JOHN LAWTON L'OMBRA SCURA (Olf Flames, 1996) Per Susan Freathy, agente provocatrice "...il Secret Intelligence Service n...
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JOHN LAWTON L'OMBRA SCURA (Olf Flames, 1996) Per Susan Freathy, agente provocatrice "...il Secret Intelligence Service non solo proteggeva i valori tradizionali della nostra società, ma ne era la personificazione. Entro le sue mura, i suoi club e le sue case di campagna, nelle conversazioni a bassa voce durante un pranzo, attraverso i suoi contatti secolari, conservava la mistica essenza di un'Inghilterra che stava per sparire. Qui, almeno, qualunque cosa accadesse nel vasto mondo esterno, veniva custodita la parte migliore dell'Inghilterra. 'L'Impero può andare in briciole, ma all'interno della nostra classe sociale più elevata e più chiusa, l'intatta tradizione del potere inglese sopravvive. Noi non crediamo in altro che in noi stessi'". John le Carré (dalla sua introduzione a Philby: The Spy Who Betrayed a Generation, Page, Leitch & Knightley 1968) "Per tradire, è necessario prima appartenere". Kim Philby (da un'intervista con Murray Sayle, 1967) Aprile 1956 PROLOGO Aprile si fingeva primavera. Il mese più crudele, un brutto scherzo. A Mosca, il mezzogiorno ti prendeva in giro con un raggio di sole e la mezzanotte ti gelava le ossa. Il riscaldamento nel cadente albergo-con-carcere andava e veniva con raggelante irregolarità e quando non andava si aveva bisogno di ogni indumento disponibile, di ogni centimetro di coperta. Giornate grigie, notti nere, e un dolore acuto ai capezzoli che due pezzetti di cotone idrofilo nel reggiseno non bastavano ad alleviare. L'omino aveva indosso strati e strati di vestiti. Lei aveva l'impressione che i maglioni fossero tre o quattro sotto il giaccone di un color pisello in-
tenso, portava delle manopole senza dita sopra i guanti di lana e un berretto fatto a maglia sotto un cappello a buon mercato, di pelo di coniglio, con i paraorecchie. L'omino, Yuri, era buono. Come erano buoni i delinquenti. Il burocrate affabile. Era da quello grosso, da Mischa, che doveva guardarsi. Il piccolo Yuri studiava da solo l'inglese. Non aveva mai lasciato la Russia in vita sua e, pensava il maggiore, probabilmente non l'avrebbe lasciata mai neanche per un giorno, ma si divertiva a cogliere la diversità tra le due lingue e sembrava apprezzare la possibilità di parlare inglese con lei. «A forza di soldini fai un soldone», le aveva detto un giorno. «Che cosa vuoi dire?». Non lo sapeva neanche lui, ma si era tolto un giornale illustrato dalla tasca del giaccone e glielo aveva dato. Lei aveva letto a voce alta: «"Glasgow, la mia città". Il giornale per gli scozzesi all'estero. Sydney 1955. Dove l'hai preso?». Yuri si era stretto nelle spalle. «Puoi procurarmi qualcosa?». «Sì, basta che non...». Il maggiore aveva capito che voleva dire basta che il Grosso Mischa non lo venga a sapere. Gli aveva chiesto una copia di Huckleberry Finn. Una settimana dopo, gliela aveva portata. In russo. Tradotta nel 1909. Dio buono, Twain era ancora vivo quando era uscito quel libro. Avevano trascritto il titolo in cirillico: Г Геккельберри Финн. Di meglio non erano riusciti a fare. Gekkelberry. Non aveva mai immaginato come sarebbe stato quel nome nella sua lingua madre. La parola più americana del suo vocabolario, insieme a Hoboken, Hoosier e Polenta Integrale, tradotta nella lingua di suo padre e dei suoi antenati. Aveva riso fino alle lacrime, senza riuscire a spiegare a Yuri il perché, né in una lingua né nell'altra. «Ho sbagliato?». «No, va bene. Lo leggerò. Sarà qualcosa di diverso». Era arrivata quasi alla fine, a quella parte un po' noiosa in cui interviene Tom Sawyer a riassumere l'intreccio della storia, quando era comparso Mischa. Lei aveva infilato subito il libro sotto il materasso e lo aveva guardato mentre si sbottonava i pantaloni. Era venuto il momento. Aveva aspettato molto, ma lei aveva sempre saputo che ci avrebbe provato. Le aveva tolto tutto quello che aveva indosso. Lei aveva cercato di difendersi e, mentre la teneva schiacciata sul letto, era riuscita a infilargli il pollice e l'indice nel cavo di un occhio. Mischa si era fermato di colpo.
Capiva che avrebbe potuto tirarsi indietro, ma aveva la percezione esatta della forza di quelle dita e capiva che, andarsene, significava lasciarsi indietro l'occhio. Lei aveva schiacciato un po' di più e gli aveva conficcato l'unghia del pollice nel bulbo oculare. «Ti hanno detto di uccidermi, Mischa?». L'altro occhio la fissava, immobile. «Parla, accidenti!» «No». «Se finisci quello che hai cominciato, dovrai uccidermi. Perché se non mi uccidi tu, ti uccido io. E se loro mi vogliono viva, non vorrei essere al tuo posto. Capito?» Lei aveva schiacciato ancora. Lui aveva gridato. Lei lo aveva lasciato andare. Lui l'aveva colpita al viso con il dorso della mano e, a passi lenti e pesanti, se n'era andato. Da quella volta, l'aveva sempre picchiata, regolarmente, ma non aveva più cercato di stuprarla. Lei aveva perso il conto dei giorni e delle settimane, ma era passato solo poco tempo, così le sembrava, quando, una mattina presto, Yuri comparve portandole una sua valigia e un suo cappotto, quello nero, lungo fino alle caviglie, che aveva comprato l'ultima volta che era stata a Parigi. Appoggiò la valigia a terra, senza far rumore e le lanciò il cappotto. «Aprile non ti scoprire. Maggio va adagio», disse. «Ce ne andiamo?». Yuri fece segno di sì con la testa. Era la fine? Una corsa fino alla foresta, un proiettile nella nuca, una tomba senza lapide e il suo stato di servizio nel KGB cancellato per sempre? Un'altra, anonima, vittima di Kruscev? «Mi dispiace, maggiore», disse Yuri, «dobbiamo solo trasferirci in un altro albergo. Ci arriveremo in mezz'ora». Mezz'ora. Mezz'ora fuori di lì. Luce. Aria. Movimento. L'automobile era una berlina Moskvitch, di una sfumatura di marrone che non era neanche un colore, rozza e spigolosa come una Citroën di prima della guerra, la classica macchina della Gestapo ridisegnata da un bambino poco dotato. Però c'era il riscaldamento. In questo i russi erano un passo avanti ai francesi e anni luce avanti agli inglesi. Si sentiva un odore di trippa fritta, ma almeno faceva caldo. Yuri guidava. Mischa si era seduto dietro con il maggiore, sembrava
stanco e infastidito, stava a gambe larghe e, con le sue grosse cosce, occupava quasi tutto il sedile. Il maggiore guardava dal finestrino. Una volta o due, guardandola nello specchio, Yuri avrebbe giurato di vedere un sorriso sulla sua faccia mentre guardava una cosa o un'altra. A due isolati dalla Piazza Rossa il traffico, scarso, s'interruppe, qualche automobile venne avanti fino a fermarsi dietro la loro, con un paio di colpi di clacson. La strada era bloccata. «Scendi e va' a vedere», disse Mischa, soffocando uno sbadiglio. «Ma lì fuori mi si gelano le palle, capo!». «Scendi!». Yuri si allacciò il giaccone pisello fino al collo e scese, mentre il respiro gli usciva dalle labbra in gonfie nuvolette bianche. Dopo qualche minuto tornò, si lasciò cadere sul sedile e sbatté la portiera. «Carri armati», disse, «carri armati e camion dell'esercito e del Missile Balistico Intercontinentale, migliaia di poveri fottuti Ivan che fanno le prove per il Primo Maggio. Ci vorrà mezz'ora prima che tutti attraversino la strada». Mischa si voltò a guardare la fila di automobili ferme che si andava ingrossando alle loro spalle. «Che merda!», disse. «Non c'è che da aspettare. Troveremo il modo di passare il tempo.» Il maggiore lo guardò. Lui si sbottonò il cappotto a doppiopetto color pappa di avena, poi si sbottonò anche i pantaloni, ne estrasse il membro che si alzò, brutto, non circonciso e, con ingorda disponibilità, fece scivolare indietro il prepuzio. «Hai labbra dolcissime, maggiore.» Non scherzava. Tentava la fortuna. Lei a stento credeva alla propria. Tese una mano e gliela passò sopra, lisciandolo. Mischa chiuse gli occhi e lei ebbe la percezione del brivido involontario che lo attraversava. Allora glielo tirò indietro, con un colpo secco, e lo sentì incrinarsi come il ramo di un salice mentre diecimila vasi sanguigni congestionati si rompevano. Mischa aprì la bocca per gridare. Lei gli infilò l'altra mano sotto la giacca, prese la pistola e gliela picchiò contro la gola. Ne uscì un sibilo strozzato, mentre anche Yuri prendeva la pistola e si voltava dal sedile di fronte. «Lasciami fare», disse il maggiore. «Sei sempre stato buono con me. Non costringermi a sparare». Yuri buttò la pistola sul sedile. «Va'», disse, «prima che il porco rinvenga».
Lei aprì la portiera e l'ultima cosa che le parve di sentire fu la voce di Yuri che diceva a bassa voce: «Buona fortuna. Sa Dio se ne hai bisogno». Si era sempre preoccupata di sapere dov'era Dorry. Dorry era il suo segreto. Dorry era la sua strada per fuggire. Nessuno l'aveva mai vista insieme a Dorry. Non era mai andata a casa sua se non quando era certa di non essere seguita. Si considerava una esperta nel seminare chi la seguiva. Non era molto difficile. Si prendeva un taxi, si pagava una corsa attraverso tutta la città, si scendeva dietro il primo angolo, ci si metteva a correre come pazzi e si prendeva un altro taxi in direzione opposta. Dorry si mise a piangere quando la vide sulla porta. «Ero sicura che fossi morta», le disse, attraverso le lacrime. «Sono passate settimane. Hanno smontato la tua casa pezzo a pezzo, fino alle assi del pavimento e, arrivati lì, hanno sollevato anche quelle». Non c'era niente che potessero trovare. Le cose importanti erano tutte da Dorry. I passaporti, i permessi di viaggio, duemila dollari e un assortimento di mostruose parrucche. Dorry tirò fuori la valigia. Il maggiore tolse il falso fondo e prese in esame tutto quello che poteva esserci di compromettente. I passaporti le servivano. Se fosse riuscita a uscire dalla Russia, avrebbe dovuto assumere una dozzina di identità diverse prima di raggiungere la salvezza. C'era la lettera di Guy Burgess. Perché l'aveva conservata? Avrebbe potuto costare la vita a entrambi. Meglio bruciarla, adesso. Ma non la bruciò. La piegò una volta ancora e la mise insieme ai passaporti. Dorry teneva aperto lo sportello della stufa e buttava dentro tutto quello che il maggiore le passava man mano. «Anche questo», le disse, indicando Huck Finn. «Noo! Huck no». «È il modo sicuro per tradirti. È il tuo marchio di fabbrica. E poi, guarda com'è grosso! Ci vorranno venti minuti per bruciarlo». Il maggiore si mise una brutta parrucca color topo e si avvolse in un cappottone da contadina. Sembrava che fosse stato confezionato con una coperta da cavallo spalmata di sego. Diede a Dorry il suo bel cappotto nero. «Oh, no», esclamò Dorry, passando un dito sul bavero. «È splendido! Varrà come la paga di un anno». «E sarebbe un altro modo per tradirmi. Non è la tua misura. Sei alta quasi un metro e ottanta e io arrivo a stento a un metro e cinquantatré... Bru-
cialo!». «Dove andrai, adesso?». «All'ovest. Dove altro potrei andare?». «Mi scriverai?». «Certo. Se potrò. Voglio dire, quando non ci saranno rischi». «Mandami qualche cosa». «Per esempio? Profumi? Biancheria? Cose così?». «No. Mandami un disco di Elvis Presley». «Elvis Presley? E chi è Elvis Presley?». 1 Una faccia tremolava, indistinta, in fondo a un tunnel, con un gracidio da rana. «Sarebbe questo?», chiese Troy. «Questo che?», rispose sua sorella. «Questo, questo. Questo accidenti che costa settanta ghinee... È il massimo che si possa ottenere?». L'operaio in tuta, che trafficava con un cacciavite, rannicchiato dietro il televisore sporse la testa. «È ancora agli inizi. Che cosa si aspettava, un Gaumont?». La faccia nuotava come un pesce, s'increspava come un baffuto e sgradito miraggio. Troy riconobbe Gilbert Harding. Era sua la faccia. Un personaggio creato da quel nuovo mezzo di comunicazione, un tele-esperto, un uomo con un'opinione su tutto e, con ogni probabilità, il più famoso ex poliziotto della terra. «Credevo che avessimo inventato la televisione già da anni», insisté Troy, irritato. «Credevo che fossimo all'avanguardia in questo campo. Credevo che fosse come il radar. Roba da scienziati. Barnes Wallis, Logie Baird e gli altri come loro». «È solo colpa tua», lo rimproverò Masha. «Se l'avessi comprato per l'incoronazione, come hanno fatto tutti, a quest'ora funzionerebbe benissimo». «Cioè bisogna perderci tre anni a vezzeggiarlo e cincischiarlo perché funzioni?». «Pressappoco». «Allora non lo voglio. Riportatevelo indietro». Gilbert Harding smise di tremolare e, per la prima volta, Troy sentì con chiarezza quello che diceva.
«Sbaglio o lei lavora nell'industria della ceramica?». Applausi. Una voce fuori-schermo rispose con un «sì» del tutto inutile. «Sbaglio o è addetto alla rottura degli involucri dopo la cottura?». Altri applausi. Intervenne una terza voce e la telecamera si spostò su un omone ricciuto, con una grossolana, anche se gradevole, faccia da pugile, che sorrideva, cordiale, a una imbarazzata nullità che, a un certo punto, aveva trovato divertente buttar via mezz'ora lasciando che quattro personaggi in abito da sera cercassero di indovinare il suo mestiere. Troy trovò tutto estremamente strampalato. Lo squillo del telefono lo salvò dal cedere alla tentazione di buttare fuori l'uomo in tuta o di uccidere sua sorella Masha. La vita in compagnia di un televisore, concluse, non sarebbe stata facile. «Alla sezione speciale vogliono vederti», gli disse Onions. «lo non lavoro per la sezione speciale». «Cristo, Freddie, smettila!». «Stan, ripeto che niente mi obbliga a lavorare per quei...». «Due di loro sono rimasti uccisi stamattina», disse Onions, con un tono di voce opaco, senza retorica. Troy rifletté un momento su quella notizia. La carota o il bastone? «Un omicidio?». «No, un incidente stradale sulla A3». «Allora è cosa che non ci riguarda». «Hanno due uomini in meno. Gli servi tu». «Per fare che?». «Non al telefono, Freddie». Troy sospirò. Detestava quella segretezza ostentata, come se, oltre alla sezione speciale, chiunque, in Inghilterra, potesse controllare una linea telefonica. Ma lo incuriosiva che avessero chiesto di lui in particolare. «Vai a sentire che cosa vogliono», suggerì Onions. «Non sei costretto a impegnarti. Ascolta e basta». Ci voleva un'ora di automobile, lungo la Great North Road, per arrivare a Scotland Yard. Troy aveva diritto ancora a tre giorni di vacanza, ma Londra aveva anche l'attrattiva di liberarlo dalle attenzioni delle sorelle che lo avevano convinto a comprare quel televisore e certamente avrebbero passato tutta una sera a descrivergli i loro programmi preferiti. A giudicare da quella trasmissione a indovinelli, quello strumento bestiale sarebbe finito nella camera di servizio un attimo dopo la partenza delle sorelle e lui non se ne sarebbe mai più occupato. Quando avessero ancora sofferto di
un distorto attacco di preoccupazione materna nei suoi confronti, qualche altro capriccio legato alla moda avrebbe sostituito il televisore. 2 La Bullnose Morris di Troy era spirata nel 1952 all'età di diciassette anni. Non ne aveva voluta un'altra. Le era stato molto affezionato. Aveva perfino goduto delle ironie che avevano suscitato gli ultimi, faticosi anni della sua esistenza. Ma un'altra non l'aveva voluta. Per la prima volta dalla morte di suo padre, avvenuta nel 1943, aveva investito una parte di eredità per concedersi una incontestabile debolezza: una Bentley Continental Saloon, cinque litri, sei cilindri, carrozzeria sportiva Mulliner. Lunga, elegante, con il muso smussato audacemente proiettato in avanti, un'automobile assolutamente non-da-Troy. Il piacere che gli dava quella assenza di congenialità era superiore a qualsiasi descrizione. Aveva aperto la portiera e stava per mettere la cartella di cuoio sul sedile accanto al posto di guida, quando era comparsa l'altra sorella. Vagava, apparentemente senza meta, nel crepuscolo primaverile con un mazzetto di campanule in mano. Dal recinto dei maiali, che Troy aveva costruito in fondo all'orto, andava verso il viale. Sembrava in uno stato d'animo molto diverso da quello della sua sorella gemella. Erano legate da una sorta di telepatia, ma non esisteva, nel loro gemellaggio, una regola secondo la quale dovessero avere gli stessi pensieri o sentimenti in qualsiasi momento. Quando succedeva, però, era un inferno per chi si trovava lì vicino: due corpi mossi da un'unica personalità, opinione e scopo. Troy ebbe l'impressione che Sasha fosse immersa, in quel momento, in qualche bizzarra meditazione. «Te ne vai così presto?». «Scotland Yard», borbottò Troy, sperando che bastasse a concludere la conversazione. «La Macchiata è diventata una bellezza. La vuoi far coprire, questo mese?». «Credevo che si dicesse così per le pecore». Sasha restò colpita come da una rivelazione fondamentale, allarmante nella sua novità e meritevole di ore di innocuo divertimento. Troy si mise al volante e stava per chiudere la portiera, ma lei vi appoggiò una mano, in alto, ed emerse dalle sue fantasticherie. «Oh beh... allora vuoi farla trombare da un super maialone?».
«Buonanotte, Sasha». Lei tolse la mano dalla portiera. «Buonanotte, Freddie». Troy inserì la prima e lasciò che l'automobile si avviasse con un lento ronzio lungo il viale. Lo scricchiolio della ghiaia sotto le ruote si sentiva più forte del motore. Nello specchietto, Troy vide Sasha seduta sui gradini di casa guardare, con una espressione indolente, la luna. Curvò dietro la fila dei faggi, in fondo al viale, e non la vide più. La strada era sgombra, uscì dal cancello e lanciò la Bentley verso sud, nella direzione per Londra. 3 Troy trovò Onions ad aspettarlo nel suo ufficio. Seduto sul bordo della scrivania, con le spalle alla porta, ammirava il Tamigi nella luce della luna. Gli capitava spesso di sorprenderlo così. Fin da quando era stato nominato sovrintendente della squadra omicidi aveva maturato l'abitudine di passare da una stanza all'altra. Mai, per quanto Troy riusciva a ricordare, lo aveva chiamato nel proprio ufficio. Si affacciava alla porta, inatteso, non invitato e qualche volta non gradito a qualsiasi ora del giorno, per essere informato. Qualche volta lo trovava chino davanti alla stufetta a gas, mentre fumava una Woodbine o, come ora, guardava scorrere il fiume. Quasi in ozio, ma Onions non era mai in ozio. Onions apprendeva ogni segreto della sua squadra fiutando il terreno a testa bassa. Aveva l'abilità di leggere un documento alla rovescia, seguitando a parlare con chi gli stava seduto di fronte alla scrivania e Troy aveva imparato già da molto tempo a non lasciare niente in giro a meno che non si trattasse di qualcosa di cui voleva che Onions fosse al corrente. La carica di vice commissario non aveva mutato le abitudini di Onions. Le riunioni si tenevano sempre nell'ufficio di qualcun altro, le informazioni venivano sempre raccolte qua e là, a caso. Troy ricambiava la cortesia. Quando Onions non c'era andava nel suo ufficio a frugare nella scrivania, certo che lui aveva già frugato nella sua. Col risultato che non avevano segreti l'uno per l'altro, se non quello che non avevano segreti. Onions, quel giorno, era molto inquieto. Gli aleggiava intorno un barlume di qualcosa di ignoto. «Bene», si limitò a dire vedendo entrare Troy. «Bene, bene». Troy interpretò quell'umore come una forma di eccitazione per quello che ancora non era stato detto, un'ansia di parlare e, molto probabilmente,
un particolare piacere. Si lasciò scivolare dal bordo della scrivania. Troy sentì i suoi grossi stivali neri battere sul pavimento di legno. Onions si passò il palmo delle mani sui capelli cortissimi e ispidi che, nelle sue intenzioni, erano tagliati a spazzola, come se intendesse riordinare ciò che non esisteva e quindi non poteva essere riordinato. Sorrise. Troy mise la cartella su una sedia e si ficcò le mani nelle tasche del cappotto, con un atteggiamento che indicava nitidamente impazienza e sfida. «Vuoi dirmi di che si tratta, Stan, o devo tirare a indovinare?». «Ted Wintrincham ci sta aspettando nel suo ufficio. Ancora mezzo minuto e lui ti dirà tutto». Troy non sapeva che cosa pensare. «Perché?», chiese. «Perché penso che ti divertirai». «Ah sì?». «Sì, amico. Se ti divertirai la metà di quanto mi sono divertito io, tra poco resterai senza parole». «Stan, la sezione speciale è divertente quasi come la storiella del budino di riso di Jimmy Wheeler». «Ne riparleremo quando avrai ascoltato Wintrincham». Onions mostrava una malizia inconsueta, come un attore che, con una risata mal trattenuta, rischiasse di rovinare il carattere di un personaggio. Precedette Troy lungo il corridoio. Mentre salivano le scale che portavano all'ufficio di Wintrincham, Troy cercò di sapere qualcosa di più. «Chi è morto nell'incidente?». «Herbert Boyle e il suo sergente. Si chiamava Briggs, un giovane. Li conoscevi?». «Briggs no. Conoscevo Boyle. Era difficile non conoscerlo». «Già. Non si può dire che non fosse uno che metteva bocca su tutto». «Non si può dire che non fosse il più irriducibile rompiscatole che abbia mai messo piede sulla terra». «Gesù, Freddie, è morto da meno di tre ore». Onions aprì la porta della stanza di Wintrincham senza bussare. Ted Wintrincham, vice comandante e capo della sezione speciale, era di molti gradi superiore a Troy, ma non passava neanche per la mente al vice commissario Onions di trattarlo in un modo diverso da come trattava qualsiasi altro giovane funzionario. Un elefante non fa differenza tra un negozio di porcellane e un altro. Wintrincham era seduto alla scrivania. Si alzò per dare la mano a Troy e fare le presentazioni.
«È stato gentile da parte sua venire subito, ispettore capo Troy. Lei conosce l'ispettore Norman Cobb, vero?». Troy guardò l'uomo alto e grosso che si era alzato, incerto, per stringere la mano che lui gli porgeva. Lo conosceva di vista. Era alto circa un metro e novanta e pesava, probabilmente, più di cento chili, sarebbe stato difficile non vederlo. A Troy era capitato per anni di incontrarlo nei corridoi di Scotland Yard, senza tuttavia scambiare con lui nemmeno una parola. Lo riteneva scorbutico e antipatico, come si conveniva a chiunque facesse parte della sezione speciale. «Non credo di aver avuto il piacere», disse. Cobb gli diede una stretta di mano che gli fece scricchiolare le ossa, accompagnata da una apparizione fugace di incisivi regolari, in un tentativo di sorriso. Troy appoggiò il soprabito sullo schienale di una sedia e sedette vicino a Onions, di fronte a Wintrincham. Concluse in fretta che Cobb, con il suo impermeabile blu, inappuntabile, abbottonato fino al collo, aveva un atteggiamento freddo, oppure semplicemente infastidito, come un ragazzino costretto da sua madre a prendere parte a una festa che riteneva insopportabile ancora prima che cominciasse. Wintrincham era tutto diverso, anzi era l'unico funzionario del distaccamento che a Troy fosse simpatico, l'unico con il quale avrebbe potuto passare tutta una giornata senza avere la sensazione che gli frugasse nelle tasche. Spesso si era chiesto come fosse arrivato al vertice del suo disonorevole incarico. Era gradevole, cordiale e campagnolo. Quasi mezzo secolo passato a Londra non aveva modificato di molto il suo accento dell'Hampshire, parlava ancora come se fosse vissuto sempre in campagna e doveva sopportare che tutta la forza di polizia metropolitana lo chiamasse "il contadino". «Ha saputo, immagino, che cos'è successo all'ispettore Boyle e al sergente Briggs». Troy assentì. «Non è bello perdere degli uomini, in qualsiasi momento, ma questo è proprio il momento sbagliato. Abbiamo una visita di stato, in settimana... sono sicuro che non è un segreto per lei». Troy guardò Onions e anche lui lo guardò, anzi gli parve quasi che ammiccasse. Dio com'era possibile tenersi in corpo una informazione come quella senza lasciarla esplodere? A un tratto, capì perché era così animato e perché aveva giocato sulla sorpresa. Capì esattamente che cosa stava per succedere. «Tutti i giornali, d'altra parte, ne hanno parlato», proseguì Wintrincham.
«Il segretario generale Kruscev... come l'ho pronunciato?». «Perfettamente, signore», rispose a bassa voce Troy. «Beh, comunque sia, il segretario generale Kruscev e il maresciallo Bulganin attraccheranno a Portsmouth domani in mattinata e sbarcheranno prima di mezzogiorno. Mi è stato chiesto di provvedere alle guardie del corpo e ritengo, per una questione di principio, che le guardie del corpo debbano appartenere esclusivamente al distaccamento di polizia. Ci saranno le solite misure di sicurezza, il distaccamento di scorta in motocicletta sarà affidato alla divisione metropolitana, ma le guardie del corpo personali proverranno dalla sezione speciale. Boyle e Briggs stavano andando a Portsmouth quando sono rimasti uccisi. Ho due uomini in meno. Pare che lei sia l'unico funzionario disponibile che abbia i requisiti necessari. Mi è stato detto che parla bene il russo». «Perfettamente, signore», disse ancora Troy. «So che non rientra nelle consuetudini chiedere il trasferimento di un funzionario al suo livello, mi rendo conto che lei è responsabile di una squadra ma, date le circostanze, le sarei grato se accettasse di darci il suo aiuto». «Si tratterebbe di una settimana, se non ho capito male». «Direi piuttosto una decina di giorni. Il vice commissario Onions è perfettamente d'accordo. Se lei vuole un po' di tempo per... per...». «No, no», rispose Troy. «Sono sicuro che il vice commissario Onions abbia già risposto per me». Troy diede un'occhiata a Onions, che non abboccò e seguitò a guardarsi la punta degli stivali. «Vorrei, però, farle qualche domanda, se è possibile. La prima è questa: a chi è affidata tutta l'operazione?». Da un angolo si levò la risposta di Cobb. «A me». Aveva una voce gutturale, monocorde, con l'accento delle Midlands e, come se fosse riluttante a servirsene oltre l'indispensabile, appena ebbe finito di parlare si coprì la bocca con una mano. «Oh. Quanti uomini abbiamo?». «Cinque», disse Cobb, quasi a fatica, «oltre a lei. Doppi turni. Quattro per Kruscev. A due per volta. E due per Bulganin, con lo stesso sistema. Lei sarà assegnato al maresciallo e potrà avere il turno di notte. C'è meno da fare. La parte più pesante resterà ai miei uomini che, dopotutto, sono già addestrati». Queste parole irritarono Troy. Sapeva perfettamente che l'addestramento del distaccamento consisteva nella idoneità ad aprire le buste col vapore e
a chiudere le porte con un calcio. Un lavoro che poteva fare qualsiasi imbecille. «Non sembra necessario che io sappia il russo». «È una precauzione», disse Wintrincham. «Naturalmente i russi porteranno i loro interpreti. Ma è stato deciso in altra sede che sarebbe opportuno che chiunque abbia un contatto continuato con gli ospiti conosca la loro lingua. Perché niente sfugga». In altra sede... Se intendeva ГМІ6 perché non dirlo? Dio, perché nessuno chiamava più spie le spie? «Perché niente sfugga?», ripeté con calma. «Niente... diciamo... niente d'importante. Qualsiasi cosa le sembrasse, in qualche modo, significativa, dovrà essere riferita all'ispettore Cobb. È superfluo aggiungere che, per i russi, siamo solo poliziotti e non c'è ragione di pensare che conosciamo la loro lingua». «A meno che, com'è logico, non lo sospettino». «Sui sospetti è impossibile intervenire. Dico solo che se lei terrà la bocca chiusa e le orecchie aperte, non ci saranno inconvenienti per nessuno». Troy guardò di nuovo Onions e si accorse che anche lui lo stava guardando. È una esortazione ad accettare, pensò. «Permetta che veda se ho capito bene», disse, rivolto a Wintrincham e ricorrendo al vecchio, sperimentato sistema dell'esordio attenuato e deferente. «Lei vuole farmi spiare il maresciallo Bulganin?». «Non esattamente...». «Ted», intervenne Onions, «quale altra definizione troveresti?». «Mi chiedo se lei sappia, signore», proseguì Troy, «che meno di dieci anni fa, quando ho arrestato un agente del governo americano con quattro imputazioni di omicidio in base alle quali è stato, in seguito, condannato, i funzionari di questo dipartimento mi hanno tacitamente messo al bando, con l'unica eccezione del defunto ispettore Boyle che mi ha detto in faccia che ero un traditore. Non so se lei sia informato, inoltre, che quando noi, tutti noi della polizia, siamo stati passati al vaglio, durante la guerra, il mio fascicolo era, secondo la definizione dell'ispettore capo Walsh, al limite. Circostanza che questo dipartimento ha ritenuto opportuno ricordarmi ogni tanto, quando rispondeva allo scopo di descrivermi come non totalmente rispondente agli interessi della polizia. Devo ritenere che le mie azioni siano in rialzo ora che tanta acqua è passata sotto i ponti e che per questo mi si chieda di spiare un maresciallo dell'Unione Sovietica?». Wintrincham taceva, sbalordito. Troy si rese conto che non era abituato
a sentirsi interpellare a quel modo, i suoi uomini non lo facevano mai, mentre tra lui e Onions era la prassi quotidiana. Era quasi pentito. Wintrincham si stava comportando correttamente, dandogli una possibilità di scelta, ma il gioco era troppo gustoso per riuscire a non insistere. «Perché», concluse, «io non accetto». Wintrincham guardò Onions, sperando che lo togliesse dall'imbarazzo, ma fu Cobb a parlare. «Chiedo scusa, signore, ma non siamo costretti a sopportare questa situazione. Possiamo benissimo fare a meno del signor Troy». «Prima lo ascolti, ispettore», disse Onions. «Pensavo, signore, che l'ispettore capo Troy avesse già espresso la propria opinione e oltre la forma consentita». «Silenzio. Il discorso non è finito. Ho ragione, Freddie?». Troy sincronizzava i tempi. Era quasi una questione di telepatia. Onions lo aveva chiamato per nome e questo sanciva già quanto ora stava per dire. «Effettivamente ho ancora un aspetto della questione da mettere in chiaro». Cobb alzò gli occhi al soffitto. Troy ebbe l'impressione di sentirgli mormorare un «Gesù!». «Non spierò il maresciallo Bulganin». «Ve lo avevo detto», borbottò Cobb. «Spierò Kruscev». Cobb e Wintrincham si guardarono senza capire. Troy si accorse che Onions, a braccia incrociate, sorrideva compiaciuto. Aveva pensato spesso che la sezione speciale non gli piacesse più di quanto non piaceva a lui. Se ora la trovava sotto la sua giurisdizione era solo la conseguenza dell'essere a capo della divisione C di Scotland Yard e Troy non riusciva a credere che questo aspetto della carica gli facesse piacere. Wintrincham, infine, parlò. «Chi», chiese a Cobb, «è stato assegnato a Kruscev?». «L'ispettore Boyle. Dopo quello che è successo, intendevo assumere io l'incarico, signore. L'operazione è affidata a me». «Non m'interessa l'operazione. M'interessa Kruscev. Preferibilmente di giorno, quando è sveglio. Sarei sprecato con Bulganin», disse Troy. «Che cosa glielo fa pensare?», ribatté Cobb. «Dove ha imparato il russo, signor Cobb?». «Sotto le armi. Nel 1946». «Io ho sempre parlato russo. È stata la mia prima lingua. Inoltre, in con-
fronto a Kruscev, Bulganin è un taciturno. Lei perderà il filo quando cercherà di capire quello che dirà Kruscev una volta che abbia preso il via. Parla in fretta ed è piuttosto irascibile. Se perde la calma infila una parola dopo l'altra senza prendere fiato. Si può dire, onestamente, che abbiate qualcuno che parli il russo meglio di me?». Cobb guardò Troy. in silenzio. «Sono queste le sue condizioni, ispettore capo Troy?», chiese Wintrincham. «Non parliamo di condizioni, signore. Non mi sognerei mai di porre delle condizioni alla mia attività di servizio. Stavo solo cercando di vedere la situazione da un punto di vista pratico». «Non so se crederle, ma la verità è che ciò che favorisce la sua vanità favorisce anche, probabilmente, il risultato dell'operazione. La assegnerò al segretario generale Kruscev». Cobb stava per parlare, ma Wintrincham lo prevenne. «Qualunque obiezione voglia farmi, Norman, non l'ascolterò. Ho deciso. Il comando della operazione è ancora affidato a lei. Dovrà prendere tante iniziative per parte sua che non ha bisogno di perdere tempo a criticare le mie. Se ha degli ordini per l'ispettore capo Troy glieli dia subito e poi andiamocene tutti a dormire. È stata una giornata faticosa». Cobb si mise la mano davanti alla bocca e tossì, poi si rivolse a Troy, con uno sguardo apertamente sprezzante. «Si trovi al garage domani mattina alle sei. Alle nove e mezzo saremo all'arsenale di Portsmouth per le istruzioni e la consegna delle armi. Stabilirò le coppie per la sorveglianza e i turni. Aspetteremo la nave russa e riceveremo gli ospiti allo sbarco. Torneremo a Londra in treno. L'incontro ufficiale avverrà alla stazione di Waterloo alla presenza delle autorità di governo. Per le serate è quasi sempre raccomandata la cravatta nera. Lei ha uno smoking, vero, signor Troy?». E va bene, pensò Troy, una frecciatina bisogna concedergliela. 4 Tornati al piano dov'erano i loro uffici, in corridoio, Troy non riuscì a trattenere un sorriso soddisfatto e Onions gli rispose con una allegra esposizione di denti alla nicotina, dandogli per un momento l'impressione che entrambi avessero dimenticato i rispettivi ruoli. Onions aveva ragione, quella era un'occasione succulenta, unica. Un divertimento.
«Com'era la storiella?», chiese Onions. «Quale?». «Quella di Jimmy Wheeler e del budino di riso». «Oh, era un modo per dire che non poteva esserci niente di divertente alla sezione speciale. È una storiella che sanno tutti. Wheeler la racconta sempre. Come Jack Benny col violino». «E com'è la storiella?», disse Onions, cercando di ricordare. «Mi sembra di non averla mai sentita». Troy pensò che Onions era l'unico in tutta l'Inghilterra a non sapere la storiella del budino di riso, ma forse non frequentava nessuno, non andava mai al cinema o a uno spettacolo di cabaret e probabilmente non aveva mai visto la televisione in vita sua. Per quanto ne sapeva Onions, Charlie Chaplin portava ancora la bombetta e i pantaloni con le borse sulle ginocchia e Martin e Lewis erano un grande magazzino. «Un poveraccio bussa alla porta di una bella casa. Un signorino elegante gli apre. "Buonasera", dice il poveraccio, "non ha un po' di spiccioli o qualcosa da mangiare?". "Beh", risponde il signorino, "le piace il budino di riso freddo?". "Oh, moltissimo", dice il poveraccio e il signorino: "Allora torni domani, adesso è troppo caldo"». Onions rifletté un momento. «È vero», osservò. «Non è divertente». 5 Era tardi e non restava che tornare a casa, fare la valigia e andare a letto. Si arrivava a piedi da Scotland Yard all'appartamento che Troy aveva in città, a Goodwin's Court. Negli anni, aveva elaborato e sperimentato tutti i tragitti possibili. Lungo l'Embankment, sotto Hungerford Bridge, su per Villiers Street, attraverso lo Strand e poi dietro, attraverso Chandos Place e Bedfordbury, questo era l'itinerario vicino al fiume e, complessivamente, il più tranquillo. Oppure si poteva percorrere Whitehall, attraversare Trafalgar Square, lasciar perdere Nelson, superare St Martin-in-the-Fields, salire per St Martin's Lane e sbucare davanti a casa: un tragitto più animato, adatto ai momenti in cui voleva fingere di essere un turista. O ancora, come quella sera, in uno stato d'animo speciale, del tutto irragionevole, Whitehall, Downing Street (le luci erano ancora accese negli uffici del primo ministro: un cambiamento di programma, all'ultimo minuto, per offrire al signor K una visita a una fabbrica di sottaceti in barattolo a Middlesbrough o uno spettacolo di danza in costume e birra?), dove il poliziotto in servi-
zio gli tributò un saluto inaspettato, poi, attraverso Horse Guard's Parade, su per i gradini di Carlton House, per Haymarket e, a sinistra, in Orange Street, con una sosta per gettare uno sguardo all'ultimo piano di una vecchia casa, stretta tra le altre e proseguire poi in Charing Cross Road, attraversare Cecil Court, dritto in Goodwins's Court. Appena entrato, sentì suonare il telefono. «Freddie? Vieni a bere una birra?». Charlie? Come mai a quell'ora? «Non è la sera adatta, Charlie. Domani mattina presto parto e devo preparare la valigia». «Sono proprio qui vicino, al Salisbury. Ti ho visto passare. Vieni. Solo una mezz'ora». «Charlie, è tardi, è già...». «Da quando ti sei messo a badare all'orologio?». Il Salisbury era all'altro capo di St Martins' Lane, di fronte a Goodwin's Court, nel cuore del West End. Ci si andava a mangiare una tartina durante l'intervallo di uno spettacolo ed era il bar prediletto dagli attori. A suo modo, anche Charlie era un attore. Troy lo trovò nella sala dove venivano serviti gli alcolici, mentre si rigirava nel bicchiere un whisky e soda e, con una fila di domande inutili sulle labbra, tendeva la sua ragnatela brillante e aggrovigliata per attirarlo. Si conoscevano da trent'anni. Charlie era più vecchio solo di pochi giorni. Avevano cominciato ad andare a scuola insieme, più avanti erano stati nello stesso collegio, avevano vissuto fianco a fianco per otto anni, attraverso le vicissitudini di un tipo di istruzione che Troy aveva detestato. Charlie era stato più tollerante, più disponibile di lui, così almeno pareva, a valutarne il significato. Era stato Charlie a guidarlo in quegli anni tra gli ostacoli della vita sociale e convenzionale, che lo lasciavano a chiedersi spesso se gli inglesi non fossero affetti da una particolare forma di pazzia. Ogni anno, d'estate, chiedeva a suo padre se poteva smettere di andare in quella scuola e ogni anno il vecchio Troy gli rispondeva che non c'era altro modo per entrare, in termini di parità, nella sua nuova patria e che perciò doveva andare avanti. «Vuoi essere inglese o no?», gli chiedeva. «Io te lo raccomando senza riserve. Gli inglesi sanno essere implacabili con chi è diverso. Se le porte ti sono state aperte, entra. Non hai bisogno di crederci. Non sarebbe neanche "inglese". Ricordi Conrad, Con gli occhi dell'Occidente? Hanno stabilito il loro compromesso con la storia molto tempo fa e così non credono a niente. E non è nemmeno necessario che ti piacciano».
Charlie lo guidava. In qualsiasi situazione, Charlie era il capo e lui un subalterno, ma ne aveva tratto grandi vantaggi. All'inizio si era chiesto perché Charlie avesse scelto proprio lui, visto che spesso doveva essere protetto dai pericoli di una società molto chiusa che gli era difficile capire. E anche il prezzo che pagava Charlie era grande. Aveva affrontato con coraggio prepotenti con i quali, personalmente, non avrebbe avuto motivo di discutere, solo perché giudicavano Troy, straniero e basso di statura, un naturale bersaglio. Più di una volta, era stato picchiato lui invece di Troy. «Perché tu ne avresti risentito più di me», aveva risposto a Troy che gli chiedeva perché si fosse assunto la responsabilità di qualche cosa che aveva fatto lui. Troy non gli aveva creduto e lo aveva detto. «Mettiamola in un altro modo», aveva risposto Charlie. «Mi picchiano meno di quanto picchierebbero te. Sanno che non sei uno di loro e, pensano, probabilmente, che io lo sia. Ma si sbagliano. Contra mundum, Fred. Tu e io contro il mondo». Troy non si era convinto, ma Charles aveva seguitato a dirlo. La scuola aveva, a suo modo, indirizzato entrambi a quella che era diventata la loro vita. Ciascuno di loro aveva trovato una collocazione che non rientrava nelle regole dell'alta società inglese. Charlie, nel 1933, era andato a Cambridge e da lì era passato direttamente nel corpo delle Guardie, dove era rimasto per tutta la durata della guerra. In teoria, almeno, faceva ancora parte delle Guardie, ma questo rientrava nell'inganno colossale che risaliva alla guerra e forse anche a prima della guerra. Guardie significava spie, riserva significava spionaggio attivo, essere addetto alla nostra ambasciata a Helsinki significava essere una spia importante, essere addetto alla nostra ambasciata a Mosca, significava essere una spia più importante. Tutto era chiaro, senza bisogno di dirlo. Charlie e Troy non ne parlavano, non ne avevano mai parlato. Non ce n'era bisogno. Erano rimasti in pochi, al mondo, ad avere come Charlie il dono di una conversazione garbata e leggera. «Come stanno le ragazze?», chiese a Troy, con un sorriso irreprensibile. «Piuttosto bene. Ormai hanno quarantacinque anni e quando riesco a tenerle lontane il tempo necessario ad acquistare la necessaria obiettività, riconosco che sono due belle donne». «E Sasha? Come sta Sasha? Ho sempre avuto un debole per lei». Era una bugia. Accettabile, credibile se detta a qualcun altro, ma per Troy era un prodotto tipico della Principessa Charlie. A scuola, uno spiritoso le cui definizioni erano acute quanto l'intuito lo aveva soprannominato
la Principessa Azzurra per le buone maniere, il buon carattere, le inclinazioni sessuali, la facilità all'adulazione. Ma Charlie, di solito, andava avanti tranquillo per la propria strada. Alto un metro e ottantadue, una massa arruffata di capelli biondi che sembravano ricadergli sulla fronte solo perché erano graziosamente troppo ricci, un viso con una gradevole forma a cuore, occhi celesti, e dei bei denti sani, poco inglesi, in una bocca larga, la bellezza di Charlie gli aveva procurato dei successi fin da quando era bambino. Troy lo aveva visto crescere da bocconcino per pedofili a cocco delle signore. Sotto molti aspetti lui e Troy erano molto diversi l'uno dall'altro, ma il tempo aveva dimostrato che la loro amicizia era durevole. Charlie aveva una vita economicamente precaria, era sempre senza un soldo, ma sembrava bilanciarsi tra una crisi e l'altra, immune dal contatto vischioso del mondo. Troy sapeva di avergli prestato dei soldi, l'ultima volta, tre o quattro anni prima, ma se ne ricordava perché era stata l'ultima volta o perché, per la prima volta, Charlie glieli aveva restituiti? Trecento sterline in biglietti da cinque usati e una trasparente bugia su una scommessa sul cavallo vincente al Grand National. Prima, Troy aveva pagato debiti, saldato conti del sarto e tacitato minacciosi allibratori con scoraggiante regolarità e, poiché il fascino di Charlie agiva come una magia, senza nessun risentimento, almeno a quanto poteva ricordare. Ma adesso era il momento che Charlie gli dicesse perché aveva voluto parlare con lui. «Non è vero che avevi un debole per Sasha», disse. «È materialmente impossibile. Io posso distinguerle fisicamente, ci sono sempre riuscito, ma sfido chiunque a superare la superficie compatta dei loro caratteri. Sono identiche, hanno sempre avuto la testa fatta allo stesso modo. L'idea che tu possa avere una preferenza per l'una piuttosto che per l'altra è inaccettabile e che qualcun altro possa averla è ridicolo. Neanche quei poveri disgraziati dei loro mariti potrebbero pretendere tanto». Charlie sorrise. «E il buon Hugh come sta?». Sasha aveva sposato l'Onorevole Hugh Darbishire nel 1933, un aristocratico noioso, tutt'altro che stupido, ma saldamente, assolutamente legato alle abitudini e agli interessi della sua classe sociale. Il padre di Troy aveva fatto notare, all'annuncio del fidanzamento, che non c'erano dubbi sui regali da fare a Hugh: palloni da gonfiare. Troy aveva definito i mariti delle sue sorelle "poveri disgraziati", ma non era esatto. Hugh, probabilmente, era felice come uno dei maiali di Troy e più o meno per le stesse ragioni. Cieco alle stranezze di sua moglie, ne vantava con tutti le doti di sposa e di madre, anche se, secondo Troy, non sempre Sasha si ricordava il nome dei
suoi figli. L'anno prima, il padre di Hugh era morto e Hugh era entrato alla camera dei Lord come visconte Darbishire. Venendo meno alla tradizione liberale della sua famiglia, si era seduto tra i conservatori. Dal giorno in cui aveva riunito i parenti della moglie per darne l'annuncio, Rod, il fratello maggiore di Troy, non gli aveva più rivolto la parola. Prima, però, lo aveva chiamato «nobile smidollato», e mentre Hugh gli rispondeva con un debole: «Ma, dico io...», Rod aveva aggiunto: «E sei anche un fottutissimo idiota». «Ma tu, Charlie, non mi hai fatto venire qui per fare due chiacchiere su Hugh». Charlie fece un cenno al barman e ordinò un altro whisky e soda. «Infatti», rispose sorridendo, «volevo dirti che non devi». «Che cosa non devo?». «Non devi andare a Portsmouth». Troy era stupito. «Perché?». Charlie scosse bruscamente la testa e si scostò dalla faccia una ciocca di capelli biondi troppo lunghi. «Non posso non intervenire. La responsabilità è mia. Ho scoperto che la sezione speciale ti aveva incastrato solo un quarto d'ora fa. Sinceramente: non devi farlo. Non è giusto che quelle canaglie ti abbiano forzato la mano a questo modo. Se non coltivassero così gelosamente la loro illusione di indipendenza e avessero chiesto prima a me, gli avrei detto di lasciarti stare». Era la prima volta che Charlie ammetteva di far parte dei servizi segreti. Ma Troy aveva già deciso. Certo quelli della sezione speciale erano insopportabili, peggio delle spie, ma niente sulla terra lo avrebbe dissuaso dal passare una settimana in compagnia di Nikita Sergeevic Kruscev. «No», disse, «va bene così. Altrettanto sinceramente. Ho detto a Wintrincham che lo farò e non cambierò idea». «Ma non abbiamo bisogno di te. Davvero». «Io, invece, credo di sì. Dove trovereste un altro che parla il russo come me? Non nelle vostre file, naturalmente. E immagino che vi sarà stato detto di tenervi fuori da questa storia». «Credi seriamente che Kruscev si lascerà sfuggire qualche indiscrezione davanti a un poliziotto inglese?». «Non ne ho idea. Ma voi dovete pensare che valga la pena di preoccuparsene, altrimenti non lo avreste circondato di orecchie tese ad ascoltare
quello che dirà. Tu dove sarai?». «Fuori, appunto. A Londra. E se Cobb non mi tiene informato gli riduco le palle a due castagne. Se qualcuno degli uomini del compagno segretario generale mi vedesse succederebbe un putiferio. Ma tu come sapevi che ci era stato detto di tenerci fuori?». «È una voce che circola alla Camera dei Comuni. Mio fratello me l'ha detto solo un paio di giorni fa. Pare che l'ordine sia venuto dall'alto». «È vero. Io ho avuto istruzioni precise. Sono stato chiamato dal primo ministro. L'MI5 e ГМІ6 non devono avvicinarsi al vecchio neanche di striscio, altrimenti...». Un'altra conferma. Charlie non sarebbe stato chiamato a un colloquio con Eden se non fosse stato lui stesso vicino al vertice della difficile carriera della spia. Il barman comparve dietro la spalla sinistra di Charlie e gli mise davanti il bicchiere con il brandy e soda, ma parlò direttamente con Troy. «Chiedo scusa, signor Troy, c'è un suo amico nella saletta in fondo. Ha chiesto di lei». «È Johnny?», chiese Troy. «Ho paura di sì». «È ubriaco?». «Fradicio, signor Troy. Scusi la parola, signor Troy. Ha chiesto di lei». Troy si alzò. Charlie lo seguì. La saletta riservata, al Salisbury, era molto bella, una scatola dalle pareti soffici, un sontuoso buco scarlatto, un guanto di velluto dove bere e sognare. L'uomo che si chiamava Johnny stava seduto con la faccia appoggiata a un tavolino e si lamentava debolmente. «Come sapeva che ero qui?», chiese Troy al barman. «Intuito. Come sa sempre chi è appena stato alla banca o come sa quando il padrone si è deciso a chiedergli di saldare il conto». L'uomo rialzò la testa lentamente, con le mani strette al bordo del tavolo. Il suo soprabito nero di cashmere e la sciarpa rossa, pure di cashmere, erano sporchi di vomito. Puzzava di whisky. Ruttava e le zaffate restavano nell'aria. «Freddie, Freddie, mio vecchio amico rompiscatole. Sono ancora ubriaco, eh?». Troy gli mise una mano sotto il braccio e lo fece alzare. Charlie lo prese dall'altra parte. Il barman tolse un cappello di feltro dall'attaccapanni e glielo calcò sulla testa. «A casa, Johnny», disse Troy con semplicità e, insieme a Charlie, lo tra-
scinò attraverso la sala nella parte anteriore del bar, verso la porta sulla strada. «Non posso», diceva Johnny, tra un rutto e l'altro, «non posso superare quello che è successo. Lo capisci?». Charlie rivolse a Troy uno sguardo interrogativo, ma Troy non aveva tempo per le domande non formulate. «Ferma un taxi», gli disse. «Freddie, amico, mio», proseguì Johnny, «ci sono momenti in cui non si chiederebbe altro...», s'interruppe per ruttare rumorosamente, «...altro che parlare con lei. Lo sai. Non puoi non saperlo. Cristo, se non lo sai tu!». Charlie era riuscito a trovare un taxi. Il tassista si fermò vicino al marciapiede e guardò, incerto, l'ubriaco appoggiato addosso a Troy. Troy scaricò Johnny sul sedile posteriore, si staccò le sue mani di dosso, chiuse la portiera e lo lasciò lì. Il tassista stava sporto dal finestrino, con la testa inclinata all'indietro, gli occhi sospettosi. «Dove?». «Lowndes Square», disse Troy. Johnny abbassò il finestrino posteriore. «Presto, capo, presto. Che cosa sta dicendo?». Charlie fece segno al tassista di andare a sud, verso Trafalgar Square. Il nome di Troy arrivò ancora, come un lamento, lungo St Martin's Lane. Troy e Charlie si guardarono, fermi sul marciapiede, e nessuno dei due si mosse per rientrare. «È un tuo amico?». «È Johnny, tredicesimo Lord Enniskerry, decimo visconte Lissadell, nono marchese di Fermanagh e noto ubriacone». Charlie si guardò la punta delle scarpe, poi tornò guardare Troy. «Ah sì, mi ricordo. È il fratello di Diana Brack». S'interruppe e per un attimo seguì con gli occhi il taxi in fondo alla strada. «Non avrei mai immaginato che sarebbe diventato un tuo amico». «Mi dispiace, Charlie, l'episodio ha abbassato il tono della serata. Ti chiedo scusa, ma ora posso solo arrivare a casa e andare a dormire. Domani mattina devo alzarmi con le allodole». «Sei sicuro di stare bene?». «Sì. Decine di volte ho messo a letto Johnny con la testa svuotata dall'alcol. Non so più quante volte l'ho ascoltato delirare su Diana e suo padre. Il segno me lo lascia sempre, ma è sopportabile».
Charlie strinse Troy in un rapido abbraccio che qualche manata su una spalla rese più rude e virile. Un gesto che Troy non sopportava, ma era tipico di Charlie e aveva imparato da molto tempo a non sottrarsi alle sue eccessive manifestazioni emotive. Pensava, anche se raramente, che aveva amato quattro persone nella vita: suo padre, morto ormai da tempo; Diana Brack, che pure era morta; Larissa Toscà, sparita da molto e Charles Leigh-Hunt. Sarebbe stato totalmente stupido perdere quel poco che gli era rimasto. Attraversò St Martin's Lane, maledicendo Johnny Fermanagh per il suo scarso senso dell'opportunità, e andò a casa. Gli bastarono dieci minuti a capire che Johnny gli aveva fatto sprecare una notte di buon sonno, che avrebbe dovuto prepararlo a un risveglio di buon'ora. Non avrebbe cercato di dormire, con il rischio di andare incontro all'incubo ricorrente, che mille volte era tornato, in mille forme diverse, per finire sempre allo stesso modo. Era stato a Portsmouth anche di recente, vi aveva passato tre giorni in febbraio per un'indagine su un omicidio. Un magnaccia appeso a un lampione con la sua stessa cravatta. L'assassino lo aveva tirato per i piedi finché quel povero bastardo non era morto strangolato. Aveva alloggiato, in quel periodo, in un albergo abbastanza piacevole, dal quale si poteva arrivare a piedi all'arsenale, il King Henry, gestito da un poliziotto in pensione. Erano solo le dieci meno un quarto. Se, dopo aver messo in fretta qualcosa in una valigia, avesse preso un taxi per la stazione di Waterloo, a mezzanotte, mezzanotte e mezzo al massimo, sarebbe stato a Portsmouth. Si sarebbe distratto dai pensieri che Johnny Fermanagh gli aveva riversato addosso e forse, una volta arrivato, sarebbe riuscito a dormire. Meglio, sarebbe riuscito a stare disteso su un letto fino alle sette del mattino o pressappoco. Telefonò prima all'albergo. «Lei è fortunato, signor Troy», disse l'ex sergente Quigley. «Abbiamo ancora una camera libera. Resterò alzato fino all'una. Controllo sempre le scorte nel bar prima di andare a letto. Bussi forte alla porta». Troy scese in strada e fermò un taxi. Salì, ma poiché il tassista aspettò che scorresse il traffico per ripartire, fece in tempo a vedere che la porta del Salisbury si apriva per lasciare uscire Charlie, che sbadigliò, si stiracchiò, si abbottonò il soprabito, si avvolse la sciarpa intorno al collo e scomparve verso Cecil Court. Troy lo guardò allontanarsi, pensando alla distanza che il tempo aveva messo tra di loro, chiedendosi fino a che punto si poteva dire di conoscere un amico che viveva da sempre in un fascio di
bugie, e pensando che Charlie ora lo conosceva più di quanto lui lo conoscesse o gli fosse concesso di conoscerlo. Gli dispiaceva. Da ragazzi non avevano avuto segreti, nemmeno sui particolari dei fervidi amori omosessuali di Charlie; più tardi di segreti ne avevano avuti pochi e non sul gargantuesco uso che Charlie faceva delle donne. Ora non raccontava molto. E, per la prima volta, Troy si rese conto che anche lui aveva detto poco a Charlie della sua storia con Diana Brack. Veramente non ne aveva parlato con nessuno. Era molto più facile confessare un omicidio che un amore. Il giovane Fermanagh si era avvicinato a questa verità in un accesso di ubriachezza, citando un paradosso di Oscar Wilde: «Ognuno uccide ciò che ama». Forse era l'unico frammento letterario che Johnny sapesse a memoria, per quanto, detto così, non si capiva chi era l'eroe, se chi brandiva la spada o l'altro, anche se era chiaro che le intenzioni erano comunque buone. Non era il momento di attardarsi a riflettere su queste banalità. Troy chiuse gli occhi e disse all'autista di avvertirlo quando fossero arrivati alla stazione di Waterloo. 6 Quigley aveva una morbosa inclinazione per il melodramma. Il suo albergo in stile tardo Tudor, vicino all'arsenale, presentava una struttura irregolare, distorta, frutto di innumerevoli aggiunte e cambiamenti, tra i quali andava annoverata l'installazione della corrente elettrica nelle camere. Non nei corridoi e sui pianerottoli, però, attraverso i quali Quigley guidava Troy nel mobile raggio di una scoppiettante lampada al cherosene che teneva col braccio verso l'alto, mentre la sua ombra danzava sulle pareti, più simile a quella di un dilettante che si presentasse a un provino per la parte di Long John Silver che a quella di un poliziotto in pensione. «È arrivato appena a tempo. Due minuti ancora e avrei sprangato la porta per andare a dormire». Per fortuna sono qui, pensò Troy e disse: «Grazie per avermi aspettato». Quigley spalancò la porta di una stanza simile a un enorme granaio e indicò, attraverso un pavimento paurosamente inclinato, un confortevole, accogliente letto a baldacchino, già pronto, un invito per Troy a un sonno che sperava ardentemente sarebbe stato senza sogni. Posò la valigia, si liberò del cappotto, augurandosi che Quigley non avesse voglia di chiacchierare. «Vuole la colazione presto, mi ha detto?». «Alle sette e mezzo, se non...».
«Va benissimo, signor Troy. Ci penserà una delle mie figlie, Mary, la minore. Forse ricorderà di averla vista. Stasera siamo al completo. Ci sono gli inviati dei giornali, venuti da Londra a fotografare i comunisti che arrivano domani. Loro non si alzano certo all'alba, ma ho un altro cliente che farà colazione presto. Un commerciante che viene dal nord, non so da dove, con precisione. Quindi non si preoccupi, per noi non è un disturbo». Quigley tacque per un momento. Gli era venuto, spontaneamente, un pensiero. «Non è che anche lei sia qui per la stessa ragione, signor Troy? Per i comunisti e tutto il resto?». Troy sorrise, senza rispondere. Qualunque cosa avesse detto sarebbe stato per Quigley un invito a prolungare le chiacchiere e lui aveva un bisogno assoluto di andare a dormire. Quigley lo capì. Troy sentì scricchiolare il pavimento di legno del corridoio. Si levò un vento improvviso, la stanza parve tremare e le vecchie assi di quercia gemettero come l'albero di una nave durante una tempesta. Per fortuna sono qui, pensò di nuovo Troy e si lasciò cadere sul letto a baldacchino. Si svegliò presto, la mattina, e vide la luce filtrare, obliqua, attraverso le tende. Gli parve che fossero circa le sei e mezzo. Aveva dormito poco più di cinque ore. Richiuse gli occhi e si sentì sommergere ancora dal sogno, dalle immagini laceranti di Diana Brack: lei che lo inseguiva attraverso un terreno deserto, con la pistola in mano; lei rannicchiata contro il suo braccio che la stringeva; lei nuda, assonnata, che sbadigliava ai piedi del suo letto. Aprì gli occhi. Scostò le coperte, si alzò di scatto e maledisse Johnny Fermanagh una volta di più. Nella sala da pranzo, Mary Quigley gli venne incontro, solerte e un po' agitata. C'erano una dozzina di tavoli con le sedie sopra, capovolte e, in mezzo, un solo tavolo apparecchiato per la colazione. A quell'unico tavolo era seduto un uomo piccolo, con un blazer blu. Era voltato di spalle e si vedeva il suo gomito destro muoversi con energia. «Non le dispiace, vero, dividere il tavolo?», chiese Mary. «È che sono un po' indietro stamattina e voi siete solo in due, vorrei fare a meno di preparare due tavoli per poi dover correre dall'uno all'altro. Avrò già abbastanza da fare quando si metteranno in moto i giornalisti venuti da Londra, quelli sono sempre in fregola». Messa così, era impossibile rifiutare. Non che a Troy facesse piacere sedersi al tavolo con un altro. La colazione del mattino era, rispetto agli altri, il pasto che andava consumato in totale riservatezza. Sua madre aveva
sempre fatto colazione in camera. I bambini mangiavano con la cuoca, severamente ammoniti a non rivolgere la parola al loro padre se non quando avesse bevuto la terza tazza di caffè e letto il secondo giornale. Troy non riusciva a ricordare quando era stata l'ultima volta che aveva fatto colazione con qualcuno. L'uomo col blazer smise di mangiare il suo porridge per presentarsi. «Cockerell, Arnold Cockerell». Troy strinse la mano che gli veniva porta e che immediatamente tornò a immergere il cucchiaio nel porridge. «Troy», disse, mettendosi a sedere, «Frederick Troy». «Stampa?», chiese Cockerell, con la bocca piena di avena. Troy non aveva una bugia pronta. Sentì, avvertì fisicamente il rumore secco della tazza posata sul piattino, l'aggiunta impercettibile dei due cucchiaini di zucchero, il tintinnio del cucchiaino mentre Cockerell mescolava il tè nel silenzio creato dall'attesa della sua risposta. Non avrebbe mai pensato che potesse servirgli un alibi. Che cosa si poteva avere da fare a Portsmouth alle sette di un mercoledì mattina? «No, no», bisbigliò, «solo una breve sosta». Una spiegazione pietosa, soprattutto da parte di chi, professionalmente, avrebbe dovuto essere un esperto di bugie, ma Cockerell parve soddisfatto della risposta. «Qualche volta è necessario», disse. Troy capì che se l'era cavata e aspettò il seguito. Ma forse ora sarebbe stato sufficiente qualche cenno di assenso ogni tanto, come suggerivano le convenienze. «Io sono commerciante», proseguì Cockerell, «e questo, per me, è un altro giorno di lavoro, perciò mi sono alzato presto. D'altra parte, come si dice, è l'uccello del mattino che becca il verme». Arrivò Mary, tenendo in equilibrio sulle braccia un grande vassoio di legno con il porridge, un bricco di caffè per Troy e, quasi incredibile, un piatto di kedgeree, cioè riso, cipolle e uova ben speziati, per Cockerell. Troy pensò che doveva avere una capacità di digestione edoardiana. Chi al mondo poteva ingerire porridge e, insieme, kedgeree? Per quanto ne sapeva, Cockerell forse aveva iniziato la colazione con fagioli in salsa piccante e non aveva ancora finito. «Papà mi ha detto di portarle il caffè invece del tè, perché l'ultima volta che è stato da noi non ha mai bevuto il tè», disse Mary. Posò pesantemente il bricco davanti a Troy che se ne versò una tazza e, mentre il profumo di una buona, forte tostatura si diffondeva nell'aria, ringraziò in cuor suo
Quigley perché sapeva fare un buon caffè. Cockerell aveva cominciato, intanto, a mangiare il suo kedgeree e Troy sperò che servisse a farlo stare zitto. «Durante la guerra», disse di slancio Cockerell, ed era un modo di avviare la conversazione che Troy da tempo aveva imparato a temere perché poteva preludere a qualsiasi stupidaggine. «Durante la guerra...». Le parole si ripercossero nella mente di Troy, tipiche di un cittadino inglese particolare anche se tutt'altro che speciale. «Durante la guerra», una frase che voleva predisporre l'interlocutore all'ascolto, con la previsione di un interminabile, innocuo svago, fatto di ore e ore di ricordi su come si viveva allora. «Durante la guerra...». Troy guardò, al disopra della tazza, il rappresentante di quella tradizionale vuotaggine inglese, chiedendosi se ne fosse una incarnazione tipica o se, per un miracolo divino, non presentasse qualche variante che non gli era ancora capitato di incontrare negli undici lunghi anni di apparente nostalgia che erano passati dalla fine della guerra in questione. Cockerell ormai era partito sulla strada degli «Yankee» e del «qui da noi» e di come loro bevessero sempre il caffè invece del tè, un modo per lui inconcepibile di cominciare la giornata. Troy non ascoltava. La voce di Cockerell gli arrivava come attraverso uno strato di garza e cotone idrofilo, ma lo vedeva per quello che era in realtà. Appena finita la guerra, gli inglesi avevano cominciato a rimaneggiarne il ricordo. Molti di quelli che erano sopravvissuti alle bombe e ai proiettili erano stati poi distrutti dai blazer blu con gli stemmi. Li si trovava in lungo e in largo per tutta l'Inghilterra. Clienti assidui dei bar dei circoli della RAF e dei reduci della British Legion. Specialisti nel raccontare aneddoti spesso inventati, avevano avuto la loro ora di gloria durante le esercitazioni dietro la caserma, tra le reclute, o nel lucidare il cinturone della divisa, e la loro vita, in seguito, sarebbe stata sempre condizionata, ciecamente, da quell'unico momento. Uomini naufragati contro lo scoglio di una mutile nostalgia per un periodo che, considerato obiettivamente, avrebbe dovuto essere annoverato tra i peggiori nella storia dell'umanità. Troy li trovava molto noiosi. Lo stemma del blazer di Cockerell non aveva nomi, ma dal groviglio di corde attorno a quella che forse era un'ancora, Troy dedusse che aveva vissuto la sua apocalisse in marina. Impiegato ai magazzini? Cameriere alla mensa? Guardò la sua faccia sottile, il cranio stretto, la mascella puntuta, i baffetti sottili. Una faccia comune. La si poteva vedere in migliaia di pub, in tutte le isole britanniche. Un essere da evitare come la peste. Troy lo
immaginò come un piccolo ufficiale, in servizio sulla costa, bevitore di whisky. Probabilmente fumava Senior Service e portava scarpe di camoscio. Era sul punto di cedere alla tentazione di far cadere il tovagliolo per avere una conferma a quest'ultima supposizione, quando si accorse che Cockerell guardava come se stesse aspettando una risposta. Forse gli aveva fatto una domanda, ma lui non l'aveva sentita. Cercò di scantonare. «Mi dica, che cosa vende lei esattamente, signor Cockerell?». Fu come se avesse acceso un fuoco d'artificio: Cockerell s'illuminò. Smise di mangiare il kedgeree, si tolse un pezzetto di rosso d'uovo dal labbro inferiore, posò un gomito sul tavolo e, irradiando orgoglio e sicurezza di sé, disse, a voce bassa e quasi con rispetto reverenziale: «Mobili moderni. L'estetica di domani. Il salotto 1960, a casa vostra, oggi». Aiuto, pensò Troy. È la vendetta che Dio scaglia su di noi. «Il nostro è un paese vecchio, conservatore», stava dicendo Cockerell. «Siamo troppo legati al passato. Lo sa che la maggior parte delle famiglie inglesi oggi non ha mai comprato un salotto a tre pezzi, cioè divano e due poltrone? Mai! Viviamo tutti con le anticaglie che ci hanno lasciato i genitori. Nelle case si trovano ancora i mobili comprati nel 1925 a sei pence la settimana. Viviamo nel passato. L'Europa ci lascia indietro. Io allora mi chiedo: è per questo che abbiamo vinto la guerra?». Troy non lo sapeva perché avevamo vinto la guerra. Al momento gli era parso un meraviglioso colpo di fortuna ma era sicurissimo che non fosse stata vinta per facilitare l'acquisto di brutti mobili in nome di un confuso concetto di modernità. Capiva che cosa intendesse Cockerell per "moderno": tavolini con le gambette nere assottigliate in fondo e il ripiano dal disegno irregolare, pieno di spigoli; orribili tappeti che sembravano ritagliati da quadri di Jackson Pollock. Ma nemmeno lui aveva comprato mai un mobile. Sua madre gli aveva arredato la casa con quelli che aveva già in casa. Anche lui, dunque, rientrava nel numero degli inglesi che Cockerell criticava. Gli oggetti che definiva antichi, per Cockerell erano di seconda mano. Avevano ragione tutti e due. Durante l'ultima campagna elettorale di suo fratello Rod, per le elezioni generali del 1955, una vecchia signora bislacca aveva attaccato un bottone a Troy, nel Hertfordshire, informandolo della sua intenzione di votare liberale e quindi non per Rod, che era tanto simpatico ma era socialista, e neanche per il candidato del partito conservatore, come aveva sempre fatto. «Perché?», le aveva chiesto Troy. «Ci ha invitato per il tè», aveva risposto la vecchia signora, «e, lei non mi crederà,
aveva tutti mobili comprati in un negozio!». Nel suo credo, che Troy sospettava per il resto non dissimile da quello di Cockerell, l'unico modo per avere dei mobili era ereditarli. «Lo sa che cos'è l'Inghilterra?», andava cianciando Cockerell. «È il paese del salotto buono, delle poltrone col coprischienale». Anche se in silenzio, per non incoraggiarlo a parlare, Troy concordava perfettamente con Cockerell, con la sua analisi semplice, ma esatta dell'Inghilterra. «Mio padre teneva la chiave del salotto attaccata alla catena dell'orologio. Lo apriva una volta alla settimana perché mia madre potesse fare le pulizie e, per tutti gli altri giorni, restava chiuso, perché noi bambini non potessimo entrare. Così per cinquantuno settimane all'anno. Usavamo quella maledetta stanza il giorno di Santo Stefano, poi veniva subito richiusa, con i suoi divani immacolati, venuti tanto di rado a contatto con sederi umani, con i suoi coprischienale e i suoi portacenere a forma di conchiglia, fino al Natale successivo. Quando li ho ereditati io, quei mobili erano completamente fuori moda. Vecchi come un paio di ghette e nuovi come il giorno in cui erano stati consegnati con un carro a cavalli nel 1908. Avrei potuto darli a un museo, se li avesse voluti. Non mi è rimasto altro da fare che metterli fuori di casa e accendere un fiammifero. Mi creda se le dico che è stata una liberazione. Bisogna stare al passo coi tempi, non è d'accordo anche lei?». Troy non era d'accordo. Non era assolutamente sicuro del valore di quella vecchia, trita frase. Cockerell aveva ripreso a trangugiare il suo kedgeree, con un appetito sorprendente in un uomo così magro e non sembrava aspettarsi una risposta. «Io ho tre negozi», proseguì. «Al Nord e nelle Midlands, uno a Derby, uno ad Alfreton e poi al mio quartier generale di Belper». Quella precisione, "al Nord e nelle Midlands", era parsa a Troy stranamente meccanica, astratta, come se si trattasse di luoghi disabitati. Era il linguaggio stentato di un concorrente alle finali regionali di una gara di ballo. Troy conosceva Derby per avervi passato quasi una settimana, nel 1951, a rintracciare un avvelenatore. Gli altri due nomi non gli dicevano niente, anche se Belper gli sembrava vagamente familiare. «Mi occupo essenzialmente di import-export. Arredo moderno. Viene quasi tutto dalla Scandinavia. Tutto quanto c'è di nuovo oggigiorno viene da lì. Ma, in realtà, io compro ovunque e vendo ovunque. In tutta Europa». Cockerell aveva finito il kedgeree, schiacciando con la forchetta, per
raccoglierli, gli ultimi chicchi di riso bollito. Come per magia, ricomparve Mary con il pane tostato. Una piccola rastrelliera d'argento per Troy e una uguale per Cockerell. Di diverso c'era che il pane tostato di Troy aveva un bel colore dorato e uniforme, mentre quello di Cockerell era bianco da una parte e nero dall'altra. Troy sarebbe morto piuttosto che scambiare anche una sola fetta di pane con quel monumento della noia inglese. Cockerell non si era accorto di niente. Grattava col coltello un pezzo di burro gelato e intanto chiacchierava. Aveva mai considerato Troy la comodità di una moquette che ricoprisse il pavimento di tutta la casa? E vedendo Troy insensibile all'argomento, il commerciante, seguitando a spiegare, illustrava il suo progetto sul retro di una busta. «Skaters, è la più ricercata. O almeno lo sarà. Ne ho trenta rotoli nel negozio di Belper». «Come mai si trova a Portsmouth?», chiese Troy, mentre finiva di mangiare la sua fetta di pane, sicuro che se la sarebbe cavata senza conseguenze. «Una stanza da ricoprire di moquette? Crostacei da riprodurre in stile scandinavo?». Cockerell rimase sconcertato. Forse Troy aveva parlato così poco fino a quel momento che qualsiasi domanda, anche se ironica, non avrebbe potuto provocare altro che uno stupore silenzioso. Ma no, c'era qualcosa di più. Cockerell arrossì e abbassò la testa sul suo pane e marmellata, poi, scuotendo le spalle, guardò Troy, con un sorriso tenue e uno sguardo smarrito negli occhi celesti. «Oh, sa, un po' una Cosa, un po' un'altra...». Era una bugia. Debole come quella che aveva detto Troy. Uno scocciatore ciarliero era stato ridotto a dire una bugia che era andata a esaurirsi in un silenzio per il quale Troy non poteva non ringraziare il cielo. Che cosa importava se Cockerell aveva preso il largo da casa per andare, secondo il vecchio eufemismo, a saltare la cavallina? Conformemente al personaggio che Troy aveva individuato all'inizio, si avvicinò il portacenere, spinse via il piatto e si tolse di tasca un pacchetto di Senior Service. C'era aria da Rotary Club. Troy avrebbe voluto ancora controllare se aveva le scarpe di camoscio. 7 Troy era in ritardo. Aveva perso tempo. Guardò l'orologio. Erano le dieci meno un quarto. Nella mattinata primaverile, l'aria era limpida e frizzante. Quel genere di aprile che, secondo la sua esperienza, annunciava una
bella estate. La guardia dell'arsenale di sua maestà, a Portsmouth, guardò il foglio di permesso di Troy e controllò un elenco di nomi. «Lei non è l'ultimo», disse. «Non ho visto ancora arrivare l'ispettore Cobb.» Gli indicò con un gesto dove dirigersi. «Secondo capannone a sinistra». Troy spinse la porta di un capannone di legno e si trovò davanti una squadra dall'aria moscia, formata da cinque poliziotti seduti attorno a un tavolo. Uno, addirittura, dormiva, con la testa appoggiata sulle braccia. Troy li conosceva di vista. Uno, che non poteva avere più di venticinque anni, si alzò in piedi. «Ispettore capo. Sono Huw Beynon. Sergente investigativo del servizio speciale». Troy si ricordava di averlo incontrato nei corridoi di Scotland Yard. Troppo giovane per essere già sergente e, soprattutto, troppo giovane per trovarsi con quelle belve della sezione speciale. Beynon lo presentò ai sergenti Beck e Molloy, che pure facevano parte della sezione, e a uno di loro parve opportuno dare una gomitata al sergente investigativo Milligan, trasferito per la circostanza dalla divisione J, perché, davanti all'ispettore capo, fingesse almeno di essere sveglio. Milligan alzò la testa, guardò Troy e biascicò un saluto. Aveva il mento coperto di una peluria grigia. Non si era fatto la barba. Troy pensò che, per quello che sapeva di Cobb, Milligan doveva aspettarsi un secco rimprovero, ma siccome la responsabilità non era sua, provò, a quel pensiero, un gradevole senso di leggerezza. Il quinto uomo, voltato di palle, era tutt'uno con la stufa. Basso, grasso, aveva un aspetto infelice, era un brutto esemplare di poliziotto. Apparentemente ignaro di quanto gli stava intorno, era immerso nella lettura di un grosso libro rilegato. Troy gli si avvicinò e inclinò la copertina per leggere il titolo. Lolita. Non ne aveva mai sentito parlare. L'autore era un certo Vladimir Nabokov e non conosceva neanche quello. L'uomo si mise a posto gli occhiali e guardò Troy. «Lanciabombardiere Clark?». «Ora agente investigativo Clark, signore. Immagino che lei non sia più ispettore, vero?». «Ispettore capo. Fa parte anche lei della sezione speciale?». «Dio mio, no, signore. Polizia del Warwickshire. Sono stato aggregato perché so le lingue. Russo e tedesco. Veramente, con tutto il tempo che ho passato a Berlino, avrei dovuto essere sordo per non imparare il russo». Troy non vedeva Clark dal Natale del 1948, in una Berlino coperta di
neve, assediata dal defunto Josif Stalin. Clark, bombardiere scelto del corpo artiglieri gli era stato assegnato come interprete. Troy si ricordò così che quella era stata l'ultima volta che aveva visto la Toscà, poco prima di salutare Clark. Gli si avvicinò con una sedia. Gli agenti erano in piedi dalle quattro o le cinque del mattino. Erano assonnati, con gli abiti acciaccati. Non si sarebbero risentiti per una conversazione riservata. «Come l'hanno convinta?», gli chiese. «È stato tutto abbastanza semplice», rispose Clark. «Nel 1952 avevo quindici anni di anzianità. Ero diventato sergente maggiore di seconda classe. Sapevo di non avere quella che si chiama la stoffa dell'ufficiale. E neanche quella del sergente maggiore di prima classe. Era venuto il momento, per me, di riprendere gli abiti civili. Proprio allora la polizia ha cominciato a reclutare in grande. C'era stata quella grossa epurazione di poliziotti corrotti, se lo ricorderà. Hanno mandato due tipi alla base dove mi trovavo io a fare un po' di pubblicità. Mi hanno detto che la polizia aveva bisogno di uno come me. Per le lingue e così via. La nuova linea del poliziotto colto. Più cervello e meno stivaloni. Va bene, ho pensato. Ho aderito. Ho passato i tre anni successivi a battere una zona laggiù, a Birmingham. L'unica lingua che dovevo usare era quella che serviva a farmi capire da quei bestioni che arrivavano da Wolverhampton. Circa un anno fa sono riuscito a evitare il servizio in divisa ed è andata meglio. Quest'ultima occasione è arrivata di sorpresa. Un regalo. Non mi è parso vero». «Neanche a me». Troy aveva la tentazione forte di chiedere a Clark notizie di Larissa Toscà. Ma c'era un rischio. Che cosa aveva pensato di lei Clark? L'ultima sera, a Berlino, era entrata, di spalle, nella sala mensa della RAF al Gatow, togliendosi i fiocchi di neve dalla divisa di sergente maggiore, e aveva urtato contro Clark che stava uscendo. Aveva mai saputo, Clark, che quella divisa era un imbroglio totale? Un avanzo della guerra che lei non era, più di Troy, autorizzata a portare? Aveva capito da che parte stava? «Quando è partito da Berlino?», provò a chiedere. «Oh, ci sono rimasto fino all'ultimo. Ho visto tutto. Tenga presente che la situazione era completamente cambiata dopo il 1949. Dopo che i sovietici avevano allentato le briglie su di noi, c'era una noia da morire. La vita senza quei trucchetti non era più vita. Lo dicevano tutti. L'esercito, i traffici, le spie. Niente aveva più sapore». Anche se Troy era ansioso di avere notizie, il non sapere aveva una sua attraente ambiguità. E se Clark fosse stato al corrente di tutto? Non l'aveva
forse vista seduta al tavolo con lui quella sera? E se lei fosse stata denunciata o epurata in uno di quegli innumerevoli processi spettacolo organizzati da Berija durante il regime di Stalin? Voleva sapere, ma voleva sapere anche il peggio? Clark stava guardando al disopra della sua spalla. Troy si voltò e vide Beynon che si era avvicinato. «Chiedo scusa, signore. Non sappiamo che cosa pensare, perché sono le dieci passate e l'ispettore Cobb non si vede ancora. Ci ha lasciati qui più di un'ora fa. Lei non crede che dovremmo fare qualcosa? Siamo incerti... lei è il più alto in grado...». Troy stava per far notare l'estraneità della sua posizione, quando la porta si spalancò ed entrò Cobb, senza fiato, con la faccia rossa e sudata. Gettò la cartella sul tavolo a cavalletti, facendo svegliare un'altra volta Milligan di soprassalto. Col respiro ancora affannoso, diede un'occhiata circolare alla stanza e fermò lo sguardo su Milligan. «Tu», ordinò, «appena smonti, barba e capelli». Poi si rivolse a Troy. «Vedo che lei si è unito a noi, signor Troy. Bravo!». «Non ha ricevuto il mio messaggio?», disse Troy, tranquillamente. «Sì, certo. Se non le dispiace, però, in futuro, preso un accordo preferirei che lei vi si attenesse». Troy alzò lentamente il braccio sinistro per guardare l'orologio, poi guardò Cobb, esprimendo così, in silenzio, la propria opinione. Cobb finse di non capire. Qualunque fosse la ragione che lo aveva fatto ritardare, aveva messo a dura prova il suo fisico. Il sudore gli scendeva a rivoli, come se avesse appena vinto il primo premio per la corsa nei sacchi. «E ora cominciamo con i turni di servizio!». Si tolse l'impermeabile blu e aprì sul tavolo il programma per i dieci giorni successivi. Troy gli diede un'occhiata. Era molto fitto, pareva che non ci fosse una giornata con un po' d'intervallo. Bulganin e Kruscev sarebbero rimbalzati in lungo e in largo per le isole britanniche, con tutti i mezzi di trasporto esistenti, avrebbero mangiato e bevuto con tutti i personaggi importanti che Londra sarebbe riuscita a scovare, in un punitivo turbine di rapporti sociali che avrebbe stroncato un uomo con la metà dei loro anni. La sera del ventitré, sarebbero stati ospiti del partito laburista alla Camera dei Comuni. Troy intuì subito quale sarebbe stata la difficoltà, ma pensò che se la sezione speciale e il governo di sua maestà non se n'erano accorti, non toccava a lui parlarne.
«Primo: avverto quelli di voi che hanno già speso una bella somma da Moss Bros che non ci vorrà l'abito da sera. I nostri ospiti, a quanto pare, non hanno portato i loro e di conseguenza, per non metterli in imbarazzo, anche noi, ai ricevimenti, ci limiteremo a indossare un abito scuro». Cobb diede un'occhiata breve ma significativa a Troy, perché ricordasse la sua battuta del giorno prima. «Ora... abbiamo alcune regole e direttive, su ciò che si deve o non si deve fare. Sgarrate e avrete a che fare con me. Sappiamo tutti perché siamo qui e qual è il nostro compito. Ciascuno di voi farà riferimento a me, all'inizio e alla fine del turno. Voglio conoscere il momento esatto in cui assumerete l'incarico di scortare un ospite e quello in cui avrete terminato il servizio. A questo punto, cioè lasciato il servizio, pretenderò un rapporto completo, a voce. Sarò io a decidere che cosa andrà messo per scritto. Non ci sarà tempo per voi di prendere appunti e, anche se ci fosse, non voglio che i russi vi sorprendano a scribacchiare. Chiariamo subito che il nome in codice di Kruscev è Porcorosso e quello di Bulganin Orsonero. Nessuno, al telefono, deve chiamarli mai diversamente da così. Capito?». Li fissò tutti, uno per volta, ma per qualche ragione che Troy non riuscì a capire, lasciò indugiare lo sguardo su Clark. «Capito?», ripeté. Dopo aver deglutito visibilmente, Clark riuscì a pronunciare un debole: «Sì, signore». «Bene. Passiamo agli ordini del giorno. Sorvegliare Porcorosso e Orsonero...». Una pausa. Troy avvertì lo sforzo di renderla il più possibile eloquente. «...non tocca a voi. Ripeto: non tocca a voi. I miei ragazzi saranno ovunque, perfettamente visibili». «E come? In impermeabile e bombetta?», disse una voce dal fondo. Troy vide gli occhi di Cobb rivolgere a Milligan uno sguardo di fuoco. «Zitto!». Cobb tornò a studiare il foglio con i turni di servizio. «Fatto sta», disse, arrossendo leggermente, «che indosseranno proprio impermeabile e bombetta». Troy si accorse di non riuscire a trattenere un sorriso. Senza un intervento celeste, quel sorriso sarebbe diventato un risolino, il risolino una risata e in un attimo Cobb gli sarebbe piombato addosso come un maestro iroso, armato di gessetto ma l'immagine di tutti quei piedipiatti che sciamavano per il Claridge Hotel vestiti come i poliziotti di una pantomima era irresi-
stibile. Cobb puntò un dito, come la canna di una pistola, verso di lui. «Lei smetta di ridere!». Troy si voltò e vide che Cobb ce l'aveva con Clark, che torceva la faccia nello sforzo di restare serio. «Il lavoro sostanziale è il loro e saranno riconoscibili. Da tutti. Ma, nel caso di eventuali disordini, c'è una prassi cui attenersi. Cominciamo. Punto primo. Le uniche volte in cui voi non accompagnerete Porcorosso e Orsonero sarà quando entreranno in funzione altre misure di sicurezza, per esempio durante la visita ai palazzi reali, in Downing Street. Nelle altre occasioni gli starete attaccati con la colla. Nessuno escluso. Dovunque vi troviate. Se dovrete assistere a quattro chiacchiere in confidenza tra l'arcivescovo di Canterbury e i nostri ospiti, non fatevi scrupoli: ascoltate. Secondo. Passate dalle porte sempre avanti a loro. Terzo. Se un pazzo tenta di aggredirli, portateli fuori dalla stanza e lasciate che siano i miei ragazzi a occuparsi dell'aggressore. Voi non reagite, a meno che non abbiate altra scelta». Beynon alzò la mano, come uno scolaro zelante. «Ma, chiedo scusa signore, ci sono state minacce?». «Minacce?», ripeté, sarcastico, Cobb. «Minacce? Non c'è gruppetto di pazzoidi, in Inghilterra, dagli Empire Loyalist agli ultimi seguaci di Mosley che non si sia fatto sentire. Sono squilibrati, non contano niente. Se dovessimo dar retta a tutti quei balordi che dicono che Kruscev è l'anticristo non avremmo più neanche un poliziotto a controllare il traffico. Nonostante tutto, non dobbiamo correre rischi. Avete capito? Ricordatevi che i russi volevano che la guardia fosse formata da agenti del KGB. Non è stato facile convincerli che non volevamo squadre di russi aggressivi e armati a spasso per Londra. Quindi, come avrete capito, non è permesso commettere errori». Di nuovo avvolse i presenti in uno sguardo penetrante che, certamente, aveva provato davanti allo specchio del bagno fin da quando era bambino. Troy pensò che era un uomo brutale, ma non ottusamente brutale come aveva creduto. Il discorsetto che aveva appena fatto gli aveva dato la possibilità di osservarlo e giudicarlo. Lo sguardo era più inquietante di quanto, probabilmente, Cobb stesso non desiderasse. Voleva comandare e gli riusciva piuttosto bene. Ma i suoi occhi sembravano asimmetrici. Aveva lo sguardo storto, strabico di chi ha un occhio solo. Ma di occhi ne aveva due. Finalmente Troy capì. Erano le sopracciglia. Il sopracciglio sinistro atti-
rava l'attenzione sull'occhio sinistro, perché al centro era bianco, aveva una chiazza prematuramente bianca, strana come i capelli di Diaghilev che avevano due diverse sfumature di colore o come l'aureola di Quentin Crisp, tinta con l'henné. Troy si ricordava che a Scotland Yard Cobb era ritenuto un rubacuori e ora cominciava a capire perché. C'era in lui l'aspetto di un uomo trasandato, che poteva suscitare nel tipo adatto di donna, il desiderio, dal primo giorno in poi, di arrotolargli le calze a due a due e mettergliele bene in ordine nel cassetto, ma aveva, insieme, anche una ruvida bellezza piratesca. Per Troy era l'incarnazione del funzionario stronzo e scorbutico, tipico della sezione speciale, ma capiva che qualche giovane ausiliaria potesse trovarlo affascinante. Aveva i capelli, scuri e ricci, che gli coprivano in parte la fronte, la bocca larga e la mascella sporgente, nonostante il doppio mento, ma, soprattutto, era incredibilmente ben vestito. L'impermeabile era un Burberry; l'abito blu a doppio petto, ben tagliato, adatto alla sua figura, doveva essergli costato parecchio. Troy non si curava molto del proprio guardaroba. Si vestiva in Savile Row solo per abitudine, perché danaro e tradizione familiare gli avevano facilitato la strada. Non era una questione di gusto. Non aveva nessun vestito elegante come quello di Cobb. «E per concludere...». Per concludere? Troy pensò che doveva essersi distratto. «Per concludere, ci sono queste». Cobb aprì la borsa e ne tolse sei Browning automatiche di quelle in dotazione alla polizia, chiuse nel fodero. Fu un momento imbarazzante. Troy non vedeva una pistola da molto tempo. Era passato più di un anno da quando aveva dovuto richiederne una. Rappresentavano un elemento inquietante nel suo concetto dei compiti di un "poliziotto". «Firmate qui. Avrete di riserva due caricatori da nove millimetri. Dovrete rendere conto di ciascuno». Troy vide che Beynon, Beck e Molloy si legavano la fondina alla spalla con disinvoltura, come dei banditi. Lui si rigirava tra le mani la sua e Clark e Milligan apparivano ugualmente incerti. A poco a poco, Troy capì che la fondina non poteva essere usata da un mancino. O la si metteva sotto il braccio sinistro o niente. Clark riuscì a farsela passare dietro il collo, con il calcio della pistola appeso attraverso lo sterno. Milligan sembrava che tenesse in braccio un gatto. Cobb li guardava, senza tentare di nascondere il proprio disprezzo. «Oh, Cristo! Che dilettanti! Che incapaci! Beynon, mostragli tu come si
fa». Cobb se ne andò, infuriato, e Beynon rivolse a Troy uno sguardo di scusa. «Vede, signore, si fa così». Si sfilò di dosso la fondina e lentamente se la rimise, accentuando ogni gesto, come una paziente guida scout che insegnasse ai più imbranati come si fa un nodo. «Prima il braccio sinistro. Poi dietro la schiena. Passare il braccio destro attraverso la parte elastica. Si tira e si allaccia. Visto?». Sì, avevano visto. Milligan aveva anche capito. Troy e Clark sembravano due clown di quart'ordine. «Scusi se mi permetto, signore», disse Milligan, «ma appena incontro l'ispettore Cobb dove nessuno ci vede...». «Si metta pure in coda dietro di me», rispose Troy. «Se avessi saputo come funziona questo oggetto, gli avrei sparato subito». Mise la pistola nella fondina e si infilò di nuovo la giacca. Gli sembrava di avere un grosso cetriolo sotto l'ascella. Un ingombro sgradevole e stupido. Non c'era che abituarcisi. Toccava a Dio dare una mano a Nikita Kruscev nel caso avesse dovuto usare quella pistola. Dall'arsenale arrivarono degli spari. Poi altri e altri ancora. Troy non aveva bisogno di contarli. Dovevano essere tredici, secondo la tradizione, e i sovietici avrebbero risposto con ventuno. Le navi russe avevano attraccato. Oppure era scoppiata la terza guerra mondiale. Troy si rimise il soprabito e uscì con gli altri. «Siete fortunati!», gridò Cobb, tra gli spari. «Sarete presentati individualmente, come guardie del corpo. Vi metterete in fila e il rappresentante del ministero degli esteri dirà il vostro nome. Qualunque cosa rispondano, vi raccomando, fingete di non capire e non rispondete finché non avrete ascoltato la traduzione che vi farà il ministro stesso. Per i russi, siete dei poliziotti qualsiasi, così qualsiasi che il solo pensiero mi mette i brividi. Ora, seguitemi». Cobb li guidò, sotto l'arco di mattoni corrosi, fino all'attracco predisposto per le navi russe. C'era il sole, ma, di là dall'arco, il vento salato che veniva dal mare ricordò a Troy che era solo la metà di aprile e che il tempo poteva cambiare da un momento all'altro. La banchina era affollata di giornalisti, i signori di Fleet Street che, riuniti in gruppi, fumavano e scherzavano; e di grossi e piccoli funzionari del ministero degli esteri, i signori di Pall Mall, che non fumavano e non scherzavano. E, come aveva detto Cobb, la sezione speciale, inconfondibile negli abiti della festa: im-
permeabile con la cintura, bombetta e piedoni. Niente intercettazioni telefoniche o teste fracassate quella mattina, in tutta l'Inghilterra: la polizia non poteva occuparsene. Era presente in blocco come a un provino per la parte del poliziotto cinese in una produzione estiva di Aladino. Troy contò rapidamente, vide che erano sette e cercò di non pensare a Biancaneve. Alla marina da guerra era stata affidata la guardia d'onore, con l'accompagnamento di un orrido repertorio di inni nazionali. All'ombra grigia, immensa, dell'incrociatore da guerra Ordzhonikidze, le personalità si erano già allineate per prepararsi ad accogliere i russi. Troy si trovava tra Cobb e Beynon. Allungando gli occhi oltre la spalla di Cobb, riusciva a vedere l'ambasciatore russo, Jacob Malik, e gli esponenti delle istituzioni civili e militari della nazione inglese: Lord Reading, in rappresentanza del ministero degli esteri, e Lord Cilcennin, Primo Lord dell'Ammiragliato. Quale fosse la differenza tra i loro ruoli, non avrebbe saputo dire. Sebbene facessero entrambi parte del governo, non era certo se Cilcennin fosse nella marina o no, né se necessariamente dovesse farne parte. Nessuno dei due contava molto. Tuttofare mandati in servizio su una banchina spazzata dal vento. Non sarebbe successo niente di rilevante finché i russi non fossero scesi a Victoria Station, la porta di servizio di Westminster e si fossero trovati faccia a faccia con il primo ministro, Sir Anthony Eden, veterano degli anni Trenta, il decennio della doppiezza, il giovane, intelligente segretario del ministero degli esteri che aveva avuto il coraggio di dare le dimissioni a seguito del patto di Monaco e della politica di pacificazione del primo ministro Neville Chamberlain con la Germania nazista, e che era stato a lungo erede legittimo dell'anziano e sofferente Winston Churchill. Non più erede, ormai, adesso era primo ministro da quasi un anno, e rappresentava le speranze di una nazione, profondamente fedele al grande vecchio, ma disperatamente bisognosa di un uomo nuovo. La difficoltà, secondo Troy, era che non si può rappresentare troppo a lungo la parte dell'erede legittimo. L'imminenza dell'incontro con Kruscev riportò a Troy un ricordo giovanile. Quando aveva diciannove o vent'anni, un cugino di suo padre aveva preso parte a una missione commerciale sovietica in Inghilterra. Era l'unico trotzkista che avesse mai conosciuto. Uno dei pochi a essere rimasto per cercare di trarre il meglio da una tragica inevitabilità. Il padre di Troy aveva riservato al cugino Leo un'accoglienza regale, desideroso di qualsiasi notizia riguardasse il suo paese d'origine, perso nei ricordi dei tempi delle sorelle Prozorova, nel sogno di Mosca, ancora una volta ubriaco di Mosca.
Mosca. Mosca, il centro operativo del capo del partito, uno scaltro contadino che si chiamava Nikita Sergeevic Kruscev, che nessuno, fino a quel momento, aveva mai sentito nominare. A un certo punto, tra la guerra e la morte di Berija, il cugino Leo era scomparso. Il fratello di Troy, Rod, aveva fatto parte del gabinetto dei ministri negli ultimi tempi del governo laburista e aveva usato tutta l'influenza di cui poteva disporre. Dalle sue ricerche era risultato solo che il cugino Leo non era mai esistito. Neanche da morto. La banda della marina attaccò a suonare. Troy alzò gli occhi e guardò la nave. I dignitari sovietici, allineati in una lunga fila, ascoltavano sull'attenti il loro inno nazionale. Alla loro testa c'erano due uomini tarchiati, con dei grandi cappotti neri. Bulganin non era molto conosciuto, Kruscev sì, ma a Troy, mentre percorrevano la passerella coperta di un tappeto rosso, parvero variazioni su un tema unico. Erano atticciati, bassi di statura, ma in entrambi la figura corpulenta contrastava con una espressione assurdamente puerile. Non avrebbe potuto descriverli diversamente. Con le loro facce tonde e ridanciane, gli occhi attenti, brillanti, sembravano due ragazzini, due scolari gonfiati a dimensioni adulte con una pompa da biciclette. Si avvicinarono agli inglesi e cominciarono a stringere vigorosamente la mano a ciascuno. Kruscev dietro, con una sorta di accanimento nel sorriso; Bulganin avanti, con un sorriso, almeno apparentemente, più spontaneo, un'espressione vivace nei begli occhi azzurri, i capelli lisci come una glassa sopra una torta. A Troy, quando lo ebbe davanti, parve la caricatura di Thomas Beecham, il direttore d'orchestra, perfino nel particolare della barbetta che gli copriva solo il mento. E finalmente ecco Kruscev, a pochi centimetri da lui, che scuoteva la zampa di Norman Cobb e sembrava proprio un contadino russo, cioè niente di diverso da quello che era; un'immagine in più delle facce russo-sovietiche che, fin da quando Troy era piccolo, avevano ricambiato il suo sguardo da innumerevoli ritratti e fotografie. Kruscev passò avanti a Cobb, Troy lasciò la mano di Bulganin e in un attimo si trovò a stringere la manona di Nikita Sergeevic Kruscev, a fissare negli occhi color nocciola il padrone dell'Altro Mondo, a contare le impurità della pelle dell'uomo più affascinante del momento. 8 Presto Troy perse il conto degli spostamenti. Gli pareva di andare dentro e fuori dal Claridge e dal numero 10 di Downing Street, la residenza del
primo ministro, tre o quattro volte al giorno; ogni sera faceva il suo resoconto a Cobb, ma quasi mai Kruscev aveva detto, almeno a portata d'orecchio, qualcosa di significativo. O forse all'MI5 e all'M16 interessava sapere che aveva fatto un pandemonio perché non riusciva a trovare un gemello da polso con un brillante oppure che protestava sempre perché non gli piaceva il tè? O che una volta Troy lo aveva scoperto, in albergo, girare carponi per il suo appartamento, non si capiva se perché cercasse ancora il gemello col brillante o non fosse, invece, sotto l'effetto della sua bevanda preferita, la vodka al pepe rosso? La sera del secondo giorno, Downing Street aveva dato una cena in onore degli ospiti. B&K si erano incontrati con C&A, cioè con gli ex primi ministri Churchill e Attlee e con il capo dell'opposizione o, a giudicare dalle apparenze, il quasi primo ministro, Hugh Gaitskell. La Notte delle Stelle, secondo la definizione di Clark. Il turno a Downing Street non presentò particolari difficoltà. Bastò accompagnare i russi fin lì, affidarli ai poliziotti, immediatamente identificabili, per poi rifugiarsi in una saletta a parte, ad aspettare di essere chiamati, un po' come nell'anticamera del dentista. Non c'era neanche niente da leggere. «Che cos'è quello?», chiese Troy a un poliziotto in divisa che spingeva la porta, trascinandosi dietro un oggetto ingombrante. «È arrivato ieri, signore. È un cucchiaio di legno lungo tre metri», specificò il poliziotto, confermando quanto ormai era evidente. «L'hanno lasciato davanti all'ingresso. Il primo ministro ha ordinato di portarlo dentro prima che lo vedessero i giornalisti. Lo butteremo via appena i russi saranno ripartiti sani e salvi». Troy guardò l'etichetta attaccata a quella mostruosità. «Da parte degli Empire Loyalists. È abbastanza lungo per la cena di domani?». «Che significa, secondo lei?», chiese il poliziotto. «Non è chiaro? Un lungo cucchiaio per cenare col diavolo». Era stato tributato uno strano benvenuto ai due emissari di Satana, dal momento in cui il treno era entrato in Victoria Station e, insieme, una strana forma di protesta. Tiepidi entrambi. Sia l'assenso sia il dissenso erano parsi privi di emotività e anche di significato. Né l'uno né l'altro avevano radunato una folla tale da interrompere il traffico. La protesta espressa con quel cucchiaio, poi, mancava completamente di spirito. Il poliziotto in servizio forse era stupido, o forse era l'unico in Inghilterra a non aver sentito
ripetere quel trito stereotipo, così ovvio da apparire completamente gratuito. Lo stereotipo degli stereotipi. La lega degli Empire Loyalists non rientrava nella mentalità inglese, poco incline alle aggregazioni, eppure in una nazione di non-gregari nascevano una quantità di comitati e di organizzazioni autonome. Quella degli Empire Loyalists era una delle più insulse e consisteva in un gruppo di vecchi che non erano riusciti a capire che strada aveva preso il mondo dopo il 1945. Come aveva detto Rod, parlando di varie istituzioni, dal Carlton Club alla magistratura, era un'altra lega di omini piccoli piccoli. Molloy, con l'abilità a lungo sperimentata del poliziotto di carriera, aveva perfezionato l'arte di dormire dritto in piedi. Clark, come sempre, si era portato un libro e leggeva. Solo Troy si annoiava. Pensò a come andare a sgranchirsi le gambe. Aprì la porta senza far rumore. Sentì delle voci basse, in lontananza. In corridoio c'era soltanto un agente. Si aspettava di essere ammonito a rientrare, invece ebbe solo un cenno della testa, accompagnato da un tranquillo «Buonasera, signore», come se gli fosse riconosciuto il diritto di andarsene in giro dove voleva. Incoraggiato, salì le scale, il più possibile calmo e disinvolto, passò davanti ai ritratti dei vecchi primi ministri, da Walpole, Palmerston, Disraeli via via fino a Churchill e arrivò al primo piano, dov'erano le sale da ricevimento. Le voci erano più vicine. Si parlava in inglese e in russo. Sentì qualcuno che quasi gridava come se facesse la traduzione per i sordi. Stava guardando da una finestra sul davanti del palazzo, quando una porta si aprì alle sue spalle, il volume delle voci crebbe e lui vide quello che al momento gli parve un vecchio cameriere venire, agitato, verso di lui. Non era un vecchio cameriere, era un vecchio primo ministro. Churchill. Il ritratto aveva preso vita. «Brr, che gente! Uff!». Possibile che colui che era stato il grande capo del mondo occidentale, il campione indiscusso dei pesi massimi nella seconda guerra mondiale, stesse parlando con lui? 9 La sera dopo, verso il crepuscolo, presero una lancia sul Tamigi, dal molo di Westminster a Greenwich, uno dei più bei tragitti che offra Londra. E l'effetto non mancò. Infatti anche Kruscev, che di solito non smetteva un momento di parlare, appena passati sotto il Tower Bridge, ebbe la reazione di chiunque sia dotato di un minimo di sensibilità: tacque e restò a guarda-
re. Londra passava dallo splendore schiacciante di St Paul, che con la sua altezza e maestosità occupava l'orizzonte, imponendosi su qualsiasi altro edificio, alle cupe profondità dell'East End, un profilo interrotto dai bracci delle gru, dalle torri di trivellazione; la riva segnata da centinaia di pontili e approdi, colorata dalle vele sgualcite, nere e rosse, delle innumerevoli chiatte del Tamigi, ferme sullo specchio d'acqua. Quando girarono dietro l'Isle of Dogs, apparve la collina di Greenwich, la sconcertante, complessa bellezza del Royal Naval College, la sagoma lontana dell'Osservatorio, in cima alla collina, a dividere, con una linea arbitraria, l'est dall'ovest. Quale simbolo più adatto a quella visita? Kruscev rivolse alla Marina il suo sermone sulla coesistenza pacifica, parlò della rapidità della corsa agli armamenti, descrisse la Ordzhonikidze, la nave che lo aveva portato in Inghilterra, come esempio di una tecnologia che entro pochi mesi sarebbe già stata superata. A Troy parve un valido argomento. A seconda di come lo si volesse considerare, era un ammonimento per tutti e una minaccia per l'ovest. Poi Kruscev fece una concessione, disse che i russi non intendevano «scacciare nessuno dal pianeta terra», ma lasciò intendere che, volendo, avrebbero potuto farlo. Troy lo sentì, mentre tornava a sedersi, proporre al Primo Lord dell'Ammiragliato di vendergli l'Ordzhonikidze. «Se ne compra due, aggiungo gratis un sottomarino», disse, con il linguaggio di un annuncio pubblicitario. L'inglese apparve completamente disorientato, incerto se considerarlo una beffa o proporre un prezzo. A Troy non piacque l'atteggiamento di Kruscev, in qualsiasi altra occasione si sarebbe divertito a una presa in giro che serviva ad arruffare le penne a un pavone imperiale, ma l'aggressività che stava dietro quel tono da scolaro impertinente era troppo difficile da digerire. Ormai cominciava a pensare che non ci fosse niente di meglio al mondo che uno scherzo senza le profondità misteriose di un iceberg. Gli scherzi potevano essere la difesa di un perdente, ma se venivano da un vincente apparivano brutali, aggressivi e zotici. Qualche minuto dopo, Kruscev aveva già rivolto la propria attenzione al comandante in capo dello stato maggiore. «Un giorno», disse, «un giorno non lontano, potremo mettere le testate nucleari dentro i missili guidati. E allora, mi creda, cambierà il modo di fare la guerra». Troy guardò il comandante, mentre l'interprete gli traduceva le parole di Kruscev, e capì quale sarebbe stata la risposta. Il suo viso aveva l'espressione vuota di chi preferisce non capire.
«Mi sembra», ripeté in russo l'interprete riferendo la risposta, «un'indicazione sconcertante». Kruscev alzò leggermente le spalle. «Può darsi», disse, «ma l'avvenire è questo». Era la verità schietta o una minaccia evidente? Una volta di più, le simpatie di Troy vacillarono. 10 Il lunedì successivo, mentre, di nuovo, si infilavano nelle Daimler nere per andare a cena alla Camera dei Comuni con i rappresentanti del partito laburista, Troy ripescò, dai recessi della mente, una vecchia frase hollywoodiana: «Chi devo fottere per cavarmela da questo film?». Ma quando entrarono nell'Harcourt Room, ricevuti da Hugh Gaitskell, capì immediatamente la piega che stava per prendere la serata. Era un film importante quello che stava per avere inizio. Fino a quel momento c'era stata qualche buona inquadratura, ma adesso si annunciava il cinemascope. Gaitskell strinse la mano a tutti, mentre l'interprete snocciolava le parole di saluto. Poi Gaitskell disse: «Permettano che presenti il mio portavoce per gli affari esteri, Rodyon Troy», e, prima che l'interprete facesse in tempo a guadagnarsi il suo stipendio, Rod già chiacchierava con Kruscev nel suo russo moscovita, impeccabile, classico, prerivoluzionario, aristocratico. Gli occhi di Kruscev guizzavano da Rod a Troy, con la perplessa curiosità di un attore consumato. Rod era più alto, più robusto e più vecchio di Troy, ma l'aria di famiglia era evidente: i capelli neri e folti, gli occhi nerissimi, le labbra piene. Rod guidò l'ospite nella sala. Kruscev strinse la mano a tutti i membri del gabinetto ombra, prestando apparentemente poco ascolto a Rod che gli illustrava rapidamente il ruolo di ciascuno nel partito laburista. A un certo punto, distogliendo i suoi occhi piccoli e brillanti dal cancelliere ombra Harold Wilson, che gli stava davanti, rivolse uno sguardo di rimprovero a Troy, il quale si rese conto che, in ogni caso, il ritorno al Claridge non sarebbe stato piacevole. Ma forse c'era un Dio, forse la sua copertura era venuta meno e, la mattina dopo, Cobb lo avrebbe, con una pedata, esonerato dal suo compito. Gli si avvicinò un cameriere. «Signor Troy. Il suo posto è al tavolo centrale, signore. Vicino al signor
Brown. I suoi sergenti sono seduti al lato opposto della sala. Il signor Cobb ha detto che lei doveva avere una visione a tutto campo. Si è espresso così, signore». Dio, che imbecille era Cobb, con il suo linguaggio da burocrate isterico. Troy trovò il cartellino con il suo nome. Non c'era altro da fare che sedersi e aspettare. La Browning, con la sua fondina troppo grande, gli premeva contro le costole. Qualche minuto dopo anche gli altri vennero a sedersi a tavola. Vicino a lui, con un posto vuoto in mezzo, c'era Sergej, uno degli interpreti, poi Wilson, Rod, un altro interprete, Bulganin, un altro interprete ancora, l'ultimo, e infine Kruscev e Gaitskell. Troy lesse il nome scritto sul cartellino tra lui e Sergej. Signor Brown. Ma quale signor Brown? Clark e Beynon, all'altro lato della sala, erano palesemente a disagio, infastiditi piuttosto che lusingati dal gesto democratico che li aveva ammessi a tavola invece che lasciarli contro il muro in corridoio durante tutta una cena di cinque portate. E non li invidiava, infatti; erano comuni poliziotti, costretti a chiacchierare con i rappresentanti del popolo la cui conoscenza del popolo che rappresentavano si basava su qualche lavoro di ricerca e su quello che i giornali dicevano loro di credere. Insieme a Clark e Beynon vide che c'era anche Tom Driberg. Un amico che non vedeva dal tempo di guerra. Era seduto troppo lontano per andargli a parlare. Sentì smuovere la sedia accanto, voltò la testa e vide un uomo basso e atticciato, con una faccia da gufo, che prendeva posto vicino a lui. Brown. Certo. George Brown. Deputato di chissà dove, al nord. Ministro ombra di chissà cosa. L'aveva già visto un paio di volte. Non era amico e neppure nemico di Rod. Stava alla destra, nel partito, ed era noto per la sua franchezza. Brown scambiò con lui qualche parola scherzosa e Troy pensò che era una persona gentile. Il commensale seduto alla sua sinistra era occupato a parlare con il vicino e quando Brown avviò una difficoltosa, mediata conversazione con Sergej, Troy si rese conto di essere stato lasciato cadere con leggerezza e si sentì libero di brucare liberamente il pessimo cibo della Camera dei Comuni, concedendosi infine, perché no, di pensare ad altro. Nell'eventualità che qualcuno di quei vecchi tromboni fosse armato, avrebbe pensato Beynon a fermargli la mano. Si lasciò andare a sognare le delizie di un weekend in campagna, dopo tanti giorni passati a girare per Londra. Maiali maculati e germogli di verdure d'aprile. Consumato l'incanto dell'idillio rurale, gli parve di ritrovarsi davanti agli occhi la partitura di un arrangiamento di Thelonious Monk che
aveva passato molto tempo a cercare di studiare. April in Paris. La partitura era un'illusione. Non l'aveva mai vista, anzi, era sicuro che Monk non l'avesse mai scritta: era solo il disegno del movimento delle dita sulla tastiera. Soltanto l'udito percepiva la forma illogica, attraversata da rette che toccavano le curve senza intersecarle, della geometria musicale. Era andato troppo lontano con il suo sogno a occhi aperti. Un odore di tabacco da pipa lo riportò alla realtà. La cena era finita, erano iniziati i discorsi. Aveva mangiato il dolce senza neanche accorgersene. Kruscev era in piedi. L'interprete stentava a tenergli dietro. Troy vide che il posto accanto al suo era vuoto. Brown si era allontanato. Troy si guardò in giro. Era andato a mettersi di fronte a Kruscev, dall'altro lato del tavolo. Il fumo era quello della sua pipa. A un tratto Driberg venne a occupare la sedia rimasta libera. «Fantastico trovarti qui», disse e Troy capì subito che aveva bisogno di qualche cosa. Kruscev stava ancora monotonamente parlando della nuova era di pace. «Penso che non potresti, vero, procurarmi un'intervista con Kruscev?». «Fai bene a pensarlo». Driberg si fece un po' più vicino, come sempre incurante di quello che gli si rispondeva. «Mi sarebbe utilissimo. Voglio dire... nessun giornale ha potuto essere presente. Non c'è stata neanche una conferenza stampa. Niente. Se portassi qualcosa in esclusiva al "Reynolds News" o all'"Herald", non potrebbero rifiutare». «Tom, vai a farti fottere». «Oh, via, puoi farlo se vuoi». «Con attorno Bulganin, l'ambasciata e gli interpreti?». «Puoi parlargli da solo. Sai la lingua». Troy, che non aveva distolto gli occhi da Kruscev, ora guardò Driberg e gli rispose, con calma: «Tom, non ti è venuto in mente che Kruscev non lo sa e sarebbe comunque meglio che non lo sapesse?». «Accidenti», mormorò Driberg e cadde in un silenzio che Troy, per esperienza, prevedeva di breve durata. In quell'intervallo si rese conto che il tono del discorso di Kruscev era cambiato. Il modo di rivolgersi all'uditorio era diverso, c'era una passione in quella voce che nessun interprete poteva sperare di riuscire a trasmettere. «La pace stenta troppo a venire. Di volta in volta abbiamo porto il ramoscello di ulivo e ce lo siamo visto strappare di mano. Eravamo una giovane
nazione nel 1919. Tentavamo di rimetterci in piedi dopo una guerra che ci aveva quasi distrutti, per la prima volta nella storia eravamo liberi dal giogo della tirannia. Abbiamo chiesto aiuto. Che cosa ci avete mandato? I soldati ad Arcangelo e a Murmansk. Il tentativo di imporci una restaurazione. Poi, negli anni Trenta, abbiamo combattuto Hitler molto prima che voi, in Inghilterra, sapeste chi era». Un mormorio di dissenso attraversò la stanza. Brown emise un borbottio così percepibile che Kruscev lo guardò e perse una battuta nel crescendo della sua improvvisazione a tema. Poi andò avanti, a ritmo di jazz. Era quello che gli riusciva meglio. Troy rivide le dita di Monk muoversi rapidamente sui tasti. «Ho forse bisogno di ricordarvi che il primo obiettivo del nazismo era la lotta contro la razza inferiore: gli slavi, la lotta alla ideologia del demonio, il bolscevismo? Noi, grazie ai vostri compromessi, ci siamo trovati di fronte Hitler, quando ha invaso la Cecoslovacchia». «E allora, perché Stalin ha fatto il patto con Hitler?», disse una voce dal fondo della sala. Ci fu una breve pausa di tensione mentre l'interprete parlava rapidamente con Kruscev sottovoce, le mani col palmo rivolto in su, in un gesto di imbarazzo, la testa accanto alla sua. Kruscev non aveva visto chi aveva parlato. Non importava. Troy pensò che avrebbe potuto essere chiunque, tra i presenti. «La necessità», riprese Kruscev. «Qualcosa che voi, nell'ovest, sembra abbiate difficoltà a capire. O combattevamo Hitler da soli o trovavamo un'altra strada. La necessità! Avevamo le truppe ammassate sul confine, pronte a intervenire per aiutare i nostri fratelli cecoslovacchi. I polacchi non ci avrebbero lasciato passare, perché seguivano la linea tracciata dai francesi, dagli inglesi, da Chamberlain!». Un mormorio inquieto percorse ancora la sala, ma non si levarono voci di dissenso. Troy dubitava che nemmeno i conservatori avrebbero detto una parola per difendere Chamberlain. «Avevamo le truppe già pronte. Il nostro aiuto era garantito da un patto. Che cos'hanno fatto gli inglesi? Hanno mandato una missione che non poteva parlare né sentire, ma solo bere il tè. E, contemporaneamente, il vostro governo premeva su Hitler spingendolo verso est, lontano dalle vostre coste. Se voi e i francesi ci aveste visti come una nuova, intelligente nazione in lotta, non come dei regicidi senza Dio, se aveste collaborato con noi, io vi dico ora che la seconda guerra mondiale avrebbe potuto essere evitata».
Nel silenzio sprezzante che seguì, si levò una voce chiara. Quella di Brown. «Dio la perdoni!» L'interprete mostrò un po' di tatto. Troy lo vide, con un bisbiglio, con l'atteggiamento del braccio e della spalla, cercare di negare di aver sentito. Kruscev chiese a Brown che cosa aveva detto. Nella sala si levò un brusio, uno sfrigolio di preoccupazione. Tutti pensavano che l'altro non avrebbe ripetuto l'esclamazione. Ma Brown si finse occupato a riaccendere la pipa. «Che succede?», disse Kruscev. «Ha paura di far sentire la sua voce?». L'interprete, superato in un attimo il conflitto tra prudenza e sfida, tradusse la frase in inglese. Brown agitò il fiammifero nell'aria per spegnerlo, aspirò due o tre volte per tenere accesa la pipa, poi se la tolse di bocca. «No», rispose con voce chiara e tranquilla, «ho detto: "Dio la perdoni"». Kruscev, senza smettere di guardarlo, prese un profondo respiro e lasciò esplodere tutta la sua collera. Troy aveva la sensazione di non essere il solo a essersi accorto che non aveva aspettato la traduzione. L'interprete non aveva ancora parlato. «No, caro omino! Il vostro Dio dovrà perdonare lei! Crede davvero che qualcosa sia cambiato dai tempi di Arcangelo? Crede davvero che il vostro socialismo strisciante vi renda superiori a noi? Non vi accorgete che siete più diversi da noi che i conservatori? Se io fossi inglese, sarei un conservatore! Voi non ci date nessun sostegno, anzi non fate che attaccarci sull'Europa dell'est». A questo punto. Aneurin Bevan scattò in piedi e, agitando un dito ammonitore, gridò a Kruscev: «Non tenti di intimorirci!». «E lei la smetta con quel dito!», ribatté Kruscev e iniziò un'invettiva che l'interprete non riuscì a seguire. In mezzo a una dozzina di insulti, Troy colse un «...faccia di culo!». Rod si alzò lentamente. Aspettò che Kruscev si calmasse e infatti, vedendolo in piedi, in silenzio, la collera gli sbollì, come un motore ridotto a qualche scoppiettio. Rod parlò con un tono calmo e aperto che emozionò profondamente Troy. perché gli ricordò la tecnica che usava suo padre per i discorsi in pubblico. La sua voce guadagnò l'attenzione dei presenti con il timbro (Troy non avrebbe saputo trovare una parola migliore) piuttosto che con il volume o con l'irruenza; la gamma delle tonalità affascinò gli ascoltatori, mise a tacere Kruscev, mise a tacere i laburisti, nell'incertezza di quanto
stavano per sentire. «Credo, compagno Kruscev», nessun altro quella sera aveva chiamato Kruscev compagno, «che questo sia il momento giusto per darle l'elenco dei dissidenti ungheresi, polacchi, tedeschi dell'est, cecoslovacchi di cui non si è saputo più niente. Le saremmo grati se potesse aiutarci a rintracciarli e a informare le loro famiglie». Rod non disse altro, ma tese a Kruscev un foglio di carta ripiegato. L'attesa durò un mezzo minuto buono, poi l'interprete rischiò lavoro e vita togliendo con cautela il foglio dalla mano di Rod. L'incantesimo si ruppe. L'incrinatura attraversò lo specchio da un lato all'altro. Kruscev si diresse verso l'uscita, mentre nella sala tutti si alzavano contemporaneamente con un gran rumore di sedie che venivano spinte via. Troy dovette raggiungere la porta di corsa, prima che uscisse Kruscev. S'incontrarono spalla a spalla, quasi si urtarono. Troy avrebbe potuto giurare di avergli sentito dire un «'fanculo a tutti». Poi uscirono. 11 Nel cortile della Camera dei Comuni, sotto una pioggerella di aprile, Kruscev stava gridando: «Они насрали на Россию! Они насрали на Россию!». Cagano sulla Russia! Cagano sulla Russia! Se la prendeva con i rappresentanti dell'ambasciata, se la prendeva con Bulganin e quando l'interprete fece per salire sulla Daimler gli strappò di mano l'elenco di Rod e, con decisione, gli fece segno di salire sull'automobile della scorta. Troy stava per andare dalla stessa parte, pensando che Kruscev volesse restare solo a smaltire la collera, ma si sentì trattenere per un braccio. «No», disse Kruscev quasi calmo. «Lei no. Venga con me». L'automobile si mosse verso Victoria e Hyde Park Corner. Davanti, con l'autista, c'era Clark. Il vetro divisorio era completamente chiuso e Troy stava seduto vicino a quello che forse era l'uomo più potente del mondo, a chiedersi che cosa mai sarebbe successo di lì a poco. L'automobile si era messa in moto e Kruscev guardava dal finestrino, senza rivolgergli la parola. Mentre passavano davanti alla cattedrale di Westminster abbassò la testa per guardare meglio il campanile di mattoni rossi che si stagliava contro il cielo, ma restò zitto. Nessuna domanda di carattere turistico. Nessuna delle sue battute pesanti. Arrivati a Hyde Park Corner, si tolse di tasca l'elenco di Rod e, per un momento, lo guardò. Mentre lo rimetteva via, anco-
ra con gli occhi fissi sulla strada, chiese: «Chi era? Quello che mi ha dato l'elenco, chi era?». «Mio fratello», rispose Troy. «E tutti e due dove avete imparato il russo?». «A casa. Da bambini. Dai nostri genitori». «Dai vostri genitori?», ripeté Kruscev, senza nessuna espressione particolare nella voce. A Troy parve più una constatazione, un motivo di riflessione che una domanda. «Il nome della mia famiglia è Troitsky». «Aha... russi bianchi». Kruscev guardò Troy, con un lampo di trionfo negli occhi piccoli e vivaci. «No. 1905». «Menscevichi?». «Anarchici, direi. Ma è passato tanto tempo». «È vero. E adesso?». «Mio fratello, come avrà capito, si è messo in pace con la storia ed è entrato nel partito laburista. Indipendentemente da quello che lei può pensare, sono socialdemocratici. Niente di più e niente di meno». «E lei?». «Io sono un poliziotto. Non ho opinioni politiche». «Se un poliziotto sovietico mi avesse dato una risposta come questa, lo avrei fatto licenziare per avermi preso per stupido. Lei non può credere che sul nostro pianeta esista un qualsiasi essere pensante che non abbia opinioni politiche. Ho ragione?». Certo, aveva ragione. Troy lo sapeva. Anni prima, a Berlino, non molto tempo dopo la fine della guerra, una spia russa gli aveva detto che suo padre era stato un agente del partito comunista dell'Unione Sovietica fin da quando era uscito dalla Russia, dopo la rivoluzione del 1905. Troy ci aveva ripensato spesso. Non voleva crederci e, alla fine, aveva deciso di non crederci. In ogni caso, non era l'argomento di cui intendeva discutere con il segretario generale del partito comunista». «Da dove proviene la sua famiglia?». «Direi da Mosca. Ma prima da Jasnaja Poljana. Vicino a Tula». «So dov'è. Ci sono stato varie volte. Ora è, in sostanza, un museo dedicato a Tolstoj». «La invidio, compagno Kruscev. Io non ho mai visto Jasnaja Poljana e, probabilmente, non la vedrò mai». «Venga in Russia».
