina del mondo di superficie. Un ampio strato di cemento intrecciato d'acciaio fra lui e il fracasso di quelle forme metalliche... era più al sicuro lì sotto le ruote delle auto, che frugando tra i rifiuti ai bordi della strada, in cerca di lattine d'alluminio da appiattire e aggiungere al suo sacchetto di carta. Se ne sarebbe potuto stare in quel buco comodo e sicuro, se non per le fitte della fame che gli avanzavano sotto le costole. — Ooh, forza, Jimmy — mormorò fra sé, pregustando la sua colazione a occhi chiusi. Il giorno prima aveva fatto il colpo gobbo, sobbarcandosi tutta la strada fino al Safeway di Hollywood, e giungendo all'ora precisa in cui scaricavano la roba molle e avvizzita nei contenitori dietro il negozio. Si era arrampicato proprio dentro il gran cassonetto verde, attento a dove metteva i piedi per timore di spiaccicare preziosa roba da mangiare. Razzolando fra le scatole di cartone appiattite e la carta fradicia e spiegazzata, si era imbattuto in
quasi una dozzina di pomodori, con la buccia che iniziava appena a raggrinzirsi e spaccarsi, più due meloni scuri da un solo lato. La pannocchia che aveva trovato ancora nella buccia era inutile... si doveva cuocere per mangiarla. E le molli teste di lattuga che si era lasciate dietro... poteva benissimo mangiarsi la fottuta carta, per quanto gliene importava. Aveva dovuto togliersi il giubbotto di cotone per avvolgere e portarci dentro tutti quei tesori, e il succo dei pomodori era filtrato dal tessuto macchiato d'olio. Quando si era arrampicato fuori dal cassonetto del supermercato, aveva trovato una minuta vecchietta coi capelli grigi crespi e gli occhi deformati dagli spessi occhiali, che lo guardava. Una mano tutt'ossa, chiazzata di scuro, stringeva il manico di un carrello a due ruote, del tipo che tutte le vecchie signore usano per fare la spesa. Dopo aver richiuso il fagotto e mentre si affrettava ad andarsene, si era guardato alle spalle e l'aveva vista sforzarsi inutilmente di sbirciare dall'orlo del contenitore. Le fitte allo stomaco si fecero più acute, per tutta la saliva inghiottita. Giacque sul dorso giocando con quella sensazione, come uno che facesse scorrere il pollice sul filo di un coltello. Era bella la fame, la più godibile sensazione della sua vita, quando sapeva di avere qualcosa da mangiare messo da parte. Aveva nascosto la sua scorta lontano dal nido; a volte, se altri ti trovavano mentre stavi dormendo, ti puntavano un rasoio in faccia per prendersi qualunque cibo avessi, o si limitavano a spaccarti la testa e farti rotolare giù dal cumulo di terriccio. Meglio, sapeva, dormire in un posto e tenere la roba in un altro, anche se non ci si poteva tenere gli occhi addosso. C'era gente davvero fuori di testa sotto le autostrade di quei tempi. Rotolò sul ventre e sbirciò oltre il bordo della stretta tana per vedere se qualcuno fosse venuto a bighellonare sotto il cavalcavia. Nessuno in nessuna direzione. Il terriccio gli scivolò sotto i piedi mentre scendeva giù dal pendìo, tenendo una mano indietro per mantenersi in equilibrio. Il fine ronzio elettrico della sveglia, col suo suono distante, faceva sempre una lieve pausa appena prima di iniziare a squillare, come se tirasse il fiato per lanciare lo stridulo urlo metallico. Quella piccola breccia nel tessuto della notte... il vento e il traffico fuori, il lento respiro di Mike al suo fianco... fu ciò che fece ridestare Steff. Di solito riusciva a estrarre una mano da sotto le coperte in tempo per premere il bottone sul retro, spegnendo la suoneria prima che scattasse.
Quel mattino la lasciò trillare, levando lo sguardo al soffitto della stanza da letto mentre il frastuono si levava tra la fioca luce che filtrava attraverso le persiane della finestra. Voltò la testa sul cuscino e guardò Mike. L'allarme non l'aveva svegliato, come sempre. Proseguì a dormire, con la bocca lievemente aperta da cui usciva un fiato corto e sussurrante. Qualche volta, quando lei lo osservava dormire, sembrava che avesse smesso del tutto di respirare, come se infine il farmaco gli avesse prosciugato il sangue dalle vene, mutando il suo sguardo in una cerea maschera mortuaria. Ora, se si svegliava nel cuore della notte, non accendeva più la lampada accanto al letto, preferendo invece limitarsi a vedere il profilo di Mike di fianco al suo, nel buio. La sveglia continuò a squillare. Lei si tirò su, sedendosi contro la spalliera del letto, tese una mano e spense la suoneria. Restarono il suo respiro e quello... debole... di Mike, in ciò che a Los Angeles passava per silenzio, il suono del traffico lontano. Erano passati cinque minuti sul quadrante dell'orologio dal momento in cui avrebbe dovuto alzarsi e fare la doccia, preparandosi per la prima lezione. "Che si fottano" pensò, tirandosi il lenzuolo sul petto. Fuori, le auto affollavano già Fountain e Santa Monica, sciamando fra i segnali stradali verso le torri d'uffici di Century City in una direzione, e verso le rampe d'accesso dell'autostrada o la periferia nell'altra. Poteva permettersi un altro paio d'ore di sonno prima di arrischiarsi a guidare fino all'università con la Toyota dalla frizione lenta e i cuscinetti dei freni logori. Nella bocca, il retrogusto salmastro delle due cuccume di caffè che si era scolata la sera prima mentre studiava le ricordò: oggi esame. Non nella prima classe, ma in quella di fisiologia, alle undici. "Grazie a Dio" pensò, strizzando gli occhi chiusi sotto il suo avambraccio... Comunque doveva andarci, e portare il bambino all'asilo nido. Anche se avrebbe piuttosto preferito rannicchiarsi contro il tepore di Mike, e sincronizzare il proprio respiro col suo, gettò le gambe nude a fianco del letto, scostando con un calcio gli abiti della notte prima ammonticchiati per terra. — Su. — Nella stanza di Eddie scosse la spalla della piccola figura sotto la coperta. — Su, su, su. — Lui seppellì la faccia nel cuscino, così lei capì che l'aveva sentita. Nella doccia alzò il viso verso il getto, lasciando che i rigidi spruzzi d'acqua le sciacquassero la stanchezza della notte da sotto le palpebre chiuse. Asciugandosi i capelli che le ricadevano a cascata tra le scapole, umidi
fino a diventar quasi neri, poté vedere il viso di Mike nell'angolo dello specchio della credenza. Sempre nella stessa posizione, pallido, davanti al portapillole bianco. Il rumore dell'acqua corrente non l'aveva svegliato, e neanche quello dell'asciugacapelli acceso. Sembrava più vecchio quando dormiva. Lei continuò a fissarlo mentre il getto d'aria le avvolgeva i capelli intorno alle dita. Molto più vecchio degli anni che li separavano; l'unica volta che era venuto a prenderla all'università, dato che la batteria della Toyota si era scaricata, più tardi qualcuno le aveva chiesto se aveva appuntamento con uno dei suoi insegnanti. E aveva solo trent'anni e qualcosa... appena dieci anni di differenza. "Chiunque lo chieda, la prossima volta dirò che è mio padre." — Ecco qua. — Versò il latte in cima ai cornflakes davanti a Eddie, e rimise il cartone in frigorifero. Mentre lo guardava mangiare, con lo sguardo rapito e fisso sulla Corvette giocattolo posata sul tavolo, lei si appuntò i capelli dietro la testa in una spira. Le avrebbe risparmiato tempo... doveva recarsi direttamente dalla classe al lavoro. Ne avrebbe risparmiato di più se ancor prima di uscire si fosse abbigliata da cameriera... gonnella nera corta, grembiule bianco, scarpette a cuscino d'aria che riuscivano quasi a trattenere il dolore dal salirle per le gambe alla fine del turno... e avesse fatto ingresso in classe in quel modo. "Le avrebbe lasciate di stucco" pensò. Certe studentesse figlie di papà avrebbero probabilmente voluto sapere dove aveva comprato quel grazioso abitino, comunque. — Mike è alzato? — chiese Eddie speranzoso. — No. E non entrare da lui. Dobbiamo decollare. — Si infilò la blusa nei jeans, poi raccolse la roba da cameriera dal pavimento accanto al letto e la ficcò nella sua borsa portatutto... poteva cambiarsi nella toilette per signore del ristorante. Con libri e appunti impilati in cima al grembiule bianco, tornò di nuovo nella stanza da letto. Nessuna reazione da Mike quando si chinò a baciarlo. Qualunque sogno stesse attraversando, al passo o di corsa, era chiuso sotto la sua faccia dormiente, mentre l'intruglio di pillole che aveva nel sangue lo faceva sprofondare ancora di più sotto le onde del battito cardiaco. "Finisci la scuola di medicina" disse a se stessa, abbassando lo sguardo su di lui. "Finiscila tutta, mettiti nella ricerca, ottieni la più grossa borsa di studio mai elargita, e trova la cura per lui." La pillola per metter fine a tutte le pillole; la cura per il passato. Sarebbe stato già sufficiente a farle smettere di tenere in equilibrio piatti caldi sul braccio, e spedirla dritta verso il premio Nobel. Almeno.
— Merda — esclamò a voce alta, dopo aver visto l'orologio. Eddie levò lo sguardo su di lei, con le dita che lottavano testardamente con un bottoncino della giacchetta. Era trascorsa più di mezz'ora... avrebbe dovuto volare adesso. Spingendo suo figlio davanti a sé, si diresse nel corridoio, afferrando la borsa a metà percorso. Il giornale del mattino era fuori dalla porta. Lo raccolse e lo gettò dentro. — Andiamo — disse, tirando fuori le chiavi della macchina. — Stiamo facendo tardi. Tyler capì di essersi svegliato prima di aprire gli occhi. Quel sonno tossico era evaporato dal suo sangue, le forme all'esterno dell'appartamento si erano materializzate, rese solide e reali dal brillante sole di L.A.; lo sapeva. Tenne gli occhi chiusi, e sentì la propria saliva acida per aver respirato a bocca aperta. Il lenzuolo steso sul petto saliva e si tendeva a ogni lenta inalazione. "Su, tirati in piedi" si disse dopo qualche minuto, misurato col suo respiro. "Tira il culo giù dal letto, vestiti, trova qualcosa da mangiare"... era quello che doveva fare, se fosse riuscito a risollevarsi dall'inerzia letale che gli paralizzava le braccia. Si domandò che ora fosse... doveva solo aprire gli occhi e girare la testa sul cuscino per scoprirlo. Ma ciò avrebbe significato acconsentire a star sveglio. Per quanto fosse sgradevole... tutto il tempo aveva avuto informi sogni in cui si sentiva soffocare, il risultato dell'effetto depressivo delle droghe sul suo centro respiratorio... preferiva il sonno alla veglia. "E la notte al sonno. Quell'altra notte... basta così." Quei pensieri inopportuni si spensero di scatto. "Non cominciare nemmeno." Rotolò su un fianco e raccolse la sveglia dal comodino, tenendola vicina perché aveva la vista confusa. Le lancette indicavano quasi mezzogiorno. Un piccolo grumo di fame si sciolse nel suo stomaco. Doveva fare colazione. In più c'era quell'altra ragione per alzarsi, per tornare al tempo scandito dall'orologio con le ore ben separate e il lento avanzare dei meccanismi interni... la fila di flaconi di medicinali, in plastica arancione, allineati sulla credenza in cucina. Dopo l'errore della sera prima... "oh, un incidente? Davvero? Sta' zitto, sta' zitto"... doveva essere più cauto, rimettersi in carreggiata e rispettare attentamente le scadenze ogni quattro ore, per prendere le medicine. Camminando su una corda tesa, per mantenere il giusto livello di prodotti chimici nel suo sangue, e la luminescenza notturna saldamente sotto controllo.
Un'altra faccia l'aveva guardato da dietro quella della prostituta. Una che ricordava da molti anni. Una che aveva visto solo di notte. Gettò da parte le coperte sudate. Nel bagno si spruzzò acqua fresca sul viso... il palazzo era tanto vecchio, e i tubi sepolti tanto a fondo, che l'acqua scorreva sempre fredda per quanto si facesse caldo il giorno... finché non gli pizzicò la pelle, e lui ansimò in cerca di respiro. Chinatosi sul lavello, mentre l'acqua gocciolava in un rivoletto lungo la nera barba ìspida, osservò il tremito dell'angolo di una palpebra, un tic familiare di quel muscolo sottile. Ora la faccia nello specchio era pienamente sveglia. Comunque fosse, il suo senso del tempo, i piccoli orologi biologici che ticchettavano dentro di lui, erano tutti fuori fase. Si era svegliato ansante quando le prime tracce di luce mattutina si erano infiltrate in camera da letto... doveva essere stato prima delle sei. Steff era ancora addormentata al suo fianco, raggomitolata con la guancia sull'avambraccio. Si era alzato su un gomito e l'aveva guardata. Il profilo dormiente e l'orlo di un sopracciglio nero erano contornati dalla traccia di un'altra luce, una fine scintilla di quel blu elettrico che aveva visto attorno agli edifici mentre guidava verso casa. Come se il suo sangue avesse esaurito la solita dose di farmaco e lasciato che la visione notturna iniziasse a riaffiorare. Nel buio e in silenzio aveva raggiunto la cucina, rotto uno dei piccoli barbiturici in due, e ne aveva inghiottito metà. Ciò era stato sufficiente a farlo sprofondare nel nulla per qualche altra ora; un vacuo intontimento si era impadronito di lui mentre giaceva ad ascoltare il respiro di Steff, finché non poté udirlo più. Di nuovo in cucina, con l'acqua sul petto nudo che si asciugava al calore della finestra, pulì la caffettiera dai fondi di caffè e vi mise un filtro di carta nuovo. Mentre aspettava che la fiamma del fornello portasse il bricco a ebollizione, cominciò ad approntare la sua dose di mezzogiorno, allineando pillole e capsule sul bancone. "Fai il bravo ragazzo." Sarcasmo per niente umoristico. "Prendi la tua medicina." Il telefono squillò mentre richiudeva l'ultimo coperchio di plastica. — Pronto? — Tyler alzò il telefono dal muro accanto alla soglia della cucina. Il bricco cominciava a fare il suo borbottio preliminare. — Mike... come te la passi? — Una voce familiare venne dalla cornetta. — Sono Bedell. Avrebbe dovuto aspettarselo. Erano passate un paio di settimane dall'ultima chiamata, qualcosa che aveva a che fare con certi diritti di ristampa tedeschi che erano arrivati, e la quota spettante a Tyler. A Bedell piaceva
tenersi in contatto, che ci fosse qualche concreta ragione per chiamare o no. Come se fra loro ci fosse un'amicizia di vecchia data, e non solo il libro. — Ciao, Bedell — disse Tyler. Alzò una spalla per reggere il telefono. Il borbottio del bricco si era mutato in un fischio di vapore. — Ehi, Mike, sto chiamando perché... — La sua voce aveva il solito tono affaccendato, come se avesse mille cose da fare. — Quello che voglio sapere è, uh... hai visto il giornale di oggi? — Il tono di Bedell si fece malizioso, e un po' intrigante. I fondi di caffè si scurirono mentre versava l'acqua sibilante nella tazza di vetro della caffettiera. — Che giornale? — Ehi, un giornale qualunque, amico. Il Times. Lo prendi il Times? — Sì, lo compro. — Steff gli aveva fatto fare l'abbonamento dopo che l'aveva interrogato su cose come il nome del vicepresidente e lui aveva fatto fiasco. Ora stava attento ad aprire sempre il giornale e sfogliarlo alla rinfusa sul tavolino da caffè, che lo leggesse o no. — L'edizione del mattino? Gli hai dato un'occhiata? — Mi sono appena alzato. — Hmmm... "Non farmi quel verso, stronzo" pensò Tyler. "Non sei né un poliziotto, né il mio strizzacervelli, né nient'altro. Va' solo affanculo." Osservò la fine pioggerella di caffè spargersi sul fondo della tazza di vetro, e attese. — Be', comunque — continuò Bedell — dai una guardata al Times di stamattina. Pagina, uh... — Si udì in linea il suono del fruscio della carta. — Pagina tre. Sezione cronaca. — Perché? — Penso che lo troverai interessante. Buona caccia al mistero. Ti richiamerò quando avrai avuto occasione di leggerlo. "Cristo" pensò Tyler mentre riappendeva la cornetta. Massaggiandosi la fronte con una mano, come se i residui di sonno fossero una pelle morta che si poteva sfregare via, camminò verso la stanza anteriore. Trovò il giornale sul pavimento del corridoio. Steff doveva averlo gettato lì prima di andarsene. Aprì il giornale sul tavolo di cucina, attento a non toccare la fila di medicinali o la tazza di caffè che si era versato. Un tremito della mano quando alzò la tazza gli scottò il labbro e cosparse di macchioline scure la prima pagina. La cronaca locale di L.A. era nella seconda sezione del giornale. La e-
strasse e la aprì a pagina tre. Per qualche secondo tutto ciò che vide fu la pubblicità dei grandi magazzini Broadway che riempiva quasi l'intera pagina. Poi il titolo dell'articolo di testa: ARRESTATO MEMBRO DEL GRUPPO DI WYLE. Più sotto, L'adepta del gruppo satanico sfuggiva alle autorità da cinque anni. I puntini neri e grigi della foto si fusero a comporre la faccia della sua ex moglie. "Che io sia dannato" pensò. Si lasciò cadere sulla sedia e bevve un lungo sorso dalla tazza, senza curarsi se il caffè scottava. Il nome del titolo, che gli era familiare quanto il proprio, e il volto che lo guardava dalla carta stampata arrestarono gli spasmi che gli correvano nei nervi a casaccio, e resero ferma la sua mano. "L'hanno presa. L'hanno presa davvero." Si chinò sul giornale, appiattendo la piega con le mani. La foto di Linda era vecchia, probabilmente rispolverata dagli archivi del Times; Bedell l'aveva usata nella parte fotografica del suo libro. Anche i granulosi puntini dell'immagine mostravano i suoi occhi fissare duri e freddi l'obiettivo del fotografo che l'aveva ritratta alla prima comparsa in giudizio cinque anni prima... coi capelli, una curva di solido inchiostro nero, che attraversavano l'alto rilievo del suo zigomo. "Hai avuto ragione a prendere il largo" disse all'immagine piatta della sua ex moglie. Era il tipo di foto che faceva gridare a morte una giuria; una sola occhiata e l'avrebbero messa sotto ghiaccio. "Forse saremmo finiti in stanze adiacenti nel reparto psichiatrico." Un macabro sorriso gli increspò gli angoli della bocca. "Potevamo essere lì adesso, più pazzi della merda. Se non ero ancora fuori di testa a quel tempo, lo sarei stato presto." Si rese conto che era rimasto a fissare la foto sul giornale per diversi minuti quando il telefono squillò ancora. Portandosi al telefono la pagina piegata, diede una rapida occhiata al testo dell'articolo. LINDA TYLER, FIGURA CHIAVE NEGLI OMICIDI SATANICI DEL "GRUPPO DI WYLE" COMMESSI A METÀ DEGLI ANNI '70, È STATA POSTA SOTTO CUSTODIA LA MATTINA DI MARTEDÌ, SECONDO UN PORTAVOCE DEL DIPARTIMENTO DI POLIZIA DELLA CONTEA DI LOS ANGELES. LA TYLER, 35 ANNI, È STATA ARRESTATA A EAST HOLLYWOOD IN UNA DELLE NUMEROSE CASE CHE AVEVA AFFITTATO NELL'AREA DI LOS ANGELES DAL...
Lo squillo del telefono si interruppe quando lo alzò. — Sì, Bedell — disse, ancora leggendo. Sapeva in anticipo chi fosse. — Che ne pensi di questo? Te l'avevo detto che era interessante. Tyler lasciò che un attimo di silenzio si traducesse in una scrollata di spalle. — Così l'hanno presa. Era destino, alla fine. La voce di Bedell si fece più bassa, astuta. — Riporta il Gruppo di Wyle agli onori della cronaca. È un buon aggancio. Lui sospettò dove volesse arrivare. Abbassò il giornale, e il suo sguardo corse attraverso il soggiorno verso il brillante riquadro di luce solare che era la finestra. — Aggancio per cosa? — Non lo so... qualunque cosa ti interessi — disse disinvolto. — Un articolo di rivista, magari qualcosa per California. Cristo, il New Yorker. Forse perfino un altro libro. Farò rimbalzare la proposta presso un paio di editori. Vedrò a quanto potrà arrivare l'acconto. — Libro? — Tyler chiuse gli occhi, scuotendo stancamente la mano. — Sul Gruppo di Wyle... non abbiamo già succhiato sangue dalle rape? Uno è abbastanza, per l'amor del cielo. Poté quasi vedere la faccia dell'altro farsi paonazza per averlo contraddetto. — Su quel che ne è stato del gruppo — disse Bedell. — Tu e qualcuno degli altri. E Linda, ora che l'hanno presa. Dovrebbe ridestarsi un sacco di interesse nel pubblico. Tyler abbassò di nuovo gli occhi sul giornale. — Splendido — disse. TRATTENUTA SENZA CAUZIONE. — Ti faccio i miei auguri. Arrivederci sulla lista dei best-seller. — IMPUTATA DELLE ACCUSE DI... Bedell abbassò la voce, serio. — Pensavo che ti andasse di cooperare. Come l'ultima volta. Si sentiva stanco ora, come se il filo ritorto del telefono gli fosse penetrato nel cuore, dissanguandolo di ogni stilla. — Ehi... fatti fottere, Bedell. Non ho più bisogno di soldi da te. E la gente non ha bisogno di sapere dove sono, che faccio, niente. Sto solo svanendo, amico. Sul viale del tramonto. Sta bene? Così scriviti quel libercolo senza di me. — Non è per te, Tyler. Nessuno vuole davvero sapere di te, comunque. Mi occorre il tuo aiuto per qualcos'altro. Lo sapeva, aveva capito dove sarebbe arrivato, da quando il giornale aveva tracciato il confine fra la prima telefonata e quell'altra. — Vuoi che mi metta in contatto con Linda. Che le parli. La interroghi per te. — Una volta eri sposato con lei, amico — rispose Bedell. — C'eri dentro anche tu.
— Fatti fottere. — Tyler gettò il giornale in un angolo del divano. — Lo sai qual è il tuo problema... scrivi queste cose, ma non credi che sia vero niente. È solo roba buona per un libro. Vai all'inferno. Dovrai riesumare i cadaveri per conto tuo. — Ehi... Tyler... Lui riattaccò la cornetta, stringendo la rigida plastica bianca finché le vene della gola non smisero di pulsargli poco a poco, rallentando insieme al suo respiro. In cucina, col bicchiere d'acqua in mano, Tyler raccolse le pillole dal tavolo a una a una. "East Hollywood" pensò mentre le capsule gli scivolavano giù per la gola. "È stata da quelle parti tutto il tempo. Facendola sotto il naso a chiunque." Ammirò il piccolo, astuto animale dai denti aguzzi che si poteva vedere negli occhi della foto sul giornale. Non c'era quando lui e Linda si erano sposati; era cresciuto fino a prendere l'iniziativa, sbirciando fuori dalla tana dietro le cavità oculari. Wyle aveva fatto ciò... una delle sue tante imprese. Facendo girare nel bicchiere l'ultimo centimetro d'acqua, si mise a sedere sul divano, lisciò il giornale, e lesse il resto dell'articolo. Un altro nome uscito dal passato catturò il suo sguardo. "Così c'era il vecchio Kinross, pure." Il giornale diceva che era in pensione, ma con le mansioni di consigliere speciale dello sceriffo della contea. "Il passato non ti molla facilmente" pensò, con un sottile sorriso. "O puoi mollarlo tu?" L'aria del deserto, il primo Santa Ana della stagione, filtrò attraverso le pareti dell'appartamento, facendogli colare il sudore sulle costole. Reclinò il capo all'indietro contro la spalliera e chiuse gli occhi, sentendo le piccole capsule schiudersi dentro il suo cuore. — Ehi, Jimmy. Come va, limbo? Alzò gli occhi verso il tizio di colore che era giunto camminando lungo la via. Sedendosi sul ciglio di cemento del marciapiede che circondava un parcheggio nei pressi dell'autostrada, era stato in grado di sottrarsi al sole di mezzogiorno, nel piccolo cerchio d'ombra gettato dalla cima fronzuta di una palma, e al tempo stesso tener d'occhio il sottopassaggio dov'era infilato il suo piccolo nido per dormire. Poteva anche osservare le magliette polverose e gli elmetti di un gruppo di operai edili, che si raccolsero attorno a un furgone di vettovaglie quando l'acuto belato di una sirena annunciò la pausa mensa. L'autista del furgone dei pasti uscì fuori col borsello dei soldi agganciato alla cintola e spalancò un lucente pannello d'alluminio per
rivelare le file di panini e frutti avvolti nella carta. — Sta' a sentire... non farmi girare i coglioni, amico. Ho detto, come va. Le mani del nero erano ficcate nelle tasche del giubbetto di cotone, strette in pugni simili a roccia. "Potrei dargli una lezione" pensò Jimmy; il nero non era affatto più grosso di lui. Ma aveva un coltello. Jimmy aveva visto il sottile lampo azzurro della lama, alla luce di un lampione trapelata sotto l'autostrada, quando il nero aveva terrorizzato qualche stronzetto scappato di casa, tutto acne e capelli biondo sporco fin sulle spalle. Il nero aveva sibilato che se il culetto rosa del ragazzino andava bene per darlo a quei ricchi frocioni di Hollywood, allora era buono anche per lui. Così ora Jimmy teneva un occhio attento sulle mani del tizio di colore, o almeno quel che ne poteva vedere. Il giubbetto non era più blu, ma grigio della fine arena dei pendii del sottopassaggio. — Niente di speciale — disse Jimmy calmo, togliendo il cellophane da un vassoio di cartone verde con dei pomodori. Ce n'erano sei nell'involucro; quello, più l'estremità di un filone di pane, era tutto quanto gli restava dopo le ricerche del giorno prima. Quando aveva preso le provviste da dove le aveva nascoste, non era riuscito a smettere di mangiare fino a riempirsi la pancia. Sarebbe stata la fine per quel giorno, comunque... ogni discarica di supermarket di L.A. era già stata probabilmente ripulita. — Niente di niente — disse. La pellicola trasparente si era appiccicata, umida, dove la buccia rugosa dei pomodori si era spaccata per rivelare la polpa sottostante. — La solita vecchia merda. Il nero non sembrò curarsi di quel che diceva, gli bastò aver ricevuto qualche sorta di risposta, qualunque parola. Distolse di scatto la faccia da Jimmy e scrutò, con gli occhi sottili come fessure, lungo la via deserta, verso l'autostrada. Anche adesso che i parcheggi della piccola zona industriale si erano riempiti di auto, non c'era affatto traffico sulle strade a eccezione di un camion di trasporti che faceva la spola tra i magazzini. Ora, nel silenzio delle erbacce secche che si intrecciavano attraverso i cancelli chiusi col lucchetto, il nodo che serrava la mascella del nero si poteva quasi sentire... vibrava come un tamburo sotto la pelle. — Uomo, mi sono rotto di dormire nella sporcizia. Merda dappertutto. Fottuti insetti e topi che ti corrono sulla faccia. Me ne vado giù alla missione, per dormire in una dannata stanza, con la porta. — Il nero ruotò lo sguardo feroce fino a ripuntarlo sull'ascoltatore seduto sul basso muretto di cemento. — E un pasto caldo servito col mestolo da qualche bella puttanella dell'Esercito della Salvezza. Sarebbe fico, eh? No? Proprio fico.
Jimmy non disse nulla, ma continuò a raccogliere il succo acido e i semi sul fondo del vassoio con i resti del pane. Se quel tizio voleva dormire su una dura sedia pieghevole, respirare tutta la notte fra i rutti e le scorregge di un branco di ubriaconi, coi vecchi dalla barba bianca e ispida che russavano sbavando, mentre spostava il culo da un osso all'altro, tentando di sollevare dalla sedia la carne intorpidita anche solo per un secondo... Benvenuto, amico. Jimmy sarebbe stato lieto di vederlo sparire dai sottopassaggi, comunque. Sospettava che il grosso nero si fosse introdotto nel cantiere della manutenzione di notte, in cerca di preda intorno a camion e scavatrici... attrezzi da poter rubare e ricettare. Il che non era giusto... c'era'un sacco di gente bella tranquilla nelle tane ricavate sotto il cemento rombante, che non aveva bisogno di essere cacciata con la forza dal Lapd, in cerca di chi stesse saccheggiando il Dipartimento dei Lavori Pubblici. Forse era pietà per quanti si trovavano in cattive acque, o solo riluttanza a trascinarsi in giro fra i mucchi di sporco e di pattume, ma fino ad allora i poliziotti avevano ignorato i senzatetto dell'autostrada. "La gente deve dormire da qualche parte" rifletté Jimmy, succhiando l'ultima crosta inzuppata. Almeno lì erano fuori vista. "Allora fai pure e togliti dalle palle, cazzone" pensò, e annuì all'ombra dell'altro che gli stava ai piedi. — Qualcuno è stato a cercarti. — Lo sguardo del nero si perse nel vuoto. Lo scintillio di passione quando aveva guardato l'autostrada era ora svanito. — Ha chiesto di te — disse. Si strofinò il naso col dorso della mano. — Chi? — Jimmy piegò il vassoio vuoto attorno al cellophane appallottolato e alla carta del pane. — Ehi, uomo, non li conosco i tuoi amici. Un tipo scarno. — Il nero indicò il sottopassaggio dell'autostrada. — Era lì a ficcare il naso nelle tue cose. Ha detto che voleva parlarti. Jimmy si cullò l'involto di rifiuti fra le gambe. Chi diavolo... fu il pensiero che gli formicolò sulla nuca. C'erano sempre guai in arrivo quando a uno dicevano che lo stavano cercando. Voleva dire che era finito nella merda, e che qualcuno... agente, ufficiale di polizia, papà, mamma... stava per dargli una lezione. Che almeno gli spiegassero cos'aveva fatto... qualche cosa che non sapeva nemmeno. Le lezioni di quel genere facevano sempre male, ti lasciavano avvolto nel dolore che si dipanava lentamente nelle tue budella... steso sul fondo buio di un armadio chiuso mentre la donna che chiamavi "tua madre" urlava minacce sempre più rauche attaccata a una bottiglia, o sul freddo cemento di una cella per ubriachi che
puzzava sempre di disinfettante e vomito. Talvolta si chiedeva perché i poliziotti, le mamme e gli altri non sì limitassero a dire qualcosa, invece di ficcarti in pancia un pugno o un manganello. Qualcuno che ti cercava voleva dire sempre cattive notizie... significava che avevi fallito a renderti invisibile, a restare fuori dal mondo. Qualcuno era riuscito a scovarti tra la polvere e il fango. E adesso stavi per pagarla. — Sbirro? — Alzò lo sguardo sul nero. Il cartone e il cellophane fra le mani erano divenuti una pallottola stretta e bagnata. — Cos'... — Era la polizia? — No, amico. — Il nero scosse la testa. — Quello faceva la bella vita. Bastava guardarlo per capirlo. — All'improvviso fece un sorriso stranamente timido. — Ci vediamo giù alla missione? — Come no. Forse. — Mi porterò una bottiglia e me la scolo là dentro. Allora quelle fottute sedie non sembreranno tanto dure. Dopo che il nero se ne fu tornato sui suoi passi, Jimmy continuò a guardare giù per la strada, verso l'autostrada. Scendere in città era la soluzione più semplice, anche se quella notte avrebbe dovuto dormire in uno dei vicoli fra la Sesta e la Hill. Sapeva di essere tanto lercio che nessun branco di punk l'avrebbe scambiato per un nuovo venuto, qualche tizio arrivato a L.A. per cercare lavoro, e cercato di rubargli soldi o qualunque cosa tenesse avvolta nel cappotto. "Fottiamocene" pensò. Chiunque lo stesse cercando non sarebbe riuscito a trovarlo in mezzo a tutti gli altri rifiuti umani. Il furgone dei pasti richiuse la fiancata d'alluminio, si accese, e si avviò verso la rampa. Dopo un po' gli operai si diedero una mossa e si rimisero gli elmetti. Jimmy li osservò, ma nessuno di loro alzò lo sguardo nella sua direzione. Ne aveva sempre avuto pena, perché conoscevano le autostrade e gli spazi che nascondevano solo alla scialba luce del giorno. Loro non sapevano. Per un altro po', scrutò il cemento e le figure distanti. Poi ficcò nel canale di scolo i rifiuti che aveva in mano. Si alzò e cominciò a camminare, lentamente, non verso la città ma verso il suo rifugio. La sua casa. Bedell mise giù il telefono e accese la segreteria telefonica. Fece andare l'apparecchio per un paio di minuti, alzando il volume per udire la propria voce dal piccolo altoparlante, chiedendo a chiunque chiamasse di lasciare nome e numero, poi riavvolse il nastro fino all'inizio. Gli rimase nelle o-
recchie il suono della voce di Tyler, con la rabbia che trapelava nonostante i tentativi di contenerla. La segreteria restò pronta e in attesa. La guardò, annuendo soddisfatto. "Va bene, figlio di puttana" pensò, sorridendo alla lucetta rossa sopra il tasto On dell'apparecchio. "Dovrai richiamare di nuovo. E allora ne riparleremo." Non c'era verso che potesse perdersi la seconda chiamata di Tyler; avrebbe provveduto la segreteria. Ora l'amo era gettato, e per far abboccare e ritirare la lenza sarebbero bastati dei gentili strattoni al filo. Si mise a braccia conserte... con appena un paio di telefonate aveva concluso una bella giornata di lavoro, più di quanto non avesse combinato da lungo tempo... e guardò in giro nella stanza. Il telefono e la segreteria stavano sugli scaffali disposti lungo il muro. Quelli, una fila di archivi ad armadietto, e l'Ibm Selectric su un tavolo nella stanza sul retro che usava come ufficio erano gli unici resti visibili della sua camera di scrittore. Il tavolo era un modello essenziale, color camoscio, 49 dollari al negozio di mobili per ufficio usati, con gambe di tubo d'acciaio piegato. Gli ricordava uno su cui servivano da bere alle riunioni tenute nel seminterrato di una biblioteca pubblica, dove aveva lavorato quando era al college. Quando l'aveva portato a casa la prima volta si era anche ricordato il piccolo trucco di alzare un ginocchio e drizzare di scatto il tavolo in modo da far atterrare il suo peso proprio nel punto che voleva. Il tavolo, con la superficie chiazzata che aveva assorbito il caffè versato tramutandolo in macchie indelebili, lo aveva inseguito uscendo dal passato sulle sue gambe di tubi sottili, cacciando via la lustra scrivania di teak a grana fine che era svanita insieme al resto del suo mobilio in affitto. Dietro di lui, mentre stava di fronte alla finestra anteriore, si stendeva il resto delle stanze vuote della casa, con le pareti completamente nude. Fuori, nella strada, Bedell udì un piccolo e rumoroso motore a benzina risvegliarsi alla vita, sputacchiando. Merda, pensò, sfregandosi gli occhi mentre il frastuono si trasformò nel ringhio di una lama metallica che mordeva l'erba e la terra. Il servizio di giardinaggio aveva iniziato la sua opera settimanale. Bedell si tese in avanti per estrarre il portafogli dalla tasca posteriore e controllò per assicurarsi che ci fosse dentro almeno un biglietto da venti dollari. Un mese prima, il giardiniere, uno stolido coreano che di solito si faceva seguire dalla moglie per potare le siepi, con un cappellino fuori moda per farle ombra in faccia che sembrava roba uscita da La piccola casa nella prateria, aveva improvvisamente insistito per essere pagato in
contanti. Quel tipo non aveva mai rifiutato gli assegni scoperti di Bedell, ma in qualche modo quel piccolo segreto... la voce che il suo conto in banca si era dissanguato... era trapelato, era stato percepito. Si alzò e tirò da parte la tenda del soggiorno, abbastanza da vedere il camioncino Gm del giardiniere sul bordo del marciapiede, con strette assi di legno appoggiate allo sportello posteriore per poter spingere giù la falciatrice e gli altri attrezzi. Lungo il marciapiede sprizzavano scintille a casaccio quando il bordo della lama colpiva il cemento. Il giardiniere, con la visiera del berretto dei Dodgers calata mentre guardava le sue mani guidare l'attrezzo con rapidità ed efficienza, non alzò lo sguardo per vedere Bedell dietro la finestra. Lui lasciò che la tenda ricadesse a posto. I pochi spiccioli di contante che prendeva il giardiniere erano il meno di cui dovesse preoccuparsi. Non si poteva farne senza. Se lasciava andare in malora il giardino, tutto il vicinato avrebbe saputo. L'interno poteva essere spoglio e stare nascosto, ma l'esterno doveva apparire ben tosato e curato. Altrimenti chiunque avrebbe capito che stavi sanguinando a morte. Si voltò intorno e guardò in giro nel soggiorno: il tavolo da lavoro, gli archivi, i mobili da giardino in alluminio e plastica che aveva portato dentro dal retro infestato di erbacce... quelli almeno li aveva pagati in contanti, ed erano rimasti al loro posto quando le poltrone di cuoio color nero e burro, i tavoli cromati di vetro affumicato si erano di nuovo volatilizzati sul camion che li aveva portati lì la prima volta. Un materasso sul pavimento di una delle stanze da letto, pile di libri nei corridoi, inclusa una scatola mezza piena dei suoi, con la foto in bianco e nero in quarta di copertina. Tutte le tazze che possedeva erano sparpagliate sul banco di cucina, ognuna con una macchia secca e scura sul fondo... doveva strofinarne una ogni volta che voleva farsi una cucchiaiata di caffè istantaneo. E il giardiniere fuori: una casetta felice. Bedell chiuse gli occhi nella piccola ondata di quiete quando il fragoroso motore si spense. Trovò le sue mani sudate e tremanti mentre il silenzio pervadeva la casa. Quando riaprì gli occhi, vide la luce rossa sulla segreteria telefonica, e il minuscolo flusso d'elettricità mostrava che era accesa. Le sue dita avrebbero voluto afferrare la tela stessa del tempo, prima che Tyler richiamasse di nuovo, e lacerarla, tirarla più vicino. "Andiamo, rotto in culo. Chiama." Fuori, il fragore della falciatrice si riaccese più cupo. 3
Più tardi, mentre il giorno volava via, ebbe un'altra chiamata. Tyler aveva lavato i pochi piatti ammonticchiati nel lavello, risciacquato la caffettiera, consumato il pranzo... un sandwich messo assieme alla meglio con carne e formaggio avvolto nella plastica... E aveva di fronte il solito torpore mentale delle ore pomeridiane, finché non fosse giunta l'ora di andare ad aprire il cinema, quando il telefono squillò. — Pronto? — Tyler posò il bicchiere d'acqua, mezzo vuoto, sul tavolino da caffè. Nella sua mano un paio di capsule urtavano dolcemente insieme. — Il signor Tyler? — Una voce che non riconobbe, fredda, professionale. — In persona. — Il mio nome è Silberman, signor Tyler. Larry Silberman. Sono l'avvocato... uno dei tanti, almeno... della sua ex moglie, Linda Tyler. Spero di non averla disturbata. — No, è okay. — Sfregò una delle capsule bianche e azzurre fra il pollice e l'indice, palpando il sottile bordo dove le due metà si univano insieme. In qualche modo si era atteso qualche piccola intrusione nel vuoto di quel giorno. Era impossibile che lei restasse solo una foto sul giornale sparpagliato sul divano. — Che è successo al titolare dello studio... il vecchio Minosian? — Era quello l'avvocato difensore che i genitori di Linda avevano originariamente assunto tanto tempo prima, una leggenda dai capelli argentei uscita dritta dagli sfarzosi locali del Jonathan Club, nei quartieri più esclusivi. — Mi ero aspettato di sentire lui. — Il signor Minosian è morto circa un anno fa. Sono una specie di suo erede. — La voce in linea sembrò imbarazzata. E giovane; più giovane di lui, comprese Tyler. — Allora che posso fare per lei? — "Qualche giovane rampante" pensò. Si sentì vecchio, una reliquia del passato; l'abisso di appena pochi anni fra lui e l'avvocato era colmo di qualcosa di più del semplice tempo. L'altro si schiarì la gola. — Sono stato giù al centro di detenzione femminile quasi tutta la giornata, signor Tyler. A parlare con la mia cliente. Lui si mise a sedere sul divano. — Scoperto niente? — L'involucro delle capsule si era ammorbidito col sudore della sua mano. Le posò giù accanto al bicchiere. — Un po'. Ci vorrà del tempo per venirne a capo. È in uno stato tale... ho lasciato laggiù uno dei miei soci, cercando di fare in modo che un medico privato le prescriva qualche cura. Di solito non lo permettono al cen-
tro di detenzione, ma penso che potremo spuntarla. Tyler annuì fra sé. Pareva che i genitori di Linda stessero già buttando sulla bilancia il peso dei loro soldi per controllare la situazione. Poté immaginare la linea telefonica da Santa Barbara che vibrava tutta delle loro voci e ordini. — Il motivo per cui sto chiamando — proseguì la voce di Silberman — è che Linda mi ha dato un messaggio per lei. Vuole vederla. Tyler non disse nulla. — Vuole parlarle. Ha molto... insistito su questo. Ho dovuto promettere che l'avrei fatta venire. — Non c'è da scherzarci sopra. — Fissò la natura morta di medicinali e bicchiere sul tavolino. — È un tipo di donna insistente, come scoprirà. — Presumo di sì — disse Silberman. — Ecco perché speravo che lei accettasse d'andare laggiù a trovarla. Mi farebbe un grande favore. — Le ha detto di che vuole parlarmi? Qualcosa d'importante, o solo rievocare i vecchi tempi? Un altro frammento di silenzio prima che l'altro rispondesse. — Ha detto di riferirle che riguarda suo figlio, signor Tyler. Ha detto che lei sapeva cosa intendesse dire. Il silenzio fuoriuscì dalla linea telefonica e colmò il locale intorno a lui. Poté udire il traffico all'esterno, i rumori di strada che colpivano la finestra, ma come se venissero da anni luce di distanza. Rimase solo nella stanza, a eccezione del filo dei ricordi che si dipanava. — Signor Tyler? — La voce di Silberman gli graffiò di nuovo l'orecchio. — Sì — disse. Era al sicuro per ora. I farmaci avevano steso la solita barriera trasparente fra lui e i bordi taglienti del passato. — Forse non avrei dovuto chiamarla e chiederglielo. Ma non sapevo che altro fare. Se lei potesse... la aiuterebbe. Sa, darle una calmata in modo da farci proseguire nei preparativi legali. — Non saprei. — Raccolse una delle capsule dal tavolo, la scrutò. — Forse. — Qualunque cosa decida, l'ho iscritta nell'elenco delle visite autorizzate. È sufficiente che si porti un documento e non dovrebbe avere alcun problema a vederla. Probabilmente, non si può fare nulla nel weekend, ma lunedì, se lei è libero... — Silberman sgranò il numero del suo ufficio. Dopo aver riappeso il telefono, Tyler vide che la capsula gli si era disintegrata nell'altra mano. Una fine polvere bianca filtrava dal sottile involu-
cro, scendendo giù per il pollice e l'indice. Per un momento la guardò, poi si portò la mano alla bocca. La lingua gli si arricciò per il gusto amaro di medicina. Forse il tipo se n'era andato, a quell'ora. Jimmy avanzò furtivo oltre il recinto metallico e le pale incrostate di fango dei bulldozer che stavano dall'altra parte. Scrutò oltre i macchinari silenziosi, nelle tenebre sotto l'autostrada. Gli operai che li guidavano dentro e fuori dal recinto avevano tutti fatto i bagagli e se n'erano andati... calcolò che fossero all'incirca le tre, dato che cominciavano sempre presto la mattina, e c'era una pausa di un paio d'ore prima che il traffico dell'ora di punta cominciasse a ingolfare le corsie dell'autostrada soprastante. Da quando il nero, comunque si chiamasse, gli aveva detto che c'era qualcuno a cercarlo, Jimmy aveva ammazzato il tempo camminando e sedendosi sul marciapiede del parcheggio, col sole che gli scaldava la schiena mentre tracciava circoli col tallone nella melma secca del canale di scarico. Senza mai allontanarsi troppo dal sottopassaggio dov'era nascosto il suo nido, tenne d'occhio le cupe ombre e chiunque potesse mai attenderlo lì dentro. "Forse si è stancato di aspettare" pensò Jimmy. Rimase sul bordo del sottopassaggio, una grande caverna quadrangolare, e batté le palpebre mentre i suoi occhi si adattavano all'oscurità. Il traffico che gli rimbombava sulla testa mascherava ogni suono che potesse rivelare qualcun altro in agguato nel buio. "Quel tipo ha gettato la spugna. Chiunque fosse." Intrecciò le dita nel recinto metallico fra lui e i tumuli di terra che salivano fino al soffitto di cemento e pressò la faccia contro la rete. Non poté vedere nessuno lassù, sulla stretta sporgenza in cima al declivio. Se si aspettava abbastanza, alla fine chiunque andava via. Occorreva solo questo. Bastava aspettare, e poi si poteva restar tranquilli di nuovo, senza nessuno a infastidirvi. Infilò nel recinto le punte delle sue scarpe di corda, che aveva legato con lucente nastro nero da elettricisti dove stavano cominciando a staccarsi dalle suole di gomma, e si arrampicò. E lo trovò lì. A frugare nella sua roba; "stronzo figlio di puttana" pensò Jimmy, mentre si acquattava nella sabbia polverosa al di sotto dell'autostrada. Da quel posto aveva una chiara visuale fra i piloni di cemento fino al suo nido attentamente celato, a qualche metro di distanza. Tutti i suoi tesori erano sparpagliati attorno all'intruso in un rozzo semicerchio, e lui, con la schiena curva, stava acquattato sui talloni a passarli al setaccio.
Jimmy osservò le spalle del tizio tendere strettamente il sottile cuoio del suo giubbotto, mentre i capelli unti e lisci gli penzolavano sul bavero... unti non perché non lavati, com'era il caso di quasi tutti quelli con cui Jimmy viveva sotto il viadotto. Gli métteva qualcosa sopra, pensò Jimmy, per renderli scuri e lucenti in quel modo. Nella fioca luce del sottopassaggio, scintille si riflettevano sui capelli dell'intruso, come se fossero diventate parte di lui. Come fotterlo. Jimmy sentì un feroce prurito d'odio sul dorso del naso. (Non è giusto urlò una voce in un campo giochi sepolto nella memoria, una voce di bimbo, la sua, col gusto dell'asfalto e del sangue in bocca. Un ragazzo più grande e grosso torreggiava su di lui mentre piangeva dopo essere caduto. Non è giusto.) Poté vedere dietro la schiena dell'intruso, fino alle pallide mani che violavano il piccolo tesoro prezioso di carte e foto, tenendole tutte alla luce per sottoporle a una fredda ispezione. Non era giusto. Jimmy sentì l'odio scaldargli la faccia, annebbiargli la vista dell'intruso, mentre le prime lacrime salate gli spuntavano in fondo agli occhi. Non appartiene a qui. Pronunciò quelle parole sottovoce, teso in avanti per bilanciarsi in quella posizione acquattata, affondando le mani nel soffice terriccio. Qui stiamo noi, è il nostro posto, non vi stiamo infastidendo, lasciateci in pace. Era un'ingiustizia bruciante; aveva tentato di fare del suo meglio, di nascondersi lassù nel buio dove non potessero vederlo... e perché avrebbero dovuto? Non gliene importava di questo, né di intrufolarsi cautamente dietro i supermercati per fare la cernita nei bidoni di roba che non volevano. Ma poi gli venivano dietro lo stesso. Fottuti. Ovviamente era lo stesso tizio di cui aveva parlato il nero. Lo sentiva; meglio se fosse stato un altro. Due tizi diversi di seguito potevano non voler dire nulla, solo gli affari casuali del mondo. La gente andava e veniva; una volta il reporter di un giornale, con tanto di fotografo alle costole, aveva ficcato il naso nelle tane del sottopassaggio, parlando con qualcuno degli abitanti. Lui si era affrettato a ritirarsi nella parte più buia, ed era riuscito a non farsi notare. Un ragazzotto che era stato lì solo un paio di giorni e se n'era andato un paio di giorni dopo aveva continuato a parlare a vanvera sulla vita sotto l'autostrada; il reporter e il fotografo erano rimasti soddisfatti e alla fine se n'erano andati. Cose che succedono; non significavano nulla. Ma un tipo che tornava a cercarlo due volte... quell'insistenza doveva avere dei motivi. Jimmy elaborò l'equazione nella sua mente. Vuole trovare me; me in particolare. Ecco perché è venuto qui di nuovo. O non se n'e-
ra mai andato. Non è giusto. L'intruso finì di guardare fra le foto e l'altra roba e si dondolò all'indietro sui talloni. Non che il tipo fosse così grosso... "Sono più grosso di lui" pensò Jimmy... ma aveva quell'apparenza sottile, scattante, come un serpente infilato in un sacchetto, che voleva dire sempre guai. Avevano modi di colpirti che facevano davvero male; ed erano così veloci, così lesti che non si poteva scansarsi, non si poteva far nulla. Il tipo gli rammentò, proprio dalla schiena, da come la spina dorsale gli si arcuava più del normale, certi piccoli fottuti che si incontrano nelle caserme dell'esercito, o piccoletti neri di città o ragazzi di fattoria del sud, coi capelli incollati e luccicanti come quelli, una frangetta imbrillantinata sulla fronte, e che sapevano metterti a terra in un angolo delle docce dove nessuno poteva vedere, mentre ti contorcevi e il tuo ventre sembrava una cavità implosa, e sentivi l'odore di sapone e vapore in faccia come un tovagliolo. E più tentavi di stargli fuori dai piedi, come se camminassi attorno a una tana di serpenti, più ti ritrovavi a sbatterci contro. Perché a loro piaceva farti quel sorrisetto di superiorità, con gli occhi scintillanti. E mostrarti che grosso stupido idiota eri. Come se tu non lo sapessi. E quella sarebbe stata l'ingiustizia definitiva. Poteva vedere in sequenza cosa stava per capitargli. Sapeva già quel che stava per accadere, e ancora non riusciva a capacitarsene. Avrebbe dovuto misurarsi con l'intruso, affrontare quel tipo che gli stava frugando fra la roba. E fargli sputare la merda a calci; era così che si faceva. (Oppure poteva solo andarsene, giusto scivolare giù dal pendìo fin sotto l'autostrada, e mettersi a camminare. Trovare un passaggio fra le strade attorno al recinto del cantiere, uscire da quel dedalo, e dirigersi in città verso una bella missione calda. O anche trovarsi un altro sottopassaggio, un nuovo nido. Ce n'erano a dozzine, che sapesse, con le loro piccole colonie di gente come lui. Bastava far spazio a uno in più, in un posto qualunque di L.A. E lasciarsi alle spalle quel tipo. E la propria roba. Solo spazzatura, comunque. Buona a niente. Ricordi di quando lo picchiavano, soprattutto. Lascia. Vattene via.) (Ma se faceva così, sapeva che non gli sarebbe rimasto più niente. E li vedeva quelli che non avevano niente, nemmeno il più piccolo frammento di carta col proprio nome, o quello di qualcun altro, scritto sopra. Nei rifugi, che si portavano alle labbra tremolanti bicchieri di carta, mentre il caffè scuro gli gocciolava sul mento e sulle barbe grigie e stoppose. I loro occhi erano come svaniti, ridotti a buchi orlati di rosso che fissavano qualche sbiadito poster religioso sul muro. E non voleva diventare uno di quelli.
Non adesso. Era ancora un po' in là da venire.) Cominciò a strisciare lentamente, tutt'attorno al nido. Non si infilò direttamente nello stretto spazio tra i piloni; se l'intruso avesse sentito qualcosa alle sue spalle... e, come sapeva Jimmy, neanche il suono più lieve gli sarebbe sfuggito con quei capelli neri e lucidi piegati all'indietro... avrebbe potuto voltarsi e localizzarlo mentre era ancora a metri di distanza. E non ci sarebbe stata nemméno la breve soddisfazione di assestare un colpo a sorpresa sul collo dell'intruso prima che iniziasse l'inevitabile rissa. "Zitto..." fu il silente avvertimento che diede a gambe e braccia mentre avanzava curvo, con le dita affondate nella polvere. "Grosso idiota. Sta' zitto. O lui ti prenderà per primo." Perse di vista l'intruso mentre strisciava su per il pendìo, e il rombo del traffico dell'autostrada soprastante si fece più forte man mano che si avvicinava al tetto di cemento del sottopassaggio. La fila di piloni gli impediva la vista del nido violato. Cercò di trattenere il fiato, ma il suo cuore glielo spinse di nuovo a martellate in bocca. Gli alluci delle scarpe fecero presa sul terriccio e lo spinsero ancora più in su per il declivio. Il varco fra l'ultimo pilone e il fondo dell'autostrada formava l'ingresso di una cavità, col centro grande appena a sufficienza per dormirci raggomitolati intorno a un nascondiglio semisepolto. Jimmy premette la spalla contro la ruvida superficie del pilone, e... lentamente, in silenzio... si guardò intorno nel nido. I tesori, carte e foto, giacevano sparpagliati attorno alle coperte intrise di sporco, con gli avanzi di cibo avvolti nella plastica ancora ficcati in un angolo, fra il cemento e la terra. Ma l'intruso era sparito. Di fronte ai pezzi di carta sparpagliati restavano due incavi a forma di cuneo, come se qualcuno avesse pestato i pugni nel suolo soffice e cedevole... Erano state le scarpe di un uomo acquattato, con tutto il peso spinto in avanti mentre ispezionava il nascondiglio, a lasciare quei segni profondi. "Merda. E ora che faccio?" Sulle mani e le ginocchia, Jimmy girò gli occhi per quello spazio, con la soffice luce pomeridiana che ne delineava i bordi curvi. Il figlio di puttana era andato. Gli incavi paralleli dei suoi piedi provavano che era stato lì, comunque. Così la consolante idea che fosse tutto un sogno (il genere di cose viste nelle tenebre con la coda dell'occhio, che si cerca di non guardare fisso per paura che possano esserci davvero) e che gliel'avesse piantato in testa quel nero svitato... gli venne negata. Strisciò nel nido, tra il silenzio coperto dal rombo del traffico soprastante, e guardò in giù verso le foto e le carte, come se l'intruso avesse iscritto il suo nome, senza parole, in quella disposizione a semicerchio.
