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GIANNI PILO L'ORRORE DI CTHULHU (1986) INDICE I MITI DI CTHULHU L'ORRORE DI CTHULHU ZOTH-OMMOG di Lin Carter GHROTH di Ramsey Campbell IL SEGRETO DI SEBEK di Robert Bloch LA STRADA ILLUMINATA DALLA LUNA di Ambrose Bierce HAGGOPIAN di Brian Lumley LA CASA NELLA VALLE di August Derleth Documenti GLI PSEUDOBIBLIA DI CTHULHU di Domenico Cammarota I MITI DI CTHULHU Questo volume che state ora leggendo, appartiene ad una nuova serie che, come appare evidente dal titolo, connota chiaramente i testi che vi appariranno. È opportuno comunque spendere due parole sulle caratteristiche dei volumi che man mano vi presenteremo, e sui motivi che ci hanno spinto ad effettuare questa scelta. Che vi sia una richiesta generalizzata da parte degli appassionati di narrativa weird, è un assunto ormai ampiamente dimostrato. A parte quello che afferma l'amico Cammarota, il quale dice che il gusto medio del lettore di fantascienza italiano si è notevolmente affinato proprio in funzione di questa attuale propensione verso il genere weird e horror, bisogna riconoscere che il successo riscontrato dalle diverse antologie da noi pubblicate nella collana Enciclopedia della Fantascienza e dedicate a WEIRD TALES è andato aldilà di qualsiasi nostra aspettativa. Lo stesso favore è stato tributato dagli appassionati anche ai numeri Speciali della Rivista SF..ere dedicati appunto a questa mitica Rivista americana, mentre anche lo Speciale contenente le tendenze weird degli au-
tori italiani è andato esaurito in breve tempo a conferma del felice momento che sta attraversando questa particolare tematica. D'altro canto avevamo avuto modo di notare in questi ultimi anni una progressiva disaffezione da parte degli appassionati verso la fantascienza classica: quali i motivi? Indubbiamente molteplici e diversi che non è sicuramente il caso di sceverare in questa sede, ma fra tutti primeggia quello di una certa stanchezza nel dover leggere storie il più delle volte ripetitive e non più capaci quindi, di suscitare nel lettore quell'interesse che è la molla prima per poter apprezzare un romanzo o un racconto. Sono delle crisi di "stanchezza" che, a periodi ricorrenti, è dato di riscontrare nell'ambito di tutte le narrative specializzate, e a questa regola non sfugge nemmeno la fantascienza anche se, considerata l'estrema diversificazione dei temi trattati di volta in volta dai vari autori, consente allo specifico genere una "vita" più lunga di altri quali possono ad esempio il Giallo, la narrativa di spionaggio o quella avente per tema l'West. Ma se da un canto vi è stata da parte di molti lettori questa "scoperta" del genere weird, non dobbiamo dimenticare che, da anni, questa narrativa affascina una gran quantità di appassionati i quali, da molto tempo, ci chiedevano di dedicare una collana specifica agli autori ed ai temi che loro prediligevano. E a queste richieste noi avevamo già risposto pubblicando una serie abbastanza nutrita di testi weird nelle collane FUTURO ed ORIZZONTI (quasi tutti ormai esauriti), ma non avevamo mai dedicato loro una specifica collana. Ora invece, considerando anche il fatto che in Italia non è mai esistita una serie di volumi dedicati al fantastico che tratta dell'orrore sovrannaturale, abbiamo deciso di dar vita ad una serie autonoma che sarà in grado di farvi conoscere tutti i più bei testi di narrativa gotica e weird, ivi compresi quei classici che sono o poco conosciuti o niente affatto conosciuti, proprio in funzione della carenza di una trattazione organica ed approfondita del genere. Attenzione però. Non pensiate che, quando diciamo che vi presenteremo dei testi classici, la collana de I MITI DI CTHULHU sia caratterizzata dalla sola riproposta di libri "canonici". Niente di più sbagliato. Infatti, anche se ci muoveremo nell'ambito di questa particolare narrativa, ci guarderemo bene dall'essere monocordi, ossia dall'incappare in quella ripetitività che abbiamo in precedenza identificato come una delle cause della momentanea disaffezione da parte degli appassionati verso la fantascienza.
In quest'ottica abbiamo suddiviso la collana in due filoni principali. Il primo, che è caratterizzato dal nome Cthulhu che appare nel titolo dei singoli volumi (in pratica tutti i numeri dispari della collana), privilegia appunto quel tema dell'errore sovrannaturale che si rifà a Howard P. Lovecraft e alla sua scuola. Come tutti voi sapete, tra i vari cicli creati da Lovecraft, quello che sicuramente è più conosciuto ed amato dai lettori è quello de I MITI DI CTHULHU e, obiettivamente, è anche il più interessante per le valenze di carattere fantascientifico che appaiono nel contesto narrativo. In questa serie presenteremo sia i precursori, che i contemporanei, che i continuatori di Lovecraft, ossia tutti quegli autori che hanno inquadrato le loro narrazioni nell'universo dove regnano Cthulhu appunto e le altre divinità a lui similari. Avrete modo di vedere, nel prosieguo della collana, quanti e quali siano gli autori che abbiano voluto trattare questo particolare tema, a riprova del fascino che ha suscitato questo ciclo, non solo tra i lettori, ma anche tra gli scrittori. Sarà quindi per voi una gradita sorpresa leggere i nomi di Robert Bloch, August Derleth, Brian Lumley e tanti altri, i quali tutti hanno dato più di un contributo alla vita di questa serie, sia con romanzi brevi, che con racconti, che con romanzi veri e propri. Il secondo filone invece (quello caratterizzato dai numeri pari della collana) presenterà tutti i testi di quegli autori che sono oramai entrati nella storia del fantastico gotico. Spazieremo così da William Hope Hodgson, al quale Lovecraft dichiara apertamente di essersi ispirato nella stesura dei suoi testi, a Arthur Machen; da A. Conan Doyle (del quale non tutti sanno che esiste una copiosa produzione di racconti fantastici) ad Algernon Blackwood; da Gustav Meirynk a Jean Ray; da Clark Ashton Smith a... ma fermiamoci un momento e vediamo di non anticipare troppo i tempi, anche perchè siamo dell'idea che un po' di sorpresa non guasta mai, anzi serve a rendere maggiormente godibile il momento dell'acquisto del volume pubblicato. Un'altra caratteristica che connoterà i nostri volumi, sarà quella di presentarvi una buona quantità di testi inediti nel nostro Paese. Naturalmente vi renderete facilmente conto da voi di quanto questo sia importante e, se una tale operazione è stata possibile, ciò è dovuto, non solo al lavoro dei due curatori di questa collana, ma anche all'opera appassionata di veri specialisti del settore quali Domenico Cammarota, Claudio De Nardi, Giuseppe Lippi, e Riccardo Valla, i quali saranno presenti sulle nostre
pagine con testi critici, stesure di biobibliografie, saggi e articoli che serviranno a rendere questa collana una serie veramente unica non solo per l'Italia ma per tutto il resto del mondo. Desideriamo insomma che la collana I MITI DI CTHULHU diventi un punto di riferimento irrinunciabile per tutti gli appassionati del fantastico italiano. Come avrete notato, sino a questo momento non abbiamo fatto alcun cenno a Lovecraft, se non come riferimento per gli altri autori di cui vi abbiamo parlato. Questa omissione non è dovuta al fatto che lo scrittore di Providence avrà una scarsa presenza sui nostri volumi, ma proprio alla necessità di doverlo trattare separatamente in funzione dell'importanza che riveste, sia nel favore di tutti i lettori, che in quella specifica di questa collana, dove ci ripromettiamo di farlo comparire nella maniera più completa possibile, con tutto il corpus letterario da lui prodotto, e nella versione originale. Pensiamo infatti che molti di voi non siano a conoscenza del fatto che negli Stati Uniti uno dei più approfonditi studiosi del grande scrittore di Providence, S.T.Joshi, ha portato avanti con gli anni una minuziosa opera di ricerca che si è concretizzata nella riproposta dei testi originali - così come erano stati scritti da Lovecraft - e nella scoperta di alcuni racconti che sinora non si sapeva fossero stati scritti da H.P.L. appunto (due di questi appariranno in esclusiva sul quarto volume dell'Enciclopedia della Fantascienza dedicato a W.T.: "DI NUOVO WEIRD TALES"). Non stiamo qui a descrivervi la mole di lavoro posta in essere da Joshi, il quale ha esaminato parola per parola tutto lo sterminato epistolario di Lovecraft (comprese le lettere in possesso dei privati), ed ha recuperato la gran parte delle stesure originali dei racconti: ci limiteremo a dirvi che si è trattato di un'impresa veramente colossale ed estremamente utile, visto che i nuovi testi curati da Joshi differiscono in maniera rilevante da quelli sinora conosciuti. È nelle nostre intenzioni presentarvi appunto queste nuove stesure integrali delle opere lovecraftiane, e comunque vi possiamo assicurare sin d'ora che pubblicheremo tutto il materiale di H.P.L. del quale siamo a conoscenza, inquadrato in un particolare ordine che vi spiegheremo appunto nei volumi che saranno specificatamente dedicati al Solitario di Providence. Volumi che saranno corredati di un notevole apparato criticosaggistico, teso ad illustrare determinate valenze ed aspetti del narrato di H.P.L., e che serviranno a far meglio comprendere il pensiero del grande autore americano.
Riteniamo comunque di esserci già dilungati a sufficienza nel darvi un'idea generale della collana. Ben sapete che non è nostra abitudine sottrarvi del tempo eccessivo alla lettura dei testi che vi presentiamo, per cui, nel darvi appuntamento ai prossimi volumi di questa serie, vi auguriamo un interessante viaggio nell'universo di Cthulhu. Gianni Pilo L'ORRORE DI CTHULHU Lin Carter ZOTH-OMMOG Nota Preliminare allegata al Documento 2, Schedario Omicidi GO 2902: La deposizione qui schedata come Documento 2 è stata compilata dallo stenografo statale R.A. Wallis, secondo la testimonianza orale fornita spontaneamente, sotto giuramento, il pomeriggio del 29 Marzo 1929. Lo Sceriffo Homer Tate Watkins era l'ufficiale che interrogava; l'agente Wilbur J. Barlow, il testimone. Questo incartamento deve essere trattenuto nella sezione Casi Aperti fino a sei (6) mesi a partire dalla suddetta data, e poi sarà schedato sotto la voce Casi Insoluti, nell'edificio del Tribunale Penale della Contea di Santiago, a Santiago in California. DEPOSIZIONE DI ARTHUR WILCOX HODGKINS INIZIO: Per quanto riguarda l'omicidio del guardiano notturno, Emiliano Gonzales, non so niente, perchè non sono stato testimone del delitto. Ma, rispetto alla morte dello sconosciuto intruso che sembrava essere un polinesiano o un mongoloide mezzo sangue, ho molto da dire, perchè l'ho vista accadere. Temo però che crederete a poco di quello che posso dirvi. Io stesso faccio ogni sforzo possibile per crederci, benché l'abbia visto con i miei stessi occhi. Lo Sceriffo Watkins mi aveva informato del mio diritto a non parlare o ad avere presente un avvocato di mia scelta mentre rendo questa testimonianza, ma ho scelto di dire tutto quello che so riguardo a queste due morti e all'incendio che si è sviluppato nella South Gallery, anche se questa deposizione giurata dovesse essere usata in seguito come prova contro di me.
Poiché sono innocente di qualsiasi crimine, tranne quello dell'ignoranza, non ho nulla da temere. Mi chiamo Arthur Wilcox Hodgkins. Ho ventinove anni, e risiedo al numero 34 di Mission Street, in questa città. Negli scorsi quattro anni ho lavorato all'Istituto Sanbourne delle Antichità del Pacifico, prima come Bibliotecario, poi come assistente del Curatore della Collezione Manoscritti dell'Istituto. Il mio diretto superiore era il Dr. Henry Stephenson Blaine. Quando questi si è inaspettatamente ammalato, circa sette mesi fa, i Direttori dell'Istituto mi hanno chiesto di ricoprire la funzione di Curatore temporaneo dei Manoscritti, fino a quando il Dr. Blaine non fosse stato in grado di riassumere i compiti che gli spettano. Poiché tutto ciò che adesso sto per rivelare ha la sua origine nella disgraziata malattia del Dr. Blaine, e in alcuni avvenimenti che hanno preceduto o sono stati successivi a quella malattia, dovrò cominciare la mia dichiarazione con fatti che ai vostri superiori possono sembrare irrilevanti. Mi dispiace di dovervi far perdere tanto tempo, ma è essenziale che mi permettiate di raccontare la storia a modo mio. I Per chiunque lo conoscesse bene quanto lo conoscevo io, o per chiunque lavorasse al suo fianco, giorno dopo giorno, era dolorosamente ovvio che l'esaurimento nervoso del Dr. Blaine covava già da qualche tempo. Le sue fattezze, di solito tranquille, erano diventate sempre più pallide e stanche, come se soffrisse di una grave tensione nervosa nei mesi immediatamente precedenti al suo crollo psichico. Il cambiamento forse era maggiormente visibile nelle sue maniere, che di solito erano cordiali e affabili, mentre ora sembrava sempre più distratto, disattento nel lavoro, e inconsapevole dell'ambiente circostante. Molte volte lo coglievo di sorpresa a riflettere su un raccoglitore di cartone marrone, che aveva cominciato a tenere solo da poco. Non mi aveva mai mostrato il contenuto di questa cartella ma, sull'etichetta, era segnato con l'inchiostro: Note di Copeland/Ciclo di Leggende Xotiche. Solo molto tempo dopo venni a sapere a che cosa si riferiva quella scritta. Ogniqualvolta mi capitava d'interromperlo durante lo studio di quel particolare incartamento, sobbalzava colpevolmente, mi squadrava con un'aria quasi sospettosa, e a volte di scatto chiudeva che cosa stessi facendo lì. Poi
ficcava in fretta l'incartamento nell'ultimo cassetto della sua scrivania, cassetto che teneva sempre chiuso a chiave. Come ho già detto, non avevo alcun dubbio che il Dr. Blaine soffrisse di un'enorme tensione nervosa, dovuta a cause a me completamente sconosciute. Ma fu solo in quella terribile notte di agosto che venni a sapere quanto gravi fossero realmente le sue condizioni. Ogniqualvolta mi capitava di chiedergli della sua salute, evitava la domanda con qualche osservazione apparentemente casuale sulle conseguenze dell'"aver dormito male" e dell'"avere molte cose per la testa in questi giorni". Di tanto in tanto si lagnava di incubi. E, poiché le sue condizioni peggiorarono rapidamente, di fatto cominciò a mostrare i segni dell'insonnia nel tremito delle mani, nel pallore del viso, negli occhi iniettati di sangue e nell'assenza della capacità di concentrarsi. Poi, alle tre della mattina del 4 Agosto, fu ricoverato al Reparto Psichiatrico d'Emergenza dell'Ospedale della Misericordia, in uno stato di shock somigliante alla catatonia. Il Dr. Robinson Dambler, il medico incaricato del suo caso, disse che sembrava in uno stato di completo collasso nervoso. Mostrava di aver perso la capacità di un linguaggio coerente, dato che ripeteva continuamente uno strano verso animalesco e senza senso: «Iugg... Iugg... Iugg». Resistette ad ogni tentativo di comunicazione e, all'incirca durante i due mesi seguenti, fu tenuto sotto stretta sorveglianza, avendo fatto molteplici tentativi deliranti di auto-mutilazione. All'inizio di ottobre poi fu affidato al Sanatorio Dunhill, per le cure del celebre Dr. Harrington J. Colby, un insigne specialista in malattie nervose di questo tipo. Vorrei potervi dare un'idea di quanto fossi inorridito e sotto shock nell'udire le notizie sul suo esaurimento nervoso. Ammiravo e stimavo profondamente il Dr. Blaine come eminente studioso e come scienziato di ottima reputazione nel suo campo. Ma, più che questo, io vedevo in lui un amico, nonostante la considerevole differenza d'età intercorrente fra di noi. Come richiesto dai Direttori, assunsi temporaneamente le funzioni di Curatore e, per qualche mese, fui troppo profondamente assorbito dalla gestione del mio doppio carico di lavoro per informarmi più che superficialmente delle sue condizioni. Devo ammettere peraltro che, durante le molte settimane immediatamente precedenti al suo crollo, il Dr. Blaine aveva trascurato i suoi compiti, e i nostri schedari erano in uno stato di massimo disordine. Eravamo stati impegnati nella catalogazione degli articoli del Lascito
Copeland, dato che avevano come obbiettivo un'esposizione pubblica dei tesori d'arte che ci erano stati lasciati di recente in eredità. I Direttori desideravano con una certa urgenza esporre durante la stagione 1928 la Collezione delle Antichità Polinesiane e del Pacifico Centrale. La South Gallery era stata sgomberata a questo scopo. Ma l'esposizione si rivelò del tutto impossibile, perchè il Dr. Blaine aveva trascurato i suoi compiti durante la fase finale della sua malattia. L'incarico di completare la catalogazione fu quindi affidato a me. Ritengo di dover spiegare ai vostri superiori che il Lascito Copeland era la più grande e la più importante acquisizione che l'Istituto Sanbourne avesse mai ricevuto fin da quando si era stabilito di collocarvi per la prima volta la stessa Collezione Carlton Sanbourne. Il Professore Copeland, che morì nel 1926, era il più insigne archeologo nel campo della preistoria del Pacifico. I frutti della sua lunga e notevole carriera sono raccolti in una collezione unica di manufatti, che egli ha accumulato in mezzo secolo di ricerche sul campo. La collezione comprendeva parecchi bauli da viaggio pieni di svariati fogli, epistolari, articoli ritagliati da erudite riviste trimestrali, note non sistematizzate, diari privati e molti manoscritti parzialmente completi, compreso uno della lunghezza di un libro. Gli stessi manufatti occupavano parecchie casse da imballaggio, e andavano dagli esempi di tessitura di stoffe tapa dell'Isola di Tonga fino agli idoli e alle statue di pietra, alcune di notevole peso e misura. Il lavoro, che implicava la selezione, l'identificazione, l'etichettatura e la classificazione di questa enorme miscellanea, mi occupò per parecchi mesi. Comunque, il pezzo più misterioso di tutta la collezione rimase inclassificabile, e resiste ostinatamente a tutti i tentativi di identificarne sia la natura della composizione, sia lo stile, sia il periodo della fattura. Questo strano manufatto, presumibilmente, era stato portato alla luce dalle profondità marine al largo di Ponape nel 1909 da un sommozzatore indigeno. Si era guadagnato una grande popolarità nella stampa popolare con il nome di «Statuetta di Ponape», perchè era in qualche modo intimamente connesso al collasso del Dr. Blaine. Le cronache raccontavano come questi avesse delirato che bisognava distruggerla, mentre veniva ricoverato la notte del tre agosto. I giornalisti scandalistici avevano tirato fuori una storia calunniosa sul conto del Professor Copeland, il suo scopritore, e ponevano l'accenno sul fatto che fosse morto in un delirio di follia all'Ospedale Psichiatrico di San
Francisco. Questi specialisti di giornalismo scandalistico ebbero perfino il coraggio di far finire il disgraziato stato del povero Dr. Blaine nei racconti dell'orrore del supplemento domenicale. Ricordo il titolo di uno di essi: LA STATUETTA DI PONAPE ESIGE LA SECONDA VITTIMA, che mi offese e mi disgustò. Da allora in poi la storia continuò. I cronisti raffazzonarono una ridicola storia sulle misteriose origini della statuetta, aggiungendovi elementi presi a prestito dalle «Cronache della maledizione del Re Tut», che avevano riempito le colonne dei giornali di reputazione infima, dopo l'apertura della tomba del Faraone Tutankhamen, solo cinque anni prima. Forse ricorderete la giornata campale in cui la stampa gioì, dopo che Lord Carnavon e Howard Carter aprirono la camera funebre nel 1923. Questo avvenimento fu seguito da una serie di morti misteriose di parecchi membri della spedizione, compreso lo stesso Lord Carnavon, che morì due settimane dopo. L'eco di questa storia sensazionale si era quasi spenta, quando il collasso del Dr. Blaine divenne degno d'interesse. I giornali scandalistici si dilettarono a tracciare sinistri paralleli tra la maledizione della tomba del Faraone, che alcuni ritenevano avesse portato molti uomini ad una morte prematura, e la maledizione di un misterioso reperto archeologico di Ponape che, come adesso si diceva, aveva portato due insigni studiosi alla pazzia. Questi deplorevoli articoli, continuarono ad apparire sulla stampa popolare, con gran dolore di tutti coloro che erano legati all'Istituto. Di tanto in tanto ricevevamo dai medici del Sanatorio notizie sui progressi del Dr. Blaine. Verso la metà del Gennaio del 1929, cominciò a rispondere favorevolmente alle cure del Dr. Colby. Verso l'inizio di Marzo, fummo felici di apprendere che era capace di parlare coerentemente e di riconoscere la gente intorno a lui, benché questi intervalli di lucidità fossero solo di breve durata. Il 3 Marzo ricevetti una telefonata dal Dr. Colby, il quale mi informava che il mio amico era temporaneamente ritornato in sé, anche se non si poteva prevedere quanto a lungo sarebbe durato quell'intervallo di sanità mentale. Il Dr. Blaine chiedeva di me con urgenza, in modo molto ansioso, e lo staff di Sanatorio era dell'opinione che una mia visita avrebbe potuto giovargli e avrebbe calmato la sua ansia, per cui avrebbe potuto sgravare la sua mente di qualsiasi problema desiderasse disperatamente rivelarmi. Risposi che sarei arrivato subito. Il giorno dopo guidai tra le colline seguendo una strada serpeggiante.
Arrivai al Sanatorio intorno alle dieci e fui condotto immediatamente alla presenza del Dr. Colby. Era un modo di fare che, nello stesso tempo, era affabile e autoritario. Mi avvertì di non dire niente che potesse sconvolgere il Dr. Blaine e mi avvisò di acconsentire semplicemente a fare qualsiasi cosa egli desiderasse. Poi mi portò in un padiglione soleggiato, piacevole, che si affacciava su ondulate colline, e mi lasciò solo con il Dr. Blaine. Feci il possibile per salutare il dottore in maniera casuale. Sembrava che fosse invecchiato di dieci anni nei sei mesi trascorsi dal collasso. I capelli, che prima erano chiazzati di un grigio acciaio, erano ora striati di un bianco argenteo. Aveva perso venti o venticinque chili, la faccia era scarna e segnata: la figura, un tempo alta, era stranamente e orribilmente rattrappita, mentre si rannicchiava sulla sedia. Le sue mani erano tremanti come pallidi artigli anchilosati. I suoi occhi erano tormentati e la voce tremolante nel salutarmi. «Hodgkins? Sei tu?... Sembri così diverso, io... Ascoltami, Hodgkins... Devo saperlo... La statuetta di Ponape è già esposta al pubblico? Per l'amore di Dio, dimmi di no!». Lo salutai con calma, dissi che speravo si sentisse meglio, e gli assicurai che la statuetta non era ancora stata esposta alla South Gallery. «Grazie a Dio!», gridò con una voce flebile, tremula. Poi, afferrando il mio braccio in una morsa spasmodicamente forte, fissò gli occhi nei miei. L'ombra di un orrore indescrivibile riempiva quei begli occhi di una gelida paura. «La statuetta non dovrà mai essere esposta, Hodgkins... mai, capito? Bisogna distruggerla, se la sanità mentale del genere umano deve sopravvivere... Ma devi essere estremamente cauto nel maneggiarla... c'è una terribile forza racchiusa nella sostanza della statuetta... una forza che non osiamo liberare. Ascoltami, ragazzo! Il Necronomicon... contiene il segreto... Devi trovare una copia del Necronomicon... Tenta alla biblioteca dell'Università Miskatonic ad Arkham, nel Massachusetts... hanno una copia dell'edizione spagnola... Hodgkins, nell'ultimo cassetto della mia scrivania, troverai il mio incartamento con le note sul Ciclo di Leggende Xothiche: il cassetto è chiuso a chiave. Troverai la chiave nella scatoletta di tek della Nuova Guinea, sullo scaffale accanto alla finestra, dove conservo le statue tombali di lava dell'isola di Pasqua... Leggi l'incartamento con attenzione, prima di fare qualsiasi altra cosa! Promettimi che seguirai le mie istruzioni alla lettera, ragazzo mio... Solo quando avrai assimilato i dati del mio incartamen-
to, una piccola parte di tutto ciò avrà un senso per te... Allora prometti!». È superfluo dire che non capii assolutamente nulla di tutto ciò, ma il dottore era così penosamente insistente che giurai di fare del mio meglio per ubbidire alle sue istruzioni. Era il minimo che potessi fare, e le mie parole sembrarono rassicurarlo. Divenne più calmo, e gran parte della tensione lasciò i suoi lineamenti. Chiacchierammo un poco di faccende generali concernenti l'Istituto. Poco dopo il Dr. Colby entrò nel padiglione e mi annunziò che il suo paziente si era abbastanza emozionato per quel giorno. Lasciai il Sanatorio alcuni minuti più tardi, dopo avere strappato la promessa al medico di tenermi informato sui progressi della cura. II Il pomeriggio lo passai all'Istituto, terminando alcune faccende concernenti la prossima esposizione della Collezione Copeland. Non ripensai alla pressante insistenza del Dr. Blaine di studiare il materiale del suo incartamento personale, fino a poco prima di andarsene definitivamente. Allora, ricordando le sue parole e la mia promessa, trovai la chiave dove egli l'aveva nascosta, aprii il cassetto ed estrassi l'incartamento. Quella sera, dopo cena, mi sistemai su una comoda sedia nel mio alloggio e cominciai a sfogliare la cartella rigonfia. Era piena di materiale eterogeneo: note dattiloscritte a mano, elenchi e sommari, pacchetti di ritagli di giornali, prolissi estratti di dotti lavori - a me in larga misura sconosciuti - e vari fogli di corrispondenza personale. Il tutto era raccolto insieme senza la minima apparenza di metodo o di ordine. Potei capire che mi avrebbe preso abbastanza tempo raccapezzarmi in tutto ciò. Comunque, sfogliando le carte, ricavai un'impressione generale di quella miscellanea. Sembrava che fosse stato il Professor Copeland ad avere iniziato l'incartamento, in quanto la sua grafia filiforme non dava adito a dubbi. Aveva cominciato a raccogliere ritagli di giornali e stava ordinando le proprie note. Il materiale di Copeland costituiva il nucleo base dell'incartamento. Il Dr. Blaine, invece, aveva evidentemente compiuto un ampio lavoro nell'organizzare, raccogliere ed estendere il materiale originale di Copeland: infatti, la sua grafia spenseriana, ferma ma chiara e a me molto familiare, la si poteva vedere attraversare la massa delle note, dei ritagli, dei manoscritti, sotto la forma di copiose annotazioni, sommari e glossi ai margini.
Detti uno sguardo veloce al materiale, quella sera, e lo studiai più da vicino e nei particolari nei giorni seguenti, così che ora posso darvi un accurato schema globale delle sue tesi fondamentali. Sembra che il Professor Copeland fosse andato all'Isola di Ponape nelle Caroline all'inizio del 1909, inseguendo sfuggenti indizi riguardanti una leggendaria civiltà preistorica del Pacifico, di remota antichità. Anni prima, si era imbattuto per la prima volta in dicerie su questa civiltà scomparsa, mentre stava lavorando alla sua monumentale ricerca: Mitologia Polinesiana, con una Nota sul Ciclo di Leggende di Cthulhu (1909). Mentre compilava i dati per questo grande lavoro di erudizione, era stato incuriosito dai frequenti riferimenti nel folklore e nella letteratura indigene ad un «paese scomparso», da molto tempo inghiottito dalle onde. L'antico «Canto dell'Eternità» maori, il magnifico ma enigmatico «Cantico della Creazione» samoa, e opere simili, abbondano di allusioni criptiche ad una misteriosa terra scomparsa, chiamata a seconda «Hawa-iki» o «Maui». Quest'ultimo nome richiamava in modo sbalorditivo il leggendario Mu. Ponape era il luogo più probabile per cominciare la ricerca di Copeland sulla civiltà scomparsa. Era un'isola ampia e montagnosa, ricoperta da una fitta giungla, la più grande nell'arcipelago delle Caroline. Era da tempo famosa per le sue misteriose e inspiegabili rovine di città, costruite in una strana pietra blu. Queste città megalitiche gemelle, chiamate Nan-Matal e Metalanim, per la prima volta risvegliarono sconcerto e curiosità negli esploratori europei nel 1826, quando furono scoperte da un marinaio irlandese - di nome O'Connel o O'Connor - che aveva fatto naufragio. Ora sono passati cento anni da quando per la prima volta gli europei videro quelle ciclopiche e basaltiche città in rovina di pietra blu e, finora, non abbiamo neanche un indizio attendibile circa il mistero delle loro origini. A proposito di Ponape, Copeland aveva sentito mormorare di certi strani riti, che esistevano da tempi immemorabili tra gli indigeni della giungla. Essi veneravano un «Essere delle Acque» che chiamavano il «Signore dell'Abisso» e si diceva che i rituali segreti comprendessero anche il sacrificio umano. Copeland fu incuriosito da quanto questi riti di sangue fossero simili all'antica venerazione semitica del dio-pesce filisteo, Dagon. Fu poi ancora più incuriosito quando, interrogando uno «stregone» indigeno a proposito del culto segreto, scoprì che gli indigeni di Ponape sapevano tutto di Dagon, che essi chiamavano il «Capo dei Profondi». Non era Dagon che essi adoravano, gli confidò lo stregone, ma un dio di gran lunga
più grande e più terribile perfino di Dagon: in verità, adoravano il figlio di questo Dio, i cui servi erano Dagon e i Profondi. Copeland apprese che il culto del Dio del Mare esisteva nelle profondità della giungla di Ponape da innumerevoli secoli, ma solo negli ultimi mesi era cresciuto enormemente. La causa scatenante era stata la scoperta di un idolo di giada, portato alla luce all'inizio di quello stesso anno da un sommozzatore indigeno, nelle acque al largo. Gli stregoni del culto del Dio del Mare riconobbero l'idolo come la vera e propria immagine del loro Dio, che essi chiamavano Sothommog. A questo punto Copeland seppe di essere sulle tracce di qualcosa di molto interessante, perchè aveva trovato segni della sinistra e segreta venerazione di un Dio-Demone marino con nomi simili, dovunque nel Pacifico. Gli abitanti delle Isole di Cook lo veneravano come Zatamanga, il «Dio dei Pescatori». Nella Nuova Caledonia lo adoravano sotto il nome di Hommogah. Nelle Marchesi, gli indigeni lo conoscevano come Z'otomogo oppure Zatamagwa. In Nuova Zelanda, gli Sciamani maori lo conoscevano come Sothamogha. Gli indigeni della regione del fiume Sepik in Nuova Guinea, lo chiamavano Zhmog-yaa, e perfino nell'Indocina Meridionale culti indigeni degenerati veneravano un essere chiamato Z'mog. La teoria di Copeland era che quest'enigmatico Dio del Mare di Ponape non fosse altri che Zoth-Ommog, l'Abitatore delle Profondità, uno dei tre figli di Cthulhu, che erano stati Dei potenti nella più antica Mu, prima che il cataclisma distruggesse questo primitivo continente abitato dalle ombre, nei tempi preistorici... Zoth-Ommog, il cui nome ancora rimaneva in pagine suggellate, proibite, di certi libri straordinariamente antichi, che sono protetti sotto chiave e da guardie armate in alcune delle più grandi biblioteche del mondo. In un modo o nell'altro, Copeland entrò in possesso della statuetta di giada, alla quale le note si riferiscono come alla «Statuetta di Ponape». Quando cominciò a studiare ancora più a fondo l'enorme letteratura su quest'oscura mitologia, apprese strani e terribili cose. A Cambridge scorse le orrende pagine del ripugnante Necronomicon stesso, la magica e semimitica «bibbia» di quest'antica mitologia. E fece pure un'altra scoperta: un misterioso manoscritto o documento era venuto alla luce a Ponape nel 1734, circa un secolo prima che le antiche città di pietra fossero scoperte per la prima volta. Questo libro, un codice manoscritto di spaventosa antichità, era stato
trovato dal capitano di mercantile, Abmer Exekiel Hoag, che lo aveva riportato al proprio porto natio, Arkham nel Massachusetts, dove era stato tradotto per lui da un domestico mezzo sangue polinesiano-asiatico. Il codice, che era conosciuto come il Testo Sacro di Ponape, è ora alla Biblioteca Kester a Salem. Copeland studiò questo Testo Sacro di Ponape a Salem, e studiò a fondo altri libri, spaventosamente suggestivi e giustamente proibiti, a Cambridge e alla Miskatonic. Con l'andare del tempo pubblicò il libro sulle sue ricerche a Ponape. Era intitolato Il Pacifico Preistorico alla Luce del Testo Sacro di Ponape (1911), e fu un colpo mortale alla sua reputazione scientifica. Ma allora egli era profondamente immerso nei suoi studi sugli antichissimi miti universali, nei quali si era imbattuto in modo così singolare. L'incartamento Xothico conteneva le sue note di lavoro su quel soggetto. La premessa basilare di questa mitologia era che gli uomini primitivi avevano venerato un pantheon e una famiglia di divinità, che era scesa dalle stelle quando la Terra era giovane. Questi esseri erano essenzialmente maligni e avevano dominato sugli uomini con la paura, essendo più Demoni che Dei. Il termine più comune per definirli era «Gli Antichi» e non erano, nemmeno lontanamente, antropomorfi. Avevano un'intima corrispondenza con i quattro elementi della natura: terra, aria, fuoco e acqua. Per esempio, la divinità principale, un mostro alato dalla testa di piovra, chiamato Cthulhu, era un mare-elementale; il suo fratellastro, Hastur, era un'ariaelementale; un altro, chiamato Cthugha, era un fuoco-elementale e così via. Questi Dei erano noti come i Grandi Antichi, e sottomesso ad essi c'era un secondo gruppo di entità minori, che Copeland chiamò gli Antichi Minori. Questo secondo gruppo comprendeva gli esseri che servivano i Grandi Antichi, in qualità di capi dei loro schiavi e servitori. Per esempio, gli schiavi di Cthulhu erano chiamati i Profondi, ed erano guidati da Padre Dagon e Madre Idra. Gli schiavi di Cthugha erano le cosiddette «Creature di Fiamma», il cui capo, Fthaggua, dimorava su di un mondo chiamato Ktynga. Il grande aria-elementale, Hastur, era servito dagli Esterni, diretti da N'gha-Kthun. Questi esseri venivano identificati con il famoso Abominevole Mi-Go del folklore Himalayano e delle leggende delle colline del Nepal, in una nota di mano del Dr. Blaine. Leggendo oltre, appresi che questi Dei o Demoni somigliavano molto agli angeli caduti della dottrina dell'Antico Testamento. Essi avevano fatto
guerra ed erano stati sconfitti dal superiore pantheon rivale, chiamato degli «Dei Maggiori», che li esiliò su stelle lontane (come Cthugha su Fomalhaut ed Hastur su Aldebaran), o li imprigionò in vari luoghi sulla Terra. Lo stesso Cthulhu fu chiuso in una città sommersa, di pietra, chiamata R'lyeh, che si trovava sotto il Pacifico. Suo figlio Ghatanothoa fu sigillato all'interno di una montagna a Mu, e il suo secondo figlio, Ythoghta, fu imprigionato in un baratro ad Yhe, nella regione di Muvian. Mentre ZothOmmog giaceva incatenato sotto l'oceano al largo dell'«Isola delle Città Sacre di Pietra», che Copeland aveva identificato, con sua grande soddisfazione nella stessa Ponape. Alcune parole inserite a questo punto, affermavano che Cthulhu aveva generato queste tre divinità minori con un'entità femminile, detta Idhyaa, che dimorava sulla o vicino alla «fioca doppia stella verde, Xoth», eoni prima della sua discesa su questo pianeta. Quindi, adotto il termine «Ciclo di Leggende Xothiche», quando il materiale raccolto riguarda Cthulhu e la sua progenie. Quanto ai due capi gemelli di questa ribellione, Azathoth, il DemoneSultano e Ubbo-Sathla, la Fonte-Sempiterna, essi furono ridotti all'idiozia dagli Dei Maggiori. Questi respinsero Azathoth aldilà dell'universo fisico nel caos primevo, da cui non può più tornare, mentre Ubbo Sathla lo confinarono per sempre in un luogo sotterraneo, menzionato solo come «Y'qaaa dalla Luce Grigia». Parecchi elementi concernenti questa relazione mi incuriosirono immediatamente. In primo luogo, questa mitologia non aveva la minima somiglianza con qualsiasi religione indigena del Pacifico. In realtà, arrivai addirittura a pensare che questi Dei del Male, esiliati o imprigionati, corrispondessero molto più strettamente alle mitologie comuni indoeuropee che alle religioni delle isole del Pacifico, il che era molto strano e curioso. Leggendo di Hastur esiliato e di Cthulhu imprigionato e della sua progenie, mi ricordai immediatamente dell'Arcangelo Lucifero nell'Antico Testamento, del Titano Prometeo nei miti greci, e delle leggende scandinave su Loki imprigionato e su suo figlio incatenato, il lupo Fenris e sul serpente gigantesco Iormungander. In realtà, esaminando il semplice schema dei miti in questo Ciclo di Leggende Xothiche, avrei considerato più naturalmente l'intera struttura del mito un esempio di concetti presi a prestito da leggende anteriori. Ma le note di Copeland erano molto precise sul fatto che la mitologia di Cthulhu era antecedente alle civiltà indoeuropee di molte ere geologiche, il che mi
sembrava del tutto incredibile. Poi, ancora, c'era l'origine extraterrestre dei Grandi Antichi, che era un concetto sorprendentemente sofisticato per essere stato concepito a proposito di culti di un'isola primitiva. Il concetto di Dei del Pantheon di Cthulhu come demoni cosmici provenienti da lontane stelle e pianeti, sembrava tratto dai romanzi di fantascienza di E.E. Smith e di Ray Cummings, romanzi che riempiono le pagine della nuova rivista del Sig. Gernsback, Storie Stupefacenti, una rivista popolare che di tanto in tanto compro dal mio giornalaio da un anno o due, per ingannare il tempo libero con distrazioni casuali. Le note di Copeland, come erano state organizzate dal Dr. Blaine, si concentravano in particolare su Cthulhu e la sua progenie Xothica, più che sulla caduta degli altri membri del Pantheon. Copeland ricavò paralleli, peraltro convincenti in modo sorprendente, tra questo mostro tentacolare, incatenato nella sua città di pietra sul fondo del mare, e il Dio orribilmente amorfo delle profondità oceaniche, l'orribile Kon, «il Signore del Terremoto», adorato dalle tribù pre-inca del Perù. Paragonò Cthulhu anche con il ripugnante «Divoratore», il Dio della Guerra della religione Quicha, e con la divinità inca Huitzlopochtli. La sua opinione, ripetuta più volte, era che Cthulhu fosse il mostro originale precedente a questi esseri mitici posteriori, il prototipo da cui essi si erano gradualmente evoluti dopo la rovina del primitivo Mu, distrutto in qualche cataclisma preistorico. Questo punto di vista, tra l'altro, era rafforzato da un'abbondanza di dati eruditi che era, almeno superficialmente, di grande effetto. Un altro elemento che mi incuriosì enormemente fu che, nonostante l'oscurità di questo culto, esso fosse da molto tempo evidente oggetto di studio da parte di scienziati, in varie parti del mondo. Sia le note originali di Copeland che le aggiunte di Blaine, menzionavano un certo numero di autorità della cultura: lo stregone fiammingo Ludvig Prinn; uno scienziato tedesco, di nome Von Junzt; un Professore americano, il Dr. Laban Shrewsbury; un nobile demonologo europeo, il Conte d'Erlette, e altri. La ricerca erudita su questo mito di Cthulhu continuava evidentemente da alcuni secoli in tutto il mondo, ma in maniera segreta e furtiva. E io non potevo impedirmi di chiedere perchè la materia fosse circondata da una tale segretezza. Il fatto più strano di tutto ciò, era il libro a cui il Dr. Blaine aveva annes-
so tanta importanza durante la nostra breve conversazione al Sanatorio, il Necronomicon. Il titolo naturalmente è greco ma il libro, evidentemente la «Bibbia» del culto di Cthulhu, è stato scritto da uno scrittore arabo, non meno di undici secoli fa! Sembrava non esserci alcun motivo reale per mettere in discussione l'estrema antichità di questo mito misterioso: infatti, trovai una copiosa documentazione riguardo alle date nelle opere di consultazione generale di questi studiosi. Ma la mancanza di una discussione internazionale e aperta su questo mito era un vero ostacolo. Sembrava che da secoli ci fosse una gigantesca congiura del silenzio intorno a Cthulhu, a suo figlio e ai suoi fratelli, ai suoi schiavi e adoratori. Devo ammettere che trovai questa misteriosa segretezza enigmatica, fastidiosa, e spaventosamente suggestiva... Tra questa massa di materiale, una parte soprattutto attirò la mia attenzione. Era un fascio di manoscritti, uniti insieme sotto l'intestazione: Statuetta di Ponape. La prima pagina nella grafia di Copeland, consisteva di dati riguardanti la statuetta: peso, peso specifico, misure, e così via. Seguivano le note di Copeland sull'iscrizione geroglifica incisa alla base dell'idolo, un'iscrizione che egli, in via ipotetica, identificava come «Tsath-yo» o come «R'lyehan». Non avevo mai sentito parlare di nessuna di queste due lingue, se erano quelle che supponeva, ma ovviamente il termine «R'lyehian» era derivato da R'lyeh, che era il nome della città sommersa di pietra in cui, secondo le supposizioni, giace imprigionato Cthulhu. Copeland, in via ipotetica, identificò la statuetta come l'idolo di Zoth-Ommog, l'Abitatore delle Profondità, uno dei tre figli di Cthulhu. Copeland annotava che l'essere era incatenato al di sotto del mare in un abisso sottomarino, al largo dell'isola di Ponape. C'era qualcosa di fastidiosamente suggestivo in questi fatti, se venivano citati l'uno accanto all'altro. Il Dio-Demone proveniente dalle stelle, segregato in un abisso sotto le acqua al largo di Ponape... E un idolo della stessa divinità, portato alla luce da un sommozzatore indigeno nelle stesse acque... Quello che la coincidenza implicava era stranamente terrorizzante, tanto terrorizzante che sentii una strana e improvvisa riluttanza a leggere oltre nell'incartamento, quella notte. In ogni modo, il resto delle carte non aveva un aspetto molto invitante. Consisteva di lunghi brani senza senso tratti da libri con feroci titoli da in-
cubo come il Cultes des Goules e il De Vermiis mysteriis e così via. Una spinta interiore, come una voce inascoltata, sembrava quasi avvertirmi di non leggere oltre. Era una sensazione strana e del tutto sconvolgente. Ad un tratto compresi che avevo molto sonno. A stento riuscivo a tenere gli occhi aperti, e il mio corpo agognava il tiepido e soffice oblio del sonno. Rimisi il fascio di manoscritti uniti insieme sotto il titolo di Statuetta di Ponape nella cartella con il resto del materiale e, ripromettendomi di continuare le mie ricerche l'indomani, decisi di coricarmi soddisfatto della giornata di lavoro. I miei sogni quella notte non furono... piacevoli. Non sono il tipo di persona che di solito presta attenzione ai sogni, e raramente al risveglio riesco a ricordare la forma e la successione delle mie visioni notturne, ma quella notte un'immagine riempiva i miei sogni, rendendoli orrendi, e la mattina successiva, rimane orribilmente nitida nella mia mente. Era... una faccia. Continuamente, tra le nubi tumultuose del mio sogno, quella faccia mi sogguardava con occhi freddi e maligni, intenti e guardinghi. La faccia non era nemmeno lontanamente umana. E portava il marchio di scherni crudeli, di viziosi piaceri maligni, di gioie demoniache e disumane. Era una faccia - lo sapevo - che avevo già visto. Ma nei miei sogni non la riconoscevo. In realtà, fu solo il giorno dopo, quando mi svegliai la mattina esaurito e snervato per una notte di sonno caotico e febbrile, che riuscii a ricordare dove avevo già visto quella sembianza crudele di orrore maligno. E quando veramente ricordai, un brivido d'inspiegabile paura mi scosse. Era la faccia della Statuetta di Ponape. III Quella mattina riportai l'incartamento Blaine-Copeland nel mio ufficio all'Istituto per poterne completare il rapido esame, una volta che il mio lavoro mattutino fosse sistemato. La prima cosa che feci fu prendere la Statuetta. La conservavamo nella cassaforte dell'ufficio insieme ad un'altro pezzo del Lascito Copeland che non intendevamo esporre al pubblico, poiché la sua autenticità non era stata ancora stabilita. Questo secondo pezzo consisteva nelle dubbie e controversie Tavolette
Zanthu, che il Professor Copeland aveva presumibilmente scoperto nella tomba di pietra di uno sciamano preistorico nel territorio montagnoso a nord della regione dell'Altipiano Tsang in Asia Centrale, durante la sua malaugurata spedizione del 1913. Si ricorderà forse che fu la malaccorta pubblicazione, sotto forma di un opuscolo edito privatamente, della sua sconvolgente e caotica «traduzione congetturale» delle Tavolette, a suscitare un tale scalpore - in egual misura da parte della stampa e della Chiesa - da danneggiare irreparabilmente la sua reputazione scientifica. Reputavamo questo insieme di dodici tavolette di giada nere troppo dubbio per includerlo nella nostra prossima esposizione. Esse erano incise accuratamente su entrambi i lati con fitte righe di caratteri minuti in un linguaggio sconosciuto, cui le note di Copeland si riferiscono come «Nacaal ieratico». La statuetta stessa è un manufatto molto inusuale, completamente dissimile da ogni altra scultura di fattura indigena mai trovata nell'area del Pacifico. È alta circa quarantotto centimetri ed è squisitamente scolpita in lucida giada estremamente levigata, di un insolito tipo non ancora identificato. La pietra è di un bianco grigiastro, oleoso, screziato da macchie verdescuro, ed è più pesante e più densa di qualsiasi altra varietà nota di giada. La qualità artistica della scultura è sorprendentemente sofisticata per una regione le cui cognizioni scultoree di rado vanno oltre grezzi bassorilievi geometrici o la rozza fattura di idoli antropomorfi. Come mettono in rilievo le note del Dr. Blaine sulla statuetta, essa è «non solo non umanoide, ma di fatto non oggettiva. Ricorda in modo ossessivo alcune delle magiche figure scolpite dello scultore dilettante, poco noto, Clark Ashton Smith. Per i particolari e per la perfezione, per non dire nulla della concezione... richiama magicamente alla memoria l'opera, brillante anche se degenerata, del famoso scultore di San Francisco, Cyprian Sincaul». Le note del Dr. Blaine sulla statuetta sono succinte e ben formulate, al punto che non posso sperare di migliorarle, così le citerò direttamente: Rappresenta una creazione peculiare: è un busto modellato come un cono tronco, a base larga. Una testa piatta smussata e cuneiforme, vagamente simile a quella di un rettile, sormonta questo torso conico. La testa è quasi interamente nascosta dietro bande di riccioli. Questi capelli, o barba e chioma, consistono in fili fittamente scolpiti a spirale, come serpenti o vermi. La fattura
è così stranamente realistica che potreste quasi giurare che i viscidi riccioli si muovono. Tra questa ripugnante chioma di Medusa di riccioli viscosi, due feroci occhi serpentini fissano in un'orribile fusione di scherno gelido e disumano e di ciò che posso descrivere solo come una minaccia sogghignante... La base su cui poggia questo busto conico e tronco è scolpita nella stessa insolita giada screziata, ed è angolata in modo strano, come se la cultura dello scultore fosse al corrente di una geometria completamente non-euclidea. Su di un lato di questa base, stranamente angolata, sono incisi, con nettezza ed in profondità, due geroglifici estremamente complessi, in una lingua a me ignota. Questi simboli non sono simili né agli ideogrammi cinesi, né ai glifi egiziani, né ai caratteri arabi, o sanscriti, o ad una qualsiasi forma comune del cuneiforme mesopotamico. E certamente non hanno la minima somiglianza con nessuna scrittura indigena del Pacifico Centrale o Meridionale, a me nota. Le note del Dr. Blaine sulla Statuetta di Ponape si concludono così: Quattro membra o appendici, smussate e affusolate, si alzano, spuntando dalle spire sovrapposte alla base del collo dell'idolo... Sono piatte e somigliano ai tentacoli di un comune echinoderma della classe Asteroidea, la familiare stella di mare delle nostre spiagge californiane. Ma offrono un'eccezione del tutto peculiare: la parte inferiore di queste membra larghe e piatte presenta delle file di ventose a disco... Lo sconosciuto artista, nella sua concezione basilare, ha combinato le suggestioni della stella marina e del calamaro o della piovra. La descrizione del Dr. Blaine è ammirevolmente scientifica ma, quello che egli non riesce a suggerire, è la sensazione stranamente orribile di un netto senso di disagio, che l'osservatore prova nel guardare la misteriosa statuetta. La sensazione è letteralmente orribile. Qualcosa nel feroce sguardo freddo, fisso, intelligente, di quegli occhi da rettile di lucente pietra scolpita, e una strana allusione di minaccia fisica nel modo in cui i tentacoli di giada sembrano alzarsi e stendersi, come se facessero ogni sforzo per prendere ed intrappolare l'indifeso osservatore tra le proprie disgustose spire, è
snervante in modo molto profondo, e lo si deve provare per credervi. Maneggiare quell'oggetto di pietra era diventato di colpo ripugnante. La superficie fredda, liscia e oleosa, era repellente al tatto, e il suo peso inerte, plumbeo, sembrava tutt'a un tratto spiacevole in modo insopportabile. Rimisi lo sgradevole oggetto in cima alla cassaforte, e mi dedicai con un irrefrenabile fremito di disagio ad un esame minuzioso delle note. La notte precedente avevo abbandonato lo studio dell'incartamento sulla statuetta al punto in cui il Professor Copeland aveva inserito parecchi brani, prolissi e incomprensibili, citati da testi eruditi o mitologici. Li lessi con intensa curiosità mescolata, lo devo ammettere, ad un lieve divertimento e disprezzo; perchè quella farragine di superstiziosi spauracchi sembrava il delirio di un cervello impazzito. Cionondimeno, ricordando i pressanti avvertimenti di Blaine a proposito del pericolo che si celava nella Statuetta di Ponape, dico solo che trovai come i brani fossero pervasi tra le righe di toni singolarmente infausti. Il primo pezzo era una citazione copiata da De Vermis Mysteriis di Ludvig Prinn. Essa diceva così: Byatis, con la barba fatta di serpenti, il Dio dell'Oblio venuto dalle stelle con i Grandi Antichi, era chiamato per mezzo degli omaggi fatti al suo idolo (questo passo era sottolineato con forza, probabilmente dal Professor Copeland. Poi continuava:) che fu portato dai Profondi sulla Terra. Egli può essere chiamato se un essere vivente tocca il suo idolo (anche questo passo era sottolineato). Il suo sguardo fisso ottenebra la mente, e si dice che quelli che guardano i suoi occhi saranno costretti a gettarsi nella sua stretta. Mangia con gli occhi quelli che sì smarriscono fino a lui, e da quelli che mangia con gli occhi prende una parte della loro vitalità, e così diventa più grande. Poiché si dice, a proposito di questi idoli dei Grandi Antichi portati dalle stelle quando tutta la Terra era giovane, che una linea psichica collega, per esempio Byatis o Han, ai propri idoli. Quelli che adorano i Grandi Antichi e che li servono su questo piano, possono comunicare con i loro Padroni tramite tali immagini. Ma un fatto tenebroso e terribile, oltre il credibile, è riservato a quelli che inconsapevolmente posseggono tali idoli dell'Aldilà, perchè gli Antichi prosciugano la loro vitalità attraverso questa linea psichica, e i loro sogni sono resi orribili con fuggevoli vedute da incubo dell'Inferno Finale.
