NELSON DeMILLE L'ORA DEL LEONE (The Lion's Game, 2000) Nel ricordo affettuoso di mia madre, esponente della Grandissima ...
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NELSON DeMILLE L'ORA DEL LEONE (The Lion's Game, 2000) Nel ricordo affettuoso di mia madre, esponente della Grandissima Generazione Nota dell'autore L'Anti-Terrorist Task Force (Attf), la forza speciale di cui parlo in questo libro, è un parto della mia immaginazione; si ispira però alla Joint Terrorist Task Force (Jttf), un gruppo di uomini e donne impegnati ogni giorno in prima linea nella guerra al terrorismo negli Stati Uniti. Come è ovvio, dove necessario, mi sono preso qualche libertà o licenza letteraria. I personaggi di questo romanzo sono tutti di fantasia, anche se alcune parti della narrazione sono basate su fatti realmente accaduti, come il raid americano sulla Libia del 1986. Libro primo AMERICA, 15 APRILE, PRESENTE La morte ha paura di lui, perché lui ha il cuore di un leone. Proverbio arabo 1 Uno come me che si è beccato tre pallottole, rischiando di trasformarsi in un donatore di organi, si presume che eviti da quel giorno di ficcarsi in situazioni pericolose. E invece no, probabilmente c'è in me un desiderio inconscio di tirarmi fuori dal pool genetico, o qualcosa del genere. Comunque, mi chiamo John Corey, ex Squadra omicidi del Dipartimento di polizia di New York, attualmente in servizio come agente speciale a contratto nella Federal Anti-Terrorist Task Force. E me ne stavo seduto in un taxi preso al 26 Federal Plaza di Manhattan per andare all'aeroporto internazionale John F. Kennedy, in balìa di un pakistano che guidava come un fuori di testa. Era una bella giornata di primavera, un sabato, e il traffico era moderato
sulla litoranea, detta anche circonvallazione e recentemente ribattezzata tangenziale-dei-prigionieri-di-guerra-dispersi-in-azione per evitare confusioni. Era il tardo pomeriggio e i gabbiani di una vicina discarica, un immondezzaio a cielo aperto per intenderci, cacavano sul parabrezza del taxi. Amo la primavera. Non stavo certo andando in vacanza, avevo un appuntamento con l'AntiTerrorist Task Force, un'organizzazione di cui pochi conoscono l'esistenza. Il che non guasta. L'Attf è divisa in sezioni che seguono da vicino le attività dei vari piantagrane e bombaroli, come l'Ira, il Movimento per l'indipendenza di Puerto Rico, i radicali neri e altri esaltati del genere. Io lavoro nella sezione Medio Oriente, la più affollata e forse la più importante, anche se, a essere onesti, di terroristi mediorientali non ne so granché. Ma si pensava che avrei imparato sul campo. Così, per fare pratica, attaccai discorso con il tassista pakistano, che si chiamava Fasid: per quanto ne sapevo poteva benissimo essere un terrorista, anche se aveva l'aria di un tipo a posto. «Da dove viene?» gli chiesi. «Islamabad, la capitale.» «Sì? E da quanto vive qui?» «Dieci anni.» «Le piace l'America?» «Certo. A chi non piace?» «Be', per esempio non piace a Gary, il mio ex cognato. Ne parla sempre male e vuole andare a vivere in Nuova Zelanda.» «Ho uno zio in Nuova Zelanda.» «Davvero? È rimasto qualcuno a Islamabad?» Rise. «Sta andando all'aeroporto a prendere qualcuno?» mi chiese poi. «Perché?» «Non ha bagaglio.» «È un tipo sveglio, lei.» «Allora, va a prendere qualcuno? Perché potrei fermarmi e riportarla in città.» Parlantina fluente quel Fasid, slang, frasi idiomatiche e tutto il resto. «Ho già chi mi riporta a Manhattan» risposi. «Sicuro? Potrei fermarmi.» Dovevo aspettare l'arrivo di un presunto terrorista che si era consegnato alla nostra ambasciata a Parigi, ma non mi sembrava il caso di informarne Fasid. «Lei fa il tifo per gli Yankees?» gli chiesi. «Non più.» E si lanciò in una filippica contro Steinbrenner, lo Yankee
Stadium, il prezzo dei biglietti, gli stipendi dei giocatori e così via. Sono bravi, questi terroristi, a spacciarsi per onesti cittadini. Tolsi l'audio al tassista e ripensai a come ero finito a fare quel lavoro. Ripeto, ero un detective della Squadra omicidi, uno dei migliori di tutta New York, e se ve lo dico io potete crederci. Giusto un anno fa, schivavo con eleganza le pallottole di due onesti cittadini di origine ispanica sulla 102nd Street West: o si trattava di uno scambio di persona, oppure quei due avevano deciso di allenarsi al tiro a segno, perché non c'era apparentemente alcun motivo per cui dovessero spararmi. La vita a volte è divertente. I due, comunque, un anno dopo erano ancora uccel di bosco nonostante io, come potete immaginare, smaniassi per rincontrarli. Dopo aver visto la morte in faccia ed essere uscito dall'ospedale, accettai l'offerta dello zio Harry di passare un periodo di convalescenza nella sua casa al mare, a Long Island. Tra la casa e la 102nd Street West ci sono oltre 150 chilometri, il che era perfetto. Mentre ero là mi sono trovato in mezzo a un duplice omicidio, marito e moglie, mi sono innamorato due volte e per poco non mi facevo ammazzare. Una delle due donne per cui ho perso la testa, Beth Penrose, in un certo senso fa ancora parte della mia vita. Mentre a Long Island, come ho detto, non succedeva niente, un tribunale pronunciava la sentenza del mio divorzio. E, come se quella convalescenza al mare non fosse stata già di per sé insopportabile, ebbi a che fare per ragioni professionali con un coglione della Cia, certo Ted Nash. Fin dall'inizio mi diede sui nervi, e così io a lui: senonché, guarda un po', ora mi trovo a lavorarci insieme all'Attf. Il mondo è piccolo ma non tanto, e io non credo alle coincidenze. Seguiva quel caso di duplice omicidio anche un agente dell'Fbi, George Foster, uno in gamba, anche se nemmeno lui era il mio tipo. Comunque, quando fu chiaro che nel caso in questione non c'erano gli estremi del reato federale, Nash e Foster sparirono. Per ricomparire nella mia vita circa quattro settimane fa, quando sono stato assegnato alla sezione Medio Oriente dell'Attf. Nessun problema, tanto io ho chiesto di essere trasferito alla sezione che si occupa dell'Ira, e probabilmente mi accontenteranno. Non ho nulla da spartire nemmeno con l'Ira, ma almeno le loro ragazze sono guardabili, gli uomini sono più divertenti e i pub irlandesi sono i migliori. Potrei fare un buon lavoro nella sezione Ira. Davvero. Dopo il casino che avevo combinato a Long Island mi fu offerta una fantastica alternativa: presentarmi davanti alla Commissione disciplinare del Dipartimento di polizia con l'accusa di aver svolto un doppio lavoro, oppu-
re prendermi una pensione di invalidità al 75 per cento e levarmi dai piedi. Optai per la pensione, ma chiesi anche un incarico di insegnamento al John Jay College di Giustizia criminale di Manhattan, dove abito. Prima che mi sparassero avevo già insegnato al John Jay come professore aggiunto, non chiedevo quindi la luna, e fui accontentato. Da gennaio ho iniziato a tenere i corsi, due serali e uno diurno. Mi annoiavo a morte, quando un giorno il mio partner di un tempo, Dom Fanelli, mi informa che l'Fbi assume ex appartenenti alle forze dell'ordine, con contratto da agente speciale, per lavorare all'Attf. Faccio domanda, me la accettano probabilmente per le ragioni sbagliate, ed eccomi qua. Lo stipendio è buono, i benefit anche, e i federali sono per la maggior parte coglioni. Non mi vanno a genio, e neanche un corso accelerato di buone maniere potrebbe migliorare le cose. Il lavoro, però, sembra interessante. Nonostante i coglioni, l'Attf è un gruppo d'élite, per così dire, che esiste solo a New York e dintorni. È composto in maggioranza da ottimi detective del Dipartimento di polizia, da agenti dell'Fbi e da semicivili come me, assunti per fare cifra tonda, se mi passate la battuta. In alcune squadre, quando se ne presenta la necessità, lavorano le primedonne della Cia e anche il personale della Dea, la Drug Enforcement Agency, gente che sa il fatto suo e conosce meglio degli altri i rapporti fra il traffico di droga e il mondo dei terroristi. Dell'Attf fanno parte anche alcuni dipendenti del Bureau of Alcohol, Tobacco & Firearms (l'agenzia che si è rovinata la reputazione a Waco, Texas) e poliziotti delle contee dell'area di New York e dello Stato di New York. Ci sono poi altri federali in forza a organismi che non posso citare e, last but not least, anche alcuni detective della Port Authority, la polizia che controlla gli aeroporti, le stazioni ferroviarie e degli autobus, i porti, alcuni ponti e tunnel, e altri punti come il World Trade Center, tutte zone sotto la loro giurisdizione. L'Attf è uno dei principali organismi che hanno indagato sull'attentato al World Trade Center e sull'esplosione del volo Twa 800 al largo di Long Island. A volte si va in trasferta oltremare, come nel caso della squadra spedita in Africa per dare una mano dopo gli attentati alle nostre due ambasciate, anche se in quella circostanza la sigla Attf non è mai apparsa sui giornali, come piace a loro. Tutto questo succedeva prima che arrivassi io e da allora c'è stata una certa tranquillità, come piace a me. Se gli onnipotenti federali hanno deciso di mischiarsi ai poliziotti di New York e dare vita all'Attf, è soprattutto perché vengono in maggioran-
za da fuori e non saprebbero quindi distinguere un sandwich al pastrami dal metrò di Lexington Avenue. Quelli della Cia fanno i sofisticati, parlano dei caffè di Praga o del treno notturno per Istanbul, ma neanche a loro piace molto New York. Il Dipartimento di polizia, invece, può contare su gente che si è fatta le ossa sulla strada, e proprio di tipi del genere c'è bisogno per seguire le tracce di Abdul Salam-Salami, di Paddy O'Bad, di Pedro Viva Puerto Rico e personaggi simili. Il classico federale è il tipo Wendell Wasp di West Wheatfield, Iowa, mentre nella polizia di New York ci sono muchos ispanici, un sacco di neri, un milione di irlandesi e ora perfino alcuni musulmani; questo magma etnico, oltre a essere politically correct, si rivela spesso efficace. E quando l'Attf non può mettere le mani sui poliziotti in servizio ricorre agli ex poliziotti che, come me, sono armati, pericolosi e cattivi. Fine dell'antefatto. Stavamo avvicinandoci al JFK. «Allora, cos'ha fatto a Pasqua?» chiesi al tassista. «Pasqua? Non celebro la Pasqua, sono musulmano.» Visto come sono furbo? I federali lo avrebbero torchiato per un'ora prima di fargli ammettere che era musulmano, io gliel'ho tirato fuori in due secondi. Va be', scherzo. Ma devo proprio lasciare la sezione Medio Oriente e passare a quella che si occupa dell'Ira, sono in parte inglese e in parte irlandese e potrei quindi lavorare su entrambi i marciapiedi. Fasid lasciò la Parkway con tutti quei nomi e si immise nella Van Wyck Expressway in direzione sud. Gli aerei in atterraggio sembravano galleggiare su di noi, e per farsi sentire Fasid alzò la voce. «Dove andiamo?» «Arrivi internazionali.» «Quale compagnia?» «Ce n'è più d'una?» «Sì, ce ne sono venti, trenta, quaranta...» «Ma no?! Continui a guidare.» Fasid si strinse nelle spalle, come fanno i tassisti israeliani, e cominciai a pensare che potesse essere un agente del Mossad che si spacciava per pakistano. Ma forse il nuovo lavoro mi stava condizionando. L'Expressway è piena di cartelli colorati e numerati. Una volta raggiunto l'enorme edificio degli arrivi internazionali, con i nomi delle compagnie aeree uno dietro l'altro, Fasid tornò a chiedermi: «Quale compagnia?». «Non mi piace nessuna di queste. Vada avanti.» Si strinse nuovamente nelle spalle. Gli indicai una strada e finimmo all'altra estremità dell'aeroporto. È un
vecchio trucco del mestiere, per scoprire se qualcuno ci sta seguendo, l'ho imparato in un romanzo di spionaggio o forse in un film di James Bond. Stavo cercando insomma di calarmi nei panni dell'agente antiterrorismo. Continuai a indicare a Fasid la direzione e alla fine lo feci fermare davanti a un grosso edificio adibito a uffici, sul lato ovest del JFK. La zona è piena di fabbricati e magazzini anonimi, nessuno fa caso a chi va e viene e si parcheggia facilmente. Pagai il tassista, gli diedi la mancia e chiesi una ricevuta per l'esatto ammontare. L'onestà è uno dei miei pochi difetti. Fasid mi consegnò un blocchetto di ricevute in bianco. «Vuole che l'aspetti?» chiese nuovamente. «Non lo farei se fossi in lei.» Nell'atrio di quell'edificio, in puro stile trash anni Sessanta, non trovai, come ci si sarebbe potuti aspettare, una guardia armata di Uzi ma soltanto un cartello su cui si leggeva: ZONA RISERVATA - SOLO PERSONALE AUTORIZZATO. Se sai leggere, quindi, capisci se sei il benvenuto o no. Salii una scalinata, percorsi un lungo corridoio sul quale si affacciavano porte di acciaio grigio, alcune con una targhetta, altre con un numero e altre ancora senza targhetta o numero. In fondo al corridoio c'era una porta con un bel cartello bianco e azzurro su cui era scritto: CONQUISTADOR CLUB - PRIVATO - SOLO SOCI. Accanto all'ingresso c'era lo scanner elettronico nel quale inserire la tessera magnetica ma, come tutto il resto del Conquistador Club, era finto. Premetti il pollice destro sulla superficie traslucida dello scanner e, dopo un paio di secondi, il supercervellone disse a se stesso: "Ehilà, questo è il pollice di John Corey, apriamo la porta a John". Apriti Sesamo? Macché, la porta era scorrevole e scivolò lungo la parete fino al finto pomello. Che bisogno c'è di queste fesserie? Comunque, sopra lo stipite c'è anche una telecamera, nel caso il pollice sia sporco di cioccolata o altro, e se riconoscono il tuo viso ti aprono, anche se nel mio caso avrebbero potuto fare un'eccezione. Entrai e la porta si richiuse automaticamente alle mie spalle. Mi trovavo nella tipica reception dei club riservati ai viaggiatori di business class, e non pensate che non abbia chiesto cosa ci faccia un posto del genere in un edificio che non è un terminal: aspetto ancora la risposta. Comunque, l'ho capita da solo: ovunque ci sia lo zampino della Cia ci si imbatte in questi specchietti per le allodole. Quei buffoni sprecano tempo e denaro in certe messinscene, come ai vecchi tempi quando cercavano di far colpo sul Kgb. Bastava mettere sulla porta il cartello VIETATO ENTRARE.
Dietro il banco della reception sedeva Nancy Tate, la classica brava ragazza, modello di efficienza, sessualità repressa eccetera. Per qualche motivo le andavo a genio e mi salutò cordialmente. «Buongiorno, Mr Corey.» «Buongiorno, Ms Tate.» «Sono già arrivati tutti.» «È colpa del traffico se sono in ritardo.» «Veramente è in anticipo di dieci minuti.» «Oh...» «Mi piace la sua cravatta.» «L'ho sfilata a un bulgaro morto sul treno notturno per Istanbul.» Ridacchiò. La reception era un trionfo di cuoio, legno pregiato, spessa moquette azzurra e roba del genere. Sulla parete alle spalle di Nancy si ammirava il logo del fasullo Conquistador Club: per quanto ne sapevo io, Ms Tate poteva benissimo essere un ologramma. Alla sinistra del banco della reception si apriva un passaggio con la scritta AREA RIUNIONI E BUSINESS, che portava in realtà alle stanze riservate agli interrogatori e alle camere di sicurezza; e, tutto sommato, i termini "riunioni" e "business" non erano completamente sbagliati. A destra, un altro cartello segnalava SALONE E BAR, leggi Centro comunicazioni e operazioni. «Centro operazioni» mi informò Ms Tate. «Siete in cinque, compreso lei.» «Grazie.» Varcai la porta, percorsi un breve corridoio e mi trovai in un ambiente opprimente, semibuio e privo di finestre, zeppo di scrivanie, computer, cubicoli e quant'altro. Sull'enorme parete di fronte all'ingresso si vedeva una grande carta geografica elettronica, controllata da un computer in grado di fornire i dettagli di qualsiasi zona del mondo, fosse pure il centro di Islamabad. I federali, come al solito, non badavano a spese. Questo ufficio non è comunque il mio posto di lavoro, che si trova invece nel succitato 26 di Federal Plaza. Ma è qui che quel sabato pomeriggio avrei dovuto dare il benvenuto a un arabo che aveva deciso di passare dalla nostra parte e doveva essere accompagnato in città per sottoporsi a qualche anno di interrogatori. Ignorai quasi i colleghi e puntai subito sul bar che, a differenza di quello del mio vecchio distretto, era tirato a lucido e fornitissimo grazie ai contribuenti americani. Mi dedicai al caffè, per evitare i colleghi ancora qualche minuto. Stavo
per berlo quando notai un vassoio di ciambelle, tipico snack da Dipartimento di polizia, uno di croissant e brioche che veniva direttamente dalla Cia e uno di biscotti d'avena inequivocabilmente Fbi. Qualcuno là dentro aveva il senso dell'umorismo. Il bar si trovava nel settore Operazioni dell'ufficio, mentre il settore Comunicazioni era su una specie di piattaforma. Un agente stava controllando i monitor e gli altri strumenti infernali. I colleghi della mia squadra, nel settore Operazioni, chiacchieravano seduti intorno a una scrivania. Oltre ai già citati Ted Nash (Cia) e George Foster (Fbi), ne facevano parte Nick Monti (Dipartimento di polizia) e Kate Mayfield (Fbi). Tre bianchi protestanti anglosassoni e un terrone italiano. Kate Mayfield si avvicinò al bar e si preparò un tè. Dovrebbe essere la mia tutrice e mi sta bene, purché tutrice non significhi che dovrò lavorare in coppia con lei. «Mi piace quella cravatta» mi disse. «È la mia preferita, una volta l'ho usata per strangolare un Ninja.» «Ah sì? Come ti trovi qui?» «Dimmelo tu.» «Un po' presto per dirtelo. Tu, piuttosto, perché hai chiesto di passare alla sezione Ira?» «Perché i musulmani non bevono, perché non so scrivere quei loro cazzo di nomi in un rapporto e perché le loro donne non te la danno.» «Questa è l'osservazione più razzista e sessista che ho sentito negli ultimi anni.» «Non vai molto in giro, evidentemente.» «Questo non è il Dipartimento di polizia, Mr Corey.» «Lo so, ma io sono un poliziotto. Ti ci devi abituare.» «Facciamola finita con questi giochetti.» «Sì. Ascolta, Kate, ti ringrazio per la... come si chiama... tutela, ma tra una settimana mi occuperò dell'Ira e non sarò più con voi.» Rimase in silenzio. La guardai mentre armeggiava con un limone. Era sulla trentina, bionda, occhi azzurri, pelle chiara, portamento atletico, denti candidi e perfetti, niente gioielli, trucco leggero... La tipica Wendy Wasp di Wichita, insomma. Non le si notava nemmeno un difetto, un neo sul viso o un granello di forfora sul blazer blu, sembrava letteralmente tirata a lucido. Con ogni probabilità aveva praticato tre sport al liceo, faceva la doccia gelata,
apparteneva a qualche club femminile e all'università aveva organizzato manifestazioni studentesche. La odiavo. Cioè, non proprio, ma in comune io e lei avevamo solo qualche organo interno. E nemmeno tutti. Difficile capire dal suo accento da dove venisse. Nick Monti mi aveva detto che il padre era stato un federale e la famiglia era vissuta in diverse città degli Stati Uniti. Si voltò a guardarmi e io guardai lei. Aveva degli occhi che ti trapassavano, della stessa tonalità del colorante azzurro che adoperano per i ghiaccioli. «Sei stato preceduto da influenti raccomandazioni» mi disse. «Di chi?» «Di alcuni tuoi ex colleghi alla Omicidi.» Non risposi. «E anche di Ted e George.» E mi indicò Bibì e Bibò. Rischiai di soffocarmi con il caffè. Il motivo per cui quei due avrebbero dovuto parlare bene di me era davvero un mistero. «Non perché tu gli piaccia particolarmente, ma li hai colpiti durante il caso Plum Island.» «Anch'io mi sono stupito di me stesso in quella circostanza.» «Perché non fai almeno un tentativo nella sezione Medio Oriente? Se Ted e George sono un problema, puoi passare in un'altra squadra rimanendo nella sezione.» «Amo Ted e George, ma ormai sono già con la mente all'Ira.» «Peccato. Il lavoro che conta è qui da noi e si può fare carriera, mentre l'Ira negli Stati Uniti è tranquilla e non ci crea problemi.» «Meglio così. Non ho bisogno di rifare carriera.» «D'altra parte, palestinesi e movimenti islamici sono un pericolo potenziale per il nostro paese.» «Eviterei il "potenziale". Pensa solo al World Trade Center.» Non rispose. Avevo scoperto che nell'Attf quelle tre parole suonavano come "Ricordate Pearl Harbor". L'intelligence americana, sorpresa con i pantaloni calati, era comunque riuscita a risolvere il caso e l'incontro si era concluso in parità. «Gli Stati Uniti sono in paranoia nel timore di un attentato biologico, nucleare o chimico di matrice mediorientale» riprese Kate. «E tu hai avuto modo di constatarlo seguendo il caso Plum Island. Giusto?» «Giusto.»
«E allora? Tutto il resto all'Attf è acqua fresca, il lavoro d'azione si svolge nella sezione Medio Oriente. E tu mi sembri un uomo d'azione.» Sorrise. Ricambiai il sorriso. «Perché ci tieni tanto che rimanga con voi?» «Mi piaci.» Sollevai le sopracciglia. «Mi piacciono i Neandertal di New York.» «Sono senza parole.» «Pensaci.» «Lo farò.» Spostai lo sguardo su un monitor vicino a noi e vidi che il volo che aspettavamo, il Trans-Continental 175 da Parigi, era in orario. «Per quanto pensi che ne avremo oggi pomeriggio?» chiesi alla Mayfield. «Due, tre ore. Un'ora qui a compilare moduli prima di tornare a Federal Plaza con il nostro presunto disertore, poi si vedrà.» «Si vedrà cosa?» «Hai fretta? Devi andare da qualche parte?» «Più o meno.» «Mi spiace se la sicurezza nazionale interferisce con la tua vita di società.» Non trovai una risposta adeguata. «Sono un fanatico della sicurezza nazionale e sarò a vostra disposizione fino alle 18.» «Puoi andartene quando vuoi.» Prese il tè e raggiunse i colleghi. Me ne rimasi lì, con in mano la tazza del caffè, e considerai l'offerta di Kate. Ripensandoci adesso, ero come quel tipo finito nelle sabbie mobili: le guarda mentre gli ricoprono le scarpe e si chiede quanto tempo ci vorrà prima che la melma arrivi alle calze, convinto di potersene tirar fuori quando vuole. Purtroppo, quando riabbassai lo sguardo, la sabbia mi era arrivata alle ginocchia. 2 Sam Walters si sistemò la cuffia con microfono e avvicinò il viso allo schermo verde del radar. Fuori era un bel pomeriggio d'aprile, non apprezzabile però nella penombra della sala senza finestre del Centro controllo traffico aereo di New York a Islip, Long Island, un'ottantina di chilometri a est dell'aeroporto Kennedy. «Qualche problema?» gli chiese Bob Esching, il supervisore di turno, in piedi alle sue spalle.
«Abbiamo un NO-RAD, Bob. Si tratta del volo Trans-Continental 175 da Parigi.» Bob Esching annuì. «Da quando è in corso questo NO-RAD?» «Non riusciamo a metterci in contatto con l'aereo da quando ha lasciato il corridoio del Nord Atlantico, vicino a Gander.» Walters diede un'occhiata all'orologio. «Circa due ore fa.» «Ci sono indicazioni di qualche altro problema?» chiese ancora Esching. «No, anzi...» Guardò lo schermo radar. «Ha virato a sud-ovest all'incrocio Sardi per prendere la rotta Jet 37, secondo il piano di volo.» «Vedrai che tra qualche minuto ci chiamerà chiedendoci spiegazioni del nostro silenzio» lo rassicurò Esching. Walters sapeva effettivamente che la situazione NO-RAD, cioè il silenzio radio tra il controllo traffico e un aereo, non era del tutto insolita e in certi giorni si era venuta a creare due o tre volte. Invariabilmente, dopo qualche tentativo da parte del controllo traffico, si udiva l'"Oh, scusate..." del pilota, che spiegava di aver abbassato troppo il volume o di aver sbagliato frequenza; poteva capitare anche qualcosa di meno banale, come una pennichella di entrambi i piloti, ma questo non l'avrebbero mai ammesso. «Forse il comandante e il secondo pilota si sono messi una hostess sulle ginocchia» scherzò Esching. Walters sorrise. «Una volta un pilota mi spiegò di essere entrato in NORAD per aver involontariamente spinto il pulsante della frequenza dopo colazione, poggiando il vassoio sulla consolle tra il suo sedile e quello del secondo pilota.» Esching rise. «Una spiegazione banale per un problema di alta tecnologia.» «Proprio così.» Walters riportò gli occhi sullo schermo. «Rotta e quota sono a posto.» «Sì.» Il vero problema, pensò Walters, è quando il blip scompare dallo schermo. Era in servizio, infatti, quella notte del marzo 1998 quando l'Air Force One con a bordo il presidente era scomparso dallo schermo radar per ventiquattro lunghissimi secondi, durante i quali tutti nella sala controllo avevano trattenuto il fiato. Per non parlare della sera del 17 luglio 1996, quando il volo Twa 800 era scomparso dallo schermo per sempre... quella sera Walters non l'avrebbe dimenticata finché campava. Qui, invece, è un semplice NO-RAD, pensò... eppure qualcosa l'impensieriva, per esempio l'eccessivo prolungarsi del silenzio.
Premette alcuni bottoni e parlò al microfono. «Settore 19, qui è il 23. Il TC uno-sette-cinque in NO-RAD si sta avvicinando a voi, ve lo passerò tra circa quattro minuti. Volevo solo informarvi per le eventuali misure.» Ascoltò la risposta, poi riprese. «Sì, deve essere un vero casinista. Da oltre due ore lo stanno chiamando un po' tutti sulla costa atlantica con il VHF, l'HF e probabilmente anche con i CB e i segnali di fumo.» Ridacchiò. «Dopo l'atterraggio il pilota dovrà scrivere tanto che si crederà Shakespeare. Giusto, ci sentiamo più tardi.» Si voltò a guardare Esching. «Okay?» «Sì... anzi, sai che ti dico... chiama tutti e comunica che il primo settore che riesce a mettersi in contatto con il pilota deve dirgli di telefonarmi al Centro. Voglio parlarci, con quel buffone, per fargli capire le grane che ci ha creato.» «Non solo a noi, anche ai canadesi.» «Già, anche a loro.» Esching ascoltò Walters trasmettere le disposizioni ai settori che avrebbero preso in consegna il volo Trans-Continental 175. Alcuni controllori in pausa si erano frattanto avvicinati alla consolle del settore 23, per capire come mai il supervisore Bob Esching avesse lasciato la sua scrivania e se ne stesse da tanto tempo in piedi alle spalle di Walters. Era pericolosamente vicino a lavorare sul serio, malignavano i suoi collaboratori. A Walters non piaceva avere tutta quella gente attorno, ma se Esching non li richiamava lui non poteva certo intervenire. E non credeva che il supervisore avrebbe detto loro di togliersi dai piedi. Sul silenzio radio del Trans-Continental si era ormai focalizzata l'attenzione del Centro controllo, e quella specie di minidramma rappresentava, in fondo, un buon addestramento per i giovani controllori del turno di sabato. Nessuno parlò molto, ma ciononostante Walters poteva avvertire un misto di curiosità, perplessità e ansia. Premette nuovamente il pulsante radio e riprovò. «Volo TransContinental uno-sette-cinque, qui Centro New York. Mi sentite?» Nessuna risposta. Walters fece un altro tentativo. Nessuna risposta. La sala era diventata silenziosa, a parte il ronzio degli strumenti elettronici. Nessuno di quelli davanti al radar fece il minimo commento. In situazioni del genere era sconsigliabile dire qualsiasi cosa, dato il rischio di doversene pentire.
«Gliela faccia pagare cara a quel pilota, capo» disse infine a Esching uno dei controllori. «Per colpa sua ho saltato la pausa caffè.» Alcuni risero, ma il loro buonumore svanì presto. Esching si schiarì la voce: «Okay, andate tutti a cercarvi qualcosa di utile da fare. Marsc'». I controllori si allontanarono lasciando soli Walters ed Esching. «Non mi piace questa faccenda» disse piano il supervisore. «Neanche a me.» Esching avvicinò una sedia a quella di Walters, poi prese a studiare lo schermo e si concentrò sul problema. La targhetta sul radar in corrispondenza del blip identificava l'aereo come un Boeing 747 della nuova serie 700, il più grosso e moderno dei 747. Stava seguendo regolarmente la rotta segnata sul piano di volo in direzione dell'aeroporto internazionale JFK. «Diavolo! Com'è possibile che non funzioni nemmeno una radio?» chiese Esching. Sam Walters ci pensò su. «Non può essere così... credo che il silenzio abbia a che fare con il volume troppo basso, oppure si sono guastati i selettori di frequenza, o si sono staccate le antenne.» «Ah sì?» «Sì...» «Ma... se il problema fosse provocato dal volume o dai selettori di frequenza, l'equipaggio se ne sarebbe dovuto accorgere da un pezzo.» Walters annuì. «Già... forse allora dipende tutto dalle antenne... oppure, sai, questo è un nuovo modello e magari c'è qualche virus che ha provocato un completo blackout radio.» «Possibile.» Ma non probabile. Il volo 175 aveva completamente perduto il contatto a voce dal momento in cui aveva lasciato l'aerovia oceanica in vista del Nordamerica. Il manuale delle procedure anomale prevedeva un caso del genere, anche se remoto, ed Esching ricordava che non indicava chiaramente il rimedio. In pratica, non si poteva fare nulla. «Se le radio sono a posto, il pilota si accorgerà di avere il volume troppo basso o di essere sulla frequenza sbagliata quando comincerà la discesa» disse Walters. «Giusto. Senti un po'... pensi che si siano addormentati tutti?» Walters esitò. «Be', può succedere, ma un assistente di volo avrebbe avuto tutto il tempo di accorgersene entrando in cabina di pilotaggio.» «Proprio così. Troppo lungo questo NO-RAD, vero?» «Comincia effettivamente a durare un po' troppo. Ma, come dicevo...
quando dovrà cominciare la discesa... sai, anche con un blackout radio totale avrebbe potuto mandare un messaggio via computer all'ufficio operazioni della sua compagnia, e quelli a quest'ora ci avrebbero già avvertiti.» Esching ci pensò su. «Ecco perché comincio a credere che sia un problema di antenna, come dicevi tu.» Continuò a riflettere per qualche secondo. «Quante antenne ha questo aereo?» gli chiese poi. «Non lo so con certezza. Tante.» «Possibile che si guastino tutte?» «Forse.» Esching rimase a pensare. «Okay» riprese. «Diciamo che il pilota si è accorto di non poter più contare sulla radio... ma avrebbe potuto benissimo usare il telefono aria-terra e chiamare qualcuno che a sua volta avrebbe chiamato noi. Voglio dire, è già successo di usare un airphone.» Walters annuì. Entrambi si misero a guardare sullo schermo il puntino bianco intermittente che si spostava lentamente da sinistra a destra, seguito dalla targhetta alfanumerica d'identificazione. Alla fine Esching disse ciò che non voleva dire. «Potrebbe trattarsi di un dirottamento.» Sam Walters non rispose. «Sam?» «Be', senti... l'aereo sta seguendo il piano di volo, rotta e quota sono quelle giuste e stanno ancora usando il codice transponder per la traversata atlantica. Se ci fosse un dirottamento in corso, il pilota avrebbe dovuto mandarci il relativo segnale sul transponder per avvertirci.» «Già...» Esching cominciava a rendersi conto che quella situazione era incompatibile con le diverse tipologie di dirottamento. C'era soltanto il misterioso silenzio di un aereo che, per il resto, non dava alcun motivo di preoccupazione. Anche se era possibile che i dirottatori fossero a conoscenza del codice transponder e avessero ordinato al pilota di non toccare il selettore. Esching capì che il peso di quella faccenda era tutto sulle sue spalle e si maledisse per essersi offerto di lavorare quel sabato. La moglie era in Florida dai genitori, i ragazzi erano al college e lui aveva deciso che andare a lavorare sarebbe stato preferibile che rimanere in casa da solo. Doveva trovarsi un hobby. «Che altro possiamo fare?» gli chiese Walters. «Tu continua a fare il tuo lavoro. Io chiamo il supervisore della torre, al
Kennedy, e poi il Centro operazioni della Trans-Continental.» «Buona idea.» Esching si alzò. «Sam, non credo che questo problema sia serio, ma peccheremmo di negligenza se non ne informassimo qualcuno» disse a futura memoria. «Giusto.» Walters tradusse mentalmente quelle parole più o meno come segue: "Non vogliamo passare per inesperti, incompetenti o apprensivi nell'affrontare questa situazione, ma in ogni caso è meglio pararsi il culo". «Chiama il settore 19 perché lo prendano in carico.» «D'accordo.» «E avvertimi se cambia qualcosa.» «Senz'altro.» Esching si diresse verso il suo box a vetri in fondo alla sala. Sedette alla scrivania e fece passare qualche minuto, nella speranza che Sam Walters lo chiamasse per informarlo di aver ristabilito il contatto. Ripensò a quel problema, poi a ciò che avrebbe dovuto dire al supervisore del Kennedy. La telefonata, decise, avrebbe avuto un carattere esclusivamente informativo, senza che trasparissero dalla sua voce preoccupazione, opinioni o ipotesi: soltanto i fatti nudi e crudi. Mentre per la telefonata al Centro operazioni della Trans-Continental avrebbe dovuto trovare un tono di voce a metà strada tra il fastidio e la preoccupazione. Sollevò il telefono e premette il pulsante che lo collegava automaticamente con la torre del Kennedy. E mentre attendeva la risposta si chiese se non avrebbe invece dovuto dar voce a ciò che in quel momento lo angosciava... "Qui qualcosa sta andando terribilmente storto." 3 Me ne stavo seduto con i colleghi Ted Nash (superspia della Cia), George Foster (boy scout dell'Fbi), Nick Monti (poliziotto di New York e bravo ragazzo) e Kate Mayfield (stella del Federal Bureau of Investigations). Ci eravamo presi delle sedie girevoli dalle scrivanie vuote e ognuno di noi aveva in mano una tazza di caffè. Io veramente avrei voluto una ciambella, di quelle con sopra lo zucchero a velo, ma preferii farne a meno per non dovermi subire le solite battute sulla passione dei poliziotti per le ciambelle. Ci eravamo tolti la giacca mettendo in mostra le rispettive fondine. Anche dopo vent'anni di servizio noto ancora come questo gesto faccia auto-
maticamente abbassare la voce a tutti, donne incluse. E tutti stavamo scorrendo le pagine della carpetta di questo presunto disertore, che si chiamava Asad Khalil. Tra parentesi, quella che i poliziotti chiamano "carpetta", i miei nuovi amici la chiamano "dossier". I poliziotti siedono sul culo e sfogliano le carpette, i federali siedono sul derrière e analizzano i dossier. L'informazione contenuta nella carpetta si chiama ciò-che-sappiamo sul soggetto, l'informazione contenuta nel dossier si chiama, credo, informazione. È la stessa cosa, ma devo imparare il nuovo linguaggio. Non c'era molto comunque nella mia carpetta, o nei loro dossier, a parte una foto a colori trasmessa dalla nostra ambasciata di Parigi, una breve biografia e un altrettanto breve rapporto del tipo ecco-cosa-pensiamo-chequesto-stronzo-abbia-in-mente, compilato da Cia, Interpol, MI-6 britannico, Sùreté francese e alcuni altri uffici di sbirri e spie sparsi per l'Europa. Nella biografia si leggeva che il presunto disertore era libico, sulla trentina, apparentemente senza famiglia e senza altre caratteristiche di rilievo se si eccettua la conoscenza di inglese, francese, un po' d'italiano, ancor meno tedesco e, naturalmente, arabo. Diedi un'occhiata all'orologio, mi stiracchiai, sbadigliai e mi guardai attorno. Il Conquistador Club, oltre a essere a disposizione dell'Attf, serve da ufficio distaccato per l'Fbi e da base d'appoggio per la Cia e Dio sa per chi altri, ma quel sabato pomeriggio gli unici presenti eravamo noi cinque dell'Attf, oltre alla funzionarla di servizio che si chiamava Meg e alla già citata segretaria Nancy Tate. Le pareti, per inciso, sono rivestite di piombo per evitare l'intercettazione delle conversazioni, e nemmeno Superman potrebbe vederci. «Ho saputo che potresti lasciarci» mi disse Ted Nash. Non risposi ma lo guardai. Ci teneva all'abbigliamento e si capiva che tutto ciò che indossava era fatto su misura, comprese scarpe e fondina. Non era male con la sua bella abbronzatura e i capelli sale e pepe, e ricordo benissimo che Beth Penrose ci aveva fatto un pensierino. Mi ero convinto che non era quello il motivo per cui lui non mi piaceva, ma indubbiamente ciò non contribuiva a migliorare il nostro feeling. «Se dedichi novanta giorni a questo caso» intervenne George Foster «qualsiasi decisione prenderai in seguito sarà tenuta in seria considerazione.» «Davvero?» Foster, agente anziano dell'Fbi, era in un certo senso il nostro caposqua-
dra e la cosa era accettata da Nash, che della squadra non era un effettivo ma vi collaborava quando la Cia decideva che fosse il caso, come oggi. Foster, con un abito di quel terribile blu che sembra voler dire a tutti "Sono un federale", aggiunse brusco: «Ted ci lascerà tra poche settimane per un incarico oltremare, quindi rimarremo noi quattro». «E perché non può lasciarci ora?» proposi astutamente. Nash rise. Detto tra parentesi, Mr Ted Nash, oltre a far colpo su Beth Penrose, aveva aggiunto all'elenco dei suoi peccati anche le minacce che mi aveva rivolto durante l'affare Plum Island, e io non sono il tipo che perdona. «Stiamo lavorando su un caso interessante e importante» riprese George Foster. «L'omicidio, qui a New York, di un palestinese moderato da parte di un gruppo estremista. E abbiamo bisogno di te.» «Ah sì?» L'istinto mi diceva che mi stavano vendendo fumo: Foster e Nash avevano bisogno di qualcuno che gli parasse il culo e, di qualunque cosa si trattasse, volevano incastrarmi. Pensai di prestarmi al gioco per vedere fin dove si sarebbero spinti ma, onestamente, ero fuori dal mio elemento e, se non stai più che attento, anche un paralitico può tirarti uno sgambetto. Che coincidenza, voglio dire, essere finito in questa squadra. L'Attf non è un organismo particolarmente affollato, ma lo è abbastanza da far apparire sospetta la faccenda del mio arruolamento. Punto primo. Punto secondo, non mi convinceva affatto quella richiesta nominativa di Bibì e Bibò, che avevano voluto proprio me per la mia esperienza nel ramo omicidi. Avevo intenzione di chiedere a Dom Fanelli come era venuto a sapere di quei contratti da agente speciale. Affiderei a Dom la mia vita, anzi l'ho già fatto, quindi lui da questo punto di vista era a posto, e dovevo presumere che anche Nick Monti fosse pulito. I poliziotti non fottono i colleghi, nemmeno in nome del governo federale, specialmente non in nome del governo federale. Guardai Kate Mayfield. Il mio freddo cuore sarebbe caduto a pezzi se anche lei fosse stata d'accordo con Foster e Nash per fottermi. Lei mi sorrise. E io le ricambiai il sorriso. Se fossi stato nei panni di Foster e Nash e avessi voluto pescare John Corey, avrei usato come esca Kate Mayfield. «A questo lavoro occorre fare l'abitudine» mi disse Nick Monti. «E devi sapere che metà dei poliziotti e degli ex poliziotti che vengono a lavorare da noi dopo un po' se ne vanno. Siamo tutti una grande famiglia, ma in
questa famiglia gli sbirri sono l'equivalente dei ragazzi che non sono andati al college, vivono ancora con i genitori, fanno lavori saltuari e chiedono sempre l'auto.» «Non è vero, Nick» obiettò Kate. Monti rise. «Sì, hai ragione.» Poi mi guardò. «Ne riparleremo davanti a qualche birra.» «A vostra disposizione» dissi alla congrega, il che in pratica significava "Andate a fare in culo". Ma certe cose, in questi casi, non le dici in maniera esplicita se vuoi che continuino a tenere l'amo sul pelo dell'acqua. Piuttosto interessante. Un altro motivo del mio modo di fare brusco era la nostalgia del Dipartimento di polizia, noi lo chiamavamo "il Lavoro", e in quel momento mi piangevo addosso e sognavo i bei giorni che furono. Intercettai lo sguardo di Nick Monti. Non lo avevo conosciuto in servizio ma sapevo che aveva fatto il detective nell'unità investigativa, il che era perfetto per questo tipo di lavoro. Dicevano di aver bisogno di me per l'omicidio di quel palestinese e per altri delitti di matrice terroristica, per questo mi avevano offerto il contratto. «Lo sai perché agli italiani non piacciono i Testimoni di Geova?» chiesi a Nick. «No... perché?» «Perché agli italiani non piace nessun testimone.» La battuta provocò una sonora risata di Nick, ma gli altri tre mi guardarono come se avessi scorreggiato con il cervello. I federali, dovete sapere, sono così politically correct e anal-ritentivi, così terrorizzati dal catechismo del Pensiero di Washington, così intimiditi dalle direttive idiote che Washington emette come un costante flusso diarroico. Voglio dire, con il passare degli anni stiamo tutti più attenti a non offendere gli altri, a misurare le parole, e la cosa mi sta bene, ma i federali diventano decisamente paranoici all'idea di urtare qualcuno o qualche gruppo, così può capitare di sentire frasi del tipo "Salve, signor terrorista, mi chiamo George Foster e oggi sarò il funzionario addetto al suo arresto". «Tre note di demerito, detective Corey, per illecita ironia sulle minoranze» mi disse Nick Monti. Nash, Foster e Mayfield erano tra il seccato e l'imbarazzato, rendendosi conto che li stavamo indirettamente prendendo in giro. Mi è capitato di pensare, in momenti di particolare lucidità, che anche i federali devono avere motivi di risentimento verso i poliziotti, ma non ne parlano mai. Nick Monti era sulla cinquantina, sposato con figli, un'avanzata calvizie, un girovita pronunciato, un'aria paterna e innocua: tutto sembrava, cioè,
tranne che un uomo dei servizi segreti. Doveva essere in gamba, se i federali lo avevano rubato al Dipartimento di polizia. Studiai il dossier di Asad Khalil. Questo gentiluomo arabo sembrava aver girato a lungo l'Europa occidentale e, ovunque fosse stato, qualcosa di grave era successo a persone o cose di nazionalità o proprietà americana o inglese: una bomba nell'ambasciata inglese a Roma, un'altra nella cattedrale americana di Parigi, una terza nella chiesa luterana americana di Francoforte, l'uccisione a colpi d'ascia di un ufficiale dell'aeronautica statunitense davanti alla base aerea di Lakenheath, in Inghilterra, l'eccidio a Bruxelles di tre scolari americani figli di ufficiali della Nato. Quest'ultimo fatto mi sembrò particolarmente atroce e mi chiesi che problema avesse quel tipo. Nulla di quanto sopra, comunque, poteva essere direttamente ricondotto a Khalil, che in ogni caso era stato messo sotto stretto controllo per vedere con chi se la faceva o, se possibile, per coglierlo sul fatto. Ma il presunto stronzo sembrava non avere né complici né legami o affiliazioni con qualcuno o qualcosa né collegamenti con gruppi terroristici, a parte il Kiwanis e il Rotary. Scherzo, ovviamente. Lessi nel dossier un passo firmato con il nome in codice da un agente appartenente a un non meglio specificato organismo di sicurezza. "Asad Khalil entra in un paese servendosi di documenti regolari, ha un passaporto libico e si spaccia per turista. Le autorità sono sul chi vive e lo tengono d'occhio per scoprire i suoi contatti; ma lui riesce invariabilmente a scomparire senza lasciare traccia della sua uscita dal paese. Raccomando vivamente il suo arresto e interrogatorio la prossima volta che si presenterà a un posto di frontiera." Buona idea, Sherlock. Proprio quello che stavamo per fare. Ciò che non mi convinceva, anzi mi preoccupava, era l'idea che un tipo del genere, in netto vantaggio sulle polizie di mezza Europa, un bel giorno si fosse presentato e consegnato alla nostra ambasciata di Parigi. Lessi l'ultima pagina del dossier. Si trattava in pratica di un individuo solitario mal disposto verso l'Occidente. Okay, tra poco scopriremo cos'ha davvero in mente Asad Khalil. Studiai la telefoto arrivata da Parigi. Il soggetto aveva l'aria cattiva ma non era brutto. Il tipico bell'uomo, per intenderci, dalla carnagione scura, il naso aquilino, i capelli lisci pettinati all'indietro e occhi neri e profondi. Doveva aver avuto un bel po' di ragazze, o ragazzi, vai a sapere. I miei colleghi stavano parlando tra loro di ciò che avremmo dovuto fare di lì a poco. Il nostro compito era quello di prendere Khalil in custodia
protettiva, portarlo in questo ufficio per un rapido interrogatorio preliminare, scattargli qualche foto, prendergli le impronte, e altre incombenze del genere. Anche un funzionario del Servizio immigrazione e naturalizzazione gli avrebbe fatto alcune domande per stendere un rapporto. Il sistema federale si muove all'insegna della sovrabbondanza e, quando qualcosa va storto, ci sono non meno di cinquecento persone pronte a passarsi la patata bollente. Dopo un paio d'ore, lo avremmo scortato a Federal Plaza dove, immagino, lo avrebbero accolto altre persone incaricate insieme alla mia squadra di accertare la sincerità della sua defezione in favore del cristianesimo e roba del genere. A un certo punto, tra un giorno o una settimana o un mese, Khalil sarebbe ricomparso in qualche ufficio della Cia fuori Washington, dove avrebbe passato un anno a vuotare il sacco per poi ricevere qualche dollaro e una nuova identità: conoscendo la Cia, avrebbero fatto somigliare quel poveretto a Pat Boone. «Ha i capelli biondi, gli occhi azzurri, grosse tette e vive nel sud della Francia. Chi è?» chiesi ai colleghi. Nessuno sembrava saperlo, glielo dissi. «Salman Rushdie.» Nick si fece una bella risata dandosi una manata sul ginocchio. «Altre due note di demerito.» Nash e Foster sorrisero di malavoglia, Kate alzò gli occhi al cielo. Sì, forse stavo un po' esagerando, ma non ero stato io a cercarli. Comunque, avevo ancora a disposizione solo un'altra barzelletta scema e due battute sgradevoli. «Come avrai forse letto nelle istruzioni operative che ci ha mandato Zach Weber» mi disse Kate «Asad Khalil arriverà scortato da Phil Hundry dell'Fbi e Peter Gorman della Cia. Lo hanno prelevato a Parigi e occupano tre posti in business nella parte superiore del jumbo. Khalil non è ancora un testimone del governo e, finché il suo status non sarà definito, viaggerà ammanettato.» «A chi accrediteranno le miglia per avere il biglietto gratis?» chiesi. Ms Mayfield ignorò la domanda. «I due agenti e Asad Khalil sbarcheranno per primi e noi li attenderemo sulla passerella telescopica davanti al portellone dell'aereo.» Diede un'occhiata all'orologio, poi si alzò e andò a guardare il monitor degli arrivi e partenze. «Il volo è in orario, tra una decina di minuti dovremmo cominciare a muoverci per andare al gate.» «Sicuramente non ci saranno problemi, ma è meglio stare all'erta» intervenne Ted Nash. «Se qualcuno vuole uccidere il nostro uomo può farlo solo sulla passerella telescopica, oppure mentre torniamo qui sui pulmino o
durante il trasferimento a Manhattan. Dopodiché Khalil sparirà nelle viscere del sistema e nessuno lo rivedrà o sentirà più parlare di lui.» «Ho richiesto un certo numero di poliziotti della Port Authority e di agenti in uniforme sulla pista accanto al pulmino, e per il trasferimento a Federal Plaza potremo contare sulla scorta della polizia» ci informò Nick. «Se qualcuno vuole far fuori Khalil, dovrà compiere una missione da kamikaze.» «Il che non è da escludere del tutto» commentò Foster. «A Parigi gli hanno messo addosso un giubbotto antiproiettile, è stata presa ogni precauzione. Non dovrebbero esserci problemi» disse Kate. Non dovrebbero. Non qui, sul suolo americano. A quanto mi risulta, né i federali né la polizia hanno mai perso un detenuto o un testimone in transito, e il lavoro di quel pomeriggio si presentava quindi estremamente semplice. Ma, nonostante ci scherzassi su, sapevo bene che questi incarichi di routine spesso ti si ritorcono contro, se non tieni gli occhi più che aperti. Parliamo di terroristi, gente supermotivata che, com'è noto, se ne fotte di campare un giorno in più. Ripassammo ad alta voce i movimenti che avremmo compiuto, i passi attraverso il terminal fino al gate e alla passerella telescopica. Dopo l'arrivo di Khalil, Gorman e Hundry, avremmo disceso con loro le scale di servizio della passerella e, una volta a terra, saremmo saliti tutti su un pulmino anonimo con blindatura Kevlar. A questo punto, preceduti e seguiti da auto della Port Authority, saremmo tornati al nostro club privato. Le auto della Port Authority sono munite di radio, obbligatoria per tutti i veicoli che si muovono nell'area aeroportuale. Tornati al Conquistador Club avremmo fatto venire l'uomo dell'Immigrazione per le procedure di sua competenza. Quel giorno l'unica organizzazione non coinvolta sembrava essere l'ufficio contravvenzioni stradali. Ma le regole sono regole e ognuno ha il proprio campicello da coltivare. A un certo punto saremmo saliti di nuovo sul pulmino e, sempre scortati, avremmo puntato su Manhattan seguendo un itinerario decisamente tortuoso ed evitando la zona di Brooklyn abitata da musulmani, mentre un altro mezzo scortato da un'auto della polizia avrebbe fatto da esca. Con un po' di fortuna, alle 6 avrei potuto riprendere la mia auto e andarmene a Long Island, dove avevo un appuntamento con Beth Penrose. Nancy sporse la testa nella stanza. «Il pulmino è arrivato.» Foster si alzò. «È ora di muoversi.» Poi si rivolse a me e Nick. «Perché uno di voi due non rimane qui, nel caso arrivasse qualche telefonata da
New York?» «Mi fermo io» disse Nick. Foster scribacchiò su un foglietto il numero del suo cellulare e lo porse a Nick. «Teniamoci in contatto. Se arriva qualche telefonata, chiamami.» «D'accordo.» Uscendo lanciai un'occhiata al monitor, mancavano venti minuti all'atterraggio. Mi sono chiesto più di una volta come sarebbe finita quella storia se al posto di Nick mi fossi fermato io. 4 Ed Stavros, supervisore della torre di controllo dell'aeroporto internazionale Kennedy, era al telefono con Bob Esching, collega di turno in quel momento al Centro controllo traffico aereo di New York. Non aveva capito se Esching fosse preoccupato o no, ma il semplice fatto che lo avesse chiamato era di per sé abbastanza anomalo. Gli occhi di Stavros si spostarono distrattamente sulle ampie vetrate fumé, osservando un grosso A-340 della Lufthansa in atterraggio. Si rese conto che la voce all'altro capo del filo taceva e cercò in fretta qualcosa da dire senza compromettersi, nell'eventualità che qualche dirigente incazzato dovesse riascoltare il nastro con la registrazione della telefonata. Si schiarì la gola. «Ha chiamato la Trans-Continental?» «Mi accingo a farlo» rispose Esching. «Okay, bene. Io intanto allerto l'unità d'emergenza della polizia della Port Authority... Ha detto che questo 747 è della serie 700?» «Esattamente.» Stavros sapeva che quelli dell'unità d'emergenza conoscevano a memoria, almeno in teoria, ogni tipo di aereo, dislocazione delle uscite di sicurezza, disposizione dei posti e così via. «Okay... bene...» «Non sto dichiarando un'emergenza» aggiunse Esching. «È solo che...» «Certo, capisco. Ma in casi del genere è meglio attenersi alle regole, quindi siamo in presenza di una condizione 3-2. Sa cosa vuol dire, no? Un problema potenziale. D'accordo?» «Sì, voglio dire... potrebbe...» «Che cosa?» «Be', non vorrei trarre delle conclusioni affrettate, Mr Stavros...» «Non le sto chiedendo di trarre delle conclusioni affrettate, Mr Esching.
Dovrei dichiarare una condizione 3-3?» «È una decisione che spetta a lei, non a me. Quello che so è che abbiamo da oltre due ore un NO-RAD senza altre indicazioni di un problema in atto. Tra un minuto o due l'aereo dovrebbe comparire sul vostro schermo, seguitelo attentamente.» «Okay. C'è altro?» «Tutto qui.» «Grazie.» E Stavros riagganciò. Poi sollevò il telefono nero in collegamento diretto con il Centro comunicazioni della Port Authority e dopo tre squilli udì una voce. «Pistole e Annaffiatoi.» Stavros non gradiva particolarmente lo spirito dei poliziotti della Port Authority, che venivano impiegati anche come pompieri e per gli interventi d'emergenza. «Sta per arrivare un NO-RAD» disse. «Si tratta del volo Trans-Continental uno-sette-cinque, un Boeing 747, serie 700.» «Ricevuto, torre. Su quale pista?» «Dovrebbe essere la 4-destra, ma come faccio a sapere dove atterrerà se non riesco a parlarci?» «Giusto. Che OAP?» «L'ora d'arrivo prevista è 16.23.» «Ricevuto. Vuole una 3-2 o una 3-3?» «Be'... cominciamo con una 3-2, poi, a seconda di come si mettono le cose, possiamo passare a una 3-3 o a una 3-1.» «O lasciarla così com'è.» Erano quasi tutti dei ragazzacci, quelli della Port Authority, anche le donne, e a Stavros decisamente non piaceva il loro modo di fare. Chi aveva avuto la brillante idea di riassumere in un corpo tre funzioni tipicamente macho come quella dello sbirro, del pompiere e del personale d'emergenza doveva essere pazzo. «Con chi parlo?» chiese. «Bruce Willis?» «Sergente Tintle, al suo servizio. E io con chi ho il piacere?» «Sono Ed Stavros.» «Bene, Mr Stavros. Venga da noi, le daremo una bella tuta antincendio e un'ascia, così potrà essere uno dei primi a salire a bordo se l'aereo si incendierà.» «Stiamo parlando di un NO-RAD, non di un problema meccanico, sergente. Non si ecciti troppo.» «Quando si arrabbia, lei è adorabile.» «Okay, allora registriamo tutto. Passo al telefono rosso.» Riagganciò,
sollevò il telefono rosso e premette un pulsante che lo collegò nuovamente con il sergente Tintle, il quale questa volta rispose: «Port Authority, Servizio emergenza». La telefonata adesso era ufficiale e ogni parola veniva quindi registrata. «Qui è la torre di controllo» disse Stavros. «Chiamo una 3-2 per un Trans-Continental 747-700, pista d'atterraggio 4-destra, OAP tra circa venti minuti. Venti zero-tre-zero a 10 nodi. Trecentodieci anime a bordo.» Stavros si chiedeva sempre perché passeggeri ed equipaggio venissero chiamati "anime", come se fossero morti. Il sergente Tintle ripeté ciò che aveva udito. «Allerto le unità» aggiunse. «Grazie, sergente.» «Grazie a lei per averci chiamato, signore. È stato un piacere.» Stavros riagganciò e prese a massaggiarsi le tempie. «Idioti.» Poi si alzò guardandosi intorno. Nella sala uomini e donne, ciascuno di fronte a uno schermo, erano intenti a parlare al microfono incorporato alla cuffia, e ogni tanto vagavano con lo sguardo oltre le vetrate. Il lavoro alla torre non era stressante come quello che si svolgeva nel Centro radar al piano inferiore, dove in una stanza priva di finestre veniva effettivamente svolto il controllo del traffico aereo. Stavros ricordava ancora quella volta che un paio dei suoi avevano provocato la collisione tra due aerei in pista. Lui quel giorno non era in servizio, per questo non era stato licenziato. Si avvicinò a una vetrata. Si trovava a un'altezza di oltre 90 metri, l'equivalente di un palazzo di trenta piani, e da lì si godeva una vista mozzafiato dell'intero aeroporto, della baia e dell'Atlantico, con il cielo limpido e il sole del tardo pomeriggio alle spalle. Guardò l'ora e vide che erano quasi le 4: tra qualche minuto sarebbe terminato il suo turno, ma sicuramente gli sarebbe toccato dello straordinario. Alle 7 lui e la moglie attendevano per cena una coppia dì amici. Forse avrebbe potuto ugualmente farcela, magari con un piccolo ritardo; gli amici lo avrebbero aspettato volentieri anche più a lungo, se avesse raccontato loro i particolari dell'emergenza che lo aveva trattenuto. Gli altri consideravano il suo un lavoro affascinante e lui non faceva nulla per smentirli, soprattutto dopo aver mandato giù qualche cocktail. Doveva ricordarsi di chiamare a casa dopo l'atterraggio del TransContinental. Poi avrebbe parlato al telefono con il comandante dell'aereo e avrebbe steso un rapporto preliminare sull'incidente. Se era soltanto un problema di trasmissioni, alle 6 poteva tranquillamente mettersi in macchina, con due ore di straordinario. Bene.
Cercò di ricostruire mentalmente la telefonata con Esching. Gli sarebbe piaciuto mettere le mani sul nastro che aveva registrato le sue parole, ma la Federal Aviation Administration non era così stupida. A colpirlo non erano state le parole di Esching, ma il tono di voce. Il collega era chiaramente preoccupato e non era riuscito a nasconderlo. Eppure un NO-RAD di due ore non si poteva considerare di per sé pericoloso, ma soltanto insolito. E se a bordo del Trans-Continental 175 si fosse sviluppato un incendio? Ragione più che sufficiente per dichiarare una 3-3 invece della 3-2. La 3-4, che segnalava uno schianto imminente o in atto, era facile da dichiarare, mentre la situazione del Trans-Continental 175 era difficile da definire. Anche perché, naturalmente, c'era sempre la remota possibilità di un dirottamento in corso. Ma Esching aveva detto che dal transponder non era arrivato alcun segnale di quel tipo. Che fare, allora? 3-2 o 3-3? Se avesse chiamato una 3-3 e poi l'allarme fosse rientrato, avrebbe dovuto fare sfoggio di doti di creatività nel suo rapporto. Decise di lasciare la 3-2 e andò alla macchinetta del caffè. «Capo.» Stavros spostò lo sguardo verso la consolle di Roberto Hernandez, uno dei suoi controllori. «Che c'è?» Hernandez si tolse la cuffia. «Capo, mi ha appena chiamato un collega del radar per il NO-RAD di quel Trans-Continental.» Posò il caffè. «E allora?» «Be', l'aereo ha cominciato la discesa prima del previsto rischiando la collisione con un volo della US Airways diretto a Philadelphia.» «Cristo...» Stavros riportò gli occhi sulla vetrata. Era una giornata limpida: non riusciva a capire come il pilota del Trans-Continental avesse potuto commettere un simile errore; fra l'altro, prima ancora del contatto visivo sarebbe dovuto scattare l'allarme acustico. Tutto indicava una situazione terribilmente seria. Ma che diavolo stava succedendo su quell'aereo? «Ce l'ho, capo» disse Hernandez, che stava fissando il suo schermo. Stavros gli si avvicinò, osservando a sua volta il blip sul radar. L'aereo stava indubbiamente seguendo la rotta d'atterraggio strumentale verso una pista di nordest dell'aeroporto Kennedy. Ricordò i tempi in cui lavorare in una torre di controllo significava di solito guardare dalla finestra. Ora, invece, gli addetti puntavano gli occhi sugli stessi display elettronici dei controllori che si trovavano nella sala radar al piano inferiore: ma almeno, se ne avevano voglia, potevano guardare
fuori. Stavros prese il potente binocolo di Hernandez e si avvicinò alla vetrata che guardava a sud. Davanti alla parete trasparente, che occupava l'intero perimetro della sala, erano montate, a 90 gradi l'una rispetto all'altra, quattro postazioni che consentivano al personale di comunicare e nello stesso tempo di osservare direttamente ciò che avveniva sulle piste di decollo e atterraggio, su quelle di rullaggio e ai gate, e inoltre di seguire gli aerei in avvicinamento. Di solito non era necessario combinare le due attività, ma in quel momento Stavros sentì il bisogno di mettersi, per così dire, al timone non appena fosse apparso l'aereo all'orizzonte. «Velocità?» chiese a Hernandez. «Duecento nodi. La quota è di 2400 metri.» «Okay.» Stavros sollevò nuovamente il telefono rosso e premette il pulsante dell'altoparlante. «Servizio emergenza, qui è la torre. Passo.» L'altoparlante ruppe il silenzio della sala. «Torre, qui è il Servizio emergenza.» Stavros riconobbe la voce di Tintle. «Che c'è di nuovo?» chiese il sergente. «Di nuovo c'è che ora la condizione è la 3-3.» «Provocata da che cosa?» Dalla voce di Tintle si capiva che non aveva più tanta voglia di fare lo spiritoso. «Provocata da una mancata collisione» rispose Stavros. «Maledizione.» Seguì un breve silenzio. «Secondo lei, qual è il problema?» «Non ne ho idea.» «Potrebbe trattarsi di un dirottamento?» «Un dirottamento non basta per spingere un pilota a fare cazzate del genere.» «Be'... allora...» «Non c'è tempo per le ipotesi. L'aereo si trova a 25 chilometri di distanza ed è diretto alla pista 4-destra. Ricevuto?» «Venticinque chilometri, pista 4-destra.» «Affermativo.» «Allerto immediatamente l'unità per una 3-3.» «Esatto.» «Confermare il tipo di aereo» disse Tintle. «A quanto mi risulta è sempre un 747 della serie 700. Vi chiamerò ap-
pena avremo stabilito il contatto a vista.» «Ricevuto.» Stavros riattaccò e portò il binocolo agli occhi puntandolo sulla fine della pista e spostandolo lentamente, con il pensiero fisso alla telefonata appena conclusa. Aveva visto qualche volta Tintle alle riunioni congiunte dei vari uffici aeroportuali e non gli piaceva molto il suo modo di fare, ma doveva ammettere che quell'uomo gli era sembrato competente. Quei cowboy che si erano ribattezzati "Pistole e Annaffiatoi" passavano le giornate in caserma giocando a carte, guardando la Tv o parlando di donne. Oppure tirando a lucido le loro autobotti. Stavros però li aveva visti in azione ed era quasi certo che fossero in grado di prendere in mano qualsiasi situazione, dall'incendio a bordo allo schianto in pista e perfino al dirottamento. La sua responsabilità sarebbe comunque terminata non appena l'aereo si fosse fermato, e provò un certo piacere al pensiero che le conseguenze economiche di quella 3-3 sarebbero state a carico del bilancio della Port Authority e non della Federal Aviation Administration. Abbassò il binocolo per stropicciarsi gli occhi, poi lo sollevò nuovamente puntandolo sulla pista 4-destra. Entrambe le unità di salvataggio si erano messe in movimento e Stavros vide lungo il perimetro della pista un incredibile assortimento di mezzi di soccorso con i lampeggianti rossi in funzione. Erano distanziati l'uno dall'altro, una procedura attuata per evitare che un mostro come il 747 li spazzasse via schiantandosi al suolo. Stavros contò due VIR, veicoli d'intercettazione rapida, e quattro grosse autobotti T2900. C'era anche un'enorme autogru, due ambulanze e sei auto della polizia della Port Authority, oltre al posto di comando mobile dotato di centrale telefonica e radio. Notò anche il camion Materiali pericolosi, il cui equipaggio era stato addestrato dall'esercito. Parcheggiati a poca distanza c'erano l'autoscala e l'ospedale mobile. Mancava soltanto l'obitorio mobile, che sarebbe stato fatto intervenire solo se necessario; e, in tal caso, non ci sarebbe stata alcuna fretta. Rimase a osservare quella scena, che lui stesso aveva creato sollevando la cornetta di un telefono. Una parte di lui sperava che il problema si risolvesse subito, che si trattasse di un falso allarme, mentre un'altra... Non chiamava una 3-3 da due anni e temeva quindi di aver sopravvalutato la situazione. Ma in casi del genere, sempre meglio sopravvalutare che sottovalutare.
«Undici chilometri» lo informò Hernandez. «Okay.» Stavros puntò nuovamente il binocolo all'orizzonte, nel punto in cui l'Atlantico si congiungeva alla leggera foschia di New York. «Dieci chilometri.» «Ce l'ho.» Anche con quel potente binocolo il 747 appariva poco più di un puntino contro il cielo azzurro, ma con il passare dei secondi continuava a ingrandirsi. «Otto chilometri.» Stavros aveva seguito migliaia di jumbo in atterraggio e nel TransContinental non notò alcuna apparente anomalia, a parte quel misterioso silenzio radio ancora in atto. «Sei chilometri.» Decise di parlare di persona con il responsabile delle operazioni di soccorso. Sollevò un radiotelefono collegato automaticamente con la frequenza del controllo di terra. «Soccorso uno, qui è la torre.» Dallo speaker rimbombò una voce. «Torre, qui è Soccorso uno. Cosa possiamo fare per voi?» Oddio, un altro spiritosone! Probabilmente non li assumevano se non avevano la battuta pronta. «Parla Ed Stavros, supervisore della torre. Con chi parlo?» «Sergente Andy McGill, prima chitarra del gruppo Pistole e Annaffiatoi. Cosa le posso suonare?» Stavros non aveva alcuna intenzione di assecondare quelle idiozie. «Voglio stabilire un contatto diretto con voi.» «Stabilito.» «Okay. L'aereo è in vista, McGill.» «Giusto, lo vediamo anche noi.» «Ed è anche esattamente allineato.» «Meglio così, ci danno un gran fastidio quando ci atterrano addosso.» «State pronti, in ogni caso.» «Sempre NO-RAD?» «Proprio così.» «Tre chilometri e mezzo» disse Hernandez. «Sempre allineato, quota 240 metri.» Stavros riferì questi dati a McGill. «Milleseicento metri, quota 150 metri» disse ancora Hernandez. Stavros ora vedeva perfettamente il grosso aereo. «Si conferma 747700» trasmise a McGill. «Carrello d'atterraggio abbassato, i flap sembrano
normali.» «Ricevuto, lo prendiamo in carico» rispose McGill. «È tutto vostro.» Stavros riagganciò il radiotelefono. Hernandez aveva lasciato la sua postazione accostandosi a Stavros, altri colleghi liberi in quel momento da impegni si erano avvicinati alla vetrata. Stavros osservò quasi ipnotizzato il 747 che aveva superato l'inizio pista e sembrava galleggiare sospeso in aria, avvicinandosi sempre più all'asfalto. Nulla distingueva la procedura d'atterraggio del Trans-Continental da quella degli altri 747. Ma, all'improvviso, Stavros ebbe la certezza che quella sera sarebbe arrivato a casa in ritardo per la cena. 5 Il pulmino ci scaricò agli Arrivi internazionali, di fronte al cartello dell'Air India, e ci dirigemmo subito verso l'area della Trans-Continental. Ted Nash e George Foster camminavano vicini, seguiti da me e Kate Mayfield, per non avere l'aria di federali in servizio nel caso qualcuno ci stesse osservando. Bisogna ricorrere a certi accorgimenti anche se l'avversario non ti preoccupa più di tanto. Alzai gli occhi al monitor degli arrivi. Il volo Trans-Continental veniva dato in orario, il che significava che sarebbe atterrato fra una decina di minuti, gate 23. Dirigendoci verso gli arrivi osservavamo il pubblico attorno a noi. Di solito non si vedono tipacci che caricano la pistola o roba del genere, ma è incredibile come si riesca a fiutare il pericolo dopo vent'anni di servizio. Quel sabato pomeriggio d'aprile, comunque, il terminal non era particolarmente affollato e tutti avevano un'aria più o meno normale, a parte i newyorkesi, che sembrano sempre avere una gran fretta. «Voglio che ti comporti civilmente con Ted» mi disse Kate. «Okay.» «Dico sul serio.» «Sissignora.» «Più lo provochi, più lui se la gode» aggiunse, dimostrando un certo acume. Aveva ragione, ma c'è qualcosa in Ted Nash che non mi va giù. Mi dà fastidio il suo modo di fare precisino, il suo complesso di superiorità; soprattutto, non mi fido di lui. La gente in attesa agli Arrivi internazionali si trova oltre la dogana, al
piano terra, e ci mettemmo a scrutare le facce per notare eventuali atteggiamenti sospetti, qualsiasi cosa significhi "atteggiamento sospetto". Secondo me, un terrorista che deve sparare a qualcuno sa che se questo qualcuno è sotto scorta non dovrà certo passare la dogana. Ma, per qualche motivo, la caratura professionale dei terroristi che operano in questo paese è di solito scarsa, e certe fesserie che hanno combinato sono ormai leggendarie. A sentire Nick Monti, gli uomini dell'Attf si raccontano al bar storie di terroristi scemi, per poi ammannire alla stampa versioni in cui quegli stessi terroristi diventano pericolosissimi. Pericolosi in effetti lo sono, ma soprattutto per se stessi. Anche se non dobbiamo dimenticarci del World Trade Center, per non parlare degli attentati alle nostre due ambasciate in Africa. «Ci fermiamo qui un paio di minuti, poi andiamo al gate» mi disse Kate. «Devo issare un cartello con la scritta "Benvenuto Asad Khalil"?» «Più tardi, al gate. Questa sembra essere la stagione dei disertori.» «In che senso?» «Ce n'è stato un altro a febbraio.» «Raccontami.» «Più o meno la stessa storia di Khalil. Un libico che ha chiesto asilo politico.» «E dove si è consegnato?» «Anche lui a Parigi.» «Che gli è successo?» «Lo abbiamo tenuto qui qualche giorno, per poi trasferirlo a Washington.» «E ora dove si trova?» «Perché me lo chiedi?» «Perché? Perché sento puzza di bruciato.» «Sembra anche a me. Tu che ne pensi?» «Ha l'aria di una specie di prova generale, per vedere cosa succede se ti consegni all'ambasciata americana di Parigi.» «Sei più sveglio di quanto sembri. Hai seguito corsi di antiterrorismo?» «Più o meno, sono stato sposato. E ho letto un bel po' di romanzi sulla guerra fredda.» «Sapevo che non sbagliavamo ad assumerti.» «Puoi dirlo. L'altro disertore è sotto controllo oppure può telefonare ai suoi amici in Libia?» «Il controllo non era strettissimo e lui se l'è filata.»
«E perché non era strettissimo?» «Perché l'uomo era considerato un testimone affidabile.» «Ora non lo è più» sottolineai. Non rispose e io non le feci altre domande. Ho l'impressione che i federali trattino le spie e i terroristi disposti a passare dall'altra parte con molti più riguardi di quanto non facciano i poliziotti con i criminali che collaborano. Ma è solo un'opinione personale. Arrivammo a un punto stabilito vicino all'ingresso della dogana, dove avevamo appuntamento con un detective della Port Authority, che si chiamava Frank. «Conoscete la strada o volete che vi accompagni fino al gate?» ci chiese Frank. «Conosco la strada» rispose Foster. «Bene, allora vi faccio passare.» Varcammo l'ingresso della dogana, e agli addetti al controllo Frank disse: «Agenti federali in transito». Nessuno ci degnò di uno sguardo e il poliziotto ci lasciò augurandoci buon lavoro, ben felice di non doversi fare la camminata fino al gate 23. Kate, Foster, Nash e io attraversammo l'area della dogana passando accanto ai nastri dei bagagli e, superato un lungo corridoio, arrivammo alle cabine di vetro del controllo passaporti, dove nessuno ci chiese nemmeno cosa facessimo lì. Per passare, magari con un lanciarazzi sulla spalla, è sufficiente sbandierare sotto il naso di questi idioti la tessera del Touring Club. Dal punto di vista della sicurezza il JFK è un incubo, una specie di calderone in cui si mescolano buoni, cattivi, brutti e stupidi e dove entrano ed escono ogni anno trenta milioni di persone. Percorremmo insieme uno di quei tunnel lunghi e surreali che collegano l'area Immigrazione e passaporti agli Arrivi. Scoprii che eravamo gli unici ad andare in quella direzione e proposi, per non dare nell'occhio, di camminare all'indietro, ma a nessuno quell'idea sembrò necessaria o divertente. Kate e io precedevamo Nash e Foster. «Hai studiato il profilo psicologico di Asad Khalil?» mi chiese. Non ricordavo di aver notato profili psicologici nel dossier, e glielo dissi. «E invece c'era. C'è scritto che uno come Asad Khalil - tra parentesi, Asad in arabo significa "leone" - soffre di scarsa autostima e sta cercando di superare il senso di inadeguatezza che si porta dietro dall'infanzia.» «Sarebbe a dire?»
«È il tipo che ha bisogno di affermare la propria dignità.» «Vuoi dire che non gli posso spaccare il naso?» «Proprio così, non glielo puoi spaccare. Devi sostenere la sua personalità.» Le lanciai un'occhiata, vidi che stava sorridendo e, siccome non sono scemo, capii che mi stava prendendo in giro. Risi e lei mi diede scherzando un pugno sul braccio. La cosa mi fece in un certo modo piacere. Al gate c'era una donna in uniforme blu con blocco a pinza e ricetrasmittente. Dovevamo avere l'aria pericolosa o qualcosa del genere, perché appena ci vide si mise a parlare in fretta alla radio. Kate ci precedette, le mostrò il distintivo dell'Fbi, le disse qualcosa e quella si calmò. Sono tutti un po' sul paranoico, di questi tempi, specialmente negli aeroporti internazionali. Quando ero bambino, al gate ci si andava direttamente senza passare alcun controllo, con il metaldetector si cercavano le monete perdute dai villeggianti sulla spiaggia, e la parola "dirottamento" era totalmente sconosciuta. Ma il terrorismo internazionale ha cambiato tutto e, purtroppo, la paranoia non è la migliore amica della sicurezza. Ci mettemmo a chiacchierare con la donna, che era ovviamente l'impiegata della Trans-Continental addetta a quel gate. Si chiamava Debra Del Vecchio, un nome che suonava bene. Ci disse che a quanto ne sapeva il volo era in orario, per questo lei si trovava lì. Tutto bene, finora. Esiste una procedura che regola l'imbarco, il trasporto e lo sbarco dei prigionieri sotto scorta: sono gli ultimi a imbarcarsi e i primi a sbarcare. Anche i vip, come i politici, per scendere dall'aereo devono aspettare che sbarchi un prigioniero; ma a volte i politici finiscono in manette, e allora possono scendere per primi. Kate si rivolse alla hostess. «Quando l'aereo si fermerà accanto alla passerella telescopica, noi andremo al portellone. Quelli che aspettiamo sbarcheranno per primi e scenderanno con noi le scale di servizio; sotto ci attende un pulmino sul quale saliremo, e lei non ci vedrà più. I passeggeri non avranno alcun fastidio.» «Chi state aspettando?» le chiese la Del Vecchio. «Elvis Presley» risposi io. «Un vip» chiarì Kate. «Qualcuno le ha chiesto informazioni su questo volo?» domandò Foster. La hostess scosse il capo. Nash si mise a osservare la targhetta di riconoscimento appuntata sulla
giacca della Del Vecchio. Pensai che fosse il caso di fare o dire qualcosa di spiritoso per giustificare i 50 dollari di taxi spesi per arrivare al Kennedy, ma non mi venne in mente nulla a parte chiederle se avesse per caso un amichetto arabo. Ce ne rimanemmo lì come cinque idioti cercando di darci l'aria di quelli che sì stanno divertendo, guardando ogni tanto l'orologio o mettendoci a osservare gli stupidi poster turistici appesi alle pareti. Foster sembrò ricordarsi all'improvviso di avere un cellulare e lo estrasse di tasca, felicissimo di avere qualcosa da fare. Premette il pulsante di chiamata automatica, attese, poi disse: «Nick, sono George, siamo al gate. Niente di nuovo?». Ascoltò ciò che gli stava dicendo Nick Monti. «Okay... sì... bene... okay, ciao.» Non riuscendo a tirare in lungo quella telefonata di routine, riattaccò. «Il pulmino è già ai piedi delle scale» annunciò. «Sono arrivati anche quelli della Port Authority e la polizia, dieci persone in tutto con cinque auto e il veicolo-esca.» «Nick ti ha detto per caso come stanno andando gli Yankees?» gli chiesi. «No.» «Giocano contro i Detroit, ormai dovrebbero essere al quinto inning.» «Alla fine del quarto perdevano 3 a 1» intervenne la Del Vecchio. «Un campionato difficile, quest'anno» commentai. Andammo avanti per un po' con quella conversazione banale. «Hai già fatto la dichiarazione dei redditi?» chiesi a Kate. «Certo, sono una ragioniera.» «Me l'aspettavo.» Poi mi rivolsi a Foster. «Anche tu ragioniere?» «No, sono laureato in giurisprudenza.» «Chissà perché, la cosa non mi stupisce.» «Pensavo foste dell'Fbi» osservò Debra. «Molti agenti sono ragionieri o laureati in giurisprudenza» le spiegò Kate. «Strano» fu il commento della Del Vecchio. Ted Nash se ne stava con le spalle alla parete e le mani infilate nelle tasche della giacca a fissare il vuoto, ripensando probabilmente ai bei tempi del campionato mondiale Cia-Kgb. Non avrebbe mai immaginato che la sua squadra, dopo aver vinto la coppa del mondo, si sarebbe ritrovata a giocare in quarta serie. «Pensavo che anche tu fossi un avvocato» dissi a
Kate. «Sono anche quello.» «Ma non mi dire! E sai anche cucinare?» «Certo. E sono cintura nera di karate.» «Con la dattilografia come te la cavi?» «Settanta parole al minuto. E sono tiratrice scelta con cinque modelli di pistola e tre di fucile.» «Anche la Browning 9 millimetri?» «Senza problemi.» «Facciamo una gara?» «Certo, quando vuoi.» «Cinque dollari a punto?» «Facciamo 10.» Ci stringemmo la mano. Non mi stavo innamorando o scemenze del genere, ma devo ammettere che quella donna mi aveva colpito. Passarono lentamente dieci minuti. «Un tipo entra in un bar» dissi «e fa al barista: "Sai che ti dico, gli avvocati sono tutti stronzi". E uno, seduto su uno sgabello all'estremità del bancone, gli fa: "Non m'è piaciuta, amico, datti una calmata". "Perché, sei un avvocato?" gli chiede il tipo. E l'altro: "No, sono uno stronzo".» La Del Vecchio si mise a ridere. Poi diede un'occhiata all'orologio e spostò lo sguardo sulla radio. Aspettammo. A volte si ha la sensazione che qualcosa non stia andando per il verso giusto. Era la sensazione che provavo in quel momento. 6 Il sergente Andy McGill, comandante dell'Unità d'emergenza meglio conosciuta come Pistole e Annaffiatoi, se ne stava in piedi sul predellino esterno dell'autobotte con indosso la tuta argentea ignifuga che cominciava a farlo sudare. Regolò il binocolo puntandolo sul 747 in atterraggio e, per quanto gli sembrò di vedere, nell'aereo e nella manovra non si notava nulla di anormale. Infilò la testa nel finestrino abbassato. «Nessuna indicazione visiva di qualche problema. Trasmetti» disse al vigile del fuoco Tony Sorentino. Il vigile, anche lui già con la tuta ignifuga, sollevò il microfono che lo
collegava con gli altri mezzi e diramò la comunicazione di McGill. Ognuno diede il ricevuto facendolo seguire dalla propria sigla. «Digli anche di attenersi alla procedura standard di dislocamento e di seguire l'aereo finché non abbandonerà la pista.» Sorentino trasmise anche questi ordini ricevendo i vari okay. Dall'altoparlante giunse la voce di Ron Ramos, comandante dell'altra unità. «Hai bisogno di noi, Andy?» «No, ma rimanete all'erta. Siamo ancora in una 3-3.» «A me sembra una 3-nulla.» «Sì, però non riusciamo a parlare con il pilota, quindi in campana.» McGill mise a fuoco con il binocolo la torre di controllo e, nonostante il riflesso del sole, si accorse che dietro le vetrate si era raccolta una piccola folla. Anche loro evidentemente erano preoccupati per quella faccenda. Aprì lo sportello di destra e si infilò nella grossa cabina accanto a Sorentino, seduto al centro dietro il volante. «Tu che ne pensi?» «Penso che non sono pagato per pensare.» «Ma se fossi obbligato a pensare?» «Voglio credere che non ci siano problemi, a parte la radio. Oggi non mi va di vedermela con un aereo in fiamme o con dei dirottatori.» McGill non rispose. Rimasero in silenzio qualche istante. Faceva caldo dentro quelle tute e McGill mise in azione il ventilatore. Sorentino incominciò a studiare le luci e gli indicatori del cruscotto. L'autobotte conteneva 400 chili di polvere viola K, usata per spegnere gli incendi in presenza di cavi elettrici, 3000 litri d'acqua e 400 litri di acqua leggera. «Tutte le apparecchiature sono a posto» disse a McGill. Il sergente rifletté che quella era la sesta uscita in una settimana e soltanto una si era rivelata necessaria, l'incendio al sistema frenante di un Delta 737. L'ultimo vero incendio di un aereo aveva dovuto affrontarlo cinque anni prima, quando le fiamme sviluppatesi da un motore di un Airbus 300 si erano estese alla cabina. Con i dirottamenti non aveva mai avuto a che fare; nel suo reparto un solo collega vantava un'esperienza del genere, e quel giorno era di riposo. «Quando l'aereo avrà abbandonato la pista lo seguiremo fino al gate» disse a Sorentino. «D'accordo. Ci portiamo dietro qualcuno?» «Sì... un paio di autopattuglie, nell'eventualità che a bordo ci sia qualche situazione spiacevole.»
«Okay.» McGill sapeva di poter contare su un'ottima squadra. Tutti quelli di Pistole e Annaffiatoi erano estremamente motivati e tutti avevano fatto una dura gavetta in posti infami come le stazioni degli autobus, i ponti, i tunnel e gli aeroporti. Per anni se l'erano vista con prostitute, magnaccia, spacciatori, tossici e barboni nei vari angoli dello sconfinato impero della Port Authority, inseguendo gli ubriachi e quelli che non pagavano il pedaggio, fermando alle stazioni degli autobus i ragazzini del Midwest scappati da casa e così via. Fare il poliziotto della Port Authority era uno strano cocktail di queste attività, ma quelli di Pistole e Annaffiatoi rappresentavano la crema del corpo. Erano tutti volontari addestratissimi, in grado di domare l'incendio di un aereo, ingaggiare sparatorie con terroristi folli e soccorrere un infartuato. Tutti potenziali eroi, insomma, ma negli ultimi dieci anni o giù di lì non era successo nulla di particolarmente clamoroso, e McGill si chiedeva se per caso i suoi uomini non si fossero un po' rammolliti. Sorentino stava studiando una mappa con la dislocazione dei posti sul 747-700. «È veramente un bestione» commentò. «Proprio così.» McGill sperò che, se il problema era di tipo meccanico, il pilota avesse avuto il buon senso di scaricare il carburante. Per McGill i jet di linea erano più o meno delle bombe volanti in grado di cancellare interi quartieri con tutto quel kerosene, i motori surriscaldati, i cavi elettrici e Dio sa cos'altro. Non aveva mai confessato a nessuno di aver paura di volare, per questo non aveva mai preso un aereo e mai lo avrebbe preso. Un conto era affrontare quei bestioni a terra, un altro trovarsi in aria prigionieri nella loro pancia. Andy McGill e Tony Sorentino stavano osservando il cielo limpido. Il 747 aveva ora colore e profondità, e le sue dimensioni parevano raddoppiarsi ogni secondo che passava. «Sembra okay» disse Sorentino. «È vero.» McGill portò il binocolo agli occhi e lo puntò sull'aereo. Il carrello d'atterraggio era costituito da due gruppi di ruote sotto le ali, due sotto la fusoliera e uno sotto il muso: in tutto ventiquattro ruote. «I pneumatici sembrano intatti» disse. «Bene.» McGill continuò a osservare l'aereo che adesso era come sospeso a un centinaio di metri dal suolo, a un'estremità della pista di nordest del Kennedy lunga quasi 3 chilometri e mezzo: e, nonostante la paura di volare,
era come sempre ipnotizzato da quegli splendidi bestioni. Per lui, atterraggio e decollo avevano qualcosa di magico, ma più di una volta aveva avuto a che fare con quei mostri mitici quando la loro magia veniva divorata dal fuoco, e ogni volta l'aereo non si rivelava granché diverso da un edificio o da un camion in fiamme. Compito di McGill era impedire che ciò avvenisse; ma fino a quel momento gli aerei continuavano ad apparirgli come biblici leviatani volanti venuti da un'altra dimensione per sfidare le leggi della gravità terrestre. «Quasi a terra...» disse Sorentino. McGill, concentrato sulle fasi dell'atterraggio, lo udì appena. I carrelli sembravano protesi in un gesto di arroganza, quasi ordinassero alla pista di salirgli incontro. L'aereo teneva il muso sollevato, con le due ruote sopra il livello dei carrelli, i flap erano abbassati, velocità, altezza e allineamento parevano a posto, i quattro giganteschi motori sembravano trascinarsi dietro onde di calore tremolanti. L'aereo appariva insomma in perfette condizioni. «Visto niente di strano?» chiese Sorentino. «No.» Il 747 superò la soglia della pista continuando ad abbassarsi fino al punto di contatto con il suolo, diverse centinaia di metri più avanti. Il muso si sollevò quasi impercettibilmente e subito dopo i primi pneumatici toccarono terra, sollevando nuvolette di fumo grigio argento nel passaggio da 0 a 350 chilometri l'ora. Tra il contatto con il suolo delle prime ruote e quello delle due sotto il muso passarono quattro o cinque secondi, ma la manovra aggraziata li fece sembrare più lunghi. Sembrava di assistere a uno di quei perfetti passaggi del football nella zona di meta. «Soccorso uno si sta muovendo» gracchiò una voce all'altoparlante. «Soccorso tre, mi trovo alla vostra sinistra» disse un'altra voce. Tutti e quattordici i mezzi si erano messi in movimento e, in contatto radio, cominciarono a percorrere la pista uno per uno mentre il grosso aereo li superava. Quando se lo trovò di fianco, McGill ebbe l'impressione che la velocità del 747 fosse eccessiva. Sorentino pigiò sul pedale del gas e il grosso camion ruggì all'inseguimento dell'aereo in decelerazione. «Ehi, Andy» disse a un certo punto «niente inversori di spinta.» «Che cosa...?» A mano a mano che il grosso camion guadagnava terreno sull'aereo,
McGill riuscì a notare a sua volta che i quattro semicappucci, simili a grossi cucchiai, ubicati dietro ciascun motore erano ancora sollevati in posizione di volo. Questi pannelli metallici, grandi quanto una porta di fienile, non erano stati cioè abbassati in modo da deviare i getti dei reattori, e per questo l'aereo stava andando ancora troppo veloce. Sorentino lanciò un'occhiata al tachimetro. «Centosettantacinque.» «Troppo veloce, sta andando troppo veloce.» McGill sapeva che il Boeing 747 poteva comunque fermarsi anche solo grazie al sistema frenante e la pista era sufficientemente lunga, quindi quella procedura anomala non era tale da impensierire; ma era allo stesso tempo la prima conferma che qualcosa non andava. Il 747 continuò a decelerare, anche se più lentamente del normale. McGill era a bordo del primo mezzo di soccorso, seguito da altri cinque camion tallonati a loro volta da sei autopattuglie. Chiudevano il corteo le due ambulanze. Il sergente sollevò il microfono dando un ordine all'equipaggio di ciascun mezzo e tutti si avvicinarono all'aereo prendendo posizione: uno in coda, i due T2900 ai lati e gli altri disposti a ventaglio subito dietro. Sorentino e McGill passarono sotto l'enorme ala e mantennero la posizione accanto al muso mentre il 747 continuava a rallentare. McGill osservò a lungo il grosso aereo, poi, alzando la voce per vincere il ruggito dei motori, disse a Sorentino: «Non vedo alcun problema». «Ma perché non usa gli inversori di spinta?» chiese l'autista, senza distogliere lo sguardo dal parabrezza. «Non lo so, chiediglielo.» Il Boeing 747 rallentò ancora e infine si fermò, a 400 metri circa dal termine della pista, dopo aver sollevato e riabbassato due volte il muso. Ciascuno dei quattro T2900 aveva preso posizione a 40 metri dall'aereo, due per lato, con altri due mezzi, uno davanti e l'altro dietro. Le ambulanze si fermarono all'altezza della coda mentre ognuna delle sei autopattuglie andò ad affiancare uno dei mezzi di intervento rapido, anche se in posizione più arretrata rispetto alle autobotti. I sei agenti scesero dalle auto, seguendo la procedura standard, e per precauzione si misero al riparo dietro le macchine; ciascuno era armato di carabina o di fucile automatico AR15. Gli uomini dei camion invece non si mossero. McGill sollevò il microfono per collegarsi con gli altri cinque automezzi. «Vedete qualcosa?» chiese.
Nessuno rispose ed era già un fatto positivo, perché la procedura prevedeva che venisse mantenuto il silenzio radio a meno che non si avesse qualcosa di importante da comunicare. McGill studiò la mossa successiva. Non avendo usato gli inversori di spinta, il pilota doveva aver messo a dura prova il sistema frenante. «Avvicinati alle ruote» ordinò a Sorentino. L'autista portò il suo mezzo a breve distanza dai pneumatici principali, sulla destra. Spegnere i freni in fiamme era l'abbiccì del loro mestiere; non un'operazione eroica, certo, ma se non si era pronti a gettare acqua sui freni surriscaldati, non era raro vedere l'intero carrello prendere fuoco all'improvviso. Il che, se non faceva certo bene ai pneumatici, rischiava di fare ancora peggio a chi si trovava a meno di 100 metri, dal momento che i serbatoi del carburante si trovano proprio sopra i freni. Sorentino fermò il suo mezzo a una dozzina di metri dalle ruote. McGill fissò con il binocolo i dischi dei freni. Se fossero stati di un rosso acceso era il caso di cominciare a innaffiare, ma per fortuna il loro colore era nero sporco e quindi non impensieriva. Allora sollevò il microfono e ordinò agli equipaggi dei T2900 di controllare gli altri tre gruppi di ruote. Pochi secondi dopo ricevette solo risposte negative, era tutto in ordine. «Okay, allontanatevi allora» disse al microfono. I quattro T2900 eseguirono. McGill, pur sapendo che l'aereo era in NORAD, decise ugualmente di cercare di mettersi in contatto con il comandante. «Trans-Continental, qui Soccorso uno. Mi sentite? Passo» disse alla radio usando la frequenza di terra. Nessuna risposta. Attese, poi tornò a trasmettere il messaggio. Guardò Sorentino, che si strinse nelle spalle. I mezzi d'emergenza, le autopattuglie, le ambulanze e il 747 erano immobili. I quattro motori del Boeing erano ancora accesi, ma l'aereo non si muoveva. «Gira intorno al jumbo in modo che il pilota possa vederci» disse McGill a Sorentino, che si mosse e aggirò con il camion la fiancata anteriore destra. McGill scese e cominciò ad agitare una mano in direzione del finestrino del pilota, poi con le braccia gli fece segno di spostare l'aereo fino alla pista di rullaggio. Il 747 non si mosse. Cercò allora di guardare dentro ma, a parte il riflesso del sole sul parabrezza, la cabina era troppo alta. A quel punto fece contemporaneamente due considerazioni. La prima era che non sapeva cosa avrebbe dovuto fare,
la seconda che qualcosa stava andando storto. Non vistosamente storto, ma impercettibilmente storto, che era lo storto peggiore. 7 Ero dunque in attesa al gate degli Arrivi internazionali, in compagnia di Kate Mayfield, Ted Nash, George Foster e Debra Del Vecchio, la hostess della Trans-Continental. Sono un uomo d'azione e non mi piace aspettare, anche se i poliziotti imparano presto a farlo. Una volta ho fatto un appostamento di tre giorni spacciandomi per un venditore di hot dog e ne ho mangiati così tanti che per rimettermi a posto lo stomaco ho dovuto ingoiare mezzo chilo di Metamucil. «C'è qualche problema?» chiesi alla Del Vecchio. Lei mi mise davanti agli occhi il suo piccolo walkie-talkie, dotato di un display sul quale si leggeva ATTERRATO. «Chiami qualcuno, per favore» le disse Kate. Lei si strinse nelle spalle e parlò al microfono. «Sono Debbie, gate 23. Situazione del volo uno-sette-cinque, per favore?» Ascoltò, poi chiuse il collegamento. «Stanno controllando» ci disse. «Come mai non sanno niente?» le chiesi. Lei rispose paziente. «L'aereo è sotto la giurisdizione della torre di controllo, quindi della Federal Aviation Administration, e non della TransContinental. La società viene chiamata soltanto se sorge qualche problema: se non la chiamano, vuol dire che è tutto a posto.» «Ma l'aereo è in ritardo al gate» le feci notare. «Non è un problema. È atterrato in orario, noi abbiamo un'altissima percentuale di puntualità.» «E se rimane in pista per una settimana? Va sempre considerato in orario?» «Sì.» Lanciai un'occhiata a Ted Nash, che se ne stava ancora con le spalle alla parete e lo sguardo perso nel vuoto. Come molti suoi colleghi della Cia voleva dare l'impressione di sapere più di quanto dicesse, anche se nella maggior parte dei casi ciò che spacciano per inscalfibile sicurezza è solo abissale stupidità. Perché lo odio, quest'uomo? Ma, quasi a smentirmi, Nash tirò fuori il cellulare e pigiò una serie di numeri. «Ho la linea diretta con la torre di controllo» annunciò. A quel punto mi venne il sospetto che Nash sapesse veramente più di
quanto diceva; e in particolare che sapesse, prima ancora dell'atterraggio del 747, che sarebbe potuto sorgere un problema. Dalla torre di controllo il supervisore Ed Stavros, il binocolo incollato agli occhi, stava seguendo la scena in corso sulla pista 4-destra. «Non stanno usando gli schiumogeni» disse ai colleghi attorno a lui «anzi si stanno allontanando dall'aereo. Uno di loro fa gesti con le braccia al pilota...» Il controllore Roberto Hernandez, che stava parlando al telefono, lo interruppe. «Capo, quelli del radar vogliono sapere quanto devono aspettare per usare la 4-sinistra e quando possiamo ridargli la disponibilità della 4destra. Ci sono alcuni voli in arrivo che cominciano ad avere problemi di carburante.» Stavros sentì un nodo allo stomaco e respirò a fondo. «Non lo so. Di' alla sala radar che richiamerò io.» Hernandez non gli rispose e non comunicò nemmeno che il suo superiore non sapeva che pesci pigliare. Alla fine Stavros gli tolse il telefono di mano. «Parla Stavros, abbiamo un NO-RAD... sì, lo so che lo sapete, ma non sappiamo altro... senta, se si trattasse di un incendio dovreste in ogni caso fare a meno della pista e non mi secchereste...» Ascoltò, poi rispose asciutto: «Allora ditegli che deve atterrare a Philadelphia perché il presidente si sta facendo tagliare i capelli sulla 4-destra». Riagganciò e si pentì immediatamente delle sue parole, anche se si era accorto che i suoi uomini stavano ridendo in segno di approvazione. Si sentì meglio per mezzo secondo, poi avvertì di nuovo la stretta allo stomaco. «Richiama l'aereo» disse a Hernandez. «Usa le frequenze della torre e quelle di terra; se non rispondono, dobbiamo dedurne che non sono riusciti a risolvere i loro problemi radio.» Hernandez prese il microfono della sua postazione e cercò di mettersi in contatto con il 747 su tutte le frequenze disponibili. Quel che non quadrava a Stavros era l'inerzia dell'equipaggio. In presenza di qualsiasi problema, il primo istinto di un pilota dovrebbe essere quello di liberare appena possibile una pista operativa. E invece il Boeing 747 se ne stava ancora là, immobile. Hernandez rinunciò ai tentativi con la radio. «Devo chiamare qualcuno?» chiese al capo. «Non è rimasto nessuno da chiamare, Roberto. Chi dovremmo chiamare? Quelli che dovrebbero portar via quel cazzo d'aereo se ne stanno impa-
lati con le dita nel naso. Chi chiamo? Mia madre? Lei voleva che facessi l'avvocato...» Capì di esagerare e cercò di calmarsi respirando a fondo. «Chiama quei buffoni laggiù» disse a Hernandez indicando la fine della pista 4-destra. «Chiama Pistole e Annaffiatoi. McGill.» «Sissignore.» Hernandez si attaccò al radiotelefono e chiamò l'Unità uno, chiedendo un rapporto sulla situazione a Sorentino. Poi premette il bottone dell'altoparlante e tutti udirono Sorentino dire: «Non so che cosa sta succedendo». Stavros strappò il radiotelefono di mano al suo uomo e, cercando di tenere sotto controllo ansia e rabbia, tuonò: «Se non lo sapete voi, come faccio a saperlo io? Voi siete lì. Io sono qui. Che succede? Voglio saperlo». Passò qualche istante. «Non c'è alcun segno apparente di problemi meccanici» disse poi Sorentino. «A parte...» «A parte cosa?» «Il pilota non ha azionato gli inversori di spinta. Capisce?» «Sì, cazzo, capisco benissimo cosa sono gli inversori di spinta.» «Be', allora... McGill sta cercando di attirare l'attenzione dell'equipaggio...» «L'equipaggio ha attirato l'attenzione di tutti, perché non è possibile il contrario?» «Non lo so. Dobbiamo salire a bordo?» Stavros rifletté su quella domanda, chiedendosi se toccasse a lui rispondere. Di solito a prendere quella decisione era il Servizio emergenza, ma in assenza di un problema visibile quei superman non sapevano se entrare o no. Il supervisore si rendeva conto che salire su un jumbo fermo in pista con i motori accesi era potenzialmente pericoloso sia per l'aereo sia per quelli del Servizio emergenza, soprattutto senza conoscere le intenzioni del pilota. E se il Boeing si fosse mosso all'improvviso? D'altra parte, poteva benissimo esserci un problema a bordo. Stavros non aveva quindi alcuna intenzione di rispondere a quella domanda. «Dovete deciderlo voi» disse a Sorentino. «Okay, grazie per il consiglio.» Quel sarcasmo lo lasciò indifferente. «Senta, non è compito mio... un momento...» Si era accorto che Hernandez gli stava porgendo un telefono. «Che c'è?» «Un tipo chiede di lei, dice di essere del Dipartimento di giustizia. A bordo del volo 175 ci sarebbe un detenuto sotto custodia e lui vuole sapere che sta succedendo.»
«Merda!» Stavros afferrò la cornetta. «Parla Ed Stavros.» Rimase ad ascoltare spalancando gli occhi. «Capisco» disse alla fine. «Sì, signore, l'aereo è arrivato senza collegamento radio ed è ancora fermo alla fine della pista 4-destra, circondato dalla polizia della Port Authority e dal personale del Servizio emergenza. La situazione è di stasi.» Rimase ancora ad ascoltare. «No, non c'è alcuna indicazione di un vero problema. Non abbiamo ricevuto segnali via transponder di un dirottamento in atto, ma l'aereo ha sfiorato la collisione...» Ascoltò nuovamente, chiedendosi se fosse il caso di accennare alla faccenda degli inversori di spinta con quello sconosciuto, che avrebbe potuto drammatizzare un problema meccanico relativamente trascurabile, ammesso che di questo si trattasse e non di una dimenticanza del pilota. Stavros non capiva bene chi fosse quel tipo, che in ogni caso parlava come uno abituato a dare ordini. Attese che avesse finito, poi disse: «Okay, capisco. Provvedo subito...». Rimase a fissare il telefono silenzioso, poi lo porse a Hernandez. La decisione l'aveva presa qualcun altro al posto suo, e la cosa lo fece sentire meglio. Allora riprese a parlare nel radiotelefono. «Ascolti, Sorentino, dovete entrare nell'aereo. A bordo c'è un prigioniero, è seduto in business, cioè nella cupola. È ammanettato e sotto scorta, quindi non c'è bisogno di tirar fuori le pistole e spaventare i passeggeri. Fate scendere lui e i suoi due custodi e portateli con un'auto della polizia al gate 23; lì ci sarà qualcuno ad attenderli. Okay?» «Ricevuto. Ma devo chiamare il mio...» «Me ne sbatto di chi deve chiamare, faccia quello che le ho detto. E una volta a bordo scoprite cosa sta succedendo. E se non ci sono problemi dite al pilota di lasciare libera quella maledetta pista e di portare l'aereo al gate 23. Precedetelo voi e indicateglielo.» «Ricevuto.» «Chiamatemi dopo che sarete entrati.» «Ricevuto.» Stavros si rivolse a Hernandez. «Per complicare le cose, questo tizio del Dipartimento di giustizia mi ha detto di non assegnare il gate a nessun altro aereo finché non mi darà lui stesso il via libera. Non li assegno io i gate, ma la Port Authority... chiamali e digli di non riassegnare il gate 23. Ora ci manca anche un gate.» «Con la 4-destra e la 4-sinistra chiuse non ce n'è un gran bisogno» gli fece notare Hernandez.
Stavros borbottò una parolaccia e corse nel suo ufficio a prendersi un'aspirina. Ted Nash si rimise in tasca il cellulare. «L'aereo è arrivato senza contatto radio e ora è fermo al termine della pista» ci informò. «Non ha mandato alcun segnale di anomalia e alla torre di controllo non riescono a capire quale sia il problema. Sul posto ci sono anche quelli del Servizio emergenza. Come avete sentito, ho detto alla torre di farli salire a bordo, prelevare i nostri e portarceli qui; e di lasciare libero il gate.» «Andiamo all'aereo» dissi ai colleghi. Intervenne George Foster, il nostro impavido comandante. «L'aereo è circondato dal Servizio emergenza e a bordo ci sono due dei nostri, quindi non hanno bisogno di noi. Meno complichiamo la situazione, meglio è.» Ted Nash, come al solito, mantenne il suo aplomb resistendo alla tentazione di contraddirmi. Kate si disse d'accordo con George e quindi, manco a dirlo, ero rimasto solo. Ma, voglio dire, se succede qualcosa da qualche parte perché starsene con le mani in mano da un'altra? Foster estrasse di tasca il cellulare e chiamò uno degli uomini dell'Fbi in attesa sul pulmino. «Jim, sono George. C'è un piccolo cambiamento. L'aereo è fermo in pista, ha un problema, quindi a portare il nostro uomo al gate con Phil e Peter provvederà un'auto della Port Authority. Appena arrivano chiamami e noi scendiamo. D'accordo? Ciao.» «Chiama Nancy e chiedile se Peter e Phil si sono fatti vivi» dissi a George. «È quello che stavo per fare, John. Grazie.» Foster compose il numero del Conquistador Club. «Nancy, hai sentito per caso Phil e Peter?... No, l'aereo è ancora sulla pista. Dammi i loro numeri di telefono.» Ascoltò, riattaccò e compose un numero tenendo poi il telefono lontano dall'orecchio per farci sentire, ma ciò che udimmo era solo una voce registrata con l'informazione che l'utente non era raggiungibile. Attaccò, compose l'altro numero e ricevette lo stesso messaggio. «Probabilmente hanno spento i cellulari» disse. Rimanemmo in silenzio. «In volo i cellulari devono essere spenti» ci spiegò. «E anche a terra. Ma forse uno di loro due deciderà di fregarsene del divieto e chiamerà Nancy, che ci avvertirà subito.» Ci pensai su. Se mi preoccupassi ogni volta che non riesco a parlare con
qualcuno al cellulare, a quest'ora avrei l'ulcera. Cellulari e cercapersone fanno schifo. Esaminai la situazione come se si trattasse di un caso ipotetico proposto dal docente di un corso. Alla scuola di polizia ti insegnano che devi rimanere al tuo posto o attenerti al piano finché non ricevi un contrordine da un superiore. Ma ti dicono anche di usare buon senso e iniziativa personale se le cose cambiano; l'importante è capire quando devi restartene fermo e quando devi muoverti. Quella era sotto tutti i punti di vista la situazione in cui rimanersene buoni, ma l'istinto mi diceva il contrario. Lì però ero fuori dal mio elemento, alle prese con un lavoro nuovo, e dovevo ritenere che quella gente sapesse quello che stava facendo. O, meglio, non facendo. Ma a volte la cosa giusta è proprio non fare nulla. Il walkie-talkie di Debra Del Vecchio gracchiò e lei se lo portò all'orecchio. «Okay, grazie.» Poi si rivolse a noi. «Mi hanno appena detto che poco fa la torre di controllo ha informato l'ufficio operazioni della TransContinental che il volo 175 era in NO-RAD.» «NO-che?» «NO-RAD, vuol dire senza radio.» «Questo lo sapevamo già. Si verifica spesso questo NO-RAD?» le chiesi. «Non saprei...» «Perché l'aereo è fermo al termine della pista?» Lei si strinse nelle spalle. «Forse il pilota è in attesa di istruzioni... voglio dire, per esempio, quale pista di rullaggio usare. Però mi sembra di ricordare che avevate parlato di un vip a bordo, non di un detenuto.» «È un vip detenuto.» Ce ne restammo lì in attesa che quelli della Port Authority facessero scendere Hundry, Gorman e Khalil e ce li portassero sotto il gate. A quel punto l'agente Jim Lindley ci avrebbe avvertiti, noi saremmo scesi e tutti insieme ce ne saremmo andati sotto scorta al Conquistador Club. Guardai l'orologio: il tutto non avrebbe richiesto più di quindici minuti. Forse dieci. 8 Sorentino suonò il clacson per attirare l'attenzione di McGill, che si avvicinò al camion arrampicandosi sul predellino esterno. «Ha chiamato Stavros, vuole che entriamo nell'aereo» lo informò l'autista. «Gli hanno telefonato dei federali, pare che a bordo ci sia un detenuto ammanettato e sotto
scorta. È seduto in uno dei posti in alto, bisogna portarlo fuori insieme ai suoi custodi e accompagnarlo con un'autopattuglia al gate 23, dove ci saranno ad attenderlo alcune auto della polizia e della Port Authority. Ma riceviamo ordini da quel tipo, adesso?» Per un attimo McGill prese in considerazione l'ipotesi di un nesso tra il detenuto e il problema, ma apparentemente non c'era alcun collegamento e non si poteva nemmeno parlare di coincidenza. Molti voli in arrivo avevano a bordo malavitosi, vip, testimoni e quant'altro, più di quanto si pensasse. In ogni caso, però, c'era qualcosa che sembrava volergli tornare in mente e che lui non riusciva a ricordare, qualcosa che aveva a che fare con quella situazione. Ci rinunciò. «No, non prendiamo ordini da Stavros o dai federali» rispose a Sorentino «ma forse è proprio il caso di salire. Informa il comandante.» «Certo.» E Sorentino si attaccò alla radio. McGill pensò in un primo momento di far venire l'autoscala, ma era piuttosto distante, e poi non ne aveva bisogno per entrare nell'aereo. «Avvicinati al portellone di destra» ordinò all'autista. Mentre il camion si portava accanto al portellone, dall'altoparlante della radio giunse la voce di un collega. «Sii prudente, Andy, ricordati lo scenario saudita.» «Oh merda...» biascicò Sorentino. McGill capì finalmente cos'era che non riusciva a farsi venire in mente e trasalì ricordando uno dei filmati che mostravano al corso allievi. Una ventina d'anni fa, a bordo di un Lockheed 1011 Tristar della Saudi Arabian, subito dopo il decollo dall'aeroporto di Riad era stato segnalato del fumo e il pilota aveva immediatamente invertito la rotta, atterrando senza problemi. Sembrava che si fosse sviluppato un piccolo incendio in cabina e l'aereo era stato subito circondato dai mezzi dei vigili del fuoco, mentre il personale saudita di pronto intervento attendeva che si aprissero i portelloni e che scattassero automaticamente gli scivoli gonfiabili. Ma, per negligenza o stupidità, i piloti non avevano depressurizzato la cabina, e la pressione interna impediva di aprire le porte. A nessuno venne in mente di prendere un'ascia dallo sportellino d'emergenza e spaccare un oblò. E tutte le trecento persone a bordo morirono bruciate o asfissiate. L'orribile scenario saudita. Erano stati addestrati a individuarlo, ora era probabile che si presentasse una situazione analoga e loro avevano perso tempo prezioso. "Oh, merda..." Sorentino, tenendo il volante con una sola mano, porse a McGill l'ascia e
il kit d'emergenza, che conteneva una bombola portatile d'aria compressa e una maschera a tutto viso. Quando il camion arrivò sotto il portellone, McGill si arrampicò sulla scaletta della fiancata fino al tetto, dove era montato il cannoncino lanciaschiuma. Soccorso quattro si era frattanto avvicinato al camion e uno degli uomini aveva preso posizione sul tetto dietro il cannoncino, mentre poco distante un poliziotto stava svolgendo una manichetta per acqua ad alta pressione. Gli altri camion e le ambulanze erano arretrati nel timore di un'esplosione. McGill notò con soddisfazione che, appena erano state pronunciate le parole "scenario saudita", tutti si erano attivati secondo il piano. Ma si era perso troppo tempo, come l'avevano perso i pompieri sauditi che loro avevano sfottuto assistendo al filmato. Sul tetto era montata una piccola scala pieghevole lunga quasi 2 metri e McGill la sollevò facendola ruotare verso il portellone del 747. Poi si mise la maschera, fece un respiro profondo e cominciò a salire. Ed Stavros stava seguendo la scena con il binocolo e, non avendo mai sentito parlare di scenario saudita, si chiese il perché di quelle misure antincendio. Sollevò il radiotelefono e chiamò l'auto di McGill. «Parla Stavros, che sta succedendo?» Sorentino non rispose. Stavros chiamò di nuovo. Sorentino non aveva alcuna intenzione di informarlo che probabilmente avevano individuato in ritardo la natura del problema. C'erano cinquanta probabilità su cento che non si trattasse dello scenario saudita, e l'avrebbero saputo in meno di un minuto. Stavros chiamò di nuovo, stavolta con maggiore insistenza, e Sorentino capì che doveva rispondere. «Stiamo prendendo le precauzioni necessarie» disse al microfono. Stavros cercò di interpretare questa spiegazione. «C'è qualche indicazione di un incendio a bordo?» «No... niente fumo.» «Okay... tenetemi al corrente. E rispondete quando vi chiamo.» Sorentino gli rispose per le rime. «Siamo in una possibile situazione di emergenza, quindi lasci libera questa frequenza. Chiudo!» Stavros guardò Hernandez per vedere se aveva sentito quell'idiota alzare la voce con lui. Hernandez finse di non aver udito e il supervisore si annotò mentalmente di dargli un giudizio lusinghiero nella scheda di valutazio-
ne annuale. Poi pensò se fosse il caso di informare qualcuno delle misure antincendio che erano state prese sulla pista. «Informa il Controllo traffico aereo che le piste 4-destra e 4-sinistra rimarranno inagibili ancora per un quarto d'ora almeno» disse a Hernandez. Tornò a puntare il binocolo sulla pista. Non riusciva a vedere il portellone di destra, che si trovava sulla fiancata opposta rispetto alla sua posizione, ma notò la disposizione dei mezzi. Se l'aereo fosse esploso e nei serbatoi ci fosse stato ancora molto carburante, i veicoli che si erano allontanati fino a una distanza di 100 metri avrebbero avuto bisogno di una nuova mano di vernice. E per i due accanto all'aereo si sarebbero sicuramente risparmiate le spese di rottamazione. Dovette ammettere che a volte quella gente si guadagnava lo stipendio, ma il suo lavoro era stressante ogni minuto delle sette ore quotidiane, mentre quello del Servizio emergenza lo diventava forse una volta al mese. Gli tornarono in mente le parole di quello scemo, "siamo in una possibile situazione di emergenza". E questo fu sufficiente a ricordargli che il suo ruolo in quella faccenda si era ufficialmente esaurito nel momento in cui il 747 era atterrato; a quel punto si sarebbe dovuto limitare a tenere informato il controllo traffico aereo sulla disponibilità delle piste. Più tardi avrebbe dovuto scrivere un rapporto compatibile sia con le registrazioni delle sue telefonate sia con il destino dell'aereo. Sapeva che erano state registrate anche le conversazioni con quel tipo del Dipartimento di giustizia, e la cosa contribuì a farlo sentire meglio. Si allontanò dalla vetrata e andò alla macchinetta del caffè. Se l'aereo fosse saltato in aria, lui l'avrebbe sentito; ma non aveva alcuna intenzione di vederlo. Andy McGill si sistemò l'ascia sulla spalla tenendo il manico con la mano sinistra e poggiò il dorso della destra contro la parete del portellone. Il guanto era abbastanza sottile e se la superficie fosse stata calda, lui se ne sarebbe accorto. Ma non avvertì calore. Allora allungò la mano verso la maniglia esterna dell'apertura d'emergenza e la tirò fuori dal suo abitacolo, poi la girò verso l'alto per disattivare l'uscita automatica degli scivoli. Si voltò abbassando lo sguardo alla sua destra e vide che il collega in tuta ignifuga teneva la manichetta puntata verso il portellone. L'altra autobotte, Soccorso quattro, si trovava dietro la sua, e l'uomo sul tetto aveva
puntato il cannoncino dello schiumogeno su di lui. Tutti avevano indossato elmetto e maschera e McGill non era quindi in grado di riconoscerli, ma si fidava di ognuno di loro. Quello con il cannoncino sollevò il pollice e lui gli rispose allo stesso modo. Andy McGill tenne stretta la maniglia e la spinse. Se l'aereo fosse stato ancora pressurizzato non si sarebbe mossa; a quel punto lui avrebbe dovuto rompere con l'ascia l'oblò del portellone per depressurizzarlo e lasciar fuoriuscire l'eventuale fumo. Continuò a spingere e all'improvviso il portellone cedette verso l'interno. Allora lasciò la maniglia e la porta continuò automaticamente ad aprirsi, per poi sollevarsi verso il soffitto. McGill abbassò istintivamente la testa per evitare il fumo, il calore o le esalazioni tossiche. Ma la precauzione si rivelò inutile. Senza perdere altro tempo scavalcò la soglia ed entrò, trovandosi come previsto nella zona della cambusa di prua. Poi controllò che la maschera sul viso fosse nella giusta posizione, si accertò che la bombola fosse piena e l'ossigeno fluisse regolarmente, e appoggiò l'ascia contro la parete. Sicuramente, constatò, non c'era traccia di fumo, ma non sapeva se poteva dire lo stesso di eventuali esalazioni venefiche. Tornò al portellone aperto per segnalare ai colleghi con la manichetta e il cannoncino che non c'era alcun incendio. Poi rientrò allontanandosi dalla cambusa. Alla sua destra, verso il muso dell'aereo, c'era la zona di prima classe e a sinistra quella turistica. Di fronte a lui la scaletta a chiocciola portava alla cabina di pilotaggio e alla business. Rimase per un po' ad ascoltare le vibrazioni prodotte sulla fusoliera dai motori accesi. Tutto sembrava normale, a parte due particolari: c'era troppo silenzio e le tendine tra la prima classe e la turistica erano chiuse, mentre le norme della Federal Aviation Administration prevedono che rimangano aperte durante il decollo e l'atterraggio. E, se avesse riflettuto meglio, si sarebbe chiesto perché non fosse ancora comparsa qualche assistente di volo. Ma quello era l'ultimo dei problemi. L'istinto gli diceva di andare a dare un'occhiata a una o a entrambe le classi, ma in questi casi bisognava invece cominciare dalla cabina di pilotaggio. Riprese l'ascia e si avvicinò alla scala a chiocciola, sentendo dentro la maschera il soffio regolare del suo respiro. Salì lentamente, ma facendo due gradini alla volta. Si fermò quando il busto fu all'altezza del pavimento e scrutò all'interno dell'area superiore.
Su ogni lato c'erano otto coppie di posti, per un totale di trentadue. Dalla sua posizione non riusciva a vedere le teste dei passeggeri nei loro ampi sedili, ma notò alcune braccia distese sui braccioli dei posti accanto al corridoio. Braccia immobili. "Ma che diavolo..." Continuò a salire e si fermò a un'estremità del piano superiore. Al centro si trovava una mensola piena di riviste, quotidiani e snack. Il sole del tardo pomeriggio filtrava dagli oblò illuminando il pulviscolo con i suoi raggi. Sembrava una scena tranquilla, ma istintivamente capì di trovarsi in presenza della morte. Percorse lentamente il corridoio guardando le persone a destra e a sinistra. Solo la metà dei posti era occupata, in maggioranza da uomini e donne di mezz'età, i tipici passeggeri della business. Molti avevano il capo reclinato all'indietro e una rivista o un libro in grembo, altri avevano il vassoietto ancora aperto, e qualche bicchiere era caduto durante l'atterraggio rovesciando il contenuto. Alcuni passeggeri avevano in testa la cuffia dello stereo e sembravano guardare il piccolo schermo estraibile dal bracciolo. I televisori erano ancora accesi e quello vicino a lui stava trasmettendo uno spot pubblicitario nel quale si vedeva gente felice a Manhattan. McGill non aveva dubbi che fossero tutti morti. Respirò a fondo per chiarirsi le idee e cercò di concentrarsi sul proprio compito. Si sfilò il guanto dalla mano destra e toccò il viso di una donna seduta accanto al corridoio. Non era gelida, ma la temperatura non era certo quella corporea. Doveva essere morta da qualche ora e le condizioni della cabina gli fecero capire che, qualsiasi cosa fosse accaduta, era sicuramente successa molto prima dei preparativi per l'atterraggio. Si chinò a osservare il volto dell'uomo seduto nella fila successiva. Era disteso, senza tracce di saliva, muco, vomito, lacrime o di qualsiasi espressione che rivelasse dolore o terrore... McGill non aveva mai visto nulla del genere. Le esalazioni venefiche e il fumo provocavano panico, una terribile sensazione di soffocamento, era insomma una morte orrenda che si rifletteva nelle smorfie e nei contorcimenti delle vittime. Ciò che stava vedendo, invece, era una tranquilla perdita di conoscenza, una specie di sonno seguito dalla morte. Cercò il prigioniero ammanettato e i due che lo scortavano e li trovò nella penultima fila di destra, accanto al finestrino. Il detenuto indossava un abito grigio scuro e, nonostante avesse il viso parzialmente nascosto dalla mascherina per dormire, gli sembrò ispanico o mediorientale o indiano.
McGill non sapeva distinguere i vari gruppi etnici. Ma il passeggero seduto accanto all'uomo ammanettato era quasi sicuramente un poliziotto, quelli McGill li riconosceva subito. Lo palpeggiò e sentì al tatto la fondina sul fianco sinistro. Poi guardò l'uomo seduto da solo nell'ultima fila, alle spalle dei due, e concluse che doveva essere l'altro agente di scorta. Del resto, la cosa ormai non aveva importanza, non c'era più bisogno di farli uscire dall'aereo e metterli in macchina, non sarebbero più andati al gate 23. Nessuno sarebbe più andato da nessuna parte, ma sarebbero finiti tutti nell'obitorio mobile. McGill considerò la situazione. Al piano superiore erano tutti morti e, dal momento che l'aria e la pressione erano le stesse in tutto l'aereo, capì che erano morti anche quelli della turistica e della prima classe. Ciò spiegava quel che aveva visto - o meglio, non visto - appena entrato, spiegava il silenzio. Pensò per un momento di chiedere via radio l'intervento di un medico, ma era quasi certo che nessuno ne avesse più bisogno. Sganciò ugualmente la radio dalla cintura e stava per trasmettere quando si rese conto che non sapeva cosa dire, e non riusciva a immaginare che impressione avrebbe fatto parlando attraverso la maschera dell'ossigeno. Si limitò allora a premere alcuni pulsanti per segnalare che stava bene. Udì la voce di Sorentino. «Ricevuto, Andy.» Si diresse verso la toilette posteriore, ubicata alle spalle della scala a chiocciola. Sulla targhetta si leggeva LIBERO, e McGill aprì la porta assicurandosi che non ci fosse nessuno. Uscendo dalla toilette vide che sul pavimento della cambusa c'era qualcuno. Si avvicinò al corpo inginocchiandosi; era quello di una hostess sdraiata su un fianco come se stesse schiacciando un pisolino. Le poggiò un dito sulla caviglia per sentire eventuali pulsazioni, ma inutilmente. Una volta certo che per i passeggeri non ci fosse più nulla da fare, si avvicinò alla porta della cabina di pilotaggio e tentò di aprirla, trovandola chiusa dall'interno come prevede il regolamento. Allora si mise a bussare, gridando attraverso la maschera dell'ossigeno: «Aprite! Servizio emergenza! Aprite!», ma non ottenne risposta, né se l'aspettava. Sollevò l'ascia e colpì violentemente all'altezza della maniglia; la porta cedette e si aprì a metà dondolando sui cardini. McGill esitò, poi mosse un passo all'interno della cabina. Il comandante e il suo secondo erano seduti al loro posto, con la testa reclinata in avanti. McGill rimase fermo qualche istante, non avendo affatto voglia di tocca-
re i piloti. «Ehi, ehi! Mi sentite?» chiese poi, sentendosi un po' stupido per quel tentativo di parlare con i morti. Si accorse che stava sudando e che le sue ginocchia erano sul punto di piegarsi. Non era il tipo da spaventarsi: nel corso degli anni ne aveva estratti di cadaveri dalle macerie o dalle ceneri fumanti, ma non si era mai trovato da solo in presenza di tanta morte silenziosa. Toccò con la mano nuda il viso del pilota. Morto da qualche ora. Com'era atterrato quell'aereo? Spostò lo sguardo sul pannello degli strumenti e, avendo fatto pratica delle cabine di pilotaggio dei Boeing durante un corso d'addestramento, individuò un piccolo display sul quale si leggeva AUTOLAND3. Qualcuno gli aveva detto che il pilota automatico programmato dal computer era in grado di far atterrare questi aerei della nuova generazione senza l'intervento umano. Allora non ci aveva creduto, adesso era costretto a farlo. Non c'era altro modo per spiegare come potesse trovarsi lì quell'aereo della morte. L'atterraggio con il pilota automatico spiegava anche la collisione sfiorata con l'aereo della US Airways e, probabilmente, il mancato uso degli inversori di spinta. Sicuramente, pensò McGill, giustificava le ore di NO-RAD, per non parlare del fatto che ora il 747 era fermo ai margini della pista con i motori ancora accesi ed entrambi i piloti morti da tempo. "Maria madre di Dio!..." Si sentì male, ebbe voglia di urlare o vomitare o correre via, ma rimase lì e respirò a fondo. "Càlmati, McGill." Che fare? "Cambiare l'aria." Sollevò una mano verso il soffitto e ruotò la leva del portellone d'emergenza, che si sollevò di scatto inquadrando una porzione di cielo azzurro. Rimase ad ascoltare il rombo dei motori, ora cresciuto d'intensità. Sapeva che avrebbe dovuto spegnerli, ma non c'era rischio d'esplosione e preferì aspettare, in modo che il sistema di ricambio dell'aria eliminasse completamente le tossine che avevano provocato quella tragedia. E in qualche modo si rinfrancò al pensiero che, anche se si fosse attivato prima, non sarebbe cambiato nulla. La situazione era simile a quella dello scenario saudita, con la differenza che stavolta l'incidente era avvenuto durante il volo e non mentre l'aereo era fermo in pista. E non era scoppiato alcun incendio, come quello che aveva fatto precipitare il 747 della Swissair al largo della Nuova Scozia. Questa volta il problema, qualunque fosse, aveva coinvolto solo le vite umane e non i sistemi meccanici o elettronici. Il pilota automatico aveva fatto quello per cui era stato programmato, anche se
McGill avrebbe preferito il contrario. Voleva uscire di lì, stare con i vivi, non con i morti. Ma decise di attendere che i condizionatori completassero la pulizia dell'aria e cercò di ricordarsi quanto tempo occorreva per ventilare completamente un 747. Avrebbe dovuto conoscerli, quei dati, ma non riusciva a concentrarsi. "Càlmati." Dopo quella che gli sembrò un'eternità, anche se in realtà erano passati meno di due minuti, abbassò la mano sulla consolle posta tra i due sedili e spostò i quattro interruttori del carburante. Le luci si spensero immediatamente, tranne quelle attivate dalle batterie dell'aereo, e il rumore dei motori scomparve, sostituito da un silenzio angosciante. McGill era sicuro che lì fuori stavano tutti tirando un sospiro di sollievo, ora che i motori erano spenti. Sapevano che lui stava bene, ma non potevano sapere che a fermare i motori non erano stati i piloti. All'improvviso udì un rumore alle sue spalle e si voltò di scatto verso la porta della cabina. «C'è qualcuno?» gridò attraverso la maschera dell'ossigeno. Silenzio. Un silenzio spettrale. Ma era sicuro di aver udito qualcosa, forse il cigolio dei motori che si raffreddavano... o un bagaglio che si era spostato nell'alloggiamento sopra i sedili. Respirò profondamente e cercò di distendere i nervi, ricordando ciò che una volta gli aveva detto un perito settore dell'obitorio: "I morti non possono farti del male, nessuno è mai stato ucciso da un morto". Tornò a guardare i cadaveri della business, che sembrarono ricambiargli lo sguardo. Si sbagliava, quel perito settore: i morti possono farti del male, ucciderti l'anima. Andy McGill disse un'Ave Maria e si fece il segno della croce. 9 Ero sempre più irrequieto, ma George Foster aveva stabilito una serie di contatti attraverso l'agente Jim Lindley sulla pista sotto di noi, che gli passava le notizie ricevute da un poliziotto della Port Authority, il quale a sua volta era aggiornato via radio dal suo Centro comando in comunicazione con la torre, collegata con le squadre d'emergenza accanto all'aereo. «Che cos'ha detto Lindley?» chiesi a George. «Che uno delle squadre d'emergenza è salito a bordo e i motori sono stati spenti.» «Ha riferito sulla situazione a bordo?»
«Non ancora, ma ha segnalato con un codice a impulsi radio che è tutto a posto.» «Vorrei scendere a parlare direttamente con Lindley.» «Perché?» «Perché no?» George era combattuto tra l'idea di tenermi sott'occhio e quella di perdermi di vista, magari per tutta la vita. Faccio questo effetto ai miei superiori. Poi si rivolse a tutti i presenti. «Lindley mi chiamerà quando l'uomo che è salito a bordo farà sbarcare i nostri e li metterà su un'auto della Port Authority; a quel punto scenderemo in pista. Okay?» Non avevo voglia di discutere con lui. «Sei tu che comandi.» Udimmo gracchiare la radio della Del Vecchio, che se la portò all'orecchio. «Gli Yankees hanno pareggiato al quinto inning» ci informò. Andy McGill sapeva che tutti i suoi movimenti sarebbero stati passati al vaglio per settimane, se non per mesi. Lui, in particolare, avrebbe trascorso parecchio tempo a testimoniare davanti a una decina di enti statali e federali, per non parlare dei suoi capi. Nel suo ambiente la tragedia del TransContinental 175 si sarebbe trasformata in una leggenda, e lui voleva fare di tutto per esserne il protagonista. Lasciò perdere le speculazioni sul futuro e tornò a concentrarsi sui problemi del presente. Che fare? Sapeva che i motori, ora spenti, potevano essere riaccesi solo con il generatore ausiliario di bordo, che lui non era però in grado di attivare; oppure con un generatore in dotazione dell'aeroporto, che doveva essere portato fin sotto l'aereo e collegato alle prese esterne. Ma, senza i piloti, non restava che chiamare un trattore della Trans-Continental per trainare l'aereo dalla pista fino all'area di sicurezza, lontano dagli occhi del pubblico e dei giornalisti. Avvicinò alla maschera il microfono della radio e chiamò Sorentino. «Soccorso uno, qui Soccorso otto-uno.» Riuscì a malapena a sentire "Ricevuto" e proseguì. «Fai venire immediatamente un trattore della Trans-Continental.» «Trattore, ricevuto. Che succede?» «Muoviti. Chiudo.» Uscì dalla cabina, scese la scaletta a chiocciola e aprì il portellone di fronte a quello dal quale era entrato. Poi tirò la tendina divisoria e volse lo sguardo alla lunga cabina della
classe turistica. Di fronte a lui c'erano centinaia di persone, sedute o reclinate, tutte perfettamente immobili come in una fotografia. Rimase a guardarle, in attesa che qualcuno si muovesse o emettesse qualche rumore. Ma non vide alcun movimento; nessuna risposta alla sua presenza, nessuna reazione a quell'alieno con tuta spaziale argentea e maschera sul viso. Allora tornò sui suoi passi, aprì anche la tenda della prima classe e percorse alcuni metri nel corridoio toccando i visi, dando persino qualche schiaffetto nel tentativo di provocare una reazione. Ma non c'erano assolutamente segni di vita e, d'improvviso, McGill fece una considerazione decisamente incongrua. Quella gente aveva pagato 10.000 dollari per un biglietto di prima classe andata e ritorno Parigi-New York: che vantaggio ne aveva ricavato se l'aria era la stessa della turistica, se ora erano tutti morti? Lasciò in fretta la prima classe e si diresse verso il portellone di destra, togliendosi maschera e casco. A pochi metri di distanza, sotto l'aereo, c'era ancora la sua autobotte. «Che succede?» gli chiese Sorentino, in piedi sul predellino esterno. McGill respirò a pieni polmoni. «Brutta storia, bruttissima.» Sorentino non aveva mai visto il suo superiore così cupo. «Chiama il Centro comando... digli che a bordo del volo 175 sono tutti morti, probabilmente uccisi da esalazioni tossiche.» «Gesù Cristo!» «Assicurati che uno dei capi riceva il messaggio e manda un rappresentante della compagnia nell'area di sicurezza. Anzi, mandaci tutti quanti, quelli della dogana, dei bagagli... tutti.» «Subito.» Sorentino si infilò nella cabina dell'autobotte. McGill tornò in classe turistica, portandosi dietro maschera e bombola d'ossigeno, anche se era sicuro di non averne bisogno. Non avvertiva nell'aria nulla che potesse sembrare irritante o velenoso, solo un leggero sentore vagamente familiare... di mandorle. Tirò la tenda e, cercando di non guardare i morti, attraversò il corridoio di destra e andò ad aprire le due uscite, poi si spostò sulla fiancata opposta e aprì le due di sinistra, avvertendo sul viso sudato una leggera corrente d'aria. La sua radio si attivò all'improvviso. «Unità uno, qui è il tenente Pierce. Fare rapporto situazione.» McGill sganciò la radio dalla cintura e rispose al suo comandante. «Qui Unità uno, sono a bordo dell'aereo. Tutte le anime sono morte.» Seguì un lungo silenzio. «Ne sei certo?»
«Sì.» Altro lungo silenzio. «Fumo? Esalazioni tossiche? O che altro?» «Negativo fumo. Esalazioni tossiche di origine ignota. L'aereo è ventilato e non sto usando l'ossigeno.» «Ricevuto.» Ancora un lungo silenzio. McGill sentiva le gambe tremargli, ma era sicuramente a causa dello shock e non di eventuali esalazioni ancora presenti nell'aria. Non aveva alcuna intenzione di prendere iniziative e rimase in attesa, immaginandosi quelli del Centro comando che in quel momento stavano di sicuro parlando tutti insieme a bassa voce. Alla fine udì di nuovo la voce del tenente Pierce. «Okay... mi dicono che hai chiesto un trattore della Trans-Continental.» «Affermativo.» «C'è bisogno... dell'ospedale mobile?» «Negativo. E l'obitorio mobile non sarà sufficiente.» «Ricevuto. Okay... trasferiamo il tutto nell'area di sicurezza. Liberiamo la pista e togliamo di mezzo quell'aereo.» «Ricevuto. Aspetto il trattore.» «Sì... okay... rimani sul posto.» «Non sto andando da nessuna parte.» «Vuoi che ti raggiunga qualcun altro? Un medico?» McGill sbuffò, quegli idioti del Centro comando sembravano non rendersi conto che sull'aereo erano tutti morti. «Negativo.» «Okay. Quindi... immagino che sia atterrato con il pilota automatico.» «È quello che penso anch'io. Il pilota automatico oppure Dio, certo non l'abbiamo fatto atterrare né io né il comandante né il secondo pilota.» «Ricevuto... voglio dire, il pilota automatico era stato probabilmente programmato...» «Senza probabilmente, tenente. I piloti sono freddi.» «Ricevuto. Tracce d'incendio?» «Ripeto, negativo.» «Decompressione?» «Negativo, non ci sono maschere a ossigeno fuori dagli alloggiamenti. Esalazioni tossiche, solo fottute esalazioni tossiche.» «Okay, calmati.» «Bene.» «Ci vediamo nell'area di sicurezza.»
«Ricevuto.» E McGill riagganciò la radio alla cintura. Non avendo nulla da fare esaminò altri passeggeri per assicurarsi ancora che a bordo non vi fosse alcun segno di vita. "Dio, che incubo!" In quell'affollata classe turistica cominciava a soffrire di claustrofobia e i nervi minacciavano di cedergli. Decise allora che si sarebbe sentito meglio di sopra, dove luce e spazio erano maggiori, e da dove avrebbe potuto seguire più agevolmente ciò che stava accadendo attorno all'aereo. Salì di nuovo la scala a chiocciola e, una volta su, vide da un oblò che si stava avvicinando il trattore. Da un finestrino della parte opposta notò una fila di mezzi del Servizio emergenza che tornavano al loro garage, mentre altri stavano dirigendosi verso l'area di sicurezza. Provò a ignorare i cadaveri. Se non altro qui ce n'erano meno e, fra questi, nemmeno un adolescente o un bambino. In ogni caso, pensò, ovunque si trovasse rimaneva l'unico essere vivente. Particolare, quest'ultimo, non esatto. Ma Andy McGill non poteva sapere di avere compagnia. Tony Sorentino vide il trattore avvicinarsi al carrello anteriore, quello sotto il muso. Si trattava di una specie di grossa piattaforma con una cabina di guida a ciascuna estremità, in modo che l'operatore potesse agganciarlo alle ruote anteriori per poi cambiare posto e trainare l'aereo senza rischiare di provocare danni muovendosi in retromarcia. Quel particolare veicolo lo affascinava e si chiese perché non ne avessero uno anche loro, ricordandosi poi di aver sentito dire che ne avevano fatto a meno per i costi dell'assicurazione. Ogni compagnia aerea aveva i propri trattori e, se avessero provocato danni a un aereo da 150 milioni di dollari, se la sarebbero vista loro. Giusto. Pure, secondo lui, avrebbero dovuto averne almeno uno: più giocattoli c'erano e più ci si divertiva. Vide l'operatore agganciare ai lati del carrello una barra di trazione munita di due ganasce. «Serve aiuto?» gli chiese. «No, non toccare niente.» «Ehi, sono assicurato.» «Non per questo lavoro.» Poco dopo l'operazione d'aggancio fu completata. «Dove andiamo?» gli chiese l'autista del trattore. «All'area dirottamenti.» Anche se eccessivamente drammatico, era il vero nome della zona di sicurezza. Il secondo nome di John Corey non è certo Inerzia. «Chiedo di nuovo il
permesso di scendere in pista» dissi a George Foster. Mi sembrò come al solito indeciso e, al suo posto, rispose Kate. «D'accordo, John, hai il permesso di scendere in pista. Però non allontanarti.» «Promesso.» La Del Vecchio premette alcuni tasti sul congegno di apertura della porta, che si spalancò. Scesi le scale di servizio della passerella e mi trovai sulla pista. La carovana di veicoli che avrebbe dovuto accompagnarci a Federal Plaza era parcheggiata accanto al terminal. Mi avvicinai in fretta a una delle auto della polizia della Port Authority e sbandierai il distintivo sotto il naso di un agente in uniforme. «L'aereo è alla fine della pista e devo raggiungerlo subito» gli dissi. Sedetti accanto a lui provando un profondo rimorso per la bugia che avevo detto a Kate. «Pensavo che quelli del Servizio emergenza avrebbero portato qui il vostro uomo.» «C'è stato un cambiamento di programma.» «Okay...» L'auto si mosse lentamente e l'autista si mise in comunicazione radio con la torre di controllo per chiedere l'autorizzazione ad attraversare la pista. Mi accorsi che qualcuno stava correndo accanto all'auto, doveva essere sicuramente l'agente dell'Fbi Jim Lindley. L'autista frenò. Lindley si identificò. «Chi è lei?» mi chiese. «Corey.» «Ah... e dove sta andando?» «All'aereo.» «Perché?» «Perché no?» «Chi l'ha autorizzata?» Improvvisamente accanto all'auto comparve Kate. «È tutto a posto, Jim» disse al federale. «Stiamo andando a controllare la situazione.» E si piazzò sul sedile posteriore. «Andiamo» dissi all'autista. «Sto aspettando l'autorizzazione...» Udimmo una voce provenire dall'altoparlante. «Chi ha chiesto l'autorizzazione ad attraversare la pista e perché?» Afferrai il microfono. «Parla...» Già, chi ero? «Qui è l'Fbi, abbiamo bisogno di raggiungere l'aereo. Con chi parlo?»
