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MARY ROBERTS RINEHART L'INCUBO (The Door, 1930) 1 Mi sono fatta male a un ginocchio, per cui, da ormai due settimane, i momenti salienti delle mie giornate sono sempre tre, e sempre gli stessi: quelli dei pasti. Due vassoi quotidiani mi vengono portati qui, nella biblioteca. Ogni mattina alle dieci, un'infermiera, applicando una prescrizione d'ispirazione infernale, tenta di alleviare le mie sofferenze. E, dopo la sua visita, rimango sola con i miei pensieri. Pensieri ancora annebbiati, caotici. Mi opprime il silenzio della casa. Sento la mancanza della cara Judith, ora affaccendata per cose proprie. Può darsi che mi dia questo senso di vuoto anche la tensione nervosa dei mesi scorsi. È difficile interessarsi alle polpettine del pranzo o all'arrosto della cena, quando si ha la mente invasa da ricordi tragici. Continuo a pensare a fatti delittuosi, e anzi, addirittura al maggiore dei delitti. Vivo sola, o meglio non coabito con persone della famiglia. Una segretaria, che è quasi sempre una donna giovane, e il personale di servizio dividono con me la mia casa. E poiché in essa si verificò il primo delitto, occorre darne subito le caratteristiche. Erano domiciliati qui, all'epoca della sparizione di Sarah Gittings, oltre alla mia graziosissima segretaria, Mary Martin, quattro domestici: Joseph Holmes, mio maggiordomo da diversi anni, uomo dall'aspetto rispettabile, di età incerta, e molto tranquillo; Robert White, il mio autista di colore; la cuoca, Nora Moriarity, e Claire Jenkins, la cameriera. Veniva allora anche la lavandaia, nelle ore diurne, e Abner Jones curava, dal principio della primavera alla fine dell'autunno, i viali e i cespugli del giardino. Poiché non pochi episodi della vicenda da narrare si sono svolti qui, nella mia casa o nel giardino, sarà opportuno che di questo e di quella cerchi di dare un'idea generale. La casa dista una trentina di metri dalla strada. In fondo al giardino, il cancello è stato rimosso; ne sono rimasti solo i pilastri a segnare l'entrata della proprietà, e cioè l'inizio del viale che circonda l'ovale del prato verdeggiante dirimpetto al portone e alla facciata principale. Il giardino è protetto da un sipario di alberelli che non ho avuto il coraggio di far diradare. Tutta la proprietà è, del resto, cosparsa di cespugli.
Perciò il garage, dietro la casa, è parzialmente riparato dagli sguardi indiscreti, mentre di lì si vede benissimo, come lo si capirà in seguito, la finestra della mia dispensa. Dietro il garage esiste un fosso profondo che è stato di recente incluso nel parco comunale. Da un lato della mia proprietà si stende una landa incolta e invasa dai rovi, che qui chiamano "terra dei Larimer". Attraversa quel terreno un viottolo che, allontanandosi dalla strada maestra, segue il pendio del poggio per andare a finire nel parco. Ne vedo una gran parte d'inverno, quando gli alberi sono spogli. Tuttavia mi rimane parzialmente nascosto, in quanto anch'esso, come la terra dei Larimer, è orlato da una fitta fila di vecchi cedri. Proprio sulla terra dei Larimer, e a poca distanza dal viottolo, venne commesso il primo delitto. Non ho vicini. Questa parte della città era ancora campagna quando fu costruita la casa e venne disegnato il giardino, il quale, dal lato opposto a quello già descritto, confina con una vastissima proprietà, comprata or non è molto da un contrabbandiere messosi a riposo. Sebbene non sia di stile moderno, la mia casa è assai comoda. Scrivo nella biblioteca. Ho una gamba distesa sulla sedia a sdraio, mentre sull'altro ginocchio poggia la cartella con i fogli sui quali tento di fermare il mio pensiero. Accanto a me, un tavolino con una fila di matite, e il campanello che mi serve per chiamare. Ci sono, oltre alla scrivania in noce in stile settecentesco, un caminetto, sedie e libri. Le finestre laterali danno sul terreno dei Larimer, quella davanti sul viale. La stanza non è, quindi, soltanto piena di comodità: occupa nella casa anche un posto strategico. Senza muovermi, posso vedere da qui chi viene a trovarmi e, inoltre, sorvegliare una parte del pianterreno. Sono un po' a destra del portone d'ingresso e dell'attiguo vestibolo. Sul vestibolo, da dove parte la scala bianca e che ha in fondo una piccola porta di comunicazione con le stanze di servizio, si apre un salotto. Ne scorgo alcuni mobili: lo stipo in similoro, il divano coperto di un damasco rosa pallido e il ritratto di mio padre. E, sebbene non possa vederla dal posto dove sono ora, inchiodata, so che all'altro capo del salotto, incorniciata per merito mio da un rivestimento d'edera e di rododendri, c'è una portafinestra i cui gradini dominano il prato. So pure, perché li ho misurati esattamente, che corrono quindici metri tra quella finestra e la porta della cucina che si trova da un altro lato, voltato l'angolo della casa. Oggi, questo mio dominio è quieto nel sole invernale. È caduta un po' di neve e i cedri più in alto, sul pendio, sono proprio belli da vedere. I miei
cani, Big e Ben, dormono pacificamente davanti al fuoco di legna. Big è un bracco; Ben, un bestione della razza dei mastini. Di solito, la mia segretaria non sta fissa qui, ma viene soltanto di giorno ad aiutarmi nel disimpegno delle mille incombenze di una donna che ha una posizione sociale come la mia. Appunto perché non ho una famiglia, mi si ritiene sempre pronta a soddisfare, occupandomi di opere benefiche, i bisogni dei miei istinti materni. Ma nell'aprile scorso, Mary Martin, per una ragione che si riconnette direttamente al mio racconto, era domiciliata in casa mia. Pochi mesi prima, in autunno, Nora aveva rinvenuto un'antica mazza, reliquia del nostro bellicoso nonno, il capitano Bell, e me l'aveva portata per farmela vedere. Le avevo detto di consegnarla a Joseph, perché ne ripulisse il pomo. Joseph era poi venuto a riportarmela tutto sorridente, cosa che mi aveva colpito perché si trattava di un avvenimento molto raro. "È una mazza singolare, signorina" mi aveva detto. "C'è dentro una lama." "Una lama? A che cosa sarà servita?" Joseph non aveva saputo spiegarmelo. Poco tempo dopo, avevo mostrato la mazza a mio cugino Jim Blake; essa gli aveva suggerito l'idea che doveva poi condurmi in casa di Mary Martin. "Perché" mi aveva detto "non scrivi la vita del capitano? Devi avere un baule pieno di sue lettere, o dirette a lui, e questo bastone animato offre uno spunto originale per una biografia. A proposito, se mai ti venisse voglia di regalare quell'arnese, dallo pure a me." "Può darsi che me ne venga la voglia" avevo risposto. "Non mi piace avere armi micidiali in casa." Infatti, a marzo, mi ero decisa a regalargli la mazza. La "Vita", come per antonomasia Judith chiamava il lavoro cui collaborava Mary, procedeva allora a gonfie vele. Mary non mi è mai andata a genio, ma è un'ottima segretaria. 2 Era quella la situazione il giorno dell'aprile scorso in cui Sarah Gittings sparì. Il personale di servizio ha un suo quartierino al secondo piano, sul retro. Lassù, dietro la porta che divide quella parte del piano da quella che ha le finestre sulla facciata, c'è una scala di servizio, la quale offre alla servitù
un mezzo assai comodo per andare e venire a suo piacimento. A Mary avevo dato una delle due camere sul davanti, quella sopra la biblioteca; l'altra, sovrastante il salottino blu, era occupata da Sarah. La porta della stanza di Mary era quasi sempre aperta; quella di Sarah invece sempre chiusa, e anzi, per lo più, chiusa a chiave. Assieme a tante buone qualità, Sarah aveva un brutto difetto: era sospettosa. Non stava di continuo a casa mia. Quel donnone poco ciarliero era un'infermiera professionale che da molti anni abitava ora con l'uno, ora con l'altro di noi. Ogni tanto ce la scambiavamo. Mia sorella Laura telegrafava dal Kansas: "Bambini con rosolia; se possibile, mandami Sarah". E Sarah preparava la valigetta, andava a incassare un piccolo assegno e prendeva il treno. Più spesso ancora che da Laura o da me, si tratteneva in casa dei cugini Somers a New York. Katherine le era molto affezionata, forse perché lei, taciturna, non andava mai in giro a raccontare le confidenze ricevute. Non era intelligente. O forse sbaglio a dire così. In una famiglia come la nostra, dove a tutti piace discutere e fare battute di spirito, può darsi che si sentisse intimidita. Non aveva in sé nulla di romantico o di misterioso. La consideravamo quasi come un mobile di casa, destinato a invecchiare, ma giammai, certo, a essere scartato. Ricordo il giorno in cui Howard Somers le disse di averla nominata nel proprio testamento: «Non si tratterà di una gran somma, però puoi scacciare lo spauracchio del ricovero.» Non so perché fummo tutti stupiti di vederla scoppiare a piangere. Doveva aver temuto molto la vecchiaia, l'avvicinarsi del tempo in cui i bambini, cresciuti, l'avrebbero dimenticata. Fatto sta che l'inattesa notizia la sconvolse, e Howard, lì per lì, ci rimase male. Aveva, s'intende, le sue bizzarrie. Nella casa di Kate, per sottrarsi al continuo viavai degli ospiti di riguardo, aveva preso l'abitudine di consumare i pasti nella propria stanza, e quell'abitudine aveva poi mantenuto. A casa mia, essendo le consuetudini molto più semplici, si metteva a tavola con me, a meno che non avessi qualche invitato. In questo caso, sfidando la rabbia muta, mal dissimulata del maggiordomo, si faceva portare in camera il vassoio con il pranzo. Era tornata da me da circa un mese. Non tanto perché avessi veramente bisogno delle sue cure, quanto perché Kate aveva voluto che si svagasse un po'. Howard da tempo soffriva di un disturbo cardiaco e Sarah lo aveva assiduamente vegliato.
Ho ritratto Sarah quanto più esattamente ho potuto, e ho appena accennato ad altri di noi: a Laura, la sorella stabilitasi a Kansas City, dove alleva una chiassosa nidiata; ai cugini Somers e alla loro Judith, sistemati nei due piani di uno splendido appartamento di fronte a Central Park, a New York; a me stessa, chiusa in una casa d'altri tempi. Dedita alla compagnia di pochi intimi, trattenuti a cena ogni tanto, e a qualche partita di bridge, ho intorno a me solo i domestici, e questa o quella Martin che, mentre fungono da segretarie, si servono di me come trampolino da cui spiccare il salto per il tuffo nel mare magnum di una vera e propria carriera: quella matrimoniale, di preferenza. E questo è quanto, come direbbe Judith. Per combinazione, Judith era con me la sera in cui Sarah sparì. Capitava spesso all'improvviso, e con dichiarazioni di questo genere: "Mi sento proprio stanca della compagnia di Kate. È troppo aggressiva. Tu, invece, sei riposante. Perché vedi, Elizabeth, con tutte le tue arie, sei in fondo una persona frivola". Io rispondevo tutta compunta: "La frivolezza è la sola debolezza che possa ancora permettermi". Pochi minuti dopo l'arrivo di Judith, il telefono si metteva a suonare ed eleganti macchine cominciavano a stazionare sul viale, davanti al portone. Joseph faceva una faccia da funerale, vuotava dozzine di portacenere e veniva a dirmi sospirando: "È stato bruciacchiato il ripiano della sua scrivania, signorina". "Pazienza, Joseph. È un lusso che va pagato, quello di avere attorno un po' di gioventù." Joseph, poco socievole anche lui come Sarah, si richiudeva subito nel mutismo dignitoso del perfetto servitore. Judith, quella sera, mi aveva fatto una delle sue solite improvvisate. L'avevo vista un po' imbronciata, e durante la cena, tanto più liberamente in quanto Mary era assente ed eravamo quindi sole a tavola, mi spiegò così la causa del suo malumore: «Kate è troppo prepotente.» Judith ha la mania di chiamare la gente per nome. "Kate" è sua madre. «Probabilmente, definisce te allo stesso modo» replicai. «Ma si sbaglia di grosso. Figurati, non vuole che frequenti Walter. Perché trattarlo come un tipaccio da evitare? Alla fin fine, è mio fratello!» Non fiatai: quello era un annoso argomento di cruccio nella famiglia Somers. Kate non ha mai saputo superare l'antipatia nei confronti del figliastro, a causa del ricordo vivo e per lei sempre molesto del primo di-
sgraziato matrimonio di Howard; l'antipatia nei confronti del "figlio di papà" ridottosi dopo la guerra in uno stato vicino alla nevrastenia, del giovane aitante che assomigliava moltissimo alla madre. «Tu hai un debole per Walter.» «Non è stato trattato bene. Da nessuno di noi. Papà gli passa un assegno mensile che è quasi una miseria, e ora mi si proibisce d'incontrarlo!» «Stai calma, lo incontrerai stasera stessa. Pare che voglia esaminare un vecchio stipo in similoro che mi ha mandato Laura.» Judith si rasserenò come per incanto. «Oh, bene! Lo stipo avrà qualche cassettino segreto, vero? Mi diverto moltissimo a cercare cassettini misteriosi.» Prima di mettersi a tavola, era corsa al secondo piano a salutare Sarah, che, mentre stavamo ancora cenando, sentimmo scendere. La cosa non aveva nulla di straordinario. Più d'una volta l'avevo vista allontanarsi di sera, per andare al cinema o portare fuori i cani. Dal mio posto potevo vederla scendere. Il caminetto del salottino blu fa angolo tra due pareti e, nello specchio che lo sormonta, scorgo una parte delle scale. Quella sera, però, Sarah non era vestita come al solito. Sicché la chiamai. «Vai al cinema, Sarah?» «No.» Era sempre un po' secca nelle sue risposte. «Ti dispiacerebbe portare fuori i cani? Oggi sono stati sempre chiusi in casa.» Sembrò esitare un momento. Potevo vedere la sua faccia nello specchio, e vi scorsi una strana smorfia. In quell'attimo, però, Big e Ben le saltarono intorno. «Prendili con te, Sarah» insistette Judith. «Ma sì, credo di potermeli portare dietro» rispose lei un po' controvoglia. «Che ore sono?» Judith guardò l'orologio da polso e le disse l'ora. Poi soggiunse: «E facciamo attenzione a comportarci bene, signorina Sarah...» Lei non rispose. Mise il guinzaglio ai due cani e se ne andò. Ciò accadeva alle diciannove e quindici. Ci trattenemmo a tavola, Judith e io. Cioè, ci rimasi io sola, poiché, appena ingoiato l'ultimo boccone, Judith andò a rispondere a due telefonate. La prima era di un ragazzo, un certo Dick. La voce della cuginetta divenne fredda quando rispose alla seconda: «Non capisco perché... Sa benissimo che sono qui... Eh, non ho fatto nessuna scappatella. Non avrei bisogno di
venire qua per darmi alla pazza gioia... No, è uscita...» Ho voluto riferire questa conversazione, perché era destinata ad assumere molta importanza. Se ben ricordo, avvenne pochi minuti dopo la partenza di Sarah. Judith mi si avvicinò con un'aria di sfida. «Era lo zio Jim» mi spiegò. «Figurati che Kate lo ha incaricato di sorvegliarmi.» Personalmente, ho molta simpatia per Jim, prodigo di quelle gentilezze che tanto piacciono a una donna della mia età. E l'adorazione di Kate per lui è sempre stata evidente. «Mi ha chiesto di Sarah, e gli ho risposto che era uscita. Perché diamine aveva bisogno di parlarle?» «Avrà avuto qualche incarico per lei, da tua madre.» «Già, l'incarico di sorvegliarmi» ribatté Judith. Ricordo che continuammo a parlare di Jim. Lei lo giudicava con il disprezzo della gioventù per un quarantenne senza occupazione fissa. Non riesco a rievocare l'immagine del Jim di allora, a ripensarlo quale doveva essere quando uscì di casa sua, quella sera. Un uomo alto, dal portamento eretto, i capelli brizzolati accuratamente pettinati in modo da nascondere l'incipiente calvizie. Jim è stato sempre corretto nei modi e sempre ben vestito. E in genere, anche benvoluto. Non ha mai permesso che i suoi affari, consistenti in compravendita di terreni, lo privassero di una partita a golf o a carte; e, per mantenere il suo posto in società, ha offerto ai numerosi amici pranzi e cene. Aveva allora un domestico di colore, Amos, svelto al punto che gli invitati mangiavano cibi cucinati dallo stesso che poi, in veste di cameriere, serviva a tavola. E quando si congedavano, trovavano fuori della porta, accanto alla loro macchina, un Amos vestito da valletto già pronto con la coperta sul braccio, nella quale dovevano fasciarsi le gambe. Poiché i più non riescono a distinguere un nero da un altro, sarà certo parso agli invitati di mio cugino che lui avesse una mezza dozzina di servitori ai suoi ordini. Quando Joseph ci portò il caffè erano... o così, per lo meno, asserì davanti ai giurati... le diciannove e trenta. Judith aveva acceso una sigaretta. Guardavo lei, più graziosa che mai alla luce artificiale del salotto, e godevo dell'animazione portata in casa dalla sua gradita presenza. Sentii poi Joseph andare e venire nella dispensa mentre, nella gran quiete della casa, mi giungevano dalla cucina le voci attutite della servitù. Judith si era fatta silenziosa. Passata l'eccitazione iniziale dell'arrivo, pareva adesso malinco-
nica e stanca. A un tratto, alzai gli occhi sullo specchio del salottino blu. E vidi un uomo sulle scale. 3 Pareva vi si fosse accucciato. Ne vedevo solo le gambe. Non immaginava certo di essere osservato. Doveva stare in ascolto e intento a pensare se lanciarsi in avanti per sparire oppure tirarsi indietro. La porta della sala da pranzo era spalancata: era ben grande il rischio di farsi scorgere da me. Aveva messo in conto di correrlo? Evidentemente decise per il no, poiché, senza voltarsi, rifece la strada su per le scale. «Judith» sussurrai «non muoverti. Non alzare la voce. C'è un ladro per le scale: l'ho visto.» «Lascia fare a me» rispose lei sottovoce. «Dalla biblioteca, dopo aver chiuso la porta, telefonerò alla polizia.» «Fa' così, sì, mentre io chiamo Joseph. Non può scappare dalla scala di servizio senza attraversare la cucina ed essere visto dalle donne.» Suonai per chiamare Joseph, sentendomi calma, e compiacendomene. I pochi gioielli che non sono custoditi in banca, li avevo addosso. Se al mio ladro avesse fatto gola il mio servizio da toilette d'oro, si servisse pure: tanto, quello era assicurato. Tuttavia, nel momento che precedette l'apparizione di Joseph, mi tolsi gli anelli e li buttai in un vaso da fiori, sul tavolo. Joseph accolse la brutta notizia senza scomporsi. Mi disse che Robert era ancora in garage, che lo avrebbe messo di guardia in fondo alla scala di servizio e che occorreva agire senza aspettare la polizia. «Potrebbe saltare da una finestra, signorina. Invece se vado su tranquillamente, come niente fosse, posso coglierlo sul fatto.» «Non sei armato.» «Ho una rivoltella nella dispensa, signorina.» Andai sulla soglia per sorvegliare la scala. «Se dovesse scappare davanti a me, non rimanga sulla sua strada, signorina. Certi delinquenti sono pericolosi.» Detto questo, Joseph si avviò su per la scala, lasciandomi nel vestibolo. Sentivo Judith parlare al telefono, spiegando minutamente senza mai alzare la voce; e sentivo Joseph, sopra il mio capo, andare dappertutto, sistematicamente. Lui era ancora al secondo piano quando udii, vicino a me, un lieve rumore. Non avrei potuto definirlo, e nemmeno localizzarlo. Era stato come
un debole scatto, non lontano dal posto dove mi trovavo. Lo si sarebbe detto provenire dal fondo dell'atrio, dove c'è un piccolo bagno. Quando Judith apparve, le raccontai la cosa, e lei, senza badare alle mie proteste, andò subito ad aprire la porta dello stanzino, che trovammo completamente vuoto. Un momento dopo ritornò Joseph. Non aveva visto nessuno, ma a suo parere il ladro poteva essersi nascosto sul tetto. E poiché era già arrivato un agente in moto, lo mandai a controllare. Caso imprevedibile, e quasi incredibile... né l'agente né Joseph riuscirono a scovare l'intruso, che doveva essere scappato a mani vuote, poiché ritrovai intatto, al suo posto, il mio servizio da toilette. L'agente sembrava divertirsi di fronte alla scena. Ripensandoci, mi pare strana la leggerezza con la quale accettammo il fatto. Quando Walter giunse, alle venti e trenta, sorprese Judith nell'atto d'insistere per farmi fumare una sigaretta. «Sei ancora scossa, Elizabeth.» «Scossa? E perché?» chiese Walter. «Ha visto un ladro: un ladro con un paio di pantaloni scuri, rannicchiato sulle scale.» «Ha visto un ladro sulle scale?» «Solo le gambe.» «E basta?» Walter non disse altro. Tornò nella sala da pranzo e guardò lo specchio del salotto accanto. «Ehi!» fece ad alta voce. «È un trucco ingegnoso, questo, Elizabeth.» Aveva preso l'abitudine di chiamarmi per nome, come la sorella. «Judith, vai su per le scale e fammi vedere le tue gambe.» «Spudorato!» esclamò lei. Dopo di che, andò sulle scale e domandò: «Le vedi?» «Benissimo. E sono molto belle.» Quando lui la raggiunse, Judith propose di esaminare il corrimano della ringhiera, dove secondo lei potevano essere rimaste delle impronte digitali. Walter sostenne l'inutilità dell'indagine, perché, tanto, oggigiorno tutti i ladri portano i guanti. Judith però insistette, e andò a prendere una candela. «Una brutta sorpresa per Sarah, eh?» «Sarah non è in casa, per fortuna. È uscita con i cani.» Mi colpì la magrezza di lui, la sua aria pensosa, mentre la luce lo illuminava in pieno. Era bellissimo come la madre, e come lei molto nervoso. La guerra doveva avergli lasciato ricordi infernali. Mentre eravamo lì in piedi, gli dissi del rumore che avevo udito, e lui si
avviò subito verso il bagno. Quel bagno è proprio in fondo al vestibolo, dietro la porta di comunicazione con la scala di servizio. Prende luce dalla sua copertura a vetri, uno dei quali, al centro, può essere aperto dal di dentro con una corda per la ventilazione. Il vano superiore è paragonabile a un pozzo di ascensore, che sale fino al lucernario del tetto. Sulla parete del pozzo c'è una sola apertura: la finestra del guardaroba della cameriera, al secondo piano, sbarrata da quattro spranghe di ferro. «Qualcuno ha pensato a esaminare la vetrata, lassù?» «No.» Walter continuava a guardare in su. «Può darsi» osservò «che il ladro si sia calato nel vano e ci sia rimasto, poggiando i piedi sulle spranghe.» «Già» risposi senza dare peso all'osservazione. «Questo, però, solo se sapeva della loro esistenza.» A un tratto, Walter corse su per le scale. Pochi minuti dopo gridò, dal secondo piano: «Portatemi una scala! Vedo qualcosa sui vetri dello stanzino!» «È lui? Il ladro?» Walter scoppiò a ridere. «No, è un piccolo oggetto. Lo rischiara appena la luce che viene da sotto.» Ridiscese in fretta e corse nella biblioteca a prendere dei fiammiferi; poi, appena Robert ebbe portato dal garage una scala a pioli, vi si arrampicò e, in men che non si dica, riuscì a sporgersi fuori dal vetro mobile. Eravamo pigiati sulla soglia: Judith con il candeliere in mano; io, Robert e Joseph dietro di me. Non mi spiego la ragione del disappunto che provai nell'udire l'esclamazione di Walter: «Ah, ecco qua una matita!» Lui tornò giù quasi subito, con gli abiti sgualciti, ma molto soddisfatto di sé. «Una matita!» gridò, trionfante. «Ecco la spiegazione del rumore che hai udito, Elizabeth.» Judith esaminò l'oggetto. «Può darsi che la spiegazione sia questa. Si tratta di una delle matite che adopera Elizabeth. E per quanto la punta sia rotta e sciupata, come se fosse stata addentata, non vedo una ragione per arzigogolarci sopra.» Il suo commento parve far stizzire il fratellastro. «Vedremo» la rimbeccò lui. «Potrebbero esserci delle impronte digitali.» Gli incidenti di quella tarda serata mi sono rimasti impressi fin nei loro
minimi particolari: il battibecco tra i due giovani, l'esperimento di gettare una matita dal secondo piano sui vetri dello stanzino, l'impressione che il rumore della caduta fosse diverso da quello udito poco prima, la scoperta di un vetro della portafinestra, nel salotto, rimosso dal suo posto, l'incapacità di scorgere sul primo scalino una punta di temperino trovata la mattina dopo dall'ispettore Harrison. Fu Judith ad accorgersi per prima del vetro rimosso e poi nascosto dietro la tenda della finestra; fu lei a rilevare la facilità con la quale l'intruso aveva potuto mettere dentro la mano per girare la chiave della porta. Ce n'è un'altra, in fondo al salotto, che immette nel corridoio dove finisce la scala di servizio: il malintenzionato era evidentemente passato da quella per accedere ai piani superiori. «Facilissimo» affermò Judith. «Però, non ha potuto andarsene per la stessa via. Claire stava scendendo per la cena, per cui è stato costretto a nascondersi sulla scala grande.» «Sicché credi» la interrogò Walter «che non si sia calato nel vano sopra lo stanzino?» «Non dico che non ci si sia calato» rispose la mia sorprendente Judith. «Secondo me, però, la matita non prova nulla. Può darsi benissimo che l'intruso si sia nascosto nel vano, lassù. Ha indietreggiato finché ha potuto per evitare di farsi sorprendere da Joseph.» A questo punto, le domandai: «Ma, secondo te, a quale scopo si era introdotto in casa mia di nascosto, come un malfattore? Se stava scendendo le scale nel momento in cui l'ho visto...» «Magari le stava salendo» ribatté, pronta, lei. «Un furfante provetto comincia il suo lavoro dall'ultimo piano. Come le massaie quando puliscono a fondo la casa.» Walter aveva messo la matita in una busta da lasciare a disposizione della polizia. Saranno state le ventidue, quando convinsi le mie donne agitate, quasi isteriche, ad andarsene a letto e quando Joseph e Walter finirono di fissare un lucchetto alla portafinestra. Infine diedi anche a Joseph l'ordine di ritirarsi, ma lui obiettò: «La signorina Sarah non è tornata.» «Ha una chiave.» Nonostante la mia sicurezza, l'osservazione del maggiordomo mi aveva colpito. Walter mi fissò, e mi chiese: «Sarah è ancora fuori?» «Sì. Dove potrà mai essere a quest'ora?» Lasciai Walter e Judith nel salotto. Scesi i gradini e mi avviai lungo il
viale provando a fischiare, mentre camminavo, per richiamare i cani. A volte, Sarah li scioglieva e loro accorrevano, velocissimi, precedendola in casa. Mi sembrò di sentire abbaiare in lontananza, ma null'altro. Avevo voglia di proseguire in quella direzione. L'abbaiare pareva provenire dal fondo del terreno dei Larimer, o da più lontano ancora: dal parco. Giunta al cancello, m'imbattei in Mary. Era stata a cena non so dove, ed evidentemente le era rincresciuto di doversene venire via in anticipo. Si lamentava sempre di non avere anche lei, come Sarah, la chiave di casa. Mentre rientravamo insieme, le raccontai la storia del ladro. «Non dovrebbe starsene qui fuori da sola» mi rimproverò. «Se il ladro si aggirasse ancora da queste parti...» «Ero andata incontro a Sarah. È uscita coi cani, ed è tardi.» Con mia somma sorpresa, Mary si fermò di botto. «È uscita da molto tempo?» «Da quasi tre ore.» Si rimise a camminare in silenzio. Il portone era aperto e, alla luce che proveniva dall'interno, potei osservare il suo pallore. Però, in quello stesso momento, Walter apparve sulla soglia, e lei si rianimò. «Non si impressioni, signorina Bell. Sarah è giudiziosa e accorta. E ha la chiave di casa...» Mary mi lanciò uno sguardo impertinente, sorrise a Walter ed entrò. Salutò con sussiego e si avviò per le scale. Lui la tenne d'occhio mentre saliva. Girando sul pianerottolo, lei si fermò. Ci guardò tutti a lungo: Judith, me e Walter. Walter specialmente. «Non preoccupatevi per la signorina Gittings. Di sicuro sta benissimo.» A queste parole, Judith ribatté: «Dia un'occhiata in camera sua. Può darsi che sia tornata, mentre eravamo nel salotto.» La sentimmo canterellare mentre proseguiva verso il secondo piano. Da lassù ci disse che la stanza di Sarah era deserta, ma aperta. «Strano» osservò Judith. «La chiude sempre a chiave.» Sentimmo l'eco di un'ironica allegria nella voce che, dall'alto, le rispose: «Non tanto strano, stasera. Sapeva che non ero in casa io... Ha lasciato la chiave nella serratura, di fuori; evidentemente ha dimenticato di portarsela via.» Non ricordo bene quel che facemmo tra le ventidue e le ventitré. Io mi trattenni in biblioteca. Provavo un'apprensione strana, che però mi pareva di poter collegare agli emozionanti incidenti della serata. Dopo un po', dato
che non sono più giovane e mi stanco facilmente, mi addormentai. Mi svegliai che era l'una. Sarah non poteva essere tornata. Trovandomi in piedi, non avrebbe certo mancato di svegliarmi e di fermarsi poi a spegnere le luci. Ciò nonostante, andai al secondo piano e aprii l'uscio della sua camera. Era buia. Chiamai piano. Non ebbi risposta. La mia apprensione si mutò in acuto timore. Ridiscesi. Presi un cappotto in camera mia, nella sala da pranzo gli anelli momentaneamente dimenticati nel vaso da fiori e, nella notte stellata ma senza luna, uscii fin sulla strada. Il cane o i cani abbaiavano di tanto in tanto. Decisi di andare incontro al richiamo. 4 M'incamminai verso la terra dei Larimer e il parco pubblico. Avevo i nervi tesi, ma i latrati intermittenti mi diventavano sempre più familiari, e quando finalmente provai, non dico a fischiare perché non mi riesce, ma a emettere il tenue sibilo con cui imito il fischio, i cani, riconosciuta la mia voce, cominciarono ad abbaiare ininterrottamente. Come mai non mi correvano incontro? Ferma sulla strada, ripetei più volte il richiamo prima di decidermi ad abbandonare il terreno asciutto e pianeggiante per inoltrarmi nell'umida sterpaglia dei Larimer. E poi, perché non confessarlo? Avevo paura. Qualcosa tratteneva i cani. Corsi a perdifiato. Inciampai in un pezzo di fil di ferro e caddi. Stentai a rialzarmi e rimasi sbalordita per un momento. Di Sarah, nessuna traccia. In quanto ai cani, dovetti addentrarmi sul terreno dei Larimer, prima di poterli scorgere, ma allora ebbi subito la spiegazione della loro immobilità. Erano legati. Un pezzo di corda, passato attraverso l'anello dei loro collari, era stato assicurato al tronco di un albero. E tanto ben assicurato che, tra i loro salti di gioia nel rivedermi e la solidità dei nodi, il compito di liberarli non fu dei più facili. Il luogo era scarsamente illuminato. Dalla strada, un lampione proiettava un po' di luce fino al punto in cui il sentiero sprofonda nel parco. Il terreno dei Larimer è un triangolo di cui il limite del mio giardino forma la verticale, la strada la base, e il fosso l'ipotenusa. Ricordo di aver chiamato Sarah a gran voce e detto e ripetuto a Big: «Cerca Sarah! Cerca, Big!» Il cane mi rispose con un latrato e poi, assieme a Ben, si slanciò verso casa. Ma rimaneva in me uno strano presentimento che Sarah non fosse lonta-
na. Ritornai sui miei passi e vidi i cani annaspare contro il portone chiuso. Chiamai Joseph, perché venisse con me a esplorare il terreno dei Larimer. Lui con la rivoltella e io con la torcia elettrica, dovevamo formare un bel quadretto. È naturale che, appena ci vide, la guardia si avvicinasse per domandare: «Avete smarrito qualcosa?» «Una donna di una certa età» risposi, agitata. «Non dovrebbe essere difficile rintracciare una donna» osservò la guardia con molta calma. Però rimase un po' sorpreso quando raccontai l'episodio del ritrovamento dei cani. «Legati a un albero? Quale?» «Quello laggiù. Joseph, il mio maggiordomo, lo sta esaminando. C'è ancora la corda sul posto.» Ma, un momento dopo, Joseph mi fece trasecolare, gridando: «Signorina, non vedo traccia di corda, qui!» E, per quanto inverosimile, la cosa era vera: la corda era sparita. La guardia cercò. Cercai anch'io. Sia la corda sia Sarah erano irreperibili. L'agente mi sembrava propenso a prendere la cosa sottogamba. «Secondo me, signorina, sarebbe meglio che andasse a letto e ci facesse su una bella dormita.» «Ma c'era una corda! Ho stentato a sciogliere i cani.» «Non ne dubito» affermò con calma l'agente. «È probabile che la signora che cercate li abbia legati lei. Aveva da fare in qualche altro posto e i cani le erano d'impaccio.» Eh, già, la spiegazione era plausibile. Non potevo ammetterlo, però, perché conoscevo Sarah. Ma poi, la conoscevo davvero? La domanda mi si formulò dentro, proprio in quell'attimo. Conoscevo l'aspetto dell'umile, calma, flemmatica, fedele amica. Del suo intimo, invece, non sapevo nulla. «Ora vada a casa» fece l'agente, con il tono che avrebbe assunto parlando a un bambino spaurito. «Vada a riposare. Domattina la rivedrà.» Il giorno dopo era grigio e piovoso. Avevo dormito poco. Erano le otto quando suonai per farmi portare il vassoio della colazione. Qualsiasi speranza che Sarah fosse tornata nelle prime ore della mattina svanì alla prima occhiata che diedi alla faccia di Joseph. Bevvi un po' di caffè. Alle otto e trenta mi venne a trovare Judith, ancora mezzo assonnata ed elegante quanto mai nelle ampie pieghe di un lussuoso pigiama. «Sentiamo, quale spiegazione ti ha dato?» «Judith, Sarah non è tornata.»
«Come? Se l'ho sentita io! Dalle due alle tre non ha mai smesso di andare e venire per la sua stanza. Una bella seccatura.» La camera di Sarah era proprio sopra quella occupata allora da Judith. Balzai a sedere sul letto e guardai sbalordita la cuginetta. Poi, suonai di nuovo il campanello. «Joseph» dissi, appena lui si affacciò all'uscio. «Sei stato nella camera di Sarah, stamattina?» «No, signorina. Mi sono svegliato un po' tardi.» «Perché, allora, mi hai detto che non era tornata?» «Non è scesa a colazione. Di solito scende sempre prestissimo.» Proprio in quel momento, udimmo le voci concitate di Mary e di Claire. Mary corse giù, si precipitò in camera mia e, balbettando per l'emozione, mi informò che Sarah non era nella sua stanza e che questa era tutta sottosopra. Judith corse su immediatamente. Mentre m'infilavo una vestaglia, interrogai Mary. A quanto pareva, aveva bussato all'uscio di Sarah per farsi dare il giornale del mattino. Non avendo ottenuto risposta, si era decisa ad aprire e, di ciò che aveva visto in quel momento, non dovevo tardare a essere edotta. Era tutto a soqquadro: materassi, guanciali, vestiti, scarpe. Anche la scrivania. Persino gli appunti sulle malattie di casa nostra, i taccuini che Sarah si portava dietro come fa un veterano con le sue medaglie, erano stati sciorinati sul letto ed esaminati. Erano le nove e quindici quando telefonai alla polizia. Mezz'ora dopo erano in casa mia un poliziotto in uniforme e l'ispettore Harrison. I due esaminarono la camera. Poi, lasciando l'agente a custodirla, l'ispettore venne ad ascoltare il mio resoconto nella biblioteca. Era un uomo basso di statura, tarchiato e calvo. Mentre discorrevamo, sfilò di tasca uno stuzzicadenti in legno e ne mordicchiò la punta. In seguito, dovevo assuefarmi a quei suoi aggeggi, adoperati a fini vari. Harrison non volle dare troppa importanza all'assenza di Sarah. Almeno per il momento, non gli pareva un fatto inquietante, mentre diede un gran peso all'episodio dell'intruso. Sembrò colpirlo specialmente l'ipotesi di Walter che il malfattore, in quella sua prima visita, si fosse introdotto nel vano sovrastante il bagno. Volle esaminare il vano dal di sopra e dal di sotto. Riscontrò diversi sfregi sul davanzale della finestra del guardaroba di Claire, ma non poté ricavarne una qualsiasi indicazione. Stette per un pezzo a guardare da lassù.
«Può darsi benissimo che qualcuno si sia calato qua dentro» osservò. Girò per la casa, da solo o in compagnia di Joseph. Walter, Judith e io rimanemmo nella biblioteca ad aspettare il risultato del sopralluogo: Judith, calmissima; il fratellastro, invece, andava e veniva visibilmente turbato, prendendo e rimettendo a posto tutti gli oggetti che gli capitavano per le mani. Dopo un po' suggerì che forse Sarah era andata a New York. Judith, secondo lui, avrebbe dovuto telefonare a casa per accertarsene. Discutemmo brevemente la sua proposta, ma poi decisi, per non allarmare Kate, di chiamare Jim e di incaricarlo d'informarsi. Lui accettò di inventare un pretesto per telefonare a Kate. Quando, più tardi, mi chiesero qual era stata la sua risposta, non mi fu possibile dirlo. Mi rammentai soltanto che era parso sorpreso, che aveva detto di non sentirsi bene e di volere, ciò nonostante, venirmi a trovare nel pomeriggio. Quando poi mi telefonò, fu per dirmi che Sarah non era andata dai Somers e che lui contava di essere a casa mia verso le quindici. Il suo messaggio produsse una straordinaria impressione su Walter. Mentre lo guardavo, mi parve di leggergli in viso un certo spavento. Ricordo peraltro che faceva l'effetto di uno che non avesse dormito l'intera notte. Sono anche certa di averlo visto quel giorno ripetere una mossa a lui abituale nell'immediato dopoguerra. E cioè, quando non stava fumando una sigaretta, tormentava il suo anello-sigillo, girandolo e rigirandolo senza posa. Ci lasciò un momento per andare al secondo piano a dare un'occhiata alla camera di Sarah. Il poliziotto gli aprì, ma non gli permise d'entrare. Walter trovò anche il tempo di scambiare poche parole con Mary. Ma era già di nuovo in mezzo a noi, quando l'ispettore rientrò nella stanza. Stavolta, l'immancabile stuzzicadenti serviva a quest'ultimo per enumerare i punti del discorso. «Prima di tutto, bisogna stare attenti a non correre troppo presto alle conclusioni. Parlatemi della chiave della camera. Era dalla parte esterna della porta, ieri sera?» «Così ha riferito la mia segretaria.» «Ebbene, ora è dalla parte interna.» «Non capisco, signor ispettore. Sarah, quando andava fuori, si portava sempre via la chiave della sua stanza.» «Non ne esiste una seconda?» «Che io sappia, no.»
«Ebbene, ammettiamo pure che quella sia la sua. Può non esserlo, ma è assai probabile che lo sia. Supponete per un momento che la signorina Gittings avesse deciso di andarsene alla chetichella. Potrebbe darsi che avesse dimenticato qualcosa e che fosse tornata indietro a prenderla.» «Già» fece, pronta, Judith. «Aveva dimenticato lo spazzolino da denti ed è tornata indietro a riprenderselo. E siccome non voleva confessare a Joseph la sua sbadataggine, si è calata nel vano sotto il lucernario e vi ha lasciato cadere una matita: la cosa è perfettamente chiara.» Senza mostrarsi minimamente offeso, l'ispettore replicò: «Non è affatto provato che qualcuno si sia calato nel vano sopra lo stanzino. Dov'è la matita trovata sulla vetrata?» Aprii un cassetto della scrivania e tirai fuori la busta chiusa da Walter. «Qualcuno di voi l'ha maneggiata, da ieri sera?» «L'ho sollevata dalla parte della grafite» disse Walter. Harrison prese delicatamente la matita, reggendola dall'estremità rivestita di gomma, e la esaminò fischiettando. Poi, ricacciatala nella busta, se la mise in tasca. «Be', questo è quanto. E ora, torniamo alla signorina Gittings. Aveva forse qualche innamorato?» «Un innamorato!» esclamai scandalizzata. «Ma se ha quasi cinquant'anni...» Il mio scatto fece sorridere il funzionario. «Si sono viste cose anche più strane. Forse un innamorato no, ma qualche giovane che fingesse d'interessarsi a lei per un inconfessato secondo fine... il suo denaro, per esempio. Forse aveva messo da parte qualcosa?» «Non saprei. Ma doveva avere dei risparmi.» L'ispettore si rivolse a Judith. «È certa che chi rovistava stanotte in camera della signorina Gittings fosse proprio lei, l'infermiera?» «Certissima. La camera è sua e i cani non hanno abbaiato. Avrebbero fatto un baccano del diavolo, se fosse stato un estraneo.» «Oh!» esclamò l'ispettore, mentre tirava fuori un altro stuzzicadenti. «Ecco un dato interessante. I cani hanno riconosciuto la persona che frugava...» Rimase un momento soprappensiero, quindi mi domandò: «La signorina aveva amici in città?» «Nessuno.» «Non le ha mai parlato di una certa Florence?» «Florence? A me, mai.» Il mio interlocutore si sedette prima di proseguire: «Vede, noi crediamo
di conoscere bene certi individui, poi accade qualche fatto insolito e, nel sovvertimento dell'ordine regolare delle cose, ci accorgiamo di non averli conosciuti affatto. Le darò io alcuni ragguagli sulla vita di Sarah Gittings. Era inquieta da un po' di tempo, da circa due settimane. Aveva perso l'appetito e il sonno. Alle volte, nel cuore della notte, continuava per ore e ore ad andare e venire nervosamente per la sua stanza. In quella quindicina di giorni è stata, per lo meno due volte, chiamata al telefono da una ragazza, una certa Florence, con la quale ha preso due appuntamenti. Uno è stato fissato ieri mattina, alle undici. La cuoca, che cercava di mettersi in comunicazione con la macelleria, ha sorpreso la conversazione. Disgraziatamente, però, il luogo doveva essere stato già stabilito in precedenza, e non è stato menzionato. «Sarah Gittings è uscita, ieri nel pomeriggio, verso le diciassette. Secondo il maggiordomo è tornata dopo circa mezz'ora. Ha chiesto di poter cenare prima del solito ed è uscita di nuovo alle diciannove e quindici. Ma nel frattempo aveva fatto due cose inconsuete. Era scesa nella lavanderia e, dopo aver preso una sedia, l'aveva portata nella legnaia. È ancora dove l'ha lasciata lei. Stando poi a quel che dice la lavandaia, la Gittings ha tagliato da un mucchio di corda un pezzo piuttosto lungo. La fune è stata quindi riarrotolata accuratamente: un'osservatrice molto acuta, quella lavandaia...» Walter sembrò confortato dalle ultime parole dell'ispettore. Smise di rigirare il suo anello e disse: «Si capisce che dev'essere stata lei stessa a legare i cani.» «La cosa è verosimile.» Judith lo esaminava attenta. «Adesso ti senti meglio, Walter?» Lei stessa pareva tranquillizzata. Ma il fratellastro non le diede ascolto. Accese una sigaretta e, con un sospiro di sollievo, dichiarò: «Voglio dirle, signor ispettore, che la cosa ha una grande importanza per me. Mi ha tolto una grossa pena.» Harrison disse, alzandosi: «E ora, andiamo a vedere la portafinestra.» Per la disdetta che doveva inceppare tutte le nostre indagini, ogni impronta era sparita dal terreno vicino ai gradini della finestra. Non c'è viale, da quella parte. Poiché la pioggia era cessata, Abner aveva rastrellato attentamente ovunque. Ciò nonostante, Judith sostenne che Harrison aveva trovato qualcosa sui gradini. «Quando si è chinato a riallacciarsi una scarpa, ha raccattato un oggetto piccolo e brillante, la punta di un temperino, forse.»
L'ispettore ci lasciò a mezzogiorno. Aveva ricominciato a piovere, ma poco dopo lo vidi in un bagnatissimo impermeabile aggirarsi sul terreno dei Larimer. Lo rividi un'ora dopo, quando guardai ancora da quella parte, però con un berretto in testa e non più con il cappello. Soltanto quando la figura si fu dileguata al di là della scarpata, capii di aver scambiato qualcun altro per lui. 5 Quel giorno, un martedì, pareva che non dovesse finire mai. Incapace di fissare la mente sul lavoro biografico avviato, lasciai Mary libera, dandole così la gradita occasione d'immergersi, chiusa in camera sua, nella lettura di un romanzo. La servitù era sconcertata; i cani stessi parevano immusoniti. Joseph portava impresse in faccia le tracce della sua grave preoccupazione: era invecchiato di diversi anni nel giro di poche ore. Alle tre Jim non comparve, e mentre Judith era fuori con i cani, decisi di ritelefonare a Kate. Speravo di ottenere da chi conosceva Sarah meglio di tutti un indizio, un suggerimento utile; sentivo, d'altra parte, che doveva essere avvertita. Ma tutto quel che ne ottenni fu una solenne sgridata per l'accoglienza riservata a Judith. Appena riconobbe la mia voce, esclamò: «Ah, finalmente, era ora! Rimandami subito Judith. È uno scandalo, Elizabeth!» «Che scandalo?» «La corte che fa a quel vanesio. Senti, Elizabeth, non ammettere quel ragazzo in casa tua. Non sarà chiederti troppo, spero. E così, se Judith non vuole proprio tornare da noi...» «Non ho visto nessun ragazzo, vanesio o no. E non sono affatto in pensiero per Judith. È qualcos'altro che m'impensierisce.» Dopo che l'ebbi informata, mi domandò, con una ben diversa emozione nella voce: «Scomparsa? Sarah, scomparsa? Non hai idea di dove possa essere?» «Nessunissima. Ho avvisato la polizia.» «Sarà meglio che io venga lì.» Mi opposi subito all'idea. Con la sua eccessiva sensibilità, Kate riesce spesso infinitamente simpatica, ma talvolta anche imbarazzante. Lei non insistette per venire da me, ma mi raccomandò di consultare subito Jim. «È tanto giudizioso. Saprà certo aiutarti.» Non aveva altri suggerimenti da darmi. Sarah, ne era ben sicura, non a-
veva famiglia. Temeva che fosse rimasta vittima di un incidente. Una disgrazia del genere sarebbe stata tanto meno atroce di quanto cominciava a mulinarmi in mente, che non protestai a quel pensiero e lasciai cadere il discorso. Non mi ero impegnata affatto, per quanto riguardava Judith. Ebbi subito di che rallegrarmene, poiché la vidi tornare dalla passeggiata accompagnata da un ragazzo biondo, dall'aspetto gioviale. Non poteva trattarsi d'altri che del "vanesio" inviso a Kate. «Ecco, Elizabeth: ti presento Dick, il promettente rampollo di poveri ma onesti genitori.» Dick si accontentò di commentare con un sorriso la presentazione sbarazzina. Pareva già assuefatto ai modi della cara Judith. Pochi minuti dopo, lui e io eravamo nel vestibolo. Judith era corsa al secondo piano, dove gettava una matita dopo l'altra sulla vetrata del bagno gridando via via: «Era così il rumore che hai udito, Elizabeth?» Nemmeno per salvarmi l'anima avrei potuto rispondere in modo reciso. I suoni mi parevano meno chiari, meno distinti. Ma non potevo pronunciarmi. Quando invece il signor Carter, poiché questo era il cognome del giovane, lasciò cadere il temperino sul marmo del caminetto, in salotto, ebbi l'impressione di risentire esattamente il rumore della sera prima. «E così Walter è servito» commentò Judith, venendo giù. «Quella matita sarà stata lì da chissà quanto tempo. Vorrei vedere la faccia che farà quando ne ritroverà lassù un'altra dozzina. E ora... andiamo a bere una tazza di tè.» Dick Carter mi piacque subito. Che cosa aveva da rimproverargli, Kate? Forse la sua povertà. Ma Judith sarebbe stata ricchissima, alla morte del padre. E Howard aveva già avuto un attacco di angina pectoris. Judith era evidentemente innamoratissima. Né lui, per quanto più timido, si mostrava meno innamorato. Però, da uomo pratico, si interessò immediatamente al caso che tanto ci impensieriva. Gli riferii il poco che sapevo: «La cosa si risolverà. Forse lo stesso Harrison sbroglierà la matassa. Qualcuno l'avrà pur vista da qualche parte. Si ritrova tanta gente sperduta...» Stavamo ancora discutendo, e Judith, s'intende, era dell'opinione di Dick, quando arrivò Jim. Mi sono ancora presenti tutti i particolari della scena: il picchiettio del vetraio che riparava la portafinestra nel salotto; le voci sommesse di Judith e Dick nel salottino blu, dove si erano rifugiati dopo il bacio doverosamente dato dalla nipotina allo zio; Jim seduto davanti a me, ghette grigie, cravatta grigia, fazzoletto di seta orlato di grigio,
capelli accuratamente pettinati in modo da nascondere la calvizie incipiente... Risento le sue prime frasi sulla ragione che gli aveva impedito di venire sin dalla mattina. «Il mio solito disturbo... Questo tempo umido...» Poi mi pregò: «Dimmi tutto quel che sai di Sarah.» Mi lasciò finire il racconto, quindi domandò: «Perché hai chiamato la polizia?» «Che cos'altro potevo fare?» «Kate non vorrebbe che i giornali ne parlassero.» «Quale onta può venirne alla nostra famiglia? Kate è un'esagerata.» Levò di tasca il fazzoletto per asciugarsi la fronte. «Caso strano, comunque lo si consideri... Mi hai detto che Walter era qui, ieri sera. Lui che cosa ne pensa?» «Per lui, come del resto per tutti noi, quel che più importa è rintracciare Sarah.» Judith si era messa a strimpellare sul pianoforte nel salotto accanto. Lui borbottò, spazientito: «È insopportabile!» Altra breve pausa, dopo la quale domandò: «Come sta Howard? Che cosa ne dice Judith?» «Non deve essere completamente informata. Lui parla malvolentieri dei suoi disturbi. Kate è molto inquieta: questo lo so di sicuro.» Jim parve riflettere sulla mia affermazione, mentre rigirava il sigaro tra le dita. «E quella ragazza che ha telefonato, quella Florence, non l'hanno identificata? Non hanno capito da dove venisse la chiamata?» «Che io sappia, no.» Quando in seguito mi fu domandato se quel giorno Jim avesse i modi di un uomo preoccupato, fui costretta a rispondere affermativamente. Ma non me ne accorsi nel momento in cui si svolse il nostro dialogo. «Immagino che avranno perlustrato il terreno qui vicino, e anche il parco.» «Ci ha pensato l'ispettore Harrison.» Jim rimase un momento soprappensiero. «Elizabeth, quando è stata l'ultima visita di Howard, qui? È venuto da te, di recente?» «Howard? Non lo vedo da mesi.» «Sei proprio sicura che non sia venuto recentemente?» «Ma non avrebbe potuto muoversi! Lo sai bene quanto me, Jim.» Mi lanciò uno sguardo strano, mandò un sospiro, e soggiunse: «Sarà come dici.» Poi ricadde nel silenzio di prima.