Il passo del libro di Prinn si interrompeva qui. Riflettei su di esso, e subito ricordai le lunghe settimane in cui il Dr. Blaine aveva studiato la Statuetta di Ponape che il Professor Copeland aveva ritenuto un idolo di ZothOmmog, e ricordai anche come si fosse lamentato di incubi, che aveva avuto durante quelle settimane di vicinanza alla Statuetta. La citazione seguente era tratta da un libro intitolato Le Rivelazioni di Glaaki, o da una parte di esso, a cui il Professor Copeland si riferiva come il «dodicesimo volume proibito», qualsiasi cosa volesse dire con questa osservazione criptica. Anche questa seconda citazione era un delirio di nomi magici e simboli senza senso, e aveva molto del sinistro tono da incubo di certi volumi della Bibbia apocrifa. Suonava come segue, cominciando evidentemente proprio a metà di una frase; «Così Y'golonac potrà ritornare a camminare tra gli uomini ed aspettare il giorno in cui la terra sarà liberata. E Cthulhu sorgerà dalla tomba tra le alghe. Glaaki aprirà la botola di cristallo. La prole di Eihort sarà generata alla luce del sole. ShubNiggurath avanzerà a grandi passi per frantumare la lente lunare. Byatis irromperà dalla sua prigione. Daoloth strapperà l'illusione per svelare la realtà celata dietro di essa. Aphoom Zhah sorgerà dalle viscere di Yarak all'estremo polo boreale. Ghatanothoa emergerà dalla sua cripta, posta al di sotto della rocca di Yaddith-'Gho, nella soprannaturale Mu. E Zoth-Ommog salirà dalle profondità dell'oceano. Ia! Nyarlathotep! Attraverso i loro soli idoli, noi li libereremo». Il terzo di questi brani era il più inspiegabile di tutti. Era stato preso da un libro del Conte d'Erlette, il Cultes des Goules: «C'è un terrore che si cela nella pietra scolpita: non senza motivo i figli del deserto evitano l'orribile Irem, dalle Mille Colonne. Ogni pilastro della quale sostiene un idolo di Coloro che Dimorano Lontano. Non è una vana superstizione ad ingiungere all'osservatore di fremere d'orrore, quando guarda la mostruosa Sfinge in meditazione che ricorda la Cosa Tenebrosa e Spaventosa di cui è il simulacro. Ma ancor più da evitare e da temere sono gli idoli
portati dall'Aldilà, prima che i primi uomini strisciassero gemendo attraverso le fumiganti paludi della Terra primitiva. Perché, questi idoli sono permeati di una ripugnante maledizione. Rapidamente prosciugano la forza degli uomini, o riempiono le loro menti di sogni ripugnanti e allettanti. Qualcuno dice che gli Esterni possano essere convocati qui, attraverso i loro soli idoli. Ma io mi auguro che quest'ultima sia solo una vana leggenda. Perchè se fosse vera, allora il Mondo si troverebbe in un orrendo pericolo fino a che tali idoli, portati dalle stelle, non fossero distrutti fino all'ultimo». A quest'ultima citazione era aggiunta - nella grafia filiforme del Professor Copeland - come una nota al margine - un'annotazione che il Dr. Blaine aveva sottolineato tre volte: Cfr. NEC. III, XVII. Questo, lo capii all'improvviso, era quell'unico libro di importanza straordinaria verso cui il povero, squilibrato Dr. Blaine si era pietosamente sforzato di dirigere la mia attenzione. Questa traccia mi diceva dove si poteva trovare con esattezza tra le pagine di quel misterioso Necronomicon, il rituale o la formula per mezzo della quale si poteva distruggere senza pericolo la Statuetta di Ponape! Questo fatto mi apparve così significativo, che lì per lì presi il mio taccuino e ricopiai integralmente la nota al margine, in modo da non rischiare di perdere l'informazione. E, proprio mentre lo facevo, mi assalì un'indescrivibile sensazione di essere osservato. La pelle della nuca mi si accapponò letteralmente, e fui preso da un'inspiegabile paralisi di schiacciante terrore. La pressione di occhi freddi, invisibili, maligni, proveniente da qualche punto dietro di me, non dava adito ad alcun errore. Qualcuno... o qualcosa... mi stava osservando, con un feroce sguardo agghiacciante, del tutto malvagio e calcolatore. Immediatamente mi voltai, e guardai i freddi occhi scolpiti nella pietra inanimata. Era la statuetta di giada di Zoth-Ommog, che avevo lasciato in cima alla cassaforte dell'ufficio. Mi forzai ad una risata incerta, e cercai di non dar peso alla netta sensazione di malessere. Ma avrei potuto giurare che, quando avevo riposto l'idolo, esso era voltato dall'altra parte... Nella settimana seguente fui troppo immerso nei miei compiti ufficiali per riprendere un ulteriore studio del Ciclo di Leggende Xothiche. Durante
quest'intervallo di tempo, i Direttori si erano riuniti parecchie volte in seduta ufficiale, e l'orientamento di questi incontri mi infastidiva singolarmente. Per dirla chiaramente, si stava decidendo che l'esposizione della Collezione Copeland avrebbe, dopo tutto, incluso la Statuetta di Ponape! I Direttori avevano la sensazione che l'interesse del pubblico per la famigerata statuetta, suscitato dagli articoli deplorevolmente scandalistici, avrebbe portato all'Istituto folle di persone, curiose di vedere con i propri occhi il misterioso idolo, la cui antica «maledizione» aveva portato due famosi studiosi alla pazzia. Sebbene non possa spiegarne sufficientemente il motivo, devo ammettere che ero atterrito da questa decisione, e feci del mio meglio per dissuadere i Direttori. Questo mio tentativo fallì clamorosamente, perchè non potevo offrire alcuna prova reale dell'insensatezza di quest'atto. Dopotutto, che cosa potevo dire? Che un uomo, morto pazzo delirante, aveva scarabocchiato alcune note su un'oscura mitologia. E che queste note sembravano suggerire che un pericolo magico e sovrannaturale aleggiasse intorno ad un esemplare di scultura? Oppure potevo argomentare che un altro uomo, ancora rinchiuso in un sanatorio a causa di un esaurimento nervoso, aveva pronunciato alcuni avvertimenti, vaghi ed isterici contro l'esposizione della statuetta? Ovviamente, potevo servirmi difficilmente di questi argomenti, basati sulla superstizione e sull'isteria, per controbattere la decisione dei Direttori. Di fatto, non potevo trovare alcuna base per giustificare la mia sensazione di malessere al pensiero di esporre la Statuetta davanti ad un pubblico curioso e affamato di sensazioni. Certamente, nemmeno io accettavo che queste assurdità occulte fossero del tutto vere! Oppure le accettavo? Nonostante la mia mancanza di convinzione, argomentai con quanta più eloquenza potevo, contro la decisione. Cercai di chiarire il concetto che esporre al pubblico la Statuetta di Ponape sarebbe stato prematuro, visto che la sua autenticità non era stata ancora pienamente provata. Aggiunsi che, esporre un pezzo così discutibile, sarebbe stata una mera speculazione sullo scandalo, una mera caccia al titolo in prima pagina. I Direttori ascoltarono con cortesia queste argomentazioni, ma niente che io potessi dire influenzò minimamente la loro opinione. Nel frattempo, raddoppiai i miei sforzi per localizzare una copia del Necronomicon. Spedii dozzine di telegrammi, e le risposte, che arrivavano alla spicciolata, erano tutte deludenti. Nessuna delle Università dello Stato
sembrava possedere una copia di questo volume favolosamente raro. Né alcuna delle grandi biblioteche o collezioni private voleva ammettere di averla. Quanta disperazione ci fosse nella mia ricerca del Necronomicon doveva essere trapelato attraverso le frasi formali delle mie missive, perchè qualche Biblioteca rispose con toni di simpatia e di incoraggiamento alle mie domande. Tra queste, la Biblioteca di Huntington fu la più gentile, avvisandomi di provare al British Museum, alla Biblioteca Kester a Salem, oppure alla Biblioteca Miskatonic ad Arkham. La nota della Biblioteca Huntington aggiungeva per aiutarmi, che avevano perlomeno una copia del Unaussprechlichen Kulten di von Junzt, che si riteneva trattasse un tipo di materia affine a gran parte del contenuto del Necronomicon. Fui grato dell'aiuto alla Huntington, ma l'ultima cosa di cui avessi bisogno era il von Junzt. Una copia del Unaussprechlichen Kulten nell'edizione di Dusseldorf del 1840, era stata trovata tra le carte del Professor Copeland, ed era a disposizione nella Biblioteca dell'Istituto. Ma ancora non avevo avuto l'opportunità di darle un'occhiata. Il suggerimento della Huntington di tentare alla Biblioteca della Miskatonic University ad Arkham, nel Massachusetts, mi riportò alla mente l'identico richiamo del Dr. Blaine. Spedii un telegramma alla Biblioteca Universitaria, chiedendo se possedevano il Necronomicon, e cercando di organizzare un prestito tra le biblioteche. Uno o due giorni dopo, ricevetti un'amichevole risposta dal Bibliotecario della Miskatonic, un certo Dr. Henry Armitage. Mi diceva che la loro collezione conteneva effettivamente una copia del Necronomicon, nella versione latina di Olaus Wormius, stampata in Spagna nel diciassettesimo secolo. Ma il volume era realmente troppo raro e di valore per permettere che lasciasse la collezione. Il Dr. Armitage aggiungeva che la Biblioteca Miskatonic possedeva l'unica copia nota dell'edizione completa esistente in America e che, negli ultimi anni, c'erano stati numerosi tentativi di comprare dalla biblioteca, o perfino di rubare, il prezioso volume. La sua risposta era affabile ed amichevole nell'aggiungere che, se mi era possibile andare ad Arkham, egli sarebbe stato felice di permettermi di esaminare a mio agio il Necronomicon. Allora mi divenne chiaro che, se avevo l'intenzione di studiare la formula del Necronomicon per la distruzione della statuetta, avrei dovuto certamente intraprendere il lungo viaggio da Santiago ad Arkham. In effetti, avevo la possibilità di farlo. L'Istituto mi doveva ancora due settimane di
ferie, poiché l'anno precedente mi ero offerto di rinunciare alle mie ferie per rimanere in servizio, mentre il Dr. Blaine era malato. Ora che il mio lavoro di organizzazione e classificazione del Lascito Copeland era finito, l'Istituto non aveva realmente alcun bisogno urgente dei miei servizi e poteva comodamente permettersi di offrirmi le due settimane successive per una breve vacanza dai miei compiti. Non persi tempo ad inoltrare questa richiesta ai Direttori, e ricevetti una risposta favorevole. Allora inviai un telegramma al Dr. Armitage per informarlo del mio viaggio e cominciai a consultare l'orario ferroviario. IV Il viaggio fu lungo e lento, e mi prese molto tempo. Presi un autobus fino a Los Angeles, e lì salii sul treno diretto ad Est, cambiando a Denver, poi di nuovo a Chicago, e l'ultima volta a Boston, dove presi un locale per l'ultima tappa del mio viaggio. Per tutto il tragitto avevo preso uno scompartimento riservato. Pensando che avrei avuto bisogno di qualcosa da leggere durante il viaggio, avevo portato con me nella cartella, la copia del Professor Copeland del raro Unaussprechlichen Kulten di von Junzt. Sottraendo questo libro dagli archivi dell'Istituto, suppongo di essere stato colpevole di un'irregolarità tecnica, ma era poco probabile che se ne sentisse la mancanza, visto che nessuno dello staff sapeva o si premurava di sapere di che cosa si trattasse. Esaminai il libro con una certa curiosità. Era un grande volume in quarto, rilegato in pelle scura ornata di borchie di ferro arrugginite. Avevo consultato la storia del libro, e avevo appreso che questa era la rilegatura originale e che esistevano ancora solo una mezza dozzina di copie conosciute della prima edizione. Von Junzt, o per dare il suo nome completo, Friedrich Wilhelm von Junzt, era nato a Colonia nel 1795. Aveva insegnato occultismo e metafisica alla famosa Università di Württemberg. Era morto in circostanze molto strane a Düsseldorf nel 1839, proprio poco prima della prima pubblicazione del suo monumentale libro. In seguito, ci fu un'edizione «pirata», economica e piena di errori, pubblicata da Bridewell nel 1845, ed una versione in inglese, pesantemente purgata, apparve nel 1909, per le edizioni Golden Goblin a New York. Lo aprii a caso: era naturalmente in tedesco. La carta era in condizioni abbastanza buone, considerando che il volume aveva quasi un secolo. Ma le pagine erano piuttosto imbrattate e macchiate. Mentre sfogliavo il primo
capitolo, i miei occhi furono colpiti dal nome «Abdul Alhazred», alla pagina IX. Alhazred, naturalmente, era il demonologo mussulmano, che doveva la sua fama soprattutto al fatto di essere l'autore del Necronomicon. Lessi il passo che conteneva questo riferimento a lui, che cominciava: «es stent Zweifel, das dieses Buck ist die Grundlage de Okkulteliteratur». Ero divertito nel vedere che cosa von Junzt avesse da dire sulla presunta follia di Alhazred. Il che aveva più di una punta d'ironia alla luce del fatto che molti dei suoi dotti colleghi del tempo avevano pensato che lo stesso von Junzt fosse abbastanza squilibrato. In breve mi trovai completamente avvinto dall'ampollosa prosa del grande occultista tedesco. Il suo libro trattava molti culti magici e strani che sopravvivono negli angoli più remoti del mondo. Per esempio, i culti omicidi degli Assassini dell'India e quelli dei Dacoit di Burma, e il culto dei Mangiatori di Cadaveri del più lontano Tibet. Ma il libro si interessava principalmente di un sistema universale di società segrete che servivano o adoravano i Grandi Antichi. La parte iniziale di questa sezione centrale del volume era un saggio di lunghezza considerevole. Descriveva la discendenza degli Antichi dai loro potenti genitori o progenitori (von Junzt rimaneva ambiguo riguardo al loro sesso), che erano chiamati Azathoth e Ubbo-Sathla, nomi che io ricordai citati nelle note di Copeland. Questo saggio, che ammontava a circa novanta pagine di testo, si chiamava la «Narrazione del Mondo Maggiore». Era, in parte, una traduzione del terzo tomo del Livre d'Ivonis, un libro scritto o tradotto da uno studioso normanno-franco del tredicesimo secolo, Gaspard du Nord e, in parte, un commento o esegesi a questo terzo tomo che von Junzt aveva elaborato, confrontando il testo del Livre d'Ivonis con i dati comparabili del Necronomicon latino. Sebbene interminabile, e scritta nello stile verboso, tipico della cultura classica tedesca, questa storia della mitologia fondamentale conteneva una considerevole quantità di materiale che mi era nuovo, e molte notizie introvabili nelle note Blaine/Copeland. Dal mio studio precedente dell'incartamento di Copeland sul materiale Xothico, avevo già appreso che il Professore si era sforzato a lungo di ottenere una copia del famoso (o forse famigerato) libro di von Junzt. Ora, nello studiare più a fondo, scoprii che il libro di von Junzt era inestimabile per gli studiosi di questa mitologia. Perchè di tutti quelli che avevano stu-
diato o scritto sul ciclo di leggende, il solo von Junzt aveva avuto un accesso illimitato a certe opere mitologiche incredibilmente vecchie e fantasticamente rare, che contenevano informazioni preziose sui particolari del mito, non disponibili per coloro che hanno scritto dopo su questo soggetto. Tra questi libri straordinariamente rari ce n'era uno noto come i Manoscritti Pnakotici che, come il libro di du Nord, non erano mai stati stampati e circolavano in manoscritto solo tra i cultori della materia. I Manoscritti Pnakotici erano, comunque, incredibilmente più antichi del Livre d'Ivonis o Libro di Eibon, come talvolta è chiamato. La storia tradizionale delle origini dei Manoscritti (che von Junzt ripete solennemente, senza commenti) afferma che i loro primi capitoli furono presumibilmente composti, prima che le prime forme di vita venissero alla luce su questa Terra. I loro autori si suppone fossero una misteriosa razza extraterrestre di entità mentali "Yith", che arrivò sul nostro pianeta molto tempo prima dell'avvento della vita degli uomini, o anche dei mammiferi. Essi abitarono da qualche parte dell'Australia primordiale, in una ciclopica città di pietra, nota alle razze successive come Pnakotus. Questo nome si credeva significasse qualcosa tipo "Città degli Archivi". Dal nome Pnakotus, come è ovvio, è derivato presumibilmente il titolo Manoscritti Pnakotici. Si credeva fosse stata usata dall'occultista tedesco anche un'altra raccolta di fonti, ancora più spaventosamente antica ed aliena. Era quella spaventosa cronaca, il Ghorl Nigräl, la cui origine è il segreto di uno dei più orribili dei tenebrosi miti racchiusi nelle pagine oscure del Libro di Eibon. Lì è chiamato il Libro della Notte e si dice che il non-umano Mago Zkauba, armato di artigli e dal muso d'animale, l'aveva rubato ai mostruosi Dholes, su di un mondo chiamato Yaddith dalle Cinque Lune. Von Junzt annota che di questo Ghorl Nigräl, solo una copia è stata portata su questo pianeta dalla spaventosa Yaddith, in tutte le incommensurabili ere di esistenza della Terra in questa parte di spazio. Quest'unica copia è nascosta da qualche parte negli abissi neri dell'Asia, in un posto detto Yan-Ho. Lì, del libro, si mormora in un migliaio di leggende come del "lascito nascosto di Lang dell'antico eone". Secondo Gottfried Mülder, uno scienziato che accompagnò von Junzt nei suoi viaggi e che contribuì alla prefazione del Unausspreshlichen Kulten, von Juntz fu il solo essere completamente umano a cui fu permesso di esaminare questo antico libro, le cui origini, se si dice la verità, sono così aliene da scuotere l'immaginazione. Per esaminare il Ghorl Nigräl, von Junzt dovè avventurarsi fino ad un
remoto monastero di pietra, oscuro e malfamato, che si trovava da qualche parte all'interno della Cina. Una serie di monaci "stranamente deformi", coperti di maschere e tuniche gialle, presero il prezioso codice dal suo nascondiglio perché egli lo esaminasse. Chiesero in cambio un prezzo così ripugnante ed orribile che Mülder rifiutò con raccapriccio di parlarne, ed è morto portandosi il segreto nella tomba. Questo stesso Mülder, molto tempo dopo la morte di von Junzt, di cui si sono sussurrate storie tanto strane e spaventose, tentò una ricostruzione scritta di quello che ricordava di aver sentito da von Junzt, a proposito dei contenuti di questo misterioso libro. Egli si servì del mesmerismo e di qualcosa di simile all'autoipnosi per ottenere un ricordo perfetto. Il suo libro, I misteri e i segreti dell'Asia, con Commenti sul Ghorl Nigräl, fu pubblicato a spese di Mülder a Leipzig nel 1847. Le copie sono eccezionalmente rare, perché le autorità sequestrarono e bruciarono quasi l'intera tiratura. Lo stesso Mülder si salvò per un pelo dall'impiccagione, fuggendo nel Metzengenstein, dove morì in un manicomio undici anni dopo. La copia dell'Unaussprachlichen Kulten, che Copeland aveva acquistato da un commerciante di libri rari a Praga, si dimostrò eccezionalmente interessante. Il Libro Nero, come è talvolta chiamato (il titolo si traduce "Culti Innominabili"), contiene una grande abbondanza di materiale a cui non era fatto cenno nell'incartamento di Copeland. Il testo, dagli antiquati caratteri gotici, era di difficile lettura, ma le sue strane meraviglie erano così affascinanti che perseverai. Secondo la storia di von Junzt, in origine il pianeta Terra non era affatto una parte di quest'universo fisico, ma venne alla luce in un altro piano o dimensione assoluti dell'essere. Qui avevano la supremazia gli Dei Maggiori, una razza di divinità benevole. Gli Dei Maggiori, quasi all'inizio vero e proprio del tempo, decisero di creare una sotto-razza di entità minori per farne i loro schiavi. Perciò diedero vita ai mostri gemelli, Azathoth e Ubbo-Sathla. Questi due esseri, che pare fossero androgini o multisessuali, dovevano generare una schiera di divinità minori, che avrebbero servito gli Dei Maggiori. Ma Azathoth e Ubbo-Sathla si ribellarono ai propri padroni. Fu Ubbo-Sathla a rubare agli Dei quella biblioteca dell'antico eone, fatta di tavolette di pietra incise di geroglifici: le Memorie Maggiori. Egli le nascose nella sua dimora dalla luce grigia di Y'qaa, nelle profondità della Terra. Quando gli Dei Maggiori sorsero irati alla ricerca del luogo dove era nascosta l'immemorabile biblioteca, Ubbo-Sathla evocò i poteri cosmici che aveva appreso dallo studio delle Memoria. Allora la Terra e i suoi pri-
mitivi abitanti caddero dal loro piano o dimensione originari nel nostro universo. Li seguirono non molto tempo dopo Azathoth e i primi della sua progenie, Nyarlathotep, Yog-Sothoth, Cxaxutluth, e anche altre entità primordiali. Secondo von Junzt, la Terra cadde nel nostro universo attuale "innumerevoli bilioni di eoni fa". Questa storia della ribellione degli originari Grandi Antichi, era seguita da una descrizione prolissa e dettagliata della discendenza e della genealogia dei Grandi Antichi, che rivelava molte informazioni non accessibili a Copeland. Secondo von Junzt, Azathoth e la sua progenie attraversarono le immensità astrali dal confine del nostro universo fino alla regione dove si trovava la Terra, e lungo il cammino generarono anche altri esseri della loro stirpe infernale. Yog-Sothoth, per esempio, dapprima si accoppiò con una femmina di un mondo chiamato Vhoore, che si trova "nelle profondità della ventitreesima nebulosa", generando quindi Cthulhu. In seguito, si accoppiò con una seconda divinità, in un luogo non menzionato, generando il fratellastro di Cthulhu, Hastur l'Indicibile. Hastur a sua volta si accoppiò con una divinità chiamata ShubNiggurath, e generò tre figli: Ithaqua, Lloigor e Zhar, che erano ariaelementali, come il loro terribile padre. E lo stesso Cthulhu si accoppiò con un'entità chiamata Idh-yaa, in un luogo detto Xoth, generando quindi Chatanothoa, Ythogtha e Zoth-Ommog. Essi accompagnarono il loro potente padre sulla Terra negli eoni successivi, come già sapevo dall'incartamento di Copeland. Su di un mondo che orbita intorno alla stella Fomalhaut, il fuoco-elementale Cthugha generò un altro fuoco-elementale, detto Aphoom Zhah, che discese sulla Terra, calando nelle remote regioni artiche. C'erano ancora molte altre notizie genealogiche nelle pagine prolisse di von Juntz, ma mi manca il tempo per trattarle ancora più dettagliatamente. Basti dire che i Grandi Antichi crebbero numerosi e, quando entrarono in questa regione dello spazio, assalirono la Terra e tre pianeti del sistema solare. Tra questi c'era Marte, che divenne dominio di Vulthoom, il terzo figlio di Yog-Sothoth. Cthulhu e la sua progenie presero il Pacifico come proprio impero. Tsathoggua, il figlio di Chizgut, s'impossessò della primitiva Hyperborea. Aphoom Zhah e la sua progenie estesero il proprio dominio sulle regioni dell'estremo polo boreale. A quel tempo la Terra era dominata da una razza di esseri noti come i Primordiali, descritti da von Junzt come "abitanti alati, dalla testa crinoide, semi-vegetali dell'Antartico paleogeno". Contro di essi, alcuni dei Grandi Antichi, soprattutto Cthulhu e la sua progenie xothica, fecero guerra.
Non molto tempo dopo, un'altra razza contese con i Grandi Antichi per la supremazia della Terra, la cosiddetta "Grande Razza di Yith", una moltitudine di entità puramente mentali che viaggiarono fino a questo pianeta attraverso il tempo e lo spazio, assumendo i corpi di una razza a forma di cono, già residente nell'Australia primitiva. La Grande Razza sfoderò spaventose armi, una potenza terrificante contro gli Antichi, e riuscì perfino a spingerli per un certo tempo sotto terra, in enormi caverne. Ma lì gli Antichi incontrarono i loro fratelli perduti, la progenie di Ubbo-Sathla, e il loro potere aumentò enormemente. Durante gli innumerevoli anni trascorsi, Ubbo-Sathla aveva messo al mondo una prole numerosa, mentre diguazzava nell'abisso dalla luce grigia di Y'qaa, e tra questa erano Zulchequon e Abhot, Nygotha e Yig, AtlachNacha e Byatis, e l'oscuro Hard. Non molto tempo dopo, gli Antichi irruppero dalle profondità della Terra per sfidare la Grande Razza... ma, nel frattempo, gli Dei Maggiori erano entrati in questo universo e, posto il centro del proprio potere intorno alla stella Betelgeuse, discesero in questo sistema solare per punire i propri antichi schiavi per la loro iniqua ribellione. La Grande Razza abbandonò il pianeta Terra, scappando prima su Giove, e poi su un'oscura stella nella Costellazione del Toro. Il loro scopo, dice von Junzt, secondo i Manoscritti Pnakotici, è stabilire sulla Terra l'età futura di una razza post-umana di scarabei. Quando la vita si estinguerà su questo pianeta, essi emigreranno su Mercurio, sotto forma di una razza di entità vegetali bulbose. I Grandi Antichi trasportarono le Memorie Maggiori su di un pianeta intorno alla stella Celeno, per proteggerle. Lottarono con forza contro i Maggiori, ma furono sconfitti, come le note di Copeland mi avevano già informato. L'Unaussprechlichen Kulten forniva una storia dell'esilio o dell'imprigionamento dei Grandi Antichi, molto più dettagliata di quella contenuta nel frettoloso riassunto di Copeland. Nyarlathotep, per esempio, giace incatenato sul "Mondo dei Sette Soli", che von Junzt identifica con "Abbith infestata dalle ombre", a cui i Manoscritti Pnakotici alludono così misteriosamente. Hastur lo rinchiusero nelle "torpide profondità" del lago Hali a Carcosa, su un mondo vicino ad Aldebaran, nella costellazione delle Jadi. Mentre suo fratello Vulthoom, insieme ai suoi schiavi, gli Aihais, con il loro capo Ta-Vho-Shai, gli Dei Maggiori lo imprigionarono nel cavernoso abisso di Ravormos, su Marte, al di sotto dell'antica città di Ignar-Vath. Cthugha fu rinchiuso su di un pianeta che orbita attorno alla stella Fomalhaut, come avevo già appreso.
Ma von Junzt aggiungeva che il capo dei suoi schiavi, Fthaggua, e le Creature di Fiamma, o i "Vampiri di Fuoco", come li chiama il Necronomicon, furono esiliati su di un mondo lontano, chiamato Ktynga. Von Junzt identifica questo pianeta, in via ipotetica, con la Cometa di Norby, un oggetto astrale nelle vicinanze di Antares, che alcuni astronomi credono si avvicinerà pericolosamente al nostro pianeta, all'incirca tra quattro secoli. Potrei anche aggiungere che Shub-Niggurath fu esiliato su "Yadith degli Incubi", un mondo vicino a Deneb. Lloigor e Zhar, due dei figli di Hastur, giacciono incatenati al di sotto di una città in rovina, nella giungla di Burma, serviti dai loro disgustosi schiavi, i Tcho-Tcho, il cui capo è EPoh. Per quanto riguarda la progenie di Ubbo-Sathla, parecchi di essi, come per esempio, Abhoth l'Immondo, e il Dio-Ragno Atlach-Nacha, e Zulchequan, sono imprigionati con lui o vicino a lui in caverne primitive e molto profonde sotto la terra. Nyhgotha fu scacciato da questo mondo, ed è rinchiuso su di un pianeta senza luce, vicino alla stella Arturo. Ma la maggior parte degli Antichi Minori, a quanto pare, non sono imprigionati, e lavorano continuamente per liberare i propri padroni dalla schiavitù del Segno Maggiore. Tra questi, ci sono Dagon e Hydra, che dimora sul fondo dell'oceano, nella sommersa R'lyeh oppure in un luogo chiamato "J'ha-nthlei dalle Molte Colonne". Ubb, il capo dei ripugnanti Yuggs, che servono Ythogtha e Zoth-Ommog, abita anch'egli sotto il mare. Naggoob, il "Padre dei Divoratori di Cadaveri", il condottiero dei servitori di Nygotha l'Abitatore dell'Oscurità, è anch'egli libero. Sono liberi anche Quumyagga, il capo degli Shantaks, e Sss'haa, il comandante degli Uomini Serpente o Valusiani, che servono Yig, Padre dei Serpenti, e Rlim Shaikort, capo dei Freddi che sono gli schiavi di Aphoom Zhah... Un'ora dopo l'altra, mentre il mio treno divorava le praterie, nell'oscurità che si addensava, mi immersi sempre più nella lettura di questo sapere proibito, infernale e blasfemo. Fui preso da un fascino morboso che non posso né giustificare né spiegare. Alla fine non potei leggere oltre e, rabbrividendo, distolsi gli occhi dalle pagine ipnotiche del vecchio libro per trovare la mia cuccetta e i miei sogni febbrili ed oppressi dagli incubi. V Arkham nel Massachussets, è un'antica città coloniale a nordest di Bo-
ston, sulla ventosa costa settentrionale dell'Atlantico. Anticamente, negli oscuri giorni della feroce caccia alle streghe, aveva una cattiva reputazione tra i severi ecclesiastici puritani, timorati di Dio, e si guadagnò la fama, seconda solo a quella di Salem, di essere centro delle congreghe segrete di streghe. Naturalmente, quei giorni sono passati da molto, ma ancora si mormorano terribili leggende sul vecchio porto in decadenza e sulle città vicine, Dunwich, Innsmouth e Kingsport. Prima, nei grandi giorni delle golette yankee, era un centro ricco, popoloso e attivo, di commercio marittimo. Anche quei giorni sono passati, e oggi è un bacino che si sgretola, che si abbandona ad una decadenza, da cui molto probabilmente non risorgerà più. Il treno locale Boston-Arkham costeggiò l'ansa del fiume Miskatonic, ed entrammo ad Arkham all'imbrunire del 20 Marzo, quando il cielo ad ovest era un'esplosione di cremisi fumoso. La città era immersa nella nebbia, e solo le guglie appuntite della chiesa si spingevano contro il cielo che si scuriva. Il passaggio dalle colline poco boscose e dalle fattorie sparse agli squallidi depositi in mattoni rossi e agli edifici commerciali lungo Water Street, fu molto brusco. Scesi alla stazione B & M, all'angolo di High Lane con Garrison Street. Trovai un facchino dagli occhi assonnati per portare la mia borsa attraverso la ventosa rimessa, rimbombante e cavernosa dalla stazione fino ad un piccolo posteggio di taxi che si trovava sulla strada. Il taxi era un vecchio trabiccolo di un logoro Modello T, ma l'autista era un vecchio tipo loquace, con le basette oblique, così ciarliero da smentire la leggenda che tutti gli Yankees delle foreste di quest'angolo del paese sono litigiosi, taciturni e diffidenti verso gli stranieri. Il Dr. Armitage era stato tanto gentile da prendere per me delle stanze all'Athenaeum Club, così chiesi all'autista di portarmi lì. Attraversammo il fiume sul ponte di Garrison Street e arrivammo alla zona sud della città, mentre il mio autista, lungo il percorso, mi indicava le curiosità del posto. L'Athenaeum Club era a Church Street, a due isolati dall'Università. Il vento era umido e freddo, il cielo plumbeo, le strade e i marciapiedi pieni di neve. Rabbrividii nel mio soprabito, visto che questa era la mia prima esperienza dell'inverno del New England. Le mie stanze erano spaziose ed eleganti. Disfeci rapidamente il bagaglio, rendendomi conto di avere una fame da lupi. Non c'era la carrozzaristorante sul treno Boston-Arkham, ed io non mangiavo niente dall'ora di pranzo. Era troppo tardi perché la sala da pranzo dei Club fosse ancora a-
perta, ma l'impiegato al bureau mi indirizzò ad un vecchio ristorante, molto buono, ai piedi di French Hill, a pochi passi da lì. Mi ritirai presto e, la mattina dopo, mi alzai di buon ora, perché il mio appuntamento con il Dr. Armitage doveva essere alle dieci. Era una giornata grigia e nebbiosa, il vento era umido e l'aria sgradevolmente fredda. Le raffiche di pioggia ghiacciata spazzavano le vecchie strade strette, e il vento che soffiava dal fiume penetrava nei miei indumenti come un coltello. Arkham era una vecchia, vecchissima città, e i segni e i ricordi del suo passato coloniale mi circondavano, mentre percorrevo a grandi passi Church Street per andare alla corte quadrata dell'Università. Da ogni parte vedevo edifici di un'antichità stupefacente. Molti di essi erano senza dubbio le residenze costruite dai grandi mercanti di Arkham del diciottesimo secolo, arricchitisi per il commercio con l'India. Alcune delle case che oltrepassai, risalivano indubbiamente alla Restaurazione, o perfino ai tempi di Carlo I. La strada era il sogno di un antiquario: c'erano file di abbaini, di tanto in tanto un bel tetto antico dagli spioventi asimmetrici, con vecchi battenti d'ottone e le lunette sugli architravi. Molti tetti avevano i caratteristici passaggi coperti. Oltrepassai la Christ Church, una delle caratteristiche locali, con la facciata e il suo campanile in stile classico georgiano. Alcuni dei viali d'accesso erano ancora pavimentati di ciottoli e, mentre passavo, intravidi attraverso una finestra l'impianto d'illuminazione a gas. Dappertutto incombeva l'abbandono e l'ammuffita decadenza, la malinconia scialba e da quattro soldi di una città, che aveva superato da tempo la giovinezza. La Miskatonic University occupa un intero isolato, e si affaccia sulla via principale degli affari, Church Street, tra West e Garrison Street. La maggior parte degli edifici sono in stile georgiano, ma furono restaurati alla fine del diciannovesimo secolo, con cattivo gusto, da qualcuno con un'orribile inclinazione per il gotico vittoriano. Entrai attraverso l'enorme cancello principale in ferro battuto, incorniciato da brutte colonne di mattoni rossi. Un guardiano mi guidò alla sala di ritrovo della Facoltà, dove avrei incontrato il Dr. Armitage. Questa si trovava aldilà della corte quadrata, colma di neve. La sala di ritrovo della Facoltà era una stanza lunga, rivestita di pannelli quercia, con un superbo camino in marmo georgiano. Vecchi quadri in cornici dorate dei precedenti Decani e Presidi, guardavano accigliati i tavo-
li ricoperti di marmo fiorentino, cosparsi accuratamente di dotte riviste e le larghe, comode sedie, tappezzate in pelle scura. Il Dr. Armitage era un uomo grosso, dalle guance rubiconde, con i capelli argentei e acuti occhi blu, di un'intensità penetrante, che potevano altrettanto facilmente ammiccare con una nota piccante di buon umore, come rivolgersi gelidi, con un tono di severo rimprovero. Avevo cercato il suo nome negli annuari accademici, ed ero venuto a sapere che aveva conseguito la Laurea in Lettere alla Miskatonic e il Dottorato a Princeton, e che aveva anche una Laurea in Lettere ad honorem della John Hopkins. Tra i parecchi libri e articoli a suo attivo, c'era una famosa monografia, dal titolo Note per Una Bibliografia dell'Occultismo, del Misticismo e della Magia Universali, che le edizioni della Miskatonic University avevano pubblicato nel 1927. Il dottore mi salutò calorosamente, stringendomi forte la mano con presa salda e virile, che smentiva l'età evidente nei suoi capelli canuti. In modo espansivo e cordiale si affrettò a presentarmi a parecchi dei suoi colleghi, tra i quali c'erano il Dr. Seneca Lapham, del Dipartimento di Antropologia, un elegante uomo anziano dall'aria ascetica ed aristocratica, il Professore William Dyer, geologo, e il Dr. Ferdinand Ashley del Dipartimento di Storia Antica. Inoltre c'erano un giovane insegnante di letteratura, di nome Wilmarth, un folklorista dilettante di un certo riguardo, ed un giovane insegnante di psicologia, un anno o due più vecchio di me, di nome Peaslee. Il nome mi sembrava familiare, ed in breve compresi che doveva essere il figlio di Nathaniel Wingate Peaslee, ex Professore di Economia Politica alla Miskatonic, che aveva sofferto di un classico attacco di amnesia, più o meno una dozzina di anni fa, su cui si era scritto molto sui quotidiani e sulle riviste scientifiche dell'epoca. Accompagnai Armitage e il Dr. Lapham all'ufficio della Biblioteca, dopo una tonificante tazza di tè fumante. La Biblioteca Universitaria è un edificio molto grande, in mattoni rossi, posto all'angolo sud-est dell'isolato, fra Garrison Street e College Street. Un enorme cane, un mastino credo, è tenuto alla catena ai piedi della scalinata in marmo italiano, che porta all'ingresso principale. Il cane si alzò al nostro arrivo e ci guardò con calma, non proprio in modo minaccioso, ma con cautela, come per accertarsi solo chi eravamo, con uno sguardo che chiedeva se lì avevamo da fare qualcosa di legittimo. «Buono, Cerbero, questa è una brava persona», lo salutò Armitage. Il
grande cane, soddisfatto, si accucciò di nuovo, permettendoci di passare. Entrammo in un atrio scuro, il cui soffitto a volta era ornato da affreschi sbiaditi. Busti di marmo realizzati nello stile classico, erano posti su piedistalli, ad intervalli, per tutta la lunghezza dell'atrio e, tra essi, riconobbi Thoreau, Longfellow, Washington Irving, Walt Witman, Whittier e James Russell Lowell. C'era un busto che non riconobbi, un uomo dalle labbra arcigne e dallo sguardo duro. Chiesi chi fosse. Il Dr. Armitage ridacchiò e dette un colpetto sulla testa di marmo, mentre l'oltrepassava. «Quel vecchio devoto puritano, Cotton Mather». Ridacchiò. «Un po' fuori posto forse, in una simile compagnia di letterati, ma potremmo difficilmente fare a meno di lui. Arkham e Salem erano i suoi terreni di caccia favoriti, nei giorni andati della stregoneria!» Salimmo una scala a curva con lucide balaustre di mogano e superbi pilastri scolpiti del diciottesimo secolo, e fummo introdotti nell'ufficio della Biblioteca, stipato di schedari e ingombro di libri e carte. Armitage liberò due sedie per il Dr. Lapham e per me, ci invitò a sedere, ed egli stesso prese posto dietro un'enorme scrivania ingombra. Aprì l'ultimo cassetto, ne trasse un grande volume in quarto, rilegato in una vecchia pelle nera, spaccata e fissata con borchie arrugginite, e lo posò sulla scrivania davanti a lui. Un fremito di eccitazione crebbe dentro di me alla vista del vecchio libro. Subito capii che si trattava del Necronomicon. Il Dr. Armitage mi fissò con uno sguardo intento, ma amichevole. «Ora, giovane Hodgkins, la prima cosa che voglio dire è che potete parlare liberamente davanti a me e al Dr. Lapham. Noi abbiamo un'idea molto chiara del vostro problema e del perché è così urgente per voi consultare il Necronomicon. Non dovete vergognarvi di trattare argomenti simili davanti a noi. Nessuno riderà di voi... Dio sa quanta orribile familiarità abbiamo entrambi con questi argomenti. Riguarda i Grandi Antichi, non è vero? In particolare, Zoth-Ommog, il figlio del Grande Cthulhu, il cui idolo di giada fu riportato da Ponape da quel povero folle di Copeland...» «Come diavolo fate a saperlo?» Sbottai stupito. Armitage sogghignò, e il Dr. Lapham si sporse per toccarmi il braccio. «Signor Hodgkins, vi assicuro che sia Armitage che io abbiamo una deplorevole inclinazione per i quotidiani più scandalistici. Inoltre, la storia di Stephenson Blaine è arrivata perfino alle serie colonne del Globe di Boston e anche all'Advertiser di Arkham, il nostro giornale locale. Sto tenendo questa conferenza, perché Armitage sa che da molti anni studio per mio
conto il Pantheon di Cthulhu, e posso ben avere qualcosa di valido da offrire sull'argomento. Dalle pagine del Necronomicon, che voi nella vostra richiesta ci informavate di voler studiare, abbiamo dedotto che il vostro problema è come distruggere senza pericolo la Statuetta di Ponape. È in verità un problema serio, e dovreste sentirvi libero di parlare apertamente su questo argomento». «Si», annuì il Dr. Armitage. «Noi abbiamo qui nella Biblioteca forse la più grande collezione esistente al mondo di libri e documenti che riguardano la mitologia di Cthulhu. Probabilmente è la collezione più perfetta ed esauriente mai raccolta. Oltre il vecchio Alhazred, abbiamo Prinn e von Junzt, i Manoscritti Pnakotici, la versione normanno-franca del Libro di Eibon, i Frammenti di Celeano, il Cultes des Goules. Inoltre, la collezione comprende sia il Testo di R'lyeh che i Canti di Dhol, il Hsan, la Cabala di Saboth, e l'egiziano Riti Neri, Porta, Remigio, e poi una copia manoscritta della traduzione di Winters-Hall del Manoscritto del Sussex, poche pagine dell'Invocazione a Dagon, e anche altro materiale. Non c'è bisogno di dire che, nel corso degli anni, parecchi membri della Facoltà hanno studiato questa letteratura. In verità, finché non scomparve in circostanze abbastanza misteriose nel 1915, il Dr. Laban Shrewsbury, uno dei membri della nostra Facoltà, del Dipartimento di Filosofia, godeva della fama di essere forse la più grande autorità vivente nel campo della mitologia di Cthulhu. Tra gli altri libri, la nostra collezione comprende il suo autorevole studio, Una ricerca sui modelli del mito dei moderni primitivi, con particolari riferimenti al testo di R'lyeh, che le Edizioni dell'Università stamparono per la prima volta nel 1913. È un vero peccato che Shrewsbury non sia qui... Il suo consiglio sul vostro problema sarebbe prezioso!» Il Dr. Seneca Lapham espresse il suo accordo. «Comunque, Armitage ed io possiamo essere senza dubbio di qualche aiuto. Ora, non so con esattezza quanto avete studiato della letteratura sulla mitologia, ragazzo mio, ma posso assicurarvi che, se la Statuetta di Ponape è, dopotutto, uno degli idoli portati dalle stelle, come parrebbe abbastanza verosimile, allora il problema di una sua eliminazione senza pericoli è serio. Come il Necronomicon vi dirà, quei ritratti dei Grandi Antichi, che furono realizzati su questa Terra, sono molto pericolosi: in effetti, sono potenzialmente letali. I culti di adorazione degli Antichi che sopravvivono, possono invitare i propri Padroni a manifestarsi fisicamente su questo piano, per mezzo di certi rituali eseguiti davanti a tali idoli appunto. Il pericolo che tali manifestazioni implicano per la civiltà dovrebbe essere chiaro. Fortunatamente, le manife-
stazioni fisiche degli Antichi su questo piano sono di durata temporanea, ad eccezione di Nyarlathotep il Caos Strisciante...» Armitage a questo punto lo interruppe, protestando che stavamo sprecando tempo prezioso In un'inutile discussione. «Il problema importante che dobbiamo risolvere è come poter distruggere la Statuetta nel migliore dei modi», disse con impazienza. «Concentriamoci su questo. Ora, un metodo che può venire in mente è invocare l'aiuto di un'entità contraria. Signor Hodgkins, forse conoscete il sistema di classificazione del Conte d'Erlette, che ordina i vari Antichi in quattro gruppi, che si identificano con i quattro elementi della mistica medioevale. Bene, secondo questo sistema, alcune delle entità sono fondamentalmente in opposizione ad alcune dei loro fratellastri, e si può invocare il loro aiuto contro le manifestazioni fisiche dei loro rivali. Cthugha, per esempio, come fuoco-elementale è stato invocato con successo contro terra-elementali come Shubb-Niggurak, Nygotha, Tsathoggua, e perfino contro Nyarlathotep. Seguendo questo ragionamento, degli aria-elementali, come Hastur o Ithaqua, possono essere invocati contro i mare-elementali, come il vostro Zoth-Ommog. Una possibilità esiste in questo...» Il Dr. Lapham annuì. «Sono d'accordo. Per di più, Hastur è abbastanza ambiguo nel suo comportamento verso gli uomini, e non è mai sembrato chiaramente ostile a loro... Comunque, perché non permettiamo a questo giovane di esaminare il Necronomicon a suo agio? L'esorcismo della Stella di Pietra, che Alhazred consiglia, può essere dopo tutto la migliore risposta a questo problema». «Molto bene», disse Armitage. Picchiò sul grande volume rilegato in pelle, che era davanti a lui sulla scrivania. «Sapendo che il vostro soggiorno qui sarebbe stato di breve durata, come prima cosa, questa mattina ho tolto il Necronomicon dalla stanza dei Libri Rari. Ho inserito un segnalibro al passo cui siete interessato, ed un secondo segnalibro segnala un'annotazione pertinente che dovreste leggere. Ora, prego, fate come se foste a casa vostra. Troverete penna, inchiostro e carta proprio lì sulla scrivania, nel caso desideriate prendere appunti. Lapham ed io torneremo più o meno tra un'ora per continuare questa discussione. Oh, il testo è nel latino del diciassettesimo secolo, ed è stampato in caratteri gotici tedeschi... Spero che ciò non vi crei alcuna difficoltà... Eccellente, eccellente! Bene, fate proprio come se foste a casa vostra, allora, Sbrigati Lapham!». La porta si chiuse dietro di loro, e io finalmente rimasi solo con il famoso Necronomicon.
VI Il vecchio, pesante, libro, era rilegato in pelle nera e fine, molto screpolata e squamata dagli anni. Era fissato con cerniere e con un fermaglio in ferro arrugginito, alla maniera dei libri stampati in Europa durante il diciassettesimo secolo. Lo aprii con circospezione, e fui atterrito dal miasma nocivo di decadenza che salì alle mie narici dalle pagine rovinate, macchiate ed ingiallite. Ma ero andato troppo lontano per esitare proprio allora. Dominando l'involontario moto di nausea che mi prese mentre respiravo il puzzo quasi palpabile di corruzione che si levava dall'antico tomo in rovina, lessi con attenzione le pagine fittamente stampate. Sapevo che il traduttore era stato lo studioso danese Olaus Wormius, nato nello Jutland, e in seguito divenuto famoso per i suoi studi greci e latini. Aveva ottenuto da qualche fonte sconosciuta una copia della rara traduzione greca del Necronomicon, che lo studioso bizantino Theodorus Philetas aveva segretamente eseguito dall'originale arabo intorno al 950 d.C. Il testo di cui Wormius si era servito per la sua versione latina era molto probabilmente, quello dell'edizione originale di Costantinopoli, che più tardi fu messo all'indice dal Patriarca Michele. La traduzione di Wormius era stata pubblicata solo due volte. La prima pubblicazione fu l'edizione gotica pubblicata in Germania intorno al 1400, la seconda fu l'edizione spagnola del 1622. Dando una scorsa al volume, fui sorpreso di scoprire che, nonostante il grande formato delle pagine dell'«in quarto» (che misurava circa venticinque centimetri per trenta), appariva su ogni pagina un numero di parole minore di quello che ci si sarebbe potuto aspettare dalle sue proporzioni. Ciò era dovuto ai profondi margini e scanalature usati dallo stampatore, oltre che ai caratteri gotici spessi e fatti male. Curioso: contai le parole su due o tre pagine a caso, trovando che erano in media circa trecentosettantacinque parole a pagina. Visto che i racconti contenuti nel primo libro erano resoconti biografici dei primi anni di carriera di Alhazred, delle sue varie esperienze soprannaturali, degli esperimenti magici e di occultismo, non me ne occupai per molto. Subito girai alle pagine in cui il Dr. Armitage aveva inserito il primo segnalibro, cioè alla pagina 177, a metà del tomo IV. Cominciai lentamente a tradurre l'antico latino, con il valido aiuto di un
manoscritto ingiallito e cadente della versione inglese dello stesso passo, realizzata da Dee. Il Dr. Armitage l'aveva messo a mia disposizione, e fui spesso costretto a consultarlo per alcune delle parti più difficili. Riferirò il contenuto della pagina, come meglio posso ricordare: «Non c'è maledizione che non ha rimedio e non c'è male contro cui non esista cura. Gli Dei Maggiori vivono remoti e distanti dagli affari degli uomini, ma Essi non ci hanno abbandonati al furore di Quelli che vengono dall'Esterno e ai loro abominevoli schiavi. Infatti, all'interno della Stella a Cinque Punte, scolpita nella pietra grigia dell'antico Mnar c'è la protezione contro le streghe e i demoni, contro i Profondi, i Dholes, i Voormis, gli Tcho-Tcho, l'abominevole Mi-Go, gli Shoggoths, i Valusiani, e contro tutti i popoli e gli esseri che servono i Grandi Antichi e la Loro Progenie. Ma la pietra è meno potente contro i Grandi Antichi in persona. Colui che possiede la Stella a Cinque Punte si troverà a poter comandare tutti gli esseri che strisciano, nuotano, brulicano, camminano e volano, anche fino alla Fonte da cui non c'è ritorno. Nella Terra di Yhe come nella grande R'lyeh, a Y'hantheli come a Yoth, a Yuggoth come a Zothique, a N'hai come a K'n-yan, a Kaddath nella Distesa Fredda come sul Lago di Hali, a Carcosa come ad Ib, essa avrà potere. Ma, proprio come le stelle declinano e diventano fredde, proprio come i soli muoiono e gli spazi fra le stelle diventano più grandi, così declina il potere di tutte le cose - della Stella di pietra a Cinque Punte come degli incantesimi gettati sugli Antichi dai benigni Dei Maggiori. E verrà un tempo, come una volta c'è stato un tempo, e sarà rivelato che: Non è morto ciò che può essere eternamente E in misteriosi eoni anche la Morte può morire. Ma il tempo non è ancora giunto, e la Pietra Stellare di Mnar, segnata dal Sigillo che è il Segno Maggiore, resta ancora forte contro la rabbia di Quelli che imprigiona, e contro gli artifici di quei servi e schiavi che vorrebbero liberare i propri Padroni». Questo passo, devo confessarlo, significava ben poco per me. Avevo trovato "Mnar" e "Il Segno Maggiore" citati nel libro di von Junzt che avevo letto sul treno, ma non avevo nemmeno una vaga idea riguardo all'even-
tuale significato di questi termini. Il secondo passo che il Dr. Armitage aveva segnato con una striscia di carta, veniva un po' prima nel libro, circa a metà del diciassettesimo capitolo del Tomo III, che cominciava a pagina 142. Ricordando quella nota misteriosa nella grafia del Dr. Blaine (Cfr. NEC. - XVII) che avevo notato nell'Incartamento Xothico, compresi con una certa eccitazione che questa doveva essere la chiave e il riferimento principale verso cui egli aveva indirizzato con tale urgenza la mia attenzione. Era considerevolmente più lungo dell'altro passo, cosicché lo copiai su un fascio di carte da lettera che il Dr. Armitage mi aveva fornito così premurosamente. Lo studiai in seguito, durante il viaggio di ritorno, con una tale concentrazione che la mia memoria lo ricorda parola per parola. «Della discesa dei Grandi Antichi dalle stelle, è scritto nel Libro di Eibon che il primo ad arrivare qui fu la Cosa Nera, cioè Tsathoggua. Egli se ne andò dall'oscura Cykranosh, non molto tempo dopo la creazione della vita sul nostro pianeta. Tsathoggua non arrivò attraverso gli spazi stellari, ma attraverso le dimensioni che esistono tra loro. Il luogo del suo avvento su questo pianeta fu l'abisso buio e sotterraneo di N'kai, nelle cui tenebrose profondità Egli trascorse innumerevoli cicli, come dice Eibon, prima di emergere nel mondo superiore. E dopo di lui fu il Grande Cthulhu ad arrivare qui, e con Lui tutta la Sua Progenie dalla distante Xoth. In seguito, arrivarono i Profondi e i ripugnanti Yuggs che sono i loro servi, e Shub-Niggurath da Yaddith detta degli Incubi, e tutti quelli che la servono, anche le Fate della Foresta. Ma dei Grandi Antichi generati da Azathoth in principio, non tutti scesero su questa Terra, perché Colui Che Non Si Deve Nominare, si nasconde sempre su quel buio mondo vicino ad Aldebaran nelle Jadi, e furono i Suoi Figli a scendere qui in vece Sua. Similmente, Cthugha scelse per Sua dimora la stella Fomalhaut, dopodiché generò lo spaventoso Aphoom Zhah. Cthugha dimora ancora su Fomalhaut, e con Lui i Vampiri di Fuoco che lo servono. Ma Aphoom Zhah discese su questa Terra e vive ancora nel Suo Reame di Ghiaccio. E il Terribile Vulthoom, quell'orribile cosa che è il fratello del nero Tsathoggua, discese su Marte morente con il Suo potere. Egli scelse quel mondo per il Suo domi-
nio... Non potei fare a meno di rabbrividire per l'incoerente delirio del folle, che aveva rotto un silenzio di anni per parlare di simili abomini. Ma il passo conteneva poco che io non avessi già appreso, così saltai alcune parti finché la mia attenzione non si fermò sul passo seguente: «È scritto che quelli della progenie di Azathoth che non dimorano nei luoghi segreti della Terra, portarono con sé gli idoli e i ritratti dei Loro Fratelli, quando i Grandi Antichi scesero dalle stelle all'oscuro principio. Così, furono gli Esterni che servono Hastur l'Indicibile a portare lo Splendente Trapezoedro dall'oscura Yuggoth sull'Orlo, dopo che fu foggiato con una misteriosa arte nei giorni precedenti alla prima comparsa della vita sulla Terra. E fu attraverso lo Splendente Trapezoedro, che è proprio il talismano dello spaventoso Nyarlathotep, che i Grandi Vecchi chiamarono in Loro aiuto il potere del Caos Strisciante nell'ora del Loro grande bisogno, l'ora in cui gli Dei Maggiori vennero qui irati. Similmente, furono i Profondi a portare su questo mondo il terribile ritratto di Byatis dalla Barba di Serpenti, figlio di Yig. Attraverso quell'idolo Egli fu adorato, dapprima dai tenebrosi Valusiani prima dell'avvento dell'uomo su questo pianeta, e più tardi dagli abitanti della primitiva Mu...» Queste, ovviamente, erano le informazioni che il Dr. Blaine mi aveva disperatamente esortato a leggere. In verità, questo passo confermava le informazioni che avevo già appreso dalla citazione di Ludvig Prinn, inclusa tra le note di Copeland. Continuai a leggere, con una eccitazione crescente. «Poiché i Grandi Antichi avevano previsto il giorno e l'ora del Loro bisogno, quando, cioè, avrebbero dovuto chiamare al Loro fianco i Loro terrificanti Fratelli che avevano preso come dimora mondi lontani, portarono qui quegli idoli proprio a questo fine. Ora di questi idoli astrali gli uomini sanno poco. Si dice che furono lavorati con un'arte magica talismanica, e che gli stregoni e maghi di questa sfera terrena non sono giudicati degni dai Grandi Antichi di essere iniziati ai segreti di quest'arte.