Troy lo guardò. Lo vide sorridere. Forse aveva parlato sul serio. «Credo che non sia possibile. La storia della mia famiglia è un po' più complicata di quanto non possa dirle». «Venga in Russia», ripeté Kruscev. «Si divertirà. Non la costringerò a fare niente di noioso come questo gironzolare tra i monumenti dell'Inghilterra». «Lei ha conosciuto Eden, la regina e il duca di Edimburgo. Non ha fatto solo una visita a St Paul e alla Torre». «Eden è un monumento. E anche la famiglia reale». Troy era incondizionatamente d'accordo con lui. ma pensò che non toccava a lui dirlo, in quella circostanza come in nessun'altra. «Dov'è il popolo? Dove sono gli operai?». Le mani piccole e grasse, con le dita tozze erano protese, ostentatamente aperte e vuote. «Dove sono i contadini?». «Dubito che in Inghilterra ci siano contadini», rispose Troy. «E in ogni caso sabato lei ha incontrato un operaio». «Quello di Harwell?». Kruscev aveva di nuovo alzato il tono di voce. «Quell'uomo era un tirapiedi di Eden! Un impostore!». «Se vuole che ne parliamo, posso dirle che il viaggio, suo e del maresciallo, è un artificio diplomatico raggiunto da entrambe le parti. Il suo partito non vuole che voi parliate con la gente. Considera che sarebbe tempo sprecato. Preferisce che facciate quattro chiacchiere insulse con un imbranato come Eden o che scambiate innocui scherzi sugli orsi bruni con sua maestà. Anche gli inglesi, per parte loro, non vogliono che entriate in contatto con la gente. Preferiscono che si ritenga che siate stati privati dei normali sentimenti umani dalla divinità del marxismo. L'ultima cosa che Eden vuole è vedervi stringere la mano al proletariato». Troy s'interruppe. Cobb l'avrebbe allontanato nel momento stesso in cui avesse saputo che a Kruscev era stato rivelato il loro patetico, assurdo gioco. Ma che cosa aveva da perdere? Niente. «Però, se è questo che vuole, non sono ancora le nove e mezzo e qualcosa si può organizzare». Un sorriso ammiccante increspò le guance grasse di Kruscev, gli illuminò gli occhi di una luce maliziosa. «Un pub?». «Se vuole, sì». «Una pinta di wallop?». «Se è quello che desidera». «La metropolitana?».
«Noi la chiamiamo tube. Sarei felice di mostrargliela». Troy guardò Kruscev, trattenendo un sorriso che, a ogni istante, rischiava di tradirlo. Il meglio doveva ancora venire. «Scarichi gli altri e andiamo», disse. Non era sicuro che, in russo, la frase avesse lo spirito che aveva inteso darle, quello con cui Charlie convinceva una ragazza o un vecchio amico a proseguire la serata quando ormai sembrava avessero esaurito il giro dei pub. Anche lui, ora. stava tentando il compagno Kruscev a compiere una trasgressione. 12 Al Claridge, Kruscev si precipitò all'ammezzato, cercando di scollarsi di dosso gli uomini del distaccamento speciale e del KGB. Arrivato all'anticamera del suo appartamento, disse che era stanco e voleva andare a letto presto. Nessuno apparve sorpreso, ma ci fu ugualmente un attimo di esitazione. Troy non contava, ma tra gli inglesi, i russi, la polizia e le spie, gli scienziati, il figliolo solerte che lo aveva accompagnato e gli addetti d'ambasciata, almeno una quindicina di persone, se non di più, si chiesero che cosa ci si aspettasse da loro. Kruscev non li lasciò a lungo nell'incertezza. «Fuori!», gridò. Di lì a pochi secondi, erano rimasti in quattro: Troy, Clark, un agente del KGB, alto, giovane, tranquillo, e Kruscev. Kruscev entrò nel salotto con l'agente del KGB. L'espressione del viso di Clark era chiara. «Che cosa faccio, adesso?», dicevano i suoi occhi, la piega delle sue labbra. Troy gli indicò una sedia in anticamera e seguì Kruscev. L'agente del KGB tolse da una cartella un oggetto che sembrava una scatola ornamentale, di quelle che si portano a casa dopo un viaggio e restano poi sempre piene di sigarette stantie. L'aprì. Troy intravide dei tasti e delle piccole luci. L'agente fece un cenno con la testa a Kruscev e se ne andò. Quando la porta si richiuse, Kruscev sedette sul divano. «Tutto a posto. Adesso possiamo parlare, nessuno ci sentirà». Possibile? Troy non riusciva a crederci. «Non ci sono microfoni nascosti. I miei uomini hanno setacciato tutto l'appartamento prima che noi arrivassimo, lunedì. Le telefonate non vengono intercettate, e questo ha confermato i nostri sospetti. I vostri agenti hanno trovato il modo di usare un telefono come radio trasmittente. E noi, a nostra volta, abbiamo trovato il modo di impedirglielo. Sia gentile, riem-
pia due bicchieri di vodka». Allungò una mano a prendere il telefono. «Spero che lei non fumi. Nella scatola non è rimasto più posto per le sigarette da quando abbiamo installato il sistema di interferenza». Troy aprì una bottiglia ancora intatta di vodka col pepe rosso e aprì bene le orecchie. Fu una conversazione breve. «Дейстбуй», disse Kruscev. Procedete. Una pausa. «Дейстбуй», disse ancora. La telefonata era finita. Anche se Kruscev si fosse sbagliato e all'MI5 avessero intercettato la conversazione, non avrebbero capito niente lo stesso. Kruscev buttò giù la sua vodka d'un fiato, Troy ne bevve qualche sorso, gli parve qualcosa di nuovo e di gradevole, ma la lasciò da parte. Kruscev scomparve nella stanza da bagno. Ricomparve dopo poco, fresco e ravviato come un primo della classe, con le guance lisce e rosse. Dopo un minuto, tutti e due, con il soprabito indosso, pronti per uscire, si presentarono a Clark, seduto in anticamera. Troy si sentiva come uno studente scapigliato a colloquio in presidenza. Clark li guardò, incredulo, posò il libro e si alzò in piedi, cercando di dare alla sua piccola statura un minimo di gravità. Non solo era incredulo, ma addolorato. «Oh Dio, oh Dio, dimmi che mi sto sbagliando. Non vorrà farlo uscire, spero?». «Controlli il corridoio e la scala sul retro, Eddie». «Se l'ispettore Cobb vi vede, ci impicca tutti. Lei lo sa, vero, signore?». «Ma chi di noi ha mai visto Cobb dopo le nove di sera? Vada, vada a controllare il corridoio e le scale». Troy e Kruscev aspettarono in silenzio che Clark tornasse. Kruscev si faceva tintinnare in tasca delle monetine e canticchiava. A Troy parve che fosse il motivo di Love and Marriage, un successo recente di Frank Sinatra, ''amore e matrimonio vanno insieme come il cavallo e la carrozza". Era improbabile, ma chi avrebbe potuto dire quali aspre gocce di cultura occidentale erano filtrate attraverso i vetri blindati della Daimler per depositarsi a corrodere l'inconscio del segretario generale? Clark ritornò. «Tutto bene. Davanti alla porta del maresciallo c'è Beynon, un agente dell'ispettore Cobb dorme in piedi sulle scale dell'ammezzato e altri tre giocano a ventuno nella lavanderia. L'uomo del garage ha invitato nel gabbiotto di vetro la testa di legno di guardia alla porta. È l'unico che vi può vedere».
«Bene, noi andiamo. Ci auguri buona fortuna». «Ma che fortuna e fortuna! Lei ci farà impiccare tutti». Troy aprì la porta, guardò da una parte e dall'altra e si precipitò con Kruscev verso la scala di servizio. Scesero nel garage sotterraneo. Il soffitto era basso, l'oscurità quasi totale, il gabbiotto di vetro brillava come un faro. Troy vide l'agente di Cobb seduto insieme al custode del Claridge, era senza berretto e, con i piedi sul tavolo, beveva una tazza di tè e chiacchierava. Il contrasto tra il buio e la luce era così forte che non avrebbero potuto vederli uscire. Troy aprì il baule della Bentley. «Mi aveva promesso la metropolitana», disse Kruscev. «Ci serve un'automobile per uscire di qui. E poi, lei non può salire in metropolitana come Nikita Kruscev, né entrare in un pub come l'orso russo». Troy prese dal baule il vecchio impermeabile di gabardine con il berretto uguale che usava quando doveva seguire qualcuno senza aver l'aria del poliziotto e disse a Kruscev di scambiarli con quelli che aveva indosso. L'impermeabile gli andava stretto ed era opportunamente consumato rispetto al suo, ma il berretto aveva la misura giusta e l'aspetto trasandato di entrambi, impermeabile e berretto, lo trasformò subito in un vero inglese. Troy prese il foulard che Kruscev portava, sciolto, sotto la giacca e glielo annodò al collo come una sciarpa. Gli diede un'occhiata complessiva ed ebbe l'impressione che mancasse il tocco finale. «Si metta gli occhiali», disse. Kruscev si tolse di tasca un paio di occhiali con la montatura di metallo con i quali, Troy se n'era accorto, evitava di essere fotografato. Se li mise e rivolse a Troy uno sguardo ammiccante. Troy lo osservò con attenzione. Non solo gli parve un inglese, ma addirittura uno di quei londinesi che, dopo essersi fatti i muscoli lavorando nei bacini del porto per tutta la vita, si affidano a una dieta di birra e patatine. Un problema era risolto. Nonostante la promessa, però, Troy non sapeva dove portarlo. Al Salisbury c'era il rischio di incontrare Charlie e, in qualsiasi altro pub di Soho, dal Salisbury fino al Fitzroy, passando per il Coach and Horses e il Colony Club, il rischio si estendeva a Johnny Fermanagh. Da quasi una settimana, ormai, la faccia di Kruscev era stampata su tutti i giornali. Solo il matrimonio del principe Ranieri di Monaco con l'attrice americana Grace Kelly, così bella che non sembrava vera, era riuscito a eclissarlo. Il momento più divertente di tutta la visita si era avuto quando un gruppo di giovani universitari ave-
va salutato i rappresentanti del governo sovietico con un manifesto di benvenuto "a Grace e Ranieri", a testimoniare che la fama di Kruscev era pari a quella di una star hollywoodiana. Dove si poteva trovare, a Londra, un pub i cui clienti dedicassero più attenzione a Grace Kelly che a Nikita Kruscev? La soluzione era una sola, Nikita Sergeevic avrebbe fatto un'escursione nell'East End londinese dove i quotidiani del giorno prima, se li avevano già letti, avrebbero avvolto, quella sera, i cartocci di patatine. L'idea era buona. Lo avrebbe portato al Brickie's Arms. Non ci andava da tanto tempo. Era un posto dove si potevano cogliere frammenti di yiddish o di polacco. Una conversazione in russo non sarebbe stata notata o, comunque, non sarebbe parsa degna di attenzione. Negli ultimi tempi, purtroppo, aveva visto di rado George Bonham, il gigante delicato, sergente di polizia in pensione, al tempo di Stepney, e frequentatore abituale del Brickie. Col suo buon carattere, non gli avrebbe chiesto niente se avesse fatto passare Kruscev per un lontano parente e s'interessava poco a quello che succedeva nel mondo. Troy aveva passato quasi tutto il tempo di guerra a spiegargli perché c'era la guerra e, dopo la guerra, lo stesso tempo per spiegargli che c'era il nuovo stato sociale. Per ora tutto bene, pensò Troy, mentre scendevano la scala mobile della Central Line a Oxford Circus. Aveva raccomandato a Kruscev di tenersi basso sul sedile mentre passavano davanti al piedipiatti della sezione speciale dentro il gabbiotto di vetro. Aveva lasciato l'automobile due strade più in là e avevano percorso a piedi gli ultimi trecento metri, in Mayfair. Ora Kruscev guardava, attratto e respinto, la pubblicità ai lati della scala mobile, che lo metteva a parte del fanatismo inglese per la salute ciarlatana (Horlicks e Yeast-Vite, lievito e vitamine), che insieme accettava ciò che alla salute era ragionevolmente dannoso (Kensitas, Churchman's n°1, forza, leggerezza, profumo, freschezza di infinite marche di sigarette). E il seno? Una galleria in diagonale di seni, una scalinata di tette solleticanti, che suggerivano tutti i "sostegni" umanamente concepibili prima di avvolgere e impacchettare le donne nei loro vestiti. Era poco meno che una fissazione nazionale, si avvicinava il giorno in cui le tette avrebbero fatto vendere qualsiasi cosa. Divide et impera. In alto, in fuori, ben separate. Anche sul marciapiede, Kruscev assorbì con lo guardò tutto quanto era possibile, si immerse nella lettura della piantina multicolore della metropolitana e addirittura chiese a Troy una monetina per provare la macchinetta della cioccolata. Presero un treno diretto verso est, a Hainault. Era passata da molto l'ora
di punta, era già sera inoltrata, i pochi viaggiatori non prestarono la minima attenzione a Kruscev che, invece, guardava tutto apertamente. Troy provò a vedere gli inglesi attraverso i suoi occhi. Non dovevano sembrargli degli sconosciuti, pensò, se lo stereotipo offerto dalla stampa sovietica era credibile. Un gruppo di persone uniforme. Gente grigia vestita di grigio. Capelli mal tagliati, unghie rosicchiate, dita sporche di nicotina, denti falsi che facevano rumore nel masticare, scarpe con le suole consumate, pantaloni macchiati che a stento venivano portati in tintoria una volta all'anno e, in una serata come quella, un mare increspato di impermeabili di gabardine umidi, un tangibile assalto sporco e bagnato. Poveri uomini oppressi, in una povera nazione oppressa. Una nazione, a stento osava pensarlo, che avrebbe avuto bisogno di una sorta di rivoluzione. Non il popolo che scendeva in piazza, non l'assalto al Palazzo d'Inverno, che poi era Sandringham, troppo lontano e troppo diverso da un palazzo, ma una rivoluzione culturale, che togliesse le ragnatele da tutto il paese. Se si fosse identificato con la sua nazione, anche lui, come il governo di sua maestà, ci avrebbe pensato due volte prima di mostrarla a uno straniero. A ogni fermata, Kruscev scendeva, stava fermo tra i passeggeri che lo spingevano nel farsi largo per tornare a casa, si guardava intorno come un appassionato di mezzi di trasporto, un dilettante esperto e deluso. A Holborn, Troy restò seduto. Holborn gli era costata già troppo in passato. A Bank, Kruscev si dimostrò pronto a esprimere il proprio giudizio. «È priva di grandiosità», disse. Troy rifletté. La grandiosità, effettivamente, non rientrava nel progetto della metropolitana di Londra, che era nata a un pezzo per volta, un insieme di linee scavate in un periodo lungo quasi cent'anni da imprese diverse, pubbliche e private, ciascuna con il proprio concetto di come si fa un buco nel terreno, ma tutte, almeno così pensava Troy, con un progetto che niente aveva a che vedere con la grandiosità. «La mia metropolitana, a Mosca, può stare a paragone con i più famosi palazzi del mondo. È una cattedrale sotto terra». Anche la stazione ferroviaria di St Pancras era ritenuta da molti bella come una cattedrale e Troy pensò di cambiare itinerario per mostrarla a Kruscev (sarebbe bastato scendere e prendere la Northern Line per arrivarci in dieci minuti), ma decise invece di raccontargli la trita storiella del turista americano che aveva scambiato St Pancras per una chiesa e, nell'entrare, si era tolto rispettosamente il cappello. Kruscev si strinse nelle spalle. Non conosceva la suggestiva, misteriosa bellezza del capolavoro di Sir
George Gilbert Scott, fatto di torrette, frontoni e infinite piccole finestre e aveva interpretato l'aneddoto come un esempio dell'ingenuità americana, non si era divertito e neanche interessato. Sembrava attratto, piuttosto, dagli annunci registrati che ammonivano i passeggeri a fare attenzione al dislivello tra il marciapiede e il treno. «Mind the gap», ripetevano in continuazione con un accento nasale prebellico, «Mind the gap». Una stazione adatta a cambiare treno era Liverpool Street, pensò Troy, la fermata per la vecchia Great Eastern Railway, dove, come in una stampa di Piranesi, un incubo di passaggi all'aperto, avvolti di solito in un miasma di fuliggine e fumo, corrispondeva a una rete ugualmente labirintica di cupe gallerie sotterranee. Inoltre, era l'unica stazione di tutta la metropolitana che offrisse il conforto di un bar, bicchiere in mano, senza nemmeno lasciare il marciapiede. Troy ordinò due mezze pinte di birra. Non intendeva restare lì tutta la notte. Kruscev ne assaggiò un sorso e disse che era buona. Non era vero, ma Troy aveva organizzato un giro di ricerca sull'uomo comune e se quello era il gusto dell'uomo comune non era il caso di discuterlo. Tom Driberg considerava un bicchiere di birra il modo più elementare e più facile per avvicinare qualsiasi esponente di un ceto sociale inferiore, ma a Troy la birra piaceva poco e, in ogni caso, non sentiva, come Driberg, il fascino della classe lavoratrice. Kruscev stava sul marciapiede, ma con un gomito appoggiato al banco del bar, spalla a spalla con un operaio che, ignaro della sua presenza, teneva il naso sull'ultima edizione dell'"Evening Standard". Sul marciapiede non c'erano passeggeri ma quello che avevano lasciato, una confusione di cartine di caramelle (si faceva un grande consumo di dolciumi da quando non erano più razionati) spazzate dal vento, di mozziconi di sigarette e di giornali vecchi. A parte la birra e il bar, era un luogo deprimente. Ci voleva una vecchia mentalità per amarlo, una stortura dello spirito per apprezzare quel mondo freddo e sotterraneo, che non era né un interno né un esterno. A Troy qualche volta era piaciuto e qualche volta no. Gli era capitato di passarci delle intere serate, oppure di evitarlo, di detestarlo. Kruscev annusò l'aria. Fuliggine, pazzia, o morte si chiese Troy. I binari gli ricordavano sempre la morte di Anna Karenina, sotto le ruote di un treno; aveva visto il film con Greta Garbo, luttuosa, infelice bellezza. Sentiva l'odore umido della metropolitana, quell'antica mescolanza di fuliggine e di umanità, forte co-
me il puzzo della cordite, inseparabile dal pensiero della morte, dal pensiero della donna vestita di nero che metteva la testa sui binari. Lo sguardo di Kruscev passava continuamente dal soffitto basso e sporco alla quantità di segnali, ai manifesti, alla luce del bar. Si avvicinò a Troy, con le sue gambe corte, un passo deciso e rigido, come un soldatino di stagno. «È priva di unità», disse. L'unità sarebbe stata impossibile. Solo nel 1930 la metropolitana era stata vicina ad avere una sua unità architettonica. Ma ora, a metà degli anni Cinquanta, quel breve accenno di stile era stato assorbito dalla natura del sistema che si era andato affermando. C'era un'unica definizione possibile. «È decrepita», disse Troy, «ma funziona». «Funziona, sì, ma potete esserne orgogliosi?». «Non credo che i londinesi pensino alla metropolitana con orgoglio. Anzi, credo che non pensino mai alla metropolitana». «Perché? Perché non tributare un sacro rispetto al lavoro umano? Avete tante cattedrali e palazzi. Dov'è il palazzo del popolo? Che cos'è il palazzo del popolo se non una stazione ferroviaria?». Troy non riusciva a trovare una risposta e se la cavò con una domanda che, d'altra parte, voleva già fare da un quarto d'ora. «Che odore sente? Dovunque ci fermiamo la vedo annusare l'aria». Kruscev trasse un respiro profondo. «Fuliggine», disse. «Sento odore di fuliggine... e... disperazione». Troy guardò, verso il tunnel, la piovigginosa tristezza di una cupa notte londinese. Da molto tempo ormai aveva quell'impressione di desolata provvisorietà, di squallore, di una città privata di ogni ragione d'orgoglio, arresa, senza dignità. La disperazione? Come aveva potuto accorgersene Kruscev? Dove l'aveva vista, dove, poiché quella sembrava la sua tecnica operativa, ne aveva sentito l'odore? Era la sensazione che l'odore nazionale di gabardine bagnato trasmetteva a delle narici ricettive? «Fuliggine», disse ancora Kruscev. «Disperazione... e qualcuno che frigge pancetta affumicata». Troy volle che Kruscev vedesse Stepney Green. Gli pareva importante che fosse ancora, esattamente, come quando Hitler l'aveva raso al suolo nel 1940. Centinaia di case ridotte in polvere. Migliaia di vite perdute, e molte, molte altre rovinate, disperse. Quell'angolo dell'East End non si era mai ripreso dopo l'attacco aereo del 1940, non aveva più ritrovato i suoi abitanti che la guerra aveva fatto fuggire e non aveva ritrovato, in pace, la propria
identità. C'era erba dappertutto, ormai, ma Troy vedeva ancora le tracce delle macerie sotto il groviglio delle piante selvatiche. Lo spiegò a Kruscev, che annuiva, in silenzio. Guardava e sospirava. Infine disse: «Ho visto Stalingrado. Ho visto Mosca. C'ero quando abbiamo ripreso Lvov». Non stava facendo dei confronti, non voleva dire per noi è stato peggio ancora, la tristezza che c'era nella sua voce veniva dalla identificazione. Anche lui aveva visto l'aspetto consistente del mondo dissolverglisi intorno, la continuità della vita sbriciolarsi nella polvere della guerra. «Dovreste ricostruire», disse. «L'ho pensato guardando dal treno la settimana scorsa. E poi intorno a St Paul. Gran parte di Londra è così. Non riesco a capire perché. I tedeschi hanno distrutto le nostre città, ma noi le abbiamo ricostruite. Noi diamo una casa al nostro popolo». Troy avrebbe quasi voluto che lì con loro ci fosse suo fratello maggiore, Rod, che avrebbe saputo citare a Kruscev, fino alla noia, fonti precise e autorevoli per spiegare perché in Inghilterra non si era provveduto a ricostruire le case bombardate e a dare nuovi alloggi alla popolazione subito dopo la guerra. Percorsero Balaclava Street fino all'incrocio con Jamaica Street. Un grosso camino stava a terra, su un fianco, attraverso la strada, come un titano ucciso. Era rimasto quasi intatto nella caduta, con la parte dietro spaccata come una nave incagliata a terra, ma non distrutta. Troy non sapeva quando fosse successo. L'ultima volta che era stato lì non c'era, ma erano passati anni ormai. Di solito, quasi inconsapevolmente, evitava quella strada. Forse non ci passava da cinque o sei anni. Ma vent'anni prima, quando era poliziotto di ronda, la percorreva tutti i giorni. Vi aveva lasciato troppi ricordi, anche se gli riusciva difficile ammetterlo. «Forse gli inglesi conservano le zone bombardate come monumenti?», chiese Kruscev. Troy non ci aveva mai pensato, ma convenne in silenzio che quella era la verità. I loro momenti migliori erano tra quei mattoni sgretolati e quei vetri rotti e quando ne avevano abbastanza di tenerli come monumenti, li trasformavano in parcheggi per le automobili. Faceva freddo, ormai, ma appena Troy aprì la porta del Bricklayer's Arms gli venne incontro un calore accogliente. Pensò che "il palazzo del popolo" era un nome adatto a un vecchio music hall, e che applicarlo a una stazione ferroviaria, a qualsiasi stazione ferroviaria, era un esempio di pseudo realismo sovietico. Forse i palazzi del popolo erano i pub. Nelle loro eterne, invariabili sfumature di colore, rosso sporco, marrone incerto, erano una sorta di rifugio dalla stucchevole riservatezza inglese, dal mondo dietro il fruscio delle tendine di pizzo, una fuga dal nuovo invasore, il dio
monocolo della stanza di soggiorno. Il locale era poco affollato, il lunedì non era una serata da passare al pub, e neanche il martedì, quasi tutti avevano già speso abbastanza durante il weekend e non se la sentivano di fare debiti prima del giorno di paga, il venerdì, per quanto si profilasse con certezza nel prossimo futuro. «Devo avvertirla subito», disse Troy al suo compagno, «che di lunedì non ci dobbiamo aspettare allegri londinesi dell'East End che ballino l'Hokey-Cokey». «L'Hokey-Cokey? Che cos'è?», chiese Kruscev. «Lasci perdere. È troppo difficile da spiegare», rispose Troy, perché non lo sapeva bene neanche lui. Il pub era cambiato poco dalla fine della guerra; era, se mai, di dieci anni più malconcio, più immerso nella sua patina di nicotina. Il particolare più rilevante era che, dietro il banco del bar, la fotografia di Churchill, che era rimasta appesa per tanto tempo, era stata sostituita da quella del calciatore Tom Finney, astro della Preston North End, squadra del cuore del proprietario. Troy trovò Bonham seduto a un tavolo d'angolo che giocava a cribbage con altri due. Gli presentò Kruscev come lo zio Nikki. Bonham gli diede un'occhiata complessiva, dall'altezza dei suoi due metri, e poi passò a esaminarlo con attenzione. «No, non è lui», concluse. «Conosco tuo zio Nikki, è piccolo, magro e ha la barba». «Beh, questo è piccolo, grasso e senza la barba», obiettò Troy, «ed è mio zio Nikki da parte di madre. Non parla inglese». «Buonnasseera», disse Kruscev, «buonnasseera a tutti vuoi». «Ecco», spiegò Troy, «oltre questo non va». «Piacceere di connoscervi», insisté Kruscev. «Il piacere è nostro», replicò Bonham e si spostò sulla panca per fargli posto, poi guardò Troy. «Sei sicuro di quello che hai detto?». Troy sedette di fronte a Kruscev. «Sono frasi fatte, nient'altro. Le ha colte qua e là e gli sono rimaste nell'orecchio». «Attenzione al dislivello!», disse Kruscev, sorridendo del suo modo di ripetere le frasi a pappagallo. Bonham guardò Troy, curioso e divertito. «Mi state prendendo in giro tutti e due?». «No, sinceramente, sono solo frasi imparate a memoria».
«A me sembra troppo spiritoso», disse Bonham. «Stai attento, Freddie». Davanti a una pinta della migliore (Troy non era ancora riuscito a capire dove Kruscev avesse imparato a chiamarla wallop), insegnarono al russo i rudimenti del cribbage. Lui prestò alla spiegazione l'attenzione necessaria a partecipare al gioco, ma era chiaramente più interessato ai giocatori che al gioco. Troy era seduto vicino ad Alf e Stanley, rispettivamente uno scaricatore e un falegname che lavorava per conto proprio. Da Alf, Kruscev apprese il potere dei sindacati e i mezzi con i quali avevano lottato per ottenere un livello di vita decoroso dai datori di lavoro, prima della guerra, sotto la guida di Ernest Bevin. Kruscev inarcò per un attimo le sopracciglia nel sentire quel nome. Stanley gli parlò delle incertezze di un'attività in proprio nei cantieri a est della Lea Walley, dei controlli fiscali, dell'assenza di assicurazione e di garanzie e dei lunghi periodi in cui non si costruiva e quindi nessuno aveva bisogno di un falegname. E Kruscev ebbe la prova rassicurante dell'alternarsi, nel sistema capitalista, di accelerazione e lentezza, di crescita e recessione. Quella curiosità illimitata che, secondo il vecchio detto, uccide il gatto, giovò a Kruscev, gli diede spontaneità. Gli occhi castani scintillavano e le labbra grosse, carnose, gli si aprivano in un sorriso che lasciava vedere una fessura tra gli incisivi, cui mancava solo un bocchino per ricordare il famoso sorriso di Roosevelt, a cassetta per le lettere. Chiese tutto il possibile, volle che gli parlassero delle loro famiglie, delle loro mogli, dell'educazione dei loro figli e, naturalmente, di come avevano votato e di quello che pensavano dei loro capi politici. Alf e Stanley erano entrambi laburisti convinti, ma consideravano Gaitskell una sorta di mistero, non lo conoscevano ancora abbastanza per darne un giudizio preciso. Eden, disse Stanley, era uno scherzo, un anacronismo vivente. E non c'era da stupirsi, sottolineò Alf, tutta la nazione era uno stupido, colossale anacronismo. Erano quasi le dieci e mezzo. Troy era stanco, non vedeva l'ora, ormai, di concludere la serata. Non avrebbe mai pensato che fare da interprete all'uomo più ficcanaso del mondo fosse così faticoso. Il Bricklayer's Arms, come molti pub, chiudeva quando, al bar, l'ultimo poliziotto decideva di andare a casa. Alle dieci e mezzo precise, invece di annunciare che stava per chiudere, Eric, il proprietario, fece un giro a raccogliere i bicchieri vuoti e prendere nuove ordinazioni. «Dov'è il piccoletto, stasera?», chiese. «Quale piccoletto?», disse Troy. «Eccolo», intervenne Bonham, indicando qualcuno dietro le spalle di
Troy, che si voltò. Si era avvicinato al bar un uomo basso di statura e molto brutto. Portava un pesante impermeabile nero dove brillavano le gocce di pioggia e un cappello floscio spinto indietro sulla fronte. Dalla tasca gli spuntava il "News Chronicle". Se c'era qualcuno, a Londra, che Troy avrebbe preferito non vedere quella sera, era proprio lui, Ladislaw Konradovitch Kolankiewicz. Esule polacco, direttore dell'istituto di medicina legale del ministero degli interni, era una delle menti più acute di Scotland Yard, ma anche l'essere più sboccato, più testardo e più litigioso che avesse mai messo piede sulla terra. «Oh, Dio!», chiese Troy a Bonham, «che cosa ci fa qui?». «Ci viene tutti i lunedì e i giovedì. Le sere in cui si gioca a cribbage. È un'abitudine, ormai sono cinque anni». «Potevi avvertirmi!». Troppo tardi. Kolankiewicz, con la sua pinta di birra in mano, si stava avvicinando e guardava incuriosito Kruscev. Si mise a sedere vicino a Troy. «Fatti più in qua, furbastro». Succhiò la schiuma della birra, senza smettere di guardare Kruscev al disopra del bordo del bicchiere. Poi lo appoggiò sul tavolo e chiese: «Chi è il nuovo amico?» «È uno zio di Fred, lo zio Nikki», rispose subito Bonham. «Conosco lo zio Nikki: è basso, magro, con la barba». «Questo è un altro zio Nikki. Per parte di madre», rispose Troy e, abbassando la voce, si chinò verso Kolankiewicz. «Ascoltami bene, vecchio porco polacco, se ti metti a discutere io non ti farò più avere un cadavere da Scotland Yard finché vivi, e non m'importa di quanto ti manca alla pensione. Gratterai il fango dalle suole degli stivali degli imputati fino alla fine dei tuoi giorni. Il prossimo cadavere lo avrai al tuo funerale. Sono stato chiaro?». Kolankiewicz aveva lasciato che Troy parlasse senza neanche guardarlo. Bevve un altro lungo sorso di birra e si rivolse direttamente a Kruscev in un russo impeccabile. «Sono felice di conoscerla, zio Nikki. Non capita speso di poter fare due chiacchiere con un parente di Troy». Nel pronunciare il suo nome, Kolankiewicz guardò Troy con il sorriso dello Stregatto di Alice. Bonham raccolse le carte dal tavolo e distribuì i pezzi del domino. Le regole erano semplici. Troy dovette dare solo qualche spiegazione sui turni. Bonham giocò per primo. Poi tocco a Kruscev, che sorrideva amabil-
mente, ma aveva smesso di fare domande da quando era arrivato Kolankiewicz. Quando toccò a lui, Kolankiewicz alzò il pugno, come se stesse per abbatterlo su Kruscev, poi aprì la mano e, a uno a uno, cominciò a sistemare tutti i pezzi. «Germania Est», disse, tornando a parlare in russo, mentre metteva a posto il primo pezzo. «Cecoslovacchia». Il secondo, e poi avanti, «Ungheria, Polonia, Lituania». Finì tutti i pezzi, guardò Kruscev per la prima volta da quando il gioco era passato a lui, strinse di nuovo il pugno e picchiandovi sopra l'indice dell'altra mano, disse, in un rauco bisbiglio: «Unione Sovietica!». Il pugno si abbatté sul tavolo e i pezzi del domino caddero uno sull'altro, la Lituania sulla Polonia, la Polonia sull'Ungheria, l'Ungheria sulla Cecoslovacchia e la Cecoslovacchia coprì la Germania Est. Kolankiewicz guardò Kruscev negli occhi e a bassa voce, quasi con dolcezza, almeno così parve a Troy, disse: «Quella che per qualcuno è una zona cuscinetto, per qualcun altro è la patria». Troy aveva sempre saputo, nel profondo del suo cuore, di non essere fatto della pasta degli eroi. La prospettiva poteva attirarlo, ma in realtà sarebbe stato sempre qualcun altro ad accendere l'animo di Kruscev. Kolankiewicz, la belva polacca, l'eroe tagliato con l'accetta, era perfettamente adeguato al ruolo. Avrebbe dovuto immaginare che nessuna minaccia, comunque espressa, sarebbe valsa a trattenerlo. Aspettò che Kruscev gli scagliasse addosso, in russo, un seguito di maledizioni. Bonham e i suoi amici apparivano sconcertati, perché non avevano capito il senso delle parole di Kolankiewicz che avevano preceduto il gesto. Ma Kruscev rispose con un sorriso, posò un pezzo da sei e tre contro il sei e uno di Troy e passò la mano a Bonham, che rifletté per un secolo o quasi e infine giocò il pezzo. Si andò avanti così, solo con qualche banale osservazione relativa alla partita. Troy vinse e, mentre Bonham raccoglieva i pezzi con le sue manone da gigante, si accorse che Kruscev lo guardava. «Secondo lei», gli domandò il russo, «la vendono la vodka in questo posto?». «Ne sono quasi certo. È zona di immigrati. Credo che abbiano Genever e Schnapps, se le piacciono». «Grazie, preferisco la vodka. È chiaro che gli argomenti tra me e il polacco vanno discussi a colpi di vodka. Può farcene portare due bicchieri? Grandi?». E Kruscev, dopo aver fatto cenno a Kolankiewicz di seguirlo, si spostò
su un tavolo libero, vicino alla scritta Jug and Bottle. Troy vide che Kolankiewicz lo guardava, gli parve, con aria colpevole. Mai lo aveva visto incerto in vita sua e meno ancora intimidito, là dove gli angeli non osavano mettere il piede lui era solito fissare la sua dimora, dopo avere errato a lungo con un lettino da campo, un termos e un bastone per difendersi dagli animali selvatici. «Ecco», disse Troy a Kruscev. «È quello che voleva, quello che cercava». Un'ora dopo circa, mentre tornavano verso il West End in taxi, Troy chiese: «Di che cosa ha parlato con Kolankiewicz?». Kruscev stava di nuovo guardando dal finestrino la notte buia e umida e rispose senza voltare la testa. «Oh, di questo e di quello», disse, con uno sbadiglio soffocato. «Abbiamo ridisegnato la carta dell'Europa. Che altro potrebbe succedere quando "un russo incontra un polacco"?». «Credevo che il verso dicesse "quando un russo incontra un tedesco"». «I tedeschi», ribatté Kruscev, «sono come i poliziotti. Non ne trovi mai uno quando lo cerchi». 13 Era passata l'una del mattino quando Troy tornò a Goodwin's Court. Appese la fondina con la Browning ai piedi del letto e buttò la camicia nel cesto della roba da lavare. La pistola vi aveva lasciato una macchia di unto con la forma di un piccolo cuore, proprio all'altezza del cuore. Si sottrasse alla tentazione di interpretarlo come un simbolo e si lasciò cadere sul letto. Non aveva ancora spento la luce quando squillò il telefono. Era Cobb, e chi altro poteva essere? «Non l'ho vista a rapporto, signor Troy», disse. «Dov'è stato finora?». «Nei pub», rispose Troy, con semplicità e sincerità. «La regola è, non dovrei aver bisogno di ricordarglielo, che ciascuno venga a rapporto da me, non quattro ore dopo, ma appena lasciato il Porcorosso». Troy non poteva sopportare la mania che aveva Cobb per i nomi in codice. Perché non diceva, semplicemente, «Kruscev»? Quella era una segretezza finta, ridicola. «Mi scusi», disse, senza convinzione «Me n'ero dimenticato». «Beh...», Cobb ebbe un'esitazione. «Ha qualcosa da riferirmi?». Troy si ricordò di quando Kruscev aveva detto: «Procedete». Era un'e-
spressione che lo lasciava perplesso e, certamente, rientrava nelle ragioni per cui era stato messo ad ascoltare. Ma, e i ma erano due, Kruscev aveva pronunciato quelle tre sillabe sapendo che lui era padrone della lingua e, secondo ma, dirlo ora a Cobb equivaleva a stimolare la sua curiosità su tutta la serata, mentre sarebbe stato meglio che non chiedesse niente di più e non sapesse niente di più. Troy sperava che la scappatella restasse, Kolankiewicz a parte, segreta. Era stato, come aveva fatto notare Clark, molto fortunato e l'ultima cosa che voleva era che Cobb facesse il ficcanaso. «No», mentì. «Niente di niente». «Davvero? Ho sentito dire che c'è stato un certo trambusto alla Camera dei Comuni». «Sì, c'è stato, ma tutto si è svolto in pubblico e alla presenza di una considerevole accolita dei nostri signori e padroni, non vedo come possa trattarsi di una questione degna di importanza e ancor meno di segretezza. O dovrei mettermi a spiare anche George Brown e Nye Bevan come Kruscev e Bulganin?». L'irritazione nella voce di Troy produsse l'effetto desiderato. «Bene. Se non le dispiace, d'ora in avanti si attenga alle regole, signor Troy!», disse bruscamente Cobb e riattaccò. Troy spense la luce, ancora chiedendosi che cosa si fossero detti Kruscev e Kolankiewicz. 14 L'ambasciata russa ricambiò la pungente ospitalità britannica con un ricevimento ufficiale. Troy sapeva quali sarebbero state le modalità dell'invito. L'ambasciata non avrebbe mai ammesso poliziotti armati, così come l'МІ5 aveva preteso che, a Londra, non fossero armati gli agenti del KGB di scorta a B&K, come li avevano soprannominati i giornali. Tutto lasciava prevedere una noiosa serata di attesa in anticamera, con la compagnia di un silenzioso agente del KGB. La tasca gonfia di Clark conteneva certamente un libro che lo avrebbe aiutato a passare il tempo. Troy aveva finito di leggere L'agente segreto di Conrad, che aveva portato con sé nei giorni precedenti allo stesso scopo, e si era dimenticato di comprare almeno un giornale. Clark non si lasciava mai sorprendere dalla noia. Consegnarono B&K al personale dell'ambasciata e aspettarono istruzioni. Troy guardò il suo gruppo sparire tra la folla dei russi che aspettavano i primi ospiti e vide avvicinarglisi un giovane alto e magro.
«Mi permetta, signore, mi chiamo Tereshkov, Anton Tereshkov. Il compagno Kruscev mi ha informato che siete tutti nostri ospiti. Volete avere la gentilezza di consegnarmi le vostre armi, prima di accedere al ricevimento?». Clark e Milligan guardarono Troy, per sapere che cosa dovevano fare. «Dategliele», disse Troy. «Da anni sanno tutto sulle nostre Browning di servizio». Consegnarono le armi come scolari costretti a separarsi dalle fionde nascoste sotto il banco. Troy estrasse la pistola dall'arnese che gli premeva sotto l'ascella e l'affidò a Tereshkov. «Una parola, se è possibile, signor ispettore capo». Troy allontanò con un gesto Clark e Milligan che, lenti e sospettosi, si inoltrarono tra la folla, voltandosi indietro, come due poliziotti che seguissero, riluttanti, un imputato nel bagno delle signore. Tereshkov prese Troy per un braccio e lo fece voltare garbatamente di spalle, presumendo così, in quella confusione, di escludere altre orecchie. «Ispettore capo, il compagno Kruscev desidera invitarla a visitare l'Unione Sovietica». Non è possibile, pensò Troy. Il vecchio pazzo faceva sul serio. «C'è qualche complicazione», rispose, cercando di essere prudente e beneducato. «Sono grato dell'invito, ma non credo di poterlo accettare». «Gli inglesi non sarebbero d'accordo? Il viaggio potrebbe compromettere la carriera di un funzionario della sezione speciale?». «No, gli inglesi non avrebbero niente da obiettare e io non faccio parte della sezione, ma della squadra omicidi di Scotland Yard. Come vede, è una questione privata». «Io, ispettore capo Troy, vedo solo quello che lei vuole farmi vedere. In ogni caso, l'invito rimane. Al compagno Kruscev dispiace che lei non conosca la sua patria e le rivolge un invito personale. personale. Lei non deve fare altro che avvertirlo, tramite l'ambasciata, che desidera venire e l'ufficio del segretario generale Kruscev, a Mosca, provvederà ai documenti necessari». «Crede davvero che il KGB inoltrerà la lettera di un poliziotto inglese al capo dell'Unione Sovietica?», chiese Troy, assolutamente incredulo. Tereshkov si tolse di tasca un taccuino e scrisse una parola in russo: Пирожки. Pirozhki. Letteralmente significava gnocchetti fritti. Strappò la pagina e la diede a Troy, che non poté fare a meno di pensare che il lavoro di inventarsi le parole in codice consentisse un buon margine di presa in
giro. «Io qui sono il diretto incaricato del compagno Kruscev. Qualsiasi lettera messa nella cassetta della posta con questo nome in codice mi verrà recapitata e io la trasmetterò immediatamente al segretario generale. Nessun altro verrà a conoscenza del suo contenuto. Qualunque segreto lei o il suo popolo possiate nascondere a noi o all'Inghilterra, sarà al sicuro». Ma Troy non sapeva che cosa stava nascondendo o avrebbe potuto nascondere. Di qualunque segreto si trattasse era già stato nascosto da suo padre molto tempo prima. Giudicare l'invito di Kruscev come qualcosa di più che il capriccio di un vecchio imprevedibile comportava il rischio di togliere il coperchio a una scatola di vermi. Dalla morte di suo padre, avvenuta nel 1943, non era passata una settimana senza che Troy non desiderasse riaverlo vivo, almeno cinque minuti, per fargli una domanda o un'altra e la lista andava aumentando con gli anni. La serata alla Camera dei Comuni non pareva avere incrinato la copertura della posizione di Troy e, conseguentemente, del suo gruppo. Kruscev non mostrò di sapere che erano spie e Troy ebbe la conferma che la loro funzione era stata inutile fin dall'inizio. Aveva sempre saputo che Kruscev, davanti a degli inglesi, non si sarebbe mai lasciato sfuggire niente che non dovessero sapere. Ora imprecava, scherzava, s'infuriava in russo, sapendo di essere capito da tutti, per poi interrompersi, diligentemente, mentre l'interprete traduceva. A quel punto riprendeva i suoi scherzi insulsi, fingendo di soddisfare la sua illimitata curiosità con le visite ai monumenti in carne e ossa, i comunicati ufficiali, le statistiche. Non parlò più direttamente con Troy, costretto a tenersi a galla attraverso un programma frenetico che pareva destinato a seppellire l'ospite prima del tempo. Troy lo vedeva sempre più stanco, annoiato, irritato, col risultato che il suo atteggiamento era ormai quello di un ragazzino nervoso. Una serata al Covent Garden con Margot Fonteyn non servì a sollevargli lo spirito e il giorno successivo accadde quello che ormai Troy si aspettava da tempo. Kruscev puntò i piedi e dichiarò al ministero degli esteri: «La vostra visita a Calder Hall mettetevela nel culo!». L'interprete, per l'occasione, mostrò un po' di tatto e riferì all'imbelle e vagamente altezzoso rappresentante del ministro che forse non sarebbe stato possibile effettuare la visita agli impianti per la ricerca nucleare. Il ministero espresse il proprio rammarico e incassò il colpo. Chiunque, pensò Troy, tra quegli esseri insopportabili del ministero degli esteri e dell'MI5 si fosse illuso, in un delirio paranoico, che Kruscev fosse ansioso di cogliere fino all'ultimo segreto
del ripetutamente vantato progetto nucleare inglese e che perciò dovesse essere sorvegliato minuto per minuto durante la visita, sarebbe stato riportato alla realtà: Kruscev non ne poteva più dell'Inghilterra e degli inglesi. Forse ciò che era ovvio stava per venire a galla? Gli inglesi non avevano segreti che i russi non conoscessero. Oppure le spie e le autorità costituite non arrivavano a leggere il disprezzo che aveva dettato il rifiuto di Kruscev? 15 Sul molo Troy aspettava, insieme a un gruppo di notabili, nel freddo vento di aprile. Il cielo era di un grigiore sinistro, proprio come la nave, e i giornali insistevano nel lamentare le conseguenze della siccità nella prossima estate. La Ordzhonikidze si muoveva con estrema lentezza, incombendo su di loro come una casa enorme montata su ruote; sul ponte la banda russa offriva una esibizione di pompa militare stonata, mentre il vento, passando, si portava via le note. Bulganin e Kruscev, in piedi, salutavano con una versione sovietica di Addio Inghilterra. Tristi e noiosi come un Primo Maggio sulla tomba di Lenin. Era il giorno degli impermeabili marroni, dei cappelli scuri e del disprezzo per gli accessori coordinati. Troy non poteva non pensare che fossero contenti di andarsene da quelle isole. A un tratto Kruscev si avvicinò al parapetto, sventolò il cappello, si sporse in fuori e, guardando dritto verso Troy, gridò con quanto fiato aveva in gola: «L'Inghilterra fa schifo! Venga in Russia! La distanza non conta. Venga dove c'è ancora vita!», e gli lanciò una esortazione, «Держи хвост пистолетом!», come si direbbe a un bambino che torna a casa, mortificato, dopo essere stato sconfitto da un compagno prepotente: «Sempre in alto il cuore!», o, pressappoco, «Sempre in alto il cazzo!». Troy si guardò attorno. Nei lunghi minuti di attesa, prima che la nave si staccasse dal molo, i notabili avevano chiacchierato tra loro. Si rese conto che era lui, insieme con il segretario del ministero degli esteri, Selwyn Lloyd, che gli stava accanto, il più vicino alla Ordzhonikidze. L'ambasciatore russo che, secondo il protocollo doveva accompagnare Lloyd, si trovava, senza nessuna ragione particolare, sei o sette metri dietro di loro. Troy sentì che chiedeva: «Что, Что? Non ho sentito una parola». Lloyd appariva sconcertato. «Parlava con lei», mentì tranquillamente Troy. «Il compagno Kruscev l'ha invitata ad andare a trovarlo in Russia». Prudentemente, con gli oppor-
tuni tagli e modifiche, diede alle parole di Kruscev una parvenza di diplomazia: «La distanza materiale non ha importanza, nella vita conta solo la vicinanza dello spirito. Ha aggiunto», Troy cercò di trovare una espressione che non lasciasse luogo ad ambiguità o sottintesi, «un'esortazione a mantenere saldo il suo cuore». «Saldo?». «Puro. Intendeva puro. È un vecchio aforisma russo». Troy guardò l'ambasciatore che, con una mano all'orecchio, ripeteva ancora: «Cosa?». «Ahimè, questi aforismi!», sospirò Lloyd. «Perché non ne abbiamo qualcuno anche noi? Ehm... ehm... dica al signor Kruscev di... di mettersi il cappello. C'è vento, non vorrei che prendesse un raffreddore». Straziante, pensò Troy. Lloyd sorrise, compiaciuto della propria originalità. Troy gridò la traduzione a Kruscev che scoppiò a ridere. Troy colse un ultimo «Che schifo l'Inghilterra!», prima che la nave voltasse la prua verso il mare e svanisse alla vista. 16 La giornata era diventata meravigliosamente limpida. Troy era tornato a Scotland Yard abbastanza presto e alle quattro e mezzo di quel bel pomeriggio di primavera, dopo aver svolto una quantità sufficiente di lavoro alla scrivania, guardava oziosamente dalla finestra la luce del sole brillare sul Tamigi. Era la stessa vista, pensò, di cui godeva suo fratello Rod dall'ufficio del palazzo di Westminster, circa duecento metri più su, lungo il fiume. Sconfitto nel 1951, Rod era stato poi eletto membro del parlamento con un buon numero di voti. Spesso, il venerdì, telefonava a Troy, sperando di farsi dare un passaggio fino alla casa nell'Hertfordshire che loro padre aveva comprato nel 1910, appena arrivato in Inghilterra. Troy uscì e si avviò, senza fretta, verso la Camera dei Comuni, lungo il tunnel che collegava la metropolitana a Westminster; passò davanti a un agente che aveva la faccia stanca del venerdì, lo salutò in fretta e salì nell'ufficio che Rod, segretario del ministero ombra degli esteri, occupava nel lato sud dell'edificio. La porta era aperta. Rod, in maniche di camicia, il nodo della cravatta, inevitabilmente rossa, allentato, aveva anche lui la faccia del venerdì pomeriggio mentre frugava in mezzo a un mare di carte ammucchiate sulla scrivania. Troy. appoggiato allo stipite, contemplò il disordine nel quale
suo fratello, almeno apparentemente, amava lavorare. Il rivestimento scuro delle pareti e la grande finestra gotica sul Tamigi erano uno scenario tennysoniano, di un finto medievalismo alla Burne-Jones, che risultava ammorbidito, umanizzato e quasi modernizzato dalla confusione di oggetti accumulati da Rod. Il cuscino che copriva il sedile nel vano della finestra, cucito per lui da sua madre; il copriteiera lavorato a uncinetto, con la sua aria confortevolmente domestica, ficcato dentro il vassoio della corrispondenza; le reliquie dell'infanzia dei suoi figli, fotografie di scuola, guantini scompagnati, berretti diventati troppo piccoli, un orsacchiotto con un braccio solo, contendevano lo spazio, sugli scaffali più alti della libreria, alle cartellette bianche e verdi del governo. Questa mescolanza di personale e politico trovava il suo coronamento in un completo, taglia tre anni, composto da cappottino, cuffia, stivaletti e, naturalmente, coccarda rossa laburista, il tutto appeso all'asta di alluminio per le fotografie, che correva lungo una parete per le fotografie, come la pelle di un insetto esotico da molto tempo trasformatosi in una ancora più esotica farfalla. La farfalla era Alexander, il figlio maggiore di Rod, ora diciannovenne e completamente diverso da una farfalla: un uomo grosso, robusto, come suo padre. In parte simile a Troy, ma su scala più grande. Rod era alto circa un metro e ottanta, i capelli gli stavano diventando grigi e andava acquistando, non senza eleganza, l'aspetto di un quarantottenne, secondo quanto aveva osservato Troy la sera prima, decisamente corpulento. Rod sentì che lo stava osservando e alzò gli occhi. «Immagino», disse, riabbassando lo sguardo sulle carte che aveva davanti, «che tu sia venuto a dirmi che ti ho rovinato la settimana». «No, non sono venuto per quello e tu non mi hai rovinato la settimana. Volevo offrirti un passaggio a casa». «Chi guida?». «Io». Rod trovò quello che cercava, cioè un cavatappi, e lo buttò a Troy, al volo. «Bene. Apri la bottiglia. A te la settimana dev'essere andata bene, per me è stata una schifezza dall'inizio alla fine». Troy prese dall'armadietto vicino al camino una bottiglia di quelle che Rod chiamava la sua riserva, eredità di Alexej Troy, tanto vino pregiato da bastare per una vita intera o forse due. Troy scelse quella che era più vicina. Un Gevrey-Chambertin del 1938. «Forse non te ne sei accorto, mentre te ne andavi in giro a giocare alle
spie, ma è stata una brutta settimana. Io ho passato vari giorni a farmi il culo piatto alla Camera, ascoltando le sfide di Harold Macmillan». Troy riempì il primo bicchiere e glielo diede. Rod sedette nel vano della finestra e. guardando l'ultimo sole del pomeriggio, riprese a protestare. «È insopportabile, davvero insopportabile». Troy bevve un sorso di vino. Non sapevano né lui né Rod da quanto fosse lì quella bottiglia. Il sapore era buono. Si avvicinò a Rod, chiedendosi perché fosse così irritato. Di solito era calmo e, bisognava ammetterlo, quasi sempre equilibrato nei giudizi. «È umiliante restare lì a guardarlo, con la voglia di alzarsi e andare via». «Tu non vorresti diventare cancelliere, vero?». «Io? Certamente no! Chi, con un po' di cervello, rinuncerebbe al ministero degli esteri adesso? Proprio quando il tuo nuovo amico ha reso più interessante il ruolo dell'opposizione?». «Parli di Kruscev?». «E di chi vuoi che parli? Se seguita a buttarsi avanti così, senza badare alle convenzioni, faremo fatica a tenere il passo. Stalin non aveva mai messo piede fuori dalla Russia se non quando si è incontrato con Churchill. Kruscev se ne va in giro come il pianista Liberace. Questo è il bello di lavorare agli esteri, non sai mai che cosa sta per fare il pazzo». Rod guardò Troy, come se si aspettasse la risposta a una domanda che era implicita. «Beh...», disse Troy, tornando a chiedersi di che cosa avessero parlato Kruscev e Kolankiewicz, «a me non ha detto niente». Rod vuotò il bicchiere e lo porse a Troy perché glielo riempisse un'altra volta. «Però gli hai parlato, vero?». Gli brillavano di nuovo gli occhi, l'irritazione di poco prima aveva ceduto il posto a una curiosità alimentata in parte dal vino. «Forse», rispose Troy, reticente. «Forse un corno! Parla!». «Veramente... non c'è stata l'occasione di mettersi a chiacchierare». «Immagino che gli avrai dato la solita immagine pessimistica dell'Inghilterra. Ma lui si era accorto che eri lì per spiarlo?». «Certo. Non è stupido». Troy tacque e pensò a quanto avrebbe avuto il coraggio di raccontare a Rod. Era meglio che l'escursione nell'East End restasse un segreto. «Mi ha invitato in Russia», aggiunse. «Porco demonio! Ci devi andare. Ha invitato anche Gaitskell. Se l'avesse detto a me, sarei partito come una palla di cannone».
«Non dire sciocchezze, Rod. Io non posso andare in Russia. E tu nemmeno». «Perché no? In tutto il mondo, è il paese dove più mi piacerebbe andare. E con un invito personale del signor K, si evitano anche le difficoltà dell'Inturist». «Nessuno di noi due può andare in Russia», disse Troy con fermezza. «È semplicemente impossibile». «Freddie, ho passato tutta l'infanzia ad ascoltare i vecchi racconti sulla Russia. Credi che butterei via l'occasione di andare a vedere tutto con i miei occhi? Non potevo non dare quell'elenco dei prigionieri politici a Kruscev. Era un dovere, anche se sapevo che mi sarei bruciato la possibilità di un viaggio in Russia. Ma tu sei stato invitato e ci devi andare». «È proprio perché anch'io ho passato l'infanzia a sentire i racconti di nostro padre e nostro nonno sulla patria lontana che non ci posso andare. Per me non è più un paese reale. È un mito, e voglio che resti tale. Non corrisponderebbe all'immagine che me n'ero fatto allora. Ci sono cose, in Russia, che preferisco non sapere». «Per esempio?», ribatté Rod e Troy si rese conto per la prima volta di avere avviato una conversazione in cui Rod lo avrebbe messo alle strette. Bisognava pensarci prima. Prese un po' di respiro e disse a Rod quello che decine di altre volte era stato sul punto di dirgli e poi aveva rimandato. «Ti ricordi di quando ero a Berlino, nel '48?». «Potrei mai dimenticarmene?» Troy non si soffermò su quelle parole e proseguì. «Mentre ero lì, a Berlino, ho parlato con un agente del KGB. Un polacco sul quale avevo condotto un'indagine a Londra. Sapeva sul mio conto più di quanto io non sapessi sul suo. Mi ha detto che nostro padre era sempre stato un agente sovietico». Rod si alzò in piedi e, lentamente, si avvicinò al telefono, sulla scrivania. Fece un numero e, dopo poco, Troy lo sentì parlare con sua moglie. «Cid, verrò un po' più tardi», disse. «Purtroppo è inevitabile. Tornerò con Freddie appena possibile. Prenderemo la Bentley». Ci fu un momento di silenzio, mentre la moglie di Rod diceva qualche cosa che Troy non riusciva a sentire. Poi Rod riattaccò e tornò a sedersi nel vano della finestra. «Stronzate. Che cosa vuoi dire?». «Quello che hai sentito».
«E allora? Tutto qui?». «Mi sembra che basti». «Un agente del KGB ti becca a Berlino e ti dice che tuo padre era una spia. E tu gli credi?». «Non ho detto questo. Ci ho pensato. Veramente ci sto ancora pensando. La maggior parte delle volte non so che cosa credere. Qualche volta mi è facile credere che non sia vero, o meglio, non sono mai arrivato a crederci del tutto». Rod si sporse verso di lui, quasi a richiedere la sua attenzione, con un'aria da fratello maggiore che confermava le ragioni che per tanto tempo avevano indotto Troy a tacere. «Freddie, è assurdo. Non ha senso. Non ha minimamente senso. Nostro padre è stato contrario allo stalinismo fin dagli anni Trenta, anche quando era di moda prendere l'atteggiamento del "compagno lavoratore'". Io ho lavorato spesso con lui quando scriveva gli editoriali per l"'Herald" e anche per il "Sunday Post", un paio di volte. Solo un imbroglione eccezionale avrebbe scritto tutte quelle cose senza pensarle». «Rod, molti pensano che nostro padre fosse un imbroglione e devi ammettere che eccezionale lo è sempre stato». Erano quasi arrivati al fondo della bottiglia. Rod ne prese un'altra, senza neanche guardare l'etichetta e continuò a discutere, sforzandosi di non essere troppo enfatico. «Qualche volta mi sorprendi, fratellino, mi sorprendi davvero. Come hai potuto tacere, tenerti tutto per te? Io, al tuo posto, mi sarei messo a urlare per tutta la casa come se avessi il fuoco al culo». «Lo so», rispose Troy, con semplicità. «Perché non mi hai detto niente?». «Perché sapevo che avresti reagito come stai facendo ora». «Freddie... è troppo importante...». «No, non è importante. Tu non ci credi, quindi come può essere importante?». «Perché... accidenti, perché è una notizia insidiosa». «In che senso?». «Nel senso che è insidiosa! Io non voglio essere costretto a considerare la possibilità che la vita di mio padre fosse basata su una finzione. Il sospetto non fa crollare la fiducia in lui, ma la sgretola in un modo squallido, miserabile, corrosivo. Qui lui si è costruito una vita. E l'ha costruita anche per te, per me, per le nostre sorelle. Non voglio dubitare di lui, perché se dubito di lui, non credo più nella vita. Per me è importante pensare alla sua dedizione totale».
«Dedizione a che cosa? All'Inghilterra?». «Sì». «Sai già che cosa penso a questo proposito». Rod si alzò, con uno scatto di collera, in una mano il bicchiere nell'altra la bottiglia. Fece qualche passo per la stanza, aveva solo le calze ai piedi, così che Troy si chiese come mai Cid non fosse mai riuscita a fargliele mettere dello stesso colore. Poi Rod tornò a sedersi, inquieto, ma senza aver rovesciato una sola goccia di vino. «Stupido. Sei stupido e sei anche stronzo. Non torniamo più su questo argomento. Siamo inglesi. È lui che ci ha messo nelle condizioni di esserlo. E che tu te la prenda con gli inglesi perché non ti piacevano le loro scuole e non sei mai riuscito a imparare neanche una regola del loro stupido gioco nazionale, è una cosa puerile. Per l'amor di Dio, Fred, deciditi a crescere!». «Ma perché te la prendi così? Perché tanta rabbia?». «Ma che rabbia e rabbia! Dolore! Dolore, dolore, dolore. Mi ferisce l'idea che nostro padre possa essere definito una spia. È un insulto che non ha confronto». «Ah sì? Forse non te ne sei accorto, ma da quando sono entrato in questa stanza meno di un'ora fa, per due volte mi hai detto che ero una spia». «Davvero?». «Sì». Rod tacque, immediatamente più calmo. Tutti e due sapevano quale osservazione dovesse logicamente seguire. «Però, in un certo senso, avevo ragione, o no?». «Sì, credo di sì. Ma non ero andato lì per spiare. Qualunque cosa si aspettassero da me, io ero mosso solo da una personale curiosità. Ero sicuro che non avremmo scoperto niente che non sapessimo già. Se Eden non avesse detto all'MI5 e аll'МІ6 di tenersi fuori, sono sicuro che si sarebbero trovati comunque a mani vuote. È andata così: sono una spia che non ha spiato niente. Ho le mani pulite!». «Non è andata così», disse Rod, in un bisbiglio. «Di che cosa parli?». «Non si sono "tenuti fuori". Hanno spiato i russi. Hanno mandato un sommozzatore a ispezionare la chiglia della nave da guerra dove ha viaggiato Kruscev. Il capitano, prima di partire, ha presentato una protesta ufficiale al ministero degli esteri. La questione è più grossa e più sporca di come te l'hanno riferita».
Adesso era Troy che, improvvisamente, si era innervosito. «Eden ha negato, naturalmente. Ma tu, dentro di te, sai che è vero». L'irritazione di Troy andava crescendo. «Non mi meraviglierei che tu e quegli zucconi della sezione speciale foste serviti da esca». Troy si sforzò di non cedere alla collera, per cercare di saperne di più. «Quando? Quando è successo?», chiese. «Pare che la protesta sia arrivata martedì mattina. La smentita è stata immediata, ma ho saputo da alcune fonti di informazione mie personali che Eden era fuori di sé perché le spie gli avevano confermato che era vero». Non c'era da sorprendersi che Rod avesse fonti di informazione "personali". L'amministrazione civile riteneva legittimo che la leale opposizione al governo di sua maestà sapesse ciò che l'amministrazione civile stessa voleva farle sapere. Era un sistema, non difficile, per garantirsi appunto quella lealtà. Dopotutto, l'opposizione avrebbe potuto, entro un anno o due, andare al governo. Di nuovo Troy si ricordò di quel «Procedete», che Kruscev aveva detto al telefono il lunedì sera e gli parve che avesse un significato meno oscuro di allora. Ma aveva lui stesso creato una situazione nella quale gli era impossibile dire a Rod che aveva sentito qualcosa che avrebbe dato un senso al suo incarico di spiare il capo dell'Unione Sovietica. Era impossibile, senza apparire agli occhi di Rod non solo una spia, ma anche un bugiardo. Capì perché spiare non gli piaceva, era qualcosa che si attaccava alle dita, lasciava un cattivo sapore in bocca, un odore sgradevole nell'aria. Tutto sommato, poteva prendersela solo con se stesso. Avrebbe dovuto pensarci prima. A Hampstead, quasi rotolarono fuori dalla Bentley di Troy. Luanda li guardò e chiese che le dessero le chiavi per mettere a posto l'automobile. Un giorno, disse mentre sedeva al volante, forse avrebbero fatto una legge per vietare agli uomini di mezza età di guidare pieni di alcol fino al collo. 17 Rod era un bambinetto di tre anni, le gemelle avevano solo qualche settimana e a Troy nessuno ancora pensava quando loro padre, per una cifra relativamente esigua, aveva comprato quella vasta costruzione georgiana che era Mimram House, quando ormai le camere da letto stavano per pre-
cipitare al pianterreno e la casa stessa minacciava di sgretolarsi nel Mimram, il fiume che le dava il nome. L'aveva trasformata in un'arbitraria sovrapposizione di una dacia a una tradizionale dimora inglese e così era rimasta anche dopo la sua morte. Per la madre di Troy era la casa dove abitava, per le sue sorelle la casa dove andavano ogni tanto e dove si trovavano bene come nella propria, per Rod era una base elettorale. Erano andati avanti così fino a quando la madre era morta, nel 1952. Troy si era giustamente ritenuto lui stesso niente più che un visitatore occasionale ma, con grande sorpresa di tutti, e anche sua. Maria Michailovna gli aveva lasciato la casa in eredità, spiegando semplicemente, nel testamento, che era un diritto, perché era l'unico figlio non ancora sposato e quindi senza una vera casa. Troy aveva avuto così la conferma di quello che sua madre aveva sempre pensato della sua casetta di Goodwin's Court, alla quale si era sempre riferita chiamandola con disprezzo «una residenza da scapolo», qualcosa che poteva andare bene solo fino al matrimonio. Ma le prospettive di un matrimonio di Troy erano scarse e anche le sue sorelle, incorreggibili sentimentali, avevano da tempo rinunciato al ruolo di sensali. Lui, da principio, aveva quasi pensato di cedere la casa a Rod. Ormai era arrivato a considerarsi un londinese, aveva vissuto a Londra i disagi della guerra e quelli - ancora più pesanti - della pace, ma poi aveva dovuto riconoscere che poter affermare dei diritti sulla vecchia casa di famiglia aveva il suo fascino. Non era mai stata del tutto sua, Rod ne aveva bisogno quasi tutti i weekend e solo un fossato pieno d'acqua avrebbe tenuto lontane le sue volitive sorelle, di conseguenza anche il peso della proprietà non era risultato quella pietra al collo che si sarebbe potuto pensare. Inoltre, aveva potuto concedersi di realizzare un vecchio sogno di vita agreste: allevare un maiale e coltivare un orto. Si era stupito nel vedersi fare cose alle quali, da giovane, non avrebbe neanche pensato. Aveva cominciato a considerare i weekend e le vacanze veramente come tali. Prima di seguire un'indagine fuori Londra, si lasciava corrompere da Onions con la promessa di qualche giorno libero. D'estate, saliva in automobile e andava a dormire in campagna. La mattina si alzava all'alba e tornava a Scotland Yard. Aveva imparato a considerare Mimram House un piacevole luogo di ritiro, anche se non avrebbe saputo dire da che cosa intendesse ritirarsi. 18 Si svegliò il sabato mattina ripromettendosi di fare colazione a letto per
poi andare passo passo fino al recinto dei maiali. Stava appoggiato ai cuscini con la tazza del caffè e il giornale del mattino, quando entrò Rod. Era percepibile sul suo viso l'accenno a un senso di colpa, la sensazione fastidiosa di avere esagerato, insomma di essersi reso ridicolo. A differenza di Troy, Rod non rimuginava mai un pensiero in silenzio. Non aveva niente per cui sentirsi in colpa, se non il senso di colpa che sosteneva così bene. Si presentava immacolato, sbarbato e strigliato di fresco, vestito di un completo con gilè, le scarpe lucide, pronto a incontrarsi con l'elettorato e ad ascoltarne le rimostranze. «Non avrai detto alle ragazze quello che hai detto a me ieri, vero?», chiese. «No», rispose Troy. «Perché avrei dovuto dirglielo? Non rientra nella loro capacità di assimilazione. Non avrebbero saputo come rigirarsi con una informazione del genere». «Posso dirti che sei di un cinismo che fa paura?». Rod se ne andò. Niente sulla terra avrebbe potuto indurre Troy a raccontare a Sasha e Masha quello che gli avevano detto del loro padre. La loro dispersiva indifferenza sarebbe stata più difficile da sopportare dell'assurdo senso di colpa di Rod. Tornò alla lettura del giornale, alla notizia della partenza di B&K e al resoconto tra virgolette delle ultime parole che Kruscev aveva rivolto al segretario del ministero degli esteri. Qualche scribacchino di Fleet Street doveva essere stato più vicino di quanto non si fosse accorto. Ma quelle non erano le ultime parole di Kruscev, erano le bugie che lui, Troy, aveva detto per mascherare la sua volgare ostilità. Si rese conto di essere entrato, così, a far parte della storia. Le sue bugie erano diventate un documento. Bugie! Maledetto vizio! Buttò via le coperte e, sbadigliando, andò in bagno. All'ombra delle querce, in fondo all'orto, trovò un uomo grosso e grasso che, seduto su una panca improvvisata con un'asse sopra dei bidoni di olio, beveva un tè che teneva in un termos. Quando l'aveva visto la prima volta, gli era sembrato semplicemente grosso e calvo. Ora la calvizie era rimasta, perché con tutta la buona volontà non avrebbe saputo dove andare, ma la circonferenza si era allargata e da grosso l'uomo era diventato anche grasso. Indossava ancora, come molti inglesi, una vecchia divisa del tempo di guerra. In tutta l'Inghilterra, la mattina del sabato e della domenica, si vedevano le camicie blu e kaki sulla schiena di uomini curvi a coltivare un pezzetto di terreno o sul cofano di qualche vecchio macinino in un cortile. Erano così resistenti che erano diventate la risorsa del lavoratore. Non c'era
spazzino in Inghilterra senza la sua camicia kaki. L'Uomo Grasso aveva messo un rinforzo di pelle sui polsi e sui gomiti del suo vecchio giubbotto della Squadra di Soccorso, anche se Troy dubitava che sarebbe riuscito ancora ad allacciarselo, ma, a parte questi particolari, non lo trovava molto diverso dalla sera in cui l'aveva visto per la prima volta, nella penombra dell'oscuramento, mentre accudiva alla sua grossa scrofa bianca, nel cuore di Chelsea. Ora si poteva percorrere Chelsea, in lungo e in largo, per tutta King's Road, dalla Royal Court all'Infinito, senza trovare traccia di maiali. «Ehi, amico», disse il Grasso, vedendolo arrivare. Non lo aveva mai sentito usare un nome, né il proprio né quello degli altri, ed era un'abitudine che qualche volta aveva reso difficile rintracciarlo. Aveva detto a Troy, passandosi un dito a un lato del naso, che una volta aveva lavorato per un detective, «un signore, uno che lo faceva per passione». Troy non ci aveva creduto del tutto. Il Grasso, di tanto in tanto, spariva e Troy si chiedeva ogni volta che cosa ne fosse stato di lui, ma lo vedeva sempre ricomparire nei momenti cruciali del calendario della vita di un maiale e da molto tempo aveva rinunciato a fargli domande. Ne avrebbe ricavato solo qualche sentenza del genere «non chiedere niente se non vuoi sentire bugie», come si sentiva rispondere da bambino. Si sporse sul bordo del porcile. La Macchiata del Gloucester stava nascosta sotto gli alberi, nel suo bianco e nero naturale con l'aggiunta di qualche chiazza di fango secco. Troy riuscì a stento a vederla, accovacciata, mentre muoveva la testa in qua e in là verso il cielo, aspettando che splendesse il sole. «Tra un mese è pronta per il maschio», disse il Grasso. «Forse quest'anno avremo una bella figliata. Guardala, sta al meglio». Troy si mise a sedere vicino a lui sulla panca e rifiutò l'offerta del suo tè col latte, sapendo che sarebbe stato di una dolcezza nauseante. Era andato a cercarlo per farsi consigliare quando aveva deciso di costruire la stia e allevare i maiali. In una calda giornata d'estate, nel 1953, era arrivato rombando col suo sidecar, ancora col giubbotto blu, gli occhialoni e il casco di cuoio. Nel sidecar era sistemato, paziente e tranquillo, un maiale di taglia media. Anche lui aveva in testa un casco da aviatore. Troy, insieme a Sasha, aveva guardato il sidecar che si avvicinava per fermarsi poi, davanti a loro, spargendo ghiaia dappertutto. Il Grasso si era spinto gli occhialoni indietro sulla fronte e aveva sorriso a Troy. «Guardalo, amico», aveva detto, come se si fossero incontrati il giorno prima.
Sasha si era avvicinata. Camminava con cautela sulla ghiaia perché era scalza e ostentava una competenza che non aveva. Infine aveva chiesto: «Come si chiama?». «Randolph». «Randolph?». «Randolph, come il nonno. Suo padre si chiamava Winston». Sasha aveva rovinato tutto con un accesso di risa soffocate, puerili, irrefrenabili, ma il Grasso non trovava, evidentemente, che i nomi dei maiali facessero ridere e l'aveva guardata, soffocata, piegata in due, senza capire. La scrofa, per parte sua, si faceva rotolare in bocca un sassolino, guardando davanti a sé, con gli occhi stretti come due fessure, senza badare a quella risata nervosa e ascoltando il rumore che faceva il sassolino battendo contro i denti. Troy aveva pensato che quello che era un rumore fastidioso per lui forse per un maiale era una musica. «Ehi», aveva detto il Grasso, «ci prende per il culo?». «È il suo passatempo». «Coraggio, Randolph, mostrale quello che sai fare». Il Grasso aveva tolto il casco di cuoio dalla testa del maiale che era saltato fuori dal sidecar, aveva ficcato il naso a terra e dopo un paio di annusate si era messo a correre. «Che succede?», aveva gridato Sasha. Il maiale aveva la velocità di una MG. Andava quasi al galoppo e si stava avvicinando ormai all'angolo della casa, tenacemente inseguito dal Grasso. «Forza», aveva gridato a Troy, che gli stava alle spalle, «corri, altrimenti non lo prendiamo più!». Sasha si teneva raccolto tra le mani il bordo del vestito e saltava ora su un piede ora sull'altro. «Sono scalza!», strillava, disperata, come sempre, al pensiero di essere esclusa, di qualsiasi cosa si trattasse. «Ci sono i miei stivali di gomma dietro la porta!», le aveva detto Troy, correndo dietro il Grasso e il maiale che stavano già girando dietro la casa. Randolph aveva un forte distacco, ma Troy era riuscito presto a raggiungere il Grasso. «Che facciamo?», aveva chiesto, senza fiato. «Dobbiamo trovare il posto del porco», aveva risposto il Grasso tra uno sbuffo e l'altro. «Che cos'è?».
«Amico, è il posto buono per farci il porcile». «Come si fa a riconoscerlo?». «Dove si ferma il maiale, ti fermi anche tu. Lui si ferma se trova da mangiare o se è stanco e lì gli facciamo la casetta». Randolph, ormai lontano, correva tra le serre e i filari di piantine protette da una tettoia di vetro. Si sentì un grido: «Arrivo!». Troy, voltando la testa, aveva visto sua sorella arrancare dietro di loro, con gli stivali di gomma troppo grandi per lei, la gonna infilata nelle mutande per non sporcarla di fango. «Correre dietro a un maiale giovane non è uno scherzo. Io lo conosco Randolph, è capace di seguitare a girare e girare senza fermarsi. Non so se quella matta che sta con te ce la fa. Ancora due giri della casa e sono rovinato. Quasi mi fermo e provo a prenderlo quando passa». Le grida di Sasha erano più vicine. In casa stavano aprendo le persiane. Rod, affacciato alla finestra, gridava: «Che cosa succede?». «Un maiale! Un maiale!», aveva risposto Sasha, come se fosse una spiegazione sufficiente. Il maiale, con un dietrofront, nello stretto spazio tra due serre, era precipitato su Troy come un bulldozer, lo aveva spinto da un lato ed era ripartito verso il retro della casa. Un giro e il Grasso, fedele alla propria parola, si era tolto di tasca un fazzoletto e, seduto davanti alla veranda, si era asciugato la fronte sudata. Un altro giro e Troy era andato a tenergli compagnia, lasciando che Sasha continuasse da sola la caccia. Correvano in tondo, lei tra rumorose proteste e urla, lui minacciando ogni momento di superarla, trasformandosi da inseguito in inseguitore. «È sempre stata così scema?», aveva chiesto il Grasso. «Non me lo chiedere», si era limitato a rispondere Troy. «A proposito, devo darti una brutta notizia: ce ne sono due». «Eh?». «Gemelle». Troy aveva fatto appena in tempo a spingere via il Grasso mentre Randolph arrivava dalla veranda e si buttava in mezzo a loro due. «È passato di qui», aveva detto il Grasso, alzandosi faticosamente in piedi. Il maiale era scomparso verso sud. Troy lo aveva trovato sotto le querce, a duecento metri da casa, che tirava su col naso in mezzo alle foglie secche, scavando vigorosamente con le zampe anteriori. Era quello il posto del porco?
Sasha era arrivata a balzelloni, molto prima del Grasso, mentre, per il gran ridere, riusciva solo a ripetere: «Un maiale! Un maiale!», poi aveva preso un respiro profondo e, al terzo tentativo, aveva emesso una frase tutta intera. «Ma il maiale è venuto per restare?». «No, solo per la monta. Se devo essere sincero», aveva risposto Troy, «non so perché è venuto». Il Grasso, infine, era sceso ansimante lungo il pendio, mormorando: «Dovevo immaginarmelo! Le ghiande!». «Non è il periodo giusto dell'anno», aveva osservato Troy. «No, cerca quelle dell'anno scorso, nascoste sotto le foglie secche». Il Grasso aveva alzato gli occhi a guardare i lunghi rami aperti della grossa quercia. «Allora è qui che la vuoi la casa, eh?». Il maiale seguitò a soffiare e scavare. «È una quercia il posto migliore?», aveva chiesto Troy. «Sì. C'è tutto quello che serve, senza bisogno di andare lontano. C'è l'ombra e il cibo cade da solo dall'albero. Se non vuoi far vivere il maiale sotto il tuo albero, prendi un pezzo di terra qualsiasi, come quei rovi laggiù, buttaci una manciata di ghiande ogni tanto e un porco di media grandezza te lo ridurrà meglio che due cavalli e un aratro». Così dicendo, si era tolto dalla tasca della giacca delle ghiande e le aveva gettate in mezzo a una massa di ortiche e di more selvatiche. Il maiale aveva rinunciato a scavare e si era gettato tra i rovi con le sue zampette, per l'appunto di maiale, distruggendo tutto con diabolica ferocia. «E quando avrà finito, non resterà che costruire la stia e tanti saluti». «Ah, è così?», aveva detto Troy. «È così che si trova il posto del porco? Forse sembrerà così a te. Perché, allora, non gli hai buttato subito le ghiande in mezzo ai rovi, invece di farci correre per tutto il giardino?». Il Grasso era diventato improvvisamente serio, sembrava offeso. Scuotendo la testa con un sospiro, come se Troy avesse sfidato un'antica tradizione suina, aveva abbassato gli occhi. Poi, guardando di nuovo Troy, aveva detto: «Ma allora non ci si diverte più». Erano passati tre anni. Il Grasso guardava ancora Sasha con diffidenza e non si riferiva mai a lei senza chiamarla «quella matta». Con Masha, quando era ben sicuro che fosse lei, era scrupolosamente beneducato, ma Masha si avvicinava raramente al recinto dei maiali. Il grasso aveva accettato l'idea che fossero gemelle con un margine di dubbio, anche per colpa
di Troy che ripeteva spesso che in realtà erano una sola terribile donna con due corpi. Quel giorno lui e Troy sedevano sulla panca e, seguendo l'esempio del maiale, guardavano il sole. «Hai intenzione di parlare o devo bere il mio tè e andarmene a casa?». «Scusami», disse Troy. «Ho tante cose in mente». «Tu in mente devi avere solo la cura degli animali. Passa una mattinata a spalare la merda dei maiali e vedrai che la mente si sgombra». Aveva ragione. Nel pomeriggio, dopo aver mangiato in giardino, scesero al villaggio facendo un giro di sei o sette chilometri attraverso i boschi, dove gli alberi mettevano le nuove foglie e tornarono a casa dal nord, in un mare ondeggiante di campanule e in un groviglio di felci alte e dritte, come non ne avevano mai viste prima. Non parlarono di cose importanti, il Grasso era un figlio dell'East End e non aveva una conversazione raffinata, ma arricchì le nozioni di Troy sull'allevamento dei maiali secondo le antiche tradizioni e Troy pensò che si stava inventando tutto e che, in realtà, non gliene importava niente, ma gli disse anche che cosa pensava dello spettacolo che aveva visto all'Arsenale in quella stagione teatrale, un argomento che a Troy era più estraneo del cricket. Tornò a casa con una sensazione speciale di benessere, gradevolmente turbato dalla gratuità di una conversazione normale. Era un'arte che in casa sua si coltivava poco, almeno entro i limiti di normalità della famiglia Troy. L'eredità del loro padre, del suo carattere, bizzarramente distribuita in ciascuno di loro, non li aveva resi né semplici né sereni. Rod aveva ereditato da Aleksej Troy la coscienza politica, il fiuto giornalistico. Le sorelle erano lo specchio dell'aspetto più vivace, incontrollato, capriccioso della sua natura e, insieme, della severa incapacità di sorridere della loro madre, che le faceva apparire a tratti ottuse di fronte a qualsiasi esempio di comicità. E Troy? Che cosa aveva ereditato? Lui lo sapeva bene. Aveva ereditato la tendenza alla segretezza, l'abitudine a giocare tenendosi le carte strette contro il petto. E questa caratteristica, unita alla curiosità del giornalista, aveva fatto di lui un poliziotto, ma era anche la fonte della preoccupazione dalla quale il maiale e il suo allevatore lo avevano tanto piacevolmente distratto. Anche Rod sembrava aver riacquistato il buonumore. Durante la cena intrattenne tutti con un resoconto della sua giornata a Westminster, compresa una imitazione di Macmillan che annunciava qualcosa che definiva «titoli di stato a premio», una specie di lotteria con un altro nome. Le gemelle si buttavano via dal ridere e quando Rod fece una smorfia e diede ai propri
occhi l'espressione triste di un vecchio segugio, schiamazzarono come streghe impazzite. Troy guardò l'unica persona presente che facesse parte della famiglia solo in virtù del matrimonio, Lucinda, lady Troy. Sorrideva in silenzio, graziosa, timida, gli occhi azzurri brillavano nella carnagione pallida del viso. Né Hugh né Lawrence, il marito di Masha, erano venuti per il weekend. Spesso Lucinda era l'unica estranea in casa. Almeno si parlava in inglese. Le serate in russo a Troy davano fastidio perché accrescevano la coscienza della loro diversità, la chiusura di un linguaggio esclusivo. Rod aveva sposato Lucinda nel 1936, l'anno in cui, in Inghilterra, si erano succeduti tre re. Lei aveva pressappoco l'età delle gemelle. Troy riteneva di avere un buon rapporto con Lucinda, che, a differenza delle gemelle, non tendeva a prevaricare né nutriva l'idea preconcetta che lui fosse, inevitabilmente, il più giovane e quindi poco qualificato a esprimere qualsiasi parere per il resto della sua vita. Aveva spesso invidiato a Rod la sua scelta, il passo che aveva fatto verso la normalità. La scelta di una donna indiscutibilmente inglese. Mentre finivano l'ultima portata, in modo inatteso Sasha si alzò da tavola e disse che doveva tornare a casa presto, prima che il vino le facesse venire sonno. La cena, e con la cena la serata, si concluse con la sua partenza. Rod aveva del lavoro da finire prima di andare letto e Masha doveva guardare alla televisione il suo programma preferito, nel salotto giallo. C'era ancora una mezza bottiglia di Pouilly-Fumé del '52 nel cestello del ghiaccio. «Vuoi che la finiamo?», chiese Troy a Lucinda. «Volentieri, Freddie», rispose quella signora indiscutibilmente inglese, «ma sono molto stanca. Non sapevo che Sasha se ne sarebbe andata così in fretta, ma visto che è così, preferisco andare a letto presto». Fece un piccolo sbadiglio. «Ho l'impressione di aver passato molte notti alzata ad ascoltare Rod che provava il suo intervento o ad aspettare che tornasse a casa dopo una votazione. Scusami». Troy prese la bottiglia dal cestello, la giacca dall'attaccapanni in anticamera e, passando dal vecchio studio di suo padre, andò nella veranda a sud. Non era ancora maggio e il calore del giorno se n'era andato. S'infilò la giacca, si mise a sedere su una scricchiolante poltroncina di vimini e finì la bottiglia, nel silenzio della natura: il breve, ripetuto, singhiozzo del fagiano, l'abbaiare di un cane da caccia in lontananza, il vento, leggero, tra i salici che dividevano il giardino dal fiume ed erano cresciuti troppo. A-
vrebbe dovuto potarli l'anno prima e aveva rimandato ma, mentre ora svanivano alla vista, inghiottiti dal buio della notte, capì che avrebbe rimandato un'altra volta. Gli piaceva la loro grande ombra leggera, potati diventavano tozzi, con tanti rami troppo regolari, ma se li avesse lasciati crescere liberamente si sarebbero spaccati al centro e sarebbero morti. Nel buio che si andava infittendo, due pipistrelli cominciarono a volare sul prato, all'altezza del primo piano, tagliando la notte in riquadri invisibili, alla ricerca di una preda che Troy non riusciva nemmeno a cogliere con lo sguardo. Mentre uno arrivava da nord, l'altro arrivava da ovest, ma riuscivano a evitarsi con una precisione infallibile, battendo appena le ali scarne, mentre intessevano la trama e l'ordito del loro tessuto notturno. Restò seduto nella veranda finché l'oscurità non fu completa e le mani non gli si intorpidirono per il freddo. Nel ricordo, quella gli sarebbe parsa, in seguito, l'ultima sera di pace. La mattina, trama e ordito di una vita avrebbero cominciato a lacerarsi e attorcigliarsi nel fitto tessuto di un'altra. 19 Da solo, stava bevendo il caffè nello studio di suo padre e intanto scorreva i giornali della domenica cercando una dichiarazione del governo di sua maestà che confermasse quello che aveva detto Rod. Sedeva sulla sedia di suo padre, davanti alla finestra. Per un po' di tempo, dopo la sua morte, aveva preferito stare dall'altra parte della scrivania, rivolto verso la stanza, la penna e il tampone della carta asciugante esattamente come li aveva lasciati lui, cedendo alla sensazione che sarebbe stato un sacrilegio, occupare il suo posto. Poi, un giorno, aveva pensato che era una stupidaggine, che di là si vedeva il giardino, ed era passato dall'altra parte senza pensarci più. Quel giorno, per nessuna ragione apparentemente spiegabile, era comparsa Masha, si era seduta sul bordo della scrivania, con i piedi sulla sedia di suo padre, si era versata un caffè dal bricco e gli aveva rivolto il suo dolce sorriso da strega. Troy non le aveva detto niente, voleva capire da solo se quella visita aveva uno scopo. Avevano bevuto il caffè in silenzio. C'era stato uno squillo di telefono. Lui aveva risposto. Era Hugh che chiedeva di parlare con sua moglie. «Sasha?», aveva chiesto Troy, incerto, ma prima che potesse aggiungere altro, Masha gli aveva strappato di mano il ricevitore. «Hughdey», aveva detto, con voce sommessa e carica di sentimento. So-
lo Sasha chiamava Hugh Hughdey. «Caro», pausa. «Sì, caro». Pausa. «Credo che tornerò dopo pranzo». Dopo una pausa più lunga, Troy sentì un crepitio nel ricevitore e la voce baritonale di Hugh, ma non riuscì a capire le parole. «Oh», rispose Masha, «niente di speciale. C'era anche Lucinda. Una cena en famille». Un'altra pausa. «Sì, dopo pranzo». Soffiò un bacio nel ricevitore e riattaccò. Troy la guardava, quasi incredulo. «Sasha ti fornisce lo stesso servizio?». «Non fare domande». «Ci cascherà?». «Ci è sempre cascato». «Ma non è del tutto imbecille». «Vuoi scommettere?». 20 Dopo quaranta minuti telefonò Onions. «Fa' la valigia. Hai una prenotazione sul vagone letto per Aberdeen». «È interessante?». «Quattro cadaveri. Arsenico. Stessa mano. La polizia locale è in difficoltà». Non era male. Da un pezzo Troy non aveva un vero cadavere per le mani e da cinque anni non indagava su un avvelenamento. Ora, in un colpo solo, si ritrovava quattro morti avvelenati. «E la squadra?». Sentì Onions sospirare profondamente. La squadra era sotto organico. Troy aveva detto a Tereshkov, il funzionario di Kruscev, di essere a capo della squadra omicidi, ma era solo una mezza verità, la carica gli era stata affidata solo in assenza del sovrintendente Tom Henrey. Un'assenza che, tuttavia, si protraeva da Natale. «Non credo che Tom tornerà», disse Onions. «Gli hanno trovato un cancro al pancreas, ma finché non mi dice né sì né no, togliergli l'incarico per sempre sarebbe troppo... insomma, sarebbe come spingerlo nella fossa». «Certo», rispose Troy. «Io non chiedo una promozione, penso solo che, appena possibile, dovremmo avere qualcun altro, a livello più basso». «Insisterò perché ti sia dato un altro ispettore». «Basterebbe un sergente».
«Hai in mente qualcuno in particolare?». «Sì, Edwin Clark, della polizia del Warwickshire, in questo momento alla divisione investigativa criminale di Birmingham». Onions rifletté un momento. «D'accordo. Ci puoi contare. Farò trasferire il sergente Clark». «L'agente Clark». «Come?». «Per ora è solo un agente. Diventerà un sergente quando entrerà nella squadra». «Mi chiedi molto. Se lo merita?». «Certo che se lo merita. Ed è esattamente l'aiuto di cui ho bisogno. Uno su cui si può contare per smaltire il lavoro d'ufficio». «Effettivamente, se metti piede nella tua stanza, ti accorgi che Wildeve è più basso della montagna di carte che hai sulla scrivania». Troy sapeva che non gli sarebbe stato difficile giustificare la presenza di Clark. In quindici giorni avrebbe permeato il suo ufficio di una calma imperturbabile e di una metodica, militare efficienza e Onions avrebbe apprezzato quella stabilità a confronto con la inafferrabile inquietudine di Troy e Wildeve. 21 L'indagine ad Aberdeen aveva richiesto più tempo del previsto. Quando Troy, nella luce incerta del mattino, scese dal treno letto, sotto gli archi della stazione di King's Cross, erano passate quasi sei settimane e si era già all'inizio di giugno. Londra era entrata clamorosamente nell'estate. Troy era diviso tra il piacere di aver concluso positivamente un lavoro e la sensazione fastidiosa di non avere niente da fare. Le morti erano avvenute veramente per avvelenamento da arsenico, ma la polizia locale aveva commesso l'errore di presumere che il modus operandi fosse uno solo. Troy aveva capito subito che non era così. Le quattro dosi di veleno erano state somministrate in quantità molto diverse e la comparsa di un quinto cadavere, due giorni dopo il suo arrivo, era stata una prova in più. Non si trattava di cercare un unico assassinò, aveva spiegato Troy alla polizia, ma diversi assassini. Aveva dato così un nuovo indirizzo al lavoro della squadra, aveva riesaminato le prove raccolte nel corso di quasi un anno e interrogato di nuovo le persone potenzialmente sospette che a suo tempo, non rientrando nello schema errato della prima parte dell'indagine, erano state
rilasciate. Era stata una operazione lunga e difficile, condotta per intere giornate, che spesso cominciavano all'alba. Ogni tanto Troy dava una scorsa a un giornale. L'Egitto era un fuoco che covava sotto la cenere, Cipro sanguinava ancora e il governo inglese non faceva nessun tipo di ammissione sulla spia di Portsmouth. I giornali speculavano sulla notizia, soprattutto quelli che appartenevano alla famiglia Troy, e lui sapeva che parte della speculazione veniva alimentata da Rod. La spia misteriosa era scomparsa, forse non era vero che lavorava per i servizi segreti, ma era stata ingaggiata, a scelta: da un gruppo di imperialisti nostalgici, dalla sinistra trotzkista antisovietica, dai russi bianchi in esilio, dai sionisti; a meno che non fosse stata rapita e ora si trovasse in Russia, o fosse stata uccisa e, in questo caso, ora si trovasse sul fondo del canale di Solent. L'ordine delle risposte era intercambiabile, segnare con una crocetta quella giusta. Troy aveva ottenuto la confessione per due degli omicidi dal medico di famiglia delle vittime; l'ispettore della polizia locale era riuscito a far confessare il fratello della terza vittima e la squadra omicidi aveva iniziato un'indagine a carico di un terzo uomo per il quarto delitto. Troy era già sicuro che in tribunale sarebbe stato dichiarato colpevole. Il quinto caso era rimasto irrisolto ed era stato costretto, così, a tornare a Londra portandosi dietro, come un filo fluttuante nell'aria, il primo insuccesso in tanti anni di lavoro, ma propenso ad attribuire l'omicidio a un processo di imitazione, la sindrome dello scolaro copione, come si cominciava a chiamare in America. Bisognava imparare che c'erano notizie che non andavano pubblicate sui giornali. Quel filo, concluse, sarebbe rimasto in sospeso nel prossimo futuro. Prima della fine dell'estate lo avrebbero richiamato in Scozia per testimoniare. Erano le sette del mattino. Un bel mattino d'estate. La luce del sole correva lungo la Pentonville Road, inondava i tetti di Islington e Clerkenwell per cogliere poi la magnificenza del Midland Hotel di St Pancras in tutta la sua gloriosa patina di sporcizia. Londra si stava svegliando. Due milioni di bollitori cantavano sui fornelli. Troy gettò la valigia sul sedile di un taxi. Dopo un bagno e un caffè, vedeva con piacere la prospettiva di andare a piedi a Scotland Yard. Il vecchio Ascot, scaldabagno a gas brevettato, fissato sul suo supporto sopra la vasca, funzionava abbastanza bene purché si conoscesse il trucco. Entrare nella stanza da bagno. Guardare il rivoletto d'acqua emergere dal beccuccio. Girare completamente la manopola in senso antiorario. Correre
al piano di sotto, picchiare sul tubo vicino al lavandino di cucina col tacco della scarpa, tenendola ben stretta nella mano sinistra. Correre al piano di sopra. Girare a metà la manopola in senso orario, schiacciare il pulsante di accensione. Spalancare il ripostiglio sul pianerottolo, picchiare sul tubo in fondo al ripostiglio con la scarpa sempre ben stretta in mano. Tornare in bagno, il rivoletto ora sarà diventato un tiepido, modesto getto d'acqua. Svestirsi. Da tiepido e modesto, il getto d'acqua sarà diventato caldo e generoso. Entrare nella vasca. Il getto s'interromperà all'altezza di dieci centimetri, in ottemperanza alle direttive di massima della programmazione economica per la seconda guerra mondiale. Troy non riusciva a capire perché il suo Ascot non avesse mai superato la guerra. Anche gran parte dell'Inghilterra, del resto, non l'aveva superata e forse, da parte dello scaldabagno, era una questione di solidarietà, ma dopo tutte le difficoltà dell'accensione, quando suonò il telefono Troy non si sentì di andare a rispondere. Lo lasciò suonare ed entrò nella vasca. Dopo cinque minuti suonò di nuovo. Troy appoggiò la tazza del caffè e la fetta di pane tostato con la marmellata sul portasapone e si distese nella schiuma. Un colpetto col piede al tubo in alto e l'Ascot avrebbe prodotto una seconda cascatella, creando qualcosa di simile a un vero bagno. Ci voleva solo un po' di pazienza. E chi aveva telefonato doveva rassegnarsi. Bevve la prima buona tazza di caffè dopo settimane e gli tornò, vivido, il ricordo di Larissa Toscà, della splendida impudicizia con la quale stava nella vasca come in un salotto, di lui stesso, seduto goffamente sul coperchio del cesso, mentre lei era tutta coperta di schiuma come una piccola star in una commedia musicale hollywoodiana. Da allora non aveva avuto più niente di simile. La passeggiata a piedi fino a Scotland Yard fu ancora più piacevole di quanto avesse immaginato. C'erano giorni in cui amava Londra, giorni in cui sfavillava attraverso la sporcizia e ci si poteva lasciare sedurre dalla bugia che nebbia e inverno non fossero la sua condizione naturale. Stentò a riconoscere il proprio ufficio. Era pulito, ordinato, perfetto. Qualcuno aveva vuotato il cestino della carta straccia. Aveva tolto da terra gli schedari e li aveva messi negli scaffali. Aveva sbloccato la finestra per lasciare arrivare l'aria che saliva dal fiume insieme ai rumori del traffico. Aveva tolto avvisi vecchi di anni dal riquadro di legno appeso al muro. Aveva caricato l'orologio. Aveva sostituito la sedia rotta con uno di quegli attrezzi girevoli dove di solito stanno sedute le segretarie con la gonna tirata su mentre il capoufficio gli detta le lettere. E le scrivanie! Quella di Jack
era quasi sgombra. Sulla sua c'erano molti fascicoli, ma un piccolo essere, tutt'altro che bello, con una figurina atticciata, stava seduto lì e, con calma, esaminava tutto, separava le pratiche più urgenti da quelle che potevano seguire un corso ordinario e ogni tanto prendeva qualche appunto perché lui, Troy, fosse informato. Non c'era spiegazione. Lo avevano licenziato mentre era in Scozia e sostituito con un vero poliziotto? «Buon giorno, signore», disse la figurina atticciata. Clark. Era Clark. Si era dimenticato di lui. «Scommetto che gradisce un po' di caffè, vero signore?». Prima che Troy potesse dirgli che lo aveva appena bevuto e che niente se non una crisi di astinenza lo avrebbe indotto a bere il caffè di Scotland Yard, il suo sguardo si posò su un marchingegno nell'angolo dell'armadio, vicino alla stufetta. Sembrava consistere in un becco Bunsen, alcune provette, un metro o due di tubazione di vetro e gomma e un grosso condensatore rotondo dal quale usciva un liquido marrone scuro che gocciolava dentro un bicchiere. «Le piace, signore? L'ho progettata io». «Mi chiede se mi piace? Non so nemmeno che cos'è». «È una macchina per fare il caffè». Troy guardò quel ribollente labirinto di vetro. Piranesi non avrebbe potuto far meglio. Ma l'odore era di caffè e anche di un buon caffè. Meglio di quello che aveva fatto lui. «Dove si è procurato il materiale?», chiese, mentre Clark riempiva una tazza. «Al laboratorio di medicina legale, signore». «Kolankiewicz si è privato di tutte queste cose perché lei potesse fare il caffè?». «Non esattamente, signore. Ho provveduto io con un ordine di requisizione». «Un ordine di requisizione?». «Sì, signore. Ho scoperto che se si riesce a cogliere Wildeve mentre sta per andarsene, soprattutto quando dalla sua agenda risulta che ha un appuntamento la sera, gli si può far firmare quello che si vuole, tanto non legge». Brutto affare. Era pressappoco così che Troy si faceva firmare gli ordini da Onions. Bastava sapere quando andava a giocare a bocce o a coltivare il suo orticello. Si profilavano guai all'orizzonte. Quanti imbroglioni poteva contenere un solo ufficio?
«Lei non avrà ripreso i suoi vecchi traffici, eh Clark?». «Vede, signore, io il caffè lo pago. E poi, se lei vivesse, come me, nella caserma della polizia, cercherebbe di rendere più accogliente almeno l'ufficio. Come una seconda casa, diciamo». «È in caserma che l'hanno alloggiata?». «Finché non mi trovo una casa, signore. Guadagnerò un po' di soldi in più quando avrò la paga da sergente. Potrei affittare un appartamentino da qualche parte, non si sa mai». Troy non capì se era un modo per ringraziarlo della promozione o solo un altro esempio del disagio inglese. Con la promozione Clark avrebbe avuto circa trenta scellini la settimana in più, ma il suo stipendio sarebbe stato comunque inferiore alle cinquecento sterline l'anno. Forse sarebbero bastate a fargli trovare una casa. Forse no. Non era una grossa somma. «Là in mezzo c'è qualcosa che dovrei sapere?», chiese Troy, indicando quella montagna di carte sulla scrivania. «Niente che non possa aspettare. Questo, però, la divertirà». Clark porse a Troy una copia della "Police Gazette", aperta e ripiegata alla pagina delle promozioni e trasferimenti. «La divisione J ha un nuovo ispettore». Troy lesse il trafiletto che annunciava «la nomina del sergente investigativo Patrick Milligan a ispettore della divisione investigativa J, con base in Leman Street, Londra E1, in seguito alla morte dell'ispettore della divisione investigativa Horace Jago». Leman Street era stato il primo comando di polizia dove aveva lavorato Troy, vent'anni prima. «Una bella promozione. Chi avrebbe mai pensato che Milligan avesse tante qualità?». «Credo che l'ispettore Cobb non mettesse Paddy in condizione di dare il meglio di sé». «Io mi ricordo che la metà del tempo dormiva e l'altra metà pensava a come prendersi una rivincita su Cobb». «Beh, non abbiamo fatto tutti così, signore? Oh, dimenticavo, suo fratello la sta cercando». «Qualcosa di urgente?». «Non saprei, signore». Troy telefonò a Rod. Vicino c'era il "Times", aperto alla pagina delle parole incrociate. Erano solo le nove e mezzo e Clark aveva già riempito tutte le caselle. «Rod, che succede?».
«Devo darti una notizia. Possiamo vederci tra quaranta minuti?». «Mi spettano due settimane di vacanza. Sarò a Mimram domani. Non possiamo rimandare?». «No. È una cosa speciale». «Rod...». «Vieni e sentirai. Non ti tratterrò molto». «Nel tuo ufficio?». «No. Al "Post". Lawrence deve fare un annuncio». Nel 1945, Rod aveva indetto una riunione domestica per annunciare che, nella sua posizione di membro del parlamento, non avrebbe più sostenuto la responsabilità degli affari di famiglia. Indipendentemente dalle regole, non poteva e non voleva farlo. Volevano, propose, abbandonare i giornali e venderli in blocco? No, avevano risposto tutti. Sarebbe equivalso a vendere quello che loro padre aveva costruito. Con grande sorpresa di Troy, suo cognato Lawrence, che indossava ancora la divisa, si era fatto avanti, proponendosi per la direzione del "Sunday Post". Non aveva nessuna esperienza, quando si era sposato con Masha faceva l'avvocato, poi aveva passato un periodo deprimente durante gli anni di guerra, con le mostrine di ufficiale di complemento addetto all'amministrazione, senza mai assistere a un combattimento né mettere il piede in terra straniera. Aveva detto a Troy, quando erano soli, che sentiva il bisogno di mettersi alla prova. E aveva avuto delle soddisfazioni. Il "Post" era diventato il giornale più polemico del paese e Lawrence un direttore aggressivo, spregiudicato, sempre pronto ad aprire una campagna d'opinione. In conclusione molto simile a loro padre. Rod aveva ragione, forse valeva la pena di andare a sentire. Come quando Lawrence aveva accusato Attlee di avere tradito i suoi principi imponendo un carico al Servizio Sanitario Nazionale per pagare la parte sostenuta dall'Inghilterra nella guerra di Corea. O come quando aveva firmato un editoriale in cui si chiedevano le dimissioni di Churchill con l'accusa di senilità. Ex colonnelli dell'esercito coloniale e maggiori furenti avevano risposto in massa e alcuni patrioti avevano gettato dei mattoni contro le finestre della redazione. Lawrence aveva avuto i suoi momenti di gloria. 22 L'atrio del "Sunday Post" era affollato di cronisti che se la prendevano una volta di più con l'assurda vanità di Lawrence, che lo aveva spinto a in-
dire un'altra conferenza stampa. Gli altri giornali potevano anche aver mandato i tirocinanti o quelli che avevano già fatto il loro tempo, ma non avrebbero mai ignorato Lawrence e la possibilità di un'altra rissa. Una mezza colonna alle montature della concorrenza l'avrebbero dedicata comunque. Facevano gruppo a sé, chiacchierando, ma d'altra parte i loro avversari non erano da meno. Londra era una città di esuli. Qua e là, così suggerivano le statistiche, si trovavano rifugiati dalla caduta del Secondo Impero. L'imperatrice Eugenia in persona aveva abitato a Chislehurst, nella zona sud di Londra, negli anni Venti. Ma di russi che fuggivano la loro rivoluzione, Londra ne aveva avuti tanti, a suo tempo e, a quanto pareva, tutti gli esuli russi che vivevano a Londra e che Troy aveva conosciuto o dei quali aveva sentito parlare, compresi alcuni che riteneva morti da tempo, erano lì, quel giorno. Non belli da vedere. Ultimi rampolli di stirpi sradicate, decadute, con nomi e titoli antichi e qualche volta falsi; estremi sostenitori del passato, ignari del corso della storia anche se non sarebbero stati tanto vecchi da pensare che l'assalto al Palazzo d'Inverno si sarebbe potuto pacificamente disperdere e che a Ekaterinburg avrebbe potuto non essere ucciso nessuno. Troy, di solito, cercava di evitarli. «Se il gruppetto è indicativo del tono e del contenuto di questo baccanale», disse Troy, «io me ne vado subito. È la galleria degli orrori. Forse Lawrence ha scovato qualche nuovo scandalo nell'Unione Sovietica e ha riunito i sopravvissuti per celebrare il fallimento di un altro piano quinquennale». «Abbi pazienza», disse Rod, «vedrai che c'è qualcosa di più che un gruppetto di vecchi imbecilli e di cronisti scoppiati». In fondo alla sala, Troy vide una delle poche persone che avrebbe ancora voluto sentir parlare della questione sovietica. Seduto su una sedia pieghevole, il cappello floscio spinto indietro sulla fronte, gli occhi chiusi come se stesse facendo un sonnellino a metà mattina, c'era lo zio Nikolaj, fratello minore del padre di Troy. L'ultimo dei fratelli Troitsky, il solo che fosse venuto con lui in Inghilterra. Troy pensava, giustamente, che fosse molto vecchio, ma non sapeva esattamente quanti anni avesse. La sua solida opposizione a tutti i regimi russi, da Nicola II a Lenin e a Stalin, a Kruscev e a Bulganin, gli aveva permesso di ottenere, durante la guerra, dai servizi segreti inglesi la qualifica di esperto in navi, aerei, bombe e missili e di conservarlo anche in pace, già in pensione, nonostante le sue indubbie tendenze anarchiche. Beneficiava di una sorta di tolleranza
che, con ogni probabilità, sarebbe stata negata a Troy, agente in servizio, e a Rod, ministro del passato governo e forse anche del prossimo se i conservatori avessero perso le elezioni del 1960, e quasi certamente futuro segretario agli esteri. Nikolaj aveva rinunciato alla cattedra in fisica applicata presso l'Imperial College, ma faceva ancora parte del collegio universitario e aveva conservato il suo ruolo di esperto. Nessuno era più competente di lui in materia di navi, aerei, bombe e missili; la sua mente era simile a una soffitta polverosa, ingombra di questi orrori. Con un estro simile a quello di suo padre, il nonno di Troy, nei momenti più impensati rispolverava la soffitta e ne estraeva qualcosa di misterioso, che ribaltava la linea di un discorso: il cavalluccio di legno della fisica, la bambola di stracci, dimenticata, della storia presovietica. Mentre il nonno aveva degli accessi improvvisi di nostalgia e reminiscenza che interrompevano di colpo una cena o una conversazione e al padre di Troy, Alexej Rodyonovich, estroso e loquace, bastava una vecchia interiezione per precipitare in un borbottio slavo, chiuso tra la barba e la camicia russa, Nikolaj aveva una mente più limpida, nonostante le sue misteriose stranezze, o forse era più divertente, più incisivo e, soprattutto, implacabilmente attento a quello che gli si svolgeva attorno. Troy sentì Rod dargli un colpetto di gomito e vide Lawrence apparire davanti al leggio e agitare un foglio di carta per chiedere il silenzio, stile Chamberlain. «Da molte settimane, ormai, si ha notizia, sulla base di informazioni provenienti dall'Unione Sovietica, di un discorso pronunciato da Nikita Kruscev durante il ventesimo congresso del partito e mai reso pubblico. Sui particolari di questo discorso si discute fin da febbraio e credo di interpretare l'opinione di Fleet Street, dicendo che molti ritengono che Kruscev abbia approfittato di questa sessione segreta per pronunciare una denuncia contro Stalin. Posso dirvi ora, con certezza, che è la verità». Da qualche parte, tra le fila degli addetti ai lavori, si levò una pernacchia e, poco più in là, una voce disse semplicemente: «Bella scoperta!». «Posso affermarlo», proseguì Lawrence, «perché ho una copia del discorso». Non ci furono più commenti sarcastici, ma solo domande: «Come?», «Da chi l'ha avuta?», «Chi gliel'ha data?». Lawrence tirò avanti. Si era guadagnato l'attenzione dell'uditorio, che era stato messo a tacere e lo sapeva. «Ho avuto la copia», rispose, «da fonti, chiamiamole pure, oltremare».
Lawrence si serviva di espressioni in codice quasi elementari. Alla Russia venivano attribuite le «fonti anonime», una fuga di notizie ottenuta in Inghilterra costituiva una «fonte amichevole» e gli Stati Uniti erano le «fonti oltremare». Dunque Lawrence aveva un informatore al dipartimento di stato. I cronisti non avrebbero dovuto esserne sorpresi, appariva, invece, strano che Kruscev avesse scelto proprio quella strada per far trapelare la verità sul suo discorso. Con chi era in contatto al dipartimento di stato? Era un sistema semplice che conteneva già in sé la possibilità di una smentita. Kruscev poteva lasciar filtrare la notizia e, nello stesso tempo, negarla. Lawrence aveva il senso del teatro, conosceva il valore delle pause e concesse al pubblico un minuto o due di subbuglio, prima di approfittare del vantaggio guadagnato per arrivare alla conclusione che teneva pronta. «Il testo completo, ventiseimila parole, uscirà sul "Post" di domenica. Nel frattempo, posso anticiparvi qualcosa sulle atrocità denunciate da Kruscev. Sono rivelazioni sconcertanti, anche se da molto tempo sappiamo che difficilmente la storia potrebbe darci un elenco di morti più lungo di questo». Lawrence seguitava a parlare. Troy guardò Rod e gli lesse in faccia le parole «Te l'avevo detto!», prima ancora di sentirgliele immediatamente pronunciare. «Che cosa mi avevi detto?». «Che è un successo. Una rivelazione». «Non sono d'accordo». «Ma come? Significa che Kruscev parlava sul serio di coesistenza pacifica. O vuoi offendermi, come fai di solito, dicendomi che "è un politico come tanti"?». «Peggio, Rod, è un attore». «Eh?». «L'ho visto un po' più di te e, credimi, è un mimo alla Joseph Grimaldi unito a un attore serio alla Alec Guinnes». Lawrence aveva ormai intrattenuto abbastanza i colleghi della stampa dicendo un po' di tutto e un po' di niente nello stesso tempo e finì citando le parole di Kruscev. «"Compagni, il culto della personalità va abolito per sempre" e», aggiunse, «se volete saperne di più, comprate il "Post". Signori, vi ringrazio». Accolse sorridendo un applauso poco convinto. Sapeva di aver messo a segno un colpo da maestro, di aver schiacciato Fleet Street. Qualsiasi diret-
tore di giornale sarebbe stato pronto a tutto per poter pronunciare un discorso come il suo. Avrebbero cercato di dare a quel colpo giornalistico il massimo della risonanza, come aveva fatto Lawrence, mettendo in risalto l'aspetto più gigionesco di Kruscev e sapendo bene che neanche un lettore su cinquanta sarebbe andato oltre la prima metà dell'articolo. Troy si ripromise di comprare, invece, quella domenica, il "News of the World". Il compagno K non poteva competere con tette e culi, legittimo patrimonio dei giornali della domenica, altrettanto inglesi del pesce fritto e patatine che sarebbero serviti ad avvolgere il lunedì. Troy colse, dietro le loro spalle, un sospiro che sembrava carico di tutto il peso della storia dell'umanità, un sospiro infinitamente stanco, come non aveva più sentito dal tempo in cui era vivo suo nonno. Non poteva essere che Nikolaj a sospirare così. Si voltarono tutti e due contemporaneamente, Rod e Troy, a guardare il loro zio che stava con la testa appoggiata alla parete, l'ala del cappello in su, gli occhi rivolti verso un cielo nel quale certamente non credeva. «Nikolaj», disse Rod a bassa voce, con prudenza, «stai bene?». «Io sto bene, ragazzo mio», rispose Nikolaj, senza guardare né lui né Troy, «è per te e per i tuoi che ho paura, non per me. Stalin è morto, lunga vita a Stalin». Rod rispose anche per Troy. Disse solo «Eh?», e Troy pensò che non si sarebbe potuta trovare risposta più conseguente. «Il mio paese», disse Nikolaj, «il nostro paese, anche se so che voi, ragazzi, non l'avete mai visto, è diventato il paese del cambiamento programmato. E a ogni cambiamento si riscrive la storia di quello che è successo prima. Ogni cambiamento porta con sé una nuova serie di vittime, un nuovo gregge di capri espiatori. Credete che questa volta ci sia qualcosa di diverso dalle altre? Forse non ci saranno i processi spettacolo, che sembra vadano contro i gusti di quell'uomo, ma per il resto non credete che molte teste cadranno nel paniere? Che non ci saranno le purghe, che una volta ancora non ci sarà chi verrà sfruttato finché serve e poi eliminato e sarà ancora la gente comune a soffrire? Scaricando le colpe di una generazione solo su un uomo, Kruscev ha accettato il culto della personalità anche se sembra che l'abbia rifiutato. Ma quell'uomo è morto e il peso ricadrà su chi lo ha servito. La gente comune». «Gli apparatchicki», disse Troy. «Gente comune». «Apparatchicki».
«Gente come voi e come me. Uomini trascinati da un'ondata di eventi storici che non possono dominare né impedire». «Non mi chiedere di preoccuparmi per la sorte degli apparat-chiki», disse Troy, senza badare alla lieve pressione del piede di Rod sul suo. «Niente sulla terra potrebbe farmi preoccupare per loro». Se non altro, Troy, aveva catturato l'attenzione di Nikolaj, che non guardava più il cielo, ma lui, con una profonda tristezza negli occhi. «Forse», disse lentamente, «forse non sono come voi e come me. Forse mi sbaglio. Che cosa ci differenzia da loro se non una questione di scelta? E se c'è una cosa che il genio di vostro padre ci ha dato, danaro a parte, è la possibilità di scegliere. L'ha data a me come a voi. Ma quella è gente cui non è concesso scegliere. Se fossi il capo del KGB non farei conto di arrivare alla pensione, ma se, ai tempi di Stalin, io fossi stato uno dei suoi apparatchiki, come tu, Troy, insisti a chiamarli, ora avrei paura per la mia vita. Credimi, cadranno molte teste. Questa denuncia prelude solo a un'altra purga. Avremo di nuovo mucchi di morti che nessuno riuscirà a contare. Questa non è libertà. Questa è una falsa alba prima di una nuova notte da incubo. Siamo molto lontani dalla libertà». Rod taceva, stupito, ma aveva smesso di calpestare il piede di Troy, nella inutile speranza di farlo stare zitto. «È come se mi chiedessi», disse Troy, senza badare a scegliere le parole, «di preoccuparmi della sorte delle guardie di Auschwitz». Nikolaj si alzò in piedi e scrollò le spalle in silenzio, perché alle parole di Troy era impossibile rispondere. Lentamente, camminando a fatica, si avviò alla porta. Poi si fermò. Da tutto il suo atteggiamento, dalla posizione della testa e del corpo, si capiva che stava cercando di ricordare. Infine si voltò e parlò, guardando tutti e due con un'aria triste, come se stesse per piangere. La voce si sentiva appena. «"Mi sono messo a considerare tutte le oppressioni che si commettono sotto il sole; ed ecco, le lacrime degli oppressi, i quali non hanno chi li consoli e, dal lato dei loro oppressori, la violenza, mentre quelli non hanno chi li consoli"». La voce del vecchio salì di tono, la sua delicata mestizia si perse in uno scoppio di collera, il versetto successivo venne pronunciato con un'enfasi martellante. «"Ond'io ho stimato i morti, che son già morti, più felici dei vivi che son vivi tuttora; e più felice degli uni e degli altri, colui che non è ancora venuto all'esistenza, e non ha ancora visto il male che avviene sotto il sole"».