«Sono Ed Stavros, supervisore della torre. Senta, non può attraversare...» «È un'emergenza.» «Lo so che c'è un'emergenza. Ma perché dovete...» «Grazie.» Poi mi rivolsi all'agente al volante. «Autorizzati al decollo.» «Ma non ha...» protestò lui. «Fari e sirene, ne ho veramente bisogno.» Si strinse nelle spalle e l'auto si diresse a fari accesi e sirene spiegate verso la pista di rullaggio. Quello della torre di controllo, Stavros, riprese a dire qualcosa e immediatamente abbassai il volume al minimo. Kate finalmente aprì bocca. «Mi hai mentito.» «Mi spiace.» L'autista indicò alle proprie spalle con il pollice. «Chi è questa?» «Lei è Kate, io sono John. Tu chi sei?» «Al. Al Simpson.» Si portò sul prato di fianco alla pista di rullaggio e proseguì facendo continuamente sobbalzare l'auto. «Meglio tenersi alla larga dalle piste.» «Sei tu il capo.» «Che tipo di emergenza è in ballo?» «Mi spiace ma non posso dirlo.» In realtà non ne avevo la minima idea. Dopo un minuto scorgemmo all'orizzonte la grossa sagoma di un 747. Simpson sterzò, attraversò la pista di rullaggio e tornò sul prato dall'altra parte, evitando paletti luminosi e cartelli vari e puntando su un largo nastro d'asfalto. «Devo assolutamente chiamare la torre di controllo» mi disse. «Non ce n'è bisogno.» «Sono le regole della Faa. Non si può attraversare...» «Non preoccuparti. Terrò gli occhi aperti per avvistare aerei in decollo o atterraggio.» Simpson attraversò la larga pista. «Se il tuo obiettivo è il licenziamento, stai facendo un ottimo lavoro» mi disse Kate. Il 747 non sembrava lontano, ma si trattava di un'illusione ottica e la sagoma non s'ingrandiva mentre ci avvicinavamo. «Accelera» dissi a Simpson. L'auto ebbe uno scossone più violento dei precedenti. «Se hai una teoria, ti spiacerebbe parlarmene?» disse ancora Kate. «No.»
«Non hai una teoria o non ti va di parlarmene?» «Entrambe le cose.» «Perché stai facendo questo?» «Perché mi sono stancato di Foster e Nash.» «Secondo me vuoi soltanto metterti in mostra.» «Lo vedremo quando saremo arrivati all'aereo.» «Ti piace giocare d'azzardo, vero?» «Non mi piace. Devo farlo.» L'agente Simpson ci stava ascoltando ma preferì non fornire il suo contributo, né prendere le parti dell'uno o dell'altra. Rimanemmo in silenzio mentre il 747 sembrava ancora lontanissimo, irraggiungibile come un miraggio. Simpson sporse la testa dal finestrino. «Credo che lo stiano trainando.» «E perché mai?» «Be'... mi hanno detto che sono stati spenti i motori e a volte è preferibile trainarlo piuttosto che riaccenderli.» «Non basta girare la chiavetta?» Simpson rise. Eravamo più veloci del 747 e il distacco iniziò a diminuire. «Perché non lo stanno trainando in questa direzione, verso il terminal?» chiesi a Simpson. «Sembra che si dirigano verso l'area dirottamenti.» «Che cosa?» «L'area di sicurezza, voglio dire. Si può chiamare in entrambi i modi.» Voltandomi a guardare Kate mi accorsi che era preoccupata. «Mi sai dire che sta succedendo?» chiesi ancora a Simpson. «Non con esattezza. Per certo so che non si tratta di un dirottamento e credo che non sia nemmeno un problema meccanico. Ho sentito alla radio che moltissimi mezzi del Servizio emergenza stavano rientrando.» «Ci sono feriti?» «Non credo... non c'è stato nessun segnale radio con richiesta d'intervento medico...» Si interruppe. «Senti senti...» «Senti senti cosa?» Kate si sporse in avanti. «Simpson, senti senti cosa?» «Hanno chiamato l'OM e l'ML.» Il che significa Obitorio mobile e Medico legale, cioè cadaveri. «Accelera» dissi a Simpson.
10 Andy McGill si tolse di dosso la pesante tuta ignifuga lanciandola su un sedile vuoto accanto a una donna morta. Poi si asciugò il sudore sul collo e staccò dal torace la camicia blu dell'uniforme che vi si era incollata. Dalla radio giunse gracchiando il segnale di chiamata e lui parlò al microfono. «Unità otto-uno. Passo.» Era ancora il tenente Pierce e McGill fece una smorfia. «Andy, non vogliamo tormentarti» disse l'ufficiale in tono paternalistico «ma dobbiamo essere certi che non stiamo perdendo l'occasione di fornire assistenza medica ai passeggeri.» Dalla porta aperta della cabina di pilotaggio McGill vide che l'aereo al traino si trovava a una trentina di metri dall'ingresso dell'area recintata di sicurezza. Sorentino era già lì in attesa. «Andy?» «Ascolti, ho fatto una specie di ispezione controllando un centinaio di passeggeri in tutte e tre le classi. Sono tutti freddi e diventano sempre più freddi con il passare dei minuti. In questo momento mi trovo vicino alla cabina di pilotaggio e si comincia già a sentire la puzza.» «Okay... volevo solo essere sicuro. Sono nell'area di sicurezza e vedo che l'aereo sta per arrivare.» «Ricevuto. C'è altro?» «Negativo. Chiudo.» McGill riagganciò la radio alla cintura, poi rivolse lo sguardo ai tre uomini che avrebbe dovuto far sbarcare e si avvicinò ai due seduti l'uno accanto all'altro, il prigioniero ammanettato e l'agente federale. Sentendosi prima poliziotto e poi vigile del fuoco, decise di togliere le armi ai due federali, per evitare che andassero perse nella confusione. Sbottonò la giacca dell'agente e trovò la fondina, che però era vuota. "Ma che diavolo..." Passò al collega seduto nella fila dietro e nemmeno nella sua fondina trovò la pistola. Strano. Qualcos'altro di cui preoccuparsi. A quel punto McGill si accorse di avere sete e andò alla cambusa di poppa. Sapeva che non avrebbe dovuto toccare nulla ma aveva la gola secca. Cercando di ignorare il cadavere della hostess, disteso sul pavimento, si guardò attorno e trovò una lattina di soda nel cassetto frigorifero; lottò qualche secondo con la propria coscienza, alla fine strappò la linguetta e bevve un lungo
sorso. Quindi decise che aveva bisogno di qualcosa di più forte e aprì una bottiglietta di scotch che si scolò in un sorso; terminò di bere anche la soda e gettò lattina e mignon nel cestino dei rifiuti. Fece un piccolo rutto e si sentì meglio. L'aereo stava rallentando e McGill sapeva che, una volta fermo, quelli a terra l'avrebbero preso d'assalto. Prima che ciò avvenisse, prima di parlare con i suoi capi, doveva pisciare. Uscì dalla cambusa e spinse la porta della toilette per entrare, ma era chiusa dall'interno. Sulla finestrella rossa si leggeva OCCUPATO. Rimase a guardare, confuso. Com'era possibile? L'aveva già controllata quella toilette, ed era vuota. Spinse nuovamente la porta, che stavolta si aprì. Di fronte a lui c'era un uomo alto dalla carnagione scura che indossava una tuta blu con il logo della Trans-Continental sul taschino. McGill rimase dapprima senza parole, poi riuscì a dire: «Ma come ha fatto...». Guardò il volto dell'uomo e vide due profondi occhi neri che sembravano volerlo perforare. L'uomo sollevò la mano destra e McGill si accorse che la mano e il braccio erano avvolti in una delle coperte di bordo, il che gli sembrò piuttosto strano. «Chi diavolo è lei?» «Sono Asad Khalil.» McGill udì appena il rumore attutito dell'esplosione e non si accorse del proiettile calibro 10 che gli trapassava la fronte. «E tu sei morto» disse Asad Khalil. 11 Kate, l'agente Simpson e io non parlammo granché, preferendo ascoltare la radio di bordo. Simpson cambiò frequenza e chiamò direttamente uno dei mezzi del Servizio emergenza, identificandosi. «Qual è il problema del Trans-Continental 175?» chiese. Dall'altoparlante giunse una voce. «Sembra si sia trattato di esalazioni tossiche. Nessun incendio. Tutti morti.» Nell'auto calò il silenzio più completo. «Ricevuto?» chiese la voce. Simpson si schiarì la gola. «Ricevuto, tutti morti. Chiudo.» «Mio Dio... ma com'è possibile?» disse Kate.
Che altro c'era da dire? Niente. E io non dissi niente. Simpson trovò la pista di rullaggio che portava all'area di sicurezza, rallentando perché ormai non c'era più alcuna urgenza. E io non dissi niente. La scena davanti ai nostri occhi era quasi surreale: il grosso aereo procedeva lentamente sulla pista diretto verso quello strano muro d'acciaio con al centro un'ampia apertura. Il 747 superò il varco passando con le ali sopra il muro. Arrivammo a nostra volta all'ingresso dell'area, ma davanti a noi c'erano diverse auto e alcuni camion in attesa che l'aereo terminasse di entrare. Questi mezzi, un campionario quasi completo di tutto ciò che avevo visto su ruote, cominciarono poi a seguire il 747 provocando un piccolo intasamento. «Ci vediamo dentro» dissi a Simpson, poi scesi dall'auto e mi misi a correre. Udii alle mie spalle uno sportello che veniva sbattuto e i passi di Kate che mi seguiva, anche lei di corsa. Non sapevo perché stessi correndo, era come se l'avesse ordinato una voce dentro di me. E mentre correvo sentivo che la piccola cicatrice a forma di matita che avevo nel polmone cominciava a darmi fastidio. Kate e io facemmo una specie di slalom attorno ai veicoli e in meno di un minuto ci trovammo all'interno del recinto, pieno di mezzi, di gente e di un 747. Sembrava una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo. O forse di X-Files. Quelli che corrono attirano l'attenzione e fummo quindi fermati da un agente della Port Authority, al quale si unì subito il suo sergente. «Dov'è l'incendio, ragazzi?» chiese il sergente. Cercai di riprendere fiato. «Fbi» dissi, riuscendo però a emettere solo una specie di fischio dal polmone malconcio. Kate mostrò il suo distintivo. «Fbi. Abbiamo a bordo un prigioniero e i suoi due uomini di scorta» disse, senza ansimare più di tanto. Tirai fuori a mia volta il distintivo e lo agganciai al taschino della giacca, sempre cercando di riprendere fiato. «Be', non c'è motivo di correre» disse il sergente della Port Authority. «Sono tutti morti» aggiunse. «Dobbiamo salire a bordo per occuparci... dei cadaveri» gli spiegò Kate. «Abbiamo personale anche per questo, signorina.» «Sergente, i due uomini di scorta avevano le pistole, oltre a materiale riservato. È una faccenda che riguarda la sicurezza nazionale.» «Attenda.» Allungò una mano e l'agente accanto a lui gli depositò una
radio sul palmo. Il sergente trasmise e attese. «C'è un gran traffico radio» ci disse. Ebbi la tentazione di alzare la voce, ma poi preferii aspettare. «L'aereo è arrivato in NO-RAD totale» ci informò il sergente mentre aspettavamo. «Lo sappiamo» gli dissi, felice di aver cominciato a imparare quel gergo. Vidi che stavano avvicinando le autoscale per salire a bordo del 747 fermo al centro dell'area di sicurezza. Il sergente non riusciva ad avere risposta. «Vedete quel furgone laggiù?» ci disse. «È il Comando mobile incidenti, in diretto contatto con l'Fbi e i miei capi. Andate a parlare con loro.» Ci precipitammo al Comando mobile incidenti prima che quello cambiasse idea. Respiravo ancora a fatica. «Stai bene?» mi chiese Kate. «Sì.» Entrambi ci voltammo a guardare; il sergente era occupato e non ci stava seguendo con lo sguardo. Allora cambiammo direzione puntando verso l'aereo. Un'autoscala era già in posizione all'altezza della coda e alcuni del Servizio emergenza stavano salendo, seguiti da uomini e donne in camice, altra gente in tuta blu e un tale in giacca e cravatta. Un gentiluomo non si arrampica su una scala dietro una signora in minigonna, ma io ci provai lo stesso e feci segno a Kate di precedermi. «Dopo di te» disse lei. Pochi secondi dopo entrammo nell'aereo. Le uniche luci accese erano quelle d'emergenza sul pavimento, probabilmente attivate dalle batterie. Dagli oblò di destra filtrava ancora il debole sole del tramonto. Ma non c'era bisogno di un'illuminazione particolare per accorgersi che l'aereo era pieno per tre quarti di passeggeri, e che nessuno di loro si muoveva. Quelli entrati prima di noi se ne stavano in silenzio a guardare, gli unici rumori venivano dall'esterno. L'uomo in giacca e cravatta era un dipendente della Trans-Continental, come si leggeva sulla targhetta d'identificazione appesa al taschino della giacca, e sembrava distrutto. «Oh, mio Dio... è terribile!» disse. Credetti che fosse sul punto di scoppiare a piangere, ma riuscì a controllarsi. «Sono Joe Harris... supervisore bagagli» mi annunciò. «Fbi. Senta, Joe, tenga i suoi fuori dall'aereo. Questa potrebbe essere la scena di un delitto.»
Spalancò gli occhi. Non pensavo che potesse essere davvero la scena di un delitto, ma non me la sentivo nemmeno di prendere completamente per buona la storia delle esalazioni tossiche. Il sistema migliore per assumere il controllo di una situazione consiste nel pronunciare le parole "scena di un delitto": a quel punto tutti fanno quello che dici tu. Si avvicinò uno del Servizio emergenza. «Ha detto delitto?» «Sì. Perché non va all'uscita a bloccare quelli che vogliono salire? Okay? Non c'è alcuna fretta di scaricare i bagagli a mano e i cadaveri.» Fece come gli avevo detto, e io e Kate ci spostammo velocemente verso il corridoio di sinistra. Altri stavano salendo a bordo dal portellone di fronte e li bloccammo mostrando i distintivi. «Fbi. Fermi dove siete, per favore, non entrate, tornate sulle scale.» E così via. Fu sufficiente a rallentare il traffico, grazie anche alla collaborazione di un agente della Port Authority che si mise di guardia davanti alla porta mentre io e Kate ci spostavamo a prua. Ogni tanto voltavo la testa e vedevo quei volti che fissavano il vuoto. Esalazioni tossiche? Ma che tipo di esalazioni tossiche? Arrivammo nella zona con la cambusa, le toilette gemelle, le due uscite e la scala a chiocciola. Anche lì si era radunata gente e dovemmo ripetere la procedura di prima, ma non è facile fermare chi si precipita sul posto di una sciagura, soprattutto se fa parte del suo lavoro. «Questa potrebbe essere la scena di un delitto, gente. Lasciate libero l'aereo, potete aspettare sulle scalette.» Sulla scala a chiocciola c'era un tipo in tuta blu. «Scendi da lì, amico» gli dissi. Gli altri intanto si stavano affollando alle uscite; io e Kate ci stringemmo per lasciar passare quello in tuta e poi salimmo, io per primo. Feci due gradini alla volta, fermandomi appena riuscii a vedere l'interno della cupola. Probabilmente non avevo bisogno di tirare fuori la pistola, ma nel dubbio è sempre meglio farlo. Estrassi di tasca la Clock e me la infilai nella cintura. La cupola era più illuminata rispetto al piano inferiore; mi chiesi se fosse ancora a bordo quello del Servizio emergenza che aveva scoperto la tragedia e lanciato l'allarme. «C'è nessuno in casa?» chiesi a voce alta. Poi mi spostai per lasciar passare Kate. Lei non aveva tirato fuori la pistola e in effetti non c'era alcun motivo di temere brutte sorprese. Il sergen-
te della Port Authority aveva detto alla radio che erano morti tutti. A proposito, dov'era finito? La prima cosa da fare in casi del genere è accertarsi che non vi sia alcun pericolo, cominciando dal controllo delle porte chiuse. Molti brillanti detective hanno smesso per sempre di elaborare le loro acute analisi per essersi fatti sorprendere con la testa tra le nuvole. In fondo alla cupola c'erano la toilette, a sinistra, e la cambusa, a destra. Feci un segno a Kate, che estrasse la pistola da sotto il blazer mentre mi avvicinavo alla porta a soffietto della toilette con la targhetta LIBERO. La aprii tenendomi di lato. «Vuota» mi disse lei. Sul pavimento della cambusa c'era il corpo di una hostess e mi chinai automaticamente per controllare le pulsazioni. Non solo non ce n'erano ma il corpo era già freddo. Tra la cambusa e la toilette vidi un armadio a muro e con la pistola coprii Kate, che lo aprì. Dentro c'erano soprabiti dei passeggeri, giacche, portabiti e, sul pavimento, alcune cianfrusaglie. Comodo viaggiare in business. Kate si mise a frugare e stavamo per passare oltre, ma poi lo vedemmo: dietro un impermeabile, appoggiato alla parete, c'era un carrello al quale erano assicurate due bombole d'ossigeno. Controllai le valvole, erano entrambe aperte. Mi ci vollero tre secondi per sospettare che una bombola doveva aver contenuto ossigeno e l'altra invece qualcosa di nocivo alla salute. Le cose cominciavano a quadrare. «Sono bombole d'ossigeno terapeutico» disse Kate. Mi accorsi che anche lei stava afferrando la situazione, ma nessuno dei due aggiunse una parola. Ci avvicinammo rapidamente alla porta della cabina di pilotaggio, accorgendoci che era stata forzata. La aprii ed entrai, i piloti avevano la testa china sul petto. Controllai il battito anche a loro, ma erano entrambi stecchiti. Notai che il portellone sul tetto della cabina era sganciato e immaginai che ad aprirlo fosse stato l'uomo della Port Authority salito a bordo per primo, per far circolare l'aria. Uscii dalla cabina. Kate era accanto a una delle ultime file di business. «Questo è Phil Hundry...» Guardai il tipo seduto accanto a Hundry. Indossava un vestito nero, era ammanettato e aveva sugli occhi una mascherina per dormire. Gliela tolsi e lo guardammo. «Ma è...? Non assomiglia a Khalil.»
Era quel che pensavo anch'io, ma non avevo in mente una chiara immagine di Khalil. Dopo la morte le facce della gente si trasformano in modo imprevedibile. «Be'... sembra arabo... non sono sicuro» dissi. Kate gli sbottonò la camicia con uno strappo. «Non ha il giubbotto antiproiettile.» «Non ce l'ha.» Stava accadendo a dir poco qualcosa di strano. Lei adesso era china sull'uomo seduto dietro Phil Hundry. «Questo è Peter Gorman.» Due su tre erano quelli giusti, se la cosa poteva rassicurarci. Ma dov'era finito Asad Khalil? E chi era il tizio seduto al suo posto? Kate stava guardando proprio lo sconosciuto. «Questo... chi è? Un complice? Una vittima?» «Forse entrambe le cose.» Cercavo di mettere ordine nei miei pensieri, ma per certo sapevo solo che erano tutti morti, a parte forse uno che si fingeva tale. «Tieni d'occhio i passeggeri» dissi a Kate. «Uno di loro potrebbe non essere morto come vorrebbe farci credere.» Lei spianò la pistola. «Dammi il tuo cellulare» le chiesi, e lei me lo passò. «Qual è il numero di George?» Poco dopo parlavo con Foster. «George, sono Corey... ascoltami, ti prego. Siamo a bordo dell'aereo, nella cupola. Sono morti tutti. Hundry e Gorman sono morti... okay, mi fa piacere che Lindley ti abbia informato. Sì, siamo nella cupola e la cupola è sull'aereo e l'aereo è nella zona di sicurezza... Mi vuoi ascoltare? Quello con Phil e Peter non assomiglia a Khalil... è quello che ho detto. Ha le manette ma non il giubbotto antiproiettile. No, non sono sicuro che non sia Khalil, non ho la foto con me. Anche Kate ha dei dubbi, e la foto arrivata da Parigi faceva davvero schifo. Ascolta...» Cercavo disperatamente di abbozzare un piano, ma non sapevo neppure cosa fosse successo di preciso su quell'aereo. «Se quello accanto a Phil non è Khalil, allora Khalil potrebbe essere ancora a bordo. Sì. Oppure può essersela già svignata dall'aereo. Avverti Lindley, che dica a quelli della Port Authority di mettersi in contatto al più presto con i loro capi per bloccare la zona di sicurezza e non lasciar uscire nessuno.» Foster non mi interruppe, ma lo udivo ogni tanto biascicare «Oh, mio Dio... oh, Signore... com'è potuto succedere?... Terribile, terribile» e altre geremiadi di questo tipo. «Khalil apparentemente ha ucciso due dei nostri, George» ripresi «e il
punteggio adesso è: Leone qualche centinaio, Federali zero. Metti l'intero aeroporto in stato d'allerta, fai tutto quel che puoi... Cosa ti posso dire? Un arabo... Vedi se riesci a chiudere anche tutte le uscite dell'aeroporto, perché se il nostro amico se la squaglia, sono guai seri. Sì. Chiama Federal Plaza, noi intanto stabiliremo una specie di quartier generale al Conquistador Club. Ma al più presto possibile, mi raccomando. E di' a Ms Del Vecchio che l'aereo non arriverà al gate.» Riattaccai e mi rivolsi a Kate. «Scendi e di' alla polizia della Port Authority che la zona di sicurezza è assolutamente da isolare, nel senso che si può entrare ma non uscire. Come nelle trappole per scarafaggi.» Scese di corsa le scale e io rimasi a guardare le facce dei passeggeri. Se quello accanto a Hundry non era Khalil, ed ero sicuro al novanta per cento che non lo fosse, Khalil poteva essere ancora a bordo. Ma se si era mosso in fretta, doveva trovarsi nella zona di sicurezza mescolato a qualche centinaio di persone, vestite in tutti i modi immaginabili tra cui giacca e cravatta, come il supervisore della Trans-Continental. E se Khalil si fosse mosso ancora più velocemente, poteva già trovarsi a bordo di qualche mezzo in uscita. Il varco aeroportuale non era lontano da lì e i terminal distavano poco più di 2 chilometri. "Maledizione!" Kate tornò su. «Fatto. Hanno capito.» «Bene, diamo un'occhiata a questa gente.» Risalimmo il corridoio della business esaminando attentamente gli uomini, in tutto una dozzina. Uno di loro aveva in grembo un romanzo di Stephen King, la lettura più appropriata in quelle circostanze. Mi avvicinai a un altro interamente nascosto da due coperte, con una mascherina nera per dormire. Gliela tolsi e vidi che in mezzo alla fronte gli era spuntato un terzo occhio. «Vieni qui.» Kate si avvicinò mentre toglievo le coperte al cadavere. L'uomo aveva addosso una camicia blu con lo stemma della polizia della Port Authority e i pantaloni d'ordinanza. Lasciai cadere le coperte. «Questo dev'essere l'uomo del Servizio emergenza salito per primo sull'aereo.» Annuì. «Ma che è successo qui dentro?» «Nulla di buono.» Sulla scena di un delitto non bisogna toccare niente, a meno che non si cerchi di salvare una vita umana o si pensi che l'autore del delitto sia ancora in zona, e in ogni caso bisogna mettersi guanti di gomma e io non avevo nemmeno un preservativo. Controllammo ugualmente gli altri passeggeri, assicurandoci che erano tutti morti e che nessuno di loro era Asad Khalil.
Cercammo anche un bossolo, ma invano, e immaginai che l'arma del delitto fosse la Glock del poliziotto. Frugammo anche negli alloggiamenti del bagaglio a mano e in uno Kate trovò una tuta ignifuga color argento, un'ascia e una bombola d'ossigeno con relativa maschera, materiale ovviamente in dotazione alla vittima. Kate tornò accanto a Phil Hundry e sollevò un lembo della sua giacca mettendo in vista la fondina vuota. Agganciata al taschino c'era la targhetta dell'Fbi e lei la tolse, prendendogli poi portafogli e passaporto dalla tasca interna della giacca. Mi avvicinai a Peter Gorman e gli aprii a mia volta la giacca. «È scomparsa anche la pistola di Gorman» feci sapere a Kate. Recuperai le credenziali della Cia, il portafogli, il passaporto e le chiavi delle manette, che evidentemente gli erano state rimesse in tasca dopo essere state usate per liberare Khalil. Non trovai invece i caricatori di riserva della Glock. Nel vano bagagli di quella fila c'era una ventiquattrore. Non era chiusa a chiave, l'aprii ed ebbi la conferma che era di Peter Gorman. Kate trovò quella di Hundry e l'aprì a sua volta. Rovistammo per un po' nelle due valigette, che contenevano i cellulari, documenti e qualche effetto personale come spazzolino da denti, pettine, fazzolettini di carta e così via, ma niente caricatori di riserva. Non trovammo bagagli personali perché gli agenti devono muoversi con le mani libere, a parte la ventiquattrore. E siccome il vero Khalil viaggiava con i soli abiti che aveva addosso, anche il suo doppione era privo di effetti personali. «Khalil non ha preso nulla a Phil e Peter» disse Kate. «Né i passaporti né le credenziali, e nemmeno i portafogli.» Aprii quello di Gorman, dentro c'erano circa 200 dollari e dei franchi francesi. «Neanche a Gorman ha preso il denaro» osservai. «Ci sta dicendo che in America può contare su mille risorse e che quindi i soldi possiamo tenerceli. Ha tutti i documenti falsi e i contanti che vuole, e magari a quest'ora si è tinto i capelli di biondo ed è diventato una donna.» «Di solito questa gente si porta via tutto, per sfregio o per esibire il bottino agli amici. O ai capi.» «Questo è un professionista, Kate, e non può permettersi di farsi beccare con addosso materiale del genere.» «Ma le pistole se le è portate via» osservò lei. «Perché ne aveva bisogno.» Rimise a posto il contenuto delle due valigette. «Erano brave persone»
disse. Mi accorsi che era scossa, le tremava il labbro superiore. Feci un'altra telefonata a Foster. «Le pistole e i caricatori di scorta di Phil e Peter sono scomparsi» lo informai. «Sì, ma i tesserini e i distintivi sono ancora al loro posto. E l'agente del Servizio emergenza salito per primo a bordo, quello che ha dato l'allarme, è morto... si è beccato una pallottola in testa. L'arma del delitto è con ogni probabilità una delle due Glock mancanti.» Lo aggiornai in fretta. «L'assassino quindi è armato e terribilmente pericoloso.» Riattaccai. Dentro l'aereo ora faceva caldo e si cominciava vagamente ad avvertire un odore sgradevole. Ogni tanto udivo i gas che fuoriuscivano da qualche cadavere. Kate era tornata accanto allo sconosciuto ammanettato e gli stava toccando il viso e il collo. «È molto più caldo degli altri, deve essere morto da un'ora, forse anche meno.» Cercavo mentalmente di sistemare le tessere del mosaico. Qualcuna l'avevo in mano, ma molte erano sparse per l'aereo e altre ancora si trovavano in Libia. «Se non è morto insieme con gli altri, com'è morto?» si chiese Kate. Lo voltò alla ricerca di ferite e la testa, che fino a quel momento era poggiata allo schienale, assunse una posizione innaturale. Lei gliela girò. «Ha il collo spezzato.» In cima alla scala a chiocciola spuntarono due agenti della Port Authority. Si guardarono attorno, poi fissarono Kate e me. «Chi siete?» «Fbi» rispose Kate. Feci segno a uno dei due di avvicinarsi. «Quest'uomo e quello dietro di lui sono agenti federali e quello ammanettato è... era il detenuto che stavano scortando. Capito?» Annuì. «I colleghi del laboratorio scientifico dell'Fbi dovranno fare i rilievi» aggiunsi. «Quindi questa zona dell'aereo va lasciata così com'è.» L'altro agente stava guardando dietro le mie spalle. «Dov'è McGill?» Poi spostò gli occhi su di me. «Abbiamo perso il contatto radio con lui. Ha visto per caso un collega del Servizio emergenza quassù?» «No, solo morti» mentii. «Forse è sceso. Okay, andiamocene di qui.» Kate e io prendemmo le ventiquattrore. «Questo aereo è in grado di atterrare da solo? Con il pilota automatico?» chiesi agli agenti mentre ci avvicinavamo alla scala a chiocciola.
«Sì, il pilota automatico potrebbe... ma... crede che fossero tutti morti? E già... il NO-RAD...» I due agenti si misero a parlare a raffica tra di loro. Udii le parole NORAD, inversori di spinta, esalazioni tossiche, qualcosa come "scenario saudita" e il nome Andy, che doveva essere quello di McGill. Eravamo arrivati ai piedi della scaletta. «Rimanete qui, per favore» dissi a uno di loro «e non fate salire nessuno finché non arriverà la Scientifica dell'Fbi.» «Conosco il mio mestiere.» Le tendine tra la prima classe e la turistica erano aperte e vidi che nessuno era salito a bordo, ma molta gente era ancora radunata sull'autoscala all'entrata. Sentii sotto i miei piedi come dei colpi sul pavimento e capii che stavano scaricando i bagagli. «Per favore» dissi a un agente «faccia interrompere lo scarico bagagli, devono uscire tutti dall'aereo.» Entrammo nel settore di prima classe, che aveva venti posti dei quali solo la metà occupati, e lo passammo in fretta al setaccio. Non vedevo l'ora di uscire dall'aereo, ma eravamo gli unici due federali sul posto, gli unici due federali vivi per l'esattezza, e dovevamo raccogliere più materiale possibile. «Credo che Khalil abbia gasato l'intero aereo» disse Kate. «Sembrerebbe di sì.» «Deve aver avuto a bordo un complice con quelle due bombole d'ossigeno.» «Una d'ossigeno, l'altra no.» Mi guardò. «Non riesco ancora a credere che Phil e Peter siano morti... e Khalil... ci siamo persi il detenuto.» «Il disertore» la corressi. Mi lanciò uno sguardo seccato ma non replicò. Stavo considerando che un criminale ha cento modi diversi per entrare negli Stati Uniti. Però il nostro uomo, Asad Khalil, aveva usato il sistema più complicato, scelto apposta per dirci "vi-fotto-quando-mi-pare". Brutto soggetto, quel Khalil, che ora si aggirava per il paese come un leone in libertà. Non volevo nemmeno immaginare quale sarebbe potuta essere la ciliegina sulla torta. Kate stava evidentemente facendo riflessioni analoghe. «Ce l'ha fatta sotto il naso» disse. «Ha ucciso trecento persone prima ancora di atterrare.» Lasciammo la prima classe. «A proposito, cos'è lo scenario saudita?»
chiesi all'agente che avevo lasciato di guardia ai piedi della scala a chiocciola. Lui ce lo spiegò. «Ma questo è un caso nuovo, diverso» aggiunse. Kate e io ci allontanammo. «E se invece di uno scenario saudita fosse uno scenario vampiresco?» le chiesi. «In che senso?» «Il conte Dracula se ne sta nella sua bara a bordo di una nave partita dalla Transilvania e diretta in Inghilterra. Sulla nave ha un complice che durante il viaggio apre la bara, Dracula esce e succhia il sangue di tutti. La nave attracca da sola, come per magia, con l'equipaggio e i passeggeri stecchiti; Dracula sbarca indisturbato e scompare nelle tranquille campagne inglesi per commettere altri orribili delitti.» Se fossi stato un cattolico osservante, mi sarei fatto il segno della croce. Kate mi fissò, chiedendosi probabilmente se fossi matto o sotto shock. Sono decisamente matto e devo ammettere che ero anche un po' sotto shock. Voglio dire, credevo ormai di averne viste di tutti i colori, ma pochi al mondo si sono trovati in vita loro di fronte a una scena del genere, tranne forse in guerra. E quella era effettivamente una guerra. Intanto i paramedici erano entrati in classe turistica e si aggiravano per i corridoi, constatando a mano a mano la morte di ciascun passeggero e applicandogli una targhetta con il numero del posto e la lettera della fila. Successivamente ogni cadavere sarebbe stato infilato in un sacco di plastica e scaricato. Sacchi e targhette. Che casino! Andai al portellone di destra per respirare un po' d'aria fresca; mi sembrava che ci fosse sfuggito qualcosa. Qualcosa d'importante. «Che ne dici di dare un'altra occhiata nella cupola?» chiesi a Kate. Rifletté. «Ma l'abbiamo passata al setaccio per bene dalla cambusa alla toilette, dalla cabina di pilotaggio agli armadietti. Quelli della Scientifica ci saranno grati per non aver messo troppo in disordine.» «Sì, ma...» C'era qualcosa che avevo dimenticato o trascurato. Pensai ai tesserini dell'Fbi, ai passaporti e ai portafogli che Khalil non si era portati dietro e, anche se avevo dato a Kate e a me stesso una spiegazione plausibile di quel comportamento, ora non mi sembrava più così convincente. Se aveva fatto il contrario di ciò che ci saremmo aspettati, doveva avere in mente qualcosa. Ma che cosa? Mi torturai il cervello, ma invano. Kate stava nuovamente controllando il contenuto delle ventiquattrore. «Sembra che non manchi nulla» commentò. «C'è il dossier su Khalil, i do-
cumenti cifrati, il memorandum di Zach Weber con le istruzioni...» «Aspetta un momento.» «Che c'è?» Qualcosa cominciava a quadrare. «Sta cercando di farci credere di aver fatto quello che doveva fare, missione conclusa. Vuole che pensiamo che sta per imbarcarsi alle Partenze internazionali e che non ha preso nulla per non essere beccato con addosso materiale compromettente.» «Non ti seguo. Sta per togliersi dai piedi o no?» «Vuole che lo pensiamo, ma non è così.» «D'accordo, allora è ancora in zona. Però probabilmente a quest'ora è uscito dall'aeroporto.» Cercavo di trovare una logica a quel comportamento, ma mi sfuggiva. «Se non ha preso i documenti dei due agenti per rimanere pulito, perché si è portato via le pistole? Uno non cerca di imbarcarsi con addosso due pistole. E se si è allontanato dall'aeroporto, doveva esserci qualcuno ad attenderlo: se gli fosse servita un'arma, quindi, avrebbe potuto farsela dare da questo complice. E allora... che ci fa con due pistole dentro l'aeroporto?...» «Forse per aprirsi la via di fuga nel caso sia intercettato, e il giubbotto antiproiettile se l'è tenuto addosso. A che stai pensando?» mi chiese Kate. «Sto pensando...» D'improvviso mi tornò in mente la storia del disertore che a febbraio si era consegnato alla stessa ambasciata, a Parigi, e un pensiero incredibile mi attraversò il cervello. "Oh, merda!..." Mi precipitai verso la scala a chiocciola, quasi urtando l'agente che avevo messo di guardia, salii i gradini a tre a tre e corsi accanto al cadavere di Phil Hundry. Gli afferrai il braccio destro, notando che era come nascosto tra la coscia e il bracciolo, lo sollevai e guardai la mano. Mancava il pollice, tranciato di netto da uno strumento affilato. "Maledizione!" Poi afferrai il braccio destro di Gorman e notai l'identica mutilazione. Tenevo ancora sollevato il braccio senza vita di Peter Gorman quando mi raggiunse Kate, e per mezzo secondo sembrò anche lei scioccata e confusa. «Oh, no!» disse poi. Scendemmo come pazzi la scala a chiocciola e poi quella mobile poggiata accanto all'aereo, distribuendo spallate per farci strada, finché trovammo l'auto della polizia con cui eravamo arrivati. «Fari e sirene, muoviamoci» ordinai all'agente Simpson. Estrassi di tasca il cellulare di Kate e chiamai il Conquistador Club aspettando che rispondesse Nancy Tate, ma inutilmente. «Il Conquistador
non risponde» dissi a Kate. «Oh, Dio...» Simpson puntò verso l'uscita della zona di sicurezza, facendo lo slalom tra una decina di auto ferme, ma un agente della Port Authority ci bloccò spiegandoci che aveva l'ordine di non far uscire nessuno. «Lo so, quell'ordine l'ho dato io» lo informai, ma a quello non gliene poteva fregare di meno. Kate prese in mano la situazione e mostrò subito il distintivo dell'Fbi: usando la logica, le suppliche, le minacce e appellandosi al buon senso aiutata da Simpson e dal fatto che non m'immischiai - riuscì a convincerlo a lasciarci passare. «Ora ascolta» dissi in fretta a Simpson. «Dobbiamo raggiungere al più presto l'ala occidentale dell'aeroporto, quella dove ci sono le palazzine dei servizi. E seguendo la strada più diretta.» «Be', c'è il viale perimetrale...» «Ho detto quella più diretta, cioè le piste. Muoviti.» Esitò. «Non posso guidare sulle piste se prima non chiamo la torre. Stavros è incazzato...» «È una 10-13» gli spiegai, cioè "agente in pericolo". Simpson schiacciò l'acceleratore, come ogni poliziotto in presenza di una 10-13. «Cos'è una 10-13?» mi chiese Kate. «La pausa caffè.» Dopo aver evitato un certo numero di auto, dissi a Simpson: «Ora fai conto di essere un aereo e raggiungi la velocità di decollo. Forza!». Si mise a tavoletta e la grossa Chevy Caprice schizzò sull'asfalto della pista come un'auto da rally, mentre Simpson spiegava alla radio ciò che stava facendo. E la voce che rispose sembrava quella di chi sta per avere un infarto. Intanto mi ero attaccato nuovamente al cellulare per chiamare ancora una volta il Conquistador Club, ma senza risposta. "Merda!" Allora composi il numero di Foster. «George, sto cercando di mettermi in contatto con Nick... sì... okay, ci sto andando. Il primo che arriva sul posto faccia molta attenzione, credo che anche Khalil sia diretto lì. È quello che ho detto. Khalil ha segato i pollici a Phil e Peter e se li è portati via... sì, mi hai sentito bene.» Mi rimisi in tasca il cellulare. «Nemmeno George è riuscito a chiamare il Conquistador» dissi a Kate.
«Dio mio, speriamo di non arrivare tardi.» L'auto andava a oltre 160 chilometri l'ora. In lontananza vidi il vecchio edificio che ospitava il Conquistador Club ed ebbi la tentazione di dire a Simpson che ormai non era più necessario correre, ma non ne ebbi il coraggio. A 180 chilometri l'ora l'auto iniziò a sbandare, ma Simpson non sembrò notarlo o preoccuparsene. «Occhio alla strada» mi raccomandai, accorgendomi che mi stava guardando. «Alla pista.» «Come vuoi tu. Vedi laggiù quella palazzina piena di vetri? A un certo punto rallenta, cerca un'uscita di servizio per lasciare la pista e portaci lì.» «D'accordo.» Mezzo minuto dopo la Caprice arrivò con uno stridio di freni e una lunga sbandata davanti alla palazzina, e io saltai giù quando ancora non si era completamente fermata. «Blocca chiunque esca di qui, quel tipo è armato» urlai a Simpson. Estrassi la pistola e, correndo verso l'entrata, mi accorsi che da un'estremità del parcheggio stavano arrivando le nostre auto di scorta al gate 23. Notai anche, fermo da una parte, uno di quei furgoni della TransContinental che trasportano i carrelli portabagagli, assolutamente fuori luogo lì. Ma credevo di sapere come ci fosse arrivato. Kate mi superò entrando per prima nella palazzina, con la pistola spianata. «Copri gli ascensori!» le urlai, e mi precipitai sulle scale. Una volta su, sporsi la testa per guardare alle due estremità del corridoio, poi mi rimisi a correre fermandomi accanto alla porta del Conquistador Club, con le spalle contro la parete e quindi al riparo dall'occhio della telecamera che rimandava le immagini ai numerosi monitor dell'ufficio. Poi allungai un braccio, premetti il pollice destro sulla superficie traslucida dello scanner e la porta si socchiuse. Sapevo che si sarebbe richiusa dopo tre secondi e per poterla riaprire avrei dovuto attendere tre lunghi minuti, a meno che qualcuno non l'avesse aperta dall'interno, quindi mi infilai tra il battente e lo stipite proprio mentre cominciava a chiudersi per abbassarmi subito dopo brandeggiando la pistola a 180 gradi. Nancy Tate non era alla scrivania, ma la sua sedia era poggiata alla parete e il telefono squillava con insistenza. Tenendomi con le spalle al muro mi avvicinai al bancone della scrivania e vidi Nancy sul pavimento, con un foro di proiettile in fronte e una pozza di sangue attorno alla testa e ai capelli. Non mi sorpresi ma mi arrabbiai, e sperai che Asad Khalil fosse ancora lì.
Sapevo che dovevo rimanere immobile e coprire con la pistola entrambe le porte che si affacciavano sulla reception, ma dopo pochi secondi vidi comparire Kate sul monitor di Nancy, e alle sue spalle George Foster e Ted Nash. Allora allungai una mano sul pulsante apriporta. «Entrate!» I tre si precipitarono dentro con le pistole spianate. «Nancy è sul pavimento» dissi in fretta «con una pallottola in testa. Kate e io andiamo al Centro operazioni, voi due controllate dall'altra parte.» Fecero come avevo detto e scomparvero nel corridoio che portava alle camere di sicurezza e alle stanze degli interrogatori. Kate e io passammo alla sala operazioni senza prendere troppe precauzioni. In fondo eravamo entrambi convinti che Asad Khalil se ne fosse andato da un pezzo. Mi avvicinai alla scrivania attorno alla quale eravamo seduti un'ora prima. Le sedie erano tutte vuote come le tazze del caffè, e Nick Monti giaceva sul pavimento in un lago di sangue, a faccia in su con gli occhi spalancati. Sulla camicia bianca notai almeno due fori d'entrata, il poveretto non aveva avuto neanche il tempo di afferrare la pistola, ancora nella fondina. Mi chinai su di lui a sentirgli il polso, inutilmente. Kate salì i tre gradini della pedana e la seguii. La funzionaria di servizio aveva evidentemente avuto qualche secondo per reagire, perché si era alzata dalla sua sedia e ora giaceva addossata alla parete sotto la grande mappa elettronica. C'erano schizzi di sangue sulla parete e sulla sua blusa bianca, la fondina era appesa allo schienale di una sedia con il blazer blu e il taccuino della donna. Cercai ancora una volta segni di vita e ancora una volta non ne trovai. Erano entrati anche Foster e Nash e stavano guardando il cadavere di Monti. C'erano anche un paio di agenti della Port Authority, che fissarono anche loro Monti spostando poi il loro sguardo stupito su quell'ufficio del quale ignoravano l'esistenza. «Chiamate un'ambulanza!» urlai. Non ce n'era affatto bisogno, ma in certi casi non si può fare a meno di dire quella frase. Kate e io scendemmo dalla pedana e ci riunimmo in un angolo con gli altri due. George Foster era pallido come se avesse appena letto la propria scheda valutativa, Ted Nash sembrava come al solito imperscrutabile, anche se per un attimo mi sembrò di notare un'ombra di apprensione passargli sul viso. Nessuno di noi parlò: cosa avremmo potuto dire? Avevamo fatto la figura degli idioti, e probabilmente lo eravamo. A parte i nostri insignificanti
problemi di carriera, erano morte centinaia di persone e l'autore di quel massacro stava per dileguarsi in un'area metropolitana di 16 milioni di persone; numero che domani a quest'ora si sarebbe potuto dimezzare, se quel tipo fosse riuscito a mettere le mani su qualcosa di nucleare, chimico o biologico. Avevamo evidentemente un grosso problema e, altrettanto evidentemente, nessuno di noi quattro se ne sarebbe dovuto preoccupare più di tanto. Perché, se all'Attf si regolavano come al Dipartimento di polizia, domani ci saremmo trovati tutti e quattro davanti a una scuola per aiutare bambini e mamme ad attraversare la strada. Se non altro Nick Monti avrebbe avuto un funerale da ispettore e una medaglia alla memoria. E mi chiesi di nuovo come sarebbero andate le cose se mi fossi fermato al posto suo; probabilmente a quest'ora sul pavimento ci sarei io, in attesa che quelli della Scientifica disegnassero con il gesso i contorni del mio cadavere. Tornai a guardare la scrivania attorno alla quale eravamo seduti un'ora prima e cercai d'immaginarmi la scena: Khalil che irrompe guardando a destra e a sinistra, vede Monti, Monti lo vede... Chi attacca è sempre in vantaggio e Nick, convinto di trovarsi nelle retrovie, non poteva immaginare di essere un bersaglio. Gli altri mi videro guardare la scrivania e il cadavere e, non essendo così stupidi e insensibili come sembravano, capirono cosa mi stava passando per la mente. George mi prese per una spalla facendomi voltare. «Andiamocene di qui» disse Kate. Nash prese dalla scrivania le copie dei dossier su Khalil, che da cinque erano diventate quattro. Khalil evidentemente si era servito e ora sapeva ciò che sapevamo di lui. Incredibile. Tornammo alla reception, che si stava riempiendo di agenti in borghese e in uniforme. Qualcuno doveva aver trovato il pulsante per disattivare la chiusura elettronica della porta, che era spalancata. Presi la foto di Khalil da un dossier e mi avvicinai a un tenente della Port Authority per dargliela. «Questo è il sospetto» dissi. «Distribuite una copia di questa foto a ogni agente in servizio, fermate e perquisite ogni mezzo che esce dall'aeroporto. Controllate i parcheggi, i taxi, i camion, anche le auto di servizio.» «Già fatto. L'allarme è stato esteso a tutta la città.» «Controllate anche tutti i gate delle partenze» aggiunse Kate. «Senz'altro.»
«Qui fuori troverete un mezzo della Trans-Continental, uno di quelli per il trasporto dei carrelli bagagli» dissi ancora al tenente. «Credo sia servito al nostro uomo per arrivare qui, quindi va esaminato con la massima attenzione. E se trovate nelle vicinanze un'uniforme o una tuta della TransContinental, fatemelo sapere.» L'ufficiale chiamò via radio il suo Comando. Gli ingranaggi cominciavano a girare, ma quelli di Khalil erano stati più veloci, e la possibilità di beccarlo dentro l'aeroporto era svanita dieci o quindici minuti prima. Foster cominciava a non sopportare più tutta quella gente intorno. «Ora, per favore, fuori tutti» disse quindi ad alta voce. «Questa è la scena di un delitto e va lasciata intatta per la Scientifica. Qualcuno rimanga di guardia alla porta. Grazie.» Uscirono tutti, a eccezione di un sergente della Port Authority rimasto accanto alla scrivania di Nancy, il quale ci fece segno di avvicinarci indicando la tazza del tè. All'interno, insieme con i fondi del tè, c'erano due pollici. «Ma che diavolo è?» chiese il sergente. «Non ne ho idea» rispose George Foster, anche se sapeva benissimo da dove venivano quei pollici e perché non erano più attaccati alle mani dei proprietari. Meglio fingere di non sapere e continuare a farlo finché non sei sotto giuramento; e anche allora qualche vuoto di memoria non guasta, in nome della sicurezza nazionale e roba del genere. Quello che era cominciato come un lavoro di routine si era insomma trasformato nell'attentato del secolo. Non ci vuole niente a finire nella merda, anche in una bella giornata di primavera. 12 Uscimmo dal Conquistador Club, fuori c'era il sole e stavano arrivando altre auto. «Chiamo la Centrale perché allertino gli agenti e rafforzino gli appostamenti» ci disse George Foster, il capo della nostra unità. L'Attf, infatti, tiene sotto controllo le abitazioni di terroristi noti e sospetti, oltre a quelle di familiari, amici e simpatizzanti. Gli agenti del Dipartimento di polizia che collaborano sono quelli che consumano le suole negli appostamenti, i federali si limitano a versare alla città di New York una somma superiore al valore di questo lavoro e così tutti sono contenti. «Metteremo sotto controllo altri telefoni, attiveremo gli informatori e di-
stribuiremo la foto di Khalil a ogni membro delle forze dell'ordine in servizio negli Stati Uniti» proseguì Foster. Andò avanti per un po' a spiegarci quello che avrebbe fatto: voleva mettere bene in chiaro che nella stanza dei bottoni lui c'era, forse intendeva anche tirarci su il morale, ma in fondo cercava di crearsi quel minimo di credibilità alla quale attingere quando avrebbe dovuto baciare il culo ai superiori. E, proprio per evitare di trovarci tra i piedi qualcuno di quelli che non avremmo potuto prendere completamente per i fondelli, proposi di tornarcene a Federal Plaza e di ricostruire i fatti lungo la strada. Sembrò a tutti una buona idea, le menti disturbate ragionano allo stesso modo. Però dovevamo lasciare in loco un capro espiatorio, e Foster capì che il capro era lui. «Andate avanti voi tre» disse quindi. «È meglio che io rimanga qui per fare rapporto ai superiori che dovessero comparire. E poi devo coordinare l'allerta e chiamare quelli del laboratorio.» Infine, probabilmente per convincere se stesso, aggiunse: «Non posso andarmene. Questo è un rifugio sicuro dell'Fbi e...». «E non è rimasto nessuno ad assicurarne la sicurezza» dissi io, per dargli una mano. Per la prima volta da quando lo conoscevo mi sembrò seccato. «È una sede segreta, contiene notizie riservate e...» Si deterse le stille di sudore dal labbro superiore e fissò l'asfalto. George Foster si rendeva naturalmente conto del fatto che Asad Khalil non solo aveva saputo dell'esistenza di questo sancta sanctorum, ma vi era penetrato e aveva cacato sul pavimento. Sapeva anche, Foster, che tutto questo era accaduto grazie al falso disertore di febbraio e che quindi stavano per essergli rovesciate addosso sei tonnellate di merda. «La responsabilità è mia» aggiunse, e gliene do atto «e mio è anche il... il...» Fece dietrofront e si allontanò. Ted Nash, com'è ovvio, faceva parte di un'organizzazione specializzata nell'evitare le tonnellate di merda in caduta, ed ero quindi certo che nemmeno uno schizzo avrebbe sporcato il suo abito immacolato. Si diresse verso l'auto di Simpson. La mia recente assegnazione a questa splendida squadra, invece, mi evitava certe conseguenze e avrebbe continuato a evitarmele, a meno che Nash non trovasse il sistema per cacciarmi in mezzo alla tempesta di merda. Forse mi voleva con sé proprio per questo. Anche Kate Mayfield, come
Foster, era senza ombrello, ma si era in parte riparata venendo con me sull'aereo. «Non ho nulla da perdere e cercherò di coprirti» le annunciai. Lei si sforzò di sorridere. «Grazie, ma diremo esattamente quel che è successo e sarà poi Washington a decidere se qualcuno ha sbagliato.» Alzai gli occhi al cielo, ma lei finse di non accorgersene. «Voglio continuare a seguire questo caso» disse. «Potrai considerarti fortunata se non ti rimanderanno in contabilità.» «Noi non lavoriamo così» mi informò piuttosto fredda. «Di solito un agente viene lasciato a seguire un caso che ha compromesso, se si comporta lealmente con i capi e non li riempie di bugie.» «Davvero? Probabilmente anche dai boy scout ci si regola così.» Non rispose. Udimmo suonare un clacson, Ted Nash ci stava aspettando impaziente in auto seduto accanto all'agente Simpson. Ci sistemammo nel sedile posteriore dove si trovavano già le due ventiquattrore. «L'agente Simpson ha avuto il permesso di portarci a Manhattan» disse Nash. «Per colpa vostra, ragazzi, sono così nella merda che non ha più importanza quello che faccio» commentò Simpson. «Ci penso io, hai fatto un ottimo lavoro» lo rassicurò Kate. «Evviva!» esclamò lui. Rimanemmo in silenzio mentre l'auto si dirigeva a una delle uscite vicino ai magazzini. «Hai fatto un buon lavoro, detective» mi disse a un certo punto Nash. Mi colsero di sorpresa sia la frase sia l'uso della mia ex qualifica una volta così apprezzata. Rimasi senza parole e cominciai a credere di aver sbagliato a giudicare il vecchio Ted. Forse avremmo potuto legare, forse avrei dovuto scompigliargli i capelli e dirgli: «Vecchio matto... ti voglio bene!». Arrivati all'uscita, un agente della Port Authority ci fece segno di passare senza quasi degnarci di uno sguardo. Non tutti, evidentemente, erano stati allertati. Dissi a Simpson di fermarsi e scesi dall'auto mostrando al poliziotto il distintivo. «Agente, non le è stato ordinato di fermare ogni auto e perquisirla?» «Sì... ma non quelle della polizia.» Mi sentii terribilmente frustrato, stavo per incazzarmi. Presi dall'auto di Simpson il dossier di Khalil e ne estrassi la foto mostrandogliela. «Ha mai visto quest'uomo?» «No... credo che una faccia così la ricorderei.»
«Quante auto sono uscite da quando è stato lanciato l'allarme?» «Non molte, oggi è sabato. Direi una dozzina.» «E non le ha fermate e perquisite?» «Fermate sì. Ma erano tutti camion carichi di casse e scatoloni e non posso aprirli, a meno che non appaia manomesso il sigillo della dogana. E io non ho visto segni di manomissione.» «Quindi non ha aperto nemmeno una cassa?» Quello cominciò a risentirsi. «Per un'operazione del genere avrei bisogno di qualche collega, da solo ci impiegherei tutta la giornata.» «Quanti veicoli sono passati prima dell'allarme?» «Due... forse tre.» «Che tipo di veicoli?» «Un paio di camion. E anche un taxi.» «C'era un passeggero nel taxi?» «Non ci ho fatto caso. E poi è passato prima dell'allarme.» «Okay.» Gli diedi la foto. «Questo signore è armato e pericoloso e per oggi ha già ammazzato troppi poliziotti.» «Cristo!» Tornai in auto e, mentre ci allontanavamo, pensai che il poliziotto non aveva affatto seguito le mie istruzioni, per esempio cominciando la perquisizione proprio dalla nostra auto, cosa che io avrei fatto, soprattutto se qualche stronzo fosse venuto a rompermi le palle. Ma l'America non era pronta per quell'emergenza, nemmeno un po'. Imboccammo la parkway puntando su Manhattan. Rimanemmo in silenzio per un po'. Uno di quegli idioti cronisti radiofonici in elicottero avrebbe definito il traffico "tra il moderato e l'intenso", mentre in effetti era tra l'intenso e l'orrendo, ma non ci feci nemmeno caso. A rompere il silenzio ci pensò Nash. «Circa un milione di persone riescono ogni anno a entrare illegalmente in questo paese» disse senza rivolgersi a qualcuno in particolare. «Non è difficile. Quello che penso, quindi, è che la missione del nostro amico non fosse entrare negli Stati Uniti per compiere un attentato, bensì fare ciò che ha fatto sull'aereo e al Conquistador Club e poi tornarsene a casa. Non ha mai lasciato l'aeroporto e, se nel frattempo la polizia della Port Authority non gli ha messo le mani addosso, in questo momento si trova su un aereo diretto in Medio Oriente. Missione compiuta.» «Questa teoria l'ho già scartata, aggiornati» gli feci. Lui replicò seccato: «E io ho scartato tutte le altre ipotesi. Ti dico che è
in aereo». Mi tornò in mente il caso Plum Island, l'illogico modo di ragionare di Ted Nash, le sue assurde teorie di complotti. Aveva evidentemente ricevuto un addestramento troppo avanzato per la sua intelligenza e ora non riusciva nemmeno a capire il significato della parola buonsenso. «Scommetti 10 dollari che il nostro amico si farà vivo molto presto e molto vicino?» «Scommesso.» Si voltò a guardarmi. «Non hai esperienza di queste faccende, Corey. Un terrorista addestrato non è paragonabile a uno stupido criminale. Quella è gente che morde e fugge, e per mordere e fuggire di nuovo aspetta anche qualche anno. Un terrorista non torna sul luogo del delitto, non va a nascondersi a casa della sua donna con la pistola ancora calda e il bottino nella sacca, non si siede nei bar a vantarsi delle sue imprese. È in aereo.» «Grazie, Mr Nash.» Non sapevo se strangolarlo o spaccargli il cranio con il calcio della pistola. Intervenne Kate. «È una teoria interessante la tua, Ted. Ma finché non saremo sicuri che se ne stia tornando a casa, allerteremo l'intera sezione Medio Oriente per mettere sotto controllo tutte le abitazioni dei terroristi che conosciamo, oltre a quelle dei loro amici e simpatizzanti.» «Le procedure standard mi stanno benissimo» replicò lui. «Ma vi dico una cosa: se è ancora da queste parti, l'ultimo posto dove lo troverete è proprio quello dove pensate possa essersi rifugiato. Il disertore di febbraio non è mai riapparso e mai riapparirà. Se quei due sono collegati, siamo in presenza di qualcosa di nuovo e di minaccioso. Qualcosa di cui siamo completamente all'oscuro.» Questo l'avevo già pensato anch'io e, da un certo punto di vista, speravo che Nash avesse ragione, che Khalil fosse davvero su un aereo. Avrei perduto volentieri i 10 dollari, anche con un coglione come l'amico Ted. E, per quanto mi sarebbe piaciuto mettere le mani su Asad Khalil e conciarlo in modo che nemmeno sua madre avrebbe potuto riconoscerlo, mi solleticava l'idea che potesse essersene andato per sempre senza fare ulteriori danni ai cari vecchi Stati Uniti d'America. Voglio dire, uno in grado di far fuori trecento anime innocenti su un aereo deve avere sicuramente una bomba atomica nella manica, o dell'antrace sotto il cappello, o dei gas venefici su per il culo. «Stiamo parlando di terroristi arabi e roba del genere?» chiese Simpson. «Stiamo parlando della madre di tutti i terroristi» risposi secco.
«Dimentichi tutto ciò che ha sentito» gli disse Nash. «Non ho sentito niente.» Ci stavamo avvicinando al ponte di Brooklyn. «Probabilmente arriverai in ritardo al tuo appuntamento» mi fece Kate. «In ritardo di quanto?» «Circa un mese.» Non commentai. «Probabilmente domani mattina come prima cosa prenderemo un aereo per Washington» aggiunse lei. Per i federali doveva essere l'equivalente di ciò che per noi poliziotti era "andare a Police Plaza numero 1 e ballare". Mi chiesi se il contratto che avevo firmato con l'Attf, riposto nel cassetto della mia scrivania in Federal Plaza, conteneva una clausola che mi consentisse di squagliarmela. Forse era il caso di dargli un'occhiata. Oltrepassammo il ponte e ci inoltrammo nei canyon di Manhattan sud. Nessuno si perse in chiacchiere, ma nell'auto si poteva quasi avvertire il puzzo delle cellule cerebrali in fiamme. A differenza delle auto civili, quelle della polizia non hanno autoradio, ma l'agente Simpson aveva una radiolina e si sintonizzò su 1010 Wins News. «L'aereo si trova ancora nella zona di sicurezza recintata al termine di una pista» stava dicendo un cronista «e non sappiamo cosa stia succedendo a bordo, anche se si nota attorno un gran movimento di auto. Un grosso camion frigorifero è appena uscito dal recinto, e gira voce che possa avere trasportato dei cadaveri.» Il cronista fece una pausa a effetto, poi proseguì: «Le autorità non hanno finora rilasciato alcuna dichiarazione ufficiale, ma un portavoce del National Transportation Safety Board ha detto poco fa alla stampa che delle esalazioni tossiche hanno provocato alcune vittime tra i passeggeri e l'equipaggio. L'aereo è riuscito comunque ad atterrare senza problemi e la speranza ora è che il numero delle vittime rimanga contenuto». Intervenne la collega dallo studio: «Larry, circola voce che l'aereo abbia perso il contatto radio per alcune ore prima dell'atterraggio. Sai dirci niente in proposito?». «La Federal Aviation Administration non lo ha confermato, ma un portavoce ha riferito che il pilota ha lanciato un messaggio segnalando fumo ed esalazioni a bordo, forse per la fuoriuscita di una sostanza chimica o per l'incendio di un cavo elettrico.» La cosa mi giungeva nuova, ma tale non doveva essere per Ted Nash,
che se ne uscì con un commento decisamente criptico: «Mi fa piacere che la stampa venga a conoscenza dei fatti con esattezza». I fatti? Dal momento che di fumo non se n'era proprio visto, a me sembrava che qualcuno i fatti li stesse manipolando per ficcarli in culo alla stampa. Il cronista e la collega in studio stavano rievocando la tragedia del volo Swissair, e qualcuno accennò a quella dell'aereo saudita. Nash spense la radio. Mi accorsi che Kate mi stava fissando. «Non sappiamo che cosa è successo, John» mi disse sottovoce «quindi non stiamo a speculare. Ed evitiamo di parlare con i media.» «Giusto, stavo pensando la stessa cosa.» Stavo pensando, a dire il vero, che la polizia e i servizi segreti erano una specie d'incrocio tra la Gestapo e i boy scout, pugno di ferro in guanto di velluto e roba del genere. Non speculare significava chiudere il becco. E io non avevo alcuna intenzione di finire in custodia cautelare per un anno, o peggio. «Farò tutto quello che dovrò fare» dissi quindi con la massima sincerità «per assicurare alla giustizia il nostro uomo. E voglio continuare a seguire questo caso.» Nessuno dei miei due colleghi rispose, anche se avrebbero potuto obiettarmi che non molto tempo prima avevo chiesto di essere trasferito. Ted Nash, la superspia, diede all'agente Simpson l'indirizzo dell'isolato successivo a quello di Federal Plaza. Ma quello era pur sempre un poliziotto, sant'Iddio, e per quanto stupido potesse essere non avrebbe faticato a immaginare che stavamo andando al 26 di Federal Plaza o al 290 di Broadway, di fronte al primo, dove ha sede il nuovo ufficio federale. E in effetti aveva capito. «Volete andarci a piedi a Federal Plaza?» chiese. Mi misi a ridere. «Accosti qui» gli ordinò Nash. Scendemmo e ci incamminammo. «Non so perché, ma ho la vaga impressione che tu sapessi in anticipo che oggi avremmo avuto un problema» dissi a Nash. Non rispose subito. «Oggi è il 15 aprile» disse dopo un po'. «Esatto, e io ho consegnato ieri la dichiarazione dei redditi e sono in regola.» «Gli estremisti islamici attribuiscono enorme importanza alle ricorrenze. Sul nostro calendario abbiamo segnato un mucchio di anniversari.» «Ah sì? E oggi che anniversario sarebbe?»
«Quello del nostro bombardamento sulla Libia nel 1986.» «Davvero?» Mi rivolsi a Kate: «Tu lo sapevi?». «Sì, ma onestamente non gli avevo dato molta importanza.» «Non abbiamo mai avuto incidenti in questa data» aggiunse Nash «ma ogni 15 aprile Gheddafi pronuncia un discorso antiamericano. E lo ha fatto anche questa mattina.» «E vi siete dimenticati di dirmelo?» «Non mi sembrava terribilmente importante. Voglio dire, terribilmente importante che tu lo sapessi» rispose Nash. «Capisco.» Che naturalmente significava "vaffanculo", cominciavo a parlare come loro. «E come faceva Khalil a sapere che sarebbe stato trasferito in America proprio oggi?» «Be', non poteva esserne certo ma sapeva probabilmente che la nostra ambasciata a Parigi non può o non vuole trattenere un soggetto del genere più di ventiquattr'ore. E, anche se fosse rimasto a Parigi più a lungo, per lui non sarebbe cambiato nulla. Non avrebbe potuto sfruttare questa data simbolica, tutto qui.» «Certo, ma voi avete fatto il suo gioco e lo avete portato qui proprio il 15 aprile.» «Esatto, abbiamo fatto il suo gioco, volevamo arrestarlo il 15 aprile.» «Penso che rimpiangerai a lungo questa scelta.» Preferì non rispondere, ma mi diede un'altra informazione: «Abbiamo preso eccezionali misure di sicurezza a Parigi, all'aeroporto e sull'aereo. A bordo c'erano anche due Federal Air Marshal, in borghese». «Bene, quindi nulla poteva andare storto.» Ignorò il mio sarcasmo. «C'è un'espressione ebraica che usano anche gli arabi: "L'uomo fa i piani, Dio ride".» «Non male.» Arrivammo al 26 di Federal Plaza, un grattacielo di ventotto piani. «Parleremo Kate e io, tu apri bocca solo se te lo chiedono» mi disse Nash. «Posso contraddirti?» «Non ne avrai motivo, in questo posto si dice soltanto la verità.» E così, assorbita questa massima orwelliana, entrammo nel Grande Ministero di Verità e Giustizia. Quella data, il 15 aprile, ora faceva schifo per due motivi. Libro secondo LIBIA, 15 APRILE 1986
Il raid aereo non si limiterà a ridurre la capacità del colonnello Gheddafi di esportare terrore, ma gli darà motivo e incentivo per modificare il suo comportamento criminale. RONALD REAGAN È l'ora del confronto, della guerra. MUAMMAR GHEDDAFI 13 L'ufficiale dei sistemi d'arma Chip Wiggins, tenente dell'Aeronautica degli Stati Uniti, se ne stava immobile e in silenzio nel seggiolino destro del caccia F-111F, nome in codice Karma 57. L'aereo viaggiava a una velocità di crociera piuttosto bassa, 350 nodi, per risparmiare carburante. Wiggins lanciò un'occhiata al pilota, tenente Bill Satherwaite, seduto alla sua sinistra. Nessuno dei due aveva parlato molto da quando, un paio d'ore prima, erano decollati dalla base della Raf di Lakenheath, nel Suffolk. Satherwaite era un tipo taciturno, pensò Wiggins, uno di quelli che se possono evitano chiacchiere inutili. Ma Wiggins voleva udire una voce umana, qualsiasi voce. «Siamo al traverso del Portogallo» disse quindi. «Lo so» fu la laconica risposta del pilota. Le voci filtrate dall'interfono, che era il loro unico mezzo di comunicazione, avevano un suono metallico. Wiggins trasse un respiro profondo, quasi uno sbadiglio, e l'aumento del flusso d'ossigeno dentro il casco provocò una specie di riverbero sonoro nell'interfono. Respirò di nuovo a fondo. «Ti spiacerebbe non respirare?» gli disse Satherwaite. «Qualsiasi cosa pur di far felice il mio skipper.» Wiggins tentò di cambiare posizione, le ore passate assicurato al seggiolino notoriamente scomodo dell'F-111F gli stavano facendo venire i crampi. Anche il cielo nero era opprimente, ma scorse in lontananza dei puntini luminosi lungo la costa portoghese, e la cosa per qualche motivo lo fece sentire meglio. Erano diretti in Libia, rifletté, a seminare morte e distruzione sul fetente paese di Gheddafi, per rappresaglia a un attentato di poche settimane prima in una discoteca di Berlino Ovest frequentata da militari americani. Wig-
gins ricordò come l'ufficiale che aveva illustrato loro l'operazione volesse assicurarsi che avessero capito perché stavano per rischiare la vita in quella missione. Senza perdersi in tanti giri di parole, l'ufficiale aveva detto loro che l'attentato alla discoteca La Belle, nel quale avevano perso la vita due soldati americani e decine d'altri erano rimasti feriti, era solo l'ultimo di una serie di atti chiaramente aggressivi a cui occorreva rispondere con forza e determinazione. «Di conseguenza, fategli saltare il culo a quei libici.» Il che aveva una sua logica per l'esercito, ma non tutti gli alleati dell'America avevano apprezzato l'idea. L'attacco aereo dall'Inghilterra si stava svolgendo quindi seguendo la rotta più lunga, perché Francia e Spagna avevano negato l'autorizzazione al sorvolo del loro spazio aereo. La cosa aveva mandato in bestia Wiggins e lasciato in apparenza indifferente Satherwaite. Wiggins sapeva che le nozioni di geopolitica del collega erano in pratica inesistenti, la sua vita era tutta racchiusa nel volo e nient'altro gli interessava. Probabilmente, se gli avessero ordinato di bombardare Parigi, lui lo avrebbe fatto senza neppure chiedersi perché attaccare un paese alleato. La cosa grave, pensò Wiggins, è che si comporterebbe nello stesso identico modo se l'obiettivo fosse Washington, DC, o Walla Walla, Stato di Washington, senza farsi tante domande. Seguendo questi ragionamenti gli chiese: «Bill, gira voce che dovremo sganciare una bomba sull'ambasciata francese a Tripoli. Ne sai niente?». Satherwaite non rispose. «E sembra anche che bombarderemo la residenza di Gheddafi ad alAziziya. È lì che dovrebbe trovarsi stanotte.» Ancora silenzio. Wiggins cominciava a seccarsi. «Di' un po', Bill, sei sveglio?» «Meno ne sappiamo, Chip, e meglio è per entrambi.» Chip Wiggins si chiuse in un cupo silenzio. Bill Satherwaite gli piaceva: fortunatamente aveva il suo stesso grado e non poteva quindi ordinargli di chiudere il becco. Ma in volo riusciva a volte a essere davvero freddo e scostante, al contrario di quando era a terra; allora, soprattutto se aveva bevuto un po', riusciva quasi a sembrare umano. Forse, pensò Wiggins, Satherwaite era nervoso e la cosa sarebbe stata comprensibile. Dopotutto quella missione, battezzata El Dorado Canyon, prevedeva il più lungo attacco aereo mai eseguito e avrebbe fatto storia, anche se Wiggins non sapeva ancora che tipo di storia. Da qualche parte attorno a loro c'erano altri sessanta aerei e il loro reparto, la 48a Squadriglia tattica caccia, aveva contribuito con ventiquattro F-111F a geometria va-
riabile. La flotta di aerei da rifornimento che volava alle loro spalle e sotto di loro era composta di grossi KC-10 e di più piccoli KC-135: i primi rifornivano i caccia, gli altri rifornivano i primi. Lungo quella rotta di quasi 5000 chilometri erano previsti tre rifornimenti in volo. Dall'Inghilterra alle coste libiche avrebbero impiegato sei ore, più un'altra mezz'ora da lì a Tripoli nella fase precedente l'attacco; sull'obiettivo sarebbero dovuti rimanere per dieci lunghissimi minuti prima di tornare alla base. Tutti o quasi. «La storia» disse Wiggins. «Stiamo volando nella storia.» Satherwaite non rispose. Wiggins cambiò argomento. «Oggi scade il termine per la dichiarazione dei redditi» informò il collega. «L'hai presentata?» «No, ho chiesto una proroga.» «Il fisco punta i riflettori su quelli che chiedono la proroga.» Satherwaite rispose con un grugnito. «Se ti dovessero fare un accertamento, bombarda al napalm l'ufficio delle imposte. Ci penseranno su prima di fare altri accertamenti su Bill Satherwaite.» E ridacchiò. Satherwaite fissò i quadranti sul cruscotto. Incapace di coinvolgere il pilota in una conversazione, Wiggins si rifugiò nei suoi pensieri. Non erano mai stati addestrati per una missione del genere, che metteva a dura prova mezzi ed equipaggi. Finora, comunque, era andato tutto bene e l'F-111F si stava comportando egregiamente. Guardò fuori dal finestrino, notando che le ali erano aperte a 35 gradi, come previsto per i lunghi voli in formazione. Più tardi il sistema idraulico avrebbe ristretto l'angolo alare in previsione dell'attacco, e questa manovra avrebbe segnato l'inizio della fase di combattimento. Combattimento, Dio santo! Wiggins non riusciva ancora a crederci. Quella missione rappresentava il culmine del loro addestramento. Né lui né Satherwaite si erano fatti il Vietnam e ora stavano volando verso un territorio sconosciuto e ostile, per affrontare un nemico del quale ignoravano il potenziale antiaereo. Durante il briefing l'ufficiale aveva detto che la difesa aerea dei libici chiudeva solitamente bottega dopo mezzanotte, ma Wiggins non riusciva a credere che fossero tanto stupidi. Era convinto invece che il loro aereo sarebbe stato localizzato da un radar, che alcuni caccia libici si sarebbero alzati in volo per intercettarlo, che da terra sarebbero stati lanciati dei missili per farlo fuori e che l'accoglienza ricevuta sarebbe stata quindi del tipo Tripla A. Che non vuol dire American Automobile Association.
«Marco Aurelio.» «Che cosa?» «L'unico rudere romano ancora in piedi a Tripoli, l'arco di Marco Aurelio. Primo secolo dopo Cristo.» Satherwaite nascose uno sbadiglio. «Se qualcuno per sbaglio dovesse colpirlo avrà i suoi guai, perché è sotto la tutela delle Nazioni Unite. Ma lo sei stato a sentire il briefing?» «Chip, perché non ti metti in bocca una gomma o qualcos'altro?» «Il nostro attacco comincerà a est dell'arco, e spero di riuscire a dargli un'occhiata. Mi interessa, quella roba.» Satherwaite chiuse gli occhi ed espirò ostentatamente per far notare la sua impazienza. Wiggins si rimise a pensare alla missione. Sapeva che tra di loro c'erano alcuni veterani del Vietnam, ma la maggior parte non si era mai trovata coinvolta in un combattimento effettivo. E tutti, dal presidente in giù, erano in attesa con il fiato sospeso. Infatti, dopo il Vietnam e il fiasco della Pueblo, dopo il fallimento del tentativo di Carter di liberare gli ostaggi in Iran e un intero decennio di brutte figure militari, i nostri avevano bisogno di un successo prestigioso. Le luci erano accese al Pentagono e alla Casa Bianca, dove c'era gente che pregava e passeggiava nervosamente. Vincete, ragazzi, regalate una bella vittoria al presidente. Wiggins non avrebbe deluso le loro aspettative e sperava che quelli del governo non avrebbero tradito le sue. Aveva saputo che la missione poteva venire revocata in qualsiasi momento e temeva di udire all'improvviso la radio di bordo gracchiare le due parole che significavano "Missione cancellata": Green grass, erba verde, come quella vecchia canzone di Tom Jones, The green, green grass of home. In un angolo del suo cervello, però, quel messaggio sarebbe risultato gradito. Si chiese cosa gli avrebbero fatto in Libia se il suo aereo fosse stato abbattuto. "Ma perché cavolo mi viene un pensiero del genere?" Stava ricominciando a essere pessimista. Lanciò un'occhiata a Satherwaite, che stava scrivendo qualcosa sul diario di bordo. E sbadigliava. «Stanco?» gli chiese. «No.» «Paura?» «Non ancora.» «Fame?» «Stai zitto, Chip.»
«Sete?» «Ma perché non ti rimetti a dormire? Anzi, sai che ti dico, facciamo così: io dormo e tu prendi i comandi.» Un modo non troppo velato per ricordargli che l'ufficiale addetto ai sistemi d'arma non era un pilota. Rimasero in silenzio. A Wiggins in effetti la prospettiva di un sonnellino non dispiaceva, ma non voleva che Satherwaite, una volta rientrati a Lakenheath, raccontasse in giro che Wiggins aveva dormito per tutto il volo. Perché, oltre ad avere la responsabilità dei sistemi d'arma, era anche il navigatore. «Cabo de Sào Vicente a ore nove» comunicò a Satherwaite. «Bene. Sta dove deve stare.» «È lì che il principe Enrico il Navigatore ha fondato la prima scuola di navigazione al mondo. Per questo gli è rimasto quel nome.» «Che nome, Enrico?» «No, Navigatore.» «Giusto.» «I portoghesi erano splendidi marinai.» «È importante, dovrei saperlo?» «Certo. Non giochi a Trivial Pursuit?» «No. Dimmi quando dobbiamo modificare la rotta.» «Tra sette minuti vireremo a zero-nove-quattro.» «Okay, dammi tu il via.» Continuarono a volare in silenzio. L'F-111F di Satherwaite e Wiggins iniziò la virata in perfetta sincronia con gli altri tre della formazione. Aggirarono Cabo de Sào Vicente e puntarono a sudest in direzione dello Stretto di Gibilterra. Un'ora dopo si trovarono la Rocca di Gibilterra a sinistra e Monte Hacho, sulla costa africana, a destra. «Gibilterra era una delle antiche colonne d'Ercole» Wiggins informò il pilota «e Monte Hacho era l'altra. Per i popoli del Mediterraneo, entrambe definivano i confini estremi della navigazione. Lo sapevi?» «Dammi la situazione carburante.» «Giusto.» Wiggins lesse i numeri sull'indicatore del consumo carburante. «Ne abbiamo ancora per due ore di volo circa.» «L'appuntamento con il KC-10 è fra tre quarti d'ora» osservò Satherwaite dopo aver dato un'occhiata agli strumenti. «Lo spero proprio.» Wiggins stava pensando che, se per qualche motivo non fossero riusciti a rifornirsi in volo, avrebbero dovuto atterrare in Sici-
lia, rimanendo quindi esclusi dalla missione. Fino a quel momento si erano sempre tenuti a distanza di sicurezza dalla terraferma; se fossero rimasti senza carburante, avrebbero dovuto sganciare in mare le bombe per atterrare poi in qualche aeroporto francese o spagnolo, spiegando di essere rimasti a secco durante un normale volo d'addestramento. «Non usate mai la parola "Libia" nelle vostre conversazioni» aveva detto l'ufficiale durante il briefing, e tutti avevano riso. Mezz'ora dopo non c'era ancora traccia del KC-10. «Dove diavolo è finita la nostra stazione di servizio volante?» chiese Wiggins. Qualche minuto dopo una serie di clic alla radio li informò che il KC-10 era in avvicinamento. Passarono altri dieci minuti e Wiggins vide sul suo schermo radar il puntino dell'aerocisterna e lo annunciò a Satherwaite, che tolse potenza e cominciò a scivolare via dalla formazione. In quelle circostanze il pilota taciturno si guadagnava davvero lo stipendio. Finalmente l'enorme aereo sembrò riempire il cielo sopra di loro, e Satherwaite poté mettersi direttamente in contatto radio sul canale cifrato che consentiva lo scambio di messaggi a breve distanza. «Kilo 10, qui Karma 57. Siete in vista.» «Ricevuto, Karma 57. Arriva Dickey.» «Ricevuto.» L'operatore del KC-10 indirizzò lentamente il manicotto di rifornimento nell'abitacolo del serbatoio, alle spalle della cabina di pilotaggio. In pochi minuti l'aggancio fu completato e il carburante della cisterna prese a fluire nel serbatoio del caccia. Wiggins osservò Satherwaite, che con la destra teneva ferma la cloche e con la sinistra la manetta del gas per mantenere l'aereo in assetto ed evitare quindi che il manicotto si sganciasse. E capì che in quella circostanza sarebbe dovuto rimanere in silenzio. Dopo quella che parve loro un'eternità, si spense una lucina verde e se ne accese una gialla accanto, indicando lo sganciamento automatico. «Karma 57 si allontana» comunicò Satherwaite al pilota della cisterna, e andò a riprendere il suo posto in formazione. A conferma che quello era stato l'ultimo rifornimento prima dell'attacco, il pilota del KC-10 li salutò. «Buona fortuna, ragazzi, e picchiate duro. Dio vi aiuti. Ci vediamo dopo.» «Ricevuto» rispose Satherwaite. «La fortuna e Dio non hanno niente a che vedere con questa missione» disse poi a Wiggins. «Perché, non credi in Dio?» A Wiggins quell'atteggiamento da duro del
pilota cominciava a dare sui nervi. «Certo che ci credo. Tu prega, che a volare ci penso io.» 14 Asad Khalil era combattuto tra due istinti primordiali: quello sessuale e quello di sopravvivenza. Camminava nervosamente su un terrazzo in cima a una palazzina. Il padre lo aveva chiamato Asad, il Leone, e lui più o meno inconsapevolmente sembrava aver assunto certe caratteristiche del re della foresta, tra cui quella di camminare in circolo come stava facendo in quel momento. All'improvviso si fermò, mettendosi a scrutare il buio della notte. Il ghibli, il vento forte e caldo del Sahara, stava soffiando impetuoso sulla Libia settentrionale verso il Mediterraneo. E il cielo sembrava come avvolto dalla foschia creata dai granellini di sabbia che distorcevano l'immagine di luna e stelle. Khalil abbassò gli occhi sulle lancette fosforescenti del suo orologio. Era l'1.46 e Bahira, figlia del capitano Habib Nadir, sarebbe dovuta arrivare alle 2 in punto. Si chiese se la ragazza ce l'avrebbe fatta o se invece non fosse stata scoperta. E, se scoperta, avrebbe confessato dove stava andando e per incontrare chi? Quest'eventualità preoccupava terribilmente Asad Khalil. Aveva sedici anni e una sola alternativa: avere il primo rapporto sessuale nel giro di mezz'ora o venire decapitato nel giro di qualche ora. Si vide già inginocchiato a testa china mentre l'enorme boia ufficiale, conosciuto soltanto come Solimano, lasciava cadere la gigantesca scimitarra sul suo collo. Il pensiero lo fece irrigidire di paura e il sudore che gli imperlava la fronte sembrò congelarsi. Khalil si spostò verso la tettoia di lamiera all'estremità opposta del terrazzo, dove sbucavano le scale, e scrutò in basso aspettandosi di veder spuntare Bahira o il padre della ragazza seguito dalle guardie. Che pensieri folli, disse a se stesso. Il terrazzo, riparato da un parapetto che arrivava all'altezza delle spalle, era sormontato a intervalli regolari da merli. L'edificio, una palazzina a due piani, era stato costruito dagli italiani quando la Libia era una loro colonia e, allora come adesso, veniva utilizzato come deposito di munizioni; motivo per cui si trovava a distanza di sicurezza dal quartier militare di alAziziya, che ospitava saltuariamente il Grande Leader, colonnello Muammar Gheddafi. E proprio quella sera Gheddafi era arrivato ad al-Aziziya.
Khalil, e con lui l'intera Libia, sapeva che il Grande Leader aveva preso l'abitudine di cambiare spesso località per proteggersi da un attentato o da un'azione militare degli americani. E discutere l'una o l'altra delle due eventualità non era considerata una buona idea. L'inattesa presenza di Gheddafi quella sera aveva reso particolarmente nervosi gli uomini dei reparti scelti, e a Khalil, preoccupatissimo, sembrava quasi che ci si fosse messo Allah in persona a complicargli le cose. Sapeva senz'ombra di dubbio, Khalil, che era stato Satana a riempirlo di quella brama peccaminosa per Bahira, a fargliela sognare una notte mentre camminava nuda sulla sabbia del deserto, inondata dalla luce della luna. Asad Khalil non aveva mai visto una donna nuda, ma gli era capitata tra le mani una rivista tedesca e sapeva che Bahira, spogliata e senza velo, sarebbe stata simile a quelle ragazze. Si affacciò al parapetto, sembrava tutto calmo e non si vedevano in giro guardie o auto. A quell'ora di notte ci sarebbe stato movimento solo attorno alla residenza di Gheddafi e al complesso di edifici che ospitavano il comando del quartier militare e il Centro comunicazioni. Non c'era un'allerta speciale, ma Khalil ebbe come una premonizione: qualcosa sarebbe andato storto. Guardò nuovamente l'orologio: erano le 2 in punto e Bahira non si vedeva. Allora si inginocchiò proprio sotto il parapetto, nell'angolo riparato del terrazzo in cui aveva steso la sajjada, la stuoia per la preghiera, poggiandovi sopra il Corano. Se fosse arrivato qualcuno, si sarebbe fatto trovare assorto nella lettura del Libro Sacro e avrebbe forse salvato la testa. Ma nel caso in cui, com'era probabile, avessero sospettato la messinscena e compreso che la sajjada serviva per il corpo nudo di Bahira, gli avrebbero riservato un trattamento tale da rendere desiderabile la decapitazione. E Bahira... Quasi sicuramente sarebbe stata lapidata a morte. Ciononostante non tornò a casa dalla madre. Voleva affrontare il destino, qualsiasi destino si fosse materializzato in cima alle scale. Ripensò alla prima volta che aveva notato Bahira, in casa del padre di lei. Il capitano Habib Nadir, come il padre di Khalil, era benvoluto dal colonnello Gheddafi, e le tre famiglie erano molto unite. Il padre di Khalil e quello di Bahira avevano combattuto durante la resistenza all'occupazione italiana: quello di Khalil aveva lavorato per gli inglesi durante la seconda guerra mondiale, mentre quello della ragazza si era messo al servizio dei tedeschi. Ma che importanza aveva? Italiani, tedeschi, inglesi... erano tutti degli infedeli che non meritavano alcuna forma di lealtà. E a guerra finita i
due uomini avevano scherzato parlando dell'aiuto dato ai cristiani per ammazzarsi tra di loro. Khalil ripensò a suo padre, il capitano Karim Khalil. Era morto ormai da cinque anni, ucciso in una strada di Parigi da agenti del Mossad israeliano. I notiziari radio occidentali avevano avanzato l'ipotesi che il delitto fosse stato commesso da una fazione islamica rivale, o addirittura dagli stessi libici, in una complicata lotta per il potere. Ma non c'erano stati arresti. E il colonnello Gheddafi, di gran lunga più saggio dei suoi nemici, aveva spiegato alla popolazione che il capitano Karim Khalil era stato ucciso dagli israeliani e tutto il resto non era altro che un mucchio di menzogne. Asad Khalil gli credette, dovette credergli. Il padre gli mancava terribilmente, ma lo consolava in parte l'idea che fosse morto da martire per mano dei sionisti. Nella sua mente si annidavano ugualmente dei dubbi, ma il Grande Uomo in persona aveva parlato, e tanto bastava. Guardò ancora l'orologio, poi riportò lo sguardo sulla tettoia in cima alle scale. Bahira era in ritardo, forse non era riuscita ad allontanarsi di nascosto da casa, oppure non si era svegliata o addirittura aveva deciso che non valeva la pena rischiare la vita per lui. A meno che, ed era l'ipotesi più spaventosa, fosse stata sorpresa e in quel momento stesse facendo il suo nome alla polizia militare. Khalil ripensò al suo speciale rapporto con il Grande Leader. Non aveva dubbi sul fatto che lui e i suoi fratelli e sorelle piacessero al colonnello Gheddafi, che li aveva fatti rimanere nella loro casa di al-Aziziya, garantendo alla madre una pensione e provvedendo all'educazione dei bambini. "Sei destinato a vendicare la morte di tuo padre" gli aveva detto il colonnello solo sei mesi prima. "Sono pronto a servire te e Allah" aveva risposto a quel surrogato di padre un ragazzo gonfio di gioia e orgoglio. Il colonnello aveva sorriso. "Non siamo ancora pronti per te, Asad. Tra un anno o due cominceremo a addestrarti per fare di te un combattente della libertà." E ora Asad stava rischiando la vita, l'onore e la famiglia, per cosa? Per una donna. Non aveva senso, eppure... C'era quell'altra cosa... quella cosa che sapeva ma a cui non voleva pensare... la storia tra sua madre e il colonnello Gheddafi... Sì, c'era qualcosa e lui sapeva cos'era, la stessa cosa che lo aveva spinto su quel terrazzo ad aspettare Bahira. Ma se la relazione di sua madre con il Grande Leader non era un peccato, pensò, allora non tutto il sesso fuori dal matrimonio è peccaminoso.
Muammar Gheddafi non avrebbe fatto nulla di male e di contrario alla sharia. Se Asad Khalil fosse stato colto sul fatto, quindi, avrebbe portato il suo caso davanti al Grande Leader e gli avrebbe spiegato quanto fosse confuso in quella materia. Gli avrebbe detto che era stato il padre di Bahira a portare in casa quella rivista tedesca piena di uomini e donne nudi, che era stata la sporcizia occidentale a corromperlo. Bahira aveva trovato la rivista nascosta dietro alcuni sacchi di riso e l'aveva mostrata a Khalil. Avevano guardato insieme le foto, un peccato per il quale avrebbero ricevuto, se sorpresi, numerose frustate. Ma erano state quelle foto, lungi dal riempirli di disgusto e vergogna, a far affrontare loro certi argomenti tabù. "Voglio mostrarmi a te come queste donne" gli aveva detto lei. "Voglio mostrarti tutto ciò che ho. Voglio vederti, Asad, e sentire il contatto della tua carne." Satana era quindi entrato in lei e, attraverso lei, in lui. Asad aveva letto nel libro ebraico della Genesi la storia di Adamo ed Eva, e il suo musaid, il consigliere spirituale, lo aveva messo in guardia: le donne sono deboli e concupiscenti, hanno commesso il peccato originale e attirano verso il male gli uomini che non sanno rimanere forti. Eppure, pensò... anche i grandi uomini come il colonnello Gheddafi possono essere corrotti dalle donne. Lo avrebbe spiegato al colonnello se fosse stato catturato. Forse non avrebbero lapidato Bahira ed entrambi se la sarebbero cavata con qualche scudisciata. La notte era fredda e Khalil rabbrividì. Rimase inginocchiato sulla stuoia con il Corano in mano. Dieci minuti dopo le 2 sentì un rumore sulle scale e, voltandosi, vide stagliarsi sulla soglia una sagoma scura. «Allah misericordioso» disse sottovoce. 15 «Abbiamo un forte vento al traverso, quel vento del sud che soffia dal deserto. Come si chiama?» chiese il tenente Chip Wiggins al tenente Bill Satherwaite. «Si chiama vento del sud che soffia dal deserto.» «Giusto. Comunque l'avremo in coda quando rientreremo e, oltretutto, ci saremo alleggeriti di quattro bombe.» Satherwaite borbottò una risposta. Wiggins scrutava l'oscurità attraverso il finestrino. Non sapeva se avrebbe visto sorgere il sole, ma era certo che se fossero riusciti a concludere
quella missione sarebbero diventati degli eroi, eroi senza nome. Perché quella non era una guerra come le altre: i nemici erano terroristi internazionali che agivano al di fuori del Medio Oriente e quindi i nomi dei partecipanti alla missione non sarebbero mai stati comunicati alla stampa o al pubblico e avrebbero ricevuto per sempre la qualifica top secret. Tutti sapevano, purtroppo, che quella gente era in grado di colpire anche nel cuore dell'America e di vendicarsi sugli equipaggi e le loro famiglie. Quell'anonimato lo fece sentire meglio. Meglio essere un eroe anonimo che un facile bersaglio dei terroristi. «Quanto manca alla virata?» chiese Satherwaite. Wiggins abbandonò i suoi pensieri e controllò la posizione. «Dodici minuti.» «Tieni d'occhio l'orologio.» «Ricevuto.» Dodici minuti dopo, la formazione iniziò una virata di 90 gradi in direzione sud. L'intera flotta aerea, senza le cisterne volanti, faceva rotta sulle coste della Libia. Satherwaite spinse in avanti le manette e l'F-111F acquistò velocità. Il pilota controllò poi gli strumenti e l'orologio, in vista dell'attacco. Viaggiavano a una velocità di 480 nodi e a una quota di 8000 metri, erano a 300 chilometri dalla costa e puntavano direttamente su Tripoli. Udì alla radio una serie di clic, rispose con altrettanti clic e diede inizio alla discesa con gli altri aerei della squadriglia. Durante l'avvicinamento alla costa Satherwaite aumentò la potenza raggiungendo una velocità di 500 nodi e si abbassò a una quota di 90 metri, sicuro di non incontrare a quell'altezza grattacieli o antenne radio. Mancavano dieci minuti alle 2 e di lì a poco ciascun aereo sarebbe uscito dalla formazione per raggiungere l'obiettivo assegnatogli. Wiggìns udì all'improvviso nella cuffia il segnale che gli indicava l'intercettamento radar. Oh, merda! Fissò lo schermo radar e, cercando di dare alla sua voce un tono freddo e distaccato, avvertì il pilota: «Allarme SAM a ore una». «Si sono svegliati» commentò Satherwaite. «Mi piacerebbe dare un calcio nelle palle all'ufficiale che ci ha fatto il briefing.» «Né lui né i missili sono un problema.» «Giusto.» L'F-111F volava troppo basso e veloce per essere colpito da un missile, ma a quella quota rappresentava un ottimo bersaglio per l'arti-
glieria antiaerea. Wiggins vide due missili salire dal basso del suo schermo radar e sperò che quella ferraglia di fabbricazione sovietica non fosse effettivamente in grado di raggiungerli. Pochi secondi dopo vide dal finestrino i missili sfrecciare sulla destra e perdersi nel buio della notte, lasciandosi dietro una scia rossa e arancione. «Uno spreco di costoso carburante per missili» fu il commento flemmatico di Satherwaite. Tra i due ufficiali sembrava che le parti si fossero invertite. Wiggins era rimasto senza parole, mentre Satherwaite era diventato all'improvviso ciarliero e parlava un po' di tutto, dalla configurazione della costa alla città di Tripoli. Fu il compagno questa volta ad avere la tentazione di dirgli di chiudere il becco e pensare a volare. Sotto di loro si stendeva Tripoli, e Satherwaite notò che, nonostante l'attacco in corso, i lampioni delle strade erano rimasti accesi. «Idioti.» Poi con la coda dell'occhio vide l'arco di Marco Aurelio. «Ecco il tuo arco a ore nove» disse a Wiggins. Ma quello aveva perso interesse per la storia ed era concentratissimo. «Vira.» Satherwaite scivolò via dalla formazione e fece rotta su al-Aziziya. «Come si chiama quel posto?» «Quale?» «Quello che stiamo andando a bombardare.» Wiggins, che doveva controllare contemporaneamente gli strumenti e il radar, oltre a mantenere il contatto visivo con l'esterno, sentì il sudore imperlargli il collo. «Oh, merda! Tripla A!» «Ne sei sicuro? A me sembrava di ricordare Al-qualcosa.» Wiggins non apprezzò l'improvviso humour del compagno. «Al-Aziziya, si chiama. Ma che cazzo te ne frega?» «Giusto, domani la chiameranno Macerie.» E rise. Rise anche Wiggins, sebbene fosse spaventato a morte. Il cielo cominciava a riempirsi degli archi dei proiettili traccianti, alcuni un po' troppo vicini, esplosi dall'antiaerea. Non riusciva a credere che gli stessero veramente sparando contro. Era proprio uno schifo, ma al tempo stesso uno sballo. «Al-Aziziya, arriviamo!» esclamò Satherwaite. «Macerie» ripeté Wiggins. «Macerie, macerie, morte e sofferenze. Vaffanculo, Muammar!»
16 «Asad.» Il cuore di Asad Khalil sembrò fermarsi. «Sì, sì... sono qui. Sei sola?» chiese sottovoce. «Naturalmente.» Bahira si diresse verso il punto da cui giungeva la voce e lo trovò inginocchiato sul tappeto di preghiera. «Stai giù» le sussurrò Asad. La ragazza si abbassò all'altezza del parapetto, avvicinandosi sino a inginocchiarsi di fronte a lui sulla stuoia. «Tutto a posto?» «Sì. Ma sei in ritardo.» «Mi sono dovuta tenere alla larga dalle guardie. Il Grande Leader...» «Lo so.» Asad guardò Bahira al chiaro di luna. Indossava l'ampia tunica bianca che ogni ragazza deve portare di sera, oltre al velo che le copriva il capo e a quello sul volto. Aveva tre anni più di lui, un'età in cui la maggior parte delle donne libiche sono già mogli o promesse spose. Rimasero inginocchiati a guardarsi senza pronunciare una parola, poi lo sguardo della ragazza si spostò sul Corano e solo in quel momento parve accorgersi del tappeto. Guardò Asad, e l'espressione del ragazzo sembrava volesse dirle: "Se stiamo per commettere il peccato di fornicazione, che differenza fa se commettiamo anche quello di blasfemia?". Bahira Nadir prese l'iniziativa e si tolse il velo dal viso. Sorrise, e a Khalil sembrò imbarazzata nel trovarsi senza velo a meno di un metro da un uomo. Poi si tolse il velo dal capo e liberò dalle forcine i capelli, che le scesero sulle spalle in lunghi riccioli. Asad Khalil respirò a fondo e fissò Bahira negli occhi. Era bella, pensò, anche se non aveva molti termini di paragone. «Sei molto bella» le disse, schiarendosi la voce. Lei sorrise e gli prese le mani tra le sue. Khalil non aveva mai toccato le mani di una donna e si sorprese di quanto fossero piccole e morbide quelle di Bahira. La pelle era calda, più calda della sua, e le mani erano asciutte mentre le sue erano umide. Le si avvicinò, sempre in ginocchio. E avvicinandosi avvertì un profumo di fiori e si accorse di avere un'erezione. Nessuno dei due sapeva cosa fare. Alla fine Bahira prese a carezzargli il viso e lui ricambiò. La ragazza gli andò vicino e i loro corpi si toccarono;
quando si gettarono l'uno nelle braccia dell'altra, lui sentì sotto la tunica i seni di lei. Era folle di desiderio, Asad Khalil, ma una parte della sua mente sembrava trovarsi altrove... un istinto primordiale gli diceva di stare all'erta. Prima che il ragazzo capisse cosa stava accadendo, Bahira indietreggiò sbottonandosi la tunica. Khalil la osservò, sempre pronto però a cogliere eventuali segnali di pericolo. Se li avessero sorpresi in quel momento, sarebbero stati spacciati. «Asad, che cosa aspetti?» la sentì chiedergli. Era completamente nuda e lui le guardò i seni, i peli pubici, le cosce e poi ancora il viso. «Asad.» Lui si sfilò dalla testa la corta giubba e si tolse pantaloni e mutande, allontanandoli con un calcio. Bahira lo fissò in viso, evitando con gli occhi il pene eretto. Poi, però, abbassò lo sguardo. A quel punto Asad non sapeva cosa fare. O meglio, credeva di conoscere i gesti dell'amore ma non sapeva come muoversi. Fu ancora una volta Bahira a prendere l'iniziativa, sdraiandosi sulla stuoia con la testa appoggiata agli indumenti che si era tolta. Asad si tuffò quasi su di lei, rabbrividendo al contatto con quei seni e quella pelle morbida contro la sua. Sentì che lei allargava le gambe e con la punta del pene toccò la carne calda e umida. In un attimo fu a metà dentro di lei, che emise un gemito di dolore. Lui continuò a spingere, superò la resistenza e la penetrò completamente, e subito la ragazza cominciò a sollevare e abbassare il bacino, sollevare e abbassare... Pochi secondi dopo, in un batter d'occhio, Asad venne dentro di lei. Poi rimase immobile, cercando di riprendere fiato. Ma Bahira continuava a sollevare e abbassare i fianchi, e lui, avendo già goduto, non capiva perché lo facesse. La ragazza cominciò a mugolare e a respirare pesantemente, poi pronunciò il suo nome. «Asad, Asad, Asad...» Asad rotolò di lato e rimase sdraiato sulla schiena a fissare il cielo. La luna stava calando a ovest e le stelle, sbiadite dalle luci del quartier militare, sembravano una pallida imitazione di quelle che brillano sul deserto. «Asad.» Non rispose, la sua mente non riusciva a comprendere appieno ciò che il corpo aveva appena fatto. Lei gli andò vicino e le loro spalle e gambe si toccarono, ma in lui il de-
siderio era scomparso. «Sei arrabbiato?» gli chiese. «No.» Si mise a sedere. «Dobbiamo rivestirci.» Si mise a sedere anche lei, poggiandogli il capo sulla spalla. Asad voleva spostarsi ma non lo fece, mentre brutti pensieri gli attraversavano il cervello. E se fosse rimasta incinta? E se avesse voluto rifarlo? La prossima volta li avrebbero sicuramente sorpresi, e lei magari sarebbe rimasta incinta; in ogni caso uno di loro, se non entrambi, avrebbe perso la vita. Su certi argomenti la legge non era molto chiara e ad affrontare la situazione provvedevano le famiglie; conoscendo il padre di Bahira, Asad era certo che non avrebbe avuto pietà né di lui né della figlia. «Mia madre è stata con il Grande Leader» disse all'improvviso, senza sapere nemmeno lui il perché. Bahira non rispose. Khalil si odiava per aver rivelato quel segreto e non sapeva nemmeno cosa provava per la ragazza. Si rendeva vagamente conto che il desiderio di possederla sarebbe tornato e per questo motivo voleva essere gentile. Allungò lo sguardo sui suoi vestiti e notò una macchia scura sul tappeto. Bahira gli passò un braccio attorno al collo e con l'altra mano gli carezzò una coscia. «Credi che ci concederanno di sposarci?» gli chiese. «Forse.» Ma pensava di no. Guardò la mano di lei poggiata sulla coscia e si accorse di avere del sangue sul pene: avrebbe dovuto portare dell'acqua per lavarsi. «Parlerai a mio padre?» gli chiese ancora Bahira. «Sì.» Ma non sapeva se l'avrebbe fatto. Non che gli dispiacesse l'idea di sposare la figlia del capitano Habib Nadir, ma la richiesta di matrimonio poteva rivelarsi pericolosa. Si chiese cosa sarebbe successo se le vecchie del villaggio avessero esaminato la ragazza scoprendo che aveva perduto la verginità, o se fosse rimasta incinta; si fece un mucchio di domande e tra queste se sarebbe stato punito per il peccato appena commesso. «Andiamo via» disse. Lei però non si mosse dal suo fianco. Rimasero seduti l'uno accanto all'altra e Khalil era sempre più irrequieto. Bahira stava per dire qualcosa, ma lui la fermò. «Zitta.» Provava una sensazione sgradevole: stava per succedere qualcosa che richiedeva la massima attenzione. Sua madre un giorno aveva detto che, come l'animale di cui portava il nome, Asad era dotato di un sesto senso o di una seconda vista, come di-
cevano le vecchie. Per lui era scontato che tutti potessero avvertire il pericolo imminente o la presenza di un nemico senza sentirlo o vederlo. Poi aveva capito che si trattava di un dono di natura. E in quel momento si rese conto che il disagio che aveva appena provato non aveva nulla a che fare con Bahira o con la polizia militare o con il rischio di essere sorpresi a fornicare; a provocarlo era stato qualcos'altro, ma non sapeva ancora cosa. Tutto quel che sapeva era che stava per succedere qualcosa di spaventoso. Chip Wiggins cercò di ignorare le scie delle pallottole traccianti che vedeva sfrecciare attorno all'aereo. Di fronte a ciò che stava accadendo, la vita e l'addestramento non gli avevano fornito punti di riferimento saldi. Era così surreale, quella scena, che non riusciva a rendersi conto del pericolo di morte. Si concentrò sui quadranti luminosi che aveva di fronte, schiarendosi la voce. «Siamo ormai in zona» comunicò a Satherwaite. Il pilota diede il "ricevuto" senza che la sua voce tradisse la minima emozione. «Meno di due minuti all'obiettivo» disse ancora Wiggins. «Okay.» Satherwaite azionò il comando del propulsore accessorio e l'F111F sembrò schizzare in avanti, poi tirò verso di sé la cloche, e il muso del jet si sollevò. Allora alzò per un attimo lo sguardo dagli strumenti e vide alla sua destra l'elaborato disegno formato dalle traiettorie letali dei proiettili. «Quegli stronzi non sanno nemmeno sparare.» Wiggins nonne era così sicuro. «Trenta secondi allo sgancio.» Bahira prese per un braccio il suo amante. «Cosa c'è che non va, Asad?» «Taci.» Ascoltando attentamente gli parve di udire qualcuno gridare in lontananza. Poco distante un'auto fu messa in moto. Allora afferrò gli abiti, si infilò la giubba e si alzò in piedi per guardare dal parapetto, finché qualcosa all'orizzonte non attirò la sua attenzione. Bahira gli era andata vicino, stringendosi al petto gli abiti. «Che cosa c'è?» chiese, con insistenza. «Non lo so. Zitta.» Stava succedendo qualcosa di terribile, ma lui non riusciva ancora a vedere o sentire niente, anche se avvertiva nettamente il pericolo nell'aria. Scrutò la notte e continuò a tendere le orecchie. Anche Bahira si affacciò al parapetto. «Guardie?» «No. Qualcosa... laggiù...» E poi vide le scie incandescenti che, partendo dalle luci di Tripoli, disegnavano una specie di arco luminoso nel cielo scuro sopra il Mediterraneo.
Se ne accorse anche Bahira. «Che cos'è?» chiese. «Missili.» "In nome di Allah misericordioso..." «Missili e antiaerea.» Bahira gli afferrò un braccio. «Asad... che sta succedendo?» «Un attacco nemico.» «No! No! Ti prego...» Prese freneticamente a rivestirsi. «Dobbiamo correre al rifugio.» «Sì.» Asad si infilò in fretta pantaloni e scarpe, dimenticandosi le mutande. D'improvviso il silenzio della notte fu squarciato dal suono assordante di una sirena. Dalle case cominciarono a uscire di corsa uomini che gridavano, alcune auto furono messe in moto, le strade si riempirono dei rumori più diversi. Bahira prese a correre a piedi nudi verso le scale, ma Asad la raggiunse tirandola giù. «Aspetta, non devono vederti uscire da qui! Aspetta che gli altri raggiungano i rifugi.» Lei lo guardò e decise di fidarsi del suo consiglio. Assicuratosi che la ragazza non si muovesse di lì, Khalil tornò di corsa al parapetto. "In nome di Allah..." Le fiamme si levavano in diversi punti di Tripoli e si sentivano esplosioni lontane, simili al boato del tuono nel deserto. Poi qualcos'altro attirò la sua attenzione: un'ombra scura, sullo sfondo delle luci e delle fiamme, si muoveva nella sua direzione, trascinandosi dietro un'enorme coda bianca e rossa. Khalil capì che stava guardando i gas di scarico di un jet che puntava dritto su di lui. Rimase immobile per il terrore, senza riuscire nemmeno a cacciare un grido. Bill Satherwaite sollevò nuovamente lo sguardo dai quadranti elettronici e di fronte a lui, nell'oscurità, riconobbe la veduta aerea di al-Aziziya, che aveva osservato tante volte sulle foto dei satelliti. «Siamo pronti» disse Wiggins. Il pilota riportò l'attenzione sui comandi e si concentrò sul volo e sul piano di bombardamento che sarebbe scattato nei secondi successivi. «Tre, due, uno. Giù!» disse Wiggins. Satherwaite avvertì immediatamente la perdita di peso dell'aereo e lo riportò in rotta, eseguendo alla perfezione la manovra di disimpegno. Wiggins controllava i telecomandi che avrebbero guidato sugli obiettivi stabiliti le bombe intelligenti al laser, ciascuna del peso di 900 chilogrammi. «Va bene... bene... buona immagine... ci siamo... devia, devia... impat-
to! Uno, due, tre, quattro. Bello!» Non potevano udire le esplosioni delle quattro bombe sganciate sul quartier militare di al-Aziziya ma immaginavano entrambi la scena. «Ce ne andiamo» disse Satherwaite. «Bye-bye, cari ragazzi» aggiunse Wiggins. Asad non poteva far altro che guardare quella cosa incredibile che sfrecciava verso di lui eruttando fuoco dalla coda. Poi, all'improvviso, il jet puntò verso il cielo e il suo ruggito sembrò coprire ogni rumore, tranne l'urlo di Bahira. L'aereo scomparve, il boato lentamente si spense, ma Bahira continuava a urlare. «Stai zitta!» le gridò. Poi sbirciò dal parapetto, vide in strada due soldati che sollevavano lo sguardo e si abbassò di colpo. Bahira ora singhiozzava. Khalil non aveva ancora deciso il da farsi quando il pavimento del terrazzo sobbalzò violentemente facendolo cadere a faccia in giù. Poi si udì vicinissima un'esplosione impressionante, seguita da un'altra e poi da un'altra e un'altra ancora. Il ragazzo si coprì le orecchie con le mani, mentre la terra continuava a tremare e l'onda d'urto gli feriva le orecchie e gli faceva spalancare la bocca in un urlo silenzioso. Lo avvolse un'ondata di calore, il cielo si fece rosso sangue e cominciò a vomitare macerie e detriti. "Allah misericordioso, risparmiami..." Mentre tutt'attorno il mondo stava crollando, i polmoni di Asad si svuotarono dell'aria e il ragazzo fece uno sforzo disperato per respirare. Tutto taceva, stranamente, e capì di essere diventato sordo; poi si accorse di essersi pisciato addosso. A poco a poco l'udito tornò, così poté sentire le grida di Bahira, sempre più terrorizzata. La ragazza riuscì a sollevarsi in piedi e a trascinarsi al parapetto, al quale si affacciò riprendendo a gridare. «Chiudi il becco!» Le andò accanto afferrandola per un braccio, ma lei si divincolò e prese a correre tra le macerie urlando con quanto fiato aveva in corpo. Si udirono altre quattro tremende esplosioni nella zona est di al-Aziziya. Khalil vide su un tetto vicino alcuni uomini che posizionavano una mitragliatrice antiaerea. Se ne accorse anche Bahira, che sollevò le braccia verso di loro. «Aiuto! Aiuto!» Gli uomini la videro, ma continuarono a montare l'arma. «Aiutatemi! Aiuto!» Khalil l'afferrò alle spalle tirandola giù. «Chiudi il becco!»
Ma lei lottò, sorprendendolo con la sua forza. Continuò a urlare, si liberò dalle sue braccia e gli graffiò il viso lasciandogli dei solchi profondi tra guancia e collo. D'improvviso la mitragliatrice aprì il fuoco e il suono cadenzato delle raffiche si mescolò con l'ululato della sirena e con i boati delle esplosioni attutiti dalla lontananza. La canna sputò verso il cielo i traccianti rossi, e tanto bastò perché Bahira ricominciasse a gridare. Khalil le chiuse la bocca con una mano, ma lei gli morse un dito, poi, sollevando di scatto un ginocchio, lo colpì all'inguine e lo fece ruzzolare all'indietro. Era completamente isterica e Khalil non sapeva come calmarla. Ma un modo c'era. Le portò le mani alla gola e strinse. Satherwaite fece compiere una virata di 150 gradi all'F-111F, che in quel momento sfrecciava sul deserto in direzione sud, e lo stabilizzò su una rotta che li avrebbe riportati sulla costa, un centinaio di chilometri a ovest di Tripoli. «Sei un gran bel pilota» si complimentò Wiggins. «Tieni gli occhi aperti, Chip, potrebbe spuntare l'aviazione libica.» Wiggins girò alcune manopole del suo schermo radar. «Il cielo è libero, a quest'ora i piloti di Gheddafi si staranno lavando le mutande.» «Speriamo.» L'F-111F non era dotato di missili aria-aria e gli idioti che l'avevano progettato non si erano nemmeno preoccupati di dotarlo di una mitragliatrice Gatling; di conseguenza, dai caccia nemici ci si poteva difendere soltanto variando velocità e manovre. «Speriamo» ripeté. E Satherwaite mandò un segnale radio per far sapere che Karma 57 apparteneva ancora al regno dei vivi. Attesero in silenzio finché non giunsero segnali analoghi da Remit 22, l'aereo di Terry Waycliff e Bill Hambrecht, da Remit 61, Bob Callum e Steve Cox, e da Elton 38, Paul Grey e Jim McCoy. Ce l'avevano fatta tutti e quattro. «Speriamo che anche gli altri siano in salvo» disse Wiggins. Satherwaite annuì. Era stata una missione perfetta, fino a quel momento, e la cosa lo faceva star bene. Quando tutto andava secondo i piani, lui era contento. E a parte quella Tripla A, a parte cioè il benvenuto dell'antiaerea che però sembrava non avere fatto danni, l'operazione non era stata diversa da una qualunque esercitazione a fuoco sul deserto del Mojave. "È stata
una passeggiata" scrisse il pilota sul diario di bordo. "Tutte rose e fiori" confermò Wiggins. Asad Khalil continuò a serrare le dita riuscendo a far tacere Bahira, che lo fissava con gli occhi spalancati e quasi fuori dalle orbite. Strinse di più e lei prese a dimenarsi, aumentò ancora la pressione e i movimenti scomposti della ragazza si trasformarono in spasmi muscolari. Poi anche gli spasmi cessarono. Mantenne la pressione sulla gola e la guardò negli occhi, sporgenti e ormai privi di vita. Allora Asad contò fino a sessanta e aprì le mani. Con un solo gesto aveva risolto il problema presente e tutti quelli futuri. Si alzò in piedi, arrotolò il tappeto attorno al Corano, se lo mise in spalla e scese in strada. Tutte le luci erano spente e dovette cercare al buio la strada di casa. Ogni passo che lo allontanava dalla palazzina, dal terrazzo dove Bahira giaceva morta, contribuiva a far svanire il problema rappresentato dalla ragazza. Aveva solo sedici anni, Asad Khalil. E correndo verso casa tra le macerie di al-Aziziya capì di essere stato messo alla prova da Satana e da Allah; capì che quella notte di peccato, fiamme e morte aveva fatto di lui un uomo. 17 Asad Khalil continuò a correre verso casa. Nella zona in cui abitava c'era in giro più gente, soldati, donne, qualche bambino, e tutti correvano o camminavano come in trance; alcuni, si accorse, erano inginocchiati in preghiera. Girò un angolo e si bloccò immediatamente. Le case a schiera decorate a stucco, tra le quali c'era anche la sua, sembravano stranamente diverse. Si accorse che erano saltati tutti i vetri delle finestre, e i frammenti erano sparsi insieme ai calcinacci nell'ampio piazzale di fronte. Ma ancora più strano gli apparve, guardando dalle finestre vuote e dalle porte sventrate, il chiarore lunare che illuminava l'interno delle abitazioni. Capì subito che i tetti erano crollati... "Allah, ti prego, ti supplico..." Per un attimo credette di svenire, poi respirò profondamente e riprese a correre verso casa, inciampando sui blocchi di cemento e perdendo il tappeto con il Corano. Quando raggiunse la soglia di casa esitò, poi si fece coraggio ed entrò.
Il tetto era sprofondato seppellendo il pavimento di mattonelle, i tappeti e i mobili. Khalil sollevò lo sguardo al cielo... "Nel nome del Misericordioso..." Fece un altro profondo respiro e cercò di controllarsi. Sulla parete di fronte era rimasto in piedi, ad ante spalancate, l'armadio costruito da suo padre; prese una torcia elettrica e l'accese. Proiettando nella stanza il potente fascio di luce poté valutare l'immensa portata dei danni. La foto del Grande Leader era ancora appesa alla parete, e questo in qualche misura lo rassicurò. Sapeva di dover andare a guardare nelle altre stanze, ma non se la sentiva di affrontare ciò che avrebbe potuto trovare. Infine si disse: "Devi comportarti da uomo, devi andare a vedere se sono vivi o morti". Si fermò davanti alla porta della stanza che divideva con i due fratelli, Esam di cinque anni e Qadir di quattordici. Esam, nato dopo la morte del padre, era di salute malferma e la madre e le sorelle non si stancavano di viziarlo. Il Grande Leader in persona una volta aveva fatto venire dall'Europa un medico per curarlo. Qadir, più giovane di Asad di due anni, era molto sviluppato per la sua età e alcuni credevano che i due fratelli fossero gemelli. Asad sperava, sognava che lui e Qadir un giorno si sarebbero arruolati insieme per diventare grandi guerrieri, comandanti d'armata e infine aiutanti del Grande Leader. Aveva in mente quell'immagine quando abbassò la maniglia e provò a entrare, incontrando però una certa resistenza dall'interno. Premette con la spalla contro la porta fino a creare uno spiraglio, attraverso il quale passò. La stanza, piccola, conteneva tre letti: il suo, ora appiattito sotto un lastrone di cemento, quello di Qadir, anch'esso semisepolto dalle macerie, e di fronte quello di Esam, sul quale si vedeva tina trave di sghimbescio. Khalil andò a inginocchiarsi accanto al letto del fratellino e vide, sotto la trave e sotto le coperte, il corpo schiacciato e senza vita di Esam. Allora si coprì il volto con le mani e pianse. Quando si fu un po' calmato, si avvicinò al letto di Qadir, quasi invisibile dopo il crollo del tetto. Il raggio della torcia illuminò un braccio che sporgeva dalle macerie, Asad afferrò la mano lasciandola subito cadere inorridito. Emise un lungo lamento e si gettò sulle macerie piangendo. Dopo un paio di minuti capì che doveva andare a cercare gli altri componenti della famiglia e si rialzò. Prima di uscire dalla stanza puntò nuovamente la tor-
cia sul suo letto, dove era rimasto sdraiato fino a poche ore prima, e rimase sbigottito a fissare l'enorme blocco di cemento che lo aveva distrutto. Passò alla stanza delle sorelle. La porta, scheggiata, era uscita dai cardini e quando lui la spinse cadde all'interno. Adara, di nove anni, e Lina, di undici, dormivano nello stesso letto. La prima era una bambina sempre allegra, la preferita di Khalil, che la trattava più da padre che da fratello. Lina, seria e studiosa, dava molte soddisfazioni ai suoi insegnanti. Non aveva il coraggio di guardare. Chiuse gli occhi e pregò, poi li riaprì, puntò il raggio della torcia sul letto ed emise una specie di rantolo. Il letto era rovesciato, nella stanza sembrava fosse passato un gigante infuriato. Khalil si accorse che una parete era crollata e sentì nelle narici il puzzo acre e intenso dell'esplosivo. La bomba doveva essere caduta non lontano, distruggendo la stanza e riempiendola di fuoco e fumo. Ogni oggetto, ogni mobile era stato ridotto in cenere o frammenti. Scavalcò le macerie e i detriti accanto alla porta, mosse qualche passo e poi si bloccò di colpo; il raggio della torcia aveva illuminato una testa mozzata, dal viso annerito e carbonizzato e i capelli quasi completamente strinati. Non era possibile capire se fosse Lina o Adara. Allora si voltò e corse, inciampò e cadde. E sentì la sua mano venire in contatto con ossa e carne. Si ritrovò nel piccolo cortile della casa, rannicchiato sul pavimento, senza riuscire a muoversi. Poi, finalmente, si decise ed entrò nella stanza della madre. Non c'erano molte macerie, ma sembrava che una forza misteriosa avesse spinto ogni cosa contro una parete. Si avvicinò al letto: il cuscino e la coperta mancavano, le lenzuola e la camicia da notte sul corpo della madre erano ricoperte da uno strato di polvere grigiastra. Khalil pensò dapprima che la mamma dormisse o fosse svenuta per l'urto del letto contro la parete. Poi notò il sangue attorno alle orecchie e alla bocca; si ricordò che sul terrazzo per poco non gli erano scoppiati orecchie e polmoni, pensò alla violenza dell'onda d'urto e capì cos'era successo alla madre. La scosse. «Mamma! Mamma!» E continuò a scuoterla e a chiamarla. Faridah Khalil aprì gli occhi e cercò di mettere a fuoco l'immagine del figlio maggiore. «Mamma! Sono Asad.» Lei annuì lentamente.
«Mamma, vado a cercare aiuto...» Gli afferrò il braccio con una forza che lo sorprese e scosse il capo, poi allungò le braccia, e lui capì che la madre voleva che si avvicinasse. Allora si chinò fino a portare il suo viso a pochi centimetri da quello della donna. Lei cercò di dire qualcosa, ma riuscì solo a tossire sputando sangue, e Khalil ne sentì l'odore. «Mamma, non ti preoccupare, vado a chiamare un dottore.» «No!» Lui si stupì udendo la voce, che non sembrava quella di sua madre, e temette per un'emorragia interna. Forse, se l'avesse portata di corsa all'ospedale, sarebbe riuscito a salvarla. Ma la donna continuava a tenerlo per un braccio: sapeva che stava per morire e voleva il figlio accanto a sé durante l'ultimo respiro. «Qadir... Esam... Lina... Adara...» gli sussurrò all'orecchio. «Sì... stanno bene... sono... saranno...» ma il pianto gli impedì di continuare. «I miei poveri bambini... la mia famiglia» mormorò Faridah. Khalil emise un lungo, stridulo lamento. «Perché ci hai abbandonato, Allah?» gridò poi. E pianse con il capo sul petto della madre, sentendo sotto la guancia i leggeri battiti del cuore e udendola sussurrare: «La mia povera famiglia...». Poi il cuore della donna si fermò e Asad Khalil rimase immobile, aspettando che il petto tornasse a sollevarsi e abbassarsi. Attese a lungo. Poi, in un lampo tutto gli fu chiaro. Era lui il predestinato a vendicare non soltanto la sua famiglia ma la nazione, la religione e il Grande Leader; sarebbe stato lui lo strumento della vendetta di Allah. Lui, Asad Khalil, non aveva più nulla da perdere e non gli era rimasta alcuna ragione di vita se non quella di combattere la jihad, la guerra santa, nella stessa casa del nemico. La sua mente di sedicenne ormai non aveva altro pensiero. Sarebbe andato in America e avrebbe tagliato la gola a tutti coloro che avevano preso parte a quel vile attacco: occhio per occhio, dente per dente. Era questa la faida di sangue araba, più antica del Corano e della jihad, antica come il ghibli. "Giuro davanti ad Allah che vendicherò questa notte!" «Tutti centri?» chiese il tenente Bill Satherwaite al suo ufficiale d'arma. «Sì. Be', un obiettivo forse non l'ho centrato in pieno... Ma qualcosa ho
colpito ugualmente, una fila di casette basse.» «Purché non sia stato l'arco di Mario.» «Di Marco, Marco Aurelio.» «Sì, comunque si chiami. Mi devi una cena, Chip.» «No, la devi tu a me.» «Hai mancato un obiettivo e quindi paghi tu.» «Okay, pago io se tu passi sopra l'arco di Marco Aurelio.» «Ci sono passato sopra nel viaggio di andata e non te ne sei accorto. Lo vedrai quando tornerai da turista.» Chip Wiggins non aveva alcuna intenzione di tornare in Libia, se non a bordo di un caccia. Improvvisamente si stagliò davanti a loro la costa e iniziarono a sorvolare il Mediterraneo. Non c'era più bisogno di mantenere il silenzio radio, e Satherwaite trasmise le due parole "Piedi bagnati", che nel gergo dei piloti indicano l'inizio del sorvolo del mare. Fecero rotta verso il punto prestabilito, dove la squadriglia si sarebbe riunita in formazione per tornare in Inghilterra. «Sta sicuro che per un po' non sentiremo parlare di Gheddafi» osservò Wiggins. «Magari non ne sentiremo parlare mai più» aggiunse. Satherwaite capiva benissimo che questi attacchi "chirurgici" non avevano il solo scopo di mettere alla prova la sua abilità di pilota, immaginava che ci sarebbero state conseguenze politiche e diplomatiche. Ma a lui interessavano di più le chiacchiere da spogliatoio a Lakenheath e già si immaginava di raccontare ai superiori i particolari della missione. Pensò per un attimo alle bombe da 900 chili appena sganciate e sperò che quella gente avesse fatto in tempo a raggiungere i rifugi. Non voleva davvero far del male a nessuno. Wiggins sembrò leggergli nel pensiero. «Domani Radio Libia dirà che abbiamo colpito sei ospedali, sette orfanotrofi e dieci moschee.» Satherwaite rimase in silenzio. «Duemila civili morti, tutti donne e bambini.» «Qual è la situazione carburante?» «Circa due ore.» «Bene. Ti sei divertito?» «Sì, fino alla Tripla A.» «Non volevi certo bombardare un obiettivo indifeso, vero?» Wiggins rise. «Ehi, siamo diventati veterani di guerra» disse. «Proprio così.»
Wiggins rimase per un po' in silenzio. «Mi chiedo se hanno intenzione di vendicarsi, se dobbiamo aspettarci una rappresaglia» disse infine. «Voglio dire, se noi fottiamo loro, loro fottono noi, poi noi fottiamo loro e loro fottono noi... Dove andremo a finire?» Libro terzo AMERICA, 15 APRILE, PRESENTE Era un implacabile cavaliere solitario, poteva contare solo sulla sua spada yemenita; e unici ornamenti di quella spada erano le tacche sul filo della lama. La faida mortale (canto di guerra arabo) 18 Asad Khalil, comodamente seduto in un taxi newyorkese, rivolse la propria attenzione al conducente, Jamal Jabbar, un compatriota la cui foto e il cui nome erano visibili sulla licenza fissata al cruscotto. A Tripoli i servizi di sicurezza gli avevano spiegato che questo Jabbar sarebbe stato uno dei suoi cinque contatti in America. A New York i tassisti musulmani erano numerosi, e molti si erano lasciati convincere con facilità a rendere un piccolo servizio, anche se non erano combattenti per la libertà appositamente selezionati. "Molti tassisti hanno lasciato le famiglie in Libia" aveva osservato sorridendo l'ufficiale addetto alla missione di Khalil, da questi conosciuto come Malik, ossia il Re. «Che strada è questa?» chiese a Jamal Jabbar. «È la circonvallazione» rispose il tassista nel suo arabo dal forte accento libico. «Quello laggiù è l'Oceano Atlantico, questa zona della città si chiama Brooklyn e vi abitano molti nostri correligionari.» «Questo lo so. Tu perché sei venuto in America?» A Jabbar non piacquero il tono e le implicazioni di quella domanda, ma si era già preparato la risposta. «Solo per fare soldi in questa terra maledetta. Tra sei mesi ritornerò in Libia dalla mia famiglia.» Khalil sapeva che non era vero. E non perché pensava che gli avesse mentito, ma perché sapeva per certo che entro un'ora Jabbar sarebbe morto.
Si accomodò sul sedile, ripensando agli avvenimenti appena trascorsi. Uscire dall'aeroporto, salire su quel taxi e raggiungere New York era stato semplicissimo, ma se avesse perso soltanto dieci o quindici minuti la cosa si sarebbe rivelata molto meno semplice. Era trasalito quando, ancora sull'aereo, aveva sentito quell'uomo alto dire forte: "Questa è la scena di un delitto". L'uomo l'aveva poi guardato ordinandogli di scendere dalla scala a chiocciola e Khalil si era chiesto come avesse fatto la polizia a capire in così breve tempo che era stato commesso un delitto. Forse il pompiere salito a bordo aveva comunicato qualcosa via radio. Ma Khalil e il suo complice, Yusuf Haddad, avevano preso ogni precauzione per non lasciare indizi, e lui stesso aveva deciso di spezzare il collo del compagno perché non si notassero ferite di coltello o d'arma da fuoco. Era anche probabile che il primo uomo salito a bordo avesse notato i pollici mancanti ai due federali; o forse a insospettire la polizia era stato l'improvviso silenzio radio del pompiere. Non aveva in programma di ucciderlo ma, quando quello aveva cercato di aprire la porta della toilette, a Khalil non era rimasta altra scelta. E gli era dispiaciuto, perché ucciderlo significava lasciarsi dietro un'altra traccia. La situazione si era sensibilmente modificata, rischiando di precipitare, quando quell'uomo in borghese era salito a bordo e lui se l'era dovuta svignare in fretta. E gli venne da sorridere ripensando che era stato proprio lo sconosciuto a dirgli di andarsene, cioè di fare esattamente ciò che lui voleva fare in quel momento. La parte più delicata del piano, uscire dall'aereo, si era rivelata a conti fatti la più semplice: gli era stato addirittura ordinato di allontanarsi in fretta. Altrettanto facile era stato salire su quel furgone portacarrelli, ancora con il motore acceso, e sparire approfittando della confusione. La zona era affollata di mezzi simili, come gli aveva anticipato un ufficiale dell'intelligence libica che conosceva uno scaricatore della Trans-Continental; non aveva avuto che l'imbarazzo della scelta. La pianta dell'aeroporto era stata scaricata dal sito Internet e a localizzare sulla mappa il Conquistador Club aveva provveduto Boutros, lo stesso che si era consegnato agli americani in febbraio. Lo spionaggio libico aveva predisposto fuori Tripoli un itinerario simile a quello che dalla zona di sicurezza portava al Conquistador Club, e lui l'aveva percorso e ripercorso così tante volte da poterlo rifare tranquillamente a occhi chiusi. Ripensò a Boutros, che aveva visto una sola volta, e alla facilità con cui si era preso gioco degli americani a Parigi, a New York e a Washington.
Quelli dei servizi segreti americani non erano stupidi ma arroganti, e l'arroganza porta spesso a fidarsi troppo di se stessi e a commettere imprudenze. «Conosci l'importanza di questa data?» chiese a Jabbar. «Naturalmente. Sono di Tripoli ed ero un ragazzino quando gli americani ci hanno bombardato. Siano maledetti.» «Hai perso qualcuno durante il bombardamento?» «Uno zio a Bengasi, fratello di mio padre. Ancora adesso la sua morte mi rattrista.» Sembrava che ogni libico avesse perduto un amico o un parente in quel raid aereo che aveva fatto meno di un centinaio di vittime. Khalil si rese conto che quel tassista era uno dei tanti millantatori. Lui non parlava spesso dei familiari morti quella notte, e fuori dalla Libia non lo avrebbe raccontato a nessuno. Ma Jabbar di lì a poco non avrebbe più rappresentato un pericolo. «La mia famiglia è stata sterminata ad al-Aziziya» gli rivelò quindi. Quello rimase in silenzio. «Piango con lei, amico mio» disse. «Mia madre, due fratelli e due sorelle.» «Sì, certo, ora ricordo. La famiglia di...» «Khalil.» «Sì, sì. Sono i martiri di al-Aziziya.» Jabbar si voltò a guardare il passeggero non pagante. «Che Allah vendichi le sue sofferenze, signore. Voglia darle pace e forza fino al giorno in cui vi ricongiungerete in paradiso.» Mentre il tassista continuava a tessere lodi ed esprimere condoglianze, Khalil ripensò a quell'uomo alto visto sull'aereo e alla donna in giacca blu che doveva essere la sua collega. Gli americani, come gli europei, avevano trasformato le donne in uomini ed erano a loro volta diventati effeminati. Il che era un insulto a Dio e alle sue creature: Eva fu creata da una costola di Adamo per aiutarlo, non per essere uguale a lui. Quando quella coppia era salita a bordo, la situazione aveva subito una svolta improvvisa. Inizialmente aveva pensato di evitare l'incursione al Conquistador Club, la base segreta dei federali, ma era un obiettivo al quale non sapeva resistere, un'occasione per la quale smaniava da quando, a febbraio, Boutros ne aveva rivelato l'esistenza a Malik. "Subito dopo il tuo arrivo avrai la possibilità di assaggiare un piatto succulento" gli aveva detto Malik. "Ma secondo me sono preferibili i piatti freddi. La tua scelta sia prudente e ragionata, uccidi solo ciò che puoi mangiare o mettere da parte per quando avrai fame."
Subito dopo lo sbarco Khalil aveva ricordato quelle parole, ma aveva deciso di correre ugualmente il rischio e uccidere quelli che si sarebbero dovuti trasformare nei suoi carcerieri. La strage sull'aereo aveva poca importanza per lui: usare gas venefici per uccidere era da vigliacchi, ma rientrava nel piano. E le bombe che aveva fatto esplodere in Europa non gli avevano dato molta soddisfazione, anche se aveva apprezzato l'opportunità di far morire quella gente nello stesso modo con cui i vigliacchi piloti americani avevano sterminato la sua famiglia. Massima soddisfazione aveva provato invece facendo a pezzi con l'ascia l'ufficiale dell'Aeronautica americana a Londra. La vittima, ricordò, stava andando verso la propria auto quando, avvertendo una presenza alle spalle, si era voltata chiedendo: «Le serve qualcosa?». Khalil aveva sorriso. "Sì, mi serve proprio qualcosa, colonnello Hambrecht." «Al-Aziziya» aveva risposto, e non avrebbe mai dimenticato l'espressione sul viso dell'uomo un attimo prima di estrarre l'ascia da sotto l'impermeabile per poi calare un fendente e staccargli quasi un braccio. In seguito aveva colpito con metodo sulle gambe, le costole, i genitali, assicurandosi che il colonnello, pur soffrendo orribilmente, fosse ancora vivo e cosciente. A quel punto aveva vibrato l'ascia con tutte le sue forze sullo sterno, che si era spaccato mentre la lama affondava nel cuore. Nelle vene dell'ufficiale scorreva ancora sangue sufficiente da zampillare tutto intorno, e Khalil aveva sperato che l'uomo potesse rendersi conto di tutto prima di morire. Quindi l'aveva alleggerito di portafogli e orologio per simulare una rapina, anche se raramente i rapinatori fanno a pezzi le loro vittime a colpi d'ascia. In tal modo avrebbe comunque confuso le acque e insinuato il dubbio negli investigatori. La mossa successiva di Khalil, compiuta stavolta a Bruxelles, fu l'eliminazione dei tre scolari americani che aspettavano l'autobus. Era previsto che fossero quattro, lo stesso numero dei suoi fratelli e sorelle, ma quella mattina se n'erano presentati solo tre, accompagnati da una donna, probabilmente la madre di uno di loro. Khalil fermò l'auto accanto al gruppetto, scese, sparò al petto e alla testa di ciascun bambino, sorrise alla donna, risalì in auto e si allontanò. Malik gli avrebbe poi rimproverato quell'errore, aver lasciato vivo un testimone, ma Khalil era certo che per tutta la vita la donna avrebbe ricordato solo i tre bambini agonizzanti fra le sue braccia. Era stato un modo per
vendicare la morte della madre. Oltre che istruttore e consigliere, Malik era per Khalil una sorta di figura paterna. Il padre di Malik, Namir, cioè Pantera, era stato un eroe nella guerra d'indipendenza contro gli italiani, che l'avevano catturato e impiccato quando il figlio era ancora un ragazzo. La perdita dei padri, uccisi dagli infedeli, aveva creato un forte legame tra maestro e allievo, che avevano entrambi giurato vendetta. Khalil abbandonò il filo dei ricordi, attratto dalla vista di un grande ponte grigiastro. «Cos'è?» chiese a Jabbar. «Si chiama Verrazano Bridge, porta a Staten Island; di lì, superato un altro ponte, entreremo nel New Jersey. C'è un mucchio d'acqua e di ponti da queste parti.» Non era la prima volta che Jabbar caricava sul suo taxi dei connazionali, di solito immigrati, uomini d'affari o turisti; oppure impegnati in tutt'altro genere di faccende, come questo particolare cliente. I libici solitamente restavano a bocca aperta davanti ai grattacieli, ai ponti, alle autostrade e alle distese di verde, ma questo non sembrava affatto impressionato, semmai curioso. «È la prima volta che viene in America?» gli chiese. «Sì, la prima e l'ultima.» Arrivarono al termine del ponte. «Se guarda alla sua destra, signore, vedrà la punta di Manhattan, quello che chiamano il quartiere finanziario, con le due altissime Twin Towers, le torri gemelle.» I grattacieli in quel punto sembravano emergere dalle acque e Khalil fu lieto che il tassista gli avesse indicato i due grattacieli del World Trade Center. «Forse la prossima volta andrà meglio» commentò. «Speriamo in Dio» rispose Jabbar. Jamal Jabbar, a dire il vero, aveva giudicato un gesto infame l'attentato a una delle torri, ma sapeva cosa dire parlando con certe persone. E l'uomo seduto alle sue spalle lo metteva a disagio, anche se non ne capiva il motivo. Forse erano i suoi occhi, che sembravano non avere pace, o le poche parole che aveva pronunciato facendole seguire da lunghi silenzi. Con qualsiasi altro cliente di lingua araba la conversazione sarebbe stata cordiale e pressoché ininterrotta, con lui invece era estremamente difficile. Cristiani ed ebrei chiacchieravano più di questo connazionale. Avvicinandosi al casello del pedaggio Jabbar rallentò. «Non è un posto di blocco della polizia o della dogana» spiegò in fretta a Khalil. «Devo pagare il pedaggio del ponte.»
Khalil rise. «Lo so, ho vissuto in Europa. Mi hai preso per un beduino analfabeta?» «No, certo, signore. Ma a volte i nostri connazionali s'innervosiscono.» «L'unica cosa che mi innervosisce è la tua maniera infame di guidare.» Risero entrambi. «Questo taxi ha il Telepass, un congegno elettronico per passare il casello senza fermarsi a pagare» disse Jabbar al cliente. «Ma se preferisce non lasciare traccia del passaggio, posso usare i contanti.» Khalil non voleva lasciare tracce ma nemmeno avvicinarsi troppo a un estraneo che avrebbe potuto riconoscerlo. Si rese conto, però, che quando la polizia avesse trovato Jabbar morto dentro il suo taxi, sarebbe potuta risalire a lui tramite la registrazione elettronica del passaggio al casello. «Fermati e paga» gli ordinò quindi. Per coprirsi il viso finse di leggere un giornale del pomeriggio mentre il tassista si accodava alla fila più corta. Arrivato il suo turno, Jabbar pagò senza scambiare una parola con l'addetto al pedaggio e ripartì velocemente. Khalil riabbassò il giornale. Non lo stavano ancora cercando, oppure l'allarme era limitato a un raggio più ristretto. Si chiese se si fossero già accorti che il cadavere non era il suo, ma quello di Yusuf Haddad, scelto proprio per la sua vaga rassomiglianza con Khalil; si chiese anche se Yusuf avesse mai intuito il destino che lo attendeva. Il sole era basso all'orizzonte, tra un paio d'ore sarebbe stato buio pesto e Khalil preferiva di gran lunga l'oscurità per quella parte della sua missione. A Tripoli gli avevano detto che in America c'erano moltissimi poliziotti, ben armati ed equipaggiati, ciascuno dei quali avrebbe avuto la sua foto mezz'ora dopo la scoperta dei cadaveri. E gli avevano consigliato di scegliere l'auto come mezzo di fuga perché, a differenza della Libia, ce n'erano troppe per poterle fermare e perquisire tutte. Avrebbe dovuto evitare accuratamente le cosiddette "strozzature", come aeroporti, capolinea di pullman, stazioni ferroviarie, alberghi, case di connazionali, oltre ad alcune strade, certi ponti e tunnel dove gli addetti al pedaggio o gli agenti avrebbero potuto riconoscerlo. Quel ponte era indubbiamente una strozzatura, ma lui era certo di essersi allontanato prima che la polizia avesse calato le reti. Se queste reti coprivano solo la città di New York, lui ne era già fuori e non vi sarebbe certo incappato; se invece, com'era probabile, l'area delle ricerche fosse stata più ampia, le reti avrebbero avuto maglie più larghe attraverso le quali passare indisturbato.
"Vent'anni fa" gli aveva detto Malik "un arabo non sarebbe passato inosservato in una città americana, oggi non lo si noterebbe neppure in un paesino. L'uomo americano si accorge solo di una bella donna." Avevano riso entrambi a quella battuta. "E la donna americana guarda solo com'è vestita un'altra donna, oppure le vetrine." Avevano imboccato un'altra superstrada, in direzione sud, quando Khalil vide in lontananza la sagoma di un altro ponte. «Attraversandolo in questa direzione non si paga pedaggio» lo informò Jabbar. «Dall'altra parte c'è il New Jersey.» Khalil ripensò a quanto gli avevano detto a Tripoli: "Sii veloce, la velocità è fondamentale perché di solito chi fugge tende a muoversi lentamente e con circospezione, e per questo viene ripreso. Velocità, semplicità e coraggio. Sali in taxi e vai, nessuno ti fermerà se il tassista non andrà troppo forte o troppo piano. E accertati che funzionino le luci posteriori dell'auto e anche quelle degli stop, in America la polizia ti ferma per queste infrazioni. Siediti dietro e leggi il giornale, ne troverai uno sul sedile. I tassisti di cui ci serviamo hanno pratica del codice della strada e sono tutti muniti di regolare licenza. "Se per qualsiasi motivo la polizia dovesse fermare il taxi" aveva proseguito Malik "parti dal presupposto che tu non c'entri nulla, rimani seduto e lascia parlare il tassista. In America i poliziotti di solito si muovono da soli. Se si rivolge a te, rispondigli in inglese con rispetto ma non servilmente, lui non può perquisire né l'autista né il taxi senza un mandato. Così dice la legge. E se decide di controllare l'auto, non può fare lo stesso con te, può perquisirti solo se ha la certezza che tu sei la persona che sta cercando. Se ti chiede di scendere, significa che vuole perquisirti: allora scendi, tira fuori la pistola e sparagli. Lui non avrà estratto la sua, a meno che non ti abbia riconosciuto, e in questo caso che Allah ti assista. Non toglierti mai il giubbotto antiproiettile, te lo daranno a Parigi per proteggerti da un eventuale attentato. Usalo contro di kxo, usa le pistole degli agenti federali." Erano molto meticolosi in Libia, pensò Khalil. L'organizzazione spionistica del Grande Leader era piccola ma ben finanziata e addestrata dal vecchio Kgb. Quei senzadio dei russi sapevano il fatto loro ma non avevano fede in nulla, per questo il loro impero era crollato all'improvviso. Il Grande Leader si serviva ancora degli ex agenti del Kgb, facendoli lavorare come troie al servizio dei combattenti islamici. E lui, Khalil, aveva avuto come istruttori dei russi, dei bulgari e perfino degli afghani addestrati dagli americani contro i russi.