La sua visita ebbe allora un solo risultato. Dick e Judith furono informati che Kate voleva non si facesse alcuna pubblicità intorno al caso. I giornali non cominciarono a occuparsi del fattaccio che quattro giorni più tardi, dopo il rinvenimento del cadavere di Sarah. Fu ritrovata, povera creatura, il sabato di quella settimana. Non ho un ricordo chiaro delle tristi giornate precedenti. Di ora in ora cresceva in noi tutti la certezza del delitto. Si moltiplicavano i suggerimenti, telefonati o telegrafati da Kate o da Laura. A Judith riusciva sempre più difficile darsi un'aria allegra, e Walter, poi, si abbandonava a una disperazione allora per me incomprensibile. Si era messo a disposizione delle autorità, era andato con gli incaricati della polizia alla camera mortuaria, aveva cercato tra gli indumenti e le carte di Sarah una sua fotografia che servisse a divulgarne i connotati. Doveva avere perso il sonno e l'appetito, in quei giorni. Dimagriva. E una volta almeno, in quella settimana, si presentò ubriaco. Fu precisamente la sera in cui dichiarò di avermi scritto una lettera, lasciata in deposito nella sua cassetta di sicurezza in banca. «Così capirai» mi disse, con là lingua un po' inceppata dalle libagioni «capirai. Qualunque cosa mi succeda...» Judith intervenne, stizzita: «Sei brillo! Che cosa dovrebbe succederti?» «Vedrai» rispose lui cupo. «Troppe cose possono succedermi. Guardami, se non mi credi.» «Ah, una gran bella vista. Senti, Elizabeth, fagli preparare un po' di caffè.» Le circostanze che condussero al ritrovamento del corpo di Sarah furono strane quanto tutte le altre della strana storia. Judith, quel giorno, aveva preso i cani con sé per portarli a passeggio nel parco, dove s'incontrò con Dick... non per puro caso, s'intende. A un certo punto, i due ragazzi svoltarono da uno dei viali nel pendio che sta dietro la mia proprietà. Un viottolo segue le curve di un ruscelletto. Il pendio, trovandosi nelle vicinanze dell'albero dove avevo rintracciato i cani, era stato attentamente esaminato. I due, quindi, non stavano affatto indagando. Erano presi dalla conversazione, quando videro venire verso di loro un uomo a cavallo. Mentre osservavano la rapida andatura della bestia, senza una causa apparente essa s'impennò gettando a terra il cavaliere. L'uomo si mosse subito per rialzarsi, e Dick, vedendolo incolume, gli riportò indietro il cavallo. «Non è ferito, vero?» gli chiese Judith.
«Soltanto sorpreso» le fu risposto «sorpreso e seccato. È la seconda volta che il mio cavallo s'impenna alla vista di quella fogna. Dico fogna, ma non so che cosa sia veramente. La seconda volta nella stessa settimana, e l'avrà vista centinaia di volte, ormai.» L'uomo condusse a mano il cavallo oltre l'ostacolo, risalì in sella e si allontanò. All'ostacolo si avvicinarono invece Judith e Dick. Doveva essere in progetto un rialzo del viottolo poiché il pilastrino, alto circa due metri, era proprio un tombino di fogna. «Strano» fece Judith «: è lo stesso tombino della settimana scorsa. Che cosa può esserci di diverso, da otto giorni in qua?» Dick rise. «I cavalli vedono forse cose invisibili per noi...» Proprio in quell'attimo, Big, avvicinatosi alla base del tombino, alzò il muso ed emise un lungo ululato. Non hanno saputo riferirmi bene quel che successe allora. Ma, a farla breve, Dick riuscì a stento ad arrampicarsi fino a poter guardare dall'alto del tombino e vi scorse in fondo un mucchio di cenci, di vesti scomposte... e Judith capì guardando lui. Non si resero nemmeno conto subito che si trattasse del cadavere di Sarah. Corsero ad avvisare le guardie forestali e quindi, perentoriamente, Dick volle che Judith tornasse difilato a casa. La misi a letto e aspettai. Si trattava proprio di Sarah. Non mi fu permesso di rivederla, e me ne compiacqui in cuor mio. Era stata assassinata. Aveva ricevuto un colpo alla nuca e due stilettate nel petto. A causa di queste, era morta istantaneamente. Del tragico fatto seppi soltanto più tardi le circostanze: il cadavere era stato trascinato lungo il viottolo per circa mezzo chilometro, una vera fatica da Ercole, e gli erano state tolte le scarpe, poi buttate nel tombino. Il modo usato dall'assassino per sollevare il corpo inerte fino all'altezza di due metri e scaraventarlo, come fu ritrovato, a testa in giù rimaneva quasi incomprensibile. Ma più incomprensibile ancora per me, e più tremenda, fu la circostanza della fune che, passata sotto le ascelle della morta, era servita a trascinarla. La stessa che era stata adoperata per legare i cani all'albero. La squadra Omicidi fu ben presto sul posto. Un cordone di poliziotti sbarrò il passo dall'entrata del terreno dei Larimer fino a un punto al di là del tombino. Ma la pioggia dei giorni precedenti e il calpestio dei viandanti avevano cancellato molti indizi, lasciandone sussistere uno solo: la rottura di alcuni rami sul pendio sembrava provare infatti che Sarah era stata
uccisa sul terreno dei Larimer o nelle sue immediate vicinanze. La misera salma era stata scoperta alle tre del pomeriggio. Appena rimossa, fu esaminata dai medici legali. Quella sera ebbi una lunga conversazione con Harrison nella mia biblioteca. L'ispettore si mostrava stupito e turbato. «Un caso molto strano. Nessun movente plausibile. Non è stata nemmeno derubata. Però... lei mi ha detto che la Gittings aveva con sé una chiave di questa casa, non è vero?» «Sì, signor ispettore. Mi domando ancora se quella sera abbia veramente lasciato la porta aperta. Chissà... Forse l'uomo visto sulle scale l'aveva già uccisa e si era già impossessato delle due chiavi.» «Non credo, ed ecco perché. Lei ha visto l'uomo accovacciato sulle scale alle diciannove e trenta circa. Aveva già consumato la cena, che le era stata servita alle diciannove, e stava bevendo il caffè. Il momento può essere fissato esattamente. Ora, Sarah Gittings è rimasta viva fino alle ventidue.» «Com'è possibile asserire una cosa simile? Non capisco.» «Per via dell'esame del cibo ingerito. L'autopsia ha dimostrato che la donna aveva cenato da circa quattro ore, quando è stata uccisa. Ma l'autopsia non può dirci dove è stata e quel che ha fatto tra le diciannove e le ventidue. Quando conosceremo l'impiego delle sue ultime ore e l'identità della Florence delle due telefonate, avremo una prima traccia sicura da seguire. «Perché mai la Gittings avrà preso nella lavanderia la sedia che ha portato nella legnaia? E perché, avendo accettato di condurre fuori i cani, si è provvista di una corda per legarli a un albero? Colui che si è introdotto di soppiatto in questa casa, che cosa è andato a cercare nella sua stanza? Ecco i punti da chiarire, signorina Bell. In quanto alla corda» proseguì poi lentamente, quasi esprimesse un dubbio ad alta voce «lei l'ha lasciata dov'era, quando è andata a chiamare il suo maggiordomo?» «L'ho lasciata dov'era, sì, sotto l'albero. E quando sono tornata indietro era sparita. L'abbiamo cercata quanto meglio potevamo. Però, una corda non si muove da sé. E non c'è stato modo di ritrovarla.» L'ispettore si alzò per congedarsi. Putto nell'ingresso, si voltò verso l'uscio del piccolo bagno. «Quella Florence» fece, dopo un attimo di silenzio «può darsi che cerchi d'avvicinarla. Legge certo i giornali, che Dio sa quante colonne dedicano oggi al fattaccio. Non la mandi via, per carità. Cerchi di ottenere qualche informazione. La faccia venire qui e mi avvisi.»
Si avvicinò allo stanzino e guardò il soffitto a vetri. «Deve trattarsi di un uomo ben robusto, e anche disperato, se è riuscito a sgusciare fuori da quella specie di pozzo. La cosa è fattibile, sì, però...» Giunto al portone, si girò un'ultima volta per dirmi: «Altra cosa strana: le due pugnalate avevano esattamente la stessa profondità, otto centimetri.» Walter e Jim andarono a identificare il cadavere, e l'inchiesta del coroner ebbe il solo esito che potesse avere. Avemmo poi un breve periodo di respiro, non certo di tranquillità. I giornalisti sbucavano da tutte le parti, a tutte le ore del giorno e della notte. Kate venne per il funerale. Era fuori di sé, scandalizzata e incredula. Appena fummo di ritorno a casa, dopo l'accompagnamento, si abbandonò ai lamenti. Per buona sorte, Jim arrivò proprio in quel momento. Mandai a chiamare Mary, che mi rimproveravo di aver completamente trascurato per tutta la settimana, e ordinai il tè. Avevamo tutti un gran bisogno di ristorarci. Eravamo dunque in cinque, quel pomeriggio, intorno al tavolino da tè: Kate, che, elegantissima nell'abito nero, portava al dito il grosso smeraldo regalatole di recente da Howard; Judith, con la sua graziosa acconciatura alla maschietta; Mary, con i suoi splendidi capelli rossi, bella eppure impacciata, poiché aveva soggezione di Kate; e Jim, vestito in modo inappuntabile come sempre. Il suo viso recava i segni rivelatori di troppi pranzi sovrabbondanti e di troppi aperitivi... Dopo averlo esaminato attentamente, Kate concluse ad alta voce: «Mi sembri stanco, Jim.» «È stata una brutta settimana, questa» rispose lui, evasivamente. La sorella insistette. Tutto ciò che concerneva Sarah aveva assunto ai suoi occhi un'importanza enorme, in quei giorni. Non smetteva di cantarne le lodi. «Non mi aspettavo che te la prendessi tanto a cuore. Non hai mai avuto simpatia per lei.» «La conoscevo appena.» «Non l'hai mai potuta soffrire, Jim. E non ho mai capito perché ti fosse antipatica quella povera creatura.» Mi parve che l'osservazione seccasse Jim. E non solo lo seccasse, ma lo allarmasse addirittura. Kate continuava a recriminare. «Ti sei molto stupito, quando hai saputo del legato che Howard le aveva destinato. Ti pareva che fosse stato troppo generoso...»
«Ma no, ma no. Howard può fare quel che vuole dei suoi soldi e lasciarli a chi preferisce. Speriamo che non debba lasciarli, per molti anni ancora.» La risposta di Jim fece ammutolire di colpo la sorella. Nel silenzio si alzò, chiara e netta, la voce di Mary. «Volevo appunto farle una domanda, signor Blake. Ha ricevuto la lettera che la signorina Gittings le aveva scritto domenica, il giorno prima della... disgrazia?» «Una lettera?» scattò lui. «Mi ha scritto una lettera?» La domanda lo aveva sconvolto. La tazzina da tè gli tremò nelle mani, e dovette appoggiarsela sul ginocchio. Vidi lo sguardo scrutatore di Judith appuntarsi sullo zio. «Le ha scritto. Sono entrata per caso in camera sua proprio in quel momento» dichiarò Mary. «L'hai ricevuta?» domandò Kate. «Io no!» Jim si era rinfrancato. «Come sa, signorina, che la lettera fosse diretta proprio a me? La signorina Gittings gliel'ha forse detto?» «No. Però, stava scrivendo l'indirizzo sulla busta. E ci ha messo sopra il braccio perché non potessi leggerlo. Ecco come l'ho saputo.» «Ma parli chiaro!» proruppe Judith. «Perché tanti misteri? Ce ne sono già abbastanza, mi pare.» «Il camice di Sarah è ancora appeso nel suo armadio, e si può benissimo distinguere il nome del signor Blake sulla manica. Naturalmente, per leggerlo bisogna adoperare uno specchio.» Credo che Kate fosse la sola di noi a mettere in dubbio la sincerità dell'affermazione. Mary, lieta di aver attirato l'attenzione su di sé, se ne rimaneva seria e compunta in apparenza, gli occhi chini sulle belle mani. «Non ci credo» fece a un tratto Kate. «Per favore, mi porti quel camice, signorina.» La ragazza si raddrizzò, s'irrigidì e mi guardò. Il suo atteggiamento diceva chiaro che prendeva ordini da me, e da me soltanto. «Vorresti andarlo a prendere, per favore, Mary?» Lei si allontanò, lasciando noi quattro immersi in un penoso silenzio. Jim guardava il fondo della sua tazzina, Judith guardava lui, e Kate, con il capo rovesciato sulla spalliera del sedile, aveva chiuso gli occhi. «Non mi piace quella ragazza» saltò fuori a dire. «È maligna.» «Maligna, perché ci ha dato un indizio?» ribatté la figlia con fermezza. «Non sappiamo se Sarah ha spedito quella lettera, ma se l'ha scritta...» In quel momento Mary riapparve. Ci commuovemmo tutti nel rivedere il
camice bianco di Sarah. Judith fu la prima a prendere in mano l'indumento e a guardarlo nello specchietto portato da Mary. Osservai che Jim si asteneva dal toccarlo e che Joseph, venuto a sparecchiare, non riusciva a dissimulare un vivo interesse per la scena. Judith non lo aiutò a capirne il significato. Esaminò le tracce d'inchiostro sulla manica e poi, senza dire niente, tese a me il panno macchiato e lo specchietto. Nessun dubbio era possibile. Un po' cancellata, e tuttavia ancora leggibile, appariva la parola "Blake" e, mentre il numero della casa era incomprensibile, spiccava nitido il nome della via: Pine Street. Nessuno di noi fiatò, finché Joseph fu nella stanza. Uscito lui, Jim dichiarò, dopo essersi schiarito la voce: «Io non ho ricevuto nessuna lettera da Sarah.» «L'ha persino affrancata» disse Mary. «Con questo, non è provato che l'abbia spedita» la rimbeccò Judith. Mary si strinse nelle spalle. Credetti allora, e ne sono tuttora convinta, che in quel momento fosse proprio sincera. «Voi la conoscevate» affermò laconicamente. «Non era donna da disprezzare il valore di un francobollo.» Per mantenersi al centro della scena, immagino, soggiunse subito che il camice poteva non aver alcuna importanza, ma secondo lei doveva essere mostrato alla polizia. «Ma sicuro» le rispose Judith. «Potrebbe vestirsi e andare a portarlo lei, Mary.» E mentre tutti la guardavano, lei diede uno sguardo al suo orologino e osservò che per quel giorno era troppo tardi. Quando mezz'ora dopo si presentò di nuovo l'ispettore, ci trovò ancora seduti intorno al tavolino, intenti a parlare indifferentemente per nascondere il nostro disagio. Mary era sorridente. Fu inevitabile dargli il camice. Ma da quel momento, sentimmo tutti una nemica potenziale nella persona di Mary, e almeno quattro dei presenti nel mio salotto rimasero convinti che Jim avesse ricevuto una lettera da Sarah e non volesse ammetterlo. 6 Kate tornò a New York il martedì dopo il funerale. L'indomani, il giudice istruttore mi mandò a chiamare. Aveva davanti a sé un incartamento,
che sfogliava via via mentre mi interrogava. «La signorina Gittings non aveva, secondo lei, nemici personali? Nessuno cui potesse fare comodo la sua scomparsa?» «Nessuno» risposi, pronta. E, raccontando dei suoi rapporti con la nostra famiglia, conclusi dicendo: «Avrei giurato che non avesse altri che noi, intorno a sé.» «Non si era mai sposata?» «Mai.» «Suppongo che conoscesse molti fatti di casa vostra. Dico fatti e non segreti. Le vostre simpatie o antipatie, le divergenze di vedute...» «Già, ma la nostra è una famiglia molto unita.» «Salvo, credo, per quanto riguarda il figlio di primo letto del signor Somers. Non è "persona grata" a tutti, vero?» «Chi l'ha detto?» Il funzionario sorrise. «Lui, prima d'ogni altro. È ansiosissimo di vedere risolto il mistero, cosa che desideriamo tutti, s'intende. Forse aveva una gran simpatia per la morta?» «Non mi pare... No.» Il giudice tossì. «In questa... diciamo, divergenza di opinioni, le sue simpatie sono per quel Walter, vero?» «Sì e no» risposi lentamente, soppesando ogni parola. «Walter è rimasto molto scosso e quasi incapace di un lavoro utile, dopo le emozioni patite in guerra. Suo padre non ha mai saputo comprenderlo. Sono temperamenti opposti. Walter è nervoso, irritabile. Suo padre è un uomo di poche parole, assai noto nel mondo degli affari e della finanza, in cui si è fatto un'invidiabile posizione. Non s'intendono, insomma. Somers ha tentato più volte di far seguire la via del commercio al figlio, che non ha saputo azzeccarne una. Sicché gli è stato dichiarato, credo, che non si sarebbero sperperati altri soldi per lui. Il padre si limiterà, pare, a lasciargli qualcosa alla sua morte: non molto. Però da questo a crederlo implicato nella brutta faccenda della morte di Sarah...» «Ma non crediamo una cosa simile. Abbiamo controllato cos'ha fatto per tutta quella sera. Quando l'ha lasciata, alle ventitré e quindici, e ricorda di averle chiesto l'ora e di essersi accorto che il suo orologio andava indietro di uno o due minuti, è andato al club, dove alle ventitré e trenta ha partecipato a una partita di bridge.» Il giudice ricominciò a consultare i suoi appunti. Dopo un po' prese un foglio dal mucchio e, tenendolo in mano, proseguì:
«La sua affermazione sul fatto che Sarah Gittings non avesse una vita affettiva all'infuori della vostra famiglia rimette malauguratamente in ballo la famiglia stessa. Suo cugino, per esempio, il signor Blake: in quali rapporti era con la Gittings?» «Non s'incontravano quasi mai.» «Secondo lei, allora, la Gittings non aveva motivo di scrivergli?» «No, nessun motivo.» «Eppure gli ha scritto, signorina Bell. Gli ha scritto il giorno prima di essere uccisa, e sono convinto che la lettera sia giunta a destinazione.» Si sistemò sulla poltrona e mi fissò attentamente. «Blake» ripeté «ha ricevuto quella lettera.» «E perché lo negherebbe, allora?» «È quello che voglio scoprire. Per ora, pare accertato che Sarah Gittings avesse per il signor Blake più amicizia di quanto fosse noto a lei. È andata a cercarlo a casa sua, almeno una sera della settimana precedente il delitto, ma non ha potuto parlargli: lui, infatti, era a cena fuori. La Gittings gli ha quindi telefonato il sabato sera; ma non da casa sua, signorina Bell. Si trattava evidentemente di una cosa che doveva premere a entrambi. Amos, il domestico di colore del signor Blake, dice di aver riconosciuto la voce al telefono. Naturalmente, può essersi sbagliato. Peraltro, nemmeno quella sera il signor Blake ha cenato in casa. La domenica, la Gittings gli ha scritto, e ho buone ragioni di ritenere che la lettera sia stata regolarmente ricevuta la mattina seguente.» «Che cosa glielo fa credere?» «Il fatto che lunedì sera il signor Blake è andato in cerca della sua corrispondente.» Più ripenso a quell'interrogatorio, e più mi convinco dello scopo cui mirava il giudice. Voleva studiare le mie reazioni alle sue domande. «Lei sapeva che quando la Gittings è uscita da casa sua, quel lunedì sera, andava incontro al signor Blake?» «No, e non posso crederlo neanche ora.» «Ha però visto le parole rimaste impresse sulla manica del camice. Non era forse la calligrafia della Gittings?» «Direi di sì.» «Eppure, la busta non è stata ritrovata nella camera della donna quando la polizia l'ha perquisita, il giorno dopo l'assassinio. Quella lettera è stata spedita, signorina Bell, e il signor Blake l'ha ricevuta, a meno che qualcuno in casa sua l'abbia deliberatamente fatta sparire.»
«Se crede che l'abbia fatta sparire io, si sbaglia di grosso.» «No, non lo credo affatto. Per questo sono convinto che suo cugino l'abbia ricevuta. Ma perché lo nega? Badi bene, non formulo nessuna accusa contro il signor Blake. Però, per poter uscire pulito dall'incresciosa faccenda, lui deve dire quello che sa. E sa qualcosa. Pensi lei a suggerirgli che farebbe meglio a parlare spontaneamente.» Quando lo lasciai, avevo la mente un po' confusa. Decisi di andare quanto prima da Jim, ma lo sapevo costretto a letto da un attacco del suo solito male. E quella sera stessa doveva accadere un incidente che distolse la mia mente da lui e da tutto ciò che non fosse Judith. La cara ragazza viveva in uno stato di febbrile e collerico rimpianto per la morte di Sarah. L'aveva vista sempre intorno a sé. Forse, in altre condizioni, avrei sorriso della sua risoluzione di sciogliere lei stessa il mistero di un assassinio, ma nell'ardore dello sguardo c'era una serietà che imponeva rispetto. S'intende che a Dick pareva meravigliosa qualunque cosa facesse. Entrambi, quindi, non la smettevano mai di studiare il tragico problema. So che avevano esaminato ogni centimetro del terreno, là dove i cani erano stati legati, ma senza risultato. Quel mercoledì sera, avevano disegnato una pianta del terreno dei Larimer e del parco. Judith mi pareva molto stanca, sicché congedai Dick alle ventidue. Ma, dopo essersi avviata per le scale, la cuginetta cambiò idea e, tornando indietro, domandò a Joseph, che stava leggendo il giornale nella dispensa, di prestarle una torcia elettrica. Joseph non poté accontentarla. Lei allora entrò in cucina e prese alcuni fiammiferi e la chiave per aprire il garage. Un momento dopo, si ripresentò al maggiordomo. «Dov'è la scala, Joseph? La scala a pioli di cui si è servito il signor Walter quella sera?» «È nel ripostiglio degli arnesi, signorina.» Alle ventidue e trenta sentii Joseph fare la sua solita ronda, chiudendo porte e finestre prima di andare a letto. Si fermò al portone, quindi venne a trovarmi nella biblioteca. «Penso che la signorina Judith sia rientrata.» «La signorina? È andata fuori?» «È uscita dalla porta della cucina, poco dopo le ventidue. Mi ha detto che avrebbe voluto usare la scala, ma non mi ha detto perché.» Fui dapprima seccata, più che allarmata. Mi allarmai, però, quando mi accorsi che il garage non era illuminato.
«Non può essere là dentro, Joseph.» «E allora, signorina, può darsi che abbia preso la macchina per fare un giro.» «Mi avrebbe avvisata, ne sono certa.» Volevo avviarmi subito al garage, ma Joseph mi trattenne. «Sarà meglio che vada a prendere la mia rivoltella. Se fosse successo qualcosa...» Un brivido mi corse per la schiena. «Judith! Judith!» gridai con quanto fiato avevo in corpo. Nessuno mi rispose. Ci avviammo, Joseph e io. Lui davanti, con la rivoltella in mano. A mezza via si fermò di botto. «Chi va là?» gridò. «Che cos'hai sentito, Joseph?» «Un rumore, come un fruscio nei cespugli.» Rimanemmo un momento in ascolto. Silenzio. Andammo avanti. Quando accendemmo la luce nel garage, vi trovammo tutto in ordine. La chiave adoperata da Judith era ancora infilata nella porta, che era chiusa ma non a chiave. La prima scoperta spaventosa fu che la porta che dava nello stanzino degli arnesi era, invece, chiusa a chiave e la chiave non era appesa alla parete. Tentai rumorosamente la maniglia chiamando Judith, ma nessuno mi rispose. Joseph era andato in cerca della chiave. «È lì dentro, Joseph.» «Non necessariamente, signorina. Talvolta, Robert nasconde la chiave. Dice che Abner si serve dei suoi arnesi.» Judith era veramente nel ripostiglio. Solo dopo che Joseph ebbe rotto un vetro per entrare dalla finestra, la ritrovammo, poverina, stesa a terra, incosciente e sanguinante per una ferita alla testa. Joseph la trasportò in casa, fino alla biblioteca. Lei cominciò a riaversi nel momento in cui venne adagiata sul divano. Tornò quasi subito in sé, ma si sentiva stordita e nauseata. Era tornata in sé a sufficienza per protestare contro la mia decisione di chiamare un medico. «Non creiamoci altre noie, Elizabeth. Ne abbiamo già abbastanza...» Siccome, però, cominciò ad avere conati di vomito, volli che Joseph telefonasse senz'altro al dottor Simonds. Il medico non si fece aspettare. Affermò che Judith era stata colpita alla testa. Joseph suggerì che forse la scala le era caduta addosso. Si riscontrò infatti poco dopo che la scala giaceva a terra, mentre Judith asseriva di averla vista appoggiata alla parete. La spiegazione non avrebbe avuto nulla d'inverosimile, e tuttavia era fuor di dubbio che, comunque fosse andata la
faccenda della ferita, qualcuno aveva rinchiuso Judith nel ripostiglio degli arnesi, portandosi poi via la chiave. Che non riuscimmo a rintracciare. Mettemmo a letto la povera figliola. Il dottore diagnosticò una leggera commozione cerebrale. Dopo aver ordinato impacchi freddi su quello che Judith chiamava bernoccolo e una borsa di acqua calda in fondo al letto, se ne andò. Mentre Joseph frantumava il ghiaccio a pianterreno, Judith mi raccontò la sua disavventura. La sua versione dell'accaduto differiva da quella del maggiordomo. «Abner ha un metro, nella stanza degli arnesi. Lo volevo per misurare lo stipo. A furia di misurare, a volte si riesce a scoprire un cassetto segreto. Per cui, ho preso la chiave del garage e sono uscita. A un certo momento, mi è parso di sentire una specie di fruscio nei cespugli, ma può darsi che fosse una lepre. Nel ripostiglio degli arnesi non c'era luce; si capisce che la lampadina era bruciata. Quando sono entrata ho dovuto accendere un fiammifero. La porta non era chiusa a chiave, e la chiave era rimasta nella serratura. Non c'era nessuno, o se c'era qualcuno era nascosto dietro l'uscio che ho aperto. Ho acceso un secondo fiammifero e, proprio in quell'attimo, l'uscio si è chiuso rumorosamente dietro di me. Il fiammifero si è spento. Ho gridato "Accidenti!" e... non ricordo altro.» Ad acuire maggiormente il nostro stupore e la mia segreta ansietà, Joseph, venuto a portarci il ghiaccio per l'impacco, riferì che verso le ventidue qualcuno aveva aperto la porta di servizio ai cani per mandarli fuori. Li aveva sentiti abbaiare nei cespugli, ma per poco; si erano quietati quasi subito. «Come se avessero riconosciuto la persona. Ben non sarebbe rimasto zitto, se si fosse trattato di un estraneo.» La situazione non migliorò in seguito alla dichiarazione che la cuoca mi fece il giorno dopo. Mi disse che alle due, e cioè quattro ore dopo l'aggressione a Judith, aveva visto una luce nei cespugli, vicino al garage. Si era alzata per chiudere la finestra, perché la notte si era fatta fredda. L'ispettore Harrison, chiamato da me, venne nelle prime ore del mattino. La cuoca gli ripeté ciò che aveva visto. La luce, spiegò, era vicinissima al suolo, e aveva brillato per poco tempo. Fino a quel momento, Harrison doveva avere attribuito al caso la disgrazia capitata a Judith. A quest'ultima, che non aveva voluto confessargli il vero motivo per cui era andata nel garage, aveva detto: "Suvvia, signorina Judith, un motivo per andarci doveva pur averlo".
"Gliel'ho spiegato: volevo il metro." "Ha domandato a Joseph dov'era la scala?" "Forse per scambiare due parole." "Quella scala" aveva insistito l'ispettore "era forse quella adoperata da Walter Somers nel bagno?" Judith aveva sbadigliato. "Mi scusi... non ho dormito bene la notte scorsa. È la stessa scala, Elizabeth? Dillo tu." "La stessissima" avevo risposto, pronta. "E lo sai anche tu. Non fare la sciocca, Judith." Ma lei non aveva proprio voglia di parlare. L'ispettore era ridisceso imbronciato e, lo si era capito chiaramente, poco disposto a prestare fede alle spiegazioni che aveva sentito. Fece molto caso, invece, ai discorsi sconclusionati di Nora che, pallida e tremante, si mise a raccontare di lumi, di fantasmi, di streghe, e finì con il farsi il segno della croce. Harrison andò immediatamente a esaminare i cespugli, e lì, quasi subito, i suoi uomini scoprirono impronte nel terreno molle, a destra del viottolo, nel punto dove la cuoca aveva visto muoversi un lumicino. Le impronte erano quattro, due del piede destro e due del sinistro. Quando lo raggiunsi, l'ispettore stava ancora esaminandole. «Impronte belle chiare... Non presentano nulla di strano, Simmons?» «Sono un po' piccole, mi pare.» «E i calcagni, hai nulla da osservare?» «Una linea molto ben definita, signor ispettore.» «E basta? Non hanno nulla d'inverosimile, di truccato? È tempo perso voler insegnarvi qualcosa. Ma guardali, dunque, quei calcagni! Nemmeno un canguro avrebbe lasciato impronte di quel genere: sono finte!» Harrison lasciò l'avvilito Simmons di guardia, perché impedisse ogni danneggiamento delle tracce e ne tenesse lontani i cani, poi si chinò a scrutare il terreno, sotto i rami. «Lo sconosciuto si è scostato dal viottolo quando ha visto avvicinarsi la signorina Judith. Ma aveva lasciato delle orme. Ripensandoci, è tornato sul posto per farle sparire e sostituirle con impronte truccate. Se ne fosse rimasta almeno una genuina...» Con la punta del bastone smuoveva lentamente le foglie cadute. A un tratto scorse un piccolo oggetto e lo raccolse. «Guardi qua: la chiave del ripostiglio degli arnesi, vero? Già, me l'ero immaginato. Lo sconosciuto l'ha buttata via, mentre scappava di gran car-
riera.» Esaminò la chiave. Dopo aver imprecato tra i denti, concluse ad alta voce: «È pulita come un fischietto. Che razza di volpone! Con una fretta del diavolo, aver trovato il tempo di pulirla... Ma forse portava i guanti. Signorina Bell, possiamo fare due ipotesi. O l'aggressore intendeva liberarsi della signorina Judith, e la cosa mi pare improbabile, oppure voleva impedirle l'accesso al ripostiglio degli arnesi.» «Ma ce l'ha pur lasciata entrare, chiudendola dentro...» «Non però in condizioni propizie alla minima indagine. Quale delle due ipotesi sarà la vera?» Mi guardò come se aspettasse da me una risposta. «In verità» risposi umilmente «non saprei decidere.» Rimasi sul posto mentre i suoi uomini misuravano la distanza fra le impronte, rilevandone poi la forma. Versavano non so che cosa nell'incavo, prima, e poi della calce. Ne venne fuori un paio di spettrali scarpe bianche, che Harrison guardò con compiacimento. «Come ho fatto a capire che le impronte erano truccate? Ecco qua: per prima cosa, il passo è sproporzionato al piede. È troppo lungo. E poi le impronte avrebbero dovuto essere più profonde, dato che il terreno è molle.» Se ne andò poco dopo, contento di sé ma perplesso, portandosi via le due forme accuratamente avvolte in una carta. La perquisizione del garage e della scala non aveva avuto esito di sorta. 7 Judith era stata aggredita mercoledì 27 aprile, e Florence Gunther fu uccisa la domenica successiva, 1° maggio. In quella settimana, non so più se giovedì o venerdì, Walter venne a trovarmi. Mi colpirono subito il suo aspetto, la trascuratezza dei suoi abiti e l'esclamazione sfuggitagli appena ebbe saputo dell'incidente occorso alla sorella. «Oddio! Ma penserò io a mettere fine a questa storia...» S'interruppe un momento prima di soggiungere: «Anche se avrò da ammazzare qualcuno.» Non volle spiegarsi più chiaramente. Chiamò Joseph e si allontanò con lui per un sopralluogo nel garage, lasciandomi sola a riflettere sul significato delle sue parole e sul suo modo di comportarsi, dalla morte di Sarah in poi. Aveva assiduamente collaborato con i poliziotti: di noi tutti, era parso il più angosciato. Alla sua solita allegria era subentrata una tristezza evidente
e, per me, inspiegabile. Il rinvenimento del cadavere non gli aveva procurato alcun sollievo. Per noi, quella scoperta aveva per lo meno messo fine alla tragica ricerca. Invece lui non si calmava. Eppure Sarah non era mai stata nelle sue grazie, non avendo fatto parte del personale della famiglia di cui Joseph era rimasto l'unico rappresentante. Non se l'era vista attorno al tempo in cui l'allegra e spensierata Margaret aveva abbandonato Howard e lui, ancora bambino, per correre dietro a un amante che a sua volta, dopo pochi mesi, aveva abbandonato lei. Mi venne da ripensare a quel periodo. Conoscevo Howard sin da allora. Anzi, proprio in casa mia Kate e lui si erano incontrati per la prima volta. Margaret, dopo aver girovagato non so dove per circa un anno, era morta, in Europa. Walter avrebbe avuto un gran bisogno della guida e dell'affetto di una madre, perché Kate non era per lui una vera madre. La sua presenza in casa lo irritava e, dal canto suo, lei non aveva mai potuto affezionarglisi. Sentimenti simili, s'intende, sono frequenti e ben scusabili in una seconda moglie, anche quando la prima è morta. Nel caso di Kate, però, esercitarono un'influenza funesta sulla vita del figliastro. Non che questi fosse esente da colpe verso il padre, ma Kate non aveva mai fatto nulla per mettere pace tra loro. Walter aveva sempre avuto, ai suoi occhi, il torto imperdonabile di ricordare la madre per la sua natura impetuosa, appassionata, indisciplinata, e per il fisico prestante e l'armonia dei lineamenti. Quando era arrivata in casa la notizia che Margaret era a Biarritz, morente e abbandonata dal suo amante, Walter aveva chiesto al padre il permesso di raggiungerla. Gli era stato opposto un rifiuto, motivato dall'età: a quell'epoca aveva infatti appena quattordici anni. Nel momento della disperazione, lui aveva preso dal portafoglio del padre i soldi per pagarsi un biglietto di seconda classe a bordo di un transatlantico. Quel furto non gli era mai stato perdonato da Howard, che aveva avuto anche il torto di parlarne a Kate. Del resto, i due erano ben di rado rimasti sotto lo stesso tetto, poiché Kate si era sempre impegnata ad allontanare Walter da sé con la scusa della scuola prima, del collegio poi. Infine era venuta la guerra a separarli del tutto. Walter poteva dirsi, quindi, tanto poco intimo di Judith quanto di Sarah. Con simili precedenti, era strano vederlo immalinconirsi e dimagrire per la scomparsa di Sarah, e più strano che mai vederlo impallidire e infuriarsi per l'aggressione patita dalla sorellastra. Tuttavia, tornò dal garage un po' rasserenato. Lo vidi piantarmisi di fron-
te, con l'aria di chi ha preso una grave decisione. «Sentiamo un po'. Quali sentimenti provi per Jim Blake?» «Mi è molto simpatico, anche se non m'ispira un affetto sviscerato.» «Che ora era quando ha telefonato, quella sera?» «Le diciannove e quindici, circa.» «E come mai ha chiesto di Sarah? Aveva forse l'abitudine di chiamarla? Certamente no. Come fai a dire che quella sera Sarah non è uscita per andargli incontro?» «Non lo credo» risposi stizzita. «Che bisogno potevano avere d'incontrarsi? Non credo che in vent'anni abbiano scambiato cinquanta parole.» «Gli è andata incontro, ne sono certo. Mi sono preso a cuore di appurarlo. Ho fatto cantare il domestico di Blake. Tu conosci le sue abitudini. Sai che cena tardi e si mette in frac. Be', sappi che quella sera non si è cambiato, ha cenato prima del solito e in tenuta da golf, e ha lasciato la casa verso le diciannove.» «Ma, santo Dio, Walter! Se un uomo non può più andare a tavola quando ha appetito, e vestito come gli pare e piace...» «Lasciami finire!» insistette, rabbioso. «Quella sera, uscendo, ha preso il bastone animato che tu gli avevi regalato. Quel bastone è sparito. Non è più in casa sua. È rimasto nell'anticamera fino al giorno del ritrovamento del cadavere di Sarah; da allora è sparito.» Mi fissava con occhi stanchi, infossati, dai quali trasparivano la tristezza e l'angoscia delle sue convinzioni. «Che te ne pare? Ha un appuntamento con Sarah. Va a raggiungerla armato di una mazza-pugnale. E quindi...» «Walter, ti supplico di non riferire la cosa alla polizia.» «No» fece cupo. «Per ora no. Ma potrei essere costretto.» Questa era dunque la situazione a due o tre giorni dal primo maggio. Il primo maggio, Judith era ancora a letto, ma già convalescente. Si era fatta portare una quantità di romanzi polizieschi e trascorreva placidamente le giornate, mezza distesa, tra una pila di volumi e pacchetti di sigarette. Le serate erano consacrate a Dick. Accadde dunque, nel pomeriggio di quella domenica, un altro dei lievi incidenti dai quali sono scaturite tante tragiche conseguenze. Già parecchi ne potevo registrare: il corpo di Sarah rintracciato per il solo fatto che Judith si trovava nelle vicinanze mentre un cavallo s'imbizzarriva; l'inconsueta chiusura della finestra di Nora, determinata dal fresco eccessivo di una notte di aprile; l'arrivo di Mary in camera di Sarah proprio nel momen-
to in cui poteva prodursi la maledetta impronta di un indirizzo sulla manica bianca di un camice; la deroga di Jim al rito del cambio d'abito per l'ora di cena; l'improvviso desiderio di Judith di andare, di sera, in garage; l'impulso stesso che mi aveva spinto a regalare a Jim il bastone animato del nonno. Alle diciassette di domenica, Florence Gunther venne a trovarmi, e fu rimandata indietro perché in quel momento riposavo. Ah, se fosse venuta prima... Era terrorizzata: questo sì, lo sappiamo. Deve aver passato notti d'inferno nella sua stanza di Halkett Street. Posso immaginarmela, intenta a leggere i giornali smaniosa di notizie e, sapendo di possedere la chiave del mistero, a chiedersi che cosa dovesse fare. Doveva aver pensato a tutte queste cose, mentre era sola, nella sua non troppo comoda stanza dalle tende smorte, dal tappeto più smorto ancora, dal letto coperto di colori sgargianti. Eppure, si era finalmente decisa a venire da me. Joseph, che doveva poi riconoscerla in una fotografia, aveva risposto alla scampanellata e l'aveva mandata via. Io dormivo, come ebbe poi a spiegarmi, e non si poteva disturbarmi. E così era stato che, ridisceso il viale, la figurina avvolta in una gonna scozzese e in una giacca blu si era avviata al suo triste destino. Non aveva dato il proprio nome, e Joseph non me ne parlò finché non scesi per la cena. Nemmeno allora la notizia ebbe una qualsiasi importanza per me. «Che aspetto aveva, Joseph? Da giornalista?» «Non credo, signorina. Magrolina, molto quieta.» Dick cenava con me. Ci eravamo messi a tavola prima del solito, come faccio sempre la domenica. Non pensavo affatto all'ignota visitatrice. Mi preoccupava invece un altro incidente della giornata. Tornando dalla sua passeggiata, Mary mi aveva espresso il desiderio di andarsene, appena avessi potuto fare a meno dei suoi servizi. A un tratto, a metà del discorso, era scoppiata in lacrime. "Voglio andare via" mi aveva detto fra i singhiozzi. "Mi sento nervosa. Sono... sono spaventata." "È una sciocchezza, Mary. E dove andresti?" "A New York. La signora Somers mi ha detto che potrebbe trovarmi un posto." Judith, appena le avevo riferito la conversazione, aveva commentato: "Mamma vuole pagare il silenzio di Mary. E quella, garbatamente, la ricat-
ta!". Mary, quindi, non era scesa a cenare con noi. Dick e io eravamo a quattr'occhi. Si parlò di delitti e dei metodi d'indagine in uso nei diversi paesi. Poi, lui mi disse che alla squadra Omicidi non si faceva parola di certi dati relativi alla scomparsa di Sarah. «Sanno qualcosa, ma non riescono a inquadrarla.» «Non hai idea di cosa si tratti?» Si limitò a scuotere il capo, e continuò a mangiare. Io riflettei sulle sue dichiarazioni. Mi domandai se il nuovo mistero non avesse a che fare con Jim e, seguendo il filo dei ricordi, con i sospetti di Walter. Perché mai Jim aveva telefonato a Sarah, quella sera? Voleva forse poter dire di essere stato in casa, alle diciannove di quel lunedì? Ma chi aveva parlato con Amos sapeva che ciò non era vero, che già allora era uscito con un'arma micidiale e chissà quali pensieri in mente. Jim era ancora immobilizzato a letto. Che cosa gli mulinava nel cervello, durante le lunghe ore delle giornate inerti? «Dick» feci «tu e Judith avete un'opinione su questa tremenda faccenda, vero? Perché mai ha chiesto quella scala?» Lui esitò. «Non saprei» mi rispose lentamente. «Non credo che volesse adoperarla; credo che volesse soltanto esaminarla.» Dovetti accontentarmi della poco persuasiva spiegazione e lasciarlo tornare dall'innamorata. La serata mi è rimasta impressa nella memoria per due momenti particolari. Verso le ventuno, Claire scese a raggiungermi nella biblioteca per dirmi che Mary si era chiusa in camera e singhiozzava come un'isterica. La si sentiva da dietro l'uscio. Conoscendo Mary, molto riservata, molto padrona di sé, la notizia mi scombussolò. Il mio turbamento aumentò quando, munita di una boccetta di sali, salii per parlarle, e lei rifiutò di aprirmi la porta. «Vada via, la prego, vada via.» «Ho con me la boccetta dei sali.» Allora la porta mi fu aperta, e Mary, con aria quasi di sfida, si fece avanti. «Non è nulla» borbottò. «Sono giù di morale, ecco tutto.» Si sforzò di sorridere. «Ogni tanto mi capita. Nulla di serio.» «È successo qualcosa, Mary?»
«Nulla. Sono una sciocca. Lei sa... cioè, no, non può sapere. Vivere nelle case degli altri, non possedere nulla al mondo... Qualche volta mi lascio vincere dallo sconforto.» Mai come quella sera mi sono sentita vicina a simpatizzare con lei. Mi venne da pensare che potesse aver fortemente contribuito a provocare la sua crisi di pianto la vista delle continue, affettuose premure di Dick per la sua Judith. Era giovane e bella anche Mary, in fin dei conti. Le battei una mano sul braccio. «Può darsi che io non abbia fatto il mio dovere, Mary. Sono un'egoista. E poi, questi fattacci...» Le mie parole la fecero piangere di nuovo. Mentre ridiscendevo, mi domandai se non fosse anche spaventata, poiché al suo isolamento doveva essere abituata. Il secondo momento particolare della serata si verificò più tardi. Judith e Dick erano rimasti soli, con la porta della camera spalancata per rispetto delle mie idee antiquate. Alle ventitré circa, lui fu chiamato al telefono. Alla fine della telefonata, prese al volo il soprabito e il cappello e gridò: «Devo scappare, amore! È accaduto un fatto grave, e il cronista numero uno è atteso in redazione. A domani, cara.» E uscì correndo verso la sua Ford sconquassata. 8 Fui ben sorpresa la mattina dopo, quando alle otto e trenta, prima ancora che avessi finito di vestirmi, Claire venne ad annunciarmi la visita di Harrison. A Claire, un'ora simile dev'essere parsa molto indiscreta. «Potrei dirgli di passare più tardi, signorina.» «No, no. Vengo.» Mi infilai una vestaglia e scesi incontro all'ispettore. Lo trovai sulla soglia del bagno, intento a guardare il soffitto a vetri. Era male in arnese e aveva l'aria stanca e gli occhi rossi. «Mi sono preso la libertà di chiedere una tazza di caffè al suo maggiordomo. Ho passato la notte in piedi.» «Mi permetta di offrirle una colazione.» «Non ho appetito. Non credo che potrei mangiare nulla di sostanzioso.» Fatto sta che non disdegnò la colazione che gli feci portare. Mentre mangiava mi parlò di varie cose, e fu soltanto dopo, dietro la porta chiusa della biblioteca, che mi fece conoscere lo scopo della sua visita. «Signorina Bell, ha mai sentito parlare di una certa signorina Gunther?»