Nikolaj uscì, appoggiandosi al bastone, senza voltarsi indietro. «Dio mio, che cos'era?», disse Rod. «Re Lear che erra nella brughiera?». «Era il vecchio testamento», rispose Troy, «ma non chiedermi da che libro era tratta la citazione perché non lo so. Neanche i vecchi atei sfuggono alla religione in cui sono stati allevati». «Lo abbiamo sconvolto». «Sì... ma, una volta tanto, non me ne importa. Non può pretendere che ci mettiamo a piangere per la sorte degli apparatchiki. Non m'importa niente di loro, così come non m'importa delle spie, da Torquay a Timbuctu e ritorno. E non c'è ragionamento che mi costringa a cambiare parere. Nikolaj si sbaglia e non c'è altro da dire». 23 Troy fece colazione alla mensa, con l'ispettore Jack Wildeve, che mangiò il suo piatto di carne con doppio contorno di verdure tra molti sbadigli e, almeno apparentemente, ascoltando ben poco di quello che gli veniva detto. Troy faceva del suo meglio per separare gli argomenti più importanti da quelli che non lo erano, ma Jack intanto, con la faccia triste, seguitava a lamentarsi della mole di lavoro che gli impediva di andare a letto prima delle quattro del mattino. Troy aveva diritto a una vacanza di quindici giorni, la prima da Natale, e non intendeva rinunciarvi per le proteste di Wildeve. Ma, per fortuna, Wildeve si era trovato bene con Clark, che aveva alleggerito molto quella mole di lavoro della quale si lamentava con tanta amarezza. Infatti, dopo il budino di riso della mensa accompagnato da una tazza di tè torbido, Jack si mostrò disposto ad ammettere che i doveri d'ufficio lo avevano trattenuto a Scotland Yard solo fino a mezzanotte, dopo gli era venuta voglia di divertirsi ed era andato a sperperare sonno e stipendio in un night del West End. Era di quelli che crescono adagio. Aveva trentasei anni, non era sposato ed era deciso a non perdere niente della vita. Troy, che l'aveva conosciuto quindici anni prima, quando era già avanti nella realizzazione di questo suo programma, non era del tutto solidale con lui. Non frequentava i club di Soho e solo di rado metteva piede in un pub. Quella sera, tornando a casa, dopo aver liberato la scrivania di tutto il lavoro in sospeso, per garantirsi quindici giorni senza niente di più impegnativo che un'occhiata a un maiale o a una melanzana, pensò che sarebbe stato piacevole entrare in un pub a bere una birra, una sola in ogni caso. Me-
no piacevole gli parve l'eventualità di deviare anche di solo venti metri dalla strada di casa. Così, alle otto e mezzo, si trovò ad aprire la porta del Salisbury. I clienti abituali erano attori senza scrittura. Voci impostate e ampi gesti innaturali. Se si capitava in una sera sfortunata, bisognava farsi largo tra decine di gigioni che recitavano i loro monologhi, lasciandovi cadere ogni tanto un nome famoso, mentre Johnny Fermanagh sembrava il custode che, alla porta degli artisti, aspettasse l'ora di apertura. Adesso stava al bar, con la camicia bianca spiegazzata, ed era una strana immagine di silenzio e staticità. Johnny Fermanagh era un decano del locale. Troy stava quasi per girare sui tacchi e andarsene, ma lo vide così composto, assorto in un pensiero, che s'incuriosì. Gli andò vicino. Johnny teneva le mani sul banco del bar, come per sostenersi, la testa bassa, e guardava un grosso boccale di birra vuoto e un piccolo bicchiere di whisky pieno. Quindi era serata da birra e whisky. Un esempio da manuale su come ubriacarsi nel più breve tempo possibile. Johnny non si mosse. Come se neanche l'avesse visto. «Che succede?», chiese Troy al barman. «Non me lo chieda. È così da più di un'ora». «Che cos'ha?». Prima che il barman potesse rispondere, Johnny emise un breve grido strozzato e la sua mano destra strisciò, furtiva, verso il bicchiere di whisky, poi, con la voracità di un serpente affamato, lo inghiottì in un colpo solo. Con un gemito da animale, sbatté il bicchiere sul banco. «Aaaaaghhhhhhh! No, no, no! Riproviamo. Come prima, Spike. Tutti e due». Il barman riempì di nuovo il boccale e il bicchiere fino all'orlo. Finalmente Johnny parve accorgersi che vicino a lui c'era Troy. «Freddie, caro! Stai qui. Un minuto e sono da te». Si tirò un po' più su le maniche della camicia, tenute ferme sopra il gomito da una sottile fascia d'argento, si tirò un po' più giù il nodo della cravatta, fino al terzo bottone, e riprese la posa di prima. La faccia gli si contrasse leggermente, mentre cercava di darle un'espressione composta, prese la pinta di birra, la bevve d'un fiato, in un sorso di dieci secondi, e riprese a guardare il bicchiere di whisky. Spike si rivolse a Troy con aria confidenziale. «Sempre così, signor Troy: beve la pinta di birra, fissa il bicchiere di whisky, caccia un grido e se lo butta giù, poi sembra che si strozzi e alla fine mi dice di riempirglieli
di nuovo tutti e due, il boccale e il bicchiere. Siamo al quarto giro. In pochi minuti». «Secondo lei ha uno scopo?». «Non me lo chieda perché non lo so». Passò un po' di tempo. Dal fondo della sala arrivava la voce di uno dei gigioni con una pessima inflessione alla Robert Newton, accompagnata dal costante tintinnio dei bicchieri e dall'invocazione «Tesoro!» ripetuta a chiunque in ogni istante. Johnny si staccò dal banco, senza smettere di guardare il bicchiere di whisky. Lentamente si ammantò di una sorta di dignità da ubriaco e, con la mano, fece segno che venisse portato via il bicchiere. «È fatta, è fatta. Lungi da me, o whisky! Portatelo via! Portatelo via!». «Ho sentito bene?», chiese il barman. Johnny prese la giacca dall'attaccapanni. «Sì sì, mi sono liberato dal demone dell'alcol. Dallo a uno di questi poveri guitti. Bevilo tu. Io non lo voglio». Posò di nuovo gli occhi su Troy. «Il tè», disse, «il tè. Andiamo a casa tua a bere una tazza di tè». «Metto sul conto, Johnny?», chiese il barman. «No», rispose Johnny. «Il conto lo chiudo. Niente più a credito. Non dirò più mañana. Che cosa ti devo? Ti faccio subito un assegno». Si tolse di tasca un libretto della Mullins Kelleher, con degli assegni grandi come un fazzoletto, i caratteri elaborati, a rilievo, stile anteguerra. «Dodici sterline, tre scellini e diciannove pence, Johnny». Troy nascose una smorfia di sgomento. Chi, se non un pazzo, poteva far salire un debito a quel livello solo per bere? Ma Johnny compilò il suo assegno, lo staccò dalla matrice come se godesse nel sentire quel rumorino della carta strappata e lo consegnò a Spike con un gesto plateale. «Libero!», esclamò. «Libero, libero, libero». Si voltò e uscì per la strada, col suo passo malfermo, da ubriaco. Troy lo seguì, senza capire. Johnny, di solito, non offriva da bere a nessuno, ma cercava che fossero gli altri a offrire da bere a lui. Era la prima volta che lo vedeva allontanarsi da un bicchiere pieno. «Non è facile», disse Johnny. «Questa è la verità. Il bicchiere era pieno. Io no». Attraversarono St Martin's Lane, entrarono in Goodwin's Court e andarono a casa di Troy. «Forse non pieno fino all'orlo, ma ubriaco sì», disse Troy. «Ubriaco, ubriaco... Non è la stessa cosa». «Prendo un premio se indovino qual è la differenza?».
Lasciò Johnny semisdraiato su una poltrona e andò in cucina ad accendere il bollitore. Una tazza di tè e poi lo avrebbe buttato fuori. «Che ti succede, Johnny?», gli chiese mentre gli versava il tè. Johnny abbandonò le sue fantasticherie, sorrise, guardò prima la tazza poi Troy, gli occhi scuri nascosti dai capelli neri che gli ricadevano sulla fronte. Se li scostò con il gesto che Troy aveva visto compiere a sua sorella tante volte. «Anche un cretino, quando non è ubriaco, può fare a meno di bere». Qualcosa di vero c'è, pensò Troy. «Quello che conta è riuscire a farne a meno quando hai il bicchiere davanti. Se io lascio un bicchiere pieno sul banco del bar e me ne vado, vuol dire che ce l'ho fatta. Capisci?». «Io capisco che, con questo sistema, sei ubriaco questo venerdì come tutti gli altri venerdì». «Invece è l'unico modo, l'unico! Tu ordini una birra e un whisky. Bevi la birra. Solo quando puoi lasciare il bicchiere di whisky pieno e andartene via con la birra in corpo puoi dire che hai forza di volontà e che senza la forza di volontà non ottieni uno schifo di niente». «Ma hai dovuto bere quattro pinte di birra per arrivarci». «Quattro pinte di birra e tre bicchieri di whisky». «E infatti sei ubriaco». «Ma vaffanculo, Freddie. Ubriaco? Certo che sono ubriaco. Però poi non lo sarò più. Basta. È un capitolo chiuso». «Bevi il tuo tè, che si raffredda». Johnny assaggiò un sorso di Best Orange Pekoe e fece una smorfia. «Vuoi dire che devo abituarmici, vero?». «L'hai deciso tu. Quello che mi chiedo è: perché?». «Mah...». «Lo sai che, un po' di tempo fa, sono andato a pescare la tua scheda al CRO? Solo per vedere quante volte ti avevano fermato per ubriachezza molesta». «Avanti. Sbalordiscimi». «Cinquantasette». «Dovrei farmi dare l'esclusiva e citare in giudizio gli imitatori, come per i fagioli in scatola». Johnny giudicò la sua battuta insuperabile e si lasciò prendere da una interminabile risata da ubriaco. «Ti ricordi la tua prima volta?» gli chiese Troy. «Come dimenticarla? Era il novembre del 1934. Primo semestre a O-
xford. Corte di Wadham. Ero arrivato tardi. Rissa con il portiere. Il giudice mi dà una multa di cinque scellini perché ho disturbato la quiete pubblica e, in più, al college mi spillano una ghinea e mi fanno notare che ho lordato le tradizioni di famiglia fino al mio trisavolo e bla bla bla». «E tu», proseguì Troy, «hai instaurato una più che ventennale tradizione di bevute sfrenate». «Che adesso è finita». Johnny si tirò fuori dalla poltrona con qualche sforzo e andò ad appoggiarsi alla mensola del camino, un po' affannato e sforzandosi di non sembrare ubriaco. Guardando la parete a pochi centimetri dai suoi occhi, disse: «Se avessi un padre come il mio, ti ubriacheresti anche tu, Fred». «Quando ti deciderai a seppellirlo? È morto da undici anni». Johnny trasse un profondo sospiro, poi guardò Troy. «L'amore di una donna sincera». L'inconveniente degli stereotipi è che hanno tutti il loro punto di partenza nella verità. È solo perché vengono ripetuti continuamente che non ci si crede più. Ma ogni tanto, malgrado tutto, detti o scritti con semplicità, con un po' di fortuna e un vento propizio, scaturisce da essi la verità originaria rimasta a lungo nascosta. Troy capì che non doveva ridere, nemmeno sorridere. Johnny, visibilmente, credeva al suo stereotipo. Ma quale donna sana di mente, sincera o bugiarda che fosse, si sarebbe accollata il peso di uno come Johnny? Una erinni in cerca di un titolo o di un patrimonio disposta a sopportare un marito perennemente delirante, pur di essere chiamata marchesa? Una bruttina un po' scema e votata al martirio, che si limitava a pensare "peccato che si ubriachi"? «Posso chiederti chi è?». «Non te lo posso dire. Vorrei, ma è impossibile». «Ti capisco». «Davvero, Freddie? Davvero mi capisci?». «Immagino che sia sposata». «Oh, allora hai capito davvero! Come hai fatto?». «Intuito». «Dammi un po' di tempo per sistemare le cose. Ho bisogno di un po' di tempo. Anzi, per la verità, è lei che ha bisogno di un po' di tempo, non io. Per sistemare tutto. Allora ti dirò chi è. Ci terrei tanto a dirtelo adesso, ma non posso. Tra lei e il marito è finito tutto, non si amano più da anni. Però deve dirglielo, capisci. E finché non lo fa non posso parlarne con nessuno».
Un amico poteva rispondere una cosa sola. E Troy era un amico. Così era arrivato a considerarsi, attraverso un processo di logoramento. La frequentazione e la familiarità avevano consumato ogni aspetto ostile. L'amico non doveva essere qualcuno su cui poter contare? Pensò a una dozzina di possibilità diverse, ma un concetto solo gli parve essenziale e trovò subito due frasi per esprimerlo. Le usò tutte e due. «Ben fatto, Johnny. Congratulazioni». Johnny sorrise e arrossì. Sembrava veramente soddisfatto, molto diverso dalla sua condizione abituale. «Sono felice, Freddie. Lei mi rende felice. Non mi sono sentito così da quando ero un ragazzo». Troy lo invidiò. Lui non era mai ben sicuro di essere felice e certo mai grazie all'intervento di un altro essere umano. «E... volevo chiederti...». Johnny lasciò le parole in sospeso. «Volevo chiederti... di Diana». Troy cominciò con la mente a spingerlo fuori di casa. Appena possibile l'avrebbe fatto uscire davvero, fisicamente, fuori in cortile, fuori in strada. Fuori. «Di te... e Diana». «Johnny, tu e io ci conosciamo da dieci anni». «Così tanti? Davvero?». «Tu sei venuto da me al Muleskinners' Arms nell'autunno del 1946. "La conosco", mi hai detto. "Lei è quello che ha ucciso mia sorella"». «Ho detto così? Dovevo essere fuori di testa. Mi dispiace moltissimo». «Non preoccuparti. Ma fin da allora tu hai creduto, lo si capiva da quello che mi dicevi, che io e Diana ci amassimo. Io non ho mai detto niente di simile. Eppure tu l'hai creduto, è un pensiero che non ti si è mai allontanato dalla mente, come tu, fino a stasera, non ti sei mai allontanato dai bar di Soho. Perché proprio adesso, Johnny? Perché hai scelto di parlarne proprio adesso?». «Devo sapere, Fred. Davvero, devo sapere». Troy tacque. «Devo sapere che... qualcun altro prova quello che provo io. Non voglio pensare che questa sia un'ossessione solo mia. Ho vissuto in disparte, non sono mai entrato nel turbine degli avvenimenti. Un lord ubriaco è una barzelletta da music hall. Non c'è mai stata un po' di normalità intorno a me. Non so che cosa sia la realtà. Non so che cosa dovrei credere, sentire. So soltanto quello che faccio. Dopo anni di un'esistenza corrotta, desiderando
una normalità della quale non conosco un cazzo, mi trovo a pregare Dio che mi faccia crescere, che mi raddrizzi la testa e mi mandi nella direzione giusta. E non so se sono l'unico uomo sulla terra in queste condizioni». Ecco, pensò Troy, perché leggiamo i romanzi e le poesie. Per sapere che quello che pensiamo e sentiamo non è solo un prodotto della nostra mente e del nostro cuore. «Prova a chiedere a qualcuno che è sposato, Johnny. Abbiamo tanti amici sposati». «Dimmene uno». Troy non riuscì a trovare un nome. «Vedi, non c'è nessuno, perché quelli che conosciamo sono quasi tutti come te e come me. Quelli che si sono sposati sono andati via, in coppia, da un'eternità. Chi li vede più? Chi di noi ha un amico sposato? Devo saperlo. Devo sapere se anche tu provi quello che provo io. Altrimenti io mi chiudo nel mio mondo come una stella marina in un fermacarte di vetro. Questo è il risultato di ventidue anni passati a bere. Aiutami, Freddie». Troy non rispose. 24 Ora che suo fratello l'aveva tirata fuori a forza dai recessi della mente dove Troy la teneva nascosta, Diana Brack invase di nuovo i suoi sogni. Troy si svegliò con i prodromi di un umore violento e rabbioso e i giornali della domenica sullo zerbino. Era stata una promessa avventata. L'aveva fatta solo a se stesso, ma non poteva mantenerla. Molto prima di mezzogiorno aveva cominciato a sperare di riuscire a fermare il ragazzo dei giornali e comprare un "News of the World", ma il "Sunday Post" era già sul tavolo di vimini della veranda, una massa di carta illeggibile. Troy diede un'occhiata al primo paragrafo del messaggio del compagno K al genere umano e sbadigliò tra un sorso e l'altro del caffè del mattino. Colpa e riscatto, quando lui aveva bisogno di qualche immagine stuzzicante. Forse avrebbe preso la bicicletta e sarebbe andato in paese a comprarsi il "News". D'altra parte si era appena messo a sedere e a sbadigliare. E stava ancora sbadigliando davanti alla seconda tazza di caffè quando dal nulla apparve sua sorella Masha. Come mai non aveva sentito l'automobile sul viale? Rod aveva ridotto a poco il suo weekend. Era arrivato il sabato mattina, era andato alla sede del partito e poi era tornato subito a Londra perché aveva una riunione. Troy non aveva
voglia di vedere nessuno, tranne il Grasso. Era il rumore della sua motocicletta che aspettava di sentire. Come mai non si era accorto dell'automobile e che cosa voleva oggi da lui quell'accidenti di sua sorella? «Sei un delinquente!». Troy chiuse gli occhi. Non gli interessava molto sapere che cosa aveva fatto di male. Lei si tolse il cappello e glielo tirò addosso. «Che cos'hai detto a Nikolaj?». «Io?». «Tu e quell'altro incosciente come te. Gli ho parlato al telefono venerdì e anche ieri. Era molto agitato. Che cosa gli avete detto tu e Rod?». Troy si avvolse meglio nella vestaglia. Non era così che aveva pensato di passare quella domenica mattina di vacanza, la prima dopo sei settimane. Prese il "Sunday Post" e lo tirò a sua sorella. Lei lo afferrò a mezz'aria, trattenendo per un attimo il respiro, ma non lo guardò. «Leggi, leggi», disse Troy. «Devo starmene un po' in pace. Leggi e quando avrai letto vai da Nikolaj e parlagli del destino della "gente comune". Parlagli di bisogni e di scelte, di apparatchiki e di re, chiedigli perché l'acqua del mare bolle quando è calda e se i porci hanno le ali. Vedi se puoi irritarlo più di quanto non abbia già fatto io». La lasciò col giornale in mano e tornò in cucina a scaldarsi un altro caffè. Sul tavolo c'era un biglietto del Grasso. Matita a punta grossa e carta rigata. "La scrofa è gravida. Saluti dal vecchio amico...". Seguiva un ghirigoro che doveva essere la firma. Non si leggeva bene, si capiva solo che era molto lunga. Peccato. Non aveva fatto in tempo a vederlo. Probabilmente era entrato e uscito mentre lui era ancora a letto. "La scrofa è gravida". Cercò di fare i conti. La gestazione di un maiale dura centodiciassette giorni. Dunque si arrivava a settembre, ma che giorno di settembre? Beh, verso la fine. Sarebbe stato un peccato trovarsi ad Aberdeen o in qualsiasi altro posto proprio in quel momento. Mentre tornava nella veranda, sentì suonare il telefono nello studio di suo padre, poi la voce di Masha che rispondeva, tubando, sdolcinata. Solo con suo marito avrebbe potuto parlare così. Ma poi Troy capì. Parlava con un marito, sì, ma non col suo. «Ma certo, caro, certo. Sì, credo proprio che Masha voglia fare una passeggiata nei boschi oggi pomeriggio. Potremmo portare dei panini e... come? No, lui non viene. Sta a casa con il suo schifoso maiale. Ti chiamo dopo le cinque, va bene? A presto, Hughdey, amore».
Troy aspettò che avesse finito e poi attraversò la stanza per andare nella veranda. Non gl'importava che capisse che aveva sentito, non lo interessavano le sue bugie. Masha ricomparve vicino a lui mentre tornava a sedersi e si fece ridare il cappello. «Non fare domande». «Non stavo facendo domande». «E non giudicare». Troy non aveva nessuna intenzione di giudicare. Sentì sbattere qualche porta qua e là per la casa, poi il motore dell'automobile, lo scricchiolio della ghiaia sul viale e capì che Masha se n'era andata. Stava pensando che lo aveva lasciato col rischio che Hugh chiamasse di nuovo e chiedesse di Sasha, quando il telefono suonò davvero. Se fosse stato veramente Hugh, il tradito, non avrebbe saputo che cosa dirgli. Era Rod. «Allora, l'hai visto?». «Impossibile il contrario. Pesa come una pancetta di maiale tutta intera. Non è razionata la carta?». «No, non parlo dell'articolo su Kruscev. In malora anche Kruscev. Guarda a pagina sette, in basso a sinistra. Ci siamo! Ora voglio il nome!». Troy riattaccò e corse a leggere la pagina sette. Per quello che ne sapeva, qualsiasi notizia poteva andare bene, purché non riguardasse Kruscev, non aveva idea di che cosa avesse inteso parlare Rod. Finalmente capì. Era una colonnina schiacciata tra Kruscev e una pubblicità di Horlicks. "Fonti vicine a Downing Street hanno rivelato che il governo di sua maestà farà, nei primi giorni della settimana prossima, una comunicazione alla Camera dei Comuni a proposito del sommozzatore spia, a seguito delle numerose richieste avanzate nelle ultime settimane da Sir Rod Troy (Laburista - sud Hertfordshire), segretario del ministero ombra degli esteri. Si ha motivo di ritenere che il primo ministro ammetterà l'errore e presenterà piene scuse, senza riserve, al segretario generale del partito comunista sovietico e al capitano della Ordzhonikidze. È sottinteso che, sebbene la presenza del sommozzatore fosse dovuta alla sperimentazione di nuove apparecchiature subacquee, tuttavia avrebbe dovuto essere evitata, per non dare luogo a interpretazioni errate". Bene, pensò Troy e si dedicò a leggere, in ultima pagina, il fumetto dello zio Todger sul giardinaggio. "Ehi", diceva la nuvoletta che usciva dalle labbra della caricatura di un tipo di settentrionale sul suo pezzo di terra dietro il mulino, in maniche di
camicia e gilè, sciarpona, berretto, pantaloni da lavoro stretti alle ginocchia con uno spago. "Lo sapevate che questo è il momento giusto per fare una seconda semina di lattuga a foglia allungata, in modo da averne per tutto l'autunno? Io credo di no". Si andava già meglio. In assenza di immagini stuzzicanti, lo zio Todger era certamente preferibile a Kruscev e al sommozzatore spia. Rod tenesse per sé le sue storie, la realtà era quella dei rizomi e dei tuberi, della peronospora e delle piziacee, del dissodare, del raccogliere e del mettere l'antiparassitario sulle piante di rose. Troy non sapeva esattamente che cosa fosse un rizoma, ma prese il fumetto dello zio Todger alla lettera: fece il bagno, si vestì in fretta e andò subito nell'orto dove, con zappa e rastrello, si dedicò a seminare altra lattuga. Era ormai pomeriggio avanzato quando suonò di nuovo il telefono. Rispose sperando che non fosse Hugh, con le sue corna, e sentì la voce di Jack. «Sono in ufficio». «Di domenica?». «Solo per fare un po' d'ordine. È arrivata una lettera via aerea per te. Dev'essere stata un po' in giro, perché ha la data di martedì scorso. È indirizzata al "sergente Troy", ma la v è sbavata. Era nel tuo vassoio, forse da ieri pomeriggio. Vuoi che la apra?». «Sì». «"Hotel de l'Europe, Amsterdam. Fino al giovedì della prossima settimana. Lois Teale". Non conosci nessuno, vero, che si chiama Lois Teale?». «No», mentì Troy, «non conosco nessuno che si chiami così». 25 Amsterdam è una città di cerchie concentriche, di canali concentrici, Prinsengracht, Keizersgracht, Herengracht e al centro, quasi al centro, il Singel. Troy era stato ad Amsterdam solo da bambino, nel 1920 in uno di quei grand tours musicali che faceva sua madre. Una seratina musicale a Vienna, poi a Hannover ad ascoltare Gieseking, nei giorni precedenti la sua dubbia, infelice adesione al nazismo, che aveva suonato tutti i Préludes di Debussy con le Estampes come bis e, infine, il Concertgebouw di Amsterdam, il trionfo della seconda sinfonia di Mahler. Troy non si ricordava di
Mahler, che era andato a unirsi con altri concerti sentiti attraverso gli anni, ma ancora adesso gli bastava chiudere gli occhi per risentire la musica della terza Estampe, "Jardins sous la pluie" e rivedere Gieseking, con la sua grossa corporatura e la testa calva, chino sulla tastiera, produrre con le sue mani da gigante la musica più delicata che avesse mai sentito nella sua giovane vita. E quando pensava a Gieseking non vedeva Hannover, ma Amsterdam. La guerra e l'occupazione sembrava non avessero scalfito l'aspetto della città. Un centro mercantile del diciassettesimo secolo, lasciato intatto dall'attacco che aveva distrutto Anversa e Rotterdam, Coventry e Plymouth. Era molto diversa dall'ambiziosa Parigi di Hausmann, una città ristrutturata a misura militare, ad Amsterdam era impossibile immaginare gli olandesi marciare in colonna. E nemmeno era confusa come Londra che un seguito di concessioni edilizie aveva ridotto a una città dove il piano regolatore riguardava solo alcune strade, senza inserirle nel disordine di un'area urbana soggetta a una crescita naturale. Case strette e alte, che non parevano mai simili tra loro, schiacciate l'una addosso all'altra per far posto alle rive dei canali, vecchie architetture, altezze diseguali, frontoni aguzzi come guglie, alcuni inclinati pericolosamente ad angolo... a Troy pareva che tutta la città lo sovrastasse, lo circondasse, lo avvolgesse e se lo premesse contro il cuore. Si trovava così, alle cinque del pomeriggio del giorno successivo all'arrivo della lettera misteriosa, in una stretta curva del Singel, nel cerchio più interno, quasi al centro di un bersaglio. Pensò che un minimo di segretezza sconsigliasse l'uso del telefono. Pensò anche che Lois Teale probabilmente lo stava aspettando. Alzò gli occhi a guardare l'Hotel de l'Europe, sette piani di mattoni rossi, con una fascia bianca in alto e l'insegna, in scala hollywoodiana, issata sui frontoni e si chiese che cosa avrebbe trovato. La luce di giugno danzava sull'acqua del Singel. Era stata una di quelle sfavillanti, caldissime giornate d'estate, in cui i canali sembravano di vetro e illuminavano la città dal basso creando un insieme di ombre e raggi luminosi, una città a grandi chiazze colorate, che rivelava tanto quanto nascondeva. Avrebbe potuto andarsene. Voltare le spalle all'albergo e prendere uno di quei vecchi tram cigolanti per tornare alla stazione centrale, di dove era venuto. Avrebbe potuto fingere di non aver mai ricevuto quella lettera. Avrebbe potuto imparare la lezione della giovinezza, ammettere che era cresciuto e non lasciarsi più coinvolgere. Un fioraio stava togliendo la sua mercanzia da un carretto di legno. Una
distesa vistosa di rossi, gialli e azzurri contro il verde violento della vernice un po' scrostata del vecchio carretto. Ne aveva visti di simili a ogni angolo. Il fioraio guardava Troy, in attesa. «Perché non le porta dei fiori?», chiese, in inglese. Due supposizioni in una sola frase, che intimidirono Troy. Lasciava trasparire tanto di sé? Portava scritto in faccia che stava per andare a trovare una donna? E, più ancora, lo portava scritto in faccia in inglese? Non sapeva che fiori comprare. I tulipani gli sembravano troppo banali. «Sì», disse. «Rose. Dodici rose bianche». Era difficile immaginare una scelta più inglese: una dozzina di rose York. Visto che era, e sembrava, così palesemente inglese. Attraversò il ponte di ferro per andare sull'altra riva, ancora più vicino al cuore della città, entrò nell'atrio dell'albergo e chiese della signorina Teale. Voleva dire la signora Teale? C'era una signora Teale alla camera 601. Sì, voleva dire la signora Teale. Una signora americana? Bisognava telefonare. I visitatori dovevano essere annunciati prima di salire. La signora Teale era stata molto chiara a questo proposito. Troy bussò leggermente alla porta della camera 601. La porta si aprì un pochino, lasciando intravedere una sottile fascia di luce, un viso in ombra, contro la fessura, due occhi nocciola che lo guardavano. «Sei tu, baby?». «Sì». «Ecco... mi serve un minuto. E poi non c'è niente da bere. Non puoi andare qui dietro l'angolo e prendermi un quarto di Jack Daniels?». La porta si richiuse prima che Troy potesse dire una parola. Riattraversò il ponte di ferro, chiese indicazioni al fioraio e, due strade più in là, trovò un negozio dove avevano delle bottiglie d'importazione di Wild Turkey, molto costose. Non era il Jack Daniels, ma poteva andare. Lasciò passare, complessivamente, un quarto d'ora e tornò a bussare alla porta. Dall'interno arrivò, lontana, la sua voce. «È aperto. Puoi entrare». Stava in piedi tra i due letti, di fronte a lui, con le spalle alla finestra, le tende semichiuse per ridurre la luce del giorno a un solo raggio diretto verso di lui che era fermo sulla soglia come sotto un riflettore naturale. Quando riuscì a vedere meglio nella stanza, Troy si accorse che non solo quella fascia luminosa era puntata verso di lui, ma anche una Beretta 25 o pressappoco, la classica rivoltella per signora, a misura di borsetta. Lei aveva un completo Chanel, due pezzi azzurro cupo, e tacchetti molto
molto alti, sulle labbra un tremolio nervoso che non riusciva a diventare un sorriso, i capelli biondi tagliati a caschetto, gli occhi impenetrabili, di un castano senza sfumature, posati su di lui. «Non ci siamo più visti», disse, abbassando la pistola. «Sì, è passato tanto tempo». «Adesso puoi chiudere la porta». Troy la chiuse con un piede. Lei mise la sicura alla pistola e la buttò sul letto alle proprie spalle. «Dovevo essere certa che fossi tu. Lo capisci, vero?». Era Troy a non essere certo di quello che vedeva. Si sentiva impacciato, il bourbon da una parte, i fiori dall'altra, mentre né l'uno né gli altri sembrava avessero più importanza. Posò tutto su una sedia e avanzò lentamente nella stanza verso la tenda di broccato alle spalle della donna. Lei si voltò e lui la trattenne, mentre apriva la tenda. Il raggio di luce diventò un torrente che si rovesciò nella stanza. Troy l'attirò a sé, le chiuse il viso nel cavo della mano, le passò il pollice su una guancia. Ora capiva perché lo aveva fatto aspettare, perché la camera era in penombra. La guancia era ricoperta da uno spesso strato di trucco. Lei si dimenò, gridò, ma prima che riuscisse a liberarsi Troy fece in tempo a vedere i lividi, macchie viola bordate di giallo. Afferrò la mano che stava per dargli uno schiaffo. Le erano state strappate due unghie e la carne sottostante era rosa e gonfia. «Che cosa diavolo sta succedendo?». Lei attraversò barcollando la stanza e prese la prima cosa che le capitò sottomano. Troy si vide arrivare addosso una dozzina di rose bianche e una bottiglia di bourbon. Prese i fiori con la destra e la bottiglia con la sinistra senza farla cadere. Lei allora si lanciò verso di lui, agitando convulsamente le braccia e lo colpì due volte dietro un orecchio. Un pugno al diaframma quasi gli tolse il respiro. Aveva sempre le rose e la bottiglia, come quando era entrato, solo che avevano cambiato mano. Riuscì ad attirarla a sé, a smorzare la sua collera con un mezzo abbraccio maldestro, come se stringesse qualcuno con indosso tanti cappotti e dei guanti troppo grandi. Lei gli diede un calcio negli stinchi, ma Troy riuscì a tenerla ferma finché non cercò più di muoversi. Gli parve che passasse molto tempo. Non avrebbe saputo dire quanto. Dalla strada arrivavano i rumori del traffico e, ogni tanto, il fischio di un barcone sul canale, ma quando c'era silenzio Troy sentiva che le batteva il cuore. «Troy, Troy, Troy, Troy, Troy», disse, contro il suo petto.
«Toscà!». Troy abbassò lo sguardo sulla sua testa che premeva contro di lui. «O devo chiamarti signora Teale?». Lei si sciolse dal suo abbraccio e alzò la testa. Nell'angolo di uno dei suoi occhi nocciola c'era una lacrima. La voce era brusca e gutturale e sapeva di New York come il salmone affumicato con la panna fresca. «Toscà, sciocco. Che importanza ha un nome?». 26 Pioveva quella notte. Era il 1944. Le ultime bombe del "piccolo blitz". Il suo secondo incontro con il sergente maggiore Larissa Toscà del corpo ausiliario femminile. Il primo incontro non era stato importante, ma quella sera lui era molto infelice, tutto bagnato, quasi sul punto di arrendersi, quando l'aveva vista di nuovo andare dalla base militare americana di St James's Square a casa, in Orange Street. Non che sapesse dov'era Orange Street, né che avesse cercato di seguirla, non aveva tempo da perdere e avrebbe evitato volentieri che prima se la prendesse con lui e poi lo provocasse. Una sfida sessuale. Lei, glielo aveva detto, pensava che l'avesse seguita per vedere se ci stava. Ora Troy non avrebbe saputo dire se era vero o no. Meno di mezz'ora dopo, era finito nel suo letto, molto volentieri, anche se con qualche goffaggine, e si era buttato così in una pericolosa avventura che per poco non gli era costata la vita e, se a Scotland Yard si fossero accorti del suo legame con una testimone, anche il lavoro. Era stato sedotto, nel vero senso della parola, da quella Venere tascabile, fornitrice di pizza, trangugiatrice di bourbon, italo-americana, col trattino in mezzo, nata a Manhattan, come si conviene alla pupa del gangster, ma allevata in Spring Street, spiritosa e sboccata, vagabonda e impudente, ma, soprattutto, bugiarda dalla testa ai piedi. Nel pieno dell'estate, più o meno in quegli stessi giorni, dodici anni prima, l'8 o il 9 giugno, gli pareva di ricordare, era scomparsa, aveva lasciato in Orange Street una lettera bagnata del suo sangue e lui ne aveva denunciato la morte. Con lui c'era Jack, lo aspettava di sotto, ma quando era il momento di prendere una decisione, Jack era l'amico più affidabile che avesse, il migliore dei colleghi e sapeva evitare di fare domande. Poi, nell'inverno del 1948, il sergente maggiore Larissa Toscà, del corpo ausiliario femminile, italo-americana, era ricomparsa, in una Berlino stretta nel pugno di ferro di Stalin e proprio quando lui aveva bisogno di un ange-
lo custode, misteriosamente trasformata nel maggiore russo-americano Larissa Dimitrovna Toskevich del... KGB? NKVD? P&O?... o comunque si chiamasse la Ceka a quell'epoca. Lui non riusciva a tener dietro ai cambiamenti, convinto che una caratteristica della polizia segreta di tutto il mondo fosse la mobilità delle lettere dell'alfabeto che, secondo lui, cambiavano a capriccio. La Toscà lo aveva aiutato a catturare Jimmy Wayne, o meglio John Baumgarner, il criminale più inafferrabile che avesse mai incontrato. Dal giorno di Natale del 1948 fino alla domenica in cui Jack gli aveva letto la lettera di Lois Teale,Troy non aveva più sentito parlare di lei, Toscà, Toskevitch, Teale che fosse... Ma, davvero, che importanza ha un nome? 27 Troy si svegliò tardi quella mattina, più verso le undici che verso le dieci. La forma che si delineava sotto le lenzuola, nel letto accanto, restò immobile. Larissa o Lois Toscà-Toskevitch-Teale era immersa in un sonno profondo. La notte prima gli aveva indicato il letto in cui doveva dormire e gli aveva detto che era stanchissima. «Ti senti offeso?». «Offeso? Perché?». «Per i letti separati. È un'offesa. Ma...». «No, va bene così. Capisco». «Capisci davvero, Troy? Capisci?». Aveva cercato di convincerla a passare la serata fuori, ma non ci era riuscito. Non aveva voluto uscire dalla stanza, non era mai uscita in tutta la settimana. «E come sei sopravvissuta?». «Mi sono fatta portare da mangiare qui. Mi lasciano il menu, io scelgo e lo metto fuori dalla porta. L'avevo già sperimentato una volta. Ho ricominciato col pollo arrosto freddo. Ho mangiato più aringhe in salamoia io che Moby Dick. Potrei uccidere qualcuno per una pizza con mozzarella e peperoni, un piatto di spaghetti con le vongole o anche solo una ciambella». Seduti in terra, con le spalle appoggiate ai letti gemelli, avevano mangiato un pollo arrosto, lui bevendo una Perrier e lei quattro bei sorsi di bourbon. C'erano molte domande che avrebbe voluto farle, ma temeva che non avrebbe risposto neanche a una e allora aveva lasciato che fosse lei a fargli molte domande e aveva cercato di rispondere a tutte. Finché il cerchio si
era chiuso. «Lo sai che per un po' di tempo sei stato famoso?». «Nell'Unione Sovietica?». «Sì. "L'uomo che ha ucciso Jimmy Wayne". Una bella qualifica». «Un bel titolo per un film di cowboy. Ma io non l'ho ucciso». «Non gli hai sparato?». «No, perché avrei dovuto sparargli?». «Gli sei andato incontro, a Heathrow, con una pistola. Lui ti ha puntato contro la sua e tu l'hai colpito». «No, non è andata così. Mezzogiorno di fuoco a Heathrow è troppo poco inglese, non ti pare?». «Mi fa piacere sentirtelo dire. Non mi è mai piaciuto quel titolo». «Avevo una pistola, questo sì. Una precauzione necessaria. Ma avevo anche sei uomini armati che hanno circondato il suo aeroplano. E non ho dovuto sparargli, per la semplice ragione che lui non era armato». «E com'è morto? So che non c'è stata una esecuzione regolare». «Si è suicidato». «Allora le chiacchiere che si facevano al KGB erano giuste. Come ha fatto, si è impiccato con le bretelle?». «Una capsula di cianuro nei denti. Credo che l'avesse ancora dai tempi di Berlino. Appena la corte ha emesso la sentenza, l'hanno messo in un cellulare per portarlo al carcere di Brixton. Era ammanettato, ma ci sarebbe dovuto essere comunque qualcuno con lui nel furgone, invece quei cialtroni si erano messi tutti davanti, per fumare e chiacchierare. Quando hanno aperto la portiera, a Brixton, lui era già morto. Se il processo non fosse stato a porte chiuse, si sarebbe sollevato un polverone, ma... aspetta un momento, se è stato a porte chiuse, come si è saputo che era morto?». «La notizia è filtrata. Credevi che ti avessi aiutato a prenderlo in omaggio al passato? Era prevedibile che gli inglesi facessero il processo a porte chiuse. Processare un killer della CIA in pubblico sarebbe stata la fine dei rapporti tra i due paesi. Ma noi avevamo le nostre fonti e abbiamo lasciato filtrare la notizia. Tutti i giornali occidentali hanno saputo che Wayne era sotto processo e perché. In Francia ne hanno parlato per due o tre giorni finché non sono stati messi a tacere. Troppo tardi. Ormai avevamo seminato il dubbio. Più valido, probabilmente, che una notizia pubblicata apertamente da Fleet Street. Puoi considerarti fortunato che non ti abbiano insignito dell'ordine di Lenin». Troy si alzò dal letto e spalancò le tende. Un'altra mattina di giugno sen-
za nuvole. La bottiglia di bourbon era a terra, sul fianco, mezza vuota. Le rose erano sul tavolo da toilette, dove lei le aveva lasciate, tristi e appassite, con i petali che cadevano come grossi fiocchi di neve sul tappeto color lavanda. Troy pensò che non si sarebbe dato più la pena di comprarle dei fiori. E se beveva sempre a quel modo, non le avrebbe più neanche comprato il bourbon. Scostò con delicatezza il lenzuolo. Lei non si svegliò. Era molto magra, quasi deperita rispetto a una volta. Almeno sei chili sotto il suo peso. A Troy parve che dovesse aver mangiato poco e male per molto tempo e che avesse visto di rado la luce del sole. Aveva conservato chiara la memoria tattile del suo sedere, uno di quei sederi che sono particolarmente belli, ma ora sembrava appiattito, i muscoli dei polpacci rilassati, la schiena piena di lividi come quello che, in faccia, nascondeva sotto il trucco. Troy aveva visto quei segni centinaia di volte nel suo lavoro, erano i calci nelle reni a lasciarli. Si lavò, si fece la barba, si vestì, ma lei dormiva ancora. Solo dopo un po' aprì gli occhi. «Alzati». «Eeeh?». «Alzati, andiamo fuori». «Fuori?». «Non puoi stare chiusa in questa stanza per sempre». «Ci vuoi scommettere che posso?». Si trascinò, nuda, nel bagno e ne uscì completamente vestita, con un altro denso strato di trucco in faccia, un guanto sulla mano destra, dove le erano state strappate le unghie. Sulla sinistra non se l'era messo. «Che cosa vuoi fare?». «Andiamo a pranzo e parliamo un po'». Troy cercava un posto poco affollato, luminoso, con la vista su un canale. Un canale qualsiasi. Ma lungo la strada, a ogni angolo, lei si guardava dietro le spalle, scrutava il riflesso della strada nelle vetrine, in una straziante parodia di un fuggiasco. «Adesso basta», disse Troy. «Basta di che?». «Di questa messinscena da romanzo di cappa e spada. Se la persona che pensi che ti segua sa quello che fa, non te ne accorgerai e se è un incapace me ne accorgerò io prima ancora di te». Si erano fermati, per quella legge misteriosa che consente ogni tanto di trovare per caso proprio quello che si vorrebbe, davanti a un piccolo caffè
sul Prinsengracht. Troy decise di non cercare altro e quasi la trascinò dentro. Per tenerla tranquilla scelse un tavolino vicino alla vetrina. Lui vedeva una curva del canale, la Toscà l'altra. Lei, con un gesto, allontanò i menu e ordinò: «Tanto caffè. Forte». «Chi pensi che ti stia seguendo?», le chiese Troy. Non rispose, non lo guardò. Tracciava con la forchetta delle linee parallele sulla tovaglia, come i binari di un tram. Troy si chiese come avrebbe potuto rompere il silenzio. Lei lasciò la forchetta e nascose la mano destra sotto il tavolo. Col guanto o senza, pensò Troy, cercava per istinto di nasconderla, ma la mano ricomparve, per aprire la borsetta. «Ho una lettera per te». «Una lettera? per me?». «Veramente un biglietto, un appunto». «Da parte di chi?». Troy coltivò per un momento l'illusione che un cugino, mai conosciuto, del quale non aveva mai sentito parlare, avesse incontrato chi sa come la Toscà in quel territorio perduto dove si era svolta la storia della sua famiglia, che era la Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Larissa frugò nella borsetta e ne tolse un foglietto ripiegato molte volte. «È di Burgess». «Guy Burgess?». «Sì. Ho dovuto conoscerlo piuttosto bene, perché non riusciva a imparare il russo, si spazientiva e mi invitava a uscire con lui per parlare inglese». «E tu, con Guy Burgess, parlavi di me?». «Beh, non esattamente, ma il tuo nome, a un certo punto è saltato fuori, non so perché. L'argomento che Burgess preferiva era l'Inghilterra, perché aveva vissuto lì. Non gl'importava che io ci fossi stata solo fino a cinque anni prima che lui se ne andasse, gli bastava sapere che conoscevamo gli stessi bar, gli stessi ristoranti. Nominavamo tutti fino a che non riuscivamo a trovare un amico comune. Non avrei mai pensato che potessi essere tu. Mi ha detto che, se fossi tornata in Inghilterra, avrei dovuto darti questo». «Quando te l'ha detto?». «Prima del Natale scorso». Troy tese la mano per prendere il foglietto, ma lei l'aprì per leggerglielo. «Aspetta. Non riesco... dice qualche cosa come per piacere mandami una dozzina di vasetti... oh Gesù, non si capisce niente... una dozzina di vasetti di pappum papperum. Possibile? Dev'essere l'equivalente di una tavoletta
di cioccolato Hershey. È incredibile come se ne senta la mancanza, poi quando la trovi ti viene quasi da vomitare e non capisci che cosa aveva di buono». Troy le tolse di mano il foglietto. Lesse «Patum Pepperium», nella calligrafia di Burgess, con i caratteri alti e stretti, senza tratti arrotondati, dritti come soldatini di piombo nella scatola, l'opposto di quello che era Burgess. La Patum Pepperium era una pasta d'acciughe che si autoclassificava "la salsa del gentleman", esattamente quello che la Heinz affermava delle sue cinquantasette specialità. Burgess dava l'indirizzo del Moskva Hotel e mandava saluti e auguri. Troy accartocciò il biglietto e lo mise nel portacenere. «No», disse. «Che si fotta, lui e la sua Patum Pepperium». «Se Burgess riuscisse a fottersi da solo, sarebbe l'uomo più felice del mondo. Così com'è adesso, è senz'altro il più infelice». «Si sta male, eh?» «Se mai dovessi emigrare, vai a Parigi o a Montecarlo, non a Mosca. Dovunque, ma non a Mosca». «Infatti, non è nei miei piani. Mi fai venire in mente un avviso che avevo visto alla stazione di Liverpool Street. Diceva: "Harwich per il Continente" e qualcuno sotto aveva scritto: "e Parigi per noi"». La Toscà sorrise. Non era un sorriso nervoso né forzato. Una reazione naturale. Stavano insieme ormai da tante ore, ma non aveva mai sorriso. «Aveva ragione, chiunque fosse. Burgess sta rintanato nel suo albergo, spesso ubriaco e sempre sorvegliato. Non è vita». Toscà s'interruppe e trasformò in quadrati le linee verticali che aveva tracciato con la forchetta sulla tovaglia bianca. «Ascolta», disse infine. «Ti ricordi di quando interrogavi Diana Brack?». Troy non riusciva a credere che lei avesse pronunciato quel nome, ma non c'era collera nel suo sguardo e nemmeno una suscettibilità che potesse far provare a lui collera, o rimorso, o dolore. Rispose di sì con un cenno della testa. «Diceva che parlare con i vecchi socialisti inglesi era come passare una serata con quelli che tracciavano i percorsi degli autobus o le mappe delle fogne. Ecco, io da allora ho visto l'Unione Sovietica in lungo e in largo e, credimi, quella maledetta ragazza aveva ragione. Se tu prendessi un mucchio di impiegati comunali e di addetti all'urbanistica e li trasferissi a Mosca o a Omsk o a Tomsk, ti accorgeresti che in dieci minuti sarebbero perfettamente integrati. La Russia è la vera nazione borghese. Mantengono una struttura simile a quella inglese, ma ne rifiutano i valori. Usano formu-
lari per questo e per quello, hanno un ministero della circonlocuzione, un dipartimento per le scartoffie. Dio, è un miracolo che riescano a concludere qualche cosa! La Russia è diventata la patria di tanti ometti con un timbro in mano. Per ogni eroico, dissanguato stacanovista di cui senti parlare c'è una dozzina di efficienti burocrati che governano un mondo in cui qualsiasi ispettore municipale di una nebbiosa o pantanosa cittadina inglese si riconoscerebbe. Preghiamo Dio e mangiamo fin che ce n'è». «Come hai resistito finora?». «Mi prendi in giro? Troy, tu non vuoi prendermi in giro, vero?». «Te l'ho chiesto sinceramente. Io non sono mai stato in Russia, ma è il paese più fantasioso, più inventato che si possa immaginare dopo Lilliput». Toscà si strinse nelle spalle e, con la forchetta, trasformò i riquadri che aveva disegnato sulla tovaglia in un disordine di cerchi concentrici. Improvvisamente Troy si rese conto di aver rotto le dighe del fiume. Non capiva che cosa aveva detto per scatenare la piena. Forse doveva ringraziare Burgess? Ma ormai il silenzio era rotto. «Non ci sono stata molto. Lo scopo di avere una come me, che può passare per un'americana, è di mandarla all'estero. Il mio ruolo si è svolto soprattutto nell'Europa occidentale. Sono stata molto a Berlino, ma poi mi hanno fatto venir via poco dopo che tu avevi preso Wayne. Berlino era molto esposta. Chiunque poteva essere una spia. Correvo il rischio che mi riconoscessero. Ma quando tornavo in Russia mi trattavano bene. Fino al '53 voglio dire». «Fino al '53? Che cos'è successo nel '53?». «È morto Stalin. Pensavo che lo sapessi». «Non capisco che cosa vuoi dire». «Quando un capo se ne va, avviene un rimpasto generale. È come una casa di carta che crolla o le pedine del domino quando vengono rimescolate. Cade uno e gli altri se ne vanno. Anche se la morte che ha contato veramente è stata quella di Berija. Fucilato lui, c'è stata la purga dei suoi». «Ma tu eri una di loro?». «Non direttamente. Non nel vero senso della parola. Non l'avevo mai neanche visto. Ma queste cose non avvengono secondo una logica. Qualcuno il cui nome era nella lista è stato accusato di essere troppo vicino a Berija ed è stato tolto di mezzo. Poi sono andati avanti nella lista e hanno visto che io ero per lui quello che lui era stato per Berija. Così, anche se non mi hanno tolta di mezzo, sono stata degradata, riassegnata a un lavoro meno impegnativo e la mia promozione è saltata. Sono ancora maggiore.
Lo sono da sette anni. Dal 1953 ho svolto un ruolo di corriere a basso livello in città considerate abbastanza sicure, come Parigi. Bruxelles e Zurigo, città che non sono mai state suddivise in zone di occupazione, città dove i portieri stanno affacciati a una finestrella con la sigaretta in bocca, senza far niente e neanche pensano che possa passare qualcuno di un servizio segreto. L'ho fatto per tre anni, spostando pacchi da una parte all'altra, o carichi umani o assi di legno. Poi, quest'anno, in marzo, mi hanno preso di mira. Ho cominciato a chiedermi se qualche ex burocrate, in prigione chi sa dove, mi avesse denunciata per avere uno sconto della pena. O forse la mia posizione anti Kruscev alla fine mi aveva rovinata. Il vecchio Joe era caduto dal piedestallo e le pedine del domino erano crollate su di me, l'ultima del mucchio. Forse Dio sa perché, io no. Mi avevano tolto ogni incarico, ero in arresto». «Alla Lubjanka?». «Per carità, no! Non ero abbastanza importante, non mi hanno portata nemmeno in Dzerzhinskij Square. Stavo in uno di quegli albergacci di proprietà del KGB. Ce ne sono una ventina. Ti chiudono in una stanza, ti picchiano fino a farti sputare l'anima e nessuno sente niente perché l'albergo è vuoto, oppure nelle altre stanze c'è qualcun altro che, in quello stesso momento, sta sputando l'anima come te. E vuoi saperne una? Non mi facevano delle domande. Tanto perché tu capisca quanto ero poco importante. Non c'era niente che volessero sapere da me. Picchiavano tanto per picchiare. Perché era il loro lavoro e non pensavano di poterlo fare in nessun altro modo». Toscà alzò la mano coperta dal guanto, la voltò lentamente, la strinse a pugno e la lasciò ricadere sulla tovaglia. «Come torturatori avevano poca inventiva. Alla fine di aprile hanno deciso di spostarmi. Chissà perché. Da un albergo a un altro, ma bisognava attraversare Mosca a due giorni di distanza dal Primo Maggio. Di solito sarebbe stato possibile giocare a baseball per le strade di Mosca, tanto poco traffico c'era. Ma Mischa e Yuri, il piccoletto, mi facevano la guardia da un mese. Yuri era buono, ma Mischa era un porco. Ancora non ho capito che gusto ci provava. Con me non l'ha fatto per la sola ragione che gli ho detto che dopo gli sarebbe convenuto ammazzarmi perché lo avrei ammazzato io, avessi dovuto impiegare tutta la vita per riuscirci. Lui, così, mi ha picchiato ancora un po', mi ha toccato con le sue zampe dove poteva, ma non ce l'ha fatta a scoparmi. Chi sa, forse avrei potuto cavarmela, uscire di prigione e tornare al lavoro in qualche settimana, è successo qualche volta. Mischa non voleva correre troppi rischi. Ma, nell'attraversare Mosca, abbiamo incontrato
un convoglio militare che andava a prendere posto per il Primo Maggio e il traffico si è fermato. Io ero seduta dietro con Mischa. Quel vigliacco imbecille non mi aveva neanche messo le manette, tanto dove potevo scappare? Allora decide che per passatempo, prima che il traffico riprenda, potrei dargli una succhiata. Tira fuori il suo attrezzo e dice: «Che te ne pare?». Cretino. Io glielo prendo nella mano destra e do uno strattone indietro, con la sinistra gli porto via la pistola e gliela sbatto contro la gola più a fondo che posso. Yuri si mette una mano sotto la giacca e si volta. Io gli punto la pistola addosso e dico: «Yuri, vuoi morire solo perché questo scemo voleva che gli succhiassi il cazzo?». Lui mette la pistola sul sedile e dice: «Vai!». Mischa è tramortito o svenuto, non so, così Yuri mi butta là un «Buona fortuna!». Io scappo. Mi ci sono volute sei settimane per arrivare qui. Ho aspettato un mese prima di uscire dalla Russia. Ho pensato che mi avrebbero cercata nei porti, nelle stazioni per una settimana o due e poi, esaurite le loro risorse, si sarebbero rassegnati. Non ero più importante. Sono passata dalla Finlandia e poi sono scesa attraverso la Norvegia e la Danimarca. Tranquillamente, lentamente, ed è andato tutto bene. Il problema è ora. Mi sono chiesta che cosa farei al loro posto e mi sono detta che non sprecherei uomini e tempo a cercare dappertutto, ma mi orienterei sul paese dove è prevedibile che possa andare a finire, cioè l'Inghilterra. Controllerei il territorio e i porti. Insomma, se volessi veramente riportare Larissa Toscà in Russia, la farei cercare su tutti i traghetti che attraccano a Dover o a Folkestone, dappertutto. Ed è lì che mi troverebbero. Non so come fare ad attraversare lo stretto. La mia vita è un seguito di espedienti, di trame, di inganni e non ce la faccio a superare questa difficoltà. Quei porci fottuti mi beccheranno appena metterò piede in Inghilterra. Ma se resterò sul continente sarà solo questione di tempo. Il mio aspetto, che andava tanto bene al KGB, è quello che mi farà riconoscere subito». «Non aver paura», disse Troy, «troverò io un sistema». Lei fece una smorfia civettuola, sorrise, riuscì quasi ad arrossire, abbassò la testa e lo guardò di sotto in su, sbattendo le ciglia. «Ehi, ragazzone, speravo tanto che lo dicessi». Troy capì che avrebbe dovuto rassegnarsi a essere preso in giro. 28 Tornati in albergo, Toscà si sfilò le scarpe scalciando, prese la borsa del trucco, tolse il doppio fondo, tirò fuori una dozzina di passaporti e li am-
mucchiò sul tappeto. Sedettero tutti e due in terra, come avevano fatto la sera prima, uno accanto all'altra, come due bambini che di disponessero a giocare. «Allora, chi sono? Scegli tu. Lois Teale ha fatto il suo tempo. È il momento di cambiare». Troy tolse un passaporto dal mucchio. «Vediamo. Greta Olaffssonn. Nata il 3 agosto 1912 a Duluth, Minnesota». «No no. Mi sono chiamata Greta già troppe volte». «Sono tutti falsi? Come te li sei procurati?». «Falsi? Ma no, non sono falsi! Li ho avuti quasi tutti con un vecchio trucco. Si trova una poverina morta molto giovane, che non aveva mai chiesto un passaporto, si prende il suo nome e si appiccica la propria fotografia. Funziona sempre. La sventurata Greta non era arrivata al suo secondo compleanno». Prese un altro passaporto e lesse: «Clarissa Calhoun Breckenridge. Non mi sono mai chiamata così, ma con quel nome si può venire solo dal profondo sud ed è un accento che non sono mai riuscita a imitare. Tra l'altro non so neanche cuocere quelle frattaglie di maiale che a loro piacciono tanto». Rimise il passaporto insieme agli altri. Troy lo riprese. «Nata a Hoboken, New Jersey, il 22 agosto 1913». «Allora sì. Che ne dici? Con Hoboken posso cavarmela, è la patria di Sinatra. Ci si va col traghetto da Manhattan. Bisognerà che me ne ricordi. Questa brava Clarissa può farci comodo». Troy prese un altro passaporto. «Nora Schwartz. Nata a Chicago, il 10 giugno 1911». «No, non mi piace il nome. Se fosse il mio me lo farei cambiare con Betty Boop, Minnie Mouse, tutto tranne Nora Schwartz». «Larissa Dimitrovna Toscà. Nata a New York, il 5 aprile 1911. È il tuo. Ancora valido. Questo dev'essere falso. È solo di quattro anni fa». «No, non è falso. Toscà è il mio vero nome, vuol dire qualcosa di simile allo spleen ed è il meglio che, all'ufficio immigrazione, siano riusciti a ricavare da quello vecchio. L'altro passaporto era scaduto nel '52, sono andata all'ambasciata americana di Lisbona e me ne hanno dato uno nuovo». «Ma gli americani credono che tu sia morta in Orange Street, nel 1944. In un mare di sangue». «Sì. Ma, a parte quelli con cui lavoravo a quell'epoca, chi altro dovrebbe saperlo? Solo perché tu hai riempito qualche formulario a Scotland Yard e l'hai spedito a Grosvenor Square? Troy, il mondo non è così efficiente. Chi collega le nascite con le morti? È come scoprire un sosia. Mostri la faccia
giusta sui documenti giusti e chi ti chiede di più?». Troy improvvisamente capì. Perché non ci aveva pensato prima? La faccia giusta, i documenti giusti e nessuno avrebbe chiesto di più. «Credo di aver trovato a soluzione». «Sì?». «Devi diventare inglese. Dobbiamo procurarti un passaporto inglese». «E come?». «Devi sposarmi». «Non è la proposta più galante che abbia ricevuto». «Devi sposarmi, perché il matrimonio dà diritto alla cittadinanza. Una volta avuta la cittadinanza, puoi chiedere il passaporto ed entrare in Inghilterra come la signora Troy, suddita inglese. Né Toscà né Greta. Ci sposeremo a Vienna. Dovremo aspettare qualche giorno, probabilmente più di una settimana, perché l'ambasciata rilasci il passaporto. Poi andremo in Inghilterra passando dalla porta di servizio». «Cioè?». «Dall'Irlanda?». «Perché l'Irlanda?» «Perché non c'è controllo sull'immigrazione tra la repubblica e il Regno Unito. E noi potremmo creare un po' di confusione fermandoci all'isola di Man. La rotta delle navi che arrivano da lì non è considerata una rotta internazionale. Si attracca a Liverpool come a un porto della madrepatria. Niente dogana e niente passaporti, a dispetto delle tue spie». «Andrà tutto bene?» «Se riusciamo ad andare a Vienna senza che se ne accorgano, andrà tutto bene». «E da lì che cosa faremo? Prenderemo un aereo per dove? Per Dublino?». «Sì». Toscà stava a testa bassa, poi alzò gli occhi e li fissò in quelli di Troy. «La signora Troy». Pronunciò le parole molto lentamente. Tacquero tutti e due, poi Troy ruppe il silenzio. «È solo una questione di comodo». Lei lo guardò ancora. «Non significa niente». «Bugiardo», disse lei. Raccolse i passaporti e se li tenne contro il petto. «Va bene. Ci sto. Ma non capisco come potrà funzionare l'imbroglio di qua dal canale».
«Ho un amico», rispose Troy. «Ah!». «Alla nostra ambasciata a Vienna. C'è qualcuno che ti conosce a Vienna?». «No, non ho mai lavorato a Vienna. Ci sono troppe spie». Sventolava i passaporti come se avesse in mano delle carte da gioco, poi li sparse sul tappeto. «Chi sono?». «Te stessa. È un rischio che bisogna correre. I timbri di entrata sul tuo passaporto servono e il matrimonio, e conseguentemente la cittadinanza, saranno validi solo se tu sarai Larissa Toscà. Non posso sposarti come Minnie Mouse o Betty Boop. Sarebbe inutile. Devi entrare in Austria e sposarti con il tuo vero nome». «Capisco. Ma io volevo dire proprio: "Chi Sono Io?" C maiuscolo, S maiuscolo, I maiuscolo. Chi Sono Io?». «Non capisco». «Neanch'io. È per questo che te lo chiedo, Troy. Chi sono io?». 29 Gus Fforde non era un uomo d'ordine, ma quello che in altri tempi si sarebbe chiamato un buontempone ed era anche un vecchio amico. Lui, Troy e Charlie erano stati a scuola insieme. Charlie era il capo, Troy e Dickie Mullins erano i sottufficiali e Gus il geniale, spericolato subalterno. Era stato Fforde che aveva insegnato a Troy a bloccare un'automobile mettendo una patata nel tubo di scappamento; a far scoppiare il pluviale sul serbatoio del bagno con un batuffolo di cotone impregnato di acido nitrico e acido solforico così che il primo disgraziato che tirava lo sciacquone si faceva anche la doccia; a lanciare con la fionda le bombette puzzolenti nella cappella della chiesa. Tra tutti questi ammaestramenti, Troy riconosceva solo al primo una utilità meno limitata a un'età particolare. Ma Fforde era anche segretario generale all'ambasciata di sua maestà britannica a Vienna, capitale della nazione austriaca, recentemente ricostituita, il cui governo democratico contava solo poche settimane, perché le truppe russe e americane che vi si erano installate nel 1945 se n'erano andate da poco. «Hai detto un passaporto?». «Sì, Gus. Per mia moglie».
«Quindi non è inglese». «No, infatti». «Ah. E quando vi siete sposati?». «Ci sposiamo domani. Puoi farci da testimone, se ti fa piacere». «Freddie, non ci sarà qualcosa... come dire?... di sbagliato?». «Di sbagliato no, ma di molto complicato sì. Per questo mi sono rivolto a un vecchio amico». «Certo. Altrimenti a che cosa servono i vecchi amici?». Fforde aveva fatto la sua parte. Era stato testimone alle nozze civili, aveva definito la Toscà, nonostante lo sguardo teso e gli strati di trucco, «uno schianto», era intervenuto con delicatezza quando l'impiegato aveva sollevato qualche difficoltà sulla fastidiosa questione della residenza, aveva stappato lo champagne e servito la torta sacher in una saletta dell'Hotel Sacher e aveva prodotto rapidamente un passaporto inglese, senza fare domande e prevaricando con garbo sul personale dell'ambasciata quando aveva obiettato che l'operazione non era del tutto regolare. «A proposito di irregolarità e irregolari», aveva detto, «hai visto Charlie, recentemente?». Troy ci aveva pensato un momento. «No», aveva risposto. «Mi sarebbe piaciuto rivederlo, ma l'ultima volta mi pare che sia stata in aprile». «Io l'ho visto. È passato di qui poco più di una settimana fa. Non mi ha detto un accidente, qualche cenno con la testa, due smorfie e basta. Sai se è ancora... lì? Voglio dire, dopo tutti questi anni?». A che cosa servono i vecchi amici? Fforde era stato molto buono con lui. Il piacere che gli aveva fatto avrebbe potuto costargli caro. Se gli fosse stato meno amico gli avrebbe detto di tornarsene a casa e vedere che cosa poteva fare. Ma Troy sapeva che il debito verso Fforde non includeva verità di quella importanza. Gli pareva strano che, nella sua posizione, non fosse informato sull'attività di Charlie, ma in ogni caso non gli avrebbe detto niente. Certo, Charlie era ancora "lì". E "lì" era un argomento di cui Troy non voleva parlare. Scrollò le spalle e pensò con rimpianto al tempo in cui tutti e tre si dicevano tutto. Perche, altrimenti, a che cosa servono i vecchi amici? 30 Fu una traversata tranquilla, sul mare d'Irlanda, a bordo della Maid of Erin, partendo da Dublino, diretti a Liverpool, via Douglas, isola di Man.
In vista dell'isola, non lontano dalla parte disabitata, a sud, detta Calf of Man, si affacciarono al parapetto e guardarono i gabbiani volare in cerchio e le barche per la pesca delle aringhe che oscillavano, in lontananza. «Dammi la pistola», disse Troy. «Come? Perché?». «Dammela. Tutto qui». Toscà si guardò attorno, controllò che nessuno la vedesse, prese la pistola dalla borsetta e gliela diede, facendola scivolare con il palmo della mano contro il suo. Era piccola e restava quasi completamente nascosta. Troy si guardò attorno, esattamente come aveva fatto lei, e lasciò cadere la pistola oltre il parapetto, tra le onde grigie. «Non ci serve», disse. «Non ci serve?... No, anch'io credo di no». «Adesso», disse Troy, «pensiamo a che cosa dobbiamo raccontare». 31 Troy fermò la Bentley alla curva, dove i faggi splendevano nel loro verde cupo e il sole della fine di giugno faceva scintillare le loro foglie come se fossero riflesse in tanti piccoli specchi. La casa si vedeva appena, oltre la curva, a tre o quattrocento metri di distanza. Toscà disse: «Stanotte ho sognato di andare a Manderley». Troy la guardò, sorpreso, contento che conoscesse un romanzo inglese, che non leggesse sempre e solo Huck Finn. Ma lei non sorrideva. «Poesia o presagio?», le chiese. Lei fece un gesto noncurante con la mano. «Non badarmi. È solo che è questa l'impressione che ho avuto. Sai, l'Inghilterra vista da Hollywood, le verdi contee girate negli esterni». Dunque non aveva letto il libro, si ricordava solo del film di Hitchcock, Laurence Olivier, misterioso e romantico e George Sanders, nel ruolo del cattivo. «Forse non è quello l'importante», disse Troy. «Ma Joan Fontaine aveva addirittura storpiato quella frase iniziale». «Ha fatto del suo meglio, baby. Tutti facciamo del nostro meglio. Adesso dovrò conoscere la signora Danvers?». «Se vuoi prendermi in giro...». Lei gli appoggiò la testa sulla spalla e lo urtò col gomito finché lui capì e la strinse con un braccio. Inserì la prima marcia, fece scivolare il piede dal-
la frizione e lasciò che l'automobile salisse lentamente lungo il viale, con una mano sola sul volante, muovendolo appena un po', quando era necessario. Per un momento, poco più, fu credibile l'affascinante bugia che quella fosse la prima pagina di una storia d'amore che doveva durare nel tempo. Non c'era parte del suo corpo che non lo desiderasse, ma non c'era cellula del suo cervello che non gli dicesse che non era vero. «Se vuoi, però, potrai conoscere la signora Danvers», disse, «ma ricordati di non farla giocare coi fiammiferi». Mimram era per Troy un seguito di forme e di spazi, di colori e di sequenze sovrapposte in trasparenza: una cipolla di vetro. La casa dell'infanzia, ancora visibile ai suoi occhi di adulto nella sua essenza più profonda, aveva ancora la stessa disposizione di quando lui era venuto, man mano, a conoscerla. Toscà fece una smorfia all'orso nero impagliato, in piedi sulle zampe posteriori, nell'ingresso. «Ma è mangiato dalle tarme! Deve stare proprio lì. come la prima cosa che si vede appena si passa dalla porta?». Era brutto, aveva perso un occhio e da un orecchio perdeva un po' di imbottitura ogni giorno, ma per Troy era l'orso Boris. Stava lì, sempre allo stesso posto, dal 1919 e lui non vedeva perché non avrebbe dovuto starci fino al 1969. Uno dei suoi primi ricordi era Boris con un barattolo di latta in testa, che gli faceva da cappellino, e nella zampa una piccola bandiera inglese, per festeggiare l'armistizio della prima guerra mondiale. Da allora, in novembre, era sempre stato adornato di un papavero rosso; qualcuno, non necessariamente Troy, non dimenticava mai di appuntarglielo sulla pelliccia. Era parte di una preordinata custodia del tempo dell'infanzia come, veramente, molti degli oggetti che erano in casa. Nel salotto più grande, la stanza azzurra, una malconcia scultura congolese, che raffigurava un pigmeo molto più grande dell'elefante di ebano su cui montava, aveva il suo posto nel camino da più tempo di quanto Troy potesse ricordare. Sasha, quando era piccola, lo aveva soprannominato Minnie. Una volta Troy aveva spostato Minnie dalla parte sinistra del fuoco a destra, ma Sasha, quando era andata a Mimram la volta successiva, l'aveva rimessa al suo posto, senza dir niente o, pensava Troy, senza neanche accorgersene. Non sarebbe stato facile spiegare queste cose a Toscà. Parlare della inattaccabile stabilità che il vecchio Aleksej aveva creato intorno a loro, il bozzolo, la ragnatela di seta in cui li aveva avvolti, aerea, impalpabile... con il genio, come diceva Nikolaj, di trasformare, a forza, una necessità in una scelta. Toscà era vissuta in mezzo alle valigie, in tre paesi diversi, con una dozzi-
na di passaporti e in un numero infinito di città. Quella sua domanda, «Chi sono io?», lui non avrebbe potuto mai riferirla a se stesso. Aveva dei dubbi sui risultati, sapeva che anche Rod ne aveva e, se si fossero un giorno elevate a livello di autocoscienza, forse anche le sue sorelle ne avrebbero avuti. Ma lui sapeva chi era, era un Troy. E la massima protezione che aveva potuto darle era quella di farla entrare nella sua famiglia. Se solo avesse accettato. «Scegli una stanza», le disse, mentre appoggiava le valigie sul pianerottolo del primo piano. «Che significa; scegli una stanza?». «Hai detto che preferivi stare da sola». «Lo so... devi darmi tempo. È perché...». «No, non era per discutere. Volevo solo dirti di scegliere una stanza che non fosse occupata e dove ti piacesse stare». «Una qualsiasi?». «Una stanza qualsiasi che non sia occupata». «Ma quante ce ne sono?». «Non le ho mai contate, ma credo quindici o venti». «Come posso capire quali sono già occupate?». «Quelle dove trovi le pantofole ai piedi del letto e la vestaglia appesa alla porta sono occupate, quelle dove c'è odore di naftalina sono libere». Lei passò da una all'altra, mentre ogni passo, ogni parola risuonava nella casa vuota. Si soffermò nella stanza di Masha e Lawrence, inondata dalla luce calda del tardo pomeriggio, che colorava le pareti color avorio cui Masha aveva fatto aggiungere una sfumatura di rosa e, per un momento, Troy si chiese se non avrebbe dovuto convincere sua sorella a fare un cambio, ma nella parte sud della casa Toscà scelse una cameretta buia, con la tappezzeria scolorita e la vista sul fiume e sui salici. «È proporzionata a me. Se avessi abitato in un appartamento a Mosca, capiresti». «Sì, capisco. Era la mia camera, quando ero ragazzo». «Davvero? Sei cresciuto qui? È qui che hai letto Winnie the Pooh, sei stato alzato la notte a studiare Primi elementi di grammatica latina di Kennedy e ti sei fatto una sega pensando a Carole Lombard?». «Più o meno. Ma ho sempre avuto una preferenza per Barbara Stanwyck». «E adesso?». «Alla fine della guerra mi sono trasferito nella stanza di mio padre. È
quella accanto. Senti, perché non fai un bagno e ti cambi? È stato un viaggio pazzesco. Io preparo in fretta un po' di tè e poi guardiamo il resto della casa». Non l'aveva fatto apposta, solo dopo si rese conto di quanto gli fosse familiare l'immagine della Toscà nella vasca, con la schiuma fino all'altezza del petto, mentre beveva il tè e chiacchierava con lui, seduto sul coperchio del cesso, in parte ascoltando in parte ricordando, diviso tra presente e passato. Così erano stati loro due, una volta. Alla figura che aveva davanti, si sovrapponeva quella di una ragazza nuda e allegra, un ricordo che gli era infinitamente caro. Avrebbe voluto trovare un aggettivo diverso da «caro». Tutto era finito nel sangue, in quello di lei e nel suo, che ci aveva perso anche la metà di un rene. Lei tirò fuori una gamba per insaponarla e Troy vide le inconfondibili cicatrici delle bruciature di sigaretta, che sarebbero rimaste per sempre; sul braccio con il quale reggeva il sapone, c'erano ancora i lividi, diventati di un giallo malato. Quanto l'avevano picchiata, pensò, perché i segni ci fossero ancora dopo due mesi? Non poteva chiederglielo finché non fosse stata pronta a parlare. Ma chi sa se lui avrebbe avuto la sensibilità necessaria a cogliere quel momento. Vestita, cosparsa di borotalco, profumata e, pensò Troy, probabilmente più contenta, la portò a vedere tutte le stanze, che avevano ancora i polverosi colori floreali di quando i suoi genitori avevano comprato la casa, cinque anni prima che lui nascesse. I colori erano stati mantenuti, rinfrescati quando ce n'era bisogno. La stanza azzurra, il salotto grande, nell'angolo sudovest, dove Sasha, sul vetro della finestra, aveva inciso le iniziali sue e di Hugh con il brillante del suo anello di fidanzamento. Alexandra Troy e Hugh Darbishire, le lettere AT e HD intrecciate sopra un cuore, e la data: 30 gennaio 1933. «Il tempo che passa e le circostanze diverse», disse Toscà seguendo le iniziali con la punta delle dita, «ci fanno comportare come degli stupidi sentimentali, prima che un lampo ci accenda la memoria». «Non capisco». «Il 30 gennaio del 1933 Hitler è diventato cancelliere della Germania». Troy aspettò che dicesse qualcosa ancora, ma poiché taceva, capì che aveva inteso dire che la vita della gente qualsiasi è costretta a misurarsi con la storia. Ora, con l'atroce coscienza di quanto era seguito, quale altro valore poteva avere quella data? Sasha aveva voluto che la data del suo fidanzamento restasse su quel vetro per sempre e, senza saperlo, aveva
commemorato un evento che avrebbe eclissato qualsiasi altra cosa fosse avvenuta quel giorno. Troy aprì le porte del salotto rosso, più piccolo, con il bovindo dove ogni anno, a Natale, si metteva l'albero. Durante il resto dell'anno, sua madre sedeva spesso lì a cucire o a lavorare a tombolo o a dedicarsi a uno degli infiniti passatempi che richiedevano abilità delle dita e che le avevano rovinato completamente la vista a settant'anni. La camera rosa, non proprio rosa, ma piuttosto di un magenta sbiadito; quella gialla, del colore delle primule e dei ranuncoli, o gialla e basta per uno sguardo disincantato; fino al blu di Prussia della sala da pranzo e via così, sfogliando la cipolla, fino allo studio di suo padre, scuro, di un colore che non esisteva, opaco e incerto. A un certo punto suo padre aveva coperto le pareti di scaffali e quando erano stati tutti pieni, aveva messo i libri negli armadi e quando non c'era stato più posto negli armadi, aveva messo i libri in terra, dove erano ancora in quel momento. Davanti ai libri aveva ammucchiato qualsiasi cosa avesse sollecitato la sua immaginazione. Tre orologi a pendolo di altezza diversa (ora Troy si sorprese a paragonarli alle facciate delle case di Amsterdam), che nessuno aveva mai tentato di sincronizzare. Un planetario di ottone, che nessuno metteva in moto da anni e dove mancava il nono pianeta, che non era ancora stato scoperto. Un armonium, il cui mantice di pelle era distrutto ormai da un pezzo. Una pianola dove le mani di Gustav Mahler, Igor Stravinskij e George Gershwin venivano riportate in vita da un rullo sapientemente forato. Un grosso mappamondo di gesso sottile, dipinto a mano, scrostato, su un piedestallo di ferro, che raffigurava, in colori pastello, il mondo al tempo dei grandi imperi. Paesi che non esistevano più, come l'Austria-Ungheria, la Russia imperiale e, per contro, nessuna indicazione di entità geografiche come la Iugoslavia. L'esistenza della Polonia era un mistero per Troy quando era bambino, un paese che andava e veniva come l'omino della casetta che indicava il bel tempo, ora lo si vedeva e ora no, e che, dopo la morte di suo padre, nella sua più recente incarnazione, si era spostato tutto di almeno settecento chilometri a ovest. Aleksej aveva usato il mappamondo e l'album dei francobolli per insegnargli la geografia e la storia. I francobolli andavano dai black penny, i primi francobolli del mondo, con il profilo della regina Vittoria da giovane, a quelli, più comuni, della repubblica di Weimar e ai bei francobolli marroni con la faccia di Hitler. C'erano anche quelli delle scomparse confederazioni dell'Africa orientale britannica e delle isole dei mari del sud,
dai colori vivaci, dove la testa di Giorgio V appariva stampata tra palmizi e tartarughe giganti. Troy si chiedeva, allora, se il re avesse una di quelle tartarughe a casa, a mangiare l'erba di Buckingham Palace. Chi era Gilbert, che stava nelle isole coralline? E lui e la Ellice di quelle altre isole erano sposati? Avevano dei bambini che davano il nome ad altre isole? Iugoslavia o Jugoslavia? Aveva impiegato un secolo a impararlo. «Quasi mi dispiace farti perdere tempo», gli aveva detto suo padre. «La Iugoslavia non durerà a lungo. Non ci si può inventare un paese, è già tanto riuscire a inventare se stessi». Lo sguardo della donna si era soffermato sulla parete tra le due finestre. «Non ne vedevo da anni». Troy non capì di che cosa stava parlando, ma lei alzò un braccio e staccò la pistola di Aleksej da due pioli di legno infissi nel muro. Era una semiautomatica grossa e pesante. «Era di mio padre», disse Troy. «Sì, anche il mio ne aveva una così. Lo sai che cos'è?». Troy scosse la testa. Aveva un'avversione per le armi, da sempre. «È tedesca. Una Mauser del 1896. Una semiautomatica a raffica, una specie di mitra che si può tenere con una mano sola». Per Troy non significava niente. Avrebbe potuto essere un cannone Howitzer. «Mio padre ne ha usata una durante la guerra civile. L'ha usata per farsi strada attraverso la Siberia... almeno così mi ha detto». «Forse lo scopo di queste pistole è di entrare a far parte della leggenda. Mio padre sosteneva di averla usata per riuscire a salire sull'ultimo treno che partiva dalla Russia nel 1905». «Tu non ci credi?». Troy si strinse nelle spalle. Non aveva mai capito fino a che punto dovesse credere a quello che gli diceva suo padre. Se la sua vita si fosse rivelata un capolavoro di finzioni, non ne sarebbe rimasto stupito. E, a differenza di suo fratello, neanche offeso. «Un treno, d'accordo. Ma forse non era proprio l'ultimo. E forse non ha dovuto sparare per salirci. Se avesse fatto ricorso alle parole sarebbe stato più nel suo carattere, magari agitando, contemporaneamente, la pistola nell'aria. Tanto per dare spettacolo». Toscà estrasse il caricatore, controllò che fosse vuoto, e lo spinse di nuovo sotto il grilletto. «È una pistola da cavalleria», disse, con l'entusiasmo di un collezionista. «Ha il cane montato di lato. Il fodero è nella sella, così quando la tiri fuori, facendotela ruotare sulla coscia, alzi il cane ed è
pronta. Così, guarda». In piedi sulla gamba sinistra, piegò il ginocchio destro e con un solo movimento alzò il cane e mirò a Troy, che si trovò per la seconda volta a guardare dentro la canna di una pistola. Ci fu un silenzio, una calma immobile. Nessuno dei due sapeva che fare, quell'arma che stava in mezzo a loro aveva creato un momento di disagio. La donna stava ancora in equilibrio su una gamba sola, come un fenicottero. Il verso gutturale di un fagiano arrivò dal giardino a rompere il silenzio. La Toscà abbassò la pistola e la gamba, arrossendo un pochino, come se dalla sua parte della pistola si sentisse sciocca come lui dall'altra. Troy gliela tolse di mano e la riappese ai pioli sulla parete, cercando di immaginare un grosso soldato russo che insegnava a una bambinetta come usare quell'arma mortale e chiedendosi quali risvolti potesse avere la paterna saggezza. «Sta meglio lì», disse. «Certo», rispose l'altra, con leggerezza. Nel salotto verde, pannelli color salvia a righe di un verde più scuro, c'era il Bechstein che i genitori di Troy avevano portato da Vienna nel 1911. Lui vi aveva passato molte ore a studiare, con sua madre. Toscà passò un dito sul coperchio e le si coprì di lanugine. «Non suoni più?» «Suono ancora, ma da un po' di tempo non suono su questo pianoforte». Lo aprì e fece una scala, in un soffio. «È ancora accordato. Che cosa vuoi sentire?». «Uno dei vecchi. Cole Porter o Gershwin. Mi è sempre piaciuto molto Gershwin». «Yip Harburg?». «Vuoi dire come Over the Rainbow?». «No, voglio dire come...». Troy suonò i primi cinque accordi che introducevano il tema di April in Paris. Lei sorrise e lui riprese da principio. Cercò di dare il meglio di sé e quando vide che lei sorrideva ancora, con i gomiti appoggiati al pianoforte, il mento sulle mani, gli occhi chiusi, rischiò il massimo e lasciò che le sue mani scorressero sulla tastiera in una interpretazione alla Monk e ogni nota, nella sua essenzialità, accrebbe, come lui voleva, il fascino sentimentale della musica, dandole tutto senza toglierle niente. Lei lo lasciò suonare fino alla fine, senza mai aprire gli occhi. Troy quasi temeva un giudizio da purista. «Dio mio, è stupendo! Anche le bum notes funzionano». «Non ti immaginavo così esperta di espressioni jazz, ma con quel bum
notes mi hai convinto». «E di nuovo che cosa c'è?». «Di nuovo?». «Sì, voglio dire di veramente nuovo. Caldo caldo, appena sfornato. Si ha fame di novità in Russia. Di cose vecchie ne abbiamo tante, ma è il nuovo che non arriva. Quando sono partita, il meglio che offriva Mosca, in questo senso, era Judy Garland che cantava davanti alla fotografia di Clark Gable: "Mi hai fatto innamorare, io non volevo, oh, non volevo!". Quando era di moda una canzone così?». «Non so. Quando si viaggiava sull'asino». «Credo anch'io. Ma di asini ne abbiamo tanti anche noi». Rod andava periodicamente in America per adempiere al proprio dovere verso il partito e verso il paese, e mettendo, così diceva, a repentaglio la propria vita, viaggiava con quei grossi aerei di linea, Comet, Constellation, Caravelle che cominciavano tutti per C. L'eroe della battaglia d'Inghilterra era sempre convinto che un aereo non dovesse avere più di sei posti, perché più grande era più era probabile che cadesse. A ogni viaggio, non dimenticava di portare dei regali ai suoi familiari: per gli adolescenti, blue jeans che si allacciavano coi bottoni invece che con la lampo, per Troy dischi. L'ultima volta, Troy aveva trovato in cima alla pila già sistemata nello studio, sul giradischi automatico, un brano per il quale ogni aggettivo sarebbe parso inadeguato. «Va bene», rispose, e cominciò a suonare. Poco più di due minuti dopo, aveva finito, soddisfatto per essere riuscito a mantenere il tempo di quella musica rapida e difficile, ma senza fiato perché, anche se cantare non era il suo forte, in quel caso era indispensabile. Lei lo guardava con gli occhi spalancati, non si capiva se orripilata o estatica. «È questo?». «Beh, sì». «Non capisco». «Che cosa non capisci?». «Chi è questa Daisy?». «Non lo so». «Perché lo tira scemo?». «Non lo tira scemo, lo fa impazzire». «E chi è Sue e perché sa tanto bene come si fa?». «Posso provare a indovinare».
«Non ho capito neanche metà delle parole. Quobbli dobblinobbli... Che razza di roba è?» «Aspetta, mi ci è voluto un po' di tempo per capire. Perché non proviamo con una frase per volta?». «Ma sì. Perché no?». «Auop», suggerì Troy. «Auop», gli fece eco lei, ma c'era un'espressione appena accennata nei suoi occhi che a Troy parve inquietante. «Auopbop». «Auopbop». «Auopbopalubop». «Auopbopa... e poi?». «Lubop. Dopo viene Lubop». «Come si scrive?». «Ma che cosa importa? Si dice Auopbopalubop». «D'accordo. Auopbopalubop». «Auopbopalubopalopbambum». «Auopbopalubopalopbambum». Lei batté il palmo della mano sul pianoforte. «Basta, Troy! Sai da dove viene questo pezzo? Viene dritto filato da uno di quei posti del Mississippi, dove si mangia e si balla col juke box. È musica nera». «Sì, credo che si chiami rock'n'roll». Da dietro le spalle della donna arrivò un beneducato colpetto di tosse. Troy alzò gli occhi. Lei si girò su una caviglia, ancora col gomito sul pianoforte, una gamba piegata e il piede dietro il ginocchio dell'altra, con l'aria di avere appena finito una approssimativa esecuzione di Cry Me A River. Sulla soglia c'era Rod, dietro di lui Nikolaj, dietro Nikolaj, Sasha e Misha, dietro Sasha e Misha, Hugh e Lawrence e dietro ancora... «Bene», disse Toscà, staccandosi dal pianoforte e, col suo forte accento moscovita, rivolta a Rod: «Зто что ли пистолет у тебя в кармане, или ты просто рад меня видеть?». Hai una pistola in tasca o sei solo contento di vedermi? 32 Col pretesto della stanchezza, dopo il viaggio, lasciarono Rod e le gemelle a tavola, a tirare mezzanotte bevendo e chiacchierando rumorosamente attorno ai resti della cena. Lawrence e Masha sembravano in buona
armonia. Hugh e Sasha, concluse Troy tra sé, probabilmente dovevano essere nel pieno di un altro litigio, ma avevano diplomaticamente raggiunto una tregua per la serata. Un pensiero gentile. Troy si ricordava di altre volte in cui non l'avevano avuto. Non erano litigi lunghi, di solito, perché Hugh presto ripiegava sulla illusoria, pacificatrice certezza delle virtù di sua moglie. Rod avrebbe bevuto troppo, l'indomani sarebbe stato male e si sarebbe pentito. Sasha e Masha avrebbero bevuto anche loro e l'indomani sarebbero apparse miracolosamente immuni dagli effetti dell'alcol e della disapprovazione dei loro mariti. Nikolaj si era scusato ed era andato a letto prima del caffè. Cid salì le scale con loro, diede a ciascuno un piccolo bacio secco secco su una guancia, sorrise e non disse niente. Una volta di più, pensò Troy, avrebbe considerato i vantaggi e gli inconvenienti dell'essere entrata a far parte di una tribù. Quando se ne andò, il loro imbarazzo rimase. «Che cosa pensi dell'insieme?». «Tutti frutti. Una gran macedonia». Andarono ciascuno nella propria stanza. Qualche ora dopo, almeno così gli parve, Troy si svegliò nel sentire aprire la porta. Qualcuno s'infilò nel suo letto, ma un po' lontano da lui, senza toccarlo. «Sei sveglio?». «È la domanda più inutile del mondo. Pensavi che ti dicessi "sto dormendo"?». «No, infatti sei sveglio». Troy si voltò verso di lei, che lo spinse via. «Non muoverti. Stai fermo. Adesso dormiamo». «Prima devo farti una domanda». «Sentiamo». «Te l'eri preparata la battutina alla Mae West?». «Sicuro. Tu continui a dirmi: devi essere te stessa. Ci vuole un po' di esercizio. Sono stata un'altra per anni. Tante altre. Devo provare a essere me stessa. E poi non ha fatto dispiacere a nessuno. Lui non aveva la pistola in tasca ed era contento di vedermi». Quando, infine, fu convinto che si fosse addormentata, Troy si contorse con quanta più attenzione poté e allungò una mano. Ma prima ancora che la mano arrivasse a posarsi, in un bisbiglio assonnato, rauco, da camera da letto, si sentì dire: «Non toccare».
33 La mattina, lei era ancora lì. Qualcosa di noto e qualcosa di nuovo. Da anni non si svegliava vicino a lei. Non poteva e non voleva dimenticare. Era il giorno di Natale del 1948. Ma quello che c'era di nuovo lo turbava anche se non riusciva ancora a chiarire che cosa fosse. Era ancora presto. Restò disteso per un po' a riflettere, guardando il sole danzare dietro la tenda che sbatteva appena contro la finestra aperta e ascoltando il canto degli uccelli. Poi capì. L'ultima volta che si era svegliato in quel letto, con qualcuno vicino, era stato in aprile. O forse era marzo? La settimana in cui le sue sorelle lo avevano costretto a comprare un televisore. Non vedeva la sua amante da... settimane... mesi? Sarebbe stato severamente rimproverato. Non si poteva più rimandare. Suonò il telefono. Rispose prima di sentire un secondo squillo, ma Toscà non si era mossa. «Pronto, Troy?», disse la voce di Anna. «Pronto. Stavo proprio pensando a te». 34 S'incontravano sempre al Café Royal, all'imbocco di Regent Street. Era a metà strada tra il suo ufficio a Scotland Yard e lo studio medico di Anna, in Harley Street. Al Café Royal suo marito, che razzolava tra tutti i bar di Londra, per quanto ne sapevano, non era mai stato visto. «Ho spostato di un po' gli appuntamenti del pomeriggio», disse Anna. «Possiamo stare tranquillamente insieme fino alle due e mezzo». Anna aveva iniziato la sua carriera come patologa, assistente di Kolankiewicz. Con l'entrata in vigore del servizio sanitario nazionale, aveva lasciato il laboratorio ed era passata a esercitare la professione. Arrivata a una transazione con i medici di Harley Street, in pantaloni a righe e gilè fantasia, aveva aiutato molti vecchi, disorientati dai cambiamenti del dopoguerra, mettendo in pratica il nuovo sistema che curava tutti allo stesso modo, chi poteva pagare e chi non doveva pagare più. Troy non aveva mai capito come riuscisse a trarre tranquillità e ragionevolezza da uno come Kolankiewicz, ma apprezzava i suoi ideali. «Ho pensato che dovevamo vederci». «È passato molto tempo dall'ultima volta». «Volevo parlarti».
«Anch'io volevo parlarti, Anna. Credo di avere qualcosa di nuovo da dirti». «Anch'io. Posso cominciare per prima?». «Se preferisci», disse Troy, sentendosi arrivare addosso una sgridata. «Angus è tornato». Angus era suo marito. Alcolista incorreggibile, sfrontato, decorato al merito di guerra come Rod. Era stato pilota della RAF, di quelli «o colpire o morire», aveva colpito e non era morto. Poi, però, non aveva fatto come Rod, che si era lasciato la guerra alle spalle senza portarne i segni, sicuro di sé. Le sue sbornie erano famose e a Troy era anche venuto il sospetto che non lo si vedesse mai al Cafe Royal perché non lo lasciavano entrare. «Non sapevo che fosse andato da qualche parte». «Era una metafora, Troy, per dire che è tornato a stare con me. E che io l'ho riaccolto». Angus, infatti, non aveva mai lasciato la dimora coniugale, aveva semplicemente spostato tutto quello che gli importava sul pianeta Angus, e non una volta sola. «Credi che non berrà più?». «Penso di doverlo credere». «Ma lui che cosa dice?». «Dice che ci vuole riuscire». «E se ci riuscirà diventerà astemio?». «Una specie». «Una specie?». «Conosci Angus». «Quanto basta per capire che su questo argomento non si può credergli». «Lo so». Anna tacque. Troy non avrebbe mai immaginato di vederla così triste. Angus aveva sempre rappresentato per lei soprattutto una questione di scelte strategiche. «La verità è, vedi, che voglio credergli». «Sì, sì». «La verità è che voglio riuscirci». «Capisco». «Ho trentotto anni. Possiamo ancora pensare a formare una famiglia. Non è troppo tardi». «Certo». «Non c'era una grande passione tra noi».
Troy si rese conto che con quel "noi" Anna si riferiva a se stessa e a lui. «Non abbiamo mai avuto un grande trasporto, non ti pare?». «Sì, mi pare». «Insomma, servivamo reciprocamente a riempire gli spazi vuoti». Era così, infatti. Come una musica suonata solo sui tasti neri. Si erano conosciuti nel secondo anno di guerra, ma solo alla fine del 1949 i loro rapporti erano cambiati, anche se forse quella possibilità c'era sempre stata. Ma Troy pensava che, in realtà, solo la propria debolezza e la solitudine di Anna li avevano spinti a superare una barriera della quale era sempre stato consapevole, e forse anche lei. «Se preferisci». «Voglio che vada tutto bene, Troy. Ci tengo molto. E, per l'amor di Dio, smettila di dire "se preferisci"». Anna piangeva silenziosamente. Prese un fazzolettino dalla borsetta e si asciugò gli occhi. «Se lo avessi visto quando ci siamo sposati...». Tacquero. La frase era rimasta in sospeso, ma Troy non voleva concluderla e nemmeno voleva sentire come l'avrebbe conclusa lei. Aspettò che si tranquillizzasse. Non era nelle abitudini di Anna mostrare così i propri sentimenti. Quello che avevano in comune, lo aveva pensato spesso, era il cinismo senza lacrime di chi lavora tutto il giorno a contatto con la morte. «Va bene», disse infine. «Capisco». «Non potresti essere un po' meno comprensivo?». «Eh?». «Non importa. Ma hai detto che volevi parlarmi, che c'era qualcosa di nuovo...». «Ti ho detto così?». «Sì». «Mah, non so bene come dirlo». «Su, parla! Non sarà niente di terribile dopo quello che ti ho detto io. O no?». Gli sorrise, attraverso le lacrime. «La settimana scorsa mi sono sposato», disse Troy, con semplicità. Anna smise di sorridere. Niente altro contava più. «Sei uno stronzo, Troy», disse. «Un vero fottutissimo stronzo». 35
Un venerdì mattina, in Goodwins's Court, alla fine di luglio, Troy stava preparando la colazione per tutti e due. Toscà era uscita dalla vasca, l'aveva sentita camminare sul pavimento di legno del piano di sopra e aveva cominciato a friggere il bacon e a scaldare il pentolino delle uova strapazzate. Era rimasta in bagno cent'anni. Il profumo dei sali si era sentito fin sulle scale e, insieme al ritmo monotono della sua canzone, cantata con voce acuta, era arrivato in cucina. «"Io quell'uomo me lo sciacquo via di dosso"». Troy sperò che non significasse niente di speciale. «"Lo mando a spasso"». No, non significava niente di speciale. Accese la radio per ascoltare il notiziario dall'interno. La voce delle occasioni importanti, annunciò, in un crepitio di sottofondo: «È stata confermata ieri sera da Alessandria la decisione dell'Egitto di nazionalizzare il Canale di Suez. Il colonnello Nasser ha dichiarato che rifiuterà i termini della convenzione del 1888, secondo la quale Inghilterra e Francia...». Squillava il telefono. Doveva essere Rod. Era il suo momento. «Signor Troy? Sono Bill Bonser, ispettore del dipartimento investigativo criminale di Portsmouth». Troy tolse il bacon dal fuoco. «Mi dica, ispettore». «Volevo chiederle se ha la possibilità di venire per qualche ora a Portsmouth. Abbiamo trovato il cadavere». «Ha detto il cadavere?». «Sì, ho detto il cadavere, ma non sono sicuro al cento per cento che sia lui». «Lui chi?». «Lui, la spia di Portsmouth». «Non vorrei sembrarle uno stupido, ispettore, ma io che cosa c'entro? Non mi sembra che la questione riguardi la squadra omicidi». «No, infatti. Ma pare che lei sia stato l'ultimo a vederlo vivo». «A vedere vivo chi?». «Il sommozzatore, signore». Un accenno d'impazienza cominciava a farsi strada nel rispetto dovuto al superiore in grado. «Ancora non capisco. Quando avrei dovuto vederlo?». «Oh... Non vorrei sembrarle scortese, ma forse lei ha passato qualche tempo all'estero? Senza leggere i giornali?». «Sì, quasi tutto il mese di giugno». «Ah... allora lei non sa. Il governo ha comunicato il nome della spia, circa quattro settimane fa. Cockerell. Vice comandante Arnold Cockerell, della Royal Navy. In pensione».
Quel nome non significava niente per Troy. Poi, di colpo, si ricordò. Le scarpe di camoscio. Le scarpe di camoscio! Quel tipo con la faccia sottile, i baffetti alla Ronald Coiman, il blazer blu e le scarpe di camoscio. «Come le ho detto, signore, abbiamo trovato un cadavere. Pescato dal mare, davanti al molo Chichester, verso la punta estrema del promontorio Selsey. Ma l'identificazione è difficoltosa». «Mi scusi, ispettore. Ci ho messo un po' di tempo a capire, ma adesso la seguo perfettamente e posso dirle che non sono stato io l'ultimo a vedere Cockerell. L'ex sergente Quigley l'ha visto dopo di me e potete trovarlo proprio lì vicino a voi». «Lo so, signore. L'abbiamo convocato e non è riuscito a identificarlo con sicurezza. E sua figlia, poi, non lo vuole nemmeno vedere. Dev'essere una ragazza impressionabile». «I familiari?». «C'è una moglie, signore, ma... potrà fornirci una identificazione in futuro, per il momento è sconvolta. Se lei venisse, signore, tutto si chiarirebbe. Per ora siamo in difficoltà. La signora Cockerell è rimasta qui e forse si lascerebbe convincere da lei a dare un'altra occhiata... ma, come dire, è imbarazzante... Lo capisce?». «Va bene. Verrò dopo pranzo». Troy rimise il bacon sulla fiamma, aprì le uova nel pentolino, dentro il luccichio del burro, ascoltò la Toscà che apriva e chiudeva i cassetti mentre finiva di vestirsi e intonava un'altra canzone, e si chiese perché Rod non gli avesse raccontato la storia di Cockerell. Solo una settimana prima sembrava che non pensasse ad altro se non a estorcere un'ammissione da parte di Eden. Ma una spiegazione c'era. Lui era tornato a casa con una moglie, e quella moglie era russa. Rod, il fratello felicemente sposato, per il quale non esisteva infelicità nel matrimonio né felicità al di fuori di esso, si era sentito completamente soddisfatto, e nell'empito della soddisfazione non aveva più pensato ad altro. Quando Toscà aveva pronunciato la sua battuta alla Mae West, Troy l'aveva visto ridere fino a far pensare che non riuscisse più a smettere. Lei aveva brillantemente rotto il ghiaccio. Rod se l'era stretta al petto, o un po' più giù, visto che era alta un metro e cinquantotto coi tacchi, tra lacrime di ilarità. Era una caratteristica delle passioni di Rod quella di eclissarsi a vicenda, come la luna e il sole. Prima o poi glielo avrebbe detto. 36
L'ispettore Bonser aveva definito l'identificazione del cadavere difficoltosa, Troy, dopo averlo visto, avrebbe scelto un'espressione più forte. La faccia era sparita e, con la faccia, tutta la mano destra, la sinistra fino al dorso, tutto il piede destro e due dita del sinistro. La testa era stata scoperchiata in alto e, dietro, schiacciata come un grano di pepe. Era rimasto in acqua tre mesi. La muta gli aveva protetto il tronco, ma i pesci avevano divorato tutte le parti esposte. Un occhio che penzolava fuori da quanto restava dell'orbita, mezza mangiucchiata, sarebbe bastato da solo a rivoltare uno stomaco robusto. Troy guardò quel mucchio nudo e informe, che forse una volta era stato il piccolo patetico venditore di moquette, appoggiato su un lenzuolo di gomma verde. La carne esposta era striata e macchiata, quella che era stata scoperta togliendo la muta era bianca come la farina, gonfia come un lumacone su una foglia di cavolo. Troy si rivolse al sergente che Bonser aveva mandato ad accompagnarlo. «Volevate scherzare dicendo che avrei potuto identificarlo? Neanche sua madre ci riuscirebbe». Il sergente era superficiale o insensibile o, più semplicemente, giovane. Alzò le spalle. «Ci sono i denti, no? E l'impronta di quelle tre dita del piede». Quella frase irritò Troy, anche se non avrebbe saputo dire perché. «Guardi la mascella. Vede qualche dente? Non è chiaro che aveva la dentiera?». Il sergente si chinò a guardare dentro il buco nero della bocca senza labbra. «Ah, ho capito. E dov'è andata a finire la dentiera?». «Non lo so. Vorrebbe forse dragare il Solent?». Il sergente non capì che era una frase sarcastica. Lui, probabilmente, avrebbe fatto dragare il Solent per cercare una dentiera. «E con che cosa le confronterebbe le impronte di quelle tre dita?». Il sergente alzò di nuovo le spalle. La morte non gli faceva impressione. Non lo turbava. Ma turbava Troy, che non vedeva l'ora di andarsene. La porta dell'ufficio di Bonser era aperta. Stava in piedi davanti alla scrivania, appoggiato con la schiena, e si chinava a parlare con una donna che, seduta su una sedia, sussultava ogni tanto, ripiegata su se stessa. «Sono sicuro che lei potrebbe...», le stava dicendo, «dopo sedici anni di matrimonio». Aveva un tono di voce incredulo, ma anche severo. Troy lo trovò sgra-
devole, soprattutto pensando che quella donna che singhiozzava doveva essere la signora Cockerell. Troy bussò leggermente alla porta a vetri. Bonser si staccò dalla scrivania e andò alla porta. «Il risultato?». Troy preferiva non parlare davanti alla signora Cockerell. Scosse la testa. «Ma come? Niente? Eppure sono sicuro che lei...». Anche prima, alla vedova in lutto, aveva detto: «Sono sicuro». Troy pensò che non gli avrebbe comunque risposto e lo interruppe passandogli accanto e mettendo una mano sulla spalla alla signora Cockerell. «Signora Cockerell?». Lei sollevò un pochino la testa e lo guardò, col viso alterato dalle lacrime in una orribile maschera. Una donna insignificante, già avanti nella mezza età. Aveva indosso un soprabito di tweed, troppo pesante per la stagione, e in testa uno di quei cappellini che le donne pensano di doversi mettere nelle occasioni importanti. Aveva sbagliato? Ma un marito morto non è importante? «Sono Frederick Troy, ispettore capo di Scotland Yard. Ho conosciuto suo marito nell'aprile scorso. Abbiamo parlato per poco tempo. Mi dispiace molto». Negli occhi della signora si accese un lampo di paura. Si voltò sulla sedia e diede a Bonser un'occhiata pungente, poi guardò di nuovo Troy. «Non è lui. A loro non ha detto che è lui, vero?». Troy osservò Bonser. Sciatto, grosso, con una faccia da pugile, se ne stava vicino alla porta aperta, con le bretelle a righe, la cravatta col nodo allentato, le mani in tasca, la biro che gli usciva dal taschino della camicia. La signora sembrava spaventata, quasi fuori di sé a quel pensiero. Da quanto tempo Bonser la stava interrogando? «No, non ho detto niente. Non potrei affermare, in tutta onestà, di aver riconosciuto suo marito in quel cadavere». «Non è lui, infatti. Si vede, no? Non è lui. Non può essere». Bonser si levò le mani di tasca. «Ma via, adesso non...». Troy lo interruppe con un gesto e uno sguardo che dovevano servire ad affermare la superiorità del suo grado. Poi, con un tono di voce solo un po' più alto del necessario, disse: «Ha già fatto colazione, signora Cockerell?». Lei fece segno di no con la testa e un riccioletto grigio sfuggì da quel ridicolo cappellino. «Sono quasi le tre. Avrà fame».
Troy le tese la mano, lei la prese e si alzò in piedi. Era un po' più alta di lui, snella, sulla cinquantina. Ora la vedeva bene. Le lacrime avevano lasciato dei piccoli solchi nella cipria che aveva sul viso. Il rossetto, di un colore forte, era sbavato. Grazie al cielo, pensò Troy, non si era truccata gli occhi, altrimenti sarebbe parsa uno scarico di carbone. La fece sedere davanti, nella Bentley. Bonser venne lasciato nel suo ufficio, scontento, ma senza argomenti da opporre. «Le parlerò io», gli disse Troy. «Insistendo non si ottiene niente». Bonser scosse la testa e cominciò a raccogliere le carte dalla scrivania, pensando già ad altro. «Forse ha ragione», disse a Troy, «ma così andremo per le lunghe». «Che cosa farà?». «Che cosa farò? Quello che si fa in queste occasioni: lo metterò in ghiaccio». Mise una cartelletta in archivio e richiuse il cassetto con un colpo secco. «Il coroner aprirà un'inchiesta e la rimanderà all'infinito e io, nel frattempo, resterò con un cadavere non identificato e una inchiesta aperta. E la confusione di dati aumenterà». Era il genere di obiezione comune ai poliziotti di tutto il mondo, un richiamo alla solidarietà professionale di Troy. «Esistono situazioni peggiori», disse Troy. Poi aggiunse: «L'autopsia. Manderà una copia del referto a Scotland Yard?». «Se crede», rispose Bonser, come se gli fosse indifferente. Troy entrò con la Bentley nel cortile del King Henry. Era fuori orario e contava sulla gentilezza di Quigley. La porta era aperta, fissata al muro, Quigley, dietro il banco del bar, asciugava i bicchieri, ma la macchina del caffè era ostentatamente coperta da un telo. «Signor Quigley?», disse Troy. «È impossibile, vero, chiedere di far colazione a quest'ora?». «Qualcosa riuscirò a preparare». «Potrebbe darci anche un po' di cognac?». Quigley guardò il quadrante dell'orologio appeso dietro il banco. Sapeva esattamente l'ora, ma era un gesto che, nella sua normalità, dava sicurezza, sdrammatizzava. Si sentì anche un mezzo sospiro, un po' forzato. «Non è per me», disse Troy, «è per la signora Cockerell». «Non mi dica altro. Offre la casa, così non ci sarà niente di illegale». Sedettero, da soli, al tavolo nel centro della sala. Quigley diede alla signora Cockerell un lungo sguardo e le mise davanti un grosso bicchiere di cognac. Troy. con molte insistenze, la convinse a togliersi il soprabito e a
bere un sorso. Lei aveva smesso di piangere. Il dolore ora si esprimeva col silenzio. Non parlò con Troy finché Quigley non arrivò con due piatti di arrosto e patate in un mare di grasso. La signora Cockerell si tolse lo sciocco cappellino e lo appoggiò su una delle sedie rimaste vuote, raddrizzò le spalle e assunse l'aspetto forzato di chi sa sopportare le avversità. «Non è lui», disse con un accento schietto. Il tatto vale più della verità, ricordò Troy a se stesso e disse: «Lei può giudicare meglio di chiunque altro». «Quell'ispettore voleva che dicessi che era mio marito». «No. credo che facesse solo il suo dovere. Glielo chiedeva perché voleva essere ben sicuro». La signora Cockerell si mise in bocca un pezzetto di patata, lo masticò di malavoglia, si accorse che le piaceva e cominciò a mangiarne qualche pezzetto più consistente. «È diverso: non considerava un no come una risposta soddisfacente». Parlava con calma. Troy pensò che non era un giudizio suggerito dal nervosismo, anche perché coincideva con l'impressione che aveva avuto lui stesso. Non gli parve opportuno, però, mostrare alla signora che era d'accordo con lei e lasciare che se ne andasse pensando che Bonser l'avesse interrogata con troppa insistenza. La pace, quando la si poteva raggiungere, stava nel negare. La verità veniva solo al secondo posto. «Mi dica», chiese, «suo marito non aveva segni particolari, riconoscibili?». «Aveva una cicatrice sul dorso della mano destra e un neo a un lato del collo. Ma la mano destra manca, vero? E anche del collo non c'è quasi più niente. Io l'ho detto all'ispettore. Ma lui pensava che io dovessi sapere altro ancora». Troy decise di non insistere su questo punto. La signora mangiava lentamente, ma senza pause. Sembrava in grado di superare la prova. Mary Quigley portò due ciotole di budino di prugne con una crema di un colore giallo artificiale. A Troy non piaceva il technicolor a tavola. Disse che aveva mangiato abbastanza e ne approfittò per andare a cercare Quigley. «Signor Quigley, quando era nella polizia, conosceva già Bill Bonser?». Quigley aprì la bottiglia di cognac e riempì per Troy e per sé due bicchieri molto più piccoli di quello che aveva offerto alla signora Cockerell. Ne avvicinò uno a Troy attraverso il banco del bar. Fece un po' di spazio per appoggiare il gomito, come richiedeva un corretto atteggiamento confidenziale e si sporse in avanti. «È arrivato da Liverpool l'anno in cui sono andato in pensione. Era ser-
gente, allora. Se vuole il mio parere, sarebbe meglio che fosse ancora sergente». «Perché?» «Secondo lei, quali sono le qualità che contano? Intuito, immaginazione... fiuto, se così si può chiamare». «Sì, giusto». «Billy Bonser non ha queste qualità. È un sergente nato». Quigley s'interruppe per bere un po' di cognac. Troy non riusciva ancora a capire che cosa volesse concludere. «Ma lei non mi sta dicendo che è disonesto, vero?». «Disonesto? È tutto d'un pezzo, si potrebbe usarlo come sfollagente. Onesto, disonesto, non è questo l'importante. L'importante è quello che distingue una capra da una pecora. L'intelligenza, signor Troy. Bonser non è intelligente. È serio, ubbidiente, come dev'essere un buon sergente. Gli manca la fantasia per essere disonesto. Se gli si dice di buttarsi da una rupe si butta. È venuto qui quando ho denunciato la scomparsa di Cockerell. Due giorni dopo che lei se n'era andato. È entrato. Ha chiesto di controllare il registro». Quigley tolse il registro di sotto il banco, lo aprì e ne sfogliò le pagine con gli angoli accartocciati. «Ha guardato la pagina col nome di Cockerell, e per combinazione, anche col suo, signor Troy, e, povero me, l'ha strappata e ha detto che qui Cockerell non c'era mai stato. Poi, ieri, è venuto a chiedermi di identificare il cadavere. Tipico di Bonser. Un giorno gli ordinano che Cockerell si è perso nel nulla, un altro giorno gli ordinano di cambiare idea e di farlo identificare. E lui obbedisce. Alla lettera. No, non è disonesto, tutt'altro. È tutto d'un pezzo. Un sergente nato». Troy pensò che se Quigley era stato sergente per vent'anni, c'era una strana mescolanza di generosità, obiettività e tortuosità in quella definizione, ma si guardò bene dal dirlo e, invece, domandò: «Ma di chi erano quegli ordini? Perché, qui, c'era chi voleva che Cockerell sparisse nel nulla?». «Noo! Non era uno di qui, signor Troy. Era uno dei suoi colleghi della sezione speciale. Prima che lo mandassero a Portsmouth, Bonser era sergente alla sezione speciale di Liverpool. Ma attenzione, era troppo tardi. Era già venuto un giornalista. E aveva capito tutto prima». «Un giornalista? Gli ha chiesto per chi lavorava?». «Ha detto per il "Sunday Post". Corrispondente locale. Secondo me aveva un informatore nella polizia. E così si è mosso più in fretta di Bonser».
«Lo ha detto a Bonser?». «No, perché confondergli le idee?». Ecco che qualcosa si cominciava a capire. Il "Sunday Post" apparteneva alla famiglia Troy ed era diretto da suo cognato Lawrence, che avrebbe certamente pubblicato qualsiasi notizia potesse essere utile a Rod. Per questo Rod era riuscito a forzare la mano al governo molto prima che tutti fossero informati che c'era stata una spia. E Rod aveva anche saputo che la spia di Portsmouth era il comandante Cockerell. Non lo aveva mai nominato. Non era difficile immaginare il piacere che aveva provato nel costringere Eden a farlo, le allusioni ufficiose con le quali aveva lasciato intendere a Eden che lui già sapeva... Solo che, adesso, sembrava che la spia di Portsmouth non fosse il comandante Cockerell. Troy offrì alla signora Cockerell un passaggio a Londra. Lei rifiutò, dicendo che il suo treno aveva una coincidenza per Reading e che le sarebbe bastato essere accompagnata alla stazione. «Non è lui», ripeté, con la mano sullo sportello dell'automobile, prima di entrare nell'atrio della stazione. «Sono sicura che non è lui». Per abitudine, una brutta abitudine che molto spesso si risolveva in un rifiuto, Troy le diede il suo biglietto da visita. Il suo grado e il numero 1212 di Whitehall, il più famoso di tutta l'Inghilterra. «Se c'è qualcosa che posso fare per lei...», disse, senza nessuna intenzione particolare, sapendo che non lo avrebbe mai cercato. E per un mese lei non lo cercò. 37 Troy si era ritirato nello studio del padre, o meglio il suo studio, ora. La pioggia d'estate batteva contro le finestre, scuoteva i vetri nel telaio. Mise un disco di Art Tatum sul giradischi, prese da uno scaffale Il tranquillo americano e decise che avrebbe trascorso un sabato pomeriggio di pioggia anzi, probabilmente, un weekend di pioggia, in solitarie delizie. Da qualche parte, a distanza, sentiva le sue sorelle chiacchierare a vuoto. Rod era al piano di sopra, davanti a un tavolo pieno di carte, come ogni sabato; Nikolaj faceva il sonnellino del dopopranzo nella serra; Cid, in cucina, sceglieva con la cuoca il menu della cena. Toscà non sapeva dove fosse e per due capitoli di Graham Green non se lo chiese. Evocata dai suoi pensieri, entrò senza far rumore. Era vestita bizzarramente, con gli indumenti che Troy teneva in uno scatolone e usava per cu-
rare il giardino o accudire ai maiali. Vecchi pantaloni di cotone grigio rimboccati molte volte alle caviglie, una camicia scozzese senza colletto e senza polsini. Si annoiava. Troy ormai ci si era abituato. Si annoiava facilmente. Con ogni probabilità era stata attratta dalla musica, dalla prodigiosa cascata di note del pianoforte di Tatum, dalla melodia soffiata del sassofono di Ben Webster, dal cecoviano suono sordo del contrabbasso. Troy non sentì la sua presenza come un'intrusione. Avrebbe voluto, veramente, che lei avesse un po' più di iniziativa, scegliesse un libro, mettesse un disco, senza aspettare che fosse lui a decidere. L'aveva liberata di Huck Finn, l'aveva convinta che c'erano altri scrittori oltre a Mark Twain. Ma stava arrivando rapidamente alla conclusione che non sarebbe riuscito ad accontentarla, nel vero senso della parola. «Stai bene, baby?». Si mise a sedere di fronte a lui, su una poltrona, ma sul bordo, senza appoggiare la schiena, più come una figlia che come una moglie. Irritabile, irritante e stramba. «Sto bene». «Non ti dispiace se... se sto seduta qui?». «Tutt'altro. Sei mia moglie». «Dà molti privilegi, vero?». Troy non rispose. «Scusami. Era una frase meschina. Sono stata troppo tempo con le tue sorelle». La pioggia, che scuoteva le portefinestre, riempiva il silenzio, lasciando che Troy rimandasse ancora il momento in cui avrebbe detto quello che sapeva di dover dire anche se avrebbe preferito tacere, perché certe rivelazioni erano contrarie alla sua natura. «No, ho capito. Non intendevo dire che sei una mia proprietà ma. al contrario, che quello che è mio è tuo. Per quanto questa frase possa apparire banale». Lei sorrise e subito, nella frazione di un secondo, non sorrise più. Non c'era la possibilità di sfuggire. Meglio parlare. Sapeva che avrebbe dovuto dirlo. Posò il libro. La propria inadeguatezza gli si mosse incontro come una nuvola temporalesca. «Volevo dire che ti amavo». «Allora è così?». Un sussurro, non indifferente, non incerto, non incredulo. Ma a Troy parve che non esprimesse tutto quello che lei pensava, al punto che non era una vera risposta, come se le parole che aveva usato non avessero un vero
significato. Suonò il telefono. Era più vicino a lei, che lo stava guardando, con gli occhi intenti, sorridendo con timidezza, bloccata dallo sforzo di trovare le parole. Lo lasciò suonare, finché Troy non disse: «Rispondi. Sarà per Rod. Di solito è per lui». «Pronto». Troy vide che il sangue le scorreva via dalla faccia mentre, gli occhi fissi nei suoi, assumeva una espressione di terrore. «Sì, sì». Una pausa. «Sì, è qui. Subito». Mise una mano sul ricevitore e si rivolse a Troy con un bisbiglio che equivaleva a un grido. «Aaaaaaagh!» «Che cosa succede?». «Aaaaaaaaaagggghhhhhhhhhhh!!! È Ike!». «Ike chi?». «Quanti Ike ci sono? Eisenhower! Il presidente! Oh, Cristo, levami di mano questo telefono!». «Che cosa vuole?». «Vuole sapere se sono di buonumore. Cristo, Troy, che cosa pensi che voglia? Vuole parlare con Rod!». Troy le strappò di mano il telefono e lei, con dei gridi soffocati, cominciò a saltellare per la stanza, da un piede all'altro, come se fosse sui carboni ardenti. Troy corse al piano di sopra. Rod si mostrò particolarmente calmo. Sbadigliò, prese il telefono e disse: «Ike», come se gli avesse parlato solo il giorno prima. Troy tornò nello studio e vide la Toscà, delirante, correre ancora per la stanza in fiamme. «Gesù, baby! Credi che abbia riconosciuto la mia voce?». «Sono passati dodici anni». «Ma, Troy, io l'ho visto ogni giorno per settimane, per mesi! Mi faceva perfino la corte!». «Gli sarebbe mancato qualsiasi collegamento per riconoscerti. Tu sei morta, non ricordi?». Lei tornò a sedersi sul bordo della poltrona, battendo a terra nervosamente la punta dei piedi. «Hai ragione. Sono morta. Qualche volta stento a ricordarmene. Voglio dire, spesso mi trovo a cercare di capire chi sono, cieca se penso a Gaza, scema se sono nell'Hertfordshire, spaesata nel deserto di una casa della campagna inglese, smarrita tra la cooperativa e Dorothy Perkins, presa in mezzo tra il demonio e la signora in blu della Asso-
ciazione femminile, alla deriva in un mare di buone maniere e masturbazione, incerta se la proprietà sia veramente un furto e se la mia borsetta arancione stia bene coi golfini gemelli, pazza se penso che non so che cosa ci distruggerà prima, se la bomba H o la preoccupazione di mettere a tavola la forchetta al posto giusto, e tutto questo dimenticandomi continuamente che sono morta. Beh, l'ho detto e vadano tutti affanculo». Per qualche minuto si sentì solo la pioggia e il tuono che si avvicinava. Troy si spinse indietro sulla sedia, che restò in equilibrio sulle gambe posteriori, e riaccese il giradischi. Tatum ora suonava Via col vento, la canzone di prima della guerra dalla quale Margaret Mitchell aveva preso il titolo per il suo libro, poi diventato un film con una canzone tutta diversa. Qualche volta più forte della musica era il rumore della pioggia contro i vetri. Era impossibile ritrovare lo stato d'animo di poco prima, Troy godeva e soffriva della fragilità del silenzio sotto la pioggia. Un silenzio quasi erotico. La tentazione di infrangerlo era forte, ma aveva provato una volta e gli era andata male. Prese il libro. Allora lei si alzò dalla poltrona, gli spinse in là il libro, gli strinse le braccia intorno al collo e pianse, appoggiata sul suo petto. Il disco girò sull'ultimo solco. Una delle leggi del cambio automatico stava nel prescindere dalla scelta del momento. Lei sollevò la testa, si soffiò rumorosamente il naso e guardò Troy tenendo il viso schiacciato contro il suo. «Ti ricordi che cosa diceva Mark Twain?». Troy scosse la testa. «"Le voci di una mia dipartita possono produrre effetti diversi"». «Esagerava?». «È la parola». Poi lei lo baciò, si rannicchiò contro di lui, gli infilò i piedi tra le gambe e nascose la faccia contro il suo collo. Aveva un buon profumo, Troy non avrebbe saputo definirlo, un profumo di scaglie di sapone unito al suo profumo naturale. 38 Rod non lasciò il soffietto finché non ebbe ottenuto un bel fuoco. Non aveva molte doti pratiche e si dedicava con impegno alle poche cose che gli riuscivano bene. Eccelleva nella preparazione dei pancake, preparava un cattivo Martini e si assumeva l'impegno di tenere acceso il fuoco, ac-
compagnandosi con ripetute grida di: «Non toccatelo! Lasciatelo stare!». Nelle sere d'estate più fresche, come quella, capitava di vederlo, chino sopra i tizzoni, col sedere per aria, soffiare sopra una scintilla per trasformarla in una fiamma. Una volta acceso il fuoco, gli pareva un peccato sprecare quella fonte di calore e di luce e spesso, salutati tutti, lo si trovava accovacciato lì vicino, che sbadigliava o dormicchiava, con in mano un fascicolo di documenti parlamentari o un romanzo di quelli che si concedeva dopo mezzanotte. Quando era ancora ministro, Troy lo aveva salvato in tempo dal prendere fuoco, perché un comunicato del governo gli era scivolato dalle ginocchia dentro la grata e gli aveva incendiato i pantaloni. La cena era finita, tutti si erano dispersi nelle proprie camere. Troy passò lungo il tavolo a spegnere le candele con le dita. Aveva già avuto la precauzione di chiudere la porta. Si mise a sedere vicino al camino, sperando in due chiacchiere accanto al fuoco, una frase che non si sentiva più molto spesso dopo la morte di Franklin Delano Roosevelt. Rod perfezionò l'accensione e, con un sospiro, sedette in poltrona dall'altro lato. «Non vai a letto?», chiese. Era un suggerimento. Nel linguaggio di Rod equivaleva a un «levati dalle palle», ma Troy non si sarebbe fatto mandare via. «Non hai intenzione di dirmi quello che sta succedendo?». «Cioè?». «Il presidente degli Stati Uniti, di solito il sabato mattina gioca a golf, non fa telefonate clandestine a casa, in campagna, a un politico inglese poco importante». «Telefonate clandestine! Politico poco importante!». «Non sapevo nemmeno che lo conoscessi». «All'epoca della preparazione del D-day sono andato decine di volte dentro e fuori dal quartier generale. Non ero certo in confidenza con un generale di quel livello, ma lo conoscevo. Ci siamo rivisti un paio di volte nel '54 e, tu non lo sai perché ti stavi dando al bel tempo con la tua fresca sposa, nel giugno scorso ho guidato il gruppo laburista a Washington». «E gli hai dato questo numero di telefono?». Rod mise da parte il foglio che aveva in mano. Era il segno, almeno, che Troy aveva guadagnato la sua attenzione. «La notizia è riservata. D'accordo?». «Non sono un giornalista, Rod». «Un incontro con i capi della opposizione fa parte del lavoro, suo e mio, ammettilo. Non c'è niente di strano in questo, perciò non fare quella faccia.