Come se lui potesse leggerlo. Poi si sentì scaraventare la testa al suolo, con la liscia superficie di una delle foto premuta contro la faccia. E con un peso sul dorso, che lo appiattiva. Per un momento non riuscì a respirare; si rese conto di avere un braccio attorno al collo, con la parte dura dal polso in su che gli affondava nella gola. Il braccio lo tirò su da terra; con la coda dell'occhio, oltre il bordo nero e diritto della foto appiccicata alla guancia dal sudore, poté vedere il viso scarno e dagli occhi brillanti che esaminava il suo. L'intruso lo fece roteare su se stesso e lo scagliò sulla parete obliqua del nido. Quando gli tornò il fiato, trovò abbastanza forza da premere la testa contro il lato inferiore dell'autostrada. Guardò in giù e vide la figura accovacciata, rannicchiata sulle cosce, che lo osservava con un sorriso sottile. Balzando dal nascondiglio tra le file di pilastri di cemento, alcune ciocche nere e lucenti erano schizzate in avanti; sembravano spesse pennellate d'inchiostro sulla fronte pallida. — Furtivo, eh? — Il sorriso si allargò, e formò delle parole. — Perché te ne andavi in giro in quel modo? Eh? Jimmy affondò le palme delle mani nel molle terriccio del declivio, per impedirsi di scivolar giù lungo il metro che lo separava dall'intruso. La presenza dell'altro riempiva il piccolo spazio del nido, premendolo contro le soffici pareti. Scosse il capo, con lo sguardo fisso sui punti luminosi che erano i suoi occhi. — Perché vai in giro di soppiatto? Andiamo. — L'intruso si tese in avanti, portandosi così vicino da fargli sentire il fiato. — Dimmelo. Sei venuto a spiarmi, e voglio sapere perché. Il moto della testa si arrestò, immobilizzandosi lungo la linea del suo sguardo. — Andiamo, rottinculo. Che facevi in giro? Perché lo stavi facendo? Le parole gli si incisero nel cervello, premendolo di nuovo contro il declivio. Non c'era nessun posto dove andare per fuggire. Dove quegli occhi brillanti non stessero osservando, in attesa. — Merda. Lasciamo perdere. — L'intruso distolse lo sguardo disgustato, scuotendo la testa. Passò qualche istante, col rombo del metallo sovrastante filtrato attraverso gli strati di cemento. L'intruso guardò fisso in lontananza, verso i bordi del cavalcavia illuminati dal sole, come se cercasse qualcosa al margine del mondo esterno... qualcosa nascosto dal chiarore del giorno. Jimmy osservò il suo profilo affilato e attese le parole succes-
sive. Ce n'erano sempre delle altre. Lo sguardo scintillante oscillò di nuovo verso Jimmy. — Come ti chiamano? — chiese l'intruso, con voce un po' più amichevole. — Jim o Jimmy? Il suo nome era sulle carte del congedo dall'esercito, e un po' dell'altra roba sparsa nel nido... ecco come lo sapeva quel tipo. — Jimmy — disse. Rimase indietro, contro la parete di soffice terriccio, mantenendo quei pochi centimetri di distanza fra sé e l'altro. Il tipo aveva capito, come chiunque altro, che nessuno come lui era mai stato chiamato James. — Jimmy — fece eco l'intruso. Sorrise, fissandolo. — Vivi qui, Jimmy? — Sì. — "Lo sai già, merdoso. Perché continua a chiedere roba che sa già?" Serrò il terriccio molle fra le mani. L'intruso scosse la testa, sorridendo ancora. — C'è puzza di piscio quassù. Lo sai, Jimmy? Niente da dire... continuò a scrutarlo cautamente. — Tu comunque non lo sai, vero? Perché fai la stessa puzza. C'è la tua puzza qui dentro... ecco cos'è. — L'intruso si accomodò sulle anche, come un animale dal muso appuntito che stesse in posizione di riposo. — Lo sai il mio nome, Jimmy? Lui scosse il capo. — No. — Slide. Chiamami Slide. — L'intruso si tese in avanti, e i suoi occhi brillanti seguirono la linea invisibile che li univa allo sguardo che lo osservava. — Okay, Jimmy? Sentì lo spazio fiocamente illuminato contrarsi intorno a loro, mentre i raggi di sole filtrando tra la polvere avvicinavano i loro volti. Sentì ancora l'odore del fiato dell'altro, forte e acre. Il sorriso si era mutato in qualcosa di diverso, e anche la superficie della sua pelle bianca, irrigidita da qualcosa di sottostante che la tendeva. — Okay — disse. Il sorriso si allargò. Qualche altro tipo di comunicazione, non verbale, si stava instaurando fra loro. — Ti piace qui, non è vero, Jimmy? — Slide girò lo sguardo per la cavità del nido, alzando un attimo gli occhi verso il cemento appena sopra le loro teste. — È carino. Carino e privato. Te lo scavi da solo. Nessuno ti dà fastidio qui. Perché non possono trovarti, vero? Vero, Jimmy? — No. — Aveva già imparato. Aveva già imparato come fermare il quieto, insistente soffio di quella voce. Bastava dire quel che intendeva farti dire. Fare quel che voleva. Era questo l'accordo che bisognava raggiungere... seguire passo dopo passo l'altra voce con la propria voce, farsi
portare ovunque ti conducesse. Slide si fece avanti ancora di più, affondando una mano per tenersi in equilibrio nel terreno soffice. Jimmy poté vedere i triangolini sanguigni agli angoli dei suoi occhi. — Tu puoi fare qualcosa per me — disse Slide. — Qui. Lo vuoi, non è vero, Jimmy? Lui si tirò indietro da quello sguardo simile a puntini rossi e brillanti, e dal fiato dall'odore acre. — Di che genere? Gli occhi si strinsero mentre Slide scuoteva la testa. — No — disse piano. — Tu vuoi. Non è vero? Non è vero, Jimmy? Nessuna via di fuga. Lo sguardo e il respiro dell'altro riempivano l'intero spazio del nido. Capì, dall'effetto ipnotico che quelle parole ebbero nella sua testa, che l'unico rifugio che gli restava era dentro quello sguardo, che il fiato dell'altro gli era già sceso nel profondo del proprio petto. Il nido, e tutto quel che vi si trovava, apparteneva adesso a questa nuova entità che lo reclamava. Annuì, e vide il moto della sua testa riflesso al centro esatto degli occhi di Slide. Slide indietreggiò, sempre sorridente. — Non ti preoccupare. — Era gentile adesso, o almeno ne dava la vaga impressione. — Ti piacerà. Non ti farà alcun male. Le parole sembrarono quelle di un'altra voce nei ricordi, una che sussurrava invece di urlare. Parole in uno spazio buio. Non ti farà male. Una persona grande che lo scrutava dall'alto, da bambino, poi gli si avvicinava, andandogli proprio addosso, nella calda oscurità. Non ti farà male ti piacerà non ti farà male ti piacerà. Il centro degli occhi di Slide era diventato un pozzo senza fondo, e non mostrava più, ora, nemmeno il riflesso del suo volto ammutolito. Lo sguardo lasciò la presa, e lui sentì la guancia ruzzolare nel soffice terriccio del nido, mentre la figura acquattata restò a guardarlo. 4 Si inginocchiò nell'anticamera dell'appartamento, sulla porta dell'armadio, sollevando il mazzo di giornali vecchi dalla scatola di cartone dove si trovavano. Difficilmente passava un mese senza che, in qualche occasione, Tyler non prendesse il libro tra le mani. Dando una rapida scorsa alle parole che aveva letto così spesso da poter chiudere il volume e recitarle come se fos-
sero cicatrici scolpite sul proprio cuore. Sfogliando la sezione patinata centrale con le fotografie, fissando facce ora morte da lungo tempo, o quasi, compresa la propria. Fermandosi a qualche grigio paragrafo che includeva il suo nome e leggendolo, e poi quello seguente, pagina dopo pagina finché non aveva ammazzato un'altra ora, incidendo altre rimembranze in braille interiore. Senza alcun dolore; quei nervi erano morti. Eppure teneva ancora la sua copia del libro sepolta nella scatola in fondo all'armadio. Come se fosse qualche vizio privato, un'altra droga illegale, e, come quella, gli aveva infine procurato più vergogna e rimorso di qualunque piacere iniziale. Era la sua terza copia, dato che ne aveva già gettate via altre due tra conati di disgusto... per prima quella su cui Bedell aveva scritto Al mio amico e confidente interno, e che gli aveva mandato mentre era ancora in carcere. Si raddrizzò, lasciando che il mazzo di giornali vecchi e di imballaggi natalizi messi via alla rinfusa da Steff sprofondasse di nuovo nel cartone dai lati rigonfi. La sovraccoperta del libro, con uno strappo obliquo sul dorso, giacque fredda nella sua mano umida. Riti protratti nel tempo, da superare prima del gesto fatidico. "Segno che sono senza niente da fare, e con troppo tempo libero" si disse mentre stava alla finestra, osservando l'angolo di strada visibile da quel punto. Il libro giacque sul basso tavolino da caffè davanti a lui, come prima era stato su altri tavoli o sul sottile materasso del letto d'infermeria della prigione. "Ho sempre tempo da ammazzare." Tyler si mise di nuovo in poltrona, teso in avanti sul tavolino da caffè. Gli sbiaditi colori primari della copertina furono come una mazzata in faccia. Rosso per il sangue; c'era voluta un sacco d'immaginazione al reparto grafico dell'editore. E le larghe lettere nere che dicevano ALL'INTERNO DELLA NOTTE. In lettere più piccole, sotto: GLI OMICIDI DEL GRUPPO DI WYLE. Lungo il fondo: DI J. ALAN BEDELL, CON MICHAEL TYLER. Un angolo della copertina era di un bianco smagliante, come se l'avessero tenuto lì per intingerlo nel rosso di cui si era imbevuto anche il retro. Con un dito aprì il libro di piatto; cadde spalancato alla sezione fotografica nel mezzo. Lo sguardo posato di Liam Wyle, lo stesso tranquillo ritratto in studio che era stato usato per la quarta di copertina di tutte le sue opere, si levò verso Tyler. Un tempo aveva posseduto tutti quei libri, i massicci tomi accademici zeppi di gergo psicanalitico, i sottili tascabili col loro vocabolario bizzarro, ora già fuori moda... gli opuscoli in offset e in fo-
tocopia, ancor più imperscrutabili, pieni di parole in codice per gli iniziati. Aveva avuto l'opera omnia di Wyle, una collezione completa assisa su un unico scaffale come un altare, proprio fino agli ultimi giorni del Gruppo, appena prima che i raid della polizia ponessero fine all'orgia di sangue. La faccia di Wyle, tutte le sue copie congelate nel tempo in bianco e nero, si era arricciata e contorta in cenere al centro del piccolo falò che aveva fatto dei libri. Qualche collezionista l'aveva rintracciato tramite Bedell, in cerca di qualcosa che potesse essere sfuggito al fuoco. Certe delle cose più rare di Wyle, le follie stampate in tirature di duecento copie per pochi eletti, ora valevano un sacco di soldi per la gente che apprezzava quel genere di scritti. Tyler aveva buttato giù a calci quel tipo per le scale del palazzo, fino in mezzo alla strada. Adesso la faccia di Wyle, per Tyler, non era nulla se non un insieme di puntini d'inchiostro su carta patinata. Quegli occhi, che apparivano così calmi e comprensivi nella foto, stavano ora probabilmente fissando i muri beige del reparto psichiatrico di una prigione. Nell'ultimo capitolo del libro di Bedell c'era la nota che dopo aver confuso i dottori usando il loro stesso gergo... chi meglio di lui?... Wyle era scivolato in un silenzio sprezzante, senza più romperlo. "Qualunque cosa faccia" pensò Tyler "lì dentro, non voglio saperlo." Forse Wyle stava ricordando lui e tutti gli altri che erano stati nel Gruppo. O forse Wyle aveva fatto il gran balzo, era andato oltre il sangue e tutto il resto, ed era adesso nel freddo, silente paesaggio mentale degli schizofrenici terminali che aveva tanto ammirato. "Non voglio saperlo." Voltò la pagina, e si trovò davanti altri resti familiari del tempo passato. La sua stessa faccia lo guardò, e l'obiettivo aveva colto l'espressione penetrante dei suoi occhi, incorniciati dai capelli incolti che gli ricadevano sulla fronte. L'espressione di uno che ha già visto troppo. Aveva i polsi ammanettati dietro, mentre guardava verso la macchina fotografica; era visibile la mano di un poliziotto, che gli serrava strettamente il braccio, e lo spingeva. Sotto quella, la faccia di Linda, la stessa foto che aveva appena visto sul giornale. Per certi versi, si rese conto, era il miglior ritratto che avesse mai visto di lei; nessuna meraviglia che lo mostrassero sempre, ogni volta che il Gruppo di Wyle riemergeva di nuovo alla pubblica attenzione, nell'anniversario di uno degli omicidi o in uno di quegli sciocchi dibattiti sulla violenza e la Tv o le droghe o le macchie solari o qualunque fesseria tirassero
fuori i rotocalchi. Sembrava ancora bella nella foto, forse anche più della realtà, col viso più snello e più forte e gli alti zigomi simili a ricurve lame di coltello. E nei suoi occhi feroci si poteva leggere l'intera storia del Gruppo di Wyle; il suo sguardo aveva perforato la lente dell'obiettivo come se potesse bruciare la pellicola. Il fotografo, lo stesso, le era girato attorno riprendendola di fronte; si poteva capire che era ammanettata solo dalle spalle rivolte indietro e dal poliziotto dietro di lei. Anche la foto delle loro nozze era tra le illustrazioni del libro, inclusa da Bedell per macabro senso ironico. Erano attorniati da tutto lo squallido lusso pagato dai genitori di lei; Mike sembrava a disagio nello smoking a nolo, lei sorrideva felice sopra il mazzo di fiori. Tyler fece scorrere l'indice fra l'ultima pagina di foto e la pagina di testo che la seguiva, su carta più ruvida. Con una lieve mossa del dito saltò le altre foto, gli altri membri del Gruppo, le foto in esterni del campus universitario e di linde case suburbane, anonime se non per i nastri di plastica POLICE INVESTIGATION - DO NOT CROSS appesi davanti alla porta. E le foto delle vittime, vive e sorridenti, poi in un lago del proprio sangue, riprodotto nelle pagine col più nero degli inchiostri. Per pochi istanti i suoi occhi passarono sulle parole senza leggerle. Fuori, oltre il silenzio dell'appartamento, poté udire il rumore del traffico in una strada laterale, che a quell'ora era rado. Sulle arterie principali, come Sunset e Santa Monica, era fitto come sempre, ventiquattr'ore al giorno. Girò le pagine finché una parola... Linda... catturò il suo sguardo. Il capitolo che era andato cercando, che sapeva essere lì. Raccolse il libro dal tavolino e lo aprì di nuovo sedendosi in poltrona. ...stavano per essere scoperti. Anche se tutti gli altri arrestati fino a quel momento, incluso suo marito Michael, erano stati trattenuti senza cauzione per accuse esattamente identiche, il giudice Bellamy fu informato che la procura distrettuale riteneva opportuno che Linda Tyler fosse rilasciata in attesa del processo. Lo stesso potere che aveva ritardato l'arresto di Linda per tre settimane, e avrebbe potuto rimandarlo in eterno se Benelli e Royce del Times non l'avessero rintracciata a Santa Barbara presso il ranch dei suoi genitori, mostrò di nuovo i muscoli. In una città dove il nome Mueller si poteva trovare dappertutto, dalle pergamene con cui gli spagnoli avevano concesso le prime terre fino ai consigli d'amministrazione di corporazioni più ricche di molti Paesi, non era probabile che la figlia di simili magnati passasse molto tempo in cella. O che ne passasse affatto,
come poi accadde. La richiesta di cauzione prese il giudice Bellamy talmente di sorpresa che convocò Welbeck dell'ufficio della procura, poi il legale di Linda, Aram Minosian, e... come riportato nell'edizione mattutina del Times, ma non quella finale della sera... il padre di Linda nei suoi uffici. Quando Bellamy ne uscì venticinque minuti scarsi dopo, fu rivelato il prezzo della libertà condizionata della figlia di Mueller: la bellezza di un quarto di milione. Se il giudice stava facendo uno strappo alle regole col suo vecchio avversario a tennis, si era almeno assicurato che fosse pagato un prezzo rispettabile... Povero vecchio Bellamy. Tyler poteva vedere la faccia del giudice anche senza guardare la foto nel libro. Era finalmente giunto a sentirsi dispiaciuto per quel disgraziato. La sua faccia si era fatta più anziana e più grigia man mano che il processo era andato avanti, con ogni elemento di prova esibito più e più volte, i rapporti autoptici, le foto della polizia grondanti di sangue, ingrandite abbastanza da poterle mettere su un cavalietto e mostrarle alla giuria. Sei mesi dopo aver promulgato le sentenze, cinque mesi dopo aver annunciato il suo ritiro dalla carica, il vecchio giudice Bellamy era morto. "L'ultima vittima del Gruppo di Wyle" pensò Tyler. Fece scorrere in fretta le pagine, si fermò, e lesse di nuovo. ...in attesa del processo. Stranamente, Tyler stava trovando la prigione di suo gradimento. La relativa pace e quiete dell'unità d'isolamento... come gli altri membri del Gruppo di Wyle, era stato messo sotto custodia protettiva, per impedire a qualche altro prigioniero di guadagnare prestigio uccidendo una figura tanto celebre... gli concesse la prima vera opportunità di riflettere sugli eventi degli ultimi due anni, di separare la realtà dalle fantasie omicide. Il difensore nominato dalla corte si stupì, a quel tempo, dell'apparente fatalismo in cui era caduto, della sua mancanza d'interesse per i preparativi del processo. Non c'era alcun modo in cui potesse dirgli che, dopo gli orrori cui aveva assistito, quella prigionia non poteva incutergli alcuna paura. Sdraiato nella branda dopo lo spegnimento delle luci, a fissare il soffitto e finire il pacchetto quotidiano di Salem... un vizio adolescenziale che era riemerso in prigione e durato fino al termine dei processi... osservava le immagini di morte riaffiorargli dalla memoria, vedendole come se fosse la prima volta. Se mai veniva il sonno, era solo verso il mattino,
quando le prime luci scacciavano via i fantasmi. Nel periodo in cui la corte esaminava le mozioni preliminari degli avvocati, Tyler ricevette un miscuglio assortito di notizie. Il giudice Bellamy approvò la mozione, inoltrata sia dagli avvocati dell'accusa sia della difesa, che ai membri del Gruppo di Wyle si dovesse somministrare una terapia di formaci psicotropi, elencati in una relazione del gruppo di ricerca dell'esercito che in origine aveva investigato sulla droga "Ospite", allora prodotta da una ditta farmaceutica tedesca sotto il nome in codice 83 Blau. Gli scienziati dell' esercito avevano abbandonato il progetto di ricerca e le speranze di trovare un uso militare per l'asserito effetto di "comunione mentale" fornito dalla droga, a causa degli effetti collaterali negativi... effetti che erano stati drammaticamente illustrati dall'uso illecito fattone dal Gruppo di Wyle. La natura di "pseudo-virus" della droga aveva l'imprevista conseguenza di rendere i suoi effetti apparentemente permanenti, come risultato di alterazioni di base nella chimica del cervello; la droga, in sostanza, si fondeva col sistema nervoso centrale di chiunque vi venisse esposto. Farmaci relativamente semplici, presi su base regolare, potevano, comunque, alleviare le allucinazioni e altre anormalità. Gli sfortunati individui inclusi nell'elenco, che funsero da soggetti dei test originali, reagirono bene a una combinazione di... Gli occhi di Tyler scorsero sopra la monotona lista di tranquillanti e altri medicinali che Bedell, nella sua pignola ossessione per i fatti, aveva ficcato nel libro. I nomi gli erano tutti familiari... stavano sulle etichette dei contenitori di plastica rosa, sulla credenza in cucina. La plumbea prosa di Bedell non li rendeva affatto più interessanti. Una schiappa come quella doveva scrivere di omicidi per farsi leggere da qualcuno. ...ancora più chiaro. Aveva sperimentato che l'effetto di "mente collettiva"... o illusione che fosse... diminuiva semplicemente perdendo il contatto con gli altri membri del Gruppo di Wyle. Ora, con i farmaci somministrati quattro volte al giorno dalle infermiere del reparto medico della prigione, Tyler si ritrovò di nuovo padrone della propria mente, dopo due anni. Sebbene continuasse a essere apatico sull'esito dei processi, i legali della difesa notarono uno spiccato miglioramento nel suo carattere. Poi, proprio prima del processo, un terribile colpo. Solo dopo che uno psichiatra nominato dalla contea aveva giudicato stabili le sue condizioni,
con la nuova terapia farmacologica, era stato ritenuto sicuro dirgli... Chiuse gli occhi. I pochi paragrafi successivi erano troppo penosi per rileggerli ancora. Già leggerli una volta aveva marchiato a fuoco le parole sul suo cuore. Girò la pagina prima di sollevare le palpebre. ...parte della strategia dei legali della sua difesa. Erano già riusciti a separare il caso di Linda da quello degli altri membri del Gruppo; ora volevano prendere ancor più le distanze. Tyler fece sapere che il suo consenso alla richiesta di divorzio dipendeva dal fatto che in prigione gli fosse accordato un privilegio speciale. Voleva accesso illimitato a libri portati da fuori. Sebbene ufficialmente gli avvocati di Linda non avessero alcuna voce in un capitolo simile, il giorno dopo aver dato il suo assenso al divorzio, il primo libro gli fu consegnato in cella, per rimpiazzare il tascabile Buone nuove per l'uomo moderno che aveva già letto una dozzina di volte. Forse era significativo che una Bibbia di King James fosse in testa alla lista. Il resto... I titoli erano solo parole per lui adesso. Aveva finito per donarli alla biblioteca del carcere dopo il verdetto. "C'è un limite" pensò "a cosa si può imparare dai libri. Anche da uno che racconta la tua vita." Lo soppesò in mano, col grosso dorso che gli riempiva il palmo. Kinross si fece il caffè, scaldando l'acqua in un pentolino dal manico lento per versarla sopra i cristalli solubili. La pentola era la stessa che sua moglie gli aveva lasciato dopo il divorzio. Non ne aveva mai comprata una nuova, né una caffettiera... l'acqua calda era l'unica cosa per cui avesse mai usato il pentolino, anche dopo essersi ritirato dal Lapd, con abbastanza soldi per quei piccoli miglioramenti domestici. Perché non era il momento. Non ancora. Mentre versava l'acqua nella tazza, e il vapore si alzava tra le nocche ossute delle dita, pensò a Linda Tyler. E a tutte le altre cose cui ripensava giorno dopo giorno. "Mi ha preso il bambino." Le parole gli risuonarono nel cranio, continuarono a girare in tondo mentre portava la tazza in tavola, mettendola giù accanto al sandwich rosa-bianco di mortadella e maionese che era il suo pranzo quotidiano. "Slide mi ha preso il bambino." Era proprio tipico di loro. Masticò metodicamente, senza sentir nessun
gusto, e fece scorrere i suoi ricordi come un nastro, rivedendo il viso di Linda che scoppiava in lacrime prima di essere condotta via. Chiedendogli aiuto... Lo facevano sempre. Annuì fra sé mentre inghiottiva. Alla fine, frignavano e si pisciavano tutti addosso, chiedendoti di aiutarli. E gli dispiaceva. Gli dispiaceva sempre di aver ammazzato tutta quella gente. Perché non volevi aiutarli adesso? "Mi ha preso il bambino." Kinross prosciugò l'ultimo caffè dalla tazza. "Fottuti bastardi" pensò. "Tutti quanti." Spinse via la tazza vuota. Dall'altro lato del tavolo tirò verso di sé un altro oggetto immutato nella rigida successione di giorni, e mesi, e anni. Il libro si aprì di piatto, poiché la legatura si era rotta per l'uso tempo prima. Aveva gettato via la sovraccoperta rosso scarlatto subito dopo aver comprato il libro, come un involto di carta da macellaio che si fosse imbevuto di sangue. Non c'era nulla nel volume, nulla che quel grasso stronzo di Bedell e Tyler... un altro pazzoide omicida... avessero convertito in una prosa da best-seller liscia come la vaselina, e poi in soldi per rimpinzarsi la saccoccia, senza che Kinross non lo avesse ordinatamente messo da parte nella propria testa, dandogli una forma più completa. C'erano tutti i contenuti delle cartellette accumulate nelle scatole di cartone disseminate per la stanza, i rapporti e le trascrizioni della polizia, tutte le migliaia di pagine che aveva fotocopiato... contro i regolamenti... e raccolto lì, prima di andare in pensione e perdere la possibilità di consultarle ufficialmente. Ma neanche in seguito l'attenta accumulazione di pile su pile di carte si era fermata. Certi colleghi più giovani ancora in carica, che avevano lavorato con lui al caso del Gruppo di Wyle, continuavano a fornirgli copie di tutto quel che finiva negli archivi del Lapd. Un flusso che diminuiva costantemente, via via che passavano gli anni e i legami che restavano ancora con l'intera faccenda si facevano sempre più esili, e molti iniziavano a dimenticare. C'erano quelli che non dimenticavano, comunque; altri come lui. L'arresto di Linda Tyler era il primo nuovo avvenimento da aggiungere all'archivio da molto tempo. I suoi vecchi contatti del Lapd si erano assicurati che gli fosse notificato... contro i regolamenti... e che lui si trovasse subito sul posto. Come se non avesse mai lasciato il corpo di polizia. Il che, dal suo punto di vista, poteva anche essere vero: aveva solo raggiunto l'età in cui poteva passare tutto il tempo a pensare a Wyle e al piccolo branco di pazzi che gli si era raccolto intorno, e a quel che avevano fatto. L'articolo del LA. Times sull'arresto era già stato attentamente ritagliato e
aggiunto all'archivio, nella cartella di cartoncino col suo nome segnato sopra. Sfogliò il volume finché non giunse alla sezione fotografica in mezzo. C'era il volto di Linda Tyler, la stessa foto d'archivio usata dal quotidiano quel giorno. Sapeva di chi era la mano che le stringeva il braccio nella foto, spingendola per i corridoi della stazione di polizia: era la sua. L'anello al dito, che aveva colto un riflesso del flash del fotografo, era la sua fede nuziale... la portava ancora adesso. Non si era mai preoccupato di strapparsela dal dito e sbarazzarsene. Milioni di persone, chiunque avesse comprato il libro di Bedell, o la sua edizione tascabile, o qualche traduzione straniera... una volta, a Tijuana, appena prima di pensionarsi, col tranquillo compito di andare a prendere un testimone e riportarlo a L.A., si era imbattuto in un'edizione in spagnolo da poco prezzo, con la copertina rosso sangue abbellita da un tipico teschio sogghignante messicano... tutta quella gente aveva visto la sua mano nella foto. Una vera mano di poliziotto, che faceva il suo lavoro. Era tutto quello che bastava vedere di lui. Quella grossa mano, grossa anche quand'era stato un ossuto pugile tredicenne e partecipava agli incontri della Lega Atletica della Polizia, che serrava il braccio sottile e torceva la spalla, mentre la faccia aveva un groviglio da strega di capelli neri e occhi scintillanti come quelli di un animale in trappola. "Lo era davvero" pensò, riguardando l'immagine di Linda Tyler nel libro. "Lo è ancora. Solo che adesso si è spezzata." Quando l'avevano arrestata la notte prima, lo aveva supplicato e quegli occhi taglienti come lame di coltello erano apparsi miti e bagnati di lacrime. Anche il suo nome era nell'indice del libro... Kinross, Gerald, Det. Sgt., con quattro numeri di pagina segnati dopo, che si riferivano a una fase o l'altra delle investigazioni e degli arresti del Gruppo di Wyle. Il procuratore distrettuale, che si era messo a scrivere il proprio libro sul Gruppo e in seguito era entrato nel Consiglio Municipale, aveva un'intera colonna di numeri sotto il suo nome. Quella disparità non dispiaceva a Kinross. Essere nella polizia significava lavorare in un triste anonimato. E lui era ancora al lavoro. Picchiò il dito sulla piatta immagine del viso di Linda Tyler. "Ti ho presa, troia" pensò. "Ti ho beccata finalmente." Poté gustare la soddisfazione nella sua bocca, come sangue che gli sprizzasse sotto la lingua. Lei lo fissò di rimando dalle profondità in bianco e nero della foto. C'erano altre immagini di lei nei suoi archivi. Lei e gli altri. E delle loro vitti-
me. Bedell ne aveva usate alcune nel libro. Ma gli editori, nel loro acume commerciale, avevano escluso le foto peggiori. Quelle in cui all'occhio ci voleva un momento per riconoscere che la figura al centro era stata umana. E cosa ne era rimasto. "Ma non è ancora finita" pensò Kinross mentre voltava la pagina e poi tutto il resto delle foto del libro. Il suo sguardo sfiorò le ordinate linee di parole, non in cerca di qualcosa di nuovo, qualcosa che non avesse già inscritto nella memoria tempo prima, ma solo per lasciare che quanto già sapeva gli riaccendesse il fuoco nelle viscere. C'era ancora quel fottuto Tyler. E tutti gli altri. Nessuno di loro aveva ancora pagato abbastanza. Le sue mani si fermarono, appiattendo di più il libro sul tavolo. Cominciò a leggere. ...nella calura estiva. Quel che il Sergente Detective Kinross trovò sotto lo sciame di mosche avrebbe fatto vomitare senza ritegno quasi tutti gli altri uomini. Ma con tipica professionalità, il sergente risalì per il fianco del burrone fino alla strada e fece una chiamata, registrata alla centrale alle 12:47 pomeridiane, per la squadra del Coroner. Più tardi, quando i pezzi furono infine districati l'uno dall'altro, a Kinross venne riconosciuto il merito d'aver scoperto la sesta e settima vittima del Gruppo di Wyle. I rilievi dentali effettuati dal medico legale permisero finalmente di identificare Kim Nygren e Jeffrey Wallace, altri due studenti universitari. Ma in quel pomeriggio estivo, mentre Kinross osservava la squadra investigativa setacciare i cespugli attorno al sito, non aveva modo di sapere che sarebbe stata la volta di altri cinque cadaveri, e che lui stesso avrebbe trovato il numero nove ad appena cinquecento metri da quel luogo. Ci voleva ancora una settimana di tempo. Nel frattempo, sul campus, un paio di jeans imbrattati d'erba e di sangue stavano avvolti attorno a un coltello con la lama affilata di fresco, in fondo allo scarico delle immondizie dietro il Dipartimento di Scienze. Se l'impresa di pulizie Mac-D, che aveva l'appalto dello smaltimento dei rifiuti dell'università, fosse passata di lì il venerdì come al solito, i jeans col coltello dentro sarebbero scomparsi il giorno dopo in una delle discariche della contea. Ma quella settimana il venerdì cadeva il Quattro Luglio; la raccolta dei rifiuti fu fatta il giovedì prima per lasciare agli addetti il giorno di vacanza libero; e il fagotto macchiato di rosso rimase lì fino alla set-
timana dopo, in attesa di essere trovato... Kinross annuì soddisfatto, chino sul libro. Quello li aveva inchiodati; il coltello e i jeans erano stati il bandolo del filo che aveva dipanato l'intera matassa. Naturalmente, un branco di tipi da università col moccio al naso non avrebbe badato agli uomini dell'immondizia che si prendevano il Quattro Luglio libero. Prima ancora di cominciare con quella merda di Ospite, e prima che la droga li convincesse di essere tutti piccoli dei di latta col potere di vita o di morte sui miseri mortali, avevano probabilmente pensato che chi non portava una serie di titoli dietro il nome fosse solo uno sguattero per portar via la loro biancheria sporca. Ecco a che gli serviva il mondo reale e tutti quelli che conteneva, a usarli come carta igienica. Anche se a quel punto fossero stati in grado di dire che giorno era, Wyle e tutti i suoi discepoli si sarebbero certo fatti beffe di quella vecchia scemenza di festa borghese; avevano già i loro piccoli rituali a cui pensare. "Ecco che si ricava" pensò Kinross "a cacare sul mondo reale." Il mondo reale, inevitabilmente, trova il modo di farvela pagare. Semplice giustizia: se lasciate cose che una volta erano state esseri umani su una collina dove i cani randagi grufolavano fra i grovigli di intestini srotolati e le mosche potevano scavare nella guancia di una ragazza diciannovenne, finché la faccia seccata dal sole sembrava un melone lasciato troppo a lungo nel campo... allora fate parte del mondo reale, e non della torre d'avorio che voi e i vostri amici vi siete costruiti attorno al guru onnipotente. E siete vulnerabili ai meccanismi della giustizia di questo mondo, alla polizia e alle giurie e alle prigioni. Dove non eravate più messi a morte, com'erano pietosamente eliminati gli animali rabbiosi, ma lasciati in vita, per potervi far passare un lungo tempo a pensare, nient'altro che pensare. Al mondo reale. E quando quei meccanismi andavano a farsi fottere, quando infine gli avvocati con la faccia da culo versavano dai loro libri grossi e pesanti tanta sabbia da ingrippare gli ingranaggi finemente regolati della giuria? Allora arrivavano psichiatri con abiti da quattrocento dollari che si compravano passando da un'aula di tribunale all'altra, e spiegavano che l'omicidio non era omicidio, la morte non era morte (allora cos'era quella cosa che puzzava come il retro di una macelleria ed era tutta nera di mosche e lui sentiva ancora il vomito in fondo alla gola, all'idea). Così la ricompensa per quello che avevate commesso erano altre droghe, che porgevano come medicine in comodi e tranquilli reparti psichiatrici. Droghe che vi trattenevano dal pensare a cosa avevate fatto.
E se eri uno di quelli fortunati, con avvocati tanto furbi da convincere un vecchio scemo di giudice che in realtà non avevi fatto nessuna di quelle brutte cose... avevi solo visto gli altri farle, e poi avevi solo aiutato i tuoi amici tenendo la bocca chiusa sui corpi che imputridivano sulle colline e nel bagagliaio della Volvo parcheggiata nel campus, e sul coltello avvolto nella stoffa e infilato nello scarico, e obbedendo a tutti gli altri piccoli gesti con cui il Gruppo di Wyle si rinchiudeva in se stesso per proteggersi... finché la roba marcia non puzzava tanto da non poterla nascondere più... Se eri uno dei fortunati, potevi parlare e parlare nella tua confortevole stanza d'ospedale di tutte le cose interessanti che avevi visto, e lasciare che qualche scrittore dal culo grasso buttasse giù tutto per metterlo in un libro. Che avrebbero letto tutti, perché niente era più affascinante di un cuore estratto attentamente e fatto rotolare in un burrone come un morbido pallone rosso. E quando i servizievoli psichiatri dicevano che eri guarito, e ti lasciavano uscire dopo appena due annetti, ci sarebbe stato un bel mucchio di denaro ad attenderti... Che razza di punizione era quella? Kinross chiuse il libro e lo strizzò fra le mani, come se potesse appallottolarlo in un grumo di inchiostro e carta, abbastanza piccolo da entrargli nel pugno. Il rumore della falciatrice e degli altri attrezzi era sceso lungo la strada. Il giardiniere stava curando qualche altra residenza, nel suo percorso fra le verdi e ondeggianti stradine suburbane. Steso sul dorso, Bedell giacque sul tappeto, ascoltando il distante scoppiettìo dei piccoli motori a benzina, e tenendo la sua copia del libro a distanza di un braccio sopra la testa. L'unico libro che importasse. "La cascata dei soldi" rammentava fra sé di tanto in tanto. Cascata ormai inaridita; quella era stata un'altra epoca, che aveva pensato non finisse mai. Era ancora il suo favorito, comunque. Non che ci fossero molti altri suoi libri cui paragonarlo. Alzò gli occhi agli ordinati filari di parole sopra di lui, le parole che lui stesso aveva messo in riga sulle pagine, tratte dal caos di nastri registrati, interviste, rapporti della polizia, annunci mortuari... Capì di sembrare, se qualcuno fuori avesse sbirciato dalle tende in quel momento, una parodia della tradizionale foto di papà-e-pargoletto, che reggeva in alto l'amata progenie. "Più probabilmente" pensò, come se stesse sulla soglia a guardare quanto si comportava da sciocco "sembro scuoterlo per vedere se ne cascano
fuori altri soldi." Conoscendo lo stato delle sue finanze, ecco cosa avrebbero pensato. "E avrebbero ragione..." Alzò lo sguardo sulle parole che aveva scritto, e le lesse e rilesse un sacco di volte, come se potesse strappar loro qualche nuovo segreto, non ancora divulgato. Squillò il telefono, coprendo il rumore di fondo del giardiniere. Bedell rotolò sul fianco, ascoltando la propria voce snocciolare le parole incise nella segreteria telefonica. L'orlo della fìbbia della cintura gli affondò nel soffice ammasso del ventre, mentre portava la mano al telefono, pronto a toglierlo dal suo posto sugli scaffali. — Alan! Sei tu? La voce all'altro capo sembrava preoccupata. O seccata; forse era così. Bedell si tirò su, appoggiandosi contro il muro. La nebbiosa distanza che tre dita di scotch avevano messo fra lui e ogni cosa oltre le tende tirate gli fece scivolare il telefono di mano; dovette appoggiarlo sul tappeto per poterselo portare all'orecchio. — Sì, esatto. Sono io. Che succede? — È quello che sto chiedendo a te. — Il suo agente, quello che aveva preso l'anno prima al posto di Barry Ephrem, dopo il fiasco dell'incarico di Esquire e tutti gli insulti che ne erano seguiti. Bedell annaspò nella memoria in cerca del nome... Jeff una cosa o l'altra. Questo era tutto. — Hai parlato a quel tizio, Tyler? Merda... Bedell contorse il telefono contro l'orecchio per guardare l'orologio. Le due del pomeriggio, quindi le cinque pomeridiane a New York. Quella mattina, alzatosi prima delle otto per chiamare quando le tariffe interurbane erano ancora basse, aveva detto all'agente che si sarebbe rifatto vivo dopo mezzogiorno con l'assenso di Tyler alla proposta. — Sì... sì, l'ho fatto. — Si strofinò la fronte, come se cercasse di massaggiarla per riattivare il sangue che gli stagnava nel cervello. — È sembrato... interessato. — Interessato quanto? — Un evidente tono di fastidio filtrò attraverso la linea, lungo tutti i cavi e i congegni elettronici fin da New York. Un accenno di esasperazione, dissimulato attentamente. "Piccola testa di cazzo" pensò Bedell. Tempo. Ecco quello che gli serviva: tempo e denaro. Col telefono all'orecchio Bedell chinò la testa, voltando le spalle alle tende della finestra, come per celare le sue parole a qualcuno in ascolto laggiù. — L'idea lo eccita. Lo eccita molto. Quel tipo ha un sacco da dire. Sulla sua ex moglie, e tutto quanto. Penso che ci starà. — Quando ti farà sapere qualcosa? — La voce dell'agente gli rimbombò
nel timpano. — Dobbiamo essere certi di questo, prima di definire la faccenda. — Ci sta pensando. — "Non farmi fretta, amico." — Gli serve un po' di tempo. "Tempo..." — Forse dovrei parlargli io? Dobbiamo solo stipulare un contratto con quel tipo. È compito mio. "No no no no" gli strillò la propria voce dentro la testa. Doveva fare lui da intermediario fra Tyler e chiunque altro; dopo il bordello dell'anno prima, qualunque accordo raggiungessero poteva benissimo escluderlo. Abbastanza facile per quel piccolo bastardo tagliarlo fuori, e formare un sodalizio con qualche altro scrittore ("che... aspetta, aspetta... poteva essere alle sue dipendenze"). Erano tutti così; non avevano alcuna fede in te, per aiutarti a superare i momenti più duri. Prendevano il loro 10 per cento e scomparivano, proprio quando avevi più bisogno di loro... come quel fottuto di Ephrem. Per un momento Bedell vide davanti a sé il viso magro del suo vecchio agente sopra la cravatta perfettamente annodata e il colletto coi gemelli d'oro ("che si era pagati coi miei soldi"). Al tavolino all'angolo di quei bar di New York, dopo che i redattori di Esquire e della Knopf si erano alzati ed erano usciti, portando con sé tutti i loro contratti e i soldi. Vide Ephrem scuotere la testa grigia, tristemente, sopra quella sottile risma di pagine, il prodotto di una frenetica notte di lavoro e di caffè finché le mani non gli avevano tremato sui tasti della Selectric; l'epilogo di sei settimane passate a fissare i fogli bianchi nel carrello, con gli stessi risultati... che bevesse o no. — Be'? — La voce del nuovo agente lo riportò al presente, troncando il filo dei ricordi. Si rese conto di esser rimasto dei secondi... quanti?... senza parlare, che sarebbero stati addebitati sull'interurbana. — Dovrei occuparmene io? — chiese l'agente. — No. No... Non penso che sia una buona idea. — Bedell si inumidì le labbra secche con la lingua. — Tyler ha un carattere un po'... difficile. Ma io lo conosco, giusto? So lavorare con lui. Posso maneggiarmelo. Un sospiro lontano. — Guarda. Cerca di inchiodarlo il più presto possibile. — La voce si finse paziente, indicando in realtà l'opposto. — Quella donna finita in cella ha riportato tutta la storia di Wyle sui notiziari nazionali. Non saremo noi gli unici a vendere qualche proposta agli editori. In questo c'era un accenno di buone notizie; la mente di Bedell prese a calcolare, facendo girare le rotelle. La ricomparsa del Gruppo di Wyle su giornali e riviste poteva far risollevare le vendite del primo libro. Ma anche
così, il denaro non sarebbe comparso fra i diritti inviati dagli editori prima di sei mesi o un anno da allora; di gran lunga troppo tardi, date le sue attuali condizioni di miseria. "Tempo. Tempo e denaro." Meglio scordarsene. La cosa da fare subito, in quel momento, col telefono abbarbicato all'orecchio, era tenere l'agentucolo imberbe a lavorare per lui. Invece di rubargli l'idea del nuovo libro... "Fottuti! Sono tutti così!"...e scribacchiarlo con qualcun altro. E tenere Tyler, e tramite lui Linda, sotto torchio, martellare le sue rivelazioni esclusive sulla macchina per scrivere come un'incudine, trarne un nuovo libro, altro denaro. Ecco quel che bisognava fare. Impedire che l'intera faccenda gli scivolasse tra le dita. — Mi rifarò vivo, amico. — Si umettò le labbra di nuovo, e con la lingua sentì il rivoletto salato di sudore all'angolo della bocca. — Più presto che posso. Probabilmente domani. — Lo spero. — L'agente riagganciò. "Piccolo merdoso." Bedell tese il braccio per rimettere il telefono al suo posto sullo scaffale. Nell'altra mano, vide, reggeva sempre la copia del libro dalla copertina rossa, con un dito che teneva ancora il segno nel mezzo. All'interno della notte di J. Alan Bedell. C'erano altre copie del libro in casa, intonse, mai aperte, disposte come trofei nell'armadietto dalle ante di vetro che teneva dall'altra parte della stanza, o impilate in scatole di cartone mezze piene, nell'armadio della stanza da letto che gli serviva da ufficio. Ma quella era la sua copia di lettura, la copia di lavoro che sottolineava e riempiva di note a margine, tutte le sue idee per spremere un altro volume da quel grezzo ammasso di sangue e omicidi. Quella storia stava rapidamente sbiadendo... era un pezzo da museo, spinto ai margini dei pensieri della gente dai nuovi delitti, dal nuovo sangue che ogni giorno gli scrosciava addosso dalle pagine dei giornali, usciva dagli schermi Tv accesi sui notiziari delle sei e delle undici. Stavano sospingendo nell'oblìo anche lui col suo libro. Era stato il suo unico colpo di fortuna, trovarsi al posto giusto nel momento giusto, e ora il libro affondava in quell'oceano rosso come una zattera sotto di lui. Tutti quegli appunti scribacchiati di sghembo a fianco delle parole stampate non volevano dir nulla, in confronto al clamore della scoperta e dell'arresto di Linda. E al fatto di avere un rapporto esclusivo con lei tramite il suo ex marito, Tyler. Bedell aveva già sentito che lei lo stava cercando. La chiave giusta per quella caverna spettrale che era la sua mente. Aprì il libro sul tappeto davanti a sé. Come un fortunato presagio, il nome di Tyler gli balzò subito agli occhi. "Ce l'ho" pensò, con uno scatto d'e-
sultanza innescato dallo scotch. "Ce l'ho avuto prima, spremendogli tutto e mettendo ogni parola sulla pagina. È mio. Sempre mio." Chinandosi sul libro, prese a leggere. ...interessante problema. Perché il fatto che i rappresentanti dell'accusa si fossero spaccati così profondamente, in una fase così avanzata del processo, su questioni fondamentali di strategia, mostrava su quale confuso territorio legale stessero procedendo. Cosa fare riguardo alcuni dei membri del Gruppo di Wyle era ovvio: nei casi di Paula Josephson e Dennis Meyer, in cui la pura evidenza delle prove li collegava direttamente alle uccisioni, l'accusa continuò a sostenere le imputazioni di omicidio plurimo. Lo stesso Wyle, prima di scivolare in un arrogante silenzio, non aveva fatto alcun mistero di essere stato l'istigatore dei crimini. Oltre a ciò, dalle testimonianze concordanti degli altri membri del Gruppo, era chiaro che si era trovato sul luogo di almeno sei delle uccisioni, o durante o poco dopo gli eventi. Ogni particolare delle uccisioni gli era stato riferito e descritto; il suo manifesto Ikon Anarchos, incompleto al tempo dell'arresto, lo confermava. Quel logoro dattiloscritto era adesso una delle più importanti prove esibite dall'accusa al processo. Ma che dire di Tyler e gli altri membri del Gruppo, che si erano dichiarati consapevoli degli omicidi, avevano perfino confessato di saperne tutto... e la cui conoscenza dei crimini, tuttavia, poteva essere solo spiegata dal sedicente effetto di "comunione mentale" causato dalla droga Ospite? Se l'accusa avesse negato l'esistenza della comunione mentale, sarebbe stata costretta a escogitare qualche altro modo per spiegare come vari membri del Gruppo, alcuni a distanza di oltre duemila miglia, potessero conoscere i più piccoli particolari degli omicidi, non appena avvenuti. Nei casi di Bonnie Rees, che tornava in aereo da Boston all'ora del delitto Delahay, e di Glenn Williamson, sul luogo degli scavi compiuti dall'Università nella penisola dello Yucatàn durante il massacro di Nygren, Wallace e Bowers, anche la remota possibilità che le descrizioni fossero state dettate al telefono fu da escludere. Eppure, nei "diari di contatto" accuratamente datati che loro e tutti gli altri membri del Gruppo tenevano, e che anche l'accusa aveva ammesso come prova, erano stati giudiziosamente annotati perfino minuti dettagli come la spilla di sicurezza di plastica che la sorella di Kim Nygren le aveva dato come riparazione temporanea dell'elastico del reggiseno. L'altra metà del duplice dilemma in cui si dibattevano i rappresentanti
dell'accusa era altrettanto sgradevole. Se ammettevano la tesi della difesa sull'esistenza della comunione mentale, avrebbero aperto un vaso di Pandora di referti psichiatrici sugli effetti della droga Ospite. Diminuita capacità di intendere e di volere, temporanea insanità mentale, il solito pantano di sciocchezze. Le discussioni infuriarono durante la notte nell'ufficio di Welbeck e nella camera del giudice Bellamy. Si poteva sostenere il concetto di una cospirazione criminale... "concordata o svolta insieme"... quando l'unico modo di dimostrare che gli imputati condividevano la conoscenza dei fatti era quello di ammettere l'esistenza di una singola mente dietro i crimini, che agiva attraverso, piuttosto che insieme, agli individui coinvolti? Alla fine, come accade così spesso in casi che si insabbiano per la loro stessa complessità, il compromesso fu visto come la scelta più saggia. Il procuratore distrettuale, con di fronte una rigorosa campagna di rielezione, non poteva permettersi né che la maggior parte del Gruppo di Wyle fosse riconosciuta non colpevole dopo le varie perizie psichiatriche, né un lungo e costoso nuovo processo nel pieno della crisi finanziaria che attraversava la contea. L'accordo iniziale secondo cui gli imputati si sarebbero visti ridurre le accuse in cambio dell'ammissione di colpevolezza venne dall'ufficio di Welbeck sotto forma di una nota manoscritta, un lunedì mattina presto, il 21... La droga; si finiva sempre a parlare della droga. Bedell si sedette a gambe incrociate sul tappeto del soggiorno, col libro in grembo, mentre si massaggiava la nuca. "Qualunque cosa abbiano fatto" pensò "l'Ospite gli ha dato un alibi." Fortuna per Tyler; lui e gli altri si erano trovati a fondo nella merda più totale, ben sopra le loro piccole testoline di universitari. E quel che ce li aveva tuffati, li aveva fatti riemergere. L'Ospite. Tutta la colpa era finita alla droga. "Me l'ha fatto fare il Diavolo... giuro." E fortuna per lui, pure. Bedell annuì fra sé, carezzando la liscia sovraccoperta del libro. L'intera storia della "comunione mentale" aveva conferito agli omicidi del Gruppo di Wyle un nuovo rango. Non una replica della storia di Charles Manson, l'Lsd e il bimbo di Sharon Tate, buona per sbiadire in fretta su Time... altre cose da pazzi fra i pazzi della California del Sud... ma qualcosa di differente. Le aveva dato una nuova angolazione, sufficiente a giustificare il perenne interesse del grande pubblico delle librerie per coltelli e torsi smembrati. Anche per quelli, l'Ospite era una scusa.
Nessuna meraviglia che il Gruppo di Wyle avesse adorato quella sostanza, facendone il proprio sacramento. Le avevano anche dato per nome un blasfemo gioco di parole fra "Ospite" e "Ostia"... lo stesso termine, in inglese. Echi della Santa Comunione presa dallo stesso Wyle nella sua infanzia cattolica, mischiati alla figura che tutti affermavano di aver visto, che sorrideva e dava loro il benvenuto nella notte trasfigurata. L'immagine allucinatoria che a loro volta chiamavano l'Ospite. A che cosa doveva essere paragonata? In tutte le sue ricerche per il libro, tutte le lunghe ore di interviste a Tyler e ogni altro membro del Gruppo disposto a parlare, si era avvicinato quanto più possibile a descriverla a parole. Ma non del tutto; i segreti ultimi erano ancora ben chiusi nelle loro teste. Allargò il libro di piatto sul tappeto, chinandovisi di nuovo sopra. Tornò al capitolo della prima metà, dove le pagine si aprirono da sole. ...notevole similitudine. Sebbene non fosse mai stato dimostrato il verificarsi di alcun contatto fra gli uomini elencati nello studio originale dell'esercito e i membri del Gruppo di Wyle, le descrizioni della figura allucinatoria sperimentate da chi veniva esposto alla droga collimavano in dettagli significativi. I soggetti dell'esercito e il Gruppo di Wyle giungevano a identificare questa caratteristica immagine umanoide con la droga stessa, riferendosi alla figura come allo "spirito" o "guardiano" della droga, in maniera simile all'allucinata figura del "Mescalito" riportata da Carlos Castaneda e altri che scrivevano sull'uso del peyote. Il Gruppo di Wyle considerava l'apparizione di questa figura... "l'Ospite"... a un individuo, il segno che la droga aveva in un certo modo accettato la persona, fornendogli così non solo accesso all'effetto di "comunione mentale", ma anche spalancando a quella persona le porte di un mondo interamente trasformato. Le descrizioni dell'immagine dell'Ospite facevano invariabilmente riferimento ai denti ferini e appuntiti della figura, generalmente bene in vista in un sorriso, e ai suoi impressionanti occhi scuri. Le ore notturne venivano associate all'Ospite, le cui spettrali apparizioni si manifestavano generalmente come distorsioni del campo visivo innescate dall'assenza di luce... Bedell si stese sul tappeto, posandosi il libro sul petto. Perfino allora, dopo tutto quel tempo, tali parole lo affascinavano. Le sue stesse parole
descrivevano qualcosa che non aveva mai visto. Ma poteva immaginarselo; gli avevano tutti detto un sacco di cose al riguardo. L'Ospite. Affascinante... e spaventoso, con quel lieve sentore di pericolo e oscuri, cupi misteri. Un intero mondo segreto, sovrapposto a questo, dove Tyler e gli altri erano andati in giro. Sentì un'acuta fitta d'invidia in fondo allo stomaco. "Merdosi fortunati." Anche quando se n'erano stati seduti nelle loro celle, tesi verso il microfono del registratore a cassette, dopo che uno sprazzo di lucidità era finalmente filtrato fra il torpore e con voce spezzata avevano ripetuto il vacuo racconto di quel che avevano visto... Perfino allora, era riuscito a percepire l'espressione di terrore e mistero quando li incalzava per saperne di più sull'Ospite, la droga e la figura uscita dalla notte; restavano in silenzio, e puntavano lo sguardo lontano da lui, dai corridoi del carcere, verso un luogo oltre la sua portata. Oltre la portata di chiunque non fosse stato lì dentro con loro, nel mondo dell'Ospite. Aprì gli occhi e tornò rapidamente alla parte fotografica del libro. All'immagine più spaventevole e insieme più affascinante di tutte. Alzando il capo dal tappeto, la fissò. Non una fotografia, ma la riproduzione di un pezzo di carta con un rozzo disegno sopra. L'unica cosa trovata nella cella di Dennis Meyer, a eccezione del suo corpo appeso per il collo con una corda fatta di vestiti annodati. Con il dito, Bedell tracciò il profilo dell'immagine del disegno. Qualcosa di simile a un uomo, esile e spettrale, con tronco e arti appena più larghi delle figure che i bambini facevano coi segmenti. La faccia era solo due linee frastagliate, una fila di denti sogghignanti, e due cerchi per occhi, disegnati così neri che la punta della matita aveva fatto dei buchi nella carta. "Povero Meyer" pensò Bedell. In uno dei suoi archivi teneva ancora la cassetta dell'ultimo colloquio avuto con lui. La voce tremante affermava che non li aveva uccisi lui, era stato l'Ospite a fare a pezzi i corpi con quei denti aguzzi e affilati... Gli altri non avevano detto niente quando Bedell aveva ripetuto loro le parole di Meyer. Solo distolto lo sguardo, silenti. Avevano i loro piccoli segreti. E anche Bedell. Una cosa che non aveva messo nel libro né detto alla polizia. Qualcos'altro che Meyer gli aveva rivelato, che l'aveva spinto a uscire nel cuore della notte, quando nessuno poteva vedere cosa stesse facendo. Aveva guidato verso la fila di colline che si stendeva ai margini della città e trovato le pietre messe una sull'altra, e aveva riportato alla luce il thermos sepolto sotto. L'aveva portato a casa, lì, svitato il tappo, ed e-
stratto dall'interno la busta di plastica arrotolata. Scuotendola, gli erano cadute sul palmo le sei capsule chiare con dentro la polvere bianca, il sacramento del Gruppo, nascoste prima dell'ondata di arresti. Il mondo notturno di cui l'Ospite stava a guardia, celandone i misteri, era stato nella sua mano, quasi senza peso. Poi, con cautela, le aveva nascoste di nuovo. Il suo piccolo segreto. Quei tronfi bastardi. Tyler il peggiore di tutti. Sapeva che lo disprezzavano, profondamente, tutti quanti. Disprezzavano chiunque non fosse stato con loro, in quel mondo privato. Anche dopo che tutto era crollato loro intorno, avevano ancora qualcosa che nessun altro poteva avere, dove nessun altro poteva entrare. "Ma io potrei" pensò, stendendosi sul tappeto. "Ogni volta che volessi. Abbastanza facilmente." Loro non lo sapevano; erano tutti così fottutamente furbi, ma quello non lo sapevano. Ogni volta che voleva. E allora non sarebbe più rimasto ai margini, in attesa che uno stronzo come Tyler lo richiamasse. Avrebbe visto coi propri occhi, finalmente. "Questo sì che sarebbe un diavolo di libro." L'indagine poliziesca definitiva; nessun dannato Mailer o Capote avrebbe potuto affermare di essere sceso così a fondo nella mente di un criminale. Sorrise a quel pensiero, finché non chiuse gli occhi e vide, sotto le palpebre, la figura scarabocchiata coi suoi denti e gli occhi scuri. ...innescata dall'assenza di luce... Tyler chiuse il libro, tenendo il segno col dito. Non aveva più alcun bisogno, finché durava la memoria, di guardare le foto al centro o leggere le didascalie che le attorniavano. Erano tutte, come la droga, collegate al suo sistema nervoso centrale. Le medicine che prendeva servivano tanto a tenere alla larga il passato, quanto a impedire ai sintomi della droga... il gusto amaro in bocca, la luce blu che contornava gli oggetti nella notte, l'eccitazione che gli faceva pulsare più rapido il sangue nelle vene... di fuoriuscire di nuovo dal suo contaminato flusso sanguigno... E a trattenere il sintomo finale, la visione che significava che era stato attirato in quell'altro mondo. La visione di un volto sorridente, coi denti come punti aguzzi sotto gli occhi scuri, tanto scuri da caderci dentro, e non riemergerne mai più. L'Ospite ti dava il benvenuto come un amico perso da tempo, un fratello di sangue, carne della Sua carne. Innescata dall'assenza di luce. Ciò, più o meno, ricapitolava tutto. La diagnosi definitiva: nel suo passato c'era una sostanza che, una volta som-
ministrata, lo costringeva a trascorrere il resto della vita a prendere la medicina che le avrebbe impedito di tornare indietro. Ammesso che qualche medicina potesse. Tirò il dito fuori dal libro e lo posò sul tavolino da caffè. Ne aveva avuto abbastanza. Fuori era ancora giorno pieno, mentre il sole proseguiva il suo lento progresso attraverso il cielo. Restavano ancora delle ore prima che avesse qualcosa da fare, guidare fino all'asilo nido a prendere Eddie, portarlo lì a Steff prima di scendere ad aprire il cinema. I piccoli dettagli della vita, così come venivano. Ecco per che cos'erano le pillole e capsule, quattro volte al giorno: per tenere le cose in quel modo. Tempo a profusione. Ore e ore. Tempo sufficiente a richiamare l'avvocato e fissare un piccolo appuntamento. Rievocare un piccolo pezzo del passato. Giusto abbastanza da provare che non aveva più paura... più paura del buio. Si tirò su dalla poltrona e andò in cucina. Presa la cornetta del telefono, iniziò a fare il numero. 5 Eddie fu alzato e vestito, pronto per l'asilo nido, in anticipo sull'orario. C'era tempo a sufficienza perché sua madre e Tyler prendessero insieme il caffè del mattino. Si dissero poche parole; lo sguardo di Tyler si spostò alternativamente fra le scure profondità della sua tazza e la lontana finestra del soggiorno. Fra le dita rigirava il pezzo di stagnola appallottolata che aveva contenuto il suo dosaggio mattutino, attentamente selezionato e avvolto la notte prima per evitare ogni sbaglio all'ora in cui si svegliava con la vista annebbiata, mentre gli effetti postumi delle sostanze chimiche del giorno prima venivano espulsi dall'organismo. Il silenzio non fu un'offesa per Steff. Sapeva cosa lui avesse in mente: che appuntamento aveva per quel giorno, chi avrebbe visto. Dopo che lui gliene ebbe parlato, non ne avevano più discusso, pur senza scordarsene, per tutto il sabato e la domenica. Era sufficiente che lui restasse lontano dalla morsa del passato, che le stesse lì seduto accanto. Lei guardò Eddie far correre un camion di plastica in cima al sofà. Tyler alzò lo sguardo quando suonò il campanello al portone del palazzo. — È lui, suppongo. Vedi niente? — disse, rivolto verso l'altra stanza. Eddie era alla finestra, da dove aveva una chiara prospettiva del vialetto tra gli edifici. Ritirò il nasino dal vetro. — Solo una Bmw. Tutto qui.
— "Solo una Bmw" — ripeté Steff. — Mi piace. — Suo figlio aveva un occhio infallibile per le auto, aiutato e incoraggiato da Tyler. Loro due avevano un percorso favorito, giù per Santa Monica Boulevard verso Century City. Oltre l'officina riparazioni della Rolls-Royce... di aspetto stranamente sporco e untuoso per lei... e i confini di Beverly Hills dove ogni tanto incrociavano una particolare Lamborghini rossa e nera, che si aggirava come qualche esotico predatore sceso dalle colline sopra la città. Era quello uno dei vantaggi culturali di vivere a West Hollywood: il continuo odore di denaro. — Un'evidente nota di disappunto — riconobbe Tyler. Finì la sua tazza e la posò nel lavello. Poi si alzò e Steff lo seguì nel soggiorno. — Allora, quanto tempo ci dovresti mettere? — chiese, mentre lo osservava infilarsi il cappotto. Tyler fece un sogghigno acido. — Credimi — disse — non molto. Non so cosa lei abbia da dirmi. Ma io non ho nulla da dire a lei. — Chi? — Eddie, in mezzo a loro, alzò gli occhi col camion in mano. — Nessuno. Qualcuno che Mike conosceva una volta. — Si chinò e lo spinse in direzione delle stanze da letto. — Vai a prendere il giubbotto. Il citofono del portone suonò ancora. Tyler fece un cenno sprezzante. — Lascia che aspetti. Gli sto facendo un favore. Che programma hai oggi? Le sue lezioni, incastrate fra i vari turni al ristorante, richiedevano una precisione militare per coprire tutta la giornata. Non era colpa di Mike se non riusciva a tenerne il conto; lei stessa se la vedeva abbastanza brutta. — Scarico Eddie e vado dritta sparata al college. — Indicò con un cenno i libri di testo sul tavolino da caffè; attorno c'erano sparpagliate quattro ruote di plastica nera del camion giocattolo. — E poi farò il turno pomeridiano. Volevo solo essere sicura che tornerai in tempo per riprendere Eddie all'asilo. — Oh, nessun problema. Avrò tempo in abbondanza, credimi. Lei lo baciò sulla soglia e lo osservò scendere gli scalini fino al portone d'ingresso. Sentì suo figlio che le si spingeva accanto. — Dov'è che va Mike? — chiese. — Non è affar tuo. Devi sapere dove vai tu. — Abbassò lo sguardo. — Che hai fatto con le tue scarpe? — Voglio che lei sappia che lo apprezzo. — Silberman sfoggiò il suo sorriso più sincero, sfolgorante come una lampada al quarzo. Tyler tenne su gli occhiali da sole, tanto per mascherare l'espressione seria, quanto per
proteggersi dalla brillante luce diurna. — Sono lieto che si sia deciso, finalmente. Tyler scrollò le spalle, reclinando il sedile dell'auto. — È solo che mi piace girare su macchine tedesche. Lo sa? Vanno così bene. — Il contegno ipocrita dell'avvocato lo irritò. Riportò a galla le sue cattive maniere. — Una volta ho conosciuto una fichetta punk, proprio dopo che sono uscito, e adorava andarsene in giro in Mercedes. Ma non poteva sopportare il loro aspetto squadrato. Così se n'è fatta comprare una da papà, e poi lei e i suoi amici hanno battuto l'esterno con delle mazze. Finché non sembrava uscita dallo sfasciacarrozze. E poi si sono fatti tutti un giro sul Sunset con quella roba. Silberman lo guardò per un momento, poi continuò a manovrare la Bmw fra il traffico, diretto verso il più vicino imbocco dell'autostrada. Tyler notò che aveva una scorta di album dei Doors nel portacassette sotto l'autoradio. "Ah, ha gusti classici" pensò, approvando in silenzio. "Nella barbara L.A." — Anche la famiglia di Linda lo apprezza. Appoggiato al poggiatesta, girò il capo per scrutare il giovane avvocato. — Che significa questo? — Il pensiero dei suoi ex parenti risvegliò una certa cautela. Ora fu il turno dell'avvocato di mostrarsi freddo. L'auto svoltò attorno a un angolo. — Non significa nulla — disse. — Solo che il signor Mueller è un uomo che sa come mostrare la sua gratitudine. — Davvero? — L'ultima volta che Tyler aveva incontrato il padre di Linda, il magnate dei parcheggi, abilissimo nel convertire le distese ereditate nella California del Sud in soldi da ammucchiare in cima ad altri soldi, lui stava brandendo una vecchia canna dal manico d'argento nei corridoi del Tribunale di Los Angeles. Era un emblema di ricchezza e potere, preso dai film di serie B della sua infanzia, la fonte che aveva riempito le vite interiori di tanti della sua generazione. Brandendola, imprecava melodrammaticamente che Tyler doveva finire i suoi giorni nell'angolo più fetido e oscuro del sistema penale di stato. Gettato lì a essere sodomizzato, nella più abietta perversione, per quello che Tyler aveva fatto alla bella e innocente figlia del vecchio. Finché gli avvocati di Mueller non avevano dovuto trascinarlo via urlante e rosso in volto. — E, diciamo, quanto varrebbe la gratitudine del signor Mueller? — Tyler appoggiò il braccio sul finestrino aperto, lasciando che la calda aria di L.A. gli scorresse su per la spalla.
Silberman si strinse nelle spalle. — Be', non penso che stiamo parlando proprio di denaro qui. Non credo che sia appropriato in questa situazione. E lei non ne ha davvero bisogno, no? Diciamo solo che il signor Mueller... è una buona cosa averlo dalla sua parte. Diciamo, se succedesse qualcosa. Se dovesse finire nei guai o qualcosa di simile. Molto comodo conoscere un tipo del genere. "Bene, piccolo azzeccagarbugli." Tyler scrutò il profilo dell'avvocato, con gli occhi fissi sul traffico davanti a loro. Alla fine, aveva sputato fuori il nocciolo di quella faccenda. — Non cercare di fottermi, amico. Ho imparato le minacce a una scuola molto più rude della tua. — Lo sguardo dell'avvocato dardeggiò verso di lui. — Che farà il vecchio Mueller se io non coopero? Mi farà ritirare la libertà condizionata o che altro? — Nessuno la sta minacciando, signor Tyler. — L'avvocato mantenne una voce ipocrita. — Ma lei sa come possono succedere le cose. — Le cose non "succedono". Qualcuno le fa succedere. Ecco quello che so. E né tu né Mueller né chiunque altro potete toccarmi la libertà condizionata. Sono un figlio di puttana pulito, Silberman. — "Sei un topo addomesticato adesso." — Ho una fedina irreprensibile. Silenzio per pochi secondi fra loro, poi: — Basterà che continuiamo ad andare d'accordo, Tyler. — Un semplice, freddo annuncio. — Oh, certo. Come no. — L'adrenalina sprizzata nel suo flusso sanguigno da quelle parole, le sue e anche quelle dell'altro, gli diluì i farmaci nel corpo. Abbastanza perché la strada di L.A. che l'auto stava percorrendo, tinta di scuro dai suoi occhiali da sole, vibrasse di un alone blu elettrico intorno agli edifici. L'ultimo tratto del Sunset prima di svoltare in su per l'autostrada: una delle puttane, alla fine di una notte passata all'angolo in cerca di preda, o che forse stava solo iniziando il lavoro mattutino, si voltò a ispezionarli, come faceva con ogni auto che la oltrepassava. Per un attimo Tyler vide una faccia uscita dalla memoria, non più femminile e neanche umana, sogghignargli con denti appuntiti. Poi, altrettanto in fretta, ridivenne la vacua maschera annoiata di rossetto e mascara, la stolida faccia da bambola che vedevano tutti gli altri. Lui inclinò la testa all'indietro; nell'angolo dello specchietto retrovisore poté vederla recedere sul marciapiede. Già con lo sguardo puntato altrove, sulla macchina seguente che scivolava verso di lei. Guidarono per il resto del percorso fino al centro di detenzione femminile in silenzio.
Dopo essere stati perquisiti... con più attenzione nel caso di Tyler; sapevano chi era... Mike si sedette ad attendere in una delle stanzette sul davanti dell'edificio. La pittura beige d'obbligo sulle pareti e le sedie anatomiche di plastica imbullonate al pavimento gli erano tutte familiari. Aveva già fatto un lungo viaggio attraverso quel mondo diviso in comparti, l'aveva assorbito, reso parte di sé. La stanza stessa, come le altre simili negli ospedali e in ogni altra sorta di guardina, era un locale senza finestre che portava racchiuso nel cuore. Dove l'orologio che scandiva le ore in alto sul muro, col quadrante bianco cerchiato di nero, ticchettava senza relazione col tempo esterno. Aveva imparato ad attendere in stanze come quella. Era stata la principale lezione del tempo passato dentro. Silberman fece ritorno nella stanza, e la porta fu aperta da una poliziotta con la chiave fissata alla cintura da una catenella. Richiuse la soglia dopo che l'avvocato l'ebbe oltrepassata. — Linda vuole vederla da solo. Tyler alzò lo sguardo su di lui. — Ah, sì? — Sorrise. — Continua a essere molto ostinata. Ci sarà da divertirsi, lavorando a questo caso. — Vorrò sapere che cosa le dirà — disse Silberman. — Non si preoccupi. — Tyler si tirò su dalla dura sedia di plastica. — Se suo padre ha pagato tanto da farmi arrivare fino a questo punto... Le farò un rapporto completo. La stessa poliziotta dall'altro lato della porta lo guidò in un'altra stanza identica alla prima, a eccezione di un tavolo e due sedie nel mezzo. Pochi minuti d'attesa, e udì i passi della donna tornare lungo il corridoio, seguiti da altri che echeggiavano con un diverso ritmo. La porta si spalancò; lui guardò in su e vide la sua ex moglie. — Per favore, tenete le mani in vista sul tavolo. — La poliziotta si mise a sedere su un'altra sedia isolata accanto alla porta, equidistante da Tyler e Linda agli opposti lati del tavolo, e divenne parte dello scarso mobilio della stanza. Aveva i capelli più corti di quando l'aveva vista l'ultima volta, anni prima. Allora le scendevano fino a mezza schiena. Ora li portava in una corta coda di cavallo, tenuta da un semplice elastico. Anche poche sottili linee di grigio vicino alle tempie. Niente trucco; poté vedere senza impedimenti come fosse diventata molto più vecchia. "E tu cosa pensi di sembrare? Siamo entrati in questa storia che non eravamo altro che ragazzi, ed ecco come ne siamo usciti. Se mai ne siamo usciti davvero."
— Ciao, Linda. — Le sue mani giacquero piatte e immobili sul tavolo, col legno chiaro a separarle da quelle di lei. Lei strappò nervosamente un filo che le pendeva dal polsino della blusa blu sbiadita, di modello standard. — Michael... devi ascoltarmi. Dentro di sé, nel cuore, lui sentì la stanzetta simile a quella, con l'orologio a muro che segnava ore senza senso, sprofondare nel silenzio più cupo. E anche tutte le altre stanze oltre le vuote pareti; nessuna parola, niente da udire. Perché poté vedere nell'oscuro centro dei suoi occhi, quando Linda si tese sopra il tavolo verso di lui, che lei era ancora lì, in quello spazio muto. Non se n'era mai andata. Lei era quella che aveva tagliato la corda; lui era finito in prigione e in ospedale assieme agli altri. E alla fine lui e qualche altro avevano trovato una via d'uscita. Lei era sparita alla vigilia del processo, e non era finita in cella. Ma era rimasta lì dentro, in quella stanza senza tempo. Gli spazi oscuri sotto le ciglia erano fessure d'osservazione che davano su quella camera; lui poteva guardare dentro, ma lei non poteva vedere fuori. Si domandò se lei vedesse affatto qualcosa, o se non stesse invece parlando a qualche frammento del passato, orlato di blu elettrico. Da qualche parte nella propria memoria, Tyler risentì la voce di Wyle. Una conferenza, a uno dei suoi piccoli gruppi di discepoli... prima che tutto affondasse in un lago di sangue. Citava Jung, una delle poche reliquie della psicologia del passato che fossero sfuggite al suo disprezzo bruciante, incendiario. Qualcosa sulla schizofrenia: "...e da questo punto in poi, nulla di nuovo entra più nella mente". Fissò per un momento le proprie mani distese, poi alzò di nuovo lo sguardo su di lei. — Ascoltare cosa? — Già... come se non fossero passati degli anni, era tornata l'intesa che sarebbe sempre corsa tra loro. — Slide ha preso Bryan. — Le dita le si arcuarono, e le unghie cercarono futilmente di incidere la superficie di legno verniciato. — Dove vivevo... dove mi hanno trovata... Slide è entrato e l'ha preso. Ha il nostro bambino. Tyler si fece indietro, osservando le lacrime che erano cominciate a sgorgare dagli occhi di Linda. Lei chinò il capo, premendo il palmo di una mano sullo zigomo come per impedire alla faccia di disintegrarsi in pezzi. Quell'unica parola, quel nome, aveva fatto cadere un altro frammento del passato di fronte a lui. Poté vederne il volto, col sorriso compiaciuto per la propria furberia, e gli occhi brillanti come metallo smaltato. Slide era stato l'unico altro membro del Gruppo di Wyle, oltre a Linda, a scomparire, sgu-
sciar fuori dalla rete poliziesca stretta intorno a tutti loro. Tornato alla natura, come se fosse stato un animale simile a un furetto, con tane e tunnel segreti sotto la superficie della nuda terra. Il che, in un certo senso, era sempre sembrato giusto a Tyler, quando ci aveva pensato mentre giaceva su qualche cuccetta di prigione o letto d'ospedale. Slide era stato il legame del Gruppo col mondo oscuro e spettrale delle droghe e dei soldi e della gente che se li scambiava a vicenda. Non qualche svitato accademico, che teneva corsi all'università e agognava avidamente un po' di espansione di coscienza... come se fosse una scopata con qualche studentessa acqua e sapone che incrociava le gambe nella prima fila di banchi. Slide aveva portato con sé l'aria fresca di un mondo diverso, più severo, con regole più sottili. Aveva saputo che fare quando il loro piccolo campo giochi gli era crollato addosso, imbevuto di sangue; i guai con la polizia non erano niente di speciale per lui, non come per quei poveracci fuori di testa del campus; era semplicemente svanito di nuovo in quel buio, duro mondo da cui era scaturito. E ora lì c'era Linda, a dire che Slide aveva loro figlio. Il furetto era strisciato nel nido per rubare il piccolo, fragile pulcino. Scrutò la figura piangente di fronte a lui, dall'altra parte del tavolo. — Come sai che era Slide? — Mi... mi ha chiamata lui. — Gli occhi, ora rossi e bagnati, lo fissarono. — Al telefono. Era lui. Ha detto che aveva preso Bryan, e mi ha detto di guardare, e lui era sparito. Bryan è sparito. E lui continuava a ridere. Slide continuava a ridere. Le parole erano fuoriuscite come frammenti inerti di nastro, cuciti assieme in una voce incrinata. "È isterica" si rese conto Tyler. "Ma le hanno dato qualcosa." La crisi, che le aveva fatto battere i piccoli pugni fino a sprizzare sangue sui muri di cemento di qualche stanza di contenzione, aveva avuto luogo la notte prima. E a prendersene cura erano state le competenti, esperte poliziotte che stavano di guardia, assicurandola con morbide corregge di flanella a ogni polso e caviglia. Era usanza corrente, come Tyler aveva avuto abbastanza occasioni di osservare, lasciare qualcuno gridare a squarciagola, finché, esausto, non fosse scivolato in un certo torpore. Ma un padre come quello che aveva Linda poteva inviare lì un medico privato, per portare all'infermeria della prigione il conforto di un ago e successive pillole. Lui capì che quelle parole stavano venendo urlate, che dentro il suo cranio Linda stava ancora battendo i pugni a sangue per riavere il figlio perduto. Solo i prodotti chimici nel suo circolo sanguigno rendevano le parole
lente e comprensibili; avevano permesso di levarle dai polsi le soffici corregge, e mettergliele nella testa, dove erano più efficaci. "Benedetti siano i farmaci, che danno l'apparenza della sanità mentale, quando sarebbe più sano urlare, e continuare a urlare." Quel pensiero gli fece spuntare un lieve, cupo sorriso. Aveva da lungo tempo smesso di urlare... era stato in quegli anni bui alle sue spalle... ma ancora i farmaci tenevano il peggio ("quella faccia coi denti lunghi e appuntiti, quel sorriso che divorava") alla larga dalla sua mente. — Bryan è con Slide, allora. Lei annuì, nella sua ovattata sofferenza. Sentì la stanza dentro di sé farsi così fredda da sembrare che il suo cuore fosse imprigionato tra pareti di ghiaccio. — Cosa vuoi che ci faccia? — chiese a bassa voce. — È tuo figlio. — La voce di Linda si spezzò, implorante. — Il nostro bambino... lo so, lo so, lo so... — Le lacrime ripresero a scorrere. — Lo so che l'ho preso io, che non l'avevi più visto per tutto questo tempo... Stavo per fartelo sapere, dirti dov'ero, ma avevo paura che mi trovassero... Ma ancora... Tyler si alzò, spingendo la sedia indietro, e si tese attraverso il tavolo. La poliziotta alla porta fece per alzarsi anche lei, poi si fermò, osservandoli assorta. La voce di lui si fece ancora più bassa: — Farò quello che dev'essere fatto. Linda... tu sai cosa, non è vero? Lei annuì ottusamente. — Okay, c'è un altro uomo che dovrà tornare più tardi a parlarti. Si chiama Silberman; è il tuo avvocato. Va bene? Capisci? Fai qualunque cosa ti dica, e tu digli qualunque cosa voglia sapere. Okay? Un altro cenno d'assenso. — Michael... Il gelo aveva colmato la piccola stanza nel suo cuore, e quell'altra che la conteneva, e tutte quelle racchiuse una nell'altra. Furioso com'era, avrebbe potuto scaraventare di piatto la mano sul viso piangente della donna e mandarla lunga distesa sul pavimento. Invece, si staccò dal tavolo e andò verso la porta. — Che cos'ha detto? — Silberman balzò in piedi da una sedia della sala d'attesa. Tyler conficcò un dito nella clavicola dell'avvocato, proprio sotto il perfetto nodo della cravatta. — Senti, rottinculo. — Pressò il dito con più forza, costringendo l'altro a indietreggiare di un passo. — Portami fuori da qui, e poi potrai tornare, e non avrai più problemi con lei. Ma non voglio
più vederti né sentirti. Afferrato? Silberman lo fissò per un momento prima di annuire. — Sta bene — disse. — Ma sta gettando via le opportunità che aveva. Il padre di Linda... — Fottiti tu e Mueller. — Tyler lo oltrepassò, diretto verso la fila di uscite che davano sul parcheggio. Lei uscì dall'edificio e lo vide lì ad attenderla. Quando finì la lezione di anatomia, Steff ebbe quindici minuti per mangiare il cartone di yogurt che aveva portato con sé, e prese un caffè in bicchiere di plastica dai distributori automatici allineati lungo il cortile del college; doveva farsi forza, per i novanta minuti di sfacchinata che aveva davanti in laboratorio. Ma proprio in mezzo ai corpi degli altri studenti che andavano di fretta o ciondolavano in quello spazio di cemento, individuò Michael seduto sul basso bordo di una delle aiuole, appoggiato coi gomiti sulle ginocchia. Aspettando con pazienza certosina che lei si mostrasse. Si alzò e lei lo raggiunse. — Che stai facendo qui? — Steff non sapeva nemmeno che conoscesse tanto bene gli orari di lezione da trovarla. Forse l'aveva snidata, restando lì al varco, con qualche istinto animale. L'aspetto triste del suo viso la preoccupò. — Ho fatto presto — disse. — Con lei. — Non ebbe bisogno di dire con chi; c'era un solo nome possibile. — Com'è andata? — Lei portò i libri davanti a sé, per spostare il peso. — Oh, è andata bene. Proprio bene. — Attorno a loro, gli studenti sciamavano a frotte, e le loro ridenti conversazioni facevano da sfondo all'amarezza della voce bassa di Michael. — Mi ha detto ogni sorta di cose interessanti. — Al centro dei suoi occhi c'era un'oscurità che attirò lo sguardo di Steff; le voci e le risa che li circondavano svanirono dal suo udito. Steff non disse nulla, in attesa. Con la coda dell'occhio lo vide appallottolare un involucro di carta stagnola fra le dita. Si poteva vedere la forma delle capsule dentro. Sebbene fosse già passato mezzogiorno, non aveva ancora seguito il rituale di ingoiarle, preciso come un orologio. — Vuoi sapere che cosa mi ha detto? Ti piacerà un sacco. — Mike... — L'aspro tono di rabbia che era scattato come una molla in quella voce amara la spinse un passo indietro. Lui le afferrò il braccio, tenendolo stretto sopra il gomito. — Andiamo. Ho qualcosa da mostrarti. Lei non fece proteste per le lezioni che le rimanevano quando lui la trascinò fuori, nella strada al bordo del campus. Era peggio di quanto l'avesse
mai visto prima; le cose che, come lei sapeva, teneva imbottigliate dentro di sé erano scoppiate attraverso una crepa. La paura che sentì tenne il passo con la preoccupazione, impedendole di divincolare il braccio dalla sua stretta e correre indietro, tra la folla e la sicurezza della gente e del rumore. Una multa per sosta vietata era stata infilata sotto il tergicristallo della Chevy. Michael la strappò via e la gettò prima di spingere Steff in macchina. Un momento dopo, si era già infilato dritto nel traffico dell'ora di pranzo. — Lo sai che cosa mi ha detto? — domandò lui di nuovo. Frenò, si infilò scorrettamente in un varco nella corsia accanto, e accelerò. Lei scosse la testa, tenendo i libri stretti al seno come una barriera tra loro. — Una volta avevo un bimbo piccolo. — Michael la fissò negli occhi, incurante del traffico. — Non lo sapevi, non è vero? — N... non so. — Non riuscì a ricordare, non poté richiamare quel concetto dal suo cervello. Lui non ne aveva mai parlato, non aveva mai detto niente su un bambino. Ma c'era qualcosa... qualcosa nel modo in cui guardava il suo Eddie, nei momenti in cui era silenzioso e meditava, ignaro che lei lo osservasse dalla porta della cucina... Forse lei aveva intuito. Ma si era astenuta dalle domande, per non scoprire più di quanto già non sapesse sul dolore della perdita. — Solo un neonato. — Il suo sguardo tornò alle forme che saettavano oltre il parabrezza. — Chiamato Bryan, come mio nonno. Linda mi ha detto che l'ha tenuto tutto questo tempo con sé, mentre se ne stava nascosta. Che ne pensi di questo? Steff rimase silente, osservandolo. Puntò lo sguardo fra il traffico che stava solcando, come se inquadrasse ogni conducente nel mirino. — Mi ha detto che qualcuno l'ha rapito. Qualcuno che una volta conoscevamo ha preso nostro figlio, proprio prima che la arrestassero. E ora vuole che io lo trovi e lo riporti indietro. — E puoi? — disse lei. — Puoi trovarlo? — Trovarlo? — La sua risata fece tremare l'abitacolo dell'auto, e lei si ritrasse contro lo sportello. — Certo che lo posso trovare! So dov'è... ho sempre saputo dov'era. Con un sussulto fece salire l'auto sul ciglio del marciapiede e l'arrestò di scatto, girando la chiave per spegnere il motore. I libri di Steff le caddero di mano finendo sul pavimento, mentre lui la trascinava sull'altro sedile, verso lo sportello aperto dal suo lato.
