M o r i Ō g a i (1862-1922), scrittore, critico, m e d i c o , scienziato e t r a d u t t o r e , è - c o n N a t s u m...
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M o r i Ō g a i (1862-1922), scrittore, critico, m e d i c o , scienziato e t r a d u t t o r e , è - c o n N a t s u m e Sōseki e Nagai K a f ū - u n o degli a u t o r i rappresentativi della letteratura g i a p p o n e s e m o d e r n a e i n s i e m e la figura di intellettuale che, p u r p o s s e d e n d o u n a p r o f o n d a c o n o s c e n z a della cultura occidentale, p i ù e b b e a c u o r e la difesa di quei valori tradizionali che il s u o paese, travolto dall'incalzare dei n u o v i t e m p i , sembrava aver s m a r r i t o . Scrisse racconti e r o m a n z i brevi, c o m e quello q u i p r e s e n t a t o , f o n d ò «Subaru» (Pleiadi), u n ' i m p o r t a n t e rivista letteraria, e fece conoscere in G i a p p o n e m o l t i a u t o r i occidentali c o n t r a d u z i o n i eccelse in prosa e in poesia. Verso la fine della carriera si d e d i c ò a r o m a n z i storici e a biografie di personaggi dei secoli x v i i i - x i x .
In copertina: Ito Jakuchū (1716-1800), Oca selvatica e canne coperte di neve (particolare), 1765-66 ca.
Letteratura universale Marsilio
MILLE GRU
Collana di classici giapponesi diretta da Adriana Boscaro
L'oca selvatica a cura, di Lorenzo Costantini
Marsilio
T r a d u z i o n e dal g i a p p o n e s e di L o r e n z o Costantini
M o r i Ōgai ���
Gan
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P u b b l i c a t o con il c o n t r i b u t o della J a p a n F o u n d a t i o n , T ō k y ō
© 1994 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia P r i m a edizione: f e b b r a i o 1994 Seconda edizione: m a r z o 2005 I S B N 88-317-5937-X www.marsilioeditori.it Senza regolare autorizzazione è vietata la riproduzione, anche parziale o a uso interno didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia
INDICE
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Introduzione di Lorenzo Costantini
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Mori Ōgai: la vita, le opere
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L'OCA SELVATICA
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Note
191
Glossario
AVVERTENZE
Il sistema di trascrizione seguito è lo H e p b u r n , che si basa sul principio generale che le vocali siano p r o n u n c i a t e c o m e in italiano e le consonanti come in inglese. In particolare si t e n g a n o p r e s e n t e i seguenti casi:
ch g h j
s sh u w
y z
è un'affricata come l'italiano «c» in cena è s e m p r e velare come l'italiano «g» in gara è s e m p r e aspirata è un'affricata è sorda c o m e nell'italiano sasso è u n a fricativa come l'italiano «sc» di scena in su e in tsu è quasi m u t a e assordita va p r o n u n c i a t a c o m e u n a «u» m o l t o r a p i d a è consonantico e si p r o n u n c i a c o m e l'italiano «i» di ieri è dolce c o m e nell'italiano rosa o smetto; o come in zona se iniziale o d o p o «n»
La lunga sulle vocali indica l'allungamento delle stesse, n o n il raddoppio. T u t t i i termini giapponesi sono resi al maschile in italiano. La trascrizione dei termini cinesi è in pinyin. Per n o n appesantire di n o t e il testo, alcuni termini h a n n o una loro voce nel Glossario. Si sono inoltre m a n t e n u t i alcuni suffissi: M u e n z a k a (il p e n d i o M u e n ) , U e n o H i r o k ō j i (la via principale Ueno), M e g a n e b a s h i e Manaitabashi (rispettivamente p o n t e M e g a n e e p o n t e Manaita), Karatachidera (il t e m p i o Karatachi) e così via.
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N B Seguendo l'uso giapponese, il c o g n o m e p r e c e d e sempre il n o m e N e l p e r i o d o trattato, inoltre, gli scrittori erano noti solt a n t o con il n o m e , quindi Ō g a i invece di Mori, Sōseki invece di Natsume. La t r a d u z i o n e è stata c o n d o t t a sull'edizione Mori Ōgai zenshū ( O p e r e complete di M o r i Ōgai), a cura di Yoshida Seuchi e I n o u e Tatsuzō (Tōkyō, C h i k u m a shobō, 1973), voi. 3, p p . 3-68.
INTRODUZIONE
Forse a nessun'altra figura di intellettuale e scrittore dei periodi Meiji (1868-1912) e Taishō (1912-26), con l'eccezione di Natsume Sōseki, è toccato in sorte come a Mori Ōgai di riassumere i mutamenti radicali che cambiarono il volto della società giapponese nei pochi decenni tra la fine del secolo scorso e l'inizio del Novecento. Le sue opere e gli stessi eventi della sua biografia possono leggersi come una testimonianza del doloroso processo che trasformò il paese da un regime semifeudale, quale era ancora alla caduta dello shogunato Tokugawa (1603-1867), in una nazione capace di confrontarsi alla pari con le potenze occidentali. Fu il solo grande autore del periodo a ricoprire cariche di rilievo (fatto che lo contraddistingue in un panorama di intellettuali marginali o indifferenti al potere quali Nagai Kafū e lo stesso Sōseki), perseguendo una carriera di militare e burocrate spesso in stridente contrasto con le sue esigenze di artista. Educato nel rispetto del rigido codice etico confu10
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ciano, come all'epoca si conveniva a un discendente di stirpe samurai, fu anche tra i primi a vivere l'esperienza del viaggio di studio in Occidente, che segnò per lui l'inizio di un'ascesa sociale quasi senza interruzioni. Al rientro in Giappone, il suo costante impegno per la diffusione di una mentalità scientifica basata sulla ricerca pura indica quale profonda impronta avesse lasciato in lui la tradizione del razionalismo europeo. Ritroviamo dunque in Ōgai i tratti tipici dell'«uomo nuovo» Meiji, diviso tra uno scrupoloso spirito di servizio all'autorità, retaggio della morale del passato, e l'entusiasmo per i modelli di pensiero importati dall'Occidente, i soli considerati utili ad avviare il paese sulla strada della modernizzazione. Sarebbe tuttavia un grave errore annoverarlo tra gli «intellettuali organici» disposti a celebrare il rinnovato spirito borghese, la spinta alla crescita economica, la preminenza dell'utilitarismo, in breve tutti i valori che la nuova classe dirigente aveva riassunto nello slogan fukoku kyōhei (paese ricco, esercito forte). Secondo la definizione del critico Ito Sei, Ōgai incarnerebbe piuttosto il tipo del kamen shinshi (gentiluomo in maschera)1: membro per nascita e per scelta del ceto dominante, investito di un forte senso di responsabilità sociale che negli ultimi anni lo indusse a forgiarsi un ruolo di guida morale della nazione, lo scrittore si tormentava nel tentativo di conciliare le proprie necessità espressive e artistiche con la fedeltà all'ideologia della sua classe. Agli intellettuali dell'epoca si richiedeva infatti di celare la crisi che scuoteva le loro coscienze, allontanando dubbi e riserve di fronte al rapido avanzare di un progresso materiale a cui non si accompagnava, però, la ricerca di nuovi punti di riferimento morali.
Il soggiorno in Europa aveva coinciso con la scoperta di una diversa concezione della libertà, delle possibilità che si aprivano per l'individuo di vivere un'esistenza piena e autonoma, in netto contrasto con i vincoli di una società in cui, appena velato dall'entusiasmo per la modernizzazione, persisteva un autoritarismo di stampo feudale. La cosiddetta «trilogia tedesca» (un insieme di tre racconti ambientati in Germania che gli diedero la fama), la cui ispirazione lirica è largamente influenzata dal Romanticismo europeo, costituisce un unicum tra le sue opere e testimonia della consapevolezza dell'intellettuale che rifiuta di agire come un cieco ingranaggio inserito in un meccanismo. A un io fragile e soffocato dalla volontà collettiva si contrappone l'emergere, nei gesti e nelle parole dei protagonisti, di una nuova e salda coscienza individuale. Al tempo stesso, nella trilogia si delineano con chiarezza quelli che possiamo definire temi dionisiaci, legati alla parte oscura e irrazionale dell'uomo: Xamour fou, eccessivo e straziante fino a condurre alla morte, il suicidio, la follia concepita come sigillo ineliminabile dell'arte. Nel momento in cui si afferma sulla scena letteraria, Ōgai offre un'immagine del suo mondo interiore ben lontana da quella di freddo e lucido esaminatore delle pieghe dell'animo umano, di scrittore olimpico e «goethiano», che sempre più andrà consolidandosi nell'ultimo periodo, allorché i suoi interessi si volgeranno alla storia e alle figure del passato per trarne linee di condotta per un difficile presente. Più di vent'anni dopo la «trilogia tedesca», l'autore definisce l'atteggiamento morale sotteso all'insieme della sua opera in un breve saggio che attinge al pensiero di Nietzsche, filosofo molto amato e guida di buona parte delle riflessioni della sua «letteratura di
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idee»: «Nel complesso, le opere scritte sinora non sono dionisiache, ma apollinee. Non mi sono ancora mai adoperato a scrivere opere dionisiache. Ogni mio sforzo si è sempre rivolto a rendere il mio lavoro del tutto contemplativo» 2 . Nel liquore che provoca l'ebbrezza dionisiaca descritta da Nietzsche si nasconde infatti il veleno della follia, il seme del caos gettato nel quieto universo del vivere sociale, retto da leggi e da convenzioni, regno dell'apparenza e della Forma. Altrove Ōgai aveva tuttavia difeso il diritto e l'obbligo dell'arte a insinuare il tarlo del dubbio, a mettere in forse i valori su cui si fondava la nuova società borghese Meiji. Nel pamphlet Chinmoku no tō (La torre del silenzio, 1910), coraggioso atto di accusa contro la stretta repressiva operata in quel periodo dal governo nei confronti della dissidenza politica, si legge: «Tutta l'arte, se vista con occhi velati dalle convenzioni, appare pericolosa [...]. È del tutto naturale che la letteratura penetri il lato pulsionale della vita, e quando lo fa, l'impulso del desiderio sessuale deve necessariamente essere portato alla luce»3. Il nucleo dell'arte di Ōgai risiede per l'appunto nel sofferto e costante altalenare tra i due poli dell'apollineo e del dionisiaco, nell'attrazione al tempo stesso per un universo di forme serene e armoniose, rischiarate dalla luce della logica e della conoscenza, e per la parte lasciata in ombra, dominio di forze sotterranee che premono alla superficie della coscienza. Tale profonda linea di frattura attraversava la sua stessa esistenza di funzionario devoto a uno stato autoritario che incarnava il mondo della «forma» e della razionalità, e insieme di artista impegnato a esplorare l'infido territorio che di quel mondo costituisce, per così dire, il contraltare. 14
L'intento che lo muove sembra essere quello di conquistare alla ragione il lato oscuro dell'uomo. Per Ōgai non si può dare conoscenza e avvicinamento al reale senza il filtro di categorie logiche e senza un'opera di selezione e valutazione necessaria ad affrontare sia il magma vischioso e mutevole dei nudi fatti sia l'universo infinitamente più vasto e misterioso dei sentimenti e delle emozioni. Teorico consapevole della propria arte, sottolinea il ruolo preponderante che l'intelletto e il raziocinio giocano nel suo approccio alla realtà e alla storia, in polemica con l'insistenza di molti autori suoi contemporanei sulla compartecipazione emotiva4. Nulla sembra turbarlo maggiormente della possibilità di vivere immersi nella multiforme e variegata complessità del mondo negandosi il confortevole riparo delle analisi raziocinanti, dei sottili distinguo, degli schemi in cui imprigionare il fluire incessante della vita. Se si escludono gli anni d'esordio della «trilogia tedesca», è possibile rintracciare lungo l'intero percorso dell'opera di Ōgai un impegno tenace volto a racchiudere ogni sua circumnavigazione della realtà in una serie di concetti-chiave, sorta di formule alchemiche che dovrebbero consentire alla torbida materia di decantarsi e farsi conoscibile. L'idea di rassegnazione (teinen), nucleo del breve saggio Yo ga tachiba (La mia posizione, 1909)5, rimanda alla capacità di accettare il proprio destino, vissuto con sereno stoicismo, e i conseguenti doveri. Alcuni critici vi leggono anche il riflesso di uno dei concetti dominanti dell'estetica giapponese, quel mono no aware che implica una profonda capacità di compenetrazione emotiva dell'uomo con la natura e una saggia e attiva volontà di assecondare lo scorrere 15
del tempo, pur nella malinconica consapevolezza dell'impermanenza di tutte le cose6. Figura emblematica della rassegnazione nella prima parte dell'Oca selvatica è la mantenuta Otama, ritratta come un'ingenua e pura di cuore che alle offese della vita, agli inganni e all'umiliazione per essersi venduta all'usuraio Suezō, oppone la forza che alberga nel chiuso del suo animo di donna abituata a vivere nell'ombra. Per non amareggiarne la vecchiaia, rinuncia persino alla confidenza affettuosa con il padre, che potrebbe lenire il suo dolore, e scopre così in se stessa un sentimento di dignità e indipendenza che la fa donna. Il giovane Okada incarna a sua volta un'altra delle idee fondamentali dello scrittore, giacché la sua passività nella relazione con la «donna alla finestra» e l'eccessivo pudore nello svelare i suoi sentimenti persino al narratore, suo fraterno amico, traducono un'attitudine morale comune a molti personaggi di Ōgai, quella dell'osservatore lucido e distante (bōkansha), incline più alla rinuncia che all'azione. La corrente della vita lambisce Okada offrendogli una possibilità d'amore, sfiora il professor Kanai in Vita sekusuarisu ( Vita sexualis, 1909)7, sconvolge i fragili e tesi rapporti coniugali dei protagonisti nei racconti Hannichi (Una mezza giornata, 1909) e Hebi (Il serpente, 1911) insinuandovi l'ombra della follia. Ma chiamarsi fuori dal gioco non serve che da palliativo, e Ōgai mitiga tale atteggiamento con il filtro dell'ironia, osservando gli avvenimenti da una visuale che li trasforma tutti, senza distinzione, in «scherzi» più o meno futili. Asobi («scherzo», «divertimento») è difatti il titolo di un racconto del 1910 incentrato sulla figura di Kimura, piccolo funzionario e mediocre scrittore che 16
sfugge - o crede di sfuggire - alla noia delle incombenze quotidiane per mezzo di una disposizione di spirito in cui «non c'è serietà né mancanza di serietà». Ma è un «gioco», il suo, senza traccia di grazia o levità, è il sorriso amaro e sdegnoso di chi guarda al mondo con disincanto. Soluzione tutta sarcastica e negativa, che prelude all'ultima formula elaborata dallo scrittore nello sforzo di raggiungere una visione onnicomprensiva del reale: lo scetticismo assoluto del come se. L'aristocratico Hidemaro protagonista del racconto dallo stesso titolo (Kanoyōni, Come se, 1912), rampollo dell'emergente élite inviato in Germania per formarsi all'influsso della cultura europea, torna guastato dal razionalismo occidentale e dal gusto per la dissacrazione. In polemica con il padre, fedele forse soltanto prò forma al pensiero tradizionalista, il giovane mette in discussione la fattualità del mito e i valori dello shintō (su cui si basava l'autorità imperiale), senza tuttavia rifiutarne la validità morale. Sostiene che le verità del mito o della religione non sono dotate di contenuto storico dimostrabile per via logica: al pari degli eventi della fiction, non sono né vere né false, eppure in certo modo rivestite di un carattere di autenticità. Perciò, se anche la ragione dell'intellettuale moderno non può che sconfessare quei valori, egli continuerà a comportarsi come se essi conservassero intatta la loro forza di paradigmi etici. L'impasse di una «fede scettica» rappresenta l'estremo travestimento dello scacco dell'intelletto di fronte a un'interpretazione globale della realtà. A tale forma mentis si deve del resto attribuire il prevalere, in buona parte dell'opera di Ōgai, di digressioni e riflessioni a scapito di un vero e proprio sviluppo dell'intreccio. Alcuni suoi testi si limitano infatti a calare in forma narrativa 17
un'idea o una posizione filosofica, secondo un andamento che li avvicina ai contes philosophiques settecenteschi. Una crescente diffidenza verso la fiction pura condurrà poi lo scrittore a sperimentare, nei suoi ultimi anni, generi del tutto nuovi e originali, fino alla compiuta perfezione formale delle tre grandi biografie storiche, caratterizzate dal denso e significativo intersecarsi tra il piano della narrazione storica e del disegno psicologico dei personaggi e quello di una ricerca nel passato che diviene autobiografia intellettuale dell'autore 8 . L'oca selvatica rappresenta senza dubbio uno degli esiti più marcatamente fictional nell'insieme della produzione di Ōgai, sebbene anche qui un certo gusto per la divagazione tenda talvolta a prevalere rallentando il ritmo del racconto. L'analisi delle reazioni di Otama e della rivale Otsune di fronte agli inganni di Suezō si traduce infatti piuttosto in astratte massime filosofiche sulla psicologia femminile. Ma soprattutto nel romanzo affiorano con maggior nettezza le due anime che convivono nello scrittore: l'attitudine a interpretare il mondo secondo le forme di una razionalità luminosa e «apollinea» si scontra con la coscienza del vasto dominio esercitato sulle nostre vite da forze oscure e dirompenti che affondano le radici nell'inconscio. Nulla doveva risultare più estraneo a Ōgai di quell'esibizione impudica del ribollire degli istinti che rappresentava il «romanzo-confessione», genere in cui si può collocare la gran parte delle opere dello shizenshugi (Naturalismo) giapponese, il quale aveva mutuato dalle teorie europee solamente l'esigenza brutale di verità, di impietosa messa a nudo delle motivazioni sottese all'agire individuale, 18
e non anche il taglio sociale e l'ambizione di affresco dei conflitti di classe. Sebbene l'ispirazione autobiografica più o meno diretta sia alla base di un buon numero di racconti e romanzi degli_ anni dell'Oca selvatica, in realtà nella scrittura di Ōgai non c'è traccia dell'autocompiacimento lamentoso caro a tanti autori del Naturalismo. Il riferimento al vissuto resta sempre spunto e occasione dell'intreccio; mai si traduce in aperta confessione, anche in virtù di uno stile terso e asciutto in cui predominano, in particolare nel tracciare il ritratto psicologico dei personaggi, la figura retorica della reticenza e l'uso del mezzo tono. A dispetto dell'attenzione costante perché dalle azioni dei protagonisti e dal tessuto narrativo stesso sprigioni una sorta di energia quieta e «contemplativa», L'oca selvatica sembra tuttavia attraversato dal presagio e dalla minaccia di una vittoria degli istinti. Il dissidio adombrato contrappone l'io-istinto, rappresentato da Otama dopo la maturazione in lei di un sentimento adulto di indipendenza e soprattutto dopo il suo risveglio alla sensualità, e quello che potremmo definire l'io-ideale, plasmato come una corazza intorno al primo dalle convenzioni sociali. Un'immagine di sé assai poco flessibile e aperta alle «voci di dentro», prigioniera di forme precostituite, che incarnano i personaggi di Okada, in modo particolare, e del narratore, il quale e legato al protagonista da un rapporto ambivalente, al tempo stesso di affetto e di invidia, di ammirazione e di riprovazione. L'attenzione della critica si è spesso soffermata sullo statuto di questo io narrante - che nel romanzo non ha un nome e compare appunto soltanto come boku, «io» - per sottolinearne l'ambiguità, dal momento che la sua presenza in qualità di testimone di19
retto degli avvenimenti è molto forte nei primi capitoli, per poi lasciare largo spazio a un narratore di tipo onnisciente, e infine riaffiora nell'ultima parte come deus ex machina alla rovescia, impedendo senza volerlo il secondo e forse risolutivo incontro tra Okada e la «donna alla finestra»9. L'ambiguità dell'io narrante consiste anche nel fatto che egli e Okada emergono nel romanzo come due figure speculari, quasi uno l'alter ego dell'altro. Li accomuna infatti la propensione a decifrare la realtà secondo schemi astratti e speculativi, a vedere incarnati nelle libere forme della vita fantasmi esclusivamente letterari, insomma a leggere il mondo come testo o intrico di segni, non già ad affrontarlo e a farne esperienza. I dialoghi tra i due amici sono punteggiati di allusioni ai classici confuciani e di citazioni da romanzi cinesi di epoca Ming quali il Jin Ping Mei e il Shuihuzhuan10. Così connaturata è in loro l'abitudine a travestire gli eventi quotidiani più banali di paludamenti letterari che l'episodio dell'uccisione del serpente in casa di Otama viene da essi immediatamente interpretato in chiave di mito, seppure nei toni lievi e ironici che li contraddistinguono, mentre l'angelicata «donna alla finestra» che domina l'immaginario di Okada si trasforma, complice la segreta gelosia dell'amico, in una nuova Jinlian, l'affascinante e perversa femme fatale protagonista del Jin Ping Mei. I due si somigliano inoltre anche nel contegno di «osservatori» che assumono dinanzi alla vita, nell'incapacità di unire pensiero e azione. A questo proposito il personaggio più enigmatico è certamente Okada, un protagonista del quale non conosciamo nulla, a cui non riusciamo ad attribuire alcuna emozione precisa: si direbbe quasi che non abbia carattere o profondità, 20
e i suoi contorni restano sfumati e indistinti. Il lettore è sfiorato dal sospetto che, al di là dei gorghi di silenzio in cui sembra seppellire i suoi sentimenti, dietro gli scrupoli e l'esibito rigore morale che lo inducono a deludere l'attesa d'amore di Otama e a sottrarsi a una relazione che non avrebbe seguito, egli nasconda in fondo un'inconfessata paura della vita11. Il problema di un'eccessiva distanza dalle cose, di un'esigenza di oggettività assoluta che rischia di condurre alla disumanizzazione dell'individuo, è, lo abbiamo visto, uno dei temi ricorrenti dell'autore. Il dramma che tormenta molte sue figure di intellettuali consiste appunto nel trovarsi in precario equilibrio sul crinale che separa la saggezza della contemplazione dal deserto dei sentimenti. Lo sguardo freddo e analitico che rivolgono su se stessi e sulla società li sospinge ai margini della vita. L'atteggiamento ironico e blasé, che serve loro quasi da scudo, è sempre sul punto di rovesciarsi in vuoto gelido e in rifiuto delle passioni. Si ha l'impressione che in Okada lo scrittore abbia voluto parodiare quella parte di sé caratterizzata da un arido cerebralismo e da uno spigoloso senso d'integrità morale. Creatura di carne e di sangue, lontana da qualsiasi astrazione letteraria, Otama ha invece il merito di riconoscere nel proprio corpo, e di non voler soffocare, il richiamo di una sensualità incipiente. È lo sguardo di chi le è intorno a modellarne l'immagine ideale. Per il padre è tuttora una figlia-bambina, ingenua e vezzeggiata, virtuosa d'animo sebbene costretta dalla necessità a vendere il proprio corpo. Suezō, persuaso di saper vedere in fondo al suo cuore come fosse «uno spazio senza angoli in ombra», «uno specchio d'acqua trasparente», la considera niente più 21
che un grazioso animaletto in tutto simile ai bengalini in gabbia di cui le fa dono, un essere puerile, spensierato e capriccioso, una sorta di tranquillo rifugio dalle preoccupazioni degli affari e della vita coniugale. Okada infine, secondo una sensibilità tutta letteraria e nutrita della lettura di certa poesia e narrativa cinese «sentimentale», la trasfigura nell'idolo di una femminilità disincarnata, estranea alle brutture del mondo, in una splendida creatura «il cui unico dovere era quello di saper conservare bellezza e grazia in qualunque circostanza». Nessuno sembra riuscire a individuare in Otama la presenza di un lato oscuro, radicato nella vita degli istinti, che costituisce anche per lei una scoperta graduale e perturbante, maturata nelle pigre mattinate trascorse nel tepore delle coltri, lo sguardo acceso e le guance in fiamme, a inseguire i pensieri di un'audace fantasia. L'impressione di sdoppiarsi, di osservarsi dall'esterno, divenuta abituale in Otama negli incontri con Suezō dopo aver scoperto di esserne stata ingannata, deve dunque interpretarsi come il segnale di una lacerazione interiore. Spia e presagio della metamorfosi della protagonista in donna volitiva e disinibita, provvista di malizia, di attrattiva e di una ricca sensualità - metamorfosi solamente abbozzata nel romanzo - è l'immagine fugace e illusoria della giovane che Suezō e il padre credono di intravedere in un altro volto femminile nel momento in cui più la desiderano: il vecchio perché ha dovuto separarsene da poco e attende con ansia la sua prima visita nella nuova casa, e l'usuraio perché, sottrattosi alla gelosia della moglie, cerca conforto nel pensiero della sua bellezza. Sembra significativo che in entrambi i casi la persona in cui la identificano sia una geisha, ovvero l'esatto contrario, 22
almeno in apparenza, della giovane timorosa e pudica che è Otama 12 . In contrasto con Okada, per il quale quasi ogni gesto assume le forme chiuse e sclerotizzate del rituale, Otama e gli altri personaggi del romanzo appaiono dunque animati da un autentico soffio vitale. Se il protagonista rispecchia una morale premoderna, ancorata alle rovine di una società feudale che l'impeto delle nuove idee avrebbe ben presto spazzato via, Suezō, l'umile inserviente che con le sue sole forze è riuscito a diventare un ricco uomo d'affari, incarna invece il pragmatismo Meiji, dà voce allo spirito avventuroso e privo di scrupoli del capitalismo emergente e al desiderio di ascesa economico-sociale. Allo stesso modo, all'atteggiamento di Okada si contrappone quello dello studente Ishihara, il quale causerà indirettamente la morte dell'oca selvatica del titolo, simbolo di un mondo destinato a scomparire. Per nulla astratto e libresco, appassionato di arti marziali, Ishihara si prende gioco dell'amico che vorrebbe risparmiare il povero animale, e il suo commento sprezzante («E un peccato che la natura ti commuova tanto!») si rivolge a quel mono no atvare a cui si è accennato, sentito come ormai anacronistico e fuori luogo, inutile reliquia di una sensibilità e di un gusto estetico superati. Con l'innocente e distratta crudeltà della gioventù, consapevole di muovere il passo con la nuova epoca, Ishihara uccide il passato e con esso, forse, ogni residua speranza di bellezza e d'amore. Al termine del romanzo Okada decide di proseguire gli studi in Germania, e l'autore sembra voler suggerire che anche lui, al pari del giovane Hidemaro di Kanoyōni, rientrerà in Giappone contagiato dal morbo della moder23
nità. Tutto, uomini e cose, dovrà cambiare, nulla potrà sopravvivere senza piegarsi alle leggi implacabili della storia. L'oca selvatica si può anche leggere, in fondo, come il romanzo delle illusioni perdute e dei rimpianti, come un canto modulato su una nota continua di nostalgia. Lo sguardo del narratore è quello di una maturità disincantata e amara che a molti anni dagli eventi del racconto ne ripercorre amorosamente i luoghi, alterati dal tempo in modo irrimediabile. A proposito del romanzo europeo dell'Ottocento, Italo Calvino ha osservato che la terribile grandezza di certi capolavori consiste proprio nel fatto che, alla fine, tutto sembra disfarsi sotto le dita come cenere. Che gli echi e le voci del mondo e dei personaggi ritratti nell'Oca selvatica giungano al lettore «attraverso gli spazi, da un altro pianeta, come un ronzio d'api in un bugno vuoto»13, è da considerarsi uno dei principali motivi del fascino duraturo dell'opera. LORENZO COSTANTINI
1 I. Powell, Writers and Society in Modem Japan, London, Macmillan Press, 1983, pp. 48-69. 2 Rekishi sono marna to rekishibanare (La storia così com'è e l'allontanamento dalla storia, 1915), in Ōgai zenshū, Tōkyō, Iwanami shoten, 1973, voi. 26, p. 509. 3 Citato in R. J. Bowring, Mori Ōgai and the Modernization of Japanese Culture, Cambridge, Cambridge University Press, 1979, pp. 186-187. 4 Rekishi sono marna to rekishibanare, cit., p. 509. Di certo non avrebbe mai potuto sottoscrivere le parole con le quali Virginia Woolf, quasi negli stessi anni, riassumeva la nuova e rivoluzionaria percezione del reale degli scrittori dell'avanguardia europea: «La vita non è una serie di lampioncini disposti simmetricamente; la vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci circonda dai primordi della coscienza sino alla fine». Dal saggio «Modem Fiction» (1919), citato nell'Introduzione di S. Perosa a Virginia Woolf, La signora Dallotvay, Milano, Mondadori, 1979, p. xi. ' «La parola che meglio riassume i miei sentimenti è resignation [in
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inglese nel testo]. Questo mio sentimento non si limita all'arte: ogni aspetto della società lo rievoca in me. Gli altri possono credere che io debba senz'altro soffrire di un simile atteggiamento, ma sono invece sorprendentemente sereno». In Ōgai zenshū, cit., p. 393. 6 Per questa interpretazione del mono no amare nella genesi del concetto di teinen in Ōgai, si veda D. A. Dilworth, J.T. Rimer, Saiki Kōi and Other Stories (The Historical Literature of Mori Ōgai, voi. il), Honolulu, The University Press of Hawaii, 1977, pp. 22-23. 7 Trad. it. Vita sexualis o l'iniziazione amorosa del professor Kanai Shizuka, Milano, Feltrinelli, 1981. 8 Katō Shūichi, A History of Japanese Literature. The Modem Years, London, Macmillan Press, 1983, pp. 148-149. ' L'incertezza del punto di vista nella struttura narrativa denuncia la scarsa dimestichezza e la crescente insoddisfazione dello scrittore per il genere del romanzo psicologico, e spiega inoltre le difficoltà incontrate nel portare a conclusione L'oca selvatica. L'opera fu pubblicata a puntate sulla rivista «Subaru» tra il settembre 1911 e il maggio 1913 fino al capitolo 21, e uscì in volume e completa degli ultimi tre capitoli solamente due anni dopo, nel maggio 1915. Il lungo lasso di tempo necessario a per sciogliere la trama e i destini dei protagonisti - non di tutti del resto, dato che si è lamentato come un'incongruenza il fatto che i personaggi di Suezō e Otsune vengano abbandonati verso la fine del romanzo senza che il lettore ne sappia più nulla - dimostra come la sua ispirazione fosse assai meglio contenuta nella forma-racconto, nella quale diede dei veri capolavori (basterà qui ricordare Takasebune e Sanshō dayū), e più tardi nel genere che si forgiò da sé del rekishi shōsetsu, a metà tra saggio e narrativa di ambientazione storica. 10 II Jin Ping Mei (che prende il titolo dai tre personaggi femminili Pan //«lian, Li Pinger, Chunmei) è un romanzo anonimo scritto verso la fine del xvi secolo e ambientato in epoca Song. Il Shuihuzhuan (Storia sul bordo dell'acqua) è della fine del xiv secolo, ed è attribuito a Shi Naian e Luo Guanzhong. 11 La voce del desiderio è talmente soffocata in lui che, secondo una lettura simbolica diffusa tra i critici giapponesi, l'episodio del serpente non rappresenterebbe altro che la sua autocastrazione. Cfr. Takemori Ten'yū, «Kaisetsu», in Mori Ōgai, Gan, Tōkyō, Shinchō bunko, 1985, p. 143. Il serpente come evidente simbolo sessuale compare anche nel racconto Hebi (Il serpente, 1911). 12 In un adattamento teatrale di Yagi Shūichirō rappresentato nel 1983 con il titolo di Muenzaka no onna (La donna di Muenzaka), nel terzo atto, quindici anni dopo gli avvenimenti descritti nel romanzo, ha luogo l'incontro tra Otama, divenuta nel frattempo una geisha, e Okada che ha fatto ritorno in Giappone. Cfr. Sakai Bin, «Gan - Kenkyūshi oyobi sakuhin ron», in Mori Ōgai hikkei (a cura di Takemori Ten'yū), Tōkyō, Gakutōsha, 1989, p. 50. 13 I. Calvino, «Natura e storia nel romanzo», in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980, p. 26.