Il fatto che ci fossimo incontrati durante la guerra, naturalmente, ha contribuito. Lui Gaitskell non lo conosceva nemmeno. In giugno mi ha detto che era preoccupato per l'Egitto, il patto di Baghdad con quello che segue, e che gli sarebbe stato utile, di tanto in tanto, conoscere il parere dell'opposizione sulle formalità e vari dettagli. E no, non gli ho dato il numero, lo aveva già. Mi ha chiesto se poteva chiamarmi qui e ha aggiunto di essere certo che la linea non fosse controllata. Non posso garantire altrettanto per il telefono del mio ufficio. Mi ha detto che avremmo potuto parlare senza che nessuno ascoltasse, né da parte sua né mia. Oggi mi ha telefonato perché, dopo aver sentito Eden ieri sera alla televisione (pare che all'ambasciata americana a Londra tenessero il ricevitore del telefono attaccato al televisore perché tutto arrivasse direttamente alla Casa Bianca) è giunto alla conclusione che Eden non abbia capito niente. Pare che Dulles gli avesse detto chiaro che l'America non ci avrebbe sostenuto nella questione egiziana, "non ci faremo strada con le armi attraverso il canale" e discorsi del genere, forse troppo sottili per Eden. Comunque, da loro non c'è da aspettarsi niente. Ike, però, pensa che Eden lo sappia e finga di non capire». «Che c'è di nuovo? L'aveva pur conosciuto durante la guerra, non penserà che sia migliorato». «Esatto. Questo fa parte del problema. Dubito che abbia mai avuto molta fiducia in lui. Però qualcosa di nuovo c'è». Rod tacque e parve quasi lasciarsi sfuggire un sospiro di rammarico. «Stiamo preparando l'occupazione». Troy giudicò che il silenzio fosse una prova di discrezione. Purché Rod continuasse a parlare. «I conservatori hanno firmato un patto segreto con la Francia e Israele. Israele attaccherà l'Egitto attraverso il Sinai, in direzione del canale. Gli inglesi e i francesi si faranno avanti come pacieri e, con l'occasione, si beccheranno il canale e se lo terranno per sé. Era tutto scritto, pare, ma Eden ha bruciato la sua copia dell'accordo e ha mandato qualcuno del ministero degli esteri in Francia, per farsi dare la copia francese. Ma la copia di Israele non è riuscito ad averla. Eden ha mentito al parlamento e, se lo costringessimo a una seduta speciale, mentirebbe ancora». «Come l'ha saputo Ike?». «La CIA ha dato un'occhiata alla copia di Israele». «E perché lui ti dice tutte queste cose?». «Semplicemente perché vuole che le sappia». «Non ci credo. Non ci credi nemmeno tu. Non vedo che uso potresti far-
ne. Hai mai visto qualcuno alzarsi alla camera dei clown e dire al primo ministro del momento che è un bugiardo? Se lo facessi, tutti i giornalisti che sono in Inghilterra ti chiederebbero qual è la tua fonte d'informazione. E tu che cosa gli diresti? Che Ike ti ha telefonato a casa? No, perché nessuno ti crederebbe. Che hai un filo diretto con la CIA? Ti porterebbe più danno che altro. La tua sinistra ti attaccherebbe in tutti i modi possibili». Rod si avvicinò un po' di più con la testa a Troy. Nessuno poteva sentirli, ma abbassò ugualmente la voce. «Lui dice che se Eden porta avanti la sua decisione, gli toglierà ogni appoggio. È come se avesse sputato sul dollaro. In autunno noi dovremo pagare gli interessi per i prestiti che l'America ci ha fatto dopo la guerra e probabilmente non potremo adempiere ai nostri obblighi. Il ministro del tesoro dovrà andare in giro col piattino, chiederemo soldi a tutti, in cambio di un buono postale da cinque scellini. Da sudditi di una grande potenza imperiale a mendicanti, in meno di dieci anni. A questo punto Ike ci terrà per i coglioni e una delle sue massime è che quando si tiene un uomo per i coglioni, cuore e cervello seguono subito dopo». «Oh, Cristo, questo è machiavellismo. Ma ancora non capisco perché si è preso il disturbo di telefonarti». «Una relazione particolare?». «Non scherzare». «Vuole che siamo pronti». «Per che cosa?». «Per il governo». «Per il governo? Ma non ci sono elezioni fino al 1960!». «Eden se ne andrà. Ike ha deciso. E quando se ne andrà, è probabile che, come Sansone, trascini con sé i conservatori. A gennaio saremo al governo». «Insomma Ike si comporta come un allibratore. Ti dà qualche buona soffiata?». «A vantaggio della continuità». «Robaccia». «Diplomazia». «Se lo dici tu. Io potrei trovarti un'altra decina di parole più appropriate». Toccò a Troy, ora, abbassare la testa verso il fuoco scoppiettante per cercare un tono di una ambigua familiarità. Segreti dove sarebbe stato possibile che non ce ne fosse nessuno. Verità domestiche dove le bugie avreb-
bero dovuto essere solo lontano da casa. «Dimmi, non è anche solo minimamente inquietante essere oggetto delle operazioni della CIA? Non ti preoccupa almeno un po' un presidente americano che decide di far saltare il governo in Inghilterra? Come può farlo con i conservatori, potrebbe farlo anche con te». «Tempi strani, Freddie, creano strani compagni di letto». «Se dovessi andare a letto con la CIA, la mattina mi conterei le palle». 39 Il tranquillo americano non era dove l'aveva lasciato. Gli mancavano solo due capitoli e avrebbe voluto finirlo. Bussò alla porta della Toscà ed entrò. La finestra era spalancata per lasciar passare l'aria delle notte con le ultime, rade gocce di pioggia. I pantaloni, le mutande, le calze erano in terra, in un percorso dalla porta al letto, proprio come se li avesse lasciati cadere man mano che se li toglieva. La camera si era trasformata in una versione solo di poco più ordinata del rifugio dove aveva abitato in Orange Street, tanti anni prima. Era seduta sul letto. La camicia a quadri era diventata una camicia da notte. Leggeva il libro di Graham Greene. Troy decise di non dire niente. Ne avrebbe cominciato un altro. «Mi dispiace per oggi pomeriggio». «Non devi scusarti. Ti eri spaventata». «Sarebbe più giusto dire terrorizzata». Infilò il dito nel libro per tenere il segno e se lo tenne contro il petto. Piegò le ginocchia e vi appoggiò il mento. «Ho pensato, vedi... potrebbe essere chiunque. In qualsiasi momento... non si sa mai. Non si può mai essere sicuri». Lo guardava. Uno sguardo che non riusciva a penetrare. Prima, sulla poltrona, gli si era stretta addosso, aveva scacciato la paura della giornata, dormendo come un bambino spaventato. Non lo aveva mai fatto prima. Durante la cena era stata sempre zitta, aveva lasciato che fossero Ron e le gemelle a chiacchierare; ogni tanto, sotto la tovaglia, gli aveva stretto la mano. E non solo. L'aveva fatto tante volte, in passato. Troy, ora, non sapeva che cosa voleva da lui. «No», disse, «non si può mai essere sicuri». 40
Era stata un'estate di brutto tempo. Vento e pioggia, con qualche imprevedibile giorno di sole, ogni tanto, per ravvivare il calendario e far dire agli inglesi che le estati non erano più quelle di una volta, quelle di prima della guerra. Un barlume di sole restava. All'inizio della stagione l'Inghilterra aveva battuto la squadra australiana di cricket in un incontro internazionale, dimostrando che anche se Len Hutton si era ritirato, forse il suo spirito giocava ancora. Il poliziotto seduto al tavolo dell'ingresso, a Scotland Yard, era affidabile come un barometro di marca. Parlava del tempo o del cricket e, in un caso o nell'altro, la conclusione era la stessa. «È la bomba», aveva detto una mattina, alla fine d'agosto, a Troy che arrivava da Whitehall. «È evidente». A Troy piaceva quella espressione. Usata da un particolare tipo di imbecille, soprattutto allevato in Inghilterra, era l'avvio, l'introduzione all'assurdo, a una affermazione che, al di là di ogni dubbio, sarebbe stata priva di evidenza. «Tutta colpa della bomba». Troy non era sicuro di aver capito. Il cricket o il tempo? «Non avevamo mai estati come questa prima che buttaste tutti quegli atomi nell'aria. Sono gli atomi. Ce ne sono troppi che ci ronzano intorno». Muovo o passo? Muovo, pensò Troy. Per il gusto del gioco. «Piove sempre anche in Giappone». «Già, perché ci sono gli alisei. Noi e il Giappone siamo sulla rotta degli alisei. Il vento porta tutti i loro atomi da Hiroshima e Naga... come si dice, verso l'Inghilterra». Un attimo di riflessione e Troy intravide la possibilità di dare scacco matto in due mosse. «Certo», disse, il cavallo davanti all'alfiere della regina in C3. «Il Giappone non vale niente al cricket». «È evidente», rispose il poliziotto e fece ricorso al circolo vizioso dell'oratoria da strapazzo, al trucco della ripetizione, comune ai filosofi da bar. Troy lasciò perdere. Nel suo ufficio il telefono seguitava a suonare e non c'era traccia né di Clark né di Wildeve. Non riconobbe la voce di donna che chiedeva dell'ispettore capo Troy. «Sono Janet Cockerell», disse. «Sì», rispose Troy, senza nessuna espressione particolare nella voce. «Mi aveva detto di chiamarla se...».
Lasciò la frase in sospeso, ma non importava. Quel "se" per lui voleva dire una cosa sola. Quando fai del bene, non aspettarti gratitudine o ricompensa. Può succedere tutto e niente. Di solito non succede niente. Ma lei aveva telefonato. «Mi ha chiamato di nuovo l'ispettore Bonser». Anche con Troy si era rifatto vivo. Il referto dell'autopsia era nel vassoio della corrispondenza. Non l'aveva aperto, se aveva avuto qualche ragione per chiederlo, se l'era dimenticata. «Vuole che torni a Portsmouth. Non so perché. Devo andarci?». «No, signora Cockerell, non è obbligata ad andarci». «Non può costringermi?». «No, non può costringerla». Troy non era stupito della richiesta di Bonser. Quali altre speranze aveva di identificare quel cadavere? C'era da stupirsi, se mai, che avesse aspettato tanto. «Ma», proseguì Troy, «sono sicuro che si sarà resa conto che Bonser ha, evidentemente, ben pochi elementi per procedere». «Non mi consiglia di andare?». «No, signora Cockerell». «Non è mio marito. Non posso dire che lo è se non è vero». Quella frase Troy l'aveva già sentita. «Ha un modo di chiedermelo... Mi sento costretta...». Troy non capiva perché la telefonata dovesse continuare o come si sarebbe conclusa. «Signora Cockerell, perché è sicura che il cadavere che lei ha visto non sia quello di suo marito?». «Perché lui è ancora vivo. Lo so». «Sono vent'anni, signora Cockerell, che indago su morti sospette. La maggior parte dei casi che cominciano con un disperso finiscono con un morto. Non c'è un uomo su diecimila che possa efficacemente organizzare la propria scomparsa. Il vecchio trucco di lasciare i vestiti sulla spiaggia non funziona. Se di suo marito non si hanno notizie da quasi cinque mesi, le probabilità...». «Mio marito non ha lasciato i suoi vestiti sulla spiaggia, li ha lasciati al King Henry!», protestò la signora Cockerell. «Infatti. E questo non le dice niente?». «No». «Suo marito non ha inscenato una sparizione. I vestiti sono una cosa, ma
lui ha lasciato il portafoglio, la valigia, l'automobile, lo spazzolino, il rasoio. Come può essere in giro per l'Inghilterra senza un soldo?». La signora Cockerell ripeté la domanda che Troy aveva rivolto a lei. «E questo non le dice niente?». «Per esempio?». «Per esempio che tutto ci riporta ai soldi. Non potrebbe averne avuti un po', nascosti da qualche parte?». «Sì, forse lei ha ragione. Ma...». «I soldi, signor Troy. Tutto sta nei soldi. Se lei potesse venire a dare un'occhiata...». «Come?». «Se lei potesse venire qui. Nel Derbyshire. A vedere». «Io sono nella squadra omicidi. Non posso occuparmi di persone scomparse o di danaro scomparso». «Ma lei non crede che mio marito sia scomparso, lei crede che sia morto!». Lo aveva messo spalle al muro dando una svolta logica al dialogo. Più tardi, Troy avrebbe avuto modo di chiedersi più volte perché avesse accettato di andare nel Derbyshire, lasciandosi coinvolgere in quel disgraziato, nauseante pasticcio. Nello scrivere l'indirizzo, il nome della città, Belper, gli parve stranamente familiare, come se l'avesse sentito ripetere, di recente, in una circostanza diversa. La signora Cockerell aveva ragione, lui credeva, se non altro perché glielo suggerivano l'esperienza e l'istinto, che suo marito fosse morto. E aveva ragione anche di pensare che, nonostante lui non potesse dare a Bonser, legalmente, la certezza di cui aveva bisogno, anche Bonser credeva che il cadavere fosse quello di Cockerell. In questo caso, pensò Troy, era una storia di spionaggio e non sarebbe toccato a lui occuparsene, ma se quello non era il cadavere di Cockerell, che senso avrebbe avuto l'affermazione, da parte sua. che Cockerell era. comunque, morto? Morto dove? Morto quando? E per mano di chi? No, non era il ragionamento logico della signora Cockerell che l'aveva messo spalle al muro, ma il proprio, unito alla curiosità di ficcare il naso negli affari di Cockerell solo perché gli dava fastidio che suo fratello si fosse tanto interessato al vantaggio politico che era possibile trarne. Rod stava facendo uno strano gioco. Recentemente Troy era rimasto sorpreso nel vedere a quali posizioni estreme si spingesse, quali metodi usasse e quali fossero gli strani compagni di letto, come li aveva definiti, con cui si disponeva a trattare. Si ricordò di quel lungo cucchiaio arrivato a Downing Street. E di quando
Rod aveva insinuato che lui, e con lui «gli altri zucconi della sezione speciale» fossero serviti da esca nell'episodio del comandante Cockerell. Non gli piaceva l'uso che Rod faceva di quello che veniva a sapere e nemmeno gli piaceva la fonte di quelle informazioni, ma più grave, molto più grave era il pensiero che lui stesso poteva essere stato usato, poteva avere avuto un ruolo secondario mentre aveva sempre creduto di essere il fulcro di ogni situazione. Guardò il piccolo mucchio di carte, bene in ordine sulla scrivania. Da quando era arrivato Clark, tutto era sempre regolare e sotto controllo. Il contrario della sua vita. «Verrò domani in giornata», disse alla signora Cockerell. Riattaccò il telefono e prese dal vassoio il referto sull'autopsia. Tutte le buone indagini cominciavano con un cadavere soddisfacente. E a chiunque fossero appartenuti i resti che adesso erano sul tavolo dell'obitorio a Portsmouth, quello era il cadavere più soddisfacente che avesse avuto da tempo. Ripugnante, mangiato dai pesci, marcio e puzzolente. Il referto del medico legale costituiva una lettura disgustosamente apprezzabile, fin dall'intestazione: "Contenuto dell'apparato digerente: stomaco, duodeno, colon ed esame del retto". Ma a quel punto il disgusto fu più forte dei perversi piaceri del poliziotto e Troy rimise il referto nel vassoio per le pratiche già evase. Mancava quello per le pratiche in sospeso. Forse Clark aveva già provveduto? Forse un giorno, entrando in ufficio, avrebbe trovato anche la sua vita in quel vassoio al centro della scrivania? 41 Quando fu il momento di decidersi a partire, Troy non si sentì di viaggiare in automobile. Un viaggio di ore avanzando lentamente per la A5 e poi per la A6, attraverso il Northamptonshire, il Leicestershire e metà del Derbyshire gli parve di una noia insostenibile, tenendo conto anche del tempo che ci voleva per uscire dalla periferia di Londra, col rischio di imboccare la strada verso nord a passo di lumaca. L'Inghilterra era soffocata dal traffico. Troy prese da un cassetto della scrivania l'orario ferroviario e cercò un treno che lo portasse a Belper, con la vecchia linea delle Midlands, che partiva da St Pancras. Gli piaceva andare in treno e l'Inghilterra aveva una rete ferroviaria molto estesa che collegava perfettamente tutto con tutto. A differenza dei treni di Mussolini, quelli inglesi di rado erano in orario, ma
portavano negli angoli più piccoli e sconosciuti del paese, sia che si trattasse di Midsomer Norton, nel cuore del Somerset o della microscopica Monsal Dale sulle alture del Derbyshire. Valeva, per la rete ferroviaria inglese, il giudizio che aveva dato a Kruscev sulla metropolitana, era decrepita, ma funzionava. Belper? Perché conosceva quel nome? Belper. Lo trovò sulla piantina. Era circa quindici chilometri a nord di Derby, una piccola città di nessuna importanza, chiusa tra un affluente del Trent e le ultime propaggini dei monti Pennini. Ma aveva una stazione ferroviaria. 42 L'ansimare ritmato del mostro di ferro, quel suo regolare respiro meccanico avevano sempre su Troy un effetto soporifero. Si addormentò più o meno nel Bedfordshire. Quando si svegliò era buio e il treno attraversava, sbuffando, la pianura della Trent Valley. Non si ricordava di essere passato per Leicester e Loughborough. Guardò dal finestrino il cielo sgombro di nuvole, illuminato da una mezza luna quasi perfetta. Il treno superò velocemente, una stazione. Log... Qualcosa. Si affacciò al finestrino dello scompartimento di terza classe della LMS (London Midland Railway), poi tornò a sedersi sui sedili dal rivestimento consumato e si addormentò un'altra volta. Si sentì scuotere leggermente per un braccio. Aprì gli occhi. Lo scompartimento era poco illuminato, fuori era già buio. Il treno era fermo. Era stato il controllore a svegliarlo. «Ha detto che doveva scendere a Belper? Presto, se no si trova a Manchester». Troy saltò dal treno, ancora mezzo addormentato e si trovò nel "paese che non c'è". Il treno ripartì, con i suoi profondi sospiri ritmati e scomparve lungo la strada scavata nella pietra. Altri rumori, altri odori si aprirono come in un trucco fotografico. Un effluvio notturno di violacciocche, un profumo più delicato di rose canine, l'aroma forte delle foglie di nicotina. Si trovava di fronte a una aiuola fiorita e ben curata. Al centro, formata da sassi bianchi e con una bordura di gerani scarlatti, c'era la scritta B-E-L-PE-R, nitida come se fosse stata composta un attimo prima. Dall'alto di un muro di pietra, un lampione a gas, sul suo supporto di ferro, mandava un fischio leggero nell'aria profumata. Ai suoi due bracci erano appesi cestini di nasturzi ricadenti e lobelie a grappoli. Lo sferragliare del treno si perse
in lontananza ed emerse un borbottio, un tubare di colombi che a tratti interrompeva il silenzio. Il silenzio. Ecco che cosa c'era di sbalorditivo. Da una finestra aperta arrivava, indecifrabile ma inconfondibile, il suono di una radio sintonizzata su un notiziario dall'interno ma, a parte quello e il raro tubare dei colombi, Troy non sentiva nessun rumore, non un'automobile, una voce, niente. Un silenzio profumato. Si guardò attorno. Era vicino alla palazzina della stazione, in uno stile da chalet svizzero, con un intonaco rosso scrostato. Sulla porta alla sua destra, c'era una targa smaltata con la scritta "Toilette Signore". Un po' più in là, alla sua sinistra, un uomo in divisa da facchino caricava su un furgoncino delle ceste dov'erano stipati dei colombi da allevamento. I colombi tubavano e c'era un rapido battere d'ali ogni volta che sollevava una cesta. L'uomo somigliava molto a Oliver Hardy. La stessa faccia paffuta, la stessa mascella a vari strati di grasso, schiacciata tra il mento e il colletto, gli stessi baffetti dal taglio fuori moda, lo stesso pancione. «Mi scusi», gli disse Troy, «non credo, vero, che ci sia un albergo della stazione?». Si aspettava di vederlo drizzare la schiena, mettersi a posto la cravatta, stringersi al petto il berretto, mordendosi le labbra e scuotendo la testa in un accesso di georgiana modestia. Invece seguitò a caricare sul furgoncino le ceste con i loro ospiti che tubavano. Troy si rammaricò di aver formulato la domanda in una forma che implicava una risposta negativa. Accidenti all'inglese e alle sue buone maniere che sono il contrario della grammatica. Avrebbe dovuto chiedere semplicemente: «Dov'è l'albergo più vicino?». Senza guardarlo, Oliver Hardy indicò lo stretto sentiero che portava verso la città. «Lassù?», chiese. Sapeva che esisteva gente così, che aveva poca dimestichezza con la lingua. «In cima alla salita. Di là dalla piazza. Kedleston», disse Hardy con una voce sorprendentemente acuta, sottile, poco più che un bisbiglio, sempre senza guardare Troy. Appoggiò di peso l'ultima cesta sopra le altre, passò nella parte anteriore del furgoncino e schiacciò un bottone. Un motore elettrico emise un ronzio non più forte di quello di una macchina da cucire e il carro si avviò sobbalzando su per la salita, con Hardy appollaiato al volante. Troy seguì la carovana in cerca del caravanserraglio, quasi imbarazzato dal silenzio di quell'uomo, lasciandosi pervadere, inconsapevolmente, dal tubare dei colombi e dal profumo delle violacciocche, nell'aria calda della notte. Una notte d'oriente sui monti Pennini.
Non sarebbe rimasto per molto. Il Kedleston era un buco, che aveva visto l'ultima volta il pennello di un imbianchino o un rotolo di tappezzeria durante il regno di Edoardo VII. La sua stanza era piccolissima. Il letto largo come una bara. Le molle, che avevano ceduto da un pezzo, protestavano continuamente e quando tacevano, l'ospite della stanza accanto, dalla quale Troy sospettava di essere diviso solo da due fogli di tappezzeria incollati l'uno contro l'altro, provvedeva a sostituirle, per solidarietà, con inqualificabili rumori. Si svegliò, stanco e indolenzito e si accorse di avere davanti a sé l'unico mobile della stanza che appartenesse al ventesimo secolo, palesemente ideato e costruito come oggetto di ripiego, in applicazione al motto del tempo di guerra "fai il meglio che puoi con quello che c'è". Questi mobili di fortuna si erano rivelati sorprendentemente resistenti e, Dio sa come, forse c'era anche qualcuno disposto a trovare bello quel cassettone di legno compensato, identico a tutti gli altri che si trovavano in molte case, qua e là, in tutta l'Inghilterra. Era l'alchimia applicata al legno, la necessità trasformata in virtù. Si lavò e si vestì con un rumore di rubinetti aperti e un boato di sciacquoni. L'acqua era fredda e dovette aspettare che il rivoletto si scaldasse; ogni volta che qualcuno passava sulle scale, il vaso di plastica sul cassettone traballava. Fu l'ultimo a scendere. La piccola sala da pranzo era piena. Uomini coi baffi, vestiti di marrone, che sembrava si conoscessero tra loro, erano sommersi da uova unte, bacon unto, unto a sé stante, tè col latte e discorsi che riguardavano il loro lavoro. Tabacco vecchio e brillantina sovrastavano gli altri odori, che erano quanto di peggio una prima colazione potesse offrire. Due o tre degli uomini vestiti di marrone salutarono Troy con un buongiorno e quello seduto più vicino a lui gli chiese che cosa vendeva. Ascoltando le loro chiacchiere, boriose, allegre, tutte nel gergo del mestiere, Troy capì che sedeva a un tavolo di pionieri, all'avanguardia nel commercio di scopini e accessori per bagno. Uscì sulla strada. Era una bella giornata di primo autunno. La luce del sole tardivo sembrava volesse competere con quella della fine d'agosto. La strada principale era animata, c'erano banche, negozi di tessuti, palazzi di uffici e macellerie, immersi in improvvisi bagni di fumo e vapore quando un treno passava rombando attraverso la strada ferrata aperta nel cuore della città. La cameriera che gli aveva servito una disgustosa colazione composta di
qualcosa di coagulato insieme a qualcosa di freddo, la cui unica garanzia stava nelle grosse quantità che tutti ne stavano consumando, gli aveva disegnato una piantina sommaria della città. La rigirò da una parte e dall'altra, cercando di capire dov'era il nord e poi prese la strada principale, verso la collina a est, cercando la Heage Road, l'indirizzo che gli aveva dato la signora Cockerell. Non si era mai trovato tanta pietra intorno da quando aveva passato un pomeriggio in cui non sapeva che cosa fare all'abbazia di Westminster. La città sembrava scolpita nella pietra. Qualche rara costruzione di mattoni aveva l'aria di un infelice ripensamento, in omaggio alla modernità. Salì lungo il fianco della collina, poi, dall'alto, tornò a guardare la città. A destra, verso nord, c'era una grossa ciminiera di mattoni anneriti. Dunque c'erano delle fabbriche. Senza dubbio, se fosse uscito più presto, quella mattina, avrebbe visto le donne uscire dalle casette di pietra sulle strade di pietra e avviarsi al turno delle otto. Ora, alle nove e mezzo passate, leggeva i nomi sui cancelli delle case in un quartiere diverso. La Heage Road era palesemente la strada elegante della città, le case erano più grandi e ben tenute, più lontane l'una dall'altra e architettonicamente diverse, anche se tutte soggette alla vecchia moda dei frontoni e dei fregi in muratura. Infine trovò "La valle dei gelsomini", una costruzione del periodo tra le due guerre, bianca e nera, in stile vagamente Tudor, bassa e larga, arretrata rispetto alla strada e chiusa da un cancello dove a entrambi i lati, sui pilastri di sostegno, c'era un vaso di legno da cui ricadevano dei fiori. Troy entrò, dividendo a metà la scritta sul cancello. Il giardino era immacolato, perfetto fino a sembrare finto: zolle spianate in strisce regolari come le venature di un legno, una bordura ben rasata attorno ad aiuole distribuite con regolarità, al limite del rigore maniacale, di una simmetria antiestetica e urtante. L'autore di quella disposizione geometrica stava osservando le lame di un tagliaerba, capovolto a terra. Poteva avere una settantina d'anni. Portava dei pantaloni neri e un gilè nero sopra una camicia di cotone a disegni, senza colletto. Guardò Troy di sotto due folte sopracciglia grigie. Sembrava la incarnazione dello zio Todger. Disse qualcosa che somigliava a un: «Cerca la signora?». Troy non capì bene ma, nell'incertezza, gli parve meglio rispondere con un "sì". Se poi si fosse visto mettere davanti un modulo di abbonamento per il "Reader's Digest" o quello per un'offerta libera ai testimoni di Geova, avrebbe cercato di esprimersi più dettagliatamente. «Sì», disse.
«E non era meglio suonare il campanello?». La frase era stata pronunciata di nuovo in modo oscuro. Non sembrava una domanda, se non per una leggera inflessione della voce e Troy ricorse, questa volta, a un «Certo!», sempre adatto a dar sicurezza nei momenti di dubbio. Il giardiniere si chinò sul suo tagliaerba capovolto e Troy avanzò tra due mezze botti e ciuffi di primule, verso il bianco e nero della casa, dove annunciò la propria visita tirando il cordone di una campanella di ferro. La sofferenza è una grande mistificatrice. Quella che aveva davanti a sé non era la donna che aveva visto a Portsmouth. Era una cinquantenne ben conservata, alta, sottile, elegante. Non avrebbe potuto dire che fosse bella, ma il modo con cui gli si rivolgeva, il portamento, l'abbigliamento facevano ritenere impossibile che si trattasse della stessa persona. «Signor Troy, così presto! Si accomodi». Sorrideva, mentre teneva la porta spalancata, e le brillavano gli occhi. Indossava una tuta da lavoro con molte chiusure lampo, di un celeste medio, lo stesso colore dei suoi occhi, probabilmente tinta dal grigio che si usava in tempo di guerra, perché, dove la teneva stretta con una cintura intorno alla vita sottile, il colore era sbavato in tante diverse sfumature. Nella mano sinistra aveva due pennelli, su uno c'era una traccia di vernice acrilica bianca, sull'altro una sfumatura di un colore che per Troy era legato a un ricordo d'infanzia, il "terra bruciata", l'unico colore che mancasse alla sua scatola di acquerelli, nessuno aveva saputo spiegargli perché. La signora si tolse il foulard di Liberty che aveva in testa, scosse i capelli, ben tagliati, in parte castani in parte grigi, senza fermagli né forcine. «Era in albergo in città? Credo che desideri una buona tazza di caffè? Sciacquo i pennelli e lo preparo». Un lungo corridoio portava sul retro della casa. La signora Cockerell si avviò in fretta. Troy la seguì più lentamente e si accorse che era scomparsa dietro una porta sulla destra, come il coniglio bianco di Alice. Si fermò. Una doppia porta si apriva su un salotto che dava sulla facciata. La curiosità lo portò fin sulla soglia, la discrezione lo trattenne dall'entrare. Là, nella penetrante luce che da est irrompeva quasi violentemente attraverso i vetri piombati delle finestre falso Tudor, c'erano le icone del nuovo, la concretizzazione del vangelo di Cockerell. I portacenere montati su treppiedi. Il ritratto di una cinese con la pelle verde. Il tappeto con delle figure di pattinatori, il tavolino con il piano di plastica e gli intarsi a forma di conchiglia, la versione industriale dello scarabeo, così come lo produce madre natura,
racchiuso in un involucro di ambra, le pareti tappezzate in modo diverso, due a righettine chiare e due a ghirigori scuri. E le tende... le tende, in colori mediterranei apparentemente schiariti dal sole, con un'abbondanza di bottiglie di Chianti sparse un po' dappertutto, erano il simbolo di quello che gli inglesi non erano, amanti del sole, accomodanti, spensierati. Non era una stanza in cui Troy potesse sentirsi a suo agio. I mobili stile studiod'artista, i divani di polivinile borchiato, con le gambe nere e fragili, che andavano assottigliandosi nei piedini di ottone, sembravano troppo leggeri rispetto ai robusti rappresentanti della nuova tecnologia, il televisore con gli sportelli, il grande, multifunzionale apparecchio radio con giradischi incorporato, completo di un assortimento di pulsanti color avorio, come il ghigno di una dentiera nel bicchiere. I mobili potevano spaccarsi sotto il minimo peso, il televisore e la radio potevano divorare l'ospite. «Arnold le aveva tenuto la sua conferenza, vero?». La signora Cockerell era apparsa, silenziosa, al suo fianco. Troy stava quasi per scusarsi, ma a un tratto non gli era parso più necessario. Lei stava appoggiata allo stipite e guardava dentro la stanza. «Sa... "l'arredo di domani" e così via». Troy sorrise. «Sì, me ne ha parlato». «Scommetto che l'ha annoiata a morte, non è così? Avrebbe trasformato tutta la casa, se lo avessi lasciato fare. Venga a vedere. Ho tenuto una stanza per me. Arnie può entrare solo a condizione che non cambi niente». La stanza era grande, proprio in fondo alla casa, con delle porte-finestre che si aprivano sul giardino. Era esposta a sudovest e doveva avere il suo momento migliore nel pomeriggio, ma anche di mattina si vedeva subito quali erano le intenzioni di chi l'abitava. "L'arredo di domani" non aveva superato quella soglia. Le pareti erano rivestite di tappezzeria inglese a fiori selvatici, un incontro di tenui gialli e azzurri sfumati. Il pavimento era di legno. Su un vecchio tappeto persiano, divano e poltrone edoardiani, dall'aspetto solido, erano rivestiti di un cinz classico, a colori pallidi: grandi fiori sullo sfondo in un campo di grano. Una parete era coperta di scaffali con molti libri dalla costa consumata, libri che erano stati letti. Una stanza tradizionale e accogliente. L'altra non avrebbe acquistato tanto carattere neanche in cinquant'anni. La signora Cockerell si era allontanata di nuovo, perché si era sentito il fischio di un bollitore. Troy guardò i quadri. Per la maggior parte doveva averli dipinti lei stessa, rappresentavano le cime e le vallate del Derbyshire. Erano acquerelli di un gusto vecchia Inghilterra, fuori moda, ma parve a
Troy, dopo averne visti cinque o sei, che l'artista avesse cercato, attraverso l'interpretazione del paesaggio, di raggiungere un'astrazione libera da sentimentalismi. Si era soffermato su una composizione che gli pareva decisamente astratta, quando lesse il titolo, che seguiva la firma e capì di essersi sbagliato. "Janet Cockerell. Combe Martin, Devon, 1948". Quello che aveva pensato fosse un quadro astratto era, invece, una marina nell'abbagliante luce argentea del North Devon, il mare come metallo martellato, le sporgenze rossastre degli scogli lungo la costa. Socchiuse gli occhi e poi lo guardò di nuovo. Era tornato a essere un quadro astratto. Guardava, ammirando il buon gusto della padrona di casa, i pochi quadri che non erano suoi: un ritratto, opera di Gween John e una scena vagamente religiosa, forse un episodio del vangelo, eseguita dalla mano inconfondibile, intensamente realistica di Stanley Spencer, quando lei ritornò. «Prendiamo il caffè in giardino? Dopo tanta pioggia, penso che sia giusto godere di questo sole di fine estate». Troy uscì dietro di lei, dalla porta-finestra. Anche per il giardino sembrava che la proprietà fosse stata divisa secondo gli stessi principi. Invece della disciplinata disposizione del verde davanti alla casa, qui la natura non sembrava aver subito costrizioni. Erbe e fiori crescevano insieme alle verdure nella stessa aiuola, un cespuglio di timo si espandeva accanto alle foglie scure e ruvide della maggiorana, decine di cipolle mature reclinavano la cima a ciuffo, una rosa rossa, non potata, fiorita in ritardo, perdeva i petali lucidi come sangue, un alberello dal tronco contorto era carico di mele cotogne, un migliaio di violacciocche appassivano ed erano lasciate a terra a fare da semenza. Un cavalletto da pittore era rivolto verso sudovest, oltre le ciminiere fumanti della città, i tetti di ardesia, l'intrico orwelliano di strade di pietra. Si vedeva solo il profilo del paesaggio. La signora Cockerell aveva lavorato una mezz'ora prima che arrivasse Troy. Appoggiò su un tavolino di vimini il vassoio con due allegre tazzine a buon mercato e una caffettiera fumante. Troy scelse la sedia più lontana dalla casa e si trovò quasi in bilico sul bordo di uno strapiombo che dava sui resti di una cava, coperti di vegetazione. Istintivamente spostò la sedia più verso la casa. La signora non disse niente finché non gli ebbe messo in mano una tazza di caffè forte, molto scuro. «So che è paradossale, ispettore, ma le ripeto che mio marito non è morto». «Non è morto». «Non è morto. Sta scappando».
«Sta scappando?». «Si sta nascondendo». «Perché?». La signora Cockerell posò la tazza sul vassoio. Con poche, brevi parole erano arrivati, almeno pareva, al cuore della questione. «Credo che mio marito vivesse al disopra dei suoi mezzi. Siamo andati avanti così per troppo tempo e, qualunque cosa lui potesse fare per mantenere questo tenore di vita, la crisi era inevitabile, le conseguenze si sarebbero fatte sentire. E lui è scappato». «E le cose che ha lasciato a Portsmouth?». «L'ha fatto apposta, perché pensassimo che era morto». «E quel cadavere?». «Una coincidenza. Una coincidenza che ha avuto la sua importanza». «E l'ipotesi che stesse lavorando per il governo?». La signora Cockerell si strinse nelle spalle, come avrebbe fatto anche lui. «Al governo, la mano destra non sa quello che fa la sinistra». Troy era d'accordo con lei. Una sintesi da editorialista. «Perché il governo di sua maestà avrebbe dovuto ricorrere a un uomo come mio marito? Non era il miglior sommozzatore del SOE, il corpo operazioni speciali, nemmeno quando era giovane. E sono passati più di dieci anni. A parte i cinquantadue anni, non sarebbe stato abbastanza agile, in forma, ha sempre bevuto e fumato troppo. Aveva trentacinque anni quando è cominciata la guerra. Se non fosse stato in marina non l'avrebbero mai richiamato, alla sua età. L'idea che ora fossero andati a pescarlo, già in pensione, per dargli un altro incarico, è assurda». «Che cosa pensa che facesse a Portsmouth?». «Si preparava a sparire. Creava qualche falsa pista. Infatti sono state le spie, i suoi vecchi amici a trovarlo, non la polizia che avevo già dovuto informare della sua scomparsa. Ho fatto la denuncia dieci giorni dopo che vi eravate conosciuti. Adesso sarà da qualche parte, all'estero, e si stupirà nel leggere che era una spia, felice di questa circostanza che lo libera dagli impicci e manda all'aria i creditori». «Si sono fatti vivi con lei?». «No». «E questo non mette in forse la sua ipotesi che si tratti di una questione di danaro?». «No. Ne ho avuto la prova coi miei occhi. Può darsi che non abbiano ancora capito di essere stati imbrogliati. Sono cose che vengono a galla len-
tamente. Quello che so è che, in questi ultimi anni, spendevamo molto. E non ce lo potevamo permettere». «In questi ultimi anni. Quanti?». «Cinque o sei. Dal giorno del Festival dell'Inghilterra». Rise per aver dato un'indicazione così precisa e abbassò lo sguardo sulla tazza, con una piccola smorfia ironica. «Quel giorno è tornato a casa e mi ha detto: "Ho visto come sarà il futuro e so che sarà positivo per noi, in tutte le forme e j colori che vorrai". Mi diceva sempre che gli affari andavano a gonfie vele. Da quando i laburisti avevano perso le elezioni non faceva che parlare di crescita economica. Diceva che avevamo finalmente un governo di uomini d'affari. E continuava a insistere su questo argomento al golf, al circolo dei conservatori o quando andava a infognarsi con i reduci della British Legion. Cominciava sempre così: "Quello che ho fatto io durante la guerra...". Non ne potevo più di sentirlo parlare della guerra, ma lo lasciavo fare. Cinque anni dopo avevamo tre negozi, io urlavo quando li chiamava empori; un magazzino pieno di tutte le cianfrusaglie che la gente potesse desiderare, scelte da lui che ha sempre avuto più intuito di me; una Rover e una Jaguar in garage e una MG da lasciare a Portsmouth. Il nostro conto corrente, contro ogni logica, è sano, nel deposito abbiamo molti titoli. Ma i conti non tornano. Lui non potrebbe, legalmente, avere questa situazione economica». A Troy sembrava strano che debiti o truffe avessero costretto Cockerell a sparire, pure avendo un buon conto in banca. Ma gli pareva anche strano che sua moglie gli raccontasse tutte quelle cose. «Supponiamo che lei abbia ragione e che sia vivo. Supponiamo che io lo trovi. Lei, in sostanza, lo ha denunciato». «Non me ne importa. Mi ha abbandonata». «E gli affari?». «Non ho toccato niente. Ho le mansioni di un amministratore. Mi sono limitata a firmare degli assegni per i direttori dei negozi e ho lasciato che facessero loro. Se ho ragione io, se Arnold è vivo e lei lo trova, venderò tutto senza dirgli niente, pagherò la gente che ha imbrogliato e lascerò che si arrangi. Se, invece, ha ragione lei ed è morto, dovrò pagare la tassa di successione. In entrambi i casi, non mi preoccupo. Non ho bisogno di soldi. Mio padre mi ha lasciato un patrimonio sottoposto ad amministrazione fiduciaria. Dio sa che Arnold non aveva bisogno di andare a mettersi nei pasticci. Avevamo già tutto quello che ci serviva. Ma lui aveva il suo onore da difendere. Sosteneva che i miei soldi non andavano toccati, perché un
uomo mantenuto dalla moglie non è un uomo. Le solite ipocrisie maschili. Principi sostenuti quando fa comodo. Io non ho mai dedicato il mio tempo a pensare all'onore di Arnold». Troy si ricordò di una frase che Conrad faceva dire al vecchio marinaio Marlow: «Dava tanta importanza al disonore, ma era solo la colpa che importava». La signora Cockerell aveva ragione, ma forse non era il caso di ricordarle un libro come Lord Jim, imperniato su figure maschili. Pensò di dare una virata di boa. «Chi è venuto da lei?». «Non capisco, signor Troy». «Lei ha denunciato la scomparsa di suo marito... nel modo più consueto?». «Sì. È venuto da me un ispettore della contea, Harold Warriss. Credo che lo si potrebbe definire un amico di famiglia. Lo conosco... lo conosciamo da anni. Lui mi ha rassicurata. Mi ha detto che Arnold presto si sarebbe rifatto vivo». «E quando si è visto che non era così? Quando i giornali hanno cominciato, tutti insieme, a insistere sulla storia della spia?». «Niente. Non è cambiato niente. Io non ho mai collegato quella notizia alla scomparsa di mio marito». «E neanche l'ispettore Warriss, o sbaglio?». «Mah, se ci ha creduto, non ha ritenuto di dover tornare da me una seconda volta». «E quando il primo ministro ha fatto il nome di suo marito?». «Oh, il primo ministro è così vecchio stile», nella voce della signora Cockerell c'era un'ombra di sarcasmo. «Quando ha deciso di emettere un comunicato con il nome di mio marito, e deve averci pensato per settimane, ha mandato qualcuno ad avvertirmi. Io non avevo saputo niente fino a una settimana prima. Non mi era mai passato per la testa, in tutta sincerità, che Arnold potesse essere la spia di Portsmouth. Poi, un giorno, senza che nessuno mi avesse avvertito, si è presentato un funzionario del ministero degli esteri. Daniel Keeffe. Credo che avesse circa la sua età. Un bell'uomo, giovane. Molto timido, molto nervoso. Mi ha espresso, quasi balbettando, le scuse del governo di sua maestà. Così ho saputo che la settimana successiva, in un comunicato della Camera dei Comuni, sarebbe stato fatto il nome di Arnold e che tutto era stato un terribile errore». «Ha detto proprio così?». «No. Mi ricordo le sue parole: "È stato un terribile equivoco. Sono desolato. Non immaginavo che avesse quella intenzione"».
«Parlava in prima persona?». «Sì, come se tutto lo riguardasse direttamente. Era molto turbato. So che avrei dovuto chiedergli qualche spiegazione, ma non l'ho fatto. Non credevo che Arnold fosse la spia di Portsmouth e non lo credo tuttora. Per quanto mi riguardava era soltanto scomparso. Al governo fa comodo dire che quello è Arnold. Chiude una questione in sospeso. Ma non è Arnold». «E i giornalisti?». «Oh, per un po' di giorni sono stati davanti al cancello. Ma, evidentemente, i vecchi amici servono a qualche cosa, perché Warriss ha mandato un agente in divisa e alla fine se ne sono andati. Poi più niente. Avevano altro da fare, immagino. Che cos'è un sommozzatore morto in confronto a Nasser?». «Vede», disse Troy dopo un po', «di solito gli uomini non spariscono per questioni di soldi, ma più spesso per questioni di donne». La signora rise, fu una risatina breve, un po' amara. «Ma andiamo, signor Troy! Non l'ha visto mio marito? Le pare che possa piacere?». La domanda richiedeva, e Troy provvide subito, una frase da manuale del detective autodidatta. «Non tutti i gusti sono uguali», disse, torcendosi dalla vergogna. «Mi creda, signor Troy, mio marito non era interessato alle donne e al sesso. Almeno non in modo...». La signora s'interruppe. Superò quel momento difficile versandosi un'altra tazza di caffè, ma era impossibile fingere che non fosse successo niente. «Vuol dire», chiese Troy, «non in modo normale?». La pausa che seguì fu così lunga che Troy pensò che non gli avrebbe risposto, ma lei prese un profondo respiro e lo guardò a sua volta. «Appunto. Non in modo normale. Aveva la mania della muta subacquea. Voleva tenersela addosso anche mentre facevamo l'amore. Io non gliel'ho mai permesso». «Non crede che avrà trovato un'altra più disponibile?». «No. Forse le prostitute delle città dove andava, da Manchester a Stoccolma. Viaggiava tanto che poteva conoscere quelle di tutta l'Europa. Non mi sorprenderebbe. Ma che un'altra donna accettasse una stupidaggine di questo genere, mi pare impossibile. No, mio marito non poteva avere una relazione fissa. Non era nel suo carattere. Da quando gli ho detto che non accettavo che venisse a letto vestito da subacqueo, si è sempre spogliato in bagno. In dieci anni, non l'ho mai visto nudo. Non credo che si mostrerebbe nudo a una donna. Ho visto meglio il morto dell'obitorio di Portsmouth
che mio marito...». La signora Cockerell s'interruppe per prendere un po' di respiro. Troy sperava che proseguisse e perciò tacque, temendo che una sua parola potesse dare un altro risvolto al discorso. «Quell'ispettore, quell'ispettore Bonser... lo sa che cosa voleva che identificassi?... come dire... lui pensava che potessi identificare mio marito dal suo... ha capito?». La signora tacque. E Troy fece altrettanto. «Io, naturalmente, non potevo. Ma ha insistito molto. Era questo che mi stava chiedendo quando lei è entrato. Non si convinceva che una donna non conoscesse...». La signora Cockerell appoggiò con forza la tazza sul piattino. La collera che a un tratto l'aveva colta, l'aiutava a trattenere le lacrime. Si appoggiò allo schienale della seda, con la faccia verso il sole, aspettando che l'emozione passasse e, insieme, la voglia di mettersi a piangere. Quando guardò di nuovo Troy era quasi calma, aveva un'espressione più dura, più severa, come fosse tornata a rendersi perfettamente conto di quello che stava dicendo e a chi. «Non so se faccio bene a raccontarle queste cose». «Sono un detective, signora Cockerell. Se devo scoprire la verità, mi servono degli indizi». «Sì, i detective scoprono la verità. Ma quello che scopro io è il sarcasmo di un uomo. Lei trova che le ho raccontato una storia ridicola, vero signor Troy?». Accidenti, l'aveva giudicata più ottusa. Una storia ridicola? Certo. «Non si preoccupi, signor Troy. Probabilmente c'è molto da ridere davvero. Anche il nome della casa, ''La valle dei gelsomini", le sarà parso ridicolo, un insulto al decoro delle contee della vecchia Inghilterra. Mio marito voleva cambiarlo unendo i nostri due nomi, ma il risultato era modesto. Io avevo tentato un anagramma di "sommerso dai debiti", che mi sembrava carino per un ex sommozzatore, ma lui non ha voluto e abbiamo lasciato il nome che aveva la casa quando l'abbiamo comprata. È sempre stato poco spiritoso Arnold». Troy aveva l'impressione che, dopo la virata di boa, ora il vento gli fosse propizio. Niente di sbalorditivo, ma un progresso c'era stato. Si riferì alle ultime parole della signora e, con garbo, la invitò a proseguire. «Faceva il sommozzatore quando l'ha conosciuto?». «Era la primavera del 1940, quando la guerra era ancora agli inizi. Ci
siamo sposati durante l'estate. Tutti si sposavano, allora. È stata l'estate della Battaglia d'Inghilterra e dei matrimoni affrettati. Arnold ha passato la maggior parte degli anni di guerra a insegnare a uomini più giovani di lui di quindici anni a diventare dei bravi sommozzatori. Ne ha sofferto. Era diventato molto irritabile. "Ragazzi che fanno il lavoro di un uomo", diceva. Poi, quando la guerra si è intensificata, è entrato in servizio attivo. Io credo che il corpo operazioni speciali mancasse di sommozzatori qualificati, dovevano essere alla disperazione per andare a ripescare Arnold. O forse tutti quelli che aveva allenato lui erano già morti? Comunque sia, dall'estate del '43 ha cominciato a darsi un mucchio di arie, a usare espressioni come "segreto, segretissimo" e a millantarsi di un lavoro "di importanza nazionale" a proposito del quale non poteva dirmi neanche una parola. Non si rendeva nemmeno conto che io non volevo sapere. Credo addirittura che sarebbe stato contento se gli avessi strappato un segreto a forza». «Ma dopo... dopo glielo avrà detto che cosa aveva fatto». «Sì, certo. Credo che avesse ragione. Era un "segreto, segretissimo". Controllava le spiagge francesi alla ricerca di un posto per il D-day. Ha affrontato davvero dei pericoli, devo riconoscerlo. Una volta, a nuoto, nella baia di Brest, è andato a mettere delle mine magnetiche sulle navi tedesche. Incarichi del genere. Ma non era un eroe e aveva un orgoglio esagerato per quello che aveva fatto. Non so per quale magia quei cinque anni d'inferno avevano pervaso tutti di un'assurda passione patriottica». La signora Cockerell guardò Troy, cercando di prevedere la sua reazione. «Ma io, mi dispiace, signor Troy, io quella passione non la condivido. Forse è una cosa da... uomini, no? A giudicare dall'età, anche lei avrà fatto la guerra e non volevo offenderla...». Troy l'interruppe. «Non ero in servizio, signora Cockerell». Lei si mostrò stupita. Pochi uomini dell'età di Troy non erano stati in guerra. Era una generazione di soldati. «Io facevo parte del WREN», disse. «Il corpo delle ausiliarie della Royal Navy». Troy tacque. «A Bletchley Park. Crittografia. Cose così». Troy era tranquillamente sbalordito. Quelle "cose così" erano il segreto meglio custodito di tutta la guerra. Molto era venuto alla luce negli anni, ma il linguaggio in codice era rimasto un segreto anche in tempo di pace. «Mio padre è morto nel '43. Ci ha lasciato la casa. Arnold è stato smobilitato presto e ci siamo sistemati qui prima dei risultati delle elezioni del
'45. Arnold ormai faceva parte delle riserve, ma credo che se gli avessero dato la possibilità di scegliere sarebbe rimasto. Dopotutto non era un soldato di leva, faceva parte della marina, anche se, in tempo di pace, l'avrebbero già congedato fin dal '44. Ma è rimasto fino a subito dopo la vittoria. Badavano soprattutto all'età. Lui aveva quarantun anni. Dal loro punto di vista sono stati generosi. Prima hanno congedato quelli sposati, quelli di mezza età e quelli con una famiglia a carico. Noi, naturalmente, non avevamo bambini. Avevamo passato quasi tutto il tempo di guerra ciascuno per conto proprio. E ormai era troppo tardi. Eravamo in King Street alla fine di luglio a far festa perché avevano vinto i laburisti. Tutti erano contenti. La mattina dopo ho trovato Arnold che puliva la sua attrezzatura subacquea. L'ha messa in un garage, dentro un baule di ferro. Da allora, la tira fuori due volte all'anno, la pulisce e la rimette via. Ha nuotato solo durante le vacanze. Di solito andavamo a Woolacombe. Era una mia scelta, la luce del North Devon è incredibile. Ho cercato per anni di riprodurla nei miei quadri. Ma si può anche nuotare, il mare è caldo e azzurro. Negli anni Quaranta ci abbiamo passato tutte le estati, ma non ho mai visto Arnold nuotare altro che a pochi metri da riva, come si fa in vacanza; il resto del tempo oziava sulla spiaggia o se ne andava in giro per i bar a scocciare tutti con i suoi ricordi di guerra. In questi ultimi anni, sono stata molto per conto mio. Arnold era spesso in viaggio all'estero a comprare, vendere, sa il cielo che cosa, chiacchierone come sempre». Da tutto quel racconto, era emerso un particolare che Troy aveva voluto riprendere. «Ha detto che suo marito teneva l'attrezzatura subacquea nel garage?». «Sì, dentro un baule. Se lo avessi lasciato fare, probabilmente l'avrebbe appesa in casa come un trofeo». «Ed è ancora lì adesso?». Troy aveva fatto una domanda chiaramente inattesa. La signora lo guardò per un momento senza batter ciglio. «Mah... non ho guardato». Passarono dal prato e attraverso un cancello laterale. Il garage appariva come il più colossale simbolo di benessere che una casa fuori dalle grandi città potesse mostrare; era già importante avere un'automobile, averne due o tre, quante apparentemente ne poteva ospitare il garage, era la prova di una ricchezza non comune. La signora Cockerell aprì, con uno sforzo, la porta di legno incurvato. Nel garage c'era una scintillate Rover 90 nera, il modello che era stato definito spesso la Rolls-Royce dei poveri. In fondo c'era un pesante baule di
ferro. La signora alzò il coperchio. Il baule era vuoto. «Non significa niente», disse. Troy non rispose. «Se ha pianificato tutto, come credo, questo è solo un indizio in più». «La polizia non le ha chiesto di guardare nel baule? O il funzionario del ministero degli esteri?». «Non ricordo di aver parlato con loro del baule». La signora Cockerell uscì in fretta dalla penombra del garage nella luce del sole. Troy si trovò davanti la schiena del giardiniere ancora chino sul tagliaerba. La signora Cockerell stava con le braccia incrociate, i pollici le affondavano nella carne, anche se cercava di avere un'espressione composta, nonostante la rabbia che evidentemente provava. «So che cosa sta pensando ma, mi creda, Arnold non è uno sciocco. Ha deciso tutto in anticipo e questo è un altro particolare cui evidentemente ha pensato. E poi, non quadra. Niente quadra. Ha letto che cosa dicevano i giornali? Dicevano che stava provando l'attrezzatura sperimentale per conto della marina. Non è assolutamente vero. Ma se fosse vero, che bisogno avrebbe avuto della propria attrezzatura? E se, si trattava di un "equivoco", dove l'aveva presa la cosiddetta attrezzatura sperimentale? In un magazzino dell'esercito? Della marina? Signor Troy, lo vede anche lei che hanno fatto un buco nell'acqua. Non riescono nemmeno a rendersi conto di quello che dicono. Arnold gli ha fornito una comoda scappatoia, ma credo che non gliene importi niente. Sarà tutt'al più lusingato di essere riuscito a servirsi della marina ancora una volta. Strano, vero?». L'uomo con il tagliaerba si avviò lentamente lungo il prato, tracciando quelle strisce simmetriche, il disegno a spina di pesce, e riempiendo l'aria dell'odore dell'erba appena tagliata. A Troy parve che quello schema regolare fosse l'unico che la signora Cockerell volesse vedere, per quanto la riguardava. «Signora, per un attimo mi accontenti e finga di credere che suo marito sia morto. Si chieda, a questo punto, perché desidera tanto che sia vivo, a dispetto dell'evidenza». «Posso presupporre che questa domanda non tenga conto di questioni di cuore né, minimamente sentimentali, signor Troy?». «Sì». «Allora credo che, dopotutto, ci capiremo. Io voglio che mio marito sia vivo e credo che sia vivo, perché se fosse morto a me resterebbero solo i
debiti». Una battuta da applauso a scena aperta. Giù il sipario e il pubblico in piedi, entusiasta. Rientrarono in casa. Lei andò nella sua stanza in fondo al corridoio, aprì la ribalta di uno scrittoio e prese un mazzo di chiavi. «Le prenda. Il magazzino principale è chiuso, per il momento. Il gestore mi ha chiesto di andare in vacanza e gli ho detto di sì. Guardi tutto quello che vuole. Non ho segreti, i segreti sono tutti di Arnold. Da qualche parte ci dev'essere una spiegazione per quello che ha fatto. Una truffa colossale, ne sono sicura. Se lei capirà come ci è riuscito, scopriremo il percorso del danaro, le tappe di questa corsa campestre. E al traguardo ci sarà lui». «Non sono particolarmente esperto in frodi, signora Cockerell». «Ma sono sicura che farà del suo meglio». Lentamente, ma sempre più forte, come una maledizione sempre più schiacciante, trascinante, che saliva dalle viscere del pianeta ed estendeva il suo flagello fino ai vertici della follia, il lamento di uno spirito femminile torturato entrò dalla portafinestra e Troy si sentì gelare fino al midollo. Andò sulla soglia, guardò il giardino, che affondava ignaro nel sole della mattina e distinse l'inconfondibile, ma quasi dimenticato, suono della sirena antiaerea. «Che cosa succede?». «Oh, è la sirena! Dovevo avvertirla. La suonano allo stabilimento quando cambia il turno». La signora Cockerell guardò l'orologio che aveva al polso e mostrò il quadrante a Troy. «Vede? È mezzogiorno in punto. La sentirà un'altra volta alle quattro. È sul tetto del Woolworth's. Serve ad assicurarsi che tutti sappiano quando il Moloc li vuole». Quanta violenza e arroganza. La vecchia usanza dell'uomo che andava all'alba a svegliare gli operai battendo alle loro finestre, si perpetuava in questo suono, che in Inghilterra evocava la paura. Ricreava il passato nel presente e, per un momento, riportò Troy al 1944. Alle notti buie e fredde, al deserto ghiacciato dell'East London. Buio, morte, il grido della sirena. Buio, morte, l'odore della cordite. Se lo sentiva quasi in bocca. «Signor Troy, sta bene? È molto pallido». Non stava bene. Gli mancava il respiro e aveva un dolore alla bocca dello stomaco. «Non sentivo quel suono... da molto tempo». «Noi ci siamo abituati». «Sì, lo immagino». Lei gli diede le chiavi. «Mi farà sapere?», chiese. «Sì», rispose Troy.
43 L'emporio del comandante Cockerell, il suo "quartier generale", era in fondo alla strada dove si teneva il mercato. Una insegna bianca e azzurra, che diceva solo COCKERELL in lettere alte circa quarantacinque centimetri, sovrastava la porta del negozio al dettaglio e di quello accanto. Non c'era altro che il nome, da lontano si poteva pensare che fosse una macelleria, una panetteria o il negozio dell'uomo che vendeva barche verde pisello. A un certo punto, in un passato recente, i due negozi erano stati uniti per creare uno stanzone grande come un granaio dove i divani scandinavi ad angolo potevano essere esposti a gruppi di tre, come quadrati cui mancasse un lato, con in mezzo un tavolino e delle lampade da fantascienza che erano una sfida alla tecnologia più avanzata, sottili gambi di acciaio o spirali a molla con una lampadina in bilico, in alto. Veniva definito, l'aveva letto da qualche parte, "pozzetto conversazione", progetto ideato per mettere la propria rotula in stretto contatto con altre, forse più carenti di relazioni sociali; un progetto stimolante destrezza fisica e mentale, che suggeriva giochi di tazze di caffè istantaneo, di vino bianco caldo e di vassoietti di noccioline; un progetto inteso a ottundere le facoltà mentali mentre l'occhio si lasciava attrarre dalle gocce colorate che salivano e scendevano negli steli affusolati delle lampade da tavolo. C'era abbastanza da risvegliare la ripugnanza dello snob che era in Troy. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che somigliasse a un ufficio. Una scala ripida portava con una curva al primo piano e, con un'altra curva, al secondo. Nello spazio intermedio c'era un gabbiotto di legno e vetro. Le pareti erano formate da un tramezzo di compensato che le divideva dalla stanza principale e il soffitto consisteva nell'angolo della scala che saliva al secondo piano. Una sola lampadina, con uno schermo di vetro smerigliato, era appesa precariamente al soffitto con un filo elettrico attorcigliato, coperto di una stoffa, attraverso la quale si vedevano tratti di gomma nera e rossa bruciacchiata. Troy diede un colpetto con la punta di un dito all'interruttore di ottone che era alla parete, quasi sicuro che dal filo si sarebbero sprigionate delle fiamme. Invece no, quaranta watt illuminarono debolmente la stanza. Era un buco angusto, stretto, la cui altezza andava morendo dove le scale s'incontravano col pavimento, ma lì Cockerell aveva ammassato tutto quanto possedeva. L'unico oggetto nuovo, che pareva venire da un altro mondo, era il telefono. La cassettiera, la scrivania con
una fila di caselle impolverate sembravano imbalsamate nella sporcizia da almeno cinquant'anni. Un piccolo pannello scorrevole, largo non più di quindici centimetri era inserito nella parete di compensato all'altezza della vita, come se, molto tempo prima, il braccio di un commesso avesse passato da lì le ricevute e i conti all'impiegato tutto solo nel suo bugigattolo. Dalla sedia girevole esplodevano ciuffi di crine di cavallo, il coperchio a scomparsa della scrivania era aperto solo per tre quarti e nessuna forza umana sarebbe riuscita a sbloccarlo. Sulla tappezzeria sbiadita, che copriva una parete e il soffitto inclinato, il disegno si vedeva ancora. Troy sapeva, fin dalle sue incursioni infantili nelle stanze ai piani di sopra di Mimram, che quello era il gusto vittoriano, i verdi e i gialli erano inconfondibili e probabilmente ornavano l'ufficio di Cockerell da più di settant'anni. Gli riusciva difficile immaginare che avesse svolto lì un vero lavoro. Non gli pareva possibile che il Giovanni Battista del Verbo dell'arredamento moderno potesse essere soddisfatto di vivere e lavorare tra le reliquie di un passato che disprezzava. Un portapipe era stato crudelmente inchiodato alla parete sopra la scrivania. Tre pipe, annerite e macchiate ma non usate da tempo, erano appese ai lati. Dietro la porta, in un portaombrelli, c'era una collezione di bastoni da passeggio, una dozzina e più: uno con una testa d'anitra in ottone; uno nodoso, con un'aria vagamente celtica; un bastone trasformabile in sedile, con il cuoio e la tela consumati. Troy buttò all'aria il contenuto di un paio di caselle: un catalogo di pezzi di ricambio per fornelli a paraffina, datato settembre 1922, una decina di vecchie copie di "Health and Efficiency" degli anni Quaranta, un vecchio manuale di una associazione automobilistica (consigli su dove fermarsi nelle più remote contee e qualche cartina dell'Inghilterra, minuta come una ragnatela), due copie di "Fur and Feather Monthly", nell'insieme quanto bastava per l'anticamera di un dentista. Primo segno di una presenza recente, "Parade" del febbraio 1956, una rivistina tette e culi, senza nessuna illusione di sana sportività. Cose che non gli dicevano niente. Rivolse la sua attenzione a una fila di libri impolverati in uno scaffale sopra la scrivania. L'"Almanacco Whitaker", che portava il nome di un cratere lunare, anno 1951, il secondo volume del dizionario americano Webster e decine di libri in edizione economica, che avevano l'aria di essere stati letti. Quasi tutta l'opera del defunto Peter Cheyney, maestro dello snobismo razzista e classista, creatore dello stereotipo di un inglese sprezzante, crudele, effeminato e di un americano vigoroso, dall'eloquio saggio, incapace di liberarsi dallo slang e con la pistola al fianco. I
cattivi erano, inevitabilmente, il prodotto di razze inferiori, ebrei, neri e, in generale, gli abitanti dell'Europa dell'est. Troy aveva letto uno o due romanzi di Cheyney da ragazzo e li aveva trovati ripugnanti. Le letture più recenti di Cockerell presentavano maggiore interesse. Il nuovo autore cui aveva dedicato la propria attenzione era Ian Fleming. Cockerell aveva Casinò Royal, Il grande slam della morte, Vivi e lascia morire, dove il protagonista era sempre James Bond, l'eroe. Il comandante James Bond, della Royal Navy. Non era difficile vedere il collegamento. Chiunque volesse lavorare di fantasia poteva leggere, magari con qualche compiacimento, le descrizioni del mondo anteguerra di Peter Cheyney, in cui un inglese era ancora come Dio e poteva farsi largo tra la folla degli stranieri che sapevano solo farfugliare la sua lingua, agitando il passaporto di sua maestà britannica e gridando: «Sua maestà britannica sono io!», ma forse Cockerell si sentiva più simile a James Bond. Comandante della marina, agente segreto, socialmente altezzoso, sessualmente sicuro di sé, ferito emotivamente, vulnerabile quel tanto da permettere all'ambiguo Cockerell l'effimera, abbagliante possibilità di identificarsi con lui. Il mobile alto e stretto a sinistra della scrivania si rivelò, all'interno, un armadio spazioso. Era chiuso con due serrature, una più nuova e più solida. Troy prese il mazzo di chiavi che gli aveva dato la signora Cockerell e, dopo un paio di tentativi, trovò quelle due che aprivano l'armadio. Gli parve subito un modello di ordine, se confrontato con la stanza che lo ospitava. Ammonticchiate con precisione una sull'altra, c'erano pile di cartellette: estratti conto tenuti raccolti da grossi fermagli e con la data per ogni trimestre; matrici di assegni; un libretto al portatore della Hereford & Worcester Joint Commercial Bank, succursale di Great Malvern; un estratto conto dell'Ancient Order of Derbyshire Foresters Savings Society, con il quale Cockerell aveva una piccola cartella fondiaria, e un rendiconto di una banca di Stoccolma dove, presumibilmente, acquistava l'"arredo di domani" del quale riempiva il magazzino al pianterreno. Troy era, lo sapeva, una nullità in materia di conti. Per questo aveva colto al volo l'occasione di far trasferire Clark: né lui né Jack avevano pazienza con le cifre. Per allontanare in qualsiasi modo il momento in cui avrebbe dovuto esaminare i libri contabili, Troy frugò ancora un po' nelle caselle sopra la scrivania, senza sapere che cosa cercasse o che cosa si aspettasse di trovare. Una lettera di accompagnamento di un'agenzia di viaggi? Un'agenda piena di dati e di appuntamenti segreti? Un libretto nero con la scritta "leggilo se sei in cerca di indizi"?Non trovò niente di meglio che una cartolina
spiegazzata. Veniva da un posto di mare, in Inghilterra, si vedeva uno di quei moli poco attraenti che si inoltrano, dalla costa, nelle acque fredde del Canale o del Mare del nord, Southend-on-Sea o Skegness, o qualcosa del genere. La parte dov'era scritto l'indirizzo era rimasta intatta, la cartolina era stata spedita al signor A. Cockerell, presso il negozio, ma dei saluti restava poco e il francobollo era macchiato. Troy osservò, per quanto era possibile, il messaggio, scritto da una calligrafia femminile, non c'erano dubbi, ma non riuscì a ricavare molto dai frammenti di parole. C'era un "eine", che poteva essere interessante, perché ben poche parole, in inglese, finivano così. Alla fine non poté più rimandare e si mise al lavoro. Avvicinò la sedia che perdeva il crine, soffiò via cinque mesi di polvere dalla scrivania e si dedicò ai poco affascinanti documenti contabili che avrebbero dovuto testimoniare l'oculata gestione di un piccolo commercio. Perché, si chiese lasciando errare lo sguardo lungo la strada principale fin dove s'intravedevano in lontananza i monti Pennini, perché Napoleone aveva definito l'Inghilterra "un paese di negozianti"? Diede un'ultima occhiata all'orologio. Aveva perso tempo, erano le due passate. Doveva stare attento. Se quell'accidente di sirena suonava anche alle quattro, per nessuna ragione al mondo voleva essere colto di sorpresa. Cockerell aveva ragione di vantarsi. Gli affari andavano bene, molto più di quanto si potesse supporre, visto che il suo lavoro si svolgeva nel centro dell'Inghilterra, poco incline alle novità e lontano dal cuore del paese, più sensibile alle mode. Sua moglie aveva ragione di sospettare. Aveva un considerevole giro d'affari. Ma oltre a questo, Troy non avrebbe saputo che cosa dire, non aveva i requisiti necessari. Cominciò ad augurarsi che Cockerell fosse morto davvero, che qualcuno lo avesse ucciso, almeno così l'argomento sarebbe rientrato nelle sue competenze. Di fonte a un omicidio si sa sempre quali iniziative prendere. Gli ci era voluta un'ora e più per arrivare a questa conclusione fondamentale. Erano le tre e cinquantotto. La sirena poteva suonare da un momento all'altro. Guardò di nuovo la strada. C'era un costante afflusso di clienti pomeridiani, massaie con la borsa della spesa gonfia, i furgoni delle consegne che andavano e venivano. Cominciava a capire perché Cockerell avesse messo il suo ufficio proprio lassù, era il posto ideale dove una mente pigra potesse impigrirsi. Le ore potevano trascorrere placidamente. La sirena emise il suo lamento. Troy aspettò che finisse. Guardò le colline sopra la città e aspettò. Non si accorse subito che c'era un altro rumore oltre al suono della sire-
na, che gli sembrava penetrante e fastidioso, ora, piuttosto che allarmante, ma copriva quasi completamente i colpi forti che qualcuno batteva alla porta d'ingresso. Quando capì, chi voleva entrare aveva avuto il tempo di passare dalla impazienza alla esasperazione. «E lei chi sarebbe?», disse, quando Troy gli ebbe aperto. Era un altro di quegli uomini con la faccia lunga e sottile. Aspettava in fondo ai gradini, con una giacca di tweed e dei pantaloni da cavallo di un tessuto diagonale, con una quantità di macchie indecenti, una sigaretta accesa, mezzo consumata, tra l'indice e il medio della mano destra. Questo esemplare appariva più robusto di Cockerell, più alto e con un po' di carne in più, eppure ugualmente ossuto e con la stessa passione per i baffetti sottili. Lo stesso seme si manifestava in un modo diverso, qui la magrezza sgradevole si accompagnava alla pancia sporgente, alle dita sporche di nicotina, alle unghie rosicchiate. Era alto un metro e ottanta o ottantadue. Troy pensò che avesse circa cinquant'anni e che li portasse male. Gli mostrò il mandato e lo vide rabbrividire, mentre ricambiava il suo saluto, parola per parola. «Ho visto la luce accesa», disse, «e ho pensato che fosse Janet... la signora Cockerell». «Lo credo, ma non mi ha detto ancora chi è lei». «Oh, sono George Jessel. Sono venuto per i libri». «Lei tiene i libri contabili per Cockerell?». «No, no. Arnold se li tiene da sé». «È il suo contabile?». «Nemmeno. Si occupa lui di tutta la contabilità. Sono il suo revisore». L'uomo si frugò nella giacca e ne trasse un biglietto da visita con gli angoli accartocciati: "George G. Jessel - Revisore autorizzato, 23, Railway Cuttings - Belper". «Sono incaricato della revisione ogni sei mesi. Questa volta sono già in ritardo». Con il mozzicone della sigaretta che gli bruciava tra le punte delle dita color caffè se ne accese un'altra, poi lo buttò via. Dopo due o tre boccate fu preso da un accesso di tosse, non riusciva a respirare, si raschiava la gola, sputava frammenti di catarro per terra, piegato in due dall'impegno che metteva nel rovinarsi i polmoni. Quando rialzò la testa, quasi sorrideva. «Sono molto in ritardo, veramente. La disturba se rilevo le cifre degli ultimi mesi?». Era il momento di tacere. Lascia che vada avanti a parlare, si disse Troy, che sia lui a riempire il silenzio. Lo guardò, senza dire niente. «L'ho chiesto a Janet... alla signora Cockerell... e mi ha risposto che non
poteva essere disturbata. Ma il lavoro va fatto, no?». Troy non disse niente. Jessel aspirò a fondo il fumo della sua sigaretta. «Ah, le donne!», proseguì in tono ciarliero. «Lo sa come sono le donne!». «No, non lo so. E, in ogni caso, oggi qui non può restare. Se deciderò di darle accesso ai libri contabili, glielo farò sapere. Per il momento rientrano nella mia indagine. Lei è sempre reperibile a questo indirizzo?». Troy accennò al biglietto da visita mezzo accartocciato. «Sì, dalle nove alle cinque e mezzo, nei giorni di lavoro». «Le farò sapere». Jessel restò per un momento fermo sui gradini anche quando Troy ebbe chiuso la porta. Poi. mentre si allontanava, si voltò indietro più di una volta e, prima di aver fatto cinquanta metri, si accese un'altra sigaretta con il mozzicone di quella di prima e ricominciò a tossire. Troy lo guardava dalla finestra dell'ufficio. Erano passate da poco le quattro. Se si fosse affrettato a dare un'occhiata a quello che ancora restava, avrebbe fatto in tempo a trovare il signor Jessel prima delle cinque e mezzo. Non era affatto sicuro di essere gradito, ma lui, al contrario, era animato dalla prospettiva di avere qualcuno di vivo su cui indagare, invece che un seguito di cifre. Niente stimola la mente più della possibilità di potere presto incastrare qualcuno che se lo merita. In poco più di un'ora lesse quello che gli serviva. La puzza di bruciato, che aveva fiutato Janet Cockerell, era arrivata anche a lui. Ma questo non andava a sommarsi a niente, anche se la metafora era sbagliata perché proprio di somme si trattava. Il fiuto portava al largo dall'inverosimile realtà di quelle addizioni. Avrebbe sperimentato per una seconda notte le delizie del Kedleston. Tornò a guardare la fila dei libri e preferì sceglierne uno che già conosceva, Casinò Royal, l'unico di Fleming che avesse già letto. Se lo mise nella tasca della giacca. Una serata noiosa in una piccola città. Railway Cuttings era, effettivamente, quasi di fronte alla stazione ferroviaria, una strada di case vittoriane annerite dalla fuliggine, che seguiva il margine del profondo varco dove correvano i binari che passavano in mezzo alla città. Era larga al massimo due metri e mezzo e, limitata, su un lato, dal grosso muro di granito che costeggiava la ferrovia, dall'alto del quale si vedevano i binari che correvano verso l'infinito e che l'uso rendeva lucenti come acciaio inossidabile. Il numero 23 era una specie di magazzino in disuso. Si riusciva a stento
a leggere i caratteri in rilievo di una vecchia insegna, "Sementi e Vivai", in alto sulla facciata di fronte ai binari, ma a livello dello sguardo, c'erano due piccole targhe rettangolari, su una, nuova, era stampata la scritta "Distretto urbano di Belper - Rimozione rifiuti"; l'altra, più vecchia, di ottone, era quella dell'ufficio di "George G. Jessel - Revisore autorizzato. Secondo piano". La scala era senza passatoia, sui gradini si vedevano ancora pezzetti di un vecchio linoleum. Dal soffitto cadevano scaglie di una pittura a tempera che era stata fatta chi sa quando. Il corrimano della ringhiera era incavato a tratti perché troppi vi si erano appoggiati. In alto c'erano due porte, su una, socchiusa, era scritto "G. Jessel", sull'altra "Privato". Dietro la prima porta s'intravedeva una stanzetta quadrata, piena di cassettiere, con una piccola scrivania al centro, caricata del peso di una grossa, vecchia macchina da scrivere, coperta da una custodia di plastica dalla quale sporgeva la manopola per gli spazi. Troy si avvicinò all'altra porta, sentì un frusciare di fogli e bussò leggermente. La porta si aprì, di poco, e dietro comparve la testa di Jessel, che scrutò Troy con i suoi occhi scuri, sporgenti. «Allora, ha trovato?». «Sì, ho trovato». Jessel si ritrasse e lo fece entrare in una stanza triangolare, di poco più grande dell'ufficio di Cockerell. Era però, al contrario, un modello di ordine e pulizia. Non c'era un granello di polvere, non uno spillo fuori di posto. Sebbene Jessel avesse una sigaretta incollata al labbro inferiore, avendo sviluppato nel tempo l'abilità di parlare senza bisogno di toglierla, il portacenere era intatto, come se l'avesse vuotato e pulito a ogni boccata. Troy si stupì, ma poi riuscì a trovare una spiegazione logica. Si era aspettato di trovare un ambiente che fosse il riflesso dell'aspetto fisico di Jessel, l'uomo che portava sul davanti della camicia e sui risvolti della giacca la testimonianza dei suoi pasti recenti, tutto una macchia dal colletto ai bottoni dei pantaloni, ma l'ufficio era il riflesso della sua mente, che era quella di un contabile. Jessel tolse una sedia dal suo posto contro la parete e la mise di fronte alla scrivania per Troy. Lui sedette dall'altra parte dello stretto piano di quercia e cuoio rosso consumato, dove un piccolo orologio da tasca d'argento, una fila di matite appena temperate, un calamaio di vetro intagliato e due penne stilografiche Waterman a disegno marmorizzato stavano allineati come soldatini in assetto da battaglia. Jessel stava per parlare, ma lo strepito di un treno che passava lo fece
soprassedere. La stanza tremò, le penne e le matite rotolarono sulla scrivania e uno sbuffo di fumo, carico di vapore, entrò dalla finestra aperta. Jessel prese il piccolo orologio d'argento e batté un dito sul quadrante. «È il Derby delle diciassette e quindici. St Pancras-Sheffield. Mai in ritardo. Solo di sabato, tre minuti. La domenica è sospeso». «Lei mi ha detto che ha visto la signora Cockerell e che...». «No. Non l'ho vista, le ho parlato al telefono. Al telefono». «E la signora Cockerell non ha voluto che guardasse i libri?». Jessel si staccò la sigaretta dalla bocca e il labbro gli si raggrinzì nel rinunciare alla sua salivosa appendice. Troy si chiese se Jessel non finisse per scorticarselo, ma lui, che non fumava sigarette col filtro, si tolse un pezzetto di tabacco dalla lingua, aspirò una bella boccata di fumo, riuscì a non tossire e lasciò cadere la cenere nel portacenere che sembrava nuovo. «Esatto. Non la disapprovo. Dice che provvederà Arnold appena tornerà e che per ora si può aspettare. Per lei è importante credere che torni. Ma intanto le cifre si accumulano, anche senza il commercio con l'estero, e poi, è contro la legge, no?». «Infatti», disse Troy, «è in rispetto alla legge che sono qui». Lesse nello sguardo di Jessel il rammarico di avere introdotto il concetto di legge nella conversazione. «È per la morte di Arnold». «Per la scomparsa di Arnold». «Allora è vero che non è morto?». «La signora Cockerell non intende confermare che il cadavere che le hanno mostrato è quello di suo marito». Jessel si portò la sigaretta alle labbra e aspirò un'altra boccata del torbido fumo nocivo di quel tabacco forte. «Se non e morto, qual è il problema?». «I soldi», rispose Troy con tranquillità. «I soldi?». «Tanti soldi». Jessel succhiò la sua sigaretta finché tra le nocche delle dita non gli restò quasi niente, se ne accese un'altra con il mozzicone, come il solito, prendendosi tutto il tempo che gli era necessario. «Niente di illegale coi soldi», disse, mangiandosi le parole. Troy capì che era sulla difensiva, la sua esperienza di poliziotto gli confermò che Janet Cockerell aveva ragione. E se Janet Cockerell aveva ragione, lui non avrebbe lasciato a quell'uomo lo spazio per nascondersi. «Da quanto tempo lei gli fa da copertura?».
Jessel tossì, ebbe un conato di vomito, parve che stesse per morire. Troy sedeva impassibile, guardando le gocce di sudore che gli si formavano alla radice dei capelli, sulla fronte e scendevano sulla faccia arrossata fin dentro il colletto liso della camicia. Era una scena montata ad arte. Si sarebbe protratta finché avesse avuto catarro in gola, finché le costole non gli avessero fatto troppo male. E non era convincente. Quando alzò la testa, Jessel vide che, dall'altra parte della scrivania, Troy lo stava guardando. «È... è... lei...», altri colpi di tosse, «lei che glielo ha detto?». «È vero o no?». «Non deve credere a tutto quello che racconta Janet Cockerell. Non erano presi dal fuoco della passione, quei due. Lei erano anni che ce l'aveva con Arnold». «Ci sono mucchi di soldi che passano attraverso la società Cockerell. Un capitale sproporzionato a tre piccoli negozi nei monti Pennini». «È tutto legale. Lei dimentica il commercio con l'estero». «Roba che non entra mai in Inghilterra, ma risulta dal suo conto in banca a Stoccolma?». «Esatto. Ma non ne parli come di un imbroglio. Tutto avviene alla luce del sole. Tutto dichiarato e tassato. Perfettamente legale. Uomini come Arnold Cockerell sono la spina dorsale dell'Inghilterra. La loro attività si espande in tutta Europa. Sono dei pionieri». Si era messo a parlare come in quei programmi di propaganda politica in cui la televisione raggiungeva il vertice della noia, i postumi della ubriacatura della guerra, quando Churchill e Roosevelt sentivano il dovere di chiacchierare con il popolo in guerra attraverso le onde sonore. In tempo di pace risultavano una scocciatura anacronistica. Un politico importante si rivolgeva alla nazione, pomposo e pretenzioso, leggendo il proprio intervento, dalla prima parola all'ultima, su un foglio che aveva davanti. La sera dopo, peggio ancora, l'altro partito lo contestava in nome del diritto alla replica. L'argomento che sceglievano di solito per annoiare l'Inghilterra era l'esportazione. Troy non aveva molto da dire a Jessel, che avrebbe potuto confutare punto per punto le sue obiezioni. Ma possibile che non si sentisse offeso? Gli aveva detto in faccia che era un imbroglione e lui se ne stava lì a difendere tranquillamente se stesso e Cockerell mentre Troy riteneva che qualsiasi uomo onesto gli avrebbe mostrato la porta, dicendogli di tornare con un mandato.
«Non ho visto copie delle dichiarazioni dei redditi tra i documenti che sono al negozio». Jessel aveva lasciato spegnere la sigaretta. Lo sforzo di mostrarsi tranquillo di fronte alle accuse di Troy gli aveva fatto dimenticare di fumare. Si frugò in tasca per cercare un fiammifero. Troy giocò d'azzardo. «Le ha lei, immagino». Jessel non riusciva a riaccendere la sigaretta. Gli tremava troppo la mano. Fiamma e sigaretta si rifiutavano di incontrarsi. Il fiammifero si consumò e dovette prenderne un altro. «Vorrei vederle». Era, più di prima, il momento in cui il cittadino probo, colpito nel proprio orgoglio, gli avrebbe detto di non farsi più vedere finché non avesse avuto un mandato. Anche uno sprovveduto, e non un "revisore autorizzato", doveva aver visto al cinema che ci si comportava così. I poliziotti venivano mandati via, sempre con le stesse parole e lo stesso tono, come importuni venditori di tappeti. Ormai senza più dita da bruciare, Jessel riuscì ad accendersi la sigaretta. Né il gesto né il tabacco gli furono di sollievo. Tremava e sudava peggio di prima. «Adesso... adesso non saprei dove trovarle. La mia... segretaria... va via alle cinque». A Troy bastava così. Jessel avrebbe passato una notte di angoscia. Non sarebbe stato così stupido da distruggere dei documenti che erano già stati registrati. E se lo avesse fatto, l'iniziativa in sé avrebbe avuto il valore di una confessione. «Bene bene», disse, sorridendo, «vediamoci domani mattina presto». Dall'espressione della faccia di Jessel parve che gli avesse proposto un appuntamento in un'altra vita, ma gli era rimasta l'energia sufficiente a mantenere una parvenza di normalità. Si alzò, passò frettolosamente accanto a Troy, gli aprì la porta, rimise a posto la sedia, contro la parete, di dove l'aveva presa e, con una schizzinosità che rasentava la pazzia, si tolse di tasca il fazzoletto e la spolverò, con un gesto aereo, quasi senza sfiorarla. «D'accordo», disse, con la sigaretta ancora appesa al labbro. «A domani». 44 Troy tornò sulla collina, nel fresco della sera, con la cartella gonfia dei documenti della Cockerell, società a responsabilità limitata. Janet era ancora in giardino, aveva quasi finito il quadro e alle pennellate variopinte che
aveva sulla tuta se n'erano aggiunte altre. Ma la giornata di lavoro era finita. Stava bevendo un bicchiere di vino, davanti allo spettacolo del cielo nella luce rossa del tramonto. Prese un altro bicchiere e la bottiglia. Un vino bianco del Reno, freddo al punto giusto e non troppo dolce. «Perché non mi aveva parlato di George Jessel?». «Non posso ricordarmi di tutto». «E neanch'io posso credere a tutto». Janet Cockerell non era così stupida da non capire che l'aveva accusata di aver mentito. «Forse la vera ragione è che non voglio pensare a Jessel. Non voglio che nella mia testa ci sia posto per un uomo come lui. È un essere ripugnante. Non mi piace e non avrei voluto che Arnold lo frequentasse. È sempre stato il più sgradevole dei suoi accoliti». «Accoliti? Perché non chiamarli, più semplicemente, amici?». «Non ne sono sicura ma, detta così, mi sembra che la parola abbia un significato dispregiativo». La prima volta che Rod si fosse riferito a Driberg o a Fermanagh, definendoli «uno dei tuoi accoliti» si sarebbe ricordato di sentirsi offeso. «Oppure», proseguì la signora Cockerell, «lei pensava a una parola che indicasse più esattamente una complicità?». «Infatti». «In questo caso, mi dispiace non averle parlato di Jessel. Ma ora l'ha visto e credo che condividerà il mio giudizio. Se Arnold stesse tramando qualcosa in segreto, George Jessel sarebbe il tipo capace di mentire fino all'inverosimile per proteggerlo, pensando, per di più, di adempiere a un dovere di amicizia. È d'accordo?». «Sì, credo di sì». «Lo rivedrà?». «Oh sì! Lo lascerò a marinare stanotte e domani lo farò arrosto». Di ritorno allo squallore del Kedleston, Troy dispose sul letto tutti i fogli che aveva preso nell'ufficio di Cockerell, ma poi scoprì che non se la sentiva di dedicarsi a quello squallido lavoro. Diede un'occhiata ai titoli del "Manchester Guardian". Lesse un articolo piuttosto prolisso sulla crisi di Suez che andava maturando e si addormentò senza nemmeno aprire il libro di Fleming. 45 Fece colazione tra i vestiti marroni. Qualcosa di bollente, qualcosa di in-
sipido, qualcosa di tiepido. Concesse a Jessel ancora quasi mezz'ora per raccogliere le idee, un buon margine di sicurezza per lasciare che gli crescesse l'ansia, rimise i documenti nella cartella e, alle dieci precise, salì le scale dell'ufficio. Nella prima stanza, vide che la macchina da scrivere era ancora sotto la custodia di plastica, mentre si era aspettato di trovare una ragazza intenta a far correre le dita sui tasti o a limarsi le unghie. La porta dell'ufficio di Jessel era socchiusa. La spinse adagio, senza bussare. Jessel era sdraiato sulla sedia, con la testa buttata indietro, gli occhi spalancati. Morto. «Merda, merda, merda», disse Troy. Gli appoggiò la punta delle dita sul collo. Era morto, ma ancora caldo. Lentamente gli voltò la testa, per cercare di capire tutto quanto era possibile. Fece appena in tempo, prima di sentire un fruscio nell'ufficio vicino. Merda, merda, merda. Una ragazza stava togliendo la custodia di plastica dalla macchina da scrivere. Mentre lei alzava il viso a guardarlo, Troy si accorse che aveva la guancia sinistra tutta gonfia. «Lei è la segretaria del signor Jessel?». La ragazza rispose con poco più che un mugolio, ma assentendo energicamente. «Chiami la polizia», disse Troy. «La polizia locale, non il 999». La ragazza lo fissò, spaventata. «Ha il numero?». Lei assentì di nuovo, prese l'agenda del telefono e formò il numero. Troy sentì il suono che si ripeteva in lontananza. La ragazza gli indicò la guancia gonfia. Infine qualcuno rispose. «Bonto. Boiisìa?». All'altro capo del filo qualcuno disse: «Come?». «Boiisìa? Soo Bwenda Bwock. Seetaia di Geoge Jesshll». La ragazza passò il ricevitore a Troy. «No mi gapisono. Sono sata da benbitta». Troy prese il telefono. «Sono l'ispettore capo Troy, di Scotland Yard. Venite subito al 23 di Railway Cuttings. Ho appena trovato George Jessel morto». Si sentì un gemito, mentre Brenda Brock si accasciava svenuta sulla sedia. Troy riagganciò il telefono, la fece piegare in avanti, con la testa stretta tra le ginocchia. Grazie a Dio, si era accontentata di un gemito, senza urlare. Si riprese, alzò la testa, pallida e in lacrime. «Sersa?», disse.
«No, non scherzo». Troy tornò nell'ufficio di Jessel. Il primo cassetto della scrivania, a destra, era aperto di pochi centimetri. Ne usciva, invitante, un fascio di carte. Troy lo prese. Una ventina di pagine, divise in due fascicoli fissati con delle graffette. Le ricevute delle tasse pagate da Cockerell negli ultimi cinque anni. Allora, dopotutto, Jessel voleva mostrargliele. Troy se le mise in tasca e si guardò intorno. Non c'erano tracce di violenza. Jessel era accasciato sulla sedia, con le spalle e le ginocchia piegate, come una marionetta cui fossero stati improvvisamente tagliati i fili. C'erano cinque mozziconi di sigarette nel portacenere. Considerata la sua abitudine di fumare continuamente, senza smettere, equivalevano a una mezz'ora di una giornata di lavoro. Troy pensò che aveva avuto in mano un'occasione e l'aveva persa. Il vecchio trucco che usano i detective, di aspettare mezz'ora prima di farsi vedere, aveva rovinato tutto. Aveva avuto una seconda occasione e si era lasciato sfuggire anche quella. Tutto sommato, aveva fatto dei gran pasticci e ora si sarebbe trovato ad affrontare la polizia locale e a fingere di avere agito secondo le regole. Una prospettiva spiacevole. Sentì che qualcuno saliva le scale, diede un'ultima occhiata in giro per la stanza e tornò di corsa nel primo ufficio. Brenda Brock guardava dalla finestra i binari della ferrovia, piangendo in silenzio, col mascara che le colava sulle guance da criceto. Un uomo robusto, con un impermeabile e un cappello di feltro, eccessivi in una giornata di bel tempo, comparve sulla soglia. «Ispettore Warriss, del distretto di Belter», disse. «Lei chi è?». Troy declinò nome e grado e mostrò il mandato. «Non se ne vada, signore», lo avvertì Warriss, «voglio parlarle». Aveva messo rabbia e disprezzo nel chiamarlo «signore». Sul pianerottolo era comparso un altro agente, più giovane, tra i venticinque e i trent'anni. Warriss lo presentò. «Sergente investigativo Godbehere, il mio aiutante in campo. Oggi abbiamo gente importante, Raymond. L'ispettore capo Troy, di Scotland Yard. L'avresti mai detto?». Godbehere si rivolse a Troy, affatto intimidito dal grado. «È lì, la vittima?». «Sì», rispose Troy. Warriss e Godbehere lo lasciarono con Brenda. Dopo cinque minuti, Warriss tornò, da solo. «Ha toccato niente?», chiese. «No, certo», mentì Troy.
«E la ragazza?». «Non è neanche entrata». Altri passi pesanti sulle scale. Un altro personaggio in impermeabile e cappello, con in più una valigetta. Il medico legale della contea. Fece un cenno con la testa a Troy e salutò Warriss chiamandolo semplicemente "Harold". «È là dentro?», chiese. «La grande falce alla fine se l'è portato via. Che stupido!». Sempre con quel passo pesante, passò nell'altra stanza. Troy sentì che diceva: «Allora, Ray, che cos'abbiamo qui? Ah, povero me, povero me!». Lui guardava la porta chiusa, pensava a quello che stava facendo il medico e al lavoro di procedura che lo aspettava personalmente. La voce di Warriss lo scosse. «Una parola, signor Troy. Fuori, se non le dispiace». Lo guidò sulle scale. Troy guardò Brenda Brock, che alzò su di lui i suoi begli occhi verdi, con una espressione supplichevole, ma qualunque fosse la supplica, non poteva ascoltarla. Seguì Warriss. Alla curva delle scale, superarono una donna con una vestaglietta di nylon a fiori, che spolverava la ringhiera. In strada, Warriss si appoggiò con un gomito al muretto della ferrovia, con un gesto che doveva dare l'immagine della forza sostenuta dal diritto. Troy capì che stava per farsi fregare da un uomo di dieci anni più vecchio di lui e inferiore in grado, ma sapeva di non avere niente cui appigliarsi. «Mi dica», esordì Warriss, «lo conosce il significato della parola protocollo o a Londra, voi giovani, siete abituati a fare i furbi?». «Mi scusi, ma...». «Fa bene a scusarsi. Da quanto tempo è nella mia zona?». «Solo da ieri mattina». «E quale interesse ha Scotland Yard per uno come George Jessel, che non possa dividere con la polizia locale?». «Nessuno. Non era Jessel l'oggetto della mia indagine». Un'espressione di pura gioia si sovrappose allo sguardo infiammato di Warriss. La luce della rivelazione. «Oh, Dio mio! Ma allora lei è qui per Arnold Cockerell. È così?». «Sì». «Fa parte della sezione speciale?». «No, veramente sono a capo della squadra omicidi». Warriss non si lasciò impressionare. «Ah! E chi è stato ucciso, allora?». «Cockerell».
«Questo non lo sapevo. L'ultima che ho sentito è che era stato rapito dai russi. Le notizie arrivano anche da noi, sa? Non è che ce ne stiamo sempre con un bicchiere di birra in mano». «Ho l'incarico di indagare sulla scomparsa e la morte presunta del comandante Cockerell». «Capisco», disse Warriss, riflettendo. «Ma non le è venuto in mente di fare subito riferimento alla polizia locale». «Le ripeto che mi scuso con lei, per questo». Negli occhi di Warriss ricomparve quella luce soddisfatta, l'orgoglio per la propria capacità di deduzione. «È stata lei, vero? La moglie. L'ha fatta venire qui. Non ha mai avuto fiducia in me, quella troia. Ma la scomparsa di Arnold Cockerell è di competenza mia, non di Scotland Yard!». Si batteva il petto con l'indice. Aveva alzato la voce, quasi gridava, senza nemmeno fingere il rispetto d'obbligo per un superiore. «Il caso è mio, signor Troy! La scomparsa è stata denunciata al mio distretto, anzi a me personalmente. Io sono incaricato dell'indagine. Cockerell io lo conoscevo da più di dieci anni. Era un amico! Se lei vuole indagare su di lui al mio posto, deve prima vedersela con me». Per fortuna, con un boato, passò un treno diretto verso sud e avvolse tutti e due in una nuvola di fumo e vapore. Quando l'aria si schiarì, Troy tentò l'unico aggiramento possibile: guardò Warriss negli occhi e assunse un tono di voce il più ragionevole possibile. «Però, adesso ci troviamo di fronte alla necessità di un secondo intervento. Si tratta di un omicidio, ed è il mio lavoro. L'assassinio di George Jessel è di mia competenza». Warriss rise. Troy si era aspettato altre invettive e lui, invece, rideva. «Un assassinio? George Jessel assassinato! Adesso vedremo». Indicò il portone alle spalle di Troy. Il medico legale stava uscendo, con la borsa mezzo aperta e il tubo di gomma dello stetoscopio che penzolava fuori. Porse la mano a Troy che gliela strinse. Era il primo gesto beneducato che gli fosse stato rivolto fino a quel momento. «Jewel», disse il medico. «Mi chiamo Joe Jewel, medico legale della contea». Warriss intervenne prima che Troy potesse dire una parola. «Qualsiasi cosa le passi per la mente, non la dica. Ormai gli scherzi su Jewel e Warriss li abbiamo sentiti tutti. Quindi si risparmi il fiato». Si chiamavano come i due artisti di music hall più famosi del mondo e Troy pensò che poteva essere un incentivo a comportarsi in modo diverso da un clown, ma l'immagine sarebbe stata male interpretata e la tenne per
sé. «Bene», disse Warriss a Jewel, «avevo ragione?». «Sì. Il cuore. Alla fine ha ceduto». «Vuoi firmare?». «Oh, sì. Un caso aperto e chiuso». Warriss guardò Troy con un sorriso che era quasi di trionfo, una smorfia che significava: "Glielo avevo detto, io!". «Non voglio interferire in un lavoro efficiente e concorde come questo», obiettò Troy, «ma quando un uomo viene trovato morto in circostanze sospette, non si può parlare di un caso aperto e chiuso». Warriss si comportò come se il suo rivelatore di segnali di sarcasmo fosse stato spento e lasciò la risposta alla sua metà. «Mi creda, signor Troy, è così. Vede, fare il medico legale in una gola di montagna non è mai un'attività a tempo pieno. Manca la materia prima, cioè i cadaveri. Il mio lavoro è soprattutto quello di un medico generico e George era, appunto, un mio paziente. È stato per quarantacinque anni un drogato della sigaretta, ha ingollato scotch come se fosse gazzosa, aveva un cuore come una spugna, le arterie come zucchero caramellato. Mi creda, signor Troy, questa è una morte avvenuta per cause naturali. Jessel è morto per una grave e prevedibile crisi cardiaca. Non ho, quindi, nessuno scrupolo a firmare il suo certificato di morte». Warriss vide la possibilità di intervenire con il suo contributo. «L'unico elemento sospetto è costituito dalla sua presenza, signor Troy. E lei ha già detto che non era qui per indagare sul conto di Jessel, quindi non c'è altro da dire». «Voglio che venga eseguita un'autopsia e che il coroner sia informato», rispose Troy, con una calma incisiva. «Se questo non verrà fatto spontaneamente e subito, mi rivolgerò al commissario della polizia metropolitana, a Londra, e al vostro capo della polizia e denuncerò sia lei, Warriss, sia il medico per aver ostacolato l'indagine». Jewel guardò Warriss e Warriss guardò Jewel. Una pantomima a due già sperimentata altre volte. «Voi, facce di merda londinesi, non cambierete mai», esclamò Warriss tra i denti. «Venite qua e...». «Provi!». Warriss aveva staccato il braccio dal muretto e, per un momento, Troy pensò che stesse per colpirlo, ma un agente in divisa stava venendo verso di loro.
«Langley Mill al telefono, capo. È urgente». Warriss scosse con forza il braccio. Non avrebbe colpito un superiore, ma era rimasto così a lungo in quella posa aggressiva che gli si era addormentato un nervo nel gomito. Era ancora rosso in faccia e aveva la voce rauca. Se avesse trovato un po' di prontezza di spirito, se la sarebbe cavata con una battuta spiritosa o con un insulto. «Porca troia», disse, perché di meglio non gli venne in mente, «avrà la sua autopsia, ma se domani la trovo ancora sulla mia strada, pretendo un rapporto al mio distretto. E questo vale per tutti i giorni che passerà qui. Signore!». Si allontanò lungo il viale. Jewel si strinse nelle spalle e chiuse meglio la borsa. «A sua disposizione, amico. Ma si sbaglia. Vedrà», disse e seguì Warriss. La donna delle pulizie comparve con la sua vestaglietta a fiori sulla porta del numero 23 a scuotere lo straccio giallo della polvere. Troy si avvicinò. «Mi scusi...». «La scuso? Di che? Che cos'ha fatto?». «Niente, mi scuso perché vorrei farle qualche domanda». «Beh, sentiamo». Troy pensò che l'abitudine al dialetto cui si sovrapponeva lo sforzo di parlare correttamente avrebbe reso il colloquio difficile. «Lei fa le pulizie in tutto lo stabile. In tutti gli uffici?». «Sì, sì. Soprattutto il signor Jessel. Quello lo faccio tutte le mattine, nove meno un quarto». «E non ha visto nessuno, tra le nove meno un quarto e le dieci?». «No, solo il signor Jessel. È venuto a un quarto, sì, un quarto dopo le nove, insomma. Poi io sono andata a prendermi il mio tè. Anche due biscotti. Mezz'ora e basta, sono tornata. Ho visto lei che arrivava e anche la Brenda, dopo cinque minuti». «E aveva fatto le pulizie nell'ufficio del signor Jessel». «Cos'ho detto? Pulito e lustrato, come tutte le mattine. Stessa ora». Troy salì le scale, sperando che l'agente investigativo Godbehere fosse meno stupido del suo capo. Lo trovò seduto sulla sedia che Jessel aveva offerto a lui il giorno prima. Stava leggendo il "Daily Mirror". Era alto, magro e, quando alzò gli occhi, a Troy parve che, per fortuna, avesse un'aria abbastanza intelligente. Aveva avuto l'accortezza di coprire con un telo il defunto George Jessel. «Credo che avrò bisogno del suo aiuto».
Godbehere piegò il giornale. «Mi sa spiegare, signore, perché le richieste come questa mi danno sempre un brivido nella nuca?». «È l'istinto del poliziotto». «Ora devo aspettare che arrivi il furgone della macelleria. Poi, quando Brenda si sarà ripresa, prenderò la sua deposizione e, quando lei avrà smesso di farsi rompere le palle dal mio capo, prenderò anche la sua. Questo è il mio compito, lei lo sa, signore». «Io le palle me le sono già rotte abbastanza e, quanto a Brenda, sarebbe un dovere di cortesia lasciare che si affliggesse in pace ancora una mezz'ora. Intanto, voglio che lei rilevi le impronte». Godbehere si alzò e prese la cassetta con l'attrezzatura. «Finirà col rovinarmi». «La responsabilità è tutta mia». «È il minimo», osservò tranquillamente Godbehere. «Da dove vuole che cominci?». «Dalla scrivania. È stata spolverata stamattina verso le nove». Godbehere, che era già vicino alla scrivania, tirò indietro la sedia, per potersi muovere meglio nel poco spazio a disposizione. «Un momento solo». Troy lo fermò, mettendogli una mano sul braccio. «Aveva spostato lei la sedia?». «No, era già qui. Di fronte alla scrivania. Mi sono limitato a parcheggiarci il mio sedere». Troy si rivide davanti agli occhi l'atteggiamento meticoloso, maniacale di Jessel che allineava la sedia contro il muro. Si ricordò di quel fazzoletto sventolante nell'aria. Gesti che derivavano dall'abitudine. Certo li ripeteva scrupolosamente ogni volta che qualcuno andava da lui in ufficio. Spostava la sedia e poi la rimetteva a posto. Guardò la moquette rosso vino vicino alla parete. C'erano i segni delle quattro gambe impressi in profondità, quindi di solito la sedia stava lì. «Ora posso confermare», disse Troy, «che, indipendentemente dalle cause della morte, Jessel non era solo. C'era qualcuno con lui in questa stanza, e stava seduto dov'era lei quando io sono entrato poco fa. Rilevi le impronte, sulla maniglia della porta, sullo schienale della sedia, dappertutto». «Finirà col rovinarmi», ripeté Godbehere e aprì la cassetta, all'apparenza indifferente a quella prospettiva. Troy si inginocchiò e guardò il piano di cuoio della scrivania tenendolo all'altezza dell'occhio. Non era tutto uniforme, c'era qualcosa in più, un'ombra, anzi una goccia, tra il centro e il lato destro. Si tolse di tasca il
fazzoletto. Ne appoggiò un angolo sulla goccia e vide spargersi per meno di un centimetro sul leggero tessuto una piccola macchia marrone chiaro. Si alzò in piedi e annusò il fazzoletto. Olio. Non c'erano dubbi. Nelle due settimane in cui era andato in giro con quella ridicola e inutile Browning sotto l'ascella aveva almeno imparato a riconoscere l'odore dell'olio con il quale si lubrificano le pistole. Piegò con cura il fazzoletto e se lo mise in tasca vicino ai fogli che aveva preso dalla scrivania di Jessel. Godbehere sparse la sua polverina bianca e diede un primo risultato. «Qualcosa c'è. Ne sono sicuro. Pensa che la donna delle pulizie abbia fatto un lavoro accurato?». «Non l'ha vista? Lucifero l'assumerebbe per ripulirgli l'inferno ogni mattina. Non lascerebbe una briciola di zolfo fuori posto». Troy guardò le tracce rilevate dalla polvere. Come i conti, anche le impronte non erano la sua specialità. Gli sembrava di dover sempre decifrare il significato nascosto nel disegno di una carta da parato. «Forse è meglio che vada avanti da solo, signore. Perché lei, ora, non finisce quello che deve fare e poi viene al distretto, più tardi, a farmi la sua deposizione? Io oggi sono lì fino alle sei e domani mattina dalle otto e mezzo in poi. È in Matlock Road. Si faccia indicare la strada, la conoscono tutti». Troy se ne andò senza finire quello che doveva fare, come gli era stato suggerito, soprattutto perché non sapeva bene che altro ci fosse da fare. Arrivato in fondo a Railway Cuttings, si fermò a pensarci. Avrebbe potuto riporre una fiducia totale in Godbehere o farsi avanti, non richiesto, e avviare una indagine per conto proprio, nella certezza che il collegamento tra la morte di Jessel e Cockerell, e tra Cockerell e quelle che Onions avrebbe chiamato "spiate", sarebbe stato più che sufficiente a convincere Onions a sostenerlo. Ma così si sarebbe trovato a urtare la suscettibilità della polizia locale per chilometri e chilometri lì intorno, trasformandosi nel detective più impopolare di tutta l'Inghilterra. Qualcuno stava suonando un clacson per chiamarlo. Vide una Daimler o una Jaguar chiara ferma un po' più avanti, lungo il marciapiede, ma riuscì a vedere nel parabrezza solo il riflesso della strada affollata di gente che entrava e usciva dai negozi. Poi la portiera dalla parte del volante si aprì e un personaggio atticciato, con una faccia da gufo gli fece un cenno. Era George Brown. In un attimo capì che il "chi sa dove al nord" per cui Brown sedeva alla Camera dei Comuni era Belper. Era la sua circoscrizio-
ne elettorale. Avrebbe dovuto capirlo prima. Aprì l'altra portiera e salì in automobile. Brown reinserì lentamente la grossa automobile nel traffico. «Non devo chiederle che cosa fa qui, vero?», domandò a Troy. «È così evidente?». «Solo per due ragioni Belper ha accesso alla carta geografica: io e quell'accidenti di Arnold Cockerell». «Lo conosceva?». «Impossibile ignorarlo. Era un notabile del luogo. Camera di commercio. Tesoriere del partito conservatore per un paio di anni. Sempre pronto a darmi pubblicamente torto. Però non posso dire di averlo veramente conosciuto. Senta, se le interessa l'opinione che si ha di lui in città, ho un appuntamento con due dei miei sostenitori alla British Legion, tra cinque minuti, per bere qualcosa insieme. Venga anche lei». Brown, al primo incrocio, voltò a sinistra. «Qualcuno ha sollevato con lei l'argomento della scomparsa di Cockerell? Voglio dire nell'ambito della circoscrizione elettorale». «Solo la moglie. Ma, d'altra parte, è una questione che sta andando avanti alla Camera dei Comuni. E suo fratello è la mente direttrice. Ho provato a mettere bocca e mi ha risposto "lascia fare a me". Meglio così, preferisco. Dopo la visita dei russi sono stato redarguito come se avessi fatto una macchia sul mio quaderno, come quel suo fratello krusceviano le avrà fatto capire, quindi, per lui, se si tratta del caso Cockerell, è meglio che io giri al largo. Ho detto alla moglie quello che potevo. Non era molto». Brown s'interruppe. Poi aggiunse: «Devo chiederle una cosa: non è stato suo fratello a chiederle di venire qui, vero?». «No. E penso di poter dire che l'avrebbe chiesto prima a lei». «Eh, io ho i piedi grandi, è facile pestarmeli». Brown svoltò ancora a sinistra e si fermò davanti a un edificio che era un tozzo, grossolano esempio di architettura anni Venti. La Royal British Legion, abbeveratoio di soldati vecchi, e meno vecchi. Troy non ricordava di essere mai entrato in una British Legion. E, dopotutto, non ne avrebbe avuto nemmeno il diritto. Non solo non aveva fatto il suo dovere in guerra, ma sarebbe stato disposto a mentire, a imbrogliare a scappare in Irlanda pur di evitarlo. Non era stato necessario, Onions l'aveva tenuto lontano dall'esercito, confermando l'utilità della sua presenza in patria. Non gli venne in mente che anche Brown non aveva fatto la guerra. Era una condizione particolare, che li estraniava dalla loro generazione.
Brown aveva al massimo due o tre anni meno di Troy. e sarebbe stato un astro nascente nella vita del partito se i vecchi, intorno ai cinquanta, come Gaitskell e Rod, gli avessero dato lo spazio necessario ad aprire le ali. Le prossime elezioni sarebbero state di lì a quattro anni e avrebbero determinato più di una crisi. Gaitskell sembrava destinato a riconfermare la propria posizione e sarebbe passato molto tempo prima che la generazione di George Brown e Harold Wilson trovasse un posto al vertice. «Lei non è socio, vero?», chiese Brown, mentre entravano. Troy scosse la testa. «Allora è meglio avvertire Walter che ci faccia firmare. Nemmeno io, sa, sono socio». Troy si chiese se non gli costasse fatica ammetterlo. Un uomo della loro età, e a maggior ragione un politico, poteva non sentire la differenza tra chi aveva fatto la guerra e chi no? Sarebbe stata quella esperienza a definire per sempre il carattere della loro generazione? E, peggio, una volta entrati alla British Legion, di che cosa avrebbero parlato con gli uomini, erano sempre uomini, mai donne, seduti ai tavoli? Possibile che un gruppo di quarantenni dovesse andare avanti fino alla morte a rivangare i ricordi di guerra? Sarebbero stati sempre così, negli anni Ottanta, Novanta, fino all'inizio del nuovo secolo? Brown presentò Troy a Walter e a Ted, molto simili, forse uno con qualche chilo in più e l'altro con qualche anno in meno. Sedettero al loro tavolo, dove c'erano già due mezze pinte di birra quasi alla fine e una copia del "Manchester Guardian", tutta spiegazzata. Si strinsero la mano, si salutarono e a Troy risultò subito che cosa li divideva, Walter era originario del Lancashire e Ted del Yorkshire. La British Legion è un crogiolo di razze, pensò Troy. Brown chiese una mezza pinta della birra del posto, una Mansfield, e Troy seguì il principio di Driberg, secondo il quale, quando si è seduti a un tavolo con un rappresentante della classe lavoratrice, la prima incrinatura nel ghiaccio si ha solo bevendo quello che beve lui. Si guardò attorno. Era un ambiente anonimo e triste, com'era prevedibile, ma non più anonimo né più triste di qualche club dove gli era capitato di andare, a Londra. C'erano dei particolari vagamente mostruosi, come i rivestimenti di legno lucido, non meno sgradevoli però dei ritratti che si vedevano al Garrick, scuriti dagli anni, e qui, almeno, nessuno gli aveva chiesto di mettersi la cravatta. La nuova regina aveva il privilegio di una parete riservata alla sua fotografia ufficiale, dove appariva tutta vestita di
rosso. La guerra aveva i suoi piccoli riferimenti commemorativi nelle targhe ornamentali appese, un po' di traverso, a un'altra parete e dedicate al reggimento locale, il Sherwood Foresters e alla Prima divisione paracadutisti polacchi. L'illusione che quella fosse stata una guerra inglese era inconsistente e solo un imbecille poteva coltivarla. L'Inghilterra era abitata da troppi cecoslovacchi, polacchi e americani. In una sala sul retro si vedevano dei grossi biliardi e le chiacchiere al bar erano accompagnate dal continuo rumore secco delle palle che si urtavano. Le chiacchiere. Si sforzò di ascoltarle, nonostante la difficoltà dello stretto accento del luogo, e scoprì con stupore che quegli ex militari parlavano del tempo, del calcio, del rugby e di quello che avevano visto alla televisione la sera prima. Nessuno parlava della guerra. Brown gli diede un colpetto col gomito, si voltò e vide che si stava accendendo la pipa, ma dallo sguardo di Walter capì che gli aveva appena fatto una domanda che non aveva sentito. «Stavo dicendo: lei non sarà per caso parente di Rod Troy?». «Sì, sono suo fratello». «È venuto qui qualche volta a parlarci. Nel '50 e '51, ha raccolto voti per George». Tacque, forse per dare a Troy la possibilità di rispondergli, ma Troy non disse niente e allora aggiunse, a concludere: «Un tipo simpatico». Quando dava il meglio di sé, Rod appariva un appassionato seguace e propagandista di Amore, Giustizia e Democrazia. Un uomo che odiava la menzogna. Troy poteva addirittura ammirarlo per questo, anche se, di solito, era lui stesso a porgli sempre davanti queste tre istanze. Quando, invece, dava il peggio di sé, Rod era "un tipo simpatico", e Troy detestava i tipi simpatici. Ted tornò col vassoio delle birre e Brown mosse all'attacco con la prima ondata di domande. «L'ispettore capo Troy», disse, attraverso il fumo della pipa, «è qui per la questione Cockerell». Walter e Ted si guardarono l'un l'altro e Troy ebbe l'impressione di vederli sorridere. Temette che le pantomime a due fossero un'usanza locale e si augurò che avessero, invece, qualcosa di utile da dire. Parlò per primo Walter. «Allora non era lui quello che è stato trovato a Portsmouth? Sinceramente non me lo vedevo Arnold in quella veste». Troy fece una domanda ovvia. «Lo conosceva?». «Siamo venuti qui tutti e due nello stesso periodo. L'ho visto la prima volta quando avevo appena lasciato l'esercito, alla fine del '45. Allora, na-
turalmente, lui stava con noi». «In che senso?». «Era iscritto al partito», precisò Ted, di sopra l'orlo del boccale. «Si faceva vedere spesso», proseguì Walter, «si dava da fare per George». Troy guardò Brown che faceva schioccare le labbra intorno al cannello della pipa. «Nel 1950 io, ovviamente, sono diventato come Satana». «No», obiettò Ted, «Cockerell era ancora con lei nel '50. Ci ha lasciato tra la fine del '50 e le elezioni del '51». «Sono stato molto vicino a perdere l'incarico», fece osservare Brown, con la debolezza del politico di riferire tutto a se stesso. «L'ho visto cambiare da capo a piedi», disse Walter. «Illuminato sulla via di Damasco. Secondo me pensava che il suo successo personale non poteva andare d'accordo con le idee che aveva prima». Troy sapeva, per averne ragionato con Rod, che per chi è politicamente impegnato, è inconcepibile pensare che qualcuno possa, semplicemente e senza traumi, cambiare idea. Ma, in ogni caso, quello che contava era che Walter in quel momento gli offriva ciò di cui aveva più bisogno, la possibilità di formulare su basi reali una ipotesi sulle motivazioni del comandante Cockerell. «È stato circa all'epoca del Festival dell'Inghilterra?». Walter e Ted si scambiarono di nuovo un'occhiata, ma questa volta a Troy non parve più che sorridessero, li vide semplicemente perplessi. «Adesso che mi ci fa pensare», disse Walter, «è proprio così. Strano». «La via di Damasco dell'"arredo di domani"», disse Troy, ricordando il colloquio con la signora Cockerell. «No, no». Walter stava riflettendo, aveva anche smesso di bere. «Era di più. So a che cosa si riferisce. Il negozio pieno di roba scandinava a prezzi alti. Ma era di più che la voglia di trovarsi una sistemazione nel commercio e mettere insieme un po' di soldi per la prima volta nella vita. Era come se qualcuno lo avesse sollevato da terra e gli avesse dato una scossa». «Sempre così, in Inghilterra», disse Ted. «Uno si trova in tasca un po' di sterline in più e comincia a pensare solo ai suoi interessi. Gli dai una spinta nella vita e quello morde la mano che l'ha aiutato. È quello che ci frega, come partito e come nazione. Noi generiamo conservatori. Vedrà. Ce la faremo, tra un anno o due, a migliorare le condizioni dei lavoratori, che è quello che ci si aspetta da noi, e alle elezioni quegli stronzi ci tromberanno perché avranno fatto troppi soldi per fidarsi dei laburisti. Così è successo a
Cockerell. Ha messo insieme un paio di sterline e da allora ha deciso di tenersele strette». «Perché non se la scrive questa sua teoria», disse Brown «e la manda a Gaitskell da mettere nel discorso del Primo Maggio?». Tutti risero. Troy riuscì appena a sorridere, sperando di sembrare pensoso piuttosto che poco spiritoso. «Conosco abbastanza bene la moglie di Cockerell», intervenne Walter, «paga ancora le quote. Non viene alle riunioni o alle feste, però è ancora iscritta. Diceva, un po' di anni fa, sarà stato il '52 o il '53, quando Cockerell era diventato tesoriere del partito conservatore qui a Belter, che le raccontava una quantità di stupidaggini. "È perché non ci crede neanche lui", spiegava. Una volta ha anche aggiunto: "Non so che cosa gli ha preso. È come uno scolaretto, che se ne sta lì a ridacchiare con le mani nelle mutande"». Troy poteva immaginare la signora Cockerell mentre parlava così. Poteva immaginare che inferno doveva essere la vita del signore e della signora Cockerell, con i discorsi che faceva lui, noiosi e monomaniacali, sgonfiati dalle punzecchiature deliberatamente volgari di sua moglie. E, come se non bastasse, lei votava ancora laburista. Dio, come doveva avergli dato fastidio. 46 «Morto?». «Il cuore». «Allora la morte non va collegata?... Lei non sospetta?...». Cercava una parola, una frase. Abbassò gli occhi sul prato, li rialzò per un attimo sul cartoncino da disegno, intatto sul cavalletto, poi guardò Troy. «...L'hanno fatto secco. Dio mio, mi sto abituando a usare queste espressioni...». Ripeté "fatto secco" a fior di labbra, come se fosse la battuta di una commedia. Troy pensò che Janet Cockerell era stata molto franca con lui, ma non era il momento di lasciare che la sincerità di un'altra persona gli facesse commettere l'errore di dire la verità. Non le sarebbe stata utile, non le avrebbe fatto alcun bene. «No», mentì. «Non ho questo sospetto».
47 La stanza dove si svolgevano gli interrogatori, al distretto di polizia di Belper, aveva un intonaco intimidatorio. Il malcapitato che non avesse ancora sentito gli spasimi del rimorso, entrando in quella stanza cui la sporcizia accumulata sui vetri delle finestre negava l'accesso alla luce naturale, dove i muri di mattoni erano dipinti con uno strato leggero di un marrone sporco e, nella parte superiore, ad altezza d'uomo, di un crema più sporco ancora, si sarebbe ridotto subito a mormorare una confessione del tipo: «Lei è un bravo poliziotto, signore. Mi ha rimesso in riga», tanto era forte là dentro l'atmosfera del carcere vittoriano. Troy guardò Godbehere sfogliare un mucchio di carte e aspettò. Si ricordava che una volta, anni prima, un vecchio delinquente si era lasciato arrestare da lui con le parole: «È un bravo poliziotto», cui non aveva saputo rispondere che con un: «Mi prendi per il culo?». Cerano momenti in cui gli piaceva molto il suo lavoro. Godbehere gli mise davanti un formulario da riempire. «Non ha bisogno che glielo scriva io in poliziese, vero signore?». Troy conosceva perfettamente il poliziese e lo detestava, collegabile com'era a stivali neri e ridicoli elmetti. Descrisse nel rapporto il rinvenimento del cadavere con meno di centocinquanta parole, firmò e ridiede a Godbehere il formulario. «Che cosa ha trovato?», chiese. «Tre gruppi di impronte. Chiare. Le manderò alla scientifica e la informerò sul risultato. Le telefonerò quando il terreno sarà sgombro». «E...». «E molto di più non ho potuto fare. È giorno di mercato, capisce? C'è confusione. Ho parlato con quelli che mi sembravano più suscettibili di sapere qualcosa. Il giornalaio davanti al Kedleston. Sta sempre lì, osserva tutto, ma l'unica persona che ha detto di aver visto e che non fosse un abitante di Belper, è lei, signore. Conosce di nome o di vista tutti i viaggiatori di commercio che frequentano l'albergo e non ha notato niente di particolare. Resti tra noi, ma credo che ogni tanto ci guadagni un po' procurando qualche puttana. Per quello tiene gli occhi aperti. Ho parlato anche con la proprietaria del negozio di stoffe, che è di fronte. Niente. Non ha visto niente che valesse la pena di ricordare». «Bisogna andare casa per casa, almeno lungo tutta la strada e chiedere anche alla gente che passa di lì ogni giorno. Fino a King Street. Insomma, ha capito che cosa voglio dire?».