Ma in certi vecchi libri proibiti si mormora che, all'interno di tali idoli, si nasconde un potere terrificante. Si aggiunge che attraverso loro, come attraverso finestre sul tempo e sullo spazio, Coloro che dimorano lontano possono talvolta essere evocati, come lo furono quando a suo tempo accadde che gli Dei Maggiori discesero irati su questo mondo». Le mie mani tremavano mentre copiavo con fatica questo passo, traducendolo rozzamente in inglese, e la mia fronte era imperlata di sudore freddo. Perché sapevo di essere sulla soglia della verità nascosta, per scoprire la quale ero arrivato così lontano. Continuai a leggere... ormai del tutto incapace di respingere questi brani caotici come deliri disgustosi di un cervello malato: «E ci sono persone che adorano i Grandi Antichi attraverso i Loro idoli e ritratti. Ma di ciò dovete diffidare, perché tali idoli sono soprannaturali, e da tempo si sa che succhiano rapidamente la vita di chi li maneggia senza cautela e di chi tenta di chiamare su questa sfera, attraverso essi, Coloro che sono lontani e che è meglio non disturbare. Gli uomini non sanno come distruggere tali idoli. Sono molti quelli che ne tentarono la distruzione e che trovarono la loro propria distruzione. Ma il Segno Maggiore ha un grande potere contro gli idoli che vengono da oltre le stelle. Sebbene dobbiate stare attenti affinché, nella lotta tra gli idoli e Quello che evocate per distruggere i ritratti di Coloro che dormono lontano, non siate consumati e inghiottiti, e così siate distrutti voi e la vostra anima immortale». Fissai le parole che avevo reso frettolosamente in inglese con la mente paralizzata da un sospetto ossessivo. VII Qualche momento dopo, il Dr. Armitage tornò al proprio ufficio, accompagnato come prima dal Dr. Seneca Lapham, e da un giovane che aveva circa la mia età e che mi fu presentato come il Sig. Winfield Phillips, un assistente del Dr. Lapham. Uscii lentamente dallo stato di trance e balbettai, sforzandomi di ricam-
biare in modo naturale il cortese saluto del giovane Phillips. Il Dr. Armitage osservò il mio stato confusionale, con uno sguardo penetrante e sogghignando. «Mi sono accorto, ragazzo mio, che siete un po' sotto shock. Via, figliolo, non vergognatevi: uomini migliori di voi o di me, sono stati sconvolti dalle cose che hanno trovato nelle pagine da incubo di Alhazred! È un libro che merita di bruciare. Lo dico in tutta serietà, proprio io, uno studioso, un uomo che ama e serve i libri. Ma il mondo non è guidato per il nostro piacere, giovane Hodgkins, come il lettore del Necronomicon scopre ben presto!» Guardai il vecchio signore in maniera confusa. Le implicazioni delle sue parole erano veramente spaventose. Dalle sue maniere affettuose e dal significato delle sue osservazioni, dedussi che c'era, dopotutto, un certo elemento di profonda verità cosmica, che si celava dietro questi miti antichi e oscuri. Già ero quasi convinto del concetto, nonostante la sua follia evidente: sentendolo confermare con calma da un altro, si spalancarono abissi e crepe nel comodo modello di vita comune nel quale avevo trascorso i miei giorni fino ad allora... Abissi attraverso i quali si potevano intravedere forme gigantesche e orrendamente suggestive, che scivolavano, strisciavano. E tutto ciò dietro la maschera e il simulacro della cosiddetta "realtà". Furono proprio le parole, che il bibliotecario pronunciò subito dopo, a confermare i miei mezzi timori al di là di ogni dubbio. «Si, giovane Hodgkins, è più di una mitologia vecchia, dimenticata e primitiva, quella con cui abbiamo a che fare: È qualcosa di infinitamente più reale, più orribile e più forte,» disse il vecchio con calma. Gettò uno sguardo al Dr. Lapham e al giovane Phillips. «Tutti noi in questa stanza, abbiamo avuto qualche esperienza con la terribile verità celata dietro queste vecchie superstizioni. Tutti siamo arrivati al punto in cui voi siete ora e capiamo le sensazioni che dovete patire proprio adesso. State a vostro agio, ragazzo mio, siete tra amici...» A questo punto, il Dr. Lapham si schiarì la gola e parlò a voce alta, in tono tranquillo e misurato. «Dovete capire, signore, che attualmente non sappiamo quanto si nasconda dietro queste vecchie leggende caotiche. Ed è evidente che le leggende e gli antichi libri, che rimangono i nostri documenti fondamentali sull'argomento, sono stati architettati da menti superstiziose e primitive, ignare dei concetti raffinati della fisica e dell'astronomia moderne. Non
possiamo quindi prendere sul serio le leggende, come dichiarazioni esatte e letterali di un fatto storico o scientifico. Dobbiamo guardare oltre le leggende, interpretandole alla luce del sapere moderno». "Giustissimo", concordò Armitage. «Non abbiamo a che fare con Dei, Demoni o forze soprannaturali, figliolo mio: sgombrate di questa immondizia mistica la vostra testa! Qualsiasi cosa siano i suddetti Antichi, e qualsiasi sia la natura e l'estensione dei loro poteri, essi non sono né divini né infernali. E, di sicuro, non c'è niente di soprannaturale in loro. Ho scoperto che li si può concepire come creature extraterrestri, antichi abitanti di altri pianeti o sistemi solari, che arrivarono qui millenni fa e che ora dormono in luoghi remoti del globo in uno stato simile all'animazione sospesa. Per esempio, Alhazred definisce Cthulhu come un mostro dormiente e sognante». Questa è una descrizione sufficientemente precisa di uno stato di vitalità in stasi, se considerate che ad Alhazred mancava la giusta terminologia scientifica per descrivere una condizione simile. E permettetemi di osservare inoltre che, benché queste creature siano, senza dubbio, tanto intelligenti da essere state capaci di attraversare in qualche modo le immense distanze stellari, non sono nemmeno lontanamente antropomorfe e non soffrono delle limitazioni dei nostri involucri corporei fragili e dalla breve vita. Abbiamo prove notevoli per suggerire che essi non sono neanche composti dello stesso tipo di materia di cui siamo composti noi, e condividono in parte, se non in niente, i nostri sensi. La durata normale della loro vita, forse si deve misurare in ere geologiche, più che nei novant'anni biblici». Nel frattempo avevo una gran confusione nella testa, come potete ben immaginare. Sforzandomi di dominare la mia reazione violenta nei confronti di questi fatti duri e sgradevoli, e di pensare con chiarezza, balbettai una qualche domanda su come tali creature potessero essere distrutte. Il Dr. Armitage parve turbato. «Dobbiamo arrivare malvolentieri alla conclusione, figlio mio che essi in realtà non possono essere distrutti. Se fossero suscettibili di morte o di distruzione, senza dubbio la razza contraria, i suddetti Dei Maggiori, li avrebbero uccisi o distrutti, invece che imprigionarli o esiliarli, come tutti i testi pertinenti concordano sia stata la loro risoluzione finale. Comunque, anche se sembrano essere non suscettibili di dissoluzione, la struttura particolare del tipo ignoto di materia che li compone, pare includere un difetto di costruzione, un tallone d'Achille, se volete. Vale a dire, una forma ignota e incommensurabile di radiazione o di campo di forze, ha evidentemente
il potere di inibirli in profondità. Permettetemi di mostrarvelo» Si avvicinò ad un grande schedario rivestito di legno, simile a quelli che noi prima usavamo all'Istituto per conservare i manufatti piccoli e fragili, e ne estrasse un vassoio piatto, foderato di velluto, che portò alla scrivania. Sul vassoio vellutato era esposto un gran numero di piccoli oggetti minerali. Erano pezzi di pietra grigio-scura o di minerale cristallino, ognuno dei quali aveva la forma di una convenzionale stella a cinque punte. Sulle prime, non riuscii a capire se questi oggetti di pietra fossero naturali o fatti dall'uomo. Ma al centro di alcuni di loro era inciso un simbolo o un disegno ovale, simile ad un cartiglio egiziano. Questo simbolo scolpito sembrava l'emblema dell'occhio umano, o così appariva ad uno sguardo superficiale. Gli oggetti, o manufatti, erano di varie misure: delle pietre a forma di stella così piccole che si potevano coprire con una moneta da dieci centesimi, a quelle grandi abbastanza da misurare quanto una mano dalle dita tese. Solo quelle più grandi avevano il cartiglio centrale a forma di occhio. «Venite avanti, toccatele se volete. Sono innocue per esseri composti di normale materia terrestre,» disse il Dr. Armitage, esortandomi. Presi una delle pietre e la soppesai con curiosità sul palmo della mano. Al tatto era liscia, levigata e fredda, e somigliava al cristallo, ma la sostanza minerale era opaca e sorprendentemente pesante. Più pesante, direi, della selce o del minerale di ferro, pesante quasi quanto lo sarebbe stato un pezzo di piombo della stessa misura. Al tatto, la pietra emetteva un formicolio debolissimo, quasi impercettibile, come se fosse in qualche modo satura di una debole carica elettrica. Io, che non sono geologo, ero confuso dalla costituzione naturale della pietra. «Certamente sapete che cosa sono?», chiese Armitage. «Alcune delle Pietre a Stella di Mnar, suppongo», risposi rabbrividendo. «Come sono descritte nei passi del Necronomicon che ho appena letto». «Esatto! O almeno supponiamo che sia così», disse Armitage. «Sono state trovate nella zona nord-orientale della Mesopotamia. Una regione che sospettiamo sia il luogo dove si trovava l'antico Mnar, ma non possiamo provare questa supposizione. Finora non vi è stata trovata alcuna traccia d'insediamento urbano, ma ulteriori scavi potrebbero scoprirne qualcuno: o la città di Sarnath o quella di Ib, come Alhazred definisce i centri urbani di Mnar. Letteralmente centinaia di queste Pietre a Stella sono state finora scavate. Erano disseminate lungo una strada serpeggiante, diretta a sud, che sembra sia stata percorsa da un'antica migrazione...» «Ovviamente la strada percorsa dalla migrazione kishita», suggerì La-
pham. «Il quarto tomo di Alhazred descrive come i seguaci del Profeta Kish scapparono da Sarnath, prima della sua distruzione, portando con sé le Pietre a Stella, come mezzi della protezione accordata loro dagli Dei Maggiori... «Si, si», Armitage disse bruscamente. «Ma stiamo di nuovo occupandoci di mitologia, caro Lapham, e nessuno di questi fatti è stato ancora accertato in modo soddisfacente. Può non essere mai esistita una città chiamata Sarnath, o un profeta detto Kish, tranne che nella leggenda. Tutto ciò che sappiamo è che le pietre a stella esistono realmente, perché le abbiamo trovate». «Oh, molto bene, incredulo Tommaso!», ridacchiò Lapham. «Ma almeno sappiamo che le Pietre a Stella e il loro potere contro gli Antichi sono noti ed usati da tempi molto antichi. Nel 1910, la spedizione della Miskatonic in Mesopotamia, trovò ampie prove che le Pietre a Stella sono state dissotterrate spesso nel corso dei secoli. Alcuni scavi fanno pensare all'epoca assira e babilonese, altri alla prima età dinastica egiziana e perfino a quella medioevale persiana. È del tutto ovvio che molti popoli dell'antichità erano a conoscenza della proprietà protettiva delle Pietre di Mnar, e le dissotterravano per difendersi dai mostri della demonologia di Alhazred.» A quel punto, proprio quando la discussione pareva sull'orlo di degenerare in una dotta disputa, astrusa e piuttosto aspra, il giovane Winfield Phillips suggerì con diplomazia di scendere tutti alla mensa della Facoltà per pranzare. La mensa era spaziosa e ben messa, le pareti erano rivestite di pannelli di quercia locale, lucidati fino ad essere coperti di una patina brillante, ed erano adorne dei ritratti severi e formali di anziani Professori dell'Università. Mangiammo quello che sembrava un piatto tradizionale del New England: la zuppa di molluschi. Poiché è servita di rado nella California del Sud, ero curioso e un po' diffidente. Non c'è bisogno di dire che la trovai deliziosa. Durante il pasto, Seneca Lapham ed Henry Armitage discussero di come si dovessero usare le Pietre a Stella per annullare le influenze maligne irradiate dalla Statuetta di Ponape, o accentrate al suo interno. Da questa discussione si deduceva che una parte considerevole della loro conoscenza della demonologia di Alhazred fosse, dopotutto, puramente congetturale o teorica. Il Dr. Lapham era dell'idea che mettendo semplicemente la pietra di Mnar vicino all'idolo di giada si sarebbero contrastati o annullati i suoi in-
flussi nocivi. Il canuto bibliotecario, comunque, non era d'accordo: espresse l'opinione che la Pietra a Stella doveva essere usata in qualche maniera rituale per rendere innocua la statuetta. Il giovane Winfield Phillips aveva poco da offrire ad entrambe le parti in discussione, e si dedicò generosamente al brodo fumante che aveva avanti. Quel pomeriggio, dopo che il Dr. Lapham aveva annullato una conferenza in programma, lo passammo insieme, nella Stanza dei Libri Rari della grande Biblioteca a riflettere su Alhazred, du Nord, Prinn, d'Erlette, Shrewsbury, e sulle altre autorità più importanti nel campo di questa mitologia magica e bizzarra. Se il rituale, teorizzato da Armitage, esisteva realmente, non si doveva trovare nelle maggiori opere di consultazione a disposizione. Ero impaziente, preoccupato che il mio lungo viaggio fino al New England settentrionale fosse stato inutile. Temevo che ogni ora che passava, avvicinasse noi e il nostro mondo al momento in cui i Direttori dell'Istituto Sanbourne avrebbero potuto, inconsapevoli, decidere di esporre al pubblico la Statuetta. Quando, e se ciò fosse accaduto, nessuno poteva dire con precisione quale orribile e maligna minaccia avrebbe potuto scatenarsi sul gemere umano ignaro e indifeso. La natura del pericolo, che il Dr. Blaine temeva e paventava, ci era ancora ignota. Quella sera, mentre ritornavo lentamente alla mia stanza al Club attraverso le fredde strade invernali, la mia mente era un tumulto ribollente di timori informi e terrori inespressi. Non sapevo che cosa avrei potuto fare per allontanare l'immenso e tenebroso pericolo che sovrastava tutti noi. Sapevo solo di dover fare qualcosa, ma che cosa? Un'edicola all'angolo attirò il mio sguardo, e mi fermai a comprare una copia di un quotidiano serale. Più tardi, nella mia confortevole stanza, mentre sonnecchiavo sul giornale seduto su una comoda sedia, improvvisamente mi svegliai di soprassalto. Involontariamente, il mio sguardo era caduto sul giornale aperto, ma che non avevo ancora letto, e che era poggiato sulle mie ginocchia. Un titolo nero cresceva sempre di più nel mio campo visivo finché cancellò tutto il resto. L'IDOLO "MALEDETTO" SARÀ MOSTRATO AL PUBBLICO PER LA PRIMA VOLTA «La Statuetta del mistero sarà esposta lunedì in California».
Lunedì! Ed ora era venerdì sera! Con tutta la fortuna e la velocità del mondo, e con le coincidenze negli orari dei treni più perfette, non avrei potuto in nessun modo raggiungere Santiago in tempo per evitare l'esposizione. VIII A mezzogiorno del giorno seguente, il 22 Marzo, Armitage e Lapham mi salutarono con ansia alla Stazione Ferroviaria. Avevo elaborato in fretta e spedito ai Direttori un telegramma la notte prima, pregandoli di posporre fino al mio ritorno l'esposizione della Statuetta di Penape. Ahimè, mi avrebbero ritenuto squilibrato come il povero Dr. Blaine, se avessi osato accennare alle mie ragioni per richiedere questo rinvio. Il meglio che avevo potuto fare per fornire loro un valido motivo per togliere la Statuetta della South Gallery e restituirla alla relativa sicurezza della cassaforte dell'ufficio del Curatore, era stato affermare (del tutto erroneamente) che avevo trovato nuove informazioni comprovanti che l'idolo era una beffa. Speravo, ma non potevo esserne certo, che ciò sarebbe stato sufficiente. Erano uomini prudenti e cauti, lo sapevo, che non si sarebbero fermati davanti a nessun ostacolo per evitare di coinvolgere l'Istituto in qualcosa di disdicevole o disonesto. D'altra parte, erano essenzialmente interessati al continuo successo e alla popolarità dell'Istituto. E la curiosità del pubblico nei confronti dell'idolo del mistero, infiammata dallo scalpore suscitato dai giornalisti, era al culmine. Esporre la statuetta avrebbe attirato frotte di pubblico, come i Direttori sapevano bene. La mia unica speranza risiedeva nella possibilità che la loro prudenza potesse avere maggior peso del desiderio di una massiccia presenza di pubblico. «Addio figliolo», disse il Dr. Armitage, stringendomi la mano con la sua salda presa. Il suo aspetto fine, aristocratico, appariva teso e preoccupato, e i suoi acuti occhi blu erano offuscati dall'ansia. «Speriamo che arriviate in tempo... e che il nostro piccolo dono si dimostri utile, dopo tutto!» Il «dono» di cui egli parlava, proprio in quel momento pesava nel taschino interno di sinistra della mia giacca. Ricambiai i saluti, ringraziando Armitage e Lapham per il loro gentile interesse, partecipazione e generosità. Poi salii sul treno e seguii il facchino carico delle mie borse fino allo scompartimento. Un ultimo cenno dal finestrino appannato alle due figure incappottate, ed esse svanirono alla
mia vista, nell'impeto e nel clamore della partenza. Del mio lungo viaggio di ritorno c'è ben poco da dire. Ora dopo ora, miglio dopo miglio, rifacevo il mio percorso attraverso l'intero continente. Di nuovo cambiai treno nella ventosa e rimbombante stazione di Boston. Di nuovo guardai senza vedere, per ore, monotoni paesi e colline, città e periferie, campi e pianure, scorrere oltre il mio finestrino. Di nuovo mi sforzai di far passare il tempo, studiando l'Unassprechlichen Kulten. Von Junzt dimostrava di avere ben poco da dire sui misteri della pietra a forma di stella dell'antica Mnar, benché ne discutesse in parecchi punti, trattando con erudizione e noiosamente nei minimi particolari la sua ipotetica efficacia contro i demoni di Alhazred. Sembrava che fosse soprattutto interessato a stabilire con allusioni e citazioni dotte che il cosiddetto "Segno Maggiore" e il "Sigillo di Sarnath", come pure il "Segno di Kish" erano tutti termini che si riferivano allo stesso oggetto, e che quest'oggetto non era altro che la pietra a forma di stella, scolpita in uno sconosciuto minerale grigio di Mnar. Non era chiarito se il Segno Maggiore era la pietra stellare vera e propria o solo l'emblema a cartiglio inciso sugli esemplari più grandi. Studiai l'emblema, o il sigillo, con una lente d'ingrandimento piccola ma potente - che avevo portato nella cartella dei libri e dell'occorrente per scrivere. Era uno strano simbolo arcaico, del tutto diverso da altri caratteri o glifi primitivi e preistorici a me noti. Attraverso la lente vidi che era un ovale rotto ad entrambe le estremità, e che aveva al centro qualcosa di simile ad una torre o ad un monolito composto di linee seghettate. Forse doveva rappresentare un albero stilizzato. Ad ogni modo, il cartiglio ovale con la torre verticale al centro somigliava, più di ogni altra cosa, ad un occhio di gatto, solo che la fessura verticale della pupilla aveva, come ho detto, i bordi seghettati. Mi chiesi se il simbolo doveva far pensare ad una torre in fiamme... e subito ricordai una frase dell'infernale miscuglio di assurdità delle pagine più confuse e caotiche del Necronomicon: «Essi scesero dagli spazi stellari su questa Terra, per poter giudicare con severità e con durezza i Loro antichi schiavi. Ed Essi arrivarono e se ne andarono dalla Terra, terribili nelle Loro ira, simili ad una potente Torre di fiamme che cammini come un uomo. Si, in verità fu scritto come erano Antichi e Terribili gli Dei Maggiori, irati nell'Ora della loro Venuta sulla Terra». Simili ad una potente Torre di Fiamme... era questo il significato del sigillo sulla Pietra a Stella? Era questo l'emblema e il sigillo degli Dei Mag-
giori? E ritraeva il Loro aspetto vero e proprio? Con i pensieri lontani da questo mondo e da quest'epoca, guardavo ciecamente dal vagone, attraverso i finestrini appannati, spazzati dalla pioggia, mentre le ruote con rumore metallico divoravano le miglia... Mentre il mio viaggio verso il Massachusetts era stato fatto in modo abbastanza comodo, dal momento che prenotazioni e coincidenze erano stati organizzati tenendo conto della comodità e della convenienza, il mio viaggio di ritorno fu completamente un altro affare. Ogni fattore fu sacrificato alla velocità. Importava poco se potevo trovare la coincidenza con un treno che disponeva di cuccette e di uno scompartimento privato, o anche di una carrozza ristorante. Il tempo era l'unica comodità inestimabile, ed ogni altra considerazione cadeva davanti alla sua urgenza. Riguardo al mio stato mentale durante il lungo viaggio di ritorno alla California del Sud, posso solo dire che era uno stato di confusione. Contro gli argomenti più lucidi e cauti della logica e della ragione, avevo accettato quasi del tutto la verità terribile, spaventosa, trascendente, che si celava dietro l'antico mito sinistro di Cthulhu, dei suoi fratelli e della sua progenie orribile e mostruosa. Fin dalla prima giovinezza, ero sempre stato un po' razionalista quando si arrivava a problemi mistici, un po' materialista quando si arrivava a problemi religiosi, ed un agnostico nel trattare il soprannaturale e lo straordinario. Dei, fantasmi, diavoli, riti magici, appartenevano (pensavo, soddisfatto di me e della mia ignoranza abissale ma "illuminata") all'infanzia dell'umanità. Ora nella moderna Età Industriale, al terzo decennio del Ventesimo Secolo, avevamo poco tempo o poca pazienza da perdere intono allo spauracchio di superstizioni fuori moda e di antiquate fedi in via d'estinzione. Ma incontrare uomini di buona educazione, uomini di intelligenza brillante e di grande cultura scolastica, che con cautela ma con serietà ammettevano che tali cose potevano esistere, scosse le fragili fondamenta del mio materialismo. La struttura dell'universo così come era stata concepita da Newton e da Copernico, da Galileo e da Einstein, da Darwin e da Freud, improvvisamente mostrava l'usura. Rivelava impalcature di fortuna oltre i cui squarci, crepe e buchi, si spalancavano terrificanti abissi di orrore soprannaturale e di male antico e sacrilego. Quando studiosi come Armitage e Lapham, e si anche come Blaine e Copeland, erano stati costretti ad ammettere la realtà del soprannaturale o dell'extraterrestre, come potevo io aggrapparmi ai frantumi della mia fede scientifica?
In questo stato di comprensione nascente e di crescente fede negli orrori del mondo primitivo, che non erano stati immaginati nemmeno nei miti e nelle superstizioni più oscure, rifeci il mio percorso attraverso il continente. E finalmente mi avvicinai a Santiago... Erano le quattro della mattina del ventisei Marzo. Una mattina grigia, nuvolosa, invernale, spezzata della pioggia e dal vento. Freddi e umidi erano i venti che soffiavano dallo scuro Pacifico, nelle cui ignote profondità potevano celarsi reliquie fantastiche del passato dimenticato di questo antico pianeta. I miei occhi erano rossi per la mancanza di sonno, la testa mi pulsava per la stanchezza, il corpo era tremante e teso per l'agitazione. Svegliai un tassista che dormiva appoggiato al volante della sua vecchia Ford, parcheggiata di fronte alla Stazione Ferroviaria, e gli dissi di portarmi all'Istituto Sanbourne. «... Non si apre fino alle nove, signore,» brontolò, sbadigliando fino a slogarsi le mascelle. «È tutto chiuso a quest'ora». Scossi il capo con impazienza, sistemandomi sul sedile posteriore e ficcando il bagaglio accanto a me. «Io lavoro lì e ho una chiave. Andiamo!» «Va bene, va bene, un po' di pazienza,» borbottò, e cominciò a gingillarsi con la levetta dell'aria. La vecchia Ford tossì e gorgogliò, poi risuscitò lentamente ad una vita sibilante e gracchiante. Ci allontanammo dal bordo del marciapiede e attraversammo le buie strade vuote, tranne che per qualche cane che annusava i bidoni dell'immondizia. E la nebbia... la nebbia fredda, soffice, umida... che si avvolgeva a spirale, serpeggiava e fluttuava nelle strade scure, come i tentacoli vaporosi di un'immensa e indistinta cosa marina. L'Istituto sorgeva abbastanza indietro rispetto alla strada, alla congiunzione di Sanchez Street e Whiteman Street, sul lato più lontano dalla città. Era una zona esclusiva di proprietà immobiliari, chiamata Mar del Vista. In origine, la proprietà e lo stesso edificio erano state la residenza di Carlton Sanbourne II, che aveva ereditato una fortuna nell'industria della conservazione del tonno dal suo famoso padre milionario. Alla sua morte la casa e i terreni, così come la sua collezione famosa in tutto il mondo, di antichità del Pacifico, erano stati donati allo Stato, sotto forma di una fondazione autoperpetuantesi che aveva costituito il nucleo dell'attuale Museo. Dovevano essere le quattro e mezza della mattina, quando quel vecchio trabiccolo di una taxi si arrestò davanti al grande cancello di ferro battuto e mi lasciò a terra. Pagai L'autista, gli detti una mancia generosa, e lo guar-
dai andarsene in una nube di nebbia turbinante. Poi aprii il cancello con la mia chiave, entrai, e chiusi dietro di me gli enormi cancelli oscillanti. Lasciai il mio bagaglio nella casupola del guardiano, e mi affrettai lungo il viale, verso l'ingresso principale. Entrai per una piccola porta laterale, riservata, usata dai membri dello staff. L'edificio di notte non era illuminato, e perciò le sale e le stanze d'esposizione erano sommerse in un fitto buio, nel quale giganteggiavano mostruosamente i massicci idoli primitivi, simili agli abitanti segreti di tenebrosi inferi. La tenue luce grigia dell'alba, che penetrava attraverso le grandi finestre, era appena sufficiente da permettermi di trovare la strada nel labirinto delle stanze. Mi diressi subito alla South Gallery, dove la Collezione Copeland sarebbe stata esposta. Mi venne in mente di gridare e attirare l'attenzione del nostro guardiano notturno, un messicano-americano di nome Emiliano Gonzales ma, per qualche ragione, tenni a freno la lingua. Non posso spiegare perché dato che non avevo alcun presentimento della situazione in cui mi sarei trovato di lì a poco. Ma c'era qualcosa proprio nell'aria del luogo, un'insolita tensione, un silenzio stranamente denso di significato e sepolcrale, che mi spingeva ad essere silenzioso e prudente. Divenni cosciente che il cuore mi batteva lieve ma rapido, e che i miei palmi erano madidi di sudore. Il respiro diventò breve e affannoso. Ero spaventato, ma da che cosa? Intorno a me c'erano le familiari bacheche, i pensili, le statue e i bassorilievi, proprio come li avevo visti un migliaio di volte prima di allora. Tutto ciò che posso dare a mo' di spiegazione è la supposizione che, attraverso un senso etereo aldilà dei cinque sensi fisici, sentivo una forza soprannaturale e maligna, sveglia e viva entro i confini del museo. Girai un angolo e mi trovai improvvisamente all'ingresso della galleria, che era la mia meta. E guardai... orrore! IX Da questo punto in poi, devo porre una grande cura e precisione nella scelta delle parole, in modo da descrivere con esattezza ciò che vidi e sentii. La sala era lunga, larga e con il soffitto alto. Grandi finestre davano su una veduta di giardini e tetti pieni di malinconia. Il giorno stava nascendo,
e la galleria era illuminata fiocamente, ma in modo sufficiente, da una luce incolore, penetrante. I pezzi della Collezione Copeland erano allineati lungo le pareti e nelle lunghe bacheche, con targhette o cartelloni che descrivevano con precisione la provenienza di ogni pezzo. Proprio davanti a me, quasi ai miei piedi, giaceva il corpo del guardiano, la faccia a terra in una pozza di sangue. Capii subito, per istinto puro e semplice, che il pover'uomo era morto. Qualcosa nel modo in cui giaceva lì, scomposto e contratto, mi disse che il corpo era senza vita. Era come un mucchio di vestiti gettati a terra senza cura. Qualcosa di così scompigliato ed immobile non poteva essere in alcun modo vivo. Non ebbi bisogno di vedere il modo in cui la parte posteriore del suo capo era schiacciata, come da una brutale randellata, per sapere che il corpo era un cadavere. Guardai oltre il corpo... proprio all'estremità della sala. La Statuetta di Ponape si ergeva su un piedistallo, con gli occhi fissi nei miei. Occupava una posizione centrale d'importanza nella galleria; tutti gli occhi ne sarebbero stati attratti. Ed era viva. Viva e senziente, in un modo soprannaturale che trovo quasi impossibile descrivere con parole inadatte. Gli occhi scolpiti fissavano con orribile sensibilità. Erano coscienti, coscienti e vigili... Intorno all'idolo pulsavano le radiazioni di una forza strana e ignota. Era quasi visibile, quasi palpabile, quella curiosa energia. Avete presente come i solidi palazzi sembrano vacillare, quando d'estate le onde di calore si sollevano dalla pavimentazione stradale, surriscaldata dal sole. Era così per l'idolo di Zoth-Ommog. Le grosse finestre dietro l'idolo tremolavano, come se l'aria stessa fosse turbata da una forza pulsante che si spigionava dalla fredda, lucida massa di pietra scolpita. L'aura di forza che si irradiava all'esterno dell'idolo, era chiaramente visibile. Le ondulazioni, che distorcevano lo sfondo, si ampliavano verso l'esterno, come le piccole onde provocate da un sasso gettato in acque tranquille. Percepii una forza tremenda, un accumulo di energia cosmica illimitata, racchiusa in qualche modo entro la struttura della cosa di pietra, come l'energia elettrica si accumula dentro una batteria. E questa forza era stata ora liberata. Ciò che aveva dormito inattivo dentro gli atomi cristallini della fredda pietra era ora violentemente attivo. E c'era qualcos'altro. Un'intelligenza vasta, profonda e maligna, scrutava
in avanti dalla cosa di pietra. Una Mente, terrificante e terribile, era ora sveglia... cosciente... e vigile! All'improvviso, mi venne involontariamente alla mente l'immagine di una pagina di quel Necronomicon maledetto e blasfemo, e un singolo passo di quella pagina si materializzò nella mia mente con disperata chiarezza. «Ma in certi vecchi libri proibiti si mormora che all'interno di tali idoli si nasconde un potere terrificante. Si aggiunge che, attraverso loro, come attraverso finestre sul tempo e sullo spazio. Coloro che dimorano lontano possono talvolta essere evocati...» Proprio mentre questo frammento di antico sapere echeggiava nel mio cervello con una pressione irresistibile, i miei occhi guizzarono e si fermarono sugli occhi scolpiti della cosa di pietra. E vidi che qualcuno era inginocchiato davanti ad essa... Qualcuno che aveva colpito il vecchio Gonzales, ed ora si prosternava umilmente davanti all'Idolo dell'Aldilà... Ad una prima occhiata sembrava un uomo normale, un polinesiano o un mongoloide, forse un mezzosangue. L'adoratore dell'idolo aveva una pelle untuosa color rame, una faccia gonfia e senza mento, gli occhi stralunati, fangosi, nient'altro che un taglio schiacciato come naso. Era infagottato in un abito a buon mercato, proprio come lo poteva acquistare per una notte a terra un marinaio in un'agenzia di pegni al porto. La testa era avvolta in un pezzo di stoffa verdastra, che somigliava ad un turbante. Stranamente le sue mani erano coperte da voluminosi guantoni... Ma c'era qualcosa in lui, qualcosa nell'anormalità della sua posizione inclinata, nella strana curvatura goffa del suo corpo avvolto dal largo vestito, qualcosa nella corpulenza accucciata, incurvata, da rospo, della forma abbandonata, dalle spalle chine, che mi fece drizzare i capelli sulla nuca, mi riempì la bocca secca di bile acre, e trasmise al mio cervello un vivo, snervante orrore urlante. Quello e il suo odore... un puzzo insieme di acqua di mare e di indescrivibile putrefazione... Fece un giro su se stesso, fissando gli occhi di rospo nei miei. Una mano guantata pescò goffamente in una larga tasca e ne uscì stringendo una pistola. Poi si alzò in piedi contorcendosi in maniera indescrivibile, come se non avesse le ossa, e puntò la pistola contro di me. Nel fare ciò, il turbante verde, che era semplicemente avvolto intorno al capo, si sciolse. Vidi, e urlai nel vederlo, che egli non aveva orecchie, assolutamente non le aveva. Non avevo nessun'arma, ma qualcosa di duro e pesante mi premeva sul cuore... qualcosa avvolto in una pezza di seta, che avevo portato nel ta-
schino interno della giacca per tutto il viaggio da Arkham. Con le mani intorpidite lo tirai fuori, gettai via l'involucro, e lo sollevai. Era il talismano di pietra grigia, a forma di stella marina dello scomparso Mnar, che i seguaci di Kush avevano inciso con il Segno Maggiore agli albori bui e tenebrosi del tempo... Alla vista della Pietra a Stella, l'uomo dalla pelle untuosa, infagottato nel largo vestito, gridò. Fu un suono glutinoso, strozzato che - lo giuro davanti a Dio - non è mai uscito da una gola umana. Spalancò le braccia, come per proteggere l'idolo del suo dio cosmico dalla profanazione. E io lanciai la Pietra a Stella. Mi mancano le parole per descrivere quello che successe dopo. Ma tenterò. La pietra a stella colpì la faccia orrenda dell'idolo. E sia la pietra a stella che l'idolo svanirono, svanirono in una muta luce abbagliante, una luce che ardeva sinistramente, una luce che era la negazione dell'illuminazione, più che l'illuminazione. L'aria, risucchiata verso l'interno dall'istantanea distruzione di materia, sbatté su se stessa, agitando le coperture dei pensili. Un istante dopo, lampi di fuoco si scagliarono dal vortice di nulla dove un momento prima era l'idolo. Fulmini di elettricità zigzagavano per la stanza. Le finestre si fracassarono: io ero stato gettato a terra, la terra tremava. Un lampo toccò la canna della pistola, mantenuta dal mezzosangue col turbante, che stava immobile come se fosse trafitto. Toccò, si attaccò e strisciò lungo la gonfia deformità del corpo, in rivoli ustionanti di elettricità. Si contorse una volta sola, con un'indescrivibile liquidità di movimento, così ondeggiante e snodato, da comunicarmi un brivido di orrore puro. Poi si piegò in avanti verso il pavimento. Non cadde come cadono gli uomini, ma si abbandonò gradualmente come una massa di gelatina, perdendo figura e forma. Alle narici mi arrivò un odore di putrefazione, che superava tutti gli altri tanfi, per il suo marciume abominevole e totale. La sala bruciava. Il fumo nero mi vorticava intorno. Ero paralizzato dalla testa ai piedi, come per un violento shock. Tentai di muovermi ma non potevo, e allora il mio cervello che aveva guardato l'orlo dell'abisso e anche aldilà di esso, mi venne meno. E non so più niente fino al momento in cui mi sono svegliato, qualche ora dopo, in un bianco letto dell'Ospedale della
Misericordia... Mi dicono che ho subito ustioni di secondo grado e che sono temporaneamente paralizzato per uno shock nervoso. I folli mi hanno trasferito al reparto psichiatrico «per ulteriori esami», come spiegano in tono consolante. Mi dicono che ho assassinato il povero vecchio Gonzales, che mi ha sorpreso mentre tentavo di rubare o di distruggere la Statuetta di Ponape. Ma ridono solo, increduli, e scuotono la testa quando dico che non sono stato io, ma il mezzosangue a commettere quell'azione. Mi chiedono dove ho nascosto la statuetta, e perché ho appiccato il fuoco alla South Gallery, e che cosa è successo al corpo contundente con il quale, essi sostengono, ho colpito il povero Gonzales fino ad ucciderlo. Ma non mi rispondono quando chiedo dell'altro corpo... il corpo dell'altro uomo, che sia dannato, l'uomo che ha commesso l'omicidio, la cosa che sembrava e camminava come un uomo... Perche non mi dicono che cosa ne è stato dell'altro uomo? Aggiunta alla Deposizione di Arthur Wilcox Hodgkins, residente al numero 34 di Mission Street, a Santiago in California. La deposizione suddetta, come trascritta dalle note stenografiche da R.A. Wallis, stenografo statale, il 29 Marzo del 1929, si conclude a questo punto. Qui l'accusato è diventato incoerente, mormorando oscenità tra i singhiozzi. Gli è stato somministrato un forte sedativo ed è stato riportato al Reparto Violenti dell'ala psichiatrica dell'Ospedale della Misericordia. Da li è stato in seguito trasferito al Sanatorio Dunhill, nella Contea di Santiago, e affidato alle cure del Dr. Harrington J. Colby. Si ritiene che l'accusato non si ristabilirà mai tanto da poter subire un processo. Sono allegati alla suddetta deposizione il rapporto del coroner sul corpo del morto, E. Gonzales, e le perizie psichiatriche sull'accusato. È anche allegato il Rapporto del poliziotto W. J. Barlow, l'agente che ha scoperto il corpo. Estratto dal Rapporto del poliziotto W.J. Barlow: 2. Sono entrato nei locali circa alle 5,04 della mattina del 26 Marzo, forzando la porta principale. Una parte dei locali, che in seguito sono stati identificati come South Gallery, era in fiamme in più punti e le finestre sul retro della sala erano in frantumi. Mi sono servito del telefono della sala per chiamare i Vigili del Fuoco. Ho estinto in parte l'incendio, usando l'at-
trezzatura, posta nel pozzo delle scale. 3. Circa alle 5,15 del mattino ho scoperto due corpi: (1) un maschio, morto, di razza spagnola, di circa sessant'anni, in uniforme da guardiano notturno. Causa della morte: un colpo alla base del cranio, causato chiaramente da un corpo contundente. (2) Un corpo in stato d'incoscienza di un maschio caucasico, di circa trent'anni, in preda agli effetti di uno shock o dell'inalazione del fumo, oppure di entrambi... 7. Vicino alla base di un piedistallo vuoto, annerito dalle fiamme, posto all'estremità della sala, a circa 6 metri dal maschio caucasico in stato d'incoscienza, ho notato una grande pozza o pozzanghera di un fluido gelatinoso, in quantità abbondante (parecchi litri). La natura del fluido è ignota, ma la sua consistenza è fangosa, e il suo odore è estremamente sgradevole, come di qualcosa morta e in decomposizione da molto tempo. Nella pozza di fluido ho notato anche un completo da uomo fradicio e qualcosa di simile ad un paio di guanti o guantoni. Mi è stato impossibile recuperare i suddetti indumenti, perché non potevo avvicinarmi a quella parte della South Gallery per il calore delle fiamme. Il fluido gelatinoso deve essere evaporato totalmente mentre i Vigili del Fuoco estinguevano completamente l'incendio. Quindi gli abiti sono andati, in pratica, distrutti. Comunque, non bruciati, ma piuttosto ridotti in brandelli come se fossero stati immersi in qualche tipo di acido. Non sono stati ritrovati né ossa né resti di carne umana. Qualsiasi cosa fosse, si è dissolta come una grande medusa, che si decompone rapidamente se esposta all'aria. (Firmato) W. J. Barlow, Distretto di Polizia Distintivo S/SC-104 Articolo di giornale, del 10 aprile 1929, estratto dal Sentinel della Contea di Santiago "LA MALEDIZIONE DELLA STATUETTA" ESIGE LA VITTIMA FINALE Sospetto di omicidio è stato dichiarato pazzo. Nell'udienza di chiusura al Tribunale Penale, alle dieci di questa mattina, il Giudice Maxwell J. Chase ha formalmente affidato al Sanatorio Dunhill, il signor Arthur Wilcox Hodgkins, residente al numero 34 di Mission Street, in questa città. Ha dichiarato che l'imputato è mentalmente incapace
di subire un processo, per l'omicidio brutale e immotivato di Emil (sic) Gonzales, anch'egli di questa città. Gonzales, un cittadino americano di razza messicana, che lavorava come guardiano notturno all'Istituto Sanbourne per le Antichità del Pacifico, è stato trovato ucciso a bastonate, nelle prime ore della mattina del 26 Marzo 1929. Vicino al cadavere fu ritrovato il corpo in stato d'incoscienza del sospetto d'omicidio, il signor Hodgkins, che aveva subito chiaramente uno shock nervoso. Questa tragedia è avvenuta nella South Gallery, nell'ala dell'Istituto adibita a museo, a 6 metri dal piedistallo sul quale era stata esposta al pubblico la famigerata Statuetta di Ponape, nei due giorni precedenti... ... L'Ufficiale Psichiatrico della Contea, Wilson, ha in seguito concluso con l'opinione che il signor Hodgkins è pazzo, senza speranze di guarigione, e ha consigliato che il Tribunale affidasse il paziente al Sanatorio Dunhill a tempo indeterminato. Visto che il Giudice Chase era d'accordo, i documenti di affidamento sono stati firmati alla presenza di tre medici... ...Rimane misteriosa l'origine dello strano incendio, che ha infuriato per tre quarti d'ora nella South Gallery. È anche insoluto il mistero della sparizione della scellerata statuetta, che non si sa dove si trovi attualmente. Ramsey Campbell GHROTH Quando Ingels si svegliò, seppe subito che aveva di nuovo sognato. C'era un'immagine, un ricordo che protestava, debole ma insistente, ai margine della sua mente. Cercò di afferrarlo, ma se n'era andato. Scivolò dal letto disfatto. Hilary doveva essere andata a fare la sua ricerca in biblioteca già da un'ora, lasciandogli una colazione fredda. Fuori era appeso un cielo freddo, di smalto blu, e il gelo era scomparso dai vetri delle finestre. Il sogno continuava ad infastidirgli la mente. Lo lasciò fare, con la speranza che quel noioso particolare sarebbe arrivato da solo alla memoria. Rallentò il proprio ritmo, si vestì lentamente, mangiò lentamente, per permettere alla memoria di acchiapparlo. Ma c'era solo quell'insistenza, come il ricordo di un dente tirato. Attraverso la parete sentiva la voce di un annunciatore della radio nell'appartamento accanto: era una cadenza indistinta che si alzava come per superare una barriera che rendeva confuse le parole. Vibrava nella sua mente, ronzando. Irritato, si lavò rapidamente e si affrettò fuori. E scoprì che non riusciva a guardare il cielo.
La sensazione gli afferrò il collo come un crampo violento, spingendogli la testa in basso. Intorno a lui le donne spingevano le carrozzine, in cui i bambini e i pacchi del droghiere si contendevano lo spazio. I cani giocavano tra loro nei viali, gli autobus oscillavano alle fermate, rumoreggiando. Ma su Ingels, schiacciato dalla distesa chiara di un blu piuttosto acquoso verso cui egli non poteva nemmeno alzare gli occhi, pesava un senso d'intollerabile oppressione. Era come se il cielo calmo si stesse tendendo fino a spaccarsi: come se stesse per spaccarsi e per riempirlo di un'informe paura. Un autobus frenò, ci fu un prolungato stridio cigolante e distorto. Quando Ingels si riprese dal sussulto che gli aveva stretto il cuore in una morsa, aveva messo da parte la paura. Corse per prendere l'autobus mentre l'ultimo della fila si trascinava su. Sono spaventato dal cielo, in realtà, egli pensò. Devo dormire di più. Riempirmi di pillole per dormire, se è necessario. Aveva la sensazione che i suoi occhi galleggiassero nella calce viva. Prese posto tra la gente che andava a fare le spese. Qualcuno tossiva. Nel corridoio tra le due file di posti, un uomo scuoteva la testa fumando una sigaretta e sbuffava come un cavallo. Una donna gettò se stessa e tre borse per la spesa su un sedile, dando alle borse colpetti rassicuranti, poi chiuse violentemente la finestra aperta dal suo predecessore. Ingels frugò nella propria cartella. Aveva lasciato a casa un blocco per appunti, scoprì borbottando. Scorse velocemente gli appunti per il proprio pezzo, tenendoli appoggiati di piatto sulla propria cartella. È un miracolo se la persona, con il cui ginocchio sto lottando, riconosce il mio stile. Sono il campione del mondo degli egocentrici, si rimproverò, nascondendo le note con l'avambraccio. Non ti preoccupare, il tuo vicino non ti ruberà l'esclusiva, si derise, tirando indietro il braccio. Tolse di mezzo le note. Erano confuse come egli pensava. Si guardò intorno nell'autobus. Fissò l'uniforme fumo stagnante, le file di teste che sembravano sostegni per parrucche. Poi il suo sguardo si fermò sui titoli di un quotidiano, superando il paio di spalle che erano di fronte a lui. IL SISTEMA SOLARE È PORTATO A RIMORCHIO Sei mesi fa un astronomo dilettante ci ha scritto per avvisarci che un pianeta potrebbe passare pericolosamente vicino alla Terra. Il commento dell'astronomo Royal: «è una vera sciocchezza». I
più grandi astrologi del mondo sono stati d'accordo nel fornirci i fatti. OGGI VI DICIAMO TUTTA LA VERITÀ In un'intervista esclusiva... Ma l'uomo che leggeva il giornale aveva girato la pagina, e ora leggeva la cronaca scritta in caratteri più piccoli. Ingels si riappoggiò allo schienale, ricordando in che modo l'Herald aveva accolto una copia di quella lettera sei mesi prima. Non l'avevano pubblicata, e il redattore della rubrica delle lettere aveva guardato Ingels con aria compassionevole, quando aveva suggerito che avrebbero almeno potuto sfruttarla. «Suppongo che voi artisti abbiate bisogno d'immaginazione», aveva detto. Ingels fece una smorfia, chiedendosi come avrebbero rimaneggiato la storia nell'edizione di quella sera. Si sporse in avanti, ma l'uomo di fronte a lui era arrivato al commento del redattore: «Anche se il suo scopo era quello di evitare che si diffondesse il panico, forse non abbiamo permesso all'astronomo Royal di dirci quello che troppa gente ora insinua fosse una menzogna?» Ingels lanciò un'occhiata dal finestrino. Passarono velocemente le immagini di uffici: figure, sedute alla scrivania, erano in mostra dietro i vetri. Improvvisamente scorse la fuga di una prospettiva lungo i viali, impressionante come cadere in un sogno. Poi passarono altri uffici. Man mano che l'autobus prendeva velocità in direzione dei confini di Brichester, gli uffici divenivano più piccoli e più vecchi. Lì vicino, pensò Ingels, poi si rese conto, sobbalzando sul sedile che aveva oltrepassato l'edificio dell'Herald, tre fermate prima. Per un attimo seppe dove si stava dirigendo. E con ciò? pensò, del tutto fuori di sé, con gli orli degli occhi arrossati e brucianti, mentre scendeva con passo pesante dall'autobus. Ma quando fu per la strada, si pentì di non aver cercato di tenere a mente la sua meta. Ora non riusciva ad immaginare perché stesse andando in quella direzione. BRICHESTER HERALD: LA VOCE DELLA SERA DI BRICHESTER. Il poema di ferro (fin quando non si era abituato a quella scritta, l'aveva definita due terzi di un haiku) era attaccato al muro di mattoni, che era al di sopra di lui. Si chiese quanto tempo sarebbe passato prima che le presse cominciassero a fare il loro rumore sordo e pesante, smentendo quella sensazione d'isolamento acustico. Non sarebbe passato molto, pensò, e doveva
ancora scrivere il suo pezzo. Sentì che la sua mente era piatta e vuota come l'ascensore. Si lasciò trascinare istupidito attraverso l'ufficio enorme, a pianta aperta, oltre le immagini fugaci di teste che erano dietro i vetri personalizzati dalla plastica. Qualcuno gli lanciò una rapida occhiata, qualcuno lo fissò, qualcuno gli sorrise. Dio mio, non ricordo mai il nome di quell'uomo, Ingels pensò a proposito di parecchi di loro. «Ciao, Moira», disse. «Come va, Bert». I telefoni squillavano, si rispondeva, le chiamate rimbalzavano velocissime attraverso la stanza. I cronisti correvano da una parte all'altra dei corridoi. Si sentiva odore di deodorante e di sudore, e il pungente odore dell'inchiostro. Si agitavano giornali, dattilografe sgambettavano, si tenevano rapide e agitate riunioni. Bert lo stava seguendo fino alla scrivania. «Non aspettare il tuo bollettino personale», disse Bert, gettando il foglio di un telex sulla scrivania. «È l'ultima notizia sul tuo pianeta errante». «Non dirmi che vi ho convinti, alla fine». «Non ci contare» Bert disse, facendo marcia indietro, «È solo per non farti mettere tutto sottosopra per questo fatto». Ingels lesse il tele pensando, gliel'avrei potuto dire sei mesi fa. Gli Americani avevano ammesso che una sonda spaziale, senza uomini d'equipaggio, era sul punto di fotografare la stella errante. Appoggiò un gomito sulla scrivania e si coprì gli occhi. Tra gli squarci di luce in continuo movimento che trapelavano tra le sue dita, egli quasi afferrò le visioni del suo sogno. Sussultò, sconcertato; il rumore del giornale si riversò nelle sue orecchie. Basta, pensò, tirando fuori le sue note. Scrisse a macchina una recensione televisiva, su una buona commedia trasmessa da Birmingham, e passò il pezzo a Bert. Poi frugò a casaccio tra là roba che si era accumulata sulla scrivania durante la giornata. Devo andare a trovare i miei, questa settimana. Potrebbero farmi scaricare un po' della mia tensione. Girò una busta marrone. Un biglietto stampato portava scritto in caratteri belli ed elaborati: mostra di pittura associazionale, il nuovo primitivismo e surrealismo. Puah egli pensò, qualsiasi cosa tu dica ai surrealisti. Visioni private questo pomeriggio. Il che significa ora. «Domani puoi avere una recensione di arte locale», disse, mostrando il biglietto a Bert, e uscì.
Quando fu all'esterno dell'edificio, la sua mente vacillò come una bussola impazzita. Il cielo sembrava di nuovo fragile vetro pronto a spezzarsi e, quando egli si mosse per scrollarsi di dosso l'ossessione, si ritrovò ad essere spinto verso i confini di Brichester. Una donna indietreggiò davanti a lui, mentre egli urlava a se stesso di fermarsi. «Mi scusi», le gridò. Qualsiasi cosa si trovi in questa direzione, sicuramente non è la mostra a cui sono stato invitato. Ma ci deve essere qualcosa lì. Forse ci sono andato quand'ero giovane. Devo andare a vedere appena posso. Prima di arrivarci in una crisi di sonnambulismo. Anche se avrebbe potuto prendere un autobus fino a Brichester dove c'era la mostra, egli andò a piedi. Mi schiarirà la testa, forse, se prima non mi intossico con i gas di scarico. Ora il cielo era fine e blu, niente di più. Faceva dondolare la sua cartella. Non ho mai sentito nominare prima questi artisti. Chi sa? Potrebbero essere bravi. Non attraversava Brichester Inferiore da mesi, e fu sorpreso dallo stato di abbandono in cui il luogo si trovava. Cani grattavano le facciate dei negozi dall'intonaco a pezzi; un lampione abbattuto giaceva al centro di una strada; montagnole di terra erano disseminate di materassi sventrati, le cui interiora svolazzavano qua e là. Oltrepassò case, dove una finestra era murata con mattoni, e quella seguente era ancora aperta e velata da una serranda abbassata. Esaminò il biglietto d'invito alla mostra. Ci credi o no, sono sulla strada giusta. Addentrandosi nella zona, notò che tutte le strade erano in stato di abbandono. Non c'era nient'altro oltre Ingels, le case sbrecciate e il selciato sconnesso e il rumore dei suoi passi. Il traffico della città era soggiogato, inerte. Le case andavano, spalla a spalla, con i propri scheletri offerti al cielo. Le facciate di mattoni rossi rivelavano il miscuglio di scale e pareti in frantumi. Ingels sentì una simpatia nascosta per la zona immersa nel proprio abbandono, nella propria indifferenza al tempo. Camminava a passi lenti, senza una meta. Cammina un poco. La visione privata è aperta per altre quattro ore. Rilassati. Lo fece, e sentì che un impulso irrazionale lo supplicava. E perché no, pensò. Lanciò un'occhiata intorno: non c'era nessuno. Allora cominciò a procedere a balzi per le strade abbandonate, con le braccia penzolanti e le dita che quasi sfioravano la strada. Unga bunga, egli pensò, suppongo che sia un modo per prepararmi ai primitivi. Scoprì che quel comportamento suscitava un ricordo nella sua mente;
forse il ricordo ne era l'origine. Una figura correva - accovacciata tra rovine, da qualche parte lì vicino. Una specie di prova di virilità. Ma non aveva percorso a balzi le vie abbandonate di una città, egli pensò. Soltanto piatti blocchi di roccia nera nei quali si aprivano aperture quadrate. Abbandonati molto tempo prima, ma a mala pena danneggiati dal tempo. Una figura correva lungo un sentiero stretto tra le pietre, senza guardare le aperture. Nuvole si muovevano lentamente nel cielo e l'oscurità si stava diffondendo nelle strade intorno a lui. Ingels correva, senza guardare le case, lasciandole confondere con il ricordo che esse suscitavano. La memoria stava diventando più nitida. Dovevi correre per tutto il tragitto lungo uno dei sentieri di pietra. Un solo sentiero, perché non c'erano intersezioni: solo un percorso diritto ed ininterrotto. Dovevi correre in fretta, prima che qualcosa dietro le finestre si accorgesse di te, come una pianta carnivora si accorge di una mosca. L'ultima parte del percorso era la peggiore, perché sapevi che in ogni momento qualcosa poteva apparire a tutte le finestre contemporaneamente: qualcosa che, benché avesse la bocca, non aveva faccia... Ingels inciampò malamente nel fermarsi a guardare le finestre vuote delle case. «Che cosa era mai?», pensò distrattamente, «sembrava uno di quei sogni che facevo di solito, quelli che erano così vividi. Naturalmente, è così che deve essere successo. Queste strade me ne hanno ricordato uno. Benché il ricordo sembrasse più vecchio, in qualche modo. Risale a quando ero nell'utero, senza dubbio». Urlò irato al suo cuore che batteva. Quando arrivò al luogo dove doveva esserci la mostra, lo oltrepassò senza fermarsi. Tornando indietro, esaminò l'indirizzo sul biglietto. Mio Dio, è questo. In una strada due case accostate, incrostate di sporcizia ma abitate, erano state unite. Sulla porta d'ingresso di una delle due, una scritta, che egli aveva preso per graffiti, diceva: Laboratorio Artistico di Brichester Inferiore. Ora gli ritornò alla mente che l'anno precedente, quando era stato inaugurato, gli inviti all'inaugurazione erano arrivati con due giorni di ritardo. Il progetto del laboratorio, che Ingels aveva descritto dopo una frettolosa intervista telefonica, era sembrato molto diverso. «Oh, bene», egli pensò, ed entrò. Nell'atrio, accanto al banco della ricezione, c'erano due clowns che camminavano carponi con due bambini sulle spalle. Uno dei bambini corse dietro il banco e fissò Ingels. «Sai dov'è la mostra?», egli domandò. «Sopra il vostro culo», la bambina rispose, ridacchiando.
«Al primo piano», disse uno dei clowns, che Ingels ora riconobbe come uno dei poeti locali, nonostante il volto truccato. Il clown si slanciò all'inseguimento della bambina in una sala da giochi che era piena di pupazzi gonfiabili. Il primo piano era un labirinto di tramezzi di compensato, incorniciati di metallo. Ai tramezzi erano appesi dipinti e disegni. Appena Ingels entrò, conversero su di lui una mezza dozzina di persone, tutti gli artisti tranne uno, che stava tentando di riaccendere un refrattario bastoncino d'incenso. Ingels, sentendosi schiacciato dal loro numero, si pentì di non avercela fatta a raggiungere il labirinto. «Avete perso per un pelo il tipo di Radio Brichester», disse uno. «Parlerete con tutti noi, come ha fatto lui?», chiese un'altro. «Vi piace l'arte moderna?» «Volete un caffè?» «Ora lasciamolo in pace». Disse Annabel Pringle, che Ingels riconobbe dalla foto stampata sulla copertina del catalogo. «Non hanno mai fatto esposizioni, prima d'ora, sapete? Non potete rimproverarli. Voglio dire che tutta la mostra è una mia idea, ma l'entusiasmo è il loro. Ora posso spiegarvi i nostri principi mentre voi girate, se vi fa piacere, oppure li potete leggere nel catalogo». «Preferisco la seconda proposta, grazie». Ingels si affrettò nel labirinto, aprendo il catalogo dattilografato. Il quadro numero 2 rappresentava una bambina con il cornetto acustico, e non aveva titolo. Il numero 3 mostrava un uomo che gettava il proprio naso nel cestino della carta straccia, ed era senza titolo. Il numero 4 era senza titolo, come il numero 5, 6, 7... «Bene, i loro dipinti sono certamente migliori della loro prosa». Ingels pensò. Il fumo dell'incenso si dipanava davanti a lui. Un bambino giocava semisommerso in un lago. Una città verde scuro emergeva dal mare. Un cilindro alato si librava al di sopra di una giungla. Improvvisamente, Ingels si fermò di colpo e ritornò a guardare il dipinto precedente. Era sicuro di averlo già visto prima. Era il numero 22: Atlantide. Ma non somigliava a nessun dipinto di Atlantide che egli avesse mai visto. La tecnica era grezza e piuttosto banale; il dipinto apparteneva evidentemente ad uno dei primitivi, eppure Ingels scoprì che toccava delle immagini che bruciavano da qualche parte dentro di lui. I lastroni inclinati di roccia sembravano enormi, il mare ricadeva dalle superfici della città, come se essa fosse appena esplosa trionfalmente alla superficie.