Jabbar attraversò il ponte e lasciò la superstrada. Ora ai due lati del taxi si vedevano file di case che perfino a Khalil sembrarono di povera gente. «Come si chiama questo posto?» «Perth Amboy.» «Quanto manca?» «Dieci minuti, signore.» «C'è il rischio che un taxi di un altro Stato dia nell'occhio?» «No, si può circolare liberamente da uno Stato all'altro. Potrei dare nell'occhio se mi allontanassi troppo da New York, perché le corse lunghe in taxi sono piuttosto care. Lei, naturalmente, non deve preoccuparsi del tassametro, è in funzione solo perché così prescrive la legge.» «Ci sono tante piccole leggi, da queste parti.» «Sì, e bisogna rispettarle perché così è più facile violare quelle grandi.» Risero entrambi. Khalil, che indossava un abito grigio datogli da Jabbar, estrasse il portafogli dalla tasca interna della giacca e guardò sul passaporto la foto che lo ritraeva con occhiali e baffi. Lo scatto era buono, ma quei baffi lo preoccupavano. "Yusuf Haddad ti darà baffi finti e occhiali" gli avevano detto a Tripoli mentre gli scattavano la foto "perché avrai bisogno di camuffarti. Ma se un agente dovesse perquisirti, vorrà accertarsi che i baffi siano veri, e se scoprirà che sono finti capirà che è finto anche tutto il resto." Si portò un dito ai baffi e premette. Erano fissati bene ma, certo, non sarebbe stato difficile staccarglieli. In ogni caso, non aveva alcuna intenzione di lasciarsi avvicinare da un poliziotto. Gli occhiali che gli aveva dato Haddad erano nel taschino della giacca. Lui non ne aveva bisogno, ma erano muniti di lenti bifocali e quindi non gli avrebbero dato alcun fastidio. Guardò ancora il passaporto. Il nome era Hefni Badr, la nazionalità egiziana: bene, se un poliziotto di origine egiziana gli avesse fatto qualche domanda, avrebbe potuto spacciarsi per un suo connazionale, avendo vissuto in Egitto per diversi mesi. Dal passaporto risultava inoltre che era musulmano, faceva l'insegnante (una figura non difficile da impersonare) e abitava a El Minya, una cittadina sul Nilo pressoché sconosciuta agli occidentali e anche a molti egiziani. A El Minya aveva trascorso un mese precisamente allo scopo di rafforzare la propria leggenda, cioè la propria falsa identità. Il portafogli conteneva anche 500 dollari americani, non tanti da attirare
l'attenzione ma sufficienti per le sue necessità. Vi erano anche delle banconote egiziane, una carta d'identità egiziana, la carta di credito di una banca egiziana intestata a Hefni Badr e un'American Express allo stesso nome. E una patente internazionale, con la stessa foto e lo stesso nome del passaporto. Jabbar lo stava guardando nello specchietto retrovisore. «Tutto a posto, signore?» «Spero di non doverlo mai scoprire.» Di nuovo risero entrambi. Khalil si rimise tutto in tasca. Se l'avessero fermato in quel momento, probabilmente sarebbe riuscito a ingannare un normale poliziotto. Ma perché preoccuparsi tanto dei baffi e della falsa identità? Se lo avessero fermato, la sua prima reazione, e di sicuro non l'ultima, sarebbe stata quella di estrarre le pistole e uccidere chiunque potesse rappresentare una minaccia, nonostante le istruzioni ricevute in Libia. Aprì la borsa che Jabbar gli aveva fatto trovare sul sedile posteriore. Conteneva articoli da bagno, ricambi di biancheria, qualche cravatta, una camicia sportiva, una penna e un notes, monete americane, una macchina fotografica da poco prezzo adatta a un turista, due bottiglie di plastica di acqua minerale e una piccola copia del Corano stampata al Cairo. Non c'era nulla, in quella borsa, che potesse comprometterlo, niente scritture invisibili o microfilm nascosti, nemmeno una pistola. Tutto ciò di cui aveva bisogno l'aveva in testa, tutto ciò che gli sarebbe servito l'avrebbe trovato o acquistato lungo il percorso. A collegare Hefni Badr ad Asad Khalil erano solo le due pistole Glock degli agenti federali. A Tripoli gli avevano detto di sbarazzarsene prima possibile, a dargli un'arma avrebbe provveduto il tassista. "Se mi fermano" aveva risposto lui "che importanza ha quale pistola ho addosso? Voglio usare le armi del nemico finché la mia missione non sarà compiuta, o finché morirò." Non avevano trovato nulla da dire e quindi nella borsa non c'era alcuna pistola. A dire il vero, due articoli che avrebbero potuto metterlo nei guai c'erano. Il primo era un tubetto di dentifricio che conteneva mastice per fissare i baffi finti, l'altro un flacone di polvere per i pediluvi, di marca egiziana, riempito di tintura grigia per capelli. Khalil svitò il tappo spruzzandosi la polvere sui capelli, poi si pettinò guardandosi in uno specchietto. Il risultato era stupefacente, la capigliatura nerissima aveva preso una tonalità sale e pepe. Cambiò anche pettinatura, portandosi i capelli in avanti e pettinandosi con la scriminatura a destra, e si mise gli occhiali. «Che te ne sembra?» chiese a Jabbar.
Il tassista lo guardò nello specchietto retrovisore. «Dov'è il passeggero che ho caricato all'aeroporto? Che fine gli ha fatto fare, Mr Badr?» Risero, poi Jabbar si rese conto di aver commesso un errore rivelando di conoscere il nome falso del passeggero e rimase in silenzio. Alzò nuovamente lo sguardo sul retrovisore e vide gli occhi neri dell'uomo che lo fissavano. Khalil spostò lo sguardo sul finestrino. Si trovavano ancora in una zona decisamente non residenziale, ma si vedevano parcheggiate molte belle auto, e la cosa lo sorprese. «Lì in fondo c'è la New Jersey Turnpike, l'autostrada che dovrà prendere» lo informò Jabbar. «E quello è l'ingresso, con una macchina che distribuisce i biglietti perché si paga all'uscita. L'autostrada va sia a nord sia a sud, quindi stia attento a imboccare la carreggiata giusta.» Jabbar evidentemente, pensò Khalil, aveva capito che meno sapeva meglio sarebbe stato per lui, per questo non gli aveva chiesto se era diretto a nord o a sud. Ma sapeva comunque troppo. «Lo sai cos'è successo oggi all'aeroporto?» gli chiese. «Quale aeroporto, signore?» «Quello dal quale veniamo.» «No, non lo so.» «Lo sentirai alla radio.» Jabbar non rispose. Khalil aprì una delle due bottiglie d'acqua, ne bevve la metà e versò il resto sul pavimento del taxi. Jabbar entrò in un grosso parcheggio. «La gente lascia la macchina qui e prende l'autobus per Manhattan» spiegò al passeggero. «Ma oggi è sabato, perciò ci sono poche macchine parcheggiate.» Khalil si guardò attorno, ci saranno state una cinquantina di auto, ognuna delle quali sistemata in un rettangolo dai contorni bianchi, ma il parcheggio avrebbe potuto contenerne alcune centinaia. Notò anche che non si vedeva in giro nessuno. Il tassista si fermò in uno dei rettangoli. «Vede quella macchina nera lì davanti, signore?» «Sì.» «Queste sono le chiavi.» E gliele passò senza voltarsi a guardarlo. «Nel cassettino del cruscotto troverà le ricevute del noleggio. L'auto è affittata al nome del passaporto per una settimana, e se la tiene più a lungo, l'agenzia comincerà a preoccuparsi. È stata presa all'aeroporto di Newark, nel New
Jersey, e la targa è di New York, ma la cosa non ha alcuna importanza. Questo è quanto mi hanno incaricato di dirle, signore. Se vuole, posso precederla fino all'ingresso dell'autostrada.» «Non è necessario.» «Allah benedica il suo viaggio, signore. Le auguro un felice ritorno alla nostra patria.» Khalil stringeva già in pugno la Glock calibro 40. Infilò l'estremità della canna nel collo della bottiglia vuota e ne premette il fondo contro lo schienale del guidatore, all'altezza della spina dorsale. Schiacciò il grilletto. Anche se non avesse colpito la colonna vertebrale, la pallottola sarebbe penetrata nel cuore. La bottiglia attutì il boato dell'esplosione. Jabbar reclinò la testa in avanti, ma la schiena, trattenuta dalla cintura di sicurezza, rimase aderente al sedile. Un filo di fumo uscì dal collo della bottiglia e dal foro del proiettile all'altra estremità, e Khalil, al quale piaceva l'odore della cordite, lo respirò a fondo. «Grazie per l'acqua» disse. Decise di non sparare un secondo colpo vedendo il corpo del tassista attraversato da quegli spasmi inequivocabili che nessun uomo può fingere. E rimase in attesa mezzo minuto ad ascoltare i gorgoglii emessi da Jabbar, raccattando nel frattempo dal pavimento il bossolo, infilandoselo in tasca e rimettendo dentro la borsa la bottiglia vuota. Poi Jamal Jabbar smise di agitarsi, di gorgogliare e di respirare, e rimase immobile. Khalil allora si guardò attorno per accertarsi che il parcheggio fosse deserto, poi allungò una mano e tolse il portafogli dalla tasca di Jabbar, quindi gli sganciò la cintura di sicurezza e spinse il cadavere sotto il cruscotto, dal quale tolse le chiavi dopo aver spento il motore. Prese la borsa nera, scese dal taxi chiudendo a chiave lo sportello e si avvicinò all'auto noleggiata, una Mercury Marquis. La chiave che gli aveva dato Jabbar era quella giusta, entrò e mise in moto ricordandosi di allacciare la cintura. E mentre usciva dal parcheggio silenzioso sorrise, ripensando a un passo delle scritture ebraiche: il leone si aggira per le strade. 19 Nell'atrio di Federal Plaza 26 trovammo ad attenderci un certo Hal Ro-
berts dell'Fbi. Se ti mandano qualcuno incontro, in circostanze del genere, i casi sono due: o stanno per farti i complimenti o sei nei guai. Mr Roberts non sorrideva, cominciai quindi a sospettare che non stavamo per ricevere lettere d'encomio. Entrammo in ascensore e Roberts usò la sua chiave per andare al ventottesimo piano. Nessuno di noi disse una parola mentre l'ascensore saliva. Federal Plaza 26 ospita diversi uffici governativi, in gran parte occupati da innocui burocrati che si limitano a vivacchiare con i soldi dei contribuenti americani. Ma i piani dal 22 al 28 sono tutt'altro che innocui, e per arrivarci devi avere la chiave. Anche a me ne avevano data una il primo giorno di lavoro. "Sarebbe meglio installare uno di quegli scanner elettronici che si attivano poggiandoci sopra il pollice, perché la chiave puoi dimenticarla o perderla, ma il pollice no" aveva detto quello che mi aveva dato la chiave. Non poteva sapere che a volte il pollice puoi anche perderlo, come era successo a quei due poveracci sull'aereo. Io lavoravo al ventiseiesimo piano in uno dei tanti cubicoli, insieme ad altri poliziotti in pensione come me o ancora in servizio. A quel piano c'erano anche le scrivanie di alcune giacche e cravatte: gli agenti federali, nel linguaggio della polizia. Definizione abbastanza approssimativa, dal momento che anche molti poliziotti portano giacca e cravatta, mentre un terzo circa dei federali sono donne, ed è difficile vederle in cravatta. Ma ho imparato da tempo a non mettere in discussione il gergo di un'organizzazione, perché spesso è un buon indice della mentalità che vi si respira. Arrivati al ventottesimo e ultimo piano, sede degli esseri celestiali, fummo accompagnati in un ufficio sulla cui porta si leggeva JACK KOENIG: traducendo il cognome e anteponendolo al nome si otteneva King Jack, come veniva comunemente chiamato il titolare dell'ufficio. Koenig aveva la qualifica di Capo agente speciale, CAS, ed era il responsabile dell'intera Attf. Il suo regno si estendeva sulla città di New York, sulle contee confinanti del New Jersey e Connecticut, su parte dello Stato di New York e sulle due contee di Long Island: Nassau e Suffolk. Proprio in quest'ultima avevo fatto conoscenza con Sir Ted e Sir George, due cavalieri erranti rivelatisi dei perfetti idioti. E sicuramente King Jack non gradiva che nel suo regno qualcosa andasse storto. Sua Altezza aveva un enorme ufficio con un'enorme scrivania. C'erano anche un divano e un tavolino con tre poltroncine, librerie incassate nella parete e una tavola rotonda da re Artù con relative sedie. Ma niente trono.
In quel momento non c'era nemmeno Sua Maestà. «Mettetevi comodi, appoggiate pure i piedi sul tavolino o sdraiatevi sul divano» disse Roberts. Anzi, per la precisione, non lo disse ma si limitò a pronunciare due parole: «Aspettate qui». E uscì. Chissà se avevo il tempo di fare un salto nel mio ufficio per dare un'occhiata al contratto di assunzione. Ho dimenticato di aggiungere che, trattandosi di un ente interforze, King Jack divide il comando con un capitano del Dipartimento di polizia di New York. Questo capitano si chiama David Stein ed è un signore ebreo laureato in giurisprudenza il cui cervello, secondo il capo della polizia, è all'altezza di quello dei superistruiti federali. Brutto lavoro, quello del capitano Stein. Ma l'uomo è così abile e diplomatico da far felici i federali senza perdere di vista le esigenze dei poliziotti che lavorano nell'Attf. Io, essendo un ex poliziotto, mi trovo in una specie di zona grigia dove nessuno si preoccupa delle mie esigenze, ma al tempo stesso non ho i problemi di carriera dei colleghi in servizio. Quindi la situazione mi sta bene. Prima di passare all'Attf, il capitano Stein lavorava nei servizi segreti della polizia, occupandosi delle indagini sugli estremisti islamici, tra cui quella sull'assassinio del rabbino Meir Kahane. Non vorrei sembrare schematico o riduttivo, ma come ebreo Stein ha un problema personale con gli estremisti islamici e da noi si trova quindi al posto giusto: perché, anche se l'Attf si occupa di ogni forma di terrorismo, non è necessario avere tre lauree per indovinare quella che richiede la maggior attenzione. Speravo che Stein fosse della partita, quella sera: in quella stanza c'era bisogno di un poliziotto. Kate e Ted appoggiarono sulla tavola rotonda le borse di Phil e Peter senza alcun commento. Anche a me era successo di dover riportare al distretto la pistola, il distintivo e il tesserino di agenti che conoscevo, un po' come facevano i guerrieri antichi quando tornavano con le armi dei compagni caduti in battaglia. Solo che in questo caso le armi erano scomparse. Aprii le borse per accertarmi che i cellulari fossero spenti, non è gradevole sentir squillare il telefono di un morto. Avevo visto Jack Koenig una sola volta, quando ero stato assunto, e mi era sembrato un tipo abbastanza intelligente, riflessivo e di poche parole. Si parlava di lui come di un duro capace però di sarcasmo, qualità quest'ultima che aveva tutta la mia ammirazione. Ricordo il commento che fece quando gli dissi che insegnavo alla John Jay: "Chi può, fa... e chi non può, insegna". Al che avevo replicato con "Chi si è beccato tre pallottole in ser-
vizio non deve giustificare il secondo lavoro". Dopo un attimo di silenzio glaciale lui aveva sorriso. "Benvenuto all'Attf." Nonostante il sorriso e il benvenuto, avevo la netta impressione che si fosse incazzato. Ma forse aveva ormai dimenticato l'incidente. Mentre aspettavamo in quell'ufficio dal vistoso tappeto azzurro, lanciai un'occhiata a Kate, che mi sembrò un po' ansiosa. Guardai anche Ted Nash, che naturalmente, non essendo dell'Fbi, non chiamava Jack il suo Capo agente speciale. Mr Cia aveva i suoi superiori lì di fronte, al 290 di Broadway, e avrei dato un mese di stipendio per vederlo nella stessa situazione ma nell'ufficio del suo capo. Una soddisfazione che però non mi sarei mai levato. Se per caso vi state chiedendo perché Ted, Kate e John non facessero conversazione, la risposta è che temevamo che vi fossero dei microfoni nascosti. Quando due o più persone vengono lasciate sole nell'ufficio di qualcun altro, possono star certe di essere in onda. Prova, uno, due, tre, prova. «Bell'ufficio, Mr Koenig ha davvero buon gusto» dissi quindi, perché rimanesse agli atti. Ted e Kate mi ignorarono. Guardai l'orologio, erano quasi le 19 ed ebbi il sospetto che Koenig non fosse granché contento di dover tornare in ufficio il sabato sera. L'idea non eccitava nemmeno me, ma quello dell'antiterrorismo è un lavoro a tempo pieno. "Quando finisce la giornata di un assassino comincia la nostra" dicevamo alla Squadra omicidi. Il panorama che si godeva dal finestrone dell'ufficio era dominato dalle Twin Towers del World Trade Center, due enormi dita, lunghe ciascuna oltre 400 metri, puntate verso il cielo, 110 piani di vetro, cemento e acciaio. Le torri erano distanti da noi circa 800 metri, ma la loro imponenza faceva sì che sembrassero proprio di fronte al nostro edificio. Erano chiamate Torre Nord e Torre Sud, ma quel venerdì 26 febbraio 1993 alle ore 12,17 minuti e 36 secondi la Torre Sud rischiò di essere ribattezzata la Torre Scomparsa. La scrivania di Koenig era disposta in modo che, ogniqualvolta lui alzava lo sguardo, si trovava davanti le torri e poteva ricordarsi cosa avevano in mente certi signori arabi che avevano parcheggiato un furgone carico di esplosivo nel garage sotterraneo: il crollo della Torre Sud e la morte di ol-
tre 50.000 persone all'interno e all'esterno. E se crollando fosse rovinata sulla Torre Nord, ci sarebbero stati altri 40-50.000 morti. Invece la struttura aveva resistito e il bilancio era stato di sei morti e oltre mille feriti. L'esplosione sotterranea aveva cancellato la stazione di polizia locale, trasformando il garage multipiano in un'enorme caverna. L'America avrebbe potuto subire la più alta perdita di vite umane dal tempo della seconda guerra mondiale, invece quello che ricevette chiaro e forte fu un segnale d'allarme che le fece capire di essere in prima linea. All'epoca dell'attentato King Jack non era ancora a capo dell'Attf, ma lo era adesso e probabilmente lunedì prossimo avrebbe fatto spostare la scrivania in direzione dell'aeroporto Kennedy. Da quell'ultimo piano si godeva uno splendido panorama, ma per Jack Koenig non esistevano più splendidi panorami. Proprio in quel momento fece il suo ingresso l'oggetto dei miei pensieri e mi colse a fissare il World Trade Center. «Le torri sono ancora in piedi, professore?» mi chiese. Aveva evidentemente una buona memoria per i subordinati arroganti. «Sì, signore» risposi. «Be', una buona notizia.» Guardò Kate e Nash e ci fece segno di sederci. Kate e Nash si sistemarono sul divano, io su una delle poltroncine, mentre Koenig rimase in piedi. Jack Koenig era un tipo alto sulla cinquantina. Aveva capelli corti grigio acciaio, occhi grigio acciaio, un velo grigio acciaio di barba del sabato, mascella d'acciaio, e se ne stava in piedi come se gli avessero infilato nel culo una sbarra d'acciaio, che lui stava per trasferire nel culo di qualcun altro. Non aveva insomma l'aspetto del nonno bonario e in quel momento era anzi comprensibilmente cupo. Koenig indossava una tenuta casual, pantaloni e camicia sportiva azzurra, ma nulla in lui aveva alcunché di casual o sportivo. Entrò nell'ufficio anche Hal Roberts e andò a sedersi nella poltroncina di fronte alla mia. Jack Koenig non sembrava intenzionato a sedere e rilassarsi. Roberts si era portato un grosso blocco d'appunti giallo e una matita. Pensai che stesse per prendere le ordinazioni per il bar, ma probabilmente ero troppo ottimista. Koenig non si perse in preamboli. «Qualcuno di voi può spiegarmi come ha fatto un sospetto terrorista, ammanettato e sotto sorveglianza, a uccidere
a bordo di un aereo americano trecento uomini, donne e bambini, compresi i suoi due custodi armati, due Federal Air Marshal, e uno del Servizio emergenza della Port Authority? E come ha fatto poi a trasferirsi in un ufficio federale segreto e sicuro uccidendo una segretaria dell'Attf, la funzionaria di servizio dell'Fbi e un poliziotto del Dipartimento in forza alla vostra squadra?» Guardò negli occhi ciascuno di noi. «Qualcuno vuol essere così gentile da spiegarmelo?» Se invece di trovarci al Federal Plaza fossimo stati al Police Plaza, avrei risposto a quella domanda sarcastica con un'altra domanda: "Se lo immagina quanto sarebbero state più gravi le conseguenze se il sospetto terrorista non fosse stato ammanettato?". Ma non erano né il momento né il luogo per fare lo spiritoso. Un mucchio di persone innocenti erano morte e toccava ai vivi spiegare perché. Ciò non toglie che Jack Koenig l'avesse messa giù un po' troppo dura. Inutile aggiungere che nessuno rispose alla sua domanda retorica. Quella di lasciar sfogare il capo è una buona tattica, e devo dargli atto che lui si sfogò solo per un altro minuto o poco più, poi si sedette a guardare dalla finestra. Da dov'era si vedeva la zona di Wall Street; panorama neutro, nessuna spiacevole associazione d'idee, a meno che, naturalmente, Koenig non avesse azioni della Trans-Continental. Jack Koenig, tra parentesi, era dell'Fbi, e sono sicuro che Ted Nash non gradiva che uno dell'Fbi gli si rivolgesse in quel modo. Non lo gradivo nemmeno io, che ero un dipendente quasi civile, ma Koenig rimaneva pur sempre il capo della nostra Task Force. Anche Kate era dell'Fbi e quindi rischiava la carriera, come George Foster, che però se n'era rimasto nelle retrovie con i cadaveri proprio per evitare la sfuriata. King Jack sembrò sforzarsi di mantenere il controllo dei nervi. «Mi spiace per Peter Gorman. Lo conoscevi?» chiese infine a Ted Nash. Nash annuì. Poi guardò Kate. «Tu eri amica di Phil Hundry, vero?» «Sì.» Spostò lo sguardo su di me. «Sono sicuro che anche tu hai perso qualche collega, quindi sai quanto è brutto.» «Lo so, Nick Monti e io eravamo diventati amici.» Jack Koenig si mise di nuovo a fissare il vuoto, pensando sicuramente a tante cose. Si impose un silenzio rispettoso che durò circa un minuto, durante il quale nessuno di noi si illuse che il peggio fosse passato. «È in arrivo anche il capitano Stein?» chiesi, forse con scarso tatto.
Koenig mi fissò in silenzio. «Ha preso in mano la direzione degli appostamenti e dei controlli, e non ha tempo per le riunioni.» Non si può mai sapere quali siano le incombenze dei capi e che guerre intestine stiano combattendo, quindi è meglio fregarsene. Sbadigliai per far capire che avevo perso qualsiasi interesse per la risposta. Koenig si rivolse a Kate. «Okay, dimmi quello che è successo. Dall'inizio.» La ricostruzione di Kate durò quaranta minuti. Nel frattempo si erano fatte le 8 di sera, e a quell'ora di solito il mio cervello ha bisogno d'alcol. Jack Koenig si sistemò contro lo schienale della poltrona per metabolizzare quell'indigesta serie di eventi. «Sembrerebbe che Khalil sia riuscito sempre a trovarsi uno o due passi davanti a noi.» Decisi di dire la mia. «In una corsa il secondo arrivato è il primo dei perdenti.» Koenig mi fissò, ripetendo lentamente le mie parole. «In una corsa il secondo arrivato è il primo dei perdenti. Da dove l'hai presa?» «Dalla Bibbia, credo.» Koenig si rivolse allora a Roberts: «Fai una pausa». E Roberts mise via la matita. Poi Koenig tornò a dedicarsi a me. «Mi dicono che hai chiesto di essere trasferito alla sezione Ira.» Mi schiarii la gola. «Be', sì, ma...» «Hai qualche risentimento personale contro l'Esercito repubblicano irlandese?» «Veramente no, io...» Si intromise Kate. «John e io ne abbiamo discusso, e lui ha ritirato la domanda.» Non le avevo detto esattamente questo, ma messa in quel modo era certo preferibile alle mie battute razziste e sessiste sui musulmani. Il mio sguardo incrociò quello di Kate. «Sono andato a riguardarmi l'affare Plum Island dell'autunno scorso» mi informò Koenig. Non risposi. «Ho letto il rapporto scritto da Ted Nash e George Foster e quello di una certa detective Beth Penrose, in forza alla Squadra omicidi della contea di Suffolk. E ho notato tra i due rapporti alcune divergenze di opinioni oltre che di fatti; differenze che nella maggior parte dei casi riguardavano il ruo-
lo che hai svolto in quell'indagine.» «Non avevo alcun ruolo ufficiale.» «Ciononostante, il caso l'hai risolto tu.» «Avevo a disposizione tanto di quel tempo... Forse dovrei trovarmi un hobby.» Non sorrise. «Il rapporto della detective Penrose forse era influenzato dalla relazione che avevi con lei.» «A quell'epoca non avevamo una relazione.» «Ma l'avevate quando lei ha scritto il rapporto.» «Mi scusi, Mr Koenig, ma ho già detto tutto ciò che avevo da dire alla Commissione affari interni del Dipartimento di polizia e...» «Si occupa anche degli affari di cuore, quella gente?» Risi alla battuta, ma con un paio di secondi di ritardo. «E il rapporto di Ted e George» proseguì «può essere stato influenzato dalle incazzature che gli hai fatto prendere.» Lanciai uno sguardo a Nash che, al solito, sembrava del tutto distaccato, come se si stesse parlando di un altro Ted Nash. «Sono rimasto affascinato dalla tua abilità nell'arrivare al nocciolo di una questione complessa, contro la quale stavano tutti sbattendo le corna.» «Ordinario lavoro da detective» dissi ostentando modestia, ma sperando che lui replicasse con qualcosa come: "No, ragazzo mio, sei davvero in gamba". Lui invece disse: «Vuoi continuare a seguire questo caso?». «Sì.» Avvicinò la testa, guardandomi fisso negli occhi. «Non voglio esibizionismi o paraculate, Corey. Quella che ti chiedo è la più completa lealtà perché in caso contrario, Dio mi assista, avrò la tua testa imbalsamata appesa a questa parete. Siamo d'accordo?» Accidenti! Mi sembrava di sentire i miei ex capi, devo avere qualcosa che riesce a tirar fuori dalla gente il lato peggiore. Potevo onestamente promettere di comportarmi da membro leale e collaborativo della squadra? No, ma volevo continuare a seguire il caso. E poi Koenig non mi aveva chiesto di smetterla con i sarcasmi o di ammorbidire la vena polemica, anzi aveva sorvolato sull'argomento, o addirittura c'era stata da parte sua un'implicita approvazione. «D'accordo» risposi incrociando le dita. «Bene.» Allungò la mano e ce la stringemmo. «Affare fatto.» Stavo per dire "Non se ne pentirà, signore", ma poi pensai che invece se
ne sarebbe pentito. Me la cavai quindi con un «Farò del mio meglio». Koenig guardò nell'ordine Ted, Kate e me, poi fece un cenno a Roberts, che tirò fuori ancora la matita. La parentesi dedicata al colloquio di lavoro con John Corey e alla sua correzione attitudinale era terminata, stava per avere inizio la parte seconda del disastro al JFK. «Non riesco a credere che il volo 175 sia rimasto in silenzio radio per oltre due ore senza che voi ne sapeste nulla» disse a Kate. «L'unico nostro contatto con la compagnia è stato quello al gate con una hostess di terra, che sapeva molto poco. Dobbiamo rivedere questa parte della procedura.» «Buona idea. E la prossima volta bisognerà stabilire un contatto diretto con il Controllo traffico aereo, con la torre di controllo e con il comando della Port Authority.» «Sì, signore.» «Se quell'aereo fosse stato dirottato, l'avreste saputo quando era già atterrato a Cuba o in Libia.» «Sì, signore. Ted, comunque, si era procurato nome e numero di telefono del supervisore della torre di controllo.» Koenig lanciò un'occhiata a Nash. «Bravo, hai fatto bene. Ma avresti dovuto chiamarlo prima.» Nash non replicò, e io ebbi l'impressione che non avrebbe detto nulla che Roberts potesse annotare nel suo blocco d'appunti. «Sembrerebbe che il disertore di febbraio abbia finto di passare dalla nostra parte per scoprire le nostre procedure. L'avevamo sospettato tutti quando se l'è filata, per questo con Khalil abbiamo preso tutte quelle precauzioni» continuò Koenig. «Ma se avessimo bendato il primo libico, non avrebbe visto il Conquistador Club... né il sistema per aprire la porta. Quindi, forse dovremmo cominciare a bendare tutti i non addetti ai lavori, compresi i cosiddetti disertori e gli informatori. Ricorderete che era un sabato anche il giorno in cui arrivò il disertore di febbraio, il quale poté quindi notare quanto scarso fosse il personale del Conquistador Club durante i weekend.» Sembrava che la parte seconda fosse in sostanza una rassegna di procedure e modus operandi, detta anche chiusura-della-stalla-dopo-che-i-buoisono-scappati. Koenig continuò con quella solfa parlando soprattutto a Kate, che si stava prendendo per soprammercato la razione riservata al nostro impavido comandante George Foster.
«Se ho capito bene» disse Koenig «avete cominciato a intuire che qualcosa non stava andando secondo i piani prestabiliti quando Ted ha chiamato il supervisore della torre, un certo Mr Stavros.» Kate annuì. «E proprio allora John ha chiesto di andare all'aereo, ma Ted, George e io...» «Questo me l'hai già detto» la interruppe Koenig. Avrei voluto sentirglielo ridire, ma il capo cambiò argomento rivolgendo a Ted Nash una domanda diretta e interessante. «Ti aspettavi problemi in questo incarico?» «No.» Io la pensavo diversamente, nonostante quelle stronzate di Ted sul fatto che al Federal Plaza si diceva soltanto la verità. Alla Cia si dedicano tanto ai trabocchetti, al doppio e triplo gioco, alla paranoia e alle cazzate varie che non capisci mai che cosa sanno, quando l'hanno saputo e cos'hanno in mente. Questo non fa di loro dei banditi, anzi la loro faccia tosta in queste cose è da ammirare. Uno della Cia, voglio dire, è capace di mentire anche al prete nel confessionale. Ma, a parte l'ammirazione, non è facile lavorare con loro se non sei uno di loro. Fatta quella domanda e sollevata la questione, Koenig decise di non insistere. «A proposito» disse rivolto a me «apprezzo il tuo spirito d'iniziativa nel requisire quell'auto della Port Authority per correre all'aereo attraversando le piste, ma hai mentito ai superiori e violato ogni regola. Per questa volta ci passo sopra, però che non si ripeta.» Cominciavo veramente a incazzarmi. «Se ci fossimo mossi con dieci minuti d'anticipo, forse adesso Khalil sarebbe in carcere con l'accusa di omicidio. Se voi aveste dato istruzioni a Gorman e Hundry di usare il cellulare o il telefono di bordo per fare rapporto, dal loro silenzio avremmo capito che qualcosa non andava. Se fossimo stati in contatto diretto con la torre di controllo, ci avrebbero detto che l'aereo osservava da ore uno strano silenzio radio. Se a febbraio non aveste accolto quel tipo a braccia aperte, quello che è successo oggi non sarebbe successo.» Mi alzai in piedi. «Se non avete bisogno di me per qualcosa d'importante, me ne vado a casa» annunciai. Di solito, quando facevo una scena del genere con i miei superiori, c'era sempre qualcuno che diceva: "Quando esci, stai attento che la porta richiudendosi non ti sbatta sul culo". Ma Koenig era un altro tipo di capo. «Abbiamo bisogno di te per qualcosa d'importante. Siediti, per favore» disse sottovoce. Tornai a sedermi. Se avessi lavorato ancora alla Omicidi Nord, uno dei
capi avrebbe aperto un cassetto tirando fuori una bottiglia di vodka da far girare tra i presenti per raffreddare gli animi. Ma era inutile aspettarsi una violazione delle regole in un posto come quello, con le pareti ricoperte di poster che mettevano in guardia contro il fumo, l'alcol, le molestie sessuali e i reati d'opinione. Ce ne rimanemmo un po' in silenzio, concentrati credo nella meditazione zen, per calmarci i nervi senza ricorrere al nefasto alcol. «Quindi» riprese poi Koenig rivolgendosi a me «hai chiamato George Foster con il cellulare di Kate perché lanciasse l'allarme.» «Esatto.» «Dopodiché sei risalito nella cupola del jumbo scoprendo che i pollici di Phil e Peter erano stati mozzati. Avevi capito cosa significava?» «Cos'altro poteva significare?» «Giusto. Devo congratularmi per le tue capacità deduttive... voglio dire... tornare a cercare... i pollici.» Mi guardò. «Come hai fatto ad arrivarci, Corey?» «Veramente non lo so. A volte mi scattano nel cervello certe idee.» «Davvero? E di solito ti muovi solo perché ti sono scattate certe idee nel cervello?» «Sì, se sono abbastanza folli. Sa, come quella dei pollici mozzati. Vanno seguite, certe idee.» «Capisco. Allora hai chiamato il Conquistador Club, e Nancy Tate non rispondeva.» «Mi sembra che ne abbiamo già parlato.» Koenig ignorò l'osservazione. «In effetti, a quell'ora era già morta.» «Sì, per questo non rispondeva.» «E anche Nick Monti a quell'ora era morto.» «O stava morendo. Con le ferite al torace ci vuole un po' di tempo.» «Tu dove sei stato ferito?» Non me l'aspettavo, quella domanda. «Sulla 102nd Street West.» «In che parte del corpo, voglio dire.» L'avevo già capito cosa voleva dire, ma non mi andava di parlare della mia anatomia di fronte a quel pubblico. «Il cervello non ha subito gravi danni» risposi. Mi guardò perplesso, poi decise di cambiare argomento e si rivolse a Ted. «Qualcosa da aggiungere?» «No.» «Pensi che John e Kate non abbiano saputo sfruttare l'occasione?»
Ted Nash rifletté prima di dare una risposta a quella domanda impegnativa. «Direi che un po' tutti abbiamo sottovalutato Asad Khalil.» Koenig assentì. «Proprio così. Ma è un errore che non ripeteremo.» «Se non vogliamo passare guai peggiori, dobbiamo smetterla di considerare quella gente alla stregua di idioti» aggiunse Nash. «È innegabile infatti che sia l'Fbi sia i servizi segreti della polizia abbiano un atteggiamento sbagliato nei confronti degli estremisti islamici, un atteggiamento che si basa su pregiudizi razziali. Gli arabi e gli altri gruppi etnici del mondo islamico non sono stupidi o vigliacchi. Certo, il loro dispositivo militare non è tale da allarmarci, ma le organizzazioni terroristiche mediorientali hanno messo a segno colpi non indifferenti in mezzo mondo, da Israele all'America. Ho lavorato con il Mossad e posso dirvi che quella gente rispetta i terroristi islamici molto più di noi. Non saranno tutti dei geni criminali, ma anche un pasticcione ogni tanto può combinarne una giusta. E a volte bisogna fare i conti con un Asad Khalil.» Dopo averci fatto omaggio di questa lezioncina, Nash tornò a dedicarsi agli affari correnti. «Come le ha detto Kate, sono convinto che Khalil non sia più in America; in questo momento si trova sull'aereo di una compagnia mediorientale diretto in un paese mediorientale. Il suo viaggio terminerà in Libia, dove farà rapporto sulla sua missione e riceverà le congratulazioni. Non lo vedremo più, magari tra un anno metterà a segno un nuovo colpo da un'altra parte. Nel frattempo, direi che questa faccenda dovrebbe essere trattata dalla diplomazia e dai servizi segreti internazionali.» Koenig rimase per un po' a fissarlo, ed ebbi la netta impressione che i due non si amassero granché. «Spero non ti dispiaccia, Ted, se noi continuiamo a seguire qualche pista qui a New York» disse poi. «No, certo.» Bene, bene, entrambi avevano mostrato le zanne. Siamo proprio una bella squadra. «E, vista la tua padronanza della materia, perché non fai domanda per tornare a lavorare alla Cia? Potresti seguire questo caso da lì oppure spostandoti dall'altra parte dell'Atlantico. Per loro saresti una pedina insostituibile.» Nash capì l'antifona. «Se pensate di non aver bisogno di me, non mi dispiacerebbe andare a Langley stasera o domani per parlarne con loro. Mi sembra una buona idea.» «Sembra anche a me.»
Ted Nash stava quindi per sparire dalla mia vita, una prospettiva che mi rallegrava, anche se forse il vecchio Ted mi sarebbe mancato. O forse no. I tipi come Nash sono bravissimi a ricomparire quando meno te l'aspetti o quando meno vorresti vederli. Quell'educato ma gelido scambio di vedute tra Ted Nash e Jack Koenig sembrava terminato. Mentre Jack e Kate parlavano tra di loro, sognai di accendermi un sigaro, bere qualche scotch e raccontarmi qualche barzelletta sporca. Come fa quella gente a funzionare senza lo scotch? Come può parlare senza dire parolacce? Koenig, a dire il vero, ogni tanto qualcuna la tirava fuori e quindi il suo non era un caso disperato: sarebbe stato un buon poliziotto, e questo, detto da me, è il massimo dei complimenti. Udimmo bussare alla porta, poi comparve un giovanotto. «C'è una telefonata per lei, Mr Koenig, ma forse è il caso che la prenda di là.» Lui si alzò, scusandosi. «Perché non va a cercarci del caffè?» proposi a Roberts appena Koenig fu uscito. Lui non sembrava molto disponibile, ma Kate e Ted appoggiarono la mia proposta e alla fine cedette. Osservai Kate e notai quanto sembrasse sveglia e pimpante, come se fossero le 9 di mattina e non di sera, e nonostante gli avvenimenti della giornata. Io invece ero decisamente stanco, ma ho circa dieci anni più di Ms Mayfield e non mi sono ancora ripreso del tutto dalla mia quasi tragica esperienza; e ciò spiega probabilmente la differenza di energia tra me e lei. Ma non spiega come facesse a non avere nemmeno un capello fuori posto o una piega sulla giacca, come non puzzasse di sudore, ma al contrario fosse ancora profumata. Io mi sentivo, e con ogni probabilità ero, una chiavica e avevo un gran bisogno di una doccia. Anche Nash sembrava sveglio e inappuntabile, ma questo è tipico dei manichini come lui. La sua attività fisica, poi, era stata decisamente limitata, non aveva dovuto correre come un pazzo sulla pista di un aeroporto o salire su un aereo pieno di cadaveri. Ma torniamo a Kate. Teneva le gambe accavallate e notai per la prima volta quanto fossero belle. O forse l'avevo notato un mese fa, nel primo nanosecondo dopo averla conosciuta, ma sto cercando di modificare il mio approccio da sbirro. Da quando lavoro all'Attf non ho fatto colpo, né ho tentato di farlo, su una single... e nemmeno su una sposata. Lì dentro mi
consideravano probabilmente interessato soltanto al lavoro, oppure pensavano che avessi una relazione segreta, che fossi gay, che la mia libido fosse rasoterra o che una delle tre pallottole mi avesse raggiunto sotto la cintola. In ogni caso, mi si stava aprendo davanti agli occhi un mondo nuovo. Le donne dell'Attf mi parlavano dei loro amichetti o dei loro mariti, mi chiedevano se mi piaceva la loro nuova pettinatura e, più in generale, mi trattavano come una specie di essere asessuato. Le ragazze non mi avevano ancora invitato ad accompagnarle durante lo shopping o proposto uno scambio di ricette, ma quanto prima sarei finito in una festicciola per bambini. Il vecchio John Corey è morto, sepolto sotto una valanga di political correctness. John Corey, della Squadra omicidi di New York, è ormai storia. Il nuovo John Corey, agente speciale a contratto dell'Attf, è pulito, battezzato nel Potomac, rinato e accettato nei ranghi puri e angelici dei suoi nuovi colleghi. Torniamo a Kate. La gonna era salita sopra il ginocchio e mi si offriva la visione di quell'incredibile coscia sinistra. Mi resi conto che mi stava osservando e spostai lo sguardo sul suo viso. Aveva labbra piene e carnose, e i suoi occhi azzurri mi stavano frugando l'anima. «Hai l'aria di uno che ha bisogno di caffè» mi disse. «Veramente ho bisogno di un drink.» «Dopo te ne offro uno.» Guardai l'orologio. «In genere, alle 10 sono già a nanna.» Lei sorrise e tacque, il cuore mi batteva. Nash, frattanto, faceva il Nash. Era cioè assolutamente distaccato e imperscrutabile come un monaco tibetano imbottito di tranquillanti. Mi venne di nuovo da pensare che forse il suo non era un atteggiamento, che Nash cioè era davvero scemo, che aveva il quoziente d'intelligenza di un tostapane, ma era abbastanza abile da non darlo a vedere. Roberts tornò reggendo un vassoio con una caraffa e quattro grossi bicchieri: appoggiò il vassoio sul tavolo senza una parola e senza offrirsi di versare il caffè. Ci pensai io, poi con in mano il bicchiere pieno andai alla vetrata guardando a est, in direzione di Long Island. C'era un bel cottage a Long Island, distante 150 chilometri e un mondo intero. E in quel cottage c'era Beth Penrose, seduta davanti al fuoco del camino a bere un tè o magari un brandy. Forse avrei dovuto allontanare quei pensieri, ma la mia ex moglie una volta mi aveva detto: "Uno come te, John, fa solo ciò che ha voglia di fare. Tu vuoi fare il poliziotto, quindi
non lamentarti del lavoro. Quando sarai pronto, lascerai questo lavoro, ma adesso non sei ancora pronto". Proprio così. Ma a volte quegli idioti degli studenti della John Jay mi sembravano simpatici. Guardai Kate e mi accorsi che mi stava guardando, sorrisi e lei ricambiò il sorriso. Poi entrambi distogliemmo lo sguardo. 20 Asad Khalil stava attraversando una zona residenziale al volante della Mercury Marquis: una grossa auto, la più grossa che avesse mai guidato, ma teneva bene la strada. Non aveva preso la New Jersey Turnpike perché non aveva alcuna intenzione di passare dal casello, da nessun casello. A Tripoli aveva chiesto e ottenuto che gli affittassero un'auto dotata di GPS, il Global Positioning System, che aveva già usato in Europa. Il sistema della Mercury si chiamava «Navigatore satellitare» ed era leggermente diverso da quelli che conosceva, ma aveva nel database l'intera rete stradale degli Stati Uniti. Guidando lentamente, Khalil l'aveva programmato per raggiungere l'Highway 1. Pochi minuti dopo era sull'autostrada, in direzione sud, un'arteria piuttosto trafficata con ai lati numerosi stabilimenti industriali. Si accorse che le auto che incrociava avevano i fari accesi, e li accese a sua volta. Dopo un paio di chilometri buttò dal finestrino le chiavi del taxi di Jabbar, poi tolse dal portafogli dell'uomo le banconote contando 87 dollari. Sempre continuando a guidare, frugò ancora nel portafogli, strappando tutto ciò che poteva strappare per gettarlo dal finestrino. Le carte di credito e la patente di plastica gli crearono qualche difficoltà, ma Khalil riuscì a piegarle e stracciarle per sbarazzarsene come aveva fatto con il resto dei documenti. Nel portafogli era rimasta solo una foto della famiglia Jabbar: il capofamiglia, la moglie, due figli, una figlia e una donna anziana. Dalle macerie della sua casa ad al-Aziziya era riuscito a recuperare qualche foto, comprese un paio di suo padre in uniforme. Immagini per lui preziose, le uniche esistenti della famiglia Khalil. Strappò la foto di Jabbar e la fece volare dal finestrino, seguita dal portafogli, dalla bottiglia di plastica e infine dal bossolo. Ogni elemento di prova era ora sparso per diversi chilometri di autostrada e non avrebbe attirato l'attenzione.
Ritornò a concentrarsi sulla strada. C'erano molti pessimi automobilisti: giovani, vecchi, donne, e nessuno di loro sembrava guidare in modo decente, in Europa erano decisamente meglio. Si rese conto che nessuno avrebbe fatto caso a lui nemmeno se avesse guidato male. Guardò l'indicatore della benzina accertandosi che il serbatoio fosse pieno. Sul retrovisore laterale apparve all'improvviso un'auto della polizia, che si mise a seguirlo. Khalil mantenne la stessa velocità, senza cambiare corsia, e resistette alla tentazione di guardare ogni tanto negli specchietti per non insospettire l'agente. Poi si mise le lenti bifocali. Dopo cinque minuti l'auto della polizia si spostò sulla corsia esterna e lo affiancò, ma il guidatore non lo degnò nemmeno di un'occhiata e lo superò allontanandosi. Khalil si rilassò e tornò a concentrarsi sul traffico. A Tripoli gli avevano detto che il sabato sera ne avrebbe trovato molto, perché la gente aveva l'abitudine di uscire per andare al cinema o al ristorante o a far spese in un centro commerciale. Più o meno come in Europa, a parte i centri commerciali. Sempre a Tripoli l'avevano avvertito che, soprattutto nelle zone di campagna, la polizia teneva d'occhio le auto guidate da sospetti spacciatori. E quello poteva essere un problema, perché gli spacciatori erano di solito ispanici e quindi con caratteristiche somatiche simili a quelle degli arabi. Ma di sera era difficile vedere in faccia chi stava guidando un'auto, e il sole stava calando. Ripensò a Jabbar. Non gli era mai piaciuto uccidere un musulmano, ma ogni credente islamico doveva essere pronto a combattere, a sacrificarsi o a morire da martire nella guerra santa contro l'Occidente. Troppi musulmani come quel Jamal Jabbar non facevano nulla, a parte mandare soldi alle loro famiglie. Jabbar non meritava per questo di morire, pensò Khalil, ma alla sua morte non c'era alternativa. Quella di Asad Khalil era una missione santa, e altri si sarebbero dovuti sacrificare perché lui potesse fare ciò che gli altri non potevano: uccidere gli infedeli. Per un momento prese in considerazione, un po' preoccupato, l'ipotesi che Jabbar non fosse morto, ma allontanò subito il sospetto: aveva già visto quegli spasmi, udito quei gorgoglii. Era sicuramente morto. "Voglia Allah portarlo in paradiso questa sera stessa." Il sole stava tramontando ma non sembrava molto pratico fermarsi per
recitare la salat e, oltretutto, il mullah l'aveva dispensato dalle preghiere per tutta la durata della missione. Pregava con la mente, prostrandosi idealmente sul tappeto rivolto verso la Mecca. "Allah è il più grande! Sono testimone che non esiste altro Dio all'infuori di Dio! Sono testimone che Maometto è l'inviato di Allah! Allah è il più grande! Non c'è altro Dio all'infuori di Dio!" Soddisfatto per aver assolto, anche se solo mentalmente, i propri obblighi si inoltrò in quella terra straniera circondato da nemici e infedeli. Poi gli venne in mente un antico canto di guerra arabo, La faida mortale, e ne intonò alcuni versi. "Era un implacabile cavaliere solitario, poteva contare solo sulla sua spada yemenita; e unici ornamenti di quella spada erano le tacche sul filo della lama." 21 Quando tornò in ufficio, Jack Koenig aveva in mano dei fogli che sembravano fax. Ci sedemmo ad ascoltarlo. «Ho parlato con il responsabile della Scientifica al JFK. Hanno già steso un rapporto preliminare» disse tamburellando con un dito sui fax «su ciò che hanno trovato a bordo dell'aereo e al Conquistador Club. Ho parlato anche con George, che è disposto a lasciare l'Attf e New York.» Fece una pausa, poi si rivolse a Kate. «Sì? No?» «No.» «Vi siete fatti un'idea di che cos'è successo sull'aereo prima dell'atterraggio?» «Il detective è John» rispose Kate. Koenig mi guardò. «Procedi, detective.» A questo punto devo far rilevare che l'Fbi non usa il termine "detective" ma "investigatore", e non capivo quindi se Koenig volesse sfottermi o toccarmi con i guanti. Comunque, mi aveva assunto anche per fare quel lavoro e devo dire che me la cavo abbastanza bene. E, visto che conosceva già in parte la risposta alla domanda che mi aveva posto, gliene feci una io per non passare da idiota. «Immagino che avranno trovato le due bombole d'ossigeno nell'armadietto, vero?» «Sì, ma, come avevi notato, avevano entrambe le valvole aperte, quindi non sappiamo cosa contenessero. Possiamo dire con certezza che in una c'era ossigeno e nell'altra no. Vai avanti.»
«Bene. Due ore prima dell'arrivo a New York, il Controllo traffico aereo ha perso i contatti con il Trans-Continental 175. Dev'essere stato allora che l'uomo con le bombole d'ossigeno, seduto probabilmente in business...» «Esatto, si chiamava Yusuf Haddad, posto 2A.» «Okay, quel tipo dicevo... come ha detto che si chiama?» «Yusuf Haddad, come dire Joe Smith. Dalla lista dei passeggeri risulta di nazionalità giordana. Aveva chiesto di poter portare l'ossigeno perché malato di enfisema. Il passaporto era probabilmente fasullo, come l'enfisema e una delle due bombole.» «Allora, questo Joe Smith, giordano, posto 2A in business, respira ossigeno e a un certo punto apre la valvola della seconda bombola, dalla quale esce del gas che si immette nell'impianto di condizionamento.» «Giusto. Che tipo di gas?» «Qualcosa di molto simile al cianuro.» «Molto bene. Si trattava quasi sicuramente di un'emotossina, una versione militare del cianuro, e le vittime sono morte per soffocamento. Stasera stessa saranno esaminati in laboratorio campioni di sangue e tessuti per accertare l'esatta natura del gas, per quello che può servire. Comunque, nel giro di dieci minuti l'aria a bordo è satura di quel gas, e tutti ne assorbono una dose tranne Yusuf Haddad, che respira ossigeno puro.» Mi guardò. «Come ha fatto Khalil a salvarsi?» «Be', la sequenza non mi è ancora del tutto chiara... non escludo che Khalil potesse trovarsi nella toilette mentre circolava il gas. Forse lì l'aria era meno tossica rispetto al resto dell'aereo.» «Proprio così. Nei gabinetti l'aria viene espulsa direttamente fuori dall'aereo per evitare che certi miasmi si propaghino a bordo quando qualcuno è seduto sul cesso.» Interessante. Una volta, su un volo dell'AeroMexico per Cancun, il pranzo era costituito da ventidue diversi piatti a base di fagioli, e io non capivo come mai l'aereo non fosse esploso in volo. «Allora, Khalil se ne sta nel gabinetto, probabilmente con un fazzoletto bagnato sulla bocca, perché qualche esalazione arriva anche lì. E Yusuf Haddad deve portargli al più presto una bombola, la sua o quella che si tiene a bordo per le emergenze mediche.» Koenig annuì senza interrompermi. «Quello che non capisco» intervenne Kate «è come facessero Khalil e Haddad a sapere che l'aereo poteva essere programmato per l'atterraggio automatico.»
«Non lo so nemmeno io, stiamo cercando di accertarlo» rispose Koenig. Poi mi guardò. «Vai avanti.» «Nel giro di un paio di minuti a bordo rimangono vive solo due persone, Asad Khalil e il suo complice Yusuf Haddad. Quest'ultimo trova le chiavi delle manette addosso a Peter Gorman e va a liberare Khalil. Frattanto l'impianto di condizionamento sta eliminando il gas e quando i due decidono che il pericolo è passato, diciamo dopo un quarto d'ora, si tolgono la maschera dell'ossigeno e rimettono a posto le bombole.» «Certo» convenne Koenig «volevano che nulla apparisse fuori posto. Per questo probabilmente hanno rimesso Peter o Phil a sedere perché, come immagino, uno dei due deve essere morto davanti al gabinetto aspettando che Khalil uscisse. Continua, Corey.» «Khalil non deve aver ucciso subito il complice, perché il cadavere di Haddad era più caldo degli altri. Allora i due mettono tutto a posto, frugano Phil e Peter, e prendono le loro pistole, poi forse scendono in prima e in turistica per accertarsi che siano tutti morti. A un certo punto Khalil decide di non avere più bisogno di compagnia e uccide Haddad spezzandogli il collo, come ha scoperto Kate, quindi lo mette a sedere accanto a Phil e gli copre gli occhi con la mascherina per dormire.» Feci una pausa. «E, tra una cosa e l'altra, mozza i pollici a Phil e Peter e se li porta via.» «Giusto» confermò Koenig. «Quelli della Scientifica hanno trovato in cambusa un coltello con tracce di sangue, anche se la lama era stata pulita con un tovagliolino poi gettato nel cestino dei rifiuti. Se il primo salito a bordo avesse notato un coltello sporco di sangue, si sarebbe insospettito; tu e Kate, voglio dire, avreste capito subito la faccenda dei pollici.» Quando si arriva sulla scena di un delitto, in effetti, la prima cosa che si nota è proprio ciò che l'autore del delitto vuole che si noti. «A un certo punto» riprese Koenig «il sergente Andy McGill della Port Authority ha trasmesso via radio il suo ultimo messaggio mentre il jumbo veniva trainato nella zona di sicurezza.» «McGill e Khalil devono essersi incrociati per caso.» Koenig abbassò lo sguardo sui fax. «La Scientifica ha prelevato campioni di sangue, cervello e tessuto tra la cambusa e la toilette e, dalla loro posizione, si direbbe che McGill si trovasse di fronte al gabinetto quando è stato ucciso. Dobbiamo ritenere quindi che McGill, aprendo la porta della toilette, si sia imbattuto in Khalil. È stata trovata anche una coperta con un foro bruciacchiato, e ciò significa che l'assassino l'ha usata per attutire l'esplosione.»
È incredibile a volte quante cose i tecnici della Scientifica riescano a scoprire in poco tempo, consentendo agli investigatori di trarre velocemente delle conclusioni. La scena di un delitto è sempre la scena di un delitto, anche se si trattava di un attentato terroristico, e un omicidio rimane sempre un omicidio. Quello che ci sfuggiva era l'autore. «Per quanto riguarda la fuga di Khalil dall'aereo» proseguì Koenig «possiamo presumere che fosse al corrente della procedura seguita in questi casi al Kennedy. Il primo a salire sull'aereo, una volta scoperto che i piloti erano morti, avrebbe spento i motori. A quel punto sarebbe stato necessario far venire un trattore per spostare l'aereo fino alla zona di sicurezza. Il resto lo conoscete.» Lo conoscevamo, in effetti. «Nell'armadietto degli attaccapanni» continuò Koenig «è stato trovato il portabiti di Haddad contenente un vestito e, sotto, una tuta della TransContinental. Sicuramente queste tute all'inizio erano due, una per ciascuno, e Khalil ha indossato la sua per confondersi con i facchini che sarebbero saliti a bordo per portare via i bagagli a mano dei passeggeri.» Guardò Kate, poi me. «Avete notato qualche faccia sospetta? Eravate certo all'erta, eppure Khalil è riuscito a svignarsela.» «Probabilmente quando siamo saliti a bordo lui se l'era già filata» risposi. «Può essere, come può essere il contrario. Magari l'avete incrociato.» «Credo che l'avremmo riconosciuto» intervenne Kate. «Ne sei sicura? Anche con una tuta, una pettinatura diversa e probabilmente occhiali e baffi finti? Forse lui ha visto voi, forse ha capito che a bordo c'erano detective e agenti federali. Pensateci un po', cercate di ricordare che cosa è successo e chi avete visto sull'aereo e nella zona di sicurezza.» "Okay, Jack, ci penserò. Grazie per avermelo fatto notare." «Comunque» proseguì Koenig «Khalil sale su un furgone portacarrelli e si allontana. A questo punto, uno come lui, che ha messo a segno uno dei colpi più cazzuti... pardon, audaci nella storia del terrorismo, si sarebbe precipitato alle Partenze internazionali, sarebbe entrato in un gabinetto per togliersi la tuta sotto la quale indossava il suo vestito e si sarebbe imbarcato sul primo aereo per Desertolandia... pardon, Medio Oriente. E invece no, Khalil non se ne torna a casa, non ancora. Prima deve fare un salto al Conquistador Club. Il resto è storia.»
Nessuno di noi parlò per un intero minuto. «Una volta imbarcatosi in questa missione» riprese poi Koenig «a Khalil si aprivano diversi scenari. Il peggiore era che l'aereo precipitasse e tutti morissero, ma secondo me per lui questa sarebbe stata ugualmente una vittoria. Poteva anche essere riconosciuto e arrestato una volta sceso dall'aereo, ma anche in questo caso non si sarebbe sentito sconfitto, perché a Tripoli l'avrebbero considerato un eroe.» Il capo aveva ragione. Cominciavo a stimare sia lui sia Khalil. «Un'ulteriore possibilità era quella di non riuscire a concludere la missione colpendo anche al Conquistador Club. In ogni caso, potendo contare a bordo del jumbo su Yusuf Haddad e le sue bombole, Khalil non poteva perdere. E nel caso che Haddad fosse stato riconosciuto e bloccato prima di imbarcarsi a Parigi, Khalil sarebbe finito ugualmente al Conquistador Club; e chissà cosa avrebbe potuto combinare, anche se ammanettato e sotto sorveglianza. Comunque sia, Asad Khalil è come un giocatore di baseball che ha fatto un fuoricampo e poi è riuscito a toccare indisturbato tutte le basi per tornare a quella di partenza, non sappiamo ancora se libica o americana. Noi, per non sbagliare, partiremo dal presupposto che sia ancora in zona e si appresti a colpire di nuovo.» «Secondo me» osservai «abbiamo a che fare con un solitario e difficilmente potremo beccarlo in una delle case che teniamo sotto controllo o alla moschea, con i soliti tipi sospetti.» Kate si disse della stessa idea. «Potrebbe avere un contatto qui a New York, magari con quello che lo ha preceduto a febbraio o con qualcun altro. E, se non ha più bisogno di aiuto da questo complice, prevedo che troveremo presto un altro cadavere: probabilmente quello dell'uomo che lo aspettava al Kennedy per aiutarlo ad allontanarsi. Forse è il caso di allertare la polizia anche per questa eventualità.» Koenig annuì. «Tu, invece, perché pensi che se ne sia già tornato a casa?» chiese a Nash. Lui non rispose subito, quasi a farci capire che si era stancato di gettare perle ai porci. Poi ci guardò in faccia, uno per uno. «Khalil ha fatto il suo ingresso in America nella maniera più tragicamente vistosa, e Mr Koenig non sbaglia quando dice che, comunque fossero andate le cose, lui ne sarebbe uscito vincente. Era pronto a sacrificarsi per la gloria di Allah e a raggiungere i suoi cari in paradiso, ma per infiltrarsi in un paese ostile ha scelto il sistema decisamente più rischioso.» «Questo lo sappiamo» commentò Koenig.
«Mi segua, Mr Koenig, perché il mio ragionamento potrebbe avere un risvolto positivo. Allora, se come dite voi Asad Khalil è venuto in America per far saltare in aria questo palazzo, o quello di fronte, o l'intera città di New York o Washington; se sta per mettere le mani su un ordigno nucleare o, più probabilmente, su una tonnellata di gas tossico, o su qualche migliaia di litri di antrace... be', per mettere a segno una missione così impegnativa sarebbe entrato in America passando dal Canada o dal Messico con un passaporto falso. Voglio dire, non avrebbe scelto quel metodo complicato rischiando di essere catturato o ucciso. Quella cui abbiamo assistito oggi è la classica Missione Gabbiano...» Poi, notando le nostre espressioni perplesse, spiegò: «La Missione Gabbiano è quella in cui si parte, si fa il maggior danno possibile e si ritorna. A missione compiuta, lui se n'è tornato esattamente da dove è venuto». Ci mettemmo tutti a pensare alla Missione Gabbiano. Con quel discorsetto il vecchio Ted aveva dimostrato di possedere un quoziente d'intelligenza pari almeno a quello di un videoregistratore, la sua logica era incontrovertibile. Dal silenzio calato nella stanza capii che tutti avevano apprezzato la luminosità incandescente del cervello di Nash all'opera. «Non fa una grinza» ammise Koenig. «Anche secondo me Ted ha ragione» concordò Kate. «Khalil ha fatto ciò che era venuto a fare e non credo che dovremo aspettarci un bis. La sua missione si è conclusa al Kennedy, dove ha avuto solo l'imbarazzo della scelta del volo da prendere per lasciare gli Stati Uniti.» Koenig mi guardò. «Corey?» «Direi anch'io che il ragionamento di Ted fila.» Koenig ci pensò su. «Ciononostante, dobbiamo regolarci come se Khalil fosse ancora in zona e intensificare le ricerche.» «Dal Kennedy ho telefonato a Langley» ci informò Nash. «La Cia ha organizzato un piano di controllo in tutti gli aeroporti internazionali dove possiamo contare su qualcuno.» Mi guardò. «Per qualcuno intendo nostro personale o gente che lavora per noi o con noi.» «Grazie, li leggo anch'io i romanzi di spionaggio.» Quindi, per concludere, i casi erano due: o Khalil se l'era già svignata oppure si nascondeva da qualche parte in attesa dell'occasione più propizia per farlo. Ipotesi entrambe valide, considerando quello che era successo e come era successo. Eppure c'era qualcosa che ancora non mi convinceva, un paio di dettagli fuori posto in quel quadro. Il primo era fin troppo ovvio: perché Khalil a-
veva sentito il bisogno di consegnarsi alla nostra ambasciata di Parigi? Si sarebbe potuto benissimo imbarcare sullo stesso aereo come aveva fatto Joe Smith, il suo complice, e sterminare tutti con il gas muovendosi con maggiore libertà, cioè senza le manette e i due angeli custodi. A Nash sfuggiva l'elemento umano, e mi sarei meravigliato del contrario. Per capire le intenzioni di Khalil bisognava prima capire Khalil. Quell'uomo, voglio dire, non voleva essere assimilato a qualsiasi terrorista anonimo e si era quindi consegnato all'ambasciata per farsi ammanettare e poi liberarsi come Houdini. Insomma, ci aveva voluto mollare uno schiaffone in piena faccia, altro che Missione Gabbiano. Voleva leggere ciò che sapevamo di lui, mozzare i pollici a quei due poveracci, correre al Conquistador Club e uccidere tutti quelli che avrebbe trovato. Un'operazione ad altissimo rischio la sua, ma a caratterizzarla era stato soprattutto quel risvolto per così dire personale. In sostanza, ci aveva voluto insultare, umiliare, come un cavaliere antico che si introduce nell'accampamento nemico e fotte la moglie del capo. E ora mi domandavo se Khalil avesse terminato di fottere gli americani. Secondo me no, la missione era tutt'altro che compiuta, anche se concordavo con Nash nell'escludere che il nostro uomo si accingesse a mettere le mani su un ordigno nucleare o a disseminare gas venefici o batteri. Qualcosa mi diceva che Asad Khalil, il Leone, era rimasto in America per tirarci dell'altra merda in faccia, di tutto cuore e da una distanza ravvicinata. E non mi sarei sorpreso del tutto se si fosse presentato al ventisettesimo piano per tagliare qualche gola o spezzare qualche collo. Era forse il caso di condividere queste sensazioni con i colleghi e di mostrare le mie palle di riserva a King Jack, se mi passate la battutaccia. Ma i colleghi stavano parlando d'altro e, mentre aspettavo d'inserirmi nella loro conversazione, cominciai a nutrire dei dubbi sul sospetto che mi assillava, la possibilità cioè che in quel momento Asad Khalil stesse provando le sue chiavi sui comandi dell'ascensore. «Naturalmente» stava dicendo Kate a Koenig «Khalil ha letto tutti i documenti contenuti nelle borse di Phil e Peter.» «Non avevano dietro granché» rispose Koenig, un po' troppo tranquillo. «Asad Khalil ora ha il dossier su Asad Khalil» insisté lei «Anche lì non c'era molto che lui non sapesse già.» «Ma ora sa che di lui sappiamo poco.» «D'accordo, ho capito. C'è altro?» «Sì... nel dossier c'era anche un appunto operativo di Zach Weber, indi-
rizzato a George Foster, Kate Mayfield, Ted Nash, Nick Monti e John Corey.» Merda! Non ci avevo pensato. «Allora siate prudenti» fu tutto quello che trovò da dire Jack Koenig, campione di understatement. Grazie, Jack. «Ma non credo che Khalil...» aggiunse, poi rimase a pensarci su. «Sappiamo di che cosa è capace quest'uomo, ma non conosciamo i suoi piani. In ogni caso, non penso che voi vi rientriate.» Kate non sembrava del tutto d'accordo. «Non si era detto che non è il caso di sottovalutarlo?» «Ma nemmeno di sopravvalutarlo.» Una novità, questa. Perché di solito l'Fbi, come d'altronde la Cia, tende a sopravvalutare tutti e tutto per tenere alto il proprio nome e, soprattutto, il proprio bilancio. Ma quella considerazione preferii tenerla per me. «Raramente abbiamo visto un terrorista comportarsi così» proseguì Kate. «Nella maggior parte dei casi gli episodi terroristici sono casuali oppure vengono compiuti a distanza, come gli attentati con gli esplosivi. Quest'uomo invece è sospettato di alcuni omicidi in Europa, ed è inutile che vi dica cos'ha combinato qui oggi pomeriggio. C'è qualcosa in lui, a parte l'ovvio, che mi disturba.» «E secondo te di cosa si tratta?» chiese Koenig. «Non lo so, ma a differenza di molti terroristi Khalil ha dimostrato di avere intelligenza e coraggio da vendere.» «Come un leone» commentò Koenig. «Sì, come un leone, ma è meglio evitare le metafore. È un uomo, un killer, e ciò lo rende più pericoloso di qualsiasi leone.» Decisi che era giunto il momento d'intervenire. «La mia impressione è che questo Khalil sia arrapato dagli americani.» «Come hai detto?» chiese Koenig. Mi pentii di aver usato quell'espressione da sbirro e chiarii il concetto. «Le sue motivazioni non sono solo politiche o filosofiche, quell'uomo prova un odio sordo per gli americani, per la gente di qui. Alla luce degli avvenimenti di oggi dobbiamo ritenere che i sospetti su di lui in relazione a certi fatti siano in parte o completamente fondati. Ciò significa che ha ucciso a colpi d'ascia in Inghilterra un ufficiale dell'Aeronautica americana, che ha sparato a Bruxelles contro tre scolari innocenti massacrandoli. Se
riusciremo a scoprire il movente di questi delitti, forse cominceremo a capire cosa lo tormenta, e a indovinare quale sarà la prossima mossa e a chi toccherà stavolta.» «Se l'è presa anche con gli inglesi» osservò Ted Nash. «A quanto pare ha messo una bomba all'ambasciata inglese a Roma. La tua teoria dell'ossessione antiamericana, quindi, non regge.» «Se l'attentato all'ambasciata inglese è stato opera sua, c'è un nesso, significa che non gli piacciono né gli inglesi né gli americani. I nessi, nelle indagini, rappresentano possibili piste da seguire.» Nash ridacchiò, e non mi piace la gente che ridacchia per le cose che dico. «Non sei d'accordo con Corey?» gli chiese Koenig. «Corey sta mescolando le indagini di polizia con quelle dei servizi segreti. E i parametri delle prime non valgono sempre per le seconde.» «Non sempre, ma a volte sì.» Nash era tutt'altro che convinto. «Ammesso e non concesso che Khalil ce l'abbia a morte con gli americani, questo non fa di lui una mosca bianca. Anzi, proprio il contrario, sappiamo bene che l'America e gli americani sono nel mirino di quasi tutti i terroristi. Siamo il loro obiettivo privilegiato per il nostro status di nazione numero uno, per l'appoggio che diamo a Israele, per la guerra del Golfo e le operazioni antiterrorismo che mettiamo a segno in tutto il mondo.» «Ciò non toglie» ribatté Koenig «che lo stile di Khalil sia decisamente unico, proprio come quella sua smania di insultarci e umiliarci.» Nash fece spallucce. «E allora? Anche ammettendo che questo stile unico possa fornirci qualche elemento, non riusciremo certo a fermare Khalil o a coglierlo sul fatto, dato che ha un milione di obiettivi e sceglie lui quando e dove colpire. Missione Gabbiano.» Nessuno trovò qualcosa da obiettare. «In ogni caso» concluse Nash «rimango convinto che la sua missione sia terminata e lui se ne sia andato. Potrebbe tornare in azione in Europa, dove ha già colpito, dove si muove più agevolmente e dove le misure di sicurezza sono meno rigide delle nostre. E forse un giorno lo vedremo rispuntare qui. Ma adesso il leone è sazio, per usare sempre la stessa metafora. Se ne sta tornando in Libia, nella sua tana, per uscirne quando avrà di nuovo fame.» Fui tentato, metafora per metafora, di sottoporre alla loro attenzione quella del conte Dracula che arriva via nave in un qualsiasi paese pieno di
gente pasciuta e con le vene ben visibili. Ma ci rinunciai, per Koenig io ero un tipo raziocinante dotato di un certo fiuto, uno che rifuggiva dalle metafore. «Non vorrei fare la parte del bastian contrario» dissi quindi «ma dopo quello che è successo oggi continuo a pensare che Khalil si trovi in un raggio di 80 chilometri da qui. E ho scommesso con Ted 10 dollari che ne risentiremo parlare presto.» Koenig riuscì a sorridere. «Ah sì? Allora è meglio che i soldi li tenga io, perché Ted sta per andare all'estero.» Non scherzava e lo dimostrò tendendo la mano aperta. Nash e io gli consegnammo 10 dollari a testa e lui li intascò. Kate alzò gli occhi al cielo. Ah, questi ragazzacci... Jack Koenig mi fissò. «Quindi, Khalil si nasconde da queste parti e conosce il tuo nome, Corey. Pensi di essere sul suo menu?» Ancora la metafora del leone. Capii cosa intendeva dire e non mi piacque. «A volte il cacciatore si trasforma in preda» mi informò. Poi guardò Nash. «Come nel caso di quel terrorista mediorientale che uccise due uomini nel parcheggio della Cia.» Dall'espressione di Nash si capiva che avrebbe preferito dimenticare quell'episodio. «Anche se dipendenti della Cia, le vittime erano state scelte a caso. Il vero obiettivo era l'istituzione.» «Se Khalil si trova ancora negli Stati Uniti» riprese Koenig rivolto a Ted, Kate e me «voi tre potreste essere sul suo elenco, anche se non è per voi che è venuto in America. E questa la considero un'opportunità.» «Scusi? Quale opportunità?» gli chiesi. «Be', odio usare la parola "esca" ma...» «Brutta idea, non parliamone proprio.» Lui invece voleva parlarne e tirò fuori di nuovo la metafora leonina. «C'è questo leone ferocissimo che divora gli abitanti di un villaggio. E ci sono i cacciatori che stanno per mettergli le mani addosso. Il leone si infuria con i cacciatori e commette un errore fatale, quello di dar loro la caccia. Giusto?» Nash sembrava divertirsi, mentre Kate aveva l'aria di considerare interessante la metafora. «Inventeremo per i giornali una storia su John e Kate» spiegò Koenig «e potremmo perfino pubblicare le vostre foto, anche se di solito ce ne guardiamo bene. Khalil penserà che in America è normale pubblicare foto di agenti federali e non sospetterà la trappola. Giusto?»
«Non credo che il mio contratto preveda qualcosa del genere» gli feci osservare. Lui proseguì come se io non avessi aperto bocca. «Non possiamo, e non vogliamo, pubblicare nome e foto di Ted, perché la Cia non ce lo permetterebbe. George, poi, ha moglie e figli, e non è il caso di correre rischi. Ma tu John, e tu Kate, vivete soli. Sbaglio?» Kate annuì. «Perché non la mettiamo da parte per un po' quest'idea?» chiesi. «Perché, Corey, se la tua ipotesi è giusta e Khalil non è lontano da qui, potrebbe essere tentato di sfruttare quest'occasione imprevista prima di dedicarsi alla sua prossima missione, una missione potenzialmente ancora più letale di quella appena compiuta. Ecco perché. Sto cercando di evitare un'altra strage, e a volte bisogna esporsi al pericolo nel superiore interesse della nazione. Non siete d'accordo?» «Io sono d'accordo, vale la pena tentare» disse Kate. Mi ero infilato in un vicolo cieco. «Grande idea, come ho fatto a non pensarci prima?» «John» intervenne Nash «se prendi una cantonata perché Khalil se l'è già svignata, te la cavi con 10 dollari in meno. Se invece Khalil è ancora da queste parti, vinci 10 dollari ma... meglio non pensarci.» Era la prima volta che vedevo Ted godersela tanto. Voglio dire, il vecchio stoico Ted ghignava alla prospettiva di John Corey con la gola tagliata da un beduino psicotico. Anche Roberts cercava di non sorridere... incredibile come certa gente riesca a trasformarsi. La riunione proseguì ancora un po' per esaminare il problema delle pubbliche relazioni: un affare serio, con trecento morti a bordo di un aereo e altri uccisi in un ufficio, e l'assassino in libertà. «Ci aspettano giorni difficili» concluse Koenig. «Solitamente i media ci trattano da amici, come abbiamo visto per la faccenda del World Trade Center e per quella del volo Twa. Ma stavolta dovremo esercitare qualche controllo sulle notizie e, a parte ciò, domani dovremo rassicurare Washington di avere la situazione in pugno. Ora andate tutti a casa e fatevi una bella dormita. Ci vediamo domattina al banco dello shuttle della US Airways, il volo è il primo, quello delle 7. George rimarrà al Conquistador Club, dove c'è ancora bisogno di lui.» Si alzò in piedi e lo imitammo. «Nonostante l'esito della missione, avete fatto tutti un buon lavoro.» E mi sorprese aggiungendo: «Preghiamo per i morti». Gli stringemmo la mano e la stringemmo anche a Roberts.
Lungo il corridoio del ventottesimo piano mi resi conto che molti occhi ci stavano seguendo. 22 WASHINGTON, DC, 60 CHILOMETRI, si leggeva sul cartello stradale bianco e verde. Asad Khalil sorrise, la sua destinazione era vicina. Mancava poco alla mezzanotte, ma sull'autostrada il traffico era ancora piuttosto intenso. Incredibile quanti veicoli circolassero sulle strade degli Stati Uniti anche dopo il tramonto, ecco perché gli americani consumavano tanta benzina. Da qualche parte aveva letto che il loro consumo quotidiano di carburante era superiore a quello annuale della Libia; una volta succhiato tutto il petrolio della terra, sarebbero andati a piedi, o sui cammelli. Rise a quel pensiero. A mezzanotte e mezzo imboccò una superstrada chiamata Capital Beltway, in direzione sud. Dal contachilometri risultava che aveva percorso quasi 500 chilometri in sei ore. Lasciò la Beltway a un'uscita chiamata Suitland Parkway, vicino alla base aerea Andrews, e si trovò su una strada fiancheggiata da centri commerciali ed enormi negozi. Il Navigatore satellitare non gli forniva nomi di alberghi in quella zona, ma lui non aveva alcuna intenzione di passare la notte in un posto troppo frequentato. Rallentò l'andatura per gettare dal finestrino la bottiglia dell'acqua dentro la quale aveva urinato dopo averne bevuto l'intero contenuto. Passò davanti ad alcuni motel finché non ne vide uno abbastanza dimesso. Un cartello avvertiva che c'erano stanze libere. Entrò nel parcheggio, quasi vuoto. Poi si tolse la cravatta, inforcò gli occhiali, scese dalla Mercury, si stiracchiò e si diresse all'entrata. «Sì?» gli chiese il giovane seduto al banco, distogliendo lo sguardo dal televisore. «Mi serve una stanza per due giorni.» «Ottanta dollari, più le tasse.» Khalil appoggiò sul banco due banconote da 50 dollari. Il portiere era abituato ai clienti che pagavano in contanti. «Deve darmi altri 100 dollari di deposito, li riavrà indietro alla partenza.» Mise sul banco altri due biglietti da 50. Il giovanotto gli diede la scheda di registrazione da compilare e Khalil firmò come Ramón Vásquez, scrivendo anche marca e modello dell'auto
come gli avevano raccomandato, perché di notte la polizia a volte faceva dei controlli. Segnò anche l'esatto numero di targa e restituì la scheda al portiere. Il ragazzo gli porse una chiave attaccata a una targhetta di plastica, il resto e una ricevuta per i 100 dollari. «Stanza 15, a destra uscendo verso il fondo. La stanza va lasciata libera entro le 11 del mattino.» «Grazie.» Uscì dal piccolo ufficio, risalì sull'auto e andò a fermarsi davanti alla stanza 15. Poi prese la borsa, scese, entrò nella stanza, accese la luce e chiuse a chiave la porta. L'arredamento era piuttosto spartano, ma c'era un televisore e lo accese. Si spogliò e andò in bagno, portandosi però dietro la borsa da viaggio, il giubbotto antiproiettile e le due Glock calibro 40. Urinò di nuovo, poi estrasse dalla borsa gli articoli da toilette, si tolse i baffi, si lavò i denti, si fece la barba e infine, dopo aver appoggiato le pistole sul lavandino, si concesse una rapida doccia. Dopo essersi asciugato riprese borsa, pistole e giubbotto e rientrò nella stanza da letto, dove si rivestì cambiando indumenti intimi, calze e cravatta e indossando sotto la camicia il giubbotto antiproiettile. Poi estrasse dalla borsa il tubetto del mastice e si riattaccò i baffi, osservando il risultato allo specchio. Si sedette sul letto e con il telecomando girò per i canali finché ne trovò uno che trasmetteva un notiziario che, in effetti, era la replica di un telegiornale precedente. Dopo quindici minuti, lo speaker disse: «E ora, altri particolari sulla tragedia di oggi pomeriggio all'aeroporto Kennedy.» Sullo schermo apparvero le immagini del piazzale dell'aeroporto, con l'area di sicurezza sullo sfondo. Riconobbe la coda del 747. «Il bilancio purtroppo si è aggravato» stava dicendo il giornalista «e un portavoce della compagnia aerea ha confermato che le esalazioni tossiche, provenienti da una fonte ancora non individuata nella stiva, hanno provocato la morte di almeno duecento persone a bordo del volo TransContinental 175.» Le immagini si spostarono sulla sala arrivi dell'aeroporto, affollata di amici e parenti delle vittime in lacrime. Khalil notò numerosi cronisti armati di microfono che tentavano di intervistarli, e la cosa gli sembrò incomprensibile; se pensavano si fosse trattato di un incidente, che interesse avrebbero potuto avere le dichiarazioni di quella gente? Cosa potevano sapere? Nulla. Se gli americani ammettevano che si era trattato di un attacco
terroristico, allora era comprensibile che parenti e amici in lacrime fossero ripresi a fini propagandistici; mentre invece, a quanto pareva, i giornalisti volevano soltanto dichiarazioni e notizie sulle persone imbarcate. E molti degli intervistati speravano che i loro cari fossero sopravvissuti; Khalil avrebbe potuto informarli con assoluta certezza che non c'erano superstiti. Continuò a guardare il telegiornale affascinato dall'idiozia di quella gente, in particolare dei reporter. Gli interessava sapere se avrebbero parlato del pompiere che aveva ucciso a bordo, ma l'episodio fu taciuto. E non fu citato nemmeno il Conquistador Club, il che era assai più comprensibile. Si aspettava di vedere spuntare la propria foto sullo schermo da un momento all'altro, invece le immagini tornarono in studio. «Secondo alcune voci che abbiamo raccolto» stava dicendo il conduttore «sembrerebbe che l'aereo sia atterrato da solo. È qui con noi un ex pilota di 747 delle American Airlines, il capitano Fred Eames. Buonasera, capitano.» «Buonasera.» «Allora, è possibile che un aereo atterri da solo? Voglio dire, senza nessuno ai comandi?» «Sì, è possibile. Aggiungo che a volte è un'operazione di routine. Quasi tutti gli aerei sono in grado di volare autonomamente su una rotta prefissata e, su alcuni velivoli di ultima generazione, il computer può controllare il carrello, i flap e i freni trasformando l'atterraggio in una manovra come qualsiasi altra. Il computer non può essere invece programmato per azionare gli inversori di spirita, e quindi un aereo che atterra con il pilota automatico ha bisogno di una pista più lunga di quelle standard. Ma questo al Kennedy non è un problema.» Khalil continuò ad ascoltare con scarso interesse. Il servizio sulla tragedia al Kennedy terminò senza interviste agli agenti federali e senza citare lui o mostrare la sua foto, le autorità avevano quindi deciso di non rivelare ciò che sapevano. Non ancora, almeno. Quando l'avrebbero fatto, la sua missione sarebbe stata quasi completata. Sapeva che le prime ventiquattr'ore erano per lui le più rischiose: superato il primo giorno, le probabilità di essere arrestato si facevano via via sempre minori. Seguirono altre notizie, ma non quella dell'uccisione di Jamal Jabbar. Asad Khalil spense il televisore. Portando l'auto davanti alla stanza 15 aveva controllato sulla bussola della Mercury da che parte era l'est. Scese dal letto e si inginocchiò in quella direzione, cioè verso la Mecca, per recitare le preghiere della sera.
Poi tornò a letto e, ancora vestito, si addormentò di un sonno leggero. 23 Kate Mayfield, Ted Nash e io uscimmo da Federal Plaza 26 fermandoci sulla Broadway. In giro si vedeva poca gente e la temperatura si era abbassata. Nessuno di noi aprì bocca, il che non significava che non avessimo nulla da dire. Nonostante le parole gentili di Koenig all'atto di accomiatarci, noi tre ci trovavamo per la prima volta da soli dopo quel clamoroso fiasco e non avevamo affatto voglia di parlarne. Questo era il vero significato del nostro silenzio. Non c'è mai un taxi o un poliziotto quando ne hai bisogno, e rimanemmo lì a prender freddo. «Vi va di bere qualcosa, ragazzi?» chiese Kate alla fine. «No, grazie» rispose Nash. «Temo che dovrò passare mezza nottata al telefono con Langley.» Lei mi guardò. «E tu, John?» Avevo bisogno di un drink, ma volevo rimanere solo. «No, grazie, penso che me ne andrò a dormire.» Continuavo a non veder passare nemmeno un taxi. «Prendete anche voi la metropolitana? Vi servono indicazioni?» Nash probabilmente non sapeva nemmeno che a New York esistesse la metropolitana. «No, io aspetto un taxi» rispose. «Dividerò il taxi con Ted» disse Kate. «Okay, ci vediamo domattina al La Guardia.» Mi incamminai. Forse uno dei nostri pensieri inespressi, lì sul marciapiedi della Broadway, era stato quello di trovarci nel mirino di Asad Khalil. A dire il vero, mai nessuno, con rarissime eccezioni, aveva dato la caccia a un agente federale: né la malavita organizzata, né i gruppi sovversivi e nemmeno i signori della droga. Ma con gli estremisti islamici cominciavamo a vedere delle novità. C'erano stati episodi, come l'uccisione di quei due nel parcheggio della Cia, che lanciavano inquietanti segnali per il futuro: e il futuro si era presentato quel pomeriggio con il volo 175. Ero arrivato a Little Italy e i miei piedi trovarono da soli la strada per il ristorante Da Giulio in Mott Street. Entrai e andai direttamente al bar. Era sabato sera, e il ristorante era zeppo della clientela più assortita: dai tipi di Manhattan a caccia di posti alla moda a quelli venuti dalle contee
suburbane o dal New Jersey, dalle famigliole di Little Italy ai turisti provenienti da paesi dove la gente ha perlopiù i capelli biondi. Non vidi facce di Cosa Nostra, anche perché di solito il sabato sera evitano di frequentare i posti dove la gente va per vedere facce di Cosa Nostra. Mi ricordai che una decina di anni prima, un venerdì sera, nel ristorante era stata tesa un'imboscata a un capomafia. L'agguato, per l'esattezza, era avvenuto sul marciapiede, ma il capomafia era rientrato nel ristorante attraverso la vetrina, letteralmente sollevato in aria da un colpo di lupara. Si salvò perché indossava una T-shirt modello Little Italy, cioè un giubbotto antiproiettile, ma qualche tempo dopo ci lasciò lo stesso le penne per mano di una signora sposata. Non riconobbi il barista né alcuno dei presenti. Negli altri giorni della settimana mi sarei potuto imbattere in qualche vecchio collega, ma non quella sera. Il che, tutto sommato, era preferibile. Ordinai un doppio Dewar's e una birra Bud, inutile stare a perdere tempo. Mandai giù il Dewar's in un colpo e sorseggiai la birra. Su una mensola, a un'estremità del bar, c'era un televisore acceso ma senza audio. Nella parte bassa dello schermo, dove durante la settimana scorrono di solito le quotazioni di borsa, lessi alcuni risultati sportivi. Stavano trasmettendo una sitcom di ambientazione mafiosa, Le Soprano, e tutti al bar avevano gli occhi puntati sul televisore. So che i mafiosi, almeno certi che conosco, adorano questo programma. Dopo qualche giro di drink, mi sentii meglio e uscii. Presi un taxi, a Little Italy ce ne sono tanti, e tornai al mio appartamento sulla 72nd East. Abito in un grattacielo, un condominio pulito e moderno con splendida vista sull'East River, e in casa mia non ci sono tracce di quella confusione che di solito è associata ai detective single di New York. La mia vita è un casino, è vero, ma la mia camera ammobiliata è perfetta; ciò in parte è merito del mio primo matrimonio, durato circa due anni. Si chiamava Robin ed era il sostituto procuratore nell'ufficio del procuratore distrettuale di Manhattan, dove c'eravamo conosciuti. Molte donne sostituto procuratore sposano un altro sostituto o un avvocato, lei aveva sposato un poliziotto: a unirci in matrimonio era stato un giudice, ma avrei fatto meglio a chiedere una giuria. Come succede spesso ai sostituti in gamba, Robin si vide offrire - e accettò - l'assunzione in uno studio legale specializzato nel difendere la feccia della società, quei tipi cioè che fino al giorno prima io e lei cercavamo
di mandare al fresco. Il reddito familiare migliorò, ma il matrimonio peggiorò, le nostre opinioni ormai erano diventate inconciliabili. A me rimase l'appartamento, dove il servizio di vigilanza è eccellente. Alfred, il portiere di notte, mi salutò aprendomi il portone. Nella casella della posta trovai solo dépliant pubblicitari. Forse mi aspettavo un pacco esplosivo da Asad Khalil, ma fortunatamente fino a quel momento se n'era astenuto. Salii in ascensore ed entrai in casa senza prendere troppe precauzioni. Nei primi mesi di matrimonio, persino io avevo avuto i miei problemi a passare davanti ad Alfred, che aveva una passione per Robin e non mandava giù l'idea che io dormissi con mia moglie. In ogni caso, avevamo detto a lui e ai suoi colleghi che a causa del nostro lavoro potevamo avere dei nemici, e loro avevano capito perfettamente e si erano abituati a ricevere a Natale e Pasqua sostanziose mance in riconoscimento della loro fedeltà, discrezione e vigilanza. Ma, da quando ho divorziato, credo che Alfred sarebbe pronto a dare le mie chiavi di casa a Jack lo Squartatore in cambio di 20 dollari. Passai in salotto, di fronte alla grande terrazza, e di lì nello studio, dove accesi la Tv sulla Cnn. Il televisore non funzionava bene, aveva bisogno di una manutenzione, per così dire, a percussione, e lo accontentai assestandogli tre manate. L'immagine che apparve era ancora nebulosa, ma stavano trasmettendo una rubrica di economia che non mi interessava granché. Andai al telefono e premetti il pulsante della segreteria telefonica. Il primo messaggio, alle 19.16, era di Beth Penrose. "Ciao, John. Qualcosa mi dice che al Kennedy oggi c'eri anche tu, mi sembra che avessi accennato di doverci andare. È stata una cosa terribile, tragica. Dio mio... se te ne stai occupando, comunque, buona fortuna. Mi spiace per l'appuntamento mancato, chiamami appena puoi. Ciao." Se due sbirri si mettono insieme, c'è il vantaggio che ciascuno capisce e accetta le esigenze di servizio dell'altro. Ma non credo vi siano altri vantaggi, oltre a questo. Il secondo messaggio era di Dom Fanelli, il mio ex partner. "Merda, ho capito bene? Ci sei di mezzo anche tu in quella storiaccia del JFK? Te l'avevo detto di non accettare quel lavoro." "Me l'hai trovato tu quel lavoro, brutto stronzo." C'era qualche altro messaggio, di amici e parenti, e tutti volevano sapere se ero coinvolto nell'affare del JFK. Ero riapparso all'improvviso su tutti gli schermi radar, non male per uno che era considerato fuori gioco da un
anno. L'ultimo messaggio, dieci minuti prima del mio arrivo, era di Kate Mayfield. "Sono Kate, pensavo che a quest'ora fossi già a casa. Okay... be', chiamami se ti va di parlare... sono a casa... non penso di riuscire a addormentarmi. Chiama a qualsiasi ora..." Da parte mia, non credo che avrei avuto problemi a prendere sonno. Ma prima volevo sentire i notiziari, quindi mi tolsi giacca e scarpe, mi allentai la cravatta e sprofondai nella mia poltrona preferita. In Tv c'era sempre quello della rubrica di economia e io entrai in uno stato di dormiveglia, sentivo vagamente che il telefono stava squillando ma non avevo nessuna voglia di rispondere. Mi ritrovai seduto in un grosso aereo, cercavo di alzarmi ma qualcosa mi teneva giù. Mi accorsi che tutti attorno a me dormivano profondamente, tranne un tipo nel corridoio che stringeva in mano un coltellaccio insanguinato e stava venendo verso di me. Portai la mano alla fondina ma era vuota. Il tipo sollevò il coltello e io schizzai su dalla poltrona nella quale mi ero addormentato. L'orologio del videoregistratore segnava le 5.17, avevo appena il tempo di fare una doccia, cambiarmi e correre al La Guardia. Mentre mi spogliavo accesi la radio della camera da letto, sintonizzata sul canale 1010 Wins, quello che trasmette solo notiziari. Stavano parlando della tragedia del Kennedy, alzai il volume e mi ficcai sotto la doccia. Mentre mi insaponavo sentii dire qualcosa su Gheddafi e il raid americano in Libia del 1986. Non eravamo gli unici a essere giunti a certe conclusioni, evidentemente. Ricordai vagamente che, subito dopo quel raid del 1986, sia noi della polizia sia quelli della Port Authority eravamo stati allertati in vista di eventuali schizzi di merda provenienti dal Mediterraneo. Ma, a parte qualche ora di straordinario, non mi sembrava che ci fossero state conseguenze degne di rilievo. Quella però è gente dalla memoria di ferro. Una volta Dom Fanelli aveva fatto una battuta: "L'Alzheimer italiano è quello per cui dimentichi tutto tranne chi devi uccidere". Valeva anche per gli arabi, quella battuta. Ma ora la trovavo molto meno divertente. Libro quarto
AMERICA, PRESENTE ... e Noi abbiamo suscitato fra i cristiani un'inimicizia e un odio che dureranno fino al Giorno della Resurrezione... Credenti, non prendete ebrei o cristiani come alleati... Corano, V, sura della mensa 24 Se il 15 aprile aveva fatto schifo, il 16 non si presentava granché meglio. «Buongiorno, Mr Corey» mi salutò Alfred, il portiere in piedi accanto al taxi che aveva chiamato. «Buongiorno, Alfred.» «Le previsioni del tempo sono buone. La Guardia, vero?» Mi aprì lo sportello. «Al La Guardia» disse al tassista. Salii e il taxi si mosse. «Ha un giornale?» chiesi all'autista. Lui ne prese uno appoggiato sul sedile accanto al suo e me lo diede. Era un giornale russo, o greco. Si mise a ridere. La giornata era già in salita. «Sono in ritardo, vada a tavoletta. Insomma, acceleri. Mi sono spiegato?» Sembrava non avesse alcuna intenzione di violare il codice della strada, e allora gli sbattei davanti al naso il distintivo dell'Fbi. «Muoviti.» Il taxi accelerò. Se mi fossi portato la pistola, gli avrei infilato la canna nell'orecchio, ma sono il tipo che la mattina presto stenta a carburare. Il traffico, a quell'ora di domenica, era quasi inesistente e superammo in un lampo il FDR Drive e il Triborough Bridge. «Al terminal dell'US Airways» gli dissi quando arrivammo al La Guardia. Giunti a destinazione, lo pagai. «E questa è la mancia» aggiunsi restituendogli il giornale. Mancavano solo dieci minuti al mio volo, ma ce l'avrei fatta perché non avevo bagagli né pistola da dichiarare. Notai davanti al terminal due poliziotti della Port Authority che osservavano ogni auto come se potesse essere carica di esplosivo. L'allarme evidentemente funzionava, e io sperai che avessero tutti una foto di Asad Khalil.
Al banco del check-in l'impiegato trovò il mio nome sul computer e stampò il biglietto, poi mi chiese un documento con foto e io preferii dargli la patente, invece del tesserino dell'Fbi, per evitare che sollevasse il problema della pistola. Uno dei motivi per i quali avevo deciso di uscire di casa disarmato era proprio quello di non perdere tempo a riempire moduli, visto che ero già in ritardo. E poi avrei viaggiato con gente armata che mi avrebbe protetto. È vero, peraltro, che proprio quando pensi di non aver bisogno di un'arma scopri invece che ti servirebbe, ma c'era un'altra importante ragione per cui avevo deciso di farne a meno. Ve ne parlerò un'altra volta. «Buon viaggio» mi augurò l'impiegato porgendomi il biglietto. "Voglia Allah darci un bel vento di coda" gli avrei risposto, se ne avessi avuto il tempo. C'era un poliziotto della Port Authority anche accanto al metaldetector, e la fila si muoveva lentamente. Quando passai non scattò l'allarme, nonostante le mie palle d'acciaio. Mentre correvo al gate del mio volo riflettevo su queste eccezionali misure di sicurezza. Da un lato si poteva star certi che di lì a un mese molti poliziotti avrebbero accumulato un mucchio di straordinari, cosa che avrebbe fatto prendere un colpo al sindaco. E lui avrebbe chiesto fondi a Washington, sostenendo che la colpa di quella situazione era del governo federale. Dall'altro lato, difficilmente i controlli ai terminal dei voli interni danno qualche risultato, anche se questo non è certo un buon motivo per abolirli. Bisogna rendere difficile la vita ai latitanti in giro per il paese. In ogni caso, se Asad Khalil non era del tutto scemo, avrebbe fatto ciò che fanno di solito tutti i latitanti di buon senso: se ne sarebbe rimasto nascosto da qualche parte in attesa che passasse la buriana, oppure sarebbe salito su un'auto per scomparire lungo qualche autostrada. Sempre che, naturalmente, non si fosse già imbarcato su un volo Camel Air per Sabbialand. Consegnai il biglietto al gate, percorsi la passerella e mi imbarcai sullo shuttle per Washington. «Ce l'ha fatta per un soffio» mi informò la hostess. «Dev'essere la mia giornata fortunata.» «Ci sono posti a volontà, scelga quello che vuole.» «Che ne direbbe del posto di quel tipo, laggiù?» «Un posto libero, intendevo. Si sieda, per favore.» L'aereo era effettivamente mezzo vuoto. Andai a sedermi da solo in co-
da, biascicando un «Buongiorno» mentre passavo accanto a Ted e Kate, e a Koenig, seduto dall'altra parte del corridoio sulla loro stessa fila. Invidiai George Foster, che non era costretto a farsi quel viaggio. Non avevo pensato di prendere una rivista omaggio al gate, e qualcuno si era portato via quella nella tasca del sedile di fronte al mio, quindi lessi le istruzioni per l'evacuazione d'emergenza finché l'aereo decollò. A metà volo, mentre dormicchiavo, Koenig andò alla toilette e, passandomi accanto, mi fece cadere in grembo la prima edizione del "New York Times". Il titolone di prima pagina mi risvegliò del rutto: TRECENTO MORTI SU UN AEREO AL JFK. L'articolo era schematico e alquanto impreciso, grazie sicuramente alla disinformacija federale. La Federal Aviation Agency e il National Transportation Safety Board, si leggeva, non avevano fornito molti particolari, e in pratica si sapeva soltanto che esalazioni tossiche di natura ancora sconosciuta avevano ucciso passeggeri ed equipaggio. Non si faceva menzione dell'atterraggio automatico, di omicidi, di terroristi e tantomeno del Conquistador Club. E, soprattutto, ringraziando Iddio, non si faceva menzione di un certo John Corey. Domani i resoconti sarebbero stati senz'altro più completi, i dettagli sarebbero stati sapientemente dosati, amaro e dolce nelle giuste proporzioni, un tanto al giorno, finché i lettori non si fossero stancati prestando attenzione ad altri argomenti. Atterrammo in perfetto orario. Mi accorsi che Koenig indossava un abito color blu federale e aveva una borsa; anche Ted Nash aveva una borsa, sicuramente fatta a mano con pelle di yak dai combattenti per la libertà del Tibet. Vestiva di blu anche Kate, benché a lei quel colore donasse più che a Koenig, e a sua volta stringeva in pugno il manico di una cartella; forse avrei dovuto portarne una anch'io. Quanto a me, indossavo un abito color grigio colomba che la mia ex moglie aveva comprato da Barney's, con le tasse e la mancia sarà costato sui 2000 dollari. Ma lei ne aveva di soldi, si guadagna bene difendendo trafficanti, killer, colletti bianchi e altri soggetti ad alto reddito. Perché lo indossavo, allora? Forse perché sono un cinico. E poi addosso mi sta benissimo e si vede che è costoso. All'uscita del terminal trovammo un'auto con autista che ci portò al quartier generale dell'Fbi, meglio noto come J. Edgar Hoover Building. Non parlammo molto durante il tragitto. A un certo punto Jack Koenig, seduto accanto all'autista, si voltò verso di noi. «Mi spiace se dovrete salta-
re i servizi religiosi per colpa della riunione di stamattina.» L'Fbi, a parole, ci tiene che i suoi dipendenti vadano alle funzioni religiose, e forse non soltanto a parole. Non riuscii a immaginare i miei ex capi scusarsi per qualcosa del genere e non trovai quindi una risposta all'altezza. «Va bene lo stesso» disse Kate, e chissà cosa intendeva dire. Nash borbottò qualcosa che non capii, ma il tono era quello di chi ci dispensava tutti. Io di solito non vado a messa. «J. Edgar, da lassù, veglia su di noi» dissi. Koenig mi lanciò un'occhiataccia, poi si girò. Sarebbe stata una giornata lunga. Molto lunga. 25 Alle 5.30 del mattino Asad Khalil scese dal letto, prese dal bagno un asciugamano umido e pulì tutte le superfici su cui avrebbe potuto lasciare le impronte digitali. Poi si prostrò sul pavimento per le preghiere del mattino, raccolse le sue cose e uscì dalla stanza. Dopo aver lasciato la borsa nella Mercury, si diresse alla reception del motel, tenendo in mano l'asciugamano umido. Il giovane portiere dormiva seduto nella sua poltroncina dietro il bancone e il televisore era ancora acceso. Khalil girò attorno al bancone stringendo nella destra la Glock coperta dall'asciugamano, accostò l'arma alla testa del giovane e premette il grilletto. Il portiere e la sua poltroncina girevole furono proiettati contro il bancone. Khalil distese il cadavere sul pavimento, fuori dalla vista, poi prese il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni e aprì il registratore di cassa portandosi via i contanti. Trovò il blocco delle ricevute e le copie delle registrazioni dei clienti e se le infilò in tasca, quindi pulì con l'asciugamano la chiave della sua stanza e la riagganciò al chiodo con il numero corrispondente. Sollevò lo sguardo sulla telecamera di sicurezza, che aveva ripreso non soltanto il suo arrivo ma anche il delitto e la rapina, e seguì il filo elettrico che finiva in una stanzetta sul retro dove si trovava il videoregistratore. Ne estrasse la cassetta e se la infilò in tasca, poi tornò al bancone, trovò l'interruttore con la targhetta INSEGNA e lo spense, spense anche le luci della reception, si richiuse la porta alle spalle e salì in macchina.
Lungo la strada si sbarazzò del materiale prelevato nel motel, tenendosi i soldi, e alle 7 del mattino entrò a Washington. La nebbiolina che l'aveva accompagnato durante il viaggio si era dissolta e la cupola bianca del Capitol Building brillava al primo sole. Khalil girò attorno alla collinetta e parcheggiò, poi estrasse dalla borsa la macchina fotografica e scattò qualche foto al parlamento illuminato dal sole, notando che a una cinquantina di metri da lui una giovane coppia stava facendo lo stesso. Quelle foto non gli erano affatto necessarie e avrebbe potuto far passare il tempo in maniera diversa, ma a Tripoli i suoi compatrioti si sarebbero divertiti a guardarle. All'interno dell'area recintata del parlamento si vedevano alcune auto della polizia, ma nessuna in strada. Alle 7.25 risalì in auto e pochi minuti dopo raggiunse il suo obiettivo, la casa al numero 415 di Constitution Avenue. Nel vialetto davanti alla porta d'ingresso era parcheggiata un'auto, al terzo piano brillava una luce. Continuò a guidare, fece un giro attorno all'isolato e parcheggiò a una cinquantina di metri dalla casa, senza perderne di vista l'ingresso. Nell'attesa estrasse dalla borsa le due Glock e se le infilò nelle tasche della giacca. Alle 7.45, dalla casa uscirono un uomo di mezz'età e una donna. L'uomo indossava l'uniforme di generale dell'Aeronautica, la donna era vestita con una certa ricercatezza. A Tripoli gli avevano detto che il generale Terrance Waycliff era un tipo abitudinario e che tra le sue abitudini c'era la messa alla National Cathedral ogni domenica mattina. Il generale assisteva di solito alla funzione delle 8.15 oppure, a volte, a quella delle 9.30. Per fortuna, quel giorno aveva deciso per la prima e Khalil non avrebbe dovuto aspettare inutilmente un'altra ora. L'uomo, che in quel momento stava aprendo lo sportello dell'auto alla moglie, era alto e snello e, nonostante i capelli grigi, aveva un'andatura giovanile. Nel 1986 il generale Waycliff era il capitano Waycliff e la sigla radio del suo F-111 era Remit 22. Il cacciabombardiere del capitano Waycliff era uno dei quattro che avevano bombardato al-Aziziya, e accanto al pilota quella notte sedeva il capitano William Hambrecht. Quest'ultimo, diventato nel frattempo colonnello, era prematuramente scomparso nel gennaio precedente a Londra sotto i suoi colpi d'ascia; tra poco anche il generale Waycliff sarebbe scomparso prematuramente a Washington. Khalil avrebbe potuto uccidere il generale e la moglie in strada, quella tranquilla domenica mattina, ma aveva scelto un sistema migliore. Quando l'auto si fu allontanata, scese dalla sua, si strinse il nodo della
cravatta e si diresse verso la casa del generale. Premette il campanello e udì all'interno una specie di scampanio, poi un rumore di passi che si avvicinavano, e si allontanò dalla porta per essere visibile nello spioncino. Sentì un suono metallico, probabilmente quello della catenella che veniva agganciata, quindi la porta venne socchiusa e dallo spiraglio apparve il viso di una giovane che cominciò a dire qualcosa. Khalil diede una spallata alla porta, che si spalancò facendo ruzzolare la donna sul pavimento, poi entrò, la richiuse ed estrasse la pistola. «Silenzio.» La donna, riversa sul pavimento di marmo, lo guardava terrorizzata. Le fece segno di alzarsi e rimase a fissarla. Era bassa, di carnagione scura, indossava una vestaglia e aveva i piedi nudi. La governante, stando alle informazioni ricevute: nessun altro viveva in quella casa. «Chi c'è in casa?» le chiese comunque per accertarsene. «Generale casa» rispose lei con un forte accento. Khalil sorrise. «No, il generale non è in casa. E i figli del generale?» La donna scosse il capo, stava tremando visibilmente. Khalil sentì odore di caffè. «In cucina» le ordinò. Lei si voltò esitante e si diresse lentamente verso la cucina, all'altra estremità della casa, seguita da Khalil. Sul tavolo rotondo c'erano due piattini e due tazze. «In cantina, al piano di sotto» le disse allora, indicando con un dito il pavimento. La donna indicò a sua volta una porta di legno. «Scendi.» La governante aprì la porta, accese una luce e scese le scale sempre seguita da Khalil. La cantina era piena di casse e scatoloni. Khalil vide un'altra porta e l'aprì, era quella della caldaia. Allora fece segno alla donna di entrare e, quando lei gli passò davanti e mosse il primo passo nella stanzetta, Khalil le sparò un colpo alla nuca nel punto in cui il cranio si congiunge alla spina dorsale. La governante cadde in avanti e morì prima di toccare il pavimento. Lui chiuse la porta e risalì in cucina. Nel frigorifero trovò una confezione di latte e se lo bevve tutto gettando poi l'involucro di cartone nel bidone dell'immondizia. Riaprì il frigo, vide dei vasetti di yogurt, ne prese due e se li mangiò con un cucchiaino. Non si era reso conto di quanto fosse affamato finché non aveva visto il cibo. Terminata la colazione, tornò alla porta d'ingresso per sistemare la cate-
nella che penzolava semistaccata. Premette la guida e le viti contro il legno, poi chiuse la porta ma non agganciò la catenella, in modo che il generale e la moglie potessero rientrare. Quindi ispezionò la casa, piano per piano, e all'ultimo trovò lo studio del generale. Le pareti, la scrivania e un altro tavolo erano pieni di ricordi della sua carriera militare. Dal soffitto, appeso ad alcuni fili di nylon, pendeva un modellino di F111 in picchiata, con le ali ritratte come un falco che attacca, e quattro bombe color argento assicurate sotto le ali. Khalil lo strappò dai fili e lo fece a pezzi con le mani, poi ne lasciò cadere i frammenti sul pavimento e li calpestò più volte. "Possa Dio dannarti in eterno!" Ripreso il controllo dei nervi continuò a esaminare il contenuto della stanza. Appesa a una parete vide una foto in bianco e nero con otto uomini ripresi in piedi davanti a un cacciabombardiere F-111. Sulla didascalia si leggeva LAKENHEATH, 13 APRILE 1987. La rilesse, non era la data dell'attacco alla Libia. Poi capì: i nomi di quegli uomini e la loro missione erano top secret, e il generale aveva modificato apposta la data perfino lì nel suo studio. Chiaramente, quei vigliacchi non erano orgogliosi della loro missione. Passò alla scrivania, osservando i mille oggetti da cui era ricoperta. Trovò il calendario da tavolo del generale e l'aprì al giorno domenica 16 aprile. "Chiesa. 8.15, National" lesse. Non erano segnati altri impegni per quel giorno, il che significava che molto probabilmente la scomparsa del generale sarebbe stata notata solo la mattina dopo dai colleghi di lavoro. Per il giorno seguente era annotato soltanto un appuntamento alle 10. A quell'ora un altro ex compagno di squadriglia del generale sarebbe morto. Sulla pagina del 15 aprile, anniversario dell'attacco, c'era un altro appunto. "Ore 9, teleconferenza di squadriglia." Si tenevano dunque in contatto tra di loro, e questo avrebbe potuto complicare le cose, specialmente se avessero cominciato a morire uno dopo l'altro. Ma che, se non tutti, almeno qualcuno di loro avesse mantenuto i contatti, lui se l'aspettava. Se non perdeva tempo, sarebbero morti tutti prima di accorgersi del destino che li attendeva. Accanto al telefono c'era l'agenda personale del generale. L'aprì cercando subito i nomi che gli interessavano, quelli degli uomini della foto. Notò con soddisfazione la scritta DECEDUTO accanto al nome del colonnello
Hambrecht, mentre l'indirizzo di Chip Wiggins era stato sbarrato e di fianco era stato tracciato un punto interrogativo in inchiostro rosso. Pensò di portarsi via l'agenda, ma la polizia avrebbe potuto notarne l'assenza e associarla al movente del delitto che stava per essere commesso in quella casa. Allora la rimise sulla scrivania, poi con un fazzoletto cancellò le impronte digitali e ripeté la stessa operazione con il calendario da tavolo. Aprì i cassetti della scrivania e in quello centrale trovò una pistola automatica calibro 45 placcata d'argento. Controllò che il caricatore fosse pieno, mandò un colpo in canna, tolse la sicura e si infilò l'arma nella cintura dei pantaloni. Si avvicinò alla porta, poi tornò indietro per raccogliere da terra i pezzi del modellino e li buttò nel cestino dei rifiuti. Passò al piano inferiore, saccheggiando ogni stanza e arraffando soldi, orologi, gioielli e perfino alcune decorazioni del generale. Infilò il bottino in una federa e se la portò in cucina, dove prese dal frigo una confezione di succo d'arancia; infine sedette al tavolo in attesa. L'orologio a muro segnava le 8.55. Se il generale e la moglie fossero stati abitudinari e puntuali anche quel giorno, sarebbero rientrati alle 9.30. E alle 9.45 sarebbero già stati cadaveri. 26 Era domenica e il J. Edgar Hoover Building, sede centrale dell'Fbi, sembrava quasi vuoto, ma non dubitavo che all'Antiterrorismo l'organico fosse al lavoro, e al completo. Speravo solo che non ce l'avessero con noi per avergli mandato a puttane il giorno di festa. Jack, Kate e Ted dichiararono le armi al banco della sicurezza e io fui costretto ad ammettere - orribile a dirsi - che non l'avevo portata. «Ho le mani registrate come armi letali» informai comunque l'impiegato. Quello guardò Jack, che fece finta di non conoscermi o quantomeno ci provò. Prima delle 9 fummo accompagnati in una bella sala riunioni al terzo piano, dove ci offrirono del caffè e ci presentarono a sei uomini e due donne. Gli uomini si chiamavano tutti Bob, Bill e Jim, o almeno così mi parve, le donne erano Jane e Jean. Tutti vestivano di blu. Quella che si annunciava come una giornata lunga e difficile si rivelò alla fine peggiore delle previsioni. I nostri ospiti non si dimostrarono certo ostili o animosi, anzi furono gentili e comprensivi, ma mi sembrava di es-
sere tornato alle elementari e di trovarmi nell'ufficio del preside. Johnny, credi di riuscire a ricordarti quel che ti abbiamo insegnato la prossima volta che un terrorista arriverà in America? Per fortuna non avevo portato la pistola, perché li avrei stesi tutti. Non rimanemmo tutto il tempo in quella sala riunioni, ma ci spostammo in altri uffici come animali portati in giro a una mostra di allevatori, ripetendo le stesse cose a beneficio di un pubblico ogni volta diverso. Passammo quindi la mattina impegnati in una serie di resoconti davanti a gente che ascoltava e annuiva. A volte non sapevo nemmeno a chi stessi parlando, altre volte avevo il sospetto di essere entrato con i miei amici nell'ufficio sbagliato, perché quelli ai quali facevamo rapporto apparivano sorpresi o confusi, come se si fossero visti spuntare all'improvviso quattro tipi di New York che si erano messi a parlare di gas venefici e di un certo Leone. Forse esagero, ma dopo tre ore passate a ripetere le stesse cose a gente diversa, tutto mi sembrava confuso. Ogni tanto qualcuno ci faceva una domanda precisa, chiedeva una puntualizzazione, e in un paio di occasioni ci venne chiesto di esprimere la nostra opinione o di abbozzare una teoria. Ma nessuno, nemmeno una volta, ci disse ciò che sapeva. Questo sarebbe avvenuto dopo pranzo, ci informarono, e solo se avessimo mangiato tutta la verdura. 27 Asad Khalil udì aprirsi la porta di casa, poi le voci di un uomo e di una donna che parlavano tra loro. «Rosa, siamo a casa» disse forte la donna. Finì di bere il caffè mentre nell'ingresso si udivano le porte dell'armadio a muro aprirsi e richiudersi. Poi le voci in corridoio divennero via via più distinte. Khalil andò a piazzarsi accanto alla porta della cucina ed estrasse la Colt 45 automatica del generale. I passi si fecero sempre più vicini. Il generale e la moglie entrarono nella loro spaziosa cucina. Lui si diresse subito al frigorifero, la moglie alla caffettiera elettrica. Entrambi gli voltavano le spalle e Khalil attese che si girassero, infilandosi la pistola nella tasca della giacca. La donna prese due tazze dalla credenza e le riempì di caffè. «Dov'è il latte?» chiese il marito, che teneva ancora aperto lo sportello del frigorifero. «È proprio lì» gli rispose Mrs Waycliff.
Si voltò per appoggiare il caffè sul tavolo, vide Khalil, emise un grido e lasciò cadere le tazze sul pavimento. Il generale si voltò di scatto verso la moglie, poi seguì lo sguardo della donna e si trovò di fronte a un tizio alto in giacca e cravatta. «Chi è lei?» gli chiese trattenendo il respiro. «Sono un messaggero.» «Chi l'ha fatta entrare?» «La domestica.» «E ora dov'è?» «È uscita a comprare il latte.» «Bene, ora si tolga dai piedi, altrimenti chiamo la polizia.» «È stata bella la messa?» Intervenne Gail Waycliff. «Se ne vada, per favore. Se esce subito, non chiameremo la polizia.» Khalil la ignorò. «Anch'io sono molto religioso. Ho studiato la Bibbia ebraica e i Vangeli, oltre al Corano, naturalmente.» Udendo quest'ultima parola, il generale Waycliff capì con che razza d'intruso avesse a che fare. «Conoscete un po' il Corano?» proseguì Khalil. «No? Eppure leggete l'Antico Testamento. E allora perché i cristiani non leggono la parola di Dio rivelata al profeta Maometto? Sia lode a lui.» «Senta... non so chi sia lei...» «Certo che lo sa.» «D'accordo, so chi è lei...» «Sono il suo peggiore incubo. E lei una volta è stato il mio peggiore incubo.» «Ma di che sta parlando?» «Lei è il generale Terrance Waycliff e, a quanto mi risulta, lavora al Pentagono. Giusto?» «Non sono affari suoi. Le sto dicendo di andarsene, subito.» Khalil rimase a lungo a guardare quell'uomo con l'uniforme azzurra. «Vedo che ha molte decorazioni, generale» disse infine. «Gail, chiama la polizia» disse Waycliff alla moglie. Lei rimase dapprima immobile, poi lentamente si avvicinò al telefono a muro. «Non tocchi quel telefono» le ordinò Khalil. La donna guardò il marito. «Chiama la polizia, ti ho detto.» E il generale mosse un passo verso lo
sconosciuto. Khalil estrasse di tasca la pistola. Gail Waycliff emise una specie di rantolo. Il marito si bloccò immediatamente, spalancando la bocca per la sorpresa. «Questa è la sua pistola, generale» disse Khalil. La sollevò come se volesse esaminarla. «È molto bella, placcata in argento o nichel, con il calcio d'avorio e il suo nome inciso sulla canna.» Il generale Waycliff lo ascoltava in silenzio. «Immagino che non siano state consegnate medaglie per il raid sulla Libia. Sbaglio?» Guardò Waycliff e, per la prima volta, negli occhi dell'uomo lesse la paura. «Sto parlando del raid aereo del 15 aprile 1986. Oppure era il 1987?» Il generale spostò lo sguardo sulla moglie che lo stava osservando: entrambi compresero che cosa sarebbe accaduto. Gail Waycliff attraversò la cucina e andò accanto al marito. E Khalil apprezzò il suo coraggio di fronte alla morte. Ma non aveva ancora finito. «Mi corregga se sbaglio, lei era Remit 22. Vero?» Il generale non rispose. «Lei era ai comandi di uno dei quattro F-111 che attaccarono al-Aziziya. Giusto?» Il generale continuò a tacere. «E ora si sta chiedendo come ho fatto a scoprire questo segreto.» Il generale si schiarì la voce. «Sì, me lo sto chiedendo.» Khalil sorrise. «Ma se glielo dico, poi dovrò ucciderla.» Scoppiò a ridere. «È quel che farà in ogni caso.» «Forse. O forse no.» Intervenne Gail Waycliff. «Dov'è Rosa?» «Che brava padrona è lei a preoccuparsi per la sua domestica.» «Insomma, dov'è?» «Lei lo sa bene dov'è.» «Bastardo!» Asad Khalil non era abituato a sentirsi rivolgere la parola in quel modo, soprattutto da una donna. Provò l'impulso di spararle subito, ma riuscì a controllarsi. «E invece no, non sono un bastardo. Avevo una madre e un padre, regolarmente sposati. Mio padre è stato ucciso dagli israeliani, vostri alleati. Mia madre è morta nel bombardamento di al-Aziziya, insieme
ai miei due fratelli e alle mie due sorelle.» Fissò Gail Waycliff. «E a ucciderli potrebbe essere stata una delle bombe di suo marito, Mrs Waycliff. Cos'ha da dire, adesso?» Gail Waycliff respirò a fondo. «In tal caso, posso solo dirle che mi dispiace per lei, come dispiace a mio marito.» «Sì? Be', tante grazie per le condoglianze.» Il generale Waycliff ritrovò la voce. «A me non dispiace affatto» disse con voce dura, fissando Khalil. «Gheddafi, il suo leader, è un terrorista internazionale che ha ucciso decine di innocenti, uomini, donne, bambini. Al-Aziziya era una base del terrorismo internazionale ed è stato Gheddafi a mettere in pericolo quei civili ospitandoli all'interno di un obiettivo militare. E, visto che la sa tanto lunga, saprà anche che in Libia furono colpiti solo obiettivi militari e le poche perdite civili furono accidentali. Lo sa bene, quindi non cerchi di convincerci che uccidere qualcuno a sangue freddo possa avere una giustificazione.» Khalil sembrò per un momento soppesare quelle parole. «E la bomba sganciata sull'abitazione di Gheddafi ad al-Aziziya? Sa, generale, quella che ha ucciso la figlia e ferito la moglie e altri due bambini. È stato un incidente, quello? Le vostre bombe intelligenti hanno agito di testa loro? Mi risponda.» «Non ho altro da aggiungere.» Khalil scosse la testa. «No, certo che no.» Sollevò la pistola puntandola contro il generale. «Non può immaginare quanto abbia atteso questo momento.» Il generale si mise davanti alla moglie. «La lasci andare.» «Ridicolo. Il mio solo rammarico è che i vostri figli non siano in casa.» «Bastardo!» Waycliff scattò in avanti per afferrarlo. Khalil sparò un solo colpo che perforò i nastrini del generale, sulla parte sinistra del torace. La forza del proiettile punta piatta calibro 45 a bassa velocità bloccò il generale sollevandolo in aria. Poi l'ufficiale cadde all'indietro, con un tonfo, sulle mattonelle del pavimento. Gail Waycliff corse urlando dal marito. Khalil lasciò che si inginocchiasse accanto al generale, carezzandogli la fronte e singhiozzando. Dal foro del proiettile usciva del sangue schiumoso, e Khalil capì di non aver colpito il cuore ma forato un polmone. Meglio così, il generale sarebbe affogato lentamente nel suo stesso sangue. La donna premette il palmo della mano sul foro, e questo gesto fece pen-
sare a Khalil che Gail Waycliff sapesse cosa fare in caso di ferita ai polmoni. Ma forse era stato l'istinto a guidarla. Rimase a guardare per una trentina di secondi, all'inizio con interesse e poi molto meno. Il generale era ancora vivo e tentava di parlare, anche se il sangue lo stava soffocando. Khalil si avvicinò e lo guardò in viso; i loro sguardi si incrociarono. «Avrei potuto ucciderla a colpi d'ascia, come ho ucciso il colonnello Hambrecht» gli disse. «Ma lei è stato molto coraggioso e merita rispetto. Quindi non soffrirà ancora per molto, però non posso prometterle che sarà così anche per i suoi ex compagni di squadriglia.» Il generale cercò di dire qualcosa, ma dalla bocca gli uscì solo del sangue roseo e schiumoso. «Gail...» riuscì infine a mormorare alla moglie in lacrime. Khalil puntò la pistola contro la testa di Gail Waycliff, poco sopra l'orecchio, ed esplose un colpo al cervello. La donna crollò addosso al marito. Il generale Waycliff allungò una mano verso la moglie, poi riuscì con gran fatica a sollevare la testa per guardarla. Khalil osservò quella scena per qualche secondo. «È morta senza soffrire, al contrario di mia madre» disse poi al generale. Terrance Waycliff, con gli occhi sbarrati e la bocca sporca di sangue, voltò lentamente la testa verso l'assassino. «Basta...» disse e tossì «basta uccidere... torna indietro...» «Qui non ho ancora finito. Tornerò a casa quando tutti i suoi amici saranno morti.» Il generale reclinò il capo sul pavimento, la sua mano trovò finalmente quella della moglie e la strinse. Khalil attese, ma l'uomo stava impiegando molto tempo a morire. Allora si accoccolò accanto alla coppia e tolse al generale l'orologio, l'anello dell'Accademia aeronautica e il portafogli. Prese anche l'orologio e gli anelli della donna, e le strappò la collana di perle. Rimase per un po' accoccolato, poi appoggiò le dita sulla ferita e sui nastrini zuppi di sangue. Quindi si infilò le dita in bocca e leccò il sangue. Il generale mosse gli occhi e si accorse con raccapriccio che l'assassino stava leccando il suo sangue. Tentò di parlare, ma ancora una volta riuscì soltanto a tossire e sputare sangue. Khalil tenne gli occhi puntati su quelli del generale e i due si fissarono a lungo finché Terrance Waycliff fu percorso da una serie di spasmi misti a
rantoli, e poi smise di respirare. Khalil gli mise una mano sul cuore, poi gli sentì il polso. Alla fine, soddisfatto, si rialzò. "Possiate bruciare all'inferno!" 28 Kate, Ted, Koenig e io mangiammo qualcosa alla caffetteria del J. Edgar Hoover Building, dove c'era un menu particolarmente ridotto visto che era domenica. «Non so se lasceranno questo caso a noi dell'Attf» disse Jack Koenig tra un boccone d'insalata e l'altro «o se lo passeranno a quelli dell'Antiterrorismo.» «Ma l'Attf è stata creata proprio per casi del genere» osservò Kate. Aveva ragione, in effetti. Purtroppo, però, certe organizzazioni non vedono di buon occhio alcune loro creature considerate "poco ortodosse". L'esercito, per esempio, non ha mai potuto sopportare le Special Forces con i loro berretti verdi. Il Dipartimento di polizia di New York ha scarsa simpatia per le proprie sezioni anticrimine, composte da elementi che se ne vanno in giro vestiti come barboni o teppisti. I pulitini, insomma, odiano i derelitti e non gliene può fregare di meno se questi derelitti si rivelano terribilmente in gamba. Gli "eterodossi" rappresentano per loro una minaccia allo status quo, soprattutto poi se ci sanno fare. «Finora a New York ci siamo mossi bene» proseguì Kate. Koenig sembrò riflettere. «Probabilmente, se ci lasceranno o no le indagini dipenderà da dove si trova, o pensano che si trovi, Khalil» disse poi. «Immagino che mentre noi continueremo a lavorare nell'area di New York senza interferenze, Washington si occuperà del resto degli Stati Uniti e del Canada, e la Cia indagherà all'estero.» Ted Nash, come me, non trovò nulla da dire. Teneva le sue molte carte così strette al petto da non avere bisogno del bavaglino per mangiare lo yogurt. Io, di carte, non ne avevo né sapevo come si regolava quella gente in circostanze del genere. Mi risultava, però, che l'Attf veniva usata in altre zone degli Stati Uniti, e anche all'estero, se il caso che stava seguendo aveva avuto origine a New York. Era stato proprio Dom Fanelli, per convincermi a passare all'Attf, a dirmi che c'era la possibilità di andare a Parigi a spassarsela con le ragazze, per poi chieder loro di tenere d'occhio certi arabi sospetti. Non gli avevo creduto, ma pensavo ugualmente che ogni tanto sarebbe stato possibile fare qualche viaggetto in Europa a spese dello zio
Sam. Basta, comunque, con il patriottismo. Il problema a questo punto era il seguente: se succede qualcosa nel tuo orticello, la tua giurisdizione termina ai confini dell'orticello oppure no? Una delle indagini più frustranti che ricordo fu quella, tre anni fa, su uno stupratore assassino che colpiva nell'East Side. Brancolavamo nel buio finché un bel giorno quello decide di farsi un viaggetto in Georgia per andare a trovare un amico e viene fermato da uno zotico di poliziotto locale per guida senza patente. La polizia di quel paesino si era appena dotata di un computer dell'ultima generazione, acquistato con i fondi federali, e tanto per scacciare la noia l'agente decide di controllare le impronte dello sconosciuto nell'archivio dell'Fbi. Guarda guarda: le impronte coincidono con quelle lasciate dallo stupratore assassino. Ci facciamo firmare l'ordine di estradizione da un giudice e il sottoscritto se ne va a Hominy Grits, in Georgia, per riportare a New York il detenuto. Ma, prima di ripartire, mi sono dovuto sorbire per ventiquattr'ore il capo della polizia locale, che me ne ha dette di tutti i colori su New York, mi ha dato una lezione di tecnica investigativa, mi ha insegnato una serie di sistemi per localizzare un assassino e, alla fine, mi ha congedato raccomandandomi di chiamarlo ogni volta che avessi avuto bisogno di aiuto. Un vero schifo, insomma. Ma torniamo alla mensa dell'Fbi. Dalle parole di Koenig avevo capito che le possibilità di seguire o risolvere il caso Khalil erano piuttosto scarse. «Se Khalil viene arrestato in Europa» stava dicendo «due o tre paesi cercheranno di far valere la loro giurisdizione, a meno che gli Stati Uniti non riescano a convincerli di doverlo estradare qui per il reato di strage.» Queste considerazioni di ordine legale erano a mio beneficio, anche se non ce n'era bisogno. Ho fatto il poliziotto per quasi vent'anni, insegno da cinque alla John Jay e ho vissuto per circa due anni con un'avvocato: l'unico caso, quest'ultimo, in cui sono stato io a fottere un avvocato e non viceversa, come accade di solito. Koenig, da quanto avevo capito, temeva che l'allenatore ci rimandasse negli spogliatoi per aver perduto la palla proprio sulla linea di meta. E la sua preoccupazione era anche la mia. A peggiorare le cose ci si metteva anche Ted Nash, il quale stava per tornare alla sua casa madre che ce lo aveva così benevolmente prestato. E la sua casa madre aveva molte più chance di noi di vincere questa gara. Mi tornò in mente quel borioso capo della polizia di Hominy Grits, in Georgia, che stavolta aveva però la faccia di Ted Nash e, indicandomi Asad Khalil dietro le sbarre, mi diceva: "Vedi, Corey, l'ho preso. Ora ti racconto
come ho fatto. Mi trovavo in questo caffè della rue Saint-Germaine - parlo di Parigi, Corey - e stavo contattando una delle mie pedine". E a quel punto io tiravo fuori la pistola e lo stendevo. Ted stava in effetti bofonchiando qualcosa e decisi di ascoltarlo. «Domani vado a Parigi a parlare con quelli della nostra ambasciata. È una buona idea partire da dove è cominciato tutto e da lì procedere a ritroso.» Mi chiesi se sarei riuscito ad aprirgli la trachea con la forchetta. Kate e Jack andarono avanti per un po' a parlare di giurisdizione, estradizione, capi d'imputazione federali e statali e così via. «Sono certa che funziona così anche nella polizia» mi disse poi Kate. «I detective che indagano su un caso dall'inizio lo seguono fino alla conclusione, sia per non interrompere la sequenza degli elementi di prova sia perché in tal modo la loro testimonianza è meno attaccabile dagli avvocati della difesa.» Capito? Non abbiamo ancora le mani su quel pezzo di merda e loro già si preoccupano dei difensori. Succede sempre così quando i legulei si mettono a fare i poliziotti, questa è la merda che devo ingoiare quando ho a che fare con gli assistenti procuratori e i loro investigatori. Questo paese sta affondando nel mare dei cavilli giuridici, e finché si ha a che fare con il criminale medio americano, passi... voglio dire, non bisogna perdere d'occhio la Costituzione e roba del genere. Ma qualcuno dovrebbe inventare un nuovo tipo di corte e delle norme diverse per uno come Asad Khalil; quello non paga nemmeno le tasse, a parte forse quelle comprese nel prezzo d'acquisto dei beni di consumo. «Avete fatto tutti un bel lavoro stamattina» ci disse Jack Koenig, al termine dell'ora che ci era stata concessa per mangiare un boccone. «So che non è piacevole, ma se ci troviamo qui è per dare una mano e renderci utili. Sono molto orgoglioso di tutti e tre.» Sentii rivoltarsi nello stomaco il tonno del sandwich che avevo appena mangiato. Ted se ne sbatteva visibilmente, il che voleva dire che in fondo avevamo qualcosa in comune. 29 Alle 10.15 del mattino, dopo essersi lasciato Washington alle spalle, Asad Khalil viaggiava sull'Interstate 95 in direzione sud, sapendo che fino alla sua nuova destinazione non avrebbe trovato caselli autostradali o ponti con pedaggio.
Uscì dall'autostrada per fare il pieno e, alla fine della rampa, trovò tre stazioni di servizio. Entrò in quella con l'insegna Exxon e si fermò alla fila delle pompe self-service. Funzionavano come in Europa, gli avevano spiegato, e avrebbe potuto usare la carta di credito, ma decise di pagare in contanti per non lasciare tracce del suo passaggio, soprattutto all'inizio della missione. Riempito il serbatoio, andò verso un gabbiotto di vetro e consegnò due biglietti da 20 dollari all'addetto, dal quale ricevette uno sguardo poco amichevole. L'uomo appoggiò il resto sulla mensola, annunciò l'ammontare e distolse l'attenzione. Asad intascò il resto, risalì in macchina e riprese l'Interstate 95 in direzione sud. In Virginia, dove si trovava ora, il traffico procedeva a oltre 120 chilometri l'ora, 15 chilometri al di sopra del limite segnalato dai cartelli, ed era quindi molto più veloce di quello tra New York e Washington. "Al sud la polizia ferma spesso le auto con targa del nord, soprattutto quelle di New York" gli aveva detto uno dei suoi istruttori, Boris, l'ex agente del Kgb che era vissuto cinque anni in America. E, quando Asad gliene aveva chiesto il motivo, il russo aveva spiegato: "Tra il nord e il sud c'è stata una grande guerra civile, e il sud l'ha persa. Ancora adesso al sud c'è molta animosità nei confronti dei settentrionali". "Quando c'è stata questa guerra civile?" aveva chiesto Asad. "Oltre cent'anni fa. Gli americani dimenticano i nemici esterni dopo dieci anni, ma non riescono a perdonarsi a vicenda con altrettanta rapidità. In ogni caso, è meglio se rimani sull'Interstate, perché è un'arteria molto utilizzata da quelli del nord che vanno a passare le vacanze in Florida. E quindi la tua auto non attirerà particolare attenzione." Boris gli aveva fornito altre informazioni pratiche. "Molti abitanti di New York sono ebrei e al sud le auto con targa di New York possono venire fermate dalla polizia anche per questo." Il russo aveva riso. "Se ti fermano, di' che neanche a te piacciono gli ebrei." Khalil ci aveva riflettuto. I suoi, a Tripoli, avevano cercato di dargli tutte le informazioni di cui disponevano sul sud degli Stati Uniti, ma era evidente che conoscevano meglio la zona tra Washington e New York; negli Stati meridionali, quindi, avrebbe potuto incontrare dei problemi. Ripensò all'addetto della stazione di servizio, alla sua targa di New York e anche alle proprie caratteristiche somatiche. "Nel sud" aveva aggiunto Boris "gli abitanti sono in prevalenza neri o europei e tu non puoi certo passare per nero o europeo. In Florida invece andrà meglio, lì c'è una gran varietà di razze e
colori. Potresti passare per sudamericano, ma in Florida sono in tanti a parlare spagnolo e tu non ne sai una parola. Quindi, se devi parlare, di' che sei brasiliano, perché in Brasile parlano portoghese e negli Stati Uniti ben pochi conoscono quella lingua. Ma se parli con la polizia, di' che sei egiziano, come risulta dal tuo passaporto." Khalil aveva affrontato gli stessi argomenti con Malik. "Non preoccuparti di quel che ti dice quell'idiota di russo" era stato il suo commento. "In America devi solo sorridere, non avere l'aria sospetta, tenere le mani fuori dalle tasche, andare in giro con un quotidiano o una rivista americani, lasciare sempre il quindici per cento di mancia, non stare troppo vicino alle persone con cui parli e augurare a tutti una buona giornata. È gente simile agli europei, ma dalla mentalità meno contorta. Perciò sii diretto ma non brusco, amichevole ma senza prenderti troppe confidenze. Della geografia e delle altre culture hanno una conoscenza limitata, inferiore comunque a quella degli europei. Se vuoi essere greco, quindi, di' che sei greco. E, visto che parli bene italiano, di' che vieni dalla Sardegna: non sanno neppure dov'è, la Sardegna." Tornò con la mente a casa Waycliff. Li aveva momentaneamente rimossi, quei ricordi, per assaporarli con calma come un buon dessert. Ricostruì la scena, cercando di immaginare se e come avrebbe potuto trarne maggior soddisfazione. Forse, pensò, avrebbe dovuto costringere il generale a implorare pietà o la moglie a mettersi a quattro zampe e leccargli i piedi. Ma aveva l'impressione che non ci sarebbe mai riuscito. Da loro aveva ottenuto il massimo, e il tentativo di umiliarli sarebbe andato a vuoto: sapevano di dover morire dal momento in cui lui aveva rivelato il motivo della sua presenza in quella casa. Avrebbe potuto, certo, dar loro una morte più dolorosa, ma a impedirglielo era stata la necessità di far credere alla polizia che si fosse trattato di un duplice delitto per rapina. Doveva portare a termine la sua missione prima che i servizi segreti americani capissero cosa stava realmente accadendo e corressero ai ripari. Sapeva, Asad Khalil, che durante una delle sue visite ai componenti della pattuglia aerea che aveva bombardato al-Aziziya avrebbe potuto trovare ad aspettarlo la polizia. Era una possibilità che era pronto ad accettare e considerava decisamente positivo il bilancio delle sue azioni in Europa, a New York e a casa del generale Waycliff. L'ideale sarebbe stato completare la lista, ma se non ci fosse riuscito a-
vrebbe provveduto qualcun altro al posto suo. Gli sarebbe piaciuto tornare in Libia, ma morire nella terra degli infedeli durante la sua guerra santa avrebbe rappresentato per lui un trionfo e un onore. Il posto in paradiso se l'era già assicurato. Alle 13.15 lesse su un cartello stradale: BENVENUTI IN NORTH CAROLINA. Si trovava ancora sull'Interstate 95, larga e pressoché diritta. La Mercury, oltre a essere silenziosa e potente, aveva un serbatoio molto capace, ma Khalil vide sul computer che avrebbe dovuto fare altri due pieni prima di raggiungere la destinazione successiva. Pensò al prossimo obiettivo, il tenente Paul Grey, pilota dell'F-111F con la sigla radio Elton 38. I servizi segreti libici avevano dovuto investire oltre dieci anni e molti milioni di dollari per avere accesso all'elenco degli otto aviatori. E altri anni erano stati necessari per localizzare ciascuno di questi assassini. Uno di loro, il tenente Steven Cox, che era stato l'ufficiale addetto ai sistemi d'arma a bordo di Remit 61, era ormai fuori gioco, essendo caduto in missione durante la guerra del Golfo. Khalil avrebbe preferito ammazzarlo di persona, ma l'idea che il tenente Cox fosse morto per mano dei combattenti islamici era stata sufficiente a togliergli qualsiasi rimpianto. La prima vittima di Khalil, il colonnello Hambrecht, era stata rimandata in America ridotta a pezzettini nel gennaio scorso. Il cadavere della seconda vittima, il generale Waycliff, era ancora caldo, e il suo sangue si trovava ora nel corpo di Khalil. Ne rimanevano cinque. Entro quella sera il tenente Grey avrebbe raggiunto all'inferno i suoi ex compagni di squadriglia. Khalil sapeva che i servizi di sicurezza libici erano riusciti a procurarsi i nomi di alcuni componenti delle altre squadriglie che avevano bombardato Bengasi e Tripoli, ma a quelli si sarebbe provveduto in un secondo tempo. A lui era stato riservato l'onore di sferrare il primo colpo, di vendicare di persona la strage della sua famiglia, la morte della figlia del Grande Leader e le ferite sofferte dalla moglie e dai due figli di Gheddafi. Era certo che gli americani avessero dimenticato da tempo quella data, 15 aprile 1986. Avevano bombardato tanti di quei posti che l'azione sulla Libia era ormai considerata di scarsa importanza. Durante la guerra del
Golfo, decine di migliaia di iracheni erano morti per mano degli americani; e il loro leader, Saddam Hussein, aveva fatto ben poco per vendicare ìl sacrificio dei suoi martiri. Ma i libici non erano come gli iracheni, ìl Grande Leader non dimenticava mai un'offesa, un tradimento o la morte di un martire. Si chiese cosa stesse facendo in quel momento il tenente Paul Grey, e se per caso fosse uno di quelli ai quali il generale Waycliff aveva telefonato il giorno prima. Khalil non sapeva se quegli uomini fossero in stretto contatto, ma dall'agenda del generale risultava che il 15 aprile si erano sentiti. Era quindi improbabile che sarebbero tornati a sentirsi prima che qualcuno li informasse della morte del generale, e a farlo non sarebbe certo stata Mrs Waycliff. Sarebbero passate molte ore, anche ventiquattro, prima della scoperta dei cadaveri. Si domandò anche se la morte del generale, della moglie e della domestica sarebbero state attribuite a un rapinatore colto sul fatto. La polizia, come tutte le altre polizie, avrebbe pensato alla delinquenza comune, ma i servizi di sicurezza, nel caso fossero intervenuti, avrebbero potuto vederla diversamente. A suo vantaggio c'era un dettaglio non trascurabile: quasi nessuno sapeva che quegli uomini avevano preso parte al raid del 1986 sulla Libia, non risultava nemmeno dai loro dossier personali, come avevano potuto accertare i servizi segreti libici. Esisteva solo una lista degli equipaggi, classificata top secret. Questo segreto li aveva protetti per oltre dieci anni. E lo stesso segreto ora avrebbe reso più difficile alle autorità mettere in relazione fra loro tre episodi: quello di Lakenheath, in Inghilterra, quello di Washington, DC, e quello che sarebbe accaduto tra poco a Daytona Beach, in Florida. 30 Dopo pranzo fummo portati in una stanzetta senza finestre al quarto piano, dove ci costrinsero a sorbire una lezioncina sul terrorismo in generale e su quello mediorientale in particolare. Il tutto condito da materiale scritto e diapositive con mappe e diagrammi di organizzazioni terroristiche. Pensavo si trattasse di uno scherzo, ma non lo era. A tenerci la lezione era un certo Bill, così almeno mi sembra si chiamasse, vestito naturalmente di blu. «Stiamo ammazzando il tempo in attesa di qualcosa d'importante?» gli chiesi.