«Ho capito, e non posso accontentarla. Se il capo sapesse quello che ho fatto oggi mi toglierebbe le budella e ci farebbe le corde per il banjo». Godbehere giocherellava con la penna a sfera, senza guardare Troy in faccia. «Lei potrebbe procedere per via ufficiale e scavalcarlo, ma sappiamo tutti e due che cosa sarà scritto nel referto medico. Oppure potrebbe dargli fiducia e dirgli che cosa ha raccolto col suo fazzoletto. Ma non mi sembra che sia questa la sua intenzione, vero?». «Infatti». «Pensa che combinerebbe dei pasticci?». «Forse. Ma il guaio è che lui ha già una sua opinione e questo è il modo peggiore per iniziare un'indagine. Qualunque cosa gli dicessi, estranea al quadro che ha già in mente, non se ne servirebbe». «E a me non lo dice che cosa ha raccolto con il fazzoletto?». «Olio. Olio lubrificante per pistole automatiche». Godbehere trattenne per un attimo il respiro, poi disse a bassa voce: «Vuole che si interroghi tutti casa per casa?». «Sì». «Anche quelli che passano di lì abitualmente?». «Sì». «D'accordo. Capisco, ma se me ne devo occupare, prima parli con l'ispettore Warriss. E l'avverto che sta già raccontando a tutti, al distretto, che è arrivato un agente da Scotland Yard, scorretto e prepotente, a invadere il nostro terreno, un imbecille che non distingue un omicidio da un attacco di cuore». «A quanto pare», disse Troy, «dovrò seguitare a fare l'imbecille». 48 Warriss ascoltò in silenzio, dal principio alla fine. Troy chiese che si portasse avanti l'indagine casa per casa e che venissero interrogati i passanti abituali. Warriss assentiva e, quando Troy ebbe finito, disse: «Va bene. Lei quando parte?». 49 Troy partì col primo treno. Restò mezz'ora seduto su una panchina davanti alla sala d'aspetto in stile svizzero, sul marciapiede dove passava il treno per Londra, a guardare Oliver Hardy che curava un'aiuola, chino
quanto il suo corpo permetteva, con in mano una paletta e buttandosi le erbacce dietro le spalle. Non disse una parola e Troy pensò che probabilmente non parlava mai con nessuno, ma che era bello vedere un uomo godere tranquillamente del proprio lavoro. Dieci minuti prima che arrivasse il treno, Hardy scomparve e tornò dopo poco con il suo furgoncino elettrico alla testa di un'altra carovana di colombi che sembrava parlottassero tra loro. Era pomeriggio inoltrato. Il treno guadagnò a poco a poco velocità, uscì dal varco scavato nella pietra per entrare nella pianura irrigata del Derwent, poi in un tunnel lungo sette od ottocento metri e di nuovo in una pianura che in breve acquistò le caratteristiche delle Midlands. Troy ripensò, come faceva spesso, alle parole di Kruscev, mai liriche, ma sempre incisive. "Stronza Inghilterra" non era una espressione poetica, ma non se l'era dimenticata e gli parve che la sua esperienza nel Derbyshire potesse riconfermarla. 50 «Dove sei stato?». Troy sentì in ogni sillaba il peso di una malinconia che non poteva riconoscere. Riconoscerla significava condividerla e non voleva farlo. «Nel nord dell'Inghilterra». «Un altro delitto?» «Più o meno». «Lo sai che non avrei mai immaginato che fossi di quelli che rispondono "più o meno"?». «Ti ho risposto così perché non c'è niente di sicuro. Forse i delitti sono tre». «Tre?». «Di uno manca il cadavere». «OK. Ti ascolto». «Uno non ha la faccia. E nemmeno il nome». «Sì. Va' avanti». «E di uno non si capisce perché sia stato ucciso». «Adesso non ti seguo più». Troy si chiese come avrebbe potuto spiegarsi meglio. Prese un respiro profondo e si accinse a parlare, ma lei lo fermò. «No, non dirmi niente. Voglio solo sapere quando torni a casa». «Non lo so con certezza. È una storia che mi terrà impegnato per un po'
di tempo». «Posso venire giù a Londra?». «Su». «Eh?». «Si va su a Londra e giù in campagna». «Cristo, Troy! Ti sei messo a parlare come le tue sorelle». Era vero. Aveva fatto un'osservazione insulsa, di quelle che erano la loro specialità. «Ti rendono la vita difficile?». «Non esattamente. Dicono frasi come "Ma questa è casa tua, Larissa, tu sei la padrona di Mimram". Come se stessimo riscrivendo un libro delle sorelle Bronte e io fossi la padrona di Cazzofiorito. Non stanno zitte un momento». Troy non stentava a crederlo. «Fanno così per innervosirmi. Perché secondo loro dovrebbe importarmi di essere la fottuta padrona della fottutissima Mimram? Sai qual è il guaio? È che io non ho niente in comune con loro. Tranne le due lingue. Ti sei mai accorto che hanno la testa vuota?». «Certo. L'ho sempre saputo». «Io sto cercando di imparare qualche cosa, leggo i libri di tuo padre, e loro fanno dei risolini e dicono: "Guarda guarda, Larissa sta diventando una bas bleu. Secondo me non hanno mai letto un libro in vita loro. Una bas bleu. Cosa c'entrano le calze? Porto sempre i pantaloni. Non ce l'ho neanche un paio di calze blu!». Larissa arrivò a Londra, triste, imprevedibile e dunque immutabile. Troy era assorbito dal lavoro e aveva poco tempo per lei, che stava tutto il giorno con la testa su un libro. In silenzio, e chiedendo scusa per il proprio silenzio. Poi, improvvisamente, piena di collera. E quando lui le ebbe spiegato chi erano le bas bleu fu ancora peggio. Troy riusciva a venire a patti con quella collera. L'ammorbidiva come una spugna bagnata. Al contrario della tristezza, che diventava anche sua, la collera non gli si comunicava. La sentiva, ma non la condivideva. Ogni sera lei si infilava nel suo letto. «Non toccarmi». E Troy non la toccava. 51 Kolankiewicz era un iracondo. Si poteva avere con lui una conversazione assolutamente ragionevole, quando improvvisamente, via, bang, bum,
la belva polacca precipitava in un accesso di aggressività che Troy attribuiva alle ripercussioni professionali derivate dalla differenza di nazionalità. C'erano una decina di domande che Troy avrebbe voluto fargli, ma il rischio era troppo grande. Meglio non scostarsi dalla parte tangibile della questione e rimandare il trascendente a più tardi, quando fosse stato possibile schivare i colpi e mettersi al riparo. Telefonò al centro di medicina legale. Kolankiewicz passava la maggior parte del suo tempo correndo dal nuovo laboratorio a Scotland Yard a quello vecchio, di Hendon, ma forse sarebbe riuscito a trovarlo. Gli rispose una voce che non conosceva, di uno dei dieci o dodici giovani che presidiavano il dipartimento di Kolankiewicz, cresciuto, negli ultimi anni, sia per le dimensioni sia per l'importanza. «Il dottor Kolankiewicz è rintracciabile da qualche parte?», chiese Troy. «È andato a lavarsi. Aveva appena finito un lavoro. Devo farla chiamare? Sarà qui tra poco». «No, vengo io». Troy trovò Kolankiewicz al seminterrato, nel suo studio triste, senza finestre, con un termos di tè e latte, una fila di brioche con la marmellata e, come il solito, il "News Chronicle" del giorno. «È da tanto tempo che non ti si vede, furbastro». Era passato tanto tempo davvero. Non si erano più visti dopo quella sera al Bricklayer's Arms. «Vuoi una brioche?», chiese Kolankiewicz, con la marmellata rossa che gli schizzava dalla bocca. «No, grazie. Volevo sapere se potevi dare un'occhiata a questa roba». Troy gli mise il fazzoletto di lino irlandese sul giornale aperto. «Cosa vuoi, che esamini le tue caccole? Troy, stai diventando peggio di me». «Impossibile. Sei la più disgustosa creatura vivente». Kolankiewicz accettò con un sorriso il complimento, sinceramente lusingato nel sentire, racchiuso in quella definizione, il giudizio di tutto il corpo di polizia metropolitana, compresa qualche contea. «Mi serve il tuo parere su quell'ombra scura nell'angolo». «Ah, l'ombra scura! Troy, Troy, Troy. L'ombra scura. Esistono due parole più belle, una accanto all'altra? Perché la nazione che ha dato i natali a Shakespeare e a Blake non ha un sonetto dedicato all'ombra scura, né un canto dell'esperienza e nemmeno dell'innocenza che racchiuda il mistero dell'ombra scura? Siamo vecchi amici, l'ombra scura e io». Kolankiewicz
prese in mano il fazzoletto e lo annusò rumorosamente sull'angolo. «Non si sente quasi nessun odore», disse. «Ce l'hai già da un giorno o due?». «Sì». «Non importa. Posso riattivarlo. Uno spruzzo di questo, una goccia di quest'altro e la cara, piccola ombra scura tornerà a concedere la sua sozzura a chiunque vorrà annusarla». «Quando?». «Domani». Kolankiewicz riavvicinò al naso il fazzoletto di lino e fece dei rumoracci rivoltanti, peggio di un bambino raffreddato e con le adenoidi. «E vuoi che resti tra noi, vero furbastro?». «Come lo sai?». «Da quanto ti conosco? Vent'anni? Prova a guardarti dall'esterno. A determinate circostanze corrispondono sempre gli stessi gesti. È così per tutti. Onions si stuzzica il naso. Wildeve si gratta il culo. Tu, qualunque cosa voglia tenere segreta, ti chiudi la porta alle spalle senza far rumore, come se dietro ci fosse già qualcuno pronto ad ascoltarti. Quando ti vedo entrare e chiudere la porta a quel modo capisco che siamo sul punto di iniziare un lavoro per conto nostro e che Scotland Yard può andare a farsi fottere». Aveva ragione, naturalmente. Anche su Scotland Yard. 52 Troy tornò nel suo ufficio e telefonò ad Angus Pakenham. che da anni lo aiutava a risolvere le situazioni contabili. Era un eroe della RAF, con una gamba artificiale, un alcolista e il marito della sua ultima amante, Anna. «Che cosa vuoi?», gli chiese Angus, bruscamente. «Si tratta di lavoro, Angus». «Lo spero. O pensi che viva d'aria?». «Credi che possiamo vederci per fare due chiacchiere verso sera?». «Perché no? Troviamoci alla pompa di benzina alle sei. Se arrivi tardi, peggio per te, me ne andrò via zoppicando da solo». La pompa di benzina era il loro luogo d'incontro abituale, le rare volte che si vedevano. Si ergeva alta, nera, elegante e, da quando erano scomparsi i calessi, era diventata il vistoso ornamento dell'incrocio tra Bedford Row e Jockey's Fields, a Bloomsbury. Angus e i suoi soci occupavano gli ultimi due piani di una casa costruita su una vecchia scuderia in Jockey's Fields, dalla quale si vedeva la Gray's Inn. Angus aveva perso una gamba
saltando dalle mura di Colditz Castle, mentre cercava di scappare. L'avevano ripreso ed era stato prigioniero fino alla fine della guerra, con una gamba di latta o pressappoco, che, dopo un altro tentativo di fuga, i tedeschi gli avevano confiscato, perché non scappasse più. I tentativi erano stati diciassette. Quando lo avevano dimesso, in seguito, dal Roehampton Hospital con una gamba di gomma e plastica, tecnicamente perfetta, l'aveva presa in odio ed era tornato a quella di latta, un oggetto a dir poco artigianale, che gli avevano fatto i tedeschi. Passava la metà del suo tempo soffrendo perché, diceva, gli faceva male la gamba che non c'era, e l'altra metà a cercare di non soffrire inghiottendo una mistura quasi letale di compresse e alcol Dava sempre appuntamento a Troy alla pompa di benzina perché non sopportava di essere accompagnato od osservato mentre scendeva faticosamente, imprecando a ogni gradino, le tre rampe di scale che dal suo ufficio scendevano alla strada. Quando arrivava alla pompa, di solito era rosso in faccia ma sollevato e, a seconda di come andavano la gamba e l'umore, poteva dimostrarsi un'ottima o pessima compagnia. Troy lo aspettava, seduto su una panchina. Lo vide girare l'angolo di Jockey's Fields, rosso, ma fischiettando, con una aureola di radi riccioli rossicci che gli usciva dal cappello, la cartella sotto il braccio, a passo svelto, anche se la gamba artificiale nei pantaloni a righe gli si muoveva in fuori, in modo innaturale. «Eccomi qua. Dove vuoi che andiamo? Scegli tu. "La moglie di Lot" o "La meretrice di Babilonia"?». Troy non riusciva mai a ricordare i nomi che Angus aveva dato a quasi tutti i pub raggiungibili, zoppicando, dal suo ufficio. Erano locali che si chiamavano banalmente Il grifone o I tre barili, ma lui li aveva ribattezzati e, a parte il padrone del "Due cani che scopano" (Angus affermava di averli visti proprio lì davanti), nessuno ci badava. C'era anche il vantaggio che se sua moglie l'avesse sentito per caso dare un appuntamento a un amico non sarebbe mai riuscita a trovarlo. «Andiamo al "Le braghe di Frankenstein"?», disse Troy, senza avere la minima idea di quale fosse il pub che Angus aveva soprannominato a quel modo. «Giusto!». Angus si avviò per la Jockey's Fields, verso nord, e Troy capì che stavano andando al Seven Bells, in Theobald's Road. Angus si aprì un varco tra i clienti della sera al grido di «Largo allo zoppo!». Troy lo aveva visto menar fendenti con il bastone, nei giorni in cui il dolore gli rendeva necessario portarlo o, se si sentiva particolarmente ilare,
farsi strada a gomitate con un «Via, via, che arriva il lebbroso». Angus si lasciò cadere su una sedia e cominciò a strofinarsi con forza il punto in cui si univano il moncone e la gamba di latta. «È un momento brutto», disse, «quando la porto da nove o dieci ore mi dà un prurito da richiamare Cristo in terra». Dopo qualche "ooh" e "aah" di sollievo, guardò la cartella, gonfia, che Troy aveva messo sulla sedia tra loro due. «È lì dentro l'argomento delle due chiacchiere che mi hai annunciato? A giudicare dall'esterno, direi che è un lavoro grosso, che ti costerà parecchio. Prima, però...». S'interruppe per dare un'altra grattata al moncone ed emise un sospiro di profonda soddisfazione. «Oh, benone. Prima, però, che ci buttiamo a corpo morto nel lavoro, c'è una cosa che vorrei chiederti: te la fai con mia moglie?». «No», mentì Troy. «Bene. Sono contento che tu abbia avuto il buon gusto di mentire, perché se mi avessi sfacciatamente risposto di sì, tentando di convincermi che tanto non sono cose importanti, mi sarei tolto la gamba di latta e ti avrei fatto sputare tutta la merda che hai dentro. Comunque, per il futuro, ti dico in tutta tranquillità che è esattamente quello che farò se ti troverò ancora a girare intorno alla mia ragazza. Dovunque, anche per strada, e non m'importa se si spezza la gamba di latta e tutti mi vedono. Hai capito?». Troy fece segno di sì con la testa. «Bravo. Chiuso l'argomento. Adesso va' a prendere da bere e poi spiegami che cos'hai in mente». «Credevo che non bevessi più». «Troy, vuoi che ti tratti da scemo o vuoi pensare ai fatti tuoi, lasciarmi bere e dirmi perché mi hai cercato? Portami un doppio malto. Niente acqua. Niente ghiaccio. Lasciamolo fare agli americani». Troy sperò che Angus non intendesse ubriacarsi, perché già non era un uomo facile quando si trovava in possesso di tutte le sue facoltà, ma ubriaco era insopportabile e poi gli sarebbe piaciuto che l'ottimismo di Anna desse qualche frutto. Sapeva che solo le crisi di Angus, lunghe un mese, quando il lavoro andava a rotoli e lui aveva il priapismo di un bruco, li riavvicinavano, spingendoli a varcare la linea incerta che li univa e divideva, amanti non amanti, da quando avevano vent'anni. E poi, adesso non intendeva avere più niente a che fare con Anna. Cercò di ingannarlo. Gli mise davanti un bicchiere di whisky piccolo e per sé prese due dita di ginger ale, sperando di fargli credere che fosse whisky anche quello. Angus alzò il bicchiere verso la luce e, prima che Troy potesse fermarlo,
gridò al proprietario, attraverso la sala: «Herbert! Vecchio tirchio! Lo chiami un doppio, questo? Fatti curare gli occhi!». Herbert si avvicinò, basso, grosso, con i capelli come le stoppie in autunno e la faccia gonfia dell'ex pugile. «Che cos hai detto?». «Ho detto», Angus si tirò in piedi, era alto quasi un metro e novanta e appariva tutto diverso da Herbert, «ho detto che sei un vecchio tirchio. E che devi farti curare gli occhi prima che qualcuno te li cavi». Un grosso dito gli si puntò sullo sterno e Angus venne costretto a rimettersi a sedere. «Tirchio? Tirchio io? Sentimi bene tu, eroe, tu, con le tue schife medaglie, tu che, a sentirti, hai scatenato l'uragano, tu che sei stato il signore della battaglia d'Inghilterra, lo sai che sono anni che scocci tutti nei pub da qui al fiume? Ti abbiamo sopportato, perché qualcosa hai fatto. Ti hanno dato le patacche e ti ammiriamo per questo. Sa Dio se i più scemi ti vogliono anche bene. Sei il nostro pezzo di storia. Ti sei rotto la gamba per scappare e adesso ce l'hai di latta. Sei l'unico qui con una gamba finta, diciamo proprio autentica. Però tirchio non me lo devi dire. Ti ho dato il bicchiere piccolo? Non tirare troppo la corda, Angus. Io sono stato campione dei pesi medi under 21 e ho resistito cinque round con Mickey McGuire quando ero giovane. Se mi dai fastidio ti riduco un budino». Angus non aveva battuto ciglio. Non aveva cambiato espressione. «Ben detto, Herbert. Vuoi unirti all'ispettore capo e a me, qui a questo tavolo?». «Molto gentile, Angus, ma non ho mai bevuto con la polizia e non voglio cominciare adesso». S'inchinò leggermente verso Troy. «Senza offesa». «Nessuna offesa», rispose Troy, che conosceva bene il galateo del pub, quell'arcano codice solo maschile, e sapeva che cosa richiedeva da lui. Gli parve arrivato il momento di aprire la cartella e lasciare che i documenti esercitassero la loro attrattiva professionale. Visto di che si trattava, gli pareva strano, ma forse anche i contabili nutrivano una forte passione per il loro lavoro, come lui per il suo. Angus bevve un sorso di whisky e chiese: «Allora che cosa è successo?». Troy gli diede la versione medicata del caso Cockerell e passò, appena possibile, a illustrargli le irregolarità finanziarie e le ipotesi della moglie. «Mah», disse Angus dopo un po', «chi non vive al di là dei propri mezzi? È la legge del nostro tempo, no? Lo so che tu nuoti nell'oro, ma io no e come me ce ne sono tanti».
«Lì i soldi c'erano, almeno sulla carta». «Gli affari andavano bene?». «Anche troppo». «I conti non tornano?». «Tornano... ma io ho un sospetto. Prova a pensare: se volessi fare un imbroglio, chi dovresti avere dalla tua parte?». «L'impiegato che mi tiene i libri». «Cockerell se ne occupava personalmente». «Il contabile». «Era lui stesso». «Dovrebbe essere stato molto abile nel manipolare le cifre per superare il controllo del revisore. Del resto ce ne sono molti come lui, altrimenti non avremmo bisogno di una squadra antifrode». «Eccoci arrivati a George Jessel». «Chi è?». «Il revisore dei conti di Cockerell, suo amico intimo e, da poco, ospite dell'obitorio. È morto al momento giusto». «Ucciso?». «Non posso provarlo, ma credo di sì». «E secondo te lo aiutava a coprire le perdite, gli imbrogli, a nascondere i debiti? Dimmi». «Non lo so. È per questo che ho bisogno di te. C'è qualcosa che non va e che non capisco». Angus sfogliò il fascio di carte che aveva davanti. «Ti ho già avvertito che ti costerà parecchio». «Va bene. Mi farai sapere quello che ti devo». «Avrò bisogno che tu mi scriva una lettera di autorizzazione». «L'ho già preparata». Troy si tolse di tasca una busta e le chiavi del magazzino di Cockerell. «Hai una copia di tutto. Rendiconti bancari, ricevute delle tasse, tutto. E, nel caso volessi dare un'occhiata di persona, ti ho messo anche l'indirizzo della moglie e quello del revisore. Qui ci sono le chiavi. Telefona alla moglie. È una donna sveglia e decisa a mettere suo marito spalle al muro. Se ci riesci, sta' al largo dalla polizia locale, l'unico affidabile è un sergente che si chiama Godbehere. L'ispettore era anche lui amico intimo di Cockerell». Dietro il parlare a vuoto di Angus, Troy lo sapeva, c'era un cervello. A suo tempo, nell'intervallo breve, ma che era sembrato dilatarsi fino a di-
ventare interminabile, tra lo sbarco in Normandia e la resa della Germania, Anna gli aveva descritto l'affascinante ufficiale della RAF che le aveva fatto perdere la testa e l'aveva convinta a sposarlo subito «perché forse domani saremo morti». Era stato un bell'uomo, adesso non lo era più, ma soprattutto sembrava si lasciasse intrappolare dall'intrecciarsi delle sue stesse parole e idee. Anna le chiamava «le divagazioni dell'intellettuale». Era sempre più difficile, ormai, vedere la maschera polemica, rabbiosa, scivolare dalla faccia di Angus, arrossata per l'alcol, dai suoi lineamenti alterati, ma in quel momento sembrava che la mente avesse prevalso sull'aspetto esterno, quello che si accompagnava alla collera, fino a farlo dimenticare. «'Amico intimo" fa pensare a una quantità di cose, no? Rientra nei caratteri della convivenza umana. È una dottrina, l'intimismo. E dà luogo a un seguito di illazioni. Fino a che punto "intimo"? Che cosa si è disposti a fare per un "amico intimo"? Puoi riconoscere un uomo dai suoi "amici intimi"?». Angus alzò il bicchiere e fece un cenno al bar. «L'Inghilterra si addormenta sulla intimità dell'amicizia che lega i soci di un club: cenni della testa, ammiccamenti, una stretta di mano speciale, la solidarietà nel tenere lontani gli altri. Credevo che la guerra avrebbe cambiato qualche cosa, anzi ero sicuro che avrebbe cambiato tutto. Avevo anche pensato che sei anni di socialismo sarebbero serviti. Invece no, siamo ancora il vecchio paese di prima». Herbert mise davanti ad Angus un bicchiere di whisky, senza una parola. Doppio, questa volta. Angus ne bevve metà e riprese a parlare. «E rischiamo di marcire. Che cosa fa dire Shakespeare a Feste, il buffone? "Come la nespola, che marcisce prima di maturare". Questa è l'Inghilterra, marciremo fino all'osso prima di essere morti o democratici. E molte risposte si trovano nel concetto di amicizia. Ho deciso che la fine della guerra ha cambiato una cosa sola». «E cioè?». «Prima avevo due gambe e adesso ne ho una». Troy non disse niente. Se non avevano toccato la radice dell'argomento, erano almeno arrivati al moncone. «Ora non ci resta che bere e aspettare la fine del mondo. Hiroshima, Nagasaki, l'atollo di Bikini, quella maledetta centrale nucleare di Windscale. Bevete whisky e non lasciate che i bambini bevano il latte. L'erba, la verde erba dell'Inghilterra non è più verde, ha mille gradazioni fosforescenti, come un arcobaleno di stronzio. Noi ci raccogliamo uno addosso all'altro sotto la pioggia violacea, agnelli pronti per il mattatoio atomico. E c'è
qualcuno, nell'esercito di Lucifero, che ci aspetta intonando col culo l'inno nazionale». «E c'è qualcuno, in questo pub, che minaccia di brandire la sua gamba di latta come la mandibola di un asino. Angus, non ho tempo di ascoltarti». Ma Troy, soprattutto, non voleva lasciarsi trascinare nel mondo di Angus, dividere con lui quella visione distorta della vita. Passare una serata con Angus significava attraversare la superficie di una palude illudendosi di non venire risucchiati. Negli ultimi tempi aveva cominciato a pensare che la sopravvivenza, arrivati all'età della ragione, richiedeva non solo l'acquisizione di quella maturità che tutti parevano rimandare, prolungando all'infinito uno stato adolescenziale, ma anche l'accortezza di evitare modi di vedere, di essere, di agire dai quali, non trovava espressione migliore, si correva il rischio di essere risucchiati. Angus ubriaco si poteva educatamente evitare, Johnny Fermanagh no, per lui ci voleva una corazza sul cuore. «E neanche tu hai tempo», aggiunse Troy. Angus raddrizzò col pollice l'angolo di un foglio, poi li riunì con le mani e li fece scorrere come se si preparasse a distribuire un mazzo di carte. «Domani comincio», disse, «non smetto più finché non ho finito». Tacque e rimase per un po' a guardare nel vuoto. «Domani o dopodomani». Tenendo alto il bicchiere, gridò: «Herbert, amico mio!» Troy lo lasciò così. 53 La sezione speciale era un focolaio di smozzicati pettegolezzi sui servizi segreti. Se i servizi segreti erano un organismo, l'МІ5 e l'МІ6 erano i cervelletti e la sezione speciale gli arti. La sua funzione, all'interno dell'Inghilterra, si svolgeva con un lavoro di braccia, intrecciare e spezzare, e con un lavoro di gambe, scalciare e buttare all'aria. Troy non poteva chiedere niente alla sezione speciale. Neanche l'ora. Non lo tenevano in nessun conto. Ma forse, così pensava, la breve esperienza sotto l'egida dell'ispettore Cobb aveva migliorato la sua posizione Chiese a Jack di tastare il terreno. «Con te parleranno», gli disse. «Cerca di scoprire tutto quello che puoi su Daniel Keeffe. Qualcosa che ha a vedere con il Sei. Non so che cosa». C'erano due D. Keeffe sull'elenco del telefono. Keeffe D., giudice di pace, Drayton Gardens SW 10, e Keeffe D. S., Notting Hill W 2. Troy pro-
cedette in ordine alfabetico. A casa di Keeffe D., giudice di pace, dopo molti squilli nessuno venne a rispondere al telefono. Da Keeffe D.S. al quinto squillo una donna rispose: «Sì?», con una voce spenta, forse addormentata. «La signora Keeffe?». «Chi parla?». «Troy, ispettore capo di Scotland Yard...». Lei riattaccò. Troy pensò che non era quello il numero del Keeffe che cercava. Dieci minuti dopo entrò in ufficio Jack, si versò un caffè dalla macchinetta di Clark, si mise a sedere e confermò quello che Troy aveva pensato. «Si fanno molte chiacchiere su questo Keeffe. Ho bevuto un po' di birre alla mensa, all'ora di pranzo. Pare che un certo sergente Gorman, della sezione speciale, un tipaccio, proveniente dalla polizia militare, si sia vantato di essere andato a casa di Keeffe e di averlo tenuto sulla graticola. Gli ha fatto un terzo grado e ha messo tutto sottosopra. Quello che mi ha dato questa informazione mi ha ripetuto testualmente la frase di Gorman: "Ce lo siamo rivoltato dai piedi alla testa quel piccolo giudeo"». «Oh, Cristo! Che cosa cercavano?». «Niente. Tanto, come si dice, per farsi arrosto qualcuno». «Una lezione?». «Non saprei come chiamarla diversamente. Quando il Cinque e il Sei mandano la sezione a svolgere un incarico per conto loro, può solo trattarsi di dare una lezione. Dubito che intervengano direttamente. Hanno le persone adatte per questo. Credo che abbiano mandato Gorman proprio perché facesse quello che ha fatto e non sarà stata cosa da poco. Aveva portato con sé due agenti e lo avranno davvero rivoltato dalla testa ai piedi. Il mio informatore mi ha detto che Keeffe aveva una collezione di porcellane, Meissen, Limoges, cose a questo livello. Gli hanno fracassato tutto. E siccome non si è parlato di arresto, nemmeno in prospettiva, dobbiamo concludere che si sia trattato di un intervento della sezione nel suo più puro significato: la violenza fine a se stessa». «Credo di aver parlato, poco fa, con sua moglie. Ha riattaccato appena ho detto chi ero». «Non so darle torto. Ora mi vuoi spiegare che cos'ha fatto questo Keeffe?». «Credo che abbia mandato il comandante Cockerell a spiare l'Ordzhonikidze. E, questo invece lo so con certezza, è stato incaricato dal Foreign
Office di spiegare tutto alla moglie di Cockerell, quando il governo ha deciso di mettere le cose in chiaro». Jack lo fissò a lungo, senza nessuna espressione particolare, infine disse: «... in chiaro... Avrei scelto un'altra parola». «No, in chiaro». Jack lo fissò di nuovo allo stesso modo e Troy cominciò a chiedersi se non gli fosse rimasta metà colazione sul mento. «Non intenderai metterti alle costole del Cinque e del Sei un'altra volta?». «Un'altra volta?». «Sai benissimo che cosa voglio dire». «No, non lo so. A me importa solo capire». «Capire che cosa?». «Che cosa è successo a Cockerell». «Vuoi dire chi l'ha ucciso?». «Voglio essere sicuro che non rientri nelle nostre competenze». «E in questo caso lascerai perdere?». Troy non rispose. «Eh, Freddie?». «Naturalmente». «Non so perché, ma non ti credo». Troy si dedicò al lavoro in attesa sulla scrivania e, quando ebbe finito, considerò concluso il pomeriggio in ufficio. Alle tre uscì dalla stazione metropolitana di Notting Hill Gate e andò verso Kensington Gardens. Voltò a sinistra, in Linden Gardens, una strada cieca, a forma di anello. C'erano case grandi, con vari appartamenti e altre, unifamiliari. Si fermò sul marciapiede di fronte al numero 202, chiedendosi quale strategia d'attacco lo trattenesse dal dare sfogo alla protesta che la sezione speciale meritava. Il portone della casa si aprì e uscì una donna giovane e piccola di statura, con un impermeabile stretto in vita da una cintura, un foulard in testa e un paio di occhiali neri. Era una calda giornata di fine estate. Quel vestiario fuori luogo sembrò a Troy un travestimento elementare, scoperto. Audrey Hepburn o Diana Dors che vanno a fare spese in Regent Street, premunendosi in modo che tutti possano dire: «Dev'essere un'attrice che non vuole farsi riconoscere». La vide andare verso la Bayswater Road e fermarsi vicino a una Morris Minor. La chiamò: «Signora Keeffe!», e lei, con le chiavi dell'automobile in mano, si voltò e si abbassò gli occhiali sulla punta del naso per guardarlo.
«È stato lei a chiamarmi?». «Sì, signora Keeffe... Non faccio parte della sezione speciale». «E io non sono la signora Keeffe». «Mi scusi, non capisco». «Sono Deborah Keeffe. Daniel era mio fratello». «Era?». Lei si tolse gli occhiali, li piegò e li mise nella tasca dell'impermeabile. Aveva gli occhi rossi e le palpebre gonfie. Sembrava che avesse passato due o tre notti senza dormire. «No», disse, «lei non fa parte della sezione speciale, altrimenti saprebbe che mio fratello è morto di overdose cinque giorni fa. È morto, signor... mi dispiace, non mi ricordo più il suo nome». «Troy». «Mi sembrava di averla già vista, infatti. Altrimenti non avrei risposto quando mi ha chiamata. L'ho vista alla Camera dei Comuni. Lei è il fratello di Rod Troy, vero?». «Sì». «Sono assistente alla biblioteca della Camera, reparto scienza e tecnica. Non credo che lei si sia accorto di me. Non capita con i membri della Camera, perché dovrebbe capitare con gli ospiti? Credo che lei abbia cercato il nome Keeffe sull'elenco del telefono, è così? Non so perché si interessi a Daniel, ma lui abitava in Drayton Gardens. Come le ho detto, se facesse parte della sezione speciale lo saprebbe». «Lavoro alla squadra omicidi, signorina Keeffe». «Chi è stato ucciso?». Troy era sempre meno in grado di far fronte a quella semplice domanda. Rispose come si era abituato a rispondere, anche se contrastava con quello che ora pensava. «Il comandante Cockerell». «Bene, bene, bene, prima o poi le galline finiscono in pentola». La signorina Keeffe si rimise gli occhiali neri. «In questi ultimi giorni sono stata a casa sua, in Drayton Gardens, per mettere un po' d'ordine. Ci stavo andando anche adesso, ma forse non è il posto migliore dove poter parlare. Perché non lasciamo qui l'automobile e prendiamo la metropolitana? Ho l'impressione che sia un posto molto riservato, tranne nelle ore di punta. Credo che nessuno sentirà quello che abbiamo da dirci». Tornarono lungo la strada che aveva percorso Troy, da Notting Hill Gate e presero la Circle Line, in senso orario, prima intorno a Chelsea, poi a
nord attraverso Baywater e a est, per Baker Street. La signorina Keeffe non parlò più finché non furono seduti. Si rimise di nuovo in tasca gli occhiali e si tolse il foulard dalla testa. I capelli, neri e ricci, le ricaddero intorno al viso e lei li scostò. Troy pensò che doveva avere circa trent'anni. Piccolina, ebrea, con gli zigomi larghi e gli occhi scuri come li aveva lui, che, per contrasto, facevano apparire la pelle più chiara, quasi bianca tranne nei punti in cui il dolore e la mancanza di sonno avevano lasciato tracce rosse e ruvide. Per Troy era una faccia familiare. L'Inghilterra aveva accolto molti immigrati nei primi quarant'anni del secolo. Deborah Keeffe forse era lettone o lituana, discendente degli esuli da paesi che ora non esistevano più. Non erano diversi l'uno dall'altra e anche lei lo aveva capito. «Siete russi, vero, lei e suo fratello? Figli di Sir Alex Troy». «Veniamo da Tula», rispose Troy, come faceva di solito. «Mia madre era di Vilnius. I suoi genitori l'avevano portata qui nel 1899. Parlavano russo ed erano ebrei, estranei due volte. Cercavano di sfuggire al pogrom. Hanno preso una nave diretta a Ellis Island. Li ha portati a Tilbury. Sono sbarcati, si sono guardati attorno, non hanno visto la statua della libertà, hanno pensato che ci fosse troppa nebbia, sono stati immatricolati e per quasi una settimana sono vissuti qui, credendo di essere a New York. Mio padre veniva da Cork. Aveva poche illusioni. Non aderiva nemmeno alla propria fede religiosa. Era un matrimonio strano, pure reggeva bene. Noi siamo per metà cattolici e per metà ebrei: una garanzia di nevrosi, non crede?». Troy capì quello che lei non aveva detto. «Suo fratello soffriva di nevrosi?». «Sì. Per questo, infine, si è ucciso. Se avesse avuto un temperamento più stabile avrebbe superato il disagio, se fosse stato più sicuro di sé non avrebbe visto quello che era successo come una minaccia alla propria vita. Anche se solo uno sciocco non si sarebbe sentito colpito. Non doveva uccidersi, ma era qualcosa che si era sempre portato dentro di sé». «Se non sbaglio, suo fratello era il superiore di Cockerell durante la guerra». «Sì. Era in marina. Era stato nominato comandante, solo un grado più di Cockerell. Fin dall'inizio c'erano state le solite complicazioni tra la lista di riserva e l'incarico al ministero degli esteri e il grado era una sorta di formalità che nascondeva il suo vero ruolo». «Ed è stato incolpato per quello che ha fatto Cockerell?».
«Incolpato, interrogato, punito e umiliato. Alla fine di giugno lo hanno assegnato a Reykjavik. Immagini che mortificazione. Con il suo stato di servizio in guerra. Una giovane intelligenza, un elemento di punta nel controllo dell'Unione Sovietica, con una conoscenza della lingua fin dall'infanzia, non ancora quarantenne... assegnato a una sede che non era una sede a svolgere un lavoro che non era un lavoro. Tutto quello che aveva da fare era contare i pescherecci e spiare la quantità di merluzzi e di passere di mare che scaricavano. Peggio che se lo avessero cacciato via. Avevo sempre disapprovato la dedizione di Daniel al dovere. In tempo di guerra era giusto. In pace no. Non mi chieda perché. Forse in guerra tutto tende a uno scopo comune. Il tessuto dei vecchi pregiudizi inglesi si allarga fino a deformarsi, i buchi sembrano le maglie di una rete da pesca e attraverso quei buchi passano gli uomini come Daniel. Chi è estraneo entra finalmente a far parte della comunità. Daniel aveva creduto che sarebbe stato così per sempre. Che sciocco. Mentiva a se stesso e mentiva a me. Voleva essere accettato. Era l'appartenenza che gli premeva ed è morto per quello. Non ha sopportato l'accusa di tradimento, e non ha capito che senza appartenenza non ci può essere tradimento. «La sera prima che se ne andasse è venuto da me, era ormai distrutto. Ha bevuto tutta una bottiglia di gin nel mio salotto. Io ho insistito perché desse le dimissioni, mi ha detto che era impossibile, stare con loro significava starci per sempre. Ma la verità sarebbe emersa. Non aveva fatto niente di male. Prima o poi se ne sarebbero accorti. Allora mi ha raccontato tutto. Mi ha raccontato che Cockerell era andato da lui dopo più di dieci anni. Daniel era stato il suo superiore, il suo "ufficiale di riferimento" o non so come li chiamassero, nello spionaggio, durante la guerra. Daniel voleva metterlo a riposo, perché ormai era chiaramente venuto il momento, ma Cockerell gli disse che aspirava a un ultimo incarico prima di appendere definitivamente le pinne al muro. Gli spiegò che poteva spiare l'Ordzhonikidze, gli descrisse un progetto pazzesco che aveva ideato per esaminare lo scafo della nave. Ma perché dovremmo fare una cosa simile? gli chiese Daniel. E Cockerell seguitò per un pezzo a vaneggiare sui segreti russi, insistendo che quella era un'occasione d'oro per scoprirli. Daniel gli rispose di no. Gli disse che era impossibile avere l'autorizzazione a un progetto così campato in aria. Però gli dispiaceva per quel vecchio sciocco e lo invitò a bere qualcosa al suo club. E anche questo è stato fatto notare, come se Daniel avesse voluto ostentare di essere socio di un club. «E poi è scoppiato l'inferno. Sono cominciate le chiacchiere su Cocke-
rell. I giornali se ne sono impossessati. Sono stati controllati i versamenti in banca. Tutti hanno dovuto consegnare le loro agende e quello è stato il disastro, perché il primo ministro stava cercando di negare tutto. Sull'agenda di Daniel era segnato un appuntamento con Cockerell. Dal registro all'ingresso risultava che, in marzo, il vice comandante Cockerell era stato ammesso a un colloquio con il comandante Keeffe. In troppi avevano visto Daniel al suo club bere insieme a Cockerell come vecchi amici. E nessuno credeva a una parola di quello che diceva Daniel. Così lui ha messo Cockerell su un treno per il luogo più oscuro del Derbyshire con un paio di bicchieri in corpo e la raccomandazione di non pensare più a Kruscev e godersi in pace la pensione. «Ha passato due giorni con un tale che lui chiamava "il Tenero" e quando è ricomparso sembrava più vecchio di cinque anni. Poi sono arrivati quelli della sezione speciale. Hanno ridotto in briciole tutte le cose cui lui teneva. E a quel punto c'è stata l'umiliazione estrema. Tre settimane prima che Daniel partisse per Reykjavik, il primo ministro ha deciso di ammettere quello che era successo e Daniel è stato mandato nel Derbyshire per una spiegazione con la vedova. Io credo che la "spiegazione" fosse un eufemismo alla Orwell che equivale a un "chiudere la bocca". Non so che cosa Daniel le abbia detto. Parlava poco, tranne quando era ubriaco. E ormai lo era tutti i giorni. È partito per Reykjavik ubriaco, mi ha telefonato ubriaco ed è morto ubriaco, pieno di gin e di barbiturici. «Ero alla biblioteca quando me l'hanno detto. Il mio ufficio è proprio vicino alla sala di lettura. È venuto da me un tale che si chiamava Woodbridge, Tim Woodbridge, segretario parlamentare al ministero degli esteri, rappresentante in parlamento per non so che cosa, a nord o a sud. Uno che non avevo mai sentito nominare. Io lavoro soprattutto con l'opposizione, al governo non hanno bisogno delle nostre relazioni, hanno l'amministrazione civile ai loro ordini. Così, Woodbridge si è presentato, mi ha detto che doveva darmi una brutta notizia e mi ha ripetuto, come una macchinetta, tutti i "quanto ci dispiace" del caso. Io l'ho fatto smettere e gli ho detto che se Daniel era morto preferivo saperlo subito. Non poteva essere altri che lui, Daniel. I miei genitori sono morti molti anni fa, io non sono sposata e mio fratello nemmeno. Eravamo noi due soli. E poi, una sciocchezza del genere era nella sua natura. Woodbridge mi ha lasciato piangere un po' e quando gli è parso che fossi abbastanza calma ha parlato del vero scopo della sua visita. Tutto quello che era appartenuto a Daniel, inerente al suo lavoro, doveva essere consegnato allo spionaggio. Io ero e sono tuttora vincolata
dal segreto d'ufficio. Non devo dire niente a nessuno. Se sarò disposta a collaborare, mi verrà assicurata la carriera alla Camera dei Comuni. Altrimenti, non è difficile capire che mi butteranno fuori. Tutto detto nella forma più gentile che si possa immaginare, senza una parola precisa, solo allusioni ad "avvenimenti recenti nei quali suo fratello potrebbe essere stato coinvolto". Senza nominare né spie, né sommozzatori, né Kruscev. E per tutto il tempo, quel vigliacco, non faceva che chiamarmi "cara". Mi diceva che potevo stare a casa dal lavoro tutto il tempo che volevo, che a loro importava solo la mia discrezione. Io avevo la sensazione che non facesse che fingere. Fingere che fossi una di loro, fingere che non fossi una donna, fingere che avessi un ruolo importante, fingere che facessi parte del "gruppo" e che obbedissi alle stesse regole. Fingere addirittura che non fossi ebrea». «Allora perché mi ha raccontato tutte queste cose?». «Proprio perché non faccio parte del gruppo. Perché ne sono esclusa per fede, età e sesso. Perché non obbedirò alle loro regole. Mi piace il mio lavoro. Mi è costata fatica guadagnarmelo. Diploma a Girton a diciassette anni, Master alla London School of Economics a ventuno. Bibliotecaria alla Camera dei Comuni a ventisei. Ma non possono approfittarne per corrompermi. Non possono servirsene per darmi una botta in testa. Non so che cosa sarebbe opportuno che facessi. Ho ripulito la casa di Daniel da cima a fondo e non ho trovato niente che potesse costituire un'accusa. Ma io so quello che so. E se non fosse venuto lei, avrei cercato qualcuno. Un Ivanhoe che venisse a salvare Rebecca. Spero che si faccia avanti. Avrei potuto scrivere a suo fratello, avevo preparato anche un appunto per lui. Almeno di nome mi conosce». «Non scriva a mio fratello». «No?». «Non gli dica niente». Lei si strinse nelle spalle. «Come vuole. In ogni modo, non sono nemmeno sicura del riscontro che potrebbe avere all'interno di Westminster». «Che cosa vuole che faccia?», chiese Troy. Lei parve sorpresa. Lo guardò con una espressione incuriosita. «Che cosa voglio? Come potrei volere qualche cosa da lei? È stato lei a venire da me, signor Troy. Faccia quello che deve fare. Io non ho risolto la sua indagine. Non ho aggiunto nomi che potrebbero esserle utili. Mio fratello è stato una vittima, sono sicura che lei è d'accordo, un capro espiatorio, ma non è stato ucciso e non mi servirebbe a niente fingere che sia morto per mano di qualcun altro».
Fu un momento, in tutta quella confusione indegna, cui Troy sarebbe tornato spesso col pensiero. Deborah Keeffe era stata la sola a conservare la propria lucidità mentale nel dolore e nella rabbia, la sola a non volere niente da lui. «Allora lasci che formuli la domanda in un altro modo: che cosa pensa di fare, adesso?». «Finirò di pulire la casa di Drayton Gardens. Poi riprenderò a lavorare. Se, in base a quello che le ho detto, Woodbridge o qualsiasi altro di quei signori mi accuserà, non mentirò. E non darò le dimissioni. Dovranno licenziarmi. Ho sempre superato le prove che l'Inghilterra mi veniva ponendo man mano e mio fratello ha fatto lo stesso, ci siamo uniformati all'immagine richiesta, ma non possono fare di me una bugiarda, signor Troy». Questa, pensò Troy, era la differenza tra loro due. Lui fin dall'inizio, fin dall'infanzia, da quando aveva conosciuto l'uso della parola, aveva visto l'inevitabilità della menzogna. Quasi un modo di vivere. Vide il segnale della stazione, la linea attraverso il cerchio presente in tutte le fermate della metropolitana. Non aveva più guardato fuori da quando la signorina Keeffe aveva cominciato a parlare, per quanto ne sapeva potevano essere da qualsiasi parte tra Notting Hill e Charing Cross, ma adesso era chiaro che lei non aveva più niente da dirgli. Erano a Moorgate. La stazione successiva era Liverpool Street. La salutò e, quando il treno si fermò di nuovo, scese. Si trovò davanti al bar sul marciapiede dove era stato con Kruscev. Era chiuso, altrimenti sarebbe entrato a bere una mezza pinta di birra e a riflettere un po'. Invece guardò verso il tunnel e cercò di capire se anche lui sentiva quell'odore di disperazione, anche se non sapeva quale fosse l'odore della disperazione e perché mai dovesse avere un odore. Non sentì niente, solo bacon fritto. 54 Warriss telefonò, felicissimo. «Infarto al miocardio, signore. Sa che cos'è o vuole che glielo spieghi?». «No», rispose Troy. «Mi mandi una copia del referto. E mi dica se ci sono particolari di cui ora dovrei essere informato». «Non ci sono né lividi né tagli. Niente. Le sue domande, le sue osservazioni sono servite solo a farmi perdere tempo... valgono uno zero. Non ci sono prove che la morte sia avvenuta per qualcos'altro, e non per un attacco cardiaco dovuto ad anni di alcol e fumo uniti a un problema di angina.
Il dottor Jewel ha pronto per la firma un certificato di morte naturale. A meno che, naturalmente, a lei non risulti qualcos'altro». Voleva stuzzicarlo, lo stava prendendo in giro. Troy riattaccò. Dopo dieci minuti, il telefono suonò un'altra volta. «Signor Troy? Sono Ray Godbehere». «Il suo ispettore ha appena cercato di buttarmi il fumo negli occhi». «Lo so, signore. È appena andato a pranzo col suo sorriso da iena, per questo sono libero di telefonarle». «Continuo a essere il più imbecille a Belper, vero?». «Non direi, signore. Ho controllato le tre serie di impronte rilevate sul piano della scrivania. Una serie è dell'ispettore. Lo so perché abbiamo in archivio quelle di tutti noi, in modo da poterle eliminare subito dai controlli. Ha fatto male a lasciarle, ma sappiamo che non ha mai pensato che si trattasse di un delitto. La seconda serie riguarda solo una mano sinistra, con una cicatrice in rilievo che attraversa l'indice. Per caso lei, signore, ha una cicatrice che le attraversa l'indice della mano sinistra?». Troy pensò che doveva aver toccato la scrivania, anche se non se lo ricordava. «Sì, credo proprio che quell'impronta sia mia. La terza serie?». «Ancora solo una mano sinistra. Le dita, in vari punti, e il palmo sul bordo. Come se qualcuno avesse appoggiato tutto il peso del corpo sulla mano sinistra. Non ci sono altre impronte che corrispondano. Non ho rilevato né quelle di Brenda né quelle della donna delle pulizie, perché la mano è grande, certamente maschile. Anche quelle del morto sono diverse. Anche in archivio non ho trovato niente. C'è un punto in cui la sua impronta, signore, si sovrappone a una di queste ultime, non identificate, quindi pare che lei abbia ragione: qualcuno è entrato nello spazio di tempo in cui la donna delle pulizie se n'era già andata e lei non era ancora arrivato». «Si è appoggiato con la mano sinistra alla scrivania, per mettere la pistola, con la destra, sotto il naso di Jessel. Ha tirato il grilletto, si è sporto in avanti ed è caduta una goccia di olio dalla parte dov'era seduto Jessel». «Che ha pensato bene di morire all'istante. È questo che vuol dire, signore?». «Sì. Credo che qualcuno abbia cercato di spaventarlo e che sia stato fortunato». «Fortunato?». «Dubito che volesse o potesse sparare e andarsene. L'attacco di cuore era la soluzione migliore». «Si riferisce a una persona in particolare?».
«Ha le impronte digitali di Cockerell?». «No, signore. E non saprei come procurarmele. Ho letto sui giornali che quando l'hanno ripescato le mani non le aveva più». «Provi se ce ne sono sulla portiera dell'automobile». «Dovrei, quindi, andare a chiedere il permesso alla signora Cockerell...». «Sì. Lo può fare, vero?». «Sì, certo. Ma lasci che le dica, signore, che in questi ultimi giorni sono andato avanti e indietro dappertutto. Ho bussato a tutte le porte. Nessuno ha visto nessuno. È la verità, e le assicuro che Arnold Cockerell non sarebbe passato inosservato. Direi, anzi, che è l'unico uomo al mondo cui sarebbe stato impossibile passare per la città senza essere riconosciuto, uccidere Jessel e salire sul primo autobus per Shottle». La frase conclusiva doveva essere una metafora locale che equivaleva a uno svanire nel nulla. Il discorso era ragionevole, ma non corrispondeva allo schema che si andava formando nella mente di Troy, sempre più incline a condividere l'opinione della signora Janet Cockerell. Suo marito era sparito. E chi sparisce si diverte poi a riaffiorare ogni tanto. «Mi scusi. Probabilmente lei ha ragione. Lasciamo tranquilla per un po' la signora Cockerell. Che cosa sa Warriss, a questo punto?». «Niente più di quanto non sapesse l'ultima volta che vi siete visti». «Grazie. Le sono riconoscente». «Non dimentichi che se lui scoprisse...». «Lo so. Sarei la sua rovina». «Diciamo, piuttosto, che dovrebbe trovarmi un altro lavoro». Troy accettò il suggerimento. Godbehere era più sveglio di buona parte degli agenti con cui lavorava a Scotland Yard. Anche troppo sveglio, forse. Lui stesso non credeva che Cockerell avesse puntato Га pistola addosso a George Jessel facendolo morire di paura, ma gli era parsa una soluzione così geniale che, mentre razionalmente la scartava, la parte della sua mente che procedeva per intuito, veleggiando al vento ingannevole della immaginazione, non rinunciava all'idea che forse avrebbe anche potuto essere andata così. 55 Gli servivano prove concrete. Gli serviva Kolankiewicz e Kolankiewicz era in ritardo di un giorno su quanto aveva promesso. Prese dalla scrivania il referto sulla morte di Cockerell e andò a sfidare la belva polacca nella
sua tana. «Ho avuto da fare. La morte impazza». Kolankiewicz si alzò e gli chiuse la porta alle spalle. «Dov'è finita la tua riservatezza?», disse, vedendo che Troy non se n'era nemmeno accorto. «Ho il risultato che cercavi». Aprì il primo cassetto della scrivania e mise davanti a Troy quello che restava del suo fazzoletto. «Hai ridotto a brandelli il mio fazzoletto di lino irlandese!». «Ho tagliato via un angolo. Quante storie! Vuoi sentire quello che ho da dirti o no? Non sai che, ogni giorno, una folla di poliziotti pende dalle mie labbra?». «D'accordo. Ti ascolto». «Si tratta, come avrai già capito, di olio per pistole, sempre che si voglia dare una qualifica a una sostanza in base all'uso. Un olio è olio per pistole se lo usi per oliare una pistola». Nell'esercizio della professione Kolankiewicz si esprimeva così. La scarsa padronanza della lingua che si avvertiva nelle frasi frammentarie di una conversazione, dava, nelle definizioni scientifiche, risultati spesso oscuri. «Puoi tradurre?». «È l'olio che userei per una pistola automatica se ne avessi una. E so che molti lo fanno, però può avere anche usi diversi.. Io, per esempio, domenica scorsa, con quell'olio ho lubrificato il tagliaerba. Però, a meno che tu non mi dica che questa è un'indagine su un uomo investito da un tagliaerba alla periferia di Hampstead Garden, nel qual caso, direttamente provocato, confesserei di avere ucciso il vicino in un accesso di follia orticultrice, possiamo presumere che l'olio sia stato usato per una pistola. Bassa viscosità, alto contenuto di grafite. Non appiccica, non attira la polvere, non intasa il grilletto, ma è perfettamente fluido. Per la sua stessa fluidità, è necessario oliare la pistola più spesso che se si usasse un olio più viscoso. Perde qualche goccia e prima o poi sporca i vestiti». «E quindi...». «Quindi?». «Proviamo a ragionarci». «Proviamo: un delinquente comune, un mascalzone improvvisato non sanno niente di tutto questo. Usano la pistola come una bicicletta, ammesso che sappiano come si pulisce e si lubrifica una bicicletta, ma chi cura un'arma da fuoco a questo modo sa quello che fa. Potrebbe essere un ex militare...».
«Siamo una nazione di ex militari». «Che, per la maggior parte, non hanno mai visto una pistola automatica in vita loro. C'è una differenza enorme tra il meccanismo di un Lee Enfield, una Colt o una Browning. Nel nostro caso dovrebbe trattarsi di un ufficiale o di un professionista, di qualcuno che non può correre il rischio che gli si inceppi l'arma nel momento sbagliato». «E tutto questo lo deduci da una goccia d'olio?». «Aspetto solo il giorno in cui verrai da me con un granello di sabbia». Kolankiewicz aveva detto: «Prima o poi sporca i vestiti», e Troy si ricordò della camicia che non aveva mai fatto lavare da quando era tornato da Portsmouth. Rovinata da qualche goccia d'olio. Una macchia a forma di cuore. Fu un momento di una strana presa di coscienza in cui si rese conto di dove gli avvenimenti lo avevano portato. «Puoi andare a Portsmouth domani mattina?». «Credo di sì. Perché?». «La polizia locale ha un cadavere in ghiaccio. Il cadavere di Arnold Cockerell». «La spia?». «Sì. Fattelo rimettere sul tavolo. Voglio un secondo parere». «Vuoi che mi metta a dar fastidio a un collega? Che vada a pestare i piedi a un onesto segaossa?». «Lo conosci?». «No, naturalmente. Ma è un collega lo stesso». Troy gli mise davanti il referto dell'autopsia. «Leggilo. Ho bisogno di qualcosa di più». Kolankiewicz glielo restituì. «E tu, l'hai letto?». Troy glielo rimise davanti. «Certo che l'ho letto». L'aveva trovato sulla scrivania, nel vassoio della posta. L'aveva letto. Era sicuro di averlo letto. Ma non si era ricordato di non averlo letto tutto. Aveva, tuttavia, ancora vivida davanti agli occhi l'immagine di quel cadavere. Kolankiewicz lo stava guardando in un modo strano. Era preoccupazione quella che si leggeva nei suoi occhi piccoli e stretti? «Tu mi conosci, Troy. Non mi piace fare la parte del vecchio saggio. Vuoi davvero infilare la tua proboscide nell'ambito del Cinque e del Sei? Vuoi trattare con i gatti e le volpi? In quanti ospedali ti sono venuto a ripescare? Quante volte ti ho ricucito in questi vent'anni? Sei il mio cliente migliore. Dovrei tenere sempre pronto per te un tavolo all'obitorio».
Era la voce del Grillo Parlante che gli cinguettava all'orecchio. E non faceva differenza. Il Gatto e la Volpe già lo chiamavano e lui correva per la stradina sassosa sedotto dalla loro voce. «Ormai mi ci trovo già in mezzo», disse con calma. «Allora mi riservo il diritto, da carogna polacca, di preannunciarti il mio prossimo "te l'avevo detto!"». «D'accordo. Non hai fatto che ripetermelo da quando ti conosco. Lo farai incidere sulla mia pietra tombale. Ci vediamo domani all'obitorio a metà pomeriggio». 56 C'era un tempo strano. L'agosto piovoso ora prometteva un autunno tiepido. Lo scemo all'ingresso sud di Scotland Yard aveva la sua teoria sulla bomba, ma Troy non intendeva ascoltarlo. Si levò la giacca, pulì il parabrezza della Bentley, vide il sole e le nuvole passeggere che lo attraversavano e decise che non avrebbe potuto esserci una giornata più bella per una corsa in automobile fino al mare. Il cielo aveva l'azzurro delle ceramiche di Wedgwood, le nuvole erano di zucchero filato e il sole era giallo come un taxi. Accese la radio sul terzo programma per godersi un paio d'ore di libertà e sanità mentale prima di trovarsi davanti Kolankiewicz e un cadavere, aggressività e morte, per l'ennesima volta nella sua carriera. Stava cercando la lunghezza d'onda quando sul cancello dell'Embankment comparve Wildeve, sbadigliando, con la giacca buttata su una spalla e le maniche della camicia rimboccate. «Dove vai?». «A Portsmouth. Un'autopsia». «Cockerell? Keeffe?». «Cockerell». «Ti dispiace se vengo anch'io?». «Credevo che fossi in tribunale tutta la settimana». «Il nostro Bayliss ha cambiato la dichiarazione processuale, ammettendo la colpevolezza». Rise come un ragazzino, per la soddisfazione di avere vinto. «D'accordo, allora. Sali». Troy diresse la Bentley verso il lungofiume e passò il Westminster Bridge, mentre il Big Ben batteva mezzogiorno. Jack, seduto accanto al posto di guida, appoggiò la testa allo schienale e chiuse gli occhi.
«Hai intenzione di spiegarmi che cosa vuoi fare, o no?», chiese. «No», rispose Troy. «Non ho quella intenzione». «Va bene. Sono stanco morto. Svegliami quando siamo arrivati». Troy, col volume della radio basso, trovò l'inizio di un concerto dell'ora di pranzo. Una sinfonia di Haydn. Quale? Si sarebbe divertito a indovinarlo. 57 «Perché l'hai portato?», chiese Kolankiewicz, indicando Wildeve. Troy ci pensò un momento, poi rispose. «Per fargli fare una gita». «Che bella gita. Questo sviene. Vomita. Prevedo il peggio». «Sarà un lavoro abbastanza pulito, no? Dopo cinque mesi, un cadavere non emette più umori». «Un lavoro pulito? Troy, l'hai visto quel disgraziato? È un disastro. Se avessero voluto renderlo irriconoscibile non avrebbero potuto fare di meglio». «È quello che penso, infatti». «Eh?». «Troppo bello per essere vero. Solo tutto un po' troppo in ordine». «In ordine? Wildeve diventerà verde». Kolankiewicz si avviò per primo verso la sala dell'obitorio, moderna, tutta formica e superfici lavabili, tubi al neon e rifiniture di plastica. Moderna, a suo modo, come il salotto di Cockerell. Il cadavere sconosciuto, contrassegnato dalla targhetta "Cockerell?" era sul tavolo di acciaio inossidabile, incavato, lungo quasi due metri, con una ragnatela di tubi di scolo per far defluire il sangue e il resto, che era ancora peggio. Più bianco del bianco, pensò Troy, colpito dalla somiglianza ormai soltanto vaga di quel cadavere con qualsiasi cosa che fosse stata animata, in passato, da un soffio vitale. Rispetto all'ultima volta era tutto un po' più pulito, come aveva immaginato. C'era un'aria asettica, diversa dalla morte. La sensazione che le parti del corpo di un uomo, riprodotte in cera, fossero state cucite tutte insieme con un filo nero. Nessun odore. Solo una debole traccia di formaldeide, inevitabile in una sala dove si svolgeva un'autopsia, ma l'odore della morte, della decomposizione, delle viscere aperte da cui si rovesciano escrementi e sangue che si va seccando, quell'odore non c'era. I mesi in ghiaccio avevano impresso alla materia umana una consistenza clinica, il corpo inanimato non era più un corpo. Era stato ripulito e, a differenza
dall'ultima volta che Troy l'aveva visto, non sembrava più che l'avessero lavato solo da poche ore, quando aveva ancora le alghe tra le dita dei piedi. La testa e la faccia erano un buco nero chiuso nel bordo bianco delle ossa. La mancanza delle mani lo rendeva simile a un nano, a un pupazzo. La cucitura in rilievo che gli attraversava il petto e l'addome ricordò a Troy il sacco dentro il quale Edmond Dantès era stato gettato in mare dal Château d'If, gli parve di vedere la mano che stringeva il coltello emergere per tagliare i punti, per aprirsi un varco verso la libertà, verso una seconda nascita e una nuova vita come Conte di Montecristo. Una immagine adatta, pensò, per l'ambiguo comandante Cockerell. Chi sa se si aggirava ancora sulla faccia della terra, come il Conte della Valle dei gelsomini, schivando i creditori e ingannando sua moglie. Sopra un armadietto basso, da un lato, in una mezza dozzina di barattoli di vetro erano conservati i resti degli organi vitali del morto: stomaco, duodeno, colon, fegato e altro. Avevano perso il loro colore roseo, la lucentezza quasi vitale, l'elasticità sanguigna, erano di un colore bruno grigiastro. Ma Jack era diventato verde lo stesso. «Fuori!», intimò rabbiosamente Kolankiewicz. «No», protestò con voce flebile Jack. «Voglio sapere». «Se vomiti ti ammazzo!». «Non vomito. Me ne starò seduto qui, senza dar fastidio». Jack staccò dalla parete uno sgabello fatto di tela e tubi di acciaio e si mise a sedere, con la testa all'indietro, gli occhi chiusi, coperto di un pallore lugubre. Kolankiewicz si passò dietro il collo la fettuccia del grembiulone di gomma, si rimboccò le maniche e si strofinò le mani l'una contro l'altra. «Non si sentirà male», mentì Troy, ripensando a tutte le volte che aveva aspettato mentre Jack, con quanta più discrezione gli era possibile, vomitava in un cespuglio, dopo avere visto la scena di un delitto. «Lo spero per te, furbastro. Adesso, dimmi che cosa stai cercando». «Io non sto cercando niente». «Adesso basta. Parla chiaro». «Sono sincero: ho solo bisogno di sapere». «Hai bisogno di sapere. Come il nauseato Jack. Che cosa significa "sapere"?». Kolankiewicz aveva ragione. Jack non aveva detto "vedere" ma "sapere". La scelta di quella parola gli parve strana, come era stato strano da parte sua lasciar capire quello che pensava.
«Significa "sapere", nient'altro. Chi è quest'uomo?». Kolankiewicz s'infilò i guanti di gomma, facendoli aderire alla punta delle dita. «Vuoi dire che non ci sono nuove prove?». «No, io non ne ho». «Tu nuocerai alla mia reputazione professionale. Io sono qui, con l'arroganza di chi rappresenta Scotland Yard, a rifare, senza ragione, un lavoro già fatto da chi ne era legittimamente incaricato, sul posto. Una nuova prova, anche piccola, sarebbe stata una giustificazione, mentre invece devo basarmi solo sul sospetto, esclusivamente tuo, che questo non sia Cockerell. Giusto?». «No. Io ho detto solo, che non so chi sia». Era un modo per non rispondere e Troy sapeva che non se la sarebbe cavata tanto facilmente. Kolankiewicz lo guardò, inarcando quei cespugli grigi che erano le sue sopracciglia. «Ma tu sei assolutamente certo che non sia Cockerell?». «No». «Troy, sei, come sempre, uno stronzo. Va bene. Va bene». Stavano uno di fronte all'altro, ai lati della massa bianca e quasi luminosa del cadavere. Kolankiewicz diede un colpetto al microfono sospeso a circa trenta centimetri sopra la sua testa. Troy non conosceva questo sistema. Scotland Yard, all'avanguardia nella scienza dell'indagine, impiegava ancora gli stenografi, appollaiati sugli sgabelli con i quaderni sulle ginocchia. Si guardò intorno. Dietro un pannello di vetro inserito nella parete c'era un uomo giovane provvisto di un nuovo registratore Grundig a nastro. Lo vide fare segno a Kolankiewicz di procedere e poi tornare a manovrare i tasti. «Perché non prendiamo il primo referto e lo controlliamo punto per punto?», propose Troy. «Bene», rispose Kolankiewicz. «"Dov'è il primo?"». «Direi di partire dalla testa». «No, a questo punto tu rispondi: "Non so". Allora io dico: "Non so è il secondo. Chi è il primo?"». «Ma come?». «No. "Ma come è il terzo. Chi è il primo?"». «Eh?». «Niente niente, qualche volta sei così inglese che non sembri neanche vero». Troy girò la prima pagina del referto dell'autopsia. Kolankiewicz lasciò
perdere gli scherzi alla Abbott e Costello e affondò un dito coperto dal guanto nel cranio del cadavere. «Ricordo che la causa della morte è stata attribuita a un colpo sulla testa, che ha devastato la parte superiore della spina dorsale e il tronco cerebrale. Non c'era acqua nei polmoni. Quindi era morto prima di toccare l'acqua». «In ogni caso, della testa è rimasto ben poco. C'è una descrizione della ferita d'impatto?». «No, si dice solo che a causare la morte è stato, verosimilmente, il colpo alla testa. Ci sono delle osservazioni sulla spaccatura del cranio, dovuta, pare, alle lame dell'elica». «Ha ragione. È tagliato come un uovo sodo. Ma sotto il taglio, la compressione del cranio e la condizione dei tessuti non è imputabile, secondo me, alla stessa azione che ha tagliato il cranio. Con un movimento verso l'alto la lama gli ha affettato la testa, è entrata attraverso la faccia, che infatti non c'è più, è uscita dalla parte posteriore del cranio, ma la compressione qui è in basso. Il colpo è venuto da dietro. Che cosa dice il referto?». «Niente». «Sì, era facile non accorgersene. La ferita effettiva manca in gran parte. E forse proprio perché è stata causata dall'azione di un'elica. Una cosa che ti gira attorno vorticando e seguita a colpirti, più e più volte. È solo una mia opinione, ma se il colpo che l'ha ucciso fosse venuto dall'elica, si potrebbe dedurne che fosse vivo quando lo ha ricevuto. Noi, invece, sappiamo che era già morto. Allora da che cosa è stato ucciso? Da un colpo infertogli precedentemente. Cerchiamo, dunque, la traccia di questo primo colpo». «Sì, mi sembra un procedimento logico». «Nell'aula di un tribunale non starebbe in piedi, ma...». «Detesto le frasi che cominciano così». «Ma... secondo me è stato colpito una volta, alle spalle, con un oggetto rotondo». «Rotondo? Non andrebbe meglio il vecchio aggettivo "smussato"?». «È la prima cosa che viene in mente. Ma io faccio un passo avanti e dico rotondo. E intendo rotondo. Per togliergli le forze. Una mossa bene assestata. Ma, come dicevo, manca gran parte della ferita e l'azione su tutto il cranio è stata così violenta che non mi sento di affermarlo con sicurezza. E ora, de nick, le col! De fingres, les doigts! De bilbow, le coude!, come il nostro vecchio amico Shakespeare fa dire a Katherine e Alice». Da Abbott e Costello a Enrico V in poche mosse, esaminando un cada-
vere. Troy non poté non ammirare il sangue freddo di Kolankiewicz, che era andato avanti così, a battute, attraverso migliaia di autopsie. «Sua moglie aveva accennato a un neo». Kolankiewicz girò la testa del cadavere e Troy ebbe davanti la parte che aveva subito il taglio, ma gli parve solo un'ostrica aperta. «Qui non ci sono nei. Manca una parte del lato destro del collo, ma su quello che resta non ci sono nei. Passami la lente d'ingrandimento che è nella mia borsa». Troy gli diede una grossa lente d'ingrandimento rotonda, come quelle che si vedono in mano a Sherlock Holmes sulle copertine a sensazione di certe edizioni economiche e guardò il suo occhietto porcino assumere le dimensioni di una luna marrone. «Qui, al margine del tessuto rimasto, c'è una macchiolina lucida». «Lucida?». «Come una cicatrice recente. È molto piccola. Due o tre millimetri». «Che significa?». «Non te la prendere con me, ma anche questa volta non posso dire niente di sicuro, è troppo vicina a una ferita che si è portata via mezza testa e buona parte del collo, però mi sembra il segno di un intervento di chirurgia plastica. Se quest'uomo aveva un neo, è ammissibile che se lo sia fatto togliere. Un tipo vanitoso». «Già». «Andiamo avanti». Esaminarono il cadavere dal collo ai piedi. Kolankiewicz riaprì la cavità toracica, osservò gli organi conservati nei barattoli di vetro. A tratti Troy leggeva quanto era scritto sul referto, Kolankiewicz rispondeva: «Esatto», e ogni volta si sentiva Jack sospirare, in disparte. Quel commento era diventato irritante. Quando, dopo la mano, gli organi sessuali, le ginocchia, arrivarono a esaminare le dita dei piedi, avevano i nervi a pezzi. «Qualcosa ci deve essere». «Che significa "ci deve essere"? Che si può ricavare da questa poca roba? Vuoi che esamini le dita che non ci sono? La faccia che non c'è?». «Ho detto solo...». «Lo so quello che hai detto. Non so quello che vuoi. Vuoi che questo sia Cockerell o no? Ti ripeto: non so quello che vuoi, non so perché mi hai fatto venire qui, ma non chiedermi di inventare prove che non esistono. Il referto è corretto. Il medico ha fatto un buon lavoro». «Ha trascurato alcuni punti».
«No, si è rifiutato di trarre deduzioni da particolari impercettibili. Tu te la prendi con lui e con me perché vorresti mettere un'etichetta su questo cadavere; Cockerell o non-Cockerell. Non posso farlo. Non me lo domandare». «Trarre deduzioni è il nostro lavoro. Non possiamo andare avanti?». Kolankiewicz gli si avvicinò con la testa, dall'altro lato del tavolo. Il suo alito sapeva di arrosto e di rafano. Si guardarono così, con quel cadavere in mezzo. «Andare avanti, Troy? E dove? Siamo arrivati ai piedi. Dopo i piedi non c'è niente. Con i piedi tocchiamo la superficie del pianeta, al di là dei piedi c'è solo la Madre Terra». «Volevo dire che...». Kolankiewicz perse la pazienza, strappò il referto dalle mani di Troy e glielo agitò in faccia. «Che cosa pretendi da me, rompipalle? Che altro vuoi sapere? Che è Cockerell? Che non è Cockerell? Fottiti, Troy. Mi hai stremato. Per te sono venuto a pestare i piedi a un collega. Mi sono fatto più nemici che Hitler a un matrimonio ebraico. Ti ripeto che il medico qui aveva fatto un buon lavoro». Kolankiewicz smise di agitare il referto e cominciò a sfogliarlo, scorrendo con gli occhi una pagina dopo l'altra, e quando trovò quella che cercava vi puntò il suo grosso dito ancora coperto dal guanto di gomma. «Non ci sono altre prove, Troy. Il medico è stato bravo. Non possiamo metterci a cavillare sul niente. Qui è già scritto tutto, fino al minimo particolare, i tagli sulla mano e sui piedi, il contenuto dei polmoni, le condizioni spaventose del fegato, fino a quello che c'era nello stomaco e nell'intestino. Che cosa vuoi di più, Troy, ha fatto perfino l'elenco dell'ultimo pasto». Kolankiewicz alzò gli occhi al cielo e agitò le mani con un gesto di orrore. «Ahimè, che disgusto! Ma chi può la mattina, appena alzato, fare colazione con pesce, uova e riso tutto insieme?». Troy lo afferrò per le bretelle del grembiule di gomma e lo tenne sospeso sopra il cadavere, con la faccia contro la sua, il naso contro il naso, parlando a bassa voce, quasi in un bisbiglio, nonostante le sue proteste. «Chi? Vuoi sapere chi? Ci sono certi inglesi che fanno colazione così. Una finezza che ci viene dall'India. Si chiama kedgeree. Ho visto Cockerell demolirne un piatto a colazione e poi aggiungerci anche pane tostato e marmellata». Kolankiewicz alzò gli occhi al cielo, imbarazzato, per quanto poteva, sospeso per le bretelle, con i piedi per aria, le mani protese con il palmo in
su, arreso all'evidenza. «Kedgeree...». «Allora?». «Allora è lui», disse Kolankiewicz a bassa voce. Troy lo rimise a terra. Si sentì il rumore dei tacchi sul pavimento. «Sì», disse. «È lui». Si voltò verso Jack. «È lui», ripeté, senza enfasi. Jack non si mosse, ma a poco a poco le sue guance ripresero un po' di colore. «Adesso possiamo andare?», chiese. 58 Kolankiewicz non aveva l'aria di quelli che serbano rancore. Al parcheggio, ritrovati dignità e cappello, s'infilò in tasca il "News Chronicle" e assunse l'aria affabile di chi ha portato a termine un lavoro ben fatto. Era il momento che Troy aspettava e se anche se la fosse presa con lui adesso, non doveva temere conseguenze immediate. «Da tempo volevo parlarti», gli disse. «Sai, di quella sera a Stepney, con Kruscev». «Niente d'importante», rispose subito Kolankiewicz, «non preoccuparti. Capisco le tue ragioni. E veramente le avevo capite anche allora. Non c'è niente da chiarire. Poiché né tu né io abbiamo coraggio o istanze morali sufficienti a sparargli un proiettile in testa, dargli qualche indicazione era il meglio che potessi fare per lui e per il mondo. Spero solo che, a cena col diavolo, avessi un cucchiaio abbastanza lungo». Rise, maliziosamente, nel pronunciare quest'ultima frase. «Veramente», disse Troy con cautela, «non è questo che intendevo. Volevo, invece, chiederti di che cosa avevate parlato». «Ma della Polonia, naturalmente! È sicuro, così mi ha detto, che un giorno i soldati sovietici non dovranno più uscire dalla frontiera russa e che i polacchi saranno liberi di indire le proprie elezioni e di scegliere il proprio governo. E sarà un governo comunista, anche di questo è sicuro, perché nessuno può cambiare il cammino della storia». «Ah. E tu che cosa hai risposto?». «Gli ho detto chiaro e netto che era un bugiardo». A Troy parve di rivedere Kruscev, rosso in faccia, alzarsi dal tavolo nel momento in cui Eric, il proprietario, compariva, col campanello in mano, gridando: «Si chiude! Non ce l'avete una casa dove andare?». Ora pensava che tutti e due, lui e Kolankiewicz, erano stati salvati da quel campanello. Lo stupiva, però, la rapidità con la quale Kruscev si era ripreso da quello
che era stato certamente il peggiore insulto che avesse ricevuto dopo la morte di Stalin. Tra Stepney e il Claridge era stato un alternarsi di sgarbi e chiacchiere affabili. «Perché non ce ne andiamo?». Era Jack che lo tirava per la manica, distraendolo dai suoi pensieri. «Sì, andiamo». Troy si rivolse a Kolankiewicz. «Vuoi un passaggio a Londra?». «No», rispose Kolankiewicz, portandosi la mano al cappello. «Per favori come quello che ti ho fatto oggi, chiedo l'omaggio di un biglietto di prima classe che mi è stato fornito da quel tipo grasso che sta nel tuo ufficio. Mentre voi viaggerete faticosamente in mezzo al traffico, io berrò il tè squisito delle ferrovie inglesi, con qualche dolcetto zuccheroso e l'aiuto della borraccetta che mi porto in tasca, e intanto finirò le parole incrociate del giornale del mattino. Mi pare giusto. Arrivederci, piedipiatti». «Gentile», osservò Wildeve. 59 Wildeve era felice come un bambino di essere al volante della Bentley. Guidava molto meglio di Troy che, sprofondato nel sedile vicino, quasi ipnotizzato dal continuo apparire e sparire della luce del sole tra gli alberi, cercava di riflettere. Erano arrivati a Petersfield prima che riuscisse a sistemare le tessere del mosaico in un disegno che ancora non prendeva forma. «Se fosse veramente Cockerell...». Wildeve lo interruppe. «Ma come! Che significa "se"? Non hai appena detto a Kolankiewicz che è certamente Cockerell?». «Sì, è vero, è Cockerell, ma...». Troy non proseguì. Wildeve con uno scarto brusco, senza diminuire la velocità, si fermò, in uno stridere di ruote, sullo spiazzo davanti a un bar sul bordo della strada. «No, non ci credo! È possibile che ci pensi ancora? Quello è Cockerell, l'argomento è chiuso e, per l'amor di Dio, non se ne parli più». «Ma...», Troy annaspava, in un modo quasi ridicolo. Wildeve staccò le chiavi dal cruscotto, scese, sbattendo la portiera, ed entrò nel bar. Troy non poté fare altro che seguirlo, per non restare seduto in automobile ad aspettarlo, come un adolescente imbronciato. Lo trovò già seduto a un tavolo con il piano di formica dall'aria unta, nel baracchino
di legno, con davanti due tazze di tè torbido. Tutto il locale puzzava di sigarette e uova al bacon. Gli altri clienti, grossi camionisti in tuta e berretto col pompon, si voltarono a guardare quei due signori vestiti di scuro, con la cravatta di seta e le scarpe lucide. Quando Troy sedette, imbarazzato, accettando un invito silenzioso, Jack spinse via le bottigliette incrostate del ketchup e della senape, sgombrando il terreno per quello che, Troy lo sapeva, sarebbe stato uno scontro. «Parla, Jack». Troy bevve un sorso di quella porcheria di tè. «Io non ti capisco. Tutto qua: non ti capisco. Non è chiaro quello che è successo?». «Sì. Una storia di spie dall'inizio alla fine. Lo abbiamo sempre saputo». «Sì, almeno su questo siamo tutti d'accordo. Ma proprio perché è una storia di spie dobbiamo tenercene fuori. La moglie di Cockerell ha chiesto solo di sapere se quello era lui o no. Il governo aveva già detto di sì, ma non si può criticarla se sperava ancora che il suo maritino fosse vivo, a spasso da qualche parte». «Non è tutto qui». «Lo so anch'io che c'è una montagna di cose in più. Però non ci riguarda». «Jack, non sei neanche un po' curioso? Qualcuno ha stordito quell'uomo con un colpo in testa e l'ha buttato in acqua. Se non fosse finito dentro un'elica avremmo saputo chi era il giorno stesso in cui è stato ripescato. Invece era ridotto a una massa informe. Ma a questo punto, perché alla polizia locale premeva tanto dire che era Cockerell? Prima hanno strappato una pagina dal registro dell'albergo e poi hanno praticamente costretto con la forza quella povera donna a dire che quello era suo marito, mentre non ne era sicura affatto. Non ti sembra un po' strano?». «Allora tu non vuoi capire. Lascia che ti spieghi. Che cosa ci ha detto Onions nel 1944? Ha detto che se ci fossimo intromessi di nuovo in una storia di spionaggio ci avrebbe arrostito le palle a fuoco lento». Troy bevve un altro sorso di tè. La collera di Jack non gli aveva ancora concesso la pausa necessaria a riprendere in mano la tazza. «Per essere precisi Stan aveva detto che, se fosse successo, avrebbe voluto essere informato dall'inizio. Non ha detto che non potevamo fare il nostro lavoro». «E tu lo informerai?». Troy, naturalmente, non aveva nessuna intenzione di parlare con Onions. Wildeve, ora, lo aveva messo spalle al muro. Fingere sarebbe stato inutile.
«Non per il momento». «Non per il momento, o quando ti farà comodo?». «Mi sembra la stessa cosa». «Dunque tu ti disponi a seguire questa storia per conto tuo, sapendo benissimo che il primo passo sarà indagare su una spia del KGB o qualcosa del genere, senza dire niente a Stan». «Non avevo ancora pensato al prossimo passo, ma se la metti così...». «E come vuoi che la metta? Quell'uomo è morto. È stato ripescato con la sua tuta da sommozzatore a meno di tre chilometri dall'attracco dove il governo di sua maestà aveva ammesso che stava spiando la nave russa. Dove altro pensi di dover indirizzare le indagini? Fino a che punto ti riprometti di arrivare?». Troy non rispose. Wildeve pensava più in fretta di lui, ma si portava sulle spalle un carico che, rispetto al suo, con tutto quello che sapeva, pesava la metà. «Te lo dirò io quale sarà il primo passo: mollare tutto. Tu andrai dalla vedova, le darai la brutta notizia, le farai le tue condoglianze e tornerai ai sani omicidi quotidiani. Altrimenti...». Troy aprì la bocca per parlare, ma Wildeve lo fermò alzando una mano, come un vigile a un incrocio. «Taci. Se non farai così, se verrò a sapere che ti stai ancora occupando della morte del comandante Cockerell, in qualsiasi modo, usando qualsiasi fonte, credimi Freddie, io ti tradirò e andrò a dire tutto a Stan. Hai capito?». Troy aveva capito. Tornarono a Londra in silenzio. Troy non sapeva in quale direzione avrebbe potuto o dovuto proseguire l'indagine e ancora meno sapeva da dove gliene sarebbe arrivato l'impulso o il suggerimento. Aveva poca importanza, in realtà, l'intransigenza di Jack. L'identificazione di Cockerell aveva colpito chi non sapeva. Ma l'unico Cockerell che contava non era quello ripescato sulla costa del Hampshire, era il marito scomparso che lui aveva pensato a letto chi sa dove con un'amante e che la moglie aveva pensato in fuga dai creditori, ma poiché l'uomo sul tavolo dell'obitorio era il comandante Cockerell, gli altri non esistevano. Per la prima volta, dopo tanti giorni, non sentiva più la lusinga del gatto e della volpe. Le loro voci tacevano e i loro passi si erano fermati. 60
Arrivò a casa nelle prime ore della sera. C'era una bella aria, non ancora autunnale e non più estiva, ma non si poteva pensare che sarebbe durata a lungo. La Toscà era seduta in salotto, con il suo tailleur Chanel, lo stesso, che indossava quando l'aveva trovata ad Amsterdam. Troy aveva imparato che quello era il vestito che metteva quando voleva uscire. Lei masticava una gomma, fece una bolla e la fece scoppiare con gli incisivi. «Bravo», disse, «in tempo per portarmi fuori a cena». Troy non aveva programmi per la serata, non sapeva nemmeno se lei sarebbe stata in casa, da un po' di tempo usciva spesso da sola, a caso, secondo l'umore. Troy pensava che volesse rivedere i luoghi dov'era stata, ritrovare dei ricordi, riscoprire Londra. «Volentieri», disse. «Dove vuoi andare? In un posto elegante o a Soho?». «A Soho». «Gennaro, l'Hussar o preferisci la musica?». «Non lo so». Decisero che sarebbero andati al Wheeler's, in Old Compton Street. A Troy non era mai piaciuto molto quel ristorante, lo infastidiva che si sottolineasse con tanta insistenza che la cucina era esclusivamente inglese, ma la Toscà disse che non ci era mai stata e che nemmeno aveva mai mangiato le ostriche, specialità del Wheeler's. Ma Troy dubitava che il famoso, leggendario effetto delle ostriche avrebbe migliorato il suo umore. Mentre la guardava fare delle smorfie e chiedersi se la consistenza salata delle ostriche le piacesse davvero, le raccontò del suo viaggio a Portsmouth e le spiegò come non sopportasse di dover rinunciare a un'indagine. «I delitti non sono più quelli di una volta», commentò lei. «C'è una spiegazione?». «L'ho letto in un libro che ho trovato a casa tua. È di Orwell, sai, quello famoso. Sparare a un elefante. Il saggio è intitolato Declino dell'omicidio inglese. C'è scritto che prima della guerra (ci risiamo, con quella frase) i delitti erano una questione di famiglia, ma oggi si uccide per divertirsi e quindi, a complicare le cose, il lavoro della polizia è diventato più difficile. La colpa, se non ho capito male, è degli americani». Troy si ricordò di Neville Heath, un pluriomicida che, nel primo anno di pace, si era divertito a fare l'assassino, come se fosse un gioco tra lui e la polizia.
«Ha ragione Orwell», osservò, «non quando dà la colpa agli americani, ma quando dice che le cose sono cambiate. C'è stato un tempo in cui quando si trovava il cadavere di una donna in una fossa scavata in superficie, si cercava un marito o un amante in fuga. Adesso io non so dove cercare. E chi cercare. Quindi, sommariamente, si può dire che i delitti non sono più quelli di una volta». Uscendo dal Wheeler's, Troy voltò istintivamente a destra, verso Charing Cross Road. «No», disse lei, «facciamo la strada più lunga». Andarono verso ovest, poi si inoltrarono in Soho. Da un caffè a due scellini la consumazione venivano dei suoni e delle voci. Una sommessa ma roca chitarra amplificata, i colpi di una batteria, una massa di ragazzini vestiti con delle maglie sciatte e troppo grandi, tra i quali Troy riconobbe suo nipote Alex. La Toscà si fermò. Lui andò avanti. «Non sono queste le bande con cui hai a che fare?». «No, qui c'è ancora odore di latte». Lei affrettò il passo per raggiungerlo. Scesero lungo Wardour Street, verso Shaftesbury Avenue; la donna guardava tutto e tutti. Attraversarono la strada, vicino al guscio vuoto del Queen's Theatre, bombardato, Troy se ne ricordava, mentre si dava Rebecca. Un'improvvisa concentrazione di traffico li bloccò sull'isola pedonale, poco lontano da Piccadilly Circus. Il pensiero che, visibilmente, aveva accompagnato la Toscà tutta la sera, finalmente emerse. «Non riconosco questo paese». «Io sì. È quello di una volta. Finita la guerra, siamo andati al banco dei pegni, con la ricevuta in mano, e l'abbiamo riscattato. Polveroso, ammuffito, tarmato, ma fondamentalmente intatto». «Beh, come se l'Inghilterra fosse una vecchia automobile sui ceppi e sia bastato rimetterle le ruote, la benzina, ingrassarla qua e là e schiacciare l'acceleratore». «Più o meno. L'automobile di mia madre aveva passato così gli anni di guerra. E anche le istituzioni inglesi». «Sai, non vedevo l'Inghilterra dal '42. Per un po' ne sono rimasta abbagliata. Londra sotto assedio mi dava una sensazione di familiarità, come se fossimo unite da qualcosa di immenso che avevamo in comune, ma non ci voleva molto a capire che non sempre la città era stata così. C'era quel sottotenente del corpo ausiliario femminile che veniva dalla contea di Arlin-
gton e con la quale lavoravo, una donna di una classe mai vista, Zadora Pulaski, figlia di un senatore repubblicano, che aveva pensato bene di completare la sua educazione di fanciulla ben nata con un soggiorno in Inghilterra. Era stata qui dal '35 al '37 e mi diceva sempre: "Tesoro, questo è un paese incredibile. Ti sembrano convenzionali gli inglesi, adesso? Dovevi vederli prima della guerra. Ma un gatto non può giudicare un re". E pronunciava queste ultime parole come se stesse succhiando un chili. Ho pensato che l'oscuramento era il simbolo più adatto a rappresentare l'Inghilterra. Nel buio tutte le vecchie regole e limitazioni venivano tranquillamente ignorate. Ti poteva capitare di incontrare in treno una signora sussiegosa che ti offriva metà del suo panino, o di raccogliere per strada qualcuno che non aveva paura di fare l'amore con te. Poi si sono riaccese le luci. Sgomento, orrore! Tutti hanno ritrovato il loro sussiego e si sono tirati su i pantaloni. E adesso, che cos'è l'Inghilterra? Un paese dove ti devono vedere morire di fame prima di darti una briciola del loro pranzo e dove gli uomini hanno troppa paura delle donne per ammettere che potrebbero anche amarle, per non parlare di scoparle». L'ironia di quell'ultima osservazione non le apparteneva, Troy si sentì colpito e quasi trasalì, ma lei seguitò a chiacchierare, come se non avesse detto niente di particolare. «Tutto si può riassumere in questa domanda: che cosa è cambiato dopo la guerra?». «Ho un amico, un ex pilota della RAF, fedele al principio secondo il quale niente è cambiato. Assolutamente niente. Non una minima cosa». «Ha ragione». «Le nostre città rase al suolo, la nostra bilancia dei pagamenti distrutta, il mercato estero colato a picco, le nostre riserve auree ripulite, l'impero affossato, il debito permanente con l'onnipotenza del dollaro non contano niente per te?». «No. In questa equazione, no. Guarda la Germania. Hanno perso la guerra. Nel 1947 esportavano già le Wolkswagen. Sai che cos'hanno in Germania che voi non avete? Il piano Marshall? I tecnici? No, hanno la capacità di spazzare via le macerie e ricominciare da capo. Senza quei falsi problemi di cui sono pieni i giornali inglesi. Tutto avviene più semplicemente e nessuno parla mai della guerra». «Lo credo bene che non abbiano voglia di parlarne», ribatté Troy, ma lei non lo ascoltava. «Per gli inglesi è l'argomento preferito a ogni ora del giorno. Hai mai vi-
sto un cinema a Londra dove non diano un film di guerra? Una volta mi piaceva questa città. Mi piaceva la libertà informale della guerra. Ma i tempi cambiano, il mondo va avanti. L'Inghilterra no, va indietro, e questo succede perché tiene il ricordo della guerra come in un reliquiario. La guerra è diventata una pietra di paragone. Tutti si ricordano di com'era brutta e non fanno che celebrarla. E quello che c'è stato di buono, la caduta delle barriere sociali, la fine della vostra lurida mentalità classista... è stato dimenticato. Allora sapevate di essere tutti nella stessa barca, ora non pensate nemmeno di essere sullo stesso fiume. C'è una contraddizione grave, molto molto grave in Inghilterra: si seguita a parlare della guerra, eppure è come se non ci fosse mai stata». La Toscà tacque e Troy si accorse che erano in una posizione molto precaria, col traffico che aveva raggiunto il massimo in entrambe le direzioni e la gente che usciva dai teatri. Abbandonati su un'isola deserta, pensò, a cento metri dal cuore di un impero che non vogliamo più. «E tutto questo come si riflette su di te?». «Mi fa sentire americana. Non ridere, ma dopo tutto quello che ho passato credo di poter essere solo americana». «E sai cosa divento io, allora?». «No». «La sposa del GI. Pensa che bel titolo per un film. Sono fiero di essere la sposa di un GI». «Tu soltanto? Troy, loro non lo sanno, ma tutta questa fottuta isola ha sposato un GI». Attraversarono Shaftesbury Avenue, poi l'ultimo tratto di Wardour Street ed entrarono in Coventry Street. Mentre passavano per Leicester Square, la Toscà vide una grande insegna luminosa sulla facciata dell'Odeon. «Gesù, guarda, Troy! Non è come ho appena detto? Un altro fottutissimo film di guerra... Proprio in quel cinema ho visto Via col vento. Cinque volte, nel 1943». Gli occhi nocciola fissarono i suoi. «E altre due volte nel '44». Troy avrebbe voluto dirle che anche Via col vento era un fottutissimo film di guerra. Lei gli posò la fronte sul petto e lui si accorse che singhiozzava leggermente, forse piangeva per Rhett Butler e Rossella e forse anche per sé. Abbassò la testa per bisbigliarle all'orecchio. «Da da daa. Da da daa daaa», incominciò a canticchiare. Lei lo guardò e gli occhi le sorrisero attraverso le lacrime.
Troy la cinse con le braccia e, sempre canticchiando il vecchio motivo del film, la indusse a muovere qualche passo, anche se non voleva. «Su, è un valzer. Lo sai ballare. Un due tre, un due tre. Da da daa daaa». «Ma che sciocchezza! Non possiamo...». «Certo che possiamo. Non vedi?». La guidò a passo di valzer attraverso la piazza, verso Irving Street, cantandole nell'orecchio da da daaa finché lei non smise di piangere, con una risatina e poi un sorriso che gli accese il cuore. Ballava, ballavano con una scioltezza che non aveva mai immaginato che potesse esistere. Non gli capitava mai di ballare. Negli ultimi anni, avere avuto come amante una donna sposata aveva portato con sé un'aria di clandestinità. Lui e Anna raramente si erano fatti vedere insieme in pubblico. Il tema di Tara sembrò dilatarsi, con un nuovo impeto e Troy si accorse che un gruppo di ubriachi lo aveva ripreso, sorprendentemente a tono, e che ormai loro ballavano accompagnati da un coro da birreria, mentre il sorriso della Toscà diventava una risata. Si fermarono. Lei gli mise un braccio attorno al collo e lo tenne vicino a sé mentre un applauso si levava nell'aria della notte. Troy si guardò intorno, imbarazzato da quel pubblico benevolo, composto da una dozzina di londinesi per i quali Via col vento valeva come molti film di guerra messi insieme, era il ricordo di ''come eravamo", molto più prezioso di una immagine di celluloide. La prese per mano e corsero per Charing Cross Road, lungo la strada, in mezzo ai teatri, fino a casa. Lei si lasciò cadere sul letto di Troy. Di solito dormivano separati, anche se lei lo raggiungeva poi, a un'ora impossibile, per confermare il significato di una tregua. Troy spense la luce e sporse una mano verso di lei, che era voltata di schiena. La toccò. Aveva riacquistato il peso perso a Mosca. Pensò che aveva ancora il bel sedere di un tempo. Nel palmo della mano ne ritrovò la consistenza. In quale recesso del proprio corpo aveva custodito quella sensazione? Quale cellula nervosa conserva l'impronta di un culo? Era giusto credere che fosse estranea a quel remoto e inaffidabile organo che è il cervello? Appoggiò più forte la mano, le dita scivolarono tra le natiche e oltre, la sua erezione premette contro di lei e poi più giù, tra le gambe. Troy cominciò a pensare che questa volta lei non lo avrebbe fermato. Sentì che gli prendeva una mano e se la metteva contro una gamba. Poi gli cercò il membro e lo mosse con un gesto regolare, delicato e rapido finché il flusso
non eruppe nell'incavo della sua schiena. Troy sentì quella breve interruzione del respiro che annunciava la parola. Confuso tra il piacere e la consapevolezza che, in qualche modo, lei lo aveva di nuovo sconfitto, desiderò profondamente di calarsi nella vaga inconsistenza di una inconsistente dolcezza. Qualunque cosa dirà adesso, pensò, Dio, ti prego fa' che abbia l'incoerenza spontanea dell'affetto. «Troy», lei gli nascose di nuovo la testa nel petto e la voce le uscì smorzata, «non voglio più vivere in questa città. Ti dispiacerebbe molto se tornassi a Mimram? Se facessi un altro tentativo?». 61 La Toscà stava distesa a faccia in giù tra le lenzuola, con la testa sul suo petto e una mano appoggiata sul suo stomaco. Troy non avrebbe saputo dire se si fosse addormentata così, con il corpo obliquo rispetto al suo, o se fosse un modo per mantenere una posizione neutrale. La zona smilitarizzata, il 38° parallelo del letto. Il telefono squillò, anzi più precisamente crepitò, perché già da tempo Troy aveva abbassato la suoneria per non avere più l'impressione che un camion dei pompieri stesse passando attraverso la camera da letto. Al suo fianco, una voce soffocata disse: «Non rispondere». Mise una mano sul ricevitore. La Toscà gli schiacciò un dito nell'ombelico. «Non rispondere». «Non posso. A quest'ora di notte dev'essere qualcosa che riguarda il lavoro». «È mezzanotte passata. Io sto bene. Sono quasi felice. Sto con un piede sulla strada di mattoni gialli. Lascia che ci pensi Jack». «Non posso». Troy alzò il ricevitore. «Te la prendi comoda, eh?». «Angus?». «No, sono l'arcivescovo di Canterbury per ricordarti che la masturbazione è un peccato, quindi smettila e alzati dal letto». «Sei ubriaco?». «Partito come una scoreggia». Troy sentì nel telefono il fischio di un treno. Un suono lugubre. «Dove sei?».
«A St Pancras. Sono appena tornato dal Derbyshire. Quello schifo di treno ci ha messo quattro ore. Per fortuna c'era un bar pieno di bottigliette. Ho bevuto del buon Ferrovie Inglesi d'annata. Hanno dovuto fermare il treno e fare rifornimento solo per me. Sto venendo a casa tua». Troy si era accorto che non aveva più pensato ad Angus. Era come se gli fosse uscito dalla mente. «No, no, Angus. Non ce n'è bisogno. Mi sono sbagliato. Cockerell è morto davvero. Era andato davvero a spiare sotto quella nave». «No, non ti sei sbagliato». «Come?». «Non ti sei sbagliato. Cerco un taxi e arrivo». Troy sentì che riattaccava. La Toscà si voltò nel letto e gli diede un colpo col sedere, poi ancora e ancora finché non lo costrinse ad alzarsi per non ruzzolare a terra. «Non ci metterò molto». «Ormai non importa». «Me ne libero e torno a letto». «Non ti preoccupare, perché tanto non m'importa più, te l'ho già detto». Troy s'infilò la vestaglia, scese in cucina e accese il bollitore. Avrebbe fatto inghiottire ad Angus qualche tazza di caffè, lo avrebbe ringraziato per il viaggio, anche se era stato inutile, e lo avrebbe rimandato a casa da Anna. Dopo dieci minuti gli parve di sentire una voce arrivare dalla strada. La voce di un imbecille che cantava. «Vengo fin dal Mississippi...». O qualcosa del genere. Il canto s'interruppe davanti alla porta e la voce gridò: «Troy!». Troy aprì. Angus era in piedi sul vialetto davanti alla porta e sembrava che fosse passato in mezzo a una siepe su una carriola, sporco dalla testa ai piedi, la cravatta di traverso, i pantaloni mezzo sbottonati, oscillante come un pioppo in una ventosa giornata d'estate. «Vengo fin dal Mississippi, fammi bere un bicchierino, solo uno, solo un po', dopo te lo ridarò». «Entra e sta' zitto». Angus si accasciò su una poltrona, con le dita ancora strette sul manico della cartella. Stava con la bocca aperta e gli occhi chiusi. La tentazione di lasciarlo lì fino alla mattina era forte, Troy, invece, lo scosse e gli mise in mano una tazza di caffè.
«Guastafeste! Stai cercando di farmi diventare astemio?». «Sì. Devi tornare a casa da tua moglie». «No, finché non avrai sentito quello che ho da dirti». Angus si alzò in piedi, gettò via la giacca, si strofinò il viso con le mani, emise qualche disgustoso singulto e poi bevve il caffè bollente in un sorso solo. «Se mi siedo, in dieci secondi mi ritrovo nell'Eden. Devo continuare a muovermi». Si era appoggiato con tutto il suo peso sulla gamba di latta e Troy lo vide contrarre il viso in una espressione di dolore e poi andare ad appoggiarsi col fianco al coperchio del pianoforte. «La sostanza di tutto quello che ho ricavato dal mio viaggio è che tu avevi ragione. Cockerell è un imbroglione. Ha messo in piedi una grossa truffa». «Angus, te l'ho già detto, è morto». «Non conta. Tu mi hai mandato là perché avevi una pulce nell'orecchio, e io ti dico che quella pulce adesso ha le dimensioni di un cagnolino. Un Jack Russell o forse una di quelle vivaci, orride bestiole che sua maestà palesemente adora». Troy si mise a sedere, sperando che Angus seguisse il suo esempio, ma lui si era rimesso a camminare per la stanza, con la gamba di latta che batteva sul pavimento, urtava contro i mobili, mentre lui si stiracchiava, cercando di avvicinarsi il più possibile a un comportamento coerente e sobrio. Si strofinò di nuovo il viso, e con un verso strozzato, incomprensibile, diede il via a una storia fatta di conti. «Cockerell era un truffatore e Jessel pure. Avevano un gran giro di soldi. Ho guardato i libri contabili degli ultimi sette anni. Ho letto le dichiarazioni dei redditi. Sono stato in quegli orribili negozi. Ho parlato col direttore della sua banca. E, come ti dirò poi, ho tentato di fare del mio meglio con la società di credito edilizio. Troy, attraverso quei libri passa una piccola fortuna. I negozi non possono rendere neanche il quindici per cento di quello che dichiarano. Quanto al commercio con l'estero ci vorrebbero almeno una mezza dozzina di impiegati solo per seguire un numero infinito di operazioni commerciali, un acquisto qui, una vendita lì che lui sostiene di aver fatto. La verità è che lui usa la sua attività commerciale e i suoi conti per un riciclo». «Cioè?». «Riciclare il danaro, che entra sporco, illegale ed esce pulito».
«Come mai nessuno se n'è accorto?». «Questo è il bello! Perché vengono scoperti gli imbroglioni, per la maggior parte? Perché hanno un livello di vita troppo alto, pagano poche tasse, nascondono troppo e i nostri vecchi amici del controllo fiscale prima o poi li beccano. La maggior parte dei truffatori finisce nei guai per le discrepanze nelle loro dichiarazioni dei redditi, prima ancora che la polizia li scopra. Cockerell pagava le tasse su tutto quello che riguardava il suo lavoro. I suoi libri sono un capolavoro di inventiva, ma le sue dichiarazioni dei redditi appaiono scrupolosamente oneste. Dopotutto, di chi vanno in cerca quelli del controllo fiscale? Di chi dichiari troppo poco rispetto al proprio lavoro o giro d'affari. Non hanno tempo per chi dichiara troppo. E perché dovrebbe essere diversamente? Approfittano di quello che Cockerell paga onestamente su guadagni disonesti. Ma non può durare. Credimi sulla parola per questo. La criminalità organizzata, in America, ha elevato il riciclaggio del danaro sporco a un'arte. Ricordati che i federali hanno preso Al Capone non per omicidio o per contrabbando di alcolici, ma per evasione fiscale. Presto o tardi il controllo fiscale arriverà anche al comandante Cockerell che però, finora, ha messo in piedi una truffa che funziona perfettamente». «Mi sembra un sistema elementare, quasi stupido». «Elementare, se vuoi, ma bellissimo. Non è infallibile, ma è ingegnoso. Assumi un revisore disonesto per tenere tranquilla la camera di commercio e paghi la percentuale massima su tutti i tuoi imbrogli. È un sistema semplice, Freddie, ma non stupido. Cockerell avrebbe potuto cavarsela ancora per anni. Ma... ma... ha cominciato a stare un po' meno attento. La moglie ti ha fatto vedere l'automobile?». «Sì». «E quanto credi che costi? So che tu, stronzo, viaggi in Bentley, ma non pensare che la Jaguar valga meno. Prova a indovinare». «Sei o settecento?». «Più di mille. E ha comprato anche una Rover. Tutto pagato in contanti. Quasi due anni del salario di un uomo medio. Te l'ho detto: in contanti». «Come l'hai saputo?». «Sono andato a Derby, al garage che gliele ha vendute. A differenza della maggior parte della gente, il proprietario aveva una gran voglia di parlare del comandante Cockerell. E come l'ha descritto! Uno dei suoi migliori clienti. Auto nuove ogni anno. E sempre le più belle. Interno in noce e cuoio, radio incorporata, tutti gli accessori possibili. Negli ultimi due anni
ha pagato sempre in contanti. Era stato preciso, scrupoloso con tutte quelle cifre false al punto che nessuno ha sentito il bisogno di controllarle una seconda volta. Poi, chi sa, forse ha voluto provare la sensazione esaltante di buttare via i soldi. Ma ha fatto male, perché se io non l'avessi saputo, gli avrei concesso il beneficio del dubbio, avrei pensato che un commercio di quella entità poteva essere benissimo esercitato da qualcuno che lavorasse molto, con l'aiuto di due commessi. Ma ora ti dico che, secondo la mia opinione professionale, alcol a parte, quasi tutti gli affari di Cockerell con l'estero sono falsi, che molti dei soldi che sborsa in Inghilterra non hanno niente a che vedere con il suo lavoro, con merce consegnata o servizi resi, ma sono tangenti di vario genere e che se ha portato del danaro contante in Inghilterra dall'estero per comprarsi delle automobili di lusso, lo ha fatto anche per somme più alte che hanno preso poi diverse strade. Credo, inoltre, che ci siano altri rendiconti bancari all'estero, ignoti al controllo fiscale. Io non so la ragione di questa truffa, ma so che esiste. È dilettantesca, è semplice, ma funziona ed è di dimensioni considerevoli. Ha avuto inizio nel 1951, quando Cockerell ha fondato la sua impresa svedese, ed è andata avanti a poco a poco nel '52 e '53 finché, nel '54, non si è trasformata in una piccola fortuna. Chiunque, guardando le cifre con occhio spassionato e conoscendo il tenore di vita di Cockerell si sarebbe chiesto perché non viveva a un livello più alto. Secondo la moglie "spendevano anche troppo", così si è espressa, ma io, con quei soldi, sarei andato a fare i bagni a Glenfiddich, mi sarei comprato le calze fatte a mano in Jermyn Street, mi sarei fatto ricoprire d'oro la gamba di stagno. Comunque sia, nel 1951 qualcosa ha sconvolto la vita del nostro amico. Stava bene, non poteva chiedere di più, quando deve aver ricevuto una proposta irresistibile e da quel momento ha preso il via una giostra di soldi». Angus gli stava rovesciando addosso una quantità di informazioni troppo in fretta. Troy cercò un appiglio per cercare di capire. «Com'è possibile trasportare i soldi con tanta facilità? Non è contrabbando di moneta?». «Ti metti nell'ottica sbagliata. Date le condizioni della nostra moneta, il governo si preoccupa del danaro che esce dal paese. Prova a esportare sterline e vedrai. Qui si passa la maggior parte del tempo a cercare chi fa uscire le sterline di nascosto e non credo che gli venga in mente, con i nostri problemi di cambio, che ci sia qualcuno che le vuole fare entrare. Certo Cockerell avrebbe potuto essere sfortunato: se gli avessero cercato nel bagaglio degli accendisigari o una bottiglia di profumo, avrebbero trovato invece dieci bigliettoni, ma gli dei gli sono stati propizi. Direi che il rischio
era relativo». «E le banche? Come mai il direttore della sua banca non si è insospettito?». «Perché pensi che avesse un conto in una banca a Great Malvern, nel Worcestershire? Perché lì era difficile avere una idea complessiva del suo giro d'affari nel Derbyshire. Uno che fosse vissuto nella sua stessa città non ci avrebbe messo molto a fare i conti. E poi il direttore è un cretino. Lo so, perché ci ho passato un'ora al telefono». Angus si rimise a sedere. La gamba aveva sopportato tutto il possibile, ma gli occhi erano vivaci e nella sua voce c'era il piacere per un ragionamento di una logica quasi matematica. Prese un fascio di carte dalla cartella e lo diede a Troy. «Rendiconti bancari. Documenti di una società di credito edilizio. Una ipoteca. Le pietre angolari della vita, come tutti sappiamo. Il carbone, le ammine, l'acido desossiribonucleico della esistenza». «Sì». «Nei tuoi appunti hai scritto che il suocero aveva comprato la casa alla coppia Cockerell. Allora, perché l'ipoteca? Ho telefonato allo scemo della banca di Great Malvern e mi ha confermato, una volta convinto che ero autorizzato a intervenire, che uno degli ordini permanenti sugli estratti conto di Cockerell era il rimborso mensile di una ipoteca. Ma l'ipoteca era stata aperta nel 1952 (la casa, ricorderai, l'avevano ereditata nel '43) ed è stata estinta nel dicembre scorso. Secondo me, con tutti i soldi che gli giravano intorno, se Cockerell aveva fatto quell'ipoteca era solo per averne un vantaggio fiscale. Il nostro truffatore, anche in questo caso, aveva agito secondo le regole. Così, ho telefonato all'Antico Ordine Forestale del Derbyshire e, prima che mi impedissero di parlare, sono riuscito a cavare di bocca a una povera disgraziata alla catena di comando che l'ipoteca non era sulla villetta di Belper. Freddie, lo stronzo, aveva una seconda casa da qualche altra parte. Una specie di rifugio segreto, direi». «Dove?». «Non l'hai capito che non lo so? Un cretino zelante, forse l'antico uomo delle foreste in persona, è venuto al telefono e mi ha detto di farmi i fatti miei. Ma, secondo me, possedere un rifugio segreto è il primo requisito di chi intenda sparire nel nulla». «Cockerell è morto, Angus». «Ne sei sicuro?». «Sì. C'è stata un'altra autopsia e alla fine l'ho identificato io stesso».
«Allora chi c'è nel rifugio segreto?». «È quello che vorrei sapere». 62 Troy ficcò Angus in un taxi e risalì in punta di piedi le scale. La Toscà era ancora lì, raggomitolata in mezzo al suo letto. Fino a un attimo prima era stato quasi certo che fosse andata via. Le scivolò accanto, la sentì respirare regolarmente. La baciò su una scapola, ma il ritmo del suo respiro non cambiò. Le mise un braccio intorno alle spalle e le toccò un capezzolo con un dito. Lei gli scostò la mano, se la portò alle labbra, la baciò e la lasciò ricadere dall'altra parte del letto. 63 La mattina dopo, Troy prese con lei la metropolitana per King's Cross. Gli pareva che non fossero mai stati insieme in metropolitana. In uno squarcio di memoria, risentì la sua voce di quando, durante la guerra, gli aveva detto che preferiva morire all'aria aperta piuttosto che in metropolitana. «C'è un cattivo odore. Cattivissimo». «Non accompagnarmi al treno. Non sopporto i baci e i saluti con la mano. Ho visto troppe volte Breve incontro». Così si fermarono tra le baracche e le tettoie che facevano apparire il piazzale della stazione come una bidonville, davanti al deposito bagagli, a sinistra. «Verrai a casa per il weekend?». «Sì». «E Rod e le tue sorelle?». «Danno tutti per scontato che quella sia casa loro. Rod, onestamente, ne ha bisogno per il suo lavoro. Ma è casa mia e posso mandarli tutti al diavolo». «Non ce n'è bisogno. Me la cavo lo stesso. È solo che non ho mai avuto una famiglia. Eravamo sole, mia madre e io». «Adesso dov'è tua madre?». «Purtroppo non lo so. È giovane, sai. Avrà sessantatré o sessantaquattro anni». Troy vide le lacrime formarlesi all'angolo degli occhi e poi scenderle a torrenti sulle guance.
«Penserà che sono morta. Glielo avranno detto, vero?». «Ho paura di sì. Sono stato proprio io a denunciare la tua morte all'esercito degli Stati Uniti». Troy tacque. Poi gli parve impossibile, inevitabile non aggiungere: «Io credevo davvero che tu fossi morta», ma, una volta pronunciate, le sue parole suonarono come un'accusa. Di sotto la pensilina di vetro, dentro la stazione, arrivò il lungo e profondo grido di dolore della bestia di ferro. La Toscà lo baciò su una guancia e corse via. Troy pensò che non avrebbe mai smesso di correre. 64 Forse quello era davvero l'antico uomo delle foreste. Aveva una voce che veniva da lontano. E sembrava anche un po' duro di testa. «Lei mi ha detto di essere un detective di Scotland Yard. Perché dovrei crederle?». Rispondere «perché sì» sarebbe stato poco convincente e inoltre, pensò Troy, non era giusto parlare così con un funzionario che stava facendo il suo dovere. «È semplice», disse. «Mi richiami. Sa il numero di Scotland Yard?». «In questo caso dovrò pagare la telefonata». «Le manderò un vaglia di rimborso». Era, di solito, un sistema che funzionava. Aspettò cinque minuti e i cinque minuti diventarono un quarto d'ora. Cominciò a pensare che l'uomo delle foreste fosse l'unico a non conoscere il numero 1212 e stava già per richiamarlo, quando suonò il telefono. «Parlo con l'ispettore Foy di Scotland Yard?». «Troy. Mi chiamo Troy». «Ah! Ho appena parlato con l'ispettore Foy». «Ero io». Silenzio. Troy calcolò quanto tempo avrebbe impiegato ad arrivare a Chesterfield a fargli sputare l'indirizzo. «Ha detto Cockerell?». «Sì». «Mi risulta che abbiamo avuto rapporti con il signor Cockerell». «Appunto». «Ora non più». «Gli avevate concesso un'ipoteca nel settembre del 1952. Il debito è stato estinto nel dicembre del 1955».
Troy sentì che l'uomo delle foreste sfogliava delle carte. Respirava come se avesse un inizio di enfisema polmonare. «Credo che sia esatto». «Quello che vorrei sapere è dove si trova la proprietà sulla quale era stata accesa l'ipoteca». Di nuovo quel lento, interminabile scorrere di fogli e quel respiro da pressa a vapore. Poi, finalmente, due sillabe brevi. «Bri-ton». Bri-ton. Oh Dio, Brighton! Troy si sentì il cuore in gola. Il brivido della caccia, l'eccitazione dell'inseguimento, la scrupolosa diligenza del bravo detective. «Sì», disse. «A Brighton, ma dove esattamente?». «Mi scusi...?». «Dove, a Brighton?». Troy si morse il labbro. La voglia di sollecitarlo non sarebbe stata produttiva. Trattenne il respiro e aspettò. «Numero 2...». «Sì...?». «Chatsworth Place, Cavendish Hill, Bri-ton». Le parole danzavano silenziosamente nella testa di Troy. Per essere più sicuro rilesse l'indirizzo, sentendosi rispondere «sì, sì» a ogni parola. Ma aveva già sulle labbra un «grazie-buongiorno-non-ci-telefoni-lacercheremo-noi», quando l'uomo delle foreste tirò fuori il coniglio dal cappello. «La proprietaria è la signora M. Kerr». «Come ha detto?». «È scritto qui... Kerr, signora M.». «Allora la casa non era di Cockerell?». Un'altra pausa infinita e una concentrazione di respiri sfuggenti. «Apparentemente no». «Ma era lui a pagare le rate dell'ipoteca?». «Regolarmente. E fino all'estinzione del debito». «Non è un po' strano?». «Forse, diciamo, inconsueto. Ma finché i documenti sono depositati presso di noi, e al momento lo sono ancora, tutto è regolare». Poco di quanto riguardava il comandante Cockerell era regolare. A Troy parve una parola che gli si adattasse male. «Chi è questa signora M. Kerr?».
«Non posso dirglielo. Cioè, non posso dirglielo senza consultare i documenti. Le ho letto solo il riferimento sulla nostra scheda. Senta, per quel vaglia postale...». 65 Troy non aveva mai lavorato a Brighton, che per lui aveva il colore locale datole dai romanzi di Graham Greene e dai film di Richard Attenborough. Il treno era affollato di gente che andava in vacanza. Restò in piedi in corridoio, mentre lo sferragliare che gli si ripercuoteva nell'orecchio sembrava suggerirgli parole che non voleva sentire, e si rammaricò che l'avversione che lo prendeva qualche volta per i viaggi in automobile, gli avesse fatto presumere che il treno sarebbe stato più riposante e più piacevole. Impiegò un po' di tempo a trovare Cavendish Hill, soprattutto perché teneva la cartina all'incontrano. Solo quando si accorse che il canale d'Inghilterra non poteva essere a nord, la voltò e da Kemptown si diresse là dove Brighton si congiunge a Hove attraverso una superficie piatta, senza interruzioni. Cavendish Hill si elevava, ripida, dal lungomare, circa a cinquecento metri di distanza dal molo ovest. E, circa a cinquecento metri di altezza, Chatsworth Place si sviluppava per conto proprio, su una linea parallela alla costa. Troy si rese conto che si era aspettato un gruppo di vecchie costruzioni ristrutturate, un luogo raccolto, isolato, e così era, infatti, ma gli era anche parso che dovesse essere meno importante di Cavendish Hill, all'occhio del viaggiatore, e in questo si era sbagliato. La casa che cercava, il numero 2, era più stretta ma molto più alta delle altre e, avvicinandosi, si accorse che era stata unita al 3 (non c'erano altre case su quel lato della strada) in un'unica facciata irregolare, ma con una vista sulla città sottostante fino al mare. Il comandante Cockerell aveva saputo provvedere a se stesso, o a qualcun altro. Stava per suonare il campanello, quando vide che la porta d'ingresso era socchiusa, con uno spazio di due o tre centimetri tra un'anta e l'altra. I sospetti e la curiosità ingaggiarono tra di loro una mischia stretta che si concluse con un pareggio. Troy spinse la porta ed entrò. Il silenzio era quasi totale, si sentiva dell'acqua scorrere nelle tubazioni e poco altro, se non lo scricchiolio dei suoi passi. I sospetti aumentarono. Troy voltò a destra e si trovò in una cucina di una modernità abbaglian-
te, che portava il marchio inconfondibile di Cockerell. Non più il disordine dei tavolini di legno, la confusione delle mensole in bilico su vecchi supporti di ferro, degli armadietti con la reticella sullo sportello per tenere, in estate, i cibi lontani dalle mosche, ma un'unica superficie uniforme, piatta, senza interruzioni. Tutto in levigata formica color avorio, segnata qua e là da piccole pennellate rosse e blu. A Troy parve una versione diluita delle ceramiche dei paesi mediterranei. I fornelli e il frigorifero erano inseriti in modo che tutto il complesso dell'arredamento sembrava essere stato costruito intorno a loro. Non c'era una fessura dove potesse cadere un mestolo o una fetta di pane. Quello era il mondo di Cockerell, il mondo della padrona di casa 1960, di Miss Esposizione Universale. Tгоу pensò che forse, spalancando uno di quegli armadietti compatti, compatti era la parola giusta, sarebbe srotolato fuori un letto a due piazze o una vasca pieghevole. O una rosticceria perfettamente funzionante, col pollo infilato su uno spiedo che si mettesse a girare appena aperto lo sportello. Cominciò a salire le scale, il primo scricchiolio lo fece fermare di colpo, ma poiché dalla casa non veniva nessuna risposta, proseguì ed entrò nel salotto, al primo piano. Gli bastò uno sguardo a intuire che qualcun altro, oltre a Cockerell, aveva abitato lì. Era da quando Angus gli aveva parlato di una seconda casa che ci stava pensando. Sarebbe stato strano che Cockerell l'avesse comprata per andarci da solo, come un rifugio da un matrimonio infelice. La logica suggeriva che quello fosse una sorta di nido d'amore. Un posticino da qualche parte, per incontrarsi con un'amante. Ma era difficile immaginare Cockerell con un'amante e quello non era un posticino da qualche parte, era, se mai, "una bella casa da qualche parte", dove c'era un salotto ampio, arioso, con dei finestroni che arrivavano al soffitto e offrivano un panorama privato sul mare, una casa che era la prova della presenza di un'altra donna. Anche quella stanza era cockerellizzata ma, nella sua paradossale adesione al nuovo, aveva subito un compromesso, quasi una lievitazione provocata dal gusto di qualcun altro. Il tavolo dal ripiano di vetro pesante montato su gambe di ferro battuto forse era una emanazione di Cockerell, ma non la parete coperta da duecento anni di paesaggi marini, dal carboncino, il guache, l'acquerello, fino agli oli pesantemente scoloriti e anneriti dal tempo. Lì era intervenuta lei, l'amante. Come dimostrava la sua prima casa, il gusto di Cockerell non andava oltre la Donna verde di Trechikoff. Quella parete era di una bellezza da togliere il respiro, una bellezza nuova. Troy non avrebbe mai pensato che si potessero mettere così vicini tanti quadri senza che se ne perdesse il significato e
in questo trovava la spiegazione della vita di Cockerell con l'amante. "La valle dei gelsomini" era una zona di guerra, divisa tra lui e la moglie con una linea di confine, come la Corea o Gerusalemme. Ma quel salotto era l'incontro di due menti, di due concezioni di valori che avevano operato insieme. Sì, Cockerell aveva certamente un'amante. Troy si mosse in silenzio per tutto il primo piano. C'erano delle camere da letto, sul davanti della casa e sul retro, tutte apparentemente inutilizzate. Lo spazio sarebbe stato sufficiente a ospitare quattro o cinque persone durante un weekend. Troy seguitò a salire. La scala era più stretta, probabilmente di sopra c'erano solo dei solai. Alla curva si strinse ancora di più, come se portasse solo alla gronda e formava un piccolo pianerottolo con una porticina leggera, a due battenti, invitante come quella all'ingresso, perché era anch'essa socchiusa e sembrava che chiedesse di essere spinta. Troy la spinse e si ritrovò in una camera da letto alla Cockerell, un Cockerell al femminile, dove tutto era nitidamente nuovo, ma anche intensamente lussuoso. La sobrietà scandinava sembrava accettata e assorbita per riemergere sotto forma di uno stile hollywoodiano di esasperata comodità. Il silenzio era assoluto. Non si sentiva nemmeno più quel rumore di acqua che scorreva. Nella stanza c'erano due porte, forse una era quella del bagno e l'altra dello spogliatoio. Sulla parete esterna, una vetrata scorrevole si apriva su una terrazzetta. Camminando in punta di piedi su un tappeto a peli lunghi e ruvidi, dove neanche i tacchi di due stivali militari avrebbero fatto rumore, Troy andò ad aprire la vetrata. Il vento leggero della sera agitava le tende. Troy guardò il panorama. Il rosso del tramonto ancora agli inizi metteva sul mare uno scintillio color rubino. Voltò la testa verso il letto. Un uomo felice avrebbe potuto, dal letto, contemplare l'alba o il tramonto sul canale. Un uomo più felice ancora avrebbe potuto fare l'amore mentre la brezza del mare accarezzava le regioni più segrete del suo corpo. Allora Troy vide le fotografie. Una mezza dozzina, in una fila verticale, vicino allo stipite della porta. Buon Dio! Cockerell doveva averle sviluppate personalmente, forse aveva una camera oscura in cantina. Qualsiasi laboratorio rispettabile avrebbe avvertito la buon costume appena le avesse viste. Una donna, di spalle alla macchina fotografica, stava prona, con le gambe tese, la faccia nascosta, in modo che la stampa tredici diciotto presentava una V rovesciata delle gambe con una vista piena, bene in luce del suo apparato sessuale. Nella fotografia sotto, c'era la stessa donna, Troy almeno pensò che fosse la stessa, appoggiata con la schiena a una sedia Thonet,
china in avanti, la faccia di nuovo nascosta, le gambe e le braccia larghe, ma ben visibile ora, dal davanti, mentre un piccolo riflettore le illuminava la fessura fino a un'aureola di peli pubici biondi. Troy era ben deciso a osservare anche le altre fotografie. Prima, però, si guardò nervosamente dietro le spalle come se fosse stato sorpreso a sfogliare "Health & Efficiency" dal giornalaio. Una ragazza sui venticinque anni era comparsa sulla porta del bagno, in un nuvola di fumo e borotalco. Aveva indosso solo un asciugamano drappeggiato intorno alla testa. Di solito Troy non considerava le pistole come accessori dell'eleganza, ma una pistola puntata contro di lui faceva passare in secondo piano qualsiasi nudità, togliendole ogni fascino. Lentamente alzò le mani e cercò di sorridere. «Lei legge troppo Raymond Chandler», disse. «Eh?». «Quando non sa cosa scrivere...». «Vada avanti». «Quando non sa cosa scrivere fa comparire sulla porta un uomo con una pistola in mano». «Se pensa che io sia un uomo, è meglio che si metta gli occhiali. Ma lei chi è?». «Sono un poliziotto». «Ah sì?». «Posso dimostrarlo». Troy abbassò con cautela la mano sinistra fino al taschino della giacca. «Ho un mandato. Adesso, con calma, lo prendo». Glielo mostrò, tenendolo infilato tra l'indice e il medio, come una sigaretta. «Me lo butti qui». Dal foglietto che atterrava silenziosamente sul tappeto, ai piedi della ragazza, uscì il biglietto da visita di Troy, con il grado e l'indirizzo di Goodwin's Court. Lei s'inginocchiò sempre puntando la pistola, e in fretta li raccolse entrambi. Poi appoggiò la pistola sul cassettone, rilanciò il mandato a Troy e, con uno scatto, si levò l'asciugamano dalla testa e lo usò per avvolgerselo intorno a tutta la persona, poi, con un ultimo gesto, s'infilò il biglietto da visita in alto, come in una scollatura, sofisticata parodia di una prostituta che s'infila un biglietto da dieci tra i seni. «È a questo punto che lei mi rivelerà che la pistola non era carica?», chiese Troy.