«Non mi pare. Perché?» «La signorina Florence Gunther?» «Florence? Quella che aveva telefonato a Sarah?» «Molto probabilmente. Non ne sono del tutto certo.» «Ah!» esclamai. «Sono contenta che la si sia potuta rintracciare. Deve sapere qualche cosa, quella donna.» «Sì, ne sono convinto anch'io. Ma non potrà dirci niente. È stata uccisa stanotte con una rivoltella.» In seguito, ebbi a meravigliarmi che allora mi tacesse i particolari del fattaccio. Forse era ancora turbato; forse aveva le sue ragioni per non raccontare quanto già sapeva di quella morte. Mi disse soltanto che la ragazza era stata uccisa e la sua stanza frugata, come quella di Sarah. Il corpo era stato trasportato alla camera mortuaria. «Ci sono certi punti di somiglianza fra i due delitti, sebbene stavolta sia stata adoperata una rivoltella e non un pugnale. Per esempio, anche alla Gunther sono state tolte le scarpe. E per quanto non sia stata messa a soqquadro come quella della Gittings, anche la sua stanza è stata rovistata. Sembra che fosse una persona ordinata, molto quieta, e...» La parola "quieta" destò in me un'eco confusa. Quieta, molto quieta... Fulminea, mi tornò in mente la definizione che mi era stata data della ragazza venuta a parlare con me, il giorno prima. «Chissà che non abbia suonato alla porta di casa mia, ieri» dissi. «Ieri?» «Sì. Com'era vestita? Che aspetto aveva? Joseph ha mandato via una ragazza, venuta a farmi visita nel pomeriggio mentre riposavo, e potrebbe darsi...» In un attimo, l'ispettore fu nel vestibolo e chiamò Joseph. Quel che avevo immaginato corrispondeva alla realtà. Non solo Joseph riconobbe la vittima nella foto, ma ricordò di averne osservato la giacca blu e la gonna scozzese. Dopo aver congedato il maggiordomo, che mi era parso a sua volta molto impressionato, Harrison finì di mettermi al corrente. Florence Gunther era stata freddata con un colpo di rivoltella. La pallottola aveva trapassato la scatola cranica. L'assassino aveva anche tentato di sbarazzarsi del cadavere bruciandolo, e c'era quasi riuscito. Un certo Hawkins, padrone di una fattoria confinante con la strada di Warrenville, era uscito di casa la sera prima verso le ventidue, per andare a curare una sua mucca malata, e in un fosso a circa duecento metri dal cancello del suo podere aveva visto brilla-
re un fuoco. Appena si era avvicinato, aveva capito quel che aveva davanti. Comunque, a rendere possibile e anzi relativamente facile la pronta identificazione della salma concorse una di quelle circostanze che, a quanto ebbe a dirmi l'ispettore, i delinquenti non riescono mai a prevedere. In quel caso, era successo che la poca acqua del fosso aveva impedito la distruzione di una parte dei vestiti della morta. Si era potuto quindi constatare che la poverina aveva indosso una gonna a scacchi e una giacca blu. Dovevano essere rimaste, nella terra molle, le impronte profonde lasciate dall'assassino carico del peso della sua vittima, ma erano state cancellate da alcuni passanti curiosi e stupefatti, dagli andirivieni di Hawkins intento a soffocare il fuoco, dai passi dei poliziotti e da quelli dei cronisti dei vari giornali. I tre detective accorsi dalla squadra Omicidi avevano trovato intorno al cadavere un gran numero di persone e non un solo indizio utile. Tornato a casa alle quattro, Harrison si era gettato vestito sul letto. Nulla in quel primo momento poteva autorizzarlo a collegare il nuovo delitto con la sparizione di Sarah o con la nostra famiglia. Il nesso insospettato gli era apparso alle sette e dieci. Dick Carter era andato a riposare, come tanti altri colleghi, dopo aver redatto una sua versione dell'assassinio e senza pensare affatto a una borsetta di perline blu rimasta nella tasca del suo soprabito. Harrison dormiva pacificamente. Un agente della polizia aveva ricevuto alle sette e dieci un concitato messaggio telefonico. A chiamare era stata una certa Sanderson, ospite di una modesta pensione in Halkett Street, una via di un sobborgo popolare. La donna aveva detto che una delle pensionanti, la giovane Florence Gunther, mancava dalla propria stanza, e, siccome non era mai accaduto che passasse la notte fuori, la sua assenza faceva temere qualche disgrazia. Si era pensato subito, per via del delitto commesso nella nottata, a comunicare la notizia all'ispettore. Senza nemmeno perdere tempo a cambiarsi d'abito o a bere un caffè, Harrison si era precipitato in Halkett Street, dove la Sanderson, in uno stato di grande agitazione, lo aspettava sulla porta. All'ispettore aveva fatto un racconto semplice e preciso: non aveva dormito bene, e a una certa ora della notte era stata disturbata dai rumori provenienti dalla stanza della Gunther, situata sopra la sua. "Si sarebbe detto che stesse spostando i mobili" aveva spiegato. "Ero così arrabbiata che ho deciso di andare per tempo, stamattina, a lamentarmi. Infatti, mi sono alzata alle sette e sono corsa su. Ma la signorina non era in camera sua e non poteva averci dormito. Quando poi mi sono accorta che tutti i suoi vestiti
erano a posto, salvo quello che aveva indosso ieri, ho cominciato a spaventarmi." Senza dirle nulla del delitto, Harrison era salito con lei a esaminare la stanza. L'affittacamere, una certa Bassett, era malata da un po' di tempo e non si era fatta vedere. I due avevano avuto la netta impressione che l'ambiente fosse stato frugato e si fosse poi cercato di dissimulare il fatto. L'ispettore aveva raccolto un dato prezioso dalla bocca dell'informatrice: la Gunther, il giorno prima, indossava una gonna scozzese e una giacca blu. Gli era stato facile capire quel che era accaduto. Aveva chiuso la stanza a chiave e ci aveva messo davanti, di guardia, Simmons. Poi aveva mandato l'unica donna di servizio della pensione ad avvisare la padrona che la stanza doveva essere lasciata chiusa, con l'agente di sentinella. Infine si era fatto dare una fotografia della morta ed era corso a casa mia. «Se quella Florence era amica di Sarah Gittings, e questo è il primo punto da assodare» mi disse «è per lo stesso motivo che sono state assassinate. Possedevano forse un segreto, o carte compromettenti per l'assassino? Chissà. Un solo fatto pare certo: nascondevano qualcosa che è stato ansiosamente cercato. Se poi sia stato ritrovato o no... «Che strano» riprese dopo un breve silenzio. «Quella ragazza sarebbe probabilmente ancora viva, se ieri avesse potuto parlare con lei. È stata uccisa perché le era nota la ragione della morte violenta di Sarah Gittings. Se sapessimo fin dove arrivava la loro amicizia, e da quale occasione era nata, non brancoleremmo più nel buio.» L'ispettore se ne andò, ma nel corso della giornata mi chiamò al telefono. «Per sollevarle il morale, le dirò che Walter Somers è fuori causa. Ha giocato a bridge dalle venti di ieri alle tre di stamattina, e ha vinto duecento dollari.» Non mi diede il tempo di rispondere. Fu in quel modo che seppi che Walter era sotto sorveglianza. Dai giornali, sui quali abbondavano i particolari su "Una seconda assassinata scalza", e da varie altre fonti, riuscii a farmi un'idea chiara della sfortunata ragazza. Aveva circa trent'anni. Era tranquilla, riservata, ma non priva di amici. Raramente scendeva a raggiungere le altre pensionanti nel salotto di Halkett Street. Alla sera faceva una passeggiata o andava al cinema. Non aveva famiglia, e riceveva pochissime lettere. Era stenografa presso l'ufficio legale Waite & Henderson, i noti avvocati, che l'apprezzavano molto. Di recente, però, si era mostrata preoccupata e distratta.
La sua vita era di una chiarezza assoluta. La mattina, si faceva chiamare alle sette; si vestiva senza fretta e, dopo colazione, verso le nove, si recava in ufficio. Non sembrava curarsi di nessun uomo, e nessun uomo sembrava curarsi di lei. Un signore, però, era venuto a trovarla, una quindicina di giorni prima della sua morte. Non se ne era stabilita l'identità, ma si sapeva che era un uomo ben vestito e non più giovane. Secondo quanto asseriva la cameriera della pensione, era arrivato verso le venti ed era rimasto fino alle ventuno e trenta. La donna lo aveva appena intravisto e non avrebbe saputo descriverlo. Il giorno della sua morte, Florence aveva passato la mattina a lavare e a rammendare. Nel pomeriggio si era infilata la giacca blu ed era uscita. Era tornata dopo circa mezz'ora, con aria di disappunto. Nessuno l'aveva vista uscire, quella sera, forse verso le venti. La polizia, poi, riteneva che fosse stata uccisa nel fosso, non lontano dal posto in cui era stato rinvenuto il cadavere. Ma la polizia sbagliava: se ne ebbe la prova all'indomani dell'uccisione, cioè nel pomeriggio di lunedì. La mia proprietà giace ai piedi di un pendio. Sul declivio le macchine frenano, producendo quindi un bel po' di scricchiolii e di scoppiettii. Il rombo è tale che, di recente, un contrabbandiere ha potuto sparare più volte contro una guardia e ferirla a una gamba, senza che nessuno avvertisse il rumore degli spari. Nessuno, quindi, è corso in aiuto del disgraziato, che solo dopo un certo tempo è stato visto a terra e sollevato. Tutto ciò si riconnette direttamente all'uccisione di Florence Gunther. Dick mi aveva telefonato in giornata, subito dopo l'identificazione della salma, per pregarmi di rimandare Judith a New York. "Non è sicura, qui" aveva insistito. "Finché i due delitti non saranno stati risolti, nessuno è al sicuro." Gli avevo promesso di fare quanto potevo per accontentarlo. Alle diciotto lo vedemmo arrivare, molto stanco ma in parte rincuorato. Non avevo fatto parola con Judith del nuovo omicidio, poiché mi pareva che, sentendolo da lui, si sarebbe impressionata meno. Lei accolse Dick con studiata freddezza. «Non mi venire vicino! E tu, Elizabeth, non invitarlo a cena. Ieri sera se n'è andato senza nemmeno salutarmi.» «Ma cara, se non lavoro, non mangio. Queste figlie di milionari... A proposito» lui si mise la mano in tasca «avevo quasi completamente dimenticato una fortuna piovutami dal cielo. Guardate qua quel che ho trovato.»
Tolse di tasca una borsetta di perline blu. Judith gliela strappò di mano. «Avrai pensato a mettere un annuncio sul giornale, spero.» «Cara, ho avuto appena il tempo di fare il bagno. Ma naturalmente metterò un annuncio. Ci sono dentro dieci dollari.» «Dove l'hai trovata?» «Per terra, nei dintorni di casa vostra.» Non aveva nemmeno finito di pronunciare la frase, che Judith scoprì nella borsetta un pezzo di carta dattiloscritto. «Potrai fare a meno dell'annuncio. Ecco qui il nome della legittima proprietaria: Florence Gunther.» «Oddio!» gridai. «Florence...» Dick, allora, dovette raccontarle quanto era accaduto. Judith diventò pallidissima. Lo sorvegliava attentamente e, non so come né perché, ebbi l'impressione che lui dicesse più di quanto le sue parole volessero dire. «Sulla strada di Warrenville? Allora ci è stata condotta in macchina?» «Probabilmente sì. La polizia indaga, ma non ho potuto appurare nulla, per ora.» «Hai controllato?» «Sì.» «Tutto combina?» «Perfettamente.» Lasciandomi all'oscuro sul senso delle loro allusioni, i due cari congiurati mi condussero sul posto dove Dick aveva rinvenuto la borsetta. Lui spiegò di averla trovata non sul ciglio, ma proprio nel mezzo della strada. Sulle prime aveva sterzato, avendola scambiata per un uccello, poi aveva capito di cosa si trattava. «Possiamo ricostruire i fatti così. Stava tornando qui per qualche sospetto e voleva parlarne a Elizabeth... Ora, la presenza della borsetta in quel punto può spiegarsi in due diversi modi: ha visto qualcuno e per evitarlo è corsa in mezzo alla strada; oppure era già in auto quando è stata uccisa, e la borsetta le è sfuggita di mano. Io sono convinto che fosse in auto. Perché, come vedete, non ci sono tracce di sangue.» Judith era assai turbata, e tuttavia osservò con molta acutezza: «Non potrebbe darsi che l'assassino le abbia tirato un colpo qui, poi abbia trascinato rapidamente il cadavere nei cespugli e sia andato allora a cercare una macchina? Dovevano essere circa le venti e trenta, e il cadavere è stato scoperto dopo le ventidue.» L'ipotesi era plausibile. Ma nel fitto fogliame della siepe non trovammo alcun indizio.
9 Il giorno dopo, il giudice istruttore mandò a chiamare Amos, il domestico di Jim. La paura indusse il povero diavolo a snocciolare una serie di dichiarazioni compromettenti per il suo padrone. Parlò della cena anticipata di Jim, della sua successiva uscita, del bastone animato che aveva preso con sé. Ammise, infine, che il bastone era sparito. Si capisce che, dopo un interrogatorio simile, Jim dovesse essere sottoposto a una vigilanza continua. Era, a dire il vero, una sorveglianza molto discreta, ma si sarebbero potuti controllare tutti i suoi movimenti. Lui, però, non si muoveva. Se ne stava a letto e, se anche si era accorto di un insolito viavai di agenti in borghese in Pine Street, o di una sorveglianza esercitata sul suo telefono e sulla sua corrispondenza, non se ne dava per inteso. La sera di quello stesso martedì, Harrison tornò a farmi visita. Mi accorsi subito, nel vederlo entrare, che aveva qualche grave comunicazione per me. Cominciò infatti con il mandare via Judith, e quando lei si fu allontanata controvoglia, chiuse dietro di sé la porta della biblioteca ed esordì, senza ulteriori indugi: «La mia visita di stasera ha uno scopo preciso, signorina Bell. Rifletta bene, la prego... È a conoscenza di qualche motivo, anche se assurdo non importa, che possa spiegare l'uccisione di Sarah Gittings? Perché, vede, il secondo delitto ha origine dalla stessa causa del primo. Su ciò non può esserci dubbio. Rifletta: qualche antico dissapore in famiglia, qualche segreto di cui la Gittings fosse stata a parte, qualche scenata svoltasi in sua presenza...» «Non ci sono scenate nella nostra famiglia, signor ispettore. Walter Somers non simpatizza con la matrigna, ma non litigano. Semplicemente, si evitano.» «E il signor Blake?» «E perché dovrebbe litigare con i suoi parenti? Gli hanno sempre voluto bene. Credo, anzi, che la signora Somers gli passi una piccola pensione; e nessuno ha intenzione di togliersi il pane di bocca.» «Mi parli dei Somers. So che sono molto ricchi.» «Howard si è sposato due volte. La prima moglie scappò con un amante e morì in Europa, diversi anni fa. Dopo, Howard sposò mia cugina Kate. Hanno un'unica figlia, Judith, che adesso è qui. E vanno perfettamente d'accordo. Aggiungerò che Howard sta male di salute. L'anno scorso ebbe,
proprio qui, un attacco di angina pectoris. In quel periodo ero in viaggio con la sua famiglia. Ho saputo che l'attacco fu molto grave e che, per lui, la fine è prossima.» «Capisco. Quanti anni ha?» «Quasi sessanta. Ed è ancora un bell'uomo.» «Allora lei mi dice che era qui al tempo di quella grave malattia. Vuole dire qui, in casa sua?» «No, la casa era chiusa. Howard stava all'Imperial Hotel, dove fu raggiunto da Sarah, che venne a curarlo.» «E il signor Blake, era qui anche lui?» «Era nel Maine, dove ha una villetta.» «Mi dica, quando ha dato al signor Blake il bastone animato di suo nonno?» Dovette certo leggermi in viso il turbamento, poiché soggiunse sorridendo: «Eh, via! Lei è un povero teste a difesa, signorina Bell. Si capisce che Amos ha proprio detto la verità. Da quando aveva quella mazzapugnale, il signor Blake?» «Da marzo.» «E non sa dove sia, adesso?» «No. Sono soltanto certa che qui non è stata riportata.» Lui si sporse in avanti, fissandomi negli occhi mentre diceva: «Ah, ah! Lei sa già che è sparita. La cosa è interessante, davvero interessante. Chi le ha detto della sparizione? Non Amos, di sicuro. A lui era stato ingiunto di tacere. Forse lo stesso signor Blake?» «No, l'ho saputo da Walter, che lo aveva saputo dal domestico del signor Blake.» L'ispettore si raddrizzò sulla sedia. «Caspita, quanti detective intorno a questi delitti! Per una famiglia che non ha nulla da nascondere, quanto impegno! Com'è fatto quel bastone animato? Vuole descrivermelo?» Non potevo rifiutare di accontentarlo. Per quanto ne avessi poca voglia, dovetti dirgli dell'impugnatura solida, e della sottile lama interna. «La lama era affilata?» «No, certo. Ma a farla affilare avrà pensato Jim. Dal momento che meditava un delitto...» Il sarcasmo si ritorse contro di me. «Proprio così, signorina Bell. Ci ha pensato. L'ha fatta affilare circa una settimana dopo averla ricevuta in regalo. Ma c'è un altro punto che desidero mettere in chiaro. La notte della scomparsa di Sarah Gittings, il signor
Blake ha telefonato qui, alla signorina Judith, mi pare. A che ora?» «Saranno state circa le diciannove e quindici.» «Si trattava di un messaggio della madre, vero?» «Già, ma...» L'infelice "ma" mi era uscito di bocca troppo presto. «Ma...» ripeté l'ispettore, sporgendosi verso di me. «Ecco, ricordo bene, ora. Jim ha chiesto se Sarah era in casa. La domanda va a suo favore, mi pare. Se avesse saputo che non c'era, non avrebbe avuto bisogno d'informarsi.» «O, se lo sapeva, ha voluto far credere di non esserne informato. Non ha detto dov'era, quando ha telefonato?» «No. Ha telefonato da casa sua, probabilmente.» «Non lo sa già, signorina Bell? Se non lo sa, glielo dico io: quella sera il signor Blake ha cenato prima della sua solita ora, ed è uscito di casa alle diciannove o pochi minuti dopo. Non ha telefonato prima di uscire. Sappiamo quante chiamate ha fatto quel giorno. Dovunque fosse quando ha telefonato, non era a casa sua.» «Ma perché?» domandai. «Perché avrebbe dovuto uccidere Sarah? Per quale motivo?» Harrison, che si preparava ad andarsene, si fermò vicino all'uscio. «Ogni tanto, durante le indagini, scopriamo il delinquente prima di scoprire il movente del delitto. Io non accuso il signor Blake. Dico semplicemente che i suoi spostamenti di quella notte vanno spiegati e che, se lui non li spiega, dobbiamo interpretarli noi. Se la nostra interpretazione lo calunnia, peggio per lui: la colpa è sua.» Unico nostro sollievo, in quei giorni, fu che i giornalisti e i curiosi ci abbandonarono per correre sulla strada di Warrenville, dove Hawkins aveva trovato il modo di trarre un utile dal crimine, facendosi pagare un tanto per lasciar vedere, dietro certe sue cataste di fascine, il luogo di rinvenimento della misera salma. In casa mia, la servitù era demoralizzata. Le donne avevano paura di uscire di casa, e paura di rimanervi. Il martedì mattina, la lavandaia era venuta a dirmi, tremante, che la seggiola era di nuovo stata rimossa dalla lavanderia e portata nella legnaia. La storia m'impensieriva. Scesi in cantina accompagnata da Judith. Si trattava di una semplice seggiola di legno, che lasciammo dov'era. Judith vi si arrampicò ed esaminò le travi. Vide solo un grosso ragno. Decisi l'indomani, mercoledì, di andare a trovare Jim, che non vedevo da
oltre una settimana. Se in quel frattempo Walter era stato per me motivo di sorpresa, Jim addirittura mi sbalordì. Avevo simpatia per lui, sebbene non potessi interamente approvarlo. Il fatto stesso che, a più di quarant'anni, continuasse a oziare; che si accontentasse di vivere modestamente dato che, per poter spendere di più, avrebbe dovuto lavorare; che ogni anno si dedicasse per settimane intere all'organizzazione di un ballo di scapoli; che accordasse una grande importanza ai cibi, alle bevande, agli abiti: tutto ciò mi dava ai nervi. Ma non aveva nulla di allegro il Jim che, mercoledì sera, vidi sdraiato sul letto. Spesso, in seguito, mi sono chiesta quali potessero essere i suoi pensieri, mentre se ne stava lì fermo per giornate intere a osservare Amos che gli si muoveva agilmente attorno; quell'Amos che sapeva tante cose, eppure non era abbastanza informato. I due, il bianco e il nero, si sorvegliavano a vicenda senza darlo a vedere. Sembravano, anzi, avere tra loro buoni rapporti. «Ho ordinato fegato di vitello per il pranzo di domani, signore.» «Bene, lo cucinerai con le cipolle.» Amos uscì dalla stanza. Jim doveva aver passato qualche brutto momento, subendo chissà quali tentazioni di scendere in giardino, per poi scappare al volante della sua macchina. Di sicuro, la sua malattia non era grave. E lui non scappava. Stava lì nel suo letto ad aspettare l'inevitabile. Parve contento di vedermi. «Finalmente» mi disse. «Ecco un gesto gentile e cristiano. Siedi. Lì, starai comoda.» Era nervoso. Quella sera, per la prima volta, notai la leggera smorfia della bocca che gli è poi rimasta abituale. Mentre esponevo quanto avevo da dirgli, la smorfia si accentuò sempre più. «Cosa dovrei dire, o fare, secondo te? Se la giustizia ha bisogno di un capro espiatorio, che posso farci? Devo forse scappare?» «Puoi dire la verità.» «Ma quale?» ribatté nervoso. «Puoi dire dove hai passato la sera in cui è morta Sarah. Non è difficile, Jim.» «L'ho già detto. Vivo la solita vita degli scapoli. Non sono né migliore né peggiore degli altri. Rifiuto di trascinare una donna in questa faccenda. Qualsiasi donna. Possono andare tutti quanti al diavolo, se vogliono.» Mi sentii mancare. La sua collera era una finta. Recitava una parte e, sot-
to sotto, mi osservava intensamente. Mi resi conto allora che era spaventatissimo. Risposi, però, con molta calma: «Ora capisco che è lì che hai lasciato il bastone animato. È naturale che tu non ne voglia parlare.» «Il bastone animato? Quale?» «Quello che ti ho dato. È sparito: l'hai smarrito, pare.» Aspettò un minuto, prima di rispondere. Le mie dichiarazioni dovevano averlo colpito tremendamente. In quell'attimo, doveva aver pensato: "E chi mai sa della sparizione del bastone animato?". Lo sapeva Amos. Amos aveva parlato. Mi è facile immaginare la rabbia che si scatenò in lui contro lo stupido chiacchierone. Ma seppe dominarsi. «Cosa c'entra il bastone animato? Chiunque può perderne uno. Non potranno condannarmi a morte per una sbadataggine simile. E non sono uscito di casa, domenica sera.» Di una sola cosa ero ben certa, quando lo lasciai: Jim era spaventato, e non malato. E quando, in risposta alla chiamata, Amos entrò, portava un vassoio sul quale era preparata una cena sostanziosa, con una bottiglia di vino. Jim gli disse, con voce burbera: «Lascia stare. Riaccompagna a casa la signorina Bell in macchina. È venuta qui a piedi.» «Benissimo, signore.» Intravidi allora la strana situazione reciproca di quei due: Jim arrabbiato, il nero intimorito e anche... non so, non capivo. Non ostile, certo, ma turbato. Ero turbata anch'io, quando scesi le scale. Ogni speranza che Jim potesse giustificarsi era, almeno per me, svanita... A pianterreno mi aspettava Amos, il servo perfetto, enigmatico, pronto ad aiutarmi a rimettermi il mantello. «In un momento sarò qui con la macchina, signorina.» «Verrò con lei, Amos. Sarà tempo risparmiato.» «Fuori è molto buio, signorina.» «Non ha una torcia elettrica?» Ne prese una dal cassetto del tavolo dell'anticamera e io lo seguii in giardino, dove Jim offriva talvolta il caffè agli amici, nella bella stagione. Ricordo i profumi di quella notte di primavera, mentre camminavo dietro ad Amos, e ricordo di aver intravisto una panca, alcune sedie, un tavolino. «Ha già tirato fuori i mobili del giardino, Amos.» «Sì, signorina. E li ho verniciati pochi giorni fa. Presto farà caldo.» Gli presi la torcia di mano mentre apriva la porta del garage e faceva in-
dietreggiare la macchina fino al viale. Mi passò per la mente che l'agente incaricato della sorveglianza avrebbe sentito il rumore e sarebbe venuto a indagare. Ma il viale era pieno di rimesse. Una macchina in più o in meno non doveva fare differenza. Ho spesso ripensato a quella sorveglianza. Evidentemente, Jim avrebbe sempre potuto andare e venire dal giardino di casa sua, quando gli fosse piaciuto. Probabilmente, alla polizia interessava osservare soprattutto quali visite riceveva. Comunque, nessuno si avvicinò. Io avevo ancora la torcia in mano, quando salii in macchina. La conoscevo bene: l'avevo venduta io a Jim l'anno prima, quando me ne ero comprata una nuova. Era una limousine di un blu scuro, con il sedile del guidatore in cuoio e i sedili interni foderati in grigio pallido. «Funziona bene la macchina, Amos?» «Benissimo, signorina.» Così per fare qualcosa, riaccesi la torcia e mi guardai attorno. Indubbiamente, l'auto cominciava a invecchiare. Si vedevano sui cuscini tracce di bruciature di sigarette, e ce n'erano anche alcune sullo stuoino. I miei gesti, credo, erano comandati da un istinto che mi spingeva a cercare un diversivo in qualcosa di prosaico e banale, ed erano quasi automatici. L'auto non aveva nessuna importanza per me. Ma a un tratto vidi sullo stuoino, vicino ai miei piedi, una macchia scura di dieci o dodici centimetri di diametro. Abbassai la torcia e guardai. Si sarebbe detto olio. Vi passai sopra un dito, che poi portai al naso. Era benzina. Spensi la torcia e mi raddrizzai. Potevano esserci tante spiegazioni per quella macchia, ma una sola mi si affacciò alla mente. Seduta lì nell'oscurità, rapidamente considerai i diversi modi di eliminarla prima che Amos la notasse. E se l'aveva già notata? Forse intuiva i miei movimenti e sapeva quel che avevo scoperto? E lo sapevano forse anche gli inquirenti? Mi parve in quel momento di prendere la più ragionevole delle decisioni, sollevando lo stuoino, arrotolandolo e nascondendolo quanto meglio potei sotto l'ampio cappotto. Se Joseph si accorse che avevo un aspetto strano quando venne ad aprirmi il portone, non me lo fece capire. Judith aveva osservato un giorno, in mia presenza, che pareva incapace di stupirsi di alcunché. Quel pensiero mi sostenne mentre entravo in casa, piuttosto agitata e più voluminosa del solito. Judith mi chiamò dalla biblioteca, ma risposi al saluto senza fermarmi e mi avviai in fretta verso la mia stanza da letto. Li avevo visti, pas-
sando, Dick e lei, curvi sopra un foglio di carta aperto davanti a loro. Dick doveva aver disegnato una pianta. Nel momento in cui mettevo il piede sul primo gradino della scala, lo sentii spiegare: «Guarda qua. Questa è la sedia a sdraio. Qui c'è la porta dell'armadio...» In camera mia, chiusi la porta e misi lo stuoino sopra un tavolino, in piena luce. Non c'erano dubbi. Un recipiente tondo contenente benzina vi era stato appoggiato sopra, e proprio di recente. 10 Ero tornata a casa alle ventitré. Sentii Dick andarsene, poco dopo il mio ritorno. Il giornale al quale lavora esce nel pomeriggio, e lui è costretto ad alzarsi molto presto la mattina. Judith venne a darmi la buona notte. Avevo chiuso lo stuoino nell'armadio. Ferma accanto all'uscio, con una sigaretta in mano, mi domandò bruscamente: «Mary quando partirà?» «Non me lo ha detto. Perché?» «Ha fatto le valigie stasera. Dick ha dato una mano a Joseph per tirare fuori il baule dalla soffitta. Non mi pare che sia troppo entusiasta d'andarsene.» «Lo ha deciso lei stessa» risposi un po' piccata. «Be', speriamo che mamma non ce la voglia mettere in casa. Potrebbe farlo. Per tapparle la bocca... per via dello zio Jim...» Judith non se ne andava. Tirava rapide boccate dalla sigaretta e intanto rifletteva. Dopo un momento, mi mise a parte delle sue riflessioni. «Non pare strano anche a te il contegno di Walter, in tutta questa bruttissima storia? Se veramente sa qualcosa, sarebbe tempo che parlasse. E se non sa nulla, perché non se ne sta in disparte? Che c'entra lui? Cos'è che lo preoccupa?» «Vorrei che tu te ne stessi in disparte, Judith. È l'ora in cui i ragazzi dovrebbero essere a letto.» «Benissimo, ci vado. Ma prima voglio farti capire perché non torno a New York, nonostante le insistenze tue e di Dick. Sappi dunque che Walter non ha trovato quella matita sulla vetrata dello stanzino. L'ha portata lui lassù, e ha poi finto di trovarcela.» Detto questo, si allontanò fischiettando e mi lasciò con i miei pensieri, e cioè in ben spiacevole compagnia.
Ecco poi, per finire di confondermi, la bella notizia portatami da Joseph, dopo la partenza di Dick: le donne si erano messe in testa di sentire Sarah "camminare" per la casa. Erano agitate al punto da sembrare impazzite. Sin dalla sera della scomparsa di Sarah avevo dato a Joseph l'ordine di lasciare una luce accesa nell'anticamera. Aprii piano la porta della mia stanza, scivolai fuori e mi appoggiai al corrimano della ringhiera. Salvo Ben, nell'atrio non c'era nessuno. La vista di Ben mi aveva tranquillizzata. Indossai una veste da camera, infilai un paio di pantofole con suola di feltro e, preso lo stuoino e uno smacchiatore, scesi in lavanderia, fermandomi prima un momento in cucina a munirmi dell'attizzatoio. Sentivo di dover avere un'arma in mano. Non agivo a casaccio: se la macchia fosse sparita, meditavo di rendere il tappetino ad Amos, che avrebbe poi interpretato l'atto come gli fosse meglio piaciuto. Se la macchia non fosse venuta via, lo avrei bruciato nel forno. Ma ero molto nervosa. La lampadina in fondo alla scala, quella che si accendeva dal vestibolo, diradava appena le tenebre. Mi parve anche, appena messo piede nel corridoio, di udire uno scricchiolio nella legnaia. Forse si trattava di un topo, ma mi sentii rabbrividire. La lavanderia era al buio. Per rischiararla, bisognava entrare e girare una lampadina che pendeva da una piccola trave. Entrai, tremando. Al centro della stanza urtai violentemente contro una sedia che, cadendo, rimbombò a lungo. Perché era lì? Avrebbe dovuto essere sotto la finestra. Era stata di nuovo spostata. Perché? Da chi? Avevo proprio paura, lo confesso. Mi pareva di vedermi intorno ombre sinistre e minacciose, e mi pareva di udire anche un fruscio, un alternarsi cauto di passi felpati. Quando finalmente trovai il coraggio di girare la lampadina, dovetti constatare che era fulminata. Dato che il tentativo di smacchiare lo stuoino non diede buoni risultati, decisi di bruciarlo. Portandolo nella stanza dove c'era il forno, compii uno degli atti più ardui della mia esistenza. Quando però ebbi acceso la luce in quel locale, mi sentii un po' rinfrancata. Feci fuoco con un po' di carta e gettai il tappetino nel forno. Mi mossi, in attesa che la lentissima combustione finisse. M'incamminai nel corridoio esaminando le porte, e stavo tornando verso il forno quando mi fermai impietrita. Qualcuno si muoveva a pianterreno, proprio sopra il mio capo.
Mi volli dominare. I cani non avevano abbaiato. Doveva essere Joseph. Farmi sorprendere da lui nell'atto di bruciare lo stuoino sarebbe stato disastroso. Spensi immediatamente la luce nella stanza del forno e tornai verso la scala, in fondo alla quale brillava la lampadina accesa. Con orrore, la vidi spegnersi e sentii il chiavistello scorrere sui battenti dell'uscio, in cima alla scala. «Joseph!» gridai. «Joseph!» Non era lui. Non udivo più nulla, e nessuno rispondeva. Qualcuno, qualche cosa era lassù, in agguato. Ero indicibilmente impaurita. Me ne rimasi rattrappita sull'ultimo gradino della scala, nell'oscurità popolata di fantasmi. All'alba, andai a rifugiarmi nello stretto pianerottolo, contro l'uscio. Forse mi ci addormentai, forse svenni. Non dimenticherò mai la faccia di Joseph quando mi trovò là, alle sette, all'ora in cui è solito aprire l'accesso alle cantine. «Oddio, signorina...» «Aiutami, Joseph, non posso muovermi. Sei tu che mi hai chiuso giù. Ho passato una notte tremenda. O tu, o qualcun altro.» «L'ho rinchiusa giù, signorina? A che ora?» «Verso le due, credo.» «Non sono rimasto in giro oltre la mezzanotte» mi rispose, mentre mi aiutava ad alzarmi. Mi condusse in cucina e mi preparò un po' di caffè. Nora non era ancora scesa, poiché tutti, in casa mia, dormivano male e quindi si alzavano tardi. Anche Joseph era scosso: gli tremavano le mani ed era sbiancato. Nora entrò mentre sorbivo il caffè e mi guardò meravigliata. Ma non le diedi nessuna spiegazione. Mi alzai e mi trascinai fino in camera mia, dove mi misi a letto e mi addormentai. Mi svegliò Joseph quando venne a portarmi la colazione. Entrò, chiuse la porta, spinse un tavolino accanto al mio letto, spiegò il mio tovagliolo e me lo diede. Poi si mise sull'attenti e, guardandomi, disse: «Mi sono preso la libertà di bruciare quel tappetino, signorina.» Tossii. Lui, invece, si esprimeva con una calma perfetta, come se avesse avuto da dirmi che si era inacidito il burro. «I ventilatori non erano disposti a dovere. Il forno è un forno speciale. Bisogna conoscerlo per poterlo usare.» Joseph mi guardava, e io guardavo lui. I nostri rapporti erano cambiati, sebbene rimanesse immutato il suo contegno. Dividevamo un segreto; era-
vamo infatti diventati complici. Fra noi, avevamo combinato un misfatto, distrutto una prova. Se ne rendeva conto. Avesse visto la macchia oppure no, non ignorava più la presenza in casa dello stuoino. «Non avrebbe dovuto fare una cosa simile, signorina. D'ora in avanti, quando avrà bisogno di aiuto, mi chiami.» E con questo, se ne andò per i fatti suoi. Quando venne a riprendere il vassoio, mi disse in tono pacato che non trovava più la sua rivoltella. «Da un po' di tempo la tenevo in camera mia, sotto il cuscino. È sparita. Portata via da qualcuno che conosce bene gli usi di questa casa, signorina.» 11 Qualunque fosse il significato dello spiacevole incidente, era impossibile parlarne con la polizia. Harrison, del resto, era ormai del tutto preso dall'affare Gunther. E con lui indagavano, senza esito o quasi, gli altri componenti della squadra Omicidi. La pallottola non era stata rintracciata. Dalla dimensione dei fori e dal fatto che il cranio era stato trapassato da parte a parte, si doveva supporla di grosso calibro e sparata a bruciapelo. La vittima era morta fra le venti e le venti e trenta del 1° maggio. Quindi, la borsetta era rimasta per circa tre ore in mezzo alla strada. Nulla, all'infuori di quei pochi dati, era venuto a diradare le incognite del delitto. La Gunther pareva non avesse amici, né famiglia. Venuta da chissà dove, non doveva aver posseduto il dono di crearsi amicizie, a meno che non si voglia chiamare amicizia la strana relazione stabilitasi tra Sarah e lei. Si sapeva che negli ultimi tempi della loro esistenza si erano incontrate spesso. Un giorno, forse per puro caso, un fatto confidenziale era sfuggito di bocca a una di loro, e da questo comune segreto era scaturita la loro comune condanna. La giornata fu segnata da un solo incidente: la partenza di Mary. La quale pianse nel lasciarci, benché non avesse mai dimostrato affetto per nessuno di noi. Judith sembrò sollevata da un peso. «Sia lodato il Cielo!» esclamò. «Non avrò più bisogno di parlare sottovoce. Stava sempre a origliare. L'ho sorpresa a spiare sulla ringhiera. Deve sapere qualcosa. E scommetto, poi, che ha preso lei la rivoltella di Joseph.» «Perché l'avrebbe fatto? È un'accusa sciocca.»
«Sciocca? Chiedilo a Nora, e vedrai.» Interrogai infatti Nora, che mi fece uno strano racconto. Il giorno prima, era andata in camera sua a cambiarsi il vestito. Siccome nelle ore in cui si affaccenda intorno ai fornelli porta scarpe con suole di gomma, era salita senza fare il minimo rumore. La porta in cima alla scala ha una molla e si chiude da sé silenziosamente. Nora l'aveva spinta per aprirla, e aveva visto Mary uscire dalla camera di Joseph. Lui, in quel momento, era a pianterreno. Mary era rientrata nella camera, ma ne era tornata fuori quasi subito. Nora asseriva che si era fatta pallidissima. Sicché, appena Mary si era allontanata, si era affacciata alla camera del maggiordomo e aveva potuto accertare che Joseph aveva lasciato la rivoltella sul letto. Liberata, con la partenza di Mary, da ogni timore di essere spiata, quando quella sera entrai nella biblioteca assaporavo la quiete della casa. C'erano, al solito impegnati a bisticciare amorevolmente, Dick e Judith. «Diglielo tu, se la cosa ti pare tanto buffa!» proruppe lei al mio ingresso. «Diglielo tu, amore mio. Sfornali da te, i tuoi pasticcini.» «Non dire sciocchezze. Voglio una cosa semplicissima, Elizabeth: fare un sopralluogo nella stanza di Florence Gunther. Voglio vedere una cosa.» «Che cosa?» «Non lo so. Ma stammi bene a sentire. Non so perché la povera Sarah è stata uccisa, né perché è stata uccisa la Gunther, ma so perché a tutte due sono state tolte le scarpe. L'una o l'altra aveva indosso un oggettino, forse un foglio... Ora, devi sapere che Dick è entrato nelle grazie di una bionda che abita nella casa di Halkett Street. Anche lui ha un debole per lei, e l'ha persino invitata a pranzo...» I due si guardavano, sorridendosi. «Si chiama Sanderson, Lily Sanderson. È una confusionaria, ma anche una chiacchierona, certo molto più informata di quanto non abbia voluto dare a intendere all'ispettore. Nemmeno con Dick ha voluto confidarsi, ma potrebbe farlo con noi.» «Noi? Come sarebbe a dire? Tu e chi altro?» «Tu e io. Dick dice che la Sanderson ha paura della polizia, ma che con te si confiderà.» La proposta non mi garbava affatto e, sulle prime, rifiutai di aderirvi. Judith, però, ha modi tanto convincenti che non riesco a resisterle. Sicché, finii con l'accettare di accompagnarla. Fu quindi subito preso un appuntamento per telefono. La Sanderson, come apparve chiaro dal suo modo di rispondere, non si sentiva tranquilla.
Spiegò che doveva fissare l'incontro per l'indomani, un venerdì, perché era il giorno in cui la cameriera di colore della pensione aveva il pomeriggio libero. Venne lei stessa ad aprirci la porta, quando Judith e io ci presentammo. «Che piacere! Temevo proprio di dovermene stare sola soletta, stasera» disse, mettendosi l'indice sulla bocca. Continuò ad ammiccare, mentre parlava a voce alta. La signorina Sanderson era una bionda voluminosa, un po' zoppa. In nostro onore, aveva indossato gli abiti migliori e riordinato meticolosamente la sua stanza. Quando la porta si fu richiusa dietro di noi, la nostra ospite abbassò la voce per dirci: «Non si sa mai chi può esserci in giro, in una casa come questa. C'è sempre il pericolo di essere spiati. E dopo l'orribile fine della signorina Gunther... Non sono quasi più riuscita a dormire. Se abbiamo attorno qualche maniaco omicida, c'è sempre da temere di essere la sua prossima vittima.» «Non me ne darei pensiero» fece Judith. «Nessun maniaco si aggira da queste parti. Chiunque sia l'assassino, è uno che persegue uno scopo e sa bene quello che fa.» L'osservazione ebbe un effetto calmante. Mi pare che Judith le sia stata simpatica da subito. Prima di avventurarsi a raccontarci quanto sapeva, la signorina andò a dare un'occhiata fuori della porta, che richiuse poi accuratamente. «Voglio confidarmi con voi perché eravate amiche della povera Florence. Non so se quanto sto per dirvi abbia una grande importanza... Non sarò chiamata a deporre in tribunale, vero?» «Oh, no» affermò Judith, sicura. «Voi sapete certo che ho detto di averla sentita spostare i mobili, quella notte. Non ho voluto dire, però, quello che realmente ho pensato.» Abbassò la voce. «Ho pensato che fosse in compagnia di un uomo.» «Un uomo?» domandai. «Lo ha sentito?» «Un uomo e una donna. Li ho sentiti tutt'e due.» Ecco, in sostanza, quel che ci raccontò. Aveva il sonno leggero e, poco dopo la mezzanotte, era stata destata da rumori provenienti dalla camera sopra la sua. La cosa l'aveva sorpresa, tanto più perché pareva non volessero smettere. Si sarebbe detto che venissero spostati tutti i mobili della stanza. Incuriosita più che allarmata, si era alzata, era salita adagio di sopra e,
quasi si vergognava a confessarlo, una volta su aveva origliato. Nella stanza della Gunther un uomo parlava sottovoce. Lei era ridiscesa "con un turbinio nella testa". Non sapeva cosa fare. Era scombussolata. A un certo punto aveva udito un pianto di donna. Questo le era parso il colmo. Florence era proprio con un uomo, e i due litigavano. Alla fine, aveva preso una scopa e con il manico aveva bussato sul soffitto. I rumori erano cessati subito, ma, sebbene lei avesse lasciato il proprio uscio aperto e fosse di proposito rimasta ad aspettare sul pianerottolo, nell'oscurità, nessuno era sceso. Chiunque fosse stato, se n'era andato per la scala di servizio. Però non era più riuscita a riaddormentarsi. Allora, coraggiosamente, era salita ad affrontare la coinquilina. Aveva trovato la camera chiusa, ma non a chiave. Aveva provato a chiamare a mezza voce e, non avendo avuto risposta, si era decisa ad aprire la porta e ad accendere la luce. La stanza era in uno stato indescrivibile. «Persino le scarpe erano sparpagliate sul pavimento! Però non era stata derubata. Il suo salvadanaio era ancora sul comodino e il suo vecchio orologio sul tavolino accanto alla seggiola.» Era tornata giù, tremando, e si era rimessa a letto. Nemmeno allora era certa che Florence Gunther fosse stata assente dalla stanza per tutta la notte. Era ben sicura, anzi, che una delle due persone da lei udite nella nottata era una donna. Del resto, non voleva essere coinvolta in un fattaccio. Alla fine si era riaddormentata, ma alle sette era già in piedi. Quando aveva aperto la porta della stanza dell'amica, aveva visto che era stata riordinata. «Non riassettata proprio a dovere, ma insomma, quasi in ordine. Così come l'ha trovata la polizia.» «E a quale conclusione è giunta, adesso?» Judith, nel fare la domanda, le porse una sigaretta. «A nessuna. Ma la signorina Gunther era impiegata in uno studio legale, e in quei posti hanno talvolta strani segreti da custodire. Lettere, o che so io. Se aveva qualche oggetto del genere presso di sé, questo spiegherebbe molte cose. Doveva essere un oggetto piccolo, perché altrimenti l'avrebbero trovato subito. Ma non so davvero dove sia, se è nella camera.» «Oh, ha frugato anche lei?» proruppe Judith. «Sì. Tengono la stanza chiusa, ma la mia chiave l'apre. Forse ho fatto male, sono stata indiscreta... Ma era un'amica.» Gli occhi le si riempirono di lacrime. Judith le batté una mano sulla spalla amorevolmente. «Ma sicuro che ha fatto bene! Ne sono tanto convinta
che vorrei io stessa andare a vedere. Le dispiace?» «Aspetterò qui con la scopa in mano» disse l'altra con un'aria da cospiratrice. «Se sento un rumore sospetto, busserò.» Confesso che tremavo, quando misi piede sulla scala. La signorina Sanderson ci aveva preceduto e saliva con cautela. Dopo aver aperto la porta della stanza della Gunther, ci lasciò. Judith infilò la chiave dall'interno. Mentre stavamo lì, nell'oscurità, credo che non fosse troppo tranquilla neanche lei. A me, poi, pareva d'essere una delinquente. La casa era immersa nel silenzio. La signorina Sanderson ci aveva detto che la signora Bassett dormiva in una stanza in fondo a quello stesso piano, e che da qualche tempo era ammalata. Judith chiuse le imposte, prima di accendere la luce, quindi rimanemmo entrambe per un momento ferme a osservare la stanza dalla quale Florence Gunther era uscita per andare incontro a una morte violenta. Ora la stanza era ben riordinata: sul letto, una coperta dai colori vivaci; nell'armadio, la fila dei vestiti appesi e, sotto l'armadio, quella delle scarpe. Erano scarpe alla buona, senza tacchi, senza civetteria, con una stecca dentro per tenerle in forma. Judith si mise subito al lavoro. «Inutile guardare nei posti più ovvi. Qualcosa di piccolo. Se Lily ha ragione... Ecco, se volessi nascondere un foglio in questa stanza, dove lo metterei?» Esaminò le bottigliette sul comodino: una, scura, conteneva il collirio. La tappezzeria ci apparve intatta, dappertutto. Procedendo per eliminazione, si avvicinò allora all'armadio. «Certo hanno guardato ogni cosa, qui.» E doveva essere così. Nessuna tasca, nessuna fodera, nessun orlo in fondo a una gonna ci rivelò alcunché. Un solo piccolo indizio: nell'armadio c'era un taccuino. Judith lo prese e lo esaminò attentamente. «Guarda, guarda. Qui aveva nascosto qualcosa. Vedi che la fodera del libretto è stata tagliata e poi ricucita?» «Non è ricucita, adesso.» «Già!» esclamò Judith. «Avrà tolto di qui il pezzo di carta per metterlo nella borsetta...» Il tempo passava e mi sentivo morire, quando la Sanderson picchiò con la scopa sul soffitto. Non ci muovemmo, e per conto mio respiravo appena. Qualcuno saliva le scale molto cautamente. I passi si fermarono fuori dell'uscio. Feci cenno a Judith di spegnere la luce. Un istante dopo, i passi si allontanarono nel corridoio, e io ripresi fiato.
Dopo di che, ci chiudemmo a chiave nella stanza e Judith ricominciò le sue indagini. Si inginocchiò per esaminare le scarpe della Gunther. «Un tempo, nascondevo le sigarette nelle pantofole. Do un'occhiata a queste scarpe, poi ce ne andiamo.» «Il prima possibile, spero.» Non mi badava. Aveva trovato, in un paio di scarpe nere, delle solette di cuoio fatte per sostenere l'arco del piede. Le sue mani delicate ne tastarono una accuratamente. «Aveva i piedi piatti, poverina» borbottò, mentre frugava sotto la soletta. Sollevandola, trovò un foglietto ben piegato. Sono convinta che tremasse anche lei, come tremavo io, quando lo sfilò per mostrarmelo. Ma se lo cacciò nel reggiseno senza neppure aprirlo. Tutto era ancora tranquillo quando chiudemmo la porta. La Sanderson ci aspettava sul pianerottolo. Avrebbe voluto trattenerci, ma Judith rifiutò l'invito. «Hanno fatto un bel repulisti» mormorò. «In ogni modo, grazie infinite.» «Non ha tentato di entrare, vero?» «Qualcuno si è fermato un momento davanti alla porta, ma poi ha proseguito per il corridoio. Chi era?» «Non sono riuscita a vederlo. Un uomo, certo. Forse il dottore... A ogni buon conto, ho voluto avvisarvi.» Ci lasciò andare proprio a malincuore. «Se capitasse qualcosa di nuovo, ve lo farò sapere.» «Grazie. Lei è di una gentilezza squisita.» Ritrovammo la macchina dietro l'angolo della strada, dove l'avevamo lasciata, ma Judith non guardò il pezzetto di carta se non dopo essersi chiusa con me in camera mia. Il testo, dattiloscritto su carta sottilissima, diceva: Quadrante: cinque a destra, sette a sinistra. Premere sul sei. «Quadrante?» fece Judith. «Qui si parla di un orologio, ma lei non ne aveva. Se tu ci capisci quanto me, siamo al punto di prima.» 12 Non so quando Amos si accorse della sparizione dello stuoino. Con Jim a letto, la macchina era ferma in garage. Forse passarono due giorni, forse anche più di due, prima che il domestico tornasse a pulirla. Avrà sospettato
di me? Non credo. Comunque sia, prima di domenica, la cosa fu da lui riferita a Walter. Mi è impossibile capire il motivo di una confidenza simile, poiché, se è chiaro che riteneva il suo padrone un delinquente, è anche certo che a modo suo gli voleva bene. La conclusione di tutto ciò fu una spiacevolissima conversazione tra Walter e me, uno o due giorni dopo che Judith aveva scoperto l'incomprensibile foglietto. Adesso non ignoro più che era spaventato, terrorizzato, al di là di quanto potessi allora immaginare. Entrò nella mia biblioteca, il pomeriggio di quella domenica, con un'aria talmente stralunata che sulle prime lo credetti di nuovo ubriaco. «Ti dispiace se chiudo la porta? Ho da dirti alcune cose che forse non vorresti far sapere ad altri.» «Oh, allora è proprio il caso di lasciarla spalancata. Non ne posso più di misteri, o di scene...» «Benissimo» mi interruppe in tono irruento. «Volevo proteggere te.» E nonostante il "benissimo", chiuse la porta sbatacchiandola. Quindi mi si piantò di fronte. «Voglio sapere una cosa. Hai, sì o no, portato via lo stuoino dall'auto di Jim?» «Che modi sono questi? Cambiamo tono, Walter.» Tentò di controllarsi. Fece un giro per la stanza, poi riprese con voce meno aspra: «Scusami, sono sconvolto. Chi non lo sarebbe, al posto mio? Ripeterò la domanda in modo differente. Quando Amos ti ha riaccompagnata qui, lo stuoino era ancora nell'auto?» «C'era.» «E ce l'hai lasciato?» «Perché non avrei dovuto lasciarcelo? Non voglio subire imposizioni. Non c'è una ragione al mondo perché io debba piegarmi alle tue stranezze. Vai alla polizia, se vuoi.» «La polizia... Sto facendo quanto posso per tenerla lontana. Ma il domestico di Jim racconterà tutto ciò che sa. Glielo caveranno di bocca. Quel che preme a me è sapere perché hai voluto levare di mezzo quel tappetino. Che razza di traccia riportava?» Lo squadrai da capo a piedi. «Walter, credi davvero che Jim abbia commesso quei delitti? Sei stato tu a insinuare una mostruosità simile.» «Avevo pensato al movente, ma l'uccisione della Gunther... No, non credo che ne abbia avuto il fegato.» «Se conosci un movente, hai il dovere di svelarlo. A me, per lo meno.»