Bill sembrò un po' sconcertato dalla domanda. «Questa presentazione ha lo scopo di rafforzare la vostra preparazione e di darvi una visione panoramica della rete terroristica globale.» E avanti così. Ci parlò delle sfide da affrontare nel dopo guerra fredda, informandoci che il terrorismo internazionale non sarebbe stato estirpato con tanta facilità. Notizia per me non nuovissima, ma che comunque segnai sul taccuino nel caso qualcuno avesse deciso di interrogarci. A proposito, l'Fbi è diviso in sette sezioni: diritti civili, stupefacenti, supporto investigativo, criminalità organizzata, reati violenti, reati di colletti bianchi e antiterrorismo. Quest'ultimo, praticamente inesistente venticinque anni fa, quando ero una matricola della polizia, è un settore in continua crescita. Tutto questo, Bill non ce lo stava spiegando. Io lo sapevo già, come sapevo che la Casa Bianca non era oggi una casa felice, anche se il resto del paese ignorava ancora che gli Stati Uniti avevano appena subito il peggior attacco terroristico dai tempi di Oklahoma City. E, soprattutto, che quest'attacco non era il prodotto di qualche testa indigena bacata, ma dei deserti del Nordafrica. Mentre Bill si riempiva la bocca con la storia del terrorismo mediorientale, segnai sul taccuino alcuni appunti: chiamare Beth Penrose, telefonare ai miei genitori in Florida, chiamare Dom Fanelli, comprare qualche lattina di soda, ritirare camicie e biancheria in lavanderia, far riparare il televisore e così via. Se Dio volle, Bill si ritirò e il suo posto fu preso da un uomo e una donna. Lei si chiamava Jane, lui Jim ed entrambi vestivano di blu. «Grazie per essere venuti» esordì Jane. Decisi che ne avevo abbastanza. «Potevamo scegliere?» chiesi. Sorrise. «No, non potevate.» Intervenne Jim. «Lei dev'essere il detective Corey.» Devo esserlo. Jane e Jim si esibirono in un piccolo duetto e il brano da loro scelto si intitolava Libia. Ma si rivelò più interessante del numero precedente e quindi rimanemmo attenti. Ci parlarono di Muammar Gheddafi, dei suoi rapporti con gli Stati Uniti, del terrorismo di Stato e del raid americano sulla Libia del 15 aprile 1986. «Il sospetto autore dell'incidente di ieri si chiama Asad Khalil e dovrebbe essere libico» disse Jane «anche se a volte viaggia con passaporti di altre nazioni del Medio Oriente.» Sullo schermo apparve all'improvviso la
foto di Asad Khalil. «Questa è la foto che vi era stata trasmessa da Parigi, io ve ne mostrerò una di qualità migliore. A Parigi ne abbiamo scattate altre.» Vedemmo passare sullo schermo le foto che mostravano Khalil ripreso in varie pose dentro un ufficio. Evidentemente non sapeva di essere su Candid Camera. «I servizi di sicurezza dell'ambasciata a Parigi» proseguì Jane «le hanno scattate durante gli interrogatori. Khalil è stato trattato come disertore perché così si era presentato ai nostri.» «È stato perquisito?» chiesi. «Solo superficialmente. È stato palpeggiato e poi lo hanno fatto passare attraverso un metaldetector.» «Quindi non si è dovuto spogliare?» «Non vogliamo che un informatore o un disertore si trasformi in un prigioniero ostile.» «A certa gente piace farsi guardare dentro il buco del culo. Ma se non glielo chiedi, non lo saprai mai.» Riuscii a far ridere il vecchio Ted. «Le popolazioni arabe» replicò gelida Jane «mostrano un certo pudore a proposito di nudità, esposizione di parti intime del corpo e roba del genere. Sottoporre uno di loro a ispezione corporale significherebbe umiliarlo e incattivirlo.» «Ma quel tipo poteva benissimo essersi nascosto nel culo una capsula di cianuro con la quale togliersi di mezzo o, peggio, togliere di mezzo qualcuno dell'ambasciata.» Jane mi lanciò uno sguardo glaciale. «I servizi di sicurezza non sono stupidi come lei sembra credere.» Sullo schermo apparve un'altra serie di foto che ritraevano Khalil in bagno, mentre si spogliava, sotto la doccia, sul water e così via. «Sono state riprese da una macchina fotografica nascosta, ovviamente» spiegò Jane. «Abbiamo anche dei videotape con le stesse immagini nel caso le interessino, Mr Corey.» «Posso farne a meno.» Guardai un'altra foto appena apparsa, un nudo frontale e integrale di Khalil che usciva dalla doccia. Era alto circa un metro e ottanta, robusto, molto peloso, privo di cicatrici o tatuaggi visibili, e dotato di un poderoso apparato sessuale. «Questa te la faccio incorniciare» dissi a Kate. La battuta non fu precisamente apprezzata e nella stanza cadde un silen-
zio di tomba, al punto da farmi temere che mi avrebbero chiesto di uscire. Ma Jane proseguì. «Mentre Khalil dormiva profondamente, grazie anche a un sedativo aggiunto al suo latte» disse sorridendo con aria complice «quelli dell'ambasciata hanno frugato nei suoi abiti asportandone qualche fibra con un piccolo aspirapolvere. Gli sono state prese anche le impronte digitali delle mani e dei piedi, gli hanno prelevato cellule epiteliali dalla bocca per identificare il suo Dna, campioni di capelli e peli, e perfino delle otturazioni. Abbiamo dimenticato qualcosa, Mr Corey?» «Direi di no. E non sapevo che il latte potesse metterti fuori combattimento.» «I risultati di questi prelievi saranno messi a vostra disposizione. E da un primo rapporto su ciò che indossava, vale a dire abito grigio, camicia, cravatta, scarpe nere e biancheria intima, risulta che tutto è stato prodotto in America. Cosa abbastanza strana, se si considera che i capi d'abbigliamento americani non sono molto diffusi in Europa o in Medio Oriente. Riteniamo, quindi, che Khalil intendesse confondersi tra gli abitanti di un centro urbano americano subito dopo il suo arrivo.» Lo ritenevo anch'io. «Esiste una teoria alternativa» proseguì Jane «in base alla quale Khalil, appena sbarcato e con in tasca un falso passaporto ottenuto da Haddad, sia corso al terminal delle Partenze internazionali, forse, ma non necessariamente, al banco di una compagnia aerea mediorientale dove lo avrebbe atteso un biglietto prepagato intestato allo stesso nome del passaporto. A meno che il biglietto non gli sia stato dato da Haddad a bordo del TransContinental 175.» Jane ci guardò. «So che avete considerato entrambe le teorie, quella di Khalil che resta in America e quella che lo vede tornarsene subito a casa. Entrambe sono plausibili. Ciò che sappiamo per certo è che Haddad è rimasto, ora stiamo cercando di accertare la sua vera identità e i suoi eventuali contatti negli Stati Uniti. Per capire quanto sia spietato questo Khalil, basta pensare che non ha esitato a uccidere il suo complice, un uomo che aveva rischiato la vita per farlo entrare negli Stati Uniti. Asad Khalil, dunque, spezza il collo di Haddad e resta solo dentro un aereo pieno di cadaveri, sperando che il pilota automatico lo faccia atterrare sano e salvo. Poi, invece di fuggire, va al Conquistador Club e fa fuori tre dei nostri. Dire che Khalil è spietato e senza cuore significa definire soltanto una parte della sua personalità: Khalil è coraggioso e incurante del pericolo, a farlo agire è una potente motivazione.»
Indubbiamente. Anch'io mi considero coraggioso e incurante del pericolo, ma devo ammettere che non avrei potuto fare quel che ha fatto lui. Solo una volta nella mia carriera me la sono dovuta vedere con uno che aveva più palle di me e, quando alla fine l'ho ucciso, ho capito che non ero stato degno di farlo: un po' come il cacciatore armato di un potente fucile di precisione che fa secco un leone, ma sa che tra lui e il leone il più nobile e coraggioso è proprio l'avversario. Jane premette il pulsante del proiettore e sullo schermo apparve l'ingrandimento di una foto a colori, il particolare di un profilo maschile. «In questa foto ingrandita della guancia sinistra di Khalil potete notare tre cicatrici superficiali e parallele. Ne ha altre tre, uguali, sulla guancia destra. Secondo i nostri patologi non si tratta di bruciature o di ferite da scheggia o coltello, sono al contrario i caratteristici graffi provocati da unghie umane o artìgli di animali, lacerazioni parallele e un po' slabbrate. Sono gli unici segni particolari sul suo corpo.» «Possiamo desumere che queste ferite siano opera delle unghie di una signora?» chiesi. «Può desumere ciò che le fa più piacere, Mr Corey. Ve le ho fatte notare nel caso in cui Khalil dovesse modificare il proprio aspetto esteriore.» «Grazie.» «A Parigi i nostri hanno tatuato sul corpo di Asad Khalil tre puntini. Uno è dietro il lobo dell'orecchio destro» e ci mostrò un primissimo piano, «uno tra l'alluce e il secondo dito del piede destro» e ancora una foto strana, «e l'ultimo vicino all'ano. A destra. Se fermate un sospetto, o trovate un cadavere, questi tatuaggi possono servire a identificarlo, insieme con le impronte digitali e il calco dei denti.» Era il turno di Jim, adesso. «L'operazione, se ci riflettete, è stata tutto sommato abbastanza semplice, anche perché non è difficile spostarsi tra paesi con frontiere relativamente aperte. Yusuf Haddad viaggiava in business e così ha potuto portare in cabina il portabiti e l'ossigeno. Veste bene, probabilmente parla un po' di francese, tanto da capire quello che dicono al De Gaulle, e quel po' d'inglese che gli consente di non farsi notare dagli assistenti di volo della Trans-Continental.» Sollevai la mano. «Posso fare una domanda?» «Naturalmente.» «Come faceva Yusuf Haddad a sapere su quale volo sarebbe stato imbarcato Khalil?» «È proprio questo il punto, vero Mr Corey?»
«Ci sto pensando da un po'.» «La risposta purtroppo è semplice. Noi voliamo sempre TransContinental, la compagnia di bandiera che ci pratica un certo sconto in business. Ma, soprattutto, la Trans-Continental ha un funzionario in collegamento con noi per i problemi di sicurezza e così possiamo imbarcare e sbarcare i nostri senza dare troppo nell'occhio. Qualcuno evidentemente sapeva di questi nostri rapporti con la compagnia, rapporti tra l'altro non proprio top secret.» «Ma come faceva Haddad a sapere che Khalil sarebbe stato imbarcato proprio su quel volo e non su un altro?» «C'è stata ovviamente una falla nel sistema di sicurezza della TransContinental. In altre parole, Haddad deve essere stato informato da un dipendente arabo della compagnia, e a Parigi gli arabi non mancano. Se ci pensate bene, non è casuale che per consegnarsi Khalil abbia scelto la nostra ambasciata di Parigi e non di un'altra capitale, a Parigi poteva contare su questo informatore. Per motivi di sicurezza» aggiunse «i vettori aerei americani non permettono ai passeggeri di portarsi a bordo la bombola dell'ossigeno. Bisogna prenotarla, e la fornisce la compagnia aerea con un piccolo supplemento sul costo del biglietto: questo potenziale rischio, evidentemente, è stato preso in considerazione da diversi anni. Nel nostro caso, un dipendente ha sostituito una bombola di ossigeno con una di gas venefico.» «A me le due bombole sono sembrate del tutto uguali» osservai. «Probabilmente, quindi, una delle due era stata "personalizzata" in qualche modo poco visibile.» «Proprio così, quella dell'ossigeno aveva un piccolo graffio a forma di zeta. Ecco, secondo noi, come sono andate le cose. Asad Khalil chiede di andare in bagno e ci va scortato sicuramente da Phil Hundry o Peter Gorman; chi l'accompagna si accerta prima che nella toilette sia tutto in ordine, per evitare scherzi alla Michael Corleone.» Fece una pausa, poi si spiegò, anche se non ce n'era bisogno. «Ricordate quella scena del Padrino in cui nascondono una pistola nel bagno del ristorante? Phil o Peter, quindi, controlla il cestino dei rifiuti, forse anche il pannello elettrico sotto il lavandino, dove è facile nascondere qualcosa e dove qualcosa è stato in effetti nascosto, qualcosa però di apparentemente innocuo e soprattutto tale da non destare sospetti. Si tratta di una bombola di ossigeno terapeutico, con relativa maschera, come se ne trovano a bordo di ogni aereo di linea del mondo. Solo che il suo posto non è sotto il lavandino, ma se non sei del
mestiere non puoi sapere che quella del jumbo Trans-Continental non dovrebbe trovarsi lì. E quindi il collega che accompagna Khalil al bagno non se ne accorge.» Jim fece un'altra pausa a effetto. «Prima del decollo» ci informò «la bombola viene infilata sotto il lavandino da qualcuno, con ogni probabilità un addetto alle pulizie o alla manutenzione. Chi accompagna Khalil al bagno, lo lascia ammanettato e gli ordina di non bloccare la porta dall'interno, come prevede la procedura in questi casi. E l'ingresso di Khalil nel bagno è il segnale convenuto per Haddad, che apre la valvola della bombola con il veleno. A un certo punto tutti a bordo cominciano ad avvertire uno strano malessere, ma quando si rendono conto di ciò che li attende è ormai troppo tardi. Il pilota automatico è sempre inserito durante il volo e l'aereo prosegue quindi la propria rotta.» Jim concluse. «Khalil, che sta respirando ossigeno dalla bombola sotto il lavandino, esce dal bagno quando è sicuro che sono tutti morti o privi di conoscenza. A quel punto lui e Haddad hanno oltre due ore per sistemare le cose, il che significa togliere le manette a Khalil, riportare al suo posto l'agente che l'aveva accompagnato alla toilette, rimettere la bombola d'ossigeno nel vano attaccapanni e così via. Khalil sa che i momenti più critici sono quelli successivi all'atterraggio, quando avrà pochi minuti a disposizione: una volta indossata la tuta della Trans-Continental, dovrà riuscire a non farsi notare dai primi che saliranno a bordo e poi mescolarsi alla gente nell'area di sicurezza. Perciò fa in modo che tutto possa apparire in ordine sia alle squadre di emergenza che saliranno sull'aereo alla fine della pista sia a quelle che si aggiungeranno dopo che il jumbo sarà stato trainato fino all'area di sicurezza.» Venne la volta di Jane, poi parlò ancora Jim, intervenne di nuovo Jane e così via. Erano quasi le 4 e avevo bisogno di una pausa. Passammo alla fase domande e risposte. «Come facevano Khalil e Haddad a sapere che il jumbo era programmato per l'atterraggio al Kennedy?» chiese Kate. Rispose Jim. «Prima di ogni decollo i piloti della Trans-Continental devono programmare il computer per l'intera tratta, quindi anche per l'atterraggio. Non è un segreto, è già stato pubblicato su diverse riviste d'aviazione. E se a questo si aggiunge la falla nella rete di sicurezza della compagnia al De Gaulle... Le uniche istruzioni che non vengono date al computer sono quelle relative all'uso degli inversori di spinta, perché se per errore dovessero entrare in azione durante il volo potrebbe disattivarsi un
motore o alterarsi qualche altra parte dell'aereo. Gli inversori di spinta vengono quindi inseriti dal pilota subito dopo l'atterraggio, con il minimo possibile di interfaccia automatica. È rimasta, forse, l'unica operazione manuale del pilota, a parte l'annuncio "Benvenuti a New York" o a Vattelapesca e il rullaggio fino al gate; e non escludo che il computer sia anche in grado di fare gli annunci. A parte il silenzio radio, il personale in pista si è reso conto che qualcosa non andava quando ha notato la mancata attivazione degli inversori di spinta.» «Ma le piste» chiese Koenig «non vengono assegnate dalla torre di controllo di volta in volta?» «In effetti è così, ma i piloti sanno quale pista viene assegnata di solito al loro volo.» Jane annunciò una pausa di quindici minuti. «Troverete gabinetti e caffè alla fine del corridoio» ci informò. Chiacchierando con Jack, Ted e Kate scoprii che Jim e Jane si chiamavano in realtà Scott e Lisa, ma per me sarebbero sempre rimasti Jim e Jane. Tutti qui erano Jim e Jane, a parte Bob, Bill e Jean. E tutti vestivano di blu, giocavano a squash nel seminterrato, facevano jogging lungo il Potomac, avevano una casa in Virginia subito fuori Washington e la domenica andavano in chiesa; tranne le occasioni in cui, come oggi, gli stronzi finivano tra le pale dei ventilatori. Quelli sposati avevano bambini, splendidi naturalmente, che vendevano dolci sulle bancarelle per comprarsi la divisa e le scarpette da calciatore. Ma da un certo punto di vista è gente da apprezzare, quella: voglio dire, rappresentano l'ideale o quantomeno ciò che ai loro occhi è l'ideale americano. Gli agenti in genere sanno fare il proprio lavoro e godono dappertutto di ottima reputazione per sobrietà, onestà, fedeltà e intelligenza. Certo, purtroppo quasi sempre hanno una formazione giuridica, ma che ci vuoi fare? In fondo Jack Koenig è un brav'uomo che ha avuto la sventura di prendersi una laurea in giurisprudenza, come Kate. Mi piaceva il rossetto che aveva quel giorno Kate, di una tonalità rosa pallido. Forse, lo devo ammettere, invidiavo quelli con famiglia e posto fisso in chiesa. In qualche angolo del mio cervello doveva esserci una casa con il giardino circondato da una staccionata bianca, una moglie innamorata, due bambini, un cane e un lavoro dalle 9 alle 17 dove nessuno voleva uccidermi. Ripensai a Beth Penrose laggiù a Long Island. Alla casa per il weekend
che aveva comprato sul North Fork, vicino al mare e ai vigneti. Non mi sentivo molto in forma quel giorno, per ragioni che non avevo il coraggio di analizzare. 31 Asad Khalil controllò sul cruscotto l'indicatore del carburante e vide che il serbatoio conteneva soltanto un quarto del totale. L'orologio segnava le 14.13. Aveva percorso circa 500 chilometri da Washington, questa potente auto consumava più di tutte quelle che aveva guidato in Europa o in Libia. Non aveva fame né sete, o forse sì, ma sapeva resistere perché, grazie all'addestramento ricevuto, riusciva a rimanere a lungo senza mangiare, bere e dormire. La sete era la più difficile da ignorare, ma una volta aveva resistito sei giorni nel deserto senz'acqua e conosceva quindi i propri limiti fisici e mentali. Si vide affiancare nella corsia di sinistra da una decappottabile bianca con a bordo quattro ragazze che chiacchieravano e ridevano. Avevano tutte capelli chiari ed erano abbronzatissime, tre di loro indossavano T-shirt, mentre l'ultima, quella sul sedile posteriore più vicina a lui, era coperta solo dal reggiseno di un bikini rosa. Una volta, su una spiaggia francese aveva visto donne senza reggiseno, con le mammelle nude esposte alla vista di tutti. In Libia donne del genere si sarebbero prese una razione di frustate e forse qualche anno di carcere; non sapeva con esattezza quale sarebbe stata la loro punizione perché, a quanto ricordava, non era mai accaduto nulla del genere. La ragazza con il reggiseno rosa gli sorrise salutandolo con la mano. Le altre la imitarono, ridendo. Khalil accelerò. La ragazza al volante della decappottabile accelerò a sua volta e gli si affiancò nuovamente. Lui si accorse che stava andando a 120 chilometri l'ora e rallentò fino a portarsi a 100. E anche le ragazze rallentarono, continuando a fargli gesti di saluto. Una di loro gli urlò qualcosa che lui non sentì. Non sapeva cosa fare, per la prima volta da quando era in America non aveva la situazione sotto controllo. Rallentò ancora e quelle gli rimasero affiancate. Pensò di lasciare l'autostrada alla prima uscita, ma le ragazze avrebbero potuto seguirlo. Allora accelerò, ma la decappottabile rimase al suo fianco, con le ragazze che continuavano a ridere e agitare la mano.
Capì che avrebbe attirato l'attenzione, o forse l'aveva già fatto, e si accorse di avere la fronte imperlata di sudore. Improvvisamente vide apparire sullo specchietto laterale un'auto della polizia con a bordo due agenti, e un'occhiata al tachimetro gli disse che stava andando a 130, sempre con l'auto delle ragazze affiancata alla sua. "Brutte troie!" L'auto della polizia si spostò sulla corsia di sinistra dietro la decappottabile, che aumentò l'andatura. Khalil sollevò il piede dall'acceleratore e l'autopattuglia gli si affiancò. Allora infilò la destra nella tasca della giacca e la strinse attorno al calcio della Glock, senza distogliere lo sguardo dalla strada. La polizia lo superò, spostandosi poi sulla sua corsia senza segnalare, e raggiunse l'auto delle ragazze, mentre lui rallentava ulteriormente. L'agente al volante sembrò parlare con le ragazze, poi si salutarono tutti e l'autopattuglia accelerò allontanandosi. La decappottabile era adesso un centinaio di metri davanti a lui, ma le sue occupanti sembravano avere perduto qualsiasi interesse per l'uomo della Mercury. Khalil si tenne sui 105-110 chilometri l'ora e la distanza tra le due auto aumentò, mentre quella della polizia era ormai scomparsa. Respirò a fondo pensando a quell'episodio, senza comprenderlo del tutto. Si ricordava qualcosa che gli aveva detto Boris. "Molte donne americane ti troveranno interessante, amico mio. Le donne americane non sono sessualmente disinibite e dirette come le europee, ma fanno amicizia con gli uomini con facilità senza per questo provocarli o richiamare l'attenzione sulle evidenti differenze tra i sessi. In Russia, come in Europa, un atteggiamento del genere è considerato idiota: perché parlare con una donna se non per fare sesso? In America invece le donne, e specialmente le ragazze, parlano con gli uomini, anche di sesso, bevono con loro, ballano con loro, magari li invitano a casa e poi gli dicono che non hanno alcuna intenzione di scopare." Khalil aveva stentato a crederci. "Comunque, non avrò nulla a che fare con le donne durante la mia missione" gli aveva detto. Boris era scoppiato a ridere. "Mio caro amico musulmano, il sesso fa parte della missione, nel senso che non c'è nulla di male a divertirsi un po' quando si rischia la pelle. Avrai certo visto qualche film di James Bond." Khalil non ne aveva visto nemmeno uno. "Forse, se voi del Kgb aveste dedicato maggiore attenzione alle missioni invece che alle donne, ci sareb-
be ancora il Kgb" gli aveva risposto. Ripensò alle quattro ragazze seminude della decappottabile. E dovette ammettere che, a parte l'indecisione sul da farsi in quella circostanza, aveva provato lo strano desiderio di dormire nudo con una donna. Una cosa del genere a Tripoli sarebbe stata quasi impossibile senza una certa dose di pericolo. In Germania aveva trovato prostitute turche un po' dappertutto, ma non se l'era sentita di comprare il corpo di una musulmana, mentre in Francia aveva frequentato prostitute africane, accertandosi però che non seguissero l'Islam. In Italia c'erano numerose profughe balcaniche: una volta era stato con un'albanese e dopo, quando aveva scoperto che era musulmana, le aveva dato tante di quelle botte che adesso si chiedeva se fosse ancora viva. Su un quadrante del cruscotto si accese una lucina e contemporaneamente si udì un segnale acustico. La Mercury era entrata in riserva. Alla prima uscita lasciò quindi l'autostrada fermandosi in una stazione di servizio Shell, accanto alla pompa con il cartello SELF-SERVICE - CONTANTI, si mise gli occhiali da sole e scese. Il serbatoio ingoiò circa 90 litri di benzina ad alto numero di ottani, e Khalil cercò di calcolare a quanti litri equivalessero, forse un centinaio. Quegli stupidi, arroganti americani erano rimasti gli unici al mondo a non adottare il sistema metrico decimale. Quando ripose il tubo della pompa nel suo alloggiamento, notò che non c'era il gabbiotto di vetro dell'addetto: sarebbe dovuto entrare in un ufficetto per pagare, e si maledisse per non essersene accorto prima. Dietro il banco c'era un tipo in jeans e maglietta bianca, seduto su uno sgabello, che fumava guardando la Tv. L'uomo lo fissò un attimo, poi spostò lo sguardo su un display digitale. «Ventotto e ottantacinque» disse. Khalil mise sul banco due biglietti da 20 dollari. «Serve altro?» gli chiese quello. «No.» «In frigo ho delle bibite ghiacciate.» Khalil aveva qualche difficoltà con l'accento di quel tipo. «No, grazie» rispose comunque. L'uomo contò il resto e guardò il cliente. «Da dove viene, amico?» «Da... New York.» «Viaggio lungo, eh? E dov'è diretto?»
«Atlanta.» «Arrivato a Florence non si lasci scappare il raccordo con l'Interstate 20.» Khalil intascò il resto. «Certo, grazie.» In televisione, notò, stavano trasmettendo un incontro di baseball. L'uomo seguì il suo sguardo. «I Braves le stanno suonando ai New York, due a zero alla fine del secondo» lo informò. «Oggi sono cazzi per gli Yankees.» Asad Khalil annuì, anche se non aveva idea di cosa quello stesse dicendo. Ancora una volta scoprì di avere la fronte imperlata di sudore, doveva esserci molta umidità. «Buona giornata» disse al benzinaio, e uscì. Si rimise al volante e, prima di accendere il motore, guardò la vetrata dell'ufficio per vedere se il benzinaio lo stava seguendo con lo sguardo. Ma quello si era di nuovo concentrato sul televisore. Uscì velocemente, ma non troppo, dalla stazione di servizio e riprese la Interstate 95 in direzione sud. Capì che uno dei pericoli più seri era rappresentato proprio dalla televisione. Se avessero mostrato la sua foto, e probabilmente l'avevano già fatto, non poteva considerarsi al sicuro. A quel punto la polizia di ogni Stato doveva ormai avere una sua immagine, e lui avrebbe evitato la polizia finché poteva; ma non avrebbe potuto evitare di entrare in contatto con un certo numero di americani, anche se minimo. Abbassò l'aletta parasole e si guardò nello specchietto, senza togliersi gli occhiali scuri. Con i capelli grigi e divisi sulla fronte, i baffi finti e gli occhiali non somigliava a nessuna delle sue foto in circolazione. Ma a Tripoli gli avevano mostrato cosa erano in grado di fare gli americani con un computer, aggiungendo al suo viso baffi o barba, occhiali, accorciando o schiarendo i capelli o pettinandoli diversamente. L'uomo della stazione di servizio comunque non lo aveva riconosciuto: in caso contrario, Khalil se ne sarebbe accorto immediatamente e l'avrebbe ucciso. Ma, se invece che deserta, la stazione di servizio fosse stata piena di gente? Khalil tornò a guardarsi nello specchietto e d'improvviso si rese conto che non esisteva una sua foto in cui sorrideva. Doveva sorridere, gliel'avevano detto tante volte a Tripoli di sorridere. Lo fece, continuando a guardare lo specchietto, e si stupì notando come un sorriso potesse cambiargli la fisionomia. Sorrise ancora e sollevò l'aletta parasole. Continuò a guidare, pensando alla sua foto in Tv. Ma forse non gli a-
vrebbe creato problemi. A Tripoli gli avevano anche detto che, per qualche motivo, gli americani appendevano le foto dei latitanti alle pareti degli uffici postali. Quale fosse il motivo per cui le mostravano proprio in un posto del genere, lui non riusciva a capirlo, ma non aveva alcuna intenzione di entrare in un ufficio postale e quindi la cosa non lo preoccupava. Tornò a concentrarsi sulla guida. L'America era un grande paese e, proprio per la sua grandezza e varietà, era facile nascondersi o mescolarsi tra la gente a seconda delle circostanze. Ma le dimensioni potevano anche rappresentare un problema perché, a differenza dell'Europa, non vi erano molti confini da attraversare in caso di fuga. La Libia era lontanissima. Khalil, poi, cominciava a rendersi conto che l'inglese parlato al sud era molto diverso da quello che lui era in grado di capire. Boris, ricordò, gli aveva accennato a qualcosa del genere, aggiungendo comunque che in Florida si esprimevano in maniera più comprensibile. Ripensò al tenente Paul Grey e alla foto della sua bella villa con palme in giardino. Gli venne in mente anche la casa del generale Waycliff. Quei due assassini erano tornati in patria e si erano fatti una famiglia, dopo aver distrutto tante vite senza un briciolo di rimorso. Se esisteva l'inferno, Khalil conosceva tre dei suoi abitanti: il tenente Steven Cox, ucciso durante la guerra del Golfo, il colonnello William Hambrecht e il generale Terrance Waycliff, entrambi uccisi da Asad Khalil. Se in quel momento parlavano fra loro, gli ultimi due probabilmente stavano spiegando al primo come erano morti, e tutti e tre si stavano chiedendo chi sarebbe stato il prossimo a raggiungerli. «Abbiate pazienza, signori miei» disse ad alta voce. «Tra poco lo saprete, e quanto prima vi ritroverete tutti insieme all'inferno.» 32 Terminata la pausa, rientrammo in aula scoprendo che Jim e Jane erano stati rimpiazzati da un signore che sembrava arabo. Pensai inizialmente che questo tipo si fosse smarrito cercando la moschea, oppure che avesse rapito Jim e Jane e ora li tenesse in ostaggio. Ma prima che potessi lanciarmi su di lui per bloccarlo, sorrise e si presentò come Abbah ibn Abdallah, anzi fu tanto gentile da scriverlo sulla lavagna. Se non altro il suo nome non era Bob, Bill o Jim. «Chiamatemi pure Ben» ci disse, evidente-
mente avevano tutti la mania dei diminutivi. Abdallah, cioè Ben, indossava un vestito di tweed un po' troppo pesante, una volta tanto non blu, e portava avvolta attorno al capo una specie di bandiera a scacchi come quelle delle gare automobilistiche. E questo particolare fu il primo a farmi sospettare che quell'uomo non fosse delle nostre parti. Ben sedette con noi e tornò a sorridere. Era sulla cinquantina, tarchiatello, con barba e occhiali, capelli che andavano diradandosi, e aveva un buon profumo. Tre note di demerito per quest'ultima osservazione, detective Corey. Nella stanza si avvertiva un certo imbarazzo, o forse mi sbagliavo. Voglio dire, Kate, Ted, Jack e io siamo gente di mondo, aperta, avevamo già lavorato e socializzato con altri soggetti mediorientali, ma, per qualche ragione, quel pomeriggio la tensione nell'aria era palpabile. «Che tragedia terribile» esordì Ben. Nessuno aprì bocca. «Sono un agente speciale a contratto dell'Fbi» proseguì lui. Questo significava che era stato assunto, come me, per la sua particolare competenza in qualche ramo. E avrei escluso che la sua specializzazione fosse quella del consulente di moda. Ma almeno non era un avvocato. «Al vicedirettore è sembrata una buona idea quella di mettermi a vostra disposizione» disse ancora. «A nostra disposizione per cosa?» gli chiese Koenig. Ben lo fissò prima di rispondere. «Tengo un corso di politica mediorientale alla George Washington University. La mia area di specializzazione è costituita dai vari gruppi che si collocano su posizioni estremiste.» «Movimenti terroristici» gli suggerì Koenig. «Volendo, possiamo chiamarli anche così.» Decisi d'intervenire. «Volendo, possiamo chiamarli anche assassini psicotici. Che ne dice?» Il professor Abdallah non fece una piega, evidentemente era abituato a certe osservazioni. Il tipo sapeva parlare, sembrava intelligente e aveva un modo di fare pacato. Nulla di quanto era avvenuto il giorno prima gli poteva essere rimproverato, naturalmente, però ora lo aspettava un compito difficile. «Sono egiziano» riprese «ma conosco abbastanza bene i libici, c'è sempre stata una presenza egiziana in Libia. È un popolo interessante, che discende in gran parte dai cartaginesi. Dopo di loro vennero i romani, caccia-
ti successivamente dai vandali provenienti dalla Spagna. I vandali furono sottomessi dai bizantini e i bizantini dagli arabi, che introdussero la religione islamica. I libici si considerano arabi, ma la Libia ha sempre avuto una popolazione scarsa e questo ha fatto sì che ogni etnia da cui è stata invasa abbia lasciato traccia dei propri geni.» Dapprima equivocai perché invece di "geni" mi sembrava di avere sentito "jeans", ma poi capii. Il professor Abdallah si dilungò sulla cultura e i costumi libici, ci consegnò dei prontuari, tra cui un dizionarietto di termini arabi usati solamente dai libici, e perfino un libro di ricette, che difficilmente però avrei tenuto in cucina. «I libici amano la pasta, per via dell'occupazione italiana» ci spiegò. Anche a me piace la pasta, e quindi un giorno mi sarei anche potuto imbattere in Asad Khalil al ristorante Da Giulio. Pensandoci bene, però, era da escludere. Ricevemmo dal professore una breve biografia di Muammar Gheddafi e le fotocopie delle pagine dedicate alla Libia dall'Enciclopedia Britannica. Ci diede anche un opuscolo su cultura e religione islamiche. «Musulmani, ebrei e cristiani» proseguì poi il professore «considerano tutti il patriarca Abramo come il loro capostipite. Il profeta Maometto discende dal figlio maggiore di Abramo, Ismaele, mentre Mosè e Gesù discendono da Isacco. Sia pace a tutti loro.» Non sapevo a quel punto se farmi il segno della croce, rivolgermi verso la Mecca o chiamare il mio amico Jack Weinstein. Ben continuò a parlarci di Gesù, Mosè, Maria, l'arcangelo Gabriele, Maometto, Allah e via di seguito. Si conoscevano tutti fra loro e si apprezzavano. Incredibile, oltre che interessante: ma il tutto non mi aiutava certo ad avvicinarmi ad Asad Khalil. Il professor Abdallah si rivolse a Kate. «Contrariamente a quanto si ritiene, l'Islam ha un'alta considerazione della donna. I musulmani non l'accusano di aver mangiato il frutto proibito, come fanno cristiani ed ebrei, né considerano le sofferenze della gravidanza e del parto un castigo per quel peccato.» «Una visione decisamente illuminata» disse gelida Kate. Ben sembrò non udire nemmeno le parole della Regina di Ghiaccio. «La legge islamica prevede che all'atto del matrimonio la donna possa conservare il proprio nome da ragazza, avere delle proprietà e disporne a piacimento.»
Proprio come la mia ex moglie. Forse era musulmana. «Per quanto riguarda l'uso del velo, si tratta di una pratica culturale presente in alcuni paesi, che tuttavia non riflette un dettato dell'Islam.» «E la lapidazione delle adultere?» gli chiese Kate. «Anche in questo caso si tratta di una pratica culturale di alcuni paesi, non molti direi.» Guardai tra i miei opuscoli alla ricerca di un elenco di questi paesi. Voglio dire, se per caso Kate e io fossimo stati spediti in Giordania, o da qualche altra parte, e ci avessero beccato in una stanza d'albergo a fare gli sporcaccioni? Sarei tornato a casa da solo? Ma non trovai l'elenco e preferii non chiederlo al professor Abdallah. Ben era sicuramente una persona piacevole, educata, esperta e sincera, ma io non riuscivo a liberarmi dall'impressione di essere capitato dentro uno di quegli specchi deformanti. Come se non bastasse, in quel momento tutto veniva registrato, forse addirittura videoregistrato, dai ragazzi in blu. Quel posto era davvero una gabbia di matti. E poi, diciamo la verità, anche se forse quella lezione sull'Islam aveva una sua ragion d'essere, io restavo dell'idea che per la nostra missione non c'era bisogno di mostrare tanta comprensione per l'avversario. Ve l'immaginate un generale dei paracadutisti che, alla vigilia dello sbarco in Normandia, dice ai suoi: "Allora, ragazzi, vi raccomando di leggere bene Goethe e Schiller e non dimenticate che domani sera all'hangar 12 si tiene un concerto di Wagner, presenza obbligatoria. Stasera in mensa serviranno wurstel e crauti, Guten Appetit"? Ma il professor Abdallah la pensava diversamente. «Per mettere le mani su questo Asad Khalil» proseguì «bisogna prima capirlo. A cominciare dal suo nome, Asad, che significa Leone. Nell'Islam il nome non è soltanto una convenzione, è anche pars definiens dell'individuo, definisce cioè chi lo porta, anche se a volte solo in parte. Molti uomini e donne dei paesi islamici cercano di incarnare ciò che il loro nome rappresenta.» «Questo significa che dovremmo cominciare a cercare nei giardini zoologici?» chiesi. Ben trovò la domanda divertente e si fece una risatina, stando al gioco. «Dovremmo cercare un uomo al quale piace uccidere le zebre.» Mi fissò. «Al quale piace uccidere.» Tutti rimasero in silenzio e lui proseguì. «I libici sono un popolo isolato, una nazione isolata anche dagli altri paesi islamici. Agli occhi di molti di loro, Muammar Gheddafi è dotato di poteri quasi mistici, e se Asad Khalil,
come riteniamo, lavora per i servizi di sicurezza libici, significa che è alle dirette dipendenze di Gheddafi. La missione che gli è stata affidata è sacra e lui la porterà a termine con zelo religioso.» Ci lasciò brevemente a riflettere, poi proseguì. «I palestinesi, per esempio, sono più pragmatici, più politici, hanno un unico nemico che è Israele. Iraniani e iracheni hanno perso la fiducia nei loro leader. I libici, al contrario, idolatrano Gheddafi e gli obbediscono nonostante abbia cambiato spesso linea politica e nemici. Se siamo in presenza di un'operazione libica, non sono ben chiare le sue finalità. Gheddafi, a parte i suoi discorsi antiamericani, non è stato molto attivo in ambito terroristico dal 1988: da quando cioè, per vendicarsi del bombardamento americano sulla Libia, ha fatto abbattere il volo 103 della Pan American su Lockerbie, in Scozia. In altri termini, Gheddafi considera chiuso il suo conto di sangue con gli Stati Uniti, il suo onore è stato salvato, la figlioletta adottiva uccisa nel bombardamento è stata vendicata. Non capisco perciò per quale motivo abbia voluto riaprire questo contenzioso.» Nemmeno noi lo capivamo e quindi rimanemmo in silenzio. «In Libia, comunque, c'è un'espressione simile al detto francese "La vendetta è un piatto che va gustato freddo": non so se rendo l'idea. Dunque, è probabile che Gheddafi consideri non ancora regolato qualche vecchio conto e, se esaminate i motivi per cui ha deciso di spedire Asad Khalil in America, potreste capire perché ha fatto quel che ha fatto e se la faida si è conclusa o meno.» «La faida è appena cominciata» disse Kate. Il professor Abdallah scosse il capo. «È cominciata tanto tempo fa e, come ogni faida, finirà quando rimarrà in piedi soltanto uno dei contendenti.» Questo significava probabilmente che il mio lavoro era assicurato finché non mi avessero fatto secco. «Forse è una faida personale di Khalil, non di Gheddafi» azzardai. «E chi lo sa?» rispose Ben. «Trovi Khalil e sarà lieto di risponderle. E, anche se non lo troverà, sono certo che lui alla fine spiegherà perché ha fatto ciò che ha fatto, per lui è importante che si sappia.» Il professore si alzò distribuendo a ciascuno di noi il proprio biglietto da visita. «Se avete bisogno di me, chiamatemi pure, non vi fate scrupoli. Posso anche fare un salto a New York, se necessario.» Uscì dalla stanza e subito dopo rientrarono Jim e Jane, evidentemente
non erano stati presi in ostaggio dal professore. Con loro c'era un'altra coppia, un ragazzo e una ragazza di nome Bob e Jean, o qualcosa di molto simile. Esaminammo con loro le probabili mosse successive di Khalil e scoprii con piacere che la mia teoria cominciava a trovare qualche seguace. «Secondo noi» disse Bob «le azioni terroristiche attribuite a Khalil in Europa hanno fatto da preludio al suo arrivo in America. Avrete notato che sono stati colpiti solo obiettivi inglesi e americani e, inoltre, che gli attentati non sono stati rivendicati né da Khalil né da qualche organizzazione, che non è stata fatta alcuna richiesta né data alcuna spiegazione. Tutto ciò sembra compatibile con il profilo psicologico di un uomo che ha motivi privati, personali di odio, e non di chi persegue un obiettivo religioso o politico. E questo odio vuole renderlo pubblico.» Bob mise a confronto Khalil con alcuni bombaroli americani che in passato se l'erano presa con il vecchio datore di lavoro o con la tecnologia o con chi avvelenava l'ambiente e così via. «Chi compie certi gesti non si considera uno strumento del male» spiegò «ma al contrario ritiene assolutamente corretto e giustificato sul piano morale ciò che fa. In alcune foto scattate all'ambasciata, che non vi abbiamo mostrato, si vede Khalil pregare prono sul pavimento in direzione della Mecca. Si tratta dunque di un individuo religioso, capace però di ignorare al momento opportuno quella norma della sua religione che proibisce di uccidere gli innocenti. Con ogni probabilità Asad Khalil si considera impegnato in una jihad, una guerra santa, e quindi per lui il fine giustifica i mezzi.» A quel punto Bob mise in relazione la strage all'aeroporto con il raid americano sulla Libia del 1986, dal momento che entrambi erano avvenuti il 15 aprile. «Per questo, a parte ogni altra considerazione, riteniamo che Khalil sia un libico che lavori per, o con, i libici. Ma non dimenticate che, anche se l'attentato al World Trade Center è avvenuto nel secondo anniversario della nostra liberazione del Kuwait dagli invasori iracheni, gli autori erano quasi tutti palestinesi, e non iracheni. Dobbiamo allora pensare a fenomeni di panarabismo. Le nazioni islamiche sono separate da profonde differenze, ma il collante tra i vari movimenti estremistici è rappresentato dall'odio per l'America e Israele. La data del 15 aprile è un indizio per capire chi c'era dietro l'attentato di ieri, ma non una prova.» Il ragionamento filava. Ma se qualcosa assomiglia a una papera, si muove come una papera e starnazza come una papera, ci sono ottime probabilità che sia una papera. Comunque, meglio lasciare il campo aperto a tutte le ipotesi.
Decisi d'intervenire. «Mi scusi, le vittime di Khalil avevano qualcosa in comune tra di loro?» «No. Non è ancora chiaro, perlomeno. I passeggeri del volo TransContinental, ovviamente, avevano in comune soltanto la destinazione. Ma un terrorista sveglio può colpire qualche falso obiettivo per distogliere l'attenzione da quello vero. In America è già avvenuto che esplodessero ordigni dove meno ce l'aspettavamo.» Io non ne ero altrettanto certo. «Abbiamo contattato un certo numero di servizi di sicurezza stranieri» proseguì Bob «chiedendo se avessero qualcosa su Khalil e accompagnando la richiesta con le sue foto e impronte digitali. Finora, però, non siamo approdati a nulla di nuovo rispetto a quanto avete letto nel dossier. Quest'uomo sembra non avere alcun rapporto con i movimenti terroristici conosciuti, qui o all'estero. È una specie di lupo solitario, insomma, ma quel che ha fatto non può averlo fatto da solo. E questo ci fa pensare che sia agli ordini dei servizi libici, che hanno tra i loro autorevoli consulenti alcuni elementi del vecchio Kgb. I libici lo hanno addestrato, finanziato, mandato a colpire in Europa per vedere cosa sapeva fare e alla fine hanno messo a punto un piano, seguendo il quale Khalil si sarebbe dovuto consegnare alla nostra ambasciata di Parigi. Come sapete, nel febbraio scorso un altro libico si era consegnato alla stessa ambasciata per una specie di prova generale, almeno così riteniamo.» «L'Attf ve l'aveva spedito qui a Washington» gli ricordò Jack Koenig «ma qualcuno se l'è lasciato scappare.» «Non ho una conoscenza diretta di questo episodio, ma in effetti è andata così.» Jack insistette. «Se quello di febbraio non fosse scomparso, forse quello di aprile, cioè Khalil, non sarebbe arrivato facendo trecento morti su un aereo.» «È vero. Ma posso assicurarle che in un modo o nell'altro sarebbe arrivato lo stesso.» «Non si sa più niente del primo disertore? Se riuscissimo in qualche modo a rintracciarlo...» «È morto. La polizia del Maryland ha trovato un cadavere carbonizzato e parzialmente decomposto in un bosco nei pressi di Silver Springs. Non aveva documenti né abiti, la faccia e le impronte digitali erano state bruciate. La polizia locale ha chiamato l'Ufficio persone scomparse dell'Fbi, e lì sapevano che la Sezione antiterrorismo era alla ricerca di un disertore che
aveva fatto perdere le tracce. E, anche se i tatuaggi che gli avevano fatto a Parigi erano stati cancellati dalle fiamme, i calchi dentali presi all'ambasciata coincidevano con quelli della vittima.» «Nessuno mi ha informato» disse Koenig dopo una lunga pausa. «Può rivolgersi al nostro vicedirettore delegato all'Antiterrorismo.» «Grazie.» Bob si avviò alla conclusione. «Nel frattempo, sia qui sia in Europa, abbiamo a disposizione dei disertori libici, autentici questi, e stiamo chiedendo loro tutto ciò che sanno sul conto di Asad Khalil. La Libia ha appena cinque milioni di abitanti, quindi potrebbe uscir fuori qualcosa sul nostro uomo, sempre che il suo cognome sia veramente Khalil. Finora non è emerso nulla, né dai disertori né dagli ambienti degli immigrati. Sappiamo comunque che un certo Karim Khalil, capitano dell'esercito libico, fu ucciso a Parigi nel 1981. Secondo la Sûreté, a ucciderlo sono stati i suoi connazionali, anche se i servizi libici hanno tentato di attribuire il delitto al Mossad. I francesi hanno saputo che la moglie di questo Khalil, Faridah, era l'amante di Gheddafi, che quindi l'avrebbe fatto uccidere per sbarazzarsene.» Bob sorrise. «Devo sottolineare comunque che questa ipotesi viene dai francesi. Cherchez la femme.» Ridemmo. Non pensano ad altro, questi francesi! «Ora» proseguì Bob «stiamo cercando di accertare se questo capitano Khalil fosse parente del nostro uomo, che ha l'età giusta per poter essere il figlio o il nipote. Ma, anche se stabilissimo un rapporto di parentela, non credo che le indagini potrebbero trarne giovamento.» «Perché non contattiamo i media» proposi «chiedendo loro di accennare a questa faccenda della relazione tra Gheddafi e Mrs Khalil, aggiungendo l'ipotesi che il colonnello potrebbe essersi sbarazzato del capitano per non avere scocciature? Se Asad è veramente il figlio, leggendo o ascoltando questa notizia potrebbe tornare a casa e uccidere Gheddafi, l'assassino del padre. Un vero arabo certi conti li regolerebbe così, vi pare? Non sarebbe fantastico?» Bob ci rifletté un attimo, poi si schiarì la voce. «Ne parlerò a chi di dovere.» Ted Nash, come immaginavo, colse la palla al balzo. «Niente male, come idea.» Bob non era evidentemente abituato a questo modo di ragionare. «Stabiliamo prima se esiste un vincolo di parentela» disse «perché un'operazione psicologica del genere potrebbe rivelarsi un'arma a doppio taglio. La met-
terò comunque all'ordine del giorno della prossima riunione dell'Antiterrorismo.» Prese la parola Jean, presentandosi però con un altro nome. «In questa indagine» ci informò «ho il compito di analizzare tutte le altre indagini aperte in Europa nelle quali è coinvolto Khalil. Non vogliamo sovrapporci al lavoro della Cia» e spostò lo sguardo sul superagente Nash «ma ora che Khalil è qui da noi, o quantomeno lo è stato, l'Fbi ha bisogno di documentarsi a fondo sulle sue attività all'estero.» Da sospetto terrorista, insomma, Asad Khalil si era trasformato nel terrorista più ricercato al mondo dai tempi di Carlos lo Sciacallo. Era arrivato il Leone, e sicuramente doveva essere lusingato, eccitato dall'attenzione che gli stavamo dedicando. Ciò che aveva fatto in Europa, anche se orribile, non bastava comunque a promuoverlo a stella di prima grandezza, a dedicargli titoloni sui giornali. Il pubblico americano ignorava il suo nome, perché la stampa aveva pubblicato soltanto le cronache delle sue azioni; e l'unica a far inorridire i lettori, a quanto ricordavo, era stata il massacro dei tre bambini americani in Belgio. Potevamo star certi che, appena l'opinione pubblica fosse stata informata della strage sul jumbo con esattezza e dovizia di particolari, la foto di Khalil sarebbe apparsa su tutti i giornali, rendendogli dura la vita fuori dalla Libia. Per questo molti pensavano che fosse già rimpatriato; secondo me, invece, non vedeva l'ora di batterci al suo gioco, e per giunta in casa nostra. «Resteremo in stretto contatto con l'Attf a New York» concluse Jean «scambiandoci qualsiasi tipo d'informazione. Nel nostro mestiere l'informazione vale oro, perché tutti la cercano e nessuno vuole spartirla con gli altri. Diciamo allora che non ce le divideremo, queste informazioni, ma di volta in volta ciascuno ne prenderà una in prestito dagli altri e alla fine faremo i conti del dare e dell'avere.» Non resistei alla tentazione di una battuta. «Può stare certa, signora, che se troveremo il cadavere di Asad Khalil in un bosco di Central Park, ve ne informeremo immediatamente.» Ted Nash rise. Cominciava a piacermi, quel tipo. Nel nostro giro avevamo più in comune io e lui dei tipi precisini e pulitini che lavoravano in quel palazzo. Un pensiero deprimente, comunque, devo ammetterlo. «Ci sono domande?» chiese Bob. «Dov'è che bazzicano quelli di X-Files?» chiesi. «Piantala, Corey» mi ordinò Koenig. «Sì, signore.»
Erano quasi le 6 e pensai che la trasferta a Washington si fosse conclusa, visto che non ci avevano detto di portarci gli spazzolini da denti. E invece no, perché ci trasferimmo in un'altra sala riunioni con al centro un tavolo grande quanto un campo di football. Dentro la sala vagavano una trentina di persone, molte delle quali avevamo già visto durante il nostro calvario. Il vicedirettore con delega all'Antiterrorismo fece la sua apparizione, ci gratificò di un sermone di cinque minuti e ascese al cielo, o nei dintorni. Passammo in quella sala quasi due ore, ripetendo in pratica quanto ci eravamo detti nelle dieci precedenti, scambiandoci pepite d'oro, formulando piani d'attacco e così via. A ciascuno di noi fu consegnato un voluminoso dossier contenente foto, nomi e numeri di telefono di informatori, perfino una specie di verbale di tutto ciò che era stato detto, accuratamente registrato, dattiloscritto e editato con il passare delle ore. Un'organizzazione con i fiocchi, niente da dire. Kate fu così gentile da infilare le mie carte nella sua borsa, che si gonfiò vistosamente. «Non dimenticare mai di portarti una borsa» mi consigliò «il prezzo lo puoi detrarre dalle tasse.» La grande riunione terminò e uscimmo in corridoio a scambiarci le impressioni. Mi sembrava già di respirare l'aria di Pennsylvania Avenue. Auto, aeroporto, shuttle delle 21, arrivo al La Guardia alle 22, a casa prima del telegiornale delle 23. Mi venne in mente che avevo in frigo degli avanzi di cucina cinese e cercai di ricordarmi che età avessero. In quel momento un tipo vestito di blu, che si chiamava Bob o Bill, ci chiese se volevamo seguirlo nell'ufficio del vicedirettore. Era il proverbiale filo di paglia che spezzava la schiena del proverbiale cammello. «No» risposi. Ma l'opzione "no" non era prevista. L'unico aspetto positivo fu la mancata estensione a Ted Nash di quell'invito nel sancta sanctorum, ma lui apparentemente non se la prese. «Stasera devo essere a Langley» ci fece sapere. Ci abbracciammo promettendoci di scriverci e tenerci in contatto, e ci separammo lanciandoci bacini. A Dio piacendo, non l'avrei più rivisto, Ted Nash. Seguimmo la nostra guida in un ascensore che ci portò al settimo piano e fummo fatti entrare in un grande ufficio con le pareti rivestite di boiserie e un'enorme scrivania dietro la quale sedeva il vicedirettore delle Operazioni antiterrorismo. Il sole era già tramontato e l'unica fonte di luce era costituita dalla lam-
pada schermata di verde sulla scrivania, con la conseguenza che nessuno riusciva a distinguere il viso degli altri. Mi sembrava di trovarmi in uno di quei film di mafia, nella scena in cui il Don della situazione decide chi deve essere fatto fuori. Ci stringemmo comunque le mani, anche perché almeno quelle riuscivamo a vederle, e ci sedemmo. Il vicedirettore fece una breve carrellata sull'ieri e sull'oggi, per passare poi al domani. Fu breve. «A New York l'Attf si trova in condizioni ottimali per seguire questo caso» disse «e noi non ci intrometteremo né vi manderemo qualcuno, a meno che non ce lo chiediate. Per il momento, almeno. Il mio ufficio avrà comunque la responsabilità di tutto ciò che avverrà al di fuori della vostra area, e vi terremo al corrente dei risultati delle nostre indagini. Cercheremo di lavorare a stretto contatto con la Cia, e anche di questo sarete informati. Vi consiglierei di muovervi come se Khalil si trovasse ancora a New York e, quindi, di rivoltare la città come un calzino. Attivate le fonti, tenetele sotto pressione e, se è il caso, offrite dei soldi: ho deciso di stanziare 100.000 dollari per l'acquisizione di notizie. E il Dipartimento di giustizia ha messo sulla testa di Asad Khalil una taglia di un milione di dollari, cosa che sicuramente tenterà molti suoi connazionali. Domande?» «No, signore» rispose Jack. «Bene. Ah, un'altra cosa...» Guardò prima me e poi Kate. «Pensate a un modo per attirare in trappola Khalil.» «Vuol dire che devo pensare a come trasformarmi in un'esca?» gli chiesi. «Non ho detto questo. L'idea è quella di escogitare il modo migliore per attirarlo in trappola, il sistema poi lo deciderete voi.» «John e io ne parleremo» promise Kate. «Bene.» Si alzò. «Grazie per aver rinunciato alla domenica. Jack, vorrei parlarti un attimo.» Io e Kate uscimmo, riprendemmo l'ascensore e rimanemmo nell'atrio ad aspettare Jack. Ricomparve dopo una decina di minuti. «Stanotte rimango qui» ci informò. «Voi tornatevene a New York, ci vediamo domattina. Informate George, mi raccomando. Io convocherò le squadre per aggiornare tutti sulla situazione, poi sentirò cos'hanno da dirmi e quindi decideremo come muoverci.» «John e io passeremo stasera a Federal Plaza per vedere se ci sono novità» disse Kate.
"Che cosa?" «Bene, ma non sprecate energie perché la corsa sarà lunga e, come ha detto Mr Corey, chi arriva secondo è il primo dei perdenti.» Ci guardò. «Vi siete comportati molto bene, oggi.» Poi si rivolse a me. «Spero che la tua opinione sull'Fbi sia migliorata.» «Decisamente, splendido gruppo di ragazzi e ragazze. Anzi, di donne, scusate. Se ho ancora qualche riserva, è su Ben.» «Ben è okay, piuttosto è Ted che va tenuto d'occhio.» "Oh, mio Dio!" Scesi con Kate nel garage dove ci aspettava un'auto per portarci all'aeroporto. «Come mi sono comportato?» le chiesi appena l'auto si mise in movimento. «Borderline.» «Pensavo di essere andato bene.» «Spaventosamente.» «Sto tentando, credimi.» «È quello che ho detto.» 33 BENVENUTI IN SOUTH CAROLINA - LO STATO DELLA PALMA NANA, lesse Asad Khalil su un cartello stradale. Non aveva idea di cosa fosse esattamente una palma nana, ma conosceva benissimo il significato del cartello successivo: GUIDATE CON PRUDENZA - CONTROLLI DI POLIZIA. L'orologio del cruscotto segnava le 16.10, il termometro 25 gradi. Accese la radio, cambiando frequenza finché non trovò un notiziario. Per venti minuti ascoltò notizie di stupri, rapine, omicidi, poi di politica ed esteri, e finalmente il conduttore affrontò l'argomento che gli stava a cuore. «Il National Transportation Safety Board e la Federal Aviation Administration hanno diramato un comunicato sul tragico incidente avvenuto all'aeroporto John F. Kennedy di New York. Purtroppo non ci sono sopravvissuti alla tragedia. Le autorità federali non hanno ancora potuto accertare se i piloti siano riusciti a portare l'aereo a terra prima di soccombere ai gas venefici o se abbiano programmato l'atterraggio al computer appena resisi conto di ciò che stava accadendo. Non è dato sapere se esista una registrazione delle comunicazioni radio dei piloti, che una fonte ufficiale non ancora identificata ha definito eroi per aver saputo far atterrare l'aereo senza
mettere in pericolo altre vite umane nell'aeroporto o nei dintorni. A provocare la tragedia, si legge nel comunicato, è stato un incidente le cui cause sono ancora in via d'accertamento. È ufficiale, ripetiamo, non ci sono sopravvissuti a bordo del volo Trans-Continental 175 da Parigi e il bilancio totale è di 314 vittime, compresi i membri dell'equipaggio. Vi aggiorneremo nei prossimi notiziari.» Spense la radio. A quell'ora, grazie alla loro tecnologia avanzata, le autorità dovevano senz'altro aver stabilito con esattezza cos'era accaduto a bordo dell'aereo, e Khalil si chiese perché esitassero a rendere noti i particolari. Probabilmente le cause di quella reticenza andavano ricercate nell'orgoglio nazionale oltre che nella tendenza, comune a tutti i servizi di sicurezza, a nascondere i propri errori. In ogni caso, se non parlavano ancora di attentato terroristico, la sua foto non era apparsa in televisione o sui giornali. Avrebbe potuto forse risparmiare del tempo per andare dal Kennedy a Washington e da lì in Florida; ma, anche se il sistema scelto non era il più veloce, era decisamente il più sicuro. A Tripoli avevano esaminato tutti i mezzi di trasporto alternativi. Andare a Washington in aereo avrebbe significato perdere tempo per trasferirsi all'altro aeroporto di New York, chiamato La Guardia, la cui polizia nel frattempo avrebbe potuto essere stata allertata. Lo stesso rischio si sarebbe corso scegliendo il treno, perché anche in quel caso sarebbe stato necessario arrivare fino al cuore di New York, in un posto chiamato Pennsylvania Station, e attendere circa un'ora la partenza del primo treno per Washington. Dalla capitale alla Florida avrebbe potuto prendere un aereo, ma non certo di linea. Boris, a Tripoli, aveva valutato la possibilità di noleggiare un velivolo, ma alla fine quest'opzione era stata scartata perché giudicata pericolosa. "A Washington" aveva detto Boris "hanno la fissazione della sicurezza e gli abitanti sono grandi consumatori di notizie. Se la tua foto appare in Tv o sui giornali, potresti essere riconosciuto da un cittadino particolarmente attento o dallo stesso pilota. L'aereo privato servirà più tardi, Asad, quindi dovrai guidare; l'auto è il mezzo più sicuro, oltre che il migliore per acquisire familiarità con gli Stati Uniti e avere a disposizione il tempo necessario per valutare di volta in volta la situazione. Lo so che muoversi velocemente è importante, ma c'è il rischio di infilarsi in una trappola. Fidati di quello che ti dico. Ho vissuto cinque anni tra quella gente e ormai penso di conoscerla, hanno un raggio d'attenzione piuttosto limi-
tato e confondono la realtà con la fiction. Se ti riconoscono dalla foto vista in Tv, potrebbero scambiarti per una star, o per Omar Sharif, e chiederti addirittura l'autografo." La battuta aveva provocato un coro di risate, compresa quella dello stesso Boris. Il russo nutriva evidentemente un certo disprezzo per gli americani, accompagnato però da altrettanto rispetto per i servizi di sicurezza dello zio Sam e, in certi casi, per la polizia. Ma non avrebbe riso ancora per molto, Boris. Aveva anche lui i giorni contati. Khalil attraversò un lungo ponte su un lago, il Marion. Sapeva che a un'ottantina di chilometri a sud viveva William Satherwaite, ex tenente dell'Aeronautica americana oltre che assassino. Con lui aveva appuntamento il giorno dopo, ma Satherwaite ne era all'oscuro, ignorava di essere tanto vicino alla morte. Alle 19.05 vide un cartello, BENVENUTI IN GEORGIA - LO STATO DELLE PESCHE. Sapeva bene cos'erano le pesche, ma il motivo per cui uno Stato si fosse voluto identificare con un frutto restava per lui un mistero. Gli rimaneva meno di un quarto di serbatoio, e si chiese se fosse il caso di fare il pieno subito o attendere che calasse l'oscurità. Decise di aspettare, quando si accorse che, avvicinandosi a Savannah, il traffico era aumentato, quindi le stazioni di servizio sarebbero state tutt'altro che deserte. Alle 19.30, però, il livello della benzina cominciava a essere pericolosamente basso e sull'autostrada non erano annunciate uscite. Finalmente ne apparve una, Khalil imboccò la rampa e alla fine si accorse che c'era una sola stazione di servizio, per giunta chiusa. Proseguì verso ovest su una provinciale e arrivò in un paese, Cox, lo stesso nome del pilota morto nella guerra del Golfo. Khalil considerò quell'omonimia un presagio, ma non sapeva se fausto o infausto. Il paesino sembrava deserto, ma per fortuna proprio ai suoi margini vide l'insegna accesa di un distributore e vi entrò, poi si mise gli occhiali e scese. Faceva un caldo umido e una miriade di insetti svolazzava davanti alla luce artificiale delle pompe. Decise di usare la carta di credito direttamente all'impianto, ma scoprì che non era un distributore self-service, e le pompe erano più antiquate di quelle che aveva usato fino a quel momento. Era incerto sul da farsi quando dall'ufficio uscì un uomo alto e magro in jeans e camicia marrone. «Posso aiutarla, amico?» gli chiese il benzinaio.
«Devo fare rifornimento» rispose, ricordandosi di sorridere. Quello lo guardò, poi spostò lo sguardo sulla Mercury e la targa, infine lo riportò sul cliente. «Cosa le serve?» «Benzina.» «Ah sì? E che tipo?» «Ad alto numero di ottani, per favore.» L'uomo staccò il tubo dalla colonnina e infilò la pistola nel serbatoio. BGialil si rese conto che sarebbe dovuto rimanere accanto a lui per tutto il tempo, rischiando che il proprio viso rimanesse impresso nella memoria del benzinaio. «Dov'è diretto?» si sentì chiedere. «In un posto di mare a Jekyll Island.» «Non mi dica.» «Come?» «Non mi sembra vestito da Jekyll Island.» «Vengo da una riunione di lavoro ad Atlanta.» «Che tipo di lavoro?» «Sono un banchiere.» «In effetti è vestito da banchiere.» «Proprio così.» «Di dov'è?» «New York.» L'uomo rise. «Non ha l'aria di un maledetto yankee.» Khalil cominciava a seguirlo con una certa difficoltà. «Non sono un giocatore di baseball.» Il benzinaio rise nuovamente. «Buona, questa. Se avesse un vestito a righe come la divisa degli Yankees, potrebbe essere un banchiere che gioca a baseball.» Khalil sorrise. «Ma lei non è di New York» tornò alla carica quello. «No, sono della Sardegna.» «E dove diavolo si trova?» «È un'isola del Mediterraneo.» «Se lo dice lei... È venuto sulla Interstate 95?» «Sì.» «La stazione di servizio Philips era chiusa?» «Sì.» «L'immaginavo, quello scemo fallirà se continuerà a chiudere così pre-
sto. Molto traffico sulla 95?» «Non molto.» Il benzinaio finì di fare il pieno. «Era quasi a secco» osservò. «Sì.» «Controlliamo l'olio?» «No, grazie.» «Paga in contanti o con carta di credito? Preferirei in contanti.» «D'accordo.» Tirò fuori di tasca il portafogli. Il benzinaio strizzò gli occhi per leggere a quella debole luce la cifra indicata sulla pompa. «Ventinove e ottantacinque basteranno.» Khalil gli dette due banconote da 20. «Vado a prendere il resto. Torno subito, non si allontani.» Si voltò dirigendosi verso l'ufficio e Khalil si accorse che l'uomo aveva sulla schiena una fondina attaccata alla cintura. Allora lo seguì. «Ha qualcosa da mangiare o da bere?» gli chiese dopo averlo raggiunto. Il benzinaio aprì il registratore di cassa. «Fuori troverà la macchina della Coca e alle sue spalle c'è un distributore di snack e merendine. Le servono spicci?» «Sì.» Gli diede il resto in diverse monete da un quarto di dollaro, che Khalil intascò. «Lo sa come arrivare a Jekyll Island?» gli chiese poi. «Sì, mi sono fatto dare le indicazioni e ho una carta.» «E dove passerà la notte?» «Holiday Inn.» «Non sapevo che a Jekyll ci fosse un Holiday Inn.» Rimasero entrambi in silenzio, poi Khalil si voltò, andò alla macchinetta e infilò nella fessura due monete da 25 cent. Tirò una leva, e un pacchetto di noccioline salate cadde nell'apertura in basso. Allora infilò nuovamente la mano in tasca. Sul distributore era fissato uno specchietto, proprio all'altezza degli occhi, e Khalil si accorse che l'uomo stava portando la mano destra dietro la schiena. Allora estrasse la Glock, si voltò di scatto ed esplose un colpo che raggiunse l'uomo in mezzo agli occhi, mandando in frantumi la vetrata alle sue spalle. Il benzinaio piegò le ginocchia e cadde a faccia in giù. Khalil gli tolse come prima cosa il portafogli, nel quale trovò un distintivo con la scritta DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI COX - AGENTE
AUSILIARIO. Maledicendo la propria sfortuna, tirò fuori dal portafogli i soldi e prese anche quelli della cassa, in tutto un centinaio di dollari. Si infilò in tasca anche il bossolo calibro 40. In Libia gli avevano detto che quel calibro era usato soprattutto dai federali, quindi non era il caso di lasciare in giro tracce compromettenti. Notò una porta semiaperta, era quella del gabinetto. Allora afferrò il cadavere per una caviglia e lo trascinò dentro, poi urinò senza tirare lo sciacquone e uscì richiudendo la porta. "Buona giornata." Sul banco vide un giornale e lo stese sulla piccola pozza di sangue che si era formata sul pavimento. Poi trovò il quadro degli interruttori e li spense tutti, immergendo la stazione di servizio nell'oscurità. Uscì, infilò tre monete da un quarto nella macchina delle bibite scegliendo una Fanta, riprese la Mercury e puntò di nuovo sulla Interstate 95. 34 Non avremmo fatto in tempo a prendere lo shuttle US Airways delle 21, quindi prendemmo il Delta delle 21.30 per il La Guardia. L'aereo era mezzo pieno, se siete ottimisti, o mezzo vuoto, se avete azioni della Delta. Il 727 decollò e passai il tempo ad ammirare Washington dall'alto. Tutti i monumenti e le sedi istituzionali, come il Campidoglio, la Casa Bianca, il monumento a Washington e il Lincoln e Jefferson Memorial, erano illuminati. Non riuscii a localizzare il J. Edgar Hoover Building, ma quel posto mi era rimasto in testa. «Ci vuole un po' ad abituarsi» dissi a Kate. «Nel senso che l'Fbi deve abituarsi a te?» Ridacchiai. Si avvicinò la hostess, conosciuta anche come assistente di volo. Aveva letto sul brogliaccio che eravamo federali e quindi non ci offrì alcolici ma chiese se volevamo una bibita. «Acqua minerale, grazie» rispose Kate. «E per lei, signore?» «Uno scotch, doppio. Non riesco a volare con un'ala sola.» «Mi spiace, Mr Corey, ma è vietato servire alcolici agli agenti armati.» Avevo atteso quel momento tutto il giorno. «Non sono armato» le dissi. «Può controllare sul brogliaccio o, se preferisce, può perquisirmi nella toilette.» Lei non sembrava intenzionata ad accompagnarmi alla toilette, quindi abbassò lo sguardo sul foglio. «Ah... effettivamente...»
«Preferisco bere invece di girare armato.» Sorrise e posò sul mio vassoio due mignon di scotch con un bicchiere di plastica pieno di ghiaccio. «Offre la casa.» «Semmai offre l'aereo.» «Come crede.» Quando si allontanò, offrii uno degli scotch a Kate. «Non posso.» «Dai, non fare la virtuosa. Beviti uno scotch.» «Non cercare di corrompermi, Mr Corey.» «Odio fare il corrotto da solo. Mentre bevi, la pistola te la tengo io.» «Piantala.» Bevve la sua acqua. Versai il contenuto dei due mignon nel bicchiere con il ghiaccio e mandai giù un sorso. «Ahhh... ottimo.» «Vaffanculo.» Che stile! Rimanemmo per un po' in silenzio e a un certo punto fu lei a romperlo. «Hai spiegato alla tua amica di Long Island perché non sei più andato a trovarla?» Era una domanda impegnativa, quindi prima di rispondere presi tempo. John Corey è leale con gli amici e con le amanti, ma alla base dell'onestà deve esserci la reciprocità. E Beth Penrose, nonostante l'interesse che provava per il sottoscritto, fino a quel momento non aveva dato grandi dimostrazioni di lealtà. Credo che si aspettasse da me quello che le signore chiamano impegno, e solo dopo sarebbe stata onesta. Ma gli uomini vogliono prima vedere l'onestà e poi decidono se impegnarsi o no. Due modi diametralmente opposti di intendere le cose, è evidente. Il punto è che un simile rapporto può stare in piedi solo a patto che uno dei due cambi sesso. Mi chiesi comunque perché Kate mi avesse fatto quella domanda, anzi non me lo chiesi affatto. «Le ho lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica» risposi alla fine. «È un tipo comprensivo?» «No, ma fa il poliziotto e queste cose le capisce.» «Meglio così. Ho paura che dovrà passare molto tempo prima che ti diano una serata di libertà.» «Glielo spiegherò con una e-mail.» «Quando è esploso l'aereo della Twa, all'Attf si è lavorato ventiquattr'ore al giorno, sette giorni la settimana.» «E quello non era stato nemmeno un attentato» le feci notare.
Non rispose. Nessuno del nostro giro risponde a domande sull'affare Twa, e tante domande erano ancora senza risposta. Nell'affare TransContinental, se non altro, sapevamo chi, cosa, dove, come e quando. Non eravamo sicuri né del perché né di quale sarebbe stata la prossima mossa, ma l'avremmo scoperto quanto prima. «Cos'è successo al tuo matrimonio?» mi chiese. Non mi sembravano domande innocenti, le sue. Ma se credete che il mestiere di detective insegni a capire la logica femminile, fareste bene a ripensarci. Nelle domande di Kate Mayfield, comunque, non c'era soltanto curiosità. «Era avvocato» risposi. Tacque alcuni secondi. «Per questo non ha funzionato?» chiese poi. «Sì.» «Ma prima di sposarti non lo sapevi che era avvocato?» «Pensavo di convincerla a emendarsi.» Kate rise. Ora toccava a me. «Sei mai stata sposata?» «No.» «Perché no?» «È una domanda un po' troppo personale.» Pensavo che stessimo facendo il gioco delle domande personali, evidentemente le regole valevano solo se ero io a dover rispondere. Mi rifiutai di continuare a giocare e trovai una rivista della Delta nella tasca del sedile davanti al mio. «Ho girato molto» disse. Mi studiai le rotte della flotta Delta. Forse, alla fine di quella storia, avrei dovuto fare un viaggio a Roma, vedere il papa. Notai che la Delta non andava in Libia. Pensai agli equipaggi del raid sulla Libia nel 1986, partiti con i loro piccoli caccia dall'Inghilterra e costretti ad aggirare la Francia e la Spagna per poi attraversare il Mediterraneo. Cazzo, che giro! E a bordo non servivano scotch, chissà poi come avranno fatto a vuotare la vescica. «Mi hai sentito?» «No, scusami.» «Ti ho chiesto se hai figli.» «Figli? Oh no, il matrimonio non è mai stato consumato. Lei era contraria al sesso postmatrimoniale.» «Davvero? Be', per uno della tua età non deve essere stato un gran sacrificio.» Andiamo bene! «Senti, possiamo cambiare argomento?»
«Di cosa ti andrebbe di parlare?» Di niente, a dire il vero. A parte forse di Kate Mayfield, ma era un argomento pericoloso. «Forse dovremmo fare il punto su quel che abbiamo saputo oggi.» «D'accordo.» Ci scambiammo le idee su ciò che avevamo saputo tra ieri e oggi, e su ciò che avremmo fatto l'indomani. Stavamo avvicinandoci a New York e notai con piacere che la città era ancora in piedi e con le luci accese. «Vieni con me a Federal Plaza?» mi chiese durante l'atterraggio al La Guardia. «Se ti fa piacere.» «Mi fa piacere. Poi ce ne andiamo a cena.» Guardai l'orologio, segnava le 22.30, e saremmo usciti dal Federal Plaza non prima di mezzanotte. «Un po' tardi per cenare» le feci notare. «Allora andremo a bere.» «Mi sembra un'ottima idea.» L'aereo toccò terra e, mentre decelerava, mi feci la domanda che si fanno sempre gli uomini in una situazione del genere: ho captato i segnali giusti? Se mi ero sbagliato, mi sarei cacciato in guai professionali, nel caso contrario i guai sarebbero stati personali. Forse era il caso di aspettare. In altre parole, con le donne cerco di andare con i piedi di piombo. Sbarcammo e prendemmo un taxi che si diresse a Federal Plaza passando dalla Brooklyn-Queens Expressway e attraversando il ponte di Brooklyn. «Ti piace New York?» le chiesi mentre superavamo il ponte. «No. E a te?» «Naturalmente.» «E perché? È una città di pazzi.» «Washington è una città di pazzi, New York è eccentrica e interessante.» «New York è un posto di pazzi, e a volte mi pento di aver accettato questo incarico. Non piace a nessuno dell'Fbi, perché è troppo cara e l'indennità di trasferta non riesce a coprire le spese extra.» «E allora perché hai accettato l'incarico?» «Per lo stesso motivo per cui i militari accettano le missioni pericolose e si offrono volontari in prima linea: perché ti fa fare carriera. Devi lavorare almeno una volta a New York e Washington se vuoi fare strada. E poi, qui succedono le cose più bizzarre e incredibili. Puoi girare tutti i cinquanta-
cinque uffici dell'Fbi sparsi per l'America e ti rimarranno storie di New York da raccontare finché campi.» «Secondo me, la cattiva reputazione di New York è immeritata. Io sono di New York, guardami, ti sembro strano?» Non afferrai la sua risposta, forse perché il tassista stava urlando contro un pedone che a sua volta urlava contro il tassista. Ma parlavano due lingue diverse, quindi lo scambio di invettive si esaurì in fretta. Arrivati a Federal Plaza, fu lei a pagare la corsa. Passammo dall'entrata notturna, sul lato sud, e Kate aprì il portone digitando il codice sulla tastiera. Per l'ascensore usammo le sue chiavi e salimmo al ventisettesimo piano. In servizio c'erano ancora una dozzina di persone dall'aria stanca, infelice e preoccupata. I telefoni squillavano, i fax sibilavano e la voce idiota di un computer annunciava: «C'è posta per te». Kate scambiò qualche parola con tutti, poi andò ad ascoltare i messaggi sulla segreteria telefonica e a leggere la posta elettronica, diede un'occhiata agli ordini di servizio e così via. Su una e-mail di George Foster si leggeva: "Koenig convoca riunione domattina alle 8, 28° piano". Incredibile, da Washington Koenig aveva organizzato una riunione a New York per l'indomani mattina alle 8. Quella gente era instancabile, oppure si cacava addosso dalla paura. Forse la seconda ipotesi era quella giusta, ma in entrambi i casi avrei dormito poco. «Vuoi dare un'occhiata alla tua scrivania?» mi chiese Kate. La mia scrivania era in uno dei tanti cubicoli al piano inferiore, e sicuramente non vi avrei trovato nulla di più di ciò che aveva trovato Kate. «Le darò un'occhiata domattina alle 5, appena arrivato.» Lei continuò ad affaccendarsi per un po' e cominciai a sentirmi inutile. «Me ne torno a casa» le dissi. Posò sulla scrivania quel che stava leggendo. «No, ora mi offri da bere. Vuoi le tue carte che sono nella mia borsa?» «Le prenderò domani.» «Allora potremmo dargli un'occhiata più tardi.» Sembrava un invito a passare una lunga notte insieme. «D'accordo» dissi, dopo una breve esitazione. Poggiò la borsa sotto la scrivania e uscimmo. Le strade erano buie e nuovamente silenziose, e io ero disarmato. Non che abbia bisogno della pistola per sentirmi tranquillo, anche perché New York è ormai diventata una città sicura, ma è sempre meglio avere addosso un'arma se sospetti di essere nel mirino di un terrorista. Kate comunque era armata. «Facciamo
due passi» le proposi. La domenica sera è quasi tutto chiuso, anche nella città che non dorme mai, ma a Chinatown qualcosa si trova sempre, e mi ci diressi. Non camminavamo proprio sottobraccio, ma Kate mi stava il più vicino possibile, così di tanto in tanto le nostre spalle si sfioravano e, parlando, lei mi toccava a volte un braccio o una spalla. Le piacevo, era evidente, oppure era soltanto un po' smaniosa di sesso. Non mi va che le donne smaniose di sesso si approfittino di me, ma succede. Trovammo un posto che conoscevo a Chinatown, il Nuovo Drago. Anni prima, mentre mangiavo un boccone con alcuni colleghi, avevo chiesto al proprietario, Mr Chung, che fine avesse fatto il Vecchio Drago. «Ve lo state mangiando in questo momento» ci confidò, poi era scoppiato a ridere come uno scemo ed era corso in cucina. Il bar del ristorante era pieno di gente e di fumo. Trovammo un tavolo libero e ci sedemmo, gli altri clienti avevano l'aria di quelli che passano la sera a vedere vecchi film di Bruce Lee, in originale e senza sottotitoli. Kate si guardò attorno. «Lo conoscevi, questo posto?» «Ci venivo ogni tanto, un tempo.» «Parlano tutti cinese.» «Io no. E nemmeno tu.» «Tutti gli altri.» «Secondo me sono cinesi.» «Sei veramente furbo, sai?» «Grazie.» Arrivò una cameriera che non conoscevo, tutta sorrisi ed efficienza, e ci informò che la cucina era ancora aperta. Ordinai dim sum e scotch. «Che cos'è il dim sum? Vorrei una risposta diretta, senza tanti giri di parole» chiese Kate. «Una specie di antipasto... polpettine e altra roba del genere. Particolarmente indicato con lo scotch.» Lei tornò a guardarsi attorno. «Esotico, questo posto.» «Loro la pensano diversamente.» «Questa città a volte mi fa sentire proprio provinciale.» «Da quanto ci abiti?» «Otto mesi.» Arrivò il whisky, bevemmo e chiacchierammo, io ogni tanto sbadigliavo. Il secondo giro di scotch fu accompagnato dal dim sum, poi ordinai ancora da bere e i miei occhi cominciarono a incrociarsi. Kate, invece, sem-
brava sveglia e all'erta. Chiesi alla cameriera di chiamarci un taxi e pagai il conto. Uscimmo su Peli Street, faceva un freddo gradevole. «Dove abiti?» le chiesi mentre aspettavamo il taxi. «Sulla East 86a Street, dovrebbe essere una buona zona.» «Lo è senz'altro.» «Ho tenuto l'appartamento del collega che sono venuta a sostituire, l'hanno trasferito a Dallas. Ogni tanto lo sento, dice che gli manca New York ma comunque a Dallas si trova bene.» «E New York si trova bene con lui a Dallas.» Rise. «Sei divertente. George dice che hai la tipica boccaccia del newyorkese.» «A insegnarmi a parlare, veramente, è stata mia madre.» Arrivò il taxi, vi salimmo e lei diede all'autista il proprio indirizzo. Ci lasciammo alle spalle le stradine di Chinatown e la Bowery, e per i venti minuti del viaggio rimanemmo quasi sempre in silenzio. Il palazzo dove abitava Kate era un grattacielo moderno, con tanto di portiere notturno; anche l'affitto di un monolocale, come probabilmente era quello di Kate, doveva essere salato. Ma è tipico di ogni Wendy Wasp di Wichita spendere molto per abitare in un posto signorile, risparmiando su generi voluttuari come il cibo e l'abbigliamento. Scesi con lei, mentre il taxi attendeva. «Vuoi entrare?» mi chiese. I newyorkesi dicono "vuoi salire?", quelli dell'hinterland invece "vuoi entrare?". Il mio cuore ricevette comunque il messaggio e prese a galoppare, anche se mi ero già trovato in situazioni del genere. «Stanotte no. Posso avere una contromarca, come a teatro, per la prossima volta?» le chiesi fissandola. «Certo.» Sorrise. «Ci vediamo alle 5.» «Magari un po' più tardi, diciamo alle 8.» Sorrise ancora. «Buonanotte.» Si voltò e il portiere le aprì il portone salutandola. La guardai allontanarsi, poi risalii sul taxi dando all'autista il mio indirizzo sulla East 72a Street. Il tassista, un tizio con il turbante che non doveva essere delle nostre parti, parlava bene inglese. «Forse non sono affari miei» mi disse «ma credo che la signora volesse la sua compagnia.» «Ah sì?» «Sì.»
Guardai fuori dal finestrino mentre percorrevamo la Second Avenue. Strana giornata. Quella di domani sarebbe stata sicuramente sgradevole e piena di tensione, oppure non ci sarebbe stato nessun domani o dopodomani. Presi in considerazione l'idea di dire al tassista di tornare all'indirizzo di Kate, ma soprassedetti. «Lei è un genio della lampada?» gli chiesi, indicando il suo turbante. Rise. «Certo, e questo è un tappeto volante. Può esprimere tre desideri.» «Okay.» E pensai a tre desideri. «Ma se non me li dice, non posso esaudirli.» «Allora, la pace nel mondo, la pace interiore e capire le donne.» «Per i primi due non c'è problema.» Rise nuovamente. «Se riesce a farsi esaudire il terzo, mi faccia sapere.» Arrivati davanti a casa mia, pagai il genio e aggiunsi una mancia generosa. «La inviti a cena» mi consigliò lui prima di allontanarsi. Alfred era ancora in servizio, chissà perché. Non sono mai riuscito a capire gli orari di questi portieri, più sballati dei miei. «Buonasera, Mr Corey. Ha passato una buona giornata?» «Una giornata interessante, Alfred.» Salii in ascensore al dodicesimo piano, aprii la porta di casa ed entrai senza prendere alcuna precauzione. Forse speravo addirittura di beccarmi un colpo in testa, come nei film, e risvegliarmi dopo un mese. Non ascoltai la segreteria telefonica, ma mi spogliai infilandomi dritto a letto. Pensavo di essere esausto e invece mi accorsi di essere teso come una molla. Mi misi a guardare il soffitto pensando a vita e morte, amore e odio, destino e casualità, paura e coraggio, e altra roba del genere. Ripensai a Kate e Ted, Jack e George, a quei tipi in blu, al genio della lampada e infine a Nick Monti e Nancy Tate, dei quali avrei sentito la mancanza. Pensai anche a Meg, la funzionaria di servizio che non conoscevo ma della quale avrebbero sentito la mancanza familiari e amici. Pensai ad Asad Khalil, chiedendomi se sarei riuscito a mandarlo dritto all'inferno. Alla fine riuscii a addormentarmi di un sonno pieno di incubi. Giorni e notti cominciavano ad assomigliarsi. 35 Asad Khalil si trovò su una strada trafficata piena di motel, autonoleggi e fast food. Un grosso aereo stava per atterrare al vicino aeroporto.
A Tripoli gli avevano detto di cercarsi un motel nei pressi dell'aeroporto internazionale di Jacksonville, dove né il suo aspetto né la targa della Mercury avrebbero attirato l'attenzione. Vide un bell'edificio con l'insegna Sheraton, che aveva già notato in Europa, e svoltò nel parcheggio. Poi si aggiustò il nodo della cravatta, si passò le dita tra i capelli a mo' di pettine, si mise gli occhiali ed entrò. «Buongiorno» lo accolse sorridendo la ragazza al banco della reception. Ricambiò il saluto sorridendo a sua volta. Sulla hall si affacciavano diversi corridoi da uno dei quali, al di là dell'insegna BAR - RISTORANTE, giungevano musica e risate. «Vorrei una stanza per stanotte, per favore» disse alla ragazza della reception. «Sì, signore. Standard o lusso?» «Lusso.» La ragazza gli mise davanti il modulo di registrazione e una penna. «Come intende pagare, signore?» «American Express.» Estrasse il portafogli e le porse la carta di credito, poi cominciò a riempire il modulo. Boris gli aveva detto che avrebbe corso meno rischi scegliendo un albergo di un certo tono, soprattutto se avesse usato la carta di credito. Lui avrebbe preferito non lasciare tracce del proprio passaggio, ma il russo gli aveva assicurato che un uso moderato della carta di credito non avrebbe compromesso la sua missione. La donna gli diede la ricevuta dell'American Express, che lui firmò, e restituendogli la carta gli porse la chiave elettronica della stanza. «Desidera la sveglia, domattina?» «Sì. Ho un volo alle 9, quindi mi svegli alle 6.» Uscì, risalì in auto e andò a parcheggiare davanti alla stanza 119. Una volta richiusosi la porta alle spalle, ispezionò stanza, armadi e bagno, trovandoli puliti e moderni ma forse un po' troppo lussuosi per i suoi gusti. Per la sua jihad avrebbe preferito un ambiente più austero perché, come gli aveva detto un giorno un religioso, "Allah ti sentirà sia che tu lo preghi con la pancia piena dentro una moschea sia con la pancia vuota nel deserto, ma se vuoi sentire Allah, nel deserto vacci affamato". Nonostante questo consiglio, aveva fame. I suoi pasti erano stati ridotti all'essenziale sin dal giorno prima che si consegnasse all'ambasciata americana di Parigi, cioè una settimana.
Notò il menu del servizio in camera, ma poi decise di non invitare nessuno a guardarlo in faccia. Pochissimi lo avevano visto da vicino da quando era sbarcato a New York, ed erano quasi tutti morti. Nel minibar trovò una lattina di succo d'arancia, una bottiglia di plastica di acqua Vitelle, una confezione di mandorle e noccioline e una stecca di Toblerone, un cioccolato che aveva già mangiato in Europa e che gli era piaciuto. Andò a sedersi nella poltrona di fronte alla porta, tutto vestito e con le due Glock nelle tasche della giacca, e mangiò e bevve lentamente. Tornò con la mente alla sua breve permanenza nell'ambasciata a Parigi. Gli americani si erano dimostrati sospettosi ma non ostili. A interrogarlo erano stati inizialmente un ufficiale e un uomo in borghese e, il giorno dopo, altri due uomini che si erano presentati come Phil e Peter, e gli avevano spiegato di essere appena arrivati dall'America per scortarlo fino a Washington. Sapeva che avevano mentito due volte: si sarebbero diretti a New York, non a Washington, e loro due non vi sarebbero arrivati vivi. La sera prima della partenza gli avevano dato un sonnifero, come aveva previsto Boutros, e lui aveva fatto finta di non accorgersene per non insospettirli. Non sapeva esattamente cosa gli avrebbero fatto mentre dormiva, ma la cosa non aveva molta importanza. Tempo prima i servizi libici lo avevano drogato e poi interrogato, per vedere se era in grado di sopportare gli effetti delle cosiddette "droghe della verità"; e lui aveva superato la prova senza problemi. A Tripoli gli era stato anche detto che gli americani, con ogni probabilità, non lo avrebbero sottoposto alla macchina della verità a Parigi, perché quelli dell'ambasciata non vedevano l'ora di sbarazzarsene mandandolo in America. Ma se gli avessero proposto di sottoporsi al test, lui avrebbe dovuto rifiutare, esigendo di essere trasferito in America o, in caso contrario, di essere lasciato libero. Comunque, a Parigi tutto si era svolto come previsto e l'ambasciatore aveva fatto in modo di levarselo dai piedi il più in fretta possibile. "In Europa" gli aveva detto Malik "vorrebbero interrogarti i francesi, i tedeschi, gli italiani e gli inglesi. Gli americani lo sanno bene e preferiscono averti tutto per loro, quindi ti porteranno al più presto negli Stati Uniti. I casi più delicati, come il tuo, preferiscono sbrigarli a New York in modo da poter negare di custodire un disertore o una spia a Washington. Immagino ci siano altri motivi di natura psicologica, oltre che pratica, per cui ti terranno a New York, ma alla fine ti scorteranno sicuramente a Washin-
gton... e io sono certo che tu saprai arrivarci senza il loro aiuto." Tutti avevano riso a quella battuta, Malik sapeva essere convincente anche ricorrendo all'umorismo. Khalil, da parte sua, non apprezzava sempre lo spirito di Malik o di Boris, ma se le battute avevano come bersaglio gli europei o gli americani, le tollerava. "Comunque, se il nostro uomo alla Trans-Continental di Parigi ci informerà che ti stanno portando a Washington" aveva proseguito Malik "su quel volo salirà anche Haddad, il tuo compagno di viaggio che ha tanto bisogno d'ossigeno. Le procedure all'aeroporto Dulles saranno le stesse, l'aereo sarà trainato fino all'area di sicurezza e tu seguirai il piano come se fossi a New York." Malik gli aveva indicato il luogo dove lo avrebbe atteso il tassista incaricato di portarlo fino all'auto a noleggio; una volta liquidato il tassista, Khalil avrebbe pernottato in un motel per andare l'indomani mattina a trovare il generale Waycliff, prima o dopo la messa. Terminato il veloce pasto, bevve direttamente dalla bottiglia, vuotandola e infilandola poi nella borsa. Quindi accese il televisore. In attesa del telegiornale delle 23 cambiò diversi canali con il telecomando. Su uno vide due donne con il seno nudo che si scambiavano intimità dentro una piscina piena di acqua ribollente. Cambiò canale, ma tornò quasi subito al precedente, fissando come in trance le due, una bionda e l'altra bruna, che si baciavano e si accarezzavano in piedi nell'acqua calda. Apparve una terza donna, questa volta di colore. Era completamente nuda, ma una strana distorsione elettronica le nascondeva il pube mentre scendeva la scaletta per entrare in acqua. Le tre donne non si parlavano molto, notò, ma ridevano troppo spruzzandosi l'un l'altra. Gli sembrarono mezze matte, però continuò a guardarle. Una quarta donna, una rossa, scese di spalle la scaletta della piscina mettendo in mostra le natiche nude prima di immergersi in acqua. E tutte e quattro presero a strofinarsi l'una contro l'altra, a baciarsi, ad abbracciarsi. Khalil si accorse di essere eccitato e si mosse a disagio nella poltrona. Si rendeva conto che avrebbe dovuto distogliere lo sguardo, che ciò cui stava assistendo era una delle peggiori manifestazioni di decadenza occidentale, che le sacre scritture ebraiche, cristiane e musulmane consideravano quegli atti contro natura ed empi. Pure, quei gesti lascivi lo avevano terribilmente eccitato provocandogli pensieri lussuriosi e impuri. Si immaginò nudo a sua volta dentro la piscina con quelle donne.
Il sogno a occhi aperti si interruppe quando Khalil notò sull'orologio digitale che le 23 erano passate da quattro minuti. Cambiò freneticamente canale, maledicendo se stesso, la propria debolezza e le forze sataniche scatenatesi in quel paese di senzadio. Trovò finalmente un telegiornale. «Questo è l'uomo che le autorità considerano il principale sospetto nell'attentato terroristico avvenuto ieri all'aeroporto Kennedy» stava dicendo la giornalista. Sullo schermo apparve una foto a colori con la didascalia ASAD KHALIL, e lui corse a inginocchiarsi davanti al televisore per studiarla da vicino. Non l'aveva mai vista quella foto, e sospettò che gli fosse stata scattata di nascosto a Parigi mentre lo interrogavano. Il vestito era lo stesso che indossava in quel momento, e la cravatta era quella che portava a Parigi e aveva poi cambiato. «Guardate attentamente la foto» disse la giornalista «e avvertite le autorità se vedete quest'uomo. È armato e pericoloso, quindi nessuno tenti di fermarlo o bloccarlo; chiamate invece la polizia o l'Fbi a uno di questi due numeri verdi», e sullo schermo sotto la foto comparvero due numeri. «Con il primo potrete lasciare un'informazione anonima che sarà registrata, l'altro invece è quello di una linea dell'Fbi. Potrete chiamarli entrambi ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni la settimana. Il Dipartimento di giustizia ha inoltre fissato una taglia di un milione di dollari per chi darà informazioni tali da portare al fermo del sospetto.» Sullo schermo apparve un'altra foto di Asad Khalil, con un'espressione leggermente diversa; e anche quella, notò, era stata scattata a Parigi. «Ripetiamo, studiate attentamente le foto. Le autorità federali chiedono la vostra collaborazione per aiutarle a localizzare quest'uomo. Parla inglese e arabo, oltre a un po' di francese, tedesco e italiano, è un sospetto terrorista internazionale e potrebbe trovarsi attualmente negli Stati Uniti. Non disponiamo per il momento di altre informazioni sul suo conto, ma ve le daremo appena possibile.» Sullo schermo l'immagine di Asad Khalil stava fissando Asad Khalil. Tolse l'audio quando la conduttrice passò a un altro argomento, poi andò allo specchio, si mise le lenti bifocali e si osservò. Asad Khalil, il lìbico apparso in televisione, aveva capelli neri pettinati all'indietro. Hefni Badr, l'egiziano di passaggio a Jacksonville, aveva capelli grigi con la riga da una parte. L'Asad Khalil della Tv aveva occhi scuri, Hefni Badr a Jacksonville portava lenti bifocali, e il colore dei suoi occhi non era quindi facilmente ac-
certabile. L'Asad BChalil della Tv non aveva barba o baffi, Hefni Badr aveva un paio di baffi tendenti al grigio. L'Asad Khalil della Tv non sorrideva, Hefni Badr allo specchio sorrideva perché non assomigliava ad Asad Khalil. Disse le preghiere e si mise a letto. 36 Quando alle 8 in punto entrai nella sala riunioni al ventottesimo piano di Federal Plaza, mi sentivo terribilmente virtuoso per non aver passato la notte con Kate Mayfield. Riuscii così a guardarla negli occhi e ad augurarle buongiorno. Lei ricambiò il saluto, ed ebbi l'impressione di udire anche la parola "coglione", forse perché mi sentivo tale. Rimanemmo in piedi a chiacchierare accanto al lungo tavolo finché la riunione non ebbe inizio ufficialmente. Alle pareti erano stati affissi numerosi ingrandimenti delle foto di Asad Khalil scattate a Parigi, oltre a un paio di Yusuf Haddad. Sotto una di queste si leggeva OBITORIO, sotto l'altra PASSAPORTO, e la seconda era decisamente peggiore della prima. Vi erano anche alcune istantanee del disertore di febbraio. Nome: Boutros Dharr. Professione: morto. Secondo me, tipi del genere sono pericolosi a causa del nome assurdo; non so, come un ragazzo che si chiamasse Susan. Comunque, contai sul tavolo dieci tazze da caffè e dieci blocchi per appunti e ne dedussi che alla riunione saremmo stati in dieci. Su ogni blocco c'era scritto un nome, e tanto mi bastò per capire che mi sarei dovuto sedere di fronte al blocco corrispondente. Quindi mi accomodai e mi versai del caffè, spingendo poi la caraffa verso Kate, seduta di fronte a me. Indossava un abito blu a righine di taglio maschile, che le dava un'aria più severa del tailleur con gonna al ginocchio che le avevo visto sabato. Il rossetto era rosa corallo. Mi sorrise. Ricambiai il sorriso. I partecipanti alla riunione dell'Atti stavano prendendo posto. A un'estremità del tavolo c'era Jack Koenig, appena arrivato da Washington, con indosso il vestito del giorno prima; all'altro capo sedeva il capitano David Stein, della polizia di New York, co-comandante dell'Attf. In tal modo cia-
scuno dei due poteva considerarsi a capotavola. Alla mia sinistra c'era Mike O'Leary, della Squadra Intelligence della polizia. E il fatto che il nome sul blocco davanti a lui corrispondesse al suo mi rassicurò circa l'intelligenza della polizia. Alla mia destra sedeva l'agente speciale dell'Fbi Alan Parker, incaricato delle pubbliche relazioni dell'Attf. Alan è sui venticinque anni e ne dimostra tredici, ma sa infinocchiare il prossimo come pochi e quindi è un elemento preziosissimo. Tra Parker e Koenig c'era il capitano Henry Wydrzynski, vicecomandante dei detective della Port Authority. L'avevo incrociato qualche volta quando ero anch'io un detective e mi era sembrato in gamba, a parte il nome che faceva pensare alla terza riga del tabellone di un oculista. Qualcuno avrebbe dovuto regalargli una vocale. Di fronte a me, a parte Kate, sedevano tre persone. Accanto al capitano Stein vidi Robert Moody, capo dei detective della polizia e primo nero a ricoprire questo incarico, oltre che mio superiore all'epoca in cui morii e risorsi. Inutile dirvi che comandare qualche migliaio di tipi come me è tutt'altro che uno scherzo. Lui comunque sembrava non disprezzarmi e, sinceramente, a un capo non potevo chiedere di più. Alla sinistra di Kate sedeva un arabo, il sergente di polizia Gabriel Haytham. Accanto a lui, alla destra di Koenig, c'era un tipo azzimato che di sconosciuto aveva soltanto il nome, perché non avevo dubbi che fosse della Cia. È buffo come riesca subito a individuarli dalla loro aria leggermente annoiata, dall'abbigliamento troppo costoso e dall'espressione tipica di chi pensa che dovrebbe trovarsi in un posto più importante di quello in cui si trova. Da quando non c'era più Ted Nash da prendere per il culo, soffrivo di nostalgia, ma ora che qualcuno aveva preso il suo posto la vita tornava a sorridermi. Immaginavo che in quel momento Ted Nash stesse infilando in valigia la sua biancheria di seta prima di partire per Parigi, ma sentivo che un giorno o l'altro sarebbe rientrato nella mia vita. Ricordai le parole di Koenig: "È Ted che va tenuto d'occhio". Certe cose Jack Koenig non le dice tanto per dire. Fu proprio Koenig a dare inizio alla riunione, presentandoci il tipo alla sua sinistra. «Stamattina abbiamo con noi Edward Harris, della Central Intelligence Agency» annunciò. Sarebbe bastato dire: "Questo è Edward Harris, sapete benissimo con chi lavora". Poi aggiunse: «Mr Harris fa parte
della Sezione antiterrorismo.» Harris ci salutò muovendo la matita a mo' di tergicristallo. "Très chic." A differenza di quanto avviene all'Fbi, quelli della Cia ci tengono a usare il nome di battesimo per intero, e quindi per Harris sarebbe stato impensabile farsi chiamare Ed. L'unica eccezione era Ted Nash, avevo già una mezza idea di chiamarlo Teddy quando e se ci fossimo rivisti. In circostanze normali, a una riunione di questo livello io non avrei preso parte, e nemmeno Kate. Ma ci avevano graziosamente ammesso nella nostra veste di testimoni e protagonisti dei fatti. Carini, vero? «Come alcuni di voi già sapranno» riprese Koenig «ieri pomeriggio a Washington hanno deciso di far avere ai giornalisti un breve comunicato accompagnato dalla foto di Asad Khalil. Nel comunicato si dice solo che è ricercato dalle autorità federali in quanto sospettato di aver preso parte a un attentato terroristico, senza citare il volo 175. Dichiarazione e foto sono stati diffusi ieri durante i notiziari delle 23 e sono apparsi oggi sui giornali.» Nessuno fece commenti, ma sui volti di tutti si leggeva qualcosa del tipo "era ora, cazzo!". Il capitano David Stein decise di far valere il suo status di cocomandante e intervenne senza che Jack Koenig glielo avesse chiesto. «Stabiliremo un Centro di coordinamento al ventiseiesimo piano, dove dovranno trasferirsi con le loro carte tutti coloro che prendono parte alle indagini. D'ora in avanti, e fino a ordine contrario, il personale dell'Attf potrà trovarsi solo in tre posti: nel Centro coordinamento, a letto o fuori a scarpinare. A letto cercate di rimanere il meno possibile.» Si guardò attorno. «Chi vuole partecipare ai funerali dei colleghi uccisi, può farlo. Domande?» Nessuno parlò e lui proseguì. «La Sezione Medio Oriente ha assegnato a queste indagini cinquanta agenti, un altro centinaio batterà New York e dintorni, e forze ancora più ingenti indagheranno nel resto degli Stati Uniti e all'estero.» E così via. Venne il turno del tenente Mike O'Leary, quello dell'Intelligence di polizia, che spese qualche parola per ricordare il suo collega Nick Monti. E, da bravo irlandese, raccontò un divertente aneddoto su Monti, ma probabilmente se lo era inventato. Dopo di lui parlò Robert Moody, capo dei detective della polizia. «Il mio personale» ci assicurò «terrà orecchie e occhi aperti anche seguendo
altre indagini. E potete star certi che tutti e quattromila gli investigatori avranno sempre in tasca la foto del presunto responsabile e riferiranno al Centro coordinamento tutto ciò di cui verranno a conoscenza.» "Stronzate." «Se il nostro uomo si trova ancora a New York» concluse il capo Moody «ci sono buone probabilità che la polizia riesca a localizzarlo e arrestarlo.» Il che, tradotto, significava che a Moody non sarebbe dispiaciuto ammanettare Khalil senza farlo sapere ai federali, che l'avrebbero scoperto solo il giorno dopo leggendo i giornali. Il capitano Stein ringraziò l'ispettore Moody. «Il capo della polizia mi ha assicurato che tutti gli agenti in uniforme riceveranno istruzioni all'inizio di ogni turno. Lui stesso si incontrerà oggi con i colleghi delle contee e delle municipalità intorno a New York per chiedere la loro collaborazione, il che significa che saranno in settantamila a cercare Asad Khalil nell'area metropolitana. Stiamo insomma per scatenare la più grossa caccia all'uomo mai attuata nella regione di New York.» Mi accorsi che Alan Parker stava prendendo furiosamente appunti, da usare per un comunicato stampa o magari per una miniserie televisiva. Non mi fido affatto degli scrittori. «Concentreremo la nostra attenzione sulla comunità mediorientale» concluse Stein, passando la parola a Gabriel Haytham che si alzò guardandosi intorno. Essendo l'unico arabo e musulmano della stanza, Haytham avrebbe potuto provare un disagio prossimo alla paranoia; ma era nell'ambiente da troppi anni e ci aveva fatto il callo. "Il mio vero nome è Jibril, che in arabo significa Gabriele" mi aveva confidato una volta "ma non farlo sapere in giro, sto cercando di farmi passare per un bianco protestante anglosassone." Il sergente Gabriel Haytham era il capo dei detective della polizia in forza all'Attf, quelli cioè che scarpinavano tenendo d'occhio gli individui sospettati di appartenere a gruppi terroristici. «Dalle 17 di sabato scorso» esordì «i miei detective sono usciti allo scoperto e, muniti di mandato di perquisizione, hanno rivoltato la città come un calzino, tralasciando soltanto la stanza da letto del sindaco. Abbiamo interrogato circa ottocento persone nelle case, nei commissariati, per strada, sul posto di lavoro e qui dentro, senza guardare in faccia nessuno, nemmeno i leader religiosi musulmani.» Non riuscii a resistere. «Se per mezzogiorno non si saranno fatti vivi al-
meno una ventina di avvocati, vorrà dire che non hai fatto bene il tuo lavoro» gli dissi. Si fecero tutti una bella risata. Anche Kate. «Abbiamo messo sotto pressione gli avvocati arabi» replicò lui «che ora stanno assumendo legali ebrei per farci causa.» Ancora una volta tutti risero, ma stavolta a denti stretti. La situazione, a ben vedere, si prestava poco all'umorismo, anche se un po' di spirito serve sempre quando bisogna affrontare argomenti delicati. Era una riunione di tipo multietnico, e ancora non avevamo ascoltato il polacco, il capitano Wydrzynski. Conoscevo una bellissima barzelletta sui polacchi, ma forse era il caso di riservarla per un'altra occasione. Gabriel proseguì con tono asciutto. «Devo ammettere che finora non abbiamo uno straccio d'indizio, nemmeno uno; non è spuntato fuori neanche il solito mitomane che accusa il suocero di vagabondaggio. Sembra che tutti abbiano paura di scottarsi le dita. Ma dobbiamo ancora interrogare un migliaio di persone e perquisire un centinaio di posti, oltre a ripetere vari controlli. Stiamo esercitando forti pressioni sulle comunità mediorientali e magari capiterà di violare alcuni diritti civili, ma di questo ci preoccuperemo in un secondo tempo.» Fece una pausa. «Non stiamo torturando nessuno» aggiunse poi. «Washington apprezzerà la vostra correttezza» lo ammonì Koenig piuttosto bruscamente. «Guardi, Mr Koenig, che i tizi di cui stiamo parlando vengono da paesi in cui la polizia picchia ancora prima di cominciare l'interrogatorio. Quindi, senza un piccolo trattamento fisico preliminare, potrebbero entrare in confusione.» Koenig si schiarì la voce. «Certe cose non voglio nemmeno sentirle. E in ogni caso, sergente...» Haytham lo interruppe. «Ci sono oltre trecento cadaveri negli obitori, e non sappiamo quanta gente ancora morirà per mano di quel Khalil. Io e i miei ci stiamo dando da fare perché non muoia più nessuno.» Koenig pensò a una risposta, poi si ricordò del microfono che stava registrando la riunione e decise di tacere. Haytham sedette e la parola passò a Wydrzynski, il capitano della Port Authority. «Tutti i poliziotti della Port Authority» esordì «oltre agli addetti ai pedaggi e al personale delle stazioni della metropolitana e degli autobus, hanno ricevuto una foto di Asad Khalil e sanno che si tratta del latitante più ricercato degli Stati Uniti. Abbiamo evitato ogni collegamento con il
volo 175, come ci è stato ordinato, ma la voce ormai gira.» Non conoscevo Henry Wydrzynski ma... okay, la barzelletta è questa. Un polacco va dall'ottico per un controllo della vista e, quando viene messo davanti al tabellone con le lettere sempre più piccole, esclama: «Li conosco tutti, questi tipi!». Io invece non conoscevo il capitano Wydrzynski, ma sapevo che, come moltissimi poliziotti della Port Authority, aveva una piccola fissazione: pretendeva cioè rispetto e riconoscimento pubblici per il proprio lavoro. E io, come molti sbirri in gamba del Dipartimento, non glieli lesinavo. Erano ragazzi svegli, utilissimi e disposti a collaborare, quelli della Port Authority; e se provavi a fare il furbo con loro, trovavano sempre il modo di fotterti, per esempio addebitandoti 1000 dollari in più sul conto del Telepass. Wydrzynski era un omaccione stretto in un vestito di alcune taglie inferiori alla sua e non sembrava pieno di tatto o diplomazia, cosa che me lo rendeva simpatico. «Quando avete distribuito la foto di Khalil ai vostri uomini?» chiese Jack Koenig al capitano con poche vocali. «Abbiamo rapidamente fatto stampare centinaia di copie, distribuendole poi agli agenti in servizio nei ponti, nei tunnel, negli aeroporti, nelle stazioni degli autobus e così via. Le abbiamo spedite via fax a tutti gli uffici e inserite sul sito Internet.» Si guardò attorno. «Direi che alle ventuno di sabato tutto il nostro personale aveva ricevuto la foto ma, vi avverto, la qualità della stampa lasciava molto a desiderare.» «Dobbiamo quindi ritenere» intervenne il capitano Stein «che prima delle ventuno Asad Khalil potrebbe aver preso un pullman o un aereo o aver pagato il pedaggio di un ponte senza essere notato.» «Proprio così. Foto e notizie su di lui sono state trasmesse subito agli aeroporti, ma se il nostro uomo si è mosso velocemente, non ha incontrato ostacoli per imbarcarsi su un aereo. Magari al Kennedy, dove si trovava già.» Nessuno commentò quelle parole. Notai che Kate mi stava fissando, e ciò significava che voleva dicessi la mia. E, dal momento che ero un agente a contratto, l'accontentai. «Secondo me, Khalil è ancora a New York o, comunque, negli Stati Uniti.» «Cosa glielo fa pensare?» mi chiese il capitano Stein. «Perché non ha ancora concluso la sua missione.» «E come dovrebbe concludersi questa missione?» «Non ne ho idea.»
«Be', mi sembra che quel Khalil abbia già fatto fin troppo.» «Certo, ma non tutto.» «Spero proprio il contrario, cazzo.» Proprio come succedeva a me, a volte il capitano Stein dimenticava di non trovarsi in un commissariato. Stavo per continuare, ma Mr Cia decise di aprir bocca per la prima volta. «Come fa a essere così sicuro che Asad Khalil si trovi ancora nel nostro paese?» mi domandò. Guardai Harris, che ricambiò lo sguardo, e presi in considerazione diverse risposte, che cominciavano e finivano tutte con un bel "vaffanculo". Ma alla fine decisi di concedergli il beneficio del dubbio e di non essere sgarbato. «La mia è soltanto una sensazione, Mr Harris, che si basa sulla personalità di questo Asad Khalil: uno che non lascia un lavoro a metà, ma lo porta sempre a termine. Mi chiede come faccio a sospettare che la sua missione non sia ancora conclusa? Be', un tipo del genere avrebbe potuto continuare indisturbato le sue imprese antiamericane all'estero e farla franca, come è avvenuto finora; e invece all'improvviso decide di colpirci direttamente sul nostro terreno. E uno così si ferma in America soltanto un'ora? Le sembra una Missione Gabbiano, la sua?» Notando gli sguardi perplessi dei non iniziati, mi affrettai a spiegare. «La Missione Gabbiano è quella in cui il terrorista raggiunge in volo l'obiettivo, caca addosso a tutti e se ne va come è venuto.» Alcuni ridacchiarono. «No, non era una Missione Gabbiano, la sua» ripresi. «Semmai... una Missione Dracula, per così dire. Il conte Dracula avrebbe potuto continuare tranquillamente a succhiare sangue in Transilvania per altri trecento anni e invece decide di imbarcarsi con la sua bara su una nave diretta in Inghilterra. Giusto? E perché mai? Per succhiare il sangue dell'equipaggio? No di certo, se parte per l'Inghilterra è perché lì c'è qualcosa che gli sta terribilmente a cuore. E cos'è quella cosa che gli sta terribilmente a cuore? Una ragazza, quella che ha visto nella foto di Jonathan Arker, ma non mi chiedete come si chiamava perché non me lo ricordo; allora, il conte è in calore per questa ragazza, che però vive in Inghilterra. Mi seguite? Lo stesso vale per Khalil, nel senso che non si è fatto imbarcare su quell'aereo per uccidere equipaggio e passeggeri, o per far fuori quei poveracci al Conquistador Club. Per lui sono stati soltanto un antipasto, il pranzo vero e proprio non è ancora cominciato. Ci basterà solo individuare la ragazza, o meglio il suo equivalente, e tutto sarà più semplice. Mi spiego?» Nella sala riunioni cadde un lungo silenzio, e alcuni che fino a quel mo-
mento mi avevano fissato distolsero lo sguardo. Koenig e Stein stavano probabilmente meditando sull'opportunità di mettermi d'ufficio in malattia, Kate aveva abbassato gli occhi sul suo blocco per gli appunti. A rompere il silenzio fu quel gentiluomo di Edward Harris. «Grazie, Mr Corey, la sua è un'analisi interessante. O un'analogia, se preferisce.» Qualcuno rise. «Ho scommesso 10 dollari con Ted Nash. Vuole partecipare anche lei?» gli proposi. Lui sembrava sul punto di esplodere, ma si dimostrò sportivo. «Certo. Facciamo 20.» «D'accordo, dia 20 dollari a Mr Koenig.» Harris esitò, poi tirò fuori dal portafogli un biglietto da 20 e lo diede a Koenig che se lo mise in tasca. A mia volta feci scivolare sul tavolo un ventone. Le riunioni interforze possono essere davvero noiose, ma non quando vi prendo parte io. Inoltre, anche se odio quei burocrati insignificanti e anonimi che dopo un'ora nemmeno te li ricordi, volevo che tutti i presenti cominciassero a ragionare partendo dal presupposto che Khalil potesse trovarsi ancora in America. In caso contrario, se si fossero convinti che ormai se n'era tornato a casa, avrebbero abbassato la guardia delegando le ricerche ai loro colleghi all'estero. A volte per raggiungere l'obiettivo bisogna fingere di dare i numeri, e io sono bravo a dare i numeri. Con Koenig, che non era stupido, avevo fatto centro. «Grazie, Corey, per queste convincenti argomentazioni» disse. «Secondo me potrebbe aver ragione al cinquanta per cento.» Kate sollevò lo sguardo dal blocco. «Io credo che Mr Corey abbia ragione» disse. E i nostri sguardi s'incrociarono per mezzo secondo. Se avessimo dormito insieme, sarei arrossito. E invece nessuno dei presenti, gente attentissima ai dettagli più insignificanti, riuscì a cogliere la benché minima traccia di complicità postcoitale. Ho fatto davvero la scelta giusta, ieri notte. O no? Intervenne il capitano Stein. «Ha qualche notizia da darci?» chiese a Harris. L'uomo della Cia scosse il capo. «Mi hanno appena assegnato a questa indagine e tutti voi ne sapete sicuramente più di me.» Tutti noi pensammo all'unisono la stessa cosa, "stronzate", ma preferimmo tacere. «La ragazza comunque si chiamava Mina» mi informò Harris.
«Giusto, ce l'avevo sulla punta della lingua.» Chiacchierammo per una decina di minuti, poi Koenig diede un'occhiata all'orologio. «E ora, sentiamo cos'ha da dirci Alan.» L'agente speciale Alan Parker si alzò. Era piuttosto basso per la sua età, a meno che non avesse davvero tredici anni. «Con la massima sincerità...» esordì. Si udirono diversi grugniti. Alan sembrò confuso, poi capì e si mise a ridere. «Sarò... be', come prima cosa quelli di Washington, volendo veicolare il flusso d'informazioni...» «Parla come mangi» lo interruppe il capitano Stein. «Come?... Ah, certo. Dicevo, quelli che vogliono tenere il coperchio abbassato...» «Chi sarebbero quelli?» gli chiese Stein. «Chi? Be'... certa gente dell'esecutivo.» «Per esempio?» «Non lo so, davvero. Immagino il National Security Council, non l'Fbi.» «Il direttore dell'Fbi fa parte del National Security Council, Alan» gli fece notare il capitano Stein, che di queste cose se ne intendeva. «Davvero? Comunque questa gente, chiunque sia, ha deciso che è arrivato il momento di dire le cose come stanno. Ma non tutto subito, bensì nell'arco delle prossime settantadue ore; ossia, ogni giorno un terzo di ciò che sappiamo, per i prossimi tre giorni.» Il capitano Stein non mancava di senso dell'umorismo. «Sarebbe a dire, qualcosa come oggi i nomi, domani i verbi e mercoledì tutto il resto?» gli chiese. Alan rise a denti stretti. «No, ma ho un comunicato stampa in tre parti e oggi diramerò la prima.» «Vogliamo sentirlo per intero nei prossimi dieci minuti. Continua» disse Stein imperturbabile. «Vi prego di capire che non sono io a fornire le notizie o a decidere cosa deve essere reso di pubblico dominio; faccio solo quel che mi dicono di fare. Ma sono io il filtro delle informazioni; quindi, se non vi spiace, evitate di farvi intervistare o di organizzare conferenze stampa se prima non avete contattato il mio ufficio. È molto importante che i media e il pubblico siano informati, ma è più importante che sappiano solo quello che noi vogliamo che sappiano.» Alan non sembrò notare alcuna contraddizione nel suo discorso farneti-
cante. Andò avanti a spiegarci l'importanza delle notizie come armi del nostro arsenale e roba del genere. Pensai che avrebbe detto qualcosa a proposito dell'idea di usare Kate e me come esche, oppure sul fatto di passare una soffiata alla stampa circa la relazione di Gheddafi con la mammina di Khalil, ma lui evitò entrambi gli argomenti. Preferì invece dilungarsi in aneddoti dai quali si evinceva che lasciarsi sfuggire informazioni equivaleva a provocare vittime, mettere sull'avviso i sospetti, mandare a monte le operazioni e causare numerosi altri problemi tra cui l'obesità, l'impotenza e l'alito cattivo. «È vero» concluse «che il pubblico ha il diritto di sapere, ma non è vero che è nostro dovere dirgli tutto quanto.» E tornò a sedersi. Nessuno sembrava aver capito fino in fondo ciò che Alan ci aveva detto, e fu Jack Koenig a sintetizzare. «Nessuno parli con i giornalisti. Oggi pomeriggio» aggiunse «si terrà una conferenza stampa congiunta del Dipartimento di polizia di New York e dell'Fbi, seguita da un'altra con la partecipazione del governatore dello Stato di New York, del sindaco, del capo della polizia e di altri personaggi. A un certo punto, nel corso di una di queste conferenze stampa, qualcuno annuncerà ciò che molta gente sa o sospetta, cioè che il volo 175 è stato oggetto di un attentato terroristico. Stasera il presidente degli Stati Uniti e i membri del National Security Council daranno lo stesso annuncio in Tv. Nei prossimi giorni la stampa sarà affamata di notizie e i vostri uffici verranno tempestati di telefonate; vi prego quindi di dirottarle tutte su Alan, che viene pagato per questo.» Koenig ci ricordò poi che sulla testa di Asad Khalil c'era una taglia di un milione di dollari e che erano stati messi a disposizione altri fondi per pagare gli informatori. Prese di nuovo la parola il capitano Stein. «Non vogliamo assolutamente scoprire un giorno che la pista buona su Khalil si è persa nei meandri della burocrazia, com'è successo durante le indagini sull'attentato al World Trade Center. Ricordate perciò che tutte le informazioni devono far capo all'Attf e che alle ricerche di Khalil partecipa ogni corpo di polizia statunitense, canadese e messicano. Aggiungo che, ora che hanno mostrato in Tv la sua foto, possiamo contare sulla collaborazione di 200 milioni di cittadini; quindi, se il nostro uomo si trova ancora sul continente, potremmo avere fortuna.» Pensai a Corn Pone, il capo della polizia di Hominy Grits, Georgia, e mi immaginai una sua telefonata di questo tenore: "'giorno, John. Ho saputo
che state cercando disperatamente quest'arabo, Khalil o come diavolo si chiama. Be', John, ce l'ho qui nella mia cella di sicurezza e ce lo terrò in attesa che tu venga a riprenderlo. Sbrigati, però, perché quel tipo non mangia carne e rischia di morire di fame". Stein mi guardò. «Qualcosa la diverte, detective?» «No, signore, seguivo il filo dei miei pensieri.» «Ah sì? Ci parli di questo filo.» «Veramente...» «Sentiamo, Mr Corey.» Considerando che la telefonata immaginaria dello sceriffo Corn Pone avrebbe fatto ridere solo me, preferii raccontare una barzelletta che tutti avrebbero capito. «Allora, la signora ministro della Giustizia vuole stabilire quale sia il migliore organismo investigativo tra Fbi, Cia e polizia di New York. Convoca quindi fuori Washington una rappresentanza di ciascuno dei tre enti, poi libera un coniglio nel bosco e dice a quelli dell'Fbi di trovarglielo.» Guardai il mio pubblico e vidi espressioni neutre sul volto di tutti, tranne che su quello di Mike O'Leary, il quale sorrideva immaginando già come sarebbe andata a finire. «Quelli dell'Fbi si inoltrano nel bosco» proseguii «e un paio d'ore dopo tornano a mani vuote. Ma naturalmente convocano una conferenza stampa durante la quale dichiarano quanto segue: "Abbiamo controllato in laboratorio ogni foglia e ogni ramoscello, abbiamo interrogato duecento testimoni e alla fine, avendo accertato che il coniglio non ha violato alcuna legge federale, l'abbiamo rilasciato". "Stronzate" dice il ministro "il coniglio non l'avete trovato". Dopo di loro è il turno della Cia» e guardai Harris «e un'ora dopo anche questi tornano senza coniglio, spiegando: "L'Fbi ha sbagliato. Abbiamo trovato il coniglio e ci ha confessato di far parte di un complotto contro gli Stati Uniti. Abbiamo attinto da lui tutte le informazioni di cui disponeva convincendolo poi a passare dalla nostra parte, e ora è un agente che fa il doppio gioco". "Stronzate, il coniglio non l'avete trovato" è il commento del ministro. Tocca infine a quelli della polizia, che si inoltrano nel bosco. Un quarto d'ora dopo sbuca dagli alberi un orso zoppicante, visibilmente reduce da un pestaggio, che alza le mani e si mette a gridare: "Confesso! Sono un coniglio! Sono un coniglio!".» O'Leary, Haytham, Moody e Wydrzynski scoppiarono a ridere, il capitano Stein cercò di trattenersi. Jack Koenig invece non sorrideva, imitato di conseguenza da Alan Parker. Nemmeno Harris sembrava molto divertito, mentre Kate... be', Kate probabilmente cominciava ad abituarsi al sotto-
scritto. «Grazie, Corey, ho sbagliato io a chiederglielo» disse il capitano Stein, mettendo poi tutti in guardia. «Se questo bastardo colpirà ancora nell'area di New York, molti di noi dovranno mettersi in contatto con i rispettivi uffici pensione. La riunione è aggiornata.» 37 Alle 6 di lunedì mattina, Asad Khalil sollevò la cornetta del telefono per interrompere gli squilli e udì una voce che gli augurava il buongiorno. Fece per rispondere, ma la voce proseguì senza fermarsi e Khalil capì che era un messaggio registrato. "Questa è la sveglia delle 6 da lei richiesta" diceva la voce. "Oggi è prevista una temperatura intorno ai 25 gradi, cielo sereno e la possibilità di una precipitazione passeggera in serata. Buona giornata e grazie per aver scelto un hotel Sheraton." Dopo aver riattaccato, Khalil scese dal letto e andò in bagno, portandosi dietro le due Glock, poi si fece la barba, si lavò i denti, usò il water e si infilò sotto la doccia. Quando ne uscì, applicò la tintura grigia sui capelli, pettinandoli con la riga da una parte e asciugandoli con il phon appeso alla parete. Come in Europa, rifletté, anche in America c'erano molte comodità, messaggi registrati, materassi morbidi, acqua calda per la quale bastava girare un rubinetto, stanze senza insetti o roditori. Una civiltà del genere non poteva mettere in campo una fanteria degna di questo nome, e allora gli americani avevano reinventato la guerra. La guerra dei pulsanti, delle bombe intelligenti e dei missili a guida laser; una guerra da codardi, come quella messa in atto contro il suo paese durante il raid dell'86. Paul Grey, l'uomo che sarebbe andato a trovare quel giorno, aveva preso parte a questo genere di vigliaccate ed era diventato addirittura un esperto di guerra telecomandata e un ricco mercante di morte. Fra poche ore sarebbe diventato un mercante di morte defunto. Tornò nella sua stanza, si inginocchiò prostrandosi in direzione della Mecca e recitò le preghiere del mattino. «Possa Dio darmi oggi la vita di Paul Grey» disse al termine delle preghiere «e domani quella di William Satherwaite. Possa Dio rendere veloce il mio cammino e assicurare la vittoria alla mia jihad.» Si rialzò e si infilò il giubbotto antiproiettile sopra il quale mise una camicia pulita, indossando poi il vestito grigio. Quindi aprì l'elenco telefoni-
co di Jacksonville alla voce che gli era stata indicata, NOLEGGIO AEREO CON PILOTA E SERVIZI LEASING, copiò alcuni numeri su un pezzo di carta e se lo mise in tasca. Qualcuno aveva fatto scivolare sotto la porta una busta con il conto e la ricevuta della carta di credito, oltre a un foglietto nel quale lo si informava che dietro la porta avrebbe trovato il giornale. Guardò dallo spioncino, non vide nessuno, tolse il catenaccio alla porta e l'aprì notando il quotidiano sullo stuoino. Lo raccolse, rientrò e richiuse a chiave. Lesse il giornale in piedi, alla luce della lampada da tavolo. In prima pagina erano state pubblicate due sue foto, di fronte e di profilo, con la didascalia: "Ricercato - Asad Khalil, libico, età approssimativa 30 anni, altezza 1,80, parla inglese, arabo, un po' di francese, italiano e tedesco. Armato e pericoloso". Portò il giornale davanti allo specchio del bagno e lo accostò alla guancia sinistra; poi si osservò con attenzione attraverso la parte superiore delle lenti bifocali, spostando lo sguardo dalla sua immagine riflessa alle foto del giornale e mettendosi poi lentamente di profilo. Con baffi e occhiali il suo naso aquilino non si notava molto. Tornò accanto alla scrivania e, senza sedersi, lesse la notizia. Parlava bene l'inglese, ma leggere quella strana lingua gli creava qualche problema. Anche se con notevoli sforzi, riuscì comunque a capire che il governo americano aveva ammesso che c'era stato un attentato terroristico; venivano forniti inoltre alcuni particolari, ma non i più interessanti, né quelli che sarebbero risultati imbarazzanti. Un'intera pagina era occupata dai nomi dei 307 passeggeri e, a parte, da quelli dei membri dell'equipaggio. Fra i passeggeri non figurava Yusuf Haddad. I nomi degli uomini che aveva ucciso erano preceduti dal titolo CADUTI NELL'ADEMPIMENTO DEL DOVERE. Da quest'ultimo elenco scoprì che i cognomi dei due uomini della scorta, a lui noti soltanto come Philip e Peter, erano Hundry e Gorman; e che, oltre a loro, a bordo del TransContinental c'erano anche un uomo e una donna indicati come Federal Marshal, dei quali fino a quel momento aveva ignorato l'esistenza. Ripensò per un momento ai suoi custodi. Hundry e Gorman si erano seduti a turno accanto al prigioniero, o disertore, come preferivano chiamarlo. E Khalil aveva colto l'occasione per rivelare a Gorman le sue gesta in Europa. Dapprima incredulo e poi decisamente colpito, l'agente aveva commentato: "Sei un gran bugiardo o un assassino maledettamente in gam-
ba. A New York scopriremo se hai detto la verità". "Sono sia un gran bugiardo sia un assassino di prim'ordine" aveva replicato lui "e non distinguerete mai la menzogna dalla verità," "Se fossi in te, non ci scommetterei." I due agenti si erano messi a confabulare tra loro, poi Hundry aveva preso il posto di Gorman, cercando di fargli ripetere quello che aveva rivelato al collega. Ma Khalil si era limitato a parlare dell'Islam, della sua cultura e del suo paese. Sorrise ripensando ora a quel giochetto che l'aveva divertito durante il viaggio. Anche i due agenti avevano finito per divertirsi, facendo qualche battuta; ma entrambi si erano resi conto che non bisognava sottovalutare il prigioniero. Infine, Yusuf Haddad era andato alla toilette; secondo il piano, Khalil doveva aspettare che uscisse e poi chiedere di usarla. "La prima parte della mia missione è stata l'uccisione del colonnello Hambrecht a Londra" aveva detto allora a Gorman. "Quale missione?" "Uccidere i sette piloti ancora in vita che hanno partecipato al raid aereo su al-Aziziya il 15 aprile 1986, sterminando la mia famiglia." Gorman era rimasto a lungo in silenzio. "Mi dispiace per la sua famiglia" aveva detto poi. "Comunque, pensavo che i nomi dei piloti fossero top secret." "Certo che lo sono, ma anche i top secret si possono comprare. Pagando un sovrapprezzo, naturalmente." A quel punto Gorman aveva detto qualcosa che ancora adesso lo disturbava. "Anch'io ho un segreto per lei, Mr Khalil. Un segreto che riguarda suo padre e sua madre, e altre faccende personali." Khalil aveva abboccato all'amo. "Di cosa sta parlando?" "Lo saprà a New York, dopo che ci avrà detto quello che vogliamo sapere." In quel momento Yusuf Haddad era uscito dalla toilette e lui, non avendo più tempo per approfondire la questione, aveva chiesto a Gorman di andarci a sua volta. Pochi minuti dopo, Gorman si era portato nella tomba il proprio segreto e quello di Asad Khalil. Tornò a leggere il giornale, ma non trovò nulla di interessante a parte quella taglia di un milione di dollari; ben pochi, considerato il numero di persone che aveva ucciso. Era quasi un insulto per le famiglie delle vittime e di sicuro un insulto per lui, Asad Khalil.
Gettò il giornale nel cestino della carta straccia, prese la borsa, tornò a guardare dallo spioncino, poi uscì e si infilò nella Mercury dirigendosi nuovamente verso l'autostrada. Erano le 7.30, il cielo era limpido e il traffico scarso. Stava percorrendo un lungo viale fiancheggiato da negozi e dominato da un grosso supermercato, sulle cui insegne si leggeva WINN-DIXIE. A Tripoli gli avevano detto che i telefoni a moneta si trovavano di solito nelle stazioni di servizio e vicino ai supermercati, e a volte negli uffici postali, come in Europa o in Libia. Ma era il caso di evitare gli uffici postali. Vide una fila di telefoni lungo la parete esterna di un supermercato e andò a parcheggiare lì accanto. Poi pescò nella borsa alcune monete, si infilò in tasca una pistola, scese dall'auto e si diresse verso uno degli apparecchi. Lesse i numeri che si era segnato sul foglietto e compose il primo. «Alpha Aviation Services» rispose una voce di donna. «Vorrei affittare un aereo con pilota per andare a Daytona Beach.» «Sì, signore. Quando vorrebbe partire?» «Ho un appuntamento a Daytona Beach alle 9.30.» «Dove si trova in questo momento?» «Chiamo dall'aeroporto di Jacksonville.» «Allora dovrebbe venire qui il più presto possibile, ci troviamo all'aeroporto municipale Craig. Sa dove si trova?» «No, ma prenderò un taxi.» «Okay. Quanti passeggeri, prego?» «Solo io.» «D'accordo. Solo andata, o anche ritorno?» «Andata e ritorno, conto di fermarmi pochissimo a Daytona Beach.» «Okay. Non so dirle quanto le verrà a costare esattamente, ma andata e ritorno dovrebbero aggirarsi sui 300 dollari, ai quali va aggiunta la tariffa dell'attesa. E anche le tasse di atterraggio e di parcheggio.» «D'accordo.» «Il suo nome, prego.» «Dimitrios Poulos.» E ripeté il nome sillabandolo. «Bene, Mr Poulos. Quando arriverà all'aeroporto Craig, dica al tassista che ci troviamo alla fine degli hangar sul lato nord. D'accordo? Vedrà la grossa insegna dell'Alpha Aviation Services, ma se non la vede può chiedere, ci conoscono tutti.» «Grazie. Buona giornata.»
«Altrettanto a lei.» Riagganciò. A Tripoli gli avevano detto che in America noleggiare un aereo era più semplice che affittare un'automobile. Per l'auto ci volevano la carta di credito e la patente, e inoltre bisognava dimostrare la propria età. Se invece volevi un aereo, non ti facevano più domande di quelle che avrebbe potuto farti un tassista. "Quella che lì chiamano aviazione generale, cioè i voli privati" gli aveva detto Boris "non è sottoposta ai controlli delle autorità come avviene in Libia o nel mio paese. Non hai bisogno di documenti d'identità, io ho noleggiato un aereo più volte. E in tal caso preferiscono i contanti alla carta di credito, perché in questo modo loro riescono a evadere le tasse, visto che non sempre gli incassi vengono registrati con la dovuta meticolosità." Il suo viaggio si stava facendo meno difficile. Khalil inserì un'altra moneta e compose un numero che aveva imparato a memoria. «Grey Simulation Software, parla Paul Grey» rispose una voce maschile. Khalil respirò a fondo. «Buongiorno, Mr Grey. Sono il colonnello Yitzhak Hurok, dell'ambasciata israeliana.» «Buongiorno, aspettavo la sua chiamata.» «Ha parlato con qualcuno a Washington?» «Naturalmente, mi hanno detto che sarebbe arrivato alle 9.30. Dove si trova?» «A Jacksonville, sono appena atterrato.» «Allora le ci vorranno circa due ore e mezzo per arrivare qui.» «C'è un aereo privato che mi aspetta all'aeroporto municipale, e mi sembra di capire che lei lavora e vive in un aeroporto.» Paul Grey rise. «Può ben dirlo, ci chiamano la comunità "fly-in", come i drive-in. Siamo a Spruce Creek, subito fuori Daytona Beach. Ascolti, colonnello, mi è venuta un'idea. Potrei venirla a prendere io con il mio aereo, è meno di un'ora di volo e posso decollare tra dieci minuti. La porto qui e, dopo che avremo terminato, la riaccompagno all'aeroporto internazionale di Jacksonville in tempo per prendere il volo per Washington. Cosa ne dice?» Preso alla sprovvista, Khalil dovette riflettere velocemente. «Ho già noleggiato un'auto per l'aeroporto municipale, e la mia ambasciata ha pagato in anticipo l'aereo privato. A parte questo, ho precise istruzioni di non accettare favori. Capirà, date le circostanze.»
«Capisco, certo. Ma appena arriva, ci facciamo una bella birra ghiacciata.» «Non vedo l'ora.» «Okay. Si assicuri che il pilota sappia dove si trova Spruce Creek e, se ci sono problemi, mi chiami prima di decollare.» «Senz'altro.» «E appena atterra, mi dia un colpo di telefono dall'ufficio assistenza e manutenzione, che si trova proprio al centro dell'aeroporto. Verrò a prenderla con il golf cart.» «Grazie. Come le ha detto il mio collega, questo incontro deve avvenire con una certa discrezione.» «Come? Ah certo, giusto. Verrò da solo.» «Bene.» «Le ho preparato uno spettacolo con i fiocchi, vedrà.» "E io ne ho preparato uno per te, capitano Grey." «A presto.» Khalil risalì sulla Mercury, programmò il navigatore satellitare per l'itinerario che l'avrebbe portato all'aeroporto Craig, e venti minuti dopo ne varcò l'ingresso. Parcheggiò l'auto a una certa distanza dal punto dov'era diretto, prese la borsa con la seconda Glock e i caricatori di riserva, uscì dalla Mercury, chiuse a chiave lo sportello e si incamminò verso l'Alpha Aviation. Quando aprì la porta a vetri dell'ufficio fu investito da una ventata d'aria così fredda da mozzargli il respiro. «Buongiorno, mi dica» lo accolse una donna robusta di mezz'età, in piedi accanto a una scrivania dietro il banco. «Mi chiamo Dimitrios Poulos, e ho telefonato...» «Certo, ha parlato con me. Come intende pagare, signore?» «In contanti.» «Bene. Allora potrebbe darmi 500 dollari di cauzione, regoleremo i conti al suo ritorno.» «D'accordo.» Contò 500 dollari e li porse alla donna, che gli diede una ricevuta. «Si accomodi pure, chiamo il pilota.» Andò a sedersi su un divanetto, l'ufficio era tranquillo e silenzioso, ma faceva troppo freddo. Mentre la donna parlava al telefono, Khalil notò sul tavolino di fronte a lui due quotidiani. Uno era il "Times-Union", che aveva già guardato in albergo, l'altro si chiamava "Usa Today", ed entrambi avevano in prima pagina la sua foto a colori. Prese "Usa Today" e lesse l'articolo che lo ri-
guardava, lanciando ogni tanto uno sguardo alla donna. Era pronto a uccidere lei o il pilota, o chiunque altro avesse anche solo lontanamente dato segno di averlo riconosciuto. L'articolo era ancora meno chiaro di quello che aveva letto in albergo, nonostante le parole fossero più semplici. C'era anche una cartina a colori con l'itinerario del volo 175 da Parigi a New York, e lui si chiese se un particolare del genere fosse interessante o necessario. Dopo qualche minuto si aprì una porta e fece il suo ingresso nell'ufficio una ragazza slanciata sui venticinque anni. Indossava pantaloni kaki e una camicetta senza bottoni, e aveva gli occhi nascosti dagli occhiali da sole. I capelli erano molto corti, tanto che in un primo momento lui la scambiò per un ragazzo, accorgendosi però subito dell'errore. Era a tutti gli effetti una ragazza, e anche attraente. Lei gli si avvicinò. «Mr Poulos?» «Sono io.» Si alzò, piegò il giornale e lo appoggiò sull'altro con la prima pagina rivolta verso il basso. La donna si tolse gli occhiali e si fissarono. Poi sorrise, salvandosi così la vita e salvando quella della signora dietro il banco. «Salve, sono Stacy Moll, il suo pilota.» Khalil rimase per un attimo senza parole, poi si accorse che la ragazza gli stava tendendo la mano e gliela strinse, sperando che non si accorgesse del suo improvviso rossore. «Ha altri bagagli, oltre a quella borsa?» gli chiese. «No, non ho altro.» «Deve per caso fare una visitina in un certo posto?» «Come?... Ah, no...» «Bene. Fuma?» «No.» «Allora la dose devo farmela qui.» Estrasse dal taschino della camicia un pacchetto di sigarette e ne accese una. «Abbia pazienza solo un minuto. Vuole dei dolci, una cioccolata? Oppure occhiali da sole? Ne abbiamo diversi, in volo sono utili.» Khalil notò sul banco un assortimento di occhiali. Ne scelse un paio, sul cartellino era segnata la cifra di 24,95 dollari e lui si chiese perché in America i prezzi fossero sempre di pochi centesimi inferiori al dollaro intero. Si tolse le lenti bifocali e li provò guardandosi allo specchio accanto. «Prendo questi.» Mise sul banco due biglietti da 20 e la donna gli diede il resto. «Se me li dà, tolgo il cartellino» gli disse.
Lui esitò, ma non vide il motivo di sottrarsi a quella richiesta. Si tolse gli occhiali e li porse alla donna, che non lo guardò mentre strappava il cordoncino da cui pendeva il cartellino del prezzo e glieli restituiva. Khalil se li infilò in fretta, senza mai perdere di vista gli occhi della donna. «Okay, la dose me la sono fatta» disse la ragazza pilota. Khalil si voltò e vide che lei gli aveva preso la borsa. «Quella la porto io» le disse. «Niente da fare. Portare la borsa fa parte del mio lavoro, lei è il cliente. Siamo pronti?» A Khalil avevano detto che prima di decollare bisognava preparare un piano di volo, ma la ragazza era già alla porta e gliela stava tenendo aperta. La raggiunse. «Buon volo» gli augurò la donna dietro il banco. «Grazie, buona giornata.» Fuori faceva caldo, e con gli occhiali da sole si vedeva decisamente meglio. «Mi segua» gli disse la ragazza. Le camminò accanto dirigendosi con lei verso un piccolo aereo parcheggiato non lontano dall'ufficio. «Di dov'è lei? Russo?» gli chiese. «Greco.» «Ah sì? Pensavo che Dimitrios fosse un nome russo.» «Dmitrij è russo, Dimitrios è greco.» «Lei non sembra russo.» «No, mi chiamo Poulos e sono ateniese.» «Viene da Jacksonville?» «Sì, sono arrivato all'aeroporto internazionale di Jacksonville.» «Direttamente da Atene?» «No, da Atene sono andato a Washington.» «Giusto. Non ha caldo con quel vestito? Si tolga giacca e cravatta.» «Sto bene. Vengo da posti dove fa molto più caldo.» «Davvero?» «Lasci che porti io la borsa.» «Non c'è problema.» Arrivarono accanto all'aereo. «La borsa le serve in volo o posso metterla nella stiva?» gli chiese lei. «Mi serve, contiene dei fragili oggetti in terracotta.» «Contiene che cosa?»