Ingels, spinto ad avvicinarsi, scrutò nell'oscurità all'interno di un lastrone di roccia, oltre il quale avrebbe potuto esserci un ingresso aperto. Se vi fosse stato il profilo di un volto pallido, informe, che fissava in alto dall'interno della roccia, il possessore di quel viso avrebbe dovuto essere immenso. «Se vi fosse stato», Ingels pensò, ritraendosi. Ma perché sentiva che avrebbe dovuto esservi? Quando ebbe finito in fretta di guardare il resto della mostra, tentò di chiedere qualcosa a proposito del dipinto, ma Annabel Pringle lo interruppe. «Capite che cosa intendiamo per pittura associazionale?», domandò. Permettetemi che ve lo dica. Selezioniamo un'idea iniziale con sistemi aleatori». «Eh», disse Ingels, scribacchiando. «Basati sulla fortuna. Usiamo I Ching, come John Cage. Il compositore americano che ha inventato questo sistema. Una volta che abbiamo l'idea, in silenzio facciamo delle associazioni di idee finché tutti noi arriviamo ad un'idea finale che sentiamo di dover comunicare. Questa mostra è basata su sei idee iniziali. Potete notare la varietà dei dipinti». «In verità», disse Ingels, «quando ho detto «eh» mi mettevo nei panni del lettore medio del nostro giornale, mi capite? Ascoltatemi, l'unico quadro che mi ha particolarmente colpito, è il numero ventidue. Mi piacerebbe sapere come è venuto fuori». «E mio», disse un giovane, alzandosi di scatto. «Il punto centrale del nostro metodo», disse Annabel Pringle, guardando con insistenza il pittore, «è cancellare dalla nostra mente tutta la serie di associazioni d'idee, lasciandovi solo l'immagine che viene dipinta. Naturalmente, Clive non ricorderà che cosa l'ha portato a dipingere quel quadro». «No, naturalmente».disse Ingels, intontito. «Non è un problema. Grazie. Molte grazie». Si affrettò per le scale, passò oltre l'istupidito clown, e uscì in strada. In realtà, non era un problema. Un ricordo aveva straziato la sua insonnia. Per la seconda volta, quel giorno aveva capito perché aveva un'aria familiare, ma questa volta in modo più sconvolgente. Decenni fa, aveva sognato la città del dipinto. II Ingels spense la televisione. Il punto luminoso, che rimpiccioliva nell'o-
scurità, fece nascere in lui l'immagine di un bagliore che si esaurisce allontanandosi nello spazio. Poi si accorse che il punto luminoso non era affogato nell'oscurità ma nell'immagine riflessa di Hilary, che stava per parlargli, sporgendosi dalla sedia a dondolo di bambù, che era vicina a lui. «Dammi un quarto d'ora», egli disse, scribacchiando appunti per la recensione. Il programma aveva illustrato le perturbazioni che il pianeta errante aveva provocato alle orbite di Plutone, di Nettuno e di Urano. Era cominciato e finito, sottolineando che il pianeta ora si stava allontanando dal sistema solare e i suoi effetti sull'orbita della Terra sarebbero stati trascurabili. Le fotografie scattate dalla sonda spaziale si sarebbero potute vedere entro qualche giorno. Nonostante la fredda chiarezza scientifica (Ingels scriveva) e forse senza volerlo, il programma era riuscito a comunicare un senso di oscuro presagio, di intrusione e d'interferenza nel nostro familiare cielo. «A me non l'ha comunicato» disse Hilary, leggendo al di sopra della sua spalla. «Che peccato», egli rispose. «Stavo per parlarti dei miei sogni». «Non farlo, se pensi che non sono in grado di capirli. Ma ora non posso nemmeno permettermi di fare una critica?» «Scusami, ricominciamo daccapo. Lascia solo che ti racconti qualcuna delle cose che mi sono capitate. Ci ho pensato tutto il giorno. Anche tu dovrai ammettere che qualcuno di questi fatti è strano. Fai un po' di caffè e te ne parlerò». Dopo che lei ebbe portato il caffè, egli aspettò che si sedesse di fronte, pronta ad essere presa dal suo racconto. Gli ami soffici, neri, dei capelli, le pescavano l'osso della mandibola. «Ero solito sognare molto quando ero giovane». Egli disse. Non erano i sogni normali dell'infanzia, se una cosa del genere esiste. Ne ricordo uno: c'erano enormi nubi di materia fluttuante nello spazio esterno che molto lentamente assumevano una forma. Voglio dire molto lentamente... Mi svegliavo molto tempo prima che esse si formassero eppure, mentre sognavo, lo sapevo che, qualsiasi cosa fosse, avrebbe avuto un volto, e questo mi rendeva molto ansioso di svegliarmi. C'era poi un altro sogno in cui venivo trasportato attraverso una specie di rete di luci, sempre più avanti, per quelli che mi sembravano giorni, attraverso le intersezioni. Alla fine mi trovavo sull'orlo di questa gigantesca trama di sentieri di luce. E lottavo
per fermarmi e non entrarvi, perché sapevo che, nascosto dietro la luce, c'era qualcosa di vecchio, scuro e informe, qualcosa di inaridito e malvagio che non avrei potuto scorgere. La sentivo frusciare come un vecchio ragno secco. «Sai che capivo subito che cos'era quella trama? Il mio cervello. Avevo corso lungo il mio sistema nervoso fino al mio cervello. Bene, lasciamo queste cose agli psicologi. Ma c'erano altre cose strane riguardo a questi sogni, intendo dire, oltre tutto ciò. Cominciavano sempre nello stesso modo, e sempre nello stesso periodo del mese». «La notte di luna piena?» disse Hilary, bevendo un sorso di caffè. «È abbastanza ridicolo, ma è così. Ma non preoccuparti. Non sto pensando a spettri di mezzanotte e a cose del genere. Ma qualche persona è sensibile alla luna piena: è una cosa abbastanza ben documentata. I miei sogni cominciavano sempre con la visione della luna piena sul mare, al largo nel mezzo dell'oceano. Vedevo il riflesso sull'acqua e, dopo un momento, mi ritrovavo sempre a pensare che non era affatto la luna, ma un grande volto pallido che dall'oceano scrutava verso l'alto, ed ero colto dal panico. Poi non riuscivo più a muovermi, e sapevo che la luna piena stava tirando qualcosa dalle profondità dell'oceano, svegliandola. Sentivo che il panico cresceva e, ad un tratto, tutto esplodeva ed io mi trovavo nel sogno seguente. Ogni volta accadeva così». «I tuoi genitori lo sapevano? Tentarono di scoprire che cosa c'era che non andava?» «Non lo so che cosa intendi per «qualcosa che non andava». Ma, sì, lo seppero alla fine, quando raccontai tutto. Questo accadde quando mi venne l'idea che mio padre avrebbe potuto spiegarmelo. Allora avevo undici anni e, a volte, avevo strane sensazioni, intuizioni, premonizioni e così via, e qualche volta avevo scoperto che anche mio padre aveva le stesse sensazioni». «So tutto delle sensazioni di tuo padre», disse Hilary «Più di quanto egli sappia delle mie». Subito dopo che si erano conosciuti, Ingels l'aveva portata a conoscere i propri genitori. Hilary si era accorta che suo padre si era comportato con lei in modo troppo formale. Sottopose Ingels ad un fuoco incrociato di domande, ed egli aveva alla fine ammesso che suo padre aveva avuto la sensazione che lei fosse sbagliata per lui, che non gli fosse affine. «Ti stavo parlando dei miei sogni», egli disse. «Raccontai a mio padre del sogno del mare e capii che c'era qualcosa che non mi diceva. Mia ma-
dre lo dovette costringere a dirmelo. L'atteggiamento di lei verso l'intera faccenda era simile a quello che avresti avuto tu. Ma gli disse di farla finita, tanto una volta o l'altra avrebbe dovuto dirmelo. Così egli mi disse che qualche volta aveva fatto gli stessi sogni di suo padre, senza che nessuno dei due sapesse come mai. Aggiunse che aveva fatto parecchi dei miei sogni quando era giovane, fino ad una notte, alla metà degli Anni Venti, nei primi mesi del 1925, mi sembra che disse. Quella notte aveva sognato una città che emergeva dal mare. Dopo di che non aveva mai più sognato. Ebbene, forse, udire questo racconto fu una specie di liberazione per me perché, la volta successiva, anch'io sognai la città» «Sognasti una città?», disse Hilary. «La stessa città. Gliene parlai la mattina dopo. I particolari della città, di cui egli non mi aveva parlato, erano gli stessi in entrambi i nostri sogni. Nel sogno, vedevo il mare, lo stesso posto di sempre. Non chiedermi come facevo a sapere che era sempre lo stesso. Lo sapevo, e basta. Un momento prima, vidi la luna sull'acqua, poi mi accorsi che tremava. Il momento dopo, emerse dall'oceano un'isola con uno scroscio simile a quello di una cascata, ma molto più forte, più forte di qualsiasi cosa che avessi mai sentito da sveglio. Sentivo realmente che le orecchie mi dolevano. C'era una città sull'isola, tutta di enormi lastroni verdastri. Il mare e le alghe ricadevano da essi. E la melma ribolliva di strane creature che ansimavano ed esplodevano. Proprio di fronte a me, e sopra di me, e sotto di me, c'era una porta. La melma gocciolava da essa, e io sapevo che il grande volto pallido, da cui ero terrorizzato, era dietro la porta, preparandosi ad uscire, aprendo gli occhi nell'oscurità. Dimmi che erano solo sogni, se ti piace. Potresti trovare facilissimo credere che io e mio padre facevamo gli stessi sogni per telepatia». «Sai perfettamente bene», disse Hilary, «che non crederei niente del genere». «No? Allora prova a sentire quest'altro fatto», disse Ingels, in tono brusco. «Alla mostra, che ho visitato oggi, c'era un quadro che rappresentava il nostro sogno. E non è di nessuno di noi due». «E questo che cosa vuol dire?», lei gridò. «Che cosa mai vorrebbe dire?» «Insomma, un sogno, che riesco a ricordare così chiaramente dopo tutto questo tempo, è degno di essere preso in considerazione. E quel quadro suggerisce che il sogno è molto di più, è oggettivamente reale». «Allora tuo padre ha letto dell'isola in un racconto», disse Hilary. «Così hai fatto tu e così ha fatto il pittore. Che cos'altro potresti suggerire?»
«Niente», rispose alla fine. «Allora quali erano le altre cose strane che mi volevi raccontare?» «Questo è tutto», egli disse. «Solo il quadro. Nient'altro. Veramente». Lei aveva un'aria infelice, un po' vergognosa. «Non mi credi?», disse Ingels. «Vieni qui» Quando le loro carezze si unirono sul tappeto di pelliccia lei disse, «Non ho bisogno di essere veramente il tuo psicanalista, no?» «No» rispose, esplorandole l'orecchio con la lingua e facendo scattare una molla in lei. Hilary spense la lampada d'acciaio a stelo e se né andò, portando Ingels attraverso l'appartamento come se si tirasse dietro una cesta. Scoppiarono a ridere quando i fari di una macchina li illuminarono da Mercy Hill e, per un attimo, colsero nella mano di lei il suo manico. Raggiunsero il refrigerio del letto e, improvvisamente, urgentemente, non poterono continuare il loro gioco. Lei era tutt'intorno a lui, muovendosi per tirarlo dentro e fuori: lo avvolgeva morbidamente, Ingels spingeva con violenza ad ogni sua stretta per sentirsela restituire raddoppiata. Si stavano sollevando al di sopra di tutto, tranne che di loro stessi, ansimanti. Egli si sentì lanciato in alto e chiuse gli occhi. E cadde in un gorgo di carne, in un'ampia caverna, quasi buia, il cui soffitto sembrava lontano, al di sopra di lui, come il cielo. Doveva ancora cadere per molto, e sotto di lui scorgeva i movimenti di enormi bolle e filamenti di carne, di occhi che gonfiavano e spaccavano la carne, di gigantesche masse verdescuro che si arrampicavano lentamente l'una sull'altra. «No, Cristo, no», egli gridò, aggrappandosi inerme. Si abbandonò su Hilary. «Oh Dio», lei disse. «Che cosa c'è adesso?» Si stese accanto a lei. Al di sopra di loro il soffitto era frantumato dai riflessi delle luci. Il suo aspetto corrispondeva alle sue sensazioni. Chiuse gli occhi e trovò la calma nell'oscurità, ma non riusciva a sopportare di tenerli chiusi a lungo. «Va bene», disse. «C'è qualcosa che non ti ho detto. So che ultimamente ti sei preoccupata del mio aspetto. Ti ho detto che dipendeva dall'insonnia, ed è vero, ma dipende anche dal fatto che ho ricominciato a sognare. Tutto è iniziato circa sei mesi fa, poco prima che ti incontrassi, e sta diventando sempre più frequente: ora sogno una o due volte alla settimana. Ma questa volta non riesco mai a ricordare il sogno, forse perché non lo facevo più da tanto tempo. Penso che abbia qualcosa a che fare con il cielo, forse con il
pianeta di cui abbiamo sentito parlare. L'ultima volta è successo questa mattina, dopo che tu te ne sei andata in biblioteca. Per qualche motivo, non riesco a sognare quando sono con te». «Naturalmente, se vuoi tornare a casa tua, vai pure»; disse Hilary, fissando il soffitto. «Da un certo punto di vista non voglio farlo», disse. «Questo è il guaio. Ogni volta che tento di sognare, scopro di non voler andare a dormire, come se lottassi contro il sogno. Ma oggi sono abbastanza stanco per lasciarmi andare a sognare, comunque sia. Tutto il giorno ho avuto allucinazioni che penso derivino dal sogno. E diventa sempre più pressante, in qualche modo. Devo sognare. Prima sapevo che era importante, ma quel dipinto mi ha dato la sicurezza che è molto più di un sogno. Vorrei che tu lo capissi. Non è facile per me». «Supponi che io ti creda». Lei disse. «Allora che cosa faresti mai? Staresti per strada ad avvertire la gente? O tenteresti di vendere la storia al tuo giornale? Io non voglio crederti: come pensi che si comporterebbero gli altri?» «Questo è proprio il genere di cose che non ho bisogno di sentirmi dire», disse Ingels, «Voglio parlarne a mio padre. Penso che sia in grado di aiutarmi. Forse non ti dispiacerà di non venire con me». «Non vorrei farlo», disse Hilary. «Vai a fare il tuo sogno e le quattro chiacchiere con tuo padre, se ti va. Ma per quanto mi riguarda, questo vuol dire che non mi vuoi». Ingels camminò verso il proprio appartamento, che si trovava più in alto, su Mercy Hill. Fogli di giornali sbattevano contro i cespugli, le macchine correvano sibilando lungo le strade vicine. Solo le case erano tra lui ed il cielo, con le loro pareti che sembravano basse e sottili. Anche nelle pozze di luce sotto i lampioni, sentiva la notte spalancarsi al di sopra. L'edificio dove abitava era silenzioso. Il citofono, che di solito pulsava come un cuore elettronico, era calmo. Ingels salì al terzo piano: nel silenzio, i suoi passi flettevano i gradini di legno, costringendolo a rimanere sveglio. Nell'ingresso cercò a tentoni l'appendiabiti, che era dietro la porta: Hilary teneva il suo da un'altra parte. Davanti alla finestra del soggiorno, vide la scrivania di Hilary disseminata delle sue striscie di fumetti, attaccate insieme. Ma, quando accese la luce, era la sua scrivania, cosparsa di programmi della televisione. Guardò con gli occhi annebbiati il letto disfatto. Attorno a lui, la stanza sembrava e si muoveva come acqua melmosa. Si gettò su letto e si addormentò immediatamente.
L'oscurità lo portò fuori, persuadendolo ad andare avanti, nuotando soffice attraverso i suoi occhi. Una grande oscurità silenziosa lo circondava. Egli volava in essa, dormendo, eppure cosciente. Avvertì energia fiorire remota nell'oscurità, con esplosioni vaste e silenziose, che raffreddavano e congelavano. Avvertì pesi immensi rotolare lentamente fino ai margini della sua cecità. Poi riuscì a vedere, benché l'oscurità rimanesse quasi immutata. Nelle remote distanze del buio, brillavano punti di luce simili a minuscole incrinature. Ingels cominciò a volare verso di essi, più velocemente. Mentre si avvicinava, i punti si separarono e fuggirono ai margini della sua visione. Si slanciò tra loro, verso altri punti luminosi, che ora piombavano senza sosta dalla notte sconfinata, portando seco grani refrigeranti di polvere congelata. Si stavano moltiplicando, la sua visione si riempiva di luci sparse e dei parassiti che le accompagnavano. Egli girava per imprimere nella propria mente ogni silenziosa visione fiammeggiate. La sua mente dava la sensazione di essere enorme. La sentiva afferrare ogni struttura di luce ed immagazzinarla con facilità, mentre già tornava ad essere all'erta per la prossima. Passò tanto tempo prima che si fermasse, da non aver alcun ricordo cosciente della partenza. In qualche modo, la traiettoria che aveva seguito, lo aveva riportato al punto iniziale. Ora volava in equilibrio con tutto il sistema di luce e polvere che lo circondava, sconfinato, la sua mente racchiudeva tutto ciò che aveva visto. Scoprì che una parte della sua mente aveva fissato, come attraverso un telescopio, i particolari dei mondi che aveva attraversato: città fatte di globi brulicanti di insetti alati e neri. Montagne scolpite, o foggiate diversamente, a forma di teste, nelle cui cavità si contorcevano adoratori. Un mare dalle cui profondità emergeva un braccio snodato, che si stendeva per molte miglia verso la costa, con una rete sottile di pelle per procurarsi il cibo. Un mondo minuscolo in particolare sembrava brulicare di una vita che era cosciente di lui. Nelle profondità di uno dei suoi mari, dormiva una città, ed egli partecipò ai sogni di quelli che vi dormivano: un'infanzia vissuta in una grotta vasta e quasi buia, allungati in una sottile forma frusciante, così alta da far perdere di vista le teste. Il volo verso questo pianeta minuscolo ma fertile. Danze dei loro corpi enormi e goffi al di sotto della luce di un frammento, che essi avevano staccato dal mondo e lanciato nello spazio. Il letargo in tombe sottomarine di basalto. In letargo, essi aspettavano e partecipavano
alle vite degli altri esseri simili, che erano attivi in superficie. Per un momento egli fu l'abitante di una città nera, abbandonata dai propri costruttori che, allarmati, se ne erano andati lentamente brancolando, mentre una larva pallida fuggiva lungo un sentiero tra gli edifici. In seguito, mentre gli attivi in superficie avevano dovuto nascondersi dalle larve che si moltiplicavano, quelli che erano nella città sottomarina, tranquilli, aspettavano. Ingels sentì che i loro pensieri, nel sonno, scrutavano, percorrevano la superficie, toccavano e saggiavano le menti delle larve, enormemente pazienti e risoluti. Sentì il grembo del mare avvolgere la sua cella. La sua carne enorme tremava, prevedendo la rinascita. Senza alcun preavviso, si trovò in una stanza a contemplare il cielo attraverso un telescopio. Gli sembrava di farlo da ore, gli occhi gli bruciavano. Consultava una mappa e regolava il supporto del telescopio. Una pozza di luce proveniente da una lampada ad olio oscillava, ghermendo i libri nelle librerie che erano contro le pareti, riversandosi sulle mappe ai suoi piedi. Poi si trovò fuori della stanza a correre in un buio teatro: cappucci di oscurità scrutavano dai palchi. Quando fu fuori dal teatro, lanciò un'occhiata in alto, verso il cielo screziato, verso il tetto, dove sapeva che dietro un mattone d'ardesia era nascosto il telescopio rivolto verso il cielo. Si precipitò attraverso le strade illuminate a gas, fuori dal sogno di Ingels. Si svegliò e seppe subito dov'era il teatro: ai margini di Brichester, verso cui la sua mente lo aveva trascinato per tutto il giorno. III Si alzò all'alba, sentendosi purificato e ristorato. Si lavò, si rasò, si vestì, si preparò la colazione. Nel suo stato di sollievo, il preambolo del sogno non sembrava essere un problema. Gli si era chiarita la sua propensione per i margini di Brichester e il resto gli sembrava al di fuori di lui, forse complicatamente simbolico. Sapeva che Hilary vedeva i suoi sogni come sintomi di un turbamento, e forse aveva ragione. Forse, pensò, significano tutti che il teatro tenta di arrivare alla mia coscienza. Un sacco di storie: ma è questo che i sogni vogliono dire. Specialmente quando devono lottare per farsi strada, senza dubbio. Non possono aspettare di vedere che cosa il teatro significa per me. Quando uscì, l'alba lo afferrò, come se non si fosse scollato di dosso i sogni. La luce velata e pesante scese intorno a lui mentre forme ambigue gli correvano accanto. L'aria dava la sensazione di essere soffocata
dall'imminenza, e non era penetrante come il freddo avrebbe dovuto renderla. Questo mi insegnerà ad alzarmi al canto del gallo, pensò. Dà la stessa sensazione dell'insonnia. Non riesco ad immaginare che cosa trovino nel cantare. Le file di pendolari avanzavano come le lancette del destino. Qualcuno aveva lasciato un telex sulla sua scrivania. Le fotografie della sonda spaziale si aspettavano da un momento all'altro. Scrisse in fretta le recensioni, lanciando occhiate per allontanare la sensazione che il pavimento brulicasse di pallide larve, che formicolavano per i corridoi. Dovevo aver bisogno di dormire di più di quanto pensassi. Forse dopo farò un sonnellino. Benché il suo sogno avesse fatto regredire le strade, sostituendo ai lampioni elettrici quelli a gas, sapeva esattamente dove doveva essere il teatro. Si affrettò lungo i margini di Brichester Inferiore, oltrepassando scavatrici che masticavano vapore, scheletri rombanti di case in fiamme. Camminava a grandi passi diritto verso la strada del sogno. Un lato era stato raso al suolo, una striscia frastagliata di terreno marrone allungava le crepe nella pavimentazione stradale e nei campi, che erano al di là. Ma il teatro era dall'altra parte. Ingels si affrettò oltre le case di mattoni rossi, oltre i giardini sferzati dal vento e oltre i fiori spezzati, verso il foro rappezzato, dove egli sapeva che un tempo una lampada a gas era stata a guardia del teatro. Si arrestò sul foro, mentre le auto passavano oltre, e fissò le case che erano davanti a lui, al sicuro dal suo sguardo nella loro uniformità. Il teatro non era lì. Solo l'urlo di una macchina che l'oltrepassava, lo scosse. Continuò a vagare, sentendosi confuso e assurdo. Ricordava vagamente che una volta aveva camminato per quella strada con i suoi genitori, andando ad un picnic. Allora la lampada a gas era ancora lì. Egli l'aveva contemplata ed aveva contemplato il teatro, che a quel tempo era di proprietà di un cinema, finché non l'avevano persuaso ad andare via. Questo spiegava il sogno, l'insonnia, tutto. E io di solito non mi facevo convincere dal Cittadino Kane. Un bocciolo di rosa anche a me, altroché! In realtà si era anche sbagliato sulla posizione del lampione: era lì, a cento metri davanti a lui. Subito cominciò a correre. Già riusciva a vedere il teatro, che ora aveva il nome di un grande magazzino di mobili. Era già oltre le porte a doppi battenti e nel primo reparto di arredamenti completi, quando capì che non sapeva che cosa avrebbe detto. Scusatemi, mi piacerebbe guardare sotto il vostro tetto. Mi dispiace disturbarvi, ma
credo che abbiate una stanza segreta lassù. Per l'amor di Dio, pensò, arrossendo, affrettandosi a scendere i gradini, mentre un commesso andava avanti ad aprirgli le porte. Adesso so che cos'era il sogno. Mi sono assicurato che non lo farò di nuovo. Dimentichiamo il resto. Si gettò dietro la sua scrivania. Ora stai seduto e comportati bene. Che ragione stupida per litigare con Hilary. Almeno puoi ammetterlo davanti a lei. Chiamala ora. Stava allungando una mano per sollevare il microfono, quando arrivò Bert, agitando la recensione di Ingels sul programma televisivo di astronomia. «So che ti piacerebbe riscriverlo», disse. «Mi dispiace». «Questa volta, chiameremo gli uomini con il camice bianco. Abbiamo pensato che avevi fatto la stessa fine di quest'individuo», disse Bert, gettando un trafiletto sulla scrivania. «È solo la mancanza di sonno» disse Ingels, senza guardare. «Visto che sei il nostro Matusalemme, dammi un'informazione. Quando quel grande magazzino sulla Fieldview era un teatro, come si chiamava?» «Vuoi dire, il Variety?» disse Bert, balzando sul suo telefono. «Ricordami di raccontarti di quella volta che ho visto recitare Beaumont e Fletcher. Un grande duetto». Ingels rivoltò il trafiletto, sorridendo un po' a Bert, un po' a se stesso per il modo in cui ancora non si era liberato del sogno. Continua, guarda negli archivi durante il tuo intervallo per il pranzo, si disse in tono ironico. Scommetto che il Variety non ha mai avuto un titolo nella sua vita. "A CAUSA DEL LSD TENTA IL SUICIDIO" diceva il trafiletto. «Uno studente americano afferma che in una sua "visione" dovuta al LSD, gli è stato detto che il pianeta, che ora sta attraversando il nostro sistema solare, annuncia l'emersione di Atlantide. Si è gettato dalla finestra di un secondo piano. Insiste col dire che l'emersione di Atlantide significa la fine dell'umanità. Dice che gli abitanti di Atlantide sono pronti al risveglio». Ingels fissò il trafiletto: i rumori del giornale pulsavano nelle sue orecchie come sangue. Immediatamente spinse indietro la sedia e corse all'ultimo piano, dove c'era l'archivio dello Herald. Sotto il basso soffitto, un tubo a fluorescenza ondeggiava e ronzava. Ingels strinse al petto i quotidiani rilegati, un volume per braccio, e li posò su un tavolo, dove sollevarono nuvole di polvere. L'anno 1900 fu il primo a venirgli sotto mano. Le strade allora dovevano essere illuminate a gas. La
polvere gli penetrò nelle narici e lo avvolse minacciosamente: il telefono di Hilary non rispondeva, e la recensione televisiva dava strattoni alla sua mente, ansiosa di essere riscritta. Scrutando e stringendo gli occhi sul volume, tentò di liberarsi di questi pensieri e dei sui dubbi. Ma non gli ci volle molto, benché i suoi occhi fossero stanchi di vagare su e giù, su e giù. Ben presto vide il titolo: TENTATO FURTO AL "VARIETY". UN COMMERCIANTE SUL BANCO DEGLI ACCUSATI. «Francis Wareing, un negoziante di stoffe, che esercitava il suo commercio a Brichester, Donald Norden, un macellaio (e così via, Ingels imprecando, passò oltre con impazienza) sono stati accusati davanti ai Giudici di Brichester, di essersi introdotti con scasso nel Teatro Variety, sulla Fieldview, per perpetrare un furto. Il Sig. Radcliffe, proprietario e direttore del Teatro...» Sembrava interessante, Ingels pensò stancamente, tralasciando la cronaca, e proseguendo la scorsa del volume. Ma, due numeri dopo, il titolo della continuazione della cronaca processuale lo fece fermare di colpo: ACCUSA E CONTRACCUSA IN TRIBUNALE RIVELATO UN CULTO BLASFEMO. E, a metà della colonna, si diceva: «Interrogato dal Sig. Kirby, rappresentante dell'accusa, il Sig. Radcliffe ha affermato che era molto occupato nella preparazione dei conti quando, sentendo dei rumori furtivi all'esterno del suo ufficio, si era fatto coraggio e si era avventurato fuori. Nella platea aveva scorto parecchi uomini...» Andando avanti nella lettura, Ingels aveva sempre più premura, e vide che anche la Corte era stata impaziente: «Il racconto del Sig. Radcliffe è stato bruscamente interrotto da Wareing, che lo ha accusato di aver concesso una stanza del suo teatro ai quattro accusati. Visto che questo privilegio era stato frettolosamente ritirato, Wareing sosteneva che i quattro erano entrati nell'edificio nel tentativo di recuperare alcuni oggetti di loro legittima proprietà. Egli ha proseguito: «Il Sig. Radcliffe era a conoscenza di ciò. È stato uno dei nostri per an-
ni, e lo sarebbe ancora, se ne avesse il coraggio». «Il Sig. Radcliffe ha replicato. «Questa è una perfida menzogna. Comunque, non sono sorpreso dalla profondità della vostra cattiveria. Qui ne ho le prove». «Così dicendo, ha presentato alla verifica della Corte un taccuino il cui contenuto, come ha dichiarato, è di natura blasfema e sacrilega. Il taccuino, che ha trovato sotto una poltrona del teatro, è stato da lui indicato come l'oggetto dell'infruttuoso tentativo di furto. Il Sig. Radcliffe ha descritto il libretto come «il diario di un culto dedicato al prepararsi ad una blasfema parodia della Seconda Venuta.» È stato consegnato al Sig. Poole, il Giudice, che l'ha prontamente dichiarato conforme a questa descrizione. Il Sig. Kirby ha addotto come prova della corruzione provocata da questo culto, la trasformazione di quattro rispettabili commercianti in ladri comuni. Se non avessero provato vergogna per le credenze da essi professate, non avrebbero dovuto far altro che supplicare il Sig. Radcliffe di restituire loro l'oggetto smarrito. Ma quali credenze? Ingels si domandò. Cercò nei numeri successivi, sgretolando le pagine ingiallite. Il tubo ronzava come un insetto luminoso intrappolato. Per poco non gli sfuggì la pagina. IL FURTO SVENTATO AL VARIETY IL QUINTO UOMO SI CONSEGNA ALLA GIUSTIZIA Quale quinto uomo? Ingels lesse: «Il Sig. Poole ha condannato il culto di cui erano seguaci i quattro accusati, come prova conclusiva dell'iniquità di quelle religioni che osano rivaleggiare con il Cristianesimo. Ha descritto il culto come "indegno perfino della più infima specie di mulatti". «A questo punto si è creato un tumulto, mentre un uomo entrava precipitosamente e pregava che lo lasciassero parlare alla Corte. Qualche minuto dopo, è entrato anche il Sig. Radcliffe, con un'espressione risoluta sul volto. Quando ha visto l'ultimo arrivato, comunque, è sembrato recedere dal suo proposito, e ha preso posto in galleria. L'uomo, nel frattempo, si affidava alla clemenza della Corte, dichiarando di essere il quinto ladro. Ha affermato di essere stato spinto alla confessione da un senso di ingiustizia nel lasciare che i suoi amici si assumessero tutta la colpa. Ha detto di chiamarsi Joseph Ingels...»
Egli aveva ottenuto una condanna più lieve in segno di riconoscenza per il suo gesto. Ingels vide con gli occhi annebbiati la conclusione dell'articolo. La notò appena. Stava ancora fissando il nome di suo nonno. «È gentile da parte tua essere venuto», disse suo padre, in tono ambiguo. Ingels notò che avevano finito di mettere la carta da parati, e i fiori del parato erano diventati più grandi e di un arancione brillante. Ma la luce era ancora fioca, e le pareti si definirono ai suoi occhi come la notte intorno ad un fievole lampadina. Vicino all'appendiabiti, vide lo specchio nel quale aveva preso coscienza di sé prima dell'adolescenza. Vide l'incrinatura in un angolo, dove aveva diretto un pugno, soffocato dalla rabbia e dall'incomprensione dei genitori per la sua irrequietezza giovanile. Un brutto foro che si apriva nell'intonaco attraverso il parato, era stato fatto per reggere un chiodo robusto. «Avrei dovuto appendere lo specchio», disse Ingels, senza avere l'intenzione di umiliare il padre che si accigliò e disse, «Non c'è bisogno». Entrarono nella camera da pranzo, dove sua madre stava apparecchiando con le posate e la tovaglia migliori. «Lavati le mani», disse. «Il te è quasi pronto». Mangiarono e parlarono. Ad Ingels sembrava che la conversazione fosse un cestino pieno di cose nel quale egli doveva infilare una palla, quando l'apertura si inclinava verso di lui. «Come sta la tua ragazza?», chiese sua madre. Non sai il suo nome? Ingels pensò, ma rispose: «Bene». Non accennarono più ad Hilary. Sua madre mostrò delle fotografie di quando era piccolo, che avevano scoperto in un cassetto della credenza. «Eri un bambino grazioso», disse la madre. «A proposito di ricordi», riprese Ingels, «ricordi il vecchio Teatro Variety?» Il padre si stava scaldando accanto al parafuoco, volgendo le spalle ad Ingels. «Il vecchio Variety», disse la madre. «Una volta ti volevamo portare ad una pantomima, che si rappresentava lì. Ma», gettò un'occhiata alle spalle del marito, «quanto tuo padre ci andò, i biglietti erano esauriti. Allora c'era il teatro Gaiety», e si esibì in una lista di teatri e di aneddoti. Ingels sedeva di fronte al padre. Il fumo della sua pipa saliva al di sopra del camino. «Mentre sfogliavo dei vecchi numeri dell'Herald», disse, «Mi sono im-
battuto nel caso che coinvolse il Variety». «Non lavori mai in quel giornale?», disse suo padre. «Stavo facendo una ricerca. Sembra che ci sia stato un furto nel teatro. Accadde prima che tu nascessi, ma vorrei sapere se tu ricordi di averne sentito parlare». «Via, non siamo tutti intelligenti come te», disse sua madre. «Noi non ricordiamo quello che abbiamo sentito dire quando eravamo nella culla». Ingels rise, ma dentro di sé divenne teso: l'apertura del cestino si era allontanata da lui. «Avresti potuto sentirne parlare, quando eri più grande», disse a suo padre. «Tuo padre era coinvolto». «No», disse suo padre. «Non lo era». «Era scritto sul giornale». «Il suo nome era coinvolto» disse suo padre, rivolgendo ad Ingels uno sguardo vacuo. «Ma era un omonimo. Tuo nonno ha impiegato anni e anni per far dimenticare questa calunnia. Il giornale non volle pubblicare le proprie scuse né volle dire che non era stato lui. E tu ti chiedi perché non volevamo che tu lavorassi in un giornale. Non saresti stato un bravo commerciante. Hai permesso che la nostra famiglia perdesse il negozio, e ora eccoti qui a rivangare vecchio sudiciume e menzogne. Questo è quello che ha scelto di fare». «Non avevo l'intenzione di essere offensivo», disse Ingels sforzandosi di mantenere la calma. «Ma era un caso interessante, questo è tutto. Domani andrò al teatro per occuparmene». «Se ci andrai, getterai fango sul nostro nome. Non prenderti il disturbo di venire qui». «Adesso calmati», disse Ingels. «Se tuo padre non era coinvolto, non mi puoi dire seriamente una cosa del genere. Dio mio!» gridò, sommerso da un ricordo. «Tu sai qualcosa! Una volta me ne hai parlato, quando ero piccolo! Avevo appena cominciato a sognare, e tu me l'hai detto perché non mi spaventassi, per farmi capire che anche tu facevi questi sogni nel sonno. Eri in una stanza, dietro un telescopio aspettando di vedere qualcosa. Me lo hai detto, perché anch'io l'avevo sognato! Questa è la seconda volta che faccio quel sogno! È la stanza al Variety: deve essere quella!» «Non so che cosa intendi», disse suo padre. «Non ho mai sognato una cosa del genere». «Tu mi hai detto di averlo fatto». «Devo avertelo detto per calmarti. Continua, dì che non avrei dovuto mentirti. Lo devo aver fatto solo per il tuo bene»
Gli occhi del padre erano diventati vacui, con uno sguardo fisso. Ingels lo guardò intensamente e capì subito che dietro quel vuoto c'era molto di più di una bugia sulla sua infanzia. «Hai sognato di nuovo», disse Ingels. «Hai fatto lo stesso sogno che io ho fatto la notte scorsa: so che è così. E penso che tu sappia che cosa significhi». Lo sguardo si spostò impercettibilmente, poi ritornò rafforzato. «Che cosa sai tu?», disse suo padre. «Tu vivi nella nostra stessa città e ci vieni a trovare una volta alla settimana, se tutto va bene. Eppure, sai che io ho sognato! Qualche volta ci chiediamo se ti ricordi ancora che noi siamo qui!» «Lo so. Mi dispiace», disse Ingels. «Ma questi sogni, di solito li facevi. Erano quelli che avevamo in comune, ti ricordi?» «Avevamo in comune tutto, quando eri un bambino. Ma è finita», disse suo padre. «I sogni e tutto il resto». «Questo non c'entra niente!», gridò Ingels. «Hai ancora quella capacità! So che devi aver fatto questi sogni! È nei tuoi occhi da mesi!» Si fermò, cercando di ricordare se quella era la verità. Si voltò verso sua madre, e chiese in tono implorante. «Non ha sognato?» «E che cosa ne so io?», rispose quella. «È una cosa che non mi riguarda». Stava sparecchiando la tavola, alla fioca luce razionata che proveniva dal fuoco, senza guardare nessuno dei due. Improvvisamente Ingels la vide come non aveva mai fatto prima. Disorientata dai sogni e dalle intuizione del marito, ancora più esclusa dal legame sconvolgente e incomprensibile tra lui e suo figlio. Di colpo Ingels capì perché egli aveva sempre avvertito che la madre era stata felice di vederlo andare via di casa. Solo allora aveva potuto cominciare a riavere il marito per sé. Prese il soprabito dall'ingresso e gettò un'occhiata nella camera da pranzo. Non si erano mossi: suo padre fissava il fuoco e sua madre la tavola. «Ci vediamo», disse, ma l'unico suono fu il crepitio del fuoco che sgretolava e faceva scoppiare le braci rossastre. IV Guardava la televisione. I movimenti delle luci e dei colori assumevano delle forme. Fuori dalla finestra, il cielo attirava il suo sguardo, teso fino allo spasimo, come nella pressante imminenza del tuono. Scriveva parole. Più tardi, volava in un'enorme oscurità. Globi scintillanti roteavano len-
tamente intorno a lui: qualcuno aveva una striscia tenue di luce. Avanti, l'oscurità era disseminata di polvere e di frammenti di roccia. Un pezzo di metallo gli girava intorno come un timido ago, ora andandogli incontro, ora emettendo scintille e ruotando lontano. Ingels sentiva un disprezzo così profondo da divenire solo profonda indifferenza. Chiuse gli occhi come avrebbe potuto fare con un granello di polvere, caduto nel suo occhio. Durante la mattinata, scrisse a casa la recensione. Sapeva che non avrebbe potuto sopportare a lungo i corridoi brulicanti. Con gli occhi annebbiati, si fece strada attraverso la stanza, trovò Bert. Lo dovette guardare più o meno per un minuto: non riusciva a ricordare subito a chi somigliasse. «La tua nuova versione della recensione televisiva non è una delle tue cose migliori», disse Bert. «Ah, bene», rispose Ingels, afferrando automaticamente dalla sua scrivania l'ultima copia dell'Herald, e si affrettò verso la porta. L'aveva quasi raggiunta, quando sentì il Direttore del giornale urlare al telefono. «Ma non può avere effetto su Saturno e Giove! Voglio dire, non può cambiare la loro massa, non è vero?... Mi dispiace, signore. Naturalmente, non volevo intendere che ne so più di voi, nel vostro campo. Ma è possibile che la loro massa cambi?... Che cosa? Anche la traiettoria?» Ingels sogghignò alla folla che attorniava la scrivania del Direttore e alla loro espressione rapita. Sarebbero stati ancora più rapiti, quando egli fosse tornato. Si avviò fuori a grandi passi. Camminò tra la folla che si agitava, salì i gradini, ed ebbe una visione di letti e toilettes, che sembrava una strada di piccole camere da letto, le cui pareti erano state tolte con un trucco. «Posso parlare con il Direttore? Per favore», chiese all'uomo che gli era andato incontro. «Sono del Brichester Herald». Il Direttore era un giovane che indossava un abito chiaro, dalla linea affusolata, e aveva un taglio di capelli abbastanza lungo. Esibiva il sorriso come se avesse dovuto sottoporsi ad un'ispezione. «Mi sto occupando di una storia», disse Ingels, mostrando il tesserino della stampa. «Pare che quando il vostro grande magazzino era un teatro, una stanza fosse affittata da un gruppo di astronomi. Pensiamo che i loro documenti siano ancora qui, e, se fosse possibile trovarli, avrebbero un grande interesse storico». «È interessante», disse il Direttore. «Dove si suppone che siano?». «In qualche stanza dell'ultimo piano di quest'edificio». «Naturalmente, mi farebbe piacere aiutarla». Passarono quattro uomini
che trasportavano i pezzi di un divano smontato fino ad un furgone. «Una volta c'erano degli uffici all'ultimo piano del palazzo, credo. Ma ora non li usiamo, sono stati chiusi con delle assi. Sarebbe un bel guaio riaprirli ora. Se aveste telefonato, avrei potuto tenere qualche uomo a disposizione». «Sono stato fuori città», disse Ingels, improvvisando frettolosamente, ora che i suoi piani stavano andando storti. «Ho trovato questa storia sulla scrivania, quando sono tornato. Ho tentato di telefonare prima, ma non sono riuscito a mettermi in comunicazione. Deve essere un omaggio agli affari che state facendo». Una vecchio, uno dei facchini, era seduto su una sedia lì vicino, e ascoltava. Ingels si augurava che se ne andasse, non poteva sopportare anche un pubblico. «Questi documenti sarebbero veramente importanti», disse rabbiosamente. «Di grande valore storico». «In ogni caso non riesco a credere che siano ancora qui. Se fossero stati in una delle stanze dell'ultimo piano, sarebbero stati portati via molto tempo fa». «Penso che qui vi sbagliate», disse il vecchio dalla sua sedia. «Non avete niente da fare?», domandò il Direttore. «Abbiamo finito di caricare», disse il vecchio. «L'autista non è ancora arrivato. La madre è malata. Non tocca a me dire che vi sbagliate, ma ricordo quando fu riparato il tetto, dopo la guerra. Gli uomini che lavorarono qui dissero di aver visto una stanza piena di libri - o almeno tali sembravano - tutti coperti. Ma noi non riuscimmo a trovarla, salendo da qui, e nessuno volle rompersi il collo, tentando di calarsi dal tetto. Ma deve essere ancora lì». «Deve essere proprio quella», disse Ingels. «Più o meno dove era?». «Lì intorno», rispose il vecchio, indicando un punto al di sopra di un letto scandinavo a colonne. «Dietro uno degli uffici che usavamo per tenere i conti». «Potreste aiutarmi a trovarla?», chiese Ingels. «Magari i vostri colleghi potrebbero darvi una mano, intanto che aspettano. Tutto questo, naturalmente, se non dispiace al Direttore. Terremo conto della vostra collaborazione», disse poi al Direttore. «Potrei anche riuscire a farvi ottenere un prezzo speciale per la pubblicità, se un giorno voleste pubblicare un'inserzione». In cinque salirono al secondo piano, per una arrugginita scala a chiocciola, nascosta con buon gusto dietro un tramezzo. Il Direttore, ancora accigliato, aveva lasciato un facchino ad aspettare l'autista. «Chiamaci appena arriva,» aveva detto. «Qualsiasi sia il motivo, tempo perso equivale a soldi
persi». Attraversando il secondo piano, che era un ammasso di mobili imballati, Ingels scorse delle reminiscenze del suo sogno: i profili dei palchi lungo le pareti, quasi cancellati da mattoni, un gancio che aveva sorretto un candelabro. Quei ricordi sembravano uscire fuori dagli oggetti terreni, e fargli dei cenni. La scala continuava verso il piano superiore, ed era ancora più arrugginita. «Andrò avanti io», disse il Direttore, prendendo la torcia che uno dei facchini aveva portato con sé. «Non vogliamo che succedano incidenti», e le sue gambe si tirarono su, come una coda attraverso una botola. Lo udirono pestare i piedi, per provare la resistenza del pavimento. «Tutto bene», chiamò, e Ingels sporse la faccia tra nugoli di polvere in uno spoglio corridoio, fatto di assi. «Qui, avete detto?», chiese il Direttore al vecchio, indicando qualcuna delle tavole che formavano la parete. «È questo», disse il vecchio, mentre già strappava i chiodi con un martello, aiutato dai suoi colleghi. Lentamente si cominciò ad intravvedere una porta. Ingels sentì un sorriso storcergli il volto. Si controllò. Aspetta finché non se ne sono andati. Appena ebbero forzato la porta dell'ufficio, egli corse dentro. Era una tetra stanza verde, con una scrivania sfasciata, sulla quale frammenti di travi ricoprivano una macchina da scrivere impolverata. «Temo che sia come pensavo», disse il Direttore. «Non c'è il modo di andare oltre. Non potete aspettarvi che abbattiamo una parete, ovviamente. Non senza esserci prima consultati». «Ma doveva esserci un ingresso», disse Ingels, «di quest'altra parete. Deve essere stato murato, prima che acquistaste l'edificio. Di sicuro, possiamo cercarla». «Non ce n'è bisogno», disse il vecchio. Stava tirando calci al muro, dove si supponeva fosse la stanza. L'intonaco cadde lungo una spaccatura, e sentirono che dei mattoni si smuovevano. «Ho pensato molto», disse. «La guerra ha fatto questo, ha scosso l'edificio». Mollò un altro calcio e tirò fuori il piede. Aveva spostato due mattoni e, immediatamente, era crollata una parte della parete, lasciando un'apertura, alta un metro. «Sarà sufficiente!», affermò il Direttore. Ingels si chinò, scrutando attraverso la breccia velata di polvere. Al di sotto di travetti e tegole d'ardesia, c'erano tavole spoglie, che dovevano es-
sere le librerie drappeggiate da tende, lungo le pareti. Qualcosa al centro della stanza era interamente coperto da un'intelaiatura rivestita di una stoffa pesante, forse velluto. La polvere strisciava sulla sua faccia bollente, formicolante come febbre. «Se la parete sarebbe crollata in ogni caso, è bene che sia successo quando eravate qui». Disse al Direttore. «Adesso che è fatta, sono sicuro che non avrete nulla da obiettare se do un'occhiata in giro. Se mi faccio male, prometto di non reclamare. Firmerò una rinuncia, se lo desiderate». «Penso che fareste bene a farlo», disse il Direttore, e aspettò, mentre Ingels lottava con la propria cartella per tirare fuori l'ultima copia dell'Herald, una penna e un foglio dal suo blocco per appunti. Si pulì le sopracciglia, dove la polvere e il sudore erano diventati un rivoletto di fango, e poi si strofinò le mani tremanti, una con l'altra, per pulirle. Gli uomini avevano scavalcato il cumulo di mattoni e avevano sollevato l'intelaiatura rivestita di velluto. Al di sotto c'era un telescopio riflettore, lungo quasi trenta centimetri, montato su un piedistallo e robusto. Uno degli uomini si chinò sull'oculare, toccando la messa a fuoco. «Non lo fate!» Gridò Ingels. «La direzione può essere estremamente importante», spiegò, sforzandosi di ridere. Il Direttore lo stava guardando intensamente. «Che cosa avete detto di fare all'Herald?», disse. «Il corrispondente di astronomia», rispose Ingels, temendo subito che l'uomo leggesse regolarmente il giornale. «Non lavoro molto», continuò impacciato. «Questo è uno scopo. Se fosse possibile, mi piacerebbe passare qualche ora a guardare i libri». Li sentì scendere la scala a chiocciola. Strisciate via, pensò. Sollevò le coperture dalle librerie con precauzione, ansioso di tenere la polvere lontana dal telescopio, come la copertura di velluto aveva fatto per decenni. Improvvisamente si precipitò nel corridoio. Le pareti ondeggiavano alle oscillazioni della torcia. Scelse un'asse e, portatala oltre i mattoni, la spinse contro i travetti del tetto, al di sopra del telescopio, proteggendo quest'ultimo con un braccio. Dopo un attimo, la fece scivolare verso le tegole, subito dopo sentì un crollo lontano. Si accovacciò per guardare attraverso l'oculare. Senza dubbio doveva esserci stata una sedia un tempo. Tutto quello che riuscì a vedere fu un cielo offuscato e illuminato debolmente. Tra poco sarà notte, pensò, e girò la torcia in direzione dei libri. Ricordò la luce della lampada ad olio che, nel sogno, lambiva i suoi piedi.
Molto materiale era dedicato all'astronomia. Altrettanti libri e mappe erano astrologici, e scoprì che qualcuno era in caratteri orientali. Ma c'erano altri libri, sugli scaffali nell'angolo più lontano dalla porta murata: La storia di Atlantide e la scomparsa Lemuria, Image du Monde, Liber Investigationis, Rivelazioni di Glaaki. Di quest'ultimo c'erano nove copie. Li estrasse, curioso, e la polvere si sollevò intorno al suo volto come una nuvola di torpore. Le voci trapelavano flebili attraverso la scala, vendevano letti. Nella stanza chiusa, offuscato dalla polvere che riempiva il buco nel tetto, verso il quale il telescopio fissava pazientemente lo sguardo, Ingels ebbe la sensazione di essere di nuovo immerso nel sogno. Frammenti di pagine si attaccavano sotto le sue unghie. Leggeva: le parole fluivano come un incantesimo, come voci mormoranti nel sonno, si scioglievano in uno stile, balzavano rozzamente in un altro. Nei libri erano ripiegati disegni e dipinti, alcuni infantili e rozzi, altri sorprendentemente dettagliati. M'nagalah, una massa tentacolare, della quale si vedevano viscere ed occhi gonfi e sanguinanti. Glaaki, una faccia spugnosa, semi-sommersa in un lago, scrutava con gli occhi posti sulla sommità di antenne. R'lyeh, una città su un'isola, dominava trionfante sul mare: un'ampia porta era semi-aperta. La riconobbe, accettando con calma l'informazione. Ebbe la sensazione di non aver mai potuto avere motivi di dubitare del sogno. La serata invernale aveva ostruito il buco nel tetto. Ingels si chinò di nuovo sull'oculare. Attraverso il telescopio ora si vedeva solo l'oscurità. Dava l'impressione di essere annebbiato dalla distanza. Si sentì tirato vertiginosamente dalla distanza lungo il tubo di oscurità, fuori, in un vuoto infinito che nessuna quantità di materia poteva riempire. Non ancora pensò, ritraendosi rapidamente. Tra poco. Qualcuno lo stava fissando. Una ragazza. Guardava accigliata il buco nel tetto. Una commessa. «Tra poco chiudiamo», disse. «Va bene», rispose Ingels, ritornando al libro, che era aperto nel fascio di luce. Le pagine si erano girate, rivelandogli una nuova pagina, e una frase sottolineata, «... quando le stelle saranno giuste». La fissò e cercò di collegarla. Doveva significare qualcosa. I libri oscuri lo circondavano. Scosse la testa e girò rapidamente le pagine in cerca di sottolineature. La frase era ripetuta in un volume successivo, con una parola in più: «... quando le stelle saranno di nuovo giuste». Lanciò uno sguardo tagliente
all'insistente apertura sulla notte, che incombeva su di lui. Dopo un minuto imprecò. C'era un intero brano sottolineato: «Benché l'universo simuli un'apparenza di instabilità, la sua anima ha sempre conosciuto i propri Padroni. Il sonno dei suoi Padroni non è altro che il ciclo più grande di tutta la vita. Perchè, come la sfida e l'oblio dell'inverno sono resi vani dall'estate, così la sfida e l'oblio degli uomini, e di coloro che hanno preso le funzioni di cerimonieri, saranno messi da parte dal risveglio dei Padroni. Quando quest'epoca d'ibernazione sarà finita e il Tempo del Risveglio sarà vicino, l'universo manderà avanti il Messaggero e l'Artefice, Ghroth. Che spingerà le stelle e i pianeti ai loro giusti posti. Che farà sorgere i Padroni dormienti dai nascondigli e dalle tombe allagate. Che li farà sorgere dalle tombe. Che si prenderà cura di quei mondi, nei quali gli adoratori hanno avuto l'ardire di credersi cerimonieri. Che si impossesserà di questi mondi, finché tutti riconosceranno la propria presunzione e chineranno il capo». Ghroth. Ingels pensò, guardando l'apertura nel tetto. Avevano anche un nome per lui, nonostante il linguaggio superstizioso. Non che ciò sorprendente, pensò. L'uomo di solito considerava le comete in quel modo: questo è lo stesso genere di cosa. Un presagio che diventa quasi un Dio. Ma un presagio di che cosa? Pensò immediatamente. Che cosa si supponeva esattamente dovesse accadere, quando le stelle fossero state di nuovo giuste? Si inginocchiò nella polvere e sfogliò affannosamente i libri. Non c'erano più sottolineature. Ritornò precipitosamente al telescopio. Sentì delle acute fitte alle cosce nell'accovacciarsi. Qualcosa era entrato nel campo visivo. Era il margine esterno del pianeta errante, che entrava lentamente nel campo del telescopio. Quando entrò interamente, si sfocò e, solo di tanto in tanto, era messo perfettamente a fuoco. Ingels ebbe la sensazione che improvvisamente il vuoto facesse deboli tentativi di afferrarlo. Ora il pianeta era solo una macchia rossastra che si allargava. Afferrò la messa a fuoco, manovrandola lentamente. «Ora stiamo chiudendo», disse il Direttore, alle sue spalle. «Non starò qui ancora per molto, disse Ingels, avvertendo che il pianeta era sempre meno sfocato, meno sfocato... «Siamo in attesa di chiudere le porte», disse il Direttore. «E temo di avere una certa fretta». «Ancora un poco!» Ingels gridò, staccando lo sguardo dall'oculare che ora era abbagliante.
Quando l'uomo se ne fu andato, Ingels spense la torcia. Ora non vedeva nient'altro oltre la piccola apertura scura nel tetto. Lasciò che la stanza acquistasse forma ai suoi occhi. Alla fine scorse l'immobile telescopio, diretto verso l'alto. Lo trovò a tastoni, e si accovacciò. Non appena l'occhio toccò l'oculare, la notte si precipitò attraverso il telescopio e lo ghermì. Volava nel nulla, eppure era immobile, tutto si muoveva con lui. Nel vasto silenzio, udì lo squillo di un telefono che veniva alzato e una voce dire, «Passatemi il Direttore dell'Herald, per favore». Ritornò nel nulla. Sentì squittire flebilmente le pallide larve, rifacendo la strada al nulla. Ricordò come si muovevano, leggere, senza corazza. Davanti a lui, sospeso nell'oscurità a fronteggiarlo, c'era Ghroth. Era rosso come la ruggine, informe tranne che per delle sporgenze bulbose, simili a colline. Tranne il fatto che, naturalmente, non erano colline, se riusciva a vederle a quella distanza. Dovevano essere immense. Un globo rosso-ruggine coperto di protuberanze, allora. Questo era tutto, ma non poteva spiegare perchè aveva la sensazione che tutto il suo essere fosse attratto da esso, magneticamente, attraverso gli occhi. Sembrava incombere con pesantezza, comunicando un senso minaccioso di imminenza, di potere. Ma era a causa della sua stranezza, Ingels, pensò, lottando contro il risucchio dello spazio infinito, era solo a causa della sua intrusione. È solo un pianeta, dopotutto. Il dolore si diffondeva lungo le sue cosce. È solo un globo rosso e bitorzoluto. Poi si mosse. Ingels si sforzava di ricordarsi come poteva muovere il proprio corpo per distogliere il volto dall'oculare. Si gettò con tutto il proprio peso contro il sostegno del telescopio per spazzare via quello che vedeva. Si stava sfocando, questo era tutto. Benché fosse una fredda giornata senza vento, i movimenti dell'aria dovevano aver provocato lo sfocamento dell'immagine. La superficie di un pianeta non si muove, è solo un pianeta. La superficie di un pianeta non si spacca, non ondeggia in questo modo. Non si sbuccia per centinaia di miglia in modo da rivelare quello che c'è al di sotto, pallido e brillante. Quando tentò di urlare, l'aria fischiò nei suoi polmoni, come se lo spazio fosse esploso nel vuoto, dentro di lui. Incespicò oltre i mattoni, si precipitò agonizzante lungo le scale, urtò contro il Direttore con una spalla, allontanandolo dal suo percorso. Si ritrovò nell'edificio dell'Herald, prima ancora di sapere dove volesse andare.
Non poteva parlare, emetteva solo un fischio, come se risucchiasse l'aria. Gettò la cartella e l'ultimo numero del giornale sulla scrivania e vi si sedette dietro, aggrappandosi e tremando. La stanza sembrava essere stata in pieno caos, prima del suo arrivo. Ma adesso tutti lo circondavano, chiedendogli con impazienza che cos'era che non andava. Ma lui fissava il titolo dell'ultimo numero del giornale: L'ATTIVITÀ DELLA SUPERFICIE SUL PIANETA ERRANTE «È PIÙ APPARENTE CHE REALE», DICONO GLI SCIENZIATI. Le fotografie del pianeta, fatte dalla sonda spaziale: una mostrava una zona simile ad un rotondo mare pallido e brillante, il giro successivo della sonda aveva registrato solo montagne e pianure rocciose. «Non vedi?» gridò Ingels a Bert tra le facce che si assiepavano. «Ha chiuso gli occhi, quando ci ha visti arrivare!». Hilary arrivò subito, quando la chiamarono, e riportò Ingels al proprio appartamento. Ma lui non voleva dormire, rideva del medico e dei tranquillanti, benché ingoiasse le pasticche con sufficiente indifferenza. Hilary staccò il televisore, uscì il meno possibile, non comprò giornali, gettò via le copie, ancora sigillate, che le arrivavano per abbonamento. Gli parlava mentre lavorava, lo carezzava per calmarlo, dormiva con lui. Nessuno dei due si accorse che la Terra aveva cominciato a spostarsi. Robert Bloch IL SEGRETO DI SEBEK Non avrei mai dovuto partecipare alla festa in maschera di Henricus Vanning. Anche se la tragedia non fosse avvenuta, avrei fatto meglio a rifiutare il suo invito quella notte. Ora che ho lasciato New Orleans, riesco a vedere l'episodio in una luce più sensata e so di aver commesso un errore. Il ricordo di quell'inesplicabile momento finale è un orrore che ancora non posso affrontare razionalmente. Se in precedenza avessi avuto dei sospetti, ora mi sarebbero risparmiati i ricorrenti incubi che mi tormentano. Ma, al tempo di cui parlo, non c'era alcuna premonizione a guidarmi. Ero uno straniero in quella città della Louisiana, e molto solo. Il Carnevale serviva solo ad accentuare la mia sensazione di isolamento totale. Durante le prime due sere di celebrazione, stanco per le lunghe veglie alla macchina da scrivere, estraneo e solo vagabondavo per le strade pittorescamente contorte, e la folla che mi spingeva sembrava deridere la mia solitudine...