— Mike... ti prego. Mi fai male... Lui ignorò quei lamenti e continuò a tirarla, serrando di più la stretta sui braccio. Il traffico rombava, scorrendo dietro di loro. La spinse oltre un ampio portico di pietra incorniciato da palme. Per un momento, nella quiete dall'altra parte delle mura alte e spesse, lei pensò di trovarsi in un parco, da qualche parte della città. I grandi prati ben curati si stendevano in lontananza fino a un altro portico all'estremità opposta. Al di fuori delle mura, le file uniformemente spaziate di palme... vecchie, così alte da oscillare sullo sfondo del cielo come bacchette di direttori d'orchestra... attorniavano quel luogo. Tutto ciò che si udiva del traffico circostante era un fioco mormorio. Lei abbassò lo sguardo, verso l'erba ai bordi del sentiero sinuoso. Il verde era costellato di piccoli rettangoli di marmo od ottone lucido, con parole incise sopra. Vicino a lei, una coppa metallica, mezza sepolta nel suolo, conteneva dei fiori, che avvizzivano nell'aria secca. Michael la trascinò per qualche altro metro, nel campo verde e quieto, poi la lasciò andare. La spinta della sua mano la spedì lunga distesa fuori dal sentiero. Steff si tirò su in mezzo all'erba. Davanti a lei, su una targa d'ottone, si leggeva BRYAN MARK TYLER. L'anno di nascita e l'anno di morte erano gli stessi. Si girò su se stessa e alzò lo sguardo su Michael. Lui le stava sopra, gettando un'ombra addosso a lei e alla lapide, col sangue che pulsava visibilmente agli angoli delle tempie. Lei non poté capire se la vedesse, o se il suo sguardo sprofondasse fino alla piccola bara nel terreno sotto di sé. 6 Dopo che lei ebbe messo Eddie a letto, tornò di nuovo in soggiorno. Michael era ancora seduto nel buio; c'era solo la fioca luce azzurra dei lampioni, fuori, che pioveva obliquamente sulla poltrona che aveva trascinato fino alla finestra. — Steff... Lei si voltò al suono del proprio nome. La sua ombra si allungò dalla porta della cucina verso di lui. Tutta la sera era andata avanti e indietro dalla cucina alle stanze da letto sul retro dell'appartamento, zone illuminate, preparando la cena per il figlio e guardando la piccola Tv in bianco e nero in cima alla credenza con lui. Il silenzio incombente dell'altra stanza
era filtrato lungo il corridoio, come una radiazione oscura. Ammutolendo anche il solito chiacchiericcio di Eddie, che adesso aveva seppellito il viso nel cuscino, evitando il suo bacio della buonanotte. — Mi spiace — disse Michael. Solo le sue mani erano visibili, pallide nella luce azzurra mentre riposavano sui braccioli della poltrona. Vide la sua faccia voltarsi verso la finestra, simile a un freddo profilo inciso nell'argento. — Ero completamente fuso. Per quello che mi aveva detto... e tutto il resto. Dev'essermi andata qualche rotella fuori posto. Proprio non sapevo quello che stavo facendo. Lei non disse nulla. Il ricordo della tomba del bimbo le era rimasto davanti agli occhi, anche quando aveva abbassato lo sguardo sulla testolina di suo figlio appoggiata sul braccio, sopra il cuscino. ("Il figlio di Mike... ha sempre freddo. Tutta la notte fra l'erba scura, mentre le palme nere sussurrano fuori dalle mura di pietra"). Stanca, appoggiò una spalla alla soglia, dando un'occhiata alla pila di piatti sporchi sul bancone, poi di nuovo a lui. Una scintilla di luce sul pavimento al suo fianco: un pezzetto di carta stagnola, vuoto e appallottolato, in cima a un libro. La copertina rossa sembrava nera nelle tenebre. La voce di Mike suonò spenta, come se le parole fossero state dosate e calibrate tempo prima. — Se vuoi che lo faccia — disse — andrò. Non voglio che tu debba preoccuparti. Che qualcosa del genere succeda di nuovo. Per un attimo lei stette immobile a fissare la figura seduta nel buio. Poi mosse qualche passo e gli andò accanto. Guardando fuori dalla finestra, poté avere una visuale delle luci più brillanti, le insegne di plastica dei bar e il traffico sul Santa Monica Boulevard. Le auto rallentavano al semaforo della Fairfax; sembrava quasi che lei potesse vedere le facce all'interno, che guardavano assorte lungo i marciapiedi antistanti... qualunque cosa stessero cercando. I fari delle macchine dirette in senso opposto prosciugavano le facce di ogni colore, dandogli l'apparenza di maschere dai lunghi denti. Si tirò indietro, anche se sapeva che nessuno poteva vederla nell'oscura finestra dell'appartamento, quando un viso solitario su un'auto si voltò nella sua direzione. Poggiò la mano sulla spalla di Michael. — Ci penserò sopra — disse. Lui alzò un braccio e pose la propria mano sulla sua. Già lei sapeva quale sarebbe stata la risposta. Lì dentro l'oscurità era solo temporanea; poteva essere scacciata con l'interruttore sul muro. Fuori, il traffico slittava lungo le strade, incessante, mentre occhi e fari scrutavano in una tenebra che nessuno voleva finisse.
...ricevette la notizia senza apparentemente manifestare emozioni. Le guardie dell'ala della prigione in cui si trovava Tyler la presero all'inizio per una pura dimostrazione di freddezza da parte sua. Solo più tardi, dopo che gli fu concessa l'autorizzazione a partecipare al funerale del figlio, ed ebbe un collasso, ancora ammanettato e circondato da quattro agenti, accanto al sito della tomba, la consapevolezza della morte dell'infante sembrò scuoterlo dal suo torpore... Mise giù il libro in grembo. Non era riuscito a dormire; aveva lasciato Steff raggomitolata da un lato del letto, con la sua spruzzata di lentiggini sopra la fine camicia da notte di cotone, appena visibile attraverso i ciuffi sciolti dei suoi capelli. In silenzio, per non svegliare lei o il bimbo dormiente nella stanza accanto ("quell'altro bimbo non si sarebbe destato mai più"), Tyler era uscito, tornando alla poltrona rimasta ancora accanto alla finestra che dava sulla strada. I lampioni nella strada erano abbastanza brillanti perché lui, inclinando il libro verso quella luminescenza azzurra, potesse distinguere le righe di testo. "Com'è quella vecchia canzone?" pensò. "Qualcosa, qualcosa come... non ti serve la luce, l'indirizzo lo puoi leggere alla luna." Il primo album di Leonard Cohen, con in copertina quella triste faccia di ebreo canadese che faceva l'imitazione del Cristo sofferente, e la ragazza in fiamme sul retro. Un Lp che per qualche tempo, negli anni Sessanta, era stato d'obbligo nell'appartamento di ogni studente hippy. Insieme a Surrealistic Pillow di Jefferson Airplane e Cheap Thrills dei Big Brothers, e fra quelli più aggressivamente hippy, The Velvet Underground and Nico, con la banana di Andy Warhol ancora intatta. E lui li aveva avuti tutti. Si sfregò gli occhi. Leggere in quella luce fioca gli aveva lasciato un filo di sale sotto le palpebre. Pur avendo riposto l'orologio sul comò accanto al letto, sapeva che erano passate da un pezzo le due del mattino; l'attività dei bar lungo il Santa Monica era cessata, lasciando la relativa quiete delle auto dirette verso destinazioni più lontane. Qualunque transazione, finanziaria o carnale, che non fosse stata completata a quell'ora avrebbe dovuto attendere fino all'indomani sera. I distanti, attutiti suoni del traffico gli cullarono il cuore, calmandolo per un momento. ("Altri ricordi, collegati solo dall'idea della strada. Un suo amico gay annunciava che stava per 'smettere di dragare' sul Santa Monica Boulevard: 'Non c'è più niente che si possa dire a quelli, tranne: Adesso girati'.
Solitudine e Aids, ecco le uniche cose che potevano lasciarsi dietro. La volta successiva che si era imbattuto in quel tipo, aveva messo su casa con un amante fisso, il tradizionale passo avanti verso la rispettabilità di un gay della classe media.") Tyler cacciò dalla propria mente quei pensieri vaganti. Nel profondo, continuava a rivangare il ricordo della sua ex moglie. Nel passato, ad anni di distanza, e poi meno di ventiquattr'ore prima. La donna nella stanzetta del centro di detenzione era la stessa che aveva sposato ai tempi dell'università. E che gli aveva dato un figlio. Bryan dormiva nella sua piccola tomba a quell'ora, come ogni notte. Ma quella notte la madre del bimbo, la donna che lo aveva costretto a seguirla nella pazzia ("Costretto?... no, erano andati insieme, mano nella mano.") non cantava più la ninnananna al bambino che credeva fosse sempre con lei, ancora vivo. ("Che motivetto?" Tentò di ricordare una dolce voce in un altro appartamento, più piccolo di quello, molto tempo prima. Dormi, dormi, piccola stella... Non riusciva a rammentare, a riportarla alla memoria.) Dalla pazzia erano usciti almeno alcuni di loro. Rudy Yates si guadagnava da vivere presso una missione cristiana evangelica di Freeport, Kentucky; ogni Pasqua Tyler riceveva una cartolina da lui, piena di citazioni bibliche, senza alcun riferimento al sanguinoso passato che avevano condiviso. Per un paio d'anni Tyler si era divertito acidamente al pensiero che il vecchio Rudy, il più sarcastico cinico del Gruppo, fosse tornato in quella sorta di gregge che aveva sempre deriso. I primi libri di Wyle avrebbero dovuto sferrare il colpo finale a quelle vecchie superstizioni tiranniche... o così avevano pensato tutti. Ora Tyler si chiedeva se quella che sentiva, quando la cartolina col volto di Gesù gli arrivava ogni primavera, non fosse una certa malinconica invidia. E altri, che erano stati ai margini del gruppo ed erano stati solo spruzzati di sangue, non immersi. E infine i pochi, come Linda e lui stesso, che avevano percorso tutta la strada verso il magma rosso, e ne erano riemersi. Tutti spezzati, o cambiati in qualche modo; nessuno ne era uscito come ci era entrato... non era possibile. C'era Bonnie Rees, che ancora viveva lì a L.A. (La maggior parte degli altri, una volta usciti dagli ospedali o dalla prigione, erano partiti per altri posti, dove speravano che il peso dei rimorsi sarebbe stato più tollerabile.) Aveva due immagini di Bonnie nella propria mente: parecchi anni prima, coi capelli biondi e sporchi che ricadevano su un coltello che le avevano passato, mentre scrutava le chiazze di sangue sulla lama come se vi fosse scritta qualche rivelazione. E l'ultima
volta che l'aveva vista, dietro il registratore di cassa di una piccola libreria, con gli occhi di un topo di laboratorio che ha preso troppe scosse elettriche per azzardarsi ad attraversare il labirinto di nuovo. Ken Ruhman lavorava negli studi di registrazione di Hollywood come tecnico del suono. Il Gruppo di Wyle, con le sue narcisistiche telecamere e i videoregistratori... su cui il procuratore distrettuale era stato così avido di mettere le mani... era stato una specie di addestramento professionale per Ken. Almeno, per qualcuno, da quella faccenda era venuto un piccolo beneficio. Era l'unico che Tyler avesse visto spesso; aveva perfino, tramite i suoi contatti con l'industria del cinema, fatto dare a Tyler l'incarico di riaprire il locale ormai in abbandono e in lista per la demolizione... un lavoro di merda che richiedeva poche ore e non fruttava quasi nulla, ma teneva la polizia soddisfatta che avesse un posto retribuito, assicurando che non vivesse di espedienti. C'erano degli altri. Tyler non aveva fatto nessun tentativo di seguirne le tracce. Quello spettava a individui come Bedell, autoproclamatisi storici della follia di massa. Adesso Linda, il buco nero di quella storia, era riapparsa. Trascinata dal Lapd fuori dalle tenebre in cui era svanita. Doveva riconoscerglielo: avevano il vero istinto dei poliziotti, e non mollavano mai finché il lavoro non era finito. Come la macina degli dei, che avanzava lenta ma inarrestabile. "E neanche tanto lenta" pensò Tyler. Si erano mossi abbastanza in fretta da schiaffare col culo in galera chiunque, quand'era giunto il suo tempo. Fuori dalle tenebre, ma non dalla follia. Linda ancora non ce l'aveva fatta. Tutti quegli anni, con un bambino immaginario. Si era sognata Bryan crescere? Mandarlo a scuola, un giorno? Tyler restò a guardar fuori, col cuore sempre più pesante in petto. Forse il meccanismo dell'illusione si era finalmente infranto in lei; non c'era nessun ragazzino, in qualunque angolo del cervello l'avesse nascosto. E il crollo di un'allucinazione ne aveva generata un'altra, come succede di solito in casi simili. Richiamando il vecchio, spettrale Slide, per strisciar fuori dal passato come uomo nero e portarsi via il piccolo. Roba da favole, tipo, forse, l'Hans Christian Andersen più cupo, le storie che non lasciavano più leggere ai bambini. Piene di sangue e follia a iosa. Osservò il traffico scorrere grigio in lontananza. Era da quello che lo trattenevano le medicine, lo sapeva. Ecco perché il granitico, ferreo rituale quotidiano delle capsule e pillole, delle dosi prese alle ore fissate. Le tenebre, e l'entrarvi e non uscirne mai più... Un bambino immaginario, rapito da un bandito immaginario. Era quello
l'esito finale di tutte le raffinate teorie di Wyle, eloquente retorica contro i condizionamenti della mente borghese. La seconda illusione era la prova della prima; Bryan era sparito, no? E Slide si prendeva la colpa. Tyler scosse triste il capo. Slide era probabilmente morto a quell'ora, o passava il tempo in qualche prigione del profondo Sud sotto il suo vero nome, per qualche altro crimine... aveva avuto un dolce accento da pazzoide, frutto delle anfetamine. Un vero criminale professionista, non un ideologo ingenuo e dagli occhi sgranati come tutti gli altri che Wyle aveva attirato nel gioco. Sul suo grembo, le pagine del libro stavano cambiando sfumatura, dall'azzurro dei lampioni al grigio acciaio. Albeggiava presto; le prime tracce filtrarono nel cielo sopra i bar silenziosi. Era stato seduto accanto alla finestra per ore, rimuginando su quella storia triste. Sulla povera pazza Linda, non perché gli fosse rimasta qualche traccia d'amore per lei... quello era finito tutto in cenere... ma per la semplice pena che davano le cose perse nel buio. Chiuse il libro e, senza accendere la luce, lo riportò nel suo armadietto. Sollevato il mazzo di giornali vecchi, lo lasciò scivolare di nuovo in fondo alla scatola. "Non leggere più" si disse. "Dimentica, invece." La porta della stanza di Eddie era accostata; la aprì e guardò dentro. Una piccola sagoma raggomitolata sotto le coperte... Bryan sarebbe stato più grandicello, ma non molto. Sempre un bambino. Tyler rimase sulla soglia, a osservarlo. Abbastanza facile. Fece un passo nella stanza buia. Poté vedere le ciglia del piccolo sulla soffice guancia. Era abbastanza facile immaginarsi un altro bambino dormire lì. "Non è Linda che l'ha perduto. Sono io." Lei aveva ancora suo figlio, loro figlio. Pur se rapito, il bimbo era sempre vivo da qualche parte. Nelle tenebre, si possono ritrovare anche le cose che si pensava di avere perduto. — Bryan... — bisbigliò nel silenzio della stanza. Chiuse gli occhi, appoggiandosi alla cornice della porta. Si era abbandonato alla pazzia; lo sapeva. Era così che cominciava. Eppure, solo per un momento... Guardò di nuovo la figuretta infilata sotto il lenzuolo. Nella fioca luce che filtrava lungo il corridoio dalla finestra del soggiorno, il viso del bambino ora sembrava differente. Si fece più vicino, piegandosi per vedere, allungando una mano per toccare, trattenendosi a un centimetro dal volto dormiente.— Bryan...? Le ciglia erano tutte distaccate, ciascuna orlata di blu elettrico.
La faccia si girò verso di lui. Non più la faccia di un bambino, ma una maschera con la bocca spalancata sui lunghi denti aguzzi e gli occhi sgranati. Sogghignò riconoscendolo. Tyler si tirò di scatto indietro, e la sua mano volò all'interruttore accanto alla porta. La luce si riversò nella stanza. Eddie alzò la testa dal cuscino, accigliato, strofinandosi gli occhi col pugno. — Mike? — Shh. Tutto bene. Va tutto bene. — Col cuore che batteva all'impazzata, Tyler si portò accanto al letto e gentilmente stese giù Eddie di nuovo. Sentì il sudore delle proprie mani bagnare le spalle del pigiama del bimbo. — Torna a nanna. — Allungò la mano dietro di sé per spegnere la luce. Fuori dalla stanza di Eddie, appoggiò la schiena al muro. La luce grigiastra del mattino era più chiara adesso. "Non lo fare più" fu l'avvertimento che rivolse a se stesso. "Non guastare tutto in questo modo. Tuo figlio è morto." Doveva ricordarsene. Non c'era nulla nel buio, tranne le tenebre. Giaceva a letto con la luce spenta, in ascolto. Steff l'aveva lasciato scivolare fuori dal letto, e l'aveva sentito uscire a piedi nudi in corridoio. Era seguito il furtivo rovistio fra la roba vecchia nell'armadio, facendo attenzione a non svegliare nessuno, e Mike aveva ritrovato la cosa che teneva in fondo alla scatola. Là fuori nella stanza davanti, a leggere. Sapeva che era lì che era andato. Il libro. Il libro che lei stessa, spinta dalla curiosità, aveva estratto dall'armadio quando lui non era in giro, e che aveva ficcato di nuovo sotto i giornali vecchi, senza leggerlo. La sua curiosità era limitata dal confine, nero su bianco, delle cose che non voleva scoprire, che sapeva di non dover conoscere. Levò lo sguardo verso il buio soffitto, ascoltando il silenzio dell'appartamento. Una volta lei gli aveva chiesto, mentre erano sdraiati insieme, com'era stato. Essere rinchiusi. Si erano trascinati dei minuti di silenzio mortale, e lei si era morsa il labbro rimpiangendo di aver aperto bocca, prima che lui rispondesse. Aveva detto che andava tutto bene, non era una cosa tanto brutta. Certa gente la dipingeva peggio di quanto non fosse, per suscitare compassione o perché le piaceva ficcarsi in altri guai come quelli che l'avevano fatta finire dentro la prima volta. Ma se solo tenevi la bocca chiusa
e facevi quello che ti dicevano, e andavi dove ti ordinavano e ti sedevi lì e aspettavi per tutto il tempo che ti avevano detto, allora non era una cosa tanto brutta. C'era un sacco di tempo per pensare, in quei posti. Era quella, talvolta, la parte peggiore. Non restava che pensare. Non gli aveva chiesto più nulla al riguardo, sul passato che riempiva l'enigmatico libro. Non era neanche quello, che aveva voluto sapere, ma una cosa qualsiasi. Un qualunque piccolo pezzo del passato che inghiottiva la luce dietro di lui come una caverna. Poi, qualche settimana dopo, di nuovo a letto di notte, lui aveva preso a parlare con voce sommessa, come se i pensieri che gli circolavano nella testa si fossero finalmente aperti un varco nel cranio per disperdersi nello spazio buio della camera. Il passato era divenuto una sostanza che incombeva su di loro, un peso costante come l'aria stessa. Lei l'aveva ascoltato mentre le parlava con voce bassa e monocorde, non delle cose che erano successe, gli omicidi e le altre atrocità che aveva visto, ma di come fosse possibile vedere queste cose e non capire di essere diventato pazzo, che ognuno attorno a te era un folle, e che tutti insieme eravate diventati figure in un paesaggio distorto, che affondavano sotto una marea di sangue. C'era stata la droga che prendevano lui e i suoi amici, loro che avevano tutti pensato di essere così illuminati quando se la sentivano dentro. Roba del genere poteva condurre alla pazzia... Steff lo sapeva già. Un cartone di lattine di birra, talvolta, era bastato a tramutare il padre di Eddie in uno zombie ciondolante che fissava la Tv con le palpebre pesanti. Attendeva che lei facesse cadere un piatto, così che lui potesse entrare in cucina e picchiarla nello stretto spazio fra il frigorifero e il muro, fermandosi solo quando non cercava più di alzare le mani per proteggersi la faccia dai colpi. Senza parlare delle pillole bianche che aveva comprato dai suoi colleghi, nel parcheggio della raffineria, per fargli passare il malumore di svolgere il turno di notte... solo che le pilloline gli erano piaciute tanto da continuare a masticarle anche quand'era tornato a casa, e lei, solo guardandolo sulla soglia, capì che avrebbe assaggiato in bocca il gusto del proprio sangue. Allora lui spinse con tutto il peso fra le sue cosce livide, e l'unico suono che Steff udì attraverso il tintinnio nelle orecchie fu quello del bambino, con lo stesso nome di suo padre, che piangeva da qualche parte, lontano, nell'appartamento. Sapeva, e riusciva a credere, un sacco di cose sulle pilloline che la gente inghiottiva, e che rendevano pazzi. Sapeva tutto al riguardo. Ma Mike aveva continuato a parlare, con la voce che si dipanava piano
nell'immobilità della stanza. Su un nome che talvolta lei aveva sentito anche quando nulla trapelava da oltre le mura dell'appartamento di allora, quando le sue uniche preoccupazioni erano le violente sfuriate del marito e il bimbo nell'altra stanza... un mondo intero dentro l'altro. Su come ci si trovasse a essere così adulati e lusingati, essere accettati nella cerchia ristretta del grand'uomo, passare dal rango di semplice assistente universitario alla confidenza con un membro dell'élite intellettuale, autore di fama mondiale ed eccelso pensatore... fino in fondo, alle radici più profonde del pensiero stesso. "Come essere amati" aveva pensato lei mentre Mike gliene parlava "per la prima volta, l'unica volta che potesse ricordare, e non gli importava nemmeno come si mostrasse questo amore, purché non svanisse, non lo lasciasse solo come prima." E su come ci si trovava a essere così all'ombra di qualcun altro, così dominati da un'altra personalità che non potevi più neanche distinguere la tua, e non potevi dire che l'altra persona era pazza, e che anche tu eri diventato pazzo. Lei sapeva già tutto anche su questo. Al rifugio, con le altre mogli piene di cerotti che cullavano i loro figli in uno stanzone, dove i loro mariti e conviventi non potevano trovarle perché l'indirizzo era un segreto noto solo ai centri d'aiuto alla donna e ai pronto soccorso degli ospedali, aveva sentito parlare di una delle ex residenti. La donna che aveva resistito per sette anni con un marito che una volta al mese o giù di lì alzava lo sguardo dalla colazione, e lei capiva che era uno di quei giorni in cui l'avrebbe portata in garage, chiusa nel portabagagli dell'auto, e preso il bus per andare al lavoro, lasciandola uscire quando tornava a casa in modo che potesse preparargli il pranzo. Era una storia cui si poteva credere, perché a tutte loro bastava guardarsi intorno, nel cerchio di logori divani e sedie pieghevoli avuti in beneficenza, per vedere, sotto i lividi che le avevano finalmente condotte lì, i segni più vecchi delle torture sopportate prima. (La notte, nella stanzetta che divideva con Eddie, allora di due anni, si era chiesta se la donna avesse gridato o tentato di dormire, avvolta come una palla in quello spazio puzzolente di benzina e gomma di pneumatici... se avesse pensato qualcosa del tutto, o fosse stata solo intontita.) Fra le cose di cui Mike aveva parlato, ce n'erano un sacco che lei poteva capire. Forse, se avesse scoperto tutto quello che c'era da sapere, non si sarebbe mai legata a lui. Una delle consulenti del rifugio, che ancora portava un sostegno dorsale in ricordo del suo matrimonio, aveva detto di non esser mai venuta a conoscenza che gli uomini avevano camminato sulla Luna
prima di lasciare suo marito. Così totalmente avvolgente era il piccolo mondo in cui potevi trovarti segregata, così incessanti i dolori delle percosse, da non produrre più lacrime. La faccia di Mike, come le altre del Gruppo di Wyle, aveva avuto il suo momento di notorietà nei notiziari serali, in bollettini tali da reggere il confronto con la Famiglia Manson che ricordava dai giorni del liceo... e lei non ne aveva saputo nulla, Da qualche parte, mentre la sua schiena veniva sbattuta contro il muro, qualcun altro stava venendo assassinato. Qualcuno era assassinato di continuo; non c'era nulla di speciale. Ma Mike, l'uomo con cui dormiva adesso e che andava a prenderle il bambino all'asilo e si dannava a montare automodelli per il divertimento del piccolo, era finito in prigione, in quei tipi d'ospedale da cui non ti facevano uscire quando volevi, e tutto a causa di quegli omicidi, un intero mucchio. Anche se non li aveva commessi lui. Almeno questo lo sapeva da un articolo intitolato "Dove sono ora?" in cui si era imbattuta su un settimanale, dal dentista di Eddie; Mike era dentro per sottrazione di prove e ostruzione del corso della giustizia. Era tutto qui, tutto qui... anche se in qualche modo, dall'oscura storia dietro di lui, che solo quella chiacchierata a letto, a notte fonda, le aveva permesso di intravedere, veniva il debole odore dell'ignoto. "Se avessi saputo." Restò a fissare il buio soffitto e si interrogò di nuovo. Forse avrebbe lasciato decidere il passato, lasciando che tutto ciò che le era accaduto si ripetesse esattamente com'era successo. Era proprio quello che al rifugio le avevano detto di non fare; quando la consulente le aveva chiesto cosa volesse fare adesso, e lei si era fatta scappare di bocca la cosa più folle immaginabile, la donna non aveva riso o detto che era assurdo, ma aveva cominciato a estrarre dallo scaffale gli elenchi di tutte le università, dicendole quanto tempo ci sarebbe voluto a laurearsi, lavorando e frequentando part-time. Anche se non ce l'avesse fatta fino in fondo... era dura, benché non impossibile... sarebbe stato ugualmente meglio per lei. Tanto per provare. Il passato era diventato solo il passato, allora. E che cos'era per Mike? Avrebbe voluto saperlo. Eddie era il suo souvenir di quell'altra epoca. Mike aveva il libro, e la foto dell'ex moglie sul giornale, e tutti gli altri piccoli ricordini che uscivano strisciando fuori dal buco. Lo udì nel corridoio e chiuse gli occhi, fingendo di dormire. Un'altra porta si aprì, la stanza da letto di Eddie. Poté sentire il bisbiglio di Mike, parole che non riuscì a distinguere. Poi Mike che diceva dolcemente a suo figlio di tornare a dormire. "Forse un incubo..." Mike era bravo a carezzare
il bimbo in fronte, quando aveva il sonno agitato, e farlo rilassare di nuovo. La coperta le si alzò dalla spalla quando lui le scivolò di nuovo accanto. Nel buio, si pigiò contro di lui, lasciando che i pensieri che ancora le giravano in testa svanissero finché non poté sentirli più. 7 — Allora cos'è che hai deciso? — Lo psichiatra si stese in poltrona, intrecciando le dita dietro la testa. — Che era pazza? Tyler annuì. Grattò la grana del legno sul bordo della scrivania. — Che altro? — disse. — Era già pazza prima. Lo eravamo tutti. Per lei niente è cambiato. È andata così. — Per certe persone. Lo strizzacervelli era giovane, con un principio di calvizie, e portava lenti a contatto che lo costringevano a sbattere di frequente le palpebre e a fargli lacrimare gli occhi, come un gufo con la febbre da fieno. Tyler odiava sinceramente Goodrich e le sue parole garbate, attentamente pesate. Per le quali pagava una bella sommetta ogni settimana: Tyler spediva l'assegno per posta, non fidandosi a compilarlo davanti al piccolo bastardo senza fare qualche aspro commento che avrebbe spazzato via la facciata altrettanto mite, altrettanto garbata che si era costruito nei tre anni precedenti. Doveva scegliere fra questo, o le terapie di gruppo settimanali al centro medico della contea. Finché le finanze glielo permettevano, era lieto di pagare pur di evitare di recarsi a quelle. Erano ancor più deprimenti... sedersi in un cerchio di sedie pieghevoli, ascoltando i depressi terminali lanciare un gemito lamentoso dopo l'altro, incitati da qualche studentello che accumulava le ore di pratica occorrenti per la laurea, mentre cercavi di non sembrare troppo insistente a dare occhiate furtive all'orologio a muro. Una benedizione quando Herlihy, l'agente che vegliava sulla sua libertà condizionata, aveva approvato il passaggio alla terapia privata con Goodrich. Qualche sorta di consulto psichiatrico era parte del prezzo della sua libertà, una delle condizioni poste; di lì la sua assidua ("sei un topo addomesticato adesso") partecipazione. Lo strizzacervelli rinnovava anche le ricette di Tyler. Il vecchio slogan "Si vive meglio con la chimica"; cercava di ricordarselo. Poteva tollerare anche una quantità di cazzate, pur di avere quelle minute sostanze che stavano fra lui e la pazzia. ("Sorriso dai denti aguzzi, nel letto di un bambi-
no.") Si chiese se dovesse dire qualcosa adesso. Forse quella da parte di Goodrich era una pausa deliberata, per mostrare con quanta profondità lo strizzacervelli stesse ponderando i fatti. La punta di una matita danzò sulla scrivania tra loro. — Sai — disse lo psichiatra, guardando i segni che la sua mano aveva fatto su un foglio di carta — potrebbe essere stata una buona idea avermi chiamato. Per cosa questo... uh... avvocato vuole che tu faccia. "Ah-hah. Ecco che ci sono." Tyler guardò quegli occhi umidi, spalancati. "Nella merda." — Non pensavo che fosse così importante. Goodrich annuì. — Be'... avresti dovuto chiamarmi. Non sono sicuro che io ti avrei lasciato andare laggiù a vedere la tua ex moglie. Non prima di aver almeno avuto la possibilità di parlare con lo staff che la sta... uh... trattando. — Ruotò la sedia per guardare Tyler direttamente in faccia. — E stata certo una situazione molto stressante per te. Probabilmente più di quanto non ti renda conto. "Vaffanculo" pensò Tyler. Lui proseguì imperterrito. — Abbiamo fatto un sacco di progressi, Mike. Puoi essere orgoglioso di te. E so che non è stato facile... nessuno può superare il genere di esperienze che hai attraversato tu, e uscirne... uguale, cioè, lo stesso di prima. Eppure, voglio dire, ce la stiamo cavando proprio bene, no? — Un sorriso spuntò sotto gli occhi da gufo. — Ma è per questo che devi stare attento. Non vorrai buttare tutto all'aria. — Lo sguardo acquoso salì fino al soffitto, in cerca di qualcosa. — Lo sai, la mente è come una lastra di vetro o qualcosa del genere. Non si può vedere davvero, e così non te ne preoccupi. Ma è piuttosto fragile se riceve un colpo nel punto sbagliato. Giusto? Tyler trattenne la sua faccia dal mutarsi in un ghigno. Fra sé, sentì la propria voce dire: "Idiota". C'era stato un tempo in cui lui si trovava in una cerchia ristretta attorno a una mente così fine da aver tentato di smontare l'anima umana come un orologio da taschino. I libri di Wyle, quelli stampati dalle più importanti case editrici universitarie e poi riciclati come tascabili Penguin dal dorso azzurro... pane quotidiano per gli hippy, assieme a Janis Joplin sul piatto del giradischi... erano ancora citati nelle pubblicazioni accademiche. Impossibili da ignorare; classici nel loro campo, tipo Mosè e il monoteismo o Mysterium Coniunctionis. Tyler aveva fatto parte di quella piccola banda di iniziati che l'avevano seguito per tutto il cammino, dovunque portasse quella strada, infrangendo
i condizionamenti mentali e tuffandosi nel vento puro e rinfrescante dell'assoluto. Dove l'omicidio era l'atto finale di libertà, dove il sangue era un liquido sacro da versare al suolo. Wyle era ancora laggiù, con tutto quel mondo senza inibizioni dentro il suo cranio, in qualche stanzetta d'ospedale chiusa a chiave; Tyler, impaurito come gli altri, era invece tornato indietro. "Ma almeno una volta ci sono stato. Almeno so." E qui c'era un bastardello con le sue lauree attentamente esposte sui muri dell'ufficio, che profferiva qualche merdosa metafora sulla mente. Ecco quel che gli toccava sopportare. — Credo che tu abbia ragione — disse Tyler. Non c'era senso a sacrificare la fiducia che gli aveva dato il terapeuta, dopo aver impiegato tanto tempo a crearsi quella facciata. Non gli aveva raccontato di aver trascinato Stephanie sulla tomba di Bryan; questo avrebbe fatto veramente scattare l'allarme. Se non stava attento, l'appuntamento successivo con lo strizzacervelli sarebbe stato di nuovo in ospedale. Una parola a Herlihy e, bingo, violazione della libertà condizionata. — Pensavo che forse potevo essere d'aiuto... ecco perché ci sono andato. Goodrich annuì ancora. — Certo. Un'ottima cosa. Ma parlane con me la prossima volta. È per questo che sono qui. Okay? Puntò lo sguardo neutro, senza emozione, tra quegli occhi umidi. — Sicuro — disse. Slide gli aveva detto di aspettare. Così Jimmy aspettò. Bisognava fare qualcosa nel buio, e poi Slide sarebbe tornato indietro con una cosa importante. Era questo che aveva detto a Jimmy, teso nel piccolo spazio del nido, finché quegli occhi brillanti, frementi, non erano stati a pochi centimetri di distanza. Una voce sussurrata, sorridendo: "Una cosa importante. Aspetta finché non sarà buio". Passò il tempo a raccogliere i preziosi pezzi di carta e le foto che Slide aveva sparso per tutto il nido. Con attenzione, strofinò via la sabbia polverosa passandoli sulla maglietta. Alcune cose erano rimaste calpestate durante la breve, inutile zuffa; le raddrizzò contro il cemento che aveva sul capo, appiattendole sul lato inferiore dell'autostrada. Poi le avvolse tutte in una logora borsa di plastica e le ripose di nuovo nel loro nascondiglio violato, dove il terriccio si incuneava sotto il cemento. Dopodiché si acquattò sui talloni e continuò ad attendere l'oscurità, e il ritorno di Slide. Gli stava venendo fame. "Forse porterà qualcosa da mangiare." Jimmy lo sperava; per Slide sarebbe stata la cosa giusta da fare, ri-
compensarlo per aver seguito gli ordini e atteso così pazientemente lì, senza muoversi dal nido per quanto lo stomaco gli brontolasse. Era come andare nell'esercito o alla missione dei barboni: se facevi quel che ti dicevano di fare, dovevano sfamarti. Era quello il patto. Poteva aspettare. Jimmy ascoltò. In questo modo si poteva capire un sacco su cosa stavano facendo le altre persone. Ben al riparo del nido, poté udire il tintinnio della catena che veniva aperta e tirata attraverso il cancello di rete metallica del deposito mezzi dell'impresa di manutenzioni, poi il macchinario pesante fu condotto dentro. Le voci degli operai si affievolirono man mano che si allontanavano dal cavalcavia e si dirigevano dove avevano lasciato le loro auto. In seguito, il fragore del traffico che filtrava dalle corsie dell'autostrada sulla sua testa si fece più forte e più denso. Un rombo continuo, come un'unica grande macchina: ora di punta. Quelli avevano case dove andare, e auto per andarci. Sotto le ruote, Jimmy restò accovacciato, ascoltando il loro passaggio frenetico attraverso i metri di cemento e acciaio. Poi fu di nuovo buio; la luce rossa del tramonto era scomparsa oltre il bordo dell'autostrada. E si fece più silenzio; poteva udire qualunque cosa si muovesse in quel mondo dal tetto di cemento. Non che ci fosse qualcosa, a parte il suo respiro. — Jimmy... Di scatto, chinò la schiena udendo il bisbiglio accanto a lui. Indietreggiò annaspando nella polvere fino all'orlo del nido, poi cadde indietro lungo disteso, La dolce risata di Slide aleggiò in quello spazio per un istante, prima che la luce di una torcia spazzasse il soffitto di cemento. Il chiarore fece scintillare quegli occhi brillanti, mentre Slide piantava il manico della torcia nella sabbia al centro del nido. — Sono tornato, Jimmy. — Il cono di luce formava un cerchio sul tetto sovrastante; il nido si riempì del suo fioco riflesso. — L'avevo detto che tornavo. No? Jimmy poté appena vederlo inginocchiarsi a un paio di metri da lui. Appoggiò gli avambracci sulla stoffa tesa dei jeans, mentre dalle mani gli pendeva un sacchetto di plastica bianca con lucenti macchie d'unto sul fondo. Il profumo della carne calda fece venire una densa acquolina in bocca a Jimmy. — Non è vero? Alzò lo sguardo dal sacchetto di carta fino a quegli occhi coi riflessi del-
la torcia al centro. Annuì. — È vero. Slide sorrise e gli lanciò il sacchetto, sopra la torcia. — Sono felice che tu abbia aspettato — disse Slide. L'aveva guardato in silenzio affondare i denti nel primo hamburger. — Vedi cosa ti saresti perso? Jimmy annuì mentre scartava il secondo hamburger. Spesso e unto, il panino aveva assunto una consistenza pastosa sul fondo. Si era dimenticato quanto potesse essere buono qualcosa di caldo che riempiva la bocca, non come l'acquosa zuppa della missione. La carne era rossa nel mezzo, gli si gonfiava in gola col suo gusto salato. Avrebbe voluto qualcosa da bere, ma continuò a mordere e masticare. — Buono, eh? — Slide si dondolò nella sua comoda posizione accosciata. — Vedi, non dovrai più preoccuparti di trovare qualcosa da mangiare. Me ne occuperò io. Così non dovrai più nemmeno lasciare questo posto. Te ne potrai stare sempre qui, dov'è caldo e comodo. Sarebbe bello, eh? Ti piacerebbe, vero? Jimmy alzò lo sguardo dalle proprie dita luccicanti agli occhi che lo osservavano. — Già — disse. Sapeva che era quello che ci si aspettava che dicesse. — Perché ho qualcosa che voglio che tu faccia per me. Voglio che mi faccia un favore. Okay, Jimmy? Me lo vuoi fare un favore, no? Lui appallottolò la carta oleata vuota e la lasciò cadere nella sabbia tra i piedi. — Certo — bisbigliò. — Non è vero? Più forte, assentendo col capo: — Certo. — Non c'era scelta, a quel punto. Qualunque cosa chiedesse. A Slide tornò il sorriso. — Voglio che custodisci qualcosa per me. Proprio qui nel tuo piccolo buco. Te ne starai proprio qui e te ne prenderai cura. Sarà facile. Non dovrai più andartene da nessuna parte. Jimmy sentì le soffici pareti del nido contrarsi intorno a lui, come se la notte, fuori, lo stesse spingendo più vicino al fiato di Slide. — Che... — disse Jimmy. — Che cos'è? — Una cosa importante. — Una delle mani di Slide scattò in alto, verso il nascondiglio delle carte. — Non come la tua stupida immondizia. Qualcosa davvero importante. Jimmy osservò Slide girarsi dall'altra parte e strisciare appena oltre il cerchio di luce. Tornò indietro con una cosa, metà tirandola, metà trascinandosela appresso.
Giaceva così immobile, sul terriccio ammassato al bordo del nido, che per un momento Jimmy pensò che fosse una bambola, di quelle grosse, come nella vetrina di un negozio. Poi gli occhi si aprirono e vide il bambino restituirgli lo sguardo. Un ragazzino; i capelli erano tutti arruffati, e aveva una macchia di sporco su una guancia. — Si chiama Bryan. — Slide rivolse la faccia al piccolo e indicò l'altro, dal lato opposto della lampada. — Questo è Jimmy. Baderà lui a te, ora. Lo sguardo serio, cauto del bambino corse da lui a Slide e poi tornò indietro. Per un attimo Jimmy sentì la vicinanza degli altri, coi loro respiri tutti mischiati in quel piccolo spazio. Come una famiglia al campeggio, col fuoco nel mezzo, che gettava lunghe ombre nella notte. Anche senza guardare, seppe che Slide lo stava osservando. — Ciao — disse il ragazzino. — Tyler! Nel bel mezzo del parcheggio del supermercato, sentì urlare il suo nome. Circondato da file di macchine, Tyler si voltò e strizzò gli occhi davanti al sole sfolgorante, mentre la figura avanzava verso di lui. Ci volle un momento prima che qualcosa gli scattasse nella memoria. Poi riconobbe il vecchio poliziotto. "Kinross. Magnifico" pensò. "Ci mancava solo questa." Eppure avrebbe dovuto aspettarselo; la faccia di Linda sul giornale era la chiave giusta per caricare la molla a un sacco di gente. — Che cosa vuole? — Si fermò e lasciò che Kinross, ansimante per la rapida camminata, lo raggiungesse. Il poliziotto sembrava più piccolo di quando l'aveva visto l'ultima volta, col vestito marrone... lo stesso di allora... che gli stava più largo. Pareva che quell'abito lo stesse lentamente divorando, come un pesce inghiottito da una di quelle gelatinose creature marine tutta bocca. La madre di Tyler e un paio di zie erano apparse in quel modo... corrose, rimpicciolite da qualcosa che le consumava dal di dentro... prima di morire: i cancri imperversavano in certe famiglie irlandesi, come se l'abbandono del cattolicesimo avesse lasciato un pedaggio da pagare lungo l'albero genealogico. Forse era nei polmoni di Kinross, come indicato dal fiato corto. Tyler poté sentirgli addosso un odore di tabacco stantio, che esalava dalle fibre dell'abito marrone e da dietro i suoi denti chiazzati di giallo. La cosa che consumava Kinross dentro, comunque, non l'aveva indebolito. In piedi nel parcheggio, Tyler poté vederlo: il poliziotto era più magro perché si era spogliato di tutti i pensieri... gettandoli in una fornace menta-
le, rimanendo con un'unica ossessione allo stato puro. "È rimasto preso anche lui" pensò Tyler. Ecco che succedeva a chiunque si avvicinasse troppo a quella storia. — Facciamo una chiacchierata. — La larga mano callosa di Kinross, come per una lunga abitudine, si chiuse sopra il gomito di Tyler. Si lasciò condurre indietro lungo la fila di auto e spingere dentro una vecchia Chrysler. La ricetta che gli aveva appena fatto Goodrich scivolò di nuovo nella tasca del cappotto... era alla farmacia del supermercato che si stava dirigendo. Ma meglio assecondare l'anziano poliziotto. La battuta che girava in carcere sugli agenti in pensione era che finivano tutti per uccidersi con le pistole che il corpo gli lasciava tenere. Il portacenere del cruscotto era zeppo di mozziconi di sigaretta. Tyler fece per abbassare il finestrino e lasciar entrare un po' d'aria nell'abitacolo odoroso di muffa, e scoprì che la maniglia del finestrino mancava. Allora si rilassò, e dal parabrezza polveroso fissò l'oceano multicolore di auto parcheggiate. — Questa settimana è stato come risentirmi a casa, per me — disse Tyler. — Un volto uscito dal passato dietro l'altro. Kinross posò una mano sul volante e lo fissò. — Lo so — disse. — Sei stato occupato. Tu e i tuoi amici. Tyler mantenne la faccia inespressiva, sotto lo sguardo dell'altro. A grandi linee, conosceva le fissazioni di Kinross; aveva saputo, fin da quando aveva rimesso piede fuori per la prima volta, che il vecchio agente lo stava spiando, seguendo le sue tracce. Anche senza sentirsi quegli occhi duri, chiazzati di giallo come la pelle rugosa intorno, fissi sulla schiena. C'erano stati indizi a confermarlo: Herlihy l'aveva interrogato su certi rapporti anonimi finiti sulla sua scrivania. Roba da possibile violazione della libertà condizionata, se Tyler non fosse stato in grado di spiegare tutto. Ma quelle informazioni frammentarie erano bastate a fargli capire che era sotto sorveglianza, come se se ne andasse in giro in un piccolo stato di polizia privato. Herlihy, un po' seccato che qualcuno cercasse di fare quel lavoro al posto suo, aveva chiesto qua e là e confermato il nome di cui Tyler era già certo: lo sapevano tutti, fra i vecchi colleghi di Kinross al Lapd, che gli era rimasta l'idea fissa del Gruppo di Wyle e non se n'era mai liberato. Tyler aveva visto dall'altra parte del tribunale, mentre il giudice leggeva la sentenza, quegli occhi duri che lo fissavano. E gli erano rimasti impressi. Gli stessi occhi che lo stavano guardando adesso. — Che dovrebbe significare questo? — chiese.
Un angolo della pelle chiazzata si contorse in un sogghigno. — Ti sei fatto una bella chiacchierata con tua moglie? — chiese Kinross. — Linda non è più mia moglie. Lo sa. — Sì, giusto. Ti sei preso una scaldaletto diversa ora, vero? Quella troietta pelle e ossa. I tuoi gusti non cambiano molto, eh? Tyler guardò il parcheggio, poi di nuovo Kinross. — Se è tutto questo che voleva dirmi... bene, l'ha detto. Okay? Contento adesso? — Con chi di loro ti vedi adesso? Lui sospirò. — Di che diavolo sta parlando? — I tuoi vecchi amici, Tyler. — La mano di Kinross si chiuse sul volante e lo strinse forte. — Tu e Linda. E Slide. L'ultimo nome era stato quasi sputato. Ora, per la seconda volta in due giorni, l'aveva sentito pronunciare a voce alta. — Ancora non capisco di cosa sta parlando — disse un momento dopo. — Avete avuto un bisticcio? Un piccolo litigio? — Kinross alterò la voce, schernendolo. — Cos'è stato... tu e Slide vi siete incazzati con Linda, così l'avete consegnata alla polizia? O forse siete tutti e due sulla lista nera di Slide, ora. Tyler non disse nulla. — Andiamo — disse Kinross disgustato. — Lo sai come vanno queste cose. Me lo puoi dire, e dopo possiamo andare a stendere la deposizione. Il primo che parla si becca il trattamento migliore. Non vorrai che Linda ti batta. Te ne ha già fatte passare abbastanza, una volta. Trovò fiato a sufficienza da parlare. — Che stava dicendo su Slide? Kinross lo guardò con qualcosa di simile alla pietà. — Magari non lo sai — disse. — Magari non ti ha detto quello che stava per fare. — Slide... —Tyler si rese conto di cosa stesse sentendo. "L'ha fatto Slide..." — Esatto. Il tuo vecchio amico Slide ha chiamato la polizia e ci ha detto dov'era Linda. Preciso al millimetro. Non restava altro che uscire e andarla a prendere. "È qui" pensò Tyler. Guardò di nuovo le auto fuori, fino alle strade della città, oltre il parcheggio. "Mi ha detto la verità. Lui è qui, da qualche parte." La voce di Kinross lo riportò indietro. Gli occhi dell'ex poliziotto si erano stretti attorno alla scintilla del trionfo. — Sei in un oceano di merda ora, Tyler. — Gongolava. — Sei nostro adesso... proprio come lo sei sempre stato. Spero che te la sia spassata fuo-
ri, perché stai per tornare dentro difilato. E neanche in qualche comodo ospedale. Ci penseremo noi. Questo genere di violazione della libertà condizionata ti farà vedere i sorci verdi, stronzo. Perché potremo affibbiarti nuove accuse. Nascondere una ricercata... questa è buona. Qualunque cosa la tua fottuta ex moglie ti abbia fatto per aiutarla a restare in latitanza, ora scoprirai quanto ti verrà a costare. — Fanculo. — Sentì un'ondata di nausea, mentre lo stretto spazio dell'auto, colmo dell'acre respiro di Kinross, gli si chiudeva intorno. Il sangue affluì alla faccia di Kinross; rosso e sudato, continuò. — Che stavate per fare tu e Slide, comunque? Una riunione di classe? — Gli angoli della sua bocca luccicavano di bava. — Qualche brillante idea di rimettere assieme il vostro piccolo branco? Be', sto proprio per darti questa occasione, Tyler. Sto per assicurarmi che torni dentro. Poi, quando piglieremo Slide, voi due potrete leccare i piedi a Wyle quanto volete. E avrete un lungo tempo per farlo. Tyler trovò la maniglia dello sportello e lo aprì con una spinta. L'aria esterna pulsò nei suoi polmoni mentre stendeva le gambe e si alzava. — Sei tu quello nella merda — disse a bassa voce. Si chinò nell'auto, tenendo lo sportello aperto con una mano, premendo per la rabbia le nocche sul metallo fino a farle diventare bianche. — Perché con me hai sbagliato... io non ho niente a che fare con Linda, Slide, nessuno. E ti sbagli anche su te stesso. Non sei più un fottuto poliziotto, Kinross. Meglio che te lo ricordi. Non puoi farmi un cazzo. — Sbatté lo sportello e si incamminò. La voce dell'altro lo seguì. — Ti troverò ovunque — gridò Kinross. — Non vedo l'ora, Tyler. Sentì gli occhi sulla sua schiena, il loro sguardo giallo premergli tra le spalle mentre oltrepassava un'auto dopo l'altra. — Stai bene? — chiese Steff. Passò un momento prima che lui alzasse gli occhi a guardarla. — Certo — disse Mike. — Sì, sto bene. Solo... lo sai... pensavo alle mie cose. — Riuscì a fare un sorriso. Era seduto accanto alla finestra del soggiorno, nella poltrona che aveva tirato fin lì la notte prima. Lei era venuta a casa dopo un mezzo turno al ristorante, portandosi i libri delle lezioni del mattino, e l'aveva trovato già là. Come se attendesse qualcosa, mentre il suo profondo silenzio assorbiva come un buco nero il rumore di Eddie che faceva sfrecciare le automobiline di plastica sul tappeto, davanti al notiziario serale della Tv. Almeno Mike si era ricordato di prendere Eddie all'asilo; ciò dimostrava
che c'era ancora qualche nesso tra il mondo reale e le sue meditazioni interiori. La sosta davanti alla finestra era durata tutta la sera, e Mike aveva scosso la testa quando lei gli aveva chiesto se volesse cenare. — Mike è okay? — Eddie l'aveva guardata dal suo lettino. Lei aveva esitato, con la mano sull'interruttore della luce, prima di fare qualche vago commento rassicurante. "Bimbo in gamba" pensò mentre osservava Mike alla finestra. "Non si possono ingannare." — Me ne vado a letto ora — gli disse. Lui annuì. Il suo sguardo era già ritornato alla buia vista esterna. Con la luce della camera da letto spenta, la faccia contro il cuscino, poté udire il silenzio dell'uomo seduto nell'altra stanza, a vegliare. Tyler poté vedersi riflesso nella finestra. Non c'era espressione sul volto che lo guardava di rimando dal buio. "Ti stai comportando da merda completa" pensò. "Perché non ti limiti a dirle di ammazzarsi? Magari questo ti renderebbe felice." La strada, il breve tratto del Santa Monica Boulevard che poteva vedere alla fine dell'isolato, era come morta; i colori delle luci del traffico e delle insegne dei bar erano smorzati dai farmaci che aveva nel sangue. Niente da osservare, e anche se ci fosse stato, non sarebbe stato capace di vederlo. La dose della sera aveva sigillato oltre la sua portata quell'altro mondo dai contorni brillanti, lasciando Tyler chiuso nell'abisso dei suoi pensieri turbinanti. E dispiaciuto, sotto sotto, di aver lasciato Steff all'oscuro di tutto, in un silenzio che non si poteva infrangere... si poteva solo aggirarlo, come qualche pacco gigantesco che riempisse l'appartamento fino alle pareti. Non era giusto; forse una volta trascorsa quella notte, coi pensieri che la accompagnavano, avrebbe dovuto scusarsi con lei, tornare alla normalità, per quanto possibile. Proseguì a guardar fuori dalla finestra buia. "Slide." Non tanto un pensiero quanto la sola parola, il nome che gli avevano pronunciato davanti due volte in due giorni. E che l'aveva raggelato. Non che Slide, il vecchio babau Slide uscito dal passato da cui la porta strettamente chiusa impediva di scivolar via, fosse realmente là fuori, ad andarsene furtivo nella notte. Non c'era prova di questo. Un paio d'ore dopo gli insulti di quel bastardo di Kinross, quando l'adrenalina della rabbia di Tyler si era dissipata, la sua mente aveva stracciato quel pensiero a pezzetti. La fredda malinconia che sentiva era per Linda, e anche Kinross. Loro credevano che Slide fosse là fuori; Slide era tornato e gli stava cammi-
nando nelle teste. Si domandò se per caso le allucinazioni non stessero viaggiando come un'infezione da un cervello all'altro. Prima Linda, che viveva col suo bimbo immaginario ("nostro figlio, che dorme e non si sveglierà mai") e poi sognava che il fantasma di Slide rapisse il bambino inesistente; e Kinross veniva contagiato da quella seconda illusione da lei. Di sicuro l'ex agente era abbastanza svitato da credere a tutto sui vecchi membri del Gruppo di Wyle; bastava appena che Linda dicesse di aver parlato con Slide per far precipitare anche Kinross in quella follia... pur se era ancora convinto che il bambino fosse morto e sepolto. O forse la storia di Slide era solo il frutto di due illusioni sovrapposte, di Linda e di Kinross; entrambi serbavano Slide vivo nelle loro menti, vedendolo a ogni angolo nel buio. O magari... Tyler vide l'ombra di un sorriso amaro, autoironico sul suo riflesso... Slide era là fuori. Proprio lì. "Non fare cazzate con questa storia" si disse. Rammentò l'immagine rapida come un lampo del sorriso dai denti aguzzi dell'Ospite, che aveva visto sovrapposta al volto di Eddie nella stanza buia. C'erano delle conseguenze nel trastullarsi, indulgere in piccoli accessi di follia. Nessuno lo sapeva meglio di lui. La parte divertente, la pelle d'oca e il brividino su per le braccia, si esaurisce abbastanza presto. E allora non stai più giocando. Sei solo pazzo. Ma se Slide era là fuori... Se, pensò Tyler. Squillò il telefono. Lui distolse il volto dalla finestra, verso il suono lacerante che dalla cucina solcava l'appartamento. Squillò di nuovo. Se non rispondeva presto, Steff si sarebbe svegliata. ("Buio fuori. Lui chiamerebbe di notte... se fosse laggiù.") Di nuovo il suono riecheggiò nell'appartamento imnobile. Tyler si lanciò con una spinta giù dalla poltrona, camminò a grandi passi verso la porta della cucina, allungò una mano, e afferrò la cornetta a metà di uno squillo. — Pronto? Per un momento, silenzio. Poi, nell'orecchio, sentì la voce di qualcuno con un sottile sorriso. — Ciao, Tyler — disse Slide. Qualcosa lo svegliò. Jimmy restò raggomitolato a palla, ascoltando il suono rombante del traffico al di sopra. Si faceva più rado a tarda notte, ma non si interrompeva mai. Non era quello ad aver turbato il suo sonno. Alzò la testa dal giubbotto arrotolato e si guardò attorno. La sua vista si
era adattata all'oscurità sotto le palpebre; al chiarore delle luci stradali che filtrava tra i piloni, era abbastanza facile distinguere gli stretti confini del nido e tutto quel che vi si trovava. Slide gli aveva lasciato un po' di cibo. C'era ancora una grossa bottiglia di plastica di Coca e mezzo pacchetto di soffici rollè alla cannella, disposti su un vassoio di cartone lucente, nella borsa del supermercato. Poté sentirne il profumo attraverso la carta marrone. "Forse c'è un topo" pensò Jimmy. Venivano sotto l'autostrada qualche volta, giù dalle cime delle palme e dai folti letti d'edera delle case. Bisognava stare in guardia: non mordevano, ma se si infilavano nella tua scorta di cibo cacavano dove avevano rosicchiato. "Fottuti topi." Ascoltò attentamente, fra il rombo costante del tetto di cemento del nido, ma non riuscì a sentire nessun'unghia che grattasse delicatamente sulla carta. Sentì solo il proprio respiro, poi quello di un altro, con un ritmo diverso dal suo. Il ragazzino. "Bryan" pensò. Era così che Slide l'aveva chiamato. Si era quasi scordato del ragazzino, del compito che Slide gli aveva assegnato. "Ti prenderai cura di lui. Vero?" La voce sorridente e i brillanti occhi che lo fissavano. "Vero?" Forse il ragazzino aveva urlato nel sonno, e questo l'aveva svegliato. I bambini lo facevano, qualche volta; Jimmy lo sapeva. Quand'erano spaventati, per gli incubi. Aveva sentito gridare anche i vecchi, durante le lunghe notti in uno dei ripari in città. Non grida di paura, ma tristi lamenti, talvolta con parole e nomi mormorati da bocche sdentate. E un coro di mormorti riecheggiava dalle panche e dalle sedie pieghevoli. Se lui stesso gridava in quel modo, almeno sotto l'autostrada non c'era nessuno a sentirlo. Ascoltò il dolce, regolare respiro del bimbo. Sulle mani e le ginocchia, strisciò attraverso il nido per controllare la figuretta avvolta nelle coperte. — Che cosa vuoi? — Mike... — Dalla voce, Slide si finse ferito nei sentimenti. E sempre, dietro le parole, quell'acuta risatina sul punto di scaturire. — È questo il modo di parlare? Dopo tutto quello che abbiamo passato assieme? Tyler sentì la plastica del telefono farsi calda nella sua stretta. Mantenne la voce bassa, strenuamente controllata. — Come hai avuto questo numero? — Oh, dài. Sono bravo a scoprire le cose. Lo sai questo, Mike. Abbiamo scoperto un sacco di cose insieme, non è vero? — Un misurato attimo di silenzio. — Non è vero, Mike?