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Ōgai
MORI ŌGAI: LA VITA, LE OPERE
Mori Rintarō (questo il vero nome di Ōgai) nacque il 19 gennaio 1862 (Bunkyū 2) nello han Tsuwano della provincia di Iwami (attuale prefettura di Shimane), sul mar del Giappone, primogenito di una famiglia i cui membri avevano esercitato di padre in figlio la medicina al servizio dei signori del feudo. Come primo erede maschio dopo due generazioni - il padre e il nonno, secondo una pratica abituale in Giappone allorché in una famiglia mancano discendenti maschi, erano stati generi adottati - le aspettative riposte fin da principio su di lui furono enormi, il che spiega i forti legami familiari che pesarono sulle sue scelte future. Il daimyō dello han, Kamei Koremi, era uomo di larghe vedute, e a Ōgai fu permesso di frequentare la scuola privata istituita per i figli dei suoi vassalli, dove ricevette un'educazione di stampo prettamente confuciano. Al fine di seguire la carriera paterna, nel 1872 si trasferì a Tōkyō dove cominciò ad apprendere anche il tedesco, che nel frattempo aveva sostituito l'olandese come lingua della ricerca medica. Nel 1874, mentendo sulla data di nascita (anticipata di due anni), si iscrisse al Corso Medico Propedeutico della capitale. Laureatosi nel 1881, entrò nell'Esercito con il grado di tenente medico e cominciò a svolgere ricerche sui 27
sistemi d'igiene adottati nelle milizie prussiane. La Germania di Bismarck era infatti la nazione su cui il giovane Giappone Meiji modellò le sue strutture burocratiche e militari, e, nel 1889, la stessa Costituzione. Nel 1884 fece in modo di essere inviato dall'Esercito in Germania per approfondire gli studi di igiene e medicina. Fu a Lipsia, Dresda, Monaco e Berlino, e studiò sotto la direzione di alcuni tra i migliori scienziati dell'epoca (Hoffmann, von Pettenkofer, Koch). Non soltanto fu il primo grande intellettuale del nuovo Giappone a soggiornare a lungo in Europa, ma, a differenza di Natsume Sōseki, che visse in Inghilterra isolato e in ristrettezze, potè venire a contatto con i rappresentanti dell'aristocrazia prussiana, frequentò teatri e ricevimenti, e soprattutto si diede a letture che spaziarono da Shakespeare a Goethe e Schopenhauer, agli scrittori del Romanticismo e del Naturalismo tedesco e francese, ai tragici greci. Tale bagaglio culturale gli varrà poi il ruolo fondamentale di traduttore e divulgatore in patria di opere e teorie estetiche occidentali. Rientrato nel 1888, la sua attività proseguì feconda nei due campi paralleli della scienza e della letteratura. Nominato professore di fisiologia alla Scuola Medica dell'Esercito, nel 1889 fondò due riviste, «Eisei shinshi» (Nuova igiene) e «Iji shinron» (Nuova medicina), con le quali intendeva liberare la ricerca medica dalle catene dei vecchi dogmatismi. Nello stesso anno, alcuni giovani scrittori riunitisi sotto la sua guida con il nome di «Shinseisha» (Società dei nuovi portavoce) pubblicarono sulla rivista «Kokumin no tomo» (L'amico del popolo, 1887-98) una raccolta di testi tradotti da poeti occidentali intitolata Omokage (Vestigia): le traduzioni, probabilmente in gran parte dovute alla penna di Ōgai, permisero al lettore di avvicinarsi per la prima volta, tra gli altri, a Goethe, Heine, Byron. Sempre nel 1889 uscì il primo numero della rivista letteraria «Shigarami zōshi» (Quaderni della graticciata), e tra i collaboratori di Ōgai c'erano alcuni dei più bei nomi del mondo letterario: Tsubouchi Shōyō, Kòda Rohan, Yamada Bimyō. Shōyō 28
(1859-1935) era l'autore di Shōsetsu shinzui (L'essenza del romanzo, 1885-86), saggio rivoluzionario che aveva conferito dignità alla forma-romanzo, attribuendole il compito di dare un'immagine realistica del proprio tempo, analizzando i personaggi nelle loro motivazioni psicologiche e nel contesto sociale in cui si muovono1. Proprio con Shōyō scoppiò nel 1891, sulle colonne di «Shigarami zōshi» e di «Waseda bungaku» (Letteratura di Waseda), una polemica nota con il nome di hotsurisoronsō (dibattito sull'idealismo latente). La polemica si basava in realtà su un equivoco di fondo, giacché per idealismo Shōyō intendeva appunto l'incarnarsi nel testo di un ideale morale dell'autore, ciò che avrebbe significato un ritorno al didatticismo, mentre Ōgai, nutrito di estetica tedesca post-hegeliana, postulava una Forma ideale a priori cui un'opera deve partecipare per poter rappresentare il Bello. Il dibattito si esaurì dunque da sé per mancanza di un terreno comune di discussione. Intanto Ōgai si era imposto con tre racconti di ambiente tedesco ispirati al Romanticismo europeo. Nel primo, Maihime (La ballerina, 1890), la storia d'amore tra lo studente Ota, inviato dal governo a Berlino per un programma di studi, e la ballerina Elis, che egli dovrà abbandonare incinta e sull'orlo della pazzia per far ritorno in Giappone, adombra esperienze vissute dall'autore, e la scoperta che la libertà individuale sperimentata all'estero doveva lasciare il posto alla costrizione dei legami gerarchici e familiari2. Il secondo, Utakata no ki (Ricordi di una vita effimera, pubblicato su «Shigarami zōshi» sempre nel 1890) è incentrato sull'ambiente artistico di Monaco e su un sovrano «malato d'arte» come Ludwig n di Baviera. Nella storia si intrecciano la passione dello studente Kose per l'enigmatica Marie, bellissima modella su cui grava l'ombra della follia, e la misteriosa morte del re. Marie viene identificata con Minerva e Venere, dee della sapienza e della bellezza, e il ritratto in cui Kose la raffigura come Lorelei è il simbolo di un'arte in cui classicismo e romanticismo arrivano a congiungersi3. 29
Nell'ultimo racconto, Fumizukai (Il messaggero, 1891), la diafana e silenziosa Ida, figura femminile ritratta secondo canoni tipicamente romantici, consegna all'ufficiale Kobayashi, ospite dei suoi genitori, una lettera con l'incarico di recarla al palazzo reale a Dresda; l'ufficiale scoprirà poi che la ragazza, volendo sottrarsi a un matrimonio di convenienza, aveva richiesto di entrare a corte come dama di compagnia, risoluta a fare del palazzo la propria tomba pur di conservare la libertà. La «trilogia tedesca», nella quale è implicita un'appassionata difesa dell'individuo e dell'io, delle qualità emozionali del singolo e dell'amore, esercitò un'influenza fondamentale sul rōmanshugi, il movimento romantico giapponese che di lì a poco avrebbe preso vita attraverso la rivista «Bungakkai» (Mondo letterario, 1893-98). Anche le traduzioni dai grandi autori del Romanticismo europeo che «Shigarami zōshi» andava pubblicando contribuirono a formare tale sensibilità: Ōgai tradusse Kleist, Puskin, parte del Werther di Goethe, e soprattutto l'Improvisatoren di Andersen, in una versione (divenuta poi un modello di scrittura per i giovani letterati del tempo) che sposava in perfetto equilibrio uno stile splendido e ricercato ai temi e motivi romantici4. Se al ritorno dalla Germania aveva dovuto piegarsi alle esigenze della famiglia, lo attendeva ora il primo scontro con l'autorità repressiva del governo Meiji. Nel 1899 infatti, a seguito dei violenti attacchi rivolti contro la Conferenza Medica Nazionale, condotta secondo lui con metodi baronali, Ōgai venne trasferito a Kokura, cittadina nell'isola meridionale di Kyūshū, bandito da Tōkyō e da un mondo letterario e culturale che tanto aveva contribuito a sprovincializzare. Il provvedimento gli procurò grande amarezza, ma lo spinse anche verso un lungo itinerario di riflessione filosofica da cui doveva emergere la «letteratura di idee» del suo secondo periodo. Gli «anni dell'esilio», come li definì, non furono infatti improduttivi, sebbene non si dedicasse quasi alla narrativa, ma piuttosto a studi sul buddhismo. 30
_ Nello sconforto personale per le vicende del presente, Ōgai scorgeva la più universale crisi di identità dell'uomo Meiji, il senso di vuoto e di alienazione di molti intellettuali, e si tormentava nella ricerca di una via filosofica di salvezza. In uno dei suoi scritti più originali, Mōsō (Divagazioni, 1911), sono riflessi posizioni e atteggiamenti la cui origine risale a quegli anni: l'io narrante, un uomo ormai anziano che vive in prossimità del mare, rievoca il soggiorno in Germania e la scoperta dei filosofi europei della crisi (Schopenhauer, Nietzsche, von Hartmann), le cui teorie gli appaiono però inadeguate. Pur professandosi «l'eterno scontento», cerca rifugio nella disposizione di spirito dell'osservatore mai coinvolto (bōkansha) e in una quieta malinconia. Nel 1902 si risposò (il primo matrimonio, avvenuto al ritorno dalla Germania, si era concluso dopo un solo anno), ma anche questa seconda unione, sebbene destinata a durare, non fu felice. Era stata la madre Mineko, donna dal forte carattere a cui Ōgai era molto legato, a scegliere la sposa per lui, e quando, sempre nel 1902, fu richiamato a Tōkyō, i tre si trasferirono nella stessa casa. Alla loro difficile convivenza si ispirano due racconti, tìannichi (Una mezza giornata, 1909) e tìebi (Il serpente, 1911), nei quali lo scrittore sviluppa inoltre una riflessione sui profondi mutamenti della coscienza femminile avvenuti con il crollo di valori della società feudale. _ Nel 1904, allo scoppio della guerra russo-giapponese, Ōgai fu di nuovo inviato al fronte (nel 1894-96, durante la guerra con la Cina, era già stato distaccato sul fronte coreano), dove compose la maggior parte delle liriche raccolte in Uta nikki (Diario poetico, pubblicato nel 1907); molte di esse hanno per tema l'orrore della guerra e l'eroismo dei soldati, mentre altre sono caratterizzate da un simbolismo difficile e oscuro5. Al rientro in Giappone nel 1906 ebbe inizio per lui una nuova e felice stagione creativa, mentre tornava a ricoprire un ruolo centrale nel mondo letterario. Nel 1907, grazie 31
anche alla protezione del generale Yamagata Aritomo (1838-1922), potente ex-primo ministro legato ai gruppi militari ed eminenza grigia di alcuni governi del periodo, divenne capo dell'Ufficio Medico del Ministero della Guerra, il più alto grado cui potesse aspirare un medico nell'Esercito. In quegli anni partecipò attivamente anche alla creazione di un teatro moderno secondo i canoni occidentali, in particolare con traduzioni di testi europei6. La rappresentazione nel 1909 di ]ohn Gabriel Borkman di Ibsen, da lui tradotto e messo in scena da Osanai Kaoru, fu il primo vero tentativo di allestire una pièce moderna in Giappone. Dei drammi scritti da Ōgai il più compiuto è forse Shizuka (Shizuka, 1909), che nel rievocare il tragico destino della donna amata da Minamoto no Yoshitsune, l'eroe più caro alla sensibilità dei giapponesi, riecheggia influssi del simbolismo europeo (il teatro di Maeterlinck) e del concetto di rassegnazione proprio dell'autore. Ōgai letterario dominato dalle correnti dello shizenshugi («naturalismo») chiarendo la sua filosofia della «rassegnazione» in un articolo intitolato Yo ga tachiba (La mia posizione, 1909), e in vari racconti e saggi, accomunati da un crescente pessimismo per il vuoto di valori in cui si dibatteva la società giapponese. Nel breve Tsuina (Esorcismo, 1909), oltre al riconoscimento di una dimensione «dionisiaca» e oscura dell'uomo, si parla, citando Nietzsche, di «crepuscolo dell'arte» e di un'epoca pervasa da un sentore di morte, illuminata dai raggi di un sole già al tramonto. In Fushinchū (In ricostruzione, 1910) la decadenza e la disarmonia del Giappone contemporaneo sono simboleggiate dalle decorazioni alle pareti (un misto di cattivo gusto tra Occidente e Oriente) del ristorante in cui il protagonista Watanabe incontra una cantante tedesca amata in gioventù. Egli rifiuta di baciarla come avrebbe fatto senza esitare nei loro giorni a Berlino, poiché ora «siamo in Giappone», cioè in un paese «in ricostruzione», diviso tra un passato ormai 32
lontano e l'imitazione spesso indiscriminata dei modelli occidentali. Nel rinnovato vigore creativo di quegli anni Ōgai compone poi in un arco di tempo relativamente breve alcuni romanzi che si ricollegano ai moduli del Bildungsroman. Tra questi spicca Vita sekusuarisu ( Vita sexualis)1, apparso a puntate su «Subaru» dal primo luglio 1909, che ha per argomento la maturazione sessuale del protagonista, il professore di filosofia Kanai Shizuka, dall'età di sei anni a quella di ventuno. Confuso dalle autorità censorie con un crudo racconto condotto secondo i canoni dello shizenshugi, il numero della rivista con la prima puntata venne sequestrato8. In realtà l'intento era quello di parodiare la costante preoccupazione dei «naturalisti» per la vita sessuale, dipingendo la figura di un uomo, forse «affetto da quella disposizione anormale che si può chiamare frigiditas», che rimane spettatore passivo del risveglio alla sensualità dei compagni di scuola. Indifferente ai pressanti inviti al matrimonio provenienti dalla famiglia e dagli amici, eglidafinirà sottolineerà il suo polemico distacco un mondo col perdere la verginità durante una visita ai quartieri di piacere a cui è stato trascinato controvoglia. Nel romanzo non compaiono che allusioni velate ai rapporti sessuali, e la «confessione» (che all'inizio Kanai pensa di indirizzare al figlio, per poi concludere che non gli sarebbe comunque utile a raggiungere una sua maturazione) termina con l'elogio di un'attitudine «contemplativa» verso il desiderio e l'immagine simbolica di quel discepolo del Buddha che era riuscito ad addomesticare una tigre, ma non a privarla della sua istintiva ferocia. Negli anni tra il 1908 e il 1910 il governo operò un giro di vite contro l'opposizione che, dalle prime contestazioni all'indomani della guerra alla Russia (provenienti soprattutto da alcuni intellettuali cristiani e pacifisti), si era trasformata in un movimento socialista e anarchico di una certa forza, le cui idee minavano i fondamenti stessi dello stato Meiji: il ruolo dell'imperatore e la visione del Giappone 33
come un'unica grande famiglia stretta intorno al sovrano, con il comune obiettivo di una politica aggressiva e della crescita del militarismo. Principale promotore della repressione fu Yamagata Aritomo, il quale nel 1908 fece sopprimere tutte le pubblicazioni socialiste e limitare grandemente la libertà di associazione. Nel 1910, infine, l'anarchico Kōtoku Shūsui (1871-1911) e vari esponenti dell'opposizione vennero arrestati con l'accusa di aver organizzato un attentato per assassinare l'imperatore; seguirono molti altri arresti e un processo, di cui la stampa venne quasi del tutto tenuta all'oscuro, che si concluse l'anno seguente con l'esecuzione di Kōtoku insieme ad altri undici. Il mondo intellettuale fu sconvolto da questa prova di dispotismo (erano finiti in carcere anche alcuni scrittori «naturalisti»), e Ōgai, la cui posizione in quanto amico di Yamagata e funzionario governativo era particolarmente difficile, ebbe il coraggio di difendere la libertà di pensiero in un racconto allegoricosatirico intitolato Chinmoku no tō (La torre del silenzio, 1910). La descrizione del costume in uso presso la comunità dei Parsi, in India, di abbandonare su una torre i corpi di coloro che sono stati giustiziati per aver letto «libri pericolosi» serve di pretesto allo scrittore per sostenere che l'arte e il sapere si nutrono sempre del rifiuto di convenzioni e idee acquisite, e per sottolineare l'incoerenza di una nazione che spinge i suoi figli migliori a studiare all'estero e ad approfondire il pensiero occidentale, per poi stupirsi che comincino a riconsiderare tradizioni e valori del proprio paese. Tali idee, che ritornano in quattro racconti incentrati su un giovane aristocratico di nome Hidemaro9, espresse in una forma tra la fiction e il saggio, non devono far credere che l'autore sottoscrivesse posizioni libertarie o anarchiche. La sua prospettiva sembra essere piuttosto quella di un conservatore «paternalista» e «illuminato»: da medico, sapeva che è inutile curare i sintomi se non si sradica il male, e riteneva probabilmente che la forza della propaganda rivoluzionaria si sarebbe esaurita da sola se il governo, invece
di adottare una politica di repressione, si fosse adoperato per soddisfare la richiesta di giustizia proveniente dal basso. Nel 1912 due avvenimenti impressero una svolta decisiva alle tematiche da lui affrontate: in luglio morì l'imperatore, simbolo del Giappone Meiji e della storia recente del paese, della sua crescita e della sua contraddittoria modernizzazione; il 13 settembre, nel giorno dei solenni funerali, il generale Nogi10, eroe delle guerre con la Cina e la Russia, seguì il suo sovrano nella morte compiendo suicidio rituale, pratica che era proibita da più di due secoli e ormai considerata anacronistica. Il gesto sembrò concludere un'epoca, almeno per molti giovani intellettuali che lo considerarono con incredulità o ironia, ma colpì profondamente le coscienze11. Ōgai, che di Nogi era amico, pubblicò nell'ottobre del 1912 Okitsu Yagoemon no isho (Il testamento di Okitsu Yagoemon), un racconto in forma di lettera in cui il protagonista commette junshi dopo la morte del suo signore, il quale anni prima glielo aveva impedito, nonostante egli stesso ne avesse fatto richiesta per espiare l'assassinio di un vassallo in un diverbio. Si tratta del primo dei ventiquattro rekishi shōsetsu (racconti storici) e shiden (biografie storiche) alla cui composizione lo scrittore si dedicherà in modo quasi esclusivo fino alla morte, tutti incentrati (salvo poche eccezioni) su valori dell'epoca Tokugawa, e in particolare sulle qualità confuciane di devozione, lealtà, spirito di sacrificio, fermezza di propositi e rigore morale, fondamentali in passato e ora poste in discussione nel nuovo Giappone. L'intento non è certo quello di riproporli tali e quali, bensì di enucleare la «bellezza» dell'atteggiamento morale a essi sotteso, la capacità degli uomini del passato (e delle donne, molte delle quali compaiono da protagoniste in queste storie) di forgiarsi degli ideali e mantenervisi fedeli anche a prezzo di grandi sofferenze. Al contrario di quanto avveniva in passato, argomenti come il suicidio o la vendetta non vengono affrontati per suscitare nel lettore una reazione emotiva, ma
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Le sue ultime grandi fatiche, e per alcuni il punto più alto della sua ricerca stilistica, furono le tre lunghe biografie storiche pubblicate a puntate sui quotidiani «Tōkyō nichinichi shinbun» e «Osaka mainichi shinbun» tra il 1916 e il 1917, dedicate a tre oscuri medici e studiosi confuciani di Edo: Shibue Chūsai,_Izawa Ranken e Hōjō Katei. In particolare nella prima, Ōgai riesce a trasformare l'indagine storica sul personaggio in una sorta di autobiografia intellettuale e spirituale, leggendo avvenimenti e ideali del passato come «correlativi oggettivi» di un presente inquieto e insoddisfatto14. A partire dal 1919-20 erano comparsi i primi segni del male che lo avrebbe condotto alla morte, sopraggiunta il 9 luglio 1922. Tre giorni prima aveva dettato all'amico fraterno Kako Tsurudo il suo testamento, con il quale, lui che era stato un funzionario governativo e un importante uomo pubblico, separando di netto la sua vicenda personale dagli incarichi ricoperti e dal legame con lo stato e l'autorità, rifiutava qualsiasi cerimonia dell'Esercito o del Ministero della Casa Imperiale ed esprimeva il desiderio di morire infine «soltanto come Mori Rintarō, e che questo sia il nome inciso sulla mia stele funeraria».
riflessiva (si tratta pur sempre di «letteratura di idee»), attraverso uno stile possente e icastico, alto e severo. Se nel Testamento di Okitsu Yagoemon il suicidio di questi ha per causa il contrasto tra l'utile e il bello (poiché Okitsu uccide il compagno che, in dispregio dell'ordine del loro signore, rifiuta di spendere soldi nell'acquisto di un prezioso pezzo di aloe da ardere durante la cerimonia del tè), in Abe ichizoku (La famiglia Abe, 1913) e Sakai jiken (L'incidente di Sakai, 1914) lo stesso tema è trattato in modo problematico, e la famiglia Abe, sterminata per un capriccio del proprio daimyō, o i soldati che, per aver ucciso alcuni marinai francesi nel porto di Sakai, sono costretti a sventrarsi davanti alle attonite autorità di Francia da un governo preoccupato di non urtare le potenze straniere, sono le tragiche vittime di un codice morale ormai svuotato di contenuti, a cui gli stessi superiori hanno smesso di credere. La dignità di «vittime» della storia risplende anche nei protagonisti di alcuni racconti del 1915, tra i migliori di Ōgai, come Saiga no ikku (L'ultima frase), dove la giovane Ichi, in gesto di sfida verso il potere, si offre per essere messa a morte al posto del padre, o Takasebune (L'imbarcazione sul Takase)12, in cui il dubbio che esista una giustizia morale superiore alla giustizia degli uomini incrina per un istante la fede nell'autorità dell'ufficiale che sorveglia Kisuke, condannato per l'omicidio del fratello ma in realtà colpevole soltanto di eutanasia. Pur nella sostanziale fedeltà alle fonti, lo scrittore ricrea la storia o la leggenda - come nel caso di Sanshō dayū (1915)13 che è ispirato a un racconto buddhista - inventando dialoghi e situazioni e conferendo dimensione e verità psicologica ai personaggi. Nel 1916 Ōgai lasciò gli incarichi nell'Esercito; l'anno seguente fu nominato direttore del Museo Imperiale e due anni dopo rettore dell'Accademia Imperiale delle Arti. Intanto non veniva meno il suo interesse per la letteratura europea: tradusse Rilke, Hofmannsthal, Schnitzler, Strindberg, il Macbeth di Shakespeare (1913) e il Faust dell'amatissimo Goethe (1913).
1 Nelle sue opere narrative Shōyō non riusci però a realizzare tale programma teorico; fu il suo discepolo Futabatei Shimei (1864-1909) a comporre quello che è considerato il primo romanzo moderno e di compiuto realismo della letteratura giapponese, Vkigumo (Nuvole fluttuanti, 188789). 2 Al suo ritorno in Giappone nel 1888 Ōgai fu seguito da Elis, la ragazza con cui aveva avuto una relazione in Germania e che sperava forse di sposarlo; la famiglia, tuttavia, gli proibì di vederla. 3 Nel racconto Hanako (1910) Ōgai affronterà un tema molto simile, narrando la storia dell'attrice e danzatrice giapponese che fu modella di Rodin, nel cui viso in apparenza insignificante lo scultore intravede una beltà ideale. 4 La prima parte della traduzione (a cui lo scrittore lavorò da una versione tedesca), che ha per titolo Sokkyō shijin (Il poeta improvvisatore), uscì su «Shigarami zōshi» tra il 1892 e il 1894, ma poi Ōgai vi si dedicò
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per ben nove anni e la versione completa venne pubblicata in volume solo nel 1902. 5 Ōgai compose sia kanshi (poesia cinese) sia uiaka, e fece parte di numerosi circoli poetici che tentavano di rinnovare soprattutto la tradizione dello waka. Amico di Ueda Bin (1874-1916), le cui traduzioni dai simbolisti francesi raccolte nel volume Kaicbōon (Il rumore della marea, 1905) suscitarono vasta eco tra i giovani poeti, sostenne il nuovo movimento poetico rappresentato dagli autori riuniti attorno alle riviste «Myōjō» (La stella del mattino, 1900-08) e «Subaru» (Le Pleiadi, 1909-13), da lui fondata, quali Yosano Tekkan (1873-1935), Yosano Akiko (1878-1942), Kitahara Hakushū (1885-1942), Ishikawa Takuboku (1886-1912) e Kinoshita Mokutarō (1885-1945). Un'altra raccolta importante di Ōgai è Sara no ki (L'albero di saraca, 1915), che include i suoi waka e le traduzioni dai maggiori poeti tedeschi contemporanei. ' Il movimento che prese il nome di sbingeki (nuovo teatro) ebbe come pionieri Tsubouchi Shōyō con il «Bungei kyōkai» (Società artistica) e Osanai Kaoru (1881-1928) con il «Jiyū gekijō» (Teatro libero) i quali, in mancanza di testi rivolti alla realtà giapponese, mettevano in scena Shakespeare, Ibsen, G. B. Shaw, Cechov. 7 Trad. it. Vita sexualis o l'iniziazione amorosa del professor Kanai Shizuka, Milano, Feltrinelli, 1983. Altri sono Seinen (Anni verdi, 1910-11) e Kaijin (Ceneri, 1911-12, rimasto interrotto al diciannovesimo capitolo). 8 II fatto che il numero di «Subaru» venne sequestrato soltanto dal 28 luglio, quando quasi tutte le copie erano già state vendute, lascia pensare che le autorità avessero voluto semplicemente ammonire Ōgai, che si trovò così costretto a piegarsi per la seconda volta, dopo l'esilio di Kokura, all'apparato repressivo dello stato Meiji. 9 Sono Kanoyōni (Come se, 1912), Sbakkuri (Singhiozzi, 1912), Fujidana (La pergola di glicine, 1912) e Tsuchi ikka (Un colpo di martello, 1913). Nelle idee espresse da Hidemaro in Kanoyōni si intravede il riflesso della polemica, che scosse il mondo politico nel 1911, sulla legittimità delle corti del Sud e del Nord. Negli anni 1336-1392 vi furono in Giappone due corti imperiali, una a Kyoto (del Nord) e l'altra a Yoshino (del Sud). Quest'ultima deteneva i simboli dell'autorità e discendenza divina della linea dinastica giapponese, e perciò doveva considerarsi la sola legittima; la guerra tra le due fazioni, durata oltre mezzo secolo, si risolse con la riunificazione delle corti e la vittoria della linea del Nord. Nei libri di storia in uso nelle scuole nel 1911 la legittimità della corte del Sud non veniva stabilita con chiarezza, il che avrebbe potuto minare la lealtà dei sudditi verso il trono. L'affare assunse proporzioni enormi, senza dubbio sulla scia dei timori sollevati presso gli ambienti conservatori dall'incidente Kōtoku. 10 II generale Nogi Maresuke (1849-1912), per aver lasciato nel 1877 lo stendardo imperiale nelle mani del nemico durante la ribellione del clan di Satsuma, aveva già chiesto all'imperatore il permesso di suicidarsi, ma non gli era stato accordato. Sebbene la presa di Port Arthur del 1904 non
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fosse in realtà merito suo ed egli avesse invece, in quell'occasione, mandato a un inutile massacro un gran numero di soldati, Nogi divenne un eroe nazionale perché incarnava le virtù ufficiali dello stato Meiji: scrupolosa lealtà e dedizione all'imperatore e rigida osservanza dell'etica militare. Il fatto di raggiungere volontariamente il sovrano nella morte (junshi) gli permise di espiare queste colpe e forse di dare un senso alla sua vita. 11 In Kokoro (1914), Natsume Sōseki adombra le motivazioni del generale Nogi nel senso di colpa che a distanza di molti anni spinge il personaggio del sensei, il maestro, al suicidio. Trad. italiana Anima, a cura di N. Spadavecchia, Milano, Editoriale Nuova, 1981 (ristampe Milano, L'Ottava, 1987 e Milano, SE, 1993). 12 Takasebune ( Takasebune, tr. di Atsuko Ricca Suga, in Narratori giapponesi moderni, Milano, Bompiani, 1986 (1965), pp. 41-51). 13 Sansbā dayū (L'intendente Sansbo, tr. di M. Mastrangelo, Milano, Linea d'ombra edizioni, 1992). 14 Cfr. J.T. Rimer, Mori Ōgai, Boston, Twayne, 1975, p. 110.
Gan è stato tradotto in inglese come The Wild Geese (tr. di Kingo Ochiai e S. Goldstein, Tōkyō, Tuttle, 1959) e in francese come L'oie sauvage (tr. di R. Vergnerie, Paris, POF, 1987). D i Mori Ōgai sono state tradotte in italiano le seguenti opere:
Takasebune (Takasebune, tr. di Atsuko Ricca Suga, in Narratori giapponesi moderni, Milano, Bompiani, 1986 (1965), pp. 4151).
Sakaijiken (L' incidente di Sakai,
tr. di F. Corsi, in «Il Giappone»,
vi, 1966, pp. 177-203).
Vita sekusuarisu (Vita sexualis o l'iniziazione amorosa del professor Kanai Shizuka, tr. dal francese di L. Guarino, Milano, Feltrinelli, 1983).
Rekishi sono marna to rekishibanare {La storia così com'è e l'allontanamento dalla storia, tr. di M. Mastrangelo, in «Il Giappone», x x v m , 1990, pp. 130-134).
Sanshó dayū (L'intendente Sansho,
tr. di M. Mastrangelo, pref. di M.T. Orsi, Milano, Linea d ' o m b r a edizioni, 1992).
Okitsu Yagoemon no isho (Il testamento di Okitsu Yagoemon, prima e seconda versione, tr. di M. Mastrangelo, in «Il Giappone», xxx, 1992, pp. 88-107).
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L ' O C A SELVATICA
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È una storia di tanti anni fa. Ricordo che ebbe luogo nel tredicesimo anno Meiji [1880] per puro caso, in quanto allora stavo alla pensione Kamijō, situata proprio di fronte al grande cancello in ferro dell'Università di Tōkyō, e la mia stanza si trovava accanto a quella del protagonista della storia. L'anno dopo la pensione fu divorata da un incendio e io persi l'alloggio: ecco perché i fatti dell'anno precedente mi sono rimasti impressi. I pensionanti del Kamijō erano quasi tutti studenti di medicina, più qualche paziente in cura presso l'ospedale dell'Università. In ogni pensione c'è di solito un ospite che si distingue dagli altri per il portafoglio ben guarnito e per i modi premurosi. Non manca mai di salutare la padrona quando, passando per il corridoio esterno, la vede accoccolata davanti al suo braciere1. A volte si siede anche lui all'altro lato e scambia con lei quattro chiacchiere. Organizza feste per gli amici nella sua stanza, per le quali fa preparare degli stuzzichini da accompagnare al sake. Fa in modo che 43
la padrona si occupi di lui e, pur dando l'impressione di venire viziato da lei, in realtà le fa guadagnare qualche quattrino. E naturale che una persona del genere sia tenuta in considerazione e ne approfitti per ottenere tutto quel che vuole. Ma il mio vicino di stanza, che pure era l'ospite più in vista del Kamijō, era un tipo del tutto diverso. Si chiamava Okada; più giovane di me di un anno, era già prossimo alla laurea. Per spiegare che tipo fosse, devo cominciare col dire che era davvero un bel ragazzo: non di quelle bellezze effeminate pallide ed emaciate, ma di colorito sano e di robusta costituzione: in vita mia ben raramente avevo visto un volto simile. Molti anni dopo divenni intimo amico dello scrittore Kawakami Bizan, allora piuttosto giovane: lo stesso che, ritrovatosi senza via di scampo, pose tragica fine alla sua vita2. Quando lo conobbi, somigliava un poco a Okada, salvo che quest'ultimo faceva parte di una squadra di canottaggio ed era di fisico assai più robusto di Kawakami. La bella presenza è di per sé una forte raccomandazione, ma non gli sarebbe bastata per conquistarsi un tale prestigio alla pensione. Se rivado con la memoria al suo comportamento e al suo carattere, all'epoca pensavo che ben pochi studenti conducevano una vita regolata quanto la sua. Non era di quegli sgobboni che ogni semestre si contendono il punteggio più alto per ottenere una borsa di studio. Lavorava con scrupolo, ma senza mai sforzarsi troppo, e si manteneva nella media evitando di scivolare in basso. Non mancava mai di divertirsi al momento opportuno. La sera, dopo aver cenato, usciva per una passeggiata, rientrando immancabilmente prima delle dieci.
La domenica, se non era impegnato negli allenamenti, faceva qualche gita. Tranne quando pernottava a Mukōjima con i compagni di squadra alla vigilia di una regata, o tornava al paese per le vacanze estive, i suoi orari di entrata e uscita dalla pensione erano metodici. Se uno si dimenticava di aggiustare l'ora sul cannone di mezzogiorno, andava a domandarla a Okada; a volte, persino l'orologio all'ingresso del Kamijō veniva regolato con il suo. In chi lo conosceva e osservava il suo comportamento, aumentava il sentimento di fiducia nei suoi confronti. Proprio per ciò la padrona della pensione aveva preso a tesserne gli elogi, benché egli non si mostrasse troppo ossequioso, né propenso a dilapidare denaro. Non occorre dire che gran parte di questa stima era dovuta alla regolarità con cui pagava l'affitto ogni mese. «Prendete esempio dal signor Okada» la si sentiva spesso ripetere, tanto che certi studenti del Kamijō la prevenivano esclamando: «Non possiamo certo essere come Okada!». Così, senza dunque che si sapesse bene quando, era diventato una sorta di pensionante modello. Nelle sue passeggiate quotidiane, seguiva solitamente degli itinerari ben precisi. Scendeva per il solitario Muenzaka, girava intorno al lato nord dello stagno di Shinobazu, in cui affluiscono le scure acque del fiume Aisome, così cupe da sembrare tintura per annerire i denti, e prendeva a vagabondare senza meta per la collina di Ueno. Quindi passava per lo Hirokōji, la larga via in cui si trovano i ristoranti Matsugen e Gannabe, attraversava il quartiere di Nakachō, dalle viuzze strette e animate, s'infilava nel recinto del santuario di Yushima Tenjin e rincasava svoltando all'angolo del cupo Karatachidera. Talvolta, invece, da Na-
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kachō prendeva a destra e tornava risalendo Muenzaka. Questo era il suo percorso usuale. Quando ne sceglieva un altro, attraversava l'Università, e usciva da Akamon3. Poiché il grande cancello in ferro veniva chiuso abbastanza presto, entrava per la porta di Nagaya, usata dai pazienti della clinica universitaria. In seguito la porta fu demolita e sostituita da quel nuovo portale nero, costruito nel punto in cui termina la strada che giunge da Harukichō. Una volta uscito da Akamon, prendeva a camminare per lo Hongōdōri e, oltrepassando un negozio di mochi di miglio preparati con larghi gesti spettacolari, entrava nel santuario di Kanda Myōjin, quindi scendeva verso il Meganebashi4, allora di recente costruzione, e passeggiava per un po' per un quartiere di Yanagihara che aveva le case solo su un lato della strada. Infine, ritornando per Onarimichi, l'antica via degli shōgun, s'infilava per una stradina a ovest che lo riportava al Karatachidera. Era il suo itinerario alternativo. Raramente ne seguiva di diversi. Durante le sue passeggiate si fermava di tanto in tanto presso qualche rivenditore di libri usati. Sullo Ueno Hirokōji e a Nakachō ci sono ancora due o tre botteghe di quel periodo; anche lungo Onarimichi se ne sono conservate proprio come allora, mentre a Yanagihara sono scomparse del tutto. Sullo Hongōdōri hanno in genere cambiato di posto e di proprietario. Se uscendo da Akamon egli svoltava di rado a destra, non era solo perché Morikawachō è un quartiere dove le strade si fanno strette e anguste, ma anche perché, su quel lato ovest, si trovava allora un solo negozio di libri usati. Okada curiosava in quelle bottegucce in quanto, come si suole dire oggi, la letteratura era la sua passione. A quel tempo tuttavia la nuova narrativa e il nuo-
vo teatro, come pure gli haiku di Shiki e la poesia di Tekkan, non avevano ancora fatto la loro comparsa, così gli appassionati di letteratura disponevano solo di riviste quali «Kagetsu shinshi», stampata su carta di origine cinese, oppure «Keirin isshi», su carta bianca5. Nulla era ritenuto più raffinato ed elegante della poesia cinese in stile kōren di un Kainan o di un Mukō6. Lo ricordo bene perché ero anch'io un lettore assiduo di «Kagetsu shinshi», su cui uscì la prima traduzione di un'opera occidentale. Se non sbaglio, era la storia di uno studente europeo ucciso mentre faceva ritorno a casa, e il traduttore, che l'aveva resa in stile colloquiale, si chiamava Kanda Takahira. Fu quello, credo, il mio primo racconto occidentale. Tale essendo la situazione, Okada al massimo poteva leggere gli avvenimenti del giorno descritti in versi o in prosa da specialisti di letteratura cinese. Dato che ero di natura poco socievole, non mi fermavo a parlare neppure con le persone che magari incontravo spesso all'Università, a meno che non avessi qualcosa da dire loro. Anche con gli studenti della pensione, solo di rado accennavo un saluto. Di Okada divenni amico grazie ai negozi di libri usati. A differenza dei suoi, gli itinerari delle mie passeggiate non erano fissi, ma, dal momento che avevo buone gambe, vagabondavo in lungo e in largo da Hongō a Shitaya, giù fino a Kanda, e quando m'imbattevo in uno di quei rivenditori di libri, mi fermavo a dare un'occhiata. In tali occasioni, sulla soglia spesso m'incrociavo con lui. Non so chi dei due lanciò per primo all'altro una frase del tipo: «Ci si incontra spesso qui, eh?», ma fu così che ebbe inizio la nostra amicizia. Ai piedi del pendio, a un incrocio davanti al Kanda Myōjin, si trovava allora un negozio che esponeva li-
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bri d'occasione su banchi disposti a L. Un giorno vi scoprii una copia del Jin Ping Mei1 importata dalla Cina, e m'informai dal padrone del prezzo, che era di sette yen. Quando gli chiesi di abbassarlo a cinque, mi rispose: «Poco fa il signor Okada mi ha proposto sei yen, ma ho rifiutato». Si dava il caso che in quel momento non fossi a corto di denaro, e acquistai il libro al prezzo richiesto. Pochi giorni dopo incontrai Okada, che mi disse: «Bello scherzo mi hai giocato! Ti sei accaparrato proprio il libro su cui avevo messo gli occhi da tanto tempo!». «Il padrone ha detto che non vi eravate accordati sul prezzo... Se vuoi, posso rivendertelo». «Oh, non importa. Dal momento che siamo vicini di stanza, basterà che me lo presti quando l'avrai letto». Acconsentii con piacere. Fu così che, dopo esserci ignorati a lungo pur abitando uno di fianco all'altro, io e Okada cominciammo a frequentarci.
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Già all'epoca tutto il lato sud di Muenzaka era occupato dalla residenza Iwasaki8. Oggi è circondata da un altissimo muro in terra, ma allora la cingeva un muricciolo di pietre trascurate, rivestite di muschio, tra le cui fessure spuntavano felci e asperelle. Cosa ci fosse al di là del muro - terreno piano o una collinetta - non lo sapevo allora, non essendoci mai entrato, e non lo so adesso; ma vi crescevano in libertà alberi diversi, visibili dalla strada fino ai ceppi ricoperti di un'erba lussureggiante che non veniva quasi mai tagliata. Sul lato nord del pendio si allineavano alcune case dall'aspetto misero: le più decenti erano piccole e recintate da una staccionata. Tutte le altre erano abitazioni di artigiani. I soli negozi all'intorno, una tabaccheria e una bottega di casalinghi. L'attenzione di chi si trovava a passare di lì era attratta dalla casa di un'insegnante di taglio e cucito nella quale, durante la giornata, si riunivano dietro una finestra a grata di legno parecchie lavoranti. Con la bella stagione la fi49
nestra veniva lasciata aperta, e un parlottio fitto giungeva sempre al nostro orecchio quando vi passavamo davanti; le ragazze alzavano la testa, rivolgendo lo sguardo verso di noi, quindi tornavano al loro cicaleccio tra scoppi di risa. Accanto al laboratorio vi era un'altra casa la cui porta a graticcio era sempre tirata a lucido, e il cui ingresso in granito, quando a volte mi capitava di passarci davanti, era sempre stato appena annaffiato. Con il freddo gli shōji restavano chiusi, mentre quando faceva caldo la casa era riparata da cortine di bambù. A confronto con l'animazione del vicino laboratorio, appariva quieta e silenziosa. Nel settembre dell'anno in cui si svolge questa storia, Okada era appena rientrato dal suo paese. Una sera, dopo aver cenato, uscì per la solita passeggiata. Oltrepassò la zona in cui si trovava l'antico edificio della residenza del signore di Kaga, temporaneamente adibito a sala per le dissezioni, e appena iniziato a discendere il Muenzaka, scorse una donna, di ritorno dal bagno pubblico, entrare in quella malinconica casa accanto al laboratorio di cucito. Era ormai autunno inoltrato, e nessuno si aggirava più per il pendio a prendere il fresco, così che lo stava percorrendo tutto solo. Giunta davanti alla porta, la donna si apprestava a entrarvi quando, udendo il rumore dei geta di Okada, la sua mano s'arrestò d'improvviso sulla grata: si voltò e incrociò il suo sguardo. Quella figura femminile, vestita di un kimono estivo blu scuro chiuso da un obi a double-face, di satin nero e seta marrone, rivolta verso di lui mentre reggeva indolente con la delicata mano sinistra un cestello di bambù finemente intrecciato nel quale erano un asciugamano, un portasapone, una spugna e un sacchetto di semola di riso, mentre la destra riposava sul-
la grata, non gli fece un'impressione particolarmente profonda. Tuttavia il suo sguardo si soffermò sulle ciocche di capelli, acconciati alla ichōgaeshi, sottili come ali di cicala che le incorniciavano le orecchie, e sull'ovale un po' malinconico del viso, dal naso pronunciato, che dava la strana impressione di essere leggermente appiattito dalla fronte alle guance. Non avendo osservato la donna che per un breve istante, giunto ai piedi di Muenzaka, Okada l'aveva già dimenticata del tutto. Ma quando, soltanto due giorni dopo, si diresse di nuovo da quelle parti e capitò nei pressi della casa dalla porta a grata, riaffiorò improvviso in lui il ricordo di quella figura di donna di ritorno dal bagno. Guardò con attenzione la casa: vide una bassa finestra contornata da due sottili travi in legno lavorato e bordato di vimini, fissate su strisce di bambù inchiodate verticalmente. Lo shōji della finestra era aperto di circa trenta centimetri e lasciava intravedere un vaso di omoto, alla cui base erano disposti dei mezzi gusci d'uovo rovesciati. Prima di giungervi ebbe qualche istante per osservare tali dettagli con attenzione, e quando si trovò giusto dinanzi alla casa, sullo sfondo sino allora immerso in un'oscurità grigiastra, al di sopra del vaso di omoto, si stagliò un bianco volto che lo guardò e gli sorrise. Da allora, ogni volta che nelle sue passeggiate si spingeva fin lì, quasi immancabilmente ritrovava quel viso di donna. Compariva di tanto in tanto d'improvviso anche nelle sue fantasticherie, e a poco a poco finì per impadronirsi della sua immaginazione. Un dubbio, tuttavia, lo tormentava: la donna aspettava il suo passaggio oppure guardava fuori senza alcun motivo, incontrando per caso il suo sguardo? Il solo ri-
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cordo che riaffiorava alla sua mente, mentre cercava di ricordarsi se aveva mai scorto prima quel volto, era di una casa solitaria e ben tenuta accanto al laboratorio di cucito, che era invece l'abitazione più rumorosa e animata lungo la strada. Certo, a volte si era chiesto chi vi abitasse, ma anche questo non era poi significativo. Gli pareva che, in passato, lo shōji alla finestra fosse sempre rimasto chiuso, le cortine di bambù sempre abbassate, e l'interno immerso in una quiete assoluta. Arrivò perciò alla conclusione che negli ultimi tempi la donna, assai più interessata al mondo esterno, aprisse la finestra nell'attesa di vederlo. Questi i pensieri di Okada ogni volta che passava di lì e incontrava lo sguardo di lei, e a poco a poco «la donna alla finestra» divenne per lui una figura familiare. Una sera, circa due settimane dopo, le rivolse istintivamente un saluto togliendosi il berretto. Il lieve pallore del volto della donna d'improvviso si tinse di porpora, e il sorriso da triste si fece luminoso. Da allora prese l'abitudine di rivolgere sempre un cenno alla donna alla finestra.