«Vasi antichi, sono un antiquario.» «Ma no! D'accordo, cercherò di non sedermi sulla borsa.» Rise e la posò delicatamente sull'asfalto. Khalil guardò il piccolo aereo bianco e azzurro. «Questo, per sua informazione, è un Piper Cherokee» disse Stacy Moll. «Lo uso soprattutto per dare lezioni di volo, ma a volte anche per i voli a breve raggio. Senta, il fatto di avere per pilota una donna le crea problemi?» «No, sono certo che lei è competente.» «Sono più che competente, sono un grande pilota.» Khalil sentì di arrossire ancora una volta e si chiese se c'era un modo di uccidere quella donna sfrontata senza compromettere i suoi piani futuri. "Potrai provare il desiderio di uccidere anche quando non sarà necessario farlo" gli aveva detto Malik "ma ricorda, il leone uccide sempre per necessità, mai perché ne ha voglia. In ogni omicidio c'è un rischio, e a ogni rischio il pericolo aumenta. Uccidi dunque chi devi uccidere, ma non farlo mai per rabbia o per gioco." «Le stanno bene gli occhiali» disse Stacy. «Grazie.» «L'aereo è pronto per il decollo, ho già fatto tutti i controlli mentre aspettavo il suo arrivo. Si va?» «Sì.» «Lei è un passeggero nervoso?» Lui ebbe la tentazione di dirle che era arrivato in America su un aereo con entrambi i piloti morti, ma si trattenne. «Volo spesso.» «Bene.» Salì sull'ala destra, aprì lo sportello del Piper e allungò una mano. «Mi dia la borsa.» Gliela porse e lei la appoggiò sul sedile posteriore, poi allungò nuovamente la mano. «Metta il piede sinistro sopra quella sagoma che vede sull'ala e usi il piccolo mancorrente fissato alla fusoliera.» Indicò la maniglia alle spalle del finestrino posteriore. «Devo salire prima io, questa è l'unica via d'accesso, lei poi mi seguirà.» Ed entrò nell'aereo. Khalil fece come gli aveva detto la ragazza e si arrampicò sull'ala, calandosi poi sul sedile di destra. Si voltò a guardarla, solo pochi centimetri separavano i loro volti, e Stacy gli sorrise. «Comodo?» «Sì.» Lui allungò un braccio dietro le spalle e prese la borsa, mettendosela sulle ginocchia.
La ragazza si allacciò la cintura di sicurezza e gli disse di fare altrettanto. Khalil obbedì, sempre tenendo la borsa sulle gambe. «Ha intenzione di tenerla lì tutto il tempo?» gli chiese. «Finché non saremo in quota.» «Ha bisogno di una pillola o qualcosa del genere?» "Ho bisogno di avere un'arma a portata di mano fino a quando non ci saremo allontanati da qui." «I vasi sono fragili. Senta, scusi se glielo chiedo, ma non dovrebbe aver preparato un piano di volo?» Lei indicò un punto vago fuori dal finestrino. «Cieli liberi, da queste parti. Il piano di volo non serve.» Gli porse poi una cuffia con microfono incorporato e se ne sistemò in testa una identica. «Pronto Dimitrios, come mi sente?» Lui si schiarì la voce. «La sento bene.» «Anch'io sento bene, meglio la radio che dover gridare per parlarsi. A proposito, posso chiamarla Dimitrios?» «Sì.» «Io sono Stacy.» «Sì.» Si infilò gli occhiali da sole, avviò il motore e l'aereo si mosse lentamente. «Oggi useremo la pista 14. È previsto cielo limpido fino a Daytona Beach, nessuna turbolenza, un buon vento da sud e il miglior pilota di tutta la Florida ai comandi.» Khalil annuì. La ragazza portò il Piper alla fine della pista 14, poi passò un braccio davanti al passeggero per chiudere e bloccare lo sportello, diede un'ultima occhiata ai quadranti del cruscotto e parlò al microfono. «Piper Unocinque Whisky, pronti per il decollo.» «Decollate pure, Uno-cinque Whisky» rispose la torre di controllo. Stacy Moll diede tutto gas, poi mollò i freni e l'aereo prese a correre sulla pista, sollevando il muso dopo venti secondi e librandosi in aria. Lei virò prendendo una rotta di 175 gradi, quasi diritta verso sud, poi premette alcuni pulsanti sulla consolle. «Questo è il GPS, il navigatore satellitare» gli spiegò. «Sa a cosa serve?» «Sì, ne ho uno anche sulla mia auto. In Grecia.» Rise. «Bene, allora lei si occuperà del GPS, Dimitrios.» «Davvero?» «Scherzavo. Senta, vuole che chiuda il becco o preferisce un po' di compagnia?»
«La compagnia mi farà piacere» si sorprese a rispondere. «Bene. Ma se parlo troppo, me lo dica e chiuderò il becco.» Khalil annuì. «Per arrivare a Daytona Beach dovremmo impiegare tra i quaranta e i cinquanta minuti, forse meno.» «Non è esattamente a Daytona Beach che devo andare.» Lei gli lanciò un'occhiata. «E dove, allora?» «In un posto che si chiama Spruce Creek. Lo conosce?» «Certo, ci abitano dei ricconi con la passione per il volo. Allora devo riprogrammare il GPS.» Premette alcuni pulsanti. «Mi spiace se ho creato un po' di confusione» si scusò lui. «Nessun problema. Anzi, è più semplice atterrare lì che in un grosso aeroporto, specialmente in una giornata perfetta come oggi.» «Bene.» Stacy si sistemò sul sedile e controllò i quadranti. «Ottantaquattro miglia nautiche, tempo di volo previsto 41 minuti, consumo di carburante 36 litri. Liscio come l'olio.» «Quale olio?» Lei lo guardò, poi si mise a ridere. «No, voglio dire... è slang, liscio come l'olio significa "nessun problema".» Lui fece un cenno d'assenso. «Farò il minimo uso di slang. Quando non riesce a capire, mi dica "Stacy, parli inglese".» «D'accordo.» «Saliremo a quota 800 metri aggirando a est la stazione aeronavale di Jacksonville, quella laggiù. L'altro aeroporto, quello a ovest, è della Marina e si chiama Cecil Fields, ma non viene più usato. Riesce a vedere dei caccia? Spesso fanno esercitazioni, quindi tenga anche lei gli occhi aperti, l'ultima cosa di cui ho bisogno è un caccia nel culo... scusi il mio francese.» «Francese?» «Lasci stare. Senta, non sono affari miei, ma che ci va a fare a Spruce Creek?» «Ho un appuntamento di lavoro con un collezionista di antichità greche.» «Quindi rimarremo a terra un'oretta?» «Forse anche meno, comunque non di più.» «Se la prenda pure comoda, ho la giornata completamente libera.»
«Non ci vorrà molto.» «Lo sa dove deve andare dopo che saremo atterrati?» «Sì, mi sono fatto dare le indicazioni.» «È mai stato a Spruce Creek?» «No.» «È un posto da ricchi, vedrà.» Meno di mezz'ora dopo, il Piper toccava terra sulla pista di Spruce Creek, e Stacy, seguendo le indicazioni di Khalil, uscì su una pista di rullaggio per poi girare a destra e andare a fermarsi davanti a un grosso hangar con un cartello sul quale si leggeva PAUL GREY. L'hangar era spalancato e dentro si vedeva un bimotore, una Mercedes cabriolet, una scala che portava a un loft e un golf cart. «Ha tutti i giocattoli, questo signore. Quello è un Beech Baron modello 58, e sembra nuovo. Soldi veri. Deve vendergli qualcosa?» «Sì, i vasi.» «E sono cari?» «Molto cari.» «Bene, la grana ce l'ha. I soldi, dico. È sposato questo tipo?» «No.» «Gli chieda se ha bisogno di un secondo pilota.» Rise. Spense il motore del Piper. «Deve scendere lei per primo, a meno che non preferisca che le venga in braccio.» Rise ancora. «Vada tranquillo, la borsa gliela tengo io.» E gliela prese. Khalil uscì dall'aereo appoggiando i piedi sulla sezione antiscivolo dell'ala, poi le prese la borsa di mano e la posò sull'ala. Quindi saltò a terra, si voltò e riprese la sacca. Stacy lo seguì e saltò a sua volta a terra, ma perse per un attimo l'equilibrio e si aggrappò al passeggero. «Ops.» A Khalil caddero gli occhiali, e i loro volti si trovarono a una distanza di meno di quindici centimetri. La ragazza lo fissò negli occhi e lui non abbassò lo sguardo. Lei finalmente sorrise. «Scusi.» Khalil si chinò a raccogliere gli occhiali e se li infilò di nuovo. Stacy estrasse di tasca il pacchetto di sigarette e se ne accese una. «La aspetterò qui nell'hangar, è più fresco. Mi prenderò anche qualcosa da bere in frigo e userò il bagno. Gli dica che ho preso una Coca, lascerò un dollaro.» «D'accordo.» «Ora che ci penso, da queste parti abita un mio ex. Potrei andare a fargli
un saluto.» «Forse è meglio che rimanga qui, non ci metterò molto.» «Certo, scherzavo. Se andassi a trovare quel bastardo, probabilmente darei fuoco al suo aereo.» Khalil si incamminò sul vialetto che portava alla villa adiacente all'hangar. «Buona fortuna» gli gridò dietro Stacy. «Lo strizzi ben bene, gli faccia sputare sangue.» Luì si voltò. «Come dice?» «Voglio dire, gli faccia tirar fuori un sacco di soldi.» «Certo, gli farò sputare sangue.» Superata un'aiuola, il vialetto terminava davanti a una porta a rete attraverso la quale si accedeva a una piscina coperta. La porta non era chiusa a chiave e Khalil entrò, costeggiò la piscina e si diresse verso l'ingresso della casa notando oltre la vetrata un'enorme cucina. Guardò l'orologio, erano le 9.10. Premette il campanello e attese. Gli uccelli cantavano appollaiati sugli alberi, una misteriosa creatura emetteva una sorta di gracidio e un piccolo aereo girava sopra Spruce Creek. Dopo un intero minuto, venne alla porta un uomo in pantaloni marroni e camicia azzurra, che lo fissò attraverso la vetrata. Khalil sorrise. L'uomo aprì la porta. «Il colonnello Hurok?» «Sì. Lei è il capitano Grey?» «Mr Grey, per l'esattezza, ma può chiamarmi Paul. Si accomodi.» Khalil seguì Grey in cucina. L'aria condizionata non era gelata come quella dell'Alpha Aviation. «Posso portarle la borsa?» chiese Paul Grey. «Non c'è n'è bisogno.» Grey guardò l'orologio a muro. «È un po' in anticipo, ma non c'è problema, sono a sua disposizione.» «Bene.» «Come ha fatto a trovare la casa?» «Ho dato le istruzioni al pilota.» «Capisco... E lei come faceva a sapere dove trovarmi?» «Mr Grey, c'è poco che la mia organizzazione non sappia sul suo conto. Per questo sono qui, lei è stato selezionato.» «Mi fa piacere. Una birra?»
«Solo dell'acqua minerale, per favore.» Seguì con lo sguardo Grey che estraeva dal frigo un contenitore di plastica pieno di succo di frutta e una bottiglia di minerale, prendendo poi due bicchieri dalla credenza. L'uomo, non molto alto, sembrava in eccellenti condizioni fisiche. Era abbronzato come un berbero e aveva i capelli grigi come il generale Waycliff, ma sembrava più giovane. «Dov'è il suo pilota?» gli chiese Grey. «È una donna e l'ho lasciata nell'hangar, per ripararsi dal sole. Mi ha chiesto se poteva approfittare del bagno e prendersi qualcosa da bere.» «Certo. Magari potrebbe venire ad assistere alla dimostrazione, sarà interessante.» «Meglio di no. È necessaria la massima discrezione, come le dicevo.» «È vero, mi scusi.» «Le ho detto di essere un antiquario greco venuto per venderle dei vasi antichi.» Sollevò la borsa e sorrise. Grey sorrise a sua volta. «Buona idea, lei potrebbe passare per greco.» «Già, perché no?» L'ex pilota di caccia gli porse un bicchiere d'acqua. «No, grazie. Non si offenda, ma sono osservante e non posso usare oggetti non kosher. Mi scusi.» «Nessun problema.» Grey prese dal frigo un'altra bottiglia di plastica e gliela porse. «Ho una leggera irritazione agli occhi» aggiunse Khalil «e devo portare gli occhiali da sole anche al chiuso.» Grey sollevò il bicchiere pieno di succo di frutta. «Benvenuto, colonnello Hurok.» Brindarono accostando bottiglia e bicchiere. «Se vuole seguirmi nel Centro operazioni, possiamo cominciare.» Entrarono in un'ampia stanza e Grey si chiuse alle spalle la porta scorrevole. «Qui nessuno ci disturberà.» «C'è qualcuno in casa?» «La donna delle pulizie, ma qui ha già pulito.» La stanza era una via di mezzo tra un salotto e uno studio, e tutto ciò che conteneva sembrava costoso, dall'enorme tappeto al legno che rivestiva le pareti sino alle apparecchiature elettroniche sistemate lungo il muro di fronte. Khalil contò quattro monitor di computer, ciascuno con tastiera e altri accessori. «Dia pure a me la borsa» gli disse Grey «La metto sul pavimento insieme alla bottiglia.»
Paul Grey gli indicò un tavolino, occupato solo da un giornale, sul quale appoggiarono il bicchiere e la bottiglia, e Khalil mise la borsa sul pavimento. «Le dispiace se do un'occhiata?» chiese al padrone di casa. «Tutt'altro.» Alla parete erano appesi foto e dipinti di diversi tipi di aereo, fra i quali quello molto realistico di un F-111 che Khalil si mise a osservare. «È stato copiato da una foto» gli spiegò Grey. «Ho volato a lungo sugli F-111.» «Lo so.» Paul Grey rimase in silenzio. Su un'altra parete erano affisse menzioni d'onore, lettere d'encomio e, dentro una piccola bacheca di vetro, nove medaglie. «Molte di queste decorazioni risalgono alla guerra del Golfo, cui ho partecipato. Ma lei sicuramente saprà anche questo.» «Sì, e il mio governo le è molto grato.» Khalil si avvicinò a uno scaffale pieno di libri e modellini d'aereo. Grey lo seguì e prese uno dei volumi, porgendoglielo. «Questo le piacerà. È opera del generale Gideon Shaudar, che mi ha anche scritto una dedica.» Sulla copertina del libro, che era in ebraico, si vedeva un caccia. «Legga la dedica» disse Grey. Khalil aprì il libro all'ultima pagina, che era la prima sia per la scrittura ebraica sia per quella araba, e vide che la dedica era in inglese, accompagnata però da alcune parole in ebraico che non riuscì a decifrare. «Finalmente qualcuno che me la può tradurre» disse Grey. Asad Khalil finse di leggere. «Si tratta di un proverbio arabo, che tuttavia è molto apprezzato anche da noi israeliani: "Il nemico del mio nemico è mio amico".» Restituì il libro a Grey. «Molto appropriato.» L'ex capitano rimise il libro nello scaffale. «Prima di cominciare, sediamoci un momento» propose al suo ospite, indicandogli una piccola poltrona davanti al tavolino e andando a sederglisi di fronte. Grey sorseggiò il succo di frutta, mentre Khalil bevve direttamente dalla bottiglia dell'acqua. «La prego di capire, colonnello, che il software che sto per mostrarle è da considerarsi materiale riservato, anche se ritengo di non violare alcuna legge visto che lei rappresenta un governo amico. Prima di portare a termine la vendita, però, sarà necessario il nullaosta delle autorità.» «Me ne rendo conto, i miei hanno già preso contatto con gli organismi di sicurezza americani.» Khalil guardò il suo interlocutore. «La sicurezza sta
molto a cuore anche a noi, vorremmo quindi evitare che questo software finisca nelle mani... diciamo dei nostri comuni nemici.» E gli sorrise. Grey ricambiò il sorriso. «Se si riferisce a certi paesi mediorientali, dubito che siano in grado di usarlo. Per dirla con la massima franchezza, colonnello, quella gente è messa abbastanza male quanto a cervello.» Khalil sorrise nuovamente. «Mai sottovalutare il nemico.» «Lo so, ma se si fosse trovato al mio posto durante la guerra del Golfo, le sarebbe sembrato di combattere contro quelle carcasse che si usano per disinfestare i campi, non contro aerei da combattimento. So bene che dicendolo ridimensiono i miei meriti, ma un professionista come lei certe cose le capisce.» «Come le avranno detto i miei colleghi, anche se sono l'addetto aeronautico dell'ambasciata non ho alcuna esperienza diretta sul campo; mi occupo solo di addestramento. Temo quindi di non poterle fare eroici racconti di guerra.» Indicò poi il giornale appoggiato sul tavolino. «Ha letto questa storia del volo 175?» «Sì, e penso che cadrà qualche testa. Voglio dire, com'è possibile farsi combinare uno scherzo del genere da quei buffoni dei libici? Avrei capito una bomba a bordo, è già successo... ma il gas? Senza parlare del fatto che il terrorista ha avuto tutto il tempo di far fuori un bel po' di agenti federali. Vedo la mano di Gheddafi dietro questa faccenda.» «È probabile. Purtroppo le bombe che avete sganciato ad al-Aziziya non l'hanno ucciso.» Grey rimase qualche secondo in silenzio. «Colonnello, a quella missione io non ho preso parte» disse poi «e se i suoi servizi di sicurezza pensano questo, si sbagliano.» Khalil sollevò le mani come per placarlo. «No, no, capitano, non parlavo di lei personalmente. Mi riferivo all'aviazione degli Stati Uniti.» «Ah... scusi...» «Comunque, se lei avesse partecipato a quella missione, non potrei che congratularmi e ringraziarla a nome del popolo d'Israele.» Grey non mutò espressione. «Ora direi di trasferirci davanti ai monitor» propose. Khalil si alzò e, portandosi dietro la borsa e la bottiglia, lo seguì all'altra estremità della sala, dove c'erano due poltroncine girevoli sistemate davanti ad altrettanti schermi. «Comincerò a mostrarle il software usando solo joystick e tastiera» esordì Grey. «Poi entreremo nel mondo della realtà virtuale.» Si avvicinò ad altre due poltroncine di fronte alle quali non vi erano monitor. «Qui, grazie
alla modellazione solida e alla simulazione, è possibile interagire con immagini artificiali e tridimensionali e con altri ambienti sensoriali. Ha pratica di queste cose?» Khalil non rispose. L'altro sembrò esitare, poi proseguì. «Le applicazioni della realtà virtuale immergono l'utente in un ambiente creato dal computer, che simula la realtà mediante l'uso di strumenti interattivi in grado di inviare e ricevere informazioni. In genere si tratta di occhiali, caschi, guanti e persino tute. Questi, per esempio, sono due caschi muniti di uno schermo stereoscopico per ciascun occhio: su ogni schermo appaiono le immagini in movimento di un ambiente simulato. L'illusione di trovarsi dentro quelle immagini, la cosiddetta "telepresenza", è creata da sensori che captano i movimenti della persona e li riproducono sullo schermo, di solito in tempo reale.» Grey fissò il potenziale cliente, ma dietro gli occhiali da sole non notò alcun segno che indicasse se aveva capito. Si spostarono dall'altro lato della sala e Grey fece segno a Khalil di sedersi in una delle due poltroncine girevoli, ciascuna delle quali aveva di fronte un monitor. Lui rimase in piedi. «Sono i seggiolini di un vecchio F111 ai quali ho applicato le rotelle. Li ho voluti per ricreare l'atmosfera» spiegò. «Non molto comodi.» «Effettivamente. Ricordo quella volta che... voglio dire, mi è capitato spesso di volare per ore e ore seduto su un seggiolino del genere. Vuole darmi la giacca?» «No, grazie, non sono abituato all'aria condizionata.» «Quando abbasserò la luce, le converrà togliersi gli occhiali.» «Sì.» Grey occupò l'altro seggiolino, poi premette due bottoni di un telecomando e le luci si abbassarono, mentre davanti ai finestroni calavano pesanti tendaggi. Khalil si tolse gli occhiali da sole. Lo schermo si illuminò e apparve l'immagine della cabina di pilotaggio di un caccia. «Quello che vede è un F-16, ma il programma consente di usare diversi altri caccia, fra cui quelli in dotazione alla vostra aviazione» spiegò Grey. «La prima simulazione che le mostrerò è quella di un bombardamento. I piloti che usano per dieci o quindici ore questo software, relativamente economico, possono considerarsi addestrati altrettanto bene dei colleghi che hanno al loro attivo lo stesso numero di ore di volo reali. Il che significa risparmiare milioni di dollari per ciascun pilota.»
«Molto interessante.» «Gli obiettivi programmati in questa simulazione sono quasi tutti immaginari, generici, come ponti, aeroporti, postazioni antiaeree e rampe missilistiche... bersagli che possono reagire all'attacco...» Rise. «Ma sono previsti altri obiettivi, diciamo così, più realistici, e altri ancora possono essere inseriti se si hanno a disposizione foto scattate da un aereo o da un satellite.» «Capisco.» «Bene. Buttiamo giù un ponte.» L'orizzonte verdastro al di là del parabrezza del caccia si trasformò in una serie di montagne e vallate tra le quali scorreva un fiume. E sullo sfondo si ingrandiva velocemente l'immagine di un ponte, dove stava transitando una colonna di camion e carri armati. «Stia a vedere.» L'orizzonte scomparve trasformandosi in un cielo azzurro, mentre l'aereo puntava verso l'alto. Sulla destra del monitor apparve uno schermo radar. «Il pilota in questo momento è concentrato sul radar» proseguì in fretta Grey. «Vede come il computer ha isolato l'immagine del ponte sullo schermo radar? Come l'ha inquadrato nel mirino? Ora sganciamo... pronti... uno, due, tre, quattro...» Sullo schermo apparve in primo piano l'immagine ripresa dall'alto del ponte attraversato dalla colonna militare. Dagli altoparlanti rimbombarono all'improvviso quattro assordanti esplosioni, mentre il bersaglio veniva avvolto in una palla di fuoco. Il ponte cominciò poi a crollare lentamente sui piloni che si sgretolavano e alcuni mezzi militari precipitarono nel vuoto, quindi la simulazione ebbe termine con un fermo immagine. «Non ho voluto eccedere con scene di questo tipo per non essere accusato di partecipare emotivamente» spiegò Grey. «Ma deve comunque darle un certo piacere.» Grey non commentò l'osservazione. Lo schermo del monitor divenne bianco lattiginoso e i due rimasero in silenzio nella semioscurità della stanza. «Nella maggior parte dei programmi questi particolari sono stati omessi, e il pilota legge soltanto il numero delle bombe sganciate e i risultati dei danni provocati» disse poi Grey. «A me la guerra non piace, colonnello.» «Non volevo offenderla.» Tornò un po' di luce e Grey si voltò verso l'ospite. «Posso vedere le sue credenziali, un documento d'identità?» «Naturalmente. Ma prima, perché non ci trasferiamo sui seggiolini della
realtà virtuale e distruggiamo un bersaglio vero, con donne e bambini? Magari... non ha per caso un obiettivo libico? Al-Aziziya, per l'esattezza?» Paul Grey si alzò e respirò profondamente. «Ma chi diavolo è lei?» Asad Khalil si alzò a sua volta, con la bottiglia in una mano e l'altra infilata nella tasca della giacca. «Come Dio ha detto a Mosè, sono chi sono. Sono chi sono, che splendida risposta a una stupida domanda! Chi altri sarebbe potuto essere se non Dio? Ma Mosè probabilmente non era stupido, bensì nervoso. E una persona nervosa chiede "Chi sei?" intendendo dire in realtà "Spero che tu sia quello che penso" oppure al contrario "Spero che tu non sia quello che penso". Allora, Paul Grey, se non sono il colonnello Yitzhak Hurok dell'ambasciata israeliana, chi pensi che io sia?» Grey non rispose. «Voglio aiutarti. Guardami senza gli occhiali da sole e immaginami senza i baffi. Chi sono?» Grey scosse il capo. «Non fingerti stupido, capitano. Lo sai chi sono.» Grey scosse nuovamente il capo, ma arretrò di un passo fissando la mano che Khalil teneva in tasca. «Le nostre vite si sono incrociate una volta, il 15 aprile 1986» riprese Khalil. «Tu eri il pilota di un caccia F-111, sigla in codice Elton 38, di stanza a Lakenheath. Io ero un ragazzo di sedici anni che viveva una vita tranquilla ad al-Aziziya con la madre, due fratelli e due sorelle, tutti morti quella notte: ecco chi sono. Ora, perché pensi che sia venuto qui?» Grey si schiarì la voce. «Se sei un militare, capisci la guerra, e capisci quindi che gli ordini vanno eseguiti...» «Taci. Non sono un militare, ma un combattente islamico della libertà. Siete stati tu e i tuoi complici a trasformarmi in quello che sono. E ora mi trovo nella tua bella casa per vendicare i poveri martiri di al-Aziziya e di tutta la Libia.» Estrasse di tasca la pistola e gliela puntò contro. Grey si guardò rapidamente attorno, quasi a cercare una via di fuga. «Guardami, capitano Paul Grey, guarda me. La realtà sono io, non il tuo stupido e inoffensivo mondo virtuale. Io sono la realtà di carne e sangue, la realtà che risponde al fuoco. Mi chiamo Asad Khalil, e questo nome puoi portartelo all'inferno.» «Senta... Mr Khalil...» Grey lo guardò e, improvvisamente, capì. «Sì, sono proprio quell'Asad Khalil arrivato con il volo 175, l'uomo al quale il tuo governo sta dando la caccia. Avrebbero dovuto cercarmi qui, o in casa del defunto generale Waycliff e della sua defunta moglie.»
«Oh, mio Dio...» «O in casa di Mr Satherwaite, dove andrò uscendo da qui, o da Mr Wiggins, da Mr McCoy, dal colonnello Callum. Vedo con piacere che né tu né loro siete arrivati a certe conclusioni.» «Ma com'è stato possibile?...» «Ogni segreto ha un prezzo. Tu e i tuoi siete stati venduti da quelli di Washington.» «No.» «No? Allora forse a venderti a me è stato un tuo ex compagno di squadriglia, il fu colonnello Hambrecht.» «Sei stato... sei stato...» «Sì, l'ho ucciso io, con un'ascia. Ma tu non soffrirai fisicamente come lui, il tuo sarà un dolore mentale. Lo stesso che provi ora ripensando ai tuoi peccati, in attesa del castigo.» Grey tacque. «Ti tremano le ginocchia, capitano. Puoi vuotare la vescica, se vuoi, non mi offendo.» «Senti, ti hanno dato informazioni sbagliate, non ho partecipato a quella missione. Io...» «Allora perdonami. Me ne vado.» Asad Khalil sorrise e inclinò la bottiglia cominciando a vuotarla. Grey guardò l'acqua che schizzava sul pavimento. Poi rialzò lo sguardo perplesso su Khalil che, vuotata la bottiglia, ne stava avvicinando l'apertura alla canna della pistola. Allora capì e allungò le braccia in un gesto istintivo di difesa. «No!» Khalil esplose un colpo e il proiettile raggiunse Grey all'addome. L'ex capitano si piegò in due, poi fece qualche passo indietro e crollò in ginocchio, premendosi le mani sullo stomaco quasi a voler bloccare il sangue che usciva copioso dalla ferita. Abbassò lo sguardo sulle dita ormai rosse, poi lo rialzò e vide che Khalil gli si stava avvicinando. «Fermati... no...» Khalil puntò la pistola con il suo rudimentale silenziatore. «Non ho più tempo per te, sei messo abbastanza male quanto a cervello.» Ed esplose un altro colpo alla fronte di Grey, facendogli schizzare il cervello dalla nuca. Poi si voltò per raccogliere i due bossoli, mentre la sua vittima crollava sul tappeto. Si avvicinò quindi alla cassetta di sicurezza, incassata tra due monitor, che era aperta, e ne estrasse tutti i dischetti infilandoli nella sua borsa insieme a quello del computer usato da Grey per la simulazione. "Grazie per
la dimostrazione, Mr Grey. Ma al mio paese la guerra non è un videogame." Sulla scrivania trovò un'agenda aperta; tra le annotazioni del giorno lesse: "Colonnello H. ore 9.30". Cercò la data del 15 aprile: un appunto diceva "Teleconferenza di squadriglia". Richiuse l'agenda lasciandola sulla scrivania. La polizia si sarebbe chiesta chi fosse quel misterioso colonnello H. che aveva ucciso Paul Grey per rubargli alcuni segreti militari. Dedicò poi la sua attenzione al Rolodex, l'indirizzario circolare, dal quale estrasse le schede degli altri ex compagni di squadriglia di Grey: Callum, McCoy, Satherwaite e Wiggins. Su ogni cartellino erano indicati indirizzo, numero di telefono e appunti su moglie e figli. Prese anche la scheda dei defunti coniugi Terrance e Gail Waycliff, residenti una volta a Washington e ora all'inferno. Trovò il cartellino di Steven Cox, sul quale era stata scritta in inchiostro rosso la sigla UIC, e capì che significava "ucciso in combattimento". C'era anche un nome di donna, Linda, con l'appunto "risposata Charles Dwyer", seguito da un indirizzo e un numero di telefono. La scheda di William Hambrecht riportava un recapito in Inghilterra che era stato cancellato con un tratto di penna e sostituito da un altro in una città chiamata Ann Arbor, Michigan. "Deceduto" si leggeva accanto al nome, insieme con la data in cui Khalil l'aveva ucciso. C'era un altro nome di donna, Rose, più un altro femminile e due maschili indicati come "Figli". Lieto di scoprire che Paul Grey era un archivista così meticoloso, Khalil si infilò in tasca tutti i cartellini. Forse un giorno gli sarebbero tornati utili. Quando aprì la porta scorrevole, udì in lontananza il rumore di un aspirapolvere. In salotto trovò la donna delle pulizie, che in quel momento gli dava le spalle e non lo udì avvicinarsi. L'aspirapolvere era rumoroso, da qualche parte giungeva della musica e Khalil non stette quindi a perdere tempo con la bottiglia-silenziatore. Avvicinò la canna della pistola alla nuca della donna, che stava canticchiando spingendo l'aspirapolvere avanti e indietro, e premette il grilletto. La donna crollò sul tappeto accanto all'aspirapolvere rovesciato. Allora si rimise in tasca la Glock, infilò nella borsa la bottiglia vuota, raddrizzò l'aspirapolvere senza spegnerlo e recuperò il bossolo. Poi passò in cucina e uscì dalla porta sul retro da cui era entrato. Non trovò traccia della sua pilota nell'hangar, dove l'aveva lasciata, ma dal loft soprastante gli giunse una voce, e avvicinandosi alla scala capì che proveniva da un televisore acceso. Stava per chiamare la ragazza, ma non
ne ricordava il nome. «Ehi, senta!» gridò. La voce tacque e, subito dopo, Stacy Moll si affacciò alla balaustra. «Tutto fatto?» «Tutto fatto.» «Scendo.» Poco dopo comparve sulle scale. «Pronto a partire?» «Sì, pronto.» Lo raggiunse e insieme uscirono dal capannone. «Ci si poteva mangiare sul pavimento di quell'hangar, tant'era pulito» disse lei. «Quel tipo deve essere un ritentivo anale, forse è gay. Le è sembrato gay?» «Come?» «Niente, niente.» Arrivarono allo sportello del Piper. «Le ha comprato i vasi?» «Sì.» «Splendido. Mi sarebbe piaciuto vederli. Li ha comprati tutti?» «Sì, tutti.» «Peccato. Cioè, tanto meglio per lei. Ha ottenuto il prezzo che aveva chiesto?» «Sì.» «Benissimo.» Si arrampicò sull'ala, facendosi poi passare la borsa. «Non sembra molto più leggera.» «Mi ha dato delle bottiglie d'acqua per il viaggio di ritorno.» Aprì lo sportello e appoggiò la borsa sul sedile posteriore. «Spero che le abbia dato anche dei contanti.» «Naturalmente.» Entrò nell'aereo e scivolò sul sedile sinistro. Khalil si sistemò in quello destro allacciandosi la cintura. Anche con lo sportello spalancato la cabina era un forno, e lui sentì che il volto gli si stava imperlando di sudore. Stacy accese il motore e si portò sulla pista di rullaggio, poi si infilò la cuffia con il microfono e fece segno a Khalil di fare altrettanto. Il libico non aveva alcuna voglia di stare a sentire le chiacchiere di quella donna, ma seguì le istruzioni. Subito gli giunse la voce della pilota. «Ho preso una Coca e gli ho lasciato un dollaro sul frigo. Gliel'ha detto?» «Sì.» «È un'usanza, non so se mi spiego. Noi che voliamo ne abbiamo tante. Puoi prendere in prestito ciò che ti serve, ma devi lasciare un biglietto, puoi farti una birra o una Coca ma devi lasciare un dollaro. Che fa nella vita questo Grey?» «Niente.»
«E dove li prende tutti quei soldi?» «Non stava a me chiederglielo.» «Certo. E nemmeno a me.» Stacy sollevò lo sguardo sulla manica a vento mentre si portava al termine della pista 23. Poi allungò il braccio davanti al passeggero per chiudere e bloccare lo sportello. Lanciò un messaggio agli altri aerei per segnalare l'imminente decollo, controllò con lo sguardo il cielo, diede tutto gas e lasciò i freni. Il Piper si mosse e, presa velocità, si staccò dal suolo. «Fra 38 minuti atterreremo all'aeroporto Craig» gli annunciò «dopo aver raggiunto quota 1200 metri e una velocità di crociera di 140 nodi.» Khalil non rispose. Rimasero per un po' in silenzio. «Dove è diretto dopo Jacksonville?» gli chiese infine lei. «Ho un volo per Washington nel primo pomeriggio e da lì tornerò ad Atene.» «Si è fatto tutta questa strada solo per vendere quei vasi?» «Sì.» «Accidenti, spero proprio che ne sia valsa la pena.» «Ne è valsa la pena.» «Forse dovrei mettermi anch'io nel ramo dei vasi greci.» «Anche questo ramo presenta i suoi rischi.» «Ah sì? Per esempio... quello che i vasi, magari, non possono uscire dalla Grecia?» «Sarebbe meglio se lei non parlasse con nessuno di questo viaggio. Io ho detto già troppo.» «Sarò una tomba.» «Prego?» «Ho le labbra sigillate.» «Bene. Tornerò tra una settimana e vorrei avvalermi ancora dei vostri servizi.» «Nessun problema. La prossima volta si fermi un po' di più, così ci berremo qualcosa insieme.» «Mi farebbe piacere.» «Questo è il mio biglietto da visita.» Lo estrasse dal taschino della camicia e glielo porse. Un quarto d'ora dopo atterrarono. Lui sistemò i conti con la signora dietro il banco dell'Alpha Services, e Stacy lo accompagnò con la sua piccola
cabriolet alle Partenze internazionali dell'aeroporto di Jacksonville, dandogli appuntamento alla settimana successiva. Quando l'auto si fu allontanata, Khalil andò al parcheggio dei taxi e salì sul primo della fila. «Dove andiamo?» gli chiese l'autista. «Aeroporto Craig.» «Bene.» Una volta arrivati, Khalil si fece lasciare davanti all'autonoleggio, non lontano dal luogo in cui aveva lasciato la Mercury, pagò l'autista, aspettò che si allontanasse, salì in macchina, avviò il motore e spalancò i finestrini. Uscito dall'aeroporto, programmò il navigatore satellitare per la cittadina di Moncks Corner, in South Carolina. "Da tempo" disse tra sé "devo fare una visita al tenente William Satherwaite. Mi sta aspettando, ma non si aspetta certo di morire." 38 A metà pomeriggio di quel lunedì, insieme a un'altra quarantina di colleghi mi ero trasferito con le mie carte al Centro coordinamento, in un salone che mi ricordava quello del Conquistador Club. Si udiva un brusio ininterrotto, come se l'intero piano fosse su di giri, i telefoni squillavano, i fax sembravano fotocopiatrici, gli schermi dei computer erano tutti accesi e così via. Non ho esattamente una gran familiarità con le nuove tecnologie, in pratica mi sono fermato alla torcia elettrica e al telefono, ma il cervello mi funziona ancora bene. A me e Kate avevano destinato due scrivanie una di fronte all'altra in una specie di cubicolo, pulito ma un po' scomodo. Passando, i colleghi ci lanciavano un'occhiata: eravamo diventati due piccole celebrità. Probabilmente, pensai, perché lì dentro eravamo stati gli unici testimoni della strage più grave della storia americana. Gli unici testimoni viventi, per l'esattezza. Jack Koenig entrò nel salone dirigendosi subito verso di noi e si sedette, tenendo la testa al di sotto del tramezzo che divideva il nostro cubicolo da quello accanto. «Ho appena ricevuto una comunicazione segretissima da Langley» annunciò a bassa voce. «Alle 18.30, ora tedesca, un uomo che corrisponde alla descrizione di Asad Khalil ha ucciso un banchiere americano in una strada di Francoforte e poi è fuggito. La scena ha avuto quattro testimoni, che lo hanno descritto alla polizia come un tipo dall'aspetto arabo; e quando è stata mostrata loro la foto di Asad Khalil, lo hanno identifi-
cato.» Ero a dir poco pietrificato, distrutto. La mia carriera stava finendo nel cesso. Avevo sbagliato i calcoli e, in casi del genere, ti chiedi se per caso non hai perso tutto ciò che avevi. Lanciai un'occhiata a Kate e mi accorsi che anche lei era scioccata; fino a quel momento era davvero convinta che Khalil si trovasse ancora negli Stati Uniti. Mi vidi già, dimissionario, al party d'addio organizzato dai colleghi. Brutto modo di concludere quella brutta storia: sei finito professionalmente se fai fiasco nell'inchiesta più importante al mondo. Mi alzai. «Be'... è fatta... immagino che... voglio dire...» Per la prima volta in vita mia mi sentivo perdente, incompetente, scemo e idiota. «Siediti» disse Jack sottovoce. «No, me ne vado. Mi spiace, ragazzi.» Afferrai la giacca e uscii in corridoio, sentendomi la testa vuota e il corpo come separato dalla coscienza: la stessa sensazione che avevo provato su quell'ambulanza quando mi stavano portando all'ospedale in fin di vita. Non ricordo nemmeno come arrivai fino all'ascensore, so solo che a un certo punto ero là davanti aspettando che le porte si aprissero. A peggiorare le cose, avevo anche perso 30 dollari con la Cia. D'improvviso mi trovai accanto Kate e Jack. «Non fare cenno di questa faccenda con nessuno» mi disse Koenig. Non capivo cosa volesse dire. «Il riconoscimento non è sicuro al cento per cento, visto che è avvenuto sulla base di una foto; quindi dobbiamo continuare tutti a lavorare a questo caso come se Asad Khalil si trovasse ancora negli Stati Uniti. Capito? Pochissimi sono al corrente di quanto avvenuto a Francoforte, e ho creduto mio dovere informartene, ma neanche Stein lo sa. Quindi devi tenertelo per te, John.» Annuii. «E non devi far nulla che possa insospettire i colleghi. In altre parole, non puoi dimetterti.» «Sì che posso.» «E invece no, John» intervenne Kate. «Devi fare quello che ti si chiede, devi andare avanti come se non fosse successo nulla.» «Non ce la faccio. A che scopo, poi?» «Non possiamo permetterci di compromettere il morale e l'entusiasmo degli altri» tornò alla carica Koenig. «Sta' a sentire, non sappiamo se que-
sto assassino di Francoforte sia davvero Khalil.» Provò con una battuta. «Perché Dracula dovrebbe andarsene in Germania?» Non gradii il riferimento a quella mia stupida analoga, ma cercai ugualmente di chiarirmi le idee e mi sforzai di essere razionale. «Forse è una messinscena, forse hanno usato qualcuno che gli somiglia» azzardai. Koenig assentì. «Proprio così, come facciamo a dire che si tratta proprio di Khalil?» L'ascensore arrivò, le porte si aprirono, ma io non entrai. Mi accorsi che Kate mi stava tenendo per un braccio. «Offro a tutti e due la possibilità di partire stasera per Francoforte, dove lavorerete con la Cia e l'Fbi, oltre che con la polizia e i servizi di sicurezza tedeschi. Penso proprio che dobbiate andare, io verrò con voi e mi fermerò un paio di giorni.» Rimasi in silenzio. «Credo proprio che dovremmo andare» intervenne Kate. «John?» «Sì... forse... meglio comunque che restare qui...» Koenig guardò l'ora. «C'è un volo Lufthansa per Francoforte che parte alle 20.10 dal Kennedy e arriva domattina. Ted ci aspetterà...» «Nash? Nash è lì? Pensavo fosse a Parigi.» «Probabilmente era a Parigi, ma ora si sta precipitando a Francoforte.» Ci pensai su, qualcosa non mi convinceva. Koenig aveva fretta. «Allora, ragazzi, prendete le vostre cose. Ci vediamo al Kennedy non più tardi delle 19, i biglietti sono già pronti al banco Lufthansa. Preparate i bagagli per una lunga assenza.» Girò i tacchi e tornò al Centro coordinamento. Kate rimase con me. «Quello che mi piace in te, John, è l'ottimismo» commentò. «Non ti abbatti mai, i problemi per te rappresentano una sfida, non...» «Risparmiami certi discorsi, ti prego.» «Okay.» Ci incamminammo a nostra volta verso il Centro. «Fa bene Jack a spedirci a Francoforte» osservò lei. «Ci sei mai stato?» «No.» «Io sì, diverse volte. È probabile che dovremo girare per l'Europa seguendo qualche pista. Puoi andartene via per tanto tempo, quasi senza preavviso, senza creare troppi inconvenienti?» Dietro questa domanda sembravano celarsene altre. «Nessun problema» mi limitai a rispondere.
Tornammo alle nostre scrivanie e cominciai a riempire di carte la borsa, altre ne infilai nei cassetti. Volevo chiamare Beth Penrose, ma poi decisi che sarebbe stato preferibile telefonarle da casa. Kate aveva terminato di prendere le sue cose. «Vado a casa a fare la valigia. Vieni via anche tu?» mi chiese. «No... ci metto pochissimo a fare i bagagli. Ci vediamo al Kennedy.» «A più tardi.» Fece qualche passo, poi tornò indietro e avvicinò il suo viso al mio. «Se Khalil è ancora qui, avevi ragione tu. Se è in Europa, ci sarai anche tu. Okay?» Mi accorsi che qualcuno ci stava guardando. «Grazie.» Se ne andò. Rimasi seduto alla scrivania a riflettere su quegli ultimi sviluppi, cercando di identificare la puzza di bruciato che percepivo in modo confuso. Ammesso che Khalil non fosse più in America, come e perché era finito in Europa? Anche un tipo come lui sarebbe tornato in patria a farsi dare qualche pacca sulla spalla e, a parte questo, fare secco un banchiere non era certo un secondo atto all'altezza del primo. Eppure... Mi stavo consumando i neuroni, a quelli troppo svegli come me succede a volte di farsi fessi da soli. Il cervello, voglio dire, è uno strumento importantissimo, l'unico organo intelligente del corpo umano, a parte il pene. E mentre lo mandavo fuori giri per risolvere quel rebus, l'altro organo superiore mi stava dicendo: "Vai in Europa con Kate e scopatela. A New York non hai niente da fare, John". Ma le sfere più alte del mio intelletto mi dicevano invece: "C'è qualcuno che vuole sbarazzarsi di te". Ora, non voglio dire che questo qualcuno stesse cercando di spedirmi in Europa a farmi ammazzare, ma non potevo escludere che l'obiettivo fosse quello di allontanarmi dal cuore delle indagini. Quella faccenda di Francoforte poteva benissimo essere una messinscena organizzata dai libici, o dalla Cia. È maledettamente seccante non riuscire a distinguere il vero dal falso, l'amico dal nemico; come nel caso di Ted Nash. Mi alzai per andarmene, poi tornai a sedere, infine mi rialzai. La faccenda puzzava decisamente di bruciato, e alla fine mi mossi per tornare a casa. Avrei preso una decisione prima di chiamare il taxi per l'aeroporto, ma in quel momento propendevo per Francoforte. Arrivato davanti agli ascensori, vidi Gabriel Haytham che mi faceva segno di avvicinarmi. «Credo di avere qualcosa per te» mi disse sottovoce quando lo raggiunsi.
«Cioè?» «Abbiamo un libico nella stanza degli interrogatori, si è messo in contatto con uno dei nostri e...» «Vuoi dire che si è presentato spontaneamente?» «Proprio così. Non ha precedenti, non è un informatore, non compare in nessun elenco. Uno Yusuf come tanti, che nel caso specifico si chiama Fadi Aswad...» «Ma perché i vostri nomi mi fanno sempre pensare alla linea d'attacco dei Knicks?» Gabriel rise. «La prossima volta rivolgiti ai cinesi, i loro nomi fanno pensare ai campanelli dei flipper. Allora, questo Aswad fa il tassista e ha un cognato, Jamal Jabbar, che come lui è libico e come lui fa il tassista. Noi arabi facciamo tutti i tassisti, vero?» «Giusto.» «Dunque, sabato mattina Jamal Jabbar telefona al cognato Fadi Aswad annunciandogli che starà via tutto il giorno, perché deve andare a prendere un cliente speciale al Kennedy. E la cosa non gli fa molto piacere.» «Ti ascolto.» «Jamal aggiunge che quella sera potrebbe fare tardi e, in questo caso, il cognato Fadi dovrà telefonare a sua sorella, cioè la moglie di Jamal, per dirle di non preoccuparsi.» «Allora?» «Devi cercare di capire gli arabi.» «Ci sto provando.» «Quello che Jamal vuol dire al cognato...» «È che potrebbe trattarsi di un ritardo prolungato.» «Prolungato per l'eternità, nel senso che temeva di morire.» «Dov'è ora Jamal?» «È morto, ma Fadi non lo sa ancora. Ho appena finito di parlare con la Squadra omicidi, i colleghi di Perth Amboy stamattina presto hanno ricevuto la telefonata di un tizio. Alle 6.30 questo tizio aveva lasciato l'auto in un parcheggio per pendolari vicino al capolinea degli autobus, notando un taxi giallo con la targa di New York. Stava per andarsene, poi per curiosità si è avvicinato al taxi e ha visto il corpo riverso di un uomo dalla parte del guidatore. Ha provato ad aprire gli sportelli, ma erano bloccati, e a quel punto ha chiamato la polizia.» «Andiamo a parlare con questo Fadi» dissi. Davanti alla porta Gabriel si fermò. «Mi hanno fatto un rapporto preli-
minare al telefono. A uccidere questo Jamal è stato un proiettile sparato attraverso lo schienale del sedile, che gli ha spezzato la spina dorsale, gli ha forato il ventricolo destro ed è andato a conficcarsi nel cruscotto.» «Calibro 40?» «Esatto. La pallottola è deformata ma è decisamente una 40. Jamal dovrebbe essere morto nel tardo pomeriggio di sabato o poco più tardi.» «Gli hanno controllato il Telepass?» «Sì, ma non è stato registrato alcun pedaggio nella giornata di sabato. Jamal abitava a Brooklyn, forse è andato al Kennedy e poi è finito nel New Jersey: un itinerario che prevede il casello del pedaggio. Evidentemente ha pagato in contanti, e forse il passeggero nascondeva il viso dietro un giornale per non farsi riconoscere. Difficile ricostruire il percorso esatto, ma la distanza indicata dal tassametro è compatibile con quella tra il Kennedy e il posto in cui abbiamo trovato lui e il suo taxi. L'identificazione non è definitiva, ma il morto assomiglia alla foto della licenza.» «C'è altro?» «Niente di importante.» Entrammo. Fadi Aswad, seduto al tavolo, indossava jeans, scarpe da ginnastica e una felpa verde; aspirava nervose boccate da una sigaretta, il portacenere traboccava di cicche e il fumo dentro quella stanza si sarebbe potuto tagliare con il coltello. L'edificio in cui ci trovavamo era ovviamente federally correct, quindi non si poteva fumare, ma ai fermati e ai testimoni importanti era concesso. Nella stanza c'era anche un collega della polizia in forza all'Attf, per tener d'occhio il testimone nel caso avesse deciso di uccidersi in modo più rapido di quello garantito dal fumo; o per impedire che prendesse un ascensore e sparisse, com'è già successo. Vedendo entrare Gabriel Haytham, Fadi si alzò in piedi e la cosa mi piacque; devo abituare testimoni e sospetti ad alzarsi anche quando entro io. Il collega dell'Attf si allontanò e Gabriel mi presentò all'uomo. «Fadi, questo è il colonnello John.» Oh Gesù, devo essere andato proprio bene all'esame da sergente. Fadi chinò leggermente il capo, ma rimase in silenzio. Ci sedemmo, e appoggiai la valigetta sul tavolo perché Fadi la vedesse. Non so perché, ma nel Terzo Mondo la ventiquattrore è sinonimo di potere. Era un testimone volontario, quel Fadi, quindi andava trattato bene. Il naso in effetti sembrava intatto, e non si vedevano contusioni ed ecchimo-
si. Scherzo, naturalmente, ma Gabe sa essere molto ruvido quando vuole. Gabe mi offrì una delle sigarette di Fadi e ne prese una anche lui. Notai che erano Camel e la cosa mi sembrò buffa... gli arabi, i cammelli... Accendemmo con l'accendino di Fadi, ma io non aspirai, giuro che non aspirai. Gabe premette il pulsante del registratore al centro del tavolo. «Fadi, di' al colonnello quello che hai detto a me.» L'uomo sembrava al tempo stesso desideroso di rendersi utile e spaventato a morte. È difficile che un arabo si presenti spontaneamente alla polizia, a meno che non voglia fottere qualcuno o intascare una taglia o sia un agent provocateur, per usare un'espressione francese e della Cia. Quel Jamal Jabbar di cui ci parlava era comunque morto, anche se Fadi non lo sapeva, e tale circostanza rendeva il suo racconto più credibile. Parlava inglese abbastanza bene, ma ogni tanto ricorreva all'arabo, voltandosi poi verso Gabriel perché traducesse. Concluse il suo racconto e si accese una sigaretta con il mozzicone di quella che stava fumando. Era terribilmente sudato. A quel punto avevo il forte sospetto che Jamal Jabbar avesse preso a bordo Asad Khalil al Kennedy, portandolo al parcheggio per pendolari di Perth Amboy, nel New Jersey; e prendendosi un proiettile alla schiena in cambio del suo disturbo. Qual era stata la sua meta successiva? E come l'aveva raggiunta? Guardai Fadi. «Non ci si rivolge all'Attf per denunciare la scomparsa di un cognato. Evidentemente, amico mio, sai bene chi siamo e che tipo di lavoro facciamo, vero?» «Signore?» «Ora ti faccio una domanda diretta, e la risposta dovrà essere sì o no. Credi che la scomparsa di tuo cognato abbia qualcosa a che vedere con quanto è avvenuto sabato al Kennedy sul volo Trans-Continental? Sì o no?» «Se devo essere sincero, signore, ho preso in considerazione...» «Sì o no?» Abbassò gli occhi. «Sì.» «Quindi ti rendi conto che tuo cognato, il marito di tua sorella, potrebbe essere rimasto vittima di una disgrazia?» Annuì. «Lo sai che temeva di essere ucciso?» «Sì.»
«È possibile che abbia lasciato qualche indizio, qualche...» Guardai Gabe, che gli fece la domanda in arabo e poi mi tradusse la risposta. Jamal aveva detto a Fadi di prendersi cura della sua famiglia se gli fosse successo qualcosa. Aveva aggiunto che non aveva scelta, doveva per forza caricare quel cliente speciale e Allah, nella sua misericordia, lo avrebbe riportato a casa sano e salvo. Per un po' rimanemmo tutti in silenzio. Mi accorsi che Fadi era visibilmente scosso. Approfittai di questa pausa per riflettere. In un certo senso non avevamo fatto un gran passo avanti: conoscevamo i movimenti di Khalil dal Kennedy a Perth Amboy - ammesso che il cliente di Jamal fosse davvero Khalil - e sapevamo che, una volta arrivato a Perth Amboy, aveva con molta probabilità ucciso Jamal per poi scomparire. Ma per riapparire dove? All'aeroporto di Newark? E come ci era arrivato? Con un altro taxi? Oppure c'era un complice che lo attendeva con un'altra auto al parcheggio dei pendolari? O forse qualcuno aveva lasciato nel parcheggio un'automobile noleggiata? E che direzione aveva preso poi Khalil con quest'auto? In ogni caso, era sfuggito alla rete e non si trovava più nell'area metropolitana di New York. Guardai Fadi. «Hai detto a qualcuno che ti saresti messo in contatto con noi?» Scosse il capo. «Nemmeno a tua moglie?» Mi guardò come si guarda un matto. «Non parlo di certe faccende con mia moglie, perché andarle a raccontare a una donna o a un bambino?» «Giusto.» Mi alzai in piedi. «Venendo da noi hai fatto la cosa giusta, Fadi. Adesso torna al lavoro e comportati come se non fosse successo niente, okay?» Annuì. «Però ho una brutta notizia da darti... tuo cognato è stato ucciso.» Si alzò di scatto e cercò di dire qualcosa, poi guardò Gabe che gli parlò in arabo. Allora crollò sulla sedia e si nascose il volto tra le mani. «Raccomandagli di non entrare in particolari con quelli della Omicidi, quando andranno a trovarlo» dissi a Gabe. «Dagli un biglietto da visita, dovrà mostrarlo ai detective e dirgli di telefonare all'Attf.» Gabe tornò a parlare in arabo con Fadi, poi gli passò il biglietto da visita. Riflettei che una volta ero stato un detective della Omicidi e ora stavo dicendo a un testimone di non parlare con la Squadra omicidi e di rivolger-
si invece ai federali. La trasformazione era quasi completa. Spaventoso. Uscii con Gabe dalla stanza, nella quale rientrò il collega dell'Attf che avrebbe raccolto la deposizione di Fadi per fargliela firmare. «Tenete sotto controllo lui, la famiglia, la sorella e un po' tutti» dissi a Gabe in corridoio. «Ventiquattr'ore su ventiquattro.» «Già fatto.» «Assicurati che nessuno lo veda uscire da questo edificio.» «È quello che facciamo sempre in casi del genere.» «Giusto. E manda qualcuno alla Centrale di polizia, ad accertare se per caso non c'è in giro qualche altro cadavere di tassista.» «Ho già chiesto, stanno controllando.» «Bene. Sto offendendo la tua intelligenza?» «Un po'.» Sorrisi, era la prima volta che sorridevo quel giorno. «Grazie, ti sono debitore.» «Allora, che ne pensi di questa faccenda?» mi chiese. «Quello che ho sempre pensato. Cioè che Khalil è in America e si sta muovendo, sta compiendo la sua missione, lungi dal nascondersi in attesa che passi la buriana.» «Sono d'accordo con te. E quale sarebbe la missione?» «Vallo a sapere. Cominciamo a chiedere alla polizia di New York e a quella delle contee vicine di controllare presso gli autonoleggi eventuali nomi dal suono arabo. È una ricerca lunga, ci vorrà una settimana o anche più, ma sarà sempre meglio che starsene con le mani in mano. Credo che dovresti andare a parlare personalmente con la neovedova, per farti dire se per caso Jamal Jabbar si era confidato con lei, e già che ci sei potresti parlare anche con amici e parenti della vittima. Abbiamo una prima traccia, Gabe, e potrebbe rivelarsi utile, anche se da parte mia non sono troppo ottimista.» «Ammettendo che sia stato Khalil a uccidere Jamal Jabbar» osservò Gabriel «abbiamo a disposizione soltanto una pista fredda che termina a Perth Amboy e un testimone morto.» «E purtroppo non credo che il nostro amico abbia molti complici in America. Complici vivi, intendo dire» aggiunsi. «Forse è proprio così. Okay, Corey, ora ho del lavoro da fare, ma ti terrò aggiornato. Tu informa di questi ultimi sviluppi chi di dovere, al più presto possibile, e digli anche che stanno per ricevere il verbale dell'interrogatorio di Fadi.»
«Senz'altro. A proposito, cerca di far dare a Fadi Aswad un po' di quei dollari stanziati per gli informatori, gli serviranno per le sigarette e i tranquillanti.» «D'accordo, a più tardi.» Tornai al Centro coordinamento, dove il brusio era tutt'altro che cessato anche se ormai erano le 18 passate. Chiamai Kate. "Non sono a casa" mi informò la sua voce registrata "per favore asciate un messaggio." Lasciai un messaggio nel caso lei avesse controllato da fuori la segreteria di casa, poi la chiamai sul cellulare, ma senza successo. Telefonai a casa di Jack Koenig, a Long Island, e la moglie mi informò che era già andato all'aeroporto; provai anche con il cellulare, ma inutilmente. A quel punto chiamai Beth Penrose, ma anche in quel caso mi rispose la segreteria telefonica e allora registrai un altro messaggio. «Sto lavorando a questo caso ventiquattr'ore su ventiquattro e potrei essere costretto a partire da un momento all'altro. Amo questo lavoro, amo mia moglie, amo i miei capi, amo il mio nuovo ufficio. Eccoti il numero di telefono dove puoi trovarmi.» Le lasciai il mio diretto del Centro coordinamento e conclusi con un «Mi manchi, ci sentiamo presto». Agganciai, consapevole che in effetti avrei voluto dirle "Ti amo"... ma ormai era fatta. Telefonai poi al capitano Stein, chiedendo alla sua segretaria di fissarmi un appuntamento immediato e venendo a sapere che il capitano era impegnato in una serie di riunioni e di conferenze stampa. Lasciai allora un messaggio così confuso e ambiguo che nemmeno io riuscii a capirlo. Dopo aver adempiuto all'obbligo di informare chi di dovere, rimasi a girarmi i pollici. Attorno a me sembravano tutti occupatissimi, e io non sono capace di fingermi indaffarato se non ho nulla da fare. Sfogliai alcune carte sulla scrivania, ma di informazioni inutili ne avevo ormai fin troppe. D'altra parte sarebbe stato altrettanto inutile mettermi a scarpinare in strada, quindi rimasi al Centro coordinamento nel caso fosse emerso qualcosa di nuovo, e ci sarei rimasto fino alle 2 o alle 3 di notte. Magari a una certa ora il presidente avrebbe voluto parlarmi e, visto che dovevo essere reperibile, non era il caso di farmi trovare a casa o mentre mi scolavo una birra da Giulio. Qualcuno fece cadere sulla mia scrivania una busta sigillata, con la stampigliatura FAX URGENTE - SOLO PER I TUOI OCCHI. Conteneva un rapporto preliminare sull'agguato di Francoforte. La vittima si chiamava Sol Leibowitz ed era un funzionario della Banca di New York; dopo aver letto la breve relazione, conclusi che lo sfortunato Mr Leibowitz aveva a-
vuto il torto di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. In Europa girano migliaia di banchieri americani, ebrei o non ebrei, ed ero certo che questo Leibowitz aveva rappresentato un facile bersaglio per un qualsiasi killer di serie C vagamente rassomigliante ad Asad Khalil. Ma l'incidente di Francoforte aveva creato dubbi e confusione nelle menti di certa gente che con il dubbio e la confusione ci va a nozze. Sulla mia scrivania atterrarono altri due documenti importanti, ossia i menu di un ristorante italiano e di uno cinese che facevano consegne a domicilio. Squillò il telefono. «Che diavolo stai facendo lì?» mi chiese Kate. «Sto leggendo dei menu per ordinare la cena. Tu dove sei?» «Dove credi che sia? All'aeroporto, John, ad aspettarti con Jack Koenig nella sala d'attesa della business. Il tuo biglietto l'abbiamo noi. Hai fatto la valigia? Ce l'hai il passaporto?» «No. Ascolta...» «Resta in linea.» La udii parlottare con Jack Koenig, poi tornò all'apparecchio. «Jack dice che devi assolutamente venire con noi e che può farti salire a bordo anche senza passaporto, ma devi arrivare qui prima che l'aereo decolli. Ed è un ordine.» «Càlmati e ascolta, forse c'è un fatto nuovo.» E le raccontai di Fadi Aswad e Jamal Jabbar. Mi ascoltò senza interrompermi. «Resta in linea» disse alla fine. Poco dopo tornò al telefono. «Tutto questo non esclude che Khalil possa essersi imbarcato a Newark su un aereo per l'Europa.» «Ma dai, Kate. Era già in un aeroporto, a meno di un chilometro dal terminal Partenze internazionali, e dal Kennedy a Newark c'è un'ora di strada; puoi star certa che durante questo lasso di tempo l'allarme era scattato anche a Newark. Stiamo parlando di Asad il Leone, non Asad il Tacchino.» «Un momento.» La udii parlare di nuovo con Koenig e poi tornare per la terza volta all'apparecchio. «Jack dice che la tecnica dell'agguato e la descrizione si attagliano...» «Passamelo.» Koenig prese la cornetta e cominciò a sbraitare ma l'interruppi. «La tecnica dell'agguato e la descrizione si attagliano al nostro uomo, Jack, perché è quello che vogliono farci credere. Asad Khalil, dopo aver commesso l'attentato del secolo, non se ne va in Germania per far secco un banchiere,
Santo Iddio! E, anche ammettendo che fosse diretto all'aeroporto di Newark, che senso ha uccidere il tassista prima ancora di arrivarci? No, non mi convince affatto. Voi andate pure a Francoforte, se volete, ma io rimango qui. Mandatemi una cartolina e portatemi una dozzina di veri wurstel con quella speciale senape tedesca. Grazie.» E riattaccai prima che potesse licenziarmi. Mancava un quarto alle 21 quando vidi entrare Kate, che andò a sedersi alla scrivania di fronte alla mia e rimase in silenzio a guardarmi battere sulla tastiera del computer. Dopo un po' che qualcuno mi fissa senza parlare, comincio a fare errori di battitura, quindi alzai gli occhi su di lei. «Com'era Francoforte?» Non rispose e capii che doveva essere decisamente incazzata. La conosco, ormai, quell'espressione che le si leggeva sul viso. «Dov'è Jack?» le chiesi. «È partito per Francoforte.» «Bene. Sono stato licenziato?» «No, ma tra poco ti dispiacerà che non sia accaduto.» «Non reagisco bene alle minacce.» «No? E a cosa reagisci?» «Non a molte cose, forse a una pistola puntata alla tempia. Sì, in quel caso la mia attenzione non rimane insensibile.» «Riparlami di quella storia del tassista.» Gliela raccontai per la seconda volta, aggiungendo alcuni particolari, e lei mi fece un sacco di domande. È una ragazza sveglia, Kate, per questo in quel momento era di fronte a me invece che su un volo Lufthansa per Francoforte. «Quindi» mi chiese alla fine «tu credi che Khalil si sia allontanato dal parcheggio pendolari in auto?» «Sì.» «E perché non prendere un autobus per Manhattan?» «Ci avevo pensato, in effetti i pendolari si servono di quel parcheggio per poi prendere il bus alla fermata lì accanto. Ma mi sembra un po' eccessivo, mentre aspetti il pullman, ammazzare il tassista che ti ha portato fin lì. Scommetto anzi che, se Khalil avesse chiesto a Jabbar di portarlo a Manhattan, quello non avrebbe avuto nulla in contrario.» «Non fare troppo il sarcastico, John, stai camminando su una lastra di ghiaccio sottilissima.» «Sì, signora.»
Rimase a riflettere. «D'accordo» disse alla fine «diciamo che c'era un'auto ad attenderlo nel parcheggio, non avrebbe attirato l'attenzione e probabilmente nessuno l'avrebbe rubata. Dunque, Jabbar accompagna Khalil fino al parcheggio, quest'ultimo gli spara un proiettile calibro 40 nella spina dorsale e poi sale sull'auto che lo attende. C'è qualcuno al volante? Un complice?» «Non credo. Che bisogno avrebbe avuto di un autista un solitario come lui, che probabilmente aveva già guidato in Europa? Gli servono solo le chiavi e i documenti dell'auto, e potrebbe averglieli dati lo stesso Jabbar, che a questo punto però ha visto e saputo troppo e viene quindi eliminato. Nell'auto noleggiata, o nel taxi di Jabbar, Khalil trova una borsa con soldi, documenti e forse qualcosa per alterare la sua fisionomia. Ecco perché il nostro amico non ha preso nulla a Phil e Peter. Asad Khalil si è ormai trasformato in un'altra persona, inghiottita dal grande sistema stradale americano.» «E dov'è diretto?» «Non lo so, ma è certo che a quest'ora, se ha ridotto al minimo le ore di sonno, potrebbe avere attraversato il confine con il Messico oppure trovarsi sulla costa occidentale. Guidando per 50 ore a una velocità media di 100 chilometri l'ora si percorrono 5000 chilometri, e i chilometri quadrati dell'area compresa in questo raggio si calcolano... vediamo un po'... non bisogna trovare la radice quadrata di...?» «Ho capito, lascia perdere.» «Quindi, se c'è un assassino che gira indisturbato, e se diamo per scontato che non ha intenzione di approfittare di questa libertà per andare a Disney World, non ci resta che aspettare la sua prossima mossa. Non abbiamo molte alternative, a parte sperare che qualcuno lo riconosca.» Kate si alzò in piedi. «C'è un taxi sul portone con la mia valigia, vado a casa a disfarla.» «Ti serve aiuto?» «Ti aspetto in taxi.» E uscì. Cercai di capire perché me n'ero venuto fuori con quel "Ti serve aiuto?". Dovrei imparare a tenere il becco chiuso. A volte preferirei affrontare un maniaco omicida armato piuttosto che passare un'altra notte in casa di una signora. Con il maniaco omicida, se non altro, sai da che parte stai e la conversazione è ridotta all'essenziale. Il mio telefono si era rimesso a squillare, come quasi tutti gli altri telefoni lì dentro, e la cosa cominciava a darmi sui nervi.
Posso essere bravissimo a leggere nel pensiero di un killer e ad anticipare le sue mosse, ma passando dagli omicidi al sesso rimango completamente disarmato. Ogni volta che mi faccio incastrare torno a chiedermi come ho fatto, perché l'ho fatto e come uscirne. Di solito, però, so chi è l'altra persona, sono bravo a ricordarmi i nomi: anche alle 6 del mattino. Sono anche bravo a sentire puzza di bruciato, e in quel momento la sentivo. Da quando mi ero messo con Beth Penrose, poi, ero filato dritto come un fuso e non volevo complicarmi né quella relazione né la vita. Presi la decisione di scendere e dire a Kate che avevo deciso di andarmene a casa. Quindi mi alzai, presi borsa e giacca, scesi ed entrai nel taxi accanto a lei. 39 Bill Satherwaite sedeva con i piedi appoggiati sulla scrivania, incasinatissima, del suo ufficetto nell'aeroporto della contea di Berkeley, a Moncks Corner. Teneva tra spalla e orecchio la cornetta appiccicaticcia del telefono, ascoltando all'altro capo la voce di Jim McCoy e fissando l'anemico condizionatore incassato nella parete. La ventola, decisamente rumorosa, produceva appena un timido refolo di aria fredda. Era soltanto aprile e in quel maledetto buco della South Carolina la temperatura aveva già superato i 30 gradi. «Hai sentito Paul ultimamente?» gli stava chiedendo Jim McCoy. «Mi ha detto che ti avrebbe chiamato.» «No, e mi spiace non aver potuto partecipare alla teleconferenza sabato scorso. Ma ho avuto una giornata pienissima.» «Be', capisco. Ti ho chiamato solo per sapere come te la passi.» «Me la passo bene, direi.» Satherwaite sapeva che dentro il cassetto all'altezza del quale aveva poggiato i piedi c'era una bottiglia quasi piena di Jack Daniel's. L'orologio a muro segnava le 16.10, il che significava che in qualche parte del mondo erano passate le 17; un'ora più che ragionevole per farsi un goccio, se non fosse stato per il cliente che si sarebbe dovuto presentare alle 16. «Te l'ho detto che qualche mese fa ho preso l'aereo e sono andato a trovare Paul?» chiese a McCoy. «Sì, me l'hai...» «Dovresti vedere che casa ha messo in piedi: piscina, hangar con dentro un Beechcraft bimotore, fica corrente calda e fredda.» Rise alla sua battuta. «Merda, quando mi hanno visto arrivare con il mio vecchio Apache, hanno
cercato di impedirmi di atterrare.» Rise nuovamente. McCoy colse al volo l'occasione. «Paul era un po' preoccupato per quell'Apache.» «Ah sì? Be', se ti posso dire la mia opinione, Paul è diventato una vecchia signora. Quante volte ci ha fatto girare le scatole controllando tutto per la centesima volta? Gli incidenti capitano sempre a quelli troppo meticolosi come lui e il mio Apache ha superato i test di revisione della Federal Aviation Administration.» «Stavo solo riferendoti quel che ho sentito, Bill.» «Certo.» Continuò a fissare la scrivania, poi tolse i piedi dal ripiano e si raddrizzò sulla poltrona aprendo il primo cassetto. «Dovresti venire una volta a vedere il covo di Paul» disse poi all'amico. Jim McCoy, a dire il vero, era già stato a Spruce Creek in diverse occasioni. Ma non voleva rivelarlo a Bill Satherwaite, che era stato invitato soltanto una volta nonostante si trovasse a nemmeno un'ora e mezzo di volo. «Sicuro, mi piacerebbe...» «La casa e l'arredamento sono incredìbili, ma dovresti vedere quella cazzo di realtà virtuale su cui sta lavorando. Cristo, abbiamo passato un'intera serata a bere e a bombardare tutto il bombardabile.» Scoppiò a ridere. «Il raid su al-Aziziya l'abbiamo ripetuto cinque volte. Incredibile, cazzo. E la quinta volta eravamo talmente fuori da non riuscire nemmeno a colpire il terreno, altro che l'obiettivo.» Fu colto da un accesso di riso. Si sforzò di ridere anche Jim McCoy, che non aveva alcuna voglia di ascoltare per l'ennesima volta il racconto del weekend passato da Bill Satherwaite a casa di Paul Grey. Era stato particolarmente lungo quel weekend, gli aveva poi spiegato Paul. Fino a quel momento, infatti, nessuno di loro si era reso conto di quanto Bill Satherwaite fosse peggiorato dall'ultima riunione di squadriglia, sette anni prima. Ora lo sapevano. «Ti ricordi, bello» riprese Bill «di quando tardai ad azionare l'acceleratore ausiliario e Terry stava per finirmi nel culo?» Rise e posò la bottiglia sulla scrivania. Jim McCoy, direttore del Museo Culla dell'aviazione a Long Island, non riconosceva quasi nell'amico all'altro capo del filo il Bill Satherwaite di qualche anno prima. Il vecchio Bill Satherwaite era stato un ufficiale e un pilota di primissima categoria, ma il pensionamento anticipato aveva segnato per lui l'inizio di una china inarrestabile; e con il passare degli anni cresceva ai suoi occhi l'importanza di quel raid anti-Gheddafi del 1986. Raccontava in continuazione i suoi ricordi di guerra a chiunque fosse di-
sposto ad ascoltarli, e da qualche tempo perfino agli ex compagni di squadriglia. Ogni anno i racconti si facevano sempre più drammatici, e il suo ruolo in quella guerra durata dodici minuti si ingigantiva. Le smargiassate di Satherwaite preoccupavano Jim McCoy, perché nessuno di loro avrebbe dovuto ammettere di aver partecipato al raid né tantomeno lasciarsi scappare i nomi degli altri. Glielo aveva ripetuto tante volte a Bill di stare attento a ciò che diceva, e l'amico aveva cercato di tranquillizzarlo, sostenendo di usare solo le sigle radio o i nomi di battesimo. "Ma non devi nemmeno dire che c'eri anche tu" aveva insistito McCoy, tutt'altro che rassicurato. "Smettila di parlarne." "Senti, sono orgoglioso di ciò che ho fatto" aveva replicato Satherwaite. "E non stare tanto a preoccuparti, quegli idioti con lo straccio in testa non verranno certo a Moncks Corner, in South Carolina, a pareggiare i conti. Se la fanno addosso." McCoy avrebbe voluto ricordargli di controllare le parole, ma si rese conto dell'inutilità di quella raccomandazione. Se l'ex compagno di squadriglia fosse rimasto in aviazione almeno fino alla guerra del Golfo, forse prender parte all'azione avrebbe potuto cambiargli la vita. Mentre era al telefono con McCoy, Satherwaite teneva d'occhio la porta e l'orologio a muro. Finché, stanco d'aspettare, svitò il tappo del Jack Daniel's e mandò giù una lunga sorsata senza interrompere il fiume dei suoi ricordi di guerra. «E quel cazzo di Chip» stava dicendo «ha dormito per tutto il tragitto. Quando l'ho svegliato, ha lanciato quattro bombe e si è rimesso immediatamente a dormire.» Altra risata gorgogliante. McCoy stava perdendo la pazienza. «Ma non dicevi che non ha mai chiuso il becco fino in Libia?» «Certo, non ha mai chiuso il becco.» Capì che Satherwaite non era in grado di notare la contraddizione e decise di congedarsi. «Okay, amico, teniamoci in contatto.» «No, un momento, non riattaccare. Sto aspettando un cliente che devo accompagnare a Philadelphia per riportarlo qui domani mattina. Come ti va il lavoro?» «Non male, il museo ha pochi rivali al mondo. Anche se non è ancora completato, abbiamo moltissime riproduzioni di aerei, tra cui un F-111 e perfino lo Spirit of St. Louis. Lindbergh è decollato da Roosevelt Field, non lontano da qui. Dovresti venire a visitarlo, ti metterò nella carlinga dell'F-111.» «Ah sì? A proposito, che c'entra la culla?»
«Culla dell'aviazione, Long Island viene chiamata la "culla dell'aviazione".» «E Kitty Hawk?» «Preferisco non chiederlo, non devo dondolarla io la culla.» Rise. «Perché non vieni a trovarmi uno di questi giorni? Atterri al McArthur di Long Island e io passo a prenderti.» «Certo, uno di questi giorni. Come sta Terry?» Jim McCoy avrebbe voluto riagganciare, ma con i vecchi commilitoni bisogna avere pazienza. Fino a un certo punto, almeno. «Ti manda i suoi saluti.» «Stronzate.» «E invece è proprio così» insisté McCoy, cercando di essere sincero. Bill Satherwaite ormai non lo sopportava più nessuno, ammesso che in passato fosse stato simpatico a qualcuno, ma avevano ricevuto insieme il battesimo del fuoco; e l'etica dei guerrieri, o quantomeno ciò che ne rimaneva ancora in America, sanciva l'indissolubilità di certi legami finché l'ultimo di loro non avesse esalato l'ultimo respiro. Tutti i vecchi compagni di squadriglia si sforzavano di sopportare Satherwaite, tranne Terry Waycliff, che lo criticava con il tacito consenso degli altri. «Terry fa ancora pompini al Pentagono?» chiese Satherwaite. «Sì, lavora sempre al Pentagono e probabilmente sarà ancora lì il giorno in cui andrà in pensione.» «Vada a fare in culo.» «Gli porterò senz'altro i tuoi saluti.» Satherwaite rise. «Sai qual era il problema di Terry? Si sentiva generale anche da tenente, non so se capisci cosa voglio dire.» «È quello che molti pensano anche di te, Bill. E te lo dico come complimento, credimi.» «Se questo è un complimento, figuriamoci gli insulti. Terry si sentiva sempre in competizione con tutti e a me ha rotto le palle in più di un'occasione. Quella volta, al ritorno dal raid, ha scritto nel rapporto che avevo atteso troppo prima di attivare l'acceleratore ausiliario; e, invece di prendersela con Wiggins, aveva accusato me per quelle cazzo di bombe sganciate per sbaglio...» «Basta, Bill. Non esagerare.» Bill Satherwaite ingollò un altro sorso di bourbon e riuscì a soffocare un rutto. «Certo... okay... mi spiace...»
Pensando ai rapporti tra Terry Waycliff e Bill Satherwaite, McCoy ricordò che Bill, congedandosi dall'aviazione, aveva perduto tra i tanti privilegi anche quello che gli stava più a cuore: il diritto di fare acquisti al negozio di liquori della base aerea di Charleston, che aveva prezzi scontatissimi. E Terry, all'insaputa di Bill, aveva fatto qualche telefonata riuscendo a fargli rilasciare una tessera per lo spaccio. «C'era anche Bob, ieri, alla teleconferenza» disse McCoy. Bill si agitò a disagio sulla poltroncina, non gli capitava mai di andare volontariamente con il pensiero a Bob Callum e al suo cancro; e nemmeno involontariamente. Callum aveva il grado di colonnello e, a quanto ne sapeva Satherwaite, faceva l'istruttore di terra all'accademia aeronautica di Colorado Springs. «Lavora ancora?» chiese a McCoy. «Sì, è sempre lì. Dagli un colpo di telefono.» «Certo, glielo darò. Brutto affare. Sopravvivi a una guerra e poi fai una morte peggiore.» «Non è ancora morto, potrebbe farcela.» «Sicuro. Per concludere, parlami di quel mio merdoso partner: come sta Chip?» «Non sono riuscito a mettermi in contatto con lui, l'ultima lettera che gli ho spedito al suo indirizzo in California mi è tornata indietro. Il telefono è staccato e non saprei a chi rivolgermi.» «Tipico di Wiggins dimenticare di aggiornare le sue carte» fu il commento di Satherwaite. «Ai nostri tempi ho faticato a tenerlo in riga, mi toccava sempre ricordargli tutto quello che doveva fare.» «Chip non cambia mai.» «Puoi dirlo.» McCoy cambiò argomento. «Dicevi che stai aspettando un cliente?» «Sì, ed è in ritardo.» «Bill, hai bevuto per caso?» «Ma sei pazzo? Prima di un volo? Sono un professionista, Cristo!» «Okay...» Se Bill stava mentendo sul bere, pensò McCoy, probabilmente aveva mentito anche sui suoi impegni e non aspettava nessun cliente. Passò in rassegna i vecchi componenti della pattuglia: Steve Cox era stato ucciso nella guerra del Golfo; Willie Hambrecht, assassinato in Inghilterra; Terry Waycliff stava per concludere la sua brillante carriera; Paul Grey era un uomo d'affari di successo; Bob Callum aveva un cancro; Chip Wiggins risultava disperso in azione, ma probabilmente se la passava bene; Bill Satherwaite era diventato il fantasma di se stesso. E infine lui, Jim McCoy,
dirigeva un museo: lavoro buono, stipendio non altrettanto. Di loro otto, due erano morti mentre un altro stava morendo di cancro, uno stava morendo di vita, uno era scomparso e gli altri tre se la passavano abbastanza bene, almeno per il momento. «Dovremmo andare tutti a trovare Bob» disse a Bill Satherwaite con il suo tono di voce più suadente. «Senza perdere altro tempo. Organizzo tutto io, ma tu devi assolutamente venire, Bill.» L'altro rimase in silenzio qualche secondo. «Certo, si può fare, si può fare» disse infine. «Riguardati, amico.» «Anche tu... ciao.» Satherwaite riagganciò e si stropicciò gli occhi, che gli si erano inumiditi. Poi mandò giù un altro sorso di bourbon e infilò la bottiglia nella borsa da viaggio. Si alzò guardandosi intorno. Su una parete, accanto a una carta aeronautica, era appeso un vecchio manifesto sbiadito e raggrinzito per l'umidità: una foto di Gheddafi con un bersaglio disegnato attorno alla testa. Tra i mille oggetti che ingombravano la scrivania Satherwaite trovò una freccetta e la lanciò contro il poster, mandandola a conficcarsi in mezzo alla fronte di Gheddafi. "Sì, così! Vaffanculo!" Il cliente che aspettava era uno stupido straniero, magari un clandestino che andava a rifornire Philadelphia di droga, e il bastardo era anche in ritardo. Ma, se non altro, non avrebbe avuto nulla da ridire sentendo la puzza di bourbon, probabilmente pensava che il bourbon fosse la tipica bevanda analcolica americana. Il pensiero lo fece rìdere. Andò alla scrivania a leggere l'appunto che aveva preso. "Alessandro Fanini", sembrava un nome ispanico o italiano. "Sì, meglio un bel guappo che uno dei tanti Pedro che arrivano dal Messico." «Buon pomeriggio.» Satherwaite si voltò di scatto e vide accanto alla porta spalancata un tipo alto con gli occhiali scuri. «Sono Alessandro Fanini, scusi il ritardo» disse il tipo alto. Il pilota si chiese se quello avesse udito le sue ultime parole, poi guardò l'orologio a muro. «Solo mezz'ora, non si preoccupi.» Poi gli si avvicinò, stringendogli la mano. «Sono stato trattenuto a Charleston» spiegò Khalil. «Nessun problema.» Satherwaite notò che il cliente aveva una grossa borsa nera di tela e indossava un vestito grigio. «Ha altri bagagli?» gli chiese. «Sì, ma li ho lasciati in albergo a Charleston.»
«Bene, spero non le dispiaccia se vengo in jeans e maglietta.» «Figuriamoci, purché lei stia comodo. Come le ho detto, però, dovremo pernottare.» «Mi porterò una borsa anch'io.» Indicò una sacca dell'Air Force posata in un angolo del pavimento sporco. «Più tardi verrà la mia ragazza a chiudere bottega.» «Dovremo essere di ritorno domani a mezzogiorno.» «Mi sta bene qualsiasi ora.» «Ho lasciato l'auto a nolo accanto all'edificio principale. È sicura lì?» «Certo.» Satherwaite si avvicinò a una mensola pericolosamente inclinata e prese un rotolo di carte aeronautiche, poi raccolse la borsa da terra. «Pronto?» E sorrise, seguendo lo sguardo del cliente fisso sul poster di Gheddafi. «Lo sa chi è?» gli chiese. «Certo, il mio paese si è scontrato più di una volta con quell'uomo.» «Ah sì? Con quella faccia di merda di Muammar Gheddafi?» «Sì, ci ha minacciato tante volte.» «Ma guarda. Per sua informazione, quel bastardo io una volta l'ho quasi ucciso.» «Davvero?» «Lei è italiano?» gli chiese Satherwaite. «Sì, sono siciliano.» «Ma no! Una volta sarei dovuto atterrare in Sicilia, se avessi terminato il carburante.» «Come dice?» «È una lunga storia e non sono nemmeno autorizzato a parlarne. Come non detto.» «Come preferisce.» «Okay, se mi tiene la porta aperta, possiamo uscire.» «Un'altra cosa. C'è stata una leggera modifica al mio programma, quindi anche il suo dovrà essere modificato.» «Sarebbe a dire?» «La ditta mi manda a New York.» «A me non piace volare su New York, signor...» «Fanini.» «Fanini, certo. Troppo traffico, troppi stronzi.» «Le pagherò un supplemento.» «Non è una questione di soldi. Quale aeroporto, a proposito?» «Si chiama MacArthur. Lo conosce?»
«Sì, non ci sono mai stato, ma dovrebbe essere okay, è uno degli aeroporti di Long Island. Affare fatto, però ci sarà un extra da pagare.» «Naturalmente.» Satherwaite posò le sue cose sulla scrivania e prese dalla mensola un'altra carta. «Pensi che coincidenza, prima che lei arrivasse parlavo al telefono con uno di Long Island che insisteva perché andassi a trovarlo. Quasi quasi gli faccio una sorpresa, o forse è meglio che lo chiami per avvertirlo che sto arrivando.» «Meglio una sorpresa, secondo me. O forse potrebbe telefonargli subito dopo l'atterraggio.» «Aspetti che prendo il numero di telefono.» Estrasse una tesserina dall'indirizzario Rolodex. «Si trova vicino all'aeroporto?» gli chiese Khalil. «Non lo so, ha detto che mi sarebbe venuto a prendere.» «Può usare la mia auto, se ne ha bisogno. Ne ho prenotata una, oltre a due stanze in un motel.» «Stavo proprio per chiederglielo, non divido la stanza con un uomo.» Khalil si sforzò di sorridere. «Nemmeno io.» «Bene, questo l'abbiamo messo in chiaro. Senta, se paga in anticipo e in contanti, le faccio uno sconto.» «Quanto sarebbe, in totale?» «Mi faccia pensare... Mac Arthur, il pernottamento, il carburante, le lezioni di volo del mattino che devo cancellare... Diciamo che 800 in contanti dovrebbero bastare.» «Mi sembra ragionevole.» Khalil estrasse di tasca il portafogli e contò otto biglietti da 100 dollari, ai quali ne aggiunse un nono. «Questi sono di mancia per lei.» «Grazie.» Khalil aveva quasi esaurito i contanti, ma sapeva che presto ne sarebbe rientrato in possesso. Satherwaite contò le banconote e se le infilò in tasca. «Tutto a posto.» «Bene, io sono pronto.» «Prima devo fare una pisciata.» Satherwaite scomparve dietro una porta. Asad Khalil guardò il poster del Grande Leader, poi notò la freccetta conficcata in mezzo alla fronte e la staccò. "Nessuno merita di morire più di questo porco americano" pensò. Satherwaite uscì dal bagno e insieme lasciarono l'ufficio. «Lei in che ramo lavora, Mr Panini?» chiese il pilota.
«Fanini. Come le avrà detto il collega che le ha telefonato da New York, opero nel settore tessile e sono venuto qui ad acquistare cotone.» «Allora ha scelto il posto giusto. Non è cambiato nulla dai tempi della guerra civile, solo che adesso gli schiavi devono pagarli.» Rise. «E alcuni di questi schiavi, ora, sono ispanici e bianchi. Ha mai visto una piantagione di cotone? Quando si dice un lavoro di merda... non riescono a trovare personale, e forse per raccogliere il cotone dovranno far venire qualcuno di quegli arabi idioti, gente che ama il caldo. Potrebbero pagarli con merda di cammello e dirgli che in banca gliela cambieranno.» Scoppiò a ridere. L'aereo era un vecchio bimotore Piper Apache bianco e blu, al quale Satherwaite aveva già sciolto le funi di ancoraggio togliendo anche il blocco dei comandi e le zeppe sotto le ruote. E aveva controllato il livello del carburante, in pratica l'unico controllo effettuato perché - aveva pensato - in quell'aereo c'erano tante cose che non andavano che non era proprio il caso di perdere tempo a cercare nuovi difetti. «Ho fatto tutti i controlli prima del suo arrivo» disse al cliente «e l'aereo è in gran forma.» Asad Khalil guardò il vecchio Piper, lieto che avesse due motori. Pochi minuti dopo l'aereo prese velocità e si staccò dal suolo a metà pista. Satherwaite rimase in silenzio mentre regolava comandi e manopole, virando poi a 40 gradi mentre il Piper continuava a salire. Khalil guardò la campagna verde sotto di loro, pensando che l'aereo e il pilota sembravano più affidabili rispetto alla prima impressione. «In che guerra ha combattuto?» chiese al pilota. Satherwaite si infilò in bocca una gomma da masticare. «Tante guerre... la più grossa è stata quella del Golfo.» Asad Khalil, che sul conto di Satherwaite era quasi più informato del diretto interessato, sapeva che il suo pilota non aveva preso parte a quella guerra. «Vuole una gomma?» gli chiese Satherwaite. «No, grazie. E su quali aerei ha combattuto?» «Caccia.» «Cioè?» «Jet da caccia, cacciabombardieri. Ho volato su diversi modelli per finire poi su uno che si chiama F-111.» «Può parlarne... oppure è un segreto militare?» Quello rise. «No, signore, nessun segreto. Si tratta di un vecchio aereo che è stato tolto dalla circolazione diverso tempo fa. Un po' come me.» «Ha nostalgia di quell'esperienza?»
«L'esperienza militare, vuol dire? No, se parliamo delle fesserie come le scarpe lucide, il saluto sull'attenti e così via. Adesso sugli aerei da combattimento impiegano anche le donne, Cristo santo. Non riesco nemmeno a pensarci. Come se non bastasse, queste troie creano poi ogni tipo di problema con le loro fottute accuse di molestie sessuali... Mi spiace, è lei che ha tirato fuori l'argomento. A proposito, come sono le donne dalle sue parti? Sanno stare al loro posto?» «Sì, decisamente.» «Molto bene, forse un giorno ci verrò nel suo paese. Ha detto Sicilia, vero?» «Sì.» «Cosa parlano in Sicilia?» «L'italiano.» «L'imparerò prima di partire. Hanno bisogno di piloti da quelle parti?» «Certo.» «Bene.» Fece una pausa. «Come le dicevo, non ho nostalgia delle formalità militari, ma mi manca tanto il combattimento.» «Com'è possibile avere nostalgia del combattimento?» «Non lo so... quel che è certo è che non mi sono mai sentito così bene in vita mia come quando vedevo sfrecciarmi vicini quei traccianti, quei missili. Certo, se mi avessero colpito, forse ora non ne sentirei la mancanza. Ma quei bastardi idioti non sarebbero riusciti a colpire nemmeno il pavimento con uno schizzo di piscio.» «Di chi sta parlando?» «Diciamo gli arabi, non posso precisare quali arabi.» «Perché no?» Rise. «Segreto militare. Non la missione, ma i partecipanti alla missione.» «E come mai?» Satherwaite lanciò un'occhiata al passeggero. «Non vengono mai resi noti i nomi dei piloti che partecipano a una missione di bombardamento, perché il governo teme che quegli incapaci di beduini possano venire in America a vendicarsi. Stronzate. Anche se, a dire il vero, il capitano della Vincennes... era quella nave da guerra che per sbaglio abbatté un aereo di linea iraniano nel Golfo... be', qualcuno gli ha messo una bomba nell'auto, anzi era un pulmino, in California. Pensi un po', cose incredibili, la moglie quasi ci restava secca.» Khalil annuì. Era al corrente dell'episodio, e gli iraniani, mettendo quella
bomba, avevano fatto capire di non accettare né la spiegazione né le scuse. «In guerra i morti provocano altri morti» disse. «Ma va? In ogni caso, il governo teme che questi beduini possano far del male ai suoi eroici combattenti. Merda, non me ne può fregare di meno di chi sa che ho bombardato gli arabi, e può star certo, caro amico, che se verranno a cercarmi, se ne pentiranno.» «Lei gira armato?» Satherwaite fissò il passeggero. «Mrs Satherwaite non ha tirato su un idiota.» «Come dice, scusi?» «Sono armato e pericoloso.» L'aereo superò quota 2000 metri. «Durante la guerra del Golfo invece» riprese Satherwaite «quei deficienti del governo hanno cercato l'appoggio della stampa mandando i piloti in Tv. Voglio dire, cazzo, dicono di avere paura degli arabi e poi fanno sfilare i ragazzi davanti alle telecamere? Glielo dico io perché, volevano conquistare l'opinione pubblica, quindi hanno mandato alla tele quei damerini a sorridere e ripetere: "Che grande guerra è stata!", e come era stato bello compiere il proprio dovere al servizio di Dio e della Patria. E insieme a ognuno di questi ragazzi hanno mostrato in televisione un centinaio di sventole, non sto scherzando; fiche in parata per dimostrare che l'esercito è politically correct, cazzo! Chi ha seguito la guerra sulla Cnn si è convinto che a combatterla sono state soprattutto le fiche. Se l'immagina cosa devono avere pensato gli iracheni, scoprendo che a metterli in ginocchio è stato un branco di troie?» Rise. «Gesù, che bello esserne fuori!» «Perché tiene quel poster alla parete?» gli chiese Khalil. «Per ricordarmi di quella volta che sono stato lì lì per mettergli una bomba nel culo.» Bill Satherwaite ormai non riusciva più a tenere la bocca chiusa. «La mia missione, a dire il vero, non prevedeva che bombardassi la sua casa, toccava a Jim e Paul. E loro l'hanno bombardata, ma quello se n'era andato a dormire sotto una tenda, Cristo! A quei fottuti arabi piace dormire in tenda. È morta la figlia, purtroppo, ma la guerra è guerra; quella bomba se la sono presa anche la moglie e un paio di figli, che comunque sono sopravvissuti. A nessuno piace uccidere donne e bambini, ma a volte si trovano dove non dovrebbero. Voglio dire, se fossi un figlio di Gheddafi cercherei sempre di tenermi a oltre un chilometro di distanza da paparino.» Rise di nuovo. Khalil respirò a fondo, sforzandosi di non perdere il controllo. «E qual
era la sua missione?» gli chiese. «Ho bombardato un centro comunicazioni, un deposito di carburante, una caserma e... qualcos'altro. Non ricordo bene. Perché me lo chiede?» «Per nessun motivo in particolare, trovo questo racconto affascinante.» «Be', cambiamo discorso, Mr Fanini. Come le dicevo, non dovrei parlare di certe faccende.» «Naturalmente.» Raggiunta la quota di 2500 metri, Satherwaite tolse un po' di potenza e l'aereo si fece meno rumoroso. «Telefonerà al suo amico di Long Island?» chiese Khalil. «Penso di sì.» «È un amico della vita militare?» «Sì, ora però dirige un museo dell'aviazione. Se domattina abbiamo un po' di tempo, potrei farci un salto, perché non viene anche lei? Le mostrerò il mio vecchio F-111, ne hanno un esemplare al museo.» «Sarebbe interessante.» «Non ne vedo uno da anni.» «Chissà quanti ricordi.» «Proprio così.» Guardando il panorama che gli sfilava sotto gli occhi, Khalil pensò all'aspetto ironico della sua missione. Era arrivato da Satherwaite dopo aver ucciso un suo vecchio commilitone e ora lo stesso Satherwaite lo stava accompagnando a ucciderne un altro. Chissà se il pilota avrebbe apprezzato questo tipo d'ironia. Quando il sole cominciò a calare, Khalil recitò a mente le preghiere. «Dio ha benedetto la mia jihad» aggiunse poi sottovoce «Dio ha confuso i miei nemici, Dio li ha mandati da me. Dio è grande.» «Ha detto qualcosa?» gli chiese Satherwaite. «Ho ringraziato Dio per questa bella giornata e gli ho chiesto di benedire il mio viaggio in America.» «Gli chieda anche di farmi un paio di favori.» «Gliel'ho già chiesto. Glieli farà.» 40 «Hai intenzione di venire dentro o hai bisogno di dormire a casa tua anche questa sera?» mi chiese Kate mentre il taxi si muoveva. In quelle parole colsi un che di ironico, forse addirittura una sfida alla
mia virilità: stava decisamente imparando quali erano i tasti giusti. «Vengo su» risposi. «Si dice "venire su", non "venire dentro".» «Come preferisci.» Rimanemmo seduti nel taxi in silenzio. Il traffico era moderato, un acquazzone d'aprile faceva luccicare l'asfalto delle strade e il tassista era croato. Mi informo sempre sulla nazionalità dei tassisti, sto facendo una specie d'inchiesta. Arrivati davanti al palazzo di Kate, pagai il taxi, cioè il nostro tragitto più la corsa dal Kennedy e l'attesa davanti all'ingresso di Federal Plaza, e le portai la valigia. Sesso libero non vuol dire gratuito. Il portiere ci tenne aperta la porta d'ingresso, chiedendosi sicuramente perché Ms Mayfield fosse uscita nel tardo pomeriggio con una valigia per tornare qualche ora dopo con la stessa valigia e un uomo. Spero che questo enigma gli tolga il sonno. Arrivammo con l'ascensore al quattordicesimo piano. Quello di Kate era il tipico appartamentino in affitto con le pareti candide, i pavimenti in quercia senza tappeti e l'arredamento moderno ridotto all'essenziale. Non c'erano piante, quadri, sculture, cianfrusaglie ornamentali e, grazie a Dio, non si vedevano tracce di gatti. Su uno scaffale a muro si notavano diversi libri, un televisore e un lettore di cd i cui altoparlanti erano appoggiati sul pavimento. C'era anche una specie di zona cucina, a cui Kate Mayfield si avvicinò per aprire una credenza. «Scotch?» «Sì, grazie.» Appoggiai sul pavimento valigia e borsa. Lei mise la bottiglia dello scotch sul banco della colazione tra la cucina e l'area pranzo, dove però mancava il tavolo. Mi arrampicai su uno sgabello mentre Kate versava lo scotch in due bicchieri pieni di ghiaccio. «Soda?» «No, grazie.» Brindammo prima di bere, poi lei decise di fare un secondo giro e ci scolammo un altro po' di whisky. «Hai cenato?» mi chiese. «No, ma non ho appetito.» «Comunque ho delle merendine.» Riaprì la credenza, tirando fuori delle orribili confezioni avvolte nella plastica, con nomi assurdi come CrunchO, e si riempì la bocca con una manciata di vermi secchi all'arancia, o Dio sa cos'erano. Quindi si versò un altro scotch e mise nel lettore un compact di vecchie canzoni di Billie Holiday. Si tolse scarpe e giacca, mettendo in mostra una camicetta bianca di
buon taglio, la Glock nella fondina e tutto il resto; tra noi tutori della legge sono rimasti in pochi a portare ancora la fondina ascellare e lei, chissà perché, era tra questi. Lanciò la giacca su una poltrona, quindi si tolse la fondina e la fece cadere sulla giacca. Attesi che si mettesse ancora più a suo agio, ma lo strip-tease era finito. Allora, per non sfruttare l'inutile vantaggio delle armi, mi tolsi anch'io giacca e fondina. Kate le prese, le mise sopra le sue e venne a sedersi sullo sgabello accanto al mio. Con il tono più professionale che riuscii a tirar fuori, le parlai dei vantaggi della nuova Glock calibro 40 d'ordinanza, delle sue prestazioni decisamente migliori rispetto a quelle della calibro 9 e così via. «Non perfora un giubbotto antiproiettile, ma di sicuro mette KO chi lo indossa.» Lei non sembrava granché interessata. «Devo assolutamente mettere in ordine questo appartamento» osservò. «A me sembra in ordine.» «Abiti in una discarica, per caso?» «Una volta ci abitavo, poi sono finito nella residenza coniugale. Non male.» «Come l'hai conosciuta tua moglie?» «L'ho ordinata per corrispondenza.» Rise. «A dire il vero volevo una macchina per il cappuccino, ma probabilmente ho sbagliato a scrivere il numero dell'articolo e così me la sono vista recapitare a domicilio dall'UPS.» «Sei uno strano tipo.» Guardò l'orologio. «Più tardi voglio guardare i telegiornali delle 23, ci sono state tre conferenze stampa.» «D'accordo.» Si alzò. «Vado ad ascoltare i messaggi sulla segreteria telefonica, poi chiamerò il Centro coordinamento per informarli che sono a casa.» Mi guardò. «Devo dire che sei qui?» «Decidi tu.» «Quelli vogliono che tu sia reperibile ventiquattr'ore su ventiquattro.» «Lo so.» «Allora? Ti fermi?» «Anche questo devi deciderlo tu. Stupiscimi.» «Giusto.» E scomparve dietro una porta, quella della stanza da letto o forse dello studio. Bevvi un altro sorso di scotch, cercando di decidere la durata e lo scopo
di quella visita. Sapevo che se avessi terminato il whisky e me ne fossi andato, io e Kate Mayfield non saremmo più stati amici; sapevo anche che se fossi rimasto e fosse successo quello che doveva succedere, io e Kate Mayfield non saremmo più stati amici. Insomma, mi ero messo nei guai. Riapparve Kate. «Sulla segreteria c'era soltanto il tuo messaggio» mi annunciò. Venne a sedersi accanto a me e infilò un dito nel suo bicchiere per mescolare scotch e ghiaccio. «Ho chiamato il Centro coordinamento.» «Gliel'hai detto che sono qui da te?» «Sì. Il funzionario di turno aveva il vivavoce inserito e, appena gliel'ho detto, ho sentito gli applausi dei colleghi.» Sorrisi. Rimanemmo a chiacchierare ascoltando I only have eyes for you. «Bevo quando sono nervosa» mi disse, sorprendendomi. «Il sesso mi rende sempre nervosa... non il sesso in sé, voglio dire, ma la prima volta che lo faccio con qualcuno. Succede anche a te?» «Sì... sono sempre un po' teso.» «Non sei quel duro che vuoi sembrare.» «Stai parlando di James Corey, il mio gemello cattivo.» «Chi è quella donna di Long Island?» «Te l'ho detto, una collega della Omicidi.» «È una storia seria? Voglio dire, non mi va di metterti in una situazione difficile.» Non risposi. «In ufficio sono in molte a trovarti sexy.» «Davvero? Ho cercato di comportarmi il meglio possibile.» «Non importa ciò che fai o dici, a renderti sexy è il tuo aspetto, il modo di camminare.» «Sto arrossendo?» «Un po'. E io ti sembro sfrontata?» Per quella domanda avevo da sempre in serbo una risposta standard. «No, sei onesta e schietta. Mi piacciono le donne che dimostrano interesse per un uomo senza ricorrere ai giri di parole che impone la società borghese.» «Stronzate.» «Proprio così. Passami lo scotch.» Lei prese la bottiglia e si avvicinò al divano. «Guardiamo il telegiornale.» Andai a sistemarmi davanti alla Tv, portandomi dietro il bicchiere, men-
tre Kate spegneva il lettore di cd e con il telecomando accendeva il televisore sulla Cbs, proprio mentre andava in onda il telegiornale delle 23. L'apertura era dedicata al volo Trans-Continental 175 e alle relative conferenze stampa. «Notizie sconvolgenti sulla tragedia avvenuta sabato all'aeroporto Kennedy» disse la conduttrice. «Oggi, nel corso di una conferenza stampa, l'Fbi e la polizia di New York hanno confermato una voce che girava da tempo: la morte di tutti i passeggeri e dell'equipaggio del TransContinental 175 non è stata provocata da un incidente, bensì da un attentato terroristico. L'Fbi sospetta che l'autore di questo attentato sia un cittadino libico di nome Asad Khalil» e sullo schermo apparve la foto di Khalil, mentre fuori campo la conduttrice aggiungeva altri particolari. «Ecco la foto che vi abbiamo mostrato ieri sera, quella della persona attualmente oggetto di una colossale caccia all'uomo. Ora sappiamo che questo individuo è ricercato in relazione alla strage avvenuta...» Kate passò sulla Nbc, che stava dando le stesse notizie, poi sull'Abc e sulla Cnn. Cambiava canale in continuazione e la cosa mi sta bene se a farlo sono io; ma se lo fa qualcun altro, specialmente una donna, mi dà sui nervi. Apparvero poi le immagini della prima conferenza stampa. Felix Mancuso, responsabile dell'ufficio Fbi di New York, diede qualche particolare scelto con cura, e lo stesso fece il capo della polizia. Venne poi il turno di Jack Koenig, che parlò degli sforzi congiunti di Fbi e polizia, senza fare il nome dell'Anti-Terrorist Task Force. Jack non citò nemmeno Peter Gorman e Phil Hundry né, com'è ovvio, il Conquistador Club; ma parlò della morte di Nick Monti, Nancy Tate e Meg Collins definendoli "appartenenti alle forze federali". E, dalla sua breve dichiarazione, il telespettatore ricavava l'impressione che i tre fossero morti nel corso di una sparatoria con il terrorista in fuga. Il servizio su questa prima conferenza stampa si concluse con i cronisti che sparavano domande a raffica; ma i big erano scomparsi, lasciando il povero Alan Parker come un cervo abbagliato dai fari delle auto. Kate spense il televisore e, con lo stesso telecomando, riaccese il lettore di cd. Portentoso. «Voglio vedere la replica della puntata di X-Files» dissi. «Quella in cui Mulder e Scully scoprono che la biancheria intima di lui è in effetti una forma di vita sconosciuta.» Lei rimase in silenzio. Era arrivato il "momento".
Kate si versò un altro whisky e notai che le tremava la mano. Poi scivolò sul divano e la circondai con un braccio. Bevemmo dallo stesso bicchiere, ascoltando la voce sexy di Billie Holiday cantare Solitude. Mi schiarii la voce. «Non possiamo essere amici e basta?» «No. Non mi sei nemmeno simpatico.» «Ah...» Ci baciammo e, nel giro di due secondi, il Piccolo Johnny si trasformò nel Grosso Cattivo Johnny. In men che non si dica avevamo sparso i nostri abiti sul pavimento e sul tavolino e ce ne stavamo sdraiati nudi sul divano, viso contro viso. Se l'Fbi assegnasse medaglie per i corpi migliori, a Kate andrebbe sicuramente una stella d'oro tempestata di diamanti. Voglio dire, ero troppo vicino a lei per poterla vedere ma, come tanti uomini in situazioni del genere, potevo contare su un eccezionale senso del tatto. Le esplorai cosce e natiche, passando poi le mani in mezzo alle gambe e risalendo fino al seno. Aveva la pelle fredda e morbida, come piace a me, e i muscoli erano ovviamente palestrati. Il mio corpo, ammesso che a qualcuno interessi, potrei definirlo muscoloso ma flessibile. Un tempo lo stomaco era piatto come un'asse da stiro, ma dopo essersi beccato una pallottola si era un po' rilassato. Kate mi stava passando una mano sulla chiappa destra e si bloccò quando le dita toccarono la cicatrice. «Che cos'è?» «Il foro d'uscita.» «E quello d'entrata?» «È nella parte bassa dell'addome.» La mano si spostò sull'inguine e continuò a cercare finché non trovò il punto esatto, circa sette centimetri a nordest di Mount Willie. «Ah... c'è andato vicino.» «Pochi centimetri e ora saremmo solo amici.» Rise e mi strinse tra le braccia, svuotandomi il polmone malconcio. Ne aveva di forza, quella donna. Qualcosa mi diceva che Beth Penrose non avrebbe approvato quella situazione, anzi ne ero quasi certo. Ce l'ho una coscienza, io, ma purtroppo a non averla è l'altro mio organo intelligente; per risolvere il conflitto tra le due parti, lasciai che la seconda prendesse il sopravvento. Ci stringemmo, ci baciammo e ci strofinammo per una decina di minuti. C'è qualcosa di squisitamente delizioso nell'esplorare un corpo nudo sconosciuto, la grana dell'epidermide, le curve, le colline e le vallate, il sapore
e l'odore di una donna. Adoro i preliminari, ma il mio amichetto Willie si stava facendo impaziente e proposi quindi a Kate di trasferirci in camera da letto. «No, facciamolo qui sul divano» rispose. Mi venne sopra e in un batter d'occhio la natura del nostro rapporto professionale si trasformò. Rimasi sdraiato sul divano mentre Kate andava in bagno. Non sapevo che tipo di contraccettivo usasse, ma l'assenza di culle e pannolini fu sufficiente a rassicurarmi. Quando tornò, accese l'abat-jour accanto al divano e cominciò a guardarmi, allora mi misi a sedere. Adesso potevo vederle tutto il corpo e in effetti era splendido, più pieno di come l'avevo immaginato quelle poche volte che l'avevo spogliata con il pensiero. Mi accorsi anche che era una bionda naturale, ma questo l'avevo immaginato. Si inginocchiò davanti a me e mi allargò le gambe. Aveva in mano un panno umido che usò per pulire uno dei miei due organi intelligenti, quello su cui ho il controllo minore. «Non male per un vecchio» commentò. «Usi il Viagra?» «Macché, devo prendere il bromuro per tenerlo a bada.» Rise, poi chinò il capo e appoggiò il viso sul mio grembo mentre le carezzavo i capelli. Rialzò la testa e ci tenemmo per le mani, poi vide la cicatrice e la toccò, quindi portò la stessa mano dietro la mia schiena, finché non trovò con le dita la cicatrice del foro d'uscita. «La pallottola ti ha spezzato una costola anteriore e la corrispondente posteriore.» Sono preparate, le ragazze dell'Fbi. Meglio quell'osservazione, comunque, di "Oh, poverino, chissà quanto devi avere sofferto!". «Ora posso dire a Jack dove sei stato ferito» proseguì ridendo. «Hai fame?» «Sì.» «Bene, faccio delle uova strapazzate.» Si trasferì nella zona cucina e io mi alzai per raccogliere i vestiti sparsi dappertutto. «Non rivestirti» gridò dalla cucina. «Volevo solo provarmi reggiseno e mutandine.» Rise di nuovo. «Posso fare qualcosa?» le chiesi. «Sì, pettinati e togliti il rossetto dalla faccia.»
«Giusto.» Passai in camera e notai che il letto era fatto. Che bisogno hanno le donne di fare il letto? La stanza era spoglia come il soggiorno, mi sembrava di essere in un motel. Era chiaro che Kate Mayfield aveva deciso di non metter su casa a New York. Entrai in bagno dove, a differenza delle altre stanze, sembrava essere passato qualcuno con un mandato di perquisizione. In mezzo ai mille oggetti piccoli e grandi che ingombravano la mensola dei trucchi trovai un pettine e me lo passai tra i capelli, poi mi lavai la faccia, feci i gargarismi con un collutorio e mi guardai allo specchio. Avevo le borse sotto gli occhi arrossati, il volto piuttosto pallido e la cicatrice sul torace sembrava bianca e glabra rispetto a ciò che la circondava. John Corey aveva evidentemente percorso un bel po' di strada in salita, e altri chilometri ancora lo aspettavano; ma il pistone funzionava ancora, anche se le batterie erano momentaneamente scariche. Tornai in soggiorno, non volendo trattenermi troppo a lungo negli appartamenti privati di Mademoiselle. Kate aveva poggiato sul tavolino due piatti con uova strapazzate e toast, insieme a due bicchieri di succo d'arancia. Andai a sedermi sul divano, lei mi si inginocchiò di fronte sul pavimento e mangiammo. Avevo veramente fame. «Abito a New York da otto mesi e tu sei il primo con il quale sono stata» mi informò. «L'immaginavo.» «E di te che mi dici?» «Sono anni che non vado con un uomo.» «Sii serio.» «Be'... che posso dirti. Sto con una persona, lo sai.» «Non possiamo sbarazzarcene?» Risi. «Dico sul serio, John. Posso anche accettare la comproprietà per qualche settimana, ma poi mi va di... hai capito, insomma.» «Ho capito perfettamente» le dissi, anche se non ne ero del tutto certo. Rimanemmo a lungo a guardarci, finché mi resi conto che avrei dovuto dire qualcosa. «Ascolta, Kate, secondo me tu sei soltanto sola... sola e troppo presa dal lavoro. E io non sono l'uomo giusto, non lo sono affatto. Quindi, se...» «Stronzate, non sono né sola né troppo presa dal lavoro, ho anche rice-
vuto delle proposte. Il tuo amico Ted Nash, per fare un nome, mi avrà chiesto di uscire con lui una decina di volte.» Mi cadde la forchetta di mano. «Che cosa? Quel piccolo stronzo?» «Non è piccolo.» «Però è stronzo.» «Non è nemmeno stronzo.» «Questa notizia mi sta facendo incazzare. Ci sei uscita?» «Qualche volta, a cena. Normale collaborazione tra due organismi di sicurezza.» «Maledizione, sono proprio incazzato. Cos'hai da ridere?» Non rispose, ma l'avevo capito benissimo perché rideva. Si copriva il viso con una mano, tentando contemporaneamente di mangiare le uova strapazzate e di ridere. «Guarda che se rischi di soffocarti, io la manovra Heimlich non la conosco» l'avvertii. La cosa la fece ridere ancora di più. «Domani mattina telefono a Beth e le annuncio che tra me e lei è finita» dissi a Kate. «Non c'è bisogno che lo faccia tu, posso farlo io.» E rise di nuovo. Evidentemente l'umore postcoitale di Kate Mayfield era migliore del mio; in quel momento mi sentivo combattuto, spaventato e confuso. Avrei sistemato le cose l'indomani mattina. «Torniamo alle cose serie» disse Kate. «Parlami ancora di quell'informatore.» Le raccontai nei dettagli l'interrogatorio di Fadi Aswad e alla fine provai meno rimorso per aver fatto sesso al posto di lavorare. «Pensi quindi che non si tratti di una messinscena?» mi chiese. «No, il cognato è morto davvero.» «E la morte del cognato non potrebbe far parte del piano? Questa gente può essere spietata come noi nemmeno ci immaginiamo.» Ci pensai su. «E quale sarebbe lo scopo di farci credere che Asad Khalil sia andato in taxi a Perth Amboy?» le chiesi. «Quello di convincerci che sta girando per l'America, così non lo cerchiamo più a New York.» «Forse stai facendo della dietrologia. Se avessi visto Fadi, avresti capito che non mentiva, Gabe ne è convinto; e io mi fido del suo istinto.» «Fadi ha detto la verità che sapeva, ma questo non dimostra che sul taxi del cognato ci fosse Khalil. Se però il passeggero era veramente Khaiil, la falsa pista è quella di Francoforte e il nostro amico è in giro per l'Ameri-
ca.» «Proprio così.» Non mi succede spesso di condurre indagini delicate in costume adamitico insieme a una collega completamente svestita, e la cosa è meno gradevole di quanto possa sembrare. Sempre meglio, comunque, di una riunione di lavoro attorno a un lungo tavolo. «Be', ti ho salvato da qualche settimana in Europa con Ted Nash» le dissi. «Secondo me, hai organizzato tu tutta questa storia proprio per non farmi partire.» Sorrisi. Lei rimase qualche secondo in silenzio. «Ci credi al destino?» mi chiese poi. Ci pensai su. Il mio fortuito incontro con quei due signori sulla 102nd West Street, un anno prima, aveva messo in moto una catena di avvenimenti per cui ero finito in convalescenza, poi all'Attf e ora a casa di Kate. Non credo nella predestinazione, nel caso, nel fato o nella fortuna; penso invece che a indirizzare il nostro futuro sia una combinazione di libero arbitrio e caos assoluto. Ma bisogna rimanere sempre svegli e all'erta, pronti a esercitare il libero arbitrio in un contesto sempre più confuso e pericoloso. «John?» «No, non credo al destino. Non credo fosse scritto da qualche parte che noi due ci saremmo incontrati e non credo fossimo predestinati a finire a letto insieme. Ci siamo conosciuti per caso e quella di andare a letto è stata un'idea tua. Splendida idea, per inciso.» «Grazie. Ora tocca a te farmi la corte.» «Conosco le regole, mando sempre dei fiori.» «Lascia stare i fiori. Sarà sufficiente che tu sia carino con me in pubblico.» Un mio amico scrittore, profondo conoscitore delle donne, mi ha detto una volta: "Gli uomini parlano con le donne per poterci fare sesso, le donne fanno sesso con gli uomini per poterci parlare". Il principio sembrava valere per tutti, ma nel mio caso non so quanto mi vada di chiacchierare dopo il sesso; con Kate Mayfield mi andava, e molto anche. «John?» «Be'... se sarò carino con te in pubblico, la gente mormorerà.» «Meglio, così gli altri idioti se ne staranno al loro posto.» «Quali altri idioti? A parte Nash, voglio dire.»
«Non ha importanza.» Venne a sedersi accanto a me sul divano, poi mise i piedi nudi sul tavolino, si stirò, sbadigliò e mosse ritmicamente gli alluci. «Dio, che bello!» «Ho fatto del mio meglio.» «Parlavo delle uova strapazzate.» «Ah.» Lanciai un'occhiata all'orologio del videoregistratore. «Forse è il caso che me ne vada.» «Scordatelo. È passato tanto tempo dall'ultima volta che ho trascorso la notte con un uomo che non ricordo più chi è che lega e chi si fa legare.» Ridacchiai. In Kate Mayfield trovavo terribilmente attraente il contrasto tra il suo atteggiamento verginale in pubblico e quello... be', insomma, avete capito. È una cosa che eccita molti uomini, compreso il sottoscritto. «Non ho lo spazzolino da denti.» «Ho uno di quei kit per uomini che danno in business class, l'ho messo da parte. Dovrebbe esserci tutto quello che ti serve.» «Quale compagnia? A me piace quello della British Airways.» «Credo sia dell'Air France. C'è anche un preservativo.» «A proposito di preservativi...» «Abbi fiducia in me, lavoro per il governo federale.» Era forse la battuta più divertente che avessi sentito negli ultimi mesi. Accese il televisore e si sdraiò sul divano poggiandomi il capo in grembo. Le carezzai i seni e il mio piccolo amico cominciò a irrigidirsi. Lei allungò il collo. «Ancora qualche centimetro, per favore» mi disse, e scoppiò a ridere. Rimanemmo alzati fino a circa le 2 di notte a guardare i notiziari sui vari canali, oltre ad alcuni speciali su quello che ormai era stato battezzato "l'attacco terroristico al volo 175". Il network sembrava aver fatto salti mortali per non associare a quell'orribile storia il nome di uno dei loro principali inserzionisti, la Trans-Continental. E, per strano che possa sembrare, un canale mandò in onda in mezzo agli altri uno spot della compagnia aerea in cui si vedevano passeggeri felici in turistica, il che è un ossimoro. Secondo me, per gli spot impiegano dei nani, in modo che i sedili sembrino più grandi. Vi siete mai accorti, poi, che nelle pubblicità delle compagnie aeree non si vedono mai passeggeri dall'aria araba? Verso le 3 ci ritirammo in camera da letto, portandoci dietro solo pistole e fondine. «Dormo nudo, ma con pistola e fondina addosso» le dissi. Lei sorrise, sbadigliò, poi si infilò sulla pelle nuda la fondina ascellare e mi sembrò terribilmente sexy, forse perché sono del ramo. «Sembra strano... la pistola e le tette, voglio dire» osservò.
«No comment.» Si tolse la fondina, poi si avvicinò al comodino e premette un pulsante sulla segreteria telefonica. Udimmo subito la voce inconfondibile di Ted Nash. "Kate, sono Ted... ti chiamo da Francoforte. Ho saputo che tu e Corey avete deciso di non venire, ma secondo me dovreste ripensarci, vi state perdendo una grande occasione. L'omicidio di quel tassista mi puzza di bruciato... comunque chiamami, ora a New York è mezzanotte... pensavo di trovarti, in ufficio mi hanno detto che saresti tornata a casa... Nemmeno Corey è a casa. Okay, chiamami qui fino alle 3 o alle 4, ora tua naturalmente. Io sono al Frankfurter Hof." Le diede il numero di telefono. "Oppure ti richiamo io più tardi in ufficio. Parliamo." Rimanemmo entrambi in silenzio, ma udire quella voce nella stanza da letto di Kate mi aveva messo di malumore e lei probabilmente se ne accorse. «Ci parlerò più tardi» mi disse infatti. «Sono le 3, quindi le 9 del mattino in Germania. Se lo chiami ora, puoi beccarlo nella sua stanza mentre si contempla allo specchio.» Sorrise ma non disse nulla. Ted e io avevamo due teorie diverse, come al solito. Per me l'assassinio del banchiere ebreo a Francoforte era una messinscena, ed ero abbastanza certo che ne fosse convinto anche quel vecchio sporcaccione di Ted; il quale però mi voleva in Germania. Interessante. È chiaro, comunque, che se Ted mi dice di andare in un certo posto, io me ne resto dove sono. Kate si era infilata a letto e mi stava facendo segno di raggiungerla. Non me lo feci ripetere e ci stringemmo l'uno contro l'altra allacciando gambe e braccia. Le lenzuola erano fresche di bucato, il cuscino e il materasso belli tosti come Kate Mayfield. Meglio lì che sonnecchiare nella mia vecchia poltrona davanti al televisore. Il cervellone si stava addormentando, ma il cervellino era sveglissimo; capita, a volte. Lei mi venne sopra e, come si suol dire, seppellì il vescovo. A un certo punto devo essere svenuto facendo un sogno terribilmente realistico, un sogno in cui facevo sesso con Kate Mayfield. 41 Asad Khalil osservava la campagna scivolare sotto le ali del vecchio Piper Apache, che volava a 2500 metri di quota in direzione est puntando su Long Island. «Abbiamo un discreto vento di coda, quindi guadagneremo tempo» lo
informò Bill Satherwaite. «Benissimo.» "Il vento di coda ti sta accorciando la vita" pensò il passeggero. «Come le stavo dicendo» riprese Satherwaite «quella fu la missione di attacco più lunga mai tentata. E l'F-111 non è precisamente un aereo comodo.» Khalil lo ascoltava in silenzio. «Quei cazzo di francesi non ci avevano permesso di sorvolare il loro territorio. Gli italiani invece erano okay, ci avrebbero lasciato fare scalo in Sicilia se ne avessimo avuto bisogno. Quindi, per me, voi siete gente in gamba.» «Grazie.» Stavano sorvolando Norfolk, in Virginia, e Satherwaite ne approfittò per indicare al passeggero la base navale alla loro destra. «Vede laggiù la flotta... quelle due portaerei alla fonda? Le ha viste?» «Sì.» «Quella notte la Marina fece un ottimo lavoro. Non dovette intervenire, cioè, ma per noi al ritorno fu una bella iniezione di fiducia sapere che potevamo contare sulla copertura della Marina.» «Posso immaginarlo.» «Non ce ne fu bisogno, perché quei fifoni di piloti libici non ci inseguirono. Probabilmente si erano nascosti sotto il letto, pisciandosi addosso.» Rise. Khalil provò rabbia e vergogna ripensando alla sua incontinenza in quella tragica notte. Si schiarì la voce. «Mi pare di ricordare che uno dei vostri aerei fu abbattuto dall'aviazione libica.» «Impossibile, nessun aereo libico si alzò in volo a inseguirci.» «Eppure un caccia lo perdeste ugualmente... o sbaglio?» Satherwaite lanciò un'occhiata al passeggero. «È vero, uno lo abbiamo perso. Sembra che in fase d'attacco sia arrivato troppo basso finendo in mare.» «Non potrebbe essere stato abbattuto da un missile o dalla contraerea?» Il pilota gli lanciò un'altra occhiata. «La loro difesa aerea faceva schifo, i sovietici gli avevano dato materiale di prim'ordine, ma loro non avevano né le palle né il cervello per usarlo.» Poi Satherwaite ci pensò su e alla fine modificò il suo giudizio. «A dire il vero, fummo accolti da una pioggia di Tripla A e missili SAM: i SAM è possibile tentare di schivarli, ma con l'artiglieria antiaerea c'è poco da fare, devi andare avanti sperando che non ti
prendano.» «È stato molto coraggioso, lei.» «Ho fatto solo il mio lavoro.» «E il suo F-111 è stato il primo a volare su al-Aziziya?» «Sì, il primo... Un momento, ho parlato io di al-Aziziya?» «Certo.» «Ah sì?» Satherwaite non ricordava di avere fatto quel nome, che non riusciva nemmeno a pronunciare bene. «Comunque, il mio ufficiale addetto ai sistemi d'arma, Chip... no, il cognome non posso dirlo... Chip, dicevo, lancia quattro bombe e colpisce tre obiettivi mancando il quarto. Con l'ultima colpì comunque qualcos'altro.» «Che cosa?» «Non lo so. Dalle foto scattate dai satelliti ci sembrò una caserma, o forse un gruppo di case... ma non ci fu un'esplosione, quindi non colpì la vecchia polveriera italiana, che era il suo quarto obiettivo. Ma che importa, qualcosa fece saltare ugualmente. Lo sa, a proposito, come si fa a calcolare il numero delle vittime di un bombardamento? Il satellite conta braccia e gambe e poi divide per quattro.» Scoppiò a ridere. Khalil sentì il cuore battergli all'impazzata e pregò Allah di aiutarlo a non perdere il controllo, poi chiuse gli occhi e respirò a fondo. L'uomo che gli sedeva accanto aveva sterminato la sua famiglia. Rivide con la mente i fratelli Esam e Qadir, le sorelle Adara e Lina e la madre, che dal paradiso gli sorrideva abbracciando i suoi quattro figli. Annuiva e muoveva le labbra, sua madre, ma lui non riusciva a capire le parole; sapeva comunque che era orgogliosa di lui e che lo stava incoraggiando a portare a termine la sua vendetta. «Speravo di avere tra gli obiettivi Gheddafi, e invece questa fortuna l'ha avuta Paul» riprese Satherwaite. «Non eravamo sicuri che quello stronzo si trovasse nel quartier militare, anche se il G-2 era certo che fosse lì. Però non potevamo uccìdere capi di Stato, perché ce lo impediva una stupida legge firmata da quella mammoletta di Carter. Che stronzata, potevamo fare a pezzi migliaia di civili, ma guai se sfioravamo il loro capo! Reagan sì che aveva le palle, altro che Carter. Ronnie ci disse: "Andate e colpite!" e il biglietto vincente, quello di Gheddafi, toccò a Paul, capisce? E il partner di Paul era quel Jim che ora abita a Long Island. Così Paul trova senza problemi la casa di Gheddafi, Jim ci sgancia sopra una bella bomba e tanti saluti alla casa. Ma quel bastardo di Gheddafi se n'era andato a dormire in tenda, o chissà dove, e se la cava; anche se sicuramente si sarà cacato e pi-
sciato addosso.» Asad Khalil trasse un altro profondo respiro. «Ma la figlioletta rimase uccisa, aveva detto?» «Sì, brutta faccenda... Tipica comunque di come funziona questo mondo del cazzo. Voglio dire, quando a suo tempo cercarono di far fuori Hitler, quelli che gli stavano vicino furono ridotti in poltiglia e lui invece se la cavò con un baffo bruciacchiato. Va' a sapere dove Dio aveva la testa in quel momento. Lo stesso è successo a noi: la ragazzina ci lascia le penne, noi facciamo la figura dei cattivi e quello la fa franca un'altra volta.» Khalil rimase in silenzio. «C'era un altro biglietto vincente e toccò a un'altra squadriglia. Gliene ho già parlato? Questa squadriglia doveva colpire degli obiettivi a Tripoli, e uno degli obiettivi era l'ambasciata francese. Nessuno l'ha mai ammesso, ufficialmente si è trattato di un incidente, di un errore; insomma, uno dei nostri lancia una bomba che cade sul parco alle spalle dell'ambasciata. Non voleva uccidere nessuno, oltretutto a quell'ora di notte non doveva esserci gente in giro, e infatti non c'era. Insomma, bombardiamo la casa di Gheddafi e lui è, per così dire, sul retro, poi bombardiamo di proposito il retro dell'ambasciata francese e non colpiamo nessuno. Capisce cosa voglio dire? Pensi un po' se fosse successo il contrario... Allah vegliava su quel bastardo, evidentemente. Va' a capire.» Khalil sentì le mani tremargli e il corpo scosso da un brivido. Se fossero stati a terra, avrebbe strangolato con le sue mani quel cane blasfemo. Chiuse gli occhi e pregò. «Voglio dire, i francesi sono nostri alleati, nostri amici» riprese Satherwaite «ma quella volta se la sono fatta addosso e ci hanno proibito di sorvolare il loro spazio aereo; e noi gli abbiamo dimostrato che, quando i piloti sono costretti ad allungare la rotta e si stancano, possono verificarsi certi incidenti.» Satherwaite rise. «È stato un errore, excusez-moi!» Fece un'altra risata. «Ronnie sì che aveva le palle, avremmo bisogno di uno come lui alla Casa Bianca. Lo sapeva che Bush era stato un pilota di caccia, abbattuto dai giapponesi nel Pacifico? Anche Bush era in gamba, e invece dopo di lui è venuto questo smidollato dell'Arkansas... Si interessa di politica?» Khalil riaprì gli occhi. «Sono ospite del suo paese, quindi preferisco non fare commenti sulla politica americana.» «Già. Comunque, quei libici del cazzo hanno avuto ciò che meritavano per aver fatto saltare una discoteca.»
Khalil rimase per un po' in silenzio. «Questi fatti sono successi tanto tempo fa, ma lei se li ricorda ancora perfettamente» disse poi. «Be', è difficile dimenticare un'esperienza di guerra.» «Non se la saranno dimenticata nemmeno in Libia.» Satherwaite rise. «No, certo. Gli arabi hanno la memoria lunga e, due anni dopo il nostro raid in Libia, hanno fatto esplodere in volo il Pan Am 103.» «Come si legge nelle scritture ebraiche: "Occhio per occhio, dente per dente".» «Sì, e mi sorprende la nostra mancata rappresaglia. Quel cacone di Gheddafi, comunque, alla fine ha consegnato i due che avevano messo la bomba a bordo del volo Pan Am, e anche questa mossa mi ha sorpreso. Mi chiedo che cos'ha in mente.» «In che senso?» «Cioè, questo stronzo deve avere un asso nella manica. Altrimenti che vantaggio avrebbe a consegnarci i due ai quali lui stesso aveva ordinato di far saltare l'aereo?» «Forse ha ricevuto tante di quelle pressioni da convincersi a collaborare con la Corte internazionale.» «Probabile, ma a questo punto dovrà salvare la faccia con i suoi amici terroristi e mettere a segno qualche altro colpo. Anzi, potrebbe averlo già fatto, visto quel che è successo al volo Trans-Continental; non è proprio un libico quello che stanno cercando?» «Non l'ho seguita molto questa storia.» «Nemmeno io, se devo essere sincero. Certe notizie fanno schifo.» «Ma forse ha ragione lei» disse Khalil. «Quest'ultimo attentato terroristico potremmo considerarlo una rappresaglia della Libia per essere stata costretta a consegnare quei due. O forse i libici ritengono di non avere completamente vendicato il vostro attacco del 1986.» «Chi lo sa? E comunque, chi se ne frega? Se cerchi di seguire i ragionamenti di quelle teste di cazzo, diventi scemo.» Khalil non rispose. Satherwaite sembrò perdere interesse alla conversazione e sbadigliò più di una volta. L'aereo scese di quota mentre seguivano la costa del New Jersey, sulla quale brillavano le prime luci. «Cos'è quello?» chiese Khalil indicando un punto più luminoso in lontananza. «Cosa? Ah, è Atlantic City. Ci sono stato, una volta; posto splendido se ti piacciono vino, donne e belle canzoni.»
Il pilota virò sulla destra cambiando rotta. «Ora comincerò la discesa su Long Island, quindi non si preoccupi se avvertirà uno scricchiolio nei timpani» annunciò. Khalil guardò l'orologio. Erano le 19.15 e il sole era quasi scomparso a occidente, quindi a terra doveva essere buio. Si tolse gli occhiali da sole e li ripose nel taschino della giacca sostituendoli con le lenti bifocali. «Stavo pensando a questa coincidenza, al suo amico di Long Island» disse al pilota. «Cioè?» «Il mio cliente di Long Island si chiama Jim, come il suo amico.» «Non può essere Jim McCoy.» «Proprio così, invece.» «Jim McCoy? È un suo cliente?» «Stiamo parlando del direttore del Museo dell'Aviazione?» «Certo! Ma guarda un po'! Come fa a conoscerlo?» «Acquista teloni che produciamo noi in Sicilia. Sono di un cotone speciale usato soprattutto per i dipinti a olio, ma che va benissimo per ricoprire i vecchi aerei e proteggerli dalla polvere.» «Senti, senti. Così lei vende teloni a Jim?» «Al suo museo, lui non l'ho mai conosciuto. Stavo pensando che, a questo punto, potremmo andarlo a trovare insieme stasera.» Bill Satherwaite ci pensò su un momento. «Già, perché no?... Magari gli do un colpo di telefono quando atterriamo.» «Non voglio approfittare della vostra amicizia e non parlerò di lavoro. Voglio soltanto vedere gli aerei sui quali vengono usati i miei teloni.» «Certo. Immagino...» «E, naturalmente, insisto nel volerla ricompensare per questo favore... diciamo 500 dollari?» «Affare fatto. Lo chiamerò in ufficio, sperando che sia ancora lì.» «Se non lo trova, potrebbe telefonargli a casa e pregarlo di vederci al museo.» «Certo, Jim per me lo farebbe. Mi aveva invitato a visitare il museo.» «Meglio stasera, domattina potrei non avere tempo. Ho intenzione di donare al museo 2000 metri quadri di teloni, anche per farmi pubblicità, e questa sarebbe un'ottima occasione.» «È proprio piccolo il mondo» osservò Satherwaite. «E diventa sempre più piccolo anno dopo anno.» Khalil sorrise. Non aveva bisogno che il pilota gli facesse da intermediario per incontrare l'ex
tenente McCoy, ma la sua presenza in un certo senso semplificava le cose. Khalil aveva l'indirizzo dell'abitazione di McCoy e per lui non faceva alcuna differenza ucciderlo in casa con la moglie oppure nel suo ufficio al museo. Il museo sarebbe stato preferibile, per il suo valore simbolico. Dopodiché si sarebbe dovuto trasferire sulla costa occidentale per l'ultima parte del suo viaggio d'affari in America. Finora, pensò, è andato tutto secondo i piani. Tempo un giorno o due e i servizi di sicurezza avrebbero collegato tra loro quelle morti apparentemente prive di nesso, ma a quel punto Asad Khalil sarebbe stato pronto a morire, avendo già fatto fuori Hambrecht, Waycliff e Grey. Se avesse potuto aggiungere all'elenco anche McCoy, tanto meglio. Ma se lo stavano già aspettando all'aeroporto, al museo, a casa di McCoy o in tutti e tre questi posti, almeno quel maiale accanto a lui sarebbe riuscito a farlo fuori. Guardò il pilota e sorrise: "Sei morto, tenente Satherwaite, anche se non lo sai". Satherwaite lanciò un'occhiata al passeggero. «Quindi lei è nel ramo tessili.» «Sì. Di cosa pensava che mi occupassi?» Satherwaite sorrise. «Be', se devo essere sincero avrei detto il ramo mob.» «Cioè?» «Sì, insomma... mafia.» Khalil sorrise a sua volta. «Sono una persona onesta, un commerciante di tessili. E poi, un mafioso volerebbe su un aereo così vecchio?» Satherwaite rise a denti stretti. «Forse ha ragione... ma l'ho portata qui sano e salvo, o no?» «Non siamo ancora a terra.» «Ci saremo tra poco. E non ho mai ammazzato nessuno.» «Mi sembrava che avesse detto il contrario.» «Cioè, una volta mi pagavano per uccidere, adesso mi pagano per non farlo.» Pochi minuti dopo il Piper Apache toccò terra dolcemente e quell'atterraggio morbido stupì Khalil, dato l'apparente deterioramento mentale del pilota. «Ha visto? Sano e salvo» disse Satherwaite. Khalil non fece commenti e, mentre l'aereo rullava portandosi fuori dalla pista, guardò al di là dello sporco tettuccio di plexiglas in cerca di eventuali segnali di pericolo. Era pronto a estrarre la pistola e ordinare al pilota di
decollare, ma l'attività attorno agli hangar sembrava assolutamente normale. Arrivato all'area di parcheggio, Satherwaite spense i motori. «Okay, ora possiamo scendere da questa bara volante.» E rise. Entrambi sganciarono la cintura di sicurezza e presero le loro borse da viaggio. Khalil aprì lo sportello e uscì salendo sull'ala, con la mano destra in tasca stretta attorno al calcio della Glock. Al primo segno di pericolo avrebbe ficcato una pallottola in testa a Bill Satherwaite, con l'unico rimorso di non poter spiegare all'eroico ex tenente il motivo per cui moriva. Khalil non era alla ricerca di un eventuale pericolo soltanto con gli occhi, ma con tutti i sensi. E se ne stava in piedi sull'ala annusando l'aria, come un leone. «Ehi, va tutto bene?» gli chiese il pilota. «Salti pure, i piedi sono più vicini al suolo degli occhi. Salti, le dico.» Khalil si guardò intorno un'ultima volta per accertarsi che tutto fosse in ordine, poi saltò a terra. Satherwaite lo imitò, poi si stirò sbadigliando. «C'è un bel fresco, qui. Mi aspetti, vado a cercare un addetto alla pista che ci accompagni al terminal.» «Vengo con lei.» «Come crede.» Vicino a un hangar videro un addetto. «Può darci un passaggio fino al terminal?» gli chiese Satherwaite. «Quel pulmino bianco sta per andare al terminal.» «Benissimo. Ascolti, dovrei ripartire domani a metà mattina o forse più tardi. Può farmi il pieno e dare una mano di vernice?» E scoppiò a ridere. «Altro che di una mano avrebbe bisogno. Ha tolto il freno di parcheggio?» «Sì.» «Allora lo traino fino alla pompa.» «Tutti e sei i serbatoi, per favore. Grazie.» Khalil e Satherwaite si affrettarono verso il pulmino, poi il pilota disse qualcosa all'autista ed entrarono dallo sportello posteriore. Al centro erano seduti un giovane e una bionda molto attraente. A Khalil quella situazione non andava molto a genio, ma si rendeva conto che se gli avessero teso una trappola non sarebbe nemmeno arrivato al pulmino. Tenne comunque la mano sulla pistola. Dopo che il pulmino si fu mosso, si avvicinò all'autista. «La mia società
mi ha prenotato un'auto della Hertz con il Gold Card Service, quindi posso andare direttamente al parcheggio. Mi ci può portare?» «Certo.» Pochi minuti dopo il pulmino si fermava al parcheggio Hertz riservato ai clienti Gold Card. Vi erano venti spazi numerati coperti da una lunga tettoia luminosa, sulla quale si leggeva un nome all'altezza di ogni spazio. Khalil si diresse a quello con la scritta BADR, seguito da Satherwaite. L'auto era una Lincoln Town nera. Khalil aprì lo sportello posteriore e mise la borsa sul sedile. «È questa l'auto?» chiese Satherwaite. «Sì, Badr è il nome della mia ditta.» «Ah... E non bisogna firmare moduli e roba del genere?» «Questo è un servizio speciale che serve a evitare le lunghe code.» «Cosa?» «Le file al banco. Si accomodi.» Satherwaite scrollò le spalle, aprì lo sportello e si sedette lanciando la sua borsa sul sedile posteriore. Le chiavi erano già infilate nel cruscotto, Khalil mise in moto e accese le luci. «Le dispiace prendermi i documenti dell'auto nel vano portaoggetti?» chiese a Satherwaite. All'uscita si fermarono accanto alla baracca del custode, che era una donna. «Mi mostri per favore il modulo di noleggio e la patente» disse a Khalil. La donna guardò il modulo, poi staccò e tenne per sé la copia, esaminando la patente egiziana e quella internazionale che Khalil le aveva consegnato. «A posto» disse, dopo aver studiato per qualche secondo il viso di Khalil. E gli restituì modulo e patenti. «Decisamente semplice» commentò Satherwaite dopo che l'auto si rimise in moto. «È così che fanno quelli che contano.» «Come?» «Lei è ricco?» «Non io, la mia azienda.» «Bene, così si evitano le discussioni con qualcuna di quelle stronze al banco.» «Esatto.» «Quanto dista il motel?» «Pensavo di telefonare a Mr McCoy prima di andare al motel. Sono già quasi le 8.» «Sì...» Satherwaite notò il telefono tra i due sedili. «Certo, perché no?»