— Chiudi il becco. — Sembra quasi che non sei contento di sentirmi, Mike. Tyler stette sulla soglia della cucina buia, pensando. Mettendo assieme i pezzi dell'ultimo paio di giorni. "Così è là fuori" pensò. "Ha trovato Linda, ovunque si fosse nascosta, e l'ha acchiappata." Bravo a scoprire le cose... questo era vero. Un'intelligenza da furetto, che scivolava fra le tenebre, andando a naso. Forse quando Slide l'aveva trovata, l'aveva osservata per un po', e scoperto che in lei restava l'allucinazione che Bryan fosse ancora vivo. Gli balenò l'immagine di Slide che, sulla porta, ascoltava una voce di donna che veniva da dietro, parlando a un bambino le cui risposte non mandavano suoni. E questo gli aveva dato lo spunto per farla catturare e tormentarla, qualunque fosse il contorto scopò che gli passava per la testa. Fingere di rapire il bambino, che non esisteva se non nel suo cervello annebbiato; ciò mostrava una certa maestria psicologica da parte di Slide. Si era rivelato il miglior allievo di Wyle, dopotutto. Tyler poté risentire la voce di Wyle, come una cassetta nel registratore: "Chiunque controlli le vostre illusioni" una vecchia lezione "controlla voi". E poi una telefonata anonima a qualche detective del Lapd, proprio come gli aveva detto il vecchio Kinross. Slide se la cavava altrettanto bene anche nel mondo reale. — Be'? — Di nuovo la voce di Slide, a farlo tornare al presente e al telefono che aveva in mano. — Non sei contento? — Perché hai chiamato? — disse Tyler. C'erano delle cose che doveva scoprire prima che Steff sentisse la sua voce e giungesse lì. — Voglio sapere cosa vuoi. — Sai... è la stessa cosa che mi ha chiesto Linda. — La voce di Slide si accese di compiacimento. — Quando ho parlato con lei. Tutti desiderano sapere cosa voglio. Gentile da parte tua. — Smettila con le stronzate. — Strinse la presa sul telefono. — Se c'è qualcosa che vuoi, allora parla, merdoso. Se te la stai solo spassando, se è questa la tua idea di passare il tempo, non ti resta che riattaccare. E non chiamare più qui... non c'è niente di cui ho voglia di parlarti. Il sorriso all'altro capo della linea scomparve, e la voce di Slide si fece dura quando tornò lungo il cavo. — Sì, c'è. C'è qualcosa di cui vuoi parlarmi. Vuoi parlare del tuo ragazzino, non è vero? Non è vero, Mike? Perché lo rivuoi indietro. Ecco cosa vuoi. Quindi era tutto lì. Ecco fin dove la follia, l'illusione, si era diffusa. Dal-
l'uno all'altro... un'epidemia. — Mio figlio è morto — disse Tyler calmo. — È morto da un sacco di tempo. Questo lo sai, Slide. Non me lo puoi riportare. Nessuno può. — Davvero? — Ancora il tono di scherno. — Sei sicuro di questo? Sicuro che il ragazzino è morto? Sarebbe proprio il colmo se tu ti sbagliassi. Follia... o astuzia. Con Slide potevano essere entrambe le cose. — Scordatene. Puoi dare da bere questa merda a Linda. Ma lei è pazza. — Da qualche altra parte nella notte, in una di quelle stanzette ("di nuovo nel buio"), se i sedativi non l'avevano messa del tutto fuori combattimento, stava piangendo per il bimbo che pensava le fosse stato tolto. Rapito dalla voce che era al suo orecchio adesso. — Non funzionerà con me. — No, eh? Credo che ti sbagli. Credo che ti sbagli su un sacco di cose, Mike. Forse non è Linda quella che è pazza. Tyler non rispose. Nell'intervallo di silenzio sentì il ronzio della corrente sulla linea tesa fra lui e l'altro. — E tu continuerai a pensarci — continuò la voce di Slide. — So come lavora la tua mente, Mike. Perché eravamo tutti là assieme, una volta... non è vero? Quelli sì che erano giorni, Mike. Ci si divertiva un sacco, allora. — Le labbra curvate nel sorriso alterarono il tono. — Potremmo divertirci tutti un po' di nuovo. No? Ma prima devi pensare a questa faccenda. Pensa al tuo marmocchio. È questo che dovrai fare. — Slide... — No. Ascolta tu, fottuto. Pensaci, e poi quando chiamerò di nuovo, non farai tanto il merdoso coi tuoi vecchi amici. Allora sì che vorrai parlarmi. Con un forte click, la linea fu troncata. La voce di Slide fu rimpiazzata dall'ottuso bip del segnale di libero. Tyler rimise a posto la cornetta. Lentamente, si guardò alle spalle e vide la finestra in fondo al soggiorno, la poltrona vuota davanti. L'oscurità esterna era circonfusa dall'azzurro dei lampioni. Jimmy abbassò la mano per lisciare i capelli al bimbo dormiente. "Bryan" pensò. "È così che si chiama." Una faccia diversa si girò verso Jimmy. Chino sul bimbo addormentato, poté vedere, simili a triangolini bianchi nella fioca luce sotto l'autostrada, i denti appuntiti del suo sogghigno. Le palpebre si aprirono, e lo sguardo della creatura incrociò il suo, gelandogli il fiato in gola. Non poté muoversi, non poté tirarsi via di là, ma continuò a precipitare nel centro buio di quegli occhi mentre il sogghigno si allargava, e i denti si facevano più lun-
ghi, separandosi. Una luce lo inondò venendo da dietro, e gettò l'ombra del suo braccio teso sulla parete del nido. Non restò più nessun volto dai denti aguzzi a guardarlo. Le ciglia del bimbo erano poggiate sulla guancia soffice e rotonda, tremolando per quella luminosità improvvisa. Jimmy si voltò e vide un altro sorriso, dietro il fascio di una torcia. Il chiarore rendeva gli occhi di Slide ancor più brillanti. — Come se la passa? — Ginocchioni, Slide avanzò attraverso il nido. Stando al fianco di Jimmy, mise la mano sulla luce, attutendola per non svegliare il piccolo. — Benone, sembra. Proprio benone. La faccia scarna era solo a pochi centimetri dalla sua. — Dove sei andato? — disse Jimmy. Si rese conto che non gli piaceva più star solo nel nido. Solo, eccetto il ragazzino. Poté sentire il peso di tutto il cemento e l'acciaio e le auto e i camion sopra di sé, che premevano in basso, schiacciando quel piccolo spazio nella polvere. Slide, col volto scolpito tra le ombre dal chiarore che gli filtrava attorno alle dita, girò lo sguardo su di lui. Sempre sorridente: — Avevo qualche faccenda da sbrigare — disse. — Ho dovuto fare una telefonata. — Si chinò di più. — Perché? È successo qualcosa mentre ero via? "Mi sono spaventato." Avrebbe voluto dire questo. Ma sapeva che non c'era scopo a farlo. Era proprio così che doveva essere, spaventato. A Slide piaceva in quel modo. — Diverso — mormorò, abbassando gli occhi. — Sembrava diverso. Sentì che Slide aveva ripreso a fissarlo, senza neanche degnare d'uno sguardo il bimbo dormiente. — Sì? E come? — Denti — disse Jimmy. — Erano tutti aguzzi. E lui... mi ha guardato... L'altra mano di Slide girò attorno alla testa di Jimmy, e le dita gli si intrufolarono fra l'intrico dei capelli. Attirò il viso di Jimmy verso il suo, ancora più vicino, come per baciarlo. — Splendido — disse Slide. Jimmy poté vedere la propria faccia, minuscola e messa per metà in ombra dalla torcia, nel centro dei suoi occhi. — Significa che è vicino. Proprio vicino. Quando Steff si svegliò, il letto era ancora vuoto accanto a lei. — Mike? — disse Stephanie. Si scostò i capelli aggrovigliati dalla faccia. Le coperte erano tutte disfatte... poté appena ricordare un frammento di sogno in cui correva, chiamando... e pendevano sul pavimento dal suo lato del letto; da quello, capì che lui non le era mai stato al fianco durante la notte.
Scalza, percorse a passi felpati il corridoio verso il soggiorno. La grigia luce del mattino penetrava dalla finestra, con le tapparelle ancora alzate. La poltrona davanti al vetro era vuota. — Mike? — chiamò di nuovo. Per un attimo, mentre si girava intorno, sembrò che l'appartamento fosse vuoto. Poi lei guardò dietro, lungo il corridoio. Nella sua stanza, al termine, poté vedere le lenzuola e le coperte scompigliate che aveva gettato da parte. Prima di quella, a metà lunghezza, la porta della stanza di Eddie era accostata. Mike non la sentì spingere la porta e aprirla. Le rivolse le spalle mentre sedeva sull'angolo del letto di Eddie. Dalla soglia, chiamò di nuovo sottovoce il nome di Mike. Eddie era ancora addormentato; poteva vedere il suo respiro alzare e abbassare la coperta tirata sotto il mento. Mike non girò lo sguardo verso di lei. Come se non l'avesse sentita affatto. Continuò a vegliare sul bimbo dormiente. 8 Da dietro la vetrina del caffè, poté vedere Tyler che camminava verso di lui, solcando il flusso di folla del centro commerciale. Bedell tastò l'orlo della sua tazza, la seconda che prendeva da quando era lì ad aspettarlo, e si rilassò. — Ehi, lieto di vederti. — Fece un gesto verso l'altro lato del cristallo, mentre Tyler oltrepassava il banco del registratore di cassa. — Era ora, no? Vuoi un caffè? — No — disse Tyler. Mantenne la faccia priva d'espressione mentre scivolava sulla sedia. — Certo che sì. A questa terribile ora del mattino. Tesoro... — Fece un cenno alla cameriera. Poté sentire gli occhi di Tyler fissarlo brucianti. "Fa il duro" pensò. Sapeva che quel fottuto voleva qualcosa; quando Tyler aveva telefonato, non gli aveva lasciato nemmeno dire cosa fosse, e aveva chiesto di incontrarlo lì invece. Era l'ora di qualche trattativa faccia a faccia. — Sai — disse, teso sul tavolino — mi piace proprio questo posto. Uno dei miei posti preferiti. Ti piacciono i centri commerciali, Mike? Tyler gettò un'occhiata dietro di sé, poi tutt'intorno. — Non particolarmente. — Io li adoro. Un gran contributo alla civiltà. — Indicò la vetrina del
caffè e gli immensi spazi più oltre. Lassù al livello superiore, poteva vedere i corridoi del complesso che si diramavano verso i grandi magazzini a ciascuna estremità. Sotto la volta di una cupola centrale, un'astratta ragnatela di cavi d'acciaio si stendeva attraverso lo spazio aperto oltre le ringhiere, intersecandosi sulle teste degli acquirenti al piano terra. — Si può fare un sacco di ricerca di mercato in un posto come questo. Hanno tre diverse librerie qui dentro. C'è una B. Dalton proprio sotto di noi sul terzo livello, una Walden sul primo, e un'altra che è arrivata quando la Brentano ha chiuso. — Sorseggiò il suo caffè e annuì. — Quand'è uscito il libro, e poi l'edizione tascabile, ero solito venire qui... dato che vivo così vicino... a controllare le vendite. Scrutavo gli scaffali e vedevo come andava. Lo sai? — Un sorriso. — Pensando a tutti quei soldi. Tyler non disse nulla. Non toccò nemmeno il caffè di fronte a sé. Facile vedere che capiva che l'altro stava menando il can per l'aia, gli stava facendo perdere tempo. "Questo l'ho preso all'amo" pensò Bedell. Quando la gente voleva qualcosa, allora l'avevi in pugno. — Sei proprio fottuto — disse Tyler calmo. — Non è vero? Le parole lo fecero scattare indietro. — Che significa? — In rovina. Sul lastrico. Lui si strinse nelle spalle, nervoso. — Tiro un po' la cinghia. — Si fece apparire un sorriso in faccia. — E servito da lezione, in fondo... uno scrittore dovrebbe stare incollato alla macchina per scrivere. Ho cominciato a trastullarmi con gli immobili e con la Borsa, ed è stupefacente quanto può andarsene in fretta il denaro. — Lui stesso, ancora, riusciva appena a crederci. Ce n'era stato così tanto. Lo sguardo fisso di Tyler lo squadrò. — Così — disse lui. — Hai pensato alla mia piccola... uh... proposta? — Forse. — Forse cosa? Forse sì, forse no... — Forse ci sto ancora pensando. Bedell fissò il proprio riflesso nella tazza. — Non pensarci troppo — disse, alzando lo sguardo. — Non è un'offerta a tempo indeterminato. Dobbiamo battere il ferro finché è caldo, finché i giornali ne parlano ancora. — Ti farò sapere. — Tyler allargò le mani sul tavolino. — C'è certa roba che pensavo potessi dirmi, comunque. — Di che genere? — L'indirizzo di Linda. Voglio dire, dove l'hanno trovata.
Bedell mantenne la voce fredda. — Perché lo vuoi sapere? — "Attento" pensò. "Riavvolgi la lenza." — Niente di importante — disse Tyler. — Pensavo solo... se tutto questo tempo lei ha vissuto vicino a me, o da qualche parte dove passavo spesso... non lo so. È che mi colpisce, mi incuriosisce. Forse uno spunto per te; chissà? — Già, forse. — Si sfregò il labbro, cercando di immaginarsi dove volesse andare a parare Tyler. — Cosa ti fa pensare che io sappia dove l'hanno presa? — Andiamo. È il tuo lavoro, no? Hai contatti e roba simile. Lui rise. — Suppongo di sì. Aspetta un secondo. — Prese un'agendina dalla tasca interna del cappotto e la sfogliò. Buttò giù l'indirizzo sul retro di uno dei suoi biglietti da visita. Tyler annuì quando guardò il biglietto. — Penso che sia una buona idea, comunque — disse Bedell affabile. — Un valido aggancio... stare nella stessa città tutto 'sto tempo, eccetera. Così, uh, vuoi... stendere qualcosa su questo? Dividerci i compiti? Lo sguardo impassibile dell'altro tornò a sollevarsi. — Ti farò sapere. — Questo che significa? — Significa — disse Tyler, alzandosi dal sedile — che puoi andare a farti fottere. Bedell cercò di afferrargli il braccio, ma lo mancò. Prima che potesse girare oltre l'angolo del tavolino, Tyler era già oltre la cassa, avviato verso la lontana uscita del centro commerciale. — Merda. — Tirò fuori il portafogli e mise giù i soldi. Fuori dal caffè, impugnò la ringhiera che gli arrivava alla vita e scrutò in basso, verso i teenager che ciondolavano e le casalinghe in marcia di buona lena al piano sottostante. Non riuscì neanche a ricordare dove avesse lasciato la macchina; il complesso era costruito ad angolo sul fianco di una collina, con parcheggi fuori dagli ingressi al livello superiore, e anche inferiore. "Inferiore" decise. Ricordava di aver alzato gli occhi all'orribile groviglio di cavi d'acciaio quando era entrato. Facendosi strada giù per le scale mobili, si fermò a ogni libreria, passando direttamente al reparto tascabili dove poter trovare All'interno della notte. Senza curarsi se qualcuno del personale lo stesse guardando, spinse via i volumi accanto per fargli spazio, e girò le copie del suo libro in modo che la copertina rosso vivo si trovasse di fronte. Così avrebbero potuto vederle.
Per prima cosa doveva andare al cinema. Per fare quel po' di lavoro che era pagato per fare... quella settimana bisognava portare i cartellini delle presenze degli impiegati alla sede centrale della catena... e per sedersi nel suo ufficio dietro la vetrina della cassa e decidere che cosa fare. Si rigirò avanti e indietro fra le mani il biglietto di Bedell con l'indirizzo scribacchiato sul retro. Gettò il biglietto sulla scrivania ingombra. L'indirizzo era già sigillato nella sua memoria. Non era uno dei distretti più grandi; lo riconobbe come una zona di confine fra un quartiere di gay che si andavano inserendo nella classe media e ciò che restava del malfamato ghetto chicano di East Hollywood. Un buon posto per nascondersi, un sacco di vecchie case abbarbicate sulle colline, niente gente ricca che richiedesse troppe pattuglie della polizia. Quando uscì dall'ufficio, chiudendosi la porta alle spalle, il ragazzo della manutenzione lo guardò da dietro il banco nell'atrio. Stava raschiando grasso coagulato... presumibilmente al sapore di burro... dai meccanismi interni della macchina del popcorn. — Che succede? — disse mentre Tyler camminava per il corridoio. — Sembri un po' fuso, amico. Colse il proprio riflesso nel vetro sopra la locandina del PROSSIMAMENTE sul muro. Gli stessi occhi di prima lo guardarono di rimando. — Lavoro troppo sodo, credo. — Eh, giusto — disse il ragazzo. I lavori in quella catena di cinema erano ben noti per la paga bassa e gli umilianti compiti richiesti. Cominciò a riassemblare la vaschetta cromata del distributore. — Dovrai star qui molto tempo? Stavo pensando di chiudere fino a stasera. — Già finito, amico. — Sbatté lo sportello di plastica della macchina e gli diede una strofinata con un tovagliolo di carta unto. — Devo andare pure al Four Star e al World. — Se ti capita di vedere Louie allo Star — disse Tyler — digli che mi deve ancora una scatola di elettrodi di carbonio per il proiettore. E voglio riportata quella chiave, pure. — Piccoli furti... "prestiti" senza restituzione... a vicenda: ecco come i gestori dei cinema si arrabattavano coi bilanci d'esercizio. — Certamente. — Il ragazzo gettò il suo spruzzatore di acqua saponata e il rotolo di tovaglioli nel contenitore dei dolci e se lo issò su una spalla. Dopo che Tyler ebbe avvolto la pesante catena attorno alle maniglie degli ingressi anteriori e fatto scattare il lucchetto, andò a prendere la Chevy
nel vicolo dietro il cinema. Entro un paio di minuti aveva svoltato a sinistra per La Brea e si dirigeva verso East Hollywood. Frugando fra le strette strade che serpeggiavano per le colline sopra il termine del Sunset, trovò l'indirizzo che gli aveva dato Bedell. Fece salire la Chevy sul lato opposto del marciapiede e spense il motore. Un muro di recinzione in cemento delimitava il marciapiede accanto a lui; l'odore di muffa delle foglie che marcivano sotto il caldo sole lo scavalcava, aleggiando in basso. Lettere angolari tracciate con la bomboletta spray formavano EL RATTLER CON LI'L MOUSE POR VIDA. L'indirizzo era quello di due abitazioni, separate l'una dall'altra, che condividevano lo stesso vialetto. Tyler appoggiò il gomito sul finestrino aperto dell'auto, fissandole. "Scordatene" si disse. "Devi solo andar via. Non c'è niente qui." Ma continuò a guardare i piccoli edifici dalle pareti stuccate. La voce di Slide, resa ancor più sinistra dai fili del telefono, gli era rimasta nelle orecchie dalla notte prima. "Vuoi parlare del tuo ragazzino, non è vero?" Anche dopo essersi finalmente fatto abbastanza forza da seguire il solito rito quotidiano... salutare Steff che si recava alle lezioni del mattino, con Eddie a rimorchio per mollarlo all'asilo nido, quelle parole di scherno "sarebbe proprio il colmo se tu ti sbagliassi, non è vero?" avevano continuato a serpeggiargli nella scatola cranica. Perfino dopo che la dose mattutina di farmaci aveva smussato le asperità del mondo reale, i ricordi avevano continuato a ferirlo nel profondo. "Devi pensare a cose serie. Ecco che devi fare." Pazzia... era quella la spiegazione. Per Linda, e Slide. Tyler ripercorse l'equazione avanti e indietro nella mente mentre scrutava le abitazioni. Linda era inequivocabilmente pazza; gliel'aveva letto in faccia. Ma quando si trattava di Slide, era un altro paio di maniche. Quante parole di quella voce ridente, sibilante erano frutto della follia, e quante erano state un tentativo di contagiarlo, come un virus in grado di passare da una persona all'altra? Slide voleva qualcosa. Aveva sempre voluto qualcosa; anche ai tempi del Gruppo di Wyle, Tyler sapeva che Slide aveva propri obiettivi separati, distinti da quelli che condividevano tutti gli altri. E ora la follia di Linda, l'illusione che il figlio morto fosse ancora vivo, erano entrati a far parte del suo metodo per ottenere quel che voleva. Qualunque cosa fosse. E passare la follia ad altri, diffonderla, infettare Tyler con essa... anche questo ne faceva parte, si era reso conto. "Mi vuole di nuovo in trappola" pensò Tyler. "Nel buio, con lei."
"Allora vattene di qui" si disse ancora. "Non immischiarti in questa roba." Abbassò la mano verso la chiave inserita nell'avviamento. Per un minuto ancora continuò a fissare le abitazioni. Poi estrasse la chiave e se la mise in tasca mentre usciva dall'auto. Nello stretto viottolo fra le abitazioni, Tyler guardò i numeri dipinti accanto alle porte. Il secondo era stato quello di Linda, stando a Bedell, proprio al termine della striscia d'asfalto piena di crepe. Salì i gradini e sbirciò attraverso la zanzariera. Dietro di essa, la porta anteriore era aperta; poté vedere la luce brillante che entrava dalla finestra della cucina, sul retro. C'era qualcuno dentro. Un acre odore d'ammoniaca e acqua saponata gli raggiunse le narici. Batté con la nocca di un dito sul sottile telaio d'alluminio della zanzariera. — Salve! — chiamò. — C'è nessuno lì? Sulla soglia della cucina vide apparire una donna, così tarchiata da bloccare quasi la luce che le veniva da dietro. In mano, una spugna che sgocciolava chiazze d'acqua sul pavimento di linoleum. — Sì? — gridò. — Che cosa vuole? Lui si ombreggiò la faccia con una mano per vedere meglio. La polvere cadde dalla rete, dove vi si era strofinato contro. — Lei è la donna delle pulizie? — No, la proprietaria. — Tyler indietreggiò quando la donna aprì con una chiave la zanzariera e la spinse. — Io e mio figlio. — Aveva un lieve accento ispanico, e diversi strati di ombretto azzurro, dalle sfumature applicate in modo esperto. Il suo grembiule di plastica a fiori era logoro e frusto. — È della polizia? Per un secondo si chiese se una bugia non potesse mostrarsi più utile. — No — disse. — Bene. — Prese quell'interruzione come scusa per una pausa, e tirò fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca del grembiule. — I poliziotti mi hanno fatta uscire pazza. Si sono infilati dappertutto, hanno avvolto la porta col loro stupido nastro giallo, non mi lasciavano entrare... — La mano che reggeva la sigaretta fece ondeggiare il fumo nella stanza dietro di lei. — Devo ripulire tutto questo posto. Non farò soldi, se non c'è nessuno dentro. — Credo che abbiano finito — disse Tyler. — La polizia, cioè. — Sì, sì. — La donna annuì. — Lei è il fratello? Lui scosse il capo. — Solo un amico. Molto tempo fa.
— Pensavo proprio di sì, perché sembra un po' come lei. — Si tese in avanti per dargli un'occhiata più da vicino. — Forse no. L'avevo vista solo una volta o due, quando ha preso questo posto. Ho detto pure questo ai poliziotti. — Cenere grigia cadde lungo il grembiule. — È venuto a prendere la sua roba? — No. Solo... — Perché i poliziotti si sono portati via tutto. Hanno spazzato via ogni cosa. Tutto tranne il telefono. Credo perché il telefono è della compagnia dei telefoni, uh? Tyler poté sentire il sole battergli sulla nuca. La strada era così silenziosa, incuneata così a fondo fra le colline e lontana dalle autostrade, che sentì anche il fioco rombo di una motocicletta che si inerpicava lungo curve lontane. — Mi chiedevo se potessi... dare un po' un'occhiata. Ecco tutto. — Certo, certo. Nessun problema. — Lei indietreggiò, tenendo spalancata la zanzariera per lui. — Cerca un alloggio? Lui avanzò nell'interno fresco e ombroso dell'appartamento. — No, spiacente — disse con un debole sorriso. — Questo mi avrebbe risparmiato di mettere l'annuncio. Metto regolarmente un annuncio sul Pennysaver quando se ne va qualcuno. Ti fanno una tariffa migliore del Times. Il Times pensa che stai cercando di affittare il Municipio o roba simile. — Mise la mano a coppa per prendere al volo qualche altro millimetro di cenere. — Ecco com'è venuta qui la signora; ha risposto all'annuncio. — Quanto tempo è stata? — Come ho detto alla polizia: sei mesi. Ho guardato il mio libro delle ricevute, ed ecco quante gliene ho spedite. Per il resto, faccio pagare solo il deposito di cauzione. Tyler si girò lentamente intorno. Le porte che davano fuori dal piccolo soggiorno erano tutte aperte, e le finestre sull'esterno spalancate per aerare le stanze. Una stufa a gas era stata pitturata con la stessa vernice beige delle pareti; la stoffa sui braccioli di un divano e di una poltrona era così logora e sottile da far vedere l'imbottitura di cotone bianco sottostante. Camminò verso il corridoio. Nelle stanze da letto, a ciascuna estremità, si potevano vedere un materasso e una rete, privi di lenzuola. Senza nessuna idea di cosa stesse cercando, Tyler passò davanti alla padrona di casa, verso la soglia della cucina. Lì l'odore muffito della vernice vecchia era misto a quello dei fritti che aveva assorbito per anni. Poté ve-
dere che gli sportelli della credenza erano stati rivestiti tante di quelle volte con l'onnipresente beige... anche i cardini... che molti non si potevano nemmeno più chiudere del tutto. Una cucina a quattro fornelli, la cosa di aspetto più nuovo dell'appartamento, era troppo piccola per la nicchia in cui si trovava; attorno agli angoli c'erano le tracce marroni e rugginose di quella che era stata lì prima. — È un bel posto — disse l'affittuaria, dietro di lui. — È pulito. Lui sentì il latrato di un cagnetto. Un'altra zanzariera sul retro, accanto al vetusto frigorifero, si curvò sotto l'impatto di un minuscolo Yorkshire terrier che si scagliava contro la rete. — Non è suo. Quel giovanotto è mio. — Attraversò la stanza e si chinò a dare un buffetto sul naso del cane attraverso la rete. Aveva un nastro lucido legato in cima alla testa. — A cuccia, tu. Lui guardò fuori dalla porta e vide un cortiletto, affollato di erbacce gialle e secche, che dava su un burrone dal fondo avvolto nell'ombra. Sulla veranda un rettangolo grigio, una scatola di cartóne appiattita, giaceva sotto due scodelle di plastica. Una aveva ancora dentro residui di cibo per gatti. — Aveva un gatto? — chiese Tyler. — Suppongo di no. Niente animali in casa, ecco che dice il contratto d'affitto. Pisciano sempre sui tappeti. Ma forse dava da mangiare a uno, qui fuori. Ce ne sono un sacco che vanno in giro. La gente li abbandona quassù quando vogliono sbarazzarsene. Aprì la zanzariera e la spinse. Lo Yorkshire si catapultò dentro e cominciò a saltare attorno al grembiule di plastica dell'affittuaria. Tyler fece scivolare il cartone da sotto le ciotole e lo sollevò. Il lato rivolto in giù mostrava i brillanti colori, ancora inalterati, di un giocattolo per bambini Fisher-Price. I grossi occhi colorati di qualcosa chiamato Wiggly Worm lo fissarono con un largo sorriso. Un giocattolo a ruote, un verme segmentato con una sella nel mezzo, che il bimbo faceva andare rimbalzandoci sopra su e giù. Un'etichetta del prezzo della Toys R Us era attaccata a quello che era stato il lato superiore del cartone. Tyler fissò l'immagine sulla scatola appiattita per un minuto, prima di voltarsi verso l'affittuaria. Lo Yorkshire ansimante era rannicchiato sul suo petto. — Aveva un bambino con sé? — disse calmo. — La signora che viveva qui? Scrollata di spalle. — Lei diceva di sì. Sul contratto aveva scritto un adulto e un bambino. Perché ha due stanze da letto ed era questo che stava cercando, no?
— E lei ha visto il bambino? Un ragazzino? — Naa. — Agitò la mano. — Quando è passata a casa mia a prendersi la chiave e guardare il posto, era da sola. Chi è che si trascina appresso un ragazzino quando cerca un appartamento? Tanto, per il bambino una casa vale l'altra. Tyler annuì, guardando il cartone appiattito che aveva fra le mani. Alzò gli occhi udendo all'improvviso un acuto latrato. Lo Yorkshire si dimenò fra le braccia dell'affittuaria, abbaiandogli eccitato, snudando i minuscoli puntini dei suoi denti. — Tu, cattivo. — Lei aprì la porta e lo posò fuori. Il cane continuò ad abbaiare e a gettarsi contro la rete. — Posso tenere questo? — Tyler sollevò il cartone. Lei si strinse nelle spalle. — Solo spazzatura. Certo. Lui tornò sui suoi passi fino al soggiorno. — E l'altro appartamento? Il vicino... avrà visto spesso la signora? E il bambino? — Eh. — Lei fece un gesto sprezzante verso la porta. — Quel vecchio merdoso. Beve. La polizia, e quelli del giornale, hanno cercato di parlargli, ma non è servito. Non capisce niente, tranne quando gli arriva l'assegno il primo del mese. Sulla porta, piegò il cartone in due. — Grazie — disse. — Di nulla. — Tenendo la porta aperta, lei lo osservò scendere i gradini fino al vialetto. — Aveva fatto davvero quelle cose? Come sul giornale... ammazzare gente e tutto? Lui si voltò. — No. — Abbastanza vero; come nel suo caso, il peggio con cui avrebbero potuto incastrarla sarebbe stata qualche accusa di merda come intralcio alla giustizia. Questo era quanto. — Be', le dica che il suo telefono ce l'ha la signora Ruiz. Lo terrò io per lei. Quando uscirà e vorrà indietro il deposito dalla compagnia telefonica, potrà passare a prenderselo. Attraversata la strada, gettò il cartone piegato sul sedile posteriore della Chevy e si infilò dietro il volante. "E con ciò? Cosa proverebbe tutto questo?" pensò mentre girava la chiave nell'avviamento. "Che era tanto pazza da comprare un giocattolo a un bambino inesistente. Tutto qui." Osservò gli appartamenti per qualche altro istante. C'era ancora abbastanza silenzio da sentire il cane uggiolare sulla veranda posteriore. I denti del cane erano apparsi come piccoli triangoli aguzzi, incastonati in un nero lucente. "Non rimetterti nei guai con questa storia."
Ingranò la marcia e scese con l'auto giù dal marciapiede. Quando fece ritorno al cinema, trovò che la catena era sciolta dalle maniglie dell'ingresso anteriore. Tyler rimase sotto l'insegna con la chiave del lucchetto in mano; attraverso la vetrata poté vedere la catena avvolta in una pila ordinata sul tappeto dell'atrio, appena dentro. Dopo aver scrutato il marciapiede in entrambe le direzioni, e il traffico stradale dietro di sé, si fece più vicino al vetro e sbirciò dentro. Non c'era segno di nessuno; le ordinate file di incarti di dolciumi nell'armadietto in fondo all'atrio erano indisturbate. Quando avevano fatto irruzione nel cinema l'anno prima... non un lavoro pulito come quello, ma un mattone tirato di prima mattina attraverso la vetrata... il bancone dei rinfreschi era stato buttato all'aria nell'infruttuosa ricerca di qualche soldo in cassa. Poté vedere che nulla era stato toccato; il tubo fluorescente sotto la sommità del banco faceva ancora risplendere mucchietti di mentine e gomme. La catena attentamente attorcigliata sul pavimento dell'atrio, con gli anelli che luccicavano come scaglie di un serpente, era sufficiente come biglietto d'invito. Sapeva già chi c'era dentro. Tyler oltrepassò la catena e tirò la porta dietro di sé, chiudendola. La vetrata bloccò fuori i rumori della strada. Avanzò ancora nel silenzio dell'atrio, sentendo i suoi lenti passi affondare nel tappeto. Le facce dei manifesti sul muro lo fissarono quando si fermò di fronte al banco e girò la testa, perlustrando l'interno. Porte doppie, a prova di suono e di luce, da ogni lato; più oltre, le insegne della toilette rilucevano di un pallido verde alla fine dei brevi corridoi. Interruppe il respiro per un momento e poté udire il sussurro dell'acqua che perdeva dal rubinetto di uno degli urinali. Il suo visitatore non aveva lasciato alcuna pista per indicare dove si nascondesse. "È ancora qui" pensò Tyler. Poteva sentirlo nei pressi, da qualche parte. Gli formicolò la pelle sugli avambracci. Aprì con una spinta le doppie porte imbottite e le lasciò richiudersi oscillando dietro di sé. Nel silenzio del cinema, le file di sedili vuoti fissavano dal basso lo schermo buio. Fece scivolare la mano sul rivestimento similvelluto dei sedili posteriori mentre li oltrepassava, scendendo per il pavimento in declivio. Qualcosa schizzò via quando il suo piede lo colpì. Una scatola vuota di popcorn, scordata dagli addetti alle pulizie della sera prima, roteò in cerchio fino a tornare sotto le sedie. Un lieve suono acuto venne dall'alto, dietro di lui, ma prima che potesse
voltarsi, la luce si riversò dallo schermo, inondandolo tutto. Sollevò il palmo della mano per bloccare quell'improvviso splendore. Lo sportello della cabina di proiezione, alto sul muro posteriore, era invaso dal bagliore del proiettore acceso senza che fosse caricato alcun film, abbastanza brillante da punteggiare l'aria dei granelli di polvere fluttuanti nel fascio luminoso. Sempre schermandosi gli occhi, Tyler vide una forma confusa portarsi davanti al bianco bruciante della lente. Si girò e vide lo stesso movimento ingrandito e distorto sullo schermo: l'ombra di una mano, che formava infantilmente una rozza bocca con le dita come denti. Un polso si allungò dal lato dello schermo. La bocca d'ombra si serrò, azzannando la luce. — Ciao, Mike — disse la voce. Lì, non al telefono. Stando nel corridoio tra le file, inclinò il capo per guardare in alto. La sua mano bloccava la luce, ma non poté vedere nient'altro. — Immaginavo che fossi tu, Slide. — Alzò la voce per farla giungere fino alla cabina. — Spero che non ti seccherai se ho trovato la strada da solo. — La sala si rischiarò un po' quando la mano si ritrasse, lasciando lo schermo vuoto. — Certe cose non cambiano, credo. Una risata echeggiò dalla piccola apertura sfavillante di luce. — Già, è proprio come ai vecchi tempi — disse Slide. — Dimmi cosa vuoi — disse Tyler. La sua ombra, gettata dal riflesso dello schermo, si allungava sul muro posteriore. — Verrò là sopra e potremo discuterne. — No... perché non te ne stai proprio dove sei? Ti posso vedere benone da qui. Mi piace così. — La voce di Slide lo provocò. — Inoltre, non sembravi troppo amichevole l'ultima volta che ci siamo sentiti. Ecco perché ho pensato di venire qui a... parlare un altro po'. — Di cosa? — La luce si affievolì di nuovo; lui si guardò dietro e vide l'ombra ingrandita di una mano che andava lentamente su e giù per lo schermo. La mano si fermò, si strinse a pugno un paio di volte, poi scomparve. — Andiamo, Mike. — La voce si fece più bassa. — Di cosa pensi che siamo qui a parlare? A che cos'hai pensato tutto il giorno? La pelle gli si tese sulle braccia, come per far rifluire il sangue di nuovo verso il cuore. — Eh, Mike? — La voce lo incalzò, insistente. — Forza. A che stavi pensando? Che cosa? Su, dai. Poté sentire qualche altro legame tendersi fra sé e il flusso di luce sopra-
stante. Qualcosa, oltre alle parole, nell'aria immobile della sala. "Forza." Lo sentì anche nella testa; i suoi pensieri stavano entrando in sincronia con quelli dell'altro. "Forza. Dimmi." Dietro di sé percepì un'altra forma che strisciava sullo schermo vuoto. La luce che emanava cambiò, si fece più cupa, anche se Tyler continuò a vedere ogni dettaglio, ogni punto e strappo, sul tessuto delle poltrone vuote. La sua stessa ombra sulle porte doppie si acquattò più in basso. Se si fosse voltato "fai pure... lo vuoi, non è vero?" sapeva che l'avrebbe visto, coi denti più aguzzi dell'ombra della mano di Slide... "Andiamo. Dai, che vuoi vederlo. Di nuovo." — Andiamo... Tyler girò il capo, guardandosi alle spalle, con la luce che fluiva sempre più cupa sopra di lui... "Non rimetterti nei guai con queste stronzate." ...e si conficcò le unghie nelle palme finché il dolore non gli risalì per le braccia. Sentì il gusto del sangue che gli gocciolava dall'interno di un labbro. Lo schermo tornò un vacuo rettangolo di luce bianca. — Peccato, Mike. — La voce di Slide fu appena udibile. — Ce l'avevi quasi fatta. Ma non preoccuparti. Ci riuscirai abbastanza presto. Lui alzò gli occhi alla cabina di proiezione. — Non c'è niente di cui dobbiamo parlare, Slide. — Intorno a lui, le poltrone della sala erano sprofondate di nuovo in una luce fioca. L'odore dolce e stantio di macchie di Coca e dolci calpestati sulla moquette gli raggiunse il naso. — Perché non te la vedi con me fuori di qui? La risata fu più dura, stavolta. — E il tuo ragazzino? — gridò Slide dalla cabina. — Che mi dici di lui, Mike? Tyler sospirò. — Non ho tempo per questo — disse, scuotendo la testa. — Vuoi farti beffe di... — Non è morto. "Pazzo." Girò lo sguardo per la sala. "Non è solo Linda. Sono tutti pazzi." Riportò lo sguardo allo sportellino e al profilo, indistinto per la luce, che si intravedeva lassù. — È morto. Mio figlio è morto, Slide. Sono stato sulla sua tomba. Un sacco di volte. Non saranno questi discorsi di merda a riportarlo indietro. — Non c'è tuo figlio, in quella tomba. Lui non disse nulla. "Forse... Non rimetterti nei guai con queste stronzate."
La voce dalla cabina di proiezione fu più lieve, quasi un sussurro alle sue orecchie: — Potrebbe tornare come prima. Anche meglio. Questo lo distolse dai suoi pensieri. — Di che stai parlando? — disse Tyler. — Lo sai di che sto parlando. Non è vero, Mike? — La mano di Slide si mosse sopra la lente brillante. — L'Ospite. È ancora qui. Dentro di te. Dentro tutti noi. Lui non si voltò a vedere che forma stesse proiettando sullo schermo. — Sei pazzo. — Un'affermazione semplice, ovvia. "Ha preso anche lui. Come Linda... è così che si diffonde. Dall'uno all'altro." — L'hai sentito, Mike. — La voce di Slide proseguì, calma e incorporea nel cinema vuoto. — Lo senti tutto il tempo. Senti lui. L'Ospite è ancora lì, dentro di te. Non se n'è mai andato. Puoi tentare di chiuderlo in bottiglia, puoi prendere quella merda che ti danno, ma è sempre lì. E tu lo sai. Lui non disse nulla, inclinando il capo per cogliere meglio le frasi dell'altro. — E siamo ancora tutti insieme. Tutti lì con lui. Ecco come ho trovato Linda. Non poteva nascondersi a me. Mi ha mostrato lui dov'era. Perché è il momento. Il momento di rimettere di nuovo il Gruppo assieme, Mike. A quelle parole Tyler scoppiò subito a ridere. — Non sarà un tantino difficile? — disse. — Non lasceranno uscire Wyle per un bel po' di tempo. — Wyle non ci occorre più. Non qui fuori. Ma è ancora con noi, comunque; anche con tutta la roba che gli danno per tenerlo calmo, il suo cervello è sempre al lavoro, amico. Come il tuo. Non puoi tener fuori l'Ospite, Mike. Perché è già in te. Non se n'è mai andato. Tyler sentì venirgli di nuovo la pelle d'oca sulle braccia. In un cinema vuoto, buio, ascoltava dietro un fascio di luce una voce che non aveva volto, solo un ricordo. E sentiva freddo... un gelo che rammentava, che giungeva col buio quando ogni cosa visibile era orlata di luce blu. "Dentro di me" pensò. "Mai andato via." — Non vedi? — La voce di Slide si alzò in volume e tono. — Il bambino... tuo figlio, Mike. È lui la chiave di tutto, amico. E ora è il momento. Tyler annuì. Adesso capiva tutta l'ampiezza e vastità dell'illusione. Si sentì proprio triste per Slide. Era come un animale selvaggio che avesse mangiato la carne avvelenata allestita per lui e ora la stesse vomitando di nuovo, insieme alle proprie budella. La sua follia si adattava su misura ai desideri dell'individuo; Linda voleva che suo figlio fosse vivo e non morto, e Slide rivoleva che i vecchi giorni gloriosi, i giorni della pazzia e del san-
gue, tornassero. E per entrambi, lo stesso vaneggiamento... il bambino vivo... era diventato l'ingranaggio cui si erano legati. — Ed è così che lo farai? — disse Tyler, forse troppo piano perché Slide lo sentisse. — Pensi che mio figlio sia vivo, e in qualche modo vuol dire che puoi rimettere il Gruppo assieme di nuovo. — Noi possiamo rimettere il Gruppo assieme. — La voce di Slide era sommessa come se gli stesse parlando all'orecchio. — Sarà proprio come prima. Saremo tutti nuovamente lì... insieme. — E vuoi che io ti aiuti. — Un aperto invito: unisciti alla pazzia. Abbocca all'illusione, assorbila in te, fa che diventi te. — Non lo farò — esclamò verso la cabina di proiezione. — Non è vero, mio figlio è morto, e io non... Si interruppe, ascoltando il silenzio della sala. Slide se n'era andato; capì che adesso era solo. Si voltò e guardò la luce che risplendeva vacua sullo schermo. — Guarda un po' questo... Uuuuu-ammmm! Steff indietreggiò, sbigottita per un attimo dall'apparizione che le era volteggiata intorno, all'altezza della vita, non appena lei era passata dalla porta. — Gesù, Eddie, a momenti mi facevi cadere 'sta roba. Senza segni di dispiacere, il figlio tenne in alto il modellino di plastica, irto di spuntoni, per offrirlo alla sua ispezione. Reggendo i libri nella piega di un gomito e la borsa del supermercato Ralphs nell'altra, Steff si chinò a guardare. — Non ha nessuna ruota — notò. — Perché è un'astronave — gridò Mike dalla stanza anteriore. — Ai trasporti intergalattici non occorrono ruote. Facendo svolazzare il modello in alto, Eddie corse lungo il corridoio. Mike alzò lo sguardo dal guazzabuglio di carte e pezzetti di plastica sparso sul tavolino da caffè. — Ovviamente — disse — non abbiamo ancora finito. — Ovviamente. — Lei si diresse in cucina e mise giù la borsa. — È altra roba del Guerriero della strada? — Era una vera mania per Eddie da quando Mike l'aveva portato a vederlo... con suo sgomento, dopo averlo scoperto. La difesa di Mike era stata che il film non era altro che una versione ampliata di Wilcoyote e Bip-Bip. Eddie smise di rimirare quell'aggeggio per lanciarle un severo sguardo infantile. — No — disse enfatico.
— Non ci sono astronavi nel Guerriero della strada — spiegò Mike. Si alzò per seguirla e rovistò nella borsa sul tavolo. — Come si rendono conto tutti gli adulti, alla fine la generazione più giovane scopre che siamo ignoranti e arretrati. — Indicò a Eddie di tornare in soggiorno. — Dobbiamo ancora metterci le decalcomanie, vecchio mio. — Ne ha una sul davanti. — È incollata solo con lo sputo. — La staccò e la porse a Eddie. — Non perderla. — Occasione speciale? — disse Steff dopo che il razzo, con suo figlio attaccato sotto, era volato di nuovo in soggiorno. — Voi due gli avete cambiato data del compleanno o che altro? — Ho solo preso interesse alla sua educazione. Non voglio far crescere qui attorno un piccolo idiota, che pensa che i razzi hanno le ruote. — Fanculo. Lui le camminò attorno fino al frigorifero e tirò fuori una bottiglia. — E voilà... bianco tedesco da poco prezzo, dal discount di Trader Joe. Il preferito di tutti. Mentre preparava la cena, Steff rifletté sul cambiamento d'umore di Mike. O su come lo simulava; l'aveva intuito subito fin dalla prima volta che era accaduto, e ogni volta successiva. Il vapore le si levò dritto in faccia quando svuotò il pacco di spaghetti nell'acqua bollente, spingendoli con un cucchiaio di legno. Dall'altra stanza venivano le voci mormoranti del notiziario serale alla Tv. Quella recita costituiva un miglioramento per certi versi, ammise fra sé. Anche se poteva percepire che era una deliberata finzione, che dietro quei regalini si celava qualche colpa, suo figlio almeno li giudicava dall'apparenza. "Forse" pensò, passando dall'apriscatole al lavello. O forse era solo tanto in gamba da fingere anche lui. I bambini erano svegli in queste cose, lo sapeva. Poteva ricordare il proprio padre... gli stava seduta in grembo quando era molto piccola, mentre lui guardava la boxe su un vecchio e grosso Tv Philco in bianco e nero. Giusto per farla ridere, ripeteva il ritornello del pappagallo della pubblicità Gillette, quando appariva fra un round e l'altro con la giacca colorata e il cappello di paglia; rammentava l'odore della sua pelle dopo una giornata di lavoro, come il forte aroma della bottiglia da un litro di Pabst Blue Ribbon accanto alla sedia a dondolo, e il solletico sulla guancia che le facevano i capelli di lui, quando gli poggiava la testa sul petto; il suono della campana quando gli uomini madidi di sudore uscivano di nuovo dagli angoli del ring e si tempestavano
l'un l'altro coi grossi guantoni imbottiti. — Merda — disse sottovoce, per non farsi sentire nella stanza accanto. Persa nei ricordi, aveva ficcato un cucchiaio nei pomodori pelati che sfrigolavano in casseruola con aglio e burro, e uno le aveva schizzato di semi e polpa tutto il grembiule. Si ripulì con un tovagliolo di carta. Rammentava la calda sicurezza del grembo di suo padre perfino adesso, molto tempo dopo che altri ricordi gli si erano stratificati sopra, come le tavole trasparenti di un testo d'anatomia.che sovrapponevano ossa e organi fino a formare un corpo completo, tranne il rivestimento di pelle. "Sua madre in cucina... sempre lì, quel piccolo mondo... e lei che alzava lo sguardo, stupita, sulle mani che tremavano mentre pelavano una patata nel lavello, e la madre all'improvviso fissava... a che età? cinque anni? di meno?... l'impronta della manona del marito, ancora esangue sulla sua guancia bagnata di lacrime." Forse i piccoli doni per farsi perdonare erano un programma genetico codificato nei maschi della specie; ricordava anche quelli, i fiori avvolti in un cono di carta di giornale, i profumi da quattro soldi sempre troppo fragranti perché sua madre li mettesse, ma che restavano sempre in cima al cassettone, nelle loro bottiglie dalle forme strane e vistose. Sua madre non li aveva mai gettati via, finché non era morto suo padre. Dopo che la malattia a lungo non diagnosticata gli aveva stretto in una morsa il sangue che entrava nel cervello, come un pugno che gli si serrasse nel cranio, innescando quei furori in cui vedeva rosso, alla fine la sua fragile materia grigia aveva ceduto e lei l'aveva trovato con la spalla che bloccava la porta del bagno, e la mano che stringeva ancora tremante il rasoio elettrico che ronzava sul freddo pavimento di piastrelle. "Una stanza d'ospedale oscurata, le linee verdi che tracciavano a zig-zag respiro e battito cardiaco sullo schermo sopra il letto. Finché le linee verdi non erano rimaste diritte, senza registrare più nulla." Era rimasta a casa senza andare al liceo la settimana del funerale, per stare con sua madre, e aveva trovato le bottiglie di profumo, tutte, accuratamente fracassate in fondo al bidone della spazzatura dietro casa. I loro residui d'aroma si mischiavano con l'odore dolciastro dei fiori pestati. E questo che significava? Lei adesso se ne stava nella propria cucina, erano sue le mani che tritavano e pelavano e mescolavano, l'unico talento che avesse ereditato. La tomba... sua madre se n'era andata appena un paio d'anni dopo il padre... e la memoria avevano inghiottito tutte le altre cose cui aveva assistito. Levava meravigliata lo sguardo sui genitori, mentre andavano e venivano misteriosamente, si scambiavano parole rabbiose e
silenzi brucianti. Adesso era lei a vivere in quel mondo di adulti che si svolgeva poco sopra la testa di un bambino. Ma si domandò se lo capisse tanto meglio, ora. La questione, la spaventosa questione, era sempre se si dovessero ripetere daccapo le vite dei propri genitori. Quella era un'altra cosa di cui avevano discusso al rifugio. E, infine, si chiedeva se avesse amato qualcuno perché capiva che la cosa dentro di lui, il malessere che lo spingeva a perdere il controllo... "i vasi sanguigni che strizzavano l'ossigeno dal cervello finché suo padre non poteva vedere altro che rosso" "il libro che Mike teneva nascosto nell'armadietto, il volto di donna nella foto sul giornale, memorie mai rivelate ma altrettanto rosse" ...quella cosa era diversa, e non lui per davvero. O se... come quelle donne che continuavano a sposare un alcolizzato dopo l'altro, perché i loro padri erano alcolizzati... quell'altra cosa fosse proprio ciò che voleva, una punizione o solo il modo in cui aveva imparato a dire la parola "amore" quand'era bambina. "Voglio un bastardo malvagio, proprio come il bastardo malvagio che ha sposato la mia cara mamma." Tremendo a pensarci; significava che il vero malessere le era in qualche modo entrato dentro, diventato un'eredità familiare come il colore degli occhi o la forma del naso. E che l'unica cura era smettere di amare la persona che amava. Era così che funzionava il passato. Pensavi di essertelo lasciato alle spalle, e invece era lì ad aspettarti girato l'angolo. Le sue mani avevano badato ai propri affari, tagliando la lattuga in insalata, mentre i suoi pensieri erano stati altrove. Portò la scodella in tavola. Oltre la soglia poté vedere Mike, che ora guardava il notiziario serale mentre Eddie pilotava la nuova astronave, ruote o no, sul tappeto. Mentre osservava, Eddie si mise a sedere e sollevò il modellino, indicando qualche dettaglio all'attenzione di Mike. Mike proseguì a fissare lo schermo Tv come se non avesse né visto né sentito Eddie, finché all'improvviso il suo sguardo non scattò verso il bimbo. L'espressione sul suo volto... quasi feroce, come se l'avessero svegliato di botto da un violento sogno... zittì il chiacchiericcio di Eddie, finché il viso di Mike non si addolcì e la sua mano si tese a scompigliare i capelli del piccolo. Un passo falso nella recita. "Quale sarà il successivo?" si chiese lei mentre estraeva le posate tintinnanti da un cassetto. La domanda che non voleva nemmeno le passasse per la mente era... cosa avrebbe fatto al riguardo. L'interruzione di Eddie era stata sufficiente a distrarre Mike dalle sue
oscure meditazioni. A lenti passi entrò in cucina, le fece una carezza con una mano mentre ispezionava la pentola fumante sul fornello. — Sembra quasi il momento di aprire questa dannata bottiglia — disse, togliendo il vino dal frigorifero. Si chinò in avanti, stringendo la bottiglia fra le gambe mentre infilava il cavatappi. La sua mano saltò via quando il tappo si ruppe, con metà ancora ficcata nel collo. Lei intravide sgorgare una chiazza di sangue sul suo dito, dove la punta ricurva dell'attrezzo gli aveva graffiato la pelle. Poi schegge e vino schizzarono per tutta la cucina. Lo schianto della bottiglia che si fracassava quando la scagliò contro il muro spinse Steff tremante contro il bancone. — Uau — ansimò Eddie, con gli occhi sgranati, dalla soglia. Mike si girò di scatto, col volto iniettato di sangue. Lei si tese verso il suo braccio, per afferrarlo e tenerlo lontano dal bimbo. Non fu necessario. Il volto di Mike tornò a impallidire, e le sue spalle si rilassarono, mentre la spina dorsale abbandonava la posa curva. Restò un attimo sbigottito quando guardò Eddie, poi il suo sguardo corse agli occhi della ragazza e alla parete dietro di sé. Vetri scintillanti scivolarono fra il bagnato fin sul pavimento. Si umettò le labbra. — Immagino che dovremmo rallegrarci che non fosse un rosso. — Riuscì a fare un sorriso per Eddie. — Ehi, piccolo. Portami un po' di giornali vecchi dall'armadio in anticamera, okay? Dobbiamo pulire questo pasticcio. — Mi spiace — mormorò quando Eddie corse fuori a prendere i giornali. Si succhiò la chiazza di sangue dalla punta del dito. La recita tornò di nuovo impeccabile, e tale si mantenne per tutta la cena. Mentre lei lavava i piatti, gettò un'occhiata a Mike che allineava i farmaci, estratti dai contenitori di plastica arancione, su uno degli scaffali della credenza. Assemblò il suo dosaggio notturno e lo avvolse in un quadrato di carta stagnola. — Devo tornare al cinema — disse, facendo scivolare l'involto nella tasca del cappotto. — Aiutarli a chiudere. — Così presto? — L'orologio a muro indicava che mancava poco alle otto. Di solito, quando tornava al cinema di notte, sceglieva l'orario in modo da arrivare lì dopo che l'ultimo spettacolo era finito e gli spettatori stavano già uscendo in fila. — Ho delle carte da sbrigare. Uno dei distributori ci ha rispedito quei
merdosi questionari che dobbiamo riempire tutti. — Aspetta. — Si asciugò le mani insaponate su una salvietta per piatti. — Voglio stare un po' in auto con te. Eddie era seduto di fronte alla televisione, con l'astronave installata in cima. — Torno subito — esclamò lei in corridoio, e lui annuì senza staccare gli occhi dallo schermo. Si infilò nel sedile del passeggero a fianco di Mike. Lui ficcò la chiave nell'avviamento e poi attese, sapendo che lei aveva qualcosa da dirgli. Era già preparato. Nell'oscurità dell'abitacolo dell'auto, con l'azzurro dei lampioni che filtrava attraverso il parabrezza, lei gli si fece più vicina. — Senti, lo so che c'è qualcosa che non va. Lui non negò nulla, guardando fisso lungo il marciapiede, verso il brillante flusso di traffico alla fine dell'isolato. — Da quando hanno messo quella foto sul giornale. Lo sai, la tua ex moglie. Lui annuì lievemente, senza ancora guardarla. Poi la parte più dura, le parole che aveva rimuginato per tutta la cena. — Se è proprio qualcosa che ci vuole un po' per risolvere... se ti occorre tempo per star solo, per pensare alle tue cose... si può sistemare. — Gli toccò la spalla. — Voglio dire, posso mettere della roba in valigia e portare Eddie da Pauline... ci aiuterebbe per un po'. E se... Mike girò il viso verso di lei. La pallida luce che entrava nell'auto lo rischiarava solo dal collo in giù. — Non dovrai farlo — disse. — È tutto okay. Lei lo guardò per pochi secondi prima di parlare. — Devo pensare a Eddie — disse a bassa voce. — A quello che potrebbe vedere. Lui scosse la testa. — Andrà tutto per il meglio. Non succederà nulla. — Mike, a me sta bene. Cioè, se ti serve tempo. So cosa significa... — Tu non sai. — La voce gli si indurì. — Non sai niente. — Distolse di nuovo lo sguardo. Prima fissò le sue mani dai riflessi azzurrini, poggiate sulla metà superiore del volante, poi scrutò nel buio, fino alle strie rosse di luci posteriori che serpeggiavano in lontananza. — Tu non sei stata lì. Lei lo osservò in silenzio mentre reclinava il capo indietro, massaggiandosi la fronte con una mano. — Non preoccuparti — disse, con voce che era di nuovo la sua. — È tutto a posto. In piedi sul marciapiede nella calda aria notturna, lei lo guardò allontanarsi alla guida. Il vento, o qualcos'altro, fece frusciare la folta edera sul
bordo del marciapiede. Quando le luci dell'auto si furono fuse con le altre, nel rigido fiume luminoso che tagliava in due il buio, Steff si voltò e tornò camminando lentamente all'appartamento. 9 Sapeva che la libreria chiudeva alle dieci. Quindi aveva tempo in abbondanza. Tyler guidò lungo Melrose e svoltò a est, dove le sfavillanti facciate dei negozi d'abbigliamento cedevano il passo alle luci soffuse dei decoratori d'interni. La libreria era cambiata da quando l'aveva vista l'ultima volta, in quell'altra vita prima del Gruppo di Wyle. Era passato molto tempo. L'avevano ricavata partendo da un'ordinaria casa, un po' malridotta a causa della vicinanza a una strada di grande traffico, e trasformandola in puro stile "ecologico-riciclato". Infilandosi in tasca le chiavi dell'auto, Tyler salì i gradini della veranda di legno. L'insegna scolpita a mano con l'emblema di un albero rigoglioso gli oscillò sulla testa. Quella parte era rimasta la stessa; ma dal lato dove aveva parcheggiato, aveva potuto vedere che il resto della casa era stato demolito ed era stata aggiunta una nuova costruzione di stucco bianco, con un tetto di grosse travi in aggetto, due volte più grande dell'edificio originale. Un'ampia finestra circolare colorava il marciapiede con la luce irradiata attraverso il modernistico rosone di vetro colorato al suo centro. Quando aprì la porta spingendola, tintinnò una campanella d'ottone. La ragazza dietro la cassa infilò il dito in un volume come segnalibro e alzò gli occhi mentre lui si avvicinava. — Bonnie Rees lavora stasera? La ragazza annuì. Portava orecchini fatti di piccole piume lucenti, gli stessi che c'erano nei ripiani di vetro dentro il bancone, accanto ai piccoli cristalli lucidi montati in argento. — Penso che sia dietro, in ufficio. Lui seguì la direzione del suo dito puntato. — Grazie. Oltre gli scaffali allineati lungo le pareti di quelle che una volta erano state comuni stanze di una normale casa, e che le file di libri in mostra dal pavimento al soffitto avevano da tempo trasformato in un confuso labirinto, si potevano vedere gli spazi più vasti del nuovo ampliamento. Pochi acquirenti vagavano per i corridoi. Tyler spinse da parte un tipo calvo, barbuto, in camicia e calzoni di cotone rosso alla Rajneesh. Riconobbe Bonnie dalla sommità della testa, mentre esaminava dei mo-
duli d'ordinazione sparsi su tutta la scrivania. I suoi capelli un tempo biondi si erano scuriti fino a un grigio topo, ma erano ancora tirati all'indietro in una treccia. Alzò gli occhi quando lui bussò sulla cornice della porta. — Michael. — Sbatté le palpebre, sorpresa. Le sue mani si agitarono fra le carte, come se d'improvviso si fossero staccate da lei. — Era tanto tempo — disse lui. Sorrise, sperando di calmarla. — Hai un momento? — Avrei dovuto saperlo che saresti venuto. — Sollevò un mazzo di fogli da una sedia vuota e lasciò che lui lo gettasse dall'altro lato della scrivania. — Sono arrivati qui tutti gli altri. Da quando Linda è stata arrestata. — Chi è venuto? — Si sedette e si ripiegò le mani in grembo. Dietro la testa della donna c'era un poster pacifista, una colomba di Picasso, così vecchio che i bordi si erano ingialliti e arricciati, staccandosi dalla parete. Lei scrollò le spalle. — Kinross... ovviamente. Era già passato prima, comunque. E quell'altro tipo... quello con cui hai scritto il libro. — L'ha scritto lui. Io gli ho solo detto certe cose. — Tyler accennò col capo ai locali oltre la porta dell'ufficio. — Voi lo avete, qui? Bonnie scosse il capo. — Non è proprio il nostro genere di cose. La gente può sempre andare a comprarselo da B. Dalton. — Suppongo di sì. E la roba di Wyle? Avete qualcosa qui? — Mantenne la voce calma, impassibile. Le sue mani erano tornate a riposo, ma bastò sentir pronunciare quel nome a farle sobbalzare. Si morse il labbro pallido, incolore. — Un po'. Alcuni dei primi volumi. La gente li chiede ancora. Li tengono in catalogo. — I primi volumi. Giusto... per i veri puristi. — La sua voce scivolò nel sarcasmo. — Sembra che gli affari vadano a gonfie vele. Questo posto l'hanno proprio ingrandito. Mi ricordo quand'era una vera tana, zeppa degli hippy più fumati di L.A. A malapena si vedevano i libri, per tutto il patchouli che c'era nell'aria. Sei tu la direttrice ora? La sua treccia oscillò quando lei scosse la testa. — Solo l'assistente. Ma ogni tanto ne faccio le veci... i proprietari sono andati col direttore in India per un mese. — Davvero? C'è gente che lo fa ancora... mi meraviglia. Pensavo che a quest'ora avessero scoperto un modo più semplice di prendersi la dissenteria amebica. — Non scherzare, Mike. Ti prego. Lui si zittì e la fissò. In realtà Bonnie stava trattenendo le lacrime; perfino quelle parole erano una violenza eccessiva per lei. "Oggi, almeno" pen-
sò lui. Ciò smentiva la teoria che, assistendovi o commettendole di persona, esperienze simili indurissero la gente. Il suo transito nel Gruppo di Wyle l'aveva resa fragile come vetro sottile. Un tempo, insieme al resto del Gruppo, avrebbe disprezzato un posto come quello, col suo miscuglio di Zen ed Esalen, completo di bricco di tè alle erbe che ribolliva sotto l'insegna scritta a mano con la dicitura AIUTA TE STESSO. Ora per lei era un rifugio; poteva immaginare quanto ristretto fosse diventato il suo mondo, un triangolo fra lì e Erewhon, il negozio di cibi naturali sul Beverly Boulevard, e, da qualche parte, un piccolo appartamento pieno di gatti. ("Il tuo mondo è poi tanto meglio?" lo schernì la propria voce nel cranio. "È piccolo come la stanzetta da cui pensavi che ti avessero fatto uscire. Ma non ci badare. Sei un topo addomesticato, adesso.") — Mi dispiace — disse. Avevano attraversato tutte le guerre insieme; come riuscissero a sopravvivere tra le rovine fumanti del campo di battaglia era una questione privata. — Va tutto bene. — Lei si scostò un ciuffo ribelle di capelli dal viso. — Per cosa sei passato? — Niente. — Strinse i braccioli della sedia per rialzarsi. — Volevi domandarmi qualcosa. Non è vero? — Lascia stare — disse lui. Non solo lei era fragile come vetro, era anche altrettanto trasparente. "Non sa nulla" pensò. — Volevi sapere se li avessi visti. — Raccolse abbastanza forze da pronunciare quei nomi. — Se avessi visto Linda. O Slide. È questo che volevano anche gli altri. — Non devi dirmi nulla. — Sapeva che, in caso contrario, avrebbe potuto intuirlo immediatamente. — Non li ho visti — disse semplicemente Bonnie. — Non so più niente di loro. È stato un sacco di tempo fa anche per me. — Sono contento. — Lui si alzò e tirò la porta dell'ufficio, aprendola. Camminò attraverso gli stretti corridoi senza guardarsi indietro. Sul marciapiede, la luce del rosone colorato gli piovve addosso mentre si dirigeva verso la macchina. Era passata mezzanotte, e l'atrio dello studio di registrazione era illuminato come in pieno giorno. Quello era un altro mondo che funzionava tutto nelle ore buie; studi di un tipo o dell'altro, disseminati in tutta Los Angeles, proseguivano febbrilmente a raffinare sempre più i dettagli dei loro prodotti.
L'unica differenza era la porta chiusa. Non si poteva entrare come se niente fosse. Tyler premette il pulsante sotto la griglia del citofono. Attraverso il vetro poté vedere la ragazza troncare la conversazione con la collega appoggiata in avanti sul banco della reception. Entrambe rivolsero lo sguardo su di lui. — Sì? — crepitò la sua voce dall'altoparlante. Isolata com'era dalla porta di vetro, le sue labbra sembrarono muoversi in silenzio, sincronizzate alle parole. — Posso esserle d'aiuto? Tyler immaginò che un sacco di barboni e di drogati passassero di lì e occhieggiassero l'elegante atrio illuminato di notte. O peggio, che fanatici teen-ager scoprissero col passaparola che qualche idolo aveva prenotato lì una registrazione a 24 piste. Ciò spiegava la gelida, formale ostilità della voce della ragazza alla vista di chiunque non riconoscesse, la determinazione a tenere quelli "di fuori" dall'altro lato del vetro. Si fece più vicino alla griglia. — Sono atteso da Ken Ruhman. L'avevo chiamato. Annoiata e inespressiva, l'addetta alla reception premette qualche altro bottone sul suo banco. Un momento dopo, la sua bocca si mosse di nuovo, silenziosa per lui, poi la porta ronzò e scattò mentre la serratura si apriva. — Giù in fondo al corridoio e a sinistra. — Puntò una penna verso una pianta torreggiarne dalle foglie lucide e una fila di segnali luminosi per orientarsi. La tipa con cui stava parlando continuò a rimanere appoggiata sul bancone, osservando Tyler starle accanto. Un grosso pacco di scatole esagonali di nastri, legate con un lucchetto, le stava appoggiato alle gambe. — Vedrà il suo nome sul foglio affisso alla porta. Sentì il loro sguardo voltarsi e seguirlo mentre si incamminava. Dalla strada, l'edificio appariva come un magazzino, con un cancello legato da una catena per proteggere le auto parcheggiate di fronte, e probabilmente era stato ricavato da qualche posto simile. Era solo quando si entrava dentro... se si riusciva a entrare... che si scoprivano i folti tappeti, l'aria condizionata e filtrata, e i quadri astratti dai colori tenui, privi di emozioni, sotto faretti orientati con precisione. "È tutto a prova di suono" pensò Tyler mentre seguiva il corridoio. La cosa l'aveva colpito, l'unica altra volta che era venuto lì a vedere Ken: dove l'affare stava nel fabbricare suoni, quelli erano gli unici luoghi silenziosi di L.A. La lampadina rossa sulla porta era spenta. Aprì e mosse qualche passo nell'oscurità dall'altra parte. Ci volle un momento perché i suoi occhi si adattassero e vedessero le file di lussuosi sedili di fronte a uno schermo
buio. Quella sala dello studio era un cinema in miniatura, diverso dai tipi soliti, come quello che gestiva lui. Solo cinquanta posti circa, disposti in un'ampia mezzaluna, più larga e confortevole, con un elaborato sistema di pulsanti e una minuscola luce su uno stelo cromato pieghevole incorporato nei braccioli. E lo schermo era più ampio, non uno stretto rettangolo per i revival in bianco e nero della Mgm e i granulosi film espressionisti stranieri, ma un campo visivo da 70 mm buoni. Lì non si guardavano film, tranne che per dar loro il ritocco finale. Qualcosa di recente gli strisciò nella memoria, mentre si guardava intorno in quello spazio buio: stava in un cinema vuoto, con lo schermo bianco, e ascoltava... La voce venne da dietro di lui. — Ciao, Mike. Che succede? Lui si voltò e guardò. Dietro gli ultimi comodi posti, una bassa parete curva separava una rientranza dal resto dello studio. La faccia dell'altro fu illuminata da un'altra lampada a stelo quando si chinò sulla sua postazione. I suoi occhiali colsero il riflesso dei quadranti e degli interruttori della consolle di controllo sottostante. — Lavori troppo sodo, Ken. — Tyler oltrepassò i sedili, sfiorando con la mano gli schienali di velluto. — Dovresti provare a uscire di qui, qualche volta. Non li leggi i giornali? Ken fece ruotare la sedia su se stessa e ne spinse un'altra verso Tyler. — Oh, vuoi dire quella roba sul ritrovamento di Linda. Sì, ho sentito. — Inclinò indietro la sedia per tendere la mano verso un pacchetto di sigarette sulla consolle. — L'avrebbero beccata comunque, presto o tardi. Tyler si guardò attorno mentre si sedeva. Le pareti della rientranza dietro i posti in sala erano zeppe delle attrezzature con cui Ken lavorava: grossi registratori a nastro, un banco di monitor video, un quadro di missaggio audio con file dopo file di comandi a manopola e a cursore. Un cavo multicolore correva da un computer celato in una nicchia a una piccola tastiera musicale; incongruamente, fra tutta quell'elettronica, un sax contralto era appoggiato in un angolo. — Da chi l'hai sentito? — chiese. Ken sorrise. — Chi altri? Bedell, è ovvio. Qual verme si è messo al telefono prima che avessi la possibilità di vedere i giornali. — Che voleva? Ken si ripiegò gli occhiali in mano mentre si sfregava gli occhi, iniettati di sangue dalle ore passate alla consolle. — La stessa cosa per cui proba-
bilmente ha parlato con te. Corre qua e là, cercando di stipulare qualche tipo di contratto. Va in giro chiamando chiunque gli passi per la testa. — Si raddrizzò gli occhiali e guardò Tyler. — Sai, non te lo consiglio, se stai pensando di combinare qualcosa con lui. Un'efficiente ventola sul soffitto risucchiò il fumo della sigaretta di Ken. — Perché no? — disse Tyler. — Andiamo. Quel tipo è una scamorza. Ha avuto il suo colpo gobbo con te, e da allora ha sperperato tutto. Ha fatto un salto qui... circa un anno fa, penso... e ha cianciato per un'ora su qualche documentario dicendo che aveva un produttore già disposto, e voleva che lavorassi alla colonna sonora. Roba sul Gruppo di Wyle, naturalmente. Alla fine ho dovuto chiamare le guardie per cacciarlo da qui. È saltato fuori che quel produttore aveva già detto alla sua segretaria di non passargli più telefonate di Bedell. — Ken scosse la testa. — Me ne scorderei se fossi in te. Non hai bisogno di soldi, vero? — No, va tutto bene. — Si guardò le mani aperte sulle gambe dei pantaloni. — Ho già detto a Bedell di andarsene al diavolo. — "Colpo gobbo" rifletté. Era un modo bizzarro di metterla. La gente finisce uccisa, ed è un colpo gobbo per qualcun altro. Forse era comprensibile che Ken la pensasse in quel modo; l'ingresso nel Gruppo di Wyle non gli aveva portato che bene. Tyler lo ricordava come un diciannovenne in gamba, che si trastullava alla facoltà di mass-media dell'università sperimentando strumenti audio in qualche canyon roccioso della Costa Mesa, quando aveva fatto una capatina da loro. O, a dire il vero, era stato reclutato: il Gruppo aveva bisogno di qualcuno che sapesse il fatto suo, per maneggiare tutte le bizzarre attrezzature video che Wyle si era comprato con gli incessanti diritti d'autore dei suoi libri. (Più tardi, steso su una cuccetta in una di quelle stanzette che erano divenute il suo mondo, Tyler aveva avuto il tempo di riflettere sul narcisismo dei folli. Già negli anni Sessanta, anche alla Famiglia Manson era piaciuto filmare i loro piccoli rituali. Telecamera e microfono erano giocattoli per soddisfare una certa vanità. Oppure il sangue era così mesmerizzante che una volta averlo visto lordare le proprie mani, non ci si stancava mai di guardarlo?) Le sofisticate apparecchiature del Gruppo erano state per Ken dei perfetti attrezzi ginnici, per svolgere il suo apprendistato da autodidatta. Essere dall'altro lato della videocamera, a documentare tutto, l'aveva protetto dai rigori della legge; davanti alla corte se l'era cavata con poco, e poi un breve soggiorno in qualche clinica privata. E gli studi di L.A. non si
curano di dove hai fatto esperienza, finché sai che manopole girare. Miglia di nastro si erano srotolate sotto le mani di Ken quando era stato nel Gruppo. Qualche spezzone era stato mostrato in tribunale. Giravano delle voci per la città su cos'era accaduto al resto; visioni private ai party nelle ville di Beverly Hills, produttori cinematografici che avevano visto tutto, stanchi dei soliti effetti speciali e vogliosi di roba autentica. Se le storie erano vere, non poteva biasimare Ken per aver convertito le reliquie insanguinate del Gruppo in valuta sonante allo studio. Tyler aveva trovato abbastanza utile il denaro che gli era giunto come sua quota del libro di Bedell, anche se non era stato quello il suo obiettivo. Il microfono dello scrittore era solo stato un comodo orecchio in cui parlare, e proseguire a parlare, fino a buttar fuori tutto. — Per cos'è che volevi vedermi, allora? — disse Ken. Tyler guardò oltre la consolle e le file di posti, fino allo schermo vuoto. — C'è dell'altra roba in ballo. — Si girò di nuovo verso Ken. — Sul Gruppo. — Di che genere? Si tese in avanti sulla sedia, accorciando le distanze tra loro. — Voglio che tu mi dica qualcosa. E sarà meglio che sia la verità. Hai sentito qualcosa di Slide? Ken ripiegò le braccia sul petto e si tese indietro, allontanandosi con una spinta. — Di che stai parlando? — Mi hai sentito — disse Tyler con calma. — Slide... ti ha chiamato? È passato di qui? Dimmelo. — Sono anni che non vedo quel fottuto. Da quei tempi. — Ken iniziò a pescare un'altra sigaretta dal pacchetto. — E non ci tengo nemmeno, a vederlo. Tyler attese finché lo sguardo dell'altro non tornò su di lui. In silenzio, guardò oltre le nervose contrazioni delle palpebre dietro gli occhiali, fin nelle pupille buie. Restò a fissare solo pochi secondi, poi si raddrizzò sulla sedia. Non aveva visto nulla. Si rialzò. — Se senti qualcosa di lui, fammelo sapere. Ken lo accompagnò all'uscita dello studio. La luce del corridoio gli inondò la faccia, pallida per l'ora tarda, e altro. — Forse sarebbe meglio che tu non ti faccia più vedere qui attorno — disse. Tyler guardò lungo il corridoio. Girato l'angolo, oltre la porta di vetro, sarebbe stato di nuovo buio fuori. — Forse è vero — disse.