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Okada amava molto la Nuova collezione di Yu Chu9, tanto che sapeva a memoria la Vita del Grande Martello. Da lungo tempo cullava il desiderio di dedicarsi alle arti marziali, ma non gli si era mai presentata l'occasione di realizzarlo. Negli ultimi anni aveva iniziato a praticare il canottaggio con tale passione e compiendo tali progressi che, su pressione dei compagni, era entrato in squadra: tutto questo era dovuto alla sua forza di volontà. Nella Nuova collezione di Yu Chu c'era un altro racconto che prediligeva in modo particolare: la storia di Shōsei. Vi si narra, per usare una metafora di gusto moderno, di una donna che fece attendere sulla soglia l'angelo della morte continuando a imbellettarsi con cura il viso, tranquilla e serena. Credo che provasse molta compassione per questa figura che aveva fatto della propria bellezza una ragione di vita. Le donne erano per Okada creature splendide e amabili, il cui unico dovere era quello di saper conservare beltà e grazia in qualunque circostanza. Idee probabilmente 53
da attribuirsi all'influenza di certe letture: quelle delle poesie in stile kōren, allora molto in voga, oppure di quei romanzi cinesi sentimental e fatalistiquew di epoca Ming e Qing su «uomini di talento»11. Sebbene da tempo avesse preso l'abitudine di salutare la donna alla finestra, Okada non aveva mai cercato di saperne di più sul suo conto. Naturalmente, a giudicare dal suo aspetto e da quello della casa, immaginava si trattasse della mantenuta di un personaggio facoltoso, ma quest'idea non lo disturbava granché. Non conosceva il nome della donna e non si sforzava nemmeno troppo per saperlo. Talvolta pensava che avrebbe potuto leggerlo sulla targa all'ingresso, ma farlo mentre lei era alla finestra gli pareva indelicato, e quando non c'era temeva invece gli sguardi dei vicini o dei passanti. Insomma, non era ancora riuscito a scoprire che nome fosse scritto sulla targhetta di legno nascosta dall'ombra della gronda.
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In realtà, quando venni a conoscenza della storia della donna alla finestra, gli avvenimenti di cui Okada fu protagonista appartenevano ormai al passato, ma dato che mi si presenta l'occasione, ne parlerò in breve. I fatti risalgono al tempo in cui la Facoltà di Medicina aveva ancora sede a Shitaya. Nel dormitorio ricavato da un lungo edificio contiguo al portale della residenza nobiliare dei Tōdō, dalle mattonelle color ardesia disposte a scacchiera sul muro intonacato dove si aprivano a intervalli delle finestre dalle sbarre verticali in legno, della grossezza di un braccio, gli studenti vivevano - anche se il paragone non è lusinghiero - quasi come animali in gabbia. Per trovare al giorno d'oggi finestre del genere, bisogna recarsi alla torre di Marunouchi; perfino le inferriate delle gabbie di tigri e leoni nello zoo di Ueno appaiono più fragili delle sbarre di quel dormitorio. Vi abitavano anche degli inservienti, ai quali ci si rivolgeva per le commissioni esterne. Gli studenti, ve55
stiti di semplici hakama a righe sottili con cinture di cotone bianco, si limitavano di solito a chieder loro di comprare yōkan e konpeitōu. Che chiamassero yōkan e konpeitō le patate dolci arrostite e le fave soffiate avrebbe oggi un valore di testimonianza della storia della «civiltà» dell'epoca. Per ogni commissione gli inservienti ricevevano due seti di mancia. Tra di essi ce n'era uno di nome Suezō. I suoi colleghi avevano barbe lunghe e trascurate simili a ricci di castagne, e la bocca sempre semiaperta, mentre le labbra di Suezō rimanevano ben serrate nel viso su cui aleggiava l'ombra bluastra della barba appena rasata. Se le uniformi da lavoro degli altri erano sempre sudice, la sua appariva impeccabile, e talvolta sotto il grembiule indossava abiti di una certa eleganza. Non ricordo quando mi giunse la voce, né da chi, ma venni a sapere che Suezō prestava denaro a chi ne aveva bisogno. Naturalmente all'inizio si trattava di piccole somme: non più di cinquanta sen o di uno yen. Ben presto però divennero cinque, persino dieci yen, e Suezō prese a farsi rilasciare delle cambiali, che poi rinnovava di volta in volta. Finì col diventare a tutti gli effetti un usuraio. Mi sono sempre chiesto da dove venisse il capitale iniziale. Dubito che avesse potuto racimolarlo con le mance di due sen, per quanto niente diventi impossibile quando un uomo concentra tutte le sue energie su un unico scopo. Comunque sia, quando la Facoltà di Medicina fu trasferita da Shitaya a Hongō, Suezō non era già più un bidello: nella sua nuova casa di Ikenohata c'era ora un incessante andirivieni di studenti scapestrati. Aveva passato la trentina quando aveva iniziato a lavorare nel dormitorio, e pur essendo allora piuttosto povero, aveva già moglie e figli. Il mestiere di usuraio
gli aveva però dato agiatezza e dopo essersi trasferito a Ikenohata ben presto la moglie brutta e bisbetica cominciò a venirgli a noia. Fu allora che gli tornò in mente una donna: una donna che aveva visto a volte quando passava per uno stretto vicolo dietro Neribeichō nel recarsi all'Università. All'altezza in cui le tavole a protezione del canale di scolo erano costantemente rotte, si trovava una casa dall' aspetto malinconico, la cui porta restava socchiusa tutto l'anno. Nel rincasare la sera trovava, sotto la tettoia, un carretto, che lo costringeva a passare di sghimbescio in quel vicolo già tanto angusto. All'inizio fu attratto dal suono di uno shamisen proveniente da quella casa; scoprì in seguito che la persona che si esercitava era una graziosa fanciulla sui diciassette anni. In contrasto con l'apparenza dimessa dell'abitazione, la ragazza era sempre ben curata sia nella persona sia nel vestire; se però si trovava sulla soglia all'arrivo di qualche passante, subito scompariva di nuovo nella buia dimora. Per natura sempre molto attento a tutto, senza far ricerche di proposito Suezō venne a sapere che la ragazza si chiamava Tama13, era orfana di madre e viveva sola con il vecchio padre, un venditore ambulante di dolciumi nella zona di Akihanohara. Nel frattempo, nella casa nascosta dietro la strada avvennero dei cambiamenti radicali. Il carretto che ogni sera Suezō era solito vedere sotto la tettoia scomparve. Come se in quel luogo sempre così quieto fosse giunta improvvisa, per usare un termine allora in voga, la cosiddetta «modernizzazione», la protezione sul canale di scolo, quasi sempre rotta o scoperchiata, venne riparata, e l'entrata rinnovata e provvista di una nuova grata in legno. Un giorno vide persino delle scarpe allineate davanti all'ingresso. Poco tempo do-
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po, una nuova targa fu apposta all'entrata, sulla quale si poteva leggere il nome dell'agente di polizia Tal dei Tali. Ancora una volta, senza il preciso scopo di indagare, in un giro per acquisti da Matsunagachō a Nakaokachō, scoprì che nella famiglia del vecchio venditore di dolciumi era entrato un genero acquisito14. Si trattava per l'appunto del poliziotto il cui nome aveva letto sulla targa. Al pensiero di affidare la figlia a quell'uomo dallo sguardo truce, il vecchio, che teneva a Otama più che alla luce dei suoi occhi, soffriva come se gliel'avesse rapita un tengu. Che nella sua famiglia dovesse introdursi un genero di quella specie, proprio non gli andava a genio, ma nessuno di coloro a cui aveva chiesto consiglio - persone con le quali aveva stretto rapporti di quotidiana confidenza - gli disse chiaro e tondo di rifiutare. Uno diceva: «Ben ti sta! Quando ti suggerivo di trovarle una sistemazione in una buona famiglia, tiravi fuori il pretesto che era figlia unica, che ti sarebbe dispiaciuto vederla andar via di casa..., ed ecco che ti capita un genero difficile da rifiutare!». Un altro invece, quasi minaccioso: «Se non accetta, non le resta che trasferirsi molto lontano da qui; ma il poliziotto, d'altra parte, potrebbe benissimo controllare subito dove vi siete trasferiti e venirvi a cercare. Perciò è quasi impossibile che riusciate a prendere il largo senza problemi». Una donna che passava per persona sensata, a quanto sembra gli aveva fatto un discorso di questo tenore: «Una ragazza così graziosa e piena di talento, alla quale persino l'insegnante di shamisen non risparmiava i complimenti, non sarebbe stato meglio farla diventare al più presto apprendista-geisha? Non gliel'avevo forse consigliato, io? Ma il giorno che un poliziotto scapolo fa il suo giro nel quartiere casa per casa, e quando si ha presso
di sé una ragazza carina e a modo, non si può impedire che se la porti via. Che volete farci? Conviene rassegnarsi alla cattiva sorte, quando si viene scelti da un uomo simile». Appena tre mesi erano passati dal giorno in cui Suezō aveva raccolto queste voci. Una mattina, sulla porta sbarrata della casa del venditore di dolciumi comparve questo avviso: «Affittasi. Rivolgersi all'amministratore. Estremità ovest di Matsunagachō». Durante il suo giro di negozio in negozio Suezō raccolse nuovi pettegolezzi. Apprese che il poliziotto aveva già famiglia al paese, e che la moglie era piombata in città d'improvviso sollevando gran scompiglio. Otama era corsa fuori minacciando di gettarsi in un pozzo, e una vicina, afferrate le sue parole, era arrivata appena in tempo a fermarla. Nell'imminenza del matrimonio di Otama con il poliziotto, il vecchio si era rivolto per consiglio ad alcune persone, ma nessuno dei suoi confidenti aveva saputo dargli un parere legale. Di conseguenza non si era affatto preoccupato di questioni di stato civile o di rapporto all'autorità. Neppure il minimo dubbio lo aveva sfiorato allorché il poliziotto, arricciandosi i baffi, gli aveva assicurato che avrebbe provveduto lui a tutte le formalità. La commessa dell'emporio Kitazumi di Matsunagachō, che noi studenti chiamavamo Agonashi («Senzamento») per via del mento sfuggente in un pallido viso di luna piena, commentò: «Poverina! Onesta com'è, lo considerava come un vero marito, mentre il poliziotto si era installato in casa sua a pensione!». Il padrone dell'emporio, dal cranio raso come quello di un monaco, si era intromesso: «E il vecchio, non è forse da compatire? Si è trasferito dalle parti di Nishitorigoe dicendo di non poter più rimanere nel quartiere per la gran vergogna. Ma pare che sia comunque tornato
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a vendere dalle parti di Akihanohara, perché per il suo commercio ha bisogno di zone frequentate da bambini. Aveva ceduto il carrettino a un robivecchi di Sakumachō, e per riaverlo ha dovuto raccontargli tutte le sue vicissitudini. Per questo, e per via del trasloco, deve aver speso parecchio denaro: credo che se la passi proprio male. Quanto al poliziotto, aveva lasciato moglie e figli al paese senza il becco d'un quattrino, beveva e si dava un sacco di arie, pretendendo che il vecchio, che non è un bevitore, lo accompagnasse nelle sue baldorie. Proprio mentre il poveretto sognava una vecchiaia confortevole! Un sogno che è durato ben poco», aveva concluso il padrone lisciandosi il cranio. In seguito, Suezō aveva finito per dimenticare la figlia del venditore di dolciumi, ma quando il denaro accumulato a poco a poco aumentò le sue possibilità, la ragazza gli tornò in mente. Sfruttando la sua ampia cerchia di conoscenze, inviò qualcuno a indagare dalle parti di Nishitorigoe: scoprì così che il vecchio abitava accanto a una stazione di risciò, dietro al teatro Ryūsei. Con lui viveva Otama, che non si era risposata. Da un intermediario le fece chiedere se accettava di essere l'amante di un ricco mercante. Da principio, all'idea di diventare una mantenuta Otama si mostrò riluttante ma, timida e docile com'era, acconsentì per amore del padre, e l'affare procedette così bene che si giunse a fissare il primo incontro al ristorante Matsugen.
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Non appena a conoscenza dell'indirizzo di Otama, Suezo, il cui pensiero fisso sino allora era stato solamente il denaro, senza neppure aspettare il consenso della donna, si diede a cercare di persona una casa in affitto nelle vicinanze. Delle molte che visitò, due gli piacquero in particolare. Una era nella stessa zona di Ikenohata, a metà strada tra casa sua, attigua alla residenza dello scrittore Fukuchi Gen'ichirō15, e un ristorante di soba allora celebre, il Rengyokuan: la casa si trovava piuttosto discosta dalla strada, e abbastanza vicina al Rengyokuan in rapporto all'angolo sud-ovest dello stagno. All'interno del recinto in bambù, crescevano un pino a ombrello e due o tre cipressi nani, e tra le piante si scorgeva una finestra con davanzale protetta da una cortina di bambù. Visto il cartello con la scritta «Affittasi», si decise a entrare. La casa era abitata, e una donna sui cinquant'anni si offrì di mostrargli l'interno. Senza esserne richiesta, raccontò che il marito era stato consigliere di un daimyō della regione di Chūgoku, ma dopo l'abolizione dei feudi era 61
entrato al Ministero delle Finanze con un grado non elevato, che gli fruttava qualche soldo. Aveva ormai passato la sessantina. Era talmente amante dell'ordine e della pulizia, che percorreva Tōkyō in lungo e in largo alla ricerca di una casa di recente costruzione; trovatala, la prendeva in affitto, ma non appena cominciava a mostrare qualche segno di usura traslocava di nuovo. I figli abitavano altrove da tempo, perciò la casa si manteneva in buono stato, ma con gli anni bisognava sostituire gli shōji e rifare i fatami. Per evitare per quanto possibile tali fastidiose incombenze, spiegò la donna, traslocavano spesso. La cosa le dispiaceva molto, tanto da lamentarsene persino con uno sconosciuto. «La casa è ancora ben tenuta, come vede, e già dice di voler traslocare di nuovo!» si lagnava, e intanto gliela fece visitare da cima a fondo: era davvero pulita e ordinata in ogni angolo. Suezō la trovò interessante, e segnò sul taccuino l'affitto e il deposito richiesti, come pure il nome del mediatore. L'altra casa su cui aveva messo gli occhi si trovava quasi al centro di Muenzaka ed era piuttosto piccola. Non vi erano esposti cartelli né altro, ma avendo sentito che era in vendita, pensò bene di andare a informarsi. Il padrone aveva un'agenzia di pegni e abitava a Yushimakiridōshi: suo padre, che aveva abitato in quella casa fino a poco tempo prima, era morto, e la vedova si era trasferita dal figlio. Poiché la vicina era un'insegnante di taglio e cucito, la zona era piuttosto animata, ma dal momento che quel luogo di ritiro per il vecchio padre era stato fatto costruire con legno di prima scelta, pareva tutto sommato un'abitazione assai confortevole. A partire dall'ingresso, una porta a graticcio, fino al giardino dal suolo cosparso di pietre in granito, l'insieme era stato concepito in modo semplice ma raffinato.
Quella sera, disteso sul futon, si arrovellava su quale delle due case scegliere. Accanto a lui la moglie, coricatasi per far addormentare i bambini, aveva finito per cedere al sonno anche lei: ora russava a bocca spalancata, in modo davvero poco femminile. Era cosa del tutto normale che la sera il marito rimanesse sveglio fino a tardi per calcolare gli interessi sul denaro prestato, perciò la donna non si preoccupò affatto di sapere fino a che ora egli avrebbe tenuto gli occhi aperti. Perduto nelle sue riflessioni, Suezō fissava la moglie e non poteva fare a meno di ridere tra sé: «E pensare che è una donna anche lei: ma guarda che muso! Parecchio tempo è passato da quando ho visto Otama per l'ultima volta. Allora era poco più di una bambina, eppure nella sua timidezza aveva anche una certa vivacità, e un visino che faceva venir voglia di stringerla tra le braccia. Oramai deve possedere il fascino di una donna fatta; come sarà bello rivederla... Eccola là, russa tutta tranquilla! Ah, se credi che non mi interessi altro che il denaro, ti sbagli di grosso, cara mia. Toh, ecco già le zanzare... Proprio quel che non mi piace di Shitaya; bisognerà appendere la zanzariera. Fosse soltanto per lei, se ne potrebbe fare a meno, ma per i bambini...». Il suo pensiero si soffermò nuovamente sulla scelta della casa per Otama; all'una passata parve infine giunto a una decisione: «Quanto alla casa di Ikenohata, certo gode di una bella vista, ma per quello ne ho a sufficienza anche qui. L'affitto non è caro, ma trattandosi di proprietà d'altri c'è sempre qualche seccatura. Senza contare poi che il luogo è molto esposto e rischia di attirare l'attenzione: se un giorno la finestra venisse lasciata aperta per distrazione, e mia moglie andandosene a spasso con i bambini per Nakachō mi vedesse? Sarebbe un bel guaio! D'al-
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tra parte la casa di Muenzaka ha un aspetto un po' malinconico ma, tranne qualche studente che vi viene a passeggiare, la zona è poco frequentata. Sborsare tutti insieme i soldi per comprarla certo è un colpo duro, ma il prezzo non è eccessivo, considerando poi l'ottimo legno usato. Mi basta stipulare un'assicurazione, e il giorno che decidessi di rivenderla recupero il denaro speso. Posso quindi stare tranquillo. E deciso, prenderò la casa di Muenzaka. Già me lo immagino: la sera, dopo il bagno, mi metterò un bel vestito elegante, racconterò una frottola qualsiasi a mia moglie e me ne andrò fuori. Poi aprirò quella porta a graticcio, e che cosa vedrò appena entrato? La mia Otama! Lei mi starà aspettando, sola e un po' mesta, con un gatto o un cucciolo sulle ginocchia. Naturalmente si sarà fatta bella nell'attesa. Dovrò assolutamente comprarle degli abiti nuovi. Un momento: non c'è nessun bisogno di buttar via denaro in spese inutili. Si trovano delle buone occasioni anche al banco dei pegni. A che serve abbandonarsi a ogni genere di follie, come certi che permettono a una donna i vestiti più lussuosi e le acconciature più stravaganti? Quel mio vicino, ad esempio, lo scrittore Fukuchi, che ha una casa tanto più grande della mia e se ne va a spasso per Ikenohata con un corteo di geisha di Sukiyamachi per far invidia agli studentelli... Certo deve divertirsi un mondo, ma credo che a soldi se la passi male. E quel tale sarebbe uno studioso? Se fosse un commesso, e non un giornalista, un imbroglione di quella specie l'avrebbero già messo alla porta. Ora che ci penso, Otama suonava lo shamisen. Oh, se suonasse per me delle ballate sfiorando appena le corde con la punta delle dita! Ma forse non vorrà: all'infuori di quel matrimonio con il poliziotto, deve conoscere così poco 64
del mondo... Dirà che non vuol suonare per timore che rida di lei, e per quanto la preghi continuerà a rifiutarsi. Deve essere timida in ogni cosa: di certo arrossirà, diventerà nervosa... Come si comporterà la prima sera che andrò a trovarla?». Perduto in tali fantasticherie, Suezō non si stancava di accarezzare gli stessi pensieri. Le sue fantasie si fecero poi frammentarie e confuse: gli balenò dinanzi la pelle bianca di Otama, la udì sussurrare qualcosa. Finì per addormentarsi cullato da queste visioni, accanto alla moglie che non aveva smesso di russare.
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L'incontro con Otama al ristorante Matsugen rappresentava per Suezō una vera e propria fète. Quando si parla di avari, si dice di solito che vivono come dei mendicanti, ma in realtà esistono varie specie di avari. Fare attenzione anche alle minuzie, tagliare in due la carta igienica prima di usarla, utilizzare una cartolina per concludere un affare scrivendo con caratteri così minuti da essere obbligati a usare un microscopio: queste sono piccole manie comuni a tutti, ma se esistono persone che arrivano a farne senza eccezione il principio regolatore della loro vita, finendo così per vivere come se si trovassero nella miseria più nera, altri invece si concedono delle piccole spese in certi campi, sì da avere qualche evasione. Il tipo dell'avaro fino a oggi descritto nei romanzi o rappresentato sulle scene sembra essere solo quello dell'avaro assoluto. Ma nella realtà, un gran numero di coloro che accumulano denaro non rientrano in questa categoria: alcuni, nonostante la loro avarizia, perdono la testa per le donne, altri invece si concedono inspiegabili lussi
nel cibo. Ho già accennato al fatto che, quando ancora non era che un semplice inserviente del dormitorio studentesco, la sola debolezza di Suezō erano gli abiti eleganti. Nei giorni di vacanza, abbandonato il solito kimono a maniche strette in cotone di Kokura, indossava un abito adatto a un distinto commerciante, e se la godeva un mondo. Gli studenti, che raramente vedevano Suezō così impeccabile da capo a piedi, nell'imbattersi in lui quando uscivano a passeggio rimanevano stupefatti. Non aveva altri svaghi. Non intratteneva relazioni con donne dei quartieri di piacere, né passava da un ristorante all'altro. Di tanto in tanto si concedeva il lusso di una scodella di soba al Rengyokuan, ma fino a poco tempo prima non aveva mai permesso alla moglie e ai figli di accompagnarlo, perché l'aspetto di lei mal si accordava con gli abiti eleganti che era solito indossare. Ogni volta che la moglie lo infastidiva con qualche richiesta, Suezō immancabilmente la zittiva: «Smetti di dire sciocchezze! Per te non è la stessa cosa: io devo frequentare gente, non posso fare a meno di vestirmi come si deve». Dopo che il denaro prestato cominciò a fruttare, prese a frequentare i ristoranti, ma soltanto in occasioni che riunissero molti convitati, non certo come cliente singolo. Tuttavia, per il primo incontro con Otama, volle essere solennel e un improvviso senso di amore per la forma si impadronì di lui: per cominciare decise che doveva aver luogo al Matsugen. Quando il giorno dell'incontro si avvicinò, sorse un problema inevitabile: bisognava procurare un abito a Otama. E non si trattava soltanto di lei, perché bisognava pensare anche al padre. La vecchia che faceva da intermediaria era in grave imbarazzo, ma Otama obbediva al padre in tutto, e cercando di impedire a
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quest'ultimo di partecipare all'incontro si rischiava di rompere definitivamente l'accordo. Non si poteva fare nulla, perché il vecchio ragionava così: «Otama è la mia unica figlia, quanto di più prezioso abbia al mondo. Non è come le altre figlie uniche, perché è lei tutta la mia famiglia. Ho avuto una vita solitaria. Il mio unico sostegno era mia moglie, ma non riuscì mai a rimettersi dalla sua prima gravidanza, avuta a trent'anni passati, e morì subito dopo la nascita di Otama. L'ho allevata da solo, con il latte che cercavo di procurarmi in giro; a quattro mesi prese il morbillo, che allora imperversava in città; il medico aveva già rinunciato a curarla, ma io trascurai gli affari e tutto il resto per assisterla, e riuscii a salvarla. Era un periodo turbolento. In quell'anno un occidentale perse la vita nell'incidente di Nanamugi16, due anni dopo l'assassinio di Sua Eccellenza li17. Avevo perduto tutto, il negozio e il resto, e pensai allora di farla finita: ma non avevo il coraggio di uccidere con me anche la piccola e graziosa Otama che giocherellava con le manine sul mio petto e rideva guardandomi con quegli occhioni spalancati. Per lei sola sono sopravvissuto giorno dopo giorno, sopportando quello che non avrei sopportato altrimenti. Alla sua nascita avevo già quarantacinque anni, e inoltre, invecchiato com'ero tra mille difficoltà, dimostravo più della mia età. Un amico premuroso mi fece notare allora che è più facile sfamare due bocche che una sola, e che avrei potuto raccomandarmi a una vedova con qualche soldo da parte per andare a vivere con lei, a condizione però che affidassi mia figlia a un'altra famiglia. Ma per amore di Otama rifiutai risolutamente di seguire il suo consiglio. Si dice che la miseria renda stupidi: della mia Otama, che avevo cresciuto con tanti sacrifici, ho
finito per farne il giocattolo di un uomo senza scrupoli, e non riesco a perdonarmelo. Fortunatamente, tutti dicono che è una ragazza a modo, sicché vorrei darla a una persona seria, ma dato che ne sono il padre, e che padre, nessuno la chiede in sposa. Malgrado tutte le nostre sfortune, non avrei mai acconsentito a farne una mantenuta; ma poiché lei mi assicura che il protettore è persona affidabile, e Otama l'anno prossimo compirà vent'anni, ho deciso di accettare per sistemarla prima che sia troppo tardi. A tutti i costi voglio però conoscere l'uomo a cui affiderò quello che è per me il bene più prezioso». Quando gli venne riferito questo discorso, Suezō rifletté con disappunto che i suoi piani erano di tutt'altro genere. Contava, una volta fatta accompagnare Otama al Matsugen, di congedare la mezzana in tutta fretta, per assaporare la gioia di un tète-à-tète con la ragazza. Sembrava però che le sue speranze dovessero andare in fumo. Se fosse stato presente anche il padre, l'incontro rischiava di diventare troppo formale. Suezō aveva un suo qual senso di festosità, che costituiva però solamente un primo passo per allentare le briglie del desiderio sino a quel momento represso, e si tingeva della gioia che procura ogni inizio: perciò un incontro a due con Otama era di primaria importanza. Se il vecchio fosse stato presente, la natura di tale sentimento avrebbe finito per mutare del tutto. A detta della comare, padre e figlia erano persone molto scrupolose, e da principio avevano rifiutato entrambi le sue proposte, non volendo saperne della condizione di mantenuta. Un bel giorno aveva chiamato Otama in disparte e le aveva chiesto se non desiderava rendere più agevole la vita del padre, che penava ogni giorno di più per guadagnarsi da vivere:
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con mille argomentazioni era riuscita a persuaderla e infine a strappare il consenso anche al vecchio. Nell'udire il racconto della donna, in cuor suo Suezō si rallegrò che gli toccasse in sorte una ragazza tanto dolce e arrendevole; tuttavia la presenza di Otama e del padre, seri e scrupolosi entrambi, rischiava di trasformare l'incontro al Matsugen in qualcosa di simile alla presentazione di un genero al futuro suocero, e il senso di festosità minacciava di risolversi in una bella doccia fredda per l'ardente Suezō. Nella convinzione tuttavia che occorresse dar corpo a quanto aveva lasciato intendere, di essere cioè un ricco uomo d'affari, e desideroso di far mostra di generosità, accettò infine di farsi carico delle spese di entrambi. A questa decisione lo spinse l'idea, cui doveva ormai rassegnarsi, che per ottenere Otama non poteva certo fingere di ignorare il padre, e che si trattava soltanto di fare prima quello che comunque sarebbe stato costretto a fare in seguito. Come regola Suezō avrebbe dovuto offrire a padre e figlia una discreta somma per i preparativi, ma così non fece. Si rivolse invece alla sartoria da cui si faceva confezionare i vestiti su misura (ho già detto che quella per l'eleganza era la sua unica passione) e, spiegate le circostanze, fece preparare due abiti appropriati. Per mezzo della vecchia, mandò a chiedere soltanto le misure di Otama. Dispiace dover dire che quest'ultima e il padre interpretarono favorevolmente il gesto del sempre prudente e avaro Suezō, e intesero come segno di rispetto il fatto che non venisse dato loro in mano del contante.
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A Ueno Hirokōji gli incendi sono rari, e non ricordo che il Matsugen sia mai andato distrutto dalle fiamme: può darsi perciò che il luogo del primo incontro tra Otama e Suezō esista ancora. Aveva riservato una sala piccola e tranquilla; dopo essere entrato dall'atrio a sud e aver percorso qualche metro lungo un corridoio, fu introdotto in una stanza da sei tatami, sulla sinistra. Un uomo, con indosso uno shirushi banten, stava srotolando una grande tenda di shibugami™. «E che il sole penetra nella stanza fino a sera inoltrata» spiegò la cameriera che l'aveva accompagnato, e si congedò. Suezō sedette di spalle al tokonoma, dove era stato posto un vaso con una gardenia, e alla cui parete era appeso un rotolo con un ukiyoe di dubbia autenticità, e si guardò intorno con molta attenzione. A differenza di quelle al primo piano, la stanza si affacciava proprio sullo Shinobazu, ma era riparata da un tramezzo in bambù, di modo che dalla strada che correva intorno allo stagno gli sguardi dei passanti 71
non potessero penetrarvi. Molto tempo dopo vi avrebbero installato la rozza staccionata di un ippodromo, e in seguito il luogo avrebbe subito un nuovo cambiamento, trasformandosi in velodromo. Tra il tramezzo e l'edificio non c'era che una striscia di terra lunga e stretta come un obi, dalla quale era impossibile ricavare un giardino. Dal suo posto Suezō vedeva, l'uno vicino all'altro, i tronchi di due o tre aogiri19 che sembravano levigati con uno straccio imbevuto d'olio e, poco lontano, una lanterna di pietra. Oltre a ciò non c'erano che dei piccoli cipressi sparsi qua e là. Il tempo era bello da giorni, e un pulviscolo bianco si levava lungo la grande strada al passaggio della gente, ma all'interno della staccionata il muschio spruzzato d'acqua riluceva di un verde fresco e vivo. Ben presto riapparve la cameriera recando il tè e uno zampirone contro le zanzare, a prendere l'ordinazione. Suezō la rimandò indietro dicendo che preferiva aspettare i suoi ospiti, e una volta rimasto solo prese a fumare una sigaretta. Non appena seduto, aveva avuto l'impressione che facesse caldo, ma dopo un po', passando dalla cucina e sfiorando i bagni, giunsero a più riprese dal corridoio delle folate d'aria leggermente impregnate di vari odori, tanto che Suezō non ebbe bisogno di prendere in mano lo sporco ventaglio lasciato in un canto dalla cameriera. Appoggiato al pilastro del tokonoma, si abbandonò alle sue fantasie soffiando anelli di fumo dalla sigaretta. Al tempo in cui, nel passare davanti alla sua casa, ne ammirava la bellezza, Otama era ancora tutto sommato una bambina. Era curioso di vedere che tipo di donna fosse diventata e con quale atteggiamento sarebbe entrata in quella stanza. In ogni modo, era davvero seccante che il vecchio l'accompagnasse. Si domandava se non
sarebbe riuscito a trovare il modo di congedarlo in fretta. Mentre era perso in queste congetture, dal primo piano giunse il suono di uno shamisen che qualcuno stava accordando. Udì nel corridoio il rumore dei passi di due o tre persone, quindi la cameriera s'affacciò nella stanza per annunciare: «I suoi ospiti, signore». «Avanti, avanti, entrate pure. Il signore è persona alla mano, non è il caso di fare complimenti», stava dicendo la mezzana con la sua voce chioccia. Suezō balzò in piedi e uscì nel corridoio: dietro al vecchio padre leggermente curvo in avanti e rimasto esitante accanto al muro d'angolo, scorse Otama che si guardava intorno incuriosita, e all'apparenza per nulla intimidita. Il viso rotondo e paffuto della graziosa adolescente che ricordava si era fatto lungo e sottile, e la figura slanciata. L'impeccabile acconciatura ichōgaeshi non si accompagnava al trucco pesante d'uso in occasioni simili, ma a un viso quasi acqua e sapone. L'aspetto era ben diverso da quello che Suezō aveva immaginato, pure Otama gli parve persino più bella. La fissava come volesse imprigionarne l'immagine nello sguardo, provandone una grande felicità. Quanto a Otama, poiché si vendeva per sottrarre il padre alla miseria, era venuta all'incontro decisa a consegnarsi al compratore, quale che fosse; ma nel vedere Suezō, con il suo colorito bruno e lo sguardo affabile e penetrante, vestito con un'eleganza discreta, pensò di essere salva, e per un istante anche lei fu molto soddisfatta. «Prego, si sieda pure lì», disse gentilmente Suezō al vecchio indicando la sala, quindi rivolse lo sguardo a Otama sollecitandola a entrare con un secondo: «Prego!». Dopo averli introdotti nella stanza, chiamò in disparte la mediatrice e le fece scivolare
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in mano un involto sussurrandole qualche parola. La vecchia diede in un risolino insieme adulatorio e di scherno, scoprendo i denti ancora macchiati della tintura che aveva raschiato via20, piegò due o tre volte la testa in un mezzo inchino e scomparve. Rientrato, vide che Otama e il vecchio, stretti l'uno all'altra, rimanevano esitanti accanto all'ingresso; con molta cortesia li invitò a sedere, poi fece l'ordinazione alla cameriera, che era rimasta in attesa. Ben presto venne servito del sake accompagnato da stuzzichini. Suezō offrì anzitutto una coppa al vecchio e scambiò con lui qualche parola; questi, avendo in passato condotto un'esistenza abbastanza decorosa, non aveva l'aria di essersi vestito apposta per recarsi al ristorante. Da principio la sua presenza aveva molto infastidito Suezō, ma a poco a poco l'irritazione era svanita, e aveva inaspettatamente preso a conversare con lui in tono confidenziale. Si sforzava di mostrare le sue migliori qualità e si rallegrava tra sé che gli venisse fornita un'occasione così propizia per infondere fiducia nella dolce e mite Otama. Quando arrivò il pranzo, i tre ebbero quasi l'impressione di essersi fermati in un ristorante al ritorno da una gita in famiglia. Suezō, che con i suoi era solito comportarsi da tiranno - comportamento a cui la moglie rispondeva a volte con la ribellione e a volte con la sottomissione - provava una gioia mai conosciuta, delicata e discreta, nel guardare Otama la quale, dopo che la cameriera si era ritirata, con un timido sorriso sul volto che avvampava per l'imbarazzo, serviva il sake. Ma sebbene l'intuizione di un istante di felicità lo sfiorasse allora come in una visione, restava incapace di chiedersi perché mai la sua vita familiare non cono-
scesse lo stesso gusto, quale impegno fosse necessario per mantenere costante e vivo tale sentimento di gioia, e se lui e la moglie sarebbero mai stati capaci di farvi fronte. D'improvviso si udì, al di là del recinto, un batter di hyōshigi21, seguito da una voce: «Ehi! Lor signori permettono che reciti qualche cosa?». Il suono di shamisen proveniente dal primo piano si interruppe, e un'inserviente sporgendosi dal davanzale rivolse all'uomo qualche parola. La voce dalla strada riprese: «D'accordo. Declamerò il dialogo tra Kōchiyama, recitato al modo di Naritaya, e il samurai Nao, al modo di Otowaya. Comincio con Kōchiyama». E diede inizio all'imitazione22. La cameriera, che era entrata per portare dell'altro sake, disse: «Guarda un po', questa sera è quello vero». Suezō non capiva: «Ce ne sono forse di veri e di falsi?». «Non proprio, ma negli ultimi tempi ci sono degli studenti universitari che girano per le strade imitando gli attori». «Hanno anche gli strumenti?». «Sì. Il vestito e tutto il resto sono tali e quali, ma io lo riconosco dalla voce». «Allora è sempre lo stesso?». «Già. È uno solo a farlo», rise la cameriera. «E lei lo conosce, vero?». «È un tale che viene qui di tanto in tanto». Il vecchio intervenne: «Ci sono degli studenti davvero abili, non vi pare?». La cameriera si azzittì. Suezō ridacchiò in modo strano: «Comunque sia, quello là con lo studio non deve andare molto d'ac-
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cordo», disse pensando agli scioperati che frequentavano la sua casa. Alcuni di loro erano capaci di mimare alla perfezione i modi di un artigiano e, trovando divertente curiosare nei bordelli, arrivavano a imitarne abitualmente anche il linguaggio. Ma Suezō non avrebbe mai creduto che certuni se ne andassero per le strade facendosi passare per loro. Lanciando uno sguardo a Otama che era rimasta in silenzio ad ascoltare la conversazione, le domandò: «Otama san, qual è il suo attore preferito?». «Non ne ho, di preferiti». «E che a teatro non ci va mai - s'intromise il padre - . Abitiamo proprio accanto al Ryūseiza, e tutte le signorine del quartiere lo frequentano, ma Otama non ci ha mai messo piede. Le ragazze a cui piacciono gli spettacoli, invece, pare non riescano a restare a casa appena sentono un po' di baccano». Inconsciamente, il discorso del vecchio tendeva a vantare le qualità della figlia.