Khalil gli diede il numero per sbloccare il telefono che aveva letto sul modulo della Hertz. «Ce l'ha il numero del suo amico?» «Sì.» Satherwaite estrasse di tasca la schedina di Jim McCoy che aveva tolto dal Rolodex nel suo ufficio e accese la luce interna. «Forse è il caso che mi descriva semplicemente come un amico» gli disse Khalil prima che componesse il numero. «Mi presenterò appena arriveremo. E dica per favore a Mr McCoy che non ha molto tempo e preferirebbe visitare il museo stasera. Se è necessario, possiamo passarlo a prendere a casa, quest'auto ha un navigatore satellitare, come vede, quindi non abbiamo bisogno di indicazioni per raggiungere casa sua o il museo. E, parlando, inserisca per favore il vivavoce.» Satherwaite gli lanciò un'occhiata, poi spostò lo sguardo sul navigatore satellitare. «Okay.» Compose il numero per sbloccare il telefono e poi quello di casa di Jim McCoy. Khalil udì gli squilli dall'altoparlante. Il terzo squillo fu interrotto da una voce femminile. «Pronto?» «Betty, sono Bill Satherwaite.» «Oh... ciao, Bill. Come va?» «Bene. E i ragazzi?» «Bene anche loro.» «C'è Jim, per caso? Devo parlargli un momento di una faccenda importante» si affrettò ad aggiungere, abituato a sentirsi rispondere che la persona che cercava non c'era. «Ah, ho capito. Fammi vedere se ha terminato all'altro apparecchio.» «Grazie. Digli che c'è una sorpresa.» «Un momento.» Khalil, che aveva afferrato le sfumature di quella breve conversazione, si sarebbe voluto congratulare con Satherwaite per la scelta dei termini, ma preferì tacere sorridendo. Erano su una superstrada diretta a ovest, verso la contea di Nassau, dove si trovava il museo e dove viveva, e sarebbe morto fra poco, Jim McCoy. Dall'altoparlante venne una voce. «Ciao, Bill. Che c'è di nuovo?» Satherwaite sorrise compiaciuto. «Se te lo dico, non ci credi. Indovina dove sono in questo momento.» Seguì un lungo silenzio. «Dove sei?» chiese poi Jim McCoy. «Sono appena atterrato al MacArthur. Ti avevo parlato di quel cliente che avrei dovuto accompagnare a Philadelphia, ricordi? Be', il cliente ha cambiato programma ed eccomi qui.»
«Bene...» «Domattina devo decollare presto, Jim, quindi pensavo di fare un salto da te stasera. Oppure potremmo vederci al museo.» «Veramente... avrei da...» «Mezz'ora, non di più. Siamo già sulla strada, ti sto chiamando dall'auto. Vorrei tanto rivedere l'F-111, possiamo passare a prenderti.» «Chi c'è con te?» «Un amico al quale ho dato un passaggio in aereo, anche a lui piacerebbe vedere quei vecchi aerei. Abbiamo una sorpresa per te e non ti prenderemo troppo tempo se hai da fare. Lo so che avrei dovuto avvertirti prima, ma tu avevi detto...» «Certo. Senti, perché non ci vediamo direttamente al museo? Conosci la strada?» «Sì, abbiamo un'auto con navigatore satellitare.» «Dove siete in questo momento?» Satherwaite guardò Khalil, che intervenne nella conversazione. «Siamo sulla Interstate 495, signore, e abbiamo appena superato l'uscita per la Memorial Veterans Highway.» «Okay, allora siete già sulla Long Island Expressway e, se non c'è molto traffico, tra mezz'ora dovreste arrivare. Vi aspetto all'entrata principale del museo, accanto a una grossa fontana. Datemi il numero del cellulare.» Satherwaite gli lesse il numero. «Se per qualche motivo non ci incontrassimo, ci cercheremo con il telefono. Questo è il numero del mio» e glielo diede. «Che auto avete?» «Una grossa Lincoln nera» rispose Satherwaite. «Okay. Probabilmente troverete una guardia all'ingresso.» Poi il suo tono di voce si fece scherzoso. «Ora approssimativa d'incontro 21.00, luogo d'incontro secondo le istruzioni, comunicazioni stabilite tra tutti i mezzi. A più tardi, Karma 57. Passo.» «Ricevuto, Elton 38» rispose Satherwaite con un enorme sorriso. Poi premette il pulsante di fine conversazione. «Nessun problema, e quando Jim si vedrà regalare 2000 metri quadri di teloni, come minimo ci offrirà da bere.» Passarono alcuni minuti in silenzio e a interromperlo fu Satherwaite. «Senta... non voglio metterle fretta, ma più tardi potrei dover andare da qualche parte e mi servirebbero dei contanti.» «Certo, naturalmente.» Khalil si infilò una mano nella tasca interna della giacca e ne estrasse un portafogli, porgendolo a Satherwaite. «Prenda 500
dollari.» «Forse è meglio se li conta lei.» «Non posso, sto guidando. E comunque mi fido.» Satherwaite accese la lucina interna, aprì il portafogli, ne estrasse un fascio di banconote e contò 500 dollari; o forse erano 520, con quella luce fioca non ne era sicuro. «Ehi, ma così rimarrà quasi al verde.» «Più tardi andrò a un Bancomat.» Satherwaite gli restituì il portafogli. «Sicuro?» «Sicuro.» Si rimise in tasca il portafogli mentre Satherwaite infilava le banconote nel suo. Khalil programmò il navigatore e venti minuti dopo lasciarono la superstrada immettendosi su una strada panoramica in direzione sud; infine presero l'uscita M4, dove c'era il cartello MUSEO CULLA DELL'AVIAZIONE. Seguirono le indicazioni per il Charles Lindbergh Boulevard, poi svoltarono a destra trovandosi in un viale d'ingresso alberato. In fondo si vedeva una grossa fontana illuminata di luci rosse e blu, e più oltre una costruzione in vetro e acciaio con alle spalle un altro edificio a forma di cupola. Khalil girò attorno alla fontana e si diresse all'entrata del museo, trovando ad accoglierli una guardia in uniforme. «Lasci pure qui l'auto» disse la guardia. Allora spense il motore e scese dalla Lincoln, portandosi dietro la borsa, seguito da Satherwaite, che però preferì lasciare la sua sacca nell'auto, poi chiuse gli sportelli con il telecomando. «Benvenuti al Museo Culla dell'aviazione» disse la guardia. «Vi accompagno da Mr McCoy, che vi sta aspettando nel suo ufficio. Ha bisogno della borsa, signore?» «Sì, ho un regalo per Mr McCoy e una macchina fotografica.» «Bene.» Satherwaite si stava guardando attorno e notò subito i due hangar anni Trenta restaurati e riverniciati. «Ehi, guardi lì!» «Ci troviamo nella sede dell'ex base aerea Mitchell, usata dagli anni Trenta fino alla metà dei Sessanta per l'addestramento, oltre che per la difesa antiaerea» spiegò la guardia. «Gli hangar sono stati lasciati al loro posto e rimessi a nuovo; ora ospitano la maggior parte degli aerei del museo. Il moderno edificio di fronte a noi comprende il Centro visitatori e una sala di proiezione, il Grumman Imax Dome Theater, mentre a sinistra troviamo il Museo della Scienza e della tecnica e la TekSpace Astronautics Hall. Se volete seguirmi, prego.»
Seguendo la loro guida, Khalil notò che era disarmata. Entrarono nell'edificio, con un enorme atrio alto quattro piani. «Questo è il Centro visitatori» spiegò la guardia «e, come potete vedere, oltre allo spazio espositivo comprende anche un negozio di souvenir e, di fronte a noi, il Red Planet Café.» Superarono una porta sulla quale si leggeva ACCESSO RISERVATO AL PERSONALE, e si ritrovarono in un corridoio su cui si aprivano i vari uffici del museo. La guardia bussò alla porta con la targhetta DIRETTORE e l'aprì. «Buona visita» augurò agli ospiti. Satherwaite e Khalil entrarono in un'anticamera. Jim McCoy era seduto al banco della reception e stava studiando alcune carte che posò appena li vide arrivare, poi si alzò sorridendo e girò attorno al banco con la mano tesa. «Come stai, Bill?» «Benissimo, cazzo.» Khalil rimase a guardarli. Notò che McCoy non sembrava in forma come il generale Waycliff o il tenente Grey, ma aveva un aspetto molto migliore di Satherwaite; e il contrasto era accentuato dalla tenuta trasandata del pilota, mentre il loro ospite era in giacca e cravatta. I due parlottarono per un po', poi Satherwaite si voltò. «Jim, ti presento il mio passeggero... Mr...» «Fanini, Alessandro Fanini.» Asad Khalil tese la mano stringendo quella di McCoy. «La mia azienda produce teloni.» Non notò segni d'allarme nello sguardo di McCoy, ma l'uomo sembrava decisamente più intelligente e sveglio di Satherwaite. «La ditta di Mr Fanini...» stava dicendo Satherwaite. Khalil l'interruppe. «I teloni che produciamo sono usati anche per coprire gli aerei d'epoca e, per ringraziarla di questa visita privata, mi permetterò di spedirle 2000 metri quadri di teli di cotone. Senza alcun obbligo da parte sua.» Jim McCoy rimase qualche istante in silenzio. «Molto generoso da parte sua» disse poi. «Accettiamo ogni tipo di offerta.» Khalil sorrise e chinò il capo. Rimasero a chiacchierare e McCoy sembrava leggermente seccato con Satherwaite perché aveva portato uno sconosciuto alla loro rimpatriata; tipico di Bill, pensò, non tenere in alcun conto certe convenzioni. Il direttore del museo fece comunque buon viso a cattivo gioco. «Andiamo a vedere qualcuna di queste macchine volanti» propose. «La borsa può lasciarla qui, se vuole» disse poi a Khalil. «Preferisco portarmela dietro, dentro ci sono una macchina fotografica e
una videocamera.» «Bene.» McCoy fece strada e li condusse direttamente agli hangar, che contenevano in totale una cinquantina di aerei usati nelle due guerre mondiali e in Corea, oltre a caccia più moderni. «La maggior parte di questi aerei è stata prodotta qui a Long Island» spiegò McCoy «come alcuni moduli lunari Grumman che troveremo nell'altro hangar. I lavori di restauro sono stati effettuati da volontari con esperienza nell'aviazione commerciale o militare, uomini e donne che hanno lavorato migliaia di ore in cambio di caffè e ciambelle... e dei loro nomi incisi sulle pareti dell'atrio.» Con il tono di voce McCoy cercò di far capire che la visita sarebbe stata breve. «Quello appeso con un cavo al soffitto è un Ryan NYP, il gemello originale dello Spirit of St. Louis, e ci siamo presi la libertà di scrivere quel nome sulla fusoliera.» Ripresero a camminare superando senza fermarsi diversi aerei, segno evidente che la loro visita sarebbe stata più breve di quella riservata ai donatori più generosi. McCoy andò a fermarsi davanti a un vecchio biplano giallo. «Questo è un Curtiss JN-4 del 1918, soprannominato Jenny: il primo aereo di Lindbergh.» Asad Khalil estrasse dalla borsa la macchina fotografica e si mise a scattare qualche foto. «Tocchi pure il telone, se vuole» gli disse McCoy. Khalil strofinò tra pollice e indice un'estremità del telo. «Mi sembra troppo pesante per un uso del genere» commentò poi. «Lo terrò presente quando le spedirò il mio dono.» «Bene. Più avanti abbiamo uno Sperry Messenger, aereo da ricognizione costruito nel 1922, e lì in fondo alcuni caccia Grumman della seconda guerra mondiale come l'F4F Wildcat, l'F6F Hellcat, il TBM Avenger...» «Mi scusi se l'interrompo, Mr McCoy» intervenne Khalil «ma mi sembra di aver capito che nessuno di noi ha molto tempo, e Mr Satherwaite, se non sbaglio, voleva rivedere il suo vecchio aereo.» McCoy fissò l'ospite. «Buona idea, seguitemi.» Passarono al secondo hangar, che conteneva soprattutto jet e velivoli utilizzati per le esplorazioni spaziali, e Khalil rimase affascinato a guardarli. Gli americani, rifletté, si sforzavano di presentarsi agli occhi dell'opinione pubblica mondiale come un popolo amante della pace, ma quel museo testimoniava invece che l'arte della guerra era la più compiuta espressione della loro cultura. E lui non li criticava o li giudicava per questo, piuttosto li invidiava. McCoy si avvicinò subito all'F-111, un bimotore argenteo con le insegne
dell'Aviazione americana. Le ali a geometria variabile erano nella posizione di minore angolazione e sulla fusoliera, sotto il finestrino del pilota, era stato scritto il nome di quell'esemplare, The Bouncing Betty. «Eccolo qua, amico. Ti ricorda niente?» domandò McCoy a Satherwaite, che fissava la snella sagoma dell'aereo come se fosse un angelo che lo invitava a prenderlo per mano e volare con lui. Sembrava in trance, l'ex tenente Satherwaite, e gli occhi gli si erano fatti d'improvviso lucidi. Jim McCoy sorrise. «Gli ho dato il nome di mia moglie.» Satherwaite finalmente si avvicinò all'aereo toccandolo, poi gli girò attorno carezzando la superficie d'alluminio e quasi divorandolo con lo sguardo. Completato il giro, andò a fermarsi di fronte a McCoy. «Ci abbiamo volato con questa meraviglia, Jim. Ci abbiamo volato.» «Proprio così, un milione di anni fa.» Asad Khalil si voltò, come per non turbare da estraneo quel momento di intimità tra due vecchi compagni d'armi. Li udì parlare, ridere, scambiarsi frasi emozionate. Allora chiuse gli occhi e rivide con la memoria l'enorme macchia indistinta che quella notte aveva visto venirgli incontro con il suo rombo assordante, materializzandosi infine in una macchina da guerra che emetteva fiamme dalla coda come un demone infernale. Cercò di non pensare al momento in cui se l'era fatta nei pantaloni, ma non ci riuscì e si consolò pensando che fra poco anche quell'umiliazione sarebbe stata vendicata. Si voltò, sentendosi chiamare da Satherwaite. L'ex pilota gli indicò una scaletta metallica su ruote poggiata accanto alla fusoliera all'altezza del seggiolino del pilota. «Ci sparerebbe qualche foto dentro la carlinga?» gli chiese. Era proprio ciò che Khalil aveva in mente di fare, anche se non si trattava esattamente di fotografie. «Con piacere.» Jim McCoy salì per primo la scaletta e, chinandosi sotto il tettuccio sollevato, scivolò sul seggiolino accanto a quello del pilota. Satherwaite si arrampicò in fretta, sedette al posto del pilota e lanciò una specie di urlo di gioia. «Uaooo! Di nuovo in sella! Andiamo a uccidere qualche arabo straccione! Yeah!» McCoy gli lanciò uno sguardo di disapprovazione, ma preferì tacere per non rovinare all'amico quell'attimo di emozione. Asad Khalil si arrampicò a sua volta sulla scaletta. «Okay, pronti a decollare per Desertolandia» stava annunciando Sather-
waite. «Quanto avrei voluto che ci fossi tu con me quella notte, Jim, invece di Chip: quello, con le sue chiacchiere, avrebbe rotto i coglioni anche alla statua di un toro.» Giocherellò con i comandi imitando con la bocca il rombo di un aereo. «Fuoco uno, fuoco due! Sai che ricordo ancora le procedure di partenza come se le avessi eseguite ieri? E sono certo di ricordare a memoria anche la check list, l'elenco dei controlli da effettuare prima del decollo.» «Ne sono certo anch'io, conoscendoti.» «Okay, amico, ora devi sganciarmi una bomba su quella tenda perché dentro c'è Gheddafi che si sta ingroppando un cammello.» Scoppiò a ridere ed emise altri versi per imitare il rombo dei motori. Jim McCoy guardò Fanini, in piedi sulla piccola piattaforma al termine dei gradini, e gli rivolse un mesto sorriso. Satherwaite, pensò di nuovo, avrebbe fatto meglio a venire solo. Khalil sollevò la macchina fotografica puntandola verso i due uomini in cabina di pilotaggio. «Pronti?» Satherwaite sorrise mentre il flash scattava e McCoy cercò di assumere un'espressione indifferente quando lampeggiò il secondo, poi Satherwaite sollevò il dito medio verso l'obiettivo contemporaneamente a un altro flash. «Okay...» disse McCoy. Altro flash. Satherwaite gli passò affettuosamente un braccio attorno al collo. «Okay...» disse ancora McCoy. «Be', ora può bastare...» aggiunse poi, visto che Fanini continuava a scattare. Asad Khalil ripose la macchina fotografica nella borsa, dalla quale estrasse la bottiglia di plastica che si era portato via dallo Sheraton. «Ancora un paio di colpi, signori.» McCoy batté le palpebre sugli occhi abbagliati dal flash e guardò l'ospite. La bottiglia d'acqua non lo allarmò in modo particolare, ma dalla strana espressione che si era dipinta sul volto di Fanini capì che stava per succedere qualcosa di terribilmente spiacevole. «Allora, signori, vi state godendo i ricordi dei vostri bombardamenti?» domandò Khalil. McCoy non rispose. «Senta, Mr Fanini, perché non si arrampica sul muso dell'aereo e ci fa un bel primo piano?» disse Satherwaite. Khalil non si mosse. «Okay, ora possiamo scendere» decise McCoy. «Vieni, Bill.» «Restate dove siete» ordinò Khalil. McCoy lo fissò e si accorse di avere la bocca improvvisamente secca.
Da sempre, nei recessi dell'inconscio, sapeva che quel giorno sarebbe arrivato, e adesso era venuto. «Giri la scaletta attorno all'aereo» gli disse Satherwaite «e scatti qualche foto dall'altra parte. Qualcuna può farcela anche dal basso, poi...» «Chiudi il becco.» «Come?» «Ti ho detto di chiudere il becco.» «Ehi, ma che cazzo...» E Satherwaite si trovò a fissare la canna di una pistola che il suo cliente teneva all'altezza del fianco. «Oh Dio... oh no...» mormorò McCoy. Khalil sorrise. «Allora, Mr McCoy, hai ovviamente capito che non produco teloni. Forse il mio ramo è quello dei sudari.» «Oh, madre di Dio...» Bill Satherwaite sembrava confuso. Guardò McCoy e poi Khalil, cercando di capire che cosa sapessero quei due che lui ignorava. «Ma che cazzo sta succedendo?» «Stai zitto, Bill.» McCoy si rivolse a Khalil. «Questo posto è pieno di guardie private e di telecamere, le consiglierei quindi di andarsene subito e io non...» «Silenzio! A parlare ci penso io e vi prometto che sarò breve. Ho un altro appuntamento e qui mi sbrigherò presto.» McCoy rimase in silenzio. E tacque, per la prima volta, anche Satherwaite. Nella sua mente cominciava a farsi strada un barlume di comprensione. «Il 15 aprile 1986 ero un ragazzo che viveva tranquillamente con la sua famiglia in un posto chiamato al-Aziziya» riprese Khalil. «Un posto che voi due conoscete bene.» «Lei viveva lì? In Libia?» gli chiese Satherwaite. «Silenzio! Voi due avete volato sul mio paese, avete sganciato bombe sulla mia gente, avete sterminato la mia famiglia - madre, due fratelli e due sorelle - e poi siete tornati in Inghilterra a festeggiare, immagino, i vostri delitti. Per questi delitti ora pagherete entrambi.» Satherwaite capì finalmente che stava per morire. Allora si girò verso McCoy, che gli sedeva accanto. «Mi spiace, amico...» «Zitto, ho detto! Anzitutto voglio ringraziarvi per avermi invitato a questa simpatica riunione. Ne approfitto per informarvi che ho già ucciso il colonnello Hambrecht, il generale Waycliff e signora...» «Brutto bastardo» mormorò McCoy.
«Paul Grey e ora voi due. Dopodiché... non ho ancora deciso se sprecare una pallottola per porre fine alle sofferenze del colonnello Callum. Poi toccherà a Mr Wiggins e quindi...» Bill Satherwaite gli mostrò il dito medio sollevato. «Vai a fare in culo, arabo di merda!» gli urlò. «Vai a fare in culo, tu e quell'inculacammelli del tuo capo, vai a fare...» Khalil appoggiò la canna della pistola al collo della bottiglia, la puntò alla fronte di Bill Satherwaite e premette il grilletto. L'esplosione, attutita dal rudimentale silenziatore, rimbombò sordamente nell'hangar, mentre la testa di Satherwaite scattava all'indietro con uno spruzzo di sangue per poi ricadergli sul petto. Jim McCoy rimase come pietrificato, poi le sue labbra si mossero lentamente in una preghiera. Chinò il capo, si fece il segno della croce e riprese a pregare con labbra tremanti. «Guardami.» Jim McCoy non interruppe la preghiera e Khalil ne udì qualche parola «... la valle dell'ombra della morte, non temerò alcun male...». «È il salmo ebraico che preferisco... Perché tu sei con me...» Terminarono insieme il salmo. «Amen» disse alla fine Khalil, ed esplose un colpo che raggiunse McCoy al cuore. Poi rimase a guardarlo morire, e i loro sguardi si incontrarono prima che gli occhi dell'altro smettessero per sempre di vedere. Allora si rimise in tasca la pistola e infilò nella borsa la bottiglia di plastica. Poi allungò un braccio all'interno della carlinga e si impossessò del portafogli di Satherwaite, togliendolo dalla tasca posteriore dei jeans, e di quello coperto di sangue di McCoy, sfilandolo dalla tasca interna della giacca. Li mise entrambi nella borsa e si pulì le dita sporche di sangue sulla T-shirt di Satherwaite, quindi perquisì il cadavere alla ricerca di un'arma che non trovò. Quell'uomo aveva detto troppe bugie. Abbassò il tettuccio di plexiglas del caccia. «Buonanotte, signori. Possiate già trovarvi all'inferno con i vostri amici.» Scese la scaletta, spostandola accanto a un altro aereo, e recuperò dal pavimento i due bossoli. Uscì dall'hangar e tornò nell'atrio, ma non trovò la guardia, né la vide oltre la vetrata. Allora imboccò il corridoio degli uffici e, udendo un rumore che proveniva da dietro una porta chiusa, andò ad aprirla. La guardia, seduta alla scrivania, stava ascoltando la radio e leggendo contemporaneamente una rivista, "Flying"; alle sue spalle, quindici monitor numerati mostravano immagini dell'interno e dell'esterno del complesso.
La guardia sollevò gli occhi sul visitatore. «Avete terminato?» Khalil si chiuse la porta alle spalle, poi sparò un colpo alla testa dell'agente, che scivolò dalla poltroncina accasciandosi al suolo, e si avvicinò ai monitor. Li esaminò a uno a uno finché trovò quello con le immagini del secondo hangar e rivide la scaletta e l'F-111 con il tettuccio abbassato, poi spostò lo sguardo sugli altri monitor e vide la sala di proiezione, l'ingresso accanto al quale aveva parcheggiato l'auto e diverse immagini dell'atrio. Sembrava non esserci anima viva. Individuò allineati su una mensola i quindici videoregistratori e premette il pulsante STOP di ognuno, quindi estrasse tutte le cassette e le infilò nella borsa. Si inginocchiò accanto al cadavere per togliergli il portafogli, trovò il bossolo e finalmente uscì dall'ufficio chiudendosi la porta alle spalle. Superato l'atrio, varcò la porta d'ingresso, la chiuse e notò con piacere che non era possibile aprirla dall'esterno. Quando risalì sulla Lincoln, l'orologio del cruscotto segnava le 22.57. Khalil programmò il navigatore satellitare per l'aeroporto MacArthur e dieci minuti dopo viaggiava in direzione nord, sulla panoramica che l'avrebbe riportato alla Long Island Expressway. Ripensando agli ultimi istanti di vita di Satherwaite e McCoy, rifletté sull'impossibilità per un uomo di immaginare nei particolari la morte che lo attende; e si chiese come avrebbe reagito lui se si fosse trovato al loro posto. Era rimasto sorpreso dall'arroganza sfoderata da Satherwaite prima di morire, come se all'ultimo momento il pilota fosse riuscito a recuperare un po' di coraggio. O forse dentro di sé aveva tanto di quel veleno che le sue parole non erano state dettate dal coraggio, ma dall'odio puro e semplice. E Khalil capì che, se si fosse trovato nella stessa situazione, probabilmente si sarebbe comportato come Satherwaite. Pensò poi a McCoy e alla sua reazione, prevedibile se l'uomo era stato un cristiano osservante. O forse alla fine aveva incontrato Dio, vai a sapere. La scelta del salmo, comunque, era stata indovinata. Lasciò la panoramica e si immise sulla Long Island Expressway, in direzione est, mantenendo una velocità media di 90 chilometri l'ora. Si rendeva conto che il tempo cominciava a scarseggiare; gli omicidi avrebbero finito per attirare l'attenzione. La messinscena della rapina non avrebbe retto a lungo, e di lì a poco Mrs McCoy avrebbe chiamato la polizia per segnalare che il marito era scomparso e che al museo nessuno rispondeva al telefono. La polizia si sarebbe preoccupata meno di lei sentendo che lo scomparso doveva vedersi con un compagno d'armi, ma prima o
poi i cadaveri sarebbero stati scoperti. E altro tempo sarebbe trascorso prima che gli agenti pensassero di andare all'aeroporto per dare un'occhiata all'aereo con cui era arrivato Satherwaite; anzi, se McCoy non aveva detto alla moglie con che mezzo di trasporto era arrivato il vecchio amico, alla polizia non sarebbe passata nemmeno per la testa l'idea di cercare un aereo privato. Ma, indipendentemente da ciò che avrebbero potuto dire o fare Mrs McCoy e la polizia, Khalil aveva abbastanza tempo per la mossa successiva. Ciononostante in quel momento, mentre guidava, avvertì per la prima volta la presenza del pericolo e sentì che da qualche parte qualcuno si era messo sulle sue tracce. Qualcuno che non sapeva ancora dove cercarlo e non poteva comprendere fino in fondo le sue intenzioni. Ma il Leone si stava trasformando in preda, e il segugio sconosciuto doveva avere capito almeno natura e sostanza di ciò cui stava dando la caccia. Khalil provò a evocare la presenza del suo inseguitore, non l'immagine fisica ma quella dell'anima, senza riuscire però a delinearla. Sentiva comunque che da quell'uomo dovevano irradiarsi forza e pericolo. Si riscosse dallo stato di trance e tornò con il pensiero alla scia di cadaveri che si stava lasciando dietro. Quelli del generale Waycliff e della moglie erano sicuramente stati trovati quella mattina, e a un certo punto, dopo la scoperta, qualche familiare del generale avrebbe tentato di mettersi in contatto con gli ex compagni d'armi del defunto. Khalil, anzi, era stupito del fatto che alle 8 di sera nessuno avesse ancora avvertito McCoy. Le telefonate a Paul Grey o a Satherwaite si sarebbero rivelate inutili; e quella notte, o l'indomani mattina, Mrs McCoy, in ansia per il marito, avrebbe visto accrescersi la sua preoccupazione, dopo aver ricevuto tragiche notizie dalla famiglia Waycliff o dai Grey. Molte telefonate, a segno o a vuoto, si sarebbero intrecciate senz'altro l'indomani. E la sera il suo gioco si sarebbe avviato alla conclusione; forse prima, forse dopo, se Dio fosse rimasto al suo fianco. Entrò in un'area di sosta che un filare di alberi separava dalla strada. Nell'ampio parcheggio c'erano molti camion e qualche auto, e lui andò a fermarsi a una certa distanza dagli altri veicoli. Prese dal sedile posteriore la borsa da viaggio di Satherwaite e l'aprì. Conteneva una bottiglia di liquore, biancheria di ricambio, profilattici, articoli da bagno e una T-shirt sulla quale era disegnato un caccia con la frase ORDIGNI NUCLEARI, NAPALM, BOMBE E MISSILI: CONSEGNA
GRATUITA A DOMICILIO. Prese la sua borsa e quella di Satherwaite, inoltrandosi nel boschetto alle spalle dei gabinetti. Tolse tutti i soldi dal portafogli del pilota, poi vuotò quello di McCoy che conteneva 85 dollari e quello della guardia con meno di 20 dollari, e intascò tutte le banconote. Quindi sparse in giro il contenuto dei portafogli e li lanciò tra gli alberi, svuotò la borsa di Satherwaite sparpagliandone il contenuto e poi la gettò in un cespuglio; infine estrasse dalla sua borsa le quindici videocassette e le lanciò tra la vegetazione in diverse direzioni. Tornò in macchina e riprese la Expressway; mentre viaggiava, gettò dal finestrino i tre bossoli calibro 40, a un certo intervallo l'uno dall'altro. Dieci minuti dopo, imboccò la rampa d'uscita per il MacArthur e si diresse verso il parcheggio a sosta prolungata dell'aeroporto, portandosi dietro la borsa da viaggio. Non si preoccupò di cancellare dall'auto le sue impronte digitali, ormai quello che era fatto era fatto e lui a quel punto non voleva perdere troppo tempo a coprire le proprie tracce. Gli servivano ancora ventiquattr'ore, forse meno, e poi avrebbe potuto idealmente sbeffeggiare tutti quelli che gli davano la caccia. Si recò alla fermata dell'autobus e poco dopo arrivò un pulmino sul quale salì. «Al terminal principale, per favore» disse all'autista. «Guardi che qui di terminal ce n'è uno solo» lo informò l'uomo. «E ci stiamo andando.» Quando scese davanti all'entrata pressoché deserta dell'aerostazione, si diresse subito al parcheggio dei taxi, dove c'era un'auto solitaria. «Devo andare soltanto fino alla zona degli aerei privati, ma sono pronto a pagarle 20 dollari per il disturbo» disse al tassista. «Salga pure.» Arrivarono all'altra estremità dell'aeroporto. «Dove va esattamente?» gli chiese l'autista. «Quell'edificio laggiù.» Il taxi lo depositò davanti a una palazzina che ospitava diversi uffici, Khalil pagò i 20 dollari e scese. Si trovava a una cinquantina di metri dal punto in cui era sceso dall'aereo di Satherwaite, ancora parcheggiato al proprio posto. Entrò nella palazzina e trovò l'ufficio della Stewart Aviation. Quando entrò, l'impiegato dietro il banco si alzò in piedi. «Buonasera, mi dica.» «Mi chiamo Samuel Perleman. Dovrebbe esserci un aereo prenotato a mio nome.»
«Certo, partenza a mezzanotte.» L'impiegato guardò l'orologio. «È un po' in anticipo, ma non fa nulla, dovrebbero essere pronti.» «Grazie.» Khalil guardò in faccia il giovanotto, ma non vide nulla che gli facesse pensare di essere stato riconosciuto. «Mr Perleman, ha qualcosa sul viso e sulla camicia» lo avvertì l'impiegato. Lui capì immediatamente che quel "qualcosa" era il contenuto del cranio di Satherwaite. «Ancora una volta mi sono sbrodolato a tavola» spiegò con notevole presenza di spirito. L'uomo sorrise e gli indicò una porta sulla destra. «Lì c'è un bagno, se vuole. Nel frattempo avverto i piloti del suo arrivo.» Khalil si chiuse in bagno e andò a osservarsi allo specchio. Sulla camicia aveva schizzi di sangue rosso scuro, della materia cerebrale grigiastra e perfino una scheggia d'osso. Qualche traccia si notava anche su una lente, e c'erano un paio di macchie sulla cravatta e sul viso. Si tolse gli occhiali e si lavò mani e faccia, facendo attenzione a non bagnare i baffi e i capelli, quindi si asciugò con un asciugamano di carta strofinandolo poi su camicia, cravatta e occhiali; infine tornò al banco della reception. «Il noleggio dell'aereo è stato pagato in anticipo dalla sua società» gli annunciò l'impiegato. «Deve soltanto leggere le condizioni del contratto e la dichiarazione liberatoria, firmando dove ho messo una crocetta.» Khalil finse di leggere. «Tutto a posto» disse poi, e firmò. «Lei è israeliano?» gli chiese l'impiegato. «Sì, ma ora abito negli Stati Uniti» rispose Khalil. «Ho dei parenti in Israele, abitano a Gilgal, sulla costa occidentale. Sa dov'è?» «Naturalmente.» A Khalil tornarono in mente le parole di Boris: "Metà Israele abita nell'area di New York, quindi non darai nell'occhio, ma potresti trovare ebrei che vogliono parlare con te del loro paese o dei parenti. Studiati bene mappe e guide d'Israele". «È una cittadina 30 chilometri a nord di Gerusalemme» disse al giovane dietro il banco. «La vita è dura per gli abitanti, circondati come sono dai palestinesi, e devo congratularmi con i suoi parenti per il coraggio e la tenacia che dimostrano continuando a vivere lì.» «È vero, è un posto infame e dovrebbero trasferirsi sulla costa. Ma forse un giorno impareremo a convivere con gli arabi.» «Non è facile, mi creda.»
L'impiegato rise. «Se lo dice lei, c'è da crederci.» Fece il suo ingresso nell'ufficio un tipo di mezz'età che indossava un'anonima uniforme blu. «Buonasera, Dan.» «Bob, ti presento Mr Perleman, il tuo passeggero.» Si strinsero la mano. «Sono il capitano Fiske, ma può chiamarmi Bob» disse il pilota. «Stanotte andiamo a Denver e da lì proseguiamo per San Diego, giusto?» «Giusto.» «L'aereo è pronto, Mr Perleman. Ha bagagli?» «Solo questa borsa.» «Me la dia pure, gliela porto io.» Khalil si era già preparato la battuta. «Grazie, ma devo fare un po' d'esercizio.» Il pilota sorrise e s'incamminò verso la porta. «Lei è l'unico passeggero, vero?» «Sì, sono solo.» «Shalom alekhem» lo salutò l'impiegato mentre usciva. Stava per rispondergli in arabo "Salam aleikum", ma riuscì a trattenersi. «Shalom.» Seguì il pilota fino a un hangar davanti a cui era fermo un piccolo aereo bianco. Khalil notò di nuovo l'apparecchio di Satherwaite e si chiese a che ora avrebbe cominciato a dare nell'occhio il giorno seguente; la cosa comunque non lo preoccupava, perché lui a quel punto sarebbe stato lontanissimo. «Stanotte voleremo su un Lear 60» l'informò il pilota. «Visto che siamo soltanto in tre e in pratica senza bagagli, ben al di sotto del peso massimo tollerabile per il decollo, ho potuto sfruttare l'intera capacità dei serbatoi, il che significa che potremo arrivare a Denver senza scalo. I venti non sono particolarmente sostenuti e da qui a Denver sono previste condizioni atmosferiche eccellenti. Il volo sarà di 3 ore e 18 minuti, la temperatura all'arrivo dovrebbe aggirarsi sui 5 gradi. Giunti a destinazione, faremo rifornimento, e mi sembra di aver capito che lei ha bisogno di fermarsi qualche ora.» «Esattamente.» «Atterreremo a Denver poco prima delle 2, ora locale.» «Dovrò chiamare il mio collega dall'aereo, immagino ci sia un telefono a bordo.» «Certo, signore, è una dotazione normale sui nostri apparecchi. Poi da Denver proseguiremo per San Diego, giusto?»
«Giusto.» «È prevista una leggera turbolenza sulle Montagne Rocciose e pioggia non intensa su San Diego, ma le condizioni possono cambiare. La terremo informata, se lo desidera.» Khalil non rispose, ma quella fissazione tutta americana per le previsioni meteorologiche lo infastidiva. In Libia il clima era sempre caldo e asciutto, a volte più caldo a volte meno, le sere erano fresche e in primavera soffiava il ghibli. Allah decideva le condizioni atmosferiche e l'uomo le subiva. A che serviva dunque prevedere il tempo o parlarne, visto che non lo si poteva modificare? Il pilota lo accompagnò all'aereo e si imbarcò con lui. «Mr Perleman, le presento il secondo pilota, Terry Sanford.» Il secondo, seduto nel seggiolino di destra, girò il capo. «Benvenuto a bordo, signore.» «Buonasera.» Il capitano Fiske gli indicò i sedili con un cenno del capo. «Sieda pure dove vuole. C'è un piccolo bar, dove troverà caffè, ciambelle, bibite e anche qualcosa di più forte.» Ridacchiò. «Ci sono anche giornali e riviste, la toilette è a poppa. Si metta pure a suo agio.» «Grazie.» Khalil andò a sedersi sull'ultima delle sei poltroncine, a destra, e poggiò la borsa accanto a sé nel corridoio. Guardò l'orologio, era appena passata la mezzanotte. Il bilancio della giornata, rifletté, era abbastanza positivo: ne aveva ammazzati tre, che diventavano cinque con la donna delle pulizie di Paul Grey e la guardia del museo. Ma questi ultimi due non contavano, come non contavano i trecento sull'aereo e gli altri che si erano trovati sulla sua strada. In America c'erano soltanto sei persone la cui morte aveva un significato per lui, e quattro le aveva già eliminate con le proprie mani. Ne rimanevano due, o almeno, questo avrebbero pensato gli investigatori se fossero giunti alla conclusione esatta. Ma c'era un altro uomo... «Mr Perleman?» Asad Khalil sollevò lo sguardo sul pilota, in piedi accanto a lui. «Sì?» «Dovrebbe mettersi la cintura di sicurezza, stiamo per muoverci.» Si allacciò la cintura, mentre il pilota continuava a dargli istruzioni. «Il telefono è accanto al bar e il filo è abbastanza lungo da raggiungere anche i sedili sul fondo dell'aereo.» «Bene.» «L'altro strumento fissato alla fiancata è l'interfono. Per comunicare con
noi è sufficiente premere quel pulsante e parlare.» «Grazie.» «Oppure può venire in cabina.» «Ho capito.» «Bene. Le serve qualcos'altro?» «No, grazie.» «Okay. Quella è l'uscita di sicurezza e gli oblò hanno le tendine. Dopo il decollo le farò sapere quando potrà slacciarsi la cintura.» «Grazie.» «A dopo.» Il pilota entrò in cabina e chiuse il tramezzo scorrevole che la separava dal resto dell'aereo. Pochi minuti dopo il decollo, udì dall'altoparlante la voce del secondo pilota. «Mr Perleman, può muoversi se lo desidera, ma se rimane seduto la pregherei di tenere la cintura allacciata. Lo schienale del sedile è reclinabile fin quasi a terra, se vuole dormire. In questo momento stiamo sorvolando Manhattan, può ammirarla dal finestrino.» L'aereo stava passando sopra l'estremità meridionale dell'isola di Manhattan e Khalil vide i grattacieli quasi in riva al mare; tra gli edifici svettavano le Twin Towers del World Trade Center. Khalil si augurò di non rivedere più in vita sua quella città. L'ultima tappa americana era quel posto chiamato California, dal quale avrebbe raggiunto la sua destinazione finale: Tripoli, oppure il paradiso. A casa, comunque. 42 Mi svegliai e in pochi istanti realizzai chi ero, dov'ero e con chi avevo dormito. Di solito, in casi del genere, ci si pente di aver esagerato con l'alcol e si preferirebbe un risveglio diverso, da soli e da qualche altra parte. Quella mattina, invece, questi pensieri mi erano assolutamente estranei. Stavo benissimo, insomma, e dovetti anzi resistere alla tentazione di aprire la finestra e gridare: "Svegliati, New York! John Corey ha scopato!". La sveglia sul comodino segnava le 7.14. Scesi silenziosamente dal letto e andai in bagno. Trovai il kit dell'Air France, mi rasai, mi lavai i denti e mi infilai sotto la doccia. Attraverso il vetro appannato della doccia, vidi Kate entrare in bagno, poi udii lo sciacquone del water e la sentii lavarsi i denti e fare i gargarismi
tra uno sbadiglio e l'altro. Fare sesso con una donna che si conosce appena è un conto, passarci la notte insieme è un altro. E io sull'uso del bagno sono di vedute piuttosto ristrette. A un certo punto vidi la porta della cabina-doccia aprirsi e Ms Mayfield comparire, senza accennare nemmeno un "posso?"; al contrario, entrò, mi spinse di lato e si piazzò sotto il getto d'acqua. «Lavami la schiena» mi disse. Le passai sulla schiena la spugna insaponata. «Ohhh, che goduria!» Si voltò verso di me e ci abbracciammo e baciammo mentre l'acqua ci scorreva sul corpo. Dopo il sesso sotto la doccia, ci asciugammo e tornammo in camera da letto avvolti negli accappatoi. La stanza era rivolta a est e il sole cominciava a filtrare dalla finestra. Sembrava una bella giornata, ma ci si può sempre sbagliare. «Mi è proprio piaciuto, stanotte» disse. «Anche a me.» «Ti rivedrò?» «Lavoriamo assieme.» «Ah, già. Tu sei quello della scrivania di fronte alla mia.» Non sai mai cosa aspettarti o cosa dire, in mattine come quella, ma è sempre preferibile non prendere le cose troppo sul serio; proprio come stava facendo Kate. Le assegnai cinque punti. Se la memoria non mi ingannava, dovevo aver seminato vestito e biancheria in soggiorno. «Ti lascio ai tuoi riti e vado a cercare la mia roba» le dissi. «Troverai tutto appeso e stirato nell'armadio a muro dell'ingresso. Ti ho lavato mutande e calze.» «Grazie.» Dieci punti. Presi pistola e fondina e passai in soggiorno, trovando tutta la mia roba ancora sparsa sul pavimento. Doveva essersi sognata di avermi lavato e stirato la biancheria. Le tolsi i dieci punti. Mi vestii, sentendomi a disagio con la biancheria sporca. Sono un fissato dell'igiene, anche se qualche volta sono costretto ad abbozzare. Passai nel cucinino dove trovai un bicchiere pulito che riempii di succo d'arancia. Il frigo era pressoché vuoto, ma c'era dello yogurt. C'è sempre yogurt nel frigo di una donna, chissà perché. Sollevai la cornetta del telefono della cucina e composi il numero di ca-
sa, udendo la mia voce registrata. "Qui è la residenza di John Corey, la signora ha preso il volo, quindi non lasciate messaggi per lei." Forse, dopo un anno e mezzo, sarebbe il caso di cambiar frase. Composi le cifre del codice e udii la voce sintetizzata: "Sono presenti otto messaggi". Il primo era della mia ex, l'aveva lasciato la sera prima: "Cambia quello stupido messaggio registrato. E chiamami, sono preoccupata". Le credevo, l'avrei chiamata più tardi. C'era un altro messaggio preoccupato, di mamma e papà, che vivono in Florida e somigliano ormai a pomodori essiccati al sole. La terza chiamata era di mio fratello, che legge solo il "Wall Street Journal" ma deve aver saputo qualcosa dai nostri genitori, i quali sicuramente gli avranno detto di telefonare alla pecora nera. Mi chiamano così, in famiglia, e il nomignolo non ha alcuna connotazione negativa. Mi avevano cercato anche due ex colleghi del Dipartimento per sapere se in quella storia del volo 175 c'ero di mezzo anch'io. E c'era un messaggio di Dom Fanelli, il mio ex partner: "Ehi, cumpa'! Te l'ho trovato carino il lavoro, vero? Cristo santo, e tu ti preoccupavi per quei due Pedro che ti avevano scambiato per un bersaglio! Quell'arabo merdoso ha fatto fuori un intero aereo, oltre a un po' di federali, e ora probabilmente ti sta cercando. Cominci a divertirti? L'altra sera sei stato visto bere da Giulio, ed eri solo. Comprati una parrucca bionda. E dammi un colpo, devi pagarmi da bere. Arrivederci." Sorrisi, anche se c'era poco da ridere. "'fanculo, Dom." Il messaggio successivo era di Ted Nash. "Qui Nash... dovresti essere a Francoforte, Corey, e spero che tu sia già in viaggio. In caso contrario, dove sei? Dovresti tenerti in contatto, chiamami." "Doppio 'fanculo, stronzetto..." Capii che quell'uomo mi dava sui nervi, mentre me ne sarei dovuto fregare, seguendo il consiglio che mi aveva dato Kate all'aeroporto. L'ultimo messaggio l'aveva lasciato Jack Koenig a mezzanotte, ora di New York. "Nash ha cercato di mettersi in contatto con te. Non sei in ufficio, non hai lasciato un numero di reperibilità, non rispondi al cercapersone e immagino tu non sia a casa. Richiamami al più presto possibile." Herr Koenig evidentemente aveva respirato a fondo l'aria tedesca. "Fine dei messaggi" disse la voce sintetizzata. "Grazie a Dio." Per fortuna non udii la voce di Beth, che avrebbe aumentato il mio senso di colpa.
Tornai in soggiorno e andai a sedermi sul divano, scena del delitto della sera prima. Be', una delle scene. E, non sapendo cosa fare, sfogliai l'unica rivista che riuscii a trovare, "Entertainment Weekly". Nella pagina culturale scoprii che Danielle Steel aveva già scritto il suo quarto libro dell'anno, ed era soltanto aprile. Forse avrebbe potuto scrivere anche il mio rapporto sui fatti del Kennedy, ma temevo che si sarebbe dilungata a descrivere l'abbigliamento dei passeggeri di prima classe. Cambiai pagina, ed ero pronto a leggere un articolo su un concerto di beneficenza di Barbra Streisand a favore dei maya marxisti della penisola dello Yucatán, quando... voilà... ecco apparire Kate Mayfield truccata, vestita e pettinata. Non ci aveva impiegato molto, effettivamente. Dieci punti. Mi alzai. «Sei bella.» «Grazie, ma risparmiati le galanterie. Mi piaci così come sei.» «E come sono?» «Insensibile, pasticcione, autoreferenziale, egoista, rude e sarcastico.» «Farò del mio meglio.» Venticinque punti. «Stasera vengo da te, mi porterò una borsa con il cambio» m'informò. «Ti sta bene?» «Naturalmente.» Sperando che la borsa non assomigliasse a tre valigie e quattro casse su ruote. Dovevo riflettere bene. «Mentre eri in bagno, stanotte, ha suonato il tuo cercapersone. Era il Centro coordinamento.» «Avresti dovuto dirmelo.» «Me lo sono dimenticato, ma non fa nulla.» Ebbi l'impressione di aver ceduto a Kate il comando della missione, se non addirittura della mia vita. Non so se mi spiego. Meno cinque punti. «C'è un delizioso caffè francese sulla Second Avenue» mi comunicò mentre ci accingevamo a uscire. «Bene, lascialo dov'è.» «Dai, pago io.» «C'è un sudicio bar proprio dietro l'angolo.» «L'ho detto prima io.» Prendemmo le nostre borse e uscimmo, come due qualsiasi John e Jane Jones che andavano al lavoro. Con la differenza che noi giravamo armati di Glock calibro 40. Kate, a proposito, indossava pantaloni neri, camicia bianca e un blazer
color ketchup. Io, la roba del giorno prima. Era una bella giornata limpida, anche se un po' fredda. Alla fine della 86th Street prendemmo la Second Avenue in direzione di casa mia, anche se non era quella la nostra meta, e arrivammo al caffè francese, che si chiamava La Qualcosa di Qualcos'altro. Una signora francese, visibilmente imbottita di Prozac, ci accolse sulla porta come vecchi amici, e lei e Kate, che dovevano già conoscersi, si scambiarono qualche parola in francese. Portatemi via. Meno cinque punti. «Hai altre informazioni da darmi?» mi chiese mentre facevamo colazione. «No, solo quell'omicidio a Perth Amboy.» «Qualche teoria?» «No. Vieni spesso qui?» «Quasi ogni mattina. Che pensi di fare oggi?» «Devo ritirare la mia roba in lavanderia. E tu?» «Ho da smaltire il lavoro che si è accumulato sulla scrivania.» «Io mi preoccuperei di quello che non c'è sulla tua scrivania.» «Per esempio?» «Per esempio qualche particolare sui delitti attribuiti a Khalil in Europa. Non ci hanno fatto sapere nulla, a meno che non mi sia perso qualcosa. Niente dall'Intelligence dell'Aeronautica, niente dalla Cia.» «E a noi cosa serve?» mi chiese. «Un nesso, un movente.» «Il nesso pare non ci sia, a meno di non considerare tale il fatto che gli obiettivi erano inglesi e americani. E questo è anche il movente.» «Mi intriga in particolare l'omicidio a colpi d'ascia di quel colonnello americano dell'Aeronautica, in Inghilterra.» «Il colonnello Hambrecht. Vicino alla base aerea di Lakenheath.» «Esatto. Non male questo caffè.» «E perché ti intriga?» «Perché è stato così diretto, così personale.» «Come l'omicidio di quei tre scolari, non trovi?» «No, perché a quelli ha sparato. E invece con il colonnello ha usato l'ascia, per qualche motivo.» Mi fissò a lungo. «Okay, detective Corey. Spiegami.» Giocherellai con l'ultima brioche rimasta. «Un delitto di quel genere presuppone un rapporto personale.» «Certo, ma non abbiamo nemmeno la sicurezza che a commetterlo sia
stato Khalil.» «In effetti si tratta solo di un'ipotesi dell'Interpol. Ieri, mentre tu e Jack ve ne andavate in taxi all'aeroporto, ho passato in rassegna mezza tonnellata di carte; e ho trovato pochissimo, per non dire nulla, da parte di Scotland Yard, dell'Intelligence dell'Aeronautica e dei nostri amici della Cia. E niente da parte dell'Fbi, che sicuramente a suo tempo aveva mandato una squadra per indagare sull'omicidio di Hambrecht e su quello dei tre bambini americani. Mi sai dire, allora, perché manca questo materiale?» «Probabilmente perché ti è sfuggito.» «Ho fatto una richiesta al nostro archivio e sto ancora aspettando.» «Non essere paranoico.» «E tu non essere troppo ingenua.» Non rispose subito. «Non lo sono» disse poi. Tacemmo, concordando in silenzio fra noi che qualcosa cominciava a puzzare; anche se questo l'agente Mayfield non l'avrebbe scritto nel suo rapporto. Madame mi portò il conto, che io passai a Mademoiselle, la quale pagò in contanti. Cinque punti. Madame prese il resto da un marsupio, come in Europa. Fichissimo, vero? Uscimmo e fermai un taxi. «Federal Plaza 26» dissi all'autista. Quello sembrava sperduto e gli indicai la strada. «Di dov'è lei?» gli chiesi. «Albania.» Quando ero bambino, circolavano ancora dei tassisti provenienti dalla Russia zarista, tutti aristocratici a sentir loro. Ma almeno sapevano trovare un indirizzo. Rimanemmo per un po' in silenzio. «Forse dovresti andare a casa a cambiarti» disse poi Kate. «Ci andrò, se credi sia il caso. Abito a pochi isolati da qui, siamo quasi vicini.» Sorrise e rimase un po' a pensarci su. «Ma no, non c'è bisogno che ti cambi. Tanto non se ne accorgerà nessuno.» «In quel palazzo ci sono circa cinquecento detective tra polizia e Fbi, non credi che qualcuno potrebbe accorgersene?» Rise. «E chi se ne frega?» «Potremmo entrare separatamente.» Mi prese una mano e avvicinò le labbra al mio orecchio. «Vadano a fare in culo.» Le proposi un'altra volta di far fermare il taxi un isolato prima e di anda-
re al lavoro separatamente, ma lei non volle sentire ragioni. «No, divertiamoci un po'. Voglio vedere chi se ne accorge, chi ci lancia occhiate maliziose» disse. «Non abbiamo fatto nulla di male.» Erano quasi le 9 quando il taxi si fermò davanti al 26 di Federal Plaza. Pagai ed entrammo nell'atrio senza vedere in giro molti colleghi; i pochi che conoscevamo, poi, non sembravano aver notato che eravamo arrivati insieme, con lo stesso taxi, in ritardo, e che io non mi ero cambiato gli abiti del giorno prima. Quando ti scopi una collega hai l'impressione che tutti lo sappiano, mentre la gente ha faccende più serie a cui pensare. Ma se Koenig fosse stato in sede, se ne sarebbe accorto e non l'avremmo passata liscia. Conosco il tipo. All'edicola dell'atrio comprammo "New York Times", "New York Post", "Daily News" e "Usa Today" anche se questi e altri quotidiani ci arrivano in ufficio cinque giorni la settimana. Ma a me piace leggere il giornale prima che lo leggano gli altri e, soprattutto, prima che lo ritaglino. Aspettando l'ascensore, diedi un'occhiata alla prima pagina del "Times", il cui titolo d'apertura era dedicato all'attacco terroristico, e d'improvviso un nome e un volto familiare attirarono la mia attenzione. «Oh, merda!» «Che c'è?» Le misi il giornale davanti agli occhi. «Oh...» Per farla breve, in prima pagina c'erano il mio nome e una mia foto scattata il sabato precedente al Kennedy, almeno così c'era scritto, anche se non mi sembrava di essere vestito così in quell'occasione. Era un'istantanea gentilmente fornita al giornale dalla stessa persona che mi aveva messo in bocca frasi che non ricordavo di avere pronunciato, a parte una: "Credo che Khalil si trovi ancora nell'area metropolitana di New York e, in questo caso, lo troveremo". Veramente le mie parole non erano state proprio quelle e, soprattutto, l'affermazione non era destinata al pubblico; dovevo ricordarmi di tirare un pugno in faccia ad Alan Parker alla prima occasione. Kate stava scorrendo il "Daily News". «Citano anche me» mi informò. «Avrei dichiarato che "eravamo lì lì per catturare Khalil al Kennedy, ma lui è riuscito a sfuggirci con l'aiuto di complici".» Sollevò lo sguardo su di me. «Capisci ora perché non dovevamo parlare con la stampa?» le feci osservare. «Ci hanno pensato Jack, o Alan, o qualcun altro.» «Be', avevamo accettato di fare... come si dice? Non mi viene la parola.» «Le esche. Dov'è la tua foto?»
«Forse la pubblicheranno domani, o oggi pomeriggio.» Rise. «Non vengo molto bene in fotografia.» Prendemmo l'ascensore insieme ad altra gente diretta come noi agli uffici dell'Attf. Uno che stava leggendo il giornale mi guardò, poi riportò lo sguardo sul giornale. «Ehi, sei sulla lista dei ricercati di Khalil!» Scoppiarono tutti a ridere. Chissà perché, io non ci trovai nulla di divertente. «Non state troppo vicino a Corey» disse qualcun altro. Altre risate. Più l'ascensore saliva, più le battute diventavano idiote. Al coro si aggiunse anche Kate: «Posso prestarti un flacone di tintura bionda Lady Clairol». Ha, ha, ha. Se non fossi quel gentiluomo che sono, avrei annunciato ai presenti che Ms Mayfield era una bionda naturale, naturalissima. Scendemmo al ventiseiesimo piano e ci dirigemmo alle nostre scrivanie del Centro coordinamento. Kate cominciò a sfogliare le carte che si erano accumulate. «Mio Dio, ci sarà una tonnellata di roba qui sopra.» «Quasi tutta spazzatura, scommetto.» Lessi attentamente il "New York Times" cercando la notizia del banchiere americano assassinato a Francoforte. Era stata riassunta in poche righe da un dispaccio dell'Associated Press e non veniva fatto alcun collegamento con Asad Khalil. Probabilmente le varie autorità che seguivano l'affare Khalil avevano deciso che c'era già troppa carne al fuoco e che era inutile fare dell'allarmismo. Feci leggere la notizia a Kate, che allungò la mano sul telefono. «Dobbiamo chiamare Jack.» «A Francoforte sono sei ore indietro, starà dormendo.» «Sono sei ore avanti e starà in ufficio.» «In ogni caso, lascia che sia lui a chiamarci.» Lei sembrò esitare, poi riappoggiò la cornetta. Volendo dare un nome a tutta quella faccenda, la si sarebbe potuta definire "il caso dell'informazione mancante". Nei giornali mancavano quei particolari di cui la stampa non era stata messa al corrente; ciò che stupiva era che mancassero le conclusioni che i giornalisti avrebbero dovuto trarre da soli. Mancava, soprattutto, ogni riferimento alla data del 15 aprile 1986; e qualsiasi giornalista con un po' di cervello, un po' di memoria e un modem avrebbe potuto stabilire un collegamento del genere. Nemmeno i cronisti dei quotidiani erano tanto stupidi, e questo mi faceva pensare che le notizie fossero state in qualche modo ritoccate. La stampa, una volta che si
sia riusciti a convincerla che è in ballo la sicurezza nazionale, può collaborare con i federali per qualche giorno, talvolta anche per una settimana. O forse le mie erano solo elucubrazioni paranoiche. «Perché nessuno di questi resoconti cita l'anniversario del nostro raid sulla Libia?» chiesi a Kate. Sollevò lo sguardo dal foglio che stava leggendo. «Probabilmente perché qualcuno ha pregato i giornali di non farlo. Non è una buona idea curare le pubbliche relazioni della controparte, quelli vanno matti per gli anniversari e provano una terribile frustrazione se noi li ignoriamo.» Il suo ragionamento filava, un episodio di queste dimensioni si prestava a mille considerazioni. E se quei pessimi attori stavano mettendo in scena una tragedia, non era proprio il caso che gli facessimo della pubblicità gratuita. Non c'era molto altro sui giornali e, seguendo l'esempio di Kate, ascoltai la segreteria telefonica. Però avrei dovuto usare la cornetta invece del vivavoce, perché il primo messaggio l'aveva lasciato Beth alle 7.12 di quella mattina. "Ehi, tu. Ti ho cercato a casa ieri notte e stamattina, ma senza lasciarti messaggi. Dove ti nascondi? Chiamami a casa entro le 8 e poi in ufficio. Mi manchi. Un bacione umido. Ciao." Kate finse di non aver udito e continuò ad ascoltare i suoi messaggi. «Devo chiamare mammà» dissi tra me e me, ma non credo che funzionò. Il messaggio seguente era di Jack Koenig. "Messaggio per Corey e Mayfield. Chiamatemi." Snocciolò poi un lunghissimo numero pieno di zeri e di uno, il che mi fece pensare che non si trovava nel suo ufficio in fondo al corridoio. C'era un messaggio analogo di Ted Nash e lo cancellai. Dopo un minuto Kate sollevò lo sguardo. «Chi era?» «Jack e poi Ted.» «Parlo del primo messaggio.» «Ah... Mamma?» Disse qualcosa come "bronzo", ma potrei anche avere capito male. Poi si alzò allontanandosi dalla scrivania e tornò poco dopo con due grosse tazze di caffè. «Scuro, una sola zolletta. Giusto?» «Giusto. Niente stricnina, grazie.» «Se vuoi, posso scendere a comprarti un bel panzerotto con salame e formaggio.» «No, grazie.» «Un uomo d'azione deve nutrirsi come Dio comanda.» «In questo momento, come vedi, me ne sto seduto e non sono in azione.
Perciò il caffè è più che sufficiente, grazie.» «Scommetto che stamattina non hai preso le tue vitamine. Vado a comprartele.» Il sarcasmo di Kate Mayfield mi sembrò un po' offensivo e non immaginavo che avrei dovuto fare da esca anche per lei, oltre che per Asad Khalil. «Grazie, ma ho bisogno soltanto di caffè» tagliai corto. Poi abbassai la testa e mi misi a leggere un rapporto. Lei, seduta di fronte a me, sorseggiava il caffè e io mi sentii addosso il suo sguardo. E quando sollevai il capo, quegli occhi azzurri, fino a un momento prima celestiali, si erano trasformati in due gelidi pezzi di ghiaccio. Ci fissammo a lungo. «Scusa» mi disse infine, e si rimise a leggere. «La sistemo io quella faccenda.» «Sarà meglio» commentò senza sollevare gli occhi. Dopo un paio di minuti ci rimettemmo al lavoro, che in quel momento consisteva nell'assicurare alla giustizia il terrorista più ricercato al mondo. «Abbiamo un rapporto congiunto di diverse polizie» disse Kate «sul noleggio di automobili nell'area metropolitana... In sostanza, anche se ogni giorno vengono affittate migliaia di auto, stanno cercando di individuare quelle date a clienti con nomi vagamente mediorientali. A occhio e croce sembra un lavoro lungo.» «Molto lungo, anche perché, per quel che ne sappiamo, Khalil potrebbe essersi fatto prestare l'auto da un compatriota. E se invece l'auto è stata noleggiata dai complici, potrebbero avere dato il nome di Smith presentando una patente falsa intestata a quel nome.» «Ma chi l'ha affittata potrebbe non avere avuto una faccia da Smith.» «Giusto, ma potrebbero essersi serviti di un simil-Smith per poi farlo fuori. Dimentichiamoci gli autonoleggi.» Riportai l'attenzione sui rapporti e i promemoria affastellati sulla mia scrivania. E trovai una busta con la stampigliatura SOLO PER I TUOI OCCHI, ma senza l'indicazione del mittente. La aprii, era di Gabe. "Ieri ho tenuto Fadi in isolamento e poi sono andato a casa di Jamal Jabbar a parlare con la moglie Cala. Mi ha detto che il marito non l'aveva messa al corrente delle sue attività, delle sue intenzioni e della sua destinazione di sabato. Ha aggiunto però che venerdì sera Jabbar aveva ricevuto una visita; e, dopo che il visitatore era andato via, aveva nascosto sotto il letto matrimoniale una grossa borsa di tela nera avvertendola di non toccarla. Lei non ha riconosciuto il visitatore né ha udito ciò che si sono detti. La mattina
seguente il marito era rimasto a casa, fatto abbastanza insolito, visto che lui lavorava ogni sabato. Jabbar è uscito dalla sua casa di Brooklyn alle 2 del pomeriggio portandosi dietro il borsone nero e non ha più fatto ritorno. Richiesta di descrivere l'atteggiamento del marito, ha adoperato gli aggettivi preoccupato, nervoso, triste e distratto; almeno, suonano più o meno così tradotti dall'arabo. Mrs Jabbar mi è sembrata rassegnata all'eventualità che Jamal sia morto. Ho chiamato la Omicidi autorizzandoli a informarla dell'assassinio del marito e ho rimesso in libertà Fadi. Ci sentiamo più tardi." Piegai il foglio con il messaggio, infilandomelo poi nella tasca interna della giacca. «Che cos'era?» mi chiese Kate. «Te lo mostrerò più tardi.» «Perché non ora?» «Così, parlando con Jack, puoi negare di sapere certe cose senza mentire.» «Jack è il nostro capo, mi fido di lui.» «Anch'io. Ma in questo momento è un po' troppo vicino a Teddy.» «Di che stai parlando?» «In questo momento si stanno disputando due partite nello stesso campo di gioco: una è quella del Leone, una è di qualcun altro.» «E chi è quest'altro?» «Non lo so, ma ho la sensazione che qualcosa non quadri.» «Be'... se vuoi dire che la Cia lavora in proprio, non è esattamente una novità.» «Giusto. Tieni d'occhio Ted.» «Okay, potrei sedurlo e farmi confessare tutto.» «Buona idea. Ma una volta l'ho visto nudo e ti avverto che ha un pisello piccolo così.» Mi guardò, accorgendosi che non stavo scherzando. «Quando l'hai visto nudo?» «A una festa di addio al celibato. La musica e le spogliarelliste lo avevano fatto andar via di testa, e prima che qualcuno potesse bloccarlo...» «Piantala. Quando l'hai visto nudo?» «A Plum Island. Abbiamo dovuto fare una doccia speciale per decontaminarci. Ma lui non deve essersi lavato bene, perché poco dopo il pisello gli è caduto sul pavimento.» Lei rise, poi tornò seria. «Dimenticavo che avete lavorato insieme a
quell'indagine. E c'era anche George, vero?» «Sì, ma lui ha un pisello normale. Per la cronaca.» «Grazie per l'informazione.» Rifletté per qualche secondo. «Quindi, durante quelle indagini hai imparato a non fidarti di Ted?» «Non è stato precisamente un processo evolutivo. Ho diffidato di lui tre secondi dopo averlo conosciuto.» «Capisco... Quindi ti insospettisce questa coincidenza, vale a dire il fatto di ritrovartelo tra i piedi.» «Un po', forse. A proposito, durante il caso Plum Island è arrivato a minacciarmi.» «Come?» «Nell'unico modo che conta.» «Non ci credo.» Mi strinsi nelle spalle, poi feci a Kate Mayfield un'altra rivelazione. «Per tua informazione, Ted era molto interessato a Beth Penrose.» «Ho capito, cherchez la femme. Ora i conti tornano e il caso è chiuso.» Probabilmente avevo sbagliato a farle sapere quel precedente, ma decisi di non contraddire la sua deduzione illogica. «Così abbiamo trovato la soluzione a entrambi i nostri problemi» proseguì. «Facciamo mettere insieme Ted e Beth.» Da agente dell'Antiterrorismo mi ero trasformato nel personaggio di una commedia televisiva. «Può essere un'idea» dissi per chiudere l'argomento. «Bene, ora fammi vedere quel foglio che ti sei messo in tasca.» «C'è scritto che è solo per i miei occhi.» «Okay, allora leggimelo.» Tirai fuori il promemoria di Gabe e glielo feci scivolare davanti. «Non c'è molto di nuovo» osservò dopo averlo letto «e nulla che non dovrei vedere o che dovrei negare di aver visto.» Ci rimettemmo entrambi al lavoro. «Ho qui il rapporto preliminare della Scientifica sul taxi ritrovato a Perth Amboy» disse poco dopo. «Accidenti... le fibre di lana rinvenute sul sedile posteriore sono uguali a quelle prelevate a Parigi dal vestito di Khalil.» Trovai la mia copia del rapporto e la esaminai mentre lei continuava a leggerla ad alta voce. «"Sul sedile del guidatore e sul cadavere sono state trovate tracce di polietilene tereftalato chiaro..." Che diavolo significa?» mi chiese. «Significa che l'assassino ha usato una bottiglia di plastica come silenziatore.»
«Davvero?» «Davvero. Sono sicuro che c'è scritto in uno di quei manuali che tieni sugli scaffali.» «Non leggo mai... Che altro?... Ah, le pallottole erano sicuramente calibro quaranta... il che potrebbe significare che ha usato la pistola... sì, di uno di quei due poveracci.» «Probabile.» «L'auto è piena di impronte, però nessuna coincide con quelle di Khalil.» Leggemmo entrambi il rapporto, ma a parte le fibre di lana non c'era alcuna prova inoppugnabile che Khalil fosse salito su quel taxi. E nemmeno quella poteva considerarsi una prova definitiva della sua presenza a bordo ma, al massimo, della presenza del suo vestito o di uno simile al suo. È quello che ho sentito sostenere una volta in aula da un difensore. Lei ci pensò su. «È in America» disse poi. «Questo lo vado dicendo da prima dell'episodio di Perth Amboy.» «E il delitto di Francoforte è una messinscena per sviarci.» «Giusto, perciò non seguiremo quella pista. Anzi, non ne seguiremo nessuna, perché l'unica che abbiamo comincia e finisce a Perth Amboy.» Ci concentrammo di nuovo sulle carte. Decisi di cominciare dall'Europa e mi lessi quel poco che avevamo a disposizione sui delitti attribuiti a Khalil e su altre attività sospette. Da qualche parte in Europa doveva esserci una traccia, ma io non riuscivo a individuarla. Qualcuno aveva chiesto il dossier personale del colonnello William Hambrecht, e una copia era finita anche sul mio tavolo. Lo sfogliai e stavo per richiuderlo quando, proprio all'ultima pagina, trovai un OMISSIS, TOP SECRET che m'incuriosì. Nel dossier c'era anche un numero di telefono di Ann Arbor, nel Michigan, non inserito nell'elenco, e mi affrettai a comporlo. Al quarto squillo scattò la segreteria telefonica e udii la voce di una donna di mezz'età, sicuramente Mrs Hambrecht. «Qui è casa Hambrecht, in questo momento non possiamo rispondere, ma se lasciate nome e numero di telefono, vi richiameremo appena possibile.» Se l'uso della prima persona plurale era riferito anche al colonnello Hambrecht, non avrebbe mai più potuto richiamare. Udii il segnale acustico e parlai: «Mrs Hambrecht, mi chiamo John Corey e le telefono per conto dell'Aeronautica. Mi richiami appena possibile, per favore, dovrei parlarle del colonnello Hambrecht». Le lasciai il numero diretto dell'ufficio e
aggiunsi: «Oppure chiami Ms Mayfield» dandole il numero che Kate mi stava leggendo. Dopodiché riattaccai. Se lei non ci avesse trovato, la segreteria avrebbe detto "Corey, Task Force" oppure "Mayfield, Task Force" seguiti da una cortese richiesta di lasciare nome e numero di telefono. Era una formula abbastanza vaga, che evitava l'allarmante termine "terrorismo". Tentata anche questa improbabile pista, decisi di dedicarmi alla stesura del famoso rapporto, che avrei dovuto completare da tempo. Considerando che nessuno l'avrebbe letto, potevo ridurlo a quattro pagine, numerate però da 1 a 50, infilando nel rapporto 46 pagine bianche. Pensai anzi di cominciare proprio dalla fine e scrissi: "Quindi, in conclusione..." quando squillò il telefono di Kate. Era Jack Koenig. «Prendi la linea» mi disse lei dopo qualche secondo. Premetti il pulsante. «Parla Corey.» Koenig era piuttosto allegro. «Mi stai facendo incazzare» esordì. «Sì, signore.» Kate staccò la cornetta dall'orecchio, tenendola ostentatamente a qualche centimetro di distanza. «Hai disobbedito all'ordine di andare a Francoforte» continuò Koenig «non ritelefoni come ti viene chiesto e da ieri sera risulti disperso in azione.» «Sì, signore.» «Dov'eri? Non dovevi rimanere in contatto?» «Sì, signore.» «Allora, si può sapere dov'eri?» Quando uno dei miei ex capi mi faceva una domanda del genere, la risposta, spiritosissima, era la seguente: "La mia ragazza è stata arrestata con l'accusa di prostituzione e ho passato la notte al commissariato a negoziare la cauzione". Ma i miei nuovi capi, come ho già avuto occasione di dire, sono incapaci di comprendere lo humour sofisticato. «Non ho scuse, signore» risposi quindi. Intervenne Kate. «Ieri sera ho chiamato il Centro coordinamento avvertendo il funzionario di servizio che Corey e io saremmo stati reperibili a casa mia fino a ulteriore comunicazione. Non ho dato ulteriori comunicazioni, dunque siamo stati insieme a casa mia fino alle 8.45 di stamattina.» Silenzio. «Capisco» disse poi Jack, schiarendosi la voce. «Sto tornando a New York e dovrei essere in ufficio per le 20, ora di New York. Fatevi trovare, per favore, se non è un disturbo eccessivo.»
Lo rassicurammo che la cosa non ci disturbava. E io colsi l'occasione per affrontare l'argomento degli omissis nel dossier del defunto colonnello Hambrecht. «Kate ha fatto richiesta di conoscere il contenuto di quegli omissis» lo informai. «C'è modo di accelerare questa richiesta?» Altro silenzio. «Il Dipartimento della Difesa» disse poi «ci ha comunicato che gli omissis non hanno nulla a che vedere con l'uccisione del colonnello e perciò non sono pertinenti alla nostra indagine.» «E a cosa sono pertinenti?» «Hambrecht si occupava di questioni legate alla difesa nucleare, ed è a questo che si riferivano gli omissis. È normale procedura cancellare dai dossier personali tutto ciò che riguarda il nucleare. Quindi non è il caso di perder tempo.» «Okay.» In effetti lo sapevo, dato che avevo già seguito un caso in cui era coinvolto un ufficiale dell'Aeronautica. Lui passò ad altri argomenti, come il delitto di Perth Amboy e le scoperte della Scientifica. Ci chiese anche notizie sulla pista di Gabe, ma rimasi sul vago, e volle sapere cosa pubblicavano i giornali del mattino. «La mia foto» risposi. «Il tuo indirizzo è quello giusto?» E scoppiò a ridere, imitato da Kate. «Auf wiedersehen» gli dissi, e attaccai tornando al mio rapporto. "Quindi, in conclusione..." Kate rimase ancora un po' a parlare con Koenig e gli lesse il trafiletto sull'omicidio di Leibowitz a Francoforte, poi riagganciò a sua volta. Mi alzai dalla scrivania. «Vado a parlare con Gabe» le dissi. «Ti spiace non muoverti finché torno, in modo da prendere la chiamata di Mrs Hambrecht se dovesse telefonare?» «Non mi muovo, stai tranquillo. Cos'è che volevi chiederle?» «Non lo so bene. Tu mettila a suo agio e nel frattempo manda qualcuno a cercarmi.» «Okay.» Lasciai il Centro coordinamento e scesi nelle stanze degli interrogatori, dove trovai Gabe in corridoio che parlava con alcuni detective del Dipartimento di polizia in forza all'Attf. Appena mi vide mi venne incontro, mentre dagli ascensori uscivano o entravano altri detective portandosi dietro tipi dall'aria mediorientale. «Hai ricevuto il mio promemoria?» mi chiese. «Sì, grazie.» «A proposito, ho visto la tua foto sui giornali. E l'hanno vista anche tutti
quelli che ho interrogato.» Preferii ignorarlo. «Abbiamo tanti arabi, oggi, che dovremmo ordinare un certo numero di tappeti per le preghiere e mettere un cartello con una freccia puntata verso la Mecca.» «Già fatto.» «Novità?» «Direi proprio di sì. Ho chiamato Washington... la polizia di Washington, non l'Fbi, perché mi sono ricordato che Khalil non poteva sapere se l'avrebbero portato a New York o a Washington. E ho chiesto se da sabato scorso a oggi fosse morto o scomparso qualche tassista di origine mediorientale.» «E allora?» «In effetti hanno ricevuto una denuncia di scomparsa, si tratta di un libico di nome Dawud Faisal. Manca all'appello da sabato.» «Forse è andato a farsi cambiare il nome.» Gabe aveva imparato a ignorarmi. «Ho parlato con la moglie, in arabo naturalmente. Mi ha detto che era andato all'aeroporto Dulles per prendere un cliente e non è più tornato. Ti ricorda qualcosa?» Questo tassista, pensava in sostanza Gabe, potrebbe essere stato incaricato di andare a prendere Khalil all'aeroporto nel caso in cui il nostro uomo fosse stato portato a Washington invece che a New York. A un certo punto l'organizzazione, non importa se i servizi segreti libici o un movimento integralista, viene a sapere che Khalil arriverà al Kennedy; ma a quel punto Dawud Faisal sa troppe cose e quindi l'organizzazione lo fa fuori, oppure lo rapisce per liberarlo solo a missione di Khalil conclusa. «Ho capito» dissi a Gabe. «Ma cosa ce ne facciamo di questa notizia?» «Nulla, è un altro vicolo cieco. Abbiamo comunque la conferma che quella di Khalil è un'operazione complessa e molto ben programmata. Non c'è l'ambasciata libica nel nostro paese, ma in quella siriana lavorano dei libici che rispondono direttamente a Gheddafi. Tutti gli arabi si assomigliano, no? Cia e Fbi lo sanno, ma fingono di non saperlo, in modo da poterli tener d'occhio. Venerdì sera, però, entrambe le organizzazioni tenevano gli occhi chiusi quando qualcuno si è presentato a casa di Faisal con un borsone nero, come ho saputo da Mrs Faisal. Proprio quello che è successo a Mrs Jabbar: una visita inattesa il venerdì sera, una borsa nera, il marito visibilmente preoccupato. Tutto quadra, ma la notizia ormai è vecchia.» «Sì, ma, come dicevi tu, fa pensare a un'operazione complessa che pre-
vede la collaborazione di numerosi complici qui in America.» «Notizia vecchia anche questa.» «Giusto. Senti un po', tu come arabo riesci a metterti nei panni di Khalil? Secondo te, qual è il suo obiettivo?» Gabe rifletté sulla mia domanda, decisamente scorretta in quanto basata su uno sgradevole stereotipo razziale. «Pensa solo a quello che non ha fatto» rispose poi. «Non è entrato in America di nascosto, ma l'ha fatto a nostre spese, in tutti i sensi.» «Giusto. Vai avanti.» «Ci sta tirando in faccia merda di cammello e la cosa lo gratifica. Ma, a parte questo, mi sembra che... come posso dire?... che consideri tutto questo un gioco di carte. E lui ha truccato il mazzo, ma a proprio sfavore.» «Ci avevo pensato anch'io. E perché?» «È qualcosa di tipicamente arabo ed è spiegabile, in parte, con il senso di inferiorità nei confronti dell'Occidente. Gli estremisti mettono bombe sugli aerei o roba del genere, ma sanno che non è un gesto coraggioso; ogni tanto ti imbatti allora in qualcuno che vuole dimostrare agli infedeli quanto può essere coraggioso un mujaheddin.» «Un chi?» «Un combattente islamico per la libertà. E non mi sorprenderei se Khalil rispuntasse travestito da cameriere a una cena in onore del presidente. È pieno di odio per qualcuno che secondo lui lo ha fottuto, oppure ha fottuto l'Islam o la Libia. Cerca lo scontro diretto, personale. Non gli interessa vivere o morire nel tentativo di vendicarsi, l'importante per lui è vendicarsi. E se muore, qualcuno lo vendicherà a sua volta e lui andrà in paradiso.» «Lo aiuterò ad arrivarci.» «Se vi doveste incontrare, in paradiso ci andrà quello che impiegherà più tempo a riconoscere l'altro.» E rise. Me ne tornai al Centro coordinamento, chiedendomi perché mai tutti trovassero così divertente la pubblicazione della mia foto sui giornali, e andai subito al bar a prendermi un altro caffè. C'erano croissant, brioche, tartine e biscotti, ma niente ciambelle. Alla faccia della collaborazione tra le varie forze di polizia. Stavo riflettendo sulla conversazione con Gabe, quando mi raggiunse Kate. «Ho al telefono Mrs Hambrecht, le ho spiegato chi siamo.» Posai la tazza di caffè, tornai alla mia scrivania e sollevai la cornetta. «Mrs Hambrecht, sono John Corey della Task Force Fbi.» «Di che si tratta, Mr Corey?» mi chiese una voce femminile e raffinata.
Nel frattempo Kate mi si era seduta di fronte e aveva sollevato la cornetta. «Mi consenta anzitutto di farle le mie più sentite condoglianze» risposi. «Grazie.» «Sono stato incaricato di ulteriori indagini sulla morte di suo marito.» «L'assassinio di mio marito.» «Certo, l'assassinio. Immagino che lei sia stanca di rispondere a domande...» «Continuerò a rispondere alle domande finché non verrà scoperto l'assassino.» «Grazie.» Non mi credereste se vi dicessi quanto poco gliene potrebbe fregare a certi vedovi o a certe vedove della cattura di colui che ha mandato all'altro mondo il loro amato bene, a parte il dispiacere per non aver potuto ringraziare di persona il responsabile. Ma Mrs Hambrecht sembrava sincera, meglio così. «Vedo dai rapporti che lei è già stata sentita dall'Fbi, dai servizi segreti dell'Aeronautica e da Scotland Yard. Giusto?» «Giusto. E anche dall'MI-5 e MI-6 britannici e dalla Cia.» Incrociai lo sguardo con quello di Kate. «Il che porterebbe a pensare che sia stata fatta l'ipotesi di un movente politico.» «È quello che penso io, nessuno mi dice ciò che pensa.» «Ma dal dossier di suo marito non risulta che si sia mai occupato di politica o di servizi segreti.» «Proprio così. Ha fatto sempre il pilota, il comandante, e di recente era diventato ufficiale di Stato maggiore.» Cercai di portare il discorso sugli omissis che avevo scoperto nel dossier del marito senza allarmarla. «Cominciamo a ritenere, signora, che quello di suo marito non sia stato un omicidio mirato; in altre parole, che un movimento estremistico abbia deciso di eliminarlo solo perché indossava un'uniforme americana.» «Assurdo.» Ero d'accordo con lei. «Ricorda qualcosa nel passato di suo marito che potrebbe averlo trasformato nell'obiettivo di un gruppo terroristico?» Ci pensò su. «Be'... Qualcuno ha ipotizzato che degli estremisti islamici possano aver deciso di eliminarlo per la sua partecipazione alla guerra del Golfo. Una specie di replica dell'attentato al capitano della Vincennes... Ricorda quella storia?» «No, signora.» Me la ricordò. «Quindi, potrebbe essersi trattato di una vendetta?»
«Sì, è possibile... Ma a quella guerra hanno partecipato migliaia di piloti, Bill era solo un maggiore. E non ho mai capito perché avrebbero dovuto scegliere proprio lui.» «Qualcuno comunque le ha prospettato un'ipotesi del genere, vero?» «Sì.» «E lei non ne è molto convinta.» «No, assolutamente.» Fece una lunga pausa e mi guardai bene dal parlare. «Ma ora, con la morte di Terry e Gail Waycliff, come si fa a sostenere che mio marito è stato ucciso soltanto perché portava un'uniforme o perché aveva preso parte alla guerra del Golfo? Terry poi, nel Golfo, non c'era nemmeno stato.» Guardai Kate che, come me, non sapeva di cosa la vedova Hambrecht stesse parlando. «Lei dunque pensa che la morte dei Waycliff sia da mettere in relazione con quella di suo marito?» le chiesi, cercando di non farle capire che ero all'oscuro di quella faccenda. «Forse...» Se lo pensava lei, lo pensavo anch'io. La signora, però, credeva anche che io fossi informato e invece non lo ero. «Sulla morte dei Waycliff può aggiungere qualche particolare che noi ignoriamo?» «Non più di quello che è stato pubblicato sui giornali.» «Lei dove ha letto la notizia?» «Dove l'ho letta? Sull'"Air Force Times", ma è comparsa anche sul "Washington Post", ovviamente. Perché me lo chiede?» Guardai Kate, che stava già torturando la tastiera del computer. «Perché su alcuni giornali i particolari non erano precisi» risposi alla Hambrecht. «Lei com'è venuta a sapere della morte dei Waycliff?» «Mi ha telefonato ieri Sue... la figlia. Sembra che siano stati uccisi domenica, non si sa bene a che ora.» Mi raddrizzai sulla sedia. Uccisi? Cioè assassinati? La stampante di Kate stava sputando fuori qualcosa. «Qualcuno dell'Fbi o dell'Aeronautica le ha parlato di questa faccenda?» «No, lei è il primo.» Kate stava leggendo la stampata, sottolineando qualche particolare. Le feci disperatamente segno di farmela vedere, ma lei non mi degnò nemmeno di uno sguardo. «La figlia» ripresi «le ha fatto capire di non vederci chiaro nella morte dei genitori?» «Be', come può immaginare, era a pezzi. Mi ha detto che sembrava essersi trattato di una rapina, ma lei non ne era tanto sicura. È stata uccisa
anche la donna di servizio.» Stavo esaurendo la riserva di domande generiche, quando finalmente Kate mi passò la stampata. «Rimanga in linea, per favore» chiesi alla Hambrecht. E premetti il pulsante di attesa, escludendola. «Forse abbiamo trovato qualcosa» disse Kate. Lessi in fretta la notizia del "Washington Post", scoprendo così che Terrance Waycliff era un generale dell'Aeronautica e lavorava al Pentagono. L'episodio era trattato come un qualsiasi fatto di cronaca nera: il generale, la moglie e la donna di servizio erano stati trovati uccisi a colpi di pistola lunedì mattina nella casa dei Waycliff a Capitol Hill. I cadaveri erano stati scoperti dall'aiutante di campo del generale, preoccupato perché il suo capo non si era presentato al lavoro e non rispondeva al telefono. Sulla porta di casa erano stati trovati segni d'effrazione, come la catenella staccata dal supporto, e la scomparsa di contanti e oggetti di valore faceva pensare a una rapina. Il generale era in uniforme, lui e la moglie dovevano essere appena tornati dalla messa; il che faceva ritenere che i delitti risalissero a domenica mattina. La polizia indagava. Sollevai lo sguardo su Kate. «Che tipo di rapporto c'era tra il generale Waycliff e il colonnello Hambrecht?» le chiesi. «Non lo so. Scoprilo.» «Okay.» Ripresi la linea. «Mi scusi, Mrs Hambrecht, era il Pentagono.» A quel punto decisi di evitare i giri di parole e di vedere le reazioni della donna. «Sarò franco con lei, Mrs Hambrecht. Ho qui davanti il dossier personale di suo marito e ho notato che contiene degli omissis. Devo sapere cosa c'era nella parte cancellata se voglio scoprire chi ha ucciso suo marito e perché. Mi può aiutare?» Ci fu un lungo silenzio, che rischiava di diventare infinito. «La prego.» Guardai Kate, che approvò abbassando il capo. «Mio marito» disse alla fine la Hambrecht «aveva preso parte a una missione insieme al generale Waycliff. Un bombardamento... Ma questo lei non dovrebbe saperlo?» E all'improvviso seppi. Avevo ancora in mente quel che mi aveva detto Gabe e, appena la Hambrecht pronunciò la parola "bombardamento", fu come se una sola chiave avesse aperto per magia una porta sbarrata con quindici diverse serrature. «15 aprile 1986» dissi. «Sì. Capisce, ora?» «Capisco.» Guardai Kate, che aveva lo sguardo perso nel vuoto, segno che si stava scervellando su qualcosa.
«E potrebbe esserci una relazione fra la tragedia dell'aeroporto Kennedy, avvenuta proprio in quell'anniversario» proseguì la Hambrecht «e quello che è successo ai Waycliff.» Respirai a fondo. «Non ne sono del tutto certo» dissi poi. «Ascolti, signora... che lei sappia, è capitata una disgrazia a qualcun altro dei partecipanti a quella missione?» «Come faccio a saperlo? A quella missione presero parte decine e decine di uomini.» «E nell'unità di suo marito?» «Se parla della sua squadriglia, comprendeva, credo, quindici o sedici aerei.» «E sa se qualcuno di quegli uomini ha avuto una disgrazia che possa considerarsi sospetta?» «Non credo. Mi risulta che Steven Cox è stato ucciso nel Golfo, ma degli altri non so granché. I compagni di pattuglia di mio marito in quella missione continuavano a tenersi in contatto, ma non so nulla del resto della squadriglia.» Stavo cercando di ricordarmi la terminologia dell'Aeronautica, pattuglie, divisioni, squadriglie, stormi... «Mi perdoni l'ignoranza, signora, quanti aerei e quanti uomini ci sono in una pattuglia aerea e quanti in una squadriglia?» «Dipende dal tipo di missione. Di solito, comunque, una pattuglia è composta da quattro o cinque aerei, una squadriglia da dodici a diciotto, credo.» «Capisco. E quanti erano gli aerei della pattuglia di suo marito in quella missione del 15 aprile 1986?» «Quattro.» «In tutto, quindi, otto uomini... Giusto?» «Giusto.» «E questi uomini...» Guardai Kate, e lei capì che era arrivato il momento d'intervenire. «Mrs Hambrecht, sono di nuovo Kate Mayfield e anch'io stavo pensando al collegamento tra la morte di suo marito e l'uccisione dei Waycliff. Perché non ci dice quel che pensa, in modo che possiamo andare diritti al cuore di questa faccenda?» «Credo di aver detto abbastanza.» Io invece non lo credevo, e nemmeno Kate. «Signora, stiamo cercando di risolvere l'assassinio di suo marito» riprese lei «e so che come moglie di un militare lei ha molto a cuore la sicurezza. Sta a cuore anche a noi, le ga-
rantisco, ma questa volta può parlare liberamente. Vuole che veniamo ad Ann Arbor per incontrarla di persona?» Vi fu un altro silenzio. «No» disse poi Rose Hambrecht. Attendemmo pazientemente e alla fine fummo premiati. «Va bene, allora... La pattuglia di mio marito era composta da quattro F-111 e aveva avuto l'ordine di bombardare al-Aziziya, un acquartieramento militare fuori Tripoli. Ricorderete forse dalle notizie dell'epoca che un aereo sganciò una bomba sulla casa di Gheddafi, all'interno di al-Aziziya. Gheddafi si salvò, ma morì la sua figlioletta adottiva e rimasero feriti la moglie e due figli... Vi sto dicendo soltanto ciò che fu pubblicato sui giornali, le conclusioni potete trarle da soli, se volete.» Guardai Kate, che si era rimessa a tempestare la tastiera del computer con gli occhi fissi sullo schermo, e sperai che sapesse scrivere esattamente al-Aziziya o Muammar Gheddafi o ciò che le serviva per trovare quel file. «Lei si sarà fatta un'opinione personale, immagino» chiesi alla Hambrecht. «Quando mio marito fu ucciso, pensai che quella missione sulla Libia c'entrasse qualcosa. Ma l'Aeronautica mi assicurò che i nomi dei partecipanti alla missione erano top secret e tali sarebbero rimasti. Accettai quell'assicurazione, pensando che forse qualcuno dei colleghi di mio marito aveva parlato troppo, oppure... non so. Quell'idea, comunque, me l'ero tolta dalla mente fino a ieri, quando ho saputo che i Waycliff erano stati assassinati. Potrebbe essere una coincidenza...» Potrebbe, ma non lo era. «Quindi, degli otto che bombardarono... come si chiamava?» «Al-Aziziya. Uno è morto nella guerra del Golfo, mio marito è stato assassinato e la stessa fine ha fatto Terry Waycliff.» Guardai Kate, che stava stampando del materiale. «Chi erano gli altri cinque che hanno bombardato al-Aziziya insieme a suo marito?» chiesi a bruciapelo alla Hambrecht. «Questo non posso dirglielo e non glielo dirò. Mai.» Era un "no" definitivo e non valeva la pena insistere. «Può dirmi almeno se quei cinque sono ancora vivi?» le chiesi. «Si sono parlati il 15 aprile. Non tutti, ma Terry mi ha telefonato subito dopo dicendomi che quelli con i quali aveva parlato stavano bene e mi mandavano i saluti... tranne... uno di loro sta molto male.» Kate e io incrociammo gli sguardi. «Mrs Hambrecht» chiese lei «può darmi un numero di telefono per contattare qualcuno della famiglia Waycliff?»
«Le consiglierei di chiamare il Pentagono e farsi passare l'ufficio di Terry. Qualcuno saprà sicuramente rispondere alle sue domande.» «Preferirei parlare con qualcuno della famiglia.» «E allora faccia una richiesta in tal senso al Pentagono.» Mrs Hambrecht era evidentemente una fanatica dei regolamenti e forse si era già pentita di quella conversazione. I militari sentono molto lo spirito di corpo, ma la Hambrecht, se possibile, era ancora più rigida: per lei la lealtà era assoluta e non ammetteva deroghe. Ero sicuro che l'Aeronautica o altri organismi l'avessero ingannata e presa in giro, e lei lo sapeva o quantomeno lo sospettava, ma non li avrebbe mai traditi. Mi resi conto che da lei non potevo sperare di ottenere ulteriori informazioni e passai ai saluti. «La ringrazio per la collaborazione, signora, e le assicuro che faremo tutto il possibile per consegnare alla giustizia l'assassino di suo marito.» Riagganciai. «Ora, se non altro, sappiamo cosa c'era in quegli omissis» dissi a Kate. «E non si trattava di questioni nucleari, come qualcuno ha raccontato al nostro stimatissimo capo.» Lasciai che Kate arrivasse da sola alla conclusione che forse Jack Koenig ci aveva detto meno di quello che sapeva. Ma lei preferì non affrontare l'argomento. «Hai fatto un buon lavoro» mi disse. «Anche tu. Che cos'hai trovato in rete?» Mi porse dei fogli di stampante, quasi tutti articoli del "New York Times" e del "Washington Post" pubblicati nei giorni immediatamente successivi al 15 aprile 1986. La guardai. «Qualcosa comincia a quadrare, vero?» «Qualcosa quadrava fin dall'inizio, ma noi siamo meno intelligenti di quanto crediamo.» «Non vedo nei paraggi gente molto più sveglia di noi, e le soluzioni sembrano più semplici dopo che ci sei arrivato. I libici, inoltre, non sono i soli a costruire false piste come quella di Francoforte.» Preferì non fare commenti sulla mia paranoia. «Ci sono cinque uomini la cui vita è in pericolo» osservò. «Oggi è martedì, dubito che siano tutti vivi.» 43 Asad Khalil si destò dal suo breve sonno e guardò fuori dal finestrino del Learjet. A terra era quasi completamente buio, ma si vedeva qualche
gruppo isolato di luci, e lui ebbe l'impressione che l'aereo fosse in fase di discesa. L'orologio segnava le 3.16, ora di New York, e se fossero stati in orario, sarebbero atterrati a Denver entro venti minuti. Allora attivò con la carta di credito il telefono di bordo e compose un numero che aveva imparato a memoria. Dopo tre squilli rispose una voce femminile insonnolita, com'era prevedibile a quell'ora di notte. «Pronto?... Pronto? Pronto?» Khalil riagganciò. Se la moglie del colonnello Robert Callum dormiva nel suo letto a Colorado Springs, poteva essere certo che in casa non ci fosse la polizia pronta ad arrestarlo. Boris e Malik glielo avevano assicurato: se gli americani gli avessero teso una trappola, per prima cosa avrebbero messo in salvo le sue potenziali vittime. Sollevò la cornetta dell'interfono e premette il pulsante. «Sì, signore?» rispose il secondo pilota. «Ho fatto una telefonata che mi costringe a cambiare programma. Dobbiamo atterrare all'aeroporto di Colorado Springs.» «Non c'è problema, Mr Perleman. Si trova poco più di 100 chilometri a sud di Denver, il che significa circa dieci minuti in più di volo. Immagino che lei voglia atterrare all'aeroporto principale.» «Sì.» «Trasmetterò per radio la modifica al piano di volo. Nessun problema.» «Grazie.» Si alzò e andò alla toilette portandosi dietro la borsa nera. Dopo aver usato il water, prese dalla borsa il piccolo nécessaire da viaggio, si fece la barba e poi si lavò i denti, memore dei racconti di Boris circa la fissazione degli americani per l'igiene. Si esaminò da vicino allo specchio scoprendo un'altra scheggia d'osso, stavolta tra i capelli. Allora si lavò mani e viso e cercò nuovamente di smacchiarsi la camicia e la cravatta, ma il signor Satherwaite - o meglio, quel che di lui rimaneva - sembrava deciso ad accompagnarlo in quel viaggio. Rise, poi tolse dalla borsa un'altra cravatta e si cambiò quella sporca. Prese le due Glock, tolse i caricatori e li sostituì con quelli che aveva preso a Gorman e Hundry, poi mise il proiettile in canna a entrambe, tolse la sicura e le rimise nella borsa. Infine tornò al suo posto. Udì un ronzio all'interfono e dall'altoparlante gli giunse la voce del secondo pilota. Mr Perleman, abbiamo cominciato la discesa sull'aeroporto municipale di Colorado Springs, quindi per favore si allacci la cintura di
sicurezza. E mi confermi di aver ricevuto questo messaggio.» Khalil staccò la cornetta e premette il pulsante. «Ho capito.» «Grazie. Atterreremo tra cinque minuti, il cielo è limpido e la temperatura al suolo è di 6 gradi.» Si allacciò la cintura e udì sotto i piedi il rumore del carrello che veniva abbassato. Pochi minuti dopo, il piccolo jet superò l'inizio della pista e mise quasi subito le ruote a terra. «Benvenuto a Colorado Springs» disse il secondo pilota all'interfono. Khalil provò l'impulso irrazionale di dirgli di chiudere il becco. Non voleva trovarsi a Colorado Springs, ma a Tripoli, non voleva essere il benvenuto in quella terra di senzadio. Voleva soltanto uccidere chi doveva essere ucciso e poi tornarsene a casa. L'aereo imboccò la pista di rullaggio e il secondo pilota aprì il tramezzo scorrevole voltandosi verso il passeggero. «Buongiorno.» Khalil non rispose. «Ora ci portiamo all'area di parcheggio e la faremo sbarcare per poi effettuare il rifornimento» disse sempre il secondo pilota. «Ha idea di quanto dovrà fermarsi, signore?» «No, purtroppo. Un paio d'ore, forse meno. Comunque, se la riunione avrà esito positivo, ci saranno da firmare dei contratti e probabilmente ne approfitteremo per fare colazione; in questo caso dovrei essere di ritorno per le 9, ma non più tardi.» «Bene, noi ci atterremo al suo programma. Quando avrà finito ci troverà nella palazzina riservata agli equipaggi dei jet aziendali. È lì che verranno a prenderla?» «No, purtroppo. Dobbiamo vederci all'aerostazione e da lì proseguire per un'altra destinazione, quindi ora devo trovare un mezzo che mi porti al terminal.» «Vedrò cosa posso fare, non dovrebbe essere difficile trovarlo.» Il Learjet si stava dirigendo verso una schiera di grandi hangar. Khalil si slacciò la cintura e infilò una mano nella borsa, senza perdere d'occhio i piloti, poi estrasse le due Glock e le sistemò all'altezza della schiena sotto la cintura, in modo che la giacca le coprisse. Quindi si alzò con la borsa in mano e andò a piazzarsi alle spalle dei piloti, flettendo le ginocchia in modo da poter vedere oltre il parabrezza e i finestrini. «Starà più comodo al suo posto, signore» gli disse il capitano. «Voglio stare qui.»
«Sì, signore.» Scrutò il piazzale e gli hangar e, come all'aeroporto di Long Island, non notò nulla di allarmante. Anche il modo di fare dei piloti sembrava assolutamente normale. Il Learjet rallentò e andò a fermarsi nel parcheggio che gli era stato assegnato. Apparvero un uomo e una donna, entrambi in tuta, ma ancora una volta Khalil non avvertì alcun pericolo; era comunque all'erta e, nel caso lo stessero aspettando, avrebbe mandato qualcuno all'inferno prima di salire in paradiso. «Ora possiamo sbarcare, signore» comunicò il comandante dopo aver spento i motori. Khalil fece qualche passo indietro e il secondo pilota si alzò e andò ad aprire il portello munito di scaletta retrattile, poi scese a terra e tese la mano per aiutare il passeggero a sbarcare. Khalil ignorò la mano e rimase in cima alla scaletta scrutando tutt'attorno. Il piazzale era illuminato da potenti fari e a quell'ora di notte si vedeva in giro pochissima gente. Il pilota era rimasto seduto al suo posto e quindi, se fosse stato necessario, lui avrebbe potuto richiudere il portello e ordinargli di ripartire. Il secondo pilota era ancora ai piedi della scaletta e si sforzava di sorridere aspettando pazientemente il passeggero. Il pilota si era alzato e anche lui attendeva che Khalil sbarcasse. Allora si decise e, stringendo la borsa con la sinistra e pronto con l'altra a estrarre la Glock, scese e si avvicinò al secondo pilota. Il comandante lo seguì, dirigendosi poi verso un operaio sulla cui giacca a vento si leggeva PIAZZALE. Khalil rimase vicinissimo al secondo pilota, che però non fece alcuna mossa per allontanarsi dal passeggero, e continuò a tenere d'occhio il piazzale, i veicoli, gli hangar e il loro aereo. Si avvicinò loro il comandante. «Quell'uomo la porterà al terminal con la sua auto» gli annunciò. «Forse è il caso di lasciargli una mancia, signore» aggiunse a voce più bassa. «Quanto?» «Dieci dollari dovrebbero bastare.» Aveva fatto bene a chiederlo, pensò. In Libia, con 10 dollari era possibile comprare un uomo per due giorni, in America ci si pagava un favore da dieci minuti. «Grazie, signori» disse ai piloti. «Se non dovessi tornare tra un paio d'ore, sarò qui comunque per le 9, come vi ho detto. Non più tardi.»
«D'accordo, ci troverà nella sala piloti di quell'edificio» rispose il comandante Fiske. L'addetto al piazzale guidò Khalil alla propria auto e lo fece sedere accanto a lui, poi accese il motore. «È la prima volta che viene a Colorado Springs, Mr...?» «Perleman. Sì, la prima volta.» «Di dov'è, lei?» «Israele.» «Davvero? E abita in Israele?» «Sì.» «Una volta sono stato in Israele e mia moglie, che è molto religiosa, mi ha trascinato a Gerusalemme. Ma ne valeva la pena, splendida città, abbiamo visto tutti i monumenti religiosi... Lei è ebreo, immagino.» «Naturalmente.» «Ricordo che abbiamo visitato quel tempio sulla spianata, quello che chiamano la Cupola della Roccia. È una moschea araba, ma una volta era il principale tempio degli ebrei... ma lei questo lo sa. Voglio dire, in quel tempio c'è stato anche Cristo, che era ebreo, e ora è una moschea.» Guardò il suo passeggero. «Secondo me, gli ebrei dovrebbero riprenderselo, c'erano loro per primi; poi sono arrivati gli arabi e ci hanno fatto una moschea. Perché dovrebbero tenerselo gli arabi?» «Perché Maometto è asceso al cielo da quella roccia, sia pace a Lui.» «Come?» Khalil si schiarì la voce. «È quello che sostengono i musulmani.» «Ah, già... ce l'ha detto anche la guida. Ma forse non dovrei parlare di religione.» L'auto si fermò davanti all'entrata del terminal e Khalil aprì lo sportello; stava per scendere, poi infilò una mano in tasca e diede all'autista un biglietto da 10 dollari. «Grazie.» «Grazie a lei, a più tardi.» Scese e l'auto si allontanò. La zona era quasi deserta a quell'ora di notte, ma Khalil notò un parcheggio di taxi con due auto gialle. Entrò nell'aerostazione, rendendosi conto che un uomo solo, a quell'ora, avrebbe di sicuro attirato l'attenzione se l'aeroporto fosse stato pattugliato. Ma non vide poliziotti, c'era unicamente un uomo che passava una grossa scopa sulle mattonelle del pavimento e non lo degnò nemmeno di uno sguardo. A Tripoli gli avevano detto che negli aeroporti municipali le misure di sicurezza erano meno rigorose che negli scali internazionali; quindi, nel caso lo stessero
cercando in America, il rischio che controllassero un piccolo aeroporto era minimo. Attraversò a passo deciso l'atrio del terminal, dirigendosi verso l'ala che ospitava il business center con le sale riunioni; ne conosceva la dislocazione a memoria per aver studiato le foto e le piantine che gli avevano mostrato a Tripoli. Trovò una porta con il cartello SALA RIUNIONI 2 e, più sotto, RISERVATO; compose un numero sulla tastiera della serratura ed entrò, richiudendosi la porta alle spalle. Nella stanza c'erano un tavolo da riunioni, otto sedie, alcuni telefoni, un fax e un computer, oltre alla macchinetta del caffè. Sullo schermo del computer lesse un messaggio: "Benvenuto, Mr Perleman. I suoi amici della Neeley Conference Center Associates le augurano una buona riunione di lavoro". Non se li ricordava, quegli amici. Posò sul pavimento la borsa e si sedette davanti al monitor, dal quale cancellò il messaggio. Poi cliccò sull'icona della posta elettronica, digitò la password e attese che il modem lo collegasse. Trovò un messaggio arrivato da Gerusalemme, in inglese, e indirizzato a Perleman. "Sappiamo che l'affare sta andando bene. Il viaggio di Sol a Francoforte è terminato, e della faccenda se ne sta occupando la ditta concorrente. Qui non risulta che i concorrenti americani conoscano il tuo itinerario. L'affare in Colorado non appare necessario. Sii ragionevole, la California è più importante. Gli accordi per il ritorno in Israele restano immutati. Gran successo. A presto. Si attende risposta. Mazel tov." Firmato "Mordecai". Khalil aprì la finestra della risposta e si mise a battere lentamente sui tasti: "Rispondo al vostro messaggio dal Colorado, l'affare sta andando bene, mi dirigo subito in California". Pensò di aggiungere qualche altra frase, ma alla fine decise che non era necessario. L'importante, gli avevano detto a Tripoli, era che il messaggio contenesse la parola chiave "affare", in modo che si capisse che lui stava bene e che non scriveva sotto dettatura degli americani. Lo firmò "Perleman" e lo inviò. Poi uscì dal programma di posta elettronica e spense il computer. Il suo orologio segnava le 4.17, ora di New York; in Colorado erano indietro di due ore. La casa del colonnello Callum si trovava alle pendici delle montagne, a meno di mezz'ora di auto dall'aeroporto. E a dieci minuti dal terminal c'era un autonoleggio aperto tutta la notte con una vettura riservata a nome Perleman.
Cominciò a camminare su e giù per la sala. "L'affare in Colorado non è necessario, la California è più importante." Perché non poteva dedicarsi a entrambi? Ebbe la tentazione di uscire di lì, salire su un taxi, farsi portare all'autonoleggio, prendere l'auto e andare a casa del colonnello Callum. C'era qualche rischio, come sempre. Eppure, per la prima volta dal giorno in cui era entrato nell'ambasciata americana di Parigi, Asad Khalil avvertiva un senso di... no, non pericolo... urgenza, piuttosto. Continuò a camminare nervosamente nella sala riunioni vagliando i pro e i contro dell'assassinio del colonnello Callum, oltre che della moglie e di chiunque altro si fosse trovato sulla sua strada. Il piano era semplice come quello per eliminare Waycliff. Avrebbe aspettato le prime luci dell'alba senza muoversi da quella sala riunioni, dov'era più al sicuro, poi si sarebbe fatto portare all'autonoleggio e da lì sarebbe andato a casa Callum. Il colonnello o la moglie uscivano ogni mattina, non più tardi delle 7.30, per prendere il giornale dalla cassetta della posta e poi rientravano in casa. Come molti militari, erano puntuali e abitudinari. Continuò a camminare su e giù come un leone, una di quelle fiere che i romani facevano scendere nell'arena a Leptis Magna, l'antica città vicino a Tripoli di cui aveva visitato le rovine. Il leone sa per esperienza che ad attenderlo nell'arena c'è un uomo e perciò si fa impaziente. È sicuramente affamato, perché le belve non vengono nutrite nei giorni precedenti. L'esperienza, inoltre, dice all'animale che sarà lui a uccidere l'uomo; come potrebbe essere altrimenti, visto che è ancora vivo? Ma sa anche, il leone, che nell'arena può incontrare due diversi tipi di uomo: quello armato e quello disarmato. Il primo lotta per salvarsi la vita, l'altro prega, ma entrambi sono deliziosi da mangiare. Smise di camminare e si accovacciò sul pavimento, appoggiandosi sui talloni come un berbero delle tribù del deserto. Poi sollevò il capo con gli occhi chiusi, ma non pregò. Si fece invece trasportare dalla mente nel deserto, di notte, sotto un cielo nero tempestato da milioni di stelle. Vide la luna piena su Kufra, l'oasi dov'era nato, e le palme che si dondolavano mosse dalla fredda brezza notturna. E la terra era come sempre immersa nel silenzio. Rimase a lungo nel deserto, senza modificare la visione che aveva evocato, in attesa che un'altra immagine si presentasse spontaneamente, quasi materializzandosi dietro le dune.
Il tempo scorreva nella realtà, ma era come cristallizzato nel deserto. Finalmente giunse dall'oasi un Messaggero avvolto in drappi bianchi e neri, illuminato dalla luna che proiettava la sua ombra sulla sabbia. Il Messaggero si fermò davanti a lui senza parlare, e Asad Khalil non osò aprire bocca. Non riuscì a vederlo in viso, ma udì la sua voce. «Dio si prenderà cura di ciò che avresti dovuto fare tu» disse. «Recati altrove, dall'altra parte delle montagne. La sabbia del tempo sta giungendo al termine. Satana si muove.» Asad Khalil mormorò una preghiera di ringraziamento, aprì gli occhi e si rialzò in piedi. Mise a fuoco l'orologio appeso sulla parete di fronte e vide che erano passate più di due ore, anche se a lui erano sembrate minuti. Allora raccolse la borsa, uscì e riattraversò l'atrio deserto. Fuori c'era un solo taxi e l'autista dormiva. Andò a sedersi dietro e richiuse lo sportello sbattendolo. Il tassista si svegliò di soprassalto e borbottò qualcosa. «Alla palazzina dei jet aziendali, presto» ordinò Khalil. Il tassista accese il motore, ingranò la marcia e l'auto si mosse. «Dove?» Khalil glielo ripeté, poi tirò fuori un biglietto da 20 dollari e lo lasciò cadere sul sedile del passeggero. «Presto, per favore, sono in ritardo.» Quando arrivò alla palazzina trovò i suoi piloti addormentati su due divani. «Sono pronto, dobbiamo ripartire al più presto» disse al comandante scuotendogli una spalla. Il capitano Fiske si alzò. Nel frattempo si era svegliato anche il secondo pilota, che si stava stirando tra uno sbadiglio e l'altro. Khalil guardò l'orologio. «Quanto ci vorrà per decollare da Colorado Springs?» chiese. «Ho già preparato un piano di volo, in previsione di una partenza anticipata» rispose Fiske, schiarendosi la voce. «Bene, dobbiamo muoverci al più presto. Ci sarà molto da aspettare?» «Be', a quest'ora il traffico aereo è quasi inesistente, perciò possiamo abbreviare la normale procedura. Con un po' di fortuna potremmo cominciare il rullaggio tra un quarto d'ora.» «Prima possibile, per favore.» «Sì, signore.» Il comandante Fiske andò a un telefono e pigiò alcuni tasti. «Chi sta chiamando?» «La torre di controllo per confermare il piano di volo.» E si mise a parla-
re con qualcuno all'altro capo del filo. Khalil rimase ad ascoltare con la massima attenzione, ma non udì nulla che l'insospettisse. Ed entrambi i piloti sembravano assolutamente tranquilli. Venti minuti dopo il Learjet si sollevava da terra allontanandosi dalle luci di Colorado Springs. Khalil rimase a osservare i piloti, che non avevano chiuso il tramezzo della cabina, ma dopo circa un minuto guardò dal finestrino alla sua sinistra e vide in lontananza le montagne ancora illuminate dalla luna. Da qualche parte, ai piedi di quelle montagne, il colonnello Robert Callum giaceva in un letto divorato da un male terribile, ma Khalil non si sentì defraudato per questo, come non si era sentito defraudato quando aveva saputo che Steven Cox era morto durante il conflitto contro l'Iraq. Dio, pensò, aveva preteso la sua parte delle spoglie di guerra. 44 Kate e io passammo il resto della mattinata con il dito premuto sul pulsante d'allarme, per così dire. E il Centro coordinamento si trasformò da formicaio in alveare, se mi è concesso un paragone di natura entomologica. Ricevemmo una decina di telefonate di congratulazioni dai piani alti; i capi volevano parlarci in privato, ma riuscimmo a sgattaiolare. Comunque a loro non interessavano tanto le nostre informazioni, quanto l'opportunità di vantare un contributo personale alla soluzione del caso, mentre in realtà non avevano fatto altro che creare problemi. Alla fine acconsentii a una riunione interforze come quella della mattina precedente, ma riuscii a spostarla alle 17, sostenendo spudoratamente che prima di quell'ora dovevo rimanere accanto al telefono per mantenere i contatti con la mia rete internazionale di informatori. Per molti versi i miei nuovi capi assomigliavano a quelli che avevo lasciato al Dipartimento di polizia, nel senso che si comportavano nello stesso modo di fronte a un caso da prima pagina. Sospettavo che quanto prima ci sarebbero state foto di gruppo con me e Kate. Quando Jack Koenig fosse tornato dalla sua raccolta punti per i biglietti aerei omaggio, la riunione sarebbe stata alle battute finali e il boss ci sarebbe rimasto male. Peggio per lui, gliel'avevo detto di non partire. Mezz'ora dopo la nostra conversazione con Mrs Hambrecht, gli agenti
dell'Fbi ponevano sotto sequestro il tabulato delle telefonate fatte dalla signora il 15 aprile, oltre ovviamente a quelle del generale Waycliff. E, nel frattempo, i bravi ragazzi del J. Edgar Hoover si stavano dando da fare sia per conoscere il testo degli omissis, per me ormai inutili, contenuti nel dossier del colonnello Hambrecht, sia per avere i nomi, per me invece utilissimi, degli altri componenti della pattuglia che aveva bombardato alAziziya. Nella mia posta elettronica avevo letto che l'Fbi aveva subito avvertito l'Aeronautica e la Difesa dei rischi che correvano in quel momento i partecipanti alla missione su al-Aziziya, e probabilmente tutti quelli che erano partiti il 15 aprile 1986 da Lakenheath per andare a bombardare la Libia. L'Aeronautica aveva assicurato una veloce e fattiva collaborazione ma, come in tutte le strutture burocratizzate, la velocità è un concetto alquanto relativo. Non sapevo se chi di dovere stesse informando la Cia degli ultimi sviluppi, ma speravo di no, perché nessuno mi toglieva dalla testa la strana idea che la Cia in parte li conoscesse già. Lo so, è facile entrare in paranoia nei confronti di gente che a volte, così continuavo a ripetermi, è molto meno dedita agli intrighi di quanto si pensi. Tuttavia, come ogni organizzazione segreta, è la prima a seminare sfiducia e sospetto, perché meravigliarsi poi se la gente li accusa di scarsa trasparenza? Ciò che nascondono, di solito, è il fatto di brancolare nel buio, ma talvolta lo faccio anch'io; di che lamentarsi, allora? Non ho mai sospettato che l'Fbi, cuore dell'Anti-Terrorist Task Force, sapesse più di quanto ci stavano dicendo a New York; ero però convinto che fossero a conoscenza del fatto che la Cia lavorava in proprio, per usare le parole di Kate. E preferivano chiudere un occhio, perché in fondo siamo tutti nella stessa barca, lavoriamo per la causa giusta e abbiamo a cuore gli interessi della nazione; il problema, per come la vedevo io, era quello di stabilire quali fossero veramente questi interessi. C'era di buono, comunque, che Koenig e Nash se ne stavano all'estero. Durante una pausa dei lavori nell'alveare, diedi un'occhiata agli articoli di giornale che Kate stava pescando nel cyberspazio. Cominciai con uno del "New York Times" datato 11 marzo 1989, dal titolo "Salta in aria il pulmino del comandante che aveva abbattuto un jet iraniano". Era la storia del comandante della Vincennes e, pur non avendo nulla a che fare con Khalil e soci, rappresentava un precedente di ciò che sospettavamo stesse accadendo ora.
Kate mi passò un dispaccio dell'Associated Press, datato 16 aprile 1996 e intitolato "La Libia chiede un processo per il raid aereo del 1986". Lessi ad alta voce: «La Libia ha chiesto lunedì scorso agli Stati Uniti la consegna dei piloti che presero parte dieci anni fa ai bombardamenti su alcune città libiche e dei responsabili della missione. Il leader libico Muammar Gheddafi ha insistito sulla necessità che della questione venga investita l'Onu.» Guardai Kate. «Evidentemente noi non abbiamo consegnato nessuno e Gheddafi ha perso la pazienza.» «Vai avanti.» «"Non possiamo dimenticare ciò che è avvenuto" ha dichiarato Gheddafi nell'anniversario del bombardamento che, secondo fonti libiche, provocò oltre cento feriti e trentasette morti, tra i quali la figlioletta adottiva del leader. "Questi bambini sono forse animali e gli americani esseri umani?" si è chiesto Gheddafi, intervistato ieri dalla Cnn davanti alle macerie della sua casa, ancora perfettamente visibili a dieci anni di distanza dal bombardamento.» Sollevai lo sguardo su Kate. «Immagino che Khalil abitasse nel complesso militare dove vivevano anche i Gheddafi» osservò lei. «Se ricordi, nel suo dossier si parlava di probabili motivazioni familiari.» «È vero.» Ci pensai su. «All'epoca del raid, Khalil doveva avere quindici o sedici anni. Il padre era già morto, e probabilmente ad al-Aziziya lui ha perso famiglia e amici.» «E ora vuole vendicare loro e la famiglia Gheddafi.» «Mi sembra plausibile.» Ripensai a ciò che mi aveva detto Gabe. «Ora che sappiamo quali sono le sue motivazioni, devo dirti che... be', non è che simpatizzi con quel bastardo, ma lo capisco.» «Lo so, e questo rende Khalil ancora più pericoloso di quanto pensassimo.» Un articolo del "Boston Globe" datato 20 aprile 1986 riportava la cronologia degli episodi che avevano condotto al raid di cinque giorni prima. La crisi si apriva il 7 gennaio di quell'anno. "Il presidente Reagan" lessi "accusa la Libia di aggressione armata agli Stati Uniti e dispone sanzioni economiche contro Tripoli, ordinando ai cittadini americani in Libia di lasciare il paese. Gli alleati occidentali non accettano il boicottaggio. Secondo gli Stati Uniti, la Libia è coinvolta negli attacchi terroristici palestinesi lanciati il 27 dicembre 1985 negli aeroporti di Roma e Vienna, a causa dei quali sono rimaste uccise venti persone." Continuai a leggere. "11 gennaio, un consigliere di Gheddafi dichiara
che la Libia tenterà di uccidere Reagan in caso di attacco americano. Gheddafi invita Reagan a Tripoli, esprimendo la convinzione che l'incontro potrebbe far mutare atteggiamento al presidente americano." Non ci avrei scommesso un centesimo. Dalla successione cronologica emergeva una sorta di braccio di ferro tra due macho fortemente motivati. "13 gennaio, due caccia libici affiancano un aereo americano da ricognizione. 5 febbraio, la Libia accusa gli Stati Uniti di aver aiutato Israele a localizzare e abbattere un aereo libico e giura vendetta. 24 marzo, aerei americani bombardano rampa missilistica libica. 25 marzo, forze americane colpiscono quattro piccole unità navali libiche. 28 marzo, Gheddafi annuncia che le basi militari italiane o spagnole o di ogni altro paese che collaborerà con la VI Flotta americana saranno oggetto di rappresaglie. 2 aprile, l'esplosione di una bomba provoca quattro vittime a bordo di un aereo della Twa in volo da Atene a Roma; secondo un gruppo armato palestinese, si è trattato di una rappresaglia per gli attacchi americani alla Libia. 5 aprile, una bomba esplode in una discoteca di Berlino Ovest, uccidendo due militari americani. 7 aprile, l'ambasciatore americano in Germania Occidentale sostiene che gli Stati Uniti hanno le prove del coinvolgimento della Libia nell'attentato alla discoteca." Diedi un'occhiata all'ultima delle cybernotizie che si erano ammucchiate sulla mia scrivania. «Questa è interessante» dissi a Kate. «Hai letto quest'intervista dell'Associated Press a Gheddafi del 19 aprile 1986?» «Non credo.» Gliela lessi: «La moglie del leader libico Muammar Gheddafi, che sostiene di avere perduto nel bombardamento la figlioletta adottiva Hana di diciotto mesi, ha parlato con la stampa per la prima volta dal giorno dell'attacco. E lo ha fatto con toni particolarmente duri, seduta davanti alle macerie della sua casa, reggendosi a una stampella. Safia Gheddafi ha dichiarato che considererà per sempre gli Stati Uniti un paese nemico "a meno che non condannino a morte Reagan"». «È raro che una donna islamica appaia in pubblico e pronunci dichiarazioni del genere» commentò Kate. «Be', se ti bombardano la casa, non puoi fare a meno di apparire in pubblico.» «Non ci avevo pensato. Sei furbo, tu.» «Grazie.» Tornai a leggere ad alta voce l'articolo. «"'Se troverò il pilota che ha sganciato una bomba sulla mia casa, lo ucciderò con le mie stesse mani' ha dichiarato Mrs Gheddafi." Capito, Kate? È gente che certe cose
non se le tiene per sé. Noi purtroppo consideriamo retoriche queste dichiarazioni e invece sono terribilmente serie, come hanno sperimentato a loro spese il colonnello Hambrecht e il generale Waycliff.» Lei annuì. «E non posso credere che i capoccioni di Washington non sapessero cosa stava per succedere né ciò che era effettivamente successo.» Non commentò. Ripresi a leggere. «"Mio marito, poi, non è un terrorista" ha aggiunto Mrs Gheddafi, perché se lo fosse "non avrei fatto dei figli con lui."» Kate rimase in silenzio e quindi fui io a commentare: «Anche i terroristi possono essere buoni padri, il ragionamento di Mrs Gheddafi mi sembra terribilmente sessista». «Non puoi leggermi quel cazzo d'articolo senza aggiungerci le tue stupide osservazioni?» «Sì, signora. Dunque: "Secondo fonti ufficiali libiche, due figli di Gheddafi sono rimasti feriti nel bombardamento e uno è tuttora ricoverato in ospedale. 'Alcuni dei miei figli sono rimasti feriti, altri sono terrorizzati, tutti hanno probabilmente subito traumi psichici' ha dichiarato Safia Gheddafi".» «E forse altri bambini oltre ai suoi hanno subito traumi psichici» osservò Kate. «Senza forse. Secondo me abbiamo scoperto che cosa ha fottuto la testa del giovane Asad Khalil.» «Lo penso anch'io.» Ripensai alle parole di Safia Gheddafi e ai rapporti che probabilmente esistevano tra i Gheddafi e i Khalil, rapporti a quanto pare più stretti di quanto pensasse la moglie del leader libico. Sapevo anche dell'ipotesi secondo la quale Gheddafi aveva fatto uccidere anni prima a Parigi il capitano Khalil, episodio che Asad ovviamente ignorava. Ma mi chiedevo se il piccolo Asad sapesse che lo zio Muammar di notte scivolava fuori dalla sua tenda per infilarsi sotto quella di mammà. Un professore che avevo al college sosteneva che i più importanti avvenimenti storici sono stati influenzati dal sesso, coniugale o extraconiugale. Questa teoria si era rivelata esatta nel mio caso, e quindi non dubitavo che lo fosse anche per la storia dell'umanità. «A cosa stai pensando?» mi chiese Kate. «A Khalil e al sistema che ha scelto per arrivare negli Stati Uniti. Ha accarezzato tutta la vita l'idea di venire in America, ma noi non lo sapevamo
e invece avremmo dovuto saperlo. E non è venuto per rifarsi una vita, per fare il tassista, per sfuggire alla disoccupazione o alla miseria. Non è il profugo tipico immaginato da Emma Lazarus.» «No, decisamente.» «E in giro ce ne sono altri come lui.» «Sì, a quanto pare.» Ce ne rimanemmo seduti al nostro posto, come ci avevano detto di fare, anche se a me non piace rimanere seduto a leggere o a ricevere telefonate idiote. Volevo chiamare Beth, ma la situazione alla scrivania di fronte era cambiata, quindi le mandai per posta elettronica il seguente messaggio: "Non posso parlarti ora, grosse novità nel caso Trans-Continental, nel pomeriggio potrei essere fuori città, grazie per il grosso bacio umido". Esitai. "Quindi, in conclusione..." No, non andava. Cancellai il messaggio e scrissi: "Ho bisogno di parlarti, ci vediamo presto". Dopo un altro attimo d'esitazione, spedii il messaggio. "Ho bisogno di parlarti" è una formula che dice tutto ciò che c'è da dire. È un po' la stenografia degli innamorati, la usava anche mia moglie. "John, dobbiamo parlare", cioè "John, vaffanculo." «A chi stai mandando e-mail?» mi chiese Kate. «Beth Penrose.» Breve silenzio. «Spero che non avrai usato l'e-mail per dirle...» «Uh... no...» «È un sistema troppo anonimo.» «E se le mandassi un fax?» «Devi dirglielo di persona.» «Di persona? Non ho il tempo nemmeno per parlare di persona a me stesso.» «Be'... forse va bene anche una telefonata. Ti lascio solo.» «No, aspetta. La sistemo più tardi questa faccenda.» «Sempre che tu non voglia ripensarci. Ti capirei.» Sentii che era in arrivo un mal di testa. «Davvero, se ci ripensi lo capisco.» Perché non ci credevo? «Quel che è accaduto ieri notte non deve farti sentire in alcun modo obbligato. Siamo entrambi adulti. Perciò direi di andarci piano, lasciare che la cosa si raffreddi. Un passo alla volta...» «Hai esaurito la scorta di luoghi comuni?» «Vai al diavolo.» Si alzò e si allontanò.
E io tornai a occuparmi del terrorista più ricercato degli Stati Uniti. Alzando lo sguardo sull'e-mail vidi che dall'Antiterrorismo di Washington era appena arrivato un messaggio classificato URGENTE e con distribuzione limitata al Centro coordinamento. "L'Aeronautica ci informa che potrebbe essere difficile identificare i piloti che hanno preso parte alla missione su al-Aziziya. Gli archivi hanno materiale sullo stormo e sulle unità superiori, ma per quelle più piccole sono necessarie ricerche maggiormente accurate." La cosa mi lasciò abbastanza scettico. Ero diventato così paranoico che non avrei creduto nemmeno a una freccia con la scritta USCITA. "Abbiamo comunicato all'Aeronautica il succo della telefonata fatta a Mrs Hambrecht dai nostri agenti di New York: quattro F-111, otto aviatori, destinazione al-Aziziya, l'assassinio del generale Waycliff ecc. L'Aeronautica e l'Ufficio storico stanno facendo ricerche, e Mrs Hambrecht è stata contattata telefonicamente, ma si rifiuta di fare nomi al telefono. Un generale accompagnato da altri ufficiali è stato inviato dalla base aerea WrightPatterson di Dayton, in Ohio, alla casa di Mrs Hambrecht ad Ann Arbor. La signora ha fatto sapere che i nomi li dirà solo ai membri di questa delegazione, dopo averne controllato identità e credenziali. Vi terremo informati." Stampai il messaggio, tracciai un cerchio rosso attorno alla dicitura URGENTE e lo lasciai cadere sulla scrivania di Kate. Poi considerai la situazione. Anzitutto era chiaro che Mrs Hambrecht era un tipo tosto, e nessuna minaccia o lusinga telefonica l'avrebbero convinta a fare ciò che le era stato detto di non fare, fin dal giorno di tanti anni prima in cui era diventata la moglie di un ufficiale dell'Aeronautica. In secondo luogo mi venne da pensare che, paradossalmente, le misure di sicurezza messe in piedi per proteggere dalle rappresaglie questi aviatori ci avevano impedito di capire cosa stava succedendo e ora ci impedivano di proteggerli. Era altrettanto ovvio che in questo muro di sicurezza si era aperta almeno una breccia, se Asad Khalil aveva un elenco di nomi che noi non avevamo. Ma i nomi di chi? Solo di quelli che avevano bombardato alAziziya? Probabile, erano loro il suo obiettivo. Ma li aveva tutti e otto i nomi? Forse. Di questi otto, dunque, uno era stato ucciso nella guerra del Golfo, uno in Inghilterra, uno con la moglie nella sua casa di Capitol Hill a Washington. Un altro, secondo la Hambrecht, era gravemente ammalato. Il che la-
sciava quattro potenziali vittime, cinque se quello malato non moriva prima che Khalil provvedesse alla bisogna. Ma ero quasi certo che alcuni fossero già morti: forse tutti, oltre a quelli vicino a loro che si erano venuti a trovare nel posto sbagliato al momento sbagliato, come Mrs Waycliff e la sua donna di servizio. È abbastanza seccante scoprire che il tuo paese è in prima linea. Non prego spesso, e mai a titolo personale, ma quella volta pregai per quei poveracci e per le loro famiglie, per i morti sicuri, i morti probabili e i morti a breve scadenza. Poi mi venne un'idea brillante, aprii l'agendina e composi un numero telefonico. 45 Il Learjet continuò a salire lasciandosi alle spalle Colorado Springs. Asad Khalil si spostò sul fianco sinistro del velivolo e andò a sedersi nell'ultima poltroncina per osservare le montagne sfilare sotto l'aereo che puntava a nord. Dovevano ormai aver raggiunto una quota superiore alla massima altitudine della catena montuosa, ma l'aereo continuava a salire, e poco dopo apparve in lontananza la distesa illuminata di Denver. D'improvviso l'aereo ebbe una serie di sussulti e immediatamente si udì il ronzio dell'interfono seguito dalla voce del comandante Fiske. «Mi spiace per la turbolenza, Mr Perleman, ma è normale incontrarne quando si sorvola una catena montuosa.» Khalil si chiese perché Fiske sentisse il bisogno di scusarsi per qualcosa sulla quale solo Dio, e non certo il pilota, poteva esercitare il controllo. «La situazione atmosferica dovrebbe normalizzarsi tra una ventina di minuti» proseguì il comandante. «Seguendo il nostro piano di volo, usciremo dal Colorado a sudovest, nel punto chiamato Quattro Angoli, dove i confini di Colorado, Arizona, New Mexico e Utah si incrociano formando quattro angoli retti. Passeremo poi sulla parte settentrionale dell'Arizona e purtroppo, dopo che la luna sarà calata, non si potrà vedere molto, a parte il deserto e gli altipiani.» Khalil aveva visto più deserto in vita sua di quanto Fiske potesse immaginare. «Mi avverta per favore quando passeremo sul Grand Canyon» gli chiese dopo aver sollevato la cornetta dell'interfono. «Sì, signore. Attenda un momento... Allora, tra quaranta minuti dovremmo passare circa 80 chilometri a sud del margine meridionale. Potrà
farsi un'idea generale del Grand Canyon, ma purtroppo da questa quota e da questa distanza non vedrà granché.» Khalil non provava alcun interesse per il Grand Canyon, ma voleva esser certo che lo svegliassero nel caso si fosse addormentato. «Grazie, non tema di disturbarmi quando ci avvicineremo al Canyon.» «Sì, signore.» Reclinò all'indietro lo schienale della poltrona e chiuse gli occhi, tornando con il pensiero al colonnello Callum, sempre più convinto di aver preso la decisione giusta, quella cioè di lasciare che fosse l'Angelo della Morte a regolare i conti con quell'assassino. E pensò anche al tenente Wiggins, l'uomo al quale si accingeva a fare visita. A Tripoli gli avevano detto che quel Wiggins, a differenza degli uomini abitudinari e prevedibili che aveva già ucciso, era un irrequieto del quale era impossibile anticipare i movimenti. Per questo motivo, oltre che per il fatto che Wiggins era l'ultimo della lista, in California avrebbe trovato qualcuno ad aiutarlo. Di questo aiuto Khalil non aveva alcuna voglia e alcun bisogno; ma doveva accettarlo, anche perché era ormai giunto nella fase culminante della sua missione, quella più pericolosa e più importante, come il mondo avrebbe scoperto nel giro di poco tempo. Si rese vagamente conto che si stava addormentando e sognò di nuovo che un uomo gli stava dando la caccia. Era un sogno confuso, lui e l'inseguitore invisibile volavano sopra il deserto; e sopra di loro c'era l'Angelo della Morte che aveva visto nell'oasi di Kufra. Capì che l'Angelo stava decidendo quale dei due uomini toccare per farlo precipitare al suolo. Il sogno si trasformò. Anche questa volta volava, ma era nudo, e nuda accanto a lui, tenendolo per mano, volava la ragazza che lo aveva portato in aereo da Paul Grey; sapeva che erano alla ricerca di un tetto sul quale posarsi per darsi vicendevolmente piacere carnale. Ma tutti gli edifici sotto di loro erano stati distrutti da una bomba. L'altoparlante dell'interfono gracchiò all'improvviso e Khalil si svegliò di scatto, sudato e con un'erezione. «Tra poco avrà il Grand Canyon alla sua destra, Mr Perleman» annunciò il pilota. Khalil respirò a fondo e si schiarì la gola. «Grazie.» Andò alla toilette a sciacquarsi con l'acqua fredda mani e viso, mentre i sogni continuavano a tornargli in mente. Poi andò a sedersi e guardò fuori dal finestrino. La luna piena era quasi completamente calata e sotto di loro la terra era immersa nell'oscurità.
Sollevò la cornetta del telefono di bordo e compose un numero. «Pronto?» rispose una voce maschile. «Sono Perleman, mi spiace svegliarla.» «Sono Tannenbaum e non c'è problema. Dormo solo.» «Bene. La chiamo per sapere se abbiamo degli affari da sbrigare.» «Qui c'è un buon clima per gli affari.» «E dove sono i nostri concorrenti?» «Non si vedono da nessuna parte.» «A presto, allora.» E Khalil pose termine a quello scambio di battute che entrambi avevano imparato a memoria. «Come previsto.» Riagganciò, respirò a fondo e sollevò il ricevitore dell'interfono. «Sì, Mr Perleman» rispose il comandante. «La telefonata che ho appena fatto mi costringe a una nuova modifica del programma. Ora devo andare a Santa Monica, ma immagino che non sia un problema.» «No, signore. Dal punto in cui ci troviamo non c'è molta differenza in termini di tempo di volo.» Khalil lo sapeva già. «Bene.» «E a quest'ora il Controllo traffico aereo non ci farà perdere tempo» aggiunse Fiske. «Quanto impiegheremo per arrivare a Santa Monica?» «Sto proprio inserendo le coordinate, signore... Dunque, circa quaranta minuti, il che significa che attorno alle 6 dovremmo essere in vista dell'aeroporto municipale. E forse saremo costretti a rallentare per non atterrare prima delle 6, quando è ancora in vigore il divieto sancito dalle norme antirumore.» «Capisco.» Questa parte del viaggio era stata accuratamente preparata a Tripoli. Con il cambio di destinazione annunciato mentre sorvolavano il Grand Canyon, sarebbe giunto a Santa Monica alla stessa ora in cui era previsto l'arrivo a San Diego, forse qualche minuto prima, ma in ogni caso non prima dello scadere del divieto di atterraggio. Se lo aspettavano a San Diego e avessero scoperto che stava andando a Santa Monica, avrebbero avuto meno di 40 minuti per preparare la nuova trappola. E se, per dare tempo alla polizia, il pilota lo avesse informato di un improvviso ritardo, lui avrebbe modificato di nuovo la destinazione, questa volta puntandogli una pistola alla nuca. L'aeroporto alternativo, in questo caso, era una vecchia pista abbandonata
tra i monti di San Bernardino, a pochi minuti di volo dal punto dove si trovavano in quel momento, e lì Khalil avrebbe trovato ad attenderlo un'auto con le chiavi attaccate sotto il piantone dello sterzo. L'aereo, che aveva già cominciato la discesa, volò sull'oceano per poi virare di 180 gradi puntando sulla costa. Khalil rimase all'erta per cogliere i segni di un eventuale ritardo nella manovra, poi udì il carrello che veniva abbassato e vide i flap uscire dai loro alloggiamenti, mentre sulle estremità delle ali si accendevano le luci intermittenti di atterraggio che si riflettevano dentro la carlinga attraverso i finestrini. Pochi minuti dopo, le ruote del Learjet toccarono il cemento della pista e l'aereo si fermò qualche centinaio di metri più avanti. Il pilota passò alla pista di rullaggio, puntando verso la rampa semideserta dell'aviazione privata. Khalil rimase a guardare attentamente dal finestrino, poi si alzò, prese dal pavimento la borsa e andò a inginocchiarsi alle spalle dei piloti, scorgendo attraverso il parabrezza della cabina un uomo che agitava due bastoni luminosi per indirizzare l'aereo verso il parcheggio, proprio davanti all'edificio. Il comandante Fiske spense i motori. «Eccoci arrivati, Mr Perleman. Ha bisogno di un passaggio da qualche parte?» «No, mi vengono a prendere, ho un appuntamento con un collega alla caffetteria.» «Ce n'è una in quella palazzina a due piani, l'ho notata l'ultima volta che sono stato qui» disse il comandante Fiske. «Dovrebbe essere già aperta.» Khalil spostò velocemente lo sguardo sugli hangar e le officine della manutenzione, ancora avvolte nell'ombra. «Quell'edificio laggiù, con tante finestre» gli indicò Fiske. «Sì, l'ho visto.» Guardò l'orologio. «Mi portano a Burbank, quanto ci si impiega in auto?» chiese al comandante. Entrambi i piloti rifletterono. «L'aeroporto di Burbank è una ventina di chilometri a nord in linea d'aria» disse poi Terry Sanford «a quest'ora non ci vuole molto ad arrivarci, direi venti minuti, al massimo trenta.» «Forse sarebbe stato il caso di atterrare lì» osservò Khalil a beneficio dei piloti. «No, perché a Burbank il divieto di atterrare è in vigore fino alle 7.» «Ah, ecco perché il collega mi ha dato appuntamento qui.» Tutto questo Khalil lo sapeva da prima e sorrise pensando a quando i pi-
loti avrebbero scoperto che il passeggero aveva le idee molto più chiare di loro circa i piani di volo. «Vi ringrazio per l'assistenza e la compagnia che mi avete offerto» disse loro congedandosi. I piloti risposero che era stato un piacere averlo a bordo e Khalil, pur dubitando della loro sincerità, lasciò una mancia di 100 dollari a testa. «La prossima volta che noleggerò un aereo della vostra compagnia chiederò di volare con voi» promise. I due ringraziarono, lo salutarono portando la mano alla visiera e si allontanarono in direzione dell'hangar. Asad Khalil rimase solo sulla rampa, in attesa che quel silenzio venisse rotto dalle grida di uomini sbucati all'improvviso da chissà dove. Ma non successe nulla e lui non se ne meravigliò, perché non aveva avvertito alcun pericolo, ma al contrario aveva sentito la presenza di Dio nel sole che stava sorgendo. Camminò senza fretta verso la palazzina alla destra degli hangar e vi entrò. Nella caffetteria vide un uomo che sedeva da solo a un tavolino. Indossava jeans e T-shirt blu, leggeva il "Los Angeles Times", aveva più o meno la sua età e le sue caratteristiche somatiche. Khalil gli si avvicinò. «Mr Tannenbaum?» Quello si alzò. «Sì. Mr Perleman?» Si strinsero la mano. «Vuole del caffè?» gli chiese il sedicente Tannenbaum. «Penso che dovremmo andarcene» rispose Khalil, uscendo dal locale. L'altro pagò il caffè alla cassa e lo raggiunse, insieme si misero poi a camminare in direzione del parcheggio. «Ha fatto buon viaggio?» gli domandò, sempre in inglese, Tannenbaum. «Sarei qui, se non fosse stato buono?» L'uomo non rispose, rendendosi conto che quel compatriota che gli camminava al fianco non cercava compagnia e non aveva voglia di fare conversazione. «È sicuro di non essere stato seguito?» gli chiese Khalil. «Sicurissimo. Non sono coinvolto in nulla che possa attirare l'attenzione delle autorità.» Khalil passò all'arabo. «Non esserne così sicuro, amico mio.» «Certo. Chiedo scusa.» Si avvicinarono a un furgone blu, sulla cui fiancata si leggeva: SERVIZIO RAPIDO A DOMICILIO - LOCALE E STATALE - CONSEGNA GARANTITA IN GIORNATA O L'INDOMANI, seguito da un numero di
telefono. L'uomo si mise al volante e Khalil gli si sedette vicino, girandosi a osservare il retro del furgone occupato da una decina di pacchi. L'autista mise in moto. «Alcuni di quei pacchi sono indirizzati a Mr Perleman.» Khalil non fece alcun commento. «Naturalmente non so cosa contengano, ma sono certo che dentro troverai tutto ciò che ti serve.» Khalil continuò a tacere. Tacque anche l'autista e Khalil, guardandolo, si accorse che cominciava a essere a disagio. Allora lo chiamò per nome. «Quindi, Azim, tu sei di Bengasi.» «Sì.» «Ti manca il tuo paese?» «Naturalmente.» «E anche la tua famiglia, immagino. Tuo padre vive ancora in Libia, mi hanno detto.» Azim esitò prima di rispondere. «Sì.» «Presto avrai abbastanza soldi per fare un viaggio a casa e riempire di regali la tua famiglia.» «Sì.» Stavano per raggiungere uno svincolo dove la Interstate incrociava la Ventura Freeway. «Mi hanno detto che avresti saputo tu l'indirizzo» disse Azim. «A me veramente hanno detto che lo sapevi tu.» Azim finì quasi fuori strada. «No... non so niente... mi avevano detto...» Khalil rise e gli posò una mano sulla spalla. «Ah sì, dimenticavo, ce l'ho io l'indirizzo. Prendi l'uscita per Ventura.» Elwood Wiggins si stava dimostrando una preda particolarmente irrequieta. Dopo molte ricerche era stato possibile localizzarlo a Burbank, ma lui si era spostato sulla costa, più a nord, in una località chiamata Ventura. Una decisione, quella, ispirata dal fato, perché in tal modo Wiggins si era avvicinato al luogo in cui Asad aveva deciso di concludere la sua trasferta americana. Non dubitava, Khalil, che fosse la mano di Allah a muovere gli ultimi giocatori rimasti. Se il tenente Wiggins si fosse trovato a casa, lui avrebbe potuto concludere la faccenda in giornata per poi dedicarsi a un altro lavoro lasciato a metà.