Lei si lasciò cadere su una poltrona e prese dal tavolo vicino un portasigarette. «Oh no, è carica. Guardi, apra lo sportello del tavolino da notte, c'è una bottiglia di cognac. Perché non ne beviamo un po' tutti e due? Credo che ne abbiamo bisogno». Per accendere la sigaretta, ridicolmente lunga, col filtro e due striscioline dorate, usò un grosso accendino da tavolo, massiccio, di pietra verde. «Si può sapere che cosa l'ha trattenuta finora?», chiese con tanta semplicità che Troy ne restò sconcertato. «Ma... io... non capisco». Andò verso di lei, sentendosi affondare fino alle caviglie tra i peli del tappeto, le diede il bicchiere e si mise a sedere, con una iniziativa che gli parve audace, sul bordo del letto. «È morto da quasi cinque mesi. Non ha avuto fretta». «Solo da poco sono stato in grado di confermare la morte del comandante Cockerell». «Davvero? Io ho capito che era morto dopo che non si faceva vedere da quarantotto ore». «Non so molto su di lui». «E che cosa vorrebbe sapere?». «Mah! Lei che cosa sa?». «Io? Io so tutto. Non è per questo che è venuto da me?». «Sì», disse Troy. «Credo di sì». 66 Troy aspettò, mentre lei andava a vestirsi. Lei... Kerr, signora M. Non capiva chi fosse, al di là di una definizione quasi statistica dell'archivio di una società di credito edilizio. Mary? Marilyn? E c'era anche un signor Kerr? Poteva anche supporre chi fosse. Bevve un sorso di cognac. Una buona annata, non ne dubitava, ma a lui sembrava che tutti i cognac sapessero un po' di sapone. La ragazza comparve con un semplice vestito da sera. Semplice e spudorato, la versione in graffiante rosso scarlatto del classico abitino nero. Senza maniche e con una scollatura profonda sulla schiena, lasciava una protettiva modestia solo sul davanti. Si era raccolta i capelli in un nodo alto sulla nuca e trafficava con la punta delle dita di tutte e due le mani per infilarsi un orecchino. Un gesto che immediatamente ricordò a Troy la Toscà, che si innervosiva perché non trovava il buco nelle orecchie e richiudeva la
scatola dei gioielli, piccole pietre, o perle lattiginose con la montatura d'argento. «Non mi ha detto come si chiama», le disse. «Non ricordo che me lo abbia chiesto. Mi chiamo Madeleine, Madeleine Kerr». Spostò le dita sull'altro orecchio, con lo stesso gesto aggraziato, la stessa delicata abilità, per attaccarsi al lobo una fogliolina d'oro. «Lei si chiama Fred? Non conosco molti Fred. Preferisco Troy. Posso?». «Molti mi chiamano così». «A proposito, Arnold, il comandante Cockerell, qui è conosciuto come Ronald Kerr. Ma noi due lo chiameremo Ronnie». Troy la guardò, perplesso. Aveva la sensazione che quel nome dovesse significare qualche cosa. Lei pareva dire con gli occhi che ci sarebbe dovuto arrivare da solo. «Non se lo spiega?». «No. non ci riesco». «Ronald è l'anagramma di Arnold. E Kerr è ricavato dal cognome CockKerr-Ell. Ha capito, adesso?». Era così facile che Troy quasi arrossì per essere stato così sprovveduto. «Prima che lei me lo chieda, l'avverto che Ronnie, nonostante tutto, non era bigamo. Il signore e la signora Kerr erano una finzione. E proprio per questo ancora più divertente. Vogliamo andare?». «Dove?», chiese, ormai arreso, Troy. «A cena. Se lei vuole assumersi la parte del poliziotto e pormi mille domande, il minimo che possa fare è invitarmi a cena. Dopotutto, sono cinque mesi che mangio sola». «Devo chiederle una cosa sola, prima di uscire». «Sì?». «La pistola». «Sì?». «È meglio che la dia a me». «Me l'aveva regalata Ronnie. Una protezione, così mi aveva detto». «Con me non ne avrà bisogno. E non posso lasciarla andare in giro con una pistola nella borsetta». «Come lo sa che l'ho messa nella borsetta?». «Si fidi di me. Sono un detective». Lei gli diede la pistola, poi buttò la borsetta sul letto come se l'avesse presa con sé solo per poterci nascondere la pistola.
Troy la soppesò tra le mani. Pesava come una piuma. Era una piccola 22 automatica, dorata. Chandler l'avrebbe chiamata una rivoltella per signore. Molto simile a quella della Toscà, che lui aveva gettato nel mare d'Irlanda. Lei si avviò per le scale. Lo guidò in Chatsworth Place e poi giù per Cavendish Hill. Appena girato il primo angolo, lo prese sottobraccio. «Andiamo al Wellesley Hotel. C'è un ristorante all'ultimo piano con una vista stupenda. Appena aperto si chiamava La Manche, ma la gente non capiva che era la Manica in francese e storpiava il nome, così l'hanno ribattezzato Clair de Lune. Molto meglio. Soprattutto in una notte come questa». Alzò gli occhi verso il cielo senza nuvole che si andava rapidamente scurendo. «Molta Lune e molto Clair, vero?». Troy diede un'occhiata veloce a quei "sei soldi di luna" e preferì guardare lei. Era alta, lo superava di qualche centimetro anche se aveva delle scarpe senza tacco. Gli era sembrata bella, prima che si truccasse. Ora la bellezza appariva, in qualche modo, stratificata, come se fosse stata alterata da una lucentezza artificiale. Un cambiamento esteticamente positivo, ma poco convincente, perché conteneva, inevitabilmente, l'immagine della ragazza vestita da donna, della ragazza dentro la donna, che si era configurata nel momento stesso in cui aveva acceso la prima sigaretta, si era confermata nel trucco e perfezionata nel vestiario. Il braccio nel suo faceva pensare a una amicizia istantanea. Si conoscevano da meno di quaranta minuti. L'aveva vista nuda. In pose nelle fotografie (ma era proprio lei?) che nessuna delle donne che aveva frequentato aveva mai assunto e ora camminava con lui sottobraccio come se fossero amici da molto tempo. O amanti da poco tempo. Staccò il braccio dal suo. Lei parlava a caso della bellezza della luna piena e parve non accorgersene. Poi tacque e, con semplicità, gli tornò vicina e lo riprese sottobraccio. Il maître del Wellesley le andò incontro come se avesse ritrovato una cliente d'eccezione che credeva perduta. Tutto un seguito di madame. Li accompagnò a un tavolo sulla terrazza. Quando il rumore delle sue scarpe di cuoio sulle assi del pavimento si fu allontanato, si sentì solo il mormorio delle voci dalla sala all'interno e l'altro, più profondo e regolare, del mare sotto di loro. «Spero», disse Madeleine, «che lei non sia un uomo da carne con due contorni e pasticcio di fegatini». «Non sono mai stato in vita mia un uomo da pasticcio di fegatini». «Bene. Allora ordino io». Alzò una mano e un cameriere si precipitò al tavolo.
«Dunque: lotte, patatine novelle, mangetout, insalata verde e crème caramel. Con, direi, un Château Lattre de Tassigny del '47». «Niente per cominciare, madame Kerr?». «No, ma porti subito il vino, per piacere». Troy ammirò quel suo modo di comportarsi. Era lui a offrire la cena, ma lei ad avere in mano la serata e a volerglielo dimostrare. «Vino rosso col pesce?», chiese. «Perché, lei bada a queste sciocchezze? Non crede che facciano Parte del bagaglio dello snobismo inglese, di quel flagello sociale che è l'appartenenza a una casta? La libertà consiste nel fare quello che si vuole quando si vuole. È d'accordo con me?». «Sì, credo di sì». Il cameriere portò le due bottiglie di vino rosso ed esibì, con un gesto di professionale efficienza, il cavatappi. «No», cominciò Troy, «abbiamo ordinato solo...». Madeleine lo interruppe. «Jean-Paul mi conosce, vero? Sa che cosa prendo di solito». Sorrise al cameriere, che ricambiò educatamente il sorriso, stappò anche la seconda bottiglia e si allontanò. Madeleine versò il vino. Bevve quasi metà del suo bicchiere in un sorso e guardò Troy. «Bene», disse. «Bene?». «Che cosa vuol sapere?». «Le farò una domanda semplice... semplicissima. Che cosa stava combinando Cockerell? E per conto di chi?». Lei posò il bicchiere sul tavolo, quasi per sottolineare quanto stava per dire. «Adesso no. Stasera no. La sua domanda non è semplice e lei lo sa. Domani andremo a Londra, lo avrò bisogno di stare un'ora per mio conto, poi ci vedremo e io risponderò alle sue domande. Ci sono un paio di cose che devo fare prima. Adesso mi chieda qualcos'altro. Quello che vuole». Troy era sconcertato. Aveva creduto che tutti quei preamboli avrebbero portato a qualcosa di concreto. Ora non gli veniva in mente neanche una domanda che fosse abbastanza innocua. «Dove vi siete conosciuti? Qui, a Brighton?». «No, Brighton non c'entra. O, almeno, non allora». Lei bevve un lungo sorso di vino. La domanda era sbagliata. Bisognava pensare a qualcos'altro.
«Lei non è di qui?», chiese, e si diede dello stupido: aveva detto una frase da squallida conversazione convenzionale. «No. Io vengo dalla contea della noia che addormenta. Mio padre, Dio lo maledica, è medico condotto in un paesino del Berkshire. Io mi sono laureata a Bristol. Mio padre avrebbe preferito che prendessi un diploma in dattilografia e stenografia, entrassi nell'amministrazione statale e sposassi un diplomatico, ma io mi sono scossa dalle scarpe la polvere del Berkshire e sono andata a vivere a Londra. È lì che ho conosciuto Ronnie». Aveva finito il primo bicchiere di vino, mentre Troy non aveva nemmeno toccato il suo, e tese la mano verso la bottiglia. «L'ho incontrato all'Embassy». Troy sentì immediatamente un campanello d'allarme. «All'ambasciata? A quale ambasciata? L'ambasciata russa?». «No, sciocchino, all'Embassy Club, in Bond Street. È stato quattro anni fa. Proprio in quella settimana era morto il re. Io ero stata, come si usa dire, piantata in asso da un verme di prima grandezza, uno che prestava servizio nei granatieri. Non mi ricordo come si chiamava, Billy o Bobby, qualcosa del genere. Aveva cominciato a girarmi attorno, che era già ubriaco. In taxi seguitava a bere whisky da una borraccetta che si teneva infilata alla cintura. Dopo dieci minuti che eravamo entrati al club è andato in bagno e non l'ho visto più. Ero rimasta seduta al tavolo, senza sigarette, senza soldi, quando un ometto inappuntabile si è avvicinato e mi ha invitata a ballare. Era Ronnie. Si muoveva così bene, con tanta sicurezza, aveva i piedi piccoli, leggeri nel ballo. Aveva anche un aspetto gradevole. Mi sono sempre piaciuti gli uomini più vecchi di me. Avevo venticinque anni, lui quasi cinquanta. La differenza d'età giusta, non è d'accordo?». Troy non aveva nessuna opinione in proposito, ma la domanda non sembrava richiedere una risposta. Madeleine ora parlava liberamente. Era stato come spaccarsi il polso per girare la manovella di un'automobile che ora filava da sola. «Al ballo successivo siamo tornati a sederci. Lui mi ha offerto un martini. Io avevo una voglia pazzesca di fumare e lui ha preso dal pacchetto due sigarette, le ha accese tutte e due e me ne ha passata una, proprio come Humphrey Bogart. Mi è sembrato così corretto. Così sentimentale». Troy, intanto, si poneva una quantità di domande. Non solo non credeva che quella ragazza fosse vicina ai trent'anni, ma non gli pareva che corretto e sentimentale fossero due aggettivi che stavano bene insieme. Di solito un atteggiamento sentimentale prescinde dalle buone maniere. E poi la voce.
Nella voce di Madeleine c'era qualcosa che non andava. Aveva una sua bellezza, un suo languore, ma sembrava che nascondesse un segreto... forse un leggero accento perduto? «Il ballo dopo era un lento e ho sentito che lui faceva scivolare una mano per toccarmi il sedere. Io, allora, ho fatto quello che si raccomanda a una brava ragazza, gliel'ho tirata via due volte e alla terza gli ho concesso una piccola soddisfazione. Lui mi ha guardata... erano così belli i suoi occhi azzurro chiaro... e ha detto: "Non porti le mutandine, vero?". Logicamente era vero. Abbiamo passato la notte insieme. Io avevo un bell'appartamentino vicino a King's Road, a Chelsea, ma lo dividevo con due amiche. Ronnie, allora, ha preso una stanza all'Imperial. Per il signore e la signora Kerr. È stata un'esperienza divina. Assolutamente divina. Mi ha viziata fino all'inverosimile con continue, piccole, lussuose abitudini. Potevo suonare un campanello e farmi portare in camera quello che volevo». Troy era sempre più perplesso. Aveva cominciato a rendersi conto che Madeleine non usava il vocabolario della vita reale, ma un frasario superficiale, acquisito. Come se mettesse una vernice lucente su qualcosa, e poteva essere di tutto, che sentiva di dover coprire. L'Imperial non era un albergo che Troy avrebbe scelto per colpire l'immaginazione di una giovane amante. Forse un tempo era stato un albergo di lusso, ma l'ultima volta che vi era entrato, perché doveva parlare con qualcuno che alloggiava lì, aveva avuto l'impressione che avesse ormai fatto il suo tempo, gli era sembrato squallido, mal tenuto. A Cockerell i soldi non mancavano, aveva visto, dai rendiconti della banca, che anche nel 1952 non era certo povero, avrebbe potuto permettersi una stanza al Dorchester, in Park Lane, o al Claridge nel cuore di Mayfair, non avrebbe certo dovuto adattarsi all'Imperial, soffocato in un angolo dietro il British Museum. «Da allora in poi l'ho visto ogni volta che veniva a Londra». «E veniva spesso?». «Circa ogni quindici giorni. Poi, dopo un paio di mesi, mi ha telefonato per la seconda volta in una settimana e mi ha detto che stava per arrivare e voleva che gli andassi incontro a Victoria Station per andare via con lui, lasciandomi tutto alle spalle». «Tutto?». «Sì, perché?». «Non aveva un lavoro?». «Certo che ce l'avevo». «Dove lavorava?».
«Da uno scienziato». «Uno scienziato?». Ostentatamente, Madeleine alzò il bicchiere e lo avvicinò a Troy perché glielo riempisse. Se aveva inteso sorprenderlo, ci era quasi riuscita. Troy era stato troppo tempo in compagnia di donne come le sue sorelle, che avevano rinunciato alla formalità di farsi servire da un uomo, come anche Madeleine, del resto, fino a poco prima. Si chiese, almeno per un momento, quale significato potesse avere quel gesto. Poi le riempì il bicchiere e riprese l'argomento interrotto. «Che genere di scienziato?». «Un ricercatore, sa di quelli che se ne stanno zitti zitti, immersi nel loro lavoro. Io ero la sua assistente privata e personale». «Privata e personale?». «Senta, la vuole sapere la mia storia con Ronnie o no?». Troy assentì. Tanto non avrebbe risposto. Non c'era niente da rispondere. «Fatto sta... mi ascolta?... che siamo venuti a Brighton. Per me è stata una sorpresa. C'ero stata due o tre volte prima della guerra, quando ero una bambina e mi era sempre piaciuta. Non so perché Ronnie avesse scelto proprio Brighton. Ormai non ricordo neanche se gliene avevo parlato. Ma Brighton mi piace perché è... è... esotica. Non le pare?». Brighton esotica? Troy non aveva mai pensato che quell'aggettivo fosse applicabile a una qualsiasi delle isole britanniche. Brighton esotica? Non era la parola adatta a descrivere ciò che appariva così familiare. L'esotismo era di moda, ma non per lui. Pensò ai luoghi che amava: la vista dalla veranda di casa sua, i salici, i maiali e i pipistrelli, niente di esotico; la trasparente bellezza del Ben Bulben, le grandiose montagne delle Alpi occidentali, ma anche lì non c'era niente di esotico. Per esotico comunemente s'intendeva qualcosa di oscuro, con un sentore di spezie, cannella e legno di sandalo, dove ogni esplosione di colore aveva un segreto dietro di sé. Brighton non era così. Brighton aveva i colori vivaci delle cartoline postali, il giallo bruno della birra. Era a un passo da Blackpool o Skegness, ma non era Biarritz o Montecarlo. Si poteva scherzare sulle calde notti d'estate quando si passava davanti al Prince Regent's Pavilion, ma nessuno avrebbe pensato di trovarsi davanti al Taj Mahal, il mausoleo indiano. Che cosa intendeva dire quella ragazza? «Abbiamo fatto colazione e abbiamo passeggiato sulla spiaggia. Lui mi ha raccontato tutto di sé. Sapevo già molto, naturalmente. È impossibile
non sapere certe cose di un uomo quando si vive con lui da otto settimane. Ma quel giorno mi ha detto tutto. Anche, alla fine, che sua moglie non voleva divorziare». «Lei sapeva che era sposato?». Madeleine emise un piccolo sospiro ironico. «Per capire se un uomo è sposato basta guardarlo». Adesso le chiedo di provare con me, pensò Troy. Provi un po' a indovinare! Ma non disse niente. «Gli ho spiegato che non m'importava. Lui poi mi ha proposto di fare un'altra passeggiata prima che tramontasse il sole. Ma, mentre parlava, capivo che c'era qualcosa che ancora non mi aveva detto. Era come se dovessi aspettarmi una sorpresa. A me piacciono le sorprese». Madeleine indicò, dalla balconata che guardava verso il Canale, scintillante nella luce argentea della luna, il molo ovest che si protendeva nell'acqua. «Eravamo laggiù, proprio sulla punta. Mi pare che fosse la fine dell'estate. Non era ancora buio, forse era pomeriggio avanzato o quasi sera. Stavamo lì, davanti al mare. Ronnie mi ha detto: "Tirati fuori le tette, voglio vederle". Io mi sono levata la giacca e la camicetta e sono rimasta rivolta verso il mare. Ma lui ha soggiunto: "Girati verso di me. Guardami". Beh, io sapevo che il molo non era deserto. Eravamo passati davanti ad altre persone, poco prima, però mi sono voltata lo stesso. C'era una coppia di mezza età, con un cane. Ho sentito la donna che diceva: "Non ho mai visto una cosa simile. Andiamocene, George", e si è trascinata via quel poveretto che camminava come un gambero per cercare di guardarmi. Era rimasta solo una vecchietta, con un impermeabile di plastica, che ha messo via il suo lavoro a ferri. "Appoggiati alla ringhiera", mi ha detto Ronnie. "Falle sventolare. Voglio che le fai sventolare come una bandiera". Io gli ho dato ascolto. Allora quella vecchietta si è avvicinata e mi ha detto: "Hai delle belle tettine. Anche le mie erano così", e poi, rivolta a Ronnie: "Carine, vero?". Ma quello non era lo stesso uomo, pensava Troy. Non era Arnold Cockerell. O forse, cambiando nome, si verifica una specie di magia? Si mescolano le lettere di una parola e un mare da calmo diventa agitato? Un ipocrita diventa sfrontato? Così Cockerell era diventato Kerr. Un ometto frustrato, un po' noioso aveva assunto le abitudini di un pervertito dalla fantasia grottesca. Un gentiluomo, all'apparenza misurato e cortese, si era trasformato in un creatore di situazioni sessuali azzardate. Madeleine ebbe la finezza di interrompersi mentre il cameriere serviva il pesce, ma l'interruzione non alterò il ritmo della narrazione.
«Mi sono rimessa la camicetta e Ronnie mi ha portata a Cavendish Hill. Una piccola sorpresa, mi ha detto. Ma non era tanto piccola. Era la casa al numero 2 di Chatsworth Place. "È tua?", gli ho chiesto mentre me la mostrava. "No", mi ha risposto, "è tua". Poi, un'altra sorpresa. Mi ha portata davanti al numero 3 e mi ha detto: "Anche questa è tua. Vola alto, amore mio". E così ho fatto. Sono andata a Londra e ho detto alle mie amiche che lasciavo l'appartamento. Mi sono licenziata e mi sono trasferita a Brighton. Per tutto l'autunno abbiamo avuto gli operai in casa. Ronnie mi ha lasciato fare tutto quello che volevo; una parete qua. una porta là... E, naturalmente, anch'io lasciavo che lui facesse tutto quello che voleva». Madeleine fece scorrere l'indice lungo il bordo del bicchiere e poi lo succhiò lentamente, dentro e fuori dalla bocca, sorridendo e guardando Troy con gli occhi pieni di malizia. «Ronnie non aveva mai dimenticato la sera in cui ci eravamo conosciuti. Diceva che aveva capito che ero la donna fatta per lui nel momento stesso in cui si era accorto che non mi ero messa le mutandine. E così... ho seguitato ad andare in giro senza. Lui mi ha stuzzicato la passerina o mi ha ditoscopata in quasi tutti i ristoranti di Brighton». Troy non conosceva il verbo "ditoscopare". Il suo significato era esplicito e la sua formulazione assolutamente logica. Era una parola che sua moglie, se l'avesse saputa, non avrebbe esitato a usare. A lui, però, non sarebbe mai venuta in mente, né avrebbe mai immaginato di coglierne il concetto, così succinto e chiaro sulle labbra di una ragazza inglese della media borghesia. «Mi dica», chiese, «Cockerell le ha mai?...». «Sìiii?». «Le ha mai... chiesto... Cockerell, le ha mai chiesto se...». «Se mi mettevo una tuta di gomma?». «Beh no... veramente quello che volevo chiedere era se... lui si metteva una tuta di gomma. La sua muta subacquea, per essere precisi». «Ah, sì. Ce la mettevamo tutti e due. Ne avevamo una da donna e una da uomo. Sa, con i buchi al punto giusto». Indicò qual era il punto giusto per quei buchi, abbassando gli occhi con un battere di palpebra incredibilmente ritroso e stringendosi i seni a formare una sorta di valico alpino, poi prese la forchetta e si rimise a mangiare, come se in quello che aveva detto e fatto negli ultimi dieci minuti non ci fosse niente di strano. Il suo bicchiere era di nuovo vuoto. Era già la seconda bottiglia. Troy non aspettò di essere sollecitato, le versò da bere, rassegnato a vederla u-
briacarsi quanto più in fretta le fosse riuscito. 67 C'era l'alta marea. Il vento leggero della sera si era fatto più fresco con l'avanzare della notte. Madeleine si tolse le scarpe e le buttò più in là, sulla sabbia. «Viene anche lei?». «A fare un bagno?», chiese, incredulo, Troy. «A bagnarsi i piedi, stupido! Credeva che mi sarei spogliata e mi sarei tuffata in acqua?». «Non mi sarebbe parso strano». «Touchée». Troy la guardò spingersi dove il mare le lambiva i piedi fino alle caviglie. La sentì lanciare dei gridolini di gioia al contato con l'acqua fredda. Appoggiata contro il frangiflutti c'era una sedia a sdraio, pecorella smarrita, dimenticata dal bagnino pastore. La raddrizzò e si mise a sedere, mentre Madeleine andava sempre più avanti finché il mare non le bagnò l'orlo del vestito. E oltre. Di lì a poco, tutto il vestito si sarebbe inzuppato. Troy si rese conto di provare l'inizio di una riluttante ammirazione per Cockerell. Aveva realizzato il classico, ma spesso impossibile, sogno di una doppia vita. Gli era riuscito. Almeno per quasi quattro anni. Da Janet Cockerell qualcosa di buono certamente gli veniva, altrimenti l'avrebbe lasciata molto tempo prima, neanche per un attimo Troy aveva creduto alla affermazione fatta a uso di Madeleine, «mia moglie non vuole divorziare». A Janet non era mai stata prospettata quella eventualità. Troy pensava, almeno in parte, che a Cockerell piacesse avere quella doppia vita che, senza sua moglie, sarebbe stata una vita a senso unico, indubbiamente piacevole... guardò Madeleine nella luce della luna, ormai nell'acqua quasi fino ai fianchi, con le braccia spalancate come se fosse crocifissa, mentre canticchiava tra sé, bella, stramba e ubriaca, una vita indubbiamente piacevole si disse, ma a senso unico. Non gli era difficile immaginare il gusto che doveva aver dato a Cockerell, seduto vicino a sua moglie, nella estenuante violenza verbale del matrimonio, ricordare l'ultima volta in cui aveva ditoscopato la sua amante in pubblico. La vendetta dell'ipocrita. Un'operazione quasi perfetta. «Quello che vuoi, quando vuoi». E con servizio in camera. Madeleine si mise a saltellare da un piede all'altro, spruzzando acqua dappertutto e gridando qualcosa di incomprensibile. «Oh, oh, oh!». Troy si alzò dalla sedia a sdraio e si avvicinò al bordo dell'acqua.
«Accidenti... vorrei sapere chi è quel bastardo...». Si appoggiò con tutto il peso al suo braccio e piegò all'indietro la gamba sinistra. «Ma come si può essere così incoscienti da lasciare dei pezzi di vetro sulla spiaggia?». Troy la fece sedere dove la sabbia era più asciutta e guardò che cosa aveva sotto il piede. «Non è un vetro, è una conchiglia», disse. «Fa male lo stesso». «È entrata in profondità». «Allora, per carità, me la tiri fuori». Troy non riuscì a prendere con le dita la scheggia di conchiglia. Ci sarebbe voluta una pinzetta. Strinse tra i denti il pezzetto che sporgeva dalla pianta del piede, tirò e sputò fuori un frammento di conchiglia lungo più di un centimetro. Madeleine sospirò di sollievo. Troy le teneva ancora in mano il piede. Prima che lo lasciasse andare, lei disse: «C'è ancora. Non è uscito tutto». Troy tacque. Lei si puntò con le braccia indietro, le mani nella sabbia. «L'ultimo pezzetto! Non fa male, sono sicura!». Era un grido di aiuto. Troy risentì il vecchio appellativo del cortile di scuola, «pappamolla!», e succhiò la ferita. Sale e sabbia si mescolavano al sapore del sangue. Madeleine si divincolò leggermente, piegò le braccia e restò distesa. Adesso Troy sentiva in bocca solo il sangue. Le lasciò libero il piede e si chiese che cosa avrebbe dovuto fare adesso. Lei si mise a sedere, gli posò un dito sulle labbra e gli lesse nel pensiero, sillaba per sillaba. «È il dilemma femminile nel corso dei secoli. Inghiottirlo o sputarlo?». Si baciò il dorso della mano e glielo premette contro le labbra. Lui, di riflesso, inghiottì. Madeleine si tirò indietro, con un sospiro soddisfatto. «Ecco. Gliel'avevo detto che non faceva male». 68 «Ho qualcosa da mostrarle». Si sfilò il vestito. Rosso dalla vita in su, nero dov'era inzuppato d'acqua. Troy si rallegrò nel vedere che, per l'occasione, si era messa le mutande. Camminava scalza sul tappeto, lasciandosi dietro una striscia sottile di sangue. Aprì lo sportello di un grosso armadio. Dentro, una accanto all'altra, c'erano due tute di gomma. Proprio come aveva detto. Quella di Cockerell,
completa di pinne e un'altra più piccola, la sua. Madeleine la staccò dall'attaccapanni e gliela mostrò. Due grossi buchi per fare uscire i seni. Troy cercò di non guardare le vistose modifiche apportate alla parte inferiore. Gli parve strano che fosse modellata secondo le linee di un corpo femminile, come un calco di gesso. Una Venere di Milo da mettere in giardino. E gli parve anche un oggetto impressionante, quasi da far rabbrividire. «Se vuole me la metto», disse Madeleine. «Lei non dovrebbe mettere quella di Ronnie, tanto la misura non è giusta. Io, comunque, potrei indossare la mia». «Preferisco di no». «Faccia uno strappo alla regola». «Preferisco di no», ripeté Troy, annaspando alla ricerca di una scusa, una scusa qualsiasi. «Lei ha bevuto troppo a cena. Il vino potrebbe influenzarla». Madeleine fece un risolino. Il risolino diventò una risata. La risata si trasformò in una ironia sprezzante, come Troy aveva sperato. «Non mi dirà che non ha mai fatto l'amore con una donna ubriaca». Era così, infatti, e non solo. Negli ultimi tempi Troy non aveva fatto l'amore con nessuna donna, ubriaca o no. Madeleine gli sfiorò gli zigomi con le labbra, si soffermò sul lobo dell'orecchio e glielo mordicchiò. «Non posso», disse Troy. «Davvero». Lei gli bisbigliò all'orecchio, mentre il calore del suo respiro gli metteva un formicolio nelle vene che scendeva fino ai lombi, a toccare ciò che avrebbe preferito fosse lasciato intatto. «Nessuno le ha mai detto che è un guastafeste?». Tutte le donne della sua vita glielo avevano detto. Pappamolla. 69 Si svegliò, solo e casto, in una delle numerose camere libere della vasta dimora di Madeleine Kerr. Aveva dormito male, immerso in sogni profondi, eppure svegliandosi spesso. C'era qualcosa negli occhi di Madeleine che lo spaventava. Di nuovo risentì il rumore dell'acqua che scorreva. Lo accompagnò fino al pianterreno e in cucina, dove era andato a cercare qualche cosa per fare colazione. Ma la colazione del mattino pareva avere poca importanza nella vita domestica dei coniugi Kerr, almeno per quanto riguardava la signora, perché l'immagine di Cockerell che si cacciava in
bocca il kedgeree era impressa per sempre nella memoria di Troy. Tutto quello che riuscì a trovare fu un pacchetto di Ryvita e un barattolo di caffè "istantaneo". Il caffè istantaneo era una novità nata nel mondo del dopoguerra, istantaneamente accettata, come la penna a sfera e l'impermeabile, nonostante il suo sapore istantaneamente sgradevole. Stava sul fondo della tazza, leggero come la polvere, mentre l'odore già aleggiava nell'aria e, quando veniva sciolto nell'acqua bollente, emanava un aroma forte e artificiale. Aveva il sapore della crema di caffè di certi cioccolatini di cattiva qualità: caramella sciolta e detersivo in polvere. Il caffè istantaneo, una volta pronto, era vagamente gelatinoso e restava attaccato alla tazza e ai denti come una patacca viscosa. Ne bevve mezza tazza con un Ryvita spalmato di marmellata di arance e buttò l'altra mezza tazza nel lavandino. Appena chiuso il rubinetto si rese conto, all'improvviso, del silenzio che aveva intorno. Il rumore dell'acqua nei tubi non si sentiva più. Madeleine doveva essere uscita dalla doccia. «È pronto?». Troy si voltò e vide Madeleine in piedi sulla soglia, vestita e truccata, che dava un'ultima occhiata alla sua creazione artistica nello specchietto del portacipria. Lo chiuse e osservò Troy, scalzo, con la camicia fuori dai pantaloni. Ben lontano dall'essere pronto. «Di solito cerco di riservare frasi come "la mattina fai proprio schifo" a relazioni più intime. Però è vero che lei fa proprio schifo la mattina. È meglio che si sbrighi, Troy, dobbiamo prendere un treno». Troy si allacciò le scarpe in taxi, mentre andavano alla stazione. Madeleine lo aveva letteralmente disorientato, non capiva quella efficienza che non le conosceva e si chiedeva come riuscisse a essere completamente esente dalle conseguenze di tutto quello che aveva bevuto la sera prima. Se lui avesse bevuto quasi due bottiglie di vino rosso, l'avrebbe scontato per giorni e giorni. Il taxi si fermò sotto la pensilina di vetro della stazione di Brighton. Lui pagò e, con Madeleine, si fermò a guardare il tabellone delle partenze, cercando un treno che andasse a Londra. «Abbiamo perso il Belle», disse Madeleine. «Se lei fosse stato pronto, avremmo potuto far colazione con aringhe e caffè ed essere già da mezz'ora in viaggio per Londra. Ma non importa, basta che viaggiamo in prima». In prima... Onions si sarebbe fatto venire un colpo se Troy avesse comprato dei biglietti di prima a spese di Scotland Yard. Ma prima doveva essere e prima fu. Lo sguardo di Madeleine diceva che a tanto era abituata e
non avrebbe accettato niente che valesse meno. Cockerell l'aveva viziata, ma con quale ricchezza d'inventiva lei lo aveva ricambiato e saziato! A Troy non piaceva viaggiare in prima. Non s'incontrava nessuno. E, anche se qualche volta poteva apparirgli gradevole, molto più spesso, in lui, la curiosità del poliziotto prevaleva. Il viaggiatore inglese come punto di riferimento nel lavoro. Era difficile prevedere chi avrebbe attaccato discorso, ma qualcuno c'era sempre, soprattutto negli anni subito dopo la guerra, quando la benzina era ancora razionata, pochi possedevano un'automobile e le tracce di una sorta di bonomia originata dalle circostanze ancora permanevano. Si ricordò di un viaggio a Manchester, quando un uomo panciuto, con dei baffi da pilota della RAF, gli aveva detto con precisione quanto era lungo il suo intestino artificiale e quanta parte delle sue viscere aveva lasciato in un ospedale da campo tedesco quando il Wellington che stava pilotando era stato abbattuto sulle pianure della Prussia. Durante il viaggio di ritorno, aveva conosciuto un bambino di sette anni, che il padre portava in gita a Londra per un giorno, la cui immagine della capitale sembrava scaturita da precoci, violente letture. Gli premeva solo vedere Whitechapel e Jack lo Squartatore, il 221B di Baker Street e Sherlock Holmes. Troy aveva cercato di mettersi in mostra, dicendogli che era un detective, ma il bambino aveva creduto che lo prendesse in giro. «Troy?». Troy sussultò. Era lontano chilometri e chilometri. «Dorme con gli occhi aperti? Non mi ha sentita? Ho detto che potrei anche uccidere per avere una tazza di caffè». Troy la guardò. Era perfetta e anche molto bella, con un tailleur attillato, rosso. Sempre rosso. Era un'affermazione del suo ruolo di donna di fuoco? Si tolse la giacca e la posò sul sedile vicino. Sotto aveva una camicia di seta bianca a collo alto. Prese il portacipria dalla borsetta. Aveva le braccia sottili, abbronzate e belle da guardare. La vide, puerilmente affascinato, guardarsi di nuovo nello specchietto, anche se non era affatto necessario, stringere le labbra, lisciarsi un sopracciglio, ma senza ritoccarsi il trucco. «Beh?», disse, guardandolo con gli occhi verdi, brillanti, al disopra del portacipria. «Dove siamo?». «Stiamo arrivando a Three Bridges». «Certo tra poco passerà un inserviente con il carrello», disse Troy, perché non aveva voglia di muoversi. «Forse no. Troy, sia gentile, vada a prendermi un caffè. Sto boccheg-
giando». Richiuse con un piccolo scatto il portacipria, lo infilò nella tasca della sua giacca rossa e, con le sue labbra rosse, mandò un finto bacio a Troy. Troy oltrepassò, traballando, due carrozze e andò al bar. Il cameriere gli disse che avrebbe fatto il giro di lì a dieci minuti, ma lui lo implorò finché non lo convinse a dargli un vassoio con due tazze di caffè. Mentre aspettava che glielo preparasse, il treno si fermò e dal finestrino si vide la scritta Three Bridges. Poi Troy prese il vassoio e, con un tempismo arbitrario, il treno ripartì e acquistò subito velocità. Troy maledisse Madeleine Kerr per tutta la sferragliante lunghezza delle due carrozze. Mentre aveva la mano sulla maniglia della terza, ci fu una frenata improvvisa che lo rimandò indietro nel corridoio e gli fece rovesciare il caffè sul suo vestito scuro stropicciato. Non gli era mai capitato di trovarsi in treno mentre qualcuno suonava l'allarme, ma capì subito di che cosa si trattava. Sentì una confusione alle sue spalle, voci spaventate e il pianto di un bambino. Davanti a sé c'era solo silenzio. Entrò nell'ultima carrozza e aprì lo scompartimento dove aveva lasciato Madeleine. La testa le ciondolava verso il finestrino, sobbalzava sulla spalla sinistra, mentre il treno si fermava, oscillando un po' avanti e un po' indietro, come una molla troppo tesa. Troy aveva visto altre volte un collo spezzato. Lo toccò su un lato. Non c'erano pulsazioni. Gli occhi erano chiusi, le mani in grembo. La borsetta era sparita. A Troy pareva di non poter resistere alla calma mortale di quel momento, alla violenza di una emozione che andava crescendo senza che lui se ne rendesse conto, alla stranezza della natura, che aveva lasciato Madeleine molto bella anche nella morte. Si scosse quando il treno ebbe un sobbalzo e lo sportello al suo fianco si spalancò. Adesso sapeva. Saltò giù e cadde malamente sui binari, con tutto il peso sulla caviglia sinistra e la gamba gli scivolò di sotto, provocandogli un dolore acuto. Si tirò in piedi a fatica e vide qualcuno che correva lungo i binari, tornando indietro, verso la stazione. Fece un passo, ma la gamba gli si piegò di nuovo. L'uomo scomparve dietro un capannone di cemento. Troy fece un altro passo, poi un altro ancora, sforzandosi di correre. L'uomo sbucò da dietro il capannone. Troy vide in un lampo una figura indistinta vestita di blu, ma capì, mentre una sensazione di vuoto lo colpiva allo stomaco, che col braccio teso reggeva una pistola puntata contro di lui. La pistola mandò un bagliore rosso, verde, nero, che lo precipitò in un inferno senza sogni.
70 Quante volte si era ritrovato così, disteso in un letto? Si era svegliato e, con un urlo, era riapprodato sulla terra da un inferno che non conosceva né il tempo né la parola. Aveva cercato dal colore delle pareti di capire in quale ospedale l'avevano portato, sapendo di essere stato di nuovo colpito e sperando in una ripresa di coscienza che gli dicesse chi, quando e tutto il resto. Per sapere dove si trovava bastò l'infermiera. Giovane, graziosa, con la divisa dell'ospedale, ma quasi prima che parlasse, lui aveva già riconosciuto il distintivo sulla fibbia della cintura e la inconfondibile sagoma di lino inamidato che passava per essere una cuffia. «Lei è al Charing Cross, signor Troy». «Vedo». «Si ricorda di me?». Troy la guardò meglio, nei limiti consentiti dalla posizione orizzontale e dalla messa a fuoco ancora incerta. «Ero al mio primo anno di lavoro, nel Middlesex, nel 1951. Lei aveva appena catturato Edward Langdon-Davies». Ecco il riaffluire della memoria, più vivido per il passato che per il presente. Troy aveva arrestato Langdon-Davies quell'inverno. Preso, ammanettato, processato, impiccato. Langdon-Davies lo aveva colpito di traverso, su una spalla con un attizzatoio e gli aveva rotto la clavicola. Jack lo aveva caricato su un furgone della polizia e l'aveva portato al pronto soccorso più vicino, nel Middlesex. Quella giovane infermiera aveva assistito il medico mentre gli rimetteva a posto le ossa con uno strattone che gli aveva provocato un dolore da svenire; poi lei stessa gli aveva ingessato il braccio e gli aveva spiegato che per un mese doveva tenerlo così, come se dicesse sempre: «Ave, Caesar!». «È diventata un'abitudine!». Sorrise, senza sapere di essere andata molto vicino alla verità. «Da quanto tempo sono qui?», chiese Troy, dai meandri di quella abitudine. «Solo da stanotte. Quando ha ripreso conoscenza era nel Mid-Sussex. Le radiografie erano buone e così hanno permesso a suo fratello di riportarla a Londra. Ha aperto gli occhi più volte, ma credo che non ricordi ancora niente, vero?». Gli tastò il polso, gli provò la febbre e se ne andò, affaccendata. Troy si toccò il lato destro della testa. Di sotto la benda sentì una grossa sporgen-
za. Non aveva dolori e, quando riuscì a mettersi a sedere, ci vide meglio e gli passò la nausea. Forse non erano riusciti ad ammazzarlo neanche questa volta. Sentiva quelle parole girargli nella testa. Langdon-Davies, invece, erano riusciti ad ammazzarlo. Non credeva che sarebbe stato impiccato. Era, come Cockerell, come Angus Pakenham, come tante altre vite in cui era stato coinvolto, una inevitabile vittima della guerra. Un soldato nato, un militare fino alla punta delle dita sporche di nicotina. Nel dopoguerra era diventato uno sbandato. Senza un lavoro degno di questo nome, se non uccidere e imbrogliare. Era quasi un pazzo, Troy lo sapeva. Una serie di iniziative fallimentari, tutte diverse dal guidare una truppa all'assalto, che era l'unica cosa che sapesse fare, erano risultate l'equivalente locale del progetto noccioline o una nuova versione dell'amore tra i polli, simboli, nel gergo nazionale, di fiasco e follia, e lo avevano ridotto a ricorrere alla truffa basata sulla fiducia (firme false, assegni a vuoto), sfruttando il suo grado di maggiore dell'esercito, e il modo di parlare da persona beneducata. Alla fine, aveva ucciso sua moglie. Come aveva raccontato a Troy, durante una lite, si era sentito scagliare addosso tutti gli insulti esistenti sotto tutti i soli in tutte le galassie, ma aveva cercato di non perdere la calma, perché il suo codice d'onore lo ammoniva a rispettare il sesso, si fa per dire, gentile. Stava per allontanarsi, sperando che l'ira le fosse sbollita, quando lei l'aveva colpito alle spalle. Di riflesso, come avrebbe poi seguitato a dire fino al giorno in cui era stato portato all'impiccagione, l'aveva colpita alla gola con un gomito, senza nemmeno guardare, e nel voltarsi le aveva spinto indietro la testa con l'altra mano e le aveva spezzato l'osso del collo. Tutto, assicurava, in una frazione di secondo, con una celerità da manuale sulle possibilità di difesa da un'aggressione alle spalle, appresa se non sui campi da gioco di Eton, almeno sull'asfalto del centro di addestramento di Aldershot. Il delitto non manca mai di attirare l'attenzione, ma la fuga di LangdonDavies per evitare la polizia, durata settimane, tra furti e rapine, mentre, come ne L'uomo invisibile, porte e finestre restavano sbarrate in tutta l'Inghilterra, aveva raggiunto un livello di ossessione nazionale, fino quasi a sostituire Dick Barton nell'immaginario popolare. Era diventato l'uomo che i giornali amavano e detestavano, un assassino in fuga, avvistato a Dundee, a nord, e a Barnstaple, a sud, lo stesso giorno alla stessa ora. Un "assassino", una specie definita, nel mito e nel giornalismo popolare, non un individuo che ha perso la ragione. Troy non credeva che lo avrebbero impiccato. Doveva ammettere che Langdon-Davies gli era addirittura simpatico.
Ma la legge, non essendo stata riconosciuta la sua pazzia, non poteva infliggergli altra pena che quella. E così era stato impiccato. Impiccato per non aver saputo dimenticare quello che aveva imparato in guerra. Aveva parlato, e quanto, la sua confessione era lunga quasi quanto un romanzo. Che cosa avrebbe raccontato Arnold Cockerell, se si fosse riusciti a far parlare un morto? Ma lui aveva parlato, aveva fatto il suo squallido discorso da commerciante di moquette, che non gli era servito a niente. Una sola faccia di un prisma. Facendolo ruotare, sarebbe apparsa un'altra faccia, un altro racconto, un altro significato. «Voglio sapere tutto», disse Jack, con semplicità. Era arrivato più tardi, verso le quattro o le cinque, Troy non lo sapeva perché non aveva più l'orologio, e stava in piedi, vicino al suo letto, serio e pallido. Gettò sul letto una fotografia tredici per diciotto di Madeleine Kerr. «Voglio sapere tutto, Freddie. Se capisco che mi nascondi qualche cosa, ti affogo». Si mise a sedere, rigido, con le braccia intrecciate, il cappello appeso alla spalliera del letto come un piccolo, pigro animale esotico. Di solito Jack non portava il cappello ed era interessante, da un punto di vista simbolico, che l'autorità che si era assunta dovesse accompagnarsi a un elemento di vestiario tipico di quei vecchi presuntuosi in bombetta e stivali neri che rappresentavano Scotland Yard quando loro erano entrati a farne parte, prima della guerra, una stirpe di gente ottusa, inibita, mossa da un costante pregiudizio di classe, cui vigorosamente Onions aveva dimostrato di non appartenere. «Da dove vuoi che cominci?». «Diamo per scontato che so il suo nome, Madeleine Kerr, e che nelle fotografie sparse per casa ho riconosciuto Cockerell. Partiamo da qui». Troy gli raccontò tutto. Dalla telefonata di Angus al salto sui binari, nel Sussex, fino alla traiettoria di un proiettile sparato da qualcuno vestito di blu. Jack lo ascoltò in un silenzio quasi assoluto, senza prendere appunti, orgoglioso della propria memoria, e limitandosi a poche domande. «Tu che cosa hai saputo?», chiese Troy. Jack si alzò in piedi, si sgranchì le gambe, fece qualche passò per la stanza e si fermò, con il palmo delle mani appoggiato al davanzale della finestra, guardando il sole ormai quasi al tramonto. «L'assassino le ha spezzato il collo come un ramoscello. Nessun segno
di lotta. È morta immediatamente. Abbiamo trovato la sua borsetta nel bosco. Capovolta, il contenuto sparso qua e là. Impossibile dire che cosa manchi o che cosa l'assassino stesse cercando. C'era la patente e un paio di lettere che sono servite a identificarla. Nient'altro. Tu non eri in condizioni da poterti fare domande». Era un rimprovero quello che si leggeva nello sguardo di Jack? «In casa hanno frugato dappertutto». «L'avete trovata messa a soqquadro?». «No. Un lavoro da professionista. Niente era fuori posto, ma lo si capisce comunque, l'avrai visto tu stesso altre volte. Ancora non so che cosa cercava l'assassino». Neanche Troy lo sapeva. Jack si mise a sedere sul calorifero spento. Lui voltò la testa per guardarlo in faccia e risentì quel gonfiore sotto la benda. «Che cosa avevi intenzione di fare?». «Non capisco». «Perché la portavi a Londra? Aveva un biglietto di ritorno nella tasca della giacca, insieme a un portacipria. Perché eravate su quel treno, tutti e due?». «Veramente non lo so». Jack si staccò dal calorifero, andò un po' su e giù e a Troy parve di capire, sentendolo respirare con un po' d'affanno, che cercasse di trattenere uno scatto di collera. Aveva un'espressione cupa, accusatrice e non stava fermo un minuto, ma seguitava a camminare come se gli bruciasse il terreno sotto i piedi. Era la sua tecnica per riuscire a controllarsi. Troy non aveva capito che ce l'avesse con lui fino a quel punto. Si appoggiò meglio sui cuscini, sistemò le coperte e si dispose ad affrontarlo, cercando di dirgli il più possibile. «Lei non mi ha spiegato niente», esordì, «ha alluso solo a qualcosa che mi avrebbe detto quando fossimo arrivati a Londra». «A che proposito?». «A proposito di quello che stava combinando Cockerell». «Vuoi dire che hai passato una notte da solo con lei e non sei riuscito a fartelo dire?». «Esatto». «Freddie, ci sei andato a letto con quella ragazza?». Sembrava una sfida, un momento di sfiducia come non ne avevano mai avuti da quando si conoscevano. «No, Jack. Non ci sono andato a letto».
«Una notte intera per farla parlare e ha finito col farti andare in giro per il...». «Jack, non l'ho scopata!». Jack spostò la sedia più vicina al letto e si chinò verso Troy. «Hai una minima idea di quello che hai fatto? Non è il momento di raccontarmi delle bugie!». «Non sto dicendo delle bugie. Quanto a quello che ho fatto, ho indagato su un omicidio». «Finché non sei andato a Brighton, non c'era stato nessun omicidio». «Ma come? Cockerell era stato ucciso. Jessel era stato ucciso». «Ho visto il referto medico sulla tua scrivania. Jessel è morto per collasso cardiaco». «Aggravato dall'essersi visto agitare una pistola sotto il naso». Jack si tirò indietro sulla sedia, turbato. «Che cosa dici?». «Ho trovato del lubrificante per pistole sul suo tavolo. Una goccia non più grande di una capocchia di spillo, ma inconfondibile. Era malato di cuore, qualche stronzo ha pensato bene di spaventarlo». «Perché non risulta niente di scritto?». «Jack... non fare certe domande». «Ti ripeto: lo sai quello che hai fatto?». Troy non rispose. «Non mi hai lasciato niente su cui basarmi per lavorare. E dopo aver scoperchiato una latta di vermi». «Bonser. Parliamo con Bonser. Qualcuno gli ha detto di girare intorno al King Henry quel giorno. Parliamo con lui». «Parliamo... Chi? Noi?». Troy non rispose. Sapeva quello che si sarebbe sentito dire. «Freddie, dimentica quel "noi". Tu sei escluso da questa indagine». «Ne hai parlato con Onions?». «Credi che stia bluffando?». «Qual è l'accordo?». «Tu sei a casa perché non stai bene. Lontano da Scotland Yard. Quando il medico dirà che hai ritrovato la salute, il tuo rientro sarà da decidere. Se capirò che intendi ancora curiosare in questa storia, potrò e vorrò far prolungare la tua licenza per malattia». «Jack», disse Troy con calma, «questo è un imbroglio». «Sì. Ma io voglio che tu resti vivo. Servirà a tenerti lontano dal mondo delle spie. Onions vuole che giri al largo».
Era una pessima notizia. Che cosa si proponeva di fare Jack? «Jack, non vorrai mettere tutto nelle mani di quelli dello spionaggio!». Jack prese il cappello che aveva appeso al letto. Se era un gesto di congedo, il loro incontro era stato inutile. Troy ebbe uno scatto. «Jack, tu non mi ascolti!». Jack, infatti, stava andando verso la porta. «Non puoi parlarne con loro, non capisci?». Jack aveva aperto la porta ed era già quasi fuori. «Ci metteranno una pietra sopra!». Troy si rese conto che stava gridando con tutta la forza dei suoi polmoni. Sentì un dolore al petto e, per un momento, gli girò la testa. Jack chiuse la porta e vi si appoggiò, con le braccia allargate e il palmo delle mani contro gli stipiti. «Ci porteranno via l'indagine e loro non ne faranno niente». «Vedremo». «Hai mai pensato che non sappiamo da che...», Troy cercò la parola, ma non ci riuscì, «da che... parte è stato ucciso Cockerell?». «Non ti seguo». «Voglio dire che non so per chi lavorava. Non c'era niente di ufficiale. Non possiamo per questa indagine aspettarci nessun aiuto né dal Cinque né dal Sei. Ormai il primo ministro ha parlato apertamente e loro vorranno mettere tutto a tacere il più presto possibile. E se questo significherà lasciare impunita la morte di una donna innocente non gliene importa, è quello che faranno». Jack sapeva che aveva ragione, Troy glielo leggeva negli occhi e si rendeva conto che era inutile cercare di convincerlo di qualcosa che già sapeva e che aveva una logica irrefutabile e oltremodo sgradevole. «Quindi devo restare legato a una indagine priva di indizi?». «Cercali gli indizi. Giragli intorno. Segui il tuo intuito, fingi per ora che le spie non c'entrino, che si tratti di un delitto qualsiasi. Vedi fin dove riesci ad arrivare. Noi possiamo ricorrere al Cinque e al Sei solo quando le caratteristiche di un crimine sono già delineate. E anche questo è da vedere». «Un delitto qualsiasi? Lo sai che nessuno su quel treno è in grado di identificare l'assassino che ha rotto l'osso del collo a Madeleine Kerr? Ho raccolto tanti particolari che basterebbero a descrivere un esercito, ma sono così contraddittori che non servirebbero mai a ricostruire i tratti di una sola persona. Alto, basso, grasso, magro... L'unico a essere descritto con chia-
rezza sei tu. Molti sono già pronti a identificarti in tribunale come l'uomo che ha ucciso Madeleine Kerr, ma nessuno sa dire chi è il vero assassino. Nessuno l'ha visto alla stazione. Nessuno, a Brighton, saprebbe distinguerlo tra quelli che sono saliti in treno. E tu mi dici "cerca gli indizi e giragli intorno"?». «Sì, ti dico così. E tieni il mio nome e il suo lontano dai giornali». «Beh, è bello sapere che posso fare almeno qualcosa di utile». A Troy, per un tempo che gli parve lunghissimo, rimase nell'orecchio l'eco della porta che sbatteva; la collera di Jack era rimasta nell'aria, rimbalzava dalle pareti. Ma non era quello il peggio. Il peggio doveva ancora venire. 71 Il giorno dopo Troy venne dimesso dall'ospedale. Aveva ficcato il pigiama nella cartella e si stava infilando la giacca, quando ebbe un capogiro, ricadde indietro sul letto, un braccio in una manica e l'altro no, la giacca a metà della schiena. Qualcuno arrivò ad aiutarlo. Alzò gli occhi e vide Anna Pakenham, cupa, senza sorriso, che. china su di lui, gli guidava le braccia nelle maniche aggrovigliate. «Che cosa fai qui?». «Fidati di me. Sono un'esperta». Insistette per accompagnarlo a casa. Troy protestò debolmente che erano poco più di trecento metri, ma la testa gli girava ancora e pensò che, lasciato a se stesso, probabilmente sarebbe finito riverso vicino al gradino del marciapiede, sullo Strand. In salotto, lei gli tolse le bende e controllò la ferita. «A posto», disse. «Resterà la cicatrice, ma il lembo di pelle combacia perfettamente. Non avrai una striscia di calvizie. Pare che il proiettile sia praticamente rimbalzato sulla tua testa dura. È inutile, credo, che ti dica quanto sei stato fortunato». «La storia della mia vita è costellata di queste fortune». «La fortuna è una ruota che gira, Troy. Hai mai conosciuto un pugile suonato? Mickey McGuire, un mio paziente. Campione dei mediomassimi per l'Inghilterra e l'Impero prima della guerra almeno per due incontri, finché poi non ha perso il titolo. Di botte ne ha prese parecchie in vita sua e adesso è ridotto che fa fatica a dirti che ora o che giorno è». «Va bene. Ho capito».
«No, tu mi hai ascoltata, ma per te non significa niente. Ora passiamo a un argomento molto più importante della tua sopravvivenza: hai trascinato Angus in una storia pericolosa?». «No, Angus ne è completamente estraneo». Anna chiuse la sua borsa da medico, gli diede un bacio su una guancia, gli disse che era il solito mascalzone e si avviò alla porta. Troy stava andando in cucina ad accendere il bollitore quando sentì ancora la sua voce e poi quella di Rod. Erano in piedi sulla soglia e si scambiavano le loro opinioni su di lui. Andò lo stesso ad accendere il bollitore. Non era certo di riuscire a superare gli sproloqui di Rod senza avere qualcosa da fare con le mani. Quando tornò, Rod si era tolto la giacca e in piedi, rosso in faccia e con la cravatta a mezz'asta, cercava di slacciarsi il bottone del colletto. Troy gli mise davanti il vassoio. «Non intendo menare il can per l'aia, Freddie...». Si schiarì la gola perché il colletto gli stringeva, sospirò e infine il bottone cedette. «Quale cane e quale aia? Che cos'hai in mente. Rod?». Rod lo guardò negli occhi e, con un profondo sospiro, disse solo: «E allora?». «Sto facendo il mio lavoro. Rod. Tutto qui». «Bugiardo!». Troy alzò un braccio per tirargli un pugno. Rod si spostò per schivarlo. Il pugno fluttuò nell'aria, Troy perse l'equilibrio e il vassoio del tè cadde a terra. Rod afferrò Troy per il torace, era più alto, pesava dieci, dodici chili in più, e con un movimento leggero, disinvolto, lo buttò sul divano. «Non fare il cretino, Freddie! Credi che non mi accorga se dici la verità o no? Sei stato un bugiardo di prima grandezza fin da quando eravamo piccoli». Troy era senza fiato. Roy gli stava addosso e, per una frazione di secondo, pensò che volesse picchiarlo. Era curvo su di lui, a gambe larghe, a testa bassa, ci sarebbe voluto niente a prevenirlo con un calcio nelle palle e finirla lì. Ma Rod prese la sua giacca che era schiacciata dietro la schiena di Troy, ne tolse qualcosa che aveva in tasca e si allontanò dal divano. «Stai solo facendo il tuo lavoro?», disse e tirò sulle ginocchia di Troy un piccolo oggetto lucente. «Nient'altro, eh? Freddie, la tua fortuna è che Jack non ha trovato questa. La polizia locale ti ha frugato nelle tasche, ha visto il mandato e ha smesso di cercare. Io ho trovato la pistola quando quei medicastri mi hanno chiamato dall'ospedale del Sussex. Perché mi racconti
delle bugie?». «Mi pregio rimettere l'onorevole membro del parlamento alla mia prima risposta». Mentre parlava, Troy si rendeva conto di comportarsi come un qualsiasi adolescente che fa marameo al fratello maggiore. Rod si mise a raccogliere i frammenti delle tazze da tè. Non riusciva mai a mantenere a lungo la collera, neanche quando si trattava di difendere se stesso. La sua voce perse ogni nervosismo e diventò triste, preoccupata, baritonale, irritantemente comprensiva. «Ora ti dirò quello che penso: tu sei mosso da un senso di colpa. Vuoi liberarti del peso di quelle stupidaggini che sono state dette sul conto di nostro padre. Dai la caccia alle spie perché credi che lui fosse una spia e che questo sia un modo per espiare la sua colpa». «Ma quale colpa?», disse Troy, tra l'irritazione e il sarcasmo. «Il concetto di colpa mi è estraneo». «Come puoi pensare di farmi credere che è solo un caso che tu stia indagando su Arnold Cockerell?». «Te l'ha detto Jack?». «Naturalmente». «Ti ha detto anche che sono stato l'ultimo a vedere Cockerell vivo?». Rod lo guardò, con la teiera in una mano e il beccuccio nell'altra. «No. È vero?». «Sì. Una sfortuna. Sono capitato nell'albergo giusto la sera sbagliata». «L'ultima notizia che ho avuto è che la moglie di Cockerell non era stata in grado di identificare il cadavere». «Non ce ne sarà più bisogno. L'ho identificato io». «È lui?». «Sì». Rod riunì i cocci sul vassoio e si mise a sedere su una poltrona. «Va bene. Basta». «Basta? Pensi che tutto finisca qui? Credi di avere inchiodato Eden con le palle a terra? Tu sapevi che quello era Cockerell prima che il governo facesse la sua ammissione pubblica. Ma non è tutto: tu, Rod, sapevi, ma Eden no. Nessuno di loro sapeva. Cockerell agiva da solo. Eden, probabilmente, l'ha scoperto dopo di te. La tua teoria della grossa cospirazione, come capita spesso, si riduce a un grosso sbaglio». «Non nego di aver saputo fin dall'inizio il nome di Cockerell». «Anche quel giorno che abbiamo litigato alla Camera dei Comuni?».
«Sì, anche allora. Ma ancora non capisco come tu possa dire che Eden non lo sapeva». «È la lamentela, sempre uguale, che i capi di stato screditati ripetono attraverso i secoli. "Nessuno mi ha detto niente". Io non so che cosa è successo, ma so che i servizi segreti sono rimasti sorpresi. E credo che Eden fosse addirittura sconvolto». Rod, con la testa appoggiata allo schienale della poltrona, teneva gli occhi fissi nel vuoto, al disopra della testa di Troy, poi abbassò lo sguardo e incontrò il suo. «Questo non li giustifica, però. O sì?». «No, non li giustifica. Il loro lavoro, dopotutto, consiste nell'essere informati. Ma ecco che la palla passa direttamente a me». «Perché?». «Perché si tratta di un omicidio. Anzi, per essere precisi, di tre omicidi. Io non so chi ha ucciso Cockerell, ma si può presumere che sia la stessa persona che ha ucciso George Jessel e Madeleine Kerr. Quindi, niente è finito, tutto è ancora in corso e, siccome si tratta di omicidi, tocca a me occuparmene». «Merda», disse Rod sottovoce. «Merda!». «Cockerell era un truffatore. Non saprei dire di che genere. Ma stava lavorando a una truffa di migliaia di sterline, connessa alla sua attività commerciale. Non era una delle vostre spie sofisticate, era un comune imbroglione, un imbroglione fatto in casa». «Però spiava? Altrimenti che cosa era andato a fare lì sotto? Non capisco», disse Rod. Ma Troy non intendeva fargli capire proprio tutto. C'erano cose che voleva dirgli e altre no. Era una questione di scelta di parole. Doveva cambiare tattica se non voleva esporsi. «Dimmi: che cos'è veramente una spia?». «Vuoi passare alla filologia?». «Abbi pazienza. Che cos'è una spia... per natura?». Rod ci pensò un momento. Intrecciò le mani, allungò le braccia e fece scrocchiare le giunture delle dita una per una. «So che è un giudizio abusato, ma le spie sono un po' delle puttane, no? Nel profondo del cuore la spia è una puttana». «E qual è la natura di una puttana? O la sua prerogativa, se preferisci?». «Ah, adesso capisco. Ti riferisci a quella vecchia massima che qualcuno ha tirato fuori alla conferenza stampa del partito conservatore: la stampa esercita il potere senza la responsabilità, e questa "è stata la prerogativa delle puttane attraverso i secoli, ah ah!"».
«D'accordo, ma, tornando a noi, direi che la puttana ha il potere senza la responsabilità e la spia ha la responsabilità senza il potere». «Adesso non ti seguo di nuovo». «Qual è il prodotto che la spia fornisce? La merce che la spia vende?». «L'informazione». «La conoscenza». «Se preferisci». «Dickens l'avrebbe definita un bene mobile. La conoscenza, per la spia, è una merce che può portare con sé, commerciare o cedere, ma che non può applicare». «Prosegui». «La conoscenza non è il potere. Quello che dice Bacone è vero a metà. La conoscenza significa il potere solo quando puoi applicarla». «Altrimenti?». «Altrimenti è un peso morto. Il destino della spia è la conoscenza impotente». «Il peso della conoscenza, è così?». «Pressappoco». «Tu come lo sai?». Una risposta sincera avrebbe potuto essere: "Lo so perché ho sposato una spia", ma la Toscà era un argomento a parte. Non era della sua posizione che Troy intendeva parlare, ma della propria e di quella di Rod. «Qualche settimana fa, mi hai detto che ero una spia». Rod aprì la bocca. Troy sapeva che la sua estrema correttezza lo avrebbe indotto a scusarsi per qualsiasi verità avesse detto. Alzò una mano perché tacesse. «Certo, ero una spia. Non posso fingere il contrario. Ma tu chi sei?». «So che vuoi dirmelo tu. Non posso certo fermarti. Quasi vorrei che tu non avessi rotto la teiera». «Una spia è qualcuno in possesso di una informazione che non ha il diritto né il potere di usare. Tu hai avuto una informazione giusta con Cockerell, ma non hai potuto rivelarla e fare il suo nome». «Non era quello che mi premeva. L'importante non era Cockerell né chi l'aveva ucciso, ma l'abuso di fiducia da parte del governo». «Sì. Tu te la sei presa con i conservatori per Cockerell, senza che fosse lui lo scopo. Hai avuto una vittoria, ma la tempesta che hai sollevato non si placherà. È un omicidio. È sempre stato un omicidio». «Non si placherà perché tu la ricordi anche a chi se la vuole dimentica-
re». Troy finse di non sentire. «La stessa tattica è applicata a Suez. Tu sai che cosa stanno progettando gli Stati Uniti, grazie alla CIA. Però te la tieni per te, anche se la notizia ti strangola. La conoscenza senza il potere. Non puoi fermare Eden, senza rivelargli la fonte delle tue informazioni. Dirò di più: tu non vuoi fermare Eden, perché vuoi che lo freghino in modo che il tuo partito si faccia avanti come il salvatore della patria». Rod sospirò profondamente. Non ci sarebbe stata una esplosione di collera e, nonostante gli fosse stata quasi suggerita, non era nemmeno in attesa tra le quinte. «Freddie, credimi, darei qualsiasi cosa per interrompere queste manovre, ma non posso. Non posso io, non può il cielo, non può l'inferno. Tutto quello che posso fare è creare un'azione di disturbo dall'esterno, facendo in modo che il mio partito ne esca immacolato e nelle condizioni di raccogliere i cocci». Troy si spinse a sedere sul bordo del divano. Rod stava chino in avanti, con i gomiti sulle ginocchia, il mento stretto in una mano. «Ma, non ti dispiace sapere?», gli chiese, quasi in un sussurro. «Non è la parola che avrei usato ieri e nemmeno cinque minuti fa», rispose Rod, «ma sì, mi dispiace». Troy si alzò. Con la testa che un po' gli girava ancora, andò in cucina. Scovò una vecchia teiera. Sapeva Dio quanto Rod si fosse meritato la sua tazza. Lo sentì sospirare ancora, oltre il sibilo leggero del bollitore. Sapeva di averlo colpito duramente, anche se il calcio che stava per dargli era rimasto un'intenzione. Gli mise davanti un altro vassoio e riempì due tazze. Il delicato profumo orientale dell'Earl Grey che aleggiava tra loro confermava l'illusione impalpabile che fossero due bravi inglesi, senza incertezze, in pace con la storia, all'ora del tè. Rod sorrise e disse: «Cerchiamo di non rompere anche queste». 72 Aveva detto delle bugie a Rod. Bugie fatte di imprecisione più che di mancanza di verità, così gli parevano, ripensandoci dopo il loro incontro. Tutto sarebbe dipeso da come Rod aveva interpretato la sua teoria del delinquente comune e della spia sofisticata. Troy aveva caricato di tutto il significato possibile i nomi, sapendo che così avrebbe distolto Rod dagli aggettivi che li accompagnavano e che veramente costituivano l'indicazione principale. Era profondamente convinto che Cockerell fosse una spia, ma
non era una spia "sofisticata". Forse era addirittura un delinquente non comune. Più erano i particolari che veniva a sapere sul suo conto e più gli sembrava che non avesse niente di comune, nonostante le apparenze. Ma era sicuro che Rod se ne fosse andato convinto che lui gli avesse detto che Cockerell non era una spia. Meno Rod sapeva, meglio era. E meno la Toscà sapeva, meglio era. Non si sentiva di affrontare spiegazioni e non poteva farsi vedere da lei con la testa avvolta in un turbante. Le telefonò. «Domani è sabato. Vieni a casa?». Meno male che glielo aveva detto, lui non sapeva neanche che giorno era. «No», rispose. «Temo che dovrò lavorare durante questo weekend». «Il prossimo?». «Sì, il prossimo va bene», mentì Troy. «Come... come te la cavi?». Sentì la frase schiantarsi come una pila di piatti che finiscono a terra. «Abbastanza bene. Vorrei che fossi qui. Ti sembra strano, vero? Una delle ragazze si è rivelata una stronza». «Chi?». «Lucinda». Troy non se ne stupì. «E il Grasso ti raccomanda di non dimenticarti che la scrofa deve fare non ho capito bene che cosa». «Il lattonzolo». «Il lattonzolo?» «La scrofa è gravida». Tacquero tutti e due. Poi lei disse: «È tutto quello che abbiamo da dirci? La scrofa è gravida? Quella schifosa scrofa è gravida?». Troy non si era mai sentito un uomo sposato. Ora non si sentiva più neanche un uomo. Lei se n'era andata da una settimana. Di più? Di meno? Non se ne ricordava. Un inferno senza sogni era un inferno senza tempo. Cominciò a chiedersi come mai avesse ancora un minimo di chiarezza mentale, quale forza motivante gli consentisse di formulare delle frasi e pronunciarle coerentemente. Si tolse la benda e la buttò nel bidone delle immondizie. Stava peggio della Toscà quando l'aveva trovata ad Amsterdam. Telefonò Jack. Parlava con una voce piatta e senza emozioni. Una telefonata di cortesia. «Ho visto Bonser. Dice di avere agito di propria iniziativa. Ha strappato
le pagine del libro di Quigley perché pensava che fosse quello che ci si aspettava da lui. Ammette di aver sbagliato. Le pagine le ha consegnate». «È un bugiardo». Jack ebbe uno scatto di collera. «Lo so che è un fottuto bugiardo! Credi che non l'abbia capito?». «Jack, volevo solo...». Ma Jack aveva riattaccato. Troy passò quasi tutta la sera al pianoforte. Debussy, Estampes. Una musica adatta a quella notte e al suo stato d'animo. Molle, fluida. Pioveva ancora. La terra rimbombava, scossa dai tuoni della collera di Zeus, la pioggia cadeva a scrosci, i fulmini squarciavano il cielo con il rumore di una tela lacerata. Quando fu stanco di Debussy passò a Bach, quei brani terribili che andavano "suonati in un'altra stanza", le Variazioni Goldberg. C'era una sola parola adatta alle Variazioni Goldberg, la luminosità. Adorava quei cambiamenti improvvisi, soprattutto tra la prima e la seconda variazione. Sentiva che gli riuscivano meglio le parti più veloci. Quelle lente no, si sentiva legato, mentre gli sarebbero servite tre mani. La difficoltà stava nel carattere della composizione. Netto, sì, staccato, ma fluido nello stesso tempo. Mentre il rombo di un tuono si allontanava in un brontolio di protesta, Troy ebbe l'impressione che qualcuno bussasse alla porta e smise di suonare. Prese dal ripiano del pianoforte la piccola pistola dorata, tirò indietro l'otturatore, sentì il piccolo tonfo del proiettile che entrava in canna. Si chiese seriamente se un colpo sparato da una pistola così piccola sarebbe riuscito a penetrare i quattro centimetri di spessore di un legno di quercia vecchio duecento anni, ma quando mise la destra sulla maniglia della porta tenne ugualmente all'altezza del torace la pistola stretta nella sinistra. Aprì una fessura e vide nel vialetto, in piedi vicino al primo gradino una figurina tutta inzuppata. La pioggia era così violenta che rimbalzava sul lastricato e dava l'impressione che lì ci fosse una piccola Afrodite nata dalla schiuma del mare, nascosta dalla foschia... e in sostanza tremante di freddo. Mentre un lampo riduceva il cielo a brandelli, la vide con chiarezza. Era Madeleine Kerr, in maglietta e blue jeans grondanti acqua. «Deve avere molto freddo», disse e aprì la porta. Lei entrò e, sulla soglia, si deterse con le mani l'acqua dalla faccia. Troy corse in bagno a prendere un asciugamano. L'acqua gocciolava sul tappeto. Troy chiuse con un calcio la porta e diede l'asciugamano alla sua ospite.
«Sa chi sono?». «Sì». «Non mi sembra sorpreso». «È da quando sono nato che mi vedo girare intorno due gemelle. So che ci può essere una persona che assomiglia esattamente a un'altra. Anche se poi la somiglianza non è mai così esatta». La ragazza aveva gli stessi capelli biondi, gli stessi occhi verde chiaro, ma, per qualche ragione che Troy non avrebbe saputo definire con precisione, era più bella di Madeleine, era veramente una bellissima ragazza. Forse l'immagine della povera orfanella bagnata aveva una suggestione particolare. Ma la differenza con la sorella, Troy se ne rese conto, stava nell'assenza di autocompiacimento. Non aveva quell'aria di chi la sa lunga. La vide passarsi una mano tra i capelli, con un gesto stanco. «Madeleine le aveva parlato di me?». «No, non l'ha neanche nominata». Troy si chinò sulla stufetta, girò la manopola e avvicinò un fiammifero. Il fuoco si accese, roseo, umano, amico. «Si sieda qui, ad asciugarsi. Preparo un po' di tè». Le mani gli tremavano mentre prendeva il barattolo, metteva il bollitore sotto il rubinetto e lo riempiva. Aveva sempre pensato che la cerimonia inglese del tè facesse guadagnare tempo alle mani nervose e alle menti tortuose. Quando il tè fu pronto e le sue mani furono di nuovo ferme, portò il vassoio in salotto. La ragazza era rannicchiata sul tappetino davanti alla stufa e, avvolta nel grande asciugamano da bagno che le aveva dato Troy, si stava togliendo i vestiti bagnati. Jeans e maglietta fumavano già sulla spalliera di una sedia. Piegò la schiena, sollevò il sedere e buttò sulla sedia anche le mutandine. Un gesto imbarazzante per qualsiasi donna che si trovasse davanti a uno sconosciuto, ma lei rivolse a Troy un sorriso dolce, senza traccia di ritrosia. Lui posò il vassoio e sedette sul bordo della sedia vicino alla stufa. La ragazza si avvicinò alla fiamma, accovacciata, si tolse l'asciugamano e, in una rapidissima visione di mani e seni, se lo mise davanti come una tendina, mentre si asciugava la faccia con la parte più in alto. Poi vi si avvolse di nuovo, si tolse il fermaglio dalla nuca e quarantacinque centimetri di capelli biondi le ricaddero sulle spalle. «Sono sua sorella», disse. «Lo so». «Mi chiamo Shirley. Shirley Foxx. Con due x».
«Io mi chiamo Troy. Quattro lettere, senza doppie». Lei sorrise e prese la tazza del tè. «Il vero nome di Madeleine era Stella. Madeleine Kerr se l'era inventato, mettendo insieme i nomi delle sue attrici preferite: Madeleine Carroll e Deborah Kerr. Le piaceva tanto Deborah Kerr». S'interruppe. Bevve un sorso di tè. «Dev'essere stato difficile per la polizia rintracciare qualcuno senza sapere come si chiamava esattamente. Ma sono riusciti a trovare me. Sono andata a identificarla». Pronunciava le vocali con un accento del nord, lo stesso accento che Troy aveva scoperto in Madeleine. Così si parlava nel Derbyshire. Dio, quante bugie gli aveva raccontato Madeleine Kerr. Shirley prese la borsetta, vi frugò per un momento e tirò fuori un piccolo portacipria color avorio. Quello che Troy aveva visto usare da Madeleine durante il viaggio da Brighton. «Quando tutto ormai era finito, quel giovane agente di Scotland Yard, quello piuttosto bello...». «L'ispettore Wildeve». «Sì, lui. Ha detto che potevo prendere gli effetti personali di Stella. Così li ha chiamati: effetti personali. Insieme c'era anche questo». Aprì il portacipria. Si guardò nello specchietto, poi guardò Troy. «Quando eravamo piccole, undici o dodici anni, alla fine della guerra, una zia ce ne aveva regalato uno per ciascuna. Non si trovava niente, allora, e questo li faceva apparire più preziosi, anche se la nostra mamma aveva detto che eravamo troppo piccole per usare la cipria e papà si era arrabbiato al pensiero che le sue bambine potessero truccarsi. Quindi per anni li abbiamo tenuti senza adoperarli. Sono diventati il nostro segreto, perché, vede, se lei...». Schiacciò il portacipria su un lato e lo specchietto scattò in avanti su una molla. Lei lo voltò per farglielo vedere. Nello spazio tra il coperchio e lo specchietto c'era il suo biglietto da visita, quello che aveva preso Madeleine. E dietro, attaccata con un nastro adesivo, una piccola chiave come quelle per aprire le porte degli appartamenti. «Era il nostro nascondiglio. Ci mettevamo i segreti, le cose che volevamo tenere per noi o anche l'una per l'altra. Così ho capito. Lei ha messo lì il suo biglietto perché io lo trovassi. E la chiave perché la dessi a lei». Troy staccò la chiave dal nastro adesivo. Su un lato era incisa una K stilizzata e dall'altra una M, con lo stesso carattere elaborato. Sotto la K c'era un numero così piccolo che per leggerlo ci sarebbe voluta la lente d'ingrandimento. Jack aveva detto che l'assassino aveva preso la borsetta di
Madeleine, l'aveva svuotata nei boschi e poi abbandonata. Madeleine, lui l'aveva vista, si era messa il portacipria in tasca. Doveva essere lì quando la polizia locale aveva esaminato il cadavere. L'assassino non l'aveva trovato. «L'ha mostrato all'ispettore Wildeve?». Shirley scosse la testa, senza incertezze, senza paura di aver fatto male. «Era destinato solo ai suoi occhi». Troy avrebbe voluto dirle che stava riponendo troppa fiducia in lui, basandosi solo su un gesto compiuto da sua sorella. Ma pensò che, dopotutto, lui era il minore di quattro fratelli, lasciato spesso ai margini in una grande famiglia, come un avverbio in più in fondo a una frase. Non aveva mai sperimentato la confidenza, i pensieri comuni che esistono tra fratelli. Forse anche a Rod era successa la stessa cosa; ormai, da uomini maturi, si sforzavano di coltivare una parvenza di vicendevole fiducia che non avevano avuto da bambini, oscillando continuamente tra le apprensioni reciproche, aggravate dalle sue personali evasioni. Le sue sorelle, nell'intimità del loro gemellaggio, avevano un linguaggio comune, esclusivo, incomprensibile per chiunque altro, una mutua, totale sincerità, una solidarietà contro il mondo, tanto da cospirare alla manipolazione dei loro mariti creduloni per nascondere i rispettivi adulteri. Forse quella ragazza trasferiva su di lui la fiducia che aveva avuto in sua sorella. Avrebbe fatto bene a stare attento. Sapeva di avere condotto Madeleine Kerr alla morte, sapeva con certezza che chi l'aveva uccisa l'aveva trovata solo perché lui stesso gli aveva insegnato la strada. Era stata una delle stupidaggini più grosse della sua vita. Poteva non dirlo a Jack, anche se prima o poi lo avrebbe scoperto da solo, ma non doveva assolutamente lasciare che quella ragazza capisse di aver riposto male la sua fiducia. «Lo sa a che cosa serve questa chiave?». «Sì», rispose Troy, «serve ad aprire una cassetta di sicurezza in una banca di Hanover Square». «Come la District, o la National Provincial?». «Non esattamente. È una banca privata, la Mullins Kelleher». Shirley sembrò impressionata dalla prontezza con la quale le aveva risposto. «Fa parte del suo lavoro sapere tutte queste cose?». «No, ma per caso anch'io ho un conto in quella banca». «So che è importante, ma non so perché». Troy lo sapeva. Per quello Madeleine aveva voluto andare a Londra prima di parlare ancora con lui. Nella cassetta di sicurezza, per qualche ra-
gione ancora sconosciuta, c'era qualcosa di vitale, che condizionava quello che lei intendeva dirgli. Mise la chiave sulla mensola del camino, con tutta la noncuranza che riuscì a dimostrare. Il tintinnio del metallo sul legno incrinò la sua falsa disinvoltura come un bisbiglio nel silenzio della cattedrale di St Paul. «Ha fame? Sono un bravo cuoco». «E io sono un'ottima forchetta». Troy andò in cucina. La credenza era vuota. Su uno scaffale c'era un grosso barattolo di fagioli Heinz, uno sfilatino raffermo nella scatola del pane e un vasetto di burro di arachidi, lasciato dalla Toscà. Frugando nei cassetti, trovò anche una tavoletta di Mars, che risaliva a una data imprecisabile. Da vari giorni non comprava da mangiare, anzi da vari giorni non mangiava se non dei rimasugli, tanto da essersi ridotto all'ultima spiaggia dello scapolo: il barattolo di fagioli. Fu una cena quasi adolescenziale, servita nella luce migliore. Fagioli su pane tostato con burro di arachidi, ma porcellane e argenteria di famiglia, con ogni tipo di specialità sottaceto: Pan Yan, senape, Major Grey's e Branston, con il coronamento di una pièce de résistance, il chutney, la salsa indiana a base di spezie, frutta e pomodori verdi, fatta in casa dalle sue sorelle, e, come dessert, mezza tavoletta di Mars per ciascuno e la scelta tra due tè, Lapsang e Darjeeling. «Non rida», disse Troy. Ma, se non l'avesse detto, lei probabilmente non avrebbe riso, Perché le buone maniere avrebbero prevalso sulla constatazione all'assurdità di quella cena. Quando smise di ridere, mangiò di buon appetito e affermò di non avere diviso con nessuno una tavoletta di Mars da quando i dolci non erano più razionati. «Ma deve avere diviso molte merende», osservo Troy. «Perché avevo una sorella gemella? Sì, abbiamo sempre diviso tutto. Finché non è comparso...». Lasciò la frase in sospeso, ma il nome che non aveva detto era, ovviamente, quello di Cockerell. «Quando si sono conosciuti?». Lei raccolse il suggerimento. Scostò il piatto, appallottolò l'involucro del Mars, si diede una scossa ai capelli, si avvicinò un po' di più alla stufa, con gli occhi rivolti alla fiamma. «È difficile dirlo. Non ricordo molto del tempo in cui Arnold non aveva ancora le mani in pasta in tutta la nostra cittadina. Appena arrivato, credo
dieci anni fa o forse più, era, dicono, un po' come il pesce grosso nello stagno piccolo. I miei genitori avevano comprato da lui il loro appartamentino di tre stanze. A rate. Luce, gas, riscaldamento. Era il 1947 o '48. Stella e io eravamo lì quando ce l'ha consegnato. Avevamo tredici o quattordici anni. Nemmeno Arnold Cockerell avrebbe corteggiato una quattordicenne. Non davanti a suo padre, almeno». «Era un tipo duro?». «Duro è dir poco. Veniva dall'Ulster. Un presbiteriano. Non gli era rimasto niente della fede religiosa, solo il rigore. Noi eravamo due ragazze piuttosto sveglie. Avevamo avuto una borsa di studio per la scuola secondaria. Se avessimo ascoltato papà a quindici anni saremmo andate a lavorare e avremmo portato a casa uno stipendio, finché un marito non fosse arrivato a togliergli l'ingombro. Ma la mamma era diversa. Ci ha fatto girare il Derbyshire in lungo e in largo, era una laburista della vecchia guardia, per lei l'istruzione era tutto. Ci siamo iscritte ciascuna a otto corsi per ragazzi che avessero finito le superiori e li abbiamo superati tutti. Dopo siamo andate a un istituto commerciale di Nottingham: stenografia, dattilografia, francese e tedesco. Fin dove arrivavano i nostri orizzonti». Distolse gli occhi dal fuoco e guardò Troy, per cogliere l'impressione che avevano lasciato le sue parole. «Piccoli orizzonti, vero? Quando si decide di arrivare un gradino più su dei propri genitori si è già fissato il proprio livello nella vita. Insomma, non si pensa di poter fare qualcosa di importante o diventare qualcuno di importante, ci si accontenta di migliorare un pochino». Shirley Foxx si passò una mano sulla nuca e inclinò la testa leggermente, ad angolo, per asciugare una parte di capelli che era rimasta ancora bagnata vicino al fuoco. Poi tolse dalla borsetta una spazzola e cominciò a spazzolarli con dei colpi lunghi e tutti uguali. «Nostro padre è morto, ucciso da un attacco di cuore a quarantadue anni. Noi eravamo ancora all'istituto commerciale. Era il 1951. Eravamo delle tenere diciassettenni. Stella lavorava con Cockerell, io in una cooperativa». Troy taceva, ma lei capì che avrebbe voluto dire qualcosa. «Non è questo che le ha raccontato Stella, vero? Niente di quello che le ho appena detto». «No. Tutto diverso». «Papà veterinario nel Devon? O pastore nello Shropshire?». «Medico condotto nel Berkshire, se non ricordo male». «Questa è nuova. Non l'avevo mai sentita. Stella era molto bugiarda».
«Comincio a rendermene conto». «Io quasi l'ammiro per questo. Se i romanzi sono meglio della realtà, si può dedurne...». «La prego, prosegua». «Quando nostro padre è morto, la vita della mamma si è spezzata. È diventata insopportabile, ma, a quanto sembra, per lei era la vita e senza di lui non aveva più voglia di vivere. Si è immediatamente trasformata in una invalida. Sempre a letto. Poi, nell'autunno dell'anno successivo, Stella ci ha annunciato che se ne sarebbe andata. A me ha detto la verità: Cockerell le aveva offerto una casa tutta per sé - un "nido d'amore", come l'avrebbe potuto definire il "News of the World"; agli altri ha raccontato di aver trovato un altro posto di segretaria a Londra. Io non mi sono stupita della sua decisione. Fin dal primo giorno aveva accontentato Cockerell in tutto. Facevano l'amore sui campioni di moquette, con la luce spenta, dopo le ore di ufficio. O, quando lui era in vena di spavalderia, nel retro del magazzino, durante l'intervallo per il pranzo». «Oh buon Dio», si lasciò sfuggire Troy, involontariamente. «E la moglie di Cockerell lo sapeva?». «Non credo. Ma non l'ho mai conosciuta. Solo di vista. Sarebbe stato difficile il contrario, in una città così piccola. Però non le ho mai parlato, Stella diceva che non passava mai dalle parti del negozio. Se avesse avuto dei sospetti, avrebbe potuto fermarmi per strada, ci siamo incontrate almeno una volta alla settimana negli ultimi quattro anni. Ma non mi ha mai rivolto la parola, nemmeno uno sguardo. Ho detto a Stella che faceva una sciocchezza, ma non mi ha ascoltato. Le ho fatto notare che mi lasciava con una invalida e un solo stipendio che entrava in casa. Ha cominciato a piangere e a gemere, ma credo che non gliene importasse niente. In ottobre è andata a vivere a Brighton. Io ho lasciato la cooperativa e sono andata a lavorare al cotonificio. Si guadagnava di più al telaio che a stenografare e noi avevamo bisogno di soldi». «È mai andata a trovarla a Brighton?». «No. Ci trovavamo sempre a Londra». «Ha un'idea di che cosa stesse combinando?». «No. Ma questa è una domanda tendenziosa e qualsiasi cosa rispondessi equivarrebbe ad ammettere che Madeleine qualcosa stava combinando. È così o no?». L'aveva aggredito come un Consigliere della regina che avesse portato la sua prova irrefutabile alla sbarra.
«Sì, più o meno è così». «Lasci che le faccia io una domanda tendenziosa». «L'ascolto». Lei lo guardò negli occhi. «Mia sorella ha tentato... con lei?». «Che cosa glielo fa pensare?» «Beh, so com'era fatta mia sorella. E lei è proprio...», si arrotolò su un dito una ciocca di capelli, «...il suo tipo. Non trovo un modo migliore per esprimermi». «Il suo tipo?». «Sa, lei è un po' come Robert Donat, quello del Club dei 39, che passa la notte ammanettato a Madeleine Carroll. Meglio, è la copia esatta di James Mason. Il fuggiasco, La bella avventuriera... E a mia sorella piaceva da impazzire James Mason». «Strano», osservò Troy. «Le piaceva un tipo d'uomo e ne ha scelto uno completamente opposto. Cockerell somigliava di più a Edward Everett Horton». La Foxx sorrise, poi rise, ma non seguì la strada sulla quale Troy l'aveva indirizzata. «Però ha tentato, vero, con lei?». «Sì». «E...». «E non è successo niente». «Davvero? Non le piaceva mia sorella?». «Certo che mi piaceva. Ma era ubriaca... completamente ubriaca». «E lei era in servizio?». «Mi fa piacere vedere che ha il quadro della situazione». «Ma adesso non è in servizio». Troy tacque. «E io, mi creda, non sono ubriaca». Troy seguito a tacere. La Foxx si attorcigliò i capelli su tutte e due le mani, li arruffò creando una specie di alveare. Sembravano il segno della sua incertezza. In mezz'ora se li era tirati su, giù, li aveva raccolti sulla spalla sinistra, poi sulla destra, con una ciocca si era fatta un paio di baffi, ci giocava continuamente. Forse era solo molto disinvolta e Troy avrebbe dovuto invidiarla. Lei lasciò cadere i capelli, lasciò cadere l'asciugamano e intrecciò le mani dietro la nuca di Troy. A lui parve che da un pezzo nessuno gli avesse dato un bacio, tantomeno appassionato come quello. Poi lei si scostò, gli posò un dito all'angolo della bocca, gli tracciò col bordo dell'unghia il con-
torno delle labbra. «Andiamo di sopra», disse. «La scopata in salotto sarebbe sconveniente». 73 L'alba era la parte del giorno che non riusciva a sopportare. Mancava all'alba lo splendore appagante, generoso del tramonto, che placava il cuore... il sospiro orizzontale. L'alba aggrediva, bruciava, si manifestava con prepotenza. Come da secoli si diceva giustamente, la luce dell'alba erompeva. Si trovò, tra i relitti di un naufragio, disteso accanto a una ragazza bionda, eccezionalmente bella, che teneva la fronte appoggiata sul suo petto. Si stiracchiò, mentre lui si alzava, si girò, senza svegliarsi, facendo cadere le coperte mostrando la curva della schiena, la rotondità del sedere mentre allontanava l'ultimo lembo di lenzuolo. Troy scese in cucina senza far rumore. Le piastrelle erano fredde sotto i suoi piedi nudi, nell'aria c'era ancora l'odore del temporale. Trovò mezza bottiglia ormai svaporata di Tizer e si fermò a berla con la schiena appoggiata alla porta. Era, con ogni probabilità, incantato, quasi certamente inquieto e imbarazzato e, sa Dio, forse addirittura innamorato. Ma sapeva che, al di là di un dubbio che gli ronzava all'orecchio, prima di sera sarebbe impazzito un'altra volta. Si mise a sedere per terra, ancora con la bottiglia di Tizer in mano. Le piastrelle, fredde sotto i piedi, così erano ancora più fredde. Finì quel poco che c'era nella bottiglia e la guardò rotolare nell'angolo buio sotto il lavandino, poi si voltò di fianco e si allungò sul pavimento. Doveva afferrare il pensiero ed elaborarlo. O lasciare che gli sfuggisse. Aveva quarantun anni. Si era appena fatto sedurre da una ragazza che ne aveva la metà. Pazzo. Più pazzo. Centomila volte pazzo. 74 Più tardi l'accompagnò alla stazione. Sempre St Pancras. Salì la rampa e fermò la Bentley vicino all'arco di mattoni rossi che portava, sotto l'albergo neogotico, alla tettoia di ferro e vetro, annerita dalla fuliggine.
Con la mano sulla portiera, un piede a terra e un tassista furibondo che suonava il clacson dietro di loro, la Foxx gli disse: «Mi racconterai tutto, vero? Non lascerai che questa storia finisca in niente? Mi farai sapere?». «Qualunque cosa scopra, te la dirò». Lei aveva i muscoli tesi per la pressione contro la portiera, poi si rilassò. «Sei sposato, vero?», gli chiese. «Che cosa te lo fa pensare?». «Quasi tutti gli uomini sono sposati. O con una donna o con il loro lavoro». «E io?». «Con tutti e due». 75 Dickie Mullins era il più tranquillo tra loro quattro. Il più e, nello stesso tempo, il meno fantasioso del quartetto formato da Charlie, Gus, Troy e lui, Dickie. Topo di biblioteca nato, lontano tanto dalle audacie di Gus o Charlie quanto dalla ossessiva tendenza all'introspezione di Troy. Si era sempre uniformato a una condotta basata sulla minima resistenza. Si era iscritto all'università a diciotto anni e, dopo un anno a Harvard, a ventidue, era entrato a far parte dell'attività di famiglia. La famiglia possedeva una delle più vecchie banche private di Londra, con una sola sede, in Hanover Square, a un passo da Regent Street, così piccola che si rischiava di non vederla o di scambiarla per una casa privata A Dickie, Troy lo sapeva, non importava niente della banca. Aveva accettato che diventasse il suo lavoro per adempiere agli obblighi verso la famiglia, sempre secondo il principio della minima resistenza, e anche perché gli lasciava molte ore libere da dedicare al suo primo amore, la storia militare, nell'ambito della quale, durante gli ultimi dieci anni, aveva prodotto uno studio esauriente sulla Campagna di Spagna e una dettagliata biografia del maresciallo francese Michel Ney. Solo raramente la visita di qualcuno dei suoi clienti, sempre troppo ricchi, veniva a distoglierlo dallo studio. Il prestigio di quella banca diceva non poco sull'entità delle truffe di Cockerell, che gli avevano consentito di aprirvi un conto a nome della sua amante, senza il quale Madeleine non avrebbe potuto usufruire di una cassetta di sicurezza. Troy vedeva Dickie solo di rado, ma sapeva che era solo per colpa sua. «Freddie, che sorpresa! Come mai sei qui?».
Dickie si era alzato, da dietro una pila di libri, e gli tendeva la mano. «Ragioni di lavoro, Dickie». «No! Devo recitare la parte del banchiere? Che succede? Le tue sorelle hanno scialacquato il patrimonio di famiglia?». Troy prese la foto della polizia tredici diciotto che teneva in cartella e la mise sul libro che Dickie teneva sulla scrivania. «Ahi ahi», disse Dickie. «È morta, vero? Ne ho visti tanti così quando ero nella contraerea, durante la guerra. Senza un segno, ma morti che più morti non si può». Troy appoggiò sulla fotografia la chiave della Mullins Kelleher. Dickie osservò quei due elementi sovrapposti e prese, di dietro le sue spalle, una copia dell'"Evening Standard" di quattro giorni prima. «DELITTO SULLA LINEA FERROVIARIA BRIGHTON-LONDRA». «È lei, vero Freddie? Hanno trovato una sconosciuta morta sul treno che proveniva da Brighton. Sei tu il poliziotto ancora senza nome, ferito nell'inseguire l'assassino?». «Credo proprio di sì, Dickie. Ho bisogno di sapere che cosa c'è in quella cassetta di sicurezza. È a nome di Madeleine, no?». «Sì. Signora Madeleine Kerr. Il signor Kerr non si è mai fatto vedere. Immagino che tu non abbia un mandato». «Non per il momento». «O forse mai?». Troy si strinse nelle spalle. «Ho l'autorizzazione della parente più prossima di Madeleine». «Un'autorizzazione scritta?». Troy scosse la testa. «Il problema è l'autenticazione, che porta via più di quattro giorni». «Lei è morta, Dickie, e io ho la chiave». «Maledizione, Freddie! Maledizione!». «Un gesto da vecchio amico?». Dickie si mosse, dietro la sua montagna di libri, e si infilò la giacca nera che doveva servire a farlo assomigliare a un banchiere. «Mi serve una seconda chiave. Vieni». Troy lo seguì nel caveau, due piani più sotto. Attraverso una porta di acciaio e un'altra, a sbarre, entrarono in una stanza dove c'era un migliaio di sportelli. A metà di una parete, Dickie inserì la chiave che aveva portato con sé e fece un cenno a Troy. Girarono tutte e due le chiavi contemporaneamente e
lo sportello si aprì. Dietro c'era la maniglia di una cassetta di acciaio lunga e stretta. Troy alzò il coperchio. Dentro c'era solo una busta, indirizzata semplicemente a "Shirley". Troy l'aprì e trovò un foglio di carta formato protocollo. Un foglio dove non si capiva niente. Un pasticcio di numeri. Sul fondo, erano state fissate col solito nastro adesivo cinque piccole chiavi uguali a quella che lui aveva appena usato per aprire lo sportello. «Qualcosa non va, Freddie?», chiese Dickie. Troy piegò il foglio. «Devo portarlo via». Dickie rimise a posto la cassetta e chiuse lo sportello. «Mi chiedi molto, Freddie». «Senti, Madeleine aveva parecchi soldi sul suo conto?». «Adesso esageri. Questo proprio non te lo posso dire». «Fin dove si spinge la clemenza di un vecchio amico?». «Non fino a questo punto. Mi farai buttare fuori. A proposito di vecchi amici, hai visto Charlie recentemente?». «No, non l'ho visto», rispose Troy. Aveva cercato di telefonare non molto tempo dopo il ritorno da Vienna. Aveva delle notizie da dargli. Notizie che sentiva di dover dividere col suo vecchio amico. Ora non si trattava di notizie e sentiva di non dover dividere niente con nessuno. Mentre risalivano le scale, Dickie gli fece molte domande, in generale, su quello che c'era di nuovo, ma lui gli rispose, in tono superficiale, che «c'erano sempre le stesse cose». Capì di averlo deluso. 76 Troy lasciò l'automobile vicino alla fermata della metropolitana di St James' Park ed entrò nella stazione per telefonare da una cabina. Fece il numero del proprio ufficio a Scotland Yard. Se avesse sentito la voce di Jack, avrebbe schiacciato il pulsante per riprendersi le monetine e avrebbe richiamato più tardi. Ma fu Clark a rispondere. «È solo?». «Sì, signore. L'ispettore Wildeve è in tribunale stamattina, all'Old Bailey». «Lei se ne intende di scrittura in codice?». «Vuol dire messaggi in linguaggio cifrato e cose del genere?».
«Sì». «Sì, sono abilitato per questo lavoro. Ho seguito un corso di crittografia presso i servizi segreti dell'esercito a Camberley, nel 1947. E mi è capitato anche di fare un corso di aggiornamento in Germania». E, pensò Troy, da vent'anni fai le parole incrociate del "Times". «Bene. Vengo subito». Dieci minuti dopo Troy mise davanti a Clark, sulla scrivania, il documento che aveva preso alla Mullins Kelleher. Clark lo guardò per meno di un minuto e disse: «Facile. Basta una semplice sostituzione. Al posto dei numeri vanno messe le lettere. Bisogna sapere, però, da che punto dell'alfabeto sono partiti. Nessuno è così scemo da far corrispondere la A all'uno, la B al due, a meno che non abbia ancora compiuto dodici anni. Mi serve solo un po' di tempo senza che nessuno mi interrompa». Accennò con la testa alla scrivania di Wildeve, per invitare Troy ad andare a sedersi lì. «Mi scusi se parlo chiaro, signore». «Certo». Ma Clark volle essere ancora più chiaro. «Perché, signore, non va a casa a leggere un libro?», disse e aprì il primo cassetto della sua scrivania. o meglio della scrivania di Troy. «Prenda pure quello che vuole». Non è una cattiva idea, pensò Troy, scelse Lolita e se lo mise nella tasca della giacca. Poi fece una breve telefonata a Nikolaj, salutò Clark e si avviò verso Knightsbridge. Jack non avrebbe avuto modo di scoprire che lui era stato a Scotland Yard a meno che non glielo dicessero gli agenti in divisa all'ingresso, ma era improbabile, perché nessuno di loro sapeva che era a casa in permesso per malattia e quindi la sua presenza non avrebbe suscitato curiosità. Nikolaj lo aspettava davanti all'Imperial College. Magro e grigio, sembrava più piccolo che mai, senza cappello e senza cappotto nel sole d'estate. I lembi della giacca, larga, a doppio petto, che teneva slacciata, gli stavano scostati dal corpo, quasi a sottolinearne la esilità. Senza il peso invernale del cappotto di astrakan, a Troy parve quasi privo di volume, un vecchio raggrinzito. «Freddie, hai un incredibile istinto poliziesco. Il mio stomaco brontola e mi dice che non riuscirò ad aspettare l'ora di mettermi a tavola e tu telefoni e mi inviti a pranzo, anche se è ancora presto. Lascia qui la tua ridicola automobile e andiamocene a piedi per Exhibition Road, rendendo omaggio alla memoria del principe Alberto». Si mise un paio di antiquati occhiali da sole, con le lenti che sembravano
due pezzi di lavagna e s'incamminò verso sud. Troy si sorprese a chiedersi se non ci fosse qualcosa di diverso nel suo passo. Forse il vecchio Nikolaj cominciava a essere un po' stanco. Non sembrava molto interessato alle benemerenze del principe Alberto, gli premeva di più qualche pettegolezzo familiare e, visto che Troy non ne aveva neanche uno da raccontargli, provvide lui stesso a scaricargliene addosso una parte. «Che sta succedendo a tua sorella?». «Quale?». «Sasha». «Non so. È da tanto che non la vedo». «Non fa che andare avanti e indietro, avanti e indietro. Dire che è nervosa è poco. Oscilla continuamente tra l'euforia e la depressione». A Troy pareva che Sasha fosse sempre stata così e non capiva perché Nikolaj gliene parlasse. «Non so. Ha quarantasei anni. Pensi che...». «Non chiederlo a me, sono un fisico, non so niente di biologia». Attraversarono Cromwell Road, passarono davanti al Victoria & Albert Museum. Nikolaj indicò la piccola isola pedonale di vetro verde scuro, che dava luce al tunnel di sotto. «Ti ricordi?», disse. «Attraversavamo il tunnel uscendo dalla metropolitana e poi salivamo i gradini di corsa e sbucavamo all'aperto, fingendo che per magia fossimo stati scagliati dalle viscere della terra in mezzo al traffico di Londra». Era una di quelle divagazioni della memoria che erano state una caratteristica del nonno di Troy e ora, con l'età, erano diventate ancora più frequenti in Nikolaj. Troy finalmente capì dove erano diretti: al caffè polacco, in fondo alla strada. Era vicino, ormai. Nikolaj conosceva bene il polacco e quel caffè, a circa duecento metri dal suo laboratorio, sostituiva qualche locale russo più difficile da raggiungere e gli offriva, inoltre, una scelta di decine di pasticcini appiccicosi e disgustosamente dolci. Troy aveva mangiato spesso lì, con lui, anche se gli piaceva poco la cucina polacca e sospettava che i clienti diffidassero di quel vecchio che parlava la loro lingua con un forte accento russo. Mangiarono un orrido borsch, poi Nikolaj esibì il suo pessimo polacco e ordinò un pirogi. Poi fagottini fritti con salmone e panna acida. Пирожки. Pirozhki. La parola in codice che il funzionario al seguito di Kruscev aveva dato a Troy durante il ricevimento all'ambasciata. «Nikolaj», disse Troy, «perché qualcuno avrebbe dovuto spiare l'Or-
dzhonikidze?». «Chi intendi dicendo "qualcuno"?». «Gli inglesi, in generale». Nikolaj si mise in bocca un pezzetto di pirozhki, lo masticò, poi, stringendosi nelle spalle, disse: «Non ne vedrei la ragione». «Non potresti esprimerti un po' più diffusamente? O devo aspettare di vederti mangiare tutto il menu?». «Gli inglesi, anzi, avrò la sfrontatezza di dire noi, non abbiamo nessuna ragione di spiare l'Ordzhonikidze perché sappiamo già tutto quello che c'è da sapere, e lo sappiamo fin dal 1953. È un incrociatore della stessa categoria dello Sverdlov, che quell'anno era andato dal Baltico a Odessa. È stato ancorato a Spithead come testimonianza sovietica durante l'incoronazione. L'abbiamo esaminato di nuovo a Malta e anche l'anno scorso, a Portsmouth. Non c'è niente che non sappiamo. L'Ordzhonikidze. Una nave tipica di quella categoria. Ce n'è almeno un'altra decina. Se ci tieni, potrei mostrarti la pianta del ponte». «Sapevi che Kruscev aveva proposto di vendere l'Ordzhonikidze alla marina inglese, quando eravamo a Greenwich?». «Forse era uno scherzo». «Certo che era uno scherzo, ma i suoi scherzi non sono mai stati del tutto gratuiti. Se non altro avrà voluto lasciare intendere che è una nave ormai vecchia. Ma se è così, perché qualcuno ha voluto spiarla?». «Non lo so. Kruscev ha permesso a un ufficiale della marina inglese di viaggiare con loro dal Baltico e, ammesso che si debba credere ai pettegolezzi dell'MI5, i russi si sono vantati di averlo fatto ubriacare per il compleanno di Kruscev. Fatto sta che lui ha girato per tutta la nave come voleva. Quando sono venuti qui in visita, l'hanno aperta ai turisti durante il weekend. Non hanno segreti. Noi sappiamo che non hanno segreti. E loro sanno che noi lo sappiamo». «Eppure Cockerell ha spiato la nave». «Così mi hanno detto. Tu sei certo, a proposito, che fosse Cockerell?». «Ho identificato personalmente il cadavere». Nikolaj si strinse di nuovo nelle spalle. «Ti hanno mostrato la sua attrezzatura?». «La sua attrezzatura?». «Il suo equipaggiamento da subacqueo. Era, se le mie informazioni sono attendibili, un modello vecchio di dieci anni. Superato. È dalla fine della guerra che i sommozzatori della marina non lo usano più. Tutto diverso da
quelli che fanno adesso». «Perché, come li fanno adesso?». «Con un sistema di ossigenazione a circuito chiuso». «Cioè?». «È come un condensatore su un motore a vapore. Non lascia traccia di bollicine. Un sommozzatore diventa praticamente invisibile». «Ma qualcuno l'ha visto. Altrimenti non saremmo qui a parlarne. Non mi hanno mostrato niente, ma i conti tornano. Cockerell stesso ha dieci anni di troppo per quel lavoro. Non ha più il fisico adatto. Ed è stato anche tanto stupido da tentare una immersione a stomaco pieno. Tutto sbagliato. Un tipo di spionaggio alla Alice nel paese delle meraviglie. Una guerra da Alice nello specchio». «Effettivamente è così. Prendi anche tu una cheesecake?». Troy era stupito che Nikolaj fosse così magro, lo aveva sempre visto mangiare per due. Forse il cibo gli provocava un effetto paradosso. Era molto più giovane di suo padre, ma doveva avere ormai settantacinque o settantasei anni. Per quanto tempo ancora avrebbe giocato alla guerra? In quel momento, però, gli era grato di quella sua passione. «Non ti sembra una iniziativa irresponsabile? Condotta non da spie ma da dilettanti?». «Sì, ma i giornali e le mie fonti non la pensano così. Viene ritenuta una operazione ufficiale. E inoltre, il governo di sua maestà lo ha ammesso». «Questo è l'aspetto più strano. Perché ammettere? Perché non dire che non era vero? Finché il corpo non era stato ritrovato, poteva trattarsi solo di una montatura da parte dei russi. E anche dopo la scoperta del cadavere, si poteva ancora negare». «No. A Fleet Street lo sapevano. Sapevano che Cockerell era scomparso. Era facile trarre conclusioni giuste e conclusioni sbagliate. E poi, se il cadavere non è quello di Cockerell, Cockerell dov'è?». «Sarebbe stato possibile chiudere la bocca a Fleet Street ordinando il silenzio stampa». «Sì, ma c'è la questione di tuo fratello. Rod, con un'azione quasi esclusivamente personale, ha forzato il governo ad ammettere. In realtà, Sir Norman Spofford... sai chi è?». «No». «In questo momento ci troviamo nella sua circoscrizione elettorale. Ogni tanto lo vedo. È un conservatore che è al parlamento senza qualifiche speciali, decisamente contrario a Eden. Bene. Spofford mi ha detto che la re-
sponsabilità di aver costretto Eden a parlare con chiarezza era, quasi certamente, solo di Rod. E Rod non è soggetto al silenzio stampa. Nessuno poteva imporgli di tacere. Anzi, l'ammissione è stata forse l'unico modo per metterlo tranquillo. Lasciare che le voci circolassero e limitarsi a smentire sarebbe stata, probabilmente, la soluzione peggiore. Qualcuno, nelle alte sfere, ha deciso di porre fine alle diatribe con una dichiarazione che servisse a contenerle, a limitare il danno. La mia opinione è che fosse, tra tutte, la bugia più grossa. Però plausibile. Mentre la versione secondo la quale Cockerell potrebbe avere agito da solo non lo è. Ma qualcuno te l'ha confermato? Tu sai con certezza che Cockerell era un furfante?». «Sì», rispose Troy. «Va bene. Te l'ha detto una persona di cui ti fidi. No, non dirmi chi è, non lo voglio sapere. Siamo già troppo coinvolti in questa storia. È quasi un affare di famiglia. Rod si dà molto da fare. E questo mi fa dire che se risultasse che tu sei stato l'ultimo a vedere Cockerell vivo, qualcuno potrebbe mettere insieme due più due, la tua partecipazione e quella di Rod, e fare cinque». Nikolaj mangiava una grossa fetta di cheesecake. Troy beveva a piccoli sorsi il tè russo e pensava, come sempre quando cedeva alla tradizione, che lo avrebbe preferito col latte e che, nonostante le loro manchevolezze, che erano milioni, gli inglesi erano ancora l'unica tribù capace di produrre una buona tazza di tè. «Che cosa intendevi», Nikolaj si soffiò via dalla barba una polverina di zucchero a velo, mentre coglieva nell'aria parole che Troy credeva fossero cadute nel vuoto, «quando hai parlato di una "manovra russa"?». Troy ripensò a quel: «Procedete». «Secondo me», cominciò lentamente, «Kruscev voleva che succedesse qualcosa, ma l'incidente è capitato già bello e pronto e deve averlo irritato non poco constatare che non si era trasformato in una operazione di propaganda». Nikolaj chiamò la cameriera e ordinò un'altra fetta di torta. «Ti sei trasformato improvvisamente in un esperto in supposizioni. Nel gergo calcistico sarebbe un autogol. Per dirla in un altro modo il primo ministro si è sparato nei piedi ormai tante volte che il cuoco del numero 10 di Downing Street usa le sue scarpe per scolare le verdure». In strada, mentre stavano per tornare sui loro passi, Nikolaj si rimise gli occhiali da sole, diede un'occhiata al cielo, decise che non gli servivano e li infilò di nuovo nel taschino della giacca. Poi si avviò. Ora il passo di en-
trambi era quello di una normale passeggiata. Nikolaj riprese le parole di Troy. «Hai detto che non vedi Sasha da un po' di tempo?». Troy non rispose. Aveva sentito, sulla superficie sottile della propria tranquillità, uno scricchiolio allarmante. Nikolaj camminava un po' avanti a lui, come se si buttasse le parole dietro le spalle. «Eppure lei passa tutti i weekend a Mimram. Non è così?». Tacque. Troy non rispose. «Dunque non sei stato a Mimram. Non hai visto tua moglie». Troy gli si mise accanto. Per nessuna ragione gli avrebbe parlato avendolo di spalle. «Se stai per farmi una predica del genere "sposati in fretta, a pentirsi c'è sempre tempo", o "mogli e buoi dei paesi tuoi", sappi che non ho voglia di ascoltarti». Nikolaj lo guardò, con un accenno di malizia negli occhi. «Non ci penso nemmeno. Mi dispiaceva per me. La prima volta che ho visto tua moglie avrei voluto avere trent'anni di meno». 77 Disteso sul letto, aprì Lolita alla prima pagina. Lesse l'inizio: «Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi», ma alla seconda invocazione, Loliii-ta, si dichiarò sconfitto. Prese Casinò Royal dal tavolino vicino al letto, quello che aveva rubato dall'ufficio di Cockerell e decise di rileggerlo. Questa volta era meno disturbato dalla prosa elaborata, quasi surreale dell'autore che non dalla figura del lettore dal quale era stato preceduto, il defunto comandante Cockerell. Era così che vedeva se stesso? Levigato, affascinante, vulnerabile in modo brutale e tipicamente maschile? Guardò la copertina. Sgargiante, violenta, con uno schizzo in bianco e nero di James Bond nella parte inferiore. Cockerell, con la sua faccia ambigua, i baffetti sottili, l'aria da piccolo egoista, era tutto diverso. Riconobbe che era una lettura piacevole e si ripromise di prendere altri libri di Fleming la prossima volta che fosse andato in Charing Cross Road. Il soggetto e il ritmo della narrazione di Casinò Royal gli faceva venire in mente una frase di Marlowe: "... ma questo avveniva in un altro paese e, inoltre, la ragazza è morta". Le ragazze morte erano particolarmente utili alle trame dei romanzi, soprattutto se, come in quelli di Fleming, l'eroe doveva essere libero da legami e tormentato in fondo all'anima. Quanto alle torture corporali, sapeva Dio se Fleming non ne infliggeva abbastanza al suo Bond. Troy lesse con una smorfia di raccapriccio la scena in cui veni-
va picchiato sui testicoli con un battipanni di vimini. Quale tipo di mentalità concepiva questi particolari? Quale tipo di uomo Arnold Cockerell pensava di essere, dentro di sé? Aspirava alla tortura, in quella sua squallida, duplice esistenza? A piangere la morte di una donna, mentre scopava le altre? Troy si rese conto troppo tardi di aver formulato il soggetto del romanzetto dozzinale della propria vita negli ultimi dieci anni o più. Dio, liberaci dal vederci come siamo. Lo squillo del telefono lo salvò da ulteriori, futili riflessioni. «Pronto, Troy. Sei lì?». Riconobbe l'approccio familiare anche se poco frequente di Tom Driberg. Non lo chiamava a casa da anni. Un precedente che non era di buon auspicio. «Sì, Tom, come puoi costatare. Non sto bene». Una tattica perdente. Appellarsi al rispetto di Driberg per le disgrazie altrui aveva le stesse probabilità di tenerlo lontano che scacciare un rinoceronte per le stesse pachidermiche ragioni. «Allora non te la sentirai di venire da me, vero?», proseguì Driberg, come se Troy non avesse parlato. «Ho qualche difficoltà». Driberg conosceva l'arte del lasciare intendere. Quelle difficoltà potevano voler dire un intervento della polizia. «Chi c'è di mezzo, questa volta?». «Non si tratta di quello che credi». «Che cosa ti è successo?», chiese Troy con davanti agli occhi l'immagine di poliziotti insultati in un gabinetto pubblico, nel tentativo di dimostrare l'impossibile. «Troy, è qualcosa di assolutamente diverso. Credimi sulla parola. Il culo non c'entra». «Sono felice di sentirlo. Immagino, però, che mi dirai che, tuttavia, la questione non è meno urgente». «Beh...». «Non preoccuparti, Tom. Sarò da te tra un'ora circa. Un po' d'aria mi farà bene». Riattaccò il telefono. Driberg probabilmente mentiva per salvare un po' di dignità. Troy era sicuro che fosse uscito dal seminato e ricorresse a lui, come aveva già fatto in passato, contando sul suo grado nella polizia, perché mettesse a tacere qualche vicenda omosessuale. Se questa volta non era coinvolto personalmente, forse si trattava di un amico. A Rod sarebbe venuto un attacco di collera. Proprio prima delle ultime elezioni Driberg
aveva chiesto a Troy di mettere una buona parola per lui con Rod. Nell'eventualità di una vittoria laburista riteneva di poter accedere a una carica ministeriale. Troy gli aveva risposto di no. Sapeva benissimo che cosa Rod pensava di Driberg. A conclusione di quella richiesta, Driberg gli aveva descritto un felice rapporto orale con una guardia in servizio a Buckingham Palace, dopo una cena con Giorgio VI ed Elisabetta. Dopo un paio di birre, aveva di nuovo cercato di indurlo a parlare con Rod. Sembrava che non sentisse in una conversazione la differenza tra due argomenti a dir poco disparati, pure non mancava totalmente di riservatezza, altrimenti sarebbe stato già arrestato e non una sola volta. La casa non era la stessa in cui aveva abitato durante la guerra. Troy ne fu sollevato. Era superstizioso e si era sentito rabbrividire al pensiero di quando vi aveva trovato Neville Pym, tanti anni prima, con tutte le conseguenze che c'erano state. Ma forse si sbagliava. Forse Driberg voleva solo fare una chiacchierata. Quando venne ad aprire la porta, gli parve tranquillo. Aveva in mano un bicchiere. Lo invitò a seguirlo su un terrazzino, poco più alto del livello della strada e aprì una bottiglia di whisky che era su un tavolino, vicino a un libro di poesie di Philip Larkin, I meno delusi, aperto e capovolto, per tenere il segno. Driberg era da sempre un lettore di poesia. L'appartamento era piccolo, gli serviva solo per avere una base a Londra, ma le pareti erano coperte di scaffali pieni di libri. Troy non conosceva nessun altro che leggesse tanto, fatta eccezione per lo zio Nikolaj. Pensò a Ian Fleming, in compagnia del quale aveva passato un lungo pomeriggio ed ebbe un momento passeggero di inutile rimorso culturale. Sul terrazzino c'era appena il posto per due sedie, ma l'idea di restare a parlare lì sembrava buona. Era una serata godibile fin da quelle prime ore, si poteva stare a guardare i londinesi che tornavano senza fretta a casa e poi uscivano di nuovo. L'estate in città. Meglio osservare quello spettacolo che la televisione. Una gradevole variazione all'abitudine di Troy di sedersi da solo nella veranda. Driberg versò tre dita di whisky in un bicchiere e lo diede a Troy. Forse avrebbero passato qualche ora conversando piacevolmente. Quando non era né troppo entusiasta né troppo preoccupato, non c'era compagnia migliore di quella di Driberg. Anche Rod, con un po' di insistenza, sarebbe arrivato ad ammetterlo. «Sono stato in Russia», disse Driberg. «Lo so». «Ho intervistato Kruscev».