In quel periodo il mio lavoro era molto faticoso. Stavo preparando una serie di storie egiziane per una rivista, ed il mio stato mentale era un po' strano. Il giorno lo trascorrevo nella mia tranquilla camera e mi abbandonavo alle immagini di Nyarlathotep, Bubastis e Anubis; i miei pensieri erano popolati dagli sfarzi sacerdotali dei tempi antichi. E la sera, sconosciuto, camminavo tra la folla incurante, più irreale delle fantastiche figure del passato. Ma basta con le scuse. Ad essere veramente sincero, quando quella terza notte uscii di casa dopo una giornata noiosa, volevo di proposito ubriacarmi. All'imbrunire, entrai in un caffè e cenai abbondantemente con una bottiglia di brandy alla pesca. Il posto era caldo e affollato; le licenziose maschere sembravano tutte quante godere del regno di Momo. Dopo un po', questo fatto non mi disturbò. Quattro calici generosi di un liquore veramente eccellente mi facevano scorrere il sangue nelle vene come un elisir; sogni audaci e temerari si affollavano nella mia mente... Ora contemplavo la folla anonima che mi circondava, con un interesse ed una comprensione nuovi. Quella notte, la gente cercava di fuggire, fuggire dall'alienante monotonia e dalla meschina banalità. Il grassone, travestito da clown, che mi stava accanto, mi era sembrato stupido un'ora fa; adesso mi pareva di provare simpatia per lui. Sentivo la frustrazione dietro le maschere che questi estranei indossavano; apprezzavo quanto strenuamente lottassero per trovare l'oblio nel Carnevale. Anch'io avrei dimenticato. La bottiglia era vuota. Lasciai il caffè e di nuovo camminai per le strade, ma questa volta non provavo più la sensazione di isolamento. Incedevo a grandi passi, come il Re del Carnevale in persona, e rispondevo per le rime ai buffoni improvvisati. Qui il ricordo si fa temporaneamente confuso. Entrai nel bar di un club per uno scotch e soda, poi continuai per la mia strada. Dove mi portarono i miei passi non saprei dirlo. Mi pareva di farmi trasportare passivamente, ma la mia mente era cristallina. Non pensavo a cose mondane. Qualche strana associazione d'idee mi riportò alla mente il lavoro, e contemplai l'antico Egitto. Mi muovevo attraverso secoli ormai sgretolati, tra visioni di segreti splendori. Barcollavo lungo una strada nebbiosa e deserta. Camminavo attraverso Tebe, ricca di templi, sotto lo sguardo fisso delle sfingi.
Svoltai in una via illuminata, dove ballavano le persone in festa. Mi univo agli accoliti biancovestiti che adoravano la sacra Api. La marmaglia gozzovigliante soffiava nelle trombette di carta, lanciava coriandoli. Al suono acuto dei liuti, le vergini del tempio mi inondavano di rose rosse come il sangue di Osiride tradito. Così attraversavo le strade dei Saturnali, con i pensieri ancora annebbiati dall'alcol e lontani. Tutto somigliava molto ad un sogno, quando alla fine entrai in una via buia del quartiere creolo. Alti palazzi si elevavano deserti su entrambi i lati; case buie, sudice, abbandonate dai loro proprietari, che si erano uniti ai partecipanti alla festa in luoghi più piacevoli. Le costruzioni erano vecchie, secondo la moda dei tempi andati erano strette l'una all'altra, in fila. Sono come sarcofaghi vuoti in gualche tomba dimenticata; sono stati abbandonati accanto alle larve ed ai vermi. Dai tetti con gli spioventi ripidi piccole finestre nere si spalancavano. Sono vuote come le orbite prive di occhi di un teschio, e come un teschio anch'esse nascondono segreti. Segreti. Egitto interno. Fu allora che vidi l'uomo. Infilandomi in quella strada scura e contorta, notai una figura nell'ombra davanti a me. Stava in silenzio, come se aspettasse un mio approccio. Cercai di oltrepassarlo, ma c'era qualcosa in quell'uomo immobile che fermò la mia attenzione. Era vestito in modo innaturale. Improvvisamente, in modo sconvolgente, i miei sogni ubriachi si fusero con la dura realtà. L'uomo in attesa era vestito come un sacerdote dell'antico Egitto! Era un'allucinazione o indossava l'insegna a tre croci di Osiride? Quel lungo mantello era inconfondibile, e nelle mani scarne portava lo scettro con il diadema di Seth, il serpente. Vinto lo stupore, rimasi completamente immobile a fissarlo. Egli a sua volta mi fissava, con un viso magro, abbronzato, insignificante e privo di espressione. Con un rapido movimento, la sua mano destra guizzò sotto il mantello. Indietreggiai, mentre egli la estraeva di nuovo: tirò fuori una sigaretta. «Hai un fiammifero, straniero?», chiese il sacerdote egiziano. Allora scoppiai a ridere, ricordai, e capii tutto. Carnevale! Però che pau-
ra mi aveva fatto prendere! Sorridendo, con le idee d'un tratto di nuovo chiare, gli tesi il mio accendino. Lo adoperò e, mentre la fiamma bruciava verso l'alto, scrutò con curiosità il mio volto. Sussultò, mentre i suoi occhi grigi mostravano di avermi riconosciuto subito. Con mia gran meraviglia, pronunciò il mio nome in tono interrogativo. Annuii. «Che sorpresa!», ridacchiò. «Voi siete lo scrittore, non è vero? Ho letto qualcuna delle vostre ultime cose, ma non avevo la minima idea che foste qui a New Orleans». Mormorai qualche parola di spiegazione. Mi interruppe misericordiosamente. «È una bella fortuna. Mi chiamo Vanning, Henricus Vanning. Anch'io mi interesso di occulto; dobbiamo avere molte cose in comune». Restammo a chiacchierare per parecchi minuti, o meglio, lui chiacchierava e io ascoltavo. Appresi che il signor Vanning era un uomo agiato e con molto tempo a disposizione. Accennò in modo un po' frivolo e disinvolto ai suoi studi di mitologia primitiva, ma manifestò un interesse chiaramente genuino per le tradizioni egiziane. Citò un'Associazione, le cui ricerche singole o comuni sulla metafisica avrebbero potuto interessarmi. Come se fosse stato colto da un'ispirazione improvvisa, mi dette una manata affettuosa sulle spalle. «Quali sono i vostri programmi per la serata?», mi chiese. Confessai il mio imbarazzo. Egli rise. «Splendido! Io ho appena cenato, e sto tornando a casa per intrattenere alcuni ospiti. Il nostro piccolo gruppo - vi ho parlato di loro - vi tiene una festa in maschera. Vi farebbe piacere intervenirvi? È interessante». «Ma io non sono in maschera», obiettai. «Non c'è problema. Io penso che apprezzerete in modo particolare questo fatto. È molto insolito. Andiamo». Mi fece cenno di seguirlo, e si avviò lungo la strada. Mi strinsi nelle spalle, ma acconsentii. Dopotutto non avevo niente da perdere, e la mia curiosità era stata stuzzicata. Mentre camminavamo, il loquace signor Vanning sosteneva una conservazione scorrevole ed interessante. Parlò a grandi linee del suo piccolo «circolo» di amici esoterici. Dedussi che essi, con notevole esibizionismo, si definivano Club della Bara, e passavano la maggior parte del loro tempo nella ricerca delle fasi esotiche e macabre nell'arte, nella letteratura o nella musica.
Quella notte, a detta del mio ospite, il gruppo celebrava il carnevale nel suo modo originale. Sfidando il mascheramento tradizionale, tutti i membri e gli invitati avevano decisi di andare vestiti con costumi soprannaturali; invece dei soliti clowns, pirati e gentiluomini coloniali, avrebbero rappresentato le figure più bizzarre della fantasia e del mito. Mi sarei unito a lupi mannari, vampiri, dei, dee, sacerdoti e stregoni. Devo confessare che queste notizie non mi fecero del tutto piacere. Non avevo mai potuto digerire i pseudo - occultisti o i fanatici e metafisici ciarlatani. Io non apprezzo negli altri un interesse falso e una conoscenza fasulla della leggenda. Gli squallidi dilettanti in spiritualismo, astrologia e ciarlataneria «psichica» mi hanno sempre disgustato. Sento che non è bene per gli sciocchi beffarsi delle antiche credenze e delle vie segrete di razze estinte. Se questo fosse stato uno dei soliti gruppi di dilettanti nevrotici, paonazzi e di mezza età, allora avrei passato una serata noiosa. Ma lo stesso Henricus Vanning pareva avere più di un'infarinatura superficiale di cultura. Le sue colte allusioni ai vari epos mitici citati nelle mie storie, sembravano indicare una profonda conoscenza ed una ricerca sincera che vedevano aldilà dei veli più fitti del pensiero umano. Egli parlava con sufficiente disinvoltura della sua ricerca sul manicheismo e sui primi cerimoniali di culto. Mi concentrai tanto sulle sue parole, che dimenticai di prestare attenzione alla direzione verso cui mi stava conducendo, anche se sapevo che avevamo camminato per qualche tempo. Quando finalmente ci fermammo, era per svoltare in un lungo viale, fiancheggiato di siepi, che conduceva alle porte di una villa imponente e ben illuminata. A dire la verità, devo ammettere che ero così affascinato dalle pittoresche affermazioni di Vanning, che non riesco a ricordare un solo particolare concreto dell'esterno della casa o dei dintorni di essa. Ancora stordito, seguii Vanning attraverso la porta aperta ed entrai in un incubo. Quando ho affermato che la casa era illuminata in un modo sfolgorante, volevo dire proprio così: era avvolta nella luce di un rosso fiammeggiante. Eravamo in un ingresso; un ingresso dell'inferno. Sciabolate scarlatte di luce scintillavano dalla superficie delle pareti, ricoperte di specchi. Drappi vermigli ammantavano i passaggi interni, e la volta cremisi pareva ardere alle fiamme di un carminio cristallino di lampade a gas color rubino, appe-
se a braccieri macchiati di sangue. Un maggiordomo luciferino prese il mio cappello, mi porse un calice colmo di liquore alle ciliegie. Solo nella camera rossa, Vanning mi stava di fronte con un bicchiere nella mano. «Vi piace?», domandò. «Una vivace messa in scena per mettere i miei ospiti nello spirito giusto. Qualche piccolo tocco l'ho preso in prestito da Poe». Pensai alla splendida Maschera della morte rossa, e nel mio intimo trasalii per questa dissacrazione grossolana e volgare. Tuttavia questa dimostrazione dell'eccentricità di quell'uomo mi incuriosì. Egli cercava di ottenere qualcosa. Ero quasi commosso quando, in quella lugubre antisala, levai il bicchiere in un brindisi al pseudo-sacerdote egiziano. Il liquore bruciava. «E adesso ai nostri ospiti». Spinse un tendaggio di lato ed entrammo in una stanza cavernosa sulla destra. Verdi e neri erano i fondali vellutati di quelle pareti, d'argento le candele che illuminavano le nicchie. Il mobilio, invece, era abbastanza moderno e convenzionale; ma quando diedi un primo sguardo alla folla di ospiti, mi sentii per un momento come se fossi di nuovo immerso nei sogni. «Lupi mannari, dei e stregoni», aveva detto Vanning. Quel sibillino commento aveva sminuito più che esagerare la situazione. Le persone presenti in quella stanza costituivano il pantheon di tutti gli inferni. Vidi un osceno Pan ballare con una strega avvizzita; una folle Freya abbracciare un sacerdote voodoo; una baccante stringersi con lascivia ad un derviscio di Irem dagli occhi folli. C'erano arcidruidi, nani, elfi, e coboldi; lama, sciamani, sacerdotesse, fauni, orchi, maghi, mangiatori di cadaveri. Era un Sabba, una resurrezione di antichi peccati. Poi, quando mi unii alla folla e fui presentato, l'illusione momentanea svanì. Pan era solo un grassone, dagli occhi piuttosto gonfi, un signore di mezza età con una pancia così evidente che nemmeno la cintura di capretto poteva nascondere. Freya era una debuttante di un'allegria disperata, con lo sguardo avido da sgualdrina di una comune prostituta. Il sacerdote voodoo era solo un giovane gentile che biascicava un inglese leggermente incoerente. Incontrai forse una dozzina di ospiti e rapidamente ne dimenticai i nomi. Ero un pochino sorpreso dall'aria arrogante di Vanning; egli quasi umiliava parecchi degli ospiti più loquaci. «Divertitevi», gridava, mentre mi trascinava attraverso la stanza. «Sono
degli sciocchi», mi confidò a voce più bassa. «Ma ce n'è qualcuno che vi voglio presentare». Dall'altra parte, in un angolo, sedeva un gruppetto di quattro persone. Tutti indossavano paramenti sacerdotali simili a quelli di Vanning, nei quali predominava la religione. «Il dottor Delvin». Un anziano signore, in vesti babilonesi, quasi bibliche. «Etienne de Marigny». Un avvenente sacerdote di Adone, scuro di pelle. «Il professor Weildan». Un gnomo barbuto con un turbante di Kalender. «Richard Royce». Un intellettuale con gli occhiali, incappucciato da monaco. Il quartetto salutò con cortesia. Dopo la mia presentazione però, sciolsero immediatamente il loro riserbo. Si affollarono intorno a Vanning e a me in modo piuttosto confidenziale, mentre il nostro anfitrione mi sussurrava all'orecchio. «Questi sono i veri membri del gruppo di cui vi ho parlato. Ho visto il modo in cui guardavate gli altri, ho capito tutto e sono d'accordo con voi. Questa gente è stupida. Noi siamo gli iniziati. Allora forse vi chiederete la ragione della loro presenza. Lasciatemi spiegare. L'attacco è la migliore difesa». «L'attacco è la migliore difesa?» feci eco, stupito. «Si, supponete ora che io e miei amici siamo studiosi veramente profondi di Magia Nera». Avvertii una sottile suggestione nel modo in cui egli mormorò «supponete». «Supponete che sia vero. Non pensate che gli amici della nostra società protesterebbero, farebbero pettegolezzi, indagherebbero?». «Si», ammisi. «Suona ragionevole». «Certamente! Ecco il perchè abbiamo formulato il nostro attacco. Proclamando pubblicamente un eccentrico interesse per l'occultismo ed esibendolo nell'organizzare queste stupide serate, possiamo continuare indisturbati a portare avanti i nostri lavori seri, per conto nostro. È ingegnoso, no?». Feci un sorriso di approvazione. Vanning non era uno stupido. «Potrebbe interessarvi sapere che il dottor Delvin è il migliore etnologo del paese. De Marigny è un ben noto occultista, forse vi ricorderete di lui in relazione al caso di Randolph Carter, parecchi anni fa. Royce è il mio assistente personale, ed il professor Weildan è il Weildan egittologo».
Era strano come l'Egitto continuasse a ricorrere durante la serata! «Vi ho promesso qualcosa di interessante, amico mio, e l'avrete. Ma prima dobbiamo sopportare questa mandria di bestie per un'altra mezz'ora, più o meno. Poi andremo nella mia stanza per una vera riunione. Spero che sarete paziente». I quattro uomini mi salutarono, mentre Vanning mi riconduceva al centro della stanza. Adesso le danze si erano fermate, e la camera pullulava di piccoli gruppi di personaggi in ozio. Demoni bevevano bibite alla menta, e vergini, sacrificate alla Magna Mater, si mettevano ad arte il rossetto. Nettuno mi passò accanto con un sigaro in bocca. L'allegria aveva toccato il culmine. La maschera della morte rossa, pensai. Poi lo vidi. Il suo ingresso fu tutto nello stile di Poe. Le cortine verdi e nere all'estremità della stanza si aprirono ed egli scivolò, come se emergesse dalle profondità segrete delle tende invece che dalla porta dietro esse. La luce argentea delle candele stilizzava la sua figura e, mentre camminava, un'orrida nube pareva velare ogni suo movimento. Io ebbi la momentanea impressione di scorgerlo come attraverso un prisma, poiché la singolare illuminazione lo rendeva indistinto, ma netto nei contorni. Era l'anima dell'Egitto. La lunga tunica bianca celava un corpo le cui linee erano inafferrabili. Le mani dalle unghie ad artiglio pendevano da maniche svolazzanti, e le dita ingioiellate stringevano un'asta d'oro, con incastonato il sigillo dell'occhio di Horus. La parte alta della tunica terminava in una mantella nera a cappuccio che serviva da severo sfondo ad una testa da incubo. La testa di un coccodrillo. Il corpo di un sacerdote egiziano. Quella testa era orribile. Un obliquo teschio di sauro, tutto verde e squamoso sulla cima; calvo, scarno e nauseabondo. Tra le grosse sporgenze ossee erano incavati due occhi fiammeggianti, che fissavano da dietro la disgustosa curva di un lungo muso di serpente. Una bocca rugosa dalle grandi mandibole digrignanti era semiaperta a rivelare una rosea lingua penzolante e denti schiumosi, affilati come uno stiletto. Che razza di maschera! Mi sono sempre vantato di possedere una certa sensitività. Io riesco a sentire abbastanza intensamente. Ora, scrutando questo trionfo del travestimento morboso, i miei sensi ebbero uno shock. Sentii che questa maschera era reale, più reale di quanto non lo fossero i suoi compagni meno
grotteschi. L'estrema bizzarria del suo costume sembrava implicare una convinzione maggiore nel contrasto con le finzioni improvvisate di coloro accanto ai quali egli passava. Sembrava fosse solo: nemmeno uno tentò di conversare con lui, al suo passaggio. Raggiunsi Vanning e gli battei sulla spalla. Volevo conoscere quell'uomo. Vanning però si girò verso la pedana, dove si volse a parlare agli orchestrali. Io gettai un'occhiata indietro, con la mezza intenzione di avvicinare da solo l'uomo-coccodrillo. Se ne era andato. Cercai tra la folla con occhi impazienti. Inutilmente. Era svanito. Svanito? Era mai esistito? L'avevo visto o pensavo di averlo visto solo per un momento. Ed ero ancora un po' intontito. L'Egitto nel cervello. Forse avevo esagerato con la fantasia. Ma perchè quella strana sensazione travolgente di realtà? Queste domande non ebbero alcuna risposta, perchè la mia attenzione fu distratta dallo spettacolo sulla pedana. Vanning aveva dato inizio alla sua mezz'ora d'intrattenimento per gli «ospiti». Mi aveva detto che si trattava di un paravento per celare i suoi interessi reali, ma io lo trovai più impressionante di quanto mi fossi aspettato. Le luci divennero blu, un blu pallido, cimiteriale. Le ombre si incupirono in macchie color indaco, mentre i celebranti prendevano posto. Un organo sorse da sotto la pedana dell'orchestra, e la musica pulsò. Era il mio pezzo favorito, la scena numero uno, superba e sonoramente sepolcrale, del Lago dei cigni di Ciaikovskij. Derideva, strideva, ronzava, assordava. Sussurrava, ruggiva, minacciava, impauriva. Impressionò e calmò perfino la torma che si assiepava intorno a me. Seguiva una Danza del diavolo; un mago, e il rituale finale della Messa Nera, con l'illusione veramente spaventosa del sacrificio. Il tutto era stranissimo, molto morboso e molto falso. Alla fine, quando le luci si riaccesero e la banda riprese i propri posti, trovai Vanning, e attraversammo in fretta la stanza. I quattro ricercatori stavano aspettando. Vanning mi fece segno di seguirli attraverso le cortine accanto alla pedana. Uscimmo senza dare nell'occhio, ed io mi ritrovai a camminare lungo un buio corridoio. Vanning si fermò davanti ad una porta rivestita di quercia. Una chiave balenò, stridette, girò. Eravamo in una biblioteca. Sedie, sigari, brandy, ci furono indicati uno dopo l'altro dal nostro sorri-
dente ospite. Il brandy, un ottimo cognac, di nuovo sviò per qualche momento i miei pensieri. Ogni cosa era irreale; Vanning, i suoi amici, la casa, l'intera serata. Ogni cosa, tranne l'uomo con la maschera da coccodrillo. Dovevo chiedere a Vanning... Ad un tratto, una voce mi riportò al presente. Vanning stava parlando, rivolgendosi a me. La sua voce era solenne e aveva un tono insolito. Era quasi come se lo sentissi parlare per la prima volta; come se questo fosse l'uomo reale, mentre l'altro geniale abitante di una casa ospitale fosse una pura finzione, inconsistente come i travestimenti carnevaleschi degli ospiti. Mentre egli parlava, mi trovai ad essere al centro dell'attenzione di cinque paia d'occhi, quelli blu, celtici di Delvin, i penetranti occhi castani, gallici di Marigny, i grigi occhialuti di Royce, quelli foschi e profondi di Weildan, e i bronzei occhi a punta di spillo di Vanning stesso. Ognuno pareva porre una domanda: «Avrai il coraggio?» Ma quello che disse Vanning fu molto più prosaico. «Vi ho promesso qualcosa d'insolito. Bene, è perciò che siete qui. Ma io devo ammettere che le mie motivazioni non sono solo altruistiche. Io, sono io che ho bisogno di voi. Ho letto i vostri scritti. Penso che siate un sincero studioso, e io voglio sia conoscenze che consigli. Questo è il motivo per cui noi cinque mettiamo a conoscenza del nostro segreto una persona relativamente estranea. Ci fidiamo di voi. Noi dobbiamo fidarci di voi». «Potete farlo», dissi con calma. Per la prima volta compresi che Vanning era non solo serio, ma anche nervoso. La mano che teneva il sigaro tremava; il sudore si addensava sotto il cappuccio egiziano. Royce, il dotto studioso, torceva la cintura del proprio costume monacale. Gli altri tre mi osservavano ancora e il loro silenzio mi turbava di più dell'innaturale serietà della voce di Vanning. Che cosa voleva dire tutto questo? Ero drogato, stavo sognando? Luci blu, maschere da coccodrillo e un segreto melodrammatico. E io credevo ancora... Credevo... mentre Vanning premeva la leva nel grande tavolo della biblioteca in modo da far girare verso l'esterno i falsi cassetti inferiori, rivelando un grande spazio all'interno. Credevo... mentre lo vedevo sollevare il sarcofago, con l'aiuto di de Marigny. Il mio interesse si risvegliò prima ancora che notassi le caratteristiche dello stesso sarcofago. Infatti Vanning si avvicinò ad uno scaffale e ritornò con le braccia colme di libri. Me li porse in silenzio. Erano le sue creden-
ziali; confermavano tutto quello che mi aveva detto. Nessuno, se non un occultista od un adepto riconosciuti, poteva possedere quegli strani volumi. Sottili lastre di vetro proteggevano le coperture a brandelli del famigerato Libro di Eibon, delle edizioni originali del Cultes des Goules e del quasi mitico De vermiis misteriis. Vanning riuscì a sorridere nel vedere sul mio volto un cenno di riconoscimento. «Siamo andati veramente in profondità in questi pochi anni passati», disse. «Voi già conoscete il contenuto di questi libri». Lo conoscevo. Io stesso avevo scritto sul De vermiis misteriis, e ci sono dei momenti in cui le parole di Ludvig Prinn mi riempiono di un vago terrore e di un'indefinibile repulsione. Vanning aprì l'ultimo volume. «Voi lo conoscere bene, credo. Lo avete citato nel vostro lavoro». Indicò il misterioso capitolo che è noto con il titolo I rituali saraceni. Annuii. Conoscevo I rituali saraceni anche troppo bene. La storia tratta del misterioso soggiorno di Prinn in Egitto ed in Oriente, dove egli asseriva ci fossero state le Crociate. Vi si rivela il sapere dell'efreet e del djinn, i segreti delle sette dell'Assassino, i miti dei racconti arabi sui mangiatori di cadaveri, le pratiche nascoste dei culti dervisci. Io vi avevo trovato una grande ricchezza di materiali sulle leggende dell'antico Egitto Interno; in realtà molto materiale narrativo è stato attinto da queste logore pagine. Di nuovo l'Egitto! Gettai uno sguardo al sarcofago. Vanning e gli altri mi osservavano con attenzione. Alla fine il mio ospite si strinse nelle spalle. «Ascoltate», mi disse. «Metterò le carte in tavola. Io devo fidarmi di voi, come ho già detto». «Andate avanti», replicai con impazienza. Questa affettazione di mistero era irritante. «Tutto cominciò con questo libro», disse Henricus Vanning. «Royce lo scovò per me. Sulle prime ci interessammo alla leggenda di Bubastis. A lungo considerai l'opportunità di alcune ricerche in Cornovaglia, visitando le rovine egiziane dell'Inghilterra, come voi ben sapete. Ma poi trovai un campo più fertile nell'attuale egittologia. Quando il professor Weildan l'anno scorso fece la sua spedizione, l'autorizzai a procurarsi a ogni costo qualsiasi cosa interessante potesse scoprire. È tornato la settimana scorsa con questo». Vanning si avvicinò al sarcofago. Lo seguii.
Non doveva spiegare oltre. Un'ispezione dettagliata di quel sarcofago, unita alla mia conoscenza del capitolo I rituali saraceni, mi fece arrivare ad una conclusione che non dava adito ad errori. I geroglifici e i segni sul sarcofago indicavano che esso conteneva il corpo di un sacerdote egiziano; un sacerdote del Dio Sebek. E I rituali saraceni ne hanno narrato la storia. Per un momento riesaminai mentalmente le mie nozioni. Sebek, secondo fidati antropologi, era una delle divinità minori dell'Egitto Interno; un Dio della fertilità del Nilo. Se le autorità riconosciute non sbagliano, solo quattro mummie del suo clero sono state finora ritrovate; sebbene numerose statuette, figurine e immagini nelle tombe testimonino della venerazione accordata a questa divinità. Gli egittologi non hanno mai delineato completamente la storia del Dio, benché alcune congetture poco ortodosse e collegamenti azzardati siano stati fatti o suggeriti da Wallis-Budge. Ludvig Prinn, però è andato più a fondo. Richiamai alla mente le sue parole, rabbrividendo sensibilmente. Nel capitolo I rituali saraceni, Prinn narrò di ciò che egli aveva appreso dai Profeti Alessandrini; dei suoi viaggi nei deserti, e del suo segreto saccheggio delle tombe nelle vallate nascoste del Nilo. Egli raccontò una storia, confermata storicamente, del clero egiziano e della sua ascesa al potere; come i servitori degli oscuri Dei della natura dominassero i Faraoni, all'ombra del trono, e tenessero in pugno il paese. Poiché gli Dei e le religioni egiziane si basavano su segrete realtà. Strani ibridi percorrevano la terra, quando essa era ancora giovane; giganti, creature enormi, metà animali, metà uomini. La sola immaginazione umana non avrebbe potuto creare il serpente gigante Seth, il carnivoro Bubastis e il grande Osiride. Pensai a Thot e ai racconti sulle arpie; pensai ad Anubis dalla testa di sciacallo e alla leggenda dei lupi mannari. No, gli antichi avevano avuto a che fare con i poteri elementari e con gli animali dell'aldilà. Potevano chiamare i propri Dei, gli umani dalle teste d'animale. E qualche volta lo fecero. Da qui il loro potere. Col tempo governarono l'Egitto, la loro parola era legge. La terra era stata riempita di ricchi templi e un uomo su sette doveva fedeltà ai corpi rituali. L'incenso si levava davanti a mille altari: incenso e sangue. Le bocche d'animale degli Dei erano affamate di sangue. A questo puntò potevano essere adorati anche i sacerdoti, poiché essi avevano stretto strani e insoliti patti con i loro divini Maestri. Perversioni contro natura allontanarono il culto di Bubastis dall'Egitto, e un abominio
mai nominato aveva causato l'oblio del simbolo e della storia di Nyarlathotep. Ma i sacerdoti si facevano sempre più forti e più audaci, i loro sacrifici sempre più violenti, e le loro ricompense più esose. Perchè la vita si reincarnasse eternamente, essi compiacevano gli Dei e placavano i loro curiosi appetiti. Per proteggere le proprie mummie con maledizioni divine, offrivano capri espiatori grondanti sangue. Prinn parla della setta di Sebek nei minimi particolari. I sacerdoti credevano che Sebek, in quanto divinità della fertilità, controllasse le fonti della vita eterna. Egli li avrebbe protetti nelle loro tombe fino a che il ciclo di resurrezione fosse compiuto, e avrebbe distrutto i nemici che tentavano di violare i loro sepolcri. Gli offrivano fanciulle vergini, che venivano squartate dalle mandibole di un coccodrillo d'oro. Perchè Sebek, il Dio Coccodrillo del Nilo, aveva il corpo di uomo e la testa di coccodrillo, e gli appetiti libidinosi di entrambi. La descrizione di queste cerimonie è macabra. I sacerdoti indossavano maschere da coccodrillo, per emulare il proprio Signore, perchè questo era il suo aspetto terrestre. Essi pensavano che Sebek stesso apparisse una volta all'anno all'Alto Sacerdote del Tempio Segreto di Menfis, e allora anch'egli assumeva la forma di un uomo con la testa di coccodrillo. Il fedele credeva che egli avrebbe difeso le loro tombe, e innumerevoli vergini urlanti morivano per sostenere la loro fede. Questo era ciò che sapevo, e lo rammentai velocemente, mentre lanciavo sguardi alla mummia del Sacerdote di Sebek. Intanto guardai nel sarcofago e vidi che la mummia era stata sfasciata. Giaceva sotto una lastra di vetro, che Vanning rimosse. «Voi allora conoscete la storia», disse leggendo bene nei miei occhi. «Ho tenuto la mummia qui per una settimana; è stata trattata chimicamente, grazie a Weildan. Sul suo petto, però, ho trovato questo». Indicò un amuleto di giada chiara; una figura di sauro, coperta da immagini ideografiche. «Che cos'è?», chiesi. «Il codice segreto del clero. De Marigny ritiene che si tratti di Nacaal. Una traduzione? Una maledizione, come dice la storia di Prinn, una maledizione sulle teste dei saccheggiatori delle tombe. Li minaccia della vendetta dello stesso Sebek. Un'iscrizione malvagia». La disinvoltura di Vanning era forzata. Lo potevo affermare, notando l'inquieta agitazione degli altri nella stanza. Il dottor Delvin rideva nervosamente; Royce torceva il suo mantello: de Marigny aggrottava le sopracciglia. Il professor Weildan,
dall'aspetto di gnomo, si avvicinò a noi. Guardò la mummia per un poco, come se cercasse la soluzione di un segreto in quelle orbite prive di occhi, che meditavano ciecamente nell'oscurità. «Digli quello che penso, Vanning», disse adagio. «Weildan ha compiuto qualche indagine. Egli è riuscito a far arrivare questa mummia, scavalcando le autorità, ma farlo gli è costato molto. Mi ha detto dove l'ha trovata, e non è una storia piacevole. Nove dei ragazzi della spedizione sono morti nel viaggio di ritorno, anche se può essere stata l'acqua malsana a provocare queste morti. Ma temo che il professore abbia mancato alla parola data a noi». «Non l'ho fatto», intervenne Weildan seccamente. Quando vi ho detto di liberarvi della mummia è perchè io voglio vivere. Noi avevamo qualche intenzione di usarla qui nei cerimoniali, ma questo è impossibile. Vedete, io credo alla Maledizione di Sebek. Voi certamente sapete che solo quattro mummie dei suoi sacerdoti sono state scoperte. È per questo che le altre riposano in cripte segrete. Ebbene, i quattro scopritori sono tutti morti. Io conoscevo Partington che scoprì la terza. Stava indagando abbastanza a fondo sul mito di questa maledizione, quando ritornò, ma morì prima di pubblicare una relazione. La sua fine è abbastanza strana. Cadde da un ponte nella fossa di un coccodrillo allo zoo di Londra. Quando lo tirarono fuori era ridotto molto male». Vanning mi guardò. «Un orco» disse, in tono sprezzante. Poi in modo più serio continuò. «Questa è una delle ragioni per cui vi ho chiesto di venire qui a dividere con noi questo segreto. Io voglio la vostra opinione, come studioso e come occultista. Dovrei liberarmi della mummia? Voi credete a questa storia della maledizione? Io non ci credo, ma ultimamente mi sento abbastanza inquieto. Sono a conoscenza di troppe strane coincidenze, e ho fede nella veridicità di Prinn. A che fine intendevamo servirci della mummia, non è importante. Sarebbe dovuta essere una dissacrazione abbastanza grande da provocare la collera di un qualunque Dio. E non mi piacerebbe trovarmi una creatura dalla testa di coccodrillo attaccata alla gola. Che cosa ne dite?». Improvvisamente ricordai. L'uomo in maschera! Era vestito come un sacerdote di Sebek, ad imitazione del Dio. Dissi a Vanning che cosa avevo scorto di lui. «Chi è?», chiesi. «Egli dovrebbe essere veramente qui. Ciò darebbe un senso alle cose». L'orrore di Vanning non era simulato. Rimpiansi di aver parlato, dopo
che ebbi osservato la sua reazione terrorizzata. «Non l'ho mai visto! Giuro di no! Dobbiamo trovare subito quell'uomo». «Forse è una cortese forma di ricatto», dissi. «Può avere la meglio su di voi e su Weildan, e costringervi con la paura a pagare il prezzo del silenzio». «Forse». La voce di Vanning non suonava sincera. Si girò verso gli altri. «Presto», disse. «Andate nell'altra stanza e guardate tra gli ospiti. Prendete per il collo quest'inafferrabile straniero; portatelo qui». «Chiamiamo la polizia?», suggerì Royce nervosamente. «No, sei pazzo. Presto, andate tutti!». I quattro uomini lasciarono la stanza e i loro passi risuonarono nel corridoio esterno, mentre indietreggiavano. Ci fu un momento di silenzio. Vanning tentò di sorridere. Io ero avvolto da una strana nebbia d'oblio. L'Egitto dei miei sogni era reale? Perchè quell'apparizione fugace del misterioso uomo mascherato mi aveva colpito tanto? I sacerdoti di Sebek versavano il sangue per stringere un patto di vendetta; essi potevano soddisfare un'antica maledizione? Oppure Vanning era pazzo? Un lieve rumore... Mi voltai. E sulla soglia c'era l'uomo con la maschera da coccodrillo. «È lui!», esclamai. «È...» Vanning si appoggiò al tavolo, la sua faccia era grigiastra. Fissava soltanto la figura all'entrata, ma i suoi occhi tormentati mi inviavano telepaticamente un terrificante messaggio. L'uomo con la maschera da coccodrillo... Nessuno lo aveva visto, tranne me. E io stavo sognando in Egitto. Qui, in questa stanza c'era la mummia rubata di un sacerdote di Sebek. Il Dio Sebek era un Dio dalla testa di coccodrillo. E i suoi sacerdoti erano vestiti a sua immagine: indossavano maschere da coccodrillo. Avevo appena avvertito Vanning della vendetta degli antichi sacerdoti. Egli stesso vi aveva creduto e si era spaventato quando gli avevo detto che cosa avevo visto. E ora, sulla soglia, c'era il silenzioso straniero. Che cosa c'era di più logico che credere che egli fosse un sacerdote resuscitato, venuto a vendicare quest'offesa alla sua specie? Ancora non potevo crederci. Anche mentre la figura entrava, sinistra e silenziosa, non riuscivo ad indovinare il suo scopo. Anche mentre Vanning si ritraeva e gemeva davanti al sarcofago, io non ero convinto.
Poi tutto successe così rapidamente che non ebbi il tempo di agire. Proprio mentre stavo per affrontare il disumano intruso, il destino si scatenò. Con un rapido movimento da rettile, il corpo dietro la veste bianca ondeggiò attraverso la stanza. In un secondo torreggiava sulla figura rannicchiata del mio ospite. Vidi le mani ad artiglio penetrare nelle spalle curve; poi le mandibole della maschera si abbassarono e si mossero. Si mossero verso la gola palpitante di Vanning. Mentre mi slanciavo, i miei pensieri sembravano per contrasto apaticamente calmi. «Un assassinio diabolicamente intelligente», riflettei. «Un'arma del delitto unica. Un meccanismo dentato in una maschera, progettato con astuzia. Geniale». E i miei occhi osservavano in modo distaccato quel muso mostruoso che mordeva il collo di Vanning. Nel movimento, l'orrore squamoso della testa appariva come un obiettivo da riprese in primo piano. Ci volle solo un secondo per capire. Poi con intenzione improvvisa, afferrai una manica della veste bianca, e con la mano libera strappai la maschera dell'omicida. L'assassino ruotò, girò il capo di scatto. La mia mano scivolò, e per un momento si posò sul muso del coccodrillo, dalle mascelle insanguinate. Poi, in un lampo, l'invasore si voltò e scomparve, mentre io ero stato lasciato ad urlare davanti al corpo squartato e sbranato sul sarcofago di Sebek. Vanning era morto. Il suo assassino era scomparso. La casa era affollata dai gaudenti; dovevo solo attraversare la porta e chiamare aiuto. Non lo feci. Rimasi ad urlare per un intero secondo al centro della stanza, mentre la mia visione cambiava direzione. Tutto mi girava intorno: i libri macchiati di sangue, la mummia avvizzita, il suo petto ora frantumato per la lotta; la cosa rossa, immobile sul pavimento. Tutto si fece indistinto ai miei occhi. Allora, e solo allora, presi la decisione. Mi voltai e corsi. Vorrei che il mio racconto finisse qui, ma non è possibile. C'è una conclusione da trarre. Deve essere svelata in modo che possa ritrovare di nuovo la pace. Sarò sincero. So che avrei creato una storia migliore, se avessi chiesto al maggiordomo notizie sull'uomo con la maschera da coccodrillo e se gli avessi sentito rispondere che nessuna persona di quel tipo era entrata in casa. Ma questa non è una storia, è la verità. Io so che egli era lì e, dopo aver visto morire Vanning, non aspettai di interrogare un'altra persona. Feci quest'ultimo disperato tentativo di affer-
rare l'omicida mascherato, poi urlai e corsi via dalla stanza. Irruppi tra i convitati nella camera, senza nemmeno dare l'allarme, mi affrettai fuori dalla casa e corsi ansimando lungo la strada. Un orrore ghignante mi pesava sulle spalle e mi spingeva avanti, fin quando non persi la coscienza e ritornai ciecamente verso le vie illuminate e verso la calca ridente che indugiava con aria soddisfatta, non toccata dai terrori che conoscevo. Lasciai New Orleans senza indagare su ulteriori particolari. Di proposito non comprai un giornale, cosicché ancora non so se la polizia scoprì il corpo di Vanning o indagò sulla sua morte. Non avrei mai cercato di sapere nient'altro, né oso farlo. Ci potrebbe essere una spiegazione sensata per tutto questo, e poi, di nuovo... Preferisco non essere sicuro. Cerco disperatamente di convincermi che ero ubriaco; che l'intero incidente non è mai accaduto, o se lo è, che parte di esso non era reale. Potrei perfino tollerare la morte di Vanning, ma non quella leggenda di Sebek e il sarcofago di Sebek. Io dissi la verità a Vanning a questo proposito, e la mia convinzione è stata orrendamente confermata. Capii tutto durante quell'ultimo momento, quando vidi lo straniero affondare il suo muso da coccodrillo, insolitamente costruito, nella povera gola di Vanning, e squartarla con gli spietati denti a sciabola. Fu allora che lo afferrai per un momento, prima che scivolasse via; lo afferrai, urlai e fuggii come un pazzo. Lo afferrai, in quell'orribile momento, per il muso insanguinato di una maschera da coccodrillo orribilmente realistica. Solo un attimo di orrido contatto, prima che egli scomparisse. Ma mi bastò. Perchè, quando strappai quel sanguinante muso da rettile, io sentii sotto le mie dita non una maschera ma carne viva! Ambrose Bierce LA STRADA ILLUMINATA DALLA LUNA I Dichiarazione di Joel Hetman, Jr. Sono il più sfortunato degli uomini. Io, ricco, rispettato, abbastanza ben istruito e in buona salute, con molti altri vantaggi, di solito apprezzati da quelli che li hanno e agognati da quelli che non li hanno, talvolta penso
che sarei meno infelice se mi fossero stati negati. Perchè, in questo caso, il contrasto tra la mia vita esteriore e quella interiore non mi richiederebbe continuamente una dolorosa attenzione. Sotto la spinta della privazione e nella necessità di lavorare, potrei ogni tanto dimenticare quell'oscuro segreto che sfugge sempre alla congettura che, nello stesso tempo, esige. Sono l'unico figlio di Joel e Julia Hetman. L'uno era un agiato gentiluomo di campagna, l'altra una donna bella e colta, a cui egli era appassionatamente legato da una devozione che come ora so, era gelosa ed esigente. La mia casa natale si trovava a poche miglia da Nashville, nel Tennessee. Era una grande dimora, costruita irregolarmente, in nessun particolare stile architettonico, ed era lievemente arretrata rispetto alla strada, in un parco d'alberi e cespugli. Al tempo di cui scrivo, avevo diciannove anni ed ero uno studente di Yale. Un giorno ricevetti un telegramma da mio padre, di una tale urgenza, che ubbidendo alla sua richiesta implicita, partii immediatamente per tornare a casa. Alla Stazione Ferroviaria di Nashville, mi aspettava un lontano parente per informarmi della ragione del mio richiamo: mia madre era stata barbaramente uccisa. Perchè e da chi, nessuno poteva supporlo, ma le circostanze erano state le seguenti: Mio padre era andato a Nashville, con l'intenzione di tornare a casa il pomeriggio seguente. Qualcosa aveva impedito che egli concludesse l'affare intrapreso, così era ritornato quella notte stessa, arrivando poco prima dell'alba. Nella sua testimonianza resa davanti al coroner spiegò che, non avendo la chiave e non volendo svegliare i domestici che dormivano egli, senza alcuna intenzione ben definita, aveva svoltato verso il retro della casa. Mentre girava un angolo dell'edificio, aveva udito un rumore, come se una porta fosse stata chiusa con delicatezza, e aveva visto nel buio la figura indistinta di un uomo che immediatamente era sparita tra gli alberi del prato. Poiché una ricerca frettolosa ed un breve esame del parco fatte nella convinzione che il trasgressore fosse il visitatore clandestino di una domestica si rivelarono infruttuose, egli entrò per la porta non chiusa a chiave e salì le scale che portavano alla camera di mia madre. La porta era aperta e, camminando nella fitta oscurità, cadde su un oggetto pesante che era sul pavimento. Posso risparmiarmi i dettagli: quell'oggetto era la mia povera madre, strangolata da qualcuno! Non era stato preso niente dalla casa, i domestici non avevano udito alcun rumore e, tranne quei terribili segni di dita sul collo di mia madre mor-
ta - mio Dio! Se solo potessi dimenticarli! - non fu mai trovata alcuna traccia dell'assassino. Abbandonai gli studi e rimasi con mio padre che, naturalmente, era molto cambiato. Era sempre stato di temperamento taciturno, posato, ma allora cadde in un abbattimento così profondo che nulla riusciva a trattenere la sua attenzione. Eppure qualcosa, un rumore di passi, lo sbattere di una porta, risvegliava in lui un agitato interesse, lo si sarebbe definito un timore. Ad ogni improvvisa sollecitazione dei sensi egli trasaliva visibilmente, e a volte impallidiva, poi ricadeva in una malinconia apatica più profonda di prima. Penso che egli avesse quelli che si chiamano «i nervi a pezzi». Per quanto mi riguarda, allora ero più giovane di ora, e questo vuol dire molto. La giovinezza è il paese delle meraviglie dove si trova un balsamo per ogni ferita. Ah, se potessi ancora dimorare in quella terra incantata! Ignaro del dolore, io non sapevo quanto fosse grande la mia perdita. Non riuscivo a valutare con esattezza la violenza del colpo che avevo subito. Una notte, pochi mesi dopo l'orribile fatto, io e mio padre camminavamo dalla città verso casa. La luna piena era alta a ponente. Tutta la campagna era immersa nella solenne quiete delle notti estive. Il rumore dei nostri passi e l'incessante canto dei grilli erano gli unici rumori in lontananza. Le ombre scure degli alberi che erano ai bordi, attraversavano la strada che, nei brevi tratti tra l'uno e l'altro, scintillava di un bianco spettrale. Mentre ci avvicinavamo al cancello della nostra casa, la cui facciata era in ombra e nella quale non brillava nessuna luce, mio padre all'improvviso si fermò e afferrò il mio braccio, dicendo, con una voce che era poco più un sussurro: «Oddio, oddio! Che cos'è?» «Non sento niente», replicai. «Ma guarda, guarda!» disse, indicando un punto lungo la strada, un poco più avanti. Risposi: «Non c'è niente lì. Andiamo, padre, entriamo in casa, non stai bene». Aveva lasciato il mio braccio e stava rigido e immobile al centro della via illuminata, con lo sguardo fisso come se fosse privo di sensi. La sua faccia alla luce lunare rivelava un pallore ed una fissità indicibilmente tormentosi. Lo tirai delicatamente per una manica, ma aveva dimenticato la mia esistenza. Subito dopo cominciò ad arretrare un passo dopo l'altro, senza distogliere gli occhi nemmeno per un momento da quello che vedeva o pensava di vedere. Mi girai di nuovo per capire, ma rimasi incerto. Non mi ricordo alcuna sensazione di paura, a meno che l'improvviso freddo che
sentivo non ne fosse una manifestazione fisica. Sembrava come se un vento gelido mi avesse sfiorato la faccia e avesse avvolto il mio corpo dalla testa ai piedi: ne potevo avvertire lo spirare tra i miei capelli. In quel momento, la mia attenzione fu attratta da una luce che si era diffusa all'improvviso da una finestra superiore della casa. Una delle domestiche, svegliata da quale misteriosa premonizione del male nessuno può dirlo, ubbidendo ad un impulso che non fu mai capace di definire, aveva acceso una lampada. Quando mi girai a cercare mio padre, egli era scomparso, e in tutti gli anni che sono trascorsi, nemmeno un'eco del suo destino ha oltrepassato il confine della congettura dal reame dell'ignoto. II Dichiarazione di Casper Grattan Oggi mi è stato ordinato di partire; domani, qui in questa stanza, giacerà un corpo umano inanimato grande quanto lo ero io. Se qualcuno dovesse togliere la maschera dalla faccia di quella spiacevole cosa, lo farà per soddisfare una curiosità puramente morbosa. Qualcuno senza dubbio andrà oltre e chiederà «Chi era?». In questo scritto fornisco l'unica risposta che so dare: Casper Grattan. Sicuramente, questo sarebbe sufficiente. Questo nome è servito alle mie modeste esigenze per più di vent'anni di una vita dalla durata ignota. In verità, me lo sono attribuito io stesso ma, in assenza di altri, ne avevo il diritto. A questo mondo si deve avere un nome; evita confusioni, anche se non stabilisce l'identità. Comunque, alcuni sono conosciuti con un numero, che pure sembra una distinzione poco adatta. Un giorno, per esempio, stavo camminando per la strada di una città lontana da qui, quando incontrai due uomini in divisa, uno dei quali esitò un poco e, guardando con curiosità la mia faccia, disse al suo compagno: «Quest'uomo somiglia al 767». Qualcosa nel numero mi sembrò familiare ed orribile. Spinto da un impulso incontrollabile, mi slanciai in una strada laterale, e corsi finché non mi lasciai cadere esausto in un viottolo di campagna. Non ho mai dimenticato quel numero, e mi ritorna sempre alla mente, accompagnato da oscenità bisbigliate, scoppi di risate prive di gioia e clangore di porte d'acciaio. Così affermo che un nome, anche se ce lo attribuiamo da soli, è meglio di un numero. Nel registro del cimitero dei poveri
avrò presto entrambi. Che abbondanza! Devo chiedere un po' di riguardo a colui il quale troverà questi fogli. Questa non è la storia della mia vita; le conoscenze necessarie a scriverla mi sono negate. È solo la registrazione di ricordi frantumati ed evidentemente sconnessi. Alcuni di loro sono distinti e conseguenti come i brillanti di una collana, altri sono remoti e strani, fuochi fatui che ardono immobili e rossi in una grande desolazione. Stando sulla sponda dell'eternità, mi giro per un ultimo sguardo verso terra, nella direzione da cui sono arrivato. Ci sono venti anni di orme abbastanza distinte, impronte di piedi sanguinanti. Esse passano attraverso la povertà e il dolore, tortuose ed incerte, come se fossero di qualcuno vacillante sotto un fardello. Remoto, solitario, malinconico, lento. Ah, la profezia che il poeta fece di me, quanto è ammirevole, quanto è terribilmente ammirevole! Indietro, oltre l'inizio di questa via dolorosa, di quest'epos della sofferenza con episodi di colpa, non vedo niente con chiarezza: tutto comincia da una nube. La mia strada occupa solo vent'anni, eppure sono un vecchio. Non ci si ricorda della propria nascita, bisogna sentirselo raccontare. Ma per me è stato diverso, la vita mi è arrivata completa e mi ha dotato di tutte le mie capacità e facoltà. Di un'esistenza precedente, io non so più degli altri, perchè tutti hanno balbettanti indizi che possono essere ricordi e possono essere sogni. Io so solo che la mia prima coscienza è stata di essere maturo nel corpo e nella mente, una coscienza che ho accettato senza sorprese o congetture. Mi ritrovai semplicemente a camminare in una foresta, mezzo nudo, con i piedi doloranti, indicibilmente stanco ed affamato. Vedendo una fattoria, mi avvicinai e chiesi un po' di cibo, che mi fu dato da un tipo che mi chiese come mi chiamavo. Non lo sapevo, eppure sapevo che tutti hanno un nome. Molto imbarazzato mi ritirai e, poiché stava calando la notte, mi stesi nella foresta e dormii. Il giorno dopo entrai in una grande città di cui non farò il nome. Né racconterò gli ultimi avvenimenti di questa vita che ora sta per finire, una vita di vagabondaggi, sempre e dovunque ossessionato da un predominante senso di crimine nel castigo della colpa e di terrore nel castigo del crimine. Vediamo se posso ridurlo in una narrazione. Mi sembra di aver vissuto un tempo vicino ad una grande città, agiato agricoltore, sposato con una donna che amavo e di cui diffidavo. Aveva-
mo, a volte mi pare, un figlio, un giovane di notevole talento e di brillante avvenire. È ogni volta una figura vaga, mai delineata con chiarezza, di frequente è del tutto fuori dal quadro. Una sera sfortunata mi capitò di mettere alla prova la fedeltà di mia moglie, in un modo volgare e banale, familiare a chiunque abbia confidenza con le storie reali e con quelle romanzate. Andai in città, dicendo a mia moglie che sarei stato assente fino al pomeriggio seguente. Ma ritornai prima dell'alba e andai sul retro della casa, con l'intenzione di entrare per una porta che avevo segretamente manomesso in modo che sembrasse chiusa, anche se non era realmente fermata. Mentre mi avvicinavo, udii la porta aprirsi e chiudersi con delicatezza, e vidi un uomo allontanarsi nell'oscurità. Con furia omicida, mi slanciai dietro di lui, ma era svanito senza nemmeno la sfortuna di essere identificato. A volte ora non riesco ancora a convincermi che fosse un essere umano. Impazzito di rabbia e di gelosia, reso cieco e bestiale da tutte le passioni elementari della virilità offesa, entrai in casa e balzai per le scale fino alla porta della camera di mia moglie. Era chiusa ma, avendo manomesso anche questa serratura, entrai facilmente e, nonostante la fitta oscurità, subito mi ritrovai al fianco del suo letto. A tastoni scoprii che, benché fosse disfatto, non era occupato. «Lei è giù», pensai, «e, terrorizzata per il mio arrivo, mi è sfuggita nell'oscurità dell'ingresso». Con l'intenzione di cercarla, mi voltai per lasciare la stanza, ma presi la direzione sbagliata, quella giusta! Il mio piede la urtò, acquattata in un angolo della stanza. In un attimo le mie mani erano intorno al suo collo soffocandole un grido, le mie ginocchia erano sul suo corpo che si divincolava. E lì nel buio, senza una parola di accusa o di biasimo, la strangolai. Qui finisce il sogno. Io l'ho raccontato al passato, ma il presente sarebbe la forma più adatta, perchè l'oscura tragedia si ripete sempre daccapo nella mia coscienza, e più e più volte preparo il piano, soffro la conferma dell'infedeltà di mia moglie, riparo il torto. Poi tutto è vuoto e, dopo, la pioggia batte di nuovo sulle sudice lastre della finestra, o la neve cade sulle mie povere vesti, le ruote risuonano nelle squallide strade dove la mia vita langue nella miseria e significa fatica. Se mai c'è il sole, io non lo ricordo, se ci sono uccelli, essi non cantano. C'è un altro sogno, un'altra visione notturna. Io sto tra le ombre in una strada illuminata dalla luna. Sono cosciente di un'altra presenza, ma di chi sia non posso stabilirlo con esattezza. Nell'ombra di una grande casa scor-
go il barlume di abiti bianchi, poi la figura di una donna mi fronteggia sulla strada. È mia moglie assassinata! Ha la morte sul volto, ha i segni sul collo. Gli occhi sono fissi nei miei con un'infinita gravità che non è biasimo, né odio, né minaccia, né nulla di meno terribile del riconoscimento. Davanti a questa terribile apparizione indietreggio nel terrore, un terrore che mi sovrasta mentre scrivo. Non posso più formare in modo preciso le parole. Guarda! Loro... Ora sono calmo, ma in verità non c'è più molto da dire: l'avvenimento finisce dove è cominciato, nell'oscurità e nel dubbio. Si, ho ripreso il controllo su di me: sono «il capitano della mia anima». Ma non è sollievo, è un altro stadio e un'altra fase di espiazione. La mia penitenza, costante nel grado, è variabile nella forma: una delle sue varianti è la tranquillità. Dopo tutto, è solo una condanna a vita. «All'inferno per tutta la vita», questa è la folle pena: il colpevole sceglie la durata della sua punizione. Oggi scade il mio termine. Che con tutti sia la pace che non fu con me. III Dichiarazione della defunta Julia Hetman, attraverso la medium Bayrolles. Mi ero ritirata presto ed ero caduta quasi subito in un sonno pacifico, dal quale mi svegliai con un indefinito senso di pericolo che ritengo sia un'esperienza comune in quell'altra, precedente vita. Ero completamente convinta della sua infondatezza, eppure questo non lo scacciò. Mio marito, Joel Hetman, era assente, i domestici dormivano in un'altra parte della casa, ma questa era una situazione solita: prima non mi aveva mai angustiato. Cionondimeno lo strano terrore divenne a tal punto insostenibile che, vincendo la mia riluttanza a muovermi, mi sedetti e accesi la lampada che era accanto a me. Contrariamente alle mie aspettative, questo non mi diede sollievo. La luce sembrava piuttosto un pericolo in più, poiché pensai che sarebbe trapelata sotto la porta, rivelando la mia presenza a qualsiasi cosa malvagia fosse appostata lì fuori. Voi che avete ancora un corpo, soggetto agli orrori dell'immaginazione, pensate a quale mostruosa paura deve essere quella che cerca nell'oscurità un riparo dalle malevoli esistenze notturne. È slanciarsi in un corpo a corpo con un nemico invisibile, è la strategia della di-
sperazione! Spenta la luce, mi tirai il copriletto sulla testa e giacqui tremante e in silenzio, incapace di gridare, dimentica di pregare. In questo stato pietoso devo essere rimasta per quelle che voi chiamate ore: da noi non ci sono ore, non c'è tempo. Alla fine venne: un rumore leggero, irregolare, di passi sulle scale! Erano incerti, lenti, esitanti, come di qualcosa che non vedeva dove mettere i piedi. Per la mia mente sconvolta non c'era niente di più terrificante dell'avvicinarsi di una malvagità cieca e priva di ragione, verso la quale non c'è possibilità di appello. Pensai perfino che dovevo aver lasciato la lampada dell'ingresso accesa e che l'annaspare di questa creatura la confermava un mostro della notte. Era folle ed incompatibile con il mio precedente timore della luce, ma voi che cosa avreste fatto? La paura non ragiona, è stolta. Il lugubre testimone che l'afferma ed il vile consigliere che la suggerisce, non hanno legami. Noi lo sappiamo bene, noi che siamo passati al Regno del Terrore, noi che ci acquattiamo nelle tenebre eterne tra le scene delle nostre vite precedenti. Siamo invisibili sia a noi stessi che l'uno all'altro, eppure ci nascondiamo disperati in luoghi solitari. Agogniamo di parlare con i nostri amati, eppure siamo muti e abbiamo paura di loro come loro di noi. A volte l'impotenza è rimossa, la legge è sospesa. Per il potere immortale dell'odio o dell'amore rompiamo l'incantesimo, siamo visti da quelli che vorremmo ammonire, consolare o punire. In quale forma appariamo loro, noi non lo sappiamo. Sappiamo solo di terrorizzare anche quelli che vorremmo di più confortare a ai quali potremmo di più implorare tenerezza e simpatia. Perdonatemi, vi prego, questa incoerente digressione, in nome del fatto che un tempo sono stata una donna. Voi che ci consultate in questa maniera imperfetta, voi non capite. Ponete stupide domande su cose sconosciute e cose proibite. Molto di quello che sappiamo e potremmo rivelare nel nostro linguaggio è senza significato nel vostro. Noi dobbiamo comunicare con voi attraverso una balbettante intelligenza in quella piccola parte del nostro linguaggio che voi stessi potete parlare. Voi pensate che noi veniamo da un altro mondo. No, noi non conosciamo nessun altro mondo, tranne il vostro, benché per noi non ci siano né sole, né calore, né musica, né risate, né canti di uccelli, né amicizia. Dio mio! Che cosa significa essere un fantasma, acquattato e tremante in un mondo alterato, in preda alla paura e alla disperazione! No, non morii di paura: la Cosa si girò e andò via. Io la udii scendere le
scale, precipitosamente; ritenni che essa stessa provasse un'improvvisa paura. Poi mi alzai per chiamare aiuto. A stento le mie mani tremanti avevano trovato il pomo della porta, quando, Dio misericordioso!, la udii tornare. I suoi passi nel risalire le scale erano rapidi, pesanti e rumorosi, fecero tremare la casa. Scappai in un angolo della stanza e mi accovacciai sul pavimento. Tentai di pregare. Tentati di invocare il nome del mio caro marito. Allora udii la porta spalancarsi. Ebbi un intervallo d'incoscienza e, quando ritornai in me, sentii una stretta soffocante alla gola. Sentii le mie braccia lottare debolmente contro qualcosa che mi schiacciava all'indietro, sentii la mia lingua spingersi da sola tra i denti! E poi passai a questa vita. No, non ho la minima idea di cosa fosse. Quanto sapemmo al momento di morire è uguale a quanto sappiamo, successivamente, di tutti gli avvenimenti della vita passata. Di questa esistenza noi sappiamo molte cose, ma nessuna luce nuova cade su qualche pagina del passato: nella memoria è scritto tutto quello che possiamo leggere. Qui non c'è nessuna collina della verità che sovrasti la confusa terra di questo incerto dominio. Noi ancora dimoriamo nella Valle dell'Ombra, ci nascondiamo nei suoi luoghi desolati, sbirciando dai rovi e dai boschetti i suoi pazzi, maligni abitanti. Come potremmo avere una nuova conoscenza di quel passato che si dissolve? Quello che sto per raccontare avvenne una notte. Noi sappiamo quando è notte, perchè allora veniamo alle vostre dimore e possiamo avventurarci dai nostri nascondigli per muoverci senza paura intorno alle nostre vecchie case, per guardare dalla finestre, perfino per entrare a scrutare i vostri volti mentre dormite. Avevo indugiato a lungo vicino alla casa dove ero stata trasformata così crudelmente in quello che sono ora, come noi facciamo quando quelli che amiamo o odiamo rimangono. Invano avevo cercato qualche modo per far capire a mio marito e a mio figlio che la mia esistenza continuava, qualche maniera per manifestare loro il mio grande amore e la mia cocente pietà. Anche se essi dormivano si sarebbero svegliati oppure, se nella mia disperazione avessi osato avvicinarli quando erano svegli, avrebbero girato verso di me i terribili occhi di chi vive, di chi teme la mia vista. E così, ogni volta, desistevo dall'intenzione che avevo. Quella notte li avevo cercati senza successo, temendo di trovarli. Non erano da nessuna parte nella casa né sul prato illuminato dalla luna. Per-
chè, anche se il sole è perso per noi in eterno, la luna piena, o la mezzaluna, ci è rimasta. A volte splende di notte, a volte di giorno, ma sempre sorge e tramonta come in quell'altra vita. Lasciai il prato e mi mossi nella luce bianca e nel silenzio lungo la strada, senza scopo e affliggendomi. All'improvviso sentii la voce del mio povero marito esclamare per lo stupore, insieme a quella di mio figlio, che parlava in tono rassicurante e di dissuasione. Erano molto vicini all'ombra di un gruppo di alberi. I loro volti erano rivolti verso di me, gli occhi dell'uomo più anziano erano fissi nei miei. Mi vide, finalmente! Finalmente egli mi vide! Conscia di questo, il mio terrore svanì come un sogno crudele. L'incantesimo della morte era spezzato. L'Amore aveva vinto la Legge! Pazza di gioia gridai, devo aver gridato, «Mi vede, mi vede» Poi, controllandomi, gli andai incontro, sorridente e consapevolmente bella, per offrirmi alle sue braccia, per confrontarlo con gesti affettuosi e, tenendo la mano di mio figlio nella mia, dire parole che avrebbero potuto restaurare i legami spezzati tra i vivi e i morti. Ahimè! Ahimè! La sua faccia impallidì per la paura, i suoi occhi erano come quelli di un animale braccato. Si ritrasse da me, mentre avanzavo, e alla fine scomparve nel bosco, dove, non mi è dato saperlo. Al mio povero ragazzo, rimasto doppiamente solo, non sono mai riuscita a trasmettere un segno della mia presenza. Presto anch'egli dovrà passare a questa Vita Invisibile e sarà perduto per me in eterno. Brian Lumley HAGGOPIAN I Richard Haggopian, forse la più grande autorità mondiale in fatto di Ittiologia e Oceanografia, per non dir niente delle scienze e delle materie affini, stava per concedere finalmente un'intervista. Ero esultante, fiero, non riuscivo a credere alla mia fortuna! Almeno una dozzina di giornalisti, alcuni dei quali con una posizione tanto elevata nei circoli letterari da essere offesi da una definizione professionale così terrena, avevano fatto prima di me l'inutile viaggio a Kletnos nell'Egeo per scovare Haggopian l'armeno, ma solo la mia richiesta era stata accettata. Tre mesi prima, all'inizio di Giugno, ad Hartog, del Time, era stata rifiu-
tata l'intervista, e prima di lui a Mannhauisen del Weltzkunft, e perciò i miei superiori avevano visto ben poche speranze per me. Eppure il nome di Jeremy Belton non era sconosciuto nel giornalismo. Ero già stato fortunato in un certo numero di casi cosiddetti «senza speranza». Ora sembrava che la mia fortuna continuasse. Richard Haggopian era partito nuovamente per un altro viaggio oceanico, ma mi era stato chiesto di aspettarlo. Non è difficile dire perchè Haggopian avesse suscitato un tale interesse tra le file del miglior giornalismo mondiale. Qualsiasi uomo con le sue capacità scientifiche e letterarie, con una moglie bella e giovane, con un'isola di proprietà, e (forse la cosa più importante di tutte), con un atteggiamento vistosamente negativo nei confronti della pubblicità - anche verso quella più utile - avrebbe certamente provocato lo stesso interesse. E per di più, Haggopian era milionario! Per quanto mi riguarda, avevo da poco terminato un lavoro nel deserto, l'ultima guerra arabo-israeliana, e mi ero ritrovato con tempo e un po' di soldi a disposizione, e così i miei superiori mi avevano chiesto di tentare con Haggopian. Questo era successo due settimane prima e, fin da allora, avevo fatto del mio meglio per procacciarmi un'intervista. Dove gli altri avevano miseramente fallito, io ero riuscito. Avevo aspettato per otto giorni il ritorno dell'armeno ad Haggopiana, il suo covo. La sua minuscola isola, che si trovava a due miglia ad est di Kletnos e a metà strada tra Atene ed Eraclea, era stata acquistata da lui ed aveva preso il suo nome all'inizio degli Anni Quaranta. Proprio quando sembrava che i miei fondi, strettamente limitati, dovessero finire, in una tarda mattinata, il grande aliscafo argentato di Haggopian, l'Echinoidea, si diresse, come un sottile scoglio nell'incredibile blu del mare, verso sudovest per andarsi ad ormeggiare. Dalla terrazza sul tetto del mio albergo a Kletnos, guardai con il binocolo l'aliscafo navigare intorno all'isola, e poi scomparire in un accecante riverbero del sole, oltre una punta di rocce bianche di Haggopiana. Due ore più tardi, un uomo dell'armeno traghettò con una lucente motobarca per portarmi (io speravo) un messaggio riguardo al mio appuntamento. La mia fortuna continuava veramente! Avrei incontrato Haggopian alle tre del pomeriggio, e sarebbe stata inviata una barca a prendermi. Alle tre ero pronto; indossavo sandali, un paio di pantaloni grigi leggeri e una maglietta bianca, l'unico abbigliamento consigliabile per un soleggiato pomeriggio nell'Egeo.