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In seguito agli accordi presi in quel primo incontro, fu stabilito che Otama si sarebbe trasferita nella casa di Muenzaka, ma il trasloco che Suezō aveva creduto tanto semplice fu accompagnato da alcune difficoltà. Otama desiderava infatti che il padre andasse ad abitare il più vicino possibile a lei, per fargli visita di tanto in tanto e poterlo accudire. Fin dall'inizio aveva deciso di dargli gran parte del denaro che avrebbe ricevuto da Suezō e di procurargli un aiuto domestico affinché non gli mancasse nulla, dato che aveva ormai passato i sessant'anni. Stabilì quindi che dovesse abbandonare il loro vecchio tugurio accanto alla stazione dei risciò e, visto che intendeva comunque farlo trasferire, che traslocasse vicino a lei. Per lo stesso motivo per cui all'incontro al Matsugen avrebbe voluto soltanto la figlia, ma non aveva potuto evitare che vi partecipasse anche il padre, Suezō aveva creduto che sarebbe bastato preparare la casa per Otama. Dovette invece rassegnarsi a provvedere anche al trasferimento del vecchio. 77
Naturalmente la ragazza, dal momento che il trasloco del padre era un suo desiderio, sosteneva di non volergli causare il minimo fastidio, ma ora che ne era stato messo al corrente Suezō non poteva certo far finta di nulla. Lo spingeva a occuparsene il desiderio di mostrarsi ancora una volta generoso verso Otama, che dopo il primo incontro gli piaceva ogni giorno di più; decise quindi che nel momento in cui lei fosse andata ad abitare a Muenzaka, anche il vecchio si sarebbe trasferito nella casa di Ikenohata che aveva visitato in precedenza. Divenuto così una sorta di suo consigliere, Suezō dovette farsi carico di tutto, non potendo permettere che Otama, nonostante insistesse nel voler pagare di tasca propria, si sobbarcasse un'impresa tanto difficile. Nel vederlo sborsare senza batter ciglio il denaro necessario per tutte quelle spese, più di una volta la mezzana spalancò gli occhi dallo stupore. La confusione creata dal doppio trasloco ebbe termine intorno alla metà di luglio. Incantato dal linguaggio e dai modi spontanei e pieni d'innocenza di Otama, Suezō, che nel suo mestiere si mostrava sempre duro e inflessibile, rivelava nei suoi confronti doti di straordinaria arrendevolezza. Quasi tutte le sere le faceva visita a Muenzaka e cercava di compiacerla in ogni modo: qui, secondo un modo di dire che gli storici usano spesso, si ha l'impressione di vedere l'altra faccia del personaggio. Si recava da lei quasi ogni sera, ma non si fermava mai per la notte. Grazie ai buoni uffici della mediatrice le aveva procurato una servetta di tredici anni, di nome Ume, che però in cucina era poco più capace di una bambina che giochi alla massaia. Col passar del tempo, annoiandosi senza mai nessuno con cui
parlare, la sera a volte Otama arrivava ad attendere con impazienza la visita di Suezō; quando se ne rendeva conto, rideva in cuor suo di se stessa. Al tempo in cui abitavano a Torigoe, sola in casa dopo che il padre era uscito con il carrettino dei dolci, faceva piccoli lavori manuali dicendosi: «Se riesco a finire anche questo, guadagnerò un po' di soldi, e sarà una bella sorpresa per il babbo al suo ritorno»; e così lavorava duramente tutto il giorno. Persino allora, sola e senza conoscenze tra le ragazze del vicinato, la noia non l'aveva mai sfiorata: la scopriva ora per la prima volta, proprio quando non doveva più preoccuparsi del futuro. Tuttavia la monotonia delle sue giornate diminuiva quando la sera Suezō veniva a portarle conforto. La nuova vita del vecchio installatosi nella casa di Ikenohata era invece piuttosto diversa. Abituato com'era a guadagnarsi da vivere con fatica, di colpo tutto era diventato fin troppo facile per lui, al punto che gli sembrava di essere stato stregato da una volpe23. Non faceva che rimpiangere, come un bel sogno ormai svanito, le serate trascorse assieme alla figlia sotto il lume della piccola lampada, loro due soli, a parlare del più e del meno. Del resto sarebbe certo venuta a trovarlo, e non faceva che aspettarla. Ma parecchi giorni trascorsero e Otama non si vedeva ancora. Per i primi due o tre giorni il vecchio fu così felice di trovarsi in quella bella casa che, lasciato alla serva di campagna il solo incarico di attingere l'acqua e preparare i pasti, provvedeva da solo a riassettare e pulire. Di tanto in tanto, ricordando che in casa mancava questo o quello, mandava di corsa la donna a Nakachō ad acquistarlo. La sera, mentre dalla cucina veniva il rumore dei preparativi per la cena, innaffiava i pini a ombrello che crescevano accanto alla finestra a
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balconcino, e poi fumando la pipa osservava i corvi levarsi gracchiando sulla collina di Ueno, la bruma del crepuscolo ricoprire a poco a poco il boschetto dedicato a Benten sull'isolotto di Nakajima, e i fiori di loto schiudersi nello stagno. Si sentiva felice e traboccante di un sentimento di gratitudine. Eppure dopo un certo tempo cominciò ad avere la sensazione che qualcosa gli mancasse. Era Otama, che aveva cresciuta con le sue sole forze e con la quale si intendeva senza bisogno di parole, Otama che in ogni cosa metteva grazia e gentilezza, Otama che ogni sera lo attendeva al ritorno dal lavoro: la sua assenza gli pesava tantissimo. Mentre, seduto alla finestra, osservava lo stagno e il viavai dei passanti, nel vedere una grossa carpa saltare fuori dall'acqua, o una straniera con un cappellino ornato da un uccello finto, avrebbe voluto esclamare: «Guarda, Otama!». Ma lei non c'era più. Verso il terzo o quarto giorno si era già fatto irritabile, e la presenza della cameriera che sfaccendava all'intorno lo innervosiva. Non aveva più avuto personale di servizio da molti anni, ma essendo conciliante per natura, non le rivolgeva mai rimproveri: soltanto, niente di quello che la donna faceva gli riusciva gradito, e ciò accresceva il suo malumore. Sarebbe stato imbarazzante anche per la ragazzotta appena giunta dalla campagna essere paragonata di continuo alla dolcezza di modi di Otama e alla sua capacità di eseguire ogni compito con grazia. Infine, la mattina del quarto giorno si accorse che nel servirgli la colazione aveva infilato il pollice nella scodella, e non potè trattenersi: «Non ho più bisogno di te. Torna di là e restaci». Dopo aver fatto colazione prese a scrutare il cielo, che sebbene annuvolato non pareva minacciare piog-
già; sembrandogli che così fosse anche più gradevole, poiché non c'era l'afa delle giornate di sole, decise di uscire per rasserenarsi un po'. Nel timore però che Otama giungesse in sua assenza, passeggiava attorno allo stagno, voltandosi di tanto in tanto per sorvegliare l'ingresso della casa. Giunto a un punto in cui sulla strada per Muenzaka, tra i quartieri di Kayachō e di Shichikenchō, si trova un ponticello, per un istante fu tentato di andarla a trovare. Sembrandogli però che farle visita rientrasse in un certo qual formalismo, fu trattenuto da un riserbo che non riusciva a spiegarsi. «Che strano ! Se fossi sua madre, non avrei certo scrupoli», e con questi pensieri tornò a passeggiare presso lo stagno, rinunciando ad attraversare il ponte. D'un tratto si accorse di trovarsi al di là del canale, proprio di fronte alla casa di Suezō, che un giorno la ragazzotta gli aveva indicata dalla finestra della sua attuale abitazione. La osservò: era di aspetto davvero imponente, con dei pali appuntiti di bambù piantati obliquamente tutt'intorno a un alto muro in terra. L'abitazione vicina, che a quanto aveva sentito dire apparteneva a un celebre studioso di nome Fukuchi, era - bisognava riconoscerlo - più grande, ma anche più malandata e, a paragone di quella di Suezō, molto meno imponente. Si fermò a osservare la porta sul retro, in legno bianco e ben sprangata anche in pieno giorno, ma l'idea di entrare non lo sfiorò. Colto da una sorta di momentanea e inspiegabile malinconia, restò immobile per un certo tempo, con l'aria assente. Avesse dovuto spiegare a parole quella malinconia, non era forse altro che il sentimento di un padre ridotto in rovina e costretto a fare della figlia una mantenuta. Passò un'intera settimana senza che Otama si facesse viva con lui. Il vecchio spasimava per rivederla: il
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desiderio lo tormentava fin nelle viscere, tanto da indurlo a dubitare che, ora che conduceva una vita agiata, la figlia l'avesse dimenticato. Ma a un tale sospetto non dava gran peso, quasi l'avesse suscitato apposta per giocarci, né arrivava mai al punto di provare risentimento per Otama. Si contentava di dirsi, come per darsi un contegno davanti a un estraneo, che sarebbe stato bello riuscire a detestarla una buona volta. Tuttavia in quei giorni gli avveniva di pensare: «Se continuo a restare chiuso in casa mi vengono alla mente mille pensieri. Perciò da oggi comincerò a uscire, e se Otama verrà a trovarmi si dispiacerà di non potermi vedere. E se non dovesse dispiacerle, perlomeno sarà venuta senza risultato. Non c'è niente di male in una vendetta così lieve». Tali riflessioni lo indussero a uscire. Si recò al parco di Ueno e si sedette su una panca al riparo dal sole, guardando i risciò con il mantice rialzato che traversavano il parco, e immaginò che in quel momento Otama andasse da lui e, non trovandolo, rimanesse sconcertata. Aveva l'impressione di mettersi alla prova, per vedere se era capace di ricavare piacere da quella piccola vendetta. La sera andava a volte al Fukinukitei per assistere allo spettacolo di rakugo di Enchō24 e al gidayū di Komanosuke, ma anche mentre sedeva in teatro non faceva che pensare alla possibilità di una visita di Otama in sua assenza. A volte invece immaginava d'un tratto che si trovasse nella sala, e cercava con lo sguardo le ragazze con l'acconciatura ichōgaeshi. Una volta, alla fine dell'intervallo, gli accadde di scambiare per Otama una donna con quella pettinatura che saliva alla galleria del teatro, accompagnata da un uomo in yukata e con un panama, copricapo allora poco consueto, calato fin 82
sopra gli occhi; la donna si teneva alla balaustra osservando gli spettatori in platea. Guardandola meglio, però, notò che aveva il viso più rotondo, ed era un poco più bassa. L'uomo con il panama aveva al suo seguito anche altre tre donne che, a giudicare dalle loro acconciature shimada e momoware15, dovevano essere o delle geisha o delle apprendistz-geisha. Uno studente che sedeva a fianco del vecchio disse: «Toh, ecco il professor Gosò26!». Dopo lo spettacolo, all'uscita, una donna che reggeva su di un bastone una lanterna su cui campeggiava, in rosso e di traverso, l'insegna del Fukinukitei, assieme alle geisha e alle apprendete, accompagnò l'uomo con il panama. Il vecchio rientrò a casa, ora tenendo dietro al piccolo corteo ora precedendolo.
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Otama avrebbe voluto far visita al padre, dal quale non si era mai separata fin da bambina, per sapere come si trovava nella nuova casa. Suezō si recava però da lei quasi ogni giorno e, nel timore che si dispiacesse di non trovarla, lasciava passare i giorni senza andare dal vecchio. Il suo protettore non restava mai fino al mattino. A volte, quando rientrava presto a casa, se ne andava intorno alle undici di sera. Capitava anche che arrivasse dicendo di avere un altro impegno e di potersi trattenere solo per poco; sedeva allora dall'altro lato del braciere fumando una sigaretta, e poi ripartiva. Tuttavia, dal momento che non poteva essere certa che nel tal giorno non si sarebbe fatto vivo, le era impossibile allontanarsi senza stare in ansia. In realtà avrebbe potuto farlo durante la giornata, ma non si fidava del tutto della servetta, che era in fondo ancora una bambina. Per di più si sentiva osservata dai vicini, e preferiva non uscire di giorno. All'inizio, persino per recarsi al bagno pubblico ai piedi del pendio mandava prima Ume in avanscoperta ad accertarsi
che fossero deserti, e solo allora vi andava quasi di nascosto. Ma l'incidente che tolse ogni residuo coraggio alla già timorosa Otama avvenne il terzo giorno dall'ingresso nella nuova casa. Il giorno del trasloco, un pescivendolo e un erbivendolo si erano presentati per offrire i loro servizi, e Otama aveva chiesto loro di passare per gli ordini; quella mattina però il pescivendolo non si era visto, perciò decise di mandare Ume in fondo a Muenzaka a comprare qualche trancia di pesce. In realtà non le piaceva averne a tavola tutti i giorni. Suo padre, che non beveva sake, gradiva qualsiasi cosa per accompagnare il riso, purché non gli facesse male alla salute, tanto che lei si era abituata a mangiare quel che capitava. Tuttavia, pur vivendo allora in un quartiere molto povero, spesso avevano dato modo ai vicini di spettegolare perché non mangiavano pesce per parecchi giorni di seguito. Forte di quest'esperienza, Otama non voleva che Ume avesse di che lamentarsi, né sembrare irriconoscente verso Suezō che non lesinava mai sulle spese per lei; aveva dunque mandato Ume perché si facesse vedere in negozio. La servetta era però tornata a casa in lacrime: incalzata dalle domande, aveva riferito quanto era successo. Individuato il posto, vi era entrata, ma il pescivendolo non era lo stesso che si era presentato in casa loro con il taccuino delle commissioni. In bottega non c'era che la padrona: forse il marito, di ritorno dal mercato, aveva depositato il suo carico ed era ripartito per il giro dei clienti. Ume aveva visto una gran quantità di pesce fresco e, attratta da alcuni sgombri di un bel colore, ne aveva chiesto il prezzo. Alla domanda della padrona: «Non ti ho mai vista prima d'ora: dove sei a servizio?», le aveva spiegato
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da dove veniva. Assumendo improvvisamente un'aria disgustata, la donna aveva replicato: «Ah, è così? Mi spiace per te, ma devi tornare dalla tua padrona e dirle che in questo negozio non serviamo la mantenuta di un usuraio». Quindi le aveva voltato le spalle, seguitando a fumare senza più prestarle attenzione. Morta di vergogna e senza neppure il coraggio di cercare un altro negozio, Ume era tornata di corsa a casa e aveva riferito, in modo sconnesso e con aria dispiaciuta, le parole della bottegaia. Neil'ascoltarla, Otama si fece di un pallore mortale, poi rimase a lungo in silenzio. Un chaos di sentimenti si agitava nel suo petto di fanciulla inesperta del mondo. Non le riusciva di districare quella matassa confusa, ma tale affollarsi improvviso di pensieri aveva aggiunto un nuovo e gravoso peso sul suo animo innocente sottoposto a pesanti pressioni: le pareva che il sangue fosse affluito tutto al cuore, tanto che il viso aveva perso colore, mentre sentiva un sudore freddo correrle lungo la schiena. In circostanze simili sono le cose senza grande importanza le prime ad affiorare alla coscienza: Otama temette che, dopo l'incidente, Ume non volesse più restare a servizio da lei. reo, e capiva che stava soffrendo terribilmente, anche se non ne comprendeva il motivo. Offesa, era uscita in fretta dal negozio per rientrare di corsa, ma si accorgeva ora che in casa non c'era nulla, e bisognava pur preparare il pranzo. Il denaro avuto poco prima era ancora riposto nell'obi. «Quell'odiosa pescivendola! Chi ha bisogno di servirsi da lei? Poco più avanti, vicino a un tempietto di Inari, ho visto un'altra bottega. Vado e torno in un momento, va bene?» e si levò in piedi continuando a fissare in volto Otama, quasi a 86
volerla consolare. Nel vederla prendere le sue difese, questa provò il sollievo di un istante di felicità e, sorridendo senza volerlo, fece un cenno d'assenso. Ume partì di gran carriera. Una volta sola, Otama restò immobile per qualche tempo. La tensione nervosa si era un poco allentata, e sentendo che le lacrime che le spuntavano agli occhi erano sul punto di cadere copiose, trasse dalla manica il fazzoletto e le asciugò. Dentro di sé ascoltava imperiosa una sola voce, che gridava vergogna e rabbia: era l'eco di quel groviglio di confusi sentimenti che si agitava in lei. Non provava di certo odio per la pescivendola che aveva rifiutato di servirla, né risentimento o tristezza, sapendo che la sua attuale condizione ne era la causa; e neppure nutriva rancore o odio per Suezō, l'uomo a cui doveva concedersi, ora che era venuta a conoscenza del suo vero mestiere, né si sentiva umiliata per il fatto di darsi a un individuo simile. Sapeva solo vagamente che un usuraio è una persona temuta, odiata ed evitata da tutti: suo padre non aveva mai chiesto denaro in prestito se non al banco dei pegni, e se qualche impiegato gli rifiutava crudelmente la somma richiesta, si sentiva soltanto in imbarazzo, mai se la prendeva con l'uomo per la sua fissava ostinazione. Ume il volto della padro Otama aveva dunque appreso dell'esistenza di esseri terribili quali gli usurai come da bambini si impara ad avere paura degli orchi e dei poliziotti, ma senza ricavare da quei racconti un'impressione particolarmente marcata. Perché allora si sentiva così umiliata? In realtà, nella vergogna che provava non trovava quasi posto il rancore verso gli altri o verso il mondo; bensì era una protesta contro il suo stesso destino. Non aveva mai fatto del male a nessuno, eppure era soggetta a una sorta di persecuzione. Era questo a farla soffri87
re, e il suo risentimento non era che questa sofferenza. La prima volta che aveva avvertito qualcosa di simile era stato nel ritrovarsi ingannata e abbandonata dal poliziotto. In seguito, quando era stata costretta a diventare una mantenuta, quella sensazione si era ripresentata. Sapere ora che non solo si era ridotta a essere una mantenuta, ma che lo era di un usuraio, odiato da tutti, fece risorgere in lei ancor più vivido e chiaro quel risentimento che il morso del tempo aveva finito per intaccare e smussare, e che un senso di rassegnazione aveva lasciato sbiadire. A voler dare a ogni costo una spiegazione logica, era probabilmente questo che le opprimeva l'animo in quel momento. Poco dopo si levò in piedi, aprì un armadio a muro e da una borsa in finta pelle d'elefante trasse un grembiule di cotonina bianca che si era confezionato lei stessa, se lo legò ai fianchi e, con un profondo sospiro, passò in cucina. Aveva un altro grembiule di seta che considerava quasi un vestito della festa e che perciò non metteva mai per lavorare in cucina. Non tollerando la minima traccia di sporco sul collo dello yukata, arrivava al punto di proteggerlo con un asciugamano piegato in due, là dove lo sfioravano la crocchia e le ciocche laterali della pettinatura. Era ormai molto più calma. Lo stato d'animo in lei più frequente era la rassegnazione, e su un tale percorso il suo spirito aveva l'abitudine di assestarsi senza scosse, come un meccanismo ben oliato.
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Successe una sera. Suezō sedeva, come al solito, di fronte a Otama, accanto al braciere. Come ogni sera nel vederlo arrivare, aveva tirato fuori un cuscino e l'aveva sistemato all'altro lato. Suezō sedeva a gambe incrociate e le parlava fumando una sigaretta. Sentendosi a disagio, Otama non si muoveva dal suo posto e continuava a tormentare con le dita il bordo del braciere o a giocherellare con le molle, replicando con rare e timide parole ai suoi discorsi. Da come si comportava si sarebbe detto che, lontana dal braciere, non avrebbe saputo come agire, quasi se ne servisse come scudo per fronteggiare il nemico. Dopo un certo tempo dall'inizio della conversazione, a un tratto si lasciò andare a un lungo discorso, raccontando un po' alla rinfusa delle piccole vicissitudini degli anni trascorsi insieme al padre, loro due soli. Suezō ascoltava senza seguirla, deliziandosi del suono della sua voce, come chi ascolta il canto di un grillo in gabbia, e inconsciamente le sorrideva. Ma d'improvviso, come se solo in quel momento si rendesse conto di stare parlando, 89
Otama arrossì e concluse rapidamente il racconto, tornando alle scarne repliche di poco prima. Tutte le sue parole e i suoi gesti rivelavano in lei l'innocenza. Per Suezō, che per certi aspetti era solito guardare cose e persone con occhio molto penetrante, essa rappresentava uno spazio senza angoli in ombra, come uno specchio d'acqua trasparente. Il piacere di quei loro incontri gli dava la sensazione di rilassarsi, immobile dopo un pesante sforzo fisico, nel tepore di un bagno caldo al punto giusto. Poter assaporare quel piacere costituiva un'esperienza a lui del tutto sconosciuta: da quando frequentava quella casa, simile a una fiera che si abitui alla presenza dell'uomo, quasi senza accorgersene aveva acquisito una certa culture21. Tre o quattro giorni dopo, finì per rendersi conto che quando, come d'abitudine, sedeva a gambe incrociate davanti al braciere accanto a lei, Otama prendeva ad armeggiare inquieta, senza in realtà aver niente da fare. Dapprima rimaneva a occhi bassi evitando di guardarlo in faccia e rispondendo a fatica alle sue parole, ma quella sera il suo comportamento pareva rivelare qualcosa di particolare. «A cosa stai pensando?», le chiese a un tratto mentre riempiva di tabacco la pipa. Otama che, dopo averlo aperto per metà, fingeva di cercare qualcosa nel cassetto in perfetto ordine del braciere, fissò Suezō con gli occhi spalancati e rispose: «A niente». Quegli occhi parevano incapaci di nascondere grandi segreti, a meno che non si trattasse di misteri fiabeschi. Senza volerlo Suezō aveva atteggiato il viso a una smorfia di disappunto, ma subito dopo, di nuovo inconsciamente, non potè fare a meno di rasserenarsi: «Non dire così. Ti si legge in faccia che qualcosa ti preoccupa».
Otama arrossì tutta, di colpo, quindi restò per qualche tempo in silenzio pensando a cosa rispondere. Sembrava che Suezō potesse vedere in lei come in trasparenza, fin dentro i movimenti dei suoi delicati meccanismi. «Ecco... da molto penso di andare a trovare mio padre, ma i giorni passano e non l'ho ancora fatto». Se anche riusciva a scrutarvi dentro, gli era però impossibile comprenderne il funzionamento. Per evitare di essere distrutti dai più forti, gli insetti di solito ricorrono al mimetismo28. Le donne ricorrono alla menzogna. Ridendo, ribatté in tono quasi di rimprovero: «Dici davvero? Tuo padre si è trasferito a Ikenohata, proprio a due passi da qui, e non sei ancora andata a trovarlo? Rispetto alla residenza di Iwasaki, dall'altro lato, è come se abitaste nella stessa casa. Puoi andarci anche subito, se vuoi, ma mi pare meglio aspettare domani mattina». Otama gli lanciò uno sguardo di sottecchi, continuando a tormentare la cenere con le molle: «Ma ci sono tante cose a cui devo pensare...». «Sciocchezze! Non c'è da pensar tanto per una cosa così semplice. Quando la finirai di comportarti da bambina?» la rimproverò lui, questa volta in tono gentile. Il discorso non andò oltre. Alla fine, visto che la cosa sembrava pesarle tanto, Suezō si offrì di uscire con lei l'indomani mattina e di accompagnarla per quei quattro-cinque isolati necessari. In quei giorni Otama aveva riflettuto a lungo. Vedendo il suo protettore così premuroso, gentile e pieno di buon senso, non riusciva a spiegarsi come potesse esercitare un'attività tanto spregevole, e fantastica-
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va su di un'impresa impossibile, vale a dire affrontarlo una buona volta e convincerlo a dedicarsi a un mestiere più onesto. Nonostante tutto, non riusciva a disprezzarlo, almeno per il momento. Nel vago timore che Otama nascondesse qualche cosa in fondo al cuore, Suezō aveva provato a sondarla ma lei rispondeva che si trattava di una cosa di poco conto, una sorta di capriccio infantile. Tuttavia nel lasciare la casa alle undici passate, ridiscendendo senza fretta per Muenzaka, continuava a riflettere e si convinse che doveva tener celato qualche segreto, che era però riuscito a sfuggire al suo sguardo esperto e penetrante. Arrivò perfino a supporre che qualcuno le avesse detto qualcosa che l'aveva messa in imbarazzo, ma non riuscì a immaginare chi fosse, né cosa le avesse riferito.
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Il mattino seguente Otama si recò in visita dal padre a Ikenohata, e lo trovò che aveva appena finito di fare colazione. Senza perdere tempo a truccarsi, aveva fatto la strada in gran fretta, sebbene temesse di arrivare un po' troppo presto; ma il vecchio, mattiniero per abitudine, aveva già spazzato e annaffiato per bene l'ingresso, si era ripulito, e in quel momento, seduto sul tatami nuovo, aveva appena finito di consumare la sua solitaria colazione. Di recente era stata aperta poco più in là una casa di appuntamenti, e a volte la sera c'era una certa animazione, ma le case vicine, sui due lati, tenevano sempre chiuse le porte a graticcio, e soprattutto la mattina la zona era molto tranquilla. Dalla finestra della casa del vecchio, tra i rami dei pini a ombrello, si scorgevano le fronde dei salici che oscillavano lievi alla fresca brezza del mattino e, più oltre, le foglie di loto che ricoprivano rigogliose la superficie dello stagno. In mezzo a quel verde spiccavano qua e là le macchie rosso chiaro dei fiori appena sbocciati. Dicevano che 93
la casa, rivolta a nord, doveva essere piuttosto fredda, ma molto confortevole in estate. Fin dall'età della ragione, Otama si era sempre ripromessa, se la fortuna l'avesse aiutata, di fare per suo padre qualsiasi cosa. Nel constatare ora con i suoi occhi come si trovasse bene nella nuova casa, comprese che la speranza che non aveva mai smesso di coltivare poteva dirsi realizzata, e si sentì felice. Eppure alla felicità si mescolava una punta di amarezza. «Se potessi vederlo in altre circostanze, quanto più grande sarebbe la mia gioia!» pensava, profondamente irritata dall'impossibilità di cambiare il corso degli avvenimenti. Posati i bastoncini, il vecchio stava prendendo il tè che aveva versato in una tazza, quando sentì aprirsi il cancello d'entrata che nessun visitatore aveva ancora oltrepassato. Sorpreso, appoggiò il recipiente e volse lo sguardo all'ingresso. Il paravento di canne a due pannelli gli nascondeva ancora la figura dell'ospite, ma quando udì la voce di Otama che lo chiamava, represse l'impulso di levarsi per andarle incontro e restò immobile, riflettendo sulle parole con cui l'avrebbe accolta. Era tentato di domandarle: «Dunque non ti eri dimenticata di tuo padre?»; ma nel vederla entrare precipitosamente e farglisi accanto in atteggiamento affettuoso, quelle parole non vollero uscirgli di bocca e, pur furioso con se stesso, si limitò a fissarla in silenzio. Come era diventata bella! Di Otama era sempre stato orgoglioso, e anche quando vivevano in miseria aveva avuto cura che fosse impeccabile nell'aspetto, badando inoltre a non gravarla di compiti troppo faticosi. In quei dieci giorni in cui erano rimasti lontani, tuttavia, sembrava rinata. Per quanto duramente po-
tesse lavorare durante la giornata, quasi per istinto aveva sempre fatto attenzione a tenersi in ordine; eppure, paragonata alla donna che ora dedicava del tempo alla sua toilette quotidiana, l'immagine rimasta nella sua memoria era quella di una pietra preziosa ancora grezza. Che si tratti di un figlio agli occhi dei genitori, o di un giovane agli occhi di un vecchio, quello che è bello resta bello, e genitori e vecchi devono piegarsi di fronte alla bellezza che ha il potere di ingentilire gli animi. Continuando a ostentare il suo silenzio, il vecchio avrebbe voluto mostrare un viso corrucciato ma poi, suo malgrado, si rilassò. Anche Otama, che nella sua nuova situazione non desiderava che di incontrarsi e parlare con quel padre da cui non si era separata mai neppure per un giorno fino a poco tempo prima, nell'averlo finalmente di fronte dopo dieci giorni si limitò a fissarlo a lungo, felice ma incapace di aprire bocca. «Posso ritirare il vassoio?». La cameriera si affacciò dalla cucina e parlò a tale velocità e con un'intonazione così particolare che Otama, che non vi era abituata, non riuscì ad afferrarne il senso. Era una donnetta dall'aspetto bizzarro, dovuto al contrasto tra il viso rotondo e paffuto e la testa piccola, su cui i capelli erano raccolti in una crocchia con un semplice pettine. I suoi occhi fissarono Otama con aria di grande stupore, in maniera quasi sfrontata. «Presto, prendi il vassoio e prepara dell'altro tè. Sullo scaffale c'è del tè verde» ordinò il vecchio, spingendo da parte il vassoio che la cameriera riportò in cucina. «Oh, non è il caso di offrirmi del tè di qualità», protestò Otama. «Non dire sciocchezze. Anzi, devo avere anche dei
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dolci» e così dicendo il vecchio si levò in piedi, trasse da una mensola un contenitore di latta e dispose nella coppa da dolci alcuni senbei all'uovo. «Li fanno nel negozio dietro alla spezieria Hōtan. E una zona comoda per gli acquisti, questa; nella strada a fianco si trovano anche gli tsukudani di Joen»29. «Davvero? Ricordo che quando andammo a vedere un suo spettacolo in quel teatro di Yanagihara, Joen parlò di una qualche leccornia e disse: "Deliziosa proprio come i miei tsukudanū", e tutti scoppiammo a ridere. È proprio un vecchietto simpatico! Sul palcoscenico, si sedeva sollevando in modo brusco gli orli del kimono: quant'era buffo! Non riuscivo a trattenermi dal ridere. Dovresti anche tu diventare grasso come Joen!». «Non ci penso neanche a ingrassare come lui!», scherzò il padre avvicinandole la coppa con i senbei. Mentre veniva servito il tè, i due seguitarono a parlare di questo e di quello, come se non si fossero mai lasciati. D'un tratto il vecchio, quasi avesse qualcosa di spiacevole da dire, le chiese come si trovava nella nuova casa, e se Suezō di tanto in tanto si recava da lei. «Sì» si limitò a rispondere Otama, esitando un istante su come proseguire. Non solo di tanto in tanto: non passava sera senza che Suezō comparisse. Se fosse stata sposata e le avessero chiesto come erano i rapporti con il marito, avrebbe potuto rispondere con aria raggiante: «Non si preoccupi, sono ottimi». Ma in una situazione come la sua, le dispiaceva di dover rivelare al padre che non passava giorno senza vedere Suezō. Dopo aver riflettuto qualche istante, disse: «Insomma, sembra che tutto vada bene, puoi stare tranquillo». «Se è così, sono contento» concluse il vecchio, ma
c'era qualcosa che non lo soddisfaceva nella risposta di Otama. Senza avvedersene, sia l'uno che l'altra cominciarono a parlare in modo ambiguo. In passato tra loro non c'erano mai stati segreti, si erano sempre confidati tutto; ora invece si sentivano obbligati a un atteggiamento più riservato, come se certi segreti dovessero a ogni costo essere mantenuti. Quando Otama era stata tratta in inganno da quel poliziotto, entrambi si erano creduti disonorati agli occhi dei vicini, ma sapendo in cuor loro di non doversi attribuire colpa alcuna, avevano continuato ad aprirsi l'uno all'altra senza riserve. A differenza di allora, nonostante le comodità della loro nuova vita derivanti da una decisione presa di comune accordo, avvertivano con tristezza come un'ombra cupa proiettarsi sulla loro passata familiarità. Il vecchio, che desiderava da Otama una risposta concreta, provò ad affrontare l'argomento in un altro modo e domandò che genere di uomo fosse Suezō. «Ebbene - cominciò Otama piegando di lato la testa, quindi aggiunse come parlando a se stessa - : non sembra affatto un tipo malvagio. Lo conosco solo da qualche giorno, ma finora non mi ha mai rivolto una parola sgarbata». «Uhm - fece il vecchio con aria poco convinta - . Di certo non è un tipo malvagio». Otama guardò in faccia il padre e d'un tratto sentì che il cuore le batteva più forte. Era quello il momento per parlare di ciò che era venuta a dirgli quel giorno, ma le era penoso dare un nuovo dolore a chi avrebbe invece voluto rassicurare, rendendogli la vita più dolce. Decise all'ultimo istante di sopportare la pena di dover approfondire il solco tra sé e il padre, e di ritornarsene a casa con quei segreto non svelato:
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non si trovava solo nella malvista condizione di mantenuta, c'era ben di più da sopportare. Eludendo la domanda del padre, sollevò lo sguardo verso di lui e disse: «Ci era stato presentato come un uomo impegnato in mille affari e che era riuscito ad accumulare una fortuna, tanto che mi preoccupavo di sapere che uomo fosse in realtà. Come posso spiegarlo? Insomma, l'apparenza è quella di un uomo molto deciso, ma non so dire se lo sia davvero, anche se nel modo di parlare e di agire si sforza di sembrare tale. Non si tratta che di un'intenzione, ma è una buona intenzione, non ti pare?». Per onesta che sia, una donna trova meno difficoltà di un uomo nel divagare celando i suoi veri sentimenti: in tal caso, si può forse dire che una donna che si perde in chiacchiere è abbastanza onesta. «Forse è come dici tu, ma da come ne parli si direbbe che tu non abbia fiducia in lui». Un lieve sorriso comparve sul volto di Otama: «A poco a poco sono diventata più forte, e non ho più intenzione di lasciare che gli altri si prendano gioco di me. Vedi come mi sono fatta audace?». Il vecchio ebbe l'impressione che la figlia, dimostratasi sempre docile, con quelle parole volesse inaspettatamente prender di mira lui, e la guardò con aria incerta: «Quanto a questo, per tutta la vita gli altri non hanno fatto che prendersi gioco di me. Ma piuttosto che ingannare, si è più tranquilli se si viene ingannati. Qualunque mestiere si faccia, non bisogna mai mostrarsi ingrati, ma tenere invece in gran conto chi ci ha reso dei favori». «Stai tranquillo: hai sempre detto che la tua piccola Otama era onesta, e lo sono ancora. Ma in questi ultimi giorni ho avuto modo di riflettere a lungo, e ne ho
abbastanza di farmi prendere per il naso. Non intendo certo cominciare a mentire e ingannare io stessa, ma non lascerò più che gli altri continuino a ingannarmi come hanno sempre fatto». «Mi vuoi far capire che non credi neppure a quel che ti dice Suezō?». «Già. Lui non mi considera altro che una bambina, e visto che è un uomo molto scaltro avrà i suoi motivi per pensarlo; ma io non ho intenzione di far l'ingenua quanto piacerebbe a lui». «Ma che cosa è successo? Hai forse scoperto che Suezō ti ha mentito qualche volta?». «Proprio così. Ricordi quel che ci ripeteva la comare? Sua moglie, diceva, era morta lasciandogli dei figli, dunque se avessi accettato di diventare la sua mantenuta sarebbe stato come essere la moglie legittima. Era solo per rispetto delle convenienze se non poteva mettersi in casa una donna che veniva dai quartieri bassi. Ho scoperto invece che sua moglie è viva e in salute. È stato proprio lui a dirmelo senza scomporsi, mentre io cadevo dalle nuvole». Il vecchio spalancò gli occhi: «Davvero? Mai credere aHe parole di quella gente!». «È chiaro che tiene accuratamente nascosta alla moglie la mia esistenza. Se è capace di mentire a lei, di certo anche a me non la racconta sempre giusta. Conviene che tenga gli occhi ben aperti». Dimenticando persino di svuotare della cenere la pipa appena spenta, il vecchio fissava stupefatto la figlia, che pareva essersi all'improvviso fatta adulta. D'un tratto Otama, come ricordandosene solo in quel momento, disse: «Adesso devo rientrare. Ora che sono venuta, non mi sarà difficile tornare, e verrò a trovarti quasi ogni giorno. A dire il vero, finché Suezō
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non mi ha dato il permesso non mi pareva bello venire di mia iniziativa, ma l'altra sera ha acconsentito, così stamani sono corsa da te. La mia cameriera, però, è ancora una bambina, e non sarebbe capace neppure di preparare il pranzo se non tornassi per aiutarla». «Se Suezō è d'accordo, puoi restare a pranzo da me». «No, non sarebbe prudente. Tornerò presto. Arrivederci». Non appena Otama si levò in piedi, la domestica si affrettò a porle davanti i geta. Anche la donna più rozza non manca mai di studiare le altre, quando le incontra. Un filosofo afferma che persino nell'incrociarsi per strada le donne vedono in ogni loro simile una rivale. Allo stesso modo, anche quella montanara che serviva a tavola con tanta malagrazia, infilando le dita nelle scodelle, era rimasta colpita dalla bellezza di Otama, e a quanto pare aveva ascoltato il dialogo tra padre e figlia. «Dunque, ti aspetto. Porta i miei saluti a Suezō», la congedò il vecchio restando seduto. Otama trasse dall'obi di satin nero un borsellino e diede alla ragazza qualche soldo accartocciato, quindi infilò i geta e uscì. Inspiegabilmente rinfrancata, varcò quella soglia per cui era entrata decisa a cercar conforto nel padre, a dividere con lui la sua angoscia e a piangere assieme sulle loro sventure. Trovando invece il padre così sereno, aveva preferito rinunciare a dargli un dolore tanto grande, e anzi, mentre gli parlava sforzandosi di apparire forte e sicura, aveva sentito nascere un qualcosa che era prima latente: un inaspettato senso d'indipendenza, proprio in lei che era dipesa dagli altri per tutta la vita. Camminava felice costeggiando lo
stagno di Shinobazu. Il sole, ormai alto sulla collina di Ueno, fiammeggiava tingendo di un rosso acceso il tempietto di Benten a Nakajima, ma Otama continuava a camminare senza aprire il parasole.