«Prima devi dirmi cosa c'era su quel tappetino. Olio? Sangue? L'hai preso tu: me l'ha detto Amos.» Allora decisi di confessare ogni cosa. «È vero, l'ho preso. L'ho bruciato nel forno. C'era una macchia circolare: una latta di benzina ci era stata posata sopra.» «Non è possibile!» esclamò lui, sprofondando nella poltrona. In pochi giorni era invecchiato di anni. Eppure non riuscivo a compatire il suo dolore. Sentivo che sapeva qualche cosa, anzi, molte, troppe cose. «Credi che Amos si fosse accorto della macchia?» «Non ne ho la minima idea. Però, se se ne fosse accorto, avrebbe informato la polizia. No, sono convinta che soltanto tu, io e Joseph ne siamo al corrente.» «Joseph? Che c'entra Joseph?» Mi stette a sentire con viva attenzione, mentre gli raccontavo del mio vano tentativo di bruciare lo stuoino e di come mi ero trovata rinchiusa in cantina. Non potei capire dal suo viso quel che pensasse dell'incidente. Aveva avuto tempo di ricomporsi, e il fatto che lo stuoino era stato distrutto sembrò calmarlo. Ma, quando ebbi finito, rimase in silenzio, assorto in riflessioni angosciose. «Non sarebbe tempo di dirmi quel che sai?» «Ne saprai quanto me quando dovrai esserne informata.» Si alzò, mi guardò di sottecchi, poi cominciò a riordinare nervosamente le penne e le matite sparse sulla scrivania. «Suppongo che tu sia incorruttibile, che per te una bugia sia una bugia, vero?» Sotto quell'aria di parlare a caso si sentiva una preoccupazione ardente. «Senti, tutto ciò che ti si richiede, nel caso in cui dovessi parlare dello stuoino, è di affermare che non si trovava nell'auto. Un momento!» mi ammonì rapido, per impedirmi d'interromperlo. «La tua posizione non è troppo comoda. Tu hai distrutto un corpo di reato. Quale sarà la conseguenza della tua azione per Jim? Diètro l'incidente, futile in sé, c'è più di quanto credi. Esistono delitti ben peggiori delle bugie. Ti garantisco che, se Harrison viene a sapere la storia dello stuoino, arresterà Jim, e subito.» «Non voglio prendere impegni, Walter.» «Devi. Anzi, devi fare di più. Un ladro, e in agguato ce ne sono sempre, potrebbe aver scavalcato lo steccato, essere entrato nel giardino e di là, per la finestra, nel garage di Jim. La macchina non è stata adoperata dal giorno in cui lui si è ammalato, cioè dal giorno in cui si è messo a letto, perché
malato non è. Lo stuoino avrebbe potuto mancare già da una settimana.» Quando mi lasciò, ero più confusa che mai. Judith e Dick erano fuori, a passeggio. Per portare al culmine la mia ansietà, Joseph venne a dirmi che le donne parlavano di andare via. Sin da quando Nora aveva ritrovato l'attizzatoio nella lavanderia, lei e Claire si erano convinte che la casa fosse visitata dagli spiriti, e la paura le faceva sragionare. Dalla sera prima, Judith e Dick avevano cominciato a smontare gli orologi di casa. Uno a uno, se li portavano nella biblioteca e li studiavano. Ho un'intera collezione di molle e rotelle da orologi. Quella domenica, Dick passò la giornata a cercare di capire come funzionavano quegli "aggeggi", come li chiamava Judith. «Dove diamine andrà, questo?» «Non vedi? Proprio qui.» «Non ci sta. Prova ad adattarcelo tu, che sei tanto brava.» E così, continuavano a bisticciare a parole mentre una certa tenerezza brillava in ogni loro sguardo. La conclusione del gran daffare fu lo scompiglio del servizio provocato dalla smontatura delle sveglie dei domestici. Quel giorno scoprimmo di avere bevuto il caffè alle dieci e pranzato alle quattordici. Nelle ultime ore della serata, Kate telefonò da New York. Howard aveva avuto un nuovo attacco del suo male. Stava meglio, ma lei voleva che Judith tornasse a casa. Judith se ne andò la mattina dopo. Dick era al lavoro, e la portai io alla stazione. Per strada, venni a sapere di un dissidio sorto tra lei e Dick. Me ne parlò con la sua solita, simpatica semplicità. «Mi vuole un bene dell'anima, ma sono figlia di un milionario. Perché accondiscendesse a sposarmi, dovrei vivere dei suoi guadagni e del poco che possiede di suo. È una pretesa barbara, vanità puerile. Orgoglio di maschio...» Era uno dei tanti casi in cui entrambi i litiganti hanno ragione ed entrambi torto. Non avevo suggerimenti da dare. Peraltro, comunque fossero andate le cose tra loro, i sentimenti di Dick rimanevano immutati. Tant'è vero che nella serata stessa di quel lunedì tornò a casa mia. «Non volevo venire, poi il vecchio autobus mi è passato vicino...» Fui proprio contenta di rivederlo. Mi ero sentita molto sola tutto il giorno. Judith mi aveva lasciato un gran vuoto. Mi mancava anche l'ispettore, con i suoi occhi chiari, i suoi stuzzicadenti, la sua aria di capire sempre tut-
to. Da vari giorni si era eclissato. Dell'apparizione di Dick mi rallegrai tanto che, lì per lì, mi venne voglia di raccontargli la storiella del tappetino. Lui si mostrò incredulo. «Secondo me, sarà stata quella la prima macchina esaminata dalla polizia.» «Pare anche a me. Potrebbe darsi che sapessero già...» «E tu sei proprio sicura che non sia stato Amos a mettere una latta sul tappetino?» La cosa non mi era nemmeno passata per la mente. Mi diedi della sciocca. Come conseguenza delle nostre chiacchiere, Dick andò a trovare Amos il giorno dopo e tornò dalla visita con nuove informazioni. La notte della morte della Gunther, Amos era stato a zonzo e Jim era rimasto solo a casa. Ma questi non poteva aver preso la macchina, perché Amos aveva in tasca la chiave della porticina del garage. Dick si era fatto dire da Amos dove aveva passato lui quella domenica sera, e se sarebbe stato possibile a un intruso toccare la macchina mentre era fuori. Inoltre, dato che il domestico aveva dovuto allontanarsi un momento da casa per sbrigare una commissione, Dick aveva approfittato della sua assenza per appurare due punti di non mediocre interesse. Punto primo: la finestra laterale del garage aveva un vetro rotto, e attraverso l'apertura si poteva benissimo infilare la mano per aprire la finestra. Punto secondo: una delle sedie, ridipinte di recente, recava alcune impronte visibilissime. Allora era entrato nel garage e aveva esaminato la macchina. Il posto di guida e quello accanto erano ricoperti di cuoio e potevano essere stati lavati, ma non c'erano macchie di sangue. «Amos» mi riferì «non si preoccupa dei chilometri percorsi, e quindi non può sapere se la macchina è stata portata fuori o no. Crede tuttavia che il carburante sia meno di quel che dovrebbe essere.» Dick si era accertato che Amos non avesse portato benzina all'interno dell'auto. "Perché fare tanto chiasso per la mancanza dello stuoino?" gli aveva detto. "Lo avrà magari buttato via lei, sarà stato macchiato..." "Ma no!" aveva protestato l'uomo. "Non trasporto mai nulla nella macchina. Il signor Blake ne ha tanta cura..." Per quanto quei ragguagli fossero importanti, non ci aiutavano affatto. Era probabile che Jim stesso, trovando il garage chiuso a chiave, avesse sfondato un vetro dopo essere salito sopra una sedia del suo giardino, e si fosse poi messo lui stesso al volante dell'auto.
Queste cose mi furono riferite martedì 10 maggio. Sarah era morta ormai da tre settimane e Florence Gunther da dieci giorni. Apparentemente, la polizia non aveva scoperto nulla di decisivo, e noi stessi avevamo soltanto il cifrario, che era la chiave di un segreto. 13 Ciò che ho scritto sinora è, lo capisco, un quadro imperfetto della nostra famiglia. Ho tralasciato di occuparmi di Howard Somers. Forse perché non ho mai avuto molta simpatia per lui. Non ho mai capito lo sviscerato amore di Kate nei suoi confronti. Ha contribuito al nostro mistero anche lui, e semplicemente con la sua morte. Quella morte non era inattesa, sebbene Kate si ostinasse a negarne la possibilità. Immagino che più d'una volta, dopo la crisi dell'anno prima, Howard abbia avuto il desiderio di parlare confidenzialmente alla moglie. Sono tante le cose che pesano sul cuore e sulla mente di chi si sa vicino a morire. Ma Kate non lo lasciava intavolare certi discorsi, parendole quasi di avvicinare l'ora del distacco con l'ammetterne la probabilità. Ciò mi fu confidato da Judith, quando cercai di capire la loro situazione, e le ragioni dello strano silenzio dei Somers intorno ad argomenti del massimo interesse per tutti loro. «Probabilmente avrà desiderato informarla di tutto, ma, poveretto, come poteva fare? Mamma non lo lasciava parlare. Si era impuntata come ha fatto con Walter.» «Credi che tuo padre e Walter si vedessero?» Judith si strinse nelle spalle. «Lo avrà visto di sicuro, ma non ne parlava mai. Non ha nemmeno raccontato alla mamma che Walter lo aveva premurosamente assistito al tempo della crisi dell'anno scorso. Forse per non darle un dispiacere.» Con le sue spiegazioni, Judith aveva evocato a sua insaputa una serie di pensieri che dovevano profondamente influire sui miei giudizi. Capii allora la barriera eretta da Kate tra padre e figlio, e i legami solidi, molto più solidi di quanto li stimasse mia cugina, tra i due. Erano stati spinti a incontrarsi quasi clandestinamente, e Walter, erede della grazia della madre, degli occhi, della bellezza di lei, era diventato carissimo a Howard. Questi morì nella notte fra martedì e mercoledì, o forse nelle prime ore del mercoledì. Un servitore mi chiamò al telefono, ma a rispondermi fu,
con mia grande meraviglia, proprio Mary Martin. Esordì con un: «Mi dispiace di doverle comunicare una brutta notizia.» Dopo avermela comunicata, mi spiegò: «Il signor Somers stava abbastanza bene, ieri sera. La signorina Judith è rimasta accanto a lui fin quasi alle ventitré. A quell'ora Evans gli ha portato il suo solito whisky al seltz, e la signorina lo ha lasciato pochi minuti dopo...» La mattina, Kate lo aveva trovato, in veste da camera e pantofole, riverso sul letto, così com'era caduto. Presi il treno delle undici, e giunsi poco dopo le quattordici in casa Somers. Mary era nel vestibolo. Parlava, composta e competente, con un imprenditore di pompe funebri. Mi venne incontro con fare cortesissimo. «La signora Somers tenta di riposare. Ha pranzato? Vuole rifocillarsi un po'?» «Grazie, Mary, ho già mangiato... A che ora è morto?» «Secondo i medici, fra le tre e le quattro di stamattina. Paralisi cardiaca.» «Quindi, non ci sarà un'inchiesta?» «Un'inchiesta?» Spalancò tanto d'occhi. «Perché?» Si mosse per condurmi alla stanza che mi era destinata. I medici non erano stati affatto sorpresi. Somers era morto tranquillamente: la cosa era confortante. E si era incaricata lei di comunicare la notizia alla famiglia. Aveva chiamato al telefono il signor Blake e aveva telegrafato a Laura. Inoltre, e sperava di non aver commesso una scorrettezza, aveva mandato un telegramma anche al signor Walter. Judith era chiusa in camera con la madre, che la disgrazia aveva colto impreparata. Ebbi tempo di riflettere nella solitudine della mia stanza. Mary era lì come a casa sua. Era stata svelta ad ambientarsi: non era ancora passata una settimana da quando aveva lasciato la mia. Adesso so com'erano andate le cose. Mi ha informato Kate. Il venerdì della settimana precedente, Mary si era recata a New York, dai Somers. In quel momento Kate stava dettando una lettera. Era andata a incontrare Mary, che l'aspettava nell'anticamera e che, con voce calma, le aveva riferito in meno di mezz'ora un mondo di cose di cui nessuno l'avrebbe creduta informata, sulla mazza-pugnale e sul rifiuto di Jim di produrre un alibi per la notte in cui era morta Sarah. Mary sapeva, o per lo meno era sicura, che Jim non era affatto malato, ma si teneva tappato in casa per nascondersi. E, in un bisbiglio, aveva aggiunto quanto aveva appreso intorno alla sparizione dello stuoino. Kate era rimasta di sasso.
"Com'è riuscita a sapere una cosa simile? Sono discorsi di Amos?" "In parte. Ma sono anche i miei occhi. La signorina Bell ha cercato di bruciare lo stuoino e non ci è riuscita. Quando sono scesa per la colazione, la cuoca mi ha detto che l'attizzatoio era sparito dalla cucina. L'ho ritrovato poi io nella cantina. Mi sono guardata attorno, e lo stuoino era proprio lì, nel forno." "Ripeterebbe questo racconto sotto il vincolo del giuramento?" "Non necessariamente" aveva risposto Mary, e poi era rimasta in silenzio, aspettando che Kate afferrasse bene il significato delle sue parole. Nelle stesse ore, Kate, dopo averle dato due mesi di salario, congedava Maude Palmer, la brava ragazza che da cinque anni era la sua segretaria. L'indomani, nel grazioso salottino in cui Kate sbrigava tutte le sue mansioni di donna ricca e influente, Mary aveva cambiato il nastro della Remington. Aveva chiesto a Kate di non scrivermi della sua presenza in casa Somers. "E perché no?" le era stato risposto. "La signorina Bell si rallegrerà di saperla sistemata bene." "Immaginerebbe che mi sono valsa di... delle mie informazioni per avvantaggiarmene." "Però" aveva soggiunto Kate "quando Judith sarà di ritorno..." "Forse tutte le difficoltà saranno state appianate, allora" aveva mormorato la nuova segretaria. Incomprensibile Mary Martin... Mi ero adeguata al silenzioso andamento della casa piombata nel lutto. Kate non si faceva vedere. Molta gente veniva, bisbigliava le solite frasi di condoglianza e se ne andava. Arrivavano fasci di fiori. Mary scriveva in un suo taccuino i nomi di tutti. Era stata pregata di trattenersi notte e giorno fino a dopo il funerale. Finché non ebbi modo d'intrattenermi a lungo con Judith, non mi turbò alcun dubbio sulla vera causa della morte di Howard. Ma dopo la nostra conversazione, m'invase un grande sgomento. E poiché il racconto di Judith rimarrebbe incomprensibile a chi non conoscesse la disposizione dell'appartamento dei Somers, occorre darne almeno un'idea sommaria. L'appartamento è su due piani. A quello inferiore si trovano, da un lato, la grande sala di ricevimento, un salottino, una biblioteca e lo studiolo di Kate. Dal lato opposto stanno su tutta la lunghezza di un corridoio l'ampia sala da pranzo, la dispensa, la cucina, le stanze della servitù. Il piano superiore è interamente riservato alla famiglia. Comprende la camera da letto di
Kate, cui è annesso un salottino; la camera da letto di Howard con il suo studiolo; la camera di Judith, due camere per gli ospiti, quella della cameriera personale di Kate e, dietro questa, un'altra più piccola adibita a guardaroba. I due piani comunicano per mezzo di due scale: la padronale, nella parte anteriore della casa, e quella di servizio, dalla parte opposta. La sera prima, Judith aveva incrociato, nell'anticamera, Mary pronta a partire. Avrebbe voluto evitarla, ma Mary l'aveva trattenuta dicendo: "Non credo che suo padre dovrebbe essere lasciato solo, di notte". Judith l'aveva squadrata. "Perché dice così?" "Perché è un uomo molto malato. Se dovesse... sentirsi male nella notte, non potrebbe forse chiamare nessuno in aiuto." "Non abbiamo la benché minima intenzione di trascurarlo" aveva ribattuto Judith, voltandole le spalle. L'osservazione l'aveva seccata, ma anche turbata. Aveva voluto passare la serata accanto al padre nello studiolo annesso alla camera da letto. Howard era raffreddato e sentiva un po' di malessere. Aveva letto, quasi continuamente. Alle ventitré, quando Evans era venuto a portare la bevanda che tutte le sere deponeva accanto al letto del padrone, Judith si era preparata a ritirarsi. Non aveva ancora riferito alla madre la scenetta svoltasi in quel momento. Proprio allora era suonato il telefono, e lei aveva risposto alla chiamata, che pareva provenire da lontano. Volevano comunicare con suo padre, e lei aveva visto dipingersi sul volto di lui una viva sorpresa, mentre rispondeva: "Stanotte? Dove sei? È già tardi, e ti occorreranno almeno due ore, prima...". Alla fine Howard aveva pronunciato un "D'accordo" e, quando aveva riagganciato il ricevitore, Judith aveva notato la sua aria preoccupata. "È lo zio Jim" le aveva spiegato. "Viene in macchina. Lo credevo malato." "Lo è stato" gli aveva risposto la figlia, più che mai impensierita. Avrebbe voluto aspettare anche lei l'arrivo dello zio, ma il padre l'aveva dissuasa. Jim, a quanto le aveva riferito, voleva che la sua visita rimanesse segreta. Anzi, l'aveva pregato di farlo entrare dalla porta di servizio. Sicché, per accontentare il cognato, Howard aveva mandato la figlia stessa ad aprire quella porta, in fondo alla scala. Poi aveva chiamato al telefono il portiere di notte e gli aveva ingiunto di lasciar passare una persona che sarebbe venuta a trovarlo. Gli aveva raccomandato persino di aprire lui la porta d'ingresso sul viale e di andarsene in pace. Nel rimettere a posto il ri-
cevitore aveva sorriso. "Crederà che abbia dato un appuntamento a un contrabbandiere." Judith aveva ottenuto che si mettesse a letto, in attesa dello zio. Dopo che si era coricato, era entrata in camera per dargli un libro e sistemare bene la lampada. Lui le aveva chiesto: "La porta di sotto è aperta?". "Tutto pronto." Judith era sicura che il padre non aveva nemmeno assaggiato la sua solita bevanda, quando lo aveva baciato prima di andarsene. Non sapeva decidersi ad allontanarsi. Come avrebbe fatto lo zio a sfuggire alla vigilanza dell'agente in borghese era cosa di cui si preoccupava poco, mentre era in pensiero per il padre. Non aveva ancora sentito entrare nessuno, quando si era addormentata, verso le due. Un'ora dopo era di nuovo sveglia. Era rimasta un po' seduta sul letto, poi si era alzata, aveva raggiunto pian piano la porta del padre e vi si era trattenuta per un momento in ascolto. Aveva sentito due voci: l'una piana, bassa, e quella del padre più alta e irritata. Poco dopo aveva udito dal suo letto una specie di tonfo. Come di un corpo che cade, mi spiegò, fremendo al ricordo. Era rimasta un pezzo con l'animo sospeso, tendendo l'orecchio, ma il rumore non si era ripetuto, dopo di che aveva finalmente sentito Jim allontanarsi e chiudere l'uscio. A quel punto si era addormentata. Alle nove, era stata svegliata da un urlo e dal rumore di una sedia rovesciata. Per quanto avesse fatto presto a buttarsi addosso una vestaglia e accorrere, Mary l'aveva preceduta nella stanza del padre. La segretaria aveva gli occhi sbarrati dallo spavento. Sul pavimento c'era Kate svenuta, mentre Howard giaceva morto sul letto, con un'espressione di pace sul volto. Judith aveva subito chiamato aiuto, e i domestici erano accorsi. La cameriera francese di Kate era stravolta. Solo Mary, senza perdere il controllo, aveva aperto le finestre ed era andata a prendere il bicchiere nella camera di Howard. «Ma» mi spiegò Judith, guardandomi fisso con gli occhi arrossati dalle lacrime «l'ha lasciato cadere. Ed era precisamente quello in cui di solito si preparava da bere per papà. Lo ha lasciato cadere nel bagno; ovviamente, è andato in mille pezzi. Ha voluto romperlo. Perché? C'erano pure altri bicchieri nel bagno.» Le raccomandai di non dire nulla alla madre. Mi rispose con una mossetta eloquente e con queste parole: «Prima o poi, la mamma saprà che lo zio Jim è stato qui. Il portiere notturno l'ha vi-
sto. E lo ha detto a Evans, stamattina, appena ha saputo che papà era... Devono esserne al corrente tutte le persone di servizio.» «Il portiere ha riconosciuto tuo zio?» «Non saprei. Ma è perfettamente certo della venuta di un visitatore.» «E i medici? Credono che la cosa sia normale? Insomma, che sia stato... il cuore?» «Perché mai dovrebbero pensare a un'altra causa? Se è stato un veleno...» «Zitta, figliola!» Non so come feci ad arrivare in fondo a quella giornata. Da anni non era mai capitato nulla di straordinario a casa nostra, senza che Sarah fosse lì ad aiutarci. Più che mai ne sentii in quel momento la mancanza. 14 Walter arrivò quella sera. Kate restava ancora in camera sua. Ogni tanto Judith andava a raggiungerla, ma la madre, chiusa nel suo dolore, l'accarezzava un po' e poi ne dimenticava la presenza. Commise l'enorme errore di rifiutare di rivedere il figliastro. Con tutte le sue manchevolezze, Walter aveva provato per il padre un affetto sincero. Mi sembrò profondamente scosso quando gli andai incontro. Mi accorsi allora che cominciava a incanutire. A poco più di trent'anni, quella sera pareva averne cinquanta. «È stato il cuore?» «Sì. Era una disgrazia prevedibile, Walter.» Sembrò esitare, prima di risolversi a domandare: «Non c'è stata un'inchiesta dopo la morte?» «No.» «Ho chiesto di lei, ma pare che non voglia vedermi.» Quello era isterismo puro. Non era sperabile che Walter lo capisse e compatisse. Mary entrò proprio in quel momento, carica di un mucchio di telegrammi. Lui non la guardò neppure. Lei lo guardò, invece. Aspettò un momento, poi depose i telegrammi e se ne andò senza aver aperto bocca. «Abbi un po' di pazienza, Walter. Dalle il tempo di riaversi.» «No» rispose lui a denti stretti «ho fatto anche troppo. Ora è finita.» Il viso gli si era indurito. Si sarebbe detto che l'affronto patito avesse fugato ogni buona intenzione di proporre un trattato di pace. Lo vidi, un
momento dopo, ritto in mezzo alla grande sala di ricevimento, guardare intorno a sé le lussuose tappezzerie, i quadri famosi, i mobili Luigi XV. «Ha buon gusto» fece con un sorriso triste. «In lei, il gusto è buono e il giudizio guasto... Mi sarà lecito vederlo, spero. Era mio padre, in fin dei conti.» Non chiesi il permesso a nessuno per accontentarlo. Walter rimase per cinque minuti in presenza della salma. Judith lo accompagnò fin sull'uscio della camera. Devono essere stati minuti di profondo tormento, per lui. Ma quando uscì dalla stanza, pareva abbastanza calmo. Quando si mosse per allontanarsi, mi accorsi che Mary lo aspettava nell'anticamera, ma vedendomi si eclissò. Lei, che si era impegnata a rimanere lì quella notte, avrebbe dovuto lavorare fino a tardi per provvedere a tutti i particolari. Infatti, quando finalmente me ne andai a letto, era ancora seduta alla sua scrivania. Ma non riuscii a chiudere occhio. Ero profondamente turbata dalla notizia che Jim fosse venuto a trovare Howard; che la sera prima, nonostante la sua pretesa malattia, avesse guidato fino a New York; che fosse giunto di soppiatto dopo una telefonata fatta da lontano. Il suo passo era forse comprensibile. Si era cacciato in un ginepraio e, per cercare di cavarsela, aveva voluto ricorrere ai consigli del cognato. Ma non era stata l'emozione tremenda a causare la morte di Howard? E se per caso questi era morto in presenza di Jim? Se, per caso, il tonfo udito da Judith fosse stato quello del corpo caduto riverso? Come si spiegava, in circostanze simili, la fuga di Jim nella notte? Sapere la sorella a pochi metri di distanza, e non avvisarla? Tutto ciò mi pareva mostruoso, inumano. Sarebbe stato d'altronde impossibile appurare i fatti. Perché acconsentisse a un'autopsia, Kate avrebbe dovuto essere messa al corrente di tutta la storia, e cioè anche di quanto si mormorava sul conto del fratello. E Mary? Conosceva forse l'identità del visitatore? Mary la misteriosa, che si aggirava in mezzo a noi senza sentirsi all'unisono con noi. Quali erano i suoi disegni, i suoi scopi? Aveva rotto quel bicchiere: perché? Sapeva forse di qualcosa, di qualche polvere che vi era stata sciolta dentro? E dov'erano i pezzi di vetro? Quella notte veniva giù una delle solite, fitte piogge primaverili. Non potevo rimanermene sdraiata a letto. Quei pezzi di vetro... fossi riuscita a ritrovarli! Mi rendo conto adesso che, nello stato di disperazione in cui ero ridotta, non ragionai con la lucidità abituale.
Sconvolta, mi vestii alla meglio e scesi al piano di sotto. Come ho già detto, si passa dalla sala da pranzo attraverso una dispensa nella cucina, al di là della quale si apre uno stanzino pavimentato in cemento. Da una botola, si può gettarvi direttamente i rifiuti dal piano superiore, e dato che vi erano stati raccolti nelle ultime ore gli involucri dei fasci di fiori mandati per il funerale, l'avevo visto in giornata pieno di cassette e di carte fino all'altezza di un metro almeno. Andai verso lo stanzino, il quale naturalmente, oltre che dall'alto tramite la botola, è accessibile dal piano inferiore attraverso una porticina. La cercai a tastoni nell'oscurità. Ma quando l'ebbi raggiunta, mi fermai un momento, impietrita dallo stupore. Udivo dietro la porticina un lieve fruscio di carte smosse, lo sfregamento attutito di un coperchio richiuso adagio sopra una latta... Ci volle tutto il mio coraggio per spalancare la porta. Per un momento, il rapido passaggio dal buio alla luce viva che illuminava il piccolo ambiente m'impedì di distinguere qualcosa. Poi scorsi Mary che, pacificamente seduta per terra, pareva irraggiare luce dai capelli rossi. Alzò su di me gli occhi ridenti, mentre mormorava: «Che paura, mi ha fatto!» «Cosa diamine fai qui, Mary?» «Non riuscivo a prendere sonno. Mi tormentavo per un biglietto da visita, quello che accompagnava un magnifico fascio di orchidee e mughetti. È andato smarrito...» Le sue dita frugavano tra la spazzatura radunata su un pezzo di carta. A un tratto raccolse un cartoncino. «Eccolo, finalmente. Ora potrò dormire in pace.» Avrei giurato che recitasse una parte. «Perché non hai chiuso quella finestra?» Mary si strinse addosso la vestaglia mentre si rimetteva in piedi. «La chiuderò subito, per quanto la pioggia non faccia danni in un bugigattolo come questo.» Mentre mi voltava le spalle, la vidi allentare la presa sulla vestaglia e chiudere la finestra con una sola mano. Intuii che avesse gettato qualcosa al di là del davanzale. Di un'altra cosa mi accorsi subito. Non c'erano pezzetti di vetro tra la spazzatura sparsa sulla carta. Se, come mi pareva di capire, aveva buttato fuori quelli che vi aveva trovato, la pioggia li avrebbe lavati ben bene nella nottata, e non avrebbero rivelato alcun segreto. Tuttavia, nemmeno quando
fui di nuovo nel mio letto mi sentii veramente tranquilla. Alla mattina, mi alzai prestissimo e andai, sfidando la pioggia, nel cortile dello stabile. Non trovai nulla. Vidi bensì, qua e là, minutissimi pezzetti di vetro, ma erano scaglie, di cui nessuna poteva meritare un esame. Cosa ben comprensibile se, come ero ormai certa, erano cadute dall'altezza di un dodicesimo piano. Dick venne in giornata. Seppi della sua visita perché sorpresi Judith e lui nella biblioteca, immersi in un dialogo certo doloroso per entrambi. Judith era seduta, lui in piedi davanti a una finestra. «Non vedo quale differenza possa fare» borbottò lei. «Ah, no? La vedo io, però...» Lei si allontanò quasi immediatamente, e colsi un'espressione di grande tristezza sul viso risoluto di Dick. In quel nostro incontro seppi che non ero sola a nutrire sospetti sulla vera causa della morte di Howard. «Non ci saranno complicazioni, spero» mi disse lui. «E tu, cosa credi?» «Non saprei. È possibile che lo abbia ucciso l'emozione provata per quanto gli ha riferito Blake, il che non costituirebbe un assassinio. Posto, però, che abbia veramente parlato con Blake.» «Credi che fosse qualcun altro?» «Senti, Blake è malato, o per lo meno dice di esserlo. E sarebbe venuto a New York nel cuore della notte, guidando da sé la sua macchina? Avrebbe fatto un viaggio di novanta chilometri per vedere il signor Somers e ripartire subito? Un viaggio niente male per un ammalato... E poi, perché questa gran segretezza?» Sedetti. Le gambe non mi reggevano più. Dick guardò l'orologio e domandò: «A che ora comincia il turno del portiere di notte?» «Non ne so nulla.» «È quello il merlo da far cantare.» Mi parve allora di dovergli riferire la storia del bicchiere rotto e del mio incontro notturno con Mary. Lui s'interessò molto al racconto, ma divenne scettico quando affermai che Mary aveva trovato sul serio un cartoncino e che, d'altronde, non ero sicura del lancio dei frammenti fuori della finestra. «Secondo me» disse poi «ci troviamo in presenza di un nuovo delitto. Chi vuole uccidere un uomo già condannato dai medici e che ha, tutt'al più, pochi mesi di vita davanti a sé? Ammesso questo, però, e ammesso anche che ci fosse un veleno nel bicchiere... occorre figurarsi il signor So-
mers mentre beve, in conversazione con uno che conosce e di cui si fida. Non ha timori. Sta sorbendo la solita bevanda della notte. E bisognerebbe credere che Mary Martin sapesse del progettato assassinio e del modo in cui sarebbe stato consumato. Come mai, allora, si sarebbe decisa a consigliare Judith di non lasciare il padre solo di notte? Come si spiegherebbe una condotta simile?» «Non ne ho idea» risposi, al colmo della confusione. Del nostro colloquio non riferimmo nulla a Judith, s'intende. La giornata, poi, passò tranquillamente. Altre visite, altri fiori. Mary registrava ogni cosa e si dava da fare con molta dignità. Verso sera mi domandò il permesso di andare a dormire a casa sua, e non esitai a rispondere affermativamente. Poco dopo la cena, quindi verso le ventuno, se la svignò. Un quarto d'ora dopo la sua partenza, fui chiamata al telefono. Era Dick. «Senti, telefono da un drugstore qui all'angolo della strada. Volevo avvisarti che potrebbe esserci qualcosa da appurare circa quanto si è detto oggi.» «Ah, sì?» «La signorina in questione... Capito?» «Perfettamente.» «Ha interrogato il portiere notturno. Il particolare è interessante, non ti pare? Ho voluto informarti, perché tu tenga gli occhi ben aperti.» Ricordo che quella sera venne l'avvocato di Howard, Alex Davis. Lo trovai placidamente accomodato nella biblioteca. Aveva un bicchiere di vino bianco accanto a sé e l'aspetto di chi ha cenato bene. Era in vena di chiacchiere. Davis è un omone grasso, dal viso largo, animato da maliziosi occhietti neri. «Suppongo» mi disse «che sia già risaputo da voi tutti che si tratterà di una cospicua eredità. Anche più grossa di quanto gli stessi parenti prossimi possano immaginare.» «Aveva fatto testamento?» «Sì. E un testamento molto equo, secondo me. Si è ricordato dei suoi servitori, di certe opere di beneficenza. Ha anche lasciato un bel po' al fratello della signora Somers.» «E a Walter?» L'avvocato si schiarì la gola. «Il mio cliente aveva speso molto per il figlio. Aveva finanziato diverse sue imprese, tutte andate a rotoli, e l'estate scorsa aveva buttato via un altro mucchio di soldi per pagarne i debiti. Ciò
nonostante, non lo ha diseredato. Gli ha lasciato gli interessi di un capitale assicurato. Non un reddito enorme, ma sufficiente. Naturalmente i particolari che le sto rivelando devono per ora restare fra noi. Io sono uno degli esecutori testamentari.» Jim arrivò l'indomani a mezzogiorno, in tempo cioè per il funerale. Era straordinariamente pallido, e il suo pallore era forse spiegabile con una reclusione durata per oltre tre settimane. Per il resto, pareva il solito. Elegantissimo, come sempre: cravatta nera, fascia nera sulla manica sinistra del soprabito. Non ebbi modo di avvicinarlo. Se ne andò difilato in camera della sorella, e Kate e lui pranzarono insieme, da soli. Si fece vedere quando la bara fu portata a spalla al piano inferiore dell'appartamento e, più tardi, dopo l'ufficio funebre. Nel primo di quei due momenti, si trovò vicinissimo a uno che più tardi seppi essere Charles Parrott, il portiere notturno. Era un uomo di mezza età, intento a preparare file di sedie destinate agli intervenuti alla funzione religiosa. Quando Jim gli passò accanto, lo guardò fisso, con una strana insistenza. Lui non gli badò neppure. Mentre Jim andava e veniva, sistemando le corone, disponendo meglio le luci, Parrott seguiva ogni suo movimento. Sparì quando Jim tornò nelle stanze di sopra a raggiungere la sorella e la nipote, per rimanere loro vicino mentre si svolgevano le ultime preghiere. Walter non venne invitato a unirsi al gruppo di famiglia. Fu lasciato solo. Esclusione crudele, stupida. Kate gli aveva tolto il più forte affetto che lui avesse nella vita, e nel comune dolore lo allontanava ancora da sé. Lui stette quindi seduto in disparte per tutta la durata delle preghiere. Anche al cimitero, accanto alla tomba del padre, venne lasciato solo. Dopo una lunga esitazione, alla fine prese una decisione. Andò quella sera stessa a bussare alla porta di Davis. Quando Walter arrivò, l'avvocato era tranquillamente seduto nella propria biblioteca; quando ripartì mezz'ora dopo, Davis pareva sul punto di morire d'un colpo apoplettico. Ma presto si riebbe e, senza perdere tempo, corse a casa Somers e chiese di parlare con la signora. Fu subito ammesso nella camera di Kate. Della visita, Judith e io non siamo state informate allora. Judith si era infatti decisa ad avere con Jim una spiegazione alla quale desiderava che fossi presente anch'io; singhiozzando, mi aveva dichiarato di voler uscire dalla sua atroce incertezza. Ma la reazione di Jim alla prima domanda della nipote fu una sorpresa per lei e per me.
«Qui? Io, qui? Ma è pura pazzia! E perché sarei dovuto venire qui a quel modo? Ma tu sei pazza, Judith!» «Qualcuno è stato qui e si è presentato con il tuo nome. Ha telefonato per annunciarsi da fuori città.» Quando Judith ebbe riferito ogni cosa, lui si fece anche più pallido di prima. Non solo si delineava la possibilità di un nuovo delitto, ma doveva aver intuito subito che altri indizi schiaccianti si accumulavano a suo carico. «È tremendo» balbettò dopo un po' con aria smarrita. «E quel portiere dice di avermi riconosciuto?» «Dice che l'uomo dell'altra sera aveva la tua statura e il tuo portamento.» Jim cadde preda di un'ira selvaggia. «E così quel tale, quel Parrott, è stato messo a parte del segreto? Lo hai fatto venire qui per vedere se mi riconosceva? Ma in nome di Dio, vuoi farmi condannare alla sedia elettrica? Non sono stato qui. Come diavolo avrei fatto a venire? Sono stato ammalato per diverse settimane. Se qualcuno è venuto servendosi del mio nome e facendosi passare per me, è un bugiardo, un impostore, un assassino! Perché avrei dovuto venire qui di soppiatto, nella notte, quando posso farlo come e quando mi pare? Tuo padre era per me un amico. Per parlare chiaro: cos'avevo da guadagnare io dalla sua morte, o da una di queste tragedie?» Come per rispondere alla domanda, un cameriere venne a bussare alla porta. La signora Somers desiderava vedere subito il fratello. Non ho assistito alla scena in camera di Kate, ma mi è facile immaginarla: mia cugina, rigida nella sua poltrona, e Davis incapace d'interrompere il suo nervoso andirivieni, accompagnato da continui schiocchi delle dita magre. Jim fu immediatamente informato di quanto l'avvocato aveva appreso un'ora prima da Walter. Durante la malattia dell'anno prima, Howard aveva fatto un secondo testamento. Il documento, steso dall'avvocato Waite, era stato depositato nella cassetta di sicurezza di Howard alla sua banca di New York. Lo studio legale Waite & Henderson ne possedeva una copia. Sulla base di questo secondo testamento del padre, Walter riceveva, non un semplice reddito annuo, ma la metà del patrimonio. Il precedente testamento era revocato; il nuovo non disponeva nulla a favore di Jim o di Sarah. «Il giovane ha persino citato i due testimoni: Sarah Gittings e Florence Gunther.»
Jim svenne nell'udire quella frase. Sul momento, Judith e io non venimmo informate. Quando mi rimisi in viaggio, la mattina dopo, Kate e il fratello erano ancora chiusi nelle loro camere. Il treno stava per entrare in stazione, quando Dick si affacciò al mio scompartimento. Sembrava molto abbattuto, e cercò di sorridermi. Judith gli aveva telefonato il reciso diniego dello zio. «Lo crede sincero e, con questo, la figura della Martin acquista un rilievo singolare. La chiave del mistero pare impersonarsi in lei. Il bicchiere andato in mille pezzi... Non può essere un caso. Se si conoscesse il motivo dei suoi atti, non tarderebbe a venire fuori il resto della soluzione. Come e perché c'entra, lei?» «Ah, come vorrei saperlo...» «Parlami di quella ragazza. Chi è? Che cosa sai di lei?» «Poco o nulla. Feci pubblicare un annuncio su un giornale, l'autunno scorso, e si presentò la Martin. Messa alla prova, si dimostrò all'altezza della situazione. Non aveva referenze.» Dick rimase muto per un momento. Poi, toltosi di tasca un foglio, vi tracciò un cerchietto intorno al quale segnò una dozzina di punti. Il disegno somigliava alla lontana a un orologio privo di lancette. Me lo tese, dicendomi: «Quella storia del quadrante... Invece che a un orologio, si riferisce forse a una cassetta di sicurezza. Hai una cassaforte in casa?» «Io? No...» «Be', se non proprio una cassaforte, qualcosa di non troppo dissimile da un quadrante d'orologio. Una cosa tonda, forse un dipinto. Non ne hai nessuno incorniciato in un tondo e con chiodi sul rovescio della cornice?» «Uno o due, sì. Li esaminerò.» Il treno era ormai giunto in stazione. Dick mi aiutò a infilarmi il cappotto e a scendere. Ero lieta di essere tornata, di aver trovato Robert alla stazione e Joseph davanti al portone. La casa mi pareva fresca e quieta: un refrigerio, dopo le giornate di New York. Subito mi confortò l'accurato servizio del maggiordomo: il tavolino da tè ben preparato, i panini caldi a dovere. Ben adagiata in una poltrona, alzai gli occhi su di lui e mi accorsi che era pallidissimo, quasi cereo. Gli domandai, turbata: «Ti sei sentito male, Joseph?» «No, signorina. Ma ho avuto un incidente.»
«Un incidente? Che cosa ti è successo?» Ecco quanto era successo: il giorno della mia partenza per New York, nel pomeriggio, Joseph aveva lasciato andare in giro le donne. Era una cosa che faceva spesso, quando mi assentavo. Si preparava un pasto alla buona e pareva contento di godersi indisturbato la sua dispensa. La casa era chiusa, e Robert stava pulendo la macchina in garage. Questi mi disse, e ho potuto controllare l'esattezza dell'affermazione, di aver percepito verso le sedici un debole raschiare contro un vetro della finestra della dispensa. Guardando da quella parte, aveva visto una testa insanguinata che vacillava debolmente. Aveva avuto paura. Non azzardandosi a entrare da solo in casa, era andato a chiamare l'autista del mio vicino, il contrabbandiere. Insieme avevano sfondato la porta della cantina e si erano precipitati su per le scale. Avevano rinvenuto Joseph lungo disteso sul pavimento della dispensa, in stato d'incoscienza e con il viso imbrattato di sangue che sgorgava da un taglio profondo. Il dottor Simonds, chiamato d'urgenza, gli aveva anche riscontrato sul corpo parecchie contusioni. Quando, due ore dopo, lui era tornato in sé, non aveva saputo descrivere l'aggressore. «Non l'ho visto, né l'ho sentito arrivare» mi spiegò. «Ero al primo piano. Pareva che stesse per piovere, per cui avevo voluto chiudere tutte le finestre. Mi avviavo a ridiscendere per la scala di servizio, quando mi sono reso conto di avere qualcuno alle spalle. Chi fosse non lo so: non l'ho visto. E il mio primo ricordo è quello dello sforzo per trascinarmi fino alla dispensa, dato che mi ero ritrovato in fondo alle scale.» Le sue affermazioni erano confermate da quelle delle donne, che avevano rinvenuto chiazze di sangue sugli scalini e una pozzanghera rossa in fondo alla scala. Il dottor Simonds, però, doverosamente accorso in serata a farmi una visita di condoglianza, mi sembrò poco persuaso della storia dell'aggressione. «Si è fatto male, ah, questo sì. Ho dovuto dargli quattro punti. Ma quanto all'aggressione, non ci posso credere. Uno dei suoi tacchi di gomma si sarà impigliato da qualche parte, e così, perdendo l'equilibrio, è andato giù ruzzoloni. Sono più di venti scalini, e non si può dubitare che ognuno abbia contribuito a conciarlo per le feste.» «Sostiene di essersi sentito qualcuno alle spalle.» «Forse se lo è immaginato. Stava mettendo il piede sul primo scalino, dice, quando si è imprudentemente voltato a guardare dietro di sé. È un vero miracolo che non si sia rotto l'osso del collo.»
Ma Joseph insisteva nella sua versione. Era stato assalito alle spalle da qualcuno armato di una mazza o di una seggiola. E, ora lo sappiamo, non mentiva: era stato aggredito e probabilmente lasciato per morto. Il dottor Simonds, quella sera, mi informò della probabile esistenza di un secondo testamento di Howard Somers. Lo aveva curato durante la sua degenza all'Imperial Hotel, e sapeva che si era reso conto della gravità del proprio stato. Non era uomo da lasciarsi ingannare, asserì il dottore. «A proposito» soggiunse «ha poi rifatto testamento? Ne sa qualcosa?» «Io? No, veramente non ne so nulla.» «Ci pensava sul serio. Walter si mostrava pieno di premure per lui, e si erano rappacificati. La povera Sarah Gittings non poteva soffrire Walter, e avrebbe voluto tenerlo lontano.» Replicai, con molta convinzione: «Vorrei invece che Howard si fosse ricreduto. Avere un figlio solo e quasi diseredarlo...» «Forse ha modificato le disposizioni prese, ma non ne sono sicuro. Un giorno che ne parlavo col figlio, ho saputo da lui della somma ingente da pagare al fisco se la modifica fosse stata realizzata. Mi ha tuttavia pregato di rilasciargli un'attestazione che il padre era perfettamente in grado di dettare un documento del genere "non sotto l'influenza di eccitanti o perché mentalmente indebolito".» Rise un po'. «Mentalmente indebolito! Se quello era mentalmente indebolito, io ho l'arteriosclerosi.» L'incidente capitato a Joseph mi aveva seriamente impressionato. Non volli arrivare a sera senza avergli fornito una nuova rivoltella. Gli assegnai anche una delle camere degli ospiti al primo piano. Prima che si ritirasse per la notte feci con lui il giro della casa, accompagnandolo anche in garage e nelle cantine. Poi, mi chiusi a chiave in camera mia e potei passare una notte di riposo, sebbene non veramente di quiete. Via via che riflettevo cresceva la mia paura, e confesso che quando udii un rumore sordo nel vestibolo mi vennero i sudori freddi. Però si trattava soltanto di Ben, reso irrequieto dalla primavera e dal fatto che un portone sprangato lo separava dalle creature della sua specie. 15 Il giorno dopo, seguendo il suggerimento di Dick, presi in mano per esaminarli attentamente tutti gli oggetti di forma circolare sparsi nelle stanze della casa. I miei atti non approdarono a nulla di buono e, viceversa, convinsero la servitù che le recenti traversie mi avessero sconvolto il cer-
vello. Quel pomeriggio, il magistrato mi mandò a chiamare. Colloquio penoso, in cui mi sentii sperduta sotto la grandine delle accuse. «Il caso è molto strano, signorina Bell: due orribili delitti commessi dallo stesso individuo e due aggressioni, una certa e l'altra, contro il suo maggiordomo, almeno probabile. Se non si tratta di un pazzo, chi agisce è spinto da un movente tanto nascosto che non lo abbiamo ancora scoperto. Io credo a un movente. Delle due donne uccise, l'una non aveva relazioni. L'altra non aveva relazioni all'infuori di una famiglia alla quale si era mostrata molto affezionata e dalla quale aveva certamente ricevuto molte prove di fiducia. Le due vittime si erano conosciute e una di loro aveva riferito all'altra un segreto nocivo a... a qualcuno. È per questo che la seconda ha dovuto subire la triste sorte della prima. Fin qui, la cosa è chiara. Ma la famiglia protettrice non ha fatto nulla per aiutare la legge. Ha, anzi, nascosto certi fatti.» «Lo nego assolutamente.» «Lo nega? Devo insistere perché dica tutto quello che sa, signorina Bell. È un suo dovere verso la società.» «Non so nulla. Se pensa che Jim Blake sia l'assassino, sono certissima che si sbaglia.» Lui si sporse in avanti. «Perché ha bruciato lo stuoino della sua macchina?» «Se crede di poter addossare un delitto a un galantuomo sulla base di prove circostanziali...» «E non sono forse queste prove a guidare la nostra condotta?» Si riappoggiò alla spalliera della poltrona e proseguì, in tono più calmo: «Di che larghezza era la lama interna di quel bastone?» «Molto stretta. Forse un centimetro nella parte più larga.» «Era a doppio taglio?» «Non ricordo.» «Non ha rivisto il bastone da quando l'ha dato al signor Blake?» «No.» «E quando gliel'ha dato?» «È una domanda alla quale ho già risposto: nel marzo scorso. Jim l'aveva ammirato.» «Gliel'aveva chiesto in regalo?» «Non precisamente. Mi ha detto che se avessi avuto voglia di disfarmene... l'avrebbe volentieri tenuto lui.»
Uscendo dallo studio del magistrato, vidi il signor Henderson, dello studio legale Waite & Henderson. Scambiammo un saluto. Mi sembrò seccato e turbato. Era un sabato, il quattordici maggio, e quella sera Harrison tornò da me. Aveva l'aria stanca. Gli cadde dal soprabito, mentre se lo levava, una torcia elettrica: avrà avuto le sue buone ragioni per portarla con sé. Esordì, quasi scusandosi: «Ho preso l'abitudine di capitare in casa sua. Sarà perché a me piace parlare, mentre mi sembra che a lei piaccia stare a sentire.» Sorrise, mi guardò di sottecchi e poi, con la massima calma, mi proiettò sui piedi la luce della torcia. «Ho studiato le impronte rilevate nel suo giardino. Sono impronte di scarpe da donna. Non di questa forma, peraltro. Senza tacchi, pieghevoli, molto sciupate dall'uso, sono le scarpe di una donna che cammina sulla parte esterna del piede e ha forse le gambe arcuate... Ma, prima di andarmene, vorrei dare un'occhiata negli armadi. Poiché si tratta di qualcuno che entra quando vuole in casa sua, signorina.» Non si mosse. Parve, anzi, dimenticare l'intenzione espressa e rimanere assorbito dall'esame dei propri abiti, assai sgualciti. «Ho perlustrato qua e là» riprese a dire poi. «Strano come certe cose siano più facili da vedere di notte che di giorno. Il sangue sopra un mobile, per esempio: visto di giorno, lo si può scambiare per vernice, mentre con una buona torcia elettrica lo si riconosce subito. Anche per i segni lasciati sul terreno, quanto giovano i fanali di un'automobile... Ne ho potuti osservare alcuni non più grossi di un dito.» «E ha scoperto qualcosa?» «Ebbene sì, ed è una brutta notizia per lei, signorina Bell. Sono andato al museo a vedere uno dei bastoni animati esposti. A guardarli, sono come tutti gli altri. Hanno però questa singolarità: che il puntale, in fondo, è aperto. Di conseguenza, non fanno un buco in terra: vi tracciano un cerchio... Ho provato. Nel bastone animato del museo, il congegno interno si è guastato, così che, a poggiarlo in terra, vi lascia il segno di un anello con un puntino in mezzo. Il puntino, s'intende, è dovuto alla punta della lama. Nel suo bastone la lama è sospesa meglio. Traccia soltanto un anello.» Mi si strozzò la voce in gola. Dovetti fare uno sforzo per domandare: «E ha trovato anelli del genere sul terreno esaminato?» «Una dozzina e anche di più, forse due dozzine. Li ho contrassegnati: domani ne ricaveremo le forme. Ho creduto di doverla avvisare.»
«Allora, Jim...» «È stato lì, la cosa è certa. Una mezza dozzina di anelli nel viottolo, fra il tombino e la base del pendio. E inoltre, credo di aver scoperto il mezzo adoperato per stordire Sarah Gittings.» Diventava chiaro che l'esame del povero corpo aveva rivelato più cose di quante ne fossero state comunicate a noi. Ci era stato detto che la ferita alla nuca era stata inferta da un oggetto contundente. Ignoravamo, invece, che erano stati rintracciati nei capelli della morta, e nella ferita stessa, numerosi frammenti di scorza d'albero. «Alcuni, si capisce» continuò a spiegarmi l'ispettore «saranno stati trascinati dalla vittima, mentre strisciava al suolo, ma ce n'erano altri penetrati profondamente nei tessuti. E poi, va detta un'altra cosa: il colpo è stato assestato dall'alto. O chi l'ha colpita è molto alto, oppure lei, in quel momento, era seduta. Tralasciamo l'ipotesi dell'uomo gigantesco. Ammettiamo che la Gittings fosse seduta. Era una donna pulita, ordinata, e non più giovane. Non si è messa a sedere in terra, ma sopra un ceppo o un masso...» Harrison non era arrivato di primo acchito a simili conclusioni. Nel frattempo era morta Florence Gunther. Poi, c'erano stati giorni di pioggia e giorni di sole. Quella sera, tornando sui luoghi, aveva trovato quel che cercava. Vicino a un tronco caduto, sulla sommità del colle, a una ventina di metri dal posto dove erano stati legati i cani, aveva trovato un ramo rotto, lungo più d'un metro, pesante e solido. Rivoltandolo, sul lato che non era stato bagnato dalla pioggia né asciugato dal sole aveva scoperto delle macchie e uno o due capelli. Aveva accuratamente messo da parte il tutto e lo aveva mandato alla Scientifica. Mi sentivo i sudori freddi. «E anche là ha trovato i cerchietti del bastone animato?» «No. Ma la cosa non sorprende. Un uomo non va a commettere un delitto brandendo un bastone. Dev'essere passato pian piano dietro la vittima, che non ha avuto il tempo di rendersi conto di nulla.» Aveva detto tutto ciò che aveva in mente di riferirmi. Nulla di nuovo era emerso nei riguardi della Gunther. La pallottola era stata sparata da vicino e dalla parte sinistra. Il foro aveva contorni netti. Harrison era portato a credere, come Dick, che la poveretta fosse stata uccisa in auto, davanti alla mia proprietà o nelle vicinanze. Si alzò per andarsene. Era già sulla soglia quando mi decisi a domandargli: «Come ha fatto a sapere che avevo bruciato lo stuoino, ispettore?»