Quando la lucente motobarca arrivò a prendermi, io l'aspettavo sulla banchina naturale di rocce. Durante la navigazione per Haggopiana, mentre scrutavo oltre la prua dell'imbarcazione nell'acqua cristallina le cernie scure che nuotavano e gli sciami di ricci di mare (l'armeno aveva dato il nome di questi ultimi al suo aliscafo), verificavo mentalmente ciò che sapevo del misterioso proprietario dell'isola che mi stava davanti: Richard Hemeral Angelos Haggopian era nato nel 1919 da un'unione illegale. Sua madre era una squattrinata polinesiana mezzosangue, molto bella, e il padre era un milionario armeno-cipriota. Haggopian aveva scritto tre dei libri più affascinanti che avessi mai letto, libri per profani, che parlavano dei mari del mondo e di tutti i loro multiformi abitanti, in un linguaggio chiaro e semplice. Aveva scoperto la Fossa di Tuamotu, una cavità profonda parecchie migliaia di braccia sul fondo del Pacifico Meridionale, di cui prima non si era avuto alcun sospetto. In questa Fossa egli, in compagnia del celebre Hans Geisler, era sceso ad una profondità di settemila metri. Era il benefattore dei più grandi Acquari e Musei del mondo ai quali, negli ultimi quindici anni, aveva donato almeno duecentoquaranta esemplari rari, benché scoperti di recente, ecc. ecc.. Haggopian si era sposato più volte, precisamente, tre volte dai trent'anni in poi, ed era chiaramente un uomo sfortunato nel campo matrimoniale. La sua prima moglie (inglese) nel 1958 era morta in mare, dopo nove anni di vita coniugale, scomparendo misteriosamente dallo yacht di suo marito nelle calme acque della Barriera Corallina, infestate di squali. La moglie numero due (greco-cipriota) morì nel 1964 per un devastante morbo esotico e fu bruciata in mare. La numero tre, una certa Cleanthis Leonides, una modella ateniese di grande fama, si era sposata il giorno del suo diciottesimo compleanno ed era chiaramente diventata un reclusa poiché, dal momento della sua unione con Haggopian, avvenuta due anni prima, non era più stata vista in pubblico. Cleanthis Haggopian, si! Prevedendo d'incontrarla se fossi stato così fortunato da riuscire a vedere suo marito, avevo esaminato dozzine di vecchie riviste di moda per trovare delle sue foto. Questo era avvenuto qualche giorno prima ad Atene, ed ora richiamai alla memoria il suo volto, come lo avevo visto in quelle immagini: giovane, naturalmente, e bello secondo i canoni classici greci. Era stata uno "zuccherino" e, certamente, lo era tuttora: di nuovo, nonostante le voci che la volevano separata dal marito, mi ritrovai a pregustare il nostro incontro. In un attimo, i piatti bastioni di roccia bianca dell'isola si profilarono ad
un centinaio di metri, e il mio marinaio virò la veloce imbarcazione verso sinistra, passando tra due punte frastagliate di roccia, incrostata di sale, che si trovavano all'incirca ad una ventina di metri dal punto più a nord di Haggopiana. Mentre doppiavamo la punta, vidi che il lato orientale dell'isola aveva un'aria di gran lunga meno inospitale. Vi era una spiaggia di sabbia bianca, con un molo a cui era ormeggiata l'Echinoidea. Arretrato rispetto alla spiaggia, in una macchia di melograni, mandorli, carrubi ed olivi, c'era un bungalow dal tetto piatto, ampissimo e costruito irregolarmente. Così questa era Haggopiana! Pensai che a stento vi si poteva riconoscere l'«isola paradiso» dell'articolo di Weber sul Neu Welt! Sembrava come se la storia di Weber, pubblicata sette anni prima fosse stata scritta lontano sia da Haggopiana che da Kletnos. Avevo sempre dubitato degli esotici superlativi del tedesco. Sull'estremità asciutta del molo mi attendeva la mia preda. Lo vidi, mentre la motobarca, con lievissimi urti, approdava per ormeggiarsi. Indossava un paio di pantaloni di flanella grigia e una camicia bianca con le maniche arrotolate. Sul naso sottile erano poggiati pesanti occhiali da sole, dalle lenti scure. Questo era Haggopian: un uomo alto, calvo, estremamente intelligente e molto, molto ricco, la sua mano era già tesa per salutarmi. Haggopian fu uno shock. Avevo naturalmente visto delle sue fotografie, molto poche, e spesso mi ero meravigliato dello strano splendore che tali fotografie sembravano dare ai suoi tratti. Di fatto, le uniche immagini decenti che avevo visto di lui erano precedenti al 1958, e avevo considerato le fotografie posteriori semplicemente riuscite male. Le sue rare apparizioni in pubblico erano sempre state molto brevi e non preannunciate, cosicché mentre le macchine fotografiche scattavano, egli di solito stava già riguadagnando l'uscita. Ora, comunque, vidi che avevo sottovalutato i fotografi. La sua pelle aveva uno strano splendore, quasi una particolare fosforescenza che metteva in evidenza le sue fatture e rifletteva, almeno in parte, qualcosa del bagliore del sole. Ci doveva essere qualcosa di sbagliato anche nei suoi occhi. Le lacrime scorrevano da dietro gli scuri occhiali da sole e luccicavano sulle sue guance. Nella mano sinistra portava un fazzoletto di seta con il quale, di tanto in tanto asciugava questa significativa umidità. Vidi tutto ciò mentre mi avvicinavo a lui lungo il molo, e, fin dal primo momento, lo trovai stranamente, si, repellente. «Come va, Signor Belton?», la sua voce era spessa, stridente e pesante-
mente accentata, e stonava con la domanda e la maniera di esprimersi educate. «Mi dispiace che abbiate dovuto attendere così a lungo. Ho ricevuto il vostro messaggio quando ero a Famagosta, proprio all'inizio del mio viaggio. Sono spiacente di non aver potuto rinviare il mio lavoro». «Non si preoccupi, signore, sono sicuro che quest'incontro ripagherà più che ampiamente la mia pazienza». La sua stretta di mano fu uno shock non minore degli altri, benché facessi del mio meglio per non farglielo vedere e, dopo che egli si fu voltato per condurmi alla casa, di nascosto mi strofinai la mano sulla maglietta. Non era perchè la mano di Haggopian era madida di sudore, come ci si potrebbe aspettare, ma perchè ebbi la sensazione, o così mi parve, di aver stretto una manciata di chiocciole! Dalla barca avevo già notato un complesso di tubi e pompe tra il mare e la casa, ed ora, avvicinandomi a quel giallo edificio irregolare sulle orme di Haggopian (la cui andatura era goffa e scomposta), udii il pulsare smorzato delle pompe e il fruscio dell'acqua. Una volta entrato nell'enorme e fresco bungalow, divenne chiaro che cosa significava quel rumore. Avrei dovuto immaginare che quest'uomo, così innamorato del mare, si sarebbe circondato del lavoro di tutta una vita. Il posto non era nient'altro che un acquario gigantesco! Vasche di spesso vetro, in alcuni casi alte quanto un soffitto e grandi quanto una stanza, formavano le pareti. La luce del sole, filtrando dalle finestre esterne, a forma di oblò, entrava nella stanza, creando ombre verdastre che macchiavano il pavimento di marmo e davano al luogo un aspetto sottomarino, strano. Non c'erano cartellini o tabelloni per descrivere gli abitanti forniti di pinne di quelle enormi vasche e, mentre egli mi conduceva da una stanza all'altra, mi apparve chiaro il perchè tali etichette fossero inutili. Haggopian conosceva perfettamente ogni esemplare. La sua voce stridente commentava rapidamente, mentre visitavamo man mano le varie ali del bungalow: «Questo è un insolito celenterato, vive a 900 metri di profondità. È difficile mantenerlo in vita, a causa della pressione e di altri fattori. L'ho chiamato Physalia haggopia, è micidiale. Se uno di questi tentacoli vi toccasse solo leggermente... phttt! Si comporta come il cucciolo del portoghese Uomo da Guerra (Era composto di una grande massa purpurea con tentacoli penzolanti, verdi e sottili, che ondeggiavano orribilmente nell'acqua di una vasca di enormi proporzioni). Haggopian, mentre parlava, aveva e-
stratto con abilità un pesciolino da una vasca aperta, su di un tavolo vicino, e l'aveva gettato oltre il bordo della vasca più grande, all'«insolito celenterato». Il pesce aveva colpito l'acqua con un tonfo, e aveva nuotato verso il fondo, dritto in uno dei fili verdi, e si era irrigidito all'istante! In pochi secondi, l'orribile medusa si era sistemata sulla sua preda e aveva cominciato una lenta ingestione. «In un certo tempo», commentò Haggopian con voce aspra, «farebbe la stessa cosa anche con voi!». Nella stanza più grande di tutte, più una sala che una stanza vera e propria, mi fermai, letteralmente stupito della misura delle vasche e dell'abilità, che era stata necessaria per costruirle. Qui, dove gli squali nuotavano tra le formazioni coralline, il vetro di questi oceani in miniatura doveva essere spessissimo, e i fondali erano stati fatti in modo che dessero l'impressione di ampie distanze e di paesaggi subacquei vasti ed irregolari. In una di queste vasche, alcuni squali-martello di oltre due metri di lunghezze nuotavano lentamente da un lato all'altro, brutti come il diavolo, e dall'aria due volte più pericolosa. Degli scalini di metallo conducevano all'orlo di questa vasca, e scendevano dall'altra parte fino all'acqua. Haggopian dovè vedere la mia espressione meravigliata, perchè disse: «Qui di solito nutro le mie lamprede: devono essere trattate con cura. Non ne ho nessuna ora, ho riportato in mare l'ultimo dei miei esemplari, tre anni fa». Tre anni fa! Scrutai più da vicino la vasca, mentre uno degli squalimartello faceva scivolare il ventre lungo il vetro. Sulla parte inferiore bianca ed argentea - del pesce, tra le fessure della branchie e il ventre, erano evidenti numerose chiazze di un rosso vivo; molte di esse formavano dei cerchi ben definiti dove gli strati di branchie erano stati rimossi e le bocche a ventosa delle lamprede erano state al lavoro. No, i «tre anni» di Haggopian dovevano essere stati un lapsus, tre giorni era molto più probabile! Molte delle piaghe erano chiaramente di origine più recente e, prima che l'armeno mi accompagnasse più avanti, riuscii a vedere che almeno altri due pesci-martello avevano segni simili. Mi fermai a meditare sull'errore del mio ospite, mentre passavamo ancora in un'altra stanza, i cui esemplari avrebbero sicuramente fatto gridare di gioia qualsiasi studioso di Conchiliologia. Anche qui le vasche che circondavano le parete erano più piccole della maggior parte di quelle che avevo visto fino a quel momento, ma erano sistemate in modo meraviglioso per imitare perfettamente l'ambiente naturale dei suoi abitanti.
Questi abitanti erano i gioielli viventi di quasi tutti gli oceani sulla terra. C'erano le grandi conchiglie e i bivalvi del Pacifico Meridionale, le piccole e belle, Haliotis excavata e Murex monodon della Grande Barriera Corallina, la Delphinula formosa della Cina, e strani mono o bivalvi di ogni forma e misura, in centinaia di esemplari. Anche le finestre erano fatte con conchiglie. Le grandi conchiglie a ventaglio, diafane, dai riflessi rosei, sottili come la porcellana ma immensamente robuste, diffondevano nella stanza toni di luce sanguigna, magici come i toni verdastri subacquei delle stanze precedenti. Anche i corridoi tra una vasca e l'altra, erano stipati di ripiani e di vetrine piene di conchiglie vuote, nessuna delle quali era indicata in qualche modo. Haggopian mi mostrò di nuovo la sua bravura nominando a caso qualsiasi esemplare io mi fermassi a studiare, descrivendone brevemente le abitudini e i mari lontani di cui era originario. A questo punto il mio giro si interruppe quando Costas, il greco che mi aveva accompagnato lì da Kletnos, entrò nell'affascinante stanza delle conchiglie e mormorò qualcosa di ovvia importanza al suo datore di lavoro. Haggopian annuì in segno di accordo e Costas se ne andò. Ritornò qualche momento dopo con una mezza dozzina di altri greci, ognuno dei quali scambiò qualche parola con Haggopian, prima di andarsene. Alla fine restammo di nuovo soli. «Erano i miei uomini», mi disse. «Alcuni di essi lo sono stati per almeno vent'anni, ma ora non ho più bisogno di loro. Ho pagato l'ultimo salario, mi hanno salutato, ed ora stanno andando via. Costas li porterà a Kletnos e ritornerà più tardi a prendervi. Nel frattempo, avrò finito la mia storia». «Non vi capisco affatto, signor Haggopian. Volete dire che vi chiuderete in isolamento qui? Quello che avete appena detto, aveva un tono minacciosamente conclusivo». «In isolamento? Qui? No, signor Belton, ma conclusivo, si! Qui ho imparato quanto più potevo sul mare e, in ogni caso, è solo una fase della mia istruzione. Per quella fase non ho bisogno di... insegnamenti! Vedrete». Vide l'espressione stupita sul mio volto e sorrise ironicamente. «Avete delle difficoltà a capirmi, e ciò non mi sorprende. Pochi uomini, se pure esistono, sono venuti a conoscenza delle mie condizioni prima di ora: di ciò sono ragionevolmente certo. Perciò ho scelto di parlare ora. Voi siete fortunato, perchè mi avete colto nel momento giusto. Non avrei mai assunto il compito di raccontare la mia storia, se non fossi stato così ostinatamente perseguitato, ci sono orrori che
è meglio non conoscere, ma forse raccontare servirà come avvertimento. Mi rende incerto, il numero degli studenti che si dedicano alla scienza del mare e che vorrebbero emulare il mio lavoro e le mie scoperte. Ma, in ogni caso, quella che voi senza dubbio credevate una semplice intervista, sarà in realtà il mio canto del cigno. Domani, quando l'isola sarà abbandonata, Costas tornerà e libererà tutti gli esemplari viventi dell'acquario. Ci sono dei sistemi di comunicazione, per mezzo dei quali anche il pesce più grande potrà ritornare al mare. Allora Haggopian sarà veramente vuota». «Ma perchè? A che scopo e dove, avete intenzione di andare?» Domandai. «Quest'isola non è la vostra base, la vostra casa e la vostra fortezza? È qui che voi avete scritto i vostri meravigliosi libri, e...». «La mia base e la mia fortezza, come avete detto, si!», mi interruppe duramente. «L'isola è stata queste cose per me, signor Belton, ma la mia casa? Non più! Quella è la mia casa!» Di scatto protese la mano lievemente tremante nella vaga direzione del Mar di Creta e, oltre, del Mediterraneo. «Quando la vostra intervista sarà finita, salirò in cima alle rocce e ancora una volta guarderò Kletnos e le terre più vicine, che sono di ogni possibile grandezza. Poi salirò sul mio Echinoidea e lo guiderò, attraverso lo stretto di Kasos, su una rotta diritta e precisa, finché il carburante non sarà finito. Non ci sarà ritorno. C'è un posto nel Mediterraneo, che nessuno conosce, dove il mare è tanto profondo e freddo, e dove...». Si interruppe e voltò la sua faccia stranamente brillante verso di me: «Ma a questo punto, la storia non dovrà essere raccontata così. Basterà dire che l'ultimo viaggio dell'Echinoidea sarà verso il fondo del mare, e che io sarò con lui!». «Suicidio» Dissi, boccheggiando, a malapena capace di tenermi al passo delle rivelazioni rapide di Haggopian. «Avete l'intenzione di affogarvi?». A questo punto Haggopian rise, una risata che era uno stridulo colpo di tosse e che in qualche modo mi ricordò l'abbaiare di una foca. «Affogarmi? Potete affogare queste?» Aprì le braccia per comprendere l'oceano in miniatura delle strane conchiglie, «o queste?», e accennò attraverso una porta ad una vasca di cristallo dove c'erano dei pesci esotici. Per qualche momento lo fissai in un silenzio sbigottito e interessato, chiedendomi se ero alla presenza di un uomo sano o...? Mi lanciò uno sguardo assorto da dietro le scure lenti dei suoi occhiali, e sotto l'esame di quegli occhi invisibili, scossi lentamente la testa, arretrando di un passo. «Mi dispiace, signor Haggopian, io proprio...»
«Imperdonabile», stridette la sua voce mentre io lottavo per trovare le parole, «il mio comportamento è imperdonabile! Venite, signor Belton, forse staremo più comodi fuori di qui». Mi condusse, attraverso un corridoio, all'esterno, su un patio circondato di limoni e melograni. Un tavolo bianco da giardino e due sedie bianche di bambù stavano all'ombra. Haggopian sbatté bruscamente le mani, una volta sola, poi mi offrì una sedia, prima di sedersi goffamente sul lato opposto. Ancora una volta, notai quanto sembravano stranamente maldestri i movimenti di quell'uomo. Una donna anziana, avvolta in un drappo di seta bianco alla maniera indiana, e con metà del volto velata da uno scialle che le ricadeva sulle spalle, rispose ai richiami dell'armeno. Egli le disse in greco poche parole, gutturali eppure gentili. Lei se ne andò, con un passo incerto dovuto all'età, per tornare qualche minuto dopo con un vassoio su cui erano due bicchieri e (incredibile) una bottiglia, ancora appannata, di birra inglese. Vidi che il bicchiere di Haggopian era già pieno, ma con una bevanda che io non riuscii a riconoscere. Il liquido era verde e torbido, i sedimenti letteralmente galleggiavano nel bicchiere, eppure l'armeno non sembrò accorgersene. Sfiorò con il suo bicchiere il mio, prima di portare quella roba alle labbra e di berla a fondo. Anch'io presi una grande sorsata di birra, perchè avevo molta sete. Ma, quando rimisi il bicchiere sul tavolo, vidi che Haggopian stava ancora bevendo! Si scolò il liquido scuro e ignoto, posò il bicchiere, e di nuovo sbatté le mani per chiamare la donna. A questo punto mi chiesi perchè l'uomo non si toglieva gli occhiali da sole. Dopotutto eravamo all'ombra, e lo eravamo stati anche di più, durante il mio giro del suo meraviglioso acquario. Lanciando un'occhiata al suo volto, mi ritornò alla mente il suo problema agli occhi, e vidi di nuovo quei sottili rivoletti di liquido scorrere da dietro le enigmatiche lenti. E, con la ricomparsa di questo sintomo della malattia agli occhi, anche il particolare strato brillante ritornò sul suo volto. Per un certo tempo quella - diffusione? - era sembrata sparire; avevo pensato che semplicemente mi stavo abituando al suo aspetto. Ora mi accorsi di essermi sbagliato: egli appariva strano come sempre. Contro la mia volontà, mi ritrovai a pensare alla ripugnante stretta di mano dell'uomo... «Queste interruzioni possono essere frequenti», la sua voce stridula penetrò nei miei pensieri. «Temo che nella mia fase attuale abbia bisogno di una quantità molto abbondante di liquidi!». Stavo proprio per chiedergli a quale «fase» si riferisse, quando l'anziana
donna ritornò con un altro bicchiere di liquido scuro per il suo padrone. Egli le disse qualche parola, prima che lei ci lasciasse ancora una volta. Tuttavia, non potei impedirmi di notare, mentre la donna si chinava sul tavolo, quanto apparisse disidratata la sua faccia. Le narici erano tirate, la pelle aveva rughe profonde, e gli occhi velati affondavano profondamente al di sotto delle sporgenze ossee delle sopracciglia. Una contadina dell'isola naturalmente, eppure, in altre condizioni, la fine struttura ossea di quel volto sarebbe potuta sembrare quasi aristocratica. Anche lei sembrava avvertire un magnetismo particolare in Haggopian. Si sporgeva verso di lui in modo evidente, lottando visibilmente per controllare un chiaro desiderio di toccarlo ogniqualvolta gli si avvicinava. «Partirà con voi, quando ve ne andrete. Costas si prenderà cura di lei». «La stavo fissando? Sussultai colpevolmente, da poco cosciente di una strana sensazione di irrealtà e di discontinuità. «Mi dispiace, non volevo essere scortese!» «Non vi preoccupate, quello che devo dirvi è un assurdità da qualsiasi punto di vista della sensibilità. Mi date l'impressione di essere un uomo che non si... spaventa facilmente, è vero, signor Belton?». «Posso sorprendermi, signor Haggopian, ed essere colpito, ma spaventarmi? Ebbene, tra l'altro sono stato un corrispondente di guerra per qualche tempo, e...». «Certamente, capisco, ma ci sono cose peggiori degli orrori della guerra fatta dall'uomo!» «Può essere, ma io sono un giornalista. È il mio lavoro. Accetterò la possibilità di essere spaventato». «Bene! E, per favore, mettete da parte ogni dubbio che avete finora concepito riguardo alla mia salute mentale, e ogni dubbio che potrete concepire durante il racconto della mia storia. Le prove, alla fine, saranno ampie». Cominciai a protestare, ma egli mi interruppe subito: «No, no, signor Belton! Voi avreste dovuto essere del tutto insensibile per non aver percepito la stranezza che c'è qui». Rimase in silenzio mentre, per la terza volta, ricomparve la donna, che gli pesò davanti sul tavolo una brocca. Questa volta lo abbracciò quasi, ed egli si allontanò di scatto da lei, per poco non capovolgendo la sedia. Disse, con voce stridula, qualche aspra parola in greco, e io udii la strana e raggrinzita creatura sospirare mentre si girava per andarsene via, con il suo passo incerto. «Ma che cosa c'è di sbagliato in quella donna?»
«Ogni cosa a suo tempo, signor Belton», disse, alzando una mano. «Ogni cosa a suo tempo». Si scolò di nuovo tutto il bicchiere, riempiendolo nuovamente dalla brocca, prima di cominciare il racconto vero e proprio. Durante il racconto io rimasi per la maggior parte del tempo in silenzio, poi ne fu ipnotizzato e, alla fine, inorridii per la sua conclusione. II «I miei primi dieci anni di vita li ho trascorsi alle Isole di Cook, e i successivi cinque a Cipro», cominciò Haggopian, «vivendo sempre a due passi dal mare. Mio padre morì, quando io avevo sedici anni e, benché nel corso della sua vita non avesse mai riconosciuto la sua paternità, mi lasciò in eredità l'equivalente di due milioni e mezzo di sterline! Quando avevo ventun'anni entrai in possesso di questi soldi, e scoprii che avrei potuto dedicarmi completamente all'oceano, l'unico vero amore della mia vita. E con questo intendo tutti gli oceani. Amo il caldo Mediterraneo e il Pacifico Meridionale, ma non amo di meno il gelido Oceano Artico e il pescoso Mare del Nord. Perfino ora li amo, perfino ora! «Alla fine della guerra, comprai Haggopiana e cominciai a raccogliervi la mia collezione. Scrissi sulle mie ricerche, e avevo ventinove anni quando finii La culla del mare. Naturalmente fu un lavoro fatto per diletto. Pagai io stesso per la pubblicazione della prima edizione del libro e, benché i soldi non fossero realmente un problema, le ristampe successive mi ripagarono più che adeguatamente. Raggiunsi il successo con quel libro - allora ero felice dei successi - e con Il Mare: una Nuova Frontiera, il che mi incitò a cominciare a lavorare per Gli Abitanti delle Profondità. Ero sposato con la mia prima moglie da cinque anni, al tempo in cui era pronta la prima stesura del mio manoscritto. Avrei far potuto pubblicare il libro lì, ma ero diventato un perfezionista sia nello scrivere che negli studi. Insomma, c'erano dei brani nel manoscritto, interi capitoli su determinate specie, dei quali non ero soddisfatto. Uno di questi capitoli era dedicato ai sirenidi. Il dugongo e il lamantino, particolarmente quest'ultimo, mi avevano attratto a lungo per le loro innegabili connessioni con le leggende sulle sirene, di antica fama, dalle quali naturalmente il loro ordine prende il nome. Comunque, all'inizio, fu qualcosa in più di questo interesse che mi spinse a cominciare la mia «Mappa dei Lamantini», come chiamai questi viaggi, benché a quel tempo non avrei mai potuto immaginare l'importanza delle mie ricerche. Quando ciò
successe, le mie indagini stavano per condurmi alla prima reale indicazione di che cosa sarebbe stato il mio futuro, uno spaventoso accenno alla mia destinazione finale, benché naturalmente non lo riconobbi come tale». Fece una pausa. «Destinazione?» Mi sentii obbligato a riempire il silenzio. «Letteraria o scientifica?» «La mia destinazione finale!» «Oh!» «Sedevo e aspettavo, senza sapere assolutamente che cosa dire. Una strana posizione per un giornalista! Dopo un minuto o due, Haggopian continuò. Mentre parlava, sentivo i suoi occhi guardarmi assorti attraverso le lenti opache dei suoi occhiali: «Forse siete al corrente delle teorie sulla deriva dei continenti, quei concetti delineati inizialmente da Wegener e da Lintz, modificati poi da Vine, da Matthews e da altri. Secondo queste teorie, i continenti gradualmente si allontanano l'uno dall'altro, mentre un tempo erano molto più vicini tra loro. Tali teorie sono ben fondate, ve lo assicuro. La Pangea primaria è esistita, ed era calpestata da piedi non umani. In verità, quel primo grande continente conobbe la vita, prima che l'uomo abbandonasse gli alberi e si evolvesse dalle scimmie! «Ma ad ogni modo, fu in parte per appoggiare il lavoro di Wegener e degli altri, che io decisi d'intraprendere la mia «Mappa dei Lamantini», un confronto tra i lamantini della Liberia, del Senegal e del Golfo della Guinea con quelli dei Caraibi e del Golfo del Messico. Vedete, signor Belton, di tutte le spiagge della terra, questi due sono gli unici tratti di costa in cui i lamantini si trovano nella loro condizione naturale. Sicuramente, converrete che questa è un'eccellente prova zoologica della deriva dei continenti. «Ebbene, avendo molto a cuore questi miei interessi scientifici, alla fine mi ritrovai a Jacksonville, sulla Costa orientale del Nord America, che è il punto a nord più estremo, dove è possibile trovare un certo numero di lamantini. A Jacksonville, per caso, sentii che erano stata ripescate dal mare certe strane pietre. Queste pietre erano incise da geroglifici corrosi di un'incredibile antichità, ed erano state presumibilmente trascinate a riva dalle contro-correnti della Corrente del Golfo. Voi ricorderete che Mu, Atlantide e le altre mitiche terre e città sommerse sono da molto tempo i miei temi preferiti. Perciò, il mio interesse per quelle pietre e per la loro possibile origine fu tale, che conclusi velocemente la mia «Mappa dei Lamantini» per navigare verso Boston, nel Massachusetts dove, avevo sentito dire,
un collezionista di stranezze del genere vi teneva un museo privato. Risultò che anch'egli era un amante degli oceani, e la sua collezione era piena della sapienza del mare, particolarmente dell'Atlantico del Nord che era, per così dire, fuori l'uscio della sua casa. Lo trovai preparatissimo riguardo ad ogni aspetto della Costa Orientale, e mi raccontò molte storie fantastiche sulle coste del New England. Era proprio la linea costiera del New England, egli mi assicurò, il luogo da cui si lanciavano in mare quelle antiche pietre che portavano i segni di una intelligenza primitiva. Un'intelligenza di cui io avevo visto le tracce in luoghi molto lontani, come la Costa d'Avorio e le Isole della Polinesia!» Da qualche tempo Haggopian stava mostrando una strana e crescente agitazione, ed ora sedeva torcendosi le mani e muovendosi senza posa sulla sedia. «Ah, si, signor Belton, non era una scoperta? Perchè, non appena vidi i frammenti di basalto dell'America, li riconobbi! Erano piccoli quei pezzi, è vero, ma le iscrizioni su di loro erano le stesse che avevo viste incise sulle grandi colonne nere nelle giungle costiere della Liberia. Erano colonne gettate lungo la rive dal mare e intorno a loro, nelle notti di luna, gli indigeni danzavano e cantavano antiche liturgie! Anch'io avevo conosciuto quelle liturgie, Belton, dalla mia infanzia nelle Isole di Cook: Ia, R'lyehl Cthulhu fhtagh!». Con quest'ultimo borbottio, totalmente estraneo, che gli uscì dalle labbra in modo soprannaturale, l'armeno si alzò in piedi. Le nocche delle sue mani erano bianche, in quanto le aveva premute sul tavolo. Poi, notando la mia espressione mentre rapidamente mi ritraevo lontano da lui, lentamente si rilassò e, alla fine, ricadde sulla sua sedia come se fosse esausto. Lasciò penzolare le mani e girò il volto da un'altra parte. Per almeno tre minuti Haggopian rimase in questa posizione, poi si girò verso di me, stringendosi nelle spalle con aria quasi di scusa. «Voi mi dovete scusare, signore. In questi giorni, cado facilmente in uno stato di sovreccitazione». Sollevò il bicchiere e bevve, poi si asciugò di nuovo i rivoletti di liquido che gli scorrevano dagli occhi. Continuò: «Ma ho fatto una digressione: volevo soprattutto mettere in evidenza che una volta, millenni fa, le Americhe e l'Africa erano gemelle siamesi, unite tra loro da una striscia di pianure che sprofondò quando cominciò la deriva dei continenti. C'erano delle città in quelle pianure, lo sapete? E la prova dell'esistenza di quei luoghi preistorici si trova ancora nei punti dove una volta i due continenti erano congiunti.
Per quanto riguarda la Polinesia, bene, basti dire che gli esseri che costruirono le antiche città (esseri che scesero dalle stelle durante i primi eoni) avevano il dominio su tutto il mondo. Ma hanno lasciato altre tracce, questi esseri; Dei e culti bizzarri ed anche strani schiavi! «Comunque, oltre queste scoperte geologiche estremamente interessanti, io avevo anche una specie di interesse genealogico nel New England. Mia madre era polinesiana, voi lo sapete, ma in lei c'era anche sangue del vecchio New England. La mia trisavola fu portata dalle isole al New England da un marinaio, su uno dei vecchi velieri della Compagnia dell'India Orientale, alla fine degli Anni Venti del secolo scorso. Due generazioni dopo, mia nonna ritornò in Polinesia, quando il suo marito americano morì in un incendio. Fino ad allora la famiglia aveva vissuto ad Innsmouth, un porto in decadenza del New England dalla pessima fama, dove le donne polinesiane erano tutt'altro che rare. Mia nonna era incinta quando arrivò alle isole, e il sangue americano si manifestò con forza in mia madre, giustificando il suo aspetto fisico. Ma anche ora ricordo che nel suo volto c'era qualcosa che non andava, qualcosa negli occhi. «Accenno a tutto ciò, perchè... perchè non posso impedirmi di chiedermi se qualcosa nella mia genealogia ha dei rapporti con la mia fase attuale». Di nuovo quella parola, questa volta pronunciata con chiara enfasi, e di nuovo mi sentii spinto a chiedere a quale fase Haggopian si riferisse. Ma era tardi, perchè aveva già ripreso a raccontare: «Vedete, quando ero bambino, in Polinesia ho udito molti strani racconti, ed erano gli stessi magici racconti che mi fece il mio amico collezionista di Boston, su cose che emergono dal mare per accoppiarsi con gli uomini e sulla loro terribile progenie! Per la seconda volta una febbrile eccitazione divenne evidente nella voce e nell'atteggiamento di Haggopian. Di nuovo la sua agitazione si rivelò nel tremito di tutto il corpo, che sembrava preso nella morsa di forti emozioni, a mala pena represse. «Sapevate, cominciò d'un tratto a parlare», che nel 1928 Innsmouth fu epurata dagli Agenti Federali? Epurata da che cosa, vi domando? E perchè al largo della Scogliera del Diavolo furono calate delle cariche di profondità? Fu dopo quest'esplosione e i successivi uragani del 1930 che il mare spinse sulle spiagge del New England molti gioielli d'oro, di strane fogge. Contemporaneamente, quelle nere pietre, rotte e incise con orribili geroglifici, cominciarono ad essere notate e raccolte dai vagabondi, lungo le spiagge!