Se il tenente Elwood Wiggins non fosse stato a casa, al suo ritorno vi avrebbe trovato un leone affamato pronto ad azzannarlo alla gola. Khalil si fece una risatina, Azim lo guardò e sorrise a sua volta. Ma il sorriso gli morì sulle labbra quando notò l'espressione che aveva accompagnato la risata; e i capelli gli si rizzarono sulla nuca vedendo il passeggero trasformarsi da essere umano in bestiale predatore. 46 Composi un numero di Washington e mi rispose una voce maschile: «Omicidi, detective Kellum». «Sono John Corey, Squadra omicidi, Dipartimento di polizia di New York. Cerco il detective Calvin Childers.» «Per quella sera ha un alibi.» Siamo fatti della stessa pasta e mi prestai subito al gioco. «È nero, è armato ed è mio» annunciai. Kellum rise. «Rimani in linea.» Poco dopo Calvin Childers venne all'apparecchio. «Ciao, John, come va nella Grande Mela?» «Di merda, grazie.» Esauriti i convenevoli, arrivai al punto. «Sto lavorando a quella faccenda del volo Trans-Continental.» «Accidenti! E come ci sei entrato?» «È una lunga storia. Se devo dirti la verità, adesso sto lavorando per l'Fbi.» «Sapevo che non avresti combinato nulla di buono in vita tua. Allora, cosa posso fare per te?» «Vuoi che te lo dica nudo e crudo o preferisci che ti racconti qualche stronzata, così meno sai e meglio è?» «Siamo in onda?» «Probabilmente.» «Ce l'hai un cellulare?» «Certo.» «Richiamami» e mi diede il suo numero diretto. Riattaccai e mi rivolsi a Kate, che era appena tornata da uno di quei posti dove le donne si recano con allarmante frequenza. «Scusa, mi presteresti il cellulare?» Lei stava lavorando al computer e, senza una parola o uno sguardo, s'infilò la mano in tasca e mi porse il telefonino. «Grazie.» Chiamai il numero diretto di Calvin e, appena rispose, entrai
subito in argomento. «Stai lavorando al caso Waycliff?» «No, ma conosco chi ci lavora.» «Bene, state seguendo qualche pista?» «No. E tu?» «Io ho il nome dell'assassino.» «Sì? È già stato arrestato?» «Non ancora, per questo mi serve il tuo aiuto.» «Certo, dammi il nome dell'assassino.» «Certo, dammi una mano.» Cal rise. «Okay, che ti serve?» «Mi servono i nomi di certi signori che hanno partecipato a un bombardamento aereo insieme al defunto generale. Ti dico subito che questi nomi sono top secret; all'Aeronautica e alla Difesa fanno gli indiani, o forse non li conoscono nemmeno loro.» «E io come faccio a tirarli fuori?» «Puoi buttar lì una domanda ai familiari, oppure dare un'occhiata in casa della vittima. Guarda nell'agenda telefonica, nei suoi archivi, forse c'è una foto o qualcosa del genere. Pensavo tu fossi un detective.» «Sono un detective, non un cazzo di lettore del pensiero. Dammi qualche altro elemento.» «L'obiettivo del bombardamento era un posto in Libia chiamato...» guardai uno degli articoli di giornale scaricati da Internet «al-Aziziya...» «Ho un nipote che si chiama al-Aziziya.» Ho già detto che noi poliziotti abbiamo un senso dell'umorismo perverso. «È un posto, Cal. In Libia, vicino a Tripoli.» «Ah sì? Perché non me l'hai detto subito? Sarebbe stato tutto più chiaro.» «Sono abbastanza sicuro che il generale Waycliff è stato fatto fuori da quell'Asad Khalil...» «Quello che ha mandato all'altro mondo un intero jumbo?» «Proprio lui.» «E che diavolo è venuto a fare a Washington?» «Ad ammazzare gente. È scatenato, e penso che voglia eliminare tutti gli equipaggi che hanno partecipato a quel raid su al-Aziziya.» «Davvero? E perché?» «Cerca vendetta. Credo che abitasse in quel posto e forse le bombe hanno ucciso qualcuno che conosceva. Capisci ora?» «Sì... sta presentando il conto.»
«Esatto. La missione risale al 15 aprile 1986 e vi presero parte quattro F111, ciascuno con due membri di equipaggio, per un totale di otto uomini. Uno di loro, un certo colonnello William Hambrecht, è stato fatto fuori a colpi d'ascia nel gennaio scorso vicino alla base aerea di Lakenheath, in Inghilterra. Poi ci sono il generale Waycliff e un altro, del quale non so il nome, che è stato ucciso durante la guerra del Golfo. Quindi hai due nomi, Hambrecht e Waycliff. Forse esiste una foto di gruppo o qualcosa del genere.» «Ho capito.» Passò qualche secondo. «E perché quel tipo ha aspettato tanto per regolare i conti?» «Perché all'epoca era un ragazzo e adesso è cresciuto.» Feci a Cal un breve resoconto della storia di Asad Khalil, gli raccontai della sua defezione all'ambasciata di Parigi e di altri particolari che non erano stati resi noti. «Se gli avevano messo il collare a Parigi, dovrebbero esserci le sue impronte e qualcos'altro.» «Proprio così. Mettiti in contatto con il laboratorio dell'Fbi e fatti mandare tutto quello che hanno, comprese le fibre del vestito che potrebbe avere indossato a Washington e il suo Dna.» «Dici davvero?» «Sì, hanno anche quello.» Rise. «Sulla scena del delitto non hanno trovato granché, ma se è stato questo Khalil, la Scientifica saprà almeno cosa cercare quando l'Fbi manderà le impronte digitali e tutto il resto.» «Giusto. Le vittime sono state uccise con una calibro 40?» «No, con una 45. Il generale aveva una 45 automatica che, secondo la figlia, è scomparsa.» «Pensavo che tu non lavorassi a questo caso.» «Non direttamente, ma è un caso grosso, ci sono di mezzo dei bianchi, sai? Comunque, dammi qualche ora...» «Un'ora al massimo, Cal. Bisogna proteggere quei signori, e per qualcuno di loro potrebbe essere già troppo tardi.» «D'accordo. Mi metto subito in contatto con i colleghi che si occupano del caso e poi andrò a casa della vittima. Ti chiamerò da lì.» «Grazie.» Gli diedi il numero del cellulare di Kate. «Questo tienilo per te.» E riattaccai. Kate mi guardò. «Sei in gamba. Non mi sarebbe mai venuto in mente di chiamare la Squadra omicidi di Washington.» «È perché sono anch'io della Omicidi e tra noi collaboriamo, come ha
appena fatto Cal con me. E poi non sono l'unico in gamba qui, l'idea di chiedere il dossier del colonnello Hambrecht l'hai avuta tu. Lavoriamo bene insieme, vedi? Fbi, sbirri, sinergia: funziona davvero. Perché non mi sono trasferito da voi dieci anni fa? Se penso al tempo che ho sprecato nella polizia...» «Piantala, John.» «Sì, signora.» «Ordino da mangiare. Tu che vorresti?» «Tartufi con pane di segale, salsa bernese e tanti sottaceti.» «E se ti ricacciassi in gola tutti i denti?» Oddio! Mi alzai stirando le braccia. «Ti invito a pranzo, dai.» «Be'... non...» «Ho bisogno di uscire di qui, e abbiamo il cercapersone.» Mi infilai in tasca il cellulare di Kate. «D'accordo.» Si alzò anche lei e andò a informare la funzionaria di servizio che saremmo andati a mangiare un boccone nelle vicinanze. Pochi minuti dopo camminavamo per Broadway. Era una bella giornata di sole e i marciapiedi erano affollati di gente uscita come noi per la pausa pranzo, in maggioranza dipendenti statali che per risparmiare mangiavano un panino con i wurstel comprato al chiosco o quello che si erano portati da casa. Noi poliziotti non prendiamo esattamente quel che si dice uno stipendio da favola, ma sappiamo trattarci bene; nel nostro lavoro non sai mai che cosa ti riserva il futuro e quindi mangi, bevi e cerchi di spassartela. Non volevo allontanarmi troppo dal Ministero della Verità e dopo due isolati girai in Chambers Street, vicino al municipio. Facendo strada a Kate Mayfield, entrai in un posto chiamato Ecco, dove tutto richiamava l'atmosfera tranquilla della vecchia New York, a parte i prezzi. Una volta io e la mia ex ci venivamo spesso, dato che entrambi lavoravamo nelle vicinanze, ma non ritenni essenziale informare della circostanza Kate. Il maitre ci accolse chiamandomi per nome, cosa che fa sempre un certo effetto sulle ospiti di sesso femminile. Il ristorante era affollato, ma riuscirono a trovarci un tavolo per due accanto alla vetrina. I poliziotti in giacca, cravatta e pistola sono trattati bene nei ristoranti di New York, e probabilmente in quelli di tutto il mondo; io, però, avrei rinunciato più che volentieri a quel trattamento se me ne fossi potuto andare in pensione in Florida. Ordinammo al proprietario, che si chiamava Enrico, due bicchieri di vi-
no da 8 dollari l'uno: bianco per la signora, rosso per il signore. «Non c'è bisogno che spendi un capitale per offrirmi un pranzo» disse Kate dopo che Enrico si fu allontanato. Altroché, se ce n'era bisogno. «Ti devo un buon pranzo dopo quella colazione.» Rise, poi tornò Enrico con il vino. «Potrei aver bisogno di ricevere un fax, mi dà il vostro numero?» gli chiesi. «Certo, Mr Corey.» Scrisse il numero su un tovagliolino di carta e si allontanò nuovamente. Kate e io brindammo. «Slainté» dissi. «Che significa?» «Alla tua salute, è gaelico. Io sono per metà irlandese.» «Quale metà?» «Quella sinistra.» «Voglio dire, da parte di padre o di madre?» «Di madre, papà è soprattutto inglese. Che matrimonio, il loro! Si mandano l'un l'altra lettere-bomba.» Ci mettemmo a studiare il menu, un filo più caro di quanto ricordassi, ma fui salvato dallo squillo del cellulare. Lo estrassi di tasca. «Pronto?» La voce era quella di Calvin Childers. «Ascolta, mi trovo a casa della vittima e sto guardando una foto con otto tizi in posa davanti a un jet, che mi dicono essere un F-111. La foto è datata 13 aprile 1987, non 1986.» «Be'... era una missione segreta, quindi probabilmente...» «Ho capito. Ma nessuno di questi otto viene identificato con nome e cognome.» «Maledizione!» «Calma, amico, il vecchio Calvin pensa a tutto. Ho trovato un'altra foto, in bianco e nero, che ritrae cinquanta-sessanta militari. C'è la scritta "48° Gruppo tattico, base Raf, Lakenheath". E ci sono i nomi di tutti, fila per fila: prima fila, da sinistra... e una serie di nomi... seconda fila... altro elenco, e così via. Allora ho preso una lente d'ingrandimento e ho individuato gli otto dell'altra foto, a ciascuno dei quali ho dato un nome; a sette, per la precisione, perché il nome e il viso di Waycliff li conoscevo già. Poi ho aperto l'agenda della buonanima e ho trovato sette indirizzi con i numeri di telefono corrispondenti.» Respirai a fondo. «Splendido. Me li manderesti per fax?» «Io che ci guadagno?» «Un pranzo alla Casa Bianca, una medaglia. Tutto quello che vuoi.»
«Probabilmente finirò per rimediare una cella nel carcere di Leavenworth. Okay, c'è un fax nello studio della vittima, a che numero devo mandarla questa roba?» Gli diedi il numero di fax del ristorante. «Grazie, amico. Ottimo lavoro.» «Dove pensi che si trovi adesso questo Khalil?» «Sta facendo visita a quei piloti. Ce n'è qualcuno nella zona di Washington?» «No. Florida, South Carolina, New York...» «New York dove?» «Fammi vedere... è un certo Jim McCoy e abita in un posto chiamato Woodbury, mentre l'ufficio è il Museo Culla dell'aviazione a Long Island.» «Okay. Che altro?» «Vuoi un fax o devo leggerti tutto?» «Un fax, e già che ci sei mandami anche la foto di quegli otto scrivendo il nome sotto ciascuno. A proposito, una foto buona mandamela con lo shuttle, poi chiamami e dammi il numero del volo, così potrò spedire all'aeroporto uno dei nostri agenti sottoimpiegati a ritirarla.» «Sei proprio uno scassacazzi, Corey. Ora lasciami andar via di qui prima che cominci a dare nell'occhio. A proposito, questo Khalil è un bastardo violento, ti manderò anche le foto scattate dalla Scientifica in casa Waycliff.» «E io ti manderò quelle scattate dentro un aereo pieno di cadaveri.» «Guardati il culo.» «Lo faccio sempre. Ci vediamo alla Casa Bianca.» E riattaccai. Kate mi guardò. «Abbiamo tutti i nomi e gli indirizzi» le dissi. «Spero che non sia troppo tardi.» «Io ne sono certo.» Chiamai un cameriere. «Mi porti il conto, per favore, e anche un fax che dovrebbe essere arrivato a mio nome, Corey.» Scomparve e bevvi il vino, poi mi alzai imitato da Kate. «Ti devo un pranzo» le dissi. Mentre ci avvicinavamo alla porta, tornò il cameriere e, in cambio di 20 dollari, mi consegnò due pagine di nomi e indirizzi più un terzo foglio con una foto non molto chiara. Uscimmo su Chambers Street e, tornando a Federal Plaza, lessi ad alta voce i nomi elencati in ordine alfabetico. «Bob Callum, Colorado Springs, Accademia aeronautica. Steve Cox, accanto c'è la sigla UIC (ucciso in combattimento), Golfo Persico, 19 gennaio 1991. Paul Grey, Daytona Be-
ach/Spruce Creek, Florida. Willie Hambrecht... di lui già sappiamo. Jim McCoy a Woodbury... cioè Long Island. Bill Satherwaite, Moncks Corner, South Carolina, dove diavolo è? L'ultimo è un certo Chip Wiggins di Burbank, California, ma Cal mi informa che il suo indirizzo e numero di telefono sull'agenda di Waycliff erano cancellati.» «Sto cercando di immaginarmi i movimenti di Khalil» disse Kate. «Si allontana dal Kennedy attorno alle 17.30, presumibilmente a bordo del taxi di Jamal Jabbar. Da lì va a casa di Jim McCoy? Ed è sempre Jamal Jabbar a portarcelo?» «Lo sapremo quando chiameremo Jim McCoy.» Continuando a camminare, composi sul cellulare il numero di casa McCoy ma mi rispose la segreteria telefonica, sulla quale lasciai un messaggio sperando che non suonasse troppo allarmante: «Mr McCoy, sono John Corey dell'Fbi. Abbiamo motivo di ritenere che...». Di ritenere che cosa? Che il più spietato figlio di puttana in circolazione ti sta dando la caccia per farti la pelle? «... di ritenere che lei possa essere l'obiettivo di un terrorista islamico per aver partecipato al bombardamento sulla Libia nel 1986. Per favore, si metta immediatamente in contatto con la polizia e con l'ufficio Fbi di Long Island.» Gli diedi anche il mio numero diretto dell'ufficio. «La prego di osservare la massima prudenza e le consiglio di trasferirsi subito da qualche altra parte con la sua famiglia.» Premetti il pulsante fine. «Potrebbe pensare a uno scherzo, ma la parola Libia dovrebbe convincerlo. Segna l'ora di questa telefonata» dissi a Kate. Lei aveva già tirato fuori il taccuino e stava prendendo appunti. «Potrebbe non ricevere mai questo messaggio» osservò. «Non pensiamoci, cerca di essere ottimista.» Mi fermai davanti a un chiosco di panini e ordinai due knish con senape e crauti. Poi telefonai a casa di Bill Satherwaite, in South Carolina. «Chiamo le potenziali vittime a casa prima di avvertire la polizia» spiegai a Kate. «Con gli sbirri a volte si rischia d'invecchiare al telefono.» «Proprio così.» «Poi li chiamerò in ufficio uno per uno.» Dopo qualche squillo rispose un'altra segreteria telefonica. «Bill Satherwaite, lasciate un messaggio.» Ne registrai uno simile a quello lasciato a casa McCoy, concludendo con la stessa raccomandazione di darsela a gambe. L'uomo del chiosco aveva udito le mie parole e, mentre ci porgeva i due
knish avvolti in carta oleata, mi lanciò uno sguardo sospettoso. Gli diedi un biglietto da 10. «Che cos'è?» mi chiese Kate. «Roba da mangiare, in pratica patate schiacciate e fritte. È buono.» Composi il numero di casa di Paul Grey, in Florida. Un'altra segreteria telefonica mi pregò di registrare un messaggio, io ripetei quello che avevo lasciato agli altri due, e l'uomo del chiosco mi guardò fisso mettendomi in mano il resto. Kate e io riprendemmo a camminare. Provai il numero dell'ufficio di Paul Grey e udii: "Qui è la Grey Simulation Software, in questo momento non possiamo rispondere..." e così via. Non mi piaceva il fatto che nessuno fosse in casa, e Grey nemmeno in ufficio. Lasciai lo stesso messaggio e Kate prese nota dell'ora. Il tentativo seguente lo feci al numero d'ufficio di Bill Satherwaite; la segreteria mi informò che parlavo con il Confederate Air Charter and Pilot Training. Lasciai il solito messaggio prudente, accorgendomi che si stava facendo sempre meno prudente man mano che telefonavo. "Scappa, salvati la vita!" avrei voluto gridare. «Ma che fine hanno fatto?» chiesi a Kate. Non rispose. Camminavamo per Broadway, mancava un isolato a Federal Plaza e feci fuori a tempo di record mezzo knish continuando a leggere il fax. Kate mangiò un boccone del suo, fece una smorfia e depositò il rimanente in un cestino dei rifiuti; nemmeno mi chiese se volevo finirlo io. Anche la mia ex chiamava il cameriere per far portare via il piatto mezzo pieno senza consultarsi con me. Brutto segno. Decisi di telefonare al Museo Culla dell'aviazione di Long Island, lì almeno ero sicuro che mi avrebbe risposto una voce umana. «Museo» disse una voce femminile. «Sono John Corey, del Federal Bureau of Investigation. Vorrei parlare con Mr James McCoy, il direttore. È urgente.» Seguì un lungo silenzio, del quale afferrai immediatamente il significato. «Mr McCoy...» disse la donna, e udii un singhiozzo sommesso. «Mr McCoy è morto.» Guardai Kate scuotendo il capo. Poi gettai il knish in un cestino e accelerai il passo. «Come è morto, signora?» «È stato ucciso.» «Quando?» «Lunedì sera. La polizia ha messo il museo sotto sequestro... non può
entrare nessuno.» «Lei dove si trova in questo momento, signora?» «Nel Museo dei Bambini, l'edificio accanto. Sono la segretaria di Mr McCoy e in questo momento il suo telefono sta squillando, quindi...» «Okay. Come è stato ucciso?» «Gli hanno sparato... gli hanno sparato dentro uno degli aerei... c'era un altro signore... con lui. Vuole parlare con la polizia?» «Non ancora. Sa dirmi chi era quest'altro signore?» «No. Anzi sì. Mr McCoy aveva detto che era un vecchio amico, ma non ricordo...» «Grey?» «No.» «Satherwaite?» «Proprio lui, Satherwaite. Aspetti che le passo la polizia.» «Ancora un momento. Ha detto che gli hanno sparato dentro un aereo?» «Sì. Lui e il suo amico stavano seduti dentro un caccia... l'F-111, e sono stati entrambi... è stato ucciso anche Mr Bauer, la guardia...» «Grazie, la richiamerò.» Riattaccai, informando subito Kate mentre entravamo al 26 di Federal Plaza. Davanti all'ascensore chiamai Bob Callum a casa, a Colorado Springs, e mi rispose una voce di donna: «Casa Callum». «Parlo con Mrs Callum?» «Sì, io con chi parlo?» «Mr Callum è in casa?» «Il colonnello Callum. Chi parla?» «Mi chiamo John Corey e sono dell'Fbi. Ho bisogno di parlare con suo marito, è molto urgente.» «Oggi non si sente bene, sta riposando.» «Ma è in casa?» «Sì. Di che si tratta?» Arrivò un ascensore, ma non lo prendemmo perché negli ascensori si può perdere il segnale. «Le passo la collega Kate Mayfield, Mrs Callum» dissi. «Le spiegherà la situazione.» Appoggiai il cellulare al torace. «Una donna parla più volentieri con un'altra donna» dissi a Kate passandole il cellulare. E, mentre aspettavo l'ascensore successivo, udii Kate presentarsi e dire: «Mrs Callum, abbiamo motivo di credere che suo marito sia potenzialmente in pericolo. Mi ascolti, per favore, e quando avrò terminato chiami la polizia e l'Fbi, e anche il Servizio di sicurezza della base aerea.
Voi abitate nella base?». L'ascensore arrivò e lo presi, lasciando il lavoro in buone mani. Arrivato al ventiseiesimo piano, andai a sedermi alla scrivania e composi il numero di Chip Wiggins, a Burbank, ma un disco registrato mi informò che quel numero era staccato e non erano disponibili altre informazioni. Rileggendo i due fogli del fax, verificai che Waycliff, McCoy e Satherwaite erano già stati uccisi, Paul Grey non rispondeva al telefono e Wiggins era scomparso. Hambrecht era stato ucciso a gennaio, in Inghilterra, e chissà se qualcuno all'epoca si era chiesto quale fosse il movente del delitto. L'unico a morire di morte naturale era stato Steven Cox, volendo considerare naturale per un pilota di caccia la morte in combattimento. Mrs Hambrecht aveva detto che uno degli otto era molto malato, e capii che doveva trattarsi di Callum. Per la prossima riunione degli ex compagni di squadriglia non sarebbe stata necessaria una stanza particolarmente spaziosa. Accesi il computer e, ricordandomi che in alcune zone rurali della Florida sono gli sceriffi della contea a occuparsi degli omicidi, scoprii che Spruce Creek si trovava nella contea di Volusia. Cercai il numero dello sceriffo e telefonai, aspettando che mi rispondesse uno di quegli zoticoni del sud. Intanto avrei dovuto comunicare al più presto l'allarme alla Sezione antiterrorismo dell'Hoover Building, ma una telefonata del genere avrebbe potuto tenermi occupato un'ora, poi mi avrebbero ordinato di inviare subito un rapporto scritto, e l'istinto mi diceva invece di avvertire prima le potenziali vittime. Più che di istinto, a dire il vero, si trattava del mio solito modo di procedere; se qualcuno stesse cercando di farmi fuori, gradirei essere il primo a saperlo. «Ufficio dello sceriffo, parla l'agente Foley.» L'accento sembrava di uno delle mie parti. «Sono John Corey, dell'ufficio Fbi di New York, e chiamo per avvertirvi di una minaccia di morte contro un abitante di Spruce Creek, un certo Paul Grey...» «Troppo tardi.» «Ah... dove e quando?» «Può identificarsi meglio?» «Senta, mi richiami qui al centralino.» Gli diedi il numero e riattaccai. Una quindicina di secondi dopo squillò il telefono. «Dal computer vedo che risponde l'Anti-Terrorist Task Force.» «Proprio così.»
«Come mai?» «Non glielo posso spiegare finché non avrò sentito ciò che ha da dirmi. Questioni di sicurezza nazionale.» «Sì? Sarebbe a dire?» Era senz'altro di New York e decisi di giocare quella carta. «Sei di New York?» «Sì. Come fai a saperlo?» «Ho tirato a indovinare. Io ho lavorato a lungo al Dipartimento di polizia di New York, Squadra omicidi. Ora faccio il doppio gioco.» «Io ho fatto l'agente nel Centoseiesimo distretto, a Queens. Quaggiù ci sono un sacco di poliziotti di New York, in servizio o in pensione, io sono uno dei vice dello sceriffo. Divertente, no?» «Potrei venire anch'io a lavorare lì da voi.» «Qui li adorano, i poliziotti di New York, pensano che sappiamo fare il nostro mestiere.» E rise. Stabilita una certa sintonia, tornai all'argomento che mi premeva. «Parlami di questo delitto.» «È avvenuto in casa della vittima, casa e ufficio per l'esattezza. Lunedì. Il medico legale ha stabilito l'ora della morte attorno a mezzogiorno, ma il condizionatore era acceso, quindi potrebbe essere successo prima. Il cadavere l'abbiamo scoperto noi alle 20.15, dopo aver ricevuto la telefonata di una certa Stacy Moll, un pilota che ci ha raccontato di aver portato un cliente dall'aeroporto municipale di Jacksonville a casa della vittima. L'abitazione si trova all'interno di un aeroporto, insieme ad altre di gente con la fissazione del volo, in località Spruce Creek, subito fuori Daytona Beach. Il cliente le aveva detto di essere in affari con la vittima.» «E che affari!» «Le ha detto di chiamarsi Dimitrios Poulos e di essere un antiquario greco. Ma poi la ragazza ha visto sui giornali la foto di quell'Asad Khalil e ha pensato che fossero la stessa persona. Così ci ha telefonato.» «Non si era sbagliata.» «All'inizio pensavamo che avesse le allucinazioni, ma poi abbiamo trovato quel tipo morto... Che motivo aveva Khalil di farlo fuori?» «Non so, forse ha un problema personale con gli aerei. Che altro?» «Due colpi, uno all'addome e uno alla testa. E ha fatto fuori anche la donna delle pulizie con un proiettile alla nuca.» «Avete recuperato bossoli o proiettili?» «Solo proiettili, tre calibro 40.»
«Immagino avrete avvertito l'Fbi.» «Sì. Voglio dire, non è che credessimo molto a quella faccenda di Asad Khalil, ma sembra che la vittima lavorasse in un settore vicino alla Difesa, e poi erano scomparsi alcuni dischetti di computer, stando a quanto ci ha detto la fidanzata dell'ucciso.» «Avete segnalato all'Fbi questo possibile collegamento con Asad Khalil?» «Certo, all'ufficio di Jacksonville. E loro ci hanno risposto che ricevono ogni quarto d'ora telefonate di cittadini che credono di aver riconosciuto Khalil. Non l'hanno presa molto sul serio, insomma, comunque ci hanno detto che avrebbero spedito qui un agente. Lo stiamo ancora aspettando.» «E da Spruce Creek il pilota dove ha portato il cliente?» «Lo ha riportato al municipale di Jacksonville e da lì, con la sua auto, all'aeroporto internazionale. Lui le ha detto che stava ritornando in Grecia.» Ci pensai su. «Avete informato la polizia di Jacksonville?» «Certo, non penserai mica che mi sia dimenticato come si lavora. All'aeroporto hanno controllato biglietterie, liste passeggeri e così via, senza trovare alcuna traccia di questo Dimitrios Poulos.» «Quanto tempo è rimasto l'assassino a casa della vittima?» «Mezz'ora, secondo la ragazza. Senti, lo prenderete quel tipo?» «Credo di sì.» «È proprio un bastardo figlio di puttana.» «Puoi dirlo.» «Com'è il tempo a New York?» «Perfetto.» «Qui invece fa un caldo del cazzo. A proposito, la ragazza ha anche detto che il cliente dovrebbe tornare la prossima settimana, ha prenotato di nuovo per Spruce Creek.» «Non ci farei troppo affidamento.» «Infatti. E l'ha invitata a cena.» «Dille che può considerarsi fortunata di essere viva.» «In effetti...» «Grazie.» Attaccai e scrissi "ucciso" accanto al nome di Paul Grey, insieme alla data e all'ora presunta della morte. La riunione degli ex compagni d'armi si faceva sempre più ristretta. In pratica vi avrebbe preso parte soltanto Chip Wiggins, a meno che non si fosse trasferito a est e avesse già ricevuto la visita di Asad Khalil. Bob Callum era ancora vivo, e mi chiesi se Khalil l'avesse lasciato in pace solo perché sapeva che era molto malato,
per usare le parole di Mrs Hambrecht, oppure perché non era ancora arrivato in Colorado. Ma che fine aveva fatto Wiggins? Sarebbe stato un successo salvare la vita almeno a lui, dato che per il momento il risultato era di 5 a 0 a favore del Leone. Arrivò Kate e andò a sedersi alla sua scrivania. «Sono rimasta al telefono con Mrs Callum finché non l'ho sentita chiamare il capo della polizia militare dell'Accademia aeronautica su un'altra linea. Mi ha detto che ha una pistola e sa usarla.» «Bene.» «Mi ha anche detto che il marito ha un cancro.» Annuii. «Pensi che Khalil lo sappia?» «Sto cercando di capire che cosa non sa. Ho chiamato la polizia di Daytona Beach: Paul Grey è stato ucciso lunedì attorno a mezzogiorno, forse prima.» «Oh, mio Dio!...» Presi una matita e stilai un elenco dei morti, tralasciando quelli gasati sull'aereo. «Il nostro amico sta contribuendo a ridurre il tasso di natalità sulla costa orientale» osservai. E lessi ad alta voce i nomi: «Andy McGill, Nick, Nancy e Meg Collins, Jabbar, Waycliff, la moglie e la donna di servizio, Satherwaite, McCoy e una guardia. Finora sono tredici, un numero che porta sfortuna». «Hai dimenticato Yusuf Haddad.» «Il complice, certo. Quattordici, allora, e siamo soltanto a martedì.» Le porsi i due fogli del fax. «A parte Callum, che è sotto protezione, Wiggins è l'unico ancora vivo, o almeno lo spero.» Kate guardò il fax. «Hai provato a metterti in contatto con Wiggins?» «Sì, ma il telefono è staccato. Si potrebbe provare con l'Ufficio informazioni abbonati di Burbank.» Lei cominciò a battere a raffica sulla tastiera del computer. «Qual è il suo nome di battesimo?» «Non lo so, vedi cosa riesci a trovare.» «Tu intanto chiama l'Antiterrorismo a Washington, e poi l'ufficio Fbi di Los Angeles. Quindi avverti il Centro coordinamento con la posta elettronica o qualsiasi altro sistema ti sembri più veloce.» «Chiamo per primo l'Fbi di Los Angeles. Oppure preferisci farlo tu?» «Lo farei se tu sapessi usare meglio il computer, devo cercare questo Wiggins. Chiedi di Doug Sturgis, è il viceresponsabile, e fai pure il mio
nome.» Pochi minuti dopo mi passarono Sturgis. «Cosa posso fare per voi?» mi chiese. «Mr Sturgis, stiamo cercando un certo Chip Wiggins, nome di battesimo sconosciuto, bianco, attorno ai quarant'anni, ultimo indirizzo conosciuto a Burbank.» Gli diedi il recapito. «È un probabile testimone in un caso importantissimo che potrebbe avere risvolti collegati con il terrorismo internazionale.» «Quale caso?» Ma perché sono tutti così impiccioni? «Un caso delicato sul quale è stato posto il segreto, quindi non sono autorizzato a parlargliene, ma questo Wiggins potrebbe sapere qualcosa di utile. Vi chiedo solo di cercarlo e, se lo trovate, di metterlo sotto custodia protettiva e avvertirmi immediatamente.» Gli diedi quel poco che avevo su Wiggins. Seguì un breve silenzio. «Chi gli dà la caccia? Quale gruppo?» mi chiese poi Sturgis. «Diciamo Medio Oriente. Ed è importante che lo troviamo noi prima di loro. Se avrò altri particolari, la richiamerò.» Sturgis non sembrava molto convinto. «Lavoro con Kate Mayfield, mi ha detto che era lei l'uomo da chiamare in caso di bisogno.» «D'accordo, faremo il possibile.» Ripeté l'ultimo indirizzo e numero di telefono conosciuti di Wiggins. «Mi saluti Kate.» «Senz'altro.» Gli lasciai i numeri diretti, il mio e quello di Kate, e lo ringraziai. Poi chiamai l'Ufficio persone scomparse della polizia di Los Angeles, mi identificai e chiesi di parlare con un ufficiale. Mi passarono un certo tenente Miles, al quale ripetei la storia di Wiggins. «Voi siete molto più bravi di noi a rintracciare una persona scomparsa» aggiunsi. «Non sto parlando con l'Fbi, non ci credo» disse il tenente Miles. Risi educatamente. «Io ho lavorato nella Squadra omicidi della polizia di New York e sono qui per insegnargli l'abbiccì del mestiere.» Rise a sua volta. «Okay, se lo troviamo, gli chiederemo di chiamarvi. Non possiamo fare altro se non è sospettato di qualcosa.» «Preferirei che lo portaste da voi, è in pericolo.» «Ah sì? Che pericolo? Cos'è questa storia del pericolo?» «È una faccenda di sicurezza nazionale e per il momento non posso aggiungere altro.» «Adesso sì che mi sembra di parlare con un federale.»
«No, sono un poliziotto in un vicolo cieco che ha bisogno del vostro aiuto, ma non può dirvi il perché.» «Okay, ci lavoreremo su e vi faremo sapere.» «Grazie.» Gli diedi il mio numero e quello di Kate. «Com'è il tempo a New York?» «Neve e ghiaccio.» «Me l'immaginavo.» E riattaccò. Kate sollevò lo sguardo dal monitor. «Non c'era bisogno che facessi il riservato con i nostri o con la polizia di Los Angeles.» «Non ho fatto il riservato.» «Altroché.» «Vedi, non è importante che sappiano "perché", ma è importante che sappiano "chi". Chip Wiggins è scomparso e bisogna trovarlo, questo è quanto gli basta sapere.» «Sarebbero più motivati se sapessero anche il perché.» Aveva ragione, ovviamente, ma io cercavo di ragionare da poliziotto e di agire da federale, e, come se non bastasse, quella faccenda della sicurezza nazionale mi stava innervosendo. Kate si era rimessa al computer. «Non riesco a trovare nulla negli elenchi telefonici di Burbank e Los Angeles.» «Di' al computer perché hai bisogno di sapere numero e indirizzo di Wiggins.» «Vaffanculo, John.» Ci sono mille modi per trovare un qualsiasi Mr Smith scomparso in America, terra degli archivi, delle carte di credito, delle patenti di guida e di altre diavolerie elettroniche dotate di una memoria indelebile. Certa gente l'ho rintracciata in meno di un'ora, anche se per qualcun altro ho impiegato un giorno o anche due. A volte, però, la persona scomparsa rimane tale anche se viveva felice in casa sua con moglie e pargoli. Tutto quello che avevo sul nostro uomo era un nomignolo, un cognome, l'ultimo indirizzo conosciuto e il fatto che a suo tempo fosse un ufficiale dell'Aeronautica. Chiamai l'Ufficio motorizzazione della California, e un impiegato insolitamente efficiente e disponibile mi diede nome e data di nascita di un certo Elwood Wiggins di Burbank, che aveva lo stesso ultimo indirizzo conosciuto di Chip. Voilà! Cominciai a farmi un'idea di questo Chip, doveva essere una specie di fricchettone al quale non passava nemmeno per la testa di comunicare al mondo le proprie coordinate; questo, d'altra parte, for-
se gli aveva salvato la vita. «D'ora in poi prova con il nome Elwood» dissi a Kate. «È quello scritto sulla patente, e la data di nascita corrisponde più o meno a quella di Chip.» «Okay.» Riprese a tormentare il computer per scorrere l'elenco abbonati. Chiamai l'ufficio del medico legale della contea di Los Angeles per vedere se per caso Mr Elwood "Chip" Wiggins mi aveva fatto il favore di morire di morte naturale. Scoprii che un certo numero di Wiggins erano passati a miglior vita nell'ultimo anno, ma nessuno di loro si chiamava Elwood. A quel punto, non sapendo più dove sbattere la testa, mi venne l'idea di richiamare Rose Hambrecht. Rispose lei, e mi presentai nuovamente. «Ho dato tutte le informazioni di cui disponevo a un certo generale Anderson della base Wright-Patterson» mi disse subito. «Lo so, signora, ma queste informazioni non mi sono state ancora comunicate. Io ne ho delle altre, riguardanti gli otto uomini che presero parte alla missione su al-Aziziya, e vorrei avere da lei qualche conferma.» «Ma non ve le scambiate, voi, le notizie?» No. «Sì, signora, ma ci vuole un po' di tempo e io sto cercando invece di accelerare...» «Che cosa vuol sapere?» «Mi sto dedicando a una persona, un certo Chip Wiggins.» «Ah, Chip. Bel soggetto, quello.» «Sa per caso se di nome fa Elwood?» «Non lo so, l'ho sempre conosciuto come Chip.» Le lessi l'indirizzo di Burbank che mi avevano dato alla Motorizzazione. «È lo stesso che ha lei?» le chiesi. «Mi faccia controllare sull'agenda.» Tornò all'apparecchio poco dopo. «Sì, è lo stesso.» «Saprebbe dirmi qual era la città di Wiggins, signora?» «No, non so molto di lui. Ricordo solo di averlo conosciuto a Lakenheath negli anni Ottanta e mi sembrò un ufficiale terribilmente irresponsabile.» «Il colonnello Hambrecht si teneva in contatto con lui?» «Sì, ma non di frequente. So che si sono sentiti l'anno scorso ad aprile, nell'anniversario di...» «Al-Aziziya?» «Sì.» Le feci altre domande, ma lei non sapeva nulla oppure, come accade a
molti, credeva di non sapere nulla. Bisognava farle la domanda giusta, ma io purtroppo non sapevo quale fosse. Kate, che stava ascoltando dal suo apparecchio, notò che stavo esaurendo la scorta di domande generiche. «Chiedile se le risulta che sia sposato» mi disse, coprendo il microfono con la mano. Ma che importanza ha? Comunque, glielo chiesi. «Sa se era sposato?» «Non credo, ma potrebbe benissimo esserlo stato. Le ho davvero detto tutto quello che so di lui.» «Okay... bene...» Kate tornò alla carica. «Cosa fa, o faceva, nella vita?» Girai la domanda a Mrs Hambrecht. «Non so... Un giorno, ricordo, mio marito mi disse che Chip aveva preso lezioni di volo ed era diventato pilota.» «Aveva preso lezioni di volo dopo aver partecipato a un bombardamento aereo? Non ci ha pensato un po' tardi? Voglio dire...» «Chip Wiggins non era un pilota» mi informò con sovrano distacco Mrs Hambrecht. «Era ufficiale d'arma e navigatore, sganciava le bombe.» «Ah, capisco... Quindi...» «Ha preso lezioni di volo dopo essersi congedato dall'Aeronautica ed è diventato pilota di cargo, mi sembra. Sì, ora ricordo, non trovò nessuna linea aerea disposta ad assumerlo e allora si mise a volare con i cargo.» «Sa per caso con quale compagnia? Federal Express, UPS?» «No, non lo so.» La ringraziai e riattaccai. Kate aveva già composto un altro numero di telefono. «Ho in linea la Federal Aviation Administration» mi informò. «Dovrebbero avere gli estremi del suo brevetto di pilota.» «Giusto, e spero che almeno quelli li abbia aggiornati.» «Sì, sono ancora in linea...» disse al telefono. Prese una penna, cosa che mi riempì il cuore di speranza, e si mise a scrivere su un blocco. «Questo quando? Ah, ho capito. È stato molto gentile, grazie.» Riattaccò. «Ventura, a nord di Burbank e non lontano da lì. Ha comunicato un cambio d'indirizzo quattro settimane fa, ma senza dare il nuovo numero di telefono.» Batté sulla tastiera del computer, poi alzò lo sguardo sul monitor. «Sull'elenco non c'è, dovrò chiedere ai colleghi della zona di trovarlo.» Guardai l'orologio, quelle ricerche erano durate circa un'ora e un quarto; se prima avessi avvertito Washington, a quest'ora sarei stato ancora al tele-
fono con loro. «Dov'è l'ufficio Fbi più vicino a Ventura?» chiesi a Kate. «Ce n'è uno piccolo proprio a Ventura.» Sollevò la cornetta. «Spero che non sia troppo tardi e che possano preparare una trappola per Khalil.» Mi alzai. «Ci vediamo tra un quarto d'ora.» «Dove vai?» «Da Stein.» «Tra voi sbirri ve l'intendete.» «Con Koenig in volo sull'Atlantico, è a lui che dobbiamo rivolgerci. A presto, ci vediamo.» L'ufficio del capitano Stein occupava l'angolo a sudovest del ventottesimo piano, ed ero sicuro che avesse dimensioni identiche a quello di Koenig. Passai senza tanti complimenti davanti a due segretarie e mi trovai di fronte a Stein, che era seduto alla sua enorme scrivania e stava parlando al telefono. Quando mi vide, riattaccò. «Spero che si tratti di una faccenda importante, Corey» disse subito «perché in caso contrario rischi il culo.» E mi fece segno di sedermi di fronte a lui. Ci guardammo, e questo bastò a entrambi per stabilire che si trattava di una faccenda importante. Lui aprì un cassetto, ne estrasse una bottiglia di acqua minerale piena di vodka e ne versò due dosi abbondanti in altrettanti bicchieri di plastica. Con una sorsata mandai giù metà della mia. «Allora, Corey, cos'abbiamo di bello?» «Abbiamo tutto, capitano, o quasi tutto. Purtroppo siamo in ritardo di circa settantadue ore.» «Sentiamo.» Gli raccontai in fretta tutti i fatti salienti, senza perder tempo con la grammatica, da sbirro a sbirro. Lui rimase ad ascoltarmi, senza prendere appunti. «Quattro morti, quindi?» mi chiese quando ebbi finito. «Cinque, contando il colonnello Hambrecht. Quattordici, contandoli tutti e tralasciando quelli del volo Trans-Continental 175.» «Quel gran figlio di puttana.» «Sì, signore.» «Ma lo troveremo, cazzo.» «Sì, signore.» Rimase un po' a pensarci su. «E non hai informato nessuno a Washington?» «No, signore, mi è sembrato più opportuno che una telefonata del genere la facesse lei.» Il capitano Stein si mise a fissare il soffitto per poi riportare lo sguardo
su di me. «Sai, Corey, gli israeliani hanno impiegato diciotto anni a regolare i conti con gli autori del massacro alle Olimpiadi di Monaco del 1972.» «Sì, signore.» «I tedeschi erano stati costretti a rilasciare i terroristi arrestati a Monaco in cambio della liberazione dei passeggeri di un volo Lufthansa dirottato. E i servizi segreti israeliani hanno dato sistematicamente la caccia ai sette terroristi di Settembre Nero che avevano massacrato i loro atleti, e li hanno eliminati uno a uno. L'ultimo lo hanno fatto fuori nel 1991.» «Sì, signore.» «È un gioco diverso, quello che giocano in Medio Oriente. Lì non c'è orologio sul campo, mai.» «Capisco.» Stein rimase in silenzio mezzo minuto o giù di lì. «Abbiamo fatto tutto ciò che potevamo?» chiese poi. «Noi credo di sì, per gli altri non metterei la mano sul fuoco.» Non commentò la mia risposta. «Hai fatto un buon lavoro. Ti piace, qui da noi?» «No.» «E che cosa vuoi?» «Tornare a fare il lavoro che facevo prima.» «Non puoi tornare a casa, ragazzo mio.» «Sì che posso.» «Vedremo. Nel frattempo avrai tanto da scrivere che il weekend ti volerà. Ci risentiamo.» Si alzò e lo imitai. «Di' a Ms Mayfield che mi congratulo con lei, ammesso che possano farle piacere le congratulazioni di uno sbirro.» «Le faranno sicuramente piacere.» «Okay, ora devo fare un mucchio di telefonate, quindi levati dai piedi.» Non mi levai dai piedi. «Mi faccia andare in California» gli chiesi. «Perché?» «Perché vorrei seguire di persona l'ultimo atto.» «A quest'ora, lì sarà pieno di polizia e Fbi, e non hanno bisogno di te.» «Sono io che ho bisogno di essere lì.» «E perché allora non te ne vai a Colorado Springs? Fammi pensare, l'ultima volta che ho guardato la carta degli Stati Uniti, Colorado Springs era sulla strada per la California.» «Sono stanco di inseguire questo stronzo, voglio precederlo.» «E se te ne vai in California e l'Fbi lo pizzica a Colorado Springs?»
«Me ne farò una ragione.» «Ne dubito. Comunque, va bene, vattene dove vuoi; anzi, è meglio se ti levi dai piedi. La trasferta l'autorizzo io, tu usa la tua carta di credito per guadagnare tempo e cerca di non farti ammazzare, perché hai ancora un sacco di rapporti da scrivere. Ora vattene, prima che cambi idea.» «Mi porto dietro la collega.» «Portati chi vuoi, in questo momento sei tu la superstar. A proposito, guardi X-Files alla Tv?» «Certo.» «Come mai lui non se la scopa?» «Non riesco a capirlo.» «Nemmeno io.» Allungò la mano e gliela strinsi. Mentre andavo alla porta, mi giunse di nuovo la sua voce. «Sono orgoglioso di te, John. Sei un buon poliziotto.» Si respirava aria pura nell'ufficio del capitano Stein a Federal Plaza 26. Scesi al ventiseiesimo piano, rischiando a ogni passo di essere bloccato da una telefonata o da uno dei capi dell'Fbi, andai direttamente alla scrivania di Kate e la presi per un braccio. «Andiamo.» «Dove?» «California.» «Davvero? Subito?» «Subito.» Si alzò. «Devo?...» «Solo la pistola e la stella.» «Distintivo, noi diciamo distintivo.» «E io ti dico di accelerare il passo.» Pochi minuti dopo eravamo su un taxi diretto al Kennedy e c'era molto traffico. «Notizie da Ventura?» le chiesi. «Il nostro ufficio di Ventura ha trovato il numero di telefono di Wiggins, ma lui non c'era e così gli hanno lasciato un messaggio sulla segreteria pregandolo di mettersi immediatamente in contatto con loro. Poi hanno mandato degli uomini a casa sua, vicino alla spiaggia mi hanno detto, e hanno chiesto rinforzi a Los Angeles perché lì sono quattro gatti.» «Richiama Ventura e senti se ci sono novità.» Lei compose il numero sul cellulare mentre il taxi imboccava il ponte di Brooklyn. Guardai l'orologio, erano le 15, ossia mezzogiorno in California. O era il contrario?
«Sono Mayfield» disse lei al telefono. «Novità?» Rimase ad ascoltare. «Okay, io sto venendo a Los Angeles» disse poi. «Vi richiamo tra poco per dirvi ora e numero del volo. Venite a prenderci con un'auto, dovremo raggiungere rapidamente l'eliporto della polizia e volare a Ventura. E lì, all'atterraggio, voglio trovare un'altra auto. Sì, autorizzo io. E non vi preoccupate, dovrete preoccuparvi se non farete come vi dico.» Chiuse la comunicazione e mi guardò. «Vedi? Anch'io riesco a fare la stronza arrogante come te.» Sorrisi. «Che c'è di nuovo a Ventura?» «I tre agenti dell'ufficio locale sono entrati in casa di Wiggins temendo che fosse morto, ma lui non c'era. Allora si sono installati a casa sua e stanno usando la sua agenda per telefonare ad amici e conoscenti, per farsi dire dove è possibile trovarlo. Se è morto, quindi, non è morto in casa.» «Potrebbe essere ai comandi di un aereo per un lungo volo. Potrebbe essere il suo giorno di riposo. Potrebbe essere sceso in spiaggia.» «Che tempo fa a Ventura?» «Sempre lo stesso, sole e 22 gradi. Ho lavorato per un paio d'anni nell'ufficio di Los Angeles, circa tre anni fa.» «E ti è piaciuto?» «Abbastanza, ma New York è più interessante.» Sorridemmo entrambi. «Mi piacerebbe sapere come ha fatto ad arrivare a Los Angeles, ammesso che ci sia arrivato» osservai. «Gli aeroporti sono pericolosi.» «Solo quelli grossi. Una volta un latitante al quale davo la caccia se n'è andato da Los Angeles a Miami facendo una serie di tappe con relativi scali in piccoli aeroporti, proprio per evitare i controlli. A Miami, però, l'abbiamo beccato. E comunque ci sono anche gli aerei privati, non dimenticarlo; ti portano dovunque sia possibile atterrare, non lasciano traccia del loro passaggio, e una volta a terra non esistono controlli di sicurezza.» «Forse dovremmo allertare gli aeroporti nei dintorni di Ventura.» «L'ho già suggerito ai colleghi e mi hanno spiegato che ci sono decine di piccoli aeroporti, senza contare quelli delle zone vicine, e un aereo privato può atterrare nella maggior parte di questi aeroporti ventiquattrore su ventiquattro. Servirebbe un esercito per tenerli tutti sotto controllo, per non parlare delle piste d'atterraggio abbandonate.» Kate chiamò con il cellulare l'impiegata di Federal Plaza addetta ai viaggi del personale e le chiese di dirle gli orari dei primi voli diretti a Los Angeles e Denver. Rimase ad ascoltare, poi guardò l'orologio. «Un momento,
per favore.» Poi, rivolta a me: «Dove ti piacerebbe andare?». «Dove va Khalil.» «E dove va Khalil?» «A Los Angeles.» Tornò a parlare con l'impiegata. «Allora, Doris, puoi fissarci due posti su quel volo dell'American? No, non ho il numero dell'autorizzazione.» Mi guardò, io tirai fuori la carta di credito e lei diede gli estremi a Doris. «Paghiamo noi, poi chiederemo il rimborso. Prenota in prima classe, per favore, poi comunica l'ora d'arrivo all'ufficio di Los Angeles. Grazie.» Mi restituì la carta di credito. «Grazie a te, John, ci fanno viaggiare in prima.» «Oggi, forse. Domani potrebbero non rimborsarmi nemmeno questo taxi.» «Il governo ti ama.» «Dove ho sbagliato?» Arrivammo al Kennedy. «Quale terminal?» chiese l'autista. Un altro tassista mi aveva fatto la stessa domanda, il sabato precedente, ma stavolta non sarei andato al Conquistador Club. «Nove» gli rispose Kate. Scendemmo davanti al terminal dell'American Airlines, pagai il taxi e andammo subito alla biglietteria, dove ci consegnarono due biglietti di prima classe in cambio di quel poco di credito di cui ancora disponevo. Poi mostrammo i documenti e riempimmo i moduli SS-113 dichiarando le nostre pistole automatiche Glock calibro 40. Mancava ancora un quarto d'ora al volo e proposi a Kate di farci un drink veloce. «Stanno imbarcando» mi informò lei, dopo aver lanciato uno sguardo al tabellone delle partenze. «Berremo a bordo.» «Ma siamo armati, non ci serviranno alcolici.» «Fidati di me, l'ho già fatto.» Ecco un altro aspetto di Ms Perfettina che non conoscevo. Al controllo mostrammo i documenti e il permesso di imbarco armato e salimmo a bordo. La hostess della prima classe, che doveva essere vicina agli ottanta o giù di lì, si infilò la dentiera e ci diede il benvenuto. «Questo treno è un accelerato o un rapido?» le chiesi. Lei mi lanciò un'occhiata perplessa e io mi pentii di essermi preso gioco della sua età. Comunque, rimasto a corto di battute aeronautiche, le porsi il permesso di imbarco armato e lei mi guardò con l'aria di chi si chiede quale pazzo scatenato avesse osato mettermi in mano una pistola. Kate cercò di rassicu-
rarla con lo sguardo, ma forse mi ero immaginato tutto. La hostess controllò il brogliaccio dei passeggeri per accertarsi della nostra identità, poi come da regolamento andò a informare il comandante che tra i passeggeri di prima classe c'erano due tutori dell'ordine armati, una bella signora e uno sciroccata. Dopo il decollo passò un'altra hostess con il carrello dei giornali e mi feci dare il "Newsday" di Long Island, sul quale lessi con la massima attenzione l'articolo sugli omicidi al Museo Culla dell'aviazione. Notai che, nonostante il risalto, il pezzo non era firmato, il che è quasi sempre indice del fatto che le autorità ci hanno messo lo zampino. In effetti, non si faceva alcun riferimento ad Asad Khalil e si indicava come movente la rapina, come se rapinare un museo di quel genere fosse un avvenimento di ordinaria amministrazione. Mi chiesi chi se la sarebbe bevuta e, soprattutto, se se la sarebbe bevuta Khalil. Ma forse valeva la pena tentare di fargli credere che brancolavamo ancora nel buio. A quel punto avevo bisogno di un drink, o magari di due, e chiesi a Kate di convincere la nonna volante a portarci qualcosa di forte. «Non può servirci alcolici, siamo armati.» «Ma scusa, non avevi detto?...» «Ti ho mentito. Sono un avvocato, non dimenticarlo. Ti ho detto "Fidati di me", il che significava che stavo mentendo. Sei proprio stupido, lo sai?» E rise. Ero senza parole. «Fatti una birra analcolica.» «Sto per avere una crisi.» Mi prese una mano e riuscii a calmarmi e a ordinare un Bloody Mary senza vodka, cioè un succo di pomodoro condito. La cena in prima classe non era male e, dopo, io e Kate guardammo il film tenendoci per mano come gli adolescenti al cinema; quando finì, reclinai lo schienale e mi addormentai. Come mi succede spesso, feci un sogno rivelatore di quel che non ero riuscito a scoprire da sveglio. Mi apparve cioè il quadro completo, il piano seguito da Khalil, la sua prossima mossa e come avremmo potuto catturarlo. Purtroppo, al risveglio, avevo dimenticato quasi tutto il sogno, compresa la brillante conclusione alla quale ero giunto. Era stato come fare uno splendido sogno erotico e svegliarsi accorgendosi di avere ancora l'erezione.
Ma sto divagando. Atterrammo a Los Angeles alle 19.30 ora locale e, bene o male, eravamo arrivati in California. Mi chiesi se quella fosse la mossa giusta. Non lo sapevo, però sapevo che non mi ci sarebbe voluto molto tempo per capirlo. Libro quinto CALIFORNIA, PRESENTE Vai, dunque, e uccidi l'uomo che ti nominerò. Quando tornerai, i miei angeli ti riporteranno in paradiso, e se dovessi morire ti ci porteranno ugualmente. IL VECCHIO DELLA MONTAGNA, profeta del XIII secolo e fondatore della setta degli Assassini 47 Sbarcammo per primi e trovammo ad attenderci un agente dell'ufficio Fbi di Los Angeles, che ci accompagnò all'eliporto della polizia. Lì salimmo su un elicottero federale che ci portò a Ventura, dovunque si trovi. Visto dall'alto, il panorama era simile a quello di Queens, fatta eccezione per le palme e le montagne. Volammo per alcuni chilometri su un qualche oceano, immagino, e poi lungo una costa rocciosa alla nostra destra. Il sole calava sul mare, invece di levarsi da lì come succede dalle mie parti. Ditemi voi se non era un posto strano, quello. Venticinque minuti dopo atterrammo all'eliporto dell'ospedale civico, nella zona est di Ventura, dove ci aspettava una berlina Crown Victoria blu con al volante un tipo di nome Chuck. Questo Chuck, in pantaloni marroni, giacca sportiva e scarpe da ginnastica, sosteneva di essere un agente federale ma assomigliava di più a un parcheggiatore. La versione californiana dell'Fbi, insomma. Anche se vestono in maniera diversa, ragionano tutti allo stesso modo, perché hanno frequentato tutti la stessa scuola, didattica progressista, materie fondamentali comportamento e buone maniere. Mentre ci portava alla succursale Fbi di Ventura, Chuck ci fece un mucchio di domande. In effetti, da quelle parti non dovevano occuparsi di molti omicidi di massa compiuti da terroristi internazionali, anzi Kate mi aveva detto in aereo che la sede di Ventura era stata chiusa e per qualche motivo l'avevano riaperta da poco.
L'ufficio si trovava nell'appartamento di un edificio moderno circondato da palme e parcheggi. Quando scendemmo dall'auto, mi guardai attorno, sentii profumo di fiori, temperatura e umidità erano perfette. Il sole era calato quasi completamente, ma c'era ancora un po' di luce. «Che fa qui l'Fbi? Coltiva avocado?» chiesi a Kate. «Cambia atteggiamento.» «Certo.» Mi immaginai gli agenti del posto con vestiti Brooks Brothers e sandali senza calze. Venne ad aprirci una bella agente, di nome Cindy Lopez. «Nessuna novità» ci informò subito. «In casa di Wiggins ci sono tre dei nostri insieme ad altri tre venuti da Los Angeles. Una ventina di agenti girano nei dintorni, tenendosi in contatto via radio e cellulare con la polizia che è stata allertata. Ma non siamo ancora riusciti a rintracciare Elwood Wiggins. Dalle carte trovate in casa sua abbiamo accertato che lavora per la Pacific Cargo Service, ci siamo andati subito per scoprire che deve riprendere servizio venerdì e che a volte il venerdì si dà malato. Abbiamo lasciato due agenti nell'ufficio della Pacific Cargo all'aeroporto di Ventura, nel caso Wiggins si presentasse in tempo, altri ne abbiamo sparpagliati nei posti che frequenta abitualmente. Ma, a quanto ci risulta, si tratta di uno spirito libero al quale piace spostarsi in continuazione.» «Mi piace questo tipo.» L'agente Lopez abbozzò un sorriso. «È scomparsa anche la sua fidanzata. Abbiamo saputo che a entrambi piace fare campeggio, quindi potrebbero essere in qualche camping.» «Che significa camping?» chiesi. Ms Lopez guardò Ms Mayfield, la quale a sua volta guardò me. «Ah, ora ricordo, gli alberi, le tende...» «Proprio così.» «Avete il numero di cellulare di Wiggins o della sua ragazza?» «Li abbiamo entrambi, ma non risponde nessuno.» Ci pensai su e alla fine decisi che il campeggio era meglio della morte, anche se di poco. La Lopez porse a Kate un foglietto. «Ha chiamato Jack Koenig da New York, chiedendo di essere richiamato. Lo troverai in ufficio fino a mezzanotte, ora di New York, e poi a casa.» «Lo chiameremo da casa di Wiggins» dissi a Kate «quando avremo qualcosa da raccontargli.» «Lo chiameremo ora.»
«Sai che soddisfazione telefonare a Jack da qui mentre Khalil si presenta a casa Wiggins.» Suo malgrado dovette darmi ragione. «Vorremmo andare a casa di Wiggins» disse alla Lopez. «In questo caso vi consiglierei di indossare il giubbotto antiproiettile, qui ne abbiamo diversi.» Ebbi la tentazione di spogliarmi per far vedere a Ms Lopez che i proiettili mi attraversavano senza alcuna conseguenza. «Grazie, ma...» Intervenne Kate. «Sì, grazie, lo metteremo. Mai chiedere a un uomo se vuole un giubbotto antiproiettile o un paio di guanti a manopola, bisogna infilarglieli e basta.» Poco dopo, con indosso i giubbotti, ringraziammo la Lopez e uscimmo insieme a Chuck, che ci portò a casa di Elwood "Chip" Wiggins. Prima di arrivare in zona, però, annunciò per radio la nostra imminente presenza agli agenti appostati attorno alla casa, per evitare che si innervosissero e contraessero involontariamente il dito sul grilletto. Poi, sempre per lo stesso motivo, telefonò ai colleghi appostati in casa. «Digli di mettere il caffè sul fuoco» lo pregai. Chuck non passò il messaggio e, dal suo tono di voce, capii che gli agenti nascosti in casa non erano elettrizzati all'idea di ricevere compagnia inattesa. Andassero a farsi fottere, il caso era ancora mio. «Appena arriviamo davanti alla casa, voi scendete e io riparto subito. La porta d'ingresso non è chiusa a chiave» ci informò Chuck. Salendo in macchina, avevo notato che la lucina interna era stata staccata, come facciamo noi della costa orientale, il che mi sembrò rassicurante. Vuoi vedere che questa gente sa fare il proprio mestiere? L'auto si fermò, io e Kate scendemmo e percorremmo senza fretta il vialetto fino alla porta di casa. L'aprii ed entrammo, trovandoci direttamente in un locale a forma di L che fungeva al tempo stesso da soggiorno e sala da pranzo, illuminato da una debole lampada da tavolo. In mezzo alla stanza ci attendevano in piedi un uomo e una donna, entrambi in pantaloni, camicia blu e giacca a vento di nylon, con la scritta Fbi e il distintivo appuntato sul petto. Avevano un sorrisone stampato in faccia e allungavano il braccio per stringerci la mano. Ma non riuscirono a darmela a bere. L'uomo fece le presentazioni. «Io sono Roger Fleming e lei è Kim Rhee.» Kim Rhee era orientale, anzi di etnia asiatica, come si dice oggi, e dal cognome immaginai fosse coreana. Roger aveva la carnagione color pane
bianco e maionese. «Immagino conosciate i nostri nomi» dissi. «Io sono Kate.» Né l'agente Fleming né l'agente Rhee sorrisero, certa gente diventa terribilmente seria quando si aspetta di trovarsi da un momento all'altro nel bel mezzo di una sparatoria. Gli sbirri di solito la buttano sul ridere, forse per mascherare il nervosismo, invece i federali prendono tutto con la massima serietà. Anche una giornata al mare, ne sono sicuro. «Quanto vi fermerete?» chiese l'agente Rhee. «Tutto il tempo necessario» risposi. Kate ritenne opportuno intervenire. «Non vogliamo partecipare alla cattura, se il sospetto dovesse presentarsi qui, sempre che non abbiate bisogno di noi. Vogliamo solo collaborare alla sua identificazione e farci rilasciare una dichiarazione dopo che sarà stato assicurato alla giustizia. Poi lo scorteremo a Washington o a New York, dove dovrà rispondere a molte accuse.» Non era esattamente quello che avevo in mente io, ma almeno in quel modo i due federali avevano capito che uno di noi era sano di mente. «Se dovesse presentarsi per primo Mr Wiggins» continuò Kate «lo interrogheremo e gli chiederemo di lasciarci la disponibilità della casa e di trasferirsi sotto scorta in una località sicura. In ogni caso, intendiamo rimanere ad attendere il sospetto, che secondo noi è diretto qui.» La Rhee non si fece prendere alla sprovvista. «Per motivi logistici e di sicurezza» spiegò «abbiamo stabilito che sei è il numero ideale di agenti qui dentro. Quindi, se dovesse presentarsi il sospetto, vi chiederemo di prendere posizione in una stanza sul retro che ora vi mostreremo.» Decisi che era venuto il momento di mettere da parte la diplomazia. «Sentite, Mr Flemig e Ms Rhee, potremmo dover restare qui a lungo, dividendo il bagno e la stanza da letto. Quindi, perché non diamo un taglio a queste stronzate e cerchiamo di andare d'accordo?» Nessuna risposta. Anche Kate cambiò tono, devo dargliene atto. «Lavoriamo a questo caso da quando Asad Khalil è arrivato a New York. Abbiamo visto oltre trecento cadaveri sull'aereo con cui è arrivato, un nostro collega è rimasto ucciso insieme alla segretaria e alla funzionaria di servizio.» E via così. Dal mio punto di vista era stata fin troppo soft, ma quelli ricevettero il messaggio e addirittura annuirono quando Kate terminò. La Rhee si offrì di presentarci agli altri colleghi e la seguimmo in cucina, mentre Fleming prendeva posizione alla finestra accanto alla porta
d'ingresso, spiando tra i listelli della veneziana. Non era un sistema tecnologicamente sofisticato di osservazione, ma d'altronde quelli appostati fuori ci avrebbero avvertiti se fosse spuntato qualcuno. La cucina, in stile anni Cinquanta, era debolmente illuminata da un sottile tubo al neon e vi trovammo un'altra coppia con la stessa tenuta da commando urbano di Rhee e Fleming, corredata di due berretti blu da baseball poggiati sul ripiano. L'uomo era seduto al tavolino e leggeva un pacco di rapporti alla luce di una torcia elettrica, la donna aveva preso posizione accanto all'ingresso del retro e controllava la situazione da dietro la finestrella ricavata nella parte superiore della porta. La Rhee ci presentò l'uomo, che si chiamava Juan e aveva un cognome spagnolo lunghissimo e irripetibile. La signora era nera, si chiamava Edie e ci fece un cenno di saluto con la mano senza interrompere quello che stava facendo. Riattraversammo la stanza a forma di L e da lì passammo in un'anticamera sulla quale si affacciavano tre porte. La più piccola era quella del bagno, mentre nella stanza da letto trovammo un uomo in giacca e cravatta che giocava con il personal computer di Wiggins, accanto al quale aveva poggiato una radio e due cellulari. Kim Rhee fece ancora una volta le presentazioni. L'uomo si chiamava Tom Stockwell ed era un viso pallido. «Vengo dall'ufficio di Los Angeles e sono il responsabile e il coordinatore degli agenti sul posto» disse. Il che, in pratica, mi tagliava fuori. Decisi comunque di essere gentile: «Ms Mayfield e io siamo qui per dare una mano e non vogliamo essere invadenti» lo informai. «Quanto rimarrete?» «Tutto il tempo che sarà necessario.» Ancora una volta intervenne Kate. «Il sospetto, come forse saprete, potrebbe indossare un giubbotto antiproiettile ed è in possesso di almeno due pistole Glock calibro 40 che ha sottratto, insieme al giubbotto, ai due agenti che lo scortavano sull'aereo.» Fece una sintesi degli avvenimenti a Stockwell, che l'ascoltò attentamente. «Quest'uomo è molto pericoloso» concluse «e sarà difficile riuscire a evitare una sparatoria. Ma, naturalmente, lo vogliamo vivo.» «I colleghi appostati fuori hanno l'ordine di non cercare di catturarlo in strada» ci spiegò la Rhee «a meno che lui non avverta il pericolo e tenti di fuggire. La cattura avverrà con molta probabilità davanti a questa casa o dentro, e con altrettanta probabilità il sospetto dovrebbe arrivare da solo e
armato unicamente delle due pistole. Quindi potrebbe esserci uno scontro a fuoco molto circoscritto, o addirittura nessuno scontro a fuoco, se ce la giocheremo bene.» Guardò Kate, poi me. «Quando le pattuglie ci segnaleranno l'avvicinarsi del sospetto, l'isolato verrà chiuso al traffico.» Personalmente ero convinto che, se avessero tenuto Tv e stereo ad alto volume, i vicini non si sarebbero nemmeno accorti di una sparatoria nel loro giardino. «Sono d'accordo, per quel che può valere» dissi. Nella mia mente, però, si affacciò l'immagine di un ragazzino in bicicletta che passava nel momento più sbagliato. Succede, eccome se succede. «Immagino che quelli fuori abbiano occhiali per vedere al buio» disse Kate. «Naturalmente.» «Dov'è il vostro sesto uomo?» chiesi a un certo punto, stanco di sentirmi spiegare che tutto era sotto controllo. «Nel box, che è incasinatissimo e dove Wìggins di sicuro non può mettere l'auto. Ma la saracinesca si apre automaticamente, e lui potrebbe quindi entrare a piedi e da lì passare in cucina; anzi, farà senz'altro così, visto che lascerà l'auto proprio davanti alla porta del box.» Sbadigliai, probabilmente a causa del fuso orario, ma anche perché negli ultimi giorni non avevo dormito molto. Che ora era a New York? Più avanti o più indietro di qui? «Immagino sappiate delle visite che Khalil ha già fatto agli ex compagni di squadriglia di Wiggins, adesso tutti defunti» dissi. «E questo per me significa che Khalil è più informato di noi sul conto di Chip Wiggins. C'è anche la possibilità, tutt'altro che remota, che Khalil e Wiggins si siano già incontrati.» Tom tornò a sedersi davanti al computer di Wiggins. «Sto cercando di capire dove possa trovarsi il padrone di casa, ho controllato la sua casella di posta elettronica nel caso si fosse messo in contatto con un parco nazionale, o statale, per prenotare. Riteniamo che stia campeggiando da qualche parte... Campeggiare» aggiunse, rivolto sicuramente a me, «significa vivere tra gli alberi sotto una tenda, o in una roulotte.» Dedussi che Ms Lopez e Tom si erano parlati. «Avete controllato la biancheria di Wiggins?» chiesi a Tom. Lui sollevò lo sguardo dal monitor. «Come?» «Se porta boxer taglia media, vorrei prendergliene un paio in prestito.» Tom rimase a pensarci su. «Ci siamo portati tutti il ricambio di biancheria, Mr Corey. Forse qualcuno di noi, un uomo intendo dire, può darle un
paio di boxer. Ma lei non può usare quelli di Mr Wiggins.» «Li chiederò direttamente a lui, se si presenterà.» «Buona idea.» Avevo notato l'assenza di souvenir militari, il che a parer mio significava che Elwood Wiggins non amava ricordare quel periodo della sua vita. O forse si era perso tutto in un trasloco movimentato, ipotesi che avrebbe confermato l'idea che ci eravamo fatti di lui. Oppure avevamo sbagliato casa, non sarebbe stata la prima volta che i federali sbagliavano indirizzo. Pensai di far presente quest'ultima possibilità a Kim Rhee, ma per loro è un argomento troppo delicato. Tornammo in cucina e la Rhee aprì una porta, dalla quale si passava in un box pieno degli oggetti più disparati. Dietro una pila di scatoloni, seduto in una poltroncina da giardino, vedemmo un giovanotto biondo e abbronzato che leggeva il giornale. Si alzò, ma la Rhee gli fece segno di tornare al suo posto, per non farsi vedere nel caso in cui la porta automatica si fosse aperta all'improvviso. «Questo è Scott, si è offerto volontario per controllare il box» ci disse, e riuscì addirittura a sorridere. Scott, che sembrava appena sceso dalla sua tavola da surf, ci gratificò di un sorriso a trentadue denti e di un cenno di saluto. Avrei voluto dirgli "Ehilà, amico, cioè... come ti va?...", però lasciai perdere. Scott aveva la mia taglia, ma non sembrava il tipo da portare boxer. La Rhee richiuse la porta e rimanemmo in cucina con Edie e Juan. «Abbiamo provviste in scatola e surgelate in modo da non dover uscire e rientrare se questa faccenda andasse per le lunghe» ci informò. «C'è da mangiare per sei persone e per sei giorni» aggiunse. Mi immaginai uno scenario in cui gli agenti dell'Fbi si tramutavano in cannibali a causa della mancanza di cibo, ma non lo raccontai a nessuno; camminavo su uno strato di ghiaccio molto sottile, o sul suo equivalente californiano. «Visto che abbiamo altre due bocche da sfamare, ordiniamo della pizza. Ho bisogno della mia pizza» disse Juan. Decisi che quel Juan era okay, ma purtroppo era più grosso di me e nemmeno lui sembrava tipo da boxer. Kate mi annunciò che stava per telefonare a Jack Koenig e mi invitò a seguirla in un'altra stanza, ma non accettai e rimasi in cucina a chiacchierare con Edie e Juan. Tornò dopo una quindicina di minuti. «Jack ti saluta e si congratula per l'ottimo lavoro investigativo» mi annunciò. «E ci augura buona fortuna.»
«Gentile, da parte sua. Gli hai chiesto com'era Francoforte?» «Non abbiamo discusso di Francoforte.» «Dov'è Ted Nash?» «E chi se ne frega?» «A me frega.» Kate guardò i colleghi. «Non farti ossessionare da cose senza importanza» disse a bassa voce. «Voglio solo dargli un pugno in faccia, niente di speciale.» Ms Mayfield ignorò la mia dichiarazione d'intenti. «Naturalmente Jack vuole che lo chiamiamo se ci sono sviluppi. E siamo autorizzati a scortare Khalil vivo o morto a New York, piuttosto che a Washington.» «Secondo me, Jack sta vendendo la pelle dell'orso prima di averlo preso.» Edie ci offrì del caffè, e io, Kate e Kim sedemmo con lei al tavolo della cucina, mentre Juan teneva d'occhio la porta sul retro. Erano tutti interessatissimi a quello che era successo da sabato scorso e ci chiesero i particolari che non erano finiti sui giornali o nei rapporti. Passò un'ora e i cinque agenti si scambiarono a turno i posti d'osservazione. Io e Kate ci offrimmo di dare il cambio a qualcuno, ma preferirono tenerci in cucina. Era arrivato anche Scott e voleva da me notizie su New York. Cercai di convincerlo che la gente faceva del surf sull'East River, e tutti risero, poi mi venne la tentazione di raccontare la barzelletta sul ministro della Giustizia, ma c'era il rischio che la prendessero male. Erano quasi le 21 quando si udì squillare un telefono e la conversazione s'interruppe di colpo. Pochi secondi dopo, Tom entrò in cucina. «C'è un furgone blu che gira qui intorno, con a bordo apparentemente solo l'autista. I colleghi con gli occhiali a infrarossi dicono che corrisponde alla descrizione del sospetto. Ognuno vada al proprio posto.» Tutti erano già in piedi e in movimento. «Andate nella stanza della Tv» disse Tom a me e a Kate, e uscì velocemente dalla cucina, mentre Kim Rhee raggiungeva il box, dove in quel momento era di turno Roger Fleming. Lasciò la porta aperta e vidi Roger acquattato dietro gli scatoloni con la pistola spianata. Kim estrasse a sua volta la pistola e andò a piazzarsi vicino alla porta del box. Juan, anche lui con la pistola in pugno, era in cucina accanto alla porta sul retro. Kate e io andammo in soggiorno. Tom e Edie, anche loro armati, si erano appostati ai due lati della porta d'ingresso con al centro Scott, che tene-
va l'occhio incollato sullo spioncino. Non potei fare a meno di notare che Scott si era spogliato tenendosi addosso solo un paio di mutandine da bagno informi, e sotto l'elastico aveva infilato la sua Glock. Doveva essere la versione californiana dell'agente infiltrato, ma bisognava riconoscere che il ragazzo aveva del fegato per fare a meno del giubbotto antiproiettile. Tom ci vide e ancora una volta ci consigliò di andare nella stanza della Tv, ma doveva aver capito che non avevamo percorso quasi 5000 chilometri per guardare la tele mentre l'operazione entrava nel vivo. «Mettetevi al riparo, almeno» disse. Kate andò a piazzarsi accanto a Tom, sul lato sinistro della porta, e tirò fuori la pistola. Io mi misi accanto a Edie, che occupava una specie di stretta nicchia tra la porta e la parete di destra; la porta si sarebbe aperta verso l'interno, coprendoci. C'erano in giro abbastanza pistole, quindi preferii non estrarre la mia Glock. Guardai Kate, che mi ricambiò lo sguardo, sorrise e mi strizzò l'occhio. Mi batteva il cuore, ma non per Kate Mayfield, temo. Tom aveva il cellulare attaccato all'orecchio e ascoltava. «Il furgone sta rallentando...» ci informò. «Lo vedo» confermò Scott, con l'occhio sempre incollato allo spioncino. «Si sta fermando qui davanti.» Non si sentiva volare una mosca. Nonostante la copertura dei colleghi, l'equipaggiamento elettronico e i giubbotti antiproiettile, quando stai per affrontare un assassino armato è sempre un momento terribile. Scott era in apparenza freddissimo. «Sta scendendo un tipo. .. ma è dalla parte della strada, non lo vedo... ora va dietro il furgone, apre il portellone... ha un pacco in mano... viene da questa parte... Corrisponde alla descrizione, è alto, sembrerebbe mediorientale... indossa jeans e una camicia con il colletto scuro... ora sta guardando a destra e a sinistra...» Tom disse qualcosa al cellulare, poi se lo infilò in tasca. «Sapete tutti quello che dovete fare» disse sottovoce. Io, veramente, mi ero perduto le prove. «Ricordatevi che potrebbe essere un innocente fattorino» continuò Tom «quindi non siate troppo maneschi, ma sbattetelo subito sul pavimento e mettetegli le manette.» Udimmo suonare il campanello della porta d'ingresso. Scott attese circa cinque secondi, poi girò la maniglia e aprì la porta. Lo vidi sorridere prima che la porta mi bloccasse la visuale. «Qualcosa per me?» chiese. «Mr Wiggins?» disse una voce dall'accento marcato.
«No, gli tengo d'occhio la casa durante la sua assenza. Devo firmare per lui?» «Quando tornerà Mr Wiggins?» «Giovedì, forse venerdì. Posso firmare, allora?» «Okay, firmi qui.» Sentii Scott dire: «Questa penna non scrive, venga dentro». Si allontanò dalla porta e mi venne da pensare che, se Scott fosse stato davvero un amico di Wiggins che gli teneva d'occhio la casa, quanto prima sarebbe stato cadavere dentro uno stanzino mentre Asad Khalil attendeva il ritorno di Wiggins. Lo sconosciuto alto e scuro di pelle fece qualche passo e Edie richiuse la porta con un calcio. E, pur non avendo preso parte alle prove, sapevo già che cosa stava per succedere; in un lampo Scott afferrò il fattorino per la camicia e lo lanciò tra la folla in attesa. Nel giro di quattro secondi, il nostro visitatore si trovò con la guancia schiacciata contro il pavimento mentre io gli bloccavo le gambe, Edie gli teneva un piede sulla nuca, e Tom e Scott l'ammanettavano. Kate aprì la porta e sollevò il pollice per segnalare a quelli che osservavano con il binocolo che era tutto a posto, poi corse verso il furgone e io la seguii. Controllammo subito l'interno, ma non c'era nessuno. Vedemmo dei pacchi sparsi sul pavimento del cassone, poi Kate trovò sul sedile anteriore un cellulare e se lo infilò in tasca. Dal nulla cominciarono a materializzarsi delle auto, che si fermavano con uno stridio di freni davanti alla casa mentre gli agenti saltavano a terra come nei film, anche se non capivo che bisogno c'era di frenare in quel modo. «È ammanettato» disse loro Kate. Gli agenti, seguendo le istruzioni, rientrarono nelle loro auto, che presero ad allontanarsi verso i punti d'osservazione che avevano appena lasciato, anche per non mettere in allarme un eventuale complice che fosse comparso all'improvviso. Oltre che per non spaventare Mr Wiggins, se avesse avuto l'idea di tornare a casa in quel momento, o i suoi vicini, che alla fine si sarebbero potuti accorgere di qualcosa. Kate e io rientrammo di corsa in casa. Il prigioniero era stato girato sulla schiena, Edie e Scott lo stavano perquisendo accuratamente, mentre Tom gli stava sopra. Lo guardai e non fui troppo sorpreso di scoprire che non era Asad Khalil.
48 Kate e io ci guardammo, poi guardammo gli altri. Nessuno sembrava particolarmente felice. L'uomo si era messo a piangere e aveva il volto rigato di lacrime. Se qualcuno si illudeva ancora che potesse essere Khalil, quei singhiozzi gli avrebbero tolto ogni dubbio. Roger e Kim ci avevano raggiunto in soggiorno, e Kim si attaccò alla radio per dire ai colleghi appostati fuori di rimanere all'erta perché il prigioniero non era Khalil. Scott stava frugando nel portafogli del presunto fattorino. «Come ti chiami?» Quello cercò di controllarsi per rispondere, ma riuscì solo a emettere dal naso un filo di muco. «Dimmi il tuo nome» ripeté Scott, che aveva in mano la patente dell'uomo con relativa foto. «Azim Rahman.» «Dove abiti?» Diede un indirizzo di Los Angeles. «Quando sei nato?» E così via. Le risposte corrispondevano ai dati della patente, e quello si convinse che l'avremmo lasciato andare. Sbagliato. Tom cominciò infatti a fargli domande che con la patente non c'entravano affatto. «Che fai qui?» «La prego, signore, sono venuto a consegnare un pacco.» Roger stava esaminando il pacchetto, ovviamente senza aprirlo, visto che avrebbe potuto contenere un piccolo ordigno. «Che c'è qui dentro?» gli chiese. «Non lo so, signore.» «Non c'è l'indirizzo del mittente» ci informò Roger. «Meglio portare fuori questo pacchetto e chiamare gli artificieri» aggiunse, rendendoci tutti più felici. Entrò in soggiorno anche Juan, e a quel punto Azim Rahman si stava probabilmente chiedendo che ci facevano in casa di Wiggins tutti quei tipi con la giacca a vento dell'Fbi. Ma forse lo sapeva. Guardai Tom e vidi che era preoccupato. Maltrattare un cittadino, nativo o naturalizzato, non faceva bene alla carriera, né tantomeno all'immagine
dei federali. E di questi tempi potevano metterti nei guai anche le maniere brusche ai danni di un clandestino. Cioè, siamo tutti cittadini del mondo. O no? «Sei cittadino americano?» chiese Tom a Rahman. «Sì, signore. Ho giurato.» «Meglio per te.» Edie nel frattempo aveva telefonato al numero di casa che ci aveva dato Rahman, trovando una segreteria che rispondeva "Casa Rahman" con una voce simile a quella dell'uomo sul pavimento, che in quel momento era alterata dall'emozione. Diverso invece il discorso riguardo al numero di telefono che si leggeva sulla fiancata del furgone, perché era risultato inesistente. Feci notare che il furgone sembrava verniciato di fresco, e tutti riportarono la loro attenzione su Azim Rahman. Lui capì di essere nuovamente sotto i riflettori. «Ho cominciato da poco questo lavoro, quattro settimane...» biascicò. «E hai dipinto sul furgone un numero qualsiasi sperando che la società dei telefoni ti assegnasse proprio quello?» gli chiese Edie. «Ti sembriamo stupidi?» Rahman sembrava aver ritrovato il controllo dei nervi. «Per favore, voglio parlare con il mio avvocato.» Erano arrivate, finalmente, le parole magiche. Nel nostro ambiente è noto che, se un sospetto non parla nei primi cinque o dieci minuti, quando per così dire è sotto shock, potrebbe non parlare più. E i colleghi non erano riusciti a tirargli fuori niente. «Sono tutti avvocati, qui, tranne me» gli dissi. «Puoi parlare con loro.» «Voglio chiamare il mio avvocato.» Ignorai la richiesta. «Di dove sei?» «West Hollywood.» Gli sorrisi. «Non fare lo stronzo con me, Azim. Di dove sei?» Si schiarì la voce. «Libia.» Nessuno di noi parlò, ma ci guardammo, e Azim si accorse del nostro rinnovato interesse nei suoi confronti. «Dove l'hai preso il pacco che stavi consegnando?» gli chiesi. Lui esercitò il diritto di non rispondere. In quel momento rientrò Juan, che era andato a perquisire il furgone. «Quei pacchi sembrano una messinscena» disse. «Sono tutti avvolti nella stessa carta marrone e chiusi con lo stesso scotch, persino la grafia sugli indirizzi è la stessa.» Guardò Azim. «A che cazzo di gioco stai giocando?»
«Signore?» Cominciammo un po' tutti a minacciarlo di mandarlo all'ergastolo o di deportarlo, Juan si offrì di dargli un calcio nelle palle, ottenendo però un cortese rifiuto. A quel punto le risposte evasive e contraddittorie di Azim erano sufficienti per arrestarlo, e capii che Tom era orientato in quel senso. Arrestarlo significava leggergli i suoi diritti, chiamargli un avvocato e così via, ed era arrivato il momento di farlo. Avremmo anzi dovuto farlo prima. Ma John Corey, non essendo vincolato alle direttive federali e non dovendo far carriera, poteva prendersi qualche libertà. Se quel tipo, in sostanza, era collegato in qualche modo a Khalil, sarebbe stato opportuno saperlo. Subito. Così, avendo ormai sentito troppe stronzate, decisi di passare ai fatti e, come prima cosa, gli feci cambiare posizione da seduto a supino. Poi, per essere sicuro di avere la sua attenzione, mi misi a cavalcioni su di lui. «Guardami» gli dissi. «Guardami.» Voltò il viso e i nostri sguardi si incontrarono. «Chi ti ha mandato qui?» Non rispose. «Se ci dici chi ti ha mandato qui e dove si trova adesso questa persona, potrai andartene libero. Se non ce lo dici, e al più presto, ti cospargo di benzina e ti do fuoco.» Non si trattava, ovviamente, di una minaccia fisica, ma solo di un'espressione idiomatica, da non prendere quindi alla lettera. «Chi ti ha mandato qui?» Rahman rimase zitto. Riformulai la domanda sotto forma di consiglio. «Credo che dovresti dirmi chi ti ha mandato e dove si trova adesso.» Dimenticavo di dire che nel frattempo avevo tirato fuori la mia Glock e, per qualche motivo, Rahman si era infilato la canna in bocca. Era letteralmente terrorizzato. E, altrettanto letteralmente, i federali presenti, compresa Kate, stavano guardando da un'altra parte, dopo aver fatto un passo indietro. «Se non rispondi alle mie domande, ti faccio saltare quel cazzo di cervello» informai Rahman. Lui spalancò gli occhi e cominciò a realizzare che doveva esserci qualche differenza tra me e gli altri. Però non sapeva esattamente quale fosse la differenza, e per aiutarlo a capire gli tirai una ginocchiata nelle palle. Emise un gemito.
Quando si sceglie una certa linea, è meglio essere sicuri che la persona di cui stiamo violando i diritti sappia le risposte alle domande che gli facciamo, e soprattutto che ce le dia. In caso contrario, agente a contratto o no, rischiavo di rimetterci il culo. Così, per incoraggiarlo a dividere con me le sue conoscenze, gli mollai un'altra ginocchiata. Alcuni colleghi uscirono. Edie, Tom e Kate rimasero per prendere atto e sottoscrivere che Rahman era un testimone volontario, la cui collaborazione non era stata in alcun modo estorta con la violenza. «Guarda, stronzo, che puoi marcire in carcere per il resto della tua schifosa vita o finire addirittura nella camera a gas per complicità in omicidio. Lo capisci, questo?» Aveva smesso di succhiare la mia automatica, ma continuava a rifiutarsi di rispondere. Odio lasciare segni, quindi infilai in bocca a Rahman il mio fazzoletto e con le dita gli strinsi le narici. Non sembrava in grado di respirare con le orecchie e quindi, a un certo punto, cominciò ad agitarsi, cercando di scrollarsi di dosso i miei 90 chili. Udii Tom schiarirsi la voce. Quando il viso di Rahman cominciò a farsi bluastro, gli lasciai il naso, e lui riprese fiato giusto in tempo per beccarsi un'altra ginocchiata. Avrei voluto avere vicino Gabe per consigliarmi con lui, ma non c'era e non avevo altro tempo da perdere con il nostro amico. Così gli chiusi di nuovo le narici. Senza entrare in ulteriori dettagli, posso dirvi che Rahman cominciò a intravedere i vantaggi della collaborazione e indicò la sua disponibilità a parlare. Gli tolsi il fazzoletto dalla bocca e lo rimisi a sedere. «Chi ti ha mandato qui?» Singhiozzò e capii che era ancora terribilmente indeciso. «Possiamo aiutarti, possiamo salvarti la vita» gli ricordai. «Parla o ti infilo nel furgone, così potrai andare dal tuo amico a spiegargli come stanno le cose. È questo che vuoi? Andare da lui?» Non sembrava voler andare dall'amico, quindi gli rifeci la domanda. «Chi ti ha mandato? Guarda che mi sono stancato di farti questa cazzo di domanda. Rispondimi!» Singhiozzò ancora, trattenne il fiato, si schiarì la gola e poi parlò a voce bassissima. «Non so il suo nome... lui... lo conosco solo come Mr Perleman, ma...» «Perleman? Ebreo?»
«Sì, ma non è ebreo... parla la mia lingua...» Kate aveva già preso la foto di Khalil e gliela sbatté sotto il naso. Quello la guardò a lungo, poi annuì. Voilà! Non sarei finito in carcere. «Ha lo stesso aspetto, ora?» gli chiesi. Scosse il capo. «No... ha gli occhiali... anche i baffi... e i capelli sono grigi...» «Dov'è?» «Non lo so, non lo so.» «Okay, Azim, quando e dove l'hai visto l'ultima volta?» «Ci siamo... ci siamo visti all'aeroporto.» «Quale aeroporto?» «Quello di Santa Monica.» «Lui era arrivato in aereo?» «Non lo so.» «A che ora vi siete visti?» «Presto... le 6 di mattina.» A quel punto, visto che avevo finito con il trattamento speciale e che il testimone collaborava, tutti i sei federali erano rientrati nella stanza piazzandosi alle spalle di Rahman per non innervosirlo ulteriormente. E le domande avrei continuato a farle io, dal momento che ero riuscito ad assicurarmi la collaborazione e la fiducia del teste. «Dove hai portato quell'uomo?» gli chiesi. «L'ho portato... voleva andarsene in giro... e ce ne siamo andati in giro...» «Dove?» «Abbiamo risalito la costiera.» «Perché?» «Non lo so.» «Quanto tempo hai guidato? Dove siete andati?» «Non avevamo una meta precisa... ho guidato un'ora o poco più... poi siamo tornati qui e abbiamo trovato un centro commerciale che nel frattempo aveva aperto...» «Quale centro commerciale?» Non lo sapeva perché non era di queste parti, ma lo descrisse, e Kim uscì subito per andare ad avvertire i colleghi. Dubitavo, comunque, che Khalil avesse passato la giornata a gironzolare nel centro commerciale. «Sei andato a prenderlo all'aeroporto con il furgone?» chiesi a Rahman.
«Sì.» «Al terminal?» «No... dall'altra parte... in una caffetteria...» Altre domande consentirono di stabilire che Rahman si era visto con Khalil nel settore aviazione privata dell'aeroporto di Santa Monica, il che mi fece pensare che fosse arrivato con un aereo a noleggio. Più che plausibile. Poi, dovendo far passare il tempo, i due signori libici avevano fatto una bella gita panoramica lungo la costa e quindi erano tornati a Ventura. Lì Khalil aveva espresso il desiderio di fare un po' di shopping e magari di mettere qualcosa sotto i denti e acquistare qualche souvenir. «Com'era vestito?» chiesi a Rahman. «Un completo con cravatta.» «Di che colore era l'abito?» «Grigio... grigio scuro.» «Aveva bagagli?» «No, signore, solo una borsa che ha lasciato lungo la strada. In un canyon.» «Sapresti ritrovare questo canyon?» chiesi ad Azim. «Io... non so... forse di giorno... proverò...» «Puoi scommetterci che proverai. Gli hai consegnato qualcosa? Avevi un pacco per lui?» «Sì, signore. Due pacchi, ma non so cosa contenessero.» «Descrivi questi pacchi, le loro dimensioni, il peso. Tutto.» Rahman descrisse un qualsiasi pacco, grosso approssimativamente come un forno a microonde ma leggero, il che ci fece pensare che potesse contenere un ricambio di biancheria e forse dei documenti. Il secondo pacco era più interessante e inquietante. Era lungo, stretto, pesante: quindi non conteneva una cravatta. Ci guardammo l'un l'altro. Anche Razim sapeva cosa c'era dentro quel pacco. Fu pressoché automatico concludere che Asad Khalil era vestito in modo diverso da come l'aveva descritto Rahman, aveva nuovi documenti d'identità e, soprattutto, era armato di un fucile di precisione, probabilmente smontato e custodito in qualcosa dall'aspetto innocuo come uno zaino. «Quell'uomo ti ha mandato qui per vedere se Mr Wiggins era in casa?» chiesi a Rahman. «Sì.»
«Hai capito, vero, che il tuo amico è Asad Khalil? L'uomo che ha ucciso tutte quelle persone sull'aereo atterrato a New York?» Lui sostenne di non aver collegato lo sconosciuto alla strage, e allora gli diedi una mano. «Se stai aiutando quest'uomo, sarai fucilato, o impiccato, o fritto sulla sedia elettrica o ucciso con un'iniezione letale, oppure finirai nella camera a gas. Ma non è escluso che ti taglino la testa. Capisci?» Pensai che stesse per svenire. «Se invece ci aiuti a catturare Asad Khalil, ti becchi una taglia di un milione di dollari.» Improbabile. «L'hai sentito in televisione, vero?» Annuì entusiasticamente, ammettendo così di sapere benissimo chi era il suo passeggero. «Quindi, Rahman, smettila di fare lo stronzo perché ho bisogno della tua completa collaborazione.» «Sto collaborando, signore.» «Bene. Chi ti ha incaricato di contattare quell'uomo all'aeroporto?» Si schiarì di nuovo la voce. «Non lo so... davvero... non lo so...» E ci fece un racconto complicato, secondo il quale due settimane prima era stato avvicinato da uno sconosciuto a Hollywood, nella stazione di servizio dove lavorava. L'uomo aveva chiesto la sua collaborazione per aiutare un compatriota, promettendogli 10.000 dollari dei quali 1000 subito e i restanti 9000 a cose fatte. Classica tecnica da agente dei servizi segreti, rivolgersi a un povero coglione con problemi economici e parenti in patria da mantenere. E quella pista non poteva nemmeno considerarsi tale, visto che Rahman non avrebbe mai visto i nove testoni. «Quella gente ti ucciderebbe nel momento in cui andassi a riscuotere il saldo, lo capisci?» gli chiesi. Lo capiva. «Ti hanno scelto nella comunità libica, perché assomigli ad Asad Khalil e ti hanno mandato qui a vedere se era stata preparata una trappola per lui, non solo per controllare se Wiggins fosse in casa. Lo capisci?» Annuì. «Guarda in che guaio ti sei messo. Pensi sempre che quella gente ti sia amica?» Scosse il capo. Mi faceva pena, quel poveraccio, e provai una punta di rimorso per averlo quasi soffocato, oltre che per le ginocchiate nelle palle. Ma se l'era voluta lui. «Ora arriva la domanda seria» dissi «e stai bene attento, perché la tua vita è legata alla risposta che mi darai. Dove, quando e come devi metterti in
contatto con Asad Khalil?» Respirò profondamente. «Devo telefonargli.» «Okay, chiamalo. Qual è il numero?» Rahman ce lo disse. «È quello di un cellulare» osservò Tom. «Sì, gli ho dato un cellulare. Secondo le istruzioni dovevo comprarne due, e il mio è nel furgone.» Era quello che aveva preso Kate, un modello che permetteva l'identificazione delle chiamate, e immaginai che Khalil ne avesse uno identico. «A quale compagnia telefonica sono collegati?» chiesi a Rahman. Ci pensò su. «Nextel» rispose poi. «Ne sei sicuro?» «Sì, mi avevano detto di servirmi della Nextel.» Guardai Tom e lui scosse il capo, per farmi capire che era impossibile rintracciare la provenienza di una telefonata sulla rete Nextel. Era giunto il momento di mettere a proprio agio Rahman. Tom gli tolse le manette e lui si massaggiò i polsi, poi lo aiutammo a rialzarsi. Però non sembrava in grado di mantenere l'assetto verticale e accusava dolori in una zona del corpo non specificata. Lo facemmo sedere in poltrona e Kim andò in cucina a prendergli una tazza di caffè. «Guardami, Azim» gli dissi dopo che l'ebbe bevuto. «C'è qualche parola in codice che devi usare in caso di pericolo?» Mi guardò come se avessi scoperto il segreto della nascita dell'Universo. «Sì, è così. Se dovessi... se mi trovassi nella situazione in cui sono adesso, parlando con lui devo usare la parola "Ventura".» Ci fece un esempio e mi venne in mente quando alle elementari dovevamo inventare frasi che contenevano una determinata parola: «Mr Perleman, ho fatto quella consegna a Ventura». «Okay, allora stai attento a non dire "Ventura", altrimenti dovrò ucciderti.» Annuì energicamente. Quindi Edie andò in cucina a staccare la cornetta del telefono, ognuno spense il proprio cellulare e, se in casa ci fosse stato un tarlo, lo si sarebbe udito rosicchiare il legno. Guardai l'orologio notando che Rahman si trovava lì ormai da venti minuti, comunque non abbastanza da innervosire Khalil. «Dovevi chiamarlo a un'ora precisa?» gli chiesi. «Sì, signore. Avrei dovuto consegnare il pacco alle 9, poi guidare per una decina di minuti e chiamarlo dal furgone.»
«E dopo la telefonata dovevate rivedervi?» «Sì.» «Benissimo. Dove?» «Dove dirà lui.» «Allora fai in modo che questa telefonata crei le premesse per il vostro incontro. Capito?» Non mi sembrò precisamente entusiasta, e decisi di chiarirgli le idee. «Stammi a sentire, se il tuo compito era solo quello di accertare se Wiggins era in casa o se la polizia aveva preparato una trappola, mi spieghi che bisogno avrebbe ora Khalil di rivederti?» Non ne aveva idea e gliela feci venire io. «Perché vuole ucciderti, Azim. Sai troppo, ormai, hai capito?» Inghiottì a vuoto. Ma avevo anche buone notizie per lui. «Quest'uomo sarà catturato e non ti procurerà altri guai» lo rassicurai. «Se fai quello che ti chiediamo, ti porteremo a pranzo alla Casa Bianca e ti presenteremo al presidente. Poi avrai i soldi della taglia. Va bene?» «Okay.» Presi da parte Tom. «Hai qualcuno che parla arabo?» gli chiesi sottovoce. Scosse il capo. «Non ne abbiamo mai avuto bisogno, qui a Ventura. Juan parla spagnolo.» «Fantastico.» Tornai da Azim. «Allora, fai quel numero e parla in inglese. Ti avverto, comunque, che se Khalil vorrà parlare in arabo, c'è qui il mio amico Juan che lo mastica abbastanza, quindi non provare a fare stronzate. Dai, telefona.» Rahman compose il numero e rimase ad ascoltare gli squilli come tutti noi. «Parla Tannenbaum» disse poi. Tannenbaum? Ascoltò ancora. «Mi sono perduto, mi dispiace» disse. Nuova pausa, poi improvvisamente Rahman cambiò espressione, ci guardò e disse qualcosa che non capii perché era in arabo. La conversazione andò avanti in arabo, e lui faceva gesti disperati per comunicarci la propria impotenza. Juan fu abbastanza furbo da fingere di ascoltare e capire, annuendo ogni tanto e poi sussurrandomi qualcosa all'orecchio. «Che cazzo sta dicendo?» Guardai negli occhi Rahman, sillabai senza pronunciarla la parola "Ventura" e mi passai la mano di taglio sulla gola, gesto comprensibile dagli a-
rabi come dagli anglofoni. Anche se nessuno di noi parlava arabo, non era difficile capire che Khalil lo stava mettendo in difficoltà. Rahman cominciò a sudare, poi si accostò il cellulare al torace. «Ha detto che vuole parlare con i miei nuovi amici» annunciò. Nessuno spiccicò una parola. Rahman sembrava a pezzi. «Mi spiace, ho provato» disse. «Ma quello è troppo furbo e mi ha chiesto di suonare il clacson del furgone. Ha capito tutto, non gliel'ho detto io. Per favore, non voglio parlarci.» Allora gli presi di mano il cellulare e mi trovai a parlare con Asad Khalil. «Pronto? Mr Khalil?» Mi rispose una voce profonda. «Sì. Lei chi è?» Non è una buona idea quella di dire il proprio nome a un terrorista. «Un amico di Mr Wiggins.» «Davvero? E dov'è Mr Wiggins?» «In giro. Lei dove si trova, signore?» Rise. «Sono in giro anch'io.» Avevo alzato il volume del cellulare, allontanandolo poi dall'orecchio, e ora avevo sette teste attorno alla mia. Eravamo tutti interessati a ciò che Khalil avrebbe potuto dirci, ma ancor più ci interessavano eventuali rumori di fondo che potessero aiutarci a capire da dove chiamava. «Perché non viene a casa di Mr Wiggins ad aspettarlo?» gli chiesi. «Forse lo aspetterò da qualche altra parte.» Ci sapeva fare, l'amico. Resistetti alla tentazione di chiamarlo assassino inculacammelli testa di cazzo, perché non volevo che riattaccasse, ma sentivo il cuore battermi all'impazzata e presi fiato. «Pronto? È ancora lì?» «Sì, signore. C'è qualcosa che vorrebbe dirmi?» «Forse, ma non so con chi sto parlando.» «Sono del Federal Bureau of Investigation.» Silenzio. «Ce l'ha un nome?» mi chiese poi. «John. Cos'è che le andrebbe di dirmi, allora?» «Cos'è che le andrebbe di sapere, John?» «Be', probabilmente ormai so quasi tutto. Per questo mi trovo qui, no?» Rise, e io odio sentir ridere le teste di cazzo come lui. «Lasci allora che le dica qualcosa che probabilmente non sa.» «Okay.» «Mi chiamo Asad, della famiglia Khalil, ma questo lo sa già. Una volta
avevo un padre, una madre, due fratelli e due sorelle.» Mi diede i loro nomi, oltre ad alcuni particolari sulla sua famiglia. «Ora sono tutti morti.» Poi mi parlò della notte del 15 aprile 1986 come se l'avesse registrata nel cervello. «Gli americani hanno sterminato la mia famiglia» concluse. Guardai Kate e ci facemmo un cenno con il capo, quella parte della storia l'avevamo indovinata, anche se ormai non aveva più molta importanza. «Ha tutta la mia comprensione...» cominciai, ma lui m'interruppe. «Non so che farmene della sua comprensione. Da quel giorno ho vissuto al solo scopo di vendicare la mia famiglia e il mio paese.» Era decisamente una conversazione difficile, dal momento che avevamo così poco in comune, ma volevo tenerlo in linea. Usai quindi la stessa tecnica che si adotta durante le trattative per la liberazione degli ostaggi. «Posso capirlo, certo. Ora potrebbe essere giunto il momento di raccontare al mondo la sua storia.» «Non ancora, la mia storia non è finita.» «Quando sarà finita, immagino che lei vorrà raccontarcela con tutti i particolari, e a noi farà piacere darle l'opportunità di farlo.» «Non ho bisogno che lei mi dia un'opportunità, me la prendo da solo.» Respirai a fondo. La tecnica standard sembrava non funzionare, ma insistetti. «Senta, Mr Khalil, vorrei vederla, parlare con lei a quattr'occhi...» «Farebbe piacere anche a me vederci, noi due soli. Forse un giorno succederà.» «Perché non oggi?» «No, un altro giorno. Potrei presentarmi a casa sua, come ho fatto con il generale Waycliff e con Mr Grey.» «Mi dia un colpo di telefono prima di venire.» Rise. Quello stronzo si stava prendendo gioco di me, e la cosa mi stava anche bene, faceva parte delle regole. Forse non avrei scoperto niente, ma era preferibile lasciarlo parlare. «Come crede di riuscire a lasciare gli Stati Uniti, Mr Khalil?» gli chiesi. «Non lo so. Lei cosa mi consiglierebbe?» "Stronzo." «Potremmo riportarla in Libia in cambio di qualcuno che si trova in Libia e vorremmo avere qui.» «Perché, c'è forse qualcuno che vorreste vedere in una prigione americana più di quanto non vogliate vederci me?» "Hai ragione, stronzo." «Ma se l'arrestiamo prima che lei lasci il paese, non le offriremo certo un accordo così vantaggioso.» «Sta insultando la mia intelligenza. Buonanotte.»
«Aspetti un momento. Lo sa, Khalil, faccio questo lavoro da oltre vent'anni e lei è la più...» "la più grossa testa di cazzo" «... la persona più sveglia con la quale ho mai avuto a che fare.» «Forse a lei sembrano tutti svegli.» Stavo per rinunciarci, ma poi respirai a fondo e proseguii. «È stata una mossa da maestro far assassinare quell'uomo a Francoforte, in modo da farci credere che l'avesse ucciso lei.» «Una bella mossa, certo, ma non proprio da maestro. E mi congratulo con voi per avere tenuto all'oscuro la stampa... o forse eravate voi i primi a brancolare nel buio.» «Un po' di entrambe le cose. A proposito, Mr Khalil, per caso ha... sistemato, come direbbe lei, qualcun altro?» «Sì, il portiere di un motel vicino a Washington e un benzinaio in South Carolina.» «E perché?» «Mi avevano visto in faccia.» «Capisco. Be', è una buona... Ma anche quella ragazza di Jacksonville l'aveva vista in faccia, no?» Seguì una lunga pausa. «Certi particolari li conosce, quindi» disse poi. «Certo. So anche di Jamal Jabbar, oltre che di Yusuf Haddad sull'aereo. Perché non mi parla dei suoi spostamenti in America e delle persone che ha incontrato lungo la strada?» Lo fece volentieri e mi offrì un resoconto dei suoi viaggi in auto e in aereo, della gente che aveva conosciuto e ucciso, di dov'era stato, delle cose che aveva visto e fatto. Forse, pensai, se avessimo scoperto con quale nome si era registrato, avremmo potuto... ma lui sembrò leggermi nel pensiero: «Ho una nuova serie di documenti d'identità e le assicuro che non incontrerò alcuna difficoltà quando deciderò di andarmene». «Quando lo deciderà?» «Quando ne avrò voglia. L'unico rimpianto è quello di non essere riuscito a fare visita a Mr Wiggins. Per quel che riguarda il colonnello Callum, possa morire tra mille sofferenze.» "Che testa di cazzo, santo cielo!" «Può ringraziare me, se non è riuscito a fare quella visita a Mr Wiggins.» «Ah sì? E lei chi è?» «Gliel'ho detto, John.» Rimase un momento in silenzio. «Be', buonanotte...» «No, aspetti, mi sto divertendo. Gliel'ho detto che sono stato uno dei
primi agenti federali a salire a bordo del jumbo?» «Davvero?» «E mi chiedo se per caso non ci siamo visti. È possibile?» «È possibile.» «Voglio dire, lei aveva addosso una tuta blu della Trans-Continental, giusto?» «Giusto.» «Io ero quello con il vestito marrone chiaro, con me c'era una bionda niente male.» Strizzai l'occhio a Kate. «Si ricorda di noi?» Ci pensò su. «Sì, ora ricordo» disse poi, e rise. «Io ero ai piedi della scala a chiocciola ed è stato proprio lei a dirmi di scendere dall'aereo. Grazie.» «Ma no, era proprio lei? Il mondo è davvero piccolo.» Khalil prese la palla al balzo. «In effetti, ho visto la sua foto sui giornali, la sua e quella della donna. E c'erano i vostri nomi nel promemoria di Mr Weber che ho trovato al Conquistador Club. Mr John Corey e Ms Kate Mayfield. Naturalmente.» «Ma va, davvero?» "Testa di cazzo." «Anzi, Mr Corey, credo di averla sognata. Sì, non la vedevo materialmente nel sogno, ma avvertivo la sua presenza.» «Dice sul serio? E ci divertivamo?» «Lei cercava di catturarmi, ma io ero molto più furbo e più veloce.» «Io invece ho fatto un sogno esattamente opposto. Mi piacerebbe conoscerla e offrirle da bere, lei sembra un tipo divertente.» «Non bevo.» «Non beve alcol, beve sangue.» Rise. «In effetti ho leccato il sangue del generale Waycliff.» «Sei proprio un inculacammelli malato di mente, sai?» Ci pensò su. «Forse ci vedremo prima della mia partenza, sarebbe bello. Come faccio a mettermi in contatto con te?» Gli diedi il numero diretto all'Attf. «Chiama quando vuoi, se non mi trovi lascia un messaggio e ti richiamerò io.» «E il numero di casa?» «Non ne hai bisogno, sto quasi sempre al lavoro.» «Per favore, di' a Rahman che qualcuno andrà a trovarlo, e lo stesso vale per Wiggins.» «Puoi scordartelo, caro. A proposito, sappi che quando ti metterò le mani addosso, ti infilerò le palle in bocca, poi ti taglierò la testa e ti cacherò
dentro il collo.» «Vedremo chi metterà le mani addosso a chi, Corey. Salutami Kate Mayfield. Arrivederci.» «Tua madre si scopava Gheddafi. Per questo Muammar ha fatto eliminare tuo padre a Parigi, pezzo d'idiota...» Ma la linea era caduta, e rimasi un po' con il cellulare in mano cercando di calmarmi. Nella stanza il silenzio era assoluto. «Hai fatto un buon lavoro» disse alla fine Tom. «Sì.» Andai nella stanza della Tv, dove avevo notato un mobile bar, e mi versai qualche dito di scotch. Poi trattenni il fiato e me lo scolai in un sorso. Entrò Kate. «Stai bene?» mi chiese sottovoce. «Sì, quasi. Vuoi bere qualcosa?» «Sì, anzi no, grazie.» Mi versai un'altra dose e rimasi a fissare il vuoto. Poi mi sedetti e bevvi un sorso di whisky. «Maledizione!» «Senti, John, abbiamo salvato la vita a Wiggins.» Mi rialzai. «Vado a dare un'altra strapazzata a Rahman.» «Non sa nient'altro e tu lo sai bene.» Tornai a sedermi e terminai lo scotch. «Sì, be'... probabilmente sono a corto di idee. Tu che ne pensi?» «Che è ora di lasciare questa gente al loro lavoro. Andiamo.» Tornammo in soggiorno per riprenderci le nostre cose e salutare. Rahman era scomparso da qualche parte e tutti avevamo l'aria un po' abbattuta. «Chiamo Chuck per farvi accompagnare a un motel» disse Tom. Proprio in quel momento squillò il suo cellulare e tutti tacemmo. «Okay... okay... no, non lo fermate... ce la vediamo noi qui» disse Tom, e chiuse la comunicazione. «Elwood Wiggins sta tornando a casa» ci informò poi. «In macchina con lui c'è una signora.» Qualche minuto dopo udimmo un'auto fermarsi nel vialetto, la porta del box che si apriva e si richiudeva, poi quella della cucina che veniva aperta mentre qualcuno accendeva la luce. Udimmo quindi Wiggins che frugava in cucina e apriva lo sportello del frigo. «Ma da dove viene tutta questa roba da mangiare?» chiese all'amica. «E di chi sono questi berretti da baseball? Guarda, Sue, c'è scritto sopra Fbi.» «Credo che qui dentro ci sia stato qualcuno, Chip.» "Che cosa te l'ha fatto capire, dolcezza?"
Attendemmo pazienti che Wiggins facesse il suo ingresso nel soggiorno. «Rimani qui, vado a dare un'occhiata» disse alla compagna. Entrò in soggiorno e si bloccò immediatamente. «Non si allarmi, la prego» gli disse Tom. Poi sollevò la custodia con il distintivo. «Fbi.» Chip Wiggins guardò i quattro uomini e le quattro donne che lo aspettavano in piedi nel soggiorno di casa sua. «Ma che...?» Indossava jeans, una T-shirt e scarponcini, e sembrava abbronzato e abbastanza in forma, oltre che più giovane della sua età. Tutti in California sono abbronzati, in forma e giovani, tranne quelli di passaggio come me. «Mr Wiggins, vorremmo parlare qualche minuto con lei» disse ancora Tom. «Ma che cos'è questa storia?» L'amica fece capolino. «Che sta succedendo, Chip?» Lui le spiegò da dove venivano i berretti dell'Fbi. Un minuto dopo Chip si era seduto, rilassato ma curioso, e la sua compagna era stata scortata da Edie nella stanza della Tv. La donna, tra parentesi, era uno schianto, ma io non ero dell'umore giusto. «Mr Wiggins» attaccò Tom «questa faccenda è legata al bombardamento del 15 aprile 1986 al quale lei prese parte.» «Oh, merda.» «Ci siamo presi la libertà di entrare in casa sua, essendo stati informati che un terrorista libico...» «Oh, merda.» «... si trovava in zona e la cercava...» «Oh, merda.» «Abbiamo la situazione sotto controllo, ma temo che dovremo chiederle di prendere dei giorni di ferie e andarsene in vacanza.» «Come?...» «Quell'uomo è ancora in libertà.» «Oh, merda.» Tom gli chiarì a grandi linee i precedenti. «Temo di avere brutte notizie per lei» aggiunse poi. «Alcuni suoi ex compagni di squadriglia sono stati uccisi.» «Che cosa?!» «Uccisi da quest'uomo, Asad Khalil.» Tom gli diede una foto di Khalil, chiedendogli di osservarla bene e di tenersela. Chip la guardò, poi la posò. «Chi è stato ucciso?»
«Il generale Waycliff e la moglie...» «Oh, mio Dio! Terry è morto? E anche Gail?...» «Sì, mi dispiace. E anche Paul Grey, William Satherwaite e James McCoy.» «Oh, mio Dio... oh, merda... oh...» Alla fine Chip riuscì a controllarsi e capì di aver schivato per un soffio la Signora con la falce. «Santo Iddio!» Si alzò guardandosi attorno, come se cercasse di localizzare un terrorista. «Dov'è adesso questo assassino?» chiese. «Stiamo cercando di catturarlo» gli assicurò Tom. «Stanotte possiamo restare con lei, anche se escluderei che il terrorista si farà vedere qui. Oppure aspettiamo che lei faccia i bagagli e la accompagniamo...» «Me ne vado.» «Benissimo.» Io e Kate non avevamo più alcun motivo di trattenerci, quindi salutammo tutti mentre Chip andava a fare le valigie. Sembrava il tipo che ti presta la biancheria, Wiggins, ma in quel momento aveva altro per la testa. Kate e io uscimmo all'aperto, respirando l'aria balsamica californiana e aspettando Chuck. «Chip Wiggins è un uomo fortunato» osservò Kate. «Puoi ben dirlo, hai visto con che sventola di femmina va in giro?» «Ma perché provo ancora a parlare con te?» «Scusa.» Rimasi un po' a riflettere. «Perché gli serve quel fucile?» «A chi? Ah, vuoi dire a Khalil?» «Sì, Khalil. A che gli serve il fucile?» «Non siamo sicuri che in quel pacco ci fosse un fucile.» «Diciamo che è così: a che gli serve? Non certo a uccidere Chip in casa sua.» «Giusto, forse vuole uccidere qualcun altro, in un bosco.» «No, Asad è il tipo che uccide guardando negli occhi le sue vittime, so che prima parla con loro. Perché allora ha bisogno di un fucile? Per uccidere qualcuno al quale non può avvicinarsi, qualcuno al quale non ha bisogno di parlare.» «Probabilmente hai ragione.» Arrivò Chuck con l'auto, io sedetti accanto a lui e Kate dietro. «Allora, volete un buon motel?» ci chiese. «Certo, con gli specchi sul soffitto.» Qualcuno alle mie spalle mi tirò un pugno in testa. A quel punto mi misi a pensare ad Asad Khalil, cercando di penetrare
nella sua mente disturbata, di capire quale sarebbe la mia prossima mossa se fossi stato lui. L'unica cosa che davo per certa era che Khalil non se ne stava tornando al suo paese. Avremmo sentito ancora parlare di lui. E molto presto. 49 L'agente Chuck ci scaricò davanti al Ventura Inn, dove aveva prenotato due stanze per noi. L'impiegato della reception ci diede un caldo benvenuto informandoci che le nostre stanze erano di categoria lusso, al dodicesimo piano e con vista sull'oceano. I custodi della civiltà occidentale hanno diritto al meglio. «Quale oceano?» gli chiesi. «Il Pacifico, signore.» «Avete niente che si affacci sull'Atlantico?» Sorrise. Kate e io riempimmo i moduli di registrazione mentre l'impiegato passava nell'apposito apparecchio la mia carta American Express, e mi parve di sentirla gemere. Poi ci consegnò le chiavi magnetiche, e io proposi a Kate di bere qualcosa al bar prima di ritirarci. «Sono esausta, vado a dormire.» «Sono solo le dieci.» «A New York è l'una di notte e sono stanca.» Qualcosa mi disse che avrei bevuto e dormito da solo. Entrammo in ascensore senza dire una parola. «Sei di cattivo umore?» mi chiese lei più o meno all'altezza del decimo piano. «Sì.» L'ascensore intanto aveva raggiunto l'ultimo piano. «Non mi va di vederti di cattivo umore, vieni a bere qualcosa in camera mia.» Entrammo nella sua stanza, decisamente spaziosa. Lei non doveva disfare le valigie e ci preparammo subito un paio di scotch e soda, portandoceli sul balcone. «Dimentichiamo il lavoro, stanotte» mi propose. «Okay.» Ci sedemmo in due poltroncine separate da un tavolo rotondo e contemplammo l'oceano inondato dai raggi della luna. Questo mi riportò alla memoria il periodo di convalescenza che avevo passato a Long Island in casa di mio zio, proprio davanti al mare. O quella volta che Emma e io facemmo il bagno nudi nella baia, per poi sederci in
veranda a bere un cognac. Stavo scivolando verso uno stato d'animo cupo e volevo cercare di evitarlo. «A che pensi?» mi chiese Kate. «Alla mia vita.» «Non è una buona idea. Ti è mai capitato di riflettere sul fatto che se fai questo mestiere e lavori duro per ore e ore è proprio per non avere tempo di pensare alla tua vita?» «Ti prego.» «Ascoltami, tu mi stai molto a cuore e sento che sei alla ricerca di qualcosa.» «Di biancheria pulita.» «Puoi lavarti quella che hai addosso, cazzo.» «Non ci avevo pensato.» «Senti, John, ho trentun anni e non sono mai stata lì lì per sposarmi.» «Non riesco a immaginare perché.» «Non per mancanza di offerta, se proprio vuoi saperlo.» «Capito.» «Credi che dovresti risposarti?» «Quanto è alto da terra questo balcone?» Pensavo che le mie battute l'avrebbero fatta arrabbiare, invece rise. Si era messa in tasca altre due mignon di scotch, le aprì e ne versò il contenuto nei bicchieri. Bevemmo guardando quasi in trance il mare e ci sembrò di udire il rumore delle onde che si infrangevano dolcemente sulla spiaggia. Che spettacolo. Un refolo di vento mi portò l'odore del mare. «Ti piaceva vivere qui?» le chiesi. «La California è bella e la gente è cordiale.» Mi sembrò un giudizio abbastanza superficiale, ma perché rovinarle i ricordi? «Avevi un ragazzo?» «Più o meno. Vuoi conoscere la mia storia sessuale?» «Quanto ci impieghi a raccontarmela?» «Meno di un'ora.» Sorrisi. «È stato brutto il divorzio?» mi chiese. «Nient'affatto. Il matrimonio è stato brutto.» «Perché l'hai sposata?» «Me l'ha chiesto.»
«Non potevi dire di no?» «Be'... credevo di essere innamorato. Lei era l'assistente del procuratore distrettuale, io un poliziotto, eravamo dalla parte degli angeli. Poi ha cambiato lavoro, è diventata un potente avvocato penalista. Ed è cambiata.» «No, il lavoro è cambiato, non lei. Tu potresti fare il penalista? O il criminale?» «Capisco cosa vuoi dire. Ma...» «E lei, difendendo i criminali, si è messa a guadagnare molto di più di quanto guadagnassi tu arrestandoli.» «I soldi non hanno nulla a che vedere con...» «Non dico che sia sbagliato il modo in cui si guadagna da vivere. Sto solo dicendo che... come si chiama, a proposito?» «Robin.» «Robin non era fatta per te nemmeno quando era assistente procuratore distrettuale.» «Teoria interessante. Posso buttarmi dal balcone, ora? O senti il bisogno di dirmi qualcos'altro?» «Sì, c'è dell'altro, rimani in linea. Quindi conosci Beth Penrose, che sta dalla tua stessa parte, e ti metti con lei per reazione alla tua ex moglie. Stai bene con una compagna poliziotto, forse ti senti meno in colpa. Prima, quando eri sposato a una penalista, la vita al commissariato non doveva essere simpatica.» «Adesso credo che possa bastare.» «E invece no che non basta. Poi spunto io, il trofeo perfetto. Giusto? Fbi, laureata in legge, tuo superiore.» «Basta così. E ti ricordo che sei stata tu a... Be', lasciamo perdere.» «Sei arrabbiato?» «Sono incazzato.» Mi alzai. «Ora devo andare.» Si alzò anche lei. «Vai pure. Però ogni tanto devi affrontare la realtà, John, non puoi sempre nasconderti dietro quell'immagine esteriore da duro e cinico. Un giorno, forse nemmeno tanto lontano, andrai in pensione e allora dovrai convivere con il vero John Corey. Niente pistola, niente distintivo...» «Stella.» «Nessuno da arrestare, nessuno che abbia bisogno che tu lo protegga o che tu protegga la società. Sarai solo con te stesso e non sai nemmeno chi sei.» «Nemmeno tu. Questo è soltanto psicoblablà californiano, stronzate in-
somma, e sei qui appena da poche ore. Buonanotte.» Uscii dalla sua stanza ed entrai nella mia, che era quella accanto. Mi tolsi le scarpe scalciando, buttai la giacca sul letto, poi mi levai fondina, cravatta, camicia e giubbotto antiproiettile e mi versai un drink dal frigobar. Ero davvero stanco e mentalmente a pezzi. Voglio dire, sapevo che Kate aveva tutte le buone intenzioni, ma non avevo alcun bisogno di essere trascinato davanti allo specchio a guardare il mostro. Se le avessi concesso qualche altro minuto, Kate Mayfield mi avrebbe disegnato un bel quadretto illustrandomi quanto sarebbe stata serena la vita se l'avessimo affrontata insieme. Le donne credono che per avere una vita perfetta tutto quel che serve è un marito perfetto. Sbagliato. Anzitutto, non esistono mariti perfetti, e anche quelli buoni non è che siano così numerosi. In secondo luogo, aveva ragione sul mio conto, e io non sarei certo migliorato vivendo con Kate Mayfield. Decisi di lavarmi la biancheria, andarmene a letto e non rivedere mai più Kate Mayfield dopo la conclusione di quel caso. Sentii bussare alla porta. Andai a guardare dallo spioncino, poi aprii. Lei entrò e rimanemmo per un po' a guardarci. In casi del genere so essere veramente duro e non avevo alcuna intenzione di concederle nemmeno un centimetro oppure di baciarla e... buonanotte. Mi era persino passata la voglia di fare sesso. Lei aveva addosso l'accappatoio bianco dell'albergo. Lo aprì, lasciandolo scivolare sul pavimento e mettendo in mostra il suo corpo nudo e perfetto. Sentii la mìa determinazione ammorbidirsi e il mio pendolino irrigidirsi. «Scusi se la disturbo» disse «ma la mia doccia non funziona. Posso usare la sua?» «Si accomodi.» Entrò in bagno, aprì il rubinetto della doccia e si infilò nella cabina. Be', secondo voi cosa avrei dovuto fare? Mi tolsi pantaloni, calzini e boxer e la raggiunsi. Per salvare le apparenze, nel caso di una telefonata dell'Fbi in piena notte, verso l'una Kate tornò nella sua stanza. Non dormii un granché bene e mi svegliai alle 5.15, che per il mio orologio biologico dovevano essere le 8.15. Andai in bagno e scoprii che i miei boxer, lavati e ancora umidi, erano appesi al filo sopra la vasca da bagno. Qualcuno aveva lasciato un'impron-
ta di rossetto in un punto strategico. Dopo un'altra doccia, la barba, la pulizia dei denti e così via uscii in balcone e me ne stetti nudo nella leggera brezza a osservare il mare scuro. La luna era calata e il cielo era pieno di stelle; decisi che nessuno in quel momento stava meglio di me. Rimasi a lungo sul balcone. Poi, dall'altra parte del divisorio in cemento, udii il rumore della porta scorrevole che veniva aperta. «Buongiorno» dissi. «Buongiorno» la sentii rispondere. Il divisorio arrivava fino al parapetto e quindi non potevo guardare dall'altra parte. «Sei nuda?» chiesi. «Sì. E tu?» «Naturalmente. Si sta benissimo.» «Ci vediamo tra mezz'ora a colazione.» «Okay. A proposito, grazie per avermi lavato i boxer.» «Non ti ci abituare.» Parlavamo a voce abbastanza alta ed ebbi l'impressione che qualche altro ospite dell'albergo ci stesse sentendo. Probabilmente lo pensò anche lei, perché d'improvviso mi chiese: «Come hai detto che ti chiami?». «John.» «Ah, già. Scopi proprio bene, John.» «Grazie, anche tu.» Eravamo due agenti federali non giovanissimi e ce ne stavamo nudi, su un balcone, a fare gli scemi come due che si sono appena innamorati. «Sei sposato?» mi chiese. «No. E tu?» «No.» Quale doveva essere, a quel punto, la mia battuta? Due pensieri mi passarono contemporaneamente per la testa: il primo era che mi stavo facendo abbindolare da una professionista, il secondo che la cosa mi piaceva. Capii che quel momento e quell'atmosfera li avrei ricordati per tutta la vita, trattenni il fiato e le chiesi: «Mi vuoi sposare?». Lungo silenzio. Poi, dall'alto, venne una voce femminile che non era però quella di Kate. «Rispondigli!» «Okay, ti sposerò» rispose Kate. Da qualche parte due persone applaudirono. Che situazione assurda. Provavo un imbarazzo che non riusciva a mascherare il panico. Ma che a-
vevo combinato? Udii richiudersi la porta scorrevole e non potei quindi rettificare la proposta. Rientrai nella mia stanza, mi rivestii senza indossare il giubbotto antiproiettile e scesi al ristorante, dove ordinai un caffè e una copia fresca di stampa del "New York Times". C'era un seguito della tragedia sul volo 175, ma sembrava più che altro un riepilogo degli avvenimenti con l'aggiunta di qualche dichiarazione degli investigatori federali o locali. Trovai anche un trafiletto sull'uccisione di Leibowitz a Francoforte e un necrologio dello scomparso. Abitava a Manhattan e aveva una moglie e due figli. Pensai a quanto potesse essere imprevedibile la vita: uno se ne va a Francoforte per lavoro e ci lascia le penne solo perché c'è chi deve far credere che una certa persona non si trova più in America ma in Europa. Fa veramente schifo, quella gente. C'era anche un piccolo seguito del duplice omicidio di James McCoy e William Satherwaite al Museo Culla dell'aviazione. "Non escludiamo l'eventualità che il movente di questi delitti possa non essere stata la rapina" aveva dichiarato un investigatore della contea di Nassau. A parte la sintassi contorta, riconobbi la tecnica del piccolo Alan Parker: un terzo oggi, un terzo domani e il resto a fine settimana. Arrivò Kate, mi alzai e ci scambiammo un casto bacio sulla guancia. Poi ci mettemmo a leggere il menu e pensai che magari si era dimenticata quello stupido incidente sul balcone. Mi sbagliavo. «Quando?» mi domandò, dopo aver posato il menu. «Uh... Giugno?» «Okay.» Arrivò la cameriera e ordinammo entrambi frittelle. Avevo voglia di leggere il giornale, ma capii che il giornale a colazione apparteneva ormai al passato. Parlammo dei programmi della giornata, dell'inchiesta, dei colleghi che avevamo conosciuto a casa di Chip Wiggins e della gente che Kate mi avrebbe presentato a Los Angeles. Ci servirono le frittelle e le divorammo. «Ti piacerà mio padre» disse lei. «Ne sono sicuro.» «Ha la tua età, forse qualche anno in più.» «Meglio così.» Poi mi venne in mente la battuta di un vecchio film. «Ha tirato su una magnifica figlia.»
«Sì, mia sorella.» Risi. «Ti piacerà anche mia madre.» «Vi assomigliate?» «No, lei è simpatica.» Risi di nuovo. «Per te va bene se ci sposiamo nel Minnesota? La mia è una grande famiglia.» «Minnesota, splendido. È una città o uno Stato?» «Io sono metodista, e tu?» «Per me qualsiasi sistema di controllo delle nascite va bene.» «Parlo della mia religione, quella metodista.» «Ah... Mia madre è cattolica, mio padre... protestante, credo. Non ha mai...» «Allora possiamo allevare i figli nella religione protestante.» «Hai bambini?» «È importante, John. Fai attenzione a quello che dico.» «Faccio attenzione. Sto cercando di... come dire... cambiare marcia.» Mi guardò. «Sei così terrorizzato?» «No, certo che no.» «Hai l'aria terrorizzata.» «È solo un po' di acidità di stomaco. A una certa età, sai...» «Staremo bene insieme, vedrai. Vivremo felici tutta la vita.» «Certo. Il fatto è che non ci conosciamo poi da moltissimo...» «A giugno ci saremo conosciuti a fondo.» «Eh già, hai ragione.» «Mi ami?» «In effetti ti amo, ma l'amore...» «Come ti sentiresti se mi alzassi e me ne andassi? Sollevato?» «No, mi sentirei uno schifo.» «E allora? Perché combatti i tuoi sentimenti?» «Dobbiamo ricominciare con la terapia analitica?» «No, ti sto solo spiegando come stanno le cose. Io sono follemente innamorata di te, voglio sposarti, voglio avere dei bambini da te. Che altro vuoi che dica?» «Di'... che ami New York a giugno.» «Odio New York, ma con te vivrei dappertutto.» «Anche nel New Jersey?»
«Adesso non esagerare.» «Chi ti dice che sono l'uomo giusto per te?» «E come faccio a spiegartelo? Quando sei con me, il cuore mi batte più forte. Mi piace vederti, ascoltarti, odorarti, gustarti, toccarti. Scopi bene.» «Grazie, anche tu. Okay, allora tralascio certi argomenti come le nostre carriere, il tuo trasferimento a New York, la vita a New York, la mia irrisoria pensione d'invalidità, i dieci anni di differenza tra noi...» «Quattordici.» «Quattordici. Non voglio combattere i miei sentimenti, come dici tu. Sono innamorato cotto e so che, se manderò a puttane la nostra storia, starò male per il resto della vita.» «Sposarmi è la cosa migliore che ti può capitare, fidati. Parlo sul serio, sai. Non ridere. Guardami. Guardami negli occhi.» Le presi la mano e ci guardammo negli occhi. «Ti amo» le dissi. E l'amavo veramente. 50 Alle 7.30 Chuck venne a prenderci in albergo. «Nessuna novità» ci informò. Il che non era del tutto vero, dal momento che mi ero fidanzato e a giugno mi sarei sposato. «Andava bene l'albergo?» ci chiese mentre ci portava all'ufficio Fbi di Ventura. «Era meraviglioso» rispose Kate. «Avete pagato il conto?» «Sì. Passeremo qualche giorno a Los Angeles, a meno che non siano previsti altri programmi.» «Be'... a quanto ho sentito, i capi di Washington vi vogliono entrambi lì, per un'importante conferenza stampa che si terrà domani pomeriggio. Dovreste essere a Washington al più tardi domani mattina.» «Che tipo di conferenza stampa?» chiesi. «Una di quelle serie, dove si vuota il sacco. Vogliono dire tutto sul volo 175, su Khalil, sul bombardamento del 1986, sui piloti uccisi da Khalil e su quello che è successo ieri a casa di Wiggins. Apertura totale, insomma, per chiedere la collaborazione della gente e roba del genere.» «E perché hanno bisogno di noi a una conferenza stampa?» mi domandai ad alta voce.
«Secondo me hanno bisogno di due eroi, un uomo e una donna, il meglio del meglio. Uno di voi due, poi, è molto fotogenico.» E rise, ha, ha, ha. La giornata non prometteva bene, anche se c'erano il sole e una temperatura di 22 gradi. Salimmo in ufficio portando con noi i giubbotti antiproiettile. «Dovete chiamare Jack Koenig» ci annunciò Cindy Lopez. Quando non sentirò più questa frase, sarà sempre troppo tardi. «Chiamalo tu» dissi a Kate. «No, vuole parlare proprio con te» mi informò Cindy. «C'è un ufficio vuoto, là in fondo.» Io e Kate riconsegnammo i giubbotti, poi ci trasferimmo nell'ufficio vuoto e composi il numero di Koenig. A Los Angeles erano le 8, il che mi dava la ragionevole certezza che a New York fossero le 11. «Buongiorno» disse Jack, appena la segretaria me lo passò. Notai nella sua voce un tono suadente e mi spaventai. «Buongiorno.» Poi inserii il vivavoce a beneficio di Kate e lo feci correttamente sapere a Koenig. «Salve, Kate.» «Salve, Jack.» «Anzitutto voglio congratularmi con voi. Avete fatto un ottimo lavoro, da eccellenti investigatori; e mi dicono, Jack, che per interrogare Rahman hai adottato un metodo particolarmente efficace.» «Gli ho dato qualche ginocchiata nelle palle mentre lo soffocavo. Vecchia tecnica.» Breve silenzio. «Ho parlato personalmente con il signore in questione» riprese poi Jack «e mi è sembrato felice di questa opportunità che gli abbiamo offerto, cioè di poter testimoniare per il governo.» Sbadigliai. «Ho parlato anche con Chip Wiggins» proseguì Koenig «e finalmente ho avuto informazioni di prima mano a proposito di quel raid su al-Aziziya. Wiggins mi ha fatto capire che forse una delle sue bombe non aveva raggiunto il bersaglio previsto, e potrebbe essere stata proprio quella a colpire la casa di Khalil. Singolare, non ti sembra?» «Già.» «Lo sapevi che al-Aziziya è stata battezzata l'Università della Jihad, della guerra santa? Proprio così. Era, ed è tuttora, un centro di addestramento per terroristi.»
«Mi sta forse dando istruzioni per questa idiota conferenza stampa?» «Informazioni, John, non istruzioni.» «Senta, Jack, non me ne frega assolutamente niente di quello che è successo in quel posto nel 1986, non me ne frega un accidente se la famiglia di Khalil è stata uccisa per sbaglio o di proposito. Devo arrestare un assassino, e questo assassino è qui, non a Washington.» «Non sappiamo dove si trovi il sospetto. Potrebbe essere tornato in Libia o sulla costa orientale degli Stati Uniti, o addirittura a Washington. Vai a saperlo. Quello che so per certo, invece, è che il capo dell'Fbi e il capo dell'Antiterrorismo, per non parlare del capo di questa nazione, vi vogliono domani a Washington. Quindi non pensare nemmeno a scomparire con qualche scusa.» «Sì, signore.» «Se non ti presenti, rischio il culo.» «Ho sentito.» Cambiò interlocutore. «Come stai, Kate?» «Bene. Che mi dice di George?» «Anche lui sta bene, si trova ancora al Conquistador Club, ma domani dovrebbe tornare a Federal Plaza. A proposito, John, il capitano Stein ti fa i suoi complimenti per l'ottimo lavoro svolto.» «L'assassino è ancora in libertà, Jack.» «Ma tu hai salvato delle vite. Il capitano Stein è orgoglioso di te, come tutti noi del resto.» Kate mi guardò con l'espressione di chi vorrebbe dare una bella notizia. Che potevo fare? Annuii. «John e io abbiamo una bella notizia, capo. Ci siamo fidanzati.» Mi sembrò di sentire all'altro capo del filo la cornetta cadere sul pavimento. Ci fu un silenzio che si protrasse due secondi oltre il dovuto, e mi venne da pensare che per Jack Koenig la bella notizia sarebbe stata una denuncia di Kate nei miei confronti per molestie sessuali. Lui comunque si riprese bene dalla sorpresa. «Ehi, senti senti... ma che bella notizia... Congratulazioni, John, congratulazioni... Tutto così, all'improvviso...» Capii che avrei dovuto dire qualcosa e sfoderai il mio tono di voce più macho. «Era ora di rompere i ponti con il passato e cambiare vita, i giorni da scapolo sono finiti. Sì, signore, ho trovato finalmente la ragazza giusta, la donna giusta, e non potrei essere più felice.» E avanti di questo passo. Lui tornò subito a parlare di lavoro. «I nostri hanno controllato presso la Faa i piani di volo dei jet privati e sono riusciti a trovare i piloti che hanno
portato Khalil in California. Sono partiti da Islip, a Long Island, presumibilmente dopo che Khalil aveva ucciso McCoy e Satherwaite al Museo Culla dell'aviazione. E hanno fatto una sosta a Colorado Springs, dove Khalil è sceso, ma sappiamo che non ha ucciso il colonnello Callum.» Jack continuò a raccontarmi di Khalil e del volo da Colorado Springs a Santa Monica. I piloti, mi disse, avevano avuto un mezzo shock una volta appresa l'identità del loro passeggero. Interessante, ma non importante; una conferma, comunque, del fatto che Khalil era pieno di risorse, poteva contare su fondi inesauribili e sapeva come confondersi in mezzo alla gente senza dare nell'occhio. «Senta, Jack, appena questa conferenza stampa sarà terminata, voglio tornare qui.» «Richiesta ragionevole. Vediamo come ti comporterai alla conferenza stampa.» «Una cosa non ha nulla a che vedere con l'altra.» «Ora lo ha.» «Okay, ho capito.» «Bene. Dimmi della tua telefonata con Khalil.» «Ho avuto l'impressione di parlare con un uomo nel pieno controllo di se stesso e delle proprie emozioni. E, peggio ancora, il tono di voce era quello di chi ha ancora la situazione saldamente in pugno, anche se gli abbiamo mandato a puttane... cioè rovinato i piani.» Jack rimase qualche secondo in silenzio. «Vai avanti» disse poi. «Se dovessi scommettere, scommetterei che ha intenzione di restare in zona.» «Perché?» «Non so spiegarlo, è solo una sensazione. A proposito di scommesse, voglio i dieci dollari di Nash e i venti del suo amico Edward.» «Ma tu avevi scommesso che Khalil era nell'area di New York.» «E lì era. Poi se n'è andato, è ritornato a Long Island, ma di certo non è volato a Desertolandia, come sostenevano loro.» Guardai Kate, perché mi desse una mano, quella questione era importante. «John ha ragione, ha vinto lui la scommessa» disse Kate. «Okay, accetto l'opinione imparziale di Kate.» Ha, ha! Poi Jack si fece serio. «Quindi, John, hai la sensazione che Asad Khalil si trovi ancora in quella zona?» «Sì.» «È soltanto una sensazione?»