«Qualcuno lo aveva bruciato, e mi pareva di poterne dare la colpa a lei.» «Ma come ha fatto a saperlo?» Mi guardò con uno strano sorriso. «Non si è mai presa il disturbo di esaminare uno di quegli stuoini, signorina? Non ha forse mai osservato che tutti hanno gancetti o bottoni per assicurarli al pavimento? Le puntine, essendo metalliche, non bruciano. Un uomo un po' svelto, rovistando nel forno, poteva ritrovarle facilmente.» Si fermò con le dita sulla maniglia. «Però, in confidenza, vorrei sapere perché lo ha bruciato. Avevo esaminato la macchina con una lente d'ingrandimento, il giorno dopo l'assassinio della Gunther. Se ci ha trovato qualche macchia sospetta, è davvero più furba di me.» Lo guardai muta, stupefatta. «Non importa, ci ripensi. Non c'è premura.» E se ne andò. Per due giorni interi continuai a ripensarci, ma senza risultato. Al terzo giorno cominciai a riprendere fiato. Poiché nessuno era stato arrestato e la vita continuava tranquilla, mi accinsi a rileggere gli appunti presi sulla biografia del nonno. Potei fare, insomma, lo sforzo cui tendiamo tutti nei momenti di grande turbamento, dirigendo la mente sopra un lavoro leggero e capace di distrarla dall'incubo di un'ossessione. Tirai fuori il materiale accumulato. Le pagine ben dattilografate da Mary, i miei sgorbi illeggibili, i quadernetti rigati sui quali la mia collaboratrice aveva stenografato ciò che le dettavo. Quei segni non significavano nulla per me: erano indecifrabili, come la ragazza che li aveva tracciati. Sfogliai le pagine e, sebbene qua e là vi fossero frasi chiare, come "Mandare le fotografie a Laura" o "Rammentare a Joseph la tartaruga", nulla attirò la mia attenzione, prima della scoperta delle parole "Numero nuovo, Est, 16" scritte sulla copertina dell'ultimo dei quadernetti. Ho un'ottima memoria per i numeri di telefono, e quello mi colpì subito come non nuovo per me. Rimasi seduta con gli occhi chiusi, concentrando il pensiero sulla breve indicazione, finché rividi Dick Carter seduto alla mia scrivania, con Judith accanto a lui nell'atto di chiamare quel numero 16. Ciò era accaduto la sera in cui avevo preso l'appuntamento per Judith e per me con la Sanderson. Numero nuovo... Dunque, ce n'era stato un altro, prima, e Mary lo aveva saputo? Aveva conosciuto qualcuno nella casa di Halkett Street? La stessa Florence Gunther? Non volli fantasticare al riguardo. Decisi invece di tor-
nare dalla Sanderson per farmi dire da lei se Mary frequentava la pensione Bassett, e se si fosse mai fatta vedere in compagnia della Gunther. Mi sarei quindi messa in cerca di Mary, costringendola a parlare. Quando però volli entrare in comunicazione con l'Est 16, seppi che Lily Sanderson era ancora fuori, al lavoro. Ma nello stesso pomeriggio, quasi avesse ricevuto un mio messaggio mentale, venne a trovarmi. Per fortuna, era il giorno di libertà di Joseph, che forse l'avrebbe mandata indietro. Aveva un modo tutto suo di distinguere fra quelli che venivano per visite di cortesia e quelli che si presentavano per scopi interessati. Claire invece era avvezza ad ammettere chiunque, e la signorina fu subito introdotta nel mio salotto, dove non tardai a raggiungerla. «Spero che non le dispiacerà la libertà che mi sono presa. Sento di doverle parlare.» «Sono ben lieta che si sia decisa a venire. Gradisce una tazza di tè?» «Se non è troppo disturbo per lei. Vengo dal lavoro. È stata una giornata faticosa, e non ho avuto neanche il tempo di andare a casa a cambiarmi.» Mentre osservavo i suoi grandi occhi celesti, il suo puerile tentativo di raffinatezza, il suo leggero zoppicare, sentii che mi era simpatica. Simpatica e degna di fiducia. Non mi disse immediatamente il motivo della sua visita. Aspettò per entrare in argomento che il tè fosse stato servito e Claire fosse sparita. «Non so se la cosa sia importante o no. Ma, come amica di Florence Gunther, anche lei deve sapere. Florence è stata vista salire in una macchina, la notte in cui è stata uccisa. Due persone l'hanno vista.» «Una macchina? Di che genere?» «Una limousine.» «Hanno notato di che colore era?» «Quelle persone non sono d'accordo... Si tratta di due fruttivendoli italiani che stanno vicino a casa Bassett. Ignoro i loro cognomi. Lui, lo chiamiamo Tonino. Conoscevano bene Florence, che spesso comprava mele da loro. Tonino dice che era nera; la moglie, che era blu.» Ecco il racconto della Sanderson. La notte dell'assassinio, i coniugi italiani avevano visto Florence passare nella via. Aveva loro rivolto un cenno con il capo per dire che non aveva intenzione di comprare frutta quella sera, e poi era rimasta ad aspettare un tram. Entrambi l'avevano vista bene. Sembrava inquieta. Prima che giungesse il tram, però, un'auto le si era avvicinata: al volante c'era un uomo. Siccome era proprio sotto il lampione della strada, i coniugi
non lo avevano visto bene in faccia; avevano però notato che portava un cappello di feltro. Avevano scambiato alcune parole, l'autista e la ragazza. I due fruttivendoli si erano accorti che Florence sembrava esitare e l'uomo insistere. Alla fine questi aveva aperto la portiera della macchina e lei gli si era seduta accanto. Seguiva poi la parte più strana del racconto. La fruttivendola asseriva che la macchina era lì da tempo, nell'ombra. L'aveva notata, e aveva notato anche l'autista affaccendato a strofinarvi qualcosa davanti, e poi dietro. A farla breve, le era parso che applicasse fango sui numeri delle targhe. Insospettita, lo aveva tenuto d'occhio e diceva di averlo sorpreso a rimettersi al volante nel momento stesso in cui era apparsa Florence. «Pare» mi spiegò la Sanderson «che le sia andato incontro e abbia frenato quando le è stato vicino, come se l'avesse scorta lì per lì. L'italiana, per non rimanere nel dubbio, è uscita dalla bottega a prendere il numero della targa, che però era stata imbrattata e resa del tutto illeggibile.» In un certo senso, la visita di Lily mi procurava un qualche disappunto. Le domandai se conosceva la giovane signorina Martin. «Martin? Mary Martin?» rispose, sillabando il nome. «No, non la conosco affatto.» «Credo che conoscesse Florence Gunther. E, se non lei, conosce certo qualcun altro nella casa.» «M'informerò, se le preme saperlo. E a proposito di amici: posso darle alcune indicazioni sul signore che era venuto a trovare Florence. Lo ha visto Clarissa.» «Clarissa?» «È la cameriera di colore della pensione. Una tizia un po' stramba. Le ho regalato un vestito, l'altro giorno, e lei per la gioia mi ha riferito che quella sera era venuto un signore sui cinquant'anni, piuttosto alto, che indossava un vestito sportivo e aveva in mano un bastone animato. Non succede spesso di vedere un elegantone del genere, dalle nostre parti.» 16 Quella sera, martedì 17 maggio, ricevetti all'ora di cena uno dei caratteristici, laconici telegrammi di Kate. Diceva: "Arrivo stasera treno ore 23". La notizia, oltre che inattesa, era sbalorditiva. Non riuscivo a capacitarmi del fatto che in quel momento, accasciata dal dolore com'era, Kate lasciasse la propria casa per venire da me. In ogni modo, la sua decisione
aveva certamente un significato grave. Non mi vergogno di confessare che, per farmi animo, sorbii quella sera un bicchierino di cognac prima di andare a prenderla alla stazione. Né all'arrivo, né in casa, mentre Elise, la sua cameriera francese, tirava fuori gli oggetti da toilette, mi spiegò il perché del suo viaggio. Mi disse soltanto che Judith stava bene e che l'indomani in mattinata sarebbe arrivata anche lei, assieme allo zio Jim. Lei era venuta per affari. E con questo, garbatamente, mi mandò a letto. Alle dieci del giorno dopo arrivarono insieme Jim, Judith e... l'avvocato Davis! Judith scappò su a raggiungere la madre, mentre Jim e Davis si trattennero nella biblioteca: Jim era irrequieto, mentre l'avvocato scorreva certi appunti che aveva in mano. Pochi minuti dopo, in seguito a una seconda scampanellata, Joseph venne ad annunciarci l'avvocato Waite. Ero sbalordita. Mi parve di sognare quando, poco dopo che Joseph aveva introdotto il dottor Simonds, vidi l'avvocato Davis alzarsi e schiarirsi la gola come se stesse per prendere la parola in un comizio. «Credo che siamo ormai al completo» disse. «Se ora Joseph volesse avvisare la signora Somers...» Con tutto il mio stupore, dovetti ammirare l'entrata di Kate. Superbamente dignitosa nelle lunghe gramaglie che l'avvolgevano tutta, camminava a testa alta, quasi a respingere ogni parvenza di debolezza. Non tese la mano, né sorrise ad alcuno dei presenti. Sedette, semplicemente, e alzò gli occhi su Davis. Poi disse, compostissima: «Siamo pronti.» L'avvocato fece davvero un discorso. Alluse al caro amico scomparso e all'addolorata compagna che si trovava in una situazione incomprensibile, crudele, alla quale non sapeva rassegnarsi. Il marito le aveva sempre detto di volerle lasciare l'intera sua fortuna. Ed ecco saltare fuori un testamento nuovo, inatteso, inspiegabile e inaccettabile. «Un testamento» proseguì Davis «che assegna a un figlio scialacquatore la metà del patrimonio paterno. Non per discutere la validità del documento, ma per appurare le circostanze in cui è stato redatto, siamo riuniti qui per volontà della signora Somers.» Davis sedette. Waite si tolse le lenti, le pulì meticolosamente con un angolo del fazzoletto e domandò: «Prima che prenda io la parola, non pare anche a voi che, essendo incontestata la veridicità del documento, spetti ora al dottore?» Per quanto correttissimo nei modi, si vedeva che era irritato. Doveva a-
ver capito subito, come lo avevo capito io, il senso recondito delle belle frasi del collega. «Io non so nulla» precisò il dottore. «Walter Somers mi disse l'anno scorso, mentre suo padre era malato all'Imperial, che il signore meditava di rifare il proprio testamento. Chiese la mia opinione sulle sue condizioni mentali, e io gli risposi che avrei voluto che le mie si mantenessero sempre altrettanto lucide e perfette. Mi chiese in seguito una conferma scritta di tale opinione, e gliela diedi.» Seguì una dettagliata dichiarazione dell'avvocato Waite. Il 12 agosto dell'anno prima era stato invitato telefonicamente da Walter Somers a recarsi nel pomeriggio dal padre, degente all'Imperial Hotel, per redigerne il testamento. Siccome sapeva che Howard Somers era stato molto malato ed era ancora infermo, aveva preso la precauzione d'interrogare per telefono il suo medico curante, il presente dottor Simonds, circa le sue condizioni mentali. Il dottore si era mostrato al corrente delle intenzioni del suo paziente e si era poi reso garante della sua perfetta capacità di dettare l'atto in questione. La conclusione era stata che, nello stesso pomeriggio, era stata redatta una bozza del documento. Il giorno successivo, dopo averlo completamente preparato, l'avvocato lo aveva portato verso le sedici all'Imperial, dove era stato firmato in duplicato. Kate era stata a sentire, arrossendo poco a poco. «Sicché lei ha steso un documento d'importanza tanto enorme, tanto... rivoluzionaria, senza altre indagini? Non ha sospettato qualche subdola influenza nascosta?» «Non ho osservato alcuna influenza indebita. Il direttore dell'Imperial mi accompagnò di sopra. Walter Somers mi venne incontro sulla porta dell'appartamento e m'introdusse nella camera del padre. Ne uscì subito, però, e non lo rividi né quel giorno né l'indomani.» «Era presente Sarah Gittings?» «Anche lei lasciò subito la stanza. Era presente nel momento in cui vi entrai e tornò il giorno dopo, per la firma del testamento. Posso anche aggiungere questo: discutemmo un po' i termini del testamento. Il signor Somers si rendeva conto che era rivoluzionario, come lei lo ha definito. Ma soggiunse che Walter aveva ormai messo giudizio e che, del resto, quanto rimaneva poteva largamente bastare per tutti voi.» Kate ribatté vivamente: «Non è questo il problema. Non si tratta di soldi. Che importano i soldi? Quel che importa è il fatto che Howard mi abbia ripudiato all'ultimo momento. Perché? Che cosa successe qui, l'anno scorso,
che influì tanto profondamente sui suoi sentimenti? Perché riporre quel testamento nella sua cassetta con su scritto di suo pugno: "Da consegnarsi a mio figlio Walter dopo la mia morte"? È questa la cosa seria, avvocato. Forse diffidava di me? E poi, quel fondo di cinquantamila dollari che Walter dovrebbe amministrare a suo talento: che cosa le disse al riguardo? Quale mistero c'è sotto?» «Dichiarò che Walter avrebbe capito.» Kate si appoggiò alla spalliera della sedia, apparentemente sfinita dallo sforzo. Seguì un breve silenzio, che fu rotto dalla voce dell'avvocato Davis. «Avvocato, ha portato il duplicato del testamento?» L'interpellato abbandonò l'aria offesa, e raddrizzandosi disse: «Signor Davis, quella copia ha avuto uno strano destino. È sparita dai nostri incartamenti. Il mio socio, l'avvocato Henderson, l'ha cercata invano e a lungo, dopo la morte del signor Somers. Ha una sua ipotesi sulla scomparsa, ma siccome non è piacevole...» Per caso, in quel momento, il mio sguardo si fissò sulla bocca di Jim, il cui labbro superiore aveva un moto convulso. «Sentiamola» fece Davis. «Nel pomeriggio del giorno in cui è stata uccisa Sarah Gittings, un nostro impiegato ha aperto, su richiesta della signorina Florence Gunther, la cassaforte dov'era custodito il documento. La signorina Gunther era un'impiegata apprezzatissima che godeva della massima fiducia, sicché tutto è parso in ordine. Morto il signor Somers, il signor Henderson, mentre io ero assente, ha voluto prendere il duplicato del testamento nella cassaforte e si è accorto che era scomparso. Nessun sospetto poteva cadere su Florence Gunther, che mi aveva accompagnato all'Imperial e che aveva fatto da testimone. Ma nel frattempo la ragazza era stata assassinata, e tutto quanto la concerneva era diventato materia di grande interesse. «Quattro giorni fa, Henderson mi ha telegrafato che il testamento non era stato ritrovato e mi ha pregato di tornare subito. Quando, la mattina del mio arrivo, mi è venuto incontro alla stazione, mi ha detto che uno dei nostri impiegati, il giovane Lawrie, si era ricordato di aver visto la signorina Gunther, il giorno della sparizione di Sarah Gittings, parlare per strada con una donna corpulenta che, dalle fotografie pubblicate in seguito al delitto, doveva essere la Gittings e alla quale stava consegnando una busta. Se questo fosse vero, c'è da pensare che nella busta si trovasse il duplicato del testamento.»
Jim intervenne per la prima volta nella discussione. Vidi che si sforzava di dominare il moto convulso del labbro. «E perché avrebbe fatto una cosa simile?» L'avvocato Waite rispose lentamente: «Florence Gunther era una donna assennata. Se ha fatto una cosa simile, vuol dire che avrà voluto mostrare il documento alla signorina Gittings per poi rimetterlo nella cassaforte. Ma è successo... quel che è successo. Il signor Henderson è andato alla polizia. Il documento non è stato rinvenuto fra gli oggetti appartenenti alla signorina Gunther, come del resto non era stato trovato nemmeno tra quelli di proprietà della signorina Gittings.» «Ma» insistette Jim «che bisogno poteva esserci di mostrarlo a Sarah? Sarah lo conosceva, dal momento che lo aveva controfirmato.» «Ne ignorava il contenuto.» «E non lo ignorava la signorina Gunther?» «No, perché lo aveva battuto a macchina. Quando le due si sono conosciute, hanno forse avuto occasione di parlare del testamento. Una delle regole più rigorosamente imposte nel nostro studio è quella della segretezza assoluta da mantenere intorno a faccende del genere. La signorina Gunther non era una chiacchierona.» «E riguardo al fondo di cinquantamila dollari, il signor Somers disse soltanto che il figlio avrebbe capito?» «Sì, quello soltanto. Naturalmente, la cosa mi parve strana. Ma non era affar mio. Non era uomo da spiegare perché agisse in un modo piuttosto che in un altro. Immaginavo che la famiglia avrebbe capito.» Kate gli lanciò un'occhiataccia. «La famiglia doveva capire un procedimento segreto e confidenziale? Non sono una stupida, avvocato. E credo che anche lei sia una persona intelligente.» «Se parlasse lei, signora, con il signor Walter?» «Quale vantaggio ne trarrei? Walter è taciturno come il padre, ma non certo onesto come lui. Io so ciò che lei pensa, signor avvocato. So ciò che pensava mentre redigeva quel testamento. Pensava che Howard avesse una vita segreta e che il fondo dovesse servire al mantenimento di qualcuno. Ebbene, io non ci credo, e voglio oppormi a quella clausola. E mi ci opporrò legalmente anche a costo di rovinarmi.» Detto questo, Kate si alzò. Gli uomini fecero altrettanto. Mia cugina rivolse loro uno sguardo fermo. «Grazie mille, siete stati gentili a venire.» E uscì dalla stanza. La rividi
soltanto all'ora di cena. Nel corso del pomeriggio, avevo udito Judith parlare al telefono con Walter. Lui venne, infatti, alle diciotto. Per un'ora rimase a tu per tu con la matrigna, e il fatto stesso che né l'uno né l'altra ebbero mai ad alzare la voce mi persuase di quanto fosse tesa la situazione fra loro. Verso le diciannove, lui scese e si avviò al portone, senza nemmeno voltarsi a salutarmi mentre passava davanti alla biblioteca. Altrove, intanto, accadevano cose di cui solo più tardi dovevamo essere pienamente informati. Non ignoravamo, s'intende, il passo di Henderson presso il magistrato, né il fatto che la polizia avesse identificato nelle due assassinate i due testimoni del secondo testamento. Ma non sapevamo nulla dell'attività del portiere notturno newyorkese. Era molto furbo, quel Parrott; ma, al posto suo, anche un semplicione si sarebbe insospettito. Forse, tuttavia, s'insospettì non tanto per quella morte in sé, quanto per due delle sue immediate conseguenze. L'una fu l'infelice tentativo di Mary di comprare il suo silenzio circa il visitatore notturno. E Mary era sparita. L'altra fu la mia perlustrazione del cortile, all'alba, sotto la pioggia. Parrott era ancora in servizio, mentre frugavo, e la vista di una donna della mia età, assorta nell'esame del terreno in quel luogo, a quell'ora e con quel tempaccio, doveva a dir poco avergli fatto effetto. A tutto ciò si era aggiunta la mossa fatale di Dick Carter il giorno del funerale. "Chi è?" aveva chiesto Parrott. "Quello con la giacca scura e i calzoni a righe" aveva risposto Dick. "Ha proprio la stessa statura. La faccia l'ho vista appena." Parrott leggeva i giornali e conosceva personalmente Sarah. Aveva saputo del suo omicidio e di quello della Gunther: i due "delitti delle scarpe". Uno o due giorni dopo il funerale, era andato a trovare Evans. "Hai visto il cadavere del signor Somers prima che qualcuno lo rimuovesse?" "Sicuro" aveva asserito il cameriere. "Cosa aveva ai piedi?" "Mi pare che avesse indosso soltanto le calze." E per il semplice fatto che Howard aveva lasciato cadere le pantofole prima di prendere in mano il bicchiere di whisky al seltz, Parrott aveva riferito i suoi dubbi alla polizia! Verso la fine della settimana, un agente della squadra Omicidi di New
York era andato a trovare l'ispettore Harrison e lo stesso magistrato. Fu quindi emanato l'ordine di dissotterrare il cadavere di Howard. E senza che nessuno all'infuori degli agenti, nemmeno Kate, ne sapesse nulla, si procedette a un esame necroscopico e si accertò che Howard non era morto di un attacco di angina pectoris, ma di avvelenamento da acido prussico. Le autorità mantennero il segreto. In fin dei conti, il delitto non poteva essere provato. Tanti uomini mortalmente malati si uccidono. D'altronde, le autorità erano anche decise a non perdere di vista Jim. Dell'indiziato, sempre tenuto d'occhio, capivano ora anche i moventi. L'avvocato Waite andò dal magistrato quel martedì 17. Credo avesse paura, e c'era da capirlo. Dei quattro incontratisi all'Imperial nei due giorni della stesura del testamento, era il solo rimasto vivo. Il magistrato stette a sentirlo molto attentamente. «Mi dica quel che ne pensa, avvocato. Doveva pur esserci un'altra copia valida del testamento, fra le carte del signor Somers.» «Ben altre volte sono stati distrutti dei testamenti.» «Crede che la Gittings abbia mostrato la copia a Blake e che lui l'abbia uccisa?» «Potrebbe darsi. Sperava d'impadronirsi così dell'originale.» «E quindi la Gunther gli è sembrata pericolosa e ha voluto levarla di mezzo?» «Forse. E non vorrei essere io, ora, a essere tolto di mezzo.» «Ha ragione. Ma lei non ha bisogno di protezione. Metteremo in gabbia l'assassino. La stampa non ci dà pace da settimane.» Quello stesso martedì, in serata, il magistrato mandò a chiamare Jim per sottoporlo a un secondo interrogatorio, e, poiché lui non era in casa, la polizia frugò il domicilio inventando un'accusa di contrabbando a carico di Amos. Per salvare le apparenze, due agenti finsero di cercare una provvista di alcolici. L'ispettore Harrison frugò sul serio per conto suo. Amos, quando aprì la porta ai poliziotti, protestò violentemente di non sapere nulla di liquori nascosti. Fu messo da parte con una spinta e poi costretto a salire dietro gli agenti. Questi, trovando nella camera di Jim la tenuta da golf e le scarpe che Amos ammise essere stati indossati dal padrone la notte della scomparsa di Sarah Gittings, seppero abilmente appropriarsene senza farsi notare. Scoprirono inoltre che di recente Jim aveva bruciato diverse lettere, e Harrison rimase per un po' di tempo in ginocchio a frugare nel caminetto. Gli agenti tentarono di recuperare il bastone animato, setacciando tutta la
casa. Amos si era rinfrancato. Fu soltanto quando si diressero verso la scaletta della cantina che cominciò ad agitarsi. «C'è solo il forno, laggiù, signor ispettore.» La dichiarazione sembrò sospetta. I poliziotti scesero perciò in cantina e accesero tutte le lampadine. In un primo momento, nulla sembrò anormale. Ma era ormai evidente che Amos stava sulle spine. L'ispettore riprese quindi con maggior lena le sue indagini. 17 Nessuno mi ha raccontato la scena svoltasi nell'ufficio del magistrato fra questi e Jim, ma da quanto so adesso, e da tutto ciò che è emerso al processo, posso facilmente ricostruirla. E mi pare di vederli, quei due: Jim turbato, ma guardingo, e il giudice inflessibile nel tempestarlo di domande. «Non sapeva nulla del secondo testamento?» «Ne ho sentito parlare per la prima volta dall'avvocato Davis a New York.» «L'avvocato le ha detto che era stato diseredato?» «Sì. Ma non mi sono preoccupato per questo. Ho sofferto per mia sorella.» «Perché?» «Il perché è evidente. Era affezionatissima al marito. Ed era venuta a sapere che, senza consultarla, lui aveva agito a danno suo e della figlia.» «Quali erano i rapporti della matrigna col figliastro? Amichevoli?» «Non del tutto. La solita storia: Walter non sopporta la presenza di mia sorella in casa, e lei non sopporta lui.» «Vuole molto bene a sua sorella, signor Blake?» «Molto. Ho solo lei al mondo.» «Le è stato mostrato il secondo testamento di suo cognato?» «Sì.» «Ricorda la dicitura sulla busta?» «Perfettamente.» «Era proprio di mano del signor Somers e diceva: "Da consegnarsi a mio figlio Walter dopo la mia morte". Sapeva del testamento, Blake, quando è andato di notte a trovare suo cognato?» «Non ho fatto quella visita. Come avrei potuto? Sono stato sotto sorveglianza della polizia per varie settimane.» «Mi dica, ora, che cosa ha fatto la notte in cui è morta Sarah Gittings.»
«Sono uscito a fare una passeggiata. Per strada, mi sono ricordato che mia sorella mi aveva telefonato da New York, dandomi una commissione per Sarah. Ho cercato di comunicare con lei da un drugstore, ma non era più in casa.» «Qual era il messaggio?» «L'ho già detto. Mia sorella voleva che Sarah tenesse d'occhio la figlia. Judith è corteggiata da un giovane di cui è innamorata e che non va a genio a mia sorella.» «Dopo aver telefonato, dov'è andato?» «Sono andato a trovare una donna. Non intendo dare particolari. Poi sono tornato indietro.» «A che ora?» «Alle ventuno, circa. Non ricordo esattamente.» «Rifiuta di dire in che direzione è andato?» «Rifiuto. Non ho fatto nulla di male.» «E se le dicessi io la strada che ha fatto? Dalla bottega è andato per il viottolo dei Larimer e da lì nel parco. Più tardi, è tornato per la stessa via. La avverto, signor Blake, che sappiamo molte cose e che danneggia se stesso con le sue reticenze.» Un attimo di silenzio. Jim taceva. «Ha visto Sarah Gittings durante quella passeggiata?» «No.» «Eppure, signor Blake, sappiamo che lei è stato lungo il sentiero, quella notte. Sappiamo che dal sentiero è andato nel parco, e che in seguito è tornato indietro per la stessa via. Tornando, si è fermato per un po' di tempo. È rimasto in piedi, o seduto, sul pendio e ha fumato un sigaro. Non era solo, allora. Un uomo non si ferma al buio su un pendio, in una fresca notte di primavera, per contemplare la natura.» A quella svolta del dialogo, Jim confessò. «Ero solo. Assolutamente solo.» «Ah, ammette quindi di essere stato là?» «Lo ammetto, sì.» «E non ha incontrato nessuno? Non ha parlato con nessuno?» «No. Con nessuno.» «Che ora era?» «Le diciannove e trenta circa.» «E quando è venuto via?» «Verso le ventuno.»
«Ed è rincasato dopo le ventidue? La spiegazione è ingenua, signor Blake. Quale strada ha fatto, tornando indietro?» «Ho attraversato il parco, poi ho seguito il viottolo vicino alla proprietà della signorina Bell. Da lì, poi, ho proseguito per il viale.» «Cioè, è passato vicino al posto dove erano legati i cani? A che ora, all'incirca?» «Erano forse le ventuno e quindici.» «E aveva con sé il bastone animato?» «Sì.» «E non ha visto né sentito nulla di anormale, vicino al terreno dei Larimer?» «Ho sentito abbaiare i cani.» «Le erano ben noti, suppongo, i cani della signorina Bell.» «Sì, signore.» «E non li ha riconosciuti?» «Non li ho riconosciuti.» «Dove ha messo il bastone, al suo ritorno a casa?» «In anticamera, con le altre mazze.» «Ed è scomparso di là?» «È scomparso, sì.» «Quando?» «Non saprei. Ero costretto a letto, allora.» «E come ha saputo che era sparito?» «Sono andato nell'anticamera per chiamare il mio domestico. Ho guardato nel portaombrelli e non ho più visto il bastone.» «E ora, signor Blake, vuole dirmi cos'ha fatto la sera del ventisette aprile, la sera in cui la signorina Somers è stata buttata in terra nel garage della signorina Bell? Dov'era?» «Non sospetterà che io abbia aggredito mia nipote.» «Le ho fatto una domanda.» «Ero a casa.» «Ricorda la visita della signorina Bell, una sera, dopo il ritrovamento del cadavere di Florence Gunther?» «Perfettamente.» «È venuta a piedi a casa sua?» «Sì.» «Ma lei l'ha fatta riaccompagnare a casa in macchina.» «Già.»
«Avete parlato dei due delitti, quella sera?» «Sì.» «Non ha fatto allusioni alla sua auto, parlando con la signorina? Non ha avuto occasione di parlare dello stuoino?» «Affatto.» «Tiene conto dei chilometri percorsi, signor Blake?» «No. E non so se ne tenga conto Amos. Può darsi di sì.» «Chi tiene la chiave del garage?» «Amos. Io non guido.» «Non sa guidare?» «Sì. Ma non mi diverto.» «Rimane sempre chiusa la finestra del garage?» «Abitualmente sì.» «Se qualcuno entrasse da quella finestra, potrebbe portare fuori la macchina?» «Ma sì... La porta sul viale è sprangata. E la chiave è appesa all'uscio che dà nel giardino.» «Cioè, volendo, si potrebbe entrare nel garage dalla finestra per portare fuori la macchina?» «Probabilmente.» «Per cui, anche se Amos aveva la chiave con sé, sarebbe stato possibile portare fuori la macchina?» «Non mi sono arrampicato fino alla finestra per portare fuori la macchina, se intende questo.» «Conosce il garage della signorina Bell?» «Ci sono stato, un paio di volte.» «E il ripostiglio degli arnesi?» «Non ci sono mai entrato.» «Ma sa che la signorina Bell ha una scala?» «So che esiste una scala portatile in casa di Elizabeth Bell. Ma non so dove sia riposta.» Questo, approssimativamente, il dialogo che si protrasse fra i due per ore. Ci fu un momento in cui, con una qualche scusa, nell'ufficio del giudice fu introdotto Parrott, il portiere notturno. L'uomo osservò attentamente Jim, poi se ne andò. Lui non si accorse nemmeno della sua presenza. A mezzanotte, l'interrogatorio durava ancora. Jim era esausto, ed era stanco anche il giudice. «Rifiuta ancora di dirci cos'ha fatto tra le diciannove e le ventidue e tren-
ta del diciotto aprile?» «Lo dirò se sarà assolutamente indispensabile.» «Quali erano i suoi rapporti con Sarah Gittings?» «Rapporti? La conoscevo da diversi anni.» «Nel caso di una situazione imbarazzante, crede che sarebbe ricorsa a lei?» «Forse.» «Allora, quella sua lettera non sarebbe poi una cosa straordinaria?» «Non ho ricevuto nessuna lettera da lei. E perché, poi, avrebbe dovuto scrivermi?» «Abbiamo la prova che la Gittings le ha scritto. E siamo convinti che la lettera sia giunta a destinazione.» «Ebbene, vi sfido a provarlo.» «Provarlo proprio no, ma... Qualcuno aveva preso un appuntamento con la Gittings, per la sera stessa in cui è stata uccisa. Quel qualcuno era chiamato a prendere visione del testamento di Howard Somers che la signorina Gunther aveva sottratto dagli incartamenti. La Gittings non è mai tornata dall'appuntamento, e quella notte stessa è sparita la copia del testamento. Conosceva la Gunther?» «No.» «Non l'ha mai aspettata in Halkett Street, con una macchina, vicino a un negozio di frutta?» «No.» Jim aveva fumato tutti i suoi sigari e nessuno gliene offriva altri. Era tesissimo. E nel momento della massima tensione, gli fu detto a bruciapelo che Howard era morto avvelenato. Fu lì lì per svenire, ma la segreta speranza di indurlo a una confessione fu delusa. «Come fa a sapere che è stato avvelenato? Non potrebbe averlo fatto di proposito?» chiese. «Devo fare domande, e non dare risposte.» Jim, esasperato, raccolse tutte le sue energie per un ultimo sforzo. «Non mi sono mai sognato di andare a New York la notte in cui è morto Howard. Qualcun altro si è servito del mio nome, ecco tutto. Più ripenso a questo fattaccio, e Dio sa che non penso ad altro, più mi convinco che si cerchi di addossarmi una colpa che non ho. Giuro davanti a Dio che non ho ucciso nessuno, né ho mai pensato a uccidere. Protesto contro i metodi che lei usa nei miei riguardi. Cerca di stancarmi. Ma non potrà farmi confessare, perché non ho niente da confessare. Sono innocente.»
Non ne poteva più. A quel punto, un biglietto fu posto sulla scrivania sotto gli occhi del magistrato, che con un cenno del capo disse: «Fatelo entrare appena arriverà.» Jim dice di aver percepito che qualcosa d'importante era accaduto. Le domande ricominciarono a fioccare più brusche che mai. «Ha ammesso di aver avuto con sé, la notte della morte di Sarah Gittings, il bastone animato, che poi è sparito. Non sa come?» «Non lo so.» «Lo ha lasciato nell'anticamera e non ce l'ha più ritrovato.» «Sì, signore.» «E quando si è accorto della sparizione?» «Parecchi giorni dopo. Non saprei precisarlo.» «Potrebbe, signor Blake. È sparito il giorno del ritrovamento del cadavere della Gittings.» «Forse, ma non ne sono certo.» «Come si è spiegato quella scomparsa?» «L'ho già detto. Qualcuno l'ha rubato.» «Non lo ha nascosto lei? Non ha pensato che la sua presenza in casa fosse pericolosa?» «L'ho pensato, naturalmente. Sì.» «E non lo ha nascosto?» «Non propriamente nascosto. L'ho messo dentro un armadietto.» «Quale?» «Quello per i liquori, nell'anticamera.» «E l'ha chiuso dentro?» «Sì.» «Quindi, la storia che non fosse nell'anticamera era falsa.» «Non era esattissima. Ma è vero che il bastone è sparito. Rubato dal mobile-bar.» «Ne aveva le chiavi?» «Sì.» «Ha forse una doppia chiave, quel mobile?» «No. Ho pensato che fosse stato Amos a portarlo via. Io ero a letto e lui poteva usare la chiave.» «E perché lo avrebbe tolto di là, il suo domestico?» Jim non ne poteva proprio più. «Può aver saputo...» balbettò, confuso. «Può aver creduto...» «Che cosa poteva sapere il suo domestico?»
Nell'istante stesso in cui veniva posta la domanda, l'ispettore Harrison entrò nell'ufficio e depose un oggetto sulla scrivania. Appena lo ebbe adocchiato, Jim si accasciò sulla seggiola, svenuto. 18 Harrison aveva ripreso a frugare in cantina. Gli agenti che lo accompagnavano non mettevano molto impegno nell'assecondarlo, ma Amos non si disinteressava della sua ricerca; osservava invece ogni sua mossa con il viso stravolto dal terrore. L'ispettore bussò sulle pareti in cemento, esaminò i soffitti. Le occhiate furtive gettate all'uomo di colore lo persuasero che costui tremava addirittura, quando lo vedeva avvicinarsi al locale del carbone. Era pieno zeppo di coke. Gli venne in mente che era primavera. «La cucina è a carbone?» «No, signore, a gas» rispose Amos. «E questa gran provvista? Quando è stata rinnovata?» «Non ricordo bene. Il mese scorso, mi pare.» Sul carbone accatastato c'era una pala, e Amos ricevette l'ordine di servirsene per gettare in un'altra stanza l'intera provvista. Poiché ormai sragionava dalla paura, protestò clamorosamente, ma i tre funzionari erano lì, severi e risoluti. Però non erano cattivi, e quando il nero ebbe cominciato il lavoro, gli tolsero la pala di mano e lo eseguirono loro stessi. Ci misero più di due ore, e quando il suolo fu tutto sgombrato, non rivelò altro che un rettangolo di terra battuta, coperta di una polvere nera che brillava alla luce delle torce elettriche. Guardando il domestico, l'ispettore si accorse che era tornato sorridente. «Se non desiderano altro, signori, possono risalire. Io mi fermerò qui per spegnere le lampade.» L'ispettore si asciugò la faccia, madida di sudore. «Non abbiamo questa gran fretta. E ora, Amos, vada a prendermi un secchio d'acqua.» Mentre gli agenti si guardavano le mani sporche e scorticate, Amos corse su, e un momento dopo tornò in cantina con un secchio pieno d'acqua. Aveva portato anche un pezzo di sapone e un asciugamano, ed ebbe un'espressione di meraviglia quando l'ispettore rifiutò l'offerta. Invece di lavarsi, Harrison fece una cosa che lo riempì di stupore. Disse a uno dei due agenti di abbassare la sua torcia per rischiarare bene il suolo, e si mise a esaminarlo accuratamente. Versò un po' d'acqua in terra. A un tratto, chiese la pala. Amos, tendendogliela, sbarrò gli occhi sul terriccio bagnato.
Proprio lì, a una trentina di centimetri sotto la superficie, fu ritrovato il bastone animato. Ancora rivedo la scena, raccontata dall'ispettore ai giurati. "Sarebbe bene spiegare alla giuria che, se la superficie di un terreno è stata smossa di recente, appaiono piccole bolle d'aria quando ci si butta sopra dell'acqua." "E si sono prodotte, quelle bolle?" "In quantità." Harrison avvolse accuratamente in una carta il bastone animato e telefonò al giudice. Era l'attesa del suo messaggio che aveva fatto trattenere tanto a lungo il povero Jim. Quando il bastone arrivò, lui fu arrestato. Tre giorni dopo, era accusato dalla giuria dell'assassinio di Sarah. Fu un colpo terribile. Non facemmo nulla, o quasi, quel mercoledì. Jim aveva mandato a chiamare il suo legale, Godfrey Lowell, il quale venne a trovarci nel tardo pomeriggio. «Non dice tutto quel che sa. Si dichiara innocente, e non dubito che lo sia, ma non è sincero. Mi nasconde qualcosa.» Nonostante le reticenze, era spaventoso il racconto fatto da Jim al suo avvocato e da questi ripetuto a noi quel pomeriggio. Kate rimase ad ascoltarlo senza quasi mai aprire bocca. Dick era seduto accanto a Judith e le stringeva la mano. In breve, Jim ammetteva di aver avuto un appuntamento con Sarah quella sera, ma non nel parco, né fissato per lettera. Sarah gli aveva telefonato. Jim asseriva di non avere mai, né quel giorno né prima, ricevuto una lettera da lei. Nella telefonata, fatta evidentemente dopo aver avuto la busta dalla Gunther per strada, lei aveva insistito per parlargli quella sera stessa di una cosa urgentissima. Gli aveva fissato come luogo dell'appuntamento una casa in Halkett Street, e lui aveva deciso di andarci a piedi, passando dal parco. Strada facendo, si era accorto di non ricordare più esattamente il luogo dell'appuntamento. Si era fermato quindi in un drugstore per telefonare a Sarah. Ma lei era già uscita. Aveva parlato un momento con Judith e poi, per fare più presto, aveva deciso di attraversare il terreno dei Larimer, perché non aveva dimenticato il nome della strada, Halkett Street, né il numero dell'isolato, né infine la raccomandazione di farsi accompagnare dalla signorina Gunther. Arrivato nei paraggi, aveva rallentato il passo. Si era rivolto a una donna
in attesa sugli scalini davanti a una delle case, per chiederle se conosceva la signorina Gunther. Era lei la persona che cercava. Gli aveva detto che aspettava la signorina Gittings. Erano entrati insieme nella casa e avevano aspettato nel salotto. Era una pensione. La Gunther non aveva voluto spiegarsi. Sin dal primo momento si era mostrata preoccupata, ed era diventata sempre più nervosa per la mancata apparizione di Sarah. Alle ventuno e quaranta lui era venuto via senza che gli fosse stato nemmeno detto perché era stato chiamato all'appuntamento. Se n'era tornato indietro per la stessa strada, lambiccandosi il cervello intorno alla faccenda. Aveva raggiunto il sentiero alle ventidue, fermandosi un momento per riposare, poi aveva ripreso a camminare. «E il bastone animato?» chiese Judith. «Che cosa dice Jim?» «Che l'ha, sì, nascosto nell'armadietto, ma che non è stato lui a sotterrarlo.» A quel punto, Kate domandò: «Suppongo che nel momento in cui l'hanno ritrovato avessero già frugato per tutta la casa.» «Sì. Gli agenti avevano frugato, e credo abbiano trovato indizi che accrescono i loro sospetti.» «E le sue lettere?» «Le aveva bruciate. Aveva previsto la tempesta che si addensava sul suo capo e ieri ha voluto essere pronto. Non aveva nulla di importante da nascondere, a quanto mi ha detto; in ogni modo, non ha voluto che la polizia andasse a mettere il naso nella sua corrispondenza.» Mi sembrò che la dichiarazione desse a Kate un senso di sollievo. Come avrebbe potuto immaginare che quella sera, dopo l'interrogatorio del giudice, l'ispettore Harrison fosse tornato di nuovo a casa di suo fratello con una scatolina e un paio di pinzette, e che nel caminetto dell'elegante studio di Jim avesse raccolto alcuni pezzetti di carta carbonizzata? Harrison doveva aver passato molto tempo a riammorbidirli al vapore, per poi posarli sopra un foglio gommato, sottoponendoli a una forte pressione. Più tardi, nella serata, venne a trovarmi. Non mi informò della scoperta. Voleva, anzi, doveva suo malgrado mettermi al corrente del fatto che Howard era stato avvelenato. «Non c'è nessun bisogno di comunicare la notizia alla signora Somers, o alla figlia. Dopo tutto, potrebbe anche essersi ucciso. Ha ingerito dell'acido prussico. Un mezzo sicuro, rapido, però poco fantasioso. Nessuna vera fantasia in nessuno di questi delitti. Ora, Walter ha fantasia; Blake no, non
ne ha.» «Walter?» proruppi, stupita. «Non li ha commessi lui, i delitti, s'intende. Perché avrebbe ucciso?» Prima di lasciarmi, mi disse che la giuria si sarebbe pronunciata sul caso venerdì, e che certamente avrebbe deciso di rinviare Jim a giudizio. Ma sembrava perplesso. «Più ho a che fare con i delitti» mi disse «e meno capisco i delinquenti. Per esempio, ecco tre delitti freddi e audaci, commessi da un uomo senza scrupoli. Sono diabolicamente astuti. Ho studiato il caso, ho radunato tanti indizi da schiacciare Jim Blake, e ne ho altri in serbo. E non sono convinto. O per lo meno, non lo sono ancora.» In una pausa del discorso, ruppe tre stuzzicadenti uno dopo l'altro. Poi riprese: «Credo che abbiamo appena colto un aspetto superficiale della verità. Consideri, per esempio, la sera dell'aggressione alla signorina Judith. E a proposito, sua cugina le ha mai detto perché quella sera aveva voluto andare in garage?» «Mi ha detto che cercava un metro.» «Ma ha chiesto a Joseph dove teneva di solito la scala. Cosa voleva farne?» «Non lo so, signor ispettore.» «Strano» borbottò lui. «Qualche motivo l'avrà pur avuto. È giudiziosa, quella ragazza. Riesaminiamo i fatti. Joseph sente i cani abbaiare nei cespugli. Poi di colpo tacciono, come se avessero riconosciuto l'intruso. Lei e Joseph andate in garage, e Joseph sente un fruscio. Urla: "Chi va là?". Nessuno risponde, allora proseguite. Qualcuno è nei cespugli, o li ha appena attraversati. Il giorno dopo, rintraccio diverse impronte. Ma non quelle dell'intruso. Erano impronte artificiali fatte con scarpe da donna. Ah, quanto le ho studiate... Scarpe appartenenti a nessuno di questa casa. Abbiamo rovistato dappertutto, Joseph e io... Ma qui è l'enigma: la signorina Judith è stata aggredita la sera, alle ventidue, e la mattina alle due Nora ha visto qualcuno aggirarsi tra i cespugli. «Vorrei sapere questo: dove ha potuto andare Jim Blake, tra le ventidue e le due del mattino seguente, a procurarsi un paio di scarpe da donna, da donnone anzi, che cammina col piede in fuori? E come mai, dopo aver mascherato tanto abilmente le sue impronte, sarebbe andato a sotterrare il bastone nella propria cantina? Roba da stupidi o da matti, e l'uomo che ha falsificato le impronte è molto astuto.» Prese una matita sulla scrivania, la esaminò e la ripose.
«Risaliamo anche più oltre» fece poi «cioè alla prima volta in cui Blake le ha parlato della sparizione della Gittings. Quando gliene ha parlato, e dove?» «In questa stessa stanza, il giorno dopo la morte di Sarah. Lo avevo chiamato io al telefono. Era imbarazzato, ma nulla di più.» «Non ricorda altro?» «Ricordo che mi ha chiesto di Howard.» «Che cosa le ha chiesto?» «Della sua salute, se era in condizioni di viaggiare, e se era venuto qui di recente.» L'ispettore si sporse in avanti, interessato. «Ecco una cosa degna di nota. Quale può essere stato il motivo di una domanda simile? Avrà parlato della Gittings, immagino.» «Unicamente.» «E lui non poteva ignorare lo stato di salute del cognato. Ha creduto di capire che sospettasse che il signor Somers fosse venuto da queste parti?» «Sì. Ricordo che la domanda mi ha sorpreso. Ha voluto sapere se ero certa che Howard non fosse venuto.» «Immagino che lei non conosca alcun motivo per una sua probabile scappata qui... Non scuota la testa. Non mi risponda troppo presto, signorina Bell. Talvolta crediamo di conoscere benissimo certi individui e poi ci accorgiamo che non li conosciamo affatto. Perché mai avrà modificato il suo testamento? Che cosa significa il fondo segreto di cinquantamila dollari? Per quale ragione Blake avrà voluto sapere se il cognato era venuto qui? Ecco il punto da mettere in chiaro. Cerchi d'indurre il signor Blake a confessare la ragione di una simile domanda, poiché, confessando, gioverebbe alla propria causa... Eh, se gli interessati dicessero sempre tutto quello che sanno, non si commetterebbero tanti errori giudiziari. Ma, tra la paura o l'interesse, o il desiderio di proteggere qualcuno, stanno zitti e fanno nascere garbugli inestricabili. Guardi il suo caso: bruciando uno stuoino, lei ha prodotto a carico di suo cugino una prova che, per una giuria ordinaria, può bastare a farlo condannare alla sedia elettrica. Perché lo ha bruciato? Che cosa ci ha visto, che non avessimo visto noi? Lo avevo esaminato tutto, con un finissimo spazzolino da denti e con la lente.» «E non ha trovato tracce di benzina?» «Ha trovato tracce di benzina?» «Eccome! Un cerchio d'unto.» Harrison si alzò e riprese il suo cappello.