Giaceva nel letto a pensare. Tyler poté udire il soffice respiro di Steff, il suo tepore accanto a lui. "Non dimostra un accidenti" si disse. Fissando l'alto, poteva distinguere nel buio la ruvida superficie del soffitto. Tutto il tempo trascorso in giro a guidare quella notte, andando a trovare i vecchi membri del Gruppo, era stato tempo sprecato. Facce aggiunte alla sfilata di volti del proprio passato, che era iniziata con la foto di Linda sul giornale. E le loro voci... se Bonnie e Ken gli avevano mentito, anche con parole inespresse, come faceva a saperlo? "Non c'era modo" pensò. Se erano d'accordo con Slide, se loro e tutti gli altri veterani del Gruppo di Wyle, liberi o rinchiusi che fossero, contavano di rimettere il gruppo assieme, non gliel'avrebbero certo detto. Il fatto di averglielo dovuto chiedere dimostrava che era tagliato fuori. E quando uno era tagliato fuori non gli si raccontavano i segreti. Finché non era troppo tardi. Si girò dal suo lato. Dai lampioni stradali scese abbastanza luce lungo la facciata dell'edificio, fino alla finestra della camera da letto, da fargli vedere il profilo di lei sul cuscino, le ciglia sulla sua guancia. Lei si agitò, sprofondando ancor più nel sonno, quando lui sollevò cauto il lenzuolo e fece scivolare le gambe fuori dal letto. La porta di Eddie era lievemente aperta. Guardò per un momento la piccola figura dormiente, poi a piedi nudi percorse felpatamente il corridoio fino alla stanza anteriore. Tyler stette nel mezzo della stanza buia ad ascoltare. Aveva tirato via la poltrona dalla finestra, per rimetterla nella solita posizione accanto al divano. Il lento fluire dei farmaci nel suo sangue e la fioca luce che oltrepassava la tenda tramutavano gli oggetti della stanza in tetre sagome. La sua ombra affondò nel tappeto attorno ai piedi. Voltò la testa verso la cucina. Il cavo attorcigliato del telefono penzolava a fianco della porta. Restò in attesa, ascoltando il proprio respiro nel silenzio. Se il telefono avesse suonato allora, sapeva chi ci sarebbe stato all'altro capo. "E che cosa gli direi?" C'erano altre domande che non aveva nemmeno fatto a quelli cui aveva parlato la sera prima, domande su un bambino e una tomba. Ma fare quelle domande avrebbe significato, ancora una volta, ammettere che era tagliato fuori, non addentro nei segreti. Sentiva freddo, come se una corrente fosse penetrata dalla finestra fin nella sua pelle.
"Non metterti nei pasticci con questa storia." Quell'avvertimento non suonò più emesso dalla sua voce, nella propria testa. La sua voce voleva chiedere dov'era suo figlio Bryan, se non in quella piccola tomba con le vecchie palme dagli esili tronchi, chine sull'erba scura come la notte. E sapeva che sarebbe stato così a cominciare. Ammettendo nella mente quella piccola possibilità. "Ecco come potresti riunirti" pensò, chiudendo gli occhi in mezzo alla stanza. "Lì con loro di nuovo. Cominci col dirti che potrebbe essere proprio vero, che è possibile..." E poi, tirando le somme, pensavi che fosse la verità. Una voce d'ubriaco gridò qualcosa in lontananza, all'estremità dell'isolato dove c'erano i bar. "Non farlo." Ma dietro quell'avvertimento, il sussurro della sua voce: "E se...". Rimase al centro della stanza buia, a capo chino sul petto, come in ascolto, in attesa di un piccolo suono. 10 — Bene. Alla buon'ora, vedo. — Bedell indietreggiò, aprendo la porta di slancio. — Vieni dentro. Tyler mise piede in casa. Era stato a premere il bottone del campanello per due minuti interi. Al riparo dal fulgore del sole mattutino, diede uno sguardo alla scarsa mobilia del soggiorno. Sembrava esserci un'insolita quantità di tazze di caffè sporche sparse in giro, qualcuna ancora mezza piena, con mozziconi di sigaretta annegati dentro. — Qual vento ti porta? — Bedell estrasse un altro pacchetto di sigarette e dei fiammiferi dalle tasche della sua vestaglia. Si appoggiò con la schiena alla libreria a muro. — Ho come l'idea — disse freddamente — che tu abbia già preso una decisione. — Forse no. — Tyler si ficcò gli occhiali scuri nella camicia. — Forse ci sto ancora pensando sopra. — Ah, sì? — L'altro annuì, sfregandosi il labbro inferiore. Lanciò a Tyler uno sguardo con gli occhi socchiusi. — Forse faresti meglio a sperare che l'offerta sia ancora valida. — Non ripetermi queste stronzate. — Tyler lo superò a grandi passi, diretto verso la porta che dalla stanza dava in cucina. Oltre la pila di piatti unti nel lavello, i cartoni di surgelati vuoti ammassati sul bancone e i trian-
goli marrone dei filtri per il caffè usati, poté vedere fuori, nel cortile. Dietro la porta scorrevole priva di tende, erbacce marroni affollavano la copertura di cemento del patio. — Non sei in posizione tale da negoziare nulla con me — disse, indurendo la voce mentre si voltava ancora verso di lui. — Potresti riuscire a stipulare un contratto se dicessi a qualche editore che mi hai ripreso a lavorare con te. Ma è sicuro che senza di me non ce la farai. L'articolazione della mascella di Bedell si mosse su e giù, come se si masticasse la lingua in bocca. — Che ne sai tu — disse a denti stretti. — Il mio agente ha un sacco di gente che aspetta una mia risposta. — Stronzate. — Tyler gli camminò intorno, tracciando un ampio cerchio attraverso i segni sul tappeto dove una volta c'erano stati i mobili. — Sei la barzelletta della città. Lo sanno tutti quanto sei nei guai. La sua faccia tronfia si fece pallida. — Sta bene — disse. — Forse è così. Ma non sei passato di qui solo per coprirmi di merda. C'è qualcosa che ti occorre, scommetto. — Gli occhi gli si rimpicciolirono, mutandosi in puntini duri e brillanti. — Non è vero? Erano sulla stessa lunghezza d'onda, finalmente. "Niente più prese in giro" pensò Tyler. Basta con la finta cordialità, il cameratismo; i loro nomi si limitavano a stare assieme nella stessa pagina, sotto il titolo. "Ora possiamo tornare agli affari." — Splendido. — Smise di camminare. Il suo sguardo tracciò un'irremovibile linea fra i suoi occhi e quelli dell'altro. — Potrai servirti di me. Dir loro quello che vuoi. Firmare qualunque contratto. Ma c'è qualcosa che voglio sapere. E che tu mi dirai. Bedell incrociò le braccia sul petto, in attesa. "Non metterti nei pasticci..." Digrignò i denti, mentre la voce nel suo cranio veniva sommersa da una rossa marea rombante. Poté a malapena udire le parole che gli sgusciarono di bocca. — Mio figlio è vivo? Il rosso sbiadì mentre il sangue gli rallentava nelle vene. Poté sentire, da qualche parte in casa, il ronzio idiota di una mosca che batteva contro il vetro di una finestra. Bedell sbarrò gli occhi. — Di che stai parlando? Vuoi dire Bryan? Un altro nome pronunciato a voce alta, il passato che picchiava alla sua testa. Sentì una vertiginosa cavità, buia al centro, spalancarglisi nel petto. — Sì — disse a bassa voce, annuendo col capo.
Una risata acuta, stupita, mentre Bedell si sfregava la fronte. — Cioè, come crede Linda. Hai preso l'idea da lei. — Non importa dove l'ho presa. Voglio solo sapere se è vero. — E pazzesco. È proprio pazzesco. — Bedell macinò la sigaretta in un posacenere su uno scaffale. Il suo sguardo si perse in qualche ricordo che gli passava per la testa. — Voglio dire, dopo tutti questi anni. Te ne sei andato in giro per tutto questo tempo, sai che il bambino è morto e sepolto... e poi bing, una cosa simile. — Fece schioccare le grosse dita. — Qualche svitato delira a vanvera, e tu ci caschi dritto filato. Pensavo che ti fossi dato una raddrizzata, amico. Le tue pillole dovevano servire a questo, o roba simile. Ma sei altrettanto matto di lei. Lui trattenne il nascente impeto di rabbia. — Voglio sapere — disse con voce calma — se il bimbo in quella tomba è mio figlio. — Chi diavolo credi che sia? — gridò Bedell. — Il nome è proprio sulla lapide. — Magari — disse lui — è una messinscena. Come certe altre cose. — Merda. — Le mani di Bedell annasparono nel pacchetto di sigarette, lo trovarono vuoto, e scagliarono nel posacenere l'involucro appallottolato. — Guarda. Se non è tuo figlio Bryan, allora chi è? Lui tirò un profondo respiro dentro di sé. Non c'era senso nel tirarsi indietro, dopo essersi spinto fino a quel punto. — Ti ricordi di Patty? — disse. Un altro nome venuto dal passato. — Che ne è stato di lei? — Vuoi dire Patty Wright? Cristo, Mike... l'ho messa nel reparto cazzate. È sparita prima dell'ondata d'arresti. Nessuno sapeva dove fosse andata, finché non hanno trovato il suo corpo, lassù in Oregon. Pensavano che fosse una vittima del killer del Green River, poi hanno cambiato il verdetto in suicidio. Lo sai. — E il suo bambino? Che è successo a lui? — Chi lo sa? Per amor di Dio, Patty era una fottuta drogata. Sulle braccia aveva segni di aghi larghi quanto il tuo pollice. — Bedell agitò la mano verso gli archivi dall'altro lato della stanza. — Ti posso mostrare le foto dell'autopsia. Il corpo pesava quarantotto chili quando l'hanno trovata. — Ma suo figlio non era con lei. Nessuno lassù l'aveva mai vista con un bimbo. — E con ciò? — Bedell scosse la testa. — Patty non sapeva più manco perché campava, figuriamoci pensare al bambino. Gente che vive in quel modo non è certo candidata al titolo di Madre dell'Anno. Probabilmente si è venduta il bambino per strada... a qualche agenzia di adozioni illegali,
per farsi la scorta d'eroina per una settimana. Se il bimbo non era morto di polmonite o denutrizione prima d'allora. — Il figlio di Patty — disse Tyler calmo — è nato due giorni prima di Bryan. — E qual è la tua grande teoria al riguardo? Era il bambino di Patty che è morto, e non il tuo? E così non è il piccolo Bryan che hanno sepolto. Pensi che sia ancora vivo. Tyler poté sentire le pareti stringersi alle sue spalle, come se la stanza si fosse chiusa attorno a loro. Restava solo spazio sufficiente per sé e per la voce derisoria di Bedell. — Non ho mai visto Bryan morto. Ero rinchiuso quando mi hanno detto cosa gli era successo. Non mi hanno nemmeno lasciato uscire per il funerale. — Ti sei calcolato tutti i dettagli, vero? — Bedell scrutò Tyler con un sorriso meravigliato. — Ci hai pensato sopra a lungo. — Abbastanza facile scambiare un neonato di tre settimane con un altro. Patty e Linda si somigliavano tanto da sembrare sorelle; i bambini avevano gli stessi capelli scuri. E il modo come si stavano mettendo le cose... verso la fine, nel Gruppo erano tutti così incasinati da non sapere che cosa succedesse. Patty si drogava già con tutta quell'altra roba; era in stato confusionale per tanto di quel tempo, che potrebbe non aver nemmeno saputo dello scambio. — Andiamo — protestò Bedell. — Ci sono metodi d'identificazione anche per i neonati. Gli prendono le impronte dei piedi in ospedale, proprio in sala parto. — Perché non rileggi il tuo stésso libro? Quei bambini non erano nati in ospedale. Ricordi? Wyle aveva tutte quelle sballate teorie sul processo della nascita... Patty e Linda hanno partorito in quel posto sulle colline, quella vecchia proprietà dove la polizia ha fatto irruzione. Hanno avuto per levatrice quel Denny comesichiama, lo studente di medicina. E c'erano tutte quelle altre merdosità... che il Gruppo allevasse i bambini liberi dalla tirannia burocratica. Nessuno andò in città all'ufficio anagrafe. La registrazione di nascita di Bryan e il suo certificato di morte sono datati lo stesso dannato giorno. Mi segui? Bedell si strinse nelle spalle, e annuì. — Tutto questo non prova niente. Puoi escogitare tutte le teorie pazzesche che vuoi. Ma non puoi dimostrare che sono vere. — È per questo che sono venuto qui — disse Tyler. Avanzò verso l'altro e poggiò la punta del dito sul risvolto della vestaglia. — Tu me lo dirai.
Lui si ritrasse dallo sguardo fiero che lo fronteggiava. — Sei pazzo? Come diavolo potrei fare a sapere una cosa simile? Tyler si voltò e avanzò verso gli archivi, e aprì con uno strattone uno dei cassetti superiori. Le carte si sparpagliarono in una raffica bianca quando prese una manciata di copertine in cartoncino e le scagliò sul pavimento. — Hai basato su questo tutta la tua carriera. — La mascella serrata di Tyler macinò le parole. — Il Gruppo di Wyle è diventato la tua vita. Hai riportato alla luce ogni più piccolo frammento d'informazione, ogni foto, ogni voce. Hai girato tutto il Paese, scovando chiunque avesse mai avuto il minimo legame col Gruppo. Ecco tutto quello che hai fatto... perché quel libro è stato l'unico successo che tu abbia mai scritto. E hai bisogno che quel successo si ripeta; lo so. Qua dentro c'è raccolta roba che hai scoperto dopo l'uscita del libro; roba che non sa nessun altro. Così se qualcuno dovesse sapere la verità, qualche piccolo particolare ancora non divulgato sul Gruppo, quello saresti tu. Non è vero? Bedell ricambiò il suo sguardo ferreo. — Può darsi — disse. — Ma se mi fossi imbattuto in qualcosa... sapendo che tuo figlio era vivo, perché non avrei dovuto dirtelo? — Non è così che lavori tu. A te piace avere segreti. Tieni le cose in serbo finché non ti pagano per raccontarle... è così che fai, no? — Tyler restrinse gli occhi mentre fissava il volto dell'altro. — Ecco come fai ad agganciare la gente. Bedell guardò gli incartamenti sparsi su tutto il pavimento, poi rialzò lo sguardo su Tyler. — E se confessassi che avevi ragione? — disse impassibile. — Come sapresti che ti sto dicendo la verità, allora? Anche se ti mostrassi qualcosa, qualche specie di prova che tuo figlio è vivo, come sapresti che non è un falso? E che ti sto giusto dicendo quel che volevi sentire? Qualcosa che ti inculcherebbe questa fissazione ancora di più. Poté sentire il battito delle sue tempie, che oscurava la stanza, tutto tranne il volto di fronte a lui. — Dimmi solo: è vivo? — Che cosa importa... se ti dico se il bambino è vivo o no. Sei fottuto, amico. Sei uscito di testa. Ti sei bevuto tutto come un allocco. — Con una mano fece un gesto rabbioso verso la finestra. — Slide è là fuori con tuo figlio, che ha rapito a Linda, proprio come ti ha detto lei. Ecco quello che credi. Non importa quello che ti dico io. Tyler pregustò come avrebbe stretto quel collo carnoso tra le mani, come quegli occhietti sarebbero schizzati dalle orbite mentre pressava i pollici sulla trachea. Si ficcò le dita sudate nelle tasche.
— Vuoi che ti dica qualcosa? — La voce di Bedell si alzò di tono. — Ti dirò qualcosa. Per quello che potrà servirti... Ho già sentito questa roba prima. Ho parlato con Patty Wright, su a Portland, prima che morisse. Molto tempo fa; in realtà mi ha scritto. Mi ha detto che era il suo bambino quello morto, che tuo figlio era ancora vivo. Linda l'aveva con sé... Non è una storia nuova per me. — E tu lo sapevi? Perché non me l'hai detto? — Perché non c'è nessuna prova, Tyler. Perché Patty era una drogata scheletrica, che non sapeva neanche su che fottuto pianeta fosse. Biascicava cazzate di ogni genere... Wyle era onnipotente e l'avrebbe portata a Parigi su un bus cittadino. Per l'amor di Dio; quanta della roba in cui tu credevi col cervello intossicato si è rivelata vera? — Le sue mani raccolsero il pacchetto vuoto dal posacenere, lo squarciarono nella loro ricerca, poi con disgusto lo gettarono di nuovo dov'era. Tyler si voltò e guardò fuori dalla finestra, nel sole brillante che pervadeva la strada. Dietro di sé poté udire la voce di Bedell che lo incalzava. — Ecco perché non te l'ho detto. A che serviva montarti la testa con qualche idea demenziale? Questi che parlano sono matti, Tyler. Lo sai. Li puoi ascoltare, ma non puoi credere a quello che dicono. Non senza prove. Lui fronteggiò Bedell, ma non disse nulla. — Su, forza. — Bedell allargò le mani, conciliante. — Dimentica questa roba. Abbiamo un libro da scrivere. Tyler scosse il capo lentamente. — Non ci sarà nessun libro. Non con me. — E il nostro accordo? Sono stato onesto con te. — Vai a farti fottere. Mi hai già spremuto fin troppo. E per tutto questo tempo sapevi cose che non mi hai detto. Quindi te ne puoi andare al diavolo. Bedell lo seguì alla porta e gli afferrò il braccio. La sua faccia stava arrossendo di furore. — Un momento, Tyler. Lui spinse via Bedell. — Non toccarmi. Mi fai vomitare. Con tutte le tue ricerche... non puoi sapere ancora niente del Gruppo di Wyle. Il libro era solo una scusa. È tutto quel sangue che ti fa eccitare. — Sputò le parole sulla faccia larga e sudata. — Avresti voluto stare lì con noi, vero? Con me e Slide e Linda, e tutti gli altri. Invece no. Non sarai mai lì. Sarai sempre fuori, cercando di sbirciar dentro nel buio. Ma non lo saprai mai. Non saprai mai com'è lì dentro. Fuori, il sole brillò sulla faccia stravolta di Bedell. Dalla soglia, puntò il
dito su Tyler, che si dirigeva alla sua macchina nel vialetto. — E sta bene, Tyler! — urlò. — Vai pure avanti. Vuoi la tua fottuta prova, sai come ottenerla. — L'acuto strillo della sua voce restò sospeso nell'aria immobile della strada. Tyler aprì lo sportello con uno strattone, con le parole dell'altro che gli picchiavano contro la schiena. — Sei così orgoglioso di esserci stato, eh? Tu lo sai davvero com'è, no? — Il grido di Bedell si fece rauco. — Ritornaci, allora... è fin troppo facile per te. Allora saprai la verità, finalmente. Un'occhiata nello specchietto mentre Tyler si allontanava mostrò la figura tremante restare sulla soglia, a seguirlo con gli occhi lungo tutta la strada. — Cosa pensi che volesse dire con questo? Tyler alzò lo sguardo, dalle mani appoggiate sulla scrivania fino al volto dello psichiatra. — Dire cosa? Dall'altro lato, Goodrich lesse alcune note dal suo blocchetto. — Ha detto qualcosa... che sarebbe stato facile per te scoprire in qualche modo se tutta questa storia su tuo figlio era vera o no. Lui annuì. L'appuntamento bisettimanale con lo strizzacervelli aveva seguito solo di un paio d'ore il suo incontro con Bedell. Il tempo intercorso l'aveva riempito senza far altro che guidare, serpeggiando come un automa fra rampe e autostrade. Ruote e pedali agivano automaticamente mentre i suoi pensieri seguivano il proprio corso. Goodrich aveva ascoltato l'intero resoconto delle parole scambiate fra lui e Bedell, senza alcun cambiamento d'espressione sul viso magro e dalla barba incolta. "Non so nemmeno perché gliel'ho detto" pensò Tyler. Forse si era limitato a pensare a voce alta, facendo scorrere di nuovo il nastro nella sua testa per risentirlo più chiaro. Una parte di lui si chiedeva se dovesse proprio raccontare allo strizzacervelli tutto quanto... ammettere di nutrire il sospetto che suo figlio fosse ancora vivo equivaleva, come sapeva, a dannarsi con certezza da solo. "Questo è il tipo di cose dalle quali, quando ne parli, sanno che sei fuori di testa." E si rese conto che non gliene fregava un cazzo di cosa ne pensasse lo psichiatra. — Suppongo — disse lentamente Tyler — che intendesse dirmi di smettere di prendere le medicine. Lo psichiatra annuì, in attesa. — In questo modo... — Tirò fuori l'idea per soppesarla insieme allo psi-
chiatra. — Farebbe ritorno dentro di me. L'effetto di "comunione mentale" dell'Ospite; lo sentirei di nuovo. — Questo è vero — disse Goodrich. — Per quanto ne sappiamo, l'alterazione della tua chimica cerebrale è permanente. Hai fatto dei test che... — Aprì una cartelletta sulla scrivania e ne sfogliò le pagine. — Circa un anno fa. L'indicatore principale è l'elevato livello di serotonina. La Tac non mostra alcun cambiamento in esso, da quando abbiamo ricominciato a sottoporti agli esami in ospedale. — Così se cessassi di prendere le pillole... — "Sì" sentì la propria voce dirgli in testa. "È questo il modo. Per tornare lì." — Sperimenterei la comunione mentale di nuovo. — Proveresti di nuovo l'illusione della comunione mentale. — La matita picchiettò sulla cartelletta. — La droga Ospite non ha mai prodotto alcun effetto reale. Erano tutte allucinazioni. "Vieni a dirlo a me." Tyler fissò il volto dall'aspetto allampanato, convinto della propria saggezza, di fronte a lui. "Non sei mai stato lì. Non lo sai, tu." — È la stessa solfa sull'espansione di coscienza che hanno propinato fin dagli anni Sessanta Leary e tutto il resto di quei venditori di droga. Ora lui è un eminente oratore richiesto nel giro delle conferenze, e le strade sono piene di zombie col cervello bruciato che borbottano da soli. Altro che vera illuminazione. Tyler mantenne la voce equilibrata. — L'Ospite era diverso. — Cristo. — Lo psichiatra apparve disgustato, la prima emozione che Tyler gli avesse mai visto sulla faccia melliflua. — Guarda che è successo a te e ai tuoi amici. Immaginati un revival degli anni Sessanta. La Famiglia Manson tutto daccapo. — Non era una cosa del genere. — Vallo a dire alle vittime. — Abbassò di nuovo gli occhi sullo schedario. Tyler fissò la chiazza rosea di calvizie in cima alla testa dell'altro, senza realmente vederla. Nello schermo all'interno della propria mente, poté osservare una strada di notte, coi contorni delineati in blu. Si stendeva in eterno verso l'orizzonte, mentre lui la percorreva, lentamente e senza sforzo, proprio al centro. Facce con occhi dello stesso blu elettrico si voltavano verso di lui mentre passava, sorridendo coi denti appuntiti. In lontananza vide Slide ritto in sua attesa, con gli altri. Una piccola figura, un bimbo la cui faccia non riusciva a distinguere, gli stava davanti. Aspettando.
"Ecco come potrò trovarlo" pensò Tyler. "Ecco come Slide ha trovato Linda. Quando sono tutti lì assieme, nel buio e nella mente di gruppo, nessuno può nascondersi a nessun altro. Niente segreti, niente rifugi. Ogni strada è aperta, per chi può vedere nelle tenebre." Ecco come avrebbe potuto trovare anche Bryan. Vivo o sepolto che fosse. La visione divenne un letto d'erba, con le lapidi nere che si ergevano dal suolo buio, sotto le ombre frastagliate delle palme. L'erba si agitò, come se una mano la accarezzasse dolcemente per far filtrare la fluorescenza blu dal basso. — Tyler... stammi a sentire. Lui aprì gli occhi, e si ritrovò nella luce dell'ufficio, con la faccia dello psichiatra dall'altro lato della scrivania. — Voglio mostrarti qualcosa. — Una rigonfia busta in cartoncino era stata aggiunta in cima agli altri documenti. Lo psichiatra spinse col ginocchio l'ultimo cassetto in fondo alla scrivania, per richiuderlo. — Queste sono foto — disse — del laboratorio militare che svolse le prime ricerche sulla droga Ospite. — Estrasse un sottile fascio di stampe 15 x 18. — Quando ancora aveva la designazione in codice di 83 Blau. Tyler prese la prima foto che gli venne porta. In essa, una gabbia di fil di ferro racchiudeva tre scimmie dal muso bianco. Una volgeva gli occhi neri e lucenti verso la lente dell'obiettivo, fissandola con viva curiosità. — Macachi — disse lo psichiatra. — Li usavano per i test. Bellini con quel pelo, eh? Questa foto è all'inizio della serie; agli animali avevano dato la droga circa una settimana prima. Una quarta scimmia era stata dissezionata, e i suoi tessuti cerebrali mostravano già livelli alterati di catecolamina. — Tese un'altra foto attraverso la scrivania. — Questa è di circa tre mesi dopo; puoi vedere la data nell'angolo. I tre animali in fotografia erano rannicchiati in angoli separati della gabbia. Uno esibiva denti e gengive davanti all'obiettivo. — Non gli era stato dato nulla per alleviare gli effetti della droga. Volevano vedere quale fosse l'esito finale, lasciandoli senza controllo. Quest'altra è di sei mesi più tardi. La prese e la girò verso l'alto. Solo due scimmie, nella gabbia metallica. Nelle tonalità grigie della foto, sotto i minuti occhi lucenti, del sangue stillava fra i denti spalancati in un urlo. Una scimmia, col pelo chiazzato di punti neri appiccicosi, stava accovacciata sull'altra. Le piccole mani quasi umane laceravano il petto insanguinato di quella per terra, mostrando la delicata gabbia toracica che si arcuava sul piccolo grumo del cuore aperto.
Gli occhi pressati nella pozza rappresa sul pavimento della gabbia si erano già fatti grigi. — Ancora una — disse lo psichiatra. Tyler la prese dalla mano dell'altro. Non c'era nessuna gabbia nella foto, ma qualcosa che somigliava a un cencio contorto su un tavolo, e sul bordo dell'inquadratura una mano guantata di gomma, che lo rigirava. Gli ci volle un momento per distinguere i sottili arti protesi dal tronco maciullato; vi erano stati strappati a morsi chiazze di pelliccia. — L'ultima si è sventrata da sola. Con le sue piccole unghie. — Goodrich riprese le foto da Tyler e le fece scivolare nella busta. — Suppongo che la Società per la Protezione degli Animali avrebbe avuto qualcosa da ridire su tutto questo, se l'avessero saputo. Avrebbero chiesto di porre fine alla sofferenza di questi poveri esseri. Ma era un progetto di ricerca militare segreto; potevano fare qualunque cosa volessero. — Rimise la busta nel cassetto della scrivania. — Che ne pensi di queste, Tyler? Lui si distese nella sedia. — Mi ricordano quand'ero al liceo — disse. — Nell'ora di medicina, l'insegnante ricavò un estratto di nicotina da alcune sigarette e lo versò, quella roba gialla, in una boccia di pesci rossi. I pesci morirono e vennero a galla. L'insegnante chiese "Che dimostra questo? Qualcuno lo sa?" e un furbastro dal fondo dell'aula disse "I pesci rossi non dovrebbero fumare". — Non è roba da scherzarci sopra. — Lo psichiatra ripiegò le braccia sulla scrivania. — Non te le avevo mostrate prima, perché non pensavo che ci fossero problemi col tuo atteggiamento al riguardo. Non pensavo che ti servisse altro per convincerti della pericolosità della droga Ospite. Devi affrontare il fatto che sei contaminato da questa sostanza. Queste immagini mostrano il rischio che correrai se lascerai riaffiorare gli effetti della droga. — Davvero. — Del disprezzo trapelò dalla voce di Tyler. — Ma se mio figlio è vivo? Che rischio vale la pena di correre, per ritrovarlo? — Tuo figlio è morto. Lo sai. Non c'è alcuna giustificazione per riprovare i presunti effetti dell'Ospite. Come ogni altra sostanza tossica, lascia sempre un prezzo da pagare; sai anche questo. — Portò davanti a sé un altro blocchetto e iniziò a scrivere. — Mi rendo conto che sei stato soggetto a molte pressioni nell'ultimo paio di giorni. L'arresto della tua ex moglie ha aumentato il tuo livello di stress. Ma ci sono dei modi di affrontarlo. Modi sicuri. — Strappò via un foglietto e lo porse a Tyler. — Cos'è questo? — Guardò lo scarabocchio sulla ricetta.
— È il Sinequan. Dà molto aiuto in situazioni di ansia, specialmente in combinazione con certi farmaci che stai già assumendo. Comincia a prenderlo col prossimo dosaggio che hai in programma. Valuteremo gli effetti la prossima volta che verrai. — È questa la risposta, vero? — Tyler rise, e il suo sguardo passò dalla ricetta alla faccia solenne dello psichiatra. — Non è questione di droghe; è solo che pensi che le tue sono meglio. — Appallottolò il foglio nel pugno. — Tu sei fottuto nel cervello quanto me. Tu e il resto di questo fottuto mondo. È questa specie di merda che pigliate tutti. Non sapete com'è essere lì, perché non volete sapere. Lo psichiatra si morse il labbro inferiore. — Ti dimentichi che la cooperazione è una delle condizioni della tua libertà. Non hai scelta al riguardo. E francamente, il comportamento che stai mostrando è qualcosa che dovrò far presente al tuo sorvegliante. — Vai a farti fottere. — Tyler si alzò, spingendo via la sedia. — Tu e le tue foto di scimmie, tutta quella merda. Che me ne frega. Non capisci? — Premette le palme delle mani sulla scrivania, spingendo il viso vicino a quello dell'altro. — Forse è vivo. Goodrich levò lo sguardo su di lui. — Allora che cosa farai? — disse. — Smetterai di prendere le medicine? — Non ho detto che ho deciso di farlo. — Voglio la tua promessa. — Gli occhi acquosi si fissarono sui suoi. — Ci penserai sopra. Quello di cui abbiamo parlato, quello che ti ho fatto vedere. E mi richiamerai... a qualunque ora, giorno e notte, dirò di passarmi la linea... e ne parleremo un altro po'. Prima che tu faccia qualsiasi cosa. Sta bene? Tyler ricambiò lo sguardo per un momento. Perfino lì, al centro di quegli occhi pallidi, vide il buio. — Come no — disse a bassa voce. Si allontanò dalla scrivania e si diresse verso la porta. 11 — Quel rotto in culo... Il bicchiere tremò nel pugno serrato di Bedell, e il liquido ambrato gli traboccò sulle dita. Per qualche secondo fissò le macchie che venivano assorbite dal tappeto, poi scagliò il bicchiere contro la parete del soggiorno. Schegge lucenti e frastagliate scivolarono giù fra il bagnato, tracciando linee odorose d'alcol, come delle unghie.
Una falciatrice scoppiettò e rombò fuori dalla casa. Ansimante, Bedell inclinò il capo, ascoltando. Lungo la strada, da qualche parte, il rumore andava e veniva mentre un giardiniere guidava l'attrezzo attorno ai tratti di verde ben curati. Chiuse le palpebre, barcollando in mezzo alla stanza, e poté vedere la faccia tronfia e impassibile sotto il berretto da baseball, gli occhi scuri, che calcolavano e giudicavano senza dire una parola. — Bastardi — sospirò. Poteva sentire il peso del loro sguardo attraverso le tende tirate. La bottiglia si rovesciò sul bancone della cucina appena la sua mano la toccò, mandando le ultime dita di scotch a riversarsi oltre l'orlo del lavello. L'odore d'alcol si fece ancora più forte, e scaturiva proprio da dentro di lui. In preda alle vertigini, afferrò il bórdo d'acciaio inossidabile e vide la propria faccia turbinare sottosopra nella grata dello scarico; non sapeva se stesse per vomitare o no. Tirò un profondo respiro quando sentì suonare il telefono. Il suono proveniva dall'altra stanza, sovrastando il rumore della falciatrice per la strada. Si raddrizzò, scostandosi dal lavello. — Sì... — Spense la segreteria telefonica e si portò la cornetta all'orecchio, appoggiandosi contro gli scaffali. — Chi parla? Lungo la linea giunse la voce del suo agente. La riconobbe, ma non poté distinguere le parole per il rombo della falciatrice. Il rumore si fece più intenso insieme al battito che gli pulsava nel centro del cranio. — Non capisco — mormorò Bedell. La voce continuò a trapanargli l'orecchio. — Aspetta. Aspetta un minuto. — Se si fosse concentrato tutto sul suono della voce, rendendolo altrettanto solido del rumore dietro di sé... Le parole si mischiarono insieme, senza senso. La falciatrice urlò quando il metallo colpì il bordo del marciapiede di cemento. Dietro le sue palpebre iniziarono a sprizzare scintille abbaglianti. — Non capisco, dannazione! — Sbatté la cornetta di nuovo sul gancio. Cadde dagli scaffali e colpì il pavimento accanto ai suoi piedi. Per un momento vi fu il silenzio alla fine del cavo arrotolato a spirale; poi un fioco "tuu-tuu", la linea interrotta, che sembrò più forte di ogni altro suono. — Merda. — Tirò il fiato, riprendendo l'equilibrio. "Quel figlio di puttana" pensò. I fumi dell'alcol nel suo flusso sanguigno si dissiparono leggermente mentre abbassava lo sguardo al telefono ronzante. Con attenzione si inginocchiò, ne raccolse i pezzi, e lo rimise al suo posto sugli scaffali. Il lontano suono della falciatrice, ora più fievole, proseguì nel suo cammino ritmico. Bedell lo ascoltò come se lo sentisse per la prima volta e non
l'avrebbe udito mai più. — Stai mandando tutto affanculo — disse forte nella casa vuota. — Ti sei fottuto veramente. Vagò attraverso la stanza vuota, tornando in cucina. La sfolgorante luce del sole si riversava attraverso la porta di vetro scorrevole. Nell'ombra che proiettava il lavello, diede un'occhiata al pavimento coperto di macchie e di chiazze. "Dovrei dargli una pulita con uno straccio" si disse torpido. Non sapeva se ne potesse trovare uno da qualche parte in casa. Il servizio di pulizie, finché infine non l'aveva sospeso, era solito portar via tutti gli strumenti di lavoro. L'intero posto avrebbe avuto bisogno di una lavata, lo sapeva. Era un preliminare necessario per vendere la casa, spremerne la piccola quota di proprietà che ancora gli rimaneva. Per quanto supponesse che ormai non gli restasse in mano più nulla. Era questo il bello di un pignoramento... non bisognava pensare più a niente. Facevano tutto loro al tuo posto... servizio completo. Forse sarebbe riuscito a racimolare quanto bastava per il deposito cauzionale e il primo e l'ultimo mese d'affitto d'un appartamento. Ricordava quello piccolo che aveva preso dietro l'ufficio postale sulla Fairfax. Quello era andato benone. Il libro l'aveva scritto là. "Forse" pensò "è l'unico posto in cui puoi scrivere." Qualche tana del genere, dove la chiazza d'umido si spandeva scura sull'intonaco del soffitto quando guardavi in alto dal porcile del letto infossato, con le lenzuola puzzolenti del tuo stesso sudore. Forse era lì che avrebbe dovuto starsene tutto quel tempo. Guardò la stanza anteriore attraverso la soglia. Senza alcun mobile, sembrava enorme. Quel vecchio appartamento avrebbe potuto giusto entrarci dentro. Grande casa, grande prato, grande ogni cosa; lungo la strada, poteva sentire il giardiniere che con un getto d'aria soffiava nella cunetta i frammenti umidi d'erba tagliata. Un peccato abbandonare tutto quello. "E solo a causa di quel figlio di puttana di Tyler" pensò. Poté rivedere la sua faccia, risentire le parole che l'avevano reso furibondo. "Avresti voluto essere lì con noi, vero?" La voce sarcastica di Tyler gli si dipanò nella memoria. "Invece no. Non sarai mai lì. Sarai sempre fuori, cercando di sbirciar dentro nel buio. Ma non lo saprai mai. Non saprai mai com'è lì dentro." Fuori... Avevano tutti un'aria così compiaciuta di sé, così scaltra; tutti quelli del Gruppo di Wyle, che avesse incontrato, intervistato, su cui avesse indagato così attentamente. Era quella la loro ricompensa per essere citati nel libro: lo guardavano con occhi sprezzanti, pieni di segreti che non gli avevano detto, segreti mai rivelati a nessuno... Tyler stava probabil-
mente ridendo di lui, proprio adesso, mentre guidava lungo la strada. — Vada a farsi fottere — disse Bedell a voce alta. La sua voce echeggiò sorda nella casa vuota. "Chi ha bisogno di loro... tutti loro." Una quiete improvvisa sembrò riempire la casa, come se i macchinali del giardiniere e tutti gli altri rumori esterni fossero precipitati nel vuoto, se lo spazio intorno alla casa fosse diventato un abisso. Voltò la testa, in ascolto. "Chi ha bisogno di loro..." Quelle parole inespresse suonarono differenti nella sua testa, come se venissero dalla voce di un altro. Un sussurro... "com'è"... "lì dentro"... Allora si ricordò. Girò lo sguardo dal lavello verso il frigorifero. Per un momento lo guardò, poi gli si avvicinò e poggiò la mano sul freddo metallo. "...nel buio..." La mano gli tremò mentre apriva lo sportello. Un alito gelido gli spruzzò la faccia di brina mentre scrutava nello scomparto del freezer. I sottili contenitori rettangolari dei surgelati caddero sparpagliandosi dietro di lui sul pavimento, in una pioggia di cristalli argentei. Le sue unghie raschiarono il ghiaccio accumulato sul fondo dello scomparto, asportandone infine uno spesso strato. Attaccato al lato inferiore del pezzo che gli si squagliava tra le mani, c'era un quadratino di plastica, attentamente piegato e sigillato. Poté vedere le piccole forme trasparenti dentro l'involucro. Sei capsule scivolarono fuori sul bancone. Appallottolò la plastica vuota e la gettò nel lavello. La polvere bianca si spostò dentro quando tenne una delle capsule alla luce. Non occorreva che nessuno dì loro gli dicesse com'era. "Fin troppo facile"... le stesse parole rivolte a Tyler. Tanto facile da scoprirlo da solo. La capsula sembrava non pesare nulla, fra il pollice e l'indice. La sostanza all'interno scintillava, riflettendo la luce della porta di vetro scorrevole. Non avrebbe avuto bisogno di Tyler per il nuovo libro. "Perché" pensò, esaminando il minuscolo oggetto "sarò proprio lì fra loro." Avrebbe saputo... finalmente... qualunque cosa facessero. Non ci sarebbero più stati segreti. "...nel buio..." Si posò la capsula sulla lingua, tenendola in bocca mentre riempiva un bicchiere dal rubinetto. Il sottile rivestimento si era già fatto scivoloso, dissolvendosi nella sua saliva, quando inclinò il bicchiere e deglutì.
Avrebbe impiegato un po', lo sapeva, per passargli dallo stomaco al sangue. Ma dopo l'attesa, avrebbe saputo. Appoggiata la schiena al bancone, sentì un minuscolo nodo duro in gola. Si girò mentre gli intestini si contorcevano, vomitando un fiotto di alcol inacidito nel lavello. I conati lo lasciarono ansimante e in preda alle vertigini. Il sangue gli bruciava in faccia. Raccolse le altre capsule nel pugno e se le portò alla bocca, reclinando il capo all'indietro. La polvere gli stridette sulla lingua mentre le macinava fra i denti. Si afferrò al bordo del lavello, forzando il denso composto amaro a scendergli in gola. Si raddrizzò, scostandosi i capelli dalla fronte madida. Ora doveva aspettare. Aspettare e vedere. Udì i deboli rumori di qualcuno che cercava di arrampicarsi sul pendìo di terriccio fino al nido. Jimmy capì che non era Slide; Slide non faceva alcun rumore quando veniva. Si limitava ad apparire, tutto d'un tratto. Volgendo lo sguardo dal bimbo dormiente, vide una faccia fare capolino attorno al pilastro di cemento al bordo del nido. Sporca e tutta rugosa... la vecchia che viveva in uno degli altri sottopassaggi nei pressi. L'aveva vista... poteva fiutare il piscio rancido che chiazzava di giallo i suoi abiti cenciosi... raggomitolata in mezzo alle sue borse di plastica unte, ordinando e riordinando i suoi tesori. "Un mucchio di vecchie porcate" pensò Jimmy. Stracci e rotoli di giornali. Niente di valore come quello che aveva lui. La vecchia strisciò più vicino, nella pallida luce sotto il bordo dell'autostrada. I suoi occhi saettarono dalla faccia di Jimmy al ragazzino al suo fianco. — Via di qui. — Si portò fra la vecchia e il bambino. — Vai via. Lei allungò il collo per vedere, facendo spuntare i tendini come corde nodose. — Ho sentito — sussurrò. — Cosa? — "Vecchia troia pazza." Slide sarebbe andato su tutte le furie, appena tornato indietro, se avesse trovato lì qualcun altro. — Di lui. — La sua voce si ridusse a un piagnucolio. — Voglio solo vedere... C'erano altri, giù nelle ombre alla base del pendìo. Li percepì, che osservavano, con un misto di paura e timore negli occhi. Usciti dai loro piccoli nascondigli, le fenditure sotto l'autostrada. Troppo spaventati per farsi più vicini, ma avidi di vedere. Il bambino.
La vecchia era salita accanto a lui. Una delle sue mani sporche si allungò a tastoni verso il viso del ragazzino. Lui le afferrò il polso, un fascio di verghe secche, e lo tirò via. — Solo per toccare... — Gli orli dei suoi occhi gialli si riempirono di lacrime. — Solo toccare... — Dillo agli altri — disse lui, abbassando lo sguardo sul suo volto. — L'hai visto. Dillo agli altri. E digli di andare via. Okay? Lei annuì, e dalla bocca, fra i resti dei suoi denti, le cadde un filo di bava. Lui le lasciò andare il polso, e osservò un dito sottile sfiorare la guancia di Bryan, dolcemente, mentre il volto della donna si sforzava di comprendere il mistero. Udì qualcosa, ma non sapeva cosa fosse. A occhi chiusi, Bedell giaceva lungo disteso sul tappeto della stanza anteriore, con la giacca arrotolata come cuscino. Il raggio di sole che passava nell'apertura fra le tende gli era scivolato sopra fino a far sentire il suo tepore solo sul dorso di una mano. Non aveva fatto una mossa in tutto quel tempo; ore, suppose. Ma non era importante. Il rumore continuò, sordi colpi ritmici che facevano vibrare gli orli luminosi delle palpebre chiuse. Oziosamente, si concentrò su di essi, rendendo più vicini quei suoni fiochi e distanti. Allora li riconobbe: qualcuno stava bussando alla porta d'ingresso. Sorrise, girando la testa sul cuscino improvvisato. Qualcuno voleva vederlo, parlargli. C'era solo una persona, una cosa, che lui volesse vedere. La faccia dai denti aguzzi, descritta da quelli che lo avevano preceduto. ("Vorresti essere lì con loro, vero?" ...una voce venuta dai ricordi del lontano passato.) Ma poteva aspettare. Aveva tutto il tempo del mondo lì dentro, nel buio. I colpi si fecero più forti. Aprì gli occhi e li girò per guardare la porta. Qualcuno ci teneva proprio a vederlo. Quel pensiero lo fece ridere, mentre si rimetteva in piedi e si alzava. — Kinross — disse Bedell, con un sorriso. — Entra pure. — Spalancò la porta. L'ex poliziotto appariva più piccolo e più ingrigito dell'ultima volta che l'aveva visto, con l'abito marrone che sembrava un pallone sgonfio sulla sua corporatura. Se ne stette nel mezzo della stanza, guardandosi attorno con la faccia accigliata e segnata dalle rughe; Bedell poté vederlo esami-
nare e registrare dettagli che passavano come un turbine davanti ai suoi occhi socchiusi. — Dov'è Tyler? — domandò Kinross. — Come faccio a saperlo? — Stando dietro di lui, abbassò lo sguardo... come da grande distanza, ma con la vista di un'aquila... sul dedalo di vasi capillari sotto i residui capelli sul cranio dell'altro. Kinross si girò intorno e lo fissò. — Lo so che gli hai parlato. Voglio sapere cosa ti ha detto. — Ah, sì? — Appoggiò la schiena contro la porta. — Che ti fa pensare che mi abbia detto qualcosa? Non ha proprio niente da dirmi. — Questo era vero, adesso lo sapeva. Tyler poteva portarsi le tenebre appresso, ma non entrarci dentro. Non in quel modo. — Non farmi perdere tempo, Bedell. Potresti ritrovarti nella merda fino al collo. Te lo posso promettere. La risata proruppe di schianto. Reclinò il capo all'indietro, lasciandola sfuggire. Gli stava ancora risuonando nelle orecchie, come se gli altri si fossero uniti a lui, quando guardò in giù di nuovo. Kinross l'aveva sempre spaventato prima; il cipiglio fisso e i piccoli occhi gli rammentavano qualche creatura acquatica che ingoiasse le altre più piccole in un solo boccone. Ma adesso era solo un vecchio, rimpicciolito in un abito logoro e cascante. — Non mi puoi fare nulla — disse, ricambiando lo sguardo dell'altro. I bulbi oculari di Kinross erano di un lieve giallo, con minuscoli reticoli rossi negli angoli. — Non puoi fare niente di niente. Gli occhi si fecero più piccoli e acuti. — Forse no. — disse. — Forse non posso arrestare qualcuno e trascinarlo alla stazione di polizia io stesso. Non più. Ma i miei amici sì. Gli ho raccontato tutto quello che ho scoperto. — E che cosa avresti scoperto? Quali grandi segreti? — Lo divertì stuzzicare la vecchia belva senza più artigli. — So cosa sta per fare Tyler. Lui e Slide, e tutti gli altri. Quello che hanno avuto in mente tutto il tempo, aspettando solo il momento giusto. Bedell sentì quasi pietà per lui. Non avrebbe mai saputo. Sarebbe sempre rimasto al di fuori. Avrebbe potuto scrutare nell'oscurità per tutto il resto della vita, e ancora non sarebbe riuscito a penetrarvi. "Non come me" pensò. — Stanno per cercare di rimettere assieme il Gruppo di nuovo. Ecco cosa vogliono. (..."che cosa ne sa"... Un sussurro... "Cosa"...)
Inclinò il capo, tentando di distinguere la voce più fioca che si celava dietro le parole di Kinross. Da qualche parte, in casa; poteva appena sentirla. Della saliva amara gli filtrò sotto la lingua, con lo stesso gusto chimico di quando i suoi denti avevano macinato le capsule. — Il Gruppo? — disse Bedell a bassa voce. Si scostò dalla porta di qualche passo, avvicinandosi all'altro. — Non so neanche che vuoi dire. Raccontami. Kinross sprofondò nelle proprie cupe meditazioni. Gli angoli della sua bocca erano umidi. — Presto saranno insieme davvero — disse, con lo sguardo che vagava per la stanza. — Me ne occuperò io stesso. Tyler e tutti quegli altri fottuti hanno tramato nell'ombra, ma non ce la faranno stavolta. E nemmeno la faranno franca. Non glielo permetterò. Cospirazione, violazione della libertà condizionata... si sono inculati questa volta. In prigione, lì sì che saranno di nuovo assieme; se la vedranno bella, non come in qualche comodo ospedale. — Si rivolse di nuovo a Bedell. — Se sei furbo, mi racconterai cosa ti ha detto Tyler. Una bella accusa di reticenza farebbe proprio al tuo comodo. — Insieme — disse Bedell. Annuì, sorridendo fra sé. Quel vecchio scemo non sapeva. Non aveva saputo nemmeno lui stesso, fino ad allora. Erano sempre stati insieme, nel buio dove nessuno poteva vederli. (..."sì"... Più forte stavolta.) Intorno a lui c'era la stanza, piena della brillante luce solare che si riversava dall'esterno. E al tempo stesso poté vedere un altro spazio, più piccolo, cemento che incombeva su una cavità ricavata asportando del terriccio. Slide lo stava aspettando lì. E un altro ancora; con gli acuti occhi di Slide, nell'oscurità bordata d'azzurro, poté vedere il bimbo... sentire il suo lieve respiro regolare mentre giaceva raggomitolato, dormendo. — Tu non sai nulla — disse, facendosi abbastanza vicino all'altro da toccarlo. — Non dobbiamo rimettere di nuovo il Gruppo assieme. Già adesso ci siamo tutti dentro. Tutti noi. I piccoli occhi ingialliti si levarono su di lui. Bedell poté vedere il riflesso di un volto, ancora troppo piccolo per distinguerlo, nelle pupille buie. — Sei uno di loro — disse Kinross. La carne flaccida della sua faccia ebbe un tremito, come se una mano che gli serrava il cervello avesse mollato la presa per lo sgomento. — Avrei dovuto saperlo. — La faccia si tese di nuovo, quando la pesante mascella si serrò in una morsa. — Okay anche per te, fottuto. — Puntò un grosso dito sul petto di Bedell. — Ci andrai pure tu nel mazzo, allora. Col resto dei tuoi amici. Finirete tutti in...
(..."ora"...) Si sentì torreggiare sopra il vecchio. Abbassò le mani verso quel viso anziano e grigio. — Io non la penso così — disse senza inflessione. Kinross lo colpì sul petto col dorso di un braccio. Gocce di saliva gli volarono via dalla bocca tremante. — Non ve la caverete, stavolta! Fottuti... voi... ...ora... Le sue dita scattarono, afferrarono il collo dell'altro e affondarono nelle soffici pieghe della carne. — Noi non la pensiamo così. Ora. Miglia sotto di sé, vide la faccia di Kinross iniettata di sangue, con la bocca contorta che mostrava la fila di denti gialli e sporchi sotto il labbro inferiore. Le braccia nell'abito marrone gli picchiarono contro il petto. Al rallentatore, come se il tempo si stesse fermando, il pavimento si alzò fluttuando verso di lui mentre Kinross piombava all'indietro. La testa quasi calva fece un urto secco contro il pavimento. I pugni si aprirono in artigli tremanti che tentarono di raggiungere gli occhi di Bedell, poi si fecero inerti, molli come la faccia cedevole sotto di lui. Lo stesso Bedell aveva le braccia tremanti quando si tirò su dal corpo immobile. Guardando negli occhi vacui, vide di nuovo il volto riflesso nelle pupille scure. Allora poté distinguere i lineamenti angolosi che gli stavano dietro. Con un sorriso che metteva in mostra i denti appuntiti. — Ora — venne la voce. In ginocchio, distolse gli occhi dal viso molle sotto di sé. La stanza si fece più scura, più piccola, mentre girava la testa per guardarsi alle spalle. — Ora sei dentro — disse l'Ospite, sorridente. 12 Nell'ufficio del cinema si sedette alla scrivania, guardando i piccoli oggetti dai colori brillanti sparsi di fronte a sé. Tyler raccolse una delle capsule e la tenne alla luce, con le estremità tonde contro i polpastrelli di pollice e indice. Una metà verde, l'altra gialla; il nome della compagnia farmaceutica era scritto in lettere minuscole sul fianco. "E se..." Non udì più l'altra voce, le proprie parole, che lo avvertivano. "E se fosse vivo?"
Dopo che Steff aveva lasciato l'appartamento, portando Eddie all'asilo nido e poi dirigendosi alle lezioni mattutine, Tyler aveva raccolto tutti i suoi farmaci dallo scaffale della credenza e li aveva scaricati in una busta di plastica. Tutti i tozzi cilindri di plastica arancione, coi tappi bianchi a prova di bambino avvitati in cima, i sacchetti bianchi della farmacia, ancora chiusi e ripiegati, con gli scontrini spillati sopra... E li aveva portati lì. Dove poteva pensare. A uno a uno, aveva aperto i contenitori e versato il contenuto sul tavolo. Dopodiché era passato ai sacchetti di carta, arrotolandoli dopo averli svuotati, gettandoli nel cestino dei rifiuti insieme ai fiocchi di cotone che imbottivano le boccette nuove. Le superfici delle capsule rilucevano nella brillante luce solare. Fecero un secco rumore frusciante quando ci passò la mano in mezzo. "Fin troppo facile..." Tutto quel che doveva fare era... nulla. Era già in ritardo di due ore con la sua prima dose della giornata, le capsule che si poggiava sulla lingua e inghiottiva in fondo alla gola, gettando indietro la testa per lasciare che l'acqua le trascinasse nello stomaco. Se solo avesse aspettato, i residui chimici ancora nel suo sangue si sarebbero gradualmente dissipati, decomponendosi nel nulla, lasciando un sentore amaro nel sudore e nell'urina, e nient'altro. E poi sarebbe stato lì di nuovo. Lo sapeva; era per quello che gli avevano dato le pillole, dicendogli di prenderle. Poche ore d'attesa, prima della fine del giorno, e una volta scesa la notte, sarebbe tornato in grado di vedere di nuovo. Nel buio. Tutto ciò che gli restava era aspettare. Schiacciò la capsula fra pollice e indice, più forte. Si ruppe, spezzandosi lungo la linea fra i due colori, spargendogli sulle nocche una polvere bianca. "Ecco quello che ti danno" pensò Tyler, guardando le tracce di polvere. "Gli strizzacervelli, i dottori, tutti quanti. Per tenerti cieco. Così fottutamente ipocriti." Poté vedere le loro facce serie, coscienziose, un'intera fila. "Ma se lui è vivo..." Suo figlio non significava niente per loro. Il loro compito era impedirgli di vedere, di scoprire. Le medicine, le capsulette e le pilloline, ecco come facevano. E se appena c'era un indizio, una possibilità che un bimbo, dato per morto, fosse ancora vivo, potesse essere ritrovato, riportato via da dov'era stato condotto, di nuovo fuori dal buio... Allora ti davano altre pillole.
Era così che andava. Così non avresti badato mai più a quel piccolo indizio, il mattone che ti gravava sul cuore si sarebbbe alleggerito e non l'avresti sentito più. Saresti rimasto come loro, cieco. Ma se poteva vedere, se poteva trovare Slide in qualunque oscuro posto in cui si nascondesse... Allora avrebbe saputo, in un modo o nell'altro, se suo figlio fosse vivo o morto. "Voglio soltanto sapere." Se il bimbo che aveva tenuto tra le braccia un'unica volta, lasciandogli il ricordo del suo piccolo peso impresso nella carne, non esistesse solo nella memoria. Se Bryan viveva ancora, l'avrebbe riportato di nuovo nella luce. Da ovunque l'avessero trascinato. E non gliene sarebbe importato nulla di cosa gli avevano fatto, quali fermaci gli avevano versato giù in gola, di quanto l'avevano reso cieco. Purché potesse vedere suo figlio. E se avesse trovato solo un bimbo morto... allora forse Tyler apparteneva alle tenebre, non al mondo della luce. Aveva finto che il passato non esistesse, tentando di fare da padre a un altro ragazzino, come se potesse rimpiazzare quello perduto. E si era cercato un'altra donna... Steff non meritava questo. Non aveva bisogno di essere insozzata dagli oscuri segreti che lui non era mai riuscito a tenerle celati. Anche solo per continuare a far finta di amarla, se ne sarebbe proprio dovuto andare. "Tornare dove avrei fatto meglio a restarmene. Tutto il tempo." Scrutò le capsule e le pillole per qualche altro minuto. Poi allungò le mani e le raccolse fra le dita, stringendole a palla. Come gusci di insetti morti, si spaccarono e sbriciolarono insieme quando li spremette con forza. Si alzò e portò fuori, in corridoio, l'ammasso polveroso. Nella toilette degli uomini, i frammenti colorati si dissolsero sulla superficie dell'acqua in fondo al water. Vorticarono insieme in un gorgo brillante, quando ruotò la maniglia cromata in alto. Aprì con una spinta le porte al termine del corridoio e rimase a fissare lo schermo vuoto. Tutto ciò che gli restava da fare era aspettare. Sedeva con la schiena rivolta alla soglia della cucina, scrutando tutta la stanza anteriore. Se anche qualche suono veniva dall'esterno della casa, Bedell non era più in grado di udirlo o di riconoscerlo. Il suo cuore accelerò per un momento; pensò di aver visto una sostanza tenebrosa spargersi da sotto il cadavere nel mezzo della stanza. Mentre osservava, incapace di muoversi da dove si era accasciato ore prima, il bordo scuro attorno al corpo di Kinross strisciò una frazione di centimetro più vicino a lui.
Poi il suo sguardo scattò verso le tende della stanza, e si rese conto che stava scendendo la notte. La luce, più cupa ma ancora abbastanza forte da gettare un'ombra, aveva cambiato angolazione. La sagoma del cadavere si espandeva lentamente sul tappeto, come sangue nero che colasse da una ferita nascosta. Bedell si costrinse a rialzarsi sulle gambe tremanti. Poté vedere la faccia di Kinross, ora. Gli occhi ingialliti erano aperti, e fissavano il soffitto senza vederlo. Un filo di saliva disseccata gli scendeva dall'angolo della bocca. Allungò un braccio dietro di sé e accese le luci della cucina. Descrivendo un ampio cerchio attorno al corpo, osservandolo mentre giaceva immobile, raggiunse la stanza da letto e a tastoni accese anche lì gli interruttori a muro. In bagno colse una fugace visione del suo viso pallido e non rasato nello specchio sopra il lavello. Non c'erano lampadine sul soffitto della stanza anteriore, e le lampade da tavolo se n'erano andate via col resto della mobilia in affitto, ma dalle altre stanze penetrava un chiarore sufficiente a vedere ogni cosa. Non voleva restare solo in casa, al buio col cadavere. E con quell'altro... essere... che non poteva più vedere, di cui aveva colto un'unica immagine mentre staccava le mani dalla soffice gola di Kinross. Non poteva vedere l'Ospite, ma sapeva che era ancora lì. L'esaltazione data dalla droga si era esaurita, lasciandolo esausto. Guardò giù, verso il corpo, e si umettò le labbra secche. Il ricordo delle mani strette sulla gola di Kinross gli si fece strada nella mente, come se guardasse un video al rallentatore di qualcun altro. Lo shock subito quando si era alzato, e si era reso conto dell'accaduto, aveva dissipato gli effetti della droga, e anche la voce dietro di sé. Arricciò la lingua per il gusto amaro che avvertiva ancora in bocca. — Cristo — disse a voce alta, strofinandosi il volto sudato. "Devo essere stato pazzo" pensò. "Prima ancora di prendere quella merda. Che diavolo mi è passato per la testa?" Gli occhi vacui lo fissarono dal basso; lui guardò altrove, con un brivido. Il suo sguardo passò in rassegna le stanze vuote. Doveva fare qualcosa. La cosa sul pavimento doveva svanire, doveva sbarazzarsene. E presto... lo sapeva. Quanti amici poliziotti di Kinross sapevano in che guai si era ficcato? Poteva anche aver detto con esattezza a qualcuno di loro dove intendeva andare quel giorno, chi stava andando a torchiare in cerca di informazioni. "Lo sapranno." Si sfregò le mani sudate sui calzoni. "Verranno, e lo troveranno qui."