«Se con questo intende chiedermi se sto tenendo per me qualche particolare, la risposta è no. Il fatto è che... come posso spiegarmi... Khalil mi ha detto che aveva in qualche modo avvertito la mia presenza prima di... ma no, sono fesserie da beduino... Solo che anche a me sembra di avvertire la sua presenza, non so se mi spiego.» Jack tagliò corto. «Okay, allora prendete un volo per l'aeroporto Dulles, ma che sia il primo del mattino.» Kate gli assicurò che avremmo fatto come diceva lui, e Jack stava per riattaccare, quando decisi che era arrivato il momento di trasformarmi nel tenente Colombo. «A proposito, c'è un'altra cosa.» «Sì?» «Il fucile.» «Quale fucile?» «Quello nel pacco lungo.» «Ah sì... Ho chiesto di quel pacco a Rahman, e l'hanno fatto un po' tutti a Washington e Los Angeles.» «E quindi?» «Rahman e la sua famiglia si trovano sotto custodia protettiva.» «Bene, se lo meritano. E allora?» «I colleghi di Los Angeles gli hanno fatto descrivere e disegnare quel pacco, poi hanno preso una scatola che secondo Rahman ha le stesse dimensioni di quella che lui aveva consegnato a Khalil, centimetro più centimetro meno.» «E allora?» «Hanno infilato nella scatola dei pezzi di metallo, finché Rahman non ha detto che il peso era più o meno quello della scatola che aveva dato a Khalil. Si chiama memoria muscolare, hai familiarità...» «Sì. E poi?» «Be', è stato un esperimento interessante che però non dimostra un bel niente. I fucili con il calcio di nylon o di plastica sono leggeri, quelli vecchi sono pesanti; i fucili da caccia sono lunghi, quelli d'assalto sono più corti. Voglio dire, non c'è modo di stabilire se dentro quel pacco ci fosse davvero un fucile.» «Capisco. Quel fucile era lungo e pesante?» «Se era un fucile, e ripeto "se", era lungo e pesante.» «Come un fucile da caccia con mirino telescopico?» «Proprio così.» «Allora, diamo per scontato che nel pacco ci fosse un fucile da caccia
lungo e preciso con mirino telescopico. A cosa doveva servire?» «Poteva benissimo essere un'arma di riserva nel caso in cui Wiggins non fosse stato in casa. In altre parole, Khalil era pronto a dare la caccia a Wiggins in qualche camping.» «Davvero?» «È una teoria. Ne hai un'altra?» «Per il momento no. Però mi immagino Chip e la sua bella accampati in una foresta e mi chiedo perché Khalil, che aveva sicuramente trovato una tenuta da campeggiatore, non ha finto di passare di lì per caso per sedersi con loro davanti al fuoco a bere una tazza di caffè. La scena prevede che Khalil, a un certo punto, informi incidentalmente Chip che è lì per ucciderlo, e gliene spieghi il motivo prima di infilargli nel cervello una pallottola calibro 40. Capisce?» Jack lasciò passare qualche secondo. «Abbiamo accertato che Wiggins e la sua ragazza, in effetti, stavano facendo campeggio insieme a una decina di amici, quindi Khalil...» «Non regge, Jack. Khalil avrebbe fatto di tutto per guardare Chip negli occhi prima di ucciderlo.» «Forse. L'altra teoria, certamente più plausibile, è che nel pacco ci fosse un fucile di cui Khalil conta di servirsi per assicurarsi la fuga. Per esempio, nel caso dovesse abbattere un agente alla frontiera con il Messico o fosse inseguito in mare da una vedetta della Guardia costiera. Gli serve, in sostanza, un'arma a canna lunga da utilizzare, in caso di necessità, durante la fuga dagli Stati Uniti. E visto che poteva contare su un complice, cioè Rahman, perché non farsi portare da lui anche un fucile oltre a tutto il resto? I fucili si possono comprare con una certa facilità.» «Ma sono difficili da nascondere.» «No, perché si possono smontare. Voglio dire, non escludiamo a priori l'ipotesi che con quel fucile Khalil voglia uccidere qualcuno, qualcuno al quale non può avvicinarsi a portata di pistola. Ma questo è incompatibile con la natura della sua missione, oltre che con il suo modo di agire. L'hai detto tu, lui uccide da vicino dopo aver parlato con la sua vittima.» «Giusto. Ora che ci penso, sono sicuro che in quel pacco ci fosse un set di mobili da giardino. Ha visto come imballano la merce da quattro soldi nei magazzini discount? Riescono a far entrare dieci articoli in una scatola per camicie: sei sedie, un tavolo, un ombrellone e due sdraio made in Taiwan. Infilate il giunto A nell'alloggiamento B... Va be', ci vediamo domani a Washington.»
«La conferenza stampa è fissata per le 17 al J. Edgar Hoover Building, ricordo che l'ultima volta John ci si è trovato a suo agio. E ancora congratulazioni a entrambi per il lavoro fatto e per il fidanzamento. Avete stabilito la data delle nozze?» «Giugno» rispose Kate. «Bene, i fidanzamenti corti sono i migliori. Spero che m'inviterete.» «Naturalmente» lo rassicurò lei. Premetti il pulsante di fine collegamento. Kate e io rimanemmo in silenzio per un minuto. «Mi preoccupa quel fucile» disse poi lei. «Fai bene a preoccuparti.» «Voglio dire... io non sono un tipo apprensivo, ma quel fucile potrebbe servirgli per dare la caccia a noi.» «Non è da escludere. Vuoi farti ridare quelle T-shirt modello Little Italy?» «Che cosa?» «I giubbotti antiproiettile.» Rise. «Hai un modo strano di usare le parole, tu.» Uscimmo dall'ufficio vuoto e scambiammo due chiacchiere bevendo il caffè con i colleghi, ai quali nel frattempo si erano aggiunti Juan, Edie e Kim. «Tra mezz'ora riporteremo qui Rahman da Los Angeles per cercare il canyon dove Khalil ha nascosto la sua borsa» mi informò Edie. Anche quella faccenda mi dava da pensare. Perché Khalil, che doveva far passare del tempo prima che aprissero i negozi, non si era fatto portare da Rahman in un anonimo motel dove lasciare la borsa, invece di andarsene in gita sulla panoramica per nasconderla in un canyon? Comunque, né io né Kate chiedemmo a Cindy i giubbotti, anche perché il programma era quello di andarsene in giro per Los Angeles. Ma forse avremmo dovuto farceli dare proprio per quel motivo. Battuta newyorkese. Cindy ci diede invece due belle borse da viaggio di tela, con il loro bravo logo dell'Fbi, come souvenir della nostra visita, o forse per mandarci un messaggio del tipo "Non vogliamo più vedervi da queste parti". Ma probabilmente il mio era un sospetto ingeneroso. Kate e io infilammo nelle borse i nostri articoli da toilette ed eravamo pronti a partire per l'ufficio di Los Angeles; però scoprimmo che l'elicottero non era disponibile, altro indice che le nostre azioni erano in forte ribasso. C'era invece un'auto, senza autista, Cindy ci diede le chiavi e Kate le assicurò di conoscere la strada. Questi californiani sono veramente simpa-
tici. Ci stringemmo tutti la mano, promettendoci di tenerci in contatto. Qualcuno ci invitò a tornare quando volevamo. «Saremo di nuovo qui dopodomani» dissi, e l'annuncio ebbe lo stesso effetto di un peto. 51 Eravamo sulla superstrada costiera in direzione sud, verso la Città degli Angeli. Mare a destra, montagne a sinistra. Cieli blu, mare blu, auto blu, occhi di Kate blu. Perfetto. Kate mi informò che l'ufficio Fbi di Los Angeles, a un'ora di strada da Santa Monica, si trovava sul Wilshire Boulevard, vicino al campus dell'Ucla a West Hollywood e vicino anche a Beverly Hills. «Perché non in centro? Esiste un centro in questa città?» le chiesi. «C'è, ma l'Fbi sembra preferire certe zone rispetto ad altre.» «Cioè le zone con affitti alti e popolazione bianca.» «A volte. Per questo non mi piace la parte bassa di Manhattan. È incredibilmente congestionata.» «È incredibilmente viva e interessante. Ti porterò alla Fraunces Tavern, quel posto dove George Washington si congedò dai suoi ufficiali. Riuscì a farsi riconoscere un'invalidità del 75 per cento.» «E se ne andò a vivere in Virginia, perché non sopportava il casino di New York.» Ci dedicammo per un po' a quella manfrina California-New York. «Sei felice?» mi chiese lei a un certo punto. «Più che felice.» «Bene, non hai più quell'aria terrorizzata.» «Mi sono arreso alla luce. Parlami dell'ufficio di Los Angeles. Che ci facevi, tu?» «Un lavoro interessante. Quello di Los Angeles è, per dimensioni e importanza, il terzo ufficio degli Stati Uniti, ci lavorano circa seicento agenti. Los Angeles è la capitale delle rapine in banca, ne avevamo circa tremila l'anno e...» «Tremila?» «Sì, compiute soprattutto da tossici e con piccoli bottini. Ci sono centinaia di sportelli bancari a Los Angeles e un sistema di strade e autostrade che facilita la fuga. A New York un rapinatore resterebbe fermo mezz'ora al semaforo dentro un taxi. Le rapine, comunque, di solito erano una secca-
tura e basta, raramente qualcuno rimaneva ferito. Una volta mi sono trovata in banca durante una rapina.» «Quanto hai tirato su?» Rise. «Io niente, ma il rapinatore si è preso tra i dieci e i vent'anni.» «L'hai ammanettato tu?» «Sì.» «Raccontami.» «Niente di eccitante. Era in fila davanti a me e ha dato un biglietto alla cassiera, quella si è agitata e io ho capito cosa stava succedendo. Così l'impiegata gli riempie di soldi un sacchetto di carta, quello si volta per andarsene e si ritrova a guardare la canna della mia pistola. È un reato scemo, perché si guadagna poco e si rischia una pena alta, tra Fbi e polizia abbiamo risolto circa il settantacinque per cento delle rapine in banca.» Fu un viaggetto piacevole, lei conosceva bene le strade e in un batter d'occhio ci trovammo sul Wilshire Boulevard. Kate entrò nel grande parcheggio di un edificio di venti piani, bianco e completo di fiori e palme. La presenza delle palme, chissà perché, mi fa pensare che da quelle parti non si faccia nulla di serio o di importante. «Ti sei mai occupata di terrorismo mediorientale?» le chiesi. «Non personalmente, non è un genere molto diffuso in California. C'è solo uno specialista di Medio Oriente, in questo ufficio; adesso ce ne sono altri due.» «Tu, forse. Io non so un bel niente di terrorismo mediorientale.» Parcheggiò e spense il motore. «Qui ti considerano un esperto, dato che lavori alla Sezione Medio Oriente dell'Attf.» «Già, me n'ero dimenticato.» Salimmo in ascensore al sedicesimo piano, interamente occupato dall'Fbi, che aveva uffici anche su piani diversi, in comune con altre direzioni del ministero della Giustizia. Per farla breve, sembrava che fosse tornata la figliola prodiga. Fu tutta una serie di baci e abbracci, e notai che le donne sembravano contente di rivederla quanto gli uomini. Un buon segno, almeno secondo la mia ex, che una volta mi aveva spiegato tutto; purtroppo non ero stato a sentirla. Girammo un sacco di uffici, strinsi mille mani e sorrisi tanto da farmi dolere i muscoli facciali. Ebbi l'impressione di essere ostentato dalla mia... dalla mia... fidanzata. Ecco, l'ho detta la parola tabù. Lei, comunque, ebbe il buon gusto di non fare annunci. Da qualche parte, in questo labirinto di corridoi, uffici e cubicoli, doveva
annidarsi un ex amante o forse più d'uno. Cercai di individuare lo stronzetto, o gli stronzetti, ma non captai alcun segnale. Sono bravo a localizzare qualcuno che vuole fottermi, ma non lo sono altrettanto con quelli che si sono fottuti tra di loro. A tutt'oggi non sono ancora sicuro, per esempio, se mia moglie si faceva scopare dal suo capo. Viaggiavano spesso per lavoro e... ma non ha più importanza, e non ne aveva nemmeno allora. Siccome sono fortunato, il tipo con il quale avevo parlato l'altro giorno al telefono, quello Sturgis viceagente capo con delega a qualcosa, aveva chiesto di vedermi; ci accompagnarono quindi nel suo ufficio. Sturgis girò attorno alla scrivania e ci venne incontro con il braccio teso. «Può chiamarmi Doug» mi disse. Se si chiamava Doug, come avrei dovuto chiamarlo? Claude? Era un bell'uomo, più o meno della mia età, abbronzato e in forma, oltre che elegante. Guardò Kate, si strinsero la mano. «Sono contento di rivederti, Kate.» «È bello tornare qui.» Tombola! Era lui l'ex, me ne accorsi dal modo in cui si guardarono per un attimo. Credo, almeno. Sturgis ci fece sedere, anche se io avrei voluto andarmene. «Lei è proprio come me l'ero immaginata dopo la nostra telefonata» «La cosa è reciproca.» Cambiammo argomento, e mentre lui divagava parlando di lavoro notai che aveva la forfora e le mani piccole. Gli uomini con le mani piccole spesso hanno il pisello piccolo. È accertato. Cercò di rendersi simpatico, ma io certo non lo ero. Alla fine capì l'antifona e si alzò. «La ringraziamo di nuovo per l'ottimo lavoro e per la competenza dimostrata» mi disse. «Non posso sinceramente affermare che contiamo di catturare quell'uomo, ma se non altro siamo riusciti a metterlo in fuga e non ci darà più problemi.» «Non ci scommetterei.» «Vede, Mr Corey, un uomo in fuga a volte è disperato, ma Asad Khalil non è un criminale comune, è un professionista. E tutto quello che vuole, in questo momento, è scomparire e non attirare più l'attenzione su di sé.» «È un criminale, comune o non comune, e i criminali commettono atti criminali.» «Punto di vista interessante, lo terremo presente.» Pensai che forse avrei dovuto dirgli di andare a farsi fottere, ma lui aveva già capito a cosa stavo pensando.
«Se ti andasse di tornare a lavorare qui» disse a Kate «devi soltanto fare domanda e io cercherò di accontentarti.» «Sei gentile, Doug.» Da vomitare. Kate gli diede un biglietto da visita. «C'è il mio numero di cellulare, per favore fammi chiamare da qualcuno se ci fossero sviluppi. Io porto un po' in giro John, che non è mai stato a Los Angeles, poi torniamo a New York con un volo notturno.» «Ti farò chiamare senz'altro. Anzi, se vuoi, ti do un colpo più tardi per aggiornarti.» «Mi farebbe piacere.» Sempre più da vomitare. Si strinsero la mano salutandosi e io dimenticai di dare la mano a Sturgis. Kate mi affiancò in corridoio. «Sei stato sgarbato con lui.» «Nient'affatto.» «E invece sì. Ti sei dimostrato gentile e addirittura affascinante con tutti, per poi metterti a fare l'antipatico con un supervisore.» «Non sono stato antipatico e non mi piacciono i supervisori. E poi al telefono me le aveva fatte girare.» Cambiò argomento, forse perché intuiva il motivo del mio atteggiamento nei confronti di Sturgis. Naturalmente posso sbagliarmi del tutto circa eventuali pregressi rapporti amorosi intercorsi tra Mr Douglas Cazzoaspillo e Ms Kate Mayfield. Ma se non mi fossi sbagliato? Se avessi fatto il simpaticone con Sturgis mentre lui ripensava all'ultima volta che si era scopato Ms Mayfield? Sai che figura da idiota! Meglio andare sul sicuro e fare lo sgarbato. Essere innamorati, riflettei, ha diversi lati negativi. Kate si fece dare le informazioni sul nostro viaggio a Washington. «Abbiamo due prenotazioni confermate, in business class, sul volo delle 23.59 che arriva all'aeroporto Dulles alle 7.48. Qualcuno ci verrà a prendere all'aeroporto.» «E poi?» «Il programma non lo dice.» «Forse avrò il tempo di reclamare con il mio deputato.» «Reclamare per cosa?» «Per essere stato distolto dal mio lavoro e mandato a una stupida conferenza stampa.» Raggiungemmo il parcheggio, risalimmo in macchina e Kate si immise
nel traffico di Wilshire Boulevard. «C'è qualcosa in particolare che ti va di vedere?» mi chiese. «New York.» «Che ne diresti di uno studio cinematografico?» «Che ne diresti del tuo vecchio appartamento? Mi piacerebbe vedere dove abitavi.» «Buona idea. Ne avevo affittato uno non lontano da qui.» Attraversammo West Hollywood, che sarebbe sembrato un posto come si deve, se non ci fossero stati tutti quei palazzi dipinti in tonalità pastello, simili a uova di Pasqua squadrate. Poi arrivammo in un'elegante zona di periferia e passammo davanti alla sua vecchia casa, in stile spagnolo e con la facciata in stucco. «Molto bella» osservai. Proseguimmo fino a Beverly Hills, dove le ville si facevano sempre più grandi, quindi scendemmo per Rodeo Drive e mi sembrò di sentire una scia di profumo "Giorgio" uscire dal negozio omonimo. Quella roba avrebbe impedito di puzzare a un cadavere. A Rodeo Drive parcheggiammo, e Kate mi portò in un bel ristorante all'aperto. E ci rimanemmo a lungo, non avendo impegni, appuntamenti e non dovendo preoccuparci di nulla. Quasi di nulla. Non mi dispiaceva far passare il tempo, visto che lo facevo passare vicino al posto in cui, secondo me, si trovava Asad Khalil. Aspettavo che squillasse il cellulare di Kate, sperando in una buona notizia che mi evitasse di prendere quell'aereo per Washington. Odiavo Washington, ovviamente, e avevo i miei buoni motivi. Il mio atteggiamento nei confronti della California, invece, era sostanzialmente irrazionale, e mi vergognai un po' di nutrire tutti quei pregiudizi verso un posto dove non ero mai stato. «Adesso capisco perché ti piace qui» le dissi. «È affascinante, non trovi?» «Certo. Nevica mai?» «Sui monti. In poche ore puoi passare dal mare al deserto alle montagne.» «E cosa ti metti addosso in casi del genere?» Ha, ha. Lo chardonnay californiano era buono e ne facemmo fuori una bottiglia, precludendoci in tal modo la possibilità di guidare per un po'. Pagai il conto, non eccessivo, e passeggiammo per Beverly Hills, che in effetti non è niente male. Mi accorsi comunque che gli unici pedoni erano rappresentati da orde di turisti che fotografavano e riprendevano con la videocamera
praticamente tutto. Davanti a una vetrina feci notare a Kate che il suo blazer color ketchup era tutto spiegazzato, così come i pantaloni neri, e le proposi di comprarle qualcosa da mettere addosso. «Buona idea» fu il suo commento. «Ti avverto, però, che a Rodeo Drive non spenderai meno di 2000 dollari.» «Permettimi di comprarti un ferro da stiro, allora.» Rise. Cominciavo ad annoiarmi. «Ho visto abbastanza di Los Angeles» dissi. «Troviamoci una stanza da qualche parte.» «Qui non siamo a Los Angeles ma a Beverly Hills, e ci sono ancora tante cose che vorrei farti vedere.» «Ci sono tante cose che vorrei vedere, ma sono coperte dai tuoi vestiti.» Romantico, vero? Lei sembrò più che disposta, nonostante fossimo ormai fidanzati, e risalimmo in macchina facendo un supplemento di giro turistico, che terminò in un posto chiamato Marina del Rey vicino all'aeroporto. Trovò un motel abbastanza grazioso, sul mare, dove prendemmo una stanza portando con noi le borse dell'Fbi. Dalle nostre finestre si vedeva il porticciolo, con una miriade di barche che dondolavano all'ancora, e ancora una volta tornai con la mente al periodo di convalescenza passato a Long Island. Se qualcosa mi aveva insegnato, quel periodo, era di non attaccarmi a una persona, a un posto, a nulla. Ma quello che impariamo e quello che facciamo non sempre coincidono. Notai che Kate mi stava fissando. «Grazie per questa bella giornata» le dissi. Sorrise, poi sembrò riflettere. «Non ti avrei portato da Doug» disse infine. «È stato lui a volerti conoscere.» «Capisco, tutto a posto.» L'argomento era chiuso e mi ero comportato con estremo savoir faire. Presi comunque un appunto mentale di tirare un calcio nelle palle a Doug appena se ne fosse presentata l'occasione. Kate mi schioccò un bel bacio. Poco dopo eravamo a letto e, fatalmente, il suo cellulare si mise a squillare. Bisognava rispondere, e questo significava che dovevo interrompere quello che stavo facendo. Mi girai su un fianco, maledicendo l'inventore del telefono cellulare. Kate si alzò a sedere, riprese fiato e rispose. «Okay... sì, sì... no, abbiamo... siamo in riva al mare a Marina del Rey... Come?... D'accordo, lascerò
l'auto nel parcheggio della polizia... Grazie per la telefonata... Anche a te, ciao.» Riattaccò e si schiarì la voce. «Odio certe telefonate in certi momenti.» Non commentai. «Comunque, era Doug e non aveva nulla da segnalare. Ha detto che se succede qualcosa d'importante cercherà di avvisarci mezz'ora prima del volo, per darci il tempo di cambiare programma. Da Washington ha saputo che, a meno che Khalil non venga catturato qui, dobbiamo prendere quell'aereo. Se invece lo arrestano qui, dobbiamo fermarci e indire una conferenza stampa.» Mi lanciò un'occhiata. «Siamo gli eroi del momento e quindi dobbiamo stare dove si trovano le telecamere. Hollywood e Washington ragionano alla stessa maniera.» Poi mi sorrise. «Dove eravamo rimasti?» Mi venne sopra a cavalcioni, guardandomi negli occhi. «Adesso scopami» mi disse sottovoce. «Stasera ci siamo soltanto io e te, il mondo non esiste, non c'è né passato né futuro. C'è solo l'adesso e ci siamo solo noi.» Il telefono squillò, svegliandoci entrambi. Kate afferrò il cellulare, ma gli squilli non si interruppero e capimmo che a suonare era il telefono del motel. Sollevai la cornetta. "È la sua sveglia delle 22.15, signore. Buona serata." Scendemmo dal letto, ci lavammo, ci vestimmo, pagammo la stanza e risalimmo in macchina. Erano quasi le 11, cioè le 2 di notte a New York, e il mio orologio biologico era completamente andato. L'aeroporto di Los Angeles distava una decina di chilometri e dalla strada si vedevano i jet decollare e puntare sull'oceano verso ovest. «Vuoi che chiami l'ufficio di Los Angeles?» mi chiese Kate. «Non c'è bisogno.» «Sai di cosa ho paura? Che arrestino Asad Khalil, qui, mentre siamo in volo. Io vorrei esserci quando lo prendono, e anche tu immagino. Ehi, dico a te. Svegliati.» «Sto pensando.» Lasciammo l'auto nel parcheggio della polizia e andammo al banco della United Airlines, dove ci aspettavano i nostri biglietti. I moduli per portare le armi a bordo erano già stati compilati e mancava soltanto la nostra firma. «Imbarchiamo tra venti minuti» ci informò l'impiegata della biglietteria «ma se volete bere qualcosa, potete approfittare del Club Guida Rossa.» E ci diede due buoni per la sala vip.
Andammo a sederci su due sgabelli al bar del Club Guida Rossa e bevvi una Coca, sgranocchiando noccioline e mangiando del formaggio. Sollevando gli occhi sullo specchio, incrociai il suo sguardo e le sorrisi. Tutte le donne riflesse nello specchio di un bar sembrano belle, ma Kate, oltre a sembrarlo, lo era veramente. Ricambiò il sorriso. «Non voglio un anello di fidanzamento, sono soldi sprecati» disse. «Vuoi tradurre, per favore?» «Parlavo sul serio. Smettila di fare quello che la sa lunga.» «Me l'hai detto tu di essere spontaneo.» «Ma non così spontaneo.» «Ho capito.» Ahi, ahi. Squillò il suo cellulare e lei lo tirò fuori dalla borsetta. «Mayfield.» Rimase ad ascoltare. «Okay, grazie. Ci vediamo tra qualche giorno.» Si infilò il cellulare in tasca. «Era il funzionario di turno, nessuna novità purtroppo. Non siamo stati salvati dal gong.» «Dovremmo pensare a come salvarci da questo volo.» «Se non prendiamo questo aereo, abbiamo chiuso, eroi o no.» «Lo so.» Misi il cervello al massimo. «Secondo me, la chiave è quel fucile.» «La chiave per cosa?» «Aspetta un momento... stavo pensando...» «Che cosa?» Guardai il giornale che avevo sfogliato poco prima e qualcosa prese a insinuarsi nel mio cervello. Non aveva nulla a che fare con quanto era scritto sul giornale, che oltretutto in quel momento era aperto alle pagine sportive. Giornale. Che cosa? Ci stavo quasi arrivando, ma poi il ricordo scivolò via. Dai, Corey, sforzati. Era come cercare di avere un'erezione cerebrale: il cervello rimaneva ostinatamente molle. «Stai bene?» «Sto pensando.» «Il nostro volo sta imbarcando.» «Sto pensando, aiutami.» «Come faccio ad aiutarti? Non so nemmeno a cosa stai pensando.» «Cos'ha in mente di fare quel bastardo?» Si avvicinò il barista. «Posso darvi ancora qualcosa da bere?» «Levati dai piedi.» «John!»
«Scusi.» Ma il barista si era già allontanato. «John, stanno imbarcando.» «Vai tu, io rimango qui.» «Sei pazzo?» «No, Asad Khalil è pazzo, non io. Vai a prendere il tuo aereo.» «Non parto senza di te.» «Sì che parti. Tu sei una funzionaria, devi fare carriera e pensare alla pensione, io sono un agente a contratto e la pensione la prendo già. Quindi io posso permettermelo e tu no. Vai e non spezzare il cuore a tuo padre.» «No, non senza di te. Ed è la mia ultima parola.» «Mi sento sotto pressione, in questo momento.» «Che tipo di pressione?» «Aiutami, Kate. Perché Khalil ha bisogno di un fucile?» «Per uccidere qualcuno da una certa distanza.» «Esatto. Chi?» «Tu.» «No. Pensa al giornale.» «Okay. Qualcuno importante e sempre sotto scorta.» «Giusto. Continuo a pensare a quello che mi ha detto Gabe.» «Che ti ha detto Gabe?» «Tante cose. Per esempio, che Khalil voleva fare un colpo grosso.» «L'ha fatto, ha vendicato la sua famiglia.» «Sicuro?» «Sì. Li ha uccisi tutti tranne Wiggins e Callum, che è in fin di vita. Wiggins ormai è fuori portata, quindi se la prenderà con te.» «Non escludo che voglia uccidermi, ma io non posso sostituire quello che lui sta veramente cercando, né potevano sostituirlo i passeggeri del volo 175 o i nostri colleghi al Conquistador Club. Ci dev'essere qualcun altro nel suo elenco... stiamo dimenticando qualcosa.» «Prova a fare un'associazione di parole.» «Okay... Giornale, Gabe, fucile, Khalil, bombardamento, Khalil, vendetta...» «Ripensa alla prima volta che hai avuto questa intuizione, John, a New York. Io faccio sempre così, cerco di riportarmi al momento e al posto in cui...» «Ci sono! Stavo leggendo quei ritagli sul bombardamento quando mi è venuto in mente quel pensiero... e poi... poi ho fatto quello strano sogno in aereo, venendo qui in California... qualcosa che aveva a che fare con un
film... un vecchio western...» Dall'altoparlante giunse una voce. «Ultima chiamata del volo United Airlines 204 per Washington, aeroporto Dulles. Ultima chiamata.» «Okay, ecco... la moglie di Gheddafi. Cosa diceva in quell'articolo?» Kate ci pensò su. «Diceva che avrebbe considerato gli Stati Uniti nemici... per sempre... a meno che...» Mi guardò. «Oh Dio, no!... Non può essere...» I nostri sguardi si incrociarono e fu tutto chiaro. Chiaro come il vetro attraverso il quale stavamo guardando da giorni. «Dove abita? È qui che abita, vero?» «Bel Air.» Scesi dallo sgabello e puntai verso l'uscita senza nemmeno preoccuparmi di prendere la borsa. Kate mi fu subito accanto. «Dov'è Bel Air?» le chiesi. «Una trentina di chilometri a nord di qui, non lontano da Beverly Hills.» Eravamo tornati alle Partenze per uscire a cercare un taxi. «Attaccati al cellulare e chiama l'ufficio» le dissi. Lei esitò e la capii. «In questi casi è meglio un falso allarme che nessun allarme» le dissi. «Trova la giusta combinazione di urgenza e preoccupazione per avvisarli dell'emergenza.» Eravamo usciti dal terminal e lei compose un numero sul cellulare, ma non era quello dell'ufficio Fbi. «Doug? Scusami se ti disturbo a quest'ora, ma... no, va tutto bene...» Non volevo salire in taxi e far sentire la conversazione all'autista, quindi ci togliemmo dal parcheggio. «Sì, abbiamo perso l'aereo... stai a sentire, per favore...» stava dicendo Kate. «Dammi questo cazzo di telefono.» Me lo passò. «Parla Corey, mi ascolti bene. Dico soltanto una parola: fatwa. È la condanna a morte che un mullah decreta nei confronti di qualcuno. Okay? Ascolti, allora. Mi sono convinto, sulla base di qualcosa che mi è frullato in capo dopo cinque giorni che tratto questa merda, che Asad Khalil stia per uccidere Ronald Reagan.» 52 Raggiungemmo in taxi il parcheggio della polizia dove avevamo lasciato l'auto, e per fortuna non era ancora stata riportata a Ventura. E puntammo
subito a nord, verso la casa del Grande Satana. Grande Satana non per me, sia ben chiaro. Non ho idee politiche precise e penso, molto semplicemente, che tutti i governi e tutti i politici facciano ugualmente schifo. Chi poteva voler uccidere un uomo vecchio e malato come Ronald Reagan? Uno come Asad Khalil, la cui famiglia era stata sterminata nel bombardamento sulla Libia ordinato dall'ex presidente. O come i coniugi Gheddafi, che in quel bombardamento avevano perso una figlia e forse molti mesi di sonno. Kate aveva imboccato la San Qualcosa Freeway e teneva l'acceleratore a tavoletta. «Credi davvero che Khalil... Voglio dire, Reagan è...» «Reagan probabilmente non ricorda nemmeno l'incidente, ma ti assicuro che Asad Khalil se lo ricorda bene.» «Sì, ho capito... Ma se ci sbagliassimo?» «E se avessimo ragione?» Non rispose. «Senti, tutto quadra. E la nostra deduzione forse non è quella giusta, ma è comunque logica e intelligente.» «Come fa a essere intelligente, se è sbagliata?» «Guida e non pensarci. Se ci sbagliamo, non perdiamo granché.» «Se ci sbagliamo perdiamo il lavoro, cazzo.» «Che ne dici di aprire un bel bed-and-breakfast?» «Ma come diavolo ho fatto a mettermi con te?» «Guida.» Ci stavamo avvicinando, ma naturalmente "Doudou" Sturgis doveva aver già dato l'allarme affinché la villa di Reagan fosse posta sotto controllo; quindi non dovevamo presentarci come il 7° Cavalleggeri che lotta contro il tempo per soccorrere gli assediati allo stremo. «Secondo te, quanti uomini dei servizi segreti sono assegnati di norma alla persona di Reagan?» «Non molti.» «Come mai?» «Per quel poco che ricordo, si dà per scontato che ogni anno i rischi per Reagan diminuiscano. Come se non bastasse, ci sono problemi di bilancio e di organico che limitano il numero del personale distaccato presso la casa dell'ex presidente. Qualche anno fa, però, un matto è riuscito a entrare nel parco e poi nella villa mentre i Reagan erano in casa.» «Incredibile.»
«Ma non credere che non siano protetti a sufficienza. Possono attingere a un fondo speciale per assumere guardie private, che vanno ad aggiungersi al personale dei servizi segreti. Considera, inoltre, che la polizia locale tiene sempre d'occhio la villa, e che l'ufficio Fbi di Los Angeles è a disposizione in ogni momento, come in questo caso.» «E stiamo arrivando noi.» «Quindi sono superprotetti.» «Dipende da chi ti vuol fare la pelle.» «Non dovevamo perdere quell'aereo» mi ricordò. «Una telefonata era più che sufficiente.» «Ti copro io con i capi, non preoccuparti.» «Senti, non farmi più favori, ti prego. Se ci siamo cacciati in questa situazione, è tutta colpa del tuo ego.» «Ho solo cercato di fare la cosa giusta, cioè questa.» «E invece no, fare la cosa giusta significa obbedire agli ordini.» «Pensa quante cose potremo dire alla conferenza stampa, se riusciremo a mettere le mani su Khalil.» «Sei un caso disperato, John. Ti rendi conto che se Khalil, o un suo complice, tiene d'occhio la casa di Reagan e nota un'insolita attività, se la batte e l'abbiamo perduto per sempre? Così non sapremo mai se la tua intuizione era giusta o no.» «Lo so. Ma c'è la possibilità che Khalil, o un eventuale complice, decida di non muoversi questa notte e aspetti domani. E poi immagino che i servizi segreti adotteranno la stessa tecnica seguita dall'Fbi con Wiggins e Callum, vale a dire che organizzeranno un appostamento in casa e un'accoglienza speciale.» «I servizi segreti si limitano a proteggere, John, non tendono trappole. Soprattutto se l'esca è un ex presidente.» «Ma sicuramente trasferiranno Reagan in una località sicura e lasceranno che l'Fbi prepari la trappola, anche se priva di esca. Giusto?» «Come ha fatto il governo federale tutti questi anni senza di te?» Notai un'ombra di sarcasmo che non mi aspettavo, visto che eravamo fidanzati. Giusto? «Sai dov'è la casa?» le chiesi. «No, chiederò informazioni dopo che avremo lasciato la Freeway.» «Perché si chiama così?» «Non lo so, forse perché è free, gratis. Perché a New York le Freeway si chiamano Parkway?» «Non lo so, forse perché ci si parcheggia.»
Imboccammo l'uscita e Kate telefonò all'Fbi di Los Angeles, ascoltando e ripetendo una serie di complicate indicazioni che io annotai sul rovescio del conto dell'hotel di Marina del Rey. Poi Kate comunicò la targa e la descrizione della nostra auto. Bel Air è una località di collina con molte strade serpeggianti e una vegetazione sufficiente a nascondere un esercito di tiratori scelti. Dopo un quarto d'ora ci trovammo su una strada, St. Cloud Road, piena di alberi e ville di lusso, molte delle quali protette alla vista da steccati, mura e siepi. Mi aspettavo di trovare un certo numero di auto e di persone davanti alla tenuta dei Reagan, invece non si vedeva un'anima e il silenzio era completo. Forse quella gente ci sapeva fare davvero. Poi, all'improvviso, da un cespuglio sbucarono due tipi e ci fecero segno di fermarci. Subito dopo avevamo un paio di passeggeri seduti alle nostre spalle, che ci diedero le indicazioni per raggiungere un cancello al centro di un alto muro. Il cancello si aprì automaticamente e Kate, seguendo le istruzioni dei due, si diresse a sinistra andando a parcheggiare accanto alla casamatta degli addetti alla sicurezza. Un'esperienza emozionante, se ti interessa la Storia e roba simile; e anche divertente, se tutti non avessero avuto quell'aria terribilmente seria. Una volta scesi dall'auto, mi guardai attorno e in lontananza vidi la casa dei Reagan, stile ranch, con qualche luce accesa. Non sembrava esserci molta gente in giro, e davo per scontato che il parco fosse pieno di uomini addestrati a individuare i cecchini e di agenti camuffati da alberi, rocce o chissà che altro. Ci fu cortesemente chiesto di rimanere accanto all'auto, dove peraltro ci trovavamo già. E d'un tratto, guarda guarda, dall'edificio della sicurezza spuntò Douglas Cazzoaspillo e si avvicinò a noi. Douglas mi guardò e saltò i preamboli. «Mi ripeta perché siamo qui.» Il tono non mi piacque. «Mi dica lei perché non era qui ieri. Devo pensare io a tutto, al posto suo?» «Ora esagera, caro signore.» «Non me ne potrebbe fottere di meno.» «Questa è insubordinazione!» «Sto solo scaldando il motore.» Kate decise di intervenire. «Ora basta, calmatevi.» Poi si rivolse a Cazzoaspillo. «Facciamo due passi e parliamo, vuoi, Doug?» Si allontanarono di qualche metro e io rimasi lì, infuriato, anche se non sapevo esattamente per quale motivo. Era stato solo uno sfoggio di forza
maschile, una specie di esibizione a beneficio della femmina della specie. Molto primitivo, so elevarmi al di sopra di certe meschinità; e ogni tanto dovrei anche provare a farlo. Mi si avvicinò una donna dei servizi segreti, in borghese, che si presentò come Lisa e chiarì subito di avere l'incarico di supervisore o qualcosa del genere. Era sulla quarantina e aveva un'aria simpatica. Ci mettemmo a chiacchierare, e lei mi sembrò molto curiosa di sapere come ero arrivato alla conclusione che l'ex presidente era minacciato di morte. Mentre discorrevamo, tornò Kate, da sola, e la presentai alla mia nuova amica. Kate, che non sembrava particolarmente interessata a Lisa, mi prese per un braccio facendomi fare qualche passo. «Dobbiamo prendere il primissimo volo del mattino» mi disse. «Siamo ancora in tempo per la conferenza stampa.» «Lo so, a New York sono indietro di tre ore.» «John, stai zitto e ascolta. Il direttore vuole parlarti, mi sa che ti sei cacciato in un guaio.» «Che fine ha fatto l'eroe?» Lei ignorò la domanda. «Ci hanno prenotato due stanze in un albergo vicino all'aeroporto e due posti su un volo che parte all'alba. Andiamo.» «Ho il tempo di dare un calcio nelle palle a Doug prima di muoverci di qui?» «Non sarebbe una mossa intelligente sotto il profilo della carriera. Andiamo.» «Okay.» Mi avvicinai a Lisa per informarla che dovevamo andarcene, e lei mi disse che avrebbe fatto aprire il cancello. Tornammo all'auto e Lisa ci accompagnò; non avevo alcuna voglia di partire. «Provo un po' di rimorso per avervi buttati tutti giù dal letto» le dissi. «Perciò mi sento in obbligo di restare con voi fino all'alba. Per me non sarà un problema, glielo assicuro.» «Non se ne parla nemmeno» tagliò corto. «Entra in macchina» mi disse Kate. Lisa credette opportuno darmi una spiegazione per quella risposta brusca: «Mr Corey, abbiamo un piano di protezione studiato fin nei minimi dettagli che è in funzione dal 1988, e lei in questo piano non è previsto». «Non siamo nel 1988 e adesso non si tratta soltanto di proteggere un ex presidente, ma anche di catturare un killer perfettamente addestrato.» «Lo sappiamo bene, per questo siamo qui. Non si preoccupi.»
«Andiamo, John» tornò alla carica Kate. La ignorai. «Potremmo entrare nella villa, così non daremmo fastidio a nessuno.» «Se lo scordi.» «Il tempo per un drink veloce con Ron e Nancy.» Lisa si mise a ridere. «Andiamo, John» insistette Kate. «E comunque non sono in casa» disse la donna dei servizi segreti. «Come dice?» «Non sono in casa» ripeté Lisa. «E dove sono?» «Non posso dirglielo.» «Ho capito. Li avete già evacuati da qui portandoli in una località sicura, come Fort Knox. Vero?» Lisa si guardò attorno. «Be', non è un segreto. Anzi, è stato anche pubblicato sui giornali, ma quel tipo con cui lei litigava poco fa ci ha chiesto di non dirglielo.» «Di non dirmi che cosa?» «Che i Reagan sono partiti ieri per andare a passare qualche giorno al Rancho del Cielo.» «Dove?» «Rancho del Cielo, come dire un ranch in cielo.» «Come dire che sono morti?» Rise. «No, si tratta del loro vecchio ranch, che si trova a nord di qui, sui monti di Santa Inez. L'ex Casa Bianca occidentale.» «Mi sta dicendo che ora si trovano in questo ranch. Giusto?» «Proprio così. Loro lo considerano una specie di... di ultimo viaggio. Quell'uomo è molto malato.» «Lo so.» «Mrs Reagan ha pensato che tornarci potesse far bene al marito; il presidente ama molto quel posto.» «Sì, ora ricordo. E la notizia del trasferimento era sui giornali?» «C'è stato un comunicato stampa, ma non tutte le testate l'hanno riportato. Comunque, i media sono invitati a Rancho del Cielo venerdì, cioè l'ultimo giorno di permanenza dei Reagan, per qualche foto del tipo "l'ultima cavalcata dell'eroe al tramonto". Molto triste. Ma non so dirle altro.» «Ho capito. E avete della gente, là?» «Naturalmente.» Poi sembrò parlare a se stessa. «Quel poveraccio ha
l'Alzheimer, chi mai vorrebbe ucciderlo?» «Lui avrà anche l'Alzheimer, ma quelli che vogliono ucciderlo hanno la memoria lunga.» «Comunque, è sotto controllo.» «Quanto è grande questo ranch?» «Piuttosto grande, sui 300 ettari.» «Quanti suoi colleghi lo presidiavano quando Reagan era presidente?» «Un centinaio.» «E ora?» «Non lo so, oggi ce n'erano sei e stiamo cercando di mandarne un'altra dozzina. L'ufficio di Los Angeles non è grande, in caso di necessità ci facciamo dare una mano dalla polizia locale o chiediamo rinforzi a Washington.» Kate non sembrava più avere tanta fretta di muoversi. «E perché non vi appoggiate all'Fbi?» le chiese. «Alcuni agenti federali si sono già mossi da Ventura, ma si sistemeranno nella zona di Santa Barbara, che è la città più vicina al Rancho del Cielo. Non possiamo permetterci di far entrare in quella tenuta gente che non conosce il nostro modo di lavorare, qualcuno potrebbe farsi del male.» «Ma se non avete gente a sufficienza» le fece notare Kate «potrebbe farsi del male la persona che dovreste proteggere.» Lisa rimase in silenzio. «Perché non portarlo via da lì e trasferirlo in un posto sicuro?» le chiesi. Lei si guardò di nuovo attorno. «La minaccia non è considerata molto credibile. E inoltre, per rispondere alla sua domanda, c'è solo una strada di montagna, stretta e piena di curve. Una vera pacchia, per chi volesse tendere un'imboscata. L'eliporto presidenziale è stato rimosso da tempo insieme con i riflettori che ne consentivano l'uso con il buio, e anche se ci fosse ancora, sarebbe inutilizzabile perché stanotte, come al solito, i monti sono immersi nella nebbia.» «Gesù, ma chi l'ha avuta questa idea geniale?» «Trasferirsi al Rancho del Cielo? Non lo so. Consideri comunque che quest'uomo, nonostante il suo passato, è un vecchio malato che non compare in pubblico da dieci anni. E di recente non ha detto o fatto nulla che potesse trasformarlo in un bersaglio; riceviamo più minacce di morte contro gli animali domestici della Casa Bianca che contro Reagan. Mi rendo conto che la situazione potrebbe essere mutata, e siamo pronti a reagire. Nel frattempo, però, abbiamo in visita a Los Angeles tre capi di Stato, due
dei quali odiati da mezzo mondo, e le nostre forze sono ridotte. Non ci va di perdere il capo di Stato di un paese amico, anche se non è simpatico. Non vorrei apparirle fredda e senza cuore, Mr Corey, ma Ronald Reagan non è altrettanto importante, siamo sinceri.» «Secondo me, per Nancy è importante. E anche per i figli. Comunque, Lisa, le faccio notare che l'omicidio di un ex presidente sarebbe devastante sotto il profilo psicologico, oltre che sotto quello del suo futuro professionale. Quindi, cerchi di fare in modo che i suoi capi prendano questa faccenda sul serio.» «La prendiamo molto sul serio, stiamo facendo tutto quello che possiamo.» «Le ricordo inoltre che c'è la possibilità di catturare il terrorista più ricercato d'America.» «Me ne rendo conto. Ma lei dovrebbe capire che la sua teoria non ha trovato molti sostenitori.» «Okay, poi non dite che non vi avevo avvertiti.» «Le siamo grati per averlo fatto.» Aprii lo sportello. «State andando là?» chiese Lisa. «No, non sui monti, non con questo buio. E poi domani dobbiamo essere a Washington. Grazie di tutto.» «Sono dalla sua parte, per quello che può valere.» «Ci vediamo all'inchiesta del Senato.» Entrai in macchina, Kate era già al volante. Uscì dal parcheggio e prese il vialetto, il cancello si aprì automaticamente e ci ritrovammo sulla St. Cloud Road. «Dove andiamo?» mi chiese. «Al ranch in mezzo al cielo.» «E io te lo chiedo pure.» 53 Ci dirigemmo verso Rancho del Cielo, ma non fu semplice uscire da Bel Air e perdemmo altro tempo nella ricerca dell'autostrada. «La risposta la conosco, ma te lo chiedo lo stesso: perché stiamo andando al ranch di Reagan?» mi chiese Kate. «Perché la vita ci sorride.» «Prova di nuovo.» «Perché dobbiamo ammazzare il tempo, visto che mancano sei ore al nostro volo. E già che ci siamo, oltre al tempo potremmo ammazzare an-
che Asad Khalil.» Respirò a fondo, probabilmente per gustare meglio il profumo dei fiori. «Secondo te, dunque, Khalil sa che Reagan è lì e vuole ucciderlo. Giusto?» «Secondo me, Khalil voleva ucciderlo a Bel Air. Ma appena arrivato in California, ha avuto l'informazione giusta; allora si è fatto scarrozzare in auto da Aziz Rahman a nord di Santa Monica per una ricognizione attorno al ranch di Reagan e ha nascosto dentro un canyon la borsa, che secondo me conteneva le Glock e i documenti falsi. Mi sembra una ricostruzione plausibile, e se non lo è, significa che ho sbagliato mestiere.» Riuscì finalmente a trovare l'ingresso dell'autostrada e la imboccammo in direzione nord, per andare a prendere la San Diego Freeway. «Sai dove si trova il ranch?» le chiesi. «Da qualche parte sui monti di Santa Inez, vicino a Santa Barbara.» «E dov'è Santa Barbara?» «A nord di Ventura e a sud di Goleta.» «Tutto chiaro. E quanto ci impiegheremo?» «Un paio d'ore per arrivare a Santa Barbara, dipenderà dalla nebbia. Da lì non so come si arriva al ranch, ma lo scopriremo.» «Vuoi che guidi io?» «No.» «So guidare.» «So guidare anch'io, e conosco le strade. Dormi.» «Mi sto divertendo troppo. Senti, che ne dici di passare all'ufficio Fbi di Ventura per riprendere i giubbotti antiproiettile?» «Non prevedo una sparatoria; anzi, secondo me, quando arriveremo al ranch ci chiederanno gentilmente di toglierci dai piedi, come è accaduto a Bel Air. Quelli dei servizi segreti non amano le invasioni di campo, soprattutto quando a farlo è l'Fbi.» Sbadigliai. «Dormi.» «No, voglio tenerti compagnia, sentire la tua voce.» «Allora ascolta... Perché ti sei comportato in quel modo con Doug?» «Chi è Doug? Ah, quello. Ti riferisci a Los Angeles o a Bel Air?» «A entrambi.» «Be', a Bel Air me le ha fatte girare perché sapeva che i Reagan non erano più lì, ma non ce l'ha voluto dire.» «John, questo l'hai scoperto dopo averlo trattato male.» «Non stiamo a fare i sofistici sull'ordine cronologico degli avvenimenti.»
Rimase in silenzio per un po'. «Non sono andata a letto con lui, ci sono soltanto uscita» disse poi. «È sposato, felicemente sposato, e ha due figli al college.» Non vidi il motivo di ribattere. Lei però non intendeva lasciar cadere l'argomento. «Un po' di gelosia mi sta bene, ma tu hai davvero...» «Aspetta un attimo. E come lo chiami quel tormento che mi hai dato a New York?» «È diverso.» «Spiegamelo, magari lo capisco anch'io.» «Tu stai ancora con Beth, mentre Los Angeles ormai è storia vecchia.» «Capito. Non ne parliamo più.» «Okay.» Mi prese la mano e la strinse. Ero fidanzato da ventiquattr'ore e non sapevo come avrei fatto ad arrivare fino a giugno. All'improvviso squillò il cellulare di Kate; non poteva essere che Douglas Cazzoaspillo, il quale aveva sicuramente scoperto che non ci eravamo presentati all'albergo dove aveva prenotato. «Non rispondere» le dissi. «Devo rispondere.» In effetti era Mr Senzapalle e Kate rimase un po' ad ascoltarlo. «Be'... siamo sulla 101 in direzione nord» disse poi. Ascoltò ancora. «Esatto... abbiamo scoperto che i Reagan sono...» Lui continuava a interromperla. «Dammi il telefono» le dissi. Scosse il capo e continuò ad ascoltare. Ero proprio incazzato, di certo lui la stava maltrattando, e non si maltratta la fidanzata di John Corey, a meno che non si sia stanchi di vivere. Però non volevo strapparle il cellulare di mano, e mi domandai perché non le avesse chiesto di parlare con me. Davvero senza palle. Kate cercò di dire qualcosa, ma Doggy Stronzone continuava a interromperla. Finché, finalmente, fu lei a farlo. «Ascolta, Doug, mi hai nascosto delle informazioni, dicendo ai servizi segreti di fare altrettanto, e la cosa non mi è affatto piaciuta. Allora, per tua informazione, sappi che a mandarci qui sono stati i due comandanti dell'Attf di New York, che hanno chiesto all'ufficio Fbi di Los Angeles di mettersi a disposizione e fornire tutta la collaborazione necessaria. L'Attf di New York è titolare di questa inchiesta, e in questo momento noi siamo i suoi rappresentanti in California. Sono e sono stata reperibile sul cellulare e sul cercapersone e continuerò a esserlo. A te basti sapere che io e Mr Corey prenderemo quell'ae-
reo, salvo ordini contrari da parte dei nostri superiori a New York o Washington. E inoltre, non sono affari tuoi sapere dove dormo e con chi dormo.» Riattaccò. Volevo dirle "Brava", ma preferii tacere. Rimanemmo in silenzio. Qualche minuto dopo il telefono squillò di nuovo, ma sapevo che non poteva essere il mio amico Doug, perché non aveva le palle per richiamare. Probabilmente si era messo a piagnucolare con Washington e da lì ci stavano chiamando per ordinarci di tenerci alla larga da Rancho del Cielo. Mi ero ormai rassegnato, perciò fu una sorpresa vedere Kate porgermi il telefono. «È Paula Donnelly dal Centro coordinamento, dice che un signore ha chiamato sul tuo telefono diretto dicendo che vuole parlare con te, e soltanto con te.» Fece una pausa. «Asad Khalil» aggiunse, inutilmente. Mi portai il cellulare all'orecchio. «Sono Corey, ti è sembrato proprio Khalil?» le chiesi. «Non so che voce abbia uno che ha ucciso più di trecento persone. Ha detto di averti parlato a Ventura e che gli avevi dato il tuo numero diretto.» «È lui. Puoi passarmelo?» «Non vuole, dice che preferisce chiamarti direttamente. Se siete d'accordo, posso dargli il numero del cellulare di Kate, non credo che lui abbia intenzione di lasciarmi il suo.» «Okay, daglielo. Grazie, Paula.» Né io né Kate parlammo e, dopo quella che ci sembrò un'eternità, il telefono squillò di nuovo. Risposi io. «Corey.» «Buonasera, Corey. O forse dovrei dire buongiorno.» «Di' quello che vuoi.» «Ti ho svegliato?» «Non preoccuparti, tanto mi sarei dovuto alzare in ogni caso per rispondere al telefono.» Seguì un silenzio, durante il quale lui tentò evidentemente di cogliere il mio umorismo. Non capivo bene il motivo per cui mi aveva cercato, ma se qualcuno ti chiama e non ha nulla da offrire, significa che vuole qualcosa. «Allora, che cos'hai fatto di bello dall'ultima volta che ci siamo sentiti?» gli chiesi. «Ho viaggiato. E tu?» «Anch'io. Pensa un po' che coincidenza, stavo proprio parlando di te.» «Sicuramente non parlerai d'altro in questi giorni.» Stronzo. «Ho una vita privata, sai. E tu?»
Era chiaro che non aveva capito. «Certo che sono vivo, sono vivissimo» rispose infatti. «Bene. Allora, che cosa posso fare per te?» «Dove sei, Corey?» «A New York.» «Ah sì? Credevo di aver chiamato un cellulare.» «Infatti, hai chiamato un cellulare che si trova a New York, e io sto con il cellulare. Tu dove sei?» «In Libia.» «Ma non mi dire, ti sento chiaro come se fossi dietro l'angolo.» «Forse sono davvero dietro l'angolo, forse sono a New York.» «Forse. Guarda dalla finestra e dimmi se vedi cammelli o taxi gialli.» «Senti, Corey, non mi piace il tuo spirito e non ha nessuna importanza dove io e te ci troviamo, visto che entrambi stiamo mentendo.» «Esatto. Allora, qual è lo scopo di questa telefonata? Di cosa hai bisogno?» «Credi che ti chiami solo quando ho bisogno di un favore? Volevo sentire la tua voce.» «Carino da parte tua. Cos'è, mi hai sognato di nuovo?» Guardai Kate, che teneva gli occhi fissi sulla strada buia. Cominciava a scendere la nebbia e l'atmosfera era spettrale. Lei si voltò a guardarmi e mi strizzò l'occhio. Khalil finalmente rispose. «In effetti ti ho sognato.» «Un bel sogno?» «Eravamo in un posto buio, e io venivo fuori alla luce coperto del tuo sangue.» «Davvero? E secondo te cosa significa?» «Tu lo sai cosa significa.» «Senti, ti capita mai di sognare donne e di svegliarti seriamente arrapato?» Kate mi diede una gomitata nelle costole. Khalil non rispose, ma cambiò argomento. «C'è qualcosa che puoi fare per me, a pensarci bene.» «Lo sapevo.» «Anzitutto devi dire a Wiggins di non farsi illusioni, ci impiegherò magari quindici anni, ma lo ucciderò.» «Dai, Asad, sarebbe ora di perdonare e di...» «Zitto.»
Oh sant'Iddio. «In secondo luogo, Corey, questo vale anche per te e per Kate Mayfield.» Guardai Kate, ma lei non aveva potuto sentirlo. «Asad, non puoi risolvere tutti i tuoi problemi con la violenza» dissi allora al mio sciroccato interlocutore. «Certo che posso.» «Questa conversazione non mi interessa più e la bolletta del telefono sta salendo, quindi...» «Te lo dirò io quando la conversazione sarà terminata.» «Allora vieni al punto.» Credevo di sapere cosa voleva e, particolare interessante, a un certo punto sentii cinguettare un uccellino, il che significava che Khalil si trovava all'aperto, a meno che non avesse in casa un canarino. Ma, anche se non sono un appassionato di birdwatching, avrei detto che era della stessa specie di quelli che avevo sentito poco prima a Bel Air. Uccelli o no, ero sicuro che Khalil fosse ancora in zona. Asad finalmente chiarì il vero motivo della telefonata. «Cosa mi hai detto l'ultima volta che ci siamo sentiti?» mi chiese. «Credo di averti chiamato inculacammelli. Ma ora voglio ritirare questa parola, perché è razzista, e io, in quanto dipendente federale, oltre che cittadino americano...» «Cosa dicevi di mio padre e mia madre?» «Ah, già. Be', l'Fbi... anzi, la Cia e i loro amici dall'altra parte dell'Atlantico hanno informazioni particolarmente attendibili sul fatto che tua madre era... come ti posso dire?... insomma, una buona amica di Gheddafi. Ma noi siamo uomini, vero, certe cose le capiamo. Sì, lo so, stiamo parlando di tua madre e l'argomento è delicato, ma, insomma, anche lei aveva le sue esigenze. Giusto? E sai... si sentiva tanto sola, con papà così spesso fuori città... Sei ancora in linea?» «Vai avanti.» Lanciai un'occhiata a Kate, che sollevò il pollice in segno di approvazione. «Quindi, Asad, non è che voglia dare giudizi, per carità. Magari tua madre e Muammar si sono messi insieme solo dopo che tuo padre... eh sì, perché c'è quest'altra faccenda di tuo padre. Sei davvero sicuro di volerla sentire?» «Vai avanti.» «Come vuoi. Allora, sempre la Cia... sono tipi in gamba, sai, ci sanno fare in maniera incredibile. Ho un buon amico alla Cia, un certo Ted, e que-
sto Ted una volta mi ha detto che tuo padre. .. si chiamava Karim, vero?... Comunque, quello che è successo a Parigi lo sai, quello che non sai invece è che non sono stati gli israeliani a farlo secco... insomma, a ucciderlo. Invece, Asad, è stato... Ma perché rivangare il passato? Succedono, certe porcherie, e so bene quanto tu possa portare rancore; quindi, perché vuoi tormentarti di nuovo? Non pensarci più.» Seguì un lungo silenzio. «Vai avanti» disse poi Khalil. «Ne sei sicuro? Cioè, c'è gente che ti dice: "Continua, dimmi, non me la prenderò con te", e poi, quando gli dai le brutte notizie, ti odia. E io non voglio che tu mi odi.» «Non ti odio.» «Però vuoi uccidermi.» «Sì, ma non ti odio, perché tu non mi hai fatto niente.» «Ah, non ti ho fatto niente... Ho solo mandato a puttane il tuo piano per uccidere Wiggins... Vuoi riconoscermi qualche merito? Et tu, Brute?» «Come?» «È latino. Quindi, se vuoi odiarmi, fallo pure, ma perché devo sbatterci il muso proprio io? Voglio dire, se ti parlo di tuo padre, cosa me ne viene in cambio?» Ci pensò su. «Se mi dici quello che sai, ti do la mia parola che non farò del male né a te né a Kate Mayfield.» «E nemmeno a Wiggins.» «Questa è una promessa che non posso farti, perché Wiggins è un morto che cammina.» «D'accordo, sempre meglio di niente. Allora, dov'eravamo rimasti?... Ah sì, Parigi. Senti, non voglio star qui a fare congetture o, peggio, a seminare dubbi e sfiducia, ma secondo me dovresti farti la stessa domanda che si fanno tutti gli investigatori criminali: cui bono? È sempre latino, non italiano... tu parli italiano, vero? Allora, cui bono? A chi giova? Chi avrebbe tratto vantaggio dalla morte di tuo padre?» «Gli israeliani, ovviamente.» «Ma dai, Asad, non offendere la tua intelligenza. Quanti capitani dell'esercito libico vengono uccisi dagli israeliani per le strade di Parigi? Quelli hanno bisogno di un motivo preciso per far fuori la gente, e tuo padre cosa aveva fatto agli israeliani? Dimmelo, se lo sai.» Lo sentii schiarirsi la voce. «Era un antisionista» disse poi. «E chi non lo è in Libia? Te la dico io, allora, la verità. I miei amici della Cia sono certi che non sono stati gli israeliani a uccidere tuo padre. Secon-
do i disertori libici, a ordinare il delitto è stato Gheddafi in persona. Mi spiace.» Tacque. «Ecco com'è andata. C'erano forse divergenze politiche fra tuo padre e Gheddafi? Qualcuno a Tripoli l'aveva forse giurata a papà? Oppure c'era di mezzo tua madre? Chi lo sa? Tu che mi dici?» Silenzio. «Sei ancora lì? Pronto... Asad?» «Sei un lurido bugiardo e proverò un gran piacere a mozzarti la lingua prima di tagliarti la gola.» «Vedi? Lo dicevo che ti saresti incazzato. Vai a fare un favore... Pronto, Asad? Pronto?» Premetti il pulsante FINE, posai il cellulare tra me e Kate e respirai a fondo. Rimanemmo qualche minuto in silenzio, poi le feci una sintesi della mia conversazione con Khalil, senza omettere la minaccia di morte nei suoi confronti. «Secondo me, non gli andiamo a genio» commentai. «Sei tu che non gli vai a genio, vuole mozzarti la lingua e tagliarti la gola.» «Se è per questo, vorrebbero farlo anche certi miei amici.» Ridemmo, cercando di sdrammatizzare la situazione. «Comunque, l'hai trattato nella maniera giusta» riprese lei. «Con uno come lui non c'è alcun bisogno di usare un tono serio e professionale.» «La regola dice che, se un sospetto sa qualcosa che ti serve, devi trattarlo con rispetto e dargli importanza. Ma se invece è il sospetto ad aver bisogno di qualcosa, allora puoi prenderlo per il culo quanto ti pare.» «Non ricordo di aver letto questa regola nel manuale degli interrogatori.» «Lo sto riscrivendo, il manuale.» «Me ne sono accorta.» Rimase un momento a riflettere. «Al ritorno in Libia, se riuscirà a tornarci, Asad vorrà certe risposte.» «Se farà certe domande, potrà considerarsi morto. Quindi, o deciderà di non credere a quanto gli ho detto, oppure si metterà a fare in Libia quel che ha fatto in America. Quell'uomo è pericolosissimo, è una macchina per uccidere, e non avrà pace finché non avrà regolato i conti.» «Tu gli hai appena aperto qualche altro conto da regolare.» «Speriamo.» Mi accorsi della completa assenza di traffico, solo un idiota si sarebbe
messo in macchina a quell'ora in una notte come quella. «Credi sempre che Khalil sia ancora in California?» mi chiese Kate. «Lo so per certo. È sui monti di Santa Comesichiama, dalle parti del ranch dei Reagan, se non addirittura dentro il ranch.» «Spero di no.» «Io invece spero di sì.» 54 Viaggiavamo sui 70 chilometri l'ora, una velocità che, data la visibilità pressoché nulla, era decisamente eccessiva. Su un cartello stradale lessi: SANTA BARBARA 50 CHILOMETRI. L'orologio del cruscotto segnava le 2.50. Sbadigliai. Kate tirò fuori di tasca il cellulare e compose un numero. «Chiamo l'ufficio di Ventura» mi spiegò. Rispose Cindy Lopez. «Notizie dal ranch?» le chiese Kate. Ascoltò, poi disse: «Ah, bene». Ma poco prima Cindy doveva aver parlato con Douglas Chiavica, perché sentii Kate sbraitare: «Non mi interessa quello che ti ha detto Doug. Tra poco saremo a Santa Barbara, dove si trovano già i colleghi di Ventura; ci basta che avvertano il ranch che stiamo arrivando». Rimase ad ascoltare. «John ha appena parlato con Asad Khalil... sì, hai capito bene. Ha stabilito con lui una specie di contatto che potrebbe tornare utilissimo se la situazione si sbloccherà. Esatto. Rimango in linea.» Coprì il microfono con la mano. «Cindy sta chiamando il distaccamento dei servizi segreti al ranch.» «Bella mossa, Mayfield.» «Grazie.» Si riportò il cellulare all'orecchio, rimase ad ascoltare, poi ringraziò e riattaccò. «Che ti ha detto?» le chiesi. «Allora, i colleghi dell'Fbi sono in un motel che si chiama Sea Scape, a nord di Ventura e non lontano dalla strada di montagna che porta al ranch. Sono Kim, Scott e Edie, e con loro c'è uno dei servizi segreti che fa da collegamento. Dobbiamo andare al motel e riferire loro la tua telefonata con Asad Khalil, ma non ci consentono di proseguire fino al ranch. Possiamo aspettare al motel fino all'alba, nel caso succeda qualcosa e sia necessario che tu gli parli; al telefono, se dovesse chiamare, o di persona in manette, se dovessero catturarlo. In manette lui, non tu.»
«Noi stiamo andando al ranch, come avrai capito.» Dopo circa mezz'ora di guida al rallentatore in quel nebbione, riuscimmo a scorgere, sulla sinistra, un cartellone illuminato con la scritta SEA SCAPE MOTEL. Kate entrò nel parcheggio. «Stanze 116 e 117» mi disse. «Prima passa dalla portineria.» «Perché?» «Prendo due stanze anche per noi e cerco del caffè e qualcosa da mangiare.» Il portiere di notte mi vide dalla vetrata e premette un pulsante, aprendo la porta d'ingresso. Dovevo essergli sembrato rispettabile in giacca e cravatta, anche se il vestito era spiegazzato e puzzava. Gli mostrai il tesserino. «Dovrebbero esserci dei colleghi, stanze 116 e 117.» «Sì, signore. Vuole che li chiami?» «No, mi basta lasciargli un messaggio.» Mi porse un blocchetto e una penna. "Kim, Scott, Edie" scrissi "mi spiace di non potermi fermare, ci vediamo domattina, J.C." Diedi il foglietto al portiere di notte, insieme a un biglietto da dieci dollari. «Glielo faccia avere alle otto, per favore. A proposito, mi sa indicare la strada per il ranch di Reagan?» «Non è difficile. Prosegua in direzione nord per un altro chilometro; a sinistra troverà il Refugio State Park, mentre sulla destra inizia una strada, la Refugio Road. Tenga gli occhi aperti, perché non ci sono cartelli indicatori e, comunque, io non proverei ad andarci stanotte.» «Perché no?» «Non si vede un accidente, avvicinandosi alla cima la strada procede a zigzag e c'è il rischio di fare zig quando invece si dovrebbe fare zag, finendo in un fosso. O peggio.» «Nessun problema, l'auto è del governo.» Tornai alla macchina e aprii lo sportello di Kate. «Scendi a stirarti un po'. Lascia il motore acceso» le dissi. Lei scese e si stiracchiò voluttuosamente. «Che bello!» mugolò. «Le hai prese le stanze?» «Sono al completo.» Mi sedetti al volante, richiusi lo sportello e abbassai il finestrino. «Io vado al ranch, tu vuoi venire o ti fermi qui?» Stava per rispondere qualcosa, poi sospirò esasperata, girò attorno all'auto e si sedette sul sedile accanto al mio. «Sai guidare?»
«Certo.» Tornai sulla strada costiera. «Tra un chilometro troveremo sulla sinistra il Refugio State Park e sulla destra la Refugio Road, che è quella che dobbiamo prendere. Tieni gli occhi aperti.» Non rispose, e capii che doveva essere arrabbiata. Vidi il cartello del parco e poi, all'ultimo momento, notai la strada alla mia destra e sterzai bruscamente. Pochi minuti dopo eravamo su una specie di stretto sentiero di montagna, con una nebbia così fitta che, se avessi guidato una Mercedes, non sarei riuscito a distinguere lo stemma sulla punta del cofano. Continuammo a salire, mentre la strada si faceva più stretta e ripida, con il fondo sconnesso. «Come ci venivano quassù Ron e Nancy? In elicottero?» «Indubbiamente, questa strada è pericolosa.» «La strada non è pericolosa, lo sono i burroni ai lati.» Ero stanco e faticavo a tenere gli occhi aperti, anche se guidare in quelle condizioni mi metteva in ansia. «A casa ho una jeep Grand Cherokee, vorrei tanto averla qui» dissi a Kate. «Non basterebbe nemmeno un carro armato. Li vedi quei burroni?» «No, c'è troppa nebbia. Credi che dovremmo fare inversione e tornare a Santa Barbara?» «Inversione? Ma se c'è a malapena spazio per l'auto.» «Sono sicuro che più su la strada si allarga.» «E io sono sicura di no. Spegni gli anabbaglianti, con le luci di posizione si vede meglio.» La nebbia cominciava a disorientarmi, ma almeno la strada era diritta. «Fermati, John!» gridò lei all'improvviso. Pigiai sul freno. «Che c'è?» Respirò a fondo. «Stavi per finire in un dirupo.» «Ma va, davvero? Non vedo niente.» Scese e si mise davanti all'auto, cercando probabilmente di vedere la strada. Io a malapena riuscivo a distinguere lei, trasformata in una figura spettrale. Scomparve nella nebbia per riapparire poco dopo. «Tieniti sulla sinistra, a un certo punto c'è una curva a gomito a destra.» Andammo avanti così, a tentoni, quando all'improvviso squillò il cellulare. «Non posso passartelo, Tom» disse lei dopo aver ascoltato. «Ha entrambe le mani occupate e il naso schiacciato contro il parabrezza.» Ascoltò ancora. «Esatto, stiamo andando al ranch. Okay, saremo prudenti. Ci vediamo domani mattina, grazie.»
Riattaccò. «Tom dice che sei un lunatico.» «Questo l'avevamo già stabilito. Che c'è di nuovo?» «C'è che il tuo rapporto privilegiato con Khalil ci ha aperto le porte. Tom dice che i servizi segreti ci faranno entrare nel ranch, pensavano che saresti arrivato domattina, ma Tom li ha avvertiti e ci stanno aspettando.» «Hai visto? Mettili davanti al fatto compiuto e troveranno il sistema per consentirti di fare quel che hai già fatto. Se invece chiedi il permesso, escogiteranno sempre il modo per dirti di no.» «Questo lo leggo sul tuo nuovo manuale?» «Te lo passerò presto.» Dopo una decina di minuti, mi fece un'altra domanda. «Se ci avessero rimandato indietro, che avresti fatto? Qual è il Piano B?» «Il Piano B prevede che si lasci l'auto e si cerchi questo ranch a piedi.» «Me l'immaginavo. E prevede anche che qualcuno ci spari a vista?» «Ma se non si vede un accidente con questa nebbia, nemmeno con gli occhiali a infrarossi. Il segreto è continuare a salire, ricordandosi che il muschio cresce a nord dell'albero e che l'acqua invece scende; potremmo arrivare al ranch in un batter d'occhio, scavalcare la staccionata e nasconderci nel fienile o in un posto del genere. Senza problemi.» Pochi minuti dopo, notai che la salita stava diventando meno ripida e la vegetazione si diradava; poi vidi che alla nostra destra si apriva una strada, ma il portiere del motel mi aveva detto di andare a sinistra. Prima di arrivare al bivio, comunque, dalla nebbia sbucò un uomo con una mano sollevata. Io frenai e portai la mia mano alla Glock, imitato da Kate. Lo sconosciuto venne verso di noi, e vidi che indossava la classica giacca a vento scura con il distintivo appuntato sul petto e portava un berretto da baseball con la scritta SECRET SERVICE. Abbassai il finestrino e lui si avvicinò al mio sportello. «Per favore, scenda e tenga le mani dove posso vederle.» Quelle cose di solito le dicevo io, perciò sapevo come comportarmi. Kate e io scendemmo. «Credo di sapere chi siete» disse l'agente «ma vorrei vedere lo stesso qualche documento. Lentamente, per favore. E vi avverto che i miei colleghi vi stanno tenendo sotto tiro.» Gli mostrai il tesserino e lui lo esaminò alla luce di una torcia elettrica, poi fece lo stesso con quello di Kate, quindi puntò il raggio della torcia sulla targa della nostra auto. Quando ebbe accertato che corrispondevamo alla descrizione di un uomo e una donna su una Ford blu, e che i nostri nomi erano quelli di due
agenti federali che dovevano arrivare per la strada più infame di quel versante dell'Himalaya, si rilassò. «Buonasera, sono Fred Potter, servizi segreti.» Kate rispose, precedendo di una frazione di secondo una mia battuta sarcastica. «Buonasera, immagino ci stiate aspettando.» «A dire il vero, ci aspettavamo di trovarvi in fondo a un crepaccio, con l'auto capottata e le ruote ancora in movimento. Invece ce l'avete fatta.» Lei riuscì ancora una volta a impedirmi di parlare. «Non è stato poi così tragico, ma preferirei non dover tornare indietro stanotte.» «Certo che no, non si preoccupi. Ho l'ordine di accompagnarvi al ranch.» «Vuol dire che questa strada continua?» chiesi. «Non per molto. Volete che guidi io?» «No, è un'auto per soli agenti federali.» «Salirò davanti.» Dopo circa un minuto, arrivammo davanti a un colonnato interrotto da un cancelletto che arrivava ad appena all'altezza del petto; tra una colonna e l'altra c'era una rete metallica. Al di là del recinto vedemmo due uomini vestiti come Fred e armati di fucile. Dopo un altro minuto, ci fecero entrare in una costruzione di legno, dove ci raggiunse un tipo in jeans, felpa grigia, giacca a vento blu e scarpe da ginnastica nere. Doveva essere fra i cinquanta e i sessanta, aveva i capelli bianchi e il viso rubizzo, e sorrideva. «Benvenuti a Rancho del Cielo» ci disse. «Mi chiamo Gene Barlet e sono il capo del distaccamento locale.» Ci stringemmo la mano. «Allora, cosa vi porta qui in una notte come questa?» chiese. Aveva l'aspetto umano, quindi gli risparmiai battutacce. «Da sabato scorso diamo la caccia ad Asad Khalil, e pensiamo che adesso si trovi qui.» Aveva il mio stesso istinto da segugio e annuì. «Mi hanno parlato di questo soggetto e della possibilità che sia armato di fucile; probabilmente lei ha ragione.» Fece una pausa. «C'è del caffè, servitevi pure.» «Avete sensori di movimento? Strumenti di ascolto a distanza?» gli chiese Kate. Per tutta risposta fece girare lo sguardo per l'ampia stanza. «Il presidente veniva qui la domenica a guardare il football in Tv, insieme agli agenti che smontavano dal turno» ci informò. Seguì il filo dei ricordi. «Una volta gli hanno sparato. È stata una volta di troppo.»
«So come ci si sente.» «Hanno sparato anche a lei?» «Sì, tre volte, ma tutte nello stesso giorno. Sopportabile, quindi.» Gene sorrise. E Kate tornò alla carica. «Ne avete attrezzature elettroniche, qui?» Gene si alzò in piedi. «Venite con me.» Lo seguimmo in una stanza larga come l'intero fabbricato; su tre delle quattro pareti correva una vetrata dalla quale si vedeva la villa dei Reagan. Dietro la casa c'era un bel laghetto che non avevo visto arrivando, oltre a un fienile e a una specie di dépendance per gli ospiti. «Questo era il centro nevralgico» ci informò Gene. «Da qui facevamo il monitoraggio dei sistemi di sicurezza, da qui potevamo seguire passo passo Rawhide, nome in codice del presidente, quando si faceva una cavalcata, da qui potevamo metterci in contatto con il mondo intero. Ed era qui che veniva tenuta la valigetta nucleare.» Gene fece una pausa guardandosi attorno. «Ora non c'è più nemmeno l'ombra della sicurezza elettronica» riprese. «Il ranch è diventato proprietà di un gruppo che si chiama Fondazione Giovane America; l'hanno acquistato dai Reagan e vorrebbero farne un museo con annesso centro conferenze.» Io e Kate restammo in silenzio. «E anche quando veniva chiamata la Casa Bianca occidentale, dal punto di vista della sicurezza era un incubo. Ma il vecchio amava questo posto; quando voleva venirci, noi lo seguivamo e dovevamo sudare sette camicie.» «Allora aveva a disposizione un centinaio di uomini» osservai. «Esatto. Oltre a tutti gli apparati elettronici, gli elicotteri e le attrezzature più sofisticate. Il guaio è che quei maledetti sensori scattavano ogni volta che nella proprietà entrava un coniglio selvatico o uno scoiattolo.» Rise. «C'erano falsi allarmi ogni notte, ma dovevamo controllare in ogni caso. Ricordo che, una volta, c'era un nebbione come adesso... be', la mattina dopo, quando il sole ha dissolto la nebbia, ci siamo trovati una tenda piantata in mezzo al prato, a un centinaio di metri dalla fattoria. E dentro c'era un ragazzo che dormiva, un autostoppista. L'abbiamo svegliato, informandolo che si trovava in una proprietà privata e l'abbiamo rimesso sulla strada. Senza dirgli dove aveva passato la notte.» Sorrise al ricordo. Sorrisi a mia volta, anche se quel racconto aveva un risvolto molto serio. «E mi chiedete se possiamo garantire la sicurezza al cento per cento?
Ovviamente no, non potevamo farlo allora e non possiamo farlo adesso. Però siamo in grado di limitare i movimenti di Rawhide e Rainbow, Mrs Reagan.» «In altre parole, rimarranno dentro la villa finché non sarete in grado di portarli via» disse Kate. «Proprio così. All'alba, comunque, dovrebbero arrivare rinforzi, elicotteri, agenti speciali esperti nell'individuare i cecchini con sensori attivati dal calore corporeo e altri marchingegni del genere. Se questo Khalil si trova in zona, abbiamo buone probabilità di mettergli le mani addosso.» «Lo spero proprio, ne ha uccisi abbastanza» disse poi Kate. «Sì, tuttavia cercate di capire che la nostra preoccupazione principale è quella di proteggere i Reagan, e di portarli in un posto sicuro.» «Lo capisco. Ma i posti sicuri aumenteranno notevolmente, se ucciderete o catturerete Khalil» gli feci notare. «Ogni cosa a suo tempo. Non possiamo far nulla finché non sorge il sole e si porta via questa maledetta nebbia. Volete schiacciare un pisolino?» «No» risposi. «Voglio mettermi un paio di jeans e un cappello da cowboy, e poi andarmene in giro a cavallo cercando di farmi sparare da quel bastardo.» «Dice sul serio?» «No, ma pensavo davvero di farmi un giro. Lei non deve andare a controllare i vari posti di guardia?» «Posso farlo via radio.» «Non è lo stesso, ai soldati piace vedere il capo.» «Certo, perché no? Le va di fare un giro?» «Temevo che non me l'avrebbe chiesto.» «Vengo con voi» disse naturalmente Kate. Non avevo intenzione di fare la parte del protettivo. «Se a Gene sta bene, sta bene anche a me.» «Certo. Avete addosso il giubbotto antiproiettile?» «Il mio è ancora in lavanderia. Qui ne avete qualcuno di riserva?» «No, e non posso prestarle il mio.» E chi ne ha bisogno? Uscimmo dall'edificio e ci dirigemmo verso una jeep Wrangler scoperta. Notai che aveva le nuove targhe della California con la scritta RONALD REAGAN LIBRARY e la foto del vecchio. Me ne sarei dovuto procurare una per ricordo. Gene prese posto al volante, Kate gli si sedette accanto e io dietro; mise
in moto, accese i fari gialli antinebbia e ci muovemmo, percorrendo alcune centinaia di metri in mezzo alla vegetazione o su sentieri invasi dalla nebbia e dai cespugli. Con i fari gialli la visibilità era migliore, tra gli alberi si udiva il cinguettio degli uccelli notturni. «In quella custodia c'è un fucile M-14» m'informò Gene. «Perché non lo tira fuori?» «Grande idea.» Aprii la custodia, appoggiata allo schienale del guidatore, e tirai fuori il pesante M-14 con mirino telescopico. «È un mirino per la visione notturna. Sa usarlo?» «Certo, ci mancherebbe altro.» Ma non riuscii a trovare l'interruttore e dovetti farmi aiutare da Gene. Poi mi misi a osservare il terreno tutto attorno, che il mirino rendeva verdognolo. E mi venne da pensare che, se Khalil era nascosto lì vicino e aveva anche lui un fucile del genere, avrebbe potuto mettermi una pallottola in mezzo agli occhi a 200 metri di distanza. Se poi il suo fucile avesse avuto il silenziatore, cosa di cui ero certo, sarei caduto in silenzio dalla jeep mentre Gene e Kate continuavano a chiacchierare. Dopo alcuni lunghissimi minuti l'auto si fermò, e dalla nebbia emerse un uomo completamente vestito di nero, con nerofumo sul viso e armato di un fucile simile a quello che tenevo in mano. «Questo è Ercole Uno, ha l'incarico di individuare e neutralizzare eventuali cecchini» ci spiegò Gene. All'improvviso udimmo gracchiare la radio e Gene se l'accostò all'orecchio, rimanendo in ascolto. «Okay, ce li porto subito» disse infine. Dove diavolo...? «Qualcuno vuole vedervi» disse Gene. «Chi?» «Non lo so.» «Non sa nemmeno il suo nome in codice?» «No. Ce l'ho per voi, comunque, un nome in codice: marroni. Non so se capite il doppio senso.» Kate rise. «Non voglio vedere nessuno che non abbia un nome in codice» annunciai. «Non credo che abbia molta scelta, John. Quella telefonata veniva dall'alto.» «Da chi?»
«Non lo so.» Kate e io ci guardammo, stringendoci nelle spalle. E ci muovemmo di nuovo nella nebbia per andare incontro a qualcuno chissà dove. Il giro su quella specie di altopiano, brullo e punteggiato di massi e fiori selvatici, proseguì per una decina di minuti. Non c'era sentiero, ma d'altronde non ce n'era bisogno, perché il terreno era piatto e scoperto. Dovevamo avere raggiunto il punto più alto dell'intera tenuta. Attraverso la nebbia in movimento scorsi qualcosa di biancastro e vi puntai subito contro il mirino del fucile. La cosa bianca, che vedevo verdastra attraverso quello strano strumento, era una costruzione di cemento all'incirca delle dimensioni di una grossa casa, appoggiata su una specie di enorme piattaforma artificiale di terra e cemento. Alle spalle dell'edificio, a un'estremità del basamento, si ergeva una costruzione alta quanto indecifrabile, qualcosa di simile a un imbuto rovesciato. Arrivati a un centinaio di metri di distanza da quelle strutture spettrali, Kate si voltò verso di me. «Sembra proprio una scena di X-Files» commentò. Gene rise. «È un'installazione VORTAC.» «Ora è tutto più chiaro» dissi. «È un radiofaro per la navigazione aerea» spiegò lui. «Sapete di che si tratta?» «Che tipi di aerei? Di quale pianeta?» «Di ogni pianeta. Emette segnali "omni", cioè, sapete, i segnali a 360 gradi per gli aerei civili e militari. Un giorno sarà sostituito dal GPS, ma nel frattempo è ancora operativo. Lo usano anche i sottomarini russi al largo delle nostre coste. Gratis.» La jeep continuò ad avvicinarsi alla stazione VORTAC, che doveva essere la nostra meta. «Non deve essere allegro lavorarci» osservai. «Infatti non ci lavora nessuno, è completamente automatica, la comanda a distanza il Controllo traffico aereo a Los Angeles. Ma ogni tanto viene qualcuno a fare della manutenzione, la stazione ha anche un proprio generatore autonomo.» «Immagino, altrimenti servirebbe un cavo lunghissimo per collegarla alla villa.» Gene fece una risatina. «Ora siamo su territorio federale.» «Mi sento già meglio. È qui che dobbiamo vedere qualcuno?» «Sì.»
«Chi?» «Non lo so. In questo punto una volta c'era Playground Three, l'eliporto presidenziale, con la pista di cemento e i riflettori per gli atterraggi notturni. È stata un'idea stupida quella di toglierlo.» Fermò la jeep a una ventina di metri dal VORTAC. «Ci vediamo dopo.» «Scusi? Questo significa che dobbiamo scendere?» «Se non vi dispiace.» «Ma non c'è nessuno qui, Gene.» «Ci siete voi e c'è qualcun altro che vi aspetta.» C'era poco da fare con un tipo del genere. «Okay, giochiamo» dissi a Kate. Saltai giù, imitato da lei. «Va via?» domandò a Gene. «Sì.» Non sembrava più in vena di chiacchierare. «Posso tenermi il fucile?» gli chiesi. «No.» «Okay, grazie per la gita, Gene. Se passa da New York, si faccia sentire, così la porto a Central Park di notte.» «A più tardi.» E si allontanò. Ci avvicinammo all'edificio in cemento e io scrutai all'interno da una finestrella, vedendo un locale pieno di strumenti elettronici con lucine intermittenti e altre apparecchiature hi-tech. Bussai al vetro. «Salve! Veniamo in pace! Portatemi dal vostro capo!» «Smettila di fare l'idiota, John. C'è poco da scherzare.» Percorremmo un lato di quella specie di piattaforma di pietre e sporcizia, alta una dozzina di metri, dalla quale quel misterioso imbuto bianco capovolto, alto circa 25 metri, sembrava puntare verso il cielo. Arrivati all'estremità della costruzione, girammo l'angolo e vedemmo subito un uomo vestito di scuro seduto su un masso piatto. Si trovava a circa 10 metri di distanza e, nonostante la nebbia e l'oscurità, mi accorsi che aveva portato agli occhi qualcosa di molto simile a un binocolo per l'osservazione notturna. L'aveva visto anche Kate, ed entrambi stringemmo il calcio della pistola. L'uomo dovette udire o avvertire la nostra presenza, perché appoggiò a terra il binocolo e si voltò verso di noi. In quel momento mi accorsi del lungo oggetto che teneva sulle ginocchia, di sicuro non era una canna da pesca. Rimanemmo tutti e tre a guardarci per alcuni lunghi secondi. «Il vostro
viaggio è terminato» disse poi l'uomo. La voce di Kate fu praticamente un sussurro. «Ted.» 55 Mi venga un accidente se quello non era proprio Ted Nash. Ma, chissà perché, trovarmelo davanti all'improvviso non mi aveva sorpreso del tutto. Non si preoccupò nemmeno di alzarsi a salutarci, quindi fummo noi ad avvicinarci a quella specie di roccia piatta color rosso Marte sulla quale se ne stava seduto con le gambe penzoloni. Abbozzò un cenno di saluto, come se ci fossimo incrociati in ufficio. «Sono contento che ce l'abbiate fatta.» "Ma vaffanculo, Ted, dove vuoi arrivare?" Mi rifiutai di prendere parte a quel gioco idiota, e non replicai. Kate invece non riuscì a trattenersi: «Avresti potuto dircelo che eri tu quello che dovevamo incontrare. Non è stato corretto da parte tua». Questo sembrò sgonfiarlo un poco, oltre che dargli fastidio. «Avremmo anche potuto ucciderti per sbaglio» lo informò Kate. Lui evidentemente aveva già provato quella scena, mentre Kate stava improvvisando. Il vecchio Ted si era riempito il viso di nerofumo, aveva un fazzoletto nero legato intorno alla fronte e indossava pantaloni neri, camicia nera, scarpe da ginnastica nere e un pesante giubbotto antiproiettile. «Un po' presto per Halloween, non ti sembra?» gli chiesi. Non rispose, ma spostò il fucile che aveva in grembo. Era un M-14 munito di mirino telescopico notturno, come quello che Gene non aveva voluto lasciarmi. «Allora, Ted, parla. Che succede?» Non rispose, forse perché era ancora risentito per le parole di Kate. Allungò una mano dietro di sé e prese un thermos. «Caffè?» La mia pazienza verso Mr Cappa e Spada era pressoché inesistente. «Ascolta, Ted, lo so che per te è importante comportarti a modino, ma io sono solo uno sbirro di New York e non mi trovo nello stato d'animo migliore per tollerare stronzate. Quindi, dimmi quello che hai da dirmi e poi trova un qualsiasi cazzo di veicolo che ci porti via da qui.» «D'accordo. Ma prima lasciate che mi congratuli con voi per aver capito come stanno le cose.» «Tu sapevi tutto da prima, vero?»
«Non tutto, in parte.» «A proposito, mi devi i dieci dollari della scommessa.» «Li metterò nella nota spese.» Guardò Kate, poi me. «Ci avete procurato un sacco di guai.» «A chi li abbiamo procurati? Chi siete, voi?» Non rispose, ma sollevò il binocolo e lo puntò verso un filare di alberi in lontananza. «Sono quasi certo che Asad Khalil si trova là in mezzo» disse poi, spostando lentamente il binocolo. «Non lo pensate anche voi?» «Certo. Dovresti alzarti in piedi a salutarlo.» «E tu ci hai parlato, John.» «Sì, gli ho anche dato il tuo indirizzo.» Rise, poi disse qualcosa che mi sorprese. «Liberissimo di non crederci, ma mi piaci.» «Anche tu mi piaci, Ted, davvero. Le cose cambiano, però, quando non mi dici tutto.» Kate invece non poté fare a meno di spiattellare quello che pensava: «Se sapevi ciò che stava per succedere, perché non ne hai parlato con nessuno? Un sacco di gente è stata uccisa, Ted». Abbassò il binocolo per guardarla. «D'accordo, allora vi racconto tutta la storia. C'è un certo Boris, ex agente del Kgb, che lavora per i servizi segreti libici ma, per fortuna, gli piacciono i soldi e quindi lavora anche per noi.» Rimase un attimo a riflettere. «E a lui andiamo a genio noi, non i libici. Comunque, Boris qualche anno fa ci fece sapere di questo giovanotto, Asad Khalil, la cui famiglia era stata uccisa durante il bombardamento del 1986...» «Guarda guarda» l'interruppi. «Sapevi di Khalil già da qualche anno?» «Sì, e abbiamo seguito attentamente i suoi progressi. Ci siamo subito accorti che era un individuo eccezionale, coraggioso, intelligente e motivato. Ed è inutile dirvi quali erano le sue motivazioni, tanto le conoscete già.» Io e Kate restammo in silenzio. «Devo andare avanti? Quello che sto per dirvi potrebbe non piacervi.» «Tutt'altro, non preoccuparti. Ma tu in cambio cosa vuoi?» «Nulla, solo la vostra parola che terrete per voi quello che vi dirò.» «Hai fatto cilecca, riprova.» «Come volete. Allora, se Asad Khalil sarà catturato, verrà preso in custodia dall'Fbi, invece lo vogliamo noi. Perciò mi serve il vostro aiuto per far sì che ci venga consegnato; per esempio, potreste collaborare facendovi cogliere da un attacco di amnesia durante la testimonianza.»
«La cosa potrà sorprenderti» gli feci notare «ma la mia influenza all'interno dell'Fbi e del governo è piuttosto limitata.» «La cosa potrà sorprendere te, ma l'Fbi e l'America sono garantisti all'eccesso e lo hanno dimostrato con gli imputati dell'attentato al World Trade Center: sono stati rinviati a giudizio con l'accusa di omicidio, cospirazione e violazione della legge sulle armi, ma non per terrorismo, perché negli Stati Uniti questo reato non esiste. In processi del genere, quindi, il governo ha bisogno di testimoni credibili.» «Ted, il governo ha decine di testimoni a carico di Asad Khalil e tonnellate di prove raccolte dalla Scientifica.» «Lo so, ma nell'interesse della sicurezza nazionale potremmo raggiungere un accordo che preveda il rilascio di Khalil e il suo ritorno in Libia. Quello che chiedo è che nessuno di voi interferisca sollevando obiezioni di ordine morale.» «Il mio morale, Ted, non è mai stato così basso. Ma ti rendi conto che Asad Khalil ha ucciso centinaia di innocenti?» «E allora? Che vogliamo fare, sbatterlo in una cella vita natural durante? E i morti che cosa ci guadagnerebbero? Non è meglio servirci di lui per qualcosa di più importante, qualcosa che possa davvero lasciare il segno sul terrorismo internazionale?» Sapevo dove voleva arrivare, e sapevo anche che non avevo alcuna intenzione di seguirlo. Ma Ted desiderava a tutti i costi che io e Kate capissimo il suo punto di vista. «Non vi interessa sapere perché ci sta a cuore che Asad Khalil sia rimesso in libertà e rispedito in Libia?» ci chiese. Appoggiai il mento su una mano. «Fammi pensare... Per uccidere Gheddafi, che gli scopava la madre e ha fatto assassinare suo padre?» «Esatto. Non ti sembra un piano eccellente?» «Senti, sono soltanto uno sbirro e forse mi sono perso qualche passaggio, ma per attuare questo piano non sarebbe necessario prima mettere le mani sul nostro amico?» «Certo. Boris ci ha fatto sapere in che modo Khalil conta di uscire dagli Stati Uniti, e noi siamo sicuri di catturarlo. Non la Cia, che non può effettuare arresti, ma l'Fbi o la polizia che lo fermeranno dietro nostra segnalazione. Poi entriamo in scena noi e concludiamo questo accordo per attuare il piano.» Kate lo stava guardando. Sapevo cosa stava per dire, e infatti lo disse: «Ma sei pazzo? Ti sei bevuto quel cazzo di cervello? Khalil ha ammazzato
più di trecento persone, se lo lasciamo libero continuerà a uccidere, e non necessariamente chi dici tu. Quell'uomo è pericolosissimo e tu vorresti rimetterlo in libertà? Non riesco davvero a crederci». Ted rimase a lungo in silenzio, come se fosse combattuto dai suoi principi morali. Ma un uomo della Cia che combatte con i propri principi morali assomiglia per molti versi a un lottatore di wrestling: nel senso che, in entrambi i casi, i combattimenti sono quasi del tutto fasulli. L'orizzonte, a est, cominciava ad assumere una lieve tonalità rossastra e gli uccelli cantavano a squarciagola, lieti che la notte stesse finendo. Avevo voglia di cantare con loro. «Se vi dico che non sapevamo nulla del volo 175, dovete credermi» tornò alla carica Ted. «Non lo sapeva nemmeno Boris, oppure non è riuscito a informarci.» «Licenziatelo» fu il mio consiglio. «Potrebbe essere già morto. Avevamo un piano per farlo uscire dalla Libia, ma qualcosa è andato storto.» «Devo ricordarmi di non lasciarti mai armeggiare con il mio paracadute.» Ted ignorò la battuta e si portò di nuovo il binocolo agli occhi. «Spero che non lo uccidano... Khalil, voglio dire. Se riesce a uscire vivo da qui, si recherà in un posto dove ha appuntamento con alcuni compatrioti che lo faranno uscire dagli Stati Uniti, o almeno questo è quello che crede lui. Cosa che non succederà.» «E dove dovrebbe avvenire l'incontro?» chiesi, anche se non mi aspettavo una risposta. «Non lo so, le informazioni su questo caso sono riservate, i vari settori hanno solo quelle strettamente necessarie.» «Se non devi dare la caccia a Khalil, a che ti serve quel fucile con il mirino telescopico?» Lui riabbassò il binocolo. «In circostanze come queste non sai mai cosa ti potrà servire e quando.» Guardò me e Kate. «Avete i giubbotti?» Domanda più che normale da parte di un collega, ma in quel momento il rapporto di lavoro tra me e Ted mi sembrava un tantino precario. Perciò non risposi e, guarda caso, non lo fece nemmeno Kate. Voglio dire, non che temessi di essere fatto fuori dal vecchio Ted, ma l'uomo doveva essere ovviamente sotto stress, anche se riusciva a nasconderlo bene. Ovviamente, dico, perché basta far mente locale su quello che lui e la Cia avevano in mente per capire quanto fossero determinanti le ore successive.
Il loro piano per eliminare Gheddafi senza lasciare le impronte dell'Agenzia era quel che si dice un azzardo, e aveva avuto inizio poche ore prima che il volo 175 della Trans-Continental posasse le ruote sulla pista del Kennedy; senza contare che poteva essere considerato illegale ai sensi della legge vigente negli Stati Uniti. L'amico Ted era quindi sotto pressione; restava da stabilire se avrebbe puntato il fucile su Kate e me, facendoci saltare le cervella, nel caso ci giudicasse un problema in più. Non si può mai sapere cosa farà una persona con un fucile e dei problemi, soprattutto se per questa persona la tua vita è meno importante dei suoi piani. Il cielo continuava a schiarirsi, anche se la nebbia attorno a noi era ancora fitta; per fortuna, aggiungo, perché rendeva inutili i mirini telescopici. «Com'è andata a Francoforte e Parigi?» chiesi a Ted. «Bene, ho sistemato certe faccende. Se tu fossi venuto a Francoforte, come ti era stato ordinato, ora non ti troveresti in questa situazione.» Non sapevo con esattezza in che situazione mi trovavo, ma so cogliere una minaccia velata. Date le circostanze, dunque, toccare certi argomenti sgradevoli poteva essere rischioso, ma non potei farne a meno. «Perché avete lasciato che Khalil uccidesse gli equipaggi dei bombardieri del 1986, e tutta quell'altra gente?» Mi guardò e capii che si era preparato una risposta, anche se non gli piaceva. «Il piano prevedeva che venisse preso in consegna al Kennedy e portato a Federal Plaza. Una volta lì, gli avremmo mostrato prove inoppugnabili, tra cui le dichiarazioni registrate di alcuni disertori, dell'adulterio della madre e del ruolo di mandante svolto da Gheddafi nell'assassinio del padre. E poi lo avremmo rispedito a Tripoli a compiere le sue vendette.» Intervenne Kate. «Questo l'abbiamo capito, Ted. Quello che non capiamo è perché, dopo che è diventato uccel di bosco, gli avete lasciato portare a termine la sua missione.» «Non avevamo alcuna idea di quale fosse esattamente la sua missione.» «Scusami, ma questa è proprio una stronzata» gli feci osservare. «Sapevate benissimo che sarebbe venuto qui al ranch di Reagan, perciò sapevate anche quello che avrebbe fatto prima di arrivarci.» «Sei liberissimo di pensarlo, ma la nostra impressione era che fosse stato mandato in America a uccidere Reagan; inoltre, non pensavamo che conoscesse i nomi dei piloti che avevano preso parte al raid del 1986. In ogni caso, non ci interessavano granché i particolari della sua missione, dal momento che doveva essere preso in consegna al Kennedy. Se fosse andata così, tutto quel che è successo dopo non sarebbe successo.»
«La mamma, Ted, deve avertelo spiegato che giocando con il fuoco ci si può scottare.» Ted non voleva essere costretto ad ammettere che la sua versione dei fatti faceva acqua da tutte le parti, ma se l'avessi assecondato, ci avrebbe propinato una storia ancora più inverosimile. «Il piano è fallito, ma possiamo ancora rimediare» disse. «È importante che catturiamo Asad Khalil e gli diciamo quel che sappiamo riguardo a suo padre e sua madre, per poi rimandarlo in Libia. A proposito, ad ammazzare Karim Khalil è stato un amico di famiglia, un certo Habib Nadir, anche lui capitano dell'esercito e amico della vittima; e l'ha ucciso eseguendo un ordine ricevuto direttamente da Gheddafi.» Bell'ambientino, bisogna riconoscerlo. «Naturalmente, c'è sempre la possibilità che Asad Khalil lasci gli Stati Uniti e torni in Libia prima che riusciamo a parlargli» aggiunse Ted, che non era stupido. «Perciò vorrei sapere se uno di voi due ha detto in giro quello che sapeva su questa storia di Gheddafi e dei genitori di Khalil.» «Fammi pensare... Con lui abbiamo parlato del suo rancore verso gli Stati Uniti, del fatto che avrebbe ucciso anche me... che altro?...» «Da quanto mi hanno detto i colleghi presenti a casa Wiggins, mi sembra di aver capito che hai affrontato fugacemente quell'argomento al termine della tua telefonata con Khalil.» «Esatto. Subito dopo averlo chiamato inculacammelli.» «Allora ho capito perché vuole ucciderti.» Ted rise. «E nella conversazione successiva gli hai dato altri particolari?» «Mi sembri molto informato su ciò che succede all'Fbi.» «Siamo nella stessa squadra, John.» «Spero proprio di no.» «Non fare il santarellino, l'aureola non ti dona.» Lo ignorai e mi rivolsi a Kate. «Pronta?» Poi gli dissi: «Noi dobbiamo andare, Ted. Ci vediamo all'inchiesta del Senato». «Un momento, per favore, rispondi alla mia domanda. Hai parlato con Khalil di Gheddafi, della madre e del padre?» «Tu cosa credi?» «Credo che tu lo abbia fatto. E penso quindi che ucciderà Gheddafi e, se scoprirà la verità sul conto di Habib Nadir, ucciderà anche lui e altra gente in Libia. E a quel punto avremo raggiunto l'obiettivo che ci eravamo posti con il nostro piano, quel piano che a voi sembra così esecrabile.» Intervenne di nuovo Kate, la cui bussola morale funziona decisamente
meglio della mia. «Non vi è alcuna giustificazione nell'indurre qualcuno a uccidere qualcun altro. Se vogliamo combattere i mostri, non possiamo comportarci come loro. È sbagliato.» Lui la guardò. «È importantissimo che Khalil torni in Libia.» «No, non lo è. Invece è importantissimo che sia portato davanti a una corte americana per rispondere dei delitti che ha commesso.» Ted si rivolse a me. «Credo che tu capisca.» «Dovrei discutere con qualcuno che ha in mano un fucile di precisione?» «Non fare il melodrammatico, non sto minacciando né te né Kate.» «Scusami, ma è tutta colpa di X-Files, mi sta guastando il cervello. Una volta questo effetto me lo faceva Mission Impossible. Okay, ci vediamo.» «Eviterei di tornare a piedi alla villa, Khalil è ancora nei paraggi e voi siete due bersagli perfetti.» «Ted, prova un po' a indovinare se preferisco rimanere qui con te o schivare le pallottole di un cecchino.» «Non dirmi che non ti avevo avvertito.» Non gli risposi nemmeno, girai i tacchi e mi allontanai con Kate. «A proposito» gridò Ted «congratulazioni per il vostro fidanzamento. Invitatemi al matrimonio.» Gli feci un cenno con la mano senza voltarmi. Stranamente, l'avrei invitato, perché quell'uomo era una colossale testa di cazzo, ma una testa di cazzo dei nostri, aveva davvero a cuore gli interessi del proprio paese. Da mettere i brividi, ma lo capivo; e anche il fatto che lo capissi, a pensarci bene, metteva i brividi. Continuammo a scendere lungo il pendio allontanandoci dalla stazione VORTAC. Non sapevo se stavamo per beccarci una pallottola alla schiena da Ted o una al petto da Khalil, appostato tra gli alberi ai piedi della collinetta. Mi accorsi che Kate era tesa. «Va tutto bene, fischietta» le dissi continuando a camminare. «Ho la bocca secca.» «Canticchia.» «Ho lo stomaco in subbuglio.» Oh, oh. «Come la mattina...» «Smettila con le battute, John. Questa storia è... nauseante. Ti rendi conto di cos'ha fatto Ted?» «Giocano a un gioco duro e pericoloso, Kate. Non giudicare se non vuoi essere giudicata.»
«Ma è stata uccisa della gente.» «Non voglio parlarne adesso. Va bene?» Scosse il capo. Trovammo un sentiero che si inoltrava tra la fitta vegetazione e quella distesa di massi rossastri. Speravo di incontrare una pattuglia motorizzata, o di imbattermi in uno dei posti d'osservazione, ma non c'è mai in giro un agente dei servizi segreti quando ne hai bisogno. Il cielo ora era molto più chiaro e un venticello di mare stava cominciando a diradare la nebbia. Brutto affare. Camminammo in direzione del punto dove pensavamo si trovassero la villa e la casamatta della sicurezza, ma i sentieri si intersecavano e non ero affatto sicuro di sapere dove ci trovassimo. «Ho paura che ci siamo persi» disse Kate. «Mi fanno male i piedi, sono stanca e ho sete.» «Fermiamoci un momento.» Ci sedemmo a riposare su un masso piatto. Dopo una decina di minuti udii in lontananza un rumore vagamente familiare, che riconobbi subito come quello di un elicottero. Mi alzai in piedi sul masso e da lì saltai su una specie di spalletta alta circa un metro e mezzo. «Arriva la cavalleria aviotrasportata» dissi a Kate. «Wow, guarda guarda.» «Che cosa?» Kate fece per sollevarsi, ma io le misi una mano sulla spalla rimettendola a sedere. «Stai lì, te lo dico io quello che succede.» «Posso vederlo da sola.» Si alzò, mi afferrò un braccio e si issò sulla spalletta mettendosi al mio fianco. A qualche centinaio di metri davanti a noi volteggiavano sei Huey, quasi sicuramente sulla verticale della villa; il che significava che non eravamo distanti e, soprattutto, ora sapevamo che direzione prendere. Mi accorsi che stava arrivando anche un grosso Chinook, dal quale dondolava una Lincoln nera assicurata a un cavo metallico. «Dev'essere l'auto blindata» disse Kate. Seguimmo le operazioni per qualche minuto e, anche se non potevamo vedere cosa stava succedendo a terra, era ovvio che a quel punto Rawhide e Rainbow erano ormai sull'auto blindata che stava percorrendo Pennsylvania Avenue, preceduta e seguita dalla scorta, con gli elicotteri a controllare dall'alto. Missione compiuta. Asad Khalil doveva averlo capito a sua volta e, se aveva ancora i baffi finti, se li stava probabilmente torturando, esclamando "Maledizione, an-
cora uno smacco!". Tutto è bene quel che finisce bene. Giusto? Non proprio. Mi venne in mente che Khalil, non potendo prendere il pesce grosso, si sarebbe accontentato di quello piccolo. Ma prima che potessimo agire di conseguenza e saltare giù dalla spalletta per metterci al riparo in attesa di rinforzi, Asad Khalil cambiò bersaglio. 56 Ciò che seguì avvenne come al rallentatore, tra un battito del cuore e l'altro. Gridai a Kate di mettersi al riparo e saltai, ma lei lo fece con mezzo secondo di ritardo. Anche se non udii lo sparo, a causa del silenziatore, capii che il colpo proveniva dagli alberi vicini perché sentii la pallottola passarmi sopra il capo ronzando come un'ape. Kate sembrò inciampare nella spalletta ed emettere un gemito di dolore, ma capii subito che la sequenza degli avvenimenti andava invertita: lei aveva prima lanciato un gemito e poi era inciampata. Ancora una volta mi sembrò che tutto il mondo rallentasse quando la vidi cadere a un lato della spalletta, accanto al sentiero. Mi tuffai su di lei, circondandola con le braccia, e insieme rotolammo lungo il pendio allontanandoci dal sentiero e finendo dentro un gruppo di cespugli. Contemporaneamente un'altra pallottola andò a schiacciarsi contro un masso accanto alle nostre teste, facendomi schizzare nel collo schegge d'acciaio e di pietra. Rotolai ancora, sempre stringendola tra le braccia, ma la nostra discesa fu interrotta da un cespuglio più robusto degli altri. «Non ti muovere» le dissi, tenendola stretta. Poi la guardai negli occhi, semichiusi per il dolore, e lei cominciò ad agitarsi tra le mie braccia. «Non ti muovere, Kate» le dissi. «Parlami.» Respirava a fatica, non riuscivo a capire dove fosse stata colpita e se la ferita fosse grave, sentivo solo il suo sangue caldo inzupparmi la camicia. Maledizione! «Kate, parlami. Parlami.» «Oh... sono... ferita...» «Okay, non preoccuparti. Ora stai ferma e lasciami guardare.» Abbassai il braccio destro fra i nostri corpi e con le dita le tastai la pelle sotto la camicia alla ricerca del foro d'entrata, che non riuscii a trovare. Oh, Dio...
Tirai indietro la testa per guardarla in faccia. Non le usciva sangue dalla bocca o dal naso, per fortuna, e lo sguardo era abbastanza lucido. «Oh... John, maledizione... che male...» Trovai finalmente il foro d'entrata, proprio sotto la gabbia toracica a sinistra. Spostai subito la mano sulla schiena e individuai anche quello d'uscita, sopra le natiche. La ferita non sembrava grave, il sangue usciva senza zampillare, ma a preoccuparmi era una possibile emorragia interna. «Va tutto bene, Kate» le dissi, come si fa sempre in questi casi. «Sei sicuro?» «Sì.» Respirò a fondo e a sua volta prese a tastarsi, trovando il foro d'entrata e quello d'uscita. Estrassi di tasca il fazzoletto e glielo misi in mano. «Premitelo sulla ferita.» E restammo di nuovo immobili, fianco a fianco, in attesa. Quella pallottola era destinata a me, naturalmente, ma il destino, la balistica, la traiettoria e il tempo avevano cospirato contro. «Non preoccuparti... è soltanto un graffio...» le ripetei. Kate mi portò le labbra all'orecchio e avvertii il suo respiro sulla pelle. «John...» disse. «Sì?» «Sei proprio un cazzo d'idiota.» «Eh?...» «Ma ti amo lo stesso. Ora andiamocene via di qui.» «No, invece, rimani ferma. Lui non può vederci, e non può colpire ciò che non vede.» Avevo parlato troppo presto perché, d'un tratto, polvere e sassi cominciarono a schizzare attorno a noi, mentre sopra le nostre teste sentivamo i rami spezzarsi. Capii che Khalil aveva una vaga idea della nostra posizione e stava esaurendo il suo caricatore da 14 colpi sparando nel punto dove pensava ci trovassimo. Gesù Cristo, mi sembrava che la raffica non dovesse mai finire. È orrendo quando ti sparano con il silenziatore, perché non senti l'esplosione ma avverti solo i proiettili mentre si conficcano in tutto ciò che ti circonda. Contemporaneamente a quella che doveva essere l'ultima pallottola, avvertii un dolore acuto al fianco, e portai subito la mano nel punto dove ero stato colpito. Era una ferita di striscio alla regione pelvica, sufficiente comunque a scheggiare l'osso. «Maledizione!»
«John, stai bene?» «Sì.» «Dobbiamo andarcene di qui.» «Okay, ora conto fino a tre e ci mettiamo a correre in mezzo a quei cespugli, ma stando chini e per non più di tre secondi. Poi ci tuffiamo e rotoliamo di fianco. Capito?» «Capito.» «Uno, due...» «Aspetta! Perché non torniamo a quel muretto su cui eravamo saliti prima?» Voltai il capo verso la spalletta, alta circa un metro e mezzo e larga ancora meno. I massi intorno erano poco più grandi di grosse pietre, ma se fossimo riusciti a rannicchiarci dietro la spalletta ci saremmo potuti riparare dal fuoco che proveniva dagli alberi. «Okay, ma si sta stretti lì dietro» osservai. «Andiamo prima che si rimetta a sparare. Uno, due, tre...» Scattammo, correndo chinati in direzione del muretto, cioè incontro a Khalil. Arrivati a metà percorso, udii sopra la testa quel ronzio ormai familiare, ma evidentemente Khalil non era in posizione abbastanza elevata per sparare con un'angolazione sufficiente a scavalcare la spalletta. Kate e io ci tuffammo, rotolando su noi stessi, e rimanemmo seduti vicinissimi l'uno all'altra, con le ginocchia raccolte contro il petto. Lei teneva premuto sul fianco sinistro il fazzoletto ormai zuppo di sangue. Riprendemmo fiato e, non sentendo altri ronzii, mi chiesi se per caso quel bastardo non avesse avuto le palle di lasciare la copertura degli alberi e venire verso di noi. Estrassi la Glock, respirai a fondo e feci capolino da dietro il riparo, diedi un'occhiata veloce intorno e mi ritirai subito, evitando per un soffio la pallottola diretta alla mia testa, che scheggiò il fianco della spalletta. «Quello lì sa sparare» osservai. «Ma che cazzo stai facendo? Resta dove sei.» «Dove hai imparato a parlare così pulito?» «Non ho mai detto tante parolacce come da quando ti conosco.» «Davvero?» «Siediti e chiudi il becco.» «Okay.» Ce ne restammo lì a perdere sangue, ma non in quantità sufficiente da attirare squali o qualsiasi altro predatore vivesse in zona. Asad Khalil adesso
era stranamente tranquillo, e il pensiero delle sue possibili mosse mi innervosiva. Quello stronzo, voglio dire, poteva essere uscito allo scoperto strisciando verso di noi, e magari ora si trovava a non più di 20 metri. «Sparo qualche colpo in aria per attirare l'attenzione e tenere a distanza Khalil» dissi. «No, se arrivasse qualche agente, Khalil potrebbe farli fuori con la massima facilità, e io non voglio morti sulla coscienza. Non siamo in pericolo, resta seduto.» Sul fatto che non fossimo in pericolo avevo qualche dubbio, ma per il resto aveva ragione. E così John Corey, uomo d'azione, se ne rimase rannicchiato per terra. «Senti, potrei attirare l'attenzione di Ted, così lui e Khalil si esibirebbero in una gara di tiro» dissi dopo un minuto. «Seduto e zitto. Cerca di cogliere eventuali rumori tra i cespugli.» «Buona idea.» Kate si sfilò la giacca, che aveva preso il colore del sangue di cui era intrisa, e legò le maniche sopra la ferita formando una specie di laccio emostatico. Poi infilò una mano in tasca. «Chiamo il Sea Scape Motel per informarli della situazione, in modo che possano avvertire i servizi segreti qui al ranch e...» Continuò a frugarsi in tasca. «Non riesco a trovare il cellulare.» "Ahi, ahi." Ci mettemmo a tastare il terreno con le mani, lei si spinse troppo in là sulla sinistra e la terra esplose a pochi centimetri dalla sua mano. La ritrasse di scatto, come se avesse toccato una stufa rovente, e osservò il dorso. «Mio Dio, ho sentito la pallottola sfiorarmi le nocche... ma no, non sono ferita... ho avvertito il calore...» «Sa sparare, quello. Dov'è finito il cellulare?» Ricominciò a frugarsi in tasca. «Deve essermi caduto mentre rotolavamo, maledizione!» Scrutammo il pendio coperto di vegetazione davanti a noi, ma non c'era modo di immaginare dove fosse finito il telefono e non era certo il caso di andarlo a cercare. Ne avevo abbastanza di quel gioco idiota. Mi tolsi la giacca e, prima che Kate potesse fermarmi, mi alzai di scatto e cominciai ad agitarla di lato, come un matador che sfidi le corna del toro. Ma, al contrario del torero, mi liberai dell'indumento a gran velocità e mi rituffai dietro la spalletta, giusto in tempo per udire il ronzio della pallottola che trapassò la giacca spezzando alcuni ramoscelli alla nostra destra.
«Deve essere ancora tra gli alberi» dissi, prima che Kate mi lanciasse un urlaccio. «Come fai a dirlo?» «Lo sparo è venuto da quella direzione, l'ho capito dal sibilo e dall'impatto del proiettile; inoltre, ho calcolato un ritardo di circa mezzo secondo, perciò dovrebbe trovarsi ancora a un centinaio di metri di distanza.» «Stai lavorando di fantasia?» «Più o meno.» La guerra dei nervi riprese subito. Proprio quando credevo che Khalil stesse per vincere, l'assassino Nervi d'Acciaio perse la pazienza e ricominciò a sparare. Quello stronzo si divertiva a smussare il bordo superiore della spalletta a colpi di fucile, e le schegge di pietra volavano in aria ricadendoci addosso. Consumò un intero caricatore, poi lo sostituì e si rimise a sparare ai due lati della spalletta, a pochi centimetri dalle nostre gambe piegate e sollevate. Guardai come affascinato il terreno sul quale si aprivano piccoli crateri. «Questa cazzo di ferita, la sento pulsare» disse Kate quando finì la raffica. Le slegai la giacca, poi le toccai con circospezione la schiena fino a raggiungere il foro d'uscita. Lei si lasciò scappare un grido di dolore. «Sta cominciando a coagularsi» le dissi. «Cerca di non muoverti per non rompere il coagulo e tieni sempre il fazzoletto sul foro d'entrata.» «Lo so, lo so, lo so. Dio, che male!» Nel frattempo a Khalil era venuta un'altra idea: aveva cominciato a sparare mirando alle pietre attorno a noi sperando di colpirci di rimbalzo, come un giocatore di biliardo che tenta una carambola. Il giochetto ogni tanto gli riusciva, e a un certo punto una pallottola colpì la spalletta proprio sopra la mia testa. «Infilati la testa tra le ginocchia» urlai a Kate. «Non si stanca, quel bastardo.» Lei fece come le avevo detto. «Non ti può proprio vedere, John. Gli stimoli la creatività.» «Faccio questo effetto sulla gente.» D'improvviso sentii un dolore acutissimo alla coscia destra e capii che era riuscito a colpirmi di rimbalzo. «Maledizione!» «Che c'è?» Portai la mano al punto dove la pallottola bollente mi aveva colpito, e scoprii un foro nei pantaloni e uno sbrego nella carne. Tastai il terreno, trovando la pallottola deformata ancora calda. «Sette e sessantadue, cami-
cia d'acciaio, proiettile militare esploso probabilmente da un M-14 trasformato in un fucile di precisione, con mirino telescopico intercambiabile per giorno e notte, silenziatore e dispositivo per eliminare i riflessi. Come quello che aveva Gene.» «E chi se ne fotte?» «Sto solo facendo conversazione. E come quello di Ted, aggiungo.» Non pensavo, naturalmente, che fosse Ted a cercare di ucciderci, lui non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Voleva venire al nostro matrimonio, no? Ma non si sa mai. Mi infilai la pallottola in tasca. Rimanemmo lì altri cinque minuti e immaginai che il cecchino, di chiunque si trattasse, se ne fosse andato. Ma non avevo alcuna intenzione di andare a controllare di persona. Sentivo in lontananza il rumore degli elicotteri che sorvolavano il ranch, e sperai che uno di loro si accorgesse di noi. Nonostante il dolore, cominciai a provare una specie di sonnolenza. Ero esausto e disidratato, quindi credetti di delirare quando udii suonare un telefono. Aprii gli occhi. «Ma che diavolo...» Kate e io guardammo verso il punto dal quale provenivano gli squilli, a non più di 6 metri di distanza proprio davanti a noi. Se avessi provato a riprendermi il telefono, la spalletta avrebbe continuato a coprire la linea di fuoco di Khalil. Forse. Prima che potessi decidere se fosse il caso di rischiare, il telefono tacque. «Se riusciamo a raggiungerlo, possiamo cercare aiuto» dissi. «Se andiamo a prenderlo, non avremo più bisogno di aiuto, perché saremo morti.» «Giusto.» Rimanemmo a guardare e, poco dopo, il telefono riprese a squillare. Un cecchino non può rimanere a lungo con l'occhio appiccicato al mirino e il braccio intorno al fucile, ogni tanto deve fare una pausa. Forse Khalil si stava sgranchendo, forse era lui che ci stava telefonando; non si può sparare e telefonare nello stesso tempo, no? Prima che mi venisse un ripensamento, scattai in avanti a testa bassa, coprii i 6 metri in due secondi, trovai il telefono, lo tirai su da terra, mi voltai e corsi di nuovo verso la spalletta, dietro la quale mi tuffai dopo aver lanciato il telefono a Kate, che l'afferrò al volo. Rotolai su me stesso e mi misi a sedere, chiedendomi come facessi a essere ancora vivo e cercando di riprendere fiato. Kate aveva il cellulare all'orecchio e stava ascoltando. «Vaffanculo.»
Ascoltò ancora qualche secondo. «Non dirmi come dovrebbe parlare una donna. Vaffanculo.» Qualcosa mi disse che non stava conversando con Jack Koenig. Allontanò il cellulare e se lo appoggiò al petto; mi guardò: «Sei molto coraggioso o molto stupido? Come hai potuto fare una cosa del genere senza avvisarmi? Preferisci morire piuttosto che sposarmi? È così?». «Scusami, chi è al telefono?» Me lo porse. «Khalil vuole salutarci.» Ci guardammo, entrambi imbarazzati per aver sospettato che Ted Nash, un nostro collega, volesse ucciderci. Dovevo cambiare lavoro. «Forse è il caso che ti faccia cambiare il numero» le dissi. Poi portai il cellulare all'orecchio. «Corey.» «Sei un uomo molto fortunato, Corey.» «Dio mi protegge.» «Dev'essere proprio così, perché io difficilmente manco un bersaglio.» «Capita a tutti una giornata storta, Asad. Tornatene a casa ed esercitati.» «Ammiro il tuo coraggio e il tuo buon umore davanti alla morte.» «Grazie tante. Senti, perché non vieni fuori da dietro quegli alberi e ti avvicini con le mani alzate? Io mi adopererò perché siano rispettati i tuoi diritti e le tue garanzie.» Rise. «Non sto dietro gli alberi, sono sulla via di casa. Volevo salutarvi e ricordarvi che tornerò.» «Non vedo l'ora.» «Vaffanculo.» «Un religioso osservante non dovrebbe usare certi termini.» «Fottiti.» «No, fottiti tu, Asad. E fottiti anche il cammello su cui sei venuto.» «Ucciderò te e quella troia che sta con te, dovessi impiegarci tutta la vita.» Ero riuscito a farlo incazzare e ne approfittai per sfruttare il vantaggio. «Non dimenticare, prima, di sistemare le tue faccende con lo zietto Muammar. A proposito, a uccidere tuo padre su ordine di Gheddafi è stato un certo Habib Nadir. Lo conosci?» Non ebbi risposta, e neppure me l'aspettavo. Il telefono tacque e lo passai a Kate. «Lui e Ted dovrebbero andare d'amore e d'accordo» le dissi. Ce ne restammo al coperto, non avendo alcuna certezza che Khalil si fosse davvero allontanato, soprattutto dopo quello che gli avevo detto. Forse dovrei seguire un corso di diplomazia.
Kate chiamò il Sea Scape Motel e parlò con Kim Rhee, spiegandole la situazione e indicandole dove ci trovavamo. Kim le assicurò che si sarebbe messa subito in contatto con i servizi segreti. «Di' loro di tenere gli occhi aperti» si raccomandò Kate «Khalil potrebbe essere ancora in zona.» Chiuse la comunicazione. «Credi che se ne sia andato sul serio?» mi chiese. «Direi di sì, il leone sa quando può attaccare e quando invece deve rinunciare.» «Giusto.» Decisi di sdrammatizzare la situazione. «Lo sai che differenza c'è tra un terrorista arabo e una donna in fase premestruale?» «No, quale?» «Con un terrorista arabo si può ragionare.» «Non mi ha fatto ridere.» «Okay, allora dammi la definizione di un arabo moderato.» «Dammela tu.» «Uno che ha finito le munizioni.» «Questa è più divertente.» Il sole caldo aveva dissolto gli ultimi residui di nebbia. Ci tenemmo per mano in attesa di un elicottero, un fuoristrada, una pattuglia a piedi. «Abbiamo avuto un anticipo di ciò che ci aspetta» disse Kate, come parlando a se stessa. Aveva ragione. Asad Khalil, o chi per lui, sarebbe tornato con altri conti da regolare, noi per rappresaglia avremmo spedito un missile in casa di qualcuno e così via di seguito. «Vuoi cambiare lavoro?» le chiesi. «No. E tu?» «Solo se lo cambi tu.» «A me piace.» «E a me piace tutto quel che piace a te.» «A me piace la California.» «A me piace New York.» «Che ne dici del Minnesota?» «È una città o uno Stato?» Alla fine, come Dio volle, un elicottero riuscì a localizzarci. Il pilota atterrò, dopo essersi accertato che non eravamo terroristi arabi, e ci caricarono a bordo. 57
L'elicottero atterrò sul piazzale del Santa Barbara County Hospital, dove ci vennero date due stanze comunicanti con vista non eccezionale. Passarono a salutarci un mucchio di nuovi amici dell'ufficio Fbi di Ventura: Cindy, Kim, Tom, Scott, Edie, Roger e Juan. Tutti ci dissero che avevamo un bellissimo aspetto, e questo mi fece pensare che, se avessi continuato a farmi sparare una volta l'anno, a cinquanta sarei stato uno schianto. Il telefono, come potete immaginare, squillava in continuazione. Chiamarono Jack Koenig, il capitano Stein, il mio ex partner Dom Fanelli, la mia ex moglie Robin, familiari, amici, colleghi passati e presenti e così via. Il secondo giorno telefonò anche Beth Penrose e non me la sentii di sostenere una conversazione banale, perciò facemmo finalmente il Discorso. Fine della nostra storia. Lei mi augurò ogni bene, ed era sincera, e io altrettanto sinceramente lo augurai a lei. Passarono a trovare Kate anche alcuni colleghi dell'ufficio di Los Angeles e un paio di loro, tra cui Douglas Cazzoaspillo, vennero a vedere come stavo. Douglas, già che c'era, mi staccò la flebo. Scherzo, naturalmente. Da fonti diverse venni a sapere che Asad Khalil sembrava essersi volatilizzato, e la cosa non mi sorprese. La sua scomparsa poteva avere due spiegazioni: o era tornato in Libia, oppure la Cia era riuscita a catturarlo e a convincere il Leone che certi libici sono più saporiti degli americani. A quel proposito, non avevo ancora stabilito se Ted e soci avessero davvero lasciato che Khalil portasse a termine la sua missione di morte, in modo da averlo tra le mani più soddisfatto e disponibile all'idea di far fuori lo zio Muammar e i suoi amici. E mi chiedevo anche come avessero fatto i libici a procurarsi i nomi di quei piloti. Era proprio un complotto da XFiles, ma mi sembrava così assurdo che non ci persi il sonno. Però il pensiero continuava a disturbarmi. Mi stupì notare che Ted non era venuto a trovarci, ma probabilmente era a Langley, occupatissimo a dire bugie e a cucire alla meno peggio versioni a beneficio dei suoi superiori. Il terzo giorno vedemmo spuntare quattro signori che si presentarono come funzionari dell'Fbi, anche se uno di loro puzzava di Cia. Kate e io ci eravamo ripresi abbastanza da poterli ricevere in una stanza per gli ospiti; com'è ovvio, misero a verbale le nostre dichiarazioni. Alla Cia adorano le dichiarazioni: solo quelle degli altri, però; loro ne rilasciano molto raramente.
Ci informarono, comunque, che Asad Khalil non era ancora nelle mani dell'Fbi, il che tecnicamente poteva anche essere vero. Io li informai a mia volta che Khalil aveva giurato di uccidere Kate e me anche se avesse dovuto impiegarci tutta la vita, e loro risposero di non preoccuparci troppo, ci raccomandarono di non parlare con gli sconosciuti e di rincasare prima che si accendessero i lampioni. A quel punto, per togliermeli dai piedi, dichiarai che s'era fatta l'ora del mio clistere, mettendoli in fuga. Il quarto giorno di degenza al Santa Barbara County Hospital vedemmo arrivare, assolutamente inatteso, Edward Harris, della Cia, collega di Ted Nash, e lo ricevemmo nella saletta riservata. Si raccomandò di non parlare con la stampa. Se proprio costretti, avremmo dovuto sostenere che a causa dello shock, della perdita di sangue e di tutto il resto la nostra memoria lasciava piuttosto a desiderare. Kate e io ne avevamo già parlato, così assicurai a Harris che non ricordavamo neppure ciò che avevamo mangiato a pranzo. «Non so nemmeno perché mi trovo in ospedale» aggiunsi «l'ultima cosa che ricordo è che stavo andando all'aeroporto Kennedy per prendere in consegna un disertore.» Edward mi sembrò un po' scettico. «Ora non esagerare.» «Mi devi ancora i 20 dollari della scommessa» gli ricordai. «E dieci me li deve Ted.» Mi fissò a lungo, cosa che, dato il mio stato, mi parve poco appropriata. Forse avevo fatto male a pronunciare il nome di Ted? Devo dire, a questo proposito, che quasi tutti quelli che ci erano venuti a trovare sembravano avere notizie di cui noi eravamo all'oscuro, ma che avremmo potuto conoscere se solo lo avessimo chiesto. «Dov'è Ted?» domandai quindi a Edward. Lasciò passare qualche secondo. «Ted è morto» ci informò poi. Rimasi colpito, ma la cosa non mi sorprese del rutto. «Com'è morto?» chiese Kate, sbalordita. «Hanno scoperto il suo cadavere nel ranch dei Reagan, poco dopo avervi portati via con l'elicottero. È stato raggiunto da un proiettile alla fronte ed è morto all'istante. Abbiamo recuperato la pallottola, accertando così senza ombra di dubbio che era stata esplosa dalla stessa arma usata da Khalil contro di voi.» Kate e io rimanemmo ammutoliti. Mi dispiaceva per Ted, ma se si fosse trovato in quella stanza, gli avrei ricordato che a scherzare con il fuoco si rischia di bruciare, e a giocare con i leoni di essere sbranati... Il quinto giorno di degenza decisi che, se fossi rimasto ancora un po' in
ospedale, il mio equilibrio psicofisico ne avrebbe risentito. Quindi mi autodimisi, con notevole soddisfazione di quelli dell'assicurazione. In effetti, considerata la superficialità delle ferite al fianco e alla coscia, sarei potuto uscire già al secondo giorno, ma i federali avevano insistito perché mi fermassi; e la guarigione di Kate era più lunga. «Ci vediamo al Ventura Inn Beach Resort» le dissi quando passai a salutarla. E me ne andai, portando con me una confezione di antibiotici e una di antidolorifici di provata efficacia. Qualcuno aveva mandato la mia roba in lavanderia e il vestito era tornato perfettamente lavato e stirato, con i due fori di proiettile rammendati alla meno peggio. Le macchie di sangue erano ancora un po' visibili sul vestito, sulla camicia azzurra e sulla cravatta, ma boxer e calzini erano a postissimo. Un pulmino dell'ospedale mi portò a Ventura. Mi sentii una specie di vagabondo, quando mi registrai in albergo senza bagagli, per non parlare degli abiti macchiati e degli antidolorifici. Ma Mr American Express sistemò le cose e potei rivestirmi da capo a piedi in stile californiano, nuotare nell'oceano, rivedere in Tv vecchi episodi di X-Files e parlare al telefono con Kate due volte al giorno. Poco tempo dopo, lei mi raggiunse e passammo insieme il periodo di convalescenza; io curai l'abbronzatura e imparai a mangiare gli avocado. Kate aveva un bikini ridottissimo e scoprì che le cicatrici non si abbronzano. Per gli uomini le cicatrici sono medaglie al valore, per le donne no, ma io le baciavo ogni sera la bua e lei cominciò a preoccuparsene di meno. Anzi, a un certo punto si mise a ostentare il foro d'entrata e d'uscita parlando con i bagnini, per i quali avere cicatrici di proiettile era fichissimo. Tra un bagnino e un racconto di guerra, tentò anche di insegnarmi a montare su un surf, ma rimango dell'idea che per poterlo fare è necessario avere denti perfetti e capelli schiariti dal sole. In quelle due settimane di luna di miele sperimentale passate a Ventura ci conoscemmo meglio e decidemmo che eravamo fatti l'uno per l'altra. Lei, per esempio, mi assicurò che le piaceva guardare il football in Tv, dormire d'inverno con la finestra aperta, e aggiunse che preferiva i pub irlandesi ai ristoranti esotici, che odiava gioielli e abiti costosi e che non avrebbe mai cambiato pettinatura. Io, naturalmente, credetti a ogni sua parola e le promisi che sarei rimasto sempre me stesso. Promessa facile da mantenere. Ma anche i bei sogni finiscono, e a metà maggio tornammo a New York, al nostro lavoro a Federal Plaza 26 dove, come si usa in questi casi, ci ac-
colsero con una festicciola. Qualche tempo dopo, facemmo il viaggio di prammatica a Washington, e passammo tre giorni dentro il J. Edgar Hoover Building a parlare con questi gentili signori dell'Antiterrorismo, che ascoltarono educatamente il nostro racconto e poi ce lo ripeterono in modo un po' diverso. Trovata la versione definitiva, io e Kate firmammo testimonianze, dichiarazioni giurate, trascrizioni di nastri e altra roba del genere, finché non ci dichiarammo tutti felici e contenti. Il quarto giorno a Washington, fummo accompagnati alla sede centrale della Cia, a Langley, in Virginia, dove trovammo Edward Harris e altri. La visita non fu lunga e con noi c'erano sempre quattro dell'Fbi che ci risparmiarono spesso la fatica di parlare. Quanto vorrei che questa gente imparasse a vivere. L'unico aspetto interessante di questa tappa del viaggio fu la conoscenza di un uomo straordinario. Era un ex agente del Kgb e si chiamava Boris, lo stesso Boris citato da Ted durante il nostro colloquio al VORTAC. L'incontro non aveva alcuno scopo particolare, era stato lui a volerci conoscere. Nell'ora che passammo insieme a chiacchierare, ebbi l'impressione che quell'uomo avesse fatto e visto in vita sua più cose di tutti i presenti nella stanza messi assieme. Boris era grosso, fumava una Marlboro dietro l'altra e fu particolarmente carino con la mia fidanzata. Ci parlò per un po' del suo passato nel Kgb e fece qualche accenno alla seconda carriera intrapresa con i servizi libici, spiegandoci di avere dato a Khalil alcuni consigli pratici per la sua trasferta americana. Da noi voleva sapere come avessimo fatto a intuire la missione e le mosse di Khalil. Kate e io tornammo a New York e non parlammo più di Boris, ma mi sarebbe piaciuto un giorno scolarmi una bottiglia di vodka con lui. Forse avrei dovuto mandargli un invito, ma probabilmente non era una buona idea. Le settimane passarono senza che giungessero segnalazioni di Khalil o belle notizie dalla Libia circa un'improvvisa dipartita di Gheddafi. Kate non si era fatta cambiare il numero del cellulare, il mio diretto a Federal Plaza 26 era sempre lo stesso, ed entrambi aspettavamo una chiamata di Khalil. Chiamata che non giunse mai. Ci sposammo a giugno, come ci eravamo promessi, in un paesino del Minnesota flagellato dalla pioggia, dove i miei amici e familiari erano riusciti miracolosamente ad arrivare. Si dice che i matrimoni bagnati siano
fortunati, io so per certo che ai matrimoni bagnati ci si infradicia. La prima settimana di luna di miele la passammo ad Atlantic City, la seconda al mare in California. Avevamo promesso a Gene Barlet che saremmo andati a trovarlo a Rancho del Cielo, e questa volta il viaggio in auto filò liscio. E anche il ranch, con il sole e senza cecchini, era un posto piacevole. Tornammo alla spalletta, che mi sembrò molto più piccola di come la ricordavo. Gene scattò qualche foto, comprese alcune un po' osé delle cicatrici di Kate, e insistette perché prendessimo alcune pietre come souvenir. «Abbiamo trovato cinquantadue bossoli» ci informò, indicandoci il filare di alberi. «Non ho mai sentito di un cecchino che spari tanti colpi contro due sole persone, si vede che era proprio deciso a ottenere ciò che non poteva avere.» Probabilmente Gene ci stava dicendo che la partita non era ancora finita. Quegli alberi mi rendevano nervoso e quindi proseguimmo. Gene ci mostrò il punto in cui era stato trovato il cadavere di Ted, su un sentiero a un centinaio di metri dal VORTAC, con un foro di proiettile in mezzo alla fronte. Non avevamo alcuna idea di dove stesse andando Ted e di cosa volesse fare, e non lo avremmo mai saputo. Per essere in luna di miele, ci eravamo fermati abbastanza, così tornammo alla villa a bere una Coca e mangiare qualche gelatina con Gene prima di andarcene. Avevamo lasciato a New York il cellulare di Kate, per evitare che telefonate di amici o di assassini potessero disturbare il viaggio di nozze. Ma le pistole ce le eravamo portate. Non si può mai sapere. RINGRAZIAMENTI A causa dei particolari argomenti toccati in questo romanzo, alcune persone che avrei voluto ringraziare pubblicamente mi hanno chiesto di conservare l'anonimato. Ne rispetto la volontà, ma voglio comunque esprimere loro tutta la mia gratitudine. Vorrei anzitutto ringraziare Thomas Block, amico d'infanzia, comandante della US Airways, collaboratore della rivista "Flying", coautore di Mayday e autore di altri sei romanzi, per la sua impagabile consulenza a proposito di aeronautica e altre questioni. Come sempre, Tom mi è venuto
in soccorso ogni volta che le eliche mi si sono bloccate in volo. Un grazie anche a Sharon Block, ex hostess della Braniff International e della US Airways, per avere letto il manoscritto ed essersi schierata dalla mia parte ogni volta che tra me e suo marito è sorta una divergenza redazionale. Un ringraziamento speciale anche ai membri della Joint Terrorist Task Force, oltre che buoni amici, Kenny Hieb e John Gallagher, entrambi detective del Dipartimento di polizia di New York (Gallagher ora è in pensione), nonché al detective Tom Pistone per aver condiviso con me le sue conoscenze. Un ringraziamento specialissimo a Frank Madonna, buon amico ed ex poliziotto della Port Authority, reparto "Pistole e Annaffiatoi", per avere messo a mia disposizione la sua esperienza, oltre che la sua pazienza. Grazie anche ad altri componenti di questo reparto, come il detective Donald McMahon, l'agente Bobby Yarzab e tutti gli uomini e le donne dell'aeroporto John F. Kennedy, che hanno perso un sacco di tempo a portarmi in giro e a rispondere alle mie stupide domande. La parte di questo romanzo relativa al raid americano sulla Libia non avrebbe potuto essere scritta senza l'aiuto del capitano di Marina in congedo Norm Gandia. Norm è un veterano del Vietnam, un ex Blue Angel, un amico e un bevitore moderato. Grazie di cuore anche ad Al Krish, tenente colonnello dell'Aeronautica in congedo, per avermi infilato dentro la carlinga di un F-111. Sono grato al personale della Young America Foundation, che mi ha dedicato il proprio tempo per una visita privata al ranch di Ronald Reagan. Un grazie speciale va a Ron Robinson, presidente della fondazione, a Marc Short, direttore esecutivo del ranch, e a Kristen Short, direttrice con delega allo sviluppo. Molte grazie anche a John Barletta, ex responsabile del distaccamento dei servizi segreti al ranch. Al giorno d'oggi è difficile incontrare persone professionali e motivate come John. Ancora grazie ai bibliotecari Martin Bowe e Laura Flanagan, che hanno svolto uno splendido lavoro di ricerca, aiutandomi tutte le volte che m'imbattevo in qualche dettaglio particolarmente delicato. Grazie anche a Daniel Starer, della Research for Writers. È il quinto romanzo, questo, che scrivo con l'aiuto di Dan, e lui sa di cosa ho bisogno prima ancora che me ne renda conto. Questo libro non avrebbe materialmente potuto essere scritto senza l'aiuto, la passione e l'infinita pazienza delle mie assistenti Dianne Francis e
Georgia Leon. Non è facile lavorare giorno dopo giorno con uno scrittore, ma Dianne e Georgia mi semplificano la vita. Se è difficile lavorare con uno scrittore, non è molto divertente nemmeno vivere con uno scrittore che sta scrivendo. È quello che fa mia moglie Ginny, che ha la pazienza di una santa e l'abilità necessaria per rivedere le pagine di uno che non conosce bene la propria lingua, non sa usare la punteggiatura e non è in grado di strutturare una frase. Come sempre, molte, molte grazie, e tanto amore. Ancora una volta, come nel caso di Morte a Plum Island, un milione di grazie al tenente John Kennedy, del Dipartimento di polizia della contea di Nassau. Da bravo poliziotto e giurista, John fa rimanere onesti i poliziotti nati dalla mia fantasia, oltre che lo stesso autore. Quando in un'indagine c'è J.K., la verità trionfa. Il Museo Culla dell'aviazione di Long Island è un'istituzione di recente creazione e di livello elevatissimo, che rende omaggio a tutti coloro che hanno contribuito e continuano a contribuire a fare dell'America la prima nazione al mondo per quanto riguarda il volo e le scienze aeronautiche e spaziali. Colgo l'occasione per ringraziare il coordinatore alla pianificazione Edward J. Smits, il suo vice Gary Monti, il curatore Joshua Stroff e Gerald S. Kessler, presidente della Friends for Long Island's Heritage, per avermi dedicato il loro tempo mostrandomi il museo e illustrandomene molti aspetti. È possibile che fatti, procedure, consigli e particolari siano stati riportati in modo scorretto, dimenticati oppure ignorati. Tutti gli errori, anche quelli di omissione, sono quindi da considerare come esclusivamente miei. Colgo l'occasione per ringraziare anche molti amici della Warner Books e della Time Warner AudioBooks per il loro duro lavoro, oltre che per l'appoggio, l'attaccamento e l'amicizia che mi hanno dimostrato: Dan Ambrosio, Chris Barba, Emi Battaglia, Carolyn Clarke, Ana Crespo, Maureen Mahon Egen, Letty Ferrando, Sarah Ford, Jimmy Franco, David Goldstein, Jan Kardys, Sharon Krassney, Diane Luger, Tom Maciag, Peter Mauceri, Judy McGuinn, Jackie Merri Meyer, Martha Otis, Jennifer Romanello, Judy Rosenblatt, Carol Ross, Bill Sarnoff, Ann Schwartz, Maja Thomas, Karen Torres, Nancy Wiese e, last but not least, Harvey-Jane Kowal, la redattrice più spietata del mondo. Il mio grazie anche a Fred Chase, che ha sempre l'ultima parola in fatto di grafie, nomi geografici, eventi eccetera.
Se benedetto è l'autore che può contare su un buon editor, io sono stato doppiamente benedetto per aver lavorato con Larry Kirshbaum e Jamie Raab, le cui capacità sono decisamente più che all'altezza del compito. I miei quindici anni e sette romanzi con la Warner Books sono stati, di volta in volta, felici e interessanti, conflittuali e carichi di tensione, di gran successo, sempre divertenti e mai noiosi. Siete tutti dei numeri uno. E infine il mio agente e amico da vent'anni o giù di lì, Nick Ellison. Ci vorrebbe un altro libro per parlare del nostro rapporto, ma qui me la caverò in quattro parole: ti voglio bene, amicone. Debra Del Vecchio e Stacy Moll hanno fatto generose offerte agli enti di beneficenza di Long Island per aver prestato i loro nomi a due personaggi di questo libro. Spero che abbiano apprezzato le loro alter ego di fantasia e che continuino a lavorare egregiamente per cause meritevoli. FINE