«Non potrà esserle indifferente sapere che non c'era alcuna macchia quando l'ho esaminato, la mattina dopo l'assassinio della Gunther.» Ma, qualunque conclusione traesse dai nostri discorsi, l'ultima sua riflessione non fu troppo consolante per me. «Non c'è da sperare che la giuria tenga conto del fatto.» 19 Quella sera, un mese preciso dopo l'assassinio di Sarah, quando mentalmente e fisicamente esausta stavo andando a dormire, trovai Judith rannicchiata nel mio letto. Era affranta anche lei, povera figliola. «Lasciami rimanere un momento. Voglio dirti una cosa. Restiamo qui finché mamma non torna. Ha chiamato Robert e ha preso la macchina. Credo che si sia fatta condurre in Pine Street a scegliere gli abiti da mandare allo zio in carcere... Ma chissà perché impiega tanto tempo.» «Non ho sentito andare via la macchina.» «Sei un po' sorda, sai, Elizabeth. Non mi sorprenderebbe che molte cose succedessero senza che tu le senta, o ne senta nemmeno parlare.» «Che cosa è successo, di cui non ho sentito parlare?» «Non hai sentito gli urli di Elise, la notte scorsa.» «Avevo preso un sonnifero» spiegai dignitosamente. «Elise ha urlato? Perché?» «Perché ha visto il "fantasma".» Corsi a interrogare la cameriera di Kate, che, ancora pallida per l'emozione provata la notte precedente, mi disse che avrebbe voluto raccontarmi subito la sua brutta avventura, ma che aveva ricevuto da Joseph l'ordine perentorio di starsene zitta. La minaccia era bastata a tenerle la lingua a freno nei riguardi della servitù, ma non con Judith. Elise aveva dormito nella stanza che era stata di Mary. La notte era piuttosto afosa, perciò aveva lasciato aperta la porta e, durante la nottata, aveva voluto andare ad aprirne anche un'altra, dirimpetto alla sua, credendola quella di una stanza vuota. Era invece la porta della scala che va in soffitta. Era rimasta sorpresa, oltre che dalla vista degli scalini, dalla luce fortissima, come di un lume trasportato a mano, che pioveva dall'alto. Il fatto le era parso strano, più che allarmante. A piedi scalzi e in camicia da notte, era salita senza fare rumore. Per un attimo, aveva visto una figura avvolta in panni bianchi china a guardare qualcosa. Non aveva perso tempo a vedere chi fosse; aveva preso la rincorsa ma, per quanto corresse, il "fanta-
sma" l'aveva raggiunta giù per la scala e oltrepassata. Al lieve contatto delle vesti "spettrali", lei si era messa a urlare. Urlava ancora, quando era arrivato Joseph. Il nostro dialogo si svolgeva nella camera di Kate, dalla quale Elise s'ostinava a non voler uscire per andarsene a letto. Alla fine dovemmo accompagnarla di sopra e aspettare che si fosse chiusa a chiave nella sua stanza. Allora, guardandomi negli occhi, Judith disse: «Elizabeth, quella donna ha visto qualcosa, o qualcuno. Può essere un'idiota, ma ce ne vuole per trattenerla dall'andare a letto!» Decidemmo di salire insieme in soffitta. Lo stanzone aveva un aspetto poco rassicurante a quell'ora della notte, ma ogni cosa era a posto. Judith aveva fatto in giornata la stessa constatazione. Kate tornò tardissimo e, a quanto mi parve di capire, un po' meno angosciata. Aveva considerato a fondo la casa di Jim e deciso di sistemarvisi. «Perché» mi spiegò «dovrò trattenermi qui un po' di tempo. Almeno, finché siamo in tre. Non voglio ingombrarti la casa. Posso far venire i domestici da New York e sistemarmi benissimo.» Non insistetti. Vidi che era risoluta. Judith, tuttavia, non era entusiasta. «E Amos?» «Lo licenzierò. Non mi piace e non ho fiducia in lui.» La prima conseguenza di tale decisione fu che Amos si eclissò dopo aver reso la sua deplorevole deposizione davanti ai giurati. Ciò accadde venerdì 20 maggio. Sin dall'inizio non avemmo alcuna probabilità a favore: le testimonianze a carico erano paurose. Ai giurati, il processo doveva sembrare un film poliziesco. Distolti dalle loro monotone preoccupazioni quotidiane, erano tuffati in un aggrovigliato insieme d'indizi incontestabili e di episodi cruenti. Come avremmo potuto reagire noi, d'altronde? La mia asserzione che l'uomo visto sulle scale, la notte della morte di Sarah, portava non un vestito chiaro da golf, ma comuni calzoni scuri, fu accolta con evidente scetticismo. Non venne mai fuori il fatto che la macchia sullo stuoino fosse inesistente all'indomani dell'assassinio per il quale si era proceduto all'esame dell'auto di Jim. Si constatò soltanto che lo stuoino era stato bruciato da me. Avemmo un momento di speranza il secondo giorno. La giuria volle vedere le copie dei due testamenti, che furono debitamente esibite. Parve che i giurati stessero per assurgere a un punto di vista un po' più ampio, e che
la clausola relativa ai cinquantamila dollari scuotesse finalmente i loro preconcetti. Ma, a neutralizzare l'effetto ottenuto, il giudice istruttore tirò fuori i due oggetti lasciati in serbo per il momento psicologico. Fece esaminare il vestito e le scarpe sportive sui quali l'analisi chimica aveva riscontrato piccole quantità di sangue umano, e mostrò il bastone animato. L'arma era stata accuratamente ripulita, ma all'interno della guaina, quando i periti del laboratorio l'avevano tuffata in non so quale liquido, erano stati trovati un ago di pino della stessa specie degli aghi impigliati nei vestiti di Sarah, e alcune tracce di sangue. Sangue umano. Non potevano esserci dubbi sul responso della giuria. Dei ventitré membri che la componevano, ventidue almeno dovevano credere alla colpevolezza di Jim. Il rinvio a giudizio fu firmato in serata. Walter ci raggiunse quella sera, mentre Judith e io stavamo mangiando. Kate si era messa a letto. «Stupidi! Maledetti idioti!» ripeteva Walter. Judith alzò su di lui gli occhi arrossati dal pianto. «Hai cambiato parere? Da quando? Finora sei stato di ben altra opinione.» «Be', ero anch'io un idiota, ecco tutto. Jim non è colpevole. E non subirà alcuna pena. Te l'assicuro, Judith. Non permetterò che gli accada nulla di male.» «Anche se, per salvare lui, dovrai dire tutto quello che sai? Perché non dirlo subito, allora? Sarebbe tempo guadagnato.» Lui non rispose. Più lo guardavo, più il suo aspetto mi impressionava. Abiti sgualciti, occhi scavati, e un nuovo tic. Mi resi conto che era venuto perché moralmente costretto, ma non spontaneamente. Aveva temuto quel nostro incontro. E per darsi coraggio, aveva bevuto. L'alito lo tradiva. Non aprì più bocca finché Judith non andò a raggiungere la madre, e noi ci trasferimmo in biblioteca. Mi domandò allora quando avevo intenzione di andare via per l'estate. «Quando Jim sarà stato rilasciato. Quando lo saprò libero me ne andrò; non prima, Walter.» «Nemmeno se te lo chiedessi io, di allontanarti da qui?» «E perché dovresti chiedermelo?» «Perché, secondo me, la tua vita potrebbe essere in pericolo.» «E chi potrebbe farmi del male?»
«Ti ho avvisato. Vattene, e portati via Judith.» «Allora sai qualche cosa che io non so. Dovresti sentirti in dovere di dirmela.» Non si lasciò convincere e, con tutte le domande che mi frullavano nel cervello, riuscì ad andarsene senza essere interrogato. Una sola domanda potei fargli, ed ebbe su di lui uno strano effetto. «Potresti spiegarmi perché Mary ha suggerito a Judith di non lasciare solo vostro padre durante la notte?» «Perché era malato. Basta questa spiegazione, mi pare. E perché tirare in ballo lei? Mary non c'entra per niente. È innocente... quanto Judith.» Allora mi decisi a dirgli la verità sulla morte del padre. Gliela dissi quanto più cautamente mi fu possibile, con una mano posata sul suo braccio. Non si mostrò sorpreso. Non finse nemmeno di esserlo. Si fece soltanto più pallido che mai. Jim fu tradotto davanti alla Corte due giorni dopo. Fu una prova tremenda per lui e per noi tutti. L'aula era stipata e la folla ostile. Era accuratamente vestito, e teneva la testa alta. Appena entrato, alzò gli occhi su Kate. Lei gli sorrise. Jim stette a sentire con aria grave la lettura dell'atto di accusa. Quando il legale ebbe terminato, lo vidi prendere fiato come per prepararsi a pronunciare un alto, solenne "Sono innocente!", una vibrata affermazione della sua onestà. Ma l'effetto non fu raggiunto. All'ultimo momento gettò uno sguardo in giro, e l'odio concentrato contro la sua persona dovette colpirlo come una mazzata. Parve prodursi in lui una rottura. Il suo "Sono innocente!" non fu sentito al di là delle prime file di pubblico, e lui se ne rese subito conto. Quando lo condussero via, sembrò che volesse voltarsi ad affrontare la folla a testa alta, ma Lowell gli posò una mano sul braccio, e lui uscì incontro alla legione dei fotografi e dei giornalisti che lo aspettavano. 20 Entrammo così nel tormentoso periodo dell'attesa fra l'atto d'accusa e il processo. Martedì 24 maggio, Kate e Judith si installarono in Pine Street. Kate non si preoccupava affatto degli sguardi curiosi dei vicini, non badava alle macchine ferme sotto le finestre della casa di Jim.
Dick non sapeva darsi pace, perché la nuova sistemazione troncava ogni possibilità d'incontri frequenti con la sua Judith. Amos, licenziato da Kate, era stato sostituito da parte della servitù di New York. Judith veniva tutti i giorni a informarmi. Per circa una settimana, la situazione fu questa: Jim in prigione, io di nuovo sola in casa mia e Kate silenziosa e austera, quasi in clausura, nel villino del fratello. Per farsi servire il caffè in giardino, doveva passare più volte nella giornata davanti al mobile-bar e sul pianerottolo della scala che scende in cantina. Ma ecco che un giorno Judith mi riferì che Kate desiderava andare con me dal direttore dell'Imperial Hotel. «Perché?» le chiesi. «Non lo so. So soltanto che mamma è convinta che sia successo qualcosa, qui, l'estate scorsa.» «Quelli dell'albergo non sapranno nulla.» «Potrebbero sapere se papà avesse ricevuto visite.» Il direttore dell'albergo, basso e rubicondo, non fu di alcun aiuto. «Conoscevo bene il signor Somers, s'intende. Gli diedi l'appartamentino che occupava abitualmente. Ricordo di avergli domandato se voleva tutte le stanze, visto che stavolta era solo, mentre di solito conduceva con sé il cameriere. Le volle lo stesso, e lo accompagnai di sopra. Mi pareva stanco. Gli suggerii di farsi servire i pasti nel suo salotto. Assentì, e aggiunse che suo figlio avrebbe cenato con lui. L'attacco cardiaco lo colpì subito dopo la cena. Accorsi immediatamente. Mandai su il medico dell'albergo e feci chiamare anche il dottor Simonds. Sulle prime, l'attacco parve assai grave.» «Walter Somers era presente?» «Sì. Fu lui che telefonò per chiedere aiuto.» In quanto a visite, il direttore non poteva dire nulla. Forse avrebbe saputo darci informazioni in proposito l'addetta al sesto piano. Dalla sua scrivania, vicino all'ascensore, vedeva tutte le porte delle stanze, e naturalmente il signor Somers era un cliente di riguardo. La responsabile del sesto piano era una donna di una certa età; gli occhi e la bocca rivelavano subito la prontezza mentale. Kate le fece molta impressione. Anche prima di sapere chi fosse, fu certo colpita dalla sua aria di distinzione. «Era qui, l'anno scorso, quando mio marito si ammalò?» «Sì, signora Somers. Aveva le camere dal sei al dieci.» «Lei sa che siamo in grossi guai, vero?»
«Lo so. Mi dispiace molto.» La conversazione pareva non dovesse condurre a nulla di concreto. La signorina Todd era in servizio dalle sedici alla mezzanotte. A quell'ora riportava le chiavi all'ufficio centrale e andava a casa. Non le pareva che il signor Somers avesse mai ricevuto visite durante il suo orario di lavoro. Il figlio andava e veniva. All'inizio, finché il padre era gravemente malato, rimaneva per la nottata intera dormendo come poteva. C'erano un'infermiera notturna e una diurna. Quando era arrivata la signorina Gittings, era stata lei a sostituire l'infermiera diurna, e quando il signor Somers aveva cominciato a ristabilirsi si era incaricata lei sola della sorveglianza. L'infermiera di notte era stata mandata via. Era stata lei a decidere così. «La sera dell'attacco, successe nulla di straordinario?» «In un certo senso potrei dire di sì. Il signor Walter Somers venne via circa dieci minuti prima. Aveva il cappello in testa; ricordo di aver pensato che doveva aver buttato giù un boccone alla svelta. Arrivò fin quasi davanti alla terza porta, poi si voltò indietro e tornò dal padre.» «E fu dopo questo dietrofront che telefonò per chiedere aiuto?» «Sì, circa dieci minuti dopo.» «Non sa se ci fu una discussione...» «William, il cameriere, disse che erano state scambiate parole grosse mentre serviva la cena, e che il signor Walter pareva sconcertato. Ma i camerieri sono dei pettegoli.» «Non afferrò per niente di che cosa si trattasse? Mi spiace insistere» soggiunse Kate «ma la questione ha un'importanza capitale. Che cosa venne detto?» «William non è più qui. Mi riferì però che il signor Somers aveva accusato il figlio di avergli mentito. Gli aveva rinfacciato la bugia con queste frasi: "Non me la darai a intendere. Sono al corrente dei fatti. Se credi di potermi rifilare una storia del genere, ti sbagli". Non saranno state le parole esatte, ma a me William raccontò l'incidente così. Il litigio non può essere stato serio» proseguì la signorina Todd. «I rapporti sono rimasti affettuosi. Il signor Walter era l'incarnazione della premura. Veniva ogni giorno, aveva una parola gentile per tutti. Era simpatico a tutti.» Kate si agitò un po' sulla sedia. «Era qui il giorno in cui venne l'avvocato Waite?» «Sì, signora, tutti e due i giorni. Il direttore, il primo giorno, volle salire con lui. Era venuto accompagnato dalla sola stenografa, che stette a sedere lì finché lui non le fece segno di raggiungerlo nella camera del signor So-
mers. Una ragazza tranquilla. Tornarono insieme il giorno dopo, e credo chiamassero il notaio.» «Il figlio... il signor Walter era con il padre, in quei momenti?» «Il primo giorno andò incontro all'avvocato Waite nell'anticamera e lo fece entrare. Ma non si trattenne. Uscì dalla stanza con un fascio di fiori, tolti dalla camera del padre.» Vidi passare un lampo negli occhi di Kate. Capii che la sua gelosia si era accesa. Dei fiori dovevano significare, per lei, una donna. Ipotesi naturalissima. Gli uomini, di solito, non mandano fiori agli amici. E poi il fatto era accaduto d'estate, quando le poche conoscenze che Howard poteva avere in città erano in villeggiatura. «Non sa chi sia stato a mandarli?» «Non ne ho idea» rispose la signorina Todd, sorpresa. «Il signor Walter Somers, però, dovrebbe saperlo. Venne a chiedere alcuni vasi per metterceli dentro. Erano stati portati da un vecchio. Di solito, simili colli vengono consegnati a me, ma l'incaricato mi disse che doveva farsi dare la ricevuta, perciò lo lasciai entrare.» A questo punto s'interruppe bruscamente. Dopo un momento di riflessione, soggiunse: «Strano, non mi ricordo di averlo visto tornare indietro. Ma dietro l'appartamento c'è una scala di servizio. Forse scese di là. Mi è rimasta impressa la sua figura, perché era un giorno in cui pioveva a dirotto e il pover'uomo era bagnato fradicio.» La signorina Todd non ricordava altro di notevole. Aveva visto una volta sola il fattorino dalla lunga zazzera bianca, curvo e male in arnese. Diverse volte, invece, era venuta a fare massaggi al signor Somers una donna corpulenta. Non erano permesse visite all'ammalato. Walter andava e veniva. Sulle prime doveva aver dormito ben poco, ma poi era parso più sollevato. La signorina Todd ne parlava con evidente simpatia. Sarah Gittings era stata, al solito, un'infermiera impareggiabile. Appena in via di miglioramento, Howard aveva insistito perché andasse tutti i giorni a prendere un po' d'aria. Nulla poteva alimentare la gelosia di Kate. Dettagli incolori sul normale decorso di una malattia e, sola rappresentante del sesso femminile, una masseuse di notevoli dimensioni. Prima della nostra partenza, la signorina Todd ci chiese se non avremmo desiderato vedere l'appartamento che era stato di Howard. Kate rifiutò la proposta, mentre io accettai. Secondo me il segreto, qualunque esso fosse, si trovava lì. Sentivo che a Howard era accaduto qualcosa, in quelle stanze;
qualcosa che aveva mutato il suo modo di essere verso la famiglia e verso Walter; qualcosa a cui Jim aveva vagamente accennato nella propria difesa. E proprio nel momento in cui passavo per il corridoio adorno di vasi cinesi, specchi dorati e mensole, mi venne da pensare a Margaret Somers. E se fosse stata ancora viva? E se Walter avesse saputo della sua esistenza e avesse voluto assicurarsi i cinquantamila dollari per passarli alla madre? Allora sì, si capiva perché rifiutasse di dare spiegazioni. Voleva veramente bene alla sorellastra e, per quanto potesse odiare Kate, non avrebbe certo mai attaccato la validità del secondo matrimonio del padre, né mai avrebbe acconsentito a sciorinare in pubblico quanto sapeva sulla condotta di Margaret. L'appartamento si componeva di quattro stanze. Tutte si aprivano sull'anticamera. Il salotto era la stanza d'angolo. A destra, la camera occupata da Howard; al di là di essa, uno stanzino per una persona di servizio. Dal salotto si passava, a sinistra, in un'altra stanza da letto dietro la quale era la scala secondaria. Le camere non rivelarono il loro segreto. Ripensavo a Margaret e mi domandavo se Kate sospettasse ciò che sospettavo io; se un simile sospetto non spiegasse la stranezza del suo comportamento nelle ultime settimane; se non vi fosse in lei il terrore di vedere distrutti la dignità del suo matrimonio e il diritto della figlia a portare il nome del padre. Quando tornammo in anticamera, vidi che Kate non si era mossa dalla sedia. La signorina Todd stava in quell'attimo chiudendo a chiave una porta. Si voltò a guardarmi e mi disse sottovoce: «Un vero gentiluomo, il signor Somers. Lei mi capisce, vero? Se sedesse dove siedo io ogni giorno... Comprenderà quindi ciò che sto per raccontarle. Quando cominciò a stare meglio, una ragazza tentò di avvicinarlo. Sono convinta che avesse aspettato giù per accertarsi che la signorina Gittings fosse uscita per la solita passeggiata. Allora si mosse. Non passò davanti alla mia scrivania. Doveva aver abbandonato l'ascensore a un piano inferiore ed essere salita per la scala di servizio. La vidi per caso, poiché non aveva potuto entrare nella stanza da letto, chiusa a chiave. Mi accorsi di lei prima che arrivasse all'uscio del salottino.» «Che scusa le diede?» «Disse di avere sbagliato piano.» Stavamo per raggiungere Kate. Per non farsi udire da lei, la signorina
Todd abbassò il tono di voce. «Una bella ragazza, con i capelli d'oro brunito. Diventò bianca come una morta, quando le rivolsi la parola.» 21 Quel giorno avevo un bel po' di pensieri da rimuginare. Prima di adottare un nuovo modo di agire, però, volevo ritrovare le annotazioni di Sarah sulla malattia di Howard. La sapevo avvezza a inframmezzare le sue osservazioni d'infermiera con appunti di vario genere. Quello stesso pomeriggio andai dunque nella camera che era stata sua. Aveva riposto le sue agende in fondo a un grosso baule. Le presi e le misi sul letto. C'erano tutte. Ritrovai le annotazioni sulla difterite di Judith, la rosolia dei bambini di Laura, la malaugurata caduta in cui mi ero fratturata il piede, le tonsilliti di Kate. E finalmente rinvenni ciò che più mi premeva. Mi accomodai ben bene in una poltrona per leggere a mio agio. I primi giorni della malattia di Howard avevano richiesto una grande attività: iniezioni, controllo delle pulsazioni, indici di debolezza. Poi Howard aveva cominciato a riprendersi: "malato più animato", "appetito migliore", "rimasto seduto sul letto"... Nell'ottavo giorno, alle ore sedici, era segnato per la prima volta: "Il signor Walter col paziente dalle sedici alle diciotto mentre ero fuori. Il padre, dice, è stato di buon umore". Fu soltanto alla data in cui l'avvocato Waite aveva redatto l'abbozzo del testamento che l'agenda mi procurò una viva sorpresa. Mancavano la pagina di quel 12 agosto e la seguente. In un primo momento, la cosa mi parve incredibile. Ma, riesaminando bene la pagina dell'11 agosto, scorsi finalmente un'indicazione. Ed era più sorprendente che comprensibile. In fondo a una delle colonne, Sarah aveva scritto a matita: "12 e 13 agosto: strappate per metterle al sicuro". E sotto: "Quadrante: cinque a destra, sette a sinistra. Premere sul sei". Ero sbalordita. Chiusi a chiave la stanza, scesi e telefonai a Harrison. L'ispettore venne in serata. «Lei sa bene, signor ispettore, che l'innocenza di Jim pare certa» gli dissi. Con grande sgomento, lo vidi scuotere il capo. «Non ne sono più tanto sicuro. È stato in compagnia della Gunther, quella sera. Sapeva dunque del testamento. Non credo che avesse premeditato nulla. Dev'essersi irritato quando la Gittings avrà rifiutato di consegnargli
la copia del documento. Forse le ha dato soltanto una bastonata, prima. Poi ha perso la testa e ha finito per ucciderla.» Mi si strinse il cuore. Però, dopo che gli ebbi riferito ciò che avevamo appreso all'albergo, e gli indizi raccolti su Mary, si mostrò meno convinto. Allora misi sulla scrivania la pagina recante l'annotazione di Sarah e il foglietto con l'indicazione del quadrante rinvenuto da Judith in una scarpa della Gunther. La faccia dell'ispettore era un poema, mentre gli spiegavo come aveva fatto la mia cuginetta a venirne in possesso. «E così, l'ha trovata la signorina Somers? Intelligente, quella bambina! E che cosa immagina voglia dire?» «Confrontandola con l'annotazione di Sarah, si può credere che indichi il posto dove sono state nascoste le pagine strappate dall'agenda.» L'ispettore mise le due indicazioni l'una accanto all'altra e le esaminò attentamente. «Non sono parole convenzionali. Sono norme, istruzioni ben chiare. Se si potesse... Ha osservato tutti gli orologi?» «I ragazzi li hanno controllati tutti» dissi con rassegnazione. «Forse non si tratta di un vero orologio, ma di qualcosa che può essere paragonato a un quadrante di orologio. Una cosa è certa, però: l'oggetto doveva essere a portata di mano delle due donne. Non una cassaforte, credo. Dev'essere accaduto questo. Finché la Gittings non ha saputo delle disposizioni del nuovo testamento, le annotazioni sono rimaste nella stanza. Non avevano per lei alcun valore. Ma appena ha saputo, per qualche ragione sconosciuta sono diventate importanti. E le ha nascoste. Forse prima nella legnaia, e ciò spiegherebbe lo spostamento della sedia. Tuttavia, prima di uscire l'ultima sera della sua vita, le ha nascoste di nuovo. Ora vediamo un po': sa se aveva lasciato la casa fra le diciassette e le diciannove e quindici, cioè quando è uscita per non tornare più?» «Non posso dirlo con certezza, ma credo di no.» «Del resto, questo non conta. È morta alle ventidue, non prima. Fra le diciannove e quindici e le ventidue si è trattenuta non si sa dove.» Ebbi allora la tentazione di ripetergli ciò che Lowell ci aveva riferito sull'impiego della serata da parte di Jim, ma non volli cedere all'impulso. «È andata in qualche posto e ha nascosto quegli appunti. Se scoprissimo dov'è andata, sapremmo anche dove sono nascosti i fogli, e forse anche altre cose.» Mi decisi allora a dirgli del "fantasma" visto da Elise. Lui volle subito andare a esaminare la finestra della stireria. Procedette
quindi all'interrogatorio di Elise. Fu soltanto quando ci ritrovammo soli nel vestibolo, mentre si avviava per uscire, che mi domandò se avessi qualche sospetto sulle persone di servizio. «Forse sono state pagate per fingere. È proprio sicura che non fingano di essere spaventate?» «Ho quasi dovuto mettere a letto io stessa le mie donne, signor ispettore. E quanto a Joseph, chiude le finestre per la notte prima che venga buio.» «Sostiene ancora di essere stato aggredito?» «Ne è convinto.» Lo riaccompagnai fin sul viale. Prima di allontanarsi, aspettò di vedermi rientrare in casa. Ciò accadeva la sera del 27 maggio: sera di cui mi ricorderò a lungo. Verso le ventuno e trenta, Judith e Dick arrivarono insieme. Kate aveva detto chiaro e tondo di non gradire la presenza del ragazzo nella casa di Pine Street. I due, quindi, si ritrovavano ogni tanto nella mia biblioteca. Quella sera, mi accorsi che qualche novità li eccitava più del solito. Amos, riapparso durante la giornata, era andato a trovare Dick e gli aveva riferito certi dettagli taciuti alla giuria inquirente. Dick raccontò, mentre Judith non lo perdeva d'occhio. «Secondo te, Jim è colpevole?» mi domandò. «Oh, no, no!» «E anche noi lo crediamo innocente. Ma devo riferire cose che daranno da pensare. Amos, entrando nella camera di Jim la mattina dopo la morte di Sarah, ha trovato sui suoi abiti alcune macchie di sangue e ha visto un fazzoletto che ne era addirittura intriso. Il padrone gli ha detto, pare, di essersi ferito alla mano la sera prima. E la mano era veramente fasciata e presentava un taglio: Amos lo ha poi verificato. Jim avrebbe anche potuto simulare e ferirsi leggermente, per giustificare la presenza del sangue sui suoi indumenti, ma lo riteniamo sincero. Amos si è nascosto per non dover ripetere queste cose al processo. Aveva pulito gli abiti il meglio possibile, ma quando aveva cercato il fazzoletto per darlo alla lavandaia, si era accorto che Jim lo aveva lavato da sé. «E c'è dell'altro. Il giorno successivo all'uccisione di Sarah, a mezzogiorno, dopo aver ricevuto la tua telefonata, Jim ha lasciato il letto, ha indossato dei vecchi abiti ed è uscito. Pioveva, e quando è tornato a casa era bagnato fradicio e aveva le scarpe infangate. Ora, un tale insieme di circostanze è strano. Sono convinto che sia andato sul pendio in cerca di qual-
cosa. Di che cosa? O ha ucciso Sarah e temeva di aver lasciato cadere qualche oggetto compromettente, o sapeva che la sera prima lì era accaduto qualcosa. Perché tace? Perché ha fatto quel che ha fatto? Perché lasciare il bastone in giro fino al giorno del ritrovamento del cadavere e poi nasconderlo in un mobile-bar? Una mossa stupida. «E perché si è messo a letto? Colpevole? Se lo era, doveva comportarsi come se nulla fosse accaduto. E lui, bambinescamente, si mette a letto. Perché agire così? Se non era colpevole, non doveva aver paura. La risposta, quindi, dev'essere questa: aveva subito un colpo terribile. O ha visto il cadavere, oppure si è imbattuto nell'assassino. Nel primo caso sarebbe dovuto andare ad avvisare la polizia. Se invece ha visto l'assassino... Insomma, sono convinto che abbia riconosciuto qualcuno sul pendio, quella notte, e abbia paura di dire chi era, oppure ha altre ragioni... ragioni tali da essere pronto a subire una condanna capitale piuttosto che dire quello che sa.» «Ma chi poteva essere? Non certo Walter. Di questo siamo sicuri.» Judith impallidì. «Dick crede che potrebbe essere stato papà» mormorò. Non posso biasimarli, povere creature. Ripensandoci, anch'io... Jim, che il giorno dopo la sparizione di Sarah viene a chiedermi del cognato, e se ho saputo di qualche suo viaggio recente qui; Jim, che pochi giorni dopo brucia tutte le sue carte come se l'inchiesta fosse stata da lui svolta anche per lettera... La situazione era questa: esisteva un testamento segreto che la famiglia non doveva conoscere e che conteneva una clausola segreta. Howard poteva avere ragioni occulte per impedire a qualunque costo che Kate ne avesse sentore. E poi, incapace di sopportare il peso dei delitti commessi, oppure impaurito dall'apparizione di Jim nella notte, era ricorso al suicidio. Ero rimasta talmente colpita che Judith, allarmata, mi fece portare un bicchiere di porto. «Se lo zio Jim è innocente, non si deve lasciarlo morire. E sarà certo condannato a morte se non corriamo ai ripari.» Pensammo subito a un esperimento semplicissimo: andare tutti e tre nel viottolo del parco a vedere se riuscivamo a riconoscerci a vicenda. «È una notte come quella» spiegò Dick. «Stellata e senza luna. Voi due andate nel punto dove lo zio Jim dice di essersi fermato a riposare, e io attraverserò il pendio. Mi fermerò quando mi vedrete abbastanza chiaramente da riconoscermi.»
Facemmo così. Quella zona del parco era deserta. Non vedemmo nessuno. Dick ci lasciò sul terreno dei Larimer e tagliò verso il pendio. Lo sentimmo aprirsi una via fra gli sterpi per pochi minuti, poi più. Judith e io seguimmo la strada fino al viottolo, quindi scendemmo fino a metà del pendio. Judith accese una sigaretta. Non aveva aperto bocca, cosa insolita per lei. Dopo un po' disse: «È stata un'idea bislacca. Siamo tutti rincretiniti... Ma dov'è andato a finire Dick?» Pareva anche a me che ci mettesse molto tempo a trovare la via. Judith si sedette. «C'è più luce di quanto pensassi. Quel lampione sulla strada illumina bene. Ti vedo distintamente, Elizabeth.» Però, per quanto ci guardassimo attorno, Dick non si scorgeva. Judith si alzò. «Gli andrò incontro. Forse è inciampato ed è caduto.» Camminava davanti a me, e io stentavo a seguirla, anche perché nel suo abito nero era quasi invisibile. Percorremmo così una cinquantina di metri. Ma Dick rimaneva irreperibile. Judith si era messa a chiamarlo ad alta voce. Ed ecco che Joseph, avendo sentito la sua voce, ci venne incontro di corsa. Un momento dopo, accorreva anche la polizia. Dick fu ritrovato privo di sensi lungo il terreno scosceso. Sulle prime, non si riuscì a capire se fosse caduto o se fosse stato colpito. Aveva una profonda ferita alla nuca. Fu subito portato all'ospedale. Però non c'erano fratture: era stato tramortito. Judith e io passammo la notte nella sua camera. A un certo momento dell'interminabile veglia, mi balenò in mente una confortante riflessione: ci trovavamo in presenza di un nuovo atto delittuoso che era impossibile imputare a Jim; una simile considerazione avrebbe dovuto giovargli. Che il giovane Carter fosse destinato a vivere o a morire, e pregavo Dio che ce lo lasciasse, l'ignoto assassino era ancora in libertà. All'alba, tornato in sé, Dick tese la mano per stringere quella dell'amata. Ma non prima di sera poté raccontarci la sua disavventura. Era arrivato al confine della terra dei Larimer e aveva cominciato a scendere lungo il pendio. Nelle vicinanze dell'avvallamento aveva percepito un rumore alle spalle. Nel punto in cui si trovava, la luce del lampione giungeva non proprio direttamente. La cima del pendio si stagliava nettamente nell'oscurità della notte. E su quella linea qualcosa si era mosso: una massa confusa, vicinissima al suolo. Si era mossa forse a tre metri sopra di lui. Da principio aveva creduto che si trattasse di un cane. Per sincerarsene, aveva deciso di salire fino a quel punto, e allora lo sconosciuto gli era andato incontro.
Non ricordava nient'altro. 22 Grazie alla giovane età, Dick si riebbe completamente in pochi giorni. L'ispettore aveva voluto fare un nuovo sopralluogo sul pendio, ma, dato il tempo asciutto e caldo, non aveva trovato impronte. Non ci capiva nulla, né esitava a confessarlo. Dick era stato aggredito venerdì 27 maggio. Il lunedì mattina, scendendo a pianterreno, m'imbattei nell'ispettore Harrison seduto in cucina davanti a una buona tazza di caffè. Tranquillamente, ripose sul tavolo l'orologio di cucina che aveva attentamente esaminato, dicendomi che aveva bisogno di una pulizia, e mi seguì fino al vestibolo. Come al solito, si fermò davanti al bagno e vi gettò un'occhiata. «Le è mai venuto in mente che la matita mostratale da Walter Somers potesse non essere stata trovata sulla vetrata lì sopra?» «Già, anche Judith...» «Ah!» esclamò l'ispettore. «Sa ragionare, la signorina. Non è stata trovata lassù, ed eccole la sua vera storia. Anzitutto, credo che la matita sia sua, signorina Bell. Recava le sue impronte digitali e quelle di Walter. Poi, credo che sia stata presa quella notte dalla scrivania e messa a bella posta sulla vetrata. Walter non ha forse guardato dal secondo piano sulla vetrata, e poi, tornato giù, è andato a cercare qualcosa in biblioteca?» «Ci è andato per prendere dei fiammiferi.» «Dei fiammiferi, eh? Secondo me, è andato a prendere la matita. È evidente che lui sa qualche cosa che non vuole rivelare. È andato a guardare dall'alto nell'apertura e ha visto sui vetri dello stanzino un oggetto che ha riconosciuto: una chiave, forse, una penna stilografica, un oggetto a lui noto. È sceso, e con la scusa di andare a prendere i fiammiferi ha preso invece una matita sulla scrivania, se l'è messa in tasca, poi si è arrampicato sulla scala, ha ritirato l'oggetto visto dall'alto e ha finto di trovare la matita sulla vetrata. Sicuro del fatto suo, l'ha chiusa in una busta per lasciarla a disposizione della polizia. Furbo, l'amico. Si ricorda com'era vestito quella sera?» «Portava uno smoking.» «Nero. È ciò che ci ha rivelato il microscopio. La matita era stata nella tasca di una giacca nera, in una di quelle laterali dove i fumatori tengono di solito il pacchetto delle sigarette. Alcune briciole di tabacco si erano ap-
piccicate alla punta, assieme a pochi fili di lana nera. Voglio anche farle sapere, signorina Bell, che quella giacca l'ho avuta tra le mani e ho ottenuto la riprova delle mie deduzioni. Lui aveva la matita in tasca, quando si è arrampicato sulla scala.» «Walter!» gridai, spaventatissima. «Calma. S'intende che non ha ucciso Sarah Gittings, se l'alibi di Cui lei mi ha parlato è vero. Ora, possiamo fare due ipotesi: o aveva in tasca la matita da un po' di tempo e l'ha sostituita a ciò che ha realmente trovato sulla vetrata; oppure già sospettava o magari sapeva quel che c'era e, dopo aver preso la matita sulla sua scrivania, si è servito della scala per levare di mezzo l'oggetto noto, più o meno compromettente.» «Per lui?» «Non necessariamente, ma per qualcuno.» Pausa. L'ispettore si appoggiò indietro sulla sedia, prima di riprendere con fare pensoso: «Questa, signorina Bell, è una questione di famiglia. Non ho mai visto una famiglia più perfettamente unita nell'ingannare la giustizia per proteggere un delinquente. A quale scopo, mi dica, la scenetta sul pendio, l'altra notte?» «Per capire» risposi altera «se il povero Jim avrebbe potuto riconoscere qualcuno, stando in quel punto.» «Ecco, vede? E Blake rimane a bocca chiusa, pronto a qualsiasi evenienza. Chi protegge, lui? E Joseph, chi protegge? Ha aiutato un uomo a uscire dal vano di aerazione, o per lo meno lo ha aiutato a scappare. È sempre lui che aiuta a distruggere lo stuoino, e poi viene lui stesso aggredito e scaraventato giù per una scala. Come diamine può fare la polizia a sbrogliare un pasticcio simile?» Non avevano rintracciato Mary. Quando ci ripenso, ancora me ne meraviglio. E non vedevamo più tanto spesso Walter. Judith sostenne con me che anche lui, come la polizia, cercasse Mary. «Perché?» «Perché ne va matto. Li ho sorpresi insieme, a New York, il giorno dopo la morte di papà. Walter ha fatto finta di andarsene e poi è tornato indietro. Lei piangeva, e lui le accarezzava i capelli e le mormorava chissà cosa. Mi sono allontanata per non disturbarli.» «Si sarà lasciata vincere dalle emozioni, e lui avrà cercato di confortarla...» Judith sorrise, come una che la sa lunga e si accorge di parlare con un'ingenua. Quando se ne fu andata, ripensai alle sue parole. Tornai con la mente al-
la notte della morte di Sarah, al fermarsi improvviso di Mary a metà del viale quando aveva saputo che Sarah era ancora fuori. Anche Walter era parso impensierito. Avevo parlato con l'ispettore lunedì mattina. L'indomani, mi chiese il permesso di perquisire la casa una seconda volta. Non ho mai visto una ricerca più minuziosa, più accurata, né meno proficua di quella; il risultato fu di esasperare ancora di più i domestici. Infine, commisi uno sbaglio che rimpiangerò finché avrò vita. Chiusi lo stipo in similoro e mi portai via la chiave. Simmons, incaricato di perquisire il salotto, venne a chiedermela. Gli spiegai che il mobiletto era stato già esaminato e che i ninnoli di finissima porcellana appartenuti a mia madre erano cose da non rimuovere. Si accontentò della mia risposta e lo stipo rimase chiuso. Frugarono dappertutto, ma non trovarono fogli, e nulla che somigliasse a un quadrante diverso da quelli degli orologi. La perquisizione era stata effettuata per impaurire Claire e Nora, e la loro apprensione ebbe una conseguenza del tutto imprevedibile. Nora mi chiese il permesso di tenere Big in camera sua, quella notte, e Claire si mise in camera Ben. Il risultato finale fu che venni svegliata verso le tre da un urlo tremendo, seguito da un lungo e angoscioso lamento. Saltai dal letto e aprii la porta. Joseph aveva anche lui aperto la sua. Sentii la sua voce. «Chi è? Che cosa è successo?» Si udì un gemito. Dopo aver acceso le luci, Joseph e io corremmo verso la scala di servizio. Nora, in camicia da notte, era accasciata sul pianerottolo, le mani sugli occhi. «L'ho vista...» gemeva. «L'ho vista...» «Ma zitta!» fece Joseph con voce aspra. «Sveglierai tutto il vicinato! Chi hai visto?» «La signorina Sarah. L'ho vista lì, in fondo alle scale, che mi guardava. Indossava il camice bianco.» E non ci fu verso di smuoverla da quella sua assurda visione. Pare che Big avesse voluto scendere. Si era messo a grattare contro la porta, e Nora, per un'infelice ispirazione, era uscita con lui. Giunti in cima alla scala di servizio, il cane si era fermato e aveva emesso un ringhio sordo. Lei aveva guardato in giù. C'è una luce in garage, e da quando eravamo perseguitati dagli eventi avevo dato l'ordine di lasciarla continuamente accesa la notte. Attraverso la finestra della dispensa, manda una certa quantità di luce nella dispensa stessa. Ed era sulla porta di questa che Nora so-
steneva di aver visto Sarah. «E dopo, che cosa è successo?» le domandai. «Non so. Ho chiuso gli occhi.» Rifeci in giornata il giro di tutta la casa, assieme a Joseph. Erano state rinnovate tutte le serrature, e quelle delle porte sul giardino erano state per giunta munite di chiavistelli. Nella cantina le finestre erano state provviste di forti spranghe di ferro, ben incastrate nei muri. Mi parve che Joseph non fosse più eretto come una volta; sembrava invecchiato. Inoltre, da un po' di tempo, avevo osservato in lui movimenti meno sicuri. Gli misi una mano sul braccio. «Sei nervoso e stanco, vero, Joseph? Vorresti un periodo di riposo?» Lui scosse il capo. «Grazie, signorina, preferisco rimanere. Risento ancora un po' dell'aggressione. Passerà.» L'incidente non era fatto per tranquillizzarmi. Stesa nel letto, mi pareva ogni notte di sentire debolissimi rumori. E non limitati soltanto a pianterreno. Talvolta li udivo sopra il mio capo; una notte mi parvero venire dalla stanzetta attigua alla mia camera da letto. Quando domandai con voce risentita chi ci fosse, i lievi rumori cessarono. Due giorni dopo l'incidente di Nora, mentre ero seduta sola nel mio studiolo, pensai di mettermi a spiare. Decisi di chiudermi a chiave in camera mia e di stare in ascolto. La cosa era più semplice di quanto pensassi. I nostri portavoce si possono usare agevolmente. Durante una lunga malattia, mia madre aveva mandato avanti la casa standosene a letto e parlando nei quattro condotti che fanno capo alla camera, poi diventata la mia. Benché praticamente dimenticati, non si erano affatto guastati. Quella sera Joseph era fuori, e Claire era in cucina. Non dimenticherò più la sua espressione, quando le chiesi di scendere nella legnaia e di portarmi in biblioteca un pezzetto di legno, oltre che un coltello a punta. Aguzzai il pezzetto di legno, non senza farmi un bel taglio a un dito, quindi aprii tutti i condotti all'infuori di quello della dispensa. Per aprire anche quello, aspettai che Claire fosse andata a letto. A mezzanotte, ero chiusa al buio in camera mia, dove intendevo passare sveglia la nottata intera. Per la prima ora non accadde nulla. Sentii Joseph rientrare dalla porta di servizio; lo sentii aprire e richiudere il frigo per prepararsi, immagino, uno spuntino da consumare in camera. Poi, fino all'una il silenzio fu completo. All'una cominciai a udire un flebile stridore. Veniva dal salotto. Ogni tanto s'interrompeva per un po'. Si sarebbe detto un leggero raschiamento: sem-
brava il rumore di un topo che rode il legno. Non so quanto a lungo sia durato, né quando sia cessato del tutto. Si fermò a un tratto e, benché rimanessi attentissima, non udii nient'altro. Non fu seguito da passi attutiti. Il silenzio si fece di nuovo completo. La mattina scesi di buon'ora. Il salotto era in ordine, come tutto il resto. Ma quando Joseph arrivò in camera con il vassoio della colazione, mi diede spontaneamente la spiegazione del lieve rumore. «Credo che non saremo più disturbati d'ora in avanti, signorina. Ho scoperto come fa lo sconosciuto a introdursi in casa.» Lo aveva davvero scoperto. Secondo quanto mi disse, entrando nel salotto aveva visto che la portafinestra in fondo era aperta. Sul primo gradino aveva trovato dei pezzetti di mastice, ed esaminandoli si era accorto che era fresco. Il trucco era semplice. Il vecchio mastice intorno a uno dei vetri era stato tolto pazientemente e sostituito con mastice nuovo. Per entrare, bastava rimuovere questo: cosa fattibile in un momento. Poi, con un po' di materiale adesivo, il vetro veniva tolto adagio. Quando l'ispettore venne, si rese conto del trucco. Siccome là non c'è sentiero, poiché i gradini conducono direttamente sul prato, non c'erano impronte. Ma lui stesso fece mettere quel giorno una grossa spranga di ferro attraverso la portafinestra e andò personalmente a esaminare tutte le porte e tutte le finestre di casa. Ciò nonostante, non era soddisfatto. «Quel chiavistello sulla portafinestra, un uomo normale non può spostarlo passando il braccio attraverso l'apertura.» «Può darsi che lo sconosciuto, da fuori, lo abbia spinto con qualcosa.» L'ispettore non era certo convinto. «Forse. Può darsi...» borbottò. 23 La mia decisione di dire a Kate tutto ciò che sapevo fu un'immediata conseguenza di quella scoperta. Lei ascoltò con attenzione il racconto della visita mia e di Judith nella stanza di Florence Gunther e confrontò, visibilmente turbata, il pezzo di carta rintracciato in Halkett Street con la nota di Sarah in fondo alla pagina d'agenda dell'11 agosto. «Ne hai parlato a Lowell?» «Non ancora. Prima vorrei rintracciare le pagine mancanti.» Di scatto si alzò, suonò il campanello e diede ordine di preparare la macchina.
«Stento a perdonarti, Elizabeth. Aver tenuto per te un'informazione da cui dipende la vita stessa di Jim...» «La vita di Jim? Non capisco.» «Non capisci? Non immagini quel che c'è scritto nelle pagine sparite? Che Howard non aveva fatto alcun nuovo testamento, o che lo aveva fatto semmai sotto l'influenza di qualche droga.» Non aspettò che venisse Elise ad aiutarla a vestirsi. Tolse dall'armadio un abito da passeggio e lo infilò in fretta. Judith ci raggiunse e rimase a guardare, perplessa, la madre tutta eccitata. Quando ci sedemmo in auto, Judith la supplicò di stare calma, di non dire nulla di disastroso. Ma appena Kate ebbe esposto il suo pensiero all'avvocato Lowell, questi si raddrizzò sulla poltrona e scattò in tono irato: «Nutro molta stima per il mio collega Waite, signora Somers. E la sua supposizione equivale a un'accusa infamante.» «Come può rispondere dell'onestà dell'avvocato Waite? Tanti si lasciano comprare. Non sarebbe certo il primo!» «L'atto ha avuto dei testimoni. Posso far eseguire una perizia delle firme, se crede. Però...» Kate non lo lasciò arrivare in fondo alla frase. «E a cosa gioverebbe la perizia? Le due firmatarie sono morte. E magari, entrambe a causa della loro testimonianza.» Lowell scosse il capo. «La comprendo, signora Somers. E la compiango. Ma quel testamento fu voluto dal signor Somers, steso da un legale insospettabile e controfirmato da due testimoni, in presenza dello stesso avvocato Waite e di un notaio. Waite ha già risposto così alla giuria inquirente, e confermerà al processo quanto ha dichiarato.» «Per quale motivo, allora, Sarah avrebbe nascosto gli appunti relativi ai due giorni della compilazione del testamento? Che cosa ci avrà scritto? Forse si sarà accorta che Howard non aveva agito di sua volontà, che magari aveva firmato sotto l'effetto di una droga.» «Il dottor Simonds nega che abbia subito un'influenza del genere.» «E che cosa ne sa, lui? Non era presente.» «Fino a prova contraria, dobbiamo accettare la sua affermazione. Vide in serata il signor Somers, e il suo stato allora era normale.» Prima di lasciarci andare, Lowell volle tornare sull'insinuazione di Kate. «So che per lei è stato un grande dolore, e mi rendo conto, signora, di quanto debba riuscirle difficile rassegnarsi. Ma ci sono fatti che dobbiamo accettare. Nel corso della malattia, era sparito qualsiasi sentimento di ma-
levolenza tra padre e figlio. Il signor Somers alluse a ciò nella conversazione con Waite. Era debole, ma il suo pensiero chiarissimo. Forse si sarà reso conto di aver commesso qualche ingiustizia verso il figlio e ha voluto riparare. Ecco perché il testamento è redatto nella forma attuale, che qualsiasi tribunale omologherebbe.» Kate si lisciava i guanti. «Sicché, quel fondo segreto è fuori discussione.» «Fuori discussione.» Lei non aprì più bocca fino a quando non fummo di nuovo in macchina. Allora sibilò, guardando davanti a sé, bianca come un panno lavato: «È viva.» «Chi?» «Margaret.» «Non ci credo, Kate.» «Io sì» mi rispose a labbra strette. «E sarebbe degno di lei, vero?» Non riuscii a convincerla del contrario. Anche in quel momento eravamo vicinissime alla verità, eppure andavamo avanti senza vederla, inconsciamente. Poiché, come dovevamo accertare in seguito, Margaret era assolutamente morta. Uno o due giorni dopo il nostro colloquio con Lowell, Joseph venne ad annunciarmi che una donna dall'aspetto poco rassicurante voleva parlarmi. «Una donna piuttosto grossa; un po' malandata, signorina.» «Falla entrare, Joseph. Voglio vedere chi è.» Lui evidentemente disapprovava. Alla fine la visitatrice fu ammessa in casa. Era Lily Sanderson. Pareva stanca, molto stanca. «Immagino che abbia abbastanza grattacapi senza che io ne aggiunga altri» mi disse subito. «Ma dovevo venire.» Si sedette, sistemandosi il cappellino. «Devo avere una faccia da far paura. Perdere le nottate e poi dover stare in piedi tutto il santo giorno...» «Posso offrirle una tazza di tè?» «No, grazie. Le voglio soltanto dare un messaggio, e poi me ne andrò. Si tratta della signora Bassett. È malata, ha... un cancro, e non si fa più in tempo a operarla. Va avanti a furia di morfina. La figlia è con lei, adesso, ma io la sostituisco nelle ore notturne, dormendo sopra un divano. Quando si sente male, mi chiama.» Il punto saliente della storia era questo: le iniezioni di morfina scioglievano la lingua della signora Bassett. Forse perché le calmavano momentaneamente i dolori. E la Sanderson stava a sentirla.
«È un tormento indescrivibile. Ma volevo dirle che parla molto di Florence. E sa qualcosa, signorina Bell. Sa qualcosa sul delitto.» «Che cosa glielo fa supporre?» «Me lo ha quasi detto chiaro e tondo. L'altra sera mi ha chiesto di avvisare la polizia, perché aveva una dichiarazione da fare. Sono andata a cercare l'elenco del telefono, ma mentre lo sfogliavo si è messa a urlare come una pazza. Sono accorsa e l'ho trovata che si passava la lingua sulle labbra; la morfina gliele asciuga. Mi ha guardato di traverso e ha brontolato: "Non ho nulla da dichiarare. È quella roba che mi danno. Devo aver sognato...". Secondo me, ha veramente qualcosa da riferire alla polizia, ma ha paura.» «Può essere una cosa che non riguarda la Gunther...» «Mi stia bene a sentire.» La Sanderson si sporse in avanti per parlarmi più da vicino. «Le ho detto di aver sentito due persone nella stanza di Florence, la notte in cui è stata uccisa, vero? E che una delle due era una donna che piangeva, d'accordo? Perché non poteva essere proprio la signora Bassett?» Si tirò indietro e, lieta di aver fatto colpo, mi guardò con aria trionfante. Poi, quasi subito, proseguì: «Forse, però, non può avere a che fare con l'omicidio. È una buona donna, che ha molto penato in vita sua.» «Parlerebbe con gli agenti, se andassero a trovarla?» «Non credo. Ci deve aver pensato e deve aver preso la decisione di tacere. Ha paura di qualcuno.» Non sapeva chi potesse essere quel qualcuno. Credeva che la Bassett avesse un marito, ma ignorava chi fosse: non lo aveva mai visto. La figlia, pare, aveva lasciato un buon impiego per venirla a curare. Continuava ad accumulare dettagli, mentre il mio pensiero si fissava sopra un punto solo: sul fatto, cioè, che la signora Bassett era una masseuse. «Che aspetto ha? È alta, grossa?» «Non molto alta, ma massiccia, robusta. Anche adesso non è debole come si potrebbe pensare.» Ero più che mai immersa nelle mie riflessioni. Possibile che la Bassett fosse la massaggiatrice di Howard all'Imperial? E se l'ipotesi era esatta, quali conseguenze trarne? Che cosa poteva aver visto o sentito, nei giorni misteriosi della malattia, e quali informazioni avrebbe potuto darci? La visita aveva uno scopo preciso, che mi fu finalmente confessato. La Sanderson mi consigliò di andare a parlare con la signora, possibilmente quella sera stessa. Poi si alzò per accomiatarsi. «Verrà, siamo d'accordo? Verso le ventuno, va bene? Starò ad aspettarla. L'ora dell'iniezione di morfina è alle venti. La figlia va fuori. Ho promesso di sostituirla presto, stase-
ra. La farò entrare di soppiatto.» Sembrava decidersi malvolentieri ad andarsene. «Vede» soggiunse, prima di lasciarmi «quella povera donna, la notte, crede di sentire muoversi qualcuno. Sta con gli occhi sbarrati, in ascolto...» La riaccompagnai fino in fondo al viale. Il dottor Simonds non conosceva la Bassett. Aveva suggerito i massaggi, e Walter o Sarah avevano trovato qualcuno. Lui, la masseuse non l'aveva mai vista. 24 Non feci preparare l'automobile, quella sera. Non avevo voglia d'informare Robert delle mie intenzioni. Però, impaurita com'ero, non osai affrontare da sola la prima parte della strada e mi feci accompagnare da Joseph fin oltre il confine del parco, cioè fino al punto in cui la strada comincia a essere completamente rischiarata. Era già trascorsa la prima settimana di giugno. Gli alberi avevano messo tutte le foglie e i cespugli fioriti profumavano l'aria. Ricordo di aver ripensato che Sarah era stata uccisa da ormai due mesi, e Florence Gunther da più di un mese, senza che nulla di preciso si fosse potuto appurare sulle cause del doppio delitto. Devo aver camminato molto adagio, poiché erano già le ventuno quando suonai alla pensione di Halkett Street. Mi fu aperto quasi immediatamente. Lily Sanderson venne persino fuori, sui gradini, tirandosi dietro la porta fin quasi a chiuderla. «Pensi, signorina, proprio stasera è venuto il marito a trovarla! È su, adesso. C'è anche la figlia, e hanno litigato come cani rabbiosi. L'avranno sconvolta, e ora starà peggio. Potrebbe morire da un momento all'altro.» Mi accorsi che piangeva, e mi resi conto che da un po' di tempo il suo istinto materno si nutriva dei servizi resi all'inferma. Tornò dentro e mi fece entrare. «Per che cosa possono litigare?» bisbigliò. «Sa bene anche lui quanto la moglie sia malata. Perché la tormenta? Deve aver paura che parli.» «Che tipo di uomo è? Che aspetto ha?» «Non l'ho mai visto, e non ho voglia di vederlo.» Indovinò che io, invece, sarei stata curiosa d'incontrarlo e s'avviò svelta verso le scale. Ma tornò indietro subito. «Eccolo che torna giù» sussurrò.