Sbarazzarsene... C'erano vari posti. Il deserto, a poche ore di guida da L.A. Fuori dalle strade principali; dove il corpo non sarebbe stato ritrovato mai più. O forse non prima di molti anni più tardi, quando si fosse ridotto a cuoio secco e ossa scheggiate. Ammesso che lo scoprissero, un giorno o l'altro. Con le rotelle del suo cervello che ingranavano lentamente, gettò di nuovo un'occhiata al cadavere. Il cuore gli sobbalzò in gola. Barcollò all'indietro, e quasi cadde. Il battito gli martellava nel petto quando costrinse i suoi occhi ad aprirsi e si scostò dal muro. Tremante, si avvicinò di qualche passo al corpo e abbassò lo sguardo. Emise d'un fiato il respiro che aveva trattenuto quando vide solo i lineamenti grigi, cascanti di Kinross. L'altra visione era scomparsa. Non vide più nessuna fila di denti aguzzi che gli sorridevano. — Ehi, Michael... tutto bene? Sentì la voce dietro di sé e si girò di lato nel sedile del cinema. La luce dell'atrio si spandeva nel corridoio fra le poltrone, mostrando il profilo della figura sulla soglia. — Certo — disse Tyler. Aveva riconosciuto il proiezionista. — Che succede? — Dimmelo tu, amico. Che stai facendo, seduto qui dentro al buio? "Aspetto." — Niente — disse. — Pensavo solo alle mie cose. — Merda. — Il proiezionista aveva sbattuto il ginocchio contro uno dei braccioli di legno mentre camminava lungo il tappeto in pendenza. Dopo aver richiuso la porta dell'atrio dietro di sé, l'unica luce veniva dalle piccole lampade all'estremità di ogni decima fila, che proiettavano per terra cerchi larghi un palmo. Tyler osservò mentre l'altro si sedeva sul bracciolo di una poltrona, in mezzo al corridoio. Poté vedere le braccia conserte sulla maglietta, le cuciture dei jeans che scendevano fino a un logoro paio di Adidas piantate sul tappeto. "Sì" pensò, assentendo lentamente fra sé. Un rivoletto di adrenalina gli fluì nel sangue. "Anche troppo facile." Il profilo dell'altro, bordato di un finissimo blu elettrico, si voltò verso lo spazio oscuro dov'era lo schermo. — Sai — disse — dovremmo dire ai proprietari di risistemare quella roba. Certi spettatori hanno preso a lamentarsi dell'inquadratura. Lui sorrise, ascoltando quel gergo tecnico; sembrava una trasmissione da
un altro mondo, un'altra vita. — Sono solo studenti di cinema sapientoni — disse oziosamente. — Quel branco dell'Ucla. Non c'è niente che gli vada bene. — Si mosse, stirando la schiena dopo tutte le ore passate seduto. — Pensano che dirigiamo un museo, o qualcosa del genere. — Eh, hanno ragione, amico. — Il proiezionista si sfregò la peluria microscopica che brillava sul mento appena rasato. — Si vede perfino su in cabina... e ho già aggiustato l'angolo di proiezione meglio che potevo. Metti un film, e tutti hanno le fronti più larghe delle spalle. — Scosse la testa. — Proprio pazzesco, amico. Fa sembrare Bogart e la Bacali una scena d'amore fra due idrocefali. Tyler rise, reclinando il capo fino a toccare la sommità del sedile. — Diciamo qualcosa ai proprietari, no? — Il proiezionista sembrò d'umor nero. — Mi becco già abbastanza insulti dal pubblico ogni volta che uno di quei vecchi film si rompe, senza quest'altra merda a guastare tutto. — Sicuro. — Il proiezionista era solo un altro povero fesso che non sapeva. Da dov'era seduto, Tyler, nel buio, poteva vedere quanto fossero meschine quelle ordinarie preoccupazioni. Ombre in bianco e nero di gente morta proiettate su uno schermo, un mondo di luce piatta e niente più, un'illusione. E si lamentavano se l'illusione non gli veniva servita bene. "Loro non sanno" pensò Tyler. Sedevano nel buio, in file silenziose, e non vedevano nulla. — Non ti preoccupare — disse, stendendosi sul sedile. — Che ore sono? — L'arrivo dell'altro era stato il primo segno del passar delle ore, da quando al mattino Tyler era giunto al cinema vuoto per prendere posto in attesa. — Erano quasi le sei quando sono venuto. — Il proiezionista indicò col capo le doppie porte in testa al corridoio. — Il resto del personale probabilmente aspetta l'apertura fuori. Tyler annuì. Il cassiere. La ragazza del banco dei rinfreschi, l'unica maschera che aveva potuto spremere dal magro bilancio... il locale stava per non essere più vuoto e silenzioso. E poi il pubblico; il primo spettacolo di solito iniziava alle sette. Il cinema non sarebbe più stato il quieto rifugio dove si era messo a sedere durante le lunghe ore diurne, in attesa che il suo sangue si ripulisse dai farmaci. Ma il giorno stava finendo, ormai. Sarebbe stato buio presto, fuori. — Vai a farli entrare, no? — Tyler puntò un pollice verso le porte dell'atrio. Di nuovo solo, alzò gli occhi allo schermo vuoto. Nel riquadro nero poté vedere uno spazio più piccolo. Era ancora indistinto, una cavità fiocamente
illuminata e ricavata asportando del morbido terriccio. "Come una caverna" rifletté Tyler. Riuscì quasi a percepire l'acre odore animale di sudore e cibo in putrefazione. Contro la schiena poté sentire il tessuto in similvelluto del sedile, e al tempo stesso, debolmente, una superficie piatta, ruvida che incombeva su di lui, come se fosse sepolto sotto tonnellate di cemento. Da qualche parte... non lì nella sala dall'alto soffitto, ma in quell'altra cavità più stretta... un bimbo stava respirando. Non ancora. Tyler chiuse gli occhi, ma rimasero sempre le altre tenebre dietro di essi. Non ancora, ma presto. Il momento stava per arrivare. Le luci del soffitto si accesero; poté vedere il bagliore, arrossato attraverso la pelle delle palpebre. Dietro di sé poté udire voci dall'altro lato delle porte. Afferrò i braccioli, alzandosi dal sedile con una spinta. La ragazza del banco dei rinfreschi disse qualcosa di spiritoso, con un sorriso, mentre lui attraversava l'atrio. Tyler annuì con aria assente. Nel bagno degli uomini, la luce che rimbalzava sulle superfici di smalto bianco e porcellana era abbastanza sfolgorante da fargli dolere gli occhi. Strizzò le palpebre, annaspando nella tasca della camicia in cerca degli occhiali che usava per guidare. Mentre si piazzava davanti all'orinatoio, colse il suo riflesso nello specchio sopra un lavandino. L'immagine, simile all'hipster sballato di qualche copertina di un vecchio disco di Lenny Bruce, lo fece sorridere. Abbassò lo sguardo al rivoletto di liquido che gli scendeva ai piedi. E questo era tutto riguardo i farmaci; ecco la destinazione finale di quella merda che gli avevano detto di prendere. I suoi reni avevano svolto il compito prefissato di depurare il suo sangue dai prodotti chimici. Ora erano al lavoro, dentro di lui, per evacuare il resto. Un po' per volta; era un lungo compito. Tirò la maniglia cromata e ascoltò l'acqua scrosciare sulla porcellana. Il proiezionista gli gesticolò con un bicchiere di carta mentre si dirigeva verso l'ingresso anteriore del cinema. — Ehi... dove te ne vai? — C'era già della gente in coda all'esterno. — Fuori — disse. — Goditi lo spettacolo. 13 Avevano lasciato il bimbo a dormire nel nido. Jimmy si gettò un'occhiata ansiosa alle spalle mentre seguiva Slide. Sotto il blu inchiostro del cielo, un flusso continuo di fari delineava la sommità della nera sagoma del ca-
valcavia. Slide stirò le spalle sotto il sottile tessuto del giubbotto, rilassando i muscoli irrigiditi dagli stretti confini del nido. Jimmy camminò più in fretta per tenersi al passo con lui. — Non dovremmo... lo sai... Sullo sfondo del tramonto che arrossava gli spazi fra i lontani edifici, la silhouette di Slide si voltò verso di lui. Jimmy capì che stava sorridendo, con lo sguardo nascosto dietro gli occhiali a specchio. Il sole spegnendosi dava al suo volto una sfumatura rossastra, e le file di denti parevano tinte di sangue. — Che problema hai, amico? — disse Slide. — A che pensi? Eh? Jimmy indicò col capo il cavalcavia, il nido celato sotto il suo arco scuro, il bimbo che dormiva nascosto dentro. — Non dovremmo tornare indietro? — Alzò la coda dell'occhio verso Slide. — Non c'è nessuno a sorvegliarlo. — Non metterti in pensiero, per l'amor di Dio. — Slide distolse lo sguardo, fissando la luce morente. — Se ne starà benone da solo, per un pochino. Non andrà in nessun posto. — Annuì, come se fosse compiaciuto di quel che vedeva. — Quel buco puzza, comunque. Quel ragazzino era importante... ancora più importante di quanto Slide non gli avesse detto. Jimmy lo sapeva, aveva sentito la consapevolezza farsi strada in lui nelle ore in cui era rimasto seduto nella cavità del nido, accucciato sotto il soffitto di cemento dell'autostrada. Non che si preoccupasse che il ragazzino... "Bryan" rammentò fra sé "è questo il suo nome"... potesse scappar via se ne avesse avuto l'occasione. Sapeva cosa voleva dire risvegliarsi nel buio, troppo impauriti per muoversi, ansiosi solo di trasmettere un po' di calore e d'ossigeno all'ammasso delle braccia e gambe raggomitolate. Il ragazzino non sarebbe scappato. Però non voleva che si trovasse solo una volta svegliatosi, senza nessuno attorno, nel fitto silenzio del nido. Slide guardò verso la città e le curve sopraelevate delle autostrade che vi conducevano. — Non ci vorrà ancora molto — disse a bassa voce. Jimmy diede uno strattone al guinzaglio invisibile che lo legava alla presenza dell'altro, sforzandosi di tornare al nido e alla sua calda sicurezza. Il cielo stava diventando più scuro, e la luce rossa si rifletteva come sangue sugli occhiali di Slide. I puntini delle luci del traffico sull'autostrada risultavano più brillanti sulle lenti. Slide annuì. — Li posso sentire. — Sorrise fra sé. — Si stanno facendo
vicini. Proprio vicini. Jimmy sbirciò lo stretto profilo dell'altro. — Eh? — disse. — Chi? — La parola vicini lo allarmò. Intravide il confuso riflesso del proprio volto negli occhiali, come una macchia, quando Slide si girò verso di lui. — Non temere — disse... dolce, quasi gentile. — Non c'è nulla di cui preoccuparsi, affatto. Andiamo. — Cominciò ad avviarsi di nuovo verso il cavalcavia. Con gratitudine, Jimmy gli trotterellò dietro. La sua ombra si allungò davanti a lui sul marciapiede, mentre si allontanava camminando dal cinema verso la macchina. "Ora sì che comincia" pensò Tyler. Vide, perfino attraverso le lenti degli occhiali da sole, le ombre sfumate di rosso degli edifici scivolare a unirsi, colmando la strada. Le finestre che davano a ovest rimandavano il bruciante riflesso del sole che calava sull'orizzonte tinto di scuro. Alcune auto avevano già i fari accesi, in previsione del buio. Poté sentirlo anche dentro di sé. Nelle maniche della camicia gli veniva la pelle d'oca sulle braccia, piccoli aghi gli stuzzicavano la carne. Non era spiacevole... eccitante, in effetti. Una sensazione che non ricordava da lungo tempo, l'adattamento del corpo al nuovo mondo che stava per mostrarsi alla vista. I terminali dei nervi si stavano destando dal torpido sonno dei farmaci, mutandosi in fili guizzanti che trasmettevano di prepararsi all'azione. Nella bocca, il vecchio, familiare sapore medicinale; arricciò la lingua mentre camminava, schiacciando la saliva amara contro i denti. Era stato lì tutto il tempo, in ogni cellula del suo corpo. Parole di qualcun altro, il pronunciamento ufficiale: L'alterazione è permanente. Ciò rese il suo sorriso più sarcastico. "E chi vorrebbe altrimenti?" pensò. "Una volta che l'hai provato..." Quando fosse venuta la notte, quando la luce fosse colata via come sangue, quell'altra città si sarebbe rivelata. Quando fosse stato buio come la piccola tana dal pavimento di terra che percepiva, che poteva sentire contro le spalle anche mentre camminava all'aria aperta, allora sarebbe riuscito a vedere dritto attraverso le tenebre, fin laggiù. Mentre apriva la macchina, Tyler guardò lungo la strada. Alla lontana estremità stava una donna, stagliata contro il rosso sole che le tramontava alle spalle. Tenendo la borsetta sul fianco, voltò la faccia verso di lui. Troppo lontana per distinguere i suoi tratti. Ma lui annuì fra sé, chiuden-
do gli occhi dietro le lenti scure. Anche se non era stato in grado di vederli, sapeva che i denti appuntiti gli avevano sorriso. — Mike? — Chiuse la porta d'ingresso dietro di sé e chiamò nell'appartamento. — Sei qui? Non venne alcuna risposta. Steff si chinò giù e aiutò Eddie a sfilarsi dalla testa la giacchetta col cappuccio. Lui alzò le braccia per aiutarla, e l'orlo della sua maglietta gli salì sul pancino roseo. — Dov'è Mike? — chiese Eddie. — Voglio mostrargli una cosa. — Lasciò cadere il sacchetto di plastica che aveva contenuto l'astronave sul pavimento del corridoio e fece saettare il modellino in alto, ad arco. All'asilo nido, uno degli addetti gli aveva scritto CAP. EDDIE in minuscoli caratteri, col pennarello, sotto la cabina trasparente. — Sarà andato al lavoro, suppongo. — Seguì il figlio in soggiorno, dove il razzo fu depositato al suo posto, come un trofeo, in cima al televisore. — Siamo tu e io soli, piccolo. Non si era aspettata di trovarlo lì. I venerdì sera non aveva né lezioni né turni al ristorante, così toccava a lei andare a prendere Eddie all'asilo. Dal modo in cui stavano andando le cose a Mike, si era immaginata che avesse colto l'occasione di partire presto per il cinema e il suo piccolo ufficio laggiù, che usava come rifugio quando gli prendeva qualche turbamento che lo agitasse profondamente. "Perché non vuole che lo veda in quel modo" pensò. "E neanche Eddie." Era chiusa fuori dal suo mondo, anche se la porta sbarrata gli stava sempre visibile alle spalle. Gentile da parte sua: qualunque cosa vi fosse lì dentro fra le tenebre, i cui trascorsi erano stati solo pallidamente accennati nella copia del libro che teneva nascosta nell'armadietto in anticamera, voleva che ne restasse protetta. I suoi ricordi, come lei sapeva, erano un peso che non le avrebbe mai permesso di condividere, neanche se l'avessero schiacciato fino a buttarlo in ginocchio. (Come se lui potesse nascondere un libro simile. Quando c'erano i tascabili in ogni libreria, quasi ovunque fra le altre copertine brillanti e sgargianti, e bastava raccoglierne uno con la mano e sfogliare per appena un secondo le foto patinate nel mezzo prima di tremare e rimetterlo dov'era. Come se potesse nascondere una qualsiasi cosa.) In cucina, mentre maneggiava un coltello sul tagliere per affettare un peperone, con attorno l'odore degli hamburger sfrigolanti, ascoltò il mormorio del televisore dall'altra stanza. Eddie l'aveva sintonizzato sul notizia-
rio della sera come se Mike fosse stato lì a guardarlo, rilassato in un angolo del divano mentre Eddie faceva andare le sue macchinine sul pavimento. Forse era così. Osservò le sottili strisce verdi ammucchiarsi da un lato della lama. Una volta, dalla soglia della cucina, aveva colto una fugace immagine di ("Linda") la faccia sul giornale ("sua moglie") e le pagine nel mezzo del libro ("dalla stanza nella testa di Mike, con la porta sempre chiusa"). Il volto di Mike, dall'angolo che Steff poteva vedere stando inosservata dietro di lui, non aveva mostrato alcun cambiamento, alcuna emozione; era con lo sguardo fisso. "Forse è così" pensò. Quella parte di ricordi, il peso in cima a tutto il resto, gli gravava addosso tanto da spezzargli la schiena. Ed era questo che Mike non voleva che lei ed Eddie vedessero. Finché per lui non fosse trascorso abbastanza tempo da riprendere quel peso sulle spalle, rialzarsi sotto di esso, andare avanti come se nulla di tutto ciò fosse mai avvenuto, tenendo la porta chiusa anche per sé, col passato dietro. Proseguì a lavorare, preparando la cena per se stessa e suo figlio, e anche per Mike quando fosse tornato, dopo aver chiuso la sala per la notte. "Forse dovrei chiamarlo" pensò. "Dargli una controllata, assicurarmi che va tutto bene." Scosse la testa sul tagliere, decidendo di non farlo. Certe cose si dovevano risolvere da soli; lei stessa aveva conosciuto momenti simili. — Vatti a lavare — disse a Eddie. Le sue mani continuarono a svolgere i loro compiti. Era un conforto osservarle, e fermare i pensieri che le si accalcavano nella testa. "Bentornato a casa" si disse. "Al nuovo mondo." Mentre Tyler sterzava, guidando senza una destinazione precisa, sentì tendersi i muscoli delle braccia, come se si gonfiassero per pompare il sangue ancora più forte attraverso il suo cuore. Osservò il traffico che fluiva da entrambi i lati dell'auto, i fari e altri segnali stradali che sembravano marchiati a fuoco nei suoi occhi. Quando la notte fu finalmente scesa, sentì che l'effetto dei farmaci nel suo sangue si era ridotto a un livello infimo; restavano solo le ultime scorie, depurate attraverso i fini interstizi delle sue viscere. Riconobbe, perfino dopo tutti gli anni in cui l'aveva tenuto a freno, il suo sistema nervoso che veniva accelerato. Quello era l'Ospite, lo sapeva... la droga lo stava trascinando alla propria velocità. Così rapida che a tratti le altre auto sembravano muoversi al rallentatore, e il suo sguardo vi scrutava
attraverso, fino alle facce in ombra dietro i parabrezza. Le sinapsi scattavano nelle sue braccia mentre teneva il volante con una mano sola, scivolando con tranquilla disinvoltura negli stretti spazi fra gli altri veicoli. I suoi denti digrignati... un altro segno... affondavano nell'amaro gusto chimico che gli sgorgava da sotto la lingua. "Fin troppo facile." Sorrise, ricordando le parole di Bedell. Uno scaglione di insegne al neon lampeggiò una sequenza di lettere multicolori sopra l'auto, sulle maniche della sua giacca. Alzando gli occhi allo specchietto, vide un pezzo della propria faccia, nella luce sgargiante della strada; gli occhi, e un angolo della bocca che sorrideva da sola. "Facile." Bedell aveva avuto ragione; una volta tanto, lo stupido figlio di puttana ci aveva azzeccato. "Come dicono..." il sorriso si allargò a quel pensiero "...le risposte bisogna cercarle dentro di sé." Questo era il modo in cui si era sentito un tempo. Ogni ora, ogni minuto che passava lo portava sempre più vicino all'Ospite e alla mente di gruppo. Allora sarebbe stato capace di vedere dove Slide aveva nascosto Bryan. Ma doveva fare attenzione. Sarebbe stato facile lasciarsi andare, farsi catturare dalla droga fino a ubriacarsi col suo stesso sangue. Facile dimenticare perché era tornato in quel mondo, e lasciare che le strade nere si dipanassero davanti a lui, tuffandosi nella notte e in tutti i misteri che l'Ospite gli avrebbe svelato, a uno a uno. "Bryan" pensò. Doveva ricordarselo. Una volta trovato suo figlio e riportatolo di nuovo fuori, alla luce, allora poteva lasciare che l'Ospite facesse di lui quel che voleva. Non gliene sarebbe più importato. Sarebbero stati tutti insieme di nuovo, senza curarsi di cosa gli potesse accadere. Poteva anche essere... sembrò un'eco della voce suadente di Slide... bello. Bello, al buio. Si fermò a uno stop, osservando il flusso di traffico più avanti. Voltando la testa verso il finestrino laterale, vide un rosone che ardeva dall'altro lato della strada, inondando di un flusso di luce colorata il marciapiede sgombro. "Giusto" pensò, annuendo. Era così che funzionava. Era bastato lasciare che l'auto si dirigesse dove voleva, e qualcosa nelle sue braccia aveva ruotato lo sterzo, l'aveva portato lì. Prima tappa del suo cammino. "Potrebbe aver mentito prima" pensò mentre scrutava la libreria. "Quando le ho chiesto se sapeva qualcosa. Potrebbero avermi mentito tutti. Perché non ero ancora tornato lì, con loro. Quindi non potevano fidarsi di me." La ragazza al banco gli disse qualcosa mentre lui la oltrepassava. La i-
gnorò, puntando dritto all'ufficio di Bonnie. Lei alzò gli occhi quando lui aprì la porta. Riuscì a parlarle senza che venisse pronunciata una sillaba. "Sembra un coniglio" pensò lui. Il labbro le tremò mentre spingeva indietro la sedia dalla scrivania, allontanandosi da lui. — Michael... Non sapeva nulla su Slide, su Bryan, su niente. Tranne quello che gli leggeva in faccia... che si trovava di fronte a un frammento del passato. Era questo ad averla spaventata tanto da venire a nascondersi in quel piccolo buco sicuro, lontana dall'oscurità esterna. Proruppe in una risata mentre richiudeva la porta. Sugli scaffali dietro di lui erano allineati I Ching, e alcuni presenti, dall'espressione da mistici o da tossicomani, gli rivolsero occhiate stupite. — Guardate 'sta merda. — Poté sentire Bonnie starlo a guardare mentre alzava il braccio e rovesciava un'intera fila di volumi sul pavimento. Il rumore dei libri che cadevano fece girare verso di lui gli sguardi stupefatti dei pochi clienti che sfogliavano pagine. Poté guardare dritto attraverso di loro, in fondo ai loro cervelli, vedere il vuoto interiore imbottito con la stessa immondizia, Buddismo annacquato e germogli di soia. Avevano tutti paura del buio. Ma lui no. Non più. Si avviò verso la porta e uscì, e la ragazza dietro il banco si fece indietro al suo passaggio. La testa le scattò all'indietro, e lei sbatté le palpebre davanti al notiziario della notte in televisione. Il testo di anatomia le era scivolato giù dal grembo, atterrando su un mucchio dei suoi appunti di studio sparsi per tutto il tappeto. "Gesù" pensò Steff, strofinandosi l'angolo dell'occhio. "Crollata come un sacco di patate." Non aveva idea di quanto tempo fosse rimasta addormentata. Non ricordava l'inizio del notiziario, e ora il meteorologo stava indicando dei numeri su una mappa della California meridionale... succedeva sempre verso la fine. Altro che prepararsi agli esami; poteva a malapena tenere la testa alzata. Come per tante notti, la psicosi di presentarsi in classe la mattina dopo, o la stanchezza combinata che le davano il lavoro, lo studio, un bimbo di cinque anni, l'avevano fatta cadere esausta prima che Mike tornasse a casa dopo aver chiuso il cinema. O prima che lui finisse di rimuginare a lungo i suoi pensieri, mentre sedeva di fronte al televisore e i colori brillanti e le
voci ridenti gli scrosciavano addosso senza effetto, come onde su una scogliera rocciosa. Si chinò in avanti e rimise le carte insieme. In bocca aveva un gusto secco e arido, come se ci avesse respirato attraverso mentre si era abbandonata nell'angolo del sofà. Uno strano frammento di memoria le balenò nella mente, come un nastro registrato lungo solo pòchi centimetri: era in un'auto, e percorreva la città di notte. Le luci le erano scivolate sul viso e sulle mani quando si era voltata verso il guidatore. Non era Mike; non era stata capace di vedere chi fosse, la faccia dietro lo sterzo era tutta buia... "Un telefilm poliziesco" decise. Qualunque cosa ci fosse stata in Tv, le si era intrufolata sotto le palpebre mentre dormiva, mischiandosi col lento lavorio dei propri pensieri affastellati. Si guardò alle spalle, verso l'ingresso della cucina, e decidette nuovamente di non chiamarlo al cinema. Dal corridoio, guardò nella cameretta di Eddie. La sottile stria di luce mostrò la piccola figura raggomitolata, con le mani strette accanto al viso. ("Un altro frammento, ancora precedente: Mike seduto sull'orlo del letto.") Appoggiò la fronte al telaio della porta, ancora più stanca. ("Non tanto tempo prima da dimenticarlo... osservava in silenzio il bimbo dormiente.") Gentilmente, chiuse la porta e si diresse verso l'altra stanza da letto. Nel suo sogno continuò a percorrere la strada, coi bagliori delle luci che aprivano varchi nelle tenebre. Udì Slide ridere. Jimmy alzò gli occhi dal bimbo addormentato. Le gambe gli si erano intorpidite molto tempo prima. Il sangue gli si era fermato a stare accovacciato sotto il soffitto di cemento, ma non si era mosso dal lettino di stracci. Slide gli stava sorridendo. — Fai la brava mammina, vero? — Con le lunghe gambe stese attraverso la cavità, Slide appoggiò la schiena a una parete, avvolgendosi le braccia intorno come per proteggersi dall'aria notturna. Gli occhi lucenti catturavano il chiarore giallo della torcia piantata nella sabbia. Ossa grigie, scintillanti di grasso, erano sparse attorno alle strisce rosse e bianche di una scatola di Kentucky Fried Chicken. Jimmy non disse nulla mentre tornava a guardare il ragazzino. Le tonde guance infantili erano tutte bianche, non più rosee, come quando Slide l'aveva portato al nido. Bollicine di muco luccicante attorno alle minuscole narici gorgogliavano in sincronia col respiro che usciva dalla bocca aperta. Aveva fatto mangiare al ragazzino ("Bryan; si chiama Bryan; non te lo scordare, è importante; Bryan") un po' del purè di patate freddo che era ar-
rivato col pollo. Poi lui aveva scosso la testa, spingendo via il cucchiaio di plastica con la manina sporca, e dicendo che non aveva fame. Da allora era rimasto a dormire, con Jimmy che gli si aggirava intorno. — Penso che sta male — disse Jimmy sottovoce. Non sapeva nemmeno se voleva che Slide lo sentisse. — Fottitene. — Con la coda dell'occhio poté vedere Slide scuotere la testa disgustato. — È robusto, 'sto piccolo merdoso. Carezzò la fronte del bimbo. — E se gli succede qualcosa? La risata scoppiò più forte dietro di lui. — Avevo ragione — disse Slide. — Sapevo che ti saresti preso cura di lui. Ha fatto riemergere il tuo istinto materno. Piccolo Bryan. Aveva capelli così fini e serici sotto le sue dita. Anche attraverso il rombo incessante del traffico che filtrava da sopra, ne poté udire il fioco respiro. Sapeva che Slide stava ancora ridendo di lui. Osservava e rideva. Ma non gliene importò. "Un fottuto spreco di tempo" pensò. Tyler digrignò i denti, scrutando le luci e il movimento nelle strade mentre guidava. E non c'era tempo da sprecare. Non più. Il ricordo della faccia da coniglio spaventato di Bonnie gli fece ribollire il sangue che pulsava nella fronte. Le sue mani si strinsero sulla ruota dello sterzo; sapeva che avrebbe potuto facilmente avvolgerle attorno alla gola della donna. Facile immaginare come avrebbe sentito i battiti cardiaci sotto le dita, gli occhi rotondi ingrossarsi mentre il volto ansante ricadeva all'indietro... Ogni cosa era facile, adesso. Ecco perché doveva fare attenzione. Sorrise fra sé, ordinando a mani e piedi di allentare la presa sullo sterzo e sull'acceleratore. Lasciando che la notte circostante si facesse soffice e fluida di nuovo. Girò il polso per guardare l'orologio. Un altro frammento di tempo era stato inghiottito: la mezzanotte era vicina adesso. Era così che all'Ospite piaceva trastullarsi. Vi stuzzicava; rallentava il tempo fino a un moto strisciante e poi lo divorava facendovi scorrere un lampo di adrenalina nelle vene. Il pizzicore della pelle gli corse sulle braccia di nuovo. "Devi solo aspettare" si disse. "Presto verrà." Svoltò con l'auto a sinistra verso il flusso di luci più brillanti. "Verrà quando Lui lo vorrà." Il traffico era più fitto lì. Non gli importò che strada fosse. Da entrambi i lati, oltre le macchine che seguivano incessanti i loro tragitti, le contorte
insegne al neon ardevano sulle teste dei pedoni, tingendogli le facce di colore, come maschere. Si fece strada attraverso la via brulicante, osservando paziente. Per primi, localizzò i due brillanti occhi di serpente. Le pietre colorate ammiccarono a Tyler dallo specchietto retrovisore, cogliendo le luci della strada e rispecchiandone vividi bagliori in sincronia col movimento delle cosce della donna sotto il tessuto, mentre camminava. Dal nodo della cintura, il monile d'argento pendeva un centimetro sopra l'orlo provocante della gonna, oscillando mentre i suoi talloni sottili come lame si aprivano risolutamente il cammino lungo il marciapiede affollato. La stessa... Tyler studiò l'immagine nello specchio. Il semaforo e i fanali di coda dell'auto che lo precedeva inondavano di rosso le sue mani sullo sterzo. La riconobbe, e ricordò quando era tornato a casa guidando a tarda notte... "Una settimana fa" si disse. Anche se il bordo superiore dello specchio le tagliava via la testa, mostrando solo l'abito stretto e aderente, la borsetta standard appesa a una sottile cinghia sulla sua spalla, e la cintura metallica simile a un serpente, era sufficiente quello. Alzò un braccio e orientò lo specchio per guardarla meglio. L'azzurro dei lampioni le scurì le labbra annerendole. La sua faccia... quella vera, non la maschera a forma di teschio che gli effetti della droga le avevano sovrapposto prima... era affilata dal trucco geometrico che faceva risaltare gli zigomi sulla pelle pallida. A quella distanza ravvicinata gli occhi erano dolci, ancora umani, non gli oscuri congegni d'avvistamento che ricordava scrutare l'orizzonte quando li aveva visti allora. Quando lei non fu più che a un paio di metri, il semaforo scattò e la macchina davanti sfrecciò via. Tyler diede gas, senza perderla di vista nello specchietto, e infilò la macchina nel primo posto libero accanto al marciapiede. Il traffico fluì oltrepassandolo mentre attendeva. — Ehi... vieni qui un secondo. — Si sporse dal finestrino, dal lato del passeggero. — Voglio dirti una cosa. — L'adrenalina che gli era esplosa nel sangue gli diede un tono elegante, calmo, rilassato. Poteva fare quel che voleva. Gli occhi, orlati di ciglia intrise di mascara, cercarono di rintracciare il suono della sua voce, restringendosi in puntini neri quando lo localizzarono. — Ehi, alla larga — disse, sempre camminando. Altre facce lungo la strada si voltarono, valutarono la situazione, distolsero lo sguardo senza interesse. — Non sono al lavoro. Me ne vado a mangiare qualcosa.
Lui spinse l'auto avanti, tenendosi al passo con lei. — Be', forse anch'io ho un po' di fame, tesoro. Lei sogghignò vedendo il suo sorriso. — Già, come no. — Dico sul serio. — Lui spense la macchina. La puttana si voltò e attese, con le mani sui fianchi, i piedi allargati per terra, mentre il chiarore della vetrina del negozio dietro di lei avvolgeva le sue cosce sode ed efficienti nella lucentezza del neon. — Cosa? — disse lei, con la pazienza che le spariva dalla voce. Lui sentì il proprio sorriso allargarsi mentre gli occhi della ragazza, dalle palpebre semiabbassate, fissavano i suoi. Poté vedere, ingrandite, le luci in movimento della strada riflesse nei bui circoli al loro centro. Il blu elettrico crepitò fra i tentacoli serpentini dei suoi capelli. "Più vicino" pensò. Sentì di nuovo gli aghi punzecchiargli le braccia. "Quasi ci siamo." — Offro io — disse. Aveva atteso finché la strada fuori non si era fatta buia. Bedell aprì uno spiraglio nelle tende e spinse la faccia vicino al freddo vetro. Scrutò lungo la strada in ogni direzione. Ora che era passata mezzanotte, le luci si erano finalmente spente in quasi tutte le case. Il venerdì notte, le case restavano illuminate più a lungo, e il traffico attorno all'isolato proseguiva fino a molto più tardi. Dopo le due, quando i bar avevano chiuso, restavano poche altre macchine che risalivano sulle autostrade, dopodiché... solo un silenzio mortale. Quello sarebbe stato il momento migliore, l'ora con le minori probabilità di essere visti, ma non poteva attendere oltre. Non in quella casa. Si voltò e fissò l'oggetto in mezzo al pavimento. Adesso era coperto da un lenzuolo tirato via dal letto; le grosse scarpe da poliziotto, con la suola spessa, fuoriuscivano da un'estremità. Attraverso il tessuto si potevano vedere i contorni di braccia e gambe. Preparativi... si sfregò il labbro, e sentì il gusto del proprio sudore sul dorso della mano. Aveva già portato la macchina il più vicino possibile alla porta d'ingresso. E aveva aperto il bagagliaio, abbassando il cofano in modo da appoggiarlo sulla serratura senza che scattasse richiudendosi. Così adesso poteva alzarlo con una mano e far ruzzolare dentro il cadavere, sopra la ruota di scorta e il cric. Almeno c'era l'ombra stessa dell'auto, gettata dal lampione più vicino, a coprire i due o tre metri che lo separavano dalla casa.
"Che altro fare? Che altro, che altro?" Camminò a fianco del corpo lungo disteso. Se solo avesse potuto agguantare e frenare le visioni che gli correvano per la testa, il ricordo del volto di Kinross che si gonfiava di sangue mentre lo strozzava con le proprie mani, quell'immagine che gli frullava tra le pareti del cranio come il finale di un film caricato in un proiettore e ripetuto all'infinito... Se solo avesse potuto pensare un momento senza rivedere quell'altra faccia, i lunghi denti che contornavano un sorriso sinistro... Era per quello che aveva coperto il cadavere col lenzuolo. Non voleva che, in un lampo, la faccia grigia di Kinross cambiasse in qualcos'altro, qualcosa che non era morto. O almeno non nello stesso modo. "Che fare, che fare?" Doveva affrettarsi, ficcarlo nel cofano dell'auto e mettersi alla guida, uscire di lì prima che fosse troppo tardi, già troppo tardi... Sentì un gusto caldo e salato sulla punta della lingua. Interruppe il cammino, si staccò la mano dalla faccia e vide che i suoi denti avevano rosicchiato la pelle sulla nocca di un dito. Un puntino rosso brillante fuoriusciva dall'abrasione. In bocca, un altro gusto si manifestò quando il sangue si sciolse nella sua saliva. Un sapore amaro, medicinale, lo stesso che aveva avvertito quando si era diffuso dalle capsule frantumate, stringendo i denti. La contaminazione della droga aveva già raggiunto ogni cellula. — Merda. — Serrò a pugno la mano tremante. Non restava più tempo per cercare di pensare. Doveva darsi da fare subito. Prima che venisse qualcuno. Prima... Prima che lui tornasse. Coi suoi denti appuntiti. Una rapida corsa ansimante attraverso la casa, e spense tutte le luci. Schiuse di un centimetro l'ingresso anteriore; doveva riuscire a spingere il bordo col gomito, una volta sollevato il corpo tra le braccia. Un'altra occhiata attraverso lo spiraglio non mostrò traffico in strada. Tirò un profondo respiro e si abbassò accanto alle spalle del cadavere. Il lenzuolo scivolò giù dalla faccia e dal petto quando gli infilò le braccia sotto e lo alzò. La testa penzolò all'indietro contro il suo torace, la bocca si spalancò. Nel buio poté vedere i ciuffi di capelli grigi sullo scalpo chiazzato, sentire l'aroma démodé della brillantina all'acqua di rose che teneva i ciuffi a posto, mischiato all'acre odore dell'ultimo pasto di Kinross che si decomponeva nello stomaco del cadavere. Circondò con le braccia il petto immobile, afferrandosi i polsi per raffor-
zare la presa. Sollevò il corpo più in alto, stretto a sé, e si rialzò da quella posizione. Il peso inerte del corpo gli fece perdere l'equilibrio. Gli arti scomposti del morto si distesero sul tappeto quando Bedell atterrò pesantemente sulle ginocchia, trattenendosi appena dal cadere addosso all'altra forma. Strisciò indietro, lontano dal cadavere. Il palmo di una mano si posò su qualcosa di bagnato e appiccicoso. Al buio, la macchia su quella mano apparve nera quando la girò verso la sua faccia. Un piccolo taglio dietro la testa di Kinross, quand'era ruzzolato all'indietro con le mani di Bedell alla gola, aveva imbevuto di sangue il tappeto. Adesso poteva vederla, una chiazza irregolare simile a inchiostro, larga pochi centimetri. Convulsamente, si sfregò le mani sul petto. Il bagnato gli lordò la camicia di nero. "Vattene" udì gridargli la propria voce. "Portalo fuori di qui, vattene, presto..." Si alzò e si chinò sul cadavere. Stavolta, riuscì a issarlo in posizione seduta. Puntò i tacchi sul tappeto mentre lo trascinava verso la porta. Al suo cuore ci volle qualche istante per rallentare prima di cominciare a tirar fuori il corpo. Era una cosa pesante e goffa, una massa disarticolata che batteva e rotolava contro di lui, con la faccia grigia penzoloni da un lato. Il respiro gli sibilò in gola mentre cercava di raccogliere le forze. Con cautela controllò fuori ancora una volta, poi spalancò la porta con una spinta del piede. Inarcatosi per mantenere la stretta sotto le braccia del cadavere, vacillò all'indietro. Il corpo cadde e scivolò sul sentiero di cemento che portava al vialetto. — Alzati. Alzati — bisbigliò. Le gambe si aprirono a V, e le punte delle scarpe si rivolsero in dentro, mentre strattonava quel peso. La tensione che avvertiva nel petto divenne un dolore ritmico e lancinante. Si morse il labbro per impedire che dal suo viso rosso e iniettato di sangue sgorgassero lacrime. Quando ebbe finalmente trascinato il peso sul vialetto, accanto alle ruote posteriori dell'auto, alzò la testa sopra il parafango. Non vide muoversi nulla in strada. Il cadavere scivolò ad angolo contro il suo stinco, quando lo lasciò andare da un lato. Le sue dita annasparono col coperchio del cofano. Mentre iniziava ad alzarlo, vide le luci di due fari svoltare attorno al lontano angolo dell'isolato. Lasciò cadere il coperchio e si accucciò accanto a una ruota posteriore. Da sotto la macchina poté vedere i fari al termine della strada. Rallentaro-
no a passo di lumaca, avanzando inesorabili verso di lui. Sollevando il capo, vide la luce di un lampione brillare nell'abitacolo dell'auto che si avvicinava piano. I profili di due teste si stagliavano dietro una grata metallica sopra i sedili. Un'auto della polizia in un pattugliamento di routine; uno dei vantaggi di vivere in un quartiere signorile. Mentre Bedell osservava, l'agente dal lato del passeggero orientò il faro montato sulla portiera. Il fascio tracciò un ampio cerchio di luce uniforme, dissolvendo le ombre sulla facciata di ogni casa che superavano, spazzando via la tenebra da sotto ogni auto parcheggiata. Poteva sentire il sangue pulsargli in faccia, adesso. Guardò di nuovo su per il vialetto. Non c'era tempo... non col peso del cadavere da sforzarsi di portare a braccia... per far ritorno in casa. La macchina... alzò il braccio e annaspò con la maniglia dello sportello. Chiusa; lasciò il cadavere ricadere sul cemento mentre si inginocchiava e strappava la tasca dei pantaloni. Frugò disperato per prendere il tintinnante portachiavi, e cercò di infilare la chiave nella minuscola fessura. L'auto della polizia era così vicina che poté sentire il brontolio del motore. Tirò lo sportello. Si aprì, e solo per un centimetro non gli sbatté in faccia. Il cuore gli martellò nella gabbia toracica mentre sollevava il corpo all'altezza delle sue spalle. Il dorso di una mano gelida gli ricadde sulla faccia, e la punta aguzza di un'unghia lo colpì nell'angolo di un occhio. Il cadavere piombò giù nello spazio tra il cruscotto e il sedile del passeggero. Il volto cieco e inerte gli restò puntato addosso mentre Bedell piegava le gambe in due, pigiandole contro il torace. Il fascio di luce lo colpì in pieno proprio mentre si rialzava e sbatteva lo sportello. Rimase di ghiaccio in quel bagliore. Strizzando le palpebre, poté vedere i profili dei due agenti che lo fissavano. Riuscì appena a cacciare qualche parola dalla gola. — Mi ero scordato le chiavi dell'auto — esclamò. Alzò una mano, coi pezzetti metallici penzolanti. — Stupido, eh? Senza dire parola, lo osservarono mentre faceva ritorno alla porta d'ingresso della casa e annaspava con le chiavi. — Ehi! Udì il grido dell'agente proprio mentre la porta si spalancava. Si guardò alle spalle, verso di loro. Un poliziotto fece un gesto fuori dal finestrino. — L'ha chiusa?
La sua faccia riuscì ad aprirsi in un sorriso. — Accidenti. — Scosse la testa mentre si avviava di nuovo giù per il vialetto. — Non so manco dove ho la testa. — È così che rubano le macchine. Specialmente quelle belle. — Eh, giusto. — Sotto il loro sguardo, girò la chiave nella portiera. Attraverso il finestrino poté vedere qualcosa che sembrava biancheria sporca, ammucchiata alla rinfusa. — Grazie. Da dentro la casa, li guardò andarsene via. Dopo che i loro fanali di coda non furono più visibili all'altra estremità dell'isolato, si costrinse a chiudere gli occhi e a contare due volte fino a cento. Di nuovo fuori, percorse d'un fiato il vialetto e si infilò al posto del conducente. Scivolò sul sedile, e sentì il suo cuore contorcersi nel petto mentre allungava la mano verso l'accensione. Una delle mani di Kinross era caduta in mezzo allo sterzo quando aveva scaricato il corpo dentro. Era ancora appoggiata lì, trattenuta dal polso piegato sulla metà inferiore del volante. Con attenzione, sollevò la mano dal polsino della camicia e depositò il braccio inerte lontano da sé. "Prendi il lenzuolo, coprilo..." Ma non poteva aspettare più. Avviò la macchina e la fece sgommare all'indietro sulla strada. Mentre guidava, guardò giù e vide le luci dei lampioni, una per una, scivolare sul sedile vuoto e sul corpo accasciato sul pavimento dell'auto. Quello che lei aveva voluto era un hamburger, dal vecchio Tommy's giù sul Beverly. Tyler gettò un'occhiata alla puttana mentre si districava dal parcheggio a forma di L. L'involucro tra le sue mani era come un fiore arancione macchiato di grasso, mentre i denti le affondavano nella carne e ne strappavano un boccone. — Dio, adoro questo posto. — Inghiottì e guardò fuori dal finestrino. Così vicino al centro, i grattacieli di uffici formavano un muro nero, tempestato di luci, contro il cielo notturno. — Una volta avevo un pazzoide che mi portava qui in una limousine a nolo, e mi si faceva sul sedile posteriore. Gli piacevano tutte le persone che camminavano attorno a quella macchinona, mangiando e guardando. Lo faceva sentire ricco, credo. Era diventata più comunicativa dopo che le aveva fatto scivolare fra le dita tese un biglietto da venti, subito svanito nella sua borsetta. — Okay, se è tanto per parlare — aveva detto, con una scrollata di spalle. — Più eco-
nomico usare il telefono. Potrei darti un po' di numeri. ("Quanto avrebbe preteso, una volta?" si domandò. "Anche per parlare soltanto, per il suo tempo prezioso, misurato..." quel pensiero gli bussò alla testa, e scivolò via. "Parecchio di più, almeno cinque volte tanto; forse appena un anno prima, o meno. Ecco con che rapidità la strada le aveva divorato la carne sotto la pelle.") Tyler si reclinò indietro, con le braccia dritte verso il volante. Il traffico da quelle parti era più fluido che ai confini di Hollywood, dove l'aveva presa a bordo. Poté lasciare che l'auto scorresse da sola, sincronizzata con gli scatti dei semafori, scivolando attraverso la notte senza fermarsi. "Con tale grazia" pensò Tyler "da sfuggire alla comprensione." Sentì il proprio viso tendersi, gli angoli della bocca ritrarsi in un sottile sorriso. In quel mondo, nella notte, le cose agivano e funzionavano in un certo modo, mosse da ingranaggi affilati come lame di rasoio, proprio come Lui voleva... "Vicino." Scrutò fuori attraverso il parabrezza, lungo le strade che fluivano come un lento liquido nero verso di lui. Gli occhiali scuri li aveva riposti in cima al cruscotto, ma teneva ancora le palpebre semichiuse per ripararsi dalle luci delle vie, pungenti come aghi. "Proprio vicino." Poté distinguere i lastroni che pavimentavano i marciapiedi deserti, fiocamente traslucidi come una pelle di serpente vuota, e la luminescenza blu che filtrava sotto ogni bordo. "Non ci vorrà molto, ora." Era per questo che l'aveva presa con sé. Sperando di poter vedere di nuovo l'altra faccia, dietro la sua, sorridente e sussurrante. "Non ancora." Ma adesso poteva avvertire il suo profumo, l'aroma che mascherava l'essere sottostante. Sapeva già come con le mani le avrebbe premuto le spalle ossute, rovesciandola all'indietro, tirandole la faccia fino a squarciarla. E i denti aguzzi della creatura gli avrebbero tagliato la pelle, lasciando mischiarsi il loro sangue... No. Aveva altre cose da fare prima. L'insegna sgargiante del chiosco degli hamburger si allontanò nello specchietto. — Dicono che una volta si poteva vedere Frank Sinatra, lì — disse. — Da Tommy's. A ordinare chiliburger. Lei diede un altro morso. I suoi denti lacerarono il centro rosso e bagnato della carne. — Chi? — Andiamo, tesoro. — Girò il sorriso verso di lei. — Non sei poi tanto giovane. La puttana gli diede un'occhiata, stringendo gli occhi fino a farli sembra-
re fori di canne di pistola. Poi gettò la testa all'indietro e sorrise. Una goccia di sangue acquoso della carne le apparve all'angolo della bocca; la lunga, affusolata unghia finta si ruppe quando si tolse la macchia con un colpetto del dito. Lei si sfilò il guscio rosso come il carapace secco di un insetto e lo gettò noncurante dal finestrino. La sua risata si spense nel silenzio quando lui rivolse di nuovo lo sguardo alla strada. La sentì sospirare al suo fianco. — Mi piace quando fa scuro. Lui le girò gli occhi addosso. — Cos'hai detto? Il suo sguardo gelido lo esaminò. — Non ho detto niente, amico. Se vuoi che dica qualcosa, dimmi cosa vuoi sentire. — Le apparve un sorriso schivo, e sottovoce disse: — Sei tu il capo. Davanti a lui la strada si aprì, lo spazio fra i marciapiedi si espanse lentamente mentre l'auto solcava le tenebre. La strada si allargò, la distanza fra ogni luce crebbe, il parabrezza si svuotò di tutto eccetto che del buio. Abbastanza presto, sapeva, la strada sarebbe proseguita per sempre, verso un orizzonte di vuoto assoluto. "Più vicino" pensò. Aveva udito l'altra voce sussurrare. "Sempre e sempre più vicino." Guidava coi fari delle auto, dall'altro lato dello spartitraffico, che gli sferzavano la faccia. Non appena ebbe tirato giù la macchina dal vialetto, Bedell aveva scoperto di essersi perso, su strade che non riconosceva più nel buio. Aveva puntato dritto verso le luci brillanti e il rumore del traffico che scorreva tutta la notte sul Ventura Boulevard, ed era invece finito a correre alla cieca. I lampioni della strada principale che cercava lo provocavano mostrandosi ogni tanto dall'altra parte delle case buie. Imprecando e sudando, aveva imboccato un viale d'accesso dopo l'altro, per poi uscirne di nuovo, e l'auto era ricaduta pesantemente sulla strada quando per sterzare era salito su un marciapiede. Lo scossone aveva fatto cascare il braccio del cadavere sulla sua gamba. L'aveva spinto via con una mano mentre teneva la faccia appiccicata al parabrezza, scrutando i prati e le auto parcheggiate che gli scorrevano accanto per cercare un'uscita da quel tratto. Una volta aveva creduto di vedere l'autopattuglia della polizia tagliargli il cammino da una strada laterale più avanti, coi fari che spazzavano le tenebre. Bedell aveva sterzato di botto attorno all'angolo più vicino, distanziandosi dalle luci già lontane e addentrandosi ulteriormente nel labirinto
di strade e case che non gli erano familiari. Quando dal finestrino laterale riconobbe la propria casa, con le tende tirate a nascondere l'interno oscuro, il suo stomaco fu scosso da un'ondata di nausea. Non aveva idèa di quanto a lungo avesse guidato, girando in tondo tra i pochi isolati attorno alla casa; gli erano sembrate ore, con quel peso incastrato davanti al sedile anteriore accanto a lui. Aveva picchiato i pugni contro il volante, col respiro ansimante che sibilava fra i denti stretti, col piede che schiacciava l'acceleratore a tavoletta, evitando per un pelo di sbandare contro un'auto in sosta. E alla fine si era ritrovato, senza alcun ricordo del percorso fatto, come se fosse stato cancellato da qualche circuito nella sua testa, su una strada ben illuminata e attorniato da altre auto in movimento. Alla sua destra spuntarono le lettere bianco su verde che indicavano un imbocco dell'autostrada, così veloci che quasi le oltrepassò. Sterzò di là, con uno stridore di pneumatici, senza curarsi di dove andasse. "Vattene. Solo vattene. Scappa da qui." Un'insegna con frecce e parole gli balenò sulla testa. Alzò gli occhi troppo tardi per leggerla. L'autostrada stava per dividersi, ramificarsi in due direzioni. Non vide più le luci della città, i grattacieli del centro accatastati insieme e sfavillanti, da nessuna parte davanti a sé. "Devo stare andando a nord" pensò. "Attraverso la Valle." Non riconobbe nulla lungo i paesaggi che fiancheggiavano l'autostrada. Gli pneumatici sobbalzarono all'improvviso quando la macchina superò il cordolo che divideva le corsie, mentre lui scrutava oltre il guard-rail in cerca di qualche segno di riferimento. Diede uno strattone al volante, e con uno scarto l'auto schivò il traffico in senso opposto. Tornò sulla corsia giusta, ma le rosse luci posteriori davanti lo abbagliarono: recedevano da lui o gli piombavano di nuovo addosso quando il piede gli scivolava sull'acceleratore, cercando di eguagliare in velocità gli altri conducenti, i cui scuri profili si voltarono a guardarlo dai finestrini. Con la coda dell'occhio, vide qualcosa di bianco fra l'ammasso incastrato davanti al sedile del passeggero, ogni volta che una delle luci dell'autostrada gli lampeggiava sopra la testa. Guardò in basso e vide la faccia di Kinross rivolta in su verso di lui, con gli occhi vacui, annebbiati da una pellicola grigia. I movimenti dell'auto e l'irrigidimento del corpo, col sangue che affluiva nelle parti inferiori, dovevano averla spostata. Non riuscì a ricordare se la testa si fosse ritorta sul grosso collo in quel modo, quando era riuscito a infilarlo nell'auto. Il suono di un clacson gli fece rialzare lo
sguardo appena in tempo per scansarsi di colpo da un camion che avanzava nella corsia accanto. Il volante scivolava, sfuggendogli dalle mani sudate; sussultò di nuovo sul cordolo quando una confusa forma metallica gli passò a pochi centimetri dal finestrino. Un'altra insegna si avventò su di lui, troppo tardi perché potesse fare altro che vedere le lettere bianche illuminate sul cartello verde svanire sottosopra, illeggibili. — Merda... — Si fece sfuggire quella parola fra i denti, mordendosi il labbro. Non riconobbe nulla oltre il traffico che fluiva alla sua destra. Tutto quel che poté dire fu che l'autostrada proseguiva a inoltrarsi nel buio antistante. Qualcosa di caldo gli pizzicò gli occhi. Se li sfregò col dorso della mano, non sapendo se fosse sudore o le proprie lacrime. Poi, sotto il rombo del traffico, udì il fioco sussurro. "Mi piace quando fa scuro." "No..." Il gusto amaro che gli filtrò all'improvviso da sotto la lingua lo nauseò. Percepì, senza abbassare lo sguardo, gli occhi annebbiati che lo guardavano. La bocca doveva essere aperta, lo sapeva, a mostrare i denti gialli di Kinross, con un coagulo sanguigno che gli anneriva la pozza di saliva in fondo alla gola. "È morto." La pelle gli si irrigidì sulle braccia; per un attimo immaginò che il proprio sangue venisse spremuto in goccioline attraverso i pori. "È morto" si disse "continua a guidare, non hai sentito niente, sei solo fuso in testa, continua a guidare, è morto, è morto." Sopra il rumore vorticoso degli pneumatici sul cemento, la sferza del vento, il rombo smorzato del motore, sentì appena fiatare ai margini del suo orecchio. "Bello, il buio." Le luci delle altre auto brillarono di più. Dovette strizzare le palpebre fino a ridurle a strette fessure, per impedire che le confuse strie bianche e rosse gli penetrassero in fondo al cervello. La sua mano tremante riuscì a trovare la manopola della radio sul cruscotto... qualunque cosa era buona per sonorizzare l'abitacolo, scacciare il sussurro quando fosse venuto di nuovo. Vide illuminarsi il quadrante della radio, ma non sentì nulla. Rimase silenziosa mentre girava la manopola, premeva i tasti, armeggiando con la mano su cromo e plastica. — Andiamo... — Chiuse la mano a pugno e picchiò sul quadrante, con le luci davanti che gli ferivano gli occhi piangenti. — Fottuta figlia di troia — singhiozzò forte. "È allora che si può vedere di più."
Il sussurro attirò il suo sguardo in giù, lo distolse dal parabrezza pulsante di luci. La bocca del cadavere era tutta spalancata, la lingua, di un grigio chiazzato di rosso, era gonfia e penzoloni da un lato. Un filo sottile era attorcigliato fra le goffe dita di una delle mani di Kinross. "L'ha strappato via" pensò Bedell. Tornò a guardare il traffico. Quando aveva caricato il corpo in macchina, la mano doveva essersi impigliata nel filo sotto il cruscotto, staccandolo con uno strattone. Ecco perché la radio era muta. "Tutto qui." Le luci gli sciamarono sulla faccia, dandogli le vertigini. Le sue mani strinsero debolmente il volante, appena capaci di tenere la presa. Lasciò che l'auto precipitasse di propria volontà verso l'abisso di tenebre che lo attendeva. Sapeva che avrebbe dovuto attendere finché non gli avessero parlato di nuovo. La riportò indietro dove l'aveva presa. — Ehi, grazie — disse la puttana. In piedi sul ciglio del marciapiede, si sporse dentro il finestrino, tirandosi la cinghia della borsetta più in alto sulla spalla nuda. Dietro di lei, il neon brillante dipingeva le facce di passaggio sul marciapiede, dandogli sempre l'aspetto di maschere. — Sicuro che non c'è nient'altro che posso fare per te? Tyler appoggiò i polsi sulla metà superiore del volante e guardò quelle labbra sorridenti, colme di rossetto. — Di che genere? La sua voce si mutò in un sospiro. Lui chiuse gli occhi mentre ascoltava. — Potrei mostrarti delle cose. — Più piano, come se le labbra lucide fossero proprio al suo orecchio: — Cose che vuoi sapere. Lui aprì gli occhi di una frazione, come se la strada buia, segmentata dalle luci pulsanti, fosse un sogno da cui si stava risvegliando. Attraverso la foschia delle sue ciglia poté vedere il viso pallido di una prostituta d'alto bordo, con la pelle del colore della nicotina di un mozzicone di sigaretta galleggiante in acqua fredda, coi capelli a mezzaluna che le pendevano sulle guance scavate. Poté vedere, poté sapere senza vederlo, che l'hamburger unto e i venti dollari solo per chiacchierare l'avevano lasciata ancora affamata. Affamata e al lavoro. Ma proprio sotto quella faccia, ne poté notare un'altra. Un altro sorriso, con altri denti che si protendevano. In attesa di lui. Scosse la testa, facendo scorrere il volante nella sua presa. — Ci vediamo più tardi.
Lei si era già rizzata in piedi, con la borsetta penzolante sul fianco, percorrendo con lo sguardo tutta la strada. — Certo, amico — disse, senza guardarlo. — Vai pure. Per un momento, mentre guidava, la osservò nello specchio. Poi il traffico la nascose dietro il muro delle luci in movimento. Un sogno; la macchina, come prima, quando aveva chinato il capo di fronte al televisore. Steff si girò sul cuscino a faccia in su, sfregandosi il viso con una mano, come se il sogno fosse una ragnatela che fluttuava lì, nel buio della stanza da letto. Ancora non era riuscita a vedere chi fosse il guidatore. La faccia nera si voltava verso di lei, stagliandosi davanti a luci tutte indistinte e ondeggianti, come in una città subacquea. Guidava e guidava, nel moto al rallentatore del suo sonno. In qualche modo, senza vederla, sapeva che la faccia le stava sorridendo. 14 Le luci erano così brillanti, adesso, che se ne sentì la faccia intorpidita. Bedell lasciò che si abbattessero a ondate contro di lui, tenendosi stretto al volante con le ultime forze per non essere sbalzato via, come un pallone di stracci, e spiaccicato contro il lunotto posteriore fino a scoppiare. Allora anche il suo cranio cavo e prosciugato di ogni pensiero sarebbe esploso nel nulla, e lui sarebbe morto. Non voleva morire; non mentre l'auto stava ancora slittando attraverso la notte così buia, là fuori. La cosa per terra si mosse, come se cercasse una posizione più confortevole in quello stretto spazio. Gli aveva sussurrato per tutto il tempo che era stato a guidare. C'era un trucco per guidare, e lui l'aveva scoperto. Doveva solo lasciarsi andare, lasciare che l'auto procedesse da sola, incorporata nel fiume che scorreva lungo l'autostrada, ovunque andasse, premuto su ogni lato dalle altre auto e dai loro conducenti dai volti oscuri. Non riusciva a distinguere cosa dicesse quell'essere. Parlava così piano, quasi coperto dal suono mormorante del traffico. Ma ora, se avesse ascoltato, se avesse tentato... Dolce, invitante: "Potrei mostrarti delle cose". Esso sapeva. Aveva sempre saputo. Abbassò lo sguardo sul cadavere. Gli occhi nella faccia bianca non erano
più offuscati. Le loro pupille buie si fissarono sul suo volto. "Cose che vuoi sapere." La faccia sembrò dondolare lentamente dentro e fuori dall'ombra, mentre le luci dell'autostrada volteggiavano in alto. Non sapeva quanto a lungo avesse guidato. La droga che si dissolveva nel sangue di Tyler rendeva facile restare in balìa del traffico notturno della strada, bloccato coni'era tra il resto dei veicoli. "Abbastanza facile" pensò, inclinando la testa sullo schienale del sedile. Era come essere al cinema, e il parabrezza sembrava uno schermo su cui fluttuavano le altre auto e facce. Girò il polso per vedere l'ora. Le tre del mattino; parecchio tempo, da quando aveva scaricato la puttana. Un barlume d'inquietudine cominciò a pervaderlo, nonostante le mosse lente e aggraziate causate dalla droga. Il tempo stava per esaurirsi. Lo sapeva; anche su quella strada che sembrava non avere fine, le tenebre stavano per dissolversi. Sarebbe tutto finito col sorgere del sole; la luce si sarebbe condensata come fumo arrossato fra i grattacieli di uffici, e l'aria fresca e sottile della vita notturna sarebbe stata di nuovo risucchiata nelle ombre sotto i palazzi. "Non è ancora venuto" pensò Tyler. "Non ancora." Aveva soltanto intravisto quei piccoli segnali inviati dall'Ospite, i lunghi denti spuntati per una frazione di secondo fra il sorriso smagliante della puttana, una faccia vacua che si era girata lentamente verso di lui dal sedile di un'auto accanto, il riflesso su una brillante vetrina di un'esile figura in giacca scura sul marciapiede, con la maschera scostata di lato per farsi dare una rapida, provocante occhiata... Era così che Gli piaceva giocare. Tyler ricordava. E sarebbe potuto non venire mai. C'era anche questa possibilità. "Capriccioso..." Tyler guardò lungo la strada in movimento, sporgendosi dal finestrino, in cerca dell'indizio seguente. "Quando Lo vuoi, non puoi trovarLo. È questo il patto. Devi attendere che Lui ti voglia." Ammesso che Lo facesse; l'Ospite poteva sempre lasciarlo fuori. Fottuto e solo, nella fredda luce del giorno. Non importava quanto volesse tornare dentro. Nel buio, dove poter vedere. Era così che andava. La strada corse più rapida quando lui premette l'acceleratore, infilandosi nei varchi fra le altre auto. Se la notte finiva, se l'Ospite non fosse venuto... Bryan sarebbe rimasto dentro. Dove Slide stava ridendo di lui, dove non poteva raggiungerlo, non poteva scoprire se suo figlio fosse vivo o morto... Sarebbe rimasto al di fuori, sulla piccola tomba silente con le nette ombre delle palme che vi si arcuavano sopra. Senza sapere cosa, e se, vi fosse se-
polto. "Su, forza..." Si morse il labbro mentre guidava, sapendo che ogni preghiera era inutile. L'Ospite giungeva col suo tempo, ammesso che volesse. Poi l'ondata successiva lo colpì, sgorgandogli dalle budella. Lasciò quasi andare il volante, reclinando all'indietro la testa mentre le punture di spillo gli trafiggevano le braccia più a fondo che mai, quasi fino alle ossa. Udì il canto del suo sangue, più puro, come se le ultime medicine fossero state finalmente evacuate. "Sì..." La bocca gli si riempì del gusto liquefatto della droga. Aprì gli occhi per vedere le luci della strada più brillanti. Si riversavano come schegge di vetro verso l'oscurità al termine della via. Un angelo dalla testa di morto ruotò lo sguardo verso di lui; ogni faccia sul marciapiede lo seguì, e lui poté leggere quel che le loro labbra immobili stavano dicendo. "Ma certo, certo..." Come poteva aver dimenticato? Ecco dove sarebbe stato Lui. Lì, fra tutti i posti. Tyler annuì, sentendo il peso della saliva amara raccogliersi sulla lingua. Raddrizzò la testa penzoloni, ancorò al volante le braccia formicolanti, e fece svoltare l'auto in una delle buie vie laterali. Avrebbe dovuto rifare tutta la strada fino all'altra parte di Hollywood. Ma ora sapeva dove stava andando. Ora c'era tempo in abbondanza. Il parcheggio dello studio era vuoto quando vi arrivò. Tyler si introdusse attraverso il cancello metallico e si avviò verso la porta di vetro. All'interno non c'era nessuno in vista, e la sedia dietro il banco della reception era vuota. Solo le luci sul soffitto, nel corridoio più oltre, erano accese. Non importava; premette il tasto sotto la griglia del microfono. Un momento di silenzio, poi la voce di Ken uscì gracchiando dall'altoparlante. — Sei tu, Mike? Si fece più vicino alla griglia. — Già. Sono io. Fammi entrare, Ken. — Come no. — Poté captare il sorriso nella voce dell'altro, che giungeva via cavo dalla sala registrazione sul retro. — Sapevo che saresti venuto. — Mentre Tyler ascoltava, la voce cambiò, si fece più bassa e più furba. — Ti stavo aspettando. La serratura ronzò e la porta di vetro cedette sotto il palmo della mano. Si chiuse dietro di lui mentre attraversava l'atrio vuoto, fra il sussurro dei condizionatori d'aria, col mormorio del traffico stradale sigillato all'esterno. Non poteva continuare a guidare più a lungo. Bedell lasciò accostare la Mercedes al ciglio dell'autostrada, strisciando contro il guard-rail, e si fer-
mò. Il motore tossì e si spense. A bocca spalancata, inghiottì aria nei polmoni palpitanti, sentendosi affondare nel sedile zuppo di sudore. Non più in movimento attorno a lui, la notte incombeva plumbea oltre il parabrezza. Sapeva che era molto più tardi adesso, e il traffico che gli scorreva accanto si era ridotto a un esile flusso di fari. Esaminò attento la cosa incastrata davanti all'altro sedile. Per tutto il percorso fin lì gli aveva parlato, sussurrando, con fioche parole che le scivolavano dalla bocca, come se i denti ingialliti di Kinross stessero macinando il grumo sanguigno che gli occludeva la gola. Una macchia di sangue era penetrata nelle fibre degli abiti, e il suo orlo umido strisciava in su fino al pomello del cambio. Anche la sua gola era infiammata, il gusto amaro si era mutato in un acido che gli corrodeva la carne dall'interno. O forse era il sale delle lacrime che i suoi occhi versavano fino a prosciugarsi, ogni volta che i fari, pugnalandolo come lame di coltello, continuavano a sciamare verso di lui a coppie, ad avergli riempito e sommerso la bocca come un oceano. "Mi dispiace" Bedell sentì la propria voce dire fra sé. "Mi dispiace. Mi dispiace..." Non riusciva a rammentare ciò che la cosa gli aveva detto. Restava solo il ricordo delle parole che gli rimbombavano nel cranio mentre guidava, con la faccia bianca che si illuminava ai margini del campo visivo ogni volta che un lampione sfrecciava in alto. In qualche modo la cosa si era messa in ginocchio, e il sangue le colava sugli scoloriti calzoni marrone. Aveva temuto il momento che sapeva sarebbe giunto... avrebbe prima sentito il morbido tocco di quella mano sulla gamba, poi visto la cosa raddrizzarsi, alzarsi per accostare la faccia al suo viso. Allora il suo urlo avrebbe fatto vibrare il parabrezza strappandogli dalla gola fino all'ultima striscia di pelle, sprizzandogli di sangue tutta la lingua... Ma il tocco non era venuto. Premette la fronte calda contro il volante. Gli occhi brillanti della cosa accucciata sotto il cruscotto, lo sapeva, erano ancora inchiodati su di lui. Ora, con l'auto ferma e silente intorno a loro, ci fu abbastanza silenzio da distinguere il suo sussurro. Il sorriso, che lasciava i denti scoperti. "Ti stavo aspettando." Parte di lei sapeva che stava sognando e voleva destarsi. Ma Steff non poteva; era ancora nell'auto, anche se sentiva il cuscino caldo, madido di
sudore, premerle contro la faccia. Ancora lì, con le lente, sommerse luci della strada oltre il parabrezza che la sfioravano. Dietro il volante, il sorriso di quella faccia nera si fece più largo. Non poteva neanche vederla, ma sapeva che era lì, come un buco in cui fosse caduta la sua mano, facendole sentire cosa c'era dentro. I denti si aprirono, ed essa le parlò a bassa voce. "Ci siamo quasi." Fu come se la sua risata le lambisse l'orecchio mentre voltava la faccia dall'altra parte, verso il parabrezza nero, contro il cuscino. Dal corridoio entrò in sala di registrazione. Nel buio, Tyler poté distinguere gli schienali dei sedili vuoti, con la peluria del velluto circonfusa da una frangia di blu. Lo schermo scuro sembrò una bocca spalancata a fissarlo. — Hello, Mike. In cima al corridoio coperto dal tappeto, si voltò e vide Ken seduto dietro il banco di registrazione. Il chiarore di una delle piccole lampade a becco curvo gli scolpiva le ombre sulla faccia, mentre un angolo della bocca si inarcava, soddisfatto. Tyler respirò la fredda aria filtrata, in ascolto del sussurro quasi coperto dal ronzio dei macchinari nascosti. "Vicino..." Lo poteva sentire, e le braccia gli si irrigidirono coi muscoli pieni di sangue chimico. "Ci siamo quasi." Riuscì a sfoggiare anche lui un sorriso, alla vista del suo vecchio compagno ("giusto, giusto" sentì la propria voce metterlo in guardia "faglielo credere"), come se il fardello di oscuri ricordi che condividevano gli fosse uscito di mente, sprofondando nel vecchio sanguinoso passato di entrambi. "Devi scoprire, devi sapere." — Che succede? — disse calmo. Ken rise, rovesciando la testa oltre il cerchio di luce. — Non lo sai? — disse, tendendosi di nuovo in avanti. Lui rimase silente, a osservare l'altro. Gliel'avrebbe detto l'Ospite. E l'Ospite si fece sentire, per bocca di Ken, tranquillamente: — Ora potremo spassarcela un po'. Tyler annuì, immobile e con gli occhi chiusi. Scintille di luce blu avvamparono anche in quelle tenebre. Ora erano tutti dentro, lo sapeva. Finalmente. Erano tutti dentro di nuovo.