«Ho letto. Complimenti». «Aspetta. Non è tutto». Driberg s'interruppe. Agitò il suo whisky nel bicchiere e poi disse, soppesando le parole come non era nel suo carattere: «Alla fine, io almeno credevo che tutto finisse lì, ha fatto chiamare un tale e mi sono trovato a essere intervistato a mia volta. La situazione si è capovolta. Mi capisci?». No, Troy non capiva. «Chi è questo "tale" che è stato chiamato?». «Serov. Victor Serov». Troy cominciò a capire anche troppo. «Ivan Serov?». «Non lo so. Forse. Credo di sì. Victor. Ivan. Un nome così». «Il capo del KGB?». «Lui». A questo punto Troy vide tutto chiaro davanti a sé e poco di quello che ancora sentì riuscì a stupirlo. La prospettiva di passare qualche ora conversando piacevolmente si era allontanata. Serov era un personaggio pericoloso. Era stato allontanato dalla diplomazia in marzo o aprile, quando Kruscev aveva commesso la sciocchezza di farsi precedere da lui. Era certamente a Serov che Nikolaj si era riferito dicendo che al suo posto non avrebbe fatto conto di arrivare alla pensione. «Insomma, Kruscev l'ha mandato a chiamare», proseguì Driberg. «L'interprete è rimasto lì e quello che ho capito è che mi si chiedeva di fare la spia». La conversazione non poteva finire così e Troy pensò che solo Driberg poteva avviare un racconto del genere su un terrazzino. In strada i londinesi, sudditi di sua maestà, in nome dei quali veniva condotta quella vicenda da cappa e spada, si spostavano dall'ufficio a casa, punti di riferimento lungo il cammino che portava alla tomba. Troy ricordò i versi di Eliot, da La terra desolata, "... una folla fluiva sul London Bridge, tanti, / ch'io non avrei creduto che morte ne avesse disfatti". Immemori della cultura dell'inganno in cui nuotavano come pesci nel mare, coltivando sogni di giorni migliori o, come sua moglie aveva detto con semplicità, seguitando a parlare della guerra. Forse, pensò Troy, avrebbero addirittura guardato con rimpianto al bizzarro equilibrio della guerra fredda, il giorno in cui si fosse interrotto. «E tu che cosa gli hai risposto?». «Sono rimasto sconcertato, lo puoi immaginare».
«Sì, certo». «Mi sono sorpreso a chiedermi che cosa avrebbero fatto se avessi detto di no. La Lubjanka? Una miniera di sale? Una vacanza per dissidenti? Un giro di concerti nella Siberia orientale? Ma allora, a pensarci bene, mi interessava di più sapere che cosa avrebbero fatto se avessi detto di sì. Voglio dire, non è come se io sapessi dei segreti. Cinque anni all'opposizione... e Gaitskell non mi ha detto mai un accidenti di niente. Se fosse il primo ministro forse non mi saluterebbe neanche. Quindi ho detto: "Che cosa volete che faccia, esattamente?". Mi aspettavo che fosse Serov a rispondere. L'interprete lo guardava, mentre stava parlando, ma Kruscev è intervenuto. "Vogliamo che lei spii i laburisti". Per un momento non ho capito. Poi mi sono reso conto che parlava del partito. Di noi! Del Partito laburista! Troy, stavo per crollare a terra». Troy bevve un sorso di whisky. Déjà vu. «Ti ricordi», gli fece, «quella sera alla Camera dei Comuni, quando George Brown aveva fatto saltare la mosca al naso a Kruscev? In quella occasione lui si è ficcato in testa che i laburisti sono una specie di gruppo antisovietico. George, nei suoi momenti migliori è una persona positiva, quello è stato uno dei suoi momenti peggiori. Sono sicuro che non te ne sei dimenticato. Kruscev pensa che sia il vero rappresentante del partito. E pensa anche che sia una specie di ex trotzkista, che è la cosa più lontana dalla verità che si possa immaginare. A questo aggiungi che Rod gli ha sciorinato quell'elenco dei dissidenti dell'Europa dell'est di cui non si sa più niente e puoi capire che idea si è fatta. Gli è venuta una rabbia tremenda. Io gli avevo spiegato che cos'era il partito, ma non mi aveva neanche ascoltato. Se ti ha chiesto di spiare i laburisti, è perché ritiene seriamente che siano una minaccia. Forse è l'unico in Europa a giudicarli così, ma... tu che cos'hai fatto, gli hai detto che Gaitskell sarebbe stato subito avvertito?». «Non esattamente». Driberg tacque e lasciò che Troy bevesse un altro sorso di whisky. «Gli ho detto di sì, che lo avrei fatto». Bravo! pensò Troy. Che altro poteva dirgli, se non "cavatela più in fretta che puoi"? Ma se l'aveva chiamato lì era perché aveva bisogno di lui. E, con una buona dose di immaginazione, aveva contato proprio su di lui per cavarsela. «Tom, Nikita Sergeevic ti ha mai offerto un bicchierino di vodka?». «Beh sì, più d"uno, veramente». «Bene. Ora lasciami parlare: è stato quando ne avevi bevuti un bel po', diciamo più di otto, e l'alcol ti traboccava da tutte le parti che hai comuni-
cato al capo dell'Unione Sovietica e al capo del KGB che avresti accettato di spiare per conto loro i laburisti?». Driberg trattenne il respiro, poi lo liberò lentamente, come se stesse per dare una risposta ponderata e precisa. «Una specie», disse a bassa voce. «Una specie?». «Bene. Naturalmente io non, ma...». Le parole svanirono nella vaghezza che le aveva generate. Driberg agitò una mano nel nulla, indicando una vastità incommensurabile. «Lasciami parlare chiaro, Tom: che cosa ti aspetti che io faccia?». Driberg si rianimò e quasi sorrise. «Tu lo conosci quello stronzo. Hai passato più tempo con lui che con chiunque altro in Inghilterra. Sei invidiato almeno da metà delle spie dell'MI5. Ti puoi fidare di lui? È questo che vorrei sapere». «Io non sopporterei neanche il pensiero di dovermi fidare di lui», disse Troy, sperando che il concetto non fosse troppo oscuro per quella che non sembrava una giornata positiva per l'intelligenza di Driberg e paventando in cuor suo il giorno in cui avesse mai dovuto riporre la propria fiducia in un uomo come Nikita Kruscev. «Ma se dovessi prendere una decisione?». «Tom, è un politico!». «E come tale, già un disastro, eh?». «Ascolta il mio consiglio, avverti le nostre spie, se non vuoi che una talpa le avverta prima di te». «Sì...», rifletté Driberg. «Dovevo avere un colloquio, più avanti, in settimana. Solo per la questione economica, vedi...». «Eh?». «Sì, per i soldi. Non pretendevano che lo facessi per niente. Mi hanno già dato cinquecento sterline di anticipo. Hanno una rete, che è assolutamente impossibile rintracciare. Potrebbero pagarmi in Inghilterra e in Russia non risulterebbe mai niente. Ne ho già spese un po' di quelle cinquecento. Ricordini. Cose così». Troy non gli credette. L'idea di Driberg che buttava via i soldi in bamboline russe messe una dentro l'altra e in scatole per tenerci le sigarette su un tavolo, gli sembrava ridicola. Quello era semplicemente il modo che aveva Driberg di dichiarare che era senza soldi, indipendentemente dalle circostanze, e tanto più in un momento in cui era fuori dalla Camera dei Comuni, si era ritirato alle elezioni del '55 e, probabilmente, si sentiva davvero povero e disgraziato. Ma Troy sapeva con certezza che in tutta la Londra
letteraria correva voce che avesse avuto, di recente, un grosso anticipo (non si parla mai dei piccoli anticipi) da un editore, l'esule viennese George Weidenfeld, per scrivere una biografia di Burgess. Driberg era l'ultima persona a cui Troy avrebbe affidato un libro del genere, e dubitava che Weidenfeld avesse impiegato bene il proprio danaro, ma era quasi certo che fosse servito a finanziare il viaggio in Russia. Quello che Driberg diceva, in sostanza, era che, se fosse stato possibile, gli sarebbe piaciuto avere l'uno e l'altro, dire tutto all'MI5 senza, in qualche modo, rinunciare al bottino. «Se hanno una rete, perché hanno corso il rischio di pagarti in contanti?». «La rete era stata temporaneamente sospesa, così mi ha detto Serov. Mi ha chiesto se non m'importava prendere i soldi, come si chiede a uno se vuole un assegno quando sa benissimo che è scoperto. Ma io non sono così scemo da passare la dogana con la bustarella in tasca, anche perché loro badano più ai soldi che escono che a quelli che entrano. Serov, allora, mi ha detto che avremmo riparlato d'affari entro poche settimane. Non gli ho chiesto che cosa intendesse». Ma Troy lo sapeva esattamente. Glielo aveva detto Angus quando lui gli aveva chiesto spiegazioni sul riciclaggio del danaro, operazione nella quale Cockerell era coinvolto. Driberg era, imprevedibilmente, la conferma che Troy aveva cercato. La tessera mancante che completava il mosaico. Ecco che cosa faceva Cockerell con tutte quelle cifre false e quei soldi che fluttuavano a migliaia. Era tutto logico. Presto lo avrebbero rimpiazzato. Avrebbero trovato un nuovo corriere e presto alcune delle peggiori moquette del mondo si sarebbero magicamente trasformate in una prospera fila di zeri nel conto in banca di Driberg. «Non hai scelta, Tom. Racconta tutto alle spie. Dagli i soldi e di' che ci pensino loro. Se non altro avrai un aneddoto da inserire nelle tue memorie». «Oh sì», rispose Driberg, con troppo entusiasmo. «Credi che qualcuno vorrà leggerle?». 78 Spesso, da quando era stato convocato a Portsmouth a guardare il gonfio e confuso ammasso di materia che era stato Arnold Cockerell, Troy aveva pensato di telefonare a Charlie, ma ogni volta aveva rimandato. Mai, per
nessuna indagine di Scotland Yard, aveva chiesto un favore a Charlie. Sarebbe stato infrangere il tacito accordo che avevano fatto molti anni prima, alla fine della guerra, quando era iniziata la finzione di Charlie il Diplomatico, e il lavoro di Troy era diventato l'ultima cosa che l'uno e l'altro avrebbero voluto che fosse, una presenza tra loro che rischiava costantemente di separarli. Era quasi buio quando salutò Driberg e tornò a casa, un po' peggio di quando ne era uscito a causa del whisky, tenendo sotto il braccio I meno delusi, che gli era stato dato in prestito. Prese il telefono, ancora incerto su quello che avrebbe detto se Charlie gli avesse risposto. C'era una fretta, una urgenza inquietante già nella voce che diceva: «Pronto». «Sono Freddie». «Freddie!». Charlie passò con naturalezza a un tono affettuoso e accattivante. «È tanto che non ci vediamo, ma purtroppo dovremo aspettare ancora un po'. Ho un taxi che mi aspetta già alla porta». «Volevo solo...». «Devo prendere un aereo. Scusami. Accidenti al colonnello Nasser. Parto per Akrotiri stasera. Se è qualcosa che può aspettare, ti telefono nell'istante stesso in cui torno indietro. Sinceramente. Devo correre!». Troy affidò all'aria un arrivederci veloce e riattaccò. Si ricordò che Charlie a Cambridge, nei primi anni Trenta, studiava l'arabo. Tutti i diplomatici sapevano l'arabo. Anche questo rientrava nella finzione. Li portava a un livello di accademica rispettabilità. Studiare il tedesco o il russo poteva significare che si voleva entrare nello spionaggio, scienze economiche o filosofia, invece, che si era troppo intelligenti per lo spionaggio e, poiché tutti quelli che erano troppo stupidi per qualsiasi altra materia, studiavano storia, l'arabo serviva a perfezione, portava con sé, al contrario, un'aria di erudizione, con un riferimento all'impero, a T.E. Lawrence e St John Philby. Troy non aveva creduto neanche per un istante che Charlie fosse stato chiamato perché sapeva l'arabo, ma quale altro scopo poteva esserci per mandarlo a Cipro? Cipro, in fondo, non era importante. Chiunque appartenesse alla sfera dei bene informati sapeva che, presto o tardi, l'Inghilterra avrebbe restituito Cipro ai ciprioti. L'Egitto... l'Egitto era un'altra questione. 79
Clark andò da Troy la mattina dopo. Erano le nove passate. Troy si era lasciato impigrire, beveva il caffè, ancora in vestaglia, sfogliando il giornale del mattino. Aveva letto una pagina di Nabokov e gli era piaciuta, una pagina di Larkin e gli era piaciuta ancora di più. Aprì la porta e vide Clark, nella luce che veniva da est, guardare verso il calore del sole che guadagnava terreno sopra Bedfordbury, come facevano i maiali a Mimram, e poi voltarsi verso di lui, sorridendo. «Ce l'ho fatta, signore». Troy spalancò la porta e Clark entrò, con aria affaccendata. Si tolse di tasca dei fogli arrotolati e li spiegò sul tavolo da pranzo. Troy si mise a sedere e gli mise davanti la caffettiera con una tazza. Clark parve non accorgersene nemmeno. Traboccava di entusiasmo, quell'aria un po' lagnosa che era la sua maschera abituale, poiché tutti i poliziotti avevano bisogno di una maschera, era stata, per il momento, messa da parte. «Non posso trattenermi molto. È stato comunque facile. Ho avuto qualche problema solo con la frequenza. Ogni ripetizione partiva dal due, ma per ogni raggruppamento di cinque, muoveva dal tre. Dev'essere brava a giocare con le freccine. Ho, comunque, trovato molte vocali». «Perché "brava"?», chiese Troy, non ancora certo se la scrittura in codice fosse opera di Cockerell o di Madeleine. «È una donna, signore. Vedrà. Dilettante, ma esperta. Una che si diverte a imbrogliare le carte in tavola, a creare false piste». Troy era rimasto sorpreso nel constatare quanto Clark fosse riuscito a capire del carattere di Madeleine solo da un crittogramma. Era stata una deliziosa bugiarda, pensò, ma le era costato un prezzo terrificante. Perché? «Clark, non dimentichi che non sono mai riuscito a finire uno schema di parole incrociate in vita mia. Saltiamo il procedimento tecnico». «Ha ragione, signore». Clark sedette di fronte a Troy, prese un gran respiro e cominciò a leggere. «"Cara Sis"... le dice qualcosa, signore?». «Sì. Mi legga tutto di fila, Clark». Cara Sis, se stai leggendo questa lettera è probabile che quello stupido stronzo di Ronnie non ci sia più e ci abbia fatto ammazzare tutti e due. Niente posso dirti senza darti più dispiaceri di quanti non ti abbia già dato, perciò lascia che ti racconti tutto e poi decidi tu. So che mi giudicavi un idiota perché me n'ero andata via con lui. E so che pensavi che Brighton non fosse niente di speciale. Ma Brighton mi ha
liberata dal Derbyshire. Mi ha liberata dall'ufficio e da un destino da stenografa, con la prospettiva di sposare un disgraziato che si sarebbe rotto le palle allo stabilimento per tutta la vita. Mi ha liberata da una casetta bifamiliare in un quartiere popolare. Scusami. Avevo detto che non ti avrei dato più dispiaceri. Non volevo. Ma vedi, Sis, non era solo Brighton. C'era qualcosa in più, per me come per Ronnie. Tu non sei mai riuscita a vederlo sotto questo aspetto, vero? Io ti ho detto che mi aveva dato una scossa dalla testa ai piedi e tu non mi hai creduta. Sapevo di correre un rischio, e non parlo del rischio di stare con un uomo sposato. Sis... ho visto Parigi, ho visto Amsterdam, ho visto Berlino Ovest, ho giocato a chemin de fer a Montecarlo, ho sciato a Zermatt, mi sono abbronzata le tette sulla spiaggia di Saint Tropez, mi sono ubriacata a Biarritz... e ho visto Ronnie trafficare con l'МІ5 e i russi. Con questo non voglio allarmarti. Ci sono tante cose in sospeso che si possono recuperare e portare avanti. Se vorrai farlo, ti sistemerai per tutta la vita. Altrimenti, butta tutto nel fuoco e non pensarci più. Io e Ronnie facevamo un contrabbando di danaro. I russi ce lo facevano avere in varie città, sparse per tutta l'Europa e Ronnie lo faceva passare attraverso il suo lavoro. Dove andasse dopo non lo so. Ronnie non me l'ha mai detto e io non gliel'ho chiesto. Siamo sempre stati molto prudenti. Nessuno di quelli con cui trattava Ronnie mi ha mai vista. Io ho visto loro, ma loro non hanno visto me. Ma, come ti ho detto, se tu stai leggendo questa lettera, è il segno che un errore lo abbiamo fatto. Ci sono soldi in cinque banche. La Banque du Commerce Colonial a Parigi, la National Bank of South Africa a Zurigo, la Gebrüder Hesse, pure a Zurigo, la Merchant Orient ad Amsterdam e la Monégasque Première a Montecarlo. Dovrebbero essere circa quarantamila o cinquantamila sterline, credo. Tutto regolare... è la quota di Ronnie. Non ha imbrogliato nessuno. Ci spetta fino all'ultimo penny. Troverai anche un elenco di tutti quelli che ho visto o di tutti quelli di cui Ronnie mi ha parlato e che fanno parte del gioco. È pericoloso, ma può servire a proteggerti. Oppure a farti uccidere. Come ti ho detto, però, puoi lasciar perdere e non pensarci più. Arrivederci in cielo, cara Sis. Clark tacque, senza fiato. Quando riprese a parlare, la sua voce era ridotta a un bisbiglio. «La lettera è firmata "Stella" e c'è un elenco di numeri corrispondenti alle chiavi delle banche».
Troy sentì il peso del silenzio che seguì. La soddisfazione professionale non aveva impedito a Clark di cogliere la tristezza di quella lettera in cui una donna, che era morta, parlava delle trame di una complessa, estesa organizzazione come di un gioco. Una sciocca sentimentale che aveva pagato con la vita quella che non era stata altro che una serie di morbosi weekend nei locali europei alla moda con un uomo che aveva il doppio dei suoi anni, una vacanza mortale in un ambiente che non era il suo, un gioco mortale del quale non aveva nemmeno ben capito lo scopo. Troy era molto turbato, ma non stupito. Dal giorno in cui Angus gli aveva detto che Cockerell faceva parte di una organizzazione criminosa, che altro ci si poteva aspettare? E, dopo quello che gli aveva detto Driberg, che altro poteva essere? Come doveva avere solleticato la vanità di Cockerell sentirsi proiettato, dalla vita di provincia, nelle sale da gioco di Montecarlo, con al braccio una donna bella come Madeleine Kerr. Anche solo essere visto con lei gli sarebbe bastato. E intanto si illudevano di dividere un segreto e di poter andare dappertutto senza che nessuno si accorgesse di loro. A che cosa alludeva dicendo che Ronnie "trafficava" con le spie? In realtà Arnold Cockerell non era diverso da quelli che la guerra aveva ucciso, subito o lentamente, negli anni successivi. Era morto perché non si era riabituato alla pace, non aveva saputo rinunciare a quel breve sapore di avventura, a quella eccitante scarica di adrenalina. Ma Troy dubitava che avesse "trafficato" con qualcuno. Le spie lo avevano in pugno. A loro piacevano quegli stupidi sentimentali. Non c'era carne da macello migliore. «Signore?». Clark lo guardava, incerto, cercando di richiamarlo alle necessità del momento. «Non posso trattenermi molto», ripeté. «Certo. Com'è riuscito a venir via?». «L'ispettore Wildeve è a Hammersmith, signore. C'era un cadavere sotto le assi di un pavimento. Una puzza spaventosa. I vicini hanno chiamato Scotland Yard». «E Stan?». «Il signor Onions? È strano, signore. Nessuno l'ha visto da sabato». «Non è strano». Troy andò in cucina e tornò con il "Post". Lo aprì e lo ripiegò alla pagina cinque: Notizie da Oltremare. «Legga». «Qui? "SOLDATO INGLESE UCCISO A CIPRO"?». Gli occhi di Clark corsero in fondo alla pagina. In pochi secondi lesse tutto l'articolo. «Non capisco, signore. Chi è il sergente della RAF Kenneth Clover?». «Era il genero di Onions. Il marito della "nostra Valerie"».
«Capisco. Poveretto. Torturato a morte e gettato in una fossa con un cartello appeso al collo. Un brutto modo per morire». «Non è il primo e non sarà l'ultimo. Sono stati una dozzina e più quest'anno. Vogliono che ce ne andiamo. Il sergente Clover era un poveretto finito nella mischia». «Lei lo conosceva, signore?». «Sì, lo conoscevo. Conoscevo anche Valerie. Onions sarà andato a Salford, da lei». «Come mai non ha detto niente a nessuno?». «L'avrà detto a chi doveva essere informato, il commissario, la segretaria... forse l'avrebbe detto anche a me se fossi stato lì, ma credo che non voglia far sapere a tutti la ragione della sua assenza. Sarà fuori di sé. La collera è il modo con cui dà sfogo ai sentimenti. Lo infastidirebbe sapere che si parla della sua famiglia e del dolore che l'ha colpita». «Non so immaginare un dolore più terribile», disse Clark. «È vero. Ma lui preferisce soffrire da solo. Lavoravo con lui, ero sergente, quando è morta sua moglie. So che si comporta così». Clark si alzò in piedi e guardò senza ripensamenti la sua tazza di caffè. «È meglio che vada. Credo che l'ispettore Wildeve starà a Hammersmith ancora per un po'. Forse potrò telefonarle più spesso, signore. Devo dirle che credevo di essermi lasciato l'esercizio della discrezione alle spalle, dopo Berlino, ma ho detto più bugie da quando lavoro per lei di quando vendevo le calze al mercato nero». Troy lo accompagnò alla porta e uscì davanti a casa, sentì il sole caldo sulla faccia e il freddo delle lastre di pietra sotto i piedi nudi. «Posso essere certo che non le sembri un'imposizione?». Clark si riparò gli occhi dal sole con una mano. «Dio mio, no, signore. Io sono nato per il ruolo di Leporello e che cos'è la vita se non si esce un po' dai binari?». Tom lo guardò avviarsi verso St Martin's Lane. Aveva capito bene che cosa aveva inteso dire Clark. Era fatto così quell'ometto grasso e furbo che aveva conosciuto a Berlino negli anni difficili, ma quella era anche la filosofia che aveva portato alla morte Cockerell e Madeleine. Si chiese se avrebbe dovuto parlargli della Toscà. Non l'aveva mai fatto. Aveva solo lasciato che si sapesse che si era sposato in sordina. Sul continente. Una vecchia fiamma. Clark gli aveva detto qualcosa come congratulazioni e tutto era finito lì. Ma sapeva. Troy ne era profondamente convinto. Rientrò in casa e sentì suonare il telefono. Chiuse la porta col piede e
prese il ricevitore. Pensò che doveva essere Onions e così era, infatti. «Ormai avrai saputo», disse senza preamboli. «Sì, Stan, era sui giornali del mattino. È una notizia terribile. Mi dispiace molto». Troy sentì Onions sospirare profondamente e capì lo sforzo che gli costava dominarsi. Il silenzio parve non finire mai. «Credi di poter venire? Lei ha chiesto di te». «Quando?». «Il funerale è dopodomani. Non credo che tu possa venire oggi». «No, oggi temo di no», rispose Troy, pensando con ansia a come poter aderire alla richiesta di Onions, «ma domani, in giornata, certamente». Annotò l'indirizzo che gli diede Onions, una strada secondaria nella giungla di mattoni rossi di Lower Broughton, Salford. Era molto addolorato per lui. Non aveva avuto con il genero rapporti molto stretti, anzi spesso Troy aveva pensato che non avessero niente in comune, ma era Valerie che li univa e lei era così affettuosa che bastava per tutti e tre. Non poteva lasciarlo solo a consolarla in un momento come quello. Ogni tanto si chiedeva se Stan sapeva dell'amore tra lui e Valerie nell'ultima estate prima della guerra, così carica di tensione. Non era stato un segreto e nessuno dei due aveva altri legami. Per questo Stan l'aveva chiamato? Per attenuare l'urto tra sé e la tempesta che da Valerie si poteva scatenare? Troy pregò il cielo che Onions non sapesse che, nella primavera del 1951, quando Ken era in Corea, per un breve periodo avevano ripreso a vedersi. Non l'adulterio, ma l'affetto che aveva per la nipotina, Jackie, avrebbe reso più severo il suo giudizio. Onions si era sempre astenuto dall'interferire nella vita privata di Troy, ma una volta, qualche anno prima, gli aveva chiesto se non avesse intenzione di sposarsi. Lui aveva risposto con un no deciso, anche se ipotetico, e da quel momento ogni curiosità sulla vita sessuale di uno scapolo abbiente e vicino alla quarantina era rimasta inespressa. Si fece la barba, si vestì e si tastò, attraverso i capelli, il margine della ferita e il sangue rappreso lasciato dal proiettile. Poi cercò qualcosa nel cassettino sotto lo specchio della consolle, in anticamera. Le chiavi di casa, le chiavi dell'automobile e sul fondo, con un velo di polvere che ricopriva lo strato protettivo di grasso, trovò i due grimaldelli d'acciaio, come le pistole. Prese un fazzoletto, ve li avvolse, se li mise nella tasca della giacca e si guardò allo specchio. Di nuovo toccò la cicatrice. Da qualche giorno non gli faceva più male, ma sapeva che, anche se Wildeve non gli aveva impo-
sto di stare a casa, il medico lo avrebbe fatto e se Kolankiewicz avesse saputo che, ancora una volta, intendeva barare con la medicina, o, come avrebbe detto lui, fottersi il cervello, si sarebbe fatto venire un attacco di rabbia polacca. Prese la Bentley e andò a Brighton. Aprì col grimaldello la porta della casa di Madeleine Kerr. Rubò quattro dei suoi vestiti più belli. Le scarpe adatte. La valigia per contenerli. Alle quattro del pomeriggio era di ritorno a Londra. Alle sei della mattina dopo risaliva sulla Bentley e andava verso nord, lungo il Marylebone Lane deserto, lontano dalla grande città, dal traffico congestionato, in direzione di Watford, dei distretti di Black Country e di Potteries, verso Manchester e il vasto nord. Quello che, nel suo snobismo imperiale, il sud chiamava ancora le province. «Provinciale», Troy l'aveva capito da molto tempo, era uno degli insulti più gravi che si conoscessero in Inghilterra. Come dire a qualcuno che si vestiva ancora color celeste intenso. 80 Selvaggi. Era passato da poco mezzogiorno. Troy aveva appena trovato Lower Broughton e St Clement Street e si era fermato davanti al numero 25. Prima di togliere la chiave dal cruscotto, aveva visto una faccina sporca contro il finestrino, a pochi centimetri da lui, con il naso appiattito contro il vetro. Un'altra era sbucata dietro il finestrino aperto, dalla parte del passeggero. «CheautoèmelodiceCadillacPackardFerrarigrandeehiohounmodellinodell aCaddydellaPackarddellaFerrari». Senza una pausa tra una parola e l'altra. Un grammatico non sarebbe riuscito a inserire una virgola. Troy guardò il ragazzino, nove o dieci anni al massimo, che aveva manifestato quella curiosità priva di qualsiasi cognizione. «È una Bentley», gli disse, cercando di non sentirsi un imbecille. «Una Bentley?». «Sì». «È di lusso, eh?». «Se lo dici tu». «Lo fanno anche di questa il modellino?». Troy allontanò dal vetro, con un gesto, l'altro bambino e scese. Il chiacchierone era rimasto dall'altra parte e lo si vedeva allungare il collo al di-
sopra della capote, come se volesse arrampicarsi sulla carrozzeria. Un terzo selvaggio, comparso da chi sa dove, intraprese un'analisi personale della molla dello specchietto laterale sinistro. Dietro di lui comparve Onions, grande e grosso, sulla porta del numero 25. Vicino a lui c'era una bella bambinetta sui dieci anni, bionda, con gli occhi tristi che si guardavano attorno. Gli arrivava appena al fianco. «Credo di sì», rispose Troy. «Via!», gridò Onions. «Tutti via!». Nessuno obbedì. Alla sala mensa di Scotland Yard, uomini fatti sarebbero balzati in piedi, rovesciandosi il piatto sulle ginocchia, al suono della voce di Onions. Troy si ricordava di averlo sentito chiamare semplicemente per nome l'agente Agnew, che di scatto, al grido di «Sì signore!», battendo i tacchi aveva immediatamente snocciolato grado e numero di matricola, indotto dalla incisività del richiamo a credere di essere di nuovo sotto le armi. Ora, invece, i bambini lo guardarono, l'ultimo arrivato interruppe per un momento l'analisi tecnica dello specchietto, ma nessuno si mosse. «Per un sei pence ti guardo la macchina», disse il primo. «D'accordo», rispose Troy. Il bambino tese la mano. «P.A.C.». «Che cos'hai detto?». «Pagamento alla consegna. Se l'automobile è ancora qui quando torno, ti do i sei pence». Il bambino accettò con un'alzata di spalle. Onions sporse un braccio dietro la porta di casa per prendere la giacca. La piccola Jackie Cover restò sul gradino, linea di confine tra la strada e la casa, che era l'unica, tra le altre a schiera, a non essere stata intonacata di fresco. Guardava Troy con un'attenzione imbarazzante, come se volesse capire il più possibile. Eppure non poteva ricordarsi di lui, era passato tanto tempo ed era piccola, allora. Non gli rivolse la parola. Non parlò nemmeno con Onions, che le accarezzò i capelli e le disse di avvertire la mamma che sarebbero andati al Grosvenor. Mentre passavano vicino alla Bentley, Onions diede uno scappellotto su un orecchio al bambino che giocava con lo specchietto. 81 Onions ordinò pane e formaggio. Una pinta di birra leggera per ciascuno. Borbottò che da tre giorni mangiava solo quello che aveva cucinato lui.
Il barman mise una grossa fetta di pane davanti a ciascuno. In silenzio, Onions si aggiunse nel piatto un cucchiaio di sottaceti e, a testa bassa, cominciò a mangiare quasi con voracità. Era a tal punto una cattiva cuoca Valerie? Non aveva mai avuto modo di constatarlo, avevano sempre mangiato fuori. Qualche volta aveva pensato che fosse un elemento addirittura essenziale nella loro relazione. Più che ad andare a letto con lui, a Valerie piaceva andare a cena con lui. La vita con Kenneth non doveva essere stata un vaso di delizie. Ancora meno da quando, su due piedi, l'aveva costretta a trasferirsi da una strada secondaria di Sheperd's Bush a una strada secondaria di Salford. Troy non riuscì più a sopportare il rumore imperturbabile delle mascelle di Onions in contrasto con il chiacchiericcio dell'ora di pranzo. «Kenneth era da molto tempo a Cipro?», chiese. Onions alzò la testa dal piatto e lo guardò attraverso il tavolo. Era apparso un po' di sollievo nel suo sguardo opaco, nei suoi occhi azzurri offuscati dal dolore e dalla stanchezza. Gli aveva fatto piacere che Troy avesse rotto il ghiaccio. «Solo due settimane. Lo avevano mandato lì circa a metà del mese. Fregandosene del preavviso. Tutta la sua squadriglia ha avuto improvvisamente l'ordine di partire su un aereo da trasporto. La nostra Valerie ha scoperto dov'era solo quando ha ricevuto una cartolina. Venerdì scorso. E sabato è arrivato il telegramma. Poteva andare peggio. Poteva arrivare prima il telegramma e poi la cartolina». Troy non aveva neppure cominciato a mangiare. In nessun caso avrebbe toccato la birra. Conosceva Onions abbastanza da prevedere che di lì a poco la sua collera sarebbe esplosa. «Io ora ti chiedo: che cosa, in nome di Dio, era andato a fare? Perché ci sono i soldati inglesi a Cipro?». «Davvero lo vuoi sapere?». «Altrimenti non te lo chiederei», rispose bruscamente Onions. Troy sapeva che doveva lasciare che la sua collera si sfogasse, senza intervenire a controllarla o ad alleggerirla. Bisognava aspettare che affluisse e scorresse poi via a poco a poco. Non c'era altro da fare. «Cipro non c'entra. I nazionalisti ogni tanto ammazzano qualcuno, come succedeva in Israele sotto il mandato, un po' di anni fa. È stato un caso che sia morto Kenneth». «Allora è morto per caso?». «Non era lì per nessuna ragione che riguardasse Cipro. Cipro è un'isola,
una grande zattera galleggiante, la portaerei del Mediterraneo. Un posto comodo da cui far partire l'invasione dell'Egitto». «Dio, Dio...», mormorò Onions. Possibile che non ci fosse arrivato da solo? Erano passate sei settimane o poco più da quando Nasser aveva nazionalizzato il canale. Non era ovvio? Poteva qualsiasi essere pensante, in Inghilterra, non vedere che ci si stava avviando a una guerra? «È come... come se la morte di Ken non contasse niente per nessuno». «Sì, per Eden non conta niente». «Per Eden?». Onions sembrava stupito nel sentir nominare Eden. «Eden vuole umiliare Nasser in faccia al mondo». «È pazzo». «Sì, Rod dice che potrebbe essere giudicato ufficialmente pazzo». Ci fu una pausa. Troy capì che lo stato d'animo di Onions stava per subire un'altra svolta. La sorpresa, il non aver capito, alimentavano un nuovo tipo di collera. «Ma è il primo ministro!». «Sì». «Io, allora, ho votato per un pazzo!». Troy non avrebbe dovuto stupirsi di questa affermazione. Il popolo e la piccola borghesia votavano per i conservatori, era una tradizione inglese, come il ballo di fine d'anno al college. La verità era che lui e Onions non parlavano mai di politica, soprattutto di politica interna. Stan, in realtà, non aveva votato per Eden, aveva votato per Churchill attraverso Eden, che, agli occhi di quelli come lui, era l'ombra di Churchill. «Che cosa facciamo a Cipro?», gridava Onions. «Che cosa c'entriamo noi con gli arabi? Mi sembra di essere tornato al tempo della guerra coi boeri! Che cos'è, ci rimettiamo a dar retta alla gentaglia? Io credevo che tutto fosse finito quando ero ragazzo. Non abbiamo appena fatto una guerra per un mondo migliore?». Gridava. Per quanto confuso, viscerale e male articolato, era il giudizio politico più lungo che Troy gli avesse sentito esprimere. «E ci stupiamo che quei negri ci acchiappino come mosche. Quella non è casa nostra. Lasciamo che se la tengano Cipro!». Con la coda dell'occhio, Troy vedeva che ogni tanto qualcuno voltava la testa, senza volere, sentendo quei discorsi da ubriaco all'ora di pranzo, ma tutti conoscevano Onions, sapevano quale perdita aveva subito. «E che cosa devo dire alla nostra Valerie. Che suo marito è stato bru-
ciacchiato come un arrosto con la fiamma ossidrica, che gli hanno strappato i denti con le pinze perché noi vogliamo fare un ultimo tentativo coi negri prima che l'Impero ci sfugga per sempre dalle mani? È questo? È questo che devo dirle?». Senza una parola, il barman venne a mettere davanti a Onions un bicchiere di cognac. Né lui né Troy avevano bevuto la birra. Stan inghiottì il cognac in un sorso e cominciò a mangiare anche l'altro piatto di formaggio. Due o tre volte alzò la testa a guardare Troy. Aveva delle lacrime agli angoli degli occhi. «Non hai fame?», chiese infine. «Ho mangiato qualcosa venendo qui. Mi sono fermato a Dunham Park». Onions capì e accettò questa svolta tattica che riportava la conversazione a un argomento meno coinvolgente. «Ci sono stato anch'io. È appena fuori da Altrincham. Era una base militare durante la guerra». «Veramente sembra che lo sia stata fino a ieri. Latte di benzina dappertutto, bunker di cemento, jeep malandate. Ci pensi che due secoli fa era il paradiso dei pittori di paesaggi?». «Una ragione in più per andarci». Il silenzio si posò su di loro come un pulviscolo attraverso la luce del sole. Onions mangiava. A tratti, frammenti di conversazione da pub cominciarono ad arrivare alle orecchie di Troy. Non più costretta ad assorbire la rabbia di Onions, comprensibile, ma alla quale non era facile rispondere, la sua mente, improvvisamente libera, si trovò ad accogliere immagini così stravaganti da indurlo a voltarsi per vedere chi stava parlando. «Busby's Babes», diceva qualcuno a un tavolo vicino. Furono le uniche parole che riuscì a distinguere e gli portarono davanti agli occhi, come in un caleidoscopio, graziose, danzanti figure femminili di prima della guerra, come in una ripresa cinematografica. con le musiche di Irving Berlin. Apparizioni fugaci, in bianco e nero, di Dick Powell e Ruby Keeler. Remember My Forgotten Man. Ricorda il mio uomo dimenticato. Scomparso. I tanti che "morte aveva disfatti". Parole appropriate fino a toccare l'assurdo. Poi, l'uomo che stava parlando rivolto a un gruppo di amici puntò il dito medio sul tavolo e tracciò una linea nella schiuma lucida che era traboccata dal bicchiere. «È Bobby Charlton», disse, «che ci porterà in testa al campionato», e l'immagine emerse, si gonfiò come una bolla di sapone soffiata da una cannuccia mentre la verità colpiva la mente come una punta aguzza. Il campionato di calcio. Avrebbe dovuto capirlo. Stavano parlando
del campionato di calcio. Si rivolse a Stan, che aveva quasi finito anche l'altro piatto di formaggio. «Lei come sta?». Stan non alzò la testa. «La vedrai tra poco». «L'ha presa male?». Che razza di domanda aveva fatto? Stan lo guardò. Le lacrime gli si erano seccate sulle guance. «È molto nervosa. La conosci. Tutte le scuse sono buone». 82 Girarono l'angolo di Great Clewes Street e tornarono in St Clement. La Bentley sembrava un carro armato, nella strada stretta e senza altre automobili. I gradini di pietra splendevano come denti falsi, tranne quelli davanti alla casa della famiglia Clover, dove Jackie sedeva esattamente come Troy e Onions l'avevano lasciata. Il ragazzino con la mania dei modellini di automobile si era seduto, invece, sul paraurti della Bentley, con un giornaletto in una mano e una fetta di pane e burro nell'altra. Leggeva muovendo le labbra, senza curarsi di quello che gli succedeva intorno. In fondo alla strada, una giovane donna con un grembiule a vestaglietta e un fazzoletto in testa prendeva il sole sulla porta di casa e fumava una sigaretta arrotolata a mano. Dal fazzoletto uscivano delle piccole ciocche di capelli rossicci. Aveva una faccia molto bella. Troy si attardò un po' troppo a guardarla e lei sporse le labbra e gli buttò un bacio, ammiccando. Una di quelle cose che avrebbe potuto fare la Toscà, pensò Troy. «Dov'è la mamma?», chiese Onions alla bambina. «Mi ha detto di avvertirti che andava a dormire un po'». Jackie tacque e alzò la faccia contro il sole, stringendo gli occhi, per guardare Onions. «Mi porterà a Manchester?». «Non credo». «Me l'aveva promesso». «Quando?». «La settimana scorsa». «È stato prima... prima che...». La bambina aspettava, ma Troy era sicuro che Onions non avrebbe finito la frase. «Se Valerie dorme», disse, «abbiamo un po' di tempo davanti a noi. Inutile svegliarla. Se vuoi, potrei portare Jackie a Manchester».
Jackie si alzò in piedi e cominciò a compiere una serie di gesti elaborati per rimettersi in ordine i vestiti. «Posso sedermi davanti?». Prima che Troy potesse risponderle di sì, una vocina dietro di lui disse: «Posso avere adesso la mia moneta da sei?». 83 Jackie accettò che Troy le comprasse un paio di calzine corte bianche e un cerchietto per i capelli. Parve che non volesse altro, ma la scelta richiese quasi tutto il pomeriggio e un giro, piano per piano, del migliore grande magazzino di Manchester, il più fornito. Da quindici anni, ormai, non c'era quasi niente da comprare. La modestia della scelta di Jackie era al passo coi tempi. Lungo la strada del ritorno, la bambina guardava meno attentamente dal finestrino che all'andata e, mentre attraversavano l'Irwell Bridge, chiese a Troy di dirle chi era. Onions mise il tè e il pane e marmellata sulla tovaglia di tela cerata che copriva il tavolo da pranzo, nella stanza sul retro della casa. Valerie non si fece vedere. Onions le portò un vassoio e dopo un'ora lo riportò indietro intatto. «Accidenti», disse sottovoce. Troy mentì quando gli chiese se voleva fermarsi per la notte e rispose che aveva già prenotato una stanza in albergo. Non gli sembrava giusto passare la serata a logorarsi l'un l'altro se l'indomani doveva parlare con Valerie come Onions non si sentiva in grado di fare. 84 Sarebbe stato più giusto che piovesse, pensò Troy. Una pioggia violenta, come in quel lugubre novembre in cui avevano seppellito suo padre. Il cielo lacerato dagli scrosci come al funerale di Debussy, una notizia che sapeva solo perché sua madre aveva fatto un'osservazione sul tempo così adatto alla circostanza. Non aveva mai capito se avesse veramente conosciuto Debussy. Aveva un carattere così particolare sua madre che, in tutti quegli anni in cui, incitato da lei, aveva studiato il pianoforte, non gli aveva mai detto di essere stata amica di Debussy quando era giovane, di avere cominciato a prendere lezione da lui quando aveva otto anni e di essere
andata in Francia, in un giorno di pioggia del 1918, per assistere alla sua sepoltura, con un temporale consono alla cerimonia. Un avvenimento sepolto insieme al cadavere, finché la morte non glielo aveva riportato alla memoria, come adesso Troy si accorgeva che stava succedendo a lui. Forse i funerali erano come le scatole cinesi, ce n'era sempre una dentro l'altra. La luce solare che sgorgava generosa, abbagliante sembrava una mancanza di rispetto verso il morto. E a danno dei vivi. Rivelava il nero degli abiti da lutto in tutta la sua miseria. Ogni striatura, macchia, imperfezione, toglieva dignità al lutto. Si era seduto davanti, nella vecchia Rolls-Royce nera. Valerie dietro, tra suo padre e la bambina, piangendo silenziosamente dietro il velo. Si era alzata a mezzogiorno, aveva salutato Troy chiamandolo per nome, aveva lasciato che sua figlia le desse un bacetto su una guancia e non aveva risposto agli sporadici tentativi di Onions di scambiare qualche parola. Si era ritirata in bagno con una tazza di tè e ne era uscita dopo venti minuti in gramaglie vedovili. Erano rimasti per una mezz'ora che era parsa eterna seduti in salotto, in un odore di cera per mobili e aria stantia, come nelle stanze dove non entra mai nessuno. Quando era arrivato il carro funebre con il cadavere del sottufficiale sergente Clover, Onions aveva chiesto a bassa voce: «Sei pronta?», e lei aveva fatto segno di sì con la testa. Troy restò vicino alla tomba con "il distacco del teleobiettivo di una Kodak", come aveva sintetizzato Philip Larkin, in una poesia. I vicini espressero le loro condoglianze e Valerie arrivò addirittura a mormorare qualche parola. Onions teneva per mano Jackie. Quando l'ultimo dei dolenti si fu congedato, Valerie fece un cenno a Troy che le offrì il braccio perché si appoggiasse. Nel tornare a casa, Jackie si mise a sedere davanti, come aveva sperato per tutto il tempo. Troy prese il suo posto. Non venne offerto niente dopo il funerale; non ci furono ospiti. Non ci fu una veglia funebre. Onions preparò un altro tè uguale al primo. Mentre trafficava nel retrocucina, Troy sentì provenire dal piano di sopra, dove si trovava Valerie, dei colpi sordi. Salì silenziosamente le scale e la trovò seduta per terra in camera da letto, in mezzo agli oggetti tirati fuori da un mobile vicino al caminetto. Stava strappando tra le mani una maschera antigas della seconda guerra mondiale, ormai lacera. «Da' un'occhiata a queste anticaglie», disse. «Non ha mai voluto che buttassi via niente». Gettò quello che restava della maschera antigas contro il muro. «Maledetto!», imprecò.
Non c'erano lacrime, ora. «Maledetto». Troy si mise a sedere a terra, lì vicino. Una piccola macchina fotografica a soffietto, senza l'oculare, era caduta dall'armadio sopra un album di fotografie. Troy la scostò con attenzione, prese l'album e voltò una pagina. Jackie in braccio a sua madre nel 1946 davanti alla casa di Shepherd's Bush. Aveva sei settimane. Poi, la stessa data, lo stesso luogo, la stessa posa, ma questa volta era un padre, in divisa militare, che con orgoglio teneva in braccio la bambina. «Qualcosa vorrai conservare, no?», disse. «In questo momento darei fuoco a tutto. A cominciare dalla casa». Valerie chiuse l'album di scatto. «Non lo voglio guardare. Ken mi ha portato via da quella casa per farmi vivere in questo buco. Lo sai che l'aveva chiesto lui il trasferimento? Quando è tornato dalla Corea mi ha fatto lasciare tutto quello che avevo, tutto quello che conoscevo. Avevo sette anni quando mio padre è entrato a Scotland Yard. Non mi ricordo quasi del Lancashire. Ero dalla testa ai piedi una ragazza della Londra ovest. Non volevo muovermi. Maledetto». «Non lo sapevo». «A lui premeva portarmi il più lontano possibile da te». «Non credevo che sapesse che io...». «Non lo sapeva. Sapeva solo che c'era qualcuno. Il mio "amante", così lo chiamava». Troy, a quel punto, non sapeva se fosse meglio parlare o tacere. «Non sentirti troppo lusingato, Troy», disse Valerie. «Non eri il solo. Che detective sei se non l'hai capito?». Era una specie di scherzo. Un rapido, tetro sorriso passò sulle labbra di Valerie. Poi le lacrime cominciarono a sgorgarle dagli occhi. Chinò la testa e Troy riuscì solo a sentirla mormorare: «Cristo, Troy, che cosa faccio adesso?». Tese le braccia, gliele strinse al collo e singhiozzò sulla sua spalla. «Maledetto», disse, mentre il pianto le toglieva il respiro. «Maledetto. Spero che marcisca all'inferno». Seguitò a singhiozzare per un pezzo. Troy vedeva la luce del sole prendere i colori del tardo pomeriggio, guardava, di là dal vicolo, il retro delle case. Lei non si muoveva. Sentiva solo il respiro che le alzava e abbassava il petto contro il suo. Le posò una mano sui capelli. Gli era parso che fosse giusto. Che un gesto si dovesse fare. Lei si scosse. Alzò la faccia vicino al-
la sua, nella penombra. Aveva solo trentasette anni. Era molto bella. Aveva i capelli biondi di sua figlia e gli occhi azzurri, penetranti di suo padre in un viso largo e pallido. Lo baciò su una guancia. Poi si tirò indietro e lo guardò, senza espressione. Lo baciò sulle labbra e provò a scostargliele con la lingua. «Per l'amor di Dio, Troy». «Sono sposato». «Eh? Sposato?». «Sì», rispose Troy e sentì che era una bugia più di tutte quelle che aveva detto da molto tempo. «Anch'io ero sposata. E che differenza faceva? Troy, io non voglio che tu mi dica che sono l'amore della tua vita. Non sono una ingenua né una visionaria, ma so che cosa succederà. Papà partirà alla riscossa, a cavallo e con l'armatura. Perderemo la casa. Un sollievo. È una casa della RAF, fa parte degli appartamenti in uso ai sottufficiali sposati, ma papà mi porterà in quello schifo di Acton. Troy, io non voglio tornare a essere una ragazza che vive con suo padre; io li mando a farsi fottere Acton e mio padre. Ho bisogno di una svolta, di un'occasione che mi faccia stare in piedi da sola. Insieme a Jackie. Ma fino a quando non ci riuscirò, ho bisogno che tu mi metta un tetto sulla testa. Acton sarà la mia morte. Lui mi porterà lì e non mi lascerà più andare via. Resterò al 22 di quelle villette per il resto della mia vita. L'eternità al Tablecloth Terrace. Fallo per me, Troy. Non c'è bisogno che tu mi dica che mi ami. Basta che mi aiuti. Non voglio andare ad Acton. Aiutami!». Troy non disse nulla. 85 Onions aveva acceso un po' di fuoco nella cucina economica, nella stanza in fondo alla casa e si era seduto lì davanti a fumare una Woodbine. «Cominciavo a chiedermi perché non tornavi», disse. «Sopravvivrà». «Sì, ma in quali condizioni? Anche quando era più giovane, qualche volta entrava in quello stato di agitazione che mi faceva star male». «Adesso è cresciuta, Stan. Si riprenderà più presto di quanto credi. E non mi aspetterei, se fossi in te, di vederla portare il lutto ancora per molto». «Ma...».
«Non piangerà Ken più a lungo di quanto debba fare. Forse un po' meno di quanto richieda il protocollo. È decisa a lasciare la casa e Salford per tornare a Londra. Non erigerà un santuario a Ken né in questa strada né nel suo cuore». «Avrà danaro per vivere?». «Certo. Ken era un sottufficiale di carriera. Valerie ha diritto a tutta la pensione della RAF. Sarà considerato morto durante un'azione bellica, e questo significa più soldi e forse anche una medaglia. Ho telefonato a mio fratello ieri sera. È ancora il beniamino dei marescialli dopo i due anni in cui è stato ministro dell'aviazione durante il governo Attlee. Mi ha detto che a Valerie non mancherà niente. Se ne interesserà lui. E, se vorrete, ci saranno anche i soldi per far andare Jackie avanti negli studi e per la riambientazione a Londra». «La...?». «Se fossi in te, darei una spolverata alla sua vecchia stanza ad Acton e la porterei lì con a bambina, finché non riuscirà a stare per conto suo». «È quello che lei chiede?». Troy si strinse nelle spalle, lasciando che Stan interpretasse il gesto come voleva. «Io dovrò stare qui per un po'». «Certo. Che cosa vuoi che faccia?». «Devi assumere la direzione a Scotland Yard. Non posso andare avanti ancora senza di te. Aveva ragione il ragazzo». Il ragazzo era Wildeve. Aveva trentasei anni, ma Onions non lo vedeva altro che così. «È venuto da me e ha insistito che ti lasciassi a riposo. Ma ora ti sei più o meno ripreso, no?». Sembrava che non si ricordasse più che c'erano altre e più valide ragioni per la richiesta di Wildeve. «Sto bene». «Chiederò una settimana di permesso per lutto, ma non prima di lunedì, così avrai ancora qualche giorno per una visita medica e mettere ordine nella tua vita. Dovrai assumerti una parte del mio lavoro, solo per un po'. E d'ora in avanti guiderai la squadra a pieno diritto. Tom... non tornerà. L'ho saputo venerdì. I medici gli danno un mese di vita. Venerdì è stata la giornata delle brutte notizie. Tu devi tornare a Scotland Yard e prendere il suo posto. Sarai confermato sovrintendente appena possibile. Me ne occuperò io». Onions tacque. Era molto triste. Una lacrima gli si formò di nuovo agli
angoli degli occhi. Aspirò un'ultima boccata del fumo della Woodbine e gettò il mozzicone nello sportello della cucina a gas. Troy non lo aveva mai visto così apertamente sconfitto. Per vent'anni Stan era stato per lui come una roccia e le rocce non sanguinano, le pietre non piangono. A conti fatti Troy non riusciva a credere alla sua fortuna. 86 Jackie era ancora seduta sui gradini davanti a casa. In qualche momento doveva essere salita da sua madre perché aveva sulla faccia la vecchia maschera antigas tutta rotta, ma aveva avuto la precauzione di tirarsi indietro il cerchietto sui capelli. La plastica dai colori sgargianti, le pietrine di vetro contrastavano con il grigio e il marrone della gomma e della tela e a Troy parve che quell'accostamento rappresentasse l'eredità sterile che la sua generazione aveva lasciato a quella successiva. Il bambino con la passione per le automobili era lì, sul marciapiede, davanti a Jackie. «Su, deciditi. Ti do sei pence». «Va bene», disse la bambina. La sua voce arrivò attraverso la maschera come un gracidio asmatico. Alzò una manina, delicatamente si tolse prima il cerchietto e poi la maschera. «Costa sei pence», concluse. Mise la moneta d'argento nella tasca del vestito e la coprì col fazzoletto. Troy la guardava e lei se ne accorse. «Per la macchina fotografica del mio papà ho preso uno scellino». Troy la salutò e fece per mettersi al volante. Il bambino correva tutto intorno all'automobile, con le braccia o meglio le ali aperte, il carrello in corsa, il ronzio dell'elica che usciva dalla maschera. Aveva delle nozioni palesemente errate. Troy abbassò il finestrino per lasciare uscire un po' di caldo. Il bambino atterrò vicino a lui. «Perché hai sprecato i soldi per comprare quella roba?», gli chiese Troy. «Sprecato? Questa può servire!». «E come?». «Se tornano i tedeschi». «Che sciocchezza! Sono passati tanti anni». «Possono tornare lo stesso. Il mio papà dice che poi verranno gli arabi». «Può darsi. Ma gli arabi non sono i tedeschi». «Il mio papà dice che sono tutti stranieri allo stesso modo». La logica della xenofobia in un bambino. L'oracolo infallibile rappresen-
tato da quelle parole "il mio papà". Troy infilò la chiave nel cruscotto e decise di porre termine alla conversazione. Ma il bambino era di un altro parere. «Il mio papà dice che sono stati gli egiziani a uccidere il papà di Jackie». Troy guardò verso la casa. La porta era chiusa. Jackie se n'era andata. «Non è vero», disse con calma al bambino. «Sono stati i ciprioti. Non gli egiziani. Gli egiziani non hanno ucciso nessuno». «Il mio papà dice che lo hanno ucciso un pezzetto per volta, come facevano i giapponesi durante la guerra», affermò il bambino, con un evidente gusto del macabro. Troy, scoraggiato, girò la chiave e accese il motore. 87 Fu un bel viaggio. Attraverso i monti Pennini con il sole dell'occidente alle spalle, oltre il Whalley Bridge e poi nella vecchia città termale di Buxton. Non aveva nessuna voglia di guidare o di arrivare col buio. Gli sembrava troppo compromettente. Si fermò a dormire al Peacock Inn, a Rowsley. Cenò tardi, la mattina dopo fece colazione presto e alla sette e mezzo era già nelle vicinanze della cittadina del comandante Cockerell, scendendo da nord, lungo la tortuosa A6, costretta tra il fiume Derwent e la vecchia linea ferroviaria delle Midlands che scavava il suo percorso montuoso, snodandosi tra Derby e Manchester. Si fermò vicino al cotonificio e chiese dov'era Wirksworth Road. Un uomo che portava a passeggio un cane gli indicò col bastone la cima della collina. Di là dal fiume, vicino ad Ashbourne Road. O, più poeticamente, verso nord, nordovest. Troy lasciò l'automobile davanti al numero 44 e tolse dal portabagagli la valigia rosa che aveva preso a Brighton. Non c'era campanello. Bussò con il battente che era sulla casella della posta. Lei non si era ancora vestita. Comparve sulla soglia con indosso l'accappatoio, i capelli puntati in alto sulla testa. Guardò la Bentley, dietro le spalle di Troy. «Vuoi lasciarla qui? È più grande della casa». «Perché no? Credi che i vicini chiacchiereranno?». «Ci provino!».
88 Troy la guardò mentre si vestiva, le mani svolazzanti tra una serie di indumenti e una grossa tazza di caffè istantaneo. Per un attimo restò nuda, mentre si infilava le mutande, poi sparì in un paio di blu jeans scoloriti, con l'allacciatura a bottoni che, Troy l'aveva saputo dai suoi nipoti, tutti volevano ma pochi riuscivano a procurarsi. Sopra si mise una maglietta bianca con le maniche corte. Mentre alzava le braccia per tirarsela giù, sul petto, si tolse il fermaglio dai capelli, che le ricaddero fino a metà schiena. Poi aprì la porta sul retro, dove una scala di cemento portava a un giardinetto che pareva sospeso per aria, si fermò a respirare l'aria del mattino e si spazzolò i capelli. «Immagino», disse pigramente, «che tu sia abituato a donne con spogliatoi e tavoli da toilette. Fa molto ceto operaio vestirsi in cucina. Ma è un'abitudine che nasce dal fatto che la cucina è quasi sempre la stanza più calda della casa. E poi, io vivo sola». Guardò il giardino, guardò la valle e si diede ancora una mezza dozzina di colpi di spazzola ai capelli. Troy taceva. Certo, era tutto vero, ma lui godeva ogni attimo di quella cerimonia. Quando era piccolo, le sue sorelle, prive di timidezza, assolutamente spontanee si vestivano e si truccavano davanti a lui, che provava una sensazione strana, anche bella da ricordare, sensuale ma priva di sessualità. «A che serve quella valigia?». Aveva parlato come se non se ne fosse accorta fino a quel momento, ma Troy era entrato tenendola in mano, quindi doveva già averla vista... aveva solo scelto quello che le pareva il momento giusto per chiedere. «Faremo un viaggio». «Sulla luna, con ali impalpabili?». Lei chiuse la porta sul panorama della valle e mise la spazzola sulla mensola del camino, vicino a un orologio fermo. «No, a Parigi. Forse anche a Montecarlo». Si mise a sedere sul bracciolo di una vecchia, brutta poltrona dozzinale che stava in un angolo, tra la porta e il camino, prese un paio di scarpe da baseball, si chinò e se le allacciò fino alla caviglia con dei movimenti delle dita così rapidi che l'occhio quasi non riusciva a seguirli. Si alzò e fece qualche saltello, come un pugile intorno al ring, poco prima che inizi l'incontro. «Non sono vestita per andare a Montecarlo».
«Che cosa credi che ci sia in questa valigia?». «Provo a indovinare? Ci sono dei vestiti di Stella. Ma non sono miei. Non dobbiamo partire subito, vero?». «No. Non subito». «Allora usciamo. Una passeggiata. Ti fa piacere, no?». Attraversò la stanza per avvicinarsi a Troy. Gli occhi negli occhi, le spalle contro le sue, poi gli prese la testa tra le mani e l'abbassò verso di sé. Lo stesso gesto di Kolankiewicz, tanto delicato quanto l'altro era brusco. Gli passò le dita sulla cicatrice. «Sta guarendo. Se sei sicuro che ti faccia piacere ti porto un po' in giro. Ci sono alcune cose che vanno dette, prima di raccogliere la nostra roba e sparire». Scendendo lungo la collina per la strada che portava in città, si trovarono per una trentina di metri dietro un gruppetto di donne che chiacchieravano. «Al cotonificio si comincia a lavorare alle otto», disse la Foxx. «Un giorno o l'altro mi ritroverò con loro a quest'ora». «Ti hanno dato un permesso per il lutto?». «Parli sul serio? Sei un ingenuo. È un cotonificio, non la Royal Navy. Ho chiesto di prendermi i giorni che mi spettavano per le vacanze quando è venuto il poliziotto a darmi la notizia della morte di Stella. Mi hanno dato quindici giorni e sembrava che si fossero amputati una gamba. Ormai è passata più di una settimana, ma io non ho voglia di tornare a lavorare». Poco prima di raggiungere il ponte di Derwent, Shirley guidò Troy per un sentiero lungo il fiume, alto sopra l'acqua che scorreva, limpida. «Per quanto tempo mi hai detto che hai lavorato qui?». «Ho cominciato a diciotto anni. Più tardi della maggior parte delle mie compagne. Avrei potuto essere assunta, credo, anche a quindici o sedici. Traballando sui tacchi, con il reggipetto imbottito, fingendo di essere Jane Russell o, semplicemente, un po' più vecchia. Ma mia madre pensava sempre che fossimo fatte per un destino migliore. Anche dopo la morte di papà cercava sempre di far sì che avessimo qualcosa in più delle altre. Avevo seguito il corso per segretarie, come Stella. Scrivere a macchina e stenografare poteva sembrare "un destino migliore", ma pagavano poco e, a dire la verità, ne avevo abbastanza di fare la segretaria, di chiunque si trattasse. Il mio capo non era meglio di Cockerell, anzi era peggio, perché pensava di poterti infilare le mani sotto la gonna senza neanche offrirti il nido d'amore. Così sono andata al cotonificio. Era la soluzione più ovvia, più semplice. Dopotutto, mezza città lavora lì. L'altra metà, in miniera o alle ferro-
vie. Ho impiegato meno di un giorno a imparare quello che dovevo fare e dopo una settimana lo facevo dormendo. O almeno dormendo a occhi aperti. A quel tempo pensavo che un lavoro che non impegna nessuna delle tue facoltà mentali è relativamente meglio di uno per cui devi consumarne una decina... lo vedevo come una forma di libertà. E i soldi erano più di quelli che guadagnavo alla macchina da scrivere, portavo a casa da vivere per me e per la mamma. Poi Stella ha cominciato a mandarci dei soldi. Avrei potuto non accettarli, sapevo che erano di Cockerell, invece li ho presi. Sarebbero bastati a farmi lasciare il cotonificio, invece non l'ho fatto. La mamma credeva che Stella lavorasse ancora come segretaria a Londra. Io dovevo fare in modo che non sapesse la verità. Se avessi smesso di andare al cotonificio, mi avrebbe chiesto da dove venivano i soldi. Pareva non accorgersi che avevamo un tenore di vita superiore a quello consentito dallo stipendio di un'operaia. Ma negli ultimi tempi lei non c'era già più. Era morta a Natale. E io già da un pezzo avevo cominciato a odiare il mio lavoro. Viene un momento in cui i sogni a occhi aperti si impoveriscono se non fai niente per arricchirli». Camminava con un passo così svelto che Troy era quasi senza fiato. Risalirono la valle sul lato lontano dal fiume e imboccarono un vecchio sentiero accidentato che andava verso sud, lungo la cresta dei monti Pennini. «Lo sai qual è la molla vitale di un posto come questo?». Indicò la ciminiera del cotonificio, la massa più imponente che apparisse all'orizzonte. «La busta paga? La carriera? No, è una sessualità che scorre sotterranea, si esprime per allusioni. Gli uomini non si salutano il lunedì mattina, chiedono: "Quante?"». «Cioè?». «Quante? Quante te ne sei fatte? Di ragazze». «Ah», disse Troy, stentando a penetrare quel tipo di realtà. «Però nessuno ti tocca neanche con un dito». «Si parla soltanto?». «Sì. E non puoi immaginare che piacere fa qualche volta a una ragazza. Io sono immune ai complimenti volgari. Ma, se è per questo, ero immune anche al fascino di Arnold Cockerell. Se Stella fosse stata come me, a quest'ora sarebbe ancora viva». La Foxx scavalcò con agilità un cancelletto di legno. Troy la seguì, più cauto, e si trovò davanti a un colossale muro di pietra che si ergeva in uno spazio vuoto, o, per essere più precisi, vista la mandria cornuta che li salutava con un pigro muggito mentre si avvicinavano, in mezzo a un pascolo.
Troy alzò gli occhi a guardare il muro. Era alto forse sette metri, costruito solidamente nel granito locale e crivellato di buchi, da alcuni dei quali sbucavano ambiziosi germogli di sicomoro. Era stato costruito per le esercitazioni di tiro, nel 1860, come indicava una targa di ferro proprio sotto il parapetto. Una testimonianza dell'ultima guerra che le due nazioni alle quali apparteneva Troy avevano combattuto in Crimea. L'inutile, sanguinoso punto morto della metà dell'Ottocento. Anche qualche membro della sua famiglia era morto a Sebastopoli. La data e lo scopo di quella struttura di pietra gli fecero ricordare gli episodi che suo nonno raccontava sui fratelli e i cugini persi in battaglia. Qualunque fosse il valore simbolico che quel muro aveva per lei, la Foxx non avrebbe mai potuto immaginare quale significato aveva per Troy. La Foxx infilò, spingendolo avanti, un piede in un buco, fatto probabilmente qualche generazione prima, da una palla di moschetto. Alzò le braccia contro la superficie quasi perfettamente verticale del muro, si arrampicò a un metro o poco più da terra. «Non guardarmi così», disse, dando un'occhiata a Troy da sotto un braccio, «mi farai cadere. Come va la testa?». «Mi fa ancora un po' male». «Volevo dire se ti dà le vertigini. C'è una scala dall'altra parte del muro. Sali, ci vediamo in cima». «Ma tu ti arrampichi fin lassù?». «Non pensavo di mettermi a volare. Lo faccio da quando avevo dieci anni. Basta che tu non mi distragga e andrà tutto bene». Troy avanzò nel boschetto di faggi e, dietro il muro, trovò una scala di ferro a pioli, tutta arrugginita. La sentì cigolare sotto il suo peso e concluse che nessuno l'aveva usata da molto tempo. A poco più di un metro dalla cima, un piolo si spaccò netto in due e gli fece battere il cuore più in fretta, ma riuscì a spingersi fino in alto, da dove poteva vedere estendersi per chilometri attraverso tutta la valle un panorama stupendo. Vide comparire una mano, poi un piede e subito dopo la Foxx si issò sul parapetto. Restò seduta per un momento ai piedi di Troy, poi si alzò, si ripulì i vestiti e disse semplicemente: «Allora?». «Ne valeva la pena». «Oh sì», rispose lei, ancora senza fiato. «Ne vale sempre la pena». Camminò fino al limite del muro e guardò la vallata dove la ciminiera del cotonificio dominava tutto il paesaggio. Con un profondo sospiro, tornò da Troy.
«Hai delle notizie per me, vero?», disse. «Altrimenti non saresti venuto qui, con la tua automobile di lusso e una valigia». Troy si levò di tasca la lettera decrittata. «L'ho trovata nella cassetta di sicurezza di tua sorella. Era scritta in codice, ma in una forma semplice. È indirizzata a te». Lei tornò a sedersi sul bordo del muro, con le gambe penzoloni su quei sette metri di altezza e, in silenzio, lesse la lettera. Poi la ripiegò e restò zitta per un minuto buono. Infine fece cenno a Troy di sedersi accanto a lei. Troy obbedì, cercando di non guardare giù. Pallida, con la faccia tirata, ma senza traccia di lacrime, la Foxx gli ridiede la lettera. «Forse sapevo tutto. Tranne i soldi e la Russia. Il resto sì. Spendeva troppo». «Credi a quello che ha scritto?». «Sì. E anche tu ci credi, altrimenti non saresti qui. Forse è il momento di dirmi perché sei venuto». «Voglio che andiamo a Parigi ad aprire la cassetta di sicurezza. O forse un'altra cassetta in un'altra città, se non troveremo quello che cerchiamo. A Londra ho potuto farlo grazie al favore di un vecchio amico, è il direttore della banca e mi ha aiutato. Ma se ti tagli i capelli, cambi il trucco...». «E mi metto uno di quei vestiti appariscenti che hai portato tu». «Ho portato anche dei tailleur molto sobri. Non ti sarà difficile passare per tua sorella. In teoria quello che serve per aprire una cassetta di sicurezza è la chiave; il possesso della chiave è tutto. In pratica, però, bisogna pensare che alle banche non sono così distratti e conoscono i loro clienti. Ma in questo modo eviteremo di insospettirli». «Già». «Lo farai?». «Sono i soldi che ci interessano o no?». «I soldi sono un particolare secondario. Io ho bisogno di sapere il resto. È l'unico modo per scoprire chi l'ha uccisa». «Ma lei ha scritto che il resto è pericoloso». «Aveva ragione». «Allora i soldi non sono un particolare secondario. Per nessuno quarantamila sterline sono un particolare secondario. Se c'è un rischio dev'esserci anche un compenso». «Farai quello che ti ho chiesto?». Di nuovo lei non rispose. Si alzò in piedi, rivolta verso la città, di là dal
fiume. «Guarda laggiù. Dimmi che cosa vedi». Troy considerò la richiesta con qualche sospetto, ma le prese la mano e lei lo aiutò ad alzarsi. Che cosa voleva fargli vedere? Forse era una richiesta innocente. C'era, se ne accorse per la prima volta, più di una ciminiera (forse la città aveva avuto una crescita iniziale con i cotonifici e col tempo, in cinquant'anni, l'industria si era fermata), molte guglie e campanili di chiese e tante stradine piene di case, arrampicate sui fianchi di una piccola valle inserita a T nella Derwent Valley, dove la geografia imparata a scuola suggeriva a Troy che dovesse esserci quasi certamente un fiumiciattolo. Le case gli parvero l'illustrazione di una novella dei fratelli Grimm. Il gigante solitario sale sulla montagna con un sacco pieno di casette su misura per un villaggio modello, ma si accorge troppo tardi che nel sacco c'è un buco. Le case rotolano fuori e vanno a fermarsi a caso, cioè disordinatamente, sul fianco della collina e lui le lascia come stanno, sparse qua e là. Solo il cotonificio violava la linea nitida della riva del fiume, la città si fermava duecento metri prima, in una ben delimitata pianura alluvionale. Sulla collina si estendevano i campi, che avevano la forma dei rombi e dei trapezi irregolari delle trapunte inglesi ed erano disseminati di pecore e di querce, ornati dei nastri irregolari delle siepi di biancospino, dei grovigli di rose canine che avevano già messo i frutti, del rosso da sangue rappreso delle more che stavano maturando. Più sotto, una fila di carpini disegnava una linea dritta attraverso una strada larga, che a sua volta portava a due fattorie, scavate nella pietra, che sembravano nate con il paesaggio. Era la stagione in cui il bosco a latifoglie era particolarmente bello. Sulla cima degli alberi, splendeva la gloria dei verdi cupi che, entro una settimana o due, con l'inizio dell'autunno, avrebbero cambiato colore. Troy capì che gli era stato chiesto di riprendere in considerazione il luogo. La sensazione orwelliana che gli avevano dato le strette strade di acciottolato e le tristi case nordiche, cedeva a questa più ampia visione del paesaggio. La città, come molte città settentrionali, aveva un carattere industriale, sviluppato in un solo settore, tuttavia gli pareva diversa dalle altre che aveva visto nello Yorkshire. Era più piccola, più pulita, con una campagna più lussureggiante, più ricca di sfumature di verde. Era, lo avrebbe ammesso solo con se stesso, una parte delle tristi contee dell'Inghilterra centrale molto più bella della contea dov'era casa sua. «Un paesaggio molto gradevole», disse senza enfasi. «Soltanto?». «D'accordo, è bellissimo».
«Così va bene. Prenditelo tutto, te lo lascio! Non lo voglio!». «Che cosa vuoi, invece?». «Voglio», pronunciava le parole lentamente, con cura, come un insegnante di dizione, lasciando che le scoppiassero sulle labbra come bolle di saliva, «che mi porti via di qui». Indicò la valle con un gesto ampio, che diceva tante cose e nessuna e, improvvisamente, una frase retorica che sembrava presa da un romanzo da quattro soldi, apparve vera, magica e pericolosa. «D'accordo», disse Troy. «Parlo sul serio, Troy. Andiamo a casa. Faccio la valigia. Mando per posta la chiave all'ufficio delle case popolari. Saliamo su quella tua automobile pazzesca e non torniamo più». «D'accordo», disse ancora Troy. «Fantastico». Gli rivolse un largo sorriso, girò sui tacchi e saltò giù. Istintivamente Troy sporse un braccio per afferrarla e per poco non perse l'equilibrio. La vide cadere, rannicchiata a terra, poi rotolare come un paracadutista e balzare di nuovo in piedi. Una caduta così avrebbe dovuto spezzarle tutte e due le gambe, invece Troy la vide avviarsi di corsa per il sentiero, poi voltarsi, camminando all'indietro, e gridare: «Mi serve un'ora per fare le valigie. Attento a non perdere la strada». 89 La Foxx ebbe a disposizione più dell'ora che aveva chiesto. Troy trovò un sentiero che portava in città e ripercorse faticosamente le strade di acciottolato dall'altra parte della valle, in cerca della "Valle dei gelsomini". La signora Cockerell venne ad aprire la porta con un pennello tra i denti. Se lo tolse e disse: «Ho sempre saputo che, se l'avessi rivista, non mi avrebbe portato buone notizie». Lo fece entrare e lo guidò verso il retro della casa, senza dire altro. Troy la seguì. Non si era considerato un latore di buone o cattive notizie. Aveva pensato che lei, a quel punto, volesse solo sapere, indipendentemente da tutto. Credeva che lo avrebbe ricevuto in giardino. Attraverso la portafinestra si vedeva un cavalletto, rivolto verso sudest, dov'era montato un cartone bianco con un disegno quasi astratto, ancora a metà. Ma lei entrò in cucina e Troy sentì il fischio di un bollitore acceso. Tè e simpatia. Ma che genere
di simpatia poteva dimostrarle? In piedi, con la schiena rivolta verso il fornello, un pennello in una mano, un accendigas a batteria nell'altra e le braccia incrociate sul petto, la signora Cockerell sembrava Nefertiti in cucina. «È lui, vero?». «Sì». «Ne è sicuro?». «Sì». Lei appoggiò sul tavolo l'accendigas. Ripulì il pennello sporco di pittura color cremisi sul grembiule allacciato davanti e lo mise in un vaso forse destinato alla marmellata. «Non si preoccupi, signor Troy. Non piango facilmente». Troy si sentì sollevato. Ne aveva abbastanza di lacrime. A quel punto lei scoppiò in singhiozzi, con la forza di un temporale d'estate. 90 Troy scelse un piccolo albergo sulla riva sinistra della Senna, tra Boulevard St Germain e Place de l'Odéon. La tattica opposta a quella usata nelle spedizioni a Vienna e Amsterdam. Nascondersi nelle stradine della città. Un albergo senza l'importanza (o l'eleganza) dell'Europe o del Sacher. Se qualcuno l'avesse cercato, sarebbe stato difficile trovarlo. La camera era piccola, ma la Foxx non aveva termini di paragone con cui misurarla e accettava tutto senza commenti. Gli chiese dei soldi per alcuni acquisti. Era essenziale che lei fosse identica a sua sorella, e non solo fisicamente. Forse un taglio di capelli, dei vestiti nuovi sarebbero stati utili? Troy fu sorpreso nel vedere la cognizione della ritualità con la quale la Foxx affrontava il compito. Tornò, dopo essere stata dal parrucchiere, con un'altra valigia rosa e una grossa sacca da viaggio verde, i capelli raccolti in un fazzoletto di seta, la figura nascosta dalle linee morbide di una giacca priva di connotazioni sessuali sopra i soliti bue jeans con la maglietta. Si slacciò la giacca e la fece scivolare a terra. Si tolse il fazzoletto di seta e liberò i capelli. Quel mezzo metro di chioma bionda era stato tagliato all'altezza del mento e ora i capelli non le ricadevano più dietro le spalle come prima, ma le circondavano il viso, le punte sfilate stavano voltate in su attorno alle guance, nascondevano in parte i lineamenti e l'espressione. Lei prese uno dei vestiti di sua sorella dall'armadio, tolse dalla confezione la biancheria nuova e l'appoggiò sul letto, un capo per volta, come i ve-
stitini delle bambole ritagliati dagli album di cartone, reggiseno, mutandine, calze e reggicalze; poi la giacca a doppio petto e la gonna rosso rubino. «Lo sai che cos'è questo?», chiese a Troy. «No. Ho preso dall'armadio le prime cose che mi sono capitate sotto mano». «È un Dior. Se non sbaglio è quella che si chiama linea H. Era di gran moda a Parigi un paio di anni fa. Costa una bella cifra. Se non sapessi che l'hai scelto per caso ti direi che hai avuto buon gusto». Si sfilò la maglietta, slacciò i bottoni di acciaio dei blue jeans come se sgusciasse dei piselli e se li tolse, infilò i pollici nell'elastico delle mutandine, se le tirò giù fino alle caviglie e le buttò via con un calcio. Restò così, in piedi, nuda, senza guardare Troy ma se stessa, nello specchio. Erano sorelle. Gemelle, ma anche ora Troy vedeva le differenze tra l'una e l'altra. Sovrappose mentalmente il corpo muscoloso della Foxx a quello di Madeleine quando era uscita dal bagno puntandogli addosso una pistola che ora stava nella tasca della sua giacca, tra qualche filo di lana e qualche biglietto dell'autobus usato. La Madeleine del suo ricordo pagava il prezzo degli agi, e a ventidue anni era già sciupata dal cibo, dal fumo, dall'alcol. La Foxx aveva dei bei muscoli in rilievo. Troy pensò che erano certamente meglio dei suoi. Il muscolo della coscia risaltava, uniforme, quelli delle caviglie si univano ai tendini tesi se la vedeva alzarsi in punta di piedi, di spalle. I seni piccoli si ergevano davanti a lui per provocarlo, i muscoli pettorali erano fermi, i capezzoli rosei erano rivolti in su, secondo le suggestioni stereotipe della peggiore letteratura. «Addio, Shirley Foxx», disse lei, infilandosi i pantaloni. «D'ora in avanti chiamami Maddy, oppure matta». Troy stava disteso sul letto e guardava l'insieme, pezzo per pezzo, comporsi. Il reggiseno agganciato con le braccia dietro la schiena, in un gesto sconnesso, contorto, le calze tirate su fino alle cosce per una lunghezza che aveva il valore dell'infinito e tese ripetutamente con le mani, la gonna agganciata e chiusa con la cerniera lampo, lo striptease a rovescio di una metamorfosi totale. Ultime, le scarpe nuove, appena tolte dalla scatola, scarpe costose, belle scarpe di pelle rossa. Lei se le mise, poi si rialzò i polsi della giacca a metà dell'avambraccio. «Questo è un vestito che andrebbe portato con i guanti lunghi, lo sapevi, vero?». «Non mi è neanche passato per la mente», rispose Troy, ancora disteso sul letto.
«Per la tua no, ma per la mia sì, fortunatamente. Altrimenti che figura avrei fatto?». Aprì la valigia nuova, e ne tolse un'altra, pure rosa, più piccola che conteneva un paio di guanti bianchi lunghi fino al gomito, che sembravano il premio finale di una partita a "indovina cosa c'è nel pacchetto". «C'est tout», disse. «Non», rispose Troy. «Ce n'est pas tout». Prese una scatola portagioielli che aveva nella tasca della giacca e l'aprì. C'era un filo di perle su un fondo di velluto. Lei si voltò e lui glielo allacciò dietro il collo, poi le fece fare un mezzo giro su se stessa per averla di fronte e vedere come stava. «Ecco, così sei perfetta». «Sono di Madeleine?». «Le ho trovate nel cassetto del suo tavolo da toilette». La Foxx si guardò nello specchio e poi guardò Troy. «Sono perle vere?». «È probabile». Lei le toccò con la punta delle dita. Era la collana tradizionale della signora inglese appartenente alla buona società. Faceva parte della divisa. «Dio, quante ne combinava. Una finta signora inglese! Chi se lo sarebbe immaginato? Tu lo avevi capito?». «In parte. C'era qualcosa che suonava falso. Avevo pensato, più o meno, che fosse una ragazza proveniente da una buona famiglia di una contea dell'Inghilterra centrale. Non avevo creduto alla sua aria sofisticata. Sembrava una vernice applicata dopo. Era Cockerell che voleva avere vicino a sé una improvvisata vera signora inglese?». «No. Era Stella. Le piaceva questo gioco. Arnold metteva i soldi e faceva quello che faceva, ma questa era la parte che si era assunta Stella. Le prove le abbiamo qui, davanti agli occhi». Si voltò di nuovo verso lo specchio e si guardò con attenzione. «Non sono più io, vero? Sono lei». «In superficie. La somiglianza tocca solo la superficie della pelle, non va in profondità». «Ritroverò me stessa? Non ne sono sicura». «Un modo c'è per ritrovarti». «Sì?». «Togliti di nuovo tutto». «Tutto tutto?». «Tutto. Un po' per volta». «Una specie di striptease?».
«Chiamalo come vuoi. Ma alla fine ecco che sarai ancora te stessa». Troy contemplò lo svolgersi del processo di trasformazione all'incontrario. La gonna che scendeva lungo i fianchi e le gambe coperte dalle calze e finiva a terra, raccolta in un mucchio. Il corpo piegato, come in un Dégas, nella posa da balletto classico, una gamba assurdamente più lunga dell'altra, mentre sganciava la calza dalla giarrettiera, tirava il muscolo della coscia e sfilava il nylon. E la torsione del busto, la gabbia toracica che si tendeva e si alzava, i seni che si appiattivano mentre le braccia salivano sopra la testa e lei si toglieva il reggiseno e lo gettava via con le mani che volteggiavano verso il soffitto, bilanciata sulla punta dei piedi. Eccola ancora nuda. A Troy non importava più niente di quei vestiti. Gli bastava guardarla per sentirsi bruciare. Toccarla per non capire più niente. Lei si chinò su di lui, solo con le perle al collo. Troy pensò che stava per impazzire. Da anni non provava quell'impulso incontrollabile. Si era abituato a una sensualità ragionevole, che accettava il compromesso, la sensualità beneducata della maturità, i desideri che sapevano aspettare. Le toccò un seno con una mano, le mise l'altra tra le gambe. Lei gliela prese e se la posò sul sesso, col palmo chiuso, quasi a contenerlo. «Adagio», disse. «Abbiamo tutta una notte davanti a noi». Una notte? No, non poteva capire. Non aveva la percezione della durata del tempo. Il cielo era una cupola che non finiva mai... "chilometri di fulgore dove avvolgersi e sparire". Quando si svegliò, la mattina, lei dormiva profondamente, con una gamba posata attraverso la sua. Lui la spostò, con cautela, e vide per la prima volta la differenza definitiva, irrefutabile tra la Foxx e sua sorella: un piccolo tatuaggio all'interno della caviglia sinistra. Un uccello che saliva verso l'alto con qualcosa in bocca. Una colomba? Sì, doveva essere proprio una colomba, con un ramoscello d'ulivo nel becco. Si ricordò di aver succhiato via quel pezzetto di conchiglia dal piede sinistro di Madeleine. Se ci fosse stato un tatuaggio se ne sarebbe accorto. Quando si fosse rivestita, la prossima volta in cui si fosse trasformata di nuovo in sua sorella, nella finta signora inglese, come lei stessa l'aveva definita, si sarebbe ricordato del tatuaggio, così dichiaratamente non inglese, non borghese, nascosto sotto le calze di nylon e le scarpe eleganti. 91 La Banque du Commerce Colonial non si distingueva da una abitazione
privata, alta e stretta come una casa inglese in fila tra tante altre simili. Era inserita, infatti, in una comune zona residenziale dove cominciava a trovare posto qualche costruzione più moderna, l'Avenue Montaigne che, con un angolo di quarantacinque gradi dai Champs Elysées, andava dritta verso il fiume, all'altezza del Pont de l'Alma. Come la Mullins Kelleher, solo una piccola targa di ottone indicava che lì c'era una banca. Bisognava cercarla per accorgersene. Seduto su una panchina, nel triangolo di erba fangosa di Place de l'Alma, Troy vedeva bene la banca e altrettanto bene il Crazy Horse, in Avenue George V. Quella vicinanza lo fece riflettere. Aveva significato qualche cosa, qualsiasi cosa per Cockerell? Ritirare i soldi dalla banca per buttarli nel tempio delle sollecitazioni sessuali? Non riusciva a concentrarsi tanto da fingere di leggere il giornale, che doveva servirgli da copertura. Parigi era una città di espedienti mnemonici, come l'abitudine tutta repubblicana di ricordare questo e quello dandone i nomi alle strade, quasi per dare una scossa alla memoria. In Inghilterra non si usava. Dov'erano, a Londra, l'Avenue Churchill o la rue Ernie Bevin? O, a maggior ragione, la George V Street? Si sentiva catturato da un mondo di piccoli simboli e coincidenze fugaci. Place de l'Alma: l'equivalente francese di una strada dalla quale passava spesso negli anni in cui era di ronda nell'East End, il nome di una battaglia della guerra di Crimea, dov'erano morti i suoi antenati; e Montaigne, come aveva definito le bugie?... Un vizio miserabile? No... un vizio maledetto. La bugia, il vizio maledetto di Madeleine Kerr. Giocherellò tra sé con le parole "maledetta Madeleine" e non si accorse che la Foxx stava uscendo dalla banca. Quando la vide era già lì davanti che salutava un uomo, stringendogli la mano, e poi aspettava, con la faccia alzata verso il sole, mentre lui faceva cenno a un taxi di fermarsi. Anche Troy fermò un taxi che scendeva lungo l'Avenue George V, indicò quello dove si trovava la Foxx e che, avanti al loro, stava già attraversando il ponte, e disse: «Suivez». Il tassista alzò gli occhi al cielo, infastidito, irritato, come se tutti gli inglesi avessero la mania di inseguire i taxi. Mentre voltavano a sinistra, sulla riva opposta, imboccando il Quai d'Orsay, Troy vide la testa bionda della Foxx attraverso il finestrino posteriore. Il suo autista brontolava e imprecava, ma lei era lì. poco avanti a loro, e Troy dedicò la sua attenzione a quello che più contava. Li stava seguendo qualcuno? Ogni pochi secondi si voltava, guardava tutte le automobili che passavano accanto e non perdeva d'occhio il taxi dov'era la Foxx, stringendo in mano la piccola rivoltella do-
rata di Madeleine Kerr a ogni semaforo del Boulevard St Germain. Era quasi certo che nessuno li stesse seguendo. Il taxi lasciò il boulevard e imboccò rue de l'Odéon, con altri due taxi dietro, poi lasciò rue de l'Odéon e prese la rue Racine e lì non c'era più nessuno, solo lui e la Foxx su due taxi diversi. Vide l'altro voltare a destra e capì che stava per fermarsi davanti all'albergo. Disse al tassista di fermarsi all'angolo e fece a piedi gli ultimi cinquanta metri. Aspettò cinque minuti nell'atrio e non vide entrare nessun altro. Salì nella loro camera. Era vuota. Sul letto c'era la valigetta rosa più piccola, chiusa. Le scarpe rosse erano sul pavimento, buttate là, chiaramente come se le era tolte, sfilandosele con un calcio. Spinse la porta del bagno ed entrò. Solo lo spostamento d'aria gli fece capire che qualcosa gli stava arrivando addosso. Si chinò e una bottiglia di Perrier, lanciata come una mazza indiana, andò a spaccarsi sulla parete sopra la sua testa. «Credevo di trovarti qui!». La Foxx era in piedi davanti a lui. «Me l'avevi detto! Non capivo che cosa ti fosse successo». Troy si alzò da terra. Si tolse le schegge di vetro dai capelli. «Ti ho fatto da guardia. Se ti avessi avvertito, mi avresti cercato. Almeno uno sguardo me lo avresti dato». «Ci ha seguiti qualcuno?». «No, credo di no. Ma questo era l'unico modo per esserne sicuri». «Ma chi avrebbe dovuto seguirci?». Troy prese un asciugamano, si asciugò l'acqua minerale dalla testa e dalla faccia mentre tornavano in camera da letto. Non era una domanda cui volesse rispondere. «Com'è andata?», le chiese. Si mise a sedere sul letto, vicino alla valigetta rosa, si tolse la giacca e si strofinò ancora i capelli con l'asciugamano. «Bene. C'è stato solo un momento un po' difficile. Io mi sono rivolta al funzionario in francese e lui mi ha detto che la mia pronuncia era migliorata, poi ho parlato in inglese e siamo andati avanti così. Ho cercato di usare l'accento di una ragazza di provincia. Credo che Stella lo conoscesse bene, magari ci aveva anche civettato un po', non sono riuscita a scoprirlo, facevo già troppa fatica a rispondere a tono. Però non credo che abbia avuto dei sospetti». «E la cassetta?». La Foxx svuotò la valigetta. Grossi rotoli di biglietti da cinque sterline, una busta marrone e alcune monete d'oro fissate in strisce trasparenti den-
tro custodie di plastica. «Ho preso tutto. I soldi non so quanti sono, ma queste strisce sono sei e ciascuna contiene cinquanta sterline d'oro». Troy aprì la busta. Cinque fogli di carta. Cinque fogli scritti a macchina a doppio spazio, con cinque raggruppamenti del codice numerico che aveva trovato alla banca di Londra. Non aveva nessuna familiarità con i numeri. Li detestava. Avrebbe impiegato tutta la giornata a decrittare quei fogli usando le istruzioni che gli aveva dato Clark. Guardò la Foxx. Stava in piedi con le braccia incrociate, scalza, la gonna stretta color rosso rubino, la camicetta di cotone vaporosa e il simbolico filo di perle. La vide scostarsi dalla fronte la frangia, che prima non aveva. Lo guardò, pallidissima, con una espressione di fiducia e di attesa. Lui aveva una giornata di lavoro già ben definita davanti a sé, e l'unica cosa che lo interessava era fare l'amore con lei. Aveva nelle mani il cuore del mistero, l'oro e la verità, racchiusi nel cellofan e nei numeri e non riusciva a pensare ad altro che a lei, distesa sulla schiena, con le gambe strette attorno alla sua vita. «Sei tutto bagnato», disse la Foxx, tranquillamente. «Guarda, anche la camicia. Lascia fare a me». Gli sciolse il nodo della cravatta, gli sbottonò la camicia con un gesto materno, asessuato, ma lui non riuscì a vederlo né materno né asessuato e capì che ormai era perduto. Era lei il cuore del mistero, chiuso nella stoffa del vestito e nel nylon delle calze. Sotto c'era la colomba. Bastava strappare l'involucro. 92 Quando riemersero era mezzogiorno passato. Mentre la Foxx faceva il bagno, Troy aprì, sul tavolino sotto la finestra, i cinque fogli formato protocollo. Quando lei uscì dal bagno, era riuscito a decrittare la prima frase e si era bloccato sulla seconda. Ci sarebbe voluto più tempo di quanto avesse pensato. «Che cosa potrei fare per te?». «Niente. Perché non vai un po' a vedere Parigi? Ci vediamo per cena». «Dove devo andare?». «Ci sono tanti posti che si possono raggiungere a piedi. Il giardino del Lussemburgo è solo a quattrocento metri da qui e il fiume, dall'altra parte, è ancora più vicino. Perché non fai una passeggiata al Lussemburgo, poi, a
piedi vai all'Ile de la Cité, a Notre Dame e poi, se c'è ancora un po' di sole, ti siedi in quel piccolo parco che è di fronte all'isola. È un posto bellissimo. Leggi un giornale e guardi i barconi passare sulla Senna. Ci vediamo al Lapérouse alle otto». «Dov'è?». Troy tracciò la U piatta della Senna dietro il menu del servizio in camera, disegnò due grosse gocce oblunghe per indicare l'Ile St Louis e l'Ile de la Cité e segnò il Quai des Grands Augustins con una X. «Ecco», disse, «ci vediamo qui alle otto». Ma alle otto ne sapeva quanto prima. Aveva provato tutte le variazioni che Clark gli aveva suggerito, tutti i ventisei possibili punti di partenza, senza risultato. Trovò la Foxx in un angolo buio delle profondità nero e oro del Lapérouse, col suo completo rubino che si inseriva in quell'ambiente semisotterraneo con un naturale mimetismo. Il tavolo era d'angolo, con una sola candela sfrigolante. Lei aveva tra le mani un bicchiere di champagne e stava con gli occhi chiusi, le spalle contro la parete rivestita di legno. Li aprì solo un momento quando Troy venne a sedersi. «Stavo sognando», disse. «Ero morta e andavo in cielo. Sono salita sulla Tour Eiffel. È stato un momento magico. Non puoi immaginare che bella giornata ho passato». Troy poteva immaginarlo e lo immaginava, infatti. Conosceva la magia di quella città. Sua madre lo aveva portato una dozzina di volte nel 1920. Avevano ascoltato Ravel e Stravinskij. Erano stati proprio in quel ristorante. Lei gli aveva descritto la propria Parigi magica, quando, a diciassette anni, aveva conosciuto Maupassant e Zola, aveva visto la Tour Eiffel ancora a metà costruzione e le era sembrata "volgare". «Peccato tornare così presto», disse lui. La Foxx aprì gli occhi del tutto e gli sorrise. «Tu non devi tornare», disse Troy. «No?». «Non riesco a decifrare il codice. C'è qualcosa di sbagliato da qualche parte. Devo tornare indietro e mettere al lavoro il mio sergente. Tu prosegui. Io sarei comunque costretto a rientrare a Scotland Yard, non posso mancare un giorno di più. Tu vai. Ho bisogno di sapere che cosa c'è nella prossima cassetta. Potremmo trovare un messaggio diverso. Più facile». «D'accordo, io proseguo. Ma per dove?». «Per un'altra città. Montecarlo, Zurigo, Amsterdam. Scegli tu».
Lei tese una mano. «Una matita», disse con semplicità. Troy gliene diede una che aveva in tasca. Lei strappò delle striscioline di carta dalla lista dei vini, scrisse i nomi delle città e le preparò come per il gioco delle tre carte, poi le mescolò rapidamente e disse a Troy di «scegliere una carta». Troy stentava a credere a tanta indecisione, ma scelse la carta. «Zurigo», disse. «È Zurigo». 93 Onions aveva una segretaria personale che, quando era sicuro che non lo sentisse, chiamava "la Gorgone". Il suo vero nome era Madge. «È in ritardo», gli disse Madge, in piedi davanti alla sua scrivania, con un fascio di carte schiacciate contro il petto. «Mi avevano assicurato che sarebbe arrivato stamattina. Ho telefonato quattro volte». «Sono stato dal medico», mentì Troy. «Ho dovuto consultare il mio medico». Era stato con la Foxx, tutte le sue facoltà assorbite da lei fino all'alba. Aveva viaggiato nella poca luce del primo mattino. Si sentiva un po' malconcio. «Ma sta bene, adesso?», chiese Madge, senza interesse. «Sì». Il fascio di carte piombò sulla scrivania con un tonfo. «Bene», disse Madge. «Wildeve è a Hammersmith, Clark gli si trascina dietro. Il capo è a Manchester e il signor Henrey è morto. Di conseguenza sarebbe meglio che qualcuno stesse qui a mandare avanti un po' di lavoro. Lei legga e sigli, dove c'è scritto firma scriva p. Mr Onions e metta il suo nome». Si avviò verso la porta aperta. Troy la fermò, mettendole una mano sul braccio. «Quando?», disse. «Quando cosa?». Madge aveva la sensibilità di un rettile. «Quando è morto Tom?». «Ieri sera. Per che cosa credeva che l'avessi cercata al telefono, per chiederle come stava?». Non era che a Madge non importasse niente di Tom, non le importava niente di nessuno, solo di Onions.
«Che notizie ci sono da Manchester?». «Il capo pensa che resterà lì fino a martedì». «Dovrò parlargli». «Ha detto di non telefonargli. Io non so perché, Troy, ma sembra che la "nostra Val" si sia presa una fissazione per lei. Al suo posto non mi metterei in mezzo almeno per un po'». Troy lasciò che Madge se ne andasse, senza risponderle e, per un momento, provò uno sterile senso di colpa. La resa fugace dell'intelligenza alla coincidenza. Un collega aveva tirato l'ultimo respiro mentre lui era tra le braccia, tra le gambe, di una ragazza che aveva la metà dei suoi anni. Poi se n'era fatto una ragione. Lui e Tom non erano mai stati grandi amici e lui era un poliziotto qualsiasi. Si chiese se sarebbe riuscito a superare i tre giorni successivi senza che una questione importante e non affidabile ad altri arrivasse sulla sua scrivania. Svolgere parte del lavoro di Onions era ormai un'abitudine; si ritrovò a siglare ordini per cartellette, raccoglitori e sfollagente e a chiedersi se la macchinetta di Clark funzionava ancora. Sarebbe riuscito a produrre un caffè da quel marchingegno? Mentre, con la tazza in mano, guardava il Tamigi, scoprì che riusciva a far scaturire miracolosamente l'immagine della Foxx come il genio dalla lampada di Aladino. La mattina dopo, Clark tornò da una indagine casa per casa. Troy gli diede i nuovi fogli da decrittare, lui lo guardò come un idraulico guarda un cesso intasato e sospirò tra i denti. «Ho bisogno di tempo», disse. Nei pomeriggio, Jack tornò da Hammersmith. Troy lo ascoltò mentre lo aggiornava su cadaveri marcescenti sotto le assi di un pavimento nelle villette a schiera di Bedford Park, qualcosa che in altri tempi lo avrebbe interessato. Alla fine, lesse negli occhi di Jack quel senso di colpa che tanto spesso avevano espresso gli occhi di Rod. «Tutto bene, adesso, vero Fred? Voglio dire, è stata una ferita superficiale». Jack aveva lasciato la frase in sospeso, mettendolo in una posizione ambigua. «Sì, tutto bene», disse. La mattina del martedì, Madge onorò l'ufficio della sua inflessibile presenza per dirgli che Onions avrebbe ritardato di un giorno. Il venerdì, Onions non si era ancora visto. E Clark nemmeno. «Devo telefonargli», disse Troy a Madge.
«Tempi duri. Val ha avuto una delle sue crisi, attizzatoio in mano ha fracassato piatti, specchi, perfino il telefono. Il capo mi ha chiamato da una cabina. Deve aspettare che le passi». Ma Troy non poteva aspettare. Era impegnato in un compito troppo arduo per affrontarlo da solo, e lo sapeva. Doveva parlare con qualcuno. E Stan era la persona più adatta. Stan aveva una mente logica ed era il condotto che univa per via legale Scotland Yard ai servizi segreti. Solo approfittando dei suoi poteri sarebbe riuscito a portare alla luce un crimine. Tanto più che non sapeva ancora chi fosse il criminale. Era arrivato alla conclusione, ed era sicuro che anche Clark pensava la stessa cosa, che Cockerell, Jessel e la Kerr potevano essere stati uccisi indifferentemente dall'una o dall'altra delle parti opposte. E così aveva fatto la telefonata rimandata per settimane e, in un contesto più ampio, per vent'anni. «Charlie, ho bisogno di parlarti. È una questione di lavoro». «Del lavoro tuo o del mio?». «Di tutti e due». Charlie era stato zitto così a lungo che Troy aveva pensato che fosse caduta la linea. «Va bene», aveva detto infine, ma la voce era asciutta. «Oggi sono preso fino al collo e domani mattina pure. Vediamoci domani pomeriggio. Possiamo prendere un tè al Royal. Intorno alle quattro». Avevano superato un confine oltre il quale Troy non avrebbe mai voluto andare. E, ne era sicuro, Charlie nemmeno. 94 Troy era in salotto, a Goodwin's Court, mentre il crepuscolo avanzava veloce. Era il venerdì sera. Aveva lasciato messaggi a Clark dappertutto, perché lo chiamasse, in ufficio e in tutti i pub raggiungibili a piedi da Scotland Yard. Stava seduto vicino al telefono, nel buio e nel silenzio, cercando, con la forza di volontà, di far scaturire un trillo. Ma quando la telefonata arrivò capì che la magia aveva agito a rovescio e, per sbaglio, aveva evocato Madge dal suo girone infernale. «Il capo è tornato ad Acton. Dice che arriverà in ufficio tra un'ora». «Ci sarò anch'io». Riattaccò, ma il telefono suonò subito un'altra volta. Stava quasi per non rispondere. Qualche volta chi aveva appena chiamato rifaceva il numero
meccanicamente. Poi alzò il ricevitore. «Freddie?». Era la voce di Johnny Fermanagh. «Devo parlarti. Devo vederti». «Hai scelto un brutto momento». «Ti prego. È importante». Troy sentì una risata in lontananza, l'inconfondibile allegria da pub. «Johnny, dove sei?». «Al Colony Room, in Dean Street». «Ma i "non bevo più" e la "donna sincera" dove sono andati a finire?». «Continuano a essere i punti fermi della mia esistenza. Sono astemio come un magistrato». «E allora che cosa fai in un posto che ha l'unica funzione di permettere agli sfaccendati di Soho di ubriacarsi a qualsiasi ora del giorno e della notte, in piena osservanza al regolamento per lo spaccio di alcolici?». «Freddie, io non bevo più. È solo che dopo essermi ubriacato per vent'anni non so dove altro andare. Conosco solo i vecchi pub. Che cosa vuoi che faccia, a Soho, in un pomeriggio di brutto tempo?». «Non ti credo». «Sto bevendo un analcolico. Ed è anche cattivo. Muriel, vieni qui, diglielo tu. Sono sobrio o no?». Troy sentì una voce che diceva: «Da far pietà». «Dobbiamo parlare. Tu poco fa hai proprio accennato a quello che più mi preme. Una donna. Una donna sincera». Troy guardò l'ora. Sapeva che avrebbe finito col passeggiare su e giù per l'ufficio, aspettando Onions. Perché non lasciare esporre a Fermanagh le sue teorie, che avevano almeno il pregio della pura banalità rispetto a quanto invece si preparava a discutere con Onions? «D'accordo. Ci vediamo al Salisbury, nella sala in fondo, tra un quarto d'ora». Lo avrebbe aspettato sulla porta, così avrebbero parlato per strada, né al pub né a casa sua. Sarebbe stato più facile interrompere la conversazione quando ne avesse avuto abbastanza. Aveva cominciato a piovere. Una pioggerella fitta e insistente che metteva una foschia attorno ai lampioni e faceva splendere le vetrine del pub di una luce attirante. Troy si alzò il bavero del soprabito e aspettò, davanti al Salisbury, nel vano della porta. Dopo un paio di minuti, vide Johnny arrivare in St Martin's Court da Charing Cross Road, con la divisa della classe sociale cui appartenevano entrambi: soprabito di cashmere nero, cappel-
lo floscio marrone scuro e sciarpa di seta rossa, preoccupato di difendersi dalla pioggia, ma sorridente. Sembrava veramente contento di vedere Troy. «Non entriamo?», gli chiese con semplicità. «No», rispose Troy. «Si può anche stare in piedi per dieci minuti. Sarà la prova della tua forza di volontà e dell'integrità del tuo fegato». «Non bevo un goccio da giugno, Freddie. Dall'ultima volta che ci siamo visti». Troy non era completamente sicuro di credergli, ma guardandolo da vicino, scrutandolo sotto l'ala del capello, si accorse che aveva la pelle più tesa, un colorito più sano e che, per la prima volta dopo anni, negli occhi non aveva striature rosse. Erano gli occhi di sua sorella, di un bel verde scuro. «Allora di' quello che hai da dire». Johnny restò disorientato. Strofinò un piede per terra, a testa bassa, senza guardare Troy. «Johnny, parla». «Sai che c'erano delle difficoltà con la mia... insomma... a causa del matrimonio di quella persona... di quella donna straordinaria...» «Sì, mi pareva di aver capito che la difficoltà fosse, appunto, che lei era sposata». «Infatti. Non sono molto chiaro, vero? Beh, in realtà è tutto molto semplice: lei vuole lasciare suo marito per me». «Allora gliel'ha detto?». «No, ma ha intenzione di dirglielo. Durante questo weekend». Troy si chiese se Johnny fosse veramente ingenuo come sembrava. «Quante volte hai sentito in un film o letto in un libro una frase del genere, Johnny?». «No, Freddie, so cosa vuoi dire, ma questa volta è vero. È vero». «Come lo sai?». «Perché... perché... lei ha trovato il coraggio». Troy emise un gemito all'idea di tanta innocenza. «Johnny, Johnny, Johnny. Per l'amor di Dio». «Perché... è tua sorella». «Quale?», chiese Troy, involontariamente, ma appena la parola gli uscì dalle labbra si rese conto di aver fatto una domanda stupida. Quale sorella? Non poteva essere che Sasha. Sasha aveva un amante da mesi. Lui aveva sentito Masha fornirle un alibi in più di una occasione. Aveva colto l'attrito
tra Sasha e Hugh, anche se niente più che qualche scintilla, a cena, la sera che aveva presentato la Toscà in famiglia. Certo, era Sasha. Capì, allora, che non poteva congedare Johnny tanto bruscamente, anzi, avrebbe dovuto dedicargli tutte le attenzioni che fosse riuscito a trovare. «Purtroppo per me è un brutto momento». «Lo so, me l'hai detto». Troy si tolse di tasca le chiavi di casa. «Devo andare a Scotland Yard. Prendi le chiavi e aspettami a casa mia. Arriverò entro un'ora, un'ora e mezzo, e potremo parlare». Girarono l'angolo di St Martin Lane. Fuori dal vicolo, la pioggia sferzava l'aria. «Ti bagnerai tutto», disse Johnny. «Prendi questi». Si tolse il cappello e lo mise in testa a Troy, poi si tolse anche la sciarpa e gliela avvolse intorno al collo. Un gesto strano, quasi commovente, quasi fraterno. Troy lo guardò. A parte gli occhi, si assomigliavano. Piccoli di statura, bruni, con una massa di capelli neri che ricadevano sulla fronte. Non se n'era mai accorto. 95 Aspettò Onions per un'ora o forse di più. Madge andò a casa. Jack lo salutò con uno sbadiglio e andò in cerca di una ragazza disponibile. Onions non si vedeva. Clark nemmeno. Troy tornò a casa sotto la pioggia, con quel cappello non suo. Innervosito per aver perso tempo inutilmente, cercò di studiare il meccanismo più adatto a manovrare Johnny, il divorzio incombente e lo scandalo che Sasha stava per scatenare addosso alla famiglia. St Martin's Court era al buio. La luce dei lampioni illuminava dalla strada vicina solo i primi tre metri e il lampione sul lato opposto, per qualche motivo, era spento. Troy percorse il vicolo alla cieca, come aveva fatto migliaia di volte e, sulla soglia di casa, inciampò in qualcosa di consistente. Cadde in avanti, con le ginocchia contro l'ostacolo, e tutto il peso del corpo sulle mani, a palme in giù, sull'acciottolato. Le sentì bagnate. Ma non di pioggia, l'odore era diverso, la pioggia non sapeva di niente, ma niente sulla terra aveva l'inconfondibile odore del sangue. Una frase pazzesca di Kolankiewicz gli attraversò la mente: «Merda dolce, merda dolce», ecco come la belva polacca aveva definito con esattezza l'odore del sangue versato e rappreso. E Troy, ora, se
ne trovava ricoperto. Una luce si accese al secondo piano del palazzo dietro di lui, si rifletté sulle finestre della sua casa e nel vicolo si diffuse un debole chiarore. Ai piedi di Troy c'era il corpo di un uomo vestito, come lui, con un cappotto di cashmere nero, inzuppato di sangue. Gli sollevò la testa. «F... F... F...», mormorarono le labbra. Troy si appoggiò sulle ginocchia la testa di Johnny. Si slacciò in fretta i bottoni del soprabito e glielo stese addosso per coprirlo. «Fr... Fr... Fr...», disse Johnny. Troy gli tolse il sangue dal viso. Gli pulì le labbra e le sopracciglia con la punta di un dito. Le labbra si aprirono ancora. Troy si chinò più vicino, tese l'orecchio, spostò la mano e la sentì affondare nel cranio sfondato mentre un po' di materia grigia gli colava tra le dita. «Freddie», disse Johnny, con chiarezza. Aprì gli occhi una volta sola, li spalancò. Poi li richiuse. Troy sentì un respiro profondo, il petto che si abbassava, mentre la vita se ne andava via da lui, per sempre. Restò seduto lì per molto tempo. Non avrebbe saputo dire quanto. La luce al secondo piano si spense, poi dopo un po' si riaccese. Nel cerchio che tracciava per terra comparve una persona. Troy la guardò ma non riuscì a metterla a fuoco. La guardò soltanto, senza parlare. Qualcuno pronunciò il suo nome, la stessa voce disse: «Oh, Dio mio», poi si sentì il suono penetrante della sirena della polizia. «Freddie, Freddie», disse la voce vicino a lui. «Andiamo. Adesso puoi venire via, è morto». Qualcun altro si avvicinò di corsa, attraverso St Martin's Court. Ora li vedeva, curvi su di lui, mentre cercavano di staccargli le mani dal cadavere. Una era Diana Brack e l'altra Ruby la puttana. Ruby, Ruby, erano anni che non la vedeva. Aveva sposato uno scommettitore ed era andata a vivere a Leamington. Provò a chiamarla, debolmente: «Ruby?». «È fuori di testa», disse la prima voce. «Chiamate un'ambulanza. Telefonate a Scotland Yard. Date il mio nome, Wildeve, ispettore Wildeve. Dite che voglio Kolankiewicz appena possibile». E Troy vide Ruby che correva, con le gonne che le svolazzavano dietro, gli stivaletti che battevano sul selciato. Quando comparve il basso, grasso e brutto, gli altri avevano già tolto le
chiavi dalla mano del morto e disteso Troy su una poltrona a sdraio in salotto. Era percorso da brividi così forti che era stato necessario togliere il piumino dal letto e avvolgerglielo attorno. «Oh no», stava dicendo il basso, grasso e brutto. «C'è sangue dappertutto. Non so quanto sia suo e quanto del morto». Il brutto gli tastò il cranio con le dita corte e dure. Poi gli slacciò la camicia e, con un asciugamano, lo ripulì del sangue. «Non ha un segno. Il sangue è tutto dell'altro». «Allora non è ferito, è solo sotto shock». «Certo che è sotto shock. Tu non lo saresti? No, tu avresti coperto tutto di vomito. Via, adesso! Via!». Il brutto tirò fuori una siringa ipodermica e fece spruzzare il liquido dall'ago. Troy sollevò una mano e lo afferrò per il polso. «No», disse. «No, Troy? Allora andiamo meglio. Prova a dire chi sono io». Troy ci pensò un momento. Basso, grasso e brutto. Uno così lo conosceva. Era il suo amico basso, grasso e brutto. Da anni. «Kolankiewicz. Sei Kolankiewicz». Il brutto e l'altro si guardarono in faccia, come in un duetto da musical. «E io chi sono?», chiese il più giovane. Dalle profondità della coscienza, Troy fece emergere un nome. «Jack?». «Che si sia ripreso?». «Stronzate», disse il brutto. «Troy, ascolta: in che anno siamo?». «Nel 1944». «Questa gli farà bene». Il brutto liberò il polso e cercò la vena sul braccio di Troy. «No», disse il giovane. «Mezza dose. Domani mattina devo parlare con lui». Troy non sentì che cosa rispondeva il brutto. Si trovò sommerso da una luce rosa, che diventò arancione e poi color rubino e dal rubino passò al nero della notte. 96 Il sangue di Johnny tinse di bruno l'acqua del bagno. Troy tolse il tappo e la guardò scorrere via, formando un piccolo vortice, richiuse il tappo, colpì col piede il tubo all'estremità della vasca e aspettò che lo scaldabagno emettesse i suoi miseri dieci centimetri di acqua pulita. Jack si presentò con una grossa tazza di caffè forte e sedette sul coperchio del cesso mentre lui beveva. La scena si ripeteva, la cerimonia delle
abluzioni, solo che al suo posto c'era Jack e lui sostituiva la Toscà, senza seno, senza schiuma, ma con addosso un odore di morte. «Vedi», disse Jack, «io conoscevo Johnny Fermanagh da quasi trent'anni. Da quando andavamo a scuola. Come succede quando si è più grandi, era gentile e simpatico con me anche sui dodici anni. Da adulto era il più inutile imbecille esistente al mondo, ma anche il più innocuo. Perché qualcuno avrebbe dovuto ucciderlo? Evidentemente non era la vittima designata. La vittima designata eri tu». «All'angolo di St Martin's Lane», disse Troy, quasi in un bisbiglio, «ha insistito per darmi il cappello e la sciarpa. L'ho guardato mentre si allontanava lungo il vicolo. Si era alzato il bavero del soprabito perché pioveva. Facilmente qualcuno avrebbe potuto credere che io fossi lui e lui me. Anch'io avevo notato che ci assomigliavamo». «Sì, allora qualcuno voleva uccidere te. Ma chi? La risposta è: quelli che ti volevano uccidere anche l'ultima volta, quando sei sceso dal treno. Adesso devi dirmi chi o che cosa ti ha messo in grado di proseguire per conto tuo l'indagine». «Quella ragazza che hai conosciuto nel Derbyshire. Ha trovato la chiave di una cassetta di sicurezza. Madeleine Kerr aveva lasciato un testamento, o pressappoco, dove spiegava che cosa stavano combinando lei e Cockerell». Troy guardava ogni tanto Jack che assentiva e gli faceva segno di proseguire. In dieci minuti gli aveva raccontato tutta la storia, con qualche frase finita in un soffio e qualche mormorio affannoso. «Quanto sa Clark di questa storia?». «Tutto. Beh, quasi tutto. Non te la prendere. Ha svolto quello che una volta era il tuo ruolo. Che cos'è una cospirazione senza un cospiratore?». «A Stan l'hai detto?». «Ho tentato. L'ho cercato per tutta la settimana. Se l'avessi trovato glielo avrei detto, ma forse è meglio così, sai come si comporta quando si tratta di spie. Diventa un burocrate, si agita, si arrabbia. Dio ci liberi. Non è cosa per lui. Preferisco le vie traverse». «Ah! Il tuo amico Charlie?». «Sì». «Quando lo vedrai?». «Oggi pomeriggio. Verso le quattro. A meno che non riesca a rintracciarlo prima». «Io starò a casa tutta la sera. Telefonami. Qualunque sia il risultato, tele-
fonami. Credo che sia il momento di smettere di farci la guerra tra di noi e cominciare a farla al nemico». «Chiunque sia il nemico», disse Troy. «Esatto. E io non ne so più di te». Troy appoggiò la nuca al bordo ricurvo della vasca e chiuse gli occhi. L'acqua era quasi gelata, lui era appena coperto da una schiumetta di sangue e sapone, con una fantomatica traccia di sali da bagno della Toscà, ma bastava non muoversi e non si stava male. «I teppafichetti», mormorò Troy tra sé. «Eh?». «Ci chiamavano così a Scotland Yard, prima che arrivassimo a un grado sufficiente a imporre rispetto. «Fichetti e teppisti». «È vero! Erano anni che non lo sentivo dire. Adesso i teppafichetti sono di nuovo in pista, eh?». 97 Non c'era ragione di provare certi sentimenti. Nessuna ragione logica, cioè. Ma quando Troy vide Charlie seduto al Café Royal seduto allo stesso tavolo dove lui e Anna si erano cerimoniosamente liberati l'uno dell'altra, ebbe qualche sintomo d'inquietudine. «Ti trovo un po' malridotto», disse Charlie. «C'è qualche motivo particolare?». «Ce n'è a dozzine, a centinaia». Era chiaro che Charlie era arrivato da molto. Aveva finito un piatto di tartine e aveva segnato sul giornale del mattino i favoriti per le corse di Sandown Park. Chiamò con un cenno un cameriere e fece portare un altro vassoio di tartine. «A meno che tu non voglia qualcosa di più forte. Potremmo trasferirci al bar». «No», rispose Troy. «Servirebbe solo a farmi stare peggio». «Allora, perché non racconti tutto allo zio Charlie, che così ci capirà qualcosa di più?». «Cockerell. Si tratta di Cockerell». C'era una sola cosa che Troy voleva sentire da Charlie. Cominciò a raccontare, ingarbugliandosi, la sua strana storia e dopo le prime due frasi, Charlie disse quello che aveva sperato. «Accidenti, Freddie. Siamo o no vecchi amici? Perché non sei venuto prima?».
Il perché lo sapevano tutti e due. Charlie si mise una mano in tasca e, visto che non aveva neanche un foglio dove scrivere un appunto, riempì il retro di un assegno, uno di quei fogli enormi, giganteschi, della stessa misura delle banconote anteguerra, emessi dalla Mullins Kelleher, e poi ne iniziò un altro. Troy si chiese se avrebbe finito col riempire tutto il libretto, riassumendo sulle matrici le tappe di quella storia pazzesca. Allora tutto avrebbe avuto un senso, gli sarebbe bastato leggere le matrici per capire. Depositi: un mistero. Prelievi: una vita umana. Mentre Troy parlava, sul suo racconto cominciò ad addensarsi una nuvola che indugiava su ogni particolare, appesantiva ogni domanda di Charlie. Troy, a un tratto, ebbe la sensazione che quello che era successo la notte prima fosse un sogno. Ora, lavato e vestito, con l'odore di sangue coperto da quello del borotalco, gli avvenimenti avevano perso ogni certezza, gli sembrava di avere posato i piedi su una materia che aveva una consistenza onirica. Sentiva il peso di Johnny sulle sue braccia, vedeva la maschera cui era ridotta la sua faccia, quando gli aveva tolto il sangue dagli occhi e dalle labbra, la maschera di un suonatore truccato da negro. Ma non riusciva a sentirne la voce, l'odore e il suo peso gli scivolava a poco a poco dalle braccia, l'immagine si dissolveva e lui cominciava a credere di aver sognato e, visto che era un sogno, non ne poteva parlare. Non poteva dire niente a Charlie. «E adesso dov'è?». «Che cosa?». «Il documento che mi hai detto di aver trovato a Parigi». «Oh... ce l'ha il mio sergente. Ha qualche nozione di crittografia». «Ah. E il tuo sergente dov'è? A Scotland Yard?». «Non so. Non so dov'è. Sembra che sia sparito». Erano arrivati al punto in cui, secondo un procedimento cronologico, avrebbero dovuto parlare della sera prima. Troy cercò di ricostruirla mentalmente. Johnny che gli metteva il cappello sulla testa, il simbolico scambio di identità. L'ultima parola che aveva pronunciato... il suo nome. Un sogno. Quella luce rosa dalla quale si era sentito sommergere. Non era mai successo niente. E capiva di non poterne parlare. In quel momento la vide. Si faceva largo tra i tavoli, dove i clienti, reduci dagli acquisti in Regent Street, bevevano un tè che ritenevano di essersi meritato. Veniva verso di lui, agitando la mano per salutarlo, vivace e indaffarata, e si fermava dietro le spalle di Charlie. Lui si alzò in piedi. Char-
lie si voltò per vedere chi li avesse raggiunti e, poiché era una signora, si alzò a sua volta. «Che sorpresa», disse Troy. «Oh... sono venuta con le tue sorelle. Avevano voglia di fare una corsa in città a spendere un po' di soldi. Per un po' mi sono divertita, ma poi, accidenti, pare che tutte queste donne non sappiano parlare d'altro che di comprare e scopare, scopare e comprare». Si accorse che c'era anche Charlie. E Troy vide, tra loro, accendersi, rapidissima, una scintilla. «Charlie, mia moglie. Larissa, Charles Leigh-Hunt». Charlie le rivolse il suo famoso sorriso e le strinse la mano. «Finalmente», disse la Toscà. «Ho sentito parlare molto di lei». «Male, spero». Troy li osservò. Anche la Toscà si compiaceva dell'attenzione di un uomo come Charlie. Non sapeva in che cosa consistesse il suo fascino, certo in qualche cosa che a lui mancava. Una magia animale che incideva in modo inquietante sull'equilibrio femminile. Contribuivano la statura, l'eleganza che ne derivava, la bellezza dei suoi occhi azzurri, espressivi come il suo sorriso, ma erano solo elementi staccati, l'insieme valeva di più. Lei si schermì con un gesto ironico e parve quasi arrossire per aver detto una frase convenzionale. «Solo quello che combinavate, lei e la sua piccola banda criminale». «Quale banda criminale?» «Oh... sì... Qui, Quo, Qua». Charlie guardò Troy. «Gus e Dickie», spiegò Troy. «Baby, devo andare. Altrimenti verranno a cercarmi. Ci vediamo a casa. Mi ha fatto piacere conoscerti, Charlie». Larissa diede un rapido bacio sulla guancia a Troy, salutò Charlie con un cenno aggraziato della mano e uscì in fretta. Un turbine durato dieci secondi. Troy e Charlie sedettero di nuovo. «Bravo», disse Charlie. «Tu eri all'estero, perciò non te l'ho fatto sapere». «Ero all'estero?». «Ti avevo cercato al telefono». «Devo congratularmi». «Grazie».