Lasciò la porta socchiusa e rimanemmo lì ad aspettare, mentre l'uomo scendeva lentamente al secondo piano. Per quanto silenziosa fosse la strada, il rumore dei suoi passi era appena percettibile. In verità, se non mi fosse stato detto che qualcuno stava venendo giù, non me ne sarei accorta. Ed ecco che, sulle scale del secondo piano, l'individuo si fermò. Evidentemente, aveva visto la porta di casa socchiusa e non si faceva più sentire. Dopo un minuto circa, che doveva esserle parso un secolo, la Sanderson non si padroneggiò più. Spalancò la porta di casa e borbottò: «Si può essere più scaltri di così? È tornato indietro.» «Indietro? E dove?» «È risalito al terzo piano e da lì ha infilato la scala di servizio. Se... se si è allontanato davvero.» Si capisce che qualche tremendo sospetto le passò allora per la testa, poiché mi piantò in asso bruscamente e cominciò a correre su per le scale fino al terzo piano. Udii lassù due voci di donne: la sua, immagino, e quella della figlia della Bassett. Era più calma, quando fu di nuovo a pianterreno. «Ho creduto per un momento...» Le mancava il respiro. «Ho creduto... ma sta come al solito. C'è la figlia con lei.» «Che cos'aveva creduto?» Parve vergognarsi a confessarlo, per cui mi domandò: «È stato un modo strano di sparire, non è vero? Può darsi però che Clarissa lo abbia visto.» Clarissa, peraltro, era già andata via. La cucina era al buio, e sono convinta che, nell'atto di girare l'interruttore, la Sanderson si mostrasse veramente coraggiosa. La luce della lampadina non ci rivelò alcuna presenza insolita. Lei guardò una porta in fondo alla stanza e, voltandosi verso di me, esclamò stupita: «Ma non può essere uscito da lì! Clarissa si porta via la chiave della scala di servizio e, come vede, la porta è chiusa.» In quel momento ci arrivò dal soggiorno un lievissimo rumore e un battente a molla si mosse, socchiudendosi e poi richiudendosi. Rivedo ancora la povera donna appoggiata al tavolo della cucina, mentre gridava: «Chi è là?» Nessuno rispose. Nel silenzio profondo, si udì qualcuno che chiudeva la porta di casa. Doveva essere il marito della Bassett, che dalla cucina si era rifugiato in soggiorno quando ci aveva sentito arrivare. L'uomo aveva quindi attraversato la stanza per riprendere la via delle scale. «Perché mai sarà scappato?» domandò la Sanderson, sfinita. «Non pote-
va essere il marito.» Presi un taxi per tornarmene a casa, e non mi sentii al sicuro finché non fui oltre il portone doppiamente sprangato e non ritrovai i miei cani, accoccolati come al solito sulle migliori poltrone della biblioteca. L'indomani, raccontai la mia visita all'ispettore. A lui parve fantastica l'idea di un legame tra gli incidenti della sera prima e i delitti. «Perché dare tanta importanza a banalissime circostanze? Sono molte le persone che escono in punta di piedi dalla casa di un ammalato.» Ma non era più così sicuro quando, in serata, venne a trovarmi dopo essere andato dalla signora Bassett. Aveva preso un appuntamento con la Sanderson. Stavolta, la figlia era assente. Prima di tornarsene a casa, l'ispettore aveva voluto informarmi. «Non ho saputo nulla, è vero. Ma è anche vero che laggiù c'è qualcosa di singolare. Il marito non ha niente a che vedere con la losca faccenda, ma quella donna qualcosa sa. Ha un'espressione strana che non mi è nuova.» «Che espressione?» «L'ho vista una volta sulla faccia di un tizio, un momento prima che si buttasse dal decimo piano.» E così, come altre circostanze che avrebbero potuto essere utili alla difesa, anche quella rimase sterile. Ho buone ragioni di credere che l'ispettore facesse almeno un altro tentativo presso la Bassett, ma la poveretta aveva troppa paura, o forse era stata distolta dal suo proposito, e non disse nulla. Il dibattimento del processo di Jim cominciò il 10 giugno. I giudici avevano fatto tutto il possibile perché il procedimento fosse rapido, e anche la difesa era ansiosa di venirne fuori. Jim soffriva molto, in carcere. Diverse cose erano trapelate. Si sapeva che, la notte della morte di Sarah, alle ventidue lui si trovava sul pendio. Due persone, un certo Francis Dennis e sua moglie, si erano presentate a dire che mentre risalivano il viottolo, quella sera, avevano visto un signore in abiti sportivi intento a strofinarsi le mani con un fazzoletto. Fu un colpo tremendo per la difesa. Entrambi ritenevano che fosse proprio Jim l'uomo che avevano sentito correre lungo il pendio, sul terreno dei Larimer, verso il viottolo. Lowell era disperato. «La stampa ha già anticipato la sentenza.» Credo che fino alla vigilia del dibattimento si sentisse sperduto. Quel giorno, potei dargli un piccolo aiuto. Il mio intervento era stato reso possibile da una conversazione avuta il giorno prima con l'ispettore. "Questa è una visita da amico. La prego di tenere bene a mente la mia
dichiarazione" aveva precisato, entrando. Aveva poi esordito dicendo che non voleva contribuire a un errore giudiziario e che la piega presa dall'affare non lo soddisfaceva. "Il procuratore vuole ottenere un verdetto di condanna, e l'otterrà. Intendiamoci: il procuratore è convinto della colpevolezza dell'imputato. Ma ci sono alcuni punti che probabilmente non saranno esaminati a dovere, e sui quali la difesa dovrebbe invece insistere." E aveva tracciato un piano di difesa. L'avevo scritto allora sotto dettatura per portarlo a Lowell, e l'ho oggi sotto gli occhi. a) Jim è sotto processo perché accusato dell'uccisione di Sarah. Ma sarà tirato in ballo fatalmente anche il caso Gunther. Come mai, la mattina dopo l'uccisione della Gunther, non c'era traccia di benzina sullo stuoino della sua auto, mentre io vi avevo riscontrato una macchia visibilissima? "Dica a Lowell di mettere la cosa bene in evidenza. L'accusa non se ne incaricherà di sicuro." b) Rintracciare Amos per chiamarlo a testimoniare. "È lui che ha sotterrato il bastone animato. Le sue impronte digitali erano chiarissime." c) Chiedere al responsabile della Scientifica, già incaricato dell'esame dei vestiti della Gittings, se non ha trovato qualcosa intorno a un bottone. "Scommetterei qualsiasi cosa che ci ha trovato un lungo capello bianco." d) Si chieda al suddetto funzionario se il capello in questione proveniva da un cuoio capelluto o da una parrucca. "Sono convinto che provenga da una parrucca. Lo si faccia esaminare dalla Corte. È stato conservato." e) Chiedere cosa è stato trovato sul grosso ramo asportato, come corpo del reato, dal terreno dei Larimer. Il perito vi ha rinvenu-
to alcuni fili di lana: fili di un panno nero, o grigio scuro. Sono state conservate anche quelle fibre. f) Dare il maggior risalto possibile alle tre ore trascorse dalle diciannove alle ventidue. Dov'era allora la Gittings? g) Come mai le due pugnalate hanno esattamente la stessa profondità? L'ispettore si era appoggiato all'indietro e, con l'aria di un uomo soddisfatto di sé, aveva commentato: "Ecco, a mio parere, come andrebbe prospettato il caso. E se Lowell crede, si avvalga pure dei suggerimenti che le affido confidenzialmente". Quando avevo riletto gli appunti, avevo domandato: "Perché parla di una parrucca?". "Perché quel capello non aveva radice. Un capello strappato dalla testa ha abitualmente la radice. Il fatto ha una certa importanza. Un uomo abbastanza vecchio per avere i capelli bianchi, anzi per avere lunghi capelli bianchi, è troppo vecchio per poter sollevare un corpo come quello e gettarlo nel tombino." "Lei crede che l'assassino fosse mascherato?" "Può darsi. Succede spesso che i delinquenti agiscano mascherati:" "E non se ne parlerà al processo?" "Perché dovrebbero? Non sarebbe un aiuto per Blake. Come farebbero a provare che non portava una parrucca, quella sera?" "E allora, perché parlarne?" L'ispettore aveva sorriso. "Pensi all'effetto che farà sui giurati. Nessuno ha detto che Jim Blake portava una parrucca bianca o che ne possedeva una. Io ritengo che non ne possieda una. Convinca il suo avvocato a soffermarsi su quelle tre ore e sullo sconosciuto in parrucca bianca e abito elegante. Sarà una base su cui fondare la difesa." 25 Il giorno dopo portai gli appunti a Lowell. «Dove ha scovato tanti ingegnosi argomenti?» «Non si preoccupi, Godfrey. Purché siano utili alla nostra causa...» Laura arrivò di buon mattino, la vigilia del processo. Senza un avvenimento di quell'importanza non si sarebbe mai decisa a lasciare i suoi bambini. Era furiosa per quanto accadeva, ma non nutriva preoccupazioni in
merito al risultato. Ci venne incontro spigliata, premurosa e con la solita vivacità. «Hanno messo in piedi la più stupida delle accuse. Come va, Joseph? Ben trovata, Claire.» Cominciò a turbarsi quando vide le facce pallide e disfatte di Kate e di Judith. «Povere care! Non mi figuravo una cosa simile...» sussurrò. Jim la fece addirittura ammutolire dallo stupore. Lui, sempre ben vestito, ma tanto pallido, tanto solo... Quando apparve nell'aula, lei mi strinse la mano, in silenzio. Non voglio ricordare le lunghe, insopportabili ore, le strazianti giornate del processo. Invano Lowell lottò, discusse le testimonianze, quasi pianse per la fatica; invano svolse i punti suggeriti dall'ispettore. La giuria aveva caldo ed era stanca. Aveva davanti a sé i vestiti macchiati di sangue e il bastone animato, e risaliva dall'effetto alla causa. Jim aveva avuto in mano il bastone; Sarah rappresentava una minaccia contro la sua vita di buontempone; altri lo avevano visto sulla scena del delitto nell'ora in cui era stato compiuto. L'assassino era lui. Gli occhi di Judith, alla fine del terzo giorno, parevano infossati nelle orbite. Eppure la cara figliola rimase lì per tutto il tempo del processo. Punto per punto, il magistrato disegnò l'accusa, e a ogni passo della ricostruzione Jim pareva accasciarsi più pesantemente sullo sgabello. Quando la requisitoria toccò la questione del movente e risuonò nell'aula il nome di Florence Gunther, il mormorio fu tale che l'uditorio dovette essere richiamato all'ordine. «Non intendiamo, signori giurati, addossare direttamente o indirettamente all'accusato la morte violenta di Florence Gunther. Ma non possiamo fare a meno di ricordare quel nome. Il giorno dell'assassinio della Gittings, Florence Gunther ha preso dagli incartamenti dello studio in cui era impiegata un documento chiuso in una busta. Quel documento è sparito, ma abbiamo potuto stabilirne la natura.» E con la descrizione del testamento, come aveva predetto Lowell, il processo era finito prima ancora dell'inizio del dibattimento. Lui combatté accanitamente, ma che cos'erano un po' di capelli o di fibre tessili per una giuria già convinta della colpevolezza di Jim? Ci venne riservato anche qualche colpo inaspettato. Uno fu la riprova del fatto che Sarah aveva scritto a Jim. Una fotografia molto ingrandita del suo sottomano aveva permesso di ricostruire chiaramente diverse frasi della
lettera rimaste impresse sulla carta assorbente. Si poteva arrivare a decifrare, per esempio: Caro signor Blake, devo parlarle al più presto di una questione urgente. Quando le avrò detto che credo... Non si leggeva altro. E anche in quelle poche frasi non tutte le parole erano nitide. Ma il "Caro signor Blake" era lampante. Anche Kate dovette sopportare un'emozione inattesa. Era stata ricostruita una sua lettera bruciata nel caminetto di Jim, che l'ispettore era riuscito a decifrare in parte. Sono preoccupata... Che cosa non devo dire? Non se l'aspettava. Non sapeva di dover essere chiamata a testimoniare, e sono certa che non aveva nemmeno la più lontana idea di quel che le veniva presentato. «Può identificare questo?» «Non so che cosa sia.» Kate si mise l'occhialino, guardò la fotografia, poi rialzò leggermente la testa. «Credo che sia una frase scritta da me.» «All'imputato?» «Sì.» «Ricorda il giorno in cui l'ha scritta?» «No.» «E come ha spedito il messaggio? Per posta?» Kate aveva giurato e non poteva mentire. «Tramite il mio autista.» Ora sappiamo che ciò era esatto e che lei non aveva immaginato la sorveglianza esercitata sulla corrispondenza di Jim. Ma allora l'ammissione fu fatale, e più ancora lo divenne quando, nel seguito dell'interrogatorio, rifiutò di spiegare perché aveva scritto quelle parole. Agli occhi dei giurati e dell'uditorio, fu come se avesse confessato di sapere sul delitto qualcosa "che non doveva dire". E la questione sollevata subito dopo fu certamente intesa a dare alla cosa un rilievo anche maggiore e a impressionare la giuria e la folla. «Ha visto suo fratello, la notte in cui è venuto a New York?» «Quale notte?» «Quella in cui è morto suo marito.»
«No» rispose Kate con tono fiero. «Jim non era a New York, quella notte.» Ma l'effetto era stato ottenuto. Charles Parrott dichiarò: «È della stessa altezza. Anche la corporatura mi pare quella. Era però molto imbacuccato. Direi che è la stessa persona, ma non posso affermarlo con certezza.» Lo scopo cui mirava l'accusa si precisò. Judith, suo malgrado, fu costretta ad ammettere che la telefonata le era proprio parsa dello zio Jim, e venne presentato il libretto degli assegni di Howard. Fu stabilito che il giorno, o forse la notte stessa della sua morte, Howard aveva firmato uno cheque di mille dollari. Il libretto era stato rinvenuto sulla sua scrivania il giorno dopo, e la matricola indicava la somma da ritirare. Nessuno si era presentato a incassarla, ma fu accertato che Jim, proprio in quei giorni, aveva telefonato a un'agenzia di viaggi per avere informazioni sulle partenze dei transatlantici. Più volte, poi, durante l'interrogatorio dei testimoni, fu ripetuto che Howard era già morto nel momento in cui Jim lasciava l'appartamento di New York. Judith fece una deposizione ammirevole. Parlò finché non la interruppero, e sono certa che costituì per la giuria un diversivo riposante e simpatico. Lottava a spada tratta, ma non udii più una sua sola parola, né quella di altri testimoni, dopo che Lowell ebbe letto il misterioso messaggio di Sarah. Laura allora mi strinse il braccio e, in tono concitato, mormorò: «Oddio, Sarah non ti ha parlato dello stipo?» «Perché avrebbe dovuto parlarmene?» «Andiamo via, Elizabeth! A casa, presto!» Walter ci seguì e salì in macchina con noi. Per strada, mia sorella mi spiegò: «Avrei dovuto scriverti, ma avevo alcune commissioni per Sarah, così ho scritto a lei. Avrebbe dovuto avvisarti. Perché non mi hai detto che aveva nascosto qualcosa? L'ha chiusa nello stipo: non può essere altrimenti.» Ci mettemmo, sì e no, quaranta minuti ad arrivare a casa. Se non fosse stato per l'ansia di decifrare il tragico enigma, nessuno di noi avrebbe sentito il bisogno di affrettarsi tanto. Nessuno, all'infuori di Walter; e lui aveva le sue buone ragioni per non manifestare i suoi sentimenti. In macchina parlò pochissimo. Ricordo però che era pallido e nervoso.
Avevo la mia chiave, poiché la servitù era al processo. Sul momento, tutto mi parve in ordine. Quando aprii il portone, Laura si diresse difilato verso il salotto e, con la chiave dello stipo che era stata rimessa a posto, aprì la parte centrale. Lo stipo è un bel mobile stile Luigi XIV, in palissandro. Potrei definirlo una scrivania, poiché si può tirarne fuori una tavoletta e formare un piano su cui scrivere. Al di sopra ci sono tre sportelli. I due laterali, di vetro, lasciano trasparire le raffinate porcellane custodite con tanto amore dalla nostra mamma. Lo sportello centrale è massiccio, ornato da uno splendido ovale in similoro. Fu quello che Laura aprì, e mi accorsi allora per la prima volta che la placca di similoro era assicurata al legno da una dozzina di minute rosette di bronzo che coprivano le teste delle viti. Ce n'era una anche al centro, sicché formavano tutte insieme ciò che poteva anche apparire come un quadrante di orologio... "Cinque a destra, sette a sinistra. Premere sul sei." Così fece Laura. «Prestami il tuo temperino, Walter» disse. Ma il temperino di Walter aveva la punta rotta. Adesso rammento quel particolare, al quale lì per lì non feci caso. Rammento anche che gli tremavano le mani, mentre cercava di aprirlo. Dovetti andare a prendere il mio sulla scrivania. Laura ne inserì la punta nella fessura metallica. Allora, con uno scatto, il legno dello sportello si staccò dal suo rivestimento in similoro e, tra i due, apparve un piccolo spazio libero. Ma lo spazio era vuoto. Laura e io ci guardammo esterrefatte. Quel che provasse Walter posso soltanto supporlo. Si piegò a esaminare l'interno del mobiletto, e allora notai alcuni sfregi. Anche Laura li vide. «Quei segni non c'erano quando hai ricevuto lo stipo, vero?» chiese Walter. «Non credo.» «Vuol dire che qualcuno ci ha preceduto, ecco tutto.» «Tu credi che siano recenti?» «Secondo me, sono stati fatti dopo gli ultimi avvenimenti in tribunale» rispose tetro. «Troveremo certo una finestra rotta o una porta aperta.» E così fu. Poiché eravamo usciti tutti, nessuno aveva potuto chiudere con il catenaccio la porta della cucina. La chiave era sul pavimento, come se qualcuno l'avesse spinta dal di fuori e avesse aperto con un duplicato o con un grimaldello. E la porta era rimasta aperta. Quella notte, Walter sparì.
Non fui eccessivamente sorpresa di non vederlo nell'aula del tribunale la mattina seguente, poiché la sera prima, verso le diciannove, aveva telefonato a Judith annunciandole che avrebbe reso la sua testimonianza l'indomani, poiché aveva molto da dire, e pregandola di non pensare male di lui. Si era messo in un brutto imbroglio, ma "si sarebbe punito da sé". Riferendomi la conversazione, Judith mi aveva assicurato che il fratello non era ubriaco, ma che aveva avuto un tono strano. Lui aveva concluso: "Ho deciso, e mi sento sollevato. Jim sarà prosciolto, e sia di me quel che dev'essere". Ma non si fece vedere. Ne fui seccata, e Judith provò angoscia, oltre che dispiacere. I giornali commentarono spiacevolmente la sua assenza. Lowell si mostrò indignato. Apparentemente, però, la sua deposizione non avrebbe potuto avere un'importanza tale da modificare la situazione a favore di Jim. Comunque fosse andata la storia del ritrovamento della matita sulla vetrata del bagno, restava il fatto che Walter era a casa mia alle ventidue del giorno fatale della scomparsa di Sarah, mentre a quell'ora Jim era nel parco. Le cose andarono molto male per Jim, quel giorno. Non fu possibile scovare Amos e, viceversa, venne fuori la sua compromettente deposizione davanti alla giuria inquirente. Il cumulo delle deposizioni a carico diventava sempre più schiacciante. Nulla poteva ormai scuotere le certezze acquisite dai giurati. Tanto disperata sembrava la situazione che, la mattina dopo, Lowell chiamò Jim stesso alla sbarra dei testimoni. Aveva chiesto lui di difendere la propria causa, e tuttavia non si capiva come potesse illudersi di dimostrare la propria innocenza. 26 Ho qui sotto gli occhi la deposizione di Jim. Ho anche il memoriale da lui preparato dopo la condanna per un ricorso in appello, e me ne servirò riportandolo integralmente. Non ho nulla a che fare con la morte di Sarah Gittings, né con quella di Florence Gunther: posso giurarlo davanti a Dio. Se non ho detto il poco che so, è stato in parte perché mi pareva inestricabile il groviglio delle apparenze a me sfavorevoli, e in parte per non aumentare il dolore, già tanto grave, di mia sorella.
Non ho visto Sarah Gittings la notte del 18 aprile, benché credessi di doverla incontrare quella sera. Infatti aveva tentato già due volte di avvicinarmi, e sempre inutilmente. Quel giorno, che era un lunedì, ho ricevuto da lei una telefonata in cui mi ha parlato di una lettera diretta a me. Mi è parsa turbata quando le ho detto di non aver ricevuto nulla, tanto che mi ha pregato di incontrarla quella sera, perché doveva parlarmi di una cosa importantissima. Ho accondisceso alla sua richiesta, e sono uscito di casa a piedi, un po' presto, per recarmi all'indirizzo che mi aveva dato, in Halkett Street. Dovevo domandare della signorina Gunther. Avevo preso nota dell'indirizzo, ma a metà strada mi sono accorto di aver dimenticato l'appunto in una tasca della vestaglia. Ho pensato allora di telefonare a Sarah in casa Bell e mi sono fermato in un drugstore. Sarah, però, era già uscita. Siccome ricordavo che la sua amica abitava in Halkett Street, ho deciso di andare fin là e d'informarmi più esattamente sul posto. Ho attraversato il parco. Non cammino in fretta, perciò erano già suonate le venti quando ho raggiunto Halkett Street. La signorina Gunther mi aspettava sui gradini fuori dell'uscio e mi ha fatto entrare in casa. La vedevo per la prima volta. Mi è sembrata molto agitata. Quando le ho chiesto la ragione dell'invito, mi ha risposto che la signorina Gittings mi avrebbe dato tutte le necessarie spiegazioni. Anzi, mi ha fatto promettere di non parlare a nessuno della mia visita, perché, ha insistito, non voleva "essere compromessa in nessun imbroglio". E io ho promesso. Mi è parsa allarmarsi per la mancata apparizione dell'amica, e più passavano le ore più cresceva la sua angoscia. Non ci capivo nulla. A un certo punto, ha detto che doveva essere accaduto qualcosa di orribile ed è scoppiata a piangere. Più tentavo di calmarla, e più mi ripeteva che non potevo capire. La sua agitazione era tale che l'ho convinta finalmente ad andare a letto, poi mi sono avviato verso casa. Nella deposizione resa all'autorità inquirente, ho detto di aver raggiunto il viottolo alle ventuno e quindici. L'affermazione non era esatta. Sapendo di essere sospettato, ho creduto di dover indicare un'ora diversa da quella vera. In realtà, ero nelle vicinanze del terreno dei Larimer alle ventidue circa. Al ritorno, ho fatto di nuovo la strada dell'andata. Però, quando
sono stato circa a metà della salita, ho lasciato il viottolo, mi sono scostato di pochi passi a destra, cioè in direzione di casa Bell, e mi sono messo a sedere per riposarmi. Ero lì da pochi minuti a fumare un sigaro quando ho sentito qualcuno muoversi sul pendio alla mia sinistra, e a una certa distanza. Sulle prime ho creduto che si trattasse di un cane che aveva abbaiato fino a quel momento. Avevo buttato via il sigaro e sono convinto che, seduto sul pendio, dovessi rimanere invisibile a chiunque si trovasse a quella distanza. Ma non ero sicuro di aver vicino soltanto un cane e, non ignorando i diversi borseggi avvenuti ultimamente in quella zona del parco, ho premuto il bottone che libera la lama del bastone animato e ho aspettato. Nel parco, sotto di me, c'erano due persone. Le sentivo parlare tra loro, e mi è passato per la mente che qualcuno, alla mia sinistra, si nascondesse per poi assalirle e derubarle. Sbagliavo: l'uomo alla mia sinistra non pensava a questo. Sono certo che era l'assassino di Sarah Gittings, intento a trascinare il cadavere. Oltre a me e alle due persone, che come ora so erano il signore e la signora Dennis, in fondo al pendio qualcosa ha allarmato l'uomo. Forse una guardia del parco. L'uomo si è messo a correre verso di me. Lo sentivo avvicinarsi. Respirava affannoso. Ho avuto l'impressione di un uomo alto, in frac o in smoking, e con un berretto calato sugli occhi. Forse la mia impressione non corrisponde alla realtà. Giuro però che lo sconosciuto era lì, e scappava avvicinandosi a me di gran carriera. Mi è passato tanto vicino da urtare il bastone animato e farlo rotolare a grande distanza, è corso al di là del punto in cui mi trovavo ed è scomparso verso il parco. Quando mi sono rimesso dallo stupore, ho cercato intorno il mio bastone e, disgraziatamente, ho messo la mano sulla lama, procurandomi un taglio di cui porto ancora il segno. Non mento. Era sangue mio, quello che ha macchiato i miei abiti e il mio fazzoletto. La signora Dennis mi ha visto nell'atto di fasciarmi la mano ferita. Sono andato a casa e mi sono messo a letto. La mattina dopo non stavo bene. Il mio domestico, Amos, mi ha portato il caffè e ha preparato i vestiti. Ha raccolto il fazzoletto della sera precedente e mi ha domandato se mi fossi fatto male.
Gli ho detto che mi ero ferito leggermente a una mano. Non ho pensato affatto a un possibile legame tra questo incidente e la questione di Sarah Gittings, fino al momento in cui, quel giorno stesso, ho saputo che non era tornata a casa dalla sera prima. Ho cominciato allora a impensierirmi. Avevo avuto un appuntamento con lei, ed ero inquieto. Ho telefonato alla signorina Gunther in ufficio; inutilmente, poiché era assente, e io null'altro sapevo della sua casa se non il numero. Continuava a turbarmi il ricordo della scena accaduta sul pendio la sera precedente. Un po' prima di mezzogiorno sono tornato sul terreno dei Larimer a esaminare anche il pendio, ma non vi ho riscontrato nulla d'insolito. Quel pomeriggio sono andato in casa Bell e ho saputo che Sarah era ancora assente, che qualcuno si era introdotto di soppiatto la sera prima e che, nella notte, la camera di Sarah era stata frugata. Ho voluto tornare una seconda volta sul pendio. Riconosciuto il punto dove, alla vigilia, mi ero fermato, mi sono spinto per un bel tratto verso la sua sinistra. Non ho trovato nulla di inquietante e nessuna traccia di Sarah Gittings. L'indomani ho ricevuto dalla signorina Gunther una lettera disperata. Aveva appreso dai giornali l'inspiegabile assenza di Sarah ed era convinta che fosse stata assassinata. Mi supplicava di non fare il suo nome per timore di perdere l'impiego e di correre forse pericolo di vita. Mi chiedeva, anzi, di distruggere la sua lettera. Il che ho fatto. Avrei dovuto agire: il mio silenzio non l'ha salvata... Ma, nel frattempo, erano accadute diverse cose. Mentre cercavo perplesso la via migliore da seguire, era stato rinvenuto il cadavere di Sarah. Era stata pugnalata. Per di più, io ero stato sul luogo dell'assassinio, o vicino a esso, nel momento in cui lo si riteneva avvenuto. Walter e io siamo stati chiamati a identificare i resti, dopo di che lui mi ha riportato a casa in macchina. Sono entrato dalla parte del giardino e ho trovato Amos nell'anticamera, intento a rimettere la lama del pugnale nel fodero. Era chiaro che mi sospettava. L'ho mandato a fare una commissione, e in sua assenza ho esaminato il bastone. Ho visto che sulla lama erano rimasti un po' di sangue rappreso e alcuni fili d'erba. La cosa mi ha spaventato. Al-
lora ho portato il bastone in bagno e l'ho lavato, quindi l'ho nascosto nel mobile-bar dell'anticamera e l'ho chiuso là dentro. Ma le cose si complicavano maledettamente. Mary Martin aveva scovato il camice di Sarah sul quale rimanevano tracce evidenti della lettera a me indirizzata. Ero fuori di me. Quella sera stessa ho cercato di avvicinare Florence Gunther. Non era in casa, ma l'ho vista vicino a una bottega di fruttivendolo. Mi sono sentito fremere, accorgendomi che era impallidita appena mi aveva riconosciuto. Ha rifiutato di parlarmi. E siccome insistevo, mi ha detto che avevo ucciso Sarah; che lo sapeva, e sapeva anche perché l'avevo uccisa. Ha aggiunto che, se non mi fossi allontanato subito, avrebbe chiamato una guardia. Ritornando verso casa ho rimuginato le sue parole. Mi sono ricordato che la sera in cui ero andato a trovarla, mentre aspettavamo l'arrivo di Sarah, le avevo mostrato il meccanismo del bastone animato. Non possono sorprendere i suoi sospetti. È facile, anzi, capire come erano sorti. La Gunther s'immaginava che Sarah mi fosse venuta incontro con la copia del testamento che mi diseredava e che io l'avessi uccisa per impossessarmene. Non sono tornato da lei. Temevo che ricorresse alla polizia. Quella sera, quando sono rincasato, mi sono messo a letto. Mi sentivo proprio male. Però un giorno di quella settimana mi sono fatto forza e sono sceso a pianterreno. Mi pareva che se la Gunther avesse parlato alla polizia e se, dopo le sue dichiarazioni, il bastone animato fosse stato trovato nascosto, la cosa mi avrebbe fatto più che mai sospettare. Ho deciso quindi di rimetterlo al suo solito posto nell'anticamera. Ho aperto l'armadietto: il bastone era sparito. Non so nemmeno come né perché sia stato rinvenuto nella cantina. Suppongo che fosse stato Amos a nasconderlo, spaventato per la situazione in cui venivo a trovarmi. Sono convinto che Amos sia stato ucciso, o forse pagato per allontanarsi. Si è voluto impedire che mi discolpasse, confessando i propri atti. Sono anche convinto che una macchia di benzina sia stata impressa sullo stuoino della mia macchina in modo che potessi essere sospettato dell'uccisione di Florence Gunther. La polizia sa che
la macchia non esisteva all'indomani dell'omicidio. Al processo, molta importanza si è data al fatto che un nuovo testamento di Howard Somers mi aveva privato di un legato destinatomi precedentemente. In risposta a ciò dichiaro solennemente che non ho saputo nulla di questo secondo testamento finché non me ne ha parlato l'avvocato Davis, a New York, dopo la morte di mio cognato. Quand'anche lo avessi saputo prima, l'assassinio delle due poverette non mi avrebbe giovato affatto. Il testamento stesso era al sicuro tra le carte di Howard nel sotterraneo di una banca di New York, e l'avvocato Waite poteva rendere testimonianza della sua esistenza e della sua autenticità. Non so nulla della morte di Florence Gunther. Quando mi sono accorto che mi sospettava di aver ucciso Sarah Gittings, non ho fatto altri tentativi per avvicinarla e giuro di non averla più rivista. E neppure sono andato a trovare Howard Somers la notte della sua morte. Chiunque lo abbia avvicinato quella sera si è valso del mio nome per arrivare fino a lui. Né ho ricevuto da Howard un assegno di mille dollari. In quanto al viaggio progettato, ho veramente pensato di farlo. La mia situazione era diventata intollerabile e non potevo discolparmi. Ma non ho dato seguito all'idea, né ho tentato di scappare. Non ho inventato questa storia dopo il mio arresto, e nemmeno prima. Ho detto la schietta verità, sotto giuramento. Non ho mai ucciso un essere umano, e sono innocente del delitto che mi viene imputato. Se dovrò scontarlo, sconterò l'infamia di un altro. Quasi tutto il testo del ricorso venne enunciato nelle risposte date da Jim alla Corte. Fummo probabilmente noi di casa i soli, nell'aula affollatissima, a ritenerlo sincero. A controbattere l'effetto delle sue dichiarazioni rimanevano il cumulo degli indizi a carico e il fatto stesso della nostra comparsa alla sbarra dei testimoni. Avrebbe dovuto aiutare Jim il ritrovamento, avvenuto quel giorno, del cadavere di Amos, galleggiante sul fiume. Ma neppure la triste coincidenza gli giovò. Il poveruomo era annegato e, per quanto i nostri sospetti siano oggi molto forti, tuttavia non sappiamo con certezza se sia stato ucciso. Ricostruisco così la scena. Amos, fiducioso, espansivo, fiero di essere stato consultato. Confidenze fatte sopra un ponte, forse, o sulla riva deserta
del fiume. Poi la spinta di un braccio muscoloso e un vortice d'acqua che si richiude sul suo capo... Dopo tre ore di deliberazione, la giuria dichiarò Jim reo di omicidio non premeditato. 27 Jim fu condannato alla sedia elettrica il 25 giugno. La stampa approvò unanime il verdetto e lodò l'acume della polizia e la lealtà del dibattimento. Lowell ricorse in appello, ma ci preannunciò che, se non veniva fuori qualche fatto nuovo, non c'era da sperare nulla da una revisione del processo, ammesso che ce l'accordassero. Fu un gran brutto colpo. Kate si mise a letto, ammalata. Judith rimase in piedi, pallido fantasma di se stessa, assillata dallo stesso pensiero e sempre più convinta dell'innocenza dello zio. Laura era dovuta tornare presso i suoi bambini. Rimanevamo quindi le uniche del nostro esiguo gruppo familiare, Kate, Judith e io, poiché Walter continuava a nascondersi. La sua defezione m'indignava. Sapeva qualcosa che avrebbe potuto salvare Jim, eppure era scappato. Ed ecco che il 28 giugno, il direttore del club di Walter mi chiamò per dirmi che da sei giorni lui non si era più fatto vivo. «Vorremmo sapere dove trovarlo» disse. «Abbiamo diverse comunicazioni da fargli; una, soprattutto, che sembra molto urgente.» «Urgente?» «Sì. Una signora gli ha telefonato ogni giorno. Oggi, poi, mi ha pregato di andare ad accertarmi se ci fosse nulla di strano nella sua stanza. Ha paura che gli succeda qualcosa di grave. Mi ha chiesto di chiamarla e di informarla.» «Qualcosa di grave?» ripetei, con la stretta al cuore che purtroppo ormai mi era divenuta abituale. «Non ha detto il suo nome?» «No, signorina. Era una ragazza, credo. Non vorrei spaventarla, ma chi mi telefonava era molto in pensiero. Ha consigliato persino di avvisare la polizia. Mi pare che piangesse.» «Senza dare una ragione?» «No, signorina. Sono andato nella camera del signor Somers. Secondo me, non deve aver avuto intenzione di allontanarsi per molto tempo. Tutti i suoi abiti sono ancora al loro posto.»
«La sua auto è in garage?» «No, non c'è. Non l'ho più vista da mercoledì scorso.» La telefonata aveva luogo un martedì, sicché erano sei giorni che non si sapeva più nulla di Walter. Mi pareva incredibile che fosse andato via senza bagaglio. Non avevo pace. Chi mai aveva telefonato al club? Ero quasi sicura che si trattasse di Mary, e il fatto che avesse pianto al telefono m'impressionò terribilmente. Lasciai cadere il ricevitore ed ebbi appena il tempo di sprofondarmi in una delle poltrone della stanza della biblioteca. Il mio cuore non aveva mai battuto così forte. Joseph mi sorprese in quello stato e corse a prepararmi qualcosa da bere. Appena potei parlare, gli raccontai l'accaduto. Ne fu visibilmente scosso. La mano che reggeva il bicchiere tremò al punto che il cucchiaino tintinnò sul cristallo, e lui dovette appoggiarsi a una sedia per non cadere. «La polizia, signorina? Quella ragazza crede che gli sia capitata una disgrazia?» «Il direttore dice che piangeva, Joseph.» Alla fine telefonai a Dick e, quella sera stessa, lui e Joseph andarono nella stanza di Walter. Frugarono senza alcun risultato, ma vennero a sapere particolari molto inquietanti. Il mercoledì della sua scomparsa, Walter non aveva cenato. Era andato nella sala di scrittura e aveva scritto per parecchio tempo, fin dopo le venti. Poi aveva chiesto una busta grande, l'aveva riempita con i fogli appena vergati, aveva preso cappello e impermeabile nell'atrio ed era uscito. Si era fermato un momento sugli scalini esterni ed era quindi rientrato al club. Pareva nervoso e inquieto. Si era infilato nella cabina telefonica e aveva parlato con qualcuno a lungo. Poi era di nuovo tornato fuori e non si era più fatto vedere. Dick e Joseph perquisirono la sua camera. Joseph, che aveva riordinato i suoi vestiti, disse che nulla era stato portato via. Insieme andarono a informarsi al garage del club. Il guardiano notturno ricordava benissimo di aver ricevuto direttamente da Walter l'ordine di pulirgli la macchina. Ricordava di averlo visto arrivare di pessimo umore poco dopo le venti e di avergli fatto il pieno di benzina. Lui aveva manifestato l'intenzione di fare una gita in campagna. Salito in macchina, aveva fatto un gesto il cui resoconto poi mi agghiacciò. Il guardiano lo riferì così: «Aveva un impermeabile, quello che vedete là... Al momento di avviarsi, me lo ha dato. La notte era calda. Poi me lo ha chiesto indietro e ne ha sfilato una rivoltella. Ha cercato di nasconderla
mentre la metteva nella tasca della portiera, ma il gesto non mi è sfuggito.» L'episodio, secondo me, aveva una sola interpretazione possibile: Walter si era ucciso. Si era fermato in qualche punto isolato della campagna e aveva messo fine a una vita divenuta intollerabile. Ma perché? Che cosa mai sapeva? Che cos'aveva fatto? Non erano forse sicuri i suoi tre alibi? Era forse scappato da casa mia, la sera del 18 aprile, per uccidere Sarah? Ripresi a vagliare i miei ricordi, e conclusi di nuovo che la cosa era impossibile. Benché la serata fosse molto avanzata, era quasi mezzanotte quando chiamai Harrison al telefono. L'ispettore doveva dormire profondamente, a quell'ora; rispose però che sarebbe venuto quanto prima, e nell'attesa rimuginai le mie terribili apprensioni. Qual era il tragico segreto di Walter e di Jim? Tacevano entrambi, l'uno pronto a subire una morte infamante e l'altro a suicidarsi... Appena l'ispettore arrivò, gli espressi le mie paure per Walter e i miei sospetti sulla condotta di Howard. Mi ascoltò attentamente, mordicchiando con forza uno stuzzicadenti. «L'ipotesi è geniale» finì per dire. «Ed è anche plausibile. È verissimo che Blake può aver riconosciuto l'assassino, specie se lo conosceva bene. Non sono soltanto i lineamenti a caratterizzare un individuo: la sagoma, l'abbigliamento, l'andatura... Il signor Somers aveva i capelli bianchi e portava una lunga zazzera, vero?» «Sì.» «Una cosa davvero strana. A meno che Blake non si sia inventato il frac per giustificare la presenza di fibre nere sul ramo servito a tramortire la vittima... Esaminerò ora l'altra faccenda.» Mi lasciò per recarsi al garage del club, e credo che fosse già giorno fatto quando poté tornarsene a letto. Aveva messo in moto tutta la polizia del distretto e della città. Ciò accadeva un martedì. Il giorno dopo, i giornali del mattino uscirono con questi titoli: "Giovane milionario sparito. La polizia dà la caccia a Walter Somers". E l'indomani, giovedì 30 giugno, si ebbero le prime notizie. Quel pomeriggio fu ritrovata la macchina di Walter, non lontano dal capolinea del tram sulla strada di Warrenville, a tre chilometri circa dalla fattoria Hawkins. Un gruppo di boy-scout aveva avvistato un'auto rovesciata e mezzo fracassata sull'orlo di un pendio. Nulla era stato toccato quando, accompagnato da quattro o cinque agen-
ti, Harrison giunse sul posto. Non fu però possibile riscontrare altre impronte oltre a quelle dei boy-scout. Walter non venne ritrovato, né fu scoperto alcun indizio rivelatore. Quando venne a riferirmi l'accaduto, l'ispettore mi disse: «Si direbbe che qualcuno abbia saputo dell'imminenza della sua testimonianza al processo e abbia voluto... impedirgli di parlare.» «Uccidendolo?» Harrison tacque. Si schiarì la gola, poi mormorò: «Possibile. Verosimile.» Lanciata la tremenda supposizione, se ne andò. Gli ultimi giorni avevano fiaccato Joseph. Le domestiche mi raccontavano che lo sentivano ogni notte camminare nella sua stanza per ore e ore. Per la prima volta da quando lo conoscevo, si mostrava distratto. Non gli era mai accaduto, nei tanti anni in cui era stato al mio servizio. Sapendolo al corrente delle abitudini di Walter, gli ingiunsi di servirsi della mia macchina tutti i pomeriggi per cooperare alle ricerche. So che andò al club, ma sulle altre sue peregrinazioni ho solo questo dato: Dick portò Judith sulla strada che domina il pendio, e furono entrambi sorpresi di vedere la mia macchina lassù. Si avvicinarono al ciglio del pendio e giù, seduto a testa china sopra un masso, videro Joseph. Quando lo chiamarono, lui si scosse subito e li raggiunse. «Che cosa fa, qui?» gli domandò Judith. Prima di rispondere, il maggiordomo si guardò gli abiti sgualciti e sporchi. «Cercavo la rivoltella. Il signor Walter non si è ucciso, signorina.» «Perché non dice quel che sa, Joseph?» scattò Judith. «Qualcosa di sicuro sa.» «Il poco che so è un segreto del signor Walter, signorina.» E non volle aggiungere altro. 28 I miei due cari ragazzi si erano presentati insieme verso le venti e trenta. Judith pareva affranta. Ignoravamo ancora l'esito della domanda di revisione, ma non potevamo ignorare che, nel caso in cui fosse stata respinta, Jim sarebbe stato giustiziato ai primi di settembre. La stampa era tutt'altro che favorevole a un rinvio in appello. Avevamo quindi poca voglia di parlare, quella sera. Judith, tutta presa dall'angosciosa situazione, fece a un tratto: «E perché
non può essere stato Walter? Era in smoking. Perché non può essere stato lui a introdursi di soppiatto in casa? Non potrebbe aver tramortito Sarah col ramo ed essere corso qua a cercare ciò che gli premeva, le annotazioni riguardanti il testamento? Sarah può essere rimasta incosciente per tre ore. E lui, forse, è tornato a rintracciarla più tardi.» Dick obiettò: «Avrebbe dovuto agire con sbalorditiva rapidità. Staccare il mastice intorno a un vetro non è impresa facile, né breve.» I due discussero per un po', quindi decisero di uscire a fare una prova. Sono convinta che Dick cercasse soltanto un appiglio per tentare di distogliere Judith dal continuo rimuginare sulla tragica situazione dello zio. E siccome avevo anch'io bisogno di distrarmi, li seguii. Era una calda notte di luglio e c'era molta umidità, poiché aveva piovuto tutto il santo giorno. Non troppo lontano da noi, i figli del contrabbandiere, mio unico vicino, facevano esplodere dei mortaretti; sulla strada scorreva un'ininterrotta fila di automobili. Per uscire eravamo passati dalla cucina, lasciando Joseph intento alla lettura del giornale. Ricordo anche che Dick aveva con sé una torcia elettrica. I cani ci seguivano. Uscimmo a passi lenti. Dopo aver girato l'angolo, raggiungemmo la portafinestra del salotto e Dick la rischiarò in pieno. «Dammi il temperino.» «Quale?» «Quello che ti avevo dato. Non l'hai preso? L'avevo messo apposta sulla scrivania.» Judith protestò di non saperne nulla e, dopo un breve litigio, Dick si avviò per andarlo a prendere. Entrò in casa passando dalla cucina. Non potevano essere trascorsi più di tre minuti fra l'istante in cui ci lasciò e quello in cui tornò. Ricordo che Big era irrequieto: Judith stentava a trattenerlo. Lei stessa era tanto nervosa che si mise a brontolare per essere rimasta momentaneamente al buio. Dick, appena ci ebbe raggiunto, provò a intaccare il mastice di uno dei vetri della portafinestra. «È durissimo, sembra cemento. No, Walter non ha avuto il tempo di stordire Sarah col bastone, tornare qui, togliere il mastice e lasciarsi sorprendere quasi sulla porta di casa.» Dibatterono la questione. Lei restava ferma sul suo punto di vista: Walter si era portato la matita su per la scala a pioli, perché aveva lasciato cadere qualcosa dall'alto sulla vetrata del bagno; più tardi, per disfarsi del cadavere di Sarah, aveva adoperato la stessa scala. Non credo che la discussione durasse più di un quarto d'ora. I mortaretti
dei vicini continuavano a scoppiettare e le auto a rombare sulla strada. Uno sparo in più o in meno doveva fatalmente passare inavvertito. Quando ritornammo verso la cucina, Judith e Dick mi lasciarono andare avanti con Big al guinzaglio. Joseph era ancora seduto. Non si alzò quando entrai in cucina. Lasciai andare il cane, sorpresa. Vidi allora un rivoletto di sangue scendere e allargarsi sullo sparato della camicia e, mentre spalancavo gli occhi atterrita, il corpo scivolò adagio per terra. Joseph aveva gli occhi spalancati e pareva guardarmi. Caddi in ginocchio accanto a lui, e, sopraffatta dall'emozione, gli presi la mano. Mi sentii invadere da un'indicibile pena e scoppiai a piangere. A un certo punto sentii la porta d'ingresso richiudersi violentemente. Fuori, Dick e Judith chiacchieravano. La macchia rossa sulla camicia si allargava sempre più. Mi alzai e uscii urlando: «Judith, entra dall'ingresso principale! Joseph... è ferito!» Tornai dentro. Nessuna traccia di violenza. Il giornale della sera era sul tavolo con accanto gli occhiali di Joseph, che forse aveva smesso di leggere per sonnecchiare. Mi ero accorta che da un po' di tempo si assopiva facilmente. Eppure non era vecchio. Non doveva avere oltrepassato di molto la cinquantina. Nessuna traccia di un'arma, intorno a lui. Mi ero un po' rimessa dallo choc. E mi resi conto allora che avevamo sentito uno sparo e lo avevamo scambiato per un mortaretto. Riuscii anche a figurarmi certe circostanze: Dick aveva lasciato aperta la porta della cucina e Joseph non l'aveva richiusa, o per lo meno non l'aveva chiusa a chiave. Da circa un quarto d'ora Dick aveva attraversato la cucina, e per sparare un colpo di rivoltella basta un secondo. Fu allora, credo, che ripensai al rumore della porta d'ingresso chiusa di botto, e capii che, mentre me ne stavo sgomenta a guardare Joseph ferito, il suo feritore non era ancora fuori di casa mia. Tremai sentendo squillare il campanello. Erano Dick e Judith che avevano trovato il portone chiuso, benché lui lo avesse lasciato aperto pochi minuti prima. Mi guardarono entrambi stupiti. «Elizabeth, è successa qualche disgrazia a Joseph?» «È ferito.» Si spaventarono. Ricordo che Judith mi spinse verso la stanza della biblioteca mentre Dick correva in cucina. Poi devo essere svenuta, perché
non ricordo più nulla sino al momento in cui mi accorsi di avere la polizia in casa e il dottor Simonds accanto. Joseph fu trasportato subito all'ospedale e gli venne estratta la pallottola. La ferita non era grave, ma lui soffriva molto. «È robusto e in buone condizioni» mi disse il dottore «ma ha subito un trauma terribile, ben più grave di quanto voglia ammettere.» «Non vuol dire chi lo ha ferito?» «No, sostiene di non saperlo. Però il colpo gli è stato sparato di fronte e da vicino, quindi la cosa è improbabile. A meno che non fosse addormentato...» Non potei, mio malgrado, togliermi dalla mente l'immagine di Walter. Lui era armato, ed era davvero incredibile che Joseph non avesse visto il suo feritore... L'ispettore non volle pronunciarsi. Non fu trovata nessun'arma. La rivoltella di Joseph era al solito posto, ma nessun colpo ne era partito. Dick era andato all'ospedale. Robert era fuori, perciò rimandai a casa Judith in taxi. 29 Il pauroso groviglio era ormai vicino a sciogliersi, sebbene nessuno di noi se ne rendesse conto. Il giorno dopo, sul pendio dietro il garage, Harrison scoprì alcune impronte di cui non volle far cenno prima di aver raggiunto un'assoluta certezza. Lo vidi da una finestra, con il fedele Simmons alle calcagna, scrutare ogni palmo del terreno e piantare qua e là i suoi soliti segni di riconoscimento. Il che fece, come dicevo, il giorno successivo al ferimento di Joseph. Per la notte, aveva lasciato un agente a guardia della casa. Un altro, incaricato di sorvegliare i dintorni, apparve la mattina successiva, e i due rimasero a turno fino alla fine. Uno di quei giorni, la Sanderson mi telefonò per annunciarmi la morte della signora Bassett. Sembrava molto triste. Le dissi di venirmi a trovare appena ne avesse avuto il tempo. Per l'emozione provata, la paura per Walter, la lunga tensione, quasi mi ammalai. Da quando un agente passava in casa tutte le notti, le donne gli lasciavano pronti uno spuntino sul tavolo della cucina e una caffettiera sul fornello. Verso le due di notte, si spargeva per la casa un buon profumo di caffè che,
sebbene avessi cominciato a soffrire d'insonnia, era per me come un narcotico. Sapevo che di sotto vegliava la legge e potevo tranquillamente addormentarmi. Il mercoledì della settimana in cui Joseph era stato colpito, non riuscendo a prendere sonno, finii con l'alzarmi. Infilai una vestaglia e un paio di pantofole, e scesi a pianterreno. Provai un'impressione di benessere entrando nella cucina tutta piena di luce, dove per rifocillarsi un omone in uniforme blu si era seduto davanti a un piatto di roast beef freddo e insalata. «Sono venuta a prendere un po' di caffè.» «Prego, signorina» mi rispose cordialmente. Rimanemmo lì a cenare insieme, alla buona. Intanto s'incaricava lui di mantenere viva la conversazione, perché evidentemente era stanco di stare solo e aveva voglia di parlare. A un tratto, mi domandò: «Dov'è quella ragazza dai capelli rossi che era qui la sera dell'aggressione? Non l'ho più vista.» «È una mia cuginetta, Judith Somers. Non vive qui. E non ha i capelli rossi.» «No, non parlo della signorina Somers. La ragazza che dico io aveva proprio i capelli rossi. Era sul viale e correva in questa direzione. Quando mi ha visto, si è fermata di colpo.» Rimasi di stucco. «Una ragazza dai capelli rossi? Le ha parlato?» «Eccome! Mi ha preso per il braccio e mi ha chiesto cos'era successo. "Che diritto ha di chiedere informazioni?" le ho chiesto a mia volta. Mi ha risposto che voleva saperlo perché lavorava qui. Gli altri erano già entrati. Ero di fretta anch'io, ma la ragazza insisteva, e ho visto che stava per sentirsi male. Le ho detto: "Qualcuno è stato ferito". E lei mi ha subito lasciato andare.» «Non l'ha più rivista?» Lui mi guardò, sorridendo. «Speravo di vederla tornare. Una gran bella figliola! Non l'ho più rivista. Lei saprà di sicuro chi è.» «Sì, so di chi si tratta. Ma non è più alle mie dipendenze.» La notizia gli dispiacque, penso, ma non credo destasse in lui alcun sospetto. Aveva poco da aggiungere al già detto. Gli agenti del distretto erano arrivati sul posto prima di lui, che era venuto dalla centrale in moto. Non osando disturbare l'ispettore, poiché erano le quattro del mattino, chiamai Dick al telefono per sentire cosa ne pensasse lui. Era assonnato. «Mary era sul viale» spiegai. «Stava venendo qui di corsa. Non sapeva
quel che fosse successo. Ha chiesto all'agente...» «Peccato» commentò lui, sbadigliando. «Quell'agente non è troppo furbo. È probabile che Mary la sapesse lunga. Forse stava scappando e, quando ha visto arrivare l'agente, si è messa a correre nella direzione opposta. È un vecchio trucco...» Rimasi non so quanto tempo con il ricevitore in mano, cercando di riordinare le idee. Se Dick aveva colto nel segno, era Mary la responsabile del ferimento di Joseph. Conosceva benissimo la casa e gli usi di tutti noi. Sapeva che le due domestiche andavano a letto presto e che Joseph rimaneva invece fino a tardi a leggere in cucina. Se ci aveva visto nel giardino, Dick, Judith e me, sapeva che all'infuori della cucina tutto il pianterreno era deserto. Non aveva che da entrare, sparare e fuggire. Ma non era fuggita. Nei dieci o forse quindici minuti trascorsi fra il momento in cui avevo visto cadere Joseph e l'arrivo dei poliziotti, avrebbe avuto tutto il tempo di scappare, e non era scappata. Era forse andata a compiere qualche misteriosa missione nella camera di Sarah, o in quella di Joseph? Forse, dopo aver osservato dall'alto l'arrivo in casa delle uniformi blu, era scesa adagio... Rumori di voci nella cucina. Si era guardata alle spalle. Accortasi del portone rimasto spalancato, si era messa a correre, finché dalla moto fermatasi improvvisamente era saltato a terra colui che le aveva sbarrato il passo. Presa dal panico, aveva invertito la direzione della corsa? Oppure aveva agito così pensando a un domani? A furia di almanaccare, ero ridotta in uno stato di tensione terribile, quando verso le sette telefonai a Harrison. Bastò il suono della sua voce a calmarmi. Però lui si arrabbiò, quando gli raccontai la storia. «Quell'imbecille l'ha lasciata scappare?» «Non crede che Mary possa aver aggredito Joseph?» «Non mi sembra il tipo di donna che spara.» Mi sentii sollevata. Non ho simpatia per Mary, ma l'immagine che mi ero fatta di lei in quelle poche ore mi scombussolava. «Sono contenta allora di aver pensato a telefonarle. E a proposito, la signora Bassett è morta.» Gli riferii quanto mi aveva comunicato la Sanderson, e lui rimase muto tanto a lungo che credetti a un'interruzione della linea. «Pronto... Volevo par...» dissi, ma fui interrotta da uno sfogo inatteso. «Sono qui, signorina Bell. Sono qui seduto a darmi dell'asino matricolato. Invece che l'ispettore di polizia dovrei fare... non saprei, il ciabattino.» E con questo, riattaccò.