Per un momento lei non seppe se stesse ancora sognando o no. Steff giacque nel letto, gli occhi chiusi nell'oscurità, con la guancia pressata contro il cuscino scaldato dalla sua pelle. Ricordava di trovarsi in un'auto in corsa, ma non poteva rammentare dove; era stato tutto buio, e la gola le si era irritata per aver gridato il nome di qualcuno. "Dev'essere stato questo" decise. "Un sogno." Lasciò che quelle immagini confuse e frammentarie svanissero, passandole già di mente. Sentì il peso della sua testa sulla mano sotto il cuscino, la stoffa del lenzuolo contro il palmo. Lieta di essere a letto, e non in quella strada buia che fluiva attorno all'auto mentre lei cercava freneticamente l'orizzonte, un fine orlo blu che si allontanava da lei man mano che la macchina vi si dirigeva, come se fosse in qualche modo sopra di lei e lei vi stesse cadendo... Più che mezza addormentata, sospesa proprio sul punto di abbandonarsi di nuovo, ma libera dai sogni stavolta, ascoltò i suoni notturni fuori dall'appartamento, che sembravano due volte più distanti. Era buio... capì che non sarebbe cambiato nulla anche se fosse riuscita ad aprire le palpebre pesanti... e abbastanza tranquillo, quindi seppe che mancava ancora molto al mattino. Ora che il cuore non le correva più in petto come nel sogno e il respiro aveva smesso di pesarle in gola come una pietra, era meglio così che svegliarsi come al solito, al trillo della sveglia puntata un quarto d'ora in anticipo, e poi rivoltarsi e raggomitolarsi nel lusso di quei minuti di semincoscienza prima di doversi alzare assolutamente. Quello era un piccolo rifugio fuori dal tempo, un caldo intervallo ritagliato nel quadrante di un orologio senza lancette. In più Mike era a casa. Era bello... attraverso il torpido peso del sonno poter sentire i suoni soffici e familiari, un respiro nella quiete della stanza, e lui che si muoveva nel buio accanto al letto. Si spogliava sempre con la luce spenta, in modo da non svegliarla. I suoi piedi già scalzi sul tappeto, i bottoni che scivolavano attraverso i buchi nella stoffa mentre si toglieva la camicia, il fruscio del tessuto rigido mentre piegava i jeans sulla sedia accanto alla porta dell'armadio. Suoni che aveva udito così tante volte prima... La preoccupazione aveva reso lento a venire il sonno quella notte, nonostante fosse stata incapace di impedire alla testa di crollare sui libri. Forse era da lì che era venuto il sogno... si aggrappò ai pochi filamenti che ancora ne restavano, cercando di ricordare se avesse chiamato il nome di suo figlio o quello di Mike, nell'immensità oscura. "Non importa" pensò, e la-
sciò quell'idea allontanarsi fluttuando. L'importante era che lui fosse tornato, fuori dalla notte. Ecco il timore che le si era appiccicato, senza poterselo scuotere di dosso, anche mentre svolgeva i soliti rituali di cenare e mettere Eddie a dormire, e finalmente seguirlo. Che lui non facesse ritorno; che, una volta svegliatasi, non l'avrebbe mai più trovato lì al suo fianco... almeno per un'altra notte quella paura era scomparsa. Un muscolo teso che le serrava il giunto fra collo e schiena si sciolse; il letto intorno le sembrò più soffice e caldo. Si rese conto che stava per ricadere a dormire, in pochi secondi strappati alla semincoscienza, quando sentì Mike scivolare nel letto, il lenzuolo alzarsi dalla sua parte e il materasso curvarsi sotto il suo peso. La lieve concavità ("la rete del letto" pensò assonnata "ce ne vuole una nuova") le rese facile rotolarsi indietro sul suo petto, tirando in su le gambe per adagiarsi ad angolo in grembo all'uomo. Rannicchiò la nuca contro di lui. Era bello, e si abbandonò sempre più in balìa del sonno. "Dev'essersi fatto fresco fuori..." Una parte di lei, l'ultimo frammento a seguire il resto nel buio, restò un momento perplessa quando il palmo di Mike le carezzò la coscia, alzandole l'orlo della fine camicia da notte di cotone per posarsi sul fianco nudo. La sua mano era fredda come il ghiaccio. Lasciò svanire nel nulla quel pensiero. Infine, appena prima del sonno completo, vide un'ultima immagine del sogno da cui si era destata. Lo stesso orizzonte era inciso in blu nelle tenebre, e lei stava ancora cadendo. Ma qualcosa si stagliava all'orizzonte nel mezzo: una figura, un profilo umano, senza lineamenti e nera come il buio circostante, immobile mentre lei le precipitava sempre più vicino, incapace di fermarsi. Si strinse di più contro Mike, e un brivido le passò fra la schiena e il petto di lui, come se il tepore del letto fosse evaporato. — Sali quassù, Mike. Ti piacerà. Era rimasto in piedi nel corridoio con gli occhi chiusi, ancora in ascolto dell'altra voce che aveva sentito dietro le parole di Ken. Tyler aprì gli occhi e vide Ken, con le mani che si muovevano sulla consolle di registrazione. Oltre le file di poltrone vuote, camminò fin nell'area di controllo delimitata dalle pareti di attrezzature e monitor spenti. Si portò dietro Ken, mettendo le mani sul poggiatesta della sua sedia. — Siete tu e Slide — disse Tyler a bassa voce. — Non è vero? Siete voi due. Ken finì di infilare un nastro in una bobina e volse di nuovo lo sguardo
su di lui. — Siamo tutti noi, Mike. Il gruppo intero. — La luce emessa dalla piccola lampada fece risaltare il suo sorriso. — Hanno cercato di ucciderci. Hanno cercato, ma non potevano. — Premette un bottone sul banco e il nastro iniziò il suo percorso attraverso il congegno. Uno degli schermi sulla parete ebbe un guizzo di vita, e Tyler colse con la coda dell'occhio le figure ondeggianti in bianco e nero. — Ora stai cercando di rifondare il Gruppo. L'espressione dell'altro si fece ancor più felice. — Non devo nemmeno provarci. È rimasto sempre lì. — Indicò lo schermo. A Tyler occorse qualche secondo per distinguere cosa fosse. Per un momento, mentre guardava lo schermo, la sua retina non riuscì a notare nulla, se non forme irregolari che si muovevano sotto un'illuminazione rozza e dilettantesca. Poi riconobbe le facce. Si chiese se alla fine avrebbe visto la propria là in mezzo. Ken si era chinato in avanti, frugando in una cartella di cuoio ai suoi piedi ed estraendone altre piatte scatole quadrate. — Così li hai tenuti tu — disse Tyler, osservandolo. — Tutti i vecchi nastri di Wyle. — Documenti storici, amico. — Alzò lo sguardo, sogghignante. — Reliquie. Ho dovuto nasconderli... per lungo tempo. Ma non li avrei mai distrutti. — Una luce diversa, ardente, gli si accese in faccia. — Erano tutto quel che avevo. Finora. — Fino al ritorno di Slide — disse Tyler. Ken annuì. — E di te. E del ragazzino. È lui la chiave... possiamo far tornare tutto come prima. Con lui. — Il suo sguardo si spostò oltre Tyler, verso lo schermo video. — Guarda. Si voltò e vide il viso di una ragazza riempire lo schermo. La riconobbe da una delle foto nel libro di Bedell; una delle vittime. C'erano mani attorno alla sua faccia, come se la gente attorno a lei, oltre i bordi del fotogramma, stesse cercando di rassicurarla e lenire il terrore, carezzandole la fronte e i capelli lunghi. Un'altra mano, grigia, col grigio più scuro di un coltello nella sua stretta, sorse dal fondo dello schermo e tracciò una linea nera lungo la gola della ragazza. Il nero sgorgò lucido, imbrattando le mani tutto attorno mentre la bocca della ragazza si spalancava in un urlo non registrato. Lo sguardo di Ken era fisso a osservare. I riflessi in bianco e nero gli coprivano la faccia, vi si agitavano sopra. — Proprio come allora — sussurrò.
Guardò la cosa rannicchiata al suo fianco. Aveva ancora la faccia di Kinross, ma l'altra, la cosa che rideva, si stava muovendo dietro gli occhi che osservavano avidamente. Forzava la gola a comporre parole con quei denti gialli e smussati. La testa di Bedell ciondolava debolmente sul collo, incapace di strappare lo sguardo dal pallido sacco di carne che apriva e chiudeva la bocca, rivelando il liquido rosso all'interno. Poteva sentire il puzzo del suo fiato riempire la Mercedes, mentre gli intestini marcivano, ripieni del bolo di cibo da quattro soldi. Lo stesso sudore che gli imperlava la faccia aveva assorbito quell'acre odore; poteva sentirne il gusto quando gli gocciolava agli angoli della bocca. Le mani della cosa, piegate ad angoli irregolari contro la cavità inguinale, erano premute sul tappetino macchiato. Il cranio chiazzato di Kinross assunse una sfumatura azzurra quando i lampioni dell'autostrada illuminavano il parabrezza, mentre la cosa al suo interno levava la faccia infossata verso Bedell. Si fermò quando i suoi occhi e quelli di Bedell non furono più che a pochi centimetri, uniti come da un filo teso. Doveva ascoltare quel che diceva. Non c'era modo di evitarlo. La bocca si schiuse nel suo sorriso contorto. Così vicino, Bedell poté vedere muoversi la lingua, tirando un filamento di saliva rosa. Il sussurro. "Ora potremo spassarcela un po'." — No... — Rabbrividì, e la sua spina dorsale ebbe una contrazione fra le scapole mentre si pigiava nell'angolo fra sedile e sportello, sforzandosi di allontanarsi dalla cosa. Schiacciò la guancia contro il freddo vetro del finestrino laterale, e intanto cercava di tenere la faccia a distanza con le mani tese. — Non volevo, mi dispiace, mi dispiace... Le sue palme affondarono nella carne soffice e cedevole, le dita tremanti si spinsero nelle fenditure degli occhi. Il freddo di quella pelle gli diede una scossa su per le braccia, come ghiaccio. Una scintilla di pensiero, non intorpidito dalla droga, gli baluginò nel cervello. — È morto — bisbigliò a se stesso. — Ti sei fottuto la testa, non è per davvero, è morto, non può... Sotto le sue mani le labbra si aprirono, tracciandogli un filo di saliva gelida sulla pelle. Ritrasse le mani di scatto, cercò a tentoni la maniglia d'apertura mentre la faccia della cosa gli ricadeva sulle cosce. La portiera cozzò all'esterno contro il guardrail d'acciaio, e lo fece rimbalzare di nuovo sul sedile. C'era
spazio appena sufficiente, un'apertura di una ventina di centimetri, perché lui vi si spremesse attraverso, con un gemito quando l'orlo dello sportello gli lacerò la camicia sullo stomaco. L'aria fredda sul suo viso, e i fari in avvicinamento che gli abbagliavano gli occhi; si ritrovò a correre, barcollante, coi piedi che facevano schizzare la ghiaia sul bordo dell'autostrada. Si fermò, si piegò in due, ansimando in cerca di fiato, tenendosi al guard-rail per impedirsi di cadere. Quando i polmoni smisero di bruciargli, si guardò alle spalle e vide la Mercedes, con lo sportello accostato, qualche metro dietro di sé. Niente era visibile attraverso il lunotto posteriore, come se l'auto fosse vuota, abbandonata. Scosse la testa, cercando di schiarirsela. Il traffico ormai scarso gli permise di distinguere il rombo improvviso di ogni macchina che passava. Gli effetti della droga sembravano essere scemati di nuovo, lasciandolo tremante ma in grado di costringersi a riflettere e agire. Non aveva idea di dove fosse, di dove l'auto si fosse diretta nel suo confuso tragitto. Poteva solo ricordare le autostrade dipanarsi di fronte a lui, le luci che gli straziavano gli occhi, il bisbiglio che udiva venire dal cadavere incastrato davanti al sedile. Dando le spalle alle corsie dell'autostrada, si aggrappò al guardrail con entrambe le mani e vi si chinò sopra. Un pendìo di ghiaia ed erbe secche scendeva fino a un letto di cemento asciutto, che aveva una fioca tinta argentea nel buio. Un nero rivolo d'acqua fangosa fluiva lungo il canale, al centro. Aveva già visto quel posto prima. La memoria lo stuzzicò. Un sacco di volte... Gli venne in mente la stessa scena alla luce del giorno, vista sfrecciando oltre il parabrezza dell'auto. Allora capì. Si voltò e vide oltre l'autostrada le nere sagome delle colline, coi bordi frastagliati delle macchie d'alberi. E oltre la curva delle corsie, oltre le chiazze rosse dei fanali posteriori che si allontanavano e la Mercedes vuota a lato, osservò in lontananza un tappeto di luci scintillanti. Si era diretto di nuovo verso L.A. Aveva girato in cerchio, senza andare da nessuna parte, fra le insegne confuse, troppo veloci perché lui le leggesse, con le corsie davanti che si aggrovigliavano e torcevano, e la cosa al suo fianco che bisbigliava e sorrideva. E ora non c'era più tempo. Non c'era tempo per andare nel deserto, sbarazzarsi del corpo, trascinarlo giù dall'auto nel buio dove nessuno potesse vederlo, lasciarlo dove nessuno l'avrebbe mai trovato. Era troppo tardi a-
desso; anche quella notte, lo sapeva, sarebbe finita prima o poi. Voleva mettersi a correre, riempirsi i polmoni con l'aria notturna, e a ogni respiro allontanarsi di un passo dalla macchina e dalla cosa lì dentro, e continuare a correre. "Ma poi lo troveranno" si disse, stringendo il guard-rail. Al mattino, una pattuglia autostradale si sarebbe fermata accanto alla macchina vuota, e gli agenti sarebbero scesi per guardare all'interno. Non avrebbero trovato nulla che si muovesse o sussurrasse, solo il corpo di un morto, con le impronte delle mani di Bedell ancora attorno alla gola. "Ecco quello che scopriranno." Guardò di nuovo la macchina, che i fari lungo la corsia illuminavano per brevi attimi mentre sfrecciavano oltre. Lentamente, si staccò dal guard-rail e si incamminò di nuovo verso di essa. Le scatole vuote dei nastri si sparpagliarono per terra mentre Ken infilava le bobine sulle consolle. Una luce grigia inondò la sala controllo man mano che su ogni schermo riapparivano le forme e i gesti del passato. Proprio in mezzo agli schermi, si girò su se stesso, levando in alto le mani sotto la pioggia di immagini simultanee. — È rimasto sempre lì — disse, con voce carica di fervore. — Sempre... Tyler appoggiò la schiena al banco. Il sibilo dei nastri che scorrevano sulle testine degli apparecchi video si combinava con un sentore metallico che pervadeva l'aria. Dietro Ken che piroettava lentamente poté vedere dei coltelli, bagnati di nero sangue luccicante sulle lame. "Proprio come allora." Le parole continuarono a risuonargli nella testa, in sincrono coi nastri che si svolgevano, finché non fu preso dalle vertigini. Tese una mano dietro per tenersi al banco e impedirsi di cadere. L'altro si avvicinò di qualche passo a uno degli schermi sul muro, stupito delle meraviglie che mostrava. Il riflesso grigio sovrappose l'immagine di un'altra faccia alla sua. L'immagine si contorse nell'urlo di una bocca spalancata, anche se sotto si vedeva il sorriso di Ken, che allargava le mani per toccare dolcemente il cinescopio di vetro. — È più forte — disse, in brodo di giuggiole. Il suo sguardo saettò verso Tyler. — Lui è più forte. Tutto questo tempo... È rimasto a crescere. In attesa che noi tornassimo a Lui. Non potranno più fermarci adesso. Tyler sentì il gusto amaro sgorgargli sulla lingua di nuovo. La luce degli schermi si fece più brillante, abbagliandolo, formando una scena, un'immagine confusa. I coltelli si annerivano conficcandosi attorno alla figura
dell'altro, come se avessero lacerato il vetro come cellophane e trovato la carne viva ad attenderli nella realtà. "È vero" pensò Tyler. Lo sapeva dentro di sé. Era questo che i farmaci avevano nascosto, tenuto celato dove non potesse accorgersene. Non era mai svanito... l'altro mondo, quello oscuro, la mente collettiva che la droga aveva creato dentro di loro. Aveva proseguito a scivolare nei loro flussi sanguigni, accumulando potere, in attesa del suo momento. Il momento di Lui. — Me l'ha detto Slide... — La voce di Ken continuò con veemenza, entusiasta. — È venuto, e me l'ha detto. Mi ha detto come potevamo farlo, riportare tutto com'era. Per mezzo di quel ragazzino... ecco come. Il ragazzino è il modo... Tyler chiuse gli occhi davanti al diluvio di luci brucianti. "Proprio come allora..." O peggio. Ora l'Ospite era ancora più forte. Era stato in attesa per un lungo tempo. Ora la notte sarebbe stata ancora più fonda, le strade buie si sarebbero susseguite ancora e ancora, senza fine. Il sussurro: "Potrei mostrarti delle cose." La lingua gli si arricciò in bocca, con sopra il forte gusto medicinale. "Cose che vuoi sapere." Bryan. Intorno a lui, i nastri continuarono a svolgersi attraverso i macchinali, e Ken a voltarsi da uno schermo all'altro, con le faccia e le mani alzate per immergersi nel loro freddo bagliore. Dentro la Mercedes, il cadavere di Kinross giaceva ripiegato nella posizione in cui era riuscito a ficcarlo laggiù a casa. Niente si muoveva dietro gli occhi velati, la bocca ciondolava in un pigro silenzio. Bedell smise finalmente di trattenere il fiato, mentre si teneva allo sportello per sorreggersi. "È finita" pensò, a occhi chiusi. "È solo morto, ecco tutto, è morto." Sapeva che non poteva rimettersi in auto e guidare di nuovo fino a casa con quella. Anche se fosse riuscito a far ritorno senza che nessuno lo vedesse, prima che venisse il mattino, aveva ancora da aspettare l'indomani notte, e tutte le notti seguenti. La cosa che sussurrava dentro il cadavere avrebbe aspettato anch'essa. Se lo scaricava lì, nei folti cespugli di fianco al fiume secco, gli avrebbe lasciato un po' di tempo, almeno. Dal momento del ritrovamento fino al-
l'attimo, il giorno, l'ora, in cui l'auto della polizia sarebbe inevitabilmente giunta alla porta di casa con qualche domanda che volevano fargli... Un po' di tempo. Tempo per guidare. Era tutto quello che gli occorreva. La macchina lo riparò dalle luci e dagli occhi che passavano sull'autostrada. Si infilò nello stretto varco della portiera e raggiunse le braccia del cadavere. Si innalzarono sulla sua testa mentre lui lo strattonava, sforzandosi di issare il corpo sopra i sedili. Un gomito si incastrò in un angolo del cruscotto, poi venne via. Il cadavere piombò a faccia in giù, con la nuca sotto il volante, e i piedi aggrovigliati assieme dove si era acquattato. Bedell ansimò, e gli si annebbiò la vista per lo sforzo di tirare quel peso inerte senza nulla su cui far leva. Si puntellò contro il fianco della macchina e tirò di nuovo. Testa e braccia scivolarono attraverso l'apertura, ma le spalle massicce e il torace si incastrarono solidamente fra i bordi. — Merda... andiamo — La faccia vacua lo guardò a bocca aperta mentre girava il corpo su un fianco, senza alcun vantaggio. La bocca gli si accostò all'orecchio quando Bedell si inginocchiò sulla ghiaia e infilò il braccio sopra il torace del morto, brancolando in cerca della maniglia del finestrino. Scattò indietro quando le fredde labbra gli toccarono un lato della faccia. ("Il sussurro, il sangue rosso in gola, le fievoli parole.") Il suo respiro frenetico si era quasi rotto in singhiozzi quando le dita fecero finalmente presa. Una volta abbassato il finestrino fino in fondo, tirò fuori il proprio braccio e mise le mani e una spalla sotto il cadavere. Un braccio di Kinross gli penzolò sulla schiena mentre lo tirava su attraverso il bordo. Il morto restò appeso lì, mezzo dentro la macchina, con la bocca ancor più spalancata nella faccia capovolta. Affondando le mani nelle pieghe marronee delle sue ascelle, Bedell diede un nuovo strattone, trascinando il corpo in cima allo sportello. La ghiaia gli scivolò sotto i piedi proprio mentre il cadavere si era liberato fino alla vita; e Kinross gli ruzzolò addosso facendolo cascare all'indietro. Lei emerse dal sonno... in parte, in uno stato rilassato, fluttuante... e scoprì che era ancora fra le braccia di Mike. Nella stessa posizione in cui si era abbandonata, con la schiena contro il petto. Lui aveva fatto scivolare un braccio fra il suo fianco e il letto, così da poterla completamente cingere con l'altro. La camicia da notte si era ora ritirata fin sotto le sue braccia; le mani di lui erano chiuse a coppa sui seni, attirandola contro di sé.
"Bello" pensò lei, con un mezzo sorriso. "Bello così." Come una gatta, curvò la schiena, rannicchiandosi a palla nella zona calda delimitata dalle coperte. I soffici peli ricciuti delle gambe di Mike le sfiorarono il retro delle cosce quando lei gli si strusciò più vicina. ("Un breve lampo di memoria, come luce spremuta sotto le palpebre. La prima volta che erano andati a letto insieme... era stato tanto più dolce del padre di Eddie, l'ultimo fino ad allora, e più gentile. Ed era seguito il sollievo di trovarsi in quella posa, tutta calda e schiacciata contro il suo petto; lei aveva abbassato una mano e gliel'aveva fatta scorrere fra le gambe, coi peli umidi che le si intrecciavano fra le dita.") E adesso erano in quella stessa posizione di nuovo. La mano di Mike si mosse sui suoi seni, e i capezzoli si irrigidirono sotto le dita. Lei inclinò il capo indietro, lasciando che i capelli sciolti gli si aggrovigliassero attorno alla gola; lo stuzzicò sfiorandogli le spalle sul petto, e con un dolce, assonnato sospiro. Lui non mostrò reazione, ma una mano si spostò in giù, solcandole il ventre trepidante. Era la prima volta da quando la foto era apparsa sul giornale... la foto di quella. ("Un altro lampo di memoria, ma non seppe dire da dove venisse; come se stesse di fronte all'ex moglie di Mike, più vecchia che nella foto, seduta dall'altro lato di un tavolo in una stanzetta, con qualcuno che li osservava parlare... sfregò la guancia contro il cuscino per liberarsi di quell'immagine.") Forse ora questo era tutto finito. Ecco che significava ciò... la nuova attenzione che le riservavano le mani di Mike, muovendosi fra le cosce per aprirgliele. Tutto il resto poteva ripiombare nel passato cui apparteneva. Arcuò la spina dorsale, con in bocca un filamento dei propri capelli che le formavano una ragnatela sul lato del viso, e lasciò che lui la sollevasse di più sopra di sé. La mano di Mike trovò il calore che le si dissolveva in liquido in mezzo alle gambe, mentre lei tirava su le ginocchia, prendendolo dentro. I suoi lievi movimenti e il respiro presero lo stesso ritmo di lui. Le piaceva ("bello, sì") quand'era mezza addormentata in quel modo e tutto sembrava un sogno, come cullarsi su lente onde per sempre. La mano tesa da dietro per carezzarle il seno lo spremette più forte. ("Un'altra immagine, non un ricordo... sapeva di non averlo mai visto prima: uno spazio buio scavato nella terra. Sentì sotto di sé non il soffice e caldo letto, ma sabbia dura e i bordi di pietruzze che le penetravano nella
pelle nuda.") — Mike... — bisbigliò, torcendosi contro di lui. Poteva appena respirare, sia perché schiacciata dalla stretta dell'uomo, sia per la sensazione che, nell'oscurità della stanza, un soffitto di ruvido cemento la stesse premendo in basso, vibrando con un rombo smorzato che filtrava giù da ancora più sopra. Un acre odore di marciume le riempì le narici. La sua nuca si abbatté al suolo, e i bordi delle pietre gli si conficcarono nel cuoio capelluto. Sopra di lui, il peso del cadavere gli opprimeva il torace. Aveva qualcosa di umido appoggiato al viso. Quando aprì gli occhi, vide la faccia di Kinross, la bocca inerte vicina alla sua. Con le mani lottò contro il corpo, le cui braccia ricaddero da ogni lato come per abbracciarlo. Nella sua bocca, sgorgò qualcosa di amaro che coprì il gusto salato del proprio sudore. La cedevole, umida pelle della faccia di Kinross prese a strofinarsi contro la sua. Poté vedere i suoi occhi. Erano di nuovo limpidi, e le pupille nere fissavano le sue. Prima di poter udire il sussurro, prima che la bocca potesse aprirsi ed emettere altre parole fioche, lui stava già gridando, picchiando i pugni sul petto del cadavere. Per sfilarsi da sotto il corpo arrancò all'indietro, coi gomiti che scavavano nella ghiaia, ma Kinross lo trattenne, con le braccia aggrovigliate alle sue. Sotto il guard-rail, la ghiaia cedette al loro peso. La parte di Bedell che poteva ancora percepire qualcosa... tranne l'urlo che gli lacerava la gola... sentì di cadere in giù fra i cespugli. Anche le luci dell'autostrada furono oscurate dalla forma che lo stringeva come in una morsa. Le stava facendo male. Le sue mosse scatenarono d'improvviso un dolore lancinante nel profondo di lei. — Mike... ti prego... — Non riuscì a separarsi da lui; le mani la strinsero più forte, inchiodandola contro di sé. — Fermati... Poi furono nel posto buio, non una fugace visione come prima, ma proprio lì dentro, corpi premuti insieme che artigliavano il pavimento di terra della cavità. Il fetore di cibo guasto e abiti non lavati si fece soffocante mentre lei respirava a piccoli ansimi. Il cemento sovrastante le incombeva addosso, a pochi centimetri dalla faccia, mentre ogni spinta le sbatteva la nuca contro il petto di lui. Poté sentirli osservare, gli occhi che brillavano e gli altri.
Da qualche parte, vicino, un bimbo stava piangendo. La sua vocina sottile si mischiava ai lamenti di lei, riecheggiando sotto il suono rombante del cemento. — Mike... fermati... — Torse il capo di lato per vederlo in faccia. Nelle tenebre, i denti aguzzi furono visibili mentre diventavano lunghi come coltelli, e il sorriso alle sue spalle si faceva più largo. Le immagini sugli schermi gli martellavano la faccia. Nella bocca di Tyler, il gusto amaro era così forte da nausearlo. Aggrappato al banco, distolse lo sguardo dai video e da Ken che si agitava in mezzo. Oltre i sedili, il grande schermo non era più vuoto. Poté vedere cose muoversi anche là sopra. Il sorriso dell'Ospite, coi denti aguzzi, balenò fra un groviglio di capelli neri sciolti. Un volto di donna, un frammento sfocato; poté quasi ricordarsene... ma non veniva dai nastri, non dal passato. L'eco del suo urlo giunse da oltre le pareti dello studio. Lo schermo sbiadì, l'immagine cambiò mentre osservava. Vide la faccia di Kinross, ma le grosse mascelle coperte di peluria nera erano immobili e chiazzate di sangue. L'anziano poliziotto era morto, capì. La faccia era riversa di lato, graffiata dai cespugli secchi, e un paio di mani di qualcun altro ancora vivo la spingevano via per tenerla lontana. Poi poté sentire il grido di un uomo dalla gola rauca. Il grido svanì, rimpiazzato dal silenzio, mentre Tyler sentì venirgli di nuovo la pelle d'oca lungo le braccia. Inclinò la testa per sentire le parole sussurrate. "Ora siamo di nuovo tutti insieme." Il sussurro era così vicino. Pareva quasi... Più basso, rivolto proprio a lui: "Non è vero?". Alzò gli occhi allo schermo e vide le oscure sagome delle palme, che oscillavano contro il cielo notturno. Il fuoco blu delineava ogni fronda, e le loro ombre sull'erba nera che si stendeva davanti a sé. Lì. Avrebbe dovuto saperlo. Sempre lì. La sedia cadde accidentalmente per terra quando lui la spinse da parte. Dirigendosi verso la porta, coi piedi che si gettavano a correre, vide Ken carponi su mani e ginocchia, che levava il volto rapito verso gli schermi ardenti. Sentì il cadavere gettargli la mano sulla faccia, e una delle tozze dita gli
si infilò quasi nell'occhio. Le erbe secche scricchiolarono sotto Bedell mentre il cadavere rotolava con lui lungo il pendìo. La faccia oscurò le stelle sopra di lui, e la mano gelida gli coprì il naso e la bocca. Il peso gli scacciava l'aria dai polmoni. Per un momento, i denti appuntiti si fecero più grandi, riempiendo il cielo turbinante. Poi scomparvero nel buio, con tutto il resto. Mentre col suo ultimo respiro gettava un urlo, fu inondata di luce. Si rotolò sulla schiena, alzandosi dal letto con una spinta delle mani. Le coperte caddero giù, in un mucchio; non c'era nessuno al suo fianco. Eddie stava in pigiama sulla soglia della camera, abbassando la mano dall'interruttore. — Mi hai svegliato — disse accusatore. Con l'altra mano si strofinava l'angolo di un occhio. — Stavi gridando. Lei si tirò subito giù la camicia da notte, per coprire la chiazza umida in cima alle cosce. Lentamente riprese fiato mentre passava la mano tremante fra il groviglio dei suoi capelli fradici di sudore. Lo sguardo le scese sulla metà vuota del letto, accanto a lei. Non c'era nemmeno l'impronta di un altro corpo visibile sul lenzuolo. Guidando Eddie per mano, lo riportò nella propria cameretta. — Per cosa stavi gridando? — domandò lui assonnato, accigliandosi mentre lei gli tirava le coperte fino al mento. — Shh. Niente. Niente di niente. — Aveva ancora un tremore alle mani quando gli scostò i capelli dalla fronte. — Solo un brutto sogno. Anche le mamme li fanno, sai. — Il cipiglio si rilassò solo in parte mentre lei lo guardava cadere addormentato. Non tornò più in camera da letto. In cucina, controllò l'orologio a muro. Mezzanotte era passata da ore; Mike non era tornato dopo aver chiuso il cinema. Riempì la teiera e aspettò che bollisse, sedendosi a tavola e tenendosi stretta la camicia da notte, a braccia conserte. Non c'era senso a cercare di dormire di nuovo. Aveva ancora davanti l'immagine del sogno... i lunghi denti che sorridevano dove avrebbe dovuto esserci il viso di Mike. ("E quel pezzo di terra e cemento, con gli occhi che osservavano... dov'era? In qualche luogo dove non era mai stata... sembrava la visione di un estraneo sovrapposta alla sua, come una diapositiva appoggiata su un'altra.") Niente sonno. Invece, la attendeva una lunga veglia per il resto della notte, in attesa di lui. Una volta spuntata la luce, avrebbe deciso che fare in seguito.
Quando lei si alzò per versare l'acqua fumante sulla bustina di tè nella tazza, sentì il lieve dolore sotto il ventre. Si sedette di nuovo e si alzò sulle ginocchia l'orlo della camicia da notte. Un graffio frastagliato si arcuava sulla soffice pelle, all'interno di una coscia. Mentre guardava, un puntino rosso brillante fuoriuscì dal punto più profondo, quasi in cima. I cancelli erano chiusi quando raggiunse il cimitero. Ma fu facile per Tyler trovare degli appigli nelle barocche decorazioni del ferro lavorato e arrampicarcisi sopra. Aveva già visto il cimitero in quel modo, sullo schermo nello studio. L'erba scura era viva... scintillava della corrente blu che separava i fili, filtrando in su dal basso. Mentre correva, le nere sagome delle palme oscillarono sopra di lui nella calda aria notturna, con le fronde secche che frusciavano. Davanti al piccolo rettangolo metallico che contrassegnava la tomba di suo figlio, si fermò, ansimando per prendere fiato. Il rumore del traffico era rimasto, insieme alla sua auto, oltre le mura del cimitero. Stette ad ascoltare i lievi suoni che filtravano dal silenzio. "Bryan..." Si mise in ginocchio, affondando nell'erba. Stese le mani fra i fili, freddi e umidi in cima, più caldi verso il suolo, mentre premeva un lato della faccia sulla superficie della placca. Per un momento, nient'altro che il silenzio della notte e lo scrocchiare dell'erba contro il suo orecchio. Poi lo udì, debole, infine più vicino. Dal basso, un bimbo stava piangendo. I singhiozzi si fecero più forti, come se il petto del bimbo fosse sul punto di scoppiare. Niente parole, niente invocazioni, solo urla per trovarsi solo e atterrito in un luogo buio, finché a Tyler non cominciò a dolere la testa per quel suono e le sue dita non affondarono nell'erba, appallottolando la terra nei pugni. — Bryan... No, non puoi... Il pianto si interruppe quando parlò. Poi un'altra voce gli giunse nella mente. "Su, Mike" bisbigliò Slide. La risata di scherno dietro le sue parole riportò alla memoria di Tyler l'immagine della faccia scarna, dagli occhi brillanti. "Tu sai quello che vuoi, non è vero? Non è vero, Mike? Può essere com'era prima." Le parole lo stuzzicavano, lo blandivano. "Meglio di prima. È questo che vuoi. Non è così, Mike? Non è così?" — Chiudi il becco... — Le zolle erbose gli si sbriciolarono fra le mani,
quando strinse i pugni più forte. — Chiudi il becco. Silenzio. Non udì più nulla sotto di sé. Non c'era niente, tranne quel palmo di terra e la piccola scatola sepolta dentro, silenziosa come tutte le altre intorno, fra l'erba. Un'altra ombra, più larga di quelle sottili delle palme, ricadde sulla placca col nome di suo figlio. L'erba si fece ancor più scura sotto la sagoma di una figura in piedi. Sentì la voce dietro di sé. Il sussurro. "Ora." Rialzatosi sulle ginocchia, si voltò e guardò la creatura dritto in faccia. Solo a un paio di metri di distanza da lui, che osservava e sorrideva. Le punte dei denti erano come stelle, scintillanti nell'aria fredda. "Ora sei dentro. Fino in fondo." Quando Tyler si rimise in piedi e si alzò, si rese conto di essere solo di nuovo. L'Ospite se n'era andato, tornando nel suo cervello. Ma non importava. Voltandosi verso l'ingresso del cimitero, comprese che c'era tempo in abbondanza adesso. "Tutto il tempo che mi serve." Poté vedere in lontananza, attraverso la strada, fino alle colline oltre la città. Il sole nascente era buio come le pupille degli occhi in cui aveva guardato. Attraverso le tende della stanza anteriore, vide spuntare la luce, e le tenebre indietreggiarono mentre la notte si avviava finalmente al termine. Dapprima il grigio, poi tracce di rosso si stesero sopra gli edifici e il traffico. "È là fuori" pensò. La tazza di tè freddo era da tempo appoggiata accanto al suo gomito sul tavolo di cucina. La silente preghiera che le era corsa per la mente durante le ore d'attesa non aveva trovato risposta. Ancor prima che la luce iniziasse a filtrare attraverso la finestra, aveva preso a riflettere su cosa le restava da fare. Poteva continuare ad attenderlo. 0 iniziare il lungo travaglio di dimenticarlo. O trovarlo. Si strinse le braccia attorno al seno. "Adesso hai paura" si disse. Il sogno l'aveva lasciata con l'eco della propria voce piangente in testa. E c'erano tutte le altre cose tornate gorgogliando in superficie, da dove Mike le aveva nascoste, fin da quando avevano messo la foto della sua ex moglie sul giornale... "Non puoi sapere" pensò dondolandosi sulla sedia "cosa troverai, quan-
do lo troverai." La luce entrò più intensa dalla finestra. La osservò, sentendosi il freddo della notte ancora intorno. Aprì gli occhi nella prima tenue luce del mattino. Il volto del cadavere era accanto al suo. La faccia di Kinross era molle, sfatta, grigia nella fioca alba. Bedell se ne scostò di scatto, liberando il braccio rimasto intrappolato sotto il peso del cadavere. Scivolò per gli ultimi pochi centimetri sullo strato di ghiaia, fino al cemento secco del letto del fiume. Carponi su mani e ginocchia, guardò in su verso l'autostrada. L'angolazione del declivio nascondeva le corsie. Poté vedere solo la Mercedes sull'orlo del guard-rail, con la porta semiaperta. "C'è ancora tempo." Il pensiero gli irruppe nella testa. Nessuno l'aveva ancora visto. Poteva ancora fuggire dalla cosa stesa fra le erbacce accanto a lui. Tornare a casa, prendere la sua roba, quei quattro soldi che aveva messo da parte, e via, sull'autostrada alla luce del giorno, lontano da lì. Ansimante, cominciò ad arrancare su per il pendìo verso la sua macchina, affondando le dita nel pietrisco aguzzo. Osservò Slide stirarsi come un gatto, con la schiena arcuata contro la parete curva del nido, spingendo le braccia in fuori per sciogliere i muscoli. Jimmy capì che non aveva dormito. "Stava solo steso lì" pensò mentre si inginocchiava accanto al fagotto di stracci col bimbo dentro. Gli occhi brillanti erano rimasti chiusi, ma il sorriso sottile gli aveva solcato il volto scarno anche mentre le ore della notte strisciavano via. Gli occhi si aprirono e lo guardarono dritto in faccia. Un barlume di luce grigia sfiorò un lato del volto di Slide, che apparve compiaciuto. — Ora ci siamo — disse Slide, annuendo fra sé. — Finalmente ci siamo. Jimmy distolse lo sguardo, tornando a guardare il ragazzino. La sua faccia si era fatta più pallida, poté vedere ora Jimmy. Il respiro era ancora più tenue. Gli strofinò i morbidi capelli. Aveva abbastanza buon senso da domandarsi cosa significassero le parole di Slide. La notte non si era conclusa. "Non per me" pensò Tyler. "Per nessuno di noi." Sarebbe proseguita senza fine, come la strada. Ora che erano tutti insieme di nuovo.
Camminò sull'erba scura, sotto le ombre delle palme, nere contro un cielo nero. Le tombe erano di nuovo silenti. Oltre i cancelli del cimitero, il sole che sorgeva sulle colline lontane non dava alcuna luce. Non aveva importanza, lo sapeva, non più. Nel buio, poteva vedere ogni cosa. Dritto attraverso tutte le ombre e le forme grigie dell'altro mondo dove aveva vissuto per un po'. Ora sapeva dove fosse suo figlio. Camminò, dirigendosi verso il cancello e l'auto più oltre, col sole nero che irradiava tenebre intorno. Tyler si lasciò il cimitero alle spalle. Ora sapeva. Suo figlio era in attesa della sua venuta. 15 — Dove andiamo? — chiese Eddie, con il modellino d'astronave attentamente stretto in grembo. Steff gettò un'occhiata al figlio mentre guidava. La novità di uscire e andare a zonzo in macchina di sabato mattina sembrava non fargli rimpiangere la sua solita scorpacciata di cartoni animati. Questo era l'unico mattino della settimana in cui lei si concedesse solitamente il lusso di un po' di sonno in più... al massimo fino alle dieci; le undici sarebbero state una debolezza e le avrebbero dato un senso di colpa... mentre Mike supervisionava la colazione di cereali di Eddie e dopo asciugava tutto il latte versato. Lei di solito sbucava fuori in accappatoio e li trovava tutti e due a guardare Scooby-Doo. Mike era già arrivato a metà del L.A. Times e alla seconda tazza di caffè. "Non oggi" pensò. Forse non sarebbe mai più andata così. — Stiamo andando al cinema — disse lei. — I film... dove lavora Mike. Okay? Lui annuì. — Mike se ne sta lì? — Senza guardarla, si gingillò col portello apribile della cabina del razzo di plastica. — Sì. Cioè, credo di sì. — "Spero di sì" pensò. Era inutile prometterlo a Eddie, quando lei stessa non aveva modo di sapere se fosse vero. O anche se ci fosse qualche possibilità di trovare Mike lì; aveva fatto il numero del cinema prima di lasciare l'abitazione, e il telefono aveva suonato almeno venti volte, squillandole all'orecchio senza nessuna risposta. "Ma potrebbe esserci ugualmente" si disse di nuovo. Il suo umor nero poteva averlo avvolto in un mutismo così stretto da non fargli rispondere al telefono, preferendo la compagnia delle proprie cupe meditazioni a qualunque voce e-
sterna. Sarebbe stato meglio, lo sapeva, lasciarlo in pace... se era solo questo di cui aveva bisogno. Lasciare che il passato sgorgasse da lui come tossine da una ferita rimasta a lungo purulenta, finché Mike non fosse emerso di nuovo alla luce, come aveva sempre fatto prima. "Se è solo tutto qui..." fu il pensiero che le si insinuò nel profondo. E se questa volta non se ne fosse liberato... se il passato l'avesse reclamato, se il mutismo fosse proseguito ancora e ancora senza fine... "Meglio non trovarlo. Meglio perderlo, tu l'hai già perso." Strinse più forte il volante, sopprimendo l'istinto di girare l'auto, fare un'inversione a U al prossimo semaforo, e dirigersi di nuovo a casa. Lì, mettere Eddie di fronte ai fracassoni e multicolori cartoni animati, e farsi un altro bricco di caffè e fissare i suoi libri di testo senza vederli. E attendere. Ma questo era già impossibile. Non poteva più aspettare. Il sogno della notte prima l'aveva atterrita. Continuava a scorrerle nella mente; i lenti movimenti nel calore del letto, le braccia che le si serravano attorno ai seni e la premevano più forte contro la fredda carne alle sue spalle, il sorriso appena intravisto, tutto denti appuntiti come lame, che le aveva fatto cacciare l'urlo di bocca. Strizzò le palpebre e le chiuse per un attimo, come se l'immagine del sogno fosse in qualche modo ancora lì, nella luce mattutina che sfolgorava sul parabrezza. Quella parte era già stata abbastanza orribile. E c'era anche l'altro sogno... la corsa lungo )a strada di notte, la faccia che non riusciva a distinguere mentre si girava, nera e informe, verso di lei. Non sapeva, non riusciva a ricordare, se avesse gridato il nome di Mike. E se fosse stato per cercare aiuto... o perché l'aveva riconosciuto. Al suo fianco, Eddie si era annoiato dell'astronave e del suo volo immaginario sullo sfondo del finestrino laterale. Premette il faccino contro il vetro, studiando il traffico. Stava preparando un rapporto su ogni auto esotica individuata... per conto di Mike. "Perché è lì che stiamo andando" pensò Steff. "A vedere Mike. È quello che gli ho detto." Invece di portarsi Eddie appresso, avrebbe fatto meglio a mollarlo in qualche posto ("...qualche posto sicuro" fu un pensiero un po' pungente, fra gli altri "ma che c'è di insicuro, è tutto a posto, nessun pericolo, va tutto bene..."). Ma l'unica che conoscesse, Pauline della classe di chimica dell'ultimo semestre, coi quattro bambini e l'enorme Labrador che stava di guardia alla sua casa dalle parti di Culver City, quella mattina non aveva risposto al telefono nemmeno lei. "Brutta giornata per chiamare oggi" ave-
va pensato Steff, prima di ricordarsi della cartolina ricevuta tre giorni prima dallo Zion National Park, che narrava il caos di tenere ficcata l'intera famiglia in un bungalow in affitto per due settimane. Peccato... Eddie sarebbe stato felicissimo di passare una mattina con Quincy il Lab e il figlio maggiore di Pauline, che... aveva raccontato tutto eccitato dopo l'ultima volta che gli aveva fatto da baby-sitter... sapeva far girare un pallone da basket sulla punta di un dito. Quello sarebbe andato benissimo. Invece di essere trascinato via da una madre fuori di testa... che stava facendo del suo meglio per sorridere e parlare spensieratamente e tenere la paura ("che c'è da aver paura? che c'è che non va?") imbottigliata dentro... per dare una controllata a un tizio che non doveva più stare nella gabbia dei matti solo perché si farciva di barbiturici. "Sta' zitta, zitta" si disse. "Non c'è niente di sbagliato, niente di storto... ora guida e smettila di pensare." Così niente Pauline con la sua famiglia incasinata. E fare la spola avanti e indietro fra le lezioni e il ristorante, regolando gli orari al minuto, aveva separato il resto degli studenti da una parte e Steff dall'altra, senza dirsi nient'altro che ciao-e-arrivederci. "Ma nessun problema, niente di cui preoccuparsi." Mike sarebbe stato lì e sarebbe tornato tutto a posto, o quasi. "Proprio niente di storto..." — Ehi! Il grido di Eddie la sgomentò, facendole sobbalzare le spalle contro il sedile. — Che? — Sapeva cosa aspettarsi, probabilmente qualche auto dal nome italiano. Lui girò la testa contro il vetro, guardando il traffico dietro di loro. — Wow — sospirò. — Una Studebaker. — Si girò dall'altra parte, avendola persa. — Credo. Mike lo saprebbe — disse con sicurezza. La luce fuori dalla casa gli bruciò gli occhi. Aveva dovuto strizzare le palpebre per tutto il percorso, e le lacrime versate lasciarono scie fangose nella polvere sulla sua faccia, quando si curvò sul volante della Mercedes. Bedell se l'era svignata dalla macchina con lo sportello ammaccato, attraversando il vialetto e sapendo che chiunque in strada lo stava osservando. "Hanno visto, hanno visto tutto." Guardandosi alle spalle mentre ficcava la chiave nella porta d'ingresso, localizzò un ragazzino sullo skateboard che lo squadrava con sogghignante insolenza mentre le rotelle rumoreggiavano sul marciapiede. Sbatté la porta e vi ricadde contro, ansante, sbarrando la vista ai suoi osservatori.
Era bello scuro dentro, con la luce tutta filtrata dalle tende come in un'ombrosa caverna. Quando ebbe ripreso fiato, scrutò nelle stanze vuote. La chiazza colata dalla ferita alla testa di Kinross troneggiava al centro del tappeto del soggiorno. Si chiese se fosse possibile raschiarla via, cancellare quella dannata prova prima di tornare alla macchina e rimettersi alla guida di nuovo. "Non ha senso" decise. "Nulla ha più alcun fottuto senso." Tutto quel che gli restava da fare era andarsene, fuggire di lì, il più lontano possibile. Il tempo equivaleva alla distanza, ora. "Vai. Vai." Teneva la scorta di denaro in uno dei libri sugli scaffali. Per un'emergenza... quel pensiero gli fece scaturire in gola una risata stridula. Il libro cadde per terra mentre tirava fuori il sottile rotolo di banconote. "Merda fottuta." Le contò di nuovo, con le mani che gli tremavano. Duemila esatti... tutto lì? C'era stato molto di più, lo sapeva. Non poteva aver prosciugato la riserva fino a quel punto. Estrasse di scatto il resto dei libri dallo scaffale, scuotendoli uno per volta e poi scagliandoli giù. I biglietti che teneva in pugno erano spiegazzati e intrisi di sudore quando smise, coi libri sparpagliati attorno. Tremante, si ficcò il rotolo in tasca. Nient'altro. Dopo tutto quel tempo, era tutto ciò che restava. Ma era troppo stanco per badarci; sentiva solo la pesantezza degli arti. "Vai." Sfinito, coi muscoli indolenziti che gli pesavano come sacchi sulle ossa, si trascinò sul pavimento con le ginocchia tremanti. Avrebbe voluto solo potersi raggomitolare a palla sul tappeto, lontano dalla chiazza scura in mezzo, e dormire. Ma non c'era tempo. Presto il corpo sul letto secco del fiume sarebbe stato trovato, e gli ingranaggi della polizia si sarebbero messi in moto, stritolando fra i loro denti quel che volevano. E non era nemmeno questo di cui aveva paura, che lo teneva in movimento, con gli occhi che gli bruciavano per lo sforzo di tenerli aperti. In camera da letto, riempì un sacchetto marrone del supermercato con tutti i vestiti puliti che riuscì a trovare. Sapeva che doveva affrettarsi, per fare una lunga strada. Prima che cadesse di nuovo la notte. Se si fosse addormentato, sapeva che non si sarebbe svegliato finché la luce non fosse nuovamente svanita dal mondo esterno alla casa. E allora sarebbe rimasto fottuto. "Perché ce l'ho ancora dentro" pensò, infilando nella borsa una manciata di calze. "Quella merda." Forse quel momento di tregua dalla droga, in cui
le parole suadenti e il viso che sorrideva coi denti appuntiti si erano ritirati dal suo cervello, sarebbe durato per tutte le ore diurne. Poteva restargli abbastanza tempo per allontanarsi da là, dove gli effetti della droga sembravano aver pervaso gli oggetti stessi della casa, come la macchia sul tappeto, e trovare qualche posto sicuro, una stanza di motel, o magari parcheggiare l'auto a lato di una strada deserta. Dove potesse trincerarsi ad aspettare la prossima ondata di veleno nel sangue. Poteva ubriacarsi fino alla cecità, all'incoscienza, usare questo trucco. Ogni notte, finché non fosse stato così lontano che nessuno riuscisse a trovarlo. Allora avrebbe iniziato a procurarsi tranquillanti e tutto il resto, raccontando storie lacrimevoli a qualche mediconzolo di provincia, comprando barbiturici dai ragazzi del liceo, qualunque cosa occorresse ad accumulare un dosaggio sufficiente a tenere l'Ospite chiuso in bottiglia, da dove non potesse uscire, per quanto si facesse buia la notte. "Ci sono dei modi" si disse. Girò lo sguardo per la stanza da letto, cercando di pensare che altro potesse prendere. "Mi occorre solo del tempo, ecco tutto quel che mi serve..." Sentì il telefono squillare nell'altra stanza. Il suono lo fece voltare lentamente verso la porta della camera da letto. Poi il trillo si interruppe, troncato dalla segreteria telefonica. Dalla soglia, ascoltò la propria voce ronzare monotona su nastro. Si fece più vicino allo scaffale dov'erano collocati telefono e segreteria, quando risuonò il segnale di risposta. — Bedell? — Abbaiò la voce dall'altoparlante. — Sei lì? Gli venne un groppo in gola appena riconobbe la voce. Era Tyler. Qualcosa gli irrigidì la pelle sulle braccia, così che non poté prendere la cornetta. Lasciò solo che l'altoparlante snocciolasse le parole. — Sta bene. — La voce di Tyler giunse di nuovo dopo un paio di secondi d'attesa. Sembrava aspra, vuota e piatta, e non solo per la distanza fra i due telefoni. — Quando ritorni e senti questo, c'è qualcosa che voglio che tu faccia. È importante, quindi ascolta. Un gusto amaro, come l'ultimo cristallo di droga che si dissolvesse sulla lingua, gli filtrò in bocca. — Io so — disse Tyler. Sembrò star bisbigliando dritto nell'orecchio di Bedell. Lui poté appena vedere i due diodi rossi lampeggianti sulla segreteria attraverso l'ombra che riempì la casa, come se delle nuvole avessero coperto il sole, oscurando i vetri dietro le tende.
— So tutto — furono le parole a bassa voce di Tyler. Non sembravano più rabbiose o furiose. Ma sorridenti, piene di segreti che potevano essere rivelati solo in bisbigli. Dovette sorreggersi al muro mentre ascoltava, col sapore amaro che gli sgorgava in gola, nauseandolo. — Lo so perché ero lì. Con te. Siamo tutti insieme ora. Ho visto quello che hai fatto. E hai paura adesso. Non è vero? Lo so. La sua mano tremante avanzò verso l'apparecchio, in cerca dei cavi che lo univano al telefono, qualunque cosa da poter strappar via, per fermare la voce che si riversava nella stanza tenebrosa. — Hai paura perché hai tutta quella merda dentro. Non è vero? — La voce lo schernì. Non aveva mai sentito Tyler parlare in quel modo, con parole che si mischiavano e torcevano in suoni taglienti. — Non è così? Volevi andar dentro, nel buio, e sapere le nostre cose, pure. Solo che non te lo meritavi. Ti sei spaventato. Sei pieno di merda, vero? "Fermalo." Alzò il pugno per sferrar colpi all'apparecchio, ma non poté. Le parole continuarono a risuonargli nell'orecchio. — Tu non andrai da nessuna parte. — Da un momento all'altro, la voce pareva sul punto di scoppiare in una risata, acuta e lacerante. — Adesso mi aspetterai. "No... ti prego..." Cercò di sforzarsi di gridare, ma aveva la gola bloccata dal respiro affannoso. Le gambe gli cedettero, facendolo scivolare contro il muro finché non fu in ginocchio, mentre udiva le ultime parole fuoriuscire dalla segreteria telefonica. — Ci rivedremo. Chiuse gli occhi, e il click della cornetta riagganciata fu inghiottito dall'abisso della stanza. Affondò le dita nelle fibre del tappeto, stringendole. La voce non era stata quella di Tyler, non nell'attimo finale. Sapeva dove l'aveva udita prima... quando aveva visto la bocca muoversi e sorridere sui gialli denti di Kinross. Le gambe gli si raggomitolarono contro il petto, e Bedell poggiò la testa sul pavimento. La luce si era talmente oscurata che poteva a malapena vedere la sagoma della finestra dietro le tende. Nel buio, ascoltò la voce bisbigliare e sorridere, racchiusa nella memoria. Al cinema, lei trovò i portali di vetro chiusi con la catena. Gli incolori anelli metallici erano avvolti attorno alle maniglie cromate e chiusi col lucchetto. "Be', questo sistema tutto" pensò Steff. Eddie le stette al fianco
sotto l'insegna e osservò mentre lei si schermava gli occhi e sbirciava nell'atrio buio dietro le porte. Doveva aver chiuso dopo l'ultimo spettacolo, per andare... "Chissà. Dappertutto." — Mike è qui? — disse Eddie, alzando gli occhi su di lei dopo aver scrutato dentro a sua volta. Il razzo giocattolo l'aveva lasciato nell'auto parcheggiata sul marciapiede. — Credo di no... — "Aspetta, aspetta. La porta posteriore." Ogni posto aveva un ingresso posteriore. Il vicolo che correva dietro il cinema; probabilmente lì. "O come si chiama... il proiezionista... Mike gli ha fatto chiudere queste porte prima di andarsene a casa. Così se ne poteva stare indisturbato." Valeva la pena di controllare. Dalla tasca, pescò il mazzo di chiavi di ricambio che Mike teneva in un cassetto della cucina. La terza che provò funzionò, e il lucchetto le si aprì in mano con uno scatto. Srotolò la catena e aprì con una spinta una delle porte. — Mike? — La porta si chiuse dietro lei ed Eddie, sigillandoli nel silenzio ovattato dell'atrio. Il tubo fluorescente del banco dei rinfreschi era l'unica luce, e lasciava immersi nell'ombra i corridoi che si biforcavano da ogni lato. — Ehi, Mike... — chiamò di nuovo. Non sentì nulla. I suoi stessi passi erano inghiottiti dal tappeto. Eddie le lasciò andare la mano e saltellò avanti nella semioscurità. La fontanella dell'acqua gorgogliò quando ci salì in punta di piedi. Sapeva da che lato erano i piccoli gradini che permettevano di farsi una bevuta anche a uno della sua taglia; Mike l'aveva portato al cinema abbastanza volte, dalla sala proiezione fino allo stanzino delle scope sotto la toilette per signore, perché Eddie lo conoscesse a menadito. Tornò indietro, asciugandosi la bocca col dorso della mano. — Avevo sete. — Sì, be', non correre via. Non voglio mettermi a cercarti. — La lieve claustrofobia... che, immaginava, chiunque provasse in edifici bui e vuoti... le irrigidì la spina dorsale. Non si poteva mai sapere... talvolta i barboni entravano in posti del genere quando non c'era nessun altro in giro, strisciando come ratti in passaggi segreti dietro le griglie di ventilazione per farsi una rapida dormita al riparo prima che tornassero le persone vere. Al campus li vedeva di continuo, figure stipate intorno ai pozzi delle scale, coi carrelli da supermercato pieni di stracci e cartoni, i loro tesori da topi, parcheggiati nei pressi. "Avremmo dovuto portarci una torcia" pensò, guardando lungo il corri-
doio dove sapeva che c'era la porta dell'ufficio, dietro la biglietteria. "Su, su. Datti una calmata. Non c'è nessuno qui, è tutto a posto, nulla di cui preoccuparsi. Smettila di spaventarti, per l'amor di Dio." — Resta qui — disse a Eddie, piazzandolo di fronte al banco dei rinfreschi. — Proprio qui, okay? — Lui annuì, affascinato dai brillanti colori di scatole e involti in vetrina. — Io torno subito. Il freddo alla schiena le raggelò anche lo stomaco mentre percorreva il corridoio. "Calma. Sta' calma." Poté appena distinguere la maniglia della porta e la targhetta VIETATO L'INGRESSO al livello degli occhi. — Mike? — Bussò, e non sentì niente dentro. Girò la maniglia. Era chiusa a chiave. — Merda. — Tirò fuori il mazzo di chiavi e a tentoni ne provò una per volta. La porta finalmente si aprì, e lei allungò una mano dentro... lo stomaco, per un secondo, si contrasse come se fosse stato pieno di ghiaccio... e accese la luce. Nient'altro che la scrivania, disseminata di carte, appunti di lavoro, locandine arrotolate. Proprio come l'aveva vista prima, tutte le altre volte... un cumulo di bicchieri di carta con macchie anulari di caffè all'interno, ammucchiati in cima all'armadietto-schedario, e una locandina di 2001: Odissea nello spazio con l'angolo inferiore arricciato in su. Avevano tolto la puntina da disegno per attaccarci un reggiseno sulla parete opposta, l'ultimo che gli addetti alle pulizie affermavano di aver trovato sotto la fila di sedili in fondo. Ma niente Mike. Poteva non essere stato lì affatto quella notte, o essere venuto e andato via... in qualunque momento. "Chissà" pensò Steff. Il gelo in fondo allo stomaco le aveva lasciato un'oscura cavità. Per quanto si fosse preoccupata ("spaventata?"), aveva anche sperato. In un modo o nell'altro, almeno avrebbe scoperto qualcosa. Invece niente... non sapeva dove cercare, o nemmeno iniziare a cercare, dopo di lì. Forse dal proiezionista. Ricordava quel ragazzo biondo, con le Adidas più sporche che avesse mai visto, da una delle volte che aveva fatto una capatina al cinema con Mike. O la bigliettaia, o la ragazza dei rinfreschi... qualcuno di loro poteva ricordarsi se fosse arrivato, quando era uscito, se aveva detto dove stesse andando. Una cosa qualsiasi. Passò dietro la scrivania, spingendo la sedia fuori dai piedi, per esaminare quell'ammasso di carte. "Deve avere un'agenda telefonica o simile" pensò. "Qualche modo per rintracciarli." Spinse via le locandine arrotolate. Un frammento di plastica... bicolore, verde brillante e giallo... le balzò agli occhi.