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Una sera, al ritorno da una visita a Otama, Suezō trovò la moglie che, dopo aver messo a dormire i bambini, era ancora sveglia. Di solito si infilava a letto insieme ai figli, ma quella sera se ne stava lì seduta a testa bassa, e non si voltò neppure quando Suezō entrò sotto la zanzariera30. Il suo letto, un po' discostato dagli altri, era il più vicino alla parete, proprio in fondo. Vi erano stati disposti un cuscino, un portacenere e il servizio da tè. Sedette sul cuscino e cominciando a fumare chiese con voce gentile: «Che succede? Come mai non dormi ancora?». La donna restò in silenzio. Suezō non volle mostrarsi conciliante una seconda volta. Aveva fatto un'offerta di pace, non c'era stata risposta: non vedeva il motivo di spingersi oltre. Continuò a fumare con aria volutamente indifferente. «Dove ti eri cacciato fino adesso?», domandò all'improvviso la moglie alzando la testa e guardandolo in faccia. Da quando avevano dei domestici il suo lin-
guaggio si era fatto più elegante, ma nell'intimità conservava ancora un modo di esprimersi piuttosto rozzo. Suezō le lanciò uno sguardo penetrante, ma rimase in silenzio. Capiva bene che la moglie era stata informata, ma non potendo valutare a che punto arrivasse la sua conoscenza dei fatti, non gli rimaneva che tacere. Non era uomo da parlare a vanvera e fornire così armi all'avversario. «Ormai ho capito tutto», proseguì lei con una voce stridula che finì per mutarsi in un singhiozzo. «Che strane cose dici! Che cos'è che avresti capito?» chiese Suezō con voce dolce e consolante, e il tono di chi si trova di fronte ad avvenimenti incomprensibili. «Questo poi è il colmo! Come sei abile nel continuare a fingere anche adesso!». Poiché la calma di Suezō aveva per effetto di irritarla ancora di più, parlava con voce incrinata dal pianto, asciugando con la manica della sottoveste le lacrime che le spuntavano agli occhi. «Non capisco. Proprio non ho la più pallida idea del perché mi parli così». «Oh! E hai il coraggio di dirmi questo quando ti chiedo dove sei stato questa sera! Hai condotto abilmente il tuo gioco: mi dicevi di dover uscire per affari, e intanto mantenevi un'amante». Sul viso della donna, dal naso troppo piccolo e tutto arrossato, quasi le lacrime avessero finito per consumarlo, ricadeva una ciocca di capelli dall'acconciatura marumage ormai disfatta31. Fissava il marito sforzandosi di spalancare gli occhi sottili umidi di pianto. Trascinandosi sulle ginocchia, gli si avvicinò e si afferrò con forza alla mano in cui reggeva una Tengu Oro 32 . «Lasciami» disse Suezō liberandosi dalla stretta, e
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spense la cenere della sigaretta caduta sul tatami. Continuando a singhiozzare, di nuovo la moglie gli afferrò la mano: «Ma che razza di uomo sei? Con tutti i soldi che guadagni, solo tu fai la vita del gran signore: tua moglie la lasci a occuparsi dei figli, non le compri mai neppure un vestito, e adesso ecco che, senza un pensiero al mondo, perdi la testa per una mantenuta!». «Ti ho già detto di lasciarmi - ripetè Suezō respingendola - . Non si saranno svegliati i bambini? Finirà per sentirti anche la domestica in camera sua» disse poi a mezza voce, ma in tono energico. Il figlio minore si rigirò nel letto borbottando qualcosa nel sonno, e la donna istintivamente abbassò la voce: «Cosa devo fare?» disse, questa volta premendo il viso sul petto di Suezō, scossa dai singhiozzi. «Non devi fare proprio niente. Sei così credulona che qualcuno è riuscito a metterti contro di me. Amanti, mantenute... chi ti ha raccontato simili sciocchezze?». Nel parlar così Suezō osservava le ciocche della pettinatura disfatta della moglie sussultare, e si domandava quasi soprappensiero perché mai una donna tanto brutta si ostinasse a pettinarsi in uno stile che non le si confaceva. Mentre, placati i sussulti, a poco a poco le ciocche si acquietavano, sentì i grossi e caldi seni di lei, che avevano dato abbondante nutrimento a tutti i suoi figli, premere nell'incavo del petto. Le ripetè: «Chi ti ha raccontato queste cose?». «Che importa chi è stato, dal momento che è vero?». La pressione dei suoi seni si faceva sempre più forte. «Dal momento che è una menzogna, chiunque te l'abbia detto, voglio sapere chi è. Dimmi chi è stato».
«In fondo, non ha importanza se te lo dico: la padrona della pescheria Uokin». «Ah, proprio come il nenbutsu del tanuki "\ Non si capisce niente: chi sarebbe questa padrona... bla bla bla?». La moglie sollevò il viso dal suo petto e rise indispettita: «Ho detto che si tratta della padrona della pescheria Uokin». «Ah, parli di quella là? Dovevo immaginarlo». Suezō addolcì lo sguardo e, fissando il volto paonazzo della moglie, si accese con calma un'altra Tengu Oro. «I giornalisti parlano spesso della "condanna della società", ma non avevo mai visto niente del genere con i miei occhi. Può darsi che quella pettegola rappresenti la mia "condanna della società". Quella donna sparla di tutto il quartiere: si possono forse prendere per oro colato le chiacchiere di gente simile? Ora stammi bene a sentire e ti dirò qual è la verità». Se la gelosia e il sospetto che Suezō continuava a ingannarla non l'avessero tenuta in allarme, Otsune sarebbe rimasta del tutto inebetita, con il cervello annebbiato; stette invece ad ascoltare con attenzione, scrutando il volto del marito. Come quando, poco prima, aveva parlato di «condanna della società», ogni qualvolta Suezō usava uno di quei paroloni appresi dai giornali si intimoriva e finiva per sottomettersi senza capire. Fermandosi di tanto in tanto per aspirare dalla sigaretta e cacciare via il fumo, Suezō prese a raccontare fissando in volto la moglie, quasi a volerla suggestionare: «Si tratta di un tale che conosci anche tu: quel signor Yoshida che veniva spesso a casa nostra al tempo in cui l'Università era ancora nella vecchia sede. Quel tale con gli occhiali cerchiati d'oro e quel kimo-
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no leggero, ricordi? Ora si è trasferito all'ospedale di Chiba, ma ha ancora un conto in sospeso con me di due o tre anni. Già da quando alloggiava al dormitorio universitario, si era legato a una donna che, fino a non molto tempo fa, manteneva in una casa in affitto a Nanamagari. All'inizio le inviava regolarmente una somma ogni mese, ma da quest'anno non le manda più né lettere né denaro. Perciò la donna si è rivolta a me, pregandomi di arrivare a un accordo con lui. Forse ti chiederai come poteva conoscermi: Yoshida diceva che venendo a casa mia temeva di attirar troppo l'attenzione, e a volte era lui a invitarmi a Nanamagari per discutere del rinnovo della sua cambiale. E così che quella donna mi ha conosciuto. Per me si tratta di una grossa seccatura, ma ho colto l'occasione e ho accettato di negoziare con Yoshida. Purtroppo l'affare non sembra vicino a una conclusione. Lei diventa sempre più insistente; credo di essere incappato in un tipo molto noioso, ma non so che farci. Come se non bastasse, desiderando trasferirsi in una casa decente e non troppo cara, mi ha chiesto di occuparmene per lei, e così sono riuscito a farla traslocare a Kiridōshi, nella casa di un prestatore su pegno in pensione. Per un motivo o per l'altro, di tanto in tanto capita che vada a trovarla, giusto il tempo di fumare qualche sigaretta, ed ecco che i vicini hanno già fatto chissà quanti pettegolezzi. Nella casa accanto si radunano delle ragazze presso una maestra di cucito, e certo lì le malelingue non mancano. Sarebbe da sciocchi tener nascosta un'amante in un posto del genere, ti pare?», concluse Suezō con una risata di scherno. La moglie, che aveva ascoltato intenta, mentre i piccoli occhi brillavano per l'attenzione, ribatté con voce vezzosa: «Può darsi che le cose stiano come dici tu, ma
non posso sapere cosa può succedere se continui a vederla di frequente. Comunque sia, si tratta di una di quelle che basta il denaro a comprare». Il suo tono aveva ormai perso anche la minima traccia di eleganza. «Basta con queste assurdità! Con accanto una donna come te, ti sembro il tipo da correr dietro alle altre? E mai successo una sola volta che abbia avuto a che fare con un'altra donna? Siamo troppo vecchi per farci ancora delle scenate di gelosia. Smettiamola di scherzare». Convinto che le sue spiegazioni avessero avuto un effetto addirittura inatteso, in cuor suo Suezō cantava già yittoria. «È che alle donne piacciono quelli come te, e io mi preoccupo tanto». «Già! Com'è vero che "a ogni uccello il suo nido è bello" !». «Cosa vuoi dire?». «Dico che per amare uno come me, non ci volevi che tu. Come? È l'una passata! A letto, a letto!».
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Sebbene le spiegazioni date da Suezō mescolando verità e finzione fossero riuscite per il momento a spegnere la fiamma della gelosia nel cuore della moglie, era chiaro che l'effetto di quelle parole non era che un palliati/:: fintantoché la persona che viveva effettivamente a Muenzaka avesse continuato ad abitarci, pettegolezzi e maldicenze non sarebbero cessati. Persino la domestica si lasciava sfuggire con la moglie frasi come: «Anche oggi sembra che il Tale abbia visto entrare il signore in quella casa...». In ogni modo, Suezō non era mai a corto di pretesti. Se la moglie gli chiedeva perché dovesse sempre trattare i suoi affari la sera, rispondeva che non si era mai visto discutere un prestito di buon mattino. Se insisteva nel sapere perché, allora, fino a quel momento non era stato così, ribatteva che in passato il suo volume d'affari non era mai stato tanto ampio. In effetti, fino al suo trasloco a Ikenohata, Suezō aveva sempre fatto tutto da solo, ma ora, in aggiunta a una sorta di ufficio nei pressi dell'abitazione, aveva aperto una succursale
nella zona di Ryūsenjimachi, di modo che gli studenti che desideravano un prestito potessero rivolgersi là senza doversi spingere lontano. Chi aveva bisogno di denaro a Nezu si precipitava nell'ufficio principale, mentre quelli di Yoshiwara si servivano della sede staccata34. In seguito fu stabilito un accordo tra l'agenzia di Suezō e una casa d'appuntamenti di Yoshiwara, la Nishinomiya, per cui i clienti di Yoshiwara potevano divertirsi anche senza disporre al momento di contanti. Davvero era stata approntata una sorta di organizzazione militare per l'esercito dei libertini. La vita di Suezō e della moglie proseguì per poco più di un mese senza nuovi scontri tanto gravi da mutare il loro disaccordo in qualcosa di peggio. Per il momento, dunque, i sofismi di Suezō avevano avuto la meglio. Ma un giorno la rovina giunse in modo del tutto inatteso. Approfittando del fatto che il marito si trovava in casa, Otsune lo avvertì che andava per compere a Hirokōji finché durava il fresco del mattino, e uscì accompagnata dalla domestica. Sulla via del ritorno, questa la tirò piano da dietro per la manica del kimono, e quando si voltò a guardarla dicendole in tono di rimprovero: «Cosa c'è?», a gesti le indicò una donna che si trovava di fronte a un negozio alla loro sinistra. Un po' controvoglia, Otsune guardò in quella direzione e senza volerlo si fermò: in quell'istante la donna si voltò e i loro sguardi s'incrociarono. All'inizio Otsune la prese per una geisha. Sé di una geisha si trattava, in un lampo decise che in tutto Sukiyamachi di certo nessuna era degna di starle alla pari. Un istante dopo si avvide però che le mancava qualcosa che una vera geisha possiede, un qualcosa che non riusciva a definire. Se dovessimo tentar di
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spiegare questo qualcosa, diremmo che è una certa affettazione dei modi. Nell'indossare un abito, ad esempio, una geisha è sempre splendida ed elegante, ma di un'eleganza in cui si cela immancabilmente un che di artificioso, atteggiamento che esclude la timidezza e la modestia. Quel qualcosa che agli occhi di Otsune mancava nella donna, era appunto un tale comportamento. La donna ferma davanti al negozio si era accorta, quasi per istinto, che qualcuno aveva arrestato il passo proprio accanto a lei; voltandosi, però, non aveva notato nulla di particolare nelle due passanti e, appoggiato il parasole tra le ginocchia leggermente accostate, aveva tratto dall'obi il borsellino e vi scrutava, la testa piegata, in cerca di qualche spicciolo. Il negozio in questione si trovava sul lato sud di Nakachō e si chiamava Tashigaraya, nome sul quale qualcuno scherzava: «Tashigaraya, letto alla rovescia, Yarakashita [l'ha combinato!]».Vi si vendevano polveri per i denti in sacchettini di carta rossa con impressi caratteri in oro. A quell'epoca, quando ancora non si importava dall'Occidente la pasta dentifricia, le sole polveri di qualità che non scorticassero le gengive erano quelle al profumo di peonia del Kaōsan di Kishida e quelle del Tashigaraya. La donna davanti al negozio non era altri che Otama, di ritorno da una visita al padre di buon mattino, fermatasi lì per acquistare di quella polvere. Quando Otsune ebbe fatto soltanto quattro o cinque passi, la cameriera le sussurrò all'orecchio: «E lei, signora. È la donna di Muenzaka». Con sua grande sorpresa la padrona si limitò ad annuire in silenzio, come se quelle parole non le avessero fatto un effetto particolare. Nell'istante medesi110
mo in cui aveva deciso che non doveva trattarsi di una geisha, Otsune aveva intuito che si trovava di fronte alla donna di Muenzaka. A ciò contribuì anche la convinzione che la domestica non l'avrebbe tirata per la manica solo per indicarle una bella donna. Tuttavia, un particolare inatteso aveva finito per darle la conferma: il parasole che Otama teneva tra le ginocchia. Un giorno, circa un mese prima, di ritorno da Yokohama, Suezō le aveva portato in regalo un parasole dal manico molto lungo, mentre la parte in stoffa era relativamente corta. Sarebbe andato a pennello a un'occidentale alta di statura, per giocherellarci andandosene a spasso; ma quando Otsune, che era bassa e rotondetta, provava a sfoggiarlo, dava l'impressione, per usare un'immagine un po' caricaturale, di portare in giro un panno steso ad asciugare su di una pertica. Perciò lo aveva messo da parte senza mai usarlo. Era di stoffa a sottili strisce color indaco su fondo bianco, e Otsune fu certa di riconoscerlo nel parasole della donna davanti al Tashigaraya. Nel momento in cui svoltarono l'angolo di una rivendita di sake in direzione dello stagno, credendo di compiacere la padrona la ragazza osservò: «Signora, non è poi così bella! Ha un viso insignificante, ed è anche troppo alta». «Non è il caso di dire cose simili» tagliò corto Otsune e, non volendo continuare il discorso, affrettò il passo. Delusa, la domestica le tenne dietro con aria contrita. Otsune aveva il cuore in tumulto. Non le riusciva di pensare con chiarezza, né sapeva come si sarebbe comportata con Suezō o che cosa gli avrebbe detto. Eppure sentiva che non avrebbe potuto fare a meno di affrontarlo subito e gridargli tutto in faccia. Conti111
nuava a rimuginare: era stata così felice di ricevere quell'ombrellino! Fino a quel giorno Suezō non le aveva mai comprato niente se lei non glielo chiedeva. Le era parso strano che le regalasse qualcosa in quell'occasione, ma ancora più strana era la sua improvvisa gentilezza. A ripensarci ora, probabilmente aveva portato un ombrellino in regalo da Yokohama su richiesta di quella donna, e a lei ne aveva comprato un altro uguale. Doveva essere andata così. «E pensare che, all'oscuro di tutto, gli ero così grata di avermi portato quel parasole che neppure posso sfoggiare! Ma non si tratta solo del parasole: scommetterei che anche gli abiti e gli ornamenti per l'acconciatura di quella là sono pagati con i suoi soldi! Come non hanno nulla a che vedere tra di loro quest'ombrello di satin che ho in mano e quel parasole d'importazione, così i miei vestiti e i suoi non potrebbero essere più diversi. Non è solo per me che mi preoccupo. Ogni volta che vorrei fare un abito nuovo ai bambini, si tira sempre indietro: per il maschio un solo kimono va benissimo, dice, e quanto alla bambina, sarebbe buttar via il denaro fargliene di nuovi finché non cresce. Vorrei proprio sapere quante mogli e figli di ricchi vanno in giro conciati come noi. Ah, ma a pensarci ora, è quella donna che dobbiamo ringraziare se ci trascura tanto. Quanto al fatto che sia l'amante di quel tale Yoshida, inutile perfino chiedersi se è vero. Forse Suezō la mantiene sin dall'epoca di Nanamagari. Giurerei che è così che stanno le cose! Da quando il suo giro d'affari è aumentato si è dato a spendere in vestiti e oggetti di lusso, e si giustifica con le sue nuove conoscenze... ma è per via di quella là! Non mi porta mai da nessuna parte, ma quella la porta certo dove vuole! Ah, che rabbia!».
«Ma signora, dove sta andando?». Otsune si fermò sbigottita. Camminando di fretta e a testa bassa, immersa nei suoi pensieri, stava per andar oltre l'ingresso di casa. La cameriera rise senza ritegno.
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Quando Otsune, dopo aver sbarazzato la tavola dei resti della colazione, era uscita a fare spese, aveva lasciato Suezō intento a fumare e a leggere il giornale, ma al suo ritorno non lo trovò più in casa. Rientrata con il desiderio di affrontarlo subito, di lanciarglisi contro e dire quel che le passava per la testa, anche se non aveva ben chiaro che cosa, Otsune restò delusa. In quel momento doveva preparare il pranzo e finire di cucire i kimono foderati per i bambini, che presto ne avrebbero avuto bisogno. E mentre attendeva meccanicamente alle incombenze quotidiane, a poco a poco la violenza dell'attacco che aveva meditato di sferrare contro il marito svanì. Le era accaduto spesso di partire lancia in resta, affrontando Suezō decisa a caricare a testa bassa, come contro un muro di pietra, e di accorgersi con stupore che ogni volta quel muro, che sembrava dover resistere all'assalto, diventava una cortina di fumo contro la quale i suoi colpi andavano a vuoto. Quando ascoltava il marito fornire spiegazioni ap-
parentemente ragionevoli con la sua abile parlantina, non che le riconoscesse valide, ma finiva in qualche modo per lasciarsi convincere, senza capire il perché. Quel giorno era giunta alla conclusione che non le sarebbe riuscito neppure il primo attacco. Pranzò dunque insieme ai bambini, pose fine a un litigio tra di loro, poi riprese a cucire i kimono foderati. Quindi si mise a preparare la cena. Fece il bagno ai figli e ne prese uno lei stessa. Cenarono tenendo acceso uno zampirone contro le zanzare. Poi i bambini uscirono a giocare; una volta stanchi, rientrarono. La cameriera venne dalla cucina per stendere i futon al solito posto e appendere la zanzariera. Otsune mandò i figli a lavarsi le mani e li mise a letto. Coprì la cena di Suezō con un tovagliolo per tenere lontane le mosche e collocò il bollitore di ferro sul braciere, che portò nella stanza vicina. Tutte le volte che Suezō non tornava in tempo per la cena, faceva così. Eseguì tutte queste azioni come un automa. Infine sedette sotto la zanzariera con un ventaglio in mano. Allora le si presentò con chiarezza la scena di Suezō che, in quello stesso istante, si trovava in casa della donna vista la mattina. Sentiva di non riuscire a star ferma, di non poter rimanere seduta; mentre si tormentava, indecisa sul da farsi, avrebbe voluto incamminarsi fino alla casa di Muenzaka. Recandosi un giorno nel negozio Fujimura per comprare i manjūy': che i bambini adoravano, le era capitato di passare accanto a quella casa, vicina al laboratorio di taglio e cucito, e di riconoscerla dall'ingresso con la grata in legno. Improvvisamente desiderò di recarsi fin là. Nella luce fioca che si spandeva all'esterno, li avrebbe uditi parlare con voce sommessa. Per questo soltanto avrebbe voluto arrivare fin laggiù. No, no, impossibi-
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le... Per uscire avrebbe dovuto passare per il corridoio, accanto alla camera della domestica, e in quel periodo gli shōji erano stati rimossi. Di certo Matsu doveva essere ancora in piedi, occupata a cucire, e se le avesse chiesto dove se ne andava a quell'ora, non avrebbe saputo che rispondere. Se avesse detto che andava a comperare qualcosa, si sarebbe offerto di farlo lei stessa. Pur volendo uscire a tutti i costi, di nascosto non le sarebbe mai riuscito. Che fare? Tornando a casa quella mattina, non desiderava che vedere Suezō il prima possibile; ma quand'anche l'avesse incontrato, cosa gli avrebbe detto? Una come lei non avrebbe saputo che balbettare qualche frase incoerente; Suezō avrebbe usato parole abili e persuasive e l'avrebbe ingannata di nuovo. Non era possibile tenere testa a un uomo così intelligente. Forse era meglio non dire nulla, ma se anche avesse taciuto, che cosa cambiava? Con accanto una donna così bella, certo di sua moglie non gli importava più niente. Che doveva fare? Che doveva fare? Continuò a rimuginare gli stessi pensieri, ritornando sempre al punto di partenza, finché non si sentì del tutto confusa e sbigottita. Decise comunque che non andava affrontato di petto: non ne avrebbe ricavato niente di buono. In quel mentre il marito rientrò. Otsune, per darsi un contegno, rimase in silenzio, tormentando l'impugnatura del ventaglio che aveva ripreso in mano. «Che succede? Ancora quell'aria strana!». Sebbene non gli avesse rivolto l'usuale «Bentornato», Suezō non se la prese. Quella sera era di buon umore. La donna continuava a tacere. Pur essendosi ripromessa di evitare lo scontro, alla vista del marito una rabbia cieca l'aveva assalita di nuovo: sentì che non poteva fare a meno di sfidarlo.
«Stai ancora pensando a quel mucchio di sciocchezze, eh? Lascia perdere, via». Le batté due tre volte sulla spalla, quindi si sedette al suo posto. «Penso a quel che mi conviene fare. Se anche volessi andarmene, non ho una casa dove tornare. E poi ci sono i bambini». «Come? Che vorresti fare? Non c'è proprio niente che devi fare. Tutto va nel migliore dei modi». «Di' pure quello che vuoi. Tanto sono io, io sola, che devo trovare una soluzione». «Ma che dici? Di quale soluzione parli? Non hai bisogno di trovare nessuna soluzione, basterà che tutto resti com'è». «Prenditi gioco di me finché vuoi! Tanto, che io ci sia oppure no per te è lo stesso, della mia presenza non ti curi. Anzi, non è lo stesso: di sicuro preferiresti che non ci fossi!». «Ma che idee contorte! Sarei più felice se tu non ci fossi, dici? Come ti sbagli. Senza di te sarebbe un bel guaio. Anche solo per i bambini: chi baderebbe a loro?». «Dopo di me se ne occuperà una graziosa mammina. Certo, così diventeranno degli orfani...». «Non capisco. Visto che siamo vivi entrambi, perché dovrebbero diventare orfani?». «Come no. Sei proprio tanto sicuro? Che faccia tosta! Quindi per te tutto continua come prima?». «Ci puoi giurare!». «Ah sì? Regalando un ombrellino alla bella e uno alla bestia, vero?». «Ehi! Ma di che parli? Di che razza di commedia vai cianciando?». «Una commedia, si capisce! Non sono mica adatta per i ruoli drammatici, io!».
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«Vorrei anch'io che la smettessi con questa farsa e prendessi un tono più serio! Che c'entrano gli ombrelli?». «Lo sai benissimo!». «Cos'è che dovrei sapere? Non ci capisco più niente!». «Te lo dirò io, allora. Ricordi quell'ombrellino che mi hai portato da Yokohama?». «Sì, e allora?». «Quella volta l'ombrellino non l'hai comprato solo per me!». «Se non era solo per te, a chi altri dovrei averlo portato?». «No, non ho detto questo. Nel momento in cui compravi un ombrellino per quella donna di Muenzaka, hai pensato di prenderne uno anche per tua moglie, non è così?». Già da qualche istante Otsune parlava in realtà dell'ombrellino, ma nell'affrontare in concreto l'argomento sentì rimontare in lei la collera. «Bel colpo!» verrebbe quasi da dire, a tal punto aveva fatto centro. Difatti Suezō, pur fingendo meraviglia, dentro di sé era trasalito. «Ma che sciocchezze! Vorresti dire che l'ombrellino che ti ho regalato e quello della donna di Yoshida sono uguali?». «Dal momento che ne hai comprati due uguali, è logico che abbiamo lo stesso ombrellino!», strillò Otsune con voce fattasi più acuta. «Ma finiscila di scherzare! Di che stai parlando? In effetti, quando comperai l'ombrellino a Yokohama, mi dissero che si trattava dei primi campioni di merce, ma ora li venderanno a ogni angolo di Ginza. Davvero questa è quella che a teatro si chiama "un'ignobile
accusa" ! E poi, dimmi, per caso hai visto da qualche parte quella donna? E come l'hai riconosciuta?». «L'ho riconosciuta, certo. Tutti nel quartiere la conoscono: è così bella!». La voce di Otsune ribolliva di rancore. Fino a quel giorno, quando Suezō si protestava innocente, gli aveva creduto senza pensarci più di tanto, ma ora l'intuizione era troppo forte: sentiva che era tutto vero, come se i fatti si fossero svolti sotto i suoi stessi occhi, e di fronte alle scuse del marito non si domandava neppure più se fossero plausibili. Frattanto Suezō continuava a chiedersi come avesse potuto la moglie incontrare Otama, e se le avesse parlato; capiva, tuttavia, che approfondire l'argomento era controproducente, perciò si guardò bene dal fare altre domande. «Così bella, dici? Bella, una donna come quella? Ha uno strano viso, piatto e insignificante». Otsune non rispose, ma le parole del marito, che trovava dei difetti nel viso della donna da lei detestata, servirono in qualche modo a calmarla. I due si riconciliarono la sera stessa, dopo quella discussione così animata. Tuttavia nel cuore della donna restò una pena, come se non le riuscisse di togliere la spina che vi si era conficcata.
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In casa di Suezō l'atmosfera andava facendosi sempre più pesante e cupa. Spesso Otsune rimaneva immobile a fissare il vuoto, incapace di mettersi al lavoro. In momenti simili non le riusciva di fare niente, neppure di badare ai figli, e se essi le chiedevano qualcosa, subito li rimproverava aspramente. Accorgendosi poi di averli sgridati senza motivo, a volte si scusava con loro, a volte invece scoppiava in lacrime una volta rimasta sola. Persino quando la domestica veniva a domandarle che cosa doveva preparare per il pranzo, non le rispondeva o si limitava a dire: «Fa' quello che vuoi». A scuola i bambini erano tenuti in disparte dai compagni perché figli di un usuraio, ma fino ad allora Suezō, che era amante della precisione, grazie alle cure della moglie aveva sempre fatto in modo che si presentassero ben vestiti e in ordine dalla testa ai piedi. Ora invece giocavano in strada con i vestiti sdruciti e i capelli sporchi e arruffati. La domestica, pur deplorando il fatto che la padrona si trovasse in tale stato, come un cavallo montato
da un cattivo cavaliere si impigrisce e si ferma a brucare l'erba lungo la strada invece di galoppare, si faceva di giorno in giorno più trascurata, e lasciava che il pesce marcisse e le verdure si seccassero in dispensa. Nel vedere in casa sua un simile disordine, Suezō, che avrebbe voluto che tutto funzionasse a puntino, soffriva molto; capiva però quale era l'origine e, sapendosi colpevole, non osava lamentarsi. In passato, quando rimproverava Otsune, era solito usare un tono leggero e quasi scherzoso, compiacendosi di indurla a riflettere sui suoi errori, ma ora quell'atteggiamento benevolo sembrava soltanto irritarla ancor di più. Senza darlo a vedere, prese a sorvegliare il comportamento della moglie, e fece così una scoperta inaspettata. Quando lui era in casa, la sua bizzarria non aveva limiti, mentre quando era fuori, come risvegliandosi dal suo torpore, attendeva più o meno normalmente alle sue incombenze. Una volta compreso il motivo degli sbalzi di umore dai discorsi dei figli e della domestica, dapprima se ne meravigliò, ma poi la sua fertile mente cominciò a lavorare: «Dal momento che sono io che le ho fatto del male, finché mi vede, è come se avesse davanti agli occhi la causa della sua strana malattia. Ho un bel darmi da fare perché non si senta trascurata o trattata con freddezza: se è proprio quando sono accanto a lei che il suo umore si guasta, è il caso di dire che il rimedio è peggiore del male. Al diavolo queste sciocchezze! D'ora in poi proverò a fare l'esatto contrario». Prese dunque l'abitudine, di tanto in tanto, di uscire di casa prima del solito e di rientrare più tardi. I risultati furono pessimi. All'inizio, nel vederlo uscire così presto, Otsune si limitò a fissarlo con stupore, senza dir nulla. La prima volta che rientrò tardi, inve-
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ce del solito atteggiamento passivo che consisteva nel tenergli il muso, ormai al limite della pazienza e come incapace di sopportare il minimo sgarbo, gli diede addosso: «Dove sei stato finora?», e scoppiò in un pianto violento. In seguito quando lo vedeva prepararsi per uscire presto, chiedeva dove stesse andando e tentava di trattenerlo, senza riuscirci. Se le diceva dove era diretto, lo accusava di mentire. Se infine faceva per uscire senza più badarle, lo implorava di rimanere anche solo per un momento, perché c'era qualcosa che doveva assolutamente chiedergli. Gli si aggrappava al vestito, gli sbarrava il passo verso la porta nel tentativo di impedirgli di uscire, e tutto questo sotto gli occhi della cameriera. Nonostante l'abitudine di buttare sul ridere qualsiasi fatto spiacevole per non avvelenare l'atmosfera familiare, a volte Suezō arrivava a respingerla con violenza per liberarsi della sua stretta, così che Matsu vedeva lo spettacolo riprovevole di Otsune gettata a terra in malo modo. A quel punto, non gli restava che lasciarsi trattenere docilmente in casa e disporsi ad ascoltare le richieste della moglie, che gli sottoponeva però quesiti difficilissimi, impossibili da risolvere in un sol giorno, come: «Che cosa intendi fare di me?» oppure «Se continuiamo così, che cosa mi accadrà?». In breve, la terapia di uscir presto e rientrar tardi sperimentata per guarire Otsune dalla sua malattia si era rivelata un completo fallimento. Suezō ricominciò a far lavorare il cervello. L'umore di mia moglie peggiora quando sono in casa. Se però provo a uscire, cerca di trattenermi con la forza. Se agisce così, lo fa per tenermi in casa e al tempo stesso per irritare se stessa. A questo proposito mi viene in mente un fatto. Al tempo di Izumibashi, tra gli stu-
denti a cui prestavo denaro ce n'era uno di nome Ikai. Aveva l'aria di non preoccuparsi affatto di come andava vestito, portava zoccoli alti sui piedi nudi e camminava tenendo la spalla sinistra sempre un po' rialzata. Non c'era modo di fargli restituire mai un soldo, riusciva ogni volta a svicolare senza neppure rinnovare la cambiale. Ma un bel giorno lo bloccai all'angolo del vicolo Aoishi. «Dove sta andando?», gli feci. «Proprio qui accanto, dal maestro di jūjutsu. Per quel nostro affare, ci rivediamo uno dei prossimi giorni...», e sgusciò via come un'anguilla. Io finsi di separarmi da lui e di riprendere la mia strada, ma di nascosto lo seguii e all'angolo dello stesso vicolo lo vidi entrare nel ristorante Iyomon. Scoperta la sua vera meta, tornai a sbrigare i miei affari sullo Hirokōji, e poco dopo entrai di sorpresa nel locale. Per qualche istante quel mascalzone restò, com'era ovvio, di sasso; ma subito, ricuperata la sua solita aria da smargiasso, mi trascinò nella sala dove era occupato a spassarsela con due geisha, dicendo: «Non essere sciocco e chiudi il becco: oggi beviamo qualcosa insieme!». Mi fece bere del sake e fu là, in quella sala, che vidi per la prima volta delle geisha. Una delle due - Oshun mi pare si chiamasse - elegante e bellissima, addirittura mi incantò. Era ubriaca e sedeva di fronte a Ikai: qualcosa in lui doveva averle dato ai nervi, tanto che cominciò a insultarlo. Ascoltai in silenzio le sue parole, che non ho più dimenticato: «Lei fa il grand'uomo, Ikai san, ma non è altro che un vigliacco. La avverto che nessuna donna può innamorarsi di un uomo che non sia capace di darle una lezione di tanto in tanto. Se lo tenga in mente». È probabile che ciò sia vero non solo per le geisha, ma che valga per tutte le donne. Negli ultimi tempi quella sciocca di Otsune mi vorrebbe incollato
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a lei; mi tiene sempre il muso e non fa che cercare la lite. E chiaro che vuole che faccia qualcosa. Vuole essere picchiata. Ma certo, è questo che vuole! Non ci sono dubbi. Fino a che non le davo da mangiare a sufficienza e la facevo lavorare come un bue, si era ridotta proprio come una bestia, senza nulla che ricordasse in lei la donna; ma da quando si è trasferita nella nuova casa, con una domestica che la chiama signora, e conduce una vita più umana, ha cominciato a trasformarsi in una donna come le altre. Ecco allora che, come diceva Oshun, sente il bisogno di una lezione. E io, invece? Finché sono riuscito a fare soldi, non mi è mai importato niente di quel che la gente diceva. Persino di fronte agli sbarbatelli che sanno ancora di latte m'inchinavo fino a terra e li chiamavo signori. Mi calpestassero, mi prendessero anche a calci se volevano, purché non perdessi un centesimo del mio denaro: così ho sempre vissuto. Ogni giorno, dovunque andassi, con chiunque avessi a che fare, strisciavo e mi appiattivo come un ragno davanti agli altri. Nel frequentare la società, si osserva che chi è umile con i superiori diventa duro con gli inferiori, tiranneggia i più deboli di lui, e quando è ubriaco picchia moglie e figli. Ma per me non esistono superiori o inferiori. Basta che qualcuno mi faccia guadagnare del denaro e io sono pronto a inchinarmi e a strisciare davanti a lui. Quanto a tutti gli altri, mi sono indifferenti; non li prendo in considerazione, li lascio da parte. Non mi prendo neppure il disturbo di picchiarli: piuttosto che sobbarcarmi una fatica inutile, preferisco calcolare gli interessi sui prestiti. Allo stesso modo ho sempre trattato anche Otsune. Ora però quella stupida ha voglia di essere maltrattata. Beh, tanto peggio per lei: questa
è una cosa che proprio non posso fare. Chiedetemi di strizzare un debitore come un limone fino a farne colare tutto il succo: questo lo so fare. Ma picchiare qualcuno, fosse pure mia moglie... no, no, non fa per me. Queste le riflessioni di Suezō.
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La gente cominciò a passare per Muenzaka sempre più di frequente. Era ormai settembre, il periodo in cui riprendevano le lezioni all'Università, e frotte di studenti tornavano dai loro paesi alle pensioni del quartiere di Hongō. La mattina e la sera l'aria rinfrescava, ma le giornate a volte erano ancora piuttosto calde. In casa di Otama le tendine di bambù ancora verde, che avevano sostituito quelle usate al momento del trasloco, non avevano avuto il tempo di scolorire, e chiudevano ermeticamente all'interno, dall'alto in basso senza lasciare interstizi, la grata in bambù della finestra a balconcino. Lì dietro, Otama si annoiava a morte. Appoggiata a un infisso, alla cui estremità superiore si trovava un incavo con infilati alcuni ventagli ornati da disegni di Gyōsai e Zeshin36, osservava la strada con occhio distratto. Dopo le tre era la volta degli studenti in gruppi di tre o quattro. Al loro arrivo, ogni volta, dalla casa dell'insegnante di cucito si levavano assai più vivaci e festose le voci delle ragazze, simili al cin-
guettio dei passeri. Attratta da quel brusio, di tanto in tanto anche Otama dava un'occhiata in strada per vedere chi stesse passando. Sette-otto su dieci degli studenti del tempo erano di quei tipi gagliardi che in seguito vennero definiti «progressisti»37, e quasi mai avevano l'aria di gentiluomini, tranne quelli che erano prossimi alla laurea. I bei ragazzi dal colorito pallido e dai tratti regolari apparivano un po' leggeri e snob, e non ispiravano grande simpatia. Quanto agli altri, poteva darsi che tra loro si trovasse qualcuno che eccelleva negli studi, ma a occhi femminili apparivano tutti ugualmente rozzi e privi di attrattive. Malgrado ciò, non passava giorno senza che Otama osservasse il viavai degli studenti sotto la sua finestra. Un giorno sentì nascere nel suo cuore un qualcosa che la lasciò senza parole. Fu sorpresa dall'improvvisa comparsa di un insieme di fantasie che dovevano aver preso forma e trovato alimento nel suo inconscio già da tempo. Non avendo altro scopo nella vita che quello di rendere felice suo padre, Otama aveva fatto di tutto per convincerlo, lui così rigido e severo, quando aveva accettato di diventare una mantenuta. Considerando che per forza di cose doveva in qualche misura svilirsi, cercava una sorta di consolazione nel lato altruistico del suo gesto. Venuta però a sapere che l'uomo che credeva un gran signore non era altro che un usuraio, la vita divenne per lei troppo crudele. Perciò, non riuscendo da sola a scacciare quell'indefinibile pena che le pesava sul cuore, aveva voluto aprirsi al padre perché potesse dividerla con lei. Ma quando aveva visto com'era serena la sua nuova vita nella casa di Ikenohata, le era mancato il coraggio di versare anche una sola goccia di veleno nella sua tazza di tè. Per quanto
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grande fosse la sua sofferenza, decise di tenere il dolore dentro di sé; presa questa risoluzione Otama, che fino a quel giorno si era sempre affidata a qualcuno, si sentì per la prima volta indipendente. Da quel momento prese a sorvegliare il proprio modo di parlare e di agire; anche l'accoglienza che riservava a Suezō, che fino ad allora era stata franca e senza riserve, si fece meno spontanea. In quei momenti il suo spirito diventava libero, come distaccato dal corpo: si poneva da un lato e osservava tutta la scena, facendosi beffe sia di Suezō sia di se stessa che si metteva al suo servizio. Quando sperimentò per la prima volta una tale sensazione, Otama ebbe un brivido; ma col passar del tempo ci si abituò, e si convinse che era proprio questo quel che doveva provare. Anche se accoglieva Suezō in modo sempre molto caloroso, in realtà si andava estraniando da lui. Non si sentiva più in debito per il fatto che la manteneva, né riconoscente per la cura che si prendeva di lei; sentiva che era ormai inutile darsi pena per lui. Al tempo stesso, pur non avendo ricevuto nessun tipo di formazione o di educazione, capiva quanto frustrante sarebbe stato dover finire i suoi giorni come un trastullo nelle mani di un uomo simile. Per questa ragione aveva preso a osservare il passaggio degli studenti sotto la sua finestra, arrivando a immaginare che un giorno un giovane e fido cavaliere l'avrebbe tratta in salvo dalla sua attuale condizione. E quando di colpo prese coscienza di tali fantasticherie ne rimase sconcertata.
finestra; eppure notò che, nonostante fosse un bellissimo ragazzo dalle guance rosee, non sembrava fatuo e neppure pieno di sé e, senza un motivo, cominciò a credere che fosse dotato di una personalità notevole. Da allora si ritrovò ad aspettare il suo passaggio ogni volta che guardava in strada. Non ne conosceva ancora il nome, né sapeva dove abitava, ma quando i loro sguardi si incrociavano Otama provava nei suoi confronti un sentimento spontaneo di intimità. Un giorno all'improvviso gli rivolse un sorriso, ma non si trattò che di un istante in cui i nervi avevano ceduto ed ella aveva perduto il controllo di sé: timida per natura, non avrebbe mai avuto il coraggio di tentare un approccio deliberato. Quando Okada per la prima volta la salutò togliendosi il berretto, sentì che il cuore le balzava in petto e avvampò di rossore. Le donne hanno un intuito straordinario. Otama sapeva per certo che non se l'era tolto di proposito, ma per un impulso improvviso. Era però raggiante di felicità per questo rapporto muto e incerto, nato al di là della tendina di bambù, e che segnava per lei l'inizio di una nuova époque. Perciò nella sua fantasia non si stancava mai di rivedere l'atteggiamento di Okada nel preciso istante in cui le aveva rivolto il saluto.