«Ia-R'lyeh! Quali cose mostruose si celano ancora nelle profondità dell'oceano, Belton, e quali altre cose ritornano alla vita terrestre»? Di scatto si alzò e cominciò a percorrere il patio a grandi passi, nella sua andatura goffa e ondeggiante, Borbottava tra sé e sé suoni gutturali ed incoerenti e lanciava sguardi casuali nella mia direzione. Io sedevo dietro al tavolo, ora molto turbato dalle sue condizioni mentali chiaramente aberranti. In quel preciso momento, se ci fosse stato qualche facile mezzo di fuga, credo che avrei potuto lasciar perdere tutto con molta gioia per essere lontano da Haggopian. Comunque, non vedevo nessuna via d'uscita, e così aspettai nervosamente finché l'armeno non si fu calmato tanto da poter riprendere il suo posto. Di nuovo l'umidità scorreva in un lento rivoletto da dietro gli occhiali scuri, e ancora una volta egli bevve un sorso del liquido sconosciuto, prima di continuare a parlare: «Vi chiedo ancora una volta di accettare le mie scuse, signor Belton, e imploro il vostro perdono per essermi allontanato in modo così incoerente dei fatti principali. Prima stavo parlando del mio libro, Abitanti delle Profondità, e della mia insoddisfazione riguardo a certi capitoli. Bene, quando finalmente il mio interesse per le coste e per i misteri del New England diminuì, ritornai ad occuparmi di quel libro, e in special modo del capitolo concernente i parassiti dell'oceano. Volevo confrontare questo ramo specifico delle creature marine con la sua controparte terrestre. Avevo anche l'intenzione d'introdurre, come avevo fatto negli altri capitoli, miti e leggende oceaniche che avrei potuto tentare di spiegare in modo soddisfacente. «Naturalmente, ero limitato dal fatto che il mare non può vantare un numero così ampio di parassiti come la terra. Infatti, quasi ogni animale terrestre, uccelli ed insetti compresi, ha il suo piccolo ospite che vive tra i suoi peli o tra le sue piume o che si nutre su di lui, in uno dei vari modi tipici dei parassiti. «Tuttavia, mi occupai della Myxine glutinosa e della lampreda, di certe specie di sanguisughe marine e di pidocchi dei cetacei, e le confrontai con le sanguisughe d'acqua dolce, con alcuni tipi di tenia, di funghi e così via. Ora, potreste essere tentato di credere che esiste una differenza troppo grande tra gli abitanti della terra e quelli del mare e, naturalmente, da un certo punto di vista, la differenza esiste. Ma se consideriamo che tutta la vita, come sappiamo, originariamente è nata dal mare?... «Quando ora penso, signor Belton, al vampiro delle leggende, delle fedi
occulte, dei racconti dell'orrore, a come il mostro determina orribili cambiamenti e degenerazioni nella propria vittima fino a che quella vittima muore, e poi ritorna essa stessa come vampiro, allora mi domando quale destino folle mi ha condotto. E ancora mi domando come potevo saperlo, come può un qualsiasi uomo prevedere...? «Ma sto anticipando i fatti, e non lo farò. Le mie rivelazioni devono essere fatte a loro tempo: voi dovete essere preparato, nonostante le vostre assicurazioni di non essere facilmente impressionabile. «Nel 1956 stavo esplorando le acque delle Isole Solomon, su uno yacht con sette uomini di equipaggio. Ci eravamo ancorati per la notte ad una bella isoletta disabitata, al largo di San Cristobal. La mattina dopo, mentre i miei uomini smontavano l'accampamento e preparavano lo yacht per la navigazione, io camminavo lungo la spiaggia in cerca di conchiglie. Ad un tratto, vidi un grosso squalo arenato in una pozza, a causa della bassa marea. Le sue branchie affondavano a malapena nell'acqua, e il dorso e la pinna dorsale emergevano addirittura in superficie. Mi dispiaceva per l'animale, naturalmente, e mi dispiacqui ancora di più quando mi accorsi che, attaccata al suo ventre, c'era proprio una di quelle sanguisughe di cui mi stavo occupando. Non fu solo questo ad attrarmi, ma anche la bellezza della sanguisuga. Era lunga un metro e venti, ma era tre centimetri di larghezza, ed era certamente di un tipo che non avevo mai visto prima. Nel frattempo, Gli Abitanti delle Profondità era quasi pronto e, se non fosse stato per quel capitolo a cui ho già accennato, il libro già da molto tempo sarebbe stato alle stampe. «Ebbene, non potevo perdere il tempo che ci sarebbe voluto a trainare lo squalo in acque più profonde, tuttavia ero addolorato per il grande pesce. Ordinai ad uno dei miei uomini di far cessare le sue sofferenze con una fucilata. Dio sa quanto a lungo il parassita si era nutrito dei suoi succhi, indebolendolo a poco a poco fino a farlo diventare solo un giocattolo delle maree. «Per quanto riguardava la sanguisuga di mare, essa sarebbe venuta con noi! A bordo del mio yacht avevo una quantità di vasche per tenere pesci anche più grandi e, naturalmente, volevo studiarla e darne un cenno nel mio libro. «I miei uomini riuscirono a mettere in una rete lo strano pesce, senza troppi problemi e lo portarono a bordo. Ma sembrò che avessimo qualche difficoltà a toglierlo dalla rete e gettarlo nella vasca. Dovete sapere, signor Belton, che queste vasche erano incastrate sul ponte, e i loro bordi superio-
ri erano a livello del tavolato. Io mi avvicinai per dare una mano prima che il pesce spirasse e, proprio quando sembrava che avevano risolto il pasticcio, l'animale cominciò a dibattersi! Uscì dalla rete con una grande flessione del corpo e mi trascinò con sé nella vasca! «I miei uomini sulle prime risero, naturalmente, e anch'io avrei riso con loro... se quello spaventoso pesce non sì fosse immediatamente attaccato al mio corpo, con la bocca a succhiello premuta sul mio petto e con gli occhi che penetravano orribilmente nei miei!». Dopo una significativa pausa, durante la quale la sua faccia brillante si era orribilmente contorta, l'armeno continuò: «Rimasi in delirio per tre settimane, dopo che mi estrassero dalla vasca. Lo shock? Un veleno? All'epoca non lo sapevo. Ora lo so, ma è troppo tardi: forse anche allora era troppo tardi. «Mia moglie era con noi in qualità di cuoca, e durante il mio delirio, mentre mi dimenavo e mi rivoltavo febbrilmente nel letto della mia cabina, si era presa cura di me. Intanto i miei uomini avevano tenuto ben rifornita di piccoli squali e di pesci, la sanguisuga, una specie prima sconosciuta di Myxinoidea. Essi non permisero mai che il ciclostomo prosciugasse completamente i suoi ospiti, voi mi capite, ma sapevano abbastanza per mantenerla in vita per me, senza curarsi della sua disgustosa maniera di nutrirsi. «La mia convalescenza, lo ricordo, fu afflitta da sogni ricorrenti. Sognavo monolitiche città sottomarine, ciclopiche strutture di basalto popolate da strani esseri ibridi, in parte umani, in parte pesci, ed in parte batraci. Sognai gli anfibi Profondi, gli schiavi di Dagon e gli adoratori del dormiente Cthulhu. In quei sogni c'erano anche delle misteriose voci che mi chiamavano e mi sussurravano cose sui miei antenati, cose che, ad udirle, mi facevano urlare tra i brividi della febbre! «Quando mi fui ristabilito, andai molte volte sotto il ponte a studiare la sanguisuga attraverso le pareti di vetro della vasca. Avete mai visto una sanguisuga o una lampreda da vicino, signor Belton? No? Allora consideratevi fortunato. Sono animali ripugnanti, e il loro aspetto si accoppia bene alla loro natura: sono simili ad anguille e primitive, e la loro bocca, Belton, la loro orribile, rasposa bocca a ventosa! «Due mesi dopo, verso la fine del viaggio, cominciò veramente l'orrore. Allora le ferite, le zone escoriate sul mio petto dove la cosa mi aveva preso, erano completamente rimarginate. Ma il ricordo di quel primo incontro era ancora terribile e vivo nella mia mente, e... «Vedo la domanda scritta sulla vostra faccia, signor Belton, ma avete
sentito veramente bene, ho detto il mio primo incontro! Oh, si! Ci sarebbero stati altri incontri, molti altri!». A questo punto della sua narrazione straordinaria, Haggopian fece ancora una pausa per asciugare i rivoletti di umidità che scorrevano da dietro i suoi occhiali da sole, e per bere ancora una volta un po' del torbido liquido, che era nel suo bicchiere. Ciò mi diede la possibilità di guardarmi intorno; forse pensavo ancora che si sarebbe resa necessaria una veloce fuga. L'armeno sedeva volgendo le spalle al grande bungalow e, nel lanciare nervose occhiate in quella direzione, vidi una faccia nascondersi velocemente dietro una delle finestre ad oblò più piccole. In seguito, mentre la storia del mio ospite andava avanti, riuscii a vedere che la faccia, che si nascondeva dietro gli oblò, apparteneva alla vecchia cameriera e che i suoi occhi lo fissavano, pieni di una specie di avido fascino. Ogni qualvolta mi sorprendeva a guardarla, si ritraeva. "No", continuò alla fine Haggopian, «la sanguisuga era ben lungi dall'aver finito con me, ben lungi. Poiché, man mano che le settimane passavano, il mio interesse per quella creatura divenne una sorta di ossessione. Tanto che, in ogni momento libero, mi ritrovavo a fissare la vasca o ad esaminare gli strani segni e cicatrici che essa lasciava sui corpi dei suoi involontari ospiti. E fu così che scoprii quanto quegli ospiti non fossero involontari! Un fatto veramente particolare, e inoltre... «Si, scoprii che dopo essere stati per una volta ospiti del ciclostomo, i pesci, dei quali essa si era nutrita, erano sempre desiderosi di riprendere tali legami, anche fino a morirne! Quando per la prima volta scoprii questo insolito fatto, naturalmente lo sperimentai e, in seguito, fui in grado di stabilire, del tutto definitivamente che, dopo la violenza iniziale, gli ospiti della sanguisuga si sottomettevano agli attacchi successivi con una specie di piacere soporifico! «Evidentemente, signor Belton, avevo trovato in mare il perfetto equivalente del vampiro delle leggende terrestri. Quello che ciò significava veramente, l'orrore assoluto della mia scoperta, non mi vennero in mente finché, finché... «Eravamo ancorati al largo di Limassol a Cipro, in attesa di partire per l'ultima tappa vera e propria del nostro viaggio, il ritorno ad Haggopian. Avevo dato il permesso a tutti gli uomini di equipaggio di scendere a terra per una notte, tranne che a Costas, che non aveva voglia di lasciare lo yacht. Per parecchio tempo tutto l'equipaggio aveva lavorato molto duramente. Anche mia moglie era andata a trovare degli amici a Limassol. Io
ero abbastanza contento di rimanere a bordo, gli amici di mia moglie mi annoiavano. Oltre tutto, da qualche giorno mi sentivo stanco, ero in una specie di stato letargico. «Andai a letto presto. Dalla mia cabina vedevo le luci della città e sentivo il dolce sciabordio dell'acqua intorno ai piloni del pontile, al quale eravamo ormeggiati. Costas sonnecchiava a poppa, tenendo in mano una lenza che penzolava in acqua. Prima di addormentarmi lo chiamai. Rispose con voce assonnata, e disse che il mare era un olio e che aveva già preso due belle triglie. «Ritornai in me tre settimane dopo ed ero di nuovo qui ad Haggopian. La sanguisuga mi aveva preso di nuovo! Mi raccontarono come Costas aveva udito il tonfo e mi aveva trovato nella vasca del ciclostomo. Era riuscito a tirarmi fuori prima che affogassi, ma aveva dovuto lottare come una belva per allontanare il mostro da me, o meglio, per allontanare me dal mostro! «Cominciate a capire le implicazioni di tutto ciò, signor Belton? «Vedete queste?» Si sbottonò la camicia per mostrarmi i segni sul petto. Erano delle cicatrici circolari di circa otto centimetri di diametro, simili a quello che avevo visto sugli squali-martello nella vasca. Mi irrigidii sulla sedia, con la bocca aperta per lo shock che avevo subito nel vedere il loro grande numero! Si era sbottonato la camicia fino alla fusciacca di seta, che era poco al di sotto della gabbia toracica e, a mala pena, qualche centimetro della sua pelle era intatto: qualche cicatrice era perfino sovrapposta ad un'altra! «Buon Dio!», dissi alla fine a fatica. «Quale Dio?» Haggopian disse subito con la sua voce stridula, dall'altra parte del tavolo, mentre le dita gli tremavano di nuovo in quello strano accesso di passione. «Quale Dio, signor Belton? Jehovah oppure Oannes, Cristo o la Cosa-Rospo, Dio della Terra e dell'Acqua? Ia-R'lyeh, Cthulhufhtagn; Yibb-Tstll; Yot-Sothoth! Conosco molti Dei, signore!» Di nuovo riempì spasmodicamente il bicchiere dalla brocca, tracannando letteralmente la sostanza colma di sedimenti, tanto che pensai che sarebbe soffocato. Quando alla fine posò il bicchiere vuoto, vidi che aveva ancora una volta l'aria di controllarsi. «La seconda volta», continuò, tutti credettero che fossi caduto nella vasca dormendo, e non era affatto una spiegazione infondata. Infatti, da ragazzo ero stato un po' sonnambulo. Sulle prime anch'io credetti che il fatto si fosse svolto così, poiché a quell'epoca ero ancora cieco davanti al potere
che quella creatura aveva su di me. Si dice che anche la sanguisuga sia cieca, signor Belton, e gli appartenenti alle specie meglio conosciute lo sono certamente, ma la mia sanguisuga non era cieca. In verità, fosse o non fosse primitiva, io ho creduto che, dopo le prime tre o quattro volte, fosse realmente in grado di riconoscermi! Ero solito tenere la creatura nella vasca dove avete visto gli squali-martello, e avevo proibito a chiunque altro di entrare in quella stanza. Facevo le mie visite di notte, ogniqualvolta l'umore mi assaliva. E lei era lì ad aspettarmi, premendo sul vetro la sua bocca ripugnante e scrutando fuori in orribile attesa. Andava dritta ai gradini non appena io cominciavo a discenderli, aspettandomi inquieta finché non mi univo a lei nella vasca. Indossavo un respiratore, in modo da poter respirare mentre lei... mentre essa...». Haggopian ora tremava tutto e si asciugava con rabbia la faccia con il fazzoletto di seta. Felice della possibilità di distogliere gli occhi dai tratti bizzarramente luccicanti dell'uomo, finii la mia bibita e riempii il bicchiere con quello che rimaneva della birra nella bottiglia. Ormai la birra non era più fredda, era quasi stantia ma, in ogni caso, credo sia comprensibile, mi era passata ogni voglia di bere qualsiasi cosa venisse da Haggopian. Bevvi solo per alleviare la secchezza della mia bocca impastata. «La cosa peggiore era», continuò dopo un po', «che quello che mi stava accadendo non era contro la mia volontà. Come succedeva agli squali e agli altri pesci ospiti, così succedeva anche a me. Io godevo di ogni orrenda unione come l'alcolizzato gode dell'euforia che gli dà il whisky, come il tossicomane gioisce delle proprie allucinazioni. E gli effetti della mia dipendenza non erano meno deleteri! Non vissi più nessun periodo di delirio, come quelli che avevo conosciuto dopo le mie prime due «sedute» con la creatura. Sentivo però, che lentamente, ma inesorabilmente, le mie forze declinavano. I miei assistenti naturalmente sapevano che ero malato. Avrebbero dovuto essere degli stupidi per non notare come la mia salute stava peggiorando e quanto rapidamente io parevo invecchiare. Ma era mia moglie la persona che soffriva di più. «Non potevo avere molti contatti con lei, capite? Se avessimo condotto un tipo di vita normale, lei avrebbe visto sicuramente i segni sul mio corpo. Ciò avrebbe richiesto una spiegazione, che io non volevo - in verità non potevo - dare! Oh, ma ero diventato astuto nella mia dipendenza dalla creatura, e nessuno immaginava la verità che si celava dietro lo strano «morbo», che mi stava lentamente uccidendo, prosciugandomi il sangue. «Un po' più di un anno dopo, nel 1958, quando sapevo di stare per mori-
re, mi lasciai convincere ad intraprendere un altro viaggio. Mia moglie mi amava ancora profondamente, e credeva che un lungo viaggio mi avrebbe potuto far bene. Penso che Costas allora avesse cominciato a sospettare la verità. Una volta lo sorpresi nella stanza proibita a fissare con curiosità il ciclostomo nella vasca. Il suo sospetto si accentuò quando gli dissi che la creatura sarebbe venuta con noi. Fu contrario a quest'idea fin dall'inizio. Io sostenni che comunque i miei studi non erano ancora completi, che non avevo ancora finito di esaminare la sanguisuga e che, alla fine, avevo intenzione di liberare il pesce a mare. Non avevo l'intenzione di fare niente del genere. In realtà, non credevo che sarei sopravvissuto al viaggio. Ero dimagrito da cento a sessanta chili! «Eravamo ancorati al largo della Grande Barriera Corallina la notte in cui mia moglie mi scoprì con la sanguisuga. Gli altri si erano addormentati, dopo una festa di compleanno che si era svolta a bordo. Avevo insistito che tutti bevessero e facessero baldoria cosicché ero sicuro di non essere disturbato. Ma mia moglie aveva bevuto poco, e io non me n'ero accorto. Lo capii solo quando la vidi accanto alla vasca guardare me e la ... cosa! Ricorderò sempre il suo volto, l'orrore e la terribile coscienza che vi erano dipinti, e il suo urlo, il modo in cui lacerò il silenzio della notte! «Mentre uscivo dalla vasca, lei se n'era già andata. Era caduta o si era gettata a mare. Il suo urlo aveva svegliato l'equipaggio, e Costas fu il primo ad alzarsi per vedere che cos'era successo. Mi vide prima che potessi ricoprirmi. Presi con me tre uomini ed uscii con una piccola barca a cercare mia moglie. Quando tornammo, Costas aveva ucciso la sanguisuga. Aveva preso un grosso gancio e l'aveva arpionata fino ad ucciderla. La testa della creatura era poco più di una macchia rossa, ma perfino sul punto di morire la sua bocca a ventosa raspava... sul nulla! «Dopo questo episodio, per un mese intero, non volevo che Costas mi si avvicinasse. Non penso che egli volesse starmi vicino. Credo che sapesse che il mio dolore non era unicamente per mia moglie! «Bene, questa fu la fine della prima fase, signor Belton. Io riacquistai rapidamente il mio peso e la salute, la vecchiaia lasciò i miei tratti e il mio corpo, finché non tornai ad essere quasi lo stesso uomo che ero stato prima. Dico «quasi», perchè naturalmente non avrei potuto esser proprio lo stesso. Intanto avevo perso tutti capelli: come ho già detto, la creatura mi aveva esaurito tanto che ero stato sul punto di morire. Inoltre, a ricordarmi l'orrore, c'erano quelle cicatrici sul mio corpo e quella cicatrice più grande nella mia mente, che mi faceva male ogniqualvolta pensavo all'espressione
sul volto di mia moglie, l'ultima volta che l'avevo vista. «Durante l'anno seguente, finii il libro, ma senza citare niente delle scoperte che avevo fatto durante la crociera della «Mappa dei Lamantini» e niente delle mie esperienze con l'orribile pesce. Dedicai il libro, come senza dubbio sapete, alla memoria della mia povera moglie. Ma dové passare ancora un altro anno prima che potessi eliminare dal mio organismo tutti gli effetti dell'episodio vissuto con la sanguisuga. Da allora in poi non potevo sopportare di ripensare alla mia terribile ossessione. «Fu poco dopo il mio secondo matrimonio che cominciò la seconda fase... «Da qualche tempo sentivo uno strano dolore all'addome, tra l'ombelico e il fondo della cassa toracica, ma non mi ero preoccupato di riferirlo ad un medico. Detesto i medici. Entro i primi sei mesi di matrimonio il dolore era scomparso, per essere sostituito da qualcosa di ben peggiore! «Sapendo del mio terrore per i medici, la mia nuova moglie mantenne il segreto sulla mia malattia e, benché nessuno di noi due lo sapesse, fu la cosa peggiore che avremmo mai potuto fare. Forse se mi fossi occupato immediatamente della cosa... «Vedete, signor Belton, mi si era sviluppato, si, un nuovo organo! Un'appendice, una cosa a forma di beccuccio era spuntata nel mio stomaco, con un minuscolo foro all'estremità, come un secondo ombelico! Alla fine, naturalmente, fui costretto a farmi visitare da un medico. Dopo che mi ebbe esaminato e mi ebbe detto il peggio, gli feci giurare, o meglio, lo pagai per mantenere il segreto. L'organo non poteva essere rimosso, mi disse, era parte di me. Aveva i suoi propri vasi sanguigni, un'arteria principale ed era collegato ai polmoni e allo stomaco. Non era maligno nel senso di un tumore patologico. Non era in grado di spiegare l'organo a beccuccio più approfonditamente. Dopo una serie completa di analisi, comunque, fu in grado di aggiungere che anche il mio sangue si era modificato. Sembrava esserci troppo sale nel mio organismo. Il dottore mi disse poi che, a tutti gli effetti, non avrei dovuto essere vivo! «La cosa non finì qui, signor Belton, perchè subito cominciarono a verificarsi altri cambiamenti, questa volta proprio nell'organo a beccuccio, quando quel minuscolo ombelico alla sua estremità cominciò ad aprirsi! «E poi... e poi... la mia povera moglie... e i miei occhi!». Ancora una volta Haggopian dové fermarsi. Sedette boccheggiando come... come un pesce fuor d'acqua! Tutto il corpo gli tremava e i sottili flussi di umidità colavano lungo la sua faccia. Di nuovo riempì il bicchiere e bevve a pro-
fonde sorsate il sudicio liquido, e di nuovo strofinò il suo volto spettrale con il fazzoletto di seta. La mia bocca era diventata secchissima e, anche se avessi avuto qualcosa da dire, non credo che ci sarei riuscito. Allungai la mano per prendere il mi bicchiere, solo per avere qualcosa da fare mentre l'armeno lottava per riprendere il controllo su di sé. Ma, naturalmente, il bicchiere era vuoto. «Io... sembra che... voi...», mormorò il mio ospite tra ansimi e suoni striduli, poi emise un latrato soprannaturale, rauco, soffocato. Alla fine si ricompose per terminare il suo tremendo racconto. Ora la sua voce era meno umana di qualsiasi altra voce che avessi mai udito prima: «Voi... avete... molto più sangue freddo di quanto pensassi, signor Belton, e... avevate ragione: non è facile impressionarvi o spaventarvi. Alla fin fine sono io il codardo, perchè non riesco a raccontarvi il resto della storia. Posso solo... mostrarvelo, e poi ve ne dovrete andare. Potete aspettare Costas al molo...». Detto ciò, Haggopian si alzò lentamente e si tolse la camicia, già aperta. Ipnotizzato, lo guardai cominciare a svolgere la fusciacca di seta che aveva intorno alla vita. Guardai il suo organo divenire visibile, lo guardai annaspare ciecamente alla luce come il grugno di un maiale che grufola! Ma la cosa non era un grugno! Aveva all'estremità, una bocca ansimante, rossa e ripugnante, in cui c'erano file di denti rasposi. Ai lati si vedevano le branchie, che si muovevano in dentro e in fuori come se la cosa risucchiasse l'aria! Ma l'orrore non era finito. La mia mente vacillò, quando l'armeno si tolse quegli infernali occhiali da sole! Per la prima volta vidi i suoi occhi. Occhi protuberanti da pesce, privi di sclerotica, simili a marmo nero. Occhi che stillavano lacrime di dolore per la costante sofferenza di trovarsi in un ambiente estraneo. Occhi adatti alle tenebre degli abissi marini! Ricordo che, mentre fuggivo senza veder niente lungo la spiaggia fino al molo, le ultime parole di Haggopian risuonavano nelle mie orecchie. Le parole che egli aveva detto con voce stridula mentre gettava a terra la fusciacca e toglieva gli occhiali da sole, dalle lenti scure: «Non compatitemi, signor Belton», aveva detto. «Il mare è stato il mio primo amore, e ho ancora oggi molto da scoprire su di lui, ma lo scoprirò, lo scoprirò. E non sarò l'unico del mio genere tra i Profondi. C'è qualcuno che già mi attende, e qualcun altro che arriverà!» III
Durante il breve viaggio di ritorno a Kletnos, benché la mia mente avrebbe dovuto essere intorpidita, il giornalista prese il sopravvento in me e io ripensai all'infernale storia di Haggopian e alle sue implicazioni ugualmente infernali. Pensai al suo grande amore per l'oceano. Pensai allo strano liquido torbido che era così chiaramente il suo cibo, e alla sottile patina di limo protettivo, che luccicava sul suo volto e presumibilmente copriva tutto il resto del corpo. Pensai ai suoi antenati soprannaturali e agli Dei esotici che essi avevano adorato, alle cose che emergevano dal mare per accoppiarsi con gli uomini! Pensai ai segni freschi che avevo visto sui ventri degli squali-martello nella grande vasca, segni che non erano stati fatti da nessun parassita, perchè Haggopian aveva riportato le sue lamprede a mare tre anni prima. E pensai alla seconda moglie a cui l'armeno aveva accennato, la quale, si diceva, era morta per un «devastante morbo esotico!» Infine, pensai a quelle altre voci che avevo udito sulla terza moglie. Si diceva che non vivesse più con lui. Fu solo quando attraccammo a Kletnos che appresi che queste voci erano in realtà sbagliate, sebbene il loro errore fosse comprensibile. Perchè fu allora, mentre il fedele Costas aiutava l'anziana donna a scendere dalla barca, che lei inciampò nel suo lungo scialle. Lo scialle e il velo che le copriva parte del volto, erano un unico indumento, cosicché il suo movimento goffo scoprì per un attimo il suo volto, il collo e una spalla fino all'attaccatura del seno sinistro. In quell'attimo d'involontaria nudità, vidi in pieno il volto della donna per la prima volta. E vidi anche i lividi che partivano proprio al di sotto della clavicola! Finalmente capii lo strano magnetismo che Haggopian aveva su di lei. Un magnetismo non dissimile dalla tremenda attrazione tra la morbosa sanguisuga del racconto dell'armeno e i suoi ospiti troppo volontari! Compresi anche il mio precedente interesse per i lineamenti classici, quasi aristocratici della donna. Perchè ora capivo che erano quelli di una certa modella ateniese, molto famosa negli ultimi tempi! La terza moglie di Haggopian, che si era sposata con lui il giorno del proprio diciottesimo compleanno! E allora, mentre i miei vorticosi pensieri ritornavano ancora una volta alla seconda moglie, «bruciata in mare», seppi finalmente, traumaticamente, che cosa significavano le ultime parole dell'armeno: «C'è qualcuno che già mi attende, e qualcun altro che arriverà!». August Derleth
LA CASA NELLA VALLE Io, Jefferson Bates, rendo questa deposizione, in piena coscienza che, qualsiasi siano le circostanze, mi resta poco da vivere. Lo faccio per coloro i quali mi sopravvivevano e anche nel tentativo di discolparmi del crimine di cui sono stato accusato così ingiustamente. Un grande, anche se poco conosciuto, scrittore americano della tradizione del gotico, una volta ha scritto che «non c'è niente di più misericordioso al mondo dell'incapacità della mente umana di correlare i proprio concetti.» Eppure io ho avuto molto tempo per pensieri e riflessioni profonde, e ho raggiunto un ordine nei miei pensieri che, solo pochi anni fa, non avrei mai ritenuto possibile. Perché, naturalmente, è stato in quegli anni che è cominciato il mio «guaio». Lo metto tra virgolette perché non so ancora bene in quale altro modo potrei definirlo. Se devo fissare un giorno preciso, suppongo in tutta sincerità di poter dire che tutto cominciò il giorno in cui Brent Nicholson mi telefonò a Boston. Egli mi disse di aver scoperto e affittato per me proprio il luogo bello e isolato che stavo cercando allo scopo di lavorare ad alcuni dipinti, che avevo da molto tempo in mente. Era in una valle quasi nascosta, accanto ad un ampio corso d'acqua, non lontano dalla costa del Massachusetts, anche se abbastanza interno. Era vicino alle antiche colonie di Arkham e Dunwich, che ogni artista della regione conosce per le strane strutture dei tetti a spioventi asimmetrici, così piacevoli per gli occhi e così severe per lo spirito. In verità, esitai ad accettare la proposta. C'era sempre qualche mio collega artista che si fermava per qualche giorno ad Arkham, a Dunwich o a Kingston, ed erano proprio i miei colleghi che io cercavo di sfuggire. Ma, alla fine, Nicholson mi persuase e, dopo una settimana, mi trovai sul posto. Si rivelò essere una casa grande e antica, certamente della stessa epoca di molte delle costruzioni di Arkham. Era stata costruita in una piccola valle, che doveva essere fertile, ma che non mostrava alcun segno di coltivazioni recenti. La circondavano pini sparuti e, lungo un lato, scorreva un ruscelletto dalle acque limpide. Malgrado da lontano sembrasse graziosa, vista da vicino aveva tutt'altro aspetto. Prima di tutto, era dipinta di nero. E poi aveva un'aria spaventosa e severa. Tutt'intorno al pianterreno correva una stretta veranda che era stata riempita e stipata di sacchi di iuta legati con lo spago, di sedie sfasciate, di cassettoni, di tavole e di una varietà singolare di oggetti domestici di vecchio stile. Sembrava una barricata destinata a non fare uscire qualcuno o
qualcosa dalla casa oppure a non farlo entrare. La barricata doveva stare li da molti anni, perché mostrava di essere stata esposta alle intemperie per parecchio tempo. Il motivo di quella barricata era oscuro perfino all'agente immobiliare al quale scrissi per chiederlo. Comunque, dava alla casa l'aria stranissima di essere abitata, benché non ci fosse nessun segno di vita e tutto indicava che per anni e anni non l'aveva abitata nessuno. Ma questa sensazione non mi abbandonò mai. Era evidente che nessuno era entrato in casa, neppure Nicholson e l'agente immobiliare, perché la barricata impediva l'accesso sia alla porta principale che a quella sul retro, che avevano una struttura quadrata. Ed io, per poter entrare, dovetti rimuovere una parte della barricata. Una volta all'interno della casa, l'impressione che fosse abitata divenne più forte. Ma c'era una differenza: tutta la tetraggine delle mura esterne, dipinte di nero, era capovolta all'interno. Qui tutto era luminoso e sorprendentemente pulito, tenendo conto che era abbandonato da molti anni. Inoltre la casa era ammobiliata, in modo sommario, ma ammobiliata, mentre io avevo avuto la netta sensazione che tutto ciò che un tempo era stato all'interno, fosse stato accatastato sulla veranda esterna. L'interno della casa era a pianta quadrata così come appariva all'esterno. Al pianterreno c'erano quattro stanze: una camera da letto, una cucinadispensa, una camera da pranzo e un soggiorno. Al primo piano, c'erano altre quattro stanze delle stesse dimensioni: tre camere da letto e un ripostiglio. In tutte le stanze c'erano molte finestre, e soprattutto molte di esse erano esposte a nord, il che era piacevole, visto che la luce da nord è la migliore per dipingere. Il piano superiore non mi era di nessuna utilità, perciò scelsi la camera da letto, che dava a nord-est, come studio. Fu lì che misi le mie cose, senza tener conto del Ietto, che misi da una parte. Dopotutto, ero venuto per dipingere, e non per intrattenere rapporti sociali. Ero venuto provvisto di ogni cosa, e la mia auto era così carica che impiegai la maggior parte del primo giorno per scaricare e sistemare le mie cose. Passai il primo giorno anche a sgombrare l'accesso alla porta del retro, così come avevo sgomberato la principale, in modo da poter entrare facilmente in casa sia dal lato nord che dal lato sud. Una volta sistemato, con una lampada accesa contro le tenebre che avanzavano, presi la lettera di Nicholson e la rilessi, per capire meglio, ora che ero sul posto, le sue osservazioni a proposito della casa.
«Sarai veramente isolato. I vicini più prossimi abitano ad almeno un miglio di distanza. Sono i Perkins, che vivono sulla collina a sud. Non lontano abitano i More. Dall'altra parte, e cioè a nord, vivono i Bowder. «Il motivo del lungo abbandono di quella casa ti dovrebbe affascinare. La gente non vuole né affittarla né comprarla, perché un tempo è stata abitata da una di quelle famiglie strane che sono comuni nelle zone rurali oscure ed isolate. Era la famiglia Bishop, di cui l'ultimo membro vivente, una creatura scarna e sparuta di nome Seth, ha commesso un omicidio nella casa. È questo l'unico fatto che scoraggia i superstiziosi abitanti dall'usare sia la casa che il terreno che, come vedrai, se ti fosse utile, è ricco e fertile. «Anche un omicida potrebbe essere un artista creativo, a modo suo, ma temo che non sia il caso di Seth. Sembra sia stato brutale e che abbia ucciso senza nessun buon motivo un vicino, credo. Lo ha semplicemente squartato. Seth era un uomo molto forte. Mi dà i brividi di freddo, ma per te non sarà così. La vittima era un Bowden. «C'è un telefono, ed ho già ordinato di allacciare la linea. «La casa è anche fornita di impianto elettrico autonomo. Perciò non è antica come sembra. Anche se l'impianto è stato installato dopo molti anni dalla costruzione della casa. È nello scantinato, mi hanno detto. Può essere che ora non funzioni. «Non c'è l'impianto idrico, mi dispiace. Il pozzo dovrebbe essere in buone condizioni, e poi avrai bisogno di qualche esercizio fisico per mantenerli in forma. Non puoi mantenerti in forma, seduto ad un cavalletto. «La casa sembra più isolata di quanto sia in realtà. Se ti senti solo, telefonami.» L'impianto elettrico di cui scriveva, non funzionava. Le luci della casa erano morte. Ma il telefono era in funzione, come mi assicurai telefonando al villaggio più vicino, che era Aylesbury. Ero stanco quella prima notte, e andai a letto presto. Avevo portato, naturalmente, la mia biancheria, non sperando sulla fortuna di trovare qualcosa abbandonata da tanto tempo nella casa, e ben presto mi addormentai. Ma, ad ogni istante del mio primo giorno trascorso nella casa, ebbi la sensazione vaga e quasi intangibile che fosse occupata da qualcun altro oltre me. Sapevo quanto fosse assurda quest'impressione, perché avevo fatto un giro di tutta la casa e dei terreni annessi, non appena ero arrivato, e non avevo trovato nessun posto dove qualcuno potesse nascondersi. Ogni casa, e nessuna persona sensibile ha bisogno di sentirselo dire, ha
la propria atmosfera. Non è solo l'odore del legno, dei mattoni, della pietra antica o della vernice, no: è una specie di residuo lasciato dalle persone che vi hanno abitato e dagli avvenimenti che sono avvenuti tra le sue mura. L'atmosfera di Casa Bishop merita una descrizione. Vi era l'odore solito della vecchiaia, che mi aspettavo di sentire, e il lezzo di umidità, che proveniva dallo scantinato. Ma c'era qualcosa di più e di grande importanza. Qualcosa che dava alla casa stessa un'aura di vita, come se un animale addormentato stesse aspettando con pazienza infinita che ciò che doveva accadere, finalmente accadesse. Non era qualcosa, lasciatemelo dire subito, che creava inquietudine. In quella prima settimana non mi sembrò che ci fosse alcun motivo di paura o di timore. E non mi capitò di essere turbato fino ad una mattina della mia seconda settimana di soggiorno. Quella mattina avevo già completato due tele, e stavo lavorando all'esterno della casa al terzo dipinto. Ero conscio di essere osservato. Sulle prime mi dissi, scherzando, che la casa mi stava guardando, perché le finestre somigliavano ad occhi vacui che scrutassero dal nerume tetro delle mura. Ma ben presto capii che il mio osservatore era sul retro della casa e di tanto in tanto lanciavo degli sguardi verso i margini del boschetto, che si trovava a sud-est della casa. Alla fine localizzai l'osservatore nascosto. Mi girai verso i cespugli, dove era acquattato, e dissi: «Venite fuori, so che siete lì.» Al che, un giovane alto e lentigginoso si alzò e si mise a fissarmi con occhi scuri e duri, che avevano un'espressione sospettosa e ostile. «Buon giorno,» dissi. Egli annuì, senza dire niente. «Se sei interessato, avvicinati a dare un'occhiata,» dissi. Egli si sciolse un po' e uscì dai cespugli. Ora potevo vedere che aveva forse vent'anni. Indossava dei jeans ed era a piedi scalzi. Era un ragazzo agile e muscoloso, e senza dubbio rapido e attento. Si avvicinò quel tanto che bastava per vedere che cosa stessi facendo, e si fermò. Mi accordò un esame approfondito. Alla fine parlò. «Vi chiamate Bishop?» Naturalmente, i vicini potevano pensare che un membro della famiglia fosse partito da qualche angolo remoto della terra e fosse tornato a reclamare la proprietà abbandonata. Il nome di Jefferson Bates non gli avrebbe detto niente. Inoltre, ero stranamente riluttante a dirgli il mio nome, ma non riuscii a comprendere il perché. Gli risposi abbastanza gentilmente di
non chiamarmi Bishop, di non essere un loro parente, di aver solo affittato la casa per l'estate e forse per un mese o due dell'autunno. «Mi chiamo Perkins,» disse. «Bud Perkins. E abito lassù.» Indicò la collina che era a sud. «Lieto di conoscerti.» «Siete qui da una settimana,» continuò Bud, dandomi la prova che il mio arrivo non era passato inosservato nella valle, «e siete ancora qui.» C'era una sfumatura di sorpresa nella sua voce, come se il fatto che stessi ancora a Casa Bishop dopo una settimana, fosse di per sé strano. «Voglio dire,» continuò, «non vi è accaduto niente. Con tutte le cose brutte che sono accadute in questa casa, c'è da meravigliarsi.» «Quali cose brutte?», chiesi in tono aspro. «Non lo sapete?», chiese a bocca aperta. «So di Seth Bishop.» Scosse la testa vigorosamente. «E non è tutto, signore. Non metterei un piede in quella casa nemmeno se mi pagassero, e bene. Mi fa venire i brividi lungo la spina dorsale solo starle vicino.» Aggrottò le ciglia. «L'avrebbero dovuta bruciare molto tempo fa. Che cosa facevano quei Bishop tutta la notte?» «Sembra pulita,» dissi. «È abbastanza comoda. Non c'è nemmeno un topo.» «Ha! Ha! Se fosse solo per i topi! Aspettate e vedrete.» Dopodiché, si girò e scomparve nel bosco. Capii che dovevano essere nate molte superstizioni sulla casa abbandonata dei Bishop. Che cosa c'era di più naturale del pensare che fosse abitata dai fantasmi? Ciononostante, la visita di Bud Perkins mi aveva lasciato un'impressione sgradevole. Chiaramente, ero sotto osservazione segreta da quando ero arrivato. Capivo che i nuovi vicini sono sempre al centro degli interessi della gente, ma percepivo anche che l'interesse dei miei vicini, in questo posto isolato, non era assolutamente di questa natura. Si aspettavano che accadesse qualcosa, attendevano che avvenisse. E solo il fatto che non fosse ancora accaduto niente, aveva portato Bud Perkins da me. Quella notte, avvenne il primo «incidente» sinistro. Era possibile che i commenti ambigui di Bud Perkins mi avessero preparato al fatto che dovesse accadere qualcosa. In ogni caso, «l'incidente» fu così nebuloso da essere quasi inesistente, e ne sono possibili una dozzina di spiegazioni. È solo alla luce degli ultimi avvenimenti che me ne sono ricordato. Accadde forse alle due del mattino.
Fui svegliato da un rumore insolito. Ora, chi dorme in un posto nuovo, si abitua a poco a poco ai rumori notturni della zona e, una volta abituatosi, li accetta inconsciamente quando dorme, ma un qualsiasi rumore nuovo gli si impone. Proprio come un cittadino che, trascorrendo parecchie notti in una fattoria, si abitui ai rumori delle galline, degli uccelli, del vento e delle rane, ma si svegli al gracidare del rospo perché è un suono insolito, così anch'io mi svegliai sentendo un suono insolito nel coro di caprimulgi, gufi, e insetti notturni che assalivano la notte. Il nuovo suono era sotterraneo. Cioè sembrava provenire da sotto la casa, dalle profondità della terra. Avrebbe potuto essere un assestamento della terra, avrebbe potuto essere una fenditura che si apriva e si chiudeva, se non fosse stato per il fatto che andava e veniva con una certa regolarità. Sembrava che una cosa molto grande si muovesse lungo una caverna colossale, molto profonda al di sotto della casa. Il rumore durò forse mezz'ora. Sembrò avvicinarsi da est e svanire nella stessa direzione in una progressione di suoni abbastanza costante. Non potevo esserne certo, ma avevo la vaga impressione che la casa tremasse leggermente a quei suoni sotterranei. Forse fu questo avvenimento che mi spinse il giorno seguente a frugare nel ripostiglio nel tentativo di scoprire da solo che cosa aveva voluto intendere il mio vicino indiscreto con quelle domande e quelle allusioni ai Bishop. Che cosa faceva quella famiglia che i vicini giudicavano tanto malvagia? Il ripostiglio, comunque, era meno stipato di quanto mi fossi aspettato, forse perché molte cose erano state messe nella veranda. In realtà, l'unico fatto insolito che scoprii fu uno scaffale di libri, che evidentemente, qualcuno stava leggendo, quando la tragedia aveva distrutto la famiglia. Erano di vari generi. Forse, la maggior parte era costituita da testi di giardinaggio. Erano libri estremamente vecchi, ed erano stati abbandonati per molto tempo. Era probabile che fossero stati nascosti da un membro più anziano della famiglia Bishop, e che fossero stati ritrovati solo di recente. Ne sfogliai due o tre, e li trovai completamente inutili per un giardiniere moderno, poiché descrivevano metodi di coltivazione per delle piante che, per la maggior parte, non avevo mai sentito: elleboro, mandragora, belladonna, nocciolo della strega, e così via. E, le pagine dedicate a piante più familiari, erano piene di nozioni di un sapere tradizionale e superstizioso, che non avevano significato per nessu-
no in questo mondo moderno. C'era anche un libro, foderato di carta, dedicato al sapere tradizionale dei sogni. Non sembrava che fosse stato molto letto, benché fosse talmente impolverato e sfilacciato che era impossibile trarre una qualsiasi deduzione. Era uno di quei libri economici che erano popolari due o tre generazioni fa, e le interpretazioni dei sogni che contenevano, erano comunissime. Era, insomma, proprio il libro che ci si sarebbe aspettati scovasse un campagnolo piuttosto ignorante. In realtà, di tutti quei libri, uno solo mi interessò. Era un libro stranissimo. Era un volume monumentale, interamente manoscritto e rilegato a mano in legno. Benché fosse molto probabile che non avesse alcun valore letterario, avrebbe potuto stare in un museo di curiosità. Allora, feci un piccolo tentativo di leggerlo, perché sembrava contenere assurdità simili ai nonsense del libro dei sogni. Aveva un titolo impresso a rozze lettere, che indicava come la sua ultima fonte doveva essere stata una vecchia biblioteca privata: E un libro di Seth Bishop: Estratti dal «Necronomicon», dal «Cultes des Ghouls, dai «Manoscritti Pnakotici» e dal «Testo di R'lyeh». Copiato di sua mano da Seth Bishop, negli anni dal 1919 al 1923. In basso, in una grafia filiforme, che non sembrava potesse appartenere ad un uomo noto per la sua ignoranza, egli aveva scarabocchiato la propria firma. Inoltre, c'erano parecchie opere allegate al libro dei sogni. Una copia del noto Settimo Libro di Mosé, un testo molto apprezzato da certi vecchietti della regione degli stregoni, in Pennsylvania. Lo avevo appreso dalle cronache di un recente delitto tra gli stregoni. Poi c'era un sottile libro di preghiere, in cui le preghiere sembravano una presa in giro, perché erano tutte indirizzate ad Asraele, a Satana, e ad altri angeli caduti. Tra tutti i libri non c'era niente di valore, erano solo opere particolari e curiose. La loro presenza testimoniava solo la diversità degli interessi occulti di varie generazioni di Bishop. Infatti, era abbastanza evidente che il proprietario ed il lettore dei libri di giardinaggio doveva essere il nonno di Seth, mentre il proprietario del libro dei sogni e del testo stregonesco era probabilmente uno della generazione del padre di Seth. Lo stesso Seth sembrava essersi interessato alle scienze più occulte. Le opere da cui Seth aveva copiato, comunque, sembravano molto erudite. Non avrei mai creduto che un uomo dell'ignoranza di Seth le avrebbe mai consultate. Questo fatto mi lasciò perplesso e, alla prima occasione,
andai ad Aylesbury per prendere quante più informazioni potessi all'emporio, che si trovava alla periferia del villaggio. Infatti, pensavo che Seth probabilmente avesse fatto lì i suoi acquisti, visto che aveva avuto la fama di essere un misantropo. Il proprietario dell'emporio risultò essere un parente di Seth, da parte della madre. Sembrava restio a parlare di Seth ma, alla fine, mi rivelò qualcosa nelle sue risposte riluttanti alle mie domande insistenti. Da lui, che si chiamava Obed Marsh, appresi che Seth «all'inizio», cioè da bambino e da ragazzo, era stato «ritardato come tutti quelli della famiglia». Verso la ventina, era diventato «strano»: con quest'espressione Marsh voleva intendere che Seth si era dato ad una vita più solitaria. A quel tempo aveva spesso parlato di sogni strani e sconvolgenti che aveva fatto, di rumori che aveva udito, di visioni che aveva creduto di avere dentro e fuori la casa. Ma, dopo due o tre anni, Seth non aveva detto più nemmeno una parola su queste cose. Si era invece chiuso in una stanza del pianterreno, dove doveva essere il ripostiglio, a giudicare dalla descrizione di Marsh, e aveva letto tutto quello che poteva, nonostante egli non fosse mai «andato oltre la quarta elementare». In seguito, era andato ad Arkham, alla Biblioteca della Miskatonic University, per leggere altri libri. Dopo quel «periodo», Seth era tornato a casa e aveva condotto un'esistenza solitaria fino al momento in cui era esplosa la sua follia con l'orribile omicidio di Amos Bowden. Tutto ciò era troppo poco. Ottenni solo il racconto di una mente con poche attitudini all'apprendimento, che aveva cercato disperatamente di assimilare il sapere. Ma il peso delle nozioni apprese, infine aveva incriminato quella mente. Così almeno mi sembrava a quel punto del mio soggiorno in casa Bishop. II Quella notte gli avvenimenti ebbero una svolta singolare. Ma, come per molti altri aspetti di questa strana vicenda, non fui subito cosciente di tutte le implicazioni di ciò che era accaduto. Per dirla in parole povere, sembra assurdo che mi dovesse dare motivo di pensarci una seconda volta. Si trattò solo di un sogno che feci durante quella notte. Non fu un sogno particolarmente orrendo o spaventoso, piuttosto fu imponente ed impressionante. Sognai di essere addormentato a Casa Bishop e che, mentre dormivo,
una nube vaga e indefinibile ma potente, simile ad una nebbia, si formava nello scantinato e ne usciva. Fluttuava tra i pavimenti e le pareti, inghiottiva i mobili, ma non sembrava danneggiare né loro né la casa. Nel frattempo, aveva assunto la forma di una creatura enorme e amorfa, munita di tentacoli che partivano dalla sua testa mostruosa. Oscillava come un cobra avanti e indietro, e nel mentre lanciava uno strano ululato. Da qualche parte in lontananza un coro di strumenti soprannaturali suonava una musica ultraterrena e una voce umana cantava parole non umane, che, come appresi in seguito, si scrivevano così: Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtang. Alla fine la creatura amorfa fluttuò sempre più in alto e inghiottì il dormiente, che poi ero io stesso. Dopo di che sembrò dissolversi in un passaggio buio, lungo il quale arrivò ad un'andatura frenetica e folle un essere umano, che somigliava alle descrizioni che mi avevano fatto di Seth Bishop. Anche quest'essere diventava sempre più grande, finché raggiunse quasi le dimensioni della nebbia, e svanì nello stesso modo, venendo verso la figura stesa sul letto di quella casa della valle. Ora, a giudicare dalle apparenze, questo sogno non aveva nessun significato. Era un incubo, fuori d'ogni dubbio, ma non era spaventoso. Sembrava che fossi cosciente che qualcosa d'importanza tremenda mi stesse accadendo o dovesse accadermi ma, non comprendendolo, non potevo averne timore. Inoltre, la creatura amorfa, la voce che cantava, gli ululati e la strana musica, tutto contribuiva a dare al sogno un'imponenza rituale. La mattina, al risveglio, mi accorsi di poter facilmente ricordare il sogno, e fui ossessionato dall'impressione persistente che tutti i suoi particolari non mi fossero estranei. Da qualche parte avevo udito o visto l'equivalente scritto di quel canto fantastico. Con questo pensiero fisso nella mente, mi ritrovai nel ripostiglio a studiare attentamente il libro scritto nella grafia di Seth Bishop. Lessi a casaccio e scoprii con meraviglia che il testo riguardava un'antica fede religiosa negli Dei Maggiori e negli Antichi. Trattava di un conflitto tra loro, tra gli Dei Maggiori e creature quali Hastur, Yog-Sothoth e Cthulhu. Queste parole, alla fine, toccarono un tasto familiare e, continuando a crescere, scoprii il canto che avevo udito. Vi era allegata una traduzione di Seth Bishop: Nella sua casa a R'lyeh, il morto Cthulhu attende e sogna. Il fattore più sconvolgente di questa scoperta era che io certamente non avevo visto quel verso del canto, quando avevo esaminato la stanza. Avrei potuto vedere il
nome "Cthulhu", ma nient'altro in quell'occhiata di sfuggita dal manoscritto di Bishop. Allora come avrei potuto sognare una nozione che non faceva parte della mia riserva conscia o inconscia di conoscenze? Qualcuno crede che la mente possa riprodurre nel sogno o in qualche altra condizione esperienze che le siano completamente estranee. A me era successo così. Per di più, continuando a leggere quel testo su strane sopravvivenze e culti infernali, trovai descrizioni vaghe di un essere simile a quello che avevo sognato. E non era di nebbia, ma di materia solida. Era il secondo caso di riproduzione di qualcosa di completamente estraneo alle mie esperienze. Avevo sentito parlare di residui psichici, e cioè di energie residue, lasciate sulla scena di qualche avvenimento, sia che si trattasse di una grande tragedia, sia che si trattasse di un'esperienza emotiva potente, come al genere umano, come amore, odio, paura. Era possibile che qualcosa del genere avesse provocato il mio sogno, come se l'atmosfera della casa stessa avesse invaso e posseduto la mia mente dormiente. Non mi sembrava impossibile poiché sicuramente il fatto era insolito, e gli avvenimenti che avevano avuto luogo nella casa erano esperienze forti e impressionanti. Dopo di che, benché fosse l'una e il mio corpo sentisse l'esigenza di cibo, mi sembrò che il passo successivo da compiere alla ricerca del mio sogno, fosse nello scantinato. Così mi diressi lì immediatamente. La ricerca fu faticosissima, poiché incluse lo spostare dalle pareti file di scaffali, alcuni dei quali contenevano ancora vecchi vasi di conserve di frutta e di ortaggi. Ma, alla fine, scoprii un passaggio segreto che portava dallo scantinato ad una caverna, che percorsi in parte. Non andai molto lontano, perché l'umidità della terra che avevo sotto i piedi e il vacillare della mia lampada mi costrinsero a tornare indietro. Ma riuscii a vedere la testimonianza inquietante di ossa sparse, conficcate nella terra. Quando ritornai al passaggio sotterraneo, dopo aver rifornito la lampada, non me ne andai finché non mi fui accertato che le ossa erano di animali, perché chiaramente si trattava di più di un animale. Quello che mi sconvolgeva nel loro ritrovamento non era il fatto che stessero lì, ma la domanda inquietante su come vi fossero arrivate. Ma all'epoca non ci pensai molto. Mi interessava andare più avanti in quel tunnel, e lo feci. Avanzai in direzione del mare, così mi sembrava,
finché non rimasi bloccato da uno smottamento di terreno. Quando alla fine me ne andai dal tunnel, era pomeriggio avanzato, ed ero affamato. Ma ero certo di due fatti: il tunnel non era una caverna naturale, per lo meno non lo era a questa estremità: era chiaramente scavato dall'uomo, ed era stato usato per qualche scopo oscuro, di cui non potevo conoscere la natura. Per qualche ragione, queste scoperte mi riempirono di eccitazione. Se avessi avuto il pieno controllo su di me, non ho dubbi che avrei compreso che quest'eccitazione era insolita. Ma in quel momento, un mistero, che mi sembrava di grande importanza, mi fronteggiava e mi sfidava, e io ero deciso a scoprire tutto ciò che potevo su questa parte sconosciuta della proprietà Bishop. Ma non potevo farlo fino al giorno dopo e, per farmi strada nella caverna, avrei avuto bisogno di attrezzi che mi avevo ancora trovato nella proprietà. Un altro viaggio ad Aylesbury era inevitabile. Mi recai subito all'emporio di Obed Marsh e gli chiesi un piccone e delle pale. Per qualche ragione, questa richiesta sembrò sconvolgere l'uomo. Impallidì e indugiò a servirmi. «Dovete scavare, signor Bates?» Annui. «Non sono fatti miei, ma forse vi interesserà sapere che è ciò che Seth si mise a fare per un certo periodo. Consumò tre, quattro pale, scavando.» Si sporse verso di me, gli occhi dall'espressione assorta gli brillarono. «E la cosa più strana è che nessuno riuscii a scoprire dove stesse scavando. Non si vide mai da nessuna parte una pala piena di terreno.» Fui sorpreso da queste informazioni, ma non esitai. «Il terreno intorno alla casa sembra ricco e fertile», dissi. Sembrò sollevato. «Bene, se avete intenzione di fare giardinaggio, è tutta un'altra cosa.» Un altro dei miei acquisti sembrò sorprenderlo. Avevo bisogno di un paio di calosce per proteggere le scarpe dalla melma e da molte parti del pavimento del tunnel perché, senza dubbio, la vicinanza del ruscello provocava infiltrazioni. Ma Marsh non disse niente di quest'acquisto. Mentre stavo per andarmene, parlò di nuovo di Seth. «Avete sentito dire qualcos'altro, signor Bates?» «La gente di questa zona non parla molto.» «Non sono tutti Marsh», replicò, con un ghigno furtivo. «C'è qualcuno che dice che Seth era più un Marsh che un Bishop. I Bishop credevano nel-
la stregoneria e in cose del genere. Ma i Marsh non l'hanno mai fatto.» Con questa frase enigmatica che mi echeggiava nelle orecchie, me ne andai. Ormai pronto per andare nel tunnel, non vedevo l'ora che arrivasse il giorno dopo, in modo che potessi ritornare in quel posto sotterraneo e proseguire le mie esplorazioni in un mistero che doveva essere in relazione all'intera leggenda sulla famiglia Bishop. Gli avvenimenti ora si succedevano ad un ritmo incalzante. Quella notte accaddero altre due cose. La prima risvegliò la mia attenzione subito dopo l'alba, quando scorsi Bud Perkins acquattato all'esterno della casa. Ne fui contrariato oltre il necessario, forse perché mi stavo preparando a scendere nello scantinato. Proprio per lo stesso motivo, volevo sapere che cosa stesse facendo. Perciò aprii la porta e uscii nell'aia per affrontarlo. «Che cosa stai cercando, Bud?», chiesi. «Ho perso una pecora», mi rispose laconico. «Non l'ho vista.» «È venuta da questa parte», rispose. «Va bene, accomodati pure.» «Mi dispiace pensare che stia ricominciando tutto un'altra volta.» Disse. «Che cosa vuoi dire?» «Se non lo sapete, è meglio non dirvelo. Se lo sapete, è meglio che non dica niente, in ogni modo. Allora non parlerò.» Questa conversazione mi confuse e mi disorientò. Contemporaneamente, i sospetti evidenti di Bud Perkins che in qualche modo la sua pecora fosse finita nelle mie mani, erano irritanti. Ritornai indietro e spalancai la porta. «Guarda in casa se vuoi.» Ma, a quest'invito, sbarrò gli occhi per l'orrore. «Io mettere un piede lì dentro?», gridò. «Per nulla al mondo.» Aggiunse. «Sono l'unico che ha abbastanza spirito d'iniziativa da avvicinarsi a questo posto. Ma non entrerei lì dentro per tutti i soldi che mi potreste dare. Non io.» «Non c'è nessun pericolo», dissi, incapace di nascondere un sorriso davanti alla sua paura. «Forse voi la pensate così. Noi lo sappiamo meglio di voi. Sappiamo che cosa c'è che aspetta dentro queste mura nere: aspetta e aspetta che qualcuno arrivi. E ora siete arrivato voi. E ora le cose stanno ricominciando, proprio come prima.» Detto questo, si voltò e corse, scomparendo come la prima volta, nel bosco. Quando mi fui rassicurato che non sarebbe tornato indietro, rientrai in
casa. E allora feci una scoperta che avrebbe dovuto allarmarmi, ma che invece mi sembrò solo un po' insolita. È chiaro che dovevo essere in uno stato letargico, non ancora sveglio del tutto. Le scarpe nuove, che avevo comprato solo il giorno prima, erano state usate. Erano incrostate di fango, eppure sapevo che il giorno prima erano pulite e nuove. Vedendole, nella mia mente prese forma una convinzione crescente. Senza indossare le scarpe, scesi nello scantinato, aprii la parete che dava sul tunnel, e mi diressi rapidamente fino alla barriera del terreno. Forse avevo una premonizione di quello che avrei trovato, perché lo trovai. La barriera di terreno era stata parzialmente rimossa, abbastanza perché un uomo vi potesse strisciare attraverso. E le orme nella terra bagnata erano fatte chiaramente con le scarpe nuove, perché il marchio di fabbrica, stampato sulla suola, era visibile alla luce della mia lampada. Quindi mi trovai di fronte a due alternative: o qualcuno aveva usato le mie scarpe durante la notte per apportare quel cambiamento al tunnel, o io stesso nel sonno ero andato a lavorare. E non avevo dubbi che fosse vera quell'ultima ipotesi. Infatti, malgrado fossi desideroso ed impaziente, ero stanco in maniera tale che si poteva giustificare solo con l'aver trascorso gran parte delle mie ore di sonno a scavare nel blocco di terra, che si trovava nel passaggio. Ora non riesco a liberarmi dalla convinzione che perfino allora sapessi che cosa avrei trovato avanzando in quel tunnel. Altari antichi sorgevano nelle caverne sotterranee nelle quali sbucavano i tunnel. E c'erano le testimonianze di altri sacrifici: non solo di animali, questa volta, ma anche umani. All'estremità, l'ampia caverna si apriva verso il basso e si scorgeva il luccichio debole delle acque, che ondeggiavano con violenza dentro e fuori, attraverso qualche apertura più profonda. Era l'Oceano Atlantico, senza dubbi, che si era fatto strada fino a quel luogo attraverso caverne sottomarine che dovevano trovarsi lungo la costa. E dovevo avere anche una premonizione di ciò che avrei trovato ai margini di quell'ultima discesa negli abissi marini: i ciuffi di lana, uno zoccolo con un pezzo di zampa lacerata e rotta. Era tutto ciò che rimaneva di una pecora, ed era tutto fresco come la notte appena passata! Mi voltai e scappai, violentemente scosso, riluttante ad immaginare come la pecora fosse arrivata fino a lì. Ero certo che si trattasse dell'animale di Bud Perkins. E anch'esso era stato portato lì allo stesso scopo di quelle
altre creature di cui avevo visto i resti davanti agli altari oscuri e in rovina che si trovavano nelle caverne inferiori, in quel luogo dove c'era un movimento continuo tra le acque e la casa? Non indugiai a lungo in casa, ma mi diressi ad Aylesbury. In apparenza era un viaggio senza scopo ma, come ora sapevo bene, ero spinto dal bisogno di sapere di più di quelle leggende e di quelle superstizioni che si erano accumulate su Casa Bishop. Ma ad Aylesbury provai per la prima volta che cosa è la disapprovazione pubblica, perché la gente per strada distoglieva gli occhi da me e mi volgeva le spalle. Un giovane a cui avevo rivolto la parola, mi oltrepassò in fretta come se io non avessi affatto parlato. Perfino Obed Marsh aveva cambiato atteggiamento. Non fu restio a prendere i miei soldi, ma fu sgarbato e chiaramente desiderava che lasciassi il suo emporio il più velocemente possibile. Ma lì chiarii che non me ne sarei andato finché le mie domande non avessero avuto una risposta. Che cosa avevo fatto? Volevo sapere perché la gente mi evitava. «È quella casa», disse alla fine. «Io non sono la casa», ribattei, insoddisfatto. «Ci sono delle chiacchiere», disse allora. «Chiacchiere? Che genere di chiacchiere?» «Su voi e sulla pecora di Bud Perkins. Su quello che succedeva quando Seth Bishop era vivo.» Allora si sporse verso di me, con il volto scuro e accigliato, e sussurrò con durezza: «C'è qualcuno che dice che Seth è tornato.» «Seth Bishop è morto e bruciato molti anni fa.» Egli annuì. «Si certo, una parte di lui è morta. Ma un'altra parte forse non è morta. Vi dico che per voi la cosa migliore è scappare subito. Siete ancora in tempo.» In tono freddo, gli ricordai che avevo affittato Casa Bishop e avevo pagato il fitto per un minimo di quattro mesi, con la possibilità di rimanere un anno. Egli ammutolì e non disse più niente a proposito del mio soggiorno. Ciononostante, lo spinsi a darmi altri dettagli sulla vita di Seth Bishop. Ma, tutto quello che volle e poté dirmi, era solo un insieme di accenni vaghi e di sospetti indefiniti, che erano stati comuni a tutto il vicinato. Cosicché, alla fine, me ne andai con l'idea che Seth Bishop fosse stata non una persona da temere, ma piuttosto una persona da compatire. Era braccato in quella casa dalle mura nere come un'animale dai suoi vicini e dalla gente
di Aylesbury, che erano unanimi nell'odiarlo e nel temerlo, senza avere nemmeno un indizio che egli avesse commesso un crimine contro la sicurezza o la pace della regione. In effetti, che cosa aveva fatto Seth Bishop, oltre il crimine finale di cui era stata provata la sua colpevolezza? Aveva condotto una vita da recluso, abbandonando anche lo strano giardino dei suoi antenati. Aveva, certamente, voltato le spalle a quelli che si diceva fossero gli interessi sinistri del padre e del nonno nella magia e nell'occultismo. Invece, egli stesso aveva avuto un interesse ossessivo per un sapere molto più antico, che era ridicolo quanto la stregoneria. Ci si sarebbe aspettato che interessi del genere non variassero in aree così isolate e, soprattutto, in famiglie arretrate come quella dei Bishop. Forse, in qualche vecchio libro dei suoi antenati, Seth aveva trovato certi riferimenti oscuri, che l'avevano indirizzato alla Biblioteca della Miskatonic University. Lì, con l'interesse divorante che lo animava, si era assunto il compito monumentale di copiare una gran parte dei libri, che, presumibilmente, non poteva avere in prestito dalla Biblioteca. Il sapere tradizionale, che costituiva il suo interesse principale era, in effetti, una deformazione di autentiche leggende cristiane. Riducendolo ai termini più semplici, era il racconto di una lotta cosmica tra forze del bene e forze del male. Benché sia difficile da riassumere, sembrerebbe che i primi abitanti dello spazio esterno fossero alcuni grandi esseri, non di aspetto umano, che si chiamavano gli Dei Maggiori e vivevano su Betelgeuse, in tempi lontanissimi. Contro di loro si erano ribellati gli Antichi elementari, detti anche i Grandi Antichi. Erano Azathoth, Yog-Sothoth, l'anfibio Cthulhu, Hastur, simile ad un pipistrello, Lloigor, Zhar, Ithaqua - Colui che Cammina sui Venti - e gli esseri della terra, Nyarlathotep e Shub-Niggurath Ma, poiché la loro ribellione era fallita, erano stati scacciati ed esiliati dagli Dei Maggiori. Erano stati rinchiusi su pianeti e stelle lontane sotto il sigillo degli Dei Maggiori. Cthulhu era negli abissi marini, in un luogo noto come R'lyeh. Hastur si trovava su una stella nera vicino Aldebaran nelle Iadi. Ithaqua era tra i ghiacci dell'Artico, e altri ancora erano in un luogo detto Kadath nella Distesa Gelida, che esisteva in un tempo e in uno spazio contigui ad una parte dell'Asia. La ribellione iniziale seguiva fondamentalmente lo stesso schema della leggenda sulla ribellione di Satana e dei suoi seguaci contro gli Arcangeli
del Paradiso. Dopo la sconfitta, i Grandi Antichi avevano continuato a cercare di riacquistare il proprio potere per muovere guerra agli Dei Maggiori. Sulla terra e su altri pianeti erano nate sette di adoratori e di seguaci, come gli Abominevoli Uomini delle Nevi, i Dholes, i Profondi e molti altri. Tutti erano al servizio degli Antichi, e spesso riuscivano a rimuovere il Sigillo Maggiore per liberare le forze dell'antico male. Esso allora doveva essere rimesso a posto dall'intervento diretto degli Dei Maggiori o dall'azione attenta di esseri umani che erano armati contro gli Antichi. Questo era il riassunto di ciò che Seth Bishop aveva copiato da libri molti antichi e molto rari, la maggior parte dei quali erano ripetitivi e rivelavano una fantasia sfrenata. In verità, erano allegati al manoscritto dei ritagli di giornali che erano abbastanza sconvolgenti. Parlavano di ciò che era successo alla Scogliera del Diavolo, al largo di Innsmouth nel 1928; di un probabile serpente marino nel Rick's Lake, nel Wisconsin; di un avvenimento terribile, accaduto nei pressi di Dunwich, e di un altro accaduto tra le montagne del Vermont. Ma tutti questi fatti mi sembravano solo coincidenze, aldilà di ogni dubbio. E, anche se era vero che non c'era nessuna spiegazione per il passaggio sotterraneo verso la costa, io ero certo che fosse l'opera di qualche lontano antenato di Seth Bishop. Egli se ne era appropriato per i suoi scopi solo molto più tardi. Da tutto ciò emergeva il ritratto di un uomo ignorante che sforzava di migliorarsi nei campi che lo attiravano. Poteva essere stato credulone e superstizioso e, alla fine, forse anche squilibrato, ma certamente non era malvagio. III Fu circa in questo periodo che presi coscienza di un'allucinazione stranissima. Mi sembrava che nella casa della valle ci fosse qualcun altro, un essere umano estraneo che non aveva niente a che fare con la casa, ma che si era intrufolato dall'esterno. Benché la sua occupazione fosse dipingere quadri, ero certo che fosse venuto a spiare. Ebbi solo delle visioni fugaci dell'intruso: lo intravidi riflesso in uno specchio o nel vetro di una finestra, quando anch'io mi trovavo nelle vicinanze. Ma, nella stanza a nord del pianterreno, trovai la prova del suo lavoro: una tela non terminata sul cavalletto, e parecchi dipinti completati.