30 Per dieci giorni interi, apparentemente non accadde nulla. Né in quei dieci giorni Harrison si fece mai vedere a casa mia. Dieci giorni afosi di luglio, in cui Lowell s'impegnò a fondo per far accogliere il ricorso in appello, mentre il caldo e il grande struggimento opprimevano Jim, e Joseph all'ospedale riceveva le nostre visite con molta dignità. Lui rifiutava di modificare la sua versione dell'accaduto. Continuava ad affermare di essere stato aggredito nel sonno e di non aver visto il suo assalitore. Walter non si faceva vivo; Mary neppure. Poi, il 17 luglio, Kate prese la decisione che fece precipitare la crisi. Joseph era tornato quel giorno dall'ospedale. Aveva ripreso le sue mansioni in casa, ricominciando a fare la spola dai cassetti dell'argenteria alle credenze della cucina. Era però molto scosso, e con il braccio al collo non concludeva granché. Diedi le disposizioni necessarie perché godesse di alcuni giorni di pieno riposo in campagna: me ne fu molto grato. Kate è una donna intelligente, e il mio racconto non le rende la giustizia che merita. Il fatto è che, per tutto il tempo in cui durò l'incubo, non fu pienamente padrona di sé. Era più spaventata di quanto volesse dare a vedere, e si appartava per non tradirsi. Credo che da quando Jim aveva voluto deporre al processo, e forse anche da prima, avesse intuito che il fratello proteggeva qualcuno. Ricordo il dialogo tra lui e il giudice. "Lei sostiene di aver visto lo sparato bianco del fuggiasco. Che cosa significa?" "Che ho visto uno sparato bianco." "Non aveva una giacca?" "Non potrei dirlo. L'impressione è che portasse uno smoking o un frac." "Stando a quel che dice, lo sconosciuto le è passato tanto vicino da far schizzare a una certa distanza il bastone animato che aveva in mano. È riuscito a distinguere uno sparato bianco e nient'altro?" Jim aveva avuto allora un attimo di esitazione. "È tutto quello che ho visto. Ero seduto, e lui voltava la faccia verso la parte bassa del pendio." Chi poteva voler proteggere, anche a rischio della propria vita, se non Howard? Howard coi suoi capelli bianchi, il suo immancabile frac, e un segreto da mantenere a ogni costo... Non c'era da stupirsi che Kate pensasse a Margaret o che tornasse al testamento come alla chiave del mistero.
E così vengo alla scena di quel pomeriggio quando, per sua richiesta, l'accompagnai nello studio dell'avvocato Waite. Aveva preso un appuntamento, sicché fummo ricevute subito. Mi colpì il cambiamento d'aspetto subito da Waite. Pareva dimagrito e malandato, e mi sembrò di veder passare un'ombra di timore nei suoi occhi quando ci salutò. Al nostro ingresso si alzò. «Sono scandalizzato e addolorato per quanto accade, signora Somers. L'appello sarà certo...» «L'appello non servirà a nulla» replicò lei, cupa. «Faranno morire un innocente, avvocato, a meno che non si scopra tutta la verità.» Waite si mosse inquieto sulla poltrona. «La verità? E dov'è? Ne so quanto lei.» Si sporse sulla scrivania. «Capisco quel che pensa, signora Somers. Ma come è vero che sono qui, il signor Somers dispose per quel testamento e lo firmò dopo che lo ebbi redatto per lui. Ragionava lucidamente quanto noi. Parlò della sua famiglia e dei suoi affari. Riconobbe anche che il testamento sarebbe stato un dolore per lei, e mi disse di volerle lasciare una lettera che le avrebbe spiegato ogni cosa. Perché poi non l'abbia scritta, non lo so.» Non recitava una parte. Ci riferiva fatti veri. Credo che Kate ne fosse convinta quanto me. Rimase rigida sulla sedia, ma la sua voce non aveva più nulla di aggressivo quando domandò: «Non le parve che avesse preso qualche droga?» «Lo escludo assolutamente.» «Era presente Sarah Gittings?» «Lasciò la stanza. Ma entrò un momento per somministrargli una medicina.» Kate non si piegava. Le si presentavano i fatti e rifiutava di accettarli. L'avvocato s'irrigidì. «Il testamento è genuino, signora Somers. Se le rimane il minimo dubbio in proposito, possiamo tornare insieme all'albergo, e le ripeterò tutti i miei atti di quei due giorni. Le dimostrerò che il primo giorno fui condotto nella stanza del signor Somers dal direttore stesso dell'hotel e che l'addetta al piano mi vide arrivare con lui, e se ne ricorda ancora. Le farò vedere come Walter Somers mi ricevette sulla porta della camera del padre e mi fece entrare, e come in entrambi i giorni della stesura del documento ero accompagnato dalla signorina Gunther. La responsabile del piano vide anche lei.» «Lo so, avvocato.»
Waite fece una mossa d'impazienza. Si sarebbe detto che Kate non lo vedesse. Alzò gli occhi, tenuti fino ad allora fissi sui guanti, e bisbigliò: «Sarebbe disposto a tornare all'Imperial?» «Ma naturalmente! Crede che abbia paura di farmi rivedere?» Si alzò, e allora soltanto Kate parve capire che era arrabbiato: livido di rabbia. Lo guardò con un'espressione di quasi infantile smarrimento. «Mi scusi. Ma vede, quel testamento non avrebbe nessuna ragion d'essere, nessuna... se Margaret Somers è morta.» Waite era ancora furibondo, sebbene cercasse di dominarsi e si mostrasse assai premuroso quando ci avviammo. Nessuno di noi tre immaginava l'imminenza di una soluzione. Il nostro terzetto ebbe ben poca strada da fare per arrivare all'albergo. Avemmo la fortuna di trovare libere le stanze già occupate da Howard. Il direttore era assente, ma non l'addetta al sesto piano, che ci salutò con l'aria grave richiesta dalle circostanze, rivolgendo all'avvocato un gran inchino. «Mi riconosce, signorina Todd?» «Certo, avvocato.» «E ricorda che venni qui due giorni di seguito?» «Mi ricordo benissimo. Fu il direttore a condurla di sopra il primo giorno. Era accompagnato da una signorina. Il secondo giorno, venne su anche il notaio dell'albergo. Ricordo tutto molto chiaramente. La signorina Gunther rimase seduta su quella seggiola finché lei non venne a chiamarla.» «E perché?» domandò Kate. «Come mai aspettò nell'anticamera? C'era un salottino.» La signorina Todd parve alquanto sorpresa dall'osservazione. «Fu proprio così. Ricorda perché la signorina Gunther rimase qui, signor Waite?» L'avvocato, però, non ricordava affatto. Non aveva visto salottini. Era stato direttamente introdotto dall'anticamera nella stanza del signor Somers. La signorina Todd era incuriosita e, credo, anche emozionata. Ci condusse subito verso il salottino dell'appartamento, aprì la porta e poi spalancò due finestre. «In quale stanza stava il signor Somers?» «In questa, signora. Ora accenderò le luci.» «Grazie mille. Se vuole avere la cortesia di richiudere le porte, uscen-
do...» L'avvocato era ridiventato eccitabile. Avanzò nella stanza indicata dalla signorina Todd e volse lo sguardo in giro. «Ora credo che tutte le sue domande siano state soddisfatte, signora Somers» fece, in tono un po' risentito. «Questa è la stanza. Le è stato confermato che io venni qui. Venni qui solo perché vi fui chiamato.» Kate si bagnò le labbra aride. «E mio marito era a letto?» «Sì. Sedetti accanto al letto e mi sembrò che il signor Somers fosse proprio sofferente. Era una giornata buia, ma la luce era accesa. Sedetti qui, poiché la lampadina era da questo lato del letto, l'anno scorso. L'hanno spostata, vedo.» Un lampo passò negli occhi di Kate. «Vorrebbe rifare tutte le mosse di quel giorno? Le ricorda? Faccia uno sforzo, avvocato. Tutto, anche le minime cose.» Capii che la sua emozione faceva effetto anche a lui. La guardò e con maggior dolcezza disse, mentre tornava verso l'uscio: «Vediamo... Sì, Walter Somers era fuori della porta, nell'anticamera. Aprì la porta e disse: "Babbo, c'è l'avvocato Waite". Poi si fece da parte per lasciarmi passare. Entrai da solo. Credo che chiudesse la porta dietro di me... Sì, la chiuse. Dissi: "Signor Somers, sono spiacente di vederla a letto". Lui replicò poche parole, dicendo che si sentiva meglio... Io posai il cappello e i guanti e tirai fuori alcuni fogli di carta e la mia stilografica. Poi, fu lavoro legale. Il signor Somers aveva già pensato al testamento, e credo di non essere rimasto con lui più di mezz'ora.» «E questo è tutto?» «Tutto quel che ricordo, sì... Sembrava perfettamente normale. Era però nervoso. Avevo appoggiato il bastone al tavolino: a un certo punto scivolò e cadde. Ricordo che sobbalzò come se lo avessi colpito. Allora raccolsi il bastone e lo appesi alla maniglia. Ma che strano...» L'avvocato aveva lo sguardo fisso sulla parete accanto al letto. «Hanno tolto la porta!» «Quale porta?» «C'era una porta, qui, alla mia destra. Ora è dall'altra parte del letto!» Guardavamo tutti la porta, scioccamente confusi. Nessuno di noi afferrò subito il significato del fatto. Kate fu la prima a scoprirlo. «È proprio certo che la stanza fosse questa, avvocato?»
«Non saprei. Sono tutte uguali. E poi, negli alberghi fanno sempre cambiamenti.» E bisogna dar merito a Kate della scoperta, sebbene Harrison ci fosse arrivato per conto proprio già da una settimana. Lei, molto calma, molto dignitosa, uscì nell'anticamera e richiamò la signorina Todd. «È proprio certa che questa era la stanza da letto di mio marito?» «Oh, sì, signora Somers. Certissima.» «E non è stata modificata, da allora? Non è stato cambiato nulla?» «Sono state rinnovate le tende alle finestre.» «Grazie mille.» Kate non si mosse fin quando la signorina Todd non fu sparita. Allora attraversò il salottino e aprì la porta dell'altra camera. Quindi, con voce calma, ci chiamò. «Credo che lei sia venuto qui, avvocato. Qui, nella camera da letto di Walter, dove un suo complice ha recitato la parte del padre malato e redatto un falso testamento.» E solo allora vibrò un accento di trionfo nella voce stanca. «Mio povero Howard... Ne ero certa. Certa!» 31 Rimaneva ancora ignoto il perché di una simile macchinazione, ma l'esistenza della macchinazione stessa era ormai indubbia. Superata però l'emozione iniziale, con il passare delle ore le nostre idee cominciarono a cristallizzarsi. Chi poteva essere stato il finto testatore? Come si collegava ai delitti? Era lui stesso l'assassino? Quando la sera ci riunimmo nella mia biblioteca, nessuno di noi aveva ancora trovato la risposta agli emozionanti quesiti, né immaginava imminente, com'era, la loro intera spiegazione. Parlavamo poco, ma ci sentivamo tranquilli. Ora si poteva sperare nella salvezza di Jim. Kate era sollevata, finalmente. Jim avrebbe ottenuto la libertà e Howard era tornato a essere suo: il gelo era sparito da quel volto. Anche Judith esultava. Appena entrata, con gli occhi brillanti, le gote arrossate dalla gioia, mi aveva fatto vedere un diamante limpido, ma piccolo, all'anulare. "Bello, eh?" "Proprio bello" avevo risposto sincera. Poiché mi sembrava davvero ammirevole quale simbolo della fierezza e dell'essenziale onestà di Dick.
Le nostre chiacchiere però non approdavano a nulla. Continuavamo a parlare della scena dell'Imperial senza riuscire a spiegarcela. Judith, mentre il braccio di Dick le cingeva la vita e la madre non si ribellava più, rassegnata anche all'anello di fidanzamento, disse che secondo lei i cinquantamila dollari dovevano costituire il compenso dell'ignoto sostituto del padre. E Dick, traendo la logica conclusione della scena dell'albergo, aggiunse che un uomo capace di truccarsi con una parrucca in modo da somigliare a Howard tanto da ingannare di giorno l'avvocato Waite, poteva anche aver ingannato Jim di notte, sul pendio del colle. Ma rimaneva misteriosa l'identità del malfattore. Era una soffocante notte di luglio. Alle ventidue, Joseph, già vestito da viaggio poiché doveva partire un'ora dopo per la sua breve vacanza, venne a portarci una limonata. Era appena uscito dalla stanza quando Judith volle aprire una persiana per far circolare un po' d'aria, ma si ritrasse subito dalla finestra. «C'è un uomo, lì fuori!» esclamò. «Lì, proprio sotto la finestra!» Dick si precipitò all'aperto, rimase alcuni minuti in giro per il giardino e poi tornò per assicurarci che nessuno era in vista e che, viceversa, si avvicinava un temporale. Consigliò quindi di sospendere subito la seduta. Mi parve di notare un'espressione strana sul suo viso, ma eravamo tutti molto eccitati, quella sera... Non volli dire nulla. Dopo la loro partenza caddi in preda all'inquietudine. Andai fino alla dispensa, dove Robert parlava con l'agente di polizia aspettando Joseph, che doveva scendere. Mentre l'autista si tratteneva nella dispensa, l'agente fece un giro d'ispezione in casa e fuori. Non vide nessuno. Il temporale scoppiò proprio allora. Joseph andò alla macchina passando dal porticato della cucina, sotto un rovescio d'acqua quale non avevo mai visto. Non andai a letto, sebbene fossero quasi le ventitré. Provavo un vago senso d'apprensione, come se stesse per accadere qualcosa di straordinario. Quando, un quarto d'ora dopo, arrivò l'ispettore, mi trovò chiusa a chiave nella biblioteca. E, non avendo riconosciuto la sua voce, rimasi un momento in forse prima di lasciarlo entrare. Era fradicio e sembrava stanchissimo. Non stentai ad accorgermi che era molto depresso. «Vengo tardi, ma abbiamo dovuto forzare una cassetta di deposito in banca e la cosa ha richiesto tempo, di per sé e per le necessarie formalità legali. Poi rimaneva un'altra faccenda da sistemare, e di quella non posso
andare fiero. Gliela racconterò fra un momento, ma intanto le voglio ripetere che non posso andarne fiero. Basta, lasciamo andare; forse è meglio così. Sarà risparmiato a Walter Somers un mucchio di guai.» «Che gioia! Walter è sano e salvo?» «È vivo. Ogni tanto vado a fargli da infermiere, ma è vivo. Si rimetterà. Da ieri è tornato in sé. E ora che avete districato l'imbroglio del testamento... Mi ha informato l'avvocato Waite. Spero che la famiglia non farà arrestare Walter. Ha cercato di riparare al suo errore, ed è mancato poco che ci rimettesse la vita.» Si sistemò sulla sedia e morse con veemenza la punta di uno stuzzicadenti. «Sì» riprese a dire «ho brancolato nel buio. Ho appena fatto in tempo a infilare la via giusta. L'ho intravista in seguito all'attentato contro Joseph Holmes. Ho battuto a lungo false piste... troppo a lungo. Ma, per lo meno, l'assassino non farà altre vittime.» «L'avete acciuffato?» «Sì... Cioè, sì e no.» «Chi è?» feci, al colmo dell'eccitazione. «Glielo dirò.» Mi guardò e sorrise stranamente. «Ma non subito. Prima le esporrò i fatti, perché non si trovi a subire uno choc troppo forte.» «Lo conosco?» «Ma sì» mi rispose in tono grave. «È appunto per questo che voglio raccontarle tutto per filo e per segno, perché capisca. Sarà, diciamo, una preparazione psicologica. Racconterò la storia dell'uomo senza dirne il nome. Lo chiamerò Norton, James C. Norton, poiché così si era qualificato per affittare una cassetta in banca. Norton... Fino alle quindici di oggi, ci è mancato un pretesto plausibile per arrestarlo. Lo sapevamo colpevole, nero come la pece. Lo pedinavamo, ma ci occorreva un indizio chiaro e lampante. Oggi è dovuto andare in banca, e questo passo, di cui non poteva fare a meno, lo ha tradito. Intendiamoci: lui sapeva, o per lo meno sospettava, di essere tenuto d'occhio. Peraltro non poteva sapere che avevo scoperto dov'era Walter. Lo aveva quasi ucciso e, perché non potesse sfuggirgli, lo aveva lasciato legato come un salame in una casa deserta di campagna. Per un po' di tempo era andato a trovarlo. Sulle prime, non era suo interesse che morisse. Però, in seguito, la sua scomparsa gli era diventata utile, e lo avrebbe lasciato morire laggiù. Tenga bene a mente questo fatto. Il terreno cominciava a scottargli sotto i piedi. Morto Walter, nulla sarebbe trapelato. Devo riconoscere che mai, fino all'ultimo, si è perso d'animo. Nessuna
prova poteva essere addotta a suo carico, tanto bene aveva saputo destreggiarsi. Infatti, la prima prova l'abbiamo avuta in mano stasera. «Voglio fargliene un ritratto. Lo sapevamo alto, e di una robustezza non comune. La storia del finto testamento, inoltre, ci aveva rivelato che aveva in sé qualcosa dell'attore e una non mediocre abilità come falsario. Sapevamo anche che era sveltissimo e capace di camminare silenziosamente quanto un gatto. E sapevamo anche dell'altro. Lo sapevamo insensibile, chiuso a qualsiasi sentimento umano; e invece era così cupido, malvagio e diabolicamente acuto da riuscire non solo a evitare di lasciare indizi a suo carico, ma anche a far ricadere i sospetti su un altro, fabbricandone di falsi. Tra gli altri, la benzina rovesciata nell'auto di Blake; l'uso del nome di questi in quella sua corsa omicida a New York; il suo modo di vestire, quella sera, inteso a dare al portiere notturno l'impressione che si trattasse di Blake; la telefonata fatta sempre con quel nome. E può essere sicura che avrebbe lasciato andare Blake sulla sedia elettrica con meno scrupoli di quanti ne abbia io a rompere questo stuzzicadenti. «Questa la figura dell'assassino. La tenga presente. Passiamo a un'altra persona, adesso. Inutile che gliela descriva. Sembrava invischiata fino al collo nella triste faccenda. Lo era... e le faccio tanto di cappello. Si chiama Mary Martin.» «Mary? Ci ha causato guai e nient'altro, ch'io sappia.» L'ispettore sorrise di nuovo. «Ha fatto ciò che ha potuto, dal momento in cui ha cominciato a capire quel che bolliva in pentola: ha tentato di salvare Somers, ma quel... quel Norton era troppo furbo per lei. Ci è stata utile a ritrovare Walter. E la notte in cui è stata sorpresa qui, sul viale, correva perché sapeva che stava per essere compiuto, o per lo meno tentato, un altro assassinio.» «Sapeva che qualcuno voleva uccidere Joseph?» «Temeva che qualcuno tentasse di ucciderlo... ma le dirò poi. Mary stessa, però, era molto preoccupata. Aveva allentato la sua vigilanza, perché la impauriva la sparizione di Walter, ed è stato così che lei ha trovato Joseph ferito.» «Ma» domandai stupefatta «perché mai si preoccupava tanto della sorte di Walter?» «Sono sposati sin dall'autunno scorso.» Mi diede un momento per afferrare bene il senso della sbalorditiva rivelazione, poi proseguì. «Torniamo un passo indietro: alla fine di luglio dell'anno scorso, Walter
era qui. Un giorno, ricevette un biglietto in cui era pregato di recarsi in una certa casa di Halkett Street. Ci andò e incontrò l'uomo che chiamo Norton e la signora Bassett. Quest'ultima gli disse di essere stata cameriera di Margaret Somers, la quale, a sentire lei, durante la sua permanenza a Biarritz aveva messo al mondo una bambina...» «Di cui attribuiva la paternità a Howard?» «No, sebbene credo che la prima idea sia stata quella. Era tutta una montatura. La bambina illegittima non era mai esistita. Si voleva far passare per tale una figlia della Bassett e del suo primo marito: la Bassett si era sposata due volte. La ragazza si chiamava Mary Martin.» «Mary? E prestò fede al racconto?» «In un primo tempo, sì. La cosa le tornava troppo vantaggiosa perché non desiderasse ritenerla vera. Ma quando la commedia ebbe fatto fiasco, seppe dalla madre l'esatta verità. Intanto, però, Walter aveva informato il signor Howard, che accorse subito da New York. Lui smentì la storia recisamente. Non aveva avuto che un figlio dalla prima moglie, e lei non aveva avuto bambini in Europa. Era tutta una fandonia. Ma si arrabbiò tanto che fu preso da un attacco cardiaco. E questa sua malattia fu il punto di partenza di altri e più gravi guai. «Norton, infatti, aveva visto svanire le sue speranze. La malattia di Howard gli suggerì una nuova idea. Strano, come si concatenano i crimini. Andò a trovare Walter con la proposta del testamento apocrifo, e lui poco mancò che non lo mandasse via a calci. Ma era pieno di debiti e, per dirla come fa lui stesso, l'idea formulata da Norton prese a 'roderlo'. Inoltre aveva già messo gli occhi sulla ragazza. Lei era onestissima, tant'è vero che, quando ebbe saputo la verità dalla madre, cercò di avvicinare Howard all'Imperial per riferirgliela, ma non la lasciarono entrare. «D'altronde, c'è anche questo da dire in favore di Walter: sentiva di essere stato trattato male, e che una metà del patrimonio paterno avrebbe dovuto essere sua. Più tardi, dopo la morte del padre, andò a New York deciso a rivelare ogni cosa. Ma là gli riservarono una pessima accoglienza. Inoltre, lui non era affatto sicuro che il padre fosse stato ucciso. Mary invece ne era quasi certa, e glielo disse per telefono. «Voglio aggiungere questo a sua discolpa. Lui andò a trovare Norton, il quale negò ogni addebito. Walter tuttavia disapprovava l'operato del complice. Ci fu un violento alterco in cui Norton ebbe la peggio, e non glielo perdonò. A questo mi riferisco quando dico che Walter ha scontato i suoi peccati. La moglie lo ama moltissimo, ma odiava i suoi raggiri. E più volte
aveva minacciato di rivelare ogni cosa. «Ora, veniamo alla triste commedia del falso testamento. Non fu Walter ad avere l'idea, sebbene si prestasse a metterla in atto. E la furberia con la quale il documento fu messo tra le carte del padre, neanche quella venne in mente a lui. L'inganno fu veramente semplice. Il signor Somers non cambiò idea e non modificò il proprio testamento nel corso della malattia, ma pagò parecchi debiti del figlio. Era duro, in certe cose, perciò gli chiese di riportargli le fatture saldate. Voleva conservarle. Walter, spaventato all'idea che, se il padre fosse morto, la matrigna avrebbe potuto trovare le carte, lo pregò d'indirizzare la busta a lui stesso, in caso di sua morte. «Raccontò la cosa a Norton, che ne fece il punto di partenza di un machiavellico inganno. Costui suggerì di chiudere nella busta un testamento apocrifo, al posto delle fatture. Il che fu fatto. Inconsapevole, Howard mise lui stesso tra le proprie carte il falso testamento scrivendo sulla busta: 'Da consegnarsi a mio figlio Walter dopo la mia morte'. La trovata era ingegnosa.» «Diabolicamente ingegnosa!» «Criminale, non c'è che dire. Però, non c'era alcuna idea di uccidere. Un inganno, sì, quello era contemplato; inganno che, da un certo punto di vista, Walter poteva credere giustificato. Ma omicidio, no. «Così, fu messa in scena la commedia. I cinquantamila dollari dovevano essere il compenso di Norton per la sua impostura, per lo studio della firma di Howard, per la parte da recitare a letto, sotto una debole luce, in un giorno scelto apposta perché buio e grigio... «Walter non ha ancora potuto confermarmelo, ma ho idea che fu la Bassett a sostituirsi a Sarah Gittings. Walter aveva facilitato la cosa facendola accettare dal padre come masseuse. E Norton impersonava Howard. Immagino che fosse lui l'uomo dei fiori visto dalla signorina Todd e che, secondo quanto ha riferito, portava i capelli lunghi, a zazzera. Quel pomeriggio, si era probabilmente acconciato con la parrucca destinata a farlo scambiare per Howard. Il grosso fascio di fiori avrà contenuto, oltre ai fiori, anche altre cose: cosmetici, flaconcini, articoli da toilette, da mettere in bella mostra sui mobili... Tiro a indovinare, ma non posso sbagliare di molto. «La camera, s'intende, era quella di Walter. La porta che dava sul salottino venne chiusa a chiave, e Sarah tenuta in disparte col pretesto che Walter stava per ricevere certi suoi amici. Pareva un congegno ben architettato. Lo stesso direttore dell'albergo accompagnò su l'avvocato Waite. Walter
andò incontro al legale nell'anticamera. Nessuno pensò a quella tale porta... Il secondo giorno arrivò il notaio a presenziare alla firma dei testimoni. Florence Gunther fu chiamata nella stanza. Finita la commedia, i vari attori sparirono per la scala di servizio. «Ma si verificò un incidente imprevisto. Sarah andava sempre a prendere un po' d'aria e, durante la sua passeggiata, Walter la sostituiva accanto al padre. Ora, nei due giorni grigi ritenuti i più adatti all'esecuzione dell'inganno, il 12 e il 13 agosto, Sarah non uscì. In quelle ore lesse invece un romanzo ad alta voce al signor Howard, e di ciò prese un appunto. «E ora parliamo della primavera, cioè l'epoca in cui Sarah ha fatto la conoscenza di Florence. Forse si è ricordata di averla vista nell'anticamera, all'Imperial; forse si sono incontrate per puro caso. Fatto sta che si sono incontrate. Sarah ha detto di essere in casa sua, signorina Bell, e siccome la sua relazione con i Somers è cosa ben nota, Florence ha finito per parlarle del testamento. Sulle prime, Sarah è rimasta incredula. Però, dopo aver saputo le due date della compilazione del documento, ha esaminato i suoi appunti, appena tornata a casa, e subodorato l'inganno. Ha tentato allora di avvicinare Blake. Inoltre, ha indotto Florence a ritirare il plico custodito nello studio Waite & Henderson, e il 18 aprile ha fissato a Blake un appuntamento nella pensione di Halkett Street. «Aveva già nascosto nella legnaia le pagine strappate dall'agenda. Quella sera stessa le ha trasferite nello stipo. In giornata aveva appreso il senso delle disposizioni testamentarie: ne aveva cioè accertato la natura di falso. Inoltre, conosceva il ripostiglio segreto nello stipo. Quando nel pomeriggio ha preso il testamento dalle mani di Florence, in cambio le ha dato le indicazioni riferibili al quadrante. Ma si sentiva sicura. Non aveva idea di andare incontro a un pericolo quando, la sera, ha lasciato la casa. «Ricostruirò adesso la storia della notte del 18 aprile. Consideri però che Walter è ancora molto debole e può soltanto limitarsi a fare ipotesi su quanto è successo in parte di quel periodo.» 32 «Erano le diciannove e quindici quando Sarah è uscita da questa casa, portandosi via i cani. Aveva probabilmente avuto la precauzione di nascondere il testamento in una scarpa: avrà temuto che le fosse strappata di mano la borsetta. Nella borsetta aveva la chiave del portone e quella della sua stanza, ma quella sera era così agitata che si è dimenticata di chiuderla.
«Appena fuori, ha trovato Walter ad aspettarla. Lui sapeva che la sera usciva a passeggio con i cani, ed era stato inoltre avvisato da Norton che poche ore prima Florence le aveva consegnato una busta. Il pericolo era imminente. «Dopo averle parlato, Walter ha capito che il trucco era stato scoperto. L'ha supplicata, affermando che il giorno dopo sarebbe andato dal padre a rivelargli ogni cosa, e l'ha pregata di non raccontare nulla a Blake. Guai a lui se la matrigna fosse stata messa al corrente dei fatti! A questa sua richiesta Sarah ha accondisceso, ma si è rifiutata di dargli la copia del testamento. Ha detto di averla lasciata a casa; lui non le ha creduto. Sarah non lo aveva mai stimato, e lui non aveva fiducia in lei. Per convincerlo, Sarah ha aperto la borsetta e gli ha fatto constatare l'assenza della preziosa busta. Poi ha aggiunto: 'Glielo renderò dopo aver parlato con suo padre'. «Dopo di che, ha proseguito per la sua strada, lasciandolo solo sul viale d'ingresso. Walter sostiene, e lo credo sincero, di non averla più rivista viva. Non voglio scusare il suo atto d'introdursi di soppiatto in questa casa per impossessarsi del testamento. È entrato rompendo la punta del proprio temperino nell'aprirsi la via. Mentre staccava il mastice dalla portafinestra, dice di aver sentito Sarah fischiare per richiamare Big, che le era sfuggito di mano. Era, o almeno pareva, sul terreno dei Larimer. Più tardi, quando si è accorto di aver rovistato invano e dopo che Joseph lo ha aiutato a scappare, crede di averla sentita un'altra volta. «Ritengo che ciò sia esatto. Il cane era scappato e lei gli era corsa dietro. E allora, invece di proseguire per Halkett Street, può aver deciso di tornare qui e di telefonare per disdire l'appuntamento. In ogni modo, dobbiamo ammettere che lungo la via del ritorno, forse per la fatica della salita, si sia seduta a riposarsi sul grosso ramo rovesciato a terra. «È lì che l'ha trovata Norton, forse nel momento esatto in cui un agente chiamato per telefono cominciava a rovistare questa casa. Norton deve aver sentito abbaiare i cani, il che lo ha aiutato a rintracciarla. L'ha colpita alla nuca e l'ha lasciata per morta a terra. Lei non può averlo visto. Più tardi, verso le ventidue, è tornato sul posto e si è accorto che era ancora viva, benché incosciente. Si era armato di un coltello, stavolta. Un coltello la cui lama era lunga dai nove ai dieci centimetri. «Qualche cosa deve avergli fatto paura, in quel momento, e si è messo a correre. Non ha visto seduto sul pendio Blake che tornava indietro dopo aver aspettato Sarah in Halkett Street. Non ha visto Blake, ma Blake ha visto lui. Norton aveva ancora la parrucca simile alla capigliatura di Howard,
e andava a vedere se la sua vittima era morta. È assai probabile che, nella prima aggressione, non avesse rintracciato il testamento. Sono convinto che si sia rimesso in testa la parrucca soltanto quando è tornato per la seconda volta sul terreno dei Larimer. Non sapendo quel che fosse successo nel frattempo, poteva temere che il corpo fosse già stato scoperto. C'era anche il caso d'imbattersi in una guardia. Ha quindi indossato il vestito che ha ingannato Blake: abito da sera, lunga zazzera bianca... Non è difficile ora capire chi Blake ha creduto di vedere quella notte. Ne è rimasto scosso al punto da doversi mettere a letto, ed è mancato poco che il granchio preso lo mandasse sulla sedia elettrica.» «Quel Norton, o sedicente Norton, avrebbe dunque ucciso Sarah per impossessarsi del testamento?» «In parte per quello e in parte anche perché, se Walter, pentitissimo, voleva troncare l'azione truffaldina, lui invece era ben deciso a raggiungere il suo scopo. E da questa sua decisione sono scaturiti tutti gli altri delitti. Se Florence fosse rimasta in disparte, sarebbe ancora viva. Norton deve aver ritenuto che non avrebbe osato farsi avanti. Ma Florence ha voluto venire a parlare con lei, e ciò le è stato fatale. Ad accelerare la sua condanna ha contribuito la dichiarazione fatta da Sarah a Walter di aver conservato gli appunti relativi agli avvenimenti del dodici e tredici agosto. Non avendoli rintracciati qui, nonostante le ripetute ricerche, Norton ha dovuto concludere che Sarah li avesse dati in custodia a Florence. Con la scusa di condurla qui da lei, l'ha fatta salire su un'auto. L'ha uccisa, ha frugato nei suoi vestiti e poi, quella stessa notte, è andato nella casa di Halkett Street a rovistare la camera. Ha convinto la Bassett ad aiutarlo. Era lei la donna che la Sanderson aveva sentito piangere. «Torniamo a Walter. Joseph l'ha aiutato a scappare da qui. È passato dal pendio dietro il garage, si è rivestito ed è tornato. Sapeva di essere aspettato. Ma avrebbe dovuto tornare in ogni caso. Aveva infatti lasciato cadere la sua stilografica nel vano sopra il bagno, e la stilografica portava le sue iniziali. L'ha recuperata nel modo che sappiamo. Lo impensieriva la prolungata assenza di Sarah, ma unicamente perché temeva che fosse andata a New York. Di ciò aveva estremamente paura. Pronto ormai a confessare tutto al padre, quando ha sentito abbaiare i cani in lontananza ha creduto che Sarah li avesse legati a un albero per liberarsene e correre alla stazione. Era sconvolto. Ma non ha tralasciato di andare al club, dove ha giocato a bridge. «Questa, la storia di Walter. E so che, in linea generale, corrisponde alla
realtà. Il giorno dopo, si è impressionato nell'udire del mancato ritorno di Sarah, e tanto più dopo che si è accertato che non era a New York. Non la credeva morta, però, e non ha avuto alcun sospetto sul suo assassino. «Dopo il rinvenimento del cadavere, era fuori di sé. È andato a trovare Norton, che ha saputo benissimo fingersi scandalizzato e dispiaciuto. Walter non ci ha capito nulla. E quando il bastone animato è sparito, ha cominciato a sospettare di Blake. Ma quale motivo poteva aver armato quella mano? Forse Sarah gli aveva mostrato il testamento apocrifo e lui, ritenendolo genuino, l'aveva uccisa in un impeto di rabbia, per impossessarsene? Non ha saputo trovare altra risposta ai suoi dubbi, e sappiamo che molti la pensavano come lui. La sola a non lasciarsi ingannare è stata Mary. Sin dall'inizio aveva sospettato di Norton. L'odiosa trama l'aveva disgustata sin da quando aveva avuto sentore della storia del falso testamento. «La morte di Florence ha aperto gli occhi anche a Walter. Non posso approvarlo per aver taciuto, ma mi è facile ricostruire i suoi ragionamenti: non poteva risuscitare le due donne, e come provare che le aveva uccise Norton? Norton, che chiamava Dio a testimone della propria innocenza... «Lei, poi, ha avuto l'idea di bruciare lo stuoino, e Walter non ci si è più raccapezzato. Mary, invece, vedeva ben chiaro, e Norton sapeva che lei aveva capito, o che per lo meno sospettava il vero. Non si sentiva sicura, quindi, ed ecco perché ha preso la rivoltella di Joseph. L'ha tenuta con sé, e quando poi si è trovata a New York, in casa Somers, è andata una notte a gettarla nell'Hudson. Era ormai tornata tranquilla, dopo intere settimane di tremenda ansietà.» «Ma» feci, senza raccapezzarmi «perché andare dai Somers?» «Perché, più intelligente di Walter, era convinta di ciò che lui si ostinava a non credere: che Norton fosse l'assassino. Sapeva che aveva frugato la stanza di Florence, dopo la sua morte, e che continuava instancabilmente a cercare i famosi appunti in questa stessa casa. E, sia detto fra parentesi, ecco la spiegazione del fantasma... «Mary ha capito ben presto che si sarebbe tentato di uccidere Howard, prima che la storia del falso testamento venisse svelata. Morto lui, Blake sarebbe stato condannato alla pena capitale. O andava lui sulla sedia elettrica, o Walter sarebbe stato costretto a confessare ogni cosa. E forse nemmeno la sua confessione lo avrebbe salvato, poiché il poveretto poteva anche aver ignorato la falsità del secondo testamento.» «Ispettore!» esclamai a questo punto. «Mi dica chi è Norton. Devo saperlo. È una crudeltà tenermi in sospeso.»
«Secondo me, è bontà» rispose, grave. «Voglio che abbia ben chiara la sua immagine: l'arte infernale di servirsi del nome di Blake per arrivare fino a Howard Somers; la cura d'imitarne persino il modo di vestire; il portargli le presunte prove del crimine del cognato; la promessa di non raccontare quel che ne sapeva dietro un compenso di mille dollari; l'aver saputo indurre Howard a recarsi nel suo studio a redigere l'assegno e aver approfittato di quel momento di assenza per mescere un potentissimo veleno nella bevanda preparata per la notte...» «Ha fatto questo?» «Ha fatto questo. E voglio dirle subito che è stato l'assegno ritrovato nella cassetta della banca a completare le prove schiaccianti a suo carico. Non ce l'aveva fatta a distruggerlo.» L'ispettore guardò l'orologio. «Presto, voglio tornare a Walter. La morte del padre lo ha portato alla disperazione. Non aveva prove, ma Mary non aveva dubbi. Aveva rotto il bicchiere e aperto le finestre: il cianuro ha un odore caratteristico, e lei era certa dell'assassinio. E se questo fosse stato scoperto, tutta la macchinazione sarebbe stata scoperta. Può capire adesso perché cercasse di occultare il delitto. Ha telefonato a Walter per metterlo al corrente, e lui ha creduto di perdere la ragione. Ma una confessione, allora, sarebbe stata gravissima. Tre morti provocate dalla sua macchinazione, e una delle tre, quella di suo padre... Ha fatto un compromesso con se stesso: avrebbe aspettato l'assoluzione di Blake, e se questa fosse arrivata avrebbe lasciato libero corso agli eventi. «Ma il verdetto era sicuro fin dall'inizio. Bisognava quindi dire tutto per salvare Blake: bisognava che Norton confessasse, poiché sapeva che questi aveva ormai in mano gli appunti di Sarah. Non ignorava l'esistenza dello stipo in questa casa, da lui tante volte frugata. Appena ha udito la lettura dell'indicazione del quadrante nell'aula del tribunale, è corso a prendere i fogli. «Quando ha lasciato il suo club, la vigilia del giorno in cui avrebbe dovuto presentarsi alla sbarra dei testimoni, Walter aveva in tasca una piena confessione dei delitti. L'ha portata con sé per costringere l'assassino a firmarla. Era deciso a ottenere quella firma, anche a costo di usare la rivoltella. Però voleva ottenerla dando a Norton una possibilità di salvarsi. Ciò gli sembrava ragionevole, poiché tutte le speranze del suo complice sarebbero crollate se lui fosse andato a deporre il giorno dopo. Devo dire che i due erano definitivamente in rotta. C'era stata una lite tremenda fra loro.
Walter aveva picchiato ferocemente il criminale. Lo odiava, non ne sopportava più la vista, e Norton lo sapeva. «Walter lo ha fatto salire sulla sua auto e sono usciti insieme dalla città. Walter era al volante e parlava, l'altro stava a sentire. Walter aveva preso le sue precauzioni: era armato. Ma anche l'altro si era preparato per una serata pericolosa. Ed era troppo lesto per non riuscire a sopraffare il compagno. Lo ha buttato giù dalla macchina, quasi uccidendolo. Lo ha poi trasportato in una casa deserta di campagna sulla strada di Warrenville e lo ha lasciato lì, legato. Ha abbandonato l'auto sulla collina dove l'abbiamo ritrovata e si è portato via la pistola di Walter. Ma è tornato a vederlo alcune volte. Lui era in ben gravi condizioni, quando l'ha finalmente rintracciato... Se fosse morto, Mary avrebbe parlato e Norton sarebbe stato perduto. Per cui, ogni tanto andava a curarlo un po', quel tanto che bastava a mantenerlo in vita. Non era tornato a vederlo da tre giorni, quando l'ho trovato io, e il poveretto stava per morire. «Naturalmente è facile da dire ora, ma lei sa che l'accusa contro Blake non mi aveva mai pienamente convinto. Certe cose non combinavano. Perché avrebbe inventato la storia dell'uomo in smoking? È facile trovare la risposta: Blake non inventava. Aveva visto veramente. Ma sosteneva che l'uomo aveva il viso rivolto verso il fondo del pendio. Ora, questo era impossibile. Un uomo non corre lungo il pendio di un colle cespuglioso senza guardare dove mette i piedi. Per cui avevo deciso che l'uomo, ammesso che Blake ne avesse visto uno, fosse una persona a lui nota che non voleva nominare. E dopo la morte di Howard avevo cominciato a sospettare che fosse lui. «Però la supposizione non mi aveva portato molto lontano. Ad aumentare la mia confusione, ecco sopraggiungere l'aggressione a Joseph. Jim Blake in prigione, Howard Somers morto, Walter sparito... e Joseph, preso a rivoltellate! Devo confessare che lì per lì ho creduto fosse stato Walter a ferirlo. C'era tra loro qualche mistero: Joseph certo sapeva o sospettava qualcosa. Mi pareva chiaro che avesse dovuto aiutarlo a scappare da qui la notte in cui si era introdotto di soppiatto. Ed ero convinto che Walter sapesse fin troppo bene chi aveva assalito Joseph quel giorno, in cima alla scala di servizio. «Inoltre c'era qualche elemento strano nel nuovo episodio. Joseph se ne sta seduto in cucina con le imposte chiuse 'per essere più sicuro', e poi racconta una inverosimile storia su un sonno improvviso, mentre la porta della cucina era spalancata... Non potevo convincermene e, come ho detto, ho
pensato a Walter. Aveva con sé una rivoltella, la sera della sua scomparsa, di cui allora non sapevo i particolari. Sono andato quindi, il giorno dopo, in cerca delle sue impronte nel giardino e sulla collinetta. Non le ho trovate. Ho trovato invece un evidente ma incomprensibile indizio. «Pareva che la sera prima una donna avesse risalito la collina e fosse tornata indietro per la stessa via. Ricorderà che aveva piovuto e che la terra era molle. Di sicuro, una donna era venuta su lungo il pendio, era passata oltre il garage e attraverso i cespugli fino alla porta della cucina, ed era tornata via, uscendo però dall'ingresso principale e facendo il giro dalla parte opposta a quella dove eravate voi tre. Ma qui veniva la stranezza. Era una donna pesante, che si muoveva adagio e camminava con la parte esterna del piede. Avevo visto impronte simili anche prima. «Avevo due ipotesi tra le quali scegliere, e scelsi quella sbagliata. Il giovane Carter si era trovato in casa più o meno al momento dell'aggressione a Joseph. Aveva una rivoltella nella sua Ford e un temperino con la lama rotta, alla quale si adattava perfettamente la punta da me rinvenuta sugli scalini, laggiù. Era giovane e robusto, e aveva interesse alla scomparsa del secondo testamento. Non esito a confessare che ho pensato molto a lui. «È stata lei, signorina, a mettermi sulla buona strada. Se non mi avesse comunicato la morte della signora Bassett, credo che l'assassino sarebbe libero, stasera, e non dove invece si trova. «Bisognava però andarci piano. Non avevamo prove; sapevamo la storia dei delitti e il movente, ma nulla più. Non un'impronta digitale, non un indizio, non un'arma. Nulla che potesse motivare il suo arresto. E lui lo sapeva. Avremmo potuto accusarlo di aver falsificato un testamento, ma lo sapevamo colpevole di quattro omicidi.» «Quattro?» «Sì. Amos è stato ucciso. È stato gettato nel fiume perché non sapeva nuotare» spiegò Harrison. «Quattro omicidi e tre aggressioni quasi mortali, e nessuna prova concreta a carico del responsabile. «Un giorno, però, mentre ero seduto accanto al letto di Walter, mi è venuto in mente che un uomo capace di compiere una simile strage per cinquantamila dollari non avrebbe rinunciato ai mille dell'assegno. E se coglievo nel segno con il mio ragionamento, il furfante non ci sarebbe sfuggito. Lo abbiamo sorvegliato, giorno e notte. E oggi, finalmente, è caduto nella rete. È andato in banca per ritirare un po' di denaro. Aveva un conto aperto, a nome Norton. E aveva una cassetta. L'abbiamo fatta aprire, e ci abbiamo trovato l'assegno e il duplicato del testamento che Sarah aveva
con sé la notte in cui è stata uccisa. «Così è stato preso. Perché non potesse sfuggirci, la sua casa è stata circondata. Mentre imperversava il temporale, è uscito ed è salito su un'auto, la stessa di cui si era sempre servito. Quella con cui era andato a New York da Howard Somers; quella nella quale aveva portato a morire Florence Gunther, dicendo di volerla accompagnare qui. Ma è stato troppo svelto per noi, signorina Bell. Ecco perché dico di essere venuto meno al mio compito. Aveva pronto del cianuro. Ha visto la macchina, e tutti noi intorno, e ha detto: 'Allora, signori, non volete lasciarmi godere una vacanza'.» «Vacanza? Non mi dirà che...» «Piano, signorina Bell. Perché dovrebbe addolorarsi? Che pietà vuole avere per un mostro?» «È morto?» «Sì» fece l'ispettore. «Joseph Holmes è morto.» Udii appena quelle parole. Poi svenni. FINE