Lo sguardo che Otama incrociò in quel particolare momento fu quello di Okada. Non era alla fin fine che uno dei tanti studenti che passavano sotto la sua
L'amante che vive in casa del suo protettore non corre grandi pericoli, ma la mantenuta che risiede in un'altra casa va incontro a difficoltà assai maggiori. Un giorno si presentò da Otama un uomo sulla trentina che indossava uno shirushi banten rovesciato, dicendo che nel tornare a Shimōsa, dove abitava, non aveva più potuto proseguire per un improvviso dolore
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ai piedi, e domandò un'offerta. Otama avvolse nella carta un pezzo da dieci sen e glielo fece consegnare da Ume, ma quando l'uomo aprì l'involto ebbe un sorrisetto ironico e gridando: «Come? Soltanto dieci seni», gettò via la moneta dicendo che doveva trattarsi di un errore e che tornasse dalla padrona a informarsi. l'uomo però le tenne dietro senza complimenti e sedette accanto al braciere, di fronte a Otama, che era occupata ad aggiungere del carbone di legna. Cominciò a parlarle in modo confuso e sconnesso, poi attaccò una lunga tiritera sul periodo trascorso in prigione, e ora sembrava vantarsene, ora invece si lamentava. Puzzava di sake da dare il voltastomaco. Impaurita, Otama represse il desiderio di piangere e gli mise sotto il naso due banconote azzurre da cinquanta sen, di quelle in uso allora e simili a carte da gioco, le avvolse in un pezzo di carta e gliele porse senza dir parola. Contro ogni aspettativa, l'uomo parve del tutto soddisfatto di quel gesto, e dicendole: «Ah, sorellina, se di mezzi yen me ne dai due, va proprio bene. Tu sì che le capisci le cose, farai strada nella vita!» se ne andò con passo malfermo, cercando di camminare dritto. In seguito a questo incidente Otama, non sopportando più l'angoscia di vivere sola, imparò a conquistarsi le simpatie dei vicini: prese l'abitudine, ogni volta che preparava qualche piatto speciale, di mandare Ume con una porzione per l'insegnante di cucito della casa accanto, che pure abitava sola. La donna si chiamava Otei e, sebbene avesse passato i quaranta, aveva un bellissimo incarnato e un non so che di molto giovanile. Le raccontò di esser stata 130
fino ai trent'anni a servizio nella casa dei nobili Maeda, e di aver poco dopo perduto il marito. Parlava un linguaggio forbito e scriveva in un elegante stile oie38. Quando Otama espresse il desiderio di impratichirsi anche lei nella calligrafia, le prestò alcuni libri per gli esercizi. Un mattino Otei, passando per la porta sul retro, Ume entrò a ringraziarla per un piatto avvampò, che le aveva raccolse fatto la moneta e r avere il giorno prima. Dopo qualche minuto che conversavano in piedi, la donna se ne uscì con un: «Lei conosce il signor Okada, vero?». Otama non aveva mai sentito questo nome; pure, come un lampo l'attraversò il pensiero che Otei si riferisse allo studente che la salutava, che se le aveva rivolto quella domanda doveva averlo visto mentre le rivolgeva il saluto, e che in tal caso, anche se la cosa la indispettiva, non le rimaneva che fingere di conoscerlo davvero. Perciò, dopo un istante di esitazione, ma appena in tempo perché Otei non sospettasse di nulla, rispose che sì, lo conosceva. «Un bellissimo ragazzo, e dalla condotta irreprensibile a quanto dicono», seguitò Otei. «Lei lo conosce bene, mi sembra», arrischiò Otama. «La padrona della pensione Kamijō dice che nessuno degli studenti che abitano da lei è così per bene come Okada», e su queste parole l'insegnante di cucito si congedò. Otama fu felice di quella lode come se fosse stata rivolta a lei, e continuò a ripetersi senza sosta quei due nomi: «Kamijō, Okada».
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Le visite di Suezō a casa di Otama, invece di diminuire, si fecero sempre più frequenti. Oltre a venire da lei la sera, come era ormai sua abitudine, passava di tanto in tanto a orari irregolari. Il motivo era che la moglie non faceva che tormentarlo, strillando a ogni occasione: «Aiutami! Fa' qualcosa per me!», tanto da indurlo a fuggire appena possibile per recarsi a Muenzaka. In quei momenti tentava di persuadere Otsune che non c'era proprio nulla di cui preoccuparsi, che tutto poteva continuare come prima; ma la moglie ribatteva di non poter restare con le mani in mano, che d'altronde le era impossibile sia tornare dai suoi sia abbandonare i figli, che era ormai diventata vecchia, e insomma gli elencava tutti gli ostacoli che impedivano un cambiamento della loro vita attuale. Suezō continuava a ripeterle che era tutto a posto, e che non doveva preoccuparsi di nulla. La collera di Otsune cresceva allora fino a farsi incontenibile, e a questo punto egli se ne andava di casa. Per lui, così razionale per natura e abituato a considerare le cose secondo
logica, quanto la moglie andava urlando era privo di senso. Aveva l'impressione di vedere una persona angosciata e confusa che, posta in una stanza con un solo lato accessibile a cui dà le spalle e gli altri tre chiusi da pareti, si lamenti di non poter andare da nessuna parte. Non era forse spalancata, la porta dietro di lei? Perché non si voltava a guardare? Non riusciva a trovare altro da dire a una persona in una situazione simile. La vita che ora conduceva era per Otsune molto più facile che in passato, e da lui non aveva mai subito la minima angheria o costrizione. Per la verità Suezō non poteva negare l'affare di Muenzaka ma, al contrario di tanti altri uomini, non si era mai mostrato freddo o crudele verso la moglie, e la trattava anzi con maggior gentilezza e tolleranza di prima. Perché mai non capiva che per lei quella porta era ancora spalancata? In questi ragionamenti di Suezō c'era naturalmente una buona dose di egoismo. Poiché, se anche continuava a provvedere alle esigenze materiali di Otsune come in passato, se anche non aveva cambiato atteggiamento nei suoi confronti, era irragionevole chiederle di considerare alla stessa stregua un presente in cui aveva fatto la sua comparsa Otama e un passato in cui non esisteva. Non era forse Otama la spina nel fianco della moglie? E non dipendeva forse dalla volontà di Suezō di togliere quella spina per darle sollievo? Otsune non era mai stata capace di pensare secondo logica e non doveva avere una precisa coscienza di questi fatti, ma la porta, spalancata secondo Suezō, in realtà restava chiusa. Attorno a quella porta da cui Otsune avrebbe voluto scorgere la tranquillità per il presente e una speranza per il futuro gravava un'ombra densa e oscura.
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Un giorno, nel mezzo di una delle solite liti, Suezō uscì di casa alla chetichella. Dovevano essere le dieci di mattina passate da poco. Avrebbe voluto dirigersi subito verso Muenzaka, ma sfortunatamente quel giorno la domestica aveva accompagnato i bambini dalle parti di Shichikenchō, perciò svicolò di proposito verso Kiridōshi e, senza una meta precisa, si aggirò tra Tenjinchō e Gokenchō, l'aria affaccendata. Di tanto in tanto mormorava a mezza bocca qualche parola volgare, come «Merda!» o «Che vadano al diavolo!». Giunto che fu a Shōheibashi, vide una geisha venire in direzione opposta. Notando che aveva una certa rassomiglianza con Otama, la osservò mentre gli passava di fianco e si accorse che aveva il viso coperto di efelidi. Decise che Otama era assai più bella, e questo pensiero lo rese felice e soddisfatto; restò per qualche momento fermo sul ponte per seguire la donna con lo sguardo. Uscita forse per delle compere, la geisha con le efelidi svoltò in una stradina di una zona detta Kōbusho39 e scomparve. Vicino al Meganebashi (per quel tempo una costruzione che attirava l'attenzione) Suezō prese in direzione di Yanagihara e cominciò a vagabondare senza una meta precisa. Sulla riva del fiume, sotto un grande parasole aperto all'ombra di un salice, un uomo era intento a far eseguire un kapporem a una bambina di dodici o tredici anni. Come sempre la gente si era raccolta in un capannello tutt'intorno per guardare lo spettacolo. Quando si fermò un momento per dare anche lui un'occhiata, un tipo con uno shirushi hanten gli piombò quasi addosso e lo schivò per miracolo. Voltatosi a lanciargli uno sguardo penetrante, Suezō incontrò gli occhi dell'uomo, che subito gli girò la schiena e proseguì per la sua strada. Borbottando:
«Ma che maniere!», controllò all'altezza del petto con la mano che teneva dentro la manica: come aveva immaginato, non mancava nulla. Il ladruncolo certo non sapeva scegliere le proprie vittime, perché Suezō, nei giorni dei litigi con Otsune, aveva i nervi a fior di pelle e notava cose che di norma gli sarebbero sfuggite. La sua percezione, già acuta, si faceva straordinaria, al punto che sentiva la presenza di un borsaiolo prima ancora che gli si avvicinasse. In simili momenti Suezō, sempre così fiero del suo autocontrollo, perdeva un poco la capacità di dominarsi; ma in genere gli altri non se ne.rendevano conto. Forse se un osservatore dotato di eccezionale capacità di analisi lo avesse studiato con attenzione, avrebbe notato che diventava più loquace del solito, e che quando si intratteneva con qualcuno rivolgendogli parole in apparenza cortesi, c'era in quelle parole o in quei gesti un che di frettoloso e di innaturale. Avendo l'impressione che fosse passato parecchio tempo da quando se ne era fuggito di casa, nel tornare sui suoi passi Suezō trasse l'orologio di tasca e guardò l'ora. Erano appena le undici: neppure mezz'ora era trascorsa dacché era uscito. Di nuovo senza una meta, prese a camminare tra Awajichō e Jinbochō con l'aria di chi ha affari urgenti da sbrigare. Poco prima di Imagawakōji c'era allora un ristorantino che portava un'insegna con la scritta ochazuke. Per soli venti sen servivano un piatto unico di riso con tè e legumi sotto sale. Suezō conosceva il posto e pensò di fermarsi per il pranzo, ma era ancora presto. Superato il ristorante, voltò a destra e, poco prima del Manaitabashi, si ritrovò in un grande quartiere che non continuava allora in tutta la sua vastità, come oggi, fin sotto Surugadai, ma terminava nel pun-
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to in cui Suezō aveva svoltato, con una stradicciola stretta, ribattezzata da noi studenti di medicina «l'appendice», che passava davanti a un santuario, su di una colonna del quale c'era un'incisione di mano del calligrafo Yamaoka Tesshu41. Lo strano soprannome della stradina era dovuto al paragone tra il vasto quartiere prima del ponte con quel vicoletto senza uscita come prolungamento, e l'intestino cieco. Suezō attraversò il Manaitabashi. Sulla destra, dove si trovava una bottega che vendeva uccellini in gabbia, si udiva il festoso cinguettio di varie specie di volatili. Si fermò davanti al negozio, che esiste tuttora, per osservare i pappagalli e le cocorite nelle gabbie appese sotto la tettoia, e le colombe e i piccioni di Corea in quelle allineate a terra. Spostò poi lo sguardo sulle gabbie degli uccelli più piccoli, sovrapposte l'una sull'altra nel fondo della bottega. Quegli uccellini cantavano con voci più acute e svolazzavano per le gabbie più irrequieti degli altri. Le gabbie più numerose e animate erano quelle dei vivaci canarini gialli d'importazione. Guardando con attenzione, Suezō finì però per essere attratto da alcuni bengalini di un rosso intenso. D'un tratto gli venne in mente che sarebbe stata una bella cosa portarne a Otama perché li allevasse. S'informò del prezzo dal vecchio della bottega, che non pareva molto intenzionato a venderli, e ne acquistò una coppia. Quand'ebbe pagato, il vecchio gli domandò come li avrebbe trasportati. Chiese allora se nel prezzo era compresa anche la gabbia, e quello rispose di no. Dovette quasi supplicarlo di vendergliene una, in cui fece mettere i bengalini. Il vecchio infilò nervosamente la mano grinzosa in una gabbia in cui stavano parecchi uccelli, ne prese due e li mise in una gabbietta vuota. Alla domanda se riuscisse a ricono-
scere il maschio dalla femmina, l'uomo rispose di sì in modo sgarbato. Reggendo la gabbietta dei bengalini Suezō tornò indietro verso il Manaitabashi. Ora il suo passo era calmo e disteso; di tanto in tanto sollevava la gabbia per dare un'occhiata agli uccellini. Il nervosismo di quando era fuggito di casa dopo la lite con Otsune era svanito, come prosciugato al sole, e la gentilezza d'animo sopita in lui da qualche parte, riaffiorò. I bengalini, forse spaventati dalle continue oscillazioni, si tenevano stretti ai loro posatoi e restavano immobili, le ali ripiegate. Ogni volta che gettava uno sguardo alla gabbia, cresceva in Suezō il desiderio di portarla nella casa di Muenzaka e appenderla accanto alla finestra. Passando di nuovo per Imagawakōji, entrò nel ristorantino di ochazuke per pranzare. Poggiò la gabbietta dall'altro lato del vassoio laccato di nero che la cameriera gli aveva posto davanti, e osservando quant'erano graziosi i bengalini, non fece che pensare a quanto cara gli fosse Otama, tanto che quel pasto non proprio speciale gli parve una delizia.
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Gli uccellini che Suezō aveva regalato a Otama fornirono inaspettatamente l'occasione che permise a lei e a Okada di scambiare le prime parole. Procedendo nel mio racconto, mi torna in mente che tempo faceva quell'anno. Era la stagione in cui mio padre, che ora è morto, coltivava fiori autunnali nel giardino sul retro della sua casa di Kitasenjū. Un sabato che da Kamijō mi ero recato da lui, mi disse che, avvicinandosi il duecentodecimo giorno dell'anno 42 , aveva comprato un gran numero di piccoli bambù per incannucciarvi uno per uno gli ominaeshin, gli astri e tutti gli altri fiori del giardino. Venne il duecentodecimo giorno e passò senza danni. Trascorse tranquillo anche il duecentoventesimo, che pure dicono essere altrettanto pericoloso; ma da quel giorno le nuvole in cielo presero un aspetto sempre più minaccioso, presagio di tempesta. Di tanto in tanto faceva un caldo umido, come se l'estate fosse ritornata. Il vento di sud-est prendeva a soffiare forte, per poi ricadere. Mio padre di-
ceva che il duecentodecimo giorno stava «arrivando» poco per volta. La domenica sera feci ritorno alla pensione. Gli studenti erano tutti usciti, e Kamijō era calma e silenziosa. Me ne stavo in camera mia, perduto nelle mie riflessioni, quando dalla stanza vicina, che avevo creduto vuota, udii sfregare un fiammifero. Sentendomi solo, diedi una voce: «Okada, sei tu?». «Uhm». Dall'altra stanza solo un mugolio, che non seppi se interpretare come una risposta. Okada e io eravamo ottimi amici e tra noi non esistevano più formalità, ma quella sua replica, quella sera, mi parve molto strana. Pensai che, come io ero rimasto assorto nelle mie fantasticherie, così doveva aver fatto lui fino a quel momento, sprofondato in riflessioni. Al tempo stesso, però, ebbi voglia di vedere che aspetto avesse quando era così perduto nei suoi pensieri. Perciò lo interpellai nuovamente: «Ti spiace se vengo là da te?». «Non mi dispiace affatto, anzi. In realtà ero appena tornato e me ne stavo qui senza far nulla quando sei rientrato in camera facendo rumore; solo allora sono tornato in me e ho pensato di accendere la lampada». Questa volta la sua voce mi giunse ben chiara. Uscii nel corridoio e apersi lo shōji della sua stanza. I gomiti appoggiati sullo scrittoio, Okada guardava fuori, nel crepuscolo, dalla finestra aperta proprio di fronte al cancello in ferro dell'Università. La finestra era munita di barre verticali di ferro, e fuori, sulla striscia di terreno tra il muro e il canale di scolo, si ergevano due o tre cedri coperti di polvere. Si volse verso di me: «Che caldo umido anche oggi! Qui ci sono due o tre zanzare terribilmente fastidiose».
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Sedetti a gambe incrociate a un lato dello scrittoio. «Già. Mio padre pretende che il duecentodecimo giorno dell'anno stia arrivando a piccole dosi». «A piccole dosi, dici? Divertente! Del resto, può anche darsi. Prima nuvole e sereno si alternavano in cielo: ero indeciso se uscire o meno, e alla fine ho passato tutta la mattina disteso, a leggere il Jin Ping Mei che mi hai prestato. Poi, per schiarirmi le idee, dopo pranzo sono uscito a fare quattro passi, e mi è successo un fatto strano...». Okada pronunciò le ultime parole senza guardarmi, rivolto verso la finestra. «Che cosa è successo?». «Ho ucciso un serpente», disse tornando a fissarmi. «E tratta in salvo una bella fanciulla, magari?». «No, un uccellino, ma c'è di mezzo anche una bella fanciulla». «Molto interessante! Dai, racconta».
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Questo è quanto mi raccontò Okada. Le nuvole correvano rapide nel cielo e un vento furioso si era levato con impetuose folate che facevano turbinare la polvere nella strada; poi, passato mezzogiorno, era cessato. Okada, che aveva trascorso l'intera mattinata a leggere il romanzo cinese, sentiva la testa pesante e, uscito dalla pensione senza una meta precisa, per forza d'abitudine svoltò in direzione di Muenzaka. Aveva ancora il cervello annebbiato. Nei romanzi cinesi, infatti, e in particolare nel Jin Ping Mei, accade sempre così: dopo aver raccontato una storia molto tranquilla per dieci o venti pagine, lo scrittore passa a descrivere, come vuole la convenzione letteraria, fatti osceni. «Avendo appena letto un libro simile, dovevo avere proprio l'aria di un bruto!», esclamò. Poco dopo, giunto al punto in cui la strada costeggiava sulla destra il muro in pietra della residenza Iwasaki e scendeva impercettibilmente, vide sulla parte opposta una piccola folla. Si era raccolta proprio da141
vanti alla casa a cui lui, nel passare, riservava sempre un'attenzione particolare, ma questo Okada nel fare il suo racconto si guardò bene dal rivelarmelo. Il crocchio era formato soltanto da donne, forse una decina. Una buona metà erano ragazzine che discutevano animatamente, ciangottando come uccellini. Prima ancora di avere il tempo di capire di che si trattava, o che si risvegliasse in lui la minima curiosità, mosse qualche passo verso il gruppo spostandosi dal centro della strada. Lo sguardo di tutte quelle donne convergeva verso un unico oggetto: non fece che seguirlo, scoprendo così la causa dell'agitazione. Si trattava della gabbietta dei bengalini appesa in alto, alla finestra con la grata di bambù. Le donne avevano ben motivo di fare tutto quel chiasso. Okada stesso rimase di stucco nel vedere quel che accadeva all'interno della gabbia. Un bengalino batteva le ali e svolazzava freneticamente in quello spazio ristretto. Pensando che qualcosa doveva spaventarlo, guardò meglio e vide che una grossa biscia verde aveva infilato la testa nella gabbia. Sembrava fosse riuscita a incunearsi tra le sottili canne di bambù, ma, almeno a prima vista, non pareva averle spezzate. Si era aperta un varco della grossezza del suo corpo e vi aveva infilato la testa. Deciso a osservare meglio, avanzò di qualche passo e si fermò dietro il gruppetto delle ragazze, disposte spalla a spalla. Di comune accordo, quasi l'accogliessero come un salvatore, le donne gli aprirono un passaggio permettendogli di farsi avanti. Fu allora che si rese conto che nella gabbia non c'era un solo bengalino. Oltre a quello che batteva le ali svolazzando in ogni dove, ce n'era un altro dello stesso piumaggio che la biscia aveva già afferrato. Un'ala era ormai per intero nelle sue fauci,
e il bengalino, atterrito, sembrava già morto: l'altra ricadeva inerte e il corpo pareva un batuffolo di cotone. In quel momento una donna un poco più anziana delle altre, che aveva l'aria di essere la padrona di casa, si rivolse a Okada con tono ansioso, ma non senza un certo riserbo, domandandogli se poteva fare qualcosa. «Tutte queste ragazze, che erano nella casa vicina per la loro lezione di cucito, si sono precipitate in massa per aiutarmi, ma da sole che possiamo fare?». Una delle ragazze intervenne: «La signora, sentendo che gli uccellini facevano un gran baccano, ha aperto gli shōji e vedendo il serpente ha lanciato un grido; allora noi abbiamo abbandonato il lavoro e siamo corse fuori, ma non c'è niente che possiamo fare! La nostra maestra è assente, e se anche fosse qui, ha una certa età, e non potrebbe fare nulla neppure lei». L'insegnante di cucito, difatti, non faceva vacanza la domenica, bensì nei giorni che terminavano per uno o per sei, ed ecco perché quel giorno le sue allieve si erano riunite senza di lei. A questo punto del suo racconto, Okada disse: «La padrona di casa era una donna molto bella», senza però rivelarmi che la conosceva già di vista e che era la stessa a cui rivolgeva il saluto ogni volta che passava di lì. Prima di rispondere, si era quindi fatto sotto alla gabbia per osservare meglio. La gabbietta era appesa alla finestra, dalla parte della casa della maestra di cucito; la biscia doveva essere giunta dallo spazio tra le due case, poi, strisciando sotto la tettoia, aveva adocchiato i bengalini e si era infilata nella gabbia. Simile a una corda tesa, il suo corpo si allungava in diagonale rispetto alla trave della tettoia, mentre la coda rimane-
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va nascosta dal pilastro d'angolo. Era davvero molto lunga. Doveva aver vissuto nel giardino della residenza Kaga, invaso da una fitta vegetazione, e in seguito al cambiamento di pressione atmosferica degli ultimi giorni se ne era uscita, vagabondando per un po', fino a che non era arrivata a mettere l'occhio sui due bengalini. Okada esitò un istante senza saper che fare. Quelle donne non avevano torto nel dire che non potevano intervenire. Chiese: «Avete qualcosa di tagliente?». La padrona si rivolse a una delle ragazze: «Va' a prendere un coltello da cucina». La ragazza sembrava essere la sua domestica e, come le altre, indossava uno yukata sul quale era fissato, con punti nascosti di lana merino, un tasuki viola per tenere rialzate le maniche. Pensando forse che non fosse bene ammazzare un serpente con il coltello da pesce, fissò la padrona con uno sguardo carico di riprovazione, tanto che la donna aggiunse: «Non preoccuparti, te ne comprerò un altro». Avendo apparentemente compreso, la ragazza entrò di corsa in casa e tornò con il coltello. Come se non avesse aspettato altro, Okada lo afferrò e, liberatosi dei geta, poggiò il piede sul davanzale della finestra. La ginnastica, come ho detto, era il suo forte. La mano sinistra stringeva già la trave della tettoia; accortosi però che il coltello, seppur nuovo, non era molto affilato, non provò neppure a tranciare il serpente al primo colpo. Con la punta lo ricacciò contro la trave, quindi gli affondò la lama in corpo, rigirandola due o tre volte. Incontrando le scaglie, ebbe l'impressione di tagliare del vetro. La biscia aveva già inghiottito la testa dell'uccello afferrato per un'ala, ma, sotto i colpi del coltello, prese a oscillare con forza, senza tuttavia risputare la preda né ritrarre la testa
dalla gabbia. Okada non allentò la presa e, affondato il coltello ancora cinque o sei volte avanti e indietro, nonostante fosse poco affilato riuscì infine a tranciare in due il serpente, come un pezzo di carne sopra un tagliere. La metà inferiore del corpo, continuando a oscillare, cadde per prima con un tonfo nel canale di scolo sotto la tettoia, dove crescevano delle barbe di drago44. Quindi la parte superiore si staccò dall'architrave della finestra a cui si teneva e restò penzoloni con la testa infilata nella gabbia. Con ancora in gola metà boccone, la biscia si trovava con la testa incastrata tra i bambù piegatisi ad arco, ma non spezzati; sotto il peso di quel troncone penzolante, la gabbia si inclinò di circa quarantacinque gradi. All'interno il bengalino sopravvissuto, stranamente ancora provvisto di forze, continuava a girare su se stesso sbattendo le ali. Okada allentò la presa sulla trave a cui si era tenuto aggrappato, e con un balzo tornò a terra. Il gruppetto delle donne era rimasto a osservare con il fiato sospeso, ma poi due o tre che avevano resistito fino ad allora rientrarono nella casa dell'insegnante di cucito. «Per tirare via la testa del serpente bisogna calare la gabbietta», disse Okada guardando la padrona di casa. Difatti dalla metà recisa che penzolava dalle sbarre gocciolava sul davanzale del sangue nerastro: né la padrona né la domestica avevano però il coraggio di entrare in casa e staccare il cordoncino a cui la gabbia era appesa. In quel momento si udì una stramba voce: «Volete che tiri giù la gabbia?». Gli sguardi di tutti si volsero verso quella voce, che apparteneva al garzone della vicina rivendita di sake. Mentre Okada uccideva il serpente, il ragazzo, unico passante per Muenzaka in quel solitario pomeriggio domenicale, aveva assistito
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alla scena facendo dondolare una fiaschetta di sake e il taccuino degli ordini che teneva appesi a una cordicella. Quando poi la metà inferiore dell'animale era caduta nel canale di scolo il garzone, lasciati sake e taccuino, aveva raccolto un sasso con il quale aveva preso a colpire sulla ferita aperta, osservando con attenzione quel troncone ancora in vita che seguitava a dibattersi a ogni colpo. «Te ne sarei molto grata, ragazzo», lo pregò la padrona di casa. Il garzone entrò in casa assieme alla domestica attraverso la porta a grata. Subito dopo apparve alla finestra e, arrampicatosi sul davanzale su cui si trovava il vaso di omoto, sforzandosi al massimo si allungò fino a che riuscì a staccare dal chiodo il cordoncino che teneva sospesa la gabbia. Poi, visto che la cameriera si rifiutava di toccarla, scese dal davanzale e, tenendola sempre salda in mano, fu di nuovo in strada. «Dato che ho preso io la gabbietta, tocca a te pulire tutto quel sangue: ne è caduto anche sui fatami», disse fiero di sé il ragazzo alla domestica che l'aveva seguito fuori. «E vero, è meglio lavar via in fretta il sangue» convenne la padrona, e la cameriera sparì nuovamente dietro la porta a grata. Okada osservò la gabbietta in mano al garzone. Il bengalino sopravvissuto si aggrappava al posatoio tremando come una foglia. L'altro era stato per una buona metà inghiottito dalla biscia, che fino all'ultimo istante, persino mentre aveva il coltello affondato in corpo, non aveva voluto rinunciare alla preda. Il ragazzo guardò Okada e domandò se doveva estrarre il corpo della biscia dalla gabbia. «Sì certo, tirarlo fuori va bene, ma se prima non sollevi la testa fino a metà altezza della gabbia, rischi di rompere i
bambù che non si sono ancora spezzati», gli rispose ridendo. Il garzone estrasse abilmente la testa e con la punta delle dita tentò di tirar via per la coda il cadavere dell'uccellino. «Anche se è morto, non lo vuol mollare», disse. Le allieve della maestra di cucito che erano rimaste a osservare, pensando che non ci fosse più nulla da vedere, rientrarono nella casa vicina. «Bene, è tempo che vada anch'io», disse Okada guardandosi intorno. La padrona di casa, che pareva trasognata e assorta in qualche pensiero, a queste parole si voltò verso di lui. Accennò a dire qualcosa, ma dopo una breve esitazione distolse lo sguardo, scoprendo così una piccola macchia di sangue sulla mano dell'uomo. «Oh! Si è sporcato la mano» disse e, chiamata la domestica, fece portare all'ingresso una bacinella d'acqua. A questo punto del racconto Okada, senza descrivermi nei particolari l'atteggiamento della donna, commentò: «In quel momento ho pensato che doveva avere un occhio straordinario per scorgere quella macchiolina sul mio mignolo!». Mentre si lavava le mani, il garzone, che stava ancora tentando di estrarre il bengalino dalla gola del serpente, esclamò: «Che disastro!». In piedi accanto a Okada, con una mano poggiata sulla grata aperta e un asciugamano nuovo piegato nell'altra, la padrona guardò fuori: «Che succede, ragazzo?». Il palmo premuto contro la gabbietta, questi rispose: «L'uccellino rimasto stava per volare via dal buco aperto dalla biscia!». Okada terminò di lavarsi le mani e, asciugandosele nel telo che la padrona gli aveva porto, ordinò al ragazzo di non togliere la mano; poi chiese alla donna se aveva del filo resistente per far sì d'impedire all'uccello di scappare.
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La padrona rifletté un istante, poi disse: «Un cordoncino per i capelli andrebbe bene?». «Perfetto», rispose Okada. La donna ordinò alla domestica di portarle il cordoncino per i capelli che si trovava nel cassetto della specchiera. Okada lo prese e lo fissò in forma di croce nel punto in cui i bambù si erano piegati ad arco. «Per il momento il mio lavoro termina qui, vero?», e oltrepassò la soglia della casa. «Vi sono molto grata...», si limitò a dire la donna come se le mancassero le parole, e gli tenne dietro. Okada si rivolse al garzone: «Ragazzo, visto che hai già fatto un buon lavoro, ti spiace portarlo a termine e gettar via il serpente?». «Va bene. Lo butterò in un punto profondo del canale, ai piedi del pendio. Non avreste per caso una corda?» domandò, girando lo sguardo intorno. «Ho io una corda, te la darò subito. Aspetta solo un istante», intervenne la padrona e sussurrò qualcosa alla domestica. In quel mentre Okada rivolse alla donna un «arrivederci» e ridiscese Muenzaka senza voltarsi indietro.
Ma anche ammettendo che la cosa potesse finir così, doveva rimanere in lui qualche rimpianto. Dopo aver ascoltato il suo racconto, avevo soltanto osservato che aveva qualcosa di mitico, ma in realtà gli nascosi un altro pensiero che mi aveva sfiorato: cioè che, uscito da Kamijō dopo aver interrotto la lettura del Jin Ping Mei, Okada avesse finito per incontrare Jinlian45. Il nome di Suezō, un tempo bidello al dormitorio universitario, ora divenuto usuraio, era conosciuto da tutti noi studenti. Tuttavia, finché non si aveva bisogno di denaro in prestito, lo si conosceva solo di nome. Qualcuno ignorava dunque che la donna di Muenzaka era la sua mantenuta, e Okada era tra questi. Allora io non sapevo quasi nulla del passato di quella donna, ma soltanto che colui che la manteneva nella casa accanto al laboratorio della maestra di cucito era Suezō. Insomma, la mia conoscenza dei fatti superava di poco quella di Okada.
Terminato il suo racconto, Okada commentò guardandomi: «Che ne dici? Si trattava di una bella fanciulla, ma che fatica!». «Uhm. Uccidere un serpente per una donna sa di mitologico... Interessante: non credo che la storia finisca qui», conclusi esponendo onestamente il mio pensiero. «Non dire sciocchezze. Se non fosse finita, non te l'avrei raccontata» replicò Okada, senza apparente vanteria. 148
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Era il giorno in cui Okada le aveva ucciso quel serpente. Per essere riuscita a parlargli con familiarità, mentre sino ad allora si era limitata a salutarlo con lo sguardo, Otama avvertiva che i suoi sentimenti cambiavano in modo repentino e quasi stupefacente. Capita spesso che una donna, pur desiderando un oggetto, non si decida a comperarlo. Ogni volta che passa davanti a quella vetrina - che si tratti di un orologio, di un anello, o di qualsiasi altra cosa - si ferma a osservarlo. Non che esca con la precisa intenzione di guardare quella vetrina, ma trovandosi fuori per qualche affare da sbrigare, se le capita di passarvi davanti immancabilmente si ferma a dare uno sguardo. Il desiderio di possedere quell'oggetto, insieme al fatto di doversi rassegnare a non poterlo acquistare, induce in lei una lieve, struggente malinconia, che non le è del tutto sgradita. Prova anzi un certo piacere nell'assaporarla. Per contro, una donna che abbia deciso di acquistare un certo oggetto, soffrirà le pene dell'inferno. Ne sarà tormentata tanto da non potervi resistere. Se
anche sa che, aspettando qualche giorno, potrà procurarselo con facilità, sarà comunque incapace di pazientare. Sfidando caldo, freddo, tenebre o intemperie, arriverà al punto di uscire all'improvviso pur di entrarne in possesso. Le donne che rubano di nascosto nei negozi non sono fatte di una pasta molto diversa: per loro, semplicemente, il confine tra oggetto desiderato e quello che vorrebbero possedere è molto incerto. Per Otama fino a quel giorno Okada era stato soltanto un oggetto di desiderio, ma ora tutto era diverso: era ormai diventato l'oggetto che voleva possedere. Intendeva a tutti i costi approfittare del salvataggio del bengalino per avvicinarsi a lui. Il suo primo pensiero fu di mandargli Ume con un regalo in segno di ringraziamento. «Ma cosa scegliere? Uno dei dolci campagnoli di Fujimura? Mi pare un regalo poco intelligente e molto ordinario, come potrebbe fare chiunque. Se d'altra parte gli confezionassi un cuscino poggiagomito con dei ritagli di stoffa, lo troverebbe strano: penserebbe alla cotta di una ragazzina ingenua. Non riesco a venirne a capo. Ammettendo che mi venga in mente un regalo qualsiasi, devo farglielo avere subito da Ume? Ho i biglietti da visita che avevo commissionato a Nakachō, ma allegarne uno non mi pare abbastanza. Vorrei aggiungere qualche riga di mio pugno, ma come fare? Non sono andata più in là delle scuole elementari, e non ho mai avuto il tempo di esercitarmi nella calligrafia: non sono certo in grado di scrivere una lettera come si deve. Potrei rivolgermi alla mia vicina, la maestra di cucito, che a quanto pare era a servizio in casa di nobili. No, non voglio. Non intendo scrivergli nulla di compromettente, e in ogni caso non voglio che si venga a sapere che scrivo al signor Okada. Ma come fare, allora?».