«Sai, non avrei mai creduto che uno di noi due si sarebbe sposato. Strano. Un pensiero totalmente illogico, eppure ne ero sicuro». «Anch'io». La pausa che seguì fu una delle più imbarazzanti che Troy potesse ricordare. Infine, Charlie disse: «Ora... dov'eravamo rimasti?». 98 Troy fece tutta la strada di corsa, fino a casa. Fuori dal Café Royal, dentro il Quadrant e via, come una palla lanciata con forza, verso Piccadilly Circus. Inciampò nell'attraversare Leicester Square, si strappò i calzoni su un ginocchio, spinse via le mani gentili che lo aiutavano a rialzarsi, e si precipitò in Charing Cross Road, St Martin's Court, attraversò St Martins' Lane e arrivò senza fiato sulla porta di casa. Sentiva ancora l'abbraccio attanagliante di Charlie, le sue mani aperte che gli premevano contro le scapole, come stimmate diaboliche. La Toscà era a casa. L'acqua picchiava e gorgogliava nei tubi a rivelare che qualcuno stava riempiendo la vasca. Troy si tolse la giacca e corse su. Lei si stava spogliando. Con indosso solo la camicetta, le calze e il reggicalze, girellava canticchiando tra sé. Gli strinse le braccia al collo. Era di buonumore, giocosa, sorridente. Una esuberante, concreta ragazza americana. Le posò le mani alla vita per abitudine, un movimento riflesso, estraneo a quelli che erano i suoi pensieri in quel momento. «Hai fatto presto. Meglio, così usciamo. La città ci aspetta. È l'ora del rock'n'roll!». Gli diede un bacio. Un bacio con lo schiocco, la parodia di un bacio. Si tirò indietro, inclinò la testa, si lasciò andare con tutto il peso sulle sue braccia e gli sorrise. Troy sentì il piccolo colpo provocante di un tallone coperto dalla calza di nylon contro la sua caviglia. Era il colmo dell'ironia che lei desse il meglio di sé nel momento peggiore. «Beh, sei muto?». «Siediti», disse Troy. «Come?». Troy la guidò verso il bordo del letto e la fece sedere. «Dove avevi già visto Charlie, prima di oggi?». «Ma io non l'avevo mai visto prima che me lo presentassi tu mezz'ora fa».
«No», disse Troy. «No. Conosco Charlie da quando eravamo bambini. Ci ha provato, ha recitato una squallida scenetta, ma gli è venuta male. Ti ha riconosciuta. Sapeva chi eri». «Baby, io non ho mai...». Le prese la faccia tra le mani, con le dita allargate sulle guance, e la guardò negli occhi. Era meglio, piuttosto che discutere e gridare. «Pensaci!», disse. «Dove l'avevi già visto?». Le lacrime cominciarono ad affiorarle agli angoli degli occhi. «Mi ha riconosciuta?». «Sì». «Ma io no. Ho pensato solo che mi avevi presentato il tuo vecchio amico». «È un mio vecchio amico, infatti. Ma è anche una spia». «Me lo avevi detto, ma pensavo a qualcuno ad alto livello... un diplomatico. Io non contavo niente. Non c'era ragione che pensassi di aver mai avuto nessun rapporto con lui». «Nemmeno io lo pensavo. Ma leggo in Charlie come in un libro aperto. Lui ti aveva già conosciuta e nell'unico modo che conti». «Per lavoro?». «Sì». «Forse durante la guerra, non credi? Voglio dire, è un tale miracolo che non mi sia mai imbattuta in tuo fratello durante la guerra... Ho conosciuto tanti inglesi». «Se fosse successo durante la guerra, non credi che l'avrebbe detto?». Lei cedette al peso di questa osservazione logica e Troy pensò che se non le avesse tenuta la faccia tra le mani si sarebbe accasciata sul letto. «Sì, certo. Lasciami ricorrere a qualche modo per ricordare. Non mi è nuovo quel tipo di uomo. Non è vago come te quando parla con una donna. È un rettile da salotto se mai ne ho visto uno, e se avesse potuto appigliarsi a un pretesto, mi avrebbe fatto la corte fino a consumarsi le palle. Accidenti a lui». Le lacrime le scendevano sulle mani. Troy sentì che in bagno l'acqua traboccava dalla vasca e allagava il pavimento. Andò a chiudere il rubinetto. Quando tornò, Larissa aveva la faccia nascosta nel cuscino. La sollevò e la prese tra le braccia. Lei si mise a piangere sulla sua spalla. La sentì dire, soffocata dai singhiozzi: «Non ci sarà mai una strada per uscirne? Per smettere di correre?». Si addormentò e Troy la lasciò dormire.
Quando si svegliò era buio. Troy era seduto in un angolo della stanza. Lei si scosse, si ravviò i capelli e lo guardò, battendo le palpebre. Per un momento parve che non lo riconoscesse, poi si mise le mani sulla bocca, come per reprimere un grido. «Dio! Cristo! Mi ricordo! Mi ricordo! È lui!». Troy si avvicinò al letto, le tolse le mani dalla bocca e le tenne tra le sue. «Dimmi». «Novembre. Tre anni fa. 1953. Ero a Lisbona, per una consegna dal vivo. Un lavoro che si svolgeva con regolarità. Lo facevo dalla primavera. Sempre la stessa persona, la stessa procedura, lo stesso genere di scambio. Lui arrivava tenendo sotto il braccio una copia del "Times" di due giorni prima, con gli occhielli delle e riempiti con la matita e io gli davo un pacchetto. Non mi dicevano che cosa c'era dentro, ma io sapevo che erano soldi. Ho fatto questo lavoro un dozzina di volte di fila. Poi, in novembre, si è presentato un altro, sempre col giornale contrassegnato nel modo giusto. Così, gli ho dato i soldi. L'incontro sarà durato quindici secondi. Nessuno dei due ha fatto domande e lui non ha certo accennato ad alcuna galanteria. Ma era Charlie. È successo solo quella volta. In dicembre è tornato il solito tipo e Charlie non si è visto più. È venuto sempre l'altro. A Lisbona, Parigi, Zurigo. Puntuale come un orologio, finché non mi hanno tolto l'incarico». Troy scese al piano di sotto e tornò subito dopo con una borsa in mano. L'appoggiò sul letto, l'aprì e prese una fotografia di Cockerell che aveva ritagliato da un giornale. «È lui?». «Sì. Certo. È lui. Ronnie Kerr. Ma tu come...». «Il suo vero nome è Arnold Cockerell». «Il sommozzatore? Quello sul quale stai indagando? Non ci credo». «Devi crederci. È tutto abbastanza semplice. Tu rappresentavi la tappa conclusiva di una piccola sporca operazione». «Io?». «Dove credevi che andassero quei soldi?». «Non lo so, non ci pensavo. Si perde l'abitudine a porsi delle domande. Si fa il lavoro e si spera che vada tutto bene. Tu dovresti saperlo. Forse non è male come sembra. Nessuno sa niente. Nessun altro, voglio dire. Nessuno che possa parlare. Charlie non parlerà, vero? Non parlerà perché non può parlare. Mettendo allo scoperto me scoprirebbe se stesso. Siamo tutti e due in una posizione di stallo. E quindi siamo al sicuro. Nessuno sa. Voglio dire, chi altro mi ha mai vista?».
Troy non poteva dirle semplicemente di smettere di rassicurarlo e quindi di rassicurare se stessa. Prese la fotografia tredici per diciotto di Madeleine Kerr morta, fatta dalla polizia. «La conoscevi?». «Mai vista». «Era la moglie di Ronnie Kerr. O almeno si faceva passare per tale. Ventidue anni. Aveva preso tutto come un grosso scherzo. È stata uccisa meno di due settimane fa. Ti ricordi che ero andato nel Derbyshire? L'uomo che avevano ucciso era il contabile di Ronnie Kerr o, come diceva lui, il suo revisore dei conti. Questo vuol dire che tu sei l'ultima rimasta in Inghilterra a sapere che Charlie teneva le fila di un racket per conto dei russi. Tutti gli altri sono stati uccisi». «Oh merda. Merda. E ancora merda». Il telefono aveva iniziato a suonare mentre Troy parlava. Lui alzò il ricevitore pensando di rimetterlo a posto subito e interrompere la comunicazione. «Signor Troy?», era la voce di un operatore. «Sì?». «Una chiamata a suo carico da Leicester. Il signor Clark. Accetta?». La Toscà aveva ragione. Nessuno tranne Charlie l'aveva vista nella veste di un tempo. Nessun altro tranne Clark. «Sono io, signore». «Eddie. Da dove chiama?». «Sono alla stazione di Leicester, signore. Ho quaranta minuti prima della coincidenza. Aspetto l'accelerato per Nottingham, ma volevo parlare con lei il più presto possibile. Torno dal Derbyshire. Ho decrittato il codice». «Il codice?». «L'ultima lettera di Madeleine Kerr, signore. Non ne venivo a capo. Mi ero bloccato dopo la prima frase. Poi ho capito. Non l'ha scritta lei. L'ha scritta Cockerell. Quindi ho dovuto cercare la chiave». «La chiave?». Troy si sentiva come un pappagallo male informato. «Sì, signore. Codici come questo hanno bisogno di un testo. Una griglia acrostica che sappiano usare sia chi scrive sia chi legge. Il sistema più semplice si ha quando ci sono due prontuari da usare una sola volta, a gruppi, di cinque lettere. Ogni volta si strappa la pagina, quindi non si usa mai due volte lo stesso codice. Il sistema più complesso, invece, consiste in una macchina con delle ruote dentate, in confronto alla quale un motore Babbage è semplice come una sveglia, e nel lavoro di alcune migliaia di scienziati, con formazione professionale diversa, e di ausiliarie del WREN,
il corpo della Royal Navy, riuniti in capannoni di legno a Bletchley Park. Io non ho ritenuto che il comandante Cockerell fosse a quel livello e ho pensato di affidarmi a un testo prestampato. La lettera si apre con il vecchio codice alfabetico. "Cara Sis". Questo, secondo me, sta per SIS. Ha capito, signore? Secret Intelligence Service». «Va' avanti, Eddie». «Poi dice 49AA. Ci ho lavorato molto, ma andavo sempre a sbattere contro questa formula priva di senso. Allora mi sono detto che stavo commettendo un errore di fondo e cioè che doveva esserci un altro codice per tutto quanto seguiva e che 49AA non era una frase crittografata, ma era la chiave stessa del codice. Quello che alla polizia si chiama indicatore. Ho cominciato così a capire che Madeleine Kerr aveva scritto solo le prime due righe, che dovevano servire a indirizzare sua sorella al vero codice, quello usato da Cockerell. E doveva, necessariamente, essere un codice al quale Cockerell aveva accesso ogni giorno. Allora, dalla sua scrivania, signore, ho preso le chiavi del magazzino e ieri pomeriggio ci sono andato. Non ho trovato quello che cercavo. L'avevo sotto gli occhi e non me ne sono accorto. Ho passato la notte scorsa e metà di questa mattina a svuotare i cassetti. E poi l'ho visto sporgere da una di quelle caselle sopra la scrivania. Il manuale della Automobile Association per il 1949. Nelle ultime pagine vengono date le distanze tra le principali città della contea. Un semplice grafico A-Z su due assi. Un codice perfettamente riutilizzabile. A meno che non si sappia su che cosa si basa, è impossibile decifrarlo. Dunque: A sta per Aberdeen, e il primo uso della lettera A è la distanza tra Aberdeen e Aberystwyth, cioè 427 miglia, quindi il codice è 427. Il secondo uso si basa sulla distanza tra Aberdeen e Barnstaple, che è di 573 miglia, qui quindi il codice è 573. E poiché ci sono 57 codici possibili per la lettera A, è possibile scrivere una pagina e più prima di dover ripetere un codice già usato. Qualche volta ci possono essere delle sovrapposizioni, per esempio la distanza tra Londra e Brighton è uguale a quella tra Londra e Cambridge, così, in teoria, si possono avere 53 codici per la B e per la C insieme, ma poiché Londra è alla fine di ogni colonna, a quel punto si sarà arrivati come minimo al tredicesimo uso della lettera, quindi... La complicazione è che non esiste una città inglese importante che cominci con la J, quindi la seconda I che è la città di Ipswich, diventa una J. Lei non indovinerà mai come se l'è cavata con la Z». «Per l'amor di Dio, Eddie, mi dica solo quello che conta!». «Ashby de la Zouche. Non c'è male, eh?».
Clark, era evidente, non aveva afferrato il problema. Troy si voltò a cercare la Toscà, ma lei era scesa al piano di sotto. «Sì, dunque lei ha decrittato il messaggio. Bravo. Adesso mi spieghi subito che cosa c'è scritto», disse, ma lo sapeva e sapeva che era il peggio che potesse sentire. «Cockerell era un agente doppio, signore. Secondo me non aveva abbastanza cervello per fare quello che il suo ruolo richiedeva, ma il cervello lo aveva chi lo guidava. Veniva impiegato come corriere per incanalare informazioni fuori dall'Inghilterra e far entrare del danaro. Lo facevano rimbalzare come una palla per tutta l'Europa: Parigi, Milano, Lisbona e così via. A reclutarlo era stato un certo Charles Leigh-Hunt, apparentemente per visitare il Festival dell'Inghilterra. Cockerell dice che Leigh-Hunt era un MI6 e che lo aveva conosciuto durante la guerra, ma non mi fido, potrebbe essere un nome falso che gli avevano dato apposta. Non ci sono dubbi, invece, su chi avesse la funzione di controllo immediato su di lui... Lo sa chi era, le sarà difficile crederlo, era il nostro vecchio amico ispettore Cobb». «No», disse Troy, «non mi è difficile crederlo». «Poi c'è un elenco di sette nomi di agenti che Cockerell afferma di avere sul suo libro paga: John Earl, Alan Smith, Anthony Harwood...». «Non me li dica tutti. Voglio sapere solo chi sono quelli che contano. I pesci grossi, non i pesciolini». Clark tacque, come se Troy gli avesse posto un dilemma. «Ecco, signore. Di pesci grossi, come li chiama lei, ce n'è un altro. Il corriere mandato dai russi. Cockerell annota ogni incontro, con data e luogo, ma non il nome, perché dice che lei ne usava ogni volta uno diverso e quindi era inutile indicarli, essendo evidentemente tutti falsi». Clark s'interruppe un'altra volta. Troy avvertiva i battiti del proprio cuore. «Però la descrive». Un altro silenzio. Troy non interveniva, per paura di quello che Clark stava per dire. «Sembra che la conosciamo, signore...». «Sì?». «Alta poco più di uno e cinquanta, capelli corti, spesso di colore diverso, dal biondo al rossiccio, fisico alla Jane Russell, piuttosto bella e con quello che Cockerell chiama "un accento americano irritante". Ma, signore, questo è il particolare determinante, aveva sempre con sé una copia di Huckle-
berry Finn. Ora, signore, chi è, secondo lei?». Troy avrebbe tanto voluto vederla. Guardarla negli occhi, gettarle in faccia quel «siamo al sicuro», con tutta la sua fiduciosa stupidità. Perché proprio ora si era allontanata? Ora che le bugie che aveva costruito stavano per crollarle sotto i piedi? «Eddie, lei abita ancora in caserma?». «Sì, signore». «Non ci vada. Si guardi alle spalle durante il viaggio e quando arriva qui vada in un albergo. Al Ritz, a mio nome. Troverà una camera prenotata per lei. Ci sarà anche lei. La vedrà lì». «Non capisco, signore», disse Clark, ma non chiese a chi si riferiva quel lei. «C'è stato un altro omicidio. È morto qualcuno che Cobb ha scambiato per me». «Oh porco...». Troy scese in salotto. La Toscà era seduta su una poltrona. La Foxx su un'altra. Sembravano due fermalibri. La Foxx era la nuova Foxx, vestito di Dior e scarpe nuove, le valigie rosa vicino alle poltrone. La Toscà era la solita Toscà, con la faccia di chi spera che uno sguardo possa uccidere. «Ecco il babbeo», disse. Accavallò le gambe, facendo dondolare un piedino, metronomo della sua impazienza. La Foxx lo guardò, disorientata e vicina a uno scatto di collera. «Vuoi spiegarti, o no?», chiese la Toscà. Troy la prese per mano, la portò in cucina e chiuse la porta con un piede. Non vide il pugno che gli stava arrivando addosso e quando lo colpì alla mascella gli fece perdere l'equilibrio. Riuscì a schivare il secondo che si fermò per aria, il terzo andò a sbattere contro una pentola. Lei si ammaccò le dita e gridò che si era fatta male. Troy ne approfittò per avvicinarsi e la spinse con la schiena contro il muro. «Vigliacco», disse la Toscà in un sibilo rabbioso, «sei un fottuto vigliacco. Non potevi aspettarmi, vero? Non potevi! Ti chiedevo tanto? Volevo solo che mi aspettassi!». Lui la strinse per il mento e le alzò la testa per poterla guardare negli occhi. Lei tentò di prenderlo a calci, ma aveva smesso di agitare i pugni. «Sta' zitta! Sta' zitta e ascoltami. Qualsiasi cosa ti stia passando per la mente, qualsiasi cosa pensi che ti abbia fatto, c'è una notizia che conta di più». «Ma guarda!».
«Hanno ucciso un uomo, ieri sera». «Chi l'ha ucciso?». «Loro. Quelli con cui tu eri in contatto». «Oh Dio!». «L'hanno ucciso qui, sulla porta di casa». Lei spalancò gli occhi. Troy sentì il suo corpo cedere, abbandonarsi e capì che non aveva più voglia di ribellarsi. «Hanno creduto che fossi io». «Oh Cristo! Oh Dio, aiutaci!». Troy non la tenne più stretta e lei scivolò a terra con le braccia contro il petto, le lacrime agli occhi. Lui si accovacciò a terra, vicino a lei. «Chi era quello che hanno scambiato per te?». «Un mio vecchio amico. Forse te l'avrò nominato, qualche volta. Johnny Fermanagh». «E davvero ti assomigliava?». «Un po'. Anzi, molto». La Toscà gli appoggiò la testa su una gamba e, in un lamento confuso, disse: «Che accidenti facciamo adesso?». Lui le fece una carezza sulla testa e le tolse dai capelli le ragnatele che erano rimaste attaccate quando si era lasciata scivolare contro il muro. «Facciamo quello che ti dico io». «Ti ascolto». «Prendi Shirley e andate al Ritz. Fissate tre camere». «Chi è il terzo?». «Il mio sergente. Si metterà in contatto con te tra un paio d'ore». «Come potrò riconoscerlo?». «È un amico: Edwin Clark». La Toscà alzò la testa con uno scatto così rapido che Troy credette di sentirle scricchiolare il collo. «Edwin? Edwin? Vuoi dire l'Eddie Clark che stava a Berlino? Quell'ometto grasso e svelto che vendeva le mutande e il caffè al mercato nero? Quello che mi aveva procurato lo Schiaparelli senza spalline?». «Sì». «Ed è il tuo sergente? Oh Gesù, Gesù, Troy! Perché non me lo hai detto subito? Lui mi conosce, mi conosce! Dovevi avvertirmi!». «Non importa se ti conosce. Non ti ho detto niente per non allarmarti inutilmente. È uno di noi».
«Noi? Noi? Troy, io non so nemmeno più che cosa significa dire "noi"». «Lascia un biglietto per lui al portiere con il numero della tua camera. Poi stattene lì tranquilla finché non mi faccio vivo. Adesso... mettiti le scarpe e il soprabito. Non c'è tempo di fare le valigie». Troy aprì la porta della cucina e lei salì la scala di corsa. La Foxx era in piedi vicino alla stufa, gli voltava le spalle. Si voltò e gli sbatté sul petto una grossa busta marrone». «Quando mi hai detto che eri sposato, mi hai detto anche che non stavate più insieme». «Infatti non stavamo insieme, o io credevo che non stessimo insieme», rispose Troy, senza sapere bene quale fosse la verità. «Ma lei è qui. E anch'io sono qui». «E starete insieme ancora per un po'». «Siamo nei pasticci?». «Sì». «Questo me l'aspettavo. Ma all'incontro con la moglie non ero preparata». 99 Troy fece salire tutte e due su un taxi e tornò a casa. Prese la piccola pistola dorata che aveva in tasca, tolse la sicura e mise un colpo in canna. Poi l'appoggiò vicino al telefono. Gli strumenti del mestiere. L'una o l'altro dovevano aiutarlo. Era venuto il momento in cui lui e Charlie avrebbero dovuto mettere in discussione ogni aspetto delle loro vite. Una volta, quasi vent'anni prima, Charlie gli aveva telefonato e gli aveva detto: «Mi sono fidanzato. Liberami». Troy lo aveva liberato e non aveva mai nemmeno saputo il nome di quella ragazza così poco fortunata. Ma chiamarlo a muso duro, chiamarlo e tracciare una linea di separazione, chiamarlo con l'intenzione di spingersi fino al ricatto, questo non era mai successo e non sapeva come arrivarci. Con un po' di fortuna, avrebbe potuto essere Charlie a chiamare lui. «Freddie, siamo in un guaio. Cerchiamo di uscirne». C'era stato un tempo in cui Charlie riusciva sempre a cavarsela. Era passata mezz'ora e non aveva ancora preso in mano il telefono. Ma improvvisamente lo sentì suonare. Rispose immediatamente. Se era Charlie, tanto meglio. «Troy? Sono io... Foxx. Sono al Ritz. È successa una cosa strana. Il taxi
si è diretto verso King's Cross, ma appena partito Larissa ha dato un altro indirizzo al tassista. Non quello del Ritz. Ha detto che era da scemi andare dritti al Ritz. "Fidati di me, sono una professionista", così mi ha detto. Mi ha spiegato che era stata seguita altre volte e che perciò sapeva come far perdere le tracce. A King's Cross ha voluto che cambiassimo taxi. Io ne ho fermato uno, mentre lei pagava il primo. Aveva appoggiato la borsetta a terra e quando mi sono voltata lei non c'era più. La borsetta era ancora lì, ma lei no, era sparita. Troy, sparita! Ho aspettato per più di dieci minuti, ma era svanita nell'aria. Scomparsa, Troy. Proprio... svanita». 100 Erano passati anni da quando era stato l'ultima volta in Edwardes Square. Gli era sempre sembrato un posto molto bello, con una sua aria silvestre molto particolare, ma non aveva mai avuto una ragione per andarci e più di una ragione per non farlo. Una cosa era cambiata. Non c'era più un agente della sezione speciale che camminava a passo lento davanti al numero 52. Non era più necessario che lui scrutasse nell'ombra. Lasciò la Bentley davanti alla porta della signora Edge e tirò il cordone del campanello. «È in ritardo», gli disse lei, appena lo vide sulla porta. Troy guardò l'orologio. Erano le undici meno un quarto. «Mi dispiace», rispose. «Non avevo idea di che ora fosse». «Non pensavo all'ora, signor Troy. Intendevo in ritardo rispetto alla vita. L'aspetto da dieci anni. Entri». Richiuse la porta e vi fece scorrere sopra una tenda pesante, a tenere lontana la notte. «È quasi autunno, sa. Nebbie, la natura cambia aspetto, per non parlare delle correnti d'aria fredda e della umidità incipiente». Troy la seguì lungo un corridoio e poi in un salotto surriscaldato, in fondo alla casa. «A Natale andrò in pensione. Se lei non fosse venuto adesso, non sarebbe riuscito ad avere quello che le è dovuto». «Non consideravo la mia visita sotto questo aspetto». «Non sia così cerimonioso. Non le si addice». La signora sedette su una poltrona con lo schienale alto, vicino alla stufa a gas dalla quale usciva un sibilo leggero e continuo. Troy aveva un ricordo molto vago di un cagnolino che abbaiava, ma ora un grasso gatto soriano, che occupava con sussiego il posto sul tappeto davanti al fuoco, aprì un
occhio mentre lui si avvicinava e non si allontanò da quel piacevole sole artificiale. Davanti alla poltrona dov'era seduta la signora, su un tavolino basso ricoperto di panno verde, c'era un gioco di pazienza. Sullo sgabello per posare i piedi, l'ultimo romanzo di Kingsley Amis, aperto. Il tempo non era stato clemente con Muriel Edge. Le rughe attorno ai suoi occhi miopi erano canyon profondi. La poltrona era collocata, chiaramente, in modo da venire incontro ai disagi dell'artrite incipiente e alla difficoltà di chinarsi senza provare dolore. La malattia le aveva ridotto le dita come artigli, curve e nodose, con le nocche grosse come castagne. Bastava la loro forma a raccontare una storia di sofferenza. «Avrei dovuto lasciare il lavoro in primavera, a sessant'anni. Ma quando Dick White è andato a comandare da un'altra parte, il nuovo capo mi ha chiesto di restare ancora per qualche tempo. Io ne sono stata felice, perché la pensione significa per me una sepoltura precoce. Le pare che potrei far passare il tempo scrivendo le mie memorie?». Con una mano contorta dall'artrite indicò a Troy una poltrona. «Ora mi dica che cosa vuole. Spero che rientri nelle mie possibilità. Soffro se non pago i miei debiti». Troy le aveva detto la verità. Non si sentiva nello stato d'animo di chi chiede un favore, ma non avrebbe fatto quella visita se non fosse stato sicuro di poter contare sulla gratitudine di Muriel Edge per un lavoro che aveva fatto per lei tanti anni prima, quando aveva rintracciato Jimmy Wayne dove lei non poteva trovarlo, riuscendo a punirlo mentre lei non poteva più farlo. Gli pareva che fosse una continuità, non un debito, ma se per lei non era così, non c'era molta differenza. Aveva bisogno di un piacere. Gli fosse dovuto o no contava poco, se lei era in grado di farglielo. Su un tavolino di quercia, all'interno del camino, c'erano due telefoni, raggiungibili dalla poltrona solo allungando una mano. Uno era nero e uno bianco, quello bianco non aveva la tastiera. Era l'attrezzatura di base in dotazione a un alto funzionario dell'MI5. Muriel Edge era capo sezione: il telefono bianco comunicava direttamente con il suo apparecchio all'MI5. Le bastava alzarlo per trovare un agente in servizio che le si rivolgeva direttamente, perché sapeva che a chiamare poteva essere soltanto lei. Il favore che Troy doveva chiederle le sarebbe costato ben poca fatica. «Conosce Norman Cobb?». «Sì, conosco l'ispettore Cobb. Ha lavorato un paio di volte anche per me. Non recentemente, però. Ha... per così dire... la mano un po' pesante. Questo a me non piace. Ci sono funzionari di grado superiore al distaccamento, sa Dio come mai, che non sanno che cosa sia la sottigliezza».
«Oggi in giornata, non so quando, dovrebbe aver richiesto l'uso di una camera di sicurezza. Devo sapere dov'è». «Tutto qui?». «Sì». La signora si strinse nelle spalle, come se avesse accettato uno scellino in cambio di una sterlina, e tese la mano per prendere il telefono bianco. «Sì. Devo parlare con Norman Cobb, del distaccamento speciale. È in una delle nostre camere di sicurezza. Non so quale. No, non me lo passi, mi chiami sull'altra linea quando avrà l'informazione». La signora Edge si rivolse a Troy. «Richiamerà tra qualche minuto. Perché non versa qualcosa da bere a tutti e due? Lei è bianco come un lenzuolo. Un sorso di cognac ci farà bene». Con un dito deformato dall'artrite Muriel Edge indicò a Troy una varietà di bottiglie sul ripiano della credenza. Troy versò il cognac in due bicchieri e li mise sul tavolino da gioco, poi prese il suo e bevve un sorso. Gli parve, come sempre, che sapesse di sapone, ma la signora aveva ragione, gli avrebbe fatto bene. «Seguo sempre la sua carriera, Troy. Ha avuto degli alti e bassi, vero?». Troy si rendeva conto, con una perplessità che forse non avrebbe dovuto provare, che Muriel Edge non gli aveva ancora chiesto che cosa voleva da Cobb nella casa coperta dell'MI5 e nemmeno pareva avesse intenzione di chiederglielo. «Si è parlato molto di lei, tempo fa». «Davvero?». «Oh, sì. Sono stata orgogliosa di conoscerla quando ho saputo che lei aveva detto a Wintrincham che non avrebbe spiato Bulganin ma Kruscev». La signora Edge rise appena appena. Una risatina complice. «L'ha saputo. Non credevo che la notizia fosse di dominio pubblico». «Di dominio privato, direi. A Ted piace scherzare. Ha raccontato l'episodio, imitando, tra pause sapienti, il suo raffinato accento da ex alunno di scuola privata e ha ottenuto un grande successo di ilarità con chiunque fosse disposto ad ascoltarlo». «A me era parso che non ci fosse niente di divertente». «Infatti non doveva divertirsi. È così che l'hanno attirata. Lei non avrebbe mai dovuto acconsentire a partecipare al loro piano. Avrebbe dovuto alzarsi in piedi, dicendo che facessero pure il loro sporco lavoro e andarsene senza voltarsi indietro per paura di vederli restare di sale. È stata una pazzia. Un eccesso di vanità nella sua forma più manifesta. Lei è stato lusin-
gato per essere stato richiesto, lusingato dalla prospettiva di incontrarsi con Kruscev. Ha visto come un privilegio la possibilità di trovarsi spalla a spalla con il potere e la violenza, ma è così che l'hanno attirata. Da quel momento è caduto nelle loro mani. Vincolato per sempre. Ma lei, più di chiunque altro, era in grado di accorgersene. Mi riesce difficile credere che non abbia capito. È caduto nelle loro mani. Vincolato per sempre». Era andata alzando la voce sempre di più, fino a quella frase ripetuta per la seconda volta. «Sto tentando di svincolarmi», disse Troy. «Sì? Sul serio? Per questo sta cercando l'ispettore Cobb?». Squillò il telefono. Lei alzò subito il ricevitore. Disse solo: «Sì», e lo riabbassò immediatamente, poi si rivolse a Troy. «Narrow Street. Cobb è al numero 11a di Narrow Street, a Limehouse». 101 Narrow Street era il prodotto di una immaginazione fervida. Una pagina di Dickens, di Edgar Wallace o di Arthur Machen. Una di quelle stradine nebbiose del quartiere di Limehouse dove capitava di trovare dei cani morti in pozze d'acqua verdastra, dove i rampolli dei Pari d'Inghilterra, in cilindro di seta e mantelle nere, uscivano vacillando dalle tane dell'oppio della Chinatown londinese, dove Dorian Gray vagava di notte, eternamente giovane, eternamente perverso, dove le prostitute sollevavano le gonne scarlatte sotto i lumi a gas, lanciando il loro richiamo, «Ehi, gioia!», dove qualsiasi altro uomo poteva essere un ladro pronto a tagliarti la gola da un orecchio all'altro e a far galleggiare il tuo cadavere fino alle bocche del Tamigi. Troy aveva conosciuto bene Narrow Street quando era poliziotto di ronda e a suo modo gli piaceva. Era quasi l'una di notte. Sotto una pioggerella leggera, guardava, insieme a Jack, dal lato opposto della strada, la casa contrassegnata dal numero 11a. L'aveva fatto alzare dal letto e Jack era andato a prenderlo con la Wolseley 4/44 nera, senza contrassegni, certamente meno vistosa di una Bentley. Troy aveva chiamato il distretto di Leman Street, chiedendo di parlare con l'ispettore investigativo della divisione J e l'aveva trovato qualche minuto prima che smontasse per andare a dormire. «Paddy, sono Troy. Ci tieni ancora a pareggiare i conti con Norman Cobb?».
«Andiamo», aveva risposto Milligan. «È nella tua zona, in Narrow Street». «Meglio così!». E Milligan aveva telefonato a George Bonham. «George, riesci ancora a infilartela la divisa?». «Certo. Che succede?». Ora Troy vedeva Bonham avanzare da Limehouse Cut, col suo passo pesante, gli stivali che battevano sul selciato, sguazzavano nelle pozzanghere, mentre la sua ombra gigantesca, col berretto della divisa, gli si proiettava davanti, nella luce della luna, per più di due metri. Milligan uscì dalle tenebre dell'11a e attraversò la strada a passi silenziosi. «C'è: è lì. In fondo al vicolo, vicino alla casa, sotto un telone impermeabile, c'è un'auto della squadra. Hanno cercato di oscurare tutto il più possibile, ma al primo e al secondo piano si intravedono delle luci». «Conosci già George Bonham, vero Paddy?». «Certo. Siamo stati insieme per un po' di tempo in Leman Street. Buonasera, signor Bonham». Troy rivolse la sua attenzione a Bonham, che più degli altri aveva bisogno di una spiegazione e meno degli altri era in grado di accettarla. «George, siamo tutti fuori servizio. Capisci che cosa voglio dire?». «Io non posso essere fuori servizio. Sono in pensione». «La differenza è la stessa», osservò Troy. Bonham, perplesso, si grattò un orecchio sotto il berretto. «Ma siamo tutti poliziotti, no?». «Certo... siamo tutti poliziotti, ma questa non è una operazione di polizia. Noi siamo...», Troy cercò faticosamente un eufemismo che fosse chiaro senza essere allarmante, «stasera siamo dei volontari». «Ah, capisco. Un gruppo di cittadini al servizio della legge, quello che in America si chiamava un posse». «Esatto. Un posse. Noi siamo un posse». «E a chi diamo la caccia?». «A Norman Cobb». «A quel porco della sezione speciale?». Nessuno, evidentemente, trovava attributi cortesi per l'ispettore Cobb. «Tu devi solo fare in modo che aprano la porta. Per questo è necessaria la divisa. Cobb avrà con sé almeno un agente. Sarà quello che ti verrà ad aprire. Fagli qualche domanda. Chiedigli che cosa fa quell'automobile là
fuori. Non farti mandare via perché non hai un mandato. Tira fuori il taccuino e fatti dare il libretto di circolazione e il numero di targa. Io entrerò dal retro e creerò il trambusto necessario a lasciare che Jack e Paddy entrino in azione. Tu intrattieni l'agente il più a lungo possibile». «Ma, Freddie, che cosa sta succedendo là dentro?». «È una casa coperta dell'MI5, George». «Ah, capisco», rispose Bonham, ma era chiaro che non aveva capito. «Ma ГМІ5 non è dei nostri?». «Di solito sì», rispose Troy, «ma...». «Ma», intervenne Milligan, «quando usano una casa coperta senza avvertire il comando di zona, vanno contro il regolamento, no? Quindi noi possiamo fare altrettanto». «Dobbiamo salvare una persona, George. Se tutto andrà bene, non ci saranno conseguenze. Sarà come se non fosse mai successo niente. La tua pensione è al sicuro e chi sa che non riusciamo a vivere fino a prenderla anche noi». «Non ho bisogno di sapere altro», disse Bonham, e Troy sperò che lo pensasse davvero. Troy e Jack s'infilarono tra l'automobile di Cobb e la recinzione di metallo ondulato che correva lungo il fiume. «Sei sicuro di farcela?», chiese Jack. «Sì». «Se vuoi ci vado io». Troy gli indicò la finestra dell'ultimo piano sul retro, dove la casa sporgeva sopra il fiume. «La finestra è piccola e io sono più magro. È meglio che vada io. Dammi dieci minuti, poi di' a George che bussi alla porta. Tu sta' in disparte, lascia che vedano bene lui. Meglio che lo prendano per un agente di ronda più curioso degli altri. Quando l'avrò trovata farò il chiasso necessario a giustificare legalmente una irruzione». «Non usiamo questa parola, non è rassicurante per George. Per me va tutto bene. Cobb se lo merita». «In ogni caso... appena entri sta' pronto a reagire». Jack intrecciò le mani perché Troy vi appoggiasse il piede e scavalcasse la recinzione. «Teppafichetti in pista», bisbigliò, col tono con cui si dice a un attore «in bocca al lupo» prima che entri in scena. «Oh Cristo!», disse Troy e saltò goffamente dall'altro lato della recinzione. La pioggia rendeva tutto scivoloso. Troy afferrò il pluviale alla base e
cominciò a chiedersi se dieci minuti sarebbero bastati. Il pluviale, un tubo di ferro con un diametro di venti centimetri, era vecchio, massiccio e solidamente fissato al muro. All'altezza del primo piano, si piegava a quarantacinque gradi e attraversava il fianco dell'edificio fino al retro, sporgendo, in un modo almeno apparentemente precario, sulla sponda del Tamigi. Troy si sentiva come una mosca umana mentre, tenendosi aggrappato, girava attorno all'angolo della casa, sospeso nel vuoto, ma poi il tubo riprese a salire e lui ad arrampicarsi verso la finestra aperta all'ultimo piano, l'unica che non fosse sprangata o chiusa da mattoni. Arrivato al terzo piano gli sfuggì un piede e si trovò a sgambettare nel vuoto, a venti metri di altezza sopra il fiume, con la pioggia che lo colpiva in faccia, stretto a un pluviale pieno d'acqua e guardando il profilo delle gru del Canada Wharf. Non aveva pensato che gli sarebbe tremato tanto il ginocchio che aveva urtato attraversando Leicester Square. S'infilò silenziosamente attraverso la finestra dell'ultimo piano in una stanza da bagno abbandonata da molto tempo e si lasciò scivolare sul coperchio della tazza. L'intonaco era vecchio e si sfaldava al minimo tocco, ricoprendogli i vestiti di una polvere bianca. Ma il ginocchio che gli aveva fatto perdere la presa sul pluviale si muoveva a scatti, per conto proprio. Provò a stringerlo tra le mani, sperando che si fermasse. Da un momento all'altro Bonham avrebbe bussato alla porta col suo pugno da gigante, scuotendo la casa dalle fondamenta. L'ultimo piano era abbandonato. Attraverso gli spazi lasciati dalle tegole rotte entrava la pioggia e la luce della luna. Troy prese la pistola che aveva in tasca e scese al quarto piano. Non c'era nessuno. Scese al terzo. Aprì le porte a una a una, girando le maniglie senza far rumore. Trovò la Toscà nello stesso istante in cui Bonham cominciava a bussare alla porta. Era distesa su un materasso vicino al muro. Non era legata né imbavagliata, sembrava svenuta. Troy si inginocchiò vicino a lei, appoggiò la pistola su una vecchia sedia di legno ricurvo e le voltò la testa per guardarla. Era stata picchiata. Aveva la faccia piena di lividi bluastri, l'occhio destro gonfio e chiuso, un incisivo scheggiato. Ma le nocche della mano destra erano spellate e sporche di sangue: doveva essersi difesa come una tigre. Le mise la bocca vicino all'orecchio e la chiamò, forte quanto era possibile. «Toscà... Toscà». Lei si mosse, gemendo, mormorò qualche parola indistinta e dietro quel mormorio Troy sentì troppo tardi le assi del pavimento scricchiolare alle sue spalle. Si voltò di scatto. Vide delle gambe, poi un braccio che si alzava su di lui e lo colpiva in faccia con il calcio della pistola che aveva la-
sciato sulla sedia. Rotolò sulla schiena, ma da terra scalciò con violenza e i suoi piedi finirono rumorosamente contro gli stinchi di Cobb. Cobb cadde a terra. Troy si buttò su di lui e gli strinse forte la mano che teneva la pistola. Se lo trovò con la faccia vicino alla sua e vide che aveva un livido rosso di sangue sotto un occhio, segno della lotta che aveva dovuto sostenere con la Toscà. Ma Troy era poco più grande di lei. Quasi sorridendo, tanto gli era facile, Cobb si scrollò Troy di dosso e invertì la loro posizione. Troy gli stringeva ancora la mano che teneva la pistola; Cobb gli afferrò il polso e, lentamente, cercò di voltare la canna contro di lui. Troy mise tutti e due i pollici sul dito di Cobb che stava sul grilletto e schiacciò con forza. Lo sparo partì e su tutti e due si rovesciò una pioggia di intonaco. Cobb si sollevò, con la sinistra colpì Troy in faccia, ma era in una posizione sbagliata e alla sua mano sinistra mancava la forza e forse anche l'abilità della destra. Troy sentì dei passi sulle scale, uno sfollagente colpì Cobb in mezzo alle spalle, il peso del suo corpo gli rotolò di dosso e il respiro riprese a circolargli nei polmoni. Vide Milligan che spingeva Cobb in un angolo. Jack aiutò Troy ad alzarsi. Milligan, dopo che sotto i suoi colpi Cobb aveva perso conoscenza, sollevò la Toscà sulle braccia come se non pesasse più di una foglia e uscì. «Stai bene, Freddie?», chiese Jack. «Sì. Per poco non mi ha ammazzato, ma sto bene». Il ginocchio che prima gli tremava ora si piegò sotto il suo peso. Jack lo sostenne e il colpo che Cobb riuscì a sparare da terra finì in mezzo a loro e tracciò una linea di sangue sulla parte esterna della coscia destra di Troy. Cobb, disteso all'altro lato della stanza, batteva le palpebre come se non riuscisse a vederci bene e, col braccio teso, stringeva la piccola pistola dorata. D'un balzo Jack attraversò la stanza, gli bloccò un polso con un piede e con l'altro gli diede un calcio alla mascella. La testa di Cobb ricadde da un lato e la mano allentò la presa sulla pistola. Questa volta era tramortito davvero. Troy tentò di avvicinarsi, trascinandosi, poggiando il peso del corpo sulla gamba sinistra, ma Jack lo fermò con tutte e due le mani. «Lascialo andare, Freddie, non ne vale la pena, è mezzo morto», disse e lo buttò come un fagotto fuori dalla porta e giù per le scale. Troy sapeva che Cobb non era più temibile, almeno in quel momento, ma avrebbe voluto portargli via la pistola. In strada, Bonham teneva un giovane agente, che poteva avere venticinque o ventisei anni, inchiodato a terra col suo stivale numero quarantasette
alla gola e uno sfollagente puntato sulle palle. Troy si fermò sulla soglia, appoggiato al braccio di Jack col sangue che gli colava lungo la gamba e andava a finire nella scarpa. «Tu!», ordinò, «un documento!». Il giovane si frugò in tasca. Troy guardò la tessera. Era un agente semplice della sezione speciale. Troy non poteva sapere se fosse un servo di Cobb o qualcuno che onestamente credeva di fare il suo dovere. «Sai chi sono?». L'agente fece segno di sì con la testa. «Allora ascoltami bene: se vuoi fare carriera nella polizia, dimentica quello che è successo. Torna a Scotland Yard e chiedi di essere trasferito in un'altra sezione. Fino a quel momento, tieniti lontano da Cobb, altrimenti non scommetterei un soldo sul tuo futuro. Mi hai capito?». L'agente assentì anche questa volta. Bonham sembrava poco incline a levargli lo stivale dalla gola. Jack lo tirò per la manica e gli fece segno verso l'alto, col palmo rivolto in su. Bonham tolse il piede e il giovane agente, con un sibilo penoso, inghiottì una boccata d'aria. Milligan aveva disteso la Toscà, che non era ancora rinvenuta, sul sedile posteriore dell'automobile. Aiutò Troy a sedersi davanti, mentre Jack accendeva il motore. «Andiamo all'ospedale», disse Milligan, a nessuno in particolare. Troy mise una mano sul braccio di Jack per fermarlo, poi allungò l'altra sul fondo dell'automobile, con la percezione acuta che l'umidore che sentiva poteva essere sia pioggia sia sangue, e trovò l'oggetto duro e tondo che cercava. Una patata. La diede a Bonham, che la prese con la sua manona guardandola senza capire. Poi d'improvviso, con un sorriso disarmante, disse: «Grazie. Domenica la cuocio al forno con l'arrosto e un paio di melanzane». «No, George, non è un regalo. Devi metterla nel tubo di scappamento dell'automobile di Cobb così, se quando si rimette in piedi vuole seguirci, abbiamo qualche ora di vantaggio». Bonham guardò la patata, passata da vegetale di consumo domestico a oggetto misterioso. «Nel tubo di scappamento? Dove le hai imparate certe cose?». «Alla scuola privata, George. Insegnano anche a fare gli anelli col fumo della sigaretta». Troy ringraziò Milligan, Jack avviò l'automobile e partì per la strada principale e poi per Cable Street. «All'ospedale», disse, facendo eco a Mil-
ligan. «No», ribatté Troy. «Al Ritz». «Al Ritz? E chi c'è al Ritz?». «Clark e la gemella». Jack diede un'occhiata alla Toscà, distesa sul sedile dietro. «E la bella addormentata?». «Portala a Mimram. Vi raggiungerò appena possibile». «Riuscirai a guidare così malridotto?». «Sì», rispose Troy, con una buona dose di ottimismo. La ferita alla gamba non gli faceva male, era poco più di un taglio, troppo superficiale per aver toccato un'arteria né, quasi certamente, un osso. Prima o poi avrebbe smesso di sanguinare. «In meno di due minuti potrei portarti al London Hospital». «A un ospedale? Con una ferita da arma da fuoco? Jack, chiamerebbero la polizia». «La polizia siamo noi». «Non è con queste parole che mi sentirei di difendere la nostra azione di stanotte». 102 «Non puoi entrare al Ritz in questo stato». Jack aveva ragione. Troy aveva la giacca cosparsa di scaglie di vernice verde, sembrava un marziano con un attacco di forfora. Da una gamba dei pantaloni gli usciva un ginocchio, l'altra era lacerata all'altezza della coscia e incrostata di un grumo di sangue ormai scuro. Camminava sguazzando nelle scarpe piene di sangue. «Mettiti il mio impermeabile». Jack era alto più di un metro e ottanta. A Troy l'impermeabile arrivava alle caviglie e copriva una quantità di pecche. Jack gli scostò i capelli dagli occhi. «Sei un mostro». «Grazie, Jack». Il portiere di notte del Ritz conosceva Troy di vista e traeva, evidentemente, motivo di orgoglio dalla propria capacità di discrezione. Sfiorò con lo sguardo le sue scarpe e gli diede il numero della camera di Clark. Troy sentì la voce di Clark attraverso la porta. «Se è l'ispettore capo Troy, dica qual era il mio soprannome a Berlino nel 1948».
«Le dirò qual è il suo soprannome adesso: ciccione-candidato-a-gradoinferiore-a-Birmingham». «Giusto. Apro». Troy si lasciò cadere su una poltrona e, per la prima volta dopo molte ore, sentì allentarsi la tensione dei muscoli mentre il respiro prendeva un ritmo regolare e attenuato. Clark era in maniche di camicia e bretelle. Sparsi a terra c'erano i fogli della sera prima, su un tavolino illuminato da una lampada una scacchiera tascabile e due bottiglie di birra vuote. Giocava contro se stesso. Troy pensò che non avrebbe mai capito la mentalità di Clark neanche fosse vissuto cent'anni, d'altra parte in quel momento aveva la sensazione di doversi considerare fortunato di essere arrivato a quarantadue. «La Foxx?», chiese. «È nella camera qui accanto. C'è una porta di comunicazione. Mi sono fatto dare la chiave.». «Ha il quadro della situazione?». «Direi di sì. La nostra amica americana?». «È salva e sta abbastanza bene. Jack la sta portando nell'Herfordshire». Troy chiamò a raccolta le ultime forze e si tolse l'impermeabile di Jack e la giacca. «Chiami il servizio in camera. Ci serve una macchina da scrivere, un blocco di carta e una mezza dozzina di fogli di carta carbone. Quanto tempo le ci vorrà per copiare la versione del messaggio cifrato di Cockerell?». «Circa mezz'ora. A Berlino ho lavorato per un po' di tempo all'ufficio rifornimenti e ho imparato a scrivere a macchina... tra le altre cose». Prese il telefono e trasmise l'ordine. «Ci serve anche un paio di pantaloni», aggiunse, con un'occhiata a Troy. Troy bisbigliò un: «Come?», e Clark, con una mano sul ricevitore, disse: «Se ci possono portare una macchina da scrivere alle due del mattino non avranno difficoltà a procurarci un paio di pantaloni. La misura?». «Vita settantadue, lunghezza settantotto. Crede che abbiano anche un paio di calze?». Clark fece aggiungere anche dei panini col roast beef e riattaccò. «Tra dieci minuti, signore». «Bene. Mi servono tre copie del messaggio. Ora devo passare nella stanza accanto». 103
La Foxx non dormiva. Stava seduta in mezzo al letto, con una camicia da notte corta, come voleva la moda. Troy si mise a sedere sul bordo del materasso, e sollevò con tutte e due le mani la gamba ferita per tenerla appoggiata. «Sei ridotto uno straccio». «Lo so. Me lo dicono tutti». «L'hai trovata?». «Sì». «È meglio che ti levi i pantaloni». Troy poteva solo sbottonarseli, ma non sarebbe riuscito a chinarsi per sfilarseli, anche perché erano induriti dal sangue secco. La Foxx gli tolse prima le scarpe, poi gli tirò via i pantaloni dal fondo, con uno strattone, e lui rimase lì, seduto sul letto, coperto solo dalla camicia, con le calze bagnate, a guardarsi la gamba nera di sangue rappreso, con un lembo di carne staccato, sulla coscia. «Brutto affare», disse la Foxx. «Bisogna cucire». «No, va bene così. Non posso andare all'ospedale». Lei andò in bagno e tornò con tutti gli asciugamani e un guanto di spugna inzuppato d'acqua calda. Lavò la ferita e anche la gamba, andando avanti e indietro quattro o cinque volte a sciacquare il guanto. Poi tamponò tutto con gli asciugamani, ormai sporchi. Anche Troy era ancora sporco di sangue, ma non sulla gamba e la ferita era visibile. «Com'è successo?». «Qualcuno mi ha sparato addosso». «Lo stesso che ha ucciso Stella?». Troy non rispose. «Troy!». «Sì?». «L'hai preso?». «Non so, non è ancora finita». La Foxx frugò nella sua borsetta e ne tolse una bustina di aghi e un rocchetto di filo di nylon. «Non è proprio sterile, ma non è neanche infetto. Fatti coraggio». Troy restò a guardare, nello spazio tra la sua gamba ferita e la testa di lei, che si alzava e si abbassava, l'ago che entrava e usciva. «Non mi fa male. Perché?». «Non lo so, Troy. Forse perché mi vuoi bene davvero e il vero amore
non sa che cosa sia il dolore. Veramente... non ci credevo più da quando avevo dodici anni. Mah, lo sa Dio perché non ti fa male. Peccato. Te lo meriteresti». Cuciva lentamente. Troy aveva l'impressione che sapesse poco di medicina e molto di sartoria. Stava facendo un sopraggitto perfetto. La testa seguiva il movimento della mano e quando l'abbassava i suoi capelli gli sfioravano la gamba. Lui allora aveva un brivido, una tensione piacevole alla nuca, ma se la carne era pronta, lo spirito era debole come una candela tremolante. «E adesso», chiese la Foxx, «che cosa sarà di me?». «Quanti soldi hai?». «Trentottomilaseicentoquarantacinque sterline in contanti, più settecento in sterline d'oro, che non so quanto valgano. Restano da aprire altre due cassette di sicurezza, a Montecarlo e ad Amsterdam. Ma già così i soldi sono ben più di quanto credeva Stella». «Prendili». «Li ho già presi. Credevi che fossi scema? Ho aperto un conto a Zurigo a mio nome». «Ritira tutto e vai a Brighton. Non ti seguiranno. Sei libera. La casa è intestata a tua sorella e adesso è tua. Vai da un notaio e chiedi di pagare la tassa di successione sull'immobile. Poi potrai fare qualsiasi cosa ti passi per la mente». «Proprio qualsiasi cosa?». «Sì. I soldi li hai». «Allora quello che conta sono i soldi?» «Senti: hai mai letto Il conte di Montecristo?». «Tanti anni fa. Quando ero una ragazzina». «Ti ricordi dell'abate Faria? Quel vecchio che scava una galleria nel castello d'If per trovare Dantès? È l'uomo più saggio e più colto che Dantès abbia mai conosciuto. Lui cerca di trasmettere la sua saggezza a Dantès, ma alla fine l'unica eredità che conta è il tesoro immenso murato in una cantina di un'isola del Mediterraneo. La saggezza non valeva niente in confronto al danaro. Io una volta pensavo che mio padre fosse come l'abate Faria e Dantès riuniti in una sola persona. Ci ha procurato la libertà, ha procurato a tutta la sua famiglia una possibilità di scelta nel corso travagliato della storia, ma ancora oggi non so se l'ha fatto con la sua intelligenza o col suo danaro». La Foxx chinò la testa per rompere il filo coi denti e disse: «E tu che co-
sa farai?» «Io, a quanto pare, ho... degli obblighi». «Degli obblighi che non sapevi di avere?». «Più o meno». Lei alzò la testa, si tolse il filo di bocca e in un soffio, come se fosse un ultimo bacio, gli disse solo una parola: «Bugiardo». 104 Era quasi l'alba quando Troy arrivò a casa. Il sole interrompeva la linea dell'orizzonte alla sua destra e appariva e spariva nello specchietto della Bentley a ogni curva, secondo il corso del fiume, tra la strada principale e Mimram. Jack non aveva avuto torto. Gli era stato difficile guidare con i muscoli della gamba destra strappati. Provava un dolore forte ogni volta che metteva il piede sull'acceleratore. Appena uscito dal centro di Londra, con meno fermate e meno cambi di marcia, si era deciso a lasciar perdere la frizione e a usare il piede sinistro sul freno e sull'acceleratore, cambiando marcia basandosi sul rumore del motore. Jack stava in piedi, appoggiato al portico. Per ripararsi dall'aria fresca della mattina si era messo l'impermeabile che Rod usava per cavalcare. Appesa al fianco aveva una pistola a doppia canna e teneva un dito infilato nel grilletto. Jesse James. «Era nel portaombrelli. Solo per fare un po' di scena. I colpi non li ho trovati». «Sono anni che nessuno la usa», disse Troy, pensando alla piccola pistola dorata che Jack gli aveva fatto lasciare in Narrow Street. «Hai dormito un po'?». «No. Ho ingoiato un paio di pillole di amfetamina poco fa. Poi, quando crollerò mi crollerà addosso anche l'universo, ma ci vogliono ore. Se vuoi... starò di guardia mentre dormi». Si fece ruotare la pistola attorno al dito, senza sforzo, come se fosse frutto di un lungo allenamento. No, pensò Troy, non era Jesse James, era John Wayne nella parte di Ringo in Ombre rosse. Troy sbadigliò. La proposta era troppo opportuna per poterla rifiutare. «Dovremo sgombrare il terreno. È domenica. Ci sarà un'invasione di parenti all'ora di pranzo, se non li fermiamo prima. Telefona a Rod e alle ragazze e di' che non vengano. La cuoca dovrebbe essere qui verso le dieci,
c'è anche un uomo che qualche volta, verso mezzogiorno, arriva a tagliare l'erba. E così via. A chiunque si presenti, di' che torni domani». Jack lo svegliò alle undici. Si mise a sedere anche questa volta sul coperchio del cesso, mentre, anche questa volta, Troy guardava l'acqua della vasca tingersi di sangue scuro ed esaminava la cucitura nera che gli chiudeva il lembo di carne sulla coscia. Jack aveva i segni dell'amfetamina nelle pupille, che sembravano due pozzi senza fondo. «Ho parlato con tutti all'ora di colazione», disse, «ma non con Sasha, solo con Hugh. Ha detto che comunque avevano deciso di non venire e mi è parso che considerasse una indiscrezione da parte mia avere telefonato. Si avvertiva la presenza di un silenzioso "va a farti fottere", tra una frase e l'altra». Sasha aveva saputo? si chiese Troy. O stava cercando le parole adatte per dire a Hugh che voleva lasciarlo per un amante già morto? Gli era parso difficile, a suo tempo, credere che volesse veramente abbandonare suo marito, era troppo facile andare avanti a ingannarlo, ma la morte di Johnny gli aveva comunicato uno strano rispetto per la fiducia che aveva avuto in lei. Guardò la Toscà. Dormiva profondamente. Scostò il lenzuolo. La faccia era ridotta molto male, ma sul corpo non c'erano segni. Scese a bere il caffè con Jack, in piedi, sotto il portico. Jack, sempre con quella pistola inutile appesa al fianco, gli occhi così dilatati da far pensare che avesse inghiottito pillole di amfetamina come caramelle, guardava l'autunno riversare sulla terra un ultimo assolato, arioso pomeriggio. Troy si sentiva per la prima volta pulito dopo molti giorni. Il petto della camicia, leggermente inamidato, era per lui in quel momento una fonte di piacere difficile da spiegare. Pulito, ma debole. Il portaombrelli che aveva fornito la pistola a Jack, ora gli procurò un bastone, inutilizzato da quando suo padre era morto, più di dieci anni prima. Erano le quattro passate quando Troy tornò in camera della Toscà. Si era alzata, lavata e vestita. Si era rimessa quei pantaloni da giardino che lui le aveva dato una volta, con la camicia scozzese senza colletto e senza polsini. Ora stava finendo di truccarsi. Troy aveva l'impressione che insieme avessero inciso un arco nel tempo e che ora l'arco si fosse chiuso come un cerchio. Lei aveva lividi e ferite sul viso, come quando l'aveva trovata ad Amsterdam. Posò il vasetto di fondotinta e si voltò a guardarlo, una palpebra contusa le copriva l'occhio. Come allora, la vide infilarsi un guanto sulla mano destra per nascondere le nocche delle dita scorticate. Il cerchio era
completo. Prima di poter parlare, sentì Jack che arrivava di corsa sul pianerottolo. «C'è un'automobile in fondo al viale, nello slargo dall'altro lato della strada». Tornarono sotto il portico. Jack diede a Troy il binocolo e Troy vide Charlie scendere dall'automobile, voltarsi a parlare con Cobb, seduto accanto al posto di guida e poi cominciare a salire lungo il viale. «Arriva». Jack guardò Troy. Non era drogato al punto da non capire che cosa si stava preparando. «Devo essere solo». «Lo so». «Solo con Charlie». «Non hai questo obbligo verso di lui». «No, ma verso di te sì. Quello che succederà ora è qualcosa che tu non devi sapere». «Sarò in paese, al Blue Boar». Jack fermò l'automobile a metà del viale e abbassò il finestrino. Lui e Charlie si scambiarono qualche parola, poi Charlie proseguì a piedi. Era pallido, stanco, ma sempre molto bello. Il vento gli agitava una ciocca di capelli biondi, teneva le mani affondate nelle tasche dei pantaloni di un vestito estivo verde oliva. Una eleganza da indossatore, a un livello cui Troy non avrebbe potuto aspirare nemmeno se fosse nato un'altra volta. «Un altro bel pasticcio, eh Freddie?», disse Charlie, in piedi nel viale, senza varcare la soglia di casa prima di essere invitato. «Sono circa le quattro. Beviamo una tazza di tè». «Oh, bene». Troy si avviò zoppicando per il lungo corridoio che portava alla cucina. Accese il gas sotto il bollitore per celebrare un'altra volta il vecchio rito inglese e si accorse che non riusciva a tendere la gamba per arrivare allo scaffale dov'era il barattolo del tè. Charlie lo prese e lo posò sul tavolo, poi si rimise le mani in tasca e cominciò a gironzolare su e giù per la cucina, a testa bassa, battendo la punta delle scarpe di cuoio sulle piastrelle, come un ragazzino in cerca di un sasso a cui dare un calcio. «Dove ti hanno incastrato?», gli chiese Troy. «A Cambridge? Con Burgess e Maclean?». Charlie smise di camminare e lo guardò, scostandosi con la mano un ricciolo puerile che gli ricadeva sugli occhi. «Mah, pensa come vuoi. Non è
stato esattamente così, ma Cambridge è simbolicamente il luogo adatto. È capitato a Maclean e a qualcun altro, ma se sei sicuro che abbiano incastrato anche Burgess, vuol dire che ne sai più di me. Ancora oggi non ho la certezza che Guy sia uno di noi». «Allora sei tu l'infame Terzo Uomo?». «No, no, io non sono nemmeno il quarto o il quinto. Il terzo è Philby e sarebbe molto risentito se mi arrogassi la pretesa di portargli via il titolo». Troy stava mettendo le tazze sul vassoio e l'acciottolio leggero gli si ripercuoteva nella testa come il rombo di un tuono. Sperò di non mostrare un'incertezza nei movimenti che potesse tradirlo. Era passato solo poco più di un anno da quando Philby aveva protestato pubblicamente la propria innocenza durante una conferenza stampa e solo un anno da quando Macmillan lo aveva assolto in parlamento. Charlie non avrebbe detto quelle parole sul conto di Philby se avesse pensato che lui potesse ripeterle a qualcuno. In un modo o nell'altro era deciso a chiudergli la bocca ed era impossibile prevedere fino a che punto sarebbe potuto arrivare. Il bollitore fischiava. Charlie stava appoggiato con la schiena alla credenza. Troy versò l'acqua nella teiera. «Porta tu il vassoio», disse, prendendo il bastone. «Io non ho le mani libere». Andò zoppicando verso il prato dove, sotto il sole che ormai se ne stava andando, c'era un tavolino con due poltroncine di vimini. Charlie lo seguì con il vassoio. Il vento che aveva spazzato via la pioggia della notte dall'erba ora spingeva lentamente le nuvole attraverso il cielo di ponente, nuvole grandi, gonfie, acquose, increspate come grassi gatti maculati che in cielo si rotolavano pigri su se stessi. Charlie posò il vassoio. Troy sedette su una poltroncina di vimini e appoggiò il bastone al bracciolo. Un oggetto duro gli urtò il fianco, con la mano sinistra dietro la schiena lo smosse, trasalì, si premette la mano sul fianco e tese i muscoli della gamba. «Mi dispiace per la ferita, Fred», disse Charlie. «Ti fa molto male?». «No, non molto, ma non passerà tanto facilmente. Soffro ancora per la ferita al fegato e sono passati più di dieci anni». Charlie era uscito indenne dalla guerra e da ogni scontro, avvenuto in seguito, tale da essere menzionato. Si mise a sedere di fronte a Troy, accavallò le gambe, dopo essersi tirato un po' indietro sul ginocchio i suoi pantaloni perfetti e, con un gesto pacato, congiunse le punte delle sue dita curatissime. Parlò con calma, con un afflato nella voce che era quasi una provocazione. «Freddie, dobbiamo trovare una via d'uscita. Lo vedi anche
tu, vero?». «No. Io non vedo niente. Non sento niente. Ti ho dato ascolto per tutta la vita. Per tutta la vita tu sei stato il capo e io il subalterno. Adesso sta' zitto e ascoltami». «Freddie...». «Taci! Stiamo giocando la partita finale, Charlie. Non lo vedi? Non è il momento di prendermi in giro. Ora ti dirò le cose come stanno e tu mi ascolterai». «Che cos'è, l'ultima pagina di un libro di Agatha Christie? Poirot tira le fila del racconto?». Sembrava una frase blanda, piacevole, non una osservazione sarcastica. «Se ti piace pensarlo». «Bene, ma se vuoi partire dagli anni di Cambridge ti ci vorrà una settimana». «Non m'interessa Cambridge. Voglio cominciare dal 17 aprile, da quando l'automobile di quei due poveri disgraziati della sezione speciale è andata a sbattere contro un albero sulla strada per Portsmouth». «Sono tutto orecchi». Teneva ancora le dita ravvicinate, a formare quella linea da chiesa gotica, con un atteggiamento ingannevolmente sereno, gli occhi azzurri fissi in quelli di Troy. «Quando mi hanno chiamato alla sezione speciale, poco prima dell'arrivo di Kruscev, hanno fatto l'ultima cosa che tu avresti potuto immaginare e desiderare. Se c'era un poliziotto che tu non volevi che girasse dalle parti di Portsmouth, quello ero io. Non perché non volevi che avvicinassi Kruscev - infatti, come ha osservato giustamente mio fratello, sorvegliare Kruscev era solo un modo per sviare l'attenzione da ben altro - a te premeva soprattutto che non entrassi in contatto con Arnold Cockerell. Invece sei stato sfortunato: hanno chiamato proprio me. E, in seguito, sei stato più sfortunato ancora. Mentre cercavi di convincermi a non accettare, abbiamo incontrato John Fermanagh. A me, vedere John Fermanagh è sempre costato una notte d'insonnia e così, invece di dormire, e magari ripensarci, ho preso l'ultimo treno per Portsmouth. Colmo di sfortuna, mi sono trovato a fare colazione allo stesso tavolo di Cockerell, un'ora o due prima che tu lo mandassi a morire lasciandogli l'illusione che stesse spiando la nave russa. Tutto giusto fino a questo punto, Charlie?». «Certo. Tutto giusto». «Qualche giorno dopo sono cominciati i guai e l'ispettore investigativo
Bonser è corso al King Henry a nascondere le prove. Mi sono insospettito. Bonser non è un impulsivo. Non è nemmeno dotato di tanta immaginazione da prendere una iniziativa. Non ho avuto il tempo di andare a cercare in archivio la scheda di Cobb, ma vuoi scommettere che avrei scoperto che, prima di arrivare a Scotland Yard, era stato in servizio alla sezione speciale di Liverpool e che lì aveva lavorato con un sergente di nome Bonser? Quando Bonser ha sentito parlare del sommozzatore spia, ha chiamato il suo vecchio amico Norman Cobb, anzi, se è così, la telefonata dovrebbe essere trascritta nel registro giornaliero, e senza di te al quale rivolgersi, Cobb, preso dal panico, ha detto a Bonser di distruggere le prove. Bonser, allora, ha strappato la pagina del registro al King Henry, la pagina dove c'era anche il mio nome. Poi Cobb ti ha trovato, tu gli hai detto che era stato un cretino e che, più di qualsiasi altra cosa, ti premeva che il cadavere fosse identificato come quello di Cockerell. Perché altrimenti, dove sarebbe stato lo scandalo? «Dunque, se non mi sbaglio, tu sei stato all'estero in giugno e luglio... sì, Gus Fforde mi ha detto che eri passato da Vienna nell'andare non so dove e io ho anche cercato di telefonarti, solo per dirti che mi ero sposato e presentarti a mia moglie, ma Cobb era a Londra, era a Scotland Yard e si destreggiava da solo in questo fallimento. A luglio, infine, il cadavere è venuto a galla. Bonser ha chiamato Cobb e ha ricevuto nuovi ordini, opposti ai precedenti: niente più coperture, Cockerell doveva essere identificato a tutti i costi. Sa Dio che cosa Bonser abbia detto a Cobb, ma se ci fossi stato tu dubito che avresti pagato il prezzo del suo intervento successivo. Quando nessuno a Portsmouth identificava il cadavere come quello di Cockerell, Bonser ha consultato la pagina strappata, ha parlato con Quigley e gli ha detto di chiamarmi. Bonser è un bravo poliziotto, esegue scrupolosamente gli ordini. Mi ha fatto andare a Portsmouth, mi ha chiesto di guardare il cadavere e di parlare con la vedova. E, di nuovo, il peggio che poteva succederti è successo: io ho indagato sulla morte di Arnold Cockerell. Di più: ho indagato sulla vita di Arnold Cockerell. «Ci ho messo fino a ieri a capire che era Cobb a seguirmi dappertutto. Sono stato uno stupido e quasi mi sono fatto ammazzare. Non gli era difficile da Scotland Yard essere informato sui miei spostamenti, gli sarà bastato posare l'orecchio a terra per sapere che stavo andando nel Derbyshire, dalla moglie di Cockerell. Ho scoperto Jessel e, prima che potessi farlo parlare, lui lo ha ucciso. Non credo che ne avesse l'intenzione, ma ha esagerato nel suo ruolo di poliziotto aggressivo e l'ha fatto morire di paura.
Ho rilevato le impronte dalla scrivania di Jessel e una certamente era di Cobb. «Poi... poi ho fatto un guaio. Cobb non sapeva niente dell'esistenza di Madeleine Kerr. Non aveva idea che Cockerell avesse un'amante. E questa volta non è stato un incidente. Le ha rotto l'osso del collo, ha suonato l'allarme, è saltato giù dal treno e, se avesse sparato meglio, avrebbe ucciso anche me. «Mi sono trovato bloccato in licenza di convalescenza e in disgrazia presso la polizia. Così, per un po' di tempo, non sono andato a Scotland Yard; anzi, con le ire di Onions incombenti sulla mia testa, giravo al largo e nessuno sapeva quello che facevo. Cobb, allora, mi ha perso di vista. Non è riuscito ad agganciare il mio spostamento successivo e quando sono andato a Parigi non mi ha seguito, perché non lo sapeva. In realtà, nessuno di voi ha saputo un accidenti fino a ieri, quando mia moglie è entrata per caso al Café Royal e ha distrutto le nostre coperture. «Ma avevamo avuto tutti una dilazione di tempo. Se tu fossi stato a Londra quando l'avevo appena portata qui, tutto si sarebbe smontato in pezzi nelle nostre mani già da molte settimane. «Così ho trovato una sorta di polizza di assicurazione sulla vita di Arnold Cockerell, il documento che Cobb sospettava si fosse lasciato alle spalle e per il quale aveva ucciso Madeleine Kerr. E ora, non soltanto so che cosa è successo, ma so anche perché». Charlie aveva ascoltato, senza grandi reazioni. Una impercettibile contrazione dei muscoli della guancia, simile a quel piccolo scatto nervoso che aveva avuto il re durante il discorso dell'abdicazione, una inclinazione della testa in avanti, in modo che le labbra quasi toccavano le punte delle dita ancora strette le une contro le altre e protese verso l'alto. «Vai avanti», disse e fu poco più che un bisbiglio attraverso le dita. «Ora facciamo un passo indietro, non fino agli anni Trenta, non fino a Cambridge, ma, diciamo, fino al 1951, a Londra. Tu e Cobb state organizzando una nuova rete per i russi. Mi pare di capire che tu conoscessi sia Cobb sia Cockerell dal tempo di guerra, no?». Charlie raddrizzò le spalle, sorrise, quasi felice di poter contribuire a un chiarimento. «Certo», disse. «Loro facevano parte del SOE, il corpo operazioni speciali, erano il nostro braccio operativo a quell'epoca. Conoscevo Cobb abbastanza bene. Non aveva idee politiche, ma gli piacevano i soldi e sapevo che avrebbe fatto qualsiasi cosa per procurarseli. Non sono questi gli agenti migliori, ma si riesce sempre a esercitare un alto grado di potere
su di loro, perché sono molto avidi di danaro. Un uomo avido di danaro è un uomo debole. Avevo visto Cockerell un paio di volte, era Norman che lo conosceva bene, non io». «E quando i russi hanno avuto bisogno di un riciclaggio di danaro sporco e di un corriere, Cobb ha pensato a Cockerell?». «Sì. Io non mi ricordavo neanche chi fosse, non era di quelli che ti restano impressi nella mente. Cobb sapeva che aveva un commercio e sembrava proprio la copertura di cui si aveva bisogno». «1951», proseguì Troy. «Cockerell dice a sua moglie che va al Festival dell'Inghilterra. Contemporaneamente Cobb organizza un incontro tra voi tre. Charlie, mi sono chiesto, che bugia gli hai detto, che frottola gli hai raccontato?». «Niente, gli ho detto la verità. Gli ho detto che era una operazione russa. Non è colpa mia se non ha capito. Ci siamo incontrati al Festival, al Padiglione delle Scoperte». «Tu hai reclutato Cockerell perché facesse entrare il danaro e lo distribuisse nella tua rete. Hai creato una copertura plausibile, gli hai detto di organizzare un commercio con l'estero, di gonfiarlo il più possibile e di assumere anche Jessel perché tutto sembrasse autentico. Jessel ha escogitato il trucco di pagare le tasse sul danaro che entrava, legittimandolo, ma nessuno gli ha detto la verità. Lui pensava a una truffa qualsiasi. Se gli anni della cosiddetta austerità hanno avuto un risultato è stato quello di ridurci a una nazione di truffatori. Jessel non ha pensato che fosse molto grave quello che faceva. Forse, finché non sono arrivato io, aveva sempre creduto di essere una persona onesta, che ricorreva a qualche piccolo traffico tipico di una società nella quale i beni di consumo sono razionati. «La cosa più strana è che tu hai imposto a Cockerell una vernice di rispettabilità. Dietro tuo consiglio, ha migliorato la sua copertura. Ha lasciato il partito laburista e si è messo con i conservatori, si è iscritto al Rotary, è diventato un notabile della sua cittadina, un borghese a livello medio in una vita provinciale a livello medio, e intanto tu, attraverso il suo commercio di ciarpame, passavi migliaia di sterline a una rete di agenti sovietici che lavorava per rovesciare tutto quello che ora Cockerell sembrava rappresentare. Devo darti atto di un certo gusto per il paradosso. «Per quasi cinque anni tutto è andato liscio. Poi in Cockerell è nata una inquietudine. Ho faticato a spiegarmelo, ma credo che a un certo punto sia venuto da te e ti abbia chiesto che gli fosse affidata una vera missione, l'opportunità di fare qualcosa di significativo. È così, vero Charlie?».
«Una pazzia. È venuto da me, ha dichiarato che intendeva riprendere ad andare sott'acqua, per una soddisfazione personale. "Voglio che mi sia affidata una missione", si è espresso proprio così, hai ragione, Freddie, ed è stato lui a dire che avrebbe spiato Kruscev e Bulganin, non gliel'ho proposto io. "Arnold, noi siamo dalla loro parte", gli ho fatto osservare. Ho avuto l'impressione che non capisse. Era come se qualcuno gli avesse schiacciato un bottone nel cervello e credesse di trovarsi ancora in guerra, nelle acque di Brest, in ricognizione sulle spiagge della Normandia. Non riuscivo a fargli entrare in testa che stavamo facendo tutt'altra cosa, capiva poco. Sembrava che credesse a una sorta di operazione circolare e che, lavorando per me, fosse entrato a far parte di un progetto duplice o triplice che alla fine si sarebbe risolto in un vantaggio per l'Inghilterra. Sbagli, però, se pensi che gli abbia suggerito di migliorare la sua copertura, io non gli ho mai detto di inserirsi tra i notabili della città. Ha fatto tutto di testa sua. Peggio: ci credeva davvero. Era diventato l'uomo che fingeva di essere. Forse, a pensarci bene, è il destino di tutti noi, ciascuno inventa se stesso. Puoi capire che a marzo Cockerell per me era diventato un peso. Ho parlato con i russi del suo proposito pazzesco di spiarli e ho chiesto come mi dovevo comportare. "Lo mandi da noi", mi hanno risposto, "lo mandi sull'Ordzhonikidze". Freddie, in quel momento mi avresti buttato a terra con una piuma. Non mi reggevo in piedi. Però ho fatto quello che mi hanno detto. Certo non sapevo che lo avrebbero ammazzato, povero scemo». «Ma non ti hanno detto perché volevano che lo mandassi da loro?». «No, non me l'hanno detto». «È stato uno scherzo sinistro. Uno scherzo alla Kruscev. Cockerell è stato mandato dai russi a spiare i russi e loro se ne sono serviti per creare uno scandalo che ha scosso il governo inglese. Ti hanno sputato in un occhio, Charlie. Tu credevi di esserti liberato di Cockerell e loro te l'hanno ributtato addosso come un pesce puzzolente. Non vedi il disprezzo che ti hanno dimostrato con questo giochetto? «Ma non tutto è andato secondo il previsto. Il lunedì sera, io ho sentito Kruscev che, al telefono, diceva: "Procedete". Non avevo idea di che cosa parlasse né di chi, ma so che, la mattina dopo, il capitano della Ordzhonikidze ha denunciato al ministero degli esteri la presenza di una spia subacquea. Quel lunedì notte, mentre io e Kruscev eravamo in giro per i pub, i russi hanno buttato in mare il defunto comandante Cockerell. Ecco che cosa voleva dire quel "procedete"... Buttate il cadavere in mare. Ma, la mattina dopo, il cadavere non c'era più. Era sparito, mentre avrebbe dovuto gal-
leggiare a pancia in su nel porto di Portsmouth come uno sgombro morto. Kruscev sarà stato furente. Si era tenuto da conto Cockerell per creare un incidente diplomatico quando fosse venuto il momento giusto e il momento giusto era quello, dopo la rissa coi laburisti. Perciò aveva detto quel "procedete" al comandante della nave, ma nessuno aveva tenuto conto delle correnti e il cadavere di Cockerell è stato trascinato lungo cinque miglia di costa, per mesi. Era venuta a mancare la prova dello scandalo. Solo il polverone sollevato da mio fratello alla Camera dei Comuni e la stupidità di Eden hanno consentito a Kruscev una parvenza di vittoria. Ha avuto lo scandalo che cercava, ma troppo tardi e in una forma inadeguata allo scopo, che era quello di far scoppiare un inferno finché lui era qui. Il vantaggio doveva essere duplice: il manifesto imbarazzo del governo e l'eliminazione di un agente inutile. Kruscev probabilmente pensava che Cockerell gli sarebbe stato più utile da morto di quanto non fosse mai stato da vivo. «Quando il cadavere, infine, è affiorato, dilaniato dai pesci, dalle eliche e sa Dio da che altro, è risultato irriconoscibile. Sarebbe stato ancora importante in quel momento poter dimostrare che era il cadavere di Cockerell, ma quando ormai vi ho dato la identificazione non contava più molto. Eden aveva scelto di limitare il danno, aveva ammesso quello che non aveva fatto, ormai la storia era vecchia. E, inoltre, era stato trovato il capro espiatorio. Entrambe le parti avevano bisogno di una vittima, di qualcun altro da incolpare, e, una volta trovato, la questione poteva essere sepolta. Scandalo, punizione, sacrificio e, infine, giustizia. Adesso spiegami come sei riuscito a riversare la responsabilità di quello che era successo su Daniel Keeffe». «Oh, è stato facile. Ho detto a Cockerell di andare a esporre il progetto a lui, Keeffe, che era stato suo superiore durante la guerra. Ero sicuro che Keeffe non l'avrebbe neanche preso sul serio, ma ormai sarebbe stato troppo tardi, perché la visita sarebbe risultata dal foglio degli appuntamenti. Che Keeffe negasse non avrebbe avuto importanza, né all'MI5 né аll'МІ6 gli avrebbero creduto». «E così Keeffe ha scontato le tue colpe. Un capro espiatorio perfetto». «Già». «Ma i nodi vengono al pettine». «Non capisco...». «Quando tu ti sei sbarazzato di Cockerell, i russi non hanno più avuto bisogno del loro corriere, la Toscà. L'hanno eliminata dalla operazione, l'hanno riempita di botte e lei è scappata, per salvarsi. È venuta da me ed
era inevitabile che, alla fine, trovasse te. Non ti sembra un'ironia della sorte che tu abbia messo in moto un seguito di avvenimenti che ti si sono ritorti contro quando hai mandato Cockerell a morire?». «Il concetto di ironia è sprecato con me, Freddie. Non lo recepisco. Sottolinea, segna con la matita rossa, fa' quello che vuoi, non riuscirai a colpirmi. Io sono di quelli che credono». «E io no. E soprattutto non credo a te». «Non ne dubito, ma ora che sappiamo il come e il perché, con l'ironia in più, se hai finito il discorsetto perché non parliamo di cose concrete? Dieci su dieci per l'intuito, ma la vera ragione per cui siamo qui è la Toscà. Ci dev'essere un modo per cavarcela tutti e due. Possiamo ancora venire a patti, quello che è certo è che non possiamo lasciare le cose come stanno». «No». «Che significa "no"?». «No. Niente patti. Finché non smetti di raccontare bugie». «Freddie, io non sto dicendo bugie». «Hai tentato di farmi credere che non sapevi che i russi avrebbero ucciso Cockerell. Forse stai cercando di risparmiarmi i particolari? Cockerell era già morto quando i russi l'hanno preso in consegna. Cobb l'aveva ucciso». «Perché avrebbe dovuto ucciderlo?». «Perché glielo avevi detto tu. Perché Cockerell sapeva troppo e non potevi lasciare che arrivasse vivo dai russi. Loro ti avevano detto di mandarglielo, senza specificare se vivo o morto. Così Cobb lo ha intontito con una botta dietro la testa e l'ha calato in acqua con tutta la sua attrezzatura subacquea perché i russi se lo prendessero. Loro hanno mandato due dei sommozzatori di scorta alle navi che stavano controllando il canale di Solent. Qualunque cosa si aspettassero, Cobb gli ha consegnato un cadavere, e ha fatto appena in tempo a tornare a Portsmouth. Sudava come un porco, era stremato. Io ero lì, l'ho visto, non reggeva più. Ho pensato a una questione di carattere, ma c'era ben altro, aveva appena ucciso un uomo e l'adrenalina gli scorreva nelle vene come una dose di eroina». «Queste sono elucubrazioni tue, Freddie». «No, sono fatti. Se Cockerell fosse stato ancora vivo quel martedì, quando il capitano ha denunciato la presenza di una spia, non avrebbe avuto nello stomaco le tracce dell'ultima colazione fatta a Portsmouth. Cockerell è morto entro un'ora dopo aver finito il suo maledetto kedgeree. Per quanto ne so io, i russi potrebbero averlo tenuto in frigorifero per sei giorni, ma quando l'hanno preso era già morto. Ed era morto perché tu non potevi ri-
schiare che dicesse loro la verità sulla tua rete. Io ho letto la sua polizza di assicurazione, Charlie. Il suo testamento. Lo ha scritto solo perché non si fidava di te. Sapeva che non sarebbe servito a salvargli la vita, ma dopo, almeno, avrebbe rovinato la tua e quella di Cobb. Nomina sette agenti del tuo libro paga. Un addetto all'ufficio governativo per le pubbliche relazioni; un vecchio professore di Cambridge, incaricato di individuare i giovani più promettenti; due piccoli funzionari del ministero della guerra, che a quanto pare seguiti a ricattare; due parlamentari e un lord rimbambito. Ora, quanti hai detto di averne ai russi? Dodici? Venti? Tu hai fatto passare attraverso i libri contabili di Cockerell molto più danaro di quanto avresti mai potuto spendere per questo banale elenco di aspiranti traditori. E il resto dove andava a finire?». Troy tacque, ma Charlie non rispose e così continuò. «Ti ricordi quando è stata l'ultima volta che mi hai chiesto un prestito? Io sì, me lo ricordo. Era l'estate del 1951. Me l'hai restituito in quello stesso anno, in contanti, e poi non mi hai più chiesto niente. Tu e Cobb rastrellavate soldi come due croupier. Vi mettevate in tasca i soldi facendo credere ai russi che servissero per i vostri falsi agenti». «Non è stata una mia idea, Freddie. Dammi un po' di fiducia. Io credo in quello che faccio. È stato Cobb. E io non ho detto a Cobb di uccidere Cockerell. Ha agito da solo». «Non è vero. "Un uomo avido di danaro è un uomo debole"». «Eh?». «L'hai detto tu dieci minuti fa. Parlavi di Cobb, ma vale anche per te. Hai sempre vissuto come se fossi ricco, Charlie, e questo significa aver bisogno di danaro». «Freddie, non ho ucciso Cockerell. L'ha ucciso Cobb, di sua iniziativa. Come ha ucciso Jessel e Madeleine Kerr». «E ha voluto lui uccidere anche Johnny Fermanagh e rapire la Toscà?». «Cosa?». «È stata una sua idea picchiare Johnny Fermanagh a morte e rapire la Toscà?». Troy pensò che quella era la domanda determinante. Erano seduti, uno di fronte all'altro, a gridarsi in faccia le loro parole concitate, ma, nella fine inevitabile della loro amicizia, un sì di Charlie avrebbe significato una differenza. La collera di Charlie pareva essersi bloccata di colpo. Troy lo vide aprire la bocca, confuso, senza dire una parola. Non ebbe mai una risposta. Cobb, a passi pesanti, girò dietro l'angolo dal davanti della casa, come Troy si a-
spettava che avrebbe fatto, si diresse verso di loro, mentre i suoi piedi battevano sul terreno con un rumore sordo, come gli zoccoli di un cavallo da tiro, e un unico raggio di sole usciva da una nuvola e gettava su di lui, sulla sua cupa determinazione, una luce da palcoscenico. Charlie si alzò in piedi. «No, Norman. No!». Ma Cobb non lo ascoltava. «Ne ho abbastanza di questa farsa», disse, e s'infilò la mano destra sotto la giacca dal taglio ampio per prendere la Browning custodita nel fodero di cuoio. Un vestito a doppio petto può rendere più elegante un uomo molto alto, può anche aiutare a nascondere una pistola troppo ingombrante, ma in quel momento ebbe solo la funzione di aggiungere attimi preziosi al gesto di Cobb. Prima che la sua mano uscisse di sotto il risvolto, Troy gli aveva sparato cinque colpi al cuore. Non era sicuro che ci sarebbe riuscito. La Mauser era stata nascosta sotto il cuscino della poltroncina di vimini quasi tutto il pomeriggio e, nel sedersi, se l'era fatta scivolare nella cintura. L'aveva staccata quella mattina dai due pioli infissi nel muro, gli era parsa molto pesante e si era chiesto se sarebbe riuscito a usarla. In un cassetto della scrivania di suo padre c'erano i proiettili, vecchi di anni, ma ancora in buono stato. Troy aveva caricato la pistola e l'aveva trovata non solo più pesante, ma anche più lunga di qualsiasi altra avesse mai preso in mano. Inoltre lui era mancino e suo padre no, un particolare che, se per novantanove pistole su cento non sarebbe stato importante, lo era invece per la Mauser, perché, come sua moglie gli aveva spiegato con tanta vivace competenza, era una pistola da cavalleria, che aveva il fodero inserito nella sella, e per sparare bisognava farsi ruotare il cane sulla coscia. Esistevano quindi dei modelli con il cane a sinistra, per chi usava la mano destra e altri, più rari, con il cane a destra, per i mancini. Troy non avrebbe potuto estrarla come una pistola qualsiasi, se l'era infilata nella cintura, in mezzo alla schiena, con il calcio sporgente a sinistra. Dopo un po' di tentativi era riuscito a sfilarla con la mano sinistra, ad alzare il cane strisciandolo sul fianco e a sparare, tenendola obliqua verso l'alto, mirando un po' a destra. Gli sembrava di essere riuscito a fare tutto in fretta, ma quanta fretta gli sarebbe stata necessaria? Le cornacchie, sugli alberi, gracchiarono verso il cielo. Cobb cadde come una quercia abbattuta dal fulmine. Senza un grido piombò all'indietro, tutto d'un pezzo, con uno schianto che fece tremare il terreno. La mano si staccò dalla giacca, il braccio cadde in fuori, ad angolo retto col torso, ancora con la Browning in pugno. Troy non aveva calcolato l'effetto del rinculo. Aveva sparato, vuotando
metà del caricatore, la violenza dei colpi gli aveva fatto perdere l'equilibrio ed era caduto sulle ginocchia. Si appoggiò con tutto il peso sulla mano destra. Cobb era immobile. Il corpo teso, le braccia aperte. Troy cercò Charlie con lo sguardo e scoprì che anche lui era in ginocchio, a un metro di distanza, la faccia coperta dalle mani, mentre un cupo bisbiglio, «Dio, Dio», trapelava attraverso quella maschera dietro la quale si era nascosto. Troy alzò la pistola contro di lui e vide che, con un occhio aperto, lo guardava tra le dita, come un bambino che finge di essere invisibile. Dalla gola di Cobb uscì un rantolo. Troy non smise di fissare Charlie, ma spostò la pistola solo il tempo necessario per sparare un altro colpo a Cobb, sulla fronte. «Guardami, Charlie», disse. Charlie si tolse le mani dalla faccia, senza smettere di mormorare «Dio, Dio», tra sé, come una preghiera che non riuscisse a ricordare, una invocazione miracolosa che annullasse tutto quello che aveva visto. Aveva le guance velate di lacrime. «Guardami, Charlie», ripeté Troy. Charlie lo guardò, poi posò gli occhi su Cobb, come ad avere la conferma che era avvenuto il peggio, e di nuovo guardò Troy, che stava ancora appoggiato alla mano destra, con la pistola rivolta verso di lui. «Nel caso avessi dei dubbi», disse Troy con un affanno nel respiro, «è una Mauser semiautomatica. Tiene dieci colpi. Credo di averne lasciati sei nel corpo del defunto Cobb. Qualsiasi arma tu abbia addosso, prendila e buttala sul prato». «Un'arma?». Charlie espresse la propria incredulità con un tono acuto della voce. «Credi davvero che sia armato? E perché?». «Hai ragione... avevi Cobb, non ti serviva una pistola. Ma io non voglio correre rischi. Alzati in piedi e levati la giacca». Charlie obbedì. Si alzò in piedi. Tremava. Si levò la giacca e la scosse. «Freddie, ti prego, credimi. Non sapevo che Cobb volesse fare una cosa simile. Non lo sapevo davvero. Gli avevo raccomandato di restare in automobile. Sono state le ultime parole che gli ho detto: "Resta in automobile"». «Voltati, butta a terra la giacca e rimboccati i pantaloni». Quando Charlie fu di spalle, con le caviglie nude, torcendo il collo per guardarsi indietro, Troy si alzò dall'erba e, con la mano libera, mentre con l'altra teneva la pistola lungo il fianco, gli fece segno di tornare a sedersi. Lo sforzo che gli era costato rimettersi in piedi gli aveva tolto il respiro e
lui e Charlie restarono uno di fronte all'altro, sulle poltroncine di vimini, in un silenzio carico di elettricità, finché Troy non trovò l'energia necessaria per riprendere a parlare. «Charlie, ti propongo un accordo, l'unico che puoi ottenere. Ho scritto tutto quello che ti ho appena detto in un documento che ho spedito a tre legali in tre città diverse di tre paesi diversi, insieme alla copia dell'ultima lettera di Cockerell. Meglio per te lasciarmi vivo, Charlie. Se morissi, questi tre legali sanno già di dover mandare tutto all'MI5. Ma tu sei salvo, la tua piccola, spregevole rete è salva, purché io non sappia più niente di te. Se io, o mia moglie, o qualsiasi membro della mia famiglia sarà toccato da una delle due parti, non importa quale, io ti denuncerò a entrambe. Voglio essere lasciato in pace. Se non mi sarà possibile, sceglieremo la linea dura, e le prove non mancano». «Gli inglesi sono creduloni, Freddie. Guarda Philby che figura da babbei gli ha fatto fare. Credi davvero di poter arrivare ai russi senza che io lo sappia?». «L'ho già fatto». «Eh?». «Chiedi all'agente di guardia all'ambasciata russa che ti mostri il foglio di servizio. Scoprirai che un uomo che mi somiglia ha messo una lettera nella loro casella alle quattro circa di questa mattina». «Sei un ingenuo. Il KGB...». «Пирожки», disse Troy, sporgendo leggermente le labbra nel pronunciare la prima sillaba. «Come?». «Пирожки». Per la prima volta Troy capì di aver sconvolto Charlie con una sola parola e in una lingua che non conosceva. «Oh Dio. Oh mio Dio. Kruscev ti ha dato un codice dell'ambasciata?». «Questa corsa deve avere un termine. Gli ho lasciato una lettera. Gli ho detto dov'era lei, gli ho assicurato che non dirà niente di quel poco che sa a nessuno e che tutti e due gli saremo grati se potremo vivere in pace. Tu puoi pensare che ti abbia dato un vantaggio, ma ti conviene pregare il cielo che il segretario generale accolga la mia richiesta. Se ci manderà i suoi scherani, avremo perso tutti e due». «Sei pazzo, Freddie. Potrebbe farlo davvero». «Oppure no. E se non lo farà tutto resterà com'è. Tu e io ancora con una causa in comune. Contra mundum, come dicevamo da ragazzi».
Di nuovo cadde il silenzio tra loro. Troy pensò che aveva detto tutto. Aveva avuto buona parte della giornata per le prove, ma non era riuscito a pensare alla conclusione. Non si era preparato una di quelle frasi d'addio che non si dimenticano. «Mi mancherai, Charlie». Charlie ebbe un lampo nello sguardo. Quel congedo lo aveva colpito nel vivo. «Ah è così? Tutto qui?». «Non abbiamo altro da dirci, ormai». «Tu hai detto molto, Freddie, ma non mi hai chiesto il perché». «Non m'interessa il perché. Non ho mai dato peso alle ideologie». «Ma tutto è solo una questione di ideologie. Non ti sembra ovvio?» Troy non rispose. «Non era ovvio fin da quando andavamo a scuola? Non giuravi che avresti ucciso fino all'ultimo di quei vigliacchi ogni volta che ci picchiavano e ci riempivano di lividi? Non ti chiedevi decine di volte al giorno che cosa aveva a che fare quell'abietto rituale con te e con me? Non è per questo che hai gridato il tuo odio per Dio, per il Re e per la Patria? E per tutto quello che loro, gli altri, rappresentavano? Non ti chiedi ancora, se ti guardi attorno, che cos'ha a che fare tutto questo con noi? Non ti chiedi ancora com'è possibile che tu appartenga a un mondo come questo?». Charlie riunì in un gesto la casa, il giardino, il recinto dei maiali, i salici e il fiume: inglesi nei verdi intensi e nella blanda eccentricità, russi nelle scelte umane che rappresentavano e negli estremi che cercavano accanitamente, segretamente e silenziosamente di conciliare o almeno inglobare. Non ne afferrava l'ironia, per lui erano solo simboli a portata di mano, ma per Troy no, Troy sapeva di essere parte di quel mondo quanto quel mondo era parte di lui, ma capiva che non avrebbe potuto spiegarlo a Charlie. «Noi, tu e io, Freddie, non apparteniamo a tutto questo. Da sempre. Tu e io, contra mundum, da sempre». Charlie abbassò la voce a un bisbiglio, come nel buio di un confessionale. «E chi non appartiene non può tradire». A Troy pareva il distillato di tutto quello che gli aveva detto Deborah Keeffe. La sua intelligente, accorata argomentazione ridotta a conclusioni forzate, a una autorizzazione a uccidere. «Lo dicevamo tutti, ma senza pensarlo», rispose, sapendo bene che non era così. «Oh no, io lo pensavo, io volevo ucciderli, ero pronto a ucciderli». «E alla fine chi abbiamo ucciso, Charlie? Un ex sommozzatore, stupido e pasticcione, un contabile rovinato dall'alcol, una ragazza innocente e sprovveduta...».
«E Cobb, Freddie. Abbiamo ucciso Cobb». «Questo non cambia niente. Non sono responsabile della morte di Cobb». Charlie guardò il cadavere di Cobb, il petto inzuppato di sangue vischioso, un buco nero sulla fronte, netto, pulito. Poi guardò di nuovo Troy, ma, qualunque cosa stesse per dirgli, Troy ne aveva abbastanza. «Ora puoi andare, Charlie. Ci siamo detti tutto.». Charlie non si mosse. «Davvero, Charlie. Vai via». Charlie si alzò in piedi. Aprì la bocca ma non parlò, girò sui tacchi e cominciò ad avviarsi, a passo svelto. Troy lo chiamò. «Charlie, ti sei dimenticato Cobb». Charlie si fermò. «Come? Non penserai che mi porti dietro quella carcassa?». «Invece lo penso. Prova a immaginare di essere Amleto con Polonio. "Trascinerò questo sacco di trippe che è dietro l'arazzo"...». Charlie tornò indietro di qualche passo e si avvicinò al cadavere di Cobb. «Cosa vuoi che ne faccia?». «Non lo so, Charlie. Non m'interessa. Una soluzione la troverai. La trovi sempre». Charlie prese Cobb per il colletto della giacca e cominciò a tirare. Il cadavere si spostò per meno di un metro, mentre i tacchi delle scarpe scavavano dei solchi paralleli nell'erba. Charlie diede un'occhiata a Troy, perché vedesse che gli era impossibile portare via quel morto, ma Troy lo fissò senza dir niente e seguitò a guardarlo mentre riprendeva ad andare verso il cancello. Charlie impiegò un quarto d'ora ad arrivarci, tra strattoni, soste e sudate. Troy non distolse mai gli occhi. Quando sentì l'automobile che si allontanava, si appoggiò allo schienale della poltroncina di vimini e guardò una libellula verde e gialla volare in cerchi eccentrici sul prato, guardò il crepuscolo tingere il cielo di rosso cupo, ascoltò il canto stonato di uno scricciolo. Restò seduto lì finché non sentì sulla pelle il fresco della sera, finché non vide l'ultima rondine volare sull'onda del vento e il primo pipistrello planare dentro la trama del tessuto notturno. Aveva ancora in mano la pistola, con le dita strette attorno al calcio, come se fosse un prolungamento del braccio. La gamba non gli aveva mai fatto così male. Prese il bastone e, appoggiandosi, con la schiena curva, tornò verso casa. Nella penombra vide la Toscà che, seduta a metà della scala, pallida con
la testa sulle ginocchia, le braccia allacciate intorno alle caviglie, la mano coperta dal guanto bianco stretta sull'altra, lo guardava. Troy tolse il caricatore dalla Mauser e lo vuotò. «Come riuscirai a vivere, adesso?», chiese lei a bassa voce, mentre i proiettili cadevano nella mano di Troy come piselli appena sgusciati. «Non ne parleremo più». «Gesù, Troy, è un omicidio». «Non ne parleremo più... perché altrimenti dovremmo chiederci di quante morti sei stata responsabile tu, nella tua vita». «Troy, te l'ho detto mille volte. Io ero solo una spia. Trasmettevo delle informazioni. Non ho mai ucciso nessuno». «Lo credi davvero?». Lei si alzò e salì le scale, battendo forte i piedi sui gradini. Troy sentì richiudersi la porta della sua camera. Zoppicando, andò in cucina. La luce era accesa. Il bollitore fischiava sul gas. Il Grasso sedeva al tavolo e mangiava un panino con la carne. «Sei qui da molto?», gli chiese Troy. «Da quanto basta», rispose il Grasso. «Come ho già detto, la tua scrofa domani partorisce, perciò ho pensato che era meglio venire a darle un'occhiata». Troy gli sedette di fronte e appoggiò la pistola sul tavolo. «Ah, capisco», disse. «La scrofa. Me n'ero dimenticato». «Hai bisogno di aiuto, amico?». «Puoi sbarazzarmi di questa?», chiese Troy, ancora con una mano sulla Mauser. «Credo di si». «Definitivamente?». «Affare fatto, amico». Troy gli spinse vicino la Mauser, attraverso il tavolo, come se fosse un boccale di birra al banco del bar, il Grasso se la infilò nella cintura e per nasconderla si abbassò sui fianchi il suo vecchio maglione. «E ora», disse, «la beviamo una tazza di tè?». 105 Per tre giorni, a pranzo e a cena, in silenzio, come in un fumetto di Osbert Lancaster, sedettero a un capo e all'altro del tavolo. Tra un pasto e l'altro trovavano qualcosa da fare agli angoli opposti della casa e del giar-
dino e la sera andavano a dormire ciascuno nella propria stanza come Maxim de Winter e signora. La sera del quarto giorno, Troy tornò in automobile a Londra e passò la notte a Goodwin's Court. La mattina dopo andò a Scotland Yard. La gamba gli faceva ancora male e camminava appoggiandosi al bastone. Nel suo ufficio c'era Onions ad aspettarlo, stava seduto davanti alla stufa a gas e fumava tranquillamente una Woodbine. Niente di nuovo. Decine di volte, nel corso degli anni, Troy era arrivato in ufficio e aveva trovato Onions nella stessa posa, col portacenere vicino, davanti alla stufa, senza badare che fosse accesa o no, in qualsiasi stagione. Aspirò una boccata profonda dal mozzicone della sigaretta e guardò Troy che gli si era seduto di fronte. «Circolano voci», disse Onions. «Certo», rispose Troy, tranquillamente. «Non avevo mai sentito cose simili sul conto di un poliziotto di Scotland Yard e mai avrei pensato di doverle sentire». «Lo so». «Bisogna starci attenti. Io ci sto attento. Lo capisci, vero Freddie?». Troy si sfilò una lunga busta bianca dalla tasca della giacca e gliela diede. Onions la voltò per leggere il nome del destinatario. Non era chiusa ed era indirizzata al vice commissario Onions, con la calligrafia di Troy, dai caratteri così elaborati che sembravano quasi cirillici. Onions se la mise in tasca senza leggerla. «Quanto tempo credi di avere, eh, prima che vengano a cercarla? Da una parte o dall'altra». «Ce ne stiamo occupando. Io me ne sto occupando». Пирожки. Onions si accese una sigaretta con la brace appena luccicante dell'altra. «Non credevo che sarebbe finita così», disse. Troy tornò a casa, spingendo la Bentley più forte che poteva lungo la Great North Road. Superata la curva, là dove i faggi non toglievano più la vista, alla fine del viale, vide la casa nella prima luce autunnale. Il sole era basso all'orizzonte, i raggi attraversavano come una lama i rami degli alberi, e riflettevano sulla casa, come grandi macchie, le ombre dei rami nudi dei biancospini. Troy abbassò il finestrino, l'aria aveva l'inconfondibile odore dell'autunno, l'odore fresco e pulito della terra arata da poco, che veniva a sostituire quello polveroso e penetrante del raccolto. Anche quegli ultimi giorni d'estate erano finiti. In una sola notte il tempo era cambiato e
l'ottobre si faceva avanti. La porta era aperta, piena delle foglie dorate che erano state spinte sotto il portico dal vento. La casa era vuota. Troy chiamò e, nel sentire la propria voce, gli parve di essere tornato in una casa che aveva visto solo in sogno o che aveva abitato in un'altra vita. Nessuno gli rispose. In camera della Toscà c'era un messaggio attaccato allo specchio, un grande foglio della carta da lettera di Mimram House, con lo stemma. 106 Troy aveva il problema di chiudere quattro indagini. Quella sulla morte di Arnold Cockerell poteva essere lasciata esattamente al punto in cui era rimasta in aprile. Quella sulla morte di George Jessel, esattamente al punto in cui era rimasta in settembre. Le morti di Madeleine Kerr e di Johnny Fermanagh avevano bisogno di una conclusione, se non altro per dare a Scotland Yard una ragione per interrompere le indagini. Sulla sua scrivania era comparsa una circolare che lo informava della scomparsa di Cobb, in servizio. Wintrincham non aveva tratto, pubblicamente, alcuna conclusione. Forse sapeva quello che sapeva Onions, ma se lo teneva per sé. Era chiaro quello che Charlie aveva detto alla sezione speciale. Dio solo sapeva che cosa era stato raccontato alla famiglia di Cobb, sempre che ne avesse una. A Troy, prima, non era mai venuto in mente di chiederlo. Elaborò la descrizione di un uomo, che corrispondeva ai connotati di Cobb, specificando che era ricercato in rapporto agli omicidi della Kerr e di Fermanagh, e la mise davanti a Jack. Jack l'accettò senza commenti e lasciò cadere la questione delle indagini. 107 L'autunno portò il mondo sull'orlo della pazzia. Si manifestò con un'ondata di spirito bellicoso che sembrava la deliberata realizzazione di un collettivo desiderio di morte. I carri armati russi invasero la Polonia che offriva la promessa, in autunno, di una primavera politica. Kruscev si precipitò a Varsavia e a precipizio tornò in patria dopo aver troncato quella promessa sul nascere. Kolankiewicz telefonò a Troy e gli disse, senza ironia e senza teatralità: «Ti avevo avvertito. Sei stato a cena col diavolo». A novembre le pietre si scontrarono. Il mondo arrivò sull'orlo dell'ultimo giorno e precipitò nell'abisso. L'Inghilterra e la Francia invasero l'Egitto, la
Russia invase l'Ungheria. Bulganin minacciò, come se fosse niente, di far saltare per aria Londra e Parigi. Troy leggeva ogni giorno i giornali e guardava i notiziari al cinema Eros di Piccadilly Circus. I paracadutisti inglesi scendevano sopra Suez come gigantesche meduse bianche, una flotta di navi inglesi e francesi avanzava verso sud... Il suo naturale cinismo non si compiaceva di queste conferme. I vittoriosi alleati dell'ultima guerra espandevano il loro potere su tutto il mondo, lo cavalcavano come litigiosi colossi. Le pietre si scontravano. Troy stava in piedi nell'ufficio di Onions, con un boccale di birra scura in mano. Onions era sconcertato e nervoso, Valerie rancorosa e chiusa nella sua roccaforte, Jack tracciava infiniti cerchi concentrici in cinquanta colori diversi su un grande foglio di carta e tutti guardavano, sullo schermo del televisore da nove pollici che la nuova generazione aveva imposto a Onions, Gaitskell che rivolgeva alla nazione uno stimolante discorso, eticamente irreprensibile, nel quale malediceva il governo di sua maestà per la sua «criminale follia», mentre il suo viso esprimeva il dolore di un uomo che sapeva di essere stato ingannato. Il primo ministro deve dimettersi, diceva, è l'unico modo per «salvare l'onore del nostro paese» e quella frase tonante, nella quale Troy sentiva la mano di Rod, lo riportò col pensiero a Janet Cockerell e alla questione dell'onore come si era posta a suo marito. Lei non aveva avuto tempo per l'onore, concetto prevalentemente maschile. Era la colpa che contava. Le pietre si scontravano. Troy si mescolò ai dissidenti, in Trafalgar Square. Ottimisti in montgomery manifestavano la loro rivolta per il banale patriottismo inglese che riduceva «la loro ora migliore» a «un ignobile isolamento». Ascoltò Nye Bevan, il più grande oratore politico mai esistito, parlare di «legalità, non guerra». Le pietre si scontravano. Ike dichiarò la fine della «comunanza speciale». Accese un falò alla Casa Bianca. Le nuove guerre bruciarono al fuoco di antichi bagliori. L'esercito inglese venne bloccato sulle sabbie dell'Egitto, non aveva il diritto di andare contro gli arabi, di fermare il Cairo... niente speranza, niente gloria, ma fame di preminenza economica e di supremazia politica. Vanità, follia, fuoco. Una nuova guerra. Antichi bagliori. Troy andò in cerca di Angus. Provò in due pub e al terzo, il "Due cani che scopano", lo trovò. Il proprietario aveva scovato una fotografia di
Churchill incorniciata e l'aveva appesa al muro. Sopra ci aveva messo due bandierine di carta con le asticciole di legno intrecciate. Troy entrò al momento gusto, Angus stava gridando: «Che roba è questa? La battaglia d'Inghilterra numero due? Che cosa hanno rappresentato per voi, imbecilli, gli ultimi due anni? Una vacanza commerciale? E dove siete andati a pescarli i vostri politici? Alla mascherata?». Si venne alle mani. Troy portò via Angus, mentre ancora insultava quegli uomini semplici che pensavano di comportarsi da patrioti e che lui spingeva alla violenza con delle accuse che stentavano a capire. Fece in tempo a buttarne a terra tre, prima che Troy riuscisse a spingerlo fuori come un fagotto, mentre gridava: «Dulce et decorum est pro leccaculi mori». Troy vide la collera sbollire nei presenti con la stessa rapidità con cui si era accesa, molti scuotevano la testa, possibile che anche lui, "un eroe di guerra"...? Tutti e due finirono lunghi distesi sul marciapiede. La gamba di latta di Angus gli scivolò di sotto, fin giù dal gradino, mentre dalla porta gli buttavano dietro la borsa, che gli si depositò ai piedi, seguita dalla bombetta che Troy, sorpreso lui stesso, riuscì ad afferrare al volo. «Imbecilli», disse Angus. Si rimise in piedi, le spalle al "Due cani che scopano", attratto dalla tenue luce arancione che trapelava nella notte di novembre dal pub di fronte, "Le braccia di Lucifero". «Imbecilli», ripeté, stringendo le labbra, e a Troy venne in mente che era lo stesso rauco borbottio che fanno i bambini quando giocano con gli aeroplanini di carta. «È strapieno», disse Angus e spalancò la porta del pub "Le braccia di Lucifero", pronto a iniziare un altro combattimento aereo. Troy aspettò, con in mano la bombetta ammaccata. Dopo un po' guardò l'orologio, erano passati cinque minuti e non si sentiva altro che il normale baccano di un pub. Aprì la porta solo a metà. Al bar, un uomo scoreggiava al ritmo dell'inno nazionale. Un "Dio salvi la Regina" suonato senza melodia usando come strumento uno sfintere umano, ma nessuno pareva badarci. Angus era seduto a un tavolino con un piedestallo, davanti a due enormi bicchieri di whisky. Aveva la faccia nascosta tra le mani. Si vedeva solo la testa pelata al centro, con l'aureola rossiccia che formava una aerea spirale. Si mise a sedere vicino a lui. Angus si scoprì la faccia: un fermento di vene gonfie, una mappa in rilievo dell'Arizona, un incrocio di letti di fiumi in secca, un disegno della superficie lunare, i pori della pelle scavati come crateri; il campo di battaglia di Passchendaele il giorno dopo. «Ti dirò quel che berrai dagli amici che sceglierai», disse.
Troy conosceva quella poesiola, suo padre la recitava sempre. Chi sa dove l'aveva imparata. «Disse il porco, poi si alzò e tranquillo se ne andò». Angus finì il suo whisky in un sorso. Troy lo bevve più in fretta ancora e tutti e due posarono contemporaneamente i bicchieri vuoti sul tavolo. «Altri due?», chiese Angus. Le pietre si scontravano. Quando Troy aveva otto o nove anni, un'altra delle sue malattie, che sembravano interminabili, lo aveva tenuto a letto per molto tempo. Gli girava la testa e non riusciva a leggere. Come sempre aveva trascorso la convalescenza nella veranda, durante le lunghe sere d'estate, avvolto nelle coperte. Tutti i giorni suo padre, quando tornava a casa, gli leggeva qualche pagina del Ramo d'oro. La descrizione di un antico rituale azteco aveva gelato Troy fino alle ossa. Non aveva più dimenticato l'orrore rivoltante provato nel sentire per la prima volta il racconto delle pietre che si scontravano, formulato in modo che della vita che nello scontro restava schiacciata fino a diventare una poltiglia non si parlava nemmeno. E gli tornò in mente, una volta di più, anche il lamento di Nikolaj per quella che aveva chiamato la gente comune, e lui e Rod, con superficiale sarcasmo, gli apparatchiki. Ma il mondo che restava schiacciato nello scontro tra le pietre era il mondo della gente comune, che si poteva maciullare senza preoccupazione se parlava una lingua che sembrava un errore nel gioco dello Scarabeo o se era così sfortunata da avere la pelle scura. Il mondo schiacciato tra le pietre era pieno di neri e di gialli. Da Cipro arrivò un biglietto bianco in una busta bianca. Diceva semplicemente: "Perdonami". Troy non rispose mai. Le pietre si scontravano. Riprovò quell'orrore rivoltante. Le pietre si scontravano. Era stato a cena col diavolo. 108 Il Natale arrivò all'improvviso. Le sue sorelle calarono su di lui, tra lamenti e imprecazioni per il razionamento del petrolio. Il senso della privazione aveva, innegabilmente, una forte componente nostalgica ed era quindi molto inglese. A furia di insistenze ottennero dal negozio vicino a casa una gran quantità di fagiani, quarti di cervo, tacchini e adornarono tutta Mimram di festoni di agrifoglio. La vigilia di Natale tutta la famiglia si riunì a Mimram, secondo una consuetudine che durava da più di trent'anni. Troy andò incontro a Rod, sotto il portico. Era senza cappotto e rabbrividi-
va dal freddo, mentre Rod, che era arrivato per ultimo, si toglieva dal cappello i fiocchi della prima neve della stagione. «Ho perso l'incarico agli esteri», disse. «Gaitskell mi ha sbattuto agli interni ombra. Pago il prezzo di aver visto giusto». «No, è il prezzo che paga chi sa», rispose Troy. Rod accennò con un gesto leggero alla casa e alle voci femminili, eccitate dalla celebrazione del Natale. «Mi esimerei volentieri, in questo momento, ma credo di dover partecipare dall'inizio alla fine». «Si, dobbiamo tutti e due partecipare dall'inizio alla fine». Troy evitò le domande sulla Toscà. Finse di divertirsi, evitò le sciarade, e perse due volte a scacchi con suo zio. Il giorno di Santo Stefano una calma ingannevole scese sulla casa e sul paesaggio bianco di neve. I ragazzi più grandi occuparono la camera di servizio per guardare la televisione senza la quale, pareva, non potevano più vivere. I più piccoli si riunirono nella camera rossa, attorno all'albero di Natale, a montare il trenino che Nikolaj aveva regalato ai figli di Masha. In salotto, Nikolaj era sparito dietro un quotidiano di molti giorni prima. Solo quando, assumendosi il ruolo dell'ospite, Troy gli chiese se voleva ancora qualcosa da bere, si accorse che dormiva. Hugh, dopo molti bicchieri di whisky, aveva raggiunto un livello di ubriachezza rissosa. Il litigio che era stato a lungo per affiorare tra lui e la moglie scoppiò tra i fili d'oro dell'albero e lo sherry. In piedi, ai lati del camino, si misero a gridare tutti e due, finché Hugh non alzò una mano contro Sasha e Rod, rompendo una tregua che durava da molti mesi, gli fermò il braccio e gli disse che aveva bevuto troppo e gli intimò di tornare a sedersi. Hugh guardò sua moglie, dietro le spalle di Rod. «Ti ammazzo, strega schifosa!», le gridò, secondo le migliori tradizioni di un film di pessima qualità. «Ma che cosa vuoi fare tu? Sei tutto parole e niente fatti», gli gridò lei in risposta. «Ah sì?», ribatté Hugh, cercando di liberarsi di Rod che lo tratteneva. «Ti farò quello che ho fatto al tuo amante!». Rod lo sospinse verso una poltrona e lo fece sedere. Sasha si mise una mano sulla bocca e a Troy parve che soffocasse un grido. «Che cos'hai detto?», chiese Rod, sottovoce. «Ho detto che le farò quello che ho fatto a quella checca frignona di Johnny Fermanagh». Rod guardò Troy con una espressione disperata.
«Non ho sentito niente», disse Troy. «È ubriaco. Straparla. Ti ripeto: io non ho sentito. E neanche voi». Si guardò attorno per assicurarsi che tutti avessero capito quello che aveva detto. Poi salì nella camera della Toscà. Disteso sul letto, pianse silenziosamente per Johnny Fermanagh. Gli pareva che la sua vita fosse per sempre intrecciata a quella di Diana e Johnny Brack, che né l'uno né l'altra avrebbero mai lasciato la sua mente e i suoi sogni. Aveva perso la Toscà, aveva perso Charlie e aveva perso Johnny, senza rendersi conto fino in fondo di quanto fosse importante per lui la sua amicizia. E così pianse per se stesso. Mai nella vita si era sentito tanto solo. Si addormentò. Quando si svegliò non sapeva quanto tempo fosse passato. Accese la luce sul tavolino sotto lo specchio, dov'era ancora attaccata la lettera della Toscà. Non l'aveva tolta. Erano passate settimane da quando lei gliel'aveva lasciata. Sul foglio grande e vuoto, le parole erano semplici: "Non possiamo vivere così". "Chi non ha tradito qualcosa o qualcuno più importante di un paese?". Graham Greene (dalla sua introduzione al libro di Philby, My Silent War, 1968) Nota storica Questo è un romanzo. Non una esposizione né una libera elaborazione di fatti. È un romanzo. Qualche volta ho modificato in piccola parte gli eventi storici se non corrispondevano alle esigenze del racconto. Ho collocato personaggi di invenzione entro un contesto storico, i personaggi reali sono rimasti tra le quinte. La sostituzione più palese è quella che pone il comandante Cockerell in luogo del vero sommozzatore spia, il comandante Lionel Crabb. La storia della missione di Crabb era (lo è ancora oggi?) troppo lontana dallo scopo del libro. Il corpo non è stato trovato fino al 1957 e non è mai stato identificato con sicurezza. Ho preferito non attenermi strettamente agli avvenimenti, anche se da essi è nata l'idea di questo libro. Rod Troy, il segretario del ministero degli esteri ombra, personaggio immaginario, sostituisce quello vero, Alf Robens. Ti chiedo scusa, Alf, ma mi sorprenderebbe molto che qualcuno, dopo quarant'anni, si ricordasse che sei stato segretario del ministero degli esteri ombra. Ho poi rubato un po' di tempo all'incontro tra Kruscev e il NEC (Natio-
nal Executive Committee) del partito laburista. Kruscev aveva in effetti sollevato una tempesta ed era corso via, ma verso le undici di sera e non alle nove e mezzo come ho scritto. Mi sono appropriato di quella differenza di tempo per usarla in un modo diverso. L'intervento di George Brown, l'unico di questi protagonisti storici che abbia conosciuto, mi è stato riferito da lui stesso. Le parole di Kruscev non sono mai state rese note - la stampa non era ammessa - ma ne resta il ricordo, sia pure frammentario, nella memoria dei laburisti. Suez. La notizia che ho messo in bocca a Rod Troy, tra la fine di agosto e l'inizio di settembre, sul progetto di invasione anglo-francese è, per le esigenze del racconto, di nuovo deliberatamente asincrona, anche se non contraria allo spirito del momento. I francesi, gli inglesi e gli israeliani non firmarono un accordo fino al 24 ottobre. La copia inglese fu data a Eden e da allora non è mai stata ritrovata. Affermare che lui l'abbia bruciata è cosa che non può essere provata, ma non è nemmeno troppo fantasiosa. Il testo della copia israeliana fu pubblicato, nel 1976, dal generale Dayan nelle sue memorie; il documento originale, emerso dagli archivi di David BenGurion, fu reso pubblico una decina di anni fa. L'affermazione che la CIA avesse dato un'occhiata alla copia israeliana è una mia fantasia, che peraltro ritengo impossibile. Tutto ciò che gli americani sapevano su Suez era grazie agli U2 piuttosto che alle spie sul posto. È confermato da molti storici di quegli avvenimenti che in quell'epoca la CIA si serviva di numerosi U2, sia sull'Egitto sia su Israele, e che la stessa CIA fu probabilmente in grado di decifrare i codici usati da inglesi, francesi e israeliani. Se qualcos'altro può essere ritenuto fantasioso nel mio racconto, è l'idea che la CIA abbia doverosamente passato a Ike le informazioni di cui era venuta a conoscenza. La fonte dalla quale ho tratto la proposta del KGB a Tom Driberg di diventare una spia per conto della Russia è il libro di Chapman Pincher, Their Trade is Treachery. Nella introduzione alla sua bellissima biografia di Driberg, Francis Wheen sminuisce le asserzioni di Pincher. Condivido, per istinto, il suo scetticismo. Tuttavia, circa due anni dopo la morte di Driberg e, se la memoria non m'inganna, due o tre anni prima della pubblicazione del libro di Pincher, si era parlato molto, e vivacemente, di una attività spionistica di Driberg per un paese, per l'altro o per tutti e due. Ho chiesto con insistenza a Peter Cook, nella sua posizione di proprietario di "Private Eye", per cui lavorava Driberg, se ritenesse che fosse una spia. «Sì», mi ha risposto. «Una pessima spia. Lo raccontava a tutti. La prima
volta che l'ho visto è stato in un bagno e, dall'orinatoio accanto, mi ha detto: "Lo sa che sono una spia del KGB?"». Un aneddoto che non è una prova, perché fare una domanda a Peter significava sempre correre il rischio di farsi prendere in giro, ma l'ipotesi era attraente, quasi plausibile e s'incastrava perfettamente nel racconto, per questo non ho saputo rinunciarvi. Il Tom Driberg al quale attribuisco un legame con il protagonista non è la belva vile dei libri di Pincher, ma il simpatico, spiritoso Tom Driberg di cui si ricordava Peter Cook. Ringrazio Daniel Edelman di Ridgefield, Connecticut, che ha messo un tetto sopra la mia testa durante la stesura di gran parte di questo libro. Arthur Cantor, che ha fatto la stessa cosa a Manhattan. Sarah Teale, che ha eretto una barriera tra me, il telefono e il fax per quasi quattro mesi. Art Tatum, che nel 1956, l'ultimo anno della sua vita, ha registrato una dopo l'altra le sue più belle sessioni al pianoforte che mi hanno avuto quarant'anni dopo - ascoltatore attento e affascinato. FINE