Non avevo tempo di mettermi alla sua ricerca, perché Colui che era in basso mi comandava, e ogni notte scendevo con il cibo, non per lui, perché egli divorava ciò che nessun uomo mortale conosce, ma per quelli delle profondità che lo accompagnavano. Essi arrivavano nuotando dall'abisso della caverna, e mi apparivano come grottesche parodie, nate da uomini e da batraci. Avevano mani e piedi palmati, branchie e bocche larghe da rana. I loro occhi grandi e fissi erano fatti per vedere nei recessi più bui dei mari che circondavano il luogo dove Egli dormiva, aspettando di sorgere e ritornare a prendere possesso del proprio reame. Il suo reame era sulla Terra, nello spazio e nel tempo che circondano questo pianeta, ed egli era stato il Signore di tutti gli altri fino al giorno della sconfitta. Forse questo era il risultato del mio ritrovamento casuale del vecchio diario, che ora mi ero dedicato a leggere, come se fosse un libro che conservassi gelosamente fin dall'infanzia. L'avevo trovato per caso nello scantinato, ammuffito e rovinato per essere stato a lungo nascosto. Ed era una fortuna, perché vi erano scritte cose che nessun estraneo avrebbe dovuto leggere. Le prime pagine mancavano, perché erano state strappate e bruciate in un attacco di paura, prima che subentrasse la fiducia in sé. Ma tutte le altre erano ancora nel diario, ed erano di facile lettura nella loro grafia filiforme... «8 giugno. Sono andato al luogo dell'appuntamento alle otto, trascinando il vitello dei More. Ho contato quarantadue Profondi. C'era anche un altro, che non era dei loro, e somigliava ad un polipo. Sono rimasto tre ore.» Questa fu la prima annotazione che lessi. Dopodiché le annotazioni erano simili; parlavano di viaggi sotto terra fino agli abissi delle acque, di incontri con i Profondi e, di tanto in tanto, di incontri con altri esseri acquatici. Nel settembre di quell'anno, una catastrofe... «21 settembre. Gli abissi sono affollati. Sono venuto a sapere che è accaduto qualcosa di terribile alla Scogliera del Diavolo. Uno dei vecchi pazzi di Innsmouth ha tradito, e i Federali sono arrivati con sottomarini e navi per far esplodere la Scogliera del Diavolo e il porto di Innsmouth. I Marsh sono andati via, quasi tutti. Molti dei Profondi sono stati uccisi. Le bombe di profondità non hanno raggiunto R'lyeh, dove Egli vive sognando... «22 settembre. Molti resoconti da Innsmouth. Sono stati uccisi 371 Pro-
fondi. Molti sono stati portati via da Innsmouth, tutti quelli traditi dal loro «aspetto alla Marsh.» Uno di loro ha detto che tutti i sopravvissuti della famiglia Marsh sono fuggiti a Ponape. Tre Profondi sono venuti da quel posto. Dicono di ricordare che il vecchio Capitano Marsh veniva qui e il patto che fece con loro. Egli sposò una di loro, ed ebbe un figlio che era un incrocio tra un uomo e una Profonda, e così tutta la famiglia Marsh fu contaminata per sempre. Ricordano che le pecore dei Marsh crescevano bene e che tutti i loro affari nel commercio marittimo avevano un successo che superava le aspettative più ottimistiche. Divennero ricchi e potenti, la più ricca di tutte le famiglie di Innsmouth, dove si erano trasferiti. Essi di giorno vivevano nelle case e di notte si tuffavano in mare per stare con gli altri Profondi al largo della Scogliera. Le case dei Marsh ad Innsmouth sono state bruciate. Quindi i Federali lo sapevano. Ma i Marsh torneranno, dicono i Profondi, e tutto ricomincerà fino al giorno in cui il Grande Vecchio risorgerà. «23 settembre. Distruzione terribile ad Innsmouth. «24 settembre. Passeranno anni prima che i posti di Innsmouth siano di nuovo pronti. Aspetteranno il ritorno dei Marsh.» Potevano dire tutto quello che volevano di Seth Bishop. Ma non era uno stupido. Questo era il diario di un autodidatta. Tutto quello studio alla Miskatonic non era stato inutile. Era l'unico della regione di Aylesbury a conoscere che cos'era nascosto nelle profondità dell'Atlantico, al largo delle coste, nessun altro aveva il benché minimo sospetto... Questi erano i miei pensieri, le preoccupazioni delle mie giornate trascorse a Casa Bishop. Così pensavo. Così vivevo, e la notte? Una volta che le tenebre calavano sulla casa, divenivo più acutamente cosciente che qualcosa incombeva. Ma, in qualche modo, la memoria rifiutava ciò che doveva essere accaduto. Poteva essere diversamente? Sapevo perché i mobili erano stati spostati sulla veranda. I Profondi avevano cominciato a percorrere il passaggio verso la superficie e a salire in casa. Erano anfibi. Avevano portato i mobili fuori per mancanza di spazio e Seth non li aveva più riportati dentro. Ogni volta che lasciavo la casa per andare da qualche parte, mi sembrava di nuovo di vedere la cosa nella sua giusta prospettiva, il che non mi era possibile quando ero dentro. L'atteggiamento dei miei vicini era ora minaccioso. Non solo Bud Perkins veniva a vedere la casa, ma anche alcuni dei Bo-
wdens e dei More, e altri che venivano da Aylesbury. Lasciavo entrare, senza dir niente, tutti quelli che volevano farlo. Ma Bud non voleva, e nemmeno i Bowden. Ma gli altri cercavano invano ciò che si aspettavano di trovare e non trovavano. E che cosa si aspettavano di trovare? Certamente non le mucche, le galline, i maiali e le pecore, che essi dicevano che erano stati presi. Che cosa me ne sarei dovuto fare? Mostravo loro in che modo frugale vivessi, ed essi guardavano i quadri. Ma tutti andavano via risentiti, scuotendo il capo, non convinti. Potevo fare di più? Sapevo che mi evitavano e mi odiavano, e che si mantenevano a distanza dalla casa. Ma, ciononostante, mi disturbavano e mi preoccupavano. C'erano mattine in cui mi svegliavo all'una, ed ero esausto, come se non avessi affatto dormito. La cosa più preoccupante di tutte era che spesso mi trovavo vestito, anche se sapevo di essere andato a letto svestito. E trovavo i miei vestiti e le mani macchiati di sangue. Di giorno avevo paura di ritornare nel passaggio sotterraneo, ma un giorno mi forzai a farlo. Scesi con la mia torcia, ed esaminai il pavimento del tunnel con attenzione. Dovunque la terra fosse soffice, trovai le impronte di molti piedi, che andavano avanti e indietro. La maggior parte erano impronte umane, ma ce n'erano altre inquietanti: erano le tracce di piedi nudi con le dita dei piedi indistinte, come se fossero palmate! Confesso che distolsi la luce da quelle impronte, tremando. Quello che vidi ai bordi degli abissi colmi di acqua mi fece scappare via lungo il passaggio. Qualcosa si era arrampicato ed era uscito fuori dalle profondità. Le tracce erano chiaramente visibili e comprensibili, e ciò che vi era avvenuto non era difficile da immaginare. Infatti, le prove vi erano disseminate in muti resti che biancheggiavano nel fascio della torcia! Sapevo che non sarebbe passato molto prima che la rabbia dei vicini superasse i limiti. Non era possibile trovare pace in quella casa, né, in realtà, nella valle. Vecchi odi, vecchie inimicizie persistevano, e prosperavano in quel luogo. Ben presto persi il senso del tempo. Vivevo in un altro mondo, perché la casa nella valle era certamente il punto focale per entrare in un altro reame dell'essere. Non so quanto tempo avessi trascorso nella casa, forse sei settimane, forse due mesi, quando un giorno lo Sceriffo della Contea, accompagnato da due dei suoi Vice, arrivò con un'espressione torva sul volto a casa, con
un mandato di arresto per me. Spiegò che non desiderava usare il mandato ma, comunque, desiderava interrogarmi, e se non seguivo lui e i suoi uomini spontaneamente, non avrebbe avuto altre alternative che usare il mandato. Mi confidò che il mandato era basato su un'accusa grave, la natura della quale gli sembrava esagerata e del tutto immotivata. Lo seguii abbastanza di buon grado per tutta la strada fino ad Arkham. In quella città antica, dai tetti a spioventi asimmetrici, mi sentii stranamente a mio agio e privo di timori per quello che stava per accadere. Lo Sceriffo era una persona amabile che era stata portata a quell'atto, non ne avevo il minimo dubbio, dai miei vicini. Aveva quasi l'aria di scusarsi, quando mi trovai seduto di fronte a lui nel suo ufficio, mentre uno stenografo prendeva appunti. Cominciò chiedendomi se ero uscito dalla casa due notti prima. «Per quanto ne sappia, non sono uscito,» risposi. «Sarebbe difficile che usciste di casa senza saperlo.» «Se camminassi nel sonno, sarebbe possibile.» «Avete l'abitudine di camminare nel sonno?» «Prima di venire qui, non l'avevo. Adesso non lo so.» Mi fece delle domande che apparentemente non avevano senso, girando sempre intorno al punto centrale della sua missione. Ma ben presto emerse. Era stato visto un essere umano alla testa di un gruppo di animali guidare il branco all'attacco di una mandria di cavalli che erano ad un pascolo notturno. Due dei cavalli erano stati letteralmente squartati. I cavalli appartenevano al giovane Sereno More, ed era stato egli che mi aveva accusato, istigato da Bud Perkins, che era anche più insistente di Sereno. Ora che mi aveva detto qual'era l'accusa, la cosa sembrava ancora più ridicola. Egli evidentemente aveva quest'impressione, perché assunse un'aria ancora più di scusa. A stento mi trattenevo dal ridere. Quali motivi avrei potuto avere per compiere un'azione così folle? E quali «animali» avrei potuto guidare? Non ne possedevo nessuno, nemmeno un cane o un gatto. Ciononostante, lo Sceriffo fu gentilmente insistente. Come mi ero fatto quei graffi che avevo sulle braccia? Mi sembrò di notarli per la prima volta, e li fissai con aria pensierosa. Ero stato a raccogliere le bacche? L'avevo fatto, e glielo dissi. Ma aggiunsi anche di non riuscire a ricordarmi di essermi graffiato. Lo Sceriffo sembrò sollevato a questa risposta. Mi confidò che il pasco-
lo, dove erano stati attaccati i cavalli, era delimitato da un lato da una siepe di bacche. E si sarebbe certamente notato il fatto che io avessi le braccia graffiate, ed egli non poteva ignorarlo. Ciononostante, sembrò soddisfatto. E poiché era soddisfatto che non avessi mentito, divenne più loquace. Così venni a sapere che in precedenza era accaduto un caso simile. Quella volta, l'accusato era Seth Bishop ma, come ora, l'accusa era finita nel niente. Casa Bishop era stata perquisita, non era stato trovato niente, e l'attacco era così infondato e immotivato che nessuno avrebbe potuto essere messo sotto processo sulla base di sospetti, comunque oscuri, dei vicini. Gli assicurai che ero disposto a farmi perquisire la casa, ed egli sogghignò e mi disse amichevolmente che era già stata perquisita dal tetto fino allo scantinato mentre ero con lui, e ancora una volta non era stato trovato niente. Eppure, quando ritornai alla casa nella valle, ero a disagio e preoccupato. Cercai di restare sveglio e di attendere gli eventi, ma non ci riuscii. Mi addormentai, non in camera da letto, ma nel ripostiglio, mentre studiavo attentamente quel libro strano e terribile, scritto da Seth Bishop. Quella notte sognai di nuovo, per la prima volta dopo quel mio primo sogno. E di nuovo sognai un essere enorme e amorfo che emergeva dall'abisso marino, che era nella caverna aldilà del passaggio sotterraneo. Ma questa volta non era di nebbia, questa volta era orribilmente reale. Era fatto di una carne che sembrava formata di rocce antiche, una montagna di materia sormontata da una testa senza collo, dai margini inferiori della quale partivano grandi tentacoli contorti a spirale, che raggiungevano una lunghezza singolare. L'essere emerse dalle acque, mentre intorno ondeggiavano i Profondi in un estasi di adorazione e di sottomissione. E di nuovo, come la prima volta, si udì la musica bella e soprannaturale che lo accompagnava. E mille gole di batrace urlarono stridule «Iä! Iä! Cthulhu fhtagn!», in tono di adorazione. E di nuovo si udì il rumore di passi al di sotto della casa, nelle viscere della terra... A questo punto mi svegliai e, con mio grande terrore, udii ancora i passi sotterranei, e sentii che la casa e la valle tremavano. Udii in lontananza quella musica incredibile svanire nelle profondità al di sotto della casa. Terrorizzato, corsi e schizzai fuori, correndo alla cieca per allontanarmi. Ma fu solo per trovarmi di fronte ad un altro pericolo.
Bud Perkins stava lì, con il fucile puntato contro di me. «Dove credi di andare?», domandò. Smisi di correre, non sapendo che cosa dire. Dietro di me, la casa era silenziosa. «Da nessuna parte,» dissi alla fine. Poi la mia curiosità ebbe il sopravvento sull'avversione che provavo per quel vicino e gli chiesi: «Hai sentito qualcosa, Bud?» «Tutti lo sentiamo, una notte dopo l'altra. Ora facciamo la guardia ai nostri animali. Dovete saperlo. Non abbiamo l'intenzione di sparare, ma se saremo costretti lo faremo.» «Non sono affari miei,» dissi. «Non lo sono di nessun altro,» rispose laconico. Sentii la sua animosità. «Era così, quando Seth Bishop era vivo. Non siamo sicuri che non sia ancora qui.» Sentii uno strano gelo avvolgermi a queste parole, e in quel momento, la casa a cui davo le spalle, nonostante i suoi terrori indistinti, mi sembrava più invitante dell'oscurità esterna. Nel buio Bud e gli altri vicini stavano in guardia con delle armi più letali di ciò che avrei potuto trovare tra quelle mura nere. Forse anche Seth Bishop si era scontrato con un astio del genere. Forse i mobili non erano mai stati riportati in casa perché costituivano una barriera contro le pallottole. Mi voltai e tornai a casa, senza aggiungere una parola. Dentro, ora era tutto tranquillo. Non c'era nessun rumore. In precedenza avevo pensato che fosse un po' insolito che nella casa disabitata non ci fossero tracce di topi e di ratti, sapendo quanto velocemente quei piccoli animali invadano le case. Ora sarei stato felice di sentire il rumore delle loro corse e i loro squittii. Ma non si sentiva niente, solo un silenzio mortale e significativo, come se la stessa casa sapesse di essere accerchiata da uomini feroci e decisi, armati contro un orrore che non potevano conoscere. Era tardi, quando alla fine andai a dormire. IV Il mio senso del tempo non era efficace in quelle settimane, come ho già scritto. Se la mia memoria non mi inganna, dopo quella notte ci fu un peri-
odo di calma di circa un mese. Scoprii che, a poco a poco, i guardiani erano stati ritirati. Rimaneva solo Bud Perkins, che, notte dopo notte, stava ferocemente di guardia. Fu almeno cinque settimane dopo, che una notte mi svegliai e mi ritrovai al passaggio sotterraneo intento a camminare verso lo scantinato: provenivo dall'abisso spalancato alla sua estremità. Mi aveva svegliato un rumore a cui non ero abituato. Era un urlo che poteva provenire solo da una gola umana: lo sentivo alle mie spalle. Ascoltai, agghiacciato dall'orrore, eppure ancora in uno stato letargico. Intanto l'urlo aumentava e diminuiva d'intensità e, alla fine, fu interrotto orribilmente. Rimasi a lungo in quel luogo, incapace di andare né avanti né indietro, aspettando che quel suono spaventoso ricominciasse. Ma l'urlo non ritornò e, alla fine, ritornai nella mia stanza e caddi esausto sul letto. La mattina seguente mi svegliai con la premonizione di ciò che sarebbe accaduto. E, a metà mattina, accadde. Arrivò una folla inferocita di uomini e di donne, la maggior parte di cui era armata. Per fortuna, erano capeggiati da un Vice-Sceriffo, che dava loro un'apparenza di ordine. Benché non avessero un mandato di perquisizione, pretesero di perquisire la casa. Di fronte ad un simile stato d'animo, sarebbe stato folle impedirlo, perciò non feci nessun tentativo di resistenza. Uscii fuori e lasciai la porta aperta per loro. Invasero la casa, e li potevo sentire andare da una stanza all'altra, scendere e salire le scale, spostando e gettando tutto per aria. Non protestai, perché ero affidato alla guardia di tre uomini, uno dei quali era il bottegaio di Aylesbury, Obed Marsh. Alla fine, fu a lui che mi rivolsi con la voce più calma possibile. «Potrei sapere che cosa sta succedendo?» «Volete dire che non lo sapete?» «Non lo so.» «Il figlio di Jared More è scomparso la notte scorsa. Stava tornando a casa da una festa della scuola e doveva percorrere un tratto di strada. Deve essere passato di qui.» Non avevo niente da dire. Era evidente che credevano che il ragazzo fosse sparito nella casa. Per quanto volessi protestare, non riuscivo a liberarmi dal ricordo di quell'urlo terribile che avevo udito nel tunnel. Non sapevo chi aveva urlato e ora sapevo di non volerlo scoprire. Ero quasi certo che non avrebbero trovato l'ingresso del tunnel, perché era perfettamente nascosto dietro la scaffalatura nello spazio ristretta dello
scantinato. Ma, da quel momento in poi, mi sentii, torturato dall'incertezza, perché avevo pochi dubbi su quello che mi sarebbe successo, se per caso avessero trovato nell'edificio qualcosa che apparteneva al ragazzo scomparso. Ma di nuovo la Provvidenza misericordiosa intervenne per evitare qualsiasi scoperta, se ce ne fosse stata qualcuna da fare. Osai sperare che i miei timori fossero infondati. In verità, io non lo sapevo, ma dubbi orribili cominciavano ad assalirmi. Come ero arrivato nel tunnel? E da dove venivo? Quando mi ero svegliato, mi ero trovato sulla via del ritorno dalla caverna dove era l'abisso marino. Che cosa avevo fatto lì? E avevo lasciato qualcosa dietro di me? A due tre persone alla volta, la gente uscì dalla casa, a mani vuote. Non erano meno inferociti, meno adirati, ma erano un po' dubbiosi e disorientati. Se si erano aspettati di trovare qualcosa, erano stati amaramente delusi. Se il ragazzo scomparso non era stato preso a Casa Bishop, non sapevano più immaginare dove potesse essere finito. Spinti dallo Sceriffo, che li aveva fatti ritirare, lasciarono la casa e cominciarono ad allontanarsi, tranne Bud Perkins e un gruppetto di uomini altrettanto feroci, che restarono a fare la guardia. Poi, per qualche giorno, fui cosciente dell'astio soffocante che era indirizzato contro Casa Bishop e il suo unico abitante. Dopodiché, subentrò un periodo di calma relativa. E poi, quell'ultima notte tragica! Tutto cominciò con i lievi segni di un'attività sotterranea. Suppongo che il mio sub-cosciente avvertisse i movimenti, prima che essi arrivassero alla mia coscienza. In quel momento stavo leggendo il manoscritto infernale di Seth Bishop. Leggevo una pagina dedicata agli schiavi del Grande Cthulhu, i Profondi, che divoravano animali a sangue caldo, essendo essi stessi a sangue freddo. Così diventavano più grossi e più forti con quello che sembrava una specie di cannibalismo pagano. Stavo leggendo queste cose, dicevo, quando, senza alcun preavviso, divenni cosciente di quell'attività sotterranea. Sembrava che la terra stessa si fosse animata, tremando debolmente, ritmicamente. Subito dopo, cominciò una musica debole e lontana, simile a quella che avevo udito durante il mio primo sogno in quella casa. Proveniva da strumenti ignoti agli uomini, ma che somigliavano a flauti o pifferi suonati in coro e accompagnati di tanto in tanto da un ululato, che proveniva dalla gola di qualche essere vivente.
Non so descrivere adeguatamente l'effetto che ebbe su di me. In quel momento ero assorbito da un racconto che era chiaramente in relazione agli eventi delle settimane precedenti ed ero, per così dire, già preparato ad un caso simile. Ma il mio era uno stato di esaltazione ed ero pieno di un'urgenza irresistibile di alzarmi e servire Lui che sognava nelle profondità. Quasi come in sogno, spensi la luce nel ripostiglio, e scivolai fuori nelle tenebre, pieno di cautela per i nemici che aspettavano al di là delle mura. La musica era ancora troppo debole per essere udita al di fuori della casa. Non avevo modo di sapere per quanto tempo sarebbe rimasta così debole. Perciò avevo fretta di fare ciò che si aspettava che io facessi, prima che i nemici si accorgessero che gli abitanti dell'abisso marino sotterraneo stavano di nuovo salendo verso la casa della valle. Ma non mi diressi verso lo scantinato. Come se esistesse un piano preordinato, scivolai fuori attraverso la porta del retro e, nell'oscurità, mi diressi furtivamente verso il riparo che mi offrivano alberi e cespugli. Lì cominciai ad avanzare lento ma furtivo. Da qualche parte lassù Bud Perkins faceva la guardia... Non posso essere certo di quello che successe in seguito. Tutto il resto fu un incubo, non c'è dubbio. Prima che raggiungessi Bud Perkins, risuonarono due colpi di fucile. Era il segnale per gli altri di venire. Ero a meno di mezzo metro da lui, celato dall'oscurità, e i suoi spari mi sconvolsero. Anch'egli aveva udito i rumori che provenivano dal basso, perché ora li sentivo anch'io nell'oscurità. Fino a questo punto riesco a ricordare tutto con chiarezza. Ciò che successe dopo quel momento mi sfugge perfino ora. Certamente arrivò la folla inferocita, e se non ci fossero stati anche gli uomini dello Sceriffo, io non sarei qui a dare questa deposizione. Ricordo la folla urlante e furiosa. Ricordo che appiccarono il fuoco alla casa. Ero ritornato lì, e corsi fuori, sfuggendo alle fiamme. Guardando la casa, non vidi solo le fiamme, ma anche i Profondi che lanciavano grida acute, cadendo vittime delle fiamme e del terrore. Infine quell'essere enorme si sollevò dalle fiamme agitando i tentacoli, poi ricadde all'indietro, consolidandosi in una grande colonna sinuosa di carne, e svanì senza lasciar traccia! Fu allora che qualcuno tra la folla lanciò della dinamite nella casa in fiamme. Ma, prima ancora che l'eco dell'esplosione svanisse, udii, insieme a tutti coloro che circondavano i resti di Casa Bishop, quel canto, «Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah' nagl
fhtagn!». Annunciava a tutto il mondo che il Grande Cthulhu sognava ancora nel suo rifugio subacqueo di R'lyeh! Hanno detto che ero accucciato accanto ai resti straziati di Bud Perkins, ed hanno accennato a cose orribili. Eppure devono aver visto, proprio come ho visto io, la cosa che si contorceva tra le rovine in fiamme. Ma negano che vi fosse nient'altro, oltre me. Quello che affermano che io ho fatto è troppo orribile da ripetere. È una finzione dei loro cervelli malati e pieni di odio, perché sicuramente non possono negare l'esperienza dei loro sensi. Hanno testimoniato contro di me in tribunale e hanno deciso la mia sorte. Devono capire che non sono stato io a fare quelle cose! Devono sapere che è stata la forza vitale di Seth Bishop a invadermi e a impossessarsi di me. Egli ha ripristinato quel collegamento sacrilego con quelle creature delle profondità. Portava loro da mangiare, quando aveva ancora un corpo, e li serviva, proprio come fanno i Profondi e innumerevoli altri che sono sparsi su tutta la terra. È stato Seth Bishop, e non io, a fare quelle cose alle pecore di Bud Perkins, al figlio di Jared More, e tutti quegli animali scomparsi e infine a Bud Perkins, malgrado egli abbia fatto creder loro che sia stato io. Io non ho potuto fare cose simili, è stato Seth Bishop che è tornato dall'Inferno per servire di nuovo quegli esseri orribili che arrivavano all'abisso sotterraneo dalle profondità marine. Seth Bishop scoprì la loro esistenza e li invitò. Visse per servirli, durante la sua vita e durante la mia. Egli forse ancora si nasconde nelle profondità della terra, al di sotto di quel luogo dove sorgeva la casa e aspetta un altro corpo di cui impossessarsi per poter servire loro nei tempi futuri, per sempre. DOCUMENTI Domenico Cammarota GLI PSEUDOBIBLIA DI CTHULHU Tutti gli appassionati dei «Miti di Cthulhu», prima o poi, nel corso delle loro letture, si saranno sicuramente trovati di fronte a delle descrizioni più o meno sibilline di strani libri, dai titoli spesso impronunciabili; libri segreti, di scarsa reperibilità, dal contenuto osceno e blasfemo, il più delle
volte scritto in lingue morte o sconosciute. Tutta questa vasta congèrie di materiali, formante una ideale «Biblioteca di Cthulhu» (così come la collana che avete fra le mani, che ne è lo sviluppo... sul piano del reale), si può efficacemente etichettare sotto la definizione di pseudobiblia, libri cioè immaginari, creati da vari autori con il solo scopo del puro artificio narrativo. Non si tratta, a ben vedere, di qualcosa di particolarmente strano; dopotutto, non è la narrativa in toto ad essere finzione? E tutti i personaggi di tutti i libri esistenti, non sono anch'essi il frutto dell'immaginazione? Ecco quindi già una prima, basilare giustificazione alla costruttiva finzione creata dai nostri pseudobiblia. Ma, certamente, questa definizione primaria, un po' semplicistica, nasconde ben altre complessità nelle sue strutture interne, occulte e palesi! Proponiamo quindi una catalogazione ben più articolata delle definizioni di pseudobiblium, suddivisa in quattro categorie fondamentali, a loro volte suscettibili di ulteriori definizioni microstrutturali, e così via, ad libitum... 1) Libri che sono esistiti, ma che oggi non esistono più; (Per dispersione, distruzione, perdita, ecc.) 2) Libri che non sono mai esistiti, ma che potrebbero esistere; (Per ricostruzione apocrifa, giochi di citazione, ecc.) 3) Libri che esistono, ma è come non esistessero; (Per irreperibilità, estrema rarità, censure, ecc.). 4) Libri che esisteranno, ma che ora non esistono. (Work in progress, lavori in nuce, non ancora attuali, ecc.). È ovvio che con questo sistema intrecciato, i libri della categoria 1 possono scivolare nella categoria 3, poiché è sempre probabile, prima o poi, che qualche singolo esemplare esca fuori dal dimenticatoio dei secoli, pronto ad essere (ristampato e diffuso; così come i libri della categoria 2 possono scivolare nella categoria 4, dato che è possibilissimo che qualcuno, oggi, (ri)scriva dei testi immaginari, dando così loro una patina di legittimazione su carta... Stando così le cose, bisogna forzosamente riconsiderare tutte le precedenti nozioni qualificanti di libro e non-libro, di tradizione orale e di tradizione scritta, poiché, in questo modo, nessun pseudobiblium in senso stretto è mai esistito, esiste, o esisterà; quantificati nella dimensione del tuttopossibile, immersi nel magma primevo - solo apparentemente decrittato come labile fola nel «Brodo Primordiale» - dell'immaginario cultura-
le, a sua volta interdipendente dai meccanismi a volte davvero criptici dell'industria culturale, non possiamo che constatare l'implosione del reale, o meglio, la vera e propria distruzione della realtà effettuata da questi materiali eterocliti. Con ciò, non intendiamo certamente riferirci all'ipotetico - e tutto da dimostrare - valore sovversivo di questi pseudobiblia, ma proprio alla loro essenza; pericolosi non in quanto tali, ma in quanto germi di un altra realtà che non è parallela o alternativa alla nostra, ma semplicemente conglobante, effimera e durevole allo stesso tempo... Quante volte si è discusso sui testi sul valore testuale di questi e altri libri, esistenti o meno! Diciamo una buona volta che tutte queste ipotesi, sia pure rispettabilmente investite dai canoni (sacrali...) di una scientificità del tutto aleatoria, non hanno più alcuna ragione di sussistere, nel momento in cui assistiamo ad un preciso ribaltamento precipuo dei contenuti in favore delle forme... Ad esempio, spesso, parlando di Borges (che, tra parentesi, per chi non lo sapesse, ha perfino scritto un racconto apocrifo di Lovecraft!), si è abusato della nozione di «Libro di Dio»; in quanto gli uomini non sarebbero che singoli versi dell'unico libro esistente al mondo, ovvero il mondo stesso. Ma, dopo Baudrillard, nei cascami del nostro post-moderno, ci rendiamo conto benissimo che il mondo è un testo: ogni cosa esiste perchè avviene, e avviene perchè esiste, rientrando sempre e comunque nelle categorie fenomenologiche dell'Essere. Il mondo come testo, e la lotta per la quotidianità, rimandano al vecchio, parzialmente irrisolto, conflitto fra tradizione orale e tradizione scritta. Il conflitto espunge le proprie competenze nella vera e propria presenzaassenza (come tale, ovunque e in nessun luogo) della translitterazione del referente significante. E questo da sempre: basti citare gli esempi «sacri» della Torah Ebraica e dell'Apocalisse Giovannea; gli scrivani ebrei, allievi dei Rabbini, dovevano stare molto attenti nel copiare esattamente i versetti della Torah, poiché un loro minimo sbaglio avrebbe significato la fine dell'intero universo; e gli scriba cristiani, allievi degli Apostoli, dovevano stare molto attenti nel copiare i versetti dell'Apocalisse, poiché la minima parola, aggiunta o tolta, avrebbe significato uno spaventoso castigo... Dio, quindi il verbo, come verbo, è una parola; e le sue parole sono leg-
ge, legge scritta in tavole, in libri, da uomini che a loro volta sono altre parole, altri verbi, altri libri, creatori di Dei, libri e parole, in quanto consumatori degli stessi soggetti, perchè oggetti essi stessi del processo entropico avviato con la creazione dell'universo: la scrittura di un libro, il cui finale non ci è dato di conoscere, poiché siamo ignoranti dell'inizio, trovandoci soltanto nel bel mezzo della lettura, così la vita... È solo un ardita speculazione metafisica? No, perchè il libro è sempre stato al centro di una sterminata gamma di interessi, questi sì, confinanti con la pura metafisica! Tanto per restare in ambiti nostrani più facilmente riconoscibili, risulta perlomeno strana la constatazione che almeno il 90% dei fedeli Cattolici di oggi ha «rimosso» l'esistenza di quel perfetto strumento di catalogazione coercitiva che è l'Index Librorum Prohibitorum (l). Vero e proprio manuale di pseudobiblia, l'Index Cattolico - che nelle proprie pagine, è opportuno ricordarlo, contiene i lunghi elenchi di tutti i libri di cui è proibita ai Cattolici il possesso e anche la semplice lettura, pena la Scomunica immediata - scomodo residuo dei tempi dell'Inquisizione, non contiene al proprio interno nessuna opera di Marx, Lenin, Nietzsche, De Sade, o altri "sovversivi", ma bensì una vera e propria polisemica selva di autentici pseudobiblia, che vanno dagli oscuri testi di metafisica tedesca del periodo della Controriforma, fino a libri insospettabili poiché comunemente considerati "per ragazzi", e fino a testi che ci riguardano da vicino, come numerosi "Grimoires", o testi della nostra biblioteca di Cthulhu come I Tre Impostori... Censure? Rimozioni? A parte il fatto che esistono delle storie molto serie in proposito, onde per cui rimandiamo agli interessantissimi studi di Jacques Bergier (2) e di Sebastiano Fusco (3) dedicati al problema dei "libri maledetti", è da annotare che l'Index possiede un modo di analisi davvero... borgesiano; gran parte dei libri messi all'indice, infatti, sono proibiti non per le cose che dicono, ma per quelle che non dicono, seguendo così il sagace detto di Papa Anastasio, che è: plus essent nocitura insipientibus, quam profutura sapientibus. Tornando ai nostri specifici pseudobiblia, qualche considerazione molto ovvia sui loro supposti contenuti e scopi: si tratta sempre di "Grimoires", ovvero di veri e propri manuali completi di rituali e di evocazioni di ben precise divinità. E queste divinità, manco a dirlo, non sono né benigne né maligne, né angeliche né sataniche: sono qualcosa di più e qualcosa di meno, qualcosa di realmente differente.
Del tutto estranei ai nostri sensi e alla nostra logica, i Grandi Antichi sfuggono nella loro complessità a qualsivoglia difesa o offesa tentata nei loro confronti; anche in questo specifico distinguo, gli pseudobiblia attinenti ai "Miti di Cthulhu" presentano la loro sostanziale alterità, non agendo e interagendo come i normali "Grimoires", e cioè con formule di protezione, evocazione, difesa, forza, ecc., ma semplicemente fungendo da tramite tra la nostra dimensione - quella del conoscibile, del creato, della forma - e l'altra dimensione - quella dell'inconoscibile, dell'increato, dell'informe. Volendo, si potrebbe anche ricercare un effetto perturbante in questi pseudobiblia, visto il loro impatto fenomenico, almeno a livello narrativo, sulla realtà transeunte; disastri, orribili stragi, delitti misteriosi, orrendi rituali di senso, sangue e morte - la triade fondamentalista del senso del sacro primevo - solo apparentemente risolvibili nei canoni classici ampiamente decodificati e affidabili delle horror stories a cui facciamo riferimento. In effetti però, l'azione variamente stratificata dell'effetto perturbante ha ragion d'essere solo negli scenari narrativi dove vige il connubio di Ordine e Caos, risolto sia in termini antinomici che in modalità simboliche; i veri e propri effetti da scenotecnica del tessuto della trama trovano in questa simbiosi il periodo cautelativo della tensione, che se non è ormai il vieto espediente della sospensione della credulità teorizzato da Coleridge, per le stesse ragioni non è neppure un equazione risolvibile in termini di conflitto trasmutante; i risultati sfuggono alla ragione... Perché non c'è alcuna ragione che valga, contro i Grandi Antichi e le loro mine insondabili. Ecco quindi che i compilatori, i possessori e i decifratori dei sinistri pseudobiblia di "Cthulhu", impazziscono, muoiono disperati, scompaiono misteriosamente, a volte sulla soglia della verità, ad un solo passo dallo strappare il velo di Maya - dietro cui, probabilmente, c'è solo un abissale nulla - sempre e comunque vivendo le loro folli passioni sul filo di un rasoio, che non è certamente quello di Occam... L'essenza stessa del termine "Grandi Vecchi" può rimandare anche ad un sostrato mitico, nel senso arcaico-sacramentale: poiché i vari YogSothot, Ygolonac, Chtulhu e simili, a parte il rapporto con i loro seguaci a loro volta divisi in singoli "gruppi", non intendono minimamente rinnovare la vita attraverso la morte, ma soltanto gestire la propria complessa struttura nell'ottica di una deformazione che investe l'intero universo... Non ci interessano neanche i solerti ed interessanti assertori di una te-
rapeutica funzione "sociale" dell'orrore, onde per cui storie di tal fatta godrebbero di successo proprio in virtù di un non meglio identificato senso della morte; ci sembra di aver spiegato diffusamente che questi materiali, per la loro pregnante testualità e per l'intelligente gioco dell'artifizio inesausto del conglobante (nonché per altri motivi che forzosamente abbiamo dovuto un po' trascurare in questa sede: bontà del narrato, perfetta costruzione, ecc.), espletano una funzione critica estremamente complessa e parimenti affascinante, nel grigio piattume della narrativa contemporanea, su cui è meglio sorvolare... Non ci resta che fornire ora l'elenco ragionato di tutti i pseudobiblia appartenenti ai "Miti di Cthulhu" finora ideati, con tutto il bagaglio di curiosità che abbiamo reperito: Libro Segreto di Hali Scritto dallo sciamano mistico Hali, questo libro descrive i riti e i misteri di Carcosa e delle Iadi, visitate tramite il proprio doppio eterico. Su Carcosa cfr. anche la voce The King in Yellow. Frammenti sparsi di questo libro compaiono in alcuni racconti di Ambrose Bierce, fra i quali il più importante è senz'altro: An Inhabitant of Carcosa (4). The King in Yellow Dramma in due atti, di ignoto autore, apparso prima in Francia e subito dopo in Inghilterra verso il 1895. È un volume rilegato in giallo, la cui lettura conduce immancabilmente alla follia; nelle sue pagine agisce l'innominabile Hastur, e le Iadi e la solitaria Carcosa gli fanno da scenario. Robert W. Chambers pose l'azione nefasta di questo libro nel suo "romanzo circolare" dal titolo omonimo. L'ideazione del The King in Yellow (5) è abbastanza complessa: bisogna risalire al 1884, data di pubblicazione del celebre romanzo A-Rèbours (6) di Joris Karl Huysmans, meglio conosciuto dagli specialisti come "la Bibbia del Decadentismo". Libro estremamente colto e raffinato, in aura, appunto, di "follia", A-Rèbours presentava la copertina gialla... In seguito, Oscar Wilde, nel 1891, riprese l'idea del libro giallo apportatore di follia e perversione nel suo romanzo notissimo The Picture of Dorian Gray (7). Finalmente, il 15 aprile 1894, comparve a Londra il primo numero della rivista The Yellow Book (8) (Il Libro Giallo), illustrata da Aubrey Beardsley; ancora una volta, una rivista destinata a suscitare scandali e riprovazioni moralistiche. Nello stesso periodo, Robert W. Chambers svolgeva il suo mestiere di disegnatore figurinista di
moda a Parigi, dove ovviamente si riflettevano come in uno specchio tutte le novità e gli "scandali" del bel mondo Londinese. È molto probabile, supponiamo che Beardsley abbia incontrato il nostro Chambers, durante uno dei suoi viaggi a Parigi! E comunque è molto chiara l'origine e la struttura decadente dello pseudobiblium creato da Robert W. Chambers, sul cui tema hanno offerto contributi anche altri autori, fra i quali non si può fare a meno di citare Vincent Starrett (9). De Tribus Impostoribus A questo pseudobiblium, che del resto, come vedremo in seguito, esiste realmente, si ispirò Arthur Machen per il suo "capolavoro circolare" (definizione quanto mai appropriata di Elèmire Zolla) The Three Impostors (10) del 1895 (più precisamente, uscito a fine dicembre 1894). Secondo Sebastiano Fusco (11) del 1895 (più precisamente, uscito a fine dicembre 1894). Secondo Sebastiano Fusco, l'opera in questione, diffusa durante il periodo rinascimentale, e aborrita per il suo supposto contenuto spaventosamente blasfemo (i tre "Impostori" non sarebbero altri che Mosè, Gesù Cristo e Maometto), sarebbe da attribuire all'imperatore Federico II° Hohenstaufen; e tale testo può ritrovare riscontro nell'ultima edizione italiana stampata nel lontano 1864 (12). In realtà, le nostre ricerche tendono a smentire completamente quest'attribuzione. Dopo aver investigato su certi testi senesi Francescani del XV secolo, come La Leggenda dei Tre Compagni (13), ci siamo convinti che se per ventura un testo blasfemo come I Tre Impostori fosse esistito davvero, certamente gli organi preposti della Chiesa lo avrebbero tenuto nel giusto conto. Ed infatti abbiamo trovato un Mosè, Gesù e Maometto, opera di Paul Thyry D'Holbach, messo all'Indice con Decreto del 20 giugno 1864 (14). Il Barone D'Holbach fu una interessante figura di ateo illuminista e di erudito libertario, oggi del tutto dimenticato, tranne che da alcune frange del pensiero Anarchico, anche nostrano, che lo hanno inscritto fra i loro ideologi. Infatti l'ultima edizione reperibile del testo "blasfemo", col titolo de I Tre Impostori: Mosè, Gesù Cristo, Maometto (15) fu edita proprio da un gruppo Anarchico, per le cure del noto pensatore libertario Alfredo M. Bonanno, autore anche di un libretto sulle opere e l'ideologia del D'Holbach (16). In margine a questa voce, è opportuno ricordare che Arthur Machen è autore anche di un altro pseudobiblium su cui poco o nulla possiamo dire: Le lettere di Aklo, testo manoscritto di rituali e accadimenti magici adombrante la "grande razza", citato, tra l'altro, nel simbolico racconto The
White People (17). Il Libro di Toth Non citeremmo qui questo pseudobiblium, se non fosse accertato che un intero capitolo di questo che è il più potente fra i "Grimoires", confluì nei contenuti del più noto fra i vari pseudobiblia, e cioè, il Necronomicon. Per quanto riguarda tutte le ipotesi mitiche e storiche sullo pseudobiblia in questione, rimandiamo a un ottimo scritto specifico di Sebastiano Fusco (18), limitandoci in questa sede a ricordare l'uso letterario del Libro di Toth compiuto da Sax Rohmer (non a caso, confratello di Arthur Machen nella celebre "Golden Dawn"...) nel suo romanzo Brood of the Witch Queen del 1924 (19). In questo romanzo, Il Libro di Toth viene apparentemente e definitivamente distrutto dal Dr. Robert Cairn, dopo essere stato disseppellito dal Nilo presso la città di Koptos, avvolto nella classica combinazione da scatole cinesi, che in realtà nasconde un significato simbolico molto ovvio: una scatola d'oro in una scatola d'argento in una scatola di ebano e avorio in una scatola di sicomoro in una scatola di bronzo in una scatola di ferro... Necronomicon Indubbiamente il più noto, se non il più tenebroso, fra tutti i pseudobiblia legati ai Miti di Cthulhu, il Necronomicon (ovvero, Il Libro dei Nomi Morti) dispone di un dettagliatissimo studio bibliografico sulle sue "fortune" editoriali, la Storia e Cronologia del necronomicon (20), opera del suo stesso creatore H.P. Lovecraft, a cui rimandiamo i pochissimi lettori del tutto ignari della questione; per gli altri, la massa di lettori smaliziati, oltre che un ulteriore rimando alla "ricostruzione" a più mani effettuata anni fa (21) (e di cui consigliamo pro exempla il borgesiano testo di Colin Wilson), offriamo in questo specifico alcune notizie inedite sulla sua realmente effettiva consistenza materiale. Secondo lo studioso americano Roger Bryant, il Necronomicon non sarebbe altro che la "versione" Lovecraftiana di un testo realmente esistente: il Picatrix, raro libro di magia scritto da un arabo nel 12° secolo, e conosciuto sotto questo titolo per la traduzione rinascimentale eseguita in latino da Pico della Mirandola il notissimo scienziato, umanista ed esoterista. In questa veste, il Picatrix fu citato anche nelle versioni originali dei capolavori fantastici-picareschi di Rabelais Gargantua e Pantagruele. Un capitolo del Picatrix tradotto in in-
glese è reperibile nel saggio di John Thorndike A History of Magic and Experimental Science, mentre l'ultima traduzione integrale del "Grimoire" è invece in tedesco, inserita in "Studies of the Warburg Institute", Vol. 27°, 1962: una traduzione, quest'ultima, a nostro parere, non del tutto attendibile. Da parte nostra possiamo aggiungere che ciò che viene presentato come Picatrix (e conseguentemente, come Necronomicon) non è un trattato di magia, ma bensì un libro di Alchimia e medicina, con particolare attenzione agli aspetti della farmacopea erborista; libro attribuibile al medico e alchimista Abd Al-Latif, di Bagdad (sulla cui figura, H.P. Lovecraft avrebbe creato l'arabo pazzo Abdul Alhazred), autore di un testo similare conosciuto dagli specialisti come Max Meyerhof sotto il nome convenzionale di "libro perduto" (22). E libro perduto ci sembra davvero un eccellente definizione della natura e degli scopi del nostro tenebroso Necronomicon... I Manoscritti Pnakotici Le pergamene dei Manoscritti Pnakotici furono stilate dal vecchio stregone Pnakotic, abitante nella remota e gelida Lomar, terra dell'antichissima civiltà Iperborea. Gli osceni rituali delle pergamene servivano, tra l'altro, ad evocare da N'Kai il terribile Tsathoggua. H.P. Lovecraft, creatore di questo pseudobiblium, indicò anche una traduzione inglese a cura di Franz Bendel: Pnakotic Manuscripts. Da parte nostra, nel 1978, creammo dei frammenti apocrifi dai Manoscritti Pnakotici, trovati a più riprese nel sottosuolo della villa d'Isia (meglio conosciuta come "Villa dei Misteri", ovviamente di natura isiaca), a Pompei. Questi frammenti, (23) rivelatori di una parte degli orribili rituali di Hastur, sono ora seppelliti nell'archivio della Facoltà d'Archeologia dell'Università di Napoli, e ovviamente non sono consultabili dal pubblico. R'Lyeh Text Di questo interessante Testo di R'Lyeh, il suo autore Lovecraft ci spiega poco o nulla. Sappiamo che il temibile Cthulhu dorme nella nascosta R'Lyeh, in fondo agli oceani, sognando il momento di poter distruggere l'umanità; evidentemente, il Testo di R'Lyeh, contiene i rituali dei suoi immondi servi. Indagini sui miti dei primitivi contemporanei, con particolare riferimento al Testo di R'Lyeh
Dotta dissertazione del prof. Laban Shrewsbury, di Arkham, scritta verso il 1938. Secondo il suo ideatore August Derleth, il prof. Shrewsbury addirittura penetrò nella Città senza Nome, richiamando il "Kha" dell'arabo pazzo Abdul Alhazred per trafugare i superstiti frammenti della copia originale del terribile Necronomicon. Inutile aggiungere che il malcapitato morì poco dopo la leggendaria impresa! En passant, per completezza è doveroso citare che Laban Shrewsbury è autore altresì anche di uno studio inedito, Cthulhu nel Necronomicon, custodito sotto forma di manoscritto nella Miskatonic University di Arkham. I Sette Libri Criptici di Hsan Altro oscuro pseudobiblium creato dalla fervida fantasia di H.P. Lovecraft, di cui nulla o quasi si conosce. Personalmente, abbiamo provato a ricostruire alcuni frammenti dal terzo de I sette libri criptici di Hsan, ancora inediti poiché si tratta di testi davvero... criptici. I Canti di Dhol. I Canti di Dhol (o Dhol Chants) sono l'ultimo, e meno noto pseudobiblium creato da Howard Phillips Lovecraft, di cui l'autore lascia ben poco da intendere. È lapalissiano però, che analogamente a Le lettere di Aklo, questi Canti di Dhol conservano un etimo prettamente Macheniano. Il libro di Eibon Raccolta d'incantesimi compilata dal mago Eibon, della città di Iqqua, in Hyperborea. L'originale, scritto nella lingua iperborea, è andato perduto; la versione odierna che si conosce, rimaneggiata e trasformata dai molti passaggi di traduzione, è quella medievale, in francese aulico, usata da un gruppo di stregoni e satanisti. Secondo Clark Ashton Smith, è un manoscritto in pergamena, rilegato in cuoio, con borchie d'acciaio. Inoltre, H.P. Lovecraft ne delineò una versione in latino, tradotta da Philippus Faber: il Liber Ivonis, di cui una copia è reperibile presso la solita biblioteca della Miskatonic University di Arkham. Il Testamento di Carnamagos Secondo Clark Ashton Smith, si tratta dell'opera di un oscuro negromante vissuto nel nord Africa ai tempi della lontanissima civiltà preEgizia. La prima versione fu scritta dallo stesso Carnamagos in rotoli di papiro sotto forma di geroglifici. In epoca romana, fu trovata quindi un al-
tra pergamena in una tomba presso Creta. Questa pergamena fu volta in latino da un monaco medievale; passata attraverso mille mani, è oggi rilegata in pelle di zigrino, con fermagli in ossa umane. Unausprechlichen Kulten Raccolta di testi e rituali segreti (appunto, Culti Innominabili) di ogni parte del mondo, compilata dal tedesco Von Juntz e pubblicata per la prima volta a Dusseldorf nel 1839. Questa prima edizione, l'unica integrale, conosciuta anche come il Libro Nero (The Black Book), fu ritirata subito dalla circolazione e distrutta. Secondo Robert E. Howard, creatore di questo pseudobiblium, al giorno d'oggi esisterebbero solo sette copie della versione originale, con la copertina in pelle nera chiusa da borchie di ferro. Von Juntz, nato il 1795, morì il 1840, aggredito in pieno giorno, sotto gli occhi di tutti, da un mostro invisibile - forse uno Shantak - e fatto orribilmente a pezzi. Del suo Unaussprechlichen Kulten, le edizioni Bridewall di Londra stamparono nel 1845 un edizione economica, mediocre e piena di refusi, ma abbastanza conforme al testo originale; mentre la Golden Goblin Press di New York, invece, ne stampò nel 1909 un edizione pesantemente censurata. De Vermis Mysteriis Ludvig Prinn scrisse questo putrido libro in carcere, a Bruxelles, alla vigilia della sua esecuzione: condannato a salire sul rogo in espiazione di atti di stregoneria. I suoi Misteri del Verme furono stampati in una versione latina a Colonia, l'anno dopo la sua morte. Di questa edizione, un grosso volume formato In-Folio stampato in caratteri gotici, rilegato in cuoio nero con risguardi in ferro, esiste una copia nella ben fornita biblioteca della Miskatonic University di Arkham, nel Massachussetts. Robert Bloch, inoltre, assicura dell'esistenza di altre copie manoscritte dell'originale, parzialmente censurate; mentre Stephen King afferma che in America esistono ben cinque copie manoscritte, in latino ed in druidico (...) ... I Riti Neri Opera del mistico Luvenhkeraphf, sacerdote di Bast. Si tratta chiaramente di un riferimento scherzoso ad H.P. Lovecraft, ideato da Robert Bloch, non nuovo a questi kalembour. Celaeno Fragments
Celaeno è una stella delle Iadi; dunque, questi Frammenti di Celaeno, ideati da August Derleth, analogamente a Il Libro Segreto di Hali ed a Il Re in Giallo, contengono cronache e rituali sui segreti di Carnosa e su Hastur l'innominabile. Cultes des Ghoules Questo libro, di argomento facilmente auspicabile, fu scritto dal Comte D'Erlette, gentiluomo francese giunto in America ai primi del '700, nonché avo di August Derleth, il quale assicura di avere avuto tra le mani una copia rilegata in pelle del rarissimo "Grimoire". Seth Bishop's Book Vera e propria Antologia del Male, secondo August Derleth questo libro raccoglie estratti dal Necronomicon, dal Cultes des Ghoules, dai Manoscritti Pnakotici, e dal Testo di R'Lyeh. Il vecchio Seth Bishop, stregone e servo degli Antichi, compilò quest'opera tra il 1919 ed il 1923; la copia che si conosce, è manoscritta, formato In-Folio, e rilegata in legno. Canzone di Yste Pseudobiblium creato da Robert A. W. Lowndes. La Canzone di Yste è un testo risalente al periodo pre-glaciale, e quindi scritto nella lingua della civiltà primordiale. Tradotta in seguito dagli adepti "Dirka" in greco, arabo, latino ed inglese durante il Medioevo, la Canzone di Yste, da alcuni considerata perfino più malefica del nefando Necronomicon, contiene incantesimi per evocare le figure degli "Adumbrali"... Rivelazioni di Glaaki Libro rituale dei sacerdoti di Yigolonac; una specie di Bibbia blasfema, scritta grazie ad una guida sovrannaturale. Secondo John Ramsey Campbell, le Rivelazioni di Glaaki sono contenute in dodici volumi, manoscritti databili ai primi del '900; il dodicesimo volume, il più terribile, fu distrutto nel 1969 da Sam Strutt, poco prima della sua orribile morte. I Frammenti di G'Harne Secondo Brian Lumley, questi Frammenti di G'Harne (anche conosciuto come Ga'a Harme), sottoforma di frammenti di coccio ricoperti di scritture cuneiformi risalenti all'epoca pretriassica, furono trovati in Africa da Sir Amery Wendy-Smith verso il 1932, e tradotti in seguito dallo stesso
scienziato. Cthaat Aquadingen Sempre Brian Lumley ha immaginato quest'altro pseudobiblium, il cui titolo, Cthaat Aquadingen, si può rendere come "Compendio delle COSE delle acque". Di autore ignoto (probabilmente tedesco; forse un seguace di Von Juntz), di quest'opera si conosce un solo esemplare rilegato in cuoio, con borchie in ferro. Inoltre, è doveroso aggiungere che un certo Feery è l'autore di Note sul Cthaat Aquadingen, testo, se possibile, ancora più raro del libro che prende in esame! Il Feery non è nuovo a questi studi, visto che è sua opera anche il testo parimenti raro delle Notes on the Necronomicon... La Messa di St. Sëcaire Conosciuto anche sotto il titolo de Le Messe degli Uomini Ombra, secondo David Raff, questo pseudobiblium risale al XVII secolo, originario della Guascogna e scritto in lingua Basca. I suoi osceni rituali servono ad evocare Sekha (che potremmo rendere come "Morte Secca"), altro nome della Senzanaso, o Nostra Signora delle Tenebre (cfr. la voce Megapolisomancy). Mad Berkley's Book Secondo David Sutton e Brian Lumley, il pazzo Berkley raccolse in questo suo libro i peggiori estratti del Necronomicon, del Cthaat Aquadingen, e dell'Unaussprechlichen Kulten. Rilegata in cuoio marrone con chiusure metalliche, l'opera risale ad un secolo fa, anche se il vecchio Berkley affermava di avere centinaia d'anni... Discourse on the Arte and Theorie of practical Magic Secondo Jack Hamilton Teed, questo libro, surclasserebbe gran parte di tutti i pseudobiblia precedentemente citati! Il titolo è un ovvio riferimento al testo parimenti tenebroso (ma realmente esistente) di Aleisteir Crowley: Magic in Theory and Practice, del 1929 (24). Megapolisomancy: a new science of cities Testo scritto da Thibaut De Castries nel 1890, e stampato nello stesso anno in una mediocre edizione privata, rilegata in grigio. Secondo Fritz Leiber, che, sotto mentite spoglie, ritrovò il testo nel 1978, questa Mega-
lopolimanzia: una nuova scienza urbanistica, contiene tutto ciò che è necessario per evocare i "Paramentali", entità simili agli "Adumbrali" della Canzone di Yste, con le stesse prerogative di Sekha, altrimenti detta la Senzanaso, o Nostra Signora delle Tenebre (25). Anche Clark Ashton Smith scampò di stretta misura, sempre secondo Leiber, i nefasti influssi di questo "Grimoire", la cui intera tiratura fu in seguito bruciata dallo stesso autore De Castries; due coppie sopravvivono in collezioni private a San Francisco, in America. Theratobiblion Testo attribuibile al monaco Stilita originario della Siria conosciuto come Cosma Damasceno, che si votò ad un eterno silenzio, come il suo coevo arabo "pazzo" Abdul Alhazred, a causa degli orribili segreti rivelati in questo libro. Claudio Asciuti adoperò alcuni brani del Theratobiblion nel corso del 1980, per illustrare la sua performance teatrale Il Guardiano della Soglia, d'ispirazione Lovecraftiana (26). Tsim-Tsum Pseudobiblium creato da Domenico D'Amico nel 1981, il cui testo presenta, oltre a rituali vari, le cronache delle orride gesta delle "cosemaiali" descritte da William Hope Hodgson. Il testo, manoscritto ed illustrato, è nella collezione privata di M.D. Cammarota Jr (27). 1) Index Librorum Prohibitorum/S.S. Mi D.N. Pii PP.XII° Iussu Editus 1948, agg. al 1961/Tip. Poliglotta Vaticana. 2) Jacques Bergier/I Libri Maledetti (Les livres maudits) Biblioteca dei Misteri, Edizioni Mediterranee, 1972. 3) Sebastiano Fusco/I Libri che non esistono in appendice a: Jacques Bergier, Op. Cit. 4) Ambrose Bierce/Un cittadino di Carcosa/in: Una cosa infernale/Il Sigillo Nero n. 2, Ed. Del Bosco, 1972. 5) Robert W. ChambersAl Re in Giallo Futuro n. 17, Fanucci Editore, 1975. 6) Joris Karl Huysmans/Controcorrente Rusconi Editore, 1972. 7) Oscar Wilde/Il ritratto di Dorian Gray Ed. Rizzoli, 1975. 8) Per ulteriori notizie sull'argomento, cfr.: Stanley Weintraub/Il prezioso perverso: Beardsley alle radici del Liberty 9) Vincent Starrett/La canzone di Cordelia (Cordelia's song) in: Weird
Tales/Enciclopedia della Fantascienza, vol. 9, Fanucci Editore, 1983. 10) Arthur Machen/I Tre Impostori (ciclo completo) Orizzonti vol. XIII/Fanucci Editore, 1977. 11) Sebastiano Fusco/Introduzione a I Tre Impostori, Op. Cit. cfr. anche, sullo stesso argomento: Claudio Asciuti/L'Immaginario come eresia "Quaderni Razionalisti" n. 2/3, Ed. Bertoni, 1983. 12) Precisamente, quella dell'Editore Daelli, "Biblioteca Rara". 13) Anonimo/La Leggenda dei Tre Compagni Stampata a cura di O. Lazzeri, Firenze, 1923. 14) Cfr. Index Librorum Prohibitorum, Op. Cit., pag. 144. 15) Paul Thyry D'Holbach/I Tre Impostori: Mosè, Gesù Cristo, Maometto. Collana "La Fiaccola' n. 4, ed. La Fiaccola, Ragusa, 1972. 16) Alfredo M. Bonanno /L'ateismo in P.H.Th. D'Holbach Collana "La Fiaccola" n. 5, ed. La Fiaccola, Ragusa, 1972. (N.B. non possiamo resistere alla tentazione di citare, in questa nota, che a Catania, nel periodo 1979/"80, è esistita una rivista politica edita da gruppi Anarchici, dalla testata CTHULHU...) 17) Arthur Machen/Le Creature Bianche/in: Il Gran Dio Pan/Oscar Fantascienza, ed. Mondadori, 1982. 18) Sebastiano Fusco/Introduzione a Il Re in Giallo, Op. Cit. 19) Sax Rohmer/Brood of the Witch Queen Ed. Pyramid Books, N. Y., 1966. 20) H.P. Lovecraft/Storia e Cronologia del Necronomicon (History and Chronology of the Necronomicon) in: I Miti di Cthulhu/Orizzonti n. 7, Ed. Fanucci, 1975. 21) AA. VV./Necronomicon (a cura di George Hay) Zodiaco n. 2, Fanucci Editore, 1979. 22) Cfr. Max Meyerhof/I Fondatori letterari della Farmacologia Araba in: Rivista Ciba" n. 9, 1948, Basilea. 23) Domenico Cammarota/Frammenti apocrifi dai Manoscritti Pnakotici in: "Star" n. 1, ed. Epierre, 1980. 24) Aleister Crowley/Magic Astrolabio-Ubaldini Editore, 1974. 25) Fritz Leiber/Nostra Signora delle Tenebre Fantacollana n. 33, ed. Nord, 1980. 26) Claudio Asciuti/Il Guardiano della Soglia Opuscolo illustrativo della performance omonima. Ed. Coop. Charlie Chaplin, Ferrara, 1980. 27) Questo testo, più volte annunciato per la pubblicazione nelle scomparse edizioni di Intercom Press (Palermo), è creduto realmente esistente
- nella sua forma stampata, cioè - da alcuni noti collezionisti; il che non fa altro che riconfermare ancora una volta di più tutte le nostre opinioni espresse sulla natura, funzione e scopi dei pseudobiblia. FINE