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I pensieri di Otama non facevano che partire in un senso e tornare nell'altro, in un incessante andirivieni. Se truccandosi o impartendo ordini in cucina le avveniva di dimenticarli, non era che per qualche breve istante. In quel mentre giunse Suezō. Poiché nel servirgli il sake era ancora tutta assorta in quei pensieri, la rimproverò: «Cos'è che ti preoccupa tanto?». «Come? Ma nulla» rispose lei sfoderando un sorriso innocente, mentre il cuore le balzava segretamente in petto. Ma dato che negli ultimi tempi si era ben esercitata a fingere, neppure l'occhio abile di Suezō riusciva più a scrutare in lei con facilità per scoprire se nascondeva qualcosa. Nel sogno a occhi aperti che fece dopo la partenza di Suezō, si vedeva infine acquistare una scatola di dolci che faceva consegnare a Okada da Ume in gran fretta, per accorgersi subito dopo di non aver accluso né biglietto da visita né lettera: sconvolta, tornò di colpo in sé. II giorno seguente, o perché Okada non era uscito per la sua passeggiata o perché le era sfuggito, Otama non potè rivedere quel volto così caro. L'indomani lo studente passò come sempre sotto la sua finestra, guardò verso di lei con la coda dell'occhio ma, per via della penombra all'interno della casa, non riuscì a incontrarne lo sguardo. Il giorno successivo, nell'ora in cui Okada era solito passare, sebbene non vi fosse particolare necessità di pulizie, si mise a spazzare con cura dietro la porta a grata con una scopa di paglia, spostando a destra e a sinistra l'unico paio di geta che usava, oltre ai setta16 che calzava in quel momento. Uscendo dalla cucina Ume le disse: «Signora, lasci che spazzi io!», ma Otama la rimandò dentro: «Non preoccuparti, bada piuttosto alla cucina. Spazzo perché non ho altro da fare». In quel mentre passò Oka-
da e la salutò levandosi il berretto. Rigida come un palo, la scopa in mano, Otama arrossì fino alle orecchie e lasciò che passasse oltre senza riuscire a dir nulla. Gettò in un canto la scopa come fosse stata rovente, si tolse i setta e rientrò precipitosamente in casa. Sedette accanto al braciere e, attizzando le braci, si immerse nei suoi pensieri: «Sciocca che sono! Pensavo di apparire ridicola mettendomi a guardare dalla finestra, oggi che fa così fresco, allora l'ho aspettato fingendo di far pulizie del tutto inutili, ma proprio quando è passato non sono stata capace di dire niente! Davanti a Suezō, anche quando sono imbarazzata, riesco a dire qualsiasi cosa, se lo voglio. Perché non sono stata capace di rivolgere la parola al signor Okada, allora? Dal momento che mi è venuto in aiuto in un momento difficile, è naturale che lo ringrazi. Non avendogli parlato oggi, può darsi che non mi capiti mai più un'altra occasione. Mandargli un regalo attraverso Ume si è rivelato impossibile, e se anche ora che l'ho avuto di fronte non sono riuscita a parlargli, finirà che non ne farò più niente. Perché, perché in quell'istante non sono riuscita ad aprire bocca? Ah! In realtà, ho provato a dire qualcosa: solo, non sapevo che dire. Non potevo certo chiamarlo familiarmente "Okada san", e neppure dire "Senta" quando eravamo ormai l'uno di fronte all'altra. A ripensarci ora, non è poi tanto strano che in quel momento abbia esitato, visto che non trovo le parole adatte neppure a mente fredda. Ma no, tutti questi dubbi dimostrano soltanto che sono una sciocca. Non c'era bisogno di rivolgergli la parola. Avrei fatto meglio a precipitarmi in strada, così si sarebbe fermato di certo. E quando l'avessi avuto davanti, avrei potuto dirgli qualcosa come: "Ebbene, l'altro giorno le ho arrecato davvero un
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Otama era una donna orgogliosa. Da quando Suezō la manteneva, soffriva del suo ruolo di concubina apertamente disprezzata e segretamente invidiata dai
vicini: questo l'aveva portata a un atteggiamento di indifferenza verso l'opinione altrui, ma poiché in fondo restava buona e poco avvezza al contatto con gli altri, le mancava il coraggio di andare a cercare Okada alla pensione in cui alloggiava. In certe giornate di quello splendido autunno le accadeva di scambiare un saluto con Okada al di là della finestra, ma l'avergli parlato con familiarità e offerto un asciugamano pochi giorni prima, non era servito ad avvicinarla a lui neppure di un passo; dopo quell'episodio, con sua grande irritazione, tutto continuava come se tra loro non fosse successo nulla. Nel corso delle visite di Suezō, quando conversavano seduti l'uno di fronte all'altra accanto al braciere, immaginava ora che al suo posto ci fosse Okada. Da principio, nel pensarlo, si rimproverava di essere disonesta, ma a poco a poco imparò a fingersi interessata ai suoi discorsi, mentre in realtà continuava a fantasticare di Okada. Quando poi Suezō se ne era andato, le bastava chiudere gli occhi perché il pensiero riandasse allo studente. A volte sognava di trovarsi insieme a lui. Senza che ci fosse bisogno di faticosi tentativi di avvicinamento, si ritrovava in sua compagnia; ma nello stesso istante in cui si diceva di essere finalmente felice, ecco che l'uomo si trasformava in Suezō! Confusa, si risvegliava dal sogno con i nervi così tesi da non riuscire a riaddormentarsi: a volte scioglieva in pianto l'eccitazione nervosa. Il tempo scivolò via senza che se ne accorgesse, e venne novembre. Le dolci giornate che si prolungavano in quel bellissimo autunno consentivano a Otama di lasciare la finestra aperta e di vedere Okada quasi ogni giorno. Erano state precedute da giorni piuttosto freddi e piovosi, e Otama, non avendo potuto vederlo
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gran disturbo con quell'incidente...", o qualsiasi altra cosa». Mentre attizzava il fuoco assorta in questi pensieri, il coperchio del bollitore cominciò a sobbalzare; Otama lo sollevò per lasciarne uscire il vapore. Si sforzava di risolvere questo dilemma: doveva parlargli di persona o mandare qualcuno? Con il passare dei giorni la sera cominciava a rinfrescare e non si potevano più lasciare aperti gli shōji delle finestre. Fino ad allora il giardino era stato spazzato una volta al giorno, di mattina, ma a partire da quell'incontro mancato Ume aveva preso l'abitudine di spazzarlo mattina e sera, e per Otama era difficile rivendicare per sé quell'incarico. Tentò di incontrare Okada per la via ritardando l'ora in cui era solita recarsi al bagno pubblico, ma il tragitto fino all'edificio ai piedi di Muenzaka era troppo breve, e non le capitò mai di incrociarlo. D'altra parte, man mano che i giorni passavano, diventava sempre più difficile anche mandargli qualcuno. Per un po' Otama provò a consolarsi con queste considerazioni: «Dunque, non ho ancora ringraziato il signor Okada. Dato che si tratta di ringraziamenti doverosi, questo significa che glieli devo per l'aiuto resomi, e il signor Okada dovrebbe ben sapere di questo mio obbligo. Meglio che sia andata così, forse, piuttosto che averlo ringraziato in modo goffo...». Avrebbe voluto compiere quel passo per potersi avvicinare a lui al più presto; soltanto, non le riusciva di trovare il modo, e continuava a tormentarsi in segreto.
per qualche tempo, era stata d'umor nero. Tuttavia, era di indole così mite da non pretendere mai da Ume l'impossibile e da non metterla mai in difficoltà, e neppure da mostrarsi immusonita con Suezō. Soltanto nei momenti di sconforto, quando sedeva con i gomiti appoggiati al bordo del braciere, silenziosa e assente, talvolta Ume le chiedeva: «Non si sente bene, signora?». Ma poiché negli ultimi tempi vedeva Okada ogni giorno, il suo umore si era fatto insolitamente lieto, e una mattina uscì di casa ancor più allegra del solito per far visita al padre a Ikenohata. Si era proposta di andarlo a trovare almeno una volta a settimana; il vecchio, però, non le permetteva mai di restare per più di un'ora. L'accoglieva sempre con gentilezza, e se aveva da parte qualcosa di buono, gliel'offriva con il tè. Subito dopo, però, la invitava a tornare a casa. Non era solo per via dell'impazienza tipica dei vecchi: avendo messo sua figlia al servizio di altri, gli pareva sconveniente trattenerla presso di sé a suo piacere. Alla seconda o terza visita, Otama gli fece notare che Suezō non veniva mai a trovarla di mattina, perciò poteva restare da lui quanto voleva, ma il vecchio non intese ragioni: «Se fino ad ora non è mai venuto la mattina, potrebbe passare comunque prima o poi. Tranne che nei giorni in cui gli chiedi di lasciarti libera, non è bene che tu disponga a piacimento del tuo tempo per fare spese o per farmi visita. Di certo si domanderebbe dove ti eri cacciata». La preoccupazione costante di Otama era che il padre, venendo a conoscenza del vero mestiere di Suezō, non avesse a soffrirne, e spiava a ogni visita il suo atteggiamento: il vecchio sembrava però essere all'oscuro di tutto, e in ciò non c'era niente di sorprendente. Qualche tempo dopo il trasloco a Ikenohata, aveva
cominciato a prendere libri a prestito e, inforcati gli occhiali, passava delle giornate intere a leggere. Le sue letture si limitavano a copie manoscritte di romanzi d'avventure 47 . Negli ultimi tempi leggeva il Mikaiva go fūdoki4S: dato che si componeva di parecchi libri, diceva, gli era possibile distrarsi anche leggendo quell'opera soltanto. Ma se gli consigliavano degli yomihon49, rispondeva che non erano altro che un mucchio di bugie e non li sfogliava neppure. La sera, per via degli occhi affaticati, non leggeva, ma si recava in qualche yose ad ascoltare dei recitatori. Là non si chiedeva se si trattasse di verità o di menzogne, e assisteva volentieri agli spettacoli di rakugo e di gidayū. Al teatro situato sullo Hirokōji e specializzato in recitativi di battaglie, andava solo se erano in programma i suoi artisti preferiti. Era questo il suo unico passatempo, e dal momento che non si perdeva mai in chiacchiere con nessuno, non aveva amici. Non c'era dunque il rischio che potesse venire a conoscenza del vero mestiere di Suezō. Tuttavia, a forza di domandarsi chi mai fosse quella bella donna che veniva a far visita al vecchio, alcuni suoi vicini erano arrivati a scoprire che si trattava della mantenuta di un usuraio. Se i due che abitavano proprio accanto a lui fossero stati dei pettegoli, sebbene non concedesse loro grande familiarità, il vecchio avrebbe dovuto sentire alcune sgradevoli dicerie sul conto della figlia. Per sua fortuna, uno era un piccolo funzionario di museo, dedito alla raccolta di opere calligrafiche antiche e all'esercizio della calligrafia, mentre l'altro era un incisore su legno, professione già rara per quei tempi, che rifiutava categoricamente di abbassarsi a incidere sigilli; non c'era da temere che i due turbassero la serenità del vecchio. All'epoca, poi,
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poche erano le botteghe sullo stesso lato della casa: il ristorante di soba Rengyokuan, un negozio di senbei e, un poco più lontano, quasi ad angolo con Hirokōji, un negozio di pettini di nome Jūsan'ya. Non appena sentiva la grata aprirsi al passaggio di un visitatore, e il rumore leggero dei geta all'ingresso, prima ancora di udirne la dolce voce, il vecchio sapeva già che Otama era arrivata e, posato il libro che stava leggendo, aspettava che comparisse. I giorni in cui si toglieva gli occhiali per contemplare il volto della figlia erano per lui giorni di festa. Quando Otama arrivava, lo faceva sempre: anche se tenendoli avrebbe potuto vederla meglio, non sopportava il minimo ostacolo tra loro due. Ogni volta pensava alle tante cose che voleva dirle, e ogni volta, dopo che se n'era andata, si accorgeva di averne dimenticata una parte. Non dimenticava mai, però, di informarsi di Suezō: «Il signore sta bene?». Quel giorno Otama lesse sul volto del padre che era di buon umore, e l'ascoltò raccontare la storia di Acha50, sbocconcellando un grosso senbei di riso che il vecchio le aveva detto di aver comperato nel negozio Osenju appena aperto a Ueno Hirokōji. Ogni volta che le chiedeva se non era il caso che rientrasse, rispondeva ridendo: «C'è ancora tempo», e finì per trattenersi sin verso mezzogiorno. Dentro di sé pensava che se gli avesse detto che ultimamente Suezō capitava in casa all'improvviso, il padre avrebbe insistito ancor di più perché rientrasse. Senza rendersene conto, si era fatta negligente e insincera, e il fatto che Suezō potesse recarsi a Muenzaka in sua assenza non la preoccupava più.
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La stagione si faceva sempre più fredda, e in casa di Otama l'asse di legno sulla quale si sta con i geta quando si usa l'acquaio, al mattino era ricoperta di candida brina. Poiché la lunga corda del profondo pozzo della casa era ormai gelata, mossa a pietà per Ume, Otama le aveva comperato un paio di guanti, ma la ragazza, convinta di non riuscire a lavorare in cucina mettendoli e togliendoli di continuo, li teneva con cura da parte e seguitava ad attingere l'acqua a mani nude. Sebbene le facesse usare acqua calda sia per i piatti sia per le pulizie, le mani di Ume avevano preso a screpolarsi, con gran dispiacere di Otama: «È sbagliato tenere le mani umide: devi asciugarle per bene appena tirate fuori dall' acqua. E quando hai finito di lavorare, non dimenticare di lavarle con il sapone», e le diede del sapone che aveva comperato per lei. Nonostante tali raccomandazioni, tuttavia, le mani della domestica si facevano sempre più rugose. Otama un tempo aveva fatto gli stessi lavori di Ume, ma, strano a dirsi, le sue mani non si erano mai ridotte in quello stato. 159
Abituata da sempre ad alzarsi non appena apriva gli occhi, le accadeva ora di rimanersene tra le coperte in quei giorni in cui Ume le diceva: «Stamattina l'acquaio è ghiacciato, resti a riposare ancora un po'». Alcuni educatori ammoniscono i giovani ad addormentarsi appena sono a letto, e a non restare coricati quando sono ormai svegli, in modo da evitare pensieri lascivi: giacché quando un giovane corpo riposa nel caldo delle coltri, nascono nella sua mente pensieri simili ai fiori di certe piante velenose che si aprono al calore. Era in momenti del genere che l'immaginazione di Otama si faceva estremamente audace, una sorta di luce le si accendeva nello sguardo e, quasi fosse ubriaca, le palpebre e le guance le si facevano di porpora. La sera prima il cielo era stato limpido e terso, luminoso di stelle, e verso l'alba si era formata della brina. Assecondando quell'indolenza che da qualche tempo si era impadronita di lei, Otama si crogiolava nel letto da un po', ma nel vedere il sole del mattino penetrare dalla finestra da cui Ume aveva già da molto rimosso gli amado51, decise di alzarsi. Infilò uno hanten foderato sul kimono cinto da un basso obi, e uscì sul corridoio esterno dove cominciò a pulirsi i denti con uno stecchino. In quell'istante udì il rumore della grata che si apriva e la voce cordiale di Ume: «Benvenuto, signore». Poi un suono di passi che si avvicinavano. «Ebbene, ti alzi tardi, eh?», disse Suezo entrando e sedendosi davanti al braciere. «Oh, mi scusi! Com'è mattiniero oggi!» rispose, togliendo in fretta lo stecchino dalla bocca e sputando nel secchio. Il suo viso sorridente e leggermente arrossato parve a Suezō più bello che mai. In verità, da
quando si era trasferita a Muenzaka, diventava ogni giorno più seducente. All'inizio, quello che l'aveva attratto era stato una grazia infantile, ma ultimamente il suo atteggiamento era mutato facendole acquisire una nuova e diversa capacità di seduzione. Suezō attribuiva tale cambiamento al fatto che Otama cominciava ora a scoprire l'amore, ed era molto fiero di essere stato lui a iniziarla. Di norma così acuto, sbagliava di grosso nell'interpretare in questo modo lo stato d'animo della donna che amava. Da principio Otama lo aveva servito devotamente, ma a seguito del rapido mutare degli eventi, dopo lunga riflessione e sofferenza, era giunta a una particolare coscienza di sé che potremmo definire malizia, e a quello stato d'animo calmo e distaccato che una donna comune raggiunge solo dopo aver frequentato parecchi uomini. Sottostare a ciò procurava a Suezō una sensazione simile a uno stimolo piacevole. Inoltre, man mano che Otama si faceva più maliziosa, anche il suo comportamento diventava più disinibito; il desiderio di Suezō veniva spronato da questa nuova libertà d'atteggiamento, e si sentiva sempre più attratto da lei. Non riusciva a comprendere tale radicale mutamento, ma il fascino che esercitava su di lui nasceva proprio da questo. Otama si inginocchiò e attirò verso di sé la bacinella di metallo: «Le dispiace voltarsi un pochino?». «Perché?», domandò accendendosi una Tengu Oro. «Perché devo lavarmi il viso». «E allora? Lavatelo, fa' in fretta!». «Ma non posso lavarmi se lei mi guarda». «Come fai la difficile! D'accordo, d'accordo». Soffiando via il fumo le volse le spalle, mentre pensava a quanto era ancora ingenua e puerile.
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Senza svestirsi, solo allentando la veste sul collo, Otama si lavò il viso con gesti affrettati. Eseguì la propria toilette in modo assai più sommario del solito: non essendo tuttavia di quelle donne che ricorrono ai segreti del trucco per apparire belle nascondendo i difetti, non aveva nulla da temere dagli sguardi altrui. Suezō, che dapprima si era girato, era tornato a guardare verso di lei; per tutto il tempo in cui aveva fatto toilette Otama gli aveva voltato le spalle e non se ne era accorta, ma quand'ebbe terminato e trasse a sé la specchiera, ne vide riflesso il volto con la sigaretta tra le labbra. «Oh, ma com'è sgarbato!» disse, cominciando a pettinarsi. A partire dal collo, lasciato scoperto, si intravedeva un triangolo di pelle bianca che dalla nuca scendeva fino alla schiena, e poiché teneva le mani sopra la testa, si scorgevano anche le braccia paffute, senza veli ben più in su del gomito: uno spettacolo che Suezō non si stancava di contemplare. Temendo però che fosse indotta ad affrettarsi senza motivo nel vederlo restare in silenzio, cominciò a parlarle in tono volutamente calmo e svagato: «Non è il caso di fare in fretta, sai. Non sono qui così presto per qualche affare urgente. In verità, l'altro giorno quando me l'hai chiesto, ti ho detto che sarei venuto stasera, ma devo invece fare un salto a Chiba. Se l'affare procede bene dovrei essere di ritorno per domani, ma non è improbabile che sia anche per dopodomani». Otama, che stava asciugando il pettine, si voltò a guardarlo: «Ah, davvero?». Il suo volto esprimeva una certa apprensione. «Fa' la brava e aspettami, sai?», l'ammonì Suezō in tono scherzoso riponendo il portasigarette. Quindi si 162
levò in piedi d'improvviso e uscì dalla stanza. «Come! Prima che le abbia servito il tè!» esclamò Otama quasi gettando il pettine nel cassetto della specchiera, ma quando raggiunse l'ingresso per salutarlo, Suezō aveva ormai aperto la grata di legno. Ume, proveniente dalla cucina con la colazione, posò il vassoio a terra e inchinandosi profondamente disse: «Sono molto spiacente». Seduta accanto al braciere, Otama stava scostando la cenere che ricopriva i tizzoni. «Di che cosa ti stai scusando?», domandò con un sorriso. «Non l'ho fatto apposta, ma ho servito il tè in ritardo». «Ah, per questo? L'ho detto soltanto per cortesia, sai: il signore non si è certo offeso». E con queste parole afferrò le bacchette. Quella mattina Ume, osservando il viso della sua signora mentre faceva colazione, si avvide che Otama, già poco incline per natura a manifestare il suo cattivo umore, sembrava particolarmente felice. Dal momento in cui le aveva sorriso domandandole di che si scusava, l'ombra di quel sorriso non aveva più abbandonato le sue guance appena arrossate. Una domanda avrebbe dovuto farsi strada nella mente di Ume, ma era impossibile che mettesse radici in quell'animo così semplice. Dal momento però che il buon umore è contagioso, anche lei ora si sentiva felice. Otama la guardò e il suo buon umore parve aumentare: «Allora! Non avresti voglia di tornartene a casa tua?». Non credendo a quel che aveva udito, la servetta sgranò tanto d'occhi. Gli usi in vigore nelle case bor163
ghesi in epoca Edo erano rimasti inalterati anche in quei primi anni Meiji, come per forza d'inerzia: non era perciò consentito alle persone a servizio che alloggiavano presso il padrone di rientrare a casa loro, anche se abitavano in città, tranne che per il Nuovo Anno e per L'obon n . «Credo che il signore non verrà questa sera, perciò se vuoi rientrare a casa tua, fa' pure», ripetè Otama. «Dice davvero?» chiese Ume, non perché dubitasse della padrona, ma perché sentiva che un tale favore era immeritato. «È la verità. Perché dovrei essere così crudele da prendermi gioco di te? Puoi anche fare a meno di riordinare dopo colazione e andartene subito. Prenditi un giorno di riposo e fermati a casa stanotte, ma domani fa' in modo di esser qui presto». «Certo» rispose Ume, avvampando per la gioia. Il padre era conduttore di risciò, e due o tre risciò erano sempre allineati nello spiazzo in terra battuta davanti all'ingresso; nello spazio tra il cassettone e il braciere si riusciva a malapena a sistemare un cuscino su cui il padre sedeva quando non era al lavoro; in sua assenza vi stava la madre, sulla cui guancia ricadeva immancabilmente un ciuffo di capelli e che aveva quasi sempre le maniche tirate su e fermate con il tasukr. tutte queste immagini passarono fulminee nella testolina di Ume, come tante ombre cinesi. La colazione terminata, portò via il vassoio. Sebbene Otama le avesse detto che poteva fare a meno di riordinare, volle almeno lavare i piatti e, riempita una bacinella di acqua calda, cominciò a fare un rumore di stoviglie; in quel momento sopraggiunse Otama con in mano un involto. «Dovevo aspettarmelo che ti saresti messa a rigovernare. Non sono che poche 164
stoviglie, lascia fare a me. I capelli li hai già acconciati ieri sera, perciò va' subito a cambiarti d'abito. E visto che non hai niente da portare in regalo, prendi questo», e le porse l'involto in cui aveva messo uno di quei biglietti blu da mezzo yen simili a carte da gioco. Dopo aver spinto Ume a congedarsi in fretta, Otama, piena di energia, si rialzò le maniche trattenendole con il tasuki, sistemò le falde del kimono nella cintura ed entrò in cucina. Quasi dovesse occuparsi di qualcosa di molto piacevole, prese in mano le stoviglie che Ume aveva cominciato a lavare. Data la sua esperienza in questo genere di lavoro, avrebbe dovuto eseguirlo con una velocità e una destrezza sconosciute alla servetta, ma quel giorno invece lavava i piatti con la stessa aria svagata di un bimbo che si trastulli con i suoi giocattoli. Ne prendeva in mano uno e lo teneva anche cinque minuti, con lo sguardo perso nel vuoto e il viso ravvivato da un leggero rossore dal quale traspariva la vivacità. Nella sua fantasia si susseguivano immagini molto ottimistiche. In genere una donna, prima di prendere una decisione, è talmente esitante e dubbiosa da far quasi pietà, ma quando infine lo fa, senza curarsi delle reazioni altrui come farebbe un uomo, si precipita guardando dritta davanti a sé, come un cavallo con i paraocchi53; e se lungo il cammino incontra ostacoli che metterebbero in ansia un uomo di buon senso, li tiene in minor conto della polvere sulla strada. Avviene così che non solo compia azioni che un uomo non oserebbe mai neppure intraprendere ma, contro ogni aspettativa, che abbia pure successo. Nei suoi tentativi di avvicinarsi a Okada, Otama 165
esitava a tal punto che un estraneo, osservandola, non avrebbe saputo trattenere la propria impazienza; ma da quando quella mattina Suezō era venuto a salutarla dicendo che avrebbe fatto un salto a Chiba, sentiva che era il momento di dirigersi a vele spiegate, come una nave con il vento in poppa, verso la riva tanto desiderata. Perciò aveva congedato la domestica, insistendo perché tornasse dai suoi. Suezō, che rappresentava l'ostacolo principale, avrebbe passato la notte fuori, e Ume era tornata a casa sua. Sentirsi nella condizione di non essere in obbligo verso nessuno fino al mattino dopo era per Otama anzitutto qualcosa di molto gradevole. E poi, che le cose procedessero con tale rapidità era da considerarsi come un buon presagio che il suo scopo sarebbe stato facilmente raggiunto. «E davvero impossibile che il signor Okada non passi davanti casa mia proprio oggi. Certi giorni passa anzi due volte, all'andata e al ritorno, e se anche non riuscissi a vederlo la prima volta, non potrebbe sfuggirmi due volte di seguito. Costi quel che costi, oggi riuscirò a parlargli! E se avrò il coraggio di rivolgergli la parola, di certo non potrà non fermarsi. Mi sono umiliata fino a diventare una mantenuta, che tutti disprezzano, e per di più la mantenuta di un usuraio. Ma ora sono più bella di quando ero una ragazzina, comunque non sono certo brutta. E poi, in certo qual modo grazie alle mie esperienze infelici, poco alla volta sono arrivata a capire quello che piace a un uomo. Mi sembra incredibile che il signor Okada debba considerarmi una donna sgradevole. No, certo non è così! Se io non gli piacessi, non mi saluterebbe ogni volta che mi vede. Lo stesso si può dire di quel giorno in cui uccise il serpente: se fosse successo in qualunque altra casa, non avrebbe certo prestato il suo aiuto; 166
probabilmente sarebbe passato oltre fingendo di non vedere. E dal momento che io, da parte mia, non faccio che pensare a lui, non tutto, ma una parte dei miei sentimenti deve pure aver trovato la strada del suo cuore. Ah! agire è forse più facile che restare a consumarsi d'angoscia». Mentre rigirava nella mente questi pensieri, l'acqua nella bacinella si era ormai raffreddata, ma Otama non se ne accorgeva neppure. Riposto il vassoio sullo scaffale, era tornata a sedere accanto al braciere, ma pareva incapace di star ferma, in preda a una strana agitazione. Dopo aver rivoltato due o tre volte con le molle la cenere ammonticchiata con cura da Ume quella mattina, di colpo si levò in piedi e cominciò a cambiarsi d'abito. Aveva deciso di recarsi dalla parrucchiera di Dōbōchō. Era stata la sua parrucchiera abituale, una donna molto gentile, a raccomandargliela per le occasioni particolari, ma Otama non c'era ancora mai andata.
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In un libro occidentale di storie per bambini, lessi un giorno un racconto che trattava di un chiodo. Non ricordo bene la trama, ma grosso modo vi si narra di un contadinello che parte in viaggio su di un carro con una ruota mancante di un chiodo, ciò che porta il ragazzo a incontrare ogni genere di traversie. Nel racconto da me iniziato, è uno sgombro al miso a giocare proprio lo stesso ruolo di quel chiodo. Costretto com'ero a sfamarmi a malapena con il vitto della pensione o della mensa universitaria, avevo scoperto un piatto che detestavo al punto che mi si rizzavano i capelli solo a vederlo comparire. Me l'avessero pure servito in una stanza ben aerata, su di uno splendido vassoio, al solo vederlo avevo subito sotto il naso l'odore intollerabile della mensa dell'Università. Quando mi portavano del pesce bollito con alghe hijiki54 e pezzi di pan di Sagara, quella sorta di hallucination olfattiva cominciava già a farsi sentire, per raggiungere il culmine allorché compariva in tavola lo sgombro al miso. 168
Un giorno, dunque, alla pensione Kamijō servirono il famoso sgombro al miso. Poiché di solito afferravo le bacchette non appena compariva il vassoio, vedendomi esitare la cameriera mi guardò e disse: «Non le piace lo sgombro?». «Non è che non mi piaccia. Alla griglia ne mangio parecchio, ma con il miso proprio non mi va giù». «Oh! La padrona non lo sapeva. Se vuole, le porto delle uova» e fece per andare, ma la trattenni. «Aspetta! A dire il vero, non ho ancora fame, perciò uscirò per una passeggiata. Inventa una scusa qualsiasi per la padrona, ma non dire che questo piatto non mi piace. Meglio non darle preoccupazioni inutili». «Ma mi dispiace per lei...». «Oh, sciocchezze». Mi alzai in piedi e indossai lo hakama, mentre la donna usciva reggendo il vassoio. Diedi una voce alla camera vicina: «Okada, sei là?». «Sono qui. Che c'è?», rispose una limpida voce. «Niente di particolare. Esco a passeggio e al ritorno pensavo di passare da Toyokuniya. Vieni con me?». «D'accordo. Volevo giusto parlarti». Staccai il berretto dal gancio, lo misi e uscii dalla pensione insieme a Okada. Dovevano essere le quattro passate del pomeriggio. Avevamo lasciato Kamijō senza consultarci sulla direzione da prendere, ma appena in strada voltammo entrambi a destra. Quando stavamo ormai per scendere per Muenzaka, diedi di gomito a Okada: «Ehi, eccola là!». «Cosa?» fece lui, ma aveva già capito e guardò verso la casa con la porta a grata, sulla sinistra del pendio. Davanti alla casa se ne stava Otama. Sebbene un 169
po' smagrita, era pur sempre una bella donna, e com'è naturale per una ragazza avvenente e in salute, anche il trucco contribuiva ad abbellirla. Notai che c'era in lei qualcosa di diverso dal solito, ma non riuscii a capire cosa fosse: la sua bellezza appariva come trasformata. Il suo viso sembrava radioso di luce, tanto che mi parve di venirne abbagliato. Come in estasi, i suoi occhi fissavano il volto di Okada. Egli sembrò turbato, salutò togliendosi il berretto e senza volerlo affrettò il passo. Quanto a me, con l'indelicatezza frequente negli estranei, mi voltai spesso a guardare: lo sguardo fisso di Otama continuò a seguirci per lunghissimo tempo. Il capo leggermente reclinato, Okada scendeva per il pendio senza rallentare il passo. Io gli tenevo dietro senza dire nulla. Nel mio animo si combatteva una folla di sentimenti, e tra tutti prevaleva il desiderio di essere al suo posto. Ma alla mia coscienza ripugnava di doverlo riconoscere. Sforzandomi di soffocarlo, dentro di me gridavo: «Sono dunque diventato tanto meschino?». E poiché il tentativo di controllarmi era inutile, ero furioso con me stesso. L'invidia che provavo non equivaleva però al desiderio di abbandonarmi alle seduzioni di quella donna. Riuscivo solo a immaginare che doveva essere molto piacevole essere amati, come lui, da una donna così bella. «Se accadesse a me, cosa farei? Su questo punto desidero mantenere la mia libertà di decisione, ma non fuggirei come fa Okada. Le parlerei. Un semplice incontro per poterle parlare, senza compromettere la mia integrità. E l'amerei come una sorellina. Diventerei il suo sostegno. La trarrei in salvo dal fango». L'immaginazione mi portava a tali incoerenti pensieri.
Proseguimmo in silenzio fino all'incrocio ai piedi di Muenzaka. Continuammo senza svoltare finché, all'altezza del posto di polizia, riuscii a dire: «Allora, sei in una bella situazione, vero?». «Eh? E perché?». «Come perché? Non è forse a quella donna che hai continuato a pensare camminando? Mi sono voltato a guardare parecchie volte, e non ti toglieva gli occhi di dosso. Probabilmente è ancora ferma là che guarda nella nostra direzione. Nel Commento agli Annali55 si legge: "Egli l'accoglie con lo sguardo e la congeda con lo sguardo". Nel tuo caso è il contrario, è la donna a farlo!». «Finiscila con questa storia! Sei il solo a cui l'abbia raccontata fin nei dettagli, perciò faresti meglio a non prenderti più gioco di me». Eravamo giunti sulla riva dello stagno e sostammo per un momento. «Che ne dici di passare per di là?», disse Okada indicando a nord dello stagno. «Uhm» risposi, e voltai a sinistra costeggiando lo stagno. Fatti appena dieci passi, guardando le case a due piani allineate sulla sinistra, dissi come parlando a me stesso: «Qui abitano il Maestro Fukuchi e Suezō». «Il contrasto può apparire strano, ma dicono che lo studioso Fukuchi conduca vita non proprio integerrima», disse Okada. Senza troppo riflettere, feci un'osservazione che pareva contraddirlo: «Certo, quando uno entra in politica, qualunque cosa faccia gli trovano sempre dei vizi». Forse volevo inconsciamente mettere la maggior distanza possibile tra Fukuchi e Suezō. Nella seconda o terza casa a nord partendo dall'estremità della recinzione di Fukuchi, era comparsa da poco un'insegna: «Pesce di fiume». Guardandola os-
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servai: «Stando a quest'insegna, si direbbe che servano pesce dello stagno di Shinobazu!». «Anch'io l'ho pensato. Ma non sono certo i valorosi eroi delle paludi di Ryōzan ad aver aperto bottega qui!»56. Cosi discorrendo, traversammo il ponticello sul braccio nord dello stagno. Dall'alto della sponda un giovane che aveva l'aria di essere uno studente era intento a guardare qualcosa. Scorgendo noi due che ci avvicinavamo, ci diede una voce. Era un ragazzo di nome Ishihara, fanatico del jūjutsu, ma poco incline per natura ad altre letture che non fossero quelle del programma di studio: perciò né Okada né io eravamo suoi amici, ma neppure si può dire che lo detestassimo. «Che cosa stavi guardando, lì immobile?», chiesi. Senza parlare, puntò il dito verso lo stagno. Nel grigiore denso del crepuscolo, guardammo nella direzione indicata. A quel tempo, dal piccolo fossato che va a Nezu fino alla riva sulla quale ci trovavamo noi tre, su tutta la superficie dello stagno crescevano rigogliose le canne. Le loro foglie secche andavano diradandosi verso il centro disseminato di foglie morte di loto, simili a stracci gettati lì, e di grappoli di fiori dall'aspetto spugnoso. Gli steli delle foglie e dei fiori, spezzati in punti diversi, ricadevano ad angolo acuto, contribuendo ad accrescere l'atmosfera di desolazione del paesaggio. Sgusciando tra quegli steli color bitume, sullo specchio d'acqua scura dai riflessi spenti andavano e venivano lente una decina di oche selvatiche. Alcune si fermarono e restarono immobili. «Si riuscirebbe a lanciare una pietra fin là?», domandò Ishihara fissando Okada. «A lanciarla fin là non ci vuole molto, il difficile è colpire il bersaglio», rispose.
«Perché non provi?». Okada esitò. «Fra poco andranno a dormire. Mi fa troppa pena lanciargli contro delle pietre». Ishihara rise: «E un peccato che la natura ti commuova tanto! Se non vuoi farlo tu, la lancerò io». Okada raccolse da terra una pietra con gesto indolente: «E io le farò fuggire». Il proiettile volò con un sibilo leggero. Mentre scrutavo intento il punto in cui sarebbe caduto, un'oca lasciò di colpo ricadere la testa che fino allora teneva eretta. Nello stesso tempo, due o tre altre si sparpagliarono scivolando sullo specchio d'acqua tra strida e battere d'ali, senza però alzarsi in volo. L'oca dalla testa reclinata rimase invece immobile. «Colpita! - gridò Ishihara, e dopo aver contemplato per un momento la superficie dello stagno, proseguì - : andrò a prenderla io, ma voi due dovreste darmi una mano». «E come farai?» chiese Okada, mentre anch'io senza volere drizzai le orecchie. «Prima di tutto, ora non è il momento, ma tra mezz'ora sarà scuro. Basterà che cali il buio per prenderla con facilità. Non è necessario che mi aiutiate ad andare a prenderla, purché in quel momento vi troviate qui e facciate quel che vi dirò. Faremo parte del bottino!». «Bene - disse Okada - . Ma noi che faremo in questa mezz'ora?». «Io girerò qui attorno. Quanto a voi, andate pure dove volete: restando qui tutti e tre si rischia di dare nell'occhio», rispose Ishihara. «Perché non fare insieme il giro dello stagno?», proposi allora a Okada. «Buona idea» approvò, e subito si mise in cammino.
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Traversammo l'estremità del quartiere di Hanazono e ci dirigemmo verso la scalinata in pietra del Tōshōgū57. Per qualche minuto restammo in silenzio. «Un'oca davvero sfortunata», disse a un certo punto Okada come parlando a se stesso. Senza alcun rapporto logico, mi venne in mente l'immagine della donna di Muenzaka. «Eppure, non ho fatto altro che mirare nel punto in cui si erano raccolte tutte quante» proseguì Okada, questa volta rivolgendosi a me. Borbottai qualcosa in risposta, ma continuavo a pensare a quella donna. Dopo qualche istante dissi: «Sono curioso di vedere come riuscirà Ishihara a ricuperare l'oca». Allora fu lui a replicare con un «Uhm», seguitando a camminare assorto nei suoi pensieri. Era forse la morte dell'oca ad averlo tanto colpito. Mentre passavamo ai piedi della scalinata diretti a sud verso Benten, la morte dell'animale proiettava comunque un'ombra cupa sul nostro stato d'animo, e la conversazione risultava piuttosto frammentaria. Supe-
rato il torii di Benten, come sforzandosi di deviare i suoi pensieri in altra direzione, Okada mi fece: «A proposito, ti devo parlare». Venni così a conoscenza di qualcosa di assolutamente inaspettato. Questi i fatti. Okada avrebbe voluto venire a parlarmene nella mia stanza quella sera stessa, ma io l'avevo prevenuto invitandolo a uscire con me. Una volta in strada aveva pensato di raccontarmi tutto durante la cena, ma anche questa possibilità sembrava ormai svanita, perciò decise di dirmi l'essenziale mentre passeggiavamo. Mi rivelò dunque che aveva stabilito di recarsi all'estero senza aspettare la laurea; si era già fatto rilasciare il passaporto dal Ministero degli esteri e aveva avvisato l'Università del suo ritiro dagli studi. Era stato infatti assunto dal professor W, giunto dalla Germania per delle ricerche sulle endemie in Oriente, con l'offerta di quattromila marchi per il viaggio di andata e ritorno e un mensile di duecento marchi. Tra gli studenti che conoscevano il tedesco il professore cercava qualcuno in grado di leggere correntemente il cinese, e il professor Baelz58 aveva suggerito il nome di Okada. Aveva fatto visita al professor W a Tsukiji per sottoporsi a un esame, cioè alla traduzione di due o tre righe del Somon e del Nankyō, e di cinque o sei righe dello Shōkanron e del Byōgenkōrort59. Nel Nankyō era sfortunatamente incappato in un passo sul sanshō60 e, indeciso su come tradurre il termine, se l'era cavata con la trascrizione fonetica: chiao. Era comunque riuscito a superare l'esame e aveva subito firmato il contratto. W che, come Baelz, era docente all'Università di Lipsia, l'avrebbe condotto con sé, impegnandosi a prepararlo personalmente per il dottorato. Inoltre gli avrebbe consentito di usare per la tesi
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i documenti che avrebbe tradotto per lui. Domani stesso avrebbe lasciato Kamijō per trasferirsi a Tsukiji, in casa di W, a imballare i volumi che questi aveva acquistato durante il suo soggiorno in Cina e in Giappone. Poi lo avrebbe accompagnato in un viaggio di studio nel Kyūshū, da dove si sarebbero imbarcati su una nave della linea «Messagerie Maritime»61. Di tanto in tanto nell'ascoltare il racconto di Okada mi fermavo per esclamare: «Incredibile!», oppure: «Tu sì che hai le idee chiare!». Mi pareva che, ascoltandolo, avessimo camminato con estrema lentezza, ma quando ebbe terminato e guardai l'orologio mi accorsi che erano passati solo dieci minuti da quando avevamo lasciato Ishihara. Avendo già percorso più di due terzi del giro dello stagno, stavamo per oltrepassarne l'estremità dietro Nakachō. «E ancora troppo presto». «Che ne dici di fare un salto al Rengyokuan per una scodella di sobah>, propose Okada. Fui subito d'accordo, così tornammo sui nostri passi diretti al Rengyokuan, all'epoca il più celebre ristorante di soba tra Shitaya e Hongō. Mentre mangiavamo, Okada osservò: «Certo, è un peccato rinunciare ora alla laurea dopo tanto lavoro, ma non sarei comunque riuscito ad avere una borsa di studio dal governo, e se mi lascio sfuggire quest'occasione non vedrò mai l'Europa». «Hai perfettamente ragione, è un'occasione da non perdere. Che importa la laurea, dal momento che puoi diventare dottore anche in Germania? E se alla fine non ci riuscissi, non sarebbe poi una tragedia». «Ne sono convinto anch'io. In fondo si tratta di ottenere una qualifica, tanto per seguire la corrente e fare come fanno tutti». 176
«Ma, e i preparativi? Mi sembra una partenza molto affrettata». «Che dici! Parto così come mi trovo. Secondo W, se mi faccio confezionare un abito all'occidentale qui, in Germania non potrei indossarlo». «Ah, davvero? Ho letto su «Kagetsu shinshi» che Narushima Ryūhoku62, trovandosi a Yokohama, decise all'improvviso di partire e si imbarcò senza pensarci un minuto». «Sì, l'ho letto anch'io. Sembra persino che sia partito senza avvisare la famiglia: io invece ho mandato una lettera a casa con tutti i dettagli». «Ah, bene. Come ti invidio! Non credo che avrai problemi durante il viaggio, visto che sarai in compagnia di W; eppure un viaggio del genere non riesco neanche a immaginarmelo». «Neanch'io so cosa aspettarmi; ieri però ho incontrato il professor Shibata Shōkei63, che si è sempre dato un gran daffare per me, gli ho esposto i miei piani e mi ha offerto una guida dell'Occidente scritta da lui stesso». «Davvero esiste un libro del genere?». «Non si trova in vendita, ma Shibata lo regala ai rozzi campagnoli come me!». Mentre conversavamo in questo modo, guardai l'orologio e mi avvidi che mancavano solo cinque minuti all'appuntamento con Ishihara. Uscimmo in fretta dal Rengyokuan e ci recammo al luogo convenuto, dove Ishihara era in attesa. Lo stagno era già immerso nell'oscurità, e il rosso vermiglio del tempietto di Benten riluceva vagamente nella bruma. Ishihara ci condusse fino al bordo dello stagno: «È il momento migliore. Le oche si sono rifugiate tutte più in là per passare la notte. Mi metto subito all'ope177
ra, ma per farlo è necessario che voi due restiate qui a dirigermi. Vedete quello stelo di loto piegato sulla destra, a qualche metro da qui? Sulla stessa linea c'è uno stelo un po' più basso, piegato sulla sinistra. Bisogna che mi spinga ancora più avanti lungo quella linea: perciò voi resterete qui sulla riva, e se accennerò a scostarmi dalla traiettoria mi correggerete dicendo "a destra" oppure "a sinistra"». «Bene - disse Okada. - Somiglia a una correzione di parallaxe. Ma l'acqua non sarà troppo profonda?». «Oh, no. Non c'è pericolo che metta un piede in fallo», e detto questo Ishihara si tolse in fretta i vestiti. Nel punto in cui entrò in acqua, il fango gli arrivava soltanto poco sopra le ginocchia. Sollevando ben bene un piede dopo l'altro, procedeva passo dopo passo come un airone. Lo stagno ci appariva ora più profondo e ora meno. In breve Ishihara superò i due steli di loto. Dopo qualche istante Okada gridò: «A destra!» e Ishihara si spostò verso destra. Di nuovo Okada gridò: «A sinistra!», perché Ishihara si era orientato troppo verso destra. D'un tratto si fermò e si abbassò, per poi tornare subito indietro. Quando ebbe superato lo stelo più lontano, scorgemmo la preda che penzolava stretta nella sua mano destra. Raggiunta che ebbe la riva, vedemmo che era sporco di fango soltanto fino a metà coscia. L'oca era più grossa di quanto avessimo pensato. Ishihara si lavò sommariamente le gambe e si rivestì. Allora nei dintorni i passanti erano molto rari: nessuno si era avvicinato allo stagno per tutto il tempo in cui Ishihara era rimasto in acqua. «Come riusciremo a portarla a casa?» domandai, e Ishihara rispose infilandosi lo hakama: «Okada la 178
nasconderà sotto il suo cappotto, che è il più ampio. Poi la cucineremo nella mia stanza». Aveva una camera in affitto in una casa privata. La vecchia padrona non era molto cordiale, ma dividere la preda con lei sarebbe certo bastato a tacitarla. La casa si trovava in fondo a una tortuosa stradina laterale che partiva da Yushima Kiridōshi per sboccare dietro la residenza Iwasaki. Ishihara spiegò brevemente la via da seguire. Due erano i percorsi possibili: da sud passando per Kiridōshi, oppure da nord passando per Muenzaka. I due cammini formavano un cerchio il cui centro si trovava all'interno della residenza Iwasaki. La differenza di lunghezza tra i due era minima, ma al momento non era questo il punto. Il problema era che lungo ciascuno dei due percorsi c'era una stazione di polizia. Valutando i prò e i contro, concluse che era preferibile evitare Kiridōshi, sempre così animata, e prendere invece per Muenzaka, solitamente deserta. Quanto all'oca, la soluzione migliore era di infilarla sotto il cappotto di Okada, mentre noi due l'avremmo affiancato ai lati, in modo da coprirlo agli sguardi. Okada nascose dunque l'oca sotto il cappotto con un sorriso amaro. Comunque provasse a sistemarla, qualche piuma spuntava sempre un poco dall'orlo inferiore. Per di più la base del cappotto si era allargata fino a deformarsi, dando alla figura di Okada una forma a cono. Ishihara e io dovevamo fare in modo che la cosa non desse nell'occhio.