Lo raccolse fra il pollice e l'indice e lo rigirò lentamente. Lo riconobbe, l'aveva visto dozzine di volte prima. Per un attimo, si ricordò le dita di Mike avvolgerlo con gli altri cilindretti dai vividi colori in un quadratino di carta alluminio. Una delle capsule dei farmaci di Mike. La cavità nel suo stomaco non fu sufficiente a trattenere il gelo, a impedire che le si espandesse fino al cuore. "Gli è caduta. Tutto qui." Non significava niente. Ne pigliava tante da riempirgli il palmo della mano a coppa, e le ingurgitava tutte con un sorso d'acqua, nel modo che aveva osservato bene, accanto al lavello di cucina, in casa. Non lo aveva mai visto perderne una. Stava così attento. Eppure, quante ne prendeva... e quante volte al giorno? Era destino che gliene sfuggisse una ogni tanto. "Una svista. Ecco tutto" si disse mentre ruotava la liscia superficie della capsula fra le dita. Ne individuò un'altra, bianco-azzurra, infilata fra i bordi di un mazzo di fogli sciolti. Quando la raccolse, la polvere bianca all'interno le colò sulle dita. Un lato della capsula era spinto in dentro, come se fosse stato schiacciato fino a spezzarsi. Facendosi indietro dalla scrivania, vide una compressa bianca per terra. — Mamma... Lei girò lo sguardo e vide Eddie sulla porta dell'ufficio. Non sapeva quanto tempo fosse rimasta lì, quanto lui fosse stato ad aspettare che tornasse al banco dei dolciumi. La sua mano si chiuse attorno alle capsule, nascondendole. — Adesso andiamo — disse, chinandosi verso di lui. — Torna fuori nell'atrio, okay? Sarò lì in un paio di minuti, e poi usciremo. Quando lui, riluttante, si staccò dalla porta e ripercorse il corridoio, lei si voltò di nuovo verso la scrivania, con la mente che turbinava troppo veloce per rimettere insieme le schegge dei suoi pensieri. "È successo qualcosa... ha fatto qualcosa..." Il cestino dei rifiuti. Lo vide accanto alla sedia, lo tirò su, e lo rovesciò sulla scrivania. Le boccette arancioni sbatterono l'una con l'altra quando rotolarono in mezzo alle carte, spargendo in giro i tappi di plastica bianca. Tutti appallottolati, i sacchetti di carta della farmacia portavano ancora impressa la forma dei pugni di Mike. — Gesù. — Frugò fra quei resti col dito. "L'ha fatto." L'intera storia, tutto quello che era successo dall'apparizione delle foto sul giornale, la sua
folle ex moglie, tutti quei vaneggiamenti sul bimbo morto... lo aveva spinto fino a quel punto. Aveva probabilmente gettato nel water tutto quanto, tutti i suoi farmaci. Il vecchio, onorato modo tradizionale di sbarazzarsi delle medicine. E perché? "Perché" pensò Steff, fissando le boccette arancioni "perché quella roba lo teneva sano di mente." E anche lui voleva quello che aveva Linda, la sua ex moglie. Il loro figlio. Bryan. Poteva essere sano di mente, e avere un figlio che non era nient'altro che una lapide col nome inciso in mezzo all'erba accuratamente tosata, sotto le palme che si chinavano attorno al cimitero. ("Lampo di memoria... si era svegliata per trovarlo seduto sull'angolo del letto di Eddie, a vegliare il bimbo dormiente.") O poteva gettar via le medicine e andare insieme a lei, in quel posto nella sua mente, metà passato e metà illusione, dove l'altro bimbo era ancora vivo. ("Parole lievi. 'Ora sei dentro...' dove le aveva sentite? Nel sogno, ecco tutto.") E c'era solo bisogno di cercarlo. Ora era il momento. Lei lo capì; era questo che volevano dirle i contenitori vuoti. Ora era il momento di cominciare a dimenticarlo. Era andato dove lei non poteva seguirlo. Il suo braccio ebbe uno scatto convulso, e scagliò le capsule contro il muro, mentre la sua vista si offuscava per le lacrime improvvise. — Quella cagna fottuta — disse forte. Le occorreva una faccia su cui riversare la sua furia; quella della foto sul giornale faceva proprio al caso. Linda, bella comoda, l'avrebbe avuto di nuovo con sé nel loro mondo di allucinazioni, anche se chiusi in celle separate. Era così che andava, così era sempre stato: si poteva amare qualcuno solo finché il suo passato lo lasciava in pace, finché ti permetteva di tenertelo. Perché il passato era forte, più forte di ogni altra cosa. ("Forte perché sei spaventata; forte perché ci sono cose terribili lì in mezzo; quelle immagini, quei cadaveri patinati in bianco e nero al centro del libro, sono lì, e tu sei atterrita.") No. Si chinò coi pugni stretti appoggiati alla scrivania, tirando il fiato finché non le dolsero i polmoni, scrollandosi dagli occhi le lacrime salate e pungenti. "No." Non importava quanto fosse spaventata. "Lo troverò." ("Rabbiosa perché aveva paura; non era giusto, non era giusto.") Si rimise dritta, sfregandosi una chiazza d'umido dalla guancia, e guardò in giro per l'ufficio. Il proiezionista non avrebbe saputo nulla. Nessuna del-
le persone che lavoravano al cinema sapeva. Erano quelli dell'altro mondo, del passato, che potevano dirle dove cercare. Un piccolo rettangolo bianco sbucò fuori da sotto le carte sulla scrivania. Un biglietto da visita, con qualcosa scribacchiato sul retro. Lo girò dall'altro lato e vide nome e indirizzo chiaramente stampati. "Bedell" pensò. "Quello scrittore. Lui saprà." Mike le aveva detto come Bedell tenesse gli schedali pieni di roba sul Gruppo di Wyle; una vita di lavoro. "Ed è stato lui a chiamare Mike. Ossessionandolo con Linda e tutta quella merda." E lì aveva il suo indirizzo, proprio in mano. — Andiamo. — Rallentò la corsa per afferrare il braccio di Eddie e tirarlo via con sé. Il biglietto con l'indirizzo di Bedell lo teneva in mano con le chiavi dell'auto. Non perse tempo a richiudere gli ingressi del cinema. Poteva udire la creatura là fuori. Gironzolava... annusando porte e finestre della casa come un cane, un grosso dobermann nero, ma con occhi che erano talvolta vacui e velati di grigio, altre volte così limpidi che il buio al loro centro era abbastanza profondo da caderci dentro. Aveva le labbra tirate indietro a sfoggiare i denti aguzzi... poteva vederli mentre si dondolava avanti e indietro, stringendosi la faccia alle ginocchia... e rideva, rideva del disgraziato che piangeva e si agitava dentro la casa. Bedell non sapeva quante ore fosse stato in attesa, incapace di andarsene, incapace di scappar via. Finché la cosa era là fuori... il buio che colmava le finestre rendeva impossibile perfino rendersi conto dello scorrer del tempo. "Forse è già notte." Si strofinò il viso sulla stoffa bagnata di lacrime dei pantaloni. "Forse sarà notte per sempre." Per un po' aveva pensato di non essere solo in casa. Nel buio, la macchia sul tappeto era cresciuta, come se continuasse a colare dalla ferita, fino ad assumere una sagoma umana. Aveva paura di alzare gli occhi e guardarla abbastanza da metterla a fuoco. Perché, proprio con la coda dell'occhio, gli sembrava quasi che Kinross giacesse ancora lì in mezzo al pavimento, come.se la notte prima nulla fosse accaduto, il cadavere non avesse viaggiato con lui sulle tortuose autostrade, sorridendo e bisbigliando. Aveva sepolto più strettamente la faccia tra le ginocchia quando l'aveva guardato innalzarsi sulle mani, e Kinross aveva alzato la testa per fissarlo dall'altra parte della stanza. Non poteva sopportare di vedere il suo volto, qualunque volto avesse, anche se aveva sentito le sue mani tendersi a toccarlo... L'allucinazione era passata. Ce l'aveva fatta a sollevare gli occhi e aveva visto, fiocamente, solo la macchia sul tappeto. Ma poi aveva udito la cosa
fuori. Nel silenzio quasi assoluto, si muoveva intorno, sbirciando dentro dagli angoli delle finestre coperte dai tendaggi. Lui si rannicchiò, con la schiena curva, e ascoltò. Il diodo rosso della segreteria telefonica continuò a lampeggiargli sulla testa, segnalando il messaggio registrato sul nastro, le parole che erano iniziate con la voce di Tyler e finite con quella dell'altro. L'aria ebbe un tremito, che echeggiò attraverso la casa vuota. Bedell rialzò la testa, meravigliato. Poi si rese conto di cosa fosse quel rumore. Qualcuno aveva bussato alla porta. — Tu resta qui — disse lei a Eddie. Aveva individuato il numero della casa e parcheggiato sul marciapiede davanti. — Dove stai andando? Steff tolse le chiavi dall'avviamento e indicò la casa. — Proprio lì. E ci metterò solo un paio di minuti, okay? Quindi non muoverti. Lei si affrettò lungo il vialetto, superò una Mercedes marrone con una brutta ammaccatura, di aspetto recente, sul parafango anteriore e sullo sportello. Nella tasca dei jeans aveva infilato il biglietto tirato fuori dal libro. Pareva che in casa non ci fosse nessuno. Dietro i cespugli potati con cura, c'erano le tende tirate sulle ampie vetrate anteriori. Non udì niente all'interno quando suonò il campanello sotto la targa d'ottone col numero. — Il signor Bedell? — Accostò il capo alla porta, poi alzò il pugno e bussò. — C'è qualcuno? Silenzio. Bussò di nuovo, più forte. — Bedell? — gridò. — E lì dentro? "Merda." Si morse il labbro, tornando a guardare dall'altra parte del prato, dove Eddie la stava a osservare in macchina. "Aspettarlo?" si chiese. Non c'era nient'altro cui potesse pensare, nessun indizio che potesse condurla a Mike. E quanto a lungo poteva permettersi di bighellonare lì attorno e attendere? Non c'era tempo. Magari Bedell era dentro; forse stava dormendo o roba simile. Era ancora mattina presto, specialmente per qualcuno che non era legato a un regolare orario dalle-nove-alle-cinque, come uno scrittore. "Ed è sabato, per l'amor di Dio" pensò. Lei di solito non si sarebbe alzata a quell'ora. Scese giù dalla veranda e camminò dietro i cespugli. C'era un piccolo varco aperto al centro delle tende. Poteva esserci qualche segno di vita all'interno. Lui strisciò sulle mani e sulle ginocchia fino alla finestra. Tirando la
tenda da parte di una frazione di centimetro, Bedell sbirciò fuori, sul gradino della porta. Sembrava che lì stesse una donna. Da quell'angolo poté solo vederla da dietro, vide le gambe e i capelli neri che le ricadevano sulle spalle. "Chi è?" I suoi pensieri turbinarono furiosamente quando la sentì chiamarlo per nome. "Che cosa vuole?" L'estremità di una spalla ruotò lievemente mentre Bedell osservava, come se lei stesse per girarsi. Lui premette la faccia più vicino al vetro, sforzandosi di guardarla in volto. Allora vide, e seppe. Lei si girò e lo fissò, con uno sguardo che penetrò il vetro e gli affondò nel cervello come uno stiletto. Lui non riuscì a tirare il fiato attraverso lo spesso grumo che gli si gonfiò in gola. Le buie pupille degli occhi della cosa si aprirono, e la notte inondò tutto. La creatura rideva mentre scendeva dalla veranda, diretta verso di lui. Le labbra si ritrassero dai denti appuntiti e lui vide la faccia che si era mossa dietro il volto del cadavere, che gli aveva bisbigliato e sorriso per tutta la notte. Ora era scoperta, coi denti più lunghi che mai; scintillavano umidi mentre la risata si faceva più forte, echeggiando nella strada e in casa e lacerandogli le orecchie mentre Bedell indietreggiava precipitosamente dalla finestra. Troppo tardi. La faccia bianca come quella di un morto, l'unica cosa visibile nelle tenebre esterne, l'aveva individuato. Bianca come un teschio, ma soffice. Quando l'avesse toccato, sapeva che sarebbe stata qualcosa di putrido, come l'oscurità che mostrava negli occhi. Si sarebbe tesa attraverso la finestra, ridendo, e la notte si sarebbe riversata dentro. E lui sarebbe stato solo con essa, nel buio. "Vattene..." Riuscì a rimettersi eretto e correre alla porta, tirandola selvaggiamente finché le sue mani non trovarono il pomo e lo girarono, aprendo. Colse un rapido lampo con la coda dell'occhio... la cosa nel corpo di donna che si voltava dalla finestra, con la faccia da morta che lo fissava mentre lui si infilava di botto nella Mercedes. La chiave... si scavò nelle tasche, frugando con le dita fra pochi spiccioli. La cosa avanzò verso la macchina, con mosse lente, senza fretta. Trovò la chiave e la ficcò nell'avviamento. Il rombo del motore si mischiò con la risata. La Mercedes scartò all'indietro nel vialetto, scendendo giù dal ciglio del
marciapiede e mancando per un pelo l'altra auto parcheggiata lì. Ingranò la marcia e si sentì schiacciare contro il sedile mentre l'auto sobbalzò in avanti. Lei si girò quando sentì spalancarsi la porta. Il volto di un uomo, pallido come un cencio e tutto imbrattato di terra, la guardò a bocca aperta; lo riconobbe dalla foto sulla retrocopertina del libro. Fu nella Mercedes prima che lei potesse raggiungere il vialetto. Attraverso il parabrezza vide le mani sporche afferrare il volante; il motore ruggì e l'auto si lanciò in un'ampia curva fin nella strada, a un centimetro dal davanti della sua. — Ehi! — Corse sul marciapiede, agitando le braccia. La Mercedes era già al termine dell'isolato. Fra un istante sarebbe uscita da quel tratto per immettersi sul boulevard più avanti. Eddie si mise a far balzi, con gli occhi sgranati, quando Steff si catapultò dietro il volante. — Fwoosh! — Si fece sfrecciare una mano sulla testa, in un'estatica imitazione del decollo dell'altra auto. "Come in Tv" pensò lei. — Stai seduto, tesoro, okay? — Poté vedere la Mercedes alla fine della strada, che svoltava a destra, mentre girava la chiave nell'accensione. — Non ti mettere a saltare in quel modo. Per un momento pensò di averlo perso, inghiottito dal traffico del boulevard. Allungò il collo, sforzandosi di vedere sopra le altre auto, in cerca di qualche segno della Mercedes più avanti. "Merda." Sapeva che avrebbe potuto dirle qualcosa; la sua faccia, quando l'aveva visto scappare di corsa dalla casa, era contorta dalla paura. E in quel momento c'era un'unica cosa che stesse succedendo di spaventoso. Qualunque motivo avesse sconvolto Bedell in quel modo, voleva dire che un filo lo legava a Mike. Tentò di accelerare, ma entrambe le corsie erano bloccate dalle auto che rallentavano a un semaforo rosso. Davanti a lei si udì l'acuto stridore di pneumatici che slittavano. Aprendo lo sportello, Steff si spinse in fuori nello spazio vuoto dall'altro lato della fila. Una station wagon proveniente dall'incrocio sterzò e si fermò di scatto al crocevia, suonando il clacson. La Mercedes proseguì senza fermarsi. — Andiamo... — Rientrata in auto, incitò gli altri a muoversi. Si spostarono lentamente in avanti quando la luce si fece verde. — Mammina... — Eddie non sembrava più così eccitato. Un pochino di paura gli si mostrò in viso. — È okay, tesoro. — Tolse una mano dal volante per stringerne una del-
le sue. — Soltanto tieniti forte e sta' zitto, va bene? Lui annuì gravemente. Un varco si aprì nella corsia sulla destra quando una delle altre macchine si infilò in un posto libero. Steff vi si insinuò e premette l'acceleratore. Doveva andare dove c'era altra gente. Parecchia. Allora sarebbe stato al sicuro. Qualche posto tutto illuminato, senza angoli oscuri da cui le cose potessero sbucare, anche se il sole picchiando sulle auto intorno rifletteva schegge che affondavano negli occhi come lance. Le strade gli si confondevano attorno mentre Bedell guidava. Un ammasso di vetro e metallo riempì il parabrezza, poi roteò su se stesso, e l'autista gli urlò contro. Non gliene importò, non c'era tempo per cercare di vedere cosa fosse, non c'era più tempo per nulla. Il volante era solo una ruota viscida di sudore fra le sue mani, senza più niente a che fare con gli oggetti strombazzanti che gli sfrecciavano accanto. L'errore, adesso lo sapeva, era stato cercare di nascondersi. "Dove nessuno potesse vedermi. Nel buio." Perché era lì che essa stava. La cosa con la faccia bianca e il buio al centro degli occhi, viveva nelle tenebre, se ne cibava, coi denti aguzzi dilaniava l'oscurità, la risputava. Avrebbe premuto la faccia soffice su quella di Bedell finché anche la sua gola non si fosse riempita di una materia putrida, amara... "Altra gente." Annuì, mordendosi il labbro e gustando il sapore salato che ne usciva. "Tutto intorno." Allora sarebbe stato al sicuro. Anche lì fuori, in strada, si sentì meglio. Poté inalare il respiro nei polmoni, nonostante, pur essendo solo nell'auto, questa odorasse ancora di Kinross, fumo stantio di sigaretta e del cibo marcescente nel cadavere. C'erano persone, persone vive, attorno a lui, nelle altre macchine. Una di esse lo stava guardando. Sentì lo sguardo su un lato del viso, proveniente dall'auto al suo fianco. Si voltò verso il finestrino e guardò anche lui. La faccia bianca nell'altra macchina gli sorrise. Bedell urlò, lasciando che la gola rauca gli si riaprisse di nuovo come una ferita. Si allontanò fulmineo dall'altra auto girando il volante alla cieca, per fuggire, non importava dove. La sua fronte colpì il volante quando la Mercedes tamponò qualcosa con un sobbalzo. Un'unica enorme insegna luminosa comparve davanti al cofano. Si trascinò sui sedili e uscì da quello del passeggero, scappando dalle
forme metalliche che invadevano la strada. Dall'altra parte del marciapiede, un nero mare d'asfalto solcato da linee bianche incrociate circondava un palazzo dalle pareti di vetro. C'era gente là dentro. E luce. Lo sapeva. "È sicuro..." fu l'unico pensiero rimastogli; il resto della sua mente era andato in frantumi. L'edera gli si aggrovigliò alle gambe, mandandolo lungo disteso all'indietro, ruzzoloni lungo il pendìo che attorniava il parcheggio. Si rimise in piedi e corse verso il centro commerciale. Lei individuò la Mercedes, vuota, sul fianco della strada. Dal radiatore dietro la griglia anteriore sfasciata scendeva un rivolo d'acqua. Quando frenò dietro di essa e scese, correndo attorno alla vettura verso la portiera aperta, notò il tracciato di erba pestata che scendeva obliquo dal marciapiede. Bedell era a metà dell'immenso parcheggio, e la sua corsa era un continuo barcollare. Si impediva di cadere appoggiandosi ai parafanghi delle auto in sosta. Tornata dietro il volante, ingranò la marcia e girò attorno alla Mercedes, diretta verso l'entrata più avanti. Al suo fianco, Eddie si strinse forte all'angolo del sedile, fissandola. "Se entra lì dentro..." Lei l'avrebbe perso, lo sapeva, e perso anche qualunque speranza di trovare Mike. Era talmente fuori di sé, tutto sporco e con gli occhi da selvaggio, e correva in giro in quel modo. "Gli getteranno un lenzuolo addosso. E chiameranno la polizia. E tutto finirà così." L'insegna del centro, lettere su un obelisco di cemento, lampeggiò mentre lei girava l'angolo per entrare nel parcheggio. Lo vide oltre una fila di auto, che correva ancora. La tettoia di pietra che sporgeva sull'ingresso era solo a pochi metri di distanza. Le sue mani erano già tese verso le porte di vetro. Sul marciapiede che circondava il complesso, fermò l'auto di botto, in tempo per vedere Bedell sparire nel centro commerciale. — Sta' qui! — gridò, puntando un dito a Eddie. — No! — Terrorizzato, le si aggrappò al braccio e lo tenne stretto. Non c'era tempo per calmarlo, per dirgli che era tutto okay, che sarebbe tornata subito... gli prese la mano e lo tirò fuori dall'auto, e corse con lui verso l'ingresso. L'aria fresca del centro commerciale fluì attorno alla sua faccia sudata. Luce, e colori brillanti, sgargianti... non c'erano ombre, niente buio, solo il
bagliore sfolgorante, da ferire gli occhi, che pioveva giù dal soffitto altissimo. Barcollò in avanti, alzando le braccia sotto quella cascata di luce. E le persone. C'erano persone lì dentro, tutto intorno a lui. Fra le lacrime, poté notare le loro forme indistinte. Il fiato gli si ruppe in singhiozzi per il sollievo. Adesso era in salvo. Le tenebre esterne non potevano penetrare lì dentro, dov'era tutto lucente, così luminoso da colpirgli gli occhi come una stilettata. Finché non riuscì a vederle. Le facce, per la lunghezza dell'ampio corridoio, voltate verso di lui, come per dargli il benvenuto. E sorridenti. Era appena passata l'ora di apertura; le vetrine di alcuni negozi avevano ancora le saracinesche metalliche tirate giù, mentre dentro altri, i commessi stavano mettendo abiti e scarpe in mostra, accendendo le file di televisori, ordinando il resto nei registratori di cassa. Lei li superò correndo, tirandosi Eddie dietro. Udì l'urlo di Bedell davanti a sé. Alto, straziante, finché non tentò di gridare delle parole, tossendo e soffocandosi. Era in piedi, con la schiena contro una ringhiera, dove gli altri corridoi del complesso si ramificavano sotto la cupola centrale. Dalla parte opposta una frotta di teenager lo guardavano sbalorditi attraverso lo spazio aperto che dalla cupola scendeva fino al livello inferiore e al pavimento. Un sorvegliante in uniforme blu, slacciandosi un paio di manette dalla cintura, si affrettò verso Bedell. Lei lasciò la mano di Eddie e corse. C'era ancora tempo, tempo per scoprire dove fosse Mike, prima che la guardia lo portasse via, solo poche parole, tutto qui... Lui la vide. Gli occhi nella faccia stravolta si inchiodarono sui suoi. Bedell urlò di nuovo, appiattendosi contro la ringhiera. Le facce erano tutte bianche, e lo fissavano coi loro occhi bui. E sorridevano, coi denti aguzzi curvi in quell'espressione crudele. Poi vide la cosa arrivare... essa, la creatura che era sempre stata lì, dietro tutte le altre facce, muovendosi sotto gli occhi morti, sussurrando dietro i denti gialli. Correva verso di lui, per raggiungerlo. Alle sue spalle, la tenebra assoluta, la notte perfetta, esplose attraverso le porte di vetro. Quel diluvio si fuse
col nero che irradiava come fuoco dalla faccia bianca. Finché non si vide più che la faccia, coi denti spalancati a rivelare il buio interno, che puzzava di marcio e di vomito che sgorgava in gola. Per un momento poté vedere il proprio volto al centro di quegli occhi; aveva la bocca spalancata a lanciare un grido così forte da lacerargli la gola. Poi la bianca, soffice maschera putrescente cadde a brandelli, proprio quando la mano dell'essere si protese a toccarlo. La faccia si fece tutta di tenebra. Inghiottì ogni cosa, anche il suo urlo mentre si dibatteva per fuggire. Era ancora a metri di distanza da Bedell quando lui smise di fissarla, e si voltò, issandosi con le mani sopra la ringhiera. Il sorvegliante gridò quando Bedell cadde in avanti, nel grande spazio sotto la cupola. Lei lo vide colpire il più vicino dei cavi d'acciaio intrecciati, e la ragnatela vibrò quando il cavo gli affondò nello stomaco. Qualcun altro stava gridando in lontananza, altri la superarono di corsa mentre lei restò a osservare immobile. Sembrò come se si stesse tenendo stretto al cavo, con le mani piegate alla base dell'addome. Poi alzò il volto, e qualcosa di rosso gli gorgogliò in bocca. Scivolò dal cavo e cadde, mentre lei distoglieva gli occhi, portandosi alle labbra le nocche di una mano. "Presto..." fu il pensiero che le guizzò in testa. "Ti hanno vista, hanno visto che gli correvi dietro..." Si fece strada a spintoni fra gli altri. Eddie era una minuscola figura rannicchiata contro il vaso di un albero. — Andiamo. — Vide tremarle la mano mentre la tendeva verso la sua. — Shhh. È okay, è okay. — Camminò in fretta verso l'uscita del complesso. Si trattenne dal guardarsi in giro per vedere se qualcuno l'avesse notata. Eddie le si strinse addosso, correndo per tenersi al passo con lei. 16 C'era voluto un lungo tempo. Ma ora sapeva. Tyler riappese il telefono a gettoni e uscì dalla cabina. Sopra di lui, il sole nero, come uno strappo nel cielo, inghiottiva la luce, lasciando una notte
senza fine. La strada era ampia e vuota, deserta eccetto per gli ultimi pochi omuncoli rattrappiti per il freddo, che si affrettavano a raggiungere i loro nascondigli. Poteva vedere attraverso il buio, oltre i profili dei grattacieli, fino ai confini della città. "Adesso" pensò mentre scivolava dietro la ruota del volante. "Dopo tutto questo tempo." La chiamata a Bedell era stata l'ultimo affare da sbrigare. Suppose che lo scrittore fosse stato lì in ascolto, tutto il tempo che lui aveva dettato il messaggio alla segreteria. Dopo quell'ultima lavata di capo che aveva dato a Bedell, probabilmente avrebbe usato una certa dose di cautela. Ma non importava; sapeva che Bedell sarebbe andato dove gli aveva detto. E dove era diretto anche lui. La vibrazione del motore gli viaggiò su per il braccio, partendo dalla chiave infilata nell'avviamento, come se avesse teso la mano verso il metallo pulsante e l'avesse stretto in pugno. Chiuse gli occhi, assaporando il momento, poi portò la mano al volante. Immise l'auto sulla via e puntò verso l'autostrada. Lei ce l'aveva fatta a portar via la macchina dal marciapiede davanti all'ingresso del centro, e fino a un lontano angolo del parcheggio, prima di crollare. La lamentosa sirena di un'ambulanza risuonò oltre la siepe d'edera, mentre lei appoggiò la fronte al volante e scoppiò in lacrime. — Mammina... — Sentì Eddie aggrapparsi a una spalla. Si morse il labbro per trattenere il singhiozzo che le stava conficcato in gola. — È okay — disse, stringendolo al suo fianco e cullandolo. — È tutto a posto, gioia, tutto a posto. Va tutto bene. — Lo tenne più stretto, tentando di comprimere il proprio terrore in una pallina tanto piccola da inghiottirla, giusto per poter prendere fiato di nuovo. La sirena nella strada si fece più forte, avvicinandosi, poi cessò di colpo mentre girava l'angolo dell'entrata del parcheggio. Troppo tardi ormai, sapeva... se chiudeva gli occhi, e nel buio tornava alla memoria, poteva vedere il sangue rosso che sprizzava dalle labbra di Bedell mentre era sospeso al cavo. Se non l'aveva ucciso la caduta, l'avrebbe fatto la paura che gli aveva visto negli occhi, nello sguardo vitreo fisso su di lei mentre artigliava la ringhiera dietro di sé. Qualunque cosa avesse creduto venire verso di lui, qualsiasi allucinazione, l'aveva già divorato dall'interno, lasciando solo un involucro di pallida carne sudata e urlante, folle per il terrore. Il cavo che gli aveva mozzato le viscere, e il lucente pavimento piastrellato dell'edifi-
cio che attendeva nel suo abbraccio quell'ammasso di stracci sanguinanti erano stati una liberazione. Meglio quello, che qualunque cosa da cui stesse scappando. Qualcosa che aveva spaventato perfino lei, pur non vedendola. "Doveva avere a che fare con Mike..." quel concetto le pesò sullo stomaco come un macigno. Tutti i frammenti del mosaico si rimisero insieme: le capsule rotte, sparse sulla scrivania nell'ufficio del cinema, Mike che le volgeva le spalle mentre sedeva a osservare il sonno di Eddie, i silenzi, fino alla foto sul giornale e il passato che ne era sgorgato fuori. "Ora è il momento" si disse, abbracciando stretta il figlio "di lasciar perdere." Doveva chiamare la polizia, o l'agente che seguiva la buona condotta di Mike, dirgli che aveva interrotto la terapia, e si era messo a correre in giro completamente sballato. Era quello il loro lavoro, riacchiapparlo, portarlo dov'era posto per lui, dove potessero aiutarlo. O almeno dove affermavano di essere in grado di farlo. Se non riuscivano a sbarazzarlo del passato, potevano avvolgervi intorno catene più pesanti, ficcargli dentro tanti di quegli aghi da seppellire quella cosa nelle remote profondità del suo sguardo confuso, sfocato. "E forse..." la propria voce le si contorse dentro. Forse ottenendo un permesso speciale... perché non l'aveva mai sposato, soltanto amato... l'avrebbero fatta entrare a vederlo. Una volta ogni tanto. E si sarebbe potuta sedere lì nelle ore di visita e lasciare che il silenzio li avviluppasse entrambi, troppo fitto per parlare. Finché, al termine, lei non avrebbe più sopportato di tornare là di nuovo, senza che lui si rendesse neanche conto della differenza. Chi poteva biasimarla... era una madre con bambino. Spaventato il bimbo, spaventata la madre. Contava questo, soprattutto. Tutto ciò che doveva fare era riconoscere che chiunque altro al mondo aveva ragione, che finalmente anche lei sapeva quello che tutti gli altri avevano sempre compreso. Che il passato era più forte di te, di ogni cosa. Che non c'era senso ad amare nessuno. Che non le restava che continuare a vivere da sola, in quel mondo. Era per questo che piangeva, che le lacrime non si fermavano. Che era spaventata. Per questo, più di ogni altro motivo. Una seconda sirena sovrastò la prima. Sollevò il viso dai soffici capelli di Eddie, dove aveva poggiato la guancia, e guardò nello specchietto. Un'auto della polizia sfrecciò attraverso il parcheggio verso l'ingresso dell'edificio.
"Non c'è tempo" pensò. "Non per starsene qui a piangere come una stronza." Prese Eddie per le spalle e lo rimise sull'altro sedile. Lui la osservò estrarre un pacchetto di Kleenex dallo scomparto del cruscotto e asciugarsi la faccia. — Dove andiamo? — disse, cauto e sottomesso, quando lei girò la chiave nell'avviamento. Non c'era tempo per trovare un posto dove lasciarlo in custodia al sicuro, anche se fosse riuscita a immaginarne uno. "Devo solo stargli attenta" pensò, inserendo la marcia indietro. "Priorità assoluta." — Di nuovo dov'eravamo — gli disse. — Quella casa? Dove correva quell'uomo? Lei fece svoltare l'auto nella corsia d'uscita e si diresse verso la strada. — Esatto. — Sperava che non le chiedesse perché... domanda tipica dei bimbi. Infatti non sarebbe stata capace di spiegargli quello che sperava... o temeva... di trovare laggiù. Bedell era uscito di là correndo, atterrito da qualcosa. Tutto quel che sapeva lei era che doveva affrettarsi, tornare sul luogo prima che la polizia identificasse i resti sfracellati sul pavimento del centro commerciale e si recasse lì a sua volta, senza lasciarle la possibilità di vedere che c'era dentro. Qualunque esile traccia potesse condurre a Mike, qualsiasi indizio. Non c'era nessun altro posto in cui guardare. All'uscita del parcheggio, infilò l'auto nel primo varco nel traffico. Posteggiò nel vialetto vuoto della casa. La brillante luce del mattino inondava la strada, facendo evaporare la rugiada dai prati ben curati. Il razzo giocattolo era caduto a terra sotto i piedi di Eddie molto tempo prima. Lo raccolse e glielo porse, mantenendo la voce più calma che poteva. — Non starò dentro neanche un minuto, gioia. Prometto. Così tu rimani qui, okay? Lui annuì, ancora in silenzio ma non più contagiato dalle violente emozioni di sua madre. Una delle pinne del modellino si era staccata; provò a farla oscillare mentre lei usciva dall'auto. La porta anteriore era aperta per una trentina di centimetri, rivelando uno squarcio dell'interno fiocamente illuminato, dietro le tende tirate. "Che cosa pensi di trovare?" Un cadavere. Mike con gli occhi rivolti in due direzioni diverse, con un trinciapollo infilato fra i denti. O peggio ancora... niente. Spinse la porta per aprirla del tutto e scivolò dentro. Nulla. Si guardò intorno nella stanza principale. Una casa vuota, con appena qualche pezzo di mobilia. Una fila di archivi contro un muro, un tappeto mai spolverato con una chiazza scura nel mezzo. In cucina, sul ban-
cone c'era una catasta di piatti incrostati e cartoni appiattiti di cibi surgelati. Quando tirò di lato la tenda che copriva una porta di vetro scorrevole, vide erbacce secche che spuntavano tra i fili di plastica intrecciata di una sedia d'alluminio. L'odore di lenzuola non lavate riempiva una delle stanze posteriori, dove c'erano abiti sparsi su tutto il letto. Si affrettò a tornare nella stanza anteriore, tentando di individuare qualcosa che potesse esserle sfuggito. Gli archivi la riempirono di sgomento. Mike gliene aveva parlato, le aveva detto della ricerca... ossessione... di Bedell sul Gruppo di Wyle. Se c'era qualche traccia lì dentro, fra tutti i pezzi di carta che gremivano gli armadietti metallici, non aveva il tempo di cercarla. Non si poteva dire quanto avrebbe impiegato la polizia a farsi viva. Tutto quello che le occorreva era la patente di guida di Bedell, nel suo portafogli. "Qualunque cosa..." Girò inquieta per la stanza, cercando di trarre dai rifiuti e dal disordine, e dall'olezzo di sudore rancido delle stanze chiuse, qualche indizio che potesse decifrare, qualcosa che le dicesse quale fosse la prossima tappa. I libri erano stati scaraventati sul pavimento, scagliati in giro, e alcuni giacevano col dorso rotto sul tappeto. L'unica cosa rimasta sugli scaffali era il telefono. Al suo fianco, pulsando a intermittenza nella fioca luce, lampeggiava un puntino rosso. Una segreteria telefonica. "Ma certo." Tutti ne avevano una. Corse agli scaffali e guardò l'apparecchio e le due cassette visibili sotto il coperchio di plastica. Un pulsante era contrassegnato PLAY. Lo schiacciò con un dito. Tutto quel che sentì fu il sibilo del nastro che scorreva. "Merda." Alzare la manopola del volume rese solo il sibilo più forte. "No, stupida." Trovò il pulsante REWIND e lo tenne abbassato. Il nastro ronzò finché non si fermò con un click. PLAY di nuovo. E, un secondo dopo, la voce di Mike. Uscì fuori aspra dal minuscolo altoparlante del congegno. — Bedell? Sei lì? Lei vi si chinò sopra, sforzandosi di distinguere le parole. — ...c'è qualcosa che voglio tu faccia — disse la voce di Mike sul nastro. — È importante, quindi ascolta. Aveva un tono differente, come se i muscoli della mascella gli si fossero irrigiditi, masticando ogni parola con difficoltà. Ma Stephanie sapeva che era lui.
— So dov'è Slide. So che ha mio figlio con sé. Bryan è vivo; so che lo è, adesso. "Bryan. Suo figlio." I suoi pensieri corsero paralleli alla voce che scorreva. "Vivo. Era vero." — Avevi ragione. Ho smesso di prendere i farmaci, e allora ho potuto vedere. Ogni cosa. L'immagine delle capsule spiaccicate sulla scrivania le riaffiorò alla memoria, oscurando la visione del nastro che girava nella cassetta dentro il congegno. La voce proseguì: — Sto andando dov'è Slide. Vado a togliergli mio figlio. C'è un cantiere di lavori in corso sulla Settima Est, vicino all'autostrada. Incontriamoci lì, e ti darò Bryan. Poi lo porterai dal padre di Linda... ne avrà cura lui. E allora potrai scriverci sopra tutti i libri che vuoi. Non dovrai che aspettare, e mi avrai in pugno. Ti dirò qualunque cosa vorrai sapere. Perché sono di nuovo laggiù ora. Dentro fino in fondo, con gli altri. E non tornerò più fuori di nuovo. Lei chiuse gli occhi, tenendosi al più alto degli scaffali vuoti per reggersi in equilibrio. Ora sapeva perché se n'era andato, dov'era andato. Per suo figlio. — Hai afferrato, Bedell? Lavori in corso, Settima Est. Ci vedremo lì. La segreteria telefonica produsse una serie di click quando il messaggio giunse al termine. Quanto tempo prima era stato lasciato quel messaggio? Nessun modo di saperlo. "Forse è già lì" pensò. "Dove ha detto. In attesa." O forse no... c'era una fredda determinazione in quella voce, che prometteva violenza. Per... Slide. Un nome. Aveva lui il figlio di Mike, qualunque fosse il motivo. E Mike stava andando lì a levarglielo di mano. Sentì la morsa sul suo stomaco farsi più gelida. Quello Slide faceva paura. E c'era qualcos'altro; qualcosa che aveva spinto Bedell a fuggire urlando di casa e cadere verso la morte dandole il benvenuto. Forse anche la cosa stava aspettando lì. Aspettando che Mike venisse da lei. Niente più tempo. Si era esaurito tutto. O andava a cercarlo subito, con la paura che le torceva le budella, oppure mai più. Forse anche la paura si sarebbe persa fra i ricordi, come tutto il resto. Si richiuse la porta d'ingresso alle spalle e corse alla macchina. Senza badare a Eddie che la guardava a occhi sgranati, uscì a marcia indietro dal vialetto e si diresse verso l'autostrada.
Era rimasto un cartone di latte della roba che Slide aveva portato nel nido il giorno prima. Caldo e acido, ma il ragazzino lo bevve ugualmente, inclinandolo sulla faccia così che un rivoletto bianco gli colò dall'angolo della bocca. Jimmy gli si inginocchiò accanto e osservò. Il viso del bimbo era ancora arrossato, luccicante di sudore sotto lo sporco. Carezzò la fronte del bimbo mentre ingollava il latte; la pelle sembrava ancora calda. All'altra estremità del nido, Slide si sollevò su un gomito. Senza neanche voltarsi, Jimmy poté sentire lo sguardo fisso sul suo dorso, gli occhi socchiusi che riflettevano il sottile sorriso. — Ehi, piccolo. Jimmy si guardò alle spalle. Le mani di Slide si appiattirono contro il soffitto di cemento, flettendo i muscoli delle braccia per riattivare la circolazione. Il ragazzino non sembrò averlo sentito; Jimmy si rannicchiò più in basso, come per fargli scudo. — Ehi... — Il sorriso di Slide si fece più largo. — Vuoi il tuo papà, piccolo? Eh? Vuoi il tuo papà? Lui scosse il capo lentamente, e lo abbassò sul petto. — Non... — Sta' zitto. — Slide fece ricadere le mani sul terriccio del nido e si tese in avanti, come un gatto, per scrutare il moccioso. — Non ti piacerebbe che paparino venisse a vederti? Farti una visitina? Bryan alzò gli occhi su di lui, poi su Slide. — Voglio la mia mamma. — Fanculo tua mamma. — Il sogghigno contorse la faccia di Slide in una rigida maschera da clown. — Tua mamma non verrà. No che non verrà. Ma tuo papà sì. Non sarà bello? Eh? Il piccolo, impaurito, indietreggiò contro la parete del nido. Jimmy avrebbe voluto mettersi fra lui e Slide, ma non poté muoversi. Slide sbuffò e con uno scatto tornò nel centro della cavità, restando a fissare il cemento in alto. La vibrazione del traffico che filtrava da sopra sollevava particene di polvere, che riflettevano la luce mattutina fra i pilastri, fino a ricadergli sulla faccia. — Non ci vorrà più molto — mormorò. Un frammento dopo l'altro, gli era balenato nell'oscurità, dietro le palpebre chiuse, dove fosse suo figlio. Tyler si rilassò dietro il volante, lasciando scivolare l'auto lungo l'autostrada avvolta nel buio, oltre le ombre delle altre macchine con le loro confuse, indistinte figure accovacciate dentro.
Per lui, il margine del cielo era una finissima linea blu incisa sul nero. Sapeva dove stava andando. Frammenti di oscurità visti tramite gli occhi di qualcun altro; quelli di Slide, e uno sconosciuto che gli stava tanto vicino da vedere Slide in faccia. A Tyler c'era voluto un lungo tempo, un'ora o più di parcheggio in una strada laterale vicino al cimitero, con gli occhi chiusi come se dormisse e sognasse, per ricomporre insieme le fugaci visioni dei profili dei grattacieli, i bordi dei cavalcavia dell'autostrada, le orde silenziose di macchinari allineati in fila. E poi gli odori e i suoni... cibo marcio e sudore rancido mentre l'aria rombava e ruggiva... e i confini della stretta tana in cui si trovavano i corpi di coloro che dividevano quella notte con lui, che l'Ospite aveva accettato nel suo regno delle tenebre. Perfino mentre guidava, sentiva terra e polvere sovrapporsi alla liscia plastica del volante sotto le sue mani; sentiva le scapole appoggiate al tessuto del sedile e, al tempo stesso, a ruvido cemento. Altri pezzi del puzzle che scivolavano insieme, finché al termine non aveva capito. "Da qualche parte sotto l'autostrada." Vicino a dove tenevano l'attrezzatura del cantiere; ciò restringeva il campo, riducendolo a una piccola sezione della mappa della città. "Ecco dov'è Slide. Con mio figlio." Individuò l'uscita che cercava, uno svincolo più stretto che si dipartiva dal nastro nero dell'autostrada che scorreva sotto di lui. Mentre l'auto curvava verso la strada in basso, poté vedere le torri della città in lontananza, da un angolo diverso dalla visione che ne avevano gli occhi degli altri. Silenti sotto l'autostrada, le strade erano deserte. Non c'erano nemmeno le ombre delle vetture in corsa lungo le corsie soprastanti. "Non troppo in fretta" pensò Tyler. "Lui sa che stai arrivando." Sarebbe stato difficile sorprendere Slide. Un recinto di rete metallica, sormontato da filo spinato, circondava il cantiere della manutenzione. Procedette lentamente lungo la strada che correva parallela al recinto, guardando oltre le file di bulldozer e camion verso l'autostrada sopraelevata. Il cantiere era abbastanza vasto da estendersi lungo mezza dozzina o più di cavalcavia, colmando tutto l'intreccio di strade all'ombra della sopraelevata. "Vicino..." quel che vide parve quasi sovrapporsi all'immagine nella sua testa. "Proprio vicino." Fermò l'auto e scese. Tenendo d'occhio l'autostrada mentre correva, giunse a una delle strade che intersecavano il cantiere, con recinti di attrezzature da entrambi i lati dell'asfalto. In pochi secondi si trovò sotto l'autostrada, la cui ombra sembrava di un nero ancóra più cupo nella notte che
lui stava attraversando. Oltre il recinto un pendìo di terriccio... terra polverosa, che si era già sentito sulle mani senza mai averla toccata... risaliva fino al lato inferiore in cemento dell'autostrada. Sapeva anche lì che sensazione si provava, sfregando la schiena sulla superficie sabbiosa. C'era qualcosa lassù. Poté notarlo nel buio, come se il calore dei corpi accalcati nella fossa in cima al terriccio gli fosse visibile. Il recinto lì era stato appiattito nel mezzo, e un unico pezzo di filo spinato tutto arrugginito era rotto e penzolava giù da entrambi i lati. Tyler si aggrappò alla rete metallica e vi si arrampicò, lasciandosi cadere sul soffice pendìo più oltre. Acquattandosi dov'era atterrato, alzò lo sguardo alla montagnola formata dove il terriccio e l'autostrada si incontravano. Qualunque cosa ci fosse lassù non aveva fatto alcun rumore. Affondando le mani nel suolo, arrancò verso l'alto. Oltre il bordo di una cavità scavata artificialmente, un paio di occhi gialli e lacrimosi si spalancarono alla sua vista, sbattendo le palpebre. Si guardò rapidamente attorno. Non c'era nessuno tranne la donna, di età indefinibile, coperta da strati di sporco. In quel piccolo spazio, il suo fiato sapeva di alcol rancido; lei indietreggiò e si rannicchiò, seppellendosi sotto un cumulo di stracci. Strinse a sé un sacchetto di plastica pieno di lattine d'alluminio appiattite, per proteggere il suo tesoro. Tyler si tese attraverso la cavità. — Dov'è? — chiese sottovoce. La bocca nella faccia avvizzita si aprì per rivelare pochi denti spezzati, mentre lei lo fissava senza comprendere. — Il bambino. — Avvicinò la faccia a quella di lei, nel fetore dei maglioni cenciosi in cui era infagottata. — C'è un ragazzino qui. Tu lo sai dov'è, vero? Lei scosse la testa, con ciocche incolte di capelli grigi che le pendevano sulle guance. — Sì, lo sai. — Mantenne la voce calma, persuasiva. — Il ragazzino. Tu lo sai. Dove sta? La paura che la zittiva cedette a quell'approccio tranquillo, a quelle parole calme, misurate. — Da quella parte. — Puntò la mano ossuta, tremolante, pigiandosi più strettamente fra il cumulo di stracci, allontanandosi da lui. Tyler si guardò intorno, poi fissò di nuovo la donna. — Il prossimo cavalcavia? È lì che è il ragazzino? — No... — Lei scosse la testa, con gli occhi inchiodati al suo sguardo.
— Più lontano. — Quello dopo? Lei annuì. I talloni di Tyler affondarono nel suolo quando si voltò per uscire dal nido e scivolò giù verso il recinto. — Mammina... Lei diede uno sguardo a Eddie. Era tutto stretto al sedile, fissandola. "Troppo forte" comprese. "Guido come un maniaco... anch'io sarei spaventata, se sapessi cosa sto facendo." Rilasciò l'acceleratore, rimettendosi al passo dell'altro traffico sull'autostrada. Adesso ci mancava solo che un agente la fermasse per eccesso di velocità. — È okay, tesoro. — Tolse una mano dal volante per carezzargli il ginocchio. "Cristo" pensò "quante volte puoi dirglielo ancora? E farglielo credere?" Tutto quel che doveva fare era guardarla, leggerle lo spavento sul volto, per sapere che sua madre stava mentendo. Oltre il guard-rail, poté vedere in basso il bordo del cantiere della manutenzione. La rampa d'uscita le sfrecciò accanto prima che lei fosse pronta a imboccarla. Le gomme stridettero sotto la macchina quando sterzò di botto, urtando il guard-rail della rampa prima di riuscire a raddrizzarsi e rallentare verso la strada sottostante. Un altro recinto, quest'ultimo sormontato da ben tre fili spinati, tutti interi. Ansante per la corsa, Tyler guardò lungo il tratto di rete metallica, sperando di trovarvi un'apertura. Lì... sul fondo. Un varco di mezzo metro circa. Il bordo della rete era sospeso sopra una breccia poco profonda, scavata nel terreno. Solchi paralleli apparivano nella polvere, come se qualcosa di pesante vi fosse stato trascinato attraverso. Vi si infilò sotto come un verme, sollevando la rete da faccia e torace. Dall'altra parte, si liberò le gambe tirando e rotolò su mani e ginocchia. Sopra di lui, l'autostrada bloccava la vista del cielo. Il cumulo di terriccio si innalzava fino al cemento e alla nicchia in cima. "Calma. Lui lo sa che stai arrivando." Si gettò di piatto sul pendìo, alzando gli occhi in cerca di ogni segno di movimento. Silenziosamente, strisciò ad angolo verso il primo pilastro, trattenendosi per riprendere fiato un paio di volte prima di guardarsi intorno.
Qualcosa lassù... poté sentire un altro respiro oltre al suo. L'angolo del declivio nascondeva chiunque fosse alla sua vista, sebbene potesse distinguere ogni granello di polvere nell'aria, e anche la grezza struttura del cemento soprastante. "Come dov'era la vecchia" pensò sforzandosi di guardare. "Un buco scavato in cima." Strisciando lentamente verso il pilone successivo si portò più vicino. Ora poteva vederlo. Il bordo della cavità, e uno spazio dove il terriccio si innalzava proprio fino al cemento in alto. Se si fosse alzato, avrebbe potuto toccare il soffitto e sentire la vibrazione del traffico che filtrava giù. "Ora. Calmo." Con la pancia sul terriccio, si spinse in su per il resto del tragitto. Trattenne il fiato quando la sua testa si trovò appena sotto il bordo della cavità. Poi la drizzò al di sopra, fin quasi a toccare il cemento, e appoggiò il suo peso sulle ginocchia e su una mano per reggersi in equilibrio. A un paio di metri di distanza, due paia di occhi lo guardarono di rimando. Un uomo che non aveva mai visto prima, muto dallo spavento. E, stretto al suo fianco, un ragazzino. La voce di Slide gli giunse all'orecchio dall'oscurità accanto. — Ciao, Mike. — Appena dopo il sussurro, si udì la risata. — Sapevo che saresti venuto. Il sorriso, uscito dal buio. Jimmy osservò lo scintillante sguardo di Slide apparire accanto al volto dello straniero e voltarsi di lato per guardarlo. "Suo papà" pensò Jimmy, tenendo il bimbo stretto a sé. "Il papà di Bryan... ecco chi è." Il piccolo non fece alcuna mossa, aggrappato alla sua maglietta mentre fissava gli altri. Prima che quell'uomo strano potesse muoversi, Slide balzò con una piroetta attraverso il nido, toccando una volta il fondo con una mano, e atterrò al fianco di Jimmy. Accosciato, pronto a saltare di nuovo, strappò il bimbo dalle braccia che lo tenevano e se lo strinse al petto. In una delle sue mani, un oggetto luccicante riflesse la poca luce che giungeva obliquamente fra i piloni, mentre lo portava alla gola del ragazzino. — Così va bene — disse Slide all'altro uomo. — Stattene immobile dove sei. — La lama lucente del coltello rialzò il mento di Bryan. — Non sono sicuro delle tue intenzioni amichevoli. L'altro si appoggiò alla parete del nido, con gli occhi inchiodati a quelli di Slide. La sua faccia era dura come quella di Slide, ma non sorrideva. Jimmy si ritrasse ancor più contro il pendìo di terriccio, senza che loro gli
badassero. I loro occhi erano bui al centro, come se la notte stessa avesse fatto irruzione nel nido attraverso quei fori. — Voglio mio figlio. Il sorriso di Slide si allargò. — Certo che sì. È per questo che sei venuto. La lama luccicante premette una linea nella soffice carne. Bryan iniziò a frignare, spingendo con le manine il braccio di Slide. Quel fievole suono irrigidì la schiena di Jimmy, mutando il suo respiro in una pietra che gli gravava sul cuore. Avrebbe potuto scattare e afferrare il braccio di Slide. Era abbastanza vicino. Afferrarlo e strappar via il coltello dal ragazzino, far perdere l'equilibrio a Slide e farlo ruzzolare giù nel centro del nido. E allora il papà di Bryan avrebbe potuto raccogliere il bimbo, stringerlo e scappar via di lì, e non importava cosa Slide avrebbe fatto col coltello, dopo. Forse avrebbe messo le ginocchia sul petto di Jimmy e gli avrebbe spinto la nuca per terra con una mano... ma non gliene sarebbe importato affatto. La mano di Jimmy si serrò nella polvere, comprimendola nel pugno. Voleva che la sua mano si tendesse ad afferrare il braccio di Slide, ma non si mosse. "Perché hai paura." Non poté muoversi affatto, tranne che per premere la schiena ancora più forte contro il pendìo. Voleva fuggire ovunque, purché lontano da Slide. Infatti non era Slide. Non più. Nel buio, a pochi centimetri da lui, il sorriso si ingrandì, scoprendo i denti aguzzi e appuntiti. Il coltello alla gola del bimbo che si dibatteva fra le braccia di Slide mandò un lampo blu, cogliendo la luminescenza che strisciava attorno ai profili delle figure. Era tanto lucido da fungere da specchio, rilanciando a Tyler il proprio sguardo. Le sue braccia si tesero mentre si acquattava all'altra estremità del nido. La voce di Slide si intrecciò con la sua risatina soffocata. — Tu puoi avere più di tuo figlio, Mike. Lo sai, no? Molto di più. Può essere tutto com'era prima. Anche meglio di allora. Più forte. Può essere così, Mike. Tu lo sai. Sotto l'autostrada, il mondo si restrinse a quel piccolo spazio, un cerchio delimitato dalla curva di terriccio e dal cemento che li schiacciava tutti. Le dita di Tyler tracciarono linee nella polvere, mentre già si sentiva il collo dell'altro fra le mani, come se potesse scagliarsi dritto su di lui, afferrando la gola di Slide e aprendovi uno squarcio, facendo sgorgare le sue ultime
parole ridacchianti da un lago di sangue... Ma il coltello era alla carotide del bambino. E lui sapeva con quanta rapidità Slide potesse muoversi. "Continua a farlo parlare" pensò Tyler. "Fallo parlare, e sorridere, e ridere, così non ti vedrà venire appena un po' più vicino. Sempre più vicino." — Non capisco, Slide — disse con voce calma, salda come le sue braccia tese. — Non so di che stai parlando. Parlamene, Slide. Spiegami. Slide accostò il suo viso a quello del bambino, osservando Tyler con la coda dell'occhio. — Sì, lo sai. So che lo sai, Mike. — Pareva sommesso, timido. — Perché sei dentro di nuovo. Non è vero? Con tutti noi. Proprio com'era una volta. Lui annuì lentamente mentre si sporgeva verso il centro della cavità, e faceva scivolare le ginocchia nella polvere di qualche centimetro... — Sì — disse, tenendo lo sguardo di Slide fisso sul suo. — Hai ragione. È questo che volevi, no? Che tutti noi fossimo di nuovo insieme. Tutti noi dentro. — Già... è bello, no? — Gli occhi di Slide si socchiusero per il piacere. — Proprio come allora. Un altro centimetro più avanti, spingendosi con le mani nella polvere. — Perché non lasci andare il bambino? — chiese Tyler. — Non ne hai più bisogno, Slide. Ora hai me qui. Ed è bello, hai ragione, è bello. Avevo dimenticato, ma ora ricordo. Siamo di nuovo tutti assieme, Slide. — Il terriccio gli sfregò le ginocchia mentre le strascicava sotto di sé. — Lascialo andare. Gli occhi di Slide si aprirono. Lui si tirò indietro, scuotendo la testa. — No... non vedi? — Strofinò la faccia su quella di Bryan, appoggiando la guancia per soffocare i singhiozzi del bimbo. — Lui è la chiave, Mike. È il modo in cui possiamo farcela. Diventare più forti. È uno di noi, Mike. Lo sai. Lo sai, Mike. — La sua voce si abbassò, implorante. — Tu devi saperlo. — Non lo so, Slide. — Un centimetro... strisciare e avanzare. — Non lo so. Dimmelo. Le parole proruppero ferventi. — Lui è nato con noi. Tu e Linda... eravate entrambi nel Gruppo quando l'avete avuto. Quando l'hai messa incinta, quando lei l'ha dato alla luce. — L'altra mano, quella senza il coltello, corse fra i capelli del bimbo, raccogliendoli a pugno e premendoseli sulla bocca. — Non vedi? Noi abbiamo dovuto implorare la venuta dell'Ospite, non siamo nulla senza di esso.
Senza di Lui. Ma il bambino... è nato già nel Gruppo. Il buio è stato sempre in Bryan, fin dal principio. E ora è cresciuto. È forte. — In estasi, baciò il visetto del piccolo, sentendone la pelle striata di lacrime. — Ora saremo insieme per sempre. Non potranno fermarci adesso. — Sì... ora capisco — cercò di calmarlo Tyler. Si tese in avanti, bilanciandosi su una mano, sollevandosi lentamente con l'altra. Le lacrime di Slide si mischiarono con quelle del bimbo. Oscillò avanti e indietro, cullandolo. — Proprio come allora... per sempre... Il coltello, a pochi centimetri. — Sì... per sempre... Tese le gambe sotto di sé, si raccolse, e scattò in avanti verso il polso di Slide. La sua mano gli si chiuse intorno per un attimo, prima di essere scaraventato di nuovo al centro del nido, scagliato dal braccio che Slide aveva spalancato con forza. Il coltello volò via, roteò scintillando, e cadde giù per il pendìo. Un urlo sovrastò il rumore del traffico in alto, riempì la cavità, lo travolse e lo schiacciò tra la polvere. Sopra di sé non vide più la faccia di Slide, ma l'altra, contorta in quell'urlo esultante. I suoi denti aguzzi erano come una porta che ingoiava la luce, inghiottiva quel mondo fatto di terriccio e cemento. Slide scese a fatica lungo il pendìo, facendo presa sul terriccio con una mano, e con l'altra stringendo Bryan al petto. Le manine del bimbo gli strattonarono una spalla, per cercare di liberarsi. Dal suo faccino atterrito venne un altro grido che riecheggiò sotto il cavalcavia dell'autostrada. Tyler, dolorante, riprese il fiato che quel colpo gli aveva mozzato, e rotolò sulle mani e sulle ginocchia. Slide aveva già raggiunto il fondo e spinto il bimbo sotto il recinto. Poi vi strisciò attraverso e tirò su Bryan, mentre anche Tyler, spazzando via l'orlo del nido, si gettò giù dal pendìo. Per prima lei localizzò l'auto, vuota nella strada deserta. Da ogni lato, oltre i recinti, camion e bulldozer erano disposti in file silenziose l'uno dopo l'altro. Rallentò la vettura e allungò il collo, tentando di individuare qualche altro segno di lui. "Dove..." Il volante era sudato tra le sue mani. Mike poteva essere ovunque, laggiù; il cantiere sembrava estendersi per miglia. L'ombra dell'autostrada, che schermava i raggi solari, lasciava la strada nell'oscurità. "Su, dai." Una supplica, per trattenere le lacrime di frustrazione. "Ti prego..." Poi, dove finiva il recinto, vide la figura che correva. Si allontanava da lei, rimpicciolendo a distanza. E un'altra, più avanti di molti metri, fuggiva
a sua volta, barcollando per il peso del fardello che cullava tra le braccia. "Mike." Quello più vicino; lo sapeva. Eddie ricadde sul sedile, dove si era inginocchiato per vedere cosa stesse guardando, quando lei schiacciò l'acceleratore. Si era lacerato la camicia e sbucciato la pelle sul bordo inferiore della rete quando ci aveva strisciato sotto. Tyler sentì il sangue scaturire, bruciando, mentre correva appresso a Slide. Superato il cantiere, il recinto che delimitava l'autostrada non era più sormontato dal filo spinato. Slide si guardò alle spalle, tenendo saldo Bryan al petto. La sua faccia era bianca, e la saliva gli colava sul mento per il respiro affannoso. Una volta incespicò, cadendo prima di potersi afferrare alla rete metallica al suo fianco. Con una mano e un piede infilati nelle maglie, si arrampicò, ancora appesantito dal bimbo che si dibatteva. In cima, lasciò andare Bryan, e il corpicino cadde scompostamente tra la folta vegetazione che cresceva in salita fino all'autostrada. Anche Slide lasciò l'impronta fra le piante quando balzò oltre il recinto. Tyler gli gridò quando Slide si rialzò in piedi, raccogliendo il bambino. Bryan rimase a bocca aperta, ammutolito dal dolore e dallo shock. Il recinto sferragliò fra le mani di Tyler quando vi si inerpicò, osservando Slide che si sforzava di risalire tra il fogliame verso il bordo dell'autostrada. Una parete verticale di cemento separava quel tratto in salita dal fondo del guard-rail. La mano libera di Slide si attaccò con forza al muretto, e le mancavano solo pochi centimetri per raggiungere la traversa metallica, quando anche Tyler saltò giù fra le piante spezzate. Slide vide arrivare Tyler, arrancando con mani e piedi sul pendìo verde. Si raccolse e balzò, tendendo le dita verso il metallo soprastante. Fecero presa, stringendo il bordo tagliente della traversa fino a diventar bianche. Sostenendo il bimbo con un solo braccio, Slide si tirò su puntellando i piedi sul cemento. Sopra, il traffico scorreva incurante; nessun occhio notò il braccio, coi tendini allo spasimo, serrato a mezzo metro dalle ruote. Troppo alto per gettarsi giù; Tyler era solo a un metro di distanza. Il bambino scuoteva la testa avanti e indietro, gridando mentre Slide lo teneva al petto. Tyler sentì il cuore percuotergli il torace, il sangue pulsargli nelle orecchie. Al di sopra di Slide, roteava un perfetto cielo notturno, con stelle senza luce che tracciavano spirali di fuoco freddo. Per un attimo vide il
proprio volto, rigido come una maschera, coi denti stretti e le vene che gli martellavano in gola, sovrapposto ai lineamenti ansimanti di Slide. Le due visioni si annebbiarono e ondeggiarono, mentre il sudore di Tyler gli faceva pungere gli occhi, finché non ci fu che un'unica faccia, un respiro che ruggì nei loro petti fino a scoppiare. Vide la sua mano tendersi, prima lontano da sé per afferrare suo figlio, poi verso di sé per strappare il bimbo, il prezioso bimbo, alla stretta che lo schiacciava a quel torace, il torace di Slide, mentre il suo cuore batteva in sincrono con quello dell'altro... Il piede di Slide lo colpì alla gola, facendogli perdere l'equilibrio e spedendolo lungo disteso sulla schiena tra il fogliame umido. Arrampicandosi su mani e ginocchia, vide Slide puntellarsi contro il cemento coi piedi, e far scivolare la mano esangue lungo il bordo inferiore del guard-rail. Il metallo gli tagliò le articolazioni delle dita, e il sangue gli colò giù per il polso. Un centimetro dopo l'altro, si spinse oltre le piante e il recinto sottostante, e di nuovo sopra lo spiazzo del cantiere. Tyler raggiunse la cima del pendìo e si appiattì contro il muretto, tendendosi per afferrare la gamba di Slide. Colse una manciata di stoffa e la abbrancò nel pugno. Slide restò immobile, inchiodato all'arco di cemento del cavalcavia, una mano sollevata dritta sulla testa per tenersi al guard-rail, l'altra schiacciata con Bryan contro il muro. — Dallo a me. — Tyler sputò quelle parole fra il liquido denso e salato che aveva in bocca. Pressò la faccia contro il cemento, sforzandosi di impedire che i piedi gli scivolassero di sotto, sul tappeto di piante schiacciate. Se avesse dato uno strattone alla gamba dei pantaloni intrappolata in mano, Slide sarebbe caduto nel cantiere sottostante. Con suo figlio. — No... — Slide voltò la testa dall'altro lato, mentre la superficie ruvida gli scorticava la pelle. — Tu non puoi... non sai... — Su, forza. — Sentì la stoffa farsi umida nella sua stretta. — È mio. — Il traffico risuonò più forte nella sua testa. — Per favore... Per un secondo, gli occhi di Slide si fissarono nei suoi. Il riflesso del suo volto... un minuscolo puntino nel nero centro dello sguardo dell'altro... rimpicciolì e scomparve, inghiottito da un abisso di tenebra. Poi apparve un'altra faccia. Riflessa due volte, nelle oscure pupille di entrambi gli occhi di Slide, con un sorriso fatto di denti aguzzi e scintillanti. Slide urlò, spalancando le braccia, abbrancando l'aria dietro di sé per
fuggire. Allora cadde, e il bimbo restò un attimo sospeso immobile, girandosi. Tyler balzò, e le sue mani colmarono d'un lampo la distanza fra loro. Si raccolse il bimbo sul petto, ruzzolando con lui giù per il pendìo, finché la sua schiena non sbatté contro il recinto. Il bambino, suo figlio, gli boccheggiò e singhiozzò tra le braccia, cercando di riprendere fiato in quel corpicino. Tyler poté sentire il suo rapido battito cardiaco, assieme al proprio. Dalla macchina, lei era stata in grado di vedere le due figure. Mike e l'altro, inchiodati al lato del cavalcavia dell'autostrada. Stava correndo verso il recinto quando loro caddero. Il suo urlo si mischiò col grido dell'uomo che precipitò giù, nel cantiere della manutenzione. Sostenendo il piccolo, confortandolo contro il petto, si issò di nuovo in piedi, aggrappandosi con la mano alla rete per sorreggersi. Poté vedere lo spiazzo sottostante, dove il corpo di Slide giaceva schiantato sulla lama di un bulldozer. La testa ciondolava su una spalla, le braccia penzolavano da entrambi i lati dalla pala metallica. Qualcosa si mosse sotto la faccia del morto. Poté vedere anche questo. Ogni cosa, nella notte che si stendeva attraverso le strade vuote fino alle lontane colline, gli era visibile. Stava chiamando lui, con parole sommesse. C'era ancora un sorriso dietro il volto esangue, dagli occhi spenti. "Tu sei quello che volevo. Quello che volevo davvero." Il volto si girò verso di lui, sorridendo in trionfo. "Slide non importava. Nessuno di loro, neanche il ragazzino." Gli occhi si rischiararono, poi tornarono a scurirsi. "Sono tutti deboli. Ma non tu. Tu sei forte." Tyler issò il bimbo più in alto, attutendo i suoi singhiozzi contro una spalla. La voce proseguì, sfiorandogli le orecchie con parole gentili. "Ora sei tornato a me. Siamo tutti insieme di nuovo. Non è vero? Come volevi tu. Insieme qui dentro." Più piano, quasi canticchiando. "Ora ti mostrerò tutto." La faccia si fece inerte, divenne di nuovo una cosa morta. Udì qualcuno chiamare il suo nome. Voltandosi col figlio tra le braccia, vide Steff dall'altro lato del recinto. Mentre osservava, Eddie giunse correndo dietro di lei, afferrando una gamba della madre e stringendola furiosamente a sé. Poté appena sollevare i piedi sopra il folto fogliame. Le dita di Steff si
tesero attraverso la rete per toccarlo. Carezzando i capelli di Bryan, lui la guardò. — Dovrai prenderlo tu — disse a voce bassa. — Portalo dai genitori di Linda. Gli staranno dietro loro. Il suo sguardo saettò dal bambino a lui. — Che significa? — Scrutò il suo volto. — E tu dove andrai? Lui scosse il capo. Le tenebre gli si stavano già avvolgendo intorno, per trascinarlo via, negli abissi che promettevano. — Non posso venire. Sono troppo fottuto. Lui è dentro di me ora, e non posso uscirne. Non più. — Premette la fronte contro il freddo filo metallico. L'altro mondo, fatto di notti e di strade che correvano in eterno nel buio, mentre occhi vuoti e spietati si voltavano a osservarlo, incrociando il suo sguardo con un cenno di riconoscimento... quel mondo lo aveva reclamato. Non c'era più modo di lasciarlo, neanche se avesse voluto. Sollevò il bimbo sopra la testa, sulla sommità del recinto. — Prendilo tu — disse. — Non può seguirmi dove sto andando io. Steff si alzò in punta di piedi, con Eddie accanto che guardava in alto mentre lei sollevava le mani per prendere l'altro bambino. Tenne Bryan stretto a sé, e abbassò lo sguardo sul suo viso. Non c'era più tempo. "Non per me" pensò Tyler. Tutto quel che gli restava era dall'altra parte del recinto. Lei alzò gli occhi su Mike. Senza preavviso, il suo volto si svuotò d'ogni emozione, e con le mani circondò il collo del bambino. Le gambe di Bryan penzolarono e scalciarono mentre le sue manine si agitavano impotenti. Lei premette più forte, guardando Tyler dritto negli occhi. Il suo urlo inarticolato gli squarciò la gola e lui si abbarbicò alla rete metallica. La rete gli tagliò le dita mentre si sforzava di raggiungere Stephanie, di strappare suo figlio a quella presa. Lei fece un passo indietro, sempre fissandolo, con le mani che torcevano la gola del piccolo. Come se tanta forza fosse uscita da un incubo, le mani serrate si separarono, e la testa del bimbo si distaccò dal corpo con un rumore di tendini e cartilagini che si spezzavano. Un fiotto di sangue le zampillò addosso. Lui si accasciò contro il recinto, e rimase diritto solo stando appeso alle punte delle dita. — Perché... Il cadavere senza testa, un misero ammasso di braccia e gambe inerti, piombò al suolo con un tonfo di fronte a lei. Mike abbassò gli occhi, con la vista che ondeggiava e il respiro boccheggiante.
Anche la testa di suo figlio cadde dalle mani di Steff. Come un turbine, il suo sguardo sfrecciò verso di essa. Sentì il mondo cascargli sotto i piedi. La faccia vacua, idiota di una bambola lo guardava dal basso. Occhi di plastica bianca lo fissarono da sotto le rigide setole delle ciglia artificiali. Si lasciò cadere in ginocchio, con le dita che tremavano mentre le tendeva attraverso la rete a toccare la bambola, coi giunti rigidi. Gli arti erano di un rosa uniforme, a imitazione della carne paffutella di un neonato. Parodie di dita infantili si curvavano alle estremità delle braccia. Steff stava piangendo quando lui rialzò gli occhi a guardarla. Stringeva Eddie a sé. — Non vedi... — Le parole furono troncate dai singhiozzi. "È morto." Suo figlio era morto. Da tutto quel tempo. Gli anni passavano, mentre la piccola scatola sotto l'erba silente aveva contenuto il corpicino, quello vero. Contenuto il morto. E in tutto quel tempo Linda era stata pazza. Il ragazzino, suo figlio, aveva continuato a vivere dentro di lei. E anche fuori, in uno scenario di illusioni. Un bambino, un figlio che nessun altro vedeva, perché se ne stava nella casetta, dove lei potesse amarlo e fargli da madre. E portargli giocattoli, tutto per confermare quell'allucinazione che non era altro che l'effetto della droga che le scorreva nel sangue. Le parole del bimbo mentre lo cullava davanti alla Tv erano solo il mormorio della droga nelle orecchie. Che la manteneva pazza. Pazza anche dopo che la bambola era stata rapita, rubata da qualcun altro altrettanto pazzo, che poteva ascoltare e udire quando la droga, avvolgendolo nelle tenebre, dava una voce di bimbo a quell'oggetto di plastica morta. "E anch'io ho sentito. Ho visto." Ecco come la follia si diffondeva, dall'uno all'altro. Finché non erano tutti pazzi insieme. Perché era così che la droga agiva. Era così che ti costringeva a esaudire i suoi voleri. Se poteva restituirti il passato, i frammenti del passato che credevi di avere perso, il bimbo morto, allora poteva darti ogni cosa. E tu avresti fatto qualunque cosa volesse. ("Una visione, l'ultima, del mondo che li aveva uniti e che ora si stava dissolvendo nel suo sangue; da qualche parte in una stanzetta, quella dove sarebbe rimasta per sempre, Linda piangeva per il figlio perduto, che nessuno sarebbe più andato a cercare per riportarglielo. Avrebbe pianto laggiù... in eterno.") Rialzò il volto, rigato di lacrime salate che gli scendevano agli angoli della bocca. Eddie, abbarbicato alla gamba della madre, lo guardò con gli
occhi sbarrati dallo spavento. — È okay... — Premette il palmo della mano contro il recinto. — Non ti spaventare, va tutto bene. Prometto. Va tutto bene. Le gambe gli tremarono quando si rimise in piedi. Con le ultime forze che gli restavano nelle braccia, si issò sul recinto, graffiandosi prima il petto, poi lo stomaco. Steff alzò le braccia per sorreggerlo, mentre lui si teneva per non cadere. Lei lo strinse a sé, e lui le poggiò il viso sulla spalla. Eddie si intrufolò fra loro, alzando gli occhi su di lui. Mike abbassò le mani, includendo anche il bimbo nell'abbraccio. — Andiamocene — disse Steff a bassa voce. Tenendogli il braccio attorno alla schiena, lo staccò dal recinto. Sul bordo dell'ombra gettata dall'autostrada, una netta linea divisoria fra il buio tenebroso e la luce del mattino, la testa della bambola restò a fissarlo. Il sole brillante fece scintillare gli occhi di plastica. Si fermò per guardare quella cosa a terra. C'era un piccolo cerchio nero al centro di ognuno degli occhi senza vita. Lo strattone che Steff gli diede alla spalla sembrò venire da sempre più lontano, mentre lo sguardo della bambola si fondeva col suo. L'imbronciata boccuccia da neonato stampata nella plastica sembrò star per sorridere, farsi più larga, aprirsi, e sussurrare il suo nome. Piano piano... poté sentirlo quasi al limite dell'udito. "Insieme." Alle sue spalle sentì l'ombra allungarsi da sotto l'autostrada, tendendosi verso di lui. "Proprio come volevi." Sollevò il piede e lo tenne sospeso sulla testa di bambola. "Ti mostrerò tutto." Calò giù il piede sul sorriso della bambola, premendo per terra con tutto il suo peso finché la plastica non si spaccò in due. Un occhio rotondo saltò fuori dalla faccia inerte e rotolò via nella polvere. — Andiamo. Eddie corse avanti mentre Mike camminava con Steff verso l'auto, e le strade che li avrebbero ricondotti a casa. Aveva visto ogni cosa. Jimmy si era rannicchiato fra il terriccio sotto l'autostrada, in un sottopassaggio molto distante da dov'era il suo caldo nido. Si era arrampicato per seguire gli altri, Slide e il nuovo arrivato che aveva voluto il ragazzino, riparandosi nel buio sotto l'autostrada in modo che non potessero vederlo.
Slide era morto. Poteva guardare nello spiazzo, oltre le file di camion, e vedere il corpo, spezzato in due sulla pala della scavatrice. Qualcuno l'avrebbe trovato abbastanza presto. Per ora, la faccia vacua fissava il cielo a bocca spalancata. E poi lungo il recinto, oltre la fine dello spiazzo, avevano ucciso il ragazzino. Jimmy strisciò lungo la rete metallica fino a quel punto. Il grido, l'urlo dell'uomo quando l'esile collo si era spezzato tra le mani della donna, continuava a risuonargli nella testa senza sosta. Solo che non era stato un ragazzino. Non uno vero. Guardò in giù, verso il torso di plastica e le due metà della testa, con la faccia da bambino... non la faccia che aveva visto nel nido, che aveva nutrito e guardato dormire... spaccata nel mezzo. Non riusciva a capire. Si chinò per raccogliere qualcosa di rotondo dalla polvere. Un occhio di plastica. Uno della bambola. Poté vedersi nel lucente riflesso buio al suo centro. Per un momento si guardò indietro lungo l'autostrada, verso il viadotto dove c'era il nido scavato nella polvere, col letto di stracci, e il quieto tepore, il mormorio del traffico in alto che lo cullava, avvolgendogli intorno. Tenne l'occhio in mano, come un piccolo tesoro da riportare laggiù, per consolazione. Lo rimirò mentre lo teneva sul palmo, poi, con un rapido scatto circolare del braccio, scagliò l'occhio di plastica nelle ombre sotto l'autostrada. Si voltò e si gettò a correre, attraverso le strade vuote e verso i palazzi del centro. FINE