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«Ci disporremo dunque così», e su queste parole Ishihara e io ci incamminammo con Okada in mezzo. Quello che preoccupava tutti e tre fin da principio era la stazione di polizia all'incrocio con Muenzaka. Ishihara cominciò a istruirci con fare autoritario, impartendo le sue direttive per superare quel pericoloso passaggio. Da quello che capii, l'importante era di non perdere la calma: quando si è nervosi, è facile abbassare la guardia, e l'avversario ne approfitta. Ishihara citò l'adagio della tigre che non divora l'ubriaco. Ebbi l'impressione che ci ripetesse tali quali le istruzioni del suo maestro di jūjutsu. «Se ho ben capito, la tigre è il poliziotto e noi tre siamo gli ubriachi», ironizzò Okada. «Silentium\» gridò Ishihara, poiché ci avvicinavamo già all'angolo in cui si svoltava in direzione di Muenzaka. Voltato l'angolo, ci ritrovammo in una stradina in cui le case dei commercianti di Kayachō e le residenze situate lungo lo stagno si davano le spalle; sui due lati 180
si trovavano allora disposti dei carretti e una varietà di altre cose. La figura del poliziotto di quartiere fermo all'incrocio si scorgeva già dal fondo della stradina. D'un tratto Ishihara, che camminava accostato gomito a gomito alla sinistra di Okada, gli disse: «Conosci la formula per calcolare il volume di un cono? Come, non la conosci? Non è difficile. Poiché è un terzo della superficie della base moltiplicata per l'altezza, nel caso che la base sia un cerchio il volume è uguale a 1/3 r2īt h. Ricordando che n = 3,1416, lo si calcola facilmente. Io conosco a memoria il valore di JT fino a otto decimali, cioè JT = 3,14159265. Di fatto, le cifre successive non sono necessarie». Mentre parlava così, attraversammo l'incrocio. Il poliziotto, immobile davanti alla garitta, osservava un risciò che correva per Kayachō in direzione di Nezu, e ci lanciò soltanto un'occhiata distratta. «Perché ti sei messo a parlare del volume del cono?» domandai a Ishihara, ma proprio in quell'istante i miei occhi riconobbero una figura di donna che, ferma a metà del pendio, guardava nella nostra direzione, e ne ricevetti una sorta di strano e violento tuffo al cuore. Sulla via del ritorno dall'estremità nord dello stagno, più che preoccuparmi del posto di polizia, avevo continuato a pensare a quella donna. Non sapevo perché, ma mi era sembrato che prima stesse aspettando Okada. E difatti la mia immaginazione non mi aveva ingannato. Otama lo stava aspettando a distanza di due o tre case dalla sua. Evitando lo sguardo di Ishihara, comparai il volto della donna a quello di Okada. Il viso del mio amico, solitamente soffuso di un sano colorito roseo, si tinse, ne sono certo, di un tono più acceso. Fingendo di sistemare come per caso il berretto, portò la mano 181
alla visiera. Il viso di Otama era come pietrificato. Nel fondo dei suoi begli occhi spalancati, mi sembrò che si celasse un rimpianto infinito. In quel momento Ishihara mi rispose, ma solo il suono delle sue parole mi arrivò all'orecchio, e non ne intesi il senso. Probabilmente mi spiegava che l'idea di parlare del volume del cono gli era stata suggerita dal cappotto di Okada, talmente deformato in basso per via dell'oca da averne assunto la forma. Aveva visto anche lui Otama, ma si era limitato a notare una bella donna e sembrava non sospettare di nulla. Continuava a parlare: «Vi avevo pur svelato il segreto dell'impassibilità, ma per mancanza di addestramento rischiavate di non metterlo in pratica al momento critico. Ho fatto perciò ricorso a un espediente per concentrare la vostra attenzione su altri pensieri. Avrei potuto scegliere qualunque cosa, ma per il motivo che ho detto mi è venuto in mente il volume del cono. In ogni modo la cosa ha funzionato, no? Grazie alla formula del cono, siete riusciti a mantenere un'aria disinvolta64 passando sotto il naso di quel poliziotto». Arrivati all'angolo della residenza Iwasaki, svoltammo verso est. Imboccammo una viuzza così stretta che non avrebbero potuto incrociarvisi neppure due risciò monoposto, perciò ci considerammo ormai al riparo da ogni pericolo. Ishihara abbandonò il fianco di Okada e si portò alla testa del gruppo per fare da guida. Solo allora mi voltai indietro a guardare, ma la figura di donna era già scomparsa. Quella sera bevemmo sake accompagnandolo con l'oca e con degli stuzzichini, e rimanemmo da Ishihara 182
fino a notte inoltrata. Poiché Okada non lasciava trasparire nulla del suo prossimo viaggio in Europa, frenai il desiderio di parlare dei vari aspetti della questione e prestai orecchio ai racconti delle gare di canottaggio che si scambiava con Ishihara. Quando rientrammo a Kamijō, la stanchezza e l'ubriacatura m'impedirono di parlargli, e mi infilai a letto subito dopo essermi separato da lui. L'indomani, quando feci ritorno dall'Università, se ne era già andato. Proprio come il chiodo mancante del racconto aveva provocato una serie di traversie, fu lo sgombro al miso servitomi quella sera alla pensione a rendere per sempre impossibile l'incontro tra Okada e Otama. E la cosa non finì così: ma gli avvenimenti che seguirono non rientrano in questo racconto che ho intitolato L'oca selvatica. Ora che la mia storia è terminata, mi accorgo, se conto sulle dita, che da quel tempo sono già trascorsi trentacinque anni. Di metà della storia sono stato testimone come amico di Okada, e l'altra metà dovevo apprenderla, dopo la sua partenza per l'Europa, da Otama, che conobbi in circostanze del tutto impreviste. Al modo stesso che in uno stereoscopio l'immagine di destra e l'immagine di sinistra si fondono in una sola, così ho scritto questo racconto ricomponendo quanto avevo visto al momento e quanto appresi in seguito. I lettori potrebbero però domandarmi: «Come ha conosciuto Otama? In quali circostanze ha appreso il resto della storia?». Potrebbero chiedermi questo, ma, come ho detto, le risposte a tali domande non rientrano nel quadro del mio racconto. Tuttavia, è fuori discussione che non possiedo i requisiti per essere l'amante di Otama; meglio dunque che i miei lettori non si perdano in congetture inutili. 183
NOTE
È interessante notare che l'autore usa nel testo alcune parole straniere che scrive in alfabeto latino dandone a lato la lettura in katakana (uno dei sillabari fonetici giapponesi), e non la traduzione come sarebbe stato più ovvio. Si è ritenuto opportuno mantenere tale peculiarità e, appena possibile, si sono lasciati i termini così come compaiono nell'originale: sentitnental, fatalistique, fète, solennel, tète-à-tète, chaos, culture, palliati}, époque, hallucination, bitume, parallaxe, silentium. Solo per tre si è ricorsi alla traduzione: mimicry, oeillères, unbefangen, dando però l'originale in nota. 1 Lett. hako hibachi. È un contenitore rettangolare, con cassetti, sul cui piano superiore c'è un letto di cenere sul quale si appoggiano dei tizzoni. Usato come scaldino e per far bollire l'acqua del tè. 2 Kawakami Bizan (1869-1908). Membro del gruppo Ken'yūsha (Società degli amici del calamaio), sulla cui rivista «Garakuta bunko» pubblicò i primi racconti. Raggiunse la fama con Uraomote (Il retro e il verso), storia di un uomo che la società costringe a diventare ladro e a dividersi tra la maschera diurna di filantropo e l'attività notturna di criminale. Kawakami, afflitto da depressione e da difficoltà finanziarie, morì suicida. 3 L'Università di Tokyo, fondata nel 1877, occupava gli spazi della residenza del daimyō Maeda a Edo, e Akamon (il «Portale Rosso» tuttora esistente) ne era l'ingresso principale. 4 II Meganebashi (occhiale-ponte), costruito in pietra nel 1873 sul fiume Kanda, doveva il nome alle sue due caratteristiche arcate. 5 Masaoka Shiki (1867-1902), poeta e teorico, diede nuovo vigore al genere poetico dello haiku e fondò la rivista letteraria «Hototogisu» (Il cuculo). Yosano Tekkan (1873-1935), uno dei precursori della moderna forma del tanka, la poesia di 31 sillabe che costituisce il genere principale
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della lirica giapponese, fondò nel 1900 la rivista poetica «Myōjō» (La stella del mattino), dove comparvero anche i versi della moglie, la celebre poetessa Yosano Akiko. «Kagetsu shinshi» (Nuova rivista dei fiori e della luna), uscì tra il 1877 e il 1879, mentre «Keirin isshi» (Un ramo spezzato di katsura), si occupava prevalentemente di poesia, cinese e giapponese. 6 Kōren, uno degli stili della poesia cinese, prende il nome da una raccolta di epoca Tang e canta la bellezza delle dame del Palazzo Imperiale. Mori Kainan (1863-1911) fu figura di primo piano tra i compositori di kanshi (poesia in cinese) del periodo Meiji. Mukō è personaggio non identificato. 7 II ]in Ping Mei è il capolavoro della narrativa cinese di periodo Ming (1368-1644): vi si narrano le innumerevoli relazioni amorose di un ricco mercante. Il titolo riprende i nomi dei tre personaggi femminili Pan / M a n , Li Pingei, Chunmei (tr. it. Chin P'ing Mei, Torino, Einaudi, 1955, 1982'; Milano, Feltrinelli, 1970). 8 Iwasaki Yatarō (1834-85), celebre uomo d'affari dei primi anni Meiji, fondatore dell'impero industriale, commerciale e finanziario Mitsubishi. ' Raccolta di racconti di autori diversi, in venti libri, compilata durante la dinastia Qing (1644-1912); in uno si narra di un leggendario eroe dalla forza erculea che ha per sola arma un grosso martello. 10 Per rispettare l'originale non si sono qui apportate le opportune concordanze. 11 Caizi jiaren xiaoshuo. Genere di romanzi fioriti in particolare negli anni 1650-1730. Spesso di non eccelsa qualità letteraria, caratterizzati da trame ripetitive e da personaggi stereotipati, narrano sullo sfondo della vita di corte gli amori contrastati tra donne affascinanti e funzionari delle classi alte, alternando l'elemento avventuroso a quello comico, a volte con qualche influenza taoista. 12 Yōkan è un dolce di zucchero, gelatina, e farinacei vari lavorato in maniere diverse. Talvolta ripieno di marmellata di azuki. Konpeitō (dal portoghese confetto) è un tipo di caramella, con aggiunta di miele e talvolta di semi abbrustoliti. 13 La ragazza sarà da qui in poi sempre chiamata Otama, con il prefisso onorifico. 14 Era uso che la famiglia senza eredi maschi adottasse il marito della figlia, che prendeva quindi il cognome della moglie. 15 Fukuchi Gen'ichirō, anche noto come Fukuchi Ochi (1841-1906). Figura di rilievo nel campo del giornalismo e del dibattito politico. Nel 1868 aveva fondato il «Kōko shinbun» (Il giornale del pubblico); negli anni '80, da oppositore del governo Meiji divenne, con il suo nuovo giornale, il «Tokyo nichinichi shinbun», voce ufficiale del potere. Ricoprì inoltre un ruolo assai importante nel movimento di rinnovamento del teatro kabuki. 16 Quartiere di Yokohama. Nel 1862, mentre il corteo di Shimazu Hisamitsu lo stava attraversando, quattro inglesi passarono a cavallo davanti ad esso, e per questo affronto uno di loro venne ucciso e altri due feriti dagli uomini di Shimazu. L'episodio testimonia del clima di xenofobia degli ultimi anni dello shogunato Tokugawa.
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17 li Naosuke (1815-60), Gran Consigliere dello shōgun. Per la sua politica di apertura alle potenze straniere negli anni immediatamente precedenti la Restaurazione Meiji fu assassinato dai lealisti imperiali xenofobi e anti-shogunato. 18 Carta spessa ottenuta unendo fogli trattati con succo astringente di kaki. 19 Firmiana platani}olia. Albero originario del sud della Cina, dalla corteccia di color verde, fiorisce in estate; adorna giardini e vi ali e il suo legno è usato per mobili e costruzioni. 20 Si tratta dello haguro, tintura nera per i denti usata dalla donne sposate. 21 Gli hyōshigi sono due pezzi di legno di quercia (rettangolari o talvolta quadrati) lunghi 20 cm circa. Percossi uno contro l'altro indicano l'inizio e la fine di uno spettacolo kabuki o bunraku. 22 Kōchiyama e il samurai Nao sono i personaggi di un dramma kabuki di Kawatake Mokuami (1816-93), intitolato Kumo ni mago Ueno no hatsuhana (Il primo fiore di Ueno confuso con una nuvola). Naritaya e Otowaya sono gli yagō (nome tradizionale di una famiglia di attori) rispettivamente di Ichikawa Danjuro ix (1838-1903) e Onoe Kikugorō v (18441903). All'epoca esistevano degli imitatori-professionisti (detti kowairo tsukai) che si esibivano, davanti ai teatri e per le strade all'interno dei quartieri di piacere, nell'imitazione di attori famosi. Lo studente di cui si parla imita a sua volta i kowairo tsukai. 23 Nel folklore giapponese, la volpe è animale dotato di poteri magici, capace di possedere le persone e di assumere sembianze umane, in particolare di belle donne. 24 San'yūtei Enchō (1839-1900), recitatore di rakugo molto celebre nei primi decenni Meiji, autore di monologhi di soggetto sentimentale (ninjōbanashi) o ispirati a storie di spettri (kaidanbanashi). 25 Shimada era un tipo d'acconciatura, tipica delle geisha e delle donne non sposate, mentre momoware era caratteristica delle ragazze tra i sedici e i diciotto anni ed era così chiamata perché ricordava la forma di una pesca divisa a metà. 26 Altro pseudonimo di Fukuchi Gen'ichirō (vedi nota 15). 2/ Nel contesto, più che «cultura» è «civiltà», «educazione». 28 Mimicry nel testo. 29 Joen era un famoso cantastorie dalla corporatura fuori del comune, il quale gestiva come attività collaterale un negozio di tsukudani (pesce, legumi e alghe bolliti in salsa di soia). 30 In Giappone la zanzariera, grande quanto tutta la stanza, veniva agganciata ai quattro angoli del soffitto, ricoprendo così l'intero vano. 31 Marumage era l'acconciatura classica portata per tradizione dalle donne sposate. I capelli erano divisi in grosse ciocche che terminavano in una crocchia fermata da pettini e spilloni. 32 Le sigarette Tengu, prodotte dall'imprenditore di epoca Meiji Iwaya Shohei a partire dal 1879, erano caratterizzate dalla riproduzione del volto di un tengu e dal colore rosso dell'involucro.
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33 D detto «il nenbutsu del tanuki» indica un farfugliare incomprensibile. Il tanuki (Nyctereutes procyonoides), una specie di procione, è, come la volpe, animale dotato di poteri magici che non sono però mai malefici. Spesso gioca tiri burloni ai viandanti facendo loro sbagliare strada. Il nenbutsu (Namu Amida Butsu = Gloria al buddha Amida) è l'invocazione rivolta ad Amida dai seguaci del jōdosbū (Scuola della Terra Pura) perché consenta loro di rinascere nel suo Paradiso. 34 A Nezu erano state aperte, ma solo nel 1869, delle case di piacere lungo le strade che portavano al famoso santuario (Nezu jinja). Dopo appena dodici anni, ben 574 donne vi lavoravano. Ma la loro vicinanza all'Università Imperiale fece sì che nel 1888 il governo le fece trasferire a Susaki, nella parte orientale della città. Yoshiwara è invece il quartiere di piacere più famoso, il cui inizio risale alla fine del 1626. 35 Focaccina di farina di riso e sake dolce, con ripieno di marmellata di aiuki 36 Kawanabe Gyōsai (1828-89) e Shibata Zeshin (1807-91), pittori di ukiyoe. 37 Attivisti militanti o simpatizzanti del jiyu minken undo («movimento per la libertà e i diritti civili»), che agli inizi dell'epoca Meiji combatté un'aspra lotta politica per l'adozione di un regime parlamentare democratico. 38 Stile di calligrafia in cui erano redatti i documenti ufficiali nel periodo Tokugawa. 39 Per il fatto che nella precedente epoca Edo, il terreno era gestito dal Kōbusho, Palestra delle arti marziali. * Danza comica eseguita con l'accompagnamento di canti popolari. 41 Celebre calligrafo (1836-1888) che fu ciambellano dell'imperatore Meiji. 42 II 210° giorno dell'anno a partire dall'antico capodanno: il momento in cui arrivano i tifoni. 43 Patrinia scabiosaefolia, pianta sempreverde dai fiori gialli, appartenente alla famiglia delle Valerianacee. 44 Ryūnobige (Ophiopogon japonicus), pianta delle Liliacee. 45 Loto d'Oro (giapp. Kin Ren), uno dei principali personaggi femminili del Jin Ping Mei. Esempio di àokufu («awelenatrice», donna bellissima e malvagia), è un'adultera che si sbarazza del marito avvelenandolo. Qui, invece, Otama semplicemente si allontana da Suezō e si innamora di Okada. 46 Sandali in fibra di bambù con la suola di cuoio. 47 Si parla qui di jitsurokumono e kōdanmono. I jitsurokumono («relazioni autentiche») erano racconti che in epoca Tokugawa trattavano di battaglie, vendette, rivalità di clan ecc. Nei primi decenni del periodo Meiji si volsero invece alla cronaca (l'arrivo del commodoro Perry, le rivolte, gli assassinii politici). I kōdanmono erano trascrizioni dei kodan, recitativi declamati in teatri specializzati (detti yose), di argomento epico, oppure ispirati a figure della malavita o a storie di fantasmi. 48 Cronaca composta nel 1610 da Hiraiwa Chikayoshi, in 45 libri, in
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cui si raccontano le imprese di Tokugawa Ieyasu, futuro fondatore dello shogunato Tokugawa, e dei suoi uomini, fino alla battaglia di Sekieahara (1600). 49 Letteralmente «libri da leggere», genere narrativo diffuso nella seconda metà del xvm secolo e nella prima metà del xix, così definiti perché, pur essendo illustrati, come tutta la letteratura popolare in epoca Tokugawa, a differenza degli altri generi era il testo scritto a prevalere sulla parte iconografica. Gli yomibon si rivolgevano dunque a un pubblico più colto, in genere di samurai, con racconti ispirati alla tradizione o a leggende cinesi e giapponesi (Ueda Akinari [1734-1809] a Osaka), o con storie epiche dalle trame complicatissime e fantastiche, popolate da innumerevoli personaggi (Takizawa Bakin [1767-1848] a Edo). 50 Acha no tsubone (1555-1638), favorita dello sbōgun Tokugawa Ieyasu, ebbe un ruolo importante sia a corte sia sul campo di battaglia. 51 Scorrevoli di legno per l'esterno della casa, in genere chiusi di notte o nelle giornate di grande pioggia per proteggere gli shōji. 52 Obon (con il prefisso onorifico) oppure bon: festa buddhista per la commemorazione delle anime dei defunti. Secondo il calendario lunare cadeva tra il 13 e il 16 luglio (in alcune zone in agosto). 53 Oeillères nel testo. 54 Hizikia fusiforme, alga di color marrone. 55 Si tratta del Chunqiu Zuozbuan, un commento storico redatto probabilmente intorno al iv secolo a.C. sul Chunqiu («Annali di Primavere e Autunni»), uno dei Cinque Classici confuciani, cronaca dei principali avvenimenti svoltisi nel periodo che va dal 722 al 481 a.C. nel principato di Lu, dove nacque Confucio. 56 Ryōzan è la lettura giapponese del nome di una montagna della regione dello Shandong, in Cina. Nel romanzo cinese di epoca Ming Shuihuzbuan (Storia sul bordo dell'acqua; in giapp. Suikoden-, in traduzione italiana, 1 briganti, Torino, Einaudi, 1956), sul monte hanno le loro basi gruppi di uomini costretti al brigantaggio per aver subito torti o ingiustizie, e che si fanno difensori degli oppressi e nemici delle autorità corrotte. L'espressione «Ryōzanpaku» (le paludi del Ryōzan) indica un luogo dove si riuniscono persone coraggiose e di alti ideali. 5/ Santuario posto sulla collina di Ueno in cui si venera Tokugawa Ieyasu, il fondatore dello shogunato Tokugawa. 58 Erwin von Baelz (1845-1913), medico tedesco. Fu in Giappone dal 1876 al 1905 per insegnare fisiologia, medicina e ginecologia alla scuola medica di Tōkyō. Nel 1905 rientrò in Germania, per fare ritorno in Giappone tre anni dopo. È considerato uno dei padri della medicina giapponese moderna. 59 Somon è il più antico testo medico cinese, attribuito a un leggendario imperatore; gli altri sono, rispettivamente, dell'epoca Zhou (1120 ca. a.C.256 a.C.), degli Han Posteriori (25-220 d.C.) e di epoca Sui (581-618). I titoli dei trattati sono riportati nella lettura giapponese. 60 Uno dei sei organi interni nella classificazione della medicina tradizionale cinese, comprendeva l'intestino, lo stomaco e la vescica.
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Così nel testo, ma in realtà «Messageries Maritimes». Narushima Ryūhoku (1837-1884), studioso e letterato. Poco prima della caduta dello shogunato Tokugawa era divenuto funzionario per la politica estera. Con la Restaurazione Meiji divenne direttore del «Chōya shinbun» (La nazione), assumendo posizioni molto polemiche verso il nuovo governo, i provvedimenti di censura alla stampa ecc. La sua opera più famosa è Ryūkyō shinshi (Nuove cronache di Yanagibashi), in cui viene nostalgicamente rievocata l'atmosfera dei quartieri di piacere della vecchia Edo, non senza violenti attacchi alla volgarità e all'arrivismo dei nuovi ceti dirigenti. 63 Shibata Shōkei (1850-1910), professore di chimica organica alla Facoltà di medicina di Tokyo. Era stato borsista in Germania nei primi anni Meiji. 64 Unbefangen nel testo. 62
GLOSSARIO
acconciature Nel testo compaiono: ichōgaeshi (v.); momoware (per le ragazze tra i sedici e i diciott'anni, ricorda la forma di una pesca divisa a metà); marumage (portata per tradizione dalle donne sposate. I capelli erano divisi in grosse ciocche che terminavano in una crocchia fermata da pettini e spilloni) ; shimada (dapprima pettinatura tipica delle geisha, usata poi anche dalle donne non sposate. I capelli erano gonfi e laccati, la nuca ricoperta dalla parte inferiore dello chignon. Il nome derivava dal quartiere di piaceri di Shimada). Benten (o Benzaiten) Unica divinità femminile tra i sette dèi della felicità (shichifukujin). Di origine indiana, è rappresentata mentre suona il koto, assisa sul dorso di un drago. daimyō (Lett. «grande nome»). Termine usato per designare, dal periodo Kamakura (1192-1333) sino al 1868, il capo di una casata militare, proprietario di un'ampia estensione di terra (lo han) e provvisto di un esercito personale. 190
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futon Termine che sta a indicare sia il materassino sia la trapunta usati dai giapponesi per dormire. Di giorno riposti in armadi a muro e di sera stesi sui fatami. & —
Calzatura tradizionale in legno. L'infradito, formato da due cordoni di seta o di velluto, è fissato su una suola di legno piana e rettangolare, distaccata da terra da due supporti paralleli, chiamati in giapponese «denti». gidayū Stile di canto del teatro dei burattini (jōruri). Prende il nome da Takemoto Gidayū (1651-1714) che dal 1684 musicò i testi del famoso drammaturgo Chikamatsu Monzaemon (1653-1725). haiku Forma poetica di sole 17 sillabe sullo schema di 5-7-5, sorta nel periodo Tokugawa e il cui massimo esponente è Matsuo Bashō (1644-94). Inizialmente noto come haikai. hakama Ampi pantaloni a pieghe, aperti lateralmente, indossati sopra il kimono. Nei secoli, lo hakama ha assunto fogge diverse. Oggi è parte dell'abito formale maschile. han Dominio. Territorio concesso a un daimyō, che aveva pieni poteri sul suo han, ma doveva sottostare alle leggi dello shogunato su scala nazionale. La sede era sia nella capitale dello han, sia a Edo dove il daimyō era tenuto a risiedere periodicamente. hanten Corta giacca di cotone grezzo. Quando porta impresso sul 192
dorso il monogramma (shirushi) del datore di lavoro è detto shirushi hanten. ichōgaeshi (o ichō) La più diffusa acconciatura femminile tra la fine del xix e l'inizio del xx secolo. Detta a forma di «foglia di ginkgo», è un morbido chignon raccolto sulla nuca che può ricordare anche le ali di una farfalla. jūjutsu Termine antico per jūdō, una delle principali arti marziali giapponesi. Meiji Sono così chiamati gli anni di regno dell'imperatore Mutsuhito, dal 1868 al 1912. miso Pasta di soia bollita e fermentata, con aggiunta di sale, lievito e altri ingredienti. Molto usato nella cucina giapponese come condimento e per conservare gli alimenti. mochi Riso glutinoso cotto a vapore e pestato a lungo in un mortaio di legno. Se ne ricavano focacce tonde di varie dimensioni oppure fogli quadrati e pressati. obi Fascia alta e rigida (di seta ricamata o di broccato) che serve a tenere chiuso il kimono, annodata dietro con un ampio nodo. ochazuke Semplicissima minestra ottenuta versando del tè verde sul riso bollito, con aggiunta di qualche pezzetto di pesce, di alga e altro per insaporirla.
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omoto Rohdea japonica. Erba perenne e sempreverde della famiglia delle Liliacee. Cresce spontanea nelle zone più calde del Giappone ed è anche coltivata a scopo ornamentale. rakugo Breve monologo comico caratterizzato da una battuta finale arguta e da abili giochi di parole. Nato agli inizi dell'epoca Tokugawa, secondo la tradizione per merito di Anrakuan Sakuden (1554-1642), ebbe come centri principali Osaka e Edo. Grazie anche alla diffusione attraverso i canali televisivi, mantiene ancor oggi intatta la sua tradizione di spettacolo popolare. Restaurazione Meiji (Meiji ishin). Con «restaurazione» o «rinnovamento» Meiji si intende il movimento che portò nel 1867 alla caduta dello shogunato Tokugawa dopo 265 anni di governo e al ripristino dell'autorità imperiale. Nell'occasione l'imperatore trasferì la capitale da Kyoto a Edo, che prese il nome di Tōkyō («capitale d'oriente»), samurai Termine che designa l'aristocrazia guerriera del Giappone premoderno, formatasi nelle province sin dal x secolo e detentrice del potere effettivo dal tardo XII secolo fino alla Restaurazione Meiji (1868). san Suffisso (identico al femminile e al maschile) che si pone dopo il nome o il cognome di una persona. Significa «signore/a» e non va mai usato parlando di se stessi. sen Un centesimo di yen. 194
senbei Crackers di riso soffiato e salsa di soia, spesso avvolti in una foglia di alga secca. shamisen Strumento musicale a tre corde suonato con un plettro d'avorio. La cassa armonica è ricoperta di pelle di gatto. Strumento caratteristico della geisha. shirushi banten Uno hanten (v.) con impresso sul dorso il monogramma {shirushi) del datore di lavoro shōgun Capi militari i cui regimi (bakufu Kamakura [1192-13331, Ashikaga o Muromachi [1392-1573] e Tokugawa [16031867]) dominarono la politica giapponese per gran parte della sua storia. shōji Scorrevole su intelaiatura di legno chiaro e leggero a riquadri ricoperti di ivashi (carta giapponese) opaca che lascia filtrare una luce diffusa. soba Vermicelli di grano saraceno. Si mangiano sia freddi (immergendoli in una salsa di soia) sia caldi, in brodo. tasuki Cordoncino usato dalle donne di casa per tenere ferme e rialzate le maniche del kimono in modo da avere più libertà di movimento. tatami Anticamente termine generale per indicare stuoie di giunco, di paglia o di bambù, o anche pelli di animali o drappi di seta che venivano stesi sull'impiantito delle case patrizie. 195
Oggi per tatami si intende una struttura rigida, dalle misure standard (90 x 180 cm circa), posta sul pavimento delle stanze in stile giapponese, e il cui numero definisce l'area del vano. I tatami sono formati da stuoie di giunchi intrecciati che rivestono una spessa imbottitura di paglia di riso pressata (di circa 5 cm) e sono bordati da una passamaneria decorata. (Lett. «cane celeste»). Creatura fantastica dalla figura umana, ma con un lungo naso rosso e le ali, abitante delle montagne. In letteratura in genere accreditato di poteri sia benefici che malefici.
cinese; in senso stretto, la poesia di 31 sillabe sullo schema 5-7-5-7-7. yose Teatro d'avanspettacolo, le cui origini sono da ricondurre ai cantastorie itineranti. yukata Leggero kimono di cotone, in genere di colore bianco e blu, usato soprattutto d'estate.
tokonoma Rientranza squadrata, dal soffitto al pavimento, nelle stanze in stile giapponese, nella quale trovano posto, a seconda delle stagioni e delle occasioni, un dipinto, un esemplare di calligrafia o dei fiori. L'ospite d'onore siede sempre di spalle al tokonoma. toni Struttura di legno, spesso dipinta di rosso, composta da due montanti leggermente inclinati, collegati da due travi orizzontali, la superiore un po' ricurva verso l'alto, posta all'entrata dei santuari shintō. ukiyoe (Lett. «dipinti del mondo fluttuante»). Pitture e soprattutto stampe su matrici di legno, popolari a Edo (Tōkyō) dal 1680 al 1850 circa. Hanno per soggetto il mondo dei quartieri di piacere e del teatro kabuki, bellezze femminili e vedute paesaggistiche. waka (Lett. «poesia giapponese»). In senso lato tutta la poesia scritta in giapponese per differenziarla da quella scritta in 196
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MILLE GRU
Collana di classici giapponesi diretta da Adriana Boscaro
Stampato da La Grafica & Stampa editrice s.r.l., Vicenza per conto di Marsilio Editori® in Venezia «Letteratura universale Marsilio» Periodico mensile n. 151/2005 Direttore responsabile: Cesare De Michelis Registrazione n. 1332 del 28.05.1999 Tribunale di Venezia Registro degli operatori di comunicazione-Roe n. 6388
EDIZIONE
10
9 8 7 6 5 4 3 2
ANNO
2005 2006 2007 2008 2009
Akutagawa Ryūnosuke, Racconti fantastici, a cura di C. Ceci, pp. 132 Anonimo, Le concubine floreali. Storie del Consigliere di Mezzo di Tsutsumi, à cura di Y. Kubota, pp. 208 Anonimo, La principessa di Sumiyoshi, a cura di C. Negri, pp. 144 Anonimo, Storia di Ochikubo, a cura di A. Maurizi, pp. 296 Anonimo, Stona di un tagliabambù, a cura di A. Boscaro, pp. 104 Edogawa Ranpo, La belva nell'ombra, a cura di G. Canova, introduzione di M.T. Orsi, pp. 176 Enchi Fumiko, Maschere di donna, a cura di G. Canova Tura, introduzione di M.T. Orsi, pp. 212 Fukunaga Takehiko, La fine del mondo, a cura di G. Canova, introduzione di Katō Shūichi, pp. 112 Hiraga Gennai, La bella storia di Shidōken, a cura di A. Boscaro, pp. 208 Ibuse Masuji, La pioggia nera, a cura di L. Bienati, pp. 416 Ishikawa Jun, I demoni guerrieri, a cura di M.T. Orsi, pp. 152 Izumi Kyōka, Il monaco del monte Kōya e altri racconti, a cura di B. Ruperti, pp. 344 Kamo no Chōmei, Ricordi di un eremo, a cura di F. Fraccaro, pp. 112 Kawabata Yasunari, Racconti in un palmo di mano, a cura di O. Civardi, pp. 512 La monaca tuttofare, la donna serpente, ti demone beone. Racconti dal medioevo giapponese, a cura di R. Strippoli, pp. 232 Miyazawa Kenji, Una notte sul treno della Via Lattea e altri racconti, a cura di G. Amitrano, pp. 180 Mori Ōgai, L'oca selvatica, a cura di L. Costantini, pp. 200 Nagai Kafū, Al giardino delle peonie e altri racconti, a cura di L. Bienati, pp. 308 Nakajima Atsushi, Cronaca della luna sul monte e altri racconti, a cura di G. Amitrano, pp. 200 Natsume Sōseki, Sanshirō, a cura di M.T. Orsi, pp. 336
Sakaguchi Ango, Sotto la foresta di ciliegi in fiore e altri racconti, a cura di M.T. Orsi, pp. 154 . Tanizaki Jun'ichirō, La morte d'oro, a cura di L. Bienati, pp. 104 Tanizaki Jun'ichirō, Yoshino, a cura di A. Boscaro, pp. 144 Ueda Akinari, Racconti di pioggia e di luna, a cura di M.T. Orsi, pp. 216 Ueda Akinari, Racconti della pioggia di primavera, a cura di M.T. Orsi, pp. 228
L'oca selvatica (1915), tuttora u n o dei libri più amati dello scrittore, narra la storia di O t a m a , la «ragazza alla finestra», e del suo amore impossibile per il giovane Okada. Romanzo rivolto con sguardo nostalgico verso un sogno di giovinezza e di illusioni perdute, spicca per la sapienza dell'impianto narrativo e il tratto sicuro nel delineare i personaggi in un'opera la cui vocazione è spesso quella di una «letteratura di idee». Proprio come al di sotto della brillante immagine di fedele funzionario governativo e artista di successo che Mori Ōgai offriva emergevano le inquietudini di una vita divisa tra le esigenze della scrittura e il legame con u n o stato autoritario e repressivo, cosi, nel silenzioso e quasi inavvertito scorrere degli eventi del romanzo, si nascondono i temi cari alla riflessione dell'artista: la quotidianità minacciata dalla dimensione oscura e «notturna» dell'uomo, l'eccessivo rigore morale e la presa di distanza dalla realtà, sempre in procinto di mutarsi in gelido vuoto dei sentimenti. L O R E N Z O C O S T A N T I N I è laureato in lingua e letteratura giapponese presso l'Università Ca' Foscari di